Piume nella cenere

di _ayachan_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Festa di compleanno ***
Capitolo 2: *** Il Gran Consiglio ***
Capitolo 3: *** La maledizione di Juka ***
Capitolo 4: *** L'adolescenza di Jin ***
Capitolo 5: *** L'uomo dell'Hokage ***
Capitolo 6: *** Equilibrio precario ***
Capitolo 7: *** Donne che odiano gli uomini ***
Capitolo 8: *** L'equilibrio in bilico ***
Capitolo 9: *** Sbronza di gruppo ***
Capitolo 10: *** Spiati ***
Capitolo 11: *** Spioni ***
Capitolo 12: *** L'arte di evitare gli argomenti scomodi ***
Capitolo 13: *** Arroganza ***
Capitolo 14: *** Una bella famiglia ***
Capitolo 15: *** Cambiano i piani ***
Capitolo 16: *** Notte fonda ***
Capitolo 17: *** Prima dell'alba ***
Capitolo 18: *** Mattina ***
Capitolo 19: *** Il cavallo rosso ***
Capitolo 20: *** Ombre dal passato ***
Capitolo 21: *** Il ritorno dei fantasmi ***
Capitolo 22: *** Convalescenti ***
Capitolo 23: *** Nessuno ascolta i dottori ***
Capitolo 24: *** Anbu ***
Capitolo 25: *** Il valore delle cose perdute ***
Capitolo 26: *** Bentornato ***
Capitolo 27: *** Sharingan? ***
Capitolo 28: *** Chi non muore si rivede ***
Capitolo 29: *** I mostri della Squadra Assassina ***
Capitolo 30: *** I veri mostri ***
Capitolo 31: *** Il bozzolo ***
Capitolo 32: *** La Volpe e l'Eremita (prima parte) ***
Capitolo 33: *** La Volpe e l'Eremita (seconda parte) ***
Capitolo 34: *** L'orgoglio del clan Uchiha ***
Capitolo 35: *** I sospetti di Sakura ***
Capitolo 36: *** La guerra ha inizio ***
Capitolo 37: *** I chakravakam ***
Capitolo 38: *** Lo Stupido tra noi ***
Capitolo 39: *** L'eccezione e la regola ***
Capitolo 40: *** Di nuovo a casa ***
Capitolo 41: *** Solo un gioco ***
Capitolo 42: *** Non c'è due senza tre ***
Capitolo 43: *** L'ultima alleanza di Chiharu e Baka ***



Capitolo 1
*** Prologo - Festa di compleanno ***


Penne 0+01
06/01/2016

ATTENZIONE - PREMESSA INDISPENSABILE!


Buongiorno a tutti e buon anno!
Dopo qualcosa come sei anni dall'ultimo aggiornamento torno a prendere in mano questa storia per darle un degno (si spera) finale.
Per farlo, purtroppo, è stato necessario un corposo lavoro di restyling che è durato circa due anni. Volevo una storia che mi convincesse, a cui potessi dedicarmi con passione e non storcendo il naso, e per farlo ho dovuto praticamente riscriverla. C'erano sottotrame macroscopiche che mi infastidivano e dettagli che non mi piacevano, così ho tirato su le maniche e mi ci sono messa con impegno.
E' stata dura. Non volevo cancellare completamente quello che era stato fatto, ma volevo anche che si sentisse il nuovo amore che ci ho messo. Tanti anni fa, quando ho scritto questi capitoli per la prima volta, ero in un periodo difficile della mia vita e faticavo tantissimo a trovare l'ispirazione. Mi hanno detto che si percepiva, e in effetti devo ammettere che è vero. Spero che oggi le cose siano diverse, anche se vorrei aver mantenuto le atmosfere che erano state il successo della prima versione.
I capitoli verranno pubblicati inizialmente a piccoli gruppi (per non annoiare i vecchi lettori ma nemmeno scoraggiare i - forse - nuovi), poi, una volta raggiunto il punto in cui la storia diventa a tutti gli effetti inedita, rallenterò inevitabilmente il ritmo. Per il momento vi rassicuro dicendo che sono pronti già 31 capitoli... sempre che non la vediate come una minaccia!
Ricordo a tutti che questa storia è concepita come una prosecuzione alternativa di Naruto. Considerate che praticamente non tiene conto degli eventi dello Shippuuden (quindi Jiraya e Asuma sono vivi e vegeti), e soprattutto è il seguito di altre due storie precedentemente pubblicate: "Sinners" e "Il peggior ninja del Villaggio della Foglia"... Che sono scandalosamente lunghe, e quindi non vi biasimerò se interromperete qui la lettura.
Per ragioni personali molto forti, inoltre, non ho intenzione di cancellare i capitoli fino al 35, ma li lascerò vuoti e in sospeso fino al momento in cui saranno riempiti. Quei capitoli portano le tracce di qualcuno che non c'è più, e voglio che non scompaiano.
Prima di lasciarvi alla lettura, un'ultima cosa: in questi giorni ho riletto le recensioni a "Sinners" e ad altre opere che ho pubblicato in passato. Se qualcuno di quegli antichi lettori si trovasse a scorrere queste righe, sappiate che vi ringrazio dal più profondo del cuore. Mi sono commossa rileggendovi. Vorrei tanto riuscire a darvi di nuovo una cosa altrettanto coinvolgente e trascinante. Grazie a tutti! Mi avete fatto riassaporare la vecchia atmosfera di efp, quando il fandom di Naruto era casa mia e i buoni autori si conoscevano tutti tra loro... Grazie davvero.




Clà, tutto questo è dedicato a te.












Prologo




Era rimasto così poco di quel tratto di foresta.
Lo sguardo spaziava per centinaia di metri percorrendo una desolazione quasi assoluta, sorvolava tronchi anneriti, foglie accartocciate che turbinavano nella brezza, dune di cenere che si alzava e mulinava infilandosi giù per la gola. Un deserto bianco e nero.
Ma, nei suoi occhi, ancora scarlatto, oro e giallo. E rovente.
Eppure in quel momento faceva freddo. La pelle d’oca sulle sue braccia non era dovuta alla paura, all’ansia, all’angoscia che aveva provato davanti alle fiamme, ma soltanto al vento gelido che soffiava sullo spiazzo. Un tuono rombò tra le nubi basse. I lampi correvano da una parte all’altra del cielo, inseguendosi rapidi come un battito di ciglia. La prima goccia di pioggia cadde su un mucchietto di cenere; uno sbuffo bianco si sollevò nell’aria, poi un altro e un altro ancora. Nel giro di pochi minuti il terreno si trasformò in un pantano grigio e vischioso in cui i resti di legno carbonizzato emergevano come isolotti solitari.
Kotaro non sentiva le gocce che picchiettavano sulle sue spalle né i capelli che si appiccicavano alla nuca. Non sentiva il freddo, anomalo per quel mese, insinuarsi sotto i vestiti, sotto le bende, fino alla carne, non sentiva nemmeno il suo cuore che batteva. Nelle orecchie avvertiva soltanto il rombo lontano dell’incendio, davanti agli occhi vedeva divampare le fiamme. Abbassò lo sguardo allontanandolo dai resti lasciati dal fuoco, e rivoletti d’acqua gelida gli corsero lungo il collo senza strappargli alcun brivido.
Si sentiva inutile. Debole e inutile. Per questo i ricordi trovarono il modo di insinuarsi ancora una volta oltre le sue deboli difese.

Lingue di fiamma s’alzavano e abbassavano con ritmo irregolare, risucchiando l’aria e la vita stessa, portando via anni, sentimenti, tutto un passato. Parole dolorose gli rintronavano in testa, ossessive e terribili. Avevano sbagliato qualcosa; no, lui aveva sbagliato tutto. Sentiva il calore del fuoco sulla pelle, il dolore dei polmoni che cercavano ossigeno, eppure avanzava, stordito, incapace di comprendere, di realizzare; avanzava e gridava la forza della sua convinzione, anche se quella forza defluiva come un torrente ad ogni nuovo passo.
Alla fine cadeva, impotente. Cadeva, precipitando nel nulla più oscuro...

«Maledizione...» mormorò tra i denti serrati convulsamente. «Maledizione!» ripeté in un grido, il collo teso e i muscoli doloranti, i capelli che stillavano gocce d’acqua gelida.
Una fitta alla schiena lo colse impreparato, saettando lungo la spina dorsale ed espandendosi dalla testa ai piedi; le gambe cedettero e cadde in ginocchio, affondando nella cenere impastata. Ansante, sentì le mani immergersi nella poltiglia sotto di sé - cadaveri - e ne provò disgusto.
«Non doveva finire così!» ansimò, stringendo i pugni attorno alla melma grigia. «Non così!»
In quel momento, ancora offuscati dai residui del dolore, i suoi occhi distinsero qualcosa accanto allo scheletro di un tronco. Con gesto automatico Kotaro tese la mano e lo estrasse dalla cenere. Era una piuma, un oggetto tanto fuori dal contesto da sembrare surreale. Una piuma sporca, bagnata, grigia, ma sorprendentemente intatta. Sapeva qual era il suo vero colore oltre la crosta.
«Non doveva essere così...» gemette di nuovo. Le sue spalle si piegarono sotto il peso del rimpianto, di tutto quello che avrebbe potuto fare e non aveva fatto, delle promesse non mantenute e della delusione cocente della realtà sbattuta in faccia.
Un’ombra, nascosta tra gli alberi poco distanti, sorrise nell’oscurità. Un lampo fece brillare sinistramente una fila regolare di denti bianchi e poco più in basso, tra le dita, barlumi di metallo affilato.
«Hai perfettamente ragione.»
Un sibilo veloce, che si confuse con lo scroscio della pioggia, e il breve luccichio della lama che fendeva l’aria.
Un tonfo leggero e attutito, un gemito involontario.
Dalla sua posizione tra i rami l’ombra vide il kunai affondare nel dorso dello shinobi, infilandosi tra le coste e perforando i polmoni. Le sue labbra si incresparono di nuovo mentre il ragazzo cadeva riverso in avanti, gli occhi stupiti che si accecavano nella poltiglia grigia.
Uno sbuffo di fumo disperso dall’acqua e l’ombra scomparve.
Testimoni di ciò che era accaduto restarono soltanto la pioggia, e piume nella cenere.
















Piume nella cenere






Capitolo primo

Festa di compleanno




Singhiozzi sommessi, fruscii impercettibili di piedi che scivolano sul legno.
«No, per favore no...»
Una supplica, fatta con voce tremante e quasi impercettibile da un angolo del pavimento polveroso.
Non era una vera e propria capanna. Era più un riparo di fortuna, quattro assi messe insieme per difendersi dalle intemperie. C’era uno spiraglio che fungeva da finestra sulla parete opposta alla porta, ma era sprangato e lasciava entrare soltanto listarelle di luce grigia in cui la polvere si muoveva lentamente.
«Ti prego, lasciami andare... Non uccidermi, per favore, non volevo nulla di tutto questo...» Di nuovo la stessa voce di ragazza, il fruscio irregolare, un respiro spezzato nella penombra. «Ti prego!»
In un altro angolo giaceva un involto macchiato di sangue, gettato con malagrazia sul pavimento ammuffito e lì dimenticato. Un’ombra si muoveva nello spazio ristretto della baracca.
«Zitta» sibilò malevola prima di raggiungere la finestra sprangata e guardare fuori.
Nella foresta regnava la quiete del mattino, nulla si muoveva tra le foglie. Una risata tagliò l’aria viziata.
«Li abbiamo seminati, eh?» chiese la voce. Il suo proprietario, un uomo giovane dalla barba mal rasata, si passò una manica sulla fronte imperlata di sudore. Con passo leggero raggiunse l’angolo da cui proveniva il pianto sommesso e si accucciò appoggiando i gomiti alle ginocchia. Un raggio di luce gli attraversava la faccia da zigomo a zigomo, evidenziando gli occhi affilati e un coprifronte con inciso il simbolo della Roccia. «Su, non fare così. Guarda il lato positivo: non dovrò ucciderti per creare un diversivo.»
Un gemito si sollevò dal corpo che tremava nell’angolo. «Per favore! Non volevo nemmeno fare questo lavoro, io volevo solo vivere una vita tranquilla! Lasciami andare, ti prego...» implorò la voce, e una mano leggermente abbronzata si tese nel raggio di luce verso il ninja della Roccia.
«Lasciarti andare?» rise quello, afferrando il polso che si protendeva verso di lui. Con il pollice accarezzò rudemente il palmo graffiato. «Ma no» decise, socchiudendo le palpebre. «Ho un’idea migliore.»
L’uomo tirò a sé il braccio, e il corpo di ragazza ad esso attaccato fu strattonato avanti contro la sua volontà. Capelli neri trattenuti da una coda alta frusciarono sul pavimento polveroso mentre la mano libera frenava la caduta all’ultimo secondo.
«Come kunoichi sei pessima, ma non sei male come femmina» commentò l’uomo tirandola in ginocchio a forza. «Quindi, visto che i tuoi compagni ti hanno abbandonata, posso occuparmi io di te, almeno per un po’» le sollevò il mento, facendo in modo che la luce fioca le illuminasse il viso, scorrendo su occhi neri spaventati e una cicatrice che tagliava il sopracciglio sinistro in una linea quasi bianca.
«Per favore, non...» iniziò la ragazza aggrappandosi alla sua divisa da Jonin, ma lui bruscamente strinse le mani sulle sue braccia.
«Com’è che ti chiamavano?» chiese ignorando le sue lacrime. La spinse schiena a terra, scivolando carponi su di lei. «Ah, ora ricordo...» nella penombra sporca e polverosa sorrise come davanti a un’importante conquista, e il nome che arrotolò sulla lingua aveva una morbidezza lasciva da far accapponare la pelle: «Chiharu, giusto?»


«Non arriveremo mai in tempo.»
Ansiti veloci, mescolati al fruscio delle foglie e agli schiocchi dei rametti spezzati sotto i piedi. Quando i ninja si muovono sono rapidi e silenziosi, ma quando sono di corsa riescono ad essere soltanto rapidi. Era un gruppetto compatto ma frettoloso quello che balzava in quel momento da un ramo all’altro della foresta, seguendo una pista quasi invisibile. Sui coprifronte di tutti i membri balenava il simbolo della Foglia, alle cinture erano appesi kunai e shuriken.
«Dici che non ce la facciamo?» domandò lo shinobi alla guida del gruppo stirando le labbra in un sorriso.
«Sì invece» disse tra i denti quello che lo seguiva più da vicino, un ragazzo dalle sopracciglia incredibilmente folte e dal taglio di capelli curiosamente ovoidale. «Dobbiamo solo aumentare la velocità!»
«Aumentarla ancora? E che facciamo, lasciamo indietro i polmoni?» ansimò il compagno alle sue spalle, un giovane dai lineamenti morbidi decisamente più attraente ma anche più affaticato.
«Non ti alleni abbastanza, Hitoshi!»
«Mi piace restare entro i limiti umani!»
«Se avete fiato da sprecare possiamo davvero aumentare il passo» intervenne lo scompigliato biondo che li guidava, scoccando a entrambi un’occhiata ghignante. Sembrava il più anziano dei tre, ma tutto nel suo atteggiamento provava a nasconderlo.
«Piano con le minacce!» gridò dal fondo una quarta voce, femminile questa volta. Qualche ramo più indietro l’unica ragazza del gruppo arrancava ansimando, con un solco di disappunto disegnato in mezzo alla fronte. Sopra l’occhio sinistro una cicatrice le tagliava il sopracciglio in verticale; sotto, un livido violaceo faceva bella mostra di sé. Il suo nome era Chiharu Nara.
«Non fare la pigrona, questo è tutto lavoro di gruppo» sentenziò il biondo con aria di rimprovero.
«E poi è colpa tua se siamo in ritardo» aggiunse quello che chiamavano Hitoshi, il ragazzo attraente che correva poco più avanti. «Tua e dei tuoi errori di calcolo» insinuò, sventolandole davanti lo stesso involto macchiato di sangue che era stato nella capanna polverosa.
La kunoichi sul fondo lo fulminò con lo sguardo. «Non ho sbagliato nulla» sbottò. «Era tutto previsto.»
«Anche il livido su quello zigomo? E’ davvero poco elegante.»
«Non confonderti, Uchiha, non stiamo parlando della tua faccia. Io non passo mezzora davanti allo specchio ogni mattina pensando a quanto sono affascinante.»
«Beh, è evidente che possiamo andare almeno al doppio dell’attuale velocità» li informò il biondo interrompendoli.
«Allenamento!» approvò lo shinobi dalle sopracciglia folte con un brillio di entusiasmo nello sguardo.
«Asp...!» iniziò la ragazza, ma non era arrivata ancora alla quarta lettera che l’intero gruppo era schizzato avanti. «Io li odio!» ringhiò tra i denti, e suo malgrado aumentò il passo.

Sarebbero dovuti passare di lì più di un’ora prima, secondo i piani.
Stavano portando a termine una delle banali missioni di livello A in cui dovevano recuperare un documento che una spia aveva sottratto ai loro archivi. Erano partiti all’inseguimento del ladro guardando l’orologio ogni mezzora, perché quella sera avevano un impegno a cui nessuno di loro voleva mancare, poi però avevano avuto il classico minuscolo intoppo che capita sempre quando si ha fretta: la spia si era rivelata più in gamba del previsto, la caccia si era trasformata in uno scontro all’ultimo sangue e loro avevano realizzato che non sarebbero mai tornati a Konoha in tempo.
Così Chiharu se ne era uscita con la sua brillante idea: fingere un errore, lasciarsi prendere in ostaggio, mostrarsi debole e impaurita e quando il ninja della Roccia avesse abbassato la guardia neutralizzarlo in fretta e senza tante storie. Era sembrato un buon piano finché non si era ritrovata sotto il nemico, con il suo alito acido a solleticarle il naso e un sasso scomodamente conficcato tra le reni. Allora aveva cercato di concludere in fretta con un calcio ben piazzato tra le gambe, ma l’altro, tra contorsioni di bruciante agonia, aveva tentato di ribattere con un pugno dritto in faccia, da cui il livido.
Quando il resto del gruppo aveva raggiunto la baracca nel bosco, dello shinobi rimaneva soltanto un fagotto tumefatto.
Ha fatto una cosa molto stupida” era stata la spiegazione di Chiharu, che continuava a tastarsi lo zigomo pulsante di dolore.
Spero di non farne mai, quando ci sei tu nei paraggi” aveva risposto Naruto.


*


«Shh! Sei rumorosa quanto un branco di pecore!» sibilò una vocina irritata nell’oscurità.
«Gregge, non branco» la corresse un’altra.
«E’ la stessa cosa!»
«Di chi è il gomito nel mio stomaco?» chiese una terza voce, soffocata.
«Scusa» rispose una quarta.
Qualcuno sbuffò, e le foglie frusciarono scuotendo l’intero cespuglio.
«Ma perché mi sono lasciata coinvolgere?» mugugnò una quinta voce, leggermente più indietro.
«Zitta, Mei!» sibilò la prima. «Finalmente riusciamo a vedere qualc... oh!» squittì all’improvviso, eccitata. «E’ arrivato!»
Un breve sconvolgimento di rami e radici, e quattro corpi in posizioni contorte si ammassarono su un unico lato, sporgendosi fin quasi oltre il riparo offerto dalle foglie. Un sospiro collettivo si levò da otto polmoni diversi.
«E’ sempre il più bello» commentò una voce sognante.
«Beh, il termine di paragone è mio fratello» bofonchiò quella che prima si era lamentata. «Chiunque ne uscirebbe vincitore.»
«Zitta! Vuoi farci scoprire?» insorse di nuovo la prima voce, e il volume questa volta fu così alto da essere chiaramente udibile.
«Ha guardato di qua!» strillò un’altra con un misto di eccitazione e panico nel tono. «Oddio, si sta avvicinando!»
«Via!»
Altro burrascoso ammassamento di rami, braccia e gambe che si incastrano. Tra sibili e imprecazioni quattro ragazzine sui quattordici anni emersero dal cespuglio con le acconciature irrimediabilmente rovinate e le braccia coperte di graffi. Inciamparono nei loro stessi piedi, si insultarono e infine piombarono a terra sbattendo il naso sul terriccio umido.
«Bene bene... Violazione di domicilio, direi» commentò una voce flautata sopra di loro.
Quattro paia di occhi seguirono il contorno di un paio di piedi protetti da sandali neri, risalirono lungo le caviglie scoperte, i polpacci muscolosi e le gambe fasciate in pantaloni al ginocchio; e poi su, lungo la maglia a rete e il top che copriva il seno, fino a un viso terribilmente noto e spaventoso. Un viso il cui sopracciglio sinistro era tagliato da una cicatrice trasversale e che aveva un livido violaceo a decorarlo.
Chiharu Nara fissò le quattro intruse con un sorriso che sarebbe stato dolce se non fosse stato platealmente falso.
«Volete un pasticcino?» chiese accucciandosi alla loro altezza. «E’ la mia festa di compleanno, no? Siete venute fin qui, almeno mangiate qualcosa.»
«Ecco, noi, veramente...» balbettò la ragazzina sotto le altre, a corto di fiato.
«Dai, lasciale andare» sbuffò una voce alle spalle di Chiharu.
Le quattro a terra sentirono il cuore rimbalzare dalla gola all’osso sacro. Con timore e reverenza si spostarono in modo da vedere oltre le spalle della ragazza, per scoprire che si trovavano a meno di un metro dal protagonista indiscusso dei loro sogni d’amore, dall’obiettivo della missione di spionaggio di quella sera, dal sacro idolo che abitava le fantasie delle femmine di Konoha dai dodici ai vent’anni: Hitoshi Uchiha, in tutto il suo splendore di affascinante erede del clan Uchiha, per l’occasione di bianco vestito.
Se non fossero già state a terra sarebbero svenute sul posto.
«Si sono imbucate alla mia festa» disse Chiharu lamentosamente, appoggiando un gomito al ginocchio e il mento sulla mano. «Che almeno rubino qualcosa dal rinfresco.»
«Noi non volevamo...» pigolò una delle ragazzine, arrossendo fino alle orecchie.
«Farvi scoprire?» suggerì la kunoichi.
«Suppongo di no» commentò Hitoshi, le mani affondate in tasca. Gettò un’occhiata al cespuglio da cui le quattro erano spuntate e vide una quinta sagoma rannicchiata nella speranza di diventare invisibile. «Una c’era quasi riuscita.»
La ragazzina nell’ombra sospirò, rassegnandosi all’inevitabile, e di malavoglia scostò i rami e si tirò in piedi.
«Mei?» si sorprese Chiharu.
«Ci tengo a precisare che mi hanno coinvolta contro la mia volontà!» brontolò lei arrossendo, e cercò inutilmente di liberare i capelli corti dalle foglie che erano rimaste impigliate.
«Me lo auguro, visto che tu avevi un invito ufficiale e lo hai rifiutato» commentò Chiharu.
E certo che l’aveva rifiutato. Una quattordicenne a disagio alla festa dei diciotto anni della kunoichi più odiata e invidiata di Konoha, soltanto perché condivideva almeno il sette per cento del patrimonio genetico con un suo compagno di squadra? Quell’invito le era arrivato solo per dovere, solo perché era il quarto membro della famiglia Lee: non si sarebbe mai sognata di prenderlo sul serio.
«Le porto via» borbottò accennando alle ragazzine a terra. «Scusate il disturbo.»
«Ma no, è stato divertente» ghignò Chiharu, strappando un brivido alle intruse. «Tanto questa festa è un mortorio.»
Mei aiutò le amiche ad alzarsi, sospirò e rispose svogliatamente al cenno di saluto di Chiharu. Le altre si allontanarono incassando la testa tra le spalle e lei le seguì cupamente.
«Perché diavolo mi sono lasciata trascinare?» borbottò tra sé e sé.

File di lucine gialle correvano al di sopra del giardino dei Nara intrecciandosi in corrispondenza di tavoli e sedie. Il cielo terso era solcato da una mezza luna piccola ma nitida, e un’arietta leggera portava tutt’intorno l’odore dei pruni selvatici che fiorivano in abbondanza nella vicina foresta del clan.
Il due maggio, alla festa di compleanno di Chiharu Nara, era presente metà della nobiltà di Konoha: i soli membri dei clan Hyuuga, Uchiha e Uzumaki avrebbero costituito di per sé materiale pregiato, ma per alzare la posta erano anche circondati da storici eroi della Foglia e personaggi dalle parentele illustri.
Al centro delle attenzioni c’era il capogruppo della festeggiata, il biondo Naruto Uzumaki, che si dava da fare per intrattenere gli ospiti raccontando chissà quale storia di gioventù. Da quando le sue missioni erano diventate ben poco allegre e molto condite di sangue e feriti aveva preferito variare il tema e buttarla sul ridere raccontando degli esordi. Sua moglie, ex membro del nobilissimo clan Hyuuga, era seduta a breve distanza accanto a Yoshino Nara, e di tanto in tanto alternava un’occhiata al marito e una ai tre figli che li accompagnavano, impegnati nella meticolosa esplorazione del giardino.
Appollaiati sulle varie sedie messe a disposizione dai Nara e sistemati in cerchio attorno a Naruto c’erano i Lee, marito e moglie, gli Akimichi, i coniugi Uchiha, Shikaku Nara e ovviamente i padroni di casa. Il tavolo degli stuzzichini era posizionato strategicamente a portata di mano di Choji Akimichi.
Eppure, nonostante la festa fosse per i diciotto anni di Chiharu, l’età media degli invitati era ben al di sopra dei vent’anni.
«Hai ragione, è un mortorio» dovette convenire Hitoshi dall’angolo scuro in cui aveva scoperto le piccole spie con Chiharu. «I racconti di Naruto fanno ridere solo chi c’era allora.»
«E’ già un miracolo che alla fine siamo arrivati in tempo. E poi meglio soli che male accompagnati» citò Chiharu in un tono che non convinceva neanche lei.
«La classica scusa degli asociali» sorrise lui scoccandole un’occhiatina di superiorità. «E comunque non sono del tutto certo che la compagnia qui sia ottima...»
Con un cenno del mento indicò il tavolo degli alcolici, dove Kotaro cercava di fare l’indifferente e intanto studiava ogni etichetta, ma soprattutto indicò il ragazzo biondo che si versava un bicchiere di sakè a qualche passo da lui. Doveva avere più o meno la loro età, e il colore dei suoi capelli era così acceso da indurre chiunque a definirlo giallo, più che biondo.
«A me Yoshi piace» commentò Chiharu in tono un po’ sostenuto.
«Bah» fece Hitoshi, frugando nelle tasche alla ricerca di qualcosa. «Almeno non c’è Sai» bofonchiò tirando fuori un pacchetto di sigarette.
Chiharu non commentò. Se non aveva invitato lo shinobi più impassibile di Konoha pur avendo invitato quasi tutti i suoi coetanei era per una buona, anzi un’ottima ragione.
«Allora, finalmente ti sei decisa a dare quel benedetto esame?» chiese Hitoshi dopo essersi acceso la prima sigaretta. Inspirò una boccata ed espirò, osservando il fumo che saliva lento verso la luna.
«No» rispose lei in tono vago.
«Mi fai incazzare... Sai che è praticamente una formalità, ma sei così pigra che non hai voglia nemmeno di iscriverti.»
«A che mi serve essere Jonin? Tanto le missioni di livello A me le danno comunque, dov’è il problema?»
«Non c’è nessun problema» disse Hitoshi mellifluo. «Se non che sulla carta io e Kotaro siamo a un livello superiore.»
Chiharu lo guardò storto. «Se questa è la tua strategia ti informo che non funzionerà due volte. Mi sono già fatta fregare con l’esame per Chunin, non ripeterò lo stesso errore.»
Qualche anno prima, in occasione delle selezioni per passare di grado, Kotaro e Hitoshi non solo avevano iscritto la reticente compagna a sua insaputa, ma erano anche riusciti a sobillarla nel bel mezzo di una prova, spingendola a darsi da fare per superarla come se ne andasse della sua vita. Era bastato farle trovare davanti Baka Akeru e la sua debordante strafottenza, aggiungere qualche parolina discreta, e Chiharu si era subito infiammata. L’esame poi era finito in fretta.
Hitoshi si strinse nelle spalle e sbuffò. Chiharu era l’unico essere umano in grado di farlo incazzare in meno di cinque parole di senso compiuto. Meglio di lei c’era solo Baka, ma lui partiva avvantaggiato perché era odioso a prescindere. Irritato, l’Uchiha aspirò una boccata dalla sigaretta e si massaggiò una tempia con le dita.
«Emicrania?» chiese Chiharu, appigliandosi alla prima distrazione per cambiare discorso.
«Colpa tua» bofonchiò lui.
«O magari della tua testaccia bacata» replicò lei puntigliosa. «Inizio a pensare che ti piaccia soffrire, visto che hai una madre medico e ti ostini a non farti fare un controllo come si deve. L’autolesionismo è un problema, sai?»
Hitoshi studiò per qualche istante la sua sigaretta, senza commentare, poi aggrottò la fronte. «Sta’ zitta, stupida: non si scherza su queste cose.»
Chiharu sospirò. «Guardandoti capisco quanto sono fortunata ad essere figlia unica.»
Hitoshi sorrise amaro e lasciò cadere a terra il mozzicone ormai esaurito, calpestandolo sotto un piede. Alzò lo sguardo per controllare che il cespuglio che lo nascondeva alla vista dei suoi genitori fosse ancora al suo posto, quindi scrollò le spalle.
«Dovresti compiere il tuo dovere di festeggiata e farti vedere tra gli invitati» mormorò ravvivandosi i capelli scuri.
«Giusto. E fermiamo Kotaro prima che porti via una bottiglia di sakè» sospirò lei accennando alla zona alcol.
Insieme si avviarono verso l’angolo del giardino da dove provenivano le risate degli adulti, e Chiharu sorrise a Naruto che le faceva cenno di avvicinarsi.
«Penso io a Kotaro» le disse Hitoshi separandosi da lei.
Il tavolo degli alcolici era poco distante da quello degli stuzzichini, ma lì le risate giungevano attutite e le voci smorzate. Hitoshi raggiunse Kotaro alle spalle.
«Lascia perdere, idiota» fu il primo gentile commento che gli rivolse.
Il giovane Lee trasalì e fece un passo indietro.
«Non stavo facendo niente!»
«Lo sai che non puoi toccarne neanche un goccio» replicò Hitoshi, e con gelida perfidia prese un bicchiere e lo riempì lentamente.
«Non è colpa mia se non lo reggo» si lamentò Kotaro affranto. «E’ colpa di papà. Avrebbe dovuto abituarmici pian piano...»
«O magari avrebbe dovuto evitare di trasmetterti i geni sbagliati. Con la sbornia facile poteva passarti almeno la tecnica dell’ubriaco, invece niente» ribatté l’Uchiha, bevendo il primo sorso e ricacciando giù le spontanee smorfie di disgusto. Non era un grande amante dell’alcol, ma stuzzicare Kotaro era uno dei suoi passatempi preferiti.
«Tuo padre invece ti ha trasmesso la simpatia» brontolò Kotaro tra i denti.
Lui e Hitoshi rimasero in silenzio per qualche minuto, fissando gli adulti che ridevano tra loro. Più oltre, nella zona buia del giardino, cinque bambini sbucavano e scomparivano tra i cespugli fingendosi grandi ninja in missione.
«Dov’è Haru?» chiese Kotaro corrugando la fronte.
Hitoshi la cercò con lo sguardo tra gli adulti ma non la trovò, e nel contempo si rese conto che mancava anche un’altra persona. Prima che potesse controllarsi gli sfuggì una smorfia di irritazione.
«Guarda caso è sparito anche lo stupido pulcino» mormorò studiando il sakè nel suo bicchiere.
Kotaro si rabbuiò a sua volta. «Cosa ci trova in lui, poi...»
«Sono idioti uguali, probabilmente. Lei perché è lei, lui perché si è ossigenato anche il cervello quando si è fatto biondo» commentò Hitoshi.
Kotaro si lasciò sfuggire un sorrisino e prese un bicchiere vuoto.
«Kanpai» disse in tono rassegnato, stringendosi nelle spalle.
L’Uchiha toccò il bicchiere con il suo, e la plastica scricchiolò nell’aria tiepida.


«Ok. Nessun pericolo.»
«Nulla nemmeno di qui.»
«Qui neppure.»
«Allarme!»
Cinque sagome balzarono fuori dai cespugli e si avventarono sull’ombra che, incauta, aveva osato avvicinarsi abbastanza da costituire una minaccia. Ci fu una breve colluttazione, infarcita di strilletti acuti, imprecazioni ingenue e tonfi, dalla quale emersero in posizione eretta soltanto due ragazzini.
«Hanno cinque anni!» protestò quella tra i due che sembrava una femmina, additando i bambini che si rialzavano doloranti.
«Mi hanno attaccato» replicò l’altro. «Sapevano cosa aspettarsi.»
«Sì, il trattamento riservato ai bambini di cinque anni!»
«Zitta Hina!» scattò il primo dei piccoli che si era rialzato, premendo una mano sulla guancia arrossata e tenendo le mascelle contratte nel tentativo di impedirsi di piangere. Biondo e scompigliato, aveva occhi di un azzurro molto chiaro ed era probabilmente il più basso del gruppo. «Siamo ninja, sappiamo come funziona!» decretò orgoglioso.
La ragazzina che li aveva difesi grugnì e incrociò le braccia sul petto, roteando gli occhi candidi. «Ninja!» ripeté sarcastica. «Non sai nemmeno raccogliere il chakra, che ninja vuoi essere?»
Il bambino arrossì indignato. «Ho solo cinque anni!» sbottò con voce vibrante d’orgoglio. «Vedrai che quando ne avrò quindici dovrai rispettarmi, stupida sorella!»
«Intanto tu vedi di rispettare me» sibilò Hinagiku Uzumaki facendogli arrivare un pugno sulla nuca. «Forza, andate a giocare altrove, sciò» aggiunse poi, rivolgendosi questa volta anche agli altri tre bambini.
«Io?» balbettò quella un po’ più grande, una bambina con i suoi stessi occhi chiari.
«Anche tu!»
«Sì, andiamocene» con un brillio malvagio il bambino biondo scoccò un’occhiata al ragazzino che aveva cercato invano di attaccare, ora silenzioso e vagamente incuriosito. «Mia sorella deve dire a Jin che lo ama tanto» concluse perfido.
Hinagiku avvampò di rabbia. «Ti ammazzo!» gridò, facendo per avventarsi sul fratello, ma quello con un gridolino sgusciò via.
«Scappiamo!» rise, e corse tutto allegro verso il centro del giardino e la salvezza rappresentata dagli adulti. «Abbiamo tante altre missioni da portare a termine anche senza di te!» aggiunse prima di sparire dietro il tavolo degli stuzzichini, regalandole un’ultima boccaccia. L’altra sorella lo guardò incerta, poi notò gli occhi furenti di Hinagiku e decise di accodarsi in tutta fretta. Gli ultimi due bambini, rispettivamente un maschio dagli sconvolgenti capelli rosa e una femmina castana e paffuta, sbuffarono.
«Stupido Micchan, perché finisce sempre così?» si lamentò la bambina. «Dobbiamo correre, correre e correre quando c’è lui di mezzo...»
«Sappiamo com’è fatto» commentò il bambino stringendosi nelle spalle. Aveva un occhio verde e uno di un rosso intenso, che insieme ai capelli rosa lo rendevano particolarmente poco mimetico. «Andiamo a mangiare qualcosa?» propose.
«Sì!» gli occhi azzurri della bambina si accesero di entusiasmo, e con un ciao frettoloso entrambi corsero via.
Hinagiku digrignò i denti. «Ehi, guarda che non diceva mica sul serio!» scattò subito, fissando ansiosamente il ragazzino che le stava davanti.
Lui ricambiò lo sguardo senza scomporsi, gli occhi blu pacati e vagamente divertiti. «Ma certo.»
«E’ uno stupido bambino idiota!» continuò lei infervorata. «Cioè, pensa te se io devo... Con te, poi, che a volerla dire tutta mi stai anche antipatico!»
«Davvero?»
«No!» si affrettò a negare lei, arrossendo di nuovo. «Cioè, un po’. Ma solo un pochino. Insomma, sei un po’ troppo bravo in... in... beh, in tutto, per essere simpatico.»
«Immagino di sì» constatò lui, riflessivo.
Hinagiku si maledisse mille volte. «Comunque non mi piaci» ci tenne a chiarire assottigliando gli occhi.
«Va bene» l’altro annuì. E lei si sentì un po’ delusa. «Devo ancora dare il suo regalo a Chiharu» continuò lui, cercando la festeggiata con lo sguardo.
Hinagiku sentì un piccolo peso sullo stomaco. Aveva aspettato che Jin Hatake arrivasse per metà della serata, e appena faceva la sua comparsa se ne andava da un’altra? Forse non avrebbe dovuto unirsi al finto attacco dei suoi fratelli, prima; aveva pensato che fosse un modo scaltro per avvicinarlo, ma probabilmente lo aveva solo indispettito.
«Dieci minuti fa stava parlando con il suo amico biondo» borbottò, notevolmente più fredda. «Ora non so dove si siano cacciati.»
«Lo darò a sua madre» Jin la guardò un istante più del dovuto, come se esitasse. «Mi accompagni?»
Hinagiku si illuminò. Accorgendosene schiarì la voce e cercò di darsi un contegno. «Va bene» disse noncurante, stringendosi nelle spalle in maniera così innaturale che si stirò un muscolo del collo. «Comunque ti faccio notare che prima non mi hai atterrata» aggiunse dopo un momento, tutta orgogliosa.
Jin sorrise senza farsi vedere. Era appena rientrato da una missione di livello A insieme a un Jonin che aveva fatto parte degli Anbu. Hinagiku, per quanto avesse solo un anno meno di lui, non aveva ancora finito l’Accademia.
Certe cose non accadono per caso.

«Come al solito!» sbuffò Naruto piegando la testa all’indietro. «Io l’ho sempre detto che quell’uomo non era adatto a fare l’Hokage! Non riesce neanche a liberarsi per un paio d’ore, roba da matti!»
Jin, davanti alla sua sedia, si strinse nelle spalle. «E’ arrivato un blocco di messaggi un attimo prima che finisse di lavorare, così l’assistente lo ha blindato nel suo studio» spiegò. «Sembra che ormai le pile di documenti raggiungano il metro d’altezza, ma potrebbe anche essere una leggenda.»
«Come se non fosse perfettamente in grado di svignarsela!» Naruto rialzò la testa e guardò male Jin, in mancanza di Kakashi. «Te lo dico io: sta sfruttando la situazione per leggere L’esperienza della Pomiciata, l’ultima schifezza che ha sfornato quel vecchio porco di Jiraya!»
«E che anche tu hai letto, prima della pubblicazione» sottolineò una voce alle sue spalle. Chiharu comparve dietro la sua sedia e gli batté una pacca affettuosa sulla spalla.
«Che stai dicendo?» scattò lui, sulla difensiva.
«Jiraya mi ha mostrato la copia da mandare in stampa» spiegò lei con un sorriso. «Se non sbaglio al capitolo tre c’era un tuo commento su una certa scena, che avevi definito... Com’era? Troppo poco...»
«Ehi, la roba che scrive Jiraya non è vietata ai minori?» si intromise Temari Nara, drizzando le orecchie al primo segno di scorrettezza.
«Questa festa non è per i miei diciotto anni?»
«Quindi quando hai letto la bozza non eri affatto maggiorenne! Perché Jiraya non è qui? Devo dirgli un paio di cose...»
«Lascia perdere» gemette Shikamaru, esausto consorte.
«Io non ho lasciato nessun commento sulla bozza del libro!» sottolineò Naruto gesticolando per attirare l’attenzione.
«Ammetti di averlo letto, però» puntualizzò Chiharu.
«No!»
«E tu invece?» sibilò Temari alla figlia.
«Se vado a prendere mio padre semplifichiamo le cose?» propose Jin pieno di buona volontà.
«Ma di che libro parlano?» chiese Hinagiku.
«Allora, sulla quarta di copertina dice che...»
«Non ti azzardare a dire un’altra parola!» strillò Naruto, tappando convulsamente le orecchie di Hinagiku.
Shikamaru esalò un sospiro profondo quanto l’inferno, svuotò il suo bicchiere di saké e lo tese flemmaticamente a Choji perché lo riempisse. E fu allora che emerse il commento più inaspettato di tutti, proprio dal rassicurante, tondo, tranquillo Akimichi: «Io l’ho letto quel libro. Non è scritto male.»


Gli ultimi ospiti se ne andarono quando la luna sfiorava il tetto di casa Nara, disegnando ombre lunghe nei punti del giardino non illuminati. Sul tavolo del buffet restava solo una tovaglia coperta di briciole, su quello degli alcolici bottiglie vuote e bicchieri rovesciati. Le sedie ancora sparse per il prato erano fredde e deserte, una brezza leggera faceva svolazzare un tovagliolo di carta nel silenzio della notte. Davanti al cancello tre sagome parlottavano a bassa voce.
«Come abbiamo potuto distrarci?» sospirò Chiharu scuotendo tristemente la testa.
«Io non so» replicò Hitoshi asciutto. «Ma tu ci riuscivi abbastanza facilmente.»
Lei inarcò un sopracciglio, quindi si lasciò sfuggire un mezzo sorriso, cogliendo il riferimento a Yoshi.
«Un Uchiha geloso, tu guarda» commentò dolcemente, e Hitoshi arrossì nel buio.
«Stronzate» ringhiò. «Buonanotte, eh.»
Kotaro, accasciato sulla sua spalla, gemette nel sonno quando lui si voltò. «Piano...» biascicò in un mormorio, e dalla sua bocca l’odore dolciastro dell’alcol si diffuse nell’aria.
Chiharu guardò i due che si allontanavano, le ombre sovrapposte in un grottesco superuomo bitorzoluto, quindi gettò un’occhiata alla luna alle sue spalle. A giudicare dalla sua posizione dovevano essere quasi le due.
Perfetto.

Shikamaru e Temari Nara, mentre si infilavano sotto le lenzuola discutendo degli inopportuni gusti letterari di Chiharu, pensarono che la loro unica figlia avesse deciso di accompagnare a casa i compagni di squadra per aiutare quello sobrio a trasportare quello ubriaco. Quando non la sentirono rientrare non si preoccuparono né ebbero alcun sospetto. Si limitarono a sbadigliare, posare la testa sul cuscino, rannicchiarsi l’uno accanto all’altro e chiudere gli occhi, la fronte di lei contro la schiena di lui in una diplomatica tregua notturna.
Se avessero anche solo sospettato la verità probabilmente non sarebbero riusciti a chiudere occhio.
Chiharu in quel momento si muoveva sui tetti di Konoha: evitava la luce delle stelle passando rasente i muri, saltava di palazzo in palazzo senza fare rumore. Le bastarono pochi minuti per arrivare in un quartiere anonimo del villaggio, una zona densa di condomini e piccole abitazioni senza giardino, e una volta lì si fermò nel cono d’ombra tra due edifici.
Nel buio, da sola, si concesse un ultimo minuto per ripensarci. Cinque anni erano tanti e le persone cambiavano... Magari lui non ricordava neanche più quella promessa. Era molto probabile, in effetti, quasi sicuro. Però lei la ricordava ancora. E lavorando in team con Hitoshi e Naruto il suo già ampio ego si era sviluppato fino a diventare piuttosto invadente, il che le impediva di ignorare le spacconate sparate in gioventù. Era una questione di principio.
Lo ricordò a sé stessa mentre si costringeva ad accantonare gli ultimi dubbi, calandosi lungo la parete fino a una finestra precisa.
Non è il momento di fare l’adolescente, si rimproverò sistemandosi meglio sul cornicione.
Prima che il suo corpo potesse opporsi bussò al vetro.
Per un attimo non accadde niente. Poi, all’improvviso, un viso bianco comparve nel riquadro disegnato dal telaio e la finestra si aprì con un lieve cigolio. Chiharu si costrinse a sembrare adulta e sicura di sé mentre Sai, dall’interno, la fissava con lo sguardo assonnato di chi è stato appena tirato giù dal letto.
«Che ci fai qui?» le chiese senza offrirle di entrare.
«Oggi è il mio compleanno» rispose lei, incapace di trattenere un sorriso nervoso.
«Auguri» commentò Sai senza capire. «Se l’avessi saputo prima mi sarei procurato un regalo... Credo.»
Chiharu non si lasciò smontare dalla freddezza del Jonin, e invece lo studiò lasciando indugiare il sorriso sulle labbra. «Non sono qui per quello.»
«Allora che ci fai alle due di notte sul mio davanzale?»
Il cuore di Chiharu accelerò. «Ti do una mano: quanti anni compio oggi?»
Sai fece un rapido calcolo. «Diciotto?»
«Esatto. E cosa ti avevo promesso che sarebbe successo una volta che fossi diventata maggiorenne?»
All’improvviso un guizzo di comprensione brillò negli occhi del Jonin, seguito dalla sorpresa più pura. Allora non se ne era scordato proprio del tutto.
«Stai dicendo sul serio?» domandò. Gli capitava raramente di essere colto impreparato.
Chiharu arrossì nel buio. «Ero serissima cinque anni fa, e la sono anche adesso.»
«Ah» fece lui, suo malgrado incuriosito. «E quindi saresti qui per...?»
«Di certo non pretendo risultati immediati» sbottò Chiharu stizzita. «Ma devo pur incominciare da qualche parte.»
«A sedurmi?» chiese Sai, incurvando un angolo della bocca in un sorrisino ironico.
Ora ricordava tutta la conversazione in ospedale. Chiharu aveva promesso che una volta diventata maggiorenne gli avrebbe fatto perdere la testa. All’epoca sembrava determinata a costringerlo a sposarla, ma poi le occasioni per vedersi si erano diradate e lui non aveva più pensato alla ragazzina arrogante che si era presa una cotta per il maestro dell’Accademia. Dopo tutti quegli anni, lei ancora...?
«Dovresti prendermi sul serio» la ragazzina ormai cresciuta interruppe il flusso dei suoi pensieri.
«E come faccio?» Sai sospirò. «Potrei essere tuo padre.»
Chiharu strinse i denti irritata. Aveva aspettato di essere maggiorenne proprio perché tutti riconoscessero ufficialmente che era adulta, adesso lui cambiava le carte in tavola e iniziava a trattarla come una bambina?
«Potresti essere mio padre, è vero, ma io non poterei mai essere tua figlia» mormorò.
E, prima che lui ribattesse, si sporse attraverso il telaio della finestra e lo baciò. Labbra contro labbra, per la prima volta nella sua vita: era una sensazione più delicata di quel che aveva immaginato, ma ugualmente elettrizzante. Si ritrasse quasi subito, incapace di reggere alla tensione, e si concesse un sorriso di trionfo.
«Primo passo» mormorò, grata alla notte perché nascondeva il suo rossore.
Schivando gli occhi sbalorditi di Sai balzò sul tetto della villetta accanto, ansiosa di allontanarsi e scaricare i nervi. Si sentiva pervasa da un piacevole senso di conquista, rovinato solo dal sospetto di essere passata per ridicola. Ma il primo bacio è il primo bacio, non si scappa, e Chiharu aveva diciotto anni e un grande successo di cui compiacersi.
Se non fosse stata in mezzo al villaggio in piena notte avrebbe gridato la sua vittoria al mondo.


Altrove, sotto lo stesso cielo, una lampada da tavolo illuminava un foglio di carta coperto da una calligrafia minuta.
La mano che lo teneva stretto era bianca, grande e immobile. Ma il suo proprietario, il sesto Hokage del villaggio della Foglia, fissava il codice e il messaggio che racchiudeva con gli occhi sbarrati e le palpebre tremanti.




La scintilla.



           

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Capitolo 2
*** Il Gran Consiglio ***


02
Capitolo secondo

Il Gran Consiglio




Il clima del Paese del Vento era generalmente secco e torrido. Il sole di mezzogiorno incrinava le pietre e faceva tremare l’aria avida di frescura, ma l’afa per fortuna era rara. Nella sua conca di arenaria rossa il villaggio di Suna riposava sotto un cielo luminoso, circondato dalla coperta troppo calda della sabbia che si infilava ovunque; il suo silenzio era rotto soltanto dai ronzii degli insetti nascosti tra le ombre e da sporadiche voci dalle camere da letto, dove gli abitanti del villaggio si ritiravano a riposare dopo il pasto di metà giornata.
Nel suo studio, con l’aria fredda del condizionatore puntata tra gli occhi, il Kazekage teneva la testa appoggiata a una mano e fissava la porta senza vederla. La mano libera era posata sul piano della scrivania, morbida, ma con le dita tamburellava nervosamente sul legno.
Gaara era teso, il che di recente gli capitava troppo spesso. Da qualche giorno aspettava un messaggio, certo che fosse sulla strada per il suo studio, ma ogni volta che attendeva uno di quelli non poteva fare a meno di sentire la sudorazione aumentare in maniera esponenziale. Proprio mentre iniziava a considerare l’idea di temperare tutte le matite della scrivania un bussare educato ma improvviso lo fece sussultare.
«Sì, avanti» disse un po’ troppo in fretta, ricomponendosi rapido.
Sulla soglia comparve una donna dall’aria impeccabile, con lunghi capelli rossi raccolti in una crocchia e occhiali dalla montatura spessa. Entrando gettò uno sguardo interrogativo a Gaara, ma quando si richiuse la porta alle spalle non fece nessun commento.
«E’ arrivato un messaggio dalla Foglia» disse invece, andando a raggiungere la scrivania. «Sembra che sia successo qualcosa.»
Gaara nascose l’emozione e prese il foglio che lei gli tendeva. I suoi occhi lo percorsero velocemente in cerca delle notizie che aspettava, ma mano a mano che procedeva nella lettura si rese conto che il messaggio non era quello sperato, anzi: arrivato all’ultima parola dovette trattenersi dal serrare il pugno per non stropicciare la carta.
«Si direbbe una situazione incresciosa» commentò la donna. Un sorriso freddo le incurvò le labbra tinte di rosa. «Davvero una fortunata coincidenza, non trovi?»
«Per voi» sibilò Gaara caustico. Appoggiò il messaggio sulla scrivania, bloccandolo sotto un fermacarte di pietra; prima di rialzare lo sguardo si costrinse a distendere i muscoli del viso.
«Nobile Kazekage, dovreste rilassarvi» ribatté la donna ironicamente, appoggiandosi alla scrivania con un fianco. «Il vostro ruolo è così pieno di preoccupazioni che forse sarebbe il caso di delegare qualcosa alla vostra preziosa segretaria.»
Gli occhi di lui mandarono un lampo, il sorriso della donna si ampliò. «Cos’è quello sguardo, Gaara?» chiese, lasciando perdere la finta deferenza. Appoggiò le mani sulla scrivania e si piegò verso di lui, osservandolo attraverso gli occhiali. «Non puoi fare nulla. Lo sai. Da bravo, non fissarmi così. Anzi, rallegrati: le notizie che vengono da Konoha sono ottime notizie, e quando noi siamo soddisfatti le cose vanno bene per tutti. Non sei sollevato?» alzò una mano e sfiorò la guancia di Gaara per una frazione di secondo, prima che lui scostasse bruscamente il suo braccio. Il sorriso scomparve in fretta dal volto della donna. Si fece indietro. «No, forse non abbastanza» mormorò piano. «Stai attento Gaara... Se dovessi vedere qualcosa che non mi piace nel tuo comportamento, sai chi ne farebbe le spese.»
Di scatto si voltò verso l’uscita e la raggiunse in pochi passi. Giunta davanti alla porta si fermò, sistemò la crocchia sulla testa e lo guardò un’ultima volta, sul viso l’espressione professionale della segretaria affidabile.
«Buon lavoro, nobile Kazekage» disse cortesemente. «Io credo che mi assenterò per un paio d’ore, se non vi è di troppo disturbo.»
Quindi, senza attendere risposta, uscì.
Non appena fu di nuovo solo Gaara riprese il messaggio di Konoha e lo lesse una seconda volta, assottigliando gli occhi nello sforzo della concentrazione. Tra le righe, dietro gli ideogrammi, lui riusciva a leggere ciò che nessun altro vedeva: il codice nascosto dietro il codice, il vero messaggio che aspettava con tanta impazienza. Quando arrivò in fondo alla pagina le occhiaie sul suo viso si erano fatte più profonde.
Si passò una mano sulla fronte. Avrebbe dovuto immaginare che le cose si sarebbero complicate all’ultimo: fino a quel momento tutto era proceduto in maniera troppo scorrevole... Tornò a guardare il messaggio, rilesse le ultime righe.
Beh. C’era un grosso impedimento, ma c’era pure qualche appiglio, dovette riconoscere.
Anche se, ne era certo, Naruto doveva essere furioso.


*


Il primo pensiero che attraversò la testa di Chiharu, quando incrociò lungo la strada Baka Akeru, fu che quella si prospettava una giornata disgraziata. Di solito, da quando lo conosceva, ogni volta che lo incontrava finiva in sangue o insulti.
Pensò di ignorarlo, ma ovviamente lui non glielo permise.
«Quale onore!» commentò non appena fu abbastanza vicino per scoccarle un’occhiata piena di stizza. «La novella maggiorenne.»
«Ciao, Stupido» sospirò lei.
Crescendo Akeru si era fatto più alto, e, come se non bastasse, alla sua già generosa boria era andato ad aggiungersi un aspetto decisamente piacevole, probabilmente fin troppo. Mentre camminava impettito lungo la strada, poi, sfoggiava con orgoglio il tatuaggio che gli marchiava la spalla sinistra, una fiammella stilizzata che lo qualificava come membro della squadra speciale del villaggio; e quello, considerato che era l’unico tra i coetanei ad essersi guadagnato un posto tra gli Anbu, sarebbe stato motivo di orgoglio per chiunque, figurarsi per qualcuno con uno smodato bisogno di complimenti, come era lui.
«Allora? Mi dicono sia stata una bella festa di vecchietti» proseguì, bloccando la strada a Chiharu. «Età media trentaquattro anni, e solo perché i figli degli invitati la abbassavano drasticamente.»
«E’ stato tre giorni fa!» esclamò lei incrociando le braccia sul petto. «Per quanto hai intenzione di recriminare? Volevi davvero venire a quella festa e farti tormentare da Hitoshi e Kotaro?»
Akeru arrossì indispettito e le scoccò un’occhiata offesa. «Quello là lo hai invitato» bofonchiò a mezze labbra. «E nemmeno lui è esattamente amico dei tuoi stupidi compagni di squadra.»
«Yoshi non li provoca, almeno» spiegò lei con uno sguardo eloquente. «Non avevo voglia di sorbirmi le tue frecciatine e la tua antipatia anche al mio compleanno, e soprattutto non avevo proprio voglia di imporle agli altri.»
Il rossore sulle guance di Akeru aumentò. «Ti hanno mai detto che sei una stronza arrogante?»
«Sì, ma tu puoi fare di meglio» replicò lei. «E ora scusa, ‘i miei stupidi compagni di squadra’ mi stanno aspettando. Riesco ad essere in ritardo anche da sola, ma se ti ci metti pure tu Hitoshi e Kotaro finiranno per avere ragione a lamentarsi.»
Prima che lei potesse muovere un passo lui le prese il braccio e le mise in mano un pacchetto avvolto in carta velina viola.
«Cos’è?» indagò Chiharu con una smorfia, mentre Akeru schivava il suo sguardo.
«Mettilo su quel livido» borbottò, accennando alla chiazza bluastra che ancora le sottolineava l’occhio sinistro. «Lo farà sparire più in fretta.»
«Oh. Grazie» rispose Chiharu sorpresa. Ricevere regali in cambio di sarcasmo e battute cattive era un’esperienza nuova.
Akeru arrossì e la lasciò andare. «Spalmane un po’ la sera e un altro po’ la mattina. Nel giro di quattro o cinque giorni non dovrebbe più vedersi niente» spiegò affondando le mani in tasca.
«Non sei un po’ in ritardo per i regali di compleanno?» domandò lei, incapace di ribattere alla gentilezza.
«Te l’avrei dato alla festa, ma non mi hai invitato. Visto che non riesci mai a tornare tutta intera dalle missioni ho pensato che potesse esserti utile.»
«Se ben ricordo all’esame per diventare Chunin eri tu quello messo peggio.»
«Io invece non ti ricordo all’esame per diventare Jonin... Ah! Ma tu non c’eri proprio, ecco perché!» con gesto teatrale Akeru si batté una pacca sulla fronte.
Chiharu assottigliò gli occhi. Baka la imitò.
«E’ davvero da stupido che tu mi chieda perché non ti ho invitato al compleanno» sibilò lei.
«E’ davvero triste che tu non abbia amici della tua età a parte i tuoi compagni di squadra» ribatté lui tra i denti.
«Detto da uno che si è preparato un regalo da darmi anche se non era tra gli invitati fa quasi compassione!»
«Oh, non ti preoccupare. Non succederà mai più, stanne certa!» sbottò Baka tagliente. «Vai a farti ammazzare dove ti pare! Io ti ho già aiutata più volte di quante meritassi, non alzerò un altro dito per darti una mano!» con espressione furibonda, senza aspettare la sua replica, la oltrepassò per andarsene.
Chiharu lo guardò allontanarsi e poi spostò gli occhi sul pacchettino che ancora stringeva in mano. Sorrise, canzonatoria.
«Vai a farti ammazzare, eh...» ripeté tra sé e sé. «Come no.»

«Venti minuti!» sbottò Hitoshi, additando l’orologio che ancora campeggiava sulla facciata dell’Ufficio per lo smistamento delle missioni. «Venti minuti di ritardo! Giuro che la prossima volta a te diciamo che l’appuntamento è mezzora prima!»
Chiharu, che lo ascoltava con un orecchio solo, sbadigliò vaga. «Scusa» fu il suo commento mentre tormentava distrattamente il livido sullo zigomo.
Hitoshi si passò una mano sugli occhi, sentendo l’emicrania pulsare dietro le palpebre come un martello pneumatico. Maledisse il giorno in cui lo avevano messo in gruppo con lei, e poi il giorno in cui era scampata all’avvelenamento, e ancora quando era sopravvissuta alla sua prima vera battaglia. Perché all’epoca era stato felice di simili infausti avvenimenti?
«Sai che per fare la predica a lei abbiamo perso altri cinque minuti?» gli fece notare Kotaro molto pragmaticamente.
Sulla fronte di Hitoshi una vena pulsò in trasparenza. «Entriamo e non rompete!»
«Quand’è che abbiamo deciso che sei tu il capo?» chiese Chiharu incamminandosi per prima.
«Quando tu ti sei addormentata durante quella missione nel Paese dell’Acqua e Kotaro si è ubriacato nell’altra al Fulmine.»
«Oh. Me ne ero dimenticata. Ma quella roba era di una noia tale che era impossibile stare svegli!»
«E io non mi sono ubriacato al Fulmine» puntualizzò Kotaro. «Sono stati i vapori dell’incendio. Erano andate a fuoco quelle botti, non ricordate? Io ero solo troppo vicino, sarebbe successo anche a voi se foste stati in quel punto!»
«Noi eravamo lì, proprio di fianco a te» disse Hitoshi.
Kotaro unì le spesse sopracciglia in un unica riga riflessiva. Non ricordava proprio, ma in effetti di quel giorno aveva solo un’immagine molto nebulosa. «Beh, comunque stiamo aspettando il giorno in cui il fumo o le emicranie ti metteranno K.O. in terra straniera, signor ‘Ce-L’Ho-Solo-Io’; allora pareggeremo i conti» disse seccato.
Un tempo Kotaro era stato la personalità pacata che ammorbidiva i toni delle liti tra Chiharu e Hitoshi, ma dopo cinque anni con Naruto di pacato non era rimasto proprio nulla nel gruppo sette e anche lui aveva finito per imparare a rispondere a tono.
Mentre si punzecchiavano a vicenda i tre shinobi raggiunsero il tavolo delle missioni e si fermarono davanti a un unico ninja, che li accolse guardandoli storto.
«Voi che ci fate qui?» chiese seccato, nascondendo sotto il tavolo l’ultima copia della serie della Pomiciata.
«Cosa vuol dire ‘che ci facciamo qui’?» fece eco Hitoshi. «Siamo ninja, di solito svolgiamo missioni.»
«Non oggi» replicò lo shinobi. «Oggi tutti, dal grado di Chunin in su, sono sotto il palazzo dell’Hokage; se la memoria non mi inganna voi non siete Genin.»
«Il palazzo dell’Hokage?» ripeté Kotaro per primo. «E’ successo qualcosa?»
Lo shinobi oltre il tavolo ghignò con malcelata aria di superiorità. «Ma come, non lo sapete?» chiese, appoggiando un gomito al tavolo sdegnosamente. «L’Hokage ha convocato urgentemente il Gran Consiglio, stamattina. Si vocifera che siamo in crisi, o qualcosa di simile, e tutta Konoha è in fermento. Come fate a non averne idea, eh? Persino io sono qui solo per i gruppi che rientreranno in mattinata, altrimenti sarei con tutti gli altri in piazza.»
Chiharu scambiò un’occhiata con i compagni. «Prima ho incrociato Stupido, ma non ha accennato a niente del genere» mormorò stranita.
«Ehi, ricordi di chi stiamo parlando?» le fece notare Hitoshi. «Un nome, un perché*. Secondo me ne sa anche meno di noi che non sappiamo niente.»
«Andiamo a vedere che succede, no?» disse Kotaro, impaziente.
Sia lui che l’Uchiha fissarono Chiharu, leggendo nel suo sguardo le allarmanti avvisaglie di una defezione pro pisolino mattutino, ma a metterci l’ultima parola fu lo shinobi dello smistamento, che ancora li guardava con sprezzante condiscendenza.
«Oh, potete anche non andare» borbottò, sfilando da sotto il tavolo L’esperienza della pomiciata, edizione rilegata con sovraccoperta. «Tanto dubito che siate abbastanza importanti da venir direttamente influenzati dalle decisioni del Gran Consiglio.»

«Dovremmo smettere di avere questo orgoglio spaventosamente sviluppato» commentò Kotaro, mentre insieme a Hitoshi e Chiharu si faceva largo nella calca cercando di guadagnare la prima fila. «Di solito ci porta a un mare di guai.»
«Oh, ma sta’ zitto!» brontolò Chiharu, seguendolo agile. «Siamo qui solo perché vogliamo sapere qualcosa... e poi siamo Chunin. Ne abbiamo il diritto.»
«Io sono Jonin» le fece notare Hitoshi, che chiudeva la fila.
Kotaro roteò gli occhi e aumentò il passo tentando di seminare entrambi. Ciò che invece ottenne, purtroppo o per fortuna, fu soltanto di arrivare in prima fila con molta più rapidità del previsto. Così rapidamente che andò a sbattere contro uno degli shinobi che presidiavano l’ingresso del palazzo.
«Che cosa succede?» domandò all’uomo scusandosi frettolosamente.
«Il Consiglio è ancora in seduta» rispose quello. «L’Hokage ieri ha indetto una riunione straordinaria, ma non ha spiegato il motivo.»
«Nessun consigliere si è lasciato sfuggire qualcosa?» intervenne Hitoshi scansando Kotaro.
«Che io sappia, no.»
«Siamo in crisi?» indagò Chiharu sgusciando tra i compagni di squadra.
«E chi lo...»
«Sì, sì, abbiamo capito» la kunoichi fece un gesto stizzito. «Non sai un tubo di niente!»
Lo shinobi le scoccò un’occhiata offesa, ma non fece in tempo a riprenderla che dalla folla alle loro spalle si fece avanti un trafelatissimo Akeru, scusandosi a destra e a manca.
«Sì, scusate... Scus... Non stavo palpando niente! Ehi! Il mio piede!» Ansante, raggiunse il gruppo sette e scoccò un’occhiata furiosa alle persone che si accalcavano nella piazza. «Qualcuno mi ha toccato il culo!»
«Beh, se lo metti in mostra sopra quel collo è ovvio che prima o poi lo notino» commentò Hitoshi.
«Ah-ah. Esilarante» ribatté Akeru squadrandolo male, poi vide lo shinobi davanti alla porta. «Posso salire?» chiese mostrando subito il tatuaggio sulla spalla.
Chiharu, Kotaro e Hitoshi spalancarono la bocca quando la guardia si fece da parte, e Baka li salutò esibendo un ghignetto di superiorità. «A dopo, pivelli.»
«Aspetta, Stupido! Sai cosa sta succedendo?» tentò di chiedere Chiharu, ma Akeru le rivolse un gestaccio e sparì su per le scale.
I tre ragazzi ancora fermi fissarono lo shinobi che lo aveva lasciato passare.
«Possiamo...?» iniziò Kotaro, ma quello scosse subito la testa.
«Niente da fare, voi aspettate» disse con un sorriso perfido.
«Perché quell’idiota può salire e noi no?» sbottò Hitoshi indignato. «Io sono Hitoshi Uchiha!»
«Non mi sembri un Anbu né un membro importante del tuo cosiddetto clan» ribatté l’uomo, per nulla colpito. «Chiudete la bocca e lasciatemi fare il mio lavoro.»
I tre ragazzi non poterono che fare un passo indietro e disporsi all’attesa.
Con un moto di stizza Hitoshi si accese una sigaretta. Cosiddetto clan, eh? Un giorno quel tizio e tutti quelli che la pensavano come lui si sarebbero rimangiati fino all’ultima parola. A costo di sfornare sedici figli, entro la prossima generazione avrebbe fatto sì che nessuno potesse più permettersi di nutrire dubbi sulla legittimità del clan Uchiha!
Mentre lui rimuginava sulle sue sventure, Kotaro si lamentò per il fumo passivo che era costretto a ingoiare, cercando di spingerlo più lontano. Incidentalmente lo mandò a sbattere contro Chiharu, la quale, già innervosita dall’arrivo e partenza di Baka, non si fece certo pregare per prenderli a male parole. Se c’era una cosa che non avevano mai imparato, nonostante tutti gli anni di lavoro come shinobi, era la pazienza.
Per loro fortuna, dopo circa mezzora e tre tentativi di defezione da parte di Chiharu, un’insperata ancora di salvezza arrivò a trarli d’impaccio: dalle scale infatti scese Jin, le mani ficcate in tasca e le sopracciglia corrugate. Sembrava pensieroso.
«Jin! Jin!» lo chiamò Kotaro al volo, sbracciandosi con foga. «Siamo qui!»
Il ragazzino alzò lo sguardo e vide tutti e tre accanto allo shinobi di guardia. Li raggiunse, leggermente sorpreso.
«Non vogliono farci passare!» si lamentò Kotaro. «Hanno lasciato andare Akeru, ma non noi!»
«Lui è un Anbu, voi non siete nessuno» ribatté il ragazzino con disarmante franchezza.
Hitoshi gli scoccò un’occhiata indignata, e anche Chiharu si riscosse dal letargo per esternare il suo disaccordo. Jin sospirò di fronte alle loro espressioni costernate, ma fece un cenno alla guardia.
«Lasciali passare, per favore» chiese.
«Sicuro? Di sopra non avevano finito le sedie?» replicò quello, vagamente deluso.
«Mi prendo io la responsabilità» Jin si strinse nelle spalle. «Almeno la smetteranno di infastidirti.»
Lo shinobi lasciò passare Chiharu, Kotaro e Hitoshi. Loro tirarono un sospiro di sollievo, ma erano ancora offesi.
«Vi cedo il mio posto. Io ho lasciato una cosa in sospeso, devo andare» spiegò Jin una volta che furono ai piedi delle scale. «Ah, Chiharu, quando tuo padre uscirà di nuovo da quella porta per andare in bagno, per favore fagli notare che è la quinta, e che fa una media di una volta ogni nove minuti, grazie. Credo che a questo punto richieda un trapianto di reni.»
Chiharu si lasciò scappare un sorrisino, e d’istinto pensò alla possibile reazione di sua madre alla notizia che il marito scansava ancora ogni responsabilità con metodo e dedizione. Shikamaru era nel Consiglio della Foglia da qualche anno, ma non aveva mai smesso di lamentarsi della fatica che l’incarico comportava .
«Tu sai perché si sono riuniti?» chiese Kotaro prima che Jin se ne andasse.
«Non ne ho la minima idea. Sono tre giorni che mio padre sta rinchiuso nel suo ufficio e non vuole vedere nessuno a parte Koichi... Per essere sinceri, se non avessi mollato a metà una missione importante resterei fino alla fine» il ragazzino lanciò un’occhiata su per le scale, pensieroso. «Scusate, ma ora devo proprio andare. Ci vediamo in giro.»
«Grazie!» gridò Kotaro.
Per un lungo istante Chiharu scrutò Jin che si allontanava, quindi corrugò la fronte.
«Non vi sembrava preoccupato?» chiese.
«Dici?» replicò Hitoshi, stizzito. «A me sembrava il solito menefreghista... ‘Una missione importante’! Tutti gli shinobi sono qui, che diavolo può esserci di più importante?» gettò a terra il mozzicone di sigaretta ed espirò l’ultima boccata. «Su, andiamo.»
Quando raggiunsero la sala d’aspetto davanti al salone del Consiglio la trovarono gremita di gente, sia Anbu e capigruppo, sia nobili di vario grado. Inutile dire che non una delle sedie era rimasta libera.
«Ma bene. Si aspetta in piedi» brontolò Chiharu, contrariata.
Mentre lei si appoggiava al muro Hitoshi scoccò un’occhiata rapida ad Akeru, che occupava una poltroncina e discuteva tutto serio con un altro Anbu. Visto da quella prospettiva Stupido era discretamente irritante.
La triste verità era che qualche mese prima, sulla scia di Baka, anche Hitoshi aveva fatto richiesta per entrare nella squadra speciale. Ma era stato respinto. Per fortuna la cosa era rimasta confinata tra lui e Kakashi, però se ci ripensava bruciava ancora, e sentirselo rinfacciare persino dal Chunin ai piedi delle scale lo aveva irritato oltre misura.
«Che facciamo? Anche noi contro il muro?» propose Kotaro sottovoce, accennando a Chiharu.
«Per forza» grugnì Hitoshi spostandosi.
I due raggiunsero la compagna e si misero ai suoi lati come guardie del corpo, pronti a una lunga attesa.
«Speriamo che esca almeno il papà di Haru...» mormorò Kotaro a un tratto. «Sarebbe un bel diversivo.»
E il diversivo arrivò, come richiamato dai suoi sospiri. Ma non fu Shikamaru, alla quinta pausa bagno.
Fu un grido dalla sala del Consiglio.


I consiglieri erano esponenti della nobiltà con molto tempo libero e poca immaginazione per occuparlo. Ufficialmente erano un organo consultivo che doveva assistere l’Hokage nel governo del villaggio e dare o negare il consenso per le missioni più rischiose, ma in pratica erano una manica di vecchi arcigni che voleva assicurarsi che gli shinobi non si montassero la testa. Unica eccezione era Neji Hyuuga, sia per età sia per inclinazioni, ma nel gruppo si trovava quasi sempre in minoranza.
In quel momento il giovane capo del clan dagli occhi bianchi era seduto tra Shikamaru Nara, Stratega in carica, e una vecchia rugosa che continuava ad accarezzarsi le mani. Tutti scambiavano occhiate nervose da un capo all’altro della sala.
«E’ un’assurdità!» sbottò alla fine uno dei consiglieri di fronte a Neji.
Kakashi, a capo del lato corto del tavolo, si prese un secondo per lasciarsi andare a un lungo sospiro. Sapeva che non sarebbe stata una passeggiata.
«Consigliere Iida, comprendo le vostre perplessità...»
«Non credo» lo interruppe il nobile. Rughe di disappunto si disegnavano attorno alla sua bocca, i muscoli delle guance risaltavano sotto la pelle sottile. «Se davvero comprendeste le nostre perplessità non sareste venuto ad insultarci con le vostre dimissioni! Non con una guerra alle porte!»
Nella mezzora precedente l’Hokage aveva aggiornato il Consiglio sulla situazione con la Roccia e presentato un annuncio mai udito prima: voleva lasciare la sua carica. Il che, considerato che oltre confine si stavano ammassando eserciti di ninja e soldati, suonava molto male alle orecchie dei consiglieri.
«E’ proprio perché la guerra è vicina che voglio lasciare il campo a shinobi più giovani» ribatté Kakashi senza agitarsi. «In battaglia avremo bisogno di un capo che possa guidare i suoi compagni dalla prima linea, non di un politico di mezza età. Posso essere un buon Hokage in tempo di pace, ma non ho più l’entusiasmo necessario per trascinare gli eserciti in un’offensiva.»
Shikamaru e Neji aggrottarono la fronte, scambiandosi uno sguardo preoccupato.
«Potremmo non arrivare mai a un conflitto vero e proprio...» mormorò un consigliere sul fondo. «Potreste iniziare a farvi affiancare da qualcuno, e poi passare la carica quando...»
«La diplomazia ha fallito» lo interruppe Kakashi. «Avete tutti una copia del rapporto di cui vi ho parlato fino a poco fa. Secondo le nostre spie la Roccia sta solo cercando un pretesto per aprire ufficialmente le ostilità. Il consigliere Iida ha ragione: siamo sull’orlo di una guerra... Ma non sono io l’Hokage che può affrontarla.»
«Voi siete l’Hokage che abbiamo!» esclamò Iida.
Neji si schiarì cortesemente la voce, prendendo la parola. «Immagino che l’Hokage intenda dire che ha già selezionato i nomi degli eventuali candidati alla successione... Mi sbaglio?» suggerì con cautela.
Lungo il tavolo serpeggiò un brivido. Gli sguardi saettarono da Iida, livido, alle sedie scomode aggiunte in fondo alla stanza su cui stavano seduti Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha e Sakura un tempo Haruno, ora altrettanto Uchiha.
I tre shinobi non erano membri del Consiglio, ma quella mattina si erano visti convocare d’urgenza da un segretario e si erano trovati nel mezzo del discorso di dimissioni di Kakashi. Anche se Naruto faceva fatica a capire tutte le sfumature di quel che veniva detto, a quel punto della discussione persino nella sua testa si era acceso un campanello.
Iida, avvertendo la piega che stava prendendo la situazione, sbatté una mano sul ripiano lucido e passò a un registro molto più minaccioso. «Hatake, non puoi fare di testa tua! Ricordati che siamo noi consiglieri a decidere chi deve diventare Hokage e chi no!»
«Non agisco di testa mia, agisco nell’interesse del villaggio» replicò Kakashi un po’ più duro. «E penso che Naruto Uzumaki, nei giorni difficili che dovremo affrontare, sarà un Hokage migliore di me.»
Un silenzio di piombo scese sulla stanza.
Naruto fissò Kakashi con occhi e bocca spalancati, incapace di proferir parola.
Da quando aveva capito che c’era un posto da Hokage vacante una minuscola fiammella di speranza si era accesa in fondo al suo cervello; adesso, alimentata dall’eco delle parole del suo vecchio maestro, era appena divampata in un grande incendio: una cosa è sognare per tutta la vita di raggiungere un certo obiettivo, un’altra, ben diversa, è raggiungerlo sul serio. E lui ci era riuscito. Finalmente, dopo tutti quegli anni di fatiche e di sforzi sovrumani, Kakashi gli offriva la possibilità di far scolpire il suo volto sulla parete degli Hokage.
Il sangue risalì di colpo alle sue guance, rendendole scarlatte. Non si accorse degli sguardi sgomenti dei consiglieri né delle occhiate preoccupate che si scambiarono Shikamaru e Neji. Non vide l’espressione allarmata di Sakura né l’occhiata di Iida, ma una cosa non poté non notarla, e cioè le successive parole di Kakashi.
«Non da solo.»

La porta della sala del Consiglio si spalancò con violenza quando già tutti nell’anticamera erano sull’attenti.
Chiharu, Kotaro e Hitoshi, ora lontani dal muro e con i sensi all’erta, videro Naruto uscire con un diavolo per capello, e all’istante compresero che il grido che avevano sentito era il suo.
«Non da solo!» esclamò il Jonin rabbiosamente, attraversando la porta con la furia di un tornado. «Che cavolo vuol dire non da solo? Per chi mi ha preso? Con chi crede di parlare?»
La piccola folla radunata nella stanza si fece rapidamente da parte mentre lui incedeva a passi pesanti. I tre membri della sua squadra non si sognarono nemmeno di avvicinarlo. Lo guardarono passare con espressione attonita, la schiena di nuovo premuta contro il muro, e per un attimo a Chiharu sembrò di vedere una nota scarlatta nell’azzurro dei suoi occhi.
In meno di un istante, quando Naruto ancora aveva un piede nella stanza, si diffusero i mormorii; i più vicini cercarono di sbirciare oltre il portone della sala del Consiglio, ma tutto ciò che riuscirono a intravedere furono i volti preoccupati di Sakura e Sasuke Uchiha, prima che un inserviente si affrettasse a richiudere. Akeru, dopo aver scambiato qualche rapida parola con un compagno della squadra speciale, raggiunse Hitoshi, Kotaro e Chiharu.
«Voi avete capito cosa è successo?» domandò con espressione preoccupata.
«Qualcuno ha pestato i piedi a Naruto» rispose Hitoshi accigliandosi. «Poche volte l’ho visto tanto incazzato, e in una di quelle volte ricordo uno shinobi del Fulmine che chiedeva pietà.»
«Che ci faceva nella sala del Consiglio?» insisté Baka. «A voi non ha detto niente?»
«Neanche mezzo accenno» furono costretti ad ammettere. A dire il vero non lo vedevano dalla festa di Chiharu, perché si era preso qualche giorno di ferie per stare con la famiglia.
«Il punto è che né Naruto né i genitori di Hitoshi sono consiglieri» intervenne Chiharu. «Hitoshi, tu non hai sentito niente dai tuoi?»
«Stamattina sono uscito presto, non li ho nemmeno incontrati» mormorò l’Uchiha, tacendo il dettaglio che ogni mattina cercava di schivare i suoi genitori e in particolar modo suo padre.
«Ma che diavolo hanno detto per far arrabbiare Naruto fino a questo punto?» si chiese Kotaro per tutti. I ragazzi si guardarono, senza idee. Dalle porte chiuse della sala riunioni provenivano voci soffocate e indistinte. Naruto era scomparso, i consiglieri erano tornati a discutere, e nessuno era ancora uscito per spiegare qualcosa. Poi, come predetto da Jin, la porta si aprì di uno spiraglio e Shikamaru si affacciò all’esterno, adocchiando l’ingresso dei bagni e calcolando quanti dei presenti sarebbe riuscito a schivare.
«Papà!» lo chiamò Chiharu, battendo sul tempo tutti i curiosi che volevano interrogarlo.
«Che ci fate qui?» ribatté Shikamaru stupito, squadrando lei e i compagni.
«Di sotto c’è mezzo villaggio, che sta succedendo? Abbiamo visto Naruto andarsene furibondo.»
Shikamaru li raggiunse e abbassò notevolmente il tono di voce. «Siete la mia copertura per arrivare ai bagni. Scortatemi e ve lo dico.»
I ragazzi obbedirono, circondandolo come guardie del corpo. Per tendere le orecchie quasi si arrampicarono sulle sue spalle, ma se non altro nessuno osò tentare di insinuarsi oltre una barriera tanto compatta.
«Kakashi ha deciso di renderci la vita impossibile» spiegò Shikamaru mentre camminavano. «Vuole dare le dimissioni. Indovina chi ha scelto per sostituirlo?»
Chiharu inarcò le sopracciglia per la sorpresa. «Naruto?»
«Ah, magari...» rispose Shikamaru con un lamento. «Naruto e me e Sasuke e Sakura.»
«Che cosa?» la mandibola di Chiharu si spalancò.
«Non oso pensare a quanto sarà orgogliosa tua madre...» gemette Shikamaru.
«Ma è legale?» borbottò Akeru confuso.
«Secondo i consiglieri no. Andremo avanti ancora per ore, temo.»
«Perché Kakashi molla?» domandò Kotaro, sconvolto all’idea che qualcuno potesse non avere più voglia di essere Hokage, obiettivo e sogno dichiarato di tre quarti degli shinobi di Konoha.
«Ragazzi, scusate, adesso non ho proprio tempo» sospirò Shikamaru, troncando di colpo le altre domande. «Voglio andare in bagno e poi devo tornare a litigare: non posso lasciare Neji a lottare da solo.»
Lui e lo Hyuuga erano stati i primi a sospettare i piani di Kakashi. Non appena avevano sentito la parola ‘dimissioni’ aleggiare nella stanza avevano guardato Naruto, collegato la presenza di Sakura e Sasuke e fatto due più due. Solo, non pensavano che Kakashi avrebbe davvero proposto una cosa del genere: era riuscito in un colpo solo a far infuriare sia il Consiglio sia il suo pupillo.
«Andate a casa» consigliò Shikamaru ai ragazzi. «Ne avremo ancora per un bel po’, è inutile che perdiate tempo qui attorno. Ci vediamo per cena, spero.»
Con un cenno che la diceva lunga sul suo entusiasmo, il padre di Chiharu si allontanò verso i bagni. Subito un Anbu si affrettò ad avvicinarsi ad Akeru.
«Che ha detto?» domandò ansiosamente.
Akeru lo fissò vacuo, ancora stordito dalle notizie.
«Abbiamo un sostituto Hokage» annunciò, mentre tutti i presenti si avvicinavano istintivamente.
«Anzi, ne abbiamo quattro» lo corresse Chiharu, iniziando a far lavorare il cervello. Ripensando a quanto Naruto tenesse alla carica di Hokage e alle parole di Kakashi di tanti anni prima, quella volta che le aveva confessato che Naruto era il miglior ninja del villaggio, improvvisamente realizzò che il suo maestro aveva decisamente molte ragioni per aggirarsi con i canini più affilati del dovuto...


«E’ una presa per il culo! Un orribile scherzo stupido!»
Naruto faceva avanti e indietro nella stanza da letto della sua casa, pestando i piedi sul tappeto decorato con passo più che marziale. Hinata era seduta sul materasso e lo guardava preoccupata, le mani strette in grembo e le sopracciglia corrugate.
«Naruto, per favore...» lo richiamò.
«No, per favore niente!» scattò lui, fermandosi di botto. «Sono trent’anni che voglio quel posto e Kakashi lo sa benissimo! Ma quando viene l’occasione, cosa fa? Mi mette appresso delle balie! Cosa pretende che faccia, ancora? Come diavolo gli dimostro di essere pronto più di quanto abbia fatto fino ad oggi?»
«Naturalmente l’Hokage può essere uno solo» Hinata cercò di essere conciliante «Deve averti affiancato Sasuke, Sakura e Shikamaru soltanto per un breve periodo, per consigliarti i primi tempi... Non potete diventare Hokage in quattro, lo sa anche lui. E’ una cosa temporanea.»
«Non è vero» la interruppe Naruto. «Se non crede che io adesso sia in grado di reggere le sorti del villaggio, allora non lo crederà mai.»
Hinata sospirò, guardandolo passarsi una mano tra i capelli e mormorare tra sé. In quegli anni gli era stata vicino abbastanza da capire quando qualcosa gli faceva davvero male, e non erano i graffi sulle sue guance o gli occhi screziati di viola a darle i primi segni di allarme, ma semplicemente la sua voce, la nota d’angoscia che trapelava dalle sue parole.
«Naruto» chiamò di nuovo. «Ti prego, siediti un attimo... Solo un attimo.»
Lui le scoccò un’occhiata rovente, alla quale lei ricambiò con il solito sguardo mite. Allora sbuffò, amareggiato, e si lasciò cadere al suo fianco.
«Ho completato missione dopo missione» gemette, prendendosi la testa tra le mani e posando i gomiti sulle ginocchia. «Mi sono preso cura di Chiharu, Hitoshi e Kotaro, ho salvato il villaggio come minimo tre volte, ho riportato indietro Sasuke, ho superato mio padre, ti ho sposata senza scatenare una guerra civile, grazie a me siamo alleati con la Sabbia! Cosa manca ancora? Non sono abbastanza forte? Sono stupido? Cosa?»
Hinata posò la fronte contro la sua testa, poco sopra l’orecchio, e gli accarezzò il ginocchio con una mano.
«Sappiamo tutti e due che saresti un ottimo Hokage, e lo sa anche Kakashi» sussurrò gentilmente. Naruto fece per protestare, ma lei lo prevenne. «Io credo che l’abbia fatto per proteggerti.»
Lui si immobilizzò con la bocca pronta a sputare insulti. Corrugò la fronte, confuso, e le rimandò uno sguardo scettico.
«Il Consiglio è potente, Naruto» spiegò Hinata facendosi seria. «Neji me ne ha parlato: ci sono un paio di consiglieri che di fatto governano Konoha, e contrastare loro non è semplice. Anche con tutta la buona volontà e le migliori intenzioni, ciò che loro vogliono è ciò che loro ottengono, nel bene e nel male. Kakashi ha imparato a bilanciare le loro richieste con le sue e finora è riuscito ad andare avanti soltanto grazie alla sua diplomazia, ma tu ne saresti in grado? Pensaci un attimo, Naruto, ne saresti in grado?»
«Che c’entra?» arrossì lui. «Non sono più il ragazzino idiota che ero a dodici anni. So che a volte bisogna scendere a compromessi!»
«Anche come Hokage?» lo incalzò lei. «Se ti chiedessero di scegliere tra sacrificare una squadra Anbu e non ottenere importanti informazioni che salverebbero la vita a Gaara, cosa faresti?»
«Sicuramente ci sarebbe un modo per avere tutti e due!» protestò Naruto, piccato. «Le cose non sono sempre bianche o nere!»
«Quando sei Hokage sì» gli spiegò Hinata. «Spesso le decisioni sono bianche o nere, e se il Consiglio ti mettesse davanti a una scelta proibitiva, tu daresti in escandescenze.»
Naruto si morse l’interno della guancia, offeso. «Non è vero.»
Hinata sospirò e gli prese una mano. «Kakashi ha fiducia in te come in nessun altro» gli ricordò. «Shikamaru, Sakura e Sasuke saranno lì solo per calmarti quando ti andrà il sangue alla testa e per farti vedere le soluzioni che non troverai immediatamente. Kakashi avrebbe potuto scegliere Sasuke, se avesse pensato che fosse più adatto di te, invece ha fatto il tuo nome. Significa che in tutta Konoha non c’è nessun altro che lui consideri migliore.»
«Migliore di me, Sakura, Sasuke e Shikamaru messi insieme» la corresse lui.
«Naruto...» sospirò Hinata, e se fosse stata una donna normale la sua sarebbe stata esasperazione.
«Scusa» mormorò lui, giocherellando con le dita della sua mano. «E’ solo che... sono deluso. Molto deluso. E amareggiato. Era il sogno della mia vita, capisci? Ciò a cui ho sempre puntato... Cioè, anche tu sei importante, Hinata, importantissima. Ma essere Hokage... essere Hokage...»
Anche senza bisogno di psicanalisi, Hinata riuscì a cogliere nelle parole amare di Naruto l’ombra di Namikaze Minato.
Essere Hokage per lui significava essere riconosciuto, ma anche percorrere le orme del padre che non aveva mai incontrato e in qualche modo stabilire un contatto con lui: sedere sulla sua poltrona, prendere le sue decisioni, provare ciò che aveva provato, erano tutte cose che poteva fare soltanto come Hokage. Avere Sakura, Sasuke e Shikamaru al fianco significava sedersi solo su un bracciolo della sedia.
«E’ stato come prendere una manciata di sabbia» spiegò Naruto. «Un attimo prima era lì, tra le mie mani, e l’attimo dopo Kakashi ha detto ‘non da solo’ ed è scivolata via.»
Hinata gli accarezzò una guancia. «Naruto, non devi abbatterti» gli sussurrò sollevandogli il viso. «Sono certa che Kakashi abbia in mente qualcosa. Sai bene che nel villaggio non esiste nessuno che lui stimi più di te.»
Naruto sospirò, incapace di sorridere, e d’impulso tese le braccia e la strinse al petto. «Scusa» disse, chiudendo gli occhi contro la sua spalla. «Scusa, adesso mi passa. Non sono così scemo da rifiutare la carica di Hokage, anche se è monca e suona come una presa in giro.»
Hinata avvolse le braccia attorno alla sua schiena e lo sentì tiepido come sempre, non più caldo come Kyuubi.
«Sì» mormorò confortante, accarezzandolo come se fosse stato uno dei suoi figli. «E poi ricorda che avrai sempre me.»





*Baka significa stupido.




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Capitolo 3
*** La maledizione di Juka ***


Penne 03 7
Capitolo terzo

La maledizione di Juka




Chiharu, Hitoshi e Kotaro entrarono nell’ufficio per lo smistamento delle missioni tra i borbottii risentiti di Chiharu e la rassegnata esasperazione dei compagni. La giornata era tranquilla, i Chunin dietro il banco chiacchieravano ancora della famosa seduta del Consiglio e nella stanza era presente soltanto un altro shinobi oltre a loro.
«Neanche uno schifosissimo giorno di pausa!» protestò Chiharu trascinandosi oltre l’ingresso, a metà tra il petulante e l’indignato. «Eleggono un nuovo Hokage e noi dobbiamo comunque andare al lavoro! Vi sembra corretto?»
Alla fine Naruto aveva accettato il posto di Hokage in prova. Si era lamentato dell’ingiustizia subita con chiunque fosse disposto ad ascoltarlo, ma sapeva bene che quella era un’occasione ghiotta per dimostrare a Iida e ai suoi sostenitori che poteva essere il legittimo successore di Kakashi.
«Sono tre giorni che piagnucoli di volere le ferie, inizi ad essere noiosa...» sbuffò Hitoshi.
«Tecnicamente si tratta soltanto di un periodo di prova, non è proprio l’ascesa del Settimo» le fece notare Kotaro.
«Ma, sempre tecnicamente, siamo ancora i preziosi allievi del nuovo quasi Hokage!» si indignò Chiharu. «Almeno per noi dovrebbero fare un’eccezione! Senza contare che mio padre sarà assistente speciale di Naruto!»
«E i miei genitori chi sono, gli inservienti?» grugnì Hitoshi. «Comunque dovevamo aspettarcelo, il Consiglio vuole far passare la cosa in sordina: la nomina di Naruto è uno smacco troppo grande. Niente cerimonie, niente feste, niente di niente. Forse sperano di convincere Kakashi a fare un passo indietro.»
«E chi se ne frega. Io voglio una vacanza.»
«Bonjour finesse» disse una voce accanto a loro, lungo il tavolo per lo smistamento.
Chiharu sentì il sangue salirle al viso riconoscendo la fin troppo familiare sagoma di Sai, e si maledisse per non essersi accorta che era proprio lui lo shinobi presente nella stanza oltre a loro. Sai le sorrise, rivolgendo un cenno anche ai suoi compagni, quindi la scrutò per un lungo istante.
«Missione?» domandò.
«Sì» rispose Hitoshi, cauto, pronto alla solita frecciatina.
Ma Sai per una volta sembrava totalmente inoffensivo. Con un sorriso prese la pergamena che gli tendeva il Chunin oltre il tavolo e rimase in silenzio.
Chiharu non lo vedeva dalla sera del suo compleanno, la stessa sera in cui lo aveva baciato - dando prova di un coraggio francamente inumano. Ancora si chiedeva dove avesse trovato il fegato di proporsi in quel modo, ma nell’immediato presente il vero problema era impedire a Hitoshi e Kotaro di accorgersi di qualcosa. Mentre lo pensava notò con orrore che tutte le giunture del suo corpo avevano assunto angoli innaturali.
«Voi che siete suoi allievi dovreste essere riusciti ad avvicinare Naruto dopo il trambusto dell’altro giorno...» riprese Sai, come a ripensarci. «Oh. A giudicare dalle vostre facce sembra che non abbia voluto vedervi. E’ ancora così arrabbiato?»
«Sono passati solo tre giorni dalla delibera del Consiglio» ribatté Kotaro sulla difensiva. «E’ stato molto impegnato, per questo non siamo riusciti a trovarci!»
«Immagino...» commentò il Jonin, per nulla convinto. «Non ha trovato nemmeno un paio d’ore per festeggiare con un brindisi?»
«Molto impegnato» sillabò Hitoshi, dicendo a se stesso che il suo istinto non sbagliava mai.
Sai rivolse loro un sorriso condiscendente e gettò un’occhiata alla pergamena che aveva appena ritirato. «Resterei a stuzzicarvi tutto il giorno, ma purtroppo ho qualcosa da fare. Devo salutarvi. Spero che Naruto vi conceda udienza, prima o poi» augurò con una nota divertita nella voce.
Prima che Hitoshi e Kotaro riuscissero a trovare qualcosa di pungente con cui ribattere il Jonin se ne era già andato.
Chiharu riprese a respirare solo allora, accorgendosi con un secondo di ritardo che stava per entrare in carenza di ossigeno. Espirò bruscamente, attirando le occhiate perplesse di Hitoshi e Kotaro, ma ebbe la prontezza di stroncare le loro domande parlando per prima.
«Beh? Questa missione?»
Tese la mano verso il responsabile e quello le porse una pergamena accuratamente sigillata con l’indicazione ‘A’. Chiharu ruppe la ceralacca, la srotolò, impaziente di sfogare il nervosismo menando un po’ le mani, e lesse rapida la consegna.
«Merda» fu il fine commento che si lasciò scappare a lettura completa. «E’ una missione da quattro.»
«Ti prego, dimmi che non ci serve un ninja medico!» gemette Hitoshi con una smorfia. L’ultima e unica volta che era capitata una situazione simile si erano dovuti portar dietro Baka ed era stato un inferno. Quasi avrebbero preferito lasciarci le penne, ma farlo in pace.
«Non credo ce ne sia bisogno» rispose Chiharu tendendogli la pergamena. «Per oggi lasciamo stare Stupido e viviamo sereni. Vado a cercare Yoshi.»
Hitoshi e Kotaro scambiarono uno sguardo allarmato: all’improvviso la prospettiva di portarsi dietro Baka assumeva un certo fascino...

Mentre camminava impettita lungo le vie di Konoha Chiharu si grattava la guancia. L’unguento che le aveva regalato Akeru aveva funzionato inaspettatamente bene, e il livido sul suo zigomo era quasi scomparso del tutto, lasciandole solo un po’ di prurito.
Sfruttando i rari minuti di solitudine ripensò con imbarazzo e frustrazione all’incontro con Sai. Doveva mantenere la calma: Sai era famoso per essere un uomo impossibile, quindi anche se l’aveva completamente ignorata non voleva dire niente. D’altronde che avrebbe dovuto fare? Era lei che aveva dato inizio alla cosa, semmai era lei che avrebbe dovuto rivolgergli un cenno, un segno di qualche tipo. Avrebbe voluto farlo, ora che ci pensava. Avrebbe dovuto. Maledizione, perché le idee brillanti venivano sempre un minuto troppo tardi?
Raggiunta l’Accademia si costrinse a tornare al presente. Yoshi frequentava ancora i corsi, anche se era vicino al diploma. Era uno studente un po’ atipico, prima di tutto perché superava il metro e cinquanta, e poi perché aveva quasi il doppio degli anni dei compagni di classe. Non solo: capitava che di tanto in tanto si alzasse dal suo banco, chiedesse il permesso di andare in bagno e poi non tornasse più indietro. E in quel caso non lo si rivedeva fino al giorno dopo.
Il sospetto generale era che marinasse le lezioni per imboscarsi con la figlia di Shikamaru Nara - e in effetti la cosa non sarebbe stata poi così strana: erano due ragazzi giovani che si piacevano, nulla di più facile che si ritagliassero un po’ di tempo extra per scambiarsi effusioni. Se non che, poco tempo dopo l’inizio delle sparizioni misteriose di Yoshi, Hitoshi Uchiha si era presentato nell’ufficio dell’Hokage protestando perché Chiharu aveva portato in missione uno studente non diplomato come suo sostituto mentre era malato. La cosa che più lo mandava in bestia, a quanto pareva, era che lo studente in questione non solo aveva tenuto il ritmo, ma alla fine si era anche rivelato utile.
«Non è un tipo di cui fidarsi» aveva sottolineato l’Uchiha testardamente. «Anche se la sua storia è particolare ed è più grande degli altri allievi, nessuno dovrebbe cavarsela così bene con le tecniche ninja senza essere uno shinobi. Va tenuto d’occhio!»
In effetti Kakashi si era trovato d’accordo. Ma le informazioni che avevano raccolto su Yoshi prima di ammetterlo all’Accademia erano state confermate più volte, e da qualunque parte la si guardasse le tecniche che il ragazzo usava erano tutte parte dei programmi di studio. Per qualche tempo, seguendo i timori di Hitoshi, Kakashi aveva fatto seguire Yoshi. Poi, dato che non succedeva niente e il ragazzo sembrava inoffensivo, aveva lasciato perdere. Forse avevano a che fare con un genio, tutto qui.
Di sicuro il modo in cui si allontanava dalle lezioni non aveva proprio nulla di geniale: quando aveva bisogno di lui, Chiharu raggiungeva la finestra della sua aula, con un foglio segnato in maniera particolare confezionava un piccolo origami a forma di insetto - centipedi o cervi volanti se si sentiva creativa, eserciti di banali formiche quando non aveva voglia - e lo mandava in missione su per il muro e dentro l’aula fino a raggiungere i piedi di Yoshi. Lui raccoglieva la bestiola, accartocciava il foglio con cui era stata creata e andando verso il bagno lo cestinava discretamente, tirando quindi dritto fino all’uscita dall’edificio.
Non sempre Chiharu lo faceva evadere perché aveva bisogno di lui: era capitato più di qualche volta che lo chiamasse solo perché si annoiava, ma dato che negli origami non erano mai scritti messaggi, Yoshi non poteva sapere quale fosse lo scopo della convocazione.
Fino a quel momento, tuttavia, aveva sempre risposto. Anche quel giorno non si fece attendere: Chiharu lo vide uscire dall’Accademia come se fosse un principe conquistatore anziché uno scolaretto senza giustificazione, e lo affiancò distrattamente lungo la strada principale.
«Cosa ho interrotto?» domandò.
«La Storia di Yondaime e Kyuubi» rispose lui roteando gli occhi.
«Forse l’unica parte interessante delle lezioni di storia...»
«Non se censuri i pezzi divertenti.»
«Tipo?»
«Tipo la tecnica usata da Yondaime per sigillare la Volpe. O dove l’hanno sigillata» Yoshi le lanciò un’occhiata obliqua, a metà strada tra uno sguardo di intesa e uno interrogativo.
Chiharu si strinse nelle spalle e fece la vaga. «Farò dire al professor Aburame di inserire nel programma i codici segreti delle spie di Konoha, così non ti annoi.»
Yoshi scoppiò a ridere e scosse la testa. «Allora, oggi perché sono scappato?» chiese cambiando argomento.
«Ci hanno rifilato una missione da quattro. E’ una scorta, ma pare che ci sia un certo rischio di subire imboscate, quindi il cliente ha insistito per uno shinobi in più. Deve aver sborsato un mucchio di ryo.»
«Dove si va?»
«Al Tempio di Juko. O Juka. Qualcosa di simile, comunque è ad est» spiegò la kunoichi guardandosi attorno. «Hai fatto colazione? Non voglio portarti in giro a stomaco vuoto.»
«Sicura che abbiamo il tempo?» esitò Yoshi.
«Kotaro e Hitoshi se ne faranno una ragione... Vieni, prima facciamo e prima ripartiamo.»
Si fermarono a un chiosco che aveva ancora dei dango in esposizione. Chiharu prese tutti quelli che erano rimasti e li mise in mano a Yoshi senza ascoltare le sue proteste: sapeva che il ragazzo viveva solo e spesso mangiava male, ma se si prendeva la responsabilità di portarlo in missione non voleva correre il rischio di vederselo svenire a metà dell’opera, e questo voleva dire dire che tutte le volte che lo faceva uscire dall’Accademia gli comprava qualcosa.
Yoshi divorò le morbide palline di riso lungo la strada tra il chiosco e l’ufficio per lo smistamento, impiastricciandosi le dita e impastandosi tutta la bocca. Quando lui e Chiharu raggiunsero Hitoshi e Kotaro il suo saluto inintelligibile venne accolto da smorfie disgustate e sguardi diffidenti.
«Stai mangiando dango?» chiese Hitoshi stizzito. A lui Chiharu non aveva mai offerto niente.
«Lascia stare» lo fermò Kotaro in tono funebre - non si era mai impegnato a nascondere le proprie emozioni. «Non abbiamo tempo per discutere, se non partiamo subito non riusciremo a tornare prima di sera.»
«Adoro questo caldo senso di appartenenza al gruppo» sussurrò Yoshi a Chiharu, gettando nel cestino un mucchio di fazzoletti appiccicosi. Lei sorrise ma non disse niente. Capiva che portare Yoshi in missione era un gioco pericoloso, perché l’equilibrio del gruppo sette non era mai stato particolarmente stabile. D’altronde se l’alternativa era Baka non aveva dubbi sulla scelta, e Hitoshi e Kotaro avrebbero fatto meglio a tacere se non volevano andare a cercarsi da soli qualcuno che reggesse il loro insolito ritmo di lavoro.
Nessuno dei due protestò, però, e invece entrambi ingoiarono le espressioni truci che avevano stampate sulla faccia e si aggiustarono gli zaini in spalla.
«Andiamo» ordinò Hitoshi prendendo la testa del gruppo. «Il villaggio nella consegna è a mezzora verso nord. Cerca di non vomitare lungo la strada» mormorò all’indirizzo di Yoshi.


«Papà, cos’è successo l'altro giorno?»
La missione che aveva allontanato Jin dalla sala del Consiglio era durata più del previsto, e quando il ragazzino era rientrato la curiosità lo aveva obbligato a svegliare il padre e interrogarlo prima ancora di farsi una doccia. Kakashi, che in quel momento sognava Naruto che era tornato lattante e non capiva i suoi nuovi compiti, sobbalzò sul divano e per un momento pensò che Jin e Naruto fossero la stessa persona.
«Mi stavo giusto chiedendo dove fossi» mormorò quando la vista tornò lucida, tirandosi a sedere con uno sbadiglio. Quante ore aveva dormito? Si sentiva come se fossero stati solo pochi minuti... Istruire i suoi sostituti si era rivelato un compito sfiancante.
«Avevo una missione da finire. Cos’è successo durante il Consiglio?» insisté Jin.
Kakashi sospirò: avrebbe voluto che Jin si godesse almeno un po’ l’infanzia, invece di catapultarsi nel triste mondo degli adulti con tutta quella fretta.
«Ho dato le dimissioni dalla carica di Hokage» disse soffocando un secondo sbadiglio.
Jin spalancò occhi e bocca in una curiosa imitazione del Naruto del suo sogno. Kakashi provò uno slancio di affetto nei suoi confronti.
«Sono troppo vecchio per affrontare una guerra, non riuscirei a guidare gli shinobi in battaglia» spiegò. «L’Hokage non è fatto per stare dietro la scrivania a dirigere le operazioni: l’Hokage è fatto per stare in mezzo ai suoi uomini e rischiare la vita con loro. Lo capisci, Jin?»
Jin fece una smorfia, ma si affrettò a cancellarla prima che diventasse evidente. La ragion di stato non concordava con quella filosofia, però non poteva certo dirlo a voce alta.
Kakashi sorrise. «Dovrei farti passare più tempo con Naruto...» mormorò, più a se stesso che altro.
A quel nome nella testa di Jin si accese un collegamento. Naruto. Conosceva l’opinione di suo padre riguardo a Naruto, anche se faticava a condividerla; se c’era un posto da Hokage vacante allora...
«Hai proposto Naruto come tuo successore?» domandò stupito. «Con che coraggio?»
Kakashi scoppiò a ridere, sentendo qualche goccia della stanchezza accumulata che scivolava via insieme alla risata.
«Non è stato semplice» spiegò. «Perché il Consiglio prendesse almeno in considerazione la proposta ho dovuto affiancargli Shikamaru, Sasuke e Sakura. Naruto si è comprensibilmente infuriato e ha lasciato la riunione, ma in fondo è stato meglio così: ho fatto una gran fatica a strappare un mezzo assenso ai consiglieri anche senza che lui li provocasse infiammandosi come suo solito.»
«Naruto, Shikamaru, Sasuke e Sakura? Hokage insieme?» ripeté Jin allibito. «Ma è legale?»
«Tecnicamente no» fu costretto ad ammettere Kakashi. «E’ stata l’obiezione più difficile da contestare, in effetti, ma alla fine siamo giunti a un compromesso: saranno ‘sostituti Hokage’... una cosa temporanea, insomma.»
«Una specie di banco di prova?»
«Più o meno» Kakashi si strinse nelle spalle.
«Ma quindi tu sei ancora Hokage o no?»
«In questo preciso momento no. Purtroppo i consiglieri hanno detto che si riserveranno il diritto di richiamarmi se avranno bisogno di me, il che in effetti è una cosa in loro potere, quindi... Per adesso sono soltanto sospeso dalla carica. O qualcosa del genere.»
«E quando finisce il periodo di prova?»
Kakashi si alzò dal divano, sgranchendo la schiena dolorante ed evitando gli occhi del figlio. «Non ne ho idea, Jin. Per ora basta che Naruto e gli altri si insedino, poi sono certo che ogni cosa andrà al suo posto: quel ragazzo ha sempre trovato una soluzione per tutti i problemi, anche quelli più impossibili.»
Jin aggrottò la fronte. Non gli era sfuggito che suo padre stesse evitando il suo sguardo, ma per nascondere cosa?
«Che fa un ex Hokage durante il giorno?» indagò.
Kakashi smise di allungarsi e per un attimo rimase immobile. Fuori dalla finestra un uccello cantò, e la sua ombra sfrecciò rapida sulla parete opposta.
«Penso che andrò in viaggio» disse Kakashi nel suo miglior tono neutro. «Ho bisogno di una vacanza, sono anni che non ne prendo una.»
Un brivido corse lungo la schiena di Jin.
«Stai andando dalla mamma?» chiese prima di riuscire a impedirselo.
Silenzio.
La fronte di Kakashi si corrugò dolorosamente. Poche volte Jin aveva pronunciato la parola mamma: le rare volte in cui l’argomento era malauguratamente uscito aveva sempre detto mia madre, mantenendo un certo distacco. Ma oggi diceva mamma, come ogni ragazzino di dodici anni, e Kakashi sapeva che non era in grado di affrontare quella conversazione, non in quel momento.
«Stai andando da lei, vero?» mormorò Jin, sentendo il cuore che accelerava i battiti nel petto. «Ti prego...»
«No. Vado in vacanza» lo interruppe Kakashi bruscamente. «Adesso sono molto affamato, vorrei...»
«Papà!»
Kakashi ammutolì. C’era una ragione per cui nei giorni prima del Consiglio aveva evitato Jin, ed era che quel ragazzino non si era mai bevuto una sua bugia in tutta la vita. Mai. Kakashi aveva ingannato tutti i nobili di Konoha ed era abbastanza sicuro di non aver insospettito nemmeno Shikamaru, che di solito era così intuitivo, ma con Jin non aveva scampo.
«Tu stai andando dalla mamma» non era più una domanda. «Tu sai dov’è e ora stai andando da lei. Perché? Cosa è successo? E’ in pericolo?»
«Jin, non sto andando da nessuna parte...» tentò un’ultima volta, inutilmente.
«Smettila di prendermi in giro!» gridò Jin. «E’ mia madre! Non mi hai mai, nemmeno una volta, parlato di lei! Penso di avere il diritto di sapere dove è stata per tutti questi anni e perché!»
Kakashi tacque. Jin aveva il diritto di sapere, certo. Ma lui aveva la forza di dirglielo? Aveva la forza di spiegargli perché stava per mettere in pericolo se stesso e, potenzialmente, tutto il paese del Fuoco? Aveva il coraggio di parlare del fascicolo nell’Archivio Segreto della Foglia, di Jinnai Momori e dei sospetti di Tsunade? No, comprese: non era pronto a riesumare tutta quella vecchia storia, non ancora. Dopotutto nemmeno lui era certo di quel che faceva.
«Jin, vai nella tua stanza» disse alla fine, senza riuscire a trovare idee migliori.
«Non sei più Hokage, non darmi ordini!» ribatté Jin con veemenza.
«Sono tuo padre! Vai nella tua stanza!»
Jin serrò i pugni. Per un attimo sembrò voler rispondere, poi strinse i denti, si voltò, si diresse verso l’ingresso e uscì sbattendosi la porta alle spalle.
Kakashi rimase solo. Che fare ora? Doveva trovare il modo di distogliere il ragazzino dal pensiero che lui stesse andando da sua madre, o non sarebbe mai riuscito a partire senza ritrovarselo alle costole. Forse avrebbe dovuto chiedere l’aiuto di Naruto, renderlo parte della vicenda - ammesso che Naruto non fosse stato dell’idea che Jin doveva sapere, cosa tutt’altro che improbabile.
Sospirò, ripercorrendo mentalmente la conversazione appena avuta. Avrebbe voluto che quello fosse l’inizio dell’adolescenza di Jin... Invece sentiva che era l’inizio di qualcosa di ben più doloroso.


*


Quando i quattro shinobi di Konoha arrivarono al villaggio indicato nella missione Kotaro era l’unico fresco del gruppo. Nel goffo tentativo di mettere in cattiva luce Yoshi e dimostrare quanto lui invece fosse abile ed efficiente, Hitoshi aveva spinto in velocità più di quanto i suoi polmoni affumicati fossero in grado di sopportare, guadagnandosi un mucchio di insulti da Chiharu e non ottenendo molto più di un leggero strato di sudore sulla fronte di Yoshi. Adesso l’Uchiha cercava di mascherare lo sforzo - perché avrebbe preferito sputare i polmoni piuttosto che farsi vedere con l’affanno davanti al re della digestione lampo - ma a dire il vero ci riusciva piuttosto male, dato il colore della sua faccia.
Per sua sfortuna sembrava che le guance arrossate lo rendessero solo più affascinante agli occhi delle ragazze che lo spiavano dai margini della piccola folla radunatasi per vederli partire. Il punto di incontro per la missione era una spianata in terra battuta appena sufficiente a contenere le duecento anime del villaggio, ma la notizia del loro arrivo si era diffusa così in fretta che subito erano stati accerchiati da contadini curiosi, buona parte dei quali imbracciava ancora la zappa o aveva le mani sporche di terra. Al centro dell’assembramento, proprio di fronte a loro, stavano cinque sacerdoti vestiti di viola tra cui spiccava un ragazzino che stringeva un involto.
Ciò che il gruppo doveva scortare era il prezioso tesoro del tempio del luogo, ovviamente nascosto all’interno di un sacchetto ingioiellato e pesantissimo, che partiva in pellegrinaggio per il tempio gemello a trenta chilometri di distanza. Il giovanissimo sacerdote pelato che aveva il compito di consegnare il pacco agli shinobi era un tipo apprensivo: sembrava convinto che tutti volessero rubare la reliquia - inclusi coloro che dovevano scortarla - quindi scrutò i ragazzi con molta cura.
A giudicare dalla smorfia disgustata che comparve sul suo viso il risultato dell’analisi non sembrò soddisfarlo granché.
«Il prezioso tesoro del villaggio sarà scortato da questi bambini?» esclamò pieno di indignazione.
«A me sembra di avere almeno un paio d’anni più di te» sbottò Hitoshi.
«Avevamo richiesto espressamente una scorta di un certo livello...» insisté il giovane monaco, ma Chiharu lo interruppe subito.
«Noi siamo di un certo livello. Siamo i migliori del nostro anno, e il nostro anno è il migliore del villaggio» annunciò, anche se non ne era troppo sicura.
«Quello che la mia compagna intende dire» intervenne Kotaro «è che anche se siamo molto giovani il tesoro con noi sarà in mani sicure. Konoha non ci avrebbe mai affidato una missione tanto, ehm, delicata se non avessimo potuto portarla a termine. Ne va della reputazione dell’Hokage.»
Il monaco li squadrò di nuovo, poco convinto. D’altronde i duecento contadini che li circondavano avevano svuotato le casse delle loro case per pagare la costosa scorta armata che trasportasse il loro più prezioso cimelio, e rimandare indietro i quattro shinobi avrebbe potuto scatenare una rivolta popolare - anche e soprattutto considerato che una parte della generosa offerta era stata usata per il nuovo rivestimento della stanza della meditazione al tempio.
Il ragazzino si voltò e scambiò uno sguardo con i compagni vestiti di viola, i quali annuirono scrollando le spalle.
«Così sia» capitolò. «Ma qualunque cosa dovesse capitare al tesoro voi ne sarete ritenuti responsabili, e la maledizione del dio Juka ricadrà sulle vostre vite!» declamò in tono tragico. Alcuni tra i contadini fecero gli scongiuri.
«Non capiterà niente» disse Kotaro in fretta, troncando il commento di Chiharu con un calcio sugli stinchi.
Il monaco consegnò solennemente il sacchetto ingioiellato nelle mani del giovane Lee, gesticolando una benedizione confusa. I contadini si inginocchiarono reverenti, al che i quattro shinobi si videro costretti a fare almeno un cenno con la testa. A quel punto Hitoshi e Chiharu optarono per la partenza immediata, e con un saluto molto rapido si fecero largo tra la folla per affrettarsi lungo la strada che puntava ad est.
«Che problemi hanno?» sbottò Chiharu quando riuscirono a distanziare l’ultimo bambino che aveva provato a seguirli.
«Ho ancora i brividi lungo la schiena» brontolò Hitoshi, avanzando con determinazione fino a mettersi davanti a tutti.
«Una scorta di quattro shinobi costa molto più di quanto quei contadini guadagnino in un anno» rifletté Kotaro, tenendo il pesante sacchetto con reverenza. «Per loro deve essere una cosa davvero importante.»
«Scommetto quello che vuoi che metà dei guadagni di quegli uomini finisce nelle casse del tempio» commentò Hitoshi.
«Fai anche tre quarti» rincarò Chiharu.
«Va tutto bene?» le chiese Kotaro con un’occhiata incerta.
Lei strinse le labbra senza rispondere. Normalmente si risparmiava i commenti inutili - perché parlare era uno spreco di energia, e lei era molto contraria a qualunque spreco di energia - ma l’incontro con Sai l’aveva innervosita più di quanto pensasse.
«Davvero non ti ha turbato quello sfoggio di bigottismo e malcostume?» domandò Hitoshi in tono di vaga superiorità, forte del sostegno di Chiharu e ben determinato a sottolinearlo agli occhi di Yoshi.
«Bigottismo? Malcostume?» ripeté Kotaro confuso. «Perché?»
«Io credo» intervenne Yoshi a quel punto «che se continuiamo a camminare conversando non riusciremo a tornare prima di sera.»
«Domani devi essere a scuola?» frecciò Hitoshi, irritato dall’interruzione.
«Veramente sì. E visto che c’è una lezione sulla moltiplicazione vorrei partecipare.»
«Tu sai già moltiplicarti» commentò l’Uchiha sospettoso.
«C’è sempre da imparare dai maestri.»
«Ma davvero? E cosa impari?»
Yoshi tacque, lasciando cadere la domanda. Chiharu passò lo sguardo da lui all’Uchiha e per un momento accarezzò l'idea di conficcare uno shuriken nel collo di quest'ultimo.
«Cosa c’è nel sacchetto?» chiese invece per cambiare discorso.
«Non vorrai aprirlo!» trasalì Kotaro.
«Perché no?»
«E’ sacrilegio!»
«Il monaco non ha detto niente sull’aprirlo...»
«Sono piuttosto sicuro che non si debba fare!» Kotaro strinse forte il sacchetto e fece un passo per allontanarsi da Chiharu.
«Dai» sbuffò lei. «Diamo solo un’occhiata, sono certa che Juka non se la prenderà. Scommetto che è un pezzo di legno con la vaga forma di un essere umano.»
«Hai perso» disse Yoshi con un sorriso. «E’ una statuetta d’oro massiccio con incastonata una perla grossa come una noce.»
I tre shinobi lo fissarono, e lui si interruppe come se avesse detto troppo.
«Tu come fai a saperlo?» chiese Hitoshi cauto.
Yoshi esitò per un istante, poi spiegò: «perché l’ho vista un mucchio di volte. Quella statua è la ragione per cui sono stato spedito a Konoha, e il Tempio di Juka è praticamente sopra casa mia.»
Kotaro guardò Chiharu come a chiedere conferma, ma lei si strinse nelle spalle e scosse la testa. Non aveva mai chiesto a Yoshi i dettagli del suo passato, aveva l’impressione che quell’argomento non gli piacesse granché.
«Sai, nessuno ha mai capito di preciso cosa ci fai a Konoha» disse Hitoshi con deliberata lentezza. «Adesso che ci avviciniamo alle tue zone sarebbe bello sapere cosa dobbiamo aspettarci.»
«Cosa dovete aspettarvi?» Yoshi ridacchiò. «Niente. E’ una missione normale, non vi chiederò di fare una scappata a casa per salutare i parenti.»
«Perché no? Sarebbe un’occasione ideale.»
Il sorriso scemò dalle labbra di Yoshi. «Perché no. Sono stato mandato a Konoha per addestrarmi, e a mio padre non farebbe piacere vedermi tornare senza un diploma in mano.»
«Addestrarti a cosa?» insisté Hitoshi, ignorando i segni di fastidio di Chiharu.
«Ti preme tanto conoscere la mia storia?»
«Ti preme tanto nasconderla?»
«Come vanno le cose a casa?»
Hitoshi si irrigidì. «Non sono fatti tuoi.»
«E viceversa.»
«Okay, adesso basta» intervenne Chiharu. «Abbiamo davanti più di sessanta chilometri tra andata e ritorno e io non voglio viaggiare al buio. Smettetela di perdere tempo e acceleriamo il passo.»
Hitoshi e Yoshi si fissarono per qualche secondo ancora, poi Hitoshi mollò la presa. «Kotaro, il sacchetto pesa abbastanza per avere dentro una statuetta d’oro massiccio?» si limitò a chiedere.
Kotaro soppesò l’involto e annuì. «Va bene. Allora ripartiamo» concesse l’Uchiha.
Ma non ti leverò gli occhi di dosso neanche per un secondo, aggiunse mentalmente.
Chiharu soffocò un sospiro e la voglia di ammazzare Hitoshi. Mentre con Kotaro e Yoshi riprendevano il viaggio a ritmo sostenuto lei si trovò a pensare che da lì in poi avrebbe rifiutato categoricamente ogni missione a quattro, se Naruto non li accompagnava. Non erano scientificamente in grado di collaborare con nessuno, ecco la verità. Quando cinque anni prima Kakashi li aveva affidati a Naruto perché imparassero a lavorare in gruppo era stato troppo ottimista: nulla li avrebbe mai convinti a mettere da parte l’orgoglio, già quando erano loro tre riuscivano a collaborare solo grazie a Kotaro. Era folle pensare che qualcuno potesse inserirsi tra di loro.
I banditi di cui parlava la consegna della missione provarono un paio di timidi attacchi lungo il percorso. Un assalto avvenne quasi subito, forse per sfruttare l’effetto a sorpresa, ma Hitoshi era tanto arrabbiato che spaventò a morte i due uomini che gli si avventarono contro e i compagni li seguirono in men che non si dica. Il secondo attacco, un po’ più prevedibile, fu a pochi chilometri dal Tempio, quando la stanchezza iniziava a farsi sentire e con essa la fame.
Il sole era a picco sul sentiero e loro procedevano nella piccola striscia d’ombra a margine del sottobosco. Di lì a poco avrebbero dovuto lasciare la strada battuta per inoltrarsi su un percorso non segnato che attraversava il folto, secondo le istruzioni una via più breve e che probabilmente i banditi non avrebbero controllato.
Stavano appunto perlustrando i margini della strada quando una freccia sibilò tra le braccia di Kotaro tintinnando contro il sacchetto ingemmato. Dalle ombre dei cespugli emersero due uomini urlanti armati di falcetto, e una seconda freccia, proveniente da un’altra direzione, fendette l’aria conficcandosi accanto ai piedi di Yoshi.
I quattro shinobi reagirono come da manuale: Hitoshi e Kotaro si occuparono dei due a piedi, Chiharu e Yoshi si tuffarono tra gli alberi alla ricerca degli arcieri. Chiharu trovò il suo arrampicato sul ramo di un pino. Prima che potesse incoccare una nuova freccia lo afferrò per un piede e lo trascinò a terra, spingendolo violentemente contro il tronco.
«Quanti siete?» chiese premendo il braccio contro il suo collo.
«Sei» rispose quello in fretta. Era un ragazzo giovane, con la pelle del viso che tirava sulle ossa e un orecchio solo.
«Quanti arcieri?»
«Due.»
«Sicuro?» Chiharu premette con più forza.
«Sì!» esclamò quello aggrappandosi alle sue braccia.
«Ci sono altre bande lungo la strada?»
«Forse...»
«Ti piace il tuo orecchio?»
«Non lo so! Giuro che non lo so!»
Chiharu strinse gli occhi e si fece indietro. L’uomo prese fiato per un istante, poi la sua testa fu sbattuta violentemente contro il tronco del pino. Un intenso odore di resina si sprigionò dalla corteccia.
Chiharu lo lasciò a terra tramortito, tornando sul sentiero per controllare come stavano gli altri. Al suo arrivo trovò un bandito riverso in mezzo al sentiero e i ragazzi stretti attorno a qualcosa che non vedeva.
«Che succede?»
«Abbiamo un problema» disse Hitoshi.
«Un grosso, enorme problema!» strillò Kotaro con voce piena di angoscia.
Voltandosi le mostrò qualcosa che teneva tra le mani, con la tenerezza con cui avrebbe tenuto un bambino: si trattava della statuetta in oro di un uomo con una gran pancia tonda intento a mantenere l’equilibrio su un piede solo, ma la sua pancia, anziché essere un lucido guscio dorato, era una cavità sferica delle dimensioni di una noce circa. E la perla che di solito la riempiva giaceva tristemente accanto alla statua.
«Deve essere stata la freccia!» gemette Kotaro. «E’ tutta colpa mia!»
«C’era una probabilità su un milione che quella freccia scalzasse la perla» borbottò Hitoshi. «Forse è un segno divino?» aggiunse sarcastico.
«Il dio Juka ci disapprova?» inorridì il giovane Lee.
«Piantatela!» sbottò Chiharu, afferrando la statuetta e cercando di rimettere la perla al suo posto.
«Non era incollata» spiegò Yoshi rigirandosi tra le mani il sacchetto scalfito. «Penso che l’abbiano aggiunta alla statua a caldo, così che poi l’oro raffreddandosi la bloccasse.»
«Saperlo ci servirà a poco» disse Hitoshi secco. «Adesso cosa ci inventiamo per i monaci del tuo Tempio?»
Sul viso di Yoshi passò un leggero spasmo, come di irritazione a stento contenuta. «Dobbiamo ripararla in modo che non si veda il danno» disse frugando nel marsupio. Tra uno snack al sesamo e un paio di penne comparve un tubetto mezzo vuoto di colla universale.
«No!» gridò Kotaro riprendendo la statua. «Questo è sicuramente un grave sacrilegio!»
«Ascolta, non possiamo fare altro» tentò di blandirlo Yoshi. «Conosco i monaci del Tempio: se l’incidente fosse avvenuto a loro avrebbero fatto la stessa cosa.»
«O avrebbero chiesto tre anni dei guadagni dei contadini per far rifondere la statua» aggiunse Hitoshi.
«Ma ce l’hai con la religione o con i monaci?» cedette Yoshi, vinto dall’esasperazione.
«Ce l’ho con i contadini. E’ la facilità con cui si fanno prendere in giro da quattro pelati che mi innervosisce. La loro stupidità mi offende.»
«Divertente, detto da uno shinobi.»
«Non osare!» scattò Hitoshi. «Io non...»
«Andiamo, non riesci nemmeno a vedere quanto tu sia identico a quei contadini di cui parli!» lo interruppe Yoshi. «I monaci dicono che bisogna onorare il dio con una nuova statua d’oro? I contadini si privano del cibo per pagarla! L’Hokage dice che bisogna combattere contro la Roccia? Duemila uomini buttano al vento la loro vita per obbedire! Se il tuo problema non è con la religione ma con la stupidità umana, allora tu offendi te stesso!»
«Ma volete piantarla, una buona volta?» si intromise Chiharu, alzando la voce fino a coprire quella di Yoshi. «Siamo nel mezzo di una missione! Avete perso completamente la testa? Pensavo che lasciando a casa Stupido avremmo evitato queste cose! Perché oggi non riuscite a ignorarvi come al solito?»
I due ragazzi tacquero, evitando di incrociare i rispettivi sguardi.
Yoshi riprese la statua dalle mani di Kotaro e finse di non sentire il suo gemito quando riempì il fondo della pancia concava di colla universale. Chiharu vi premette a fondo la perla finché la colla non ebbe fatto presa, quindi testò la solidità dell’impianto chiedendo a Yoshi di scuoterla un po’. Sembrava reggere.
«Rimettiamola nel sacchetto e partiamo» concluse. «Non voglio più sentire discussioni sull’ordine sociale o sulla famiglia o su qualunque cosa che non sia da che parte andare o quando fermarci.»
I ragazzi si fissarono i sandali, ma dal momento che non protestarono lei lo registrò come un sì.
Pochi minuti dopo trovarono la scorciatoia che doveva portarli al Tempio. Al di là delle erbacce e della difficoltà di seguire il sentiero la strada si rivelò davvero sicura, come se i banditi non si aspettassero che qualcuno passasse di lì. Il percorso procedeva tortuoso fino ad accostarsi a un ruscello, poi risaliva lungo il fianco di una montagna seguendo il corso dell’acqua. Non fu una salita particolarmente difficile, ma a quell’ora del giorno il bosco era caldo e umido e quando raggiunsero la cima a Hitoshi e Chiharu girava la testa per la fame.
Se non altro la vista era spettacolare: la gradinata che avevano salito nell’ultimo tratto di strada emergeva su un vasto spiazzo cosparso di massi, tra cui spuntavano alberi in miniatura e piccoli speroni sbozzati dai ghiacci. Guardando verso valle il disegno delle strade che attraversavano il bosco delineava una ragnatela intricata e difficile da individuare, che si spingeva fin dove gli alberi lasciavano il posto ai campi e poi all’orizzonte, confondendosi con il turchese del cielo. Ma il vero spettacolo era il tempio: padiglioni di legno e pietre arroccati sugli speroni di roccia più ampi, placidi nel sole come lucertole. Quelli rivolti a sud erano costituiti in gran parte di pareti scorrevoli che lasciavano entrare la luce a fiotti, gli altri sembravano più robusti, destinati a riparare dalle intemperie della cattiva stagione. La struttura del tempio non era unitaria, e i diversi padiglioni erano connessi l’uno all’altro da sentieri di ghiaia bianca; ma tutti convergevano verso lo spiazzo centrale dove torreggiava un un edificio più grande, le cui porte erano aperte per accoglierli.
«Quella cosa enorme è una riproduzione della statuetta che abbiamo portato?» chiese Hitoshi fissando la scultura d’oro all’interno.
«Spero sia solo rivestito...» mormorò Chiharu. «Tu e Kotaro aspettate qui, io e Yoshi entriamo.»
I due esclusi le scoccarono occhiate costernate.
«Non voglio altre discussioni. Prima consegniamo il pacco e prima ripartiamo» spiegò lei. «Hitoshi, prendila come un’occasione per riprendere fiato, hai le labbra viola.»
L’Uchiha portò involontariamente una mano alla bocca, poi la ritrasse subito. Chiharu afferrò Yoshi per un braccio e avanzò con passo marziale, lasciando i due ragazzi sotto il sole.
«Vieni, là c’è un po’ di ombra» sospirò Kotaro avviandosi verso i primi gradini.
«Non può concludere una missione con uno che non è neanche diplomato!» sbottò Hitoshi seguendolo.
«Non sta concludendo la missione, prima dobbiamo rientrare.»
«Hai capito cosa intendo! E perché prende sempre le sue parti? La prossima volta non me ne resto zitto, gliene dico quattro a lei e a lui!»
I due si sedettero sull’ultimo gradino, dove Hitoshi si sdraiò con le mani dietro la testa. Un alto albero nodoso gettava su di loro la propria ombra, l’aria fresca d’altura li cullava insieme al gorgogliare del ruscello poco distante.
«Ho davvero le labbra viola?» chiese l’Uchiha.
«No» sbuffò Kotaro. «Ma non riesco a capire se odi Yoshi perché sta simpatico a Chiharu o perché riesce a starci dietro.»
«Lo odio perché è insopportabile!» rispose Hitoshi. «Si divertono solo lui e lei. Nessuno è alla loro altezza, sembra quasi che abbiano un codice segreto! E poi non mi piace che un allievo dell’Accademia sia così bravo! Non è normale, non va bene! Sono sicuro che nasconda qualcosa!»
«Tu dici?» Kotaro inarcò le sopracciglia.
«A te sembra normale?»
«Immagino che abbia un sacco di talento...»
«Io invece immagino che abbia dei segreti.»
«Sei proprio sicuro di non essere un po’ di parte?» chiese Kotaro in tono rassegnato.
Le sopracciglia di Hitoshi arrivarono a toccarsi sopra la radice del naso. «Quale parte?»
Kotaro sospirò. «Nessuna» si arrese.
«Mi piacerebbe proprio sapere cosa ha a che fare lui con questo tempio...» borbottò Hitoshi rischiarando la fronte. «Ha detto che la statuetta è la ragione per cui è stato mandato a studiare a Konoha, ma secondo te cosa vuol dire?»
«Non ne ho la minima idea.»
A un tratto sentirono il rumore di qualcosa che cadeva, e Hitoshi si alzò in tempo per vedere una donna che scivolava qualche gradino più in basso e perdeva un involto pieno di frutti rotondi.
«Si è fatta male?» chiese Kotaro raggiungendola in fretta. Con sollecitudine la aiutò a rialzarsi, constatando che era molto anziana e affaticata. «Com’è arrivata fin qui?» chiese sorpreso, prima di accorgersi che la domanda era maleducata.
«Ha perso questi» intervenne Hitoshi tendendole i frutti caduti.
«Grazie, grazie...» disse la donna massaggiandosi le ginocchia. «Ho fatto proprio un bel volo.»
«Lasci, porto io il sacco» suggerì Hitoshi mentre Kotaro la aiutava a fare gli ultimi gradini.
«Le mie vecchie ossa non sono più salde come una volta» sorrise lei zoppicando leggermente. «Povera me, spero di non essermi rotta niente.»
Quando emersero sullo spiazzo davanti al Tempio videro Yoshi e Chiharu che tornavano verso di loro con un paniere pieno di cibo. Li incrociarono a metà strada, proprio sotto il sole a picco, e spiegarono cosa era successo.
«I monaci ci hanno offerto il pranzo» disse Chiharu mostrando il paniere. «Accompagniamo al tempio questa donna e poi mangiamo qualcosa.»
«Un momento...» mormorò Yoshi fissando intensamente la vecchia. «Non è possibile... Lena!»
Prima che qualcuno potesse capire qualcosa Yoshi prese le mani della donna, che lo guardò stupita. Ma subito un lampo di riconoscimento passò nei suoi occhi, seguito da un ampio sorriso.
«Sei Yoshi! Proprio il piccolo Yoshi! Per la pancia del dio Juka, mai avrei pensato di trovarti qui!» esclamò felice. «Non dovresti essere a Konoha? E’ accaduto qualcosa?»
«No, sto bene. Sono... in missione» sintetizzò lui evasivo.
«Questi ragazzi sono ninja» realizzò la donna in quel momento, passando lo sguardo sui tre shinobi confusi. «Ma tu non...»
«Io sto ancora studiando, sono qui per imparare» la rassicurò lui, rivolgendosi poi agli altri. «Questa donna è stata la mia balia, praticamente una seconda madre per me» spiegò. «Viene dal villaggio sull’altro versante del monte. Come sei arrivata da sola? Quando sei partita? Sarai esausta...»
La vecchia scosse la testa. «Ora che ti vedo non sento più la stanchezza. Ma cosa hai fatto ai capelli? Erano neri come le ali di un corvo! Tua madre non approverebbe... Quando ti vedrà...»
Yoshi si incupì. «Sai che non posso ancora tornare.»
«Sono certa che tuo padre farebbe un’eccezione...»
«No, non la farebbe.»
Negli occhi di Hitoshi passò un lampo. «Oh, dai, potremmo fare un tentativo» suggerì con un sorriso ampio quanto falso. «Sono così curioso di conoscere la tua famiglia.»
«Non penso che sarebbe il momento migliore» ribatté Yoshi con uno sguardo tagliente. «In questi giorni cade l’anniversario della morte di mio fratello.»
Il sorriso di Hitoshi si trasformò in una smorfia. Era acutamente consapevole dell’occhiata di commiserazione di Kotaro e di quella esasperata di Chiharu, ma la frittata era fatta. «Mi dispiace» si costrinse a dire.
«Una storia molto triste...» mormorò la vecchia scuotendo la testa. «Il miglior ragazzo che si sia mai visto, pronto a sostituire il padre come custode del villaggio. Poi quel tragico incidente, e hanno dovuto inviarti a Konoha in tutta fretta... Mi si è spezzato il cuore due volte.»
«Non è il caso di restare sotto il sole» la interruppe lui. «Vieni, ti accompagno al Tempio.»
«Ti aspettiamo sulla gradinata» annuì Chiharu.
Hitoshi lasciò a Yoshi l’involto pieno di frutti e Kotaro prese il paniere con il pranzo. Andando verso il riparo offerto dagli alberi Chiharu fece arrivare a Hitoshi una gomitata di una precisione micidiale.
«Ahia! Come facevo a saperlo?» protestò lui.
«Non ho mai visto una scena più patetica» replicò lei tra i denti. «Mi sono vergognata di essere insieme a te.»
«Un pochino anche io» mormorò Kotaro.
«Se lui ci avesse detto prima come stavano le cose, la scena patetica ce la saremmo risparmiata!» insisté Hitoshi.
«Non aveva alcun dovere di dirti niente» precisò Chiharu. «Smettila di pensare che nasconda qualcosa.»
«Continuerò a farlo sempre: non è normale che uno studente senza diploma sia così bravo!»
«Sì, beh: sorpresa! Non sei tu il più figo del mondo! Adesso riempiti la bocca di cibo e piantala di metterci in imbarazzo.»
Hitoshi strinse le labbra e si lasciò cadere pesantemente sul secondo gradino.
Kotaro mise il paniere accanto a lui e si sedette vicino a Chiharu. I monaci avevano preparato per loro onigiri e verdure sottaceto. Chiharu raccontò della consegna della statua e disse che al Tempio non avevano notato nulla di strano, ma il giovane Lee scosse la testa afflitto.
«Il dio Juka se ne ricorderà» rabbrividì. «Avete sentito la maledizione di quel monaco.»
«Il dio Juka terrà conto delle tue buone intenzioni» lo rassicurò lei.
Yoshi tornò che avevano quasi finito di mangiare. Si sedette dall’altro lato di Chiharu e prese i suoi onigiri senza parlare.
Kotaro toccò Hitoshi con il piede. Lui lo fissò corrucciato. Il giovane Lee inarcò le sopracciglia. L’Uchiha scosse la testa. Il secondo contatto con il piede fu un vero e proprio calcio, al che Hitoshi si girò proprio dall’altra parte. Non si sarebbe scusato, assolutamente no.
«La mia famiglia viene dallo stesso villaggio di Lena» disse Yoshi a sorpresa. Tutti alzarono la testa a guardarlo, ma lui continuò a fissare il chicco di riso con cui giocherellava distrattamente. «Da generazioni il mio clan rappresenta il potere del signorotto locale, siamo una specie di guardia armata» raccontò. «Mio padre è il capoclan, e per tradizione il primogenito del capoclan viene inviato a studiare a Konoha perché si trasformi in un ottimo stratega. Sono stati stipulati accordi vecchi di decenni per questo. Mio fratello era il primogenito: quando ha compiuto otto anni è venuto a Konoha e si è brillantemente diplomato insieme ai ragazzini della sua età. Poi è tornato a casa, senza coprifronte ma con un sacco di buone idee per migliorare la difesa del villaggio e del tempio, e mio padre lo ha trovato così utile che ne ha fatto il suo braccio destro a non più di tredici anni. Era un vero genio. Beh, sapete anche voi come vanno queste cose... Esci vivo da cinquanta scontri e al cinquantunesimo ci lasci le penne. La statuetta è una preda attraente per tutti i banditi della zona, provano a rubarcela con cadenza regolare. Un giorno in cui mio fratello era addetto alla difesa del Tempio, durante uno dei tentativi di rapina è rimasto ucciso.»
«Stai dicendo che anche in questo momento ci sono membri del tuo clan che ci fissano?» chiese Kotaro guardandosi le spalle.
«Probabilmente sì» sorrise Yoshi.
«E perché non pensano loro a trasportare la statua da un villaggio all'altro?»
«Perché gli uomini dell'altro villaggio resterebbero offesi: sono gente religiosa e pacifica, non hanno una scorta armata in grado di sorvegliare la statua durante il viaggio. Pensano che sia più onorevole sacrificarsi pagando qualcuno, piuttosto che lasciare tutto il merito a noi. Comunque sia, mio fratello è stato ucciso circa un anno fa, e allorao ero già troppo grande per l’Accademia. Ma mio padre aveva bisogno di un erede addestrato, così ha fatto pressioni perché mi accettassero a Konoha. Non era entusiasta di dover ripiegare su di me, ma non aveva molte altre scelte. In ogni caso ero già stato cresciuto con la rigida disciplina militare, tre anni di ulteriore addestramento non erano un gran dramma.»
Chiharu scosse impercettibilmente la testa. Il racconto spiegava perché Yoshi fosse già tanto abile anche senza avere un diploma, e allo stesso tempo dava una risposta al suo stile di vita così sciatto: doveva essere difficile vivere senza regole quando lo avevi fatto per tutta la vita. Senza farsi notare guardò di sottecchi Hitoshi: c’erano alcuni punti in comune tra la sua storia e quella di Yoshi, ma l’Uchiha non prendeva mai le cose per il verso giusto. Sperava solo che non usasse anche questo discorso per attaccare briga.
«Ora sei soddisfatto?» chiese Yoshi alzando lo sguardo.
Hitoshi ricambiò l’occhiata con malagrazia. «Più o meno.»
Appunto.
«Beh, fattelo bastare» concluse Yoshi, e per chiudere il discorso addentò il suo onigiri.
Kotaro sospirò e appoggiò il mento alla mano. Vedeva fin troppo bene che Hitoshi non era per niente soddisfatto: se c’era una cosa che poteva incrementare il suo astio era proprio l’idea che Yoshi avesse una stirpe alle spalle per legittimare le sue eroiche imprese e lui no. Ne avrebbe fatto il perno su cui fondare tutta la sua teoria della cospirazione... L’invidia era un movente potentissimo. Ora che aveva ascoltato la sua storia, lui invece non pensava che Yoshi avesse qualcosa da nascondere, ma era certo, proprio assolutamente certo, che Hitoshi invece un paio di cose ce le avesse: cose che riguardavano Chiharu e gli Uchiha e il suo ruolo nel clan. L’orgoglioso Hitoshi non lo avrebbe mai confessato, ma, dopo tutti quegli anni insieme, Kotaro certe sfumature aveva imparato a capirle. Dopotutto anche lui aveva i suoi segreti...
Poco prima che Chiharu insistesse per ripartire, un brivido gli corse lungo la spina dorsale, come se un refolo di aria fredda si fosse infilato sotto il colletto. Guardò il Tempio alle sue spalle un’ultima volta, mentre le parole minacciose del monaco riecheggiavano nelle sue orecchie.
La maledizione del dio Juka ricadrà sulle vostre vite!
No, si disse, sicuramente il dio avrebbe tenuto conto delle sue buone intenzioni...




Il tempo è vicino.




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Capitolo 4
*** L'adolescenza di Jin ***


enne 04
Capitolo quarto

L'adolescenza di Jin




Kakashi era quasi pronto per la partenza.
Erano passati alcuni giorni dall’annuncio delle sue dimissioni e il Consiglio ancora insisteva perché continuasse a presentarsi in ufficio a dirigere i suoi sostituti, ma non avrebbe concesso loro molto altro tempo. In quel breve periodo aveva svolto alcune ricerche discrete, aveva preparato lo zaino da viaggio e aveva cercato di tenersi sempre incredibilmente impegnato. Voleva evitare i problemi e voleva evitare Jin; non credeva che la scusa della vacanza avrebbe retto, ma sperava di defilarsi prima di farsi intrappolare da doveri e piccoli shinobi intuitivi.
Fino a quel momento ci era riuscito abbastanza bene.
«Una squadra di rinforzo verso la Roccia e una medica di supporto. Al campo base troverete chi dovete sostituire e darete loro il cambio. Lì attenderete istruzioni.»
La voce di Kakashi fu soffocata dal ‘sissignore’ degli Anbu nel suo studio, tutti a volto coperto e rigidamente sull’attenti. Lui li congedò con un cenno, rivolgendosi quindi all’assistente che bussava.
«Un messaggio da Suna» annunciò Koichi posando un foglio sulla scrivania. Kakashi lo prese e lo lesse rapidamente. «Chiama Naruto, Sasuke, Sakura e Shikamaru» ordinò arrivato in fondo «In fretta.»
L’assistente chinò la testa e scomparve oltre la porta, mentre Kakashi dava fuoco al messaggio nel posacenere sulla scrivania. Aveva quasi dimenticato la faccenda di Suna, rifletté preoccupato, ma naturalmente Gaara l’aveva sottolineata con una certa urgenza. L’inaspettata mole di lavoro che si era trovato a dover sbrigare a causa del Consiglio rendeva l’Hokage nervoso, distratto e facile agli scatti d’ira; per complicare le cose una parte della sua mente si dedicava costantemente al pensiero del figlio, che non gli rivolgeva la parola da quando avevano litigato, e in quelle condizioni era difficile non perdere colpi.
Forse avrebbe dovuto parlare a Jin: era un ragazzo in gamba, uno shinobi straordinario, e probabilmente aveva già elaborato una dozzina di piani diversi per seguirlo nel suo viaggio. Ma aveva solo dodici anni... Oppure aveva già dodici anni. Magari era troppo tardi. Magari non lo avrebbe perdonato.
Prima che i suoi pensieri prendessero una piega infelice fu distratto da un sommesso bussare e vide comparire sulla soglia dello studio Sakura e Shikamaru.
«Ci ha fatti chiamare?» chiese Shikamaru, facendosi avanti con una certa indolenza. «Dobbiamo già sgobbare?»
«Più o meno» ammise Kakashi, snebbiando rapido la testa. «Condividerete la fatica con Sasuke e Naruto, ma in questo momento ho troppo da fare per aspettarli; penserete voi ad aggiornarli.»
«Aggiornare Naruto?» Shikamaru gemette mentre Sakura sbuffava con un accenno di sorriso. «Già è difficile fargli capire le cose, se poi aggiungiamo che non gli è stato tributato il rispetto che merita come sostituto Hokage...»
«Lo so» tagliò corto Kakashi. «Ma non ho tempo da perdere in tributi.»
Shikamaru si tolse dalla faccia l’espressione annoiata e Sakura fece scomparire il sorriso.
«Ho detto di volermene andare prima che la situazione precipiti, ma in effetti anche adesso è piuttosto critica» continuò Kakashi sfogliando i dispacci sulla scrivania. «C'è qualcosa di cui non siete al corrente, perché non potevo parlarne davanti al Consiglio, ma è una cosa della massima importanza: è in corso un’operazione segreta a Suna. Non è un caso che abbia affidato dei supporti a Naruto, perché francamente non so fino a che punto riuscirebbe a gestire, da solo, la diplomazia internazionale e i problemi interni. Dunque, e mi rivolgo in particolare a te, Shikamaru, ho bisogno di qualcuno che separi i compiti e in particolare che collabori con Gaara per portare a termine la sua missione. Che naturalmente non è nulla di risolvibile con la sola forza bruta, come proporrebbe Naruto.»
«Che seccatura...» bofonchiò Shikamaru.
«Da quasi sei anni una spia si è infiltrata a Suna» Kakashi ignorò l’interruzione. «Pur sapendo da molto tempo della sua esistenza, non abbiamo mai potuto eliminarla perché la Roccia, il paese da cui la spia proviene, ha un ostaggio. Ma io e Gaara abbiamo lavorato duramente e siamo riusciti a scoprire dove lo tengono, il che ci ha permesso di iniziare a elaborare una strategia per liberarlo. Il piano è praticamente pronto, vanno solo verificate le condizioni di partenza e coordinati gli spostamenti. Ritengo di poter affidare tranquillamente questo compito a te.»
«Aspetti un attimo» lo interruppe Shikamaru alzando una mano. «Come è riuscito a concordare un piano con il Kazekage senza che la spia né il Consiglio vi scoprissero?»
«Usiamo un codice segreto, te lo insegnerò.»
«E la spia non se n’è mai accorta? Che posizione occupa? Chi è, insomma? L’ostaggio è tanto importante?»
Kakashi sospirò: Naruto era impulsivo, irragionevole, esagitato e spaccone, ma ti lasciava la mente libera. I geni invece tendevano a fare le domande giuste - una cosa molto seccante, se il tempo per i dettagli era scarso.
«La spia è la segretaria personale del Kazekage» rivelò. «O meglio, uno shinobi appositamente trasformato; e grazie alla sua posizione può seguirlo in ogni suo spostamento e controllarlo ad ogni istante. L’ostaggio è ancora una volta la segretaria del Kazekage. L’originale, naturalmente. Ed è importante per una semplice ma fondamentale ragione: è la donna che Gaara ama.»
Sia Sakura sia Shikamaru non riuscirono a non stupirsi.
«Prego?» fece Shikamaru, allibito. «Gaara ama?»
«Ehi!» sbottò Sakura. «Certo che ama, come tutti! E’ un uomo, è normale... Anzi, era strano che finora non...»
«Sakura» la interruppe Kakashi. «Capisco che la tua passione per gli amori tormentati abbia trovato terreno fertile, ma, ripeto, non ho tempo da perdere.»
«Chiedo scusa» arrossì lei.
«Le ragioni per cui il Consiglio non è stato informato della missione sono ovvie» proseguì Kakashi. «Non avrebbero mai permesso di mettere in pericolo l’Alleanza solo per salvare una donna di scarsa rilevanza strategica. Suggerisco di avvisarli solo dopo aver dato il via alle operazioni e di prepararvi a momenti molto difficili al tavolo delle riunioni. Confido nella tua capacità di riparare le falle, Shikamaru, sia strategiche sia politiche.»
«Purtroppo» rognò lui. «Agli ordini» aggiunse dopo un attimo, quando sentì l’occhiata di rimprovero di Sakura sul collo.
«Bene, credo di avervi fornito le informazioni necessarie. Ora, se Sasuke e Naruto si degnassero di comparire...»
«Ci sono, ci sono, ci sono!» gridò una voce in quel preciso istante, e un Naruto affannato e coperto di sudore spalancò la porta e quasi inciampò addosso a Sakura per precipitarsi all’interno dell’ufficio. «Ci sono! Non iniziate senza di me!»
«E’ un po’ tardi» ribatté Sakura staccandoselo di dosso.
«Che cosa? Tardi?» allibì lui, riprendendo fiato. «Mi avete lasciato fuori? Ehi, io sono il legittimo Hokage! Come avete potuto iniziare senza di me?»
Shikamaru si grattò un orecchio rimpiangendo i bei tempi da Genin e Sakura si passò una mano sulla faccia, già stanca. Kakashi cercò di trovare mentalmente una scusa per allontanarsi, ma l’irruenza di Naruto non era mai facile da schivare con pretesti plausibili.
Fuori dalla porta Sasuke si fermò, le mani affondate in tasca e gli occhi all’interno dello studio.
«Prego, la stanno aspettando» lo esortò un Koichi particolarmente zelante.
Ma il capo della polizia di Konoha, celebre esempio di integrità e ardore morale, semplicemente fece dietro front e se ne andò: il suo istinto era allenato a subodorare una grana quando se la trovava davanti.
Kakashi, vedendolo sgattaiolare via nonostante le proteste di Koichi, rimpianse di non potersi defilare altrettanto facilmente: con un profondo sospiro all’indirizzo del furibondo Naruto dovette accomodarsi meglio sulla sedia e prepararsi a una lunga discussione... Dubitava che ripetere per l’ennesima volta quanto poco tempo avesse avrebbe sortito qualche effetto.

Alla fine lasciò lo studio dell’Hokage che il sole era già calato, e per riuscire a finire tutte le scartoffie urgenti si portò un pacco di documenti a casa.
Nonostante fosse piuttosto tardi, al suo rientro si chiuse nello studio accanto al salotto per rileggere le consegne che avrebbe lasciato a Sakura. Sapeva che la parte burocratica sarebbe stata quasi esclusivamente compito suo, ma sperava che lei e Koichi sarebbero andati d’accordo.
Tra un documento e l’altro gettava brevi occhiate allo zaino da viaggio pronto su una sedia. Al massimo altre due notti a casa, poi se la sarebbe svignata. Doveva solo convincere Naruto che partiva per una bella vacanza; era certo che a differenza di Jin lui avrebbe accolto l’idea con entusiasmo, prendendola come una splendida occasione per dimostrare quale perfetto Hokage poteva essere. Kakashi contava sul fatto che i suoi ragazzi lo avrebbero difeso davanti al Consiglio quando fosse sparito, altrimenti rischiava un’accusa di tradimento... conosceva troppi segreti del villaggio per andarsene a zonzo come un ragazzino in gita.
Mentre finiva un noioso documento sui rifornimenti di materiale per l’Accademia sentì bussare alla porta dello studio e si irrigidì. Fino ad allora Jin non si era azzardato a cercarlo: dopo l’ultima lite era sempre uscito presto la mattina ed era rientrato tardi la sera, e tutto il poco tempo che aveva passato a casa era rimasto rintanato nella sua stanza. Kakashi non pensava che si sarebbe più presentato per discutere.
«Sì?» chiese, sentendo la bocca che si asciugava.
«Posso?»
La testa castana che che si affacciò sulla soglia non era quella che si aspettava. Con grande sorpresa e una piccola fitta allo stomaco Kakashi vide Natsumi Muto entrare nello studio, e per un istante si sentì in trappola.
«Non eri in missione?» le domandò schiarendosi la voce.
«Avevi fatto in modo che lo fossi, in effetti, ma ho finito prima del previsto» ribatté lei, piantandogli addosso gli occhi blu. Natsumi aveva ormai superato la trentina, e Kakashi, che conosceva così bene il viso di Haruka, poteva dire che le due sorelle si somigliavano molto: avevano gli stessi occhi, anche se in quelli di Natsumi mancava quel velo di dolcezza con cui Haruka era solito guardarlo, prima che...
«E’ molto tardi» disse Kakashi, forzandosi a non divagare col pensiero.
«Mi ha fatto entrare Jin» spiegò Natsumi, richiudendo la porta abbastanza lentamente da permettergli di vedere un’ombra scomparire lungo il corridoio.
«Devi avere molta urgenza di parlarmi, se sei venuta fin qui subito dopo la missione.»
«Un uccellino mi ha detto che forse non resterai disponibile a lungo» Natsumi lanciò uno sguardo eloquente allo zaino sulla sedia e Kakashi si ripromise di nasconderlo dietro la scrivania.
«Jin è un gran chiacchierone» mormorò. Avrebbe dovuto immaginare che la notizia sarebbe arrivata a lei: Natsumi e Jin erano molto legati.
«Sei un buon bugiardo, Kakashi, ma se continui rischio di offendermi» mormorò la kunoichi. «Non hai qualcosa da dirmi su Haruka?»
Non ci girava certo intorno.
Negli ultimi cinque anni Natsumi era stata reintegrata tra i ninja della Foglia dopo la fine un po’ brusca della sua missione alla Roccia. In previsione dell’inizio delle ostilità il Consiglio aveva deciso di ritirare lentamente la maggior parte delle spie, per lasciare oltre confine solo quelle in posizioni strategicamente importanti. Natsumi era stata una delle prime. Al suo rientro aveva subito chiesto notizie di sua sorella e di Jin, e Kakashi aveva risposto in maniera volutamente vaga, lasciando che si facesse un’idea parziale. Era stato troppo vigliacco per dirle tutta la verità. Probabilmente avrebbe dovuto stringere i denti e parlarle subito, realizzò in quel momento.
«Natsumi, Jin si è messo in testa un’idea che non corrisponde alla realtà» disse in tono paziente, cercando di convincerla con la forza della persuasione. «Non sto andando a cercare Haruka. Voglio solo fare una perlustrazione dei confini...»
«Non dovevi andare in vacanza?» lo interruppe lei. «Mi sto arrabbiando, Kakashi» Questa volta il tono di minaccia nella sua voce era ben chiaro. «Non tenermi fuori, questi sono affari di famiglia, della mia famiglia! Cosa è successo a mia sorella?»
Kakashi tacque.
Per un momento pensò quasi di dirle tutto. Sarebbe stato così liberatorio, purificante, un vero sollievo... Ma si trattenne. Natsumi era la sorella di Haruka: si sarebbe infuriata, avrebbe fatto una scenata e se ne sarebbe andata da Konoha all’istante.
Non era proprio il caso.
Per evitare che la discussione degenerasse si alzò in piedi, tirando fuori la vecchia aura di autorità da Hokage. «Hai già interferito fin troppo nel rapporto con mio figlio» disse in tono quasi duro. «Qualunque cosa io dica o non dica in questa stanza la prima cosa che farai sarà correre da lui. E io non posso permetterlo.»
Le guance di Natsumi arrossirono di indignazione. «Non è vero!»
«Sì che lo è. Da quando hai conosciuto quel bambino gli hai riempito la testa di discorsi e idee che io non ti ho mai autorizzato a diffondere. Ho sbagliato a non fermarti prima, ma mi aspettavo che avessi più buonsenso» disse asciutto.
«Tu avresti dovuto parlare a Jin di Haruka! Ho fatto soltanto quello che non hai mai voluto fare!»
Kakashi serrò le labbra e prese un respiro profondo. «Non ho mai detto che Jin fosse tuo nipote.»
Silenzio.
Natsumi sbatté le palpebre in un attimo di smarrimento.
«Non dire idiozie» ribatté poco dopo, riprendendo lentamente il controllo. «Non mi avresti permesso di ronzargli intorno tutto questo tempo, non... Non avresti lasciato che credesse a tutto quello che gli dicevo di Haruka, se... Tu mi avresti fermata prima! Se avessi fatto un errore così grossolano mi avresti fermata molto tempo fa!»
Kakashi tacque e la fissò.
«Io non ti credo!» riprese lei, la voce di qualche tono più acuta. «E non capisco perché ti ostini a negare così spudoratamente! Jin ha gli occhi di mia sorella! Lo so! La conosco da sempre, da molto più tempo di te! E so che Jin è mio nipote, così come so che ora stai mentendo! Quello che non capisco è perché!»
Ancora nessuna risposta.
Senza che Natsumi potesse impedirlo il tarlo del dubbio si insinuò nella sua mente... E se Jin non fosse stato il figlio di Haruka? Era possibile? Ma allora perché lasciarlo credere a tutti, perché lasciarla avvicinare, perché permetterle di affezionarsi a un ragazzino con cui non aveva nulla a che fare? Doveva ammetterlo, in quel modo gli strani silenzi di Kakashi riguardo Haruka potevano trovare una parvenza di spiegazione... Incompleta, insoddisfacente, piena di falle, però sempre una spiegazione. Ma non era abbastanza, perché distruggevano una serie di certezze che dava per scontate e creavano garbugli ancora più intricati: se Haruka non era la madre di Jin allora chi lo aveva messo al mondo? E che fine aveva fatto sua sorella?
«Lascia stare, Natsumi» le consigliò Kakashi. «In questo momento Haruka è un argomento che non può uscire dall’ufficio dell’Hokage. Sei uno shinobi di Konoha, sai cosa vuol dire.»
Si che lo sapeva: voleva dire che il suo fascicolo era rinchiuso nell’archivio segreto della Foglia, dove i cospiratori, i demoni e tutte le malefatte della nobiltà dovevano essere seppelliti per salvare il buon nome del Vilaggio.
Perché si trovava lì?
Natsumi deglutì.
«E’ viva?» domandò piano.
«Natsumi...»
«Ok. Ok, non dirmelo. Non ora. Non so se ce la...» deglutì a vuoto. «Se, come ha detto Jin, stai partendo per un viaggio di cui non vuoi parlare, voglio pensare che tu vada da mia sorella. Quando tornerai mi parlerai. Perché la mia famiglia ha sacrificato tutto quello che aveva per questo villaggio, e Konoha ce lo deve. Ce lo deve! Tu mi racconterai tutta la storia, riservata o no. Va bene?» ansimò.
Natsumi aveva ragione, in fondo. Ma il problema non era Konoha, il problema era lui, sospirò Kakashi. Se Haruka era un file segreto nell’ufficio dell’Hokage in gran parte era proprio per causa sua e della sua indecisione. Se il messaggio di Akiko Kato non fosse mai arrivato, prima o poi avrebbe parlato a Natsumi, le avrebbe spiegato cosa era successo, cosa ne pensava lui e cosa ne aveva pensato Tsunade all’epoca, le avrebbe detto tutto. Ma quel messaggio era arrivato, e il suo arrivo aveva cancellato tutte le parole che avrebbe potuto dire. Ormai nemmeno lui sapeva più cosa pensare... Per questo doveva andare di persona.
«Quando tornerò» cedette crollando le spalle. «Quando tornerò parleremo.»
«A Jin devi parlare adesso» mormorò Natsumi senza guardarlo. «Io so che è suo figlio: ha i suoi occhi, non posso sbagliarmi. Che sia viva o...» deglutì. «Devi parlargli prima di andartene. Ha il diritto di sapere prima di tutti. Glielo devi.»
«Torna a casa» sospirò Kakashi. «E’ molto tardi, e domani dovrai lavorare. Buona notte Natsumi.»
«Parla a Jin» insisté lei un’ultima volta, accogliendo il congedo suo malgrado: era scossa, voleva tornare a casa e riflettere sulle cose che aveva sentito.
Kakashi non rispose, ma quando la donna uscì dallo studio si sentì molto solo. Natsumi lo aveva sempre guardato con una luce speciale negli occhi: quando era piccola lui era stato il suo eroe, poi l’uomo di sua sorella, poi il padre di suo nipote... Il suo sguardo lo aveva sempre fatto sentire un po’ migliore di quanto fosse in realtà, anche se sapeva di essere crudele a lasciarle alimentare l’infatuazione. Ora forse era riuscito a fargliela passare, per il bene di lei e il proprio sconforto. Non aveva nemmeno dovuto impegnarsi, era bastato lasciar scivolare gli eventi. Forse anche con Jin sarebbe successa la stessa cosa, forse se avesse lasciato correre...
No. Non poteva. Non con Jin, comprese.
Natsumi aveva ragione: glielo doveva.


I giorni in cui il cielo era a pecorelle erano i peggiori per allenarsi. La luce cadeva in macchie irregolari, era instabile, confondeva i contorni e accecava all’improvviso, scomparendo sempre sul più bello. Ma a Jin andava bene così, perché in quel momento aveva bisogno di concentrarsi disperatamente su cose che non richiedevano pensieri, concentrarsi tanto da dimenticare tutto il resto e farsi assorbire da qualcosa di difficile.
La copia con cui stava combattendo gli rilanciò uno sguardo vacuo mentre elaborava il suo attacco. All’improvviso si lanciò contro di lui, sfruttò una zona d’ombra a terra e scartò bruscamente, pronta a colpire sul lato destro. Jin rotolò via all’ultimo istante e lasciò partire due shuriken che si persero nell’aria, schivati senza difficoltà. Lui e la copia furono di nuovo in piedi in meno di un attimo, abbastanza vicini da attaccarsi corpo a corpo.
Jin sentiva di avere il fiato corto. Per un breve istante si chiese da quanto andava avanti l’allenamento, ma non seppe rispondersi. La distrazione però gli costò cara: sentì il bruciore del kunai sul viso quando già c’era un lungo graffio sulla sua guancia. Si spinse indietro, allontanandosi con un paio di capriole, e scagliò di nuovo i suoi shuriken, ancora una volta scansati. Quindi, senza che riuscisse a capire esattamente la dinamica degli avvenimenti, si trovò scaraventato a terra e vide la lama del kunai a pochi centimetri dai suoi occhi.
«Merda...» ansimò stringendo la polvere tra i pugni.
La copia su di lui arretrò e scomparve in uno sbuffo di fumo, proprio mentre un lembo di nuvola si faceva da parte e un raggio di sole lo colpiva sul viso. Jin storse il naso e si schermò la fronte, senza rialzarsi, aspettando che il respiro tornasse normale. Quand’ecco che il suo campo visivo fu occupato da una faccia decisamente molto compiaciuta, al centro della quale brillavano un paio di occhi candidi.
«Jin Hatake nella polvere. Non pensavo che avrei mai visto una simile rarità» commentò Hinagiku, facendosi indietro mentre lui si tirava a sedere.
«Succede più spesso di quel che pensi, invece» sbuffò Jin, scuotendo con una mano i capelli più grigi del solito.
«Con le tue copie, forse... Tutto bene?» chiese lei, facendo sparire il ghigno e tendendogli una bottiglietta.
«E questa da dove esce?»
Hinagiku arrossì e si affrettò a guardare altrove, tutta interessata a una formica che trasportava una vespa morta. «Mah, così... ce l’avevo dietro per caso» mentì, ricordando di aver assillato sua madre per venti minuti affinché fosse acqua fresca, anzi freschissima, e ricca di sali minerali.
«Beh, grazie comunque» disse lui sforzandosi di sorridere e mettere da parte il malumore.
«Hai bisogno di un cerotto?» Hinagiku accennò con il mento al graffio sulla sua faccia.
«Passerà da solo.»
La ragazzina si lasciò cadere seduta al suo fianco, abbracciandosi le ginocchia, e rimase a guardarlo mentre beveva.
Certe volte pensava di essere strana, ma quando lo guardava dopo gli allenamenti, sporco e sudato, a lei sembrava sempre un po’ più bello del solito. Non lo aveva mai detto a nessuno, naturalmente, da sua madre aveva ereditato una certa introversione e la tendenza a tenere per sé i fatti personali, ma le piaceva stargli vicino dopo che si era allenato.
Jin smise di bere e riavvitò il tappo, tendendole la bottiglia.
«Grazie ancora» le disse appoggiando le mani all’indietro per riprendere fiato.
«Sai che in Accademia abbiamo iniziato le prove per il test finale?» ricominciò Hinagiku in cerca un argomento di conversazione.
«Davvero? Come vanno?»
Hinagiku si strinse nelle spalle. «Vanno. Secondo il maestro Aburame non dovrei rilassarmi troppo, ma il maestro Iruka dice che passerò l’esame senza problemi, al contrario di mio padre. Però mi sa che lui da quando si è sposato con la figlia di Ichiraku ha messo su un po’ di buonismo, oltre alla pancetta.»
«Ma quale pancetta, sono addominali!» borbottò Jin, imitando la voce del maestro Iruka.
Hinagiku scoppiò a ridere e si lasciò cadere con la schiena a terra, fissando il cielo nuvoloso.
«Sai, in realtà non vorrei mai finire l’Accademia» confessò. «Mi piace stare lì, ormai conosco tutti gli insegnanti e gli angoli della scuola, mi piace dormicchiare durante le lezioni, mi piace la pausa pranzo, mi piacciono gli esercizi scemi che ci fanno fare... Non voglio rinunciare a tutto questo, anche se sono contentissima di avere il coprifronte.»
Jin la guardò. «Non saprei» mormorò. «Quando ho studiato io tutti gli altri ragazzi erano molto più grandi di me, e gli esercizi davvero troppo semplici... Non ero particolarmente legato a quel posto. Però so che quando mi hanno affidato la prima missione e mi sono reso conto che era completamente diversa dall’Accademia, avrei voluto picchiarli tutti, gli adulti.»
«E’ questo che non mi piace!» Hinagiku tornò a sedere di scatto. «Che all’Accademia è tutto un test a punteggio, ma quando esci fuori – puf! – ecco che le cose si fanno serie! Insomma, nessuno ci prepara a questo! Potrei anche restare traumatizzata dalla differenza, ci pensano mai?»
«Suppongo che questo sia il lavoro dei capogruppo.»
«Seee, e se mi capita come capogruppo uno scemo come mio padre? Io mica mi fido ad andare in missione con uno come lui!»
«Tuo padre è in gamba» sorrise Jin. «Altrimenti non sarebbe stato scelto come sostituto Hokage.»
«Bella roba, insieme ad altri tre!» Hinagiku gonfiò le guance oltraggiata. «Una grama volta che fa qualcosa di importante deve rovinare tutto facendosi accollare le balie! Come faccio a vantarmi di lui in queste condizioni? Gli Uchiha non fanno che prendermi in giro, è frustrante non poter rispondere per le rime!»
«Che Uchiha e Uzumaki non si sopportino è una cosa normale» la rassicurò Jin. «Anzi, mi stupirei del contrario. Finora gli unici a ignorare la tradizione sono Minato e Itachi, ma quei due non sono esattamente a posto.»
«Tutta colpa di quel testone di papà!» commentò Hinagiku. Poi, senza pensarci, svitò la bottiglia e ne bevve un sorso.
«Un bacio indiretto» disse Jin osservandola. E lei si fece andare l’acqua di traverso, se la rovesciò sulle gambe e ne sputacchiò metà tutt’attorno, tossendo disperata.
«Che cavolo ti salta in mente?!» balbettò tra una lacrima e l’altra, il viso arrossato e gli occhi fuori dalle orbite.
«L’idea ti dispiace tanto?»
Hinagiku sentì qualcosa che esplodeva nella sua teca cranica, o che comunque andava in pezzi con un grande spettacolo pirotecnico. Sentì il sangue schizzare su per il collo e la testa che girava all’improvviso, e provò il folle desiderio di fracassare un macigno sul collo di Jin.
«Certo che mi dispiace!» esclamò, indignata. «Chi diavolo ti credi di essere? Perché dovrebbe piacermi l’idea di b-b-b...»
«Baciarmi?»
«L’hai detto tu, non io!»
«Solo perché tu non ci riuscivi. Comunque» Jin si rialzò, spolverando il didietro dei pantaloni con pacche lente. «Grazie ancora per l’acqua. Ora è meglio se rientriamo, credo che nel giro di mezzora si metterà a piovere.»
Prima che Hinagiku si rendesse conto che l’improvvisa morte del discorso era una delusione per lei, vide Jin che le tendeva una mano e gli permise di aiutarla a rialzarsi.
«Comunque ti ricordo che non mi piaci» ci tenne a precisare, e se fosse stata un galletto avrebbe arruffato le piume.
«Certo che no» rispose Jin conciliante, tenendola vicina un secondo più del dovuto.
Il cuore di Hinagiku mancò un battito, al che la ragazzina sfilò rapidamente la mano da quella di lui e se la strinse al petto come faceva sua madre da giovane. Jin sospirò e si offrì di portarla a casa.

Dopo aver accompagnato Hinagiku ed essersi sorbito lungo il tragitto l’infinita serie dei motivi per cui lui non le piaceva, correndo sotto le prime gocce aveva tagliato per i tetti ed era rientrato a casa passando dalla finestra della sua stanza - che lasciava sempre aperta in caso di emergenza - evitando per un soffio l’acquazzone.
Lì aveva trovato suo padre, seduto sul letto con L’Esperienza della Pomiciata tra le mani.
«Oh, eccoti» gli disse quando lui si bloccò sul davanzale. «Ti stavo aspettando.»
Richiuse il volume, lasciando il segnalibro tra le pagine, mentre Jin atterrava sul pavimento con atteggiamento sostenuto.
«Che vuoi? Sei qui per salutarmi prima di svignartela?» chiese asciutto, ignorandolo per andare a prendere vestiti puliti da un cassetto.
«Non esattamente» rispose lui, e qualcosa nel suo tono spinse Jin a fermarsi e guardarlo.
Kakashi inspirò a fondo tormentando il bordo del libro con le dita. Era lì principalmente perché il senso di colpa si era fatto troppo opprimente e perché Natsumi lo aveva fatto sentire un deficiente. Ma poteva dirlo in modo migliore.
«Natsumi è venuta a cercarmi» esordì mantenendo un tono controllato. «Immagino che tu le abbia parlato... Mi ha fatto una gran lavata di capo, tanto che alla fine ho dovuto riconoscere che su alcune cose aveva ragione. Quindi ho pensato di chiederti se vorresti partire insieme a me, domattina.»
Il cuore di Jin mancò un battito.
«Davvero?» chiese troppo in fretta.
Kakashi lo scrutò a lungo, ancora, suo malgrado, combattuto. Non aveva le forze per parlare a Jin, non subito almeno. Ma portandolo con sé gli avrebbe dimostrato di avere buone intenzioni e forse avrebbe riacquistato un briciolo della sua fiducia... Anche se il rischio che proprio quel viaggio la distruggesse per sempre era elevatissimo.
Deglutì, odiando ciò che stava per dire così come avrebbe odiato il contrario. Chiuse gli occhi e chinò appena il capo. «Sì. Voglio che tu venga con me, Jin.»
D’istinto Jin strinse le dita sui vestiti puliti che aveva in mano, tanto forte da sbiancarsi le nocche.
«Stai dicendo sul serio?» alitò con gli occhi scintillanti. «Posso davvero venire con te, o domani ti sveglierai e mi dirai che hai cambiato idea?»
«Se lo facessi resteresti a Konoha?»
«No, mai!»
«Allora sarebbe inutile» Kakashi sospirò di nuovo. «Non cambierò idea, Jin. Mi seguirai nel mio viaggio e sarai la mia ombra, siamo intesi? Pretendo che tu non rimanga indietro, che mi obbedisca come e più di Pak, che non parli se non ti dico di farlo e soprattutto che non faccia domande. Pensi di riuscirci?»
Jin strinse le labbra. Non fare domande era la condizione più pesante, ma se non altro suo padre aveva smesso di insistere con la farsa della vacanza. Era una prova delle sue buone intenzioni, per quanto piccola.
«Sì, ce la faccio» assicurò. «Sarò il miglior compagno che tu abbia mai avuto, migliore anche di Obito! Lo giuro.»
Kakashi sorrise mesto sotto la maschera. «Oh, a dire il vero è piuttosto semplice essere migliori di Obito... era un tale pasticcione» mormorò, serio solo a metà. «La nostra partenza dovrà restare strettamente riservata» aggiunse dopo un attimo, ogni traccia di ilarità completamente scomparsa dalla sua voce. «E voglio che mi giuri una cosa, Jin, una cosa molto importante» lui annuì rapidamente. Le nocche della mano con cui Kakashi teneva il libro si delinearono per la tensione. «Qualunque cosa accada, qualunque cosa tu veda o senta, devi giurarmi che obbedirai ai miei ordini finché non saremo di nuovo a Konoha. Hai capito? Anche se a un certo punto tu dovessi odiarmi, anche se dovessi perdere il rispetto che hai di me, dovrai obbedirmi finché non saremo di nuovo all’interno dei cancelli.»
Jin corrugò la fronte. «Che significa?» chiese, con una strana sensazione di disagio.
«Significa esattamente quello che è» rispose Kakashi. «Giuramelo, Jin.»
Lui esitò per un lungo istante. Non riteneva possibile che accadesse ciò che suo padre temeva: se c’era stato un momento in cui aveva rischiato di odiarlo e perdere la fiducia che aveva in lui, quel momento si era concluso pochi minuti prima, quando lo aveva visto nella sua stanza e aveva sentito ciò che aveva da dire. Non sembrava un giuramento impegnativo.
«Va bene, lo giuro» annuì dubbioso.
Kakashi tirò un sospiro di sollievo. «Grazie» mormorò a sorpresa. «Ricordalo sempre, per favore. Io farò qualunque cosa perché tu ritorni a Konoha sano e salvo, ma devi collaborare con me, Jin.»
«Certo. Mi sembra scontato» ribatté lui con una certa perplessità.
E in questo era ancora immaturo, come ninja e come persona.
Non esiste nulla di scontato.

Venti minuti più tardi un piccolo shinobi bagnato e affannato era davanti alla casa di Naruto, una grande villa costruita di recente sui resti dell’abitazione che era andata distrutta cinque anni prima, per colpa degli shinobi della Roccia che avevano attaccato Konoha e delle signore Nara e la loro mania per trappole, terremoti e lame di vento. Il ragazzino zuppo si fece annunciare da una delle domestiche e rimase ad attendere nell’ingresso, troppo agitato per prestare attenzione ai gatti che sonnecchiavano sul portico evitando il giardino bagnato dalla pioggia. Sotto la frangia appiccicata alla fronte e lo scintillare degli occhi si poteva a malapena riconoscere Jin.
Si sentiva euforico come mai prima di quel momento: suo padre l’avrebbe portato con sé alla ricerca della madre - sì, non lo aveva mai detto esplicitamente, ma ormai era chiaro, no? - e finalmente sarebbe riuscito a incontrarla, dopo averla sognata tante volte. Era un pensiero così assurdo che se non glielo avessero sbattuto in faccia non avrebbe nemmeno osato sperarci. Doveva condividere la novità con qualcuno.
«Ci siamo visti mezzora fa, cosa vuoi da me?» esordì Hinagiku, comparendo sulla porta avvolta in un kimono bianco e con i capelli bagnati raccolti sulla nuca. Aveva il viso arrossato, ma Jin non avrebbe saputo dire se fosse per via del bagno o cosa. Decise di ignorare il tono ostile e le sorrise, dimostrando per una volta i dodici anni che ancora aveva.
«Parto con mio padre» spiegò tutto d’un fiato. «Quando sono tornato a casa mi ha detto di aver parlato con la zia, e ha deciso di portarmi con sé... Sono... Sono così felice che dovevo dirlo a qualcuno!»
Hinagiku rimase interdetta per un attimo. «Dov’è che vai?» chiese confusa.
Jin si bloccò. La clausola di segretezza di Kakashi gli tornò improvvisamente alla memoria e per un breve istante si sentì molto stupido, evento piuttosto nuovo nella sua vita. Non ci aveva proprio pensato. Di solito non faceva errori così grossolani, doveva essere davvero fuori di sé. Però Hinagiku era affidabile, e lui doveva, doveva far sapere a qualcuno quello che stava succedendo!
Senza neanche rendersene conto era sgusciato fuori dai suoi panni di shinobi per entrare in quelli di un normale ragazzino emozionato.

«Ascolta...» iniziò, abbassando la voce a un sussurro. «Domattina partirò con mio padre. Non so per dove né a fare cosa, ma sono sicuro che abbia a che vedere con mia madre. Non devi dirlo a nessuno, intesi? Nemmeno a Naruto» le spiegò.
Hinagiku sbatté le palpebre un paio di volte. «Oh. Congratulazioni» si sentì dire, con una vocina atona che non era la sua. Non riuscì neanche a stupirsi per l’insolita vitalità dell’apatico Jin.
«Qualcosa non va?» chiese lui confuso.
«No no, sono contenta per te» si affrettò ad assicurare Hinagiku, ma il ragazzino non smise di fissarla interrogativo. Lei allora strinse le labbra e confessò. «Beh, non è che l’idea che tu te ne vada così all’improvviso, per imbarcarti in una misteriosa e probabilmente pericolosa missione, mi entusiasmi poi tanto» bofonchiò, tanto in fretta che era quasi difficile distinguere le parole.
Negli occhi di Jin passò un lampo di comprensione. Sorrise divertito. «Pensavo che l’idea della mia morte, o comunque della mia assenza, ti piacesse parecchio.»
«Infatti mi piace da morire!» scattò Hinagiku avvampando. «Anzi, perché non stai via un po’ più a lungo, tipo dieci anni?»
«Hina, adesso perché piangi?»
«Non sto piangendo, è la pioggia!» esclamò rabbiosa, passandosi una mano sugli occhi umidi.
«Ma sei ancora in casa...»
«E’ la pioggia! E’ la pioggia... non mi interessa niente di te, stupido scemo...» un singhiozzo le sfuggì dalla gola, involontario.
«Beh, tutto questo mi lusinga» mormorò lui, ora in leggero imbarazzo.
«E perché dovrebbe?» gracchiò Hinagiku, tirando su con il naso. «E’ allergia al polline!»
«Che non vola quando piove...»
«Smettila di fare il saputello, accidenti a te!» la ragazzina pestò un piede a terra. «Bene, mi hai detto che vai a farti ammazzare, sono contenta! Ciao! Ora lasciami stare, devo asciugarmi i capelli!»
«Hina, sei sicura?»
«Io? Non sono mica io quella che parte!»
«No, dico, sei sicura che vuoi che me ne vada così?»
Silenzio. Hinagiku si morse le labbra per impedire alle lacrime di debordare, fissandosi i piedi con testardaggine.
«Sì che sono sicura...» piagnucolò, dondolandosi nervosa sui talloni. «Cioè... tornerai, no?» finalmente trovò il coraggio di guardarlo. Arrossì violentemente.
«Me lo auguro» rispose lui con un sorriso rassicurante.
«Allora ti insulterò ancora quando sarai tornato» sussurrò lei, e asciugò veloce una lacrima che era sfuggita al suo controllo.
«Strano modo per dimostrare l’affetto.»
«Affetto? Quale affetto? Tu mi stai antipatico. E non mi piaci.»
«Tu invece mi piaci.»
Hinagiku si irrigidì così di botto che anche i suoi polmoni smisero di dilatarsi. «Eh?» fece con voce improvvisamente arrochita.
«Anche se continui a ripetere che io non ti piaccio, tu mi piaci» ripeté lui, con un leggero, leggerissimo batticuore. «Ma è inutile che te lo dica adesso, probabilmente è meglio che lo faccia una volta tornato.»
«No!» esclamò Hinagiku. «Cioè, non che non abbia fiducia nel tuo ritorno, eh... Però... dillo adesso.»
Jin prese un respiro profondo. Okay, questo era più difficile dell’esame per Jonin.
«Quando sarò tornato...» mormorò, sentendo il viso accaldato. «Verrò qui e ti dirò che mi piaci. Te lo dirò bene, non a spanne come ora, e tu la smetterai di ripetere che non ti piaccio e mi dirai che, invece, ti piaccio. E puoi pure buttare la lista dei motivi per cui non ti piaccio, perché nemmeno uno sta in piedi.»
Hinagiku deglutì a vuoto, la bocca improvvisamente asciutta. «Tecnicamente uno sì...» mormorò, a corto di frasi più intelligenti. «Preferisco i biondi.»
«Davvero? Non ti piaccio per questo
L’orgoglio di Hinagiku voleva gridare di sì. La sua bocca, però, glielo proibì.
«...Nnnnno. Credo» bofonchiò, grattando il pavimento con la punta del piede.
«Hina...» Jin sospirò. «Per favore, solo questa volta, metti un attimo da parte la tua testaccia dura, okay?»
«Non ti conviene di più che lo faccia quando mi ripeterai tutto, una volta tornato?» pigolò lei a disagio.
«No, fallo ora.»
«Oh... Va bene.»
«Quando tornerò, dicevamo, verrò qui e ti dirò che mi piaci» Hinagiku annuì. «E tu mi dirai che anche io ti piaccio» Hinagiku esitò. «Hina?» a fatica, annuì di nuovo. «E poi mi porterai ancora l’acqua quando mi alleno, e io farò in modo che tu faccia l’esame più memorabile nella storia dell’Accademia, e ti porterò fuori a prendere il gelato, e ti permetterò di insultarmi anche più di prima» Hinagiku annuì con più convinzione. «A patto che prima tu mi dia un bacio» Hinagiku si trovò a scuotere la testa. «Hina?»
«Proprio un bacio?» gemette lei in evidente imbarazzo.
«Di solito si parte da quello.»
«E le strette di mano che fine hanno fatto?»
«Quelle sono cose da primo anno di Accademia!»
«Io non le ho mai fatte!»
Jin sospirò. «Va bene, va bene. Partiamo da quelle. Ma poi il bacio.»
«Con calma e per piacere. O lo dico a papà, e sai che è tanto geloso...»
«Perché siamo già alle minacce?»
«Tu hai iniziato con le minacce!»
«Non credi che dovremmo calmarci un po’?»
«E tu non credi che dovremmo parlarne al tuo ritorno?»
«E se non torn...»
Hinagiku gli tappò la bocca prima che finisse di parlare.
«Non dirlo» mormorò. «Non dirlo mai davanti a me.»
Jin sorrise e le allontanò gentilmente la mano, tenendola nella sua. «Va bene, non lo dico. Ma tu non dire niente a Naruto, o sarà lui a farmi fuori.»
«Va bene... Vedremo, quando tornerai. Magari starai via tanto che mi troverò qualcun altro.»
«E chi potrebbe reggere il confronto?»
Hinagiku sospirò e liberò la mano dalla sua stretta. Da un lato avrebbe voluto invitarlo dentro e stare ancora con lui, sentire cosa avrebbe e non avrebbe fatto, ma dall’altro voleva correre nella sua stanza, buttarsi sul letto e gridare per l’euforia, quindi correre da sua madre e raccontarle tutto, parola per parola, e rotolarsi sul suo letto e ridere, ridere, ridere di felicità.
«Signorina Hina, i capelli!» chiamò una voce da dentro.
Allora capì che la scelta era una sola. Con una certa delusione tornò a guardare Jin.
«Devo andare» sospirò. «Ci vedremo ancora prima della partenza?»
«Credo di no. Il viaggio deve rimanere riservato, ricordi? Ti prego, non sbagliarti... Mio padre mi ammazzerebbe prima del tuo. Sul serio.»
Hinagiku annuì. Giusto. Non poteva raccontare a sua madre parola per parola... Avrebbe riferito solo i particolari importanti della dichiarazione di Jin. Al pensiero il suo cuore tornò a battere velocissimo, subito stroncato dai passi della domestica che si avvicinavano.
«Buona fortuna!» disse in un sussurro frenetico. «Stai attento, mi raccomando!»
«Lo farò. Tu non dire niente a Naruto, d’accordo?» rispose lui sottovoce.
«Non sono pazza» Hinagiku rabbrividì al pensiero della reazione del padre.
E Jin rise, sollevato, pensando che in quel momento per la prima volta nella sua vita le cose andavano davvero bene.

Non altrettanto bene andava a Kakashi, invece. Involontariamente, infatti, aveva assistito ai primi amoreggiamenti di suo figlio, e tra i cespugli che circondavano il giardino di Naruto si chiedeva con un lungo sospiro interiore perché Jin avesse scelto proprio la primogenita e adoratissima figlia del padre più geloso e possessivo di tutta Konoha. Chissà quanto avanti si spingevano i dodicenni, di quei tempi? C’era da preoccuparsi? Ma soprattutto: Jin aveva parlato a Hinagiku della loro missione?
Kakashi si ritrasse più a fondo tra le ombre mentre Jin correva a casa a preparare lo zaino. Vedeva le sue impronte nel fango riempirsi rapidamente d’acqua piovana, e si disse che erano orme troppo piccole per andarsene in giro a rischiare la vita... Ma anche lui, alla sua età, era andato in giro a fare la stessa cosa. Vivevano in una triste società.
Non appena Jin fu fuori dalla sua vista Kakashi percorse il viale d’ingresso di casa Uzumaki e suonò la campanella nell’atrio.
«Nobile Hokage!» lo accolse una domestica. Poi arrossì di colpo, ricordando che tecnicamente adesso l’Hokage era il suo datore di lavoro, e Kakashi poté immaginare facilmente la reazione di Naruto se fosse stato presente. «Nobile... Hatake?» si corresse la ragazza con un’occhiata interrogativa.
«Va bene così, grazie. Potresti annunciare a Naruto il mio arrivo?»
Kakashi fu invitato ad entrare e gli fu porto un telo per asciugare viso e mani. Naruto arrivò quasi subito, imbastendo con risultati piuttosto scarsi una seria espressione da autorità preoccupata, ma Kakashi quasi scoppiò a ridere, e di fronte a un’ironia così palese il biondo allievo si affrettò a imbronciarsi come sempre.
«E’ successo qualcosa?» domandò un po’ stizzito.
«Domani vorrei partire per un viaggio» rispose il maestro, facendo scemare la risata in un tono volutamente discorsivo. «Sono stufo del Consiglio che mi costringe a stare nell’ufficio dell’Hokage come se non avessi mai dato le dimissioni. Voglio prendermi un periodo di ferie come si deve e non dover vedere nessuno dei Consiglieri almeno per un po'.»
«Non credo che ti lasceranno partire...» mormorò Naruto dubbioso, ma incapace di nascondere la scintilla di trionfo che per un attimo aveva brillato in fondo ai suoi occhi.
«Lo so bene. E’ per questo che ho bisogno del tuo aiuto» replicò Kakashi. «Solo tu, dopo la mia partenza, avrai l’autorità necessaria per importi sul Consiglio» Parole ben ponderate che, sapeva, avrebbero avuto un effetto strabiliante sull’orgoglio di Naruto.
«Assolutamente!» esclamò infatti il Jonin, incrociando le braccia sul petto proteso.
«Sono contento di vederti d’accordo» sorrise Kakashi. «Sapevo che saresti stato un ottimo Hokage.»
Se Naruto avesse spinto ancora più in alto lo sterno lo avrebbe sbattuto contro il mento. Mentre lui scoppiava a ridere un po’ imbarazzato ma fiero, in lontananza riecheggiò la risata molto più acuta ed eccitata di Hinagiku, che proprio in quel momento stava raccontando a sua madre della confessione di Jin.
«Quando tornerai?» chiese Naruto ancora gongolante.
Kakashi si rabbuiò. «In un paio di settimane» mormorò vago. A dire il vero non ne aveva la minima idea.
«E dov’è che vai di preciso?»
«A nord. Alle terme di Kannon.»
Naruto si accigliò. Kakashi aveva appena schivato il suo sguardo? «Maestro, sei sicuro che vada tutto bene?» indagò.
«Certo. Sono solo un po’ preoccupato: sai, lascerò tutto in mano a voi...»
«Non avrò nessunissimo problema!» scattò l’allievo. «Sasuke, Sakura e Shikamaru si annoieranno talmente tanto che tra una settimana imploreranno il Consiglio di esonerarli dal ruolo di assistenti, e io potrò avere ufficialmente la mia nomina a settimo Hokage!»
Kakashi sospirò. Naruto non avrebbe mai potuto fare a meno di Sakura per la burocrazia, ma spiegarglielo adesso sarebbe stato completamente inutile.
«Allora posso partire tranquillo?» chiese con un’evidente patina di lusinga nel tono.
«Tranquillissimo!» esclamò Naruto, ignorando fermamente la vocina nella sua mente che cercava di esporgli alcune perplessità, prima fra tutte l’obiezione che l’Hokage emerito non poteva gironzolare per il Paese in tempo di guerra.
Kakashi, ignaro della lotta che avveniva dentro Naruto, tirò un silenzioso sospiro di sollievo. Ora non restava che infilare nel plico delle missioni già iniziate il nome di Jin, e poi avrebbe potuto riposare prima della partenza. Mentre Naruto blaterava qualcosa sul dimostrare le proprie capacità, lui lanciò un’occhiata sconsolata alla pioggia che ancora cadeva: avrebbe cancellato le tracce, ma li avrebbe costretti a viaggiare bagnati come pulcini. Chissà, magari sarebbe riuscito a rispedire Jin a casa prima di aver raggiunto il confine, se si fosse ammalato?


Partirono poco prima dell’alba. Il cielo aveva smesso di riversare le sue cateratte sulla terra e si era tinto di un brutto color piombo striato di rosso, che invece di allontanare le ombre sembrava ricalcarne i contorni come le chine di Sai. In casa Hatake si udivano rumori leggeri, ma le imposte erano serrate e non lasciavano trapelare la luce della torcia.
Kakashi controllò un’ultima volta il contenuto dello zaino prima di caricarselo in spalla. Jin, già pronto vicino alla porta, fremeva di impazienza come un bambino prima della gita di compleanno.
«Ho portato le mappe di tutti i Paesi che confinano con il Fuoco» annunciò orgoglioso.
Kakashi lo guardò brevemente. «Tieni solo quella della Roccia» mormorò spegnendo la torcia. «Le altre non ti serviranno.»
Jin si affrettò a togliere dallo zaino le mappe superflue e tornò a fissare il padre. Certo, ora che conosceva la meta non poteva dire di essersi tranquillizzato granché... Ma si morse la lingua e mandò giù la domanda che avrebbe voluto fare. Aveva promesso.
«Ieri sono stato da Naruto per procurarci una copertura» disse Kakashi nella breve parentesi di penombra. «Mi è sembrato che tu e Hinagiku siate piuttosto intimi...»
La schiena di Jin si cosparse di sudore freddo. Hinagiku aveva parlato?
«Credo che lei mi piaccia» disse per sviare il discorso.
«Non le hai detto niente, vero?»
Negare, negare fino alla morte. «Certo che no.»
Naturalmente, pensò Kakashi con un moto di orgoglio. Suo figlio era davvero uno shinobi ineccepibile. «Andiamo» tagliò corto, nascondendo un sorriso.
Jin si accorse che le sue mani tremavano. Era stato così vicino a tirarsi la zappa sui piedi da solo... Qualche divinità benevola probabilmente vegliava su di lui, si disse, e Hinagiku era meravigliosa.
Uscirono di casa in punta di piedi, chiudendo tutte le serrature. Scesero le scale dell’appartamento e si ritrovarono nella strada deserta: era troppo presto perché il villaggio iniziasse a svegliarsi.
La pioggia aveva smesso di scendere. Ovunque c’erano pozzanghere color acciaio e grondaie che sgocciolavano malinconicamente. Padre e figlio attraversarono il villaggio passando per le vie più contorte e nascondendosi dietro gli angoli quando passava un compaesano troppo mattiniero; era importante che nessuno li vedesse, perché dovevano essere ben lontani quando il Consiglio avesse saputo della scomparsa dell’Hokage. Decisero di uscire dal villaggio da una porta secondaria, un ingresso riservato alle guardie di cui pochi erano a conoscenza: si trovava a una certa distanza dall’ingresso principale, alla base di una torretta di osservazione, e di solito era ben sprangato dall’interno. Kakashi sciolse i sigilli apposti al chiavistello e guardò un’ultima volta Jin.
«Ricorda le tue promesse» mormorò.
«Sono uno shinobi» rispose il ragazzino.
Allora, insieme, uscirono.


Tra le colonne della torretta sotto cui erano appena passati, un’ombra si sporse di poco per scrutare la direzione che avevano preso. Ovest. Verso la Roccia.
Sorrise. Sapeva che tenere d’occhio Kakashi Hatake sarebbe tornato utile... Quando il gatto non c’è, i topi ballano.






* * *



Ed ecco i primi quattro capitoli del nuovo Penne.
Una specie di lunga introduzione, per chi già lo conosce,
più una selva di accenni e indizi gettati a caso che dovreste riconoscere come nuovi,
sempre se siete vecchi lettori.

Dal momento che i vecchi capitoli restano, ma vuoti,
per farvi sapere quando ci sono nuovi aggiornamenti pubblicherò un falso nuovo capitolo,
che vi rimanderà al punto in cui eravamo rimasti.
E' più complicato da spiegare che da eseguire:
quando vedete che la storia è aggiornata aprite l'ultimo capitolo e riceverete istruzioni.

Gli aggiornamenti saranno a cadenza settimanale,
preferibilmente di mercoledì.


Grazie a tutti,
e in particolar modo a te che leggi.



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Capitolo 5
*** L'uomo dell'Hokage ***


05
13/01/2016


Capitolo quinto


L'uomo dell'Hokage




Naruto si presentò a casa Uchiha quando il sole iniziava a farsi strada sotto le nubi grigie a oriente. Prima dell'alba, dunque, tirò giù dal letto Sakura, Sasuke e un bel numero di pargoli solo per annunciare con aria pomposa che doveva conferire con i suoi assistenti.
«Fai in modo di avere un ottimo motivo per questo» sibilò Sasuke trascinandosi fino al salotto con la vestaglia ben chiusa ma i capelli spettinati. «Perché se non ce l’hai ti ammazzo qui e ora.»
«Certo che ho un ottimo motivo!» esclamò Naruto in un impeto di orgoglio. «L’Hokage di Konoha non si muove senza ottimi motivi!»
«Ti fermi per colazione?» sbadigliò Sakura, sforzandosi di ignorare l'irritazione per essere stata declassata ad assistente.
«Ramen?» chiese lui speranzoso.
Sasuke fu colto da un conato di vomito.
«Riso, tè e uova» rispose Sakura seccamente.
«Allora passo. A casa Hinata mi sta preparando il ramen!»
Sasuke si fermò davanti al tavolo, come se all’ultimo secondo avesse deciso di non sedersi. Si voltò e tornò alla porta da cui era entrato, aprendola bruscamente. Al di là dei pannelli di carta di riso un Itachi spione molto poco mimetico fece un balzo e arrossì.
«A letto» ordinò Sasuke, e il bambino filò via rapidamente.
«Itachi?» domandò Sakura, avviandosi a mettere sul fuoco una teiera.
«Sì. Allora, cosa c’è?» sbuffò Sasuke, sedendosi finalmente di fronte a Naruto.
Il biondo Hokage gonfiò le penne come un pavone, poi incassò la testa tra le spalle come se avesse un grande segreto che premeva per esplodere.
«Ieri sera Kakashi è venuto da me» sussurrò da vero cospiratore. «Ha detto che stamattina voleva partire per un viaggio.»
Sasuke corrugò la fronte e snebbiò la mente dal sonno. «E’ successo qualcosa?»
«No. Pare che voglia andare alle terme perché è stufo del Consiglio.»
«E a te non è venuto nessun dubbio?»
«Che dubbio?»
«Per esempio che l’Hokage, anche se non in carica, non va alle terme da solo con una guerra alle porte...»
«Chi va alle terme?» chiese Sakura di ritorno dalla cucina.
«Kakashi, stamattina» Sasuke le lanciò un’occhiata eloquente.
«Che stupidaggine» sbottò lei. «Non è possibile che il Consiglio permetta a Kakashi di allontanarsi in questo momento, per di più da solo.»
«Infatti dovrò convincere io il Consiglio» si intromise Naruto con un fremito d’orgoglio.
Entrambi i coniugi Uchiha gli lanciarono un’occhiata piena di compassione.
«Naruto, Kakashi ti ha fregato» mormorò poi Sakura, cercando di mettere nella voce più tatto possibile.
«Balle!» esclamò il biondo, zittendo la vocina nella sua testa che cercava di ricordargli che aveva provato ad avvertirlo.
«Pensaci, Naruto: credi davvero che Kakashi lascerebbe il villaggio in questo momento per andare a rilassarsi alle terme?»
«E se fosse questa la ragione per cui ha dato le dimissioni?» si inserì Sasuke pensieroso. «Se avesse già avuto in mente di partire e avesse avuto bisogno di lasciare la carica di Hokage?»
«Ma... Ma ci saremmo accorti di qualcosa!» esclamò Naruto. «Me l’avrebbe detto!»
Sasuke gli fece segno di zittirsi. Si chinò sotto il tavolino basso, che nascondeva un buco nel pavimento creato per far sedere gli ospiti, e tese una mano a spostare un pannello laterale. Un secondo dopo estraeva dalle fondamenta della casa un polveroso e infangato Itachi.
«Ti ho detto di andare a letto!» tuonò il capofamiglia, anche se nel profondo del cuore non poteva che provare un'ondata di orgoglio per l’intraprendenza del suo ultimogenito.
«Ci stavo andando! Poi ho visto un... un... qualcosa, e l’ho seguito» improvvisò il bambino facendosi piccolo piccolo.
«Ah, avresti passato il nostro esame da Chunin in men che non si dica...» sospirò Sakura, altrettanto orgogliosa ma anche un po’ infastidita dalle ragnatele sui capelli del figlio. «Vieni.»
Prese il bambino per mano e lo portò verso il corridoio. Dalla porta chiamò Mikoto, la ragazza più grande, e gli affidò il bambino perché lo ficcasse in una vasca da bagno e ce lo tenesse almeno un’ora.
«Kakashi mi ha assicurato che voleva andare alle terme» brontolò Naruto a voce più bassa. «E voleva dimostrare a tutti che io posso essere un ottimo Hokage!»
«Questo è quello che ti piace credere» sbuffò Sasuke seccamente. «Ma per quanto Kakashi abbia fiducia in te, dubito che se ne sarebbe andato a spasso in tempo di guerra solo per farti brillare.»
Dalla cucina la teiera mandò un primo fievole fischio.
«Beh, c’è un modo molto semplice per venire a capo della faccenda» commentò Sakura avviandosi a zittirla. «Andiamo a recuperare l’ultimo membro della Confederazione del Settimo.»

«Impossibile» decretò Shikamaru sbadigliando quando gli ebbero spiegato la questione, seduti al tavolo della sua colazione. «Non è andato alle terme.»
«Allora perché mentirmi?» sbottò Naruto indignato. «Sono il settimo Hokage! Adesso gli mando dietro una squadra di recupero e...»
«Tu non sei il settimo Hokage» puntualizzò Sakura. «Noi siamo il settimo Hokage.»
«Ho una mezza idea» la interruppe Shikamaru, piluccando qualche chicco di riso. «Ma per confermarla dobbiamo andare nello studio dell’Hokage e dare un’occhiata ai file riservati.»
«Credi che sia partito per una missione segreta?» domandò Sasuke sorseggiando una tazza di tè.
«E’ probabile.»
«Senza dirlo al Consiglio?»
«Il Consiglio in questo momento è terrorizzato dalla Roccia» sospirò Shikamaru. «Se avessero saputo che voleva partire lo avrebbero legato alla sua testa scolpita.»
«Ma perché mi avrebbe raccontato tutta quella bugia?» insisté Naruto pieno di indignazione. «Avrebbe potuto spiegarmi... Io avrei capito.»
Shikamaru gli lanciò un’occhiata di sbieco. «Sì, avrebbe dovuto. Ma se è partito così di soppiatto e ha insistito perché nessuno sapesse, deve essere qualcosa di molto importante per lui, forse di molto rischioso. Tecnicamente non avendoti detto niente non ti rende suo complice. E noi tutti possiamo fingerci molto sorpresi dalla sua partenza: volendo, tu puoi uscirne molto bene.»
«Davvero?» Naruto si protese sul tavolo, mettendo giù la ciotola di ramen che stava mangiando e schizzando il piatto delle uova al centro.
«Non fare il maiale!» scattò Temari bacchettandogli una mano. Era seduta allo stesso lato del tavolo di Shikamaru ed era molto innervosita dall’intrusione mattutina e anche più irritata, perché aveva dovuto preparare la colazione per un mucchio di persone. Al diavolo le riunioni urgenti. Meno male che almeno Chiharu dormiva ancora.
«Scusa» si affrettò a dire Naruto arretrando. Aveva tanto insistito per avere il ramen, e Temari si era mostrata tanto scocciata dal doverglielo preparare che sarebbe stato educato con lei per molto tempo.
Shikamaru posò la sua ciotola di riso e assunse un’aria molto autorevole. «Naruto, è giunto il momento che tu tiri fuori tutto il tuo orgoglio di futuro settimo Hokage» annunciò.
Gli occhi di Naruto brillarono esultanti. Sakura e Sasuke sbuffarono, e si segnarono mentalmente che avrebbero dovuto fargli un discorso sui subdoli sotterfugi delle lusinghe politiche.
Dietro il muro della cucina, accucciata con in modo da non essere visibile, Chiharu sbadigliò silenziosamente.
Il futuro del villaggio le sembrava in mani molto inaffidabili.


Nonostante fossero passati tanti anni da quando erano stati messi nello stesso gruppo, Chiharu, Kotaro e Hitoshi non avevano mai smesso di passare il tempo libero nel parchetto per bambini nella parte ovest di Konoha. Ormai lo consideravano una specie di quartier generale, quasi casa, e anche i suoi frequentatori avevano imparato lentamente a considerarli parte del territorio e non minacciosi intrusi dall’aria ambigua.
Ma qualche volta, purtroppo per i bambini, la convivenza pacifica diventava difficile: quando passavano più di due giorni senza che affidassero al gruppo sette nuove missioni il clima si surriscaldava. L’inattività portava gli shinobi all’insofferenza, l’insofferenza agli insulti e gli insulti alle minacce. La ragione per cui non erano costantemente impegnati ad azzuffarsi era che Chiharu era troppo svogliata per alzarsi dalla panchina, Hitoshi troppo orgoglioso per abbassarsi al loro livello e Kotaro troppo paziente per permettersi di arrabbiarsi seriamente. Ma questo non impediva loro di punzecchiarsi fino a spaventare i bambini nel parco, per poi ignorarsi completamente e infine andarsene lanciando imprecazioni.
Il periodo, in quei giorni, era proprio quello che precedeva le crisi di noia.
Quella mattina Kotaro era impegnato nell’ennesima serie di flessioni. Sapeva che gli altri sarebbero arrivati dopo qualche tempo, perché il sole era a malapena sopra i tetti - e questo a casa Nara significava notte fonda - ma l’idea di rivedere i compagni non lo entusiasmava. Sperava che almeno avrebbero ricevuto uno straccio di missione, perché Chiharu e Hitoshi erano insopportabili e lui continuava a ripensare alla storia della maledizione del dio Juka.
Il primo ad arrivare, a sorpresa, fu Hitoshi. Quando raggiunse la panchina Kotaro stava finendo la nona decina, e lui dovette attendere che arrivasse a cento prima di ricevere un saluto.
«Non è un po’ presto?» gli chiese Kotaro tamponandosi il collo sudato. «Di solito arrivi alla sesta ripetizione.»
Hitoshi gli scoccò un’occhiata infastidita. «Mi sono svegliato prima.»
«Vuoi allenarti con me?»
«No. Dov’è Chiharu?»
«A quest’ora? In piena fase REM» borbottò Kotaro deluso, posando l’asciugamano sulla panchina e sdraiandosi per cominciare con la serie degli addominali. Davvero non riusciva a capire come Hitoshi si mantenesse in forma se non lo vedeva mai allenarsi.
L’Uchiha sbuffò e si lasciò cadere seduto, sfilando dalla tasca il pacchetto di sigarette. Mentre l’aria risuonava dei conteggi entusiasti di Kotaro, lui attaccò a fumare senza che la riga tra le sue sopracciglia scomparisse.
A dire il vero era stato svegliato all’alba dall’arrivo di Naruto, come tutta la sua famiglia. Dato che voleva assolutamente sapere di cosa dovevano discutere gli Hokage aveva convinto Itachi a cercare di spiare il loro colloquio in modo che i suoi goffi tentativi fungessero da diversivo e gli permettessero di origliare dal sottotetto. Purtroppo aveva captato soltanto una parte della conversazione, e quando le cose si erano fatte interessanti gli adulti si erano spostati a casa Nara e lui aveva perso la presa.
«Ma che diavolo succede stamattina?» esclamò Kotaro senza preavviso, interrompendo uno dei suoi piegamenti a testa in giù.
In lontananza, come un’apparizione, anche Chiharu stava avanzando; e sembrava bella carica.
«Missione?» domandò raggiungendoli a passo marziale.
Hitoshi la studiò per un lungo istante. Ne sapeva più di lui?
«Non ti andrebbe di allenarci un po’ insieme?» tentò Kotaro speranzoso.
«Non vorrai affaticare il mio povero cuore?» ribatté Chiharu scandalizzata. «No grazie. Allenarsi al tuo ritmo potrebbe davvero causarmi un infarto.»
«Perché nessuno di voi vuole fare allenamento di gruppo?» si lagnò Kotaro. «E’ un miracolo se torniamo vivi dalle missioni, l’ultima volta che abbiamo provato uno schema non avevo i peli sotto le ascelle!»
«Se fai due calcoli scoprirai che non vogliamo allenarci con te da quando hai iniziato a blaterare stupidaggini sulle Porte del Chakra. Abbiamo paura che qualcuno muoia durante i tuoi cosiddetti allenamenti» sbuffò lei. «Ma per ora ce la caviamo bene, no? Siamo vivi. E in questo momento non ho nemmeno voglia di strozzare questo qui» aggiunse accennando a Hitoshi. «Facciamo grandi progressi.»
Sì, Chiharu aveva il tipico umore da ‘so qualcosa che voi non sapete e sono troppo spaccona per nasconderlo decentemente’, rifletté l’Uchiha.
«Naruto è venuto anche a casa tua?» domandò a bruciapelo.
Chiharu si bloccò. Ovviamente aveva immaginato che la presenza di Sakura e Sasuke significasse che Hitoshi sapeva qualcosa, ma non aveva intenzione di condividere le sue informazioni con gli altri.
«Può darsi» rispose vaga, mentre Kotaro passava lo sguardo alternativamente da lei a lui e viceversa.
«Dov’è andato Kakashi?» chiese l’Uchiha, incapace di contenere la curiosità e anche la stizza, perché Chiharu era stata più fortunata e aveva potuto ascoltare la parte interessante della conversazione.
«Che ne so?» rispose però lei facendo spallucce. «Dicevano qualcosa sul controllare gli archivi della Foglia, ma mio padre non ha voluto spiegare niente prima di arrivare là.»
«Nello studio dell’Hokage?» si inserì Kotaro, completamente smarrito. «Di che state parlando? Dov’è andato Kakashi?»
«E’ partito» riassunse Chiharu. «Se ne è andato non si sa dove e i suoi sostituti non sanno nemmeno perché.»
«Ma è gravissimo!» esclamò Kotaro sbiancando.
«Oh, sta’ zitto» sbuffò Chiharu. «Non ha tradito il villaggio, probabilmente è invischiato in una missione segreta di cui il Consiglio non deve sapere niente.»
«Ma perché? Cosa potrebbe essere?»
«Vuoi darti una calmata?» disse Hitoshi seccamente. «Stasera provo a spiare i miei genitori, sicuramente ne parleranno, prima o poi.»
Chiharu strinse le labbra. Lei avrebbe avuto informazioni fresche entro poche ore, ma questo non poteva davvero condividerlo con gli altri.
«Forse dovremmo provare a chiedere...» suggerì Kotaro esitante.
Hitoshi scoppiò in una risata breve e asciutta. «Prego. A te l’onore.»
«Beh, è una soluzione molto più onorevole che strisciare sotto il pavimento per origliare!»
«Siamo ninja, non ufficiali di cavalleria. Strisciare è quello per cui veniamo addestrati!»
«Tu, forse! Io mi alleno duramente per fare qualcosa di più!»
«Certo che siete insopportabili quando non andiamo in missione» sbuffò Chiharu, meritandosi occhiate scandalizzate e anche un po’ offese. «Sapete che vi dico? Mi prendo un giorno di ferie.»
«Ah beh, perché abbiamo lavorato proprio tanto negli ultimi tempi, eh? Ne abbiamo davvero bisogno!» esclamò Hitoshi acidamente.
Chiharu si strinse nelle spalle. «Tanto anche oggi non avranno niente da farci fare: finché sono così incasinati con la storia degli Hokage non ci degneranno di uno sguardo. Ma voi fate quel che vi pare» E a quel punto, con un vistosissimo sbadiglio e un accenno di stiracchiamento, la kunoichi diede loro le spalle e si allontanò.
«Ma perché? Era arrivata così carica!» gemette Kotaro, vedendo profilarsi all’orizzonte l’ennesima giornata di inattività. Quasi quasi rimpiangeva la turbolenta e sacrilega missione del dio Juka, anche se aveva dovuto sopportare 'La triste storia di Yoshi, l’eroe tragico'.
«Avrà le sue cose» borbottò Hitoshi. «Ma così non possiamo lavorare, me ne vado a casa anche io. Tanto oggi gli Hokage non avranno tempo di stare dietro ai gruppi.»
«E io?» gemette Kotaro.
Hitoshi lo guardò storto. «Allenati, non è quello che sai fare meglio?»


Shikamaru richiuse il cassetto dell’archivio segreto della Foglia con un lungo sospiro di comprensione.
«Il plico su Haruka Muto è scomparso» annunciò ai tre che lo seguivano.
«Chi?» fece Naruto.
«Haruka Muto!» sibilò Sakura. «L’unica donna che abbiamo mai visto girare intorno a Kakashi. La madre di Jin.»
Naruto fece mente locale. Sì, era piuttosto plausibile che Jin avesse una madre. «Ma non era in missione nel Paese delle Risaie?» chiese dopo un visibile sforzo mnemonico. «Da anni?»
«A questo punto ne dubito» rispose Shikamaru. «Gli shinobi sotto copertura sono elencati in un’altra sezione dell’archivio. Ma sono certo che il suo plico fosse in questo cassetto, perché una volta Kakashi mi ha portato qui per parlare di alcuni documenti segreti e mi è scappato l’occhio sulle altre cartelle. Sono certo che ci fosse anche Haruka Muto.»
«Questo archivio cosa riguarda?» lo interruppe Sasuke occhieggiando curioso il cassetto.
«Tutti i peggiori segreti di Konoha, dalle tecniche più pericolose all’elenco dei traditori.»
«Traditori?» Sakura spalancò la bocca. «Allora...»
«Non è detto» commentò Shikamaru. «Potrebbe essere qui per qualunque ragione. C'è anche Naruto tra questi documenti, e Sasuke e Orochimaru... Ma insieme a loro c'è Jiraya, perché ha messo le mani sulle mogli di alcuni consiglieri irascibili. Non avendo aperto il fascicolo di Haruka non ho la minima idea di cosa contenesse.»
«Fatemi capire... secondo voi Kakashi è sparito per qualcosa che ha a che vedere con la madre di Jin?» domandò Naruto, occhieggiando con soddisfazione il proprio fascicolo – si era tanto impegnato per riempirlo di dati incredibili!
«E’ molto probabile» annuì Shikamaru. «Penso di poter escludere che abbia tradito il villaggio: se così fosse sarebbe partito senza cercare di convincerti a difenderlo. Non credo che voglia rovinarti la vita. Non a te. Quanto a sapere cosa ha intenzione di fare... Potrebbe essere di tutto.»
«Il Consiglio ci massacrerà» sbiancò Sakura. «Rischiamo di essere accusati di complicità!»
«No, se Naruto farà quel che gli dirò.»
Naruto fissò Shikamaru con tanto d’occhi. «Devo stordirli tutti e sostituirli con delle copie?»
«No, certo che no» Shikamaru scoppiò a ridere. «Ma non dovrai perdere la testa. Voglio che impari a suonare molto autorevole, perché il tuo compito sarà convincerli che hai mandato Kakashi in missione per tuo conto.»
«Quale missione?» Naruto sembrava un po’ smarrito, ma Shikamaru si strinse nelle spalle.
«Qualcosa che ha a che vedere con Kyuubi. E’ l’unica cosa che potrebbe zittire i consiglieri: i Bijuu li spaventano molto più della Roccia.»
«Devo mentire davanti a tutto il Consiglio?» Naruto deglutì. «E se mi chiedono qualcosa? Se non so cosa rispondere? Perderò sicuramente la testa, lo sai vero?»
«Saremo vicino a te» assicurò Shikamaru. «Ma prima c’è un’altra cosa che vorrei controllare. Venite.»
Mentre Naruto lottava interiormente con la propria impulsività il gruppetto uscì dall’archivio e raggiunse lo studio dell’Hokage. Prima di entrare incrociarono Koichi, che li guardò un po’ stupito e un po’ diffidente ma augurò loro un cortese buongiorno. Probabilmente si aspettava di veder comparire Kakashi da un momento all’altro, ma quel giorno sarebbe rimasto deluso.
Shikamaru entrò nell’ufficio e fece accomodare anche gli altri, quindi richiuse la porta. Sulla scrivania erano impilati diversi plichi di fogli di altezza diversa. Su un lato del ripiano ’era un plico più basso, e fu proprio quello che Shikamaru andò a sfogliare.
«Cosa cerchi?» gli chiese Sakura.
Shikamaru le tese un foglio. Era un ordine di missione di livello B: spionaggio di un plotone della Roccia accampato vicino al confine con il Fuoco. Gli shinobi assegnati a quel compito erano quattro Jonin, e tra loro spiccava il nome di Jin Hatake.
«Jin non è lì» disse Shikamaru a sorpresa. «L’ho visto ieri mattina all’Ufficio per lo smistamento, aveva appena finito un lavoro: questo gruppo è partito due giorni fa. Ma sono sicuro che se andassimo a cercarlo non lo troveremmo a casa.»
«E’ andato con Kakashi» comprese Sakura.
«Direi che il viaggio ha proprio a che vedere con Haruka Muto» mormorò Shikamaru annuendo. «Kakashi ha davvero pensato a tutto, eh?»
Naruto si imbronciò. «Anche a prendermi per il culo» brontolò.
«Tu ti ci presti bene, c’è da dirlo» commentò Sasuke.
«Vuoi rogne?»
«Ragazzi!» li zittì Sakura di colpo. «Fuori di qui c’è Koichi, abbassate la voce! Kakashi non ti ha preso per il culo, Naruto, voleva un alleato che non facesse domande. Anche tu hai avuto dei dubbi quando ti ha detto che sarebbe partito per le terme, altrimenti non saresti venuto a dircelo prima dell'alba! Aveva la coscienza sporca, Naruto, ma hai lasciato andare Kakashi perché eri esaltato all’idea di essere finalmente l’unico Hokage. Quindi ora comportati come tale e smettila di inalberarti per niente» Naruto incassò la testa tra le spalle. «Nel giro di un’ora il Consiglio ci piomberà nell’ufficio sbraitando che Kakashi è scomparso. Sarà meglio preparare il discorso che dovrai propinargli.»
«Va bene...» mormorò il biondo Jonin.
I quattro si guardarono con malcelato disagio.
Da quel momento erano soli contro tutti.


Chiharu sgattaiolò sul tetto dell’Accademia scivolando da una grondaia all’altra. Quando arrivò nei pressi del cortile sentì il suono della campanella che trillava nelle aule e attese che i ragazzini uscissero per la pausa pranzo. Si rannicchiò contro un camino, facendo in modo che un albero la nascondesse alla vista dalla strada. Sbirciò di sotto.
«Carini, vero?» disse una voce facendola trasalire.
«Non farlo mai più!» sbottò lei premendosi una mano sul cuore. «Mai più!»
Yoshi, accovacciato a mezzo metro di distanza, soffocò una risatina. «Scusa. A cosa devo questa visita?» chiese tutto interessato, strisciando fino al camino e lanciandole un’occhiata curiosa. «Di solito mi chiami fuori dall’Accademia, non fai gli agguati sul tetto. E’ per la missione dell’ultima volta?»
Chiharu riprese fiato lentamente, sentendo il cuore che tornava piano piano a un battito regolare. «Ma va'! Certo, ci penserò dieci volte prima di fare un’altra missione a quattro, ma non c’entra con quello...»
«Oh, Hitoshi ne sarà felice. Allora, cosa c’è?»
Chiharu non ci girò intorno: «Dov’è andato Kakashi?»
Negli occhi di Yoshi passò un brillio di interesse. «Tuo padre non è molto discreto quando tratta gli affari dell’Hokage, vero?» commentò.
«Dai, non farmi restare sulle spine!»
«Il nome Haruka Muto ti dice niente?» Chiharu rifletté rapidamente e poi scosse la testa. «Era una kunoichi della Foglia, ufficialmente partita in missione per il Paese delle Risaie qualche anno fa» disse Yoshi. «Pare che sia la madre di Jin Hatake. Ma il suo file, invece di essere tra quelli degli shinobi sotto copertura, era nell’archivio dei traditori e dei segreti compromettenti. Ed è sparito insieme all’Hokage e, guarda un po’, Jin.»
«Accidenti» suo malgrado Chiharu era impressionata. «Piuttosto dettagliata come spiegazione...»
«Contenta?» Yoshi appoggiò il mento alla mano e le rivolse un sorriso sornione. «Potrei insegnare anche a te come si fa.»
Lei esitò, poi sbuffò con un mezzo sorriso. «Ho idea che sia piuttosto faticoso.»
«Niente affatto. E’ una cosa elementare, a dire il vero.»
Il sorriso scemò sul volto di Chiharu. Per un lungo momento si sentì a disagio, così distolse lo sguardo e si schiarì la voce. «Non essere inquietante» borbottò.
Yoshi scoppiò a ridere fragorosamente, disperdendo in un attimo la tensione accumulatasi. «Scusa, scusa, non lo faccio più!» assicurò dandole una spintarella con la spalla. «Giuro.»
Chiharu sospirò. «Non fa niente. Ma stai attento.»
«Va bene, va bene! Tanto non mi scopriranno. Nessuno fa mai caso a me.»
Chiharu aveva di che dubitarne, considerato il colore accecante della chioma di Yoshi, ma accantonò rapidamente le perplessità e invece sbirciò curiosa la pergamena nella sua borsa.
«Cos’è? Sembra antica.»
«Un rotolo del mio villaggio. Una tecnica segreta.»
Gli occhi di Chiharu ebbero un guizzo. «Segreta?»
«E’ un rotolo di medicina...» Yoshi scrollò le spalle come a scusarsi. «Ripristina le falle nel sistema di circolazione del chakra quando...»
«Ah» lei sbuffò. «No, non mi interessa. Hai qualcosa da mangiare?»
«Neanche per sogno.»
«Tieni» Chiharu sfilò dal marsupio uno snack al cioccolato. «Ho solo questo, ma è meglio di niente.»
«Perché dovrei affliggermi a cucinare quando ci sei tu che mi offri il pranzo tanto generosamente?»
«Perché non sono un distributore di snack.»
«No?» con un sorrisino Yoshi addentò il riso soffiato e le strizzò l’occhio. «E’ buono.»
Chiharu sorrise.
Era bello passare il tempo con Yoshi, perché era carino come un ragazzino. Tutta un’altra storia rispetto al cupo Hitoshi e al solito Kotaro sempre rispettoso. Loro la trattavano come un serpente pronto a mordere, Yoshi come la sorella maggiore che non era mai stata. Era rilassante passare il tempo con lui: quando andava via si sentiva sempre piena di autostima e molto in gamba. E lei aveva bisogno di sentirsi in gamba, un bisogno morboso.
«Mangia, scemo» gli disse affettuosamente. «Dopo ho un impegno.»


«Consigliere Iida, sedetevi.»
Sakura fece un cenno cortese verso la sedia di fronte alla scrivania di Naruto, ma l’anziano nobile che era piombato in ufficio pochi minuti prima non sembrava avere alcuna intenzione di piegare una sola delle articolazioni del suo corpo.
«E’ un oltraggio!» esclamò, raccogliendo piccoli cenni di assenso dai tre o quattro consiglieri che lo accompagnavano. Tra loro non c’era Neji, naturalmente. «L’Hokage non può allontanarsi dal Villaggio senza un permesso esplicito firmato dal Consiglio!»
«Davvero?» sussurrò tra i denti Naruto.
«Non lo so» borbottò Shikamaru in risposta. «Potrebbe anche essere.»
A entrambi arrivò una pedata di Sasuke.
«Consigliere Iida, per favore!» insisté Sakura in tono più deciso. «Dovete sedervi e moderare la voce.»
L’occhiata di fuoco che la raggiunse alzò di qualche grado la temperatura nella stanza. «Tutto questo è inaccettabile! Prima quelle presunte dimissioni,” quasi sputò. “poi la nomina di persone la cui affidabilità è tutta da provare...” passò gli occhi su Sasuke, che si irrigidì visibilmente. “La situazione passa immediatamente sotto il controllo del Consiglio. Verranno allertati gli Anbu e verrà loro affidata la missione di recupero del traditore. Verranno...»
«Non credo proprio» Naruto si alzò dalla sedia dell’Hokage e scrutò il consigliere dall’alto al basso.
«Uzumaki, non siete ancora ufficialmente...»
«Sì invece» troncò Naruto. «Sono l’unico Hokage che avete, adesso. E non impegnerò gli Anbu per andare dietro a un mio uomo
Sakura, Sasuke e Shikamaru fissarono Naruto a bocca aperta. Secondo il piano dovevano mostrarsi sorpresi, ma Naruto stava riuscendo ad essere autorevole tanto bene che parte della sorpresa era genuina.
«Un vostro uomo?» ripeté Iida perdendo la foga. Fece un passo indietro e si lasciò cadere compostamente sulla sedia. «Cosa significa?»
«Ho mandato Kakashi ad eseguire una missione segreta dietro mio ordine» spiegò Naruto, sollevando il mento in maniera un filino pomposa.
«Ma l’autorizzazione del Consiglio...» farfugliò Iida, cercando lo sguardo dei nobili che lo accompagnavano.
«L’autorizzazione del Consiglio sarebbe arrivata troppo tardi. Avevo bisogno che qualcuno partisse subito, e Kakashi è l’unico di cui mi fidi per un compito del genere
Allarmato, il consigliere abbassò lo sguardo sulla sua pancia, intuendo che la cosa avesse a che fare con Kyuubi. La fronte gli si bagnò di sudore freddo.
«Confido che manterrete il riserbo sulla faccenda» mormorò Naruto sedendosi lentamente. «Vi sarete chiesti perché io abbia degli assistenti: loro sono qui per controllare che non si verifichino... incidenti
Questa volta la bocca di Sakura si spalancò per la sorpresa. Davvero Naruto conosceva la parola riserbo?
«Non immaginavo... Non sapevo...» borbottò Iida facendo lavorare in fretta il cervello. Scrutò Naruto di sottecchi, studiando la sua espressione, ma vi colse solo un certo distacco. Allora deglutì e si alzò dalla sedia. «In questo caso vi porgo le mie scuse, nobile Hokage. Sono certo che provvederete a farci avere al più presto i... i dettagli della missione di Kakashi Hatake... per la ratifica ufficiale.»
Naruto si accigliò. «Naturalmente» bofonchiò, annotandosi mentalmente di chiedere aiuto a Shikamaru.
«La seduta del Consiglio è convocata per il primo pomeriggio?» suggerì Iida.
«Koichi provvederà a diramare l’avviso» assicurò Sakura. «Dobbiamo solo avere il tempo di preparare il materiale.»
«Ma certo. Allora... ci rivedremo più tardi, nobile Hokage.»
Iida si piegò in un inchino profondo che lusingò Naruto e stizzì i suoi assistenti, completamente ignorati durante i convenevoli. Facendo cenni bruschi ai nobili che lo accompagnavano uscì, e Koichi si affacciò sulla soglia prima che lasciassero richiudere la porta.
«Avete bisogno di me?» chiese un po’ nervosamente, reprimendo la voglia di domandare che fine avesse fatto Kakashi.
«Sì, per favore. Hai un minuto?» rispose Sakura raggiungendolo.
Non appena lei fu uscita Naruto tirò un gigantesco e liberatorio sospiro di sollievo, lasciandosi scivolare scompostamente sulla sedia.
«Un altro secondo e sarei scoppiato!» esclamò facendosi vento con una mano. «E’ sempre così stressante?»
Shikamaru scoppiò a ridere e andò a sedersi davanti alla scrivania. «Sei stato incredibile» commentò scuotendo la testa. «Non avrei mai pensato che potesse andare così bene!»
«Nemmeno io» sussurrò Sasuke corrucciato.
«Ti ho sentito!» si lamentò Naruto.
«Davvero conosci la parola riserbo?» indagò Sasuke.
«Certo che sì! Non vedevo l’ora di usarla!» gongolò il biondo. «Hai visto che faccia ha fatto quando ho accennato a Kyuubi? E’ diventato bianco!»
«Naruto, sai che oggi dovrai spiegare nel dettaglio questa fantomatica missione davanti a tutto il Consiglio?» lo interruppe Shikamaru.
Naruto impallidì. «Nel dettaglio?»
«Abbiamo davanti una mattina piena di creatività...» sospirò lo svogliato Nara, allungando i piedi sulla scrivania e facendo cadere una pila di fogli. «Allora, cosa ci inventiamo?»

Sotto il palazzo dell’Hokage Iida camminava a passo spedito, seguito a ruota da due nobili un po’ affannati. Nella sua testa si affollava una mole imponente di pensieri agitati dall’ansia e dai ricordi di Kyuubi che riemergevano, e nessuna di quelle riflessioni metteva in dubbio quanto appena udito: Naruto era ingenuo, il più grande ingenuo che il Villaggio avesse mai visto, dedito all’onestà e alle opere di demolizione piuttosto che ai sottili intrighi della politica... Naruto non aveva la più pallida idea di cosa fosse un bluff. Perché perdere tempo a considerare l’eventualità che ne mettesse in pratica uno?
Le domande importanti erano altre: il nuovo Hokage poteva essere la minaccia più pericolosa degli ultimi trentacinque anni? La Volpe stava cercando di riguadagnare la libertà? Forse Kakashi lo aveva messo così in vista perché tutti potessero tenerlo d'occhio?
«Saibatsu, convoca tutti per questa notte» sussurrò a uno degli uomini che lo seguivano. «Voglio che interrompiate immediatamente le procedure per sfiduciare Kakashi. Lasciate perdere le mozioni contro Sasuke Uchiha, voglio che stia esattamente dove sta. L’Hokage va sorvegliato.»





* * *

Da questo capitolo in poi,
la vicenda prende una strada un po' diversa da quella che conoscevate.

Più politica, insomma, ma anche più Naruto che fa il figo.
(A noi piace Naruto che fa il figo, vero? <3)

Un ringraziamento speciale a tutte le persone che hanno ripreso in mano questa storia,
nonostante i tanti anni trascorsi dalla sua pubblicazione.
Siete sempre preziosi per me.

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Capitolo 6
*** Equilibrio precario ***


06
Capitolo sesto

Equilibrio precario



«E dov’ero io in quel momento? Al confine!»
Sprezzante, Akeru gettò un sasso verso la foresta e lo vide scomparire tra i cespugli dopo essere rimbalzato su un tronco.
«Maledetti Hokage...» bofonchiò chinandosi per trovare un altro proiettile tra l’erba. «Far succedere le cose interessanti mentre io sono via, come se non contassi niente!»
La partenza di Kakashi per una missione segretissima riguardante Kyuubi era diventata di dominio pubblico in sole poche ore. Prima che le famiglie di Konoha si fossero ritirate per la notte, quasi tutti sapevano che il sesto Hokage aveva lasciato il villaggio. Baka però era rientrato dalla sua missione molto tardi e aveva saputo la novità solo quella mattina.
«Tu non conti niente, in effetti» gli fece notare una voce annoiata alle sue spalle.
Akeru si voltò indignato e puntò un dito accusatore contro il vecchio appollaiato su un masso con un quaderno e una penna tra le mani. «Per quanto io la rispetti, nobile Jiraya, non ritengo opportuno che lei giri il coltello nella piaga in questo modo!»
Jiraya si grattò un orecchio sbadigliando. «Che seccante» commentò, scuotendo la testa. «Dai, vieni un po’ qui. Mi sono stufato di sentire le tue lamentele, abbiamo del lavoro da fare.»
Lo scorrere del tempo era ben visibile tra le rughe sul viso del Sannin: per quanto fossero poche, erano profonde e segnavano ogni sua espressione. I suoi capelli si mantenevano folti più per uno sforzo di volontà che per effettivo vigore, e nell’intera figura c’era un che di fragile, nonostante fosse ancora perfettamente in grado di difendersi.
Akeru gli si avvicinò. Il contrasto tra i suoi muscoli scattanti e i polsi nodosi di Jiraya fu quanto mai netto. Si lasciò cadere seduto accanto a lui, le mani appoggiate indietro, e fissò il cielo che si stendeva sopra la radura. «Dove eravamo rimasti?»
«Terzo capitolo, Miko ha incontrato il fratello di Jumon ed è rimasta colpita dalla sua straordinaria prestanza fisica.»
«E poi?»
«E poi... siamo già al terzo capitolo, dobbiamo dare un po’ di soddisfazione al lettore, no?»
«Okay, okay, capito» Akeru arricciò le labbra e rimase a guardare le nuvole, riflettendo. «C’è un casinò lì vicino?»
«Idea già usata nel Paradiso» bofonchiò Jiraya.
«Ah. Terme?»
«Idem.»
«Mm... C’è un ospedale?»
«Ehi, Stupido che non sei altro, non ti avevo detto di leggere a fondo i miei libri? Stai proponendo tutte cose già viste!»
Akeru sbuffò e lo scrutò torvo. «Oggi ho la testa altrove» ammise controvoglia.
«Commovente» masticò Jiraya. «Ma senza la tua fantasia di verginello non si va molto avanti.»
«Allora rimandiamo!» sbottò lui, alzandosi in piedi e arrossendo senza volerlo. «Che strazio. Un vecchio scrittore di porno che deve affidarsi a un ragazzino per far soldi!»
«Ehi, non è colpa mia se ormai ho provato tutto e non ho idee nuove!» si indignò il Sannin. «Ti pago per darmi ispirazione, non per lamentarti!»
«I soldi che mi dà non sono neanche lontanamente sufficienti per farmi insultare!»
«Bah! Vai a farti un giro, trovati una ragazza, e torna quando ti sarai schiarito le idee.»
Akeru grugnì una risposta, e incassando la testa tra le spalle prese ad allontanarsi. «Trovati una ragazza...» mugugnò di malumore. «Non è tanto semplice! Quella che voglio io manco mi invita alla sua festa di compleanno!»
Fermo sul suo sasso Jiraya scrutò la pagina scritta a metà, quindi sospirò e richiuse il quaderno.
«Niente da fare oggi» mormorò, alzandosi in piedi e spolverandosi i pantaloni. «Tanto vale andare a trovare Tsunade.»


«Siamo! In! Guerra!» gridò Hitoshi, mentre Kotaro schivava i suoi pugni rabbiosi con l’agilità di un ginnasta. «E non c’è nemmeno una missione per noi! Naruto è un idiota! Non sa fare il suo stupido mestiere!»
«Che scoperta» mormorò Chiharu, rannicchiata sulla solita panchina con un libro in mano. «Io lo ripeto da giorni, ma nessuno di voi mi dà retta.»
«Inizia a uscirmi il fumo dalle orecchie!» ringhiò Hitoshi, chinandosi per evitare un calcio di Kotaro.
«Sei distratto!» lo sgridò lui, abbassando il tiro all’improvviso e prendendolo in piena faccia.
Hitoshi cadde nella polvere e i bambini del parco alzarono la testa dai loro giochi, fissando i tre shinobi con occhi intimoriti.
«Testa di cazzo!» sbottò l’Uchiha, rialzandosi con una mano sulla mandibola. «Adesso resterà il livido!»
«Era un calcio da evitare ad occhi chiusi, non è colpa mia se sei un deficiente.»
«Ma tanto a te non frega niente, vero?» con rabbia, Hitoshi sputò a terra. «Ti sei sempre limitato ad obbedire agli ordini, non hai mai fatto niente di testa tua e hai solo seguito Naruto come... come... come l’idiota che è anche lui! Cosa mi è saltato in testa di farmi convincere ad allenarci insieme?» sfregò le dita sulla fronte, mentre l’emicrania martellava forte dietro le sue tempie.
«Se fumassi meno di quelle schifezze che ti porti appresso forse non avresti mal di testa, e forse una volta tanto riusciresti a non finire nella polvere quando combatti con me!» ribatté Kotaro, punto sul vivo.
«Fatti gli affari tuoi!» lo minacciò Hitoshi. «L'unica ragione per cui ti permetto di rivolgermi la parola è che purtroppo ci hanno infilato nello stesso gruppo!»
Kotaro lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Da qualche tempo gli scatti di orgoglio di Hitoshi lo portavano al limite più facilmente. Non sapeva se era la sua pazienza ad essere calata o l'Uchiha ad aver alzato i toni, ma sentiva che se gli avesse dato altra corda avrebbero finito per litigare davvero.
«Arrangiati» sbottò raccogliendo la maglia che aveva gettato sulla panchina, accanto a Chiharu. «Non sono io il più debole tra noi: se non vuoi il mio aiuto non ti costringerò ad accettarlo.»
Kotaro si rivestì e si allontanò, rivolgendo a malapena un cenno di saluto a Chiharu. Lei lo guardò andare via reprimendo un sospiro esasperato.
«Chi ha detto che sono il più debole? Ma che gli è preso?» bofonchiò Hitoshi, rialzandosi e muovendo la mandibola per eliminare il torpore.
«Spirito di squadra» mormorò Chiharu, tornando a posare gli occhi sul suo libro. «Era il suo modo di preoccuparsi per te, ma tu l’hai mandato al diavolo. Sai che è fatto come suo padre: tende ad assimilare il carattere del maestro.»
«Una vera fortuna, considerato il maestro.»
Chiharu scosse la testa senza ribattere. L'equilibrio del gruppo sette era sempre stato un po' precario, ma ultimamente era davvero fragile.
Hitoshi si lasciò cadere accanto a lei. Chiharu si fece un po’ più in là. «Puzzi.»
«Gentile da parte tua. Mi sono appena allenato, e neanche tu quando ti alleni profumi di rosa» le fece notare.
«Ma non mi spalmo addosso a te» sbuffò lei chiudendo il libro. «Che palle, senza Kotaro a tenerti occupato non riesco nemmeno a studiare in pace.»
«Cos è?» chiese lui accennando al volume, più per costringerla a restare che per vero interesse.
«Evocazioni» Chiharu scrollò le spalle. «L’ho trovato nella biblioteca dell’Hokage.»
«E che te ne fai? Nessuno di noi ha ancora stretto un contratto.»
«E’ proprio qui che siamo diversi» cantilenò Chiharu con aria saccente. «Io anticipo le cose. Verrà il giorno in cui dovrai evocare qualcosa e non saprai nemmeno da che parte girarti, mentre io sarò avanti un chilometro.»
«Ma sta’ zitta. Non sei neanche Jonin.»
Lei arrossì. «Ci godi tanto a ricordarmelo?»
«Non sai nemmeno quanto» ghignò lui, allargando le braccia sullo schienale della panchina. Ma il sorriso si spense in fretta, sostituito da una smorfia di leggero dolore.
«Hai mai pensato che forse Kotaro ha ragione?» chiese Chiharu, riconoscendo i sintomi dell’emicrania.
«No, Kotaro non ha mai ragione» rispose Hitoshi.
«Idiota. I mal di testa sono iniziati con le sigarette.»
«Che fai, ti preoccupi per me?»
«Hai bisogno della balia?»
«No» Hitoshi prese una sigaretta dal pacchetto e la accese. Inspirò a lungo ed espirò, sentendo l’acre aroma del tabacco invadergli la bocca. Chiharu scosse una mano per allontanare il fumo, infastidita, ma non si alzò dalla panchina.
«Tieni. Mettilo sulla mandibola, ti eviterà di andare in giro blu» borbottò frugando nel marsupio e tendendogli il regalo di Akeru. Hitoshi scrutò la scatolina con sospetto e la aprì per annusarne il contenuto. «L’ho usata anche io, non sto cercando di avvelenarti» sbuffò Chiharu.
«Ci sarà da fidarsi?» ribatté lui, serio a metà. «Da dove arriva?»
Chiharu scrollò le spalle e si affrettò a cambiare discorso. «Come va a casa?»
«Come sempre» mormorò Hitoshi mettendo via l’unguento. «Fugaku e Mikoto si allenano tanto che prima o poi il cervello gli schizzerà fuori dagli occhi, Liara ha iniziato a chiedere a nostra madre come nascono i bambini, Nobi si sta facendo le prime turbe sullo sharingan e Arina ha iniziato da poco l’Accademia. Itachi non ho neanche bisogno di nominarlo: papà ha deciso che vuole allenarlo personalmente, probabilmente spera di fargli finire gli studi a sette anni, come il vecchio Itachi. Non so se sia una cosa saggia, al Villaggio già qualcuno lo guarda male...» scrollò le spalle, studiando a sua volta i ragazzini nella buca della sabbia. «Con tutti questi ragazzini intorno la gente ha anche il coraggio di chiedersi perché ho sempre mal di testa.»
«Perché lo chiami ‘il vecchio Itachi’, e non zio?» domandò Chiharu.
Hitoshi non rispose subito. Inspirò ed espirò un paio di volte, soprappensiero, quindi buttò la sigaretta ancora a metà e la schiacciò sotto un piede.
Una volta ammirava Itachi. Perché era forte, il più forte di tutti gli Uchiha, un genio, il vero erede, il talento... Voleva diventare come lui e poi superarlo. Ma quando era stato chiaro che non sarebbe successo nulla di simile, che sarebbe sempre stato un Uchiha a metà, ogni sua speranza era evaporata e aveva iniziato a provare insofferenza per chi se ne andava in giro a sbandierare occhi scarlatti. Già, perché Hitoshi, che doveva essere la gloria e il riscatto di suo padre e del clan intero, non possedeva lo sharingan, nemmeno una minima traccia. Anche se si fosse impegnato fino a uccidersi, non sarebbe riuscito a immaginare una disgrazia più umiliante di quella.
«Il vecchio Itachi era un traditore» disse duro. «Ha abbandonato il villaggio, ha sterminato il mio clan, si è alleato con la feccia peggiore e alla fine non so neanche come è morto, perché mio padre evita l’argomento e anche mia madre non si lascia scappare niente. Per quel che mi riguarda, se dovesse comparire all’improvviso dall’oltretomba ce lo rispedirei al volo.»
Chiharu sorrise e lo guardò con un filo di commiserazione. «Come se potessi riuscirci.»
Lui le lanciò un’occhiata truce. «Per quanto ti ostini a non riconoscerlo, io sono forte» mugugnò.
«Quanto il celebre Itachi Uchiha?» insisté lei. Si alzò in piedi. «Permettimi di dubitarne.»
«Dove vai?» Hitoshi la afferrò per un polso.
Lei fissò la sua mano sul braccio, quindi lui che la guardava. Senza sorridere si liberò dalla stretta. «Devo cercare Yoshi.»
Hitoshi si irrigidì di colpo, sentendo la spina dorsale farsi di ghiaccio. «Divertiti» sibilò aspro dopo un lungo istante. Ostentando la massima indifferenza tornò a stendere le braccia sullo schienale della panchina e accavallò le gambe, una ruga profonda a solcargli la fronte.
Chiharu trattenne uno sbuffo. «Contaci» rispose laconica, e si allontanò tenendo il libro chiuso in mano.
Hitoshi strinse i denti ignorando le pulsazioni di protesta della mandibola.
«Idiota che non è altro!»


«Sapevo che ti avrei trovato qui.»
Naruto sorrise mesto, le mani affondate in tasca e i capelli scossi da un lieve alito di vento. Non portava il coprifronte, indossava la solita tuta arancione e nera, e se non fosse stato perché Jiraya lo conosceva così bene da sapere esattamente quanti capelli aveva in testa, avrebbe potuto quasi confonderlo con il ragazzino che aveva portato con sé tanti anni prima. Ricambiò il sorriso, guardandolo da sopra la spalla, e attese che si avvicinasse.
«Niente ispirazione, mi annoiavo» si giustificò, distogliendo gli occhi e posandoli sulla lapide nera che spiccava tra l’erba.
«Come fai a passare dalle porcate che scrivi a questo?» Naruto fece una smorfia disgustata.
«Beh, io e Tsunade...»
«No, alt, non voglio sentire altro!»
Jiraya ghignò, ma il suo non era più il sorriso malizioso di un tempo.
«Sono quasi quattro anni che mi nutro soltanto di ricordi» mormorò, assottigliando gli occhi contornati di rughe. «Quando l’abbiamo ritrovata le era rimasto davvero poco...»
«Probabilmente le era rimasto ancora meno» borbottò Naruto. «Sakura dice che gli ultimi sei mesi ha tirato avanti solo a forza di volontà... E tutti e due siamo convinti che lo abbia fatto per te.»
«Ma va’. L’ha fatto per godere della mia fantastica presenza ancora un po’, non per i miei rimpianti di vecchio scemo.»
Naruto sorrise appena, vedendo la nostalgia segnare ogni centimetro di pelle dell’ultimo Sannin.
Quattro anni prima, nella foresta, avevano seppellito Tsunade per la seconda ed ultima volta. Sia lui che Jiraya avevano voluto accertarsi che fosse veramente lei, perché nessuno dei due riusciva a crederlo, perché una parte di loro continuava a sperare che sarebbe ricomparsa come già aveva fatto una volta, perché era impensabile che quel corpo piccolo e scuro fosse quello della vulcanica Tsunade... E invece era lei, ed era stanca. Così stanca che non si sarebbe alzata mai più.
Era stata una cerimonia più che intima. Avevano partecipato solo Sakura, Naruto, Hinata, Jiraya e Kakashi, e alla fine era stata proprio Sakura ad avvicinare la torcia accesa alla pira funebre.
Piangeva, quel giorno. Al primo funerale non lo aveva fatto, e tutti avevano pensato che fosse perché era forte... Invece, quella volta, aveva pianto. Ed era stato Naruto a consolarla, perché Sasuke non sapeva nulla.
«Sono tornato ad essere l’ultimo dei ninja leggendari» sospirò Jiraya, grattandosi la nuca. «Una vecchia carcassa che si trascina come un moribondo e scrive libri senza sostanza.»
«Incredibile, non pensavo ti avrei mai sentito denigrare i tuoi libri.»
«Sappiamo entrambi quale sia l’unico lavoro con un minimo di valore nella mia bibliografia. Gli altri sono divertenti, ma nient’altro.»
«Beh, io non li ho trovati neanche divertenti.»
«Tu li hai presi come un manuale.»
«Ehi!» Naruto arrossì indignato. «Non ho bisogno di manuali, io!»
«Tu dici?» Jiraya gli rivolse un altro ghigno, più intenso. «Se tanto mi dà tanto, quella povera ragazza di Sakura ha patito non poco, con un imbranato come te.»
«Abbiamo finito con la paternale?» rognò Naruto, offeso. «Non doveva essere un momento commovente?»
«Quando arrivi alla mia età speri di trovare più momenti divertenti che commoventi... Comunque. Immagino mi cercassi perché hai bisogno di aiuto. La storia che hai spedito Kakashi in missione per Kyuubi è una montatura, vero?»
«E’ così evidente?»
«No, lo è solo per me che ti conosco: non affideresti mai niente che riguarda Kyuubi a qualcun altro.»
Naruto sorrise in lieve imbarazzo. I ricordi dell’ultima volta che Kyuubi si era rivelata un problema gli passarono davanti agli occhi un po’ confusamente: aveva demolito la sua stessa casa, un paio di piani dell’ospedale della Foglia e una vasta zona di foresta. Per fortuna da cinque anni a quella parte la Volpe dormiva della grossa in fondo al suo stomaco e sembrava essersi ritirata a vita privata.
«Kakashi è andato a ripescare la sua donna dal Paese delle Risaie, o qualcosa di simile» sospirò. «Non ho capito proprio bene, ma Shikamaru dice che secondo lui non c’è da preoccuparsi.»
«Ah, se lo dice Shikamaru puoi stare tranquillo. Hai qualche altro problema?» domandò Jiraya.
Naruto si fece serio e tornò a fissare la lapide, ormai quasi del tutto coperta di nomi. «No, non sono qui per chiederti consigli» disse imbarazzato. «E’ solo che... volevo... ecco, veramente volevo presentarmi in pompa magna e dimostrare a te e a lei che sono un grande Hokage, il migliore che Konoha abbia mai avuto. Ma temo di aver fallito. Sono stati Sakura e Shikamaru a sistemare tutto, io cercavo di aprire bocca e loro smontavano le mie idee in un attimo. Troppo poco efficiente, troppo elementare, banale... Non so neanche archiviare i documenti per argomento» si strinse nelle spalle, con un sorriso quasi di scusa. «Ora capisco perché Kakashi me li ha affiancati, e inizio a pentirmi della sfuriata che gli ho fatto prima di accettare l’incarico. Non avevo calcolato l’aspetto burocratico della faccenda» si schiarì la voce. «Comunque non mi arrendo. Se fossi uno che si arrende al primo ostacolo non sarei mai diventato ninja!» sbottò alla fine, stringendo un pugno. «Vedrai, abbiamo in ballo una gigantesca missione segreta con la Sabbia, ne ho parlato giusto stamattina con con Rock Lee e Gai: ho tutte le intenzioni di renderla un successo stratosferico!»
Jiraya lo osservò con il mezzo sorriso che riservava solo a lui, poi si lasciò scappare una risata. «Sei il solito imbranato» commentò in tono nostalgico. «E’ bello vedere che ci sono persone come te, che non cambiano mai.»
«E’ il mio credo ninja» ghignò Naruto, e Jiraya rimpianse di non potergli più posare la mano sulla testa, come un tempo.
«Un giorno il villaggio sarà orgoglioso di averti avuto come Hokage» mormorò. «Verrai ricordato come il più grande di tutti.»
«Ovvio!» sbuffò Naruto, nonostante le guance arrossate.
«Vieni, genio» riprese Jiraya battendogli una pacca sulla spalla. «Andiamo a farci un ramen?»
«Sì!» esclamò Naruto, illuminandosi immediatamente. «A proposito, hai sentito? Sembra che Ayame sia incinta! Il maestro Iruka finalmente diventerà padre!»


Yoshi aveva finito le lezioni da qualche ora quando Chiharu comparve in cima al tetto del suo palazzo. Pareva che il ragazzo odiasse gli spazi chiusi e che avesse una vera predilezione per le altezze.
«Ciao» lo salutò la kunoichi, andando a sbirciare il rotolo che aveva disteso sulle ginocchia. Quando riconobbe il manuale di strategia del secondo anno si lasciò scappare un sorriso.
«Lo so, non è degno del tuo livello» commentò lui roteando gli occhi. «Ma io sono ancora uno studentello scemo, e più leggo più imparo e bla bla bla... Gli esami sono esami.»
«Certo, la media e tutte quelle cose lì...» disse lei sedendogli accanto. Sul tetto soffiava un filo di vento freddo. Chiharu rabbrividì, assottigliando gli occhi per guardare il sole che tramontava. «Quella roba non ti servirà granché là fuori.»
«Lasciami finire il corso di studi prima di gettarmi nella fossa dei leoni» si lamentò Yoshi richiudendo il rotolo. «Già non sono entusiasta di consacrare la mia giovane vita alla difesa di un villaggio ingrato, se poi mi ci spingi ancor prima del previsto, tanto vale che tu mi metta un cappio al collo e mi faccia penzolare da quella trave.»
Haru rise sottovoce, abbracciandosi le ginocchia.
«Allora, che ci fai qui?» indagò lui, piegandosi leggermente all’indietro e chiudendo gli occhi. «Ancora niente missioni?»
«No, per fortuna» rispose lei con una scrollata di spalle. «Anche se Kotaro e Hitoshi stanno diventando insopportabili... Non sanno apprezzare il meritato riposo.»
«Oh, non sarà per molto» mormorò Yoshi. Chiharu lo fissò e lui, sentendo il suo sguardo, riaprì gli occhi e sorrise sornione. «Di qui a un paio di giorni al massimo, l’Hokage... pardon, gli Hokage vi convocheranno. Siete diretti a Suna.»
A Chiharu sfuggì un gemito, subito soffocato contro le ginocchia. «Così lontano?» si lamentò. «E immagino che sarà anche una missione tosta... oh, ma perché sempre a noi?»
«Perché voi tre siete la loro scommessa» spiegò Yoshi, con il tono di chi ha ripetuto la stessa cosa per troppe volte. «Siete potenzialmente la squadra migliore, vi terranno insieme fino alla morte, se ci riescono.»
«Che culo.»
«Egocentrica» sorrise Yoshi. «Certe volte penso che tu sia addirittura ossessionata dall’idea di essere la più forte.»
«E allora?» replicò lei stizzita.
«Mica ho detto che la cosa mi dispiace» fece lui rivolgendole una lunga occhiata.
Per un attimo Chiharu ne fu turbata.
«Che fai, ci provi?» mormorò sospettosa.
Se c’era qualcuno che fino a quel momento non aveva mostrato il minimo interesse per lei in quel senso era Yoshi, ma Chiharu ormai sapeva riconoscere un’occhiata troppo lunga quando la vedeva.
«Non ci sto provando» rispose lui, scoppiando a ridere. «Lo pensi di tutti quelli che ti parlano di cose serie?»
«Che palle» sbuffò lei, suo malgrado sollevata. «Non sfottere.»
«Credo che il terreno attorno a te sia già fin troppo affollato» sorrise Yoshi passando lo sguardo sul manuale di strategia. «Secondo questo testo metà dei meriti di un buon piano consiste nello scegliere bene l’obiettivo.»
«Se puoi sceglierlo» sottolineò lei.
«Qui dice anche che un buon generale evita di farsi intrappolare in scelte obbligate.»
«Quel libro non è mai uscito dal Villaggio, non sa cosa c’è là fuori.»
«Perché, tu sì?»
Chiharu lo guardò stizzita. «Sono una kunoichi!»
«Ah, ma certo...» Yoshi chinò il viso e lei non poté vedere la sua espressione, ma da una nota nella sua voce le sembrò che stesse sorridendo.
«Oggi sei insopportabile» sbottò.
«Sei mai stata nel paese del Tè?»
«Probabilmente ci sono passata...»
«Nel Villaggio della Seta? Sul Picco Blu? Hai mai visto il grande ponte Naruto?»
«L’ultimo te lo sei inventato!»
«Non direi proprio, chiedi al tuo maestro.»
Chiharu lo fissò stranita e distolse lo sguardo. Riflettendoci bene, era sempre stata in missione nei soliti cinque o sei posti di interesse strategico.
«Se potessi girerei il mondo» sospirò Yoshi. «Era bello essere il secondogenito, avevo molta più libertà: ora che mio fratello è morto so per certo che passerò tutta la vita bloccato al mio villaggio. Invidio le tue possibilità... Se solo volessi potresti fare fagotto e andare dove vuoi.»
«Sì, e con me verrebbe una piccola scorta di Anbu con l’ordine di uccidermi» Chiharu fece una smorfia. «Guarda il casino che è successo per il Sesto Hokage.»
«Ma sai quante cose potresti imparare? Quante tecniche segrete, quanti insegnamenti di grandi maestri, quanti tesori... Ciò che hai qui lo conosci già. Ma cosa potresti avere lontano da qui?» insisté lui.
«Probabilmente un mucchio di seccature.»
Yoshi sorrise e scosse la testa. «Sei troppo pigra per questo, lasciamo perdere... Ieri che avevi da fare di così importante?» chiese cambiando discorso.
Colta alla sprovvista Chiharu distolse lo sguardo, e un lieve rossore le colorò le guance.
Il giorno prima aveva lasciato Yoshi dicendo di avere un impegno. Cosa aveva fatto?
Una cosa davvero stupida.

Passare il tempo con Yoshi la faceva sempre sentire molto in gamba. Tanto in gamba che, visto che aveva il pomeriggio libero, Chiharu pensò di investirlo nella sua missione privata e fece vela verso casa di Sai.
Arrivò passando dai tetti, e si appostò sul palazzo accanto per cercare di sbirciare l’interno dell’appartamento. Lo scoprì vuoto. Sgattaiolò alla finestra successiva, quella della camera da letto, ma anche lì niente. Che fosse impegnato in una delle rare missioni che ancora partivano?, si chiese. Poi sentì la sua voce, e si appiattì lungo il bordo del tetto per spiare in strada.
Sai era davanti all’ingresso insieme a una ragazza. Da quella distanza Chiharu non riusciva a riconoscerla né a capire cosa dicessero, ma vide il cenno di Sai che la invitava a salire e sentì una vampata di rabbia indignata: quella stava per intromettersi nella sua missione!
Per fortuna la ragazza scoppiò a ridere e scosse la testa, e Sai non insisté - non lo faceva mai. Con un cenno si salutarono e il Jonin entrò nell’androne del palazzo.
Il cuore di Chiharu aumentò i battiti. Ben prima che Sai potesse aver raggiunto l’appartamento lei si avvicinò alla finestra della cucina. Non appena lo vide comparire lungo il corridoio batté contro il vetro, e come l’ultima volta riconobbe la sua espressione stupita.
«Le porte ti sembrano così orribili?» domandò lui aprendo la finestra.
«Preferisco i tetti» rispose lei con un’occhiata eloquente alla gente che passava in strada. «Mi fai entrare?»
Sai esitò, quindi si fece da parte. Chiharu saltò dentro, e di punto in bianco si rese conto che non aveva idea di cosa avrebbe fatto da lì in poi.
«Chi era quella donna?» chiese prima che il silenzio diventasse troppo opprimente.
«Mi controlli?» ribatté Sai chiudendo la finestra.
«Perché no?» Chiharu sollevò il mento.
Lui sorrise e la oltrepassò. «Posso offrirti qualcosa? Tè?»
«Sì, grazie» bofonchiò lei a disagio.
«Accomodati.»
Chiharu si sedette rigidamente al tavolo. Si sentiva come una bambina di sette anni che aspettava la merenda a casa di un amichetto. Sai non fece nulla per rompere il silenzio, quindi lei si scervellò disperatamente per trovare un argomento di conversazione.
«Tutti senza missioni, eh?» esordì pateticamente.
Sai ridacchiò piano, mentre posava il bollitore sul fuoco. «Gli Hokage sono impegnati» commentò brevemente. «Biscotti?»
Ora sì che sembrava proprio la merenda. «No grazie.»
«Come vuoi.»
Silenzio.
«Mi spieghi come diavolo fai ad avere la coda di donne fuori dalla porta se sei così noioso?» sbottò Chiharu quasi subito.
Lui la guardò. Sollevò un angolo della bocca. Lei arrossì furiosamente. «Sono noioso perché non sto cercando di infilarti tra le mie lenzuola» spiegò con semplicità, appoggiandosi al bancone della cucina e incrociando le braccia. «Se non sbaglio quello era il tuo progetto.»
«Non ho mai detto...» iniziò lei.
«No, non lo hai detto» la interruppe lui. «Ma cosa pensi che serva per ‘far perdere la testa’ a un uomo della mia età?»
Chiharu si morse l’interno della guancia. Non aveva mai approfondito la questione. I suoi piani erano infarciti di momenti eccitanti ma molto nebulosi e di qualche casto bacio, tutto lì. In fondo non aveva mai neanche avuto un fidanzatino da preadolescenza.
«Sei carina, sei maggiorenne, ma sei peggio di una neodiplomata, Chiharu» continuò Sai, implacabile. «Le ragazzine che adesso escono dall’Accademia sono molto più avanti di te in questo campo. Tu sei stata troppo impegnata a tenere il passo dei tuoi compagni di squadra per perdere tempo a imparare l’arte del corteggiamento.»
«Ehi, io non devo ‘tenere il passo di Hitoshi e Kotaro’!» scattò lei sbattendo una mano sul tavolo.
Sai rise. «Qualunque altra ragazza si sarebbe infuriata per il paragone con le neodiplomate.»
Chiharu ammutolì. Ok, sapeva di essere un po’ più indietro delle sue coetanee in campo sentimentale. Ma era stata malata, aveva dovuto recuperare dopo l’incidente a casa di Naruto, poi c’erano state le missioni e la guerra, e un mucchio di altra roba che aveva la precedenza... Non poteva perdere tempo a flirtare se doveva sopravvivere.
«Valgo molto di più di una qualunque di quelle imbecilli che si diplomano con il lucidalabbra» sbottò.
«Lo so» rispose Sai. «Ma questo avrebbe senso se volessi sfidarmi in combattimento.»
«Potrei tenerti testa.»
«So anche questo. Sono vecchio per essere uno shinobi. Ma tu non vuoi sfidarmi a combattere, tu vuoi sfidarmi su un campo di cui non sai nulla - si vede lontano un miglio.»
«Sono problemi miei, non tuoi.»
«Sono anche problemi miei, se non ti rispedisco a casa ogni volta che bussi alla finestra. Sarebbe anche divertente passare il tempo a flirtare, ma tu non ti impegni, cambi discorso appena te ne offro l’occasione. Non è così che funziona il corteggiamento.»
«Mi dispiace di non essere una delle quarantenni che ti girano intorno» insinuò lei.
«Certe quarantenni sono sorprendentemente giovanili senza vestiti.»
Chiharu fece una smorfia. Quell’argomento la metteva a disagio. Eppure era certa che buona parte del fascino di una donna consistesse nell’essere irraggiungibile, i libri di Jiraya lo dicevano chiaramente - sì, li aveva letti. C’era qualcosa che le sfuggiva?
«Le quarantenni sono giovanili anche con la pelle cascante?» borbottò tra i denti.
Questa volta Sai scoppiò a ridere platealmente. «Sono certo che tu senza vestiti sia molto gradevole, Chiharu... Ma quando arrivi alla mia età importa anche quello che fai mentre sei nuda, non solo come ti presenti.»
Chiharu scosse la testa. Il giovanotto si stava spingendo troppo in là, iniziava a sentire lo stomaco contrarsi per l’imbarazzo.
La teiera sul fuoco fischiò leggermente e Sai si voltò per prendere due tazze.
«Mi stai dicendo di lasciar perdere?» sbottò lei stringendo le mani l’una all’altra.
«Non durerai molto in queste condizioni. Io sono annoiato e tu ti stai conficcando le unghie nella pelle. Un corteggiamento dovrebbe essere divertente, non ti pare?»
«E la parte di tormentosa incertezza?»
«La che?»
«Ah, dimenticavo... Tu sei tipo da storie leggere.»
«Altrimenti non sarei arrivato a quest’età senza una moglie e un paio di marmocchi.»
Chiharu si rilassò e appoggiò la schiena alla sedia. «Ma sì, versa quel tè e tira fuori due biscotti» sospirò, sentendo la tensione che evaporava rapidamente.
L’idea della femme fatale non funzionava, non ci era tagliata. Sai era troppo scaltro e lei troppo ingenua, pensare di impegolarsi in quella cosa era stata una pessima idea. Le serviva un piano alternativo. Per oggi poteva comunque continuare a trattarlo male, la cosa dava le sue soddisfazioni... un po’ misere, se confrontate con il bacio che era riuscita a strappargli l’ultima volta, ma sempre meglio di niente.
«Ti arrendi già?» Sai sedette, posando sul tavolo due tazze di tè fumante e un pacco di anonimi frollini.
«E’ stupido insistere quando non c’è speranza» ribatté lei aprendo i biscotti e tuffandone uno nel tè. «Sono sicura che per consolarti avrai una nutrita riserva di quarantenni ansiose di mostrarti le loro giovanili performances.»
Sai rise, appoggiando il viso su una mano. Restò a guardarla mentre sgranocchiava il suo biscotto con le labbra piene di briciole e un’espressione di lieve disappunto; poi, del tutto inaspettatamente, allungò una mano a sfiorarle il gomito.
Chiharu si bloccò a metà del boccone.
«Così va meglio» disse lui. «Ti si addice di più questo atteggiamento.»
Lei deglutì. «Strafogarsi di biscotti non ha mai conquistato nessuno...» borbottò sentendo le guance arrossarsi. Era certa che Sai avesse sentito il tuffo che aveva fatto il suo cuore. Si affrettò a pulirsi la bocca.
«Sono abbastanza certo che invece sia una tecnica piuttosto sfruttata» ribatté Sai annuendo.
«Davvero?» le sopracciglia di Chiharu raggiunsero l’attaccatura dei capelli. Ok, non aveva proprio capito niente del corteggiamento: avrebbe tirato in testa a Jiraya i libri che le aveva regalato.
Sai ritirò la mano e prese la propria tazza di tè. «Un po’ sono curioso di vedere cosa potresti inventarti.»
Chiharu lo studiò per un lungo istante, quindi pulì le mani dalle briciole e sollevò la tazza con entrambe, i gomiti saldamente appoggiati al tavolo. «Hai detto che ti annoio» replicò cercando di controllare il lieve tremito. «E io ho poca pazienza. Perciò...» si strinse nelle spalle. «Pensavo mi avresti cacciato fuori di casa due minuti fa.»
«Due minuti fa hai iniziato a diventare interessante.»
«Perché ho lasciato perdere?»
«Per i biscotti.»
Chiharu ci rinunciò. Sorseggiò il suo tè, purtroppo bollente, lo posò sul tavolo e si alzò. «Mi dispiace non poter restare più a lungo, ma ho lasciato a metà un libro interessante. Come hai detto tu, passo la maggior parte del mio tempo a studiare» annunciò in un tono che voleva essere leggero e tronfio, ma che non riusciva a nascondere completamente le note di esasperazione.
«Mi hai fatto preparare il tè per niente?» ribatté Sai.
«Tanto non era un granché.»
Chiharu fece svolazzare la coda mentre si voltava verso la finestra. Nonostante tutto si sentiva piuttosto brava e molto seducente, anche più in gamba di quando aveva lasciato Yoshi, poco prima. L’uscita di scena se non altro funzionava. Quindi doveva semplicemente essere sgradevole e menefreghista per attirare l’altro sesso? Se avesse saputo che quello era stato l’atteggiamento di Shikamaru che aveva conquistato Temari sarebbe rimasta stupefatta.
Si tese per aprire la finestra, ma la mano di Sai fu più veloce, frusciando accanto al suo braccio. Chiharu si accorse che si era spostato alle sue spalle, così vicino che poteva sentire il calore del suo corpo, e senza volerlo inspirò bruscamente.
«Le buone maniere» mormorò Sai, pericolosamente vicino al suo orecchio. Posò una mano sul suo fianco e la tirò leggermente indietro, per aprire la finestra senza urtarla. Chiharu avvertì il suo fiato sul collo e cercò disperatamente di soffocare un brivido.
«Grazie» replicò con voce di cornacchia, ma la mano di Sai sul suo fianco non si spostava. Oh, sicuramente ora il suo cuore era udibile a orecchio nudo.
«Figurati» Sai scostò la mano delicatamente, e si arrotolò una ciocca della coda di Chiharu attorno al dito. «Mi sembri un po’ tesa.»
Lei fece una risatina. «Beh...» farfugliò indecisa.
«Vedi, bambina...» mormorò lui risalendo con la mano a sfiorarle la nuca. «Ciò che ti sconvolge tanto per me è un gioco. Mi fa sorridere, ma non mi eccita. Dovrai impegnarti più di così se vuoi ottenere qualcosa da me. E, prima di tutto, dovrai almeno imparare a sopportare questo» concluse allontanando la mano.
Chiharu deglutì rabbrividendo. Annuì, poi corrugò la fronte indispettita. Fino a un attimo prima stava andando tutto così bene! Si forzò a prendere un respiro profondo e lanciò un’occhiata a Sai da sopra la spalla.
«Farò i compiti, promesso» assicurò in tono polemico. «Troverò qualcuno per fare pratica e poi verrò a insegnarti qualcosa che le tue creative quarantenni non sanno.»
«Auguri!» rise Sai. «Questa sì che sarà un’impresa!»

Chiharu si ripiegò su se stessa, quasi schiacciata dall’imbarazzo riesumato dal ricordo. Yoshi la osservò con curioso interesse, ma lei si affrettò ad assicurare che aveva solo dovuto litigare con sua madre per una cena di famiglia a cui non voleva partecipare.
In quale guaio si era cacciata, il giorno del suo compleanno?





Nota: so che in Giappone la maggiore età non si raggiunge a 18 anni, ma se a Konoha li mandano in guerra a 16 non vedo che problemi ci siano!




* * *

Non è pedofilia,
se lei è maggiorenne e consenziente.

(Operazione paraculo: mode on.)

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Capitolo 7
*** Donne che odiano gli uomini ***


Penne 07
Capitolo settimo

Donne che odiano gli uomini




Tornando a casa, quel giorno, Chiharu si trovò a camminare nel momento in cui i lampioni si accendono e il cielo si tinge di indaco, diffondendo una luce che sembra più un’ombra viola. Conosceva quei brevi minuti, erano i migliori per un’imboscata: disegnavano contorni incerti e spigoli sfumati, rendevano il paesaggio indistinto e impedivano agli occhi di abituarsi all’oscurità.
Passando per le strade di Konoha sapeva di non aver nulla da temere. Ma l’abitudine a tenere i sensi all’erta era così radicata nella sua mente da farle avvertire anche il più piccolo rumore, e l’esperienza le fece intuire di chi era il passo leggero che le veniva incontro.
Nei pressi di un lampione che ronzava sommessamente incrociò Akeru, scuro in volto, che vedendola assottigliò gli occhi e le lanciò uno sguardo malevolo.
«Missione andata male?» chiese Chiharu, con un velo di ironia, e subito si pentì di non averlo ignorato.
Emicrania, avrebbe voluto rispondere Akeru. Causata dal gigantesco complesso di inferiorità che lo abbatteva da quando aveva dodici anni, per la precisione, complesso che prevedeva lei in una posizione decisamente privilegiata.
«Che vuoi?» sibilò; ogni volta che la vedeva era felice e irritato al contempo.
«Ringraziarti per la pomata della settimana scorsa» rispose lei tralasciando i giochetti. «Non sono più riuscita a vederti, da allora.»
Le arterie attorno alla testa di Akeru smisero bruscamente di pulsare e il sangue si dirottò alle guance, dissipando rabbia e malumore.
«Oh» riuscì a dire, con un gradevole tepore a livello dello stomaco. «L’ho fatta io.»
«Commento arguto» mormorò lei sarcastica.
«Potresti anche mostrarti più grata.»
«Ti sto facendo pubblicità: oggi l’ho data a Hitoshi.»
«Tu cosa?»
«Non era progettata solo per il mio corredo genetico, vero?»
Akeru strinse i pugni, e di nuovo sentì l’irritazione montare. «Certe volte mi chiedo quale cromosoma sia storto in te!» ringhiò.
«Nessuno, o non sarei qui a parlarne» replicò lei scrollando le spalle, e si mosse per andarsene. «Ma se i ringraziamenti ti fanno schifo eviterò accuratamente di farne altri, in futuro. Ora scusa, ma devo andare a riposare.»
«Dove andate?» la interruppe lui, e lei smise di camminare per alzare appena la testa.
«Chi?»
«Tu e il tuo gruppo. Quando te la tiri perché devi riposare è perché avete una missione.»
«Quale missione?»
Lui digrignò i denti. «Chiharu Nara...»
Lei sbuffò e si diede dell’imbecille per aver parlato troppo. Quando passava un po’ di tempo con Yoshi tendeva a fare un sacco di sviste da arrogante megalomane. «E’ una missione di cui tu non devi sapere nulla» tagliò corto. «Almeno per ora» aggiunse dopo un istante, ricordando che Akeru era pur sempre un Anbu.
Ma lui non lasciò cadere il discorso. «E’ una cosa grossa?»
«L’ultima volta che ti sei mostrato tanto interessato a una mia missione, è finita che ti trascinavo per un braccio nel giardino degli Uzumaki e piagnucolavi che non volevi averci niente a che fare. Vogliamo replicare?»
«Ormai ho le mie missioni importanti, non ho bisogno di elemosinarle da te» disse Akeru, risentito. «Ero solo...» si interruppe all’improvviso.
Chiharu lo fissò, inclinando leggermente la testa. Le tornò in mente la sensazione del fiato di Sai sul collo, e suo malgrado ne imitò il tono di voce. «Preoccupato?» suggerì. Le sue labbra si curvarono impercettibilmente.
Lui tornò a guardarla; questa volta la sua espressione era offesa ma anche amara nelle pieghe attorno alla bocca. «Chi mai potrebbe essere tanto idiota da preoccuparsi per l’invincibile Chiharu Nara?» chiese con una nota di scherno. «Forse solo l’unico imbecille che se l’è vista cadere addosso, tanti anni fa, insanguinata e quasi in coma.»
«Così sì che mi incoraggi.»
«Mi dispiace, ma io me lo sogno ancora, la notte» proseguì lui. «E per quanto...» deglutì. «Per quanto a te possa non fregare niente, io ricordo che non sei invincibile. Che il più delle volte esageri apposta, solo per dimostrare a tutti quanto sei brava e forte... E ricordo che cinque anni fa Sakura Uchiha disse che il tuo cuore non sarebbe più stato quello di prima. Ma forse tu non te lo ricordi.»
«So benissimo come sto e come non sto» troncò Chiharu, portando istintivamente una mano al petto. «Non ho bisogno che l’ultimo medico novellino venga a farmi la cartella clinica.»
«Non è sempre una guerra!» sbottò Akeru alzando la voce. «Non è che tutto ciò che dico lo dico per ferirti o per intaccare il tuo orgoglio!» si rese conto che le sue guance si stavano scaldando, ma allo stesso tempo capì che ormai era lanciato e non sarebbe riuscito a fermarsi. «Prendi sempre tutto come un’offesa personale! E’ così inconcepibile che esista qualcuno che si preoccupa per te? Il fatto che ora quel qualcuno sia io è tanto sconcertante? Perché non sei mia figlia? O mia sorella, o mia cugina? Cazzo, Chiharu! Tira giù quel maledetto muro e, per una volta, una sola volta, prova a pensare che gli altri siano in buona fede!»
Chiharu si accorse di essersi irrigidita involontariamente. Non era sempre in guerra. Si teneva moderatamente all’erta, ecco tutto. Itachi Uchiha - il vecchio Itachi, naturalmente - insegnava che il tradimento era dietro l’angolo, e lei voleva soltanto essere pronta, nel caso... nel caso qualcuno avesse deciso di ingannarla. Il padre di Hitoshi era la dimostrazione vivente della necessità di tenere gli occhi aperti, e Chiharu voleva essere pronta in ogni momento. Ogni buon ninja voleva essere pronto.
Ma le sembrava che qualcosa stonasse, nel suo ragionamento. Di fronte alla veemenza dello Stupido sempliciotto, che fino a quel momento non aveva dimostrato nessuna dote per l’inganno, quella che aveva sempre considerato un’attitudine ragionevole e positiva diventava all’improvviso un’ossessione da paranoia.
Non era sempre in lotta con tutti... Era all’erta.
Ma era all’erta davanti a una foresta buia o era all’erta davanti a un pulcino, questa volta?
Che domanda idiota, si trovò a pensare stizzita. E mentre pensava si lasciò sfuggire una frase che, con un minimo di attenzione in più, avrebbe riconosciuto come la più stupida che potesse tirare fuori.
«Ma a te che importa?»
Sentì la stretta di Akeru sul polso prima ancora di capire cosa aveva appena detto, e il calore della sua mano le ricordò quello di Hitoshi qualche ora prima.
«Non lo capisci?» esclamò Stupido, arrabbiato, e turbato, e confuso lui per primo.
Chiharu alzò la testa allarmata. Certo che capiva. Aveva sempre capito. Ma non prevedeva di metterlo in condizioni di dirlo, realizzò con uno spiacevole senso di soffocamento.
«Smettila» sibilò con uno strattone, ma lui non la lasciò andare. L’aveva osservata così a lungo che sapeva quando lei intuiva qualcosa, e ora sapeva che ciò che stava per dire non l’avrebbe affatto sorpresa; tanto valeva aprire la bocca, dunque.
«Lo so che sei una testa di cazzo» continuò tra i denti, abbassando la voce; sentì il cuore battere ferocemente dietro lo sterno. «E so anche che pensi io sia ancora peggio di una testa di cazzo, l’ultimo deficiente. Ti diverti a prendermi in giro, lasci che ti ronzi intorno e tendi la tua stupida carota, e io, ancora più stupido, sto pure al gioco e la seguo. Ma la carota prima o poi marcisce, e l’asino si stufa. Io mi stufo! Quindi, se non volevi ascoltare quello che sapevi che ti avrei detto, dovevi smetterla di prendermi per idiota. Perché per me sei importante più di qualunque altra kunoichi... di qualunque altra ragazza...» si interruppe per deglutire, e le sue dita affondarono nel braccio di Chiharu fin quasi a farle male. «E tu lo sai, sei troppo intelligente per non saperlo, e nonostante ciò mi tendi quella carota e ti diverti a portarmi al guinzaglio!» alzò gli occhi, e ora che il cielo era nero e il lampione era l’unica luce, sembravano gli occhi di un pazzo, o di un sognatore. «Perciò... adesso, è arrivato il momento che tu decida. Se vuoi continuare questo stupido gioco devi dirmi che anche io valgo qualcosa, che sono importante almeno un po’! Oppure devi abituarti all’idea che non ti ronzerò più attorno!»
Quando Akeru concluse, la prima cosa che fece fu darsi dell’imbecille.
Mai dare ultimatum a Chiharu Nara.


La luce della lampadina era stemperata dalla carta di riso, che la rendeva morbida e opaca, quasi granulosa. Le ombre si disegnavano sulle pareti della stanza seguendo i motivi del paralume, una fantasia che a Konoha non esisteva ma che era tipica di Suna. Quando le sagome dei corpi si sovrapponevano alle ombre assumevano forme grottesche.
Shikamaru sfilò la maglia e riuscì a incastrarsi nel codino, le braccia alzate e bloccate in una posizione scomoda.
«Che seccatura» bofonchiò. Temari si voltò e gli gettò un’occhiata di sufficienza, sospirando mentre sistemava le pieghe della camicia da notte.
«Vieni qui» disse avvicinandosi. Lo aiutò a liberarsi con una mossa precisa e ormai abituale. «Quante volte ti ho detto di sciogliere questo maledetto codino prima di svestirti?»
«Decisamente troppe» si lamentò lui, gettando la maglia su una sedia e tendendosi a prendere il pigiama sotto il cuscino. Temari si sporse e, mentre Shikamaru aveva le mani impegnate, con uno strattone brusco gli sfilò l’elastico.
«Ahia» gemette lui, mentre i capelli si piegavano lentamente, restii a perdere la forma che ormai avevano assimilato. «Di questo passo diventerò calvo entro dieci anni.»
«Questo è il succo del nostro rapporto» sbuffò lei, gettando l’elastico sul comodino e tornando dall’altra parte del letto. «Tu che piagnucoli, io che ti faccio del male. Ci siamo proprio evoluti da quando avevamo diciotto anni, eh?»
«Che seccatura che sei» rognò lui, rinunciando ad allacciare l’enorme numero di bottoni sulla camicia del pigiama e tirando indietro le coperte.
«Visto? Esattamente come allora!» esclamò lei a metà tra il trionfo e l’amarezza.
«Temari, per favore, sono stanco» gemette Shikamaru, lasciandosi cadere sul materasso a peso morto. «Ho passato tutto il giorno a riparare le falle del piano per Suna, e Naruto non ha fatto altro che intralciarci per tutto il tempo! Vorresti farmi la grazia di non infierire, almeno oggi?»
Temari mise il broncio infilandosi sotto il suo lato di coperte. «Non ti preoccupare, eh» bofonchiò risentita. «In fondo hai solo deciso di spedire tua moglie in territorio nemico, con la certezza che non la rivedrai per almeno due settimane e il rischio che le due settimane diventino eterne. Che vuoi che sia? Meriti il tuo riposo.»
Shikamaru si coprì gli occhi con un braccio, soffocando un gemito. L'orgoglio di Temari per la sua recente promozione era evaporato alla velocità della luce quando lui le aveva comunicato che come prima cosa avrebbe spedito a Suna lei e Chiharu. Temari l'aveva preso come un deliberato tentativo di liberarsi di lei, e da allora gliela stava facendo scontare.
Spensero la luce. Le lenzuola frusciarono quando Temari si mosse nervosa, poi tornò il silenzio. Shikamaru inspirò a fondo. Lei si mosse di nuovo e la luce si riaccese.
«Sei davvero così stanco?» sbottò, sollevandosi sui gomiti e fissandolo rabbiosa. «No, dico, la prospettiva è che per due settimane non sarò in questo letto, e tu pensi a dormire?»
Francamente ciò che Shikamaru pensava era che per due settimane avrebbe potuto stravaccarsi in diagonale, ma si guardò bene dal dirlo.
«Non parti nemmeno domani» sospirò invece, sforzandosi di scollare il braccio dagli occhi e guardarla nella maniera più pietosa e convincente.
«Appunto» sibilò lei. «Quindi non devo alzarmi all’alba.»
«Tutto questo mi ricorda i tempi in cui mi violentavi nei più squallidi motel di Konoha.»
«Erano squallidi perché non avevi mai un soldo. Ora abbiamo un letto tutto nostro, e finalmente Chiharu è uscita dall’adolescenza e ha smesso di mandarmi gli ormoni a mille per la rabbia.»
«Ho già accennato al fatto che oggi ho lavorato come un mulo?»
«Shikamaru Nara! Una donna frustrata può essere peggio dell’intero Consiglio riunito!»
Shikamaru chiuse gli occhi e fece una smorfia disperata. «Ti prego, Temari, abbi un po’ di pietà...»
Ma non aveva ancora finito di parlare che sentì il minaccioso suono delle coperte che venivano gettate indietro, e poi l’altrettanto minaccioso peso di Temari sull’addome.
«Dei. Se questa è la pietà che hai per tuo marito, sono contentissimo di non essere tuo nemico» gemette lui, trovandosela carponi sul petto.
«Chiudi quella bocca se non vuoi sprecare energie» sbottò lei. «E sappi che sono molto arrabbiata con te.»
«Ah sì?» sospirò Shikamaru, cercando inutilmente un colpo di genio che lo liberasse da quella situazione. Ma non trovò nulla. E quando Temari si piegò sul suo collo e gli sfiorò l’orecchio con il naso, metà del suo corpo gli gridò che era un demente e voleva dormire, l’altra metà che era un uomo e voleva... beh, di sicuro non dormire.
A giudicare dal sorriso impertinente che fece Temari quando una sua gamba scivolò tra quelle di lui, aveva vinto la metà poco assonnata.

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Jiraya si grattò il mento con la parte posteriore della penna, pensieroso. Assottigliò gli occhi, scribacchiò qualcosa in fretta e furia e poi lo rilesse con aria critica.
«Okay. Può funzionare» decretò alla fine.
«Ci credo che funziona. E’ testato» grugnì la voce risentita di Akeru, poco più giù.
Lui e il vecchio Sannin erano di nuovo nella radura in cui erano soliti incontrarsi, ma quel giorno nel cielo non passavano nuvole e il sole si abbatteva su di loro senza filtro. Jiraya era seduto sulla sua roccia, come sempre, ma Akeru era steso al centro del prato con braccia e gambe aperte e una faccia a dir poco truce.
«Allora, riepilogando» mormorò Jiraya, sfogliando un paio di pagine indietro. «Miko e Jukon restano chiusi nella ghiacciaia dell’albergo e, convinti di morire, si danno alle confessioni. Così si scopre che Jukon conosceva Miko ai tempi della scuola, che l’aveva sempre amata e aveva invidiato a morte il fratello Jumon, con cui lei usciva... E poi cerca di concretizzare gli istinti che ha represso per tanto tempo.»
«No. Vuole solo farle sapere cosa prova, non era così?»
«Oh beh, ho apportato un paio di modifiche... Siamo già al terzo capitolo, ricordi?»
Akeru scattò a sedere indignato. «Non ho messo le mani addosso a nessuno!»
«A meno che non ti chiami Jukon e non sia in una ghiacciaia convinto di morire, no, credo che tu non l’abbia ancora fatto» gli concesse Jiraya. «Forse hai qualche problema di immedesimazione.»
Akeru si lasciò cadere di nuovo sull’erba e incrociò le braccia. «No» disse mortificato. «Non ho nessun problema.»
Quand’era venuto lì, quel giorno, non pensava seriamente che avrebbe aiutato Jiraya con il suo libro. L’unica ragione per cui non si era barricato in casa a costruire una bambolina vudù era che pensava che il grande eremita autore della serie della Pomiciata fosse il più adatto a dare consigli, vista la sua nuova situazione.
Naturalmente si sbagliava. Perché non appena aveva raccontato a Jiraya della sua orribile e patetica figura ormai risalente alla sera prima, lui si era illuminato e aveva esclamato: ecco l’idea che cercavo! A quanto pareva la sentiva frullare in testa da mesi senza riuscire a tradurla per iscritto; e le spese doveva farle Akeru, che si era visto vivisezionato dalla penna del Sannin e trasformato in un maniaco paranoico con problemi ossessivo-compulsivi.
Cercavo solo comprensione!, si lamentò mentalmente; e, da bravo maniaco paranoico ossessivo-compulsivo, si accinse a ripercorrere mentalmente per la seicentesima volta i minuti più imbarazzanti della sua intera esistenza.

«...Se vuoi continuare questo stupido gioco devi dirmi che anche io valgo qualcosa, che sono importante almeno un po’! Oppure devi abituarti all’idea che non ti ronzerò più attorno.»
Un lungo, orribile istante di silenzio.
Akeru capì che non significava niente di buono ancor prima di rendersi conto che Chiharu non sembrava stupita, smarrita, o, per assurdo, imbarazzata. Sembrava, come dire, traboccante di gelido disprezzo; sì, era un vocabolo adatto.
Non cercò nemmeno più di liberare il polso dalla sua stretta e, quando parlò, ogni parola fu come una sottile lama di ghiaccio nell’orgoglio di Akeru.
«Non ci credo, non pensavo l’avresti detto davvero» quasi sputò. «Mi ero stupidamente illusa che, in quanto essere umano, dovessi avere della materia grigia dentro la scatola cranica. Esattamente, cosa cercavi di ottenere con questo lungo e stupidissimo discorso? Volevi smuovere la mia coscienza, il mio supposto affetto per te, o, addirittura, il mio cuore? Pensavi che se ho passato gli ultimi cinque anni a lasciarti ‘ronzare’, come dici tu, sbattermelo in faccia cambi qualcosa? Potevi almeno salvare la faccia stando zitto!»
Akeru si trovò a bocca spalancata, e si affrettò a richiuderla avvampando bruscamente. Lasciò di scatto il braccio di Chiharu e stese i pugni contro i fianchi, con la curiosa sensazione di avere un palloncino troppo gonfio che premeva contro le pareti interne del cranio.
«Tu... Tu come... No, dico... E’... E’ assolutamente...» balbettò, la mente offuscata dall’indignazione, l’umiliazione e l’imbarazzo. «Tu non sei normale!» esplose alla fine, fissandola sconvolto. «Forse non sarò il miglior oratore del mondo, ma... ma ti ho messo in mano il mio cuore! Ti ho praticamente supplicato di dirmi che non sono uno zerbino, e tu mi hai detto esattamente che sono un fottuto zerbino! Cosa diavolo c’è che non va in te?»
Chiharu si irrigidì sollevando il mento. «Il problema è cosa non va in te» puntualizzò. «Sono cinque anni che mi giri attorno, e lo sai tu, lo so io, e sai che io lo so. E se fino ad oggi non ho mai fatto nulla per incoraggiarti vorrà ben dire che una dichiarazione è la cosa più stupida che possa venirti in mente, no? Hai creato dell’inutile imbarazzo a te stesso e a...»
«No! Tu hai fatto qualcosa per incoraggiarmi! Tu non mi hai mai allontanato, tu restavi a guardare i miei tentativi di attirare l’attenzione! Quando ho deciso di diventare un ninja medico sono venuto a dirlo a te! E tu lo sapevi, lo sapevi perfettamente che lo facevo perché cinque anni fa mi sei piombata addosso mezza morta! Lo sapevi che lo facevo per causa tua, e anche se non hai neanche alzato lo sguardo da quello che stavi leggendo, non mi hai nemmeno detto ‘lascia perdere, non rovinarti la vita, non ho intenzione di morire a breve’. Mi hai lasciato fare, perché... perché... Oh, non lo so nemmeno io perché!»
«Perché sono fatti tuoi quel che decidi di fare con la tua vita!»
«Oh, bene, bello! Quindi è questa la misura in cui ti importa di me? Tutto ciò è davvero confortante!»
«Non ti ho detto io di preoccuparti di quel che pensavo. Non ti ho mai detto di fare niente.»
«Non a voce, Chiharu. Ma me lo hai detto in mille altri maledetti modi!»
Frustrato, Akeru si passò una mano tra i capelli, con la forte voglia di piantare un pugno contro il muro più vicino, o, magari, nella faccia di Chiharu. «Perché?» chiese, scoccandole un’occhiata sconcertata. «Perché, se riesci a demolirmi pezzo dopo pezzo ora, mi hai tollerato fino a dieci minuti fa? Non potevi semplicemente allontanarmi prima? Sarebbe bastata mezza parola di tutte le centoventi che mi hai detto adesso, soltanto mezza! Cinque anni fa mi sarei offeso e ti avrei lasciata in pace, e ora non saremmo qui a fare questa conversazione!»
«Non saremmo qui a farla se tu avessi un cervello» sbuffò lei, incrociando le braccia. «Sai cosa? Nonostante il tuo supposto amore mi stai semplicemente scaricando addosso le colpe, dalla prima all’ultima. Molto altruista. Anzi, no, molto Stupido.»
Akeru digrignò i denti. «Amore? Di che amore parli?» replicò tagliente. «Al momento per te provo qualcosa di molto diverso dall’amore. Al momento ho una gran voglia di prenderti a pugni. E se mi trattengo è solo perché... perché...»
Non poteva buttarla sul suo cuore malandato, perché così l’avrebbe spinta a dimostrarle che funzionava perfettamente. Altre motivazioni non gli venivano.
«Oh, al diavolo!» esclamò, e la sua pressione sanguigna schizzò alle stelle. «Sei la cosa peggiore che mi sia mai capitata! Rimpiango il giorno in cui ho salvato la tua cazzo di vita!»
Chiharu non si lasciò impressionare. «Lieta di saperlo.»
E a quel punto lui, semplicemente, se ne andò.
Come si può parlare con una persona mentre quella si mette un tovagliolo intorno al collo e viviseziona il tuo cuore per mangiarselo?

Poi, ciliegina sulla torta, Jiraya aveva avuto la brillante idea di trasporre la sua edificante esperienza in versione cartacea. Splendido. Un balsamo per il suo ego maciullato.
Steso sul prato a braccia conserte, si trovò a fissare il sole finché non iniziarono a lacrimargli gli occhi. Arrivato a quel punto si tirò a sedere.
«Me ne vado» annunciò cupo. «Così magari quello sfigato di Jukon diventa un po’ meno sfigato, senza attingere alle mie esperienze personali»
«Quanto la fai lunga» sbuffò Jiraya. «Hai diciotto anni, le donne vanno e vengono, e Chiharu è sempre stata un po’ problematica. La prima volta che mi ha visto ha alternato ‘sei il mio eroe’ a ‘i tuoi libri fanno schifo’! E anche quando li ha letti davvero non ha saputo vedere l’ampiezza di respiro delle trame, lo stile sobrio ma elegante, il romanticismo intrinseco... Ehi, grazie per l’attenzione!» gridò, quando si accorse che Akeru si stava già allontanando.
Sospirò, grattandosi il mento ruvido di barba, poi fissò la pagina in cui Miko si lasciava convincere dalle argomentazioni di Jukon, o, per dirla con parole sue, si davano le prime soddisfazioni al lettore.
Leggendo della sua eroina dai liberi costumi Jiraya provò un po’ di pena per tutti i ragazzi che come Stupido si facevano fregare dalla frigida di turno. Si chiese se Tsunade avesse mai avuto un comportamento simile. No, rifletté. Tsunade era umana, aveva le sue debolezze. Tsunade arrossiva, Tsunade si preoccupava, Tsunade lo aveva amato, e l’unica ragione per cui aveva sempre rifiutato di sposarlo era che non vedeva l’utilità di perder tempo e denaro in una cerimonia puramente formale. Credeva nelle persone, Tsunade, non nelle istituzioni.
Chiharu, invece, credeva solo in sé stessa. E in quello era molto più simile a Orochimaru che a Tsunade.




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Capitolo 8
*** L'equilibrio in bilico ***


Penne 08
Capitolo ottavo

L'equilibrio in bilico




Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro,
ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

Lev Tolstoj, «Anna Karenina»




Nonostante fossero uno dei gruppi di punta di Konoha, i ragazzi del gruppo sette non erano stati convocati spesso nell’ufficio dell’Hokage. Fermi davanti a una scrivania decisamente sovraffollata, però, non sembravano particolarmente intimoriti dall’ufficialità della situazione, quanto piuttosto distratti.
L’unico che non fissava fuori dalla finestra era Kotaro, il quale tuttavia era impegnato ignorare il litigio che si svolgeva davanti ai suoi occhi e non sapeva bene dove guardare.
«No, credo che dovrei essere io a parlare» disse Naruto tra i denti, fissando con astio Shikamaru e Sakura. «In fondo sono io il sostituto ufficiale; voi mi assistete, se ben ricordo.»
«Ma tu non hai capito niente dei dettagli del piano!» replicò Sakura esasperata. «Naruto, porca miseria, lo sappiamo che ufficialmente sei l’Hokage, nessuno vuole usurparti il posto! Siamo qui per aiutarti!»
Chiharu sbadigliò, pensando che avrebbe potuto dormire dieci minuti in più. Hitoshi, al centro del trio, fissò vacuo la vetrata oltre i litiganti, cercando di ricordare a memoria la pagina trentadue del manuale segreto degli Uchiha sullo sharingan. Aveva voglia di una sigaretta.
«Non è vero che non ho capito niente del piano!» si indignò Naruto. «Se Kakashi mi ha scelto è perché era convinto che avessi le capacità! E comunque me la sono sempre cavata, senza bisogno che... Oh, al diavolo! Hitoshi, Chiharu, Kotaro! Dovete andare a Suna.»
Shikamaru e Sakura trasalirono. «Naruto! Quanti anni pensi di avere?»
Oltre la scrivania Chiharu si grattò distrattamente un orecchio. «Okay» rispose laconica. Hitoshi si riscosse dai suoi pensieri e tornò faticosamente alla realtà. Si limitò ad annuire. Kotaro, finalmente, si degnò di mostrare una parvenza di reazione dinamica. «E’ una collaborazione?» chiese serio.
«Non esattamente» rispose Naruto corrugando la fronte. «Cioè sì, in parte... Come dire, qualcuno lo sa e qualcuno no, ecco.»
«Naruto...» mormorò Shikamaru.
«Nel senso» insisté lui, sentendo il sangue che iniziava ad accumularsi sulle guance. «E’ una missione in collaborazione, ma l’obiettivo è all’interno di Suna... E quindi è anche non in collaborazione...»
«Naruto!» sbottò Sakura, sbattendo una mano sulla scrivania. «Piantala di arrampicarti sui vetri e lascia parlare Shikamaru!»
Naruto le scoccò un’occhiata mortalmente offesa, ma si rese conto che insistere avrebbe solo peggiorato la situazione. Si fece indietro, borbottando tra sé, e finalmente Shikamaru poté parlare, con un sospiro molto più che profondo, dando inizio alla spiegazione vera e propria.
«Vogliamo che andiate a Suna con Rock Lee, mia moglie e Gai Maito» annunciò, e questa volta nessuno dei tre shinobi che gli stavano davanti riuscì a contenere la sorpresa. «Ufficialmente sarete là per aiutare a riparare i danni dell’ultima tempesta di sabbia, come delegazione amichevole e volenterosa, ma in realtà avrete una missione segreta da portare a termine. Non abbiamo deciso di mandare voi perché siete giovani e sembrate innocui, ma perché, sostanzialmente, Chiharu è la nipote di Gaara e Temari sua sorella.»
Chiharu inarcò un sopracciglio e Kotaro e Hitoshi la fissarono con una punta di invidia. Anche loro volevano una parentela illustre.
«Riunione di famiglia?» ipotizzò lei.
«Magari» commentò Shikamaru. «Gaara sarà il vostro unico appiglio a Suna, è il solo a conoscere la situazione e a potervi dare una mano. Non siamo riusciti a trovare scusa migliore per stare soli con lui di ‘io e la mia adorabile famigliola prendiamo un tè insieme’. Anche perché la persona che dovrete assolutamente tenere lontana è la sua segretaria, Loria, e ci manca poco che lo segua anche in bagno.»
«Tradimento?» chiese Hitoshi, ansioso di rendersi utile e guadagnare punti.
«Non proprio» rispose Sakura. «Diciamo piuttosto che Loria non è Loria. Sei anni fa, quando la guerra tra noi e l’alleanza del nord-est era appena agli inizi, la Roccia ha inviato spie a Konoha e a Suna. Qui si è infiltrata dal basso, cercando di farsi notare il meno possibile, ma per trattare con la Sabbia ha preferito procurarsi un ostaggio e saltare direttamente alle alte sfere. Hanno scelto la segretaria del Kazekage, se la sono portata via e l’hanno sostituita con una kunoichi perfettamente addestrata a tenere a bada Gaara. Più di metà delle carestie e tempeste che negli anni hanno impedito alla Sabbia di darci manforte nelle schermaglie è pura invenzione; la finta Loria scriveva i messaggi per conto di Gaara e lui non poteva che chinare la testa e obbedire.»
«Perché?» la interruppe Chiharu, corrugando la fronte. «Senza offesa, ma la segretaria di un Kage è importante solo finché ha informazioni fresche. E la ragion di stato ha sempre insegnato che la vita di un uomo vale meno di quella di tutti gli altri.»
Shikamaru e Sakura si scambiarono uno sguardo.
«Perché Gaara la ama» rispose Naruto, prima che potessero farlo loro. Si sentiva in dovere di difendere le buone intenzioni del Kazekage. «Non sappiamo se l’hanno rapita per questa ragione o se l’hanno scoperto dopo, ma le cose stanno così. E Gaara non accetterà mai di sacrificarla, a costo di partire da solo e salvarla senza l’aiuto di nessuno. Cosa che, a quanto pare, non possiamo permetterci...»
«Leva quel ‘a quanto pare’, testa di rapa» sospirò Shikamaru. «Perdere il Kazekage sarebbe la cosa più terribile che può capitarci: ci troveremmo soli contro tutti, ci schiaccerebbero in meno di un istante.»
«Devono solo provarci...» borbottò Naruto.
«Comunque, lasciando da parte le faccende private di Gaara,» intervenne Sakura con un discreto colpo di tosse. «ciò che dovrete fare concretamente è liberare Loria. In questi sei anni non ce ne siamo rimasti con le mani in mano: Gaara è riuscito a eludere la sorveglianza della Roccia e a scoprire dove la tengono, ma non può spostarsi senza che la spia venga immediatamente a saperlo. Andrete a Suna, Chiharu e Temari troveranno il modo di ricevere le indicazioni di Gaara, e a quel punto voi ragazzi entrerete in azione per recuperare Loria. Nel frattempo Gai, Lee e Temari copriranno la vostra assenza con una copia a testa. Ci sono domande?»
Hitoshi si schiarì la voce. «Siamo proprio sicuri che dopo sei anni sia ancora viva?»
Sakura guardò Naruto, che non rispose subito. Alla fine sbuffò e appoggiò i gomiti alla scrivania. «Per come lo conosco io, se così non fosse Gaara avrebbe già fatto a pezzi la spia nel suo ufficio.»
I ragazzi rabbrividirono involontariamente. Non avevano mai visto il Kazekage di Suna all'opera, ma quando erano all'Accademia girava una storia inquietante su un vecchio esame per Chunin. Chiharu aveva provato a chiedere i dettagli a sua madre, una volta. Tragico errore: lei aveva deviato il discorso sulla sconfitta inflittale da Shikamaru nel corso del torneo e non era più stato possibile tornare sull'argomento senza che lei si lamentasse che la promozione del marito era stata una truffa.
«Quando partiamo?» chiese per stemperare l'atmosfera.
«Avete tre giorni per prepararvi» rispose Shikamaru. «E gradirei che obbediste ciecamente agli ordini del maestro Gai.»
«Sissignore!» scattò Kotaro, gli occhi densi di orgoglio ed emozione.
«Ti pareva» grugnì Hitoshi, e la sua mano guizzò involontariamente alla tasca delle sigarette, strategicamente invisibile agli occhi di Sakura.
«Anche mamma?» chiese Chiharu con l'ombra di un sorriso.
Le spalle di Shikamaru si abbassarono, afflitte. Sakura lo salvò congedando i ragazzi, e loro lasciarono lo studio dell'Hokage per andare a prepararsi.
«Siamo a metà maggio» bofonchiò Chiharu quando furono di nuovo all'aria aperta. «Ci saranno come minimo quaranta gradi all’ombra, a Suna.»
«Ringrazia che non siamo a luglio, allora» ribatté nervosamente Hitoshi, ansioso di allontanarsi per accendersi una sigaretta.
«Non oso immaginare la fatica lungo la strada...» continuò lei, gemendo. «Qualcuno mi ricorda perché sono qui?»
«Perché Stupido ti ha fatta perdere le staffe all’esame per Chunin» rispose Hitoshi stringato. «Andiamo? Qui siamo troppo... vicini.»
A tua madre?, stava per chiedere Chiharu con un ghigno, ma Kotaro la precedette.
«E' la prima volta che facciamo una missione così seria senza Naruto» disse, a metà tra il rammarico e l'orgoglio. «Adesso che è Hokage probabilmente passerà sempre meno tempo con noi...»
Chiharu e Hitoshi rimasero in silenzio. Cosa sarebbe successo al loro gruppo senza la guida di Naruto? Kotaro sarebbe stato un collante sufficiente oppure...?
«Beh, era ora» sbottò l'Uchiha. «Gli altri gruppi lavorano senza Maestro da anni.»
«Ma i loro maestri non sono al livello del nostro!» ribatté Kotaro seccamente.
Hitoshi rise, e il compagno lo fulminò con lo sguardo. «Sei davvero così ottuso, Uchiha?»
«State scherzando? Litigate per Naruto?» intervenne Chiharu.
«Litighiamo perché qualcuno, tra noi, ha ancora dodici anni» replicò Kotaro.
«Già, e quel qualcuno non sono io» sibilò Hitoshi.
Vorrei essere io, pensò Chiharu, che i compagni diciottenni proprio non li capiva.
Kotaro serrò i pugni, rimangiandosi la risposta. Sarebbe stato così facile – oh, troppo facile – distruggere Hitoshi, ma non voleva. Aveva passato gli ultimi cinque anni a tenere insieme il gruppo, ingoiando rispostacce e lusingando l'ego dei compagni di squadra; cedere adesso avrebbe reso vano tutto il suo lavoro. Il suo arduo, sfibrante e doloroso lavoro...
Ne vale la pena?, si chiese, irritato, guardando Hitoshi.
Chiharu posò una mano sul suo braccio. «Dobbiamo andare a prepararci.»
Lui la fissò, esitante, ma alla fine sorrise.
Sì.
«Hai ragione. Devo andare a comprare gli snack per i festini notturni!»
«Non era proprio quello che intendevo...» borbottò Chiharu, ma gli batté una pacca sulla spalla.
Kotaro li salutò, annunciando che avrebbe chiesto a Rock Lee di preparare un piano speciale di allenamento per il viaggio, quindi sparì prima che Chiharu potesse lamentarsi.
«Tu hai qualche impellente faccenda da sbrigare prima della partenza?» chiese Hitoshi fissandola.
Lei pensò a Sai, e, per una minuscola frazione di secondo, anche a Stupido; tuttavia si limitò a scrollare le spalle. «No, non credo. Ma posso accumulare ore di sonno.»
«Eccola» bofonchiò Hitoshi contrariato. Ogni attimo di libertà Chiharu lo sprecava a dormire, quando avrebbe potuto godere della sua preziosa compagnia. E se solo avesse saputo quanto poteva essere apprezzabile, beh, sicuramente non avrebbe parlato così.
«Allora ci vediamo.»
Hitoshi non fece in tempo ad alzare lo sguardo che la vide allontanarsi con le mani in tasca e la testa già altrove.
«Cazzo» imprecò, digrignando i denti. Sentì le prime avvisaglie della solita beffarda emicrania. «Non me ne va bene una che sia una, eh.»
Tra l’altro, tra gli Hokage che gli avevano affidato la tanto pericolosa missione mancava solo suo padre; che non lo aveva visto, rigido e fiero, mentre ascoltava come un uomo, un Uchiha, e non come un ragazzino qualunque.
Deluso, si mosse rapido in cerca di un angolo appartato dove accendere una sigaretta.


Il giorno in cui Kakashi aveva stabilito che Sasuke, Sakura e Shikamaru avrebbero assistito Naruto nel suo compito, Sasuke era tornato a casa e aveva parlato francamente alla moglie.
«Kakashi ha nominato anche me solo per contenere Naruto nel caso in cui perda la testa. Come capo della polizia e capoclan Uchiha sono già fin troppo impegnato, per di più la mia fedina penale è tra le più sporche di Konoha. Sappiamo bene che non c'entro niente con il ruolo di Hokage: spero non vi offendiate se passerò molto poco tempo con voi.»
Controvoglia era stato trascinato nella faccenda della missione di Kakashi e controvoglia aveva perso un pomeriggio per presenziare alla riunione straordinaria del Consiglio, ma all’infuori delle occasioni ufficiali aveva detto ai suoi colleghi che avrebbero dovuto fare a meno di lui, perché era un uomo impegnato e un padre di famiglia e un mucchio di altre cose che potevano essere sintetizzate in: non voglio essere coinvolto negli altri casini che sicuramente combinerete.
Per questo in pieno orario lavorativo, mentre Sakura, Shikamaru e Naruto cercavano di dare un senso alle pile di documenti lasciati da Kakashi, Sasuke se l’era svignata anche dalla stazione di polizia ed era seduto alla sua scrivania di casa, cercando di capire come e perché sua moglie avesse sborsato centomila ryo in una boutique per bambini.
Il suo cervello rifiutava di accettare che un cappellino da baseball costasse seimila ryo, anche dopo aver riletto la fattura quattro volte. Ma forse era perché non riusciva a concentrarsi a causa dei rumori che venivano dal giardino. Si alzò e andò a socchiudere la porta che dava sul corridoio esterno. Ciò che vide fuori furono Fugaku, il suo secondogenito, e Mikoto, la prima figlia femmina, che si allenavano: tra tecniche e scivoloni il giardino sembrava un campo di battaglia; di tanto in tanto una fiammata strinava l’erba.
I due ragazzini avevano rispettivamente tredici e dodici anni, ma entrambi avevano già completato l’Accademia e Fugaku sfoggiava con orgoglio uno sharingan completo e perfetto. Mikoto, diplomatasi lo scorso settembre, gli teneva testa a fatica e ancora non era in grado di padroneggiare perfettamente i suoi occhi, per ora semplicemente scarlatti.
Sasuke rimase a studiarli ancora un po’, la spalla appoggiata all’intelaiatura di legno della porta. Alla fine con un piccolo sorriso arretrò e la chiuse, tornando alla scrivania.
Fugaku, Mikoto e Itachi, il suo orgoglio. Tutti e tre degni eredi del clan, tutti e tre fieri portatori di sharingan, tutti e tre futura gloria del casato. Ironicamente, tutti e tre portatori di un nome della precedente generazione.
Alla nascita di Itachi, cinque anni prima, Sasuke era stato inquieto. Allora Hitoshi non aveva sviluppato lo sharingan, e quel bambino calvo che apriva un solo occhio lo aveva preoccupato profondamente. Dopo qualche giorno, però, Itachi – che allora non aveva ancora un nome – aveva rivelato cosa nascondesse sotto la palpebra sinistra. E alla vista di uno sharingan già completo Sasuke aveva provato un orgoglio sconfinato.
Questo bambino sarà il vero e miglior erede. Il nuovo genio della famiglia.
A quel punto, nonostante le perplessità di Sakura, chiamarlo Itachi era sembrato inevitabile. Anche perché in quel periodo erano comparsi Ryuichiro e Saifon, e lui era stato assalito dai ricordi.
Trovandosi improvvisamente in quel pensiero Sasuke si incupì. Quasi distrattamente socchiuse gli occhi e portò una mano a sfiorare il segno maledetto che ancora marchiava il suo collo, ormai grigiastro e sbiadito. Di tanto in tanto Sakura doveva ancora controllare che il virus non riprendesse forza, ma negli ultimi anni sembrava essersi assopito definitivamente.
Bussarono alla porta che dava sul corridoio interno.
«Sì?» Sasuke alzò lo sguardo e si affrettò ad allontanare la mano dal collo.
Hitoshi entrò nello studio, chinando il capo in un saluto. «E’ ora di cena, padre. Devo dire alla cuoca di preparare o aspettiamo ancora?»
Da quasi cinque anni aveva smesso di chiamarlo papà.
«Dille di preparare. Tua madre probabilmente rientrerà tardi» rispose Sasuke con una magra e schiva occhiata.
Hitoshi lottò per tenere le mani distese lungo i fianchi e non serrarle a pugno. «Va bene» rispose atono. «Oggi il mio gruppo è stato convocato nell’ufficio dell’Hokage» aggiunse dopo un’impercettibile esitazione.
Sasuke rialzò il capo e corrugò la fronte, cercando nella memoria qualche accenno di Sakura alla cosa. «E’ per la missione a Suna?» riuscì a ricordare alla fine.
«Sì. Partiamo tra tre giorni.»
«Bene. Se vuoi allenarti prima della partenza puoi usare il secondo giardino sul retro. I tuoi fratelli stanno occupando quello principale.»
«Lo terrò presente. Grazie» mormorò Hitoshi tra i denti.
Sasuke lo guardò finché non si fu inchinato ed ebbe richiuso la porta.
Hitoshi. Il ragazzino che doveva essere il baluardo degli Uchiha e che invece si era rivelato la più grande delusione. Nessuno sharingan per lui. Né a dodici, né a quattordici, né a diciassette anni. Era abile nel controllo del chakra, era intelligente, era agile, era Jonin e svolgeva una missione dietro l’altra... Ma non aveva il segno distintivo degli Uchiha, era solo uno shinobi come tanti altri. Talentuoso, sì, ma potenzialmente inferiore ad ognuno dei suoi fratelli.
Sviluppare lo sharingan non era scontato, tra gli Uchiha. Sasuke ricordava che nel clan solo i migliori potevano vantarsi di possederlo e saperlo usare, e da bambino era fiero che nella sua famiglia tutti ne fossero in grado. Era convinto che tutti i suoi figli sarebbero stati all’altezza della loro eredità, invece la prima delusione era arrivata proprio da Hitoshi: per quanto fosse forte, per quanto fosse intelligente, non era abbastanza meritevole per lo sharingan. Dopo la nascita di Itachi Sasuke aveva inevitabilmente finito per concentrare le sue attenzioni sull’ultimo arrivato, sul piccolo prodigio. Poco dopo, al compimento degli undici anni, Fugaku aveva mostrato i primi segni dello sharingan, e le attenzioni del padre si erano divise. Quando anche Mikoto si era presentata a lui con occhi rossi e densi d’orgoglio era diventato evidente che in Hitoshi qualcosa non andava. E allora non c’erano più stati timidi ‘papà, hai un minuto per allenarti con me?’, né lezioni speciali sulle tecniche oculari. A dire il vero, non c’erano stati più ‘papà’, né ‘oggi com’è andata la missione?’. I rapporti tra Sasuke e Hitoshi si erano congelati nell’attimo che aveva seguito la nascita di Itachi, fermi a una fredda cortesia.
Poi, quando erano soli, non pensavano ad altro: Sakura aveva passato notti su notti a sorbirsi i monologhi di Sasuke, le sue domande retoriche, le elucubrazioni, le imprecazioni e la delusione. Aveva anche provato a cercare un contatto con Hitoshi per fare da mediatrice, ma quando Fugaku aveva mostrato il suo sharingan alla famiglia Hitoshi si era chiuso in sé stesso e aveva tagliato fuori tutti. Di fatto viveva con il suo gruppo, ormai. E che quel gruppo comprendesse Naruto non poteva che essere un duro colpo per Sasuke.
Ma, orgogliosi com’erano, né lui né Hitoshi avevano fatto un passo per cercare di avvicinarsi; si erano arroccati sulle loro posizioni e continuavano a rodersi e soffrire in silenzio, perché se c’era una cosa che gli Uchiha sapevano fare bene era ferirsi a vicenda e anche da soli. L’orgoglio era l’unica realtà che conoscevano.
Sasuke si passò una mano sugli occhi, forzandosi a tornare ai suoi conti. Non gli piaceva inoltrarsi in quei pensieri, era frustrante e doloroso. Cercò la penna che era scomparsa sotto qualche foglio, borbottando corrucciato tra sé, ma sembrava che addendi e cifre, guidati dal subdolo pensiero di Sakura, cercassero di schivare il suo controllo: prima che potesse ritrovare il punto in cui si era interrotto, infatti, bussarono di nuovo.
Questa volta a entrare fu Ryuichiro.
Come ogni volta che lo vedeva Sasuke sentì un curioso miscuglio di disagio, affetto, ansia, fastidio e rimpianto. Si mosse nervosamente sulla sedia e annuì al suo sorriso, avvertendo una fitta leggera allo stomaco.
Ryuichiro aveva più o meno vent’anni ed era naturalmente portato a mettere soggezione. Aveva un incarnato delicato, capelli neri che sfioravano il collo, occhi dello stesso colore bordati da ciglia lunghe e folte. Le sue mani erano affusolate, eleganti come quelle di una ragazza. Il portamento era distinto ma poco vistoso. Sarebbe stato soltanto bello se si fosse limitato a questo, ma ciò che causava tanto disagio era che Ryuichiro era la copia vivente di Itachi Uchiha. E chiunque lo avesse conosciuto, guardandolo non poteva fare a meno di sentire un brivido correre giù per la schiena e di pensare a quante terribili cose avrebbero potuto fare quelle dita affusolate.
«Mi perdoni se la disturbo» disse con un cenno di scusa, garbato, qualcuno avrebbe detto timido – e l’impressione era sempre molto strana. «Vedo che è impegnato, se vuole torno in un altro mo...»
«Non è nulla» lo interruppe Sasuke, suo malgrado quasi ansioso di fare bella impressione. Si disprezzò per quella debolezza infantile.
«Meglio così» sorrise Ryuichiro. «Ecco, mi spiace fare di nuovo una richiesta del genere, ma mia madre vorrebbe ancora dei... un piccolo prestito.»
Prestito. Come se quei soldi fossero destinati a tornare. Sasuke si accigliò impercettibilmente ma non fece altra piega. «Torna domani» disse senza scomporsi. «Sarò in centrale, di’ che hai un appuntamento con me. Cinquantamila ryo vanno bene?»
«Trentamila sarebbero meglio...»
Sasuke annuì, ripromettendosi di procurarne cinquanta, quindi studiò Ryuichiro per un lungo istante. «State bene? Siete abbastanza comodi in quell’appartamento?»
«Siamo sistemati perfettamente» rispose il ragazzo con un’evidente nota di gratitudine nella voce. «Mia madre ha sempre qualcosa di cui lamentarsi, ma lo fa solo per noia. In realtà le siamo profondamente riconoscenti.»
«Non dovete» lo interruppe Sasuke schivando il suo sguardo.
Ryuichiro rimase vagamente imbarazzato. Nello studio scese un silenzio teso, rotto solo dai rumori della lotta all’esterno. «Allora... beh, grazie» mormorò il ragazzo chinando il capo. «Verrò in mattinata, va bene?»
«Perfetto» annuì Sasuke.
Solo quando fu rimasto di nuovo solo si concesse di rilassare i muscoli del tronco e lasciarsi andare contro lo schienale della sedia. Si passò una mano sulla fronte, insoddisfatto: non riusciva ad avere a che fare con quel ragazzo senza sentirsi sempre sotto esame, un esame per cui non si era preparato e non sarebbe mai stato pronto. Da quando Saifon era spuntata nella sua vita era tornato un bambino di sei anni.
Senza che se ne accorgesse la sua mano scivolò dalla fronte al collo, tornando al segno maledetto. Qualcosa nella punta delle sue dita fremette; ma, anche se lo avesse notato, non avrebbe saputo dire se il fremito proveniva dalla mano o da qualcosa di più profondo.


Hitoshi fissò Kotaro e imprecò mentalmente.
Kotaro vide entrare Hitoshi e sospirò dentro di sé.
Si trovavano entrambi nel negozio di armi gestito da Tenten, che stava quasi chiudendo per la sera. Entrambi avevano pensato che quello fosse un buon orario per non incontrarsi, ma dal momento che avevano studiato sugli stessi testi le loro strategie si assomigliavano parecchio.
«Quattro kunai e uno stock di shuriken?» disse Tenten, depositando sul tavolo due scatole di legno lucido. «Considerali un regalo di compleanno in ritardo» aggiunse, strizzando l'occhio al figlio.
«O molto in anticipo» ribatté lui, prendendo le scatole sottobraccio e incastrandosi un po' con la borsa che già portava.
Si voltò e fece un cenno a Hitoshi. Lui ricambiò, silenzioso, e prese il suo posto al banco.
«Due stock di shuriken, una confezione da dieci di carta-bombe» ordinò a mezze labbra.
Tenten diede un'occhiata a lui e una al figlio, corrugando la fronte, finché Kotaro non fu uscito.
«Ciao anche a te. Mi sono arrivate le carta-bombe ritardate, ne vuoi qualcuna?»
«Mi scusi. Buongiorno. Ne aggiunga un paio, per favore.»
Tenten si voltò per preparare la merce. Non conosceva molto bene gli Uchiha, ma conosceva molto bene i Lee, ed era certa che suo figlio fosse arrabbiato.
Ora poteva innescare una carta-bomba ritardata nel pacco di Hitoshi e ucciderlo, oppure passare la sera a spiegare a Kotaro che non si può partire per una missione avendo litigato con il compagno di squadra. Chissà se anche Chiharu c'entrava qualcosa? Al pensiero della kunoichi sospirò, guadagnandosi un'occhiata perplessa di Hitoshi.
Dato che il pacco era piuttosto voluminoso, Tenten gli diede una borsa e ritirò i contanti. Poi si schiarì la voce. Hitoshi subodorò il pericolo, allenato da anni di convivenza con sua madre, e aprì bocca prima di lei, con un ampio quanto falso sorriso.
«Sarà un onore andare in missione con suo marito» annunciò fieramente. «Sono sicuro che potrà insegnarmi un sacco di cose! Buona serata.»
«Ehi!» lo bloccò Tenten mentre lui cercava di svignarsela. «Guarda che io non sono Sakura» indicò la merce sul banco. «Vendo armi, non mi si frega così facilmente.» Hitoshi strinse le labbra. «Tu e Kotaro avete litigato? No, ok, non te lo chiedo nemmeno. Ma, per favore, non fate i bambini: non si può andare in missione avendo litigato. Vi farete ammazzare.»
Hitoshi sbuffò. «Lo so. Cioè, lo sappiamo tutti e due. Non si preoccupi, sappiamo come comportarci.»
Tenten si appoggiò al banco, lasciando che il ragazzo se ne andasse. «Ma davvero?» mormorò una volta sola. Si ripromise di parlare a Kotaro, quella sera.
Hitoshi uscì dal negozio e si incamminò verso casa, la borsa stretta in una mano e l'altra ad accarezzare il pacchetto di sigarette in tasca. Quando lui e Kotaro litigavano, di solito era Kotaro a cedere per amore di convivenza: anche questa volta si aspettava che il compagno sarebbe venuto a chiedere scusa, e come sempre avrebbero condiviso una lattina di qualche bevanda gassata e finto che Chiharu non fosse sempre tra di loro. Non era il miglior scenario possibile, doveva ammettere, ma visto che non lo avevano preso negli Anbu era l'unico scenario a disposizione.
A un tratto si fermò. In fondo alla strada, davanti a una bancarella di dango, vide una chioma di un giallo abbagliante. Accanto a quella, la familiare coda nera di Chiharu.
«Doveva dormire, eh?» borbottò una voce al suo fianco. Hitoshi non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che era Kotaro.
Entrambi rimasero fermi ad osservare Chiharu e Yoshi, che prendevano da mangiare e si allontanavano senza notarli. Quando furono scomparsi dietro un angolo, Kotaro sbuffò e tirò fuori dalla sua borsa una lattina dai colori sgargianti. «Vuoi?»
Hitoshi trattenne un sorriso, ma accettò.
Si spostarono in una via traversa meno trafficata, dove trovarono un marciapiede su cui sedersi mentre si accendevano i lampioni.
«Mi dispiace per oggi» esordì Kotaro, ruotando piano la lattina tra le mani.
«Non è niente» rispose Hitoshi scrollando le spalle.
Kotaro lo fissò, leggermente risentito. Perché quando lui chiedeva scusa Hitoshi non rispondeva mai 'è anche colpa mia'? Tossicchiò con intenzione, sollevando le sopracciglia.
«Che c'è?»
«Tu non hai niente da dirmi?»
Hitoshi, infastidito, bevve un lungo sorso dalla sua lattina. «Cosa vuoi sentirti dire?»
«Per esempio, che anche a te dispiace per le cose che hai detto.»
«Ma non mi dispiace.»
Kotaro gli tirò un pugno contro la spalla, e Hitoshi rovesciò un po' della sua bevanda sui pantaloni, imprecando.
«Lo sai, vero, che se non fosse per me questo gruppo non esisterebbe già da tanto tempo?» disse seccato. «Perché devo essere l'unico che si sbatte a tenerci insieme?»
Hitoshi rinunciò a pulire i pantaloni, ma appoggiò a terra la lattina. «Credi che io non ci stia provando?»
«No. Per niente.»
«Beh, invece ci sto provando!» sbottò Hitoshi. Ma Kotaro non poteva capire la sua costante frustrazione, il nervosismo, l'ambizione divorante che lo rendeva sempre irritabile. Kotaro era forte e amato, non poteva capire proprio niente dei suoi sforzi.
«Fai schifo anche a provarci» disse il giovane Lee.
Hitoshi sbuffò, frugando nelle tasche in cerca di una sigaretta. «Ti preparerò un cartello con scritto quanto sei figo e maturo, così che tutti possano ammirarti...»
«Oppure potresti darmi ragione, per una volta.»
Hitoshi fece una smorfia e inspirò per accendere la sigaretta.
Kotaro scosse la testa, snervato. «Non riesco a capire perché tu non abbia ancora fatto richiesta per gli Anbu!»
Hitoshi serrò le labbra. L'aveva fatta, invece. Purtroppo.
«Senti...» iniziò, passandosi una mano tra i capelli. «Sai che tipo sono.»
«Una testa di cazzo.»
«Come vuoi. Sai che sono una testa di cazzo. Sai che non è una scelta, ci sono nato. In fondo sai anche che ci sto provando, a modo mio, ma con risultati penosi» Kotaro fece un cenno con la testa, suo malgrado concorde. «Non sono io il rischio più grosso per questo gruppo... Credimi, se pensassi di poter fare di più lo farei.»
La scheggia impazzita, in effetti, non era Hitoshi. Era Chiharu, era sempre stata Chiharu.
«Ma certo» Kotaro sorrise amaramente. Stava per aggiungere un commento tagliente, poi si trattenne.
Aveva lavorato tanto per tenere insieme quel gruppo... Aveva resistito anche a provocazioni peggiori, non avrebbe mandato tutto all'aria parlando di gelosia. Era il loro tacito accordo, non parlarne mai: allusioni a fiumi ma nessun argomento concreto.
Era l'unico modo in cui potevano restare in bilico.
«Beh, meno male che io sono un po' più bravo» concluse Kotaro, finendo la lattina e gettandola con precisione nel cestino poco distante. «Dove sareste senza di me, eh?»
Hitoshi guardò la parabola del proiettile e lo vide centrare perfettamente l'apertura del cestino. Ogni centimetro del corpo di Kotaro era nato per quello, per essere una catena perfetta di azioni e reazioni. Non come lui, che sarebbe dovuto nascere per lo sharingan e non ci era riuscito. E in più il giovane Lee dagli occhi a palla gli faceva lezioni sul senso di gruppo.
Al diavolo, poteva anche risparmiarselo.
Hitoshi si alzò in piedi e accartocciò la sua lattina, avvicinandosi al cestino. Fissò quella lanciata da Kotaro poco prima, e lasciò cadere la sua sopra.
Non aveva intenzione di chinare la testa.






* * *

Hitoshi e Kotaro sono un po' meno amici della vecchia versione, vero?

Quindi come potrebbero andare le cose dopo il prossimo capitolo,
che è stato molto poco rimaneggiato e si chiama "Sbronza collettiva"?

Sangue! Sangue! Sangue!

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Capitolo 9
*** Sbronza di gruppo ***


Penne 09
20/01/2016


Capitolo nono


Sbronza di gruppo




Gli ermellini sono animali adorabili.
Candidi, morbidi, dal muso vispo, i baffi tremuli, si muovono timidi ed eleganti, sgusciando di ombra in ombra senza capire che sono troppo chiari per mimetizzarsi. Hanno zampe fini e silenziose, una coda soffice come seta; in due parole sono esteticamente deliziosi, e sembrano ricalcare tale deliziosità anche con il loro comportamento.
Ma gli ermellini sono carnivori. Il che vuol dire che, periodicamente, il loro timido sgusciare di ombra in ombra si tramuta in un agguato predatorio, e il loro candido musetto si tinge di rosso mentre affondano i canini nella carne ancora calda e vibrante dell’altrettanto tenera vittima. Per non parlare di quando qualcosa minaccia i loro cuccioli.
Hinata era un po’ come un ermellino.
Candida, timida, tenera, eccetera eccetera. E poi, di tanto in tanto, carnivora.
Era stata tale a dodici anni, durante il torneo di selezione per Chunin, combattendo contro Neji; era stata tale, a suo modo, a venticinque, per sposare Naruto e non lasciarsi abbattere dal parere contrario del padre; era stata tale anche a trentaquattro, quando, per la prima volta, Naruto aveva avuto paura di lei.
E quella era stata la volta peggiore.


Erano rientrati dall’ospedale un paio di ore prima, con un fagotto a testa tra le braccia e due domestiche con relative culle al seguito. Avevano presentato le ultime arrivate ai loro fratelli, raccogliendo la studiata indifferenza di Hinagiku, il sorriso tenero di Hanako e l’entusiasmo del minuscolo Minato – molto offeso dal fatto che le neonate non rispondessero ai suoi saluti – e poi avevano cercato di spiegare ai gemelli di due anni cosa significasse ‘avete altre due sorelline’. Yumi e Iyoku naturalmente non avevano capito granché, ma avevano scrutato curiosi le due bambine addormentate e poi avevano sorriso da dietro gli occhi bianchi degli Hyuuga.
Naruto e Hinata si erano mostrati soddisfatti e si erano ritirati nella loro stanza, affidando gli altri figli alla cura delle domestiche. Avevano posato i fagottini dormienti sulle coperte e si erano stesi ai lati del letto, tenendoli tra loro, limitandosi a guardarli e a cercare stupidamente di capire a chi assomigliassero. Li avevano accarezzati, senza svegliarli, e Naruto aveva chiesto a Hinata come si sentiva: bene, benissimo, ormai era abituata al tran tran, tutto a posto.
«Meno male, per fortuna.»
Pausa di silenzio.
«Siamo a sette, eh.»
Hinata gli aveva sorriso un po’ stancamente. «Come Sasuke e Sakura. Come desideravi tanto.»
«Beh, non è che lo volessi proprio per loro...» aveva bofonchiato Naruto arrossendo. «Mi piaceva una famiglia numerosa, ecco!»
«Ed è quello che hai. E saranno tutti bambini belli e forti.»
«Come me.»
«Come te.»
Altra pausa.
Naruto aveva accarezzato la guancia arrossata di una delle bambine, che, come già appurato, avevano gli occhi azzurri e nessuna traccia di byakugan.
«Certo che i maschi alla fine sono stati solo due, eh» se ne era uscito in tono casuale.
«Come?»
«No, dico... sette figli e due soli maschi. Sasuke e Sakura ne hanno quattro.»
Silenzio. Denso silenzio.
«Naruto...»
«Non sto mica dicendo niente, eh! In fondo le probabilità erano del cinquanta percento e le femmine sono fantastiche, sul serio, le adoro!»
«Naruto...»
«Guarda Hinagiku! Sembra quasi un maschio, no? E’ come averne uno in più! Già, le femmine sono proprio splendide!»
«Naruto, stai per caso cercando di dire qualcosa?»
Doveva accorgersene quando Hinata aveva calcato il suo nome, avrebbe pensato più tardi.
«Ehm... non esattamente... Cioè, forse sì» aveva inspirato a fondo, poi, facendo bene attenzione a non svegliare le bambine, si era sporto verso Hinata. «Insomma. Abbiamo trentaquattro anni, siamo giovani, no?»
«Abbiamo trentaquattro anni e sette figli, Naruto, quattro dei quali nati in due soli parti.»
«Sì, sì, lo so... E’ solo che... Pensaci, dai! Tre bei maschietti vivaci tutti uguali a me, e...»
Si era interrotto bruscamente quando le labbra di Hinata erano scomparse, livide e biancastre.
«Naruto.»
Un brivido.
«Ho trentaquattro anni e due neonate sul letto. Neanche ieri queste due neonate sono venute alla luce in maniera del tutto naturale, e non lo augurerei nemmeno al generale della Roccia che voleva uccidermi. Ti amo, Naruto, e voglio vederti felice: questa è l’unica ragione che mi ha permesso di arrivare fino ad oggi senza lamentarmi. Ma, e credimi, ti amo ancora nonostante tutto, adesso basta. Hai avuto sette figli come Sasuke, e sono tutti splendidi e perfetti! Io ho fatto sette figli soffrendo le pene dell’inferno, e ora penso che cinque femmine sia quanto di meglio potesse capitarci! Perciò, Naruto, non chiedermi altri bambini, non farlo, o potrei trovare qualcosa da ridire!»
Qualcosa da ridire’. Una minaccia da quattro soldi sulle labbra di chiunque, ma non su quelle di Hinata, nonostante le sue urla, se di urla si poteva parlare, fossero molti decibel al di sotto della rabbia media. Naruto, fissando i suoi occhi dalle pupille contratte, aveva deglutito a vuoto, tendendo d’istinto una mano ad accarezzare la bambina che si era messa a piangere.
«Ma no, io non intendevo...» aveva balbettato, imbarazzato, e Hinata aveva abbassato rigidamente lo sguardo per accarezzare la seconda neonata che rischiava di svegliarsi.
«Va bene così, Naruto» aveva risposto, con una strana voce monocorde. «Credo che abbiamo concluso il discorso.»
E allora, insieme alla drammatica fine delle sue speranze di fondare una squadra di calcio con i piccoli Uzumaki, a Naruto erano tornate in mente le parole pronunciate da Tsunade in occasione della miracolosa nascita di Minato: ‘verrà il giorno in cui questa povera donna si ribellerà, statene certi’.


Dopo due anni, vivo e seduto a una tavola decisamente affollata, Naruto non pensava più all’Uzumaki football team – se non sporadicamente – e riteneva che tenere d’occhio sette bocche fosse già abbastanza oneroso, visto che avevano tutte la tendenza a strozzarsi con il cibo tre volte al giorno. Non aveva più aperto il discorso con Hinata, si era goduto i figli e le figlie e si era persino rassegnato a tornare alle vecchie precauzioni, cosa che lo lasciava parecchio stranito, dopo undici anni di libertà. Poi aveva praticamente adottato Chiharu, Kotaro e Hitoshi.
«Saranno almeno sei mesi che non mangio un ramen con quei tre» rifletté, ruminando la sua cena con aria assorta.
Hinata sollevò lo sguardo dal tavolo e sorrise, fingendo di ignorare Hinagiku che spostava gli spinaci dal suo piatto a quello di Hanako.
«E’ vero, ultimamente li hai un po’ trascurati» ammise, tendendosi a versare dell’acqua a Minato, che tossiva disperato per colpa di un boccone di traverso. Non aveva bisogno di chiedere di chi parlasse, ormai aveva imparato a riconoscere il tono con cui Naruto si riferiva alla sua squadra.
«Tra la storia dell’Hokage ora, e tutti i problemi prima li ho persi di vista. E’ che se la cavano benissimo anche senza di me, sono grandi ormai...» sbuffò, battendo pacche leggere sulla spalla di Minato. «Almeno adesso che stanno per partire per Suna dovrei portarli fuori a cena. Come facevamo con i ragazzi da giovani! Ma certo!»
«Penso sia un’ottima idea» approvò Hinata, che non conosceva i risvolti alcolici del passato di Naruto. «E se vedi la moglie di Iruka ricordati di farle i nostri auguri per la gravidanza, mi raccomando. Alla sua età è già difficile avere bambini, non credo che abbia molte altre occasioni...»
«Non dovremmo portarle un vassoio di dolcetti? Hina, riprendi immediatamente quegli spinaci o ti spedisco a casa di Neji.»
Hinagiku impallidì, e sotto lo sguardo timido di Hanako riprese la poltiglia verde che tanto odiava.
«Forse sarebbe meglio un sacchetto di tè pregiato» obiettò Hinata pensierosa. «Se non sbaglio dovrebbe essere ancora nel periodo delle nausee.»
«Oh, non ricordarmelo... Cerco il tè, okay? E nel biglietto metto anche i bambini?»
«Sì, penso che possa funzionare. E li inviteremo a cena, una sera.»
«Cucina Ayame?»
«Naruto!»
«Che ho detto?»


Dal momento che la gravidanza era solo agli inizi, ogni sera Ayame stazionava ancora dietro al bancone di Ichiraku. Accoglieva i clienti, sorrideva, rispondeva educatamente alle loro domande, versava sakè in abbondanza e faceva lievitare il conto per magia. Quando suo padre se ne accorgeva lei si limitava a ricordargli che un bambino comporta molte spese, e il futuro nonno si scioglieva e la lasciava fare, ripromettendosi di ripagare i gentili allocch... ehm, ospiti, con la preziosa visione del pargolo, una volta che fosse nato.
Tuttavia, quando Naruto si presentò al banco insieme ai suoi tre allievi, Ayame arrivò a pensare di fermare il flusso di sakè, anziché alimentarlo: al sesto rabbocco del vaso di ceramica tra Chiharu e Kotaro gettò un’occhiata preoccupata al padre, chiedendogli silenziosamente come dovesse comportarsi. Oltre il legno e le ciotole di ramen mezze vuote, illuminati dalle luce calda delle lampade appese al soffitto, Naruto e Kotaro erano riversi sul bancone a cantare allegramente una canzone volgarotta. Accanto a loro Chiharu fissava le bacchette con sguardo intento e poi cercava invano di prelevare un pezzo di carne dal suo brodo, mancando clamorosamente qualunque cosa fosse solida nella tazza, mentre Hitoshi, seduto subito oltre, aveva realizzato che anche se avesse fumato una sigaretta davanti a Naruto lui non se ne sarebbe ricordato, e quindi aspirava boccate rassegnate fissando il menù.
«Ancora!» esclamò Naruto all’improvviso, sollevando il sakè e rovesciandone metà sul tavolo. L’incidente lo fece scoppiare a ridere, il che trascinò Kotaro in una risata convulsa che per poco non lo ribaltò dallo sgabello.
«Credo che per stasera sia abbastanza...» intervenne Ichiraku, avvicinando cautamente la mano a quella di Naruto. Ma lui tirò indietro la sua, offeso, e gli scoccò un’occhiataccia. «No no» commentò, cercando di schioccare la lingua e riuscendo quasi a strozzarsi. «Io l’ho pagato e io me lo bevo.»
E giù tutto in un colpo.
«Kaboom!» fece Chiharu, lasciandosi andare a una risatina isterica che spinse Hitoshi a fissarla.
«Sei ubriaca?» le chiese stralunato.
«Chi, io?» replicò lei, fissandolo improvvisamente seria come marmo. «No, sono solo un po’ brilla» e piantò la bacchetta sul bordo della ciotola, rischiando di rovesciarla.
Hitoshi inspirò a fondo: a causa delle solite emicranie quella sera aveva evitato l’alcol. Per la stessa ragione aveva anche scordato di controllare che i suoi compagni di squadra non si dessero alla pazza gioia. E ora, con orrore, si rendeva conto che di tutti e quattro era lui l’unico sobrio. La cosa più irritante era sentire Naruto che continuava a ripetere quanto fosse venuta bene la serata.
«Ragazzo, forse faresti meglio a portarli a casa» suggerì Ichiraku con una certa discrezione.
«Da solo?» Hitoshi fece una smorfia decisamente poco entusiasta.
«Non lo so. In qualche modo.»
Entrambi fissarono di nuovo gli altri, e videro Naruto con la ciotola calcata sulla testa che combatteva accanitamente con Chiharu in una sfida all’ultima bacchetta. Sotto di loro Kotaro, tut'a un tratto, piangeva.
«Okay, ha ragione» si arrese Hitoshi. «Quant’è?»
«Lascia stare il conto. Ci penserà Naruto domani. O dopo. O tra una settimana, se per allora si sarà ripreso. Non l’ho mai visto bere tanto.»
«Io non ho mai visto nessuno di loro ridursi così» grugnì l’Uchiha, tirandosi in piedi. «Forza! Sveglia! Si va in missione!» chiamò, strappando le bacchette dalle mani dei due fieri combattenti.
Chiharu balzò allegramente in piedi, ondeggiando come un salice in piena tempesta, Naruto inciampò in una delle gambe dello sgabello e piombò a terra ululando dal divertimento.
«Livello S!» esclamò Chiharu sollevando un pugno.
«Naturale» grugnì Hitoshi, sospingendola verso il bancone quando la vide pendere verso l’asfalto. Lei barcollò per un istante, si aggrappò allo sgabello e finì per accasciarsi sulla schiena di Kotaro, ancora in lacrime. Nonostante sapesse perfettamente che era solo ubriaca, Hitoshi provò una punta di irritazione e la tirò su di nuovo, assolvendo all’ingrato compito di sorreggerla.
«Forza! Basta schifezze!» gridò Naruto rialzandosi a fatica. «Tutti a dormire, mocciosi!»
«E’ arrivato» borbottò Hitoshi, mentre lui sollevava di peso Kotaro.
«Allora. Tu porti a casa lui e io porto a casa lei» spiegò il maestro sbattendogli addosso il compagno gemente, e senza tanti complimenti si fece rotolare addosso Chiharu, ancora immersa in una serie di risatine isteriche. Lei gli si aggrappò al collo e gli scompigliò i capelli, e Hitoshi, inaspettatamente, sentì una vena di irritazione gonfiarsi sopra la tempia.
«Ma tu e Kotaro abitate più vicini» sibilò, spingendo il compagno verso il maestro e tirando indietro Chiharu.
Naruto corrugò la fronte, momentaneamente stordito dall’improvviso cambiamento, quindi sollevò un indice con l’intenzione di dire qualcosa che evidentemente gli era già sfuggita. Ci rifletté per un istante, infine se ne uscì con un profondo: «Uh.»
«Siamo d’accordo» troncò Hitoshi, facendosi passare un braccio di Chiharu attorno al collo e cercando di ignorare la sua risata, così vicina all’orecchio che lo avrebbe stordito se non fosse stata intrisa d’alcol.
«Aspetta un attimo» lo bloccò Naruto, mettendolo improvvisamente a fuoco. «Non mi suona bene.»
«Tre per venti?»
«Ottantasei. No. Cinquantaquattro. Ma che c’entra?»
Hitoshi stirò le labbra in un sorriso di scherno. «Sei così ubriaco che nulla ti suonerà bene, stasera.»
«Ehi ehi! Ricorda a chi devi portare rispetto, moccioso!» tuonò Naruto, e nella foga lasciò andare Kotaro, che si schiantò al suolo e si svegliò dal torpore con un patetico: «Questo è sleale!»
«Tu non porterai a casa Chiharu» insisté Naruto, riacciuffandolo e piazzandoselo sulle spalle – cosa che fece molto male al suo equilibrio. «Non mi fido a lasciartela in mano in quelle condizioni.»
«Stai insinuando qualcosa?» scattò Hitoshi sentendo il sangue salire velocemente al viso.
«Certo che sì!» esclamò Naruto, appoggiandosi al banco per ritrovare il baricentro. «Tu sei un Uchiha. Un Uchiha! Gli Uchiha saltano addosso alle donne degli altri come... come... come pulci!»
«Le donne di chi?» Hitoshi strabuzzò gli occhi.
«Degli altri! Le mie! No, la mia! Oh, ma chi se ne importa? Se ti lascio con Chiharu me la mangi!»
Hitoshi iniziò a pensare che ne aveva abbastanza. «Premesso che gli Uchiha si fanno assalire dalle donne e non il contrario,» esordì pomposamente, sotto lo sguardo preoccupato di Ichiraku e figlia. «credo che nessuno abbia il coraggio di mettere le mani addosso a questa cosa!» scosse Chiharu, che fissò uno sgabello con un sorriso stupido. «Io per primo! Non la spingerò dietro nessun cespuglio, non la assalirò tra le ombre, e quando sarai sobrio torneremo sul discorso ‘mie donne’, signor ‘sono felicemente sposato e me ne vanto’!»
Naruto gli rilanciò uno sguardo confuso. «Eh?»
Hitoshi sentì una vena vicina alla frattura, dalle parti del pomo d’Adamo, e comprese che se parlare con Naruto sobrio era difficile, parlare con Naruto ubriaco era impossibile.
«Ne discutiamo domani! Vattene a casa!» abbaiò, minacciando di calciarlo via.
«Senti un po’ tu, brutto... brutto...» partì Naruto, ma Kotaro gli si aggrappò al collo e gli schiaffeggiò la bocca con espressione severa.
«No no» disse. «No. Non si dice. No. Devo vomitare.»
Ichiraku sbiancò, Ayame scomparve nel retro, Naruto fissò Kotaro confusamente e Hitoshi soffocò il grido che premeva nella sua gola.
«Giuro che se non me ne vado in questo preciso istante do fuoco a tutti, anche senza Amaterasu» ringhiò tra sé. E mentre Naruto entrava nel panico vedendo il colorito di Kotaro e Ichiraku gli tendeva precipitosamente una ciotola vuota, lui sistemò meglio il braccio di Chiharu sulla spalla e la costrinse a voltare la schiena a tutti.
«Ciao ciao!» rise lei, salutandoli con la mano. Per farlo perse di nuovo l’equilibrio e per poco non strozzò Hitoshi.
«Ciao niente!» strillò Naruto, aggrappandosi al suo colletto con l’ultimo barlume di razionalità. «Io lo so cosa vuoi fare!»
«Ucciderti» sibilò l’Uchiha voltandosi rabbioso, ma mentre lo faceva vide la sua ancora di salvezza oltre le spalle del maestro. E un lampo di trionfo gli passò nello sguardo.
«Inuzuka!»
Kiba, che avanzava poco oltre, vide il gruppo al completo e ignaro li raggiunse, tenendo per mano una bambina sui due anni. Sembrava ancora il diciottenne di un tempo, ma forse e solo forse aveva domato leggermente la sua natura ribelle e messo su un paio di chili.
«Naruto! Saranno settimane che non ci vediamo! Congratulazioni per la nomina!» esordì battendo una pacca sulla sua spalla, mentre una donna e una bambina un po’ più grande si univano a lui, con il bisnipotino di Akamaru al seguito. Naruto lo mise a fuoco con difficoltà, poi sorrise, fissando il suo orecchio. «Shino! Quanto tempo!» ridacchiò.
«Sbornia di terzo grado» annunciò la moglie di Kiba, Tsume, figlia del capo del clan Nekozuka e storico nemico degli Inuzuka. Il loro era stato un amore molto turbolento, a partire dal primo incontro al matrimonio di Naruto che si era risolto in una quasi faida generazionale, e poi si era evoluto fino a un matrimonio che tuttora lasciava perplessi tanti e che vedeva le bambine contese tra i due clan: a breve avrebbero ricevuto un animale di cui occuparsi, ma sarebbe stato un cane o un gatto?
Naruto fissò l’intera famiglia mentre Kiba realizzava lentamente la situazione, poi ridacchiò scioccamente. «Dove sono i vostri insetti?» chiese gioviale. «Ah! Datemi una mano! Portate a casa Chiharu!»
«Chi?» fece Kiba, stordito, e Naruto con una manovra complessa si voltò per indicare Hitoshi, mentre Kotaro svuotava lo stomaco in una ciotola sotto lo sguardo scioccato della figlia minore di Kiba. Ma alle sue spalle c’era solo la luce aranciata delle lampade di Ichiraku e un vago, vaghissimo sentore di fumo.

Hitoshi procedeva imprecando con la sigaretta tra i denti e un braccio a sorreggere Chiharu. Se Kiba non fosse comparso all’orizzonte dubitava che sarebbe riuscito a distrarre Naruto abbastanza a lungo da allontanarsi.
Sbuffò, sputando a terra il mozzicone consumato, ma l’attimo di distrazione fece sì che Chiharu inciampasse nei suoi stessi piedi e rischiò di fargli stirare un muscolo sulla schiena.
«Cosa dovrei mettere addosso a questa qui?» sbottò mentre la sentiva ridere felice. «Neanche la punta di un dito, porca p...»
«Dove si va?» lo interruppe lei con la testa reclinata mollemente sulla sua spalla.
«A casa» grugnì lui, trattenendosi a stento dall’aggiungere ‘idiota’.
«Sembra divertente...» sospirò lei tamburellandogli i capelli con le dita.
Hitoshi roteò gli occhi. Poi, a sorpresa, la sentì tirarsi leggermente su e posare il viso nell’incavo del suo collo. Quando il suo respiro gli solleticò la pelle, contro ogni logica avvertì un brivido caldo.
«Puzzi di fumo» la sentì sussurrare con voce meno strascicata di quel che pensasse.
«E tu di alcol» rispose in un borbottio cercando di scrollarla via.
La sentì allontanarsi ridendo e provò un certo disagio accorgendosi del suo seno contro il torace.
«Ma sotto sotto profumi» gli concesse lei, scuotendo la testa come per snebbiarsi le idee. «Non lo so. Sento anche puzza di sakè. Hai bevuto?»
«Tu hai bevuto.»
«Oh. Non mi sembrava.»
«Haru, sta’ zitta!»
«Perché?» sollevò la testa, sforzandosi di sfoggiare il suo miglior ghigno strafottente, ma tutto ciò che tirò fuori fu un vago sorriso ebete.
«Perché straparli!»
Chiharu sospirò, e di nuovo lui la sentì contro il collo e la sentì espirare ridendo piano.
«Smetti di fare anche questo!» le sibilò, infastidito, in qualche modo lusingato, ma soprattutto nervoso.
«Perché?» ripeté lei in un mormorio roco. «Perché ti piace?»
«Sei ubriaca!» se la scrollò di dosso bruscamente e lei perse per un attimo l’equilibrio, rischiando di piombare a terra nel mezzo della strada silenziosa.
«Se sono ubriaca non ti conviene lasciarmi in piedi da sola» gli fece notare lei, poi gli si appoggiò addosso con uno sbadiglio. «Lo sai? Non ho sonno» biascicò.
Hitoshi sospirò esasperato. Si arrese all’idea di sostenerla. «Ti odio da ubriaca» mormorò passandole un braccio attorno al corpo, e il disagio che aveva provato fino a un attimo prima si acuì e trasformò quando sentì il suo fianco sotto la mano. Forse l’odore dell’alcol si stava dissolvendo, perché all’improvviso gli sembrava molto meno fastidioso.
E fu allora, quando meno se lo aspettava, che lei alzò la testa, gli posò una mano sulla nuca e lo tirò a sé, baciandolo.
L’aroma forte del sakè gli entrò nelle narici tutto in un colpo, annebbiandogli per un attimo i sensi. Sentì le dita di Chiharu tra i capelli, e dopo un istante la sentì dischiudere le labbra e ricordò perché l’alcol gli faceva schifo. Ma fu solo un istante, subito travolto da anni di fantasticherie e sogni ad occhi aperti, anni pieni di notti insonni, riflessioni e sforzi disperati per smettere di pensarci. Da quanto rimuginava su un bacio di Chiharu? E da quanto odiava Baka e Yoshi e anche Kotaro e chiunque le si avvicinasse? Senza contare che fino a due minuti prima la trovava quasi ripugnante – o si stava sforzando di farlo? – mentre ora, anche se lui era debole e lei ubriaca, anche se sapeva che quel bacio era vuoto e inutile, gettava alle ortiche l’onore, l’etichetta, gli ammonimenti deliranti di Naruto e dimenticava l’odore e il sapore del saké, stringendosi addosso Chiharu e rispondendo al bacio con la foga del miracolato. Si sentiva più ubriaco di lei, e sentiva che avrebbe voluto continuare a baciarla fino a un maledetto letto e fregarsene della morale e di quello che avrebbero detto gli altri, approfittarne ora che era lei a cercarlo, subito, perché non sarebbe capitato di nuovo. Prima di rendersene conto si trovò ad accarezzarla, a baciarle il collo e la bocca, ancora, respirando veloce o non respirando affatto.
«Piano...» sussurrò lei con una risatina, poi lasciò che tornasse alla pelle sensibile sotto il mento. Lui la sentì ridere contro il suo orecchio, le mani affondate nei capelli e l’intero corpo premuto contro il suo, e la sospinse contro il muro di una casa. Si staccò un solo istante per riprendere fiato.
All’improvviso lei smise di ridere e lo fissò, mortalmente seria.
«Non sono ubriaca» mormorò, e quel mormorio impiegò qualche lungo istante per diventare comprensibile nella testa di Hitoshi.
Ma, non appena lo fu, la sorpresa e l’euforia vennero spazzate via dalla risata incontrollata di Chiharu.
«Forse sono un po’ brilla» continuò lei, la fronte contro la sua spalla e la voce soffocata contro la maglietta. «Ma non del tutto. Sai me l’ha detto che devo esercitarmi. E tu... tu...» alzò lo sguardo, cercando di metterlo a fuoco, poi corrugò la fronte.
«Che cosa ti ha detto Sai?» farfugliò Hitoshi.
«Mmh... Voglio andare a casa. Devo vomitare.»
Non c’è che dire, pensò il lato cinico di Hitoshi, mentre l’eccitazione spariva di botto. Una conclusione di classe.

---

Ci volle tutto il giorno seguente perché i ragazzi e Naruto recuperassero la lucidità: Chiharu e Kotaro dovettero lottare contro un'emicrania feroce, che ostacolava pesantemente la preparazione degli zaini per la missione; Hitoshi passò la mattina a fingere di avere lo stesso problema per concentrarsi sugli ultimi sviluppi con Chiharu, ma la questione era di tale portata che nel pomeriggio l'emicrania divenne realtà e dovette restare davvero rinchiuso in stanza con le finestre oscurate per diverse ore.
Lo studio dell'Hokage rimase penosamente vuoto: Naruto era fuori gioco, Sakura era di turno in ospedale e Sasuke si era defilato in commissariato prima che a qualcuno venisse in mente di convocarlo. Shikamaru, subodorando il rischio di una giornata di duro lavoro, era letteralmente scomparso nel nulla lasciando detto che aveva importanti questioni di strategia da approfondire. Temari sospettava che stesse dormendo a casa dei suoi genitori, ma non poteva provarlo.
Così fu Koichi ad impilare in bell'ordine i documenti con le autorizzazioni per la missione di Suna, tutti freschi di stampa e completamente privi di firme. Nel farlo versò qualche lacrima di nostalgia al pensiero di Kakashi, che per quanto inefficiente almeno si presentava in ufficio. Preparò le pile di incartamenti suddividendoli ordinatamente per shinobi, spolverò le poche zone libere della scrivania e compilò attentamente il modulo per la richiesta di ferie che faceva la polvere nel cassetto da mesi.
Al diavolo il periodo di preavviso, lui domani non si sarebbe presentato. Venissero pure a lamentarsi!
Cosa che, in effetti, Sakura fece.
Uscita dall'ospedale passò nello studio dell'Hokage, aspettandosi di trovare Naruto o almeno Shikamaru, ma fu accolta soltanto da sei pile di documenti complicati e un foglio di ferie di dubbia validità. Allora raccolse il materiale e si trasferì da Koichi, chiedendogli di analizzare insieme ogni singolo paragrafo per evitare che il Consiglio li utilizzasse contro di loro in futuro. Koichi tentò una flebile protesta, ma la minaccia di non considerare valida la sua richiesta di ferie lo ridusse ben presto al silenzio.
Fu così, con una manciata di ore di sonno all'attivo e due vistose occhiaie sugli zigomi, che Sakura si presentò alle porte del Villaggio la mattina della partenza del gruppo per Suna.
«Tirate fuori i sigilli!» annunciò distribuendo i plichi a ogni intestatario. «Nessuno si muove di qui se non vedo tutte le vostre firme!»
Ci fu un po' di confusione mentre le penne passavano di mano in mano tra i borbottii. Temari colse l'occasione per riversare fiumi di lamentele sull'inefficienza del marito, che finì per nascondersi dietro Chiharu per scamparla. Naruto firmò nei posti sbagliati e dovettero discutere sulla validità o meno delle firme cancellate da uno scarabocchio. Alla fine, dato che Koichi era in ferie, stabilirono di accettarle a patto di controfirmare la correzione con tutti i sostituti Hokage, e in pratica la partenza fu ritardata di quasi mezzora.
Chiharu riempì i suoi moduli rapidamente e li consegnò a Sakura perché li facesse passare agli altri Hokage. Fu la prima a finire, il che le concesse qualche minuto per osservare Hitoshi senza che nessuno se ne accorgesse.
Aveva avuto un incubo, da ubriaca. Aveva sognato che Hitoshi la accompagnava a casa dopo il ramen da Ichiraku e la baciava contro il muro di una casa. Ma non poteva essere reale, doveva per forza essere un brutto sogno, giusto?
Che razza di sogno, tra l'altro. Baciare Hitoshi? Neanche sotto tortura. Avrebbe portato conseguenze catastrofiche, tra cui l'esplosione definitiva del gruppo Sette e le risate eterne di Sai. Dei, poteva quasi immaginarselo Sai che si sbellicava: le aveva detto di fare pratica e lei aveva preso un ragazzino inesperto?
Hitoshi finì di compilare i documenti e incrociò il suo sguardo. Lo distolse subito. A Chiharu si gelò la spina dorsale.
Poteva non essere un sogno, dopotutto?
«A pagina trentadue quante firme hai messo?» chiese Kotaro facendola trasalire. «Io ne vedo sei, tu?» Chiharu diede una rapida occhiata al foglio e confermò, innervosita. «Credo di avere ancora qualche postumo dall'altro ieri...» si scusò il giovane Lee. «Mia madre dice che ancora non sa come ha fatto Naruto a trovare casa nostra, tanto era marcio.»
«Ah, ti ha riportato Naruto?»
«Sì... Ha riportato a casa tutti, no?»
Chiharu serrò le labbra. Non se lo ricordava. Kotaro la fissò per un lungo istante, poi spostò lo sguardo su quello che vedeva lei, e notò Hitoshi che aggiungeva un paio di firme dimenticate insieme a Sakura. Si irrigidì.
«Tua madre non si è lamentata vedendolo così ubriaco?» insisté un po' troppo in fretta. «Insomma, è il nostro maestro, non...»
«I miei non si sono svegliati» troncò lei. «Sono una brava kunoichi anche da ubriaca.»
«Ah, certo...» Kotaro si mosse a disagio da un piede all'altro. «Quindi anche tu sei tornata con Naruto.»
Chiharu non confermò. I flash di quello che si sforzava di considerare un incubo si ripresentavano alla sua mente con più insistenza, davanti a Hitoshi. Qualcosa le serrava lo stomaco. Voleva solo che Kotaro se ne andasse e la lasciasse in pace.
«Devo riflettere!» sbottò senza pensarci. Kotaro ammutolì. «Cioè. Mi sa che ho saltato una pagina verso la fine. Ci stavo ripensando adesso. L'avevo lasciata per dopo e non l'ho più compilata... Scusa un minuto.»
Senza lasciargli il tempo di ribattere si allontanò in direzione di Sakura e Hitoshi. Li raggiunse appena prima che Sakura fosse chiamata altrove, ma fece in tempo a riprendere in mano i suoi documenti e chiedere a Hitoshi la penna. Lei e lui rimasero soli, in silenzio, senza guardarsi.
Hitoshi la vide sfogliare il suo documento avanti e indietro, come se cercasse qualcosa, ma le firme erano perfette e in ordine. Una parte di lui voleva dirle di tenersi la penna e allontanarsi in tutta fretta, un'altra non riusciva a smettere di sbirciarle il collo in cerca di segni dell'altra sera. Chissà se Chiharu ricordava qualcosa?
«Allora... Ti sei ripresa?» azzardò l'Uchiha faticosamente.
Chiharu scrollò le spalle e gli gettò un'occhiata infinitesimale. «Tu?»
«Ieri è stata dura.»
«Davvero hai bevuto con i tuoi mal di testa?»
Hitoshi la fulminò con lo sguardo. No, non ho bevuto. Però ho pensato a quanto hai bevuto TU, avrebbe voluto risponderle. Invece si schiarì la voce e guardò altrove. Deglutì. Fuori le palle, si disse prendendo fiato.
«Sai,» lo prevenne Chiharu. «Kotaro dice che Naruto lo ha riportato a casa completamente ubriaco. Chissà come ha fatto ad accompagnare noi?»
Hitoshi fece una smorfia risentita. «Vuoi giocartela così?»
«Giocarmela?» ripeté lei, per una volta confusa.
«Davvero non ti ricordi niente?»
Chiharu esitò, a disagio. Flash dell'incubo dell'altra notte le balenarono davanti agli occhi insieme a un poco opportuno ricordo del profumo di Hitoshi, che ora le sembrava molto più intenso.
Oh-oh.
«No. Non ricordo niente» si affrettò ad assicurare. «Ero più marcia di Naruto, si vede... Beh, meno male che a casa ci siamo arrivati, giusto?» ripiegò distrattamente i documenti per la partenza. «Le firme sono a posto, vado a consegnarle a tua madre. Tieni.»
Hitoshi prese meccanicamente la penna che lei gli tendeva, resistendo all'impulso di insistere. Aveva abbastanza orgoglio per capire che Chiharu non voleva approfondire la questione. Bene, allora. Non l'avrebbero approfondita. Al diavolo lei e le sue avances alcoliche. Al diavolo!
Infilando rabbiosamente la penna nello zaino, si voltò e incrociò lo sguardo di Kotaro. In un secondo vi lesse sospetto, minaccia e un fondo di paura. Ripensò alla sera in cui avevano bevuto seduti sul marciapiede, alla scioltezza con cui lui aveva centrato il cestino, al fondo di avvertimento che aveva sentito nelle sue parole. Ripensò, fissandolo, al loro tacito accordo per tenere in piedi il gruppo sette.
Senza rispondere all'occhiata, quindi, gli diede di nuovo le spalle.
In quel momento chiamarono tutti a raccolta. La cerimonia delle firme era completata, Sakura aveva mollato il faldone in mano a Naruto e stava facendo gli auguri di rito. Hitoshi tornò rapidamente alla realtà constatando che per l'ennesima volta l'unico grande assente era suo padre, e questo, sommato all'irritazione causata da Chiharu, gli fece desiderare una sigaretta con intensità quasi morbosa. Sventuratamente, per almeno tre giorni sarebbe dovuto restare pulito.
«Siate prudenti, non abbassate mai la guardia» disse Sakura in conclusione. «Non ho bisogno di sottolineare per l'ennesima volta quanto sia importante la riservatezza, in questo caso.»
«Saremo muti come tombe!» approvò Gai con un sorriso altrettanto luminoso. «Torneremo vincitori, mio Hokage!»
«Non ne dubito» gli concesse lei, magnanima.
«Ehi» Naruto si schiarì la voce irritato. «Io sono l’Hokage. Io. E’ così difficile da ricordare?»
«No maestro!» si affrettò ad esclamare Kotaro. «Cioè, no, nobile Hokage!»
Naruto lo fissò abbattuto e cercò aiuto guardando Chiharu.
«Più aspettiamo, più aumenta il caldo» disse lei lapidaria.
«Avete finito di perdere tempo?» annuì Temari, battendo a terra un piede.
Naruto piegò la testa sulla spalla di Shikamaru, demoralizzato, e lui gli batté una pacca indolente sulla schiena. «Lo so. Lo so. Sono fatte così, purtroppo.»
«Forza, gambe in spalla e partiamo!» esclamò Gai a quel punto, pieno di entusiasmo. «La giovinezza non attende!»
In un balzo fu già diversi metri oltre l’ingresso, lungo il sentiero. Rock Lee e Kotaro lo seguirono entusiasti, anche se la gioia di Kotaro aveva un che di affettato. Dietro di loro partì Hitoshi, dribblando i sicuramente umilianti auguri di sua madre, e a seguire Temari e Chiharu.
Gli Hokage rimasero a guardarli con un’ombra di inquietudine sul viso, non osando augurare buona fortuna a voce alta.
Ma non erano gli unici a sperare silenziosamente per il meglio. Mentre correva rasente il bosco Chiharu intravide una sagoma tra i cespugli, e, ne fu certa, la riconobbe per quella di Baka.
Suo malgrado si lasciò sfuggire un sorriso impercettibile.
Stupido...








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Buonasera a tutti!
Aggiornamento in diretta dalla gelida Olanda.
A questo punto la storia ha preso un binario proprio diverso
rispetto alla precedente versione.

Non ho ancora idea di come si risolverà.
Ehm.

Grazie a tutte le persone che lasciano una recensione
e a quelli che leggono soltanto!
Dopo tanti anni mi commuovete sempre!

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Capitolo 10
*** Spiati ***


Penne 10
Capitolo decimo

Spiati




Correvano da ormai cinque giorni, calcolò Jin. Ansimando dietro la schiena di Kakashi, che per la sua età si muoveva con un’agilità impressionante, per la prima volta il ragazzino letale si sentiva solo un figlio che segue le orme del padre, e ne fu orgoglioso.
Fino ad allora avevano viaggiato coperti dai mantelli mimetici e percorrendo i sentieri meno battuti, ma sembrava che nessuno fosse stato mandato alla loro ricerca. Naruto doveva aver fatto un ottimo lavoro a Konoha, pensò Kakashi spiegando a Jin quale fosse la loro copertura.
Le notti precedenti le avevano trascorse accampati nella foresta. Jin aveva visto il nobile Hokage piazzare trappole, controllare il circondario e tornare sporco di fango, e invece di pensare che fosse meno nobile aveva pensato che non aveva nulla da invidiare ai Jonin che uscivano in missione ogni giorno. Più gli stava vicino e più si rendeva conto che Kakashi poteva insegnargli molte cose. Non era solo un burocrate seduto dietro la sua scrivania: le storie sul suo passato e sul suo talento, prima tanto difficili da accettare, ora ricevevano continue conferme.
Viaggiando insieme si erano abituati subito l’uno all’altro, come se avessero fatto parte dello stesso gruppo per anni. Sapevano quando fermarsi, quando mangiare, persino cosa pescare dal sacco delle provviste; ogni volta che Kakashi estraeva il pacchetto a cui lui stava pensando, Jin si illuminava e gioiva segretamente per lo strano senso di comunione che per la prima volta sperimentava con un altro shinobi. Era così appagato che per il momento riusciva a resistere alla tentazione di fare domande.
Nei pressi di un villaggio di confine si fermarono per studiare la mappa. Nel Paese del Fuoco avevano evitato i centri abitati, per questo Jin rimase molto colpito dallo scarto tra il paese che si intravedeva tra le fronde e la rigogliosa Konoha: le case erano poco più che baracche di legno tra cui razzolavano pochi polli; non c’erano viali né fontane, non c’erano nemmeno strade degne di questo nome. Davanti al varco che probabilmente fungeva da via principale due uomini camminavano con indolenza, scambiandosi informazioni e sigarette.
«Mercenari» mormorò Kakashi indicandoli. «La Roccia sta cercando di rimpolpare le sua fila.»
«A cosa pensi che facciano la guardia?» domandò Jin mentre Kakashi riponeva la mappa.
«Questo è uno dei valichi più comodi per oltrepassare il confine: il villaggio davanti a noi è per metà nel Paese del Fuoco e per metà in quello della Roccia.»
«Quindi quegli uomini sono ancora nel nostro territorio?»
«Sono certo che se lo chiedessi a loro direbbero che il villaggio è proprietà della Roccia.»
«Li uccidiamo?»
«No. Li oltrepassiamo senza che ci vedano» sospirò Kakashi. «Cerca sempre di evitare di uccidere, Jin: crea molti più problemi di quanti ne risolva.»
Jin non ne era molto convinto, ma non ribatté. Invece studiò quel che vedeva dal loro nascondiglio e indicò al padre un gruppo di baracche sul limitare della foresta. «Passando di lì non ci noteranno.»
«Aspettiamo il buio» suggerì Kakashi gettando un’occhiata al sole che si avviava verso il tramonto. «Nel frattempo mangiamo qualcosa.»
Dopo cinque giorni le scatolette di zuppa fredda sarebbero diventate disgustose per chiunque, ma Kakashi era abituato a cose ben peggiori e Jin era troppo abituato ad obbedire per sollevare obiezioni. Mentre consumavano il magro pasto osservarono quel che accadeva nel villaggio.
Con il tramonto gli uomini tornarono dal lavoro, sporchi e affamati. Dalle finestre socchiuse iniziarono a farsi avanti i profumi delle verdure e del riso, che fecero contrarre dolorosamente lo stomaco di Jin. Alcuni bambini furono mandati a radunare le galline prime che calasse l’oscurità. Uno dei mercenari finì il suo turno di guardia e venne sostituito da un uomo più grosso.
«Le città della Roccia sono come Konoha?» chiese Jin meditabondo. Durante le sue missioni era sempre stato mandato in luoghi sperduti a rintracciare informazioni nascoste, mai nelle grandi città del centro.
«Non proprio» rispose Kakashi. «Konoha è il Villaggio più ricco di tutti.»
«Posso capire perché ce l’abbiano con noi, allora.»
«Le guerre non hanno mai un’unica causa. Spesso le origini di un conflitto vanno ricercate nel passato, il più delle volte in eventi che al tempo sembravano la mossa giusta da fare. Uno dei motivi fondamentali per cui le Cinque Grandi Terre continuano a litigare sono i Bijuu, lo sapevi? Un Bijuu costituisce un enorme potenziale bellico, se si riesce a controllarlo. Chi ne controlla di più ha più possibilità di schiacciare gli altri.»
«E dopo che li ha schiacciati?»
«Dopo che li ha schiacciati si prende le loro risorse, il loro denaro, il potere e tutto il corredo. E ottiene la pace, in teoria.»
«E’ per questo che stiamo combattendo?»
«Non solo. Non più, almeno... Akatsuki aveva dato il via agli scontri con la sua ossessione per i Bijuu, ma dopo siamo stati bravissimi a trovare altre mille ragioni per combattere. Come vedi le cosiddette assicurazioni di pace non funzionano.»
«Forse perché i Bijuu sono un’arma a doppio taglio: dominarli è quasi impossibile.»
«Certo, lo sanno tutti. Anche noi del Fuoco lo sappiamo benissimo, eppure...» Kakashi scrutò Jin per un lungo momento. «Tu sai di Kyuubi, non è vero?»
«Papà, lavorare con gli Anbu ha i suoi vantaggi...»
«Hai ragione» Kakashi sospirò. Non si poteva impedire alla gente di spettegolare, dopotutto. «Naruto è il Jinchuuriki di Kyuubi dal giorno in cui è nato, e noi lo lasciamo vivere libero anche se sappiamo che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Perché ci fidiamo di lui, certo, ma anche perché abbiamo un enorme bisogno della forza di Kyuubi. E’ la nostra assicurazione contro i Bijuu degli altri.»
«Cinque anni fa, durante la battaglia con la Roccia...» ricordò Jin. All’epoca aveva provato invidia per la forza spropositata di Naruto. «Ogni tanto Naruto perde un po’ il controllo, per caso?» domandò esitante.
«Più spesso di quanto sarebbe auspicabile» ammise Kakashi. «Nonostante ciò resta sempre più utile averlo dalla nostra parte che non averlo.»
Jin soffocò una smorfia. Se le cose stavano così aveva poche probabilità di eguagliare il livello di Naruto, obiettivo che si era prefissato il giorno in cui lo aveva visto alla prova. Certo questo significava che si sarebbe infilato sul gradino appena sotto, non un centimetro più in basso.
«Ma se nessuno avesse i Bijuu...» iniziò, e subito Kakashi lo stroncò.
«Se nessuno avesse i Bijuu troveremmo altro per cui ammazzarci. Fa parte della natura umana, credo: essere sempre sull’orlo dell’equilibrio e sforzarsi di sbilanciarlo a proprio favore prima che lo facciano gli altri. Alla fine tutto si riduce a questo.»
Quando ebbero terminato il pasto i due shinobi si spostarono verso le baracche indicate da Jin. Kakashi richiamò Pak perché annusasse la strada davanti a loro, e al suo via libera uscirono dalla foresta per inoltrarsi in un vicolo sudicio. Le guardie chiacchieravano poco più in là, abbastanza vicine perché brandelli di conversazione li raggiungessero. La luce non era ancora scomparsa del tutto, ma l’aria aveva quell’ombra grigia in cui è difficile distinguere i contorni.
Jin e Kakashi scivolarono silenziosamente contro le pareti delle case, abbassandosi quando incrociavano una finestra illuminata e bloccandosi se si apriva una porta. Il resto del villaggio non era molto diverso dal suo ingresso: ovunque c’erano fango, rifiuti e sporcizia, e i cani randagi venivano allontanati dalle minacce di Pak prima di poter abbaiare contro di loro.
In pochi minuti furono dall’altra parte del villaggio, ma anche lì trovarono due guardie sedute attorno a un falò. Kakashi fece un cenno a Pak, che sparì per qualche minuto. Si udì un latrare feroce di cani e le guardie si voltarono a guardare. I due shinobi colsero l’attimo per correre rapidamente fino alla macchia di arbusti dove iniziava la vegetazione. Quando la raggiunsero, tra i rovi trovarono un cartello annerito dalla muffa che dava il benvenuto nel villaggio di Izano.
Avevano superato il confine.


*


Naruto fissava la macchia sul soffitto da almeno venti minuti, con i piedi incrociati sulla scrivania dell’Hokage. Era una chiazza leggermente più scura dell’intonaco e aveva due specie di protuberanze; assomigliava un po’ alle guance di Choji quand’erano ancora ragazzini. O al seno di Tsunade, prima che prendesse tutti gli anni che aveva. Non che lui l’avesse guardato poi così attentamente, eh. Cioè, forse tra i sedici e i diciotto anni, un pochino...
La porta dell’ufficio si spalancò bruscamente, Naruto trasalì, le due gambe della sedia su cui si reggeva scivolarono stridendo e lui sbatté una gran testata contro il pavimento dello studio.
«Adesso che hai fatto?» chiese Sakura dalla soglia.
«Io? Niente!» si affrettò a negare lui, alzandosi in ginocchio con un gemito. Okay, forse aveva guardato il seno di Tsunade anche mentre stava con Sakura... Ma insomma, non poteva ignorarlo! Era così evidente!
«Se non è niente di grave alzati» sospirò Sakura, attraversando la stanza e lasciando cadere sulla scrivania un plico di fogli. Aggirò il mobile e gli tese una mano, che lui prese per tirarsi su.
«Ho il bernoccolo?» piagnucolò Naruto permettendole di controllargli la nuca. Chinò appena il capo e lei si sollevò in punta di piedi, scostando le ciocche bionde alla ricerca di lividi.
«Niente di rotto» commentò con uno scappellotto leggero. «Puoi ancora regnare indisturbato, nobile Hokage!»
Naruto ridacchiò nonostante il dolore, tirò su la sedia e ci si accomodò. «Qual’è il programma di oggi, cara assistente?» chiese pomposo.
«Che ti alzi immediatamente per lasciarmi mettere un centinaio di timbri» rispose lei. «Devo completare i documenti per l'Archivio sulla missione di Suna, e già è abbastanza seccante essere arrivata a farlo il giorno dopo la partenza del gruppo.»
Naruto fece una smorfia. «Se tu sei qui per la burocrazia e Shikamaru per la strategia, io cosa faccio di preciso?»
«Ti glori del tuo titolo» fu la risposta di Sakura. «E poi fai quello che noi non facciamo abbastanza: ami il villaggio.»
«Oh, sono proprio fondamentale!» biascico Naruto incrociando le braccia sul petto. «Mi sento più utile quando Hinata pettina Hanako.»
Sakura rise e lo raggiunse accanto alla sedia dell’Hokage. «In piedi, forza. Non ho tempo da perdere. Ah, e Neji ha detto che stasera devi invitarlo a cena.»
«Neji?» fece Naruto alzandosi. «Senza preavviso? Hinata avrà un colpo.»
«Che vuoi che ne sappia? Forza, fuori, devo lavorare!»
Con uno sbuffo risoluto Sakura appoggiò le mani contro il petto di Naruto e lo spinse indietro, smuovendolo di qualcosa come due centimetri.
In quel momento sentirono un bussare sommesso alla porta aperta e, voltandosi, entrambi videro Sasuke che li osservava.
Per una frazione di secondo la scena fu di una chiarezza disarmante: Sakura che rideva con le mani sul petto di Naruto e lui che sorrideva di rimando, le dita strette attorno ai suoi polsi.
Buffo. Se non fossero stati assolutamente certi di essere sposati e felici da anni avrebbero detto che l’atmosfera si era come congelata.
Naruto lasciò Sakura e lei si tirò indietro.
«Qual buon vento, mio caro assistente!» esordì il biondo Jonin, rompendo l’attimo di tensione.
«Non direi» replicò Sasuke freddo. Distolse lo sguardo da Naruto e Sakura e avanzò fino alla scrivania. «Ho qualche problema con Morino, mi sta facendo a pezzi i prigionieri. Visto che se gli parlo io fa orecchie da mercante, sono qui per un esposto ufficiale.»
«Ah, Ibiki...» mormorò Naruto, rabbrividendo al ricordo dell’esame per Chunin. «Ultimamente mi hanno detto che ha perso un po’ il senso della misura. Forse è il momento di consigliargli la pensione e reclutare qualcuno di nuovo.»
«C’è da chiedere a Koichi» rispose Sakura. «Ha lui i moduli. Aspetta, vengo con te.»
Sasuke girò sui tacchi e si avviò verso il corridoio, seguito a ruota dalla moglie.
«E la burocrazia?» chiese Naruto, fissando allarmato la pila di fogli sulla scrivania.
«Dopo» rispose lei senza guardarlo.
Sakura uscì dall’Ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Una volta fuori raggiunse Sasuke davanti alla scrivania di Koichi.
«Credo di non averne più» stava mormorando il segretario in quel momento. «Solo un istante, vado a prenderli in archivio.»
Il ragazzo si alzò con un cenno di scuse e si allontanò schivando offeso lo sguardo di Sakura, che gli aveva revocato le ferie dopo un solo giorno per farlo sfacchinare su un quintale di scartoffie. Lei rimase accanto a Sasuke, studiando un portapenne finché i passi di Koichi non furono scomparsi.
«Hai intenzione di fare altre scene del genere?» sussurrò a quel punto.
«Che scene?» replicò lui con voce incolore. «Mi sembra di essere stato impeccabile mentre tu giocavi con Naruto.»
«Giocavo in che senso?» sorrise lei, sarcastica, ma i suoi occhi rimasero taglienti.
«Stai cercando di litigare?»
«Forse.»
Cadde un attimo di silenzio.
«Sakura. Io mi fido di Naruto.»
Altro silenzio.
«Solo di lui?»
Una pausa.
«No.»
«Ce ne hai messo per dirlo» Sakura lo fissò amareggiata. «Quello che ho fatto a Naruto... Eravamo in due a farlo, non ero sola» colpì, incapace di trattenersi.
«Me lo ricordo» Sasuke ricambiò lo sguardo amaramente. «Non ho mai detto di fidarmi di me.»
Sakura trasalì spalancando gli occhi. Sbatté le palpebre, confusa, e il suo cuore accelerò nel petto.
«Allora non sono solo paranoica?» sussurrò con un filo di voce. «Quella volta, non mi sono immaginata tutto...»
Sasuke le rilanciò un’occhiata perplessa. «Di che stai parlando?»
«Sto parlando di quella donna» Sakura strinse un pugno sulla scrivania. «Quella con cui prendi sempre il tuo maledetto tè.»
A quell’accenno Sasuke si irrigidì visibilmente, ma solo per un istante. L’attimo successivo sbuffò e guardò Sakura con un misto di compassione e incredulità. «Non dire sciocchezze» sospirò irritato. «Non riesco a capire come diavolo possa anche solo venirti in mente.»
«Come?» negli occhi di Sakura brillò un lampo. «Te lo dico io come! Quattro mesi fa sono venuta in dipartimento. Volevo salutarti, avevo un attimo libero, e mi hanno lasciata passare... Sai cosa ho visto lungo il corridoio?»
Prima che potesse rivelare cosa aveva visto Koichi fece il suo baldanzoso ingresso, trasportando un corposo plico di fogli prestampati. «Li ho trovati!» esclamò sbattendoli sulla scrivania. «Quanti gliene servono?»
Solo allora notò l’atmosfera tesa e l’aria che sfrigolava tra Sasuke e Sakura.
«Uno basterà» mormorò lui asciutto, tendendo una mano e prendendo il primo in cima. «Lo compilo da solo, grazie.»
Lo piegò, e senza salutare si allontanò sotto lo sguardo confuso di Koichi.
Sakura fissò la sua schiena finché non fu scomparsa oltre la porta. Strinse i pugni con un orribile nodo in gola. Non si sentiva così da tanti, tanti anni. Da quando Kiba, in un corridoio di ospedale, aveva insinuato che tra Hinata e Naruto ci fosse qualcosa.
Quando tornò nell’ufficio dell’Hokage ignorò le domande di Naruto e lo spinse fuori dalla porta. Poi si sedette alla scrivania un tempo occupata da Tsunade e si prese la testa tra le mani.


I capelli neri creavano un contrasto netto con il panna delle lenzuola. Lisci, sinuosi, lucenti, si snodavano lungo la stoffa come strade che nessuno avrebbe mai percorso, dalle punte fino alle radici sulla fronte di Neji Hyuuga. Fermo, sveglio e nudo nel letto, il capo del clan più potente della Foglia fissava il soffitto di una stanza non sua e corrugava la fronte.
«Cosa c’è?»
Una voce roca, il sospiro di chi si è appena svegliato. Dita affusolate che accarezzano i capelli e arrivano fino al suo braccio.
«Sei sveglia?» Neji si voltò su un fianco e guardò la donna dai ricci neri distesa accanto a lui. Lei gli sorrise, assonnata, e si trascinò più vicino posandogli un bacio sulla spalla fredda.
«Da qualche minuto. Sono rimasta a guardarti per un po’. E’ una vista per la quale molte pagherebbero, sai?» confessò, gli occhi verdi ridenti.
Neji sbuffò piano, infilando una mano sotto il collo. «Quante volte avrai intenzione di ripeterlo ancora?»
«Finché non sarai rugoso e cadente.»
«Stai aspettando che io dica qualcosa come ‘tu sei molto più bella’?»
«Forse» la donna rise e rotolò contro il suo fianco. «Ma tanto tu non lo dici.»
Cadde un attimo di silenzio, durante il quale le dita affusolate di lei percorsero gli addominali di lui, delicate, e poi risalirono lungo il petto e il collo fino alle labbra. «Allora? Cosa c’è?» ripeté con un sorriso meno marcato.
Lui fece una smorfia. «Problemi...»
«Pane per i miei denti» replicò lei sorniona. «Ricordi? Sono nella squadra speciale del prode Uchiha, siamo noi che ci occupiamo di tenere Konoha al sicuro. E come unica donna, per guadagnarmi il posto ho dovuto dimostrare di essere più brava di tutti gli altri uomini, il che significa che posso affrontare qualunque problema. A meno che non riguardi il tuo clan...» la sua voce si abbassò, il sorriso scomparve del tutto.
Neji sospirò. «Per ora puoi fare finta di niente.»
Lei smise di accarezzargli il mento e posò la testa sul suo petto.
«Fanno tante pressioni?»
«Abbastanza.»
«E’ normale. Hai trentotto anni...»
«Smettila, Fay.»
«Scusa.»
Di nuovo silenzio. Fay sentiva il battito del cuore di Neji sotto l’orecchio, ed era un battito lento e regolare, che non tradiva il minimo nervosismo. Forse quell’argomento non lo turbava. Forse aveva già un piano... O, forse, era la sua presenza che ormai non aveva più alcun effetto.
Per un attimo fu tentata di chiedergli se l’amava. In quasi cinque anni non lo aveva mai fatto, e lui non aveva mai preso l’iniziativa; ma da qualche tempo pensava che le sarebbe piaciuto sentirgli dire: ti amo. Sposami. O qualcosa del genere. Naturalmente erano speranze senza alcun senso.
«Sei stanco?» mormorò piano.
«No. Ma tra un’ora devo essere a casa perché c’è una riunione del clan, e stasera ho un invito a cena da Naruto, anche se lui non lo sa ancora.»
«Un’ora» Fay alzò la testa e gli sorrise. «Mi sembra più che sufficiente.»
Gli sfiorò il collo con le dita e si chinò a baciarlo. Neji non si oppose. Posò le mani sui suoi fianchi quando la sentì spostarsi su di lui, entrambi già nudi, entrambi già freddi, entrambi ormai disillusi.
Sarebbe stata una cosa rapida, il tempo di stordirsi per un istante e poi quello di vestirsi e tornare nel mondo. Il loro piccolo limbo era un lusso che potevano permettersi sempre meno, di quei tempi.
Eppure, mentre i loro corpi si scaldavano e i capelli si mescolavano sulle lenzuola color panna, Fay sentì il cuore di Neji accelerare sotto la pelle. E desiderò più che mai sentirlo dire ‘ti amo. Sposami’.


Cinque ore e una riunione più tardi Neji si presentò a casa Uzumaki vestito come per una cena di gala. Naruto lo squadrò dalla testa ai piedi con una smorfia disgustata.
«Pensi di essere dagli Uchiha?» chiese mentre raggiungevano la sala da pranzo. «Guarda che a noi non devi dimostrare niente.»
Lui si limitò a scrutarlo impassibile, sistemando dignitosamente il kimono ricamato. Dopotutto era nell’abitazione dell’attuale Hokage e capoclan Uzumaki, ma a queste cose Naruto non arrivava mai. Per fortuna sua moglie manteneva un minimo di decoro, pensò quando la vide avvolta in un kimono blu e argento, abbigliata come si conviene a una signora di rango.
«I bambini?» si informò Neji, accomodandosi a un lato del tavolo sorprendentemente deserto.
«Hanno cenato prima, sono già a letto» rispose Hinata versandogli da bere. «Abbiamo pensato a una serata tranquilla.»
Neji annuì, ringraziando per il saké. Non che avesse problemi con i figli di Naruto, ma trovava difficile concentrarsi su un discorso mentre Minato creava bastioni e fossati con le carote nel piatto.
«Allora, quando ti sposi?» se ne uscì Naruto con un sorriso a trentadue denti, mentre Neji sorseggiava dalla sua coppetta.
Il capoclan degli Hyuuga si strozzò di colpo e rischiò di ripetere la scena di cinque anni prima, quando Choji aveva annunciato la gravidanza di Ino e lui aveva sputato il tè addosso a tutti.
«Argomento caldo?» Naruto gli strizzò un occhio.
«Potremmo...» iniziò Neji, schiarendosi la voce. «Potresti evitare di menzionare quel lato della mia vita che non ho interesse a rendere pubblico?»
«E perché?» Naruto si stupì. «Insomma, siamo praticamente parenti. Voglio solo sapere se finalmente pensi di accasarti o cosa.»
«Naruto...» mormorò Hinata, posandogli una mano sul braccio. «Non credo che Neji sia qui per questo.»
«No, infatti» annuì lui, rizzando fieramente la schiena. «A dire il vero non porto buone notizie.»
«Ehi, ancor prima di iniziare? Non facciamo neanche un po’ di conversazione distensiva?» si lamentò Naruto.
«Se la conversazione distensiva riguarda il mio matrimonio, no.»
Il padrone di casa borbottò contrariato, giocherellando immusonito con le bacchette. Neji lo ignorò e continuò senza esitazioni.
«Qualche tempo fa, prima delle dimissioni del sesto Hokage, i miei uomini si stavano addestrando con il byakugan in cima alla parete di Konoha» disse. «Come sapete, da quella posizione si ha un’ottima visuale sull’intero villaggio, e alcuni dei miei hanno notato movimenti sospetti attorno alla finestra dello studio dell’Hokage.»
Naruto si irrigidì. Hinata gli lanciò un’occhiata preoccupata.
«Proprio quella finestra?»
«Ne sono certo» annuì Neji. «Ma non abbiamo voluto allarmarvi prima di avere conferme, così ho disposto che un uomo controllasse la zona giorno e notte per avere delle prove; in questo modo abbiamo scoperto che le visite si ripetevano a cadenza irregolare. In poco più di due settimane abbiamo registrato movimenti sospetti almeno cinque volte.»
«Cinque! E le guardie che facevano?» esclamò Naruto indignato.
Hinata gli posò una mano sul braccio, mentre Neji scuoteva la testa. «Non è così semplice» riprese intrecciando le dita sul tavolo. «Nonostante il byakugan non siamo riusciti a individuare esattamente la posizione dell’intruso. Sapevamo che era lì, ma non capivamo dove. E’ la prima volta che ci troviamo davanti a una cosa del genere.»
Naruto si accigliò, rimuginando rapidamente. Qualcuno poteva aver saputo in anticipo della partenza di Kakashi? Era in pericolo? No, Kakashi era venuto a casa per informarlo, e lì Naruto aveva preso tutta una serie di precauzioni dopo gli eventi di cinque anni prima. Qualunque discussione su quella faccenda era avvenuta lontano dall’ufficio dell’Hokage, tranne quella avuta con Shikamaru, Sakura e Sasuke quando però Kakashi era già partito. Naruto si rilassò impercettibilmente. Appurato che Kakashi non correva pericoli, restava la domanda più importante: chi li stava spiando e perché?
Hinata si rivolse a Neji. «E’ per questo che hai voluto parlarne a cena?»
«Sì. Temo che ormai l’ufficio dell’Hokage non sia sicuro.»



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Capitolo 11
*** Spioni ***


Penne 11
Capitolo undicesimo

Spioni




Il sole rovente oltrepassò le mura gettando la sua luce cruda contro le pareti di pietra del palazzo del Kazekage. All'interno i condizionatori ronzavano e le striscioline di carta attaccate ai bocchettoni ondeggiavano a pochi centimetri dal soffitto.
Nel suo studio Gaara era già al lavoro su un complicato schema di gestione degli interventi. La ragione ufficiale per cui le due squadre di Konoha erano arrivate a Suna il giorno prima era che un'ennesima tempesta di sabbia aveva raso al suolo mezzo Villaggio, costringendo il Kazekage a chiedere aiuto ai vicini del Fuoco. Gaara cercava di organizzare i due gruppi in modo che i ragazzi sembrassero sparpagliati ma riuscissero a tenersi in contatto, ed era un compito piuttosto difficile, con l’occhio di falco di Loria che scrutava il foglio.
«La ragazza spostala a sud, dove è crollato quel magazzino. E’ troppo vicina a sua madre» commentò la donna additando l’ultima posizione di Chiharu.
Gaara trattenne un’imprecazione e cancellò un nome, riscrivendolo altrove. Al momento la disposizione sulla cartina prevedeva che i sei shinobi della Foglia fossero dislocati ai sei vertici di un immaginario esagono disegnato sul villaggio della Sabbia.
«Così possono dare il massimo dell’aiuto» sorrise Loria dolcemente.
Gaara odiò ogni falsa goccia di zucchero che colava da quel sorriso. «Tra poco saranno qui» sibilò caustico. «C’è altro?»
«No, ora la disposizione mi piace» Loria sistemò gli occhiali sul naso e controllò che i capelli fossero a posto nella loro crocchia. «Sono in ordine?» chiese a Gaara con finta apprensione.
Lui le scoccò un’occhiata arida. Lei arricciò il naso e lo scrutò abbastanza a lungo da spingerlo a distogliere lo sguardo.
«Sei più arrogante» gli fece notare meditabonda. «Stai...»
In quel momento sentirono bussare alla porta dell’ufficio e la donna si interruppe bruscamente.
All’invito di Gaara si fecero avanti Temari, Chiharu, Hitoshi, Kotaro, Rock Lee e Gai. Una notte di riposo li aveva ristorati dalle fatiche di un viaggio durato tre giorni, ma Chiharu non faceva che sbadigliare borbottando per la sistemazione: non le era gradito condividere la stanza con Temari, a quanto pareva.
Furono rivolti i convenevoli di rito, il benvenuto, le felicitazioni tra parenti. Tutti e sei gli shinobi di Konoha furono impeccabili nel non tradire il minimo segno di nervosismo di fronte a Loria, e di questo Gaara fu interiormente soddisfatto.
Poi venne il momento di assegnare le posizioni, e fu allora che Chiharu fece sudare freddo un bel po’ di gente.
«Perché sono così lontana dagli altri?» chiese in tono insofferente.
Kotaro le gettò un’occhiata allarmata, Gaara si irrigidì per un istante, così come Temari e gli altri Jonin. Cercò di elaborare in fretta una risposta. Ma Loria intervenne prima che potesse parlare.
«Il nobile Kazekage vuole distribuire il vostro aiuto lungo tutto il perimetro» spiegò con voce vellutata. «Avete percorso molta strada per raggiungerci: sono certa che vorrete fare tutto il possibile per aiutarci... Cosa di cui vi siamo infinitamente grati» il suo sorriso si allargò. «So che hai qualche... lieve problema di salute. Ho fatto in modo che fossi vicina a una piccola clinica, per ogni evenienza.»
Chiharu fece il muso lungo. «Buffo come tutti cerchino di ricordarmi che sono in fin di vita» bisbigliò tra i denti.
«Siete pronti per partire?» intervenne Gaara prima che la sua allarmante nipote facesse qualche altro commento. Gli shinobi annuirono senza protestare. Con un sospiro di sollievo il Kazekage li vide uscire dal suo ufficio.
«Che cavolo ti è saltato in mente?» sibilò Kotaro non appena furono due piani sotto Loria.
Chiharu gli scoccò un’occhiata altezzosa. «Eravamo di plastica!» si giustificò. «Tutti a dire sì, tutti bravi manichini che annuiscono mentre quella ci ficcava agli estremi del villaggio. Andiamo, nessuno ci avrebbe creduto! Qualcuno doveva sollevare un’obiezione!»
«Ti è andata bene che quella Loria ha pensato che fossi soltanto rognosa» brontolò Kotaro.
«No. Sapevo quel che facevo!» ribatté Chiharu stizzita.
«Finitela» intervenne Temari, accennando all’ingresso del palazzo. «L’importante è che sia andata bene, adesso basta parlarne.»
Chiharu serrò le labbra e incassò la testa tra le spalle. Gli ultimi tre giorni di viaggio con sua madre erano stati tra i più lunghi della sua vita, ma forse le avevano finalmente insegnato che ribattere era morte certa quando si trattava di Temari.
Oltre al fatto che la signora Nara aveva insistito costantemente per rallentare l'andatura a causa del suo cuore, mettendola in serio imbarazzo con i Jonin esperti del gruppo, Chiharu aveva dovuto sopportare anche le occhiate astiose di Hitoshi. Lo aveva beccato più volte a fissarla come se avesse voluto pugnalarla nel sonno, ma senza mai intavolare un discorso. Il che, in fin dei conti, era meglio che rivangare la spiacevole discussione avuta alla partenza. Chiharu aveva scelto di relegare i suoi orribili flash alla categoria incubi che nessuno vorrebbe mai fare, e l'idea di riprenderli in mano la riempiva di orrore quasi quanto l'immagine di Sai che rideva di lei e Hitoshi.
Era stata talmente concentrata sui suoi problemi da non accorgersi per niente del gelo che era sceso tra gli altri due membri del gruppo sette. Era stato relativamente facile nasconderlo con l'entusiasmo di Kotaro per la missione con il padre e Gai Maito, ma se Chiharu avesse prestato più attenzione si sarebbe accorta che c'era qualcosa che non andava tra lui e Hitoshi.
Se Tenten avesse saputo come si erano evoluti i rapporti tra i ragazzi, altro che una ramanzina sul senso di squadra prima di una missione: li avrebbe rispediti a casa alla velocità della luce.

La tempesta di sabbia – vera, per una volta – aveva fatto danni notevoli. Nonostante le mura di arenaria attorno a Suna, nessuna parte del villaggio era stata risparmiata e i segni della violenza del vento erano ben visibili ovunque.
A nord e ad ovest Rock Lee e Hitoshi si trovarono davanti vere e proprie distese di macerie, caseggiati abbattuti come fuscelli di legno e travi che spuntavano dalle pareti di calce. Quelli erano i quartieri più colpiti e, per ironia della sorte, anche i più poveri del villaggio. Ad est Temari si trovò a dirigere una squadra di carpentieri che doveva apportare rapidi accorgimenti agli edifici più importanti, e, dal momento che il suo ricordo era ancora ben vivo nella memoria di Suna, non ebbe alcuna difficoltà a far rispettare i suoi ordini. A sud est e a sud ovest Gai e Kotaro decisero di prendere attivamente parte ai lavori, liberandosi in fretta degli abiti e mettendosi a trasportare travi e blocchi di pietra con un entusiasmo persino ridicolo, quando non avvilente, ma a sud Chiharu si guardò un po’ attorno, disse a tutti che stavano lavorando magnificamente e poi si appollaiò sotto una tettoia per tirare fuori un rotolo sulle evocazioni. Ogni trecento righe circa gettava un’occhiata ai lavoratori, approvandoli distrattamente.
Tra una riga del suo libro – che si era rivelato ben più noioso e inutile del previsto – e un pensiero sull’ubriachezza, fece passare il tempo sprecando la minor quantità di energie possibile. Quando vide il bordo inferiore del sole sfiorare a malapena le mura attorno a Suna chiuse il rotolo, si alzò, si stiracchiò e salutò gli uomini che lavoravano con un cenno stanco. Loro si chiesero chi diavolo fosse e perché avesse passato tutto il giorno a guardarli.
Tornò al palazzo del Kazekage, scoprendo ovviamente che sua madre non si era ancora fatta vedere, si fece una doccia, infilò con una smorfia gli abiti ampi di Suna che cinque anni prima l’avevano fatta sentire nuda, e raccolse i capelli nella solita coda un attimo prima che Temari rientrasse, stanca e sudata.
«Da quanto sei tornata?» le chiese corrucciandosi.
«Oh, un paio di minuti» mentì lei con disinvoltura. «Giornata pesante, eh?»
«Non strapazzarti» le ricordò Temari con uno sguardo severo, poi, intravedendo nello specchio l’espressione più innocente e falsa di Chiharu, si rese conto che la figlia di Shikamaru Nara probabilmente quel giorno aveva sorseggiato un analcolico mentre guardava gli altri lavorare. Filò in bagno sbuffando ma senza aprire bocca. Era decisamente troppo accaldata per iniziare una discussione in quel momento.
Un’ora e mezza più tardi, dopo cena, Gaara le fece chiamare per il famoso tè in famiglia.


*


Già da quattro giorni Chiharu, Hitoshi e Kotaro erano stati spediti a Suna in missione top secret insieme a tre Jonin di tutto rispetto. Naturalmente lui non provava nessun tipo di invidia per loro. Nessuna. Era forte. Era un Anbu. Aveva missioni rischiose come noccioline.
Però, porca miseria, perché loro erano stati mandati in una missione così segreta che nemmeno un Anbu poteva conoscerla?
«Sono! Un! Anbu!» sbottò per la trecentesima volta, le mani premute sul ripiano della scrivania dell’Hokage e le vene del collo che minacciavano di scoppiare da un momento all’altro. Se avesse saputo quanto assomigliava all’Hitoshi di pochi giorni prima si sarebbe picchiato, ma non lo sapeva. «Non ho tradito nessuno, non tradirò nessuno, mi avete accordato la vostra fiducia per cose ben più gravi! Perché non posso sapere qual è la stramaledetta missione di quei tre?» esclamò riversando rabbiose goccioline di saliva sulla scrivania.
Naruto lo fissò con un misto di rabbia e insofferenza. «Sei più stupido di quel che pensassi, Stupido!» ringhiò, le mani sulla scrivania in posizione perfettamente speculare a quella di Baka. «Ti ho detto già dieci volte che non! Te! Lo! Posso! Dire! Cos’ha di tanto difficile questa frase, eh?»
«Non c’è un perché!» esclamò Akeru battendo ferocemente la mano sul ripiano. «Non sento la parolina magica!»
«E io invece sento che hai una gran voglia di prendere un pugno in faccia!»
«L’Hokage non prende a pugni nessuno!» strillò Koichi superando le voci di entrambi, e lasciò cadere dodici chili di carta sulle loro mani.
Sia Naruto che Akeru si fecero indietro precipitosamente, le nocche contuse e doloranti. Il segretario sbuffò sistemando gli occhiali sul naso sudato. Scoccò occhiatacce all’uno e all’altro. «Rimpiango amaramente il giorno in cui il sesto Hokage se n’è andato!» sibilò stizzito.
Akeru fissò torvo Naruto. «Perché non posso saperlo?» brontolò cupo.
Naruto sbuffò e roteò gli occhi. Non poteva certo spiegargli gentilmente che l’ufficio era controllato. E se gli avesse detto ‘vieni un istante, facciamoci un giro’, avrebbe corso il rischio di insospettire chiunque li spiasse. Purtroppo per Stupido, questa volta avrebbe fatto bene a mollare l’osso o a cercarlo altrove.
«Top secret» sillabò Naruto, come se avesse a che fare con un minorato mentale. «Sai cosa vuol dire?»
«E allora al diavolo questa cazzo di missione!» esclamò Baka arrossendo rabbioso. «Che si arrangi!»
«Non è così che la conquisterai, Stupido!» gli gridò dietro Naruto, sospirando esasperato. Mentre la porta dell’ufficio sbatteva contro lo stipite lui si lasciò cadere sulla sedia dietro la montagna di carta depositata da Koichi, che colse la palla al balzo e gli piazzò sotto il naso i primi fogli. Naruto li prese distrattamente, chiedendosi che fine avesse fatto Sakura, e subito si rese conto che era troppo nervoso per leggere.
Perché nessuno riusciva a capire chi teneva sotto controllo l’ufficio?
E perché Stupido era così maledettamente stupido?

Una volta fuori dal palazzo dell’Hokage Akeru non pensò nemmeno lontanamente a sbollire la rabbia. Sì, Chiharu lo aveva scaricato senza mezzi termini. Sì, lui si era ripromesso di ignorarla da quel momento in avanti. Sì, ci era riuscito piuttosto egregiamente, a parte la leggera ricaduta al momento della partenza. Ma no, non sarebbe rimasto impassibile se le fosse successo qualcosa. Per quanto stronza, insensibile e disumana fosse Chiharu Nara, certi sentimenti non si cancellano dalla sera alla mattina. Certi sentimenti, malgrado tutto, durano. E quando ci pensava Akeru non poteva fare a meno di trovarsi Stupido come tutti dicevano.
Decise che non aveva voglia di sorbirsi le occhiate inquiete di chi lo incrociava per strada. Procedeva a passo marziale, probabilmente rosso in viso e con qualche vena in rilievo, e a mente lucida avrebbe pensato anche lui di fare una certa impressione. Ma in quel momento era troppo nervoso per pensare a mente lucida e optò per una via traversa. Balzò su un balcone e da lì a un tetto. Avrebbe raggiunto la foresta per un’altra strada, e forse il vento che soffiava al di sopra di Konoha gli avrebbe schiarito le idee.
Perché non riusciva a chiudere il capitolo che riguardava Chiharu? Non doveva essere tanto difficile. Aveva avuto altre ragazze, prima: ci si era divertito, le aveva portate dietro ai cespugli del parco e le aveva baciate, le aveva accarezzate, le aveva fatte ridere. Era bravissimo a farle ridere. Ma non aveva mai fatto l’amore con nessuna di loro, perché nessuna di loro era quella giusta.
Solo che probabilmente quella giusta non sarebbe mai stata giusta per lui.
Chiharu non sarebbe mai stata giusta per lui.
Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli furiosamente, e si accorse di essere arrivato alle ultime case di Konoha. Balzò a terra senza rallentare, accogliendo con gioia il bruciore dell’ossigeno nei polmoni. Tirato un profondo sospiro di sollievo si addentrò tra le ombre degli alberi, in quel piccolo tratto di foresta compreso ancora tra le mura.
Azzerò ogni rumore. Niente più respiro affannoso, niente fruscii di foglie sotto i sandali, niente giunture che scricchiolano o stoffa che sfrega. Invisibile, tra le ombre, avanzava cauto con i muscoli tesi e i movimenti innaturalmente lenti. Gli avevano insegnato che quello era il miglior modo per distendere la mente: concentrarsi sulle fibre del corpo, sentire ogni tendine, ogni millimetro di pelle, ogni goccia di sangue, e controllarli. Immergersi dentro la propria corporeità al punto da escludere qualunque pensiero. Gli piaceva quell’esercizio, gli piaceva ancora di più tra le ombre della foresta, dove le foglie lo circondavano e ridevano dei suoi tentativi di non sfiorarle. Ne usciva stanco nel corpo ma disteso nella mente, e quando tornava a casa riusciva ad essere di buonumore per almeno due giorni, se non incontrava nessun membro del gruppo sette o Jin Hatake.
Oggi era stato più difficile del solito. Aveva faticato a trovare la giusta concentrazione; aveva dovuto provare quasi mezzora prima di raggiungere lo stato mentale corretto, ma quando ci era riuscito aveva sentito gli addominali distendersi e assecondare l’andamento del diaframma. Camminava nel sottobosco senza seguire sentieri, schivava radici, foglie secche e rami con movimenti armoniosi. Si piegava al di sotto delle fronde più basse, costeggiava i cespugli senza sfiorarli, passava accanto a file di formiche al lavoro e quelle nemmeno sembravano vederlo.
Un mormorio diverso dalla brezza.
Si immobilizzò all’improvviso, i sensi all’erta.
Fruscio.
Sussurro.
Il cuore accelerò leggermente nel suo petto. Akeru lo costrinse a rallentare prima di riprendere il cammino. L’esercizio era finito. I suoi occhi guizzavano da un lato all’altro della foresta densa di ombre.
Sussurro.
Abbassò il ritmo del respiro mentre si acquattava dietro i cespugli. Aveva sentito una voce, ne era sicuro: poco più di un fievole mormorio, il rantolo di un moribondo con i polmoni vuoti d’aria, ma c’era. All’interno di Konoha. Quella consapevolezza improvvisa gli strinse lo stomaco. Gli abitanti del villaggio non sussurravano come cospiratori nel loro territorio. Chi aveva penetrato le mura? Chi era riuscito a passare, chi li minacciava? E se l’intruso lo avesse ucciso? Se lo avesse scoperto e lo avesse ammazzato, lì, in quel momento, per impedirgli di avvisare qualcuno?
Allora l’ultimo ricordo di Chiharu su di loro sarebbe stato quello della sua patetica confessione.
Bel lavoro Akeru. Il tuo esercizio per il rilassamento ha funzionato come una ruota quadrata.
L’attimo di distrazione gli impedì di accorgersi della foglia che scricchiolò impercettibilmente sotto il suo piede. Andò avanti comunque, aguzzando l’udito alla ricerca del fruscio che lo aveva attirato. Doveva essere lì, doveva esserci ancora, anche se si era zittito, anche se...
Scattò dietro un tronco e premette la schiena contro la corteccia. Il cuore gli fece un balzo nel petto quando vide una sagoma umana tra due alberi. La spiò da sopra la spalla, trattenendo il fiato, ma gli bastò meno di un’occhiata per riconoscere quei capelli: lisci, ordinati, lunghi quel tanto che bastava per non coprire il collo, di un biondo così chiaro da ferire la vista.
Perché Yoshi era lì? E con chi parlava?
Senza fare rumore Akeru sfilò dalla tasca lo specchietto di ordinanza. Si rintanò meglio dietro l’albero e lo sollevò, orientandolo in modo da mettere bene a fuoco Yoshi. Lo mosse a destra e a sinistra, persino in alto, ma non vide nessun altro con lui. Sentì la sua voce che borbottava qualcosa, ma nessuna risposta. Un altro mormorio, uno schiocco di lingua, e poi una fiammata si sollevò verso l’alto rischiando di appiccare il fuoco alle prime foglie.
«No, no, no!» gridò Yoshi, saltellando per spegnere le braci sulle punte dei rami.
Una foglia secca si carbonizzò in una vampata, dando fuoco al rametto sovrastante.
«Acqua! Acqua!» sibilò Yoshi, correndo con le mani alla borraccia, ma si incastrò con il tappo e le fiamme si allargarono ai primi rami dell’albero più vicino.
Akeru avvertì una contrazione allo stomaco. Non ci credo. Sta per dare fuoco alla foresta?
Ora, perché le cose fossero ben chiare: lui detestava Yoshi anche più di Hitoshi e Kotaro. Lo aveva odiato dal primo istante in cui aveva posato gli occhi sui suoi stupidi capelli da pulcino e aveva chiuso il suo fascicolo quando lo aveva visto in giro per Konoha con Chiharu. Non che credesse a una loro improbabile storia, naturalmente. Chiharu era troppo... troppo, per uno che se ne andava in giro con la testa come un limone. Ma lo indispettiva saperli tanto vicini, e soprattutto sapere che Chiharu riservava a lui il tempo e le gentilezze che Akeru avrebbe voluto per sé. Per queste ragioni e per mille altre, radicate nella sua natura antipatica e nel lato infantile che non avrebbe mai debellato, avrebbe volentieri girato le spalle alla foresta in fiamme e puntato il dito contro Yoshi al momento giusto. Sfortunatamente il gene dell’eroe-a-tutti-i-costi si attivò in quel preciso istante, vagheggiando di riconoscimenti e ringraziamenti improbabili, e, contro la sua stessa volontà, lo spinse a mostrarsi nella maniera più spettacolare.
Un piccolo drago d’acqua si abbatté sulle querce che iniziavano a crepitare, infrangendosi sul sottobosco e addosso a Yoshi. Il ragazzo lanciò un’imprecazione, voltandosi di scatto, e quando vide Akeru che lo fissava sbuffò, tirando indietro i capelli appiccicati alla fronte.
«Grazie» mormorò tra l’amareggiato e il riconoscente.
«Cosa stavi cercando di fare?» indagò Akeru, scandagliando l’area circostante alla ricerca di intrusi nascosti.
«Provavo una tecnica» Yoshi si strinse nelle spalle con leggero imbarazzo. «Lo so che è patetico da dire a un Anbu, ma è così. Non ho ancora un diploma, io.»
«Sei solo?» lo zittì Akeru piantando gli occhi chiarissimi nei suoi.
«Come?»
«Ti ho chiesto se sei solo.»
Yoshi gli scoccò un’occhiata confusa. «Veramente pensavo di organizzare uno spettacolo e far pagare il biglietto a chiunque volesse ammirare i miei insuccessi. Mi devi quindici ryo.»
Akeru non spostò lo sguardo. Yoshi distolse il suo massaggiandosi un braccio.
«Senti, ehm» mormorò a disagio. «Grazie, va bene. Ma se continuerai a fissarmi in quel modo finirò per pensare che tu abbia... Insomma, non vorrai un ringraziamento più... Girano certe voci sugli Anbu...»
Akeru arrossì. «Le voci che girano sugli Anbu sono stronzate» puntualizzò. «E tu trova un altro posto in cui allenarti: la foresta non è il massimo per provare le tecniche di fuoco.»
«Sì, chiedo scusa» annuì Yoshi nascondendo la propria espressione in un inchino.
Akeru gli voltò le spalle stizzito. «Torna al villaggio, sei bagnato come un pulcino» gli ordinò, calcando leggermente l’ultima parola. Balzò via prima ancora che Yoshi potesse cogliere l’ironia.
Se aveva parlato poco era solo perché in realtà stava pensando tanto: forse Yoshi aveva davvero fatto un pasticcio ed era soltanto un deficiente. Ma forse non era così deficiente da dar fuoco alla foresta. E, in questo caso non c’era alcun forse, lui di voci che sussurravano ne aveva sentite due.


*


Le stanze di Gaara erano straordinariamente sobrie, nonostante fossero abitate da tanti anni. Se la personalità dell’ultimo Kazekage si era insinuata in qualche modo tra quelle mura lo aveva fatto come sabbia ed era andata a infilarsi in angoli invisibili. Mobili e soprammobili erano neutri, di classe ma evidentemente datati. Probabilmente Gaara non aveva mai pensato a sciocchezze come l’arredamento, e, più tardi, aveva lasciato tutto in mano ai suoi assistenti, Loria inclusa. Forse era a causa della spia che da sei anni fingeva di occuparsi della casa che il salotto aveva un che di affettato.
Era stata Temari a preparare il tè. Loria si era offerta di servirlo a tutti quanti, ma lei le aveva lanciato un’occhiata di intensità tale da incrinare per un attimo la sua maschera.
«So dove sono le tazze» aveva sibilato irritata, e la segretaria aveva fatto marcia indietro in tutta fretta sotto le occhiate ironicamente compassionevoli di Chiharu e quella inafferrabile di Gaara. Non appena Loria era uscita Temari aveva guardato il fratello e gli aveva sorriso con aria di intesa. Lui non aveva risposto solo perché da sei anni era abituato a nascondere ogni reazione spontanea, ma anche Chiharu aveva capito che l’atmosfera si era notevolmente distesa.
In quel momento erano seduti attorno a un piattino di dolci del luogo e si godevano un istante di silenzio mentre Temari versava il tè.
«Ho saputo che non sei ancora Jonin» iniziò Gaara guardando Chiharu.
Lei fece una smorfia. «La prossima mossa è chiedermi come sta il cuore?» si lamentò tuffando un biscotto nella tazza.
«Sono constatazioni» le fece notare Temari. «Ciò che tu ti ostini a non considerare.»
«Hai ragione. Che sciocca. Come ho potuto non accorgermi del tunnel bianco davanti ai miei occhi? Oh, vedo una luce. Dovrò seguirla?»
«Ehi» Temari la fulminò con lo sguardo. «Cinque anni fa hai fatto l’arrogante e per poco non mi sei morta in braccio. Fammi il favore di ricordartene, prima di scherzare.»
Chiharu sbuffò e nascose il rossore nel vapore del tè che saliva. Aveva la terribile impressione che quell’incontro si sarebbe trasformato in una tortura.
«Kankuro?» chiese Temari.
«Credo stia arrivando» rispose Gaara con una tranquillità un po’ forzata. «Ha una donna... una cosa seria, a suo dire. Forse sta perd...»
«Scusate il ritardo!»
La porta si aprì sulle sue parole e Kankuro entrò con il fiatone e un sorriso radioso. «Sono imperdonabile, lo so, ma imploro la vostra clemenza!» esclamò gioviale. Con una risatina andò ad accomodarsi sull’ultima sedia, davanti alla quarta tazza ancora vuota. «I dolcetti al cocco! Li adoro.»
«Un’entrata di un’eleganza spaventosa» commentò Temari.
«Quello cool è lui» ribatté Kankuro additando Gaara.
I fratelli si scambiarono uno sguardo lungo meno di un frammento di secondo.
«Sei un idiota» mormorò Gaara in tono disteso. Occhiata interrogativa.
«Sono il tuo esempio» rispose Kankuro allegro. Rapida conferma con il capo.
Temari sbuffò, tradendo un guizzo nervoso, e versò il tè nella tazza del nuovo arrivato. «Kankuro, dicci di questa donna e falla finita. Muori dalla voglia di parlarne, no?»
Chiharu trattenne segretamente il fiato, la tazza premuta contro le labbra. Aveva colto lo scambio di sguardi, aveva capito che anche Kankuro era a conoscenza del piano, e ora sapeva che la spia li stava tenendo d’occhio, da qualche parte. Il che significava che di lavoro avrebbero parlato altrove.
Vedeva già i minuscoli granelli della sabbia di Gaara che scivolavano inosservati attraverso gli interstizi della porta, diretti in un’altra ala del palazzo, e sperò che la donna di Kankuro fosse un argomento abbastanza ampio da tenerli impegnati per due giorni.
«Ah, la mia storia è non è poi così...» si schermì lo zio in quel preciso istante, con un’occhiata furba e falsamente modesta, quindi la fissò. «Perché invece non ci parli un po’ di te, nipotina cara?»
Chiharu soffocò un gemito.

La sabbia passata sotto le loro porte formò un messaggio breve e conciso sul pavimento della stanza. Hitoshi e Kotaro lessero e memorizzarono prima che perdesse forma e si dissipasse negli angoli; Rock Lee e Gai Maito, altrove, raccolsero i vestiti e si prepararono a uscire.
Dieci minuti dopo si trovarono tutti e quattro in un vicolo sul retro del palazzo. A loro una copia di Gaara spiegò il piano nei dettagli.


*


Akeru incontrò Naruto sulla via del ritorno, lontano dal palazzo dell’Hokage. Con una risata gli raccontò che Yoshi aveva quasi dato fuoco alla foresta, mentre Naruto lo scrutava stranito in attesa della sfuriata su Chiharu. Ma lui non fece alcuna scenata. Naruto per qualche secondo pensò di introdurre personalmente il discorso sulla missione a Suna, visto che non erano nell’ufficio sorvegliato, ma Akeru non gliene lasciò il tempo. Gli batté un’amichevole pacca sulla spalla, depositò un segno pressoché invisibile sulla sua tuta e si allontanò con espressione allegra.
Una volta a casa, Naruto staccò dalla stoffa la minuscola goccia di resina nera lasciatagli da Stupido. Era uno degli ultimi ritrovati di Konoha, estratta dallo stesso albero con cui creavano i fogli per riconoscere il chakra. Si trattava di una resina speciale che reagiva a seconda della stimolazione; di solito era utilizzata per custodire segreti, veniva modellata come inchiostro e poi sigillata con il chakra: non avrebbe svelato il suo mistero senza la chiave giusta, e la chiave era la stessa che l’aveva resa impenetrabile.
Akeru era l’unico della sua generazione ad aver sviluppato un chakra di tipo vento, anche se poi si era specializzato nell’arte medica. Quando Naruto lo aveva scoperto le sue speranze di allevare uno shinobi della sua specialità si erano miseramente infrante: tutti ma non lui. Già aveva poca pazienza con il gruppo sette, figurarsi con quella bomba a mano di Stupido. Si era sentito quasi sollevato quando il ragazzo aveva parlato di vocazione medica.
Eppure, per ironia della sorte, Baka era l’unico al villaggio con cui Naruto potesse scambiare messaggi con il metodo della resina, dopo Asuma: se un altro shinobi avesse cercato di sciogliere il sigillo la goccia avrebbe reagito come reagiva la carta ottenuta dalla cellulosa dell’albero, tagliandosi di netto, e avrebbe perso per sempre il suo messaggio. Ma quando Naruto la chiuse tra le mani e liberò un po’ di chakra, per lui la resina si modellò dolcemente sul palmo fino a formare una breve scritta. E quando lesse dei sospetti di Akeru, collegarli a quelli di Neji fu questione di un istante.









---

E questa parte su Yoshi sembrerebbe rimasta...
Ma come si evolverà?

Devo dire che ha un che di divertente presentare una storia già nota.
Certe cose sembrano invariate e invece cambiano del tutto,
altre sono diversissime ma portano alle medesime conclusioni.

E' un altro modo per stupirvi, in fondo.
Spero di riuscirci fino alla fine!

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Capitolo 12
*** L'arte di evitare gli argomenti scomodi ***


Penne 12
03/02/2016


Capitolo dodicesimo

L'arte di evitare gli argomenti scomodi




Quando erano state assegnate le stanze agli shinobi di Konoha, Chiharu non era stata l'unica infastidita dagli assortimenti: anche Kotaro e Hitoshi, che pure avevano sempre dormito insieme senza farne questioni, avevano storto il naso all'idea di condividere la camera.
Non avevano ancora parlato, dal giorno della partenza. Di fronte ai cancelli di Konoha era successo qualcosa, nemmeno loro avrebbero saputo dire cosa, ma era successo. Da allora avevano trascorso insieme meno tempo possibile, ma arrivati a Suna si erano visti mettere nella stessa stanza ed era stato chiaro che non sarebbero più riusciti ad evitarsi. Se era stato un sollievo sapere che avrebbero lavorato tutto il giorno a chilometri di distanza, non altrettanto si poteva dire della notte.
Kotaro si rigirò per l'ennesima volta, cercando di convincere i muscoli affaticati a rilassarsi per lasciarlo dormire. Durante il giorno aveva lavorato più duramente del solito, sudando fino a quando gli uomini che lavoravano con lui lo avevano costretto a smettere, eppure il sonno tardava ad arrivare. Forse era la consapevolezza che a un metro dal suo letto c'era Hitoshi, e che quello stesso Hitoshi aveva combinato qualcosa, in qualche modo, qualcosa che andava oltre i loro taciti accordi.
Si rigirò ancora. Lo aveva visto confabulare con Chiharu. Aveva sentito la stranezza nella voce di lei, aveva visto la postura colpevole di lui. Lo aveva visto, maledizione, e qualunque cosa fosse non era corretto!
«Cosa hai fatto?» chiese di colpo, sorprendendo se stesso per primo.
«Dormirei, se tu la piantassi di far casino» borbottò Hitoshi dal suo letto, aprendo gli occhi a fissare il buio. Ci siamo, pensò con una punta d'ansia.
«Cosa hai fatto con Chiharu.»
Silenzio.
«Niente.»
Non appena lo ebbe detto Hitoshi si maledisse per l'attimo di esitazione, e capì di aver fatto un grave errore.
«Era ubriaca. Le hai messo le mani addosso?» continuò Kotaro, le mandibole serrate al punto da far male.
«Che diavolo dici?»
«L'altra sera, dopo il ramen. Cosa è successo?»
«Che vuoi che ne sappia? Io sono tornato a casa mia.»
«E Chiharu?»
«Non sono la sua balia. Chiedilo a lei se ti interessa tanto!»
«Allora cosa vi siete detti il giorno della partenza?»
Hitoshi serrò le labbra, ragionando febbrilmente. Si sentiva ancora irritato al pensiero di come Chiharu aveva volutamente scelto di ignorare quel che era successo tra loro, ma non poteva certo confidarlo a Kotaro.
«Parlavamo delle firme» tentò.
«Palle!» scattò Kotaro, gettando indietro le lenzuola e accendendo rabbiosamente la luce del comodino.
Hitoshi si tirò su per riflesso, pronto a rispondere in caso di pericolo. I due ragazzi si fissarono, in pigiama, arruffati e sul piede di battaglia come galli in un pollaio: da un lato Kotaro, le braccia muscolose e i buffi occhi a palla, dall'altro Hitoshi, attraente e pallido, sulla difensiva.
«Tutti i bei discorsi di quella sera erano stronzate?» continuò Kotaro. «Stai davvero provando a tenere insieme il gruppo o stai solo cercando di convincere me a continuare a farlo?»
Hitoshi accusò il colpo. In effetti la sera del ramen non aveva pensato al loro gruppo neanche per un minuscolo frammento di secondo... Ma si poteva davvero fargliene una colpa?
Per un istante pensò di vuotare il sacco e mandare al diavolo Kotaro.
Poi ricordò che Chiharu non voleva sapere niente di quello che era successo tra loro. Era l'equivalente di un rifiuto, un rifiuto che non aveva proprio voglia di condividere... Così si trattenne.
«Ma che diavolo ti prende all'improvviso?» disse, buttando indietro le coperte e facendo per alzarsi.
«Cosa fai?» scattò Kotaro irrigidendosi.
«Vado in bagno. Tu ritorna in sesto.»
Hitoshi sparì oltre la porta sotto le occhiate guardinghe di Kotaro, che rimase fermo a darsi dello stupido. Quando sentì il rumore dell'acqua che scorreva, gemette, ripiegandosi su sé stesso.
Aveva affrontato la questione nella peggior maniera possibile. L'unico modo che avevano per restare in bilico era non parlarne mai, e lui aveva appena infranto il loro patto più segreto.
Cosa mi è preso?, si domandò passandosi una mano tra i capelli. Solo perché li aveva visti confabulare quel giorno, non significava che Hitoshi lo avesse tradito. Non necessariamente. Potevano aver parlato di centinaia di altre cose diverse, probabilmente di uno dei mille patemi dell'Uchiha, dallo sharingan ai suoi fratelli a Naruto. Una cosa qualunque.
«Sono un imbecille...» mormorò sfregandosi il viso. Stavo per mandare all'aria il lavoro di cinque anni per una paranoia.
Quando Hitoshi uscì dal bagno Kotaro trasalì.
«Adesso possiamo dormire?» chiese subito l'Uchiha, trascinando la voce in tono estenuato. «E' stata una giornata pesante.»
«Io... Credo che sarebbe il caso, sì.»
Hitoshi sospirò interiormente, sollevato. Aveva schivato un brutto fendente, poteva dirsi quasi graziato. Raggiunse il letto e tornò sotto le coperte mentre Kotaro spegneva la luce.
Silenzio.
«Scusa.»
«Dormi, Kotaro.»
Kotaro tirò su le lenzuola e rimase a fissare il buio.
Cinque anni passati a salvare l'idea di loro tre insieme. Cinque minuti per rischiare di far saltare tutto. Questo significava che era vicino al limite di sopportazione: presto non sarebbe più riuscito a mettere il gruppo davanti alle sue esigenze.
Si rigirò ancora una volta, dando le spalle a Hitoshi e abbracciando il cuscino nervosamente.
«Quindi... Parlavate solo delle firme?» sussurrò.
Hitoshi finse di non sentire. Kotaro non insisté.



*


Nei quattro giorni trascorsi dal loro ingresso nel Paese della Roccia, Jin e Kakashi avevano raccolto molte più informazioni del previsto e visto cose peggiori di quanto si aspettassero. La situazione era più drammatica di quanto dicevano i dispacci, constatò Kakashi mentre correva con Jin attraverso la campagna. Nel cielo notturno brillava solo un piccolo spicchio di luna, a malapena sufficiente per indicare il cammino. Attorno al sentiero che percorrevano, i campi di miglio e grano mostravano tracce di ferite ormai vecchie, forse opera del maltempo, e le spighe giacevano abbandonate e ormai marce. Dei contadini che dovevano raccoglierle non c’era traccia.
Jin correva dietro al padre senza aprire bocca, muto e obbediente come il migliore dei Jonin, ma Kakashi iniziava a chiedersi quando avrebbe mostrato la prima reazione. Da Izano a lì si erano già imbattuti in una ventina di villaggi, metà dei quali era stata saccheggiata o versava in stato di estrema povertà: per quanto Jin fosse preparato Kakashi sapeva che nessun uomo può nascondere i propri sentimenti troppo a lungo, in special modo quando sono sentimenti forti come la repulsione. O la paura. La sua paura, tanto per cominciare, perché il discorso valeva anche per lui.
Temeva che prima o poi Jin se ne sarebbe accorto. Chissà se in quel momento avrebbe rotto il suo giuramento per fargli delle domande? Lui se lo sarebbe aspettato, forse lo avrebbe fatto per primo, alla sua età. Se alla sua età avesse ancora avuto un padre. Sbatté le palpebre per allontanare quel pensiero: la campagna devastata di un paese nemico non era il luogo migliore per riesumare vecchie ferite. Se voleva aiutare Jin a mantenere la parola doveva mostrarsi sicuro ed efficiente, senza una sola debolezza.
«Più avanti c’è un villaggio» disse Jin a quel punto, e Kakashi aguzzò la vista. In lontananza si alzava un filo di fumo sotto cui si intravedeva una massa informe di abitazioni. «Controlliamo la situazione?»
Kakashi annuì. La loro meta, aveva spiegato a Jin una volta entrati nella Roccia, era Anka, un villaggio di medie dimensioni all’interno del Paese. Per raggiungerlo la via più breve era la vecchia strada commerciale che portava al Paese del Fuoco, ma spesso avevano dovuto viaggiare ai margini del percorso per evitare carovane di profughi o mercenari in cammino, così avevano allungato un po’ i tempi. Se non vedevano tracce di militari passavano all’interno dei centri abitati, ma se notavano guardie dovevano fare ampie deviazioni.
Si avvicinarono con cautela. Il nome del villaggio era scritto con gli ideogrammi di ‘vento’ e ‘sole’, ma il cartello che lo indicava giaceva a terra tra i resti della vegetazione marcescente e un angolo era stato eroso dalla muffa. Poco oltre, la strada si inoltrava tra costruzioni buie e maleodoranti, invasa da assi spezzate, porte divelte, vasi rovesciati e cenci probabilmente pieni di persone. Non si vedevano guardie.
Kakashi capì subito che anche se fossero passati per la strada principale nessuno avrebbe fatto domande. Mentre lui e Jin camminavano, il passo istintivamente lento, non poterono fare a meno di guardarsi intorno. Quella di Kakashi fu un’occhiata breve, che si posò leggera su uno spettacolo avvilente e passò oltre; quella di Jin fu di natura opposta: quando i suoi occhi incrociarono un ragazzino infagottato che dormiva contro una parete, una voce dentro di lui insinuò che probabilmente aveva la sua età, che forse era una femmina, magari assomigliava a Hinagiku, e che quasi sicuramente, in quelle condizioni, per vivere era arrivata a fare le cose peggiori.
Non riuscì più ad allontanare gli occhi. La volta dopo fu un vecchio, che forse era già morto nei suoi stracci. Più oltre una donna cercava di rompere un osso e succhiarne il midollo, nascosta in un anfratto buio; quando li vide si ritrasse spaventata. Andando avanti, altri fagotti, altra stoffa sottile e fredda, altri polsi e altri resti. Jin sentì lo stomaco contrarsi inorridito. Kakashi se ne accorse e aumentò il passo. Le case saccheggiate erano pozzi di oscurità che si offrivano allo sguardo senza pudore, la strada era percorsa da un rigagnolo maleodorante. Negli angoli più bui si sentiva il fruscio delle zampe dei ratti che lottavano ad armi pari con gli uomini, e ovunque, in sottofondo, il sussurro del vento che spazzava i campi perduti.
Quando furono fuori Jin tossì, cercando di controllare la nausea. Il cattivo odore lo aveva preso alla gola, gli aveva fatto pizzicare gli occhi e aveva azzerato la salivazione. Aveva visto luoghi simili negli ultimi giorni, ma la somma del fetore e della desolazione dei villaggi precedenti qui gli aveva fatto raggiungere il limite.
Kakashi gli permise di respirare un soffio d’aria che veniva dalla campagna perché gli ripulisse i polmoni. Jin si piegò sulle ginocchia, costringendo il cuore a rallentare e lo stomaco a distendersi, poi incrociò il suo sguardo.
«Tutti quei posti... Sono stati i mercenari del Daimyo?» chiese con un filo di voce.
«Sì. Siamo troppo lontani dal confine perché sia opera dei nostri.»
«Perché non se ne vanno? Perché restano lì a marcire?»
«Alcuni se ne sono andati. La maggior parte, probabilmente. Chi è rimasto sa che non vivrà a lungo. Marciscono, come hai detto tu.»
«Ma perché?»
C’era rabbia nella voce di Jin ora. Non si chiedeva perché i mercenari saccheggiassero i villaggi, si chiedeva perché la gente si arrendesse.
«Perché in fondo siamo tutti deboli» mormorò Kakashi, passando lo sguardo sul miglio piegato dalla pioggia. «Arriva sempre un momento in cui ci arrendiamo e lasciamo che la disperazione ci consumi. Per ognuno è un momento diverso, e io spero che il tuo sia stupido, che riguardi una tecnica che non riesci a completare o un rivale che non riesci a battere, come me e Gai. Ma prega che non riguardi mai la vita di nessuno. Prega che sia così, Jin, perché se lascerai libera la disperazione di fronte alla morte, sarà difficile non seguirla...»
Papà, dove stiamo andando esattamente?, avrebbe voluto chiedere Jin. Perché ho paura che le tue parole riguardino la mamma, se stiamo andando a prenderla?
Ma aveva giurato. Aveva dato la sua parola, non avrebbe fatto domande. Finché riusciva ancora a trattenersi non avrebbe infranto il loro patto, sarebbe stato alle regole del gioco. Per quanto il suo stomaco si contraesse, per quanto la sua schiena fosse umida di sudore freddo poteva ancora lasciare a suo padre i segreti che custodiva tanto gelosamente. Ancora per un po’.
Kakashi vide che aveva ripreso colore. «Sei pronto?» gli chiese.
Jin annuì, serio, e ripartirono di corsa. Anka distava meno di due giorni di viaggio.


*


Era raro che a Suna il cielo si rannuvolasse. Chiharu alzò lo sguardo verso la massa che si muoveva sopra il villaggio stemperando il blu dell’orizzonte. Corrugò la fronte, sentendo qualcuno prevedere pioggia, e fissò i batuffoli di zucchero filato con scetticismo.
«‘Sti cosi non fanno nemmeno ombra» brontolò accaldata.
«Che c’è?» chiese Temari, facendo dondolare il piede mentre aspettavano a un tavolino del bar vicino al palazzo. «Non stai bene?»
«Sì che sto bene» ringhiò lei irritata.
La sera precedente, durante il famoso tè in famiglia, non avevano fatto che parlare del suo cuore e di quanto fosse stata stupida a sbagliare droga cinque anni prima. Per l’intera durata della riunione tutti gli occhi erano rimasti puntati su di lei, ma la cosa davvero irritante era che nessuno le aveva mai fatto un complimento per aver aiutato a evitare il peggio.
Sperava che almeno Loria la spiona si fosse annoiata a morte, ammesso che non avesse avuto a sua volta un saggio consiglio da darle: se avesse seguito tutti i suggerimenti avrebbe dovuto mangiare solo carote e riso al vapore, dormire sedici ore al giorno e farsi portare in braccio su per le scale. Era inutile cercare di spiegare che il suo cuore era perfettamente a posto e che detestava che la considerassero invalida: prendersi cura della sua salute era diventato un passatempo internazionale.
Afferrò un tovagliolo sul tavolino e si fece aria mentre girava intorno lo sguardo. Lei e Temari erano arrivate prima degli altri, ma l’ora dell’appuntamento per il pranzo era passata già da qualche minuto. Forse Loria aveva trovato sospetto che decidessero di fare pausa tutti insieme e aveva trovato il modo di ostacolare gli altri?
«Vuoi un bicchiere d’acqua? Ci spostiamo dentro?» le chiese Temari scrutandola con attenzione. «Siamo sotto l’ombrellone, ma è sempre il clima di Suna...»
«Mamma, basta!» sibilò Chiharu. «Stai diventando insopportabile!»
«Hai preso le tue pastiglie stamattina?»
Stava per rovesciarle addosso il tavolino, ma fu interrotta dalla comparsa degli altri. Controllò lo scatto d’ira e tirò un sospiro di sollievo.
«Scusate il ritardo!» esordì Rock Lee, mentre i ragazzi univano un altro tavolo e aggiungevano le sedie mancanti. «Abbiamo preferito fare una doccia prima di presentarci al gentil sesso.»
«Tanto fra dieci minuti sarete di nuovo impestati di sudore» commentò Chiharu sbracciandosi per attirare l’attenzione del cameriere.
«Non io» replicò dignitosamente Hitoshi. Lui non sudava per il caldo, era una delle cose per cui le ragazzine andavano in visibilio.
Il cameriere si avvicinò per prendere le ordinazioni. I due Lee e Gai Maito rischiarono di svuotare la dispensa del bar, e Chiharu fu costretta a prendere una bottiglia d’acqua da due litri perché sua madre continuava a blaterare qualcosa sui rischi della disidratazione. Mentre aspettavano che il cibo arrivasse si diedero a chiacchiere vaghe e rapide occhiate. Durante quella pausa Gai e gli altri, che avevano saputo i dettagli del piano da Gaara, dovevano condividere le informazioni con Temari e Chiharu. Per farlo avevano stabilito di parlare in metafora, qualunque cosa significasse.
«Stanotte ho fatto un sogno assurdo!» esclamò Kotaro all’improvviso. «Devo assolutamente raccontarvelo.»
Chiharu e Temari lo guardarono storto.
«No, dai!» esclamò anche Rock Lee con eccessivo entusiasmo. «Non vedo l’ora!»
Chiharu fece una smorfia di incredulità.
«Anche io!» si unì Gai enfaticamente. «Vogliamo proprio sapere!»
Temari fece arrivare un calcio sotto la sedia a Chiharu, che le gettò un’occhiata stralunata di fronte ai suoi cenni con le sopracciglia. Le sfuggiva qualcosa?
«Dovresti stare attenta, Haru» disse Hitoshi con un'occhiata di rimprovero. «Penso che ti interesserà parecchio.»
Allora, finalmente, anche la kunoichi capì cosa intendevano quando avevano parlato di ‘metafora’ e fece un piccolo gemito: non aveva alcuna fiducia nelle capacità creative di Kotaro, era certa che sarebbe stato un disastro.
Ed ebbe ragione. Perché venti minuti dopo, davanti ai resti del pranzo e con i due litri d’acqua di Chiharu agli sgoccioli, tutti fissavano Kotaro con la fronte imperlata di sudore, Hitoshi incluso.
«...Quindi abbiamo aggirato la sorveglianza delle guardie, siamo entrati nella stanza blindata e abbiamo rapinato l’intero incasso» sorrise Kotaro, dopo aver simulato un vivace schema d’azione sul tavolo.
«L’incasso...» borbottò Rock Lee, teso nello sforzo della concentrazione.
«L’incasso, figliolo!» ripeté Gai in tono incerto, una mano a sostenere il mento prostrato.
«L’obiettivo della mis... Rapina» sbottò Hitoshi esasperato. «La rapina del sogno di Kotaro, che voi avete sentito anche ieri!»
«Sicuro!» esclamarono i due realizzando all’improvviso. «L’oro!»
Chiharu si lasciò andare contro lo schienale della sedia e portò una mano alla fronte. Dopo la contorta narrazione di Kotaro le era sbocciato un mal di testa da far invidia a Hitoshi.
«Com’è che siamo scappati?» chiese Temari, e Chiharu non poté evitare di lanciarle un’occhiata ammirata, perché evidentemente lei era riuscita a stare dietro al discorso.
«Con un diversivo» rispose Kotaro pronto, gli occhi brillanti ed entusiasti. «Uno di noi faceva da esca e ha convinto i cowboy a seguirlo mentre ce la svignavamo a cavallo.»
«Cavallo?» Temari si accigliò.
«Oh, sì, cavallo» ribatté Kotaro, lievemente incerto. Guardò Chiharu. «Non ricordo bene, ma forse ce lo procuravi tu...» inarcò le sopracciglia con intenzione.
Chiharu ricambiò lo sguardo senza capire.
«Non ho un maneggio» gli fece notare lentamente, parlando come si fa con i pazzi.
«Ehi, era un sogno!» protestò lui.
«Il che mi fa pensare che dovresti rivedere il menù della tua cena, ragazzo» commentò una voce flautata alle sue spalle.
I sei shinobi di Konoha alzarono gli occhi contemporaneamente: con un brivido si accorsero che Loria era lì, le mani appoggiate alla sedia di Kotaro, e li abbracciava con lo sguardo sorridendo a tutti.
«Pausa pranzo?» chiese Temari ricambiando il sorriso – a Chiharu sembrò più che altro che snudasse i denti in un avvertimento.
«Volevo solo vedere come procedono i lavori...» spiegò Loria vagamente, e spostò la sua attenzione su Gai e Rock Lee che si sfidavano con le dita per prendere l’ultima arachide – il tutto nel riuscito tentativo di cancellare lo schema disegnato da Kotaro con le cannucce.
«Vuole bere qualcosa?» offrì Hitoshi all’improvviso, senza sorridere.
Loria lo fissò leggermente sorpresa. «Ho già pranzato, grazie.»
«Posso raccontarle il mio sogno, se le interessa!» esclamò Kotaro con entusiasmo forse eccessivo, e a quel punto Loria corrugò la fronte e iniziò ad apparire imbarazzata.
«Veramente non...»
«E’ interessante, davvero interessante» la incitò Chiharu sfoderando un sorriso ampio e sornione. «Soprattutto la parte in cui gli alieni scendono sulla mongolfiera e ci danno manforte.»
La segretaria la fissò sbattendo le palpebre. Aveva saputo che gli shinobi di Konoha avevano intenzione di pranzare insieme e l’aveva considerato sospetto. Allora li aveva raggiunti in fretta, convinta di trovarli a confabulare sottovoce, e invece li aveva scoperti rilassati e a loro agio nel mezzo di un racconto fantascientifico che tuttavia aveva sollevato in lei qualche dubbio. Li aveva avvicinati, certa di cogliere qualche segno di colpevolezza almeno nei ragazzini, i più inesperti, invece si era vista offrire un cocktail e un riassunto di quello che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto essere un progetto per liberarsi di lei.
O era davanti a un esperto piano di depistaggio, o stava diventando paranoica.
In fondo Gaara non aveva alcuna possibilità di comunicare con Konoha, tentò di dirsi. Lo aveva sorvegliato attentamente in quei sei anni, ed era certa che nessuno sapesse del ricatto. Aveva controllato anche i messaggi che Kazekage e Hokage si scambiavano, ed era tutto regolare. Probabilmente gli aiuti dalla Foglia erano soltanto aiuti, dopotutto.
Si rilassò impercettibilmente, sfoggiando il solito imperturbabile sorriso. «Siete molto gentili» ringraziò. «Ma ora che mi sono accertata che siate a vostro agio penso che vi lascerò di nuovo soli. Il Kazekage ha bisogno del mio aiuto, altrimenti non saprebbe mai organizzare il suo tempo. Buon pomeriggio e buon lavoro.»
Così com’era arrivata, se ne andò senza fare danni. Chiharu guardò Kotaro, pensando che per una volta la sua ossessione per i dettagli li aveva salvati tutti. Lui, accorgendosi del suo sguardo, arrossì di piacere e si strinse impercettibilmente nelle spalle, al che lei lo gratificò di un sorriso, per quanto piccolo.
E Hitoshi, che aveva visto tutto mentre Temari rubava l’ultima arachide a Gai e Lee, tamburellò nervosamente le dita sul tavolino. A lui Chiharu non sorrideva dalla famosa sera della sbronza.
Credimi, se pensassi di poter fare di più lo farei, aveva detto a Kotaro.
Ma per essere proprio onesti, gli stava passando la voglia.


*


La vita di Sai da qualche anno era piuttosto monotona.
Se avesse dovuto spiegarne le ragioni, si sarebbero ridotte a un breve e avvilente elenco il cui andamento sarebbe stato all’incirca così:
  • dopo una certa età le ragazze che facevano la coda alla sua porta avevano iniziato a presentarsi con la speranza di un anello, il che riduceva la percentuale di tempo dedicata al divertimento e incrementava quella dedicata alle discussioni sulle variazioni della carta da parati;
  • le missioni che svolgeva come Jonin quasi anziano non potevano più essere molto impegnative, perché banalmente il suo fisico non le avrebbe rette;
  • tutti i suoi amici erano stati rapiti dai doveri famigliari, eclissandosi in una nube di pannolini, crisi ormonali e ansie di paternità inaspettate.
Vedendo le persone con cui era cresciuto andare avanti su percorsi sempre più lontani dal suo, aveva dovuto fare alcune riflessioni sgradevoli ma necessarie.
Per esempio, per quanto apprezzasse la libertà che comportava il celibato, ogni tanto Sai si trovava a pensare che avrebbe potuto cedere a uno dei brillii che scorgeva negli occhi delle sue amanti... Forse il matrimonio gli avrebbe ridato qualcuno di quegli stimoli che sentiva venir meno anno dopo anno. Le donne che gli ronzavano intorno con quelle intenzioni erano due o tre, tutte ragazze pericolosamente vicine al limite in cui non potevano più definirsi ragazze, signorine di bell’aspetto che avevano atteso il partner giusto per troppo tempo o avevano rifiutato le offerte in maniera sconsiderata. Almeno una di loro avrebbe accettato una proposta di matrimonio senza pensarci un secondo, ma sfortunatamente era anche quella a cui proprio non lo avrebbe chiesto.
Però pensava di sposarsi, questo sì, e ci pensava abbastanza seriamente. Avrebbe avuto la soddisfazione di applicare una carta da parati - una qualunque, purché non se ne parlasse più - comprare un maledetto anello, appendere i kunai al chiodo e finalmente chiacchierare con i vecchi amici di pannolini e crisi premestruali. Non era una prospettiva entusiasmante, ma sembrava piuttosto naturale.
Fino all’arrivo di Chiharu.
Sai non aveva mai preso sul serio le sue promesse da tredicenne. Aveva sempre pensato che avesse detto che lo avrebbe conquistato solo perché aveva mezzo litro di morfina in circolo, non perché ci credesse davvero. E invece aveva fatto male i conti.
Questo era stato un elemento imprevisto nella sua monotona vita, una novità in grado di scardinare la sua risoluzione di prendere moglie e fargli riprovare il brivido del Sai ventenne che veniva corteggiato da ragazze come Ino. Era stata una bella sensazione, certo inaspettata, ma bella. Lo aveva fatto sentire affascinante e potente, gli aveva fatto credere che poteva ancora essere l’aitante giovanotto di un tempo.
Quando l’aveva vista comparire sul cornicione della finestra per la seconda volta aveva provato una punta di fastidio, perché aveva pensato alla difficoltà di spedirla a casa da suo padre; ma poi, accogliendola e mettendola alle strette, aveva vissuto un déjavu che da tempo non gli tornava alla mente: Ino. Ino che giurava e spergiurava che avrebbe dettato lei i ritmi del corteggiamento, Ino che si stizziva quando lui nominava Shikamaru, Ino che lo guardava con un sorriso furbo ogni volta che si accorgeva che il suo flirt andava a segno. Erano passati tanti anni, ma il brivido di quei tempi era ancora lì, sepolto sotto la polvere del tempo.
Certo, ora Ino era sposata con Choji e Sai la incontrava solo come amico, quando capitava, ma era stata per certi versi la sua relazione più importante. E ironicamente, se le cose fossero andate in maniera completamente diversa, Chiharu sarebbe potuta essere sua figlia, non di Temari. La cosa aveva un che di perverso, si era detto, ma non aveva mai avuto grossi problemi ad affrontare le proprie perversioni.
Naturalmente tutto ciò non aveva a che vedere con qualche merito particolare di Chiharu. Anzi, la ragazza era molto goffa, una corteggiatrice noiosa e una pessima conversatrice. Se avesse cercato di sedurlo vent’anni prima le avrebbe riso in faccia, ma adesso che si avvicinava ai quaranta non faceva più lo schizzinoso. Era un peccato che fosse stata spedita in missione proprio adesso.
Nello stimolante panorama della sua seconda giovinezza c’era solo un piccolo grande problema: faticava ad essere spontaneo quando si trovava davanti Shikamaru - e temeva che se per disgrazia avesse incontrato sua moglie la situazione sarebbe stata anche più difficile. Per fortuna era facile evitarlo, considerato che il pigro Nara cercava di rendersi irreperibile il più possibile, ma ora che Temari era via lo si vedeva in giro un po’ più spesso. Sai avvertiva un insolito senso di disagio quando lo incrociava per strada.
«Tu hai qualcosa che ti preoccupa» gli disse un giorno Ino, mentre Sai si rassegnava a comprare dei fiori al suo negozio per una delle aspiranti spose che gli ronzavano intorno. «Hai le pieghe attorno alla bocca quando qualcosa ti preoccupa. Dovresti smettere di fare quella smorfia, alla nostra età le rughe di espressione si cementano nella pelle.»
«Sei davvero così attenta a dettagli come questi?» chiese lui lisciandosi la faccia con una mano.
«Il mio mestiere è vendere: devo sapere di che umore sono i miei clienti. Allora, cosa c’è che non va? Un’altra spasimante che piangerà vedendo le margherite perché voleva un anello?»
«Piangerà?» Sai scrutò il mazzo di fiori e cercò di visualizzare il momento in cui li avrebbe consegnati. Oh sì, la ragazza quasi non-ragazza avrebbe pianto. «Potrei prendere delle rose...»
«Se lei vuole un anello, non ti basterà comprare tutto il negozio. Quando metterai la testa a posto, eh?» sbuffò Ino appoggiandosi al bancone con i gomiti. «Essere sposati non è così male. Sesso regolare, almeno i primi tempi, affitto dimezzato e una spalla su cui piangere. E i bambini! Oh, i bambini sono adorabili.»
«Pensi davvero che potrei trovare i bambini adorabili
«Li troveresti molto interessanti. Totalmente imprevedibili, privi di schemi e convenzioni. Per te sarebbero divertentissimi.»
«Posso studiare quelli degli altri, se è questo che intendi.»
Ino fece una smorfia. «Quelli degli altri sono rischiosi... Non sai mai come la prendono i loro genitori. Comunque se vuoi farla piangere un po’ meno, prendi un mazzo gigante di rose rosse e scrivile un biglietto che la carichi di aspettative.»
«Per i genitori?»
«Per la tua spasimante, stupido!»
Sai mise giù il mazzo di margherite e obbedì docilmente. Ino gli preparò un mazzo di rose che minò seriamente il suo budget mensile, gli scrisse un biglietto che lasciava intendere vaghe promesse sul futuro e lo salutò con un sorriso smagliante e la cassa rigurgitante di banconote. Sicuramente sapeva fare il suo mestiere. Chissà come avrebbe reagito sapendo che la figlia diciottenne della sua più vecchia fiamma stava cercando di infilarsi sotto le stesse lenzuola che aveva occupato lei un tempo... Al ricordo, parte della concentrazione di Sai deviò su piacevoli episodi del passato a cui non ripensava spesso: in effetti la giovane Ino avrebbe potuto dare molte dritte alle entusiaste quarantenni di oggi; Choji era stato un ragazzo molto fortunato o incredibilmente abile, Sai non aveva mai scoperto quale delle due.
Qualcosa disturbò i margini della sua area di attenzione, riportandolo bruscamente alla realtà. Smise di camminare e si voltò, appena in tempo per vedere un piede sparire dietro un muro.
Normalmente non faceva molto caso alle persone, a meno che non appartenessero alla famiglia Nara - e solo di recente - ma qualcosa nella figura appena scomparsa gli aveva fatto suonare un campanello d’allarme.
Alzò lo sguardo sui palazzi che delimitavano la strada, inizialmente estranei, poi sempre più familiari, e prima che fossero passati dieci secondi si incamminò rapido nella direzione in cui aveva visto sparire il piede misterioso.
Quella zona del villaggio era benestante: ville dagli ampi parchi recintati, palazzi con portieri che facevano il quarto grado ai visitatori, aiuole accanto ai cancelli e asfalto sempre fresco. L’aria era pervasa dal profumo di fiori che emergeva dagli invisibili giardini, e in quella cornice Sai, con il suo mazzo di rose gigante e i suoi abiti da quattro soldi, sembrava un facchino in cerca dell’indirizzo per una consegna.
Eppure conosceva quelle vie, anche se le aveva sempre attraversate di notte, saltando di ombra in ombra. Le conosceva così bene che avrebbe potuto attraversare l’isolato ad occhi chiusi senza mai attirare l’attenzione di una guardia. Svoltò l’angolo a cui aveva svoltato l’uomo; lo vide in fondo alla strada, fermo davanti a un cancello. Stava parlando con una guardia, e un secondo dopo fu introdotto all’interno dell’abitazione, inghiottito dalle mura di roccia spessa.
Sai raggiunse il cancello oltre il quale l’uomo era sparito. Si fermò ad osservare l’alta struttura di bambù affilato, oltre la quale si intravedeva un tetto decorato, quindi scivolò con lo sguardo all’ingresso. Dal nome sulla tavoletta dell’indirizzo riemerse il ricordo di una famiglia nobile piuttosto in vista, i cui membri erano storiche colonne del Consiglio.
Mentre leggeva gli ideogrammi incisi nella lacca e cercava un collegamento con l’uomo che gli era sembrato di riconoscere, la memoria di Sai scavò indietro, molto indietro, anni e anni prima, quando ancora Naruto era il più incapace allievo di Jiraya e lui un valido membro della Radice agli ordini di Danzo. Scavando così a fondo un volto riemerse dalla nebbia dei ricordi, il volto di un compagno d’armi di cui non ricordava il nome - anzi sì, Hatsu - e insieme a quel volto si fecero avanti una gran quantità di informazioni.
Quando Danzo era stato arrestato e la Radice smantellata, Hatsu era stato rilasciato perché era poco più di un ignaro esecutore. Con lui molti altri erano stati mandati a casa senza note sulla fedina penale, e Sai ricordava bene che alcuni di loro lo avevano considerato uno sporco traditore. Hatsu non era tra quelli: alla caduta della Radice aveva scrollato le spalle e aveva detto che avrebbe continuato a lavorare come shinobi anche se gli avessero affidato incarichi minori. Non sapeva fare altro che il suo mestiere, e non era particolarmente devoto alla causa di Danzo.
Se Sai non andava errato Hatsu era rimasto Chunin e lavorava all’Ufficio per lo Smistamento delle Missioni; il che, sia per lo stipendio che per il prestigio che questo comportava, rendeva assolutamente incomprensibile la sua presenza in quella zona del Villaggio e il fatto che fosse appena stato invitato all’interno di una residenza nobiliare. Tanto più che quello era stato il quartiere di Danzo, tanti anni prima.
«Cerca un indirizzo in particolare?» chiese un portiere alle spalle di Sai.
Il Jonin si voltò e gli sorrise. «No.»
Il portiere lo scrutò con sospetto, quindi guardò l’abitazione di fronte e si chiese se fosse il caso di avvisare la sicurezza della casa.
«Sono solo un ammiratore della signorina» aggiunse Sai, ostentando i fiori con un movimento vago. «Ma ora che sono qui davanti il mio dono sembra totalmente inadeguato.»
Il portiere guardò con compassione le rose rosse e l’abbigliamento del giovane. «Vai a casa, ragazzo» consigliò in tono paterno. «Qui non c’è niente per te.»








* * *



Salve a tutti!
Chiedo scusa per il ritardo nell'aggiornamento,
ma ho trovato improvvisamente del lavoro e mi hanno chiesto di presentare una quantità impressionante di documenti,
per cui devo scomodare tribunale, medici del lavoro e il Papa, credo.

In compenso abbiamo finalmente capito qualcosa di più sulle losche (?) motivazioni di Sai,
e introdotto una grossa, grossissima parte che nella vecchia versione di Penne non esisteva.
(E che dà uno scopo all'esistenza di Sai. Tipo.)

Niente Naruto in questi capitoli,
ma presto tornerà in gran forma
(perché mi sono riletta le parti di Sinners in cui dava di matto. Aww!).



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Capitolo 13
*** Arroganza ***


Penne 13
Capitolo tredicesimo

Arroganza




E' solo un bacio.
Non può essere così difficile, giusto?



Temari non aveva preso affatto bene l'idea che Chiharu fosse responsabile del piano di fuga e non volesse condividerlo con lei.
Per tutta la sera aveva provato a estorcerle informazioni con le buone e con le cattive, ma invano: Chiharu si era trincerata prima dietro vaghe risposte, poi in un silenzio inespugnabile fatto di grugniti ed espressioni di esasperazione. Alla fine, chiudendo lo zaino per l'indomani con uno strattone violento, si era voltata e aveva posto fine alla questione con uno stolido: «ho diciotto anni e l'autorizzazione dell'Hokage. Vado a dormire altrove.»
E lo aveva fatto davvero, sfruttando senza vergogna la sua nuova maggiore età e ignorando pericolosamente le minacce di Temari. Era uscita dalla porta con lo zaino in spalla, senza scucire una parola, senza augurare la buonanotte né salutare prima della partenza, ed era trottata via. Aveva fatto una cosa imprudente, considerati i rischi a cui andava incontro l'indomani. Ma aveva diciotto anni, si sentiva invincibile e non pensava affatto alla possibilità che qualcosa nella missione andasse male.
Prima di andare a bussare alle stanze di Gaara per supplicarlo di darle un letto, decise che le serviva una boccata d'aria. Tenendo stretto lo zaino e facendo attenzione a non incrociare nessuno dietro le curve dei corridoi raggiunse le scale. Risalì fino all'ultimo piano, un'ala in evidente stato di abbandono dove la polvere si radunava negli angoli male illuminati, e da lì arrivò alla porta che dava sul tetto. La trovò socchiusa.
Immediatamente allertò tutti i suoi riflessi, lasciando scivolare lo zaino a terra. Sapeva che durante la notte tutti gli accessi al palazzo venivano chiusi dall'interno; dubitava che qualcuno avesse sbadatamente scordato la porta sul tetto.
Accucciatasi contro il muro, socchiuse leggermente la porta per sbirciare fuori. La terrazza sembrava deserta. Con un po' meno cautela si sporse per aumentare il campo visivo...
«Che stai facendo?»
Per la sorpresa Chiharu trasalì e picchiò la testa contro lo stipite, che risuonò con un tintinnio metallico. Imprecando e massaggiandosi la fronte vide la porta che veniva aperta e la faccia pallida di Hitoshi che la scrutava preoccupato.
«Sto bene» assicurò rialzandosi.
«Sicura?»
«Che cazzo ci fai qua fuori?»
Hitoshi alzò la mano che stringeva la sigaretta, scrollando contemporaneamente la cenere. «Il solito. Tu?»
Chiharu avvicinò lo zaino con un piede. «Scappo da mia madre.»
«Avete retto solo una notte?»
Chiharu scrollò le spalle e si chinò per raccogliere lo zaino. La metteva a disagio trovarsi di nuovo sola con Hitoshi. Non voleva parlare con lui. «Ho visto la porta aperta e ho pensato di controllare, ma se è tutto a posto vado a cercare un letto.»
Hitoshi esitò per un istante. Ancora una volta erano lui e lei, senza Kotaro né qualcuno degli onnipresenti adulti. Non succedeva dalla sera della sbronza. Al ricordo il cuore fece una piccola capriola nel petto e piombò giù, al centro dello stomaco.
Ma lei lo aveva rifiutato, ricordò. O meglio, aveva finto malamente di non sapere nulla di quel che era successo, che era come rifiutarlo. Vigliaccamente e pure un po' da stronza. Il pensiero lo irritò.
«Davvero non ricordi niente della sera del ramen?»
Chiharu si pietrificò sulla soglia, e Hitoshi con lei. Ok, forse gli era sfuggito in maniera un po' impulsiva.
«Assolutamente niente. Ubriaca marcia» assicurò lei senza guardarlo.
Lui si innervosì ancora di più. «Perché fingi di non ricordarlo? Dovremmo parlarne, invece...»
«Non sto fingendo proprio un tubo!» scattò Chiharu lanciandogli un'occhiata di fuoco. «Non c'è niente di cui parlare, perché non ricordo assolutamente niente di quella sera!»
«Se è questo il punto, posso spiegartelo io» sbottò Hitoshi stizzito.
Chiharu alzò una mano in segno di avvertimento. Lui resse ancora qualche secondo, poi fece un verso esasperato e distolse lo sguardo, aspirando una lunga boccata dalla sua sigaretta. Voleva davvero giocare a quel gioco? Beh, non sarebbe rimasto in silenzio a farsi massacrare. «Allora dimmi cosa c'entra Sai.»
Chiharu spalancò occhi e bocca, inorridita. Davvero aveva menzionato Sai? Era stata così assolutamente idiota da raccontare a Hitoshi quello che era successo con Sai?
«Non ci provare» disse l'Uchiha in fretta, vedendo che lei stava per negare qualunque coinvolgimento. «Hai smesso di baciarmi apposta per dire qualcosa su di lui.»
«Ba-Ba-Ba...?» balbettò Chiharu, lasciando cadere a terra lo zaino. Allora l'incubo non era solo un incubo. Era molto peggio.
«Baciarmi, sì. Hai presente? Quella cosa che succede quando due persone...»
«Ho presente!»
Entrambi tacquero, improvvisamente consapevoli del fatto che era successo: stavano infrangendo il patto più importante del gruppo sette, stavano parlando di qualcosa che non sarebbe mai e poi mai dovuto succedere. Chiharu aveva una vaga idea di quelli che erano i rapporti tra Hitoshi e Kotaro, anche se nessuno aveva mai scoperchiato il vaso di Pandora: discutere di ciò di cui stavano discutendo rischiava di ipotecare seriamente l'equilibrio del gruppo.
La faccia di Chiharu era abbastanza chiara al riguardo, e Hitoshi lo capì. Pensò a Kotaro e sentì una stilettata di vergogna piazzarsi nei visceri, insieme a una minuscola punta di trionfo. Chiharu gli sorrideva? Beh, lui la baciava, invece.
«Adesso ti ricordi?»
Chiharu mugolò qualcosa di indistinto. Spezzoni confusi di memoria si avvicendarono rapidamente, aumentando il disagio e facendola sentire sempre più fuori posto. Avrebbe tanto voluto che Hitoshi non fosse così cocciuto e se ne fosse rimasto zitto. Ma doveva scoprire se si era tradita su Sai. Era una cosa che poteva metterla in un mare di guai, nelle mani di Hitoshi. Dei, se solo pensava alla reazione di sua madre...
«Cosa hai detto che c'entrava Sai?» tentò.
«Non lo so, dimmelo tu» infastidito, Hitoshi lasciò cadere il mozzicone di sigaretta e lo spense con un piede. «Hai ancora quella stupida cotta per lui?»
«E tu che ne sai?»
«Lo sanno anche i sassi. E' per questo che ne hai parlato? Avresti preferito saltare addosso a lui, invece che a me?»
«Stai dando la colpa a me?»
«Hai iniziato tu! Io ti stavo portando a casa in maniera assolutamente innocente!»
«Cosa vuol dire che ho iniziato io?» sbottò lei.
«Che hai iniziato tu: di punto in bianco mi hai ficcato la lingua in bocca. Come lo definiresti?»
Chiharu si passò una mano sul viso, sognando che il pavimento si aprisse e la inghiottisse in un momento. Già era abbastanza umiliante che fosse successo qualcosa, figurarsi sapere che era anche stata una sua iniziativa.
«Senti... Ero ubriaca. Non sapevo cosa facevo...» farfugliò confusamente.
«E non possiamo parlarne?» rispose lui, una minuscola scintilla di speranza che si accendeva in fondo al tunnel.
«Per dire cosa?»
Hitoshi deglutì una, due volte. Pensò a Kotaro, lo cancellò.
«Per esempio, per dire che si potrebbe rifare...»
Al diavolo Kotaro. Dopotutto lui era un Uchiha, e gli Uchiha hanno un solo gruppo: il clan.
Chiharu rialzò lo sguardo e fissò Hitoshi. «Sono sobria» gli fece notare nervosamente. Un fremito le fece pizzicare la punta delle dita.
«Appunto. Così potremmo... avere un'idea più precisa di come funziona...» Hitoshi si passò una mano tra i capelli, spostando il peso da un piede all'altro.
«Non credo che sia una buona idea» mormorò Chiharu, sfregando le dita tra loro.
«Non lo sai» Hitoshi fece un passo verso di lei, e lei arretrò, trovandosi il muro alle spalle.
«Non va bene, ne sei consapevole, vero?» sibilò Chiharu, premendosi contro il muro mentre il suo cuore accelerava come impazzito.
«Non ti sto mica chiedendo di sposarmi» replicò lui, ora abbastanza vicino da sentire il calore che emanava il suo corpo. E poi, con falsa arroganza, aggiunse: «è solo un bacio.»
Chiharu si trovò a corto di risposte. Tutto, tutto dentro di lei gridava che si stava infilando in una montagna di guai grossa come la Rupe degli Hokage. Non poteva lasciare che Hitoshi demolisse così spudoratamente il gruppo sette, non poteva permetterglielo. E allo stesso tempo una parte generosa del suo corpo ricordava con piacere la sera del ramen e reclamava una replica. Chiharu ricordava quel bacio, ricordava la sensazione delle labbra di Hitoshi contro le sue e delle sue mani che la accarezzavano. Qualcosa formicolava nei suoi visceri quando ci ripensava, e il profumo di Hitoshi, così vicino, così familiare, risvegliava le sensazioni di allora e le amplificava un milione di volte.
La carne è debole.
Hitoshi attese per almeno dieci secondi, sentendosi come il bersaglio di una gara di kunai. Era quasi certo che gli sarebbe arrivato un cazzotto, invece Chiharu rimase immobile, a fissarlo con gli occhi sbarrati. Allora lui si fece avanti.
Impacciato le sfiorò un braccio, perché non sapeva dove mettere le mani. La vide trasalire, ma non partirono shuriken. Con l'altra mano andò ad accarezzarle il collo, avvertendo il battito forsennato della carotide e la quasi familiare sensazione della sua pelle, infinitamente più morbida di qualunque altra. Posò il pollice sulla sua guancia, sfiorandola appena, e si chinò su di lei. Appena prima di baciarla gli sembrò che Chiharu alzasse il viso e si tendesse verso di lui, ma poi ci fu solo la strana morbidezza delle sue labbra, e tutto perse importanza.
Chiharu scoprì che dal vivo era meglio che in un ricordo sbiadito dall'ubriachezza. Non era proprio come il bacio che aveva dato a Sai: questo era il bacio di qualcuno che sta facendo di tutto per non mangiarti viva. Dischiuse le labbra e sentì il retrogusto di tabacco che aleggiava intorno a Hitoshi. Qualcosa, nemmeno lei sapeva cosa, balzò nella sua pancia e accese una scintilla. Prima di rendersi conto di cosa stava facendo, aveva circondato il collo di lui e lo aveva attirato contro il muro. Si ricordò di respirare quasi con un momento di ritardo. Hitoshi sfruttò la pausa per affondare il viso nel suo collo, e Chiharu non riuscì ad evitarlo: annaspò. Era una cosa che non aveva mai provato prima, un'ondata di sensazioni impossibile da arginare. Affondò le dita nella schiena di Hitoshi, lo strinse con più forza, cercò la sua bocca in un modo che non avrebbe mai creduto degno di lei.
Lui non lo disse, ma in realtà sapeva come sarebbe andata ancor prima di iniziare: altro che solo un bacio; non gli sarebbe bastato mai più. Premette il corpo contro il suo, intrufolando le mani sotto la maglietta, e percorse la pelle nuda della sua schiena con un brivido di trionfo. Sentì le dita di lei artigliargli la nuca, ma si staccò prima di andare troppo oltre. Il tetto era presumibilmente tenuto d'occhio dalle guardie di palazzo: la sua idea di intimità non era esattamente quella di fornire uno spettacolo straordinario agli Anbu della Sabbia, ma sapeva anche che gli attimi di grazia di Chiharu erano pericolosamente instabili.
Quasi non le lasciò capire cosa succedeva. La prese per un fianco, sospingendola verso le scale. Scese i primi gradini, la bloccò, la baciò di nuovo.
«Che diav...» tentò di dire lei, ma lui la fece scendere ancora, e ancora la fermò, ogni tre o quattro passi.
«Vieni con me» le sussurrò arrivati al piano, e la tenne per le mani mentre la conduceva lungo il corridoio e tentava di aprire una porta, depositando rapidi baci sul suo collo.
«Cosa vuoi fare?» chiese lei, un tremito nella voce di difficile definizione.
La prima maniglia cedette al tocco di Hitoshi, che cercò tentoni un interruttore per la luce. Quando lo trovò si rese conto di aver avuto una fortuna sfacciata: l'ala abbandonata un tempo era stata riservata agli ospiti, e quelle erano stanze con un letto e coperte un po' polverose.
Chiharu fissò la camera con un tuffo al cuore. Quello era un po' prematuro. Assolutamente fuori dai programmi. Fu presa dal panico.
Hitoshi la sentì irrigidirsi e le lasciò le mani, circondandole il viso per baciarla di nuovo.
«Non credo che...» iniziò lei, ma lui le morse le labbra e lei perse il filo del pensiero. Lasciò che la spingesse dentro, richiudendo la porta, e si lasciò portare fino al letto. Una parte della sua mente la stava sgridando, ma con voce lontana lontana. Un'altra parte, quasi fosse di nuovo ubriaca, le comunicava con urgenza che era molto fastidioso avere ancora addosso i vestiti.
Hitoshi tolse le coperte impolverate, la spinse sulle lenzuola e scivolò su di lei, ancora senza ricevere cazzotti. Immaginava che anche Chiharu avesse perso il timone delle proprie azioni, come stava succedendo a lui, ma la cosa lo rendeva leggero e felice come era stato poche altre volte in vita sua, invece di preoccuparlo. Il sospiro che le sfuggiva quando la mordeva appena sotto l'orecchio era inebriante; la sensazione delle sue mani che cercavano il margine della maglietta era esaltante, il fatto che lo attirasse a sé invece di respingerlo nuovo e incredibile. Davvero, onestamente non avrebbe scommesso mezzo ryo su quell'avvenimento se glielo avessero chiesto il giorno prima; invece era lì. E anche lei era lì, e non accennava a volersene andare.
Si spogliarono goffamente, perché fretta e inesperienza mal si combinano a diciotto anni. Per tutto il tempo Chiharu zittì la vocina interiore che tentava disperatamente di metterla in guardia, finché, arrivati al dunque, quella vocina ebbe uno scatto d'orgoglio e si fece sentire.
«Fermo» sussurrò lei piantandogli le mani sul petto.
«Che c'è?» ribatté lui tornando faticosamente alla lucidità.
«Non vorrai farlo così?»
«Così come?»
«Senza... Senza... Oh, hai capito: mia madre ha trentanove anni. Sono sicura che non voglia diventare nonna prima dei cinquanta.»
Hitoshi si immobilizzò. Preservativi. Ma certo. Quale diciottenne non ha con sé un mucchio di preservativi, per ogni evenienza? Beh, i suoi erano in camera.
«Non ce li ho» fu costretto ad ammettere.
«Levati di dosso, allora.»
Chiharu fece per spingerlo via, ma lui non cedette. «Ci sto attento» assicurò, l'ansia che gorgogliava in fondo alla gola.
«Ah! Scommetto che sono state le ultime parole di mio padre, diciotto anni fa!» esclamò lei con una risata sprezzante e un po' spaventata. Avrebbe perso la scommessa, ma non poteva saperlo. «Te lo scordi.»
«Ma... Non puoi!» allibì Hitoshi. «E' inumano fermarmi a questo punto!»
«Lasciami alzare.»
«Ascolta, Chiharu... te lo giuro, ci sto attento.»
«Lasciami alzare!»
La voce di Chiharu si era fatta stridula, pericolosamente acuta. Hitoshi vide la paura in fondo ai suoi occhi, vide le arterie sul suo collo pulsare velocemente, e capì che stava per arrivare il cazzotto che aveva temuto per tutto il tempo.
«Vado a prenderli» si affrettò a dire allora.
«Cosa?»
«Mando una copia in camera. Tornerà in un minuto. Dico davvero.»
Chiharu ammutolì. I suoi ormoni si erano abbassati abbastanza da permettere alle prime avvisaglie del dubbio di farsi avanti. Per un momento si rese conto dell'enormità dell'errore che stavano per fare, poi Hitoshi ritornò a baciarla e il momento di lucidità si fece da parte, sostituito da un molto più triviale 'Sai, a questo giro vince lui'. Non era un pensiero particolarmente brillante, ma c'era molto poco in grado di pensare, in lei, a quel punto.
Hitoshi si staccò per creare una copia e mandarla fuori dalla stanza, operazione che non richiese più di un paio di secondi. Arrivato fin lì aveva capito che Chiharu aveva una resistenza di una decina di secondi, dopodiché iniziava a farsi venire mille dubbi e minacciarlo di piantarlo in asso sul più bello. Così non perse tempo, non lasciò nemmeno che si raffreddasse la pelle sulla sua pancia. Quasi prima che la copia avesse richiuso la porta, le sue labbra si trovarono a percorrere i contorni della cicatrice sul petto di Chiharu, e gli ultimi dubbi di lei si sfrangiarono delicatamente, facendo crollare le ultime resistenze.


Da molti – anzi da tutti – gli occhi di Kotaro erano definiti a palla. Quand’era nato c’erano stati orgoglio e gioia per Rock Lee e un filo di preoccupazione per Tenten. Fintanto che sono piccoli tutti i bambini sono brutti uguali, certo, ma il suo aveva proprio gli occhi rotondi.
Non che la cosa la turbasse. Cioè, non era una madre che voleva lanciare il figlio in televisione o vederlo fare strage di cuori, e se Rock Lee aveva trovato qualcuno con cui accoppiarsi anche Kotaro un giorno ce l’avrebbe fatta. Solo che prevedeva tempi duri per lui, così aveva velatamente cercato di spingerlo a evitare espressioni troppo sorprese e occhi eccessivamente sbarrati.
Se lo avesse visto fissare il soffitto in quell’afosa notte di Suna avrebbe dovuto rimproverarlo. Gli occhi di Kotaro non erano spalancati: trascendevano il concetto di occhi spalancati. Di profilo sarebbero stati tondi come quelli di un pesce, ma, estetica a parte, il problema era la domanda che li aveva originati.
Dov’era Hitoshi?
Quasi le undici e non era ancora rientrato. Probabilmente stava rovinandosi i polmoni appollaiato su qualche tetto. O in un vicolo. O nelle fogne. A Kotaro sarebbe tanto piaciuto convincersene, soprattutto delle fogne. E invece aveva l’orribile presentimento che ci fosse un altro letto vuoto nel palazzo del Kazekage, e che fosse un letto che non avrebbe mai voluto sapere vuoto. Al solo pensiero sentiva il cuore esplodere e la voglia triviale e atavica di godersi il rumore delle ossa di Hitoshi che si spezzavano sotto le sue mani. Parlando con lui la sera prima si era sforzato di non mandare all'aria il loro equilibrio... Dio, che idiota! L’aveva soltanto provocato.
Strinse i pugni, rigido come un pezzo di legno.
Se non torna a dormire, domani non inizierà nessuna missione. Domani sarà morto, pensò, e non perse nemmeno tempo a stupirsi della propria veemenza.
Ma fu allora che la porta della stanza si aprì, facendolo trasalire, e sulla soglia si presentò esattamente Hitoshi, vestito, in ordine e avvolto da un penetrante alone di fumo.
«Sei ancora sveglio?» chiese vedendo Kotaro che scattava a sedere. «Dormi, che tra poche ore dobbiamo essere in piedi.»
«Dove sei stato?» replicò Kotaro al volo, gli occhi ancora spalancati. Sorpresa, speranza e rabbia si alternavano frenetiche nel suo petto.
«A fumare» rispose Hitoshi. «Dove sarei dovuto essere prima di una missione?»
Kotaro sentì il rumore della cerniera dello zaino che veniva aperta e il rumore discreto delle sigarette che tornavano nella tasca più nascosta, bene in fondo.
«Ah... Ho lasciato indietro l'accendino» borbottò Hitoshi rapidamente, rialzandosi per raggiungere la porta. «Torno subito. Domani abbiamo una tabella di marcia serratissima.»
E Kotaro, finalmente rassicurato, per il sollievo di sua madre smise di fissare il soffitto.


Soffitto che invece Chiharu si trovò a squadrare con infinita cura, anche se dopo aver spento la luce non riusciva a vederlo.
La copia di Hitoshi era tornata, poi era ripartita. Chiharu non aveva chiesto dove andasse perché a quel punto era stata impegnata nella parte più difficile delle operazioni con Hitoshi, ed era stato... complesso. Molto più complesso delle previsioni iniziali.
Lei e l’Uchiha avevano affrontato tante prime volte insieme, nel bene e nel male: la prima volta che avevano indossato un coprifronte, la prima volta che avevano ucciso un uomo, la prima volta che avevano fallito una missione, la prima volta che Naruto li aveva sgridati e quella in cui li aveva lodati. Non sapevano se il bacio fosse stato il primo per l’uno e per l’altra, ma erano certi che il momento presente fosse una novità assoluta, una specie di esclusiva mondiale. Avrebbero voluto cullarsi nella familiare sensazione del primato, ma le cose non erano andate esattamente lisce: l’inesperienza gioca brutti scherzi, soprattutto se mescolata a un orgoglio sfrenato, e loro erano completamente privi di precedenti, smodatamente imbevuti di tracotanza e ben determinati a nascondere il disagio e il senso di inadeguatezza.
In qualche modo se l’erano cavata, nonostante gli intoppi anatomici e i momenti di stizza nervosa, ma non era stato piacevole. In effetti, anche se non lo avrebbero mai ammesso a voce alta, era stato piuttosto deludente.
Solo ora che sentiva il respiro di Hitoshi contro una spalla e il suo braccio sull’addome, Chiharu, rigida e un po' intirizzita per il freddo, si concesse il pensiero di aver commesso la più colossale stronzata della sua vita, anche peggiore dell’avventura adolescenziale con le piantine allucinogene del nonno. Di tutte le persone con cui poteva esercitarsi, era andata a prendere quella che avrebbe portato alle conseguenze più disastrose di tutte.
Oh, non sarebbe mai dovuta crollare. Mai. Si vergognava di essere stata così stupida, e debole, e accecata dall'esaltazione del momento. Aveva sbagliato tutto, dall'istante in cui aveva negato quel bacio a quando aveva accettato di aspettare l'arrivo dei preservativi. E pensare che si credeva intelligente.
Tentò invano di riprendere sonno, ma si rivelò impossibile. Cambiò posizione più volte, cercò di sgusciare via dall'abbraccio di Hitoshi, ma la paura di svegliarlo ebbe la meglio e la tenne a letto. Quando le sembrò che fosse quasi ora di alzarsi, con infinita concentrazione spostò la mano di Hitoshi e scivolò lentamente fuori dalle lenzuola.
Si inginocchiò sul pavimento, cercando di ricordare dove erano finiti i suoi vestiti, ma si accorse con sgomento di non riuscire a capire le dimensioni solo con il tatto. Si lasciò scappare un’imprecazione smozzicata, mentre le sue mani finivano su quello che – grazie al cielo – sembrava un reggiseno, ma a quel punto si accese una luce.
«Che ore sono?» chiese la voce impastata di Hitoshi dal letto.
Chiharu afferrò la prima cosa che le capitò a tiro e se la infilò. Appena in tempo per vederlo girarsi sulla schiena, totalmente incurante dell’assenza di vestiti, e notare che si accigliava impercettibilmente.
«Che fai con la mia maglietta addosso?» domandò, strisciando sulla pancia fino al bordo del letto.
Merda, pensò Chiharu. Si sentì arrossire.
«Dov’è il mio elastico?» fu la cosa più intelligente che le uscì di bocca.
«Da qualche parte tra le lenzuola» sbadigliò Hitoshi. «Che ore sono?» ripeté.
«Ricordi? Abbiamo una missione» rispose lei nervosamente, scivolando con cautela alla ricerca dei pantaloni.
«Manca quasi un'ora alla partenza...» si lamentò lui con un'occhiata all'orologio. «Potevamo dormire ancora un po'.»
«Non ho più sonno.»
Hitoshi si lasciò andare a una smorfia ironica, che l’intera fauna femminile di Konoha avrebbe trovato assolutamente perfetta e che anche Chiharu dovette riconoscere come discretamente accattivante. «Chiharu Nara che non ha sonno? Pagherei per poterlo comunicare via radio» commentò sornione, sollevandosi sui gomiti.
Chiharu dovette costringersi con la forza a non abbassare lo sguardo dai suoi occhi al petto, e soprattutto a non ricordare come quel petto era caldo, e di come e perché lei lo aveva toccato, o baciato, o... Interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri.
«Non sei divertente» sibilò secca, afferrando un paio di pantaloni e scoprendo che erano di Hitoshi.
«Neanche tu» rispose lui sereno. Per una volta non sembrava irritato né nervoso o insofferente. Sembrava in pace con il mondo, cosa rara per un Uchiha.
Chiharu schivò i suoi occhi e sentì il cuore accelerare nel petto. Come poteva dire a un ragazzo che ha raggiunto la pace interiore ‘scusa sai, ma è stato tutto uno sbaglio’? Non poteva. Maledizione, non poteva. Ma non poteva nemmeno lasciare che continuasse ad avere stampato in faccia quel sorriso: era troppo palese, e anche molto irritante.
«Torna qui, invece di spulciare i vestiti» sbuffò Hitoshi, battendo una pacca sul lenzuolo caldo. «Dieci minuti.»
«Dobbiamo andare» sibilò lei nervosamente, dandogli la schiena.
«Non costringermi a venire lì...»
Chiharu arrossì e gli scoccò un’occhiata di fuoco. «Adesso non prenderti troppe libertà!» iniziò, tra i denti, ma l’attimo dopo dovette girare la testa tanto velocemente che sentì un crack preoccupante, perché Hitoshi si era alzato dal letto, così come Sakura l’aveva fatto, e aveva messo in atto la sua minaccia.
«Non pensavo che ti avrei mai vista imbarazzata» ridacchiò, inginocchiandosi dietro la sua schiena. Senza apparente sforzo la tirò indietro, facendola cadere tra le sue braccia, poi si alzò in piedi, novella divinità sorta dalle acque spumeggianti del mare, e la scaricò delicatamente sul letto.
«Senti, dobbiamo parlarne...» iniziò Chiharu, furente, confusa, imbarazzata, e maledizione, perché era così terribilmente perfetto senza vestiti? Lui naturalmente non la lasciò finire; dieci secondi e la raggiunse sopra le lenzuola, altri dieci e le chiuse la bocca con la sua, e ne bastarono solo due perché la sua mano corresse fino al comodino su cui erano posati i preservativi che quasi avevano mandato all'aria tutto. Era felice. Era tutto come doveva essere. Alle conseguenze avrebbe pensato più tardi, almeno dopo il sorgere del sole.

---

Era stato facile non insospettire Kotaro. Chiharu si era presentata appena fuori dalle mura alle tre e un quarto con i quindici minuti di ritardo di prassi, e aveva trovato ad attenderla sia il giovane Lee che la copia dell’Uchiha.
Alle domande di Kotaro aveva scrollato le spalle borbottando qualcosa su sua madre, al che lui si era limitato a mugugnare un po’ per il ritardo. Poi la copia di Hitoshi aveva buttato la sua sigaretta e aveva detto che prima di partire si sarebbe appartata per andare in bagno. Al suo ritorno non era più una copia.
La missione non sarebbe potuta partire sotto auspici migliori: Kotaro era sereno, efficiente come sempre, Hitoshi per una volta non era il nicotinomane nevrotico a cui erano abituati e Chiharu si sentiva decisamente parca di commenti, il che era positivo per l’umore generale.
Non era riuscita a parlare con Hitoshi. Si diceva che non ce n'era stato il tempo, che doveva elaborare un discorso efficace, ma la verità era che non sapeva da che parte cominciare. La seconda volta era stata un po' meglio della prima, doveva ammetterlo; ma non l'aveva cercata né voluta, semplicemente non era riuscita a dire di no: avere diciotto anni e il corpo pieno di ormoni poteva essere un brutto ostacolo per certe cose, tipo la razionalità.
Decise interiormente di posticipare il discorso alla fine della missione, per non rischiare intoppi. Hitoshi avrebbe fatto bene a fare finta di niente fino ad allora. Questo, ovviamente, significava che sarebbero stati sì vicinissimi, sì pieni di ormoni, ma impossibilitati a toccarsi - il che tornava tutto a suo vantaggio. Doveva solo tenere la testa sulle spalle per qualche giorno, poi avrebbe chiuso il discorso con Hitoshi ed eventualmente affrontato le conseguenze. Solo qualche giorno.
Cercò di darsi un tono, sollevando la testa con fiera arroganza mentre lasciavano Suna sgusciando di ombra in ombra.
Non può essere così difficile, giusto?







Secondo atto;
gli eventi precipitano.







* * *



Dal prossimo capitolo ci sarà un piccolo stacco.
Per dare a questa parte il peso che merita (?)
oggi aggiorno soltanto due capitoli,
non vogliatemene.

Dal prossimo aggiornamento, inoltre,
ci sarà il primo grosso cambiamento nella trama.
Finalmente cose nuove!

Nel frattempo vorrei ricordare ai detrattori di Chiharu
(la maggior parte di voi, in pratica)
che so che è odiosa.
E' una diciottenne saccente convinta di aver capito tutto della vita,
che invece non sa una mazza.
Ma visto che sono una brutta persona glielo faccio capire in maniera realistica,
cioè lunga e dolorosa.
Un po' come Sasuke in Sinners.
Tanto il mio unico preferito è sempre stato Naruto.
XD

Grazie a voi che continuate a leggere e a chi commenta.
A presto!


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Capitolo 14
*** Una bella famiglia ***


Penne 14 10/02/2016

Capitolo quattordicesimo

Una bella famiglia





Anka era un villaggio particolarmente bello nella luce dell’alba. I tetti inclinati delle case si accavallavano l’uno sull’altro risalendo le pendici della montagna e il silicio usato per ricoprirli brillava al sole. Le pareti delle abitazioni erano stinte e talvolta scrostate, ma in origine dovevano essere state dipinte a colori vivaci, perché le tracce degli antichi toni erano ancora visibili.
Jin e Kakashi raggiunsero il paese con qualche ora di anticipo rispetto al previsto. Avevano pensato di arrivare in pieno giorno e confondersi tra la folla di artigiani, fabbri e ambulanti che affollavano le strade del villaggio nei giorni di mercato, invece a mezzora dall’alba avevano visto le sue mura profilarsi oltre i campi. Non erano mura solide come quelle di Konoha né altrettanto alte: si trattava in realtà di ammassi di calce e pietre che bastavano a malapena per nascondere un uomo di media statura, ed erano evidentemente state costruite in fretta e furia. Ma erano sorvegliate.
Appostato dietro una macchia di arbusti Kakashi osservava la situazione. Una volta tanto le sentinelle erano mercenari che facevano bene il loro lavoro: probabilmente quel luogo era una delle loro roccaforti, difenderlo non era più questione di denaro, ma di sopravvivenza. A giudicare dalle loro condizioni, però, quella doveva essere la fine di un lungo turno di guardia, e qua e là si aprivano vasti sbadigli e sospiri di stanchezza.
Kakashi fece un cenno a Jin, che sgattaiolò al suo fianco. Si avvicinarono all’abitato sfruttando il grigiore dell’alba, e attraverso un prato coperto di sterpaglie riuscirono a raggiungere la base delle mura acquattandosi in un angolo buio. Non c’era bisogno di parlare; addestramento e sintonia erano più che sufficienti per oltrepassare un ostacolo di un metro e sessanta: i due shinobi furono dall’altra parte prima che il guerriero di guardia finisse di sbagliare.
Kakashi fece un cenno silenzioso. Jin si separò da lui. Fece qualche passo in direzione est, scivolando non visto tra le prime case, finché non individuò un edificio abbandonato e ne sfruttò il ballatoio per studiare i dintorni. Era stanco, ma l’idea di essere così vicino, l’idea di respirare la stessa aria di sua madre e forse guardare lo stesso paesaggio era sufficiente a spingerlo avanti. Lei era lì, tra i visi assonnati che facevano capolino dietro le finestre. Era lì, a un passo di distanza, e finalmente l’avrebbe conosciuta.
La strada principale del villaggio si inerpicava zigzagando lungo la montagna, tagliata a intervalli regolari da una griglia di vie secondarie. Dopo essersi lasciata alle spalle le abitazioni del centro si faceva quasi sentiero brullo, fino a raggiungere una grande costruzione che dominava l’intero pendio: la rocca dei mercenari.
«Ottimo punto d’osservazione» approvò Kakashi comparendo al fianco di Jin. «Ho contato le sentinelle di guardia, sono sei. Vuoi che ci riposiamo qualche ora prima di iniziare a raccogliere informazioni? Questo edificio sembra abbandonato, potremmo usarlo per nasconderci.»
«No! Sono a posto. Iniziamo subito.»
Kakashi lo fissò. Jin cercò di sostenere il suo sguardo senza arrossire.
«La stanchezza è il peggior nemico» gli ricordò il padre in tono pacato. «Non strafare.»
«Sto bene» insisté Jin. «Davvero. E comunque non riuscirei a dormire.»
Era strano, rifletté Kakashi. Nonostante le labbra di suo figlio sillabassero chiaramente tutte le parole, a lui sembrava sempre di sentire soltanto 'voglio trovarla'. Ignorò la contrazione che per un attimo gli aveva serrato lo stomaco e invece fissò la strada che saliva verso la rocca. Di tanto in tanto una coppia di guardie si fermava lungo il sentiero e tirava un calcio a un sasso.
«Deve esserci un passaggio segreto» disse Jin per interrompere il silenzio. «E’ perfettamente difendibile, ma in caso di assedio deve avere una via di fuga.»
«Poco ma sicuro» mormorò Kakashi, lasciando vagare lo sguardo sul fitto bosco che sovrastava villaggio e cittadella.
«Come procediamo?»
«Ci servono informazioni. A giudicare da quel che ho visto, i rapporti tra gli abitanti e i mercenari non devono essere rosei: con le giuste maniere potremmo scoprire qualche punto debole del palazzo.»
Jin annuì. «Priorità?»
Kakashi esitò per un lungo istante prima di rispondere, quindi fissò la rocca. «Chiedi del signore del villaggio.»
Dopo aver impartito le ultime istruzioni, lasciò che Jin partisse per primo e si prese un momento di pausa.
Fece vagare lo sguardo sui tetti e le strade oltre il ballatoio. Si chiese, forse per la millesima volta, se non avesse commesso un errore madornale. Se non fosse tutta una trappola e avesse condannato a morte sé e il bambino. La mano che aveva tenuto stretto il biglietto giunto tanti giorni prima fremeva ancora al ricordo del momento in cui aveva letto quelle parole, ma i dubbi erano tanti, e con essi la paura di restare deluso di nuovo.
All’immagine di Anka si sovrappose quella di un villaggio diverso, altrove, di un bambino che lo fissava diffidente e una tomba con un nome sconosciuto. A quel tempo aveva pensato di poterci finalmente mettere una pietra sopra, ma Tsunade era stata irremovibile: per lei c’erano ancora cose poco chiare.
Kakashi avrebbe tanto voluto poter finalmente essere convinto della morte di Haruka, ma anche dopo che era stata la stessa Tsunade a morire, la sua voce in fondo al cervello continuava a ricordargli che non poteva esserne sicuro.
Fece un respiro profondo. Sia che fosse una trappola sia che non lo fosse, questa volta voleva tornare a Konoha con una certezza.


*


Sette figli non erano soltanto un numero imponente. Sette figli, soprattutto se Uchiha, erano sette Problemi con la P maiuscola, tutti diversi, tutti contorti e tutti ugualmente importanti.
Sakura sapeva che il suo dovere di madre imponeva che prestasse attenzione a ognuno di loro, dall’adolescente incompreso al bambino che voleva ancora salire in braccio, ma certe volte – parecchie volte – si diceva che non ce l’avrebbe fatta.
Era successo quando aspettava Itachi, durante l’attacco della Roccia a Konoha, e per un attimo Sakura aveva pensato di non desiderare quel bambino. In fondo al cuore era conscia del fatto che per un secondo lo aveva odiato, e che le più nobili intenzioni non l’avrebbero giustificata. Ancora adesso ogni giorno, ogni notte, ogni minuto si chiedeva se lui in qualche modo lo avesse sentito.
Era successo di nuovo quando aveva sorpreso Nobi a guardare con occhi languidi Hanako, secondogenita di Naruto, anche se erano solo bambini. Aveva pensato di poter mantenere il segreto, invece Sasuke lo aveva scoperto, e anche se non aveva detto nulla di esplicito Nobi aveva percepito che qualcosa non andava; allora aveva rapidamente smesso di guardare Hanako e aveva iniziato ad ossessionare con lo sharingan chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. Sakura non era più riuscita a incontrare i suoi occhi verdi, gli unici di quel colore tra i suoi figli, e aveva avuto la netta sensazione di aver tradito la sua fiducia.
Piuttosto di recente c’era stata un’ultima occasione in cui davvero si era sentita una pessima madre, ed era stato a causa del mancato sharingan di Hitoshi.
Ci aveva pensato, qualche volta: si era detta che se uno dei suoi figli non avesse avuto lo sharingan lei avrebbe fatto da mediatrice tra l’orgoglioso Sasuke e il ragazzino, li avrebbe avvicinati e avrebbe fatto sì che si accettassero a vicenda. Conosceva la storia di Fugaku e voleva evitare che si ripetesse.
Ma aveva fallito clamorosamente.
Per circa due anni in casa avevano trattenuto il fiato in attesa del primo segno di sharingan negli occhi di Hitoshi; poi Fugaku aveva tagliato il traguardo davanti a tutti e l’onta, per il primogenito, era stata troppo grande. Da quel momento era diventato difficile persino parlargli al di fuori delle occasioni ufficiali, e suggerirgli di incontrare suo padre equivaleva a sferzare l’ultimo colpo alla sua dignità in pezzi.
Sakura aveva cercato di spingere Sasuke al dialogo – lo stesso Sasuke che le aveva confessato che era rimasto deluso, sì, ma che più di tutto temeva di replicare gli errori di suo padre – però lui non aveva saputo avvicinare Hitoshi: perché sapeva cosa provava, perché era la stessa inadeguatezza che lui aveva sperimentato a suo tempo e perché per quell’incubo non c’erano soluzioni. Era Hitoshi a dover cambiare, e lui non poteva – non sapeva – aiutarlo, in questo.
Sakura non era riuscita a fare nulla di ciò che si era ripromessa, meno che mai a mediare. Aveva la sensazione di essere un fallimento come madre e moglie. Sapeva che, a parte Hitoshi, gli altri suoi figli non avevano problemi particolarmente gravi, ma è normale che quando tutto è perfetto la spina nel dito mignolo si senta mille volte più del dovuto. Per sua fortuna, almeno dalla prospettiva ‘madre modello’, in quello stesso periodo oltre alla spina nel mignolo era in corso una grave forma di infezione sistemica, questa volta dalla prospettiva ‘moglie ideale’: si chiamava tradimento.
Sakura riteneva di essere fin troppo afferrata in materia, considerati i suoi trascorsi. Non ne andava fiera e francamente avrebbe preferito dimenticarlo, ma pensava almeno di saper cogliere i segnali di infedeltà, dato che era stata dalla parte opposta della barricata. Il problema era proprio che li coglieva.
Normalmente non se lo sarebbe mai nemmeno sognato. Di tutti avrebbe potuto sospettare, mai però di Sasuke, che ci aveva messo dieci anni per affezionarsi a lei e Naruto... Eppure un giorno era andata a trovarlo al dipartimento. L’avevano lasciata passare senza avvisarlo, perché era normale che ogni tanto lei gli portasse qualcosa. E lì lo aveva visto in un corridoio deserto, davanti a un distributore di bevande, con un’altra donna.
L’aveva riconosciuta subito: era l’unico membro della squadra speciale di Sasuke a non dotarsi di un cromosoma Y, e, lo ammetteva anche lei, era davvero bella, in grado di far cadere ai suoi piedi qualunque uomo. Si sarebbe fermata a una punta di gelosia e una sana dose di invidia, se i due si fossero limitati a bere un tè insieme. Ma loro non si limitavano a bere quello stupido tè; loro confabulavano a una distanza decisamente troppo ridotta, si sussurravano chissà cosa in chissà che tono. Poche volte Sakura aveva visto Sasuke concentrato come in quei momenti, pochissime volte aveva visto quella piega di attenzione all’angolo dei suoi occhi, e aveva ricordato con uno sgradevole senso di soffocamento che era così con lei. Solo con lei.
Forse avrebbe dovuto interromperli, intervenire con un sorriso e sondare la situazione. Invece, con il cuore che si contraeva dolorosamente, aveva fatto dietrofront e se ne era andata in tutta fretta, sentendo un nodo alla gola e l’orribile sensazione di essere di troppo.
Anche Naruto aveva provato quelle cose, quando aveva avuto il primo sospetto?
Non aveva mai parlato a Sasuke della sua scoperta. Aveva cercato di capire da sola da che parte tirasse il vento, era stata affettuosa ma indagatrice, lo aveva messo alla prova e tranquillizzato. Non aveva mai colto segnali strani, mai una volta; finché, poco tempo prima, Sasuke non se ne era uscito con quella frase infelice nel palazzo dell’Hokage.
Non ho mai detto di fidarmi di me.
Era una confessione? Era solo per discolpare lei? Era una provocazione? Cosa? Cos’era?
Forse Sasuke aveva una storia segreta con la donna del dipartimento e si era stufato di tenerla segreta. Forse quella... come si chiamava? Fay, quella Fay lo aveva preso tanto da spingerlo a rinunciare all’orgoglio e lasciare la moglie ufficiale, portandosi via i ragazzi – perché non li avrebbe mai lasciati indietro, oh no – a costo di farsi additare come vergogna degli Uchiha.
Era un’idea terrorizzante. Non tanto la prospettiva di trovarsi in mezzo alla strada, perché sola non sarebbe certamente rimasta, ma la prospettiva di trovarsi senza di lui. La prospettiva di vederlo per Konoha a braccetto con un’altra donna. La prospettiva di sapere che l’avrebbe amata e avrebbe passato le notti con lei, che forse avrebbero anche avuto altri figli insieme. Che avrebbero vissuto la vita che era stata sua.
Solo ora capiva appieno l’enormità di ciò che aveva fatto a Naruto. Continuava a sperare che il suo amore di diciottenne non fosse ‘per sempre’, che, anche senza il suo tradimento, prima o poi si sarebbero lasciati e lui avrebbe incontrato Hinata, che fosse una specie di scelta obbligata, o il destino. Ma, se anche per assurdo – e Sakura non osava pensarlo, non ne aveva il diritto – l’amore di Naruto per lei fosse stato meno intenso del suo per Sasuke, anche la metà, anche un decimo, si rendeva conto che tradirlo era stata la cosa peggiore che potesse fargli.
Aveva pensato che tradire fosse terribile, ma ora scopriva che essere traditi era molto peggio.
Dal giorno della discussione nel palazzo dell’Hokage Sasuke era stato sempre impegnato: il loro ufficio era sorvegliato da una spia e la polizia era stata mobilitata in gran segreto perché desse una mano agli Anbu incaricati delle indagini. Per far fronte all’emergenza Sasuke si svegliava all’alba, andava in dipartimento e tornava la sera tardi, esausto, pronto per crollare sul letto. Il che significava che presumibilmente passava tutto il giorno con quella donna.
In quei giorni Naruto aveva provato ad avvicinare Sakura in mille modi. Si vedeva che aveva capito che qualcosa non funzionava, ma a lei sembrava in qualche modo sbagliato parlare proprio a lui dei suoi timori, perché erano gli stessi che lei una volta gli aveva procurato.
Si sentiva inutile, isterica e spaventata. Voleva indietro le sue certezze, voleva la sua vita quasi perfetta e la speranza di poter intervenire tra Hitoshi e Sasuke, perché di certo non poteva farlo tra e Sasuke. Voleva ricominciare a mangiare, voleva smettere di pensare a un’improvvisata al dipartimento, voleva che suo marito la rassicurasse e, una buona volta, le dicesse che la amava.
Invece mescolava furiosamente il suo tè da circa dodici minuti, seduta da sola al tavolo della cucina, piena di astio, rimorso e tristezza. Voleva andare al commissariato a controllare la situazione, ma allo stesso tempo voleva infilarsi sotto le coperte e svegliarsi l’anno venturo. Probabilmente anche Naruto e Sasuke, per un motivo o per l’altro, erano così impegnati da non vedersi, e a quel pensiero non poté fare a meno di chiedersi tristemente che fine avesse fatto il loro gruppo sette.
A un tratto sentì la porta della cucina aprirsi. Alzando lo sguardo si trovò davanti Itachi, e anche se in realtà avrebbe voluto piangere si costrinse a sorridere e gli disse di sedersi con lei.
«Allora? Cosa c’è, hai fame?» gli chiese, mentre lui toccava la tazza e corrugava la fronte.
«E’ freddo, mamma» le fece notare.
«Lo butterò via» commentò Sakura scrollando le spalle, smise di mescolare il tè e lo spinse più in là. «Vuoi qualcosa? Un dolce?»
Itachi sembrò pensarci un po’ su, poi accettò, anche se in realtà non aveva così fame. Mentre Sakura si alzava e raggiungeva una credenza, lui la guardò e pensò che gli sembrava triste. Forse se fosse rimasto con lei l’avrebbe fatta sentire meglio... anche se qualche volta pensava di non piacerle. Cioè, raramente... Ma proprio raro raro, comunque. Era sempre la sua mamma, no?
Sakura tornò con un sacchetto di biscotti e lo mise in mezzo al tavolo, sedendosi di nuovo. Itachi allungò la mano e ne prese uno iniziando a sgranocchiarlo in silenzio.
«Mamma, sei triste?» chiese dopo un po’, fissandola con la scomoda schiettezza dei bambini.
Sakura si irrigidì. «Un po’» si trovò a rispondere, perché negare le sembrava inutile di fronte agli occhi di Itachi. «Succede, quando si diventa grandi.»
«Sempre?» chiese lui un po’ allarmato.
«Ma no, solo qualche volta. Se sei fortunato, poco poco.»
«E tu perché sei triste, mamma?»
Perché sospetto che tuo padre intrattenga una relazione extraconiugale con una collega. Improponibile come risposta. Sakura decise di non rischiare e si limitò a scompigliare i capelli di Itachi, di quel rosa così discutibile.
«Non preoccuparti delle cose dei grandi, intanto che sei piccolo» gli consigliò. «Finisci la merenda e poi vai a giocare.»
«Non posso, papà ha detto che devo allenarmi» la contraddisse lui, addentando un altro biscotto per educazione. «Ah, ma a me piace. Mi diverto... è un po’ come giocare» si affrettò ad aggiungere dopo un attimo, quasi a scusarsi.
Sakura lo fissò tristemente. Tutti tendevano a giustificare Sasuke, da sempre. Naruto prima, lei poi, e adesso anche i suoi figli. Avrebbe tanto voluto affibbiargli qualche colpa e scaricare almeno parte della sua angoscia su di lui, invece di sopportare tutto da sola.
Fece un mezzo sorriso, accarezzò il bambino e gli disse di non stancarsi troppo. Mentre Itachi usciva lei mise la tazza di tè nel lavello, i biscotti nella credenza e uscì in giardino, a guardare gli esercizi che il bambino completava alla perfezione.
Fu lì che incontrò Ryuichiro.
Quasi sussultò nel vederlo, presa com’era ad avvitarsi nella sua tristezza. Il ragazzo, alto e sottile, era fermo sulla passatoia esterna come se fosse stato sul punto di bussare. Si affrettò a salutare Sakura con un inchino.
«Sasuke è al dipartimento?» chiese dopo i convenevoli di rito, lasciando il tempo a Sakura di riprendersi dalla sorpresa.
«Sì, come sempre» rispose lei, sforzandosi di cancellare la nota metallica nella sua voce. «Avevi bisogno di lui?»
Ryuichiro le rivolse un sorriso di scusa, che, sovrapposto alle poche immagini che Sakura aveva di Itachi, le provocò un brivido di sconcerto. Faceva sempre una certa impressione vedere qualcosa di catalogabile come ‘timidezza’ su una faccia che con la timidezza non avrebbe dovuto aver nulla a che fare.
«Non è che avessi proprio bisogno» mormorò, lo sguardo su Itachi che si allenava. «Volevo solo parlargli.»
Sakura sapeva dei soldi che ogni tanto scivolavano fuori dalle casse del clan per confluire nelle tasche di Saifon. Lei e Sasuke ne avevano parlato ed erano rimasti entrambi d’accordo sull’argomento. Sapeva anche che Ryuichiro talvolta cercava Sasuke per faccende che esulavano dal lato economico, e la cosa in fondo le faceva piacere: tutto ciò che contrastava la tendenza alla solitudine di Sasuke era gradita.
«Mi dispiace, ultimamente lavora tutto il giorno» mormorò. Ed era realmente dispiaciuta, per lui e anche per se stessa che non lo vedeva mai.
Le era parso di capire che a Ryuichiro Sasuke piacesse davvero, non come Saifon che se lo faceva andar bene perché contribuiva a riempirle lo stomaco. E sapeva che Sasuke non avrebbe mai potuto rifiutare il figlio di Itachi, perché sin dalla nascita di Hitoshi Sakura aveva capito che quel nome era un po’ troppo simile a Itachi per essere casuale. Si sforzò di sorridere, cercando di apparire tranquillizzante.
«Prova a tornare nel fine settimana. Dovrebbe essere a casa, con un po’ di fortuna.»
«Va bene, lo farò» assicurò lui. Ma non se ne andò subito. Rimase qualche istante a guardare Itachi, poi di nuovo Sakura.
«E’ un bambino eccezionale» disse, senza traccia di ironia. «Non ne capisco molto, ma mi piace pensare che potrebbe essere forte quanto suo zio... Sperando che sia più fortunato di lui, crescendo.»
Sakura esitò un istante prima di annuire. Aveva notato che Ryuichiro non parlava mai di Itachi come suo padre, e se riusciva evitava di pronunciare anche il suo nome. Mentre Saifon se ne riempiva la bocca anche per chiedere l’ora – oh, ricordo che era un pomeriggio così, quando io e Itachi ci siamo conosciuti. Scusa, che ore sono? – lui sembrava voler mettere una certa distanza tra sé e il primo Itachi Uchiha. Sakura non sapeva se lo facesse per una forma di rispetto nei confronti di Sasuke o se in qualche modo covasse del rancore verso Itachi, ma la cosa l’aveva sempre avvilita, nello stesso modo in cui l’avviliva sentire Hitoshi che chiamava Sasuke ‘padre’.
«Credo che Fugaku e Mikoto abbiano cercato di crescere Itachi nel miglior modo possibile» mormorò, guardando il suo minuscolo bambino che in futuro sarebbe potuto essere qualunque cosa. «Poi la vita ci mette del suo e non sai mai come va a finire... Certe volte penso che gli sforzi di un genitore siano perlopiù vani.»
Contro ogni aspettativa Ryuichiro si lasciò sfuggire una risatina, che pur stupendo Sakura riuscì a non offenderla – Ryuichiro non riusciva mai ad offendere, in effetti.
«E’ strano sentir dire queste cose a una persona come lei» spiegò, con un cenno di scusa.
«Perché?»
«Perché è una buona madre. I suoi figli sono fortunati.»
Se in quella frase c’era un accenno a Saifon, Ryuichiro lo nascose alla perfezione. E comunque Sakura non se ne sarebbe nemmeno accorta, occupata com’era a metabolizzare il complimento. Senza volerlo arrossì. La franchezza di Ryuichiro era così cortese da non aver nulla a che vedere con quella di Sai, ma entrambe turbavano allo stesso modo.
«La ringrazio per avermi dedicato parte del suo tempo e mi scuso per averla trattenuta. Sarà meglio che vada, adesso» disse il ragazzo riscuotendola dai suoi pensieri.
«Oh, sì, capisco» Sakura annuì. «Immagino che tua madre abbia bisogno di te. Mi ha fatto piacere vederti, torna più spesso... La prossima volta ti offro un tè.»
Ryuichiro sorrise. Stranamente Sakura non sovrappose la sua immagine a quella di Itachi e lo trovò soltanto confortante.
Lo guardò allontanarsi finché non fu scomparso oltre il giardino, poi tornò a fissare il piccolo Itachi stringendosi le braccia al petto.
I suoi figli erano fortunati, aveva detto. Certamente la prospettiva di un ragazzo come Ryuichiro dava tutto un altro aspetto alla situazione... Cresciuto senza un padre, usato dalla madre come prova tangibile del suo diritto ad essere mantenuta dal clan Uchiha, educatosi da solo all’ombra di un genitore mitico morto senza farsi conoscere, probabilmente vedeva in una famiglia come la loro soltanto unione e amore.
Ma non c’era anche qualcosa di vero nelle sue parole? La famiglia che Sakura aveva cresciuto era il risultato di tanti anni di sofferenze, incomprensioni, sforzi sovrumani, ma era una bella famiglia. Lei conosceva tutti i suoi figli e conosceva Sasuke: sapeva che dietro i muri di orgoglio che avevano eretto si nascondevano una profonda dedizione e legami che andavano ben oltre il sangue. Lei conosceva le persone che le erano intorno, sapeva che non erano frammenti taglienti ma un unico insieme armonioso, per quanto la loro armonia fosse difficile da afferrare.
Cosa l’aveva resa tanto insicura? Era la scena intravista al commissariato? Erano i sensi di colpa verso Naruto che riaffioravano? L’età? Hitoshi che non le rivolgeva la parola? No, quello era niente in confronto a Sasuke che tradiva il villaggio, niente in confronto a Kyuubi che per poco non lo ammazzava in ospedale, in confronto alla nascita del suo primo prezioso bambino, al dolore, alle lacrime, ai rimorsi che in tutti quegli anni erano venuti e passati.
La ragione per cui era così ripiegata sulla propria sofferenza era che aveva permesso che accadesse, nient’altro. Se ne rese conto all’improvviso, e fu chiaro come se ci avesse riflettuto per giorni.
Ma poteva ancora fare qualcosa. Non come Ryuichiro e Saifon, perché Itachi non c’era e non ci sarebbe stato più: lei poteva agire; poteva e doveva. E voleva. Voleva diventare una donna che lotta per essere tutto quanto: madre, moglie, amante, anche con arroganza, anche con la Sakura che aveva sempre tenuto nascosta, se necessario. Voleva la determinazione della vecchia sé stessa, il suo coraggio e la sua forza, e il primo passo per ottenerle, per quanto facesse paura, era affrontare Sasuke.
Nel giardino Itachi fece un salto all’indietro e scivolò su una chiazza di erba schiacciata da Fugaku e Mikoto durante i loro allenamenti. Prima di picchiare il sedere a terra roteò agilmente e atterrò a quattro zampe.
Sakura sorrise. Non poteva essere da meno: avrebbe dovuto imparare di nuovo a cadere in piedi.


Appollaiato sulla cima di un tetto decorato da fregi e scaglie di drago Sai osservava l’ingresso della residenza che teneva d’occhio ultimamente.
Nel corso della mattinata erano stai fatti entrare due fattorini e un uomo vestito elegantemente, ma nessuna traccia di Hatsu, il vecchio membro della Radice che aveva visto scomparire oltre i cancelli di bambù poco tempo prima.
Erano passati solo un paio di giorni da quando aveva iniziato a tenere d’occhio la zona, ma anche se passava lì soltanto le poche ore libere dalle missioni la sua memoria ci aveva messo poco a catapultarlo nel passato, quando saltare giù dal secondo piano non era una cosa che richiedesse molta meditazione: aveva meno di vent’anni ed era una macchina di muscoli perfetti e movimenti precisi, con la testa piena di insegnamenti sul dovere e la fedeltà ma lo stomaco vuoto di sentimenti. All’epoca le convocazioni più segrete della Radice avvenivano tra quelle strade, dietro ingressi nascosti noti solo a pochi eletti, e lui era tra quei pochi, orgoglioso del suo privilegio. Con il passare degli anni il ricordo di Danzo si era affievolito fino a ridursi a una nebbia confusa, sovrapposto alle immagini dei suoi ultimi giorni di vita in carcere: sapeva che al tempo era stato un uomo duro e determinato, ma faticava a credere alla storia quando lo rivedeva ammalato.
Un nuovo ospite lo costrinse a distogliersi dai ricordi. Si rannicchiò meglio tra un fregio e un angolo del tetto mentre il portiere apriva i cancelli per lasciar passare un uomo ben vestito. Sai non ne fu sicuro, ma gli sembrò di riconoscere un membro del Consiglio della Foglia. Il vento portò fino a lui brandelli di conversazione, permettendogli di capire che l’uomo aveva un appuntamento con il padrone di casa, e tra i convenevoli e le espressioni di deferenza gli parve di comprendere che erano attese altre persone.
Nell’arco di una mezzora altri uomini eleganti si fecero annunciare, chi da solo e chi accompagnato dai servitori. Sai contò non meno di dieci nuovi arrivi, tra cui spiccavano un paio di persone piuttosto note e una gran quantità di anonimi misteriosi. Annotò con cura i nomi di coloro che conosceva, e quando non li conosceva tracciava uno schizzo velocissimo dei loro visi sperando di fare un lavoro discreto.
Arrivò e passò l’ora di pranzo. Per quel giorno Sai aveva preso un giorno di vacanza dal lavoro, quindi poté cambiare punto di osservazione con tutta calma. Attorno alle tre di pomeriggio rivide il primo uomo che era entrato, uno dei Consiglieri che aveva riconosciuto senza fatica, e pensò che di lì a poco anche gli altri sarebbero usciti.
Ma non accadde nulla del genere. Il nobile se ne andò tranquillamente e nessun altro uscì dall’abitazione per almeno un’ora. A quel punto, con grande sorpresa di Sai, fu il padrone di casa ad andarsene insieme a un servitore.
C’era solo una possibilità che gli veniva in mente, una volta escluso l’omicidio: gli uomini che erano entrati dall’ingresso principale dovevano essere usciti da uno secondario. Ma perché prendere una precauzione così elaborata? Li preoccupava essere notati nei dintorni?
Meditabondo, Sai si domandò quale poteva essere il ruolo di Hatsu in una faccenda così misteriosa. Le risposte che si affacciarono alla sua mente gli piacquero ben poco... Ma non aveva nulla di chiaro per le mani. Avrebbe dovuto pazientare e osservare ancora per qualche tempo.






* * *

Buongiorno a tutti!
Rieccomi con un aggiornamento più corposo,
che finalmente vi permette di dimenticare proprio la vecchia trama
(per quanto riguarda Kakashi, Jin e Sai)
ed entrare nella nuova!

Capitolo lento e noioso, lo so,
ma queste parti mi servono e talvolta devo condensarle.

Ancora un poco di pazienza,
presto sarà tutto inedito.

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Capitolo 15
*** Cambiano i piani ***


Penne 15
Capitolo quindicesimo

Cambiano i piani





I polpastrelli delle dita che premevano sui suoi fianchi.
Il fremito quando le labbra sfregavano il collo.
Il suono della sua voce, roca come non l'aveva mai sentita...
Chiharu aprì gli occhi di scatto. Il cuore le batteva veloce come quello di un topo, gli occhi guizzarono istintivamente in cerca di pericoli.
L’alba era dietro l’angolo, e Kotaro era già di ritorno dai cespugli. Vedendola sveglia le rivolse un sorriso. «Buongiorno» mormorò chinandosi sullo zaino.
Chiharu grugnì una risposta, con una malcelata sensazione di nausea. Aveva dormito più o meno sette minuti, tutti gli altri li aveva passati a considerare che Hitoshi era a meno di un passo di distanza e che in quello stesso buio, l’ultima volta, si erano trovati molto più vicini. Nonché nudi.
Viaggiavano da un giorno e una notte, ma ancora non riusciva a rimuovere dalla testa quei momenti. Non ne era nemmeno stata soddisfatta, era tuttora convinta di aver commesso un errore madornale, eppure lo sapeva: se per disgrazia Hitoshi si fosse avvicinato nel suo sacco a pelo avrebbe ceduto; perché sì, perché il suo corpo le diceva che era piacevole e che ne voleva ancora, nonostante la testa protestasse.
Non può essere così difficile, giusto?, borbottò parodiando se stessa. Lo era, invece. Lo era tantissimo.
Si passò una mano sul viso tirato e sentì che anche Hitoshi si svegliava. Se non altro sembrava ancora più stanco di lei.
«Come va l’emicrania?» si informò Kotaro scrutandolo preoccupato.
«Male.»
Era iniziata poche ore dopo la partenza, più o meno verso l’alba. Se nella notte passata con Chiharu il dolore sembrava averlo abbandonato completamente, non appena avevano iniziato la missione era tornato più feroce che mai.
«Ce la fai?» chiese Kotaro guardandolo di sottecchi.
«Per forza» sibilò Hitoshi alzandosi. «Il piano non funziona se non siamo almeno tre.»
Kotaro guardò Chiharu in cerca di sostegno, ma lei era troppo occupata a voltare la schiena a entrambi. Sospirò e scrollò le spalle.
«Va bene... Ma se non ce la fai, dillo. Mangiamo qualcosa e ripartiamo.»
Secondo le indicazioni ricevute da Gaara, a quel punto dovevano aver già oltrepassato il confine ed essere penetrati in uno degli staterelli che dividevano il Paese della Sabbia da quello della Roccia. Se non avevano commesso errori si trovavano a un passo dal Paese della Pioggia. Poco oltre c’era il Fuoco.
Allontanandosi da Suna il terreno si era fatto molto più verde. Presto si erano trovati a percorrere sentieri che si snodavano in una campagna rigogliosa, fino a camminare per boschi umidi e paludi. Quindi il clima era cambiato così rapidamente che nell’arco di poche ore erano tornati a una calura secca e arida che asciugava la gola. Sotto i loro passi il terreno si era indurito fino a diventare roccia, e qua e là si aprivano macchie di cespugli riarsi.
Verso mezzogiorno furono costretti a una sosta forzata, perché l’emicrania di Hitoshi si era fatta così forte da impedirgli di capire dove metteva i piedi. Si fermarono a mangiare su una zolla di erba rinsecchita, e Kotaro costrinse il compagno a stendersi e prendere un analgesico, anche se era largamente appurato che su di lui non funzionavano. Per non perdere tempo ripassò il piano insieme a Chiharu.
Nessuno di loro voleva ammetterlo, ma erano preoccupati: Hitoshi non era mai stato così male.
«Hai fatto qualcosa di diverso dal solito?» tentò di chiedere Kotaro.
Chiharu si irrigidì. Hitoshi si rifiutò anche solo di fingere di ascoltarlo e rimase steso ad occhi chiusi.

Verso il tramonto arrivarono alla loro meta. Da lontano era soltanto un costone roccioso che pendeva sghembo dalla montagna: qualche albero smagrito protendeva i suoi rami verso il cielo, pericolosamente sospeso nel vuoto, e ai piedi del marmo e del granito c’era il letto prosciugato di un ruscello. Più o meno a venti metri dal suolo si apriva nella roccia un passaggio quasi invisibile, collegato a terra mediante una cengia scoscesa perfettamente mimetizzata. Sotto, a un centinaio di metri, c’era un edificio di fortuna attorno al quale si muovevano due figure.
Accovacciati tra i cespugli sull'altura di fronte, Chiharu, Kotaro e Hitoshi spiavano le guardie e cercavano di capire i loro movimenti.
«Quante saranno?» sussurrò Chiharu.
«Due a terra. Altre due stanno scendendo da lassù» bisbigliò Kotaro indicando il sentiero. «Nella caverna ce ne sarà almeno un altro... Cinque?»
«Sì, mi pare buono. Per precauzione diciamo che sono sei. Sono tanti, ma potrebbe essere il cambio della guardia.»
Restarono in silenzio mentre i due che scendevano dal sentiero si fermavano a scambiare qualche parola con quelli a terra. Li videro gesticolare verso la parete alle loro spalle, poi uno entrò nel rifugio.
«La donna è nella grotta?» chiese Chiharu.
«Sì. Non credo che l’abbiano spostata.»
«E’ là per forza» sibilò Hitoshi ad occhi chiusi. «E’ una trappola perfetta, molto più difendibile di quell’ammasso di legno marcio.»
Chiharu e Kotaro lo fissarono. Erano abituati al suo tono tagliente, ma non al gemito con cui concluse la frase. Scambiarono un'occhiata tra loro.
«Quante sono?» chiese Kotaro sollevando tre dita nella sua direzione.
Hitoshi gli scoccò un’occhiata furente.
«Dimmi quante sono!»
L’Uchiha sbatté le palpebre per alcuni lunghi istanti e sforzò la vista al massimo. Davanti ai suoi occhi le dita sembravano tre. Per un momento. Poi diventavano due, sei, una, quattro, cinque.
«Quattro» provò a indovinare.
«Sbagliato. Sono tre» Kotaro scosse la testa. Esitò un momento, poi, a malincuore, aggiunse: «Hitoshi, non ce la fai.»
Hitoshi lo afferrò per il bavero. «Ce la faccio» sibilò tra i denti. «Ce la faccio, dammi solo un minuto! Sono tre stupide dita.»
«Se non ci vedi come pretendi di reagire a un attacco?» replicò Kotaro, scrollandoselo di dosso bruscamente. «Tu non ce la fai, Hitoshi! L’emicrania ti sta uccidendo e io mi rifiuto di scendere in campo con una zavorra
Chiharu strinse una mano sul braccio di entrambi, zittendoli. Con un cenno indicò gli uomini di guardia. Hitoshi si sottrasse al suo tocco e si allontanò rabbiosamente tra i cespugli in cui si erano nascosti. Kotaro guardò la sua schiena che scompariva tra le fronde con un misto di rimorso e compassione.
«L’unico modo per farglielo capire era essere brutale» bisbigliò risentito, a mo’ di scusa.
«Lo so»» annuì Chiharu. «E lo sa anche lui.»
Kotaro posò a terra lo zaino chinando la testa. Si sentiva molto piccolo e meschino: anche se lo aveva fatto con le migliori intenzioni, aveva calcato la mano, e lo aveva fatto apposta. Non solo per il bene di Hitoshi. Alzò a malapena lo sguardo, scrutando Chiharu che radunava le foglie secche per crearsi un giaciglio.
Quanto ancora sarebbe riuscito a mantenersi neutrale?


*


Il cielo era grigio e basso, il giorno in cui Sasuke rientrò dal lavoro prima del tramonto. Sakura lo vide spuntare sulla porta della cucina mentre si preparava un tè e lo fissò ad occhi spalancati. Solo il giorno prima aveva preso la risoluzione di lottare per la sua vita, ma in quel momento non era proprio pronta; pensava che avrebbe avuto più tempo.
«Ce n'è per me?» mormorò Sasuke stancamente, lasciandosi cadere su una sedia.
«Sì» sussurrò lei affrettandosi a dargli le spalle.
Con movimenti molto poco naturali aggiunse dell’acqua al bollitore e lo rimise a scaldare. Quindi prese una tazza in più, si avvicinò al tavolo lentamente e si sedette davanti a lui.
Non restavano soli dal giorno in cui lei gli aveva fatto quella mezza scenata, nell’ufficio dell’Hokage. Per tutto quel tempo i loro incontri si erano limitati alle notti che trascorrevano nello stesso letto, e spesso arrivavano e se ne andavano quando l’altro era già via o addormentato. Sakura non sapeva se Sasuke lo avesse fatto apposta o se negli ultimi tempi fosse solo molto impegnato, ma di sicuro sapeva che lei non aveva fatto nulla per cercarlo.
Intrecciò le mani sul tavolo, nervosa, e le fissò.
Sasuke la guardò.
«Come va in ufficio?»
Sakura trasalì e per sbaglio tirò un calcio al tavolo. «Con Naruto?» si lasciò sfuggire. Stare insieme a Sasuke significava tradurre tutti i discorsi in ‘Naruto’ e ‘Fay’, si rese conto con sgomento.
Sasuke si irrigidì e distolse gli occhi. «Volevo sapere più che altro cosa succede con la spia. Quel ragazzino... avete scoperto qualcosa?»
Sakura si strinse nelle spalle e si rese conto che da alcuni giorni non si interessava più ai suoi compiti di Hokage, ma si limitava a timbrare fogli senza nemmeno vederli.
«Credo... Forse... Dovresti chiedere a Na... a Shikamaru» farfugliò.
Sasuke annuì. «Bene.»
«Bene» ripeté lei in un sussurro.
Cadde il silenzio. L’acqua iniziò a bollire sommessamente e un fischio si librò nell’aria. Sakura andò a prendere il bollitore, versando all’interno le foglie di tè. Mentre lo faceva le sue mani tremavano.
E’ ora. Non puoi rimandare ancora, non con questa occasione.
Attese che l’infuso fosse pronto. Rimase immobile per cinque interi minuti, raccogliendo il coraggio e le parole adatte, cercando di prepararsi al peggio. Poi portò la teiera in tavola. Versò il tè. Per sé, per lui. Si sedette di nuovo.
Nessuno dei due toccò la tazza che fumava.
Sakura prese la parola.
«Mi tradisci?»
Sasuke finalmente alzò gli occhi. Attese che lei facesse altrettanto.
«No» disse poi pacato, come se si fosse sempre aspettato una domanda del genere.
Sakura sentì un nodo che si scioglieva nel suo stomaco, ma capì anche che qualcosa non andava. Non poteva semplicemente rispondere no, non era così che funzionavano le cose.
«No?» ripeté con voce tremante. «Tutto qui?»
Sasuke non rispose, inspirando a fondo, e a Sakura sembrò di cogliere una nota di disprezzo nel suo sguardo. Scosse la testa. «Non è tutto qui. Non mi basta» bisbigliò fissando un angolo del tavolo. «Io ti ho visto con quella donna, Fay. Ho visto come vi parlavate, ho visto come la ascoltavi, ho visto quanto eravate vicini. E tu non sei uno che dà confidenza facilmente, tu non... non stai vicino alle altre donne così!» di scatto, con il viso arrossato, tornò a fissarlo. «E poi te ne sei uscito con quella frase! Non mi fido di me. Cosa vuol dire?»
Sasuke scosse la testa quasi infastidito. «Non hai capito niente.»
«E allora spiegamelo!» Quasi urlò, Sakura, protendendosi verso di lui. «Ti sto solo chiedendo di spiegarmelo! Voglio solo...»
«Fay è la donna di Neji.»
Sakura si bloccò a metà dell’invettiva.
«Fay ha una relazione con Neji» ripeté Sasuke parlando veloce. «Da cinque anni. Si vedono, si incontrano, fanno sesso, dillo come preferisci. Stanno insieme. E non deve diventare di dominio pubblico.»
Sakura sbatté le palpebre, stordita. «E tu... tu cosa c’entri?»
«Io l’ho scoperto per caso. Li aiuto a tenerlo segreto. Nient’altro.»
Di nuovo Sakura scosse la testa. «Forse questo è anche peggio del semplice no» commentò amareggiata. «Come diavolo fai a inventarti una storia del genere?»
Negli occhi di Sasuke passò un lampo d’ira. «Gli Hyuuga vogliono che Neji si sposi. Con una donna della casata principale, naturalmente, visto che Kakashi ha avuto la cattiva idea di mettere in mano il clan alla casata cadetta. Hanno già predisposto tutto, nessuno di loro accetterà che una come Fay entri a far parte del clan. Sai come sono gli Hyuuga, lo sappiamo tutti. Se si sapesse che Neji e Fay si vedono sarebbe una tragedia: non so fino a che punto potrebbero spingersi, ma se Neji insistesse per restare con lei, e se anche lei fosse d’accordo...» fece una brusca pausa. «Io non posso permettermi di fare a meno di un elemento come Fay, né posso permettere che gli Hyuuga creino problemi al Villaggio.»
Di nuovo silenzio. Il tè fumava placido nelle tazze intatte. Sakura fissava Sasuke ad occhi sgranati.
«Ma allora... se è per questo...» mormorò confusa. «Se stai solo cercando di proteggere Neji e Fay perché mi hai detto quella frase?»
Sasuke assottigliò gli occhi amareggiato, ma Sakura, come sempre, vide solo disprezzo.
«Perché sono un idiota» mormorò. «Quando ti ho sentito dire che avevamo fatto del male a Naruto io ho ricordato tante cose... All’epoca sapevo che stavate insieme. Lo sapevo ma non mi sono fermato, e ho trascinato te e lui in quel disastro. Io non l’ho mai dimenticato, per me quella è ancora una cosa che...» si interruppe. «Tu invece hai pensato subito che stessi tradendo te» Sasuke si passò una mano sulla fronte. Il peso degli anni che aveva tentato di dimenticare piombò nuovamente sulle sue spalle. «Nella tua testa sono sempre sul punto di tradire come vent'anni fa...»
Sakura trasalì. «No! No, non quello, non in quel senso!» scattò, quasi spaventata. «Che diavolo dici? Io non... mai...»
Sasuke si alzò dalla sedia, senza guardarla, senza guardare il tè sul tavolo. «Sono stanco» disse troncando i suoi balbettii. «Vado a dormire nella stanza degli ospiti.»
«Sasuke!» lo chiamò Sakura balzando in piedi. «Non puoi andartene adesso!»
Ma Sasuke aprì la porta senza girarsi. Sulla soglia trovò due pallidissimi Nobi e Liara che lo fissavano spaventati. Con delicatezza scostò Liara e li oltrepassò, uscendo nel corridoio.
Sakura rimase ferma accanto al tavolo, livida, le mani premute sul ripiano nero e le palpebre che sbattevano sugli occhi tentando invano di arginare le lacrime. Abbassò lo sguardo sui bambini.
«Non è successo niente» mormorò rapida, afferrando le tazze sul tavolo e portandole fino al lavello. «Non è successo niente» si ripeté con la vista offuscata, rovesciando il tè bollente giù per lo scarico. «Niente...»
Solo con il primo singhiozzo si accorse di essersi ustionata le dita.

C’erano diversi incubi nelle notti di Sasuke.
Molti parlavano del suo clan, della famiglia, di suo fratello.
Ma tanti altri parlavano dei suoi amici, di sua moglie, del suo maestro. Dello sguardo deluso di chi è stato tradito.
E per lui quelli erano i peggiori.


*


Chiharu trovò Hitoshi dopo neanche cinque minuti di ricerche. Com’era prevedibile si era rintanato in una macchia ombrosa e si era steso sul primo fazzoletto di foglie secche che aveva incontrato, con un braccio premuto sugli occhi.
Prima di rivolgergli la parola si fermò a guardarlo, cercando di nascondere anche a sé stessa l’inquietudine. L’ultima volta che erano rimasti soli lei aveva sfoderato in tutta la sua magnificenza il suo fenomenale punto debole, e francamente non teneva molto a ripetere l’esperienza – oh sì invece che voleva! Deglutì, mandando al diavolo il pensiero perverso che le diceva ‘tanto è già steso e inerme’, e ciò che fece fu avvicinarsi producendo più rumore possibile.
Hitoshi sospirò, senza muoversi, finché non la sentì accanto a sé. «Arrivo» disse soltanto.
«Idiota» replicò lei, fissandolo dall’alto del suo imponente metro e sessanta.
Hitoshi scostò il braccio e la scrutò torvo.
«Non sono qui per riportarti indietro, ci mancherebbe» sospirò lei. «Volevo sapere se dovevamo seppellire il tuo cadavere.»
«Risparmiami il sarcasmo!» ringhiò Hitoshi tornando a nascondersi dietro il braccio. «Cazzo!»
Per una volta Chiharu decise di non infierire. Non sapeva se fosse per l’improvvisa debolezza di Hitoshi o per quello che era successo tra loro, ma non aveva più voglia di fargli del male gratuito: le sembrava una cosa particolarmente spregevole.
«Non passa proprio?» chiese piano, inginocchiandosi accanto a lui.
«No» rispose Hitoshi a mezza bocca. «E’ come un martello. O un trapano, largo come un campo d’addestramento. E’ lì, dietro la fronte, e le ho provate tutte, mi manca solo il vudù, ma quello non si calma.»
«Nemmeno quando dormi?»
«Pensi davvero che riesca a dormire in queste condizioni?»
Chiharu controllò l’irritazione. «Beh, sagace umorista, se hai tanto spirito in corpo pensi di restare qui a fare la muffa ancora a lungo?» chiese.
«No. Te l’ho detto, adesso arrivo» sibilò lui nervosamente.
«Okay. Allora ti aspetto con Kotaro» sbottò Chiharu – la sua tolleranza aveva limiti ridottissimi.
Ma lui la afferrò per un polso prima che potesse alzarsi in piedi. «Aspetta» sussurrò, sempre nascosto dietro il braccio.
Il cuore di Chiharu accelerò nel petto. Senza volerlo ricordò il giorno in cui lui aveva provato a fermarla nello stesso modo, al parchetto, e ricordò il disprezzo con cui si era liberata dalla sua stretta. Quante cose erano cambiate...
«Mi sembrava di infastidirti» mormorò polemica, ma senza allontanarsi.
«Non è vero. L’ultima volta che sono stato davvero bene ero con te, quindi resta.»
Chiharu lo vide arrossire leggermente. Non ribatté. L’ultima volta era un’introduzione che aveva il potere di ammutolirla, in quel momento.
Così rimase ferma, inginocchiata accanto a lui, con la sua mano fredda stretta attorno al polso. Rimase lì e non parlò, non sbuffò, non sbadigliò, non fece assolutamente nulla fuorché pensare a quali rimedi conosceva contro l’emicrania, a cosa sarebbe successo se Kotaro avesse deciso di cercarli in quel momento, a quanto il suo stupido corpo le suggerisse che in due abili mosse poteva essere su di lui... Finché Hitoshi non se ne uscì con quella cosa – e lei capì che prima o poi sarebbe dovuto accadere, e maledì il momento in cui si era sentita pietosa nei suoi confronti.
«Baciami.»
Chiharu trasalì. Lo fissò, con un’espressione che era un curioso miscuglio di sorpresa, orrore e incredulità. «Scusa?»
Hitoshi sbuffò e tolse il braccio dalla faccia, lasciandolo cadere sulle foglie secchie. La guardò. «L’ultima volta stavo bene. Davvero bene, intendo, nemmeno un vago accenno di emicrania. Ora invece non passa, e forse non è sufficiente che tu sia qui. Forse erano le cose che facevamo a... Insomma, mi capisci?»
Chiharu si trovò di nuovo con la bocca asciutta di fronte all’incipit l’ultima volta. Da qualche parte, dentro la sua testa, un neurone aveva dato il via a un’entusiasmante manifestazione di giubilo.
«Haru?» la richiamò Hitoshi. Ormai aveva intuito che quando si introducevano certi argomenti Chiharu perdeva tutta la sua verve, ma vederla così imbarazzata solo per un bacio non sapeva se era irritante o semplicemente ridicolo.
«Sei un cretino» sibilò lei riscuotendosi dal torpore, il viso arrossato. «Nel mezzo di una missione in territorio nemico e con Kotaro a venti metri tu mi chiedi un bacio. Ti sei bruciato più cervello di quanto immaginassi.»
«Se io sono un cretino tu sei una deficiente» replicò Hitoshi stancamente, incapace di raggiungere la vera esasperazione. «Sono due giorni che non ci tocchiamo neanche, e se sei umana lo sai anche tu cosa si prova. Se fossimo stati almeno in quattro avrei mollato Kotaro con Naruto molto prima e saremmo rimasti soli.»
A quella confessione una parte di lei si risvegliò, ma Chiharu guardò altrove e la respinse nel profondo. «Non confonderti. Io non sono un animale, come evidentemente sei tu.»
«Haru...» sbuffò Hitoshi fiaccamente.
Chiharu sentì il rumore delle foglie secche che scricchiolavano. Tornò a guardarlo in tempo per vederlo che si tirava su e la fissava.
«Baciami» le ripeté in un sussurro.
Lei sbatté le palpebre. Oh, merda, pensò con convinzione. E un attimo dopo, la convinzione a quel paese, rispondeva al suo bacio, pensando pure che anche se stava tanto male non si sentiva affatto. E due attimi dopo, mentre Hitoshi si faceva indietro con un gemito, staccava la mano dalla sua maglietta pregando che non si fosse accorto del suo trasporto.
«Non va...» sussurrò lui, appoggiando la fronte alla sua spalla. «E’ massacrante. E’ una tortura. Non riesco nemmeno a baciarti, mi sento la testa tutta rintronata...»
Chiharu ringraziò il cielo per la sua testa rintronata: altrimenti, missione o no, temeva che l’elenco dei suoi errori si sarebbe allungato.
«Rimettiti giù» gli consigliò allontanandolo delicatamente. «Io vado a scambiare due parole con Kotaro.»
Hitoshi obbedì, perché con la schiena a terra la testa almeno non girava. La guardò con un leggero dispetto: avrebbe voluto sapere cosa c’era di tanto importante da dire a Kotaro, per lasciarlo in un momento così difficile, ma tacque. Dopo la missione avrebbe messo le cose in chiaro con lui; adesso la priorità era rimettersi in sesto per eseguire il piano.
Chiharu liberò il polso e si rialzò in piedi, avviandosi verso il riparo in cui avevano lasciato gli zaini. Hitoshi non la salutò, convinto di avere davanti molto tempo per le effusioni... E questo fu un grave, ingenuo errore.

Chiharu tornò da Kotaro con espressione funerea.
«Allora?» si informò lui, seduto accanto agli zaini con una mappa tra le mani. Vederla indietro così in fretta lo rassicurò: era stato difficile non seguirla di nascosto per controllare Hitoshi.
Lei non rispose subito né si accomodò. Rimase in piedi, circondata dagli arbusti in cui si erano nascosti, e si morse nervosamente l’interno di una guancia.
«Non ce la fa» ammise alla fine. «Non riesce quasi a stare seduto.»
Kotaro fece una smorfia. «Porca miseria...» mormorò inquieto. «Così la missione salta.»
Chiharu esitò. «Non è detto» sussurrò dopo qualche istante, con una certa reticenza. «Possiamo cambiare un po' il piano...»
«Lascia perdere le copie» sbuffò Kotaro. «Se ci mollano nel mezzo delle operazioni siamo morti.»
«Lo so» sbottò lei stizzita. «Non parlavo di copie. Pensavo a una sostituzione.»
Kotaro la fissò stranito. «Che ce ne facciamo di un tronco?»
«Non quella sostituzione! Mandiamo a casa Hitoshi.»
Kotaro sollevò le sopracciglia in un'espressione sorpresa. «Hai intenzione di chiamare Naruto?»
«No. Cioè, ci ho pensato, e sarebbe l’ideale... magari verrebbe anche, scemo com’è, ma adesso è Hokage, sarebbe una richiesta idiota. Per questo...» rallentò, fece un grande respiro. «...chiamiamo Stupido.»
Anche se l’ultima missione a quattro l’aveva convinta che non potevano collaborare con nessuno, la situazione era di pura emergenza e non poteva semplicemente concludersi con un rientro. Non avrebbero avuto altre occasioni per salvare Loria: se la spia a Suna si fosse accorta del tentativo, l’ostaggio sarebbe stato spostato altrove e le condizioni di Gaara sarebbero diventate più che critiche. Non potevano abbandonare la missione e non potevano metterla a rischio con Hitoshi, quindi l’unica soluzione era chiedere a Baka di sostituire l’Uchiha, per quanto complicato apparisse. Lei forse era quella meno entusiasta di chiamare proprio Stupido – visto come si era svolto il loro ultimo incontro – ma non aveva altre proposte valide, dato che non avrebbe mai chiamato Yoshi per una missione fuori dal Paese del Fuoco.
Oh, Hitoshi non l'avrebbe presa affatto bene... Chiharu si sentiva molto a disagio all'idea di comunicare la notizia all'Uchiha: avrebbe avuto più tempo per decidere come affrontare la situazione con lui, ma contemporaneamente avrebbe rischiato di offenderlo abbastanza da non avere più niente di cui discutere.
Kotaro fissò Chiharu con cautela, aspettandosi di vederla scoppiare a ridere da un momento all’altro.
«Stai scherzando, vero?» chiese quando il silenzio si fu protratto considerevolmente.
«No» sbottò lei un po’ irritata. «Hitoshi è K.O., non possiamo perdere tempo e Baka è l’unico che abbia mai vagamente collaborato con noi, l’unico che possa reggere il ritmo.»
«Ma è una follia!» esclamò Kotaro. «Baka è un Anbu, avrà le sue missioni! Non può mica fare fagotto e venire con noi solo perché tu pensi che sia adatto! Piuttosto Jin!»
«Jin è con Kakashi.»
«Come lo sai?»
«Ho ficcato il naso prima di partire...» Chiharu si mantenne sul vago.
«Comunque non esiste. Un Anbu non può staccarsi dalla sua squadra per venire ad aiutare noi, e Hitoshi...» Kotaro si lasciò andare a un’esclamazione sprezzante. «Piuttosto che farsi rimandare a casa - per di più sostituito da Stupido! - preferirebbe far incidere il suo nome sulla lapide degli eroi!»
«Non ho intenzione di tornare a Konoha con un nulla di fatto per salvare l’orgoglio di un Uchiha! E Baka verrà. Naruto ce lo spedirà di corsa, lo recupererà ovunque lui sia, fidati. Se fosse già diplomato mi sarei fatta spedire Yoshi, ma data l’importanza della missione chiamarlo sarebbe un rischio...»
Kotaro dentro di sé pesò Yoshi e Stupido e si rese conto che nello scambio gli era andata bene. Ma comunque restava un’idea destinata al fallimento: chi avrebbe portato a casa Hitoshi? Quanto tempo ci sarebbe voluto perché Baka arrivasse? Come li avrebbe trovati? C’erano troppi punti di domanda, e Kotaro lo fece presente. Ma Chiharu, a sorpresa, sospirò come se si fosse sempre aspettata quella parte della discussione.
«Temo di poter intervenire io...»
«Stai dicendo che sai come portare Hitoshi a casa, farci trovare da Baka e farlo arrivare in tempi ragionevoli?» allibì Kotaro.
Lei alzò gli occhi verso il cielo che si tingeva d’arancio e perse qualche secondo in calcoli.
«Ad occhio e croce direi che per domani notte Baka sarà qui.»
«No. No, è assurdo» Kotaro si arruffò i capelli. «E’ fisicamente impossibile! Che diavolo stai dicendo?»
«Senti, il cervello del gruppo sono io, giusto? Ho fatto i conti e ti dico che ce la possiamo fare.»
«Ma... Ma... Anche se fosse, Hitoshi...»
«Per domani Hitoshi non capirà nemmeno chi è» promise lei cupa. «E, per quanto sembri una minaccia, in realtà è solo una previsione.»
Kotaro la fissò ansiosamente. Era un piano raffazzonato in fretta e furia, lacunoso, approssimativo... Chiharu sembrava sicura di sé, ma a lui pareva che le probabilità che tutto andasse per il verso giusto fossero infime. Scosse la testa, per niente convinto, e scrutò torvo i suoi occhi, che invece erano quelli a cui era abituato, gli stessi che dicevano in lettere capitali: NON ME NE FREGA NIENTE DI QUELLO CHE PENSI TU.
«E’ proprio l’unica soluzione?» mormorò con una smorfia.
«Ne ho valutate altre, ovviamente, ma questa è la più sicura» sbuffò Chiharu. «Per chi mi hai preso?»
Kotaro si strinse nelle spalle sconsolato. Se questa è la più sicura, siamo messi davvero male, disse dentro di sé. E a quel punto, come previsto, come era scontato e come era necessario, scrollò le spalle e assentì con il capo.
A fare tutto senza nemmeno parlare con Hitoshi si sentiva un verme. Ma sapeva che guardandolo negli occhi avrebbe perso quel poco di convinzione che Chiharu gli aveva inculcato, così preferì voltargli le spalle e seguire la via più semplice. Per il bene di tutti, si disse, e cercò di convincersi che quella fosse la sola ragione... Anche se era difficile sentirsi con la coscienza pulita.
«Vado a spedire il messaggio» concluse Chiharu, e prima che Kotaro le chiedesse come aveva intenzione di fare scomparve tra i cespugli sfilandosi il kunai dalla cintura.


*


Ormai era quasi impossibile tenere la bocca chiusa. Jin si aggirava per le strade di Anka famelico, nervoso come un trentaquattrenne esaurito, le mani pesantemente affondate in tasca e le occhiaie sulle guance di ragazzino.
Mentre camminava per quella che gli sembrava l’ennesima vita - anche se si trattava solo di un paio di giorni - senza trovare nulla di utile, senza sentir parlare di donne dai capelli rossi e soprattutto senza sapere niente di passaggi segreti, capì che sarebbe stato molto difficile non sommergere Kakashi di domande quando lo avesse rivisto. Gettò un’occhiata alla montagna su cui si ergeva la rocca dei mercenari, già illuminata dalle torce. Non dovette nemmeno socchiudere le palpebre per contrastare il chiarore del tramonto vicino a scomparire. Era ora di rientrare.
Con passo nervoso girò per una stradina delle tante che ormai conosceva come le sue tasche e si trovò immerso in un’ombra più densa di quanto si aspettasse. Si fermò per abituarsi all’oscurità, ma non si agitò: la sera prima un povero idiota aveva avuto il coraggio di provare a sfogare le sue perversioni su di lui ed era tornato a casa con il naso fratturato e una spalla lussata.
Trottò senza far rumore fino in fondo al vicolo, sbucando in una piazzetta squallida e ancor più buia al cui centro troneggiavano i resti di una fontana coperta di muschio. Probabilmente tanti anni prima Anka era stato un villaggio ricco e prospero. Forse c’era stato un uomo importante che ne aveva controllato i campi, le entrate, le provviste, forse c’era stato un capovillaggio forte, persone ricche, facce felici. Ma evidentemente quell’epoca era tramontata da tanto tempo che nessuno sembrava ricordarsene più.
Jin scattò di lato e puntò il kunai alla gola dell’uomo che lo seguiva.
«Calma» disse subito quello, levando le mani. La voce era di Kakashi.
«Zio?» ribatté Jin senza abbassare l’arma.
«Sono tuo padre.»
Jin si rilassò e fece un passo indietro. Ogni volta che si incontrava con Kakashi gli faceva una domanda a trabocchetto per verificare che non fosse un nemico trasformato, ma quella sera la conferma non lo rilassò granché.
«Allora?» chiese seccamente. «Abbiamo qualcosa o no, finalmente?»
«Forse» Kakashi raggiunse il limitare della piazza e percorse un vicolo senza spiegarsi. Jin lo seguì stizzito, ma non lo costrinse a parlare finché non ebbero raggiunto l’edificio che usavano come nascondiglio dal giorno del loro arrivo. Kakashi si assicurò che le imposte fossero sigillate e accese una candela.
«Oggi ho giocato a dadi con un mercenario» spiegò cercando il suo zaino. «Aveva lavorato come guardia nella rocca, mi ha descritto gli appartamenti interni» Tirò fuori un rotolo di pergamena bianca e una penna. Prima di continuare tracciò alcune righe sul foglio mentre Jin si inginocchiava accanto a lui. «Ci sono due ali principali, quella del signore e quella delle donne e dei bambini. I domestici dormono quasi tutti in una stanza nell’ala delle donne e comunicano con l’esterno grazie ai mercenari. Nessuno esce e nessuno entra, gli scambi avvengono qui» cerchiò l’ingresso principale.
«Aspetta, fermo» lo interruppe Jin. «Noi a cosa puntiamo di preciso?»
«All’ala delle donne.»
«La mamma è lì, vero?» un fremito nella voce.
«Jin, hai promesso di non fare domande.»
«Devo sapere cosa andiamo a fare!»
I due shinobi si fissarono corrucciati.
«Papà, non fare il vigliacco» mormorò Jin. «Non puoi tirarti indietro adesso che siamo arrivati qui.»
Kakashi non rispose. Più si avvicinava il momento di agire e meno era sicuro di come muoversi. Nelle sue indagini non aveva sentito parlare di donne dai capelli rossi.
«Non è così semplice» si passò una mano sul viso. «Nemmeno io so con certezza cosa stiamo facendo.»
A quelle parole Jin sentì tutta la frustrazione covata negli ultimi giorni risalire in gola ed esplodere, e non fece nulla per arginarla: «cosa vuol dire che non sai cosa stiamo facendo?» gridò. «Siamo partiti da Konoha nel massimo segreto, come dei ladri! Hai mollato la carica di Hokage per venire fin qui, e non sai perché?» Kakashi non ribatté. Jin tirò una manata al suo zaino, che rotolò sul pavimento perdendo parte del suo contenuto. «E’ davvero per la mamma, almeno?» domandò con voce vibrante.
«Spero di sì» mormorò Kakashi crollando le spalle. Stanchezza e tensione gli pesavano addosso come macigni. «Non so se riuscirei ad affrontare la sua morte per la terza volta.»
«Cosa?»
Kakashi si protese per radunare le cose sfuggite dallo zaino, rimproverandosi per l’attimo di debolezza.
«Jin, ti avevo esposto chiaramente le condizioni» disse riacquistando rapidamente il controllo della situazione. «Io comando, tu esegui. Non fai domande, obbedisci e basta. Adesso ti parlerò del piano. Qualunque rimostranza o lamentela tu voglia fare, rimandale a quando avremo varcato i confini del Fuoco. Mi sono spiegato?»
Jin deglutì un paio di volte prima di annuire rigidamente. Non era particolarmente turbato dal tono severo di Kakashi, quanto dalla breve frase che si era lasciato sfuggire. Terza volta?
«Allora» riprese il Jonin puntando la mappa. «Dobbiamo raggiungere l’ala delle donne, e per farlo passeremo dallo scolo del laghetto del giardino.»
«Impossibile. Ho controllato il perimetro, non ci sono varchi. Il canale di scolo è ostruito da una grata infissa nella roccia» mormorò Jin.
Kakashi sfilò dallo zaino un involto e glielo tese: all’interno era pieno di bombe carta impermeabilizzate per essere utilizzate sott’acqua.
«Non sei riuscito a scoprire niente sul passaggio segreto?»
Kakashi scosse la testa e proseguì: «una volta entrati restiamo nel canale fino a raggiungere il laghetto, ed emergiamo in un punto riparato. Da lì ci insinuiamo sotto le fondamenta e strisciamo fino all’ala delle donne. Tutto chiaro?»
«Come evitiamo le guardie?»
«In questo lato del palazzo la sorveglianza è minore. I mercenari sono alloggiati negli appartamenti esterni e il signore del villaggio è dall’altra parte della residenza. Sarà sufficiente non farsi scoprire in mezzo al giardino.»
«E per la fuga?»
«Usiamo la stessa via per cui siamo arrivati, oppure ci inventiamo qualcosa al momento.»
Jin si passò una mano sulla fronte, osservando lo schizzo di mappa sulla pergamena e cercando di ricordare la zona vicino al canale di scolo. Gli sembrava un piano troppo vago e pieno di incognite, ma capiva che non avrebbero avuto informazioni più precise.
«Quante possibilità ci sono che sia un fallimento?» chiese con la gola secca.
«Dipende da cosa intendi per fallimento» rispose Kakashi.
Jin annuì. Sulla punta della lingua sentiva fremere un milione di domande che esigevano una risposta, ma ne selezionò solo una, quella che aveva più probabilità di non essere zittita bruscamente. «L’obiettivo della missione... Come la riconoscerò?»
Kakashi però scosse la testa. «Lascia stare. Se c’è la riconoscerò io.»


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Capitolo 16
*** Notte fonda ***


Penne 16
Capitolo sedicesimo

Notte fonda





Jin e Kakashi si mossero la notte stessa in cui Kakashi portò le informazioni sulla rocca. Recuperarono gli zaini, riempirono le tasche dei gilet di bombe carta impermeabili e cancellarono dal rifugio tutte le tracce del loro passaggio. Jin si legò un pezzo di stoffa nera attorno alla bocca e al naso, come il padre. In quel modo sembravano l’uno la copia in miniatura dell’altro.
Attraversarono il villaggio addormentato passando per vicoli e tetti, aiutati dalle ombre che coprivano la luna. Risalirono la collina che portava alla rocca nascondendosi tra gli alberi che costeggiavano la strada principale, e acquattati nel sottobosco raggiunsero il lato dell’edificio da cui partiva il canale di scolo del laghetto. Le guardie di vedetta non si accorsero di nulla.
Come previsto da Kakashi la zona non era sorvegliata e la luce delle torce non arrivava nemmeno a lambirla. Il rigagnolo che scorreva sotto le mura aveva una profondità di poche decine di centimetri ed era sbarrato da una grata di metallo arrugginito con sbarre spesse due dita: sembrava impossibile passare di lì a meno di demolire parte della parete.
Jin non si fece impressionare. Inginocchiatosi accanto al canale immerse un braccio nell’acqua e iniziò ad applicare le bombe carta all’interno e all’esterno della barriera.
Kakashi evocò Pak e un paio di altri cani e si abbassò per dare loro alcune istruzioni. Quando Jin ebbe terminato gli animali furono mandati via attraverso il sottobosco e i due shinobi rimasero in attesa.
«Papà?» mormorò Jin nervosamente. «Che diavolo faccio se ti perdo?» Non era nuovo alle missioni rischiose, ma era la sua prima volta in una missione di famiglia.
«Corri fino al Paese del Fuoco» disse Kakashi.
«E poi?»
«Quando arrivi parla solo con Naruto e digli cosa abbiamo fatto qui.»
«Bella roba... Non lo so cosa stiamo facendo.»
«Ho messo nel tuo zaino un fascicolo. Dagli quello.»
Prima che Jin potesse frugare nello zaino sentirono dei latrati venire dalla zona dell’ingresso principale e voci concitate in risposta. Kakashi fece un cenno e Jin intrecciò le dita per attivare le bombe carta. L’esplosione fu notevolmente attutita dall’acqua, ma sollevò alti spruzzi e fece risuonare il ferro divelto. Un paio di sassi si staccarono dal muro e piombarono nel canale con un tonfo, ma l’insieme dei rumori era comunque meno intenso del latrare lontano e dei clamori dei mercenari.
Kakashi rimosse la grata di metallo. Jin prese un ampio respiro, scese nel canale e si sdraiò sul fondo, quindi si aggrappò con le mani ai resti delle sbarre per tirarsi dall’altra parte. Kakashi lo seguì poco dopo, a fatica, e riemerse con uno strappo sul telo impermeabile che avvolgeva lo zaino. Per fortuna il canale passava tra una macchia di cespugli fitti, così poterono procedere tenendolo sollevato.
Spingendosi con le ginocchia sul fondo limaccioso avanzarono lungo una stretta ansa, che emergeva dal folto per scintillare tra le felci fino a un laghetto ombreggiato da un salice piangente. Jin e Kakashi si fermarono. Il laghetto era a pochi metri dalle fondamenta dell’abitazione, ma per raggiungerle avrebbero dovuto percorre un bel pezzo scoperti. Decisero di abbandonare il canale e si spinsero fino al bordo della vegetazione, troppo fitta per passarci in mezzo. In lontananza le voci di uomini e cani erano scemate fino ad esaurirsi.
Kakashi bloccò Jin, indicandogli una figura seduta sul bordo del corridoio esterno dell'edificio. Indossava la divisa dei mercenari e faceva ciondolare le gambe nel vuoto; non l’avevano vista perché la sua ombra si confondeva con quella della colonna a cui si appoggiava. Per non farsi individuare i due shinobi cercarono di spingersi un po’ più a fondo nella vegetazione, quando a un tratto sentirono un richiamo e si immobilizzarono.
Videro il mercenario seduto sul ballatoio alzarsi e fare un cenno militaresco. Un altro uomo lo aveva raggiunto e gli stava dicendo qualcosa che non riuscirono a capire, quindi entrambi scoppiarono a ridere. Il nuovo arrivato batté una pacca sulla spalla dell’altro e gli strinse il mento tra le dita, infine tornò da dove era venuto. Il mercenario di guardia aprì una porta scorrevole ed entrò nell’ala delle donne.
Jin e Kakashi si affrettarono a raggiungere l’edificio finché non c’era nessuno in vista e si tuffarono tra le colonne di sostegno. I vestiti bagnati si gelavano loro addosso, avevano foglie, rami e fango impigliati ovunque. Le fondamenta erano fredde e immerse in un buio impenetrabile, così erano costretti a posare le mani su cuscinetti di muschio viscido e resti dei pasti di piccoli animali. Riuscivano a malapena a intuire le reciproche posizioni. In silenzio strisciarono alla cieca per qualche metro, finché udirono delle voci sopra le loro teste.
«...E quei cani si sono avventati sullo spiedino del mercenario e glielo hanno portato via» ridacchiava una donna.
«Chi era il mercenario? Quello piccolo e tarchiato con la cicatrice sul mento?» domandò un’altra.
«Quello non si farebbe rubare il cibo nemmeno da sua madre se stesse morendo di fame» replicò una terza, scatenando un coro di risate - impossibile stabilirne il numero.
«Oh, quanto avrei voluto assistere!» sospirò la prima voce.
«Sciocchezze» sibilò aspra un’altra. «Nessuno entra e nessuno esce, soprattutto voi.»
Calò il silenzio. Una porta scorse sulla sua guida e fu richiusa, quindi ripresero i mormorii concitati.
Jin e Kakashi si spostarono nella direzione in cui avevano sentito aprire e chiudere. Dopo pochi metri le voci divennero inudibili e capirono di essere sotto un’altra stanza. Kakashi tastò sopra la propria testa. I tatami erano fissati saldamente e non c’era la possibilità di smuoverli. Richiamò l’attenzione di Jin, che estrasse dallo zaino un accendino per illuminare l’intelaiatura del pavimento. Ombre senza contorni corsero a nascondersi negli angoli più lontani tra squittii e scricchiolii leggerissimi. Nella tenue luminosità i due shinobi si guardarono attorno, ma videro solo colonne annerite dalla muffa e vasti brandelli di buio: nessuna traccia di un passaggio segreto.
«Là» indicò Kakashi. Poco oltre, alcuni pannelli di legno delimitavano un cubo ribassato rispetto al pavimento. Lo raggiunsero, e Kakashi spinse e tirò finché non sbloccò uno dei pannelli, posandolo a terra. Si sporse cautamente dall’apertura e scoprì di essere sotto un tavolo in una stanza in penombra.
Lui e Jin sgusciarono sul pavimento senza fare il minimo rumore. Fecero passare gli zaini e lasciarono il pannello aperto per avere una via di fuga rapida, quindi si accovacciarono, in ascolto.
Si trovavano in una stanza di sei tatami con le pareti di carta di riso e un tavolo basso al centro, nel più classico degli stili. Alcuni dei pannelli di carta erano riparati con delle toppe e mancavano due listarelle di legno, ma tutto sommato il Signore del Villaggio sembrava essere benestante. La leggera luce che rischiarava la stanza veniva da un punto oltre i pannelli.
Un’ombra passò lungo il corridoio nascondendo la luce, forse la guardia di prima. I suoi passi erano silenziosi. Kakashi attese che fosse scomparsa prima di muoversi. Insieme a Jin strisciò lungo il pavimento e fece scorrere la parete di carta quel tanto che bastava per sporgere la testa. Il corridoio era deserto, rischiarato da una fiammella a un metro e mezzo di altezza. Da qualche parte, oltre un muro, sentirono le donne ridere ancora.
Con passo felpato padre e figlio scivolarono lungo il corridoio, spiando dietro gli angoli e passando rasenti le pareti. Dovettero fare quasi mezzo giro dell’ala prima di ritrovare la stanza sotto cui si erano nascosti, ma quando ci riuscirono Kakashi fece segno a Jin di aspettare e rimosse un pannello del sottotetto per arrampicarvisi.
Jin si acquattò in un angolo oscuro, cercando di sbirciare l’interno della stanza attraverso uno strappo nella carta di riso: intravide stoffe di vari colori, lunghi nastri di capelli neri, futon stropicciati e piedi minuscoli che scomparivano sotto l’orlo degli yukata. Tra quelle donne c’era forse sua madre?
Si avvicinò di più per aumentare la visuale, ma non scorse capelli rossi. La tentazione di aprire lo zaino e leggere il fascicolo di cui gli aveva parlato suo padre era fortissima.
A un tratto il chiarore tremulo della luce oltre la curva fu oscurato da un’ombra. Jin balzò in piedi e con orrore sentì dei passi avvicinarsi. Era troppo scoperto: nel corridoio non c’erano posti in cui nascondersi e se avesse seguito Kakashi nel sottotetto avrebbe fatto rumore. Si guardò freneticamente attorno, individuò un’altra porta scorrevole e si tuffò oltre, trattenendo il fiato.
I passi lo raggiunsero. Attraverso le pareti traslucide vide l’ombra fermarsi a pochi centimetri da dove lui era stato poco prima. Sentì la porta della stanza delle donne che si apriva e la voce aspra che aveva parlato per ultima quando le spiavano dalle fondamenta: «Basta chiacchiere! Andate a letto! Il vostro Signore non sarà contento di sapervi così indisciplinate!»
Le donne levarono un lamento collettivo, ma a giudicare dai fruscii obbedirono. L’ombra che le aveva sgridate richiuse la porta, poi però non si mosse. Jin sentì il cuore accelerare nel petto. L’ombra si spostò di un passo e si fermò di nuovo. Tese una mano verso l’alto...
Aveva visto il pannello rimosso.


*


Sasuke iniziava a capire come doveva sentirsi Hitoshi.
Seduto alla scrivania del suo studio si premeva una mano sulla fronte e cercava invano di capire cosa stava leggendo. Maledetta emicrania.
Lasciando perdere il documento si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Provò a massaggiare le tempie con le dita, ma la tensione dei muscoli sulla sua nuca non accennava a diminuire e le arterie attorno alla sua testa pulsavano dolorosamente. Si sarebbe lasciato andare a un gemito, se fosse stata sua abitudine.
Non sarebbe dovuto essere lì. A quell’ora di notte Sasuke sarebbe dovuto essere a letto con sua moglie nella sua bella casa a godere del sonno dei giusti. Invece si rodeva anima e fegato occupando l’unico ufficio con la luce accesa del dipartimento.
Si costrinse a risollevare le palpebre pesanti. Nonostante la stanchezza non sarebbe mai riuscito a dormire: c’era la spia di cui occuparsi, tutta la microcriminalità di Konoha, qualche disordine nelle prigioni, Morino da mandare in pensione, mille problemi e preoccupazioni che non lo abbandonavano nemmeno in sogno. Il più importante, e anche il peggiore di tutti: Sakura. E con lei Naruto, e tutte le altre persone che si supponeva lo avessero accolto tra loro quando era tornato a Konoha.
Spossato, Sasuke appoggiò i gomiti al ripiano della scrivania e si prese la testa tra le mani. Un traditore resta sempre un traditore, rifletté. Per quanto possa redimersi, per quanto possa cambiare e punirsi per aver sbagliato, gli altri non smetteranno mai di temere che li abbandoni di nuovo. Era semplice. Così maledettamente semplice che non riusciva a trovare nemmeno un motivo per cui le persone attorno a lui non dovessero pensarlo.
E in fondo non avevano nemmeno tutti i torti, si disse amaramente: la prima volta, quando si era presentato qualcosa di più importante, non aveva esitato un istante a lasciarsi tutto alle spalle. Ora cosa gli avrebbe impedito di ripetere la stessa esperienza? Chi garantiva che non sarebbe mai comparso qualcosa di più importante di Sakura, della polizia, del clan, della stessa Konoha?
Travolto da quei pensieri si fregò la fronte rabbiosamente.
No, non era così. Lui aveva esitato. Si era tormentato l’anima prima di abbandonare Naruto, Sakura e Konoha. Per inseguire Itachi e mettersi nelle mani di Orochimaru si era strappato un pezzo di cuore, la parte che poteva sperare di essere felice e immaginare un futuro, e farlo era stato infinitamente doloroso... molto più di quanto Sakura, o Naruto, o chiunque a Konoha avrebbe potuto capire.
Aveva amato i suoi compagni di squadra. Aveva amato Kakashi, aveva amato Konoha. Aveva amato ogni singola cosa che si era lasciato alle spalle, e ciò che lo aveva seguito nel suo tradimento era stato solo ciò che lo faceva soffrire: i ricordi, la vendetta, il dolore della solitudine.
Chi non aveva mai tradito non poteva capire cosa volesse dire: un tradimento non sussiste senza la sofferenza del traditore. Un traditore che se ne va a cuor leggero non è mai stato fedele a nessuno. E lui a Konoha era stato fedele; alle persone che vivevano a Konoha era stato assolutamente fedele.
Ma nessun altro intorno a lui aveva tradito ed era tornato, nessun altro si era strappato un pezzo di cuore e poi si era chinato nella polvere a cercarlo. Nessuno aveva provato il sollievo di ritrovarlo, la desolazione di scoprire che non combaciava né mai lo avrebbe fatto, nessuno aveva tentato disperatamente di provare ad essere la persona di prima.
Scioccamente aveva pensato di esserci riuscito alla fine, anche se a fatica. Con Sakura al suo fianco, con Naruto, Kakashi, e tutte le persone che gli avevano dato fiducia, aveva pensato di aver ricucito lo squarcio. Invece era stata proprio lei a ricordargli che quel cuore non sarebbe stato mai più integro. Lei, che per prima gli si era avvicinata, che per prima e più di tutti aveva lenito la sua ferita. Lei, che diceva di amarlo al di sopra di ogni cosa, che per lui aveva tradito Naruto e sopportato il peso che ogni tradimento comporta, lei che aveva fatto la scommessa di sposarlo. Lei che lo sosteneva, che era ciò per cui lui stava a galla, lei all’improvviso si era fatta da parte. E allora tutto era crollato.
Dopo Sakura chi altri lo avrebbe guardato con sospetto? Naruto? I suoi uomini? E poi? Forse avrebbero iniziato a sospettare che la spia fosse lui. Quale tecnica migliore dello sharingan per confondere il byakugan?
Si sentiva come nelle prime notti passate al covo di Orochimaru, quando la ferita del suo cuore doleva in maniera insopportabile. Allora il sigillo sul suo collo pulsava, marcando la sofferenza e risuonando insieme a lei, e il pensiero della vendetta era l’unico che riuscisse a sovrastarlo e placarlo, ottenebrando qualunque senso. Solo a quel punto sì, dormiva.
Oggi non aveva nessun pensiero di vendetta che potesse salvarlo. Però il segno sul suo collo, sbiadito e grigiastro, aveva ripreso a tormentarlo con il solito dolore sottile.
Fissando vacuo un angolo della scrivania, Sasuke fece scivolare una mano fino al punto tiepido che le sue dita conoscevano tanto bene. Qualcosa, sotto i polpastrelli, riprendeva forza. Alimentato dal dolore cominciava a ribollire silenzioso, in attesa del momento di tornare a vivere.


*


Kakashi strisciava solo sulle assi più grandi, facendo attenzione ad evitare gli scricchiolii del legno sotto polsi e ginocchia. Attraverso le fessure del sottotetto penetravano lame di luce che gli rendevano possibile orientarsi. Raggiunse la stanza in cui erano riunite le concubine e si fermò, sentendole ridacchiare sotto di sé. Con le dita cercò i bordi del pannello più vicino e lo sollevò per scrutare al di sotto. Lo spicchio di stanza che si intravedeva non era sufficiente per permettergli di studiare tutte le donne, ma quelle che vide non gli erano familiari.
Si accorse che era più nervoso del previsto: aveva le mani coperte di sudore, il suo unico occhio vagava quasi famelicamente.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva avvertito quella stessa fitta d’ansia e trepidazione? Undici anni, ricordò. All’epoca Tsunade era ancora Hokage, e il peso delle decisioni importanti gravava sulle sue spalle; di lì a poco lei gli avrebbe chiesto di prendere il suo posto, ma allora era ancora il capo e le patate bollenti erano sue.
Kakashi ricordava con precisione il giorno in cui era entrato nello studio del quinto Hokage con la lettera di Jinnai Momori tra le mani: ricordava la trepidazione, la folle speranza che ci fosse una spiegazione, l’ansia, l’incertezza... Le ricordava così bene che se le sentiva ancora addosso.
La lettera non nominava Haruka, ma doveva per forza avere a che fare con lei. La sua semplice comparsa aveva provocato un grosso shock in Kakashi, perché all’epoca era ancora in lutto: due anni prima lui e Haruka erano stati inviati in missione nel Paese delle Risaie, e lei non era tornata.
Qualcosa era andato storto, l’edificio in cui si erano introdotti aveva preso fuoco e loro erano stati separati da un crollo. Kakashi non aveva visto Haruka uscire, ma non l’aveva nemmeno vista morire.
Con il cuore pesante era ritornato a Konoha e aveva fatto rapporto a Tsunade; lei gli aveva chiesto se avesse cercato il cadavere, lui aveva risposto che del palazzo era rimasto solo un cumulo di cenere. Ma era certo che fosse morta: non potevano esserci alternative, perché stavano parlando di Haruka e lui non poteva accettare l’insinuazione che avesse tradito il villaggio. Tsunade invece ci aveva pensato e non aveva trovato l’idea troppo improbabile. Conosceva la storia della famiglia Muto, sapeva di cosa erano capaci e pensò che scomparire misteriosamente nel crollo di un palazzo in fiamme sarebbe stato esattamente ciò che avrebbe fatto una come Haruka per scomparire dalla scena.
Quello appena successivo era stato un periodo orrendo: per giorni Kakashi aveva discusso con Tsunade pregandola di rivedere le sue opinioni, supplicandola di non parlare con il Consiglio dei suoi sospetti, ricostruendo nel dettaglio gli ultimi momenti in cui aveva visto Haruka. Era tornato nel Paese delle Risaie in cerca almeno della placchetta di metallo del suo coprifronte, ma evidentemente era andata sciolta nel calore dell’incendio.
Alla fine Tsunade era stata clemente: gli aveva concesso un anno per recuperare le prove della morte di Haruka, ma se entro allora non ci fosse riuscito avrebbe parlato al Consiglio e inserito il nome della donna nella lista dei dispersi. L’età la stava ammorbidendo, sotto certi aspetti.
Kakashi purtroppo non aveva trovato nulla, e allo scadere del tempo era tornato da Tsunade a mani vuote. Lei gli aveva detto che non poteva più tenere segreta la questione. Ne avrebbe parlato al Consiglio, Haruka sarebbe stata inserita nella lista dei dispersi e tenuta in disparte nell’archivio dei sospetti. Non si poteva agire diversamente.
Poi era arrivato quel messaggio, il primo messaggio, un biglietto recapitato via posta e firmato da una mano sconosciuta. Nessun codice, soltanto parole chiare e un po’ sgrammaticate: ‘Alla cortese attenzione del signor Hatake Kakashi. Sono spiacente di informarla che la signorina Akiko Kato è morta dopo lunga malattia. Il mio nome è Jinnai Momori, vivo nel villaggio di Nogane sul confine con il Paese delle Risaie. La prego di venire a prendere il bambino. La signorina Akiko ha detto che lei lo prendeva. Per favore, non posso sfamare una bocca in più’.
Si era precipitato da Tsunade e avevano passato tutta la notte a fare ipotesi. Il nome Akiko aveva una correlazione con il nome Haruka*, ma non potevano esserne certi. D’altronde chi altri avrebbe dato il suo indirizzo come persona di fiducia? E di che bambino parlavano?
«Pensi che sia suo figlio?» aveva chiesto Kakashi.
«Penso che sia tuo figlio» aveva risposto Tsunade.
Se davvero nel messaggio si parlava di Haruka, allora non era morta in quell’incendio. Che ci faceva al confine con il Paese delle Risaie? Perché era sparita senza dire niente? Perché ricompariva di nuovo come cadavere? Tutto troppo strano e confuso.
Kakashi pregò Tsunade di mandarlo a controllare da solo, e lei acconsentì. Partì immediatamente, raggiunse il villaggio di Nogane e cercò Jinnai Momori, scoprendo che era un ometto nervoso con una schiera di figli. Tra i figli gli presentò un bimbo che a malapena si reggeva in piedi: aveva pochi capelli chiari, grandi occhi blu e nessuna intenzione di parlare. L'uomo gli disse che si chiamava Jin, e che era il figlio di Akiko Kato.
Kakashi chiese di vedere la tomba della madre. Lo accompagnarono al cimitero del paese e gli mostrarono una lapide in legno posata di recente. Non c’erano ornamenti né fiori, l’urna era stata interrata sotto un mucchio di terra pieno di erbacce. Ancora ceneri e nessun corpo.
Kakashi domandò del padre del bambino, ma a quanto pareva Akiko Kato era arrivata al villaggio già incinta e non era stata mai vista insieme a un uomo. Il Jonin accarezzò l’idea di torturare Jinnai Momori per capire quanto effettivamente gli stesse tenendo nascosto, ma si rese conto che se davvero dietro a quel messaggio c’era Haruka doveva aver organizzato le cose perché il poveretto non sapesse più dello stretto necessario. Così prese il bambino, lasciò all'uomo una generosa mancia e tornò a Konoha.
Una volta a casa il Quinto Hokage diede le dimissioni e suggerì il suo nome come successore. Kakashi le chiese consiglio sulla questione e lei disse che Haruka andava considerata un traditore a tutti gli effetti: la lapide non era nemmeno lontanamente una prova sufficiente per dirla morta, e già una volta era tornata dall’aldilà per regalargli un marmocchio sbavante... nulla di più facile che comparisse ancora. Lei non l'aveva schedata per fargli un enorme favore personale, ma adesso che prendeva il posto di Hokage avrebbe dovuto valutare la situazione da solo.
Kakashi, tuttavia, esitò.
Ci vollero intere settimane perché decidesse di seguire il consiglio di Tsunade, ma senza parlarne al Consiglio. Non poteva ignorare il fatto che Haruka si fosse finta morta per quasi due anni, però non voleva nemmeno credere che avesse tradito il villaggio e fosse ancora in circolazione. Perché chiedergli di occuparsi del bambino, in quel caso? Cosa le impediva di portarselo dietro o lasciarlo a qualcun altro? Con un vitalizio avrebbe potuto risolvere il problema trovando una famiglia disposta a curarsi di lui, anziché coinvolgerlo in quel modo misterioso. Se invece la tomba fosse stata vera, la comparsa di Jin avrebbe avuto un senso... Solo quella, ma era già qualcosa.
Qualche anno dopo Tsunade era morta. Con lei era scomparsa l’unica persona oltre a lui che sapesse che Haruka aveva fatto perdere le sue tracce, e Kakashi aveva scelto di lasciar credere a tutti che la madre di Jin fosse in missione sotto copertura. Un giorno avrebbe raccontato che era arrivata la notizia della sua morte e avrebbe inciso il suo nome sulla lapide degli eroi, sempre che prima lei non ricomparisse a sorpresa. Un giorno lo avrebbe fatto, se non fosse tornata. Un giorno, quando Jin fosse stato più grande...
Le bugie si erano impilate una sull’altra mentre gli anni si accumulavano: prima ai suoi allievi, poi al ragazzino che cresceva, infine a Natsumi quando era ricomparsa. Presto si era trovato invischiato in una rete di menzogne da cui era diventato impossibile districarsi, quindi aveva deciso di non fare nulla: affrontare la questione era doloroso, presentarla a Jin quasi impossibile, e lui aveva tanto da fare, un Villaggio da guidare, compiti, doveri, impegni... Non aveva tempo per impegolarsi in un’altra cosa complicata. Avrebbe aspettato qualche tempo ancora.
Finché, poche settimane prima, non era arrivato un messaggio in un codice obsoleto da almeno dodici anni. Un messaggio indirizzato a Kakashi, non al Sesto Hokage, un messaggio in cui uno shinobi sotto copertura chiedeva assistenza immediata perché la sua vita e i suoi segreti erano in pericolo, ed era bene che il Consiglio non ne sapesse niente. Quel messaggio era firmato Akiko Kato.
Da lì tutto aveva avuto inizio.

Kakashi ritornò al presente, abbassando con delicatezza il pannello che aveva sollevato per spiare le concubine.
Akiko Kato non era uno pseudonimo utilizzato da altri shinobi: chiunque fosse non aveva specificato in cosa consistesse la sua copertura, ma aveva menzionato il Signore di Anka; la soluzione più probabile era che fosse nascosta tra la servitù o tra le donne del palazzo.
Kakashi pregava che si trattasse di Haruka dal momento in cui aveva posato gli occhi sul messaggio. Ma se così non fosse stato? Se non fosse stata Haruka? Allora cosa sarebbe successo? Aveva condannato a morte sé e Jin?
Fu allora che il sottotetto cedette improvvisamente e Kakashi cadde nel vuoto.


*


Ogni volta che pensi che le cose non potrebbero andare peggio, ecco che puntualmente precipitano.
Hitoshi aveva pensato che con il buio il mal di testa si sarebbe placato, invece era riuscito addirittura ad aumentare. Che lui tenesse gli occhi chiusi o aperti era del tutto irrilevante: tra le sue tempie la tortura continuava e si acuiva, ora dopo ora, incendiandogli la fronte e congelandogli la schiena, intorpidendolo, stordendolo e umiliandolo fino all’ultimo grammo d’orgoglio.
Uno shinobi K.O. è uno shinobi che ha fallito. Un Uchiha che ha fallito che diavolo è? Feccia.
«Merda!» sibilò rabbioso, premendo il braccio sugli occhi fin quasi a farsi male.
Il dolore era tanto e tale che aveva scordato Chiharu e Kotaro stesi a poca distanza. Ma loro naturalmente non avevano scordato lui; entrambi aprirono gli occhi nel buio scambiandosi un rapido sguardo.
Chiharu fu la prima a distogliere il viso, raggomitolandosi su sé stessa. Hitoshi l’avrebbe odiata quando avesse scoperto cosa avevano fatto lei e Kotaro; definitivamente e completamente odiata. Non si dice a un Uchiha che ha fallito, non si demolisce impunemente il suo orgoglio senza subirne le conseguenze.
Per quel che la riguardava le conseguenze si sarebbero tradotte in un addio definitivo a qualunque contatto, qualunque bacio, qualunque amore. Hitoshi l’avrebbe detestata, e lei, stoica e masochista, ne sarebbe stata pure felice. Niente più debolezze, una vera manna, una vera dura.
Fece una smorfia.
Niente più carezze. Niente più baci.
«Uhn.»
Si accorse di essersi lasciata scappare un gemito di disappunto quando sentì il fruscio della testa di Kotaro che si muoveva per guardarla, e allora si finse addormentata.
Ma Kotaro era ingenuo, non stupido. Si accorse del suo nervosismo, trovandolo leggermente insolito: Chiharu non temeva le reazioni violente di Hitoshi così come non le temeva lui, e francamente dubitava che avvilire il povero Uchiha fosse una gran fonte di cordoglio per lei. Magari aveva mal di pancia. O magari era lui ad avere mal di pancia, da quando Hitoshi aveva fatto tardi, prima di partire...
Corrugò la fronte e si diede dell’idiota. Hitoshi era rimasto lontano troppo poco. Ed era tornato pieno di fumo. Non era con Chiharu. Lei dormiva.
Strizzò le palpebre con foga, forse sperando di far schizzare gli occhi dentro il cervello e addormentarsi di botto, ma la verità era che aveva sempre la sensazione di essersi lasciato fregare e che qualcosa fosse cambiato mentre lui guardava altrove; ed era una sensazione orribile, molto più orribile dei sensi di colpa per aver deciso di rispedire Hitoshi a casa.
Per fortuna nessuno dei tre shinobi avrebbe dovuto combattere il giorno dopo, perché tra un pensiero e l’altro finirono per non dormire.
Come loro, sveglio e silenzioso, un uccellino scarlatto sorvolava il territorio del Fuoco sfrecciando nel cielo terso.


*


Jin rifletté meno di una frazione di secondo, quindi si mosse. Balzò nel corridoio e assalì alle spalle l’ombra che si era fermata per esaminare il sottotetto.
Nel minuscolo istante in cui riuscì a osservarla riconobbe il mercenario che era seduto sul ballatoio al loro arrivo, ma subito dopo fu aggrappato alla sua schiena e ci fu tempo solo per la lotta. Serrò una mano sulla bocca dell’uomo, pronto a ruotare il suo collo con un movimento secco, ma il mondo si capovolse prima che potesse riuscirci, e si trovò scaraventato contro la parete che li divideva dalla stanza delle concubine. Il telaio di legno andò in mille pezzi spargendo schegge e brandelli di carta, parte del sottotetto cedette e venne giù in una nube di polvere.
Jin rotolò al centro del gruppo di futon e si trovò soffocato da un turbinare di stoffe e capelli lunghissimi, le orecchie piene delle grida stridule delle donne.
«Santissimi dei, è solo un bambino!» urlò qualcuno avvolgendolo tra le braccia.
«Guardie! Chiamate qualcuno!»
«E’ tutto bagnato!»
«Silenzio!» una voce sovrastò le altre, che subito ammutolirono.
Jin riemerse dall’abbraccio soffocante della concubina che cercava di proteggerlo; per la prima volta si accorse che la secca voce femminile che avevano udito per tutta la sera apparteneva al mercenario, che, di conseguenza, era in realtà una mercenaria. Solo ora che la polvere calava riusciva a vederla in faccia.
E allora ne fu assolutamente certo: quella era Haruka Muto.




*Aki in giapponese è autunno. Haru è primavera.






* * *

Sì, l'ho fatto.



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Capitolo 17
*** Prima dell'alba ***


Penne 17
Capitolo diciassettesimo

Prima dell’alba





Lasciando il Paese della Roccia, Natsumi Muto aveva portato con sé solo una manciata di fotografie di famiglia, dando fuoco alla maggior parte delle altre insieme ai pochi effetti compromettenti nascosti nella sua casa. Molte delle fotografie superstiti ritraevano tutti e quattro i Muto, un paio ritraevano solo i genitori e le restanti erano immagini delle due sorelle.
Era stato grazie a quei cimeli che Jin aveva potuto vedere il volto di sua madre. Natsumi gli aveva regalato una fotografia di Haruka scattata poco prima che la comparsa di Kakashi la costringesse a far saltare la propria copertura: nell’immagine le due sorelle non indossavano divise né coprifronte e sorridevano sporgendosi da una balaustra in pietra, i visi illuminati dai riflessi di fuoco della chioma di Haruka.
Jin non aveva mai chiesto dove fosse stata scattata la fotografia o chi l’avesse fatta, ma l’aveva piegata e nascosta con cura nel manuale di strategia del primo anno d’accademia, un libro che nessuno avrebbe mai aperto. L’aveva guardata così a lungo che gli angoli si erano rovinati e ammorbiditi come stoffa. Di notte, seduto sul letto con la fotografia tra le mani, aveva studiato i tratti di Haruka alla ricerca di somiglianze con i suoi, di dettagli, particolari, qualunque cosa che potesse permettergli di riconoscerla se l’avesse incontrata: l’aveva immaginata bionda, pelata, sfigurata, vecchia, aveva memorizzato la disposizione delle poche lentiggini che aveva sul naso e del neo sopra la clavicola, aveva immaginato decine e decine di incontri con lei.
Si era preparato spasmodicamente per non lasciarsela sfuggire, alla completa insaputa di Kakashi, e quando se la trovò danti agì come il suo addestramento lo aveva preparato a fare: non fallì, riconoscendola nonostante i capelli fossero corti e castani e ci fossero rughe profonde attorno alla bocca. Nella nube di polvere scatenata dal crollo del sottotetto individuò il neo sopra la clavicola e la forma delle sopracciglia, gli occhi blu - come i suoi - la bocca dal taglio severo e gli zigomi poco accennati. Gli bastò una frazione di secondo per notare tutti questi dettagli, ma in quello stesso lasso di tempo lei vide il suo coprifronte e serrò i denti in una morsa.
«Un ragazzino?» domandò infastidita. «La Foglia è a corto di shinobi?»
Jin annaspò per liberarsi dalla stretta della concubina che cercava di proteggerlo. La parola che voleva gridare era sulla punta della sua lingua, allettante e dolce, ma esitava a pronunciarla.
In un balzo Haruka oltrepassò le donne urlanti e fu davanti a lui, un corto coltello stretto nella mano sinistra. Lo afferrò per il bavero, lo fece voltare a forza e si premette la sua schiena contro il petto, avvicinando la lama al suo collo.
Al contatto del metallo gelido Jin realizzò che sua madre non aveva la minima idea di chi lui fosse.
«E’ Saibatsu che ti manda?» chiese lei in un sibilo.
«Non farlo» disse un’altra voce.
Le donne cacciarono alte grida, disperdendosi in un fruscio di piedini goffi. Haruka si immobilizzò, sentendo la punta di un kunai tra le scapole.
«Non farlo» ripeté la stessa voce dietro la sua nuca. «Se tu sei Akiko Kato, quello è tuo figlio.»
La stretta contro il collo di Jin si sciolse tutt’a un tratto. Il ragazzino scivolò via e si voltò, abbassando la maschera che gli copriva metà del volto. Finalmente, con un tremito, la parola che da tempo avrebbe voluto pronunciare oltrepassò le sue labbra, e per la prima volta nella sua vita Jin chiamò sua madre.
Le concubine trattennero il fiato subodorando le prime battute di un intrigo succulento. Kakashi, la mano priva di kunai posata sulla spalla di Haruka, sentì il suo cuore accelerare di colpo e poi forzarsi a rallentare. Nonostante quella chioma irriconoscibile, non appena si era ripreso dal crollo del sottotetto non aveva avuto dubbi: quella era la donna che aveva amato, e la sua esistenza tra i vivi significava che Tsunade aveva ragione, e in qualche modo li aveva traditi.
«Riconosci la mia voce?» chiese, costringendosi a comportarsi da shinobi.
«Sì» rispose Haruka dopo un attimo di incertezza. «Perché sei qui?»
«Mi hai mandato un messaggio.»
Le spalle della kunoichi si rilassarono visibilmente, accompagnate dall’allontanarsi del kunai dalla sua schiena. Haruka rimase ferma, gli occhi fissi su Jin e le labbra dischiuse, le pupille che correvano dalla punta dei suoi capelli fino all’ultima pagliuzza sotto i sandali. Si soffermò sui suoi occhi con una punta di orgoglio, quindi si riscosse bruscamente, dandogli le spalle.
«Non abbiamo tanto tempo» disse in fretta a Kakashi. «Dobbiamo andarcene, il crollo ha sicuramente attirato il mio compagno di guardia. Passeremo dal tetto, con un po’ di fortuna non...»
«Il passaggio!» squittì una delle donne, coprendosi la bocca subito dopo. Tutti la guardarono, e quella, un esserino minuto ma rotondetto, arrossì di piacere. «C’è un passaggio segreto creato per la nostra incolumità» spiegò vergognosamente. «Voi mercenari non dovevate saperne niente...» Un’altra concubina le sferrò una gomitata tra le costole.
«Dove?» insisté Haruka puntando il coltello verso di lei.
«Vi accompagno!» si affrettò ad assicurare la donnina.
«Mitsuru!» sibilò una concubina alta e ossuta. «Non è saggio!» La lama del coltello si spostò nella sua direzione, e quella tacque precipitosamente.
Kakashi non esitò: se Haruka era viva non poteva fidarsi di lei come avrebbe fatto tredici anni prima. Con un gesto brusco la privò del coltello e le strinse i polsi dietro la schiena. «Adesso ci aiuterai ad uscire di qui senza avere problemi. In caso contrario, sarò costretto a prendere provvedimenti.»
Haruka deglutì ma non ribatté, conscia che ogni minuto perso era un rischio in più. Kakashi ordinò alla concubina che si era offerta di aiutarli di condurli al passaggio segreto, poi si girò verso Jin, che era precipitato in una sorta di torpore istupidito. «Dopo» sussurrò, afferrandolo per un gomito e costringendolo a seguirlo.
La donna chiamata Mitsuru li guidò fuori dalla stanza e lungo il corridoio da cui erano arrivati, ma nella direzione opposta. I suoi piedi nudi facevano molto più rumore di tutti quegli degli shinobi messi insieme, ma le svolte attraverso cui li condusse sembravano sicure. Li portò fino a una stanza priva di finestre, un magazzino buio in cui erano conservati sottaceti e vasi di verdure sotto sale. Accese una candela e cercò tentoni sopra uno scaffale. Dopo un paio di secondi si udì il rumore del legno che gratta contro altro legno e la donnina spinse il mobile su cardini invisibili fino a rivelare un passaggio stretto e odoroso di muffa, evidentemente scavato nella roccia della montagna.
Kakashi lasciò libere le braccia di Haruka, ma premette il manico del coltello contro la sua schiena come monito. «Attenta a quello che fai.»
«Non uccidetemi» sussurrò la concubina adocchiando la lama, rannicchiandosi timorosa contro le grandi otri dei sottaceti. «Vi ho mostrato il passaggio.»
Se lo avesse fatto per paura, idiozia o desiderio di emozione non potevano dirlo. Comunque nel palazzo c’era un’intera stanza piena di testimoni che potevano descriverli, e quella donnina rotonda stava probabilmente evitando loro un mucchio di grane. Kakashi le fece un cenno, dicendole di tornare con le sue compagne. Quella trottò via impaurita, non senza aver gettato al gruppo un’ultima occhiata.
Haruka non lasciò che l’imbarazzo riempisse il silenzio. Prese la candela rimasta accesa e si avviò senza indugio attraverso il passaggio segreto.
«Saibatsu sa che sei venuto?» chiese a bruciapelo, mentre tutti insieme avanzavano nel cunicolo a passo sostenuto.
«Chi?» rispose Kakashi senza perderla di vista.
«Saibatsu» Haruka si voltò per guardarlo nervosamente.
Kakashi la fissò senza capire, e vide sul suo viso un'espressione confusa, in parte spaventata.
«Non ho idea di chi sia questo Saibatsu.»
«Che bastardi!»
L’imprecazione sulle labbra della donna colse Jin impreparato, riscuotendolo dallo shock. Aveva sempre immaginato che le madri fossero incaricate di sopprimere le parolacce dalla bocca dei figli, non che le pronunciassero per prime. Quel piccolo pensiero ne sbloccò molti altri, e mentre camminavano nel cunicolo freddo la sua mente fu sommersa dalla furia di dodici anni di domande mai fatte.
«Mi devi molte spiegazioni» mormorò Kakashi tenendo dietro al passo rapido di Haruka. «Cosa sta succedendo?»
«Credo che vogliano uccidermi» rispose lei, e la sua voce era la stessa, ma più tesa, più distante, priva dell’inflessione dolce che una volta gli aveva riservato.
«Chi?»
«La Foglia.»
«Non è possibile» Kakashi accelerò e la affiancò. «Alla Foglia nessuno sa che ti trovi qui. Ufficialmente sei in missione sotto copertura nel Paese delle Risaie, ho fatto in modo che tutti lo pensassero.»
«Nessuno sa che sono qui?» ripeté Haruka con voce acuta. «Non è vero. Sono alle dirette dipendenze del Consiglio di Konoha. Sono tredici anni che lavoro per voi!»
Kakashi ebbe un sussulto, ma si costrinse a riflettere rapidamente. «Per chi lavori? Il Saibatsu di prima?»
«Sì. E’ un consigliere. L’ho incontrato solo un paio di volte, poi ha sempre agito tramite intermediari. Dei del cielo, Kakashi, dimmi che sai cos’è la Radice...»
«L’organizzazione di Danzo?»
«Non è come allora.»
Kakashi la afferrò per un braccio e la costrinse a fermarsi e guardarlo. «Stai dicendo che Saibatsu ha ripristinato la vecchia Radice e ti ha reclutata come spia?»
Haruka esitò. Il tono di Kakashi le faceva intuire che non fosse una cosa di cui andare fieri. «Pensavo fosse un’organizzazione autorizzata dall’Hokage» si giustificò, sentendosi comunque stupida.
«La Radice è fuori legge da quasi vent’anni!» Kakashi soffocò la voce per non gridare, stringendo la presa sul suo braccio. «Eri presente quando abbiamo preso Danzo!»
Haruka si liberò con uno strattone e fece un passo indietro. «Quando hanno arrestato Danzo ero appena rientrata a Konoha!» replicò, ricordando improvvisamente il lontano processo a Sasuke Uchiha, dove il Quinto Hokage aveva fatto arrestare il suo Consigliere più importante. «Ho visto solo il suo arresto, non sapevo niente dell’organizzazione! Me ne hanno parlato per la prima volta dodici anni fa, e mi hanno mostrato i documenti che scagionavano la Radice dai crimini di Danzo! Sulle carte che ho firmato c'erano i timbri dell'Hokage!»
«E non ti è passato per la mente di parlarmene?»
«C'era una clausola di segretezza!»
Kakashi si passò una mano tra i capelli e ne strinse una ciocca per costringersi a recuperare la calma. «Va bene. Di questo discuteremo dopo. Pensi che ora ci siano uomini della Radice sulle tue tracce?»
«Sì. Negli ultimi mesi ho subito non meno di tre agguati, e l’ultimo dei sicari aveva addosso il tatuaggio dei Nekozuka. Probabilmente sono diventata troppo vecchia come spia. Ma non pensavo che...» Haruka deglutì e involontariamente si lasciò sfuggire un brivido. «Credevo che mi avrebbero fatta tornare a Konoha, non che mi avrebbero uccisa. Mi sono spaventata. Ho provato a chiedere spiegazioni tramite i soliti corrieri, ma nessuno mi ha più risposto.»
«Quindi hai cercato di contattarmi tramite altri canali» comprese Kakashi.
«Ho pensato che se una volta ero riuscita a raggiungerti privatamente, allora potevo farlo di nuovo» confermò Haruka. «Ho usato un nome in codice che solo tu potevi conoscere e ho sperato che non fossi d’accordo con loro.»
«Hai davvero pensato che avessi approvato l’ordine di eliminarti?» chiese lui sbalordito.
«Ho pensato qualunque cosa» sibilò lei. «Quando sei diventato Hokage ho dato per scontato che controfirmassi gli ordini che ricevevo.»
Nella grotta scese il silenzio. Kakashi e Haruka si fissarono per alcuni lunghi secondi, mentre Jin, immobile, passava lo sguardo dall’uno all’altro. La voglia di chiedere gli faceva fisicamente dolere la mandibola, ma aveva giurato. Pur di tacere si morse la lingua.
«Adesso dobbiamo tornare a Konoha» mormorò Kakashi dopo qualche istante. «Qui non abbiamo tempo per un interrogatorio. Dobbiamo evitare sia i mercenari sia sicari di Saibatsu... Non saremo al sicuro finché non saremo davanti a Naruto. Più tardi parleremo e mi racconterai tutto, per adesso considerati nostra prigioniera. Jin, andiamo» con un gesto brusco strappò la candela a Haruka e riprese il cammino.
Jin lanciò uno sguardo intimidito alla kunoichi, trattenendo un sussulto quando incrociò i suoi occhi, e aspettò che lei si avviasse prima di seguirli.
Nell’ultima mezzora si era sentito più vulnerabile che mai. Voleva capire più a fondo, voleva chiedere a Haruka qual era il suo piatto preferito e voleva sapere come la nuova Radice era riuscita ad ingannarla, ma inserirsi nel discorso tra i due shinobi sembrava impossibile.
Sperava che una volta raggiunta l’uscita del tunnel si sarebbe ripreso dall’intorpidimento, perché stentava a riconoscere se stesso: era come se tutti i suoi primi anni di vita fossero stati condensati negli ultimi trenta minuti e l’addestramento ricevuto all’Accademia relegato in un angolino minuscolo della sua mente.
Il sentiero sotto i loro piedi curvava e scendeva verso il basso, probabilmente dentro il fianco della montagna. Il rumore dei loro passi riecheggiava amplificato, dando l’impressione che fossero almeno in sei, ma da lontano non provenivano echi di eventuali inseguitori. Erano solo loro, una famiglia ritrovata. Quasi una scampagnata.
Eppure un brivido attraversò la schiena di Jin, mentre un pensiero sfrecciava nella sua mente: anche se finalmente è davanti ai miei occhi, io questa donna non la conosco.


*


La mandibola scricchiolò sinistramente mentre veniva distesa in uno sbadiglio di proporzioni sovrumane. La testa bionda ciondolò, ondeggiando avanti e indietro, e Koichi, al limite dell’esasperazione, arrivò ad accartocciare un importante documento per sbatterlo in testa a Naruto, il che provocò la sua totale perdita di equilibrio e il rovinoso abbattersi sui fogli che invadevano la scrivania.
«Che male!» si lamentò lo sfortunato shinobi, premendo entrambe le mani sulla faccia. «Koichi, maledetto traditore, stai cercando di liberarti del tuo Hokage? Per chi lavori? Parla!» piagnucolò con voce nasale.
«Non passa giorno in cui io non mi chieda perché lei è qui» sibilò Koichi, stirando con premura il documento. «Non fa altro che dondolarsi sulla sedia, guardare il soffitto e farsi portare ramen! Non è nemmeno in grado di firmare i documenti!»
«Questo doveva farlo Sakura...» bisbigliò Naruto risentito. «Insomma, perché sei venuto a buttare giù dal letto me e non uno dei miei assistenti? Sono solo firme, potevano occuparsene loro!»
Koichi snudò i denti nella brutta imitazione di un sorriso. «Perché il piacere che mi ha dato vederla arrancare fin qui non è minimamente paragonabile a quello che avrei provato con uno qualunque dei suoi assistenti» rispose. «Era tanto ansioso di essere Hokage...»
«Va bene, va bene! Ho capito!» lo interruppe Naruto incarognito, afferrando la penna con rabbia. «Ma prima o poi troverò il modo di metterti in mano a Morino, sappilo.»
Koichi si degnò di riversargli addosso il suo sorriso più compiaciuto, quindi rimase in piedi accanto alla sua sedia come un falco sulla preda. Naruto sbuffò sonoramente, scarabocchiando la sua firma sui fogli senza nemmeno leggerli.
Nel mondo succedevano milioni, miliardi di cose interessanti, e lui era costretto ad alzarsi prima dell’alba per firmare della stupida cartaccia! Che ne era degli Hokage eroici che salvavano il villaggio da nemici, demoni e calamità naturali? Perché non c’era mai un’alluvione a portata di mano quando serviva?
Sbuffò di nuovo, per sport ormai, e mugugnò tra sé. Se l’avessero svegliato per dirgli che c’erano importanti novità sulla spia di Konoha sarebbe stato quasi entusiasta. Insomma, era piuttosto convinto che, una volta chiariti i chi e i come, sarebbe sceso in campo personalmente per guadagnarsi il definitivo posto da settimo Hokage, dimostrando all’intero villaggio la propria intensa devozione e la grande, immensa, mirabolante abilità di cui era dotato. Solo che di novità non ce n’erano e tutto era irrimediabilmente, disgustosamente e idilliacamente – secondo Shikamaru – tranquillo.
Sul fronte ufficiale.
In effetti, a voler essere precisi, sul fronte personale qualcosa che non andava c’era. Ed era anche qualcosa di piuttosto grosso. Anzi, era qualcosa di probabilmente enorme: Sakura e Sasuke; tra loro era successo qualcosa, Naruto ne sentiva l’odore fin lì dentro.
Si rifiutava di credere che Sasuke fosse geloso del suo rapporto con Sakura, visto che, dati i presupposti, al massimo avrebbe dovuto essere il contrario; eppure non riusciva a non ripensare all’atmosfera che si era creata pochi giorni prima, quando era entrato nello studio dell’Hokage e li aveva trovati insieme. Al ricordo si accigliò, mentre era chino su un trattato per calmierare i prezzi del riso. Aveva ancora ben presente il periodo in cui era lui a irrigidirsi stando nella stessa stanza con Sasuke e Sakura, e la sensazione era stata inquietantemente simile.
Ma Sasuke era Sasuke. Era il suo opposto, era sicuro di sé, impassibile, intoccabile, ineguagliabile – sì, beh, con le dovute eccezioni. Sasuke non si ingelosiva se trovava lui e Sakura che ridevano insieme. Non Sasuke. Voleva vederlo e parlargli, maledizione!
«Narumaki Uzuto?»
La voce di Koichi trascinò Naruto di nuovo sulla terra, facendogli fissare il foglio che aveva appena firmato. «Oh cavolo» bofonchiò accigliandosi. «E questo che schifo è?»
«Per una volta siamo d’accordo» bofonchiò Koichi, sfilandogli il foglio di mano. «Vado a prepararne un’altra copia. Lei non si muova! Per quando torno deve aver firmato almeno cento documenti!» raggiunse la porta scrutandolo come un avvoltoio, e Naruto fece una smorfia indignata.
«Non posso non muovermi e firmare!» si lamentò petulante, ma Koichi non gli diede la soddisfazione di una risposta.
Naruto crollò la fronte su una pila di carta. L’Hokage doveva preoccuparsi di una spia, del villaggio, di Sakura e Sasuke... E invece lo costringevano a mettere timbrini su carta straccia! Afflitto, fissò il portamatite a forma di rospo che aveva insistito per tenere sulla scrivania; avrebbe tanto voluto richiamare Gamakichi e scappare per una scampagnata insieme. Sospirò, tirandosi su faticosamente.
Poche storie. Nessuna evocazione lo avrebbe salvato, e nessun miracolo avrebbe fatto sì che Sakura all’improvviso decidesse di parlare dei suoi problemi di coppia con lui. Sia per firmare quegli stupidi documenti sia per i suoi amici si sarebbe dovuto arrangiare da solo.
Stava già chiedendosi quante copie riuscisse a far stare nella stanza e quante penne ci fossero in archivio, quando le sue previsioni furono clamorosamente smentite da un becchettio alla vetrata alle sue spalle.
Naruto si voltò sorpreso. Nella luce grigia che precede l’alba vide un uccellino rosso e arancio che frullava oltre la finestra, avanti e indietro, avanti e indietro. Non sapeva ancora che sarebbe stato la soluzione a tutti i suoi problemi, ma lo riconobbe senza esitare un istante: cinque anni prima, mentre esausto si riprendeva dopo aver eliminato un’intera divisione della Roccia, quello stesso uccellino era arrivato a portargli il messaggio in cui gli dicevano che Hinata era stata catturata.
E oggi, proprio con un’evocazione, Chiharu sarebbe arrivata a fornirgli inconsapevolmente la più grande via di fuga dalla burocrazia.

Meno di un quarto d’ora dopo, con il cielo rosato e, ad est, color del fuoco, un trafelato e contrariatissimo Koichi si trovò a bussare alla porta di Reira, ex segretaria di Danzo, ex spia dell’Hokage nella Radice e attualmente pre-pre-prepensionata a carico del villaggio.
Di norma l’avrebbe squadrata con disapprovazione, perché era giovane e ancora perfettamente in grado di lavorare; ma ricordava che il suo stato di nullafacente era dovuto alla pericolosa missione di spionaggio condotta in gioventù, e sapeva quanto il suo ruolo avesse significato per l’inizio di quella che nei libri di storia era chiamata l’era del Quinto Hokage. Così quella mattina, quando la tirò giù dal letto maledicendo Naruto e la sua fortuna sfacciata, si sforzò con tutto sé stesso di essere cordiale quando lei venne ad aprire. E fu sorridendo che disse:
«Chiedo scusa per l’ora indecente, ma l’Hokage richiede con urgenza la presenza di suo figlio Akeru.»


*


«Qual è il bilancio?» chiese il capo dei mercenari di stanza ad Anka, dopo aver radunato tutti i suoi uomini nello spiazzo antistante il palazzo.
«Manca solo Tashigi. Tutti gli uomini sono illesi» rispose il suo primo ufficiale.
«Dove diavolo è finita quella baldracca?» sbottò il capo, un uomo di bassa statura ma piazzato come una vecchia quercia.
Qualcuno spinse avanti una donnina piccola e rotondetta che cercava disperatamente di coprire i frammenti di pelle che sfuggivano allo yukata. Nella luminosità incerta dell’ora prima dell’alba appariva pallida e terrorizzata.
«Le concubine hanno qualcosa da raccontare» spiegò il primo ufficiale.
«Mio signore, siate clemente!» strillò la donna gettandosi ai piedi del capo. «Vi supplico, sono solo una povera serva!»
«Cosa hai visto?» chiese lui allontanandola con la punta del piede.
«Due uomini, mio signore» riferì lei tremante. «Un adulto e un ragazzino. Sono entrati nel palazzo e hanno lottato con la donna che ci sorvegliava.»
«Due shinobi della Foglia» precisò il primo ufficiale.
«Il Paese del Fuoco!» esclamò il capo rabbuiandosi. «Chi ha vinto la lotta?»
«Nessuno, mio signore. L’uomo ha detto alla donna che il ragazzino era suo figlio e poi si sono allontanati insieme.»
Il primo ufficiale le diede un colpetto con la punta del piede. «Digli come si sono allontanati.»
«Mio signore...» la donna prese a tremare visibilmente. «Mi hanno minacciata! Volevano sapere del passaggio!»
«Quale passaggio?» domandò il capo.
«Il passaggio segreto che dal palazzo conduce a valle» spiegò il primo ufficiale. «E’ un’antica via di fuga scavata nella montagna. Il Signore del villaggio non ce ne ha mai parlato.»
«Portatelo qui!» tuonò il capo, e subito due mercenari si allontanarono dalle fila per entrare nel palazzo. «Avete mandato degli uomini all’inseguimento?»
«Sì, mio signore» confermò il primo ufficiale. «Sono partiti con molto ritardo, ma stanno percorrendo il passaggio nella speranza di scoprire le tracce dei fuggitivi alla fine del tunnel.»
Il capo fece un brusco cenno di approvazione e unì le mani dietro la schiena, sprofondando nei suoi pensieri.
Tutti i responsabili delle divisioni dei mercenari della Roccia avevano ricevuto ordini ben precisi: trovare un pretesto perché il Daimyo potesse dichiarare guerra al Paese del Fuoco. Le leggi belliche erano molto severe al riguardo: scaramucce tra gli shinobi non potevano costituire un valido motivo per l’entrata in guerra di due interi Paesi, ma se gli shinobi di un Paese avessero attaccato i civili di un altro la questione sarebbe stata diversa: si sarebbe trattato di un atto di aperta ostilità.
«Ci sono danni al palazzo o ai civili?» chiese il capo.
«La stanza da letto delle concubine è distrutta» rispose il primo ufficiale. «Ma non ci sono feriti.»
«Tashigi? Sappiamo qualcosa?»
«Nulla, signore. Si è allontanata con i due shinobi della Foglia abbandonando tutti i suoi effetti personali. Li abbiamo perquisiti ma non ci sono indizi sulla sua vera identità.»
«Una spia!» borbottò il capo con disprezzo. «La feccia degli eserciti!»
Dal palazzo provennero alte grida. Il capo si voltò in tempo per vedere il Signore del villaggio che veniva trascinato fuori dagli uomini che erano stati mandati a prenderlo, tenuto saldamente per le braccia.
«Esigo delle spiegazioni!» strillò il Signore, un uomo di mezza età con pochi capelli e un paio di baffi spioventi lucidati con cura. «Questi non erano gli accordi!»
«Nemmeno tenere nascosto il passaggio segreto era negli accordi» replicò il capo bruscamente.
Il Signore sbiancò, afflosciandosi nelle mani dei due mercenari. Fu portato fino al punto in cui la concubina era ancora rannicchiata, e lì si sforzò di farsi sorreggere dalle ginocchia tremanti.
«Dove inizia e dove termina il passaggio?» chiese il capo.
«Inizia nella dispensa dell’ala delle donne» mormorò il Signore fievolmente. «Lo sbocco è sul lato ad est della montagna, in una piccola gola.»
«E’ raggiungibile da qui?»
«No. Il terreno è dissestato e non ci sono sentieri. L’unica strada parte dall’uscita del passaggio e si allontana verso est.»
«Avresti dovuto parlarmene...» gli occhi del capo si strinsero in due fessure.
Il Signore del villaggio sembrò ripiegarsi su se stesso in un goffo tentativo di umiltà. Dalla sua bocca presero a uscire scuse e giustificazioni, ma il capo non si prese la briga di ascoltarle. Osservando la lucida pelata sulla sommità della sua testa, invece, rifletté sulla magra figura che aveva fatto il suo drappello quella notte: non solo avevano lasciato che due intrusi oltrepassassero le difese del palazzo, ma avevano anche scoperto di essersi lasciati giocare dal Signore del villaggio e, dulcis in fundo, che uno dei loro uomini era in realtà una spia. Non vedeva come le cose sarebbero potute essere peggiori.
Però vedeva come sarebbero potute migliorare.
Fece cenno al suo primo ufficiale di seguirlo e si allontanò in direzione del palazzo. Salì i gradini che conducevano all’ingresso, le mani sempre allacciate dietro la schiena e la fronte solcata da rughe profonde. Doveva pensare al proprio bene e all’onore dei suoi uomini.
Una volta al riparo dalle orecchie dei suoi si fermò e guardò l’uomo che lo seguiva.
«Nozaki, mi hai sempre servito bene» esordì. «Sai quanto me che da questa notte deludente può venire il disastro per entrambi. Ma io cercherò di evitarlo. Confido che anche questa volta mi sarai fedele.»
«Senza dubbio» assicurò il primo ufficiale piegandosi nel saluto dei mercenari, un inchino rigido con il pugno al petto.
«Prima che il sole abbia raggiunto la sommità del cielo tutti i civili all’interno del palazzo devono essere morti» Il primo ufficiale esitò per un secondo, poi si inchinò nuovamente. «Scriverò una lettera per il Daimyo spiegandogli che un drappello di shinobi della Foglia ha fatto irruzione e trucidato tutti quanti. Questo dovrebbe essere sufficiente per dichiarare guerra al Fuoco e preservare il nostro onore. Fai in modo che gli uomini si convincano della verità del messaggio.»
Il primo ufficiale annuì e si inchinò per l’ultima volta. Nel momento in cui si voltava per uscire, il primo raggio di sole invase l’atrio, attraversando la decorazione in vetro colorato che sovrastava l’ingresso. Così facendo tinse le pareti della stanza del colore del sangue fresco.




La prima fiammella.






* * *

Gente che resuscita,
guerre che stanno per essere dichiarate,
organizzazioni segrete redivive.

Perché volevo semplificare il vecchio Penne, giusto?
(Si sente che ho riletto "Il peggior bla bla bla".)

Arrivederci alla prossima settimana,
e sempre un grande grazie a voi che leggete!

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Capitolo 18
*** Mattina ***


Penne 18
17/02/2016

Capitolo diciottesimo

Mattina




Il Grande Scheggia era vissuto quasi duecento anni prima, nei tempi in cui i Rospi avevano appena deciso di darsi un’organizzazione simile a quella umana. Scheggia non era il nome che avevano scelto i suoi genitori, naturalmente.
Prima di assegnare i vari ruoli all’interno della società dei Rospi un rudimentale consiglio aveva ideato un meccanismo di selezione basato sulla prestanza fisica, e i giovani che si vantavano delle proprie zampe si erano subito resi disponibili. La prima corsa, destinata a selezionare il corriere più veloce, era stata vinta da un giovanotto ben allenato, senza troppe sorprese per il pubblico. Già pochi minuti dopo il taglio del traguardo un nomignolo aveva preso a serpeggiare tra gli spettatori, e nell’arco di poche settimane il vincitore della gara aveva assunto ufficiosamente l’appellativo di Scheggia. Da lì in poi prendere l’abitudine di definire con lo stesso nome tutti i successivi corrieri del mondo dei Rospi era stata questione di un attimo.
Lo Scheggia odierno, dunque, non era lo stesso Scheggia che aveva trasportato Naruto nel paese del Fulmine più di diciotto anni prima. Durante quel lasso di tempo c’era stata un’altra gara, un altro vincitore e un tranquillo scambio di consegne. Il vecchio Scheggia aveva continuato a farsi chiamare così, ma il nuovo Scheggia aveva adottato il nome ufficiale di Scheggia XIII, che tuttavia aveva significato solo all’interno della comunità dei Rospi: aveva imparato infatti che gli umani erano esseri sostanzialmente inferiori, pressoché incapaci di distinguere un Rospo da un altro. Lo aveva imparato quando, presentandosi a Naruto come Scheggia XIII, si era visto ridere in faccia per più di dieci minuti. Probabilmente gli umani non sapevano contare, aveva dedotto, e si era rassegnato con una certa dose di magnanimità a lasciarsi chiamare semplicemente Scheggia. D’altronde non potevano certo pretendere che non li disprezzasse, almeno un filino.
Per questo non accettò esattamente di buon grado che lo sellassero.
«Il nodo è abbastanza stretto?»
«Sì, ma pende dalla mia parte!»
«Potrebbe gentilmente evitare di tendere i muscoli?» Uno shinobi sudato, stretto con foga a corde spesse cinque centimetri, si sporse fino ad entrare nel campo visivo del grosso occhio acquoso del rospo che stava cercando di domare. Nonostante iride e pupille fossero tondi e innocui, per un attimo ebbe la netta impressione di ricevere un’occhiataccia.
«Avete finito?» gracidò il rospo con irritazione, scuotendo leggermente la schiena.
«Se potesse stare fermo!» sibilò lo shinobi, smozzicando una parolaccia a mezze labbra.
«Ci vuole ancora molto?» chiamò una voce stizzita dal basso.
I due shinobi che si occupavano delle operazioni digrignarono i denti e fulminarono con lo sguardo Naruto, che dalla sua posizione comoda e sicura osava addirittura avanzare rimostranze.
«Un istante, nobile Hokage» ringhiarono ansanti, e con uno sforzo sovrumano tirarono la sella per raddrizzarla. Ma Scheggia decise in quel momento di espirare, e l’improvvisa mancanza di tensione sulle corde fece sì che l’imbracatura si spostasse troppo, così che uno shinobi si trovò a penzolare da un fianco del rospo e l’altro steso sul suo dorso.
Naruto, a terra, sbuffò nervosamente. «Ho alle mie dipendenze un branco di imbecilli!» esclamò.
Ma in fondo non era poi così irritato: qualunque cosa era meglio di duecento firme su carta straccia.
Con leggera impazienza schermò gli occhi dal riverbero del sole che sorgeva e spinse lo sguardo lungo la strada che puntava a sud. Dov’era quel benedetto ragazzo? Perché Koichi ci stava mettendo tanto?
Gli parve di intravedere del movimento in fondo alla via, ma prima che potesse guardare con più attenzione sentì un urlo strozzato e dovette voltarsi di scatto per guardare Scheggia che con apparente indolenza si grattava un fianco, mentre i due shinobi che lo bardavano strillavano terrorizzati, appesi per le punte delle dita alle corde impazzite della sella.
«Che diavolo state combinando?» gridò allora. «Ma chi ve l’ha data la promozione a Chunin?» Scheggia gracidò con placida stizza e un filo di sarcasmo. Naruto gli puntò un dito contro. «Anche tu: diciotto anni fa eri molto più collaborativo!»
«Diciotto anni fa non ero io» brontolò il rospo con il tono di chi deve ripetere la stessa cosa per la centesima volta.
E un attimo prima che Naruto avesse l’infelice idea di ribattere, finalmente qualcuno arrivò a sedare la rivolta: «cosa state facendo?» chiese Baka Akeru, comparendo insieme a Koichi nello sfolgorante splendore dell’alba, quasi aureolato, tanta era la soddisfazione che trasudava da ognuno dei suoi pori.
«Oh, eccoti» sbuffò Naruto vedendolo. «Alla buon'ora!»
«Ci ho messo pochissimo» lo corresse Akeru, con un ampio e inscalfibile sorriso. «Lo zaino era pronto da secoli.»
Come a dire: ero certo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato.
«Sì, sì, buon per te» disse Naruto spiccio. «Siamo pronti con la sella?»
«No!» alitò uno shinobi, strozzato, mentre cercava di mantenere l’equilibrio sulla pelle viscida di Scheggia.
«Che sella?» indagò Akeru.
«La sella per farti cavalcare il rospo.»
«A me?»
«A te! Dei, ma tua madre ti ha fatto proprio così scemo?»
«Lo scemo sarai tu.»
«Lo scemo sarà lei» corresse Koichi. «E’ l’Hokage, un po’ di rispetto.»
«Koichi!» esclamò Naruto indignato.
«Okay, okay. Ma io non ho bisogno di nessuna sella» lo interruppe Akeru. «Non sono un deficiente, per cavalcare un rospo bastano pollici opponibili e un minimo di chakra.»
«Finalmente un umano che sembra intelligente!» approvò Scheggia.
«Come si vede che non lo conosci» borbottò Naruto, e Akeru si sentì arrossire d’indignazione.
«Io almeno non mi sono fatto affibbiare l’appellativo di peggior ninja di Konoha!» sibilò.
«Io almeno sono Hokage.»
«L’unico Hokage in prova dell’intera storia!»
Gli shinobi sul dorso del rospo si scambiarono un’occhiata estenuata. Quindi, mentre il battibecco a terra continuava, uno dei due prese il kunai dalla cintura, cercò la corda portante dell’intera sella e con un muso lungo come una pertica la recise di netto.
La pesante impalcatura di cuoio cedette con uno schianto e un fruscio sonoro, scivolando nella polvere. Sia Akeru che Naruto trasalirono, ma Scheggia si lasciò andare a un ampio sospiro di sollievo e stiracchiò le vertebre senza curarsi degli uomini che erano ancora sulla sua schiena. «Siamo pronti o no?» chiese in un profondo gracidio, mentre i Chunin balzavano a terra imprecando.
«Sono nato pronto!» esclamò Akeru con baldanza.
«Andiamo, è ridicolo!» sibilò Naruto.
«Salta in groppa, ragazzo» esortò Scheggia, tendendo una delle zampe anteriori perché Akeru salisse più agevolmente.
«Grazie» rispose lui con una nota di genuino entusiasmo – nulla avrebbe potuto renderlo meno allegro, non nel giorno del suo trionfo. Naruto simulò un conato di vomito, in parziale regressione infantile, quindi, mentre Akeru prendeva posto appena dietro la testa del rospo, si schiarì rumorosamente la voce. «Dove vuoi andare senza istruzioni?»
Akeru incassò la testa tra le spalle, sperando che da terra il rossore non si vedesse, ma rimase in attesa.
«Ristabiliamo la gerarchia» annuì Naruto soddisfatto. Lì accanto, Koichi levò gli occhi al cielo. «Tu e Scheggia dovrete seguire lui» cominciò l’Hokage, additando il piccolo uccellino scarlatto che li fissava da un albero poco distante, e che nessuno aveva notato fino a quel momento. Per segnalare la sua presenza quello arruffò le piume rosse dandosi arie di importanza. Guardandolo, Akeru lo riconobbe anche se erano passati cinque anni: era uno degli uccellini di Chiharu.
Il suo buonumore ebbe una leggerissima oscillazione, ma non calò. Semplicemente si trasformò da genuino orgoglio a un velo di piccata determinazione, perché l’impavida Chiharu Nara, che non aveva mai bisogno di niente e nessuno, aveva appena fatto chiamare lui. Era un dettaglio abbastanza importante da permettergli di presentarsi a testa alta nonostante il suo recente e bruciante rifiuto.
«Mi ascolti?» gridò Naruto all’improvviso, riportandolo con i piedi per terra.
«Ah? Sì!» esclamò lui riscuotendosi forzatamente.
«Davvero? Ripeti, allora.»
Akeru lo fissò sdegnosamente, con una fitta di leggero panico. «Invece di perdere tempo in giochetti infantili e idioti, perché non riepiloghi come ogni buon capogruppo?»
«Aha! Adesso chi è che non sa fare il suo mestiere?»
«Hokage, il tempo...» borbottò Koichi, additando con una certa insistenza l’orologio.
«Siete tutti delle piaghe!» esclamò Naruto, esasperato. «Stupido!»
«Mi chiamo Akeru!»
«Stammi a sentire, maledizione! Segui quel coso peloso rosso...»
«Piumato» tossicchiò Koichi.
«Ho detto: segui quel coso peloso rosso! Ti porterà dal gruppo sette! Vedete di passare inosservati, o farete i conti con me! Entro domani mattina voglio che tu sia con Chiharu e Kotaro, e una volta lì hai l’incarico di tramortire Hitoshi e legarlo sul rospo: verrà a casa, volente o nolente. Tu prenderai il suo posto nella missione, i ragazzi ti spiegheranno i dettagli. Non è difficile, cerca di non sbagliare, ok? Sei un Anbu, che diamine!»
«Io ricordo perfettamente quello che sono» bofonchiò Akeru stizzito. «Sono gli altri che tendono a scordarlo!»
Esausto, Koichi si permise una mancanza di rispetto che mai avrebbe contemplato in pubblico normalmente: prima che Naruto potesse ribattere gli piazzò una mano sulla bocca e fece un cenno al rospo. «Potete andare.»
«Voi umani siete dei gran perditempo» commentò Scheggia con un sonoro gracidio di disappunto. Akeru ebbe a malapena il tempo di aderire con il chakra alla sua pelle che quello partì a grandi balzi.
«Ehi!» gracidò il rospo mentre sfrecciavano lungo il largo sentiero che si inoltrava nella foresta, inebriato dalla sensazione del vento contro il muso. «Tu sai contare?»
«Certo che so contare!» disse Akeru rischiando di mordersi la lingua durante un salto particolarmente brusco.
«Ottimo!» gongolò Scheggia tutto soddisfatto. «Lo sapevo che quel Naruto doveva essere la mela marcia!»
Mentre Akeru sorrideva compiaciuto – tacendo che anche Naruto sapeva contare, ma solo perché non ne era poi così sicuro – e il rospo aumentava baldanzosamente la velocità, nessuno dei due si ricordò del minuscolo uccellino rosso che arruffava le penne qualche metro più indietro, lottando per guadagnare terreno e ricordare ai due che doveva essere la loro guida.


«Il gruppo di Naruto Uzumaki ha richiesto un sostituto per la missione in cui è impegnato» riferì lo shinobi mascherato nella stanza sotterranea.
Il Consigliere Iida annuì pensieroso, accarezzando lentamente la lunga manica del kimono. L’ambiente era sobrio e privo di ornamenti, illuminato da una lampadina appesa al soffitto che diffondeva una luce polverosa. Sembrava una cantina abbandonata. La porta alle sue spalle scorse silenziosamente e lasciò entrare un altro uomo, lo stesso che aveva parlato con Haruka dodici anni prima e che rispondeva al nome di Saibatsu. Pur di rispondere in fretta alla chiamata portava ancora i capelli raccolti nella treccia scomposta della notte.
«Perdonate il ritardo, nobile Iida» disse affrettandosi ad inchinarsi.
«Non era nulla di importante, Saibatsu. Credevo che Kakashi Hatake fosse di ritorno, ma mi sbagliavo.»
Saibatsu afflosciò lievemente le spalle, cercando di reprimere il lieve affanno dovuto alla corsa. Era un po’ deluso, si era aspettato di più da un allarme all’alba.
«Dal momento che sei qui, hai qualcosa da riferire riguardo a Nekozuka?» gli chiese Iida, facendo un cenno di attesa all’uomo mascherato.
«Non abbiamo più avuto nessun contatto. A questo punto siamo ragionevolmente certi che sia morto» rispose Saibatsu corrucciato.
«Ragionevolmente certi?»
«Certi, nobile Iida.»
Il Consigliere rifletté in silenzio per qualche istante, poi si rivolse allo shinobi in ginocchio. «Convoca Senju, Kin e Oga.»
L’uomo annuì, si inchinò ed uscì per una porta semi-invisibile all’altro lato della stanza. Iida e Saibatsu rimasero soli uno accanto all’altro.
«C'è altro?» chiese Saibatsu, reso incerto dal suo silenzio.
Iida sembrò riflettere, ignorando l'uomo in attesa. Dopo qualche minuto rialzò lo sguardo e socchiuse le palpebre. «Haruka Muto verrà a Konoha.»
«Tenterebbe una mossa tanto imprudente?» chiese Saibatsu esitante.
«Ormai avrà capito che i sicari che hanno tentato di ucciderla erano nostri uomini. Cercherà aiuto in Kakashi Hatake.»
«E se invece decidesse di scomparire all'estero?»
«Spero che scelga di farlo. Sarebbe saggio, e molto meno rischioso per noi. Sempre che all'estero non incontri fatalmente il Sesto Hokage, cosa che ci rovinerebbe tutti quanti. In ogni caso, se sta tornando a Konoha siamo fortunati: Hatake è lontano e il suo sostituto è un incompetente; liberarsi di lei sarebbe semplice. Ho dato disposizioni perché un gruppo pattugliasse i confini se Haruka Muto o l'Hokage li attraversassero.»
«C’è qualcosa che posso fare io?»
Iida annuì gravemente, fissandolo con aria assorta. «Osserva e impara» disse poi. «Ricorda sempre qual è lo scopo della nostra esistenza, qual è la fonte del nutrimento della Foglia e del grande albero che la sorregge: senza Radici non c’è vita, anche se gli ultimi Hokage pensavano di poter fare a meno di noi» Iida si erse in tutta la sua statura, il petto orgogliosamente proteso e il mento alto e fiero. «Noi siamo il passato, il presente e il futuro di questa società. Ricordalo, Saibatsu, e non permettere che veniamo dimenticati!»
Saibatsu annuì e si inchinò a fondo, il viso nascosto dai capelli scuri. La sua espressione era indecifrabile, ma dopo anni di vita politica non sarebbe potuto essere altrimenti. Con poche parole cortesi si congedò.
A quel punto Iida rimase solo nella stanza in penombra. Una volta che i passi di Saibatsu si furono allontanati e prima che comparissero gli uomini che aveva convocato, le sue spalle si abbassarono di qualche centimetro e il vecchio si concesse il tempo per un dubbio che lo aveva a malapena sfiorato: se Kakashi Hatake e Haruka Muto fossero stati insieme?
In quel caso Naruto Uzumaki avrebbe architettato una messinscena piuttosto elaborata per la sua mediocre intelligenza... Forse i suoi assistenti avrebbero potuto aiutarlo. Quel Nara? O il ninja medico? Forse lo stesso Kakashi aveva gettato le basi per un intrigo di quella portata, forse arruolando Haruka, tanti anni prima, avevano rischiato troppo e fatto una sciocchezza. Forse lei era riuscita a mettersi in contatto con il sesto Hokage e poi...
Eppure no, era troppo contorto, troppo complesso per essere verosimile. Nonostante la sua abitudine all’intrigo Iida sapeva che avendo a che fare con Naruto Uzumaki non doveva aspettarsi sottigliezze: se un uomo come quello avesse saputo che un discepolo di Danzo aveva portato avanti la sua opera avrebbe fatto fuoco e fiamme per distruggerla - il probabile settimo Hokage non era fine quanto il Quinto.
Oltre a questo, Iida credeva che nessuno, prima o dopo la sua generazione, avrebbe mai avuto l’ardire di fare il nome di Kyuubi senza un’ottima ragione: il tabù, l’orrore, il ricordo erano ancora troppo spaventosi per lui e gli uomini come lui. Se Kakashi era stato inviato in missione per qualcosa che riguardava Kyuubi, doveva necessariamente essere vero.
Con un sospiro Iida si massaggiò la fronte. Era troppo anziano per continuare quel tipo di vita... Le sue notti erano popolate di incubi in cui la Volpe lo aggrediva, spalleggiata dagli shinobi che nel corso degli anni aveva dovuto eliminare. Lui cercava di spiegare che lo aveva fatto per il bene del Villaggio, ma nessuno gli credeva mai. In effetti, a lui stesso le sue parole suonavano ipocrite.
Restava il fatto che ogni notte, in modi atroci e sempre diversi, il suo corpo veniva sbranato e dilaniato dagli artigli scarlatti di Kyuubi, e quando si svegliava in un bagno di sudore gli sembrava di essere tornato il ragazzino che si era nascosto nelle cantine della villa il giorno in cui Namikaze Minato aveva affrontato e vinto il demone.
Il vecchio consigliere rabbrividì. Anche da sveglio, era difficile scrollarsi di dosso quella sensazione.


*


Gli Uchiha erano geneticamente pallidi. La loro circolazione era assolutamente perfetta, ma a quanto pareva aveva la discrezione di scorrere ben lontana dall’ultimo strato della pelle. Che fossero chiari e perfetti era risaputo. Che fossero lividi, un po’ meno.
«Sto bene» ripeté Hitoshi per la trecentesima volta, seduto sull'erba con una mano a sorreggere la testa. La voce gli si incrinò sull’ultima sillaba.
Chiharu e Kotaro si scambiarono un’occhiata: non avevano mai visto le vene sotto la pelle di Hitoshi, ma oggi erano lì, bluastre e definite come inchiostro.
«Smettetela di guardarmi come se fossi un malato terminale!» esplose l’Uchiha, e l’emicrania reagì all’inaspettato afflusso di sangue con un picco vertiginoso. «Sto bene! Ripassiamo il piano e muoviamoci!»
Chiharu sbuffò fissandosi distrattamente una minuscola crosticina sull’avambraccio, residuo di un vecchio graffio. Non poteva tirarla ancora per le lunghe.
«Il piano è già perfetto» se ne uscì, costringendosi ad alzare lo sguardo e puntare gli occhi su Hitoshi. «Ed è un piano in cui tu non compari.»
Kotaro trattenne il fiato mentre l’Uchiha si irrigidiva visibilmente. «Non è possibile» lo sentì sibilare. «Non si può fare in due. E’ troppo rischioso.»
«Non si può, infatti» annuì Chiharu con un’occhiata di sottecchi. «E’ per questo che sta arrivando il tuo sostituto.»
Kotaro riuscì a sentire distintamente il suono del silenzio che si tende, come un elastico vicino alla rottura. Alzò lentamente lo sguardo dall’erba fino al viso di Hitoshi e gli sembrò di non aver mai visto nulla di più simile a una maschera. Per un attimo gli venne il dubbio che non respirasse.
«Cosa?» lo sentì mormorare dopo un tempo che sembrava infinito.
«A quest’ora sarà già in viaggio» riprese Chiharu, distogliendo lo sguardo con una leggera tachicardia. Oddio, e se la notizia lo avesse ucciso? Non avevano pensato agli infarti.
«Di cosa stai parlando?» scattò Hitoshi, serrando un pugno sull’erba. «Sostituto? Come? Quando? Non serve!»
«Ah no?» frecciò lei assottigliando gli occhi, e lui digrignò i denti.
«Io sto bene!» urlò quasi. «Non serve sostituirmi! Nessuno ne sarebbe in grado! E’ una missione per il gruppo sette!»
«Credi che non lo sappiamo?» sbottò Chiharu. «Credi che siamo felici di dover aspettare due giorni?»
«E allora non fatelo!»
«Non essere infantile, adesso!» lo interruppe Kotaro. Sia Chiharu che Hitoshi si voltarono a fissarlo, quasi irritati per l’intromissione. «Anche un imbecille vedrebbe che non stai bene, figuriamoci un nemico. In missione saresti più d’intralcio che d’aiuto.»
Cadde il silenzio. Non che questa parte non fosse ponderata nella discussione... Solo, nessuno si aspettava che a tirarla fuori sarebbe stato Kotaro: secondo i piani sarebbe dovuta uscire dalla bocca di un’irritatissima e saccente Chiharu, non dalla voce quasi dimessa dello shinobi gentile del gruppo sette – che comunque, per essere proprio onesti, non andava proprio fiero del suo operato.
E infatti per un attimo Hitoshi non seppe come ribattere. Stordito, si trovò a fissare l’erba con un vago senso di nausea... Che diavolo era successo? Fino a pochi anni prima era il più promettente e geniale allievo della sua generazione, ora all’improvviso era un incapace che non riusciva a portare a termine i suoi compiti?
Un Uchiha che ha fallito cos’è?
«Chi è il mio sostituto?» si trovò a chiedere con la bocca arida.
Chiharu e Kotaro incassarono impercettibilmente la testa tra le spalle. Anche se erano riusciti a stordirlo fino a quel momento, sicuramente dopo il nome di Baka Hitoshi avrebbe dato fuori.
«Akeru» mormorò Chiharu, sperando che dare un filino di dignità in più a Stupido avrebbe aiutato Hitoshi a sentirsi meno inutile.
Ovviamente non funzionò. Videro un lampo d’ira nel suo sguardo. «Stupido? Stupido?» inveì, e qualche animale scappò spaventato nel sottobosco. «Mi state dicendo che per sostituire me voi chiamate lui
«Akeru è un Anbu» tentò di giustificarsi Chiharu. «Non un imbecille. Magari avremmo chiamato Jin, se non fosse impegnato, ma non credo che essere sostituito da un dodicenne ti avrebbe fatto sentire meglio.»
«Voi avete chiamato Stupido!» insisté Hitoshi, ormai ben oltre i limiti dell’indignazione. «Mi state facendo sostituire da uno che si chiama stupido! State dicendo che valgo quanto lui!» Decisamente chiamare Akeru con il suo nome era proprio passato inosservato.
«E’ un Anbu!» ripeté Kotaro, iniziando a sentire l'esasperazione che montava.
«Oh, sentiamo, chi avremmo dovuto chiamare, eh?» sbottò Chiharu. «Solo Naruto l’Hokage è al livello del prodigioso Uchiha?»
«Non avreste dovuto chiamare nessuno! Se voi aveste solo un briciolo di fiducia...»
All’improvviso, del tutto inaspettatamente, Hitoshi si trovò con la schiena a terra e una mano premuta contro il collo a mozzargli il respiro. Sotto gli occhi di una Chiharu stupefatta Kotaro lo aveva appena aggredito.
«Mi sono mosso lentamente» sibilò arrabbiato. «E tu non mi hai nemmeno sentito. Ora, me lo dici cosa diavolo intendi con fiducia? Dobbiamo fiduciosamente lasciarti morire, compromettere la missione e finire sulla lapide degli eroi solo per salvare il tuo orgoglio?»
Allentò la stretta con cautela e Hitoshi, pur cercando di trattenersi, dovette tossire ingoiando bruscamente l’aria.
«Kotaro...» mormorò Chiharu nervosamente.
Kotaro si fece indietro e si portò a qualche distanza, passandosi una mano sul viso tirato. Hitoshi si tirò a sedere e si portò una mano alla gola. Scioccato e furioso fissò il compagno di squadra, ma non riuscì a incontrare il suo sguardo. Al che, come ogni maschio indignato che si rispetti, a sua volta prese a fissare il suolo con i denti serrati.
Chiharu passò gli occhi dall’uno all’altro, respirando con molta cautela; a un tratto si rese davvero conto di essere una femmina: a prescindere dalla sua capacità di comprenderli o meno, non poteva fare a meno di trovare i compagni di squadra un po’ inquietanti. Finché si trattava di battibeccare con Hitoshi sapeva che non si sarebbe arrivati alle mani; ma tra lui e Kotaro come sarebbe potuta finire? Fino a che punto si parlava di amicizia nel loro caso? E che cosa diavolo significava amicizia per due maschi?
Chiharu sciolse lentamente i muscoli della schiena. Calma. I gruppi erano composti da più di due elementi proprio per evitare il genere di situazione che si era creata: il terzo membro del team aveva il compito di riportare tutti alla ragione e ricordare che la missione veniva prima di tutto. Certo. Porca miseria, dov’era Naruto quando serviva?
Chiharu sospirò. Naruto li avrebbe fatti ragionare al volo: lui era un maschio, era uno stupido ed era impulsivo - insomma, li comprendeva alla perfezione. Lei poteva soltanto appellarsi alla sacrosanta razionalità e sperare che i due cretini ne avessero in dose sufficiente.
«Comunque Baka è già in viaggio» disse schiarendosi la voce. «Arriverà presto, con l’ordine di riportarti a Konoha. Che l’emicrania ti passi o meno, non possiamo rischiare che torni all’improvviso mentre attacchiamo. Devi farti vedere da un medico, Hitoshi.»
L’Uchiha non diede nemmeno segno di averla sentita, ma Chiharu vide la sua mano stringersi convulsamente a un ciuffo d’erba. Poi, senza dire altro, si alzò di scatto, voltò le spalle al gruppo e si inoltrò rabbiosamente tra i cespugli del sottobosco.
Kotaro non si mosse, Chiharu nemmeno. Sembrava che il loro gruppo sette fosse vicino a una frattura insanabile.


*


Usciti dalla gola in cui terminava il passaggio segreto, Kakashi riuscì a orientarsi in fretta. Guidò Jin e Haruka lungo i sentieri degli animali del bosco, aiutato da un segugio ninja che cercava tracce di esseri umani, finché gli alberi si diradarono ed emersero lungo un’ampia strada in terra battuta. Le ruote dei carri avevano inciso solchi profondi nel fango rinsecchito, ma, forse perché era appena l’alba, non si vedeva anima viva.
«Gli odori sono vecchi» guaì il cane che li aveva guidati fin lì. «Non è una strada trafficata.»
«Grazie, ti richiamerò se avremo ancor bisogno di aiuto» lo congedò Kakashi.
Il cane scomparve in un piccolo sbuffo di fumo. Kakashi guardò da una parte e dall’altra: il sentiero sembrava provenire da nord, dirigendosi poi ad est in un’ampia curva tra gli alberi.
«Jin, la mappa.»
Jin sfilò lo zaino e ne estrasse la cartina del Paese della Roccia, tendendola al padre. Facendolo gli cadde l’occhio su un fascicolo giallo all’interno dello zaino e con un sussulto comprese che era quello su sua madre a cui avevano accennato nei giorni precedenti.
Kakashi stese a terra la cartina e cercò Anka. La puntò con un dito. Alzò lo sguardo per valutare le dimensioni della strada, la posizione dei monti limitrofi e quella del sole, poi la direzione da cui erano venuti. Haruka si sporse oltre la sua spalla e indicò una via poco ad est del villaggio, una strada di medie dimensioni che collegava Anka alle città del nord.
«E’ questa» spiegò. «Non la usano da anni perché a nord non c’è più molto da commerciare.»
«Non possiamo viaggiare scoperti. Passeremo per il bosco» rifletté Kakashi. Con la mano tracciò una linea retta che congiungeva Anka e il villaggio di Izano, attraverso cui avevano passato il confine all’andata.
«I boschi sono molto fitti» lo corresse però Haruka. «Dobbiamo seguire delle strade: nel folto saremmo costretti a continue deviazioni e rischieremmo di perderci.»
«Sarà il primo posto in cui verranno a cercarci» replicò Kakashi brusco.
«Ma è anche la nostra sola possibilità. Conosco questo Paese.»
«Va bene, allora. Resteremo protetti dalla vegetazione, ma terremo sempre d’occhio la strada» Kakashi indicò la via ben marcata che proseguiva tortuosa fino al Paese del Fuoco, poi ripiegò la cartina e la diede di nuovo a Jin.
Tutti insieme si spostarono all’interno del bosco, qualche metro dentro il folto. Se qualcuno avesse guardato verso di loro l’ombra della vegetazione li avrebbe nascosti, ma da lì potevano distinguere chiaramente chiunque passasse sulla via. Le loro intenzioni erano di camminare per tutta la prima parte della giornata, trovare un posto relativamente sicuro in cui riposare per un breve periodo e poi riprendere il viaggio durante le ore notturne.
«A chi sono collegati i mercenari con cui lavoravi?» chiese Kakashi quando ebbero ripreso il cammino al riparo del sottobosco.
«Hanno contatti con tutti i villaggi del confine» rispose Haruka cupamente. «Sicuramente ci sono già dei corrieri in viaggio con le nostre descrizioni.»
Kakashi calcolò quanti giorni avrebbero impiegato per tornare seguendo la strada indicata da Haruka: troppi, se volevano avere qualche speranza di farcela. Alla prima pausa avrebbe dovuto estrarre di nuovo la cartina e studiare un percorso alternativo: doveva valutare la possibilità che lei cercasse consapevolmente di metterli nelle mani del nemico, per quanto la sua natura si ribellasse a quell'idea.
Avrebbe tanto voluto potersi fidare ciecamente, come in passato, come prima che scomparisse nell'incendio al Paese delle Risaie... D’altronde era così difficile discutere con lei! Si sentiva esplodere ad ogni contraddizione, ad ogni ‘ma’, ad ogni intromissione nei suoi piani. Si stava sforzando di comportarsi in maniera professionale, ma tutti gli anni in cui l’aveva creduta morta stavano premendo dentro il suo stomaco quasi a farlo scoppiare. Prima di ragionare come un Hokage di fronte a un possibile traditore, si trovava a reagire solo come un amante abbandonato.
Senza farsi notare gettò un’occhiata verso Jin, che chiudeva il gruppo. I suoi occhi brillavano come mai prima, incuranti della stanchezza. Anche da quella distanza Kakashi poteva vedere i muscoli delle mandibole che si contraevano nello sforzo di non aprire bocca, ma gli occhi non potevano essere camuffati: bruciavano, fissi sulla nuca di Haruka, come se volessero frugarla dentro.

Fecero la prima pausa quando il sole era alto nel cielo e le borracce completamente vuote. Trovarono i resti di un villaggio che sorgeva nei pressi di un ruscello limaccioso e si fermarono all’interno dell’edificio che sembrava più solido, un pollaio con il tetto di paglia e ramaglie.
Mentre Jin riempiva le borracce, Kakashi riprese la mappa e sprofondò nella ricerca di percorsi alternativi.
Haruka lo guardò per qualche istante, studiando le nuove rughe sulla sua fronte e attorno agli occhi. Tredici anni avevano lavorato sul suo viso senza che lei potesse vederlo, ed ora lui era un uomo diverso da quello che aveva conosciuto: la linea delle spalle si era ammorbidita, le mani e le dita, quelle dita un poco ruvide che in passato la avevano accarezzata, ora erano lisce e levigate dal lavoro d’ufficio. Il suo sguardo, poi, parlava chiaro: risentimento, dolore, rifiuto. Non una briciola di amore.
«Ehm... V-Vuoi?»
Il balbettio di Jin la colse impreparata. Lo vide tenderle la borraccia piena e si affrettò ad allungare la mano per prenderla. Dovette forzarsi a bere, perché nonostante la gran sete il cuore le era risalito su per la gola e ora la bloccava con un nodo di ansia e senso di colpa. Jin attese qualche secondo, poi, gettando uno sguardo nervoso in direzione di Kakashi, si sedette accanto a lei.
«Pensavo che i capelli fossero rossi» esordì, guardandola di sottecchi perché non aveva il coraggio di fissarla direttamente.
«Hanno cambiato molti colori nel corso degli anni» rispose Haruka, fissandolo come prima aveva fissato Kakashi. «Era un buon modo per non farsi riconoscere.»
Sì, aveva proprio i suoi occhi. Lo stesso taglio, la stessa sfumatura di blu. I capelli erano di Kakashi, e il viso ancora in piena trasformazione, ma gli occhi erano suoi - per quel poco che riusciva a incrociarli.
Cosa poteva dire a un figlio dodicenne? L’ultima volta che lo aveva visto ciondolava in equilibrio precario e le chiedeva a gesti di attaccarsi al seno. Chi gli aveva insegnato a parlare, chi lo aveva accompagnato al primo giorno in Accademia, chi gli aveva messo i cerotti quando si era ferito con i primi shuriken? L’impegnatissimo Sesto Hokage di Konoha? Ne dubitava.
«La zia mia ha parlato di te» disse Jin impulsivamente. Finalmente alzò lo sguardo. «Mi ha dato questa...» con gesti frenetici frugò in fondo allo zaino ed estrasse la fotografia usurata di Haruka e Natsumi che aveva sfilato dal suo nascondiglio prima di partire. Naturalmente non aveva detto nulla a Kakashi. «Nel caso ti avessi incontrata. Per poterti riconoscere» spiegò arrossendo, e si rese conto che l’istupidimento provato nel passaggio segreto non era affatto passato.
Haruka prese la fotografia e la studiò. «Ricordo questo giorno. Eravamo con dei... delle persone. Gente che conoscevamo» mormorò. Amici che poi aveva tradito, ecco la parola che cercava. «Molti anni fa.»
Jin strinse i pugni cercando il coraggio di fare la prima domanda. Sbirciò in direzione di Kakashi, pronto a cogliere qualunque ammonimento, ma il Jonin sembrava troppo assorto nella cartina - strategicamente assorto, avrebbe compreso se avesse avuto qualche anno in più. Allora deglutì, prese un respiro e disse tutto d’un fiato: «quando sono nato?»
Jin non aveva un compleanno.
Jinnai Momori non si era premurato di riferirlo a Kakashi e lui non era tornato indietro per chiederlo. Per convenzione aveva stabilito che il bambino avesse un anno quando glielo avevano affidato e aveva fatto i suoi conti a partire da lì, ma non aveva mai festeggiato con lui nulla di simile a un compleanno. A Jin non interessava particolarmente - non aveva mai capito la necessità di fare o ricevere regali - ma Hinagiku era rimasta molto delusa dalla scoperta.
Haruka girò uno sguardo stupito su Kakashi. «Non te l’ha detto?»
Kakashi le lanciò un’occhiata di avvertimento. Lei esitò per un istante, poi capì che Jin non sapeva nulla del messaggio di Akiko Kato né della sua finta morte né dell'uomo che si era preso cura di lui per alcune settimane. Sentì il peso bloccato in gola sprofondare di nuovo nello stomaco.
«Undici febbraio» disse a bassa voce.
Jin si chiese solo per un istante chi avrebbe dovuto dire a suo padre quand’era nato, poi la novità di dare una data alla sua venuta al mondo ebbe il sopravvento. Febbraio! Significava feste in casa e stuzzichini caldi, forse anche la neve...
«Credo di aver trovato una strada più breve» Kakashi interruppe le sue fantasticherie avvicinandosi a entrambi e stendendo la cartina tra loro. Haruka lo interpretò correttamente come un modo per interrompere la conversazione, ma Jin provò solo un po’ di fastidio. «Sono vie secondarie, però ci permettono di accorciare notevolmente il percorso» spiegò Kakashi indicando quelle che sulla cartina erano segnati come minuscole righe quasi invisibili, di scarsissima importanza. «Così dovremmo riuscire ad evitare buona parte dei villaggi più grandi e forse a seminare chi ti sta cercando.»
Haruka studiò il percorso che Kakashi aveva segnato e annuì. «Possiamo farcela. Non sarà la prima strada che controlleranno... Però dovremo stare attenti a non dare nell’occhio: incontreremo sicuramente gruppi di mercenari. Speriamo che siano abbastanza isolati da non avere una nostra descrizione.»
«Speriamo» mormorò Kakashi annuendo. «Adesso mangiamo.»
Ripiegò la cartina e la cedette nuovamente a Jin, che la mise via senza fiatare. Haruka cercò di incrociare il suo sguardo, ma quello si fece sfuggente.
Risentimento, dolore e rifiuto avevano appena guadagnato un nuovo compagno: paura. Kakashi aveva paura di quel che sarebbe successo, di tutte le conseguenze del suo ritorno, comprese Haruka.
Prima di affrontare di nuovo una conversazione con Jin avrebbe dovuto parlare con suo padre e capire cosa gli aveva raccontato.


*


Scaricato.
Sostituito da Stupido.
Da Stupido! Inaudito.
Più ci pensava e più gli sembrava incomprensibile e surreale. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto pensare di sostituire un Uchiha con qualcuno il cui cognome era Baka?
Con rabbia Hitoshi si passò una mano tra i capelli, sentendo l’emicrania scavare tenacemente sotto la pelle. Una cosa da niente, una cosa da ragazzine, avrebbe detto; eppure non riusciva quasi a stare in piedi, trovava un briciolo di sollievo soltanto disteso. Lo rendeva praticamente invalido.
Perché a lui? Non solo era l’unico Uchiha privo di sharingan, ma era anche l’unico che fosse mai stato rispedito a casa da una missione. Il pensiero di quale sarebbe stata l’espressione di suo padre lo angosciava terribilmente.
Forse, tanto valeva morire.
«Stai mica pensando al suicidio?»
Hitoshi si tirò su di scatto, e per un istante il mondo ruotò attorno a lui. Con una smorfia di dolore, tra le palpebre semichiuse, intravide le gambe di Chiharu qualche passo alle sue spalle e sentì un fiotto d’irritazione andare ad alimentare l’emicrania.
«Che vuoi?» sibilò, sforzandosi di restare acido ma non isterico.
«Controllare che arrivi a stasera.»
Ovvio. Lei sapeva sempre cosa pensava lui. Lei sapeva cosa pensava chiunque in ogni momento, maledetta spaccona arrogante.
«Vattene» sbottò Hitoshi, chiedendosi se negare sarebbe sembrato tanto patetico. «Tu e Kotaro avete da fare, no?» sibilò.
Questo suonava molto patetico.
Chiharu si degnò finalmente di guardarlo e sbuffò con aria di sufficienza. «No» negò, incrociando le braccia sul petto. «Veramente, finché non arriva Stupido siamo a riposo anche noi.»
Oh, perfetto. Lei, Kotaro e Stupido. Che terzetto entusiasmante.
«Vattene» ripeté, ora con una nota di vero isterismo nel tono. «Non ho voglia di parlare, e soprattutto non ho voglia di farlo con te.»
Hitoshi non poteva vederla, ma fu sicuro che Chiharu gli scoccasse una delle sue celebri occhiatacce. «Ricordami un istante quanti anni hai» replicò stizzita. «E chi sei.»
«Per favore, vattene» gemette Hitoshi, improvvisamente sfibrato. «Vattene e basta.»
Lei non ribatté. Il silenzio si dilatò nell’umidità del mezzogiorno, densa di ronzii e fruscii segreti. Nessuno dei due aprì più bocca.
Chiharu sapeva cosa stava succedendo: Hitoshi si sentiva umiliato, e l’umiliazione lo avrebbe portato ad allontanarla. Lei, d’altronde, non aspettava altro, dunque se ne sarebbe andata senza nemmeno soffrirci troppo. Giusto?
Oppure... Oppure avrebbe potuto avvicinarsi ed essere gentile, quindi, memore di quello che c’era stato, avrebbe potuto cercare di... Un brivido le corse lungo la schiena - non un brivido di piacere: dopo la faccenda della sostituzione, la distanza tra loro non le permetteva di fare più di quello che stava facendo adesso, che era poco e niente. Provava pena per Hitoshi, ma sopra la pena provava uno strato di rabbia ribollente, perché lo vedeva commiserarsi e crogiolarsi nelle sue sventure invece di affrontarle. Una parte di lei avrebbe voluto scuoterlo e ordinargli di smetterla di piangersi addosso, ma un’altra, più forte, le diceva che se lo avesse fatto avrebbe decretato la sua condanna a morte: per salvare l’orgoglio di un Uchiha doveva fargli credere di avere ancora qualcosa a cui aggrapparsi.
«Sei un idiota» sussurrò.
Allora, vincendo l’impulso a restare, si voltò e se ne andò.
Hitoshi rimase seduto sulle foglie secche. Non cercò di fermarla. Serrando i denti, invece, si prese la testa tra le mani pensando a lei e lui, a Baka, a suo padre, all'umiliazione bruciante con cui avrebbe dovuto convivere nei tempi a venire. Scommetteva che l'idea di sostituirlo era venuta a Chiharu e Kotaro nello stesso momento. Non vedevano l'ora di far vedere a tutti che erano migliori di lui. E in fondo, rifletté, forse avevano ragione.
Nessun Uchiha è disposto a lasciarsi guardare quando fallisce. Piuttosto che ricevere compassione preferisce il disprezzo e la solitudine. A costo di lasciar andare l’unica cosa che vorrebbe difendere con le unghie e con i denti.
Immerso nel suo personale tormento, non si accorse nemmeno di Kotaro che si allontanava silenziosamente dal suo nascondiglio tra i cespugli. Soltanto allora, davvero, rimase solo.







* * *

Salve a tutti!
Finalmente entra in campo "il cattivo"!
("Uno dei...". Lo sapete come ragiono, ormai.)

Quello di oggi dovrebbe essere uno degli ultimi aggiornamenti modificati;
molto presto entreremo nella parte di storia sconosciuta.
E lì per me sono cazzi.
(Perché mi sono un po' persa e devo riprendere tutti i fili.)

Sperando che Jin e Haruka vi risultino un po' meno insopportabili
rispetto alla "parte di Jin" della vecchia versione,
li lasciamo a fare conoscenza
e ci trasferiamo dai mocciosi.


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Capitolo 19
*** Il cavallo rosso ***


Penne 19
Capitolo diciannovesimo

Il cavallo rosso




Una foschia leggera restava sospesa a un metro da terra, avvolgendo i pochi suoni e rendendo incerti i contorni del sottobosco, entro i cui confini non penetravano i raggi del sole pomeridiano. Tra una grande felce e una roccia avvolta dalle radici di un albero enorme c’era un piccolo tratto di foglie schiacciate dalla forma particolare.
Un topo si avvicinò con cautela, annusando stranito il sottobosco. Sotto i baffi tremanti sentiva odori sconosciuti. Percorse con attenzione il contorno della traccia appena scoperta, quindi si azzardò a tendere una zampa verso la zona calpestata, un milione di volte più grande del suo intero corpo, e la ritrasse vibrando freneticamente il naso rosa. Come se ci avesse ripensato, trottò rapido per un lungo tratto fino a raggiungere di nuovo il sottobosco familiare, infine se la squagliò sotto un cespuglio.
I rospi giganti non erano tra i suoi incontri preferiti.

Duecento metri più avanti gli alberi tremavano all’impatto delle zampe robuste sul terreno. Il grande rospo procedeva spedito, spiccando balzi che oltrepassavano abbondantemente gli alberi e ripiombando a terra con massiccia brutalità. Sul suo dorso, aggrappato disperatamente alla pelle rugosa della nuca, uno shinobi scombussolato cercava di mantenere l’equilibrio serrando convulsamente le ginocchia.
«Tutto bene, ragazzo?» chiamò Scheggia, in un curioso miscuglio di tenerezza e divertimento.
«Sì!» mentì Akeru, smozzicando poi tutti gli insulti che conosceva.
Un giorno di viaggio interrotto solo per i bisogni fisiologici, il chakra che ormai rispondeva a sbalzi e lo stomaco che protestava con violenza gli facevano rimpiangere le carinissime missioni di livello S che gli affidavano come Anbu.
«Ottimo» approvò il rospo, piombando su una macchia di aceri e mandando nel panico un nido di tordi. «Sapevo che eri in gamba! Il biondino a quest’ora avrebbe avuto lo stomaco sottosopra!»
Akeru ingoiò un conato di vomito e si guardò bene dal rispondere, cercando di ignorare i sussulti del paesaggio circostante. Poco più avanti rispetto a loro il minuscolo uccellino rosso di Chiharu volava senza un’incertezza, come se la fatica non esistesse. Li guidava dall’inizio e probabilmente aveva già percorso quella strada in senso opposto, eppure non rallentava e non si riposava mai. Ma all’improvviso Akeru lo vide virare bruscamente e tornare sui suoi passi in un ampio cerchio.
Scheggia si fermò di scatto, tanto che per un attimo il ragazzo temette di scivolare oltre la sua testa e finire a terra.
«Che succede?»
L’uccellino svolazzò davanti al muso del grosso rospo. Quello rimase immobile, come in ascolto. Annuì un paio di volte, poi gracidò piano.
«Scendi, ragazzo.»
«Perché?» indagò lui, domandandosi se i muscoli doloranti delle cosce avrebbero risposto.
«Perché da qui devi andare a piedi. Io sono troppo ingombrante per passare inosservato.»
Akeru obbedì e scese dal dorso di Scheggia, muovendosi con cautela sulle gambe piene di acido lattico. Cercò con lo sguardo l’uccellino che li aveva guidati, ma non appena lo vide quello ripartì nella direzione che stavano già percorrendo.
«Tornerete più tardi, con l’altro girino che devo portare indietro» lo rassicurò bruscamente Scheggia. «Io vi aspetto qui.»
Akeru rimase dietro alla sua guida iperattiva costringendosi a non pensare alla stanchezza. Ben presto, tuttavia, si accorse che il vero problema non erano le mancate ore di riposo, quanto piuttosto l’immobilità a cui era stato costretto sul dorso del rospo. All’improvviso scoprì che correre un po’ sui suoi piedi gli faceva bene.
Procedettero per quasi un quarto d’ora. L’uccellino non gli semplificò affatto la vita, insinuandosi in passaggi minuscoli e rischiando più volte di perdersi. Akeru masticò insulti tra i denti, convinto che fosse stata Chiharu a istruirlo così, e, impegnato com’era a tenere il passo, non si accorse di aver oltrepassato la linea invisibile che il gruppo sette aveva disegnato attorno al luogo in cui era accampato, e che aveva il compito di avvisarli di ogni intrusione.
A un tratto l’uccellino si fermò; Akeru lo imitò, riprendendo fiato, e tese i sensi alla ricerca di un segnale. Si trovava al centro del nulla, circondato dagli alberi e immerso nel silenzio. La sua guida si era posata su un ramo ed era intenta a lisciarsi le piume con cura.
Baka si chinò per studiare il terreno, strusciando le dita sui resti quasi invisibili di un accampamento recente. L’erba schiacciata e rade tracce di cenere lasciavano intendere che il luogo fosse stato liberato in fretta e furia, probabilmente dieci minuti prima. Si rialzò, guardandosi attorno furtivo.
«Sono io» sussurrò alle foglie, sentendosi vagamente stupido.
L’unica risposta che ottenne fu il basso richiamo dell’uccellino, che lo fissava severamente. Si schiarì la voce.
«Siete ancora vivi?»
L’uccellino arruffò le penne e prese il volo, librandosi sopra la sua testa. Akeru non sapeva perché, ma era sicuro di stargli antipatico. Fu per quella ragione che gli sembrò di cogliere nel richiamo successivo una nota di esasperato sarcasmo, quasi un rimprovero: devo fare tutto io, sciocco implume.
Finalmente, da un albero, Chiharu balzò a terra.
Alla buonora!’ avrebbe voluto esclamare Akeru indignato. E invece non appena la vide gli tornò in mente la loro ultima, illuminante conversazione, e con essa tutto il disprezzo di cui lei l’aveva sommerso. Così si limitò a fare un passo indietro e guardarla male, arrossendo leggermente.
«Ce ne hai messo di tempo» si sentì dire mentre anche Kotaro atterrava davanti a lui.
«Si fa quel che si può» sibilò nervosamente. «Allora, dov’è l’Uchiha?» aggiunse quasi subito, prima di infuriarsi.
«Qui» rispose Kotaro; e nel momento in cui lo diceva Hitoshi sbucò dai cespugli, con l’espressione funerea di un condannato a morte.
Akeru cercò il suo sguardo con una punta di malignità. Adesso chi è il perdente? si trovò a pensare.
«Che vuoi?» ringhiò Hitoshi sulla difensiva.
«Niente» rispose Akeru, sollevando leggermente il mento. Poi si voltò a guardare Chiharu, come se fosse diventata lei il leader del gruppo. «Un rospo ci aspetta a venti minuti da qui. Lo accompagno e torno.»
Chiharu si limitò ad annuire, ma a lui non sfuggì il modo in cui evitava lo sguardo di Hitoshi. Anche se non avrebbe voluto, dentro di sé sentì una vocina esultare.
«Ce la fai?» chiese, con un tocco di sufficienza nel tono.
L’Uchiha lo fulminò con lo sguardo. «Se non chiudi quella bocca ti do un pugno» minacciò, ma l’emicrania gli impedì di essere sferzante come avrebbe voluto.
Akeru decise per buona pace di mantenersi sul neutrale. «Andiamo. Non c’è neanche gusto...»
Accompagnò Hitoshi da Scheggia sforzandosi di essere uno shinobi impeccabile. Non fece frecciatine, non insinuò nulla, non cercò di mettere alla prova la sua velocità né di carpirgli punti deboli. Quando arrivarono a destinazione si limitò a guardare con un certo distacco la smorfia che comparve sul viso di Hitoshi, un misto di sorpresa, stizza e dolore, e gli chiese nel tono più incolore se riusciva a stare in groppa al rospo.
Hitoshi bofonchiò qualcosa che sapeva di insulto, al che Akeru fu a un passo dall’assestargli un calcio. Poi optò per una tattica diversa.
«Scheggia, vacci piano con lui. E’ allievo di Naruto.»


«Cioè dobbiamo eliminare sei guardie, recuperare l’ostaggio e darcela a gambe senza feriti?» sbalordito, Akeru passò lo sguardo da Chiharu a Kotaro e di nuovo a Chiharu. «Noi tre?» aggiunse per chiarire il concetto.
All’improvviso la battuta con cui aveva annunciato che non aveva bisogno di riposo prima di iniziare la missione gli sembrò un po’ troppo spavalda. Sentiva l’acido lattico che ancora gli indolenziva le cosce.
«Paura?» insinuò Chiharu. Ma, senza il solito sorriso sarcastico, il suo commento sembrò un insulto velenoso.
Akeru si rattrappì impercettibilmente, comprendendo che tirarsi indietro ora gli avrebbe portato dosi di umiliazione non tollerabili. Si convinse che da quel momento l’avrebbe odiata: solo perché aveva fatto l’idiozia di dichiararsi non voleva dire che ora lei potesse permettersi qualunque cosa. Ovviamente non sapeva che il malumore di Chiharu era dovuto a ben altre questioni – e persone – per cui decise di renderle pan per focaccia.
«Paura per voi» rettificò acido. «Io sono un Anbu: ho completato missioni ben peggiori. Mi chiedo solo se voi uscirete vivi da questa... E, detto in tutta franchezza, non mi fido della via di fuga escogitata da te all’ultimo minuto. Quindi: o ci dici cos’è prima di partire, o non ci muoviamo.»
Chiharu gli rivolse una faccia di marmo. Si impose di contare fino a tre, arrivò almeno a sette, quindi inspirò a fondo.
«Piccola e boriosa testa di cazzo» esordì gelida. «La mia non è una via di fuga escogitata all’ultimo minuto, è la via di fuga suggerita dal Sesto Hokage. E se lui non ha detto cos’è, allora sono autorizzata a non spiegarti niente. Se hai problemi prepara un esposto scritto e presentalo al suo segretario.»
Akeru sentì il sangue che saliva alle guance. «Sì, beh, autorizzata un bel niente» mugugnò sotto lo sguardo esasperato di Kotaro, che ormai aveva gettato la spugna. «Ti ricordo che io sono un Anbu, l’élite di Konoha, e tecnicamente nella gerarchia...»
«Tu sei un ninja medico» troncò Chiharu. «Noi combattiamo. Se sei qui oggi è perché sei l’unico che riesca più o meno a collaborare, volente o nolente, quindi rispolvera le tue tecniche di lotta e non rompere. Devi solo seguirci. Ce la fai, vero?»
Kotaro fece una smorfia: umiliare Baka Akeru prima di iniziare non gli sembrava la mossa più intelligente.
«Chiharu...» mormorò infatti, sottovoce.
Lei gli scoccò un’occhiataccia. Non si sarebbe scusata. No. E comunque Stupido lavorava meglio quando lo insultavano, era appurato.
Akeru serrò i pugni e la fissò con rabbia. Oh, quanto sarebbe stato facile risponderle, lì su due piedi, e distruggerla con poche parole... Lui era un Anbu: aveva visto del mondo molto più di quello che Chiharu poteva anche solo immaginare, e soprattutto aveva visto di Konoha tutto quello che lei non aveva nemmeno la più vaga idea che esistesse. Sarebbe bastato un istante per farle capire quanto inferiore era rispetto a lui. Ma rimandò giù le parole, conservandole per un momento migliore - anche se gli costò uno sforzo notevole. Sapeva che quel momento sarebbe venuto, prima o poi, perché lo attendeva da cinque lunghi anni.
Kotaro sbuffò e tirò un calcio a un ciottolo, sentendo evaporare il sollievo provato all’idea che venisse Stupido e non Yoshi. Ma anche se tutti erano preda di un vortice di ribellione tardo-adolescenziale, qualcuno doveva riportare le cose alla normalità, no?
«Comunque per oggi non ci muoviamo» disse dunque in tono risoluto. «Domattina al cambio della guardia agiremo. Baka, cerca di riposare più che puoi nelle prossime ore.»
«Vado a dormire anche io» disse Chiharu cogliendo la palla al balzo.
«Va bene» grugnì Akeru rassegnato, lasciandole la sua piccola vittoria. Dopotutto era appurato che Chiharu lavorava meglio quando il suo ego era alle stelle.


*


L’aveva inseguita giorno e notte, braccata come una preda, circondata, messa in trappola, accerchiata; e ancora gli sfuggiva. Come un animale riusciva ad evitarlo, a fare finta di nulla, a nascondersi ai suoi occhi indagatori. L’aveva cercata a casa, al lavoro, le aveva fatto agguati lungo la strada, ma invano. Se c’era una sola persona al mondo che poteva schivare le tattiche di Naruto Uzumaki, quella persona era Sakura Uchiha, al secolo Haruno.
Eppure alla fine anche lei aveva commesso un passo falso. D’altronde era stata malvagiamente ingannata dal peggior cavallo di Troia che mente umana potesse cogitare. Come avrebbe potuto immaginarlo? Il piccolo Itachi che la avvicinò in cucina, chiedendo un biscotto con sorriso angelico, sembrava esattamente l’Itachi che era uscito dal suo ventre cinque anni prima. E quando all’improvviso esplose in una nuvoletta di fumo e si tramutò in un idiota biondo, ormai era troppo tardi.
«Naruto!» esclamò Sakura, al momento troppo sorpresa per arrabbiarsi.
«Presa!» esultò lui trionfante. «Adesso non puoi dire che hai altro da fare, o che ti chiamano, o che non mi hai visto! Sei in trappola!»
Sakura sentì il sangue salire alle guance, e nemmeno per un istante pensò che fosse colpa o imbarazzo: sapeva di per certo che era ribollente, vendicativa e assolutamente giustificata collera.
«Io ti ammazzo!» ringhiò serrando la mano a pugno.
«No! Sei in casa tua!» strillò Naruto, gettandosi al volo oltre il tavolo. «Sakura! Sakura, è roba tua! Non vuoi davvero spaccarla!»
«Come ti sei permesso? Hai preso le sembianze di mio figlio - mio figlio! E ti sei introdotto in casa mia!»
Sakura scattò attorno al tavolo e Naruto sgusciò rapido dall’altro lato.
«Ho dovuto farlo! Sakura! Sakura-chan, ti prego!»
«Vorrei dire che sei inqualificabile, ma sei anche peggio!»
Naruto si aggrappò al tavolo pensando freneticamente a quali kunai segnati avesse in giro per casa e se fosse possibile dislocarsi là prima di morire.
«Sakura! Dai! Lo sai che dobbiamo parlare!» la supplicò, sperando di farle sufficientemente pena.
Sakura si bloccò, strinse i denti ed espirò pesantemente, costringendosi a scaricare la tensione. Prima o poi sarebbe dovuto succedere, riconobbe. Con rabbia, allora, afferrò una sedia e ci si sedette bruscamente.
«Dimmi quello che devi e poi vattene» disse irosa.
Naruto sbatté le palpebre all’altro capo del tavolo. «Davvero?» balbettò incerto. «Non è un trucco? Non mi schiaccerai sotto il tavolo appena mi sarò seduto?»
Sakura lo fulminò con lo sguardo e lui si affrettò a gettarsi sulla prima sedia a tiro. Appoggiò le mani sul tavolo. Tossicchiò.
«Sì, ehm, dunque.»
Trovarsi seduti a parlarne era abbastanza disagevole. Nelle sue fantasie lui e Sakura discutevano come vecchi amici, magari davanti a una tazza di tè o al ramen Ichiraku. Qualunque problema avesse, lui le metteva una mano sulla spalla e lei si confidava. Probabilmente in quelle fantasie c’era una grossa parte del Naruto tredicenne innamorato di Sakura, ma era irrilevante. Calcolò ad occhio la lunghezza del tavolo e, prima di introdurre l’argomento, si chiese se stendendosi sul piano sarebbe riuscito a battere pacche confortanti sulla sua mano.
«Cosa sta succedendo tra te e Sasuke?» chiese facendosi coraggio.
Sakura strinse le mani l’una all’altra. «Niente...» mormorò, incapace di convincere persino sé stessa.
«Sakura-chan, io sarò un idiota, ma se anche quest’idiota ha capito che qualcosa non va allora è qualcosa di grosso» protestò lui quasi offeso. «Perché me ne vuoi tenere fuori? So che Sasuke è asociale quanto un calcio nei denti, ma pensavo che almeno tu... Insomma, noi siamo ancora il gruppo sette!»
Sakura si azzardò ad alzare gli occhi, ma vedendo l’espressione sicura di Naruto si sentì schiacciata e li riabbassò.
«Questa volta non è nulla che tu possa sistemare» sospirò, raddrizzando lentamente la schiena. «Sono problemi di coppia. Seri problemi di coppia. Non c’entrano niente con il gruppo sette.»
Naruto si accigliò. Problemi di coppia? La stessa coppia che era nata demolendo brutalmente la sua felicità? Quella coppia che, in un certo senso, aveva il dovere di essere ancor più felice?
«Cosa vuol dire ‘problemi di coppia’?»
Sakura evitò il suo sguardo. «Fraintendimenti. Nello specifico, io che sono un’idiota» spiegò sbrigativa. «Quindi, vedi, non è nulla per cui tu possa fare qualcosa.»
Naruto si grattò la nuca. Problemi di coppia, certo. Faccende private. Eppure loro erano ancora il gruppo sette: lui avrebbe dovuto essere l’ago che faceva tornare l’equilibrio se gli altri litigavano. Perché né Sakura né Sasuke si erano rivolti a lui? E perché sembravano tanto convinti che non avrebbe potuto fare nulla? Quasi come se del gruppo non fosse rimasto niente...
«Non so come stiano le cose, ma...» sussurrò, quasi a disagio. «Beh, sono sicuro che ci sia qualcosa che potete fare, giusto? Non può essere una faccenda seria. Dai, Sakura, tu e Sasuke... Lui è... E tu... Insomma, voi siete sempre...»
Tacque, sentendosi infinitamente idiota. Di solito riusciva a trovare le parole giuste, quelle che cambiavano le cose e le miglioravano; perché oggi non ci riusciva? Il fatto che il problema riguardasse Sasuke e Sakura aveva ancora il potere di paralizzarlo?
Non sentì Sakura ribattere, quindi giocherellò nervosamente con le proprie dita. Seduti nel silenzio entrambi rimasero fermi. La casa era deserta, loro erano deserti, e non potevano fare altro che ascoltare il tempo che scorreva, calpestando ogni cosa.
Naruto inspirò ed espirò lentamente, prima di parlare di nuovo.
«Devo dirti una cosa. Il momento è il più schifoso, me ne rendo conto, ma... Hitoshi sta tornando a casa.»


*


Dal punto in cui erano appostati, i tre shinobi vedevano chiaramente lo sperone di roccia dove Loria era tenuta prigioniera. La baracca ai piedi della montagna era silenziosa, ma da un’apertura nel tetto saliva una sottile spira di fumo. Venti metri più su, alla fine di un sentiero invisibile e aspro, la grotta in cui Loria era tenuta prigioniera si perdeva nell’oscurità del granito.
Dovevano essere vicini al cambio della guardia, avevano calcolato, e per questo decisero di attendere finché non avessero visto gli uomini scendere lungo la cengia. Avevano osservato le guardie per tutto il tempo in cui avevano aspettato Akeru, e avevano notato che prendevano il loro lavoro molto alla leggera: i turni si susseguivano con lieve irregolarità, senza troppe precauzioni; dall’ostaggio restava sempre un uomo, ma i sostituti non sputavano certo sangue prima di raggiungerlo. Probabilmente sei anni di routine avevano diffuso la convinzione che non sarebbe mai successo nulla.
Gli shinobi della Foglia non dovettero attendere molto: quando il sole andò a illuminare la base della grotta videro una delle guardie uscire sbadigliando. Chiharu fece un cenno veloce, e tutti e tre scattarono all’unisono. Scesero la scarpata che li aveva riparati fino a quel momento, sentendo il terriccio franare sotto i piedi e le foglie che frusciavano contro le braccia. Non si preoccuparono eccessivamente di essere silenziosi, quanto piuttosto di fare alla svelta: era di fondamentale importanza che agissero quando da Loria c’era solo un uomo.
Raggiunsero il tratto di terreno pianeggiante che separava i due costoni rocciosi e oltrepassarono il letto di un ruscello scavalcando il rigagnolo che lo attraversava. Muovendosi come un sol uomo si tuffarono nella vegetazione riarsa per proseguire carponi verso la capanna poco distante. Spiarono l’uomo di ritorno dalla grotta mentre rientrava chiedendo a gran voce del cibo, e quando fu fuori dalla vista loro emersero dal nascondiglio e si separarono con un cenno del capo.
Kotaro raggiunse l’ingresso della capanna scivolando sotto le aperture che servivano da finestre. Si acquattò accanto alla porta, tese l’orecchio; dentro gli uomini si scambiavano commenti, e si sentiva rumore di stoviglie. Il ragazzo prese un respiro profondo, guardando per l’ultima volta la grotta in cui tenevano Loria, infine sfilò due kunai dalla cintura e in un balzo attraversò la porta aperta.
Gli shinobi all’interno furono colti completamente di sorpresa, mentre erano immersi in un pasto freddo consumato attorno a un tavolo. In quel momento tre erano seduti e un altro era in piedi, pronto a sostituire nella grotta il compagno che era appena rientrato. Prima che potessero rendersi conto di essere stati attaccati un kunai si conficcò nella spalla di quello in piedi e Kotaro si lanciò in avanti per rovesciare il tavolo.
Nella capanna si scatenò il putiferio: le grida dell’uomo ferito si mescolarono al rumore dei piatti rovesciati e del legno che si spaccava. I tre shinobi che stavano mangiando reagirono armandosi dei coltelli caduti tutt’intorno, ma contemporaneamente Chiharu e Akeru entrarono dalle finestre per assalirli alle spalle. Nella concitazione Kotaro non riuscì mai a capire chi tirò fuori la carta-bomba, ma a un certo punto un’esplosione lo scaraventò contro una parete e gli fece sfondare il legno ormai vecchio, piombando di schiena nella polvere. Tossì, rotolando sul fianco, e vide che anche i nemici erano rimasti coinvolti: uno giaceva privo di sensi sui resti del tavolo rovesciato, gli altri si stavano rialzando. Di Chiharu e Akeru, però, non c’era alcuna traccia. Soltanto piccoli sbuffi di fumo dove le loro copie erano scomparse.
«Già a questo punto?» mormorò Kotaro distendendo le labbra in un sorriso. «Tre contro uno, eh!»

Alla fine del sentiero che si inerpicava su per il costone di roccia c’era un piccolo spiazzo di poco più ampio. Quando l’eco dell’esplosione raggiunse lo shinobi dentro la grotta quello cacciò fuori la testa per vedere cosa fosse successo, e per poco non scivolò giù dal dirupo per la sorpresa. D’istinto si voltò a guardare il prigioniero nascosto tra le ombre, poi di nuovo la capanna, finché un ciottolo non gli rimbalzò sulla spalla facendogli alzare lo sguardo.
Sopra il margine superiore dell’apertura, dove le assi di sostegno si incrociavano, incontrò lo sguardo sorpreso e un po’ stizzito di quella che aveva tutta l’apparenza di una kunoichi della foglia appena scivolata.
«Akeru!» chiamò Chiharu, balzando giù non appena vide le mani della guardia correre alla cintura.
Lui reagì in fretta, accanto a lei, e la coprì da una pioggia di shuriken intercettandoli con i propri. Lo shinobi della Roccia lanciò un’imprecazione di rabbia e intrecciò le dita in un serie di sigilli, ma Chiharu lo intrappolò nel controllo dell'ombra prima che la terminasse.
Akeru saltò giù e si chinò di scatto per evitare la fiammata della trappola che aveva innescato. Con la coda dell'occhio si accorse che tutt'attorno erano state sistemate pergamene-trappola più o meno mimetizzate. Si girò per avvisare Chiharu, ma in quel momento lei mosse un piede, lottando con i tentativi del nemico di liberarsi, e ne innescò un'altra.
Ci fu un'esplosione, e Chiharu fu sbalzata oltre il bordo del sentiero.
«No!» gridò Akeru, scagliandosi avanti per prenderla.
La afferrò per un braccio appena prima che si allontanasse dal suo raggio d'azione, e quando ricadde contro la parete sentì le ossa della spalla scricchiolare e i muscoli stirarsi dolorosamente. Chiharu sbatté contro la roccia con un gemito soffocato, svuotando i polmoni in un colpo solo. Akeru vide con la coda dell’occhio che il nemico si rialzava, lo vide estrarre il kunai e avventarsi su di lui.
«Tieniti!» gridò a Chiharu, mollandola di scatto, e si voltò per parare il colpo.
Chiharu perse per un attimo la concentrazione e sentì il chakra che non aderiva alla roccia. Scivolò forse per un paio di metri, lottando per riprendere fiato e dimenticare il dolore alle costole, quindi guardò su verso le sagome che spuntavano oltre il bordo, impegnate nel corpo a corpo. Ignorò i flash che andavano attenuandosi davanti agli occhi e si issò di nuovo fino al sentiero, ansante. Lasciò Akeru che ribaltava le posizioni con il ninja della Roccia, spingendolo schiena per bloccargli entrambe le braccia, e piegata per il dolore raggiunse la grotta.
La luce del mattino illuminava solo un brevissimo tratto dell’insenatura di pietra. La maggior parte dell’angusto spazio era immerso nell’oscurità e impregnato dell’odore del muschio. In un angolo, a terra, c’erano delle coperte dall’aria macilenta e una sagoma più scura.
«Loria?» ansimò Chiharu, entrando con cautela.
La sagoma nell’ombra si mosse impercettibilmente, ma non parlò.
«Siamo ninja di Konoha. Veniamo per conto di Suna» spiegò lei, avvicinandosi.
«...Vi manda Gaara?» chiese finalmente una voce, arrochita e sottile.
«Sì. Siamo qui per liberarti.»
Chiharu si inginocchiò sulle coperte stese a terra e sentì le rocce aguzze sotto le rotule, mentre le sue costole lanciavano lamenti di dolore. Cercò a tentoni le corde che tenevano Loria imprigionata e le trovò ai polsi e alle caviglie, non troppo strette ma nemmeno lente. Mentre le sue mani si muovevano su quel corpo buio ne sentì il gelo, la magrezza, l’atrofia dei muscoli troppo a lungo fermi. Sciolse i nodi che la assicuravano e le chiese se riusciva a reggersi in piedi. Loria provò ad alzarsi, ma con magri risultati. Chiharu la aiutò a farlo e iniziò a condurla verso l’uscita.
Non avevano ancora messo piede nel cono di luce dell’ingresso che le raggiunse la voce di Akeru, un grido allarmato che riecheggiò sulle pareti umide: «Fuori!»
Un istante dopo i bordi sfrangiati dell’apertura tremarono sotto la violenza di due esplosioni, e davanti agli occhi sgranati di Chiharu una frana andò a coprire la loro unica via di fuga, gettandole in un buio impenetrabile.

Akeru si affrettò a raggiungere l'ingresso crollato della grotta, scavando a mani nude tra i detriti che l'avevano chiusa. Aveva appena ridotto all'impotenza lo shinobi con cui stava lottando, che quello gli aveva sorriso e aveva sussurrato: «Bum.» Allora aveva capito che portare via Loria avrebbe innescato un'altra trappola, ma il suo avvertimento era arrivato tardi.
L’acciottolio dei sassi che cadevano si mescolò al suo respiro rapido e ai pensieri che gli si accavallavano in testa. La frana era solo esterna? O era crollato anche l’interno? Quanto era spesso lo strato di roccia? Kotaro? Quanto ancora avrebbe tenuto duro? E Chiharu... Chiharu, che in teoria lui odiava, che non avrebbe curato, Chiharu che lo guardava con disprezzo e che lo aveva rifiutato senza il minimo rimorso... Chiharu che forse non c’era più, e lui sperava soltanto di poterla curare, ora, perché non era vero che la odiava, perché non gli importava se l’aveva rifiutato e lo disprezzava, perché tanto era uno stupido, e non imparava mai.
«Fatti indietro...»
Akeru si bloccò all’improvviso. La polvere gli grattò la gola, acre. Forse non aveva davvero sentito quel che gli sembrava di aver sentito.
«Haru?» chiamò incredulo.
«Fatti indietro!» ripeté la voce attutita oltre le pietre, ora più forte.
Akeru si spostò lungo il sentiero, sentendosi improvvisamente stupido. Chiharu che c’era ancora, dopotutto, con la solita soluzione pronta e l’irritante senso di inferiorità che era in grado di instillare in chiunque. Chiharu che, in fin dei conti, odiava, e che probabilmente non avrebbe curato. Nonostante fosse incredibilmente sollevato di saperla viva.
La frana rimase immobile e muta per un lunghissimo istante. Poi i ciottoli più piccoli, sulla sua superficie, vibrarono. I frammenti più grandi si unirono ai loro sussulti, scivolarono verso il basso, e furono seguiti dai massi più pesanti che rotolarono oltre la scarpata. Lo shinobi della Roccia fu travolto dalla caduta di uno degli ultimi: scomparve oltre il bordo senza avere il tempo di fare un lamento.
La polvere si sollevò nell’aria, diradandosi quasi subito. Akeru aguzzò la vista per distinguere qualcosa tra le particelle grigie e vide una mano fare presa su un grosso masso.
«Chiharu!» esclamò raggiungendola. «Tutto bene?»
«Uno schifo» tossicchiò lei, issandosi fuori con gli occhi arrossati e le mani graffiate. «Ci è quasi caduto addosso, non ti dico la polvere... Si soffocava.»
Akeru si sporse nel tratto aperto tra l’esterno e la grotta e afferrò le braccia pallide che si protendevano in cerca di aiuto. Tirare fuori Loria richiese molta meno forza del previsto, dal momento che sembrava fatta d’aria, ma quando il sole la accecò e si accasciò addosso a lui fu evidente che avrebbero dovuto portarla in spalla per tutto il tempo. Akeru le gettò solo una veloce occhiata: aveva tra le braccia un fantasma dai capelli sbiaditi.
«Ci sei?» chiese Chiharu starnutendo.
«Sì, è fuori.»
Con una specie di sospiro Chiharu allontanò la mano che fino a quel momento aveva tenuto premuta sulla roccia. Come lo ebbe fatto i sassi che si mantenevano immobili al di sopra del passaggio precipitarono, e la fenditura fu ricoperta. Non usava molto spesso il chakra elementale, ma all’improvviso fu contenta che Naruto l’avesse tormentata perché imparasse qualche tecnica.
«Kotaro ci aspetta» ricordò, cercando di liberare la gola dalla polvere.
«Stai bene?» le chiese Akeru, incapace di nascondere la preoccupazione.
«Oh, per favore!» ribatté lei infastidita.
«Per favore cosa?»
«Per favore tutto!»
Stizzita, Chiharu scavalcò Akeru e toccò terra nonostante qualche difficoltà.
Stava bene? Probabilmente no. Come dire, aveva la leggera impressione di non essere molto abituata alle missioni in cui doveva faticare, e il suo cuore stava iniziando a farglielo notare... Ma qualunque accenno alla faccenda davanti a un ninja medico sarebbe stato un suicidio professionale: aveva avuto a che fare con quella specie di creature abbastanza a lungo per capire che non ragionavano come gli altri, che facevano di ogni erba un fascio. Quindi, prima che Akeru potesse ribattere, lo richiamò e fissò la scarpata che scendeva a valle.
«E’ fattibile?» chiese, accennando a Loria che guardava giù con gli occhi sgranati.
«No» troncò lui, teso. «Non con lei, si spezza al primo urto.»
Chiharu sfregò le dita sulla fronte e imprecò.
«Kakashi, maledizione...» mugugnò.
«Che?» replicò Akeru.
Chiharu sbuffò e sfilò dal marsupio un piccolo involto di carta di riso.
«Ricordi il mio famoso antidolorifico di cinque anni fa?» spiegò, estraendone una pillola verdastra del diametro di un centimetro. «Quello che poi era una droga?»
«Lophenaria? Quello che ti ha quasi fatto ammazzare?»
«Che ci ha salvato» puntualizzò lei. «Mio nonno e i suoi hanno studiato quella roba, questo è il risultato. E’ simile alle pillole degli Akimichi, o a quelle degli Inuzuka per i loro cani. Uno schifo, insomma. Ma ci porterà tutti a casa.»
Akeru la fissò confuso.
«Aspetta. Stai per prendere una pasticca di... droga?» esclamò poi, quasi strozzandosi.
«Appositamente trattata» minimizzò lei, cacciandosela in bocca. «E comunque non potrei fare altrimenti: è il nostro famoso cavallo segreto» aggiunse dopo un istante. E dentro di lei un pizzico di orgoglio si mescolò al dubbio: perché Kakashi le aveva sempre proibito di evocare quelle bestie, eppure ora lo aveva suggerito esplicitamente...
«Ma porca di quella...» imprecò Akeru, tentato di spingerla giù dalla scarpata. «Tra te e tuo nonno non so chi sia più deficiente!»
«Ehi» lo rimproverò Chiharu, guardandolo male. «E' di mio nonno che stai parlando, maleducato.»
Con una smorfia si morse il pollice.

Kotaro sentiva le fibre dei muscoli che tremavano per la fatica mentre atterrava un ninja della Roccia crollandogli addosso. Si strinse al nemico per impedirgli di coprirlo di pugni, gli prese la testa tra le mani e la sbatté a terra violentemente. Sentì un kunai contro la schiena appena in tempo per deviarlo rotolando, e con un calcio tentò di far cadere lo shinobi che lo aveva attaccato.
«Come puoi avere ancora fiato?» gridò quello finendo in ginocchio.
Kotaro si rialzò e si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Non lo spreco a lamentarmi» borbottò, stordendolo con un calcio.
Si guardò intorno ansimando. Un uomo giaceva poco distante, gli ultimi due a pochi passi; lo shinobi riverso sul tavolo non si era mai ripreso. Kotaro pensò che suo padre sarebbe stato fiero di lui, e al pensiero un sorriso gli distese i muscoli del volto. Ma insieme a quelli cedettero anche i muscoli delle gambe, e senza volerlo si trovò a terra con gli arti tremanti e un brutto senso di nausea. Sperando che la vista del cielo lo avrebbe aiutato a non svenire annaspò per girarsi sulla schiena, ma vide soltanto le nuvole vorticare sopra la sua testa. Oh, sapeva che era colpa sua; sapeva che tre contro uno e due porte del chakra potevano essere un’idea stupida... Ma era figlio di Rock Lee e discepolo di Naruto, non poteva fare nulla di diverso.
E fu così, mentre la vista gli si annebbiava, che il suo campo visivo fu invaso da una fiammata intensa e accecante, rossa come il fuoco. Due punti neri densi di intelligenza si pararono su di lui prima che iniziasse a cadere nell’oblio.
In quel modo, tra gli artigli di un uccello scarlatto e arancio, alla fine perse conoscenza.

Tra le ali del volatile Chiharu si aggrappava con forza alle penne della schiena. Si sporse verso i resti della baracca che si allontanavano mano a mano che risalivano.
«Ce l’abbiamo?» chiese sovrastando il fischio del vento, e prima che Akeru potesse sporgersi e rispondere fu preceduto dal richiamo acuto del loro cavallo, un enorme uccello rosso screziato d’arancio e porpora. Irrigiditosi, l’Anbu lo fissò con disappunto, quasi offeso.
«Lei sta bene?» chiese ancora Chiharu, voltandosi a malapena per gettare un’occhiata a Loria; la vide che si stringeva con tutte le poche forze alle penne scarlatte che frusciavano tutt’attorno, e vide Akeru che teneva una mano a coprirla nel caso in cui il vento l’avesse sbalzata via. Era un idiota, ma come medico dimostrava un po’ di buonsenso. E d’altronde, lei per prima aveva qualche serio problema con la cavalcatura.
«Tu come stai?» replicò Akeru scrutandola con aria di rimprovero; sembrava che non le avrebbe mai perdonato quella pasticca.
Lei finse di non sentire e si voltò. Si sforzò con tutta se stessa di sembrare calma e perfettamente in salute, anche se no, non stava bene, e non sarebbe stata meglio a breve. Nonostante la Lophenaria di Shikaku sentiva lo stomaco contratto e la testa pesante, ma soprattutto sentiva un peso in mezzo al petto. Un peso che conosceva, e che avrebbe dovuto ignorare fino all’atterraggio.
Quasi ad ammonirla, l’uccello sotto di lei tese i muscoli della schiena in maniera innaturale, e Chiharu, in risposta, si piegò sul suo collo così da non intralciarne la forma.
Il viaggio di ritorno sarebbe durato quindici lunghe ore.



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Capitolo 20
*** Ombre dal passato ***


Penne 20
Capitolo ventesimo

Ombre dal passato




Erano almeno dieci anni che Jiraya non metteva piede nell’Archivio Segreto della Foglia: scaffali e scaffali di documenti si inseguivano attraverso un grande stanzone spoglio rigurgitando fogli e reperti. Al di sopra del legno e del metallo alte pile di carta ingiallivano e subivano l’usura del tempo, illuminate in maniera irregolare dal fascio di luce di una torcia.
Scrutando la polvere che impregnava l’aria Jiraya sbadigliò e si grattò la nuca. Se anni prima non avesse fatto un duplicato delle chiavi dell’archivio, in quel momento si sarebbe trovato già a letto; purtroppo quel duplicato lo aveva fatto, e così facendo aveva rinunciato a ore di sonno e sogni poco casti.
Bighellonando tra le file di documenti, sbuffò come un cavallo ricordando i progetti per un libro che gli frullava in testa e non aveva a che fare con la serie della Pomiciata: “I segreti della rupe degli Hokage”. All’inizio aveva pensato a una storia contro corrente, l’amore illecito tra due Anbu nel mezzo di una difficile missione di salvataggio, poi aveva scoperto che lo yaoi lo turbava e si era orientato sulla storia di una giovane e procace Hokage che seduce il suo segretario. Purtroppo una vicenda simile esisteva davvero negli annali di Konoha – sebbene riguardasse una kunoichi della squadra medica – e se voleva evitare la censura e scrivere un’opera davvero originale aveva bisogno di conoscere la vicenda nel dettaglio. Ovviamente fare richiesta esplicita era fuori discussione – il nome di quella donna era stato relegato nell’angolino delle personalità sgradite, a nessuno piaceva l’idea che qualcuno lo spolverasse – ma uno scrittore serio non si lascia fermare da sciocchezze simili: poco prima dell’alba, dunque, si era infiltrato nel palazzo dell’Hokage e aveva dato il via all’incursione.
A rigor di logica i documenti risalenti alla vicenda dovevano trovarsi nella zona più lontana, quella riservata al materiale segreto. Attraversò lo stanzone per tutta la lunghezza, ignorando anni e anni di storia e tradizione, e raggiunse un archivio che sembrava scoppiare di materiale; Konoha aveva molti scheletri nell’armadio, pareva.
Jiraya aprì il primo cassetto fischiettando. Spulciò qualche foglio, captò qualche ordine di omicidio, un paio di irregolarità del terzo Hokage, verbali delle sedute segrete del Consiglio... Cose che, nella maggior parte dei casi, conosceva o immaginava. Richiuse il cassetto – troppo serio per contenere scandali sessuali – e aprì quello accanto. Era forse l’unico angolo ordinato dell’archivio, scoprì con stupore: pieno di pergamene arrotolate e con qualche sigillo gettato alla rinfusa, conservava ancora una certa dignità. Incuriosito, Jiraya prese un rotolo e lo aprì; si trattava di un antico trattato con le altre grandi Terre, all’epoca della fondazione: stabiliva confini e diritti, ma, a quanto pareva, non era stato molto rispettato. Lo rimise via, dando un’occhiata a un medaglione di legno consunto e bruciacchiato – probabilmente un sigillo contro il fuoco che non aveva resistito alle vicende di Kyuubi – quindi adocchiò una pergamena che sembrava nuova, e aprendola scoprì con stupore che conteneva le istruzioni per il Rasenshuriken. Si chiese come, quando o perché Naruto l’avesse fatta – chi lo avesse aiutato, più che altro – e fu tentato di sbirciarla più a fondo...Ma si ricordò che era vecchio. Troppo vecchio per cose come nuove tecniche. Rimise giù il foglio con un sospiro e un pensiero per Tsunade. Si disse che forse tanto impegno era vano, per un libro che non sapeva nemmeno se avrebbe finito... Poi sorrise.
Vecchio sì; morto non ancora.
Prima di richiudere il cassetto e tornare alle sue ricerche si concesse un ultimo istante di curiosità: afferrò la pergamena più usurata, forse perché gli sembrava che avessero qualcosa in comune, e ne sciolse con delicatezza i sigilli; la aprì, scrutandola con sguardo gentile, e ne riconobbe le caratteristiche. Si accigliò impercettibilmente, poi si stupì, infine corse lungo la carta con lo sguardo... Quando arrivò in fondo, sgranò gli occhi.
Il penultimo di una breve lista di nomi era quello di Chiharu Nara.


Le notti di Konoha erano ancora fresche, nonostante fosse ormai pieno maggio. Le finestre delle case erano serrate e buie, la luna faceva capolino dietro una nube biancastra e c’era una brezza leggera nell’aria, un venticello già tiepido che spirava da ovest e sapeva di sabbia.
Sasuke era ancora nel suo studio nonostante l’orologio segnasse quasi mezzanotte. Come sempre il lavoro si protraeva fino a tardi, generalmente fino al momento in cui era certo che Sakura dormisse. I fogli sulla scrivania lo guardavano con rimprovero, ci avrebbe giurato. Soffocò uno sbadiglio e inconsciamente si massaggiò il collo nel punto in cui il Sigillo di Orochimaru formicolava. Cercava di non pensarci, ma era inevitabile che accadesse. Ogni tanto si chiedeva ‘cosa sto facendo?’. Si guardava allo specchio e si riconosceva colpevole, ma distoglieva lo sguardo prima che le ferite lasciassero il segno.
Firmò annoiato l’ennesima relazione sui confini, dove, tra l’altro, non succedeva niente di interessante per la polizia. Tese la mano verso il secondo plico della serata, pronto a continuare fino a che le palpebre non fossero crollate sugli occhi, quando qualcuno bussò alla porta.
Sasuke si bloccò. Guardò l’orologio, verificò che effettivamente era mezzanotte, e poi, perplesso, diede il permesso di entrare.
«Chiedo scusa» annunciò uno dei ragazzi che stavano al piano di sotto, lottando per non sbadigliargli in faccia. «Pare che ci sia una grossa, grossa emergenza.»
Sasuke drizzò la schiena. Il ragazzo si fece da parte con espressione vagamente annoiata, lasciando passare un vecchio dal naso rubizzo e la camminata sbilenca.
«Chi è lei?» chiese Sasuke.
«Piano con le parole, sbarbato» bofonchiò quello in risposta, studiandolo con uno sguardo particolarmente acido. «E’ questo il modo di trattare un cittadino che paga regolarmente le tasse?»
Sasuke sbatté le palpebre e fece un cenno al ragazzo, che lo lasciò per tornare a sonnecchiare sulla sua sedia. A quel punto assottigliò gli occhi e fissò attentamente il vecchio prima di parlare.
«Che diavolo vuoi, Naruto?»
L’uomo sussultò impercettibilmente; con lo sguardo di un animale braccato si avvicinò alla sedia e ci si sedette, lentamente, senza fretta. Scrutò il capo della polizia di Konoha - il giovane e affascinante Uchiha per cui tutte avrebbero venduto la nonna se solo non fosse stato sposato - infine sbuffò sonoramente.
«Come mi hai riconosciuto, teme?» disse tornando alla sua forma normale con un pop attutito: i capelli biondi sembrarono esplodere sulla pelata del vecchio, i lineamenti tornarono giovani all’improvviso, gli abiti cambiarono in un esplosione di arancio.
«Dopo trent’anni che mi giri attorno?» replicò Sasuke stizzito. «Ormai ti riconosco dall’odore» Senza farsi notare Naruto si annusò discretamente. Sapeva di ramen. «Per non parlare del mio sharingan, idiota. Cosa vuoi a quest’ora?»
«A quest’ora? Sarei arrivato anche prima del tramonto, se i tuoi uomini non si rifiutassero categoricamente di farmi passare!»
Sasuke fece mente locale. Qualche mese prima, in effetti, dato che Naruto aveva preso l’irritante abitudine di passarlo a trovare ogni volta che aveva un attimo libero, forse aveva dato un ordine che suonava molto come: ‘voglio Naruto Uzumaki fuori dai piedi. Ad ogni costo’. Ecco perché il dipartimento era così tranquillo, ultimamente.
«Comunque lo sai perché sono qui» riprese Naruto, dopo aver aspettato invano delle scuse.
Sasuke lo fissò vacuo. «Francamente no.»
«Sì che lo sai!» Naruto scattò in piedi e premette le mani sulla scrivania, indeciso se infuriarsi con l’idiozia di Sasuke o con la propria cocciutaggine. «Tu e Sakura! Sakura e te!»
Sulla fronte di Sasuke si disegnò una piccola ruga.
«Hai parlato con Sakura?» indagò.
«Sì!»
«Allora perché sei qui?»
«Perché... Perché...»
«Perché lei non ha parlato» con un mezzo sospiro, Sasuke abbassò lo sguardo sui suoi fogli, rilassandosi impercettibilmente. «Cosa ti fa pensare che io invece lo farò?»
Naruto si lasciò cadere di nuovo sulla sedia. «Stronzo.»
L’Uchiha gli rivolse a malapena un’occhiata sdegnosa.
«Comunque non sono qui solo per questo!» riprese l’Uzumaki dopo un attimo. «Sono qui perché ho anche un’importante informazione da darti in quanto Hokage della Foglia.»
«Io o tu?»
«Io o tu cosa?»
«Io o tu Hokage?»
Un muscolo guizzò d’irritazione sulla guancia di Naruto, mentre Sasuke lo fissava di sottecchi.
«Che hai da ghignare, eh?» ringhiò Naruto. «Io Hokage, ovviamente. Tu mi assisti, ti ricordo. Mi assisti!»
Sasuke sbuffò sfogliando distrattamente i documenti sulla scrivania. «Allora, che vuoi?»
Naruto strinse gli occhi, vicino all’esasperazione. «Avvisarti che tuo figlio sta tornando a casa.»
Sasuke alzò la testa bruscamente. «Hitoshi?»
«Hai altri figli in missione?»
«Di che diavolo stai parlando?»
Naruto sbuffò. «Le solite emicranie... Ci è arrivato un messaggio di Chiharu in cui chiedeva di sostituirlo. Pare che non ce la facesse.»
«In che senso non ce la faceva?» insisté Sasuke.
«Ci vedeva doppio, barcollava, magari piangeva, che ne so? Mi fido del giudizio di Chiharu, e conoscendo Hitoshi doveva stare davvero male per non opporsi.»
Sasuke abbassò lo sguardo, colto alla sprovvista. Hitoshi rientrava dalla missione, rispedito a casa perché incapace di portarla a termine. Hitoshi, che non aveva lo sharingan, era anche il primo Uchiha che veniva rimandato indietro. Un fallimento completo.
«Maledizione...» mormorò, passandosi una mano sulla fronte.
«Ehi» mormorò Naruto, scrutandolo torvo. «Sei arrabbiato per quale motivo, precisamente?»
Sasuke gli gettò un’occhiata rapida e cupa.
«Sei arrabbiato perché torna a casa o perché sta male?» insisté Naruto, implacabile.
«Non sono fatti tuoi.»
«Sì che lo sono: Hitoshi è uno dei miei ragazzi, e tu... tu sei sempre tu.»
Scese il silenzio.
Sasuke si passò le mani sul viso, di nuovo, interrogandosi a fondo. Poi sbuffò e si lasciò andare contro lo schienale della sedia imbottita. «Quando arriva?»
«Non lo so. Sakura ha detto che si terrà sempre pronta.»
Quindi non c’era speranza di vederla addormentata.
«Va bene. Grazie per avermelo detto. Puoi andare, Naruto.»
Naruto sbuffò, alzandosi di malavoglia dalla sedia.
«Guarda che Hitoshi è più scemo di te, lo sai?» borbottò sottovoce. «Attento a quello che combini...»
Sasuke non sentì nemmeno il rumore della porta che si chiudeva. Quando appoggiò i gomiti alla scrivania e si prese la testa tra le mani il vero significato delle parole di Naruto andò a riempirgli i timpani come un avvertimento, serrandogli il cuore in una morsa d’acciaio.
Hitoshi è più fragile di quanto fossi tu alla sua età... Ancora più fragile di quel ragazzo che voleva morire perché non aveva uno scopo.
E il sigillo maledetto bruciava, bruciava, bruciava...


Naruto rientrò a casa borbottando imprecazioni tra i denti. Hinata, che sapeva da dove veniva, scese dal letto per chiedergli com’era andata con Sasuke, ma già al primo sguardo intuì che non sarebbe stata una domanda saggia.
«Con i genitori che si ritrova, ci credo che Hitoshi è venuto fuori così storto!» sbottò lui infatti, gettando la casacca in un angolo del pavimento.
«Almeno sei riuscito a incontrarlo, finalmente» tentò di mediare lei.
«Avrei fatto meno fatica e avrei ottenuto di più se avessi organizzato un incontro diplomatico con il Daimyo della Roccia!»
«Ha reagito così male?»
Naruto sbuffò e si lasciò cadere seduto sul letto. «Non ho cavato un ragno dal buco. Hitoshi sta rientrando e il suo ego sarà a pezzi, ma quell’idiota di suo padre è lì che rimugina su quanto Fugaku dovrà lavorare per cancellare l’onta sull’onore di famiglia!»
«Questo mi sembra eccessivo...»
«Ah, scommetto che è proprio quello che gli passa per la testa, invece!»
«Naruto, così svegli i ragazzi.»
Naruto incassò la testa tra le spalle mentre Hinata gli si sedeva accanto. «E poi... c’è un’altra cosa» mormorò giocherellando con le mani. «Tra Sakura e Sasuke sta succedendo qualcosa. Non so che cosa e nessuno di loro vuole parlarne, ma sento che qualcosa non va. Insomma, noi siamo il gruppo sette... In questi casi dovrei essere io a rimettere a posto le cose tra loro, no?»
«Forse tu sei l’unico a pensare di essere ancora in tre» suggerì Hinata sottovoce. «Intendo... Sono passati molti anni Naruto: Sakura e Sasuke non sono più compagni, ma una famiglia. E anche tu hai una tua famiglia, ora.»
Naruto avvertì una leggera nota di rimprovero, ma non alzò lo sguardo. Hinata non avrebbe mai potuto capire cosa aveva rappresentato per lui il gruppo sette, perché era cresciuta circondata da una famiglia; opprimente, asfissiante, ma sempre una famiglia. Naruto invece aveva passato quasi metà della sua vita ad aggrapparsi spasmodicamente a Sasuke e Sakura, e adesso che si vedeva escluso dai loro problemi si sentiva di nuovo come quando aveva otto anni. Sospirò, passandosi una mano tra i capelli.
«Sai che per me anche Hitoshi, Chiharu e Kotaro fanno parte della famiglia» disse. «Se Sasuke mi devasta Hitoshi ho il dovere morale di prenderlo a cazzotti.»
Hinata sorrise e fece scivolare una mano sulle sue. «Oppure puoi concentrarti su Hitoshi e dimostrare a Sasuke che vale molto più di quel che pensa.»
«Alzare l’autostima a un Uchiha? E’ più facile che Jiraya si faccia monaco!»
«Se c’è qualcuno che può farlo, quella persona sei tu.»
Naruto aprì la bocca per ribattere, ma si bloccò: c’era del buon senso nelle parole di Hinata... Non era possibile convincere Sasuke che una persona valesse qualcosa anche senza uno straccio di tecnica oculare, ma era possibile – forse – fare qualcosa per Hitoshi. Il ragazzo non era vecchio e cocciuto come il padre.
«In effetti qualcosa potrei provare a farla...» mormorò meditabondo. «Certo, ammesso che Hitoshi non sia moribondo come dice Chiharu.»
Hinata si fece indietro sorridendo, e lo lasciò a rimuginare sul bordo del letto. Magari avrebbe passato la notte a dormire male e sentire il materasso che si muoveva, ma il giorno dopo Naruto l’avrebbe svegliata annunciandole di avere un infallibile piano di battaglia, ne era certa. Era anche per questo che lo amava. Con delicatezza, dunque, gli sfiorò la spalla gentilmente e scivolò silenziosa sulla sua parte di materasso.


*


Jin aveva la chiara percezione che le cose non stavano andando nel modo giusto.
Il viaggio di ritorno con sua madre - madre, che parola strana e potente sulle sue labbra! - sarebbe dovuto essere pieno di discorsi, aneddoti sul passato, momenti di imbarazzato affetto e, perché no, di intimità tra Kakashi e Haruka. Invece non stava accadendo nulla di tutto ciò. Anzi, viaggiare con i suoi genitori finalmente riuniti aveva la pesantezza di una scorta militare, forse peggio.
Per tutto il giorno e la notte precedente avevano costeggiato il percorso secondario individuato da Kakashi, restando nascosti nel bosco. Camminare si era rivelato difficile come aveva previsto Haruka, perché tutto il terreno libero dagli alberi era invaso da cespugli, erbacce e arbusti spinosi, quindi avevano impiegato più tempo di quanto immaginassero. Poco dopo mezzogiorno erano stati costretti a fermarsi nel mezzo del nulla, ricavando scomodi giacigli dalle contorsioni per stendersi tra un albero e l’altro. Kakashi aveva fatto il primo turno di guardia e Jin il secondo, ma Haruka non ne era stata felice: sembrava offesa da una mancanza di fiducia così plateale. Jin pensò che fosse per quello che non gli dava più confidenza, dopo l’accenno di discorso del giorno prima.
Al risveglio erano stati meno cauti e nelle ore buie avevano approfittato del sentiero. Si erano dovuti nascondere un paio di volte grazie alle provvidenziali segnalazioni di un cane mandato in avanscoperta, ma non c’erano stati incidenti. Solo una volta avevano davvero temuto, e cioè quando per poco non erano stati sorpresi da un cavaliere che veniva galoppando dalle loro spalle. Era passato proprio davanti ai loro nascondigli nel sottobosco, e avevano potuto vedere che indossava la divisa dei mercenari.
«Il corriere con le nostre descrizioni» disse Haruka.
Dopo il passaggio dell’uomo a cavallo avevano cercato un luogo più riparato per riposare e si erano sistemati sul fondo di una piccola scarpata franata di recente, libera da rovi e tronchi. Lo spazio era a malapena sufficiente per far dormire due persone, ma di nuovo Kakashi stabilì due turni di guardia e risolse il problema. Per trovarsene subito di fronte un altro.
«E’ un’idiozia» sbottò Haruka. «Abbiamo tutti bisogno di dormire, se faccio un turno anche io guadagniamo ore di sonno.»
«No» rispose Kakashi, e Jin riconobbe il tono di comando che di solito aveva il potere di farlo ammutolire. Evidentemente non aveva lo stesso effetto su tutti, perché Haruka invece non si zittì.
«Perché dovrei tradirvi adesso?» ribatté. «Tanto valeva consegnarvi al capo dei mercenari quando eravamo ancora nel palazzo!»
Obiezione sensata, tono secco privo di esitazioni, sguardo puntato su di lui. Tutto lasciava intendere che Haruka fosse sincera, ma tredici anni di finta morte non si dimenticano in due giorni.
«Ho fatto giurare a Jin di obbedirmi ciecamente finché non fossimo tornati a Konoha, tu non avrai un trattamento diverso» replicò Kakashi estraendo dallo zaino l’ultima confezione di stufato in scatola. «Non mi metterò a interrogarti mentre siamo in territorio nemico, ma non chiedermi più di questo. Conosci l'alternativa. Più tardi dovremo trovare qualcosa da mangiare» annunciò per chiudere la discussione, mostrando la lattina di zuppa.
Haruka non disse nulla, ma si sedette rigidamente a terra e si passò una mano tra i capelli con gesto frustrato. Doveva parlare a Kakashi: non potevano andare avanti così, se speravano di arrivare vivi a Konoha. Dovevano collaborare, dovevano fidarsi l’uno dell’altro. Lui doveva fidarsi di lei.
Mangiarono lo stufato freddo e bevvero con parsimonia dalle borracce. Jin era incaricato del primo turno di guardia. Dopo mangiato controllò i kunai e gli shuriken, si infilò in tasca un paio di carta bombe e poi risalì la scarpata per trovare un punto d’osservazione.
Kakashi e Haruka si sistemarono sui giacigli di foglie che avevano creato in fondo al dislivello. Dal terreno saliva la fredda umidità del sottobosco e un odore non sgradevole di muschio e humus. La foresta attorno a loro brulicava di crepitii e sussurri, il cielo era oscurato dalle fronde che li avvolgevano come una cupola. I due shinobi posavano la testa sugli zaini, Haruka su quello di Jin; se si concentrava poteva immaginare di sentire sotto l’orecchio il fruscio della fotografia che lui aveva conservato per tutti quegli anni.
Cosa sapeva Jin di lei? Cosa gli era stato detto? Aveva colto un accenno a Natsumi, la sorella che aveva lasciato bambina e ora ritrovava donna, ma cosa poteva aver raccontato? E Kakashi? Aveva permesso che tutti la credessero in missione nel Paese delle Risaie, ma a Jin cosa aveva detto? Non poteva rischiare di comunicare di nuovo con il ragazzino senza saperlo.
«Kakashi, ho bisogno di parlarti» sussurrò contro lo zaino, tendendo poi le orecchie per captare i movimenti di Jin.
«Penso sia più saggio varcare il confine prima di farlo» rispose Kakashi con voce a malapena udibile. Il suo tono era distaccato.
Haruka ignorò la sua obiezione. «Cosa hai raccontato di me a Jin?»
Silenzio.
Non gli aveva raccontato niente, questa era la triste verità. Aveva fatto tutto Natsumi, peraltro contro il suo volere.
«Ho raccontato quello che tutti sapevano» rispose vago. «Che eri in missione nel Pese delle Risaie.»
«Prima, intendo. Si ricorda del periodo in cui non eravate insieme?»
«Credo di no...» la voce di Kakashi si fece esitante. Avrebbe voluto essere duro e troncare il discorso, ma la sensazione di essere nel giusto che lo aveva riempito fino a poco prima era venuta improvvisamente a mancare. «Sa di non essere nato a Konoha, perché il Villaggio mormora, ma non gli ho mai chiesto se ricordasse qualcosa di prima.»
«Gli hai detto di quell’uomo? Del mio messaggio, del...»
«Come avrei potuto?» scattò Kakashi. «Avevo solo un biglietto con un nome sconosciuto, una tomba che poteva anche essere falsa e un bambino spuntato dal nulla. Come gli avrei spiegato che non ero nemmeno sicuro che fosse mio figlio? O tuo, se per questo...»
«Cos’altro avrei dovuto fare?»
Kakashi fece un movimento brusco. «Tornare! Spiegare, spiegarmi... Tsunade ti credeva una traditrice» sussurrò rabbioso. «Anche io ho iniziato a crederlo a un certo punto: ti sei rifatta viva soltanto per lasciarmi Jin e farmi trovare un'altra tomba, dimmi cosa avrei dovuto pensare!»
Haruka tacque. Sarebbe stato semplice dire che era convinta di lavorare per la Foglia, che era sicura che lui lo avesse saputo una volta diventato Hokage... Ma l’ignoranza non era una scusa. Non per Kakashi, glielo aveva fatto capire chiaramente in quel tunnel.
«Sai che ho fatto quel che ho potuto» mormorò, lo stomaco stretto dal rimorso. «Tu non hai avuto mie notizie per dodici anni, ma io non ho visto crescere mio figlio.»
Questa volta fu Kakashi a rimanere senza una risposta. Riconobbe che era vero: sapeva come funzionavano le missioni sotto copertura e immaginava che la Radice non fosse stata entusiasta della gravidanza di Haruka. Jin sarebbe potuto semplicemente scomparire nel nulla se lei avesse chiesto ai suoi superiori di metterla in contatto con lui.
«Non ti è venuto nessun dubbio quando non hanno interrotto la missione, sapendoti incinta?» domandò, troppo arrabbiato per darle comprensione.
Haruka serrò le labbra e rispose dopo una pausa. «Non lo sapevano.»
«Non è possibile.»
«Sì che è possibile. Non volevo che lo sapessero. Sarebbe stato... sarebbe stato disonorevole tornare a casa dopo pochi mesi. La mia famiglia non mi ha educata così. Noi abbiamo sempre messo la missione al primo posto.»
Kakashi ricordò la storia dei Muto e di come si erano infiltrati all'estero in blocco, trasformandosi tutti in spie di Konoha.
«Ma non si può nascondere una gravidanza» protestò, incapace di comprendere il suo ragionamento.
«Nascondere una gravidanza è abbastanza semplice, in realtà. Incontri in luoghi oscuri, mantelli ampi... Nascondere un bambino è molto più complicato. Quando Jin è nato ho capito che non avrei potuto tenerlo» Haruka si interruppe per un attimo, quasi esitante. «Speravo che avresti capito. La missione, il mio compito... Credevo che la Radice fosse un organo autorizzato, che il Quinto Hokage, vedendoti tornare con Jin, ti avrebbe spiegato dov'ero e perché. Non vedendo arrivare risposte ho pensato che avessi capito, che mi stessi approvando.»
Kakashi si morse la lingua per non ribattere. Avrebbe voluto gridarle che non poteva davvero aspettarsi comprensivo silenzio da un uomo che si era appena visto recapitare un figlio di un anno, ma si costrinse a tacere perché non avrebbe saputo controllarsi.
«Naturalmente i miei superiori nella Radice mi hanno chiesto di Jin, quando sei tornato al Villaggio con lui» riprese Haruka in tono sbrigativo. «Adesso capisco che temevano che ti avessi contattato, ma all'epoca la mia unica preoccupazione era che non mi rimandassero a Konoha. Così mi sono mostrata stupefatta ma comprensiva, gli ho raccontato che per la mia missione era un sacrificio sopportabile e sono andata avanti. Non avevano nulla che collegasse Jin a me, e anche se avessero sospettato... Beh, pensavo che avrebbero apprezzato il mio sacrificio in nome della missione. Non avrei mai immaginato che avrebbero cercato di uccidermi, a un certo punto.»
Kakashi serrò i pugni. C'era qualcosa di distorto nel modo di pensare di Haruka, qualcosa che Tsunade aveva cercato di eradicare da Konoha vent'anni prima: il mondo in cui vivevano non poteva essere così oscuro e perverso. Erano shinobi, vero, ma non per questo dovevano rinunciare alla loro umanità. Non erano, non dovevano essere soltanto strumenti nelle mani del potere. Il mondo buio in cui viveva Haruka era quello che Danzo aveva sognato di creare per il suo esercito personale, lo stesso mondo in cui Sai era cresciuto e che Tsunade aveva combattuto ferocemente. Ma lui non era riuscito a tirarne fuori Haruka, anche se lo aveva creduto: lei continuava a strisciare tra le ombre, e con lei chissà quanti altri, corrotti dalla filosofia distorta della Radice.
«Avresti dovuto sapere di Danzo» disse, quasi arrabbiato. «Non avresti dovuto essere così ingenua...»
«Ti ho detto che...»
«Avresti dovuto parlarmene!» esclamò, incurante del volume della voce. «Se mi avessi detto una parola, soltanto una parola non sarebbe successo niente di tutto questo! Non ti avrei vista morire, non saresti sparita per tredici anni, non avrei dovuto trascinare Jin in territorio nemico per venire a riprenderti!»
«Infatti non avresti dovuto!» sbottò Haruka, che credeva di avere buone giustificazioni ed era stufa di passare per l'unica stupida.
«Tu non sai niente di Jin!» ribatté Kakashi. «Non lo conosci, non sai del suo diploma a sette anni né del livello delle sue missioni! Non sai quanto io abbia provato a tenerlo fuori da questa storia!»
«Diploma a sette anni?»
Kakashi si passò una mano sulla fronte e costrinse il suo cuore a rallentare. Avevano alzato troppo i toni; così rischiavano di farsi sentire non solo da Jin, ma da chiunque nel raggio di qualche centinaio di metri.
«Io ho cresciuto Jin» mormorò con voce roca. «L’ho cresciuto senza nemmeno sapere se fosse davvero figlio mio, e l’ho cresciuto da solo, credendoti morta eroicamente e non rintanata nella peggior feccia di Konoha. Non pensare di poter sindacare sulle mie scelte solo perché pensavi che stessimo seguendo la sua crescita insieme!»
«E tu non pensare di potermi escludere dalla sua vita perché non sono riuscita a seguirlo» rispose Haruka ferita, tagliente. «Che ti piaccia o no, resto sempre sua madre.»
Le due voci si acquietarono, ritirandosi nei propri pensieri accusatori.
Poche parole in dieci anni, troppe in dieci minuti. Nessuno dei due intendeva davvero quel che aveva detto, ma parlarne in territorio ostile, stanchi e inseguiti non fu l’idea migliore di quella missione.
Senza che Haruka né Kakashi se ne accorgessero, Jin si acquattò in cima alla scarpata e premette la guancia contro uno strato di muschio freddo. Sentiva il cuore battere in gola, il sangue ronzare nelle orecchie.
Come gli avrei spiegato che non ero nemmeno sicuro che fosse mio figlio? O tuo, se per questo... Tsunade ti credeva una traditrice. Anche io ho iniziato a crederlo a un certo punto: ti sei rifatta viva soltanto per lasciarmi Jin e farmi trovare un'altra tomba, dimmi cosa avrei dovuto pensare!
Jin sarebbe stato molto maturo anche se avesse avuto trent’anni. Capiva che nella vita c’erano cose che una volta fatte o dette non si potevano ritirare. Capiva che non sarebbero bastate le scuse di Haruka né che Kakashi ritirasse le sue accuse perché le cose magicamente si sistemassero. Capiva tutto questo, ogni singola e minuscola implicazione, capiva che nessuno aveva ragione e che entrambi erano feriti e non sapevano come comportarsi. Lo capiva benissimo, sì.
Ma i suoi dodici anni, dal fondo dello stomaco, gridavano con tutta la loro forza che sua madre era tornata, e che suo padre, anche se era suo padre, non aveva alcun diritto di trattarla in quel modo. Perché lui l’aveva sognata, per giorni, mesi e anni, l’aveva immaginata e idealizzata, e ora non era possibile che quel padre che non l’aveva mai trovata, che non gli aveva mai parlato di lei, che non era nemmeno mai stato sicuro di essere davvero suo padre, non era possibile che quel padre vigliacco le desse tutta la colpa. Non era ammissibile.
E avrebbe avuto delle conseguenze.







* * *

Capitolo spaventosamente difficile.
Odio aver ripescato Danzo.
Spero di essere riuscita a farvi capire
cosa c'è nella testa (malata) di Haruka,
ma non ne sono mica sicura.

Grazie a tutti voi che leggete e a chi mi lascia un'opinione.


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Capitolo 21
*** Il ritorno dei fantasmi ***


Penne 21
24/02/2016
Capitolo ventunesimo

Il ritorno dei fantasmi




A Suna l’aria non era mai fresca, di notte come di giorno. Se a Konoha il profumo dell’estate era ancora una brezza impercettibile, nel Villaggio della Sabbia era già l’acre odore della polvere misto al rumore dei grilli e al ronzio dei condizionatori.
Gaara era avvezzo ai rumori della notte praticamente da sempre. Anche dopo la scomparsa di Shukaku l’insonnia per lui era stata una compagna inseparabile, probabilmente ridotta a normale ciclo sonno-veglia da anni e anni di abitudine. Non soffriva particolarmente la mancanza di sonno, ma da quando aveva iniziato ad avere rapporti con le altre persone provava dispiacere nel passare tante ore da solo: con l’arrivo di Loria le cose erano cambiate, perché averla accanto e sentirla respirare al suo fianco era confortante come una ninnananna, ma quando la Roccia l’aveva portata via le notti erano tornate tristi e solitarie.
Quella notte, finalmente, lei sarebbe tornata.
Fermo sulla cima del palazzo dell’Hokage, Gaara scrutava il cielo punteggiato di stelle opache. Poche decine di minuti prima un uccellino rosso era sfrecciato davanti alla sua finestra con un messaggio di Chiharu, e adesso lui li attendeva cercando di distinguerli nonostante la foschia.
Cosa le avrebbe detto? E lei cosa gli avrebbe detto? Come l’avrebbe vista, cosa le avevano fatto, era arrabbiata con lui? Sei anni erano un tempo enorme... Sei anni che lei aveva passato rinchiusa, per colpa sua. Se non fosse stata la segretaria del Kazekage non le sarebbe accaduto nulla, lo sapeva lui, lo sapevano quelli della Roccia e lo sapeva anche lei. Aveva avuto fin troppo tempo per covare rancore nei suoi confronti, e lui ne aveva avuto altrettanto per coltivare il senso di colpa. Ma al di là di tutto, tra senso di colpa e rancore, cosa sopravviveva dell’amore di una volta? Era quella la domanda che davvero lo turbava. Gaara sentiva i palmi delle mani sudare e il cuore battere giù nello stomaco.
Una sagoma scura emerse dalla foschia, spostando una nube di vapore e polvere, stagliata nel riquadro di cielo limpido al di sopra del palazzo. Da lontano non sembrava tanto imponente, ma quando fu abbastanza vicina da essere paragonata agli edifici circostanti si dimostrò di dimensioni ragguardevoli, tanto che ogni colpo di coda dava origine a un risucchio incredibilmente sonoro. La luna illuminava ogni cosa con la nitidezza di un piccolo sole bluastro. L’uccello era enorme, molto più grande di qualunque altro Gaara avesse visto prima. Aveva una forma affusolata, con un collo lungo e mobile che sorreggeva la testa dal becco affilato. Gli occhi erano neri, grossi come i pugni chiusi di un uomo e privi di ciglia, le zampe spesse come un tronco giovane, dotate di artigli lunghi una spanna. Nonostante l’incredibile apertura alare, che al massimo dell’estensione copriva alcuni metri, il dettaglio che più colpiva dell’animale era senza dubbio la coda: una massa di lunghe penne nelle sfumature dell’oro e del rosso, che si allargavano a ventaglio durante il volo e si riunivano in uno spesso fascio una volta a terra. Gaara individuò quattro sagome sul dorso dell’uccello, e non appena fu sicuro della sua intuizione con un cenno chiamò tre ninja a volto coperto.
«Prendetela» ordinò, e quelli scomparvero.
Sentì la prima folata di aria tiepida sul viso, una manciata di sabbia gli solleticò il naso. Sbatté a malapena le palpebre, seguendo i movimenti dell’uccello che tentava di atterrare sulla piccola superficie del tetto e facendosi bruscamente indietro quando uno spostamento d’aria quasi lo abbatté. Gli artigli del volatile stridettero sulla roccia del palazzo, cercando di mantenere l’equilibrio sulle due zampe. Le ali sbatterono a vuoto per alcuni secondi, poi finalmente si placarono e tornò il silenzio della notte.
Una delle quattro ombre sul dorso dell’animale si spostò con movimenti un po’ rigidi e si lasciò cadere a terra passando davanti alle grandi ali. Gaara si avvicinò appena in tempo per vedere un’altra ombra che, aiutata da chi ancora era sul dorso dell’uccello, veniva fatta scivolare giù subito dopo; e lì, alla luce della luna e delle poche stelle, rivide dopo sei anni l’unica compagna delle sue notti di solitudine, con l’aspetto emaciato di chi ha sopportato una lunghissima prigionia e stretta a un Anbu esausto. Allora il suo stomaco sprofondò fino in fondo ai piedi.
Akeru, che sorreggeva Loria e avvertiva il tremito delle sue gambe, gettò uno sguardo verso l’alto e uno a Gaara; poi, con delicatezza ma anche un filo di fretta, sospinse gentilmente Loria verso il Kazekage e lasciò che fosse lui a reggerla. Gaara la prese tra le braccia come se fosse fatta di vetro, registrando in un secondo tutti gli angoli acuti delle ossa, la fragilità della pelle, le fibre sottili dei muscoli atrofizzati. Ricordava bene come era abbracciarla, ricordava le curve del suo corpo con precisione millimetrica, ma non ne riconosceva nessuna. Sentì però la fatica che le costava mantenersi in piedi, e capì che la prima cosa da fare era metterla in mano ai ninja medici del palazzo.
«E’ lei?» chiese una voce distante.
Con uno sforzo di volontà Gaara si costrinse a spostare lo sguardo sulla ragazza sconosciuta che gli stava davanti, e con fatica anche maggiore si rese conto che si trattava di sua nipote. Strinse la presa attorno alle braccia di Loria.
«Ho un tatuaggio sulla schiena» disse rapidamente. «Loria, cosa rappresenta?»
«Niente» sospirò lei. «Non hai nessun tatuaggio.»
«E’ lei» confermò con un moto di sollievo.
«Bene» Chiharu annuì distrattamente, passando lo sguardo sull’enorme animale che li aveva portati lì. «Vado a riposare.»
«Dov’è l’infermeria?» chiese Akeru, reggendo un Kotaro praticamente privo di sensi.
«Vi accompagno» propose Gaara.
Chiharu aprì la bocca per protestare, ma prima che potesse farlo l’uccello scarlatto gettò un grido acuto e penetrante, che li spinse tutti a tapparsi le orecchie e strappò un gemito al povero Kotaro. La kunoichi si voltò e scambiò uno sguardo rabbioso con l’animale.
«Certo che puoi andare!» sibilò tra i denti.
L’uccello la studiò inclinando la testa da un lato. Con un fremito distese le ali - quasi buttando a terra Akeru - e prima di darsi la spinta gorgheggiò qualcosa dal fondo della gola. Poi, dispiegando una potenza invidiabile, graffiò il tetto in profondità e causò un piccolo ciclone per sollevarsi verso il cielo.
Non appena fu partito le spalle di Chiharu si afflosciarono percettibilmente.
«Io vado a dormire» annunciò con voce roca.
«Dobbiamo andare in infermeria...» tentò di dire Akeru, ma lei si era già diretta verso le scale interne e non sembrava avere intenzione di considerare le sue ultime parole. Il ragazzo si innervosì: negli Anbu ogni volta che completavano una missione si complimentavano l’uno con l’altro; anche i meno socievoli non dimenticavano mai di rivolgere un grazie smozzicato ai compagni, perché in una squadra è importante mantenere rapporti civili. Quella ragazza era un vero scorpione.
«Le manderò un medico in camera» mormorò Gaara, già proiettato verso le cure da fornire a Loria. «Vieni, l’infermeria è al pianterreno. Che è successo all’Uchiha?»
«E’ tornato a Konoha» spiegò Akeru sintetico. Gaara lo fissò con aria interrogativa, ma lui non aggiunse altro: Hitoshi era uno snob spocchioso e irritante, ma restava uno shinobi della Foglia come lui e l’unico che valesse la pena di definire rivale. Non lo avrebbe umiliato di fronte a uno straniero, anche se erano alleati ed era lo zio di Chiharu. Gaara comprese, o forse aveva faccende più immediate a cui dedicarsi, perciò non insisté oltre. Con un cenno fece capire ad Akeru che doveva seguirlo e insieme si diressero verso la porta che conduceva all’interno del palazzo.


Le dita premettero sul muro, quasi volessero perforarlo. Il dorso della mano, livido e sudato, era coperto dai minuscoli sentieri delle vene sotto pelle.
Chiharu serrò i denti e si appoggiò alla parete con l’intero avambraccio, premendovi la fronte. I polmoni bruciavano, le gambe erano pesanti, la nausea le attanagliava lo stomaco, ma la cosa peggiore era la mano maligna che si era serrata attorno al suo cuore e sembrava impedirgli di lavorare come doveva. Era solo una sensazione, ne era più che consapevole: finché il sangue scorreva nelle vene il cuore batteva, era un postulato inaggirabile.
Nonostante questo, nonostante la Lophenaria, nonostante gli allenamenti, però, non poteva fare a meno di odiare sé stessa e la propria scellerataggine di tredicenne. Non passava giorno senza che si desse dell’idiota, e, anche se non l’avrebbe mai ammesso a voce alta, sapeva che le cose non andavano affatto bene.


«Ho provato a rappezzarlo in viaggio, ma il nostro mezzo sussultava troppo e rischiavo di fare un danno!» ripeté Akeru per la terza volta, ormai esasperato.
Il piccolo medico canuto che si affaccendava attorno al letto di Kotaro gli rivolse un cenno sprezzante e borbottò qualcosa che somigliava parecchio a un insulto, mandandolo definitivamente fuori dai gangheri.
«Senta, lo vede questo? Eh?» sbottò il ragazzo sventolando il tatuaggio da Anbu sulla spalla. «Sono un Anbu della squadra medica, non il primo pivellino che passa! Ho visto più morti io in due anni che lei in tutta la sua carriera! Se dico che non si poteva fare niente, non si poteva fare niente!»
«Una costola fratturata per più di otto ore con un paio di porte del chakra aperte e processi di guarigione a briglia sciolta...» smozzicò il vecchio medico scuotendo la testa. «Roba da farti radiare dall’albo, anche se per miracolo non ci sono danni ai polmoni.»
Akeru si voltò e strinse i pugni per non pestarli addosso all’uomo. «Facciamo così: io vado a riposarmi e lei fa finta di non avermi mai incontrato, ok?»
Il medico non si degnò nemmeno di rispondergli.
Con un’esclamazione poco cortese Baka scostò violentemente la tenda che separava il lettino del giovane Lee dal resto dell’infermeria e attraversò la stanza a passo pesante. Non solo era dovuto stare dietro a due pazzi suicidi come Chiharu e Kotaro, ma gli si rimproverava pure di non aver posto un limite alla loro follia! Questo era troppo. I due dementi erano maggiorenni e vaccinati, se volevano drogarsi e spalancare le otto porte del chakra erano liberissimi di farlo. Lui non poteva esserne ritenuto responsabile, era contrario a qualunque concetto di etica medica! E poi ci aveva provato. Ci aveva sempre provato a spiegare a Chiharu che non poteva scherzare con le droghe del nonno, ci aveva provato a tredici anni e anche adesso, eccome se ci aveva provato... Se poi lei non ascoltava non poteva farci niente. Proprio niente.
Rallentò il passo fino a fermarsi nel corridoio.
Certo che non aveva proprio una bella faccia quando se ne era andata, ricordò. Occhiaie fino agli zigomi, labbra viola, mani che tremavano... Mentre rifletteva vide un uomo passargli davanti e lo riconobbe come il medico che era stato mandato da Chiharu.
«Dov’è la ragazza?» gli chiese fermandolo.
«Non l’ho trovata. Nella sua stanza c’era solo la madre, adesso la sta cercando. Io vado a chiamare il Ka...»
«Ci penso io» lo interruppe Akeru. «Dica al Kazekage che so dov’è, e anche a sua madre. Penso a tutto io.»
Prima che il medico potesse protestare lui era già ripartito. Nella sua testa si affacciavano diversi scenari, dal peggiore - Chiharu in coma in fondo a una scala con la testa spaccata e un collasso cardiorespiratorio - a quelli praticamente ridicoli - Chiharu che si era addormentata nella prima stanza aperta.
Raggiunse i gradini che portavano ai piani superiori, e mentre iniziava a salirli estrasse dal marsupio un foglietto bianco, stringendolo tra indice e medio. In un attimo il foglietto si separò in due, e poi in quattro, otto, sedici... Dei frammenti venutisi a creare uno scivolò a terra qualche gradino più avanti, un altro poco oltre. Akeru li seguiva mano a mano che piovevano, docili, e quando il primo foglietto si esaurì ne estrasse un secondo. I coriandoli fruscianti lo portarono fino all’ultimo piano, in un corridoio laterale rispetto a quello che aveva percorso con Gaara poco prima. Il piano sembrava essere deserto: era male illuminato da lampadine di emergenza, e a distanze regolari si aprivano porte senza insegne. L’idea che Chiharu fosse crollata addormentata nella prima camera a disposizione tornò a solleticargli il cervello. Avanzò lungo il corridoio trattenendo gli ultimi frammenti di carta, cercando di tendere l’orecchio in cerca di suoni o fruscii. Non si sentiva nulla. Poi, davanti a una delle prime porte, l’ultimo quadratino di carta andò ad appiccicarsi alla maniglia e lì rimase, senza cadere al suolo.
Akeru sbuffò, alzò il pugno e bussò in tono deciso. Nessuna risposta.
«Se non apri porto qui tua madre» annunciò.
All’interno ci fu il rumore di qualcosa che cade e poi dei passi ovattati, seguiti dal suono di una serratura che scatta. Baka fece un passo indietro, pronto a difendersi se necessario, ma scoprì che non era proprio il caso: ad aprirgli la porta fu una pallida imitazione della Chiharu che conosceva, una ragazzina dalle spalle curve e le labbra asciutte che teneva a fatica gli occhi aperti.
«Se chiami mia madre ti denuncio all’ordine dei ninja medici» piagnucolò con un filo di voce. «Il mio nascondiglio voglio che sia un segreto professionale.»
«Che ci fai qui?» balbettò Akeru, cercando di spiare dentro la stanza buia.
«Dormo. Cosa vuoi?» sospirò Chiharu. «Ti prego, ho solo bisogno di dormire...»
«Non credo proprio. Devo visitarti.»
Le spalle della ragazza si raddrizzarono impercettibilmente. «Tu?» chiese, e il tono della sua voce sembrava quello di qualcuno che ha appena scoperto un verme nel suo piatto.
«Avevano mandato un altro medico, ma non ti ha trovata. Allora hanno avvisato tua madre, e spero che le sia bastato il mio ‘ci penso io’, altrimenti tra poco la sentiremo gridare il tuo nome per tutto il palazzo.»
Chiharu si guardò attorno nervosamente, quindi incassò la testa tra le spalle e fece un passo indietro. «Ti concedo cinque minuti.»
Akeru si infilò nella stanza mentre lei accendeva una luce polverosa. Quelli dovevano essere gli appartamenti per gli ospiti che usavano solo in caso di estrema necessità, e avevano l’aria di essere vecchie suite in disuso. Sicuramente durante il giorno da lì doveva godersi un panorama spettacolare, ma in quel momento gli spessi tendoni scuri erano tirati a coprire le finestre, e sugli oggetti era posato un leggero strato di polvere.
Peccato che non sapesse che quella era anche la stanza in cui Chiharu e Hitoshi avevano dormito la notte prima della missione.
«Fai in fretta» disse Chiharu richiudendo la porta e lasciandosi cadere seduta sul letto. «Sono sfinita.»
«Lo vedo» mormorò Akeru, e non appena l’eco della sua voce si spense, tutto a un tratto si accorse che era solo con lei e stava per giocare al dottore. Cioè. Stava per visitarla. Gli si seccò la bocca di colpo.
Chiharu lo fissò con sguardo interrogativo finché lui non riuscì a schiodare i piedi dal pavimento. Professionalità, ecco cosa serviva. Era un medico. Aveva un’etica. Chiharu era visibilmente bisognosa di cure, e lui avrebbe messo da parte le sue pulsioni e lavorato come si conveniva.
Inspirò a fondo, costringendosi a guardarla: con quegli occhi da animale braccato e l’aspetto di un malato oncologico poteva anche dirsi che non era proprio lei. Ci somigliava e basta.
Muovendosi rigido le si sedette accanto. Chiharu si scostò impercettibilmente. Lui la ignorò e le prese una mano, al che lei si ritrasse di scatto.
«Come te lo sento il polso?»
Chiharu strinse le labbra e allungò il braccio. Akeru posò tre dita poco sotto il pollice e attese, consultando l’orologio per qualche tempo.
«Non mi dire, sarò mica tachicardica?» sbottò ironica Chiharu prima che lui finisse, incapace di trattenersi più a lungo. «Che sorpresa!»
«Non ho mai visto la tua laurea in medicina» borbottò lui mollandole il braccio di colpo.
«Finito?»
«Stai scherzando?»
Chiharu si agitò leggermente. Quale perverso sadismo muoveva quel ragazzo? Perché la torturava così sfacciatamente?
«Devo posarti una mano sul torace.»
Chiharu sussultò scandalizzata. «Non sono sicura che faccia parte della pratica medica» obiettò stringendo le braccia al petto.
«E questo te lo hanno insegnato sempre nella scuola per medici di cui parlavamo prima?» replicò Akeru. «Sullo sterno. Sopra il cuore.» Chiharu non diede segno di volersi muovere. «Oh, andiamo! Sei una stramaledetta cardiopatica, ti avranno visitata così decine di volte!»
Mai medici con una cotta quinquennale per me.
«Posso sempre uscire di qui, tornare da tua madre, e...»
Chiharu abbassò le braccia di scatto. «Sei uno stronzo bastardo, e giuro che te la farò pagare!» ringhiò, la testa incassata tra le spalle nello spasmodico tentativo di non prenderlo a cazzotti. «Te lo giuro!»
Akeru chinò il capo in un ironico cenno di ringraziamento, quindi, cercando di mascherare la tensione, deglutì a vuoto.
Giocare al dottore era un’espressione travisata, si disse. I bambini scrupolosi mostrano in questo gioco solo un puro interesse scientifico per la più nobile delle professioni. Sono poi gli adulti maliziosi che danno al gioco una connotazione negativa. Poteva vederla da questo punto di vista.
Controllando il lieve tremito della mano la sollevò e la posò delicatamente sullo sterno di Chiharu, avvertendo subito il battito forsennato del suo cuore. Come medico, in quel momento si pentiva amaramente della sua sciagurata confessione. Liberò la mente dai pensieri che non c’entravano e si concentrò sul flusso del chakra, facendo scendere un minuscolo filo-sonda giù per lo sterno, nel periostio e fino al pericardio. Sembrava che coronarie e annessi fossero in ordine. Le valvole funzionavano bene, i ventricoli pompavano un po’ stancamente ma con ritmo discreto. Sotto le dita sentiva ancora una lievissima traccia di Lophenaria, che tuttavia era già stata trasferita al fegato, e gli altri organi, nonostante la stanchezza generale, non mostravano particolari criticità, a parte le costole contuse quando aveva rischiato di volare giù per il dirupo. Poi, mentre si stava avvicinando ad indagare i canali del chakra, si scontrò con qualcosa di molto strano: era una specie di flusso anomalo, la circolazione del chakra sembrava alterata; come se due liquidi di densità differente si fossero mescolati ma non lo avessero fatto troppo bene. Stava per approfondire l’analisi, quando Chiharu allontanò la mano dal suo petto.
«Mi sembra più che sufficiente!»
L’ondata di irritazione che attraversò Akeru gli aumentò la temperatura corporea di qualche decimo di grado: anche lui era stanco, anche lui avrebbe preferito dormire piuttosto che litigare con lei, anche lui aveva fatto dieci ore di volo senza mai distrarsi e con una spalla dolorante. Se era lì era per il suo bene, perché lei era una cretina imprudente e lui un medico, e quella cretina imprudente non faceva che ostacolarlo!
«Razza di decerebrata in crisi adolescenziale!» sbottò afferrandola per il polso. «Sto facendo il mio lavoro! Smettila di mettermi i bastoni tra le ruote!»
In quel momento, del tutto senza preavviso, gli tornò alla mente la prima volta che aveva giocato al dottore con una bambina.
Lei aveva cinque anni ed era bionda, con dei graziosi codini che la facevano somigliare a un cocker. Lui aveva solo qualche mese in meno e un fortino magnifico di sabbia e sassolini. Lei gli aveva detto che il suo papà era un ninja medico e lui, per non dire che invece del suo papà non sapeva niente, le aveva chiesto cosa facesse un medico. «Visita le persone», aveva risposto lei, e aveva finto di provargli la febbre per dimostrare la sua affidabilità. «Il mio dottore mi mette una cosa fredda sulla schiena e mi dice di tossire» aveva ribattuto lui, ansioso di non fare brutta figura. «Vuoi giocare al dottore?» aveva chiesto lei. Akeru aveva sentito un fremito corrergli lungo tutto il corpo, un brivido di cui non aveva la benché minima nozione e che lo stupì ed esaltò insieme. Prima che potesse cercare un sasso da usare per auscultare i polmoni della bambina, però, la madre era piombata sulla scena e l’aveva riportata a casa.
Grazie a quell'incontro, di una cosa, anche a distanza di anni, Baka era assolutamente certo: i bambini giocano al dottore proprio per mettere le mani addosso alle bambine.
Chiharu sentì l’aria farsi pesante e sgradevole sotto lo sguardo fisso del suo presunto medico. Questa volta forse non avrebbe avuto la forza di rimetterlo al suo posto, non quando era così esausta e non nella stessa stanza in cui era successo quel che era successo con con Hitoshi. Avrebbe voluto alzarsi di scatto e spedirlo fuori, ma il solo pensiero di fare qualcosa di scatto le portava via le energie. E in fondo, ma molto molto molto in fondo, per un istante un lievissimo brivido le aveva attraversato la spina dorsale. Si chiese cosa avrebbe fatto se lui avesse provato a metterle le mani addosso...
Invece Akeru lasciò andare il suo polso e si alzò in piedi.
«Non credo che morirai entro stanotte» disse evitando di guardarla. «Però domattina fatti fare un esame accurato; non per me o per tua madre, ma perché il Kazekage ti ha affidato una missione importante e non puoi fare cazzate se lui ci mette la firma. E piantala con la Lophenaria, il tuo fegato ci metterà settimane a metabolizzarla come si deve. Buona notte.»
Chiharu lo fissò istupidita mentre lui usciva frettolosamente. Per alcuni lunghi istanti rimase seduta sul bordo del letto, sola, troppo stanca per riflettere sull’accaduto e allo stesso tempo profondamente perplessa. Si era aspettata altro. Non sapeva bene cosa, ma sicuramente qualcosa di diverso. E, rendendosene conto, con gran sconcerto si accorse di provare un barlume di delusione.


Gaara era con Loria in una stanza privata della clinica del palazzo. Un ninja medico l’aveva già visitata a fondo e la aveva attaccata a una flebo, diagnosticandole disidratazione, denutrizione e una serie di malattie minori dovute alla scarsa igiene e alla pessima qualità di vita. Guardandola alla luce fredda dei neon, il Kazekage di Suna si sentì schiacciare di nuovo dal senso di colpa.
«Sei comoda?» chiese per spezzare il silenzio.
«Finalmente sì» sospirò lei a occhi chiusi, accarezzando il lenzuolo. «Non ricordavo neanche più com’è un materasso morbido.»
«Hai sete? Fame?»
Lei sollevò il braccio dentro cui scompariva la flebo, agitandolo con sforzo incredibile.
«Devo farti portare altri cuscini?»
«Va bene così. Voglio solo riposare.»
Gaara lo percepì come un congedo, e non riuscì ad aggiungere altro. Le augurò a mezza bocca un buon riposo, quindi, quasi con la coda tra le gambe, uscì dalla stanza. Fuori lo aspettava il medico, che gli fece un resoconto semplificato delle condizioni della donna: avrebbe avuto bisogno di cure per i prossimi mesi, ma se il danno psicologico non era troppo grave si sarebbe ripresa. Gaara lo ringraziò e ordinò che restasse qualcuno di guardia per l’intera notte, poi si assicurò che anche Kotaro fosse in mano a uno dei medici e domandò di Chiharu. Gli fu detto che Akeru aveva scelto di occuparsene, ma la notizia non lo tranquillizzò particolarmente.
In ogni caso, aveva qualcosa di urgente da fare.
Senza farsi accompagnare da nessuno scese le scale che portavano ai sotterranei, a quell’ora scarsamente illuminate e attraversate da un filo di aria fresca. Scese due rampe, percorse un corridoio su cui si aprivano diverse porte, e infine entrò nell’ultima in fondo.
La stanza in cui si venne a trovare era piccola e male arieggiata. C’era una sedia al centro, e sulla sedia una versione di Loria ben pasciuta, ancora in pigiama e visibilmente furiosa. Aveva le mani legate dietro lo schienale.
«Tu non sai cosa hai fatto!» gridò non appena vide entrare Gaara.
«Toh, allora parla ancora» commentò Kankuro, appoggiato al muro accanto alla porta di ingresso. «L’abbiamo prelevata senza problemi, ma si è rifiutata di aprire bocca fino a questo preciso istante» spiegò.
Gaara si avvicinò alla donna. «Sciogli la trasformazione, ormai è inutile.»
«Perché ti sembra inutile?» ringhiò la finta Loria. «Quando i miei compagni non vedranno arrivare il mio solito messaggio la uccideranno. Pensi di farmi parlare prima che questo accada? Vuoi che mi trasformi perché pensi di non riuscire a torturarmi se ho la sua faccia?»
Gaara la fissò. «Non hai la sua faccia. Lei non ha mai avuto quell’espressione da topo. Ne sono certo, l'ho appena lasciata a riposare.»
Per la donna sulla sedia fu una brutta sorpresa. Il fiato le si mozzò in gola e un velo di paura le coprì gli occhi. «Non è vero...» tentò di protestare, ma il Kazekage la interruppe.
«I miei ragazzi l’hanno riportata poco fa. Naturalmente sei libera di non credermi. Ma quando, fra tre giorni, io sarò ancora qui a cercare di farti parlare e nessuno dei tuoi sarà venuto a cercarti, confido che diventerai più collaborante. Forse dovresti riflettere sul perché, dopo sei anni, finalmente ti abbia affrontata apertamente.»
Un sottile filo di sabbia risalì le gambe della sedia, le dita della donna e il gomito, fino a solleticarle il collo. Gaara incrociò le braccia sul petto senza distogliere lo sguardo.
«Per me non regge neanche un'ora...» borbottò Kankuro.
La sabbia si avvolse attorno al collo della falsa Loria, percorse il mento e andò a coprire la bocca, mentre il respiro della donna accelerava sensibilmente. Tentò di divincolarsi, ma i primi granelli si insinuarono su per il naso e le serrarono le labbra.
Gaara assottigliò lievemente gli occhi. «Quando smetterai di avere le sue sembianze lo prenderò come il segnale che sei pronta a parlare... O almeno a respirare» disse sottovoce.
La sabbia ormai copriva tutta la parte inferiore del viso.


O aveva fatto una cosa molto stupida, o ne aveva fatta una molto etica, si disse Akeru mentre tornava avvilito verso la sua stanza: visitando Chiharu aveva sentito l’impulso fortissimo di saltarle addosso – aveva sempre avuto un debole per le donzelle in difficoltà – ma, inaspettatamente, lo aveva combattuto.
Ancora adesso non sapeva come interpretare la cosa. Che la sua cotta storica stesse finalmente passando? Il braccio gli faceva troppo male per permettergli performances di cui andare fiero? Forse era solo sfinito, oppure... Oppure boh. Non si era mai ritenuto un gran modello di etica.
«Finalmente!» esclamò di colpo una voce.
Akeru alzò lo sguardo, e proprio davanti alla stanza che gli avevano assegnato trovò una bellicosissima Temari in assetto da battaglia.
«E’ un’ora che ti aspetto! Dov’è mia figlia?»
Segreto professionale, balenò nella mente del ragazzo.
«Prova a mentirmi che non rivedi più Konoha» aggiunse lei leggendogli il pensiero.
Akeru non tentò nemmeno di difendersi. «Si sta nascondendo. E’ da qualche parte nel palazzo a dormire. L’ho visitata, non è in pericolo di vita, e le ho fatto giurare di farsi fare un controllo completo domattina.»
«Tu l’hai visitata?»
«Anche lei lo dice come se avesse appena trovato un verme nel piatto... perché?»
«Senti un po’, se non mi dici immediatamente dove...»
Akeru alzò entrambe le mani e la interruppe. «Con tutto il rispetto, signora Nara, per questa notte ho già affrontato la sua famiglia. Se vuole trovare sua figlia io non voglio avere responsabilità, la cerchi da sola. In questo momento voglio soltanto dormire dieci ore e svegliarmi per fare colazione. La prego. La supplico
Temari richiuse la bocca infastidita «Come l’hai visitata? Non le avrai mica messo le mani addosso?»
«Onestamente ci ho pensato, ma alla fine la mia etica professionale ha avuto la meglio e mi sono limitato a farle un esame cardiologico.»
Temari spalancò la bocca. Akeru pure. Aveva risposto senza riflettere.
«Non intendevo...»
Temari lo fermò con un gesto. «Non continuare. Finora sei andato bene con la risposta sull’etica. Ti conviene andare a dormire prima che io cambi idea... Spera che domani mia figlia sia viva e reperibile
«Guardi, domani se non la troviamo la porto alla sua camera, promesso» si arrese Baka. «Ora, per favore, la prego, posso andare a dormire?»
Sbuffando insoddisfatta, Temari si fece da parte e liberò il passaggio.


*


Sin da girino, Scheggia XIII si era rivelato tollerante quanto un gerarca fascista. Se la sua zona di stagno veniva invasa dal minimo granello di plancton non autorizzato, lo spingeva a testate fuori dai confini; se un girino rivale intralciava il suo percorso, lo sbatteva sul fondo; se un ranocchio quasi formato si azzardava a fargli notare che non aveva ancora le zampe, lui quasi staccava le sue a morsi.
All’epoca della sua nomina a nuovo Scheggia qualcuno aveva sollevato obiezioni: è troppo aggressivo, disobbediente, individualista, arrogante, assolutamente inadatto. Più di un rospo si era schierato contro di lui, anche nomi influenti, ma alla fine la maggioranza aveva deciso di fidarsi – e ancora oggi qualcuno si chiedeva se il consiglio non fosse stato corrotto o minacciato. Così era nato l’attuale Scheggia XIII. E, se qualcuno aveva sperato che con il tempo si calmasse, aveva avuto un’amara delusione: incredibile a dirsi, il carattere di Scheggia non aveva fatto che peggiorare. L’orgoglio per la nomina a corriere ufficiale ingigantì la sua autostima; sotto gli occhi sbigottiti della comunità la sua velocità crebbe allo stesso ritmo della sua tracotanza, e in breve tempo divenne una sorta di boss mafioso di cui molti avevano terrore.
Naturalmente gli umani non potevano sapere nulla di tutto questo. Se così fosse stato, sicuramente qualcuno avrebbe notato l’interessante parallelo con Naruto – e poi, se lo avesse espresso a voce alta, sarebbe morto sotto una zampata.
Comunque nessuno lo sapeva e neppure lo immaginava, tanto meno Akeru, che si era inspiegabilmente trovato d’accordo con il rospo e lo riteneva decisamente a modo e dotato di raziocinio. Per questo Hitoshi non poteva nemmeno lontanamente sospettarlo. E non sospettandolo, rischiò seriamente di cadere dalla groppa quando Scheggia si diede alla corsa più folle che la foresta del Fuoco avesse mai visto.
«Senti un po’, mi sono rotto di andare come un girino! Prima arriviamo e prima scendi: tieniti stretto che si vola!»
Una manciata di parole aspre, e poi il balzo traumatizzante.
L’unica cosa che Hitoshi avrebbe ricordato del viaggio sarebbe stata l’emicrania: dopo quell’esperienza dovette riscrivere completamente le sue tabelle, aggiungendo nuovi e straordinari picchi di sofferenza, che se avevano avuto un pregio era stato unicamente quello di eclissare qualsiasi tipo di vertigine avrebbe potuto provare durante quei terribili salti.
Grazie alla momentanea ondata di follia, comunque, ridussero notevolmente la durata del tragitto: nonostante la prima parte a rilento, riuscirono a raggiungere Konoha nello stesso tempo impiegato per il viaggio d’andata. Che Hitoshi, una volta al villaggio, fosse più morto che vivo, sembrava irrilevante.
«Come deve soffrire!» commentò una delle guardie, scrutandone con preoccupazione il colorito terreo. «Spero per lui che non sia nulla di grave... E’ così giovane!»
Fu raccolto dai piantoni alla porta, mentre qualcuno faceva arrivare una piscina d’acqua per il rospo e una ventina di litri di sakè. In tutta fretta fu mandato un messo all’ospedale, alla ricerca di un medico, e Hitoshi si premurò finalmente di svuotare lo stomaco, confortato dalle comprensive pacche delle guardie.
Sakura impiegò meno di cinque minuti per raggiungere le porte di Konoha, seguita da un paio di infermieri fidati, e non appena lo vide avvertì una stretta allo stomaco: all’improvviso le ricordava Sasuke, ma quel Sasuke atono che aveva curato dopo la morte di Itachi; nulla a che vedere con l’orgoglioso Uchiha di sempre. Lo raggiunse rallentando leggermente il passo – correndo lo avrebbe messo in imbarazzo – e mentre l’alba andava a tingere i suoi capelli d’arancio, si inginocchiò accanto a lui, sforzandosi di soffocare la madre a beneficio del medico.
«Come va?» sussurrò, cercando di intrappolare la voce perché gli altri non sentissero. «Come ti senti?»
«Abbattete quel rospo» replicò Hitoshi, con voce roca. «Abbattetelo o lo faccio a pezzi non appena sto meglio.»
Scheggia, il cui udito era molto superiore a quello umano, gli scoccò un’occhiataccia.
Sakura, invece, inarcò le sopracciglia. «Beh, finché fai del sarcasmo non sei in pericolo di vita» sospirò, impercettibilmente sollevata. «Dove senti dolore?»
«Ovunque.»
Sakura annuì e fece un cenno agli infermieri, che si avvicinarono con una lettiga.
«Ce la faccio da solo!» sibilò Hitoshi, furente, ma lei gli scoccò un’occhiataccia e lo ridusse al silenzio.
«Io decido cosa riesci o non riesci a fare» rispose asciutta. «Andiamo.»
«Allievo di quello là» grugnì Scheggia in tono chiaramente udibile.
Lo fecero stendere sul supporto di stoffa sotto gli occhi preoccupati delle guardie – che ancora lo consideravano in fin di vita, anzi già parlavano di lui al passato – e quando lo sollevarono Hitoshi nascose il viso rosso di umiliazione dietro un braccio, digrignando i denti.
Un moribondo dallo stomaco debole, ecco cosa pensavano tutti quegli uomini. E anche sua madre, che era arrivata con quegli occhi pieni di compassione, non era diversa da loro: nessuno avrebbe più avuto fiducia in lui, nessuno avrebbe più collegato il suo nome alla stirpe degli Uchiha; da quel momento sarebbe sempre stato trattato come un invalido, perché lui era tornato indietro, lui e solo lui. Lo sapeva benissimo, con ogni fibra del suo corpo; e lo detestava.

Chiharu Nara, questa me la paghi.







* * *

Akeru nuovo simbolo della cavalleria!
Ahah, lo so.
Ho cambiato anche quella parte.

Buongiorno a tutti,
e bentrovati di nuovo.

Da oggi gli aggiornamenti saranno più piccini,
con meno capitoli,
perché sono vicina alla fine del materiale già pronto
e ho bisogno di un po' più di tempo per scrivere altro.

In compenso gli eventi da qui in poi sono
COMPLETAMENTE NUOVI E INEDITI!

Evviva! Ce l'abbiamo fatta!

Spero di non fare erroracci di coerenza...
Se ne trovate qualcuno, per favore scrivetemelo.
Il bello della pubblicazione online è che si può sempre correggere.

Grazie a chi commenta e a chi legge!
Un abbraccio a tutti.


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Capitolo 22
*** Convalescenti ***


Penne 22
Capitolo ventiduesimo

Convalescenti




La falsa Loria non aveva impiegato molto a cedere alle pressioni di Gaara. Nel giro di un paio d'ore il Kazekage aveva saputo nome e cognome dei mandanti del rapimento, vita morte e miracoli della spia e, già che c'era, qualche dettaglio sull'organizzazione gerarchica della Roccia, anche se probabilmente erano dati vecchi di sei anni. Una volta concluse le domande importanti, aveva ritirato le sue dita di sabbia e se ne era andato lasciando a Kankuro il compito di spremere le ultime gocce dalla prigioniera. La donna che aveva lasciato accasciata sulla sedia era di statura più alta di Loria, con una struttura ossea più massiccia e l'incarnato quasi olivastro. Era talmente diversa dall'immagine che aveva mantenuto fino a quel momento che per Gaara non era stato difficile infierire.
Mentre risaliva le scale dello scantinato verso i piani illuminati dalla luce dell'alba gli sembrò che i suoi passi fossero più leggeri: Loria era tornata, era viva. E non importava che forse non lo avrebbe amato mai più, perché almeno era fuori pericolo.
Passando dall'infermeria si affacciò per controllare la situazione e la vide dormire un sonno agitato ma indisturbato. Chiese delle sue condizioni e di quelle di Kotaro, quindi, rassicurato, si diresse al suo studio per scrivere un messaggio urgente a Kakashi: la missione si era conclusa nel migliore dei modi. Ora, se guerra doveva essere, la Sabbia sarebbe stata in prima linea per combatterla.


Chiharu fu svegliata da un bussare sommesso e un po' cospiratore. Faticò per riemergere dal sogno confuso che la stava impegnando, ma quando il pensiero di sua madre le sfiorò la coscienza si affrettò a tirarsi in piedi con le orecchie ben dritte.
«Haru?» sussurrò una voce oltre la porta. «Sei viva? Dimmi che sei viva.»
Baka. Con un sospiro Chiharu si rilassò, e andò a scostare le tende per capire che ore fossero. Il sole stava sorgendo al limitare della città, il che significava che non aveva riposato granché.
«Sono viva» mormorò funebre, trascinando i piedi fino alla porta.
«Come ti senti?» le chiese Baka non appena gli fu aperto, scansionandola con lo sguardo alla ricerca di segni clinici.
«Assonnata.»
Akeru alzò una piccola torcia a forma di penna e le puntò il fascio di luce negli occhi.
«Ehi!» protestò lei scuotendo la testa, ma lui la tenne ferma e le chiese di seguire la luce. Solo quando vide le sue pupille restringersi e gli occhi guizzare furiosi da tutte le parti si azzardò a tirare un sospiro di sollievo.
«Ascolta, non ho molto tempo» disse prima che lei potesse lamentarsi. «Stamattina devo portare qui tua madre. Me l'ha fatto promettere. Arriveremo tra circa mezzora, tu renditi presentabile: ieri sera le ho assicurato che ti avevo visitato a fondo e non avevo trovato problemi, vedi di confermare la mia diagnosi.»
Chiharu gemette penosamente e si lasciò cadere seduta sul letto. «Tu che sei medico, mi spieghi perché alla gente fa tanto schifo l'idea di lasciar riposare in pace una povera cardiopatica?»
«Non sei una povera cardiopatica. Alzati e fatti una doccia, puzzi da far schifo.»
Chiharu si annusò discretamente e non poté che concordare. «Hai detto mezzora?»
«Venticinque minuti. E mi aspetto ringraziamenti principeschi quando torniamo a Konoha!»
Chiharu lo guardò di sbieco, chiedendosi se la sua boriosa affermazione nascondesse significati lascivi, ma rimase sola prima di poter approfondire il pensiero.

Temari arrivò precisamente ventidue minuti dopo, al seguito di un Akeru inquietantemente sollecito. Quando la vide pulita, con le guance arrossate dalla doccia e intenta a rifare il letto con aria innocente si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Poi attaccò a urlare.
Baka si fece piccolo piccolo contro lo stipite, anche se non poté trattenere un mezzo ghigno quando sentì Temari rimproverare a Chiharu le stesse cose per cui l'aveva rimproverata lui. La sfuriata della signora Nara, tuttavia, non schivò del tutto il suo ruolo, perché la sua 'sprovveduta spacconeria avrebbe potuto portare gravi conseguenze, e se Chiharu avesse avuto un briciolo di cervello si sarebbe fatta visitare da un medico serio, uno a cui fosse cresciuto almeno qualche pelo di barba!'. Akeru si controllò il mento con disappunto.
«Sei la degna, irresponsabile figlia di tuo padre!» esclamò Temari in quello che tutti speravano essere un tono conclusivo.
«Adesso posso andare a cercare un medico con la barba?» borbottò lei con la testa incassata tra le spalle.
«Io ho la barba» ci tenne a precisare Akeru.
«Tu taci!» inveirono madre e figlia.
Non proprio di umore gioviale scesero insieme le scale che dal tetto portavano al pianterreno e fino all'infermeria. Quando la raggiunsero Akeru si defilò in fretta, sostenendo di voler sapere come stava Kotaro, e le due Nara rimasero sole in attesa del medico che stava facendo il giro-visita mattutino.
«Ogni volta spero che ti entri un po' di sale in zucca, ma non succede mai» brontolò Temari a quel punto.
«Non hai un bottone di spegnimento, vero?» ribatté Chiharu. «Papà è un eroe per averti sopportato tutto questo tempo!»
«Non tirare in ballo tuo padre adesso!»
«Va bene. Tanto ti rendi insopportabile da sola, non hai bisogno del mio aiuto.»
Temari strinse i denti e diede le spalle a Chiharu. Per un momento la ragazza si chiese se l'avesse offesa.
«A proposito di tuo padre» riprese Temari in tono strano. «Non ho intenzione di tornare a Konoha insieme a voi.»
Chiharu inarcò le sopracciglia fin quasi all'attaccatura dei capelli, sbalordita. Stava per chiedere se fosse un regalo di compleanno in ritardo, quando fu interrotta dal rumorosissimo arrivo di Gai Maito e Rock Lee, che vedendola lanciarono grida festanti e la avvolsero in un abbraccio pieno di entusiasmo.
«Ce l'avete fatta, ragazzi!» esclamò il primo dei Grandi Maestri, occhi lucidi e stretta di mano.
«Dov'è Kotaro?» chiese Rock Lee guardandosi intorno.
«Qui!» rispose una voce ovattata oltre una tendina.
«Figliolo!»
La riunione fu densa di lacrime ed esclamazioni ammirate. A sentir parlare delle Porte del Chakra tutti gli uomini tranne Akeru fecero salti di gioia, che sicuramente Tenten avrebbe ridimensionato, una volta a Konoha. L'entusiasmo fu tanto e tale che dopo pochi minuti il medico di turno comparve con il camice svolazzante e ingiunse a tutti di levarsi di torno perché infastidivano i suoi pazienti. Alla fine rimasero nell'infermeria solo Kotaro, Temari e Chiharu, e fu a lei che il medico si rivolse.
«Vieni. Chiharu, giusto? Mi hanno parlato di te, vediamo se sei tutta intera dopo gli ultimi giorni...»
L'uomo le fece cenno di seguirlo in una stanza adiacente, quindi chiuse la porta con un'occhiata di ammonimento a Temari, che già stava per chiedere di poter entrare. Molto stizzita, purtroppo, lei dovette desistere dal suo proposito e trovarsi una sedia su cui attendere.
Akeru cacciò dentro la testa e chiese a gesti se Chiharu fosse entrata. Solo quando ne ebbe avuto la conferma si rilassò e pensò bene di tornarsene a letto per recuperare qualche ora di sonno.
Temari si mosse nervosamente sulla sedia. Da quando il cuore di Chiharu era stato danneggiato non passava giorno che non si aspettasse la visita di due ufficiali della Foglia con la notizia della morte di sua figlia; non tanto perché la poverina fosse cardiopatica – confidava che i geni di Shikamaru le avrebbero impedito di strafare – quanto perché aveva più volte dimostrato di essere incosciente, orgogliosa e con una sconfortante vena teatrale. Ogni tanto Temari si augurava che il cuore di Chiharu peggiorasse quel tanto che bastava per farle chiudere la carriera ninja, ma in fondo sapeva che non sarebbe stata una soluzione.
Qualcuno bussò alla porta dell'infermeria, e nel dubbio lei disse «Avanti». A entrare fu, sorprendentemente, Gaara.
«Chiharu?» chiese dopo un cenno di saluto.
«La stanno visitando adesso. Eri preoccupato?»
«Ero venuto per un altro paziente, ma riposa.»
«Loria?»
Gaara annuì, quindi si avvicinò alla tenda di Kotaro e la scostò con delicatezza. Alla sua vista il ragazzino scattò a sedere, ma il movimento gli ricordò le costole che si erano rotte e gli fece mancare il fiato.
«Tutto suo padre» borbottò Temari.
«Come ti senti?» chiese Gaara, ignorandola.
«Meglio» ansimò lui. «Secondo il medico avrò bisogno di una settimana di riposo, poi potrò tornare a Konoha.»
«Una settimana?»
Kotaro arrossì. «Potrebbe aver detto due o tre... Ma sono sicuro di riuscire a guarire in una settimana.»
Il Kazekage e sua sorella si scambiarono un'occhiata circospetta: avevano una vaga conoscenza dei meccanismi delle Porte del Chakra, ma non ne sapevano abbastanza per ribattere. In ogni caso Gaara si disse contento di sapere che stava bene, e Temari colse l'occasione per chiedere che fine avesse fatto Hitoshi.
«Lui è... rientrato a Konoha.»
«Quando?»
«Prima della missione. Non stava... tanto bene.»
«Perché balbetti?»
Kotaro tacque, arrossendo ulteriormente. Avrebbe voluto dare un'immagine più positiva di Hitoshi, ma le circostanze non aiutavano. Adesso che la missione era finita in un trionfo, il senso di colpa per aver tradito il compagno tornava più forte che mai.
«In ogni caso tu, Chiharu e l'altro ragazzo riceverete una menzione speciale» lo informò Gaara. «Ho appena inviato un messaggio a Konoha per farvela assegnare.»
«Grazie!» annaspò Kotaro con gli occhi brillanti di entusiasmo.
«Non appena sarete tutti in forma migliore stenderete un rapporto dettagliato sulla missione.»
«Così sapremo finalmente quale misterioso cavallo vi ha riportati a Suna» aggiunse Temari.
«Non un cavallo. Era un uccello» ribatté Gaara.
«Da dove avete tirato fuori un uccello?»
«Lo ha evocato Chiharu.»
Temari si accigliò: non sapeva che sua figlia avesse stretto un contratto di sangue. Quando era successo? E con che animale? Di uccelli ce ne erano almeno due decine...
«Scusate... Sarebbe possibile far rientrare mio padre e il maestro Gai?» chiese Kotaro timidamente.
Gaara sospirò, ma lo accontentò. Prima di andarsene dalla stanza ora affollata scambiò uno sguardo d'intesa con Temari, e anche senza parlare lei seppe che la spia aveva vuotato il sacco.

Chiharu riemerse dallo studio medico quasi mezzora dopo, con l'espressione infastidita e un voluminoso plico di ricette in mano. Prima che Temari potesse aprire bocca e interrogare il dottore, lei fulminò lui con lo sguardo e piazzò in mano alla madre tutti i fogli che aveva.
«Dice che devo riposare per un po'. Almeno una settimana, prima di ritornare a Konoha. Mi ha dato qualche... ricostituente» quasi sputò. «perché il mio metabolismo faccia fuori un po' di tossine.»
«Che tossine?»
«Tossine, le solite tossine!» Chiharu si tenne sul vago. Temari non sapeva della Lophenaria, ed era meglio che continuasse a non sapere: avanti con le manovre evasive. «A quanto pare avrai molto tempo per spiegarmi cosa c'entra papà con il tuo non ritorno a Konoha.»
Temari si irrigidì e sollevò il mento. «Tu invece hai tutto il tempo di spiegarmi come e quando hai stretto un contratto di sangue, invece.»
«Chi te lo ha detto?» inorridì Chiharu.
Prima che la discussione crescesse di volume il medico tossicchiò lievemente.
«Vi ricordo che i miei pazienti hanno bisogno di silenzio...» iniziò, ma mentre lo faceva posò lo sguardo su Gai Maito e Rock Lee, che cercavano invano di nascondersi dietro la tendina che separava Kotaro. «Siete rientrati!»
Soltanto dieci turbolenti minuti dopo l'infermeria riuscì a svuotarsi degli ospiti molesti e rimase prerogativa del medico, di Kotaro e di Chiharu, che per evitare l'interrogatorio di Temari aveva insistito per farsi mettere sotto osservazione. Il dottore pretese che si infilasse sotto le coperte e mandasse giù un integratore, con tono a dire il vero piuttosto seccato.
«Tua madre ha il diritto di sapere che...» iniziò, ma Chiharu sbarrò gli occhi in un'occhiata d'avvertimento, accennando a Kotaro. Il medico scosse la testa e non proseguì. La maggiore età di Chiharu e il segreto professionale erano più che sufficienti per causargli un sacco di grane; per il bene della sua carriera preferì lasciar perdere e andare a controllare le condizioni di Loria.
Rimasta sola con Kotaro, Chiharu gli fece un cenno di saluto e si propose di evitare come la peste qualunque domanda sulle proprie condizioni di salute.
«Quante costole rotte?» si informò educatamente.
«Due.»
«Contento?»
Kotaro la guardò incerto. «Non capisco se è una battuta...»
«Lascia stare» sospirò Chiharu accomodandosi meglio tra i cuscini.
«Tu come stai?»
«Come al solito. Cardiopatica, circondata da nevrotici e molto assonnata» troncò in fretta.
«Vuoi che ti lasci riposare?»
Chiharu mugugnò qualcosa che somigliava molto a un sì. Kotaro si fece piccolo piccolo e iniziò a tirare un filo che pendeva dalle bende attorno al suo torace. La guardò di sottecchi, indeciso: era felice di trovarsi solo con lei, dal momento che la cosa non capitava praticamente mai, ma come al solito lei non si impegnava a tenere viva la conversazione e lui si sentiva un po' scemo.
«E' vero che hai stretto un contratto di sangue?» chiese, sperando che fosse un buon appiglio per farsi degnare di qualche attenzione.
Nel suo letto Chiharu quasi sussultò, ma si stampò in faccia l'espressione più annoiata di cui era capace. «Un contratto di sangue?» ripeté lamentosamente. «Sei pazzo? Sai quanto chakra richiede una di quelle evocazioni? Mi verrebbe una sincope prima di finire i simboli.»
«Gaara ha detto che ci hai riportati a casa con un'evocazione» insisté Kotaro, anche se più incerto. «Ha detto...»
«Era di Stupido» lo interruppe Chiharu. «Io avevo dietro un rotolo per la dislocazione, ma l'ho perso – sai, per la storia del cavallo di cui parlava il Sesto Hokage... Così Stupido ha evocato quel bestione. Gaara avrà pensato che fosse mio perché Baka nel frattempo si stava occupando sia di te che di Loria: hai presente, no, tutto il suo pomposo ripetere che è medico e Anbu e Unico Depositario della Verità...»
Chiharu rivolse un sorrisino d'intesa a Kotaro e lui, bevendosi quel minuscolo momento di complicità, prese per buona la sua versione senza dubitarne nemmeno un secondo.
«Ogni tanto anche Baka torna utile» commentò con una risatina.
Soprattutto per distrarre i compagni di squadra impiccioni...
Come naturale conseguenza dell'averlo nominato, Chiharu ripensò alla visita in camera della sera prima, al momento di esitazione di Akeru e anche alla sua delusione quando se ne era andato. Sì, ogni tanto Baka tornava utile... Per fortuna, però, era abbastanza Stupido da non rendersene conto.


*


Hitoshi odiava l'odore del disinfettante, le uniformi bianche del personale e l'arredamento privo di stile. Odiava le pantofole antiscivolo, i camicioni che gli lasciavano scoperto il sedere e il pappagallo, che avevano provato a fargli usare per ben due volte. Odiava quasi tutto ciò che si muoveva o semplicemente stazionava all'interno dell'ospedale, ma soprattutto, in quel preciso momento, odiava la lontana Chiharu Nara. E un po' anche la vicinissima e ospedaliera Sakura Uchiha, sua madre.
«Ahi!» sussultò quando lei gli staccò il cerotto che teneva fermo l'ago nell'avambraccio.
«Abbiamo finito con i prelievi» gli annunciò lei sorridendo un po' tirata. «Il tempo di farli analizzare e sapremo cosa c'è che non va.»
Hitoshi distolse lo sguardo. Sapevano entrambi cosa c'era che non andava: probabilmente i suoi geni dello sharingan, invece di svilupparsi normalmente come quelli di Fugaku e Mikoto, erano mutati in una neurotossina che lo avrebbe ucciso lentamente. O rapidamente, a seconda della fortuna.
«Adesso posso riposare un po'?» chiese rabbrividendo. «Il viaggio su quel rospo è stato tremendo.»
«Certo» Sakura gli accarezzò la fronte, ma lui si scostò impacciato.
«Ho diciotto anni!»
E non aveva vissuto nemmeno un decimo di quello che lei aveva già passato alla sua età, pensò la madre. Con un sospiro si scostò per gettare in un sacchetto l'ago utilizzato e i cerotti. Prima di lasciare solo Hitoshi si premurò di tirare le tende e assicurarsi che sul suo letto non arrivasse la luce del mattino.
«Dà ancora fastidio?»
«No, così va meglio.»
«Hai fame?»
«Prima devo dormire almeno due ore. Per favore. La testa mi esplode!»
Sakura si scusò sottovoce e uscì dalla stanza. Una volta all'esterno fece un lunghissimo sospiro e si strinse nelle braccia. Dov'era Sasuke quando lei e Hitoshi avevano più bisogno?
«Sakura! Sakura!»
Una voce altissima la fece sobbalzare e per poco non la mandò a sbattere contro la porta da cui era appena uscita. In fondo al corridoio, a passo di corsa e agitando freneticamente una mano, avanzava Naruto.
«Ho saputo che Hitoshi è arrivato!» esclamò raggiungendola.
«Shhh! Sei in un ospedale! Sì, è arrivato, ma ha bisogno di riposare. Quel tuo rospo gli ha quasi dato il colpo di grazia!»
«Devo vederlo!»
Sakura gli piantò una mano in mezzo al petto e attinse alle antiche risorse della leggendaria forza di Tsunade.
«Oltre che sua madre, sono anche il suo medico» lo minacciò. «Se cerchi di disturbare il riposo del mio paziente ti scaravento fuori dall'ospedale a calci!»
A sorpresa Naruto le prese la mano e la strinse tra le sue, sfoderando un ampio sorriso.
«Fidati di me, Sakura. Alla fine mi ringrazierai!»
Lei esitò per un secondo o poco più, momento che Naruto sfrutttò per prenderla di peso e spostarla.
Hitoshi lo vide comparire sulla soglia senza tradire la minima sorpresa: con l'emicrania alle stelle il suo udito si acuiva, e aveva intuito l'arrivo di Naruto dal momento preciso in cui aveva aperto bocca in fondo al corridoio.
«Non azzardarti a dire qualcosa di banale» lo minacciò puntandolo con il dito.
Naruto aprì la bocca e la richiuse. Rifletté per un secondo, si grattò la testa cespugliosa, infine scrollò le spalle. «Meno male che sei già arrivato!»
«Meno male?» ripeté Hitoshi sconcertato.
«Il team di punta lontano da Konoha in un momento così critico!» continuò Naruto, calcando un po' la mano. «Non hai idea del putiferio che è scoppiato qui mentre voi eravate via! Ora che sei tornato puoi aiutarmi a risolvere la situazione!»
Hitoshi fece una smorfia densa di disprezzo. «E' scappato un altro furetto? Qualcuno richiede urgentemente uova di nibbio?»
Naruto scosse la testa, sorridendo come se lo avessero appena nominato Hokage di tutti gli Hokage. Se Sakura avesse saputo della discussione tra lui e Sasuke si sarebbe potuta aspettare un'iniziativa balzana; ma non lo sapeva. Fu così che, per il suo totale sbalordimento, Naruto spalancò le braccia e fece un annuncio.
«Sei appena stato promosso Anbu!»






* * *

Bum!
Incomincia la riscossa (?) di Hitoshi!
O la fine di Naruto, per mano di Sakura.
Una delle due.

In ogni caso, avrete un po' di Uchiha aggratis
e tanto Naruto (che all'autrice piace assai).

Arrivederci alla prossima settimana!

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Capitolo 23
*** Nessuno ascolta i dottori ***


Penne 23
02/03/2016

Capitolo ventitreesimo

Nessuno ascolta i dottori




«Tu non puoi promuovere le persone ad Anbu di punto in bianco!» sbottò Sakura afferrando Naruto per il colletto della giacca.
«Io sono l'Hokage!» protestò lui.
«Io sono Hokage quanto te, testa vuota di un deficiente, sono anche il medico del ragazzo che hai appena promosso, e ti dico che non puoi farlo!»
«Ma perché no? Dai, Sakura, lasciami fare! Non sai neanche cosa...»
«Scusate?» intervenne Hitoshi, tirando il pappagallo – inutilizzato – tra i due. Scese il silenzio. «Come faccio ad essere promosso Anbu senza aver fatto l'esame?»
«Appunto!» concordò Sakura con evidente sollievo.
«Chissenefrega dell'esame» rispose però Naruto. «Ho già preparato tutte le carte. E ti informo, cara Sakura, che esiste una clausola nelle disposizioni per gli Anbu che dice che in caso di grave necessità per il Villaggio i nuovi membri della squadra speciale possono essere eletti per nomina diretta dall'Hokage in carica. Ovvero io.»
«Non c'è una grave necessità per il Villaggio!»
«Certo che c'è: la spia.»
«Quale spia?» chiese Hitoshi.
«Stai divulgando informazioni riservate!»
«Ormai è Anbu, non sono più riservate!»
«Naruto!» Sakura lo afferrò per un braccio. «Vieni fuori un momento.»
Naruto sbuffò e acconsentì a seguirla di malavoglia. Insieme uscirono e lei richiuse la porta della stanza.
«Sei impazzito?» sibilò furiosa. «Hitoshi è stanco e depresso, ha bisogno di riposo! Cosa ti è saltato in mente?»
«Hitoshi non ha bisogno di riposo. Ha bisogno di fare qualcosa per dimostrare che non è un fallito!» rispose lui in un sussurro impaziente. «Ma non capisci, Sakura? Gli fa più male vedersi coccolato da te che fare una missione con gli Anbu! Hitoshi ha bisogno di mettere a segno almeno un punto prima delle tue cure, non puoi rinchiuderlo qui! Gli daresti il colpo di grazia.»
Sakura si strinse nervosamente nelle braccia. Come madre sentiva che c'era un fondo di verità nelle parole di Naruto, ma come medico sapeva che non conoscendo la causa delle emicranie di Hitoshi poteva essere rischioso mandarlo in missione.
«Ascolta... Aspettiamo il risultato degli esami» propose schivando il suo sguardo. «Ci penserò, ma prima voglio vedere le analisi.»
Naruto annuì, anche se dentro di sé penso che se ne sarebbe ampiamente infischiato delle analisi.
«Posso tornare dentro?» chiese subito.
«Per fare cosa, prima degli esami?»
«Dai Sakura, gli ho accennato della spia e non sono più andato avanti! Starà morendo di curiosità!»
Sakura roteò gli occhi e fece un gesto esasperato. «Va bene! Ma se viene fuori anche solo un parametro sballato sarai tu a dirgli che non può fare niente di tutte le grandi cose che stai per promettergli!»
Il volto di Naruto si aprì in un grande sorriso orgoglioso. Senza neanche risponderle sgusciò alle spalle di Sakura e ritornò in tutta fretta nella stanza di Hitoshi.
Sakura sospirò, turbata. Sasuke avrebbe saputo come contenere Naruto... Se solo fosse stato lì...

Dentro la stanza, nel frattempo, la testa di Hitoshi minacciava di scagliare pezzetti di cervello in tutte le direzioni: gli faceva talmente male che non era sicuro di aver capito quello che stava dicendo Naruto.
«Non posso essere Anbu» biascicò reggendosi la fronte. «Non sono all'altezza...»
«Questo lo vedremo più tardi» rispose Naruto trascinando una sedia accanto al suo letto.
Hitoshi fece un gesto di fastidio e si lasciò ricadere sui cuscini. Non avrebbe dato a Naruto la soddisfazione di sapere che era già stato respinto al test per Anbu, ma non poteva impedire a se stesso di saperlo fin troppo bene. Che figura avrebbe fatto in mezzo a tutti quei ninja d'élite?
«Mi stai ascoltando?» sbottò Naruto accorgendosi che era distratto.
«Naruto, ti prego... La mia testa...»
«Se tu mi avessi ascoltato, saresti già fuori dal letto in cerca del tuo zaino. Non vuoi sapere chi è la spia?»
«Quale spia?» cedette Hitoshi, aprendo gli occhi.
«Ora ragioniamo! Stavo dicendo che mentre eravate via abbiamo scoperto che lo studio dell'Hokage è sorvegliato. Non sappiamo da chi né come, persino gli Hyuuga si sono arresi e hanno ammesso di non riuscire a individuare nessuno, ma sappiamo che c'è qualcosa là fuori.»
Hitoshi si sollevò su un gomito, suo malgrado intrigato.
«Nemmeno gli Hyuuga ci sono riusciti?» chiese, segnando mentalmente un punto contro le tecniche oculari.
«Nemmeno gli Hyuuga. Per fortuna il corpo di polizia della Foglia non è composto solo da quel cretino di tuo padre, ma anche da tanti bravi ragazzi, e, grazie a una soffiata, loro sono riusciti a restringere i sospetti su una sola persona... Vuoi sapere chi?» ghignò Naruto.
«Chi?» Hitoshi si sporse in avanti.
Naruto si tirò indietro e di colpo si alzò, allontanando la sedia dal letto.
«Ehi!» protestò Hitoshi, ma il maestro scrollò le spalle senza smettere di sorridere allegro.
«Tua madre mi ha fatto giurare di attendere i risultati delle tue analisi, quindi fino a domani potrai pensarci da solo.»
«Pensarci da solo? Senza indizi? Ero via quando avete scoperto della spia, come diavolo faccio?»
«Consideralo il tuo test di ammissione.»
«Ma... E se le analisi danno cattive notizie?»
«Dai, siamo seri: chi li ascolta davvero i dottori?»
Hitoshi ricadde pesantemente sui cuscini, masticando insulti tra i denti mentre Naruto turbinava fuori.
La testa pulsante tornò a catturare tutta la sua attenzione, perversa, ma i suoi pensieri dribblarono il dolore e iniziarono a macinare possibilità. Una spia? A Konoha? Da quanto tempo? Perché? Un paio di idee le aveva...
Tra un sospetto e l'altro, concentrato com'era ad analizzare i comportamenti di tutti gli shinobi che conosceva, non si accorse nemmeno che la nuova preoccupazione gli stava impedendo di piangersi addosso, ma soprattutto di chiedersi perché suo padre non fosse ancora venuto a trovarlo.


*


«Non ho una tua cartella clinica, ho solo parlato con il Kazekage.»
Il medico sfogliò gli appunti sulla scrivania con espressione corrucciata. La parte pratica della visita si era appena conclusa, e Chiharu stava finendo di rivestirsi.
«Se fossi una mia paziente ti farei ricoverare immediatamente per un ciclo di analisi complete e ti spedirei uno psicologo per discutere di un cambio di carriera.»
Chiharu tirò fuori la coda dalla maglietta e sbuffò. «Non sto così male.»
Il medico prese dal cassetto della scrivania un blocco di fogli nuovi e una penna. «Le malattie cardiache sono spesso asintomatiche, finché non conducono all'arresto circolatorio. Di solito l'unica cosa che riferiscono i pazienti è un po' di dolore sotto sforzo.»
Chiharu ricordò tutte le volte che nel mezzo di una missione aveva sentito un peso sopra lo sterno, come una mano che si stringeva attorno al cuore e le rendeva difficile respirare... Si sforzò di non mostrare reazioni e si sedette davanti alla scrivania.
«Ma io sono uno shinobi» disse in tono neutro.
Il medico firmò il primo foglio e la guardò da sopra le lenti degli occhiali. «Se continui a ignorare la tua salute, potresti non dovertene preoccupare ancora per molto.»
Chiharu deglutì. Normalmente non avrebbe ascoltato il parere di uno sconosciuto, ma il ricordo del malessere che l'aveva colta dopo la missione di Loria era abbastanza fresco da farle sorgere qualche timore. Aveva sempre preso relativamente alla leggera i problemi del suo cuore, anche perché andare in missione con Naruto voleva dire non essere mai realmente in pericolo, ma ora che Naruto non poteva più seguirli, quanto spesso avrebbe dovuto faticare come l'ultima volta? Quante volte ancora sarebbe dovuta ricorrere alla Lophenaria del nonno?
«Ti sto segnando alcune analisi...» riprese il medico, continuando a compilare fogli. «Posso chiedere un favore all'ospedale di Suna e farti ricoverare immediatamente. Nel giro di un paio di giorni avremo i primi...»
«Aspetti un minuto» lo interruppe lei. «Non voglio farmi ricoverare.»
Il medico smise di scrivere per fissarla. «Non vuoi?» posò la penna. «Chiharu... Credo che tu non abbia ben chiara la gravità della situazione. Il tuo cuore in questo momento è molto più simile a quello di un settantenne che a quello di una ragazza di diciotto anni. Non sono sicuro che riusciresti a ritornare a Konoha... Anzi, per quanto mi riguarda è troppo rischioso.»
«Quindi dovrei restare qui ad aspettare... cosa?»
«Abbiamo bravi specialisti...»
«No» Chiharu si irrigidì. «Se devo fare qualcosa per la mia salute voglio farlo a casa mia, con i miei medici e le mie cose. Voglio tornare a Konoha.»
Aveva parlato in fretta, resa nervosa dal tono serio del dottore. Perché sembrava tanto preoccupato? Perché parlava di ricovero, analisi, cambi di mestiere...? Non poteva essere così grave.
«Non posso darti il mio consenso» disse l'uomo, intrecciando le mani sulla scrivania.
«E' indispensabile?»
«No. Sei maggiorenne, hai il diritto di essere informata e scegliere liberamente... Ma...»
«Allora voglio tornare a casa.»
Il medico corrugò la fronte. «Potresti stare male lungo il viaggio.»
«Ho alcuni... integratori che mi hanno dato alla Foglia. Per le emergenze» disse Chiharu pensando alla Lophenaria.
«Sarebbe meglio evitare medicinali e integratori, almeno finché non avrai fatto degli esami completi.»
Chiharu serrò le labbra, agitandosi un altro po'. Niente Lophenaria? Allora quello stupido di Stupido un po' ci aveva preso? Ma senza Lophenaria come avrebbe nascosto agli altri shinobi di Konoha quanto fosse faticoso il viaggio per lei?
«Resta a Suna» tentò ancora il medico, sfoderando il meglio delle tecniche di persuasione che aveva imparato nel corso degli studi. «Ci prenderemo cura di te, faremo esami approfonditi e valuteremo il modo migliore per farti tornare a casa. Sarà questione di pochi giorni, al massimo alcune settimane, e non resterai da sola: probabilmente il tuo compagno dovrà trattenersi un po' di tempo in attesa che calcifichino le coste... E anche tua madre resterà sicuramente con te.»
Intere settimane sola con Temari? Chiharu inorridì.
«Voglio tornare a Konoha» ripeté meccanicamente. «Dove devo firmare per scaricarla della responsabilità?»
Il medico sospirò e spinse verso di lei un piccolo plico di ricette, chiedendosi perché nessuno ascoltasse mai i dottori.. «Ti farò avere i moduli... Ma pensaci un altro po'. Il Kazekage non ha ancora deciso quando far ripartire il vostro gruppo, prenditi del tempo per rifletterci. Almeno una settimana.»
Chiharu annuì distrattamente, prendendo i fogli.
«Visto che non vuoi farti fare esami approfonditi, ho aggiunto un ricostituente per eliminare le tossine. Quando il miocardio entra in sofferenza...» il medico si interruppe, scrollando la testa. «Penso che non ti interessi. Prendi le pillole che ti ho segnato, aiuteranno a eliminare un po' di schifezze dal tuo sangue. Inclusi quegli integratori che ti hanno dato a Konoha.»
Chiharu annuì di nuovo, lo sguardo a frugare la calligrafia incomprensibile sui fogli che aveva ricevuto. «Una cosa» disse, prima di alzarsi. «Non voglio che i dati sulla mia salute vengano comunicati a mia madre o a mio zio. Se no la trascino in tribunale.»
Il medico scosse la testa, stringendosi nelle spalle. Non era d'accordo, non era soddisfatto, ma alla fine la sua coscienza era a posto: non poteva salvare tutti.

Seduta a gambe incrociate sul letto dell'infermeria, Chiharu si fissava i polsi alla luce della luna. Dietro la tenda sentiva il russare sommesso di Kotaro, da qualche parte il ronzio di un condizionatore. La pelle dei suoi avambracci riluceva debolmente nella penombra. Là dove il polso si assottigliava emergevano lievemente le vene.
Con tre dita andò a sentire il battito cardiaco poco sotto il pollice: tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Faceva il suo lavoro. Tu-tum. Tum. Tutum. Tolse le dita.
Davvero era bastata una sola missione per ridurla a una settantenne?, si chiese ripensando alla visita di quella mattina. Si era trattato di naturale peggioramento o la Lophenaria c'entrava qualcosa? Era stata imprudente? Forse era stata l'evocazione?
All'ultimo pensiero la sua mandibola si irrigidì visibilmente. Kotaro aveva chiesto dell'uccello, Gaara lo aveva visto, sua madre ne era stata informata... Cosa aveva in mente Kakashi? Le aveva sempre espressamente vietato di usare quell'evocazione, perché adesso le aveva chiesto di farlo? Doveva sapere che una cosa del genere nel mezzo di una missione di gruppo avrebbe suscitato domande... Le veniva in mente solo una possibile motivazione, ma anche quella non spiegava perché l'avesse fatto proprio adesso.
E comunque, rifletté con disappunto, se il suo peggioramento era dovuto all'evocazione, beh, non era nei patti.
Scivolò fuori dal letto e silenziosamente indossò le ciabatte che le avevano lasciato per quella notte. Dal momento che voleva evitare le domande di Temari aveva chiesto di restare a dormire in infermeria, e visto che il medico preferiva averla sott'occhio aveva accolto l'idea senza fare storie. In punta di piedi, facendo attenzione a non svegliare Kotaro né il medico di guardia, uscì e percorse i corridoi che portavano a una porticina sul retro, allarmata durante la notte. Lì accanto c'era un piccolo deposito di biancheria sporca, a quell'ora vuoto. Chiharu vi entrò silenziosamente, guardandosi alle spalle per un istante.
Dentro era completamente buio, ma non le serviva luce per fare quel che stava per fare: nell'oscurità compose un'elaborata serie di sigilli, sentì l'enorme prelievo di chakra che le fece vacillare le gambe, e un momento dopo dal nulla comparve uno sbuffo di polvere tenuemente illuminata, al centro del quale svolazzava un minuscolo uccellino dorato.
Nel vederla lanciò un gridolino acuto, e frullando le ali si posò su un tavolo libero.
«Shh» sussurrò lei ansiosamente, quindi trattenne il respiro per alcuni secondi: nessun rumore. Solo allora si rilassò. «Ho un messaggio per Suzaku» sibilò inginocchiandosi. «Non ha rispettato i patti. Sono molto arrabbiata con lui.»
L'uccellino la guardò inclinando la testa in un espressione meditabonda o calcolatrice, era difficile dirlo, poi scrollò le penne in una sorta di risposta incomprensibile. Senza aspettare il via libera di Chiharu si sgranchì un'ala per volta e scomparve nella stessa nuvoletta di fumo in cui era arrivato.
Chiharu si rialzò a tentoni, cercando la maniglia della porta nel buio. Il suo cuore batteva forte, questa volta per l'agitazione: forse aveva osato troppo, aggiungendo l'ultima frase? Si sarebbe dovuta fermare ai patti non rispettati? Quell'azzardo le sarebbe costato qualcosa? Anche se fosse stato, ormai era fatta.
Una volta fuori la penombra del corridoio le sembrò piena luce dopo le tenebre dello stanzino. Con cautela richiuse lo sgabuzzino e tornò verso l'infermeria.

La mattina dopo sia lei che Kotaro furono svegliati da un'infermiera brusca e assai poco compassionevole. Nonostante gli infruttuosi tentativi di Chiharu per scomparire sotto le coperte, Kotaro cercò in ogni modo di fare conversazione, felice e allegro come solo un maniaco dell'allenamento sa essere di prima mattina. Il medico passò a visitarli subito dopo colazione, poi, a sorpresa, arrivò anche Gaara.
«Sembra che abbiate bisogno di più tempo del previsto» commentò corrucciato scrutando i due ragazzi. «Ho parlato con il personale dell'infermeria, hanno consigliato almeno una settimana di riposo per entrambi prima di rifare il viaggio verso Konoha. A questo punto immagino che il resto del gruppo partirà senza di voi» Sia Chiharu che Kotaro scattarono a sedere e iniziarono a protestare contemporaneamente, ma Gaara li fermò con un cenno. «Non è una mia scelta, sono disposizioni mediche. E non posso trattenere un'intera squadra per aspettarvi.»
«Io non ho niente che non va!» sbottò Chiharu, mentendo con una naturalezza invidiabile. «Non potete costringermi a restare qui da sola un'intera settimana!»
Soprattutto se ci resta anche mia madre!, aggiunse mentalmente.
«Ero solo venuto a comunicarvelo» specificò Gaara, ignorandola. «Gai Maito, Rock Lee e Baka Akeru partiranno in tarda mattinata.»
«Stupido tornerà a prendersi tutto il merito della missione?» esclamò Kotaro indignato. «Nobile Kazekage, la prego, mi dia ancora tre giorni. Anzi, due! Solo due giorni! Tra due giorni sarò abbastanza in forma per...»
«Tra due giorni sarai in forma meno di oggi, se non la smetti di gridare» intervenne il medico scostando la tendina che separava i tre dal resto dell'infermeria.
Kotaro strinse le mani sul lenzuolo, le folte sopracciglia corrucciate fino ad unirsi. Per una volta, la prima e forse unica volta che poteva prendersi il merito di una missione in cui Hitoshi Uchiha non c'entrava, Baka Akeru si sarebbe preso il suo trionfo?
«Stasera» digrignò i denti. «Stasera mi visiti di nuovo e mi dia il via libera oppure no. Soltanto dodici ore!»
Gaara e il medico scambiarono un'occhiata, poi il medico sospirò e scrollò le spalle. «Non cambierà niente in dodici ore.»
«Se non sarà cambiato niente accetterò di restare a riposo. La prego!»
Gaara socchiuse gli occhi e sembrò valutare la richiesta. Alla fine accettò, ma disse che prima avrebbe sottoposto la questione a Gai, Rock Lee e Akeru. Kotaro tirò un visibile sospiro di sollievo, lasciandosi ricadere sui cuscini. Chiharu, lì accanto, pensò con orrore che in dodici ore non sarebbe mai e poi mai riuscita a convincere il medico a lasciarla partire.
«Posso firmare le carte per partire contro il parere del medico, vero?» chiese ansiosamente.
Gaara la fissò per un lungo momento. «Potresti» disse quindi, lentamente. «Ma tua madre non mi perdonerebbe mai se sapesse che te l'ho lasciato fare, soprattutto considerato che hai espressamente vietato al nostro personale di farci sapere quali sono le tue condizioni. Se davvero tu firmassi quei fogli mi vedrei costretto a trattenerti per vie politiche.»
Chiharu fu certa di vedere l'accenno di un sorriso all'angolo della bocca del medico. Che odio! Strinse il lenzuolo tra le dita e non disse più niente, facendo lavorare furiosamente il cervello.
Quando Gaara e il medico si furono allontanati parlando tra loro, Chiharu gettò un'occhiata di fuoco a Kotaro.
«Dodici ore?» ripeté furente. «Io che diavolo faccio in dodici ore?»
«Chiharu, mi dispiace...» balbettò lui improvvisamente mortificato. «Non ho pensato... Perdonami, è solo che...»
«E tu che diavolo fai in dodici ore?» lo interruppe lei. «Hai due costole rotte, per la miseria!»
Kotaro abbassò lo sguardo e giocherellò con il lenzuolo, mormorando scuse inintelligibili. Chiharu strinse i denti, buttò indietro le coperte e scese rabbiosamente dal letto.
«Dove vai?» chiese Kotaro tutto ansioso. Ma Chiharu non rispose, e avvolta solo nel camicione dell'infermeria uscì in corridoio sbattendo la porta.
Avrebbe seguito Gaara, si disse. Lo avrebbe preso a quattr'occhi e gli avrebbe spiegato che restare a Suna con sua madre un'intera settimana avrebbe scatenato cataclismi di proporzioni inaudite. In qualche modo lo avrebbe convinto a lasciarla andare. E avrebbe fatto emigrare il medico dell'infermeria prima che potesse infrangere il segreto professionale.
Invece incontrò Temari, neanche a due minuti dalla partenza. Trasalì, considerando l'idea di nascondersi dietro un vaso di fiori, ma capì che era troppo tardi.
«Cosa fai in giro mezza nuda?» si sentì chiedere.
«Cosa fai in giro a quest'ora?» replicò stringendosi addosso il camicione.
«Ho una figlia ricoverata, per esempio.»
«E io sono vestita da ricoverata, per esempio.»
Temari la scrutò sospettosamente. Conosceva le tattiche evasive di Chiharu come le sue tasche. Qualcosa puzzava.
«Dove stavi andando?» chiese senza mezzi termini.
La miglior difesa è l'attacco, pensò Chiharu al volo.
«Perché non vuoi tornare a Konoha?»
Temari serrò le labbra e assunse la stessa posizione della figlia, con le braccia serrate sul petto.
«C'entra papà, ma perché?» insisté Chiharu.
«E tu perché hai stretto un Contratto di Sangue senza dirmelo?»
«Cosa gli hai fatto, per doverti nascondere fin qui?»
All'improvviso le guance di Temari si coprirono di rossore rabbioso. «Perché dai sempre per scontato che i problemi in famiglia li causi io? Se resto a Suna è per qualcosa che tuo padre ha fatto!»
Chiharu fu colta completamente alla sprovvista. Per un attimo non seppe cosa ribattere, fissando Temari a bocca aperta.
«E se Shikamaru ha un briciolo di buonsenso, alzerà il sedere e verrà a riprendermi» concluse lei recuperando il controllo. «Stavamo parlando del tuo Contratto, giusto?»
«No. No no no, torna indietro un momento. Che cosa ha fatto papà per farti arrabbiare fino a questo punto? Papà: quello che piuttosto che perdere energie a litigare ti dà ragione anche quando non ne hai per niente!»
Temari roteò gli occhi. Quando ci si metteva Chiharu era sgradevolmente testarda, peggio di lei: non poteva spiegarle dinamiche familiari che i figli avrebbero fatto meglio a non indagare.
«Bene, visto che vuoi parlare parliamo della notte prima della missione» contrattaccò. «Perché Gaara dice che non ti sei fatta viva per chiedergli un'altra stanza, quindi dov'eri?»
Chiharu impiegò qualche istante per capire a cosa alludesse. Poi i ricordi della notte con Hitoshi le affollarono la mente tutti insieme, e per un momento si sentì vacillare. La notte con Hitoshi. Sembrava mille anni prima.
«Mi-mi sembrava che la segretaria mi tenesse d'occhio» improvvisò. «L'avevo vista intorno alla stanza e non volevo che sospettasse qualcosa... Mi sono infilata in una camera vuota. La più vicina.»
Temari strinse le palpebre, poco convinta. Stava per aggiungere una domanda, ma Chiharu lo sapeva, così come sapeva che la storia non era pronta nella sua mente e che in faccia era di un colore che la accusava più di qualunque parola. Capì che doveva correre in ritirata, subito, prima di crollare, o le conseguenze sarebbero state catastrofiche.
«Se vuoi chiedere a Kotaro ti confermerà che non ho fatto tardi» disse in fretta, quasi da mangiarsi le parole. «Ma poi che te ne frega? Ho diciotto anni e la missione è stata un successo! Sei opprimente!» si lamentò con tono petulante. E allora, stringendosi convulsamente addosso la camicia – perché aveva l'impressione che si vedesse, che Temari avrebbe capito anche solo guardandola – si fece piccola per sgusciare tra la madre e il muro e si allontanò quasi correndo, le orecchie sorde ai richiami alle sue spalle. Non poteva davvero affrontare una discussione su Hitoshi e sulla sua imbarazzante incapacità di respingere le sue avances. Non in quel momento, quando aveva questioni molto più importanti da risolvere.
Arrivò fino in fondo al corridoio, salì il primo piano di scale, e solo quando fu oltre il secondo si fermò per riprendere fiato. Hitoshi!, pensò allora. Tornare a Konoha significava rivedere Hitoshi, che sicuramente si aspettava un chiarimento, che forse la odiava per averlo spedito a casa, e che addirittura in quel momento poteva essere ricoverato, mezzo moribondo... Al pensiero non era più tanto sicura di voler correre indietro.
D'altro canto restare era almeno doppiamente pericoloso, per sua madre e per quel maledetto medico ficcanaso, e poi... le seccava che Stupido si prendesse il merito per una missione del gruppo sette. Stupido, dai!
E fu pensando a lui che capì di doverlo costringere ad aiutarla.

Prima di andare a cercarlo tornò a rivestirsi, ignorando Kotaro che dietro la sua tenda faceva chissà cosa – probabilmente riti sciamanici proibiti per la guarigione immediata delle costole. Aveva raggiunto l'infermeria per una strada contorta e lontana dai passaggi abituali di Temari, ma continuava ad avere l'impressione che la madre sarebbe sbucata da dietro i vasi per sottoporla a un nuovo interrogatorio.
Prima di tutto pensò di cercare Kankuro per scoprire quale fosse la stanza di Stupido, perché gli sembrava la persona più affidabile e meno coinvolta a cui rivolgersi. Ma non avendo la minima idea di dove trovarlo si trovò a vagare nei pressi dello studio di Gaara sperando che lo zio decidesse di fare un salto dal fratello. Mentre aspettava cercando di sembrare innocente, si imbatté precisamente nel gruppetto degli shinobi di Konoha che avevano appena finito di discutere del rientro nel paese del Fuoco. Un attimo prima di trovarseli di fronte intrecciò le dita in una serie frenetica di sigilli e si appiccicò alla parete attivando la tecnica della mimetizzazione.
Gai, Rock Lee e Stupido le passarono davanti senza accorgersi di nulla, immersi in una conversazione serena: Chiharu captò qualcosa riguardo a sua madre che aspettava l'arrivo di Shikamaru e un paio di agghiaccianti battute che avrebbe preferito non sentire, poi lasciò che svoltassero oltre una curva del corridoio e sciolse la tecnica per pedinarli.
Per sua fortuna Stupido si separò dagli altri quasi subito, dicendo che gli doleva ma doveva rinunciare al loro allenamento nel deserto per preparare lo zaino. Rock Lee e Gai lo lasciarono andare e sparirono pieni di entusiasmo, lui invece salì fino al primo piano e aprì una porta nel corridoio degli ospiti. Fu allora che Chiharu si fece vedere.
«Non dovresti essere in infermeria con un camicione e una flebo nel braccio?» trasalì Akeru notandola.
«Ho bisogno del tuo aiuto.»
Lo stupore di Akeru durò una frazione di secondo, subito sostituito dalla tracotanza. Con un gesto cerimonioso le indicò l'ingresso della stanza e la lasciò passare per prima, gongolando silenziosamente. Quando furono entrambi dentro richiuse la porta e ci si appoggiò, il mento ben alto e un sorriso di trionfo impossibile da nascondere.
«Gaara ci ha detto che tu e Kotaro volete fare gli splendidi cercando di auto-curarvi in dodici ore... Lasciami indovinare: vuoi che falsifichi i tuoi esami per farti tornare a Konoha con noi?»
Chiharu fece un gesto stizzito, ferma in un angolo con le braccia strettamente ripiegate sul petto. «Non voglio che falsifichi niente. Dimmi come posso falsificarmi gli esami da sola.»
«Non puoi falsificarti gli esami...»
«Sì che posso. Dimmi cosa devo prendere perché il mio cuore sembri in ordine e il mio sangue scintillante.»
«Ti sto dicendo che non puoi. Anche se fossi d'accordo nel lasciartelo fare – e non lo sono, sia chiaro – avresti bisogno almeno di un paio di giorni perché le droghe facciano effetto come si deve.»
Chiharu serrò la mandibola. «Sono piuttosto sicura che ci sia qualcosa che non mi stai dicendo.»
Akeru ridacchiò, allontanandosi dalla porta. «Nessuno ascolta mai i dottori, eh? Prova con la Lophenaria di tuo nonno, probabilmente è più potente di qualunque mio intruglio. Ora scusa ma ho da fare. Mi dispiace di non esserti stato d'aiuto.»
Mentre lui allungava il braccio per raggiungere lo zaino ai piedi del letto, Chiharu gli afferrò il polso.
«Non ti prenderai il merito della mia missione!»
Lui la guardò un po' stupito, poi scoppiò a ridere. «Allora è questo il problema? Non ho bisogno di prendermi il merito della vostra missione, Chiharu. Sono un Anbu, ricordi?»
Lei aumentò la stretta. «Ricordo fin troppo bene chi sei; per questo voglio tornare con voi, o non tornerai neanche tu.»
Akeru inspirò a fondo, senza cercare di sottrarre il braccio. «Ascolta, Chiharu. Qui non è questione di una missione in più o in meno» le spiegò con tono vagamente cerimonioso. «E' questione del tuo cuore, che fa schifo, soprattutto se vuoi fare la kunoichi. Non puoi farti tre giorni di corsa con la cartella clinica che ti ritrovi: ci costringeresti ad andare al piccolo trotto, e neanche così sarei sicuro di farti arrivare tutta intera. Forse dovresti iniziare a guardare in faccia la realtà e fare qualcosa per rappezzarti i ventricoli.»
«Non voglio la paternale, voglio solo un paio di indicazioni mediche» insisté lei, mollandogli il braccio di scatto.
«E' così importante tornare prima di me?»
«E' importante non restare a Suna con mia madre!»
Di nuovo Akeru scoppiò a ridere, questa volta tanto da doversi sedere sul letto. «Sul serio? Hai paura di restare qui con lei?»
«Non. Ridere.» Chiharu digrignò i denti, sentendo le guance infiammarsi per la frustrazione.
Akeru riprese fiato e si costrinse a limitarsi a un sorriso. In effetti, ora che ci pensava, neanche lui avrebbe fatto i salti di gioia all'idea di restare in balia di Temari... Ma, insomma, Chiharu Nara sull'orlo della supplica era troppo allettante per rinunciare a infierire in nome della pietà.
«Chiedimelo per favore» suggerì.
Chiharu avvampò, colta dall'insopprimibile desiderio di scoprire di che colore fosse il suo sangue. Si disse che aveva fatto un errore colossale pensando di rivolgersi a lui, e per un momento fu tentata di tirargli un cazzotto e andarsene... Poi si fermò.
Akeru era davvero la sua unica speranza di tornare a Konoha. Solo un medico poteva trovare il modo di fregare un altro medico. Doveva convincerlo ad aiutarla, non poteva permettersi di lasciarlo vincere. Non poteva. Non voleva restare di nuovo indietro, come cinque anni prima, bloccata in un letto di ospedale mentre Kotaro apriva Porte del Chakra come fossero sacchetti di patatine.
Ingoiò gli insulti che le erano saliti alle labbra, ingoiò l'orgoglio e gli anni di odio conclamato, per un secondo si trovò addirittura a pentirsi di essere stata crudele con Baka quando le aveva fatto la sua confessione... Poi fece un respiro profondo, sentendosi morire dentro, e parlò.
«Per favore.»
Il sorriso sfumò dalle labbra di Akeru. Di punto in bianco l'aria si riempì di disagio.
«Ascolta...» tentò lui, ma lei si avvicinò e lo interruppe.
«Per favore.»
Akeru ammutolì, fissandola. Vide le labbra pallide, le occhiaie sotto le palpebre, i muscoli del collo tesi. Sembrava importante, anche se probabilmente non gli stava dicendo tutto: di solito Chiharu lo guardava con disprezzo, sarcasmo, o almeno un filo di supponenza; oggi invece lo guardava come se dal suo parere dipendesse ogni cosa.
Pensò di chiederle di spiegargli davvero perché voleva andarsene, ma appena prima che potesse farlo la sua mano si mosse da sola e la afferrò per il polso. La tirò a sé, dimenticandosi la domanda e il bel discorso sull'etica che aveva propinato a Temari; la tirò giù, cercando la sua bocca come non aveva mai nemmeno osato pensare, e la baciò.
Chiharu, abbastanza sbalordita da non riuscire a reagire, si irrigidì per un istante; poi, sorprendentemente, cedette e dischiuse le labbra.
Akeru si chiese cosa stava facendo. Fece scivolare l'altra mano sulla sua nuca e con un unico movimento la sospinse sul letto, scivolando su di lei per bloccarla con il peso del proprio corpo. Cosa stava facendo?, domandò ancora, e sprofondò il viso nell'incavo del suo collo, rabbrividendo quando un suo ansito gli solleticò l'orecchio. Cosa, cosa, cosa diavolo stava facendo?, si chiese per l'ultima volta.
E alla fine, quando sentì le dita di Chiharu premere sulla sua schiena, smise di chiederselo.






* * *

Chiedo umilmente il vostro perdono.
Come è mia sgradevole abitudine vi ho ingannati di nuovo.
Dopotutto, *quella parte* è rimasta.
Però questa volta hanno fatto una doccia.

Buongiorno a tutti!
La primavera è alle porte e io sono stata risucchiata dal terribile vortice del giardinaggio.
Ma non temete: la notte è per forza dedicata alla scrittura,
dovrei riuscire ancora a cavarmela.

E' davvero dura incastrare nella trama le cose che devono ancora accadere
(a 20 anni sembrava tutto molto più semplice, mannaggia),
ma riempiendo interi file di "cose da ricordare" e rileggendoli spesso ci sto dietro.
Spero.

Ancora una volta: se vedete incongruenze avvisatemi!

Grazie per essere arrivati fin qui!



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Capitolo 24
*** Anbu ***


Penne 24
Capitolo ventiquattresimo

Anbu




Hitoshi si era preparato come se quella mattina non si fosse svegliato in un letto d'ospedale, ma direttamente nella sua camera. Profumato e vestito in maniera impeccabile studiò il proprio riflesso nello specchio; sistemò un ciuffo di capelli che ricadeva male. Ora sembrava abbastanza rispettabile.
Quella notte aveva riposato come un bambino. Il mal di testa si era spento nel sonno – o negli analgesici – e non si era ripresentato al risveglio. Si sentiva riposato come non gli accadeva da giorni. Ora doveva solo aspettare le analisi di sua madre, poi si sarebbe presentato a Naruto annunciandogli che aveva una rosa di tre candidati al ruolo di spia.
La porta della camera si aprì, e Sakura si fermò stupita sulla soglia.
«Cosa fai fuori dal letto?»
«Ciao mamma. Ottimizzo il tempo.»
Sakura lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, facendo frusciare i fogli che stringeva in mano. «Naruto ha avuto una pessima influenza sul tuo sviluppo.»
«Naruto? Non dire sciocchezze, è l'ultima persona a cui potrei mai ispirarmi. Gli esami?»
«Niente che non vada. Niente di particolarmente strano, niente valori anomali, niente di niente di niente!» sbottò lei.
«Preferivi il contrario?»
«No! Ma vorrei capire perché ti si spacca la testa se non hai nulla che non va!»
Hitoshi sorrise amaro, abbassando lo sguardo su un pelucco invisibile per non incontrare quello di lei. «Sappiamo cosa c'è che non va.»
«Oh, adesso non cercare di insegnarmi il mestiere. Devo ancora arrivare ai test genetici.»
Suo malgrado Hitoshi rise, rialzando la testa. «Bene, il tuo patto con Naruto è salvo. Adesso posso andare a cercarlo?»
Sakura sbuffò. «Figurati. L'ho bloccato al piano di sotto, altrimenti sarebbe già qui davanti...»
Hitoshi rise di nuovo, ma non perse altro tempo. Con un saluto un po' distratto la lasciò sola e uscì in tutta fretta, già proiettato verso l'incontro con Naruto e la sua imminente promozione. Sakura lo guardò andare via e fece un sospiro profondo.
Non vedeva Sasuke da prima che Hitoshi tornasse.

Hitoshi trovò Naruto che fremeva ai piedi delle scale. Non ebbe nemmeno il tempo di annunciargli che gli esami erano in perfetto ordine, che il maestro lo afferrò per la nuca e lo trascinò fuori dall'ospedale, completamente disinteressato alle analisi.
«Adesso ti do il materiale e tu te lo studi tutto entro stasera» disse senza nemmeno salutarlo.
«Frena, frena!» esclamò Hitoshi divincolandosi dalla sua stretta. «Quale materiale? Non dovevamo parlare? Io ho pensato a chi può essere la spia!»
Naruto lo fissò stranito. «Ma quello era per far stare tranquilla tua madre!»
«Cosa? Ho passato tutta la giornata a scervellarmi!»
«Davvero? Ma noi sappiamo già chi è la spia. Cioè, chi pensiamo che sia...» abbassò di colpo la voce, passando a un tono a malapena udibile.
«Hai detto che era il mio esame di ammissione!»
«Prima di quello ho detto che per quanto mi riguarda eri già stato ammesso. Sei poco attento!»
Hitoshi lasciò crollare le spalle, arrendendosi. Naruto aveva deciso tutto chissà quanto tempo prima, incurante del suo parere o di quello di Sakura. Probabilmente anche se gli esami avessero indicato che era in fin di vita lo avrebbe trascinato in quella missione solo perché ormai aveva deciso così.
«Naruto...» sussurrò nervosamente, evitando il suo sguardo. «Ti ricordi che non ho lo sharingan, vero?»
«E con questo?» Naruto gli fece arrivare una scoppola. «Nessun altro Anbu ce l'ha, e questo non è mai stato un problema. Forse solo per quel rimbambito di tuo padre. Ma lui è pazzo.»
Hitoshi non seppe come reagire. Ammettere a voce alta di non avere lo sharingan era una cosa che gli capitava assai di rado: un po' era sollevato, ma anche più afflitto. Non aveva voglia di difendere suo padre, in quel momento; preferiva seguire Naruto.
«Dove dobbiamo andare?» sospirò.
«A casa mia, ovviamente. Lo studio è sorvegliato, ricordi? Micchan sarà felice di vederti!»

L'enorme villa di Naruto era come sempre popolata di gatti in varie sfumature del beige, accoccolati sul portico a prendere il sole o impegnati a pattugliare i tetti. Prima dell'ora di pranzo Hitoshi si trovò seduto nel salottino informale della villa davanti a un tè bollente, con un gattino di pochi mesi che gli annusava meticolosamente i piedi. Strano che la casa non puzzasse come il covo di una zitella.
«Questo è il mattone con i documenti» stava spiegando Naruto, sfogliando davanti a lui un plico spesso diversi centimetri. «La maggior parte dei fogli sono inutili, gli Hyuuga sanno essere noiosissimi. Vai direttamente agli ultimi.»
Hitoshi tirò un calcetto discreto al gattino e si protese per sbirciare.
«Quindi chi è la spia?» non poté fare a meno di chiedere.
«Yoshi, quel ragazzino con i capelli assurdi che fa l'Accademia anche se ha l'età per votare.»
Suo malgrado, Hitoshi esultò interiormente: «Lo sapevo!»
«Lo sapevi?» Naruto gli puntò gli occhi addosso, e Hitoshi sentì un brividino correre lungo la schiena. Non capitava spesso che Naruto lo fissasse così, ma quando succedeva si sentiva di nuovo un tredicenne incapace.
«No che non lo sapevo» balbettò. «Lo sospettavo. Andiamo, fa l'Accademia e ci sta dietro nelle missioni di livello A? Avevo già detto al Sesto Hokage che la cosa mi puzzava!»
Naruto rilassò le spalle e annuì. «Sembrava solo un allievo molto promettente. Avevano controllato tutte le sue referenze, eravamo sicuri che non fosse una minaccia... Immagino che invece la Roccia gli abbia offerto qualcosa di succoso e lo abbia convinto a passare dalla loro parte. Uno dei nostri Anbu qualche tempo fa lo ha trovato nel bosco, completamente solo. Quando lo ha interrogato lui ha detto di essere lì per esercitarsi, ma S... l'Anbu ha detto di essere sicuro di averlo sentito confabulare. Lo abbiamo tenuto un po' d'occhio in questi giorni, così abbiamo scoperto che ci sono dei brevi periodi di tempo in cui sparisce completamente nel nulla. Non siamo riusciti a capire dove va. Shikamaru ha fatto due più due e abbiamo pensato che sarebbe il caso di fare qualche domanda seria al signorino.»
Hitoshi continuò ad annuire anche quando Naruto ebbe concluso il discorso. Ne aveva ascoltato solo tre quarti, tutto preso a crogiolarsi nell'orgoglio di aver confermato che Yoshi non era un bravo ragazzo, ma quando si accorse che era tornato il silenzio capì che avrebbe dovuto dire qualcosa.
«Sì, era uno dei tre a cui avevo pensato» commentò allora in tono noncurante. Non vedeva l'ora di sbatterlo in faccia a Chiharu.
Naruto lo fissò un po' sospettoso, poi sospirò e gli porse il faldone al di sopra del tè. «Si parte questa notte. Pensi di riuscire a studiartelo tutto?»
«Per chi mi hai preso? Certo che ce la faccio!»
«E la testa sta bene?»
«La farò stare bene.»
Naruto fece un largo sorriso, fiero delle proprie capacità di educatore. «Questo è il mio ragazzo!» esclamò ripromettendosi di fare un resoconto accurato a Hinata.
«Beh, piano con le parole...» mormorò Hitoshi incassando la testa tra le spalle, ma proprio in quel momento sentì un fruscio sotto il sedere, dove c'era lo spazio per le fondamenta. Si irrigidì. Scambiò uno sguardo con Naruto, che invece pareva non essersi accorto di niente, e all'improvviso si sentì afferrare una caviglia sotto il tavolino.
Il primo istinto fu di sfoderare un kunai e pugnalare la mano, ma non era armato. E per fortuna non lo era: perché una vocina entusiasta iniziò a strillare che lo aveva catturato, e da sotto il pavimento spuntò un impolveratissimo Minato – sia lui sia Itachi avevano una grande passione per le fondamenta.
«Hitocchi!» strillò cercando di abbracciarlo.
Hitoshi lo tenne lontano con un gomito, facendo rallentare i battiti del cuore.
«Ti avevo detto che sarebbe stato contento di vederti» ridacchiò Naruto sorseggiando il tè.
Nonostante la schiera di fratellini minori, Hitoshi non riusciva a sentirsi a suo agio con i bambini. Chissà perché, questo di solito si traduceva nel loro sconfinato amore e in tremendi tentativi di coinvolgerlo in giochi e avventure.
«Non hai portato Itachi?» chiese Minato rubando un cracker dal tavolo.
«Non sono passato da casa» borbottò Hitoshi, cercando rapidamente una scusa per allontanarsi. Aveva bisogno di una sigaretta. Subito.
«L'altro giorno con lui e Chomi abbiamo catturato un furetto, lo sai?»
Hitoshi provò una punta di fastidio al pensiero che tre bambini di cinque anni avessero fatto la stessa cosa che al suo gruppo di tredicenni aveva portato via un'intera giornata. Si sentì un po' in inferiorità, e quasi si strozzò con il tè.
«Ho molto da fare... Devo proprio andare...» borbottò alzandosi in tutta fretta.
«Posso venire con te? Papà, posso andare a giocare da Itachi?»
Hitoshi lanciò a Naruto un'occhiata colma di panico, anche se si convinse che fosse un'occhiata d'avvertimento. Il maestro ridacchiò sotto i baffi, ma alla fine prese Minato per una mano e se lo trascinò sulle ginocchia.
«Per oggi no, Micchan. Facciamo un altro giorno, ok? Hitoshi ha tanto lavoro da fare e ha bisogno di tranquillità. Magari può dire a Itachi di venire a giocare qui da noi.»
Hitoshi li fissò, le braccia dell'uno a circondare le piccole spalle impolverate dell'altro.
Suo padre non lo aveva mai abbracciato così. Non gli aveva mai parlato con quella voce. Non aveva mai appoggiato la guancia alla sua in quel modo. Avvertì una stilettata di invidia in fondo allo stomaco, mista all'urgenza di andarsene, e per farlo si congedò in tutta fretta, quasi maleducatamente. Sperava di non incontrare Sasuke prima della missione di quella notte, e sperava con quella missione di riparare al disastro di Suna e potersi presentare a lui con il mento ben alto... Ma anche se ci fosse riuscito, sapeva che il loro rapporto non sarebbe mai potuto essere come quello tra Naruto e i suoi figli.


*


Otto di sera, tramonto. La luce del sole morente tingeva le pareti dell'infermeria di un morbido arancio, disegnando lunghe ombre dai margini smussati sui muri altrimenti bianchi. Il piccolo medico dalla testa canuta stava terminando la visita di Kotaro con l'espressione di uno che ha appena incontrato Buddha per strada.
«E' impossibile, eppure... Le coste sono quasi completamente ripristinate» mormorò.
Kotaro stava evidentemente trattenendo un'ondata di orgoglio prorompente. Chiharu, seduta a gambe incrociate sul letto accanto, gli rivolse un'occhiata furibonda e incredula.
«Come diavolo hai fatto?»
«Le Porte del Chakra» spiegò Gaara, lievemente corrucciato. «Sei già a questo livello?»
Chiharu fissò Kotaro indispettita e gli augurò di squarciarsi le labbra per il troppo sorridere.
«Ho avuto un po' di tempo per concentrarmi...» disse il ragazzo, quasi in tono di scusa. «Adesso posso tornare a Konoha?»
Il medico scosse la testa e scrollò le spalle, guardando Gaara in attesa di un commento.
«Ci sono controindicazioni?» chiese il Kazekage.
«Nulla, a parte un discreto invecchiamento precoce.»
«Allora domattina partirai con gli altri shinobi di Konoha, dopo...»
«E io?» intervenne Chiharu, il cuore che batteva all'impazzata nel petto. «Io resterò qui da sola?»
«E' meglio...» iniziò il medico, ma lei lo interruppe furibonda.
«Io voglio curarmi a casa mia, se devo scegliere! E' questo posto che mi sfinisce, il clima fa schifo, la qualità delle cure è pessima!»
«Dal momento che ti rifiuti di farmi conoscere i dettagli della tua salute, credo che sia meglio per tutti, te inclusa» disse Gaara senza scomporsi, mentre Kotaro passava lo sguardo dall'uno all'altro.
«E io dovrei restare qui con un ciarlatano che non ha mai neanche letto la mia cartella clinica completa?» sbottò lei.
«Quando vorrai condividere...»iniziò Gaara, ma un bussare improvviso lo interruppe. Vagamente infastidito si voltò , e con gran sorpresa si trovò davanti Baka Akeru, tutto scuse e sorrisi dispiaciuti.
«Sono davvero mortificato per l'interruzione, nobile Kazekage. Scusate tutti, mi dispiace, ho una cosa urgentissima da fare» garantì il ragazzo, sgusciando dentro senza essere stato invitato. Sotto lo sguardo attonito dei presenti si avvicinò al letto di Chiharu, le dispose sulle ginocchia un foglio fittamente scritto e le mise in mano una penna. «Qui» disse indicando una linea in un angolo in basso.
«Cosa diavolo è?» ringhiò lei, nonostante tutto incapace di guardarlo. Averlo a pochi centimetri di distanza le faceva bruciare tutti i punti in cui l'aveva baciata poche ore prima.
«Fidati» sussurrò lui in tono di urgenza. «E' quello che vuoi.»
Lei gli gettò un'occhiata nervosa, che spostò sul foglio subito dopo. Fece scorrere rapidamente le righe, lesse qualche termine sconosciuto e clausole confuse che avevano a che vedere con qualche tipo di assicurazione, poi si costrinse a far funzionare il cervello, e finalmente capì.
«Che cos'è quel foglio?» chiese Gaara.
Chiharu sperò che Akeru non dovesse pentirsene, e firmò.
«La prima copia» annunciò Akeru con un ampio sorriso. Prese il documento dalle ginocchia di Chiharu per porgerlo a Gaara, e facendolo le sfiorò intenzionalmente la pelle; poi prese una seconda, una terza e una quarta copia e le rimise sulle sue gambe, facendole firmare anche quelle. «Qui ci sono la sua, dottore, e la mia. Chiharu, puoi tenere l'ultima.»
«Ma che cos'è?» ripeté il dottore, innervosito.
«Un contratto di custodia medico-sanitaria, redatto secondo le più minuziose norme di Suna» spiegò Akeru schiarendosi la voce. «Io sottoscritto Baka Akeru, Jonin di Konoha, dichiaro di prendere su di me l'intera responsabilità della custodia e della salute della firmataria Nara Chiharu, Chunin di Konoha, nel tragitto tra Suna e Konoha. Il suddetto viaggio si intende improrogabile in conseguenza delle precarie condizioni di salute della firmataria. Di seguito le clausole principali che regolano il rapporto di custodia...»
«Io non ho dato il benestare per un viaggio del genere!» sbottò il dottore.
«Non è necessario. Il mio grado come ninja medico mi pone un livello più su del suo» rispose Akeru in tono flautato, prendendosi la rivincita che sognava dal momento in cui l'aveva sentito criticare il suo lavoro su Kotaro.
«Avrei dovuto esserne informato» obiettò Gaara.
«Clausola numero quattro: in caso di contingenza di priorità elevata o più, il permesso può essere accordato dal Kage di riferimento a posteriori» lesse Akeru premurosamente. «Considerata la situazione di instabilità internazionale e la necessità di avere a disposizione tutti gli shinobi, penso che si possa parlare di contingenza di priorità elevata... Il documento è perfetto» non riuscì a non aggiungere.
«Ho firmato tutte le copie» sottolineò Chiharu. «Adesso posso andare?»
Gaara passò lo sguardo da lei ad Akeru, scrutandoli sospettoso. «Spero che tu sappia cosa stai facendo» mormorò fissando lo shinobi. «Se dovesse succedere qualcosa...»
Akeru sollevò orgogliosamente il mento, e per un attimo a Gaara sembrò di scorgere un segno arrossato poco sotto l'orecchio. Come un livido.
«So esattamente cosa sto facendo. Sono perfettamente in grado di gestire la situazione.»
Il medico dell'infermeria scosse la testa, maledicendo i ragazzini idioti e le scuole per i ninja medici. Un conto era cercare di far del bene, un altro conto era essere circondato da deficienti. «Non voglio più saperne niente» annunciò, uscendo dall'infermeria. «Sparitemi da davanti!»
Gaara, rimasto solo, sospirò e scrollò debolmente le spalle. Avrebbe potuto impugnare il contratto sulla clausola relativa alla contingenza, ma con una guerra alle porte l'ultimo dei suoi desideri era far sospendere due buoni shinobi per trascinarli in tribunale. Credeva che Akeru, come ninja medico, fosse perfettamente informato della situazione clinica di Chiharu e che avrebbe vigilato in maniera responsabile... Credeva.
«Avete il mio permesso» annunciò. Chiharu si raddrizzò, accendendosi di entusiasmo, ma lui la ammonì levando un dito. «Non sarò io a dirlo a Temari.»
Un'ombra di timore passò veloce sul viso di entrambi i ragazzi, ma fu presto spazzata via dal calore confortevole della vittoria.
«Nessun problema» assicurò Akeru.
Gaara si ritirò con la sua copia del documento, sperando segretamente di trovare qualche falla che gli permettesse di renderlo non valido, e lasciò i tre ragazzi soli nell'infermeria. Kotaro guardò nervosamente Baka e Chiharu. Si schiarì la voce.
«Sei davvero sicuro di quello che hai fatto?»
Baka si girò a guardarlo quasi stupito, perché aveva dimenticato che fosse lì. «Hai qualcosa da obiettare?»
Kotaro scrollò le spalle e fissò Chiharu con un'espressione che in chiunque altro sarebbe stata di sospetto, e invece in lui era di vago dispiacere. Avrebbe voluto chiederle se stava davvero bene, invece quello che gli uscì di bocca fu: «ma... Baka?»
Chiharu arrossì e corrugò le sopracciglia. «Era l'unico medico nei paraggi.»
Se lui fu indispettito dal commento, lo nascose magistralmente. Kotaro passò ancora una volta lo sguardo dall'uno all'altra, sentendo una piccola stretta allo stomaco all'idea di essere escluso da qualunque cosa li legasse. Eppure lei, lui e Hitoshi erano ancora il gruppo sette. Stupido non c'entrava niente, era un sostituto di cui si sarebbero liberati appena rientrati. Sicuramente Chiharu aveva insistito per non perdersi il merito della missione, come aveva fatto anche lui... Doveva ricordarselo.
«Quindi domattina si va a casa?» chiese sforzandosi di sorridere.
«Grazie al cielo!» sbuffò Chiharu scendendo dal letto.
«Ci resta ancora una notte» commentò Akeru gettandole un'occhiata veloce. Lei schivò il suo sguardo, ma sentì il viso riscaldarsi e si affrettò a raggiungere il bagno perché nessuno se ne accorgesse.
Era molto difficile restare concentrata sul presente, ora che Baka era lì. Ogni volta che posava gli occhi su di lui ricordava un dettaglio delle ore che avevano passato insieme, e questo aveva una certa capacità distraente.
Non lo aveva fatto intenzionalmente, si disse quando fu sola nel bagno. Fissò il proprio riflesso. Non lo aveva programmato, non era previsto, e nemmeno si aspettava che Akeru la aiutasse davvero, alla fine. Non era stata un'azione calcolata: un minuto prima stavano parlando, e un minuto dopo lui la stava baciando. E lei... lei decisamente non affrontava i baci nella maniera giusta. Non era normale che uno la baciasse e lei automaticamente si spogliasse. Questa cosa andava discussa. Anche perché Hitoshi e Baka erano proprio le persone con cui non avrebbe mai e poi mai pensato di finire a letto, e fino al momento in cui avevano iniziato a distribuire baci se l'era cavata egregiamente nel tenerli a bada. Si passò una mano sul viso. Probabilmente era finita come era finita perché erano ragazzi giovani e prima o poi gli ormoni impazzivano, ecco perché; ma non andava bene comunque. Anche con la scusa del mestiere che li metteva sempre in pericolo di vita, non era giustificabile che uno la baciasse e lei si ritrovasse nuda. Maledizione agli ormoni e alle sparate che si era lasciata scappare davanti a Sai: di esercizio ne stava facendo fin troppo.
Sperava che almeno Akeru non pensasse che lo aveva fatto per interesse... Essendo Stupido il pericolo era relativo, ma se gli avevano dato un posto negli Anbu una ragione doveva pur esserci. Dopo il sesso avevano scambiato solo poche parole di circostanza, piene di imbarazzo e commenti sul tempo, e si erano separati prima che a qualcuno venisse in mente di parlare di quel che era successo. Chiharu non poteva avere la minima idea che poi lui si sarebbe sentito in dovere di esporsi per lei. Non glielo aveva mai chiesto, né durante né dopo.
Oltretutto, anche se fosse stato, lei aveva pensato a un trucco medico, non a un contratto di custodia. Quello sì che era contorto. E furbo. E pericoloso, per lui: persino Chiharu sapeva di essere una testa calda, se le avessero detto di prendersi la responsabilità di una sua gemella avrebbe rifiutato. O comunque non avrebbe accettato senza pretendere di vedere una cartella clinica. Akeru doveva essere mostruosamente Stupido o schifosamente borioso, una delle due.
Sperava per lui che tutto andasse bene...
Osservò ancora il suo riflesso allo specchio, le guance arrossate e le labbra leggermente umide. Aveva una cera molto migliore rispetto a quella mattina, doveva ammetterlo.
Con irritazione aprì l'acqua fredda e si lavò energicamente la faccia.


*


Il profilo dei tetti di Konoha si stagliava su un cielo straordinariamente sereno e ingombro di stelle. Le sagome dei palazzi si disegnavano lunghe sulle strade, descrivendo coni d'ombra e triangoli di luce improvvisa, e i pochi passanti si affrettavano a rientrare a casa dopo aver fatto tardi.
Le finestre delle abitazioni erano per la maggior parte buie. Anche quelle del palazzo che Hitoshi stava osservando, nascosto dietro un comignolo poco distante. Accucciato dietro il tubo di alluminio contava i piani cercando di abituarsi alla difficoltà di portare la maschera da Anbu e mantenere la visione periferica, per non parlare della consapevolezza dei metri che lo separavano dal terreno.
Naruto non lo aveva presentato agli altri Anbu, prima di partire. Il luogo stabilito per l'incontro era già pieno di gente mascherata quando era arrivato, e nessuno aveva detto nulla. Non sapeva nemmeno se si conoscessero tra loro, ora che ci pensava. L'unico a volto scoperto era Naruto, che evidentemente gongolava all'idea di essere potenzialmente il bersaglio più appetibile, e Hitoshi sperava che almeno lui fosse sicuro di avere intorno solo Anbu e non Yoshi in persona... Ma conoscendo il maestro non era poi così tranquillo.
Dopo il raduno, gli uomini si erano dispersi per Konoha andando a occupare le posizioni che erano state assegnate a ciascuno. Con una nota di timore – per non dire vero e proprio panico – Hitoshi si era accorto di essere tra quelli più vicini al centro dell'azione, e questo significava che avrebbe sicuramente avuto un ruolo non marginale nell'intera impresa. Ne era fiero e, tutto sommato, grato; ma l'orgoglio non gli impediva di sentirsi suggerire da una vocina maligna che probabilmente non sarebbe stato all'altezza del compito. Era triste essere finalmente dove aveva sempre sognato, e non poterne godere.
Guardò l'orologio per la trecentesima volta. Mancavano un paio di minuti all'entrata in scena, ma già il cuore minacciava di schizzargli fuori dalle orecchie per la tensione. Cercò di non pensare né alle vertigini né al pacchetto di sigarette nascosto nel marsupio a casa, però purtroppo era precisamente ciò su cui finiva per concentrarsi.
All'improvviso un fruscio a margine del tetto gli fece tirare fuori spasmodicamente i kunai, ma era solo Naruto. Gli si avvicinò facendogli cenno di stare in silenzio, lo raggiunse e indicò una finestra buia all'ultimo piano del palazzo.
Hitoshi annuì nervosamente. Naruto era venuto ad accertarsi che non svenisse per la fifa? Grazie tante. Scommetteva che non era certo andato dagli altri Anbu, maledizione. Sentì sul collo lo sguardo immaginario di suo padre e con un brivido si grattò la nuca, dicendosi che era paranoico. Non lo aveva ancora incontrato da quando era tornato da Suna.
Tutto libero, sillabò Naruto senza emettere suono.
Hitoshi annuì, asciugando le mani sudate sui pantaloni. Naruto sospirò appena e fece per posargli una mano sulla spalla, poi si trattenne.
Sai cosa mi aspetto.
La cosa strana, ora che Hitoshi ci pensava, era che in tutti quegli anni non si era mai reso conto di quanto Naruto fosse stato esigente con loro. Non aveva grandi doti di educatore, ma nel corso degli anni li aveva portati a fare esattamente tutto quello che lui aveva chiesto: non aveva mai permesso a nessuno di restare indietro, di dire 'non ce la faccio' o farsi da parte; anche quando credevano di essere arrivati al limite lui li spronava un poco più oltre, e loro buttavano giù una porta e scoprivano che c'erano molte altre cose che potevano fare, molti altri livelli da raggiungere. Era riuscito a farlo persino con quella testaccia bacata di Chiharu, quando aveva blaterato di non voler più essere ninja, ma nessuno capiva come diavolo ci fosse riuscito e ci riuscisse tuttora. Forse doveva correggersi: non faceva così schifo come educatore...
Al pensiero Hitoshi si sentì un po' riconfortato: anche senza Sharingan restava un Jonin speciale della squadra dell'Hokage – ma non lo avrebbe mai, mai detto a voce alta.
Naruto lo riportò al presente facendogli un rapido cenno e sparendo in una nuvoletta di fumo. Le lancette sull'orologio dicevano che mancavano pochi secondi alla partenza. Hitoshi le fissò con il pugno serrato fino a segnarsi i palmi delle mani. Quando la lancetta sottile toccò lo zero partì come un fulmine verso l'obiettivo, e tanti saluti alle vertigini.

Yoshi era fermo sul letto perfettamente rifatto, vestito di un improbabile pigiama a paperelle. Se ne stava a pancia in su, le ginocchia piegate e le mani che tamburellavano sulla pancia, e fissava l'orologio fosforescente appeso alla parete di fronte. Non c'era molto intorno a lui, a parte il letto, un cassettone e quell'orologio: a una sedia erano posati disordinatamente i vestiti del giorno, i sandali spuntavano per metà da sotto il letto.
Anche lui vide la lancetta sottile toccare lo zero, e quando ciò accadde si alzò di scatto, disfece le coperte e ci si sedette con le punte dei piedi che sfioravano il pavimento, pronte a farlo scattare.
Puntò gli occhi sulla finestra, brillanti di aspettativa, e trattenne un sorriso. Stava contando.
La finestra andò in frantumi al suo dieci, esplodendo in mille pezzi come una palla di vetro. Il kunai che l'aveva infranta si conficcò al centro del letto, nel punto esatto in cui era stato il suo sedere fino a pochi istanti prima, ma lui era già dall'altra parte della stanza, oltre la porta che conduceva in corridoio. Sentì un certo numero di passi invadere la casa mentre correva fino alla porta del bagno. Due shuriken sibilarono accanto al suo orecchio quando spalancò la porta, un altro scheggiò il lavandino quando salì sul water, spalancando la finestrella con grata poco più sopra.
«E' in trappola!» sentì dire a una voce soffocata. Sorrise.
Le sue mani si strinsero sulle sbarre di metallo, spingendo. Quelle cedettero delicatamente e caddero all'esterno, facendo un volo di svariati piani. Yoshi si issò nello stretto passaggio, da lì si aggrappò alla grondaia, fece presa con i piedi nudi e raggiunse la finestra accanto. Sotto di lui Konoha dormiva, ignara della silenziosa concitazione attorno al palazzo.
Uno spiffero di aria gelida si insinuò nella schiena di Yoshi, che con un brivido si issò ancora più in alto per raggiungere il margine del tetto. Un ultimo sforzo e fu in ginocchio sulle tegole, i sensi all'erta.
Un kunai si conficcò accanto al suo piede, un altro gli mancò di poco la testa. Sentì dei richiami simili a quelli degli uccelli, ma non li confuse neanche per un momento. Si sollevò quel tanto che bastava per correre, volò quasi lungo il margine del tetto fino a un angolo lontano, da cui spiccò un balzo verso il palazzo vicino. Si voltò appena, vedendo non meno di quattro ombre seguirlo con velocità sorprendente, e sorridendo sgusciò giù per un abbaino e si moltiplicò in tutta fretta. Lui rimase rannicchiato nell'ombra, la copia continuò oltre fino a un balcone dall'altra parte della strada.
Le ombre che lo seguivano lo oltrepassarono per raggiungere lo Yoshi fasullo, saltando sopra di lui convinti di non averlo mai perso. Yoshi si accomodò tra le tegole e attese ancora qualche secondo, quindi strisciò fino al bordo del tetto e si lasciò scivolare silenziosamente su un balcone.
Dove trovò Naruto e un Rasengan lucente.
«Molto veloce» disse Naruto approvando la sua trasformazione.
Yoshi sorrise, gli occhi fissi sulla sua mano. «Allora, quando arriva il piccolo?»
Naruto arricciò la base del naso. A cosa si riferiva? «Vuoi tirarla per le lunghe?» ribatté, le pupille che rapidamente si assottigliavano fino a ridursi a due fessure acuminate.
«Sembri molto sicuro di te...»
Yoshi allungò una mano coperta di chakra verso la parete, Naruto reagì scagliando il rasengan, ma il balcone vibrò sotto i loro piedi e il braccio del Jonin deviò, mandando la sfera di vento a esplodere contro il palazzo. Il balcone fu divelto dall'onda d'urto, schiantandosi diversi piani più in basso. Yoshi cadde, cercando di tenersi adeso alla parete del palazzo. Le sue mani sfregavano contro l'intonaco, da cui si staccavano granelli di sabbia che gli finivano negli occhi, ma a un certo punto incontrò una ringhiera e frenò la sua corsa.
Sapeva che l'esplosione avrebbe richiamato gli inseguitori, così scappò nel vicolo più vicino senza guardare dove portasse. Naruto, aggrappato al cornicione di una finestra, imprecò e risalì veloce verso il tetto, per dare indicazioni agli Anbu in arrivo.

Nel frattempo Hitoshi si era un po' perso.
Era stato sul tetto del palazzo quando avevano sfondato la finestra ed erano entrati in camera di Yoshi, lo aveva inseguito quando era scappato sul tetto vicino e alla fine lo aveva visto sparire in una nuvoletta di fumo come la copia che era. La cosa lo aveva irritato più di quanto amasse riconoscere, anche perché fino a un istante prima si stava complimentando con se stesso per come affrontava bene le cose. Ma lo aveva anche lasciato smarrito. Per fortuna, poco dopo, il rumore di un'esplosione aveva indicato a lui e agli altri membri del gruppo la direzione giusta, e tornando indietro avevano trovato Naruto che dava istruzioni su come muoversi..
Doveva darsi una svegliata, si disse con un breve attimo di angoscia, o avrebbe fatto il flop definitivo. Mentre lo pensava, una piccola fitta dietro l'orecchio corse a ricordargli che l'effetto degli analgesici sovradosati era ormai attenuato dall'assuefazione, e che presto sarebbe finito.
Seguendo le indicazioni di Naruto corse sul cornicione del tetto fissando l'impenetrabile oscurità del vicolo. Con il dolore era tornato il pensiero di Kotaro e Chiharu e Stupido – Dei, Stupido! - che portavano a termine la sua missione lasciandolo in un letto d'ospedale, mentre lui rischiava di fallire anche la seconda possibilità che gli davano per entrare negli Anbu... Era proprio furioso. Così furioso che l'aumento di sangue al cervello estese il leggero pulsare dell'emicrania all'altro orecchio.
Poi colse un movimento con la coda dell'occhio, molto più in basso, una sagoma che si muoveva rasente il muro. Prima ancora di pensare si trovò a sputare una palla di fuoco, illuminando a giorno il piccolo vicolo e tutte le finestre che vi si affacciavano. Nella luce improvvisa tutti videro Yoshi guardare stupito verso l'alto, riparandosi il viso con le braccia.
Gli Anbu conversero su di lui, accerchiandolo. Kunai e shuriken si conficcarono a pochi centimetri dalla sua sagoma, costringendolo a rannicchiarsi per evitare ferite. Hitoshi dimenticò in un attimo le vertigini e il mal di testa, saltando di balcone in balcone per essere il primo a mettergli le mani addosso; quando arrivò giù per poco non fu colpito dai kunai diretti a Yoshi, ma fu senza ombra di dubbio il più veloce. Senza esitare lo spinse pancia a terra e gli bloccò le mani dietro la schiena.
«Come diavolo hai fatto?» lo sentì bofonchiare contro l'asfalto, appena prima che un altro Anbu gli premesse la testa per costringerlo all'immobilità completa. Nonostante la tentazione Hitoshi non rispose, perché se gli Anbu indossavano una maschera una ragione c'era, ma quando vide il mezzo sorriso con cui Yoshi lo guardava sentì un brivido gelido correre lungo la spina dorsale.
«So chi sei.»
«Bravi!» esclamò la voce di Naruto mentre li raggiungeva trionfante. «Ottimo lavoro, ragazzi! Legatelo e andiamo indietro!»
Hitoshi si fece da parte per lasciare che due Anbu stringessero corde coperte di sigilli bloccanti attorno ai polsi di Yoshi. Il mal di testa era tornato e si era spostato più al centro, seguendo il battito rapido del suo cuore. Guardò Naruto, che gli strizzò l'occhio in segno di approvazione, ma non riuscì a condividere il suo entusiasmo: Yoshi sapeva che c'era lui dietro quella maschera.
Non solo l'ufficio dell'Hokage era sorvegliato.






* * *

Hitoshi fa quasi tenerezza in questo capitolo.
Dai, un pochino. Ino-ino?

In ogni caso, nel prossimo capitolo incontrerà Sasuke!
*effetti sonori*
...E anche Naruto incontrerà Sasuke.
Ci siamo un po' rotti le scatole del capo Uchiha, diciamocelo.
E' il momento di dargli una scrollata!

Un saluto a tutti e ancora grazie a voi che leggete sempre!


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Capitolo 25
*** Il valore delle cose perdute ***


Penne 25
09/03/2016

Capitolo venticinquesimo

Il valore delle cose perdute




Dopo averlo bendato e stordito, portarono Yoshi alla stazione di polizia.
Entrando nel grande palazzo severo, a quell'ora semi-deserto, Hitoshi non poté fare a meno di guardare la finestra dello studio di suo padre: la luce era accesa.
Avvertì una stretta allo stomaco al pensiero di incontrarlo. Lo avrebbe riconosciuto anche se era mascherato? Cosa avrebbe pensato? Sarebbe stato fiero di sapere che era stato proprio lui a permettere la cattura di Yoshi, anche senza lo sharingan?
Naruto fece segno al gruppo di fermarsi nel grande atrio dell'ingresso. Ad accoglierli c'erano due poliziotti armati e Sasuke in persona, in attesa ai piedi delle scale. Hitoshi sentì il cuore accelerare nel petto: era proprio davanti a tutti, di fianco a Naruto, e per un folle istante fu sicuro che suo padre lo avesse riconosciuto.
Non era così: Sasuke lo guardò dritto negli occhi e passò oltre senza esitazioni. A gesti indicò il corridoio. Da quando avevano stordito Yoshi nessuno aveva parlato: tutti volevano essere sicuri che non si svegliasse proprio nel momento in cui qualcuno dava importanti dettagli sulla posizione.
Insieme a Sasuke il gruppo arrivò a una scala sorvegliata che scendeva nei sotterranei. Naruto diede indicazioni perché venissero con lui soltanto i due Uchiha e un altro paio di Anbu, ai restanti fu richiesto di trattenersi davanti alla porta.
Era la prima volta che Hitoshi vedeva le celle delle prigioni. Solo scendendovi di persona si rese conto di quanto doveva essere deprimente il lavoro di suo padre: gli spazi angusti, l'aria stantia, i rumori osceni di chi era costretto a seguire i ritmi del corpo nello stesso luogo in cui dormiva...
Yoshi non fu abbandonato in una cella come le altre. In fondo al corridoio c'era una stanza più ampia, ricoperta di piastrelle anche sul soffitto, con un grande tavolo d'acciaio e una sedia inchiodati al pavimento. Non aveva finestre; l'aria veniva ricambiata grazie a una ventola polverosa che si accese insieme alla luce, raschiando rumorosamente. Hitoshi non sapeva se pensare che fosse meglio delle altre, o peggio.
Naruto scaricò il prigioniero sulla sedia, sostituendo le corde ai polsi con delle manette e usando poi le corde per legarlo alla scrivania. Il capo biondissimo di Yoshi era reclinato sul pigiama a paperelle in maniera quasi surreale: sembrava un bambino troppo cresciuto che si fosse addormentato nel posto sbagliato.
A gesti Naruto lasciò nella stanza i due Anbu che li accompagnavano, e uscì insieme a Sasuke e Hitoshi.
«Abbiamo fatto un po' di fatica» confessò a quel punto, senza nascondere la scocciatura. «Di certo non era al livello di uno studente dell'Accademia.»
Hitoshi serrò le labbra: voleva dire a Naruto che Yoshi sapeva che sarebbero andati da lui, che sapeva chi c'era sotto la maschera e probabilmente che sapeva molto più di quello che loro pensavano... Ma come fare con Sasuke davanti? Sbandierare così la sua identità alla prima missione gli sembrava da vero idiota.
Con tutta la concentrazione di cui era capace si schiarì la voce, abbassandola di parecchi toni.
«Sapeva che saremmo arrivati» brontolò in un rantolo gutturale.
Sia Naruto che Sasuke lo fissarono stupiti.
«Come fai a dirlo?» indagò Sasuke, scrutandolo a fondo.
«Conosce la mia identità.»
Naruto trasalì. Lui e Hitoshi avevano parlato della missione solo a casa sua: questo voleva dire che le difese che credeva insuperabili erano state ampiamente abbattute. Si fermò un secondo, chiudendo gli occhi, e comunicò alla copia che aveva lasciato a casa di alzarsi e fare immediatamente un giro di ricognizione.
Mentre questo accadeva, Sasuke studiò attentamente l'Anbu mascherato che parlava con voce malamente contraffatta. Aveva un che di familiare, ma non avrebbe saputo dire cosa.
«Sasuke, dobbiamo occuparci delle scartoffie» annunciò Naruto prima che potesse indagare più a fondo. «Tu, vai a casa mia. Troverai una mia copia, segui le sue istruzioni» ordinò all'Anbu. Quello sembrò esitare un secondo, poi annuì e si allontanò rapidamente.
«Lo conosco?» chiese Sasuke quando si fu allontanato.
Naruto, incerto, lo fissò. Era quasi sicuro che Hitoshi sarebbe volato di corsa ad annunciare a suo padre la promozione ad Anbu, invece sembrava proprio che non lo avesse nemmeno accennato. Idem per Sakura, a giudicare dalla faccia inespressiva di Sasuke. Non sapeva che gli Uchiha non si parlavano da giorni.
«E' il ragazzo che ha fermato Yoshi un attimo prima che ci scappasse» spiegò cauto.
«E prima non è mai...» iniziò Sasuke, poi si interruppe, scrollando le spalle. «Non importa. Andiamo nel mio studio, intanto mando a chiamare Morino.»
I due si rintanarono nell'ufficio ai piani alti, di fronte a una pila di autorizzazioni e incartamenti solo in parte completati. Sasuke, in quanto assistente dell'Hokage, stava firmando tutto a nome Uzumaki perché sapeva che Naruto avrebbe lasciato ammuffire i documenti sulla scrivania.
«Morino dà ancora problemi?» domandò Naruto mentre Sasuke recuperava i documenti per la cattura di Yoshi.
«Sempre più. Se non assisto personalmente agli interrogatori quasi mi ammazza i prigionieri. Non capisce più quando uno non ha altro da dire» sbuffò l'Uchiha scuotendo la testa. «Sinceramente, non so cosa succederà al ragazzo che abbiamo messo di sotto.»
«E' che non ne abbiamo altri abbastanza qualificati. Fanno tutti un po' schifo» borbottò Naruto sfogliando distrattamente gli incartamenti, senza nemmeno prendere in mano la penna.
«Lo so. Dovremmo fare una selezione e mandarne a scuola qualcuno...»
Naruto mugugnò un vago dissenso, perché la tortura non gli andava troppo a genio, poi fissò Sasuke di sottecchi. Lui non alzò lo sguardo.
«Quindi sorvegliavano anche casa tua?» continuò l'Uchiha, iniziando a riempire gli spazi vuoti nei moduli prestampati.
«A questo punto direi di sì. E devono essere bravi, pensavo che mi sarei accorto di qualunque cosa.»
«Farò ricontrollare anch'io tutto il palazzo.»
«Mh.»
Scese il silenzio, mentre Naruto si rigirava la penna tra le mani.
Sasuke sbuffò e si interruppe. «Lascia stare, qui finisco io. Vai da Hinata, se ti preoccupa tanto
Naruto si inclinò all'indietro, con una smorfia meditabonda. Non c'entrava Hinata, a casa c'era già la sua copia. Il punto era un altro: ci aveva messo un po', ma alla fine aveva tratto un paio di conclusioni dal fatto che Sasuke non sapesse della nuova promozione di Hitoshi.
«Se non ho capito male, quello che non mi stai dicendo, ma che hai fatto, in sostanza è...» lasciò la frase in sospeso, dondolandosi sulle gambe posteriori della sedia.
Sasuke, seduto dall’altra parte della scrivania, non si impegnò nemmeno per capire dove volesse andare a parare. «Quello che non ti sto dicendo ma che dovrei dirti, è che se non hai intenzione di lavorare allora sei caldamente invitato a levare le tende» suggerì.
«No, non è questo!» Naruto sbatté una mano sul ripiano lucido, facendo trasalire Sasuke. «Quello che non mi stai dicendo, perché forse fa schifo anche a te, è che non sei andato nemmeno una volta a trovare tuo figlio in ospedale! Nemmeno una volta!» sbottò.
«Adesso cosa c'entra? E’ rimasto ricoverato solo un giorno...» si difese Sasuke, tacendo che non aveva visto nemmeno Sakura nel frattempo. I suoi occhi si fecero schivi. «Lo vedrò quando tornerà a casa.»
«Ma dai! Vuoi dirmi che hai ripreso a tornare a casa? Qualcuno sostiene che tu viva qui, ormai!»
Sasuke mise giù la penna, fulminandolo con lo sguardo. «Quel che succede a casa mia sono fatti miei. Io non vengo a farti la predica su come cresci i tuoi figli.»
«Non si tratta di te e Hitoshi! Si tratta di te e basta.»
«Peggio ancora: è una vita che cerco di levarti dai piedi.»
«Ma porca miseria! Non impari mai niente dai tuoi errori!» esplose Naruto. «Dovevi solo farti vedere! Dimostrare a tua moglie e tuo figlio che non sei lo stronzo che ti stai rivelando! Dovevi solo far vedere il tuo brutto muso e dire: salve! Sono tuo padre! E lo sarò sempre, anche se fai cazzate!» Sasuke lo scrutò torvo, irrigidendosi, ma Naruto continuò implacabile. «Cosa ne hai fatto del buonsenso? Che ti sta succedendo? Da quando a Fugaku è spuntato lo sharingan hai perso completamente la testa!»
«Precisamente!» lo interruppe Sasuke, alzandosi in piedi. E all’improvviso si scoprì furioso, con l’impiccione che non si faceva i fatti suoi e con le insinuazioni che arrivavano dove faceva più male.
Che ne capiva Naruto della sua famiglia? Nel suo mondo fatato, composto solo di figli felici e mogli devote, che ne sapeva di come andavano le cose altrove?
«Da quando a Fugaku è spuntato lo sharingan, cosa pensi che sia successo a casa?» esplose. «Come pensi che mi sia sentito, io, che ho sempre creduto che Hitoshi sarebbe stato l’orgoglio degli Uchiha? E come pensi che si sia sentito lui, che lo sapeva? E Sakura? Cosa pensi che sia successo? Se ci conosci almeno un decimo di quanto dici, lo sai cosa è successo. Dovrei andare da Hitoshi! Per dirgli cosa? So che hai fallito. Non importa. Mi vai bene anche debole e inutile, perché io sono il tuo paparino! Questo dovrei dirgli? E lui cosa mi risponderebbe, eh?»
Naruto raddrizzò la schiena, scuotendo la testa.
«Sei rimasto il solito coglione!»
«Forse. Ma Hitoshi è coglione quanto me, e so che se io andassi a dirgli mi vai bene comunque, a lui non andrebbe bene!»
«Perché voi Uchiha siete ossessionati sempre dalla stessa robaccia?»
«Perché siamo fatti così. Abbiamo un orgoglio, che conta più di ogni altra cosa, e non ci interessa essere accettati nonostante tutto! Noi vogliamo conquistarcele le cose. Vogliamo essere forti, vogliamo farcela da soli. E mio figlio è come me: della compassione non se ne fa nulla.»
«Lo vedi che sei una testa di cazzo?» sospirò Naruto, passandosi, frustrato, una mano tra i capelli. «Hitoshi è uno shinobi, come te. Ma è anche tuo figlio. Sono due cose diverse, che non hanno a che fare con compassione e orgoglio. Tu sarai anche rimasto orfano, ma lui un padre ancora ce l’ha: forse a te non fregava niente di avere l’approvazione incondizionata di qualcuno, ma a lui probabilmente sì. E se non ti accorgi nemmeno di come la cerca disperatamente, allora che ti parlo a fare?»
Sasuke strinse i pugni sulla scrivania. Lui conosceva suo figlio. Lo conosceva meglio di tutti, meglio di sua madre, dei suoi fratelli, e soprattutto del suo maestro, che non aveva alcun legame di sangue con lui. Aveva bisogno di convincere sé e gli altri di quest’unica, grandissima verità. E per farlo doveva smontare tutte le altre.
«Non venire a farmi la predica sui rapporti padre-figlio. Non tu» sibilò.
Nello sguardo di Naruto passò un lampo d’irritazione. I vecchi ricordi sull’avere e sul perdere tornarono a galla, insieme alla voce di un Sasuke dodicenne che gli diceva che non erano uguali, che Naruto non poteva capirlo.
«Proprio perché tu un padre lo hai avuto, ti dico di non fare cazzate!» disse. «Io andrò anche a tentativi, ma non ho alle spalle né esempi positivi, né negativi. Tu li hai! Per assurdo, in questo caso sei più fortunato di me» abbassò la testa, scrutando Sasuke da sotto in su. «E sai cosa ti dico? Che, per quanto stupido possa apparire, per me Hitoshi è quasi come un figlio. E’ il Sasuke che non ho potuto aiutare quando avevo dodici anni, lo stesso Uchiha che vorrei vedere meno imbecille e più felice. Quella volta ho dovuto combattere per riportarti indietro... ma Hitoshi non lo lascerò andare. Se non sarai tu a tenerlo qui, ci penserò io.»
Nell’ufficio del capo della polizia piombò il silenzio. Sasuke e Naruto si scrutarono, immobili.
«Cos’è, una vendetta tardiva per Sakura?» mormorò Sasuke dopo lunghi e penosi istanti, inarcando a forza un sopracciglio. Era crudele, ma non gli era venuto in mente nient'altro da dire.
«No» rispose Naruto, senza raccogliere. «E’ l’unico modo che ho per non rivederti nello stato in cui eri dopo la morte di Itachi. Ti accorgi di quanto vale una cosa sempre solo quando l’hai già persa.»
L’accenno a Itachi fu troppo. Dopo i ricordi del tradimento e del padre, dopo le allusioni al figlio, arrivare al fallimento della sua vendetta fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Vattene, Naruto» sibilò Sasuke, indicando la porta. «Adesso.»
Naruto sollevò il mento senza nascondere l’insoddisfazione.
«Oh, vai all'inferno!» sbottò alzandosi di scatto, e uscì dall'ufficio senza guardarsi indietro.
Sasuke, ancora dentro, si lasciò ricadere sulla sedia; nascose gli occhi dietro una mano, le tempie martellate da un’emicrania accecante, e per un attimo ebbe quasi voglia di ridere.
Ovunque lui falliva, Naruto era pronto a raccogliere i cocci del suo lavoro, risistemarli e gloriarsene.
Dopo Itachi, si sarebbe preso anche Hitoshi?

Naruto se ne andò dal commissariato pestando i piedi per la rabbia, resosi conto di non aver combinato proprio nulla: poteva anche atteggiarsi a padre con Hitoshi, ma lui, come Sasuke, non avrebbe mai smesso di guardare sempre altrove, all’unica persona della quale volesse davvero le attenzioni. E quella persona, per l’ennesima volta, era cieca e sorda a ogni richiamo.
«Guarda te se deve farmi incazzare così dopo tutti questi anni!» sbottò.
E va bene. Conosceva gli Uchiha, forse meglio di quanto si conoscessero loro stessi; avevano bisogno di una sfida per muovere il culo? Che sfida fosse.
Ricordò le parole di Hinata quando gli aveva suggerito di fare qualcosa per Hitoshi. Perfetto: la questione non era solo alzare la sua autostima, ma dare anche una svegliata a quel rimbambito di suo padre.
Sebbene Naruto sapesse che era impossibile, Sasuke probabilmente temeva che Hitoshi si sarebbe attaccato al maestro più che a lui. Perché non avrebbe dovuto pensarlo, dopotutto? Da ragazzi, prima di sposarsi e avere dei figli, erano stati speciali l’uno per l’altro. E Hitoshi era così schifosamente simile a suo padre che in effetti il pericolo sembrava reale.
Avrebbe messo un po' di pepe sotto il didietro di Sasuke, che lui lo volesse o no.
Se doveva essere guerra, che guerra fosse.


*


Non era stata davvero colpa sua.
Un funzionario del Kazekage si era presentato alla porta dell'infermeria subito dopo cena e le aveva detto che c'era un problema con il documento preparato da Stupido. Cosa avrebbe potuto fare, a parte seguirlo?
Seguendolo, però, si era ritrovata in un corridoio sospetto, che non aveva nulla a che fare con la parte diplomatica del palazzo. Un corridoio deserto. L'avevano fatta entrare in una stanza che decisamente non era lo studio del Kazekage. Avevano chiuso la porta. La luce era spenta. E il funzionario non era un funzionario. Era Baka.
A dire il vero il problema non era nemmeno quello, alle quattro di mattina, senza vestiti, sdraiata a pancia in giù su un letto non suo; il vero, enorme problema, era che avevano appena scoperto che nessuno di loro aveva avvisato Temari della partenza anticipata.
Chiharu fissò il pezzo di carta bianco con la testa piena dell'ira furiosa della signora Nara. Non esisteva niente che avrebbe potuto scriverle per non farsi diseredare. Niente.
«Io non vado a bussarle alla porta in piena notte» ripeté Akeru per la trecentesima volta, seduto a gambe incrociate sul letto accanto a lei.
«Sta' zitto cinque minuti!» sibilò Chiharu, scostando rabbiosamente i capelli che continuavano a ricaderle davanti agli occhi. «Ti sei vantato mezzora che glielo avresti detto! Deficiente!»
«Potevi ricordarmelo prima di spogliarti.»
«Stai rischiando grosso.»
Akeru tacque, appoggiando il mento alla mano. Ripensò alle piacevoli ore che avevano trascorso insieme fino a poco prima. Era un vero peccato che a un certo punto avessero ricordato il dettaglio Temari, perché si era giocato gli ultimi trenta minuti.
«Mentre pensi vado a farmi una doccia» sbuffò deluso, scivolando giù dal letto.
Chiharu affondò la faccia nel cuscino per soffocare un gemito di disperazione. Perché non aveva mai esercitato un po' della rigida disciplina ninja? Se non avesse passato tutte quelle ore a dormire e cercare di schivare le proprie responsabilità, forse avrebbe avuto abbastanza forza per mandare al diavolo sia Hitoshi che Stupido. Che, per inciso, avrebbe avuto nello stesso luogo geografico di lì a tre giorni. Quante possibilità c'erano di riuscire a nascondere a tutti quello che era successo?
Nella sua testa le ore passate con Akeru si sovrapposero a quelle passate con Hitoshi. C'erano molte differenze, tra cui l'abisso di esperienza che separava il gene misogino in dotazione a tutti gli Uchiha e la fama di donnaiolo ora confermata di Baka, ma c'era qualcosa di comune a entrambi e decisamente fondamentale: il disagio.
Non voleva ritrovarsi con loro nella stessa situazione. Non voleva affrontare discussioni sul significato di quello che era successo. Non voleva nemmeno pensarci, a un eventuale significato, e soprattutto non le interessava. Come aveva ampiamente sottolineato Sai, le sue priorità erano ben altre.
Sospirò, costringendosi a tornare al messaggio per Temari. Iniziò firmando il pezzo di pergamena su cui doveva scrivere. Davvero, non sapeva come dirle che partiva senza avvisarla. Non c'era un modo, e anche far leva sulla maggiore età non era sufficiente.
O forse no. Forse una cosa, una sola piccola cosa che poteva salvarla c'era.
Colta dall'illuminazione buttò giù tre righe e le rilesse più volte:
Visto che tu non vuoi dirmi cosa ha fatto papà, torno a Konoha con gli altri. Me lo faccio dire da lui e lo spedisco a riprenderti (se davvero hai ragione).
Ringraziami al ritorno.
Dopo lunga e penosa riflessione, aggiunse anche un fievole 'ti voglio bene', nonostante i brividi scatenati dal movimento insolito della mano. Questo forse l'avrebbe salvata.
Stupido uscì dalla doccia proprio in quel momento, e si protese per sbirciare il messaggio di Chiharu.
«Che è successo con tuo padre?» domandò asciugandosi i capelli.
«Sono fatti nostri» rispose lei ripiegando con cura il biglietto.
«Ti preferisco quando hai la bocca impegnata.»
Questa volta gli arrivò un calcio, e arrivò anche nel posto giusto. Chiharu pensò che era arrivato il momento di mettere in chiaro le cose, almeno con lui.
«Quello che succede a Suna resta a Suna» disse seccamente. «Non ti aspettare trattamenti di favore a Konoha né che io menzioni mai più qualunque tipo di rapporto tra noi. Quando uscirò da quella porta tutto questo non sarà mai successo.»
«Che cos'hai nel cervello?» boccheggiò Akeru, rannicchiato sul letto con gli occhi pieni di lacrime. «Tu potrai anche non volerne più sapere niente, ma questo mi serve ancora!»
«I concetti si ricordano meglio se accompagnati da emozioni forti» spiegò lei inclemente, raccogliendo i suoi vestiti e avviandosi verso il bagno. «Mi lavo e vado a lasciare il biglietto a mia madre.»
«Avrei dovuto non essere gentile con te, stronza maledetta...» bofonchiò Akeru trascinandosi ansimante al bordo del letto.
Anche se si era conclusa in maniera brusca, però, si disse che era stata una notte di vittorie: era stato molto astuto ad attirarla con il trucchetto del funzionario, e si sentiva molto orgoglioso delle sue performances. Jiraya sarebbe stato fiero di apprendere della sua verginità perduta, quando si sarebbero rivisti.
Per quanto riguardava Chiharu, confidava che a Konoha avrebbe continuato con l'ottimo lavoro. Anche se lei blaterava di cose che succedevano a Suna e restavano a Suna, i fatti erano fatti: lo aveva rifiutato verbalmente, ma poi si erano ritrovati nudi sotto le lenzuola. Per ben due volte. Questo la diceva lunga sulla sua capacità di giudizio.
Mentre il dolore scemava lentamente, si concesse un sorriso di soddisfazione. Aveva scoperto i punti deboli di Chiharu, possedeva una perfetta conoscenza dell'anatomia umana e lei gli doveva un enorme favore con quella storia del contratto di custodia... Era praticamente fatta.
Purtroppo non sapeva niente di Hitoshi, e come avrebbe potuto? A Konoha, per rovinare i suoi piani, ci sarebbe stato anche lui.


Partirono alle cinque, perfettamente puntuali.
Incontrandola, Kotaro chiese a Chiharu che fine avesse fatto quella notte, ma lei disse che aveva discusso con Gaara intorno a una clausola stupidissima del contratto di custodia, perché non volevano farla partire e lei non era proprio d'accordo, come lui capiva bene – per rafforzare il concetto accennò con intenzione ad Akeru, sapendo quanto entrambi tenessero a vedersi riconoscere il merito della missione.
Kotaro non fu proprio del tutto convinto. C'era qualcosa che gli puzzava in tutta quella storia del contratto... Akeru non era mai stato loro amico. Tuttavia non trovò nulla da ribattere a Chiharu, e dovette prendere per buono quel che lei gli diceva con una scrollata di spalle. In ogni caso, anche se era riuscito a fare un gran lavoro di restauro con la sua costola, era ancora convalescente, e fare il viaggio tenendo aperta la Porta della Ferita non sarebbe stata una passeggiata; non voleva davvero avere il pensiero di Chiharu a distrarlo, preferiva mettersi il cuore in pace e stare sereno. Dopotutto Akeru faceva ancora Baka di cognome, non era una vera minaccia.
Gai, Rock Lee e i tre ragazzi si congedarono dal Kazekage alle porte della città.
Gaara interrogò con lo sguardo Akeru, che assicurò di aver avvisato Temari, e lui se lo fece andare bene. Non avrebbe corso il pericolo di bussare alla porta della sorella prima dell'alba solo per accertarsene: piuttosto avrebbe fatto ricadere sul ragazzo tutte le conseguenze di un'eventuale menzogna. Ancora non era convinto dell'idea di Akeru, ma il suo contratto era disgraziatamente perfetto, e Chiharu una kunoichi maggiorenne in grado di intendere e volere. Guardandoli, si disse che probabilmente sua nipote aveva sedotto il giovanotto per avere il suo aiuto; ma non aveva autorità né confidenza per intromettersi.
Sospirò, augurandosi che tutto andasse per il meglio e Temari non se la prendesse troppo, e salutò il gruppo di shinobi in partenza.
Mentre se ne andavano, l'alba sorse in tutto il fulgore del deserto. In lontananza, alle spalle di Suna, il cielo si stava tingendo di uno spiacevole rosso, stranamente simile ai bagliori di un incendio.





* * *

Buongiorno a tutti!

Ok, il famoso incontro Hitoshi-Sasuke
forse non è stato proprio un incontro...
Ma spero di essermi fatta perdonare
con un po' di buon NaruSasu vecchio stampo!

Sfortunatamente devo informarvi che da oggi
si aggiorna a singoli capitoli.

Sto impazzendo nel riaggiustare i prossimi,
li ho scritti a dicembre e sono ancora qui che li scrivo e riscrivo e riscrivo.
Spero sia solo un'impasse temporanea,
ma piuttosto che interrompere gli aggiornamenti
preferisco rallentarli.

Se vi consola, sono particolarmente ricchi di azione.
(e con un mucchio di gente. Per questo è così complicato!)
Spero che il risultato varrà l'attesa.

Un abbraccio a tutti!


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Capitolo 26
*** Bentornato ***


Penne26
16/03/2016
Capitolo ventiseiesimo

Bentornato




Non avevano mai smesso di seguirli, da quando erano partiti da Anka.
Jin non aveva più contato i giorni dopo aver parlato con sua madre, ma se si guardava indietro gli sembrava che fosse passata un'eternità dalla partenza. Tutto, tutto era diverso adesso.
Le tre ombre scivolavano silenziose da un albero all'altro, senza quella fluidità che avrebbe permesso loro di essere invisibili: erano stanchi, tutti quanti, e la fuga li aveva costretti a zigzagare più volte per evitare posti di blocco, villaggi e spedizioni di ricerca.
L'ordine di cattura contro di loro era stato diramato con rapidità sorprendente: non erano mai riusciti a dormire tranquilli per più di una manciata di ore, il che aveva portato la tensione a livelli elevatissimi. Alla fine Kakashi si era arreso all'idea che se volevano raggiungere Konoha sani e salvi avrebbero dovuto collaborare con Haruka, ma questo non voleva dire che la situazione tra loro si fosse distesa. Al contrario, ora nessuno parlava più a nessuno al di fuori delle necessità quotidiane. Anche Jin, che pure smaniava all'idea di conoscere sua madre, si era rinchiuso in un cupo mutismo rabbioso, rimandando le discussioni al rientro.
Mentre correvano, un ramo cedette sotto i piedi di Haruka e la fece precipitare nei cespugli di sotto.
Jin fu il primo ad accorrere, scoprendo che nella caduta un frammento di legno spezzato le aveva aperto un taglio sul braccio. Prima che potesse fare qualunque cosa Kakashi aveva estratto dallo zaino bende e disinfettante, tamponando subito la ferita.
«Servono dei punti» commentò, fasciandola rozzamente.
«Non siamo lontani dal confine» mormorò Haruka. «Ce la faremo.»
Jin sussultò sentendo attivarsi una delle pergamene di segnalazione che si era lasciato alle spalle.
«Dobbiamo andare, c'è qualcuno vicino» disse con urgenza, aiutando la madre a rialzarsi. «Prendi questa» aggiunse poi, tendendole una pillola per sedare il dolore della ferita.
«Non saremo al sicuro finché non saremo davanti a Naruto» disse Kakashi a quel punto, forzandoli a ripartire immediatamente. «La Nuova Radice avrà messo ai confini tutte le sentinelle che ha a disposizione per intercettarti.»
«Lo so» confermò lei. «E' da quando siamo partiti che cerco un modo per evitarli, ma non mi è venuto in mente niente.»
«Non possiamo evitarli. Siamo troppo stanchi, troppo pochi. Dobbiamo chiedere aiuto.»
«Non faremo in tempo.»
«Un modo c'è... Ma prima devo controllare dov'è Chiharu.»
«Chi?» chiese Haruka, ma Kakashi la ignorò per comporre una complessa serie di sigilli.
Senza che la loro corsa fosse rallentata, un uccellino dalle piume scarlatte si materializzò al loro fianco e li salutò con un cinguettio. Kakashi perse il ritmo per un istante, ma lo recuperò subito.
«Scopri dov'è Chiharu Nara» disse, e l'animale frullò via virando rapidamente.
«Cos'era quello?» chiese Jin corrucciato. «Non è una normale evocazione, i sigilli erano strani.»
«Quello è una cosa che faresti meglio a ignorare» sorrise Kakashi, ma le pieghe agli angoli del viso non si aprirono con le labbra. «Purtroppo non potevo farne a meno.»
Haruka lo fissò, mentre un sospetto si faceva lentamente strada. «Non sarà...» iniziò, ma Kakashi alzò una mano e bloccò tutti.
Poche centinaia di metri alle loro spalle, una carta-bomba di Jin saltò in aria disegnando una nube nel cielo terso.
«Via veloci!»


*


Hitoshi aveva controllato tutto il perimetro della casa di Naruto insieme alla sua copia, senza trovare la minima traccia di esseri umani oltre a loro. Alle prime luci dell'alba aveva chiesto di poter tornare a casa, ma il senso di disagio non si era allentato. Tutta quella faccenda non gli piaceva per niente: avevano catturato Yoshi, certo, ma qualunque cosa avesse fatto per sorvegliarli era stata fatta così bene che iniziava a temere che catturarlo non sarebbe stato sufficiente...
Quando rientrò incontrò Sakura che preparava la colazione. Dalle occhiaie sotto le palpebre era piuttosto chiaro che non aveva chiuso occhio.
«Hitoshi!» scattò non appena lo vide entrare dalla porta. Gli gettò le braccia al collo, e lui, stupito, si bloccò senza saper rispondere. «Stai bene? Com'è andata?» continuò lei, partendo subito con una visita agli occhi e le dita a misurare il polso.
«Mamma, ferma... Ferma!» sbottò lui a disagio, facendo un passo indietro. «Lasciami respirare!»
«Scusa» Sakura strinse le mani una all'altra.
«Lo abbiamo preso» disse allora Hitoshi, sistemandosi il colletto un po' sdegnoso. «E io sono stato quello che lo ha fermato appena prima che ci sfuggisse.»
«Sei stato male?»
Hitoshi crollò le spalle. Perché le madri medico non imparavano mai a gioire dei successi dei figli?
«Un po' di mal di testa, ma niente di invalidante.»
Sakura tirò un profondo sospiro di sollievo, rilassandosi impercettibilmente. Con un gesto stanco tese una tazza a Hitoshi e gli ordinò di bere un poco di tè prima di fare la doccia e riposare.
Hitoshi obbedì senza proteste, sedendosi al tavolo. Era insolito che lui e sua madre si trovassero soli: con tutti i fratelli in circolazione la casa era peggio di un porto di mare, e da quando a Fugaku era spuntato lo sharingan Hitoshi cercava di evitare gli incontri a quattr'occhi con gli altri membri della famiglia.
Oggi, però, qualcosa era cambiato.
Senza quasi rendersene conto, Hitoshi sospirò e le parlò come avrebbe parlato a Naruto.
«Mamma, ci aspettava» disse stringendo la tazza tra le mani. «Sapeva chi sono, sapeva che saremmo arrivati... In qualche modo ha aggirato le difese attorno a casa di Naruto, perché è stato lì che lui me ne ha parlato. Io e una sua copia abbiamo controllato il perimetro insieme, ma non abbiamo trovato mezza traccia. E' bravo, troppo bravo. Non è normale.»
Sakura si sedette al suo fianco, rabbuiandosi. Probabilmente la spia attorno al palazzo dell'Hokage seguiva Naruto anche fuori dall'ufficio. Avevano dato per scontato che trattandosi di Naruto se ne sarebbe accorto... invece probabilmente non era andata così. Forse la spia usava qualche nuovo ritrovato della tecnica ninja.
«Non è detto che Yoshi lavorasse da solo. Dobbiamo procurarci un linguaggio in codice» disse, cercando subito una soluzione. «E forse nemmeno questo sarà sufficiente... Chiederò agli Hyuuga di elaborare una strategia anti-spionaggio. Non lo so, forse anche Shikamaru dovrà aiutarci» Sakura si interruppe. «E' strano parlare di queste cose con te...»
«Anche per me» borbottò Hitoshi, a disagio. «E' la prima volta che non mi cacci via gridando che sono cose serie e non mi riguardano.»
Sakura rimase in silenzio, le mani attorno alla tazza e lo sguardo un po' distante. Hitoshi era diventato grande, era entrato nel suo mondo. Non un bel mondo, purtroppo, ma era lì, e lei non poteva più proteggerlo come avrebbe voluto...
Inspirò a fondo e lasciò uscire l'aria. Solo ora capiva quello che dovevano aver provato i suoi genitori, e la prospettiva della guerra alle porte non glielo rendeva più facile.
«Stai attento, ti prego» mormorò, tendendo una mano a prendere la sua.
Lui esitò. Avrebbe voluto parlarle dell'incontro con Sasuke e di come non lo avesse riconosciuto, ma qualcosa glielo impedì. Vergogna, forse, o riserbo. Alla fine decise di tacere e prese la mano che lei gli porgeva.
«Stai attenta anche tu, mamma.»

Hitoshi dormì tutta la mattina e buona parte del pomeriggio, svegliandosi soltanto quando la fame lo costrinse a riempire lo stomaco.
In casa c'erano solo i suoi fratelli e i domestici, perché Sakura era di turno e suo padre ancora disperso al commissariato, così si fece preparare un pasto veloce e lo consumò nella sua stanza ripassando gli eventi di quella notte.
Era soddisfatto di sé stesso, cosa che avveniva con una rarità spaventosa: alla fine essere rimandato a casa gli aveva dato l'opportunità della vita, invece del disastro che temeva. Non avrebbe ucciso Chiharu, decise. Anzi, forse l'avrebbe anche ringraziata.
Ripensando a lei gli tornarono in mente una serie di inevitabili immagini collaterali, e un fremito gli corse lungo la schiena all'idea che presto sarebbe rientrata. Cosa sarebbe successo allora? Come si sarebbero comportati, cosa sarebbero diventati? Non avevano avuto occasione di parlarne, ma sapeva, era certo che lei fosse sensibile al suo fascino, o qualunque cosa fosse. Se aveva un'occasione era quella, e doveva sfruttarla.
Finì il pasto rapidamente, poi si vestì e andò dritto allo studio dell'Hokage. Voleva chiedere com'era andata la missione a Suna e voleva sapere quando sarebbero rientrati i compagni, ma voleva anche capire se la sua promozione ad Anbu era ancora valida o se Naruto si sarebbe rimangiato la parola.
Nonostante fosse piuttosto tardi lo studio dell'Hokage era affollato e in piena attività. Dando un'occhiata in giro Hitoshi intuì che gli Hyuuga erano stati mobilitati per elaborare una strategia anti-spionaggio e che la cosa era ritenuta urgentissima: messaggeri continuavano ad andare e venire portando involti dalle forme bizzarre, e Hitoshi capì che probabilmente avevano dislocato il quartier generale in diversi punti di Konoha per mettere in difficoltà chiunque li osservasse.
Per farsi ricevere da Naruto dovette attendere una mezzora; quando alla fine Koichi lo fece entrare, trovò nell'ufficio anche Shikamaru, sua madre e il vecchio Jiraya.
«Eccolo qua!» esclamò Naruto accogliendolo con un sorriso tirato. «Sei ancora tutto intero? Sakura mi sta mettendo addosso un sacco d'ansia!»
«Sono in perfetta forma, anche più del solito» assicurò lui, adocchiando le pile di documenti che ricoprivano ogni superficie libera. Sembravano persino più alte del solito. «So che non è il momento migliore, ma volevo sapere qualcosa della missione di Kotaro e Chiharu.»
«Ah, certo!» Naruto si tuffò sotto una pila di fogli ed estrasse un documento stropicciato. «E' andata benissimo, sono vivi e hanno recuperato la ragazza. Da oggi abbiamo di nuovo la Sabbia!»
Shikamaru, seduto contro il muro dietro la sedia dell'Hokage, gemette impercettibilmente. Il messaggio di Gaara non conteneva solo informazioni tattiche, ma anche una sgradevole parentesi riguardo a Temari. Affondò il naso nel faldone che stava leggendo.
«Quando tornano?» domandò Hitoshi, reprimendo una punta d'invidia per il successo dei compagni.
«Sono partiti stamattina, dagli tre giorni.»
«Non c'è speranza che Stupido sia rimasto ucciso in azione, vero?»
«Hitoshi!» esclamò Sakura, che aveva fatto lezione ad Akeru e non lo aveva trovato malaccio.
Naruto rise e scosse la testa. «No no, anche lui ha fatto bella figura. Purtroppo.»
«Dovreste migliorare i rapporti, ora che siete colleghi» ridacchiò Jiraya. «Ricordi che è un Anbu, vero?»
Sakura si irrigidì e fissò Naruto con insistenza.
«Sì... Ehm...» tossicchiò lui. «A proposito della tua promozione...»
«Non osare tirarti indietro» ringhiò subito Hitoshi. «Abbiamo preso Yoshi grazie a me!»
«Lo so, lo so!» Naruto gettò un'occhiata a lui e una a Sakura, schiarendosi la voce. «Però cosa me ne faccio di Chiharu e Kotaro senza di te? Siete il mio gruppo di punta, non posso mandarli in giro in coppia.»
«Non sono affari miei» sbottò l'Uchiha.
Naruto crollò le spalle mugugnando. Il suo piano per diventare la figura di riferimento di Hitoshi si stava già scontrando con l'invisibile muro di Sakura. Uscire da quella trappola sarebbe stato difficilissimo.
Shikamaru, dalla sua sedia, inarcò un sopracciglio e fece un lungo sospiro. Conoscendo le inesistenti capacità diplomatiche di Naruto, immaginava che non ne sarebbe venuto niente di buono.
Per il bene di sua figlia, dunque, decise di prendere in mano la situazione e tirò fuori il naso dai documenti.
«Va bene, allora. Naruto, prova a chiedere a Baka Akeru se è interessato a sostituire Hitoshi. Un ninja medico in un gruppo da tre è sempre un bel bonus, e gli Anbu ne hanno in abbondanza» disse con tono incolore. Hitoshi si irrigidì visibilmente. «Inoltre lui e Chiharu hanno già collaborato per quel fattaccio di cinque anni fa, giusto? Vanno piuttosto d'accordo.»
Hitoshi sentì il gelo scendere lungo la schiena all'idea che Baka Akeru andasse piuttosto d'accordo con Chiharu e lo sostituisse nel gruppo Sette. Baka e Chiharu si odiavano! Non andavano d'accordo. E di sicuro non avrebbero mai e poi mai collaborato, per non parlare di quel che ne avrebbe pensato Kotaro!
Per un attimo pensò che diventare Anbu in quel momento sarebbe stato un tragico errore. Poi, però, ricordò che diventare Anbu era il suo sogno più grande, subito dopo l'ottenimento dello sharingan.
A salvarlo intervenne un indignatissimo Naruto, che senza capire niente di quello che sottintendevano i discorsi di Shikamaru si inalberò subito: «Non ce lo voglio Stupido nella mia squadra! Sei pazzo? Hitoshi, tu non molli il gruppo, punto! Ci sarà sempre tempo per fare l'Anbu, considerati abilitato ma non in servizio!»
Sakura sospirò visibilmente di sollievo, Shikamaru guardò Hitoshi di sottecchi.
Hitoshi esitò ancora, combattuto. «Beh... in realtà Baka e Chiharu si odiano» chiarì. «Anche senza di me...»
«Non credo si odino poi tanto» lo interruppe Shikamaru, che voleva concludere in fretta. «Lui ha firmato un contratto di custodia praticamente folle per riportarla a casa contro il parere dei medici di Suna. Se devo essere onesto la cosa mi puzza parecchio.»
«Che contratto? I medici volevano che restasse là?» chiese Hitoshi ansiosamente.
A Jiraya bastarono tre secondi per fare due più due, e di colpo scoppiò a ridere fragorosamente. «Sarebbe quasi carino, se non fosse un Uchiha!» esclamò additandolo allegramente. «Così palese!»
Hitoshi avvampò e si irrigidì tutto, ma il primo a rispondere fu Shikamaru: «Ehi, non voglio allusioni su mia figlia dall'autore delle peggiori porcate nella biblioteca di Konoha.»
«Akeru non si sarebbe preso la responsabilità di riportarla indietro se ci fossero dei rischi» intervenne Sakura, adocchiando l'indignazione negli occhi del Sennin e temendo una rispostaccia. «E' un ninja medico della squadra Anbu, e in parte li ho addestrati io, non dimenticatelo. Sempre a proposito degli Anbu, Hitoshi, credo che in questo momento siano ben bilanciati. Abbiamo più bisogno di te come membro del gruppo sette. Poi, quando la situazione si sarà calmata, parlerete degli Anbu...»
Shikamaru sbuffò impercettibilmente: nessuno sapeva se la situazione si sarebbe calmata. Sakura stava giocando sporco, e quel cretino di suo figlio ci sarebbe anche cascato. Ma a diciotto anni erano tutti così annebbiati dagli ormoni?, si chiese, evidentemente dimentico del fatto che i suoi, di ormoni, a diciotto anni lo avevano reso padre. Tanto più che, per come conosceva Chiharu, non avrebbe mai degnato di uno sguardo uno dei boriosi Uchiha, e tanto meno Baka Akeru, che si era evidentemente fatto manovrare da sua figlia perché non voleva restare sola con Temari.
Ogni tanto anche Shikamaru sbagliava.
«Bene! Allora torni nel gruppo!» esclamò Naruto cogliendo la palla al balzo. Poteva conquistare Hitoshi anche senza regalargli la promozione, in fondo... Non avrebbe sopportato di avere a che fare con Baka troppo spesso.
Hitoshi strinse le labbra. «Voglio essere il capo» sbottò. «Sono al livello di un Anbu, dopotutto!»
«Se volete me lo porto in viaggio e gli insegno un po' di umiltà» propose Jiraya.
«Non sei mai stato umile» gli fece notare Naruto.
«Posso ricordarvi che abbiamo un mucchio di lavoro?» sbuffò Shikamaru dal fondo. «Per favore!»
Hitoshi si schiarì la voce. «Infatti... Volevo chiedere se Yoshi ha parlato.»
Sakura lanciò un'altra occhiata di avvertimento a Naruto, e lui si ricompose obbediente. «Hitoshi, ti siamo grati per il contributo che hai dato alla sua cattura, ma capisci che da questo punto in poi le informazioni sono strettamente riservate. Se avremo ancora bisogno di aiuto sarai il primo che contatteremo.»
«Se fossi Anbu...»
«Non te lo diremmo comunque» troncò Sakura, che comunque cercava di tenere il figlio ai margini dell'azione, se proprio non poteva tenerlo fuori. «E di certo non qui» aggiunse in tono di rimprovero, ricordando implicitamente ai presenti che potevano essere ancora sotto controllo.
«Se hai del tempo libero ti posso dare un paio di consigli per recuperare la tua bella» rise Jiraya. I triangoli gli piacevano da impazzire, aveva già una mezza idea per un nuovo libro...
«Non ho mai tempo libero» ringhiò Hitoshi.
«E neanche noi» si inserì Shikamaru, chiudendo il documento che stava leggendo e fregandosi la fronte stancamente. «Resto ancora stanotte per vedere se riesco a dare una mano agli Hyuuga. Domani mi presti un rospo, Naruto? Vado a vedere cosa è preso a Temari e iniziamo a coordinarci con la Sabbia.»
«Hitoshi, vai a casa» disse Sakura al figlio, troncando sul nascere altre possibili discussioni. «Resti a riposo fino al rientro dei tuoi compagni.»


Sasuke si prese un tè caldo in bicchiere di plastica al posto della cena. I distributori del commissariato in quei giorni gli avevano salvato la vita, ma di certo non lo aiutavano a prendere la risoluzione di tornare a casa. Per sua fortuna aveva talmente tante cose da fare che i suoi subordinati non trovavano strano vederlo sempre in giro: anche in quel momento sapeva che erano appena arrivati dispacci dai quartieri bassi e un ordine di coordinamento con gli Hyuuga per la faccenda della spia, e che avrebbe dovuto analizzare tutto entro l'indomani.
Grattandosi distrattamente il collo rientrò in ufficio con la testa piena di dati e congetture, ma non fece in tempo a sedersi che qualcuno bussò alla sua porta.
Quasi sussultò vedendo entrare Ryuichiro.
«Buonasera. Sono mortificato per l'ora, ma non riuscivo mai a trovarla a casa e allora ho pensato...» il ragazzo si strinse nelle spalle timidamente.
«Non preoccuparti. Vieni, siediti. Ho molto lavoro in questi giorni...» Sasuke si affrettò ad accomodarsi dietro la scrivania, frugando tra le carte per trovare posto al suo tè. «Mi dispiace, non ho pensato ad avvisarti.»
«Non era necessario» si affrettò ad assicurare Ryuichiro, sedendosi di fronte a lui con un po' di disagio. «Anzi, mi scuso per essere tornato così presto. E' che mia madre... non è stata molto bene, abbiamo avuto delle spese impreviste...»
«Non hai bisogno di spiegare» lo interruppe Sasuke. «Per domattina sarà tutto sistemato.»
Ryuichiro tacque, fissandolo quasi tristemente. «Non mi piace quello che faccio» ammise piano. «Ma non so che altro fare. Nessuno mi dà un lavoro, e mia madre si rifiuta di trasferirsi altrove. Vuole...»
Continuare ad approfittarsene, pensò Sasuke, ma non lo disse. Dopotutto se Ryuichiro non trovava lavoro né accoglienza al Villaggio era colpa degli Uchiha: nessuno si fidava di lui. Anche Kakashi lo considerava un sorvegliato speciale; aveva chiesto espressamente a Sasuke di tenerlo d'occhio, perché chissà mai che Akatsuki o il paparino non avessero elaborato un piano macchinoso per mettere di nuovo in pericolo il Villaggio... Sasuke scrollò la testa per smettere di pensarci.
Itachi, il vecchio Itachi, si era lasciato alle spalle una scia destinata a durare parecchi anni.
«Per la mia famiglia non è una difficoltà» disse in tono pacato. «Se lo fosse ti avrei avvisato.»
Ryuichiro sorrise. «Qualche tempo fa ho avuto occasione di parlare con sua moglie. E' una buona madre, non so come faccia a stare dietro a tutti i suoi impegni. Forse è grazie al suo aiuto.»
Sasuke si irrigidì in preda al senso di colpa. Il suo aiuto? Stava evitando di tornare a casa, di occuparsi dei suoi doveri di sostituto Hokage, di seguire l'allenamento dei suoi figli... Stava trascurando un mucchio di cose.
«Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Ryuichiro gentilmente.
Sasuke scosse la testa e si schiarì la voce, cercando un modo per congedarlo, ma il ragazzo lo precedette.
«So che non dovrei permettermi...» iniziò esitante. «Ma penso che dovrebbe tornare a casa, questa notte.»
Sasuke lo guardò. E per un istante al suo viso si sovrappose quello del fratello, tanti anni prima, un'intera vita prima... Il fratello grande che lo mandava a dormire quando si allenava troppo a lungo, che gli dava colpetti sulla fronte quando si lamentava, che gli mostrava pazientemente i suoi errori...
All'improvviso il peso di quello che stava facendo gli crollò addosso tutto insieme, e le sue spalle si piegarono sotto il ricordo dei rimproveri di Naruto, della solitudine e del senso di colpa.
«Sì...» sussurrò, esausto, fissando il tè che fumava. «Penso che seguirò il tuo consiglio.»


Sakura era rientrata quando tutti i suoi figli erano già a letto da alcune ore, sfinita dall'estenuante giornata di lavoro, e aveva pensato di prepararsi un tè per distendere i muscoli prima di andare a dormire.
Era così stanca che non aveva nemmeno la forza di pensare. Si sentiva schiacciare dalla responsabilità, sentiva che l'indomani, senza Shikamaru, sola con Naruto, non avrebbe più retto: sarebbe crollata, avrebbe parlato di Sasuke, e Naruto avrebbe fatto una scenata, avrebbe cercato di intromettersi, tutto si sarebbe complicato...
Non aveva la forza di sopportarlo. Era stanca di combattere da sola. Non era più una ragazzina piena di energie, non riusciva ad affrontare di nuovo la fuga di Sasuke. Non più.
Finché, senza preavviso, davanti a una tazza di tè a malapena tiepida, proprio allora vide rientrare Sasuke.
E allora
silenzio.
La tazza sul tavolo, la teiera sul fuoco spento, le sedie in ordine e i bicchieri a sgocciolare. Il lampadario che pendeva dal soffitto al centro della stanza.
Sasuke entrò senza fare rumore. Tenendo lo sguardo basso, com’era sua abitudine, raggiunse la teiera e si versò una tazza di tè. Sedette accanto a Sakura, allo stesso lato del tavolo, e fissò le mani strette alla ceramica.
Silenzio.
Il cuore di Sakura batteva pesantemente.
Sasuke si era seduto. Voleva parlarle, ma di cosa?
Silenzio.
Lui alzò lo sguardo, incontrò quello di lei.
Ancora silenzio, per un lungo, infinito, pesantissimo attimo.
Infine la sua voce.
«Sono tornato.»
Sakura rilassò i muscoli con cautela. Abbassò gli occhi, nascondendoli nel vapore che saliva dalla tazza di tè. Annuì.
«Bentornato.»
La voce leggermente incrinata, la vista incerta, il nodo alla gola. Niente era a posto, davvero niente; non bastava ripresentarsi a quel tavolo perché ogni cosa acquistasse senso...
Ma Sasuke era lì. Dopo tanto tempo, dopo tanto scappare, era di nuovo lì, da lei.
Domani avrebbe pensato al da farsi. Quella notte voleva che restasse così, sospesa.


*


L'evocazione di Kakashi ricomparve dal nulla, facendo trasalire Jin e Haruka.
«Chiharu Nara è a quaranta chilometri a sud, diretta verso il Villaggio della Foglia» annunciò posandosi a terra.
Kakashi imprecò a mezze labbra, fermandosi per tirare fuori la cartina.
Quel giorno avevano riposato meno del previsto, perché avvicinandosi al confine avevano dovuto fare più attenzione. I mercenari mandati alla loro ricerca si erano moltiplicati e sparpagliati, e adesso dovevano fare lunghe deviazioni per non incontrare nessuno che fosse allettato dalla taglia sulla loro testa.
Kakashi aveva sperato che Chiharu fosse a già Konoha, possibilmente vicinissima a suo padre: in quel modo avrebbe potuto informare Naruto della situazione e chiedere rinforzi per eliminare le sentinelle della Radice. Ma se Chiharu era lontana quanto lui la faccenda si complicava... I suoi segugi non sarebbero riusciti a oltrepassare lo sbarramento di Roccia e Radice, e non si fidava abbastanza dell'altra evocazione per chiederle di rischiare la traversata. Cosa era andato storto nella missione di Loria per farli tardare così?
«Dovremo aspettare il confine» mormorò, mentre Jin illuminava debolmente la cartina e Haruka faceva da schermo perché la luce non filtrasse tra gli alberi. Ormai era buio. «In quanti viaggiano con Chiharu?»
«Altri quattro shinobi.»
«Quattro?» ripeté Kakashi, chiedendosi chi fosse rimasto ferito nella missione. Ma non aveva tempo di preoccuparsene, e accantonò il problema. «Chiederemo anche il loro aiuto, quando arriverà il momento» mormorò ripiegando la cartina. «Deviamo verso sud, cerchiamo di avvicinarci al gruppo che viene da Suna.»
Jin e Haruka annuirono. Il braccio ferito di Haruka continuava a sanguinare in mancanza di punti, la fame e la stanchezza li rendevano più lenti, più vulnerabili.
Kakashi guardò entrambi, chiedendosi se ce l'avrebbero fatta.
Con desolazione, si accorse di non saperlo.







* * *

Buongiorno a tutti!

Capitolo schifosamente Uchihacentric, lo confesso.
Però Hitoshi sta riacquistando un pochino di dignità (forse)
e sinceramente lo preferisco così, piuttosto che emo e disperato.

Nel prossimo capitolo continua la scia Uchiha,
MA
il terribile capitolo 28,
che ho riscritto mille volte perché è pieno di combattimenti,
è dietro l'angolo...

Che finalmente si avvicini la scena del prologo?

Grazie a tutti voi che siete arrivati a leggere fin qui.
Un abbraccio.

Alla settimana prossima!

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Capitolo 27
*** Sharingan? ***


Penne27
23/03/2016

Capitolo ventisettesimo

Sharingan?




Dormire, dopo tanto tempo, nello stesso letto in cui dormiva Sakura fu tutto fuorché un sollievo per Sasuke. Sorvolando sulla distanza che separava i loro corpi e sulle schiene rigidamente contrapposte, la sola idea di esserle di nuovo accanto lo innervosiva: la sua amorevole ma inflessibile moglie avrebbe preteso delle spiegazioni; spiegazioni che lui, ancora, non possedeva. E questa volta Naruto non avrebbe rigirato le carte in suo favore, come aveva fatto in passato.
Pensieri angoscianti e opprimenti riempirono la stanza lungo tutta la nottata, contaminando i sogni confusi dell’uno e dell’altra. Tensione e stanchezza si diedero il cambio più volte, plasmando un dormiveglia estenuante e velenoso. A un tratto Sasuke si accorse che la luce dell’alba penetrava attraverso le imposte socchiuse. Nello stesso istante percepì chiaramente che Sakura non era dietro di lui.
Si voltò, stendendo una mano a cercarla, ma trovò soltanto le lenzuola ancora remotamente tiepide. Allora indugiò sulla leggera curva del materasso, respirando il profumo della sua casa, un misto di quello di Sakura, del suo, di legno e carta e bambini, di tutta una vita...
Inspirò a fondo, riempiendosi i polmoni di quello a cui aveva rinunciato scappando in commissariato, e si girò sulla pancia, richiudendo gli occhi. Da solo era più facile.
Di nuovo a casa.


La porta dell'ufficio dell'Hokage si spalancò senza che nessuno bussasse, e Ibiki Morino fece il suo ingresso con passo marziale.
«Sono qui per un reclamo ufficiale contro il Dipartimento di Polizia!» annunciò bellicoso.
Naruto si alzò in tutta fretta, pronto a difendersi. Un paio di penne caddero a terra nella concitazione.
«Quell'imbecille del capo della Polizia non mi lascia fare il mio lavoro!» sbottò Ibiki.
«In che senso?» chiese Naruto cautamente.
«Mi mette i bastoni tra le ruote! Interferisce! Mi fa ridere in faccia da quel ragazzino!»
«Ehm... Interferisce come, di preciso?»
Morino sbatté una mano sul tavolo, e dal suo pugno emerse un foglio accartocciato, che Naruto riconobbe come il foglio di sospensione del dipartimento di Polizia.
«Senza di me non caverete una sola parola da quel tizio!» ringhiò il gigantesco shinobi.
Il che probabilmente era vero, perché le notizie che arrivavano dalla sala degli interrogatori erano sconfortanti; ma ammazzare Yoshi non gli sembrava una buona soluzione, così Naruto si spremette le meningi per trovare il modo di calmare Morino.
«Ascolta, io non posso d'ufficio...»
«Non mi interessa!»
Fallito.
«Scusate?»
Sia Naruto sia Morino guardarono la porta dell'ufficio, e videro Sakura che li fissava con un ampio sorriso.
«Buongiorno a entrambi. Morino, la sospensione non è sindacabile, ci serve» lui fece per protestare, ma lei lo zittì con un gesto. «Non capisci? Non abbiamo nessuno a parte te che sappia interrogare i prigionieri come si deve: dobbiamo testare qualcuno prima che scoppi la guerra, o tra dieci anni saremo con il culo a terra. Abbiamo bisogno che tu finga di essere fuori di scena, e in segreto voglio che studi le nuove leve e ci dica chi lavora bene e chi no. Lo sai, se ti vedono nella sala interrogatori diventano delle ragazzine...»
Morino richiuse la bocca, sospettoso. Guardò Naruto, che si strinse nelle spalle come se avesse sempre saputo tutto, quindi di nuovo Sakura.
«E' una sospensione temporanea?» chiese.
«Naturalmente. Presto avrai il documento di reintegro in servizio. Mi stupisce che Sasuke non te lo abbia spiegato personalmente.»
Morino rilassò la mandibola e riprese il foglio che aveva sbattuto sul tavolo di Naruto. Con bassi mormorii di protesta, si scusò per il trambusto e promise che sarebbe tornato da Sasuke a sgridarlo. Sakura lo gratificò di un sorriso che significava 'ehh, sono cose che capitano!' e lo esortò ad andare subito al dipartimento.
Quando Morino fu uscito, Sakura tirò un sospiro di sollievo e fece scivolare un plico di fogli sopra la pila più bassa della scrivania. «Qui ci sono i nomi dei candidati a sostituirlo» gemette. «Alcuni sono suoi allievi, altri sono esterni. Non so, proviamole tutte... Effettivamente senza di lui siamo nei guai.»
«Non possiamo aspettare che Shikamaru rientri? Davvero, non vorrei proprio occuparmi di questa faccenda...» Naruto si interruppe e sembrò ricordare qualcosa. «Hai davvero detto culo a terra
Sakura rise, facendo un gesto per minimizzare, poi si schiarì la voce. «Tra i candidati c'è anche Baka Akeru.»
«Cosa? Perché?»
«Ha fatto punteggi stratosferici ai test attitudinali.»
«Ma è un medico!»
«Lo so. E anche se da regolamento i medici non possono condurre gli interrogatori... Beh, siamo così a corto di personale che faremo uno strappo alla regola.»
«Sakura, ha diciotto anni...»
«Come Yoshi.»
«Non ne siamo sicuri.»
Sakura fece un sorriso triste. «Naruto, ti ricordi dove eravamo noi a diciotto anni?»
«Dove non vorrei mai mettere i miei figli e i loro coetanei.»
«...Disse l'uomo che aveva promosso mio figlio ad Anbu senza nemmeno valutarlo.»
Naruto distolse lo sguardo tossicchiando. «Ma tu non eri impegnata con la tua crisi coniugale, invece di pensare a queste cose?»
Sakura tacque. Deglutì. «Sasuke è tornato a casa, stanotte.»
«Finalmente!» esclamò Naruto, lasciandosi cadere sulla sedia a braccia spalancate. «Cosa aspettavi a dirmelo?»
«Che Morino fosse fuori dai piedi.»
«Ha parlato con Hitoshi?»
«Non si sono incontrati, stamattina Hitoshi è uscito presto...»
«Testaccia dura!» sbottò Naruto, picchiando un pugno sul tavolo. «Se non si dà una mossa glielo mando in ufficio!»
«Non ficcare il naso, Naruto.»
Il Jonin biondo le puntò un dito contro. «Lo farò quando tuo marito imparerà a stare al mondo!»
Sakura sbuffò ed evitò il suo sguardo.
Se c'era una nota stonata nella sua convinzione, era quella che l'aveva spinta ad alzarsi prima che Sasuke fosse sveglio, quella mattina. Era tornato, sì, ma non avevano ancora parlato di niente. Hitoshi, Fay, il tradimento... Argomenti che le pesavano sul cuore come un macigno e la facevano sentire una vigliacca.
Prima o poi ne avrebbero discusso, si disse nervosamente. Prima o poi...
Sperando che non diventasse troppo tardi.


Hitoshi non si era alzato molto presto per evitare di incontrare suo padre; neanche sapeva che era rientrato, suo padre. Hitoshi si era alzato molto presto perché non riusciva a dormire. E non riusciva a dormire perché aveva la testa piena di pensieri. Così, nonostante ufficialmente fosse in vacanza, ben prima dell'alba si era preparato per uscire ed era finito a guardare il sorgere del sole dalla cima della parete degli Hokage, adeguatamente lontano dal bordo.
Certo, la scelta della posizione non era stata casuale.
Seduto sotto un fitto cespuglio di rododendro sgranocchiava uno snack proteico, perso nei suoi pensieri. Non riusciva a levarsi dalla testa l'idea che Chiharu e Akeru avessero firmato un contratto.
Che contratto era? Perché l'avevano stretto? Non si odiavano, quei due? Cosa era successo a Suna dopo la sua partenza?
Continuava a ricordare ossessivamente quanto Chiharu avesse ceduto in fretta alle sue avances... Poteva pensare che fosse a causa del suo incredibile fascino, ma poteva anche essere che lei non sapesse gestire quel genere di proposte. E se Akeru gliene avesse fatta una?
No dai, doveva pensare veramente male di lei per credere una cosa del genere!, si disse, quasi vergognandosi di sé. Non voleva pensare che Chiharu andasse con il primo che passava... Preferiva di gran lunga credere di essere unico e speciale – anche se poi c'era stato quello spiacevole dettaglio della sostituzione.
Davvero, non vedeva l'ora che tornasse: le avrebbe detto di Yoshi, del suo ruolo nel catturarlo e di quanto fosse stato figo stare tra gli Anbu. L'avrebbe fatta rodere per giorni, e alla fine l'avrebbe costretta a riconoscere di aver fatto un errore quando aveva deciso di rispedirlo a Konoha.
Naturalmente avrebbe fatto un discorso analogo anche a Kotaro... Dovevano sentirsi piccoli e miseri come si era sentito lui in sella a Scheggia XIII.
No, aspetta. Forse è meglio se prima chiarisco la situazione con Chiharu, si disse interrompendo il flusso di pensieri rancorosi. E se la sua risposta non mi piace, allora procedo con il piano di vendetta.
Si sentiva molto astuto.
Qualcosa entrò nel suo campo visivo. Rotolò via appena in tempo, evitando un attacco improvviso. Mentre recuperava la visuale estrasse un kunai, lanciandolo verso la sagoma che lo aveva sorpreso, ma quella lo fermò con due dita. Hitoshi prese un secondo kunai appena in tempo per difendersi da un nuovo attacco, e finalmente i due si guardarono.
«Hyuuga» disse Hitoshi per primo. «Sono Hitoshi Uchiha, non la vostra spia. Posso riavere il mio kunai?»
Lo Hyuuga, chiaramente riconoscibile per il Byakugan attivo, non mosse un muscolo, diffidente. «Sai che stiamo pattugliando questa zona: perché sei qui?» rispose senza smettere di premere la lama contro quella di Hitoshi.
«Guardavo l'alba.»
Lo Hyuuga strinse gli occhi, e con il Byakugan l'effetto era un po' inquietante.
«Ok, pensavo a una ragazza!»
Lo Hyuuga esitò ancora un istante, poi abbassò il kunai e riportò la vista alla normalità. Hitoshi si chiese perché tutti prendevano per buono che un diciottenne sospirasse languidamente osservando il sorgere del sole, ma rimase zitto e si spolverò la maglietta.
«Non startene qua intorno» lo rimproverò la sentinella, gettando il kunai ai suoi piedi. «Potresti essere frainteso.»
Hitoshi guardò con rammarico lo snack che era caduto nella colluttazione. «Mi dispiace» disse con voce monocorde. «Non accadrà più.»
«Sarà meglio...»
Lo Hyuuga si fece da parte e si intrufolò tra i rododendri senza salutare. Erano sempre così snob i membri di quel clan! Doveva darsi da fare a rimpolpare gli Uchiha per rimetterli al loro posto.
Avvertì un brivido, come uno spiffero gelido. Si voltò.
Alle sue spalle c'erano solo i cespugli del sottobosco e i primi alberi. Il suo cuore iniziò a battere un po' più veloce, i sensi si acuirono: non c'era solo il verde; c'era qualcosa, lì in mezzo, qualcosa di invisibile.
C'era una cosa che accomunava tutti i membri del gruppo sette: tutti, nessuno escluso, prima o poi finivano per pensare che il loro intervento in qualche difficile problema avrebbe risolto la situazione. Anche se non avevano le conoscenze e nemmeno la capacità di valutare il contesto, sapevano che prima o poi avrebbero salvato il mondo, da soli. Lo sapevano.
Non era arrivato fin lassù solo per ammirare l'alba pensando a Chiharu. Quel giorno Hitoshi era salito fin lì, combattendo le vertigini, perché dopo il successo della missione con gli Anbu una piccola parte di lui era convinta che se si fosse impegnato per scoprire se Yoshi aveva un complice ci sarebbe riuscito di sicuro; in barba a un'intera squadra di Hyuuga e mezzo Villaggio che tentavano la stessa cosa.
Non lo avrebbe mai detto a nessuno, perché anche lui si rendeva conto della presunzione di un simile pensiero, ma in fondo ci credeva. E quindi, avvertendo la strana sensazione che gli Hyuuga avevano descritto nei loro rapporti sulla spia, subito il pensiero era corso alla riuscita delle sue fantasie e la sua mente aveva galoppato verso grandi riconoscimenti.
Ci siamo, si disse emozionato, guardandosi attorno con cautela. Sentiva la schiena coperta di sudore freddo e le mani tremare, ma non avrebbe saputo dire se per l'ansia o l'eccitazione.
Non aveva bisogno di uno stupido Sharingan per essere tra i migliori shinobi del Villaggio. Forse per Fugaku era indispensabile, ma lui era sempre stato abituato a farne a meno, si disse, accucciandosi come per raccogliere il kunai.
Ne fu certo: qualcosa, ai margini del bosco, si mosse per osservarlo. Provò una sensazione strana, come se qualcuno gli avesse infilato giù per la schiena un secchio di alghe gelate.
Lentamente raggiunse il kunai, cercando di definire il misterioso osservatore. Non riusciva a vedere niente. Sentiva orribili brividi lungo la schiena quando fissava un punto preciso tra i cespugli, ma anche sforzandosi non capiva dove o cosa fosse.
Forse, se avessi lo Sharingan...
Una macchia, come quelle che si vedono osservando direttamente il sole. Gli sembrò di intravederla nel momento in cui gli occhi gli mandarono una piccola fitta di protesta.
Non era la prima volta che la sua vista si lamentava perché cercava di applicare gli insegnamenti del manuale segreto dello Sharingan, ma questa volta il dolore fu più intenso. Serrò le palpebre, mancando la presa sul kunai e facendolo tintinnare contro un sasso. Riaprì subito gli occhi, e questa volta la macchia si fece più distinta, quasi acquosa, come un riflesso d'acqua nell'aria.
Le dita afferrarono il kunai e lo scagliarono nel folto, diretto con precisione verso il punto in cui lo spazio si distorceva. Vide le foglie dei cespugli che si scrollavano, il kunai che veniva deviato e rimbalzava contro un tronco. Si lanciò in avanti prima che il metallo toccasse di nuovo terra, ma quando tese le mani la macchia traslucida si era dileguata, lasciandolo ad afferrare l'aria.
Non si perse d'animo, la cercò di nuovo. Si era spostata nel folto degli alberi. Si intrufolò tra i cespugli per inseguirla, ma nelle ombre era molto più difficile. La perse e la riprese più volte, cercando di ignorare il dolore che aumentava dietro le tempie. Era lì, a pochi passi! Bastava avere l'intuizione giusta, e...
Qualcosa lo colpì in piena faccia, mandandolo a sbattere contro un grosso tronco. Cacciò un urlo strozzato, sentendo miriadi di granelli di polvere che gli invadevano occhi, naso e bocca. Si sfregò la pelle con una mano, tossendo, e subito avvertì un bruciore insopportabile salire su per i polmoni.
Boccheggiando portò una mano alla borraccia. La aprì, si piegò di lato e sciacquò gli occhi, sperando che lenisse il dolore, ma non accadde. In pochi istanti tutte le sue mucose si erano gonfiate. Respirare diventò difficile, così come sollevare le palpebre.
Un trucco tanto semplice che lo insegnavano la prima settimana di Accademia... Una manciata di polvere urticante, e il grande Hitoshi Uchiha era finito K.O.
«Che è successo?» domandò una voce familiare, in tono concitato. «Stai fermo, ho qualcosa.»
Hitoshi sentì una mano che lo afferrava saldamente per la nuca, e poi il sollievo di un panno freddo sul viso.
«Respira.»
Obbedì, avvertendo il mentolo che gli invadeva immediatamente i polmoni. Le vie respiratorie si decongestionarono leggermente, permettendogli di respirare quel tanto che bastava, e presto prese a tossire, ansante.
«C'era... Qualcosa...» si sforzò di dire. «Qualcuno...»
«Lo hai visto?»
«Ho visto...» un accesso di tosse lo interruppe.
«Fermo. Ti accompagno in ospedale... Quello che ti ho fatto respirare è solo un palliativo.»
Allora Hitoshi riconobbe la voce: si trattava dello Hyuuga che lo aveva attaccato poco prima.

Quando arrivarono in ospedale il medico di turno mandò a chiamare Sakura e si consultarono sulla natura della sostanza irritante. Fu avvisato anche Naruto, che si precipitò a interrogare Hitoshi, ma non ottenne granché.
«Richiama Morino, dobbiamo scoprire con chi lavorava Yoshi. Adesso» disse a Sakura.
«Neanche per sogno» sbottò lei. «Morino lo ammazzerebbe senza ottenere niente. Piuttosto ci vado io.»
Senza volerlo Hitoshi rise, una risata raspante e incompleta, mentre aspirava un aerosol che puzzava di uovo marcio. Gli avevano spalmato su tutta la faccia uno spesso strato di unguento lenitivo, e sugli occhi avevano messo una benda impregnata di chissà che diavoleria. Qualcuno, poco prima, gli aveva anche iniettato un siero che doveva ridurre la reazione cutanea, ma quello ci avrebbe messo un po' ad agire.
«Non ridere. Non sai di cosa è capace quando le toccano i figli» lo mise in guardia Naruto con un brivido.
«Non possiamo avere un rischio simile in giro per il Villaggio. Dobbiamo sguinzagliare gli Hyuuga, tutti quelli che sono in città, e organizzare squadre di pattuglia» continuò Sakura. L'idea che qualcuno avesse avuto l'ardire di mettere le mani addosso a suo figlio l'aveva resa aggressiva e spaventosamente efficiente.
Un discreto colpetto di tosse interruppe le sue pianificazioni. Lo shinobi che aveva salvato Hitoshi, fermo in un angolo, fece un passo avanti.
«Perdonate l'interruzione. Il ragazzo ha detto di aver visto qualcosa» disse. «Mi piacerebbe capire meglio cosa ha visto, dal momento che neanche il nostro Byakugan è riuscito a distinguere nulla.»
«E' difficile da descrivere» spiegò Hitoshi, mettendo da parte l'aerosol. «Sembrava come una macchia... a metà tra un'ombra e un riflesso, senza contorni definiti. Era grossomodo delle dimensioni di un essere umano.»
«Qualunque cosa sia, voglio tutto il vostro clan sulle sue tracce!» sbottò Sakura rivolta allo Hyuuga.
«Così li mettiamo in allarme, però» le fece notare Hitoshi. «Se vogliamo prenderli non è una buona mossa.»
«Non venire a dirmi cosa devo fare o non fare a chi mette le mani sui miei figli!»
Hitoshi tacque, trattenendo un fremito di impazienza. Dietro le palpebre abbassate gli sembrava di avvertire un nuovo potere pulsante, lo stesso potere che aveva agognato per anni senza mai capire come raggiungerlo. Forse era l'infiammazione, ma forse la pulsazione era qualcos'altro...
«Nemmeno gli Hyuuga riescono a capire cosa sorveglia il palazzo degli Hokage» disse con voce quasi tremante. «Io invece ho visto... qualcosa. Non era ben definito, ma non era niente che avessi visto prima... Può darsi che io possa...» lasciò la frase in sospeso, con una vibrazione eccitata sull'ultima sillaba. Non osava dirlo a voce alta.
«Lo Sharingan?» chiese Naruto per lui, inarcando le sopracciglia fino all'attaccatura dei capelli.
«Non lo so. Forse» mormorò Hitoshi tutto impacciato. Parlare di Sharingan senza esserne sicuro? Cosa diavolo gli era saltato in mente? La fronte gli si coprì di sudore freddo all'idea di averla sparata troppo grossa. «So solo che ho visto qualcosa, mentre gli Hyuuga non sono mai riusciti a distinguere niente di più di un turbamento nella forza... Beh, in qualunque cosa vedano con i loro occhi.»
«Flussi di chakra» brontolò lo Hyuuga presente, piuttosto seccato.
Naruto si fece pensieroso. «Sasuke non ha mai fatto turni di guardia per cercare la spia» si disse. E' stato troppo impegnato a fare il cazzone, aggiunse mentalmente. «Dobbiamo verificare la teoria dello Sharingan. Voglio una squadra con Sasuke, Hitoshi e Fugaku.»
Sakura serrò le labbra. «Fugaku?»
«Avanti, Hitoshi alla sua età poteva venire in giro con me e Fugaku non può andare in giro con suo padre?» ghignò Naruto. «Sono tanto più bravo di lui?»
Sakura tacque. Hitoshi con lo Sharingan e Fugaku improvvisamente coinvolto nelle missioni pericolose? Succedeva tutto un po' troppo in fretta.
«Non siamo sicuri che sia lo Sharingan. Potrebbe anche essere un tumore al cervello, per quel che ne sappiamo» protestò, e Hitoshi la odiò un pochino, perché era quello che temeva anche lui.
Ma Naruto le rivolse un'occhiata incredula. «Quante probabilità ci sono che un Uchiha sviluppi un tumore al cervello piuttosto che lo Sharingan? Ti prego! Anche io ho passato la fase in cui volevo proteggerli, ma così mi costringerai a chiamare Rock Lee e Shikamaru per farti ragionare!»
Sakura fece un respiro profondo. Vedere Hitoshi che boccheggiava non le rendeva entusiasmante l'idea di mandare in avanscoperta Fugaku... Ma Fugaku sarebbe impazzito di gioia, questo lo sapeva. E ricordava fin troppo bene quanto era sembrato ridicolo Naruto nel periodo in cui era paranoico.
«Torno a casa per avvisarli» cedette.
«Vengo con te!» esclamò Hitoshi raggiante, pronto a togliere la benda dalla faccia.
«Neanche per sogno. Voglio che i tuoi occhi vengano esaminati in lungo e in largo. Intanto ti ringrazio...» proseguì in direzione dello Hyuuga. «Farò sapere a Neji che hai salvato mio figlio. Se non fosse stato per te...»
Naruto schivò lo sguardo di Sakura, tossicchiando come se fosse stato in imbarazzo. Sakura non sembrò accorgersi di niente, e invece prese la mano di Hitoshi, che nella sua cecità temporanea sussultò leggermente.
«Dato che non siamo sicuri che sia davvero lo Sharingan, non dirò niente a casa. Ti sta bene?»
Hitoshi annuì rigidamente.
«Lo farà lui più tardi» sorrise allegro Naruto. «Figurati se non è Sharingan. Anzi, se non è Sharingan ti declasso a Genin, Hitoshi.»
«Cosa? Non puoi!»
«Certo che posso! Ti ho promosso Anbu, posso anche declassarti a Genin.»
«Mamma, digli qualcosa! Sei Hokage quanto lui.»
«Non voglio saperne niente» borbottò Sakura, lasciandolo con una pacchetta sulla mano. «Non azzardarti a tornare senza un referto oculistico, mi raccomando... A dopo.»

Nonostante le affermazioni spavalde, Naruto non sapeva da che parte iniziare a risolvere i suoi problemi. A parte Hitoshi, che forse si era risolto da solo, tutto il resto era una gigantesca incognita. Non era mai stato un genio del problem solving... Era più quello che faceva saltare in aria la baracca e ripartiva da zero, dicevano tutti.
Nel pomeriggio Sakura lo rispedì a casa, perché in ufficio faceva più danni che altro, e lui si ritrovò inattivo, frustrato e preoccupato.
Hinagiku lo trovò che giocava con uno degli ultimi cuccioli nati a casa Uzumaki, propropropronipote del primo Naruto-gatto. Quando lo vide pensò che fosse un segno divino, perché in quel momento lei voleva sospirare un po' al pensiero di Jin, ma nessuno dei suoi fratelli era adatto al ruolo di confidente e sua madre era uscita per una commissione.
«Non eri andata con mamma?» le chiese Naruto sorprendendola dietro la porta.
«Non avevo voglia» rispose lei, entrando nella stanza e sedendosi al suo fianco. «Ho la testa piena di pensieri...»
«Siamo in due» con un sorriso, Naruto le circondò le spalle e la abbracciò. «Allora, vuoi provare ad alleggerirti un po' parlandomi di questi brutti pensieri?»
«Mi sa che non ti piacerebbero...»
«C'entrano con Jin? Devo andare a ucciderlo?»
Hinagiku rise, ma per poco. Poi il bisogno di confidarsi la sopraffece. «Sono preoccupata: non ha più fatto sapere niente... So che se lo avesse fatto me lo avresti detto. Vero?» guardò il padre con sospetto.
«Sì che te lo avrei detto» assicurò lui.
«Se non ha fatto sapere niente potrebbe essergli successo qualcosa...» gli occhi della ragazzina si riempirono di lacrime, che cercò di asciugare prima che cadessero lungo le guance.
«Ma no, dovresti stare tranquilla. Se qualcuno avesse messo le mani sul Sesto Hokage lo avremmo saputo. Niente nuove, buone nuove.»
«Io non credo» insisté lei. «Sono via da tanti giorni... Non è normale, nemmeno un messaggio...»
Naruto rise. «Hina, questo è quello che vuol dire missione segreta. Non possono comunicare con nessuno.»
Solo allora ricordò che ufficialmente Jin era in missione al confine, e non insieme a Kakashi. Ma soprattutto che Hinagiku non avrebbe dovuto saperne niente.
Trattenendo un'imprecazione strinse di più le spalle della figlia, con l'inquietante sensazione di essere osservato. Lei prese l'abbraccio per una rassicurazione e scoppiò a piangere.
«Lo so che sono stupida, papà... Però non è bello, io sono piccola, non è giusto che mi capitino queste cose. Perché non poteva essere un ragazzino normale? Perché non poteva essere un cretino qualunque, che non doveva andare a ripescarsi la mamma in terra nemica... Oh, quanto la odio quella donnaccia dai capelli rossi!»
Naruto le tappò la bocca, ma ormai la frittata era fatta. Con l'altra mano le fece cenno di tacere, guardandosi intorno. Non percepiva nulla, non sentiva nulla. Hinagiku lo fissava spaventata: di colpo realizzò che aver appena tradito l'unico segreto che Jin le avesse mai confidato, e si sentì sprofondare.
Naruto la fece alzare in piedi. La portò allo scrittoio, le diede in mano una penna e le fece intendere che doveva vuotare il sacco, senza dire una parola.
Lei esitò, fissandolo implorante, chiedendogli in silenzio di capire che non poteva, non poteva!
Ma lui fu impietoso.


Lontano da lì, in un seminterrato reso confortevole attraverso un futon e un tavolino con una tazza di tè fumante, da un apparecchio radio usciva il fievole suono della matita sulla carta, amplificato e ripulito dalle impurità.
Accanto alla tazza del tè stava un blocco note, su cui erano ancora ben visibili in rilievo gli ideogrammi che aveva vergato il ragazzo che si era allontanato pochi secondi prima.

Jin e Kakashi Hatake.

Haruka Muto.








* * *


Buongiorno a tutti!

Direi che è piuttosto evidente che questo è l'ultimo capitolo di pace.
Dal prossimo giro si torna a combattere!
Saranno quattro capitoli di interruzioni bastarde
e incubi di subordinate descrittive,
ma spero che ne varrà la pena.

Visto che PERSINO un personaggio come Hinagiku
ha uno scopo serio nella trama?

In attesa dell'apertura delle ostilità

vi saluto e vi auguro Buona Pasqua!





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Capitolo 28
*** Chi non muore si rivede ***


Penne 28
30/03/2016
Capitolo ventottesimo

Chi non muore si rivede




Kakashi si accorse del momento in cui superavano i confini perché gli sembrò di attraversare un invisibile schermo di elettricità statica.
«Ci siamo» annunciò fermandosi di botto.
Jin e Haruka lo raggiunsero mentre sfilava dalla borsa un tubetto di plastica blu e presero le pillole ricostituenti che diede loro, indistinguibili nel tramonto che tra gli alberi era quasi notte.
«Da questo momento dovremo correre fino a Konoha. Non fidatevi del terreno davanti, continuate a controllare alle spalle. L'ultimo gruppo di inseguitori non è lontano, e i nostri di qua dal confine non sono affidabili. Mi hai capito Jin? Non sono affidabili, nessuno di loro. Attaccate chiunque.»
Jin mandò giù la prima pillola, che aveva un vago retrogusto di marcio. Fece una smorfia, ma non protestò. Accanto a lui Haruka masticava due compresse premendo la benda intrisa di sangue che non smetteva di sgorgare dal braccio. Kakashi aveva ragione, sarebbero serviti dei punti; ma loro non avevano il materiale, e anche se lo avessero avuto non ci sarebbe stato il tempo per lavorare.
Kakashi evocò di nuovo l'uccellino di due giorni prima; lo sforzo gli rese il viso quasi grigio.
«Trova Chiharu Nara e dalle le nostre coordinate» ansimò. «Devono venire con te. Senza di te li attacco. Capito?»
L'uccello fischiò acuto e si alzò in volo, scomparendo tra le fronde degli alberi. Senza concedersi neanche un minuto, Kakashi evocò un levriero color terriccio e fece avvicinare Jin.
«Koa, devi arrivare a Konoha senza farti prendere» disse al cane, prendendo dallo zaino di Jin il fascicolo su Haruka. «Davanti a te ci sono degli uomini che ci stanno cercando. Fai il giro largo, ma corri come il vento. Porta questo a Naruto Uzumaki, Sakura Haruno o Sasuke Uchiha. Solo a loro, è chiaro? Non fidarti di nessun altro» mentre parlava, aprì il fascicolo ed estrasse il primo foglio, che conteneva le generalità e il curriculum di una Haruka molto più giovane. Prese dal marsupio una matita e scrisse poche parole, quindi arrotolò il foglio e lo assicurò al collare del cane. «Vai!»
Koa si voltò è scomparve tra i cespugli con una grazia quasi inconcepibile per una bestia così grossa. Jin rimise via il fascicolo, Haruka guardò Kakashi.
«Questa Chiharu... E' una ragazzina. Vuoi farla ammazzare insieme a noi?» disse piano. «Siamo fregati, lo sai» e senza volerlo posò gli occhi su Jin, che rabbrividì.
«Di sicuro è almeno con Rock Lee o Gai Maito. Se riescono a raggiungerci in tempo abbiamo qualche possibilità di reggere fino all'arrivo di Naruto. Senza di loro siamo morti, certo. Ma con loro potremmo riuscire a riportare a casa nostro figlio.»
Jin sentì qualcosa sciogliersi, in fondo allo stomaco, e poi infuocarsi.
«Allora forse dovresti smettere di farle la guerra!» esplose, senza averne avuto l'intenzione; ma ormai era lanciato, e l'adrenalina nel suo sangue fece il resto. «Dovresti smetterla di accusarla, di sospettarla, di... di... di umiliarla così. Per dodici anni ha fatto esattamente quello che hai fatto tu, sei stato altrettanto assente. Nostro figlio? Non eri nemmeno sicuro di essere mio padre! Adesso sono vostro, adesso finalmente sei convinto che mio padre non sia un altro? Alla buon'ora! Vuoi sapere come tornare a casa? Fidandoti di mia madre e smettendola di recriminare!»
Kakashi e Haruka lo fissarono a bocca spalancata. Era evidente che Jin aveva origliato i loro discorsi, ma quello non era il momento migliore per affrontare la questione.
«Jin...» iniziò Kakashi, però lui lo zittì con un cenno.
«Lo so. Non dovremmo parlarne adesso... Ma se non fai adesso quello che ti ho detto, a casa non ci arrivo vivo nemmeno io. Devi fidarti della mamma. Dico davvero.»
Kakashi guardò Haruka, che rimase ferma e zitta. Allora, con una sensazione di oppressione al petto si costrinse ad annuire.
Più tardi avrebbe raccontato a Jin tutti i dettagli della storia, i tormenti di quei dodici anni passati a crescerlo non sapendo se lei era viva o no, se li aveva traditi o era ancora dei loro... Gli avrebbe spiegato che c'erano cose che non si risolvevano ricomparendo dal mondo dei morti, ma che anzi si complicavano, e gli avrebbe parlato senza nascondergli più nulla.
Tuttavia riconosceva che in quel momento la loro unica possibilità di tornare vivi era abbassare le ostilità, e non era così sciocco da rinunciarci.
«Va bene. Come una volta, allora» disse a bassa voce.
«Come una volta» ripeté Haruka.


*


Iida attendeva nervosamente nella cantina che usava per ricevere i messaggeri, lisciando le pieghe del kimono con movimenti sempre uguali, ossessivi.
Non riusciva a credere di essere stato così cieco e ignorante; gli sembrava impossibile di aver commesso un errore di tale gravità, così facile da evitare, così ingenuo... Eppure lo aveva commesso. Le informazioni che venivano da casa Uzumaki, recapitate da pochi minuti, non lasciavano alcun dubbio.
«Signore?»
Il messaggero materializzatosi davanti a lui lo fece sussultare.
«Hanno passato il confine. Mobilito la squadra?»
«No» rispose brusco. «Voglio tutti dietro Kakashi Hatake e Haruka Muto. Priorità assoluta! Se raggiungono Konoha siamo finiti.»
Il messaggero sembrò esitare dietro la maschera, poi annuì rapidamente e scomparve.
Iida fece un giro su sé stesso e si passò le mani sulla fronte. Kakashi Hatake e Haruka Muto, insieme. E Jin Hatake! Figlio di Haruka Muto. Da quanto si tenevano in contatto? Cosa sapeva Kakashi? Non tutto, non abbastanza... Altrimenti li avrebbe distrutti prima.
Naruto aveva mentito su Kyuubi, su Kakashi, su ogni cosa. Li aveva raggirati come Genin alle prime armi. Non si erano nemmeno accorti della nascita di Jin. Come avevano potuto essere così sprovveduti? Come? Se Danzo fosse stato ancora vivo, quale vergogna avrebbero provato!
Scrollò la testa, rimproverandosi. Adesso doveva concentrarsi, la missione doveva andare bene. Non potevano fallire, o tutto quello che avevano fatto non avrebbe avuto alcun senso, anni e anni di sforzi, investimenti, anni di sacrifici... Doveva andare bene, e allora avrebbero ripreso a lavorare dietro le quinte perché Konoha restasse grande... Avrebbero... Dopo...
Serrò i denti, le mani, le palpebre.
Doveva andare bene.


*


Chiharu era stanca.
L'ultima pausa risaliva a tre ore prima, e l'effetto della Lophenaria stava iniziando a scemare. Gettò uno sguardo critico a Baka, ma lui, che era molto risentito per l'assenza di intimità tra loro, fece finta di non notarla: sapeva che avrebbe potuto reggere ancora dieci minuti, e non era disposto a concederle sconti.
«Lo sentite il profumo dei nostri boschi?» esclamò Gai gioiosamente, le mani tutte impiastricciate di resina aromatica.
«Sì maestro!» rispose Kotaro, ma la costola incrinata gli impedì di essere fiero come avrebbe voluto.
«E se... Ci fermassimo... Per sentirlo meglio?» ansimò Chiharu dal fondo.
«Ragazza nostalgica!» rispose Rock Lee. «Ancora due chilometri, su! Poi ceniamo.»
Chiharu si sentì quasi mancare, e fu per questo, oltre alla poca luce rimasta, che non vide subito l'uccellino rosso che le sfrecciò davanti. Colta alla sprovvista tentò di evitarlo goffamente, perse l'equilibrio e piombò dritta nella polvere del sentiero.
«Fermi! Haru si è ammazzata!» annunciò Baka rallentando. «Che hai combinato?»
«Una bestia davanti!» rispose lei, tendendo il gomito dolorante verso di lui. «Fai qualcosa! Fa malissimo!»
Un fischio acuto fece trasalire entrambi, e finalmente Chiharu riconobbe l'uccellino.
«Cos'è quello?» domandò Rock Lee raggiungendoli con gli altri.
«Che è successo?» chiese subito Chiharu. «Akeru, il gomito. Presto.»
«Supporto. Dodici chilometri a nord, uno a ovest» disse l'evocazione. «Nemici dietro e davanti. Dovete venire con me.»
«Da dove arriva questa bestia?» chiese Akeru.
«Merda» sbottò Chiharu, frugando freneticamente nel marsupio. Per essere più veloce lo rovesciò completamente e afferrò l'involto della Lophenaria, in cui erano rimaste solo poche pillole. Ne prese un'altra, mandandola giù asciutta, e si rimise in piedi prima che Akeru potesse finire di guarirle il gomito o inorridire per l'abuso farmacologico.
«Quanti nemici?» chiese.
«Ma di che state parlando?» intervenne Kotaro.
«Questo uccello viene dall'Hokage» spiegò Chiharu. «Vuol dire che è in pericolo. Com'è messo?»
«Dovete seguirmi» ripeté la bestiola, come un disco rotto
«Aspetta, facci capire» intervenne Gai. «Quell'uccello viene da Naruto?»
«Non Naruto!» sbottò lei. «Il Sesto Hokage! Evidentemente è dove dice questo uccello, e ha bisogno di aiuto! Non lo avrebbe mandato se non fosse in pericolo!»
«Tu sapevi dov'era sparito l'Hokage?» Kotaro spalancò la bocca.
«No che non lo sapevo! Ma so che se ha mandato questo messaggio ha bisogno urgente di aiuto! Lo so, fidatevi, cazzo! E' difficile capire che non abbiamo il tempo di discutere?»
«Ehi ehi ehi, frena un momento!» Akeru la afferrò per il braccio. «Ho firmato un contratto che mi rovina se fai casini!»
«Ma certo, che sciocca! Hai ragione. Lo scrivi tu il discorso per il funerale?»
«Non sto scherzando, Chiharu!»
«Allora sei stupido!»
Gai e Rock Lee si scambiarono uno sguardo, esitanti. Chiharu strinse i denti e lanciò un'imprecazione, evocando un uccellino dorato più piccolo di quello rosso che veniva da Kakashi.
«Vai a Konoha. Trova Naruto. Digli che abbiamo bisogno di aiuto. Digli che siamo con Kakashi. Kakashi, hai capito? Dodici chilometri a nord e uno a ovest da qui. Più veloce che puoi!» gli ordinò, raccogliendo le cose che aveva tolto dal marsupio. L'uccellino quello partì subito.
«Noi non stiamo andando da Kakashi!» strillò Akeru.
«Dodici chilometri a nord?» chiese invece Gai, guardando il cielo scuro tra gli alberi.
«E uno a ovest.»
«Lo stiamo facendo?» Akeru sbiancò.
«Senti, mi dispiace. Mi dispiace davvero» disse Chiharu in tutta fretta, e nella foga gli prese le mani. Kotaro sussultò. «Prometto che non ti farò causa.»
«Se muori e me la fa tua madre?» sbottò Stupido. «O Gaara! Gaara aspetta solo questo!»
«Allora cerca di tenermi in vita!» Chiharu gli mollò di scatto le mani e balzò su un albero, ordinando all'uccellino di guidarli. Sentiva l'effetto della Lophenaria darle forza. Era davvero spiacente per Akeru, ma sapeva che dovevano andare, e pure in fretta. Kakashi non avrebbe mai mandato il suo messaggio in quel modo, se non fosse stato costretto...
«Cos'è quell'uccello?» chiese Gai affiancandola, come se le avesse letto nel pensiero.
«Un'evocazione...»
«E' un Chakravakam, vero?»
Chiharu gli lanciò un'occhiata allarmata, ma Gai sorrise. «Ho qualche anno più di voi. Se Kakashi ti fa usare una roba del genere, allora deve essere nei guai fino al collo» mormorò, aguzzando la vista per non perdere la loro piccola guida. «E' la mia occasione per segnare un punto nella nostra sfida!»
Chiharu gli rilanciò un'occhiata perplessa, ma lui si guardò alle spalle, dove gli altri li seguivano, e poi le strizzò un occhio. «Non ti preoccupare per Baka: cercheremo di dargli una mano a restare fuori dal carcere...»


*


Haruka aveva premuto l'ultima benda rimasta sopra quella zuppa di sangue, perché non avevano nemmeno il tempo di fermarsi a cambiarla. Gli inseguitori alle loro spalle erano tanto vicini che si sentiva il rumore dei loro passi; le bombe carta erano finite, le trappole richiedevano tempo per essere preparate.
Kakashi aveva vagliato cinquanta possibili alternative – nessuna delle quali prevedeva che sopravvivessero tutti e tre – ma aveva comunque deciso che entro dieci minuti avrebbero affrontato gli inseguitori, o non avrebbero avuto abbastanza energie quando sarebbe diventato inevitabile.
«Mi fermo a rallentarli» annunciò Jin bloccandosi di colpo.
Kakashi lo afferrò per lo zaino e lo spinse avanti, intimandogli di non dire sciocchezze.
«Ascolta tuo padre» ansimò Haruka. «Se dobbiamo scegliere qualcuno che sopravviva, non sperare di poter discutere con noi.»
«Sono quello più riposato!»
«Sei il futuro» tagliò corto lei. «Sei l'unica cosa che ha senso salvare.»
Il braccio ferito mancò la presa su un ramo e Haruka andò a sbattere violentemente contro il tronco.
Kakashi agì subito: con un balzo tornò indietro di dieci metri, lanciando kunai in tutte le direzioni. Ad ogni kunai era legato un filo, e ogni filo legava due kunai; conficcandosi nella corteccia degli alberi crearono una rete difficile da individuare.
«Nel sottobosco» sibilò allora, tirando Jin e Haruka fino ai cespugli più vicini. La rapidità con cui era tornato da Haruka fece capire a Jin che forse finalmente avrebbe agito come se lei fosse una dei loro, e non un potenziale nemico in incognito.
Gli inseguitori arrivarono quasi subito: i primi restarono impigliati nei fili e caddero a terra, con lunghi tagli aperti nella pelle. Di quelli che li seguivano, uno si fermò a soccorrerli, gli altri proseguirono, superando il punto in cui si nascondevano Kakashi, Haruka e Jin. Erano almeno una decina, tutti molto più freschi di loro. E non erano mercenari, ma shinobi.
«Dove sono i tuoi rinforzi, eh?» sibilò Haruka gettando via la nuova garza, ormai pregna.
«Anche se fossero vicini come ci troverebbero?» chiese Jin. «Ci stiamo nascondendo!»
«Ci troveranno» assicurò Kakashi, stringendo un nuovo straccio attorno al braccio di Haruka.
Jin fece un gesto di esasperazione. «Dovremmo uccidere quelli che si sono fermati...»
«Aspettiamo Chiharu. Dieci minuti.»
Il ragazzino fissò gli adulti. Non aveva mai visto nessuno di loro così spossato... Erano tutti al limite. Si rese conto che si sarebbero fatti ammazzare per tenerlo in vita, e al pensiero fu travolto da un'angoscia oscura.
Non lo avrebbe permesso. No. Mai. Aveva passato tutta la vita con mezza famiglia, adesso che ne aveva una intera non era disposto a perderla di nuovo.
Fece scivolare una mano nello zaino alla ricerca degli ultimi shuriken. Calcolò la distanza che lo separava dai nemici e si domandò quale tempo di reazione potessero avere i suoi genitori. Non lo sapeva, ma doveva agire prima dei dieci minuti chiesti da Kakashi, perché allora avrebbe agito lui, glielo leggeva in faccia.
Gli shinobi della Roccia erano quattro, di cui tre feriti. Se fosse riuscito ad atterrare quello sano in un colpo solo, forse avrebbe fatto in tempo a finire gli altri prima che chiamassero aiuto...
Tra i nemici qualcuno urlò. Poi un altro, e un altro ancora.
Jin iniziò a correre senza uscire dai cespugli, gli shuriken pronti. Sentì la mano di Haruka che cercava di fermarlo e lo mancava per un soffio, poi fu avanti da solo...
E scoprì che Rock Lee aveva già sistemato i cinque shinobi come fossero foglie secche.
Ma non era accompagnato da uccellini rossi.
Jin fece partire gli shuriken. Rock Lee li schivò per istinto, prima che il suo cervello registrasse il pericolo. Agganciando difesa e attacco in un solo movimento balzò sul ragazzino nel tentativo di atterrarlo, ma Jin rotolò di lato e gli sferrò un calcio alle ginocchia. Rock Lee lo riconobbe, lo chiamò per nome, ma Jin aveva ricevuto istruzioni precise e gli riversò addosso gli ultimi shuriken, alcuni dei quali andarono a segno.
«Piccolo ingrato!» sbottò alle sue spalle una voce inaspettata. Gai Maito lo placcò, bloccandogli le braccia contro il corpo. «Siamo i vostri rinforzi, razza di cretino! Tutto tuo padre!»
Alle sue spalle emersero anche Akeru, Kotaro e un uccellino rosso che fischiò acutamente.
«Ragazzi!» li chiamò Kakashi, il sollievo che traspariva dalla voce come luce in una stanza buia, mentre li raggiungeva insieme a Haruka. «Stavamo perdendo le speranze!»
«Qualcuno si atteggia a spaccone ma poi ci fa da zavorra...» borbottò Akeru. Si voltò, e dopo diversi secondi Chiharu emerse dalla boscaglia ansimando pesantemente.
«Ti... ammazzo...» balbettò aprendogli lo zaino in cerca d'acqua. Lui si oppose, lei insisté, e allora cedette. Gli svuotò mezza bottiglia. «Come custode fai davvero schifo!»
«La situazione?» chiese Gai a Kakashi lasciando andare Jin.
«Siamo esausti, Haruka è ferita, ci sono dieci shinobi della Roccia in direzione Konoha e probabilmente mezzo esercito di traditori in arrivo dal Villaggio.»
«Traditori? Aspetta, questa è quella Haruka? Iniziavo a pensare che fosse morta!»
«Beh, chi non muore si rivede» disse Akeru, senza farsi impressionare dalla sconosciuta. Come avrebbe fatto qualunque medico rispettabile, le strappò dal braccio lo straccio insanguinato e subito tirò fuori del disinfettante per pulire la ferita. «Non ho il tempo di guarirla» disse. «Ci sono i primi segni di infezione, ci metterei almeno mezzora. Devo suturare e poi rivederla a Konoha. Mi spiace, non ho anestetici con me.»
«Direi che nessuno di noi è morto: vi vedo tutti. Ottimo!» sorrise Gai, con una generosa pacca sulla spalla di Kakashi. «Questo vale come una mia vittoria, vero?»
Mentre Akeru ricuciva la ferita di Haruka, Gai e Rock Lee si fecero dare informazioni più precise da Kakashi; quando arrivarono alla Nuova Radice si rabbuiarono.
«Quanti potrebbero essere?» domandò Gai.
«Non ne ho idea. Sono quasi sicuro che abbiano messo rilevatori al confine per verificare il passaggio di Haruka, ma non so quanto sia importante per loro...»
«Tanto. Senza di lei non esistono prove della loro esistenza» sbottò Chiharu, frugando nel marsupio con rabbia. Detestava essere quella più in difficoltà, soprattutto se Baka ce l'aveva con lei e non perdeva occasione per sottolinearlo. Finalmente trovò l'involto della Lophenaria e con orrore si accorse che erano rimaste solo due pillole. «Gli shinobi della Roccia che sono andati avanti staranno per tornare» disse, rimettendole via per i tempi difficili. «Si saranno accorti che vi hanno persi e cercheranno le vostre tracce. Dobbiamo farli fuori e procedere verso nord, sperando di aggirare i traditori che vengono dal Villaggio. Ho mandato un messaggero a Naruto.»
«Anch'io. Ma se aggiriamo i traditori perdiamo lui» disse Kakashi.
«No. Lui arriverà dritto da noi. Tenga, recuperi un po' di energie» con uno scatto rapido Chiharu afferrò l'uccello rosso che li aveva guidati fino a loro e lo tese a Kakashi, ma quello scomparve in uno sbuffo di fumo prima che finisse di parlare. «Che bastardo!»
«Lascia stare...» mormorò l'Hokage. «Dammi una pillola di tuo nonno, abbiamo finito le nostre».
«Non ti azzardare a dargliela! Aspettate un attimo» disse Akeru, finendo di cucire la ferita di Haruka e ricoprendola con uno spesso strato di garza. «E' un lavoro da macellaio, ma dovrebbe tenere qualche ora.»
Prima di lasciarla, Akeru le premette un mano sul petto, e dopo l'iniziale sorpresa lei sentì un fiotto di nuove energie invaderla. Lui fece lo stesso con Kakashi, Jin, Rock Lee e Gai, ma non toccò Chiharu né Kotaro.
«E' uno stimolante per il sistema cardiocircolatorio. Se lo faccio a voi, vi do il colpo di grazia» spiegò.
«Posso anche chiuderla, la Porta della Ferita» suggerì Kotaro speranzoso.
«Ma il tuo cuore sta pompando al doppio della velocità da almeno tre giorni. Lascia stare, fidati. Tanto domani starete tutti da schifo, tu più di tutti.»
«Smettetela di perdere tempo!» sbottò Chiharu, che aveva appena finito di studiare il tratto di bosco in cui si trovavano. «Non possiamo fare niente qui. Raduniamoci. Haruka al centro. Come siete messi in difesa?»
«Non possiamo resistere a lungo se difendiamo e basta» obiettò Gai, ma si avvicinò.
«Lo so» rispose Chiharu, cercando qualcosa tra il contenuto in disordine del marsupio. «Sto sperando di dover durare non più di quindici minuti.»
«Anche quindici minuti sono tantissimi, in difesa» insisté Rock Lee.
«Più o meno» con un verso di apprezzamento Chiharu sollevò un rotolo di pergamene avvolte l'una sull'altra. «Sapevo di averlo portato! Ok, ditemi al volo cosa sapete fare per il combattimento a distanza.»
Venne fuori che Kakashi aveva mezzo sharingan, Baka alcune tecniche di tipo vento e lei il controllo dell'ombra. Più qualche kunai. Gai, Rock Lee e Kotaro non potevano fare niente senza contatto diretto, Jin aveva bisogno almeno della media distanza per usare le tecniche del fulmine e Haruka era piena di idee per lo spionaggio, ma nessuna era utile in quel momento.
«Non ho tempo di spiegarvi il piano: fate quello che vi dico quando ve lo dico» disse Chiharu, srotolando le pergamene febbrilmente. «Lanciatele tutt'attorno, la distanza non importa.»
«Giurami che questo mi terrà fuori dal carcere» borbottò Akeru, raccogliendo una pergamena e scagliandola tra i cespugli.
«Mio padre è lo stratega di Konoha, un paio di cose me le ha insegnate» replicò lei sorridendo sotto i baffi.
Qualcosa esplose a breve distanza, e improvvisamente una gran nube di fumo li avvolse tutti quanti, aggredendoli alle vie respiratorie.
«Okay, per quella la distanza era importante, forse» ansimò Chiharu. «Stringiamoci! Akeru, mi serve uno scudo di vento!»
Akeru compose i sigilli e alzò le mani: il fumo prese a turbinare, dissipandosi in volute acri. Qualcosa di lucente e vibrante si dispiegò sulle loro teste, scompigliando i capelli di tutti e avvolgendoli in una coltre di sibili. Chiharu disse a Kakashi di usare il suo Sharingan per studiare la posizione dei nemici, e lui riferì che erano circondati. Un grido tra le ombre fece loro capire che si era attivata un'altra trappola. Poi ci fu una piccola esplosione e un rantolo di sofferenza, infine un silenzio immobile.
«Ci stanno studiando...» mormorò Chiharu, girando su se stessa per osservare le chiome degli alberi sopra di loro. Il tramonto stava calando nel sottobosco, presto avrebbero avuto enormi difficoltà di visuale. «La madre di Jin soffre di claustrofobia?»
«No. Perché?» rispose Haruka.
«Potremmo dover cambiare il piano.»
«Ti ricordo che se ti fai male sono rovinato per sempre» fece notare Akeru in tono petulante.
«Se lo ammazzo e do la colpa a un nemico posso farla franca?» sussurrò Kotaro a Rock Lee.
«Baka, li vedi i rami sopra di noi?» continuò Chiharu, persa nei suoi ragionamenti. «Adesso ti devo chiedere una cosa complicata.»


Gli shinobi della Roccia erano esperti del loro mestiere. Facevano parte di una compagnia stanziata al confine con il Paese del Fuoco, e questo li aveva resi bravi in poco tempo. Quando avevano ricevuto l'ordine di catturare niente meno che il Sesto Hokage di Konoha, non lo avevano sottovalutato neanche per un minuto. Adesso, fermi attorno alla barriera dentro cui si nascondevano quelli del Fuoco, si erano fermati per consultarsi.
C'erano trappole tutt'attorno, e chissà cosa sotto la cupola di vento. Sapevano che una buona pianificazione era più efficace della sorpresa scenografica, per questo si presero qualche minuto in più.
Tra loro c'era uno shinobi esperto in tecniche di fuoco. Quando decisero di entrare in azione fu lui a farsi avanti, facendo attenzione a non incappare in un'altra pergamena trappola. Compose i sigilli, prese un respiro profondo, e poi soffiò tra le dita aperte della mano per far partire un ventaglio di dardi infuocati.
La barriera di Akeru esplose al primo contatto, smembrandosi in decine di mulinelli furiosi. Residui di vento e fiamme arrivarono fino alle prime foglie degli alberi, che presero fuoco immediatamente, ma i vortici d'aria non si esaurirono allontanandosi da Akeru: si divisero in due, poi in quattro, e andarono ad alimentare le fiamme; alcuni raggiunsero gli shinobi della Roccia, che per evitarli attivarono un'altra pergamena esplosiva.
«Okay, il piano è saltato!» gridò Chiharu afferrando Haruka per un braccio. «Via di qui prima che vada tutto a fuoco!»
«Se sopravvivi giuro che ti ammazzo io!» ribatté Akeru, afferrando l'altro braccio di Haruka e correndo insieme verso il riparo di un cespuglio.
«Suppongo sia un via libera» esclamò Gai, scambiando un occhiolino con Kakashi. «Finalmente!»
E con un balzo andò a cercare il più vicino degli avversari, subito imitato da Rock Lee e Kotaro, che al pensiero di combattere accanto ai suoi idoli si sentiva invadere dal Sacro Fuoco della Giovinezza peggio che aprendo tutte le porte del chakra.
Kakashi si voltò appena in tempo per parare un attacco alle spalle. Il suo avversario gli rivolse un sorriso trionfante, fiero di essere faccia a faccia niente meno che con l'Hokage... Ma il sorriso divenne una smorfia quando il suo petto fu attraversato dal Raikiri di Jin, che scagliò il corpo poco più in là. Lo videro trasformarsi in un tronco.
Padre e figlio scattarono in difesa, schiena contro schiena, lo Sharingan di Kakashi in piena attività e le mani di Jin che formicolavano di elettricità. Dall'alto arrivò improvvisa una pioggia di shuriken, che schivarono rotolando in direzioni opposte. Rialzarono la testa, separati di qualche metro, e videro uno shinobi della Roccia comporre i sigilli per una tecnica di fuoco. Ebbero appena il tempo di guardarsi, poi una pioggia di dardi incandescenti si staccò dalle dita dell'uomo, diretta verso di loro.

Chiharu spinse Haruka contro Baka e si infilò tra i cespugli per ultima.
«Dobbiamo spegnere il fuoco e riorganizzarci» disse subito, cercando le pillole di Lophenaria quasi automaticamente. «Ormai non sono rimasti molti avversari, ma se arrivano quelli di Konoha...»
«Non più di quindici minuti, eh?» quasi sputò Akeru, furibondo. «Abbiamo retto sì e no trenta secondi! Di questo passo non finirai ammazzata solo tu, ma anche io e tutti quelli che sono con noi!»
«Se non chiudi la bocca sprecherò le mie energie per farti uno strangolamento dell'ombra!»
«Ma non dovevi essere un maledetto genio?»
Chiharu lo fissò nervosamente, smettendo di cercare la Lophenaria. «Se tu mi lasciassi il tempo di pensare, potrei anche esserlo!»
Il corpo di uno shinobi della Roccia cadde a un passo da loro, privo di conoscenza, facendoli trasalire ma interrompendo la discussione.
«Kotaro e suo padre» comprese Chiharu, sporgendosi per studiare la situazione. «Il fuoco si espande troppo in fretta, dobbiamo... Cazzo!»
Baka intuì quel che sarebbe successo praticamente subito. Tese una mano per afferrarla, mentre, là dove stava guardando Chiharu, Jin e Kakashi si accorgevano dell'attacco dall'alto; ma lei fu più veloce. Akeru la vide balzare in avanti graffiandosi le braccia sui cespugli spinosi, la vide sporcarsi le dita con il sangue delle ferite e iniziare la serie dei sigilli per l'evocazione...
Poi ci fu un unico turbinio di foglie, vento e lame di aria tagliente, che sferzarono la guancia di Chiharu e la costrinsero a rotolare via, interrompendo la tecnica.
Il fuoco che divampava sopra le loro teste rimase privo di ossigeno e si spense. Una pioggia di foglie semi-carbonizzate mulinò per qualche istante, trasformandosi in cenere che si infilava dritta negli occhi e giù per il naso, irritando la gola. Nella concitazione tutti si erano fermati, aggrappati ai rami più grossi o atterrati precipitosamente.
E dalle loro posizioni, sbalorditi, videro comparire nell'occhio del ciclone la zazzera bionda di Naruto, che aveva appena salvato dall'arrostimento Jin e Kakashi.
Chiharu sentì il sollievo invaderle le membra, mentre scoppiava in una risata liberatoria.
«Era ora, accidenti a te!»






* * *

Buongiorno a tutti!

Si comincia!
Finalmente se le danno di santa ragione,
e continueranno ancora per qualche capitolo.
E' stato un vero incubo descrivere questa parte,
ma posso assicurarvi che non è noiosa.

Per il resto,
qualunque curiosità abbiate sui Chakravakam tenetevela ancora un po'.
E se googlate il nome, non fidatevi di quel che leggete:
l'ho usato soltanto perché suonava bene.

Nel prossimo capitolo,
il ritorno di una vecchia amica con tante code.
<3

Un abbraccio e un sentito ringraziamento a voi che siete ancora qui a leggere!


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Capitolo 29
*** I mostri della Squadra Assassina ***


Penne 29
06/04/2015

Capitolo ventinovesimo

I mostri della Squadra Assassina




Non appena Hinagiku aveva finito di mettere per iscritto quel che sapeva della missione di Jin e Kakashi, Naruto era corso a casa Uchiha per consultarsi con Sakura.
Hinagiku non aveva aggiunto nulla di nuovo ai dati in loro possesso, ma Naruto temeva che qualcuno, lo stesso qualcuno che aveva spiato i suoi dialoghi con Hitoshi, avrebbe potuto captare l'informazione e usarla per i propri scopi.
«Anche se fosse, non sappiamo dove si trovano» aveva commentato Sakura analizzando la situazione. «Possiamo solo sperare che vada tutto bene...»
Neanche a farlo apposta, esattamente in quel momento l'uccellino di Chiharu li aveva raggiunti con le informazioni sulla posizione di Kakashi e la richiesta di aiuto del gruppo proveniente da Suna.
Naruto aveva sentito le mani prudere: finalmente si facevano cose da vero Hokage! Senza riflettere a fondo sulla questione aveva evocato decine di rospi giganti nel giardino di Sakura – per la delizia di Itachi e dei ragazzini più giovani – e le aveva detto di riempirli di Anbu e spedirli a raggiungere Kakashi.
«E tu?» aveva domandato Sakura, accantonando temporaneamente la sfuriata per i rospi sulle ortensie.
«Mi troveranno là» aveva risposto Naruto.
E a metà dell'ultima parola era già scomparso.
Sakura aveva allertato tutti gli Anbu disponibili, convocandoli immediatamente per la partenza. Considerata la situazione di tensione aveva fatto chiamare anche Sasuke, e in quel momento, circondata da un gracidare assordante e dagli urletti dei figli che si divertivano con i rospi, cercava disperatamente di concentrarsi sui suoi compiti.
«Ho ancora tre o quattro rospi liberi» mormorava sfogliando elenchi a matita. «Sarebbe meglio un medico? O un esperto di piste?»
«Posso andare io?» chiese Fugaku, coraggiosamente ritto in mezzo al putiferio.
«Neanche per sogno!» scattò subito Sakura.
A Sasuke invece non dispiaceva che un Uchiha partecipasse a una simile impresa, rifletteva, osservando il figlio meditabondo: c'erano ottime probabilità che la missione finisse nei libri di storia, e l'unica ragione per cui non si offriva in prima persona era che non si fidava del segno maledetto sul suo collo.
«Se va lui allora ci vado anche io» sbottò Hitoshi, comparendo al fianco del fratello con una strafottenza debordante. La sua faccia era ancora a chiazze rosse e bianche, ma sembrava che occhi e vie respiratorie stessero bene. Avvicinandosi aveva cercato di fare cenni d'intesa agli Anbu raggruppati in giardino, però nessuno di loro aveva capito cosa volesse.
«Figuriamoci!» Sakura strappò il foglio che stava leggendo e ne afferrò un secondo con tutta la ferocia di cui era capace. «Faccio uscire dal villaggio tutti gli elementi validi in un colpo solo, ma certo! Non vedevo l'ora di essere ricordata come l'Hokage più incompetente della storia!» disse, nel tentativo di distrarli con le lusinghe.
«Veramente non sei proprio tu l'Hokage...» le fece notare Fugaku – sempre insopportabilmente saccente.
«Sei in punizione finché Itachi non si sposa!»
I rospi alzarono il volume del gracidio, spostandosi per il giardino con vibrazioni sorde. Sakura e Sasuke si voltarono per capire cosa stava succedendo, e in quel momento videro comparire tra le grandi zampe palmate il minuscolo corpo di un cane coperto di sudore, che li raggiunse di corsa e piegò il collo davanti a Sakura.
«E' di Kakashi» si sorprese lei, prendendo il messaggio legato al collare. «E' il fascicolo di Haruka Muto» lesse rapida. «Oh, merda!»
Sasuke si protese per leggere a sua volta, e subito alzò lo sguardo sui figli, vibranti di curiosità.
«Hitoshi e Fugaku, con me. Sakura, convoca Jiraya e un'altra squadra di Anbu. Li voglio in cima alla rupe degli Hokage tra quindici minuti al massimo.»
Sakura fece per protestare, poi ricordò l'idea di testare lo sharingan sulla spia che gli Hyuuga non riuscivano a prendere, e si morse la lingua. Tanto valeva testarlo adesso.
«Faccio chiamare anche Sai» fu quel che disse invece. «Stava indagando su quell'ex membro della Radice da giorni... Scommetto quello che vuoi che Yoshi lavora per loro, non per la Roccia. Ecco perché non apriva bocca: chissà quanto sono infiltrati! Argomento blindato, non fatevi scappare una parola con nessuno al di fuori dei presenti.»
Nella parte superiore del foglio, appena sotto il sigillo riservato della Foglia, Kakashi aveva scritto poche parole in una calligrafia frettolosa:

Saibatsu ha fondato una nuova Radice.
Stanno che stiamo tornando per smascherarli.
Prendeteli prima che scompaiano.


*


«Per la miseria, siete messi uno peggio dell'altro!» esclamò Naruto facendo un rapido controllo dei presenti.
«Da dove sei spuntato?» domandò Jin sbalordito, ma Kakashi non lo lasciò rispondere, anticipandolo.
«Ci saranno altri nemici tra poco» disse tirandosi in piedi. «E' arrivato Koa? Saibatsu ha fondato una nuova Radice, hanno convinto Haruka a lavorare per loro e adesso vogliono eliminarla prima che li denunci.»
«Chi è Koa? Aspetta, la nuova Radice si è formata sotto il mio naso?»
«Sotto il mio» precisò Kakashi. «Ho mandato un cane messaggero a Konoha perché vadano a prendere i capi, così dovremmo riuscire a evitare che fuggano... Ma gli uomini che hanno inviato per noi non sanno che ormai l'organizzazione è andata. Loro penseranno che eliminandoci le cose verranno messe a tacere.»
«Meno male che il lavoro d'ufficio mi stava annoiando» sospirò Naruto.
«A me invece piacerebbe tanto!» gemette Akeru strisciando fuori dai cespugli con Haruka. «Finirò in carcere, ormai è certo.»
Dagli alberi alle loro spalle emersero Kotaro, Rock Lee, Gai e una copia di Naruto, coperti di graffi ma sostanzialmente in salute. Si erano liberati degli ultimi nemici.
«Beh, adesso che sei qui siamo al sicuro» disse Chiharu, il cui umore era salito di parecchie tacche all'arrivo del maestro.
«Non ho intenzione di mettermi da parte e lasciar fare tutto alle copie di Naruto!» insorse Rock Lee.
«Potrei cavarmela anche senza copie» commentò lui allegro. «Ho scoperto che se mischio il Rasenshuriken a una tecnica nemica escono fuori mosse incredibili!»
«Davvero?» Kotaro spalancò la bocca, a metà tra l'ammirazione e l'invidia.
«Adesso basta» li zittì Kakashi. «Haruka è ferita, noi siamo esausti e non sappiamo cosa sta arrivando. Non possiamo affidarci solo a Naruto, è troppo rischioso.»
«Ma quella volta, contro l'esercito della Roccia...» mormorò Kotaro, ricordando la moltitudine di copie che Naruto aveva evocato cinque anni prima.
«Naruto non può salvarci sempre» troncò Kakashi brusco.
L'accenno a Kyuubi e a quello che succedeva quando Naruto perdeva il controllo rimase sospeso per un istante. I presenti si scambiarono sguardi di sottecchi, e così facendo capirono che tutti sapevano della Volpe.
Naruto, per nulla turbato dal discorso, scrollò la testa. Si guardò attorno, meditabondo, e alla fine si soffermò su Chiharu. «Tu e Stupido state lontani dal campo. Perché lei è grigia, e tu sei il suo medico e custode, se Gaara non si è spiegato male.»
Akeru annuì, visibilmente sollevato all'idea di restare a vigilare su Chiharu, ma lei rimase in silenzio. Un conto era se tutti si facevano da parte per lasciar fare a Naruto, un altro era se lei era l'unica che doveva mettersi buona e aspettare.
«Beh, io potrei dare un supporto strategico...» tentò, ma Naruto la zittì con un gesto.
«Abbiamo Kakashi e Jin per la strategia. So che sei partita contro il parere dei medici di Suna, e non ho la minima intenzione di permettere a Temari di ammazzarmi perché ti è successo qualcosa.»
Chiharu serrò le labbra. «Solo io?»
«Tu e Stupido.»
«Oh, fantastico!» sbottò lei, lasciandosi cadere contro un tronco e incrociando le braccia rabbiosamente. «Non vedevo l'ora di ritrovarmi nella stessa situazione di cinque anni fa! Tutti vanno in guerra tranne me! Perché anche lei non resta a riposare, visto che sta morendo dissanguata?» chiese additando Haruka.
Naruto sembrò notarla solo allora. Si fermò, la fissò, e infine si lasciò scappare un: «porcaccia la miseria! Sei davvero tu!»
Haruka sorrise, e con lei la maggior parte degli altri. Naruto era sempre uguale a sé stesso.
«Quel braccio è grave?»
«Ha perso molto sangue...»
«Abbiamo una nuova amica?» commentò Chiharu ironica. «Vuoi sederti e prendere un tè con noi?»
«Vuoi piantarla, per una volta?» esclamò Kotaro a sorpresa «Non stiamo andando a una scampagnata, andiamo a combattere! E tu dici sempre che non hai voglia di fare un cazzo, quindi stai zitta e aspettaci!»
Akeru nascose un sorriso dietro la mano; Chiharu sentì le guance arrossarsi, ma ebbe il buonsenso di tacere. Insieme agli altri decisero che anche Haruka sarebbe rimasta nascosta, e ad Akeru fu affidato il dubbio onore di proteggere le due kunoichi.
«Adesso ci serve una strategia» annunciò Naruto radunando i ragazzi. «Ho detto a Sakura di mettere tre squadre di Anbu sui miei Rospi, non ci metteranno molto a raggiungerci. Spero che arrivino almeno insieme a questa nuova Radice, ma non possiamo esserne sicuri. Dobbiamo organizzarci come se non dovessero fare in tempo» si interruppe, guardando i visi che lo circondavano, e a quel punto sorrise. «Caspita! Proprio come ai vecchi tempi, eh?»


*


«Non è da Saibatsu il quartier generale» fu la prima cosa che disse Sai quando Sakura lo ebbe messo al corrente dei nuovi sviluppi. «Non è lui la testa della nuova Radice, di solito si radunano nella villa del consigliere Iida.»
«Iida?» Sakura spalancò occhi e bocca. «E' il consigliere più potente del Villaggio! Com'è possibile?»
«Degno erede di Danzo» mormorò Sai, segnando l'abitazione di Iida sulla cartina stesa nello studio dell'Hokage. «Ora tutto torna, i loro incontri acquistano un senso... Ho segnato i nomi di chi veniva alle riunioni, e ho fatto un ritratto di quelli che non conoscevo. Non posso provare che partecipassero a qualcosa di diverso da un tè in compagnia, ma se riusciamo a prenderli tutti e a metterli uno contro l'altro dovremmo avere delle confessioni.»
«Hai un elenco dei nomi? Mando i Chunin in servizio a controllare casa per casa... Questa volta voglio che non resti nemmeno la più piccola traccia di questa maledetta Radice!» sibilò Sakura, serrando la mandibola con rabbia.
Sai giudicò opportuno non commentare. Come membro della prima Radice preferiva mantenersi emotivamente neutrale, anche se la sua lealtà era naturalmente per Naruto.
Eseguì gli ordini di Sakura nel migliore dei modi, compilando una lista accurata di nomi e lasciandole i ritratti degli uomini che non conosceva. Lei mobilitò tutto il personale disponibile per il riconoscimento, quindi gli affidò il compito di aggiornare Sasuke in cima alla rupe degli Hokage.
Sai arrivò appena prima che il gruppo partisse, bloccando sei uomini mascherati, Jiraya e tre Uchiha impazienti.
«E' cambiato l'obiettivo» annunciò stendendo a terra una cartina.
Hitoshi si fece in quattro per essere in prima fila a leggere, dando una spallata a due Anbu quasi con strafottenza. Dopotutto anche lui era dei loro, no? A livello teorico, in un certo senso. E poi doveva tenere altissimo l'orgoglio personale, visto che Fugaku lo tallonava strettamente e non perdeva occasione di sfoggiare il suo sharingan.
Sai spiegò dove si trovava la villa di Iida e come l'avrebbero raggiunta. Ascoltò i suggerimenti di Sasuke e Jiraya, concordò con loro un piano d'azione e ricordò a tutti di tenere spente le ricetrasmittenti.
«Una volta là sarete soli» sottolineò. «Se le spie che ci stavano tenendo sotto controllo sono dei loro, saranno già stati informati del nostro arrivo. Manteniamo il contatto visivo.»
Hitoshi fissò Fugaku nella speranza di cogliere segni di paura o cedimento, ma rimase deluso: il fratellino era stato bravo a imparare le espressioni del padre, perché era ugualmente atono e pallido. Allora lui, in quanto primogenito, raddrizzò le spalle guardandosi attorno come se fosse stato perlomeno il vicecapitano. Jiraya lo vide e scosse la testa: poteva vantarsi del suo sangue Uchiha quanto gli pareva, ma non sarebbe mai riuscito a togliersi dalla faccia le tracce che Naruto vi aveva impresso negli anni.
Partirono appena Sai ebbe finito di aggiornarli, e una volta terminato li seguì, in qualità di unico esperto reperibile sul modus operandi della Radice. Sasuke, a capo della missione, ordinò che gli Anbu lo affiancassero e che Jiraya fungesse da supporto tecnico. Il vecchio sennin gli parlò brevemente di Iida e degli uomini che erano vicini a Danzo: come previsto si trattava di politici, nobili, raramente shinobi; ma secondo Jiraya erano probabilmente circondati di guardie del corpo, e quelle sarebbero state un problema. Sai confermò, sciorinando qualche nome.
«Fugaku, voglio che supervisioni la situazione dall'alto» ordinò Sasuke. «Tieni sempre attivo lo sharingan; lo farò anche io, ma se ci trovassimo in difficoltà voglio indicazioni da te.»
Hitoshi quasi inciampò per l'indignazione: anche se il suo sharingan non era conclamato praticamente era già lì, no? E probabilmente sotto le maschere degli Anbu che li accompagnavano c'erano ragazzi che avevano partecipato alla cattura di Yoshi con lui. Lui, non Fugaku, sarebbe stato la scelta migliore in caso di difficoltà! E poco importava che Sasuke non sapesse niente della missione tra gli Anbu o dello sharingan, perché se ne sarebbe dovuto accorgere da solo, ecco.
Rimase in attesa di qualche altro ordine speciale che ristabilisse la giustizia, ma non arrivò niente. In più gli sembrò che Sai gli rivolgesse un sorrisetto di sufficienza – anche se probabilmente la sua era pura paranoia – e questo lo fece letteralmente infuriare. Che diavolo ci aveva mai trovato Chiharu in lui? Nemmeno l'idea di essere stato il primo ragazzo di Chiharu, sorpassando quindi Sai, riusciva a risollevargli il morale in quel momento.
Forse avrebbe fatto meglio a rivelare a suo padre la partecipazione alla cattura di Yoshi, si disse amareggiato. Aveva pensato di fare la persona adulta e dimostrargli sul campo quel che valeva, ma di quel passo sarebbe finito a controllare che i servitori non fuggissero dalla porta sul retro, invece di dimostrare a Sai e Fugaku quanto era in gamba.
Appena prima di arrivare alla villa di Iida, Sasuke fece fermare il gruppo e smistò gli Anbu tutto attorno al giardino. Fugaku si posizionò sul tetto di un palazzo adiacente, Jiraya scivolò fino a una statua sul muro di recinzione e si appostò in modo da essere invisibile, Hitoshi fu mandato precisamente sul retro, dove il suo umore precipitò sotto le scarpe. Sai rimase con Sasuke, e per Hitoshi fu anche peggio.
Il cielo si tingeva di viola in quei momenti, virando rapidamente dal tramonto alla notte. I contorni delle case delimitavano sagome nere punteggiate dalle prime luci, ed era difficile distinguere le ombre che si muovevano tra altre ombre.
All'interno della villa sembrava tutto tranquillo. Fin troppo.
Sasuke controllò che i suoi uomini fossero in posizione. Quando fu certo che tutti fossero al loro posto, sputò una palla di fuoco che andò a illuminare l'intero giardino e si infranse contro le pareti di carta di riso della villa, appiccando un incendio.
Gli Anbu balzarono fuori dai loro nascondigli, due nel giardino e gli altri quattro dentro la casa. Le voci che mandavano segnali riempirono gli spazi vuoti tra i crepitii del fuoco, ma non se ne udivano altre oltre alle loro.
Sasuke e Sai si fecero avanti per ultimi, entrando in quel che rimaneva del salotto.
Era molto tempo che Sasuke non scendeva in campo personalmente. Quando era arrivato il messaggio di Kakashi, per necessità aveva dovuto accantonare le preoccupazioni riguardo al segno maledetto, ma ora che si trovava sul campo avvertiva un fremito insolito alla bocca dello stomaco e una vibrazione minacciosa a lato del collo. Non riusciva a capire cosa gli suscitassero.
Un Anbu li raggiunse quasi subito, scuotendo la testa. «Non c'è nessuno. In cantina ho trovato un vano segreto con una postazione di ascolto. Sembra che stia registrando da casa Uzumaki.»
Sasuke annuì e avanzò verso il corridoio principale, radunando gli uomini. Quando arrivò sul retro chiamò anche Hitoshi, che accorse nella speranza di un incarico.
«Hitoshi, resta qui con Fugaku. Voglio che esploriate l'abitazione da cima a fondo: trovate documenti, comunicazioni, codici, tutto quello che potete. Usate lo sharingan, non tralasciate nulla. Fatevi aiutare da Jiraya, io porto i ragazzi a controllare la casa di Saibatsu. Potrebbero essersi radunati là, è più periferica. Ci ritroviamo nello studio dell'Hokage.»
Le spalle di Hitoshi si abbassarono vistosamente. Sasuke se ne accorse, e trattenendo un sospiro si costrinse ad aggiungere qualche altra parola.
«Da questo momento sei il capitano in carica.»
Non poteva spiegargli che Sakura lo avrebbe ammazzato se avesse saputo che non li aveva tenuti nelle retrovie, ma poteva distrarlo abbastanza perché non infierisse su Fugaku... O almeno sperava.


*


I membri della nuova Radice che erano stati mobilitati dall'allarme generale erano la totalità dei rami combattenti, in tutto una cinquantina di shinobi a volto coperto. Tutti avevano superato un addestramento lungo anni e partecipato a missioni di diverso tipo, ma nella massa spiccava una squadra di tre elementi, conosciuta come la Squadra Assassina: quando la Radice doveva liberarsi di qualcuno, per stare sicura mandava sempre loro. Nessuno ne aveva mai visto il volto, ad eccezione di Iida, eppure tutti avevano imparato a provare rispetto per le loro gesta, e in parte a temerli quasi come mostri.
Nell'avanzata sparsa degli uomini della Radice, la Squadra Assassina stava in un punto intermedio, ben mimetizzata tra gli altri, ma presto il segugio del gruppo sarebbe passato in testa per guidarli verso l'obiettivo. Ad aiutarli c'era un invisibile sciame di insetti Aburame che pattugliava una vasta zona davanti a loro.
Non sapevano dell'attacco di Sasuke a Iida, né della squadra di Anbu a dorso di rospo che percorreva la strada alle loro spalle. Avevano ricevuto ordini importanti, e quegli ordini erano di sterminare tutti coloro che avrebbero trovato nel luogo concordato, anche se si fosse trattato di un esercito. La priorità era la più alta possibile.
Nella nuova Radice gli uomini erano molto obbedienti.


Chiharu pensò che la situazione aveva qualcosa di sgradevolmente simile alla missione per il recupero di Loria: ancora una volta era di fianco ad Akeru e Akeru faceva il carino con una donna malridotta.
Non che le interessasse qualcosa. Però non poteva fare a meno di notare che Stupido faceva con tutti il medico perfetto, ma con lei era incosciente, irascibile ed eticamente discutibile.
In quel momento stavano correndo verso Konoha alla massima velocità raggiungibile dai membri feriti del gruppo, che non era elevata. Avevano deciso di non chiedere a Kakashi altre evocazioni, e, invece di mandare avanti un cane, Naruto aveva mandato due copie kamikaze per essere pronti prima dell'incontro.
Chiharu ricontò mentalmente le pillole di Lophenaria rimaste, ma non fu sufficiente per distrarla dal battito affaticato del suo cuore – anche perché erano solo due. Avrebbe obbligato Stupido a farle la mossa che aveva fatto agli altri, se solo avesse potuto... Invece era costretta a fare la spavalda, perché se il suo affanno fosse aumentato ancora l'avrebbero seppellita in una buca promettendole di venire a recuperarla quando la via fosse stata sicura.
E poi non poteva essere più acciaccata della donna vicina ad Akeru, dai: quella aveva almeno quarant'anni! Era come le tizie cadenti che giravano attorno a Sai!
«Stai male?» si allarmò Stupido vedendola che lo fissava.
«Stiamo solo correndo, sei scemo?» ribatté lei rischiando di inciampare.
«Se stai male dimmelo in tempo, per favore. Non come l'ultima volta.»
«L'ultima volta... Sono passati cinque anni! Non sto male.»
Da davanti giunse un'intimazione al silenzio, e i ragazzi tacquero.
Non erano troppo distanti da Konoha. Il sole stava tramontando all'orizzonte, il che significava che nel sottobosco era già notte. Forse sarebbero riusciti ad evitare gli uomini di Saibatsu... Dopotutto avevano fatto una bella deviazione a nord, se le copie di Naruto avessero continuato a vigilare e...
«Via tutti!» sibilò Naruto di colpo.
In un attimo la strada fu sgombra come se nessuno fosse mai passato di lì.
«Le copie sono scomparse. Non so perché» spiegò il biondo dal cespuglio in cui era nascosto con Kakashi. Gli altri affondarono nella vegetazione, estraendo i residui di kunai e shuriken che avevano portato con sé. Chiharu, per essere più sicura, cercò di prendere un'altra pillola di Lophenaria. Akeru, inorridito, tentò di toglierle l'involto e lo fece cadere, perdendo le ultime compresse nella polvere e nell'oscurità.
«Cosa hai fatto?» sibilò Chiharu rabbiosamente.
«Tu cosa stai facendo?» sussurrò lui. «Non sono mentine!»
«Sono mie!»
«Non fare la drogata adesso!»
Un insetto dal posteriore debolmente illuminato passò tra loro, con un ronzio impercettibile e un'andatura un po' oscillante. Akeru lo seguì con le orecchie, e un flash delle prime lezioni di medicina gli balzò davanti agli occhi; il giorno in cui parlavano di parassiti, per la precisione, e poi degli insetti che colonizzano gli esseri viventi, come quelli del clan Aburame. Avevano un ronzio tutto particolare, e un meccanismo di fluorescenza simile a quello delle lucciole.
«Hanno qualcuno degli Aburame!» esclamò balzando fuori dai cespugli. «Sono già qui!»
Due uomini piombarono su di lui dall'alto, i volti coperti da maschere bianche senza espressione.
Baka se ne accorse appena in tempo per evocare uno scudo di vento, ma Naruto calò tra lui e gli avversari con un Rasengan già pronto, e gli uomini andarono a sbattere contro i tronchi circostanti.
«Questa è l'avanguardia!» disse Kakashi emergendo dai cespugli. «Dobbiamo trovare un luogo più favorevole per combattere!»
«Seguitemi!» chiamò Chiharu, ripulendo la mano sporca di terra sui pantaloni. Per un momento aveva pensato di raccogliere le pillole di Lophenaria che riusciva a trovare, poi aveva lasciato perdere e aveva scandagliato con il chakra il terreno circostante, per trovare spazi più ampi.
Il gruppo corse freneticamente tra i rami bassi , dietro a Chiharu che apriva la strada. Se li avessero trovati in mezzo a quel bosco li avrebbero finiti in un attimo. Baka sperò che Chiharu sapesse quel che stava facendo, e mentre se lo augurava, all'improvviso, una chiazza di ombra meno densa si rivelò essere una radura.
«Stupido, qui con me!» lo chiamò Naruto, correndo al centro dello spiazzo. «Ho bisogno uno scudo di vento.»
«Cosa vuoi fare?»
«Muoviti!»
Akeru si morse le labbra, che fremevano dalla voglia di rispondere male. Se non fosse stato salvato da lui poco prima avrebbe ribattuto; invece eseguì la tecnica senza protestare, sollevando mulinelli di polvere al crescere delle correnti d'aria che guizzavano su di loro. Naruto le studiò per alcuni secondi, quindi intrecciò le dita in uno schema complesso, stese le mani verso la parete di vento e quella andò letteralmente in frantumi, scagliando lamelle d'aria tutt'intorno.
«Altre trappole!» gridò allora, rivolto agli altri. «Stupido, te la cavi con il chakra elementale. Bravo!» aggiunse solo per lui, battendogli una pacca tra le scapole.
Suo malgrado Akeru arrossì, debole com'era a qualunque tipo di complimento, ma si diede subito un contegno e radunò Chiharu e Haruka, trascinandole al margine della radura.
«Dobbiamo nasconderci, per non essere il primo obiettivo» disse cercando un varco tra gli arbusti.
«Smettila di perdere tempo» brontolò Chiharu chinandosi per posare le mani a terra. Subito tra le radici davanti a loro si aprì un fosso grande abbastanza per nasconderli tutti e tre, senza che dovessero allontanarsi dagli altri.
«Potresti spostarlo un po' più nel folto...» tentò Akeru.
Chiharu lo fulminò con lo sguardo. Non dovette dire niente, ma era chiaro che non aveva la minima intenzione di farsi troppo da parte.
«Tu non hai proprio in mente come si protegge qualcosa, eh?» sibilò Akeru spingendola verso il fosso.
«Sono arrivati!» gridò a quel punto la voce di Kotaro, e sperando che non fosse troppo tardi Baka si tuffò nel nascondiglio con Haruka e Chiharu.
Alte grida si levarono tutt'attorno, seguite da alcune piccole esplosioni.
«Il grosso arriva da quella direzione» sussurrò Naruto a Kakashi, indicando un punto verso est. «Ma si stanno allargando, vogliono accerchiarci.»
«Riesci a capire quanti sono?»
«No. Le trappole di vento possono rallentarli, ma non sono come i Kage Bunshin» Naruto si voltò a guardarlo. «Kakashi, non fare stupidaggini. Vi riporterò tutti a casa, a costo di chiedere aiuto a Kyuubi.»
«Sono arrivato fin qui, a questo punto ho tutte le intenzioni di tornare sulla mia sedia nello studio dell'Hokage» replicò lui, sollevando il coprifronte fino a lasciar libero l'occhio di Obito.
«Ah no, quella adesso è mia!» ghignò Naruto. E ancor prima che il sorriso fosse sparito, i due shinobi si gettarono dal ramo che li nascondeva, evitando un kunai esplosivo.
Una pioggia di schegge li ricoprì, accecandoli, quando l'albero si spezzò nello scoppio e precipitò verso la radura. Naruto roteò al di sopra di Kakashi e scaraventò lontano altri kunai esplosivi, deviandoli con una scia di vento. Nel farlo studiò da dove venivano, allora balzò tra i cespugli, afferrando una spalla che cercò di divincolarsi. Prese lo shinobi per le braccia, cercando di farlo ribaltare, ma quello usò il suo stesso impeto, si contorse e lo rivolse contro di lui, mandandolo schiena a terra. Conficcò un kunai esplosivo tra loro e scomparve.
Alle sue spalle, verso il centro della radura, risuonavano le grida del combattimento. Naruto si tirò su e vide Kakashi impegnato con due avversari. Più oltre, le sagome che guizzavano da tutte le parti erano almeno trenta, anche se era difficile distinguerle nel buio.
Imprecò, stringendo le mani per iniziare a evocare i Kage Bunshin; ma a quel punto, con sgomento, si accorse di non riuscire a recuperare nemmeno una goccia di chakra.
Se avesse potuto controllare avrebbe trovato un minuscolo marchio sul suo collo, un marchio nero che bloccava i canali d'uscita del chakra. Ma ebbe poco tempo per restare sconvolto, perché due shinobi mascherati si avventarono su di lui e dovette difendersi.
Lo shinobi dai kunai esplosivi, che rispondeva al nome di Kin, sorrise sotto la maschera e andò a chiamare i compagni della Squadra Assassina.
Alcuni tra gli uomini della Radice lo chiamavano mostro; perché era veloce, preciso, praticamente infallibile... Ma per affrontare un mostro come Naruto Uzumaki, lui sapeva che era un altro mostro ciò che serviva.

Kotaro schivò un pugno per pochi centimetri, afferrò il braccio dello shinobi di fronte e lo fece ruotare, mandandolo a sbattere contro l'altro che cercava di colpirlo alle spalle. Prima che quelli fossero caduti si abbassò, rotolò per evitare una spada e sfruttò il momento per far roteare un calcio e colpire non meno di quattro avversari.
Si rialzò, il fiato corto ma l'adrenalina che sprizzava nelle vene. La costola incrinata gli mandava grida di protesta ad ogni movimento azzardato, ma quanto si sentiva vivo! Si abbassò di scatto per evitare una tecnica d'acqua, che colpì uno degli shinobi mascherati, e vide Jin circondato da tre uomini. Con un grido selvaggio piombò dritto in mezzo a loro, ne stordì uno e tirò Jin a terra prima che un kunai lo pugnalasse alla schiena.
«Non pensavo che ti avrei salvato la vita, un giorno!» esclamò con un ampio sorriso, ma Jin lo scavalcò e colpì uno shinobi che lo stava puntando, riportandoli in parità. «Diavolo!» brontolò il giovane Lee.
«Kotaro!» gridò Rock Lee raggiungendolo. Lo tirò su per la collottola. «Tutto bene? La costola?»
«Sto bene, sto bene!» assicurò lui con una smorfia di dolore. «Dietro di te!»
Rock Lee si abbassò di scatto, e lo shinobi che aveva alle spalle fu abbattuto da un calcio violento di Gai Maito.
«Non sia mai che qualcuno tocchi i miei allievi!» ruggì la Bestia verde della Foglia, facendo allontanare gli shinobi che li circondavano.
«Così non va affatto bene» ansimò Jin, ricoprendo di chakra elettrico un kunai e scagliandolo in mezzo agli avversari. «Dov'è Naruto? Perché non si moltiplica?»
Una pioggia di shuriken li costrinse ad appiattirsi a terra, mentre Jin ergeva una barriera elettrica e bloccava il metallo magnetizzato a mezz'aria. Ad ogni uso del chakra si sentiva più debole, ma tra loro era l'unico che potesse usarlo bene, e i nemici erano ovunque, innumerevoli, onnipresenti... Ah, se non fosse stato così stanco...
Mamma, pensò, stringendo i denti. Devo riportarla a casa!

Naruto scaraventò uno shinobi contro l'altro, aiutando Kakashi a rialzarsi da terra.
«Non sento scorrere il chakra!» gridò. «Non posso moltiplicarmi, non posso evocare i rospi! Finché non arrivano gli Anbu siamo sotto!»
«Perché non ci riesci?»
«Devono avermi fatto qualcosa... Maledizione! Dobbiamo raggiungere gli altri! Restiamo uniti!»
Insieme balzarono fuori dai cespugli, dove un gruppo di shinobi li vide e li attaccò subito. Naruto schivò i primi colpi, rispose agilmente, li disorientò, e mentre combatteva vide Kakashi in difficoltà. Tornò indietro, fu colpito tra le scapole, ma riuscì comunque a raggiungere il maestro.
«Lavoriamo in combinazione!» esclamò lui, il naso che perdeva sangue copiosamente e lo sharingan che brillava altrettanto scarlatto.
Un kunai si conficcò nella gamba di Naruto, strappandogli un grido di sofferenza. Senza pensarci si voltò, un movimento di una rapidità inumana, e un lembo di chakra rosso afferrò violentemente lo shinobi che lo aveva pugnalato, spezzandogli un braccio come fosse di zucchero.
Il dolore, dimenticato e lancinante, lo sconvolse per un istante. Niente chakra a proteggerlo, niente velo di rivestimento contro la Volpe... Solo l'odore acre delle ustioni da acido.
Non dimenticarti di me, soffiò la voce di Kyuubi, quasi divertita.
Un fremito attraversò i nemici che assistettero alla scena, i quali arretrarono istintivamente. Ma in quel momento dall'alto piovve una rete alle cui maglie erano intrecciati sigilli di controllo simili a quello sulla pancia di Naruto, e anche il chakra della Volpe, che era riuscito a oltrepassare il marchio nero di Kin, fu schiacciato a terra con i due shinobi. Nella testa di Naurto risuonò il verso di dispetto di Kyuubi.
Subito dopo una mano enorme si abbatté su di loro, privandoli del fiato e facendo scricchiolare le casse toraciche. Il chakra rosso scomparve, lasciando il posto ai processi di guarigione.
«La Squadra Assassina!» gridò qualcuno tra i nemici, vibrante di ammirazione.
Naruto riuscì ad aprire un occhio e vide tre uomini a una certa distanza dagli altri: uno dei tre era l'Akimichi che aveva ingigantito la propria mano, un altro era lo shinobi agile con cui aveva combattuto prima, e l'ultimo era circondato da un velo di insetti ronzanti.
«Ma Choji e Shino con chi cazzo sono imparentati?» quasi sputò.
Vide lo sciame di insetti gettarsi verso di loro formando un muro compatto.
Subito pensò a Kakashi, ma quando provò a muoversi il peso della mano che li schiacciava aumentò. Cercò di richiamare il chakra di Kyuubi, ma ogni tentativo di utilizzo gli faceva sentire la testa leggera e le forze che venivano meno. Non c'era niente che potesse fare, proprio niente.
Poi lo sciame di insetti esplose letteralmente, sparando in tutte le direzioni, e una pioggia di sabbia li ricoprì infilandosi tra bocca e orecchie, quasi soffocandoli.
«Visto che senza di me non andate da nessuna parte?» ansimò Chiharu, rannicchiata tra loro e i nemici con aria spavalda.
Gai, che vide la scena dal punto in cui si trovava, ripensò alla promessa di aiutare Akeru a riportarla a casa tutta intera.
«Inizio a vederla grigia...» borbottò.
Ci sarebbe voluto davvero tanto Spirito della Giovinezza per dare una mano a Stupido.







* * *

Buonasera a tutti!

Ho tardato molto prima di fare questo aggiornamento,
vi chiedo scusa. Giornata piena.

Non sono nemmeno completamente soddisfatta
di come è venuto.
C'è una certa possibilità che questo capitolo
subirà qualche piccola modifica
prima del prossimo,
ma nel caso accadesse verrete avvisati.

Come promesso è tornata Kyuubi,
ma per essere sincera avrà più spazio la prossima volta.

Dopotutto, non sono ancora entrati in scena i mostri veri.
E nemmeno gli adorabili fratelli Uchiha!

Un abbraccio a tutti e un saluto.
Alla prossima settimana!


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Capitolo 30
*** I veri mostri ***


Penne 30
13/04/2016

Capitolo trentesimo

I veri mostri




Chiharu aveva deciso già da un po' che non se ne sarebbe rimasta con le mani in mano. Dal momento in cui era comparso il primo messaggero volante di Kakashi, per la precisione. Anche lei, come Sasuke, aveva capito che quel che stava per succedere sarebbe entrato nei libri di storia e non aveva la minima intenzione di restarne fuori.
Cinque anni prima, in occasione della sua prima possibile partecipazione alle cronache di Konoha, Chiharu aveva avuto la brillante idea di farsi venire una crisi esistenziale e auto-sospendere la propria carriera di kunoichi. Anche se alla fine l'unico che era entrato davvero nella storia era stato Naruto, perché aveva eliminato un'intera divisione della Roccia da solo, chi avrebbe potuto dire cosa sarebbe riuscita a fare lei partecipando agli eventi? Magari avrebbe avuto qualche brillante idea nel momento decisivo e avrebbe lasciato un'impronta negli annali della Foglia. Magari. Perché no? Anche Chiharu, come Hitoshi, viveva nell'errata convinzione che un giorno avrebbe risolto da sola qualche situazione insolubile, possibilmente di interesse internazionale.
E dal momento che ne era convinta, mentre Baka si ingegnava per rendere la loro postazione più sicura, lei si spremeva le meningi per trovare il modo di fare qualcosa di notevole.
«Senza i rinforzi da Konoha siamo spacciati» mormorò Akeru, sistemando i rami dei cespugli in modo che coprissero meglio il loro nascondiglio. «Non capisco perché Naruto non si sia ancora moltiplicato.»
«Naruto è ancora il Jinchuriki di Kyuubi?» domandò Haruka, cogliendoli di sorpresa.
Sia Akeru che Chiharu ammutolirono, scambiandosi sguardi cauti.
Non avevano mai parlato della cosa tra di loro, anche se entrambi, attraverso fonti diverse, erano arrivati a conoscere il segreto di Naruto; tutto ciò che trapelava al di fuori delle alte sfere era che l'informazione era coperta da autorizzazioni di altissimo livello, e per averla dovevi essere qualcuno. O avere spiccate doti di spionaggio.
«Non lo sapevate?» aggiunse Haruka, corrucciata. «Pensavo che tutti...»
«La nostra generazione non sa tante cose come la tua» disse Chiharu lentamente. «Alcuni di noi, per varie ragioni, sanno...» scoccò un'occhiata interrogativa ad Akeru, che annuì. «Ma chi non ha avuto a che fare con Naruto non ha idea di nulla. Pensano che conosca delle tecniche molto strane, tutto qui.»
Chiharu non aggiunse che il Consiglio aveva suggerito a Naruto di non pubblicizzare la cosa, se ambiva davvero a raggiungere la posizione di Hokage, ma lo fece soltanto perché in teoria lei non avrebbe dovuto saperne niente – era tra le persone con spiccate doti di spionaggio.
«Se Naruto è ancora un Jinchuriki, cosa lo sta fermando?» chiese Haruka. «Intendo... Con la potenza di Kyuubi non dico che potrebbe liberarsi facilmente di tutti gli avversari, ma quasi...»
«Infatti» Chiharu tornò a spiare il campo di battaglia, interrompendola. «E' proprio quello che non mi spiego.»
«Non ti azzardare a sporgere il naso!» scattò Akeru tirandola subito indietro. «So cosa vuoi fare.» Chiharu sbuffò indispettita. «E niente smorfie!» la ammonì lui. «E' stato Naruto a dirti di stare buona, non sono solo io ad essere fissato con la tua salute.»
«Sì, beh, peccato che fuori di qui ci siano Kotaro con le Porte del Chakra spalancate, due cinquantenni e un maledetto bambino! Un bambino!»
«Uscendo da questo buco non salverai la situazione. Aggiungerai soltanto una cardiopatica all'elenco.»
Chiharu levò le braccia al cielo, preda dell'esasperazione. La testa di Baka era piena di segatura! Là fuori si scriveva la storia, e loro stavano rannicchiati in disparte.
«Ok, senti. Mia madre dice sempre che non si può riempire un bicchiere rovesciato» annunciò. Akeru la fissò stranito. «Vuol dire che posso andare avanti a parlarti due ore, ma se non ti entra, non ti entra...»
«Non pro...»
Le parole morirono nella gola di Akeru, che si ritrovò improvvisamente privo di controllo sul proprio corpo. Chiharu sospirò, gettando uno sguardo alla propria ombra che si congiungeva alla sua, controllandola. Anche l'ombra di Haruka era stata agganciata senza che se ne accorgesse.
«Prometto di restare viva» assicurò la ragazza. «Ma se Naruto non si moltiplica, nessuno di noi torna a casa intero. Ora, hai presente quando ho chiesto alla madre di Jin se era claustrofobica? Bene, spero che non lo sia neanche tu, perché passo al piano B.»
Sempre tenendoli sotto controllo, compose una serie di sigilli, che per forza di cose si ritrovarono a fare anche loro. Si chinò per posare una mano sulle rocce ai loro piedi, e nel giro di pochi secondi le piccole zolle del fosso si ammonticchiarono a formare una cupola di terra sopra le teste di Akeru e Haruka, rinchiudendoli in un solido guscio. L'ultima fessura in cima alla cupola si richiuse quando il filo-ombra di Chiharu si ritrasse.
«Tranquilli, siete perfettamente al sicuro!» la sentirono gridare da fuori.
All'interno del rifugio, appena riuscì a muoversi, Akeru percorse tutta la superficie con le mani, senza individuare punti deboli. Riusciva a stare dritto soltanto al centro, perché ai margini la cupola diventava subito troppo bassa.
«Io la ammazzo!» ruggì, sferrando un pugno contro il guscio e graffiandosi le nocche.
«Non perdere la calma» intervenne Haruka, posando entrambe le mani sulla superficie interna della cupola. «So qualcosa del chakra di tipo terra.»
E allora, dapprima lentamente, poi sempre più rapidamente, i legami tra le zolle si sfaldarono e la barriera franò, aprendo uno spiraglio verso l'esterno.
«Grande!» esclamò Akeru, subito ringalluzzito, mentre Haruka si arrampicava all'esterno.
Ma lei si voltò a guardarlo, l'espressione nascosta dalle ombre della notte. «Mi dispiace» mormorò. «Si tratta di mio figlio, non posso stare a guardare.»
«Non...!» tentò di nuovo Akeru, e per la seconda volta le parole gli morirono in gola, mentre il passaggio si richiudeva al comando di Haruka. Appena prima che l'ultima zolla prendesse il suo posto lui si gettò in avanti, e mise una mano avvolta di chakra nella fessura che stava per saldarsi.
«Scordatevi di lasciarmi qui dentro!» ringhiò. «Appena esco vi ammazzo tutte e due!»

Chiharu non si sentiva particolarmente in colpa: se di colpa ce n'era, veniva soffocata ampiamente dall'eccitazione del combattimento e dall'adrenalina che le scorreva nelle vene.
Non fu semplice individuare Naruto: gli avversari erano ovunque, maschere bianche che comparivano da tutti i lati oscurando la vista e rimescolandosi come una marea di petali. Poi un'ombra enorme si sollevò fino ai rami che si protendevano verso la radura, e anche nel crepuscolo Chiharu capì che stava succedendo qualcosa. E che lei stava rischiando di arrivare tardi.
Si fece largo a forza, evitando tutti quelli che cercavano di afferrarla, e quando fu vicina posò le mani sulle spalle di un avversario e lo oltrepassò con una capriola. A mezz'aria impastò il chakra, appena in tempo per toccare terra con i palmi e far sollevare una colonna di sabbia.
Gli insetti diretti contro Naruto e Kakashi si sparpagliarono come foglie al vento. Chiharu atterrò, fiera e raggiante di orgoglio, esattamente tra i nemici e gli alleati.
Sapeva che Naruto la vedeva, alle sue spalle, e un fremito di eccitazione le corse lungo la schiena. Non era proprio il momento di commettere errori. Nonostante fosse praticamente circondata su tutti i lati, la potenza del suo sconfinato orgoglio le faceva credere di essere tornata in forma come quando non aveva problemi di cuore, rendendo la Lophenaria di Shikaku una blanda aspirina. E dire che accadeva solo perché aveva salvato ben due Hokage in un colpo solo!
Rannicchiata con le mani a terra studiò gli avversari. Se avevano atterrato Naruto e Kakashi non si illudeva di poterli sconfiggere, ma incrociò le dita, e il punto in cui i tre stavano fermi si frantumò in centinaia di zolle, costringendoli a saltare via.
La mano enorme che teneva fermi Kakashi e Naruto si allontanò, lasciando solo la rete a bloccarli. Chiharu si voltò per strapparla a mani nude, e così facendo non vide lo shinobi che le fece lo sgambetto. Cadde, sentendo il sapore del sangue invaderle la bocca e il respiro mozzarsi nei polmoni. Si rigirò sulla schiena, respingendo l'avversario con i piedi, per vederne altri quattro che prendevano il suo posto.
All'improvviso un artiglio scarlatto li respinse tutti, sfrigolando a contatto con la loro pelle.
«Adesso mi avete fatto incazzare!» gridò Naruto, improvvisamente al suo fianco.
Alle spalle di Chiharu, Baka masticò imprecazioni come il peggior portuale, sollevando le dita dalla rete che aveva appena sezionato con la tecnica bisturi che insegnavano al secondo anno di medicina. Chiharu lo intravide con la coda dell'occhio mentre liberava anche Kakashi.
«Haruka?» chiese subito quest'ultimo, vedendolo solo.
«Ha detto 'è mio figlio', e se l'è filata. Che mi prenda un colpo la prossima volta che accetto di fare la guardia a due femmine!» ringhiò Baka. Ed evitò lo sguardo di Kakashi, fingendosi molto impegnato.
Ora. Quando era riuscito a scavarsi un'uscita dalla trappola di terra di Chiharu in teoria avrebbe dovuto seguire Haruka, considerato che era l'obiettivo principale dei nemici... Ma in pratica non lo aveva fatto, non ci aveva neanche pensato; perché se doveva scegliere tra Haruka e Chiharu, la scelta era scontata. Il che non gli impediva comunque di sentirsi parecchio in colpa.
Kakashi non perse tempo a chiedere ulteriori informazioni, ma si liberò dei resti della rete e partì subito alla ricerca di Jin e Haruka. Akeru avvertì una fitta di vergogna, ma era troppo tardi per fare qualcosa. D'altronde si trattava sempre di un Hokage, chi meglio di lui per salvare la situazione?
A breve distanza, al fianco di Chiharu, Naruto allargò le braccia, muovendo le dita per assicurarsi che il chakra della Volpe scorresse senza problemi.
Cos'è questo puntino nero sul nostro collo?, sussurrò lei sorniona. Vogliono scherzare?
«Chiharu» disse Naruto, con un mezzo sorriso. «Ricordi quel che ho detto sul tenerti in disparte per non dover affrontare tua madre? Lascia perdere. Spacchiamo la faccia a questi presuntuosi!»
Chiharu sorrise entusiasta, un fremito di soddisfazione che le scorreva lungo la spina dorsale. Si rimise in piedi, memore di quando Naruto aveva fatto sul serio cinque anni prima, e afferrò Akeru per un braccio, costringendolo a fare un passo indietro senza ascoltare i suoi insulti. «Chiudi la bocca e guarda!»
Naruto alzò lo sguardo sugli shinobi che li circondavano. Snudò le zanne, sotto pupille strette e circondate di rosso. Sentiva il dolore delle ustioni, ma calcolò che avrebbe resistito quanto bastava.
«Se volete scappare, fatelo in fretta» suggerì.
Poi nove code di chakra scarlatto esplosero dal suo corpo. Roventi, dense di acido corrosivo, strisciarono sul terreno e si avventarono sugli avversari come se avessero vita propria. Muovendosi diffondevano una leggera luminosità rossastra, anche più terribile del sibilo delle ustioni che producevano.
Kotaro e Jin schivarono una delle code per un pelo, Gai, vicino a loro, afferrò Haruka prima che il chakra le sfiorasse una gamba. Gli uomini colpiti lanciarono grida di agonia, l'odore di carne bruciata impregnò l'aria di una nota acida, mentre i corpi cadevano a terra sibilando dalle vesciche aperte.
Chiharu fu attraversata da un brivido. Di nuovo, non capì se provava solo ammirazione o anche timore, soggezione, orrore. Era uno spettacolo affascinante e disgustoso al tempo stesso... Ma quanta potenza in quelle code!
Naruto ritirò il chakra, senza farlo scomparire. Si guardò intorno per trovare i tre che li avevano messi con le spalle al muro, ma a causa delle maschere identiche non riuscì ad individuarli.
Una vibrazione scosse il terreno sotto i loro piedi. Baka si appiattì a terra, Chiharu insinuò il suo chakra tra le rocce, ma quando si rese conto che non era una tecnica sbiancò.
«Insetti!» gridò, facendo per balzare via. Un tentacolo brulicante di creature la afferrò per la caviglia, tenendola giù. Baka capì con un secondo di ritardo, e gli insetti si avvolsero al suo petto, trascinandolo a terra.
Solo Naruto sembrò salvarsi, perché gli insetti sfrigolavano e bruciavano al contatto con il suo chakra. Ma tra i corpicini neri comparve una mano, e quella mano, incurante dei danni, oltrepassò la barriera scarlatta che rivestiva Naruto fino a posarsi sulla pelle della sua caviglia.
Kyuubi scomparve.
Naruto avvertì un dolore bruciante al collo, cadde in ginocchio senza fiato.
Dal terreno sotto di lui emerse Kin, lo shinobi che gli aveva applicato il marchio di cui Kyuubi aveva riso. Allargò le braccia, armate entrambe di kunai.
Chiharu, guardando le sue spalle, capì che non avrebbe sbagliato a colpire.


*


«Invece cerchi ancora in cantina!» esplose Hitoshi, afferrando Fugaku per il bavero. «Usa quel maledetto sharingan per scoprire qualunque fessura segreta!»
«Ho già guardato tutto!» gridò Fugaku, liberandosi con uno strattone.
«Buoni...» sbuffò Jiraya.
Che strazio. Gli Uchiha erano insopportabili a qualunque età, di qualunque generazione fossero.
«Andiamocene!» sbottò il minore degli Uchiha, con un'occhiata piena di astio verso il fratello. «Se non dovessi stare qui a fare la balia a te sarei avanti con papà!»
«A farmi da balia!» Hitoshi scoppiò in una risata acida. «Guarda che è proprio il contrario.»
«Il mio sharingan sarebbe stato utile!»
Jiraya afferrò entrambi per il colletto e li sollevò di qualche centimetro, facendo cozzare una testa contro l'altra.
«Non ho grande simpatia per la vostra famiglia» sottolineò. «Non costringetemi a uccidervi.»
Bruscamente li rimise a terra, ripromettendosi di andare in pensione appena fosse tornato Kakashi. I due ragazzi si massaggiarono la fronte imprecando contrariati, ma non osarono alzare la voce contro uno dei ninja più celebri nella storia di Konoha.
«Scendiamo tutti e tre, diamo un'ultima occhiata e ce ne andiamo» ordinò il sennin.
«Sono io il capitano...» sibilò Hitoshi, ma si guardò bene dal dirlo a volume udibile.
Tutti insieme scesero le scale che portavano al piano interrato, Jiraya in testa, armato di torcia.
In fondo c'era un breve corridoio e una stanzetta priva di finestre. L'ambiente era angusto, ma arredato in modo da ospitare poche persone per molto tempo: c'erano un futon, un tavolino, e una radio che trasmetteva le voci riconoscibili di Hinata e delle sue figlie.
Jiraya si abbassò e spense la radio, facendo correre la luce negli angoli e sul soffitto.
«Fugaku?»
«Non ci sono scomparti segreti né uscite» borbottò il ragazzino, attivando lo Sharingan per scrutare nell'ombra delle zone che Jiraya non illuminava. «E lei si sta mettendo un dito nel naso!» Jiraya abbassò la mano. «Adesso possiamo andare?»
«Adesso sì», sottolineò Hitoshi, voltandosi per risalire davanti a tutti.
Avrebbe venduto tutte le missioni con il gruppo sette pur di far ingoiare a Fugaku la sua spocchia boriosa, pensò attraversando il corridoio alla base delle scale. Alla sua età non era così snervante e irrispettoso, si disse mentendo spudoratamente.
Qualcosa entrò nel margine del suo campo visivo.
«Che succede?» chiese Jiraya vedendolo fermarsi.
Hitoshi fissò il muro alla base delle scale. Aveva una strana sensazione, come di freddo. Qualcosa di viscido, umido, traslucido... Come la sagoma nella foresta.
Appoggiò una mano al muro.
«Non toccare!» gridò Fugaku, lo sharingan che gli rimandava le immagini dell'immediato futuro; ma il suo avvertimento arrivò troppo tardi.
La parete esplose in mille pezzi, facendo crollare una parte del soffitto soprastante, e nel crollo seppellì i due ragazzi e il vecchio.


*


L'uomo mascherato allargò le braccia, un kunai stretto in ogni mano. Tutti i i ninja di Konoha erano a terra o lontani.
Chiharu vide la scena al rallentatore, come se il tempo si fosse dilatato per farle capire tutto.
L'espressione di Naruto, colma di dolore.
I muscoli tesi, alle estremità delle maniche dello shinobi mascherato.
Il guizzo ribelle del chakra rosso, le bolle che si formavano sulla pelle di Naruto.
La contrazione degli avambracci del nemico, prima che il colpo partisse.
E all'improvviso, enorme e terribile, il volto di Kyuubi e i suoi occhi bianchi, vuoti. Le zanne. Il ghigno, perverso, soddisfatto, sadico. Il mostro, quello vero, dietro il sigillo e la volontà di Naruto. Il mostro con cui nessuno, Squadra Assassina o meno, avrebbe potuto competere.
Disse solo una parola, sgorgata da profondità lontane, con una voce che non aveva nulla a che fare con quella che conoscevano.
Sparisci.
Lo shinobi mascherato scomparve in una bolla di chakra scarlatto, con uno sgradevole sfrigolio. Non emise un suono né un lamento, nulla. Il chakra colò a terra e scomparve, inghiottito dalle crepe tra le pietre.
Il corpo annerito dell'uomo che era stato Kin cadde al suolo, tra le mani ancora i kunai contorti, ricoperti di una patina verde.
Naruto boccheggiò, strinse i denti, e Chiharu lo vide premere una mano sullo stomaco, le cinque dita aperte attorno all'ombelico. Il viso enorme di Kyuubi si ritrasse, inghiottito dal corpo di Naruto, e lui crollò a terra senza fiato.
Tra i nemici scoppiò un boato; tutti gli si avventarono contro, vedendolo in difficoltà.
Chiharu sentì la stretta degli insetti allentarsi; li scrollò via, avvertendo il panico risalire lungo le gambe. Vide Akeru che veniva aggredito praticamente accanto a lei, ma Naruto era lì, Naruto era l'obiettivo della folla, Naruto era Naruto, e nessuno, nessuno poteva venire prima di lui! Nessuno!
Si sporcò la mano con il sangue che le imbrattava le labbra, mentre annaspava verso il centro dell'attacco. Compose i sigilli senza sapere quello che stava facendo. Si gettò sul corpo di Naruto, ripiegandosi attorno alla sua schiena, protettiva, piccola, così piccola rispetto a lui... Sentì la mano del primo nemico serrarsi sulla sua spalla, quando premette le mani a terra.
Il calore improvviso le tolse l'aria dai polmoni e la fece rannicchiare ancora più stretta contro Naruto, per proteggerlo, per proteggersi, perché non aveva più pensieri in testa.
Sentì il rombo dell'ossigeno che viene divorato dal fuoco, le urla in lontananza, e a fatica alzò lo sguardo, schiacciata dalla pressione dell'aria e dalla luce che feriva gli occhi.
Qualcosa di enorme e dorato era sopra di lei, spropositatamente caldo, brillante come il sole. Un uccello dalla lunga coda di fiamma, le ali spiegate, che incontrò il suo sguardo e la fece fremere. Aveva grandi occhi neri, che sembravano inghiottire la luce delle penne, e un lungo becco acuminato. La notte si era ritratta sotto il suo fulgore.
Chiharu fu corta che stesse sorridendo, ma non in maniera amichevole... E poi sentì la sua voce, solo per lei, dritta nella testa, e sapeva che non era un'allucinazione: «il signore Suzaku non è clemente con chi lo offende.»
Allora sentì la fitta in mezzo al petto, tremenda, come mai prima. Tentò di respirare, ma non ci riuscì. Il calore dell'aria era insopportabile, il dolore nel petto anche peggio. La Lophenaria! Ricordò confusamente le pillole che cadevano nella polvere, poi non riuscì più a concentrarsi, e fu solo dolore. Artigliò Naruto con una mano; lui, stordito, riuscì a sollevare la testa.
«Che cosa...» balbettò, impossibile sentirlo nel rombo dell'ossigeno che veniva risucchiato. Si voltò, vide l'enorme uccello, i suoi occhi intelligenti, il becco acuminato, gli artigli impressionanti... Un po' troppo, per una cardiopatica di ritorno da una missione rischiosa.
«Cosa hai fatto?» gridò, strappandole la maglietta per liberare il petto. Ad ogni mancato respiro si formavano solchi tra le coste e alla base del collo, le sue labbra stavano scomparendo nel pallore del viso.
Chiharu guardò Naruto, e nei suoi occhi lesse quello che lui vedeva, la gravità di ciò che aveva fatto.
Fu il panico.
Di colpo, senza che fosse previsto, il panico più puro.
Non voglio morire!
La sua mano si tese spasmodicamente, fino a incontrare uno dei grandi artigli dell'uccello.
NON VOGLIO MORIRE!
Chiharu estese il collo e lo vide, lo sguardo minaccioso del mostro, il lieve guizzo di sorpresa, l'accenno di avvertimento... Serrò i denti; senza esitare si riprese il chakra usato per evocarlo, tutto quanto.
Non voglio morire.
L'uccello lanciò un grido acutissimo, una nota di puro dolore, e con un'ondata di aria calda scomparve nel nulla.
Chiharu inspirò, sentendo l'ossigeno che le invadeva i polmoni come un balsamo. Sconvolta, si piegò su un fianco e prese a tossire, il cuore che batteva impazzito nel petto, i denti tremanti, le mani gelide.
Alzò lo sguardo, a fatica, seguì le ginocchia di Naruto fino al petto e infine il viso... Ma non riuscì a vedere i suoi occhi, e perse conoscenza.
Naruto non tese nemmeno una mano.
Immobile, gli occhi spalancati e le labbra serrate, la fissava, come se non la conoscesse, come se la vedesse per la prima volta. Vedeva il suo respiro spezzarsi nel petto, vedeva il sangue gocciolare dalle labbra a terra, ma non si protese per aiutarla. Rimase lì, impietrito, e la fissò soltanto.
Qualcosa lo urtò, costringendolo a spostarsi. Gli sembrò di vedere Baka che si chinava su Chiharu, lo sentì gridare qualcosa, ma non capì cosa. La scomparsa improvvisa dell'uccello e dell'ossigeno di cui si era alimentato gli aveva lasciato le orecchie tappate, gli occhi dovevano abituarsi di nuovo all'oscurità. Sentì il mormorio di Kyuubi nel profondo, distante. Al tenue bagliore del chakra di Baka vide il volto esanime di Chiharu, e la sua mano, ancora stesa là dove era stato l'uccello dorato.
Al suo posto, ora, soltanto un mucchio di ceneri e brandelli di fiamma.








* * *

Lo so,
mi dispiace.
Chiharu è insopportabile.

Ho cercato di renderla migliore,
ma mi è sfuggita di mano.
Se vi può consolare,
è finito il tempo in cui le concedevano tutto,
e per i suoi detrattori i prossimi capitoli saranno un sollievo.

Beh, avete avuto un salutino da Kyuubi!
Contenti?
A me prudono le mani dalla voglia di infilarla a caso nella trama...
Ma così rischiamo di finire al capitolo 345, e non mi sembra il caso.

Oh sì, e poi gli Uchiha,
ai quali è interamente dedicato il prossimo capitolo!
Se fossi un lettore odierei Fugaku,
ma da autrice mi fa ridere tanto.
Chissà che la famigliola non diventi finalmente felice?
(Seeeeh, ma chi ci crede?)

Un saluto a tutti,
alla prossima settimana!

Grazie per essere qui a leggere!




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Capitolo 31
*** Il bozzolo ***


Penne
20/04/2016

Capitolo trentunesimo

Il bozzolo




Frammenti di cemento e schegge di legno rotolavano verso quel che restava del giardino, emergendo dalle nubi di polvere sollevate dal crollo.
Gli uccelli erano ammutoliti quando le fondamenta della residenza di Iida avevano ceduto; nell'oscurità incipiente i primi a riprendersi furono i grilli, con timidi friniti ai margini più lontani del terreno cintato.
Un'ombra si allontanò dalla statua contro cui si era nascosta fino a quel momento. Osservò le macerie della villa, silenziosa, in attesa del depositarsi della polvere.
Quando Iida era fuggito tutto il quartiere si era svuotato: i vicini erano complici e conniventi, e al primo sentore di minaccia avevano fatto i bagagli insieme alla servitù. Non c'erano altri rumori, a parte quelli della notte e il leggero acciottolio del crollo che si assestava.
Un bagliore improvviso illuminò la foresta a occidente, facendo voltare l'ombra. Durò pochi istanti, poi si indebolì; del fulgore rimase soltanto un alone rosso al di sopra degli alberi.
Una parte delle macerie franò rovinosamente. L'ombra trasalì, tornando a nascondersi dietro la statua.
Dalle travi ammonticchiate emerse una mano, che spinse via una parete di carta di riso determinando un altro piccolo crollo. L'ombra si fece traslucida, come un riflesso sull'acqua. Dalle rovine della villa emersero una testa bianca di polvere e un paio di spalle, seguite dal corpo di Hitoshi Uchiha. L'ombra scese veloce dal muretto e scomparve nell'oscurità della notte.
«Avevi controllato tutto, eh?» tossì Hitoshi, scuotendo i capelli per farli tornare del solito nero corvino.
«Sì, avevo controllato e non c'era niente!» starnutì Fugaku, uscendo per lo stesso passaggio. «Avevo controllato due volte!»
«Beh, allora il tuo sharingan fa schifo!»
«Almeno io ce l'ho!»
«Si dà il caso, ragazzino ignorante, che il mio sharingan abbia visto la trappola!»
«Il tuo cosa? Tu non hai lo sharingan! E se avessi visto la trappola, non ci sarebbe caduta in testa la casa!»
«Se vi ammazzo tacete?» grugnì Jiraya, arrampicandosi fuori con qualche difficoltà. Sulla sua fronte c'era un taglio profondo, che sanguinava lungo tutto un lato del viso.
«Aspetti, ho una benda...» disse Fugaku aprendo il marsupio.
«Bel lavoro, Hitoshi» sospirò Jiraya sedendosi su una grossa trave. «Anche se non ho capito come hai fatto.»
«Non ha fatto niente, ecco come ha fatto...» brontolò Fugaku.
«Non lo so nemmeno io» ammise Hitoshi, guardando storto il fratello e provando un'ondata di desiderio per le sigarette nascoste in fondo al marsupio.
Quando la trappola si era innescata e la struttura dell'edificio aveva ceduto, lui aveva cercato di proteggere tutti e tre con una barriera; ma lo scudo che aveva impastato con il chakra non si era formato, e invece in qualche modo i frammenti più pesanti li avevano completamente evitati.
«Fammi vedere il tuo sharingan.»
Hitoshi si avvicinò a Jiraya in improvviso imbarazzo. «Non sono sicuro che sia... Insomma... Con mia madre pensavamo...»
Jiraya gli puntò una torcia in faccia e studiò i suoi occhi per un lungo istante. Anche Fugaku si sporse per vedere, e con un sorrisetto soddisfatto si fece indietro poco dopo: nessuna traccia di rosso.
«Allora?» chiese Hitoshi ansiosamente.
«Allora niente. Facciamo rapporto a Sakura e disinfettiamo le ferite» borbottò Jiraya, mentre Fugaku terminava la fasciatura alla testa.
«Sì ma, il mio sharingan?»
«Non c'è nessuno sharingan» puntualizzò Fugaku. «Se vuoi ti faccio vedere io com'è uno sharingan.»
«Se vuoi ti faccio vedere la mia maschera da Anbu, saccentello rompipalle.»
Fugaku scoppiò a ridere. «Sharingan e Anbu in un colpo solo! E poi? Verrai a dirmi che ti hanno nominato Hokage?»
Jiraya si passò una mano sul viso. Era sollevato all'idea di non avere fratelli. «Torniamo da Sakura.»
«No, dobbiamo fare rapporto a mio padre» disse Hitoshi.
«Lei o lui è la stessa cosa. E io ho bisogno di farmi ricucire la testa.»
«Preferisco andare da mio padre. Lei se vuole...»
«Voi due siete sotto la mia custodia.»
«Io sono il capitano!»
Hitoshi e Jiraya si fissarono, ostili. Jiraya premette la fasciatura sulla fronte e sbuffò.
«Se vuoi sapere cosa sta succedendo ai tuoi occhi, dovremmo andare da tua madre» suggerì.
Ma Hitoshi ebbe un brillio di soddisfazione nello sguardo. «Allora nei miei occhi c'è qualcosa!» Fugaku fece un gesto di esasperazione, che il fratello ignorò. «Andiamo da papà, potrebbero aver bisogno di me.»
«Probabile» commentò Fugaku grondando sarcasmo.
«Io sono il capitano. Io. Se sento un'altra lamentela ti spedisco a casa, e se non lo fai ti denuncio per insubordinazione!»
«Ma non possiamo davvero essere agli ordini di uno così!» protestò Fugaku in cerca di sostegno.
«Invece temo proprio di sì» borbottò Jiraya. Si rialzò dalla trave su cui era seduto. «Lasciami indovinare: pensi che se raggiungeremo tuo padre potrai catturare Iida da solo grazie ai tuoi nuovi grandi poteri?»
Anche nel buio le guance di Hitoshi si arrossarono visibilmente. Jiraya fece un sorrisetto, ricordando le sparate adolescenziali di Naruto e tutte le missioni sceme in cui erano rimasti coinvolti durante il loro allenamento. Sentì un fiotto di calore invaderlo, eliminando il dolore della ferita alla testa e la cinquantina di anni di troppo sulle spalle.
«Questi sono proprio i piani che mi piacciono!» annunciò fieramente.
Fugaku nascose il viso tra le mani.


Sasuke e la sua squadra avevano intrappolato qualcuno all'interno della villa di Saibatsu, ma non sapevano chi.
Erano arrivati un attimo prima che il gruppo partisse, pronto al viaggio sotto la guida di alcuni shinobi, ma avevano rovinato i loro piani costringendoli a rintanarsi nella villa. Lì era iniziato l'assedio.
Sasuke sapeva che avevano bisogno di catturarli tutti insieme, se volevano liberarsi della Radice una volta per tutte. Sperava intensamente che Iida fosse all'interno della casa insieme ai suoi consiglieri, ma non aveva modo di accertarsene. A titolo precauzionale aveva disposto i suoi uomini tutt'attorno al perimetro, poi aveva attivato lo sharingan e fatto lavorare il cervello insieme a Sai. Quasi quasi pensava di buttare giù tutta la casa e poi estrarre i sopravvissuti dispiacendosi a profusione; ma sospettava che Sakura lo avrebbe ammazzato per una cosa del genere... E gli Dei soltanto sapevano quante ragioni già avesse per ammazzarlo. Scartò il piano a malincuore.
«Sasuke, abbiamo dei tirocinanti» sussurrò Sai a un tratto.
Sasuke si voltò, per ritrovarsi di fronte Hitoshi, Fugaku e Jiraya con un po' di fiatone.
«Vi avevo detto di restare alla villa di Iida!» li rimproverò subito.
«Non c'è più. E' crollata, avevano piazzato una trappola nel seminterrato» lo informò Hitoshi.
Solo allora Sasuke si accorse della fasciatura attorno alla testa di Jiraya. «Sareste dovuti tornare da Sakura.»
«Infatti» Fugaku annuì con forza, provocando l'insorgenza di una quantità di istinti omicidi in Hitoshi. L'idea di accendersi una sigaretta stava rapidamente trasformandosi nell'idea di dare fuoco al fratellino.
«Ma no, questo non è niente» minimizzò invece Jiraya, che ormai era in modalità avventurosa e si sentiva almeno vent'anni più giovane. «Piuttosto, ho pensato che aggiungere alla caccia un po' di tecniche oculari ti avrebbe fatto piacere.»
Sasuke fece una smorfia di fronte al plurale usato da Jiraya: Fugaku aveva lo sharingan, ma Hitoshi? Jiraya si accorse della sua espressione e gli strizzò un occhio, al che Sasuke non capì più niente: lui con il vecchio non riusciva ad avere a che fare; come diavolo facesse Naruto, restava un mistero.
«Comunque il gruppo si è asserragliato dentro la villa, stiamo pensando a come stanarli» intervenne Sai.
«Avete controllato se ci sono passaggi segreti?» chiese Hitoshi, ansioso di rendersi utile.
«Non sapremmo come fare... A meno che tu non riesca a vedere oltre le pareti e sottoterra.»
«Buona idea!» approvò Jiraya. «Perché non fai un tentativo, Hitoshi?»
Tutti lo fissarono. Hitoshi si sentì in imbarazzo per lui, e quasi pensò che lo stesse prendendo in giro.
«Sono serio, ragazzino» insisté Jiraya. «Dai un'occhiata intorno.»
«Che diavolo...» sussurrò Sasuke, ma Jiraya gli strinse un braccio per farlo tacere.
Hitoshi esitò. Sentiva le occhiate strafottenti di Fugaku e lo sguardo fisso di Sai sul collo, e questo non lo aiutava ad essere molto concentrato. D'altronde era la sua occasione, di nuovo. Con gli Anbu era andata bene, perché non provare il bis? Se avesse potuto accendersi una sigaretta sarebbe stato molto più semplice, però.
Si arrampicò sul muro di recinzione di una villa vicina, e da lì arrivò al tetto. Aveva il batticuore. Rannicchiato sull'estremità più alta poteva vedere tutto il giardino e la villa, poco più di ombre immerse nella prima oscurità. Deglutì, e come aveva tentato di fare mille volte senza riuscirci, cercò di attivare lo sharingan seguendo i consigli sul manuale degli Uchiha.
Subito avvertì la familiare fitta di dolore dietro agli occhi, a cui si stava quasi abituando. I contorni del panorama si fecero più netti, i contrasti si accentuarono. Era la prima volta che faceva caso a quel dettaglio, e per l'emozione quasi perse l'equilibrio.
Poi, indistinto, vide qualcosa che si muoveva nel giardino. No, non nel giardino. Sotto. Piccole vene di qualcosa che scorreva, si intrecciava, si sovrapponeva, migrava lentamente verso la periferia... Uomini. Flussi di chakra.
Il cuore gli fece una capriola nel petto. Prima di scendere ad avvisare gli altri dovette prendersi un momento per assaporare l'attimo.
Eccolo. Quello, alla fine, era il coronamento di diciotto anni di fatiche e frustrazioni, la firma sul suo pedigree e il sigillo di qualità come shinobi. Era tutto ciò che aveva sempre desiderato, da quando aveva iniziato a muovere i primi passi; era lo sharingan, finalmente!
O meglio: non poteva essere altro, anche se sembrava uno sharingan perlomeno strano. Gli restava solo da capire come usarlo senza spaccarsi la testa e come sbatterlo degnamente in faccia a Fugaku... Catturare Iida sembrava un buon modo.
Scese dal tetto lasciando che la fitta dietro gli occhi scemasse fino a scomparire, e spiegò ai presenti che sotto il giardino c'era un passaggio e nel passaggio delle persone che camminavano. Sai e Fugaku lo scrutarono scettici, ma Sasuke no.
«In che direzione?» chiese, gli occhi assottigliati a valutare il figlio.
«Verso la periferia.»
«Sai, tu resta qui con Fugaku e gli Anbu. Hitoshi, Jiraya: con me.»
«Papà, ma sei serio?» inorridì Fugaku. «Lo ha detto solo per vantarsi!»
«Spero proprio che nessuno dei miei figli metta gli interessi personali davanti alla riuscita di una missione» rispose lui in tono incolore, ma suonò un po' come una minaccia. Fugaku arrossì.
«Cerchiamo la fine del tunnel?» intervenne Jiraya. «Di solito questo genere di passaggi sbocca nella foresta.»
«Sì. Andiamo.»
Hitoshi fremette di soddisfazione e un po' di paura. Era la prima volta che riusciva ad attivare lo sharingan volontariamente, e non era neanche tanto sicuro di farlo nel modo giusto; si chiese se ci sarebbe riuscito ancora... Ma, santo cielo, che enorme soddisfazione vedere la smorfia di dispetto sulla faccia di Fugaku!
Hitoshi, Sasuke e Jiraya si allontanarono rapidamente verso la foresta confinante. Quando furono a una certa distanza dalla casa, Jiraya posò una mano sulla spalla di Hitoshi.
«Prova a dare un'occhiata come hai fatto prima, nel giardino.»
Hitoshi obbedì istantaneamente, perché il tono incoraggiante del vecchio sennin era miele su cinque anni di orgoglio ferito. Sia Jiraya che Sasuke lo fissarono mentre si concentrava, ma l'oscurità era troppa per distinguere cambiamenti nei suoi occhi.
«Là» sussurrò Hitoshi, indicando un punto nel folto. «Credo che siano vicini all'uscita dal tunnel, stanno risalendo.»
La foresta oscillò, o forse lui oscillò, in ogni caso perse l'equilibrio.
«Tutto bene?» chiese Jiraya, scrutandolo.
«Le prime volte lo sharingan è faticoso...» mormorò Sasuke cautamente.
Hitoshi evitò il suo sguardo e annuì. Una piccola parte di lui temeva ancora che non fosse sharingan, o che fosse difettato, o che fosse tutto un sogno... Sentirne parlare suo padre era stranamente terrorizzante: e se alla fine lo avesse deluso di nuovo?
Seguendo le sue indicazioni raggiunsero una zona ricca di cespugli, e sotto i cespugli trovarono una botola, anche se era ben mimetizzata. Sasuke distribuì i lembi di una grossa rete e fece salire Hitoshi e Jiraya sugli alberi, seguendoli poco dopo.
L'attesa fu breve. Nel giro di pochi minuti i cardini della botola cigolarono e lo sportello si aprì lentamente, lasciando filtrare una tenue luminosità.
Il primo a emergere fu un uomo dal volto coperto; indossava una maschera bianca senza espressione, e a giudicare da come si muoveva doveva essere uno shinobi. Si guardò intorno, studiò l'oscurità tra gli alberi, poi fece un cenno a quelli che erano ancora nel tunnel. Uno per volta uscirono altri uomini, almeno una decina, tutti vestiti elegantemente e con il fiato corto. L'ultimo ad emergere fu un altro shinobi a volto coperto.
Hitoshi attivò di nuovo lo sharingan, controllando che il tunnel fosse vuoto. Quando ne ebbe avuta la conferma diede un leggero strattone alla rete, e sia lui sia Sasuke sia Jiraya lasciarono andare le estremità piombate.
La trappola si depositò sui nobili e sulle loro guardie, bloccandoli. Dalle maglie rinforzate provennero esclamazioni e grida, un tentativo di corruzione, imprecazioni.
Sasuke e Jiraya scesero dagli alberi e radunarono gli uomini come avrebbero fatto con un gregge, mentre Sasuke cercava il razzo di segnalazione per avvisare gli Anbu che erano rimasti indietro.
«Hitoshi?» chiese Jiraya a quel punto.
E allora il corpo di Hitoshi cadde privo di sensi dall'albero su cui era salito, restando inerme tra i cespugli.
Le sue guance erano striate di sangue.


*


Haruka rialzò il capo, con un sibilo feroce a riempirle entrambe le orecchie.
Nessuno aveva capito bene cosa fosse successo, ma era stato come un'esplosione di luce e calore; e ora la foresta era in fiamme. Tutt'intorno gli shinobi mascherati si stavano rialzando, qualcuno lamentandosi. I corpi erano disposti come se una grande forza li avesse respinti da un punto preciso, ma non era quello che i suoi occhi cercavano. I suoi occhi cercavano ciò che stringeva.
Serrò le braccia attorno al corpo di Jin, premuto contro il suo petto fin quasi a fargli male, e lo sentì che si divincolava.
«Mamma... Mamma, non respiro» ansimò.
Mamma. Non cessava di stupirsi di fronte a quella parola, a quella voce... Non poteva lasciarlo, non di nuovo.
Lo aveva raggiunto non appena aveva lasciato il medico che doveva sorvegliarla, e, anche se sapeva che era pericoloso, pensava soltanto a non perderlo di vista nemmeno per un istante, mai più. Sapeva che standogli vicino probabilmente lo esponeva a rischi maggiori, ma l'idea di non sapere cosa gli succedeva, il pensiero che qualcuno avrebbe potuto sopraffarlo senza che lei intervenisse, l'ansia, la preoccupazione, l'incertezza, erano state più forti del buonsenso e l'avevano spinta a fare sciocchezze, sulla scia della ragazza dei Nara che se l'era svignata nonostante glielo avessero proibito.
«Mamma, lasciami!» Le braccia si allargarono contro il suo volere, mentre Jin sfuggiva alla sua stretta. Quasi con la stessa forza le prese il viso tra le mani.
«Giuro che torneremo a casa insieme. Te lo giuro» le disse, come se l'adulto fosse lui e non viceversa.
Un piccolo insetto nero si posò sulla spalla di Haruka.
E all'improvviso, tra di loro, si erse una montagna di insetti identici, una nube scura che li separò a forza, celando il corpo di uno shinobi con la maschera infranta.
Haruka incrociò lo sguardo tra le crepe della maschera, dove le fiamme disegnavano ombre profonde. Vi riconobbe odio, paura, trionfo. Quell'uomo sapeva che sarebbe morto pochi istanti dopo, ma non gli importava; perché sapeva anche che stava per portare a termine la sua missione, e questa era l'unica cosa di valore.
Jin si mise in mezzo un attimo prima che l'uomo affondasse il kunai nel petto di Haruka, afferrandogli il polso con la mano avvolta dall'elettricità. Quello mandò un grido e fu respinto indietro, circondato dagli insetti che vibravano terrorizzati.
«Kotaro! Maestro Gai! Rock Lee!» chiamò Jin, la voce resa roca dal fumo dell'incendio che iniziava a diffondersi.
I tre si affrettarono a raggiungerli, fortunatamente vicini, e quando videro Haruka capirono subito che tutti i nemici si sarebbero concentrati su di loro.
«Sarebbe carino se qualcuno spegnesse il fuoco» tossicchiò Kotaro.
«Figliolo, quello con il chakra di tipo acqua sei tu» gli ricordò Rock Lee.
«Ma quale chakra! Se ruotiamo abbastanza velocemente possiamo...»
Un nemico si avventò su Gai prima che finisse di parlare. Il maestro diede un saggio di cosa intendeva con se ruotiamo abbastanza velocemente, e quello fu scagliato contro tre suoi compagni, atterrandoli come birilli.
«Signorina, nonostante io disapprovi i suoi gusti in fatto di uomini, sono al suo servizio» aggiunse alla fine, strizzando un occhio in direzione di Haruka. «Faremo in modo di riportarla a Konoha in un pezzo unico.»
«Maestro!»
L'enorme mano dell'Akimichi della Radice cercò di abbattersi su di loro, ma Gai e Rock Lee la bloccarono prima che potesse schiacciarli. Kotaro si attivò subito per allontanare i primi avversari che avanzavano, e Jin compose i sigilli per il Raikiri, brandendolo con aria minacciosa.
Haruka ruotò su se stessa, esaminando la situazione: nemici ovunque, il fumo che riduceva la visibilità e riempiva i polmoni, il fuoco che rischiava di diventare incontrollabile, Naruto che non interveniva... Le probabilità che tutti tornassero a casa in buona salute le sembravano sempre più basse.
Guardò Jin, così piccolo, che affrontava i nemici nonostante la spossatezza. Lo guardò, e deprecò il mondo dei ninja, il mondo che aveva rovinato lei, lui e qualunque cosa avesse iniziato con Kakashi. Pensò anche a Kakashi, sperando che fosse al sicuro... Perché piuttosto che vedere Jin in pericolo si sarebbe sacrificata, lo sapeva, e sperava che almeno Kakashi sarebbe rimasto per aiutarlo a crescere – anche se l'idea di non esserci, ancora, le faceva dolere fisicamente il petto.
Proprio allora, mentre lo pensava, sentì qualcosa stringerle una caviglia. Abbassò lo sguardo, vide un velo di insetti che le avvolgevano il piede. Lo rialzò, ma Jin era di spalle e gli altri shinobi erano impegnati. Fece un salto indietro, però gli insetti non si staccarono; anzi, da una fessura nel terreno ne emerse una nube intera, e nella nube le mani dello shinobi che li governava.
Haruka cercò di allontanare gli insetti, ma era come smuovere acqua. Le mani dell'Aburame si serrarono attorno alle sue braccia, tirandola verso di sé, e con orrore si accorse che già le prime bestioline correvano sulla sua pelle, risalendo verso le spalle e il collo.
Qualcosa la strattonò indietro bruscamente, buttandola a terra.
Mentre cadeva, Haruka vide Kakashi voltarsi per affrontare l'Aburame, lo sharingan scarlatto che brillava nell'occhio di Obito. Vide metà del suo viso, e lo riconobbe, era esattamente il viso che aveva lasciato, che aveva amato...
Poi lo sciame di insetti lo avvolse nella sua ombra, inghiottendolo completamente.
«Kakashi!» gridò, rialzandosi nonostante le proteste dei muscoli doloranti.
Jin si voltò, Kotaro si voltò, Gai e Rock Lee si voltarono.
Contemporaneamente un'enorme bolla d'acqua esplose sopra le loro teste, estinguendo l'incendio e riportando il buio sulla foresta. Decine di sfere luminose si accesero tutt'intorno, illuminando schiere di rospi giganti cavalcati dagli Anbu, e gli uomini mascherati, invasi da nugoli di avversari dalla fama terribile, abbassarono le armi tutti insieme.
«Da questo momento siete sotto la custodia del Settimo Hokage di Konoha!» annunciò qualcuno con voce stentorea. «Lasciate cadere ogni arma, ogni pergamena, ogni...»
Jin raggiunse Kakashi, guardando con orrore il brulichio degli insetti che lo ricoprivano. Afferrò per il bavero l'Aburame dalla maschera spezzata, che lo fissava sorridendo con le mani alzate in segno di resa.
«Liberalo!»
«Ormai non...»
Ma non finì la frase; Haruka lo strappò dalle mani di Jin, lo sbatté a terra e gli levò i resti della maschera con un calcio, piantando la punta del kunai nella sua guancia.
«Liberalo subito.»
Un velo di inquietudine passò sul viso dello shinobi. Gli occhi di Haruka erano fissi nei suoi, le palpebre spalancate, immobili, le pupille dilatate per l'adrenalina.
«Jin, trova un medico» ordinò, e il ragazzino, impietrito, si riscosse per andare a cercare Baka.
Haruka affondò la lama di un centimetro, perforando la parete della guancia dell'uomo. «Se non lo liberi subito ti apro da orecchio a orecchio, e ti riempio la bocca di sale. Subito.»
L'Aburame, recuperate dalla memoria le informazioni che aveva su Haruka, impallidì ulteriormente; fare la spia rendeva le persone pericolose. Esitò ancora un istante, poi fece un cenno con la mano e gli insetti si ritirarono.
Haruka estrasse il kunai, lasciando una striscia di gocce scarlatte lungo il collo dell'uomo. Subito si voltò verso Kakashi, ma ciò che trovò al posto degli insetti fu un bozzolo violaceo, piuttosto viscido, dalla forma umana.
L'uomo della Radice fece una smorfia che voleva essere un sorriso, nonostante il dolore, e la guardò scuotendo la testa. «Non c'è molto che possiate fare per questa tecnica, in mezzo alla foresta. Nel giro di mezzora il veleno lo avrà ucciso.»
«Neanche per sogno! E il tuo nome verrà cancellato dalle cronache degli Aburame» ringhiò Naruto, comparendo dalla calca al seguito di Jin e Akeru. Tra le braccia stringeva Chiharu, ancora esanime. «Baka, buoi fare qualcosa?»
«Chiharu!» esclamò Kotaro, ma Naruto gli fece un cenno e lo ridusse al silenzio.
Akeru si inginocchiò accanto al bozzolo e lo percorse con una mano foderata di chakra. Sentiva un veleno potente, questo sì, e il cuore di Kakashi che batteva come impazzito. Passò due dita lungo l'ovale del viso, incidendo il bozzolo con attenzione; rimosse la parte che rivestiva il volto e impediva a Kakashi di respirare. Il viso dello shinobi era cereo, sudato. Akeru abbassò la maschera che gli copriva naso e bocca, gesto che i presenti ebbero la discrezione di non guardare.
«Ha bisogno di essere trasportato in ospedale, e in fretta. Non so se facciamo in tempo» mormorò.
«Posso pensarci io, ma devi venire con noi. E non sarà piacevole» disse Naruto.
«In che senso?»
«Nel senso che stai per sperimentare il peggio dell'essere Jinchuriki.»
«In che senso?»
Naruto sbuffò. «Non posso usare il mio chakra, posso usare solo quello della Volpe. Ma io non so spiegare ai medici quello che è successo, quindi devi venire con me.»
«Chakra? Eh?»
«Se lo fai ti darò una mano per il contratto disgraziato che hai firmato con Gaara. Basta che tu ti muova!»
Akeru gemette.
«Vuoi dislocarti con il chakra della Volpe?» intervenne Gai, dando una spiegazione a tutti.
«Non mi vengono in mente altre idee per arrivare in ospedale in tempo.»
Gai strinse le labbra e fissò Chiharu e Kakashi. Fargli sperimentare il chakra della Volpe in quelle condizioni non gli sembrava un'idea brillante, ma di solito Naruto sapeva quel che faceva... Più o meno. Non come Baka, che invece ormai era legalmente spacciato. Si scusò mentalmente per non aver mantenuto la promessa fatta a Chiharu.
«Ok... Ok, forse posso fare qualcosa...» mormorò Akeru, pallido come un cencio. L'immagine del nemico ucciso dal chakra di Kyuubi continuava a oscillargli davanti agli occhi.
Tirò su il bozzolo in cui era avvolto Kakashi, appoggiandolo contro Naruto. Con uno sforzo quasi sovrumano costrinse il proprio chakra ad avvolgersi attorno al proprio corpo, a quello di Chiharu e a quello di Kakashi. Non era uno strato uniforme e forte come quello di Naruto, ma le lamelle di vento che li accarezzavano erano taglienti solo di tanto in tanto.
«Cercherò di fare in fretta» disse Naruto, suo malgrado preoccupato. «Squadre Anbu! Da questo momento rispondete agli ordini di Gai Maito. Tornate a Konoha con i prigionieri.»
Alzando lo sguardo incrociò gli occhi di Jin, Haruka e Kotaro, tutti ugualmente angosciati. Si sforzò di sorridere, anche se non era del tutto fiducioso. Loro non ricambiarono. Jin in particolare si comportava stoicamente, ma le sue mani tremavano.
Allora Naruto lasciò perdere; fece un respiro profondo, chiuse gli occhi, e un attimo dopo lui e i suoi passeggeri non c'erano più.

Ricomparvero nel mezzo dell'accettazione dell'ospedale di Konoha, causando un gran trambusto. In un angolo poco visibile di una piastrella era disegnata una formula confusa.
In teoria a quell'ora l'ospedale sarebbe dovuto essere vuoto,; tuttavia Sakura aveva allertato tutto il personale in vista del rientro delle squadre Anbu in missione, così Naruto piombò nel mezzo di un gruppetto di infermieri che si stavano dividendo i reparti, e buona parte di loro cacciò un grido, gettandosi sotto i mobili.
«Chiamate Sakura Haruno!» esclamò appena i suoi piedi si furono posati. «E ho bisogno di due medici, subito!»
Baka lanciò un'imprecazione, crollando a terra mentre il suo chakra si spegneva un attimo dopo quello della Volpe. Nonostante i tentativi di proteggere sé e gli altri, le parti del suo corpo non coperte dagli abiti erano arrossate, ulcerate in alcuni punti. Si era concentrato più su Chiharu e Kakashi che su se stesso, ma in quel momento un po' lo rimpiangeva.
«Ti odio, ti odio tantissimo» ringhiò, rivolto a Naruto: le ferite sulla sua pelle si erano già quasi completamente rimarginate.
«Sei stato bravo» rispose lui, ignorando le lamentele. Depose a terra Kakashi e Chiharu, poi alzò la testa per parlare con i medici in arrivo.
Akeru si stese supino, sentendo il fresco del pavimento che gli dava un po' di sollievo. Per un istante pensò alla Volpe, a quanto doveva essere faticoso e doloroso avere a che fare con un mostro simile; pensò a Naruto, che la portava dentro di sé da quando era bambino, e alla potenza straordinaria che aveva avvertito durante la tecnica di poco prima. Rabbrividì, sentendosi debole come non mai.
Il volto di Sakura comparve nel suo campo visivo, riscuotendolo all'improvviso.
«Akeru! Devi dirmi cosa è successo.»
«Il Sesto Hokage, veleno» ansimò lui, rotolando su un fianco e poi in ginocchio. Gli girava la testa. «Sono stati gli Aburame, dovrebbero avere anche un antidoto. Chiharu, idiozia. Collasso cardiaco. La circolazione del chakra è aritmica. Il flusso è agitato. Ho tamponato in qualche modo, ma servono i farmaci.»
Sakura si rivolse agli infermieri e ai medici presenti, mandandoli a eseguire i suoi ordini; poi tornò a guardare Baka. «Questo è il chakra di Kyuubi...» mormorò studiando le sue ustioni.
«Sono nei guai?» chiese lui con un filo d'ansia. L'acido della Volpe aveva conseguenze a lungo termine? Era radioattivo?
«Per questo no» rispose Sakura, fissandolo. «Ma per tutto il resto sì, sei in un mare di guai.»







* * *

Finalmente i mocciosi riuniti!
E' stata dura rimetterli tutti nello stesso luogo geografico,
ma ce l'abbiamo fatta.

E io ho praticamente finito i capitoli pronti.

Niente panico.
Anzi, un pochino sì.
Ma mi impegnerò per non lasciarvi senza aggiornamento,
croce sul cuore.

Nel frattempo avrete ormai capito
cosa intendo quando dico che Fugaku è insopportabile
ma anche tanto divertente.

Ah, e riguardo alla tecnica del quarto Hokage,
so che non funziona proprio così
(Narutopedia docet),
ma nel Peggior bla bla bla l'ho usata in questo modo
e continuerò a farlo.
Laddove modificare un dettaglio del manga non crea gap di trama
me lo terrò come più mi aggrada.
Tanto anche Kishimoto ne ha fatte di cazzate...

Ciò detto un saluto a tutti,
e ci rivediamo la prossima settimana!



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Capitolo 32
*** La Volpe e l'Eremita (prima parte) ***


Penne 32
27/04/2016

Capitolo trentaduesimo

La Volpe e l'Eremita
(prima parte)




«Yoshi si rifiuta di parlare, non sappiamo più cosa inventarci.»
Konohamaru era seduto di traverso su una sedia nello studio dell'Hokage, i gomiti appoggiati allo schienale e due vistose occhiaie sopra gli zigomi. Aveva l'aria di uno che non dormiva da giorni, e in effetti era più o meno così.
«Iida invece continua a sostenere di non aver mai avuto a che fare con il ragazzo» disse Sai, che occupava compostamente la sedia accanto, fresco e riposato. «Ha cantato come un uccellino per quanto riguarda la Radice, ma quando gli abbiamo mostrato una foto di Yoshi non ha avuto reazioni. Credo stia perdendo qualche rotella, tra l'altro: continua a parlare dell'attacco di Kyuubi di quarant'anni fa.»
«Quindi non riusciamo a trovare collegamenti tra i due?» gemette Naruto, disegnando una spirale su un importante documento segreto.
«No» sospirò Konohamaru. «Sto quasi pensando di far rimettere al lavoro Morino...»
«Per carità! Sai quanto ci vuole a compilare i fogli per la morte dei prigionieri?»
«Ti ho portato il rapporto sulla Radice» Sai posò sulla scrivania un raccoglitore che a occhio e croce pesava dieci chili, zeppo di fogli, fotografie e appunti. «Nella prima pagina c'è un riassunto.»
Naruto impallidì. «E meno male... Ti ricordo che in questo momento lavoro da solo.»
«Sono le prove generali per quando sarai ufficialmente il Settimo Hokage» ridacchio Konohamaru, tirandosi su e stirando i muscoli indolenziti, pronto a congedarsi.
«In questo momento una decina di assistenti mi farebbero molto comodo. Voi due non...?»
«Io devo tornare agli interrogatori di Saibatsu e degli altri nobili» disse Sai al volo.
«Io sto per addormentarmi qui» disse Konohamaru.
«E poi adesso sei ufficialmente il grande stratega che ha sgominato la nuova Radice grazie all'infiltrato Kakashi... Puoi fare questo e altro» sorrise Sai, ripetendogli quello che tutti gli ripetevano da quando avevano catturato Iida.
«Va bene, va bene... Smettetela di farmi perdere tempo» Naruto li scacciò con un cenno infastidito. «Mentre uscite dite a Koichi di trovarmi almeno Jiraya!»


Era trascorso qualche giorno dal ritorno di Kakashi a Konoha; maggio si stava avviando a diventare giugno, l'aria era profumata di miele e il villaggio intero tratteneva il respiro, in attesa.
Nello scontro avvenuto ai confini del Paese erano rimasti feriti in maniera grave soltanto Chiharu e Kakashi, il che poteva già considerarsi un piccolo miracolo; gli uomini della Radice si erano arresi non appena erano stati circondati dagli Anbu, e questo aveva evitato di accrescere il numero dei feriti.
Grazie a quella missione e alla retata di Sasuke ora alla Foglia si ritrovavano con le prigioni piene, il che si traduceva in un mucchio di lavoro in più per shinobi, forze dell'ordine e personale amministrativo, ma soprattutto per Naruto: a causa del ricovero di tutti i membri del gruppo sette, infatti, l'intero staff degli assistenti dell'Hokage si era reso irreperibile.
Kotaro era quello che se la passava meglio: lo avevano esaminato da cima a fondo per verificare che l'apertura forzata delle porte del chakra non lo avesse reso precocemente anziano, avevano decretato che poteva cavarsela e poi lo avevano incatenato a un letto perché finalmente permettesse ai normali processi di guarigione di agire. Tenten gli aveva fatto una predica leggendaria, che probabilmente aveva fatto più danni di qualunque nemico, e poi gli aveva formalmente proibito di riprendere gli allenamenti fino alla completa guarigione – punizione orribile per qualunque Lee.
Almeno lui era cosciente. Chiharu e Hitoshi, invece non lo erano.
A dire il vero Chiharu aveva ripreso conoscenza per un momento, mentre un medico le faceva i prelievi per gli esami: aveva cercato di attaccarlo, era stata rimessa giù a forza, e quando aveva capito di trovarsi in ospedale aveva detto che se qualcuno di loro avesse avvisato i suoi genitori lo avrebbe ammazzato. Considerati i parametri completamente sballati non l'avevano presa sul serio, finché non aveva aggiunto 'o trascinato in tribunale'. I medici sono molto sensibili alle questioni legali... Per evitare ulteriori aggressioni l'avevano sedata mentre completavano le analisi, e avevano disposto il massimo riserbo sulle sue condizioni in attesa di ordini dall'alto.
Hitoshi invece non aveva riaperto gli occhi da quando era precipitato da un albero con la faccia sporca di sangue. Sasuke lo aveva fatto trasportare in ospedale d'urgenza, ma Sakura in quel momento era impegnata con Kakashi e lo avevano affidato alle cure di un altro medico. Quando lei era riuscita a liberarsi e vederlo, non aveva potuto fare molto più di quello che aveva fatto il collega, confermando il coma. Le cause erano ignote.
Da allora non si era mai staccata dal suo capezzale; aveva letto e riletto le analisi almeno ottocento volte, lo aveva visitato, esaminato, vegliato; Sasuke le dava il cambio quando usciva dal dipartimento, così da permetterle di tornare a casa dagli altri figli, ma si incrociavano solo per pochi minuti ogni giorno e si parlavano appena.
Sasuke si sentiva responsabile per quello che era successo: non avrebbe dovuto permettere a Hitoshi di partecipare a una missione così impegnativa finché aveva quelle emicranie; era stato imprudente, aveva messo l'orgoglio degli Uchiha davanti alla salute di suo figlio. Il senso di colpa lo rendeva schivo e taciturno, il che non migliorava i suoi rapporti con Sakura.
A tutto questo, che già dava non pochi pensieri a Naruto, si aggiungeva la vera ragione per cui il villaggio tratteneva il respiro: anche Kakashi era ricoverato.
Il veleno iniettato dall'Aburame della Radice era un signor veleno, e nonostante avessero recuperato l'antidoto in tempo Kakashi non si era svegliato, né aveva reagito a uno qualunque dei farmaci che gli avevano dato. I medici non sapevano prevedere cosa sarebbe successo né darne una spiegazione.
Jin, da solo, passava quasi tutto il giorno a vegliarlo.

La luce del pomeriggio veniva schermata dalle tende spesse, disegnando un quadrato netto ai piedi del letto. La camera, singola, era quella riservata alle celebrità, quindi includeva una poltrona, uno specchio e un attaccapanni inaspettatamente grazioso.
Jin teneva una gamba sul bracciolo della poltrona, facendola ondeggiare di tanto in tanto, e un libro sui veleni tra le mani.
Sorvegliando il sonno di suo padre aveva visto passare alti dignitari del Paese del Fuoco, shinobi, Anbu, gente di tutti i tipi che entrava, confabulava e infine si congedava con tante condoglianze. Aveva capito che la maggior parte dei visitatori dava suo padre per spacciato, e che la loro preoccupazione principale era chi lo avrebbe sostituito, ma aveva avuto la saggezza di non dire niente di ciò che pensava né di soffermarcisi troppo a lungo.
Gli piacevano molto di più le visite di Natsumi, anche se erano per forza brevi: come tutti gli shinobi disponibili era stata messa al lavoro negli interrogatori sulla Radice, ma quando poteva venire a trovare Jin portava vestiti, snack e informazioni.
Proprio in quel momento Natsumi bussò ed entrò con un cambio di biancheria che aveva preso da casa Hatake, di cui in quei giorni aveva le chiavi.
«Ciao. Hai già finito l'altra lettura?» disse con un'occhiata al volume tra le mani di Jin, sistemando la borsa con i vestiti in un angolo. L'altra lettura a cui si riferiva era il fascicolo di Haruka, che Jin era riuscito a far sparire prima che qualcuno si chiedesse che fine aveva fatto.
«Sì. L'ho rimessa nell'Archivio, non dovrebbero accorgersene per un po'... Nel caso volessi dare un'occhiata.»
Natsumi sorrise un po' tristemente. Aveva un'idea di almeno metà del contenuto di quel fascicolo, ed era certa che non fosse la lettura ideale per un figlio che non conosceva sua madre. Ma Jin non era un ragazzino comune: lo scrutò a fondo, senza riuscire a intuire cosa ne pensasse. Allora spostò lo sguardo su Kakashi e il sorriso scemò.
I capelli grigi del Jonin erano sparsi sul cuscino con il solito disordine. Non indossava la maschera, ma le coperte erano state tirate fin sopra il naso. Aveva lo stesso colore delle lenzuola.
«Nessuna novità?» chiese Natsumi.
«Non si è mosso. Sai qualcosa di mamma?»
Le labbra di Natsumi si serrarono leggermente.
Haruka era stata arrestata dagli Anbu non appena Naruto era sparito con Kakashi, Chiharu e Baka. Anche se la Radice aveva manifestamente provato ad ucciderla, dopo tutti quegli anni al servizio di Iida non potevano semplicemente farla rientrare a Konoha con una stretta di mano: sarebbe stata interrogata, messa alla prova e giudicata.
Purtroppo in quel momento gli organi di giudizio avevano talmente tanto da fare che il procedimento sarebbe inevitabilmente andato per le lunghe.
«E' tutto fermo» disse Natsumi, sistemando un angolo delle coperte del letto. «Stiamo lavorando come degli schiavi, credimi. Non potremmo andare più in fretta.»
«Lo so» rispose Jin.
Natsumi evitò di incrociare il suo sguardo, mentre ripensava al suo incontro con Haruka...

Anche lei era stata messa in allerta come gli altri non appena era iniziata la missione di salvataggio di Kakashi. L'avevano assegnata agli shinobi che coordinavano le operazioni di rientro. Come tutti, sapeva che Kakashi non tornava da solo.
Quando diedero la notizia della comparsa degli Anbu a dorso di rospo Natsumi fece in modo di essere tra i primi ad accoglierli. Appostata appena dietro al cancello vide passare decine di uomini, alcuni mascherati e altri no. Cercò tra i passanti la chioma rossa di sua sorella, ma senza successo. All'inizio pensò che fosse colpa delle luci artificiali e delle ombre della notte, poi vide del trambusto tra le prime file. Le raggiunse nel momento in cui consegnavano Haruka ai capitani Anbu, e Jin cercava di opporsi.
«Fermalo o lo arrestiamo!» sbottò Konohamaru vedendola comparire. Jin stava iniziando ad alzare le mani.
Natsumi afferrò il ragazzino per le spalle e lo tirò indietro, bloccandogli le braccia. «Stai tranquillo. Ci penso io.»
Allora, dietro Konohamaru, incrociò gli occhi di sua sorella, sotto una massa di capelli castani che la rendevano quasi irriconoscibile. Era invecchiata dal loro ultimo incontro, ma gli occhi erano sempre i suoi, ed erano anche quelli di Jin.
«Non devono arrestarla!» ringhiò Jin cercando di divincolarsi. «E' grazie a lei che hanno saputo della Radice!»
«Lo so, calmati. Stai fermo. Lascia fare a me.»
Jin smise di agitarsi, ma rimase teso; Natsumi capì che nulla lo avrebbe allontanato da Haruka adesso che era tornata. Si chiese dove fosse Kakashi.
«Spediscilo da suo padre» suggerì Konohamaru, provvidenziale. «E' in ospedale.»
«Cosa gli è successo?»
«Veleno.»
Natsumi sentì un brivido correre lungo la schiena. Era combattuta tra il desiderio di sapere come stava Kakashi e quello di parlare con la sorella che non vedeva da quasi vent'anni, ma prima di tutto doveva occuparsi di Jin.
«Ti accompagno in ospedale» disse al ragazzino, che fece per protestare. «Prima ti togli dai piedi e prima posso fare qualcosa» gli sussurrò in un orecchio. «Li stai irritando.»
Jin mollò la presa, fissandola torvo. Per fortuna aveva grandi dosi di buonsenso e capì che il consiglio di Natsumi era buono. «Vado in ospedale da solo» annunciò, liberandosi con uno strattone. «Tu occupati di mamma.»
Natsumi lo lasciò andare, con gran sollievo di Konohamaru. Jin lanciò a Haruka un'ultima struggente occhiata, lo sguardo di qualcuno che preferirebbe farsi tagliare un braccio piuttosto che andarsene, e fu ricambiato, anche se Haruka stava automaticamente entrando nella parte della spia. Poi si allontanò con le spalle curve e i pugni serrati, come un adulto con troppo peso sulle spalle. Guardandolo, Natsumi provò un'ondata di affetto nei suoi confronti; nonostante l'occhiata di amore di Jin fosse per un'altra persona, sarebbe stata lei a sostenerlo nei giorni a venire. Voleva essere lei.
«Posso seguirvi?» chiese a Konohamaru.
Lui esitò, sapendo che lei e Haruka erano sorelle e che probabilmente una sorella non avrebbe apprezzato la parte successiva all'arresto, ma alla fine cedette. Conosceva Natsumi, erano amici: non le avrebbe fatto un torto del genere.
Così Natsumi affiancò gli altri Anbu e li seguì fino al dipartimento di polizia, dove Haruka sarebbe stata lasciata in attesa che Sasuke le trovasse una collocazione. Mentre camminavano attraverso Konoha le due sorelle si studiarono: vent'anni lasciano segni profondi sul viso di una persona, soprattutto di una che si conosceva bene. I rispettivi tratti adesso erano quasi sconosciuti, ma gli occhi di entrambe erano rimasti identici. Non si vedevano da quando Haruka era fuggita dalla Roccia insieme a Kakashi, lasciando Natsumi a gestire da sola lo spionaggio di famiglia. All'epoca aveva diciotto anni. Adesso ne aveva trentasei.
«Sei tornata» disse Haruka, sorridendo incerta.
«Anche tu» rispose Natsumi, senza ricambiare.
«Come stai?»
«Meglio di te» questa volta fu Natsumi a sorridere.
«Sono felice di vederti.»
«Anche io.»
Quando arrivarono al dipartimento Konohamaru si allontanò per parlare con Sasuke. Natsumi rimase con Haruka e altri due Anbu.
«Cosa è successo a Kakashi?» chiese subito Natsumi.
«Mi stavano attaccando, e lui si è messo in mezzo. Era un Aburame, dicevano che i suoi insetti sono velenosi...»
«Sì, lo sono.»
Haruka tacque e la fissò. Natsumi si rese conto che la sua ultima risposta suonava un po' tagliente, quasi come se la stesse accusando di qualcosa. Si passò una mano sul viso.
«Mi dispiace» disse Haruka.
«Lo so. Lo so, è solo... Siamo tutti molto nervosi. Erano anni che non si presentava una crisi del genere.»
«Sono tornata per restare.»
Natsumi tornò a fissarla, e una parte di lei si sentì minacciata dalle sue parole. Negli ultimi cinque anni aveva fatto quasi da madre a Jin, era stata tra le persone più vicine a Kakashi... Ora, con il rientro di Haruka, avrebbe perso qualunque privilegio.
«Bene» riuscì a rispondere in qualche modo. «Vedrai, sistemeranno tutto... E appena Kakashi si sarà ripreso nessuno avrà più niente da dire contro di te.»
A quelle parole Haruka sorrise, forse in maniera un po' strana, quasi come se non ci credesse davvero; poi arrivò Sasuke e la fece portare via.

Peccato che Kakashi non si fosse svegliato.
Una volta stabilita la sua collocazione Haruka era rimasta in carcere. Poco dopo erano cominciati gli interrogatori, ma andavano molto a rilento. Natsumi aveva continuato a fare da madre e da compagna, almeno per un po'. Sapeva che era una condizione destinata a interrompersi, sapeva che Jin fremeva dalla voglia di conoscere Haruka e che Kakashi avrebbe avuto occhi solo per lei, una volta sveglio... Sapeva tutto quanto, ma non riusciva a non aggrapparsi a quelle cose, finché erano solo sue.
«Volevo tornare a casa con tutti e due» mormorò Jin, riscuotendo Natsumi dai suoi pensieri. «Avevo promesso a mia madre che ci sarei riuscito... Invece guarda che disastro.»
«Tecnicamente sono a casa» tentò di sdrammatizzare lei, accennando un sorriso che scomparve in fretta. C'era troppo peso nelle parole di Jin, troppo senso di colpa. «Non potevi fare più di quello che hai fatto.»
Il ragazzino rimase pensieroso, distante. «Sai... Mio padre e mia madre hanno litigato tantissimo durante il viaggio» disse di punto in bianco. «Lei gli aveva fatto credere di essere morta.»
«Non ne sapevo nulla... Tuo padre ha sempre detto che era in missione nel Paese delle Risaie» rispose Natsumi cautamente. Si vergognava per il saltello speranzoso che aveva appena fatto il suo cuore, ma non poteva farlo trapelare.
«E invece era in missione per conto della Radice, nel Paese della Roccia» proseguì Jin, senza accorgersi di nulla. «Papà era furioso... Ma non era colpa della mamma; e io capisco perché si sia arrabbiato, davvero, ma non era colpa della mamma. Dodici anni fa l'hanno contattata...»
Jin iniziò a raccontare, senza chiedere il permesso, senza introduzione. Iniziò a parlare perché sentiva qualcosa che premeva in gola, e aveva bisogno di alleviare la tensione raccontando tutto quello che era successo.
Natsumi aveva degli impegni di lì a poco, ma guardando gli occhi sfuggenti del ragazzino decise che li avrebbe posticipati. Si sedette in fondo al letto di Kakashi, appoggiò i gomiti alle ginocchia e lasciò che Jin tirasse fuori tutto quello che aveva dentro. Rimase lì, con le mani strette l'una all'altra, tra padre e figlio. Quasi sua madre, ancora per un po'.


«Dove sei stato tutto questo tempo?» si lamentò Naruto non appena Jiraya ebbe messo piede nello studio dell'Hokage. «Io sto morendo sotto la montagna di cose che ci sono da fare e tu scompari?»
«Sento la tua voce ma non ti trovo tra le pile di carte... Batti la fiacca?» replicò il sennin, fingendo di non vederlo. Spostò gli incartamenti che occupavano la sedia degli ospiti e ci si accomodò, grattando la zona intorno al taglio sul viso. Aveva un vistoso cerotto bianco che gli copriva quasi mezza faccia, ma in ospedale avevano detto che era una ferita superficiale.
«Aha. Quanto sei divertente. Ascolta, ho bisogno di una mano per la storia della Radice...» iniziò Naruto.
«Hai bisogno di una mano per molto più di quello» borbottò Jiraya adocchiando il disordine imperante.
«Non me ne parlare: ho tutti gli assistenti fuori gioco e un miliardo di cose da fare!»
«Come Tsunade ai tempi della prima Radice... E' sempre la stessa storia. Non hai fatto richiamare Shikamaru da Suna?»
«Non posso! Sakura me lo ha proibito. E' stata l'unica cosa che mi ha detto prima di dedicarsi completamente a Hitoshi.»
«E perché?»
«Ma che ne so!» Naruto scostò bruscamente il braccio, in cerca di una penna, e un'intera pila di carte franò al suolo. «Porca... Quando ci vanno di mezzo i suoi figli va fuori di testa.»
«Strano che non sia andato fuori di testa pure tu» borbottò Jiraya, notando che Naruto non sembrava avere intenzione di raccogliere i documenti caduti. «Ma è preoccupante che Sakura non abbia fatto tornare Shikamaru. Gli ha detto di Chiharu, vero?»
Naruto si lasciò cadere contro lo schienale della sedia. «No. Segreto professionale. Non dirmi niente, lo so. Ci ho litigato. Ma Sakura dice che se chiamiamo Shikamaru, Chiharu non si fiderà mai più di noi, e che essendo maggiorenne ha dei diritti, e bla bla bla.»
«Quindi le parlerai tu quando si sveglia?»
Naruto nascose gli occhi dietro un documento. «Sì, le parlerò» mormorò vago.
Ma non di quel che si aspettava Jiraya, probabilmente.
«E Stupido?» chiese il vecchio.
«Peggio ancora. Quella faccenda del contratto mi farà diventare scemo. Ho una stanza piena di avvocati che studiano come tenerlo fuori dalle carceri di Suna, ma mi sta venendo voglia di gettarlo in pasto a Gaara e fregarmene. Si può essere così imbecilli? Non aveva nemmeno guardato la cartella clinica di Chiharu, che fa impressione persino a me che non ne capisco niente!»
«Però. Il vecchio adagio ha sempre ragione: tira più un pelo di...»
«...Che un carro di buoi. Lo so! Ma perché tutti i casini devono farli quando il responsabile sono io?» gemette Naruto, grattandosi nervosamente il collo nel punto in cui era stato il marchio nero di Kin. Quando era tornato dalla missione glielo avevano rimosso per mandarlo a studiare, ma gli era rimasta una snervante irritazione.
«Senti, starei a parlare dei giorni, ma non ho tempo: ho bisogno di aiuto con la Radice...»
«Non posso.»
«Ancora? Davvero...»
«C'è una cosa più importante di cui occuparsi, prima.»
Naruto smise di grattarsi e fissò Jiraya a bocca spalancata. «Cosa?»
«Hitoshi Uchiha.»
Naruto lasciò cadere le braccia sui braccioli della sedia, esausto. «Un altro come Sakura. E da quando ti interessa Hitoshi?»
«Da quando vede cose che né lo sharingan né il byakugan vedono» rispose Jiraya, scrutando Naruto di sottecchi.
«Di che stai parlando?»
«Durante la missione della Radice ha usato tecniche che lo sharingan non conosce.»
«Aspetta, frena. L'altro giorno ha detto di aver visto qualcosa là dove igli Hyuuga non vedevano niente, ma pensavamo fosse merito dello sharingan...»
«Durante la missione Fugaku non vedeva niente, e ha uno sharingan perfettamente formato. Hitoshi invece ha visto i flussi del chakra dei nobili che tentavano la fuga, e ha fatto completamente scomparire i detriti che stavano per caderci addosso. Questa non è roba da sharingan.»
«E allora che diavolo è?»
Jiraya si protese verso di lui, con un brillio eccitato negli occhi. «Non ne ero sicuro, così sono andato a frugare nei vecchi incartamenti di Orochimaru, quelli dell'archivio segreto... Se dico rin'negan ti suona qualche campanello?»
«Per niente.»
«Lo immaginavo...» Jiraya sospirò, mettendosi più comodo sulla sedia. «Il Rin'negan è una tecnica oculare leggendaria posseduta dall'Eremita delle Sei Vie. Si dice che sia stata la prima delle tecniche oculari, e che da essa abbiano avuto origine sia il byakugan sia lo sharingan. Qualcuno sostiene che dall'Eremita discenda l'intera stirpe dei ninja.»
«L'intera stirpe dei ninja... E Hitoshi dovrebbe avere 'sta roba figa?» Naruto lo fissò scettico.
«Forse. Nemmeno Orochimaru aveva molte certezze riguardo al rin'negan... Ma gli occhi di Hitoshi non sono occhi da sharingan, e alcune delle cose che ha fatto sembrano compatibili con quel che dicono gli appunti di Orochimaru sul rin'negan. Sempre secondo lui, è possibile che un possessore di sharingan sviluppi il rin'negan, ma i meccanismi secondo cui questo dovrebbe accadere restano oscuri...»
«Fammi capire... Hitoshi avrebbe sviluppato questo popò di roba da solo?» Naruto sbatté le palpebre, incredulo. «E io che pensavo che il suo unico merito fosse quello di essere mio allievo!»
«Io pensavo che fosse quello di essere belloccio» Jiraya si strinse nelle spalle. «Comunque no, non credo che lo abbia sviluppato da solo. Credo che sia merito di Kyuubi.»
«Cosa c'entra Kyuubi? Mi sto perdendo...» Naruto mandò un gemito.
«Alcune leggende dicono che l'Eremita delle Sei Vie è colui che ha creato Kyuubi e tutti i Bijuu. Il suo rin'negan sarebbe legato al chakra della Volpe. Se usiamo questa affermazione come punto di partenza, è possibile ipotizzare che il continuo contatto di Hitoshi con te e Kyuubi abbia in qualche modo stimolato l'evoluzione dello sharingan in rin'negan.»
«Adesso mi sono proprio perso.»
Jiraya sbuffò. «Io credo che Hitoshi abbia sviluppato una specie di evoluzione dello sharingan, e che questa evoluzione sia legata in qualche modo a Kyuubi. Per questo lui l'ha sviluppata e, per esempio, Sasuke no: è questione di esposizione al chakra della Volpe. A furia di combattere accanto a te, nello sharingan di Hitoshi deve essere scattato qualcosa. Nessuno, nemmeno Sasuke ti è stato più vicino dei ragazzi del tuo gruppo, in combattimento. Forse l'unica è Sakura, ma non ha eredità genetiche. Almeno, questa è la mia teoria. Orochimaru non diceva niente al riguardo.»
«Ah. Peccato che Hitoshi non possa sentire tutte queste belle novità» disse Naruto, non del tutto convinto ma tutto sommato fiducioso. «Finché non si sveglia può anche essere Buddha...»
«Appunto.»
«Appunto cosa?»
«Finché non si sveglia.»
«Eh?»
«Naruto...» Jiraya si protese nuovamente sopra la scrivania. «Se il chakra della Volpe ha risvegliato il rin'negan, forse il chakra della Volpe può svegliare anche il suo possessore.»
La mandibola di Naruto scese di diversi centimetri, dandogli un'espressione particolarmente sciocca.
«Non sto dicendo che ne sono sicuro. Sto dicendo che possiamo provare» borbottò Jiraya scrollando le spalle.
Naruto richiuse la bocca. Di colpo batté il pugno sulla scrivania, facendo sobbalzare le pile di documenti. «Vecchio, sei un genio!»


La stanza in cui era ricoverato Hitoshi non era lussuosa come quella di Kakashi, ma poco ci mancava. Sakura aveva fatto in modo che il figlio avesse la camera migliore subito dopo la suite, come era stato vent'anni prima per Sasuke. La situazione, sotto molti aspetti, era analoga a quella di allora... Ma essere madre, adesso, rendeva tutto infinitamente peggiore.
Anche essere quello in salute rendeva le cose peggiori, rifletté Sasuke, seduto sul divanetto accanto alla porta con un faldone di documenti da leggere. Non ricordava troppo bene il periodo in cui era stato ricoverato dopo il suo ritorno a Konoha, ma credeva difficile che fosse peggiore di quello attuale.
Mise giù l'ennesimo resoconto degli interrogatori agli uomini della Radice – tutti ugualmente irrilevanti – e prese un altro fascicolo, con poche speranze.
Era nei momenti in cui il lavoro lo opprimeva in quel modo che rimpiangeva la presenza del suo vecchio mentore, Taira. Lui e Reiki gli avevano insegnato il mestiere, ma probabilmente si erano portati in pensione un paio di trucchi, lasciando la sua squadra personale disperatamente a corto di esperienza. Sasuke era stato tentato di richiamarli in servizio per avere una mano... poi una conversazione avuta con Ryuichiro gli aveva fatto cambiare idea.

Si erano incontrati mentre Sasuke usciva per andare in commissariato, dopo aver dormito qualche ora di ritorno dall'ospedale. Ovviamente la madre di Ryuichiro aveva bisogno di altri soldi, e ovviamente lui glieli avrebbe passati senza fiatare. Indennità di vedovanza, la definiva tra sé.
In quel periodo lo stress lo aveva reso irrequieto. Senza rendersene conto aveva iniziato a passare molto più tempo a tormentare il segno maledetto sul suo collo, e forse era stato per quello che lo sguardo di Ryuichiro era caduto proprio lì.
«E' un tatuaggio curioso» aveva commentato educatamente.
«Non è un tatuaggio.»
Sasuke non sapeva perché non aveva semplicemente evitato l'argomento. Ryuichiro lo aveva fissato con aria interrogativa, perché lui non era uno shinobi, non conosceva il marchio maledetto, non sapeva di Orochimaru e di tutta la sua storia passata... Ryuichiro non lo conosceva affatto, parlando in termini generali, e nemmeno Sasuke conosceva Ryuichiro.
Forse era stato quello a farlo sentire diverso: tutti a Konoha sapevano chi era Sasuke Uchiha, tutti guardandolo vedevano il traditore dietro al poliziotto, al marito, all'onesto cittadino. Ma non Ryuichiro.
«In realtà è una maledizione» aveva ripreso Sasuke, nonostante non fosse sua intenzione. «Un marchio che risale a tanti anni fa, e che per un certo periodo ha cercato di divorarmi. Adesso è sotto controllo, ma deve essere sempre monitorato.»
«Non sembra in gran forma» aveva detto Ryuichiro, osservandolo con la testa inclinata. Poi aveva sussultato come se avesse detto qualcosa di offensivo. «Mi dispiace.»
«Lo so» aveva risposto rigidamente Sasuke. «Lo farò esaminare da Sakura, quando Hitoshi starà bene.»
«Ho saputo del ragazzo...»
«Scusa, ma sono in ritardo per il lavoro.»
«Certo. Mi perdoni, sono stato inopportuno.»
Ryuichiro si era fatto da parte con un inchino frettoloso, e Sasuke si era sentito come se fosse stato lui quello che veniva congedato.
«Non sei stato inopportuno... Grazie per la tua preoccupazione» aveva borbottato a disagio.
«Prego, anche se non merito ringraziamenti» Ryuichiro aveva rialzato la testa. «Dopotutto, così come ha controllato quel marchio riuscirà a controllare ogni cosa. E' nel sangue degli Uchiha.»

Sasuke non pensava che Ryuichiro fosse attaccato al nome che dopotutto non portava nemmeno, ma a quanto pareva era così. E, come sempre, anche quella volta aveva toccato i tasti giusti.
Quel ragazzo riusciva a influenzarlo al punto da renderlo inquieto. Non era solo la somiglianza con Itachi, né i suoi sensi di colpa per non essere riuscito a portare a termine la vendetta per la sua famiglia... Era qualcosa di più: la sensazione di essere piccoli e inermi; come il brivido che si avverte durante le eclissi di sole. In fondo, la stessa sensazione che aveva trasmesso Itachi tanti anni prima.
Eppure Ryuichiro lo spingeva sempre verso la luce. Itachi lo aveva attratto verso le tenebre di Akatsuki e della vendetta, ma Ryuichiro lo aveva indirizzato più volte verso il sole. Era strano, inspiegabile. Soltanto Naruto e Sakura, prima, erano riusciti a fare una cosa del genere.
Sasuke accarezzò distrattamente il marchio sul suo collo. Era tiepido al tatto. Anzi, caldo.
Il sangue degli Uchiha...
Posò lo sguardo su Hitoshi, che riposava apparentemente sereno. Anche Hitoshi era un Uchiha. Come tutti gli Uchiha, avrebbe lottato e alla fine avrebbe vinto. Il suo sharingan era la dimostrazione che la perseveranza veniva premiata. Doveva essere così, dovevano essere vicini alla vittoria. Erano un clan. Anche se erano un clan maledetto...
La porta della stanza si spalancò inaspettatamente, facendolo trasalire e decretando la caduta rovinosa di tutti i documenti che erano accanto a lui sul divano. Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere chi era entrato, perché l'irruenza bastava da sola a presentarlo.
«Sasuke! Proprio tu, bravo!» esclamò Naruto, incrociando il suo sguardo con aria baldanzosa.
«Sei rumoroso» sospirò Sasuke, chinandosi per raccogliere i fogli.
«Poche balle, abbiamo cose molto importanti da fare, qui!»
«Quali cose? Sakura è d'accordo?» Sasuke rialzò la testa e vide che Jiraya si era unito a Naruto. Questo gli accese tutti i campanelli di allarme. «Sakura non ne sa niente» realizzò.
«Non ha bisogno di saperlo» minimizzò Naruto, con un cenno vago.
«Cosa vuoi fare?»
«Un tentativo per svegliarlo» intervenne Jiraya.
Sasuke si irrigidì subito, sulla difensiva.
«Fidati, vuoi provare questa cosa anche più di me» ghignò Naruto. «Qui stiamo parlando dell'evoluzione dello sharingan!»
Sasuke fu preso alla sprovvista. Guardò Naruto, poi Jiraya, e ancora Naruto. «Cosa c'entri tu con lo sharingan?»
«Non lui» rispose Jiraya, «La Volpe.»
Sasuke fece una smorfia. Quasi tutti i suoi incontri con Kyuubi erano stati burrascosi, e avevano implicato la distruzione di un gran numero di palazzi. Non aveva tanta simpatia per i Bijuu.
«Senti, lo sai che non sono bravo a spiegarmi» disse Naruto con impazienza, dondolandosi da un piede all'altro. «Lasciami fare, dai. Di solito ci prendo.»
Sasuke stava per ribattere acidamente, ma si fermò prima di aprire bocca. In effetti, di solito Naruto ci prendeva con le idee strampalate.
«Non è nulla che Sakura non farebbe» assicurò Jiraya. «Almeno credo.»
Sasuke fece un respiro profondo. Avrebbe preferito dividere la responsabilità con sua moglie, ma dubitava che Naruto avrebbe aspettato il suo arrivo. E poi... un'evoluzione dello sharingan? Aveva senso, considerati gli strani poteri di Hitoshi. Aveva senso eccome. La comparsa tardiva, il modo in cui vedeva il chakra... Sasuke fremette. In fondo Naruto aveva ragione: voleva provare quella cosa anche più di lui.
«Come funziona?» chiese, spostando lo sguardo su Hitoshi.
Jiraya fissò Naruto, che si strinse nelle spalle. «Chiederò a Kyuubi.»

Rin'negan?
La mole di Kyuubi era come sempre imponente rispetto alla rappresentazione che Naruto aveva di sé stesso. Fermo davanti alle grandi sbarre della gabbia, l'uomo cercava di attirare l'attenzione della Volpe.
Mai sentito nominare.
«Bugiarda!» sbottò Naruto. «Sento puzza di menzogna fin qui.»
La Volpe tacque, immersa nei propri pensieri. Era accoccolata in un angolo, con le code rivolte verso l'ingresso. Ogni tanto le muoveva nell'aria.
Non mi piacciono gli Uchiha, disse. Non mi sono mai piaciuti. Rimpiango di non essere riuscita a uccidere l'ultimo, vent'anni fa.
«Piantala, dai. L'Eremita delle Sei Vie non è quello che ha creato te e gli altri Bijuu? Non vuoi rivedere il suo rin'negan?»
Perché dovrei voler rivedere l'unica cosa che ha il potere di soggiogarmi?, disse Kyuubi a sé stessa, guardandosi bene dall'esprimerlo a voce alta.
L'Eremita non è negli occhi di quel ragazzino, fu ciò che spiegò invece. L'Eremita è morto secoli fa.
«Dai, non costringermi a costringerti» piagnucolò Naruto, aggrappato alle sbarre della gabbia in atteggiamento di supplica. «Voglio vedere com'è questo rin'negan. Svegliami Hitoshi! Fammi questo favore.»
La Volpe fece un lungo sospiro di esasperazione. Naruto avrebbe potuto costringerla, effettivamente. C'erano molti modi in cui avrebbe potuto farle fare quel che voleva... ma aveva sempre chiesto; o supplicato, come in quel momento. Kyuubi non sapeva se fosse per ignoranza o bontà d'animo, tuttavia sapeva di occupare una posizione di inferiorità rispetto a Naruto: era lui ad avere potere sul sigillo che la imprigionava.
Ci pentiremo di averlo fatto... mormorò, sollevandosi sulle quattro zampe e voltandosi a fronteggiare il Jonin biondo. Portami da lui.



Sì, se ne sarebbero pentiti.





* * *

Buongiorno a tutti!
Sono riuscita a completare in tempo il capitolo,
e sono persino a buon punto con quello successivo!

Ohibò, questa parte della storia è stata una sorpresa anche per me,
devo confessarlo.
Ma visto che mi piace ed è divertente, ho deciso di tenerla...
Anche perché stranamente mi ricorda un po' le vecchie atmosfere di Sinners.

Grazie a tutti voi che leggete e a chi trova il tempo di lasciare una recensione.
Arrivederci alla prossima settimana!



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Capitolo 33
*** La Volpe e l'Eremita (seconda parte) ***


Penne 33
04/05/2016

Capitolo trentatreesimo

La Volpe e l'Eremita
(seconda parte)




Lo sapevo, lo sapevo, l'ho sempre saputo...
Hitoshi attraversò di corsa un cespuglio pieno di spine, e sentì una miriade di taglietti aprirsi lungo le braccia. Aveva il fiato corto, il cuore che batteva veloce, lo stomaco che si contraeva per la vergogna.
Come ci era riuscito, di nuovo? Come era riuscito a deludere per l'ennesima volta suo padre, dopo tutta l'aspettativa che aveva creato? Ma quale sharingan, quale pedigree, quale conquista... Era il fallito di sempre, e in più rischiava di mandare all'aria tutta la missione.
Le voci nella foresta risuonavano come un coro dissonante, così che era impossibile capire da dove provenissero. Hitoshi tentò di attivare lo sharingan per stanare i seguaci di Iida in fuga, ma ottenne solo una stilettata di dolore e la sensazione delle lacrime sugli zigomi. Si passò una mano sul viso per asciugarle; non vide la striscia di sangue che gli disegnarono sulle guance.
«Sharingan, eh?» esclamò Fugaku, balzando al suo fianco con occhi rossi e furiosi. «Hai voluto fare lo spaccone, e adesso per colpa tua li abbiamo lasciati fuggire. Mi fai pena! Anzi, no: mi fai schifo.»
«Tu dovevi restare con gli Anbu!» esclamò Hitoshi, sentendo la vergogna attanagliargli le viscere.
«Li ho portati qui. Perché con loro e il mio sharingan forse potremo combinare qualcosa...»
Uno shuriken sibilò accanto all'orecchio di Hitoshi, facendogli perdere la presa sul ramo. Cadde nei cespugli sottostanti, riempendosi la bocca di foglie e insetti, e alla fine sbatté malamente contro il terreno. Il polso gli rimandò segnali di sofferenza. Il suo primo istinto fu quello di rannicchiarsi per proteggersi.
«Non avresti dovuto tirartela tanto» disse Fugaku, atterrando accanto a lui. Voltò la testa, in attesa, e Hitoshi vide avanzare uno degli uomini mascherati di Iida. Fugaku tornò a guardare il fratello, senza muoversi per allontanare il nemico. Si chinò, gli tamburellò sulla fronte, come aveva sempre fatto mamma. «Dirò a papà che hai fatto del tuo meglio, ma non era proprio un avversario alla tua portata...»
Il ragazzino si scostò di poco, permettendo all'uomo mascherato di avvicinarsi. Hitoshi cercò di rialzarsi, ma aveva tutte le membra intorpidite. Fissò l'uomo, la maschera senza espressione, le mani e le armi. Un attimo prima che calassero su di lui, serrò le palpebre.
Non accadde nulla.
Hitoshi rimase immobile per alcuni secondi, in attesa. Quando il silenzio gli sembrò troppo strano riaprì un occhio e scoprì di essere solo, rannicchiato su un grande ramo. Tra le mani stringeva i lembi di un'ampia rete, alle cui estremità sapeva che c'erano Jiraya e Sasuke.
La missione, ricordò. Gli uomini della Radice. Ma certo, stavano per uscire dal passaggio... Doveva solo attivare lo sharingan e cogliere il momento opportuno.
Eccoli; con il suo nuovo potere li vide accalcarsi in un punto ben preciso nell'oscurità del sottobosco. Strinse convulsamente la rete tra le mani, e facendolo avvertì una scarica di dolore al centro della testa. Chiuse gli occhi, scosse il capo. Cercò di riattivare lo sharingan, ma ad ogni tentativo seguiva solo dolore, un dolore tremendo, e la cecità più completa. A un tratto sentì la rete che veniva strattonata e gli sfuggiva di mano, calando verso il basso.
Gli uomini che erano con Iida gridarono, ma erano già usciti, alcuni erano già tra i cespugli. Avevano sbagliato il tempismo; lui aveva sbagliato il tempismo.
Disperato, si tuffò verso il basso per cercare di fermare almeno qualcuno, ma l'oscurità gli sembrava sempre più fitta. Sentì lo sconforto emergere dalla disperazione, poi l'orrore, la delusione, la paura.
Lo sapevo, lo sapevo, l'ho sempre saputo..., si disse per la milionesima volta, intrappolato nel loop creato dalla sua stessa illusione.
E tutto ricominciò, sempre uguale.
Sempre fallimentare.

Kyuubi rimase ad osservare il ciclo alcune volte, nascosta tra le fronde di un albero. L'illusione di Hitoshi era acerba, imprecisa: le foglie erano soltanto abbozzate, le voci indistinte, il realismo assolutamente scadente; doveva essere molto sconvolto o molto inesperto per restare intrappolato in una costruzione così grossolana.
Comunque fosse, Naruto voleva che il ragazzo si svegliasse – anche se Kyuubi non ne vedeva l'utilità – e lei aveva acconsentito a provarci, a condizione di farlo da sola.
A Naruto aveva detto che era una precauzione per scongiurare il rischio che lui restasse intrappolato nell'illusione di Hitoshi, ma la verità era che doveva prendere alcune necessarie misure: il rin'negan era l'unica cosa che avesse potere su di lei, oltre al sigillo di Naruto; voleva capire fino a che punto il ragazzo degli Uchiha lo padroneggiasse, in che modo fosse legato all'Eremita delle Sei Vie e, infine, quanto fosse pericoloso per lei. Perché Naruto si era rivelato un buon compagno, certo, ma gli uomini non erano mai stati affidabili. Mai, in centinaia di anni.
Per fortuna sembrava che il rin'negan di Hitoshi fosse poco più di una farsa... anzi, non era nemmeno un vero rin'negan. Era più un abbozzo, un embrione di rin'negan misto allo sharingan. Praticamente un giocattolo.
Sorrise da sola, facendo guizzare la punta delle code.
Il ragazzino deve imparare subito qual è il suo posto.

Uno shuriken sibilò accanto all'orecchio di Hitoshi, facendogli perdere la presa sul ramo. Cadde nei cespugli sottostanti, riempendosi la bocca di foglie e insetti, e alla fine sbatté malamente contro il terreno. Il polso gli rimandò segnali di sofferenza. Il suo primo istinto fu quello di rannicchiarsi per proteggersi, ma appena prima che lo mettesse in pratica un'esplosione di luce lo costrinse a rotolare per difendere la vista dall'abbagliamento.
Tu dunque, essere miserabile, sei l'erede dell'Eremita delle Sei Vie?
Hitoshi boccheggiò, stordito, ma non riuscì ad aprire gli occhi.
«Chi sei?» ansimò, correndo con le mani alla ricerca dei kunai, inesistenti.
Io sono la tua salvezza.
La foresta scomparve con il rumore di un risucchio sibilante, avviluppando Fugaku, Iida, gli uomini della Radice, tutto quanto.
Hitoshi si ritrovò carponi su una superficie liscia, né fredda né calda. La luce accecante si ridusse a un bagliore, permettendogli di riaprire gli occhi.
Davanti a lui stava una figura, forse un gatto, o un procione... no, una volpe. Era enorme, alta almeno sei metri, avvolta da una calda luminosità aranciata. Con un attimo di ritardo Hitoshi si accorse che aveva più di una coda: ne aveva nove.
Una colata di freddo terrore gli piombò sulle spalle e corse lungo la schiena, paralizzandolo.
Aveva conosciuto la storia di Kyuubi quando aveva visto Naruto usare il suo chakra, durante gli scontri dei suoi dodici anni. All'inizio era stato difficile capire quale strana abilità possedesse il maestro, poi, aprendo gli archivi segreti della Polizia di Konoha, tutto era diventato chiaro.
Ora i ricordi di Naruto che combatteva, avvolto dal chakra di Kyuubi, si riversarono nella sua testa, confondendosi in un'unica macchia scarlatta.
Perché si trovava di fronte la Volpe? Cosa era successo? Dov'era Naruto?
Fai bene a temermi, disse Kyuubi con voce bassa e compiaciuta, leggendo la sua espressione. Se la scelta fosse stata mia, ti avrei lasciato nella tua illusione finché avessi cessato di respirare.
«Quale illusione?»
Kyuubi ruggì, esasperata da tanta stupidità. Hitoshi trasalì e si guardò intorno, scoprendo di essere immerso nel nulla per trecentosessanta gradi, circondato da oscurità. Allora capì. E, capendo, il terrore divenne vergogna.
«Come l'hai fermata?» chiese con un filo di voce.
Sei debole, inesperto. Una volta penetrata la tua mente, è stato facile guidarti.
«Che cosa è successo? Chi è l'Eremita... L'Eremita delle...?»
L'Eremita delle Sei Vie.
Kyuubi fece una pausa. Chi era l'Eremita? Il suo creatore, il suo mentore, suo padre... Era molto più di quanto desiderasse condividere con un ragazzino qualunque, per di più così indegno erede.
Studia, ignorante.
Hitoshi incassò la testa tra le spalle, in soggezione. Avrebbe voluto rispondere malamente, ma per la prima volta in vita sua non trovava il coraggio.
Kyuubi fece un mormorio basso, a metà tra un ringhio e delle fusa, e agitò le code nel vuoto.
Quando riaprirai gli occhi, cerca il vecchio sennin Jiraya. Lui ti condurrà alle risposte che puoi avere.
«Ma perché tu sei qui?»
Non chiedere più di quanto ti è concesso! Dalle code di Kyuubi si levò una fiammata di luce. I suoi occhi, scarlatti, erano una delle cose più spaventose che Hitoshi avesse mai visto. Hai un debito nei miei confronti, Hitoshi Uchiha. Ricordalo per sempre, lo ammonì.
Dopodiché, anche lei scomparve nell'oscurità.
Hitoshi rimase solo, scoprendosi piccolo e spaventato. Era come quando aveva paura del buio, da bambino. La stessa sensazione di freddo strisciante.
Attese che qualcosa gli segnalasse il risveglio, ma non accadde nulla. Nonostante l'intervento di Kyuubi non sembrava uscire dalla dimensione in cui era intrappolato.
Si guardò intorno, senza vedere niente. Dal suo corpo aveva origine una tenue luminosità che gli permetteva di vedere sé stesso, ma non c'era nient'altro da guardare.
Poi, la sua mano produsse il fantasma di una mano, che si staccò da lui come una foglia. L'altro braccio fece la stessa cosa, seguito dal tronco, le gambe, il capo. Una figura evanescente gli si parò davanti, la sua stessa sagoma priva di lineamenti.
Due linee si disegnarono dove sarebbero dovute essere le palpebre, una terza in mezzo alla fronte, e la figura aprì gli occhi; ma non erano occhi normali. Al posto dell'iride vi erano cerchi concentrici che ricoprivano l'intera cornea, di un grigio lattiginoso e vuoto. Hitoshi non conosceva quel segno, ma sapeva che non era sharingan né byakugan.
«E' bello conoscerti» disse il fantasma senza bocca, e la sua voce sembrò riecheggiare ovunque.
Hitoshi non disse niente, perché le risposte di Kyuubi erano ancora fresche nella sua memoria e aveva paura di sbagliare di nuovo.
«Io sono la memoria dell'Eremita delle Sei Vie» continuò allora l'ombra. «Dimoravo nel rin'negan che hai risvegliato. Ero in attesa del mio erede.»
«Io?» chiese Hitoshi cautamente.
«Tu.»
«Non vorrei suonare presuntuoso, ma... Come ho fatto?»
«Non hai fatto niente» gli occhi della Memoria dell'Eremita si assottigliarono come se sorridesse. «Era destino che le cose andassero così. Tutto è già stato scritto. Anche tu sei parte della profezia di Naruto.»
«La profezia di Naruto?»
«Quando ti sveglierai, chiedi al vecchio sennin Jiraya di farti leggere il suo libro. Allora capirai.»
Un altro che gli diceva di cercare Jiraya. Sembrava che il vecchio porco non fosse solo un vecchio porco, dopotutto.
«Perché non sono ancora sveglio?»
«Perché dovevo incontrarti, per metterti in guardia.»
Hitoshi drizzò le orecchie.
«Non fidarti di Kyuubi» continuò la Memoria dell'Eremita. «Non è malvagia come potrebbe essere un uomo, ma persegue sempre i suoi obiettivi. Per quanto io la ami, devo guardarla per quello che è.»
«Per quanto tu... lei... voi...» iniziò Hitoshi, ma si impappinò.
«Non è lei che ti ha risvegliato dall'illusione» lo interruppe la Memoria dell'Eremita, impedendogli di chiedere in che rapporti fosse con Kyuubi. «Avvicinandosi a te ha permesso a me di emergere. Non hai nessun debito nei suoi confronti. Quando verrà il momento, agisci con libertà.»
«Quale momento?»
«Non angustiarti adesso... Ci penserai a tempo debito.»
La Memoria dell'Eremita tese una mano verso il viso di Hitoshi, posando le dita sulle sue palpebre.
Hitoshi avvertì il suo tocco freddo, l'odore come di polvere e ghiaccio, poi l'aria che si insinuava nei suoi polmoni, espandendoli.
Prese un respiro profondo, e si svegliò.


Chiharu aprì gli occhi lentamente, sentendo nelle orecchie il bip-bip del cuore monitorato da una macchina.
Subito non capì dove fosse. Pensò di essere di nuovo a Suna, ma l'aria era troppo fresca. Allora pensò di essere a casa, ma il soffitto era troppo alto e la luce troppo intensa. Finalmente si decise a sollevarsi su un gomito per guardarsi intorno, e a quel punto, con una certa fatica, riconobbe l'ambiente ormai familiare dell'ospedale.
«Ciao. Come ti senti?» chiese una voce.
Chiharu voltò la testa, procurandosi un capogiro con i fiocchi. Chiuse e riaprì gli occhi, e al secondo tentativo davanti a lei comparve la faccia sconosciuta di una giovane donna.
«Mi viene da vomitare» rispose, la bocca impastata e amara. «Voglio dell'acqua.»
«Va bene. Fai piano, se ti sembra che torni su fermati subito...» la donna le porse un bicchiere, aiutandola a sollevare il braccio.
Chiharu si accorse con sgomento che quel semplice movimento le portava via buona parte delle energie. Il bicchiere sembrava pesantissimo, la stanza iniziò a vorticare quasi subito. Bevve un paio di sorsi, poi scosse la testa e si rimise coricata. Era sfinita.
«Vado a chiamare il medico» disse allora la donna, e quando si allontanò dal letto Chiharu vide che indossava l'uniforme delle infermiere.
«Devi vomitare?»
Chiharu girò di nuovo la testa. Questa volta la stanza vorticò meno velocemente, e subito si stabilizzò sulla faccia di Shikaku Nara, suo nonno, che la fissava preoccupato sporgendosi verso il letto.
«No» rispose lei. Allora, improvvisamente, ricordò che aveva proibito ai medici di informare delle sue condizioni la famiglia. «Perché sei qui?» scattò di colpo, il cuore a mille.
«Perché sei mia nipote?»
«No, cioè... Cosa ti hanno detto?»
«Nulla. Prognosi riservata.»
Chiharu si rilassò, richiudendo gli occhi per un istante. Niente panico. Le cose andavano meno peggio del previsto. «E papà?»
«Tuo padre ormai sarà arrivato a Suna. Non te l'hanno detto?»
«Per quella cosa di mamma?»
«A me ha spiegato vagamente che era una missione riguardo al coordinamento Sabbia-Fuoco... Ma non faccio fatica a credere che tua madre c'entri qualcosa» sogghignò Shikaku. Poi tornò serio. «Tu invece cos'hai combinato per arrivare a Konoha in questo stato?»
Prima che Chiharu potesse accampare qualche scusa la porta della camera si riaprì ed entrarono l'infermiera di prima e un medico di mezza età, completamente privo di capelli. Salutarono Shikaku stringendo un po' di mani, ma nel giro di un minuto gli chiesero di accomodarsi fuori per parlare da soli con Chiharu. Shikaku, nonostante la perplessità, tenne per sé le domande e uscì.
«Allora, come ti senti?» iniziò subito il medico.
«Mi gira la testa e mi viene da vomitare. Ma sono lucida e orientata e voglio che le notizie sulla mia salute restino solo tra me e voi.»
Medico e infermiera si scambiarono un'occhiata.
«Va bene» annuì lui. «Dovrai firmare alcune carte, per questo. Ma prima di farlo vorrei esporti la situazione completa, potresti cambiare idea.»
Chiharu serrò le labbra e non ribatté.
«Non credo che tu mi conosca» proseguì allora il medico, aprendo una cartellina che aveva portato con sé. «Il mio nome è Honmaru Senju, sono tra i collaboratori stretti di Sakura Uchiha. Ho avuto occasione di parlare con lei riguardo all'esito dei tuoi esami, e francamente il quadro è sconfortante.»
«Perché?» Chiharu si irrigidì.
«Non c'è un parametro che sia in ordine. Mi sono fatto mandare la cartella che ti hanno fatto a Suna, ma la situazione è anche peggiorata da allora. Quello che ci è stato riferito è che hai tentato un'evocazione troppo azzardata e il tuo fisico non ha retto. Confermi?»
Chiharu annuì, incerta. I suoi ricordi al riguardo erano molto confusi.
«A quanto ho capito» riprese il medico, «hai cercato di tamponare il tuo errore di valutazione recuperando chakra dall'evocazione... Ma mi dispiace informarti che non è stata un'idea brillante; il tuo sistema del chakra fa acqua da tutte le parti, usarlo per bilanciare la fisiologia è un azzardo enorme. Per fortuna era presente un ninja medico che è intervenuto in maniera corretta, ma questo non significa che non ci siano stati danni.»
«Gravi?»
«Temo di sì.»
Chiharu strinse il lenzuolo tra le dita per fermarne il tremore. L'unica cosa che ricordava bene di quella disgraziata evocazione era la voce dell'uccello nella sua testa e il dolore lancinante che l'aveva seguita.
«Anche l'ultima volta avevano detto una cosa del genere» tentò, scoprendo che la sua voce era roca e incerta.
«L'ultima volta eri in crescita. Adesso non hai più assi da giocarti» troncò il medico bruscamente. «Se vuoi arrivare ai vent'anni, devi chiudere con il mestiere di ninja.»
Chiharu spalancò la bocca, senza fiato.
Era la prima volta che glielo dicevano senza mezzi termini. Fino a quel momento le avevano sempre suggerito di non fare cose azzardate, di non esagerare, di riguardarsi... Non le avevano mai detto di smettere e basta.
Le fece male, molto più di quanto si aspettasse.
«Sicuramente ci sarà qualche medicina... Qualche nuovo trattamento... Se la cosa fosse stata così grave non sarei qui a parlarne!» annaspò, la testa ronzante per lo choc.
«Ringrazia il medico che ti ha soccorsa, per questo. Senza il suo intervento non saresti arrivata nemmeno in ospedale.»
Chiharu richiuse la bocca, raggelata. «Voglio parlare con Sakura Uchiha» disse dopo un momento, quasi a fatica.
«Non è disponibile. Attualmente è completamente assorbita da un altro incarico, io sono il medico che ti è stato assegnato.»
«Beh, non mi piaci!» ringhiò Chiharu di scatto.
Il medico fece un respiro profondo, passando la cartella clinica sotto il braccio. «Mi dispiace sentirtelo dire, perché con la crisi in corso sono l'unico medico a disposizione. Sono stato spostato al tuo caso invece di aiutare i miei colleghi perché sono quello che più di tutti se ne intende di chakra e cuore. Se ti dico che non ci sono alternative, non ce ne sono.»
Chiharu deglutì a vuoto un paio di volte. Meccanicamente si tirò su, tese la mano e prese il bicchiere mezzo pieno sul comodino, portandoselo alle labbra tremanti. Buttò giù un sorso, poi dovette abbassare il braccio.
«Voglio firmare le carte per tenere la cosa riservata» disse in tono metallico. «E voglio una copia della mia cartella e un altro consulto.»
Il medico si strinse nelle spalle. «Come vuoi. Ti farò avere tutto in giornata. Nel frattempo inizierai a seguire una terapia...»
Chiharu smise di ascoltare, concentrandosi sul battito del cuore nelle sue orecchie. Sembrava così placido, così innocuo, eppure minacciava di ucciderla ad ogni piccolo sforzo.
Aveva il sospetto che i Chakravakam avessero un ruolo non marginale nell'intera faccenda.
Si riscosse dalla sua trance quando sentì la porta richiudersi. Vide suo nonno riprendere posto sulla sedia accanto al letto, e solo allora capì che medico e infermiera se ne erano andati.
«Gente molto seria» commentò Shikaku, grattandosi la barba ingrigita. «Cosa ti hanno detto?»
«Stanno ancora aspettando il risultato di alcuni esami» mentì Chiharu automaticamente. «Per ora non si sbilanciano.»
Shikaku la scrutò a fondo, come avrebbe scrutato un avversario di shogi. Vide le nocche delle mani sbiancate nello sforzo di stringere le lenzuola, vide il pallore del viso, gli occhi sfuggenti, e fece due più due.
«Non hai intenzione di informare i tuoi genitori, a Suna?» chiese piano. Chiharu serrò le labbra. «Sei maggiorenne, puoi farlo. Ma un genitore ha il diritto di preoccuparsi per il figlio...»
«La preoccupazione di un nonno è già troppa» borbottò lei in risposta, passandosi una mano sulla fronte. «Sono molto stanca... Ti spiace se mi rimetto giù?»
«Fai pure, aspetto che ti addormenti.»
Chiharu scivolò meglio sotto le coperte e chiuse gli occhi, cercando di dare al suo respiro un ritmo lento e regolare. Mentre lo faceva ripercorse con la mente il momento in cui aveva evocato il Chakravakam, per capire dove aveva sbagliato, cosa era successo...
Pensava che Kakashi le avesse dato il via libera, a partire dalla missione di Loria. Pensava che questo significasse che era all'altezza, che non c'erano rischi... Si era sbagliata? O semplicemente aveva esagerato evocandolo mentre era già stanca?
Non lo sapeva. Non sapeva niente, né cosa era successo prima, né cosa sarebbe accaduto poi. Non voleva avvisare sua madre e suo padre perché non avrebbe saputo cosa dire: ho fallito? Sono una stupida? Tanto non avevo voglia di essere ninja? Non preoccupatevi, farò la studiosa...
Serrò le palpebre, rannicchiandosi con le ginocchia contro il petto. Sentì le lacrime premere per uscire, calde e bagnate, ma concentrò tutti i suoi sforzi nell'impedirsi di singhiozzare. Non voleva che suo nonno capisse.
Se vuoi arrivare ai vent'anni, devi chiudere con il mestiere di ninja.


La prima cosa che vide Hitoshi aprendo gli occhi fu la faccia enorme di Naruto, praticamente a dieci centimetri dalla sua.
«Checcaz...» iniziò, riuscendo ad articolare ben poche consonanti.
«E' sveglio!» esclamò Naruto facendosi indietro. «Ci siamo riusciti!»
«Sono un genio» commentò Jiraya, annuendo seriosamente. «Naruto, vai a cercare Sakura. Io e Sasuke restiamo con lui.»
«Ma io voglio chiedergli cosa è successo con Kyuubi!» piagnucolò Naruto.
Non ti dirà proprio niente, commentò lei dalla sua gabbia.
«Stupido cretino! Dopo potrai chiedergli quello che vuoi, ora vai a dare la buona notizia a sua madre» rispose Jiraya bellicosamente.
Hitoshi cercò di capire chi parlava e di cosa, ma aveva la testa troppo confusa per distinguere le voci. Cercò di sollevarsi sui gomiti, e non appena lo fece la stanza si capovolse, togliendogli il fiato. Naruto non c'era più.
«Resta giù. Come ti senti?»
Quella voce l'avrebbe riconosciuta tra mille. Suo padre.
«Come se fossi caduto dalla Rupe degli Hokage...» rispose a fatica.
«Bevi qualcosa, che non capiamo quel che dici» intervenne Jiraya, aiutandolo a bere un sorso d'acqua.
«Qual è l'ultima cosa che ricordi?» riprese Sasuke quasi subito.
Hitoshi chiuse gli occhi e si sforzò di trovare le immagini nella sua mente. Per un momento fu tutto scuro, poi vide flash confusi, pieni di ombre, e alla fine due volti: Kyuubi e l'Eremita delle Sei Vie.
Trova Jiraya, gli avevano detto.
«Devo aver fatto un sogno molto strano» mormorò, sfregandosi gli occhi.
«Non era un sogno» gli disse Jiraya bonariamente. «Cioè, se ti riferisci alla Volpe a nove code non era un sogno. Se invece parli di dodici vergini senza vestiti sì, probabilmente lo era.»
Sasuke e Hitoshi fissarono Jiraya, che sbuffò borbottando qualcosa sul senso dell'umorismo.
«Mi ha detto di parlare con lei» disse Hitoshi. «Ha detto che lei avrebbe avuto le risposte.»
«Dubito di avere qualche risposta, ma ho un paio di buone domande» commentò Jiraya in tono riflessivo. «La Volpe non ti ha spiegato niente?»
«Ha parlato di un Eremita...»
Sasuke passò lo sguardo dal figlio al sennin, senza capire. Jiraya lo vide e batté le mani, troncando improvvisamente la discussione.
«Parleremo dopo che Sakura ti avrà fatto un check up completo» annunciò. «Prima voglio essere sicuro che tu non abbia un'emorragia cerebrale in atto» Hitoshi portò una mano alla fronte, Sasuke lo scrutò preoccupato. «Si fa per dire...»
«La missione!» ricordò Hitoshi all'improvviso. «La Radice, il tunnel... Li avete presi?»
«Non agitarti. Li abbiamo presi tutti» confermò Sasuke.
Hitoshi si lasciò ricadere sul letto, chiudendo gli occhi. Allora i ricordi di Iida che fuggiva e Fugaku che lo lasciava in balia dei nemici erano solo incubi... Era ancora troppo stordito per distinguere sogno e realtà: la luce gli dava fastidio, le voci gli davano fastidio; era ipersensibile a tutto.
Accanto al letto Sasuke esitò, combattuto tra il chiedergli del rin'negan e domandargli se stava bene. Vedendolo sveglio il sollievo aveva prevalso sulla curiosità, ma ora stava perdendo terreno. Almeno il senso di colpa era scemato fino a scomparire.
Sakura ci mise quasi un quarto d'ora ad arrivare, perché Naruto aveva dovuto cercarla a casa. Quando spalancò la porta della stanza tutti trasalirono, incluso Hitoshi che aveva ricominciato a sonnecchiare, e poi furono travolti da un turbine di singhiozzi, esclamazioni e rimproveri mescolati alle lacrime. Sakura si gettò al collo di Hitoshi, ignorando tutti gli altri, e gli accarezzò la testa ringraziando il cielo.
«Mamma, sto be...» iniziò lui, ma arrivato all'ultima parola Sakura gli piantò una pila degli occhi e prese a visitarlo, tirando su con il naso.
«Non lo sai se stai bene» ribatté. «Prima dobbiamo controllare. Sei rimasto in coma per dei giorni...»
«Ma io mi sento bene» tentò di dire Hitoshi, completamente inascoltato.
«Adesso posso chiedergli quella cosa?» sussurrò Naruto a Jiraya, che sospirò.
«No, non puoi. Dopo.»
«Dopo quando?»
«Naruto» lo chiamò Sakura. Lui sobbalzò. «Come lo avete svegliato?»
«Ci ha pensato...» iniziò il Jonin biondo, ma Jiraya lo fermò subito.
«Possiamo parlarne più tardi?» si intromise. «Devo prima verificare alcune teorie con Hitoshi.»
Il ragazzo annuì senza protestare. Sasuke e Sakura si accigliarono, ma non trovarono nulla con cui ribattere. Alla fine Sakura prese la mano di Hitoshi e gli sorrise, asciugandosi le ultime lacrime.
«Faremo tutti i controlli per essere sicuri che tu stia bene... Ma intanto sono così felice di vederti sveglio.»
Jiraya tirò una gomitata a Naruto, facendogli segno di uscire. Lui esitò, poi cedette. Prima di andarsene scambiò uno sguardo con Sasuke e gli sillabò una frase muta: stagli vicino o lo faccio io.
Sasuke strinse le labbra e fece istintivamente un passo verso il letto. Naruto sorrise, e uscì.
Era stato divertente competere con Sasuke per l'affetto di Hitoshi... Ma adesso sarebbe stata una partita persa.
«Sono stato bravo?» chiese, quando lui e Jiraya furono fuori dalla porta.
«Sei stato bravissimo» gli concesse lui con un sospiro.
«Scusate» li interruppe una voce. «Mi hanno riferito che Hitoshi Uchiha si è svegliato... Sakura è qui?»
«Honmaru!» esclamò Jiraya, riconoscendo il medico che li aveva avvicinati. Accanto a lui stava un altro uomo senza camice, che non salutò. «Sì, Sakura è qui... Sono mesi che non ti vedo. Come stai?»
«Bene, grazie. Ma ho fretta, dovremo rimandare i convenevoli alla prossima volta. Scusate.»
Senza salutare i due uomini bussarono alla stanza di Hitoshi ed entrarono, lasciando Naruto e Jiraya.
«Chi era quel simpaticone?» domandò Naruto.
«Un lontano parente di Tsunade... Non è mai stato l'anima della festa.»
«Perché aveva la cartella clinica di Chiharu sotto braccio?»
«L'hai notata anche tu? Dovresti controllare se si è svegliata: Shikamaru e Temari devono sapere come sta, non può continuare con il capriccio sulla privacy.»
Naruto non rispose, ma fece una smorfia. «Dopo, quando avremo sistemato la faccenda di Hitoshi... Lasciami affrontare un problema alla volta.»
«Come vuoi» rispose Jiraya, facendo spallucce. «Solo una cosa: perché c'era un membro degli Anbu con Honmaru?»
Ma Naruto aveva già smesso di ascoltare. Non appena aveva detto a Jiraya che prima voleva sistemare la questione di Hitoshi, si era concentrato per trovare Kyuubi dentro di sé e interrogarla. Eppure, per quanto ci provasse, l'accesso alla sua gabbia era inequivocabilmente sbarrato...

Nell'oscurità la Volpe ricordava.
C'era stato un periodo lontanissimo in cui lei e gli altri Bijuu erano una famiglia.
Ancora prima, c'era stato un momento in cui erano stati una cosa sola.
All'epoca tutti i Bijuu erano un'unica bestia dotata di dieci code, e l'Eremita delle Sei Vie li aveva combattuti come mai nessuno prima aveva ardito fare. Come una divinità, quasi.
Kyuubi non aveva un ricordo preciso di quei tempi, perché non esisteva ancora nella forma attuale: l'Eremita aveva creato lei e gli altri Bijuu quando già era diventato il jinchuuriki della Decacoda. Eppure i suoi primi ricordi erano chiari, caldi, ammantati di nostalgia: lei e i suoi fratelli, insieme a Hagoromo. Uniti.
Spesso rimpiangeva quei giorni.
Ora era sigillata nel corpo di Naruto, i suoi fratelli e sorelle erano dispersi nel mondo alla mercé dei riti per la creazione di Jinchuuriki, e tutti, nessuno escluso, venivano usati per combattere le guerre degli uomini. Anche lei.
Rimpiangeva davvero i giorni felici dell'Eremita, i giorni della libertà... Ma una domanda la tormentava, insinuando il tarlo del dubbio e della delusione.
Padre, perché ci hai mandato per il mondo se il nostro destino era una gabbia?
Davvero non lo avevi visto, con il rin'negan nei tuoi occhi?






* * *

Buongiorno a tutti!
Sono spiacente di informarvi che ho cambiato lavoro.
Questo significa il quadruplo dell'impegno rispetto a prima,
e molto meno tempo e meno forze per scrivere.
Ripeto: mi impegnerò per non lasciarvi a secco,
ma siate un poco pazienti, almeno i primi tempi...
In compenso, se non sapete cosa fare della vostra vita
vi suggerisco di prendere una laurea in fisioterapia.
A casa ci restate molto poco.

Ciò detto, ho tirato in ballo l'Eremita.
Ebbene sì.
Si vede che ci stiamo avvicinando a cose importanti, vero?
Ma questo paventato rin'negan, che tutti pensavano fosse un super jolly,
è probabilmente meno figo di quel che sembra...
per ora.
Vi informo che mi sono studiata tutta Narutopedia per farlo funzionare,
quindi abbiate fede!

Ho anche iniziato a dare a Chiharu le bastonate che si merita.
Vediamo un po' cosa ne esce.

Prima che scocchi la mezzanotte vi saluto e vi do appuntamento
alla prossima settimana!

Grazie a tutti per aver letto!

PS per DARKSHIN: non mi è possibile rispondere alla tua recensione,
probabilmente perché postata prima che inserissero l'opzione risposta...
Mi dispiace! :(





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Capitolo 34
*** L'orgoglio del clan Uchiha ***


Penne 34
18/05/2016

Capitolo trentaquattresimo


L'orgoglio del clan Uchiha




Hitoshi si era addormentato nel vecchio mondo e si era svegliato in quello nuovo.
Adesso Sasuke gli ronzava intorno in maniera quasi fastidiosa, chiedendogli costantemente se stava bene o poteva fare qualcosa per lui, Sakura lo coccolava di più e i suoi fratelli erano persino venuti a trovarlo in ospedale: la piccola Liara, che chissà come aveva saputo che il fratello aveva una nuova tecnica strabiliante, lo aveva fissato per tutto il tempo come Buddha ridisceso in terra. L'unico familiare che Hitoshi non aveva visto era Fugaku, ma francamente aveva troppe cose a cui pensare per preoccuparsi anche di lui.
Dopo il suo risveglio Sakura aveva disposto un milione di esami e analisi, la maggior parte dei quali al cervello. Hitoshi aveva provato a chiedere di Jiraya, ma prima di ricevere una risposta era piombato in camera un dottorino impettito e aveva chiesto a sua madre un consulto urgente. Quando poi lei era tornata aveva voluto sapere nel dettaglio cosa era successo durante la missione in cui si era sentito male, così lui aveva perso il filo del discorso. Ma con il calar della sera la curiosità era tornata, e con essa il nervosismo.
«Questa notte tua madre resterà con te» disse Sasuke, raccogliendo le sue cose per tornare a casa a dormire. «Hai bisogno che ti porti qualcosa?»
«Sai che fine ha fatto Jiraya?»
«No.»
E se fosse per me lo attaccherei al muro, così si decide a parlare del tuo sharingan.
«Mh... Grazie, papà. Buona notte.»
Sasuke non uscì subito. Guardò il figlio. Sperava che adesso le cose avrebbero preso la giusta piega, che tutto si sarebbe sistemato; che sarebbe diventato come doveva essere, o almeno come Naruto gli aveva intimato di farlo diventare.
Per un secondo provò l'irresistibile impulso di alleggerirsi la coscienza con Hitoshi, di raccontargli tutto quello che aveva fatto da quando era nato ad ora, tutte le cose sbagliate, le cose malvagie, gli errori e i tradimenti... Poi si vergognò. Era già stata dura essere lì, quel pomeriggio, e ricordare come doveva comportarsi un padre.
Prima di sprofondare nell'imbarazzo decise di uscire.
Hitoshi rimase solo, lo sguardo puntato oltre il vetro della finestra.
Aveva la sensazione che il suo cervello fosse pieno di ovatta. Le emozioni erano come smorzate, affievolite. Sapeva che si sarebbe dovuto sentire euforico, orgoglioso, fiero all'inverosimile... Invece si sentiva soltanto stanco. Non aveva nemmeno la forza di gioire delle attenzioni di Sasuke.
Ripensò all'incontro con Kyuubi, rivide nella sua mente le zanne e le code. Rabbrividì. La Volpe gli aveva detto che era merito suo se si era svegliato, ma l'Eremita l'aveva smentita. A chi credere? E perché?
Più pensava al fantasma traslucido della sua visione e meno gli sembrava reale. Il suo ricordo sfumava di minuto in minuto, nonostante gli sforzi che faceva per mantenerlo.
Soltanto una cosa rimaneva, perché ci si aggrappava con tutte le forze, soltanto una frase: non fidarti di Kyuubi. Non hai nessun debito nei suoi confronti.
Qualcuno bussò alla porta della camera. Hitoshi tornò alla realtà e diede il permesso di entrare, ma non fu Sakura quella che comparve all'ingresso: era Jiraya.
«Tu non hai idea di quanto sia stato difficile liberarsi di Naruto!» esordì il sennin lasciandosi cadere sul divano.
«E' venuto per parlare con me?» chiese subito Hitoshi, scostando le lenzuola e facendo scendere i piedi dal letto.
«Non muoverti! Se Sakura ti vede alzato mi uccide» Hitoshi tirò su i piedi. «Allora, spiegami un po' chi ti ha detto di parlare con me e perché» continuò Jiraya.
«E' stata la Volpe a nove code.»
Il vecchio annuì, appoggiando i gomiti alle ginocchia. «Ti ha detto perché abbiamo provato a usarla per svegliarti?»
«Non mi ha detto niente... Mi ha soltanto insultato perché non conosco un certo Eremita delle Sei Vite.»
«Eremita delle Sei Vie» lo corresse Jiraya. «Come al solito, Kyuubi non trova molto simpatici gli Uchiha: l'ultima volta che ha incontrato tuo padre lo ha quasi ucciso.»
Hitoshi non faceva fatica a credere che Kyuubi potesse farlo, ma nessuno gli aveva mai accennato la cosa, e la notizia lo colpì.
«Dunque, ciò che sto per dirti è nel campo della pura ipotesi» riprese Jiraya, tornando all'argomento principale. «Sono supposizioni basate su una manciata di vecchi appunti che ho ritrovato nell'archivio della Foglia, pertanto potrebbero essere inventate di sana pianta. Ma sono il nostro punto di partenza, e almeno finora hanno funzionato.»
Hitoshi annuì, concentratissimo.
«Esiste una leggenda che racconta della nascita dei Bijuu» raccontò Jiraya. «Secondo questa leggenda il creatore delle Bestie sarebbe un uomo dai poteri straordinari, chiamato Eremita delle Sei Vie. Quest'uomo era dotato della prima tecnica oculare che la storia ricordi, la tecnica da cui poi hanno avuto origine sia sharingan sia byakugan: il rin'negan. Attraverso il rin'negan l'Eremita aveva potere su tutti i Bijuu e, dice qualcuno, su tutti gli elementi e tutte le tecniche. Pare che fosse una caratteristica a trasmissione ereditaria, e, secondo la persona che ha scritto questi appunti, c'è qualche possibilità che lo sharingan, discendente diretto del rin'negan, si evolva in rin'negan stesso.»
«Sta dicendo che il mio non è uno sharingan... Ma un rin'negan?»
«E' l'ipotesi più verosimile che mi sia venuta in mente.»
Hitoshi sbatté le palpebre, stranamente stordito. Le sue emozioni non erano ancora tornate.
«Cioè questo rin'negan... E' una tecnica potentissima che supera sia byakugan sia sharingan? E io ce l'ho? A caso?» chiese per sicurezza.
«Non a caso» lo frenò Jiraya. «Io credo che tu l'abbia sviluppato perché hai passato molto tempo accanto a Naruto mentre usava il chakra di Kyuubi, e quello in qualche modo lo ha risvegliato. Non devo raccontarti la storia di Naruto e Kyuubi, vero? Con l'età che hai sarai penetrato come minimo in tutti gli archivi segreti di tuo padre» Hitoshi arrossì, colpevole, ma Jiraya ridacchiò. «Bravo ragazzo!»
«Come si usa il rin'negan?» chiese Hitoshi schiarendosi la voce. «Intendo... Per lo sharingan esiste un manuale, ma per il rin'negan?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Ah.»
Hitoshi e Jiraya si fissarono, a corto di soluzioni.
«Perché non volevi che Naruto sentisse questo discorso?» domandò poi Hitoshi.
«Naruto? Ci avrebbe interrotto ogni dieci parole, avrebbe chiesto di rispiegare le cose mille volte, ti avrebbe tormentato per sapere cosa ti ha detto Kyuubi...» Jiraya roteò gli occhi. «Io non voglio mica passare qui tutta la notte per colpa sua!»
Di colpo una nuvoletta di polvere si materializzò nel mezzo della stanza, e Naruto comparve esattamente tra Hitoshi e Jiraya.
«Lo sapevo!» sbottò istantaneamente. «Sei venuto senza di me! Come hai potuto?»
«Appunto...» sospirò Jiraya.
«Un momento» intervenne Hitoshi, balzando giù dal letto per oltrepassare Naruto. «Mi è venuta in mente una cosa... Potrei leggere gli appunti di cui mi ha parlato. Forse troverei qualche indicazione utile per il rin'negan.»
«Allora è rin'negan!» esclamò Naruto, inascoltato.
«Questo si può fare» approvò Jiraya. «Non appena Sakura ti avrà dimesso ci lavoreremo insieme.»
«Io e lei?» Hitoshi fece una smorfia, a metà tra l'onorato e il reticente.
«Con lui ho fatto un buon lavoro» brontolò Jiraya additando Naruto. «E guarda che era partito malissimo.»
«Ehi, ero già praticamente perfetto quando ci siamo conosciuti!» protestò Naruto. «Ma questo non è il momento di parlarne. Hitoshi, cosa vi siete detti tu e la Volpe?»
«Niente.»
«Come niente?»
«Niente. Mi ha detto che ero ignorante e dovevo chiedere a Jiraya perché.»
Naruto provò a interrogare Kyuubi, ma ottenne solo una bassa risata dal profondo. «E non è successo altro?» tentò ancora. «Dai, dimmi qualcosa sul suo passato... Lei è sempre così scorbutica.»
Hitoshi fece per aprire bocca, ma si accorse di non sapere come rispondere. La Volpe era comparsa, lo aveva insultato, e poi... Poi si era svegliato. Non era successo altro.
Non fidarti di Kyuubi. Non hai nessun debito nei suoi confronti.
Che strano pensiero, all'improvviso...
«La Volpe ha detto che ho un debito con lei, ma ho l'impressione che cercasse di fregarmi.»
«Non saresti il primo né l'ultimo che si fa fregare da Kyuubi. Vero, Naruto?» esclamò Jiraya, con un'occhiata al vecchio allievo. Naruto tossicchiò, negando tutto.
Hitoshi rimase pensieroso ancora un momento. Davvero c'era stata solo la Volpe nel suo sonno?
«Dai, facciamo una prova prima che arrivi Sakura» sussurrò Naruto in tono cospiratorio. «Prova ad attivare il rin'negan.»
«Sakura ci ammazza se succede qualcosa» lo ammonì Jiraya.
«Se succede qualcosa mandiamo avanti Kyuubi, e lei non se ne accorgerà mai. Dai, Hitoshi.»
«Non so come fare...»
«Come hai sempre fatto. Prova.»
Allora Hitoshi si concentrò, come si concentrava le volte che cercava di attivare lo sharingan. Sentì una leggera scossa dietro gli occhi, solo vagamente dolorosa, ma nella stanza non cambiò nulla.
Jiraya e Naruto ammutolirono.
«Funziona?» chiese il ragazzo ansiosamente.
Jiraya tirò fuori da una tasca lo specchio in dotazione standard agli shinobi, aprendolo verso di lui.
Per poco Hitoshi non si riconobbe: i suoi occhi, solitamente neri e perfetti, ora erano di un grigio uniforme, cornee incluse, segnati da cerchi concentrici più scuri.
«Per una volta non sei nemmeno belloccio» mormorò Jiraya, quasi in soggezione.
Hitoshi sbatté le palpebre e sentì le energie venire meno, mentre il suo riflesso gli mostrava gli occhi che tornavano alla normalità.
«Richiede un sacco di chakra» boccheggiò, sostenuto da Naruto.
«Ma ce lo abbiamo. E sarà fichissimo vedere cosa ne tirerai fuori!» esclamò il maestro, felice come un bambino.
Hitoshi, dietro le palpebre abbassate, vide per un secondo il profilo di un uomo con tre rin'negan.
Ci penserai a tempo debito, disse l'uomo.
Poi scomparve, e con lui anche il suo ricordo.
Di colpo la porta della stanza si aprì, dopo una bussata infinitesimale, e Sakura fece il suo ingresso con un mucchio di abiti di ricambio e una cena in vassoio sulla cima della pila.
La prima cosa che vide fu suo figlio, in piedi, sorretto da Naruto. La seconda, che era senza ciabatte.
Scoppiò il putiferio.


Sasuke rientrò a casa in tempo per unirsi alla cena, ma rifiutò. Invece si fece portare un piatto di zuppa in ufficio e ci si chiuse dentro da solo.
Lo sharingan di Hitoshi era evidentemente uno sharingan anomalo. Non riusciva a capire se fosse difettoso o migliorato rispetto al suo, ma voleva scoprirlo di persona; la sola parola di Naruto non era sufficiente.
Mentre la zuppa di raffreddava lui aprì la cassaforte in cui conservava i documenti segreti del clan. All'interno erano nascoste decine di libri usurati che racchiudevano conti, intrighi e nascondigli dei più svariati tesori, ma il libro più prezioso era senza dubbio il manuale segreto sullo sharingan, un volumetto rilegato in rosso che aveva l'aria più consunta degli altri.
Sasuke lo tirò fuori e lo sfogliò: all'interno era pieno di appunti e note a margine, tutti vergati con calligrafie diverse. Riconobbe una riga scritta da suo padre e avvertì una stretta al petto. Subito accanto, poche parole di Itachi.
Cambiò pagina rapidamente, arrivando fino alla prima. In uno stile ormai quasi illeggibile, con inchiostro ormai sbiadito, l'autore del manuale aveva rivolto un messaggio ai suoi eredi. Chissà chi era? Cosa aveva voluto dire?
Qualcuno bussò alla porta dello studio. Sasuke richiuse in fretta il libro e lo fece scivolare sotto la scrivania. «Sì?»
«Posso entrare?»
Sasuke si rilassò e diede il permesso, tirando fuori di nuovo il manuale. Dalla porta scorrevole comparve Fugaku, che si massaggiava nervosamente un braccio.
«Come... Come sta Hitoshi?» domandò.
«Si è svegliato. Sembra che stia bene, ma tua madre vuole aspettare l'esito degli esami per dirlo.»
Fugaku annuì. Per evitare lo sguardo di Sasuke posò gli occhi sul libro rosso che stringeva, e riconoscendolo si irrigidì. «Quindi ha lo sharingan?»
«Probabilmente...» mormorò Sasuke. «Ma non ne siamo ancora sicuri.»
«Non c'era quando eravamo in missione!» sbottò Fugaku. «Ho guardato, ti giuro che l'ho guardato! Non c'era!»
«Potrebbe essere uno sharingan anomalo. Spiegherebbe perché è stato più lungo da sviluppare, perché vede cose che tu non vedi...»
«Oppure Hitoshi ha mentito per tutto il tempo e sta fingendo anche adesso.»
Sasuke tacque, fissando Fugaku. Il ragazzino resse il suo sguardo per pochi secondi, poi arrossì.
«E' un bene che i tuoi fratelli sviluppino lo sharingan» disse Sasuke lentamente. «Il nostro clan basa il suo orgoglio sullo sharingan. Considerato che tua madre non è nata Uchiha, è già tanto che tu, Hitoshi e Mikoto abbiate ereditato i vostri occhi.»
«Però...!» scattò Fugaku, interrompendosi quasi subito. Si morse le labbra. Come spiegare al padre che voleva ricevere il dovuto riconoscimento per aver sviluppato lo sharingan prima e meglio di Hitoshi? Come fargli capire che aveva bisogno delle sue lodi?
«Però cosa?»
«Niente.»
Sasuke sospirò. Fugaku gli ricordava un po' se stesso da piccolo: sempre in corsa, sempre sulla scia del fratello maggiore... Ma non era lui a poterlo liberare della sua ombra: finché Fugaku non avesse superato la cosa da solo, lui avrebbe potuto lodarlo all'infinito, eppure non sarebbe mai bastato.
«So che domani hai una missione importante» disse, cambiando discorso. «Ti sei preparato?»
«Come sempre.»
«Bene. Continua così. Buona notte, Fugaku.»
Fugaku ricambiò il saluto, chinò rapidamente la testa e uscì dallo studio. Sasuke sospirò, riaprendo il manuale sullo sharingan. Ogni tanto si chiedeva come diavolo facessero gli altri padri a dire sempre la cosa giusta. A lui non riusciva mai.
Mentre borbottava qualcosa sulla maledizione di avere sei figli ancora piccoli, le sue mani fecero voltare le prime pagine del libro, in cerca di indizi sullo sviluppo dello sharingan.
Non vide i caratteri della dedica iniziale che perdevano un poco del loro pallore, facendosi più definiti. Tra essi, spiccavano gli ideogrammi che componevano la parola eremita.


Naruto aveva sempre avuto una imbarazzante tendenza alla teatralità. Nel corso delle missioni questo si traduceva spesso in ritardi, scompiglio e azzardati recuperi dell'ultimo minuto; nei momenti di calma si traduceva in improbabili melodrammi tragicomici.
Assecondando le sue inclinazioni alla ricerca di un pubblico, Naruto decise di comunicare le notizie sul rin'negan convocando personalmente Sakura e Sasuke.
«Lo sai che si arrabbieranno per questa sceneggiata?» chiese Jiraya, rovistando con un dito in una narice. Era stravaccato sul divano nella stanza di Hitoshi, e teneva un pacchetto di patatine sulla pancia come se fosse davanti a uno spettacolo.
«Certo che si arrabbieranno. Ma è tutta la vita che aspetto il momento di sbattere in faccia a Sasuke un te l'avevo detto, non puoi togliermi il trionfo proprio ora» ribatté Naruto piccato, camminando avanti e indietro accanto al letto di Hitoshi.
«Io non voglio responsabilità» ricordò quest'ultimo. «Non sono d'accordo con questa pagliacciata, e se mia madre se la prende voglio restarne fuori!»
«Tu diventerai il loro cocco per sempre, fidati.»
In quel momento Sakura aprì la porta della stanza senza bussare, e si precipitò dentro insieme a Sasuke, trafelata.
«Che succede? Perché ci hai fatti chiamare?» esordì puntando dritta verso il letto di Hitoshi.
Naruto tese una mano a fermarla, fissandola severamente.
«Allora?» insisté Sasuke dopo pochi secondi di immobilità.
«Dovrete essere forti...» mormorò Naruto.
I due Uchiha raggelarono, fissando lo sguardo sul figlio. Hitoshi in quel momento nascondeva il viso dietro una mano, con espressione abbastanza ambigua per sembrare preoccupata. Jiraya invece sgranocchiava patatine, e il lavorio delle mascelle nascondeva la risata che gli premeva in gola.
«D’ora in poi sarà dura...» proseguì Naruto, chinando la testa con aria compita. «Ma voi siete resistenti, lo so meglio di chiunque altro.»
Sakura serrò i denti. «Se non ci spieghi subito giuro che...»
«Insomma, avevo ragione» si arrese Naruto, incapace di nascondere ancora l’orgoglio. «Dovrete baciarmi i piedi per un mese, perché grazie alle mie brillanti intuizioni Hitoshi non ha sviluppato quella mezza schifezza dello sharingan, ma la sua versione evoluta: il rin'negan.»
«Il cosa?» chiese Sakura, mentre Sasuke sussultava.
«E qui intervengo io» sospirò Jiraya, tirandosi su dal divano per mettere in mano a Naruto il pacchetto di patatine. «Il rin'negan era la tecnica oculare dell'Eremita delle Sei Vie, di cui, al contrario di quell'ignorante di Naruto, sicuramente avrete sentito parlare.
Naruto scoccò a Jiraya un'occhiata indignata, ma Sakura e Sasuke spalancarono la bocca, fissando Hitoshi come se lo vedessero per la prima volta. Lui arrossì, però si mise un po' più dritto, suo malgrado orgoglioso.
«La mia teoria è che in qualche modo il rin'negan sia stato stimolato dal chakra della Volpe, con cui Hitoshi ha avuto a che fare più di tutti noi» continuò Jiraya. «Orochimaru aveva studiato la cosa: secondo lui era possibile che byakugan e sharingan, entrambi derivati dal rin'negan, evolvessero in rin'negan in presenza di condizioni particolari. Purtroppo i frammenti che ho raccolto dai suoi appunti sono incompleti... Non sono nemmeno sicuro della mia teoria, ma Hitoshi ci ha mostrato il suo rin'negan e su questo non ci sono dubbi.»
«Quindi, chi aveva ragione?» esclamò Naruto, il petto proteso fino a scoppiare.
«Tu... Tu sei...» disse Sakura, stralunata. «Naruto, sei il più grosso idiota che abbia mai conosciuto!»
«Fosse la prima volta che me lo dici, potrei anche offendermi» replicò lui. «Ma dovremmo essere alla trecentesima, o giù di lì. E comunque è merito mio se Hitoshi finalmente può diventare uno stronzo bastardo come il padre, perché senza questa missione non avrebbe scoperto il suo rin'negan; e se è merito mio voi avete un gigantesco debito con me, il che non sarà proprio divertente, vero?» il suo sorriso si allargò a dismisura. «Sapete che le mie bambine non vedono l’ora di essere ospiti da voi per una settimana? Sono sempre state così curiose di vedere le stanze private di Hitoshi!»
Gli Uchiha si irrigidirono. Ci fu un attimo di impasse, un lungo, sfrigolante attimo in cui l’aria della stanza si divise in una zona gelida e una bollente. Alla fine Sakura sospirò, scuotendo la testa.
«A stare con te la vita di una persona non fa che accorciarsi...» borbottò.
«Potreste anche mostrare un po' più di entusiasmo» si lamentò Naruto. «Diglielo anche tu, Hitoshi!»
«Io non ero d'accordo con questa pagliacciata» fu ciò che esclamò Hitoshi.
«Ingrato!»
«Va bene, Naruto, sei stato bravo» intervenne Jiraya. «Adesso però vieni con me; ora che Hitoshi è sistemato hai altre cose di cui occuparti.»
«Ma nessuno di loro mi ha ringraziato!»
«Sparisci o ti faccio a pezzi!» ruggì Sakura, trattenuta da Sasuke.
Di fronte alla minaccia Jiraya si affrettò a portare via Naruto, lasciando soli gli Uchiha. Allora Sasuke lasciò andare la moglie, e insieme raggiunsero Hitoshi. Sembravano intimoriti, preoccupati, ma in fondo all'ansia brillava una scintilla di ammirazione.
«Non sappiamo niente di questo rin'negan...» mormorò Sakura, prendendo il viso del figlio tra le mani come se le risposte fossero nei suoi occhi. «Chiederò a Shizune di fare qualche ricerca. Forse tra le carte della maestra Tsunade troverà qualcosa di utile.»
«Come funziona?» chiese invece Sasuke, guadagnandosi un'occhiata di disappunto da Sakura.
«Non lo so bene nemmeno io» ammise Hitoshi. Si sentiva di nuovo piccolo, in imbarazzo. Aveva una nuova tecnica strabiliante, ma nessuno sapeva come usarla, lui meno di tutti. «Per ora sembra che si attivi come lo sharingan, ma si usa in maniera diversa.»
Sasuke fece per chiedere di provare ad attivarlo, ma Sakura lo fermò prima: «non ci pensare nemmeno! Adesso Hitoshi deve finire i controlli e riprendersi, poi farete tutte le prove che volete.»
Padre e figlio si scambiarono uno sguardo, ma non osarono protestare. Sakura fece scivolare la mano lungo il viso di Hitoshi, accarezzandogli la guancia. «Non mi interessa cosa ci sia dentro i tuoi occhi... A me basta che tu stia bene.»
Hitoshi abbassò lo sguardo. Sapeva che anche Sasuke aveva fatto la stessa cosa, perché sentiva che entrambi stavano elaborando il medesimo pensiero: solo un Uchiha può capire.

Jiraya si riprese le patatine che aveva lasciato a Naruto, affondando la mano e scoprendo con disappunto che doveva arrivare fino in fondo per trovare qualcosa.
«E' andata bene, giusto?» chiese l'allievo, mentre attraversavano i lunghi corridoi dell'ospedale.
«E' solo l'inizio» rispose il maestro. «Il rin'negan è un'arma potentissima se Hitoshi impara ad usarlo, ma finché non sappiamo cosa farcene è come non averlo. Piuttosto, mi stavo chiedendo una cosa...» Jiraya smise di camminare, e Naruto lo fissò, interrogativo. «Se l'Eremita delle Sei Vie ha creato i Bijuu utilizzando il rin'negan, può essere che il rin'negan di Hitoshi abbia potere su Kyuubi?»
Naruto corrugò la fronte. Il suo primo istinto fu di difendersi, di difendere la creatura con cui aveva diviso lo spirito per tutti quegli anni, ma lo controllò.
«Dubito che un ragazzino con una tecnica sconosciuta possa farci paura» cercò di sdrammatizzare.
Jiraya serrò leggermente le labbra, prima di parlare di nuovo. «Tu e la Volpe siete due creature distinte, Naruto. Smettila di parlare al plurale, lo facevi quando hai perso la testa a diciotto anni.»
Naruto accusò il colpo, distogliendo lo sguardo. «Sai cosa intendo, dai... Non ci sarà mai bisogno di mettere Kyuubi e il rin'negan uno contro l'altro.»
«Lo spero, Naruto. Lo spero.»
Jiraya sospirò profondamente, riflettendo su come la vita unisce e separa le persone: neanche lui avrebbe mai pensato di ritrovarsi a combattere con Orochimaru per decidere chi doveva vivere, eppure era accaduto. Si augurava che per Naruto le prove fossero finite, ma sapeva per esperienza che una persona come lui non sarebbe mai rimasta in pace troppo a lungo...
«Adesso basta Uchiha, mi fanno venire l'orticaria!» esclamò il sennin, passando un braccio attorno al collo di Naruto e riprendendo a camminare. «Hai ancora quell'incosciente di Chiharu da strigliare, e devi farmi sapere se Baka potrà continuare a farmi da musa per la saga della Pomiciata o verrà consegnato nelle mani di Gaara. Ma attento: se è la seconda opzione avrai tutti i miei fan contro!»
«Cosa? Baka ti fa da musa per la saga della Pomiciata? Stai scrivendo un libro omosessuale?»
«Non essere ridicolo! Lo uso perché i verginelli hanno una fantasia molto più fervida dei padri di famiglia come te.»
«Baka verginello? Ma da quando? E' famoso per cambiare una donna a settimana.»
«Cambiarle non significa portarle a letto... E comunque lui è schifosamente innamorato di Chiharu, che non gliela darà mai. Quindi mi sarà di ispirazione per sempre. Tienilo fuori dalle carceri di Suna, fallo per me...»
Naruto fece una smorfia: tutto quel parlare di Chiharu gli ricordava che doveva affrontare la sua questione, anche se non sarebbe stato piacevole. Respirò profondamente, cercando invano la voglia di farlo, e alla fine sbuffò.
«Vedrò cosa riesco a fare...» mugugnò.


Nel buio Kyuubi meditava.
Lei e il rin'negan, di nuovo faccia a faccia? Lei e gli occhi di Hagoromo...
Agitò le code, abbassando le palpebre.
Non sapeva se l'idea la facesse fremere di timore o impazienza...








* * *

Salve a tutti!
Perdonate l'assenza della scorsa settimana,
ma il nuovo lavoro mi sta succhiando l'anima.
Nonostante ciò sono riuscita a completare anche questo capitolo,
e finalmente lo metto a vostra disposizione.
Purtroppo non è lunghissimo, ma avevo bisogno di
mettere un punto alla faccenda di Hitoshi, almeno per ora.

Ora dovremmo aver finito con gli Uchiha,
hanno avuto fin troppo spazio.
Dal prossimo capitolo torniamo a rompere le scatole
ai ragazzini!
E a Naruto.

Grazie per la pazienza dimostrata nel seguire questa lunga e lenta storia,
un abbraccio a tutti.


Susanna



Il prossimo capitolo è amorevolmente dedicato
ai detrattori di Chiharu.

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Capitolo 35
*** I sospetti di Sakura ***


Penne 35 08/09/2016
Capitolo trentacinquesimo

I sospetti di Sakura




«Non sono sicuro che tutta questa immobilità faccia davvero bene.»
«Io invece sono sicura che seguire gli ordini dei medici sarà l'unica cosa che ti permetterò di fare.»
Kotaro, coricato sotto un mucchio di lenzuola spiegazzate, si rigirò nervosamente, dando le spalle a sua madre. Tenten era seduta su una sedia con le gambe accavallate e lucidava un kunai dalla lama già scintillante.
Il povero Kotaro era stato ricoverato non appena lui, Chiharu e Baka erano tornati da Suna. I medici gli avevano imposto di chiudere tutte le porte del chakra e lasciare che il corpo recuperasse naturalmente le proprie energie, ma questo sarebbe successo in non meno di venti giorni. Il che, per lui, era assolutamente intollerabile.
Purtroppo o per fortuna Tenten aveva deciso di interrompere la scia degli insegnamenti disastrosi del marito e si era sostituita a lui nell'educazione del suo primogenito, almeno temporaneamente: per essere sicura che Kotaro seguisse alla lettera le prescrizioni mediche si era installata nella sua camera d'ospedale e non aveva più levato le tende. Era umiliante, ma accompagnava Kotaro persino in bagno – per essere sicura che non tenti la fuga dalla finestra, diceva.
«Ormai sono inchiodato qui da giorni!» tentò ancora Kotaro, muovendo i piedi sotto le lenzuola come un bambino. «Mi fa male la schiena.»
«Quella ti fa male perché ti sei rotto due costole» replicò Tenten.
L'unica pausa dal tormento materno erano le visite: fino a quel momento erano venuti a trovarlo il maestro Gai, Naruto e i parenti. Solo in quel momento Kotaro si era accorto di non avere tanti amici... Gli unici che chiamava tali erano, a quanto gli era stato riferito, entrambi ricoverati. E nessuno poteva andare a trovare gli altri.
Almeno Baka poteva portarmi due arance e un manga... Maledetto spocchioso arrogante.
Kotaro stava quasi pensando di convincere sua madre a metterlo su una carrozzina, quando Mei comparve sulla porta, carica di abiti di ricambio per Tenten e un cestino di frutta fresca.
«Ciao mamma, ciao fratello scemo.»
«Sei venuta a liberarmi?» chiese Kotaro, cercando di tirarsi a sedere. Tenten lo bloccò puntandogli contro il kunai lucidato.
«Magari» sospirò Mei, depositando i vestiti e portando la frutta fino al letto. «La casa è un disastro e io sono completamente incapace di cucinare. Mamma, ti prego, ritorna!»
«Tornerò quando potrò» rispose Tenten, afferrando una mela senza abbassare il kunai. «Come vedi, tuo fratello non è molto bravo a seguire le terapie.»
Mei sbuffò, scoccando un'occhiataccia a Kotaro.
«Non guardarmi così: io sto bene! Se non mi puntasse un kunai contro sarei già in piedi.»
«Per correre da Chiharu?»
Tenten reagì prima che Kotaro, rosso e indignato, scattasse in risposta: «Mei, non rendere il mio lavoro più difficile. Torna a casa, sono sicura che ci siano un milione di lavori che puoi fare.»
«Tutti quelli che di solito fai tu...» borbottò lei, che dopotutto aveva solo quattordici anni.
Tenten fece un respiro profondo e abbassò il kunai puntato contro Kotaro. «Allora fai qualcosa di utile: prima che tuo fratello esploda dalla curiosità, fai un giro a raccogliere notizie dei suoi compagni di squadra. Magari se si calma un po' riesco a tornare.


Chiharu non sapeva quanti giorni fossero passati dal loro rientro a Konoha, ma da allora non era più riuscita a dormire bene.
Non aveva idea di quante notti in bianco avesse fatto, né di quanti giorni sonnolenti le avessero seguite. L'unica cosa di cui era certa era che per tutto il tempo Shikaku era sempre stato nella sua camera: i medici non gli avevano detto niente, per fortuna, ma a causa di questo era rimasto nervoso e taciturno.
Chiharu capiva che non sarebbe durata in eterno: prima o poi il nonno avrebbe preteso di sapere cosa stava succedendo, e se per disgrazia non fosse riuscito a scoprirlo avrebbe richiamato Temari e Shikamaru, per non parlare di Yoshino, che l'avrebbero costretta a vuotare il sacco. Ma fintanto che sonnecchiava, Shikaku non insisteva. E a lei non costava proprio niente, anzi le veniva naturale.
Mentre stava sospesa a metà tra il sonno e la veglia il nonno le aveva raccontato che anche Kotaro e Hitoshi erano ricoverati. Hitoshi, a quanto si diceva, era rimasto ferito nella missione in cui avevano catturato Iida; Kotaro era stato costretto a letto dai medici.
Ma a Chiharu non interessava, non in quel momento. In quel momento l'unica cosa che occupava spazio nella sua mente erano le parole del dottore che l'aveva vista: se vuoi arrivare ai vent'anni, devi lasciare il mestiere di ninja.
Era venuto altre volte dopo la prima: avvolto nel suo camice bianco, impettito e distante, le aveva annunciato l'esito di alcuni esami, le aveva portato i fogli sulla riservatezza, l'aveva visitata. Ma se ne era sempre andato scuotendo la testa pelata, e lei aveva sentito l'umore scendere più giù di volta in volta.
Devi lasciare il mestiere di ninja.
Cosa avrebbe potuto fare, a parte quello? Se si soffermava a pensarci troppo le veniva da piangere, e dato che non voleva scatenare le domande di Shikaku si costringeva a ricacciare giù le lacrime, posticipando sempre lo sfogo. Aveva passato la vita intera a studiare per essere ninja. Negli ultimi cinque anni tutti i suoi sforzi erano stati tesi a migliorare, ad essere all'altezza delle aspettative di Naruto, a oltrepassare i limiti imposti dal suo cuore. Aveva fatto tutto quello che poteva per restare in corsa, ma il risultato era che aveva fallito comunque. Che senso aveva avuto il suo impegno?
Era contenta che nessuno fosse venuto a trovarla: non sarebbe stata felice di mostrarsi in quelle condizioni a qualcuno che non fosse un parente stretto. E, in effetti, nessuno che non fosse un parente stretto si era presentato. Nemmeno Baka o Yoshi. Ci aveva pensato, tra un incubo e l'altro, ma era stata troppo presa dai suoi problemi e aveva perso subito interesse.
Concentrata sulla sua tragedia personale aveva smarrito anche la nozione delle ore che passavano. Non sapeva se fosse mattina o pomeriggio quando bussarono alla porta della sua stanza, ma Shikaku si alzò subito in piedi, segno che doveva essere importante. Chiharu tese l'orecchio, continuando a dare le spalle al nuovo arrivato.
«Ci sono notizie?» chiese Shikaku.
«Devo parlare con Chiharu. Da solo.»
Allora lei si voltò, riconoscendo la voce di Naruto. Il maestro era in piedi sull'ingresso, scuro in volto. Chiharu si mise sulla difensiva.
Shikaku li lasciò soli dopo essersi concesso una brevissima esitazione, e a quel punto, una volta chiusa la porta che dava sul corridoio, maestro e allieva si trovarono faccia a faccia, come cinque anni prima.
Naruto si passò una mano sul viso, con una smorfia di insofferenza. Detestava dover essere lì, detestava non poter più posticipare l'incontro, detestava Jiraya che gli aveva ricordato le sue responsabilità. Detestava anche la faccia bellicosa di Chiharu, perché già sapeva che sarebbero finiti a litigare.
«Sai perché ti devo parlare?» le chiese.
«Forse» rispose lei cautamente. «Ha a che fare con la mia ultima evocazione?»
«E con cos'altro potrebbe aver a che fare?»
Chiharu serrò le labbra. Naruto era anche più permaloso del solito, il che significava che stava per dirle qualcosa che non gli piaceva. Probabilmente aveva parlato con il medico che le aveva proibito di continuare ad essere ninja e adesso le avrebbe fatto una sfuriata.
«Siamo stati insieme per cinque anni, Chiharu» riprese Naruto, iniziando a camminare avanti e indietro in fondo al letto. «So che tu e i tuoi compagni siete degli schifosi individualisti, ma pensavo di avervi insegnato almeno una cosa, in tutto questo tempo; una!» Chiharu aggrottò la fronte, francamente perplessa. Naruto si riferiva alla prudenza? E quando mai aveva insegnato a qualcuno la prudenza, o anche il buonsenso, se per questo? «Invece, dopo cinque anni,» continuò lui, sempre più nervoso, «scopro che per te essere ninja significa soltanto completare le missioni e portare a casa la pelle, e chi se ne frega se per farlo hai sacrificato uno dei tuoi! Ancora, come se non fosse cambiato niente dal primo giorno.»
«Io ti ho salvato!» sbottò lei indignata. «Stavi per essere ammazzato! Scusa se non mi sono preoccupata di stare attenta a non far male a nessuno mentre cercavo di tenerti in vita...»
Naruto smise di camminare e fece un gesto per zittirla. «Lo vedi? Non capisci neanche di cosa parlo!»
Il gesto funzionò, perché Chiharu effettivamente tacque, con la rabbia che pulsava sotto pelle.
«L'evocazione, Haru» sibilò allora Naruto. «Tu sai cosa succede a un'evocazione se ti riprendi il chakra che hai usato per richiamarla?»
Solo allora lei capì.
Naruto non era arrabbiato perché aveva messo in pericolo se stessa: era arrabbiato perché per non lasciarci le penne aveva rispedito nella sua dimensione un'evocazione di chakra, e quando questo accadeva le evocazioni morivano.
«Le evocazioni sono compagni come Hitoshi e Kotaro» esclamò lui. «Non puoi pensare di evocarli quando ne hai bisogno e liberartene se diventano d'intralcio. Un buon ninja è colui che si preoccupa sempre dei suoi compagni e di chi deve proteggere. Se lasci che uno dei tuoi muoia per salvare te stessa, allora sei feccia.»
«Stai dicendo che sarei dovuta morire?» lo interruppe Chiharu.
«No, certo che no!» Naruto si scompigliò i capelli. «Sto dicendo che se fai cazzate troppo grosse non puoi pararti il culo sulla pelle degli altri! Non dovresti fare cazzate troppo grosse, prima di tutto... Ma se succede, non puoi farlo pagare ai tuoi compagni. Mai. Pensavo che almeno questo ti fosse arrivato, dopo tutte le missioni che abbiamo fatto insieme.»
«Quindi sarei dovuta morire» ripeté lei. Questa volta non era una domanda.
«Non stravolgere quello che dico» lui le puntò un dito contro. «Sono contento che tu sia viva, certo che sono contento! Ma come faccio a portarti in campo se una parte di me pensa che in caso di pericolo ammazzeresti il tuo vicino per salvarti la vita? Come faccio a portarti in missione se non sei affidabile?»
«Ma io ti ho salvato!» ringhiò Chiharu, stringendo le lenzuola con rabbia. «Cosa c'è di più affidabile di una che rischia la sua vita per salvarti? Dovresti essermi grato, non farmi la predica!»
«Tu hai sacrificato la tua evocazione quando hai avuto paura. Hai salvato me e sacrificato lei. Io non valgo più di un altro, nessuno vale più di un altro; non tra gli shinobi di Konoha.»
«Bene!» Chiharu emise una risata secca. «Me ne ricorderò, la prossima volta che rischi di morire.»
«Non ci sarà una prossima volta, Chiharu.»
«Ah, ma certo. Tu non sbagli mai, non due volte, almeno.»
«No. Per te non ci sarà una prossima volta: non voglio shinobi di cui non mi posso fidare.»
Chiharu accusò il colpo per un secondo, poi allargò le braccia. «Non è la prima volta che te lo sento dire. Ma stai tranquillo: prima delle tue sparate un dottore mi ha già detto che se voglio arrivare ai vent'anni devo mollare la carriera, e questa notizia ha fatto un po' più male. Per salvarti ho dato il colpo di grazia al mio cuore, sembra. E mi sto pure prendendo un congedo con disonore.»
Naruto si bloccò. «Cosa? Quale medico? Quando?»
«Non te l'hanno detto? Questa volta non c'è niente da fare: o smetto, o muoio. Così ti tolgo un bel problema, vero?» sbottò lei, sapendo di essere ridicola, sapendo di essere inutilmente crudele, ma incapace di fermarsi.
«Smettila di fare la cretina. Chi è venuto a parlarti? Come si chiama?»
«Sei l'Hokage... Saprai bene chi si occupa dei tuoi allievi, anche se sono soltanto ex» Chiharu incrociò le braccia e si infossò nei cuscini, puntando lo sguardo oltre la finestra.
Naruto emise un verso di esasperazione. «Sei sospesa da tutte le attività fino a nuovo ordine» decretò. «Prima di prendere una decisione devo capire con chi diavolo hai parlato.»
E perché non mi è stato riferito niente.
«Bene» deglutì Chiharu.
Naruto, senza salutare, uscì nel corridoio.
«Arrivederci» mormorò lei al vuoto.
Allora, inaspettatamente, le tornò alla memoria un ricordo. Risaliva ad alcuni anni prima, dopo gli eventi della nascita di Minato, ed era un ricordo a cui ripensava di tanto in tanto.
Un giorno, raccogliendo il coraggio e la faccia tosta, aveva chiesto a Naruto di Kyuubi; gli aveva detto che aveva fatto delle ricerche e che sapeva del demone. Lui, ben poco stupito, aveva risposto a tutte le sue domande: da quanto tempo era un Jinchuuriki, perché proprio lui, come funzionava... Le aveva parlato di Minato Namikaze e Kushina Uzumaki, le aveva raccontato la sua storia. Avevano passato insieme una serata intera, poi Naruto l'aveva accompagnata a casa perché Temari non le facesse una sfuriata.
Erano stati così vicini, quel giorno. Lui l'aveva ascoltata senza criticare le sue domande, come un'adulta.
Oggi, invece, non l'aveva nemmeno guardata. Era venuto, aveva fatto il suo discorso ed era sparito senza ascoltare. Non le aveva lasciato il tempo di spiegare che i chakravakam non muoiono quando vengono privati del chakra, perché non sono un'evocazione come le altre...
Anche se, a dire il vero, Chiharu non aveva voglia di spiegargli più nulla.
Ammirava Naruto, lo ammirava sconfinatamente: lui aveva la forza e l'energia di perseguire i suoi obiettivi, cosa che a lei mancava; ma se lui la rifiutava, se lui smetteva di incoraggiarla, allora la sua immagine sbiadiva come inchiostro al sole, lasciando solo indifferenza.
E ora?, si chiese.
Sapeva cosa si provava a rassegnare le dimissioni, ma non sapeva come comportarsi quando la medicina e l'autorità la rifiutavano esplicitamente.
Una parte di lei sarebbe voluta scoppiare a piangere, però era una parte piccola e lontana; qualcosa, un gran peso in mezzo al petto, come una pietra, le impediva di lasciar spazio a quello che provava.
Bussarono alla porta, e riconobbe la mano di Shikaku.
«Haru? Hai, visite, te la senti di riceverle?» chiese aprendo di una spanna.
«No.»
«Va bene. Vuoi che me ne vada anche io?»
«No.»
«Arrivo subito.»
Shikaku scomparve dalla fessura.
Chiharu sistemò una ciocca di capelli che ricadeva davanti agli occhi, tornando a dare le spalle alla porta.
Coricata su un fianco, fissava il muro senza sbattere le palpebre.
La piccola parte di lei che voleva piangere premeva contro la pietra al centro del petto; ma non c'era niente da fare, quella pietra non si muoveva.


Mei impiegò un bel po' per trovare la stanza di Chiharu.
Stranamente le avevano assegnato una singola, anche se non era una di quelle lussuose, e per individuarla la ragazzina perse quasi un'ora. Era in un reparto strano, mezzo deserto, in un'ala lontana da tutto.
Chi me l'ha fatto fare?, si chiese stizzita, consultando la cartina che le aveva fatto un'impiegata dell'accettazione.
In pieno borbottio di protesta emerse lungo un corridoio spettrale. Un uomo era seduto da solo su una sedia, con una lattina di caffè e un giornale in mano. All'altro capo della stanza un altro uomo guardava fuori dalla finestra.
Per un secondo Mei fu certa che entrambi la squadrassero.
Con cautela arrivò in fondo al corridoio, fingendo di non sentirsi osservata. La stanza di Chiharu doveva essere lì; fuori da una delle tre porte sul lato sinistro vide un uomo anziano con un improbabile codino, e riconobbe subito il clan Nara.
«Chiedo scusa, è questa la stanza di Chiharu Nara?» chiese nervosamente.
«Sta ricevendo una visita importante in questo momento, ma l'hai trovata» rispose l'uomo. «Sei la figlia di Rock Lee, vero?»
«Sì. Mio fratello è ricoverato in un altro reparto e non può muoversi... Mi ha chiesto di fare un giro dell'ospedale per sapere come stanno i suoi compagni.»
«Anche a me piacerebbe sapere come stanno» borbottò Shikaku tra sé. «Se hai tempo possiamo aspettare insieme.»
Mei guardò nervosamente la porta: non aveva intenzione di perdere più di dieci minuti dietro a Chiharu Nara, ma il vecchio era cortese e non voleva offenderlo. Accettò l'offerta, sedendosi accanto a lui. Dalla porta chiusa provenivano voci smorzate.
«Questo che reparto è?» chiese Mei guardandosi intorno.
«La vecchia ala delle sale parto» rispose Shikaku. «Pensavo che ormai fosse caduta in disuso, invece funziona ancora» gettò un'occhiata di sottecchi alla fine del corridoio. «Anche se non ho visto altri pazienti... solo un paio di visitatori costanti.»
«In che senso?»
«Mi piacerebbe saperlo, credimi. Ci capisco sempre meno.»
Mei pensò che il signore cortese forse aveva qualche rotella fuori posto, ma non lo disse.
In quel momento le voci nella stanza di Chiharu si alzarono di volume, poi si riabbassarono, e infine la porta si aprì senza preavviso, lasciando uscire un Naruto dall'aria corrucciata.
«Shikaku, come si chiama il medico che è venuto a visitarla?» chiese subito, senza salutare né dare segno di essersi accorto di Mei.
«Senju, mi pare. Perché? Che sta succedendo? Nessuno mi dice niente...»
Naruto ebbe un'illuminazione. «Il pelato! Ah... Scusa, Shikaku, non posso dirti nien...» Naruto alzò lo sguardo e incrociò quello dell'uomo che guardava fuori dalla finestra, il quale si affrettò subito a spostarlo. L'altro, quello che leggeva il giornale, aveva cambiato sedia, e adesso era proprio di fronte a lui. «Li hai visti altre volte?» sussurrò Naruto, abbassando repentinamente la voce.
«Tutti i giorni. Ogni tanto cambia coppia, ma sono sempre in due. Non vengono a trovare nessuno.»
Naruto studiò il volto dell'uomo che cercava di nascondersi dietro al giornale. «Devo trovare Sakura...» mormorò dopo un istante. «Ci vediamo.»
Fece un cenno sbrigativo e si allontanò a passi lunghi, lasciando Mei e Shikaku.
«Vuoi provare a entrare?» chiese lui. Sospirò, perché ancora una volta non era riuscito a scoprire niente della salute di Chiharu.
«Non ne sono sicura...» disse Mei, facendo una smorfia. «Quante probabilità ci sono che Chiharu sia dell'umore giusto?»
«Quasi nessuna.»
«Ok, allora le chieda se posso entrare: dirà di no, ma Kotaro non potrà lamentarsi.»
E Chiharu disse di no, senza nemmeno un'esitazione. Mei ringraziò Shikaku, lo salutò e prese la strada del ritorno, tutto sommato sollevata: non aveva mai avuto confidenza con i compagni di squadra di Kotaro, perfettini e spocchiosi come erano, e soprattutto con la femmina del gruppo, che così poco aveva a che fare con lei; l'ultima volta che aveva parlato con Chiharu era stato alla sua festa di compleanno, e solo per dirle che se ne andava.
Attraversò di nuovo tutto l'ospedale, ritornando all'ingresso per imboccare le scale dirette all'ala vip. Lungo la strada riconobbe Jin, il figlio dell'Hokage, che prendeva uno snack a una macchinetta, il che le fece capire che quello sarebbe stato proprio il giorno degli snob; avendoci parlato al massimo un paio di volte non lo salutò nemmeno.
Salì altre due rampe, girò almeno tre angoli, e infine raggiunse quella che in teoria era la stanza di Hitoshi Uchiha.
Se lo sapessero le mie amiche, altro che invidia!, pensò, ferma davanti alla porta.
Fece un respiro profondo. Doveva solo entrare, chiedergli se stava bene e uscire. A Kotaro sarebbe dovuto bastare.
Alzò il braccio e bussò.


Questo manuale è rivolto agli eredi dell'eremita delle Sei Vie,
nella speranza che sia fonte di ispirazione per percorrere il retto cammino.
«Figli miei, non temete il futuro:
esso è già scritto nei vostri occhi, se saprete vedere.»
Queste sono le parole dell'eremita.
Fatene tesoro, eredi del rin'negan, e agite consapevolmente.

Non c'era firma.
La prima pagina del manuale segreto dello sharingan conteneva quelle poche righe ambigue, senza nessuna rivendicazione.
Ma anche senza nomi, Hitoshi, leggendole e rileggendole fino a conoscerle a memoria, sapeva che erano rivolte a lui.
Sfiorò con le dita la carta ingiallita e l'inchiostro riemerso dalla polvere. Sasuke aveva detto che quella pagina era sempre stata sbiadita e illeggibile, finché lui non aveva sviluppato il rin'negan. Non appena si era accorto della comparsa della dedica, Sasuke aveva capito che il figlio aveva bisogno del manuale, così era tornato in ospedale per portarglielo.
Hitoshi non avrebbe mai pensato di vedere quello sguardo sul viso di suo padre... Mai, almeno rivolto a lui: riconoscimento, orgoglio. Ammirazione.
Qualcun altro si sarebbe offeso perché venivano solo dopo il rin'negan, ma non un Uchiha. Per un Uchiha quello era il più alto dei riconoscimenti.
Hitoshi aveva sfogliato il manuale in lungo e in largo, cercando altre frasi misteriose, ma non aveva trovato niente.
Forse dipendeva dal fatto che era troppo confuso da ciò che aveva accompagnato la consegna: chissà cosa era passato per la testa di Sasuke in quei momenti, chissà cosa era scattato... Qualcosa di imponderabile, senza dubbio, forse la conseguenza dei pensieri che gli frullavano per il capo da quando qualcuno aveva detto che negli occhi di Hitoshi c'era qualcosa...

Dopo avergli dato il manuale, Sasuke era rimasto fermo accanto al letto, fissando Hitoshi. Per la prima volta, dopo il più grande, più stupido e più imperdonabile dei ritardi, si rese conto che lui e suo figlio erano uguali. Davvero uguali, al di là della somiglianza fisica, dell’atteggiamento, del cognome: nelle frustrazioni, nelle aspirazioni, solo ora Sasuke si riconosceva in Hitoshi con disarmante chiarezza.
In un certo senso ne fu confortato, quasi illuminato: tutte le volte che aveva avuto la tentazione di confessarsi, tutte le volte che aveva provato l'impulso di farlo, si riunivano in quel minuscolo momento imprevedibile.
Allora prese un respiro profondo.
Inspirò, abbassò lo sguardo su un punto neutro del pavimento, e senza volerlo si irrigidì. Era come liberarsi di nuovo del sigillo di Orochimaru... ugualmente faticoso e doloroso. Ma necessario. Con una mano andò a sfiorare il collo.
«Hitoshi...»
Il ragazzo smise di sfogliare il manuale; l’aria era cambiata.
«Ci sono alcune cose... molte cose che devo raccontarti. E devo farlo adesso. Vuoi ascoltarle?»

Era stato un racconto lungo e complesso.
Alcuni avvenimenti Hitoshi li conosceva già, perché erano scritti su tutti i libri di storia contemporanea; altri, invece, non glieli aveva detti nessuno.
Dalle labbra di Sasuke aveva appreso la sua versione degli ultimi trentacinque anni di Konoha: il tradimento di Itachi, lo sterminio degli Uchiha, l'inseguimento e il tradimento di Sasuke. Aveva conosciuto dettagli che erano rimasti nascosti per volere di Tsunade - o, più probabilmente, per mediazione di Naruto – aveva saputo cosa aveva fatto Sasuke mentre era insieme a Orochimaru e al gruppo del Falco, aveva saputo di Akatsuki e di Madara.
Poi, soprattutto, aveva saputo cosa era successo al suo rientro. Aveva saputo di Sakura e Naruto.
Quella era stata la parte che più lo aveva disarmato, anche perché in diciotto anni di vita non gli era arrivato mai neanche un accenno. Era la parte che davvero non riusciva a spiegarsi.
Come poteva Naruto essere ancora amico di Sasuke e Sakura? Come poteva aver accettato lui come allievo, sapendo che il figlio di Sakura, secondo i piani, sarebbe dovuto essere anche suo? Come diavolo riusciva a guardare in faccia Sasuke e non provare ogni volta il desiderio di farlo a pezzi?
Se una cosa del genere fosse successa a Hitoshi, non ci sarebbe stato nessun perdono. Mai. Pensò fugacemente a Chiharu, ma poi si ritrovò a ripensare ai suoi genitori e a Naruto, senza capacitarsene.
Alla fine del suo discorso Sasuke non aveva chiesto cosa ne pensasse. Lo aveva lasciato riflettere da solo, rigirandosi per le mani il manuale segreto sullo sharingan, e Hitoshi nemmeno sapeva più da quanto andasse avanti.
Almeno finché Sakura non era entrata di colpo, senza bussare.
Hitoshi trasalì, lasciando scivolare il libretto per terra. Gli sguardi di madre e figlio si incrociarono senza volerlo, e in un attimo fu chiaro che entrambi sapevano del discorso di Sasuke.
Calò il gelo.
«Sono... Sono venuta a vedere come stai» iniziò Sakura, richiudendo la porta lentamente.
«Bene.»
Silenzio.
«Posso visitarti?»
Hitoshi annuì. Non sapeva cosa dire. Non si era ancora fatto un'idea, era troppo fresco... Perché non gli aveva lasciato più tempo?
Sentì le mani di Sakura che tremavano mentre gli sollevava le palpebre per illuminare la pupilla. Quasi poteva sentire il battito del suo cuore, l'odore della paura. Poteva immaginare piuttosto bene Sasuke che la incontrava e le diceva di avergli parlato. Conoscendola, forse pensava persino che fosse rimasto sconvolto da quello che aveva sentito di loro.
Cosa che, si accorse all'improvviso, non era vera.
Non era il tradimento di Sakura e Sasuke ad averlo turbato... Era la reazione di Naruto.
Sua madre e suo padre erano... sua madre e suo padre. Non sarebbe potuta andare diversamente, perché altrimenti lui non sarebbe esistito, e la cosa era al di fuori della sua capacità di comprensione. Ciò che lo lasciava sbalordito era che Naruto li chiamasse ancora amici, che combattesse al loro fianco, che istruisse i loro figli... Ma loro due, loro erano inevitabili.
Sakura abbassò le mani alla fine della breve visita, senza fingere di avere qualcosa da dire al riguardo.
«Tu e tuo padre avete parlato...?» domandò esitante, seduta sul letto accanto a lui.
«Sì» rispose Hitoshi dopo un attimo di silenzio.
«Ti ha... raccontato tutto?»
«Sì.»
Altro silenzio.
Lei non aveva il coraggio di chiedere, lui forse non sapeva ancora cosa dire.
«Be-bene...» balbettò Sakura, torcendosi le mani.
«Mamma» chiamò Hitoshi, facendola quasi sussultare. Tentennò per un lungo secondo, ma poi continuò, con voce bassa e sicura: «Io resto della mia idea. Sono orgoglioso di ciò che sono e del cognome che porto.»

Perdono, perdono... Finalmente il perdono.

Sakura sorrise lentamente; le sue labbra si distesero come un nodo che si scioglie dopo tanto tempo, facendo un po’ di pieghe, un po’ in tensione, infine respirando libere. Sentì gli occhi pizzicare, come tante volte davanti agli Uchiha, ma con un respiro profondo trattenne le lacrime.
Sbatté le palpebre, tirò su con il naso, si ricompose. Tese le braccia e strinse Hitoshi come quando era piccolo, come non accadeva da tempo. Lui fu certo di averla sentita soffocare un singhiozzo.
Poi si staccò, asciugandosi velocemente gli occhi.
«I tuoi esami sono buoni, e ci sono un po' di persone che stanno smaniando dalla voglia di vedere cosa riesce a fare il rin'negan» disse. «Penso che potremo dimetterti tra domani e dopo, giusto il tempo di aspettare gli ultimi risultati.»
«Davvero?» esultò Hitoshi. «Jiraya deve saperlo... Ha promesso di farmi leggere gli appunti che ha sul rin'negan.»
Sakura fece una smorfia al pensiero di Orochimaru che scriveva cose oscure su pergamene misteriose, ma non glielo proibì. Si limitò a prendergli una mano, smettendo di sorridere.
«Fai attenzione. Non credere a tutto quello che ci sarà scritto, fidati sempre del giudizio di Jiraya.»
Hitoshi fece per rispondere da vero gradasso Uchiha, ma fu interrotto da un bussare quasi impercettibile.
«Chi è?» chiese Sakura, voltandosi di scatto.
La porta si aprì appena appena, lasciando emergere una testa di capelli neri a un'altezza ben più bassa delle aspettative.
«Ehm... Mei Lee» borbottò una vocina.
«Cercavi me?» Sakura si alzò in piedi, andando ad aprire la porta. «E' per Kotaro?»
«No no, io veramente...» Mei si schiarì la voce, che era risalita in maniera imbarazzante. «Quel cretino di mio fratello sta facendo impazzire mia madre perché non vuole stare in ospedale. Allora mi ha mandato in giro a vedere come stanno i suoi compagni. Così la smette di rompere. Forse.»
«Sono tornati?» sbottò Hitoshi. «Mamma, i ragazzi sono tornati e non me l'hai detto?»
«Non me l'hai mai chiesto» svicolò Sakura. «Avevi altro a cui pensare...»
«Kotaro è ricoverato? Anche Chiharu?»
Sakura si schiarì la voce rumorosamente, impedendo a Mei di rispondere.
«Chiharu aveva solo ferite superficiali, è tornata a casa. Tu e Kotaro, invece, è meglio se vi muovete il meno possibile finché non daremo il via libera. Non farmi cambiare idea sulle tue dimissioni.»
Mei fissò Sakura senza sapere cosa pensare. L'enormità della bugia della signora Uchiha la metteva in imbarazzo, anche perché sapeva di aver usato il plurale quando aveva detto che Kotaro l'aveva mandata a cercare i suoi compagni. Se Hitoshi l'avesse messa alle strette come si sarebbe dovuta comportare?
«Se sta per essere dimesso posso dire a Kotaro che sta bene?» tentò di troncare.
«Mamma, sai che sto bene. Posso andare a trovare almeno Kotaro? Saranno due piani di scale. Con l'ascensore» la ignorò Hitoshi. Aveva avvertito una piccola fitta di risentimento all'idea che Chiharu fosse a casa da un po' e non lo avesse cercato.
«E' meglio di no, Kotaro ha bisogno di molto riposo. Ossa rotte. Tante. Vero Mei?»
Mei cercò di rendersi invisibile, sprofondando nell'imbarazzo. Perché l'avevano messa in mezzo?
«Sakura!»
Tutti sobbalzarono per la sorpresa. Sulla porta rimasta aperta, ma evidentemente mai vuota quel giorno, era comparso all'improvviso Naruto, e a giudicare dalla ruga tra le sue sopracciglia non era lì per una visita di cortesia.
«Sakura, devo parlarti subito. Vieni con me» disse.
«Solo un momento, devo...» esitò lei, fissando Mei con apprensione.
«No. Subito.»
Sakura spostò lo sguardo su Naruto. Poi, istintivamente, su Hitoshi. Si sentì a disagio, ora che il figlio sapeva tutta la storia, e dovette schiarirsi la voce.
«Spero che sia davvero importante...» mormorò tra i denti. «Mei, torna da Kotaro. Hitoshi, se scopro che sei uscito dal letto ti dimetto tra un anno!»
Naruto la lasciò passare e richiuse la porta.
Mei si schiarì la voce, ritrovandosi a pensare ancora una volta all'invidia delle sue amiche se avessero saputo che era sola con Hitoshi Uchiha.
«Allora io vado» disse in fretta, sgusciando verso l'uscita.
«Mei.»
Si fermò.
Hitoshi la fissò, lei fissò lui. Se l'Uchiha fosse stato tipo da sorridere falsamente lo avrebbe fatto; invece rimase serio, ma le indicò la sedia accanto al letto.
«Resta ancora un po'. Raccontami come stanno Kotaro e Chiharu... Come hai appena visto, io sono obbligato a stare qui.»
«Dovrei tornare da mio fratello...»
«Dai, cinque minuti.»
Mei deglutì.
Oh, maledizione alle amiche che le avevano riempito la testa su quanto fosse figo il rampollo Uchiha!


Naruto camminava come se avesse sotto i piedi un esercito di scarafaggi da schiacciare.
Senza fornire una parola di spiegazione portò Sakura fino all'ultimo piano per raggiungere la terrazza dell'ospedale.
A quel punto, finalmente, si girò a guardarla.
«Che stai combinando con Chiharu?»
Sakura si irrigidì visibilmente.
«In che senso?» tergiversò.
«Perché è in quella stanza lontano da tutto? Perché gli Anbu la sorvegliano? Perché un medico le ha detto che non può più essere ninja e io non ne sapevo niente?»
Sakura si costrinse a fare un respiro profondo, rilassando le spalle.
«Perché, Naruto, se te lo avessi detto avresti fatto casino.»
«Cosa? Di che cazzo stai parlando? Metti sotto sorveglianza uno dei miei ragazzi senza dirmelo, e il casino lo farei io?» sbottò Naruto.
«Come hai sempre fatto!» replicò Sakura, alzando la voce. «A partire da Sasuke.»
«Ma che c'entra Sasuke adesso?»
«E' proprio perché c'entra, se non ti ho detto niente!» sbottò lei. «Vuoi sapere perché ho messo Chiharu sotto sorveglianza? Perché è da sorvegliare, e da interrogare, e forse dovrà anche essere trattenuta, se non peggio. Tu ricordi con chi andava in giro prima di andare in missione a Suna, vero? Era anche al suo compleanno... Era ovunque insieme a lei.»
Naruto spalancò la bocca. «Tu pensi che Chiharu lavorasse con Yoshi
«Non ho detto questo. Non ancora» Sakura si passò una mano sul viso. «Ma non può non sapere qualcosa, è impossibile che non si sia mai accorta di niente...»
«Chiharu? Non ha senso. E' la figlia di Shikamaru. E' cresciuta con noi!»
«Anche Sasuke era cresciuto con noi.»
Naruto fece un gesto di esasperazione. «No. Non è possibile. E' arrogante, individualista e cretina, ma non è una traditrice. Me ne sarei accorto, Sakura! E' la mia allieva.»
«Nemmeno Kakashi si era accorto...»
«Sì invece, e lo sai. Sperava che Sasuke non scegliesse Orochimaru, ma aveva sempre temuto che potesse succedere. Chiharu non è così, andiamo! Lei non ha alle spalle la storia di Sasuke, non ha ragioni per odiarci.»
Sakura scosse la testa. «Sei proprio sicuro? Quella ragazza è sempre stata per i fatti suoi... Davvero sai cosa le passa per la mente?» Naruto serrò le labbra, ripensando all'evocazione rimandata indietro, ma Sakura continuò, senza lasciargli il tempo di ribattere. «Da quando Chiharu ha indossato quel coprifronte ci ha causato più guai che altro. Non ascolta nessuno, mai. Per causa sua Hinata è quasi morta, cinque anni fa!»
«Sakura, piantala. Aveva tredici anni, non sapeva quel che faceva...»
«Non lo sa neanche adesso, è proprio questo il problema!» Sakura sbuffò. «Ho chiesto a uno dei miei migliori medici di occuparsi di lei... Non hai idea di come si è conciata; le sue analisi fanno venire i brividi. Chiharu non ha rispetto nemmeno per il suo corpo, perché dovrebbe averlo per Konoha? L'unica cosa che le interessa è essere la prima, la più forte. E questo è pericoloso.»
Naruto scosse la testa, ma intimamente vacillò. Era vero che Chiharu era ossessionata dall'idea di essere forte, ma fino a che punto lo era? Avrebbe accettato le promesse di uno come Orochimaru, se gliele avessero fatte? Avrebbe accettato l'aiuto di uno come Yoshi...
«No. Non è vero che le interessa soltanto essere la più forte» insisté. «Lei è già convinta di esserlo, come tuo figlio e Kotaro. Non si sarebbe messa dalla parte di Yoshi sperando in qualche stupida tecnica segreta...»
Sakura lo interruppe subito. «Tutte supposizioni, Naruto. Tu hai un debole per i ragazzi della tua squadra, non sei oggettivo quando ne parli. Non lo eri nemmeno con Sasuke, non lo ero io né lo era Kakashi. Per questo me ne sono occupata da sola, senza coinvolgerti: dobbiamo capire come si comporta Chiharu adesso che è tornata. Voglio vedere se cercherà di contattare Yoshi, come reagirà sapendo della sua cattura... Sospetto che c'entri qualcosa, ma non so cosa, e voglio scoprirlo.»
Naruto rimase in silenzio. Avrebbe tanto voluto parlare con Kakashi per fare un po' di chiarezza tra i suoi pensieri, ma il maestro era ancora in rianimazione. Forse poteva parlarne con Sasuke? Ma come affrontare il discorso dei suoi anni da traditore?
«Dobbiamo richiamare Shikamaru» disse torvo.
«No.»
«E' sua figlia!»
«Lei ha chiesto espressamente che non sapesse niente delle sue condizioni» sospirò Sakura. «Lo vedi che agisce senza pensare? Comunque preferisco che sia sola, se posso scegliere. Ho bisogno di vedere cosa fa senza che la gente cerchi di coprirla» scoccò un'occhiataccia a Naruto. «Ho bisogno che tu non ti intrometta. Ho bisogno che ti fidi di me.»
Lui rimase immobile, la testa piena di idee confuse. L'ipotesi che uno dei suoi ragazzi potesse averli traditi lo faceva sentire come se anche lui avesse contribuito.
«Non toglierò la sorveglianza a Chiharu» riprese Sakura, vedendo che non obiettava.
«Shikaku se ne è accorto.»
«Gli dirò che la stiamo proteggendo nel caso in cui qualche fuggitivo della nuova Radice cercasse vendetta. E gli dirò anche di non avvisare Shikamaru, per volontà di Chiharu. Se vuole potrà occuparsi di lei in persona, per quanto glielo permetterà.»
«Sakura... Lo stai facendo davvero?»
«Lo stiamo facendo, Naruto. E' il nostro dovere come Hokage. Kakashi si sarebbe comportato nello stesso modo.»
Calò il silenzio.
Naruto non si sentiva così lontano da Sakura almeno da diciotto anni. Forse gli faceva più male l'idea che lei sospettasse di Chiharu, che l'idea che Chiharu fosse una traditrice.
«E a proposito di dovere...» Sakura si schiarì la voce, incrociando le braccia sul petto. «Dobbiamo decidere cosa fare di Akeru Baka.»
«Perché?»
«Perché ha disonorato l'intera squadra medica firmando quel contratto di custodia. Non aveva neanche letto la cartella clinica di Chiharu... Come membro del consiglio disciplinare non posso permettere che un tale cretino sia tra le fila delle mie squadre.»
«Non è un problema di voi medici?»
«Per togliergli la carica ho bisogno del tuo sigillo.»
«Vuoi davvero degradarlo a shinobi semplice?»
«Nella migliore delle ipotesi è talmente innamorato di Chiharu che le avrebbe firmato qualunque cosa; nella peggiore è anche lui complice di Yoshi...»
Naruto fece una smorfia. «Non credo proprio: tutti i maschi intorno a Chiharu hanno sempre detestato Yoshi... Smettila di vedere complotti ovunque.»
«E va bene, diciamo che non c'entra con Yoshi; resta il fatto che non voglio tra i miei un medico che si fa manipolare dalle pazienti che gli fanno vedere mezza coscia.»
Naruto dovette ricordare a sé stesso che aveva promesso di aiutare Baka, perché il primo impulso fu di lasciarsi andare a un commento da camerata maschile, e sarebbe stato controproducente. «Io penso che lo avrebbe fatto solo con Chiharu» disse. «Invece di rovinargli la vita, puniscilo clamorosamente e tienilo sospeso due mesi... O lascia decidere a Gaara. Dopotutto quel contratto è una cosa della Sabbia.»
«Ma così dovrei fargli sapere che Chiharu è ricoverata, e se lo faccio violo l'accordo di riservatezza che ha firmato. E comunque ho in mente un altro lavoro per Akeru, dove potrà fare molti meno guai: pensavo di mandarlo da Morino. Ricordi? Abbiamo bisogno di gente che faccia gli interrogatori.»
«Seriamente? Ne sarà in grado?»
«Te l'ho detto, nei test è stato tra i migliori.»
«E se provassi a parlarci io?»
«Smettila di difendere tutti gli allievi, Naruto!» esclamò Sakura esasperata.
La porta della terrazza si spalancò di colpo, facendo trasalire entrambi.
«Trovati!» esclamò Konohamaru, ansante. «E' successo!»
«Cosa?»
«Hitoshi?» trasalì Sakura.
«No... La Roccia. Abbiamo appena ricevuto la loro dichiarazione di guerra.»




In conseguenza dell'atroce massacro della Fortezza di Anka,
durante il quale una squadra di shinobi della Foglia,
in piena violazione degli accordi,
ha sgozzato e pugnalato la famiglia del dignitario locale,
Noi Paese della Roccia
prendiamo il titolo di parte lesa
e dichiariamo ufficialmente guerra al Paese del Fuoco.








* * *


Cari lettori e lettrici,
perdonate la mia lunga assenza da queste pagine.
Come anticipato nell'ultimo aggiornamento
avevo trovato un lavoro troppo impegnativo,
al punto che non sono più riuscita a scrivere né a pubblicare qualcosa.
Per fortuna adesso mi sono liberata di quel lavoro,
tornando ai ritmi che mi sono più consoni,
e sono di nuovo qui per raccontarvi di Naruto e dei mocciosi.

Presentandomi con una bella bomba.

Sì, mi ero interrotta in un punto piuttosto critico.

Ancora una volta vi ringrazio per la pazienza e la dedizione
che dimostrate a questa storia.
Siete voi il vero carburante che la porta avanti.
Scusate se sono così inadeguata come avantreno.


Susanna


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Capitolo 36
*** La guerra ha inizio ***


Penne 36
16/09/2016

Capitolo trentaseiesimo

La guerra ha inizio




Il messaggio era reale. Nero su bianco, timbrato e controfirmato da dieci dignitari della Roccia. La sua sola presenza soffocava tutta la scrivania dell'Hokage, nonostante fosse solo un pezzo di carta.
Nella stanza regnava il caos: la porta si apriva ogni trenta secondi per lasciar entrare Anbu che dovevano riferire, in un angolo Konohamaru sfogliava gli enormi archivi degli shinobi per reclutare tutti quelli che poteva, da un lato all'altro della scrivania Sakura prendeva pezzi di carta, li leggeva e li dimenticava sopra alte pile di fogli.
Naruto faceva avanti e indietro, intralciando praticamente tutti, nel mezzo di una violenta invettiva contro Kakashi - che aveva il cattivo gusto di essere in coma proprio in quel momento. Aspettava notizie da Shizune, che era stata mandata in ospedale per capire se c'erano speranze di risveglio a breve.
«Cosa devo farne di Baka?» domandò Konohamaru a un tratto, sovrastando il vocio. «Lo considero tra gli Anbu medici o...?»
«No, toglilo» lo interruppe Sakura. «Manda qualcuno a chiamare Morino!»
«Sono il messaggero del Daimyo, devo conferire con l'Ho... gli Ho... Chiunque sia il capo, qui» tentò di inserirsi un ometto un po' troppo elegante, facendosi largo oltre la porta.
«Che c'è?» sbottò Naruto. «Non ho tanto tempo, parla in fretta.»
«Naruto!» Sakura si mise in mezzo, afferrando il funzionario per il gomito e traghettandolo con mille scuse verso una stanza privata.
«Shizune, finalmente! Kakashi?» gridò Naruto, vedendo arrivare le notizie sperate dal fondo del corridoio.
Ma lei scosse la testa: «nessun cambiamento. Dorme.»
«Maledizione!» Naruto si trattenne dallo sbattere il pugno sulla scrivania, voltandosi di nuovo. «Ho bisogno di Sasuke qui. Andatemelo a prendere!»
Qualche centimetro oltre il bordo della scrivania, in cima a una piccola pila di promemoria, la dichiarazione di guerra della Roccia se ne stava quieta, un po' stropicciata. Così leggera, eppure così devastante.


Erano stati i dieci minuti più lunghi nella vita di Mei Lee.
Confrontati con l'interrogatorio di Hitoshi, anche gli esami per il coprifronte sembravano una bazzeccola.
Quando tornò da Kotaro e Tenten, Mei era fisicamente e mentalmente spossata, tanto che si lasciò cadere seduta a terra con una mano a coprire gli occhi.
«Chiharu non ha neanche voluto farmi entrare, il che secondo suo nonno è un buon segno» disse facendo un respiro profondo. «Hitoshi sta bene. Fin troppo bene. E' più insopportabile che mai, spero che prima o poi gli si paralizzi la lingua...»
«Non sei riuscita a sapere qualcos'altro di Haru?» la interruppe Kotaro.
«No! Se ti interessa tanto alza il culo e vai a farti insultare tu da lei!»
«Non istigarlo...» borbottò Tenten, porgendole un piattino di arance a spicchi.
«E Hitoshi perché è ancora in ospedale, se sta bene?» insisté Kotaro.
«Perché ha una nuova tecnica misteriosa, e sua madre lo tiene in ostaggio come la nostra fa con te. Ha detto che appena lo dimetteranno verrà a fartela vedere.»
«Una nuova tecnica? Ancora?» le spalle di Kotaro si afflosciarono di qualche centimetro, ma durò appena un secondo. «Beh, io ho aperto quattro porte del chakra e sto lavorando sulla quinta...»
«Tu stai cosa?» chissà come, il kunai lucidato era ricomparso tra le mani di Tenten.
«Significa che non tornerai a casa?» gemette Mei.
«Dai mamma, lasciami in pace!» si lamentò Kotaro.
Mei sbuffò, prendendosi la testa tra le mani. Era fastidioso sentire la sua famiglia che battibeccava ogni giorno, ogni ora, per ogni cosa... Hitoshi e Sakura avevano almeno l'eleganza di litigare quasi sottovoce; considerato che Kotaro e Tenten invece lo facevano a volume altissimo, Mei ammirava un po' gli Uchiha.
D'altronde, c'era qualcosa che quella famiglia non facesse con classe? Persino le minacce di Hitoshi erano state molto velate e quasi gentili. Alcune le aveva prese per complimenti, anche se riflettendoci meglio probabilmente non lo erano.
Sì, perché Hitoshi l'aveva invitata a restare in maniera molto minacciosa, su questo non c'era dubbio, e la minaccia era proseguita per tutto il tempo che erano rimasti insieme: per circa un minuto aveva finto di essere interessato a Kotaro, poi si era concentrato sull'elaborazione di un piano contorto per arrivare a scoprire se lei sapeva qualcosa di Chiharu.
Ed era stato difficilissimo sostenere la bugia di Sakura: mentre Mei si arrampicava sugli specchi per parlare di Kotaro senza nominare Chiharu, Hitoshi l'aveva vivisezionava alla ricerca di punti deboli; un po' l'aveva lusingata, un po' aveva preso i discorsi alla larga, un po' aveva cercato di coglierla di sorpresa, ma lei si era aggrappata all'unica frase che aveva pronunciato Sakura prima di uscire, e aveva ripetuto a oltranza che Chiharu era a casa perché aveva riportato solo ferite lievi.
Non aveva idea che un bel faccino potesse essere tanto suadente... Forse iniziava a capire un po' le sue amiche.
«Mamma, secondo te perché la madre di Hitoshi gli ha detto che Chiharu non è qui in ospedale?» chiese Mei tutt'a un tratto.
Tenten e Kotaro, che stavano ancora battibeccando, si zittirono per fissarla.
«Te lo ha detto Hitoshi?» chiese Tenten.
«No. L'ho sentito da lei. Quando Hitoshi ha chiesto se anche Chiharu era in ospedale mi ha impedito di rispondere e gli ha detto subito che era a casa, perché era rimasta ferita solo lievemente.»
«Se Hitoshi sapesse che Chiharu è qui andrebbe a cercarla anche con tutte e due le gambe rotte» borbottò Kotaro, con voce quasi inaudibile.
Tenten gli gettò un'occhiata veloce, poi socchiuse le palpebre, riflettendo.
«Mei, posso chiederti un cambio? Resta a controllare tuo fratello un paio d'ore, mi è venuta in mente una cosa che devo fare subito.»
«Ma io voglio tornare a casa!» piagnucolò Mei.
«Un'ora, non di più. Vado e torno.»
«Non voglio... Kotaro è vecchio, può cavarsela da solo!»
«Per una volta sono d'accordo» si inserì lui.
«E invece stai qui e gli proibisci di mettere i piedi giù dal letto. Non voglio sentire storie!»
Tenten si alzò dalla sedia, incurante delle proteste congiunte dei suoi figli. Lei sapeva che Yoshi era stato catturato – anche se gli ordini erano di non diffondere la notizia - e sapeva da Kotaro che lui e Chiharu erano molto intimi. Dal momento che si trattava pur sempre della squadra che doveva parare le spalle al suo primogenito, voleva capire se Chiharu era nei guai o cosa.
Quando la porta sbatté, lasciando scomparire Tenten, Mei e Kotaro si ritrovarono soli, ai lati opposti della camera, a squadrarsi con risentimento.
«Non ho bisogno di una balia più piccola di me» protestò Kotaro.
«Per me puoi anche andare subito a sbavare ai piedi del letto di Chiharu, sai che me ne frega?»
«Cosa? Io non... ah, lasciamo perdere! Sei spietata, Mei. Non capisco cosa ti ho fatto per renderti così crudele.»
Mei scrollò le spalle. Cosa gli aveva fatto, a parte essere uno degli alunni più brillanti del suo anno, l'allievo del quasi Hokage, aver aperto le porte del chakra e, particolare di grande rilevanza, essere il cocco indiscusso di papà? Ah sì: e non rendersi minimamente conto di tutto questo?
«Scommetto che Chiharu ti tratta molto peggio, ma a lei non dici niente» insinuò caparbia.
Kotaro non raccolse la provocazione, invece buttò le lenzuola in fondo al letto.
«Dove vai?» scattò subito Mei. «La mamma ha detto...»
«Vado in bagno! Vuoi seguirmi? Mamma lo fa.»
«Non voglio seguirti in bagno. Ma se provi a scappare...»
Qualcuno bussò alla porta. I due Lee si voltarono contemporaneamente, aspettandosi per un folle secondo che Tenten fosse tornata a controllarli; realizzarono che lei non avebbe bussato solo quando ad aprire la porta fu, a sorpresa, Hitoshi.
Mei si lasciò scappare un piccolo gemito sorpreso.
«Disturbo?» esordì Hitoshi, sgusciando all'interno rapidamente per poi richiudere subito la porta.
«Hitoshi! Non eri bloccato anche tu in camera?» esclamò Kotaro, suo malgrado felice di vedere un volto amico dopo tutte quelle ore di Tenten.
«Mi sono ricordato di essere un ninja: ho lasciato una copia in camera e sono venuto qui.»
Kotaro sospirò: lui non poteva lasciare copie da nessuna parte, e non era ancora stata trovata la porta del chakra che lo avrebbe aiutato. L'unica consolazione era che Hitoshi fosse venuto subito da lui, il che non era proprio scontato, anche se erano compagni di squadra... Non si vedevano da prima della missione di Loria. Finalmente sentiva un po' di spirito di gruppo – forse.
«E' vero che hai una nuova tecnica?» chiese al volo, dimenticandosi il bagno.
«Visto che c'è lui io posso andare?» tentò Mei.
«Sì sì, vai pure...»
«Poi mi copri con mamma?»
«Io non copro un tubo! Se devi andare vai, prenditi le tue responsabilità... Che tecnica è?»
Hitoshi rivolse una brve occhiata a Mei, che si sentì arrossire di colpo. Non era per il suo sguardo: era per tutte le bugie che gli aveva raccontato. O almeno le piaceva pensarlo.
«Sì, ho una nuova tecnica...» disse l'Uchiha, mantenendosi volutamente sul vago. «Per adesso è ancora acerba, ma il sennin Jiraya si è offerto di darmi una mano a svilupparla.»
«Jiraya!» esclamò Kotaro, colpito.
«Sì, mentre eravate via abbiamo fatto qualche missione insieme...» Hitoshi scrollò le spalle con finta noncuranza, incapace di resistere al vecchio vizio di vantarsi. Poi guardò di nuovo Mei, e si schiarì la voce. «A proposito, com'è andata la missione?»
«Quella di Loria, dici?» Kotaro esitò, incrociando lo sguardo allarmato di Mei. Doveva trovare un modo per non parlare di Chiharu. «Tutto bene, a parte un paio di costole rotte. Baka è stato... uhm... Sai che non dirò che è stato bravo. Mi fa venire i brividi.»
Hitoshi incurvò un angolo della bocca - l'equivalente di un sorriso, per lui - e Mei decise che doveva assolutamente andarsene.
«Le tue emicranie, invece?» riprese subito Kotaro, per non dargli il tempo di chiedere di Chiharu. «Sono passate con la nuova tecnica? Stai meglio?»
«Spero che passino. Per adesso vanno e vengono, ma riesco a controllarle» fece una smorfia. «Di sicuro non mi farò più rispedire a casa a metà missione.»
Kotaro sentì chiaro come il sole il biasimo nella voce di Hitoshi: probabilmente non gliela avrebbe mai perdonata. Ma non ebbe la prontezza di cambiare subito argomento, e così si fregò da solo, lasciando a lui il tempo per farlo.
«A proposito... Chiharu?»
Mei gettò uno sguardo orripilato a Kotaro, che ricambiò a malapena.
«E' passata a trovarmi ieri mattina» disse con calma. «E' a casa, perché è rimasta ferita solo superficialmente... Le sue costole sono più dure delle mie, sembra.»
«Capisco...» mormorò Hitoshi sottovoce. Allora da Kotaro ci era andata. Che stronza.
«Non è venuta da te?» Kotaro inarcò le sopracciglia, fingendo grande sorpresa. Ok, anche lui prendeva le sue piccole vittorie quando poteva.
«Ero in un reparto protetto. Probabilmente non aveva le autorizzazioni» ribatté Hitoshi seccamente.
«Capisco...»
Kotaro e Mei scambiarono un'altra occhiata, che non sfuggì a Hitoshi. Lo irritò.
«Domani dovrei essere dimesso» disse per cambiare discorso. «Andrò a trovarla io. Tu invece? Quanto ancora resti qui?»
«Chi lo sa? Per cercare di curarmi più in fretta ho aperto quattro porte del chakra e adesso i medici vogliono che io riposi come si deve.»
Mei soffocò una risatina in un colpo di tosse, mentre Kotaro arrossiva riconoscendo la sparata. Hitoshi invece ebbe un piccolo tic stizzito, e infilò le mani in tasca per chiuderle a pugno senza che lo vedessero.
Quattro porte del chakra?
«Bene. L'importante è che non ci siano conseguenze...» borbottò vago. «Allora torno a trovarti nei prossimi giorni.»
«Oh... Ok. Spero che ti dimettano davvero domani. In bocca al lupo.»
Hitoshi salutò con un cenno del capo, affrettandosi ad uscire. Era venuto nella speranza di sapere qualcosa in più di Chiharu, ma sembrava che tutti volessero sempre e solo ripetergli le due cose che già sapeva. Forse Sakura non gli aveva detto che erano rientrati perché aveva visto che nessuno era venuto a trovarlo. Beh, Kotaro aveva le mani legate e Chiharu era una stronza, si sapeva. Sakura non si sarebbe dovuta preoccupare per quello... Anche se lui, con quello che era successo tra loro, un po' arrabbiato lo era.
Quando lui se ne fu andato, Mei tirò un enorme sospiro di sollievo.
«Grazie. Non pensavo fossi un bravo bugiardo» disse, le gambe che tremavano leggermente.
«Nemmeno io» ammise Kotaro stupito. «Comunque mi devi un favore: ti ho aiutato anche se non lo meritavi.»
Mei sbuffò. «Cosa vuoi?»
«Devi creare una copia e metterla sotto le coperte trasformata in me.»
«No! Se mamma lo scopre...»
«Vado a richiamare Hitoshi?»
«No! Oh, accidenti a te! Non sei affatto buono come credi, sei perfido quasi quanto me. So cosa vuoi fare: vacci e torna presto.»
Kotaro sorrise, sfilandosi la camicia da ospedale per afferrare al volo dei vestiti buoni. «Grazie. Sei proprio un tesoro di sorellina!»

...Anche se un po' ingenua.
Kotaro non avrebbe mai rincorso Hitoshi per rivelargi che Chiharu era ricoverata: l'ultima cosa che voleva era che l'Uchiha andasse a trovarla con la sua nuova tecnica e il ciuffo bruno che ricadeva sulla fronte con quell'onda perfetta. E se Hitoshi avesse scoperto della sua visita segreta, gli avrebbe detto di aver saputo di Chiharu dopo aver parlato con lui.
Aveva trovato la stanza giusta grazie alle spiegazioni di Mei. Una volta arrivato in quella strana ala dell'ospedale si era accorto dei due uomini fuori dalla porta, ma aveva pensato che fossero lì per altri pazienti. A quel punto, visto che c'erano dei testimoni, aveva dovuto bussare senza potersi preparare adeguatamente.
«Chi è?»
La sua voce, un po' ovattata. Non sembrava aggressiva. Forse era solo stanca quando Mei era passata...
«Kotaro.»
Silenzio.
«Posso entrare?»
Altro silenzio.
Kotaro si voltò e vide i due uomini che si scambiavano un'occhiata.
«Chi tace acconsente?» tentò di buttarla sul ridere.
Non aveva voglia di diventare la barzelletta dell'ospedale perché era stato rimbalzato da Chiharu, così, di fronte all'ennesimo silenzio, abbassò la maniglia e aprì la porta.
Chiharu, che era coricata di spalle, sentendolo entrare si girò di scatto e lo fulminò.
«No, non puoi entrare!» sbottò.
«Io...» iniziò Kotaro, esitando; poi vide le occhiaie scure sotto i suoi occhi, i capelli che non venivano pettinati da giorni e il vassoio con il pranzo intatto. «Come sei ridotta?» gli sfuggì.
«Oh, perfetto!» esclamò Chiharu, tirandosi il lenzuolo sopra la testa. «Un altro medico.»
Kotaro entrò nella stanza e richiuse la porta, avvicinandosi al letto.
«Dai Haru, sono io... Ti ho vista venire fuori da un condotto fognario, una volta. Non puoi essere peggio di così. Almeno non puzzi.»
«Che vuoi?» chiese lei, senza uscire dal lenzuolo.
«Sono venuto a trovarti. E per farlo ho dovuto ricattare mia sorella e convincerla a mettere una copia nel mio letto, perché mia madre mi sta facendo la guardia peggio di un mastino.»
«E quindi?»
«Volevo sapere come stai...»
Un medico le aveva detto che sarebbe morta, il suo maestro le aveva detto che faceva schifo e suo nonno non le aveva detto proprio niente per tirarla su, perché non sapeva nulla di tutto ciò. Stava di merda.
«Sto. Ora te ne vai?» mormorò.
Kotaro sbuffò, ma prese una sedia e la trascinò accanto al letto. «Non te ne è mai fregato niente di essere pettinata, non sei sotto le coperte per quello. E' per come è finita la missione?»
Chiharu spinse via il lenzuolo e si scagliò contro di lui. «Cioè con me che salvo il culo a tutti, dici?»
«No, intendo perché sei stata male... Perché Baka diceva...»
«Non sono stata male! Ho solo... Beh, in ogni caso ho salvato il culo a tutti! Perché vi fissate sul fatto che poi sono crollata? Perché nessuno tiene presente il dettaglio che siamo qui a parlarne grazie a me?»
«Tu? Ma allora... Aspetta un secondo. Quell'evocazione era tua? Quando te l'ho chiesto a Suna avevi detto che era di Baka.»
«Dei del cielo, perché vuoi chiacchierare a tutti i costi?» esasperata, Chiharu nascose il viso dietro le mani.
Kotaro rimase in silenzio a lungo, ma lei non accennò a muoversi né a parlare ancora. Lui non voleva andarsene così. Voleva trovare il modo di comunicare con Chiharu, voleva essere sicuro di essere ancora parte di un gruppo. Di un gruppo con lei.
«Era un'evocazione figa» disse esitante. «Non ne ho mai vista una così grande. Sei stata... Beh, ok, io non riesco a evocare neanche un girino di Naruto, quindi forse i miei complimenti sull'argomento fanno schifo. Però sei stata grandiosa.»
Grandiosa, si ripeté Chiharu. Peccato che fosse la sua ultima evocazione, a detta dei medici.
Era incredibilmente frustrante sapere di avere tutto quel potenziale e non poterlo usare. Sentire Kotaro che si complimentava con lei era come assaggiare del miele dopo un lungo digiuno... Avrebbe dato qualunque cosa per continuare a farlo.
«Grazie» mormorò.
Intuendo uno spiraglio, Kotaro si fece coraggio e proseguì: «io sono ancora fermo a quattro porte del chakra. Mezzo ospedale e mia madre mi stanno addosso perché non tenti di aprirne altre e lasci che i processi di guarigione vadano avanti da soli. Il che, con due costole rotte, è di una lentezza orripilante.»
Chiharu tolse le mani dal viso e lo fissò.
«Mamma mi fa la guardia per essere sicura che non bari. Ti rendi conto? Ma tuo padre?»
«E' andato a Suna.»
«Ah. E non è tornato quando ha saputo...»
«Stavi andando bene finché parlavi di te.»
Kotaro si accigliò, ma tacque.
«Hitoshi?» chiese Chiharu distrattamente, in fretta, per non lasciargli il tempo di pensare ad altre domande.
«Hitoshi...» Kotaro si passò una mano sul collo, formicolante per il senso di colpa. «Lui è in forma, direi... I suoi mal di testa gli hanno fatto sviluppare una nuova tecnica – che sorpresa, Uchiha che fanno cose straordinarie solo sbattendo le palpebre. Strano, vero?»
«Una nuova tecnica» ripeté Chiharu.
«Non ha voluto dirmi cos'è. Dice che Jiraya lo aiuterà a usarla...»
Un muscolo sulla guancia di Chiharu guizzò nervosamente.
Hitoshi Uchiha, rispedito a casa con infamia perché inabile a completare la missione, sviluppava una nuova tecnica sotto la supervisione di uno dei tre ninja leggendari.
Lei veniva rinchiusa in una stanza di ospedale con l'etichetta di invalida, incosciente e minaccia per i compagni.
E Kotaro apriva porte del chakra come fossero noccioline.
Era ingiusto, troppo ingiusto.
«Dovresti andarsene» disse in tono duro.
«Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Kotaro, senza capire.
Chiharu sentì un'ondata d'ira risalire dallo stomaco alla testa.
«Hai sempre...» iniziò, furiosa, ma fu interrotta.
«Permesso, buon... oh.»
Sia lei che Kotaro si voltarono verso la porta, da dove era appena entrata un'infermiera con un vassoietto metallico.
«Scusate, ma è l'ora dell'iniezione» disse sorridendo. «Può aspettare fuori, per cortesia?»
Kotaro si alzò dalla sedia così in fretta che la fece cadere. «Certo. Vado subito» assicurò, scusandosi a profusione. «Anzi, vado del tutto. Haru...» esitò, cercando il suo sguardo. «Noi siamo ancora il gruppo sette.»
Lei, guardando fuori dalla finestra, strinse le labbra senza dire nulla.
Kotaro sospirò e uscì.
«Allora, come stai oggi?» chiese l'infermiera, tirando fuori una boccetta trasparente e una siringa.
«Bene. Come sempre» ribatté lei, lasciandosi cadere sul cuscino e sollevando la manica. «Quando mi dimettono?»
«Sai che non lo devi chiedere a me. Chi era il ragazzo che è venuto a trovarti?»
«Un mio compagno.»
«Spero che la sua visita ti abbia fatto piacere.»
Chiharu fece una smorfia. Kotaro le aveva portato notizie orribili, ma... era venuto da lei. L'unico. Né Hitoshi né Baka, nonostante tutto quello che c'era stato, si erano presentati.
L'infermiera riempì la siringa con il medicinale e si avvicinò al letto, laccio emostatico alla mano.
Chiharu fece un respiro profondo, abbandonando l'espressione scontrosa per assumerne una afflitta. Le aveva fatto piacere vedere qualcuno che le voleva bene, oltre a suo nonno?
«Sì, mi ha fatto piacere.»
Negli occhi dell'infermiera passò un guizzo, il bagliore di qualcosa troppo rapido per essere definito. «Prima ti riprenderai, prima potrai uscire di qui» disse, con un sorriso un po' enigmatico.
Chiharu non la guardò mentre iniettava il medicinale - non le piaceva vedere l'ago che entrava nella pelle - ma lei guardò Chiharu.
Sorridendo.


La giornata era finita, anche se a fatica, ed era stata un incubo. Sia la dichiarazione di guerra sia la necessità di prepararsi ad affrontarla erano stati un brutto sogno scagliato nella realtà da una divinità crudele.
Molte famiglie, quasi tutte, quella notte avrebbero faticato a prendere sonno. Molte vite erano state stravolte, e molte cose dovevano ancora succedere.
Sasuke e Sakura, messi a letto i bambini, si trovarono soli nella loro camera da letto, in silenzio.
Si prepararono per andare a dormire scambiandosi brevi sguardi cauti, senza aprire bocca. Come automi compirono i gesti meccanici che avevano sempre preceduto le ore di sonno, in attesa del momento in cui uno dei due avrebbe parlato, o di un miracolo che avrebbe appianato ogni ruga. Infine si trovarono l’uno di fronte all’altra, in piedi alle estremità del letto, pronti per andare a dormire, eppure immobili.
Fu Sakura a parlare per prima.
«Vorrei solo svegliarmi domattina e scoprire che non è mai successo» disse sottovoce.
Sasuke annuì.
«Sono esausta. E so che domani sarà peggio, dopodomani peggio ancora e via così... E mi sento in colpa.»
«Perché? Non è colpa tua.»
Sakura strinse le labbra, parlando a fatica. «Mi sento in colpa... Perché anche se mi sarei dovuta preoccupare soltanto della guerra e di come prepararla, non ho mai smesso di pensare a Hitoshi e a quello che ha saputo di noi.»
Un attimo di silenzio.
«Avete parlato.»
«Sì.»
«E lui?»
«Ha detto che non è cambiato nulla. Che è ancora orgoglioso del cognome che porta e di quello che è.»
Sakura rialzò leggermente gli occhi, incrociando quelli di Sasuke. Lo vide esalare un sospiro di sollievo, e le sembrò che distendesse i muscoli del viso.
«Sei sicuro di avergli raccontato proprio tutto?» domandò dubbiosa.
Lui, sorprendentemente, si lasciò andare a un mezzo sorriso.
«Dalla prima all’ultima parola» assicurò. «Da quando avevo sei anni a oggi.»
«Quindi... Anche di Naruto...?»
«Anche di Naruto.»
«E lui è comunque orgoglioso di noi?»
«A quanto pare, sì.»
Sakura fece una smorfia. «Probabilmente non ha capito del tutto...»
«Io credo che abbia capito, invece» la contraddisse Sasuke. «Ma non so di preciso cosa gli frulli nella testa... Ha parlato molto poco, mentre io raccontavo, e alla fine non ha detto una parola. Credevo che avesse perso ogni briciola di stima...»
«Figurati» questa volta fu Sakura a sorridere. «Non è solo tuo figlio, è anche mio. Lo sai che, come me, non smetterà mai di amarti incondizionatamente.»
Sasuke la guardò. Erano sposati da quasi vent’anni, e dopo tanto tempo insieme certe frasi non si sentono più. Ne fu quasi imbarazzato.
«Nessun altro è stato dalla nostra parte, allora» mormorò, scurendosi di nuovo.
Sakura camminò attorno al letto fino a raggiungerlo; gli prese le mani tra le sue.
«Ma Hitoshi è parte di noi» disse. «Hitoshi è un Uchiha, ed è mio figlio. E poi... E' anche come Naruto. Un po' ingenuo, un po’ idiota... un po’...» la voce le morì in gola, soffocata da un nodo imprevisto. «Ci ha messo del tempo, ma alla fine è stato lui il primo a mettersi dalla nostra parte. Senza di lui nessuno ci avrebbe mai perdonati.»
Sasuke appoggiò la fronte contro quella di Sakura, serrando le palpebre. La luce delle lampade li avvolse in un abbraccio caldo, simile a quello delle parole che abbiamo bisogno di dire a voce alta, che premono per uscire fino a far male, fino a scavare solchi nella gola, fino a sfuggire, involontarie, rischiando di uccidere. Quelle stesse parole che, dette volontariamente, spesso salvano chi le dice e chi le ascolta.
«Perché ci ha perdonati?» sussurrò Sasuke. «Perché, nonostante quello che gli abbiamo fatto, ci ha perdonati?»
«Non lo so» rispose Sakura. «Ma lo ha fatto. E anche Hitoshi lo ha fatto... E forse, alla fine, gli unici che non sono riusciti a perdonare siamo proprio noi.»
Sasuke prese il volto di Sakura tra le mani e premette la bocca contro la sua con forza, come il primo giorno, quel giorno maledetto in cui avevano pugnalato Naruto alle spalle. Lei non si sottrasse - non lo aveva mai fatto - affondò le mani nella camicia del suo pigiama e si strinse a lui, il cuore che batteva forsennato dopo tanto e tanto tempo.
«Siamo orribili» sussurrò, a un passo dai singhiozzi, nascondendo il viso contro il suo collo. «In tutto questo tempo non ci siamo mai, mai pentiti...»
«Eppure lui ci ha perdonati» replicò Sasuke, baciandole i capelli, la fronte, le tempie. «E credo che se sapesse cosa pensiamo, direbbe che è ora che lo facciamo anche noi.»
Le sollevò il mento, asciugando le lacrime che erano arrivate alle guance. Guardandola, gli sembrò che il tempo non fosse mai passato; che fossero rimasti lì, a diciotto anni prima, intrappolati nell’attimo in cui avevano scoperto l’uno nell’altra.
Come allora, la baciò.
Come allora, le sue mani cercarono la sua pelle, il suo tepore, i contorni che aveva dimenticato, ma che erano sempre lì, familiari e rassicuranti.
Come allora, dopo tantissimo tempo, chiusero gli occhi, affondando nel mormorio dei loro respiri. E, baciandosi, sentirono che le guance di entrambi erano bagnate di lacrime.
«Sasuke... Quante volte ancora te ne andrai?» sussurrò Sakura, contro il suo orecchio.
«Non lo so.» rispose, sincero. Era inutile mentire.
«Ma tornerai sempre?»
«Sì.»
Sakura lo strinse più forte.
Tornare. Questo era l’importante, se Sasuke non poteva fare a meno di allontanarsi: che tornasse da lei.
Come lo aveva inseguito e ripreso una volta, lo avrebbe fatto altre cento, altre mille. Sempre.

Non potevano perdonarsi.
Non potevano dimenticare gli occhi di Naruto il giorno in cui lo avevano tradito, né la morsa allo stomaco quando si erano resi conto di avergli strappato passato, presente e futuro, tutti insieme.
Anche se gli altri erano riusciti a perdonare, loro non lo avrebbero fatto mai, non completamente...
Ma non si sarebbero nemmeno pentiti.


Nell'ufficio dell'Hokage, finalmente solo, Naruto fissava le stelle sorte da poco.
Aveva lavorato anni per evitare che si arrivasse a quel punto. Lui e Kakashi, insieme, avevano fatto di tutto perché la diplomazia scongiurasse il peggio... E poi era stato proprio Kakashi a far scattare la scintilla.
Assurdo. Triste. Arrabbievole.
Esisteva la parola arrabbievole? Ne dubitava. Ma era molto arrabbiato.
Dagli interrogatori di Haruka e Jin era emerso che si erano allontanati da Anka senza uccidere nessuno che non fosse un mercenario. La Roccia, quindi, aveva barato.
Avrebbero potuto fare ricorso, cercare di dimostrare che loro non c'entravano niente con il massacro di Anka, ma a cosa sarebbe servito?
Dimostrare che la loro dichiarazione di guerra era illegittima sarebbe stato macchinoso, complicato e lungo... Nel frattempo avrebbero dovuto combattere comunque. Non ne valeva la pena. La Roccia voleva la guerra e aveva avuto il suo pretesto; non li avrebbero ascoltati.
Con Sakura avevano stabilito di rilasciare una dichiarazione di non colpevolezza senza tante speranze, e nel frattempo di prepararsi a difendersi. Sarebbe stato difficile, doloroso e, a suo dire, inutile – come tutte le guerre. Ma che altro potevano fare? Erano caduti nella trappola.
E' per questo che siete stati addestrati, gli ricordò Kyuubi dalla sua gabbia. E' per questo che io e te siamo insieme.
Era davvero così?
La loro esistenza, la loro personalità, i loro sentimenti erano stati guidati per arrivare a sostenere quella guerra?
La profezia, Naruto... E' il tuo destino.
Erano solo fantocci senza potere? Le loro vite, i loro dolori, erano solo lo sfondo per qualcosa di più grande? Tutto quello che aveva vissuto con Sakura, Sasuke, con Hinata e i ragazzi che aveva cresciuto... Tutti asserviti al piano di una volontà misteriosa?
Come tutti gli uomini.
Naruto strinse le labbra.
«Io non sono come gli altri uomini» sussurrò. «Te l'ho detto tanti anni fa, te lo ripeto anche adesso. Io non sono così. E te lo dimostrerò.»



Fuoco.





* * *

Buongiorno a tutti!
Eccomi di nuovo qui,
con un nuovo capitolo (in tempo!).
Presto arriveremo a superare il capitolo in cui ci eravamo arenati,
yuhu!

Nel frattempo io ho scoperto il Tai Chi.

Allora!
Nonostante il titolo, questo capitolo parla di tutto meno che di guerra.
I mocciosi hanno ricominciato a quagliare
e Sasuke e Sakura hanno smesso di pesare con le loro paturnie.
Nel prossimo appuntamento,
il grande ritorno di Baka!

Ho allungato un poco i capitoli,
ma non so se per chi legge via cellulare sono troppo pesanti.
Fatemi sapere, se è necessario li dimezzo.

Grazie per aver letto anche oggi.
A presto!



Susanna

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Capitolo 37
*** I chakravakam ***


Penne 37
Capitolo trentasettesimo

I chakravakam




Nel corso della prima notte di guerra, mentre Konoha cercava invano di addormentarsi, c'era una zona del Villaggio che era ancora in pieno fermento, e la era stata ininterrottamente da quando avevano catturato la nuova Radice: i sotterranei del dipartimento di polizia.
Laggiù, sotto metri di cemento armato e sistemi di sorveglianza, le celle strabordavano di prigionieri, suddivisi per grado di influenza: i nobili avevano avuto il privilegio di condividere il soggiorno con due o al massimo tre parirango, i servitori e i ninja erano stati ammucchiati fino alla capienza massima. Nonostante tutte le finestre - che affacciavano nel cortile del commissariato, all'altezza del terreno – fossero spalancate, l'odore era raccapricciante.
Morino si passò una mano sulla faccia.
«Ancora una volta» disse, sfregandosi le palpebre arrossate per la stanchezza.
Si trovava nella stanza degli interrogatori, la stessa in cui avevano rinchiuso Yoshi quando lo avevano catturato. Alla sedia inchiodata sul pavimento adesso era seduta l'ombra di quello che un tempo era stato il consigliere Iida, o almeno il poco che ne rimaneva: un uomo sgomento, ricurvo, con lo sguardo di un animale braccato.
«Non so niente di Anka...» gemette, ondeggiando avanti e indietro.
«Non sai niente» ripeté lo shinobi seduto davanti a lui, la testa appoggiata alle mani come se non avesse la forza per stare su da sola. «Quindi» riprese sfogliando un fascicolo. «Non hai mai assgnato Haruka Muto allo spionaggio dei mercenari di stanza ad Anka.»
Iida sussultò. Alzò lo sguardo per posarlo sull'incartamento, e per un attimo vi passò un lampo di rabbia.
Baka Akeru, scrutandolo, richiuse il materiale e lo passò a Morino.
Con l'arrivo della dichiarazione di guerra era stato impossibile costringere il vecchio shinobi a restare in disparte, perché aveva iniziato a sbraitare che senza di lui sarebbe stato tutto un fallimento. Così Sakura lo aveva dirottato sugli interrogatori della Radice, dicendogli che Baka sarebbe stato il suo successore e che voleva che si dedicasse unicamente al suo addestramento, e Morino si era lasciato convincere.
Una buona idea, strategicamente parlando; ma non per Akeru, che nel giro di sei ore si era visto sprofondare in un mondo fatto di violenza e crudeltà. Aveva dovuto imparare a compiacere in fretta il suo superiore per non rischiare improvvisi scoppi d'ira, e per fare le cose come diceva lui aveva dovuto dimenticare temporaneamente tutto quello che sapeva di etica e medicina. A causa delle pretese di Morino aveva dovuto progredire dieci volte più in fretta degli altri, così adesso stava crollando.
«I tuoi uomini non sono buoni servitori» disse. Aveva la faccia di chi è a un passo dal vomitare per la stanchezza. «Parlano tutti. Un po' più di te, devo dire.»
«Sono uomini inferiori» ringhiò Iida, facendo finire qualche schizzo di saliva sul tavolo metallico. «Feccia della feccia della...»
«Li hai scelti tu» lo interruppe Akeru. «Avrai scelto male. Quindi, parliamo di Anka.»
«Non so niente di Anka...»
Un ceffone colpì Iida in pieno orecchio, facendolo cadere dalla sedia.
A terra, il vecchio si raggomitolò su se stesso e gemette, la mano contro la testa, un rivolo di sangue che usciva dal labbro spaccato.
«Questo è quello che si fa quando iniziano a ripetere la stessa cosa» disse Morino. «Tiralo su.»
Akeru obbedì, sperando che il suo nuovo mentore non si accorgesse della sua tensione: per poco non aveva fatto un salto dalla sedia quando era partito il manrovescio.
Si accovacciò accanto a Iida e lo aiutò a rialzarsi, rimettendolo seduto. Guardò Morino, che gli fece un piccolo cenno con il capo; allora alzò una mano, avvolta da sottile chakra azzurrino, e la posò sull'orecchio lesionato.
Iida sussultò, ma poi la sua espressione si ammorbidì, spingendolo a riaprire gli occhi.
«Sei un ninja medico» mormorò, quasi con orrore.
«In tempo di guerra tutti siamo un po' tutto...»
Soprattutto se fai arrabbiare l'Hokage.
«Sì, è un ninja medico» intervenne Morino. «Questo significa che posso farti molto più male di così, perché lui ti manterrà tra l'incoscienza e la lucidità quel tanto che basta per farti sentire il dolore. Dicci quello che sai di Anka!»
Akeru si morse la lingua per non intervenire. Lo aveva fatto una volta, quel giorno, perché Morino si era spinto troppo oltre, e per poco non si era beccato un ceffone pure lui. Tornò a sedersi dall'altra parte del tavolo.
Iida fissò Morino, spaventato, poi guardò Akeru. Aprì la bocca, probabilmente per supplicare, ma Baka gli fece un cenno impercettibile con la testa.
Non ti conviene.
«Anka...» ansimò allora il vecchio. «Anka è un villaggio nel Paese della Roccia... Haruka Muto era ad Anka, perché la compagnia in cui si era infiltrata era stata mandata lì. Non so altro. Non ci interessava. Noi volevamo solo i mercenari, sapere se si muovevano, come si spostavano...»
«E per conto di chi» lo anticipò Akeru. «Chi li faceva spostare?»
«I loro generali. Uomini della capitale, vicini ai vertici della Roccia... Non li conosco, non siamo mai riusciti ad arrivare fino a loro...»
«Altrimenti ci avreste venduti subito?» quasi sputò Morino.
«No» disse Akeru, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia. «Altrimenti avrebbero fatto accordi con loro perché fossero eliminati tutti i detentori del potere a Konoha, così che qualcuno di più adatto, come un vero discepolo di Danzo, potesse finalmente occuparsi del Villaggio e renderlo di nuovo grande... Ma alla Roccia avrebbero detto che erano disposti ad essere un governo fantoccio.»
Iida tacque, sollevando il mento di qualche centimetro.
Akeru si passò una mano sulla fronte, e Morino annunciò che avevano finito. Andò alla porta, chiamò le guardie perché riportassero Iida in cella.
«Sei stato bravo» disse, una volta rimasto solo con Akeru.
«Secondo il manuale, quando interroghiamo un non militare non dobbiamo prenderlo a sberle» replicò lui nervosamente.
«Per le palle degli dei, non hai mai interrogato un politico prima!» Morino sbatté sul tavolo il fascicolo di Iida. Se non fosse stato esausto, Akeru sarebbe trasalito. «Quello non è un impiegato delle poste, è un ex consigliere! Ci dirà solo e soltanto quello che sappiamo già. Se stiamo sul suo terreno ci rivolta come guanti e ci divora: l'unica possibilità è spaventarlo con la violenza.»
«Non mi sembra che rompergli un timpano abbia portato a grandi rivelazioni... Comunque non sapeva niente di Anka, e non credo che si sia accordato con la Roccia per far scoppiare la guerra» Akeru si alzò in piedi, massaggiandosi il collo.
«Non lo credo nemmeno io» ammise Morino, sorvolando sulla prima parte della frase. «Avrebbe organizzato qualcosa di più subdolo... Una guerra è incontrollabile. Almeno, se non sei Hokage.»
«Adesso posso tornare a casa? Sono sfinito.»
«Sì, vai. Io scrivo il rapporto. E leggiti i testi che ti hanno dato... Ora che ci hanno dichiarato guerra dobbiamo far parlare quel ragazzino. Non possiamo permetterci altre spie dentro le mura.»
Akeru grugnì una risposta, andando verso la porta prima che gli venisse revocato il permesso.
Ovviamente Morino si riferiva a Yoshi, che come Iida era stato rinchiuso in cella di isolamento. Ripensando a lui, Baka avvertì contemporaneamente una fitta d'ansia e una di umiliazione: l'ansia era dovuta alle alte aspettative che avrebbe avuto Morino – con conseguenti metodi di interrogatorio -, l'umiliazione al ricordo di quando pensava di ricevere i complimenti di Sakura perché aveva segnalato Yoshi, e invece era stato completamente demolito per la faccenda del contratto di Chiharu...

«Non riesco a credere che un membro della squadra medica, un ninja a cui io stessa ho insegnato, firmi un contratto di custodia che non conosce e si prenda la responsabilità di un paziente senza guardare la sua cartella clinica! E' la cosa più stupida che abbia sentito da quando lavoro in questo campo!»
Akeru era rimasto a testa china, con aria umile.
Sakura aveva voluto la sua copia del contratto di custodia, gliela aveva letta in faccia, aveva sottolineato ogni punto che lo rendeva responsabile di qualunque cazzata di Chiharu, e poi gli aveva chiesto di vedere la cartella clinica della ragazza, per capire quanti rischi si fosse davvero assunto.
Ma lui quella cartella non la aveva. Non l'aveva neanche mai vista.
«A cosa pensavi mentre firmavi questa schifezza?» esclamò Sakura, accartocciando il contratto in un impeto di rabbia.
Pensavo a quanto mi sarebbe stata grata Chiharu. E a tutti i modi pratici in cui lo avrebbe dimostrato, rispose lui interiormente.
«Non so a cosa pensavo...» fu ciò che mormorò a voce alta. «Immagino che mi dispiacesse lasciarla lì e tornare a prendere il merito di una missione che lei...»
«Balle!» abbaiò Sakura. «Ti sei sempre preso il merito di qualunque cosa su cui sei riuscito a mettere le mani! Sei uno spaccone arrogante e vanaglorioso, non raccontarmi la storia dell'anima caritatevole!»
Akeru alzò la testa, moderatamente offeso, ma di fronte allo sguardo di fuoco di Sakura la riabbassò.
«Pensavo di riuscire a controllarla» confessò allora. «Pensavo che non ci fossero rischi, che saremmo tornati e basta...»
«Ma stiamo parlando di Chiharu Nara!» Sakura si passò una mano tra i capelli. «A tredici anni è quasi riuscita a suicidarsi sulle tue ginocchia, a far ammazzare la moglie e il figlio di Naruto e a far morire i suoi genitori di infarto! Quella ragazza è una mina vagante, pericolosa per sé e per gli altri! Come diavolo pensavi di controllarla
Lui pensava che portarsela a letto fosse più difficile che scortarla da Suna a Konoha, e visto che era riuscito a fare la prima delle due cose si era sentito in grado di fare anche l'altra. Aveva sbagliato, adesso lo riconosceva, ma non era completamente colpa sua.
«Incontrare tutto quel casino sulla strada del ritorno era una cosa assolutamente improbabile» tentò di difendersi. «Il sesto Hokage che rientra, squadre dalla Roccia e traditori dalla Foglia? Seriamente, quante possibilità c'erano che si verificasse una cosa del genere?»
«Non importa! Quando firmi un pezzo di carta devi essere consapevole che se anche si verifica un'eccezione straordinaria, tu sarai responsabile di quell'eccezione. E devi firmare solo per cose che sai di poter affrontare, non a scatola chiusa» Sakura prese un respiro profondo. «L'attuale cartella clinica di Chiharu è un orrore. Francamente mi stupisco che sia uscita viva da quello scontro. Se a Suna non volevano lasciarla partire immagino che facesse schifo anche allora... Cosa avresti fatto se le fosse preso un attacco cardiaco a metà strada? Non sapevi nemmeno che fosse possibile.»
In effetti, considerato che l'attività sessuale è tra i fattori di rischio per l'infarto, gli era andata bene anche prima che partissero per Konoha. Due volte.
«Ho sbagliato» ammise.
«Certo che hai sbagliato!» inveì Sakura. Poi si costrinse a calmarsi. «Devo ancora decidere cosa fare di te. Per adesso sei sospeso da tutti gli incarichi. Torna a casa, tua madre non merita di stare in ansia per un...» sbuffò. «Lasciamo stare. Mi hai deluso, Akeru.»
Lui strinse le labbra, mortificato.
Prima di lasciarlo andare Sakura aggiunse ancora una cosa: «ovviamente ti è fatto esplicito divieto di far visita in ospedale a Chiharu.»

Che era praticamente l'unica cosa che volesse, in quel momento.
Ritrovarsi per strada alle cinque di mattina dopo aver passato tutta la notte ad assistere alle violenze di Morino lo aveva provato nello spirito e nel corpo. Sakura inizialmente lo aveva sospeso, poi, con l'arrivo della dichiarazione della Roccia, lo aveva assegnato alla piccola squadra degli interrogatori, perché imparasse il mestiere.
Ed era un mestiere orribile, crudele e opprimente.
Pensava che fosse un tipo particolarmente meschino di punizione da Hokage, ma sperava anche che quando ci fosse stato da combattere lo avrebbero reintegrato tra i ninja medici.
Adesso aveva solo un pensiero, ben più impellente che tornare a fare l'Anbu: avrebbe voluto più che mai vedere Chiharu, e abbracciarla, e farsi dire che al mondo non esistevano solo gli orrori di Morino... E sapere se stava bene, chi si prendeva cura di lei, se ripensava a quello che era successo a Suna quanto ci pensava lui... Ma non poteva, perché Sakura glielo aveva proibito, e Sakura era l'Hokage, o quasi.
Sono ridotto male, si disse abbattuto. L'unica persona a cui penso quando sono in difficoltà è proprio quella che di solito mi mette nei guai.
«Devo parlare con qualcuno, o perderò la testa in quel bunker senz'aria» mormorò, fermandosi a un bivio. «E quando dico che devo parlare con qualcuno, non intendo me stesso. Diavolo.»
E allora imboccò la strada di sinistra, anche se casa sua era a destra. Attraversò le vie deserte, oltrepassando il vecchio quartiere a luci rosse per raggiungere un quartiere nuovo ma squallido, dove i condomini si affacciavano l'uno sull'altro fino a togliersi il sole. Ben nascosto in una via laterale c'era il cancello di una minuscola casa in stile tradizionale, il residuo di un tempo lontano, ormai soffocato dalle mura dei palazzi. Non aveva citofono, solo una campanella.
Solo allora Akeru esitò, perché erano le cinque e mezzo del mattino. Poi l'idea di restare solo a ripensare agli interrogatori di Morino gli fece paura, così tirò la catena della campanella.
Subito non ci furono reazioni; ma alla fine, dopo quasi un minuto intero, emerse dal silenzio un borbottio che si fece piano piano udibile: «spero che tu sia una donna...» grugnì una voce da dietro la porta. «Perché stavo sognando una donna, una gran donna, e per svegliarmi a quest'ora devi essere davvero una fi...» Jiraya aprì la porta e tacque. «Non lo sei.»
«Non sapevo dove altro andare» disse subito Akeru. «Mi scusi per l'orario.»
Jiraya si esibì in un enorme sbadiglio, facendogli cenno di entrare. La ferita che si era fatto nella casa di Iida non era più fasciata, ma ancora vistosa «Dimmi che sei appena uscito dal letto di una ragazza, almeno...»
«Ero con Morino.»
«Pessima scelta.»
I due entrarono nell'appartamento di Jiraya, che era piccolo, disordinato e pieno di cianfrusaglie. Baka non era mai stato all'interno, e la prima impressione gli fece arricciare il naso.
«Se eri con Morino ti ci vuole qualcosa di meglio del solito sakè dozzinale...» mormorò Jiraya frugando in un mucchio di sacchetti semi-sepolti. «Questo l'ho vinto al casinò dieci anni fa, ormai sarà delizioso.»
«Non sono qui per ubriacarmi...» Akeru esitò. Ripensò al gemito di dolore di Iida, alla sua figura rannicchiata sul pavimento. «Okay, i bicchieri non servono. Bevo a collo.»
«La missione a Suna ti ha messo un po' di buonsenso in quella zucca vuota» rise Jiraya, stappando la bottiglia. «E' da prima che partissi che non ci vediamo... Allora, mi hai reso fiero di te?»
«Per sentire quello dovrà aspettare che sia andato giù un po' di alcol...»
Non poteva parlare di Chiharu con le immagini di Morino che spuntavano a sorpresa tra una frase e l'altra, e Jiraya sembrò capirlo. Nella mezzora successiva Akeru buttò giù sorsi generosi di sakè, raccontando del contratto con Suna e di come Sakura l'aveva presa male. Parlò dei suoi nuovi compiti come allievo di Morino e, da brillo, si lasciò scappare un piccolo sfogo sulla perversione del sistema della tortura, che come medico lo ripugnava.
Jiraya lo lasciò fare, perché dopo i settant'anni sono poche le cose che possono turbare un ninja, e gli allungò degli snack quando capì che avrebbe rischiato di vederselo vomitare sui piedi a causa dello stomaco vuoto. Già sapeva molte delle cose che Akeru stava raccontando, ma sapeva anche che lui aveva bisogno di dirle.
«...E io quel contratto l'ho firmato perché sono un cretino» biascicò il ragazzo, spargendo briciole ovunque.
«Non ho mai avuto nessun dubbio al riguardo. Tira più un pelo di...»
«...Che un carro di buoi» Akeru cercò di afferrare la bottiglia, mancandola.
«Conoscendo Chiharu, poi non te l'avrà neanche data.»
«No, infatti» Baka si fece scappare un singhiozzo. «Quello è successo prima.»
Jiraya si riprese la bottiglia, tenendogli ferma la testa con una mano.
«Sei riuscito a portarti a letto Chiharu?» chiese lentamente.
«Signorsissì! Due volte.»
«Questa sì che è una cosa su cui non avrei mai scommesso! Brindiamo.» Jiraya rovesciò la testa all'indietro e bevve un lungo sorso di sakè. «Ragazzo, sono molto orgoglioso dei tuoi progressi!» annunciò, battendogli pacche affettuose sulla testa. «E come scrittore sono rovinato... Ma pazienza, Miko e Jumon se ne faranno una ragione. Quindi, come è stato?»
«Non lo so. Cioè, lo so. Però non trovo le parole. Ho sete...»
«Aspetta, prendo qualcosa per scrivere – questo materiale è oro, sai quanta roba ci tiro fuori?»
«Ehi, vuole prendere appunti sulla mia prima volta?»
«Preferisci che rida dall'inizio alla fine del racconto? Era la prima volta anche per lei?»
«No.»
«No?»
«No. Mi pare di no. Sa, ci sono anche ragazze che... che non te ne accorgi... Ma mi sembrava di no.»
«Ah. E la cosa non ti ha dato da pensare?»
Tipo, al fatto che Hitoshi Uchiha è in squadra con lei?
«Sì, certo. Ci ho pensato e ripensato e straripensato. Ma cosa posso farci? Con chi è stata prima non sono affari miei. Cioè, non posso cambiare il passato.»
«Saggio, figliolo, molto saggio» Jiraya gli ridiede la bottiglia di sakè. «Ma adesso tu e lei cosa siete?»
«Boh? Sakura Uchiha mi ha proibito ufficialmente di andare a trovarla, e l'ultima volta lei era svenuta... Non lo so. Siamo qualcosa?»
«Considerato il soggetto, non ne ho idea.»
«Voglio vederla...» Akeru crollò su un fianco, rannicchiandosi attorno alla bottiglia. «Stare con Morino fa schifo, mi sembra di vivere in un mondo di merda... Voglio sapere che non esiste solo quello.»
Jiraya sospirò, grattandosi il mento ispido con il retro della matita. «Quanto hai ragione, Akeru...» mormorò, ripensando agli anni in cui nascondeva l'orrore per le battaglie che doveva combattere dentro donne sempre diverse. «Non esiste solo quello. Ci sono cose belle nel mondo, anche se adesso siamo in guerra e per un po' ci sembrerà che siano sparite...»
«Secondo lei Chiharu mi ama?» piagnucolò Akeru, più addormentato che sveglio.
«Questo mi sembra piuttosto improbabile... Ma andrò a sondare il terreno per te. Così, per capire se disobbedire agli ordini dell'Hokage può portarti cose buone o no.»
Akeru russò sommessamente, riverso sul pavimento.
Jiraya sorrise. Sperava che l'alcol sarebbe riuscito a cancellare anche gli incubi che sarebbero venuti fuori dalla guerra, quando la mente avrebbe vacillato... Così come aveva fatto con lui.
C'era qualcosa in Akeru che gli ricordava se stesso da giovane, e anche Naruto. Forse era la spavalderia, forse la stupidità, ma lo riempiva di nostalgia. Non riusciva a non aiutarlo.
Lo lasciò a dormire sul suo pavimento, e andò a vestirsi.

Con tutte le cose che erano successe negli ultimi tempi Jiraya aveva perso di vista Chiharu e quel che le succedeva. Mentre raggiungeva l'ospedale, attraversando le strade semideserte, fece mente locale e ricordò Honmaru Senju, il medico che aveva incrociato una volta con Naruto, e che aveva la cartella clinica di Chiharu sotto braccio e un Anbu al fianco.
Conoscendo Sakura, sapeva che non aveva proibito ad Akeru di vedere Chiharu perché voleva preservare il suo cuore innamorato: probabilmente c'era sotto qualcosa. E anche Naruto era stato strano al riguardo, perché sembrava che non volesse avere a che fare con lei. Per non parlare di quanto era sospetto l'Anbu con Honmaru... Sì, Naruto e Sakura stavano sicuramente nascondendo qualcosa.
Chissà se era la stessa cosa che aveva scoperto lui nell'Archivio? Improbabile, eppure...
Poco dopo l'orario delle colazioni in ospedale, si trovò ad attraversare i corridoi deserti dell'ex ala delle sale parto, chiedendosi perché Chiharu fosse così isolata dagli altri e come mai ci fossero due visitatori palesemente ninja lungo il corridoio. Finse di non vederli.
Trovò la porta dopo aver bussato invano a un paio di stanze vuote. Chiharu non rispose subito, e quando lo fece il suo tono era molto sospettoso.
«Chi è?»
«Jiraya» rispose lui, aprendo per cacciare dentro la testa.
Chiharu si voltò verso la porta, illuminandosi senza rendersene conto. Jiraya ne fu lusingato. Entrò nella stanza con un largo sorriso, che però si affievolì quando vide il vassoio della colazione intatto e le borse sotto gli occhi di Chiharu.
«Cosa è successo alla sua faccia?» chiese subito Chiharu, vedendo la ferita che gli sfregiava un lato del viso.
«Oh, la vecchiaia... I miei riflessi non sono più buoni come una volta: penso che presto mi limiterò a insegnare, senza uscire in missione.»
A quelle parole Chiharu ricordò che Jiraya aveva accettato di allenare Hitoshi, che era praticamente una specie di tradimento, e irrigidì la mandibola.
«Come stai?» esclamò Jiraya, avvicinando una sedia al letto. Il sole del primo mattino cadeva sulle lenzuola, rendendo più acuti gli spigoli. «Non sono riuscito a venire prima, Naruto sta chiedendo aiuto a tutti per gestire il casino degli ultimi giorni...» Sentendo nominare Naruto Chiharu si oscurò. «Allora? Che mi racconti?»
«Secondo i medici se non smetto di essere ninja muoio. E Naruto non le ha detto che mi ha radiata dall'ordine con disonore?» disse acidamente.
Ecco, questa Chiharu era molto più familiare di quella sorridente, e così si spiegavano sia Honmaru che Naruto... Ma Naruto era quello che lo preoccupava di più.
«Radiata con disonore?» ripeté Jiraya. «E perché lo avrebbe fatto?»
«Perché gli ho salvato la vita.»
«Spiega con ordine...»
Lo sguardo di Chiharu si fece sfuggente. «Nella foresta ho evocato un... una cosa perché ci aiutasse. E ci ha aiutato. Ma non è stato proprio... Insomma, io non ho retto e l'ho mandata indietro per recuperare il chakra. Naruto se l'è presa.»
Era una descrizione che c'entrava molto poco con il litigio che aveva avuto con Naruto, ma non se la sentiva di spiegarlo nei dettagli: avrebbe dovuto aggiungere molte cose, e non tutte erano facili da dire.
Jiraya rimase in silenzio per un secondo, ripensando alla sua visita all'Archivio segreto di qualche tempo prima. Nonostante il racconto scarno di Chiharu, lui aveva un'idea chiara di cosa doveva essere successo...
«Vediamo se ho capito» disse piano. «Quando avete incontrato il sesto Hokage nella foresta vi siete trovati in difficoltà, e tu hai evocato un chakravakam» Chiharu sussultò. «Poi però ti sei accorta di aver fatto male i calcoli, e hai pensato di riprenderti il chakra che avevi usato per evocarlo... Cosa che normalmente uccide un'evocazione. Ma non i chakravakam. E Naruto, che non lo sa, ha pensato che tu avessi sacrificato un compagno, così si è infuriato.»
Chiharu fissò Jiraya, mettendosi sulla difensiva. «Sa dei chakravakam?»
«Una volta erano molto famosi...» Jiraya sospirò. «E qualche tempo fa mi è capitata in mano la pergamena del contratto di sangue con Suzaku. Che, per inciso, pensavo fosse sigillata e inaccessibile alle ragazzine.»
«L'ho trovata sei anni fa» Chiharu riabbassò lo sguardo; se Jiraya conosceva già una parte, era più facile raccontare il resto della storia. «Quel contratto sembrava una cosa seria, e... e...» senza volerlo arrossì.
...E rubarlo era sembrata una mossa da vera ninja, allora; ma adesso sembrava solo una bravata imbecille.
«Hai firmato il contratto con Suzaku a dodici anni?» Jiraya la fissò.
«Sì. Non ha fatto problemi perché ero piccola» si difese lei. «E poi il ses...» si interruppe di colpo.
«E poi il sesto Hokage ha cercato di proteggerti? Era l'ultimo nome, dopo il tuo.»
Chiharu si strinse nelle spalle, sentendosi più imbecille ad ogni ipotesi azzeccata del sennin. «L'Hokage mi ha autorizzato ad usarli, nella missione a Suna...» mormorò, quasi per giustificarsi.
«Ma neanche Kakashi sa tutta la storia...» Jiraya si passò una mano sul viso. «I chakravakam sono stati messi al bando prima che lui finisse l'Accademia.»
«In che senso messi al bando? Quando ho trovato la pergamena ho provato a cercare informazioni sui chakravakam, ma non ho trovato niente da nessuna parte.»
«Perché non sono tra le evocazioni. Sono stati cancellati, proprio per evitare che a qualche studentello avido venisse voglia di cercarli... Il terzo Hokage pensava che bastasse eliminarli dalla memoria perché non tornassero mai più. Ovviamente si sbagliava.»
«Ma il Sesto Hokage doveva sapere qualcosa, altrimenti non avrebbe insistito per firmare il contratto dopo di me: Suzaku non ne era stato felice» protestò Chiharu.
«Raccontami come è andata precisamente.»
«Quando ho trovato la pergamena avevamo appena finito di studiare la tecnica del Richiamo.... Non pensavo che quella particolare evocazione fosse un problema, così ho seguito le istruzioni sul documento: è spuntato un chakravakam, uno di quelli piccoli, che usano come messaggeri, e mi ha portato da Suzaku...»
«Un messaggero dei chakravakam ti ha praticamente evocata nella loro dimensione?» Jiraya si tirò su di scatto. «Sei sicura di non averli mai incontrati prima?»
«Assolutamente sicura: non avevo ancora il coprifronte. Comunque, quando sono arrivata lì Suzaku ha presentato i chakravakam come la cosa più figa dell'universo; mi ha detto che non morivano, ma rinascevano dalle loro ceneri, che erano in grado di tener testa ai Bijuu, e che potevano cedere a me una parte del loro chakra in caso di bisogno... Avevo dodici anni, sembrava tutto fantastico: ho firmato immediatamente.»
A dirlo ora sembrava una cosa stupidissima, ma all'epoca aveva una sua logica – da qualche parte.
«E Kakashi?» chiese Jiraya.
«Il sesto Hokage mi ha trovata quando sono rientrata. Stava cercando le chiavi dell'archivio, mi ha beccata con la pergamena in mano. Mi ha rimproverata. All'epoca non aveva ancora passato l'esame all'Accademia, era furioso... Insomma, ha detto che il contratto non si poteva sciogliere, ma che poteva controllare come andava. Così ha voluto stringere il patto anche lui. Non so cosa abbia detto a Suzaku, non ero presente, ma il messaggero dei chakravakam era furioso.»
«Che pasticcio...» borbottò Jiraya stropicchiandosi la faccia. Fece una smorfia quando tirò involontariamente la ferita. «Chiharu, non puoi avere un contratto con i chakravakam senza sapere con cosa hai a che fare.»
Anche perché evidentemente nemmeno i tuoi superiori lo sanno.
«Immagino di no» deglutì Chiharu.
«Hai detto che quando hai evocato un chakravakam l'ultima volta il tuo cuore non ha retto, giusto?» domandò. Lei annuì. «Non era colpa del tuo cuore.»
«No?»
«No. La ragione per cui i chakravakam sono stati relegati a un archivio polveroso è che il flusso di chakra, con loro, va in entrambe le direzioni: se un chakravakam decide di prelevare il tuo chakra, nulla gli impedisce di farlo.»
Chiharu rabbrividì. «Sono stata male perché il chakravakam ha deciso di prelevare il chakra da me?»
«Sì: non è possibile evocare qualcosa di superiore alle proprie possibilità.»
«Ma perché avrebbe dovuto? Cosa se ne fanno del mio chakra? Io ho visto la loro dimensione, e sono sicura di essere una goccia nell'oceano rispetto alle loro riserve...»
«Come credi che abbiano accumulato tutto quel chakra? Anni di contratti sciagurati, shinobi ridotti a fantasmi di loro stessi... Eravamo in guerra, Chiharu, e i Bijuu erano più spesso nemici, che alleati. Avevamo bisogno di qualcosa che potesse difenderci, e ci siamo rivolti ai chakravakam. Ma abbiamo fatto male» Jiraya socchiuse le palpebre, ricordando gli eventi di allora. «Non sono mai stati affidabili: scomparivano nei momenti di difficoltà, rifiutavano di combattere, prelevavano chakra dai feriti per non rischiare di perderlo se fossero morti... Erano fortissimi, immortali; ma non sapevi mai se ti si sarebbero rivoltati contro. Così il Terzo Hokage decise di levarli dalla circolazione. Ovviamente non fu semplice. I chakravakam si ribellarono; ci furono degli scontri. Il Quarto Hokage, che all'epoca era solo un Anbu, fu colui che trovò il modo di arginarli. Allora la pergamena con il loro contratto fu nascosta, e le loro tracce cancellate; pensavamo che fosse sufficiente per tenerli sotto controllo... Fino alla tua bravata. Ah, me lo immagino proprio Suzaku che gongola quando ti vede comparire al suo cospetto dopo tutti quegli anni...»
Chiharu sentì le guance arrossarsi di nuovo, per la vergogna e la rabbia.
«Non può essere così tragica... Dopo la Lophenaria sono stata attenta a non fare più errori troppo gravi. Non sono stupida; io sono intelligente.»
«Sì, forse te lo abbiamo detto un paio di volte di troppo.»
A quel punto Chiharu avvampò. Di certo non era la sola stupida, in quella faccenda: se non avessero cancellato le tracce dei chakravakam dalla storia di Konoha, non avrebbe mai frmato quel contratto. Invece loro avevano voluto eliminare tutto, e lei come poteva sapere a cosa stava andando incontro?
«Se qualcuno mi avesse informato...» iniziò, ma Jiraya non la lasciò continuare.
«Se ti avessimo informato avresti firmato comunque. Come hai sempre fatto. Pur di avere un briciolo di potere in più venderesti tua madre.»
Chiharu spalancò la bocca. «Non è vero» disse meccanicamente, ma una voce nella sua testa si sovrappose alle parole e chiese: davvero?
Jiraya si grattò la ferita alla tempia, facendo attenzione a non riaprirla. «Stai percorrendo un sentiero pericoloso, Chiharu» disse a bassa voce. «In passato ho già visto altri comportarsi come te, e non è mai finita bene. Tu conosci la storia di me, Tsunade e Orochimaru... Orochimaru aveva scelto la via che stai prendendo tu» Chiharu aprì la bocca per protestare, ma lui, ancora, non glielo permise. «So quel che dico. Io c'ero. Non pensare che uno si svegli una mattina e pensi di mollare tutto il villaggio per andare con i nemici: il processo è lento, quasi invisibile, e inizia con l'allontanarsi dagli amici. Quanti amici hai, Chiharu, e cosa ne stai facendo? Non vuoi nemmeno far sapere ai tuoi genitori che stai male. E stai molto male, lo so io e lo sai tu; basta guardarti. Smetterai di essere ninja?» Chiharu strinse le labbra senza rispondere. «Come puoi continuare ad essere ninja, così? Non ci sono possibilità, noi non ne conosciamo. Quello che finirai per fare è cercare una soluzione fuori dal villaggio... Ma questo è tradimento. Questo è quello che ha fatto Orochimaru.»
«Io non sono Orochimaru!» esclamò Chiharu.
«Sei molto più Orochimaru che Tsunade!» sbottò Jiraya in risposta. «Smettila di pensare di essere superiore a tutti! Non lo sei. Sei una ragazzina, non hai neanche vent'anni: hai stretto un contratto suicida pensando di essere la più furba del villaggio, e in questo modo hai messo nei guai te stessa e Kakashi; usando i chakravakam senza saperne niente hai creato problemi anche a Baka, che sarà pure uno scemo, ma è un Anbu, e sta rischiando la carriera per te; e per tutta questa serie di cose sei riuscita a litigare con Naruto, Naruto, che ti ha sempre difesa e ha difeso chiunque da quando lo conosco, anche i più indifendibili! Per cosa? Alla fine sei comunque in un letto d'ospedale, più di là che di qua. Per tutti gli dei, Chiharu, stai facendo un errore dietro l'altro e non vuoi ascoltare nessuno! Non fai che scaricare sugli altri la colpa dei disastri che combini, ma la responsabilità delle tue azioni è soltanto tua! »
Chiharu boccheggiò, in cerca di una replica. Sentiva le guance bruciare per l'umiliazione, un ronzio dentro le orecchie.
E' vero, è vero, è tutto vero, diceva la voce della sua coscienza. Ma era piccola, schiacciata sotto quel masso pesante che le impediva di piangere.
«Nessuno è nella mia situazione» disse alla fine, con uno sforzo. «Nessuno è dentro di me, nessuno vede quello che vedo io, sa cosa provo... E' facile parlare da fuori. Lei non ha visto i suoi compagni che la lasciavano indietro, non ha mai dovuto... faticare...» deglutì, senza fiato.
«Tutti devono faticare» rispose Jiraya, inflessibile. «I migliori sono quelli che hanno faticato più di tutti. Se scendessi dal tuo piedistallo e chiedessi a Naruto cosa ha dovuto sopportare prima di diventare quello che è, sapresti che tu sei una privilegiata.»
«Io ho parlato con Naruto...» mormorò Chiharu.
«No. Nessuno ha mai parlato davvero con Naruto, tu meno di tutti. Se davvero avessi parlato con lui delle cose che contano, non avremmo mai dovuto fare questa conversazione. Ma tu Naruto non lo hai mai voluto ascoltare, perché non hai mai voluto ascoltare nessuno.»
A quel punto Chiharu si accorse di aver stretto il bordo del lenzuolo tanto da sentir male alle dita. Le distese, tremanti, e le fissò.
Jiraya fece un respiro profondo, si costrinse a calmarsi. «Non volevo essere così duro. Mi dispiace. Ma non puoi continuare a fingere di non vedere dove ti stai dirigendo... Perché a un certo punto sarà troppo tardi per tornare indietro, e io non voglio che arrivi a quel punto.»
Chiharu sbatté le palpebre, cercando una risposta. Ma non riusciva ad aprire la bocca.
«Lascia che qualcuno si avvicini» insisté Jiraya. «Non allontanare chi ti vuole bene, non isolarti dai tuoi amici. I tuoi compagni di squadra sono bravi ragazzi, anche se uno è un Uchiha» incurvò un angolo della bocca. «E pure Stupido, per quanto stupido, ha un cuore d'oro. Se non vuoi i consigli di gente troppo vecchia, con cui non senti di aver niente in comune, almeno stai con loro.»
Con un enorme sforzo di volontà, Chiharu rialzò lo sguardo. Deglutì, la gola ancora bloccata. Perché era così difficile parlare? C'erano cose che avrebbe voluto dire, c'erano giustificazioni, c'erano ammissioni... Ma non usciva niente.
Jiraya rimase in attesa per quasi un minuto, poi, non sentendo risposte, fece un respiro profondo.
Chiedimelo ancora una volta!, pensò Chiharu, angosciata. Non riesco a parlare.
«A proposito di Stupido...» borbottò invece Jiraya, passandosi una mano sul collo. Non era proprio il clima più adatto per parlarne, ma aveva promesso che lo avrebbe aiutato. «E' nei guai per colpa di quel contratto che avete firmato a Suna. Dato che tu sei stata male, il contratto prevede delle conseguenze legali, che al momento sono in sospeso solo perché per informare Gaara dovremmo andare contro la tua richiesta di privacy... Però Sakura si è infuriata con lui perché ha accettato senza guardare la tua cartella clinica, e lo ha sospeso dai suoi incarichi» Chiharu avvertì un fitta di senso di colpa. «Ora, io non voglio neanche chiederti se sapevi che lo avresti messo in questi casini...»
«Non lo sapevo» disse Chiharu di scatto. «Non volevo dargli problemi, ma poi c'era il sesto Hokage in difficoltà...»
«Non mi interessa, lascia stare» Jiraya fece un gesto vago. «Il punto è che lui è Stupido. Lo conosci. Vorrebbe venire a trovarti, ma Sakura glielo ha proibito, e, sai, andare contro un ordine esplicito dell'Hokage può avere conseguenze gravi... Devo capire se ne vale la pena o no.»
Chiharu si mosse a disagio, sentendosi arrossire. Ok, parlare di faccende sentimentali con Jiraya era appena entrata nella top three delle cose più imbarazzanti della sua vita.
«Non voglio che abbia altri problemi...» borbottò, evitando lo sguardo del sennin.
«Fin qui siamo d'accordo. Ma, ripeto, è Stupido: se gli dico che ti preoccupi di non fargli avere altri problemi si precipita qui con un mazzo di rose. Voglio solo essere sicuro che tu non rovini la vita di quel ragazzo. Se viene qui, dovrai essere gentile. Non mi interessa se provi qualcosa per lui o no, ma io gli voglio bene e non voglio che soffra più di quanto è necessario. Se devo rispondergli che il corridoio è pieno di trappole e deve aspettare le tue dimissioni, glielo dico.»
Chiharu si massaggiò un braccio. Le aveva fatto piacere vedere Kotaro, e doveva ammettere che sapere che Akeru non era venuto solo perché gli era stato proibito l'aveva fatta sentire un po' meglio. Ma se avesse detto a Jiraya di farlo venire, per cosa sarebbe venuto?
Voleva diventare la sua ragazza?
Per carità, un problema in più.
Lui però avrebbe voluto qualcosa del genere. Allora era meglio non farlo venire? Ma Jiraya le aveva detto di non allontanare gli amici, e ne aveva tipo quattro, quindi Akeru era un quarto delle sua amicizie totali...
«Non lo so» disse alla fine. «In questo momento non ho proprio la testa per pensare anche ad Akeru... Ma lei ha detto che non devo allontanare gli amici, quindi se le dico di non farlo venire ne perdo uno.»
Jiraya rifletté per un istante. «Va bene, ci penso io: gli dirò che non è proprio il momento. Quando uscirai dall'ospedale, però, vai a cercarlo tu, altrimenti se la lega al dito.»
Chiharu annuì. Poi serrò la mascella, e si costrinse a continuare. «Non... Non riesco a parlare. Volevo risponderle mentre diceva tutte quelle cose, ma non mi uscivano le parole. Non ci riesco. Non ci sono riuscita neanche con Naruto. Volevo dirgli che i chakravakam non muoiono, però...» si interruppe, di nuovo a corto di parole.
Jiraya le rimandò uno sguardo scettico, ma decise di concederle il beneficio del dubbio. «Questo posso dirglielo io. Non garantisco che cambi qualcosa, ma posso provare. Considera che in questo momento Naruto è sommerso di impegni...» esitò. Chiharu sapeva della guerra? Probabilmente no, e non sarebbe stato lui a dirglielo. «E pensa anche che il tuo cuore è indipendente dalle scelte di Naruto: se non stai bene non puoi continuare a ignorarlo. Io comunque ci provo.»
Chiharu lo ringraziò, sentendo il peso in fondo alla gola che si alleggeriva un pochino.
Jiraya le mise davanti il vassoio della colazione senza chiedere il suo parere, e prima di andarsene le arruffò i capelli già spettinati.
Se Stupido venisse a trovarla adesso, deciderebbe di salvarla sposandosela su due piedi. Figuriamoci. Gli dico che è nel reparto psichiatrico e che servono venti autorizzazioni per entrare.

Dopodiché, visto che era in piedi e che Akeru sarebbe rimasto steso ancora a lungo, Jiraya decise di tagliare la testa al toro e andò a cercare Naruto nello studio dell'Hokage.
Lo trovò sommerso dagli incartamenti, smarrito nelle pile di promemoria di Sakura come un topo in un labirinto. Quando arrivò, Naruto gli lanciò uno sguardo disperato, e subito lo aggredì.
«Fantastico! Ho bisogno di riordinare un paio di cose, dovresti prendere...»
Jiraya alzò le mani verso di lui. «Alt, alt alt! Non sono qui per sbrigare le tue faccende, per di più senza stipendio.»
«Allora mi stai facendo perdere tempo!»
«Abbassa le ali, sono sempre il tuo maestro.»
Naruto fece un sospiro. «Cosa sei venuto a fare?»
«Sono stato a trovare Chiharu.»
Un'enorme torre di carta oscillò e si sfaldò, sommergendoli in una nube di fogli e polvere.
«Forse dovremmo prendere una boccata d'aria...» suggerì Jiraya, tossicchiando.
«Sì, probabilmente sì» cedette Naruto, rinunciando all'idea di sistemare il disastro. «Andiamo in cortile.»
Lasciarono aperta la porta dello studio, nella speranza che Koichi, l'ormai nevrotico segretario dell'Hokage, decidesse di metterla in ordine, e si allontanarono verso un'ala più tranquilla del palazzo, che dava su un cortile interno.
«Chiharu ti ha detto cosa ha fatto?» disse Naruto una volta fuori.
«Più o meno. Anzi, non proprio. Ci sono arrivato da solo, lei è stata molto vaga.»
«Non so cosa fare con quella ragazza... Da qualunque parte provi a prenderla, finisce sempre che deve essere sospesa. Non riesco a farle passare nessun messaggio.»
«Oh, benvenuto nell'inferno dei maestri» Jiraya fece una mezza risata, che però durò poco. «Non è facile con nessun allievo problematico, Naruto, altrimenti non sarebbe problematico» spiegò pazientemente. «Certo aiuterebbe che gli allievi dicessero le cose come stanno, invece di mettere il muso e lasciarsi accusare di tutto...»
«Cioè?»
«Per esempio, le evocazioni di Chiharu non muoiono se vengono rimandate nella loro dimensione. Sono bestie speciali, diverse dai rospi o dalle lumache, e rinascono dalle loro ceneri. Se tu avessi potuto vedere cosa è successo quando Chiharu si è ripresa il suo chakra, sapresti che nella sua dimensione un chakravakam era appena nato.»
«Chakrache?»
«Chakravakam. E' il loro nome.»
«Ma che diavolo... Da dove esce un'evocazione del genere?»
Jiraya fece un cenno vago. «Dall'archivio segreto della Foglia - che, evidentemente, è tutto fuorché segreto. Il Terzo ha cercato di farli sparire, perché sono evocazioni strane, pericolose: possono avere accesso al chakra di chi le ha evocate, non sono fedeli, non muoiono. Erano un'arma a doppio taglio, e per questo sono stati relegati in fondo ai ricordi di Konoha. Ma poi Chiharu li ha ritrovati, ci ha firmato un contratto senza saperne niente, e adesso è stata sospesa dal lavoro perché secondo te ha ucciso un compagno.»
Naruto lo interruppe bellicosamente: «nessuno mi ha detto che non morivano, neanche lei! Ha chiuso la bocca e si è fissata i piedi per tutto il tempo, quando non mi rispondeva in malo modo!»
«Non fare l'allievo problematico anche tu...»
Naruto fece un gesto stizzito. «Comunque cambia poco. Anche se questi chakravara... queste bestie non muoiono, resta il fatto che un'evocazione non è un oggetto: è un compagno. Anche solo ferire un compagno per pararti il culo non può andare bene.»
«Ah no?» lo interruppe Jiraya, con sguardo un po' distante. «Non vorrei contraddirti, ma visto che siamo ufficialmente in guerra forse è il caso che tu sappia che probabilmente tra poco succederà un milione di volte. Pochi pazzi, come te, mettono a rischio la loro vita per salvare quella degli altri: la maggior parte sacrifica quella dei compagni per salvare la propria.»
«Sono vent'anni che lotto per cambiare questo stato di cose!»
«Non so se sia possibile...»
«Questo lascialo decidere a me!»
Da qualche parte Kyuubi rise, riecheggiando tutte le parole che Naruto aveva detto al riguardo. Infastidito, lui scosse la testa per zittirla.
«Lasciamo perdere, non è il momento di infilarsi in discussioni complicate» disse Jiraya, scrollando le spalle. «Anche se non vuoi rivedere la tua posizione riguardo a Chiharu, devo però avvertirti: andando avanti così finirà come era finita con Orochimaru e con Sasuke.»
Naruto si irrigidì. Le stesse parole di Sakura, la stessa opinione. Così erano in due, e due pareri valgono molto più di uno isolato.
«Perché?» chiese Naruto. «Cosa vi fa pensare che sia come allora?»
«Vi
«Anche Sakura la pensa allo stesso modo... Secondo lei Chiharu era complice di Yoshi, perché era l'unica con cui lui parlasse.»
Così si spiegavano anche gli shinobi fuori dalla porta di Chiharu, e non si spiegavano felicemente. «Non so niente di questo... Ma posso dirti che quella ragazza non ha molto che la tenga qui. Non ha un bel rapporto con la famiglia, i compagni di corso sono amici per modo di dire, il suo maestro adesso la scansa, e la sua salute fa acqua da tutte le parti. Il passo successivo è lasciare il villaggio per cercare una soluzione fuori dai confini.»
«Allora cosa dovrei fare?» Naruto allargò le braccia. «Non va mai bene niente! Cerco di essere comprensivo e si allontana, divento severo e si offende, la lascio stare e lei affonda nelle sue manie... Più faccio e più sbaglio. E tutti si aspettano sempre che io abbia la soluzione, che schiocchi le dita e magicamente le cose vadano a posto, perché l'ho sempre fatto e non è possibile che non lo farò sempre... Ahh!» si scompigliò i capelli con le mani, esasperato. «Io non ce la faccio più!»
«Oh, piano, piano» Jiraya gli batté una pacca sulla spalla, un po' stupito. «Riprenditi. E' ovvio che essere Hokage sia pesante...»
«Con una maledetta guerra alle porte? Sì!»
«Non avevo finito. E' ovvio che essere Hokage sia pesante, con una guerra alle porte e gli allievi che danno di matto e tutti i tuoi affari personali, ma – che diavolo! Sei Naruto Uzumaki. Devo ricordartelo io?»
Naruto esitò per un attimo, poi fece un respiro profondo. «Okay, hai ragione... E' che è tutto così complicato...» gemette. «Avere Sakura e Sasuke dovrebbe aiutarmi, invece mi incasina: loro vedono complotti che io non immagino neanche, mi presentano come fondamentali problemi che normalmente avrei liquidato con una scrollata di spalle, vogliono pianificare, organizzare, prevedere tutto... Ma quello di Sakura non è il mio metodo. E non riesco a capire se il suo metodo è quello giusto, e io non ho mai capito niente dell'essere Hokage, o se devo cercare la mia strada. »
«Tu che pensi?»
«Io non lo so più; ed è proprio questo il problema. Ho cercato in tutti i modi di evitare che scoppiasse la guerra, ma non ci sono riuscito... Non mi sono nemmeno accorto della nuova Radice! Mi sembra di essere un cretino, Tsunade mi avrebbe ammazzato per una roba del genere. Vuol dire che qualcosa nel mio modo di fare è sbagliato. Vuol dire che non riesco sempre ad ottenere le cose per cui mi impegno...» tormentato, Naruto scosse la testa.
«Ma questo lo sapevi già» disse Jiraya, a sorpresa. «Ricordi Sakura? Non mi pare che il tuo obiettivo fosse quello di farla diventare una Uchiha.»
«Era diverso!»
«In cosa?»
Naruto aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. «Forse sto invecchiando?»
Jiraya rise. «Non dirlo mai davanti a me. Non stai invecchiando, Naruto, ma probabilmente ti stai affidando un po' troppo ai tuoi assistenti. Ricorda che l'Hokage sei tu, e tu devi impostare il piano. Che fine ha fatto il Naruto che spaccava il mondo senza guardare in faccia nessuno? Ti ho visto difendere Sasuke quando tutti erano contro di lui, ti ho visto sigillare la Volpe da solo, cambiare le persone, superare tuo padre, sposare una Hyuuga, diventare Hokage e mettere al mondo una nidiata di figli! Cosa potrebbe fermarti a questo punto?»
Suo malgrado, Naruto si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. Prese un altro respiro profondo.
«Hai ragione. Mi sono lasciato trascinare dai problemi e non ho più capito niente. Questa storia dell'essere Hokage è un po' una trappola... Ma non ho intenzione di mollare. Il mio sogno era diventare il miglior Hokage che Konoha abbia mai avuto, e questa è la mia occasione» riempì i polmoni fino a scoppiare, sentendo l'ossigeno che gli rinfrescava le idee. «Ho un sacco di lavoro davanti!»
«Non avrei saputo dirlo meglio» approvò Jiraya.
Naruto annuì. «Grazie, maestro.»
E se non lo chiamava maestro porcello la faccenda era seria.
Jiraya sorrise, pensando che era venuto per Chiharu e invece aveva ottenuto molto di più.
Sapeva che di fronte a Naruto c'erano altre sfide, altri ostacoli altissimi, e sapeva che il suo sfortunato allievo si sarebbe trovato in crisi altre mille volte. Ma aveva fede in lui, nella sua profezia, e sapeva che alla fine ne sarebbe uscito vincitore.
Tsunade, la tua scommessa sarà quella giusta.







* * *

Salve a tutti!
Siamo finalmente approdati ai nuovi aggiornamenti ufficiali.

Capitolo centrale nella storia,
finalmente spiega cosa diavolo sono questi benedetti uccelli di Chiharu
e inizia a farle capire quanto le cose sono diventate serie.

Spero che il ritorno di Baka sia stato di vostro gradimento,
ma sappiate che nel prossimo aggiornamento sarà ancor più presente!
Insieme a Jin.
E Hinagiku.
(Non dico di più.)
Il capitolo 38 è il capitolo che aspetto di pubblicare da
ANNI!
Oh, non sapete quanto sono impaziente!

Noticina sulla scena di Iida:
spero che sia ancora inclusa nel rating della storia,
ma invecchiando mi sono fatta pudica e non ne sono più tanto sicura.


Grazie per aver letto fin qui,
spero che ne stia valendo la pena.
Un saluto a tutti!

Susanna

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Capitolo 38
*** Lo Stupido tra noi ***


Capitolo trentottesimo

Lo Stupido tra noi




Oh, quanto sarebbe stato facile risponderle, lì su due piedi, e distruggerla con poche parole...
Lui era un Anbu: aveva visto del mondo molto più di quello che Chiharu poteva anche solo immaginare, e soprattutto aveva visto di Konoha tutto quello che lei non aveva nemmeno la più vaga idea che esistesse...
Sarebbe bastato un istante per farle capire quanto inferiore era rispetto a lui.
Ma rimandò giù le parole, conservandole per un momento migliore - anche se gli costò uno sforzo notevole.
Sapeva che quel momento sarebbe venuto, prima o poi, perché lo attendeva da cinque lunghi anni.

Baka Akeru, capitolo 19.



Jin non sapeva nemmeno quanti giorni fossero passati dall'ultima volta che era entrato in casa.
Sicuramente c'era stato prima di partire per la missione di sua madre, ma poi, una volta tornato, non riusciva a ricordare se fosse passato da casa. Forse era rimasto sempre in ospedale.
Essere lì, ora, era straniante. Le stanze odoravano di chiuso, come se fosse una casa disabitata. Insieme a Natsumi aveva aperto tutte le finestre per cambiare l'aria, ma ci era voluto un po' perché la brezza quasi estiva le rinfrescasse. La luce aveva illuminato lo strato di polvere che ricopriva i mobili e i loro oggetti, rendendoli più grigi. Jin li aveva osservati con uno strano senso di distaccamento.
«Sono entrata solo nella tua stanza, per prendere i vestiti di ricambio» disse Natsumi vedendolo soffiare su una cornice polverosa. «Non ho toccato altro.»
Jin osservò la fotografia all'interno della cornice: lui e suo padre, il giorno del diploma. Uno accanto all'altro, senza abbracci né sorrisi – a meno che Kakashi non sorridesse sotto la maschera.
«Grazie» disse, posandola di nuovo sul ripiano. «Io non ci avrei neanche pensato.»
«Vuoi mangiare qualcosa?»
«Più tardi, magari. Non hanno detto niente di mamma?»
«Ancora no» Natsumi diede le spalle a Jin per nascondere il viso, iniziando a sistemare la spesa posata sul tavolo. «Ma presto la lasceranno andare... Non hanno trovato niente che faccia dubitare della sua lealtà, e adesso ci serve ogni shinobi disponibile.»
«Immagino che gli interrogatori siano stati... approfonditi» Jin corrugò la fronte.
Natsumi gli si avvicinò. «Non pensarci» mormorò, prendendolo per una spalla e accompagnandolo fino al tavolo della cucina. «Quando la lasceranno libera potrai vivere qui insieme a lei, finché tuo padre non si sveglia. E poi deciderete insieme.»
Era difficile dire quelle parole con tono dolce, ma non poteva fargli capire quanto il ritorno di Haruka la stesse tormentando. Ultimamente ciò che faceva e ciò che provava erano sempre in contrasto.
«Sì, vivere insieme per quanto tempo?» Jin fece una smorfia amara. «Sai che presto partiremo per combattere.»
Sia Natsumi sia Jin, come tutti i ninja in servizio, erano stati convocati per la guerra. La ragione per cui erano tornati nell'appartamento degli Hatake era proprio quella: dovevano iniziare a organizzarsi.
Natsumi non disse niente per un po'. Poi gli chiese se voleva almeno un tè.
«Sì, va bene. Intanto vado a vedere se in camera ho delle riserve per sostituire quello che ho perso nell'ultima missione...»
Voleva stare un po' da solo. Gli piaceva passare il tempo con la zia, e sapeva benissimo che era una delle poche cose che ancora gli dava stabilità, ma spesso aveva bisogno di stare per i fatti suoi: erano cambiate troppe cose nell'ultimo mese. Sua madre di ritorno, suo padre in coma, la guerra... Anche se era un bambino straordinario, aveva dei limiti.
Entrò in camera al buio, raggiungendo la finestra senza urtare nulla. Aprì le imposte, inspirò l'odore dell'aria all'esterno. Ricordava il giorno in cui era tornato a casa per quella via e aveva trovato Kakashi ad attenderlo, con la notizia che sarebbero partiti insieme. Vederlo seduto sul suo letto lo aveva fatto arrabbiare, perché aveva invaso la sua intimità. Ora provava solo nostalgia.
Le sue dita si strinsero involontariamente al bordo del davanzale. Diede le spalle alla finestra, andando ad aprire un armadio per non pensare.
Suo padre si sarebbe svegliato, e dopo una prova del genere sua madre sarebbe stata accolta a casa con tutti gli onori, disse a sé stesso. Si sarebbero voluti bene, sarebbero stati la famiglia che Jin aveva sempre sognato. Magari sarebbe arrivato anche un fratellino, e allora avrebbero dovuto cambiare casa...
Si accorse che aveva aperto l'armadio senza ragione. Lo richiuse.
Era difficile pensare a qualcosa che non fosse la sua famiglia.
Fece un sospiro profondo, dicendosi che forse era meglio andare a prendere il tè con Natsumi. Gettò un ultimo sguardo al letto su cui si era seduto Kakashi, quindi uscì nel corridoio.
Fu una curiosa coincidenza che passasse davanti all'ingresso quando suonarono il campanello. In quel modo aprì la porta prima ancora che il suono scemasse, e la persona al di là non ebbe nemmeno un secondo per prepararsi all'accoglienza.
Quella persona era Hinagiku.
Ci fu un attimo di gelo da entrambe le parti. Non si erano ancora visti da quando Jin era rientrato: lui non l'aveva cercata, lei non era mai passata in ospedale.
«Sei tornato» disse Hinagiku, con la voce di uno che cerchi di deglutire e parlare contemporaneamente.
«Ciao» disse lui, per una volta senza parole.
«Non sapevo... Cioè, sono passata altre volte e non hai mai risposto...»
«Ero in ospedale.»
«Ah.»
Hinagiku sapeva perfettamente dove era Jin. Aveva continuato ad andare a suonare quel campanello perché sapeva che non lo avrebbe trovato, e in realtà era terrorizzata all'idea di incontrarlo: c'era una sola ragione per cui lui poteva non averla contattata, cioè perché sapeva che era stata lei a dire a Naruto che erano partiti per cercare sua madre. Evidentemente era furioso.
«Come stai?» chiese rigidamente.
«Bene. Vuoi entrare?»
«Jin, chi è?» domandò Natsumi dalla cucina.
«No no, lascia stare. Non sei solo, non voglio disturbare... Non pensavo nemmeno che fossi in casa» si affrettò a dire Hinagiku, facendo un passo indietro. Non era proprio pronta, maledizione!
Jin corrugò la fronte. Non aveva pensato a lei nemmeno una volta, da quando suo padre era entrato in coma. Si sentì male per questo, si sentì in colpa. Ma non poteva farci niente, era stato distratto da cose più importanti.
«Senti... In questo momento sono un po'...» sbatté le palpebre, a disagio. «Sono stato convocato per la guerra, sto cercando le cose che potrebbero servirmi. Forse dovremmo vederci in un altro momento.»
Hinagiku ammutolì. Non si vedevano da settimane, eppure lui le diceva che dovevano vedersi in un altro momento. Evidentemente lei non gli era mancata quanto lui era mancato a lei... Non l'aveva cercata, non voleva vederla. Rabbia o meno, era un segnale abbastanza chiaro.
«Non ti preoccupare» disse, alzando entrambe le mani. «Ho capito. Ciao.»
«Capito cosa?» fece per chiedere lui, ma Hinagiku si era già voltata e incamminata lungo il corridoio. Jin non ne era sicuro, ma gli sembrava che avesse gli occhi lucidi. «Hina!» la chiamò, cacciando la testa fuori. Lei non si girò.
«Chi era?» chiese Natsumi, comparendo dalla cucina.
«Hinagiku. Ma non ho capito cosa è successo» Jin tornò nell'appartamento, con lo stomaco in subbuglio e la mente confusa.
«Perché non l'hai fatta entrare?»
«Ci ho provato. Poi però non ho avuto il coraggio.»
«Il coraggio?» Natsumi inarcò le sopracciglia, posando sul tavolo due tazze di tè fumante.
Jin scrollò le spalle. «Le ho proposto di vederci in un altro momento, ma ha detto 'non ti preoccupare. Ho capito. Ciao'. E se n'è andata.»
Natsumi inspirò l'aria tra i denti serrati, con una smorfia che fece fare una capriola allo stomaco di Jin. «Le hai davvero detto di incontrarvi un'altra volta?»
«Cosa c'è di male?»
«Non la vedi da quando sei andato via con tuo padre, non ha più saputo niente di te da allora, probabilmente per metà del tempo ha pensato che tu fossi morto... E le dici ci vediamo dopo
Jin aprì e richiuse la bocca. Come spiegare a Natsumi il suo disagio? Non aveva nemmeno pensato a Hinagiku...
«E' arrabbiata?» chiese, incerto.
«Più probabilmente è disperata.»
Jin fissò Natsumi senza capire. Poi ripensò a Hinagiku, la sua espressione quando aveva aperto la porta, e sospirò, facendo girare la tazza di tè con una mano. Si lasciò cadere su una sedia.
«Io faccio sempre fatica a capire le persone...» borbottò.
Natsumi gli passò accanto, posandogli una mano sui capelli grigi.
Povera Hinagiku.


Hitoshi era in perfetta forma, secondo i tecnici del laboratorio di analisi.
Sakura lo aveva dimesso il giorno pattuito, e fuori dall'ospedale aveva trovato subito Jiraya ad attenderlo. La sua idea originale, per essere del tutto onesti, era quella di sgattaiolare a casa Nara e chiedere a Chiharu perché non era mai andata a trovarlo; però il sennin si era messo in mezzo e lui aveva dovuto posticipare.
Era stato un incontro molto strano: a casa di Jiraya aveva trovato Baka Akeru, abbracciato a una bottiglia vuota di sakè e immerso nel sonno. Jiraya gli aveva detto di lasciarlo stare, perché stava facendo un lavoraccio, e lui si era incuriosito ma non aveva potuto chiedere cosa facesse. Quindi aveva iniziato innervosendosi. Poi avevano passato ore intere a spulciare vecchie carte in una scrittura pressoché incomprensibile, cercando tracce del rin'negan tra i geroglifici di formule antiche, appunti sconclusionati e descrizioni raccapriccianti di vivisezioni. Ma avevano trovato soltanto annotazioni senza valore.
A una certa ora Baka si era svegliato, più o meno, e aveva annunciato che barcollava a casa. Probabilmente non si era nemmeno accorto che c'era anche Hitoshi. E solo a quel punto le cose si erano fatte interessanti: perché Jiraya gli aveva raccontato di Yahiko, l'allievo che per poco non lo aveva ucciso, e dei suoi occhi marchiati dal rin'negan.
«Non mi piace ricordare quel combattimento» aveva detto, insolitamente serio. «Yahiko era un bravo ragazzo, prima di farsi coinvolgere dall'Akatsuki. Ma aveva un rin'negan come il tuo, e forse, se ripensiamo insieme a come aveva combattuto contro di me, potremmo capire qualcosa in più di come usare il rin'negan.»
«Mi sta dicendo che lei ha sconfitto un possessore di rin'negan?» il tono di Hitoshi era stato a metà tra lo sbalordito e lo scettico.
Jiraya, stranamente, non si era vantato. «Avrei preferito non doverlo mai fare.»
E così Hitoshi aveva scoperto che il vecchio porco Jiraya non era solo un vecchio porco. Aveva avuto degli allievi e delle tragedie alle spalle, e un pochino, anche se involontariamente, aveva iniziato a entrare nella sua vita.
Si era sentito molto lusingato quando aveva saputo che Naruto cercava ambasciatori per dialogare con la Roccia e Jiraya aveva rifiutato per seguire lui. Lusingato e orgoglioso.
Il sennin gli aveva dato una quantità di compiti da svolgere, per imparare ad utilizzare il rin'negan: gli aveva imposto di attivarlo spesso, per brevi periodi; gli aveva descritto minuziosamente le tecniche utilizzate da Yahiko e gli aveva chiesto di analizzarle; gli aveva insegnato un tipo di meditazione che lui non conosceva e che aiutava a focalizzare la concentrazione, gli aveva fatto riscrivere gli appunti di Orochimaru, anche quelli inutili, per averli sempre sotto mano... Insomma, lo aveva massacrato. Gli aveva anche messo in mano un libro non erotico, dicendogli che era la sua più grande opera, ma Hitoshi subitava che lo avrebbe mai letto.
Alla fine era tornato a casa con un'emicrania terribile. Non era riuscito a vedere nessuno dei suoi fratelli, ma solo i domestici con gli analgesici e i brodini di verdure. Forse sua madre si era lamentata di Jiraya, ma non lo ricordava perché aveva avuto troppo male.
Poi, il giorno dopo, si era ripreso. Aveva iniziato gli allenamenti, combattendo contro l'incredibile prelievo di chakra che richiedeva il rin'negan. Aveva tirato fuori il manuale dello sharingan, che non aveva mostrato a Jiraya perché era una cosa degli Uchiha, e aveva provato anche ad applicare gli insegnamenti dei suoi antenati. Ed era riuscito ad ottenere qualcosa, anche se lentamente.
I suoi genitori si interessavano ai suoi progressi, i fratelli avevano ricominciato a guardarlo con ammirazione – tranne Fugaku, che lo odiava. Era arrivata anche la convocazione per la guerra, ma nessuna notizia sugli altri membri del suo gruppo.
E Chiharu non era mai in casa.
L'aveva cercata più volte, anche in orari diversi. I primi tempi aveva pensato che fosse uscita, ma a un certo punto aveva iniziato a credere che non fosse lì. Allora, irritato, aveva ceduto alla tentazione di andare a chiedere a Kotaro se sapesse dove diavolo era finita, e per questo era tornato in ospedale.
Non gli piaceva elemosinare informazioni da Kotaro, tanto più che lui era stato a letto con Chiharu, e quindi lui avrebbe dovuto essere quello che dispensava informazioni agli altri; ma non aveva alternative, a parte chiedere a un adulto, e chiedere di Chiharu a un adulto ultimamente era sempre imbarazzante.
Rientrare in ospedale gli diede i brividi: l'odore di disinfettante gli ricordò i giorni che aveva dovuto trascorrere inchiodato a letto, indispettendolo. Non ricordava dove fosse la stanza di Kotaro, così dovette chiedere alla reception, e quelli gli fecero storie perché non era un parente. Alla fine, esasperato, decise di cercarla da sola; e si perse.
Poi, miracolosamente, vide la sorella di Kotaro che prendeva una bibita a una macchinetta.
«Mei!» la chiamò, dopo aver frugato nella memoria per ricordare il suo nome.
Lei trasalì, lasciando cadere la lattina, e lo fissò a bocca aperta.
Aveva sbagliato il nome?
«Perché sei qui?» chiese la ragazza, subito sulla difensiva.
Hitoshi si chinò a raccogliere la lattina e gliela porse. «Sono venuto a trovare Kotaro.»
«Davvero?» Mei fece una smorfia per nascondere l'ondata di sollievo. Quando lo aveva visto aveva pensato che avesse scoperto che Chiharu era ricoverata e volesse fargliela pagare.
«Siamo sempre compagni di squadra...» borbottò Hitoshi, fraintendendo l'espressione di Mei e pensando che lei non lo credesse in grado di preoccuparsi per gli amici – cosa non troppo lontana dalla verità.
«Certo, non intendevo... Va beh» giocherellò con la linguetta della lattina.
«Non mi ricordo dov'è la sua stanza, e all'accettazione hanno fatto storie perché non sono un parente. Puoi accompagnarmi da lui?»
Mei scrollò le spalle, cercando di controllare il cuore che era salito in gola, e gli fece cenno di seguirla.
Ok, la cosa non andava affatto bene. Aveva sempre avuto a che fare con Hitoshi Uchiha senza avere la tachicardia, perché adesso si agitava così?
«Sono stata convocata per la guerra» disse per rompere il silenzio. «Anche se mi diplomo a settembre.»
«Hai voti molto alti?» chiese lui, sforzandosi di smettere di pensare a cosa avrebbe detto a Chiharu.
«Ad aprile mi hanno rimandata...» mormorò lei, dandosi della stupida per aver introdotto il discorso.
«Stanno chiamando proprio tutti» disse Hitoshi, più a sé stesso che a lei. Jiraya aveva detto che Naruto voleva impedire l'inizio dei combattimenti, ma evidentemente i suoi assistenti premevano perché la Foglia si tutelasse. «Anche due dei miei fratelli sono stati convocati.»
«So chi sono. Loro sì che daranno qualche contributo.»
«Hai paura?»
Mei esitò. Poi sospirò. «Sì. Per me, per i miei parenti, per i miei amici... Ho molta paura.»
Hitoshi la osservò, forse per la prima volta. Se avesse fatto la stessa domanda a Kotaro o a Chiharu avrebbero sparato altissimo, dicendo qualche stupidaggine su come avrebbero riequilibrato le sorti del conflitto – cosa che forse avrebbe fatto anche lui. A quanto pareva, Mei aveva più buonsenso di tutti loro. Strano, perché nelle poche volte che ci aveva parlato gli aveva dato l'impressione di una ragazzina balbuziente e sciocca.
Sentendo nominare i parenti, pensò a Fugaku e Mikoto, che nonostante il loro sharingan erano appena usciti dall'infanzia. Si accigliò, avvertendo una lieve contrazione allo stomaco, e poi guardò di nuovo Mei.
«Anche Kotaro è stato convocato?»
«Certo. Come mio padre e mia madre. Tutti.»
Hitoshi si sentì in difetto: aveva preso con orgoglio la convocazione alla guerra di mezza famiglia, ma parlando con Mei iniziava a vedere gli aspetti più cupi della faccenda. E, pensandoci a fondo, iniziava a rendersi conto che si trattava di mandare in guerra dei quattordicenni.
Spero che Naruto riesca a fare quel che ha promesso, si disse. E si impegnò, una volta a casa, a trovare Fugaku e parlare del loro rapporto.
«Siete troppo inesperti per una cosa del genere» disse, nonostante avesse solo tre anni più di Mei. «E' un'idiozia.»
Lei, nonostante tutto, si risentì. «Non ho mai detto che ci avrebbero mandati in prima linea» replicò un po' stizzita. «Siamo inesperti ma abbiamo completato gli studi... Possiamo essere di supporto.»
«Non sai di cosa parli.»
Mei serrò le labbra nello stesso modo in cui le serrava Tenten quando era arrabbiata. «Neanche tu. Pensi sempre di essere una spanna sopra gli altri, che ne sai del livello medio?»
Hitoshi si chiese dove trovasse il coraggio di dirgli una cosa simile, e sollevò leggermente il mento. «Dall'alto si può guardare giù, ma non viceversa» puntualizzò.
«Cioè io non devo azzardarmi a parlare di te perché sei il magnifico Hitoshi Uchiha, ma tu puoi giudicare me perché sono una mezza sega?» Mei si chiese perché diavolo aveva sentito le farfalle nello stomaco vedendolo, dato che era così insopportabile.
«Non voglio offenderti, davvero, ma te le cerchi» senza volerlo, Hitoshi incurvò un angolo della bocca.
Mei aprì la lattina che aveva preso al distributore.
Quella esplose tra le sue mani, inondandole la faccia e la maglietta. In effetti, prima era caduta.
Rimase a gocciolare con le braccia alzate e il desiderio di sparire sotto terra, sconvolta. Hitoshi non riuscì a trattenersi: dalla sua distanza di sicurezza scoppiò a ridere senza ritegno.
E allora Mei sentì le guance che si scaldavano, furiosa, e all'improvviso diventò molto cattiva.
«Scommetto che c'è una cosa che non sai» disse, maligna. «Perché io, tra gli altri, te l'ho tenuta nascosta. Indovina un po'? Chiharu è sempre stata ricoverata qui, a duecento metri dalla tua stanza» Hitoshi smise bruscamente di ridere, facendo capire a Mei che aveva fatto centro. «Lasciami indovinare: hai provato a cercarla un sacco di volte a casa, e adesso vuoi chiedere a Kotaro se ne sa qualcosa?» capì di aver colto nel segno, e, trionfante, esclamò: «non si può guardare dal basso verso l'alto, vero?»
Hitoshi non rispose.
Chiharu era sempre stata in ospedale? Allora stava male. Per quello non era andata a trovarlo... Forse era grave, forse...
«In che stanza è?»
«Arrangiati, figo come sei puoi scoprirlo anche da solo» Mei si voltò bruscamente, sgocciolando dappertutto.
«Mei!» la chiamò Hitoshi, ma lei lo ignorò.
Che cosa ho fatto?, si chiese allora con orrore, sentendo il gelo della paura che le attanagliava le viscere.
Sakura Uchiha l'avrebbe ammazzata.


Mentre Hitoshi incontrava Mei, Baka fissava la porta della stanza di Chiharu.
Erano successe molte cose in quei giorni.
Jiraya gli aveva detto che Chiharu era in un reparto particolare e non poteva ricevere visite; la psichiatria, a quanto pareva. Lui ci era rimasto male, e si era pure preoccupato, ma poi Morino lo aveva scaraventato nell'occhio del ciclone degli interrogatori e non era più riuscito a fare nient'altro.
Finché, proprio negli interrogatori, non era venuto fuori il nome di Chiharu.
E allora Akeru aveva recuperato i favori che gli dovevano in ospedale, e aveva scoperto che non era affatto ricoverata in psichiatria, ma nell'ala che usavano per i sorvegliati speciali; aveva scoperto che due Anbu la tenevano sotto controllo ventiquattr'ore al giorno e che Sakura in persona decideva le sue sorti. Ma soprattutto, aveva scoperto che tutto questo aveva a che vedere con Yoshi.
E non lo aveva scoperto dalla Foglia.
Scrutò le guardie con la coda dell'occhio. Vide che lo fissavano, ma era normale: si conoscevano.
Esitò qualche secondo, per vedere se gli avrebbero impedito di entrare; quelli si limitarono a un piccolo cenno di saluto. Sicuramente sapevano perché era stato rimosso dagli Anbu, e molto probabilmente sapevano anche che non sarebbe dovuto essere li, ma Baka era benvoluto tra i colleghi, e non lo avrebbero tradito. Era imbarazzante sbandierare così la propria cotta, ma in fondo non era lì per quello, disse a se stesso, tentando di convincersi.
Prese un respiro profondo, perché per disobbedire agli ordini diretti dell'Hokage bisogna essere proprio sicuri, e bussò.
«Chi è 'stavolta?»
Senza rispondere lui entrò.
«Baka!» esclamò lei, più stupita che indignata. Di colpo le tornarono in mente le parole di Jiraya, e senza volerlo arrossì. «Non sei... tipo in carcere...?» mormorò, affievolendo la voce man mano. Jiraya non doveva convincerlo a non venire? L'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento erano i problemi sentimentali.
Suo malgrado Akeru fece un mezzo sorriso, immaginando che Jiraya avesse descritto a Chiharu una situazione tragica. «Più o meno.»
Aveva pensato di incontrarla in mille modi diversi, uno più eroico dell'altro, ma ora non sapeva come affrontarla. Forse perché non era lì in veste di grandioso salvatore, ma come allievo di Morino.
Era mattina, la stanza era inondata di luce. Anche quella notte Akeru aveva lavorato, e le occhiaie erano ben visibili sulla pelle. Chiharu le notò. Per una volta le peggiori non erano le sue.
«Ehm...» iniziò, esitante. Una grossa parte di lei si opponeva alla gentilezza verso Akeru, ma le minacce di Jiraya la preoccupavano. «Mi dispiace per come è andata con il contratto...» iniziò, a fatica. «Se c'è qualcosa che posso fare...»
«No, non c'è» lui la bloccò subito. «Avresti potuto evitare di cercare di suicidarti mentre eri sotto la mia sorveglianza, ma credo che ormai sia un po' tardi per quello.»
Ok, una piccola stoccata poteva concedersela... Piccola piccola.
Chiharu si zittì, lievemente risentita, ma durò poco. «Ho cercato di salvare il culo a tutti, e mi pare di esserci anche riuscita.»
«Tutti tranne te.»
«Non è stata una mia scelta. L'evocazione non era sbagliata.»
«Ah no? E allora cosa è andato storto?»
Chiharu tacque. Il riserbo sui chakravakam ora era anche più importante. Akeru sospirò, lasciando perdere la rivincita, e si sedette sulla sedia accanto al letto.
«Non era storta la tecninca. Tu sei storta, Chiharu...»
Lei roteò gli occhi, pronta all'ennesima tirata sulla sua ambiguità sentimentale, ma quella non arrivò.
«Sai di cosa mi occupo adesso?» le chiese Baka, cambiando completamente discorso.
Lei scosse la testa, guardinga.
«Interrogatori. Sono diventato allievo di Morino. Sì, esatto. Anche se sono un medico. Fa parte della mia punizione per aver firmato il tuo contratto, ed è orrendo. Ma non voglio parlare di questo» la fissò con attenzione. «Tu non sai chi è stato catturato mentre eravamo via, vero?»
Chiharu rabbrividì, esitante. Aveva un brutto presentimento: Akeru che veniva a cercarla per parlare del più e del meno era inquietante quanto un Jiraya casto e morigerato. «Chi è stato catturato?» domandò.
«Yoshi.»
La notizia era così inaspettata che Chiharu ci mise almeno due secondi prima di capire di chi stava parlando Akeru. Poi realizzò.
«Cosa? Perché?»
Nel momento esatto in cui lo chiedeva, Chiharu si rese conto di saperlo: le informazioni che Yoshi le portava dall'ufficio dell'Hokage. Sbiancò.
Dopo tutte le pagine che aveva dovuto leggere sulle microespressioni, Akeru non si lasciò sfuggire la sua reazione, e una ruga gli attraversò la fronte in verticale. «E' stato catturato per spionaggio» disse. «Sospettiamo che tenesse sotto controllo l'ufficio dell'Hokage.»
Chiharu deglutì, mentre la schiena le si copriva di sudore.
Menti! Menti! Menti!
«Non ne sapevo niente. Parlavamo solo di sciocchezze quando eravamo insieme...» disse, la gola improvvisamente asciutta.
«Ma certo» Akeru si passò una mano sulla fronte. Fare con Chiharu quello che faceva negli altri interrogatori era di una difficoltà abissale.
Ma doveva tirarle fuori la verità se voleva aiutarla... Perché era stato proprio Yoshi a nominarla.

«E' inutile, non scuce una parola!» Morino prese a calci una gamba del tavolo inchiodato al pavimento, asciugandosi il sudore sul viso.
Akeru, livido, attese che gli ordinasse di guarire Yoshi dalle ferite – lo aveva fatto spesso, quella notte. Ma Morino non gli disse niente.
«Vado a prendere una boccata d'aria» sbottò invece, e per la prima volta da quando lavoravano insieme lasciò Akeru da solo in un interrogatorio.
Lui esitò. Doveva curare Yoshi o doveva solo aspettare? Morino non gli aveva dato ordini, però lui, come medico, sentiva le dita formicolare per il desiderio di agire. Resistette soltanto pochi minuti, poi la sua coscienza si ribellò e lo fece avvicinare a Yoshi.
«Perché non parli e basta?» sussurrò tra i denti, mentre passava le mani avvolte di chakra attorno al viso del ragazzo. I suoi capelli, un tempo di un biondo brillante, adesso erano sporchi e neri alla radice.
Yoshi aprì un occhio pesto, puntandolo su di lui. Poi contrasse i muscoli della guancia per fare una smorfia simile a un ghigno.
«Se io parlo, Chiharu ci va di mezzo...»

Poi Morino era rientrato e Yoshi era ripiombato nel mutismo.
Akeru aveva sempre pensato che Chiharu non fosse coinvolta nella faccenda; credeva che avesse solo un pessimo gusto nello scegliere le amicizie, ma mai avrebbe detto che lei c'entrasse qualcosa. All'improvviso, davanti a una singola frase, le sue certezze avevano traballato.
Baka non era più stato in grado di lavorare decentemente da allora: ad ogni domanda aveva avuto il terrore che Yoshi avrebbe fatto il nome di Chiharu, e se quel nome fosse finito nelle mani di Morino sarebbe stato un vero disastro.
D'altro canto non poteva nemmeno ignorare il coinvolgimento di Chiharu nella faccenda, e per questo, dopo altre ore di angoscia, aveva risolto che gli restava solo da rivolgersi direttamente a lei.
Il che era probabilmente la cosa più lontana dalle fantasie di riunione che aveva avuto.
«Chiharu» disse, appoggiandosi coi gomiti alle proprie ginocchia. «Sto passando giorno e notte a interrogare gente molto più brava di te a mentire... Puoi risparmiarmelo? Dimmi solo cosa c'entri in questa storia.»
Lei rimase a fissarlo, la testa vuota. Avrebbe dovuto fare colazione, si disse, almeno avrebbe avuto le forze di inventare qualcosa di plausibile. Ma c'era una scusa che poteva vendergli?
«Chiharu, è stato Yoshi a fare il tuo nome. Se tu non parli con me, dovrò riferirlo a Morino.»
Chiharu si accorse che le tremavano le mani. Era in trappola.
Ripensò al giorno in cui Yoshi le aveva parlato per la prima volta delle informazioni che riusciva a recuperare dallo studio dell'Hokage; ripensò alla tentazione di denunciarlo, e poi alla rinuncia. Si pentì di ogni singola parola scambiata allora. Deglutì a fatica, senza una goccia di saliva in bocca.
«Lui cosa...» tergiversò.
«Chiharu!»
«Okay! Era... Una cosa innocente» disse piena di imbarazzo, anche se ora la cosa innocente non sembrava proprio. «Lui mi passava delle informazioni, prima che le sapessero gli altri. Non mi ha mai detto come faceva, e io non glielo chiedevo.»
«Che genere di informazioni?»
Chiharu distolse lo sguardo, sentendosi morire. «Informazioni dallo studio dell'Hokage.»
«Stai scherzando?» Akeru spalancò la bocca.
«No» Chiharu fece una smorfia, mentre lui si alzava di scatto, passandosi le mani sul viso. «Erano tutte cazzate, roba di poco conto!» provò a difendersi. «Mi diceva se stavamo per essere mandati in missione, se... se succedeva qualcosa alla Sabbia...»
«Cose innocenti?» gridò Akeru, facendola sussultare. Poi si ricordò degli uomini fuori dalla porta e si costrinse ad abbassare il tono. «Mi stai dicendo che sapevi che uno shinobi teneva sotto controllo l'ufficio dell'Hokage, e invece di avvisare qualcuno ne hai approfittato?»
«Solo per...»
«Porca puttana, Chiharu! Questo è tradimento.»
Pietrificata, Chiharu rimase a fissarlo senza sapere cosa rispondere.
«Come cazzo ti è venuto in mente?» Akeru riprese a camminare avanti e indietro. «Yoshi non era neanche uno shinobi di Konoha... E' uno straniero, un signor chiunque. Avresti dovuto avvisare subito Naruto...» si fermò di botto, colto da un presentimento. La fulminò con lo sguardo. «Cosa ti ha promesso?»
Chiharu si strinse nelle spalle cercando di farsi piccola. «Niente, in realtà» mormorò.
«Certo, come no!»
«Non mi ha promesso niente!» insisté lei. «Io... ho solo pensato che mi sarebbe stato utile. Yoshi sembrava inoffensivo, e quando l'ho scoperto ha giurato che era solo per mettere alla prova le sue capacità...» Ripensandoci adesso, la storia suonava assurda anche a lei.
«Cioè pensavi di controllarlo? Ma che cos'hai nel cervello?»
Aveva paura, ecco cosa aveva nel cervello.
Quando aveva scoperto Yoshi si stava accorgendo che faceva sempre più fatica a migliorare, mentre Kotaro riusciva in tutto ciò che provava e Akeru era appena entrato negli Anbu. L'unico che non la facesse sentire inferiore era Hitoshi, ma poi i suoi fratelli avevano sviluppato lo sharingan e lei si era detta che sarebbe stata questione di tempo... Voleva soltanto avere un po' di vantaggio, visto che gli altri non avevano nessun handicap a rallentarli.
«Era al prmo anno di Accademia!» gemette. «Pensavo che non sarebbe stato difficile controllarlo...»
«Ti sembra normale che uno al primo anno di Accademia riesca a spiare l'ufficio dell'Hokage senza farsi beccare?» Akeru si mise le mani nei capelli. «Pensavi che non sarebbe stato difficile controllarlo!» esasperato, si lasciò cadere di nuovo sulla sedia.
Sentì un peso piombare giù nello stomaco, fino ai talloni: non c'era assolutamente niente che potesse fare per difenderla, realizzò - a parte sostenere l'infermità mentale.
La fissò, ed entrambi rimasero in silenzio, consapevoli dei rispettivi pensieri.
«Come hai potuto fare un errore così madornale?» chiese Akeru dopo un po'. «Ti credevo intelligente...»
«Beh, forse invece ero disperata» mormorò lei, distogliendo lo sguardo al ricordo di Jiraya che la smentiva.
Te lo abbiamo detto un paio di volte di troppo, le aveva detto. Solo ora capiva quanto aveva ragione.
Akeru si fissò le ginocchia, costringendosi a calmarsi. Disperata, Chiharu Nara? Al punto da chiedere aiuto? Scosse la testa. «No, non eri disperata» la contraddisse. «Non più del solito; non più di cinque anni fa, o di quando quell'evocazione ti ha quasi uccisa... Il problema è quello che Naruto vi ha fatto.»
Chiharu perse il filo del discorso. «Naruto?»
Akeru lasciò cadere la testa all'indietro. Per anni aveva avuto la tentazione di spiegare a Chiharu come stavano davvero le cose, ma quando gli veniva il desiderio di farlo era sempre per ferirla, e si tratteneva ogni volta. Ora avrebbe dovuto farlo per la ragione opposta.
«Il gruppo sette non è il gruppo dei migliori» disse, raddrizzando la testa per guardarla. «Una volta, forse, lo era... appena diplomati. Ma lo è stato per poco tempo. Da lì in poi le vostre missioni sono sempre state iperprotette: andare in giro con Naruto era di per sé la garanzia di tornare vivi, qualunque livello decideste di fare. E lui non ha mai permesso che vi fossero affidate missioni con dei veri rischi.»
«Questo non è vero!» insorse istintivamente Chiharu. «Spesso...»
«Spesso un cazzo!» sbottò lui. «Io ho letto i file Anbu su Naruto. Gli shinobi delle altre Nazioni hanno l'ordine di darsela a gambe se lo incontrano. L'ordine di scappare, mi segui? E' facile andarsene in giro con la Volpe a Nove Code come guardia del corpo! Pensi che qualcuno avrebbe davvero osato attaccarvi mentre eravate con lui? E perché credi che venisse ancora in missione inseieme a voi, se gli altri gruppi lavoravano senza maestro già da anni? Per proteggervi, Chiharu. Per essere sicuro che tornaste sempre a casa.»
«Naruto si fida di noi!» esclamò Chiharu. «Il gruppo sette è stato selezionato per raccogliere i migliori diplomati del nostro anno. Non veniva con noi per tenerci in vita, veniva con noi perché le nostre missioni erano difficili.»
«Difficili?» Akeru scoppiò in una risata secca. «Quante volte siete stati più in là dei confini del paese del Fuoco?»
Chiharu aprì la bocca per rispondere, ma nessun ricordo le venne in aiuto. C'erano sicuramente, ma erano pochi e vaghi.
«Quante volte avete dovuto uccidere qualcuno?» continuò Akeru, implacabile. «Quante volte avete dovuto fare scelte eticamente discutibili? Quante volte hai rischiato di morire?»
«Guarda, giusto l'altro giorno» riuscì a interromperlo.
«Sì. E poi?»
Nessuna risposta.
«Sono Anbu da due anni, Chiharu» Akeru alzò la mano aperta. «In questi due anni ho rischiato di morire cinque volte. E me le ricordo tutte... Perché, credimi, quando ti salvi per un soffio te lo ricordi. Voi siete stati davvero in pericolo soltanto quando Naruto non aveva programmato la missione, ma sai qual è la prova più forte? Sei tu: una kunoichi cardiopatica non avrebbe tirato fino ad oggi senza stare sotto una cupola di vetro.»
Chiharu si portò una mano alla fronte, con la fastidiosa sensazione che la stanza ondeggiasse.
Perché la sua parte razionale non riusciva a trovare falle nel ragionamento di Akeru? Perché una voce, nel profondo, le diceva che davvero era proprio strano che fossero così bravi da tornare sempre senza ferite importanti?
Tutti gli anni passati con Naruto, le prove che avevano superato, le fatiche... Tutte versioni edulcorate della vita dei loro compagni?
«Naruto vi ha tenunto nella bambagia per tutti questi anni, e adesso tu non sai distinguere una minaccia da una matricola curiosa» disse Akeru in tono meno duro, vedendola vacillare. «Se solo aveste potuto vedere cosa c'è oltre i confini, cosa c'è davvero, non avresti fatto questo errore... Là fuori è pieno di persone molto più forti di voi, di me, della maggior parte dei nostri compagni; è pieno di mostri pericolosi, e se non stai attenta, per quanto tu sia intelligente, quelli fanno esattamente quello che ha fatto Yoshi con te: ti usano.»
Ti usano.
Come Itachi Uchiha aveva fatto con Sasuke, e Madara con Itachi... Esattamente ciò a cui aveva creduto di prepararsi per tutta la vita, ciò che l'aveva spinta a trattare male il prossimo per evitare di restare ferita. Ed era finita che la prima volta che avevano provato davvero a manipolarla, ci era cascata in pieno. Aveva passato tutta la vita a stare in guardia, contro i suoi genitori, contro i compagni, anche contro Akeru... E si era tradita con Yoshi, così: banalmente. Come una ragazzina all'Accademia.
Come l'allieva di un maestro troppo, troppo protettivo.
Provava vergogna.
Tra lei e Akeru, per la prima volta pensava che il cognome Baka fosse finito alla persona sbagliata, ma non era facile accettarlo.
«Non ha senso...» mormorò, quasi stordita. «Naruto ci ha allenato per combattere, non è un vigliacco. Lui ci ha sempre spinto a migliorare, ci ha fatto rischiare...»
Akeru la guardò bene, stretta nelle spalle, aggrappata al lenzuolo. Stava distruggendo tutto quello in cui lei credeva, ma doveva farlo. Anche a lui faceva male vederla così, ma per Chiharu era arrivato il momento di capire fino a che punto Naruto li avesse condizionati... Prima che la guerra la travolgesse.
«Tu conosci la profezia di Naruto?» chiese.
«Intendi il libro di Jiraya?» lei rialzò la testa.
«Sì. La profezia secondo cui Naruto sarà il salvatore del mondo ninja, o il suo distruttore. Tra gli Anbu circola da parecchio tempo, anche se non tutti credono che si riferisca proprio a Naruto.
Tu hai letto il romanzo? Io ammiro Jiraya per tante cose, ma quel libro è davvero una stronzata. C’è un solo modo in cui Naruto può salvare il mondo dei ninja, ed è allevando una generazione di shinobi diversa dalla precedente; è affidando a loro il futuro. Di sicuro non rivelandosi la mistica reincarnazione del dio della Pace, e imponendo forzosamente la tregua a tutto il mondo ninja! Per favore! Questo non è uno scenario possibile: in questo modo non si ottiene la pace, si ottiene soltanto altro odio.
Ma, se lui ci crede davvero, non faccio fatica a immaginarlo che pensa di tenervi fuori dai pericoli, perché tanto impedirà lo scoppio della guerra, porterà la pace tra i popoli e vi regalerà un futuro tutto rose e fiori!» Akeru fece una smorfia amara. «Per ora vi ha regalato solo l'odio degli altri gruppi, perché ve la siete tirata per tutto il tempo mentre non c'era proprio nulla di cui vantarsi. E, visto come è andata con Yoshi, non avevamo tutti i torti a considerarvi viziati.»
Chiharu si passò le mani sul viso, premendo le dita sulla fronte.
Aveva la testa invasa da un ronzio: sentiva la voce di suo padre, anni prima: fuori di qui ci sono cose pericolose di cui tu non sai niente, le aveva detto. E lei lo aveva ignorato, perché si sentiva forte e Shikamaru era lì, quindi lei lo dava per scontato, non lo ascoltava nemmeno, come tutte le cose che aveva sempre intorno... Quanto avrebbe voluto averlo vicino, adesso. Ma quanto si vergognava di cercarlo, ora che si vedeva per quello che era!
Fece scivolare le mani ai lati del viso, tenendo lo sguardo piantato sulle lenzuola.
«E adesso la guerra è arrivata» disse Akeru piano. «E voglio che tu sia preparata.»
«La guerra?» finalmente lo guardò.
«La Roccia ha fatto arrivare la dichiarazione ufficiale. Questo significa che Yoshi non è sospettato di spionaggio e basta, ma è sospettato di lavorare per loro. E, in parte, lo sei anche tu.»
«Io non lavoro per la Roccia!» esclamò Chiharu indignata.
«Beh, alcuni pensano che sia così. Ho scoperto che Sakura Uchiha è convinta che tu sia coinvolta con Yoshi.» le spiegò lui. «Ovviamente non poteva metterti uno Yamanaka nella testa per interrogarti - Naruto non glielo avrebbe mai permesso - ma fuori dalla tua stanza ci sono due Anbu, e nel corridoio non ci sono altri malati. E' come se fossi prigioniera anche tu.»
«Ha già deciso tutto» alitò Chiharu.
Per quanto sconvolgente, la cosa non la stupiva più di tanto: Sakura non si fidava di lei da quando le aveva disobbedito, cinque anni prima, quando Hinata aveva rischiato di perdere Minato.
Akeru annuì lentamente, corrucciato. «Cercherò di aiutarti...»
«Come?» lo interruppe lei. «L'unica soluzione che vedo io è uccidere Yoshi.»
Lui rimase in silenzio. In effetti era anche l'unica che vedeva lui, ma se qualcosa fosse andato storto, altro che tradimento...
«Non posso ucciderlo» sospirò, appoggiando la fronte alle mani. «Mi inventerò qualcosa, proverò a restare solo con lui.»
E come, visto che anche tu hai un piede in carcere?, non riuscì a non pensare lei. Ma vide le buone intenzioni di Akeru, e insieme all'angoscia provò ancora il senso di colpa e la vergogna.
Jiraya l'aveva messa in guardia sul prendersi le proprie responsabilità... Adesso non c'era nessuno su cui scaricare la colpa; non la Lophenaria di suo nonno, non il suo cuore, nemmeno Yoshi. C'era solo e soltanto lei.
«Sono finita, vero?» chiese con un filo di voce.
Akeru non riuscì a risponderle.
«Merda...» sussurrò Chiharu, alzando gli occhi verso il soffitto. Si sarebbe aspettata di sentire le lacrime premere dietro gli occhi, ma ancora un volta non arrivavano. Si chiese se si stessero accumulando da qualche parte, dentro di lei, e se l'avrebbero avvelenata. «E io che pensavo che il mio problema più grande fosse la salute» disse.
«Farò tutto ciò che posso, davvero» insisté Akeru.
«Allora convincerai Sakura che avevo un piano e costringerai Yoshi ad appoggiarmi?»
«Chiharu, sto parlando seriamente.»
«Anch'io. A proposito, il dottore che si occupa di me dice che questa volta il mio cuore è davvero al limite: se continuo sono morta. Questo può tenermi fuori dal carcere o è un problema solo se voglio restare ninja?»
Akeru esitò, combattendo contro la propria etica di medico, ma alla fine si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «L'ultima volta che te l'hanno detto non mi sembra ti abbia fermato.»
Chiharu scosse la testa e continuò a fissare il soffitto.
«Haru, guardami.»
Lei non reagì.
«Chiharu!»
«Cosa?» sbottò abbassando lo sguardo.
E allora lui si protese in avanti, appoggiando una mano sul letto, e l'altra la posò sulla sua guancia, e le labbra le premette contro quelle di lei. Le sentì fredde, screpolate, ma riuscì a riconoscerle.
La baciò delicatamente, poco più di una carezza, poi si fece indietro.
«Farò tutto ciò che posso, davvero» ripeté, scivolando con la mano dal viso al collo.
Qualcosa pizzicò, sotto le palpebre di Chiharu. Ed era straordinario, perché stava iniziando a pensare che non sarebbe più successo. Forse, come aveva supposto Jiraya, ci voleva qualcuno della sua età, qualcuno che fosse al suo livello, per farla sbloccare.
Per un folle istante Chiharu sentì l'istinto di posare la sua mano su quella di Akeru, ancora ferma contro il suo collo... Ma prima che potesse farlo qualcuno li interruppe bussando.









* * *

Cliffhanger!
Questo capitolo, dal punto di vista dei contenuti,
sarebbe lungo il doppio.
Purtroppo il capitolo successivo non è ancora completo,
inoltre se lo avessi lasciato unito sarebbe stato enormemente lungo,
per questo ho pensato di spezzarlo qui.
E' forse l'unica libertà che ci si può prendere con le storie a capitoli.
Vi prego di essere comprensivi.
Solo nel prossimo capitolo saprete chi sta bussando a quella porta.

Ciò detto,
oh! Finalmente questo capitolo!
Non vedevo l'ora di scrivere di questo Stupido meno stupido del previsto.
E' stata una soddisfazione quasi indecente.
Per chi avesse delle perplessità sul discorso di Baka,
(soprattutto riguardo a Naruto),
vi ricordo che il mio Naruto è un po' diverso da quello di Kishimoto.
Per esempio,

ALLERTA SPOILER QUARTA GUERRA DEI NINJA!
(E' SCRITTO IN BIANCO, SELEZIONATELO CON IL CURSORE PER LEGGERLO)

il mio avrebbe risposto alla dichiarazione di Hinata,
invece di dimenticarsene completamente.

FINE SPOILER!

Ad ogni modo,
ho creato qualche difficoltà anche a Hinagiku
(perché dodici anni è l'età migliore per i fraintendimenti)
e alla povera Mei
(forse sono stata crudele)...
Giusto per ricordarvi che ci sono anche altri personaggi femminili
al di là di Chiharu.
Spero che vi siano gradite
(almeno loro sono normali, più o meno).

Ancora una volta vi ringrazio per aver letto,
e se vorrete farmi sapere cosa pensate di questo capitolo
il form delle recensioni dovrebbe essere qui sotto.

Oggi purtroppo sono molto stanca,
ma la prossima volta vorrei lasciarvi il link ai disegni dei mocciosi
che ho fatto nel lontano 2008,
e magari la preview del capitolo successivo...
Chissà se mi ricordo! XD

Un abbraccio,

Susanna

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Capitolo 39
*** L'eccezione e la regola ***


Penne 39
Capitolo trentanovesimo

L'eccezione e la regola




La bussata di Hitoshi non ottenne risposta.
Il ragazzo si guardò attorno nervosamente, cercando di evitare gli Anbu che fingevano di essere impegnati e in realtà se la ridevano sotto i baffi. Non riusciva a capire cosa ci fosse di tanto divertente, ma lo irritavano per principio. Se non avesse saputo perché erano lì avrebbe attaccato briga.
Comunque un Uchiha era un Uchiha, e non sarebbe rimasto a farsi prendere in giro. Incurante della risposta oltre la porta, abbassò la maniglia e si intrufolò all'interno della stanza di Chiharu.
Ebbe forse due secondi per osservarla prima che lei si girasse, ma notò molte cose: la curva della sua guancia era più spigolosa di quanto ricordasse, così come le spalle sotto la camicia da ospedale. Il suo colorito era più vicino al giallo che al bianco, e i capelli, raccolti in una coda molle, spettinati e opachi. Quando si voltò verso di lui, Hitoshi vide tutto il resto che c'era da vedere, la conseguenza della solitudine e delle medicine: le labbra asciutte, le palpebre gonfie, le minuscole rughe tra gli occhi, e gli occhi stessi, che ci misero un po' a metterlo a fuoco. E allora Chiharu sbatté le palpebre, al che Hitoshi provò un misto di orgoglio e offesa nel vedere che era assolutamente sorpresa dalla sua visita.
Non si vedevano dalla missione di Loria, praticamente da quando avevano passato la notte insieme. Trovandosela davanti senza essersi preparato adeguatamente, subito avvertì sulle labbra la sensazione dei suoi baci, e questo abbassò di colpo il livello di risentimento nei suoi confronti.
«Hitoshi» disse Chiharu, evidentemente a corto di parole.
«Chiharu» rispose lui, con un cauto cenno del capo.
Sentendo la sua voce lei si raddrizzò leggermente, avvertendo un lungo brivido lungo la colonna vertebrale: pochissimi minuti prima Akeru era uscito da quella stessa stanza perché l'infermiera era tornata per l'iniezione. Se l'infermiera non fosse venuta, o se Hitoshi fosse arrivato prima... Represse un brivido. Sperava che Hitoshi e Akeru non si fossero incrociati lungo il corridoio.
«Non sapevo che fossi in ospedale» disse Hitoshi, avvicinandosi. «Sarei venuto prima, altrimenti.»
Sarebbe venuto all'istante, per essere precisi, andando contro tutti i desideri e gli ordini di Sakura. A dire il vero nemmeno in quel momento sarebbe dovuto essere lì. Sua madre era stata molto chiara al riguardo, e ripensandoci provò una piccola fitta di inquietudine...

Mei Lee gli aveva messo la pulce nell'orecchio dicendogli che Chiharu era in ospedale, e lui aveva provato a cercarla chiedendo al personale. Purtroppo non era riuscito a trovare nessuno che sapesse dove era la ragazza, così, furioso, aveva deciso di cercare direttamente sua madre per avere spiegazioni.
«Hitoshi! Stai male?» gli aveva chiesto lei vedendolo. Era nel suo studio, e lui per entrare aveva interrotto una piccola riunione.
«Perché mi hai detto che Chiharu era a casa?» l'aveva aggredita, senza darle il tempo di capire che c'era da difendersi.
Sakura si era fatta rigida. Con un'occhiata di intesa aveva congedato il medico calvo con cui stava discutendo, e a quel punto aveva offerto a Hitoshi una sedia.
«Non voglio sedermi. Voglio sapere perché non mi hai detto che Chiharu è in ospedale!»
Sakura aveva incrociato le braccia sul petto, assumendo la sua tipica posa da madre inflessibile, ma Hitoshi aveva già deciso che non sarebbe servito a niente.
«Da chi l'hai saputo?» chiese lei.
«Non importa. Perché non me lo hai detto?»
«Non ti ho detto che era in ospedale perché eri emotivamente fragile e...»
«Ero cosa? Mi stai prendendo in giro? Mi hai fatto credere che stesse bene, e invece adesso scopro che è ricoverata!»
«Ci sono persone che si prendono cura di lei egregiamente.»
«Mamma!»
Sakura aveva sbuffato. «Non pensare che abbia chiesto di te. Come al solito, sta pensando solo a se stessa.»
«Ma tu non avevi il diritto di nascondermi che...»
«Non avevo il diritto di proteggere mio figlio da una stupida cotta sbagliata?»
Hitoshi era arrossito, poi però aveva alzato il mento. «Sì, beh, è la mia cotta. Non sono fatti tuoi!»
Sakura gli aveva dato le spalle, una mano a nascondere le labbra come per trattenersi dal parlare. Per un attimo Hitoshi aveva pensato di andarsene sbattendo la porta, ma poi Sakura si era girata di nuovo e aveva parlato.
«Sono fatti miei, invece; perché sospetto che Chiharu sia coinvolta in qualche modo con Yoshi. E non posso permettere che mio figlio resti invischiato nella faccenda.»
Hitoshi ci aveva messo qualche secondo a capire cosa lei intendesse.
«Chiharu una traditrice? Ma per favore!» aveva esclamato allora. «Lavoro con lei da cinque anni, e ti posso giurare su qualunque cosa che quella ragazza non ha voglia nemmeno di fare il suo lavoro, figuriamoci il doppiogioco!»
«Tu hai una cotta per lei! Non vedresti il doppiogioco nemmeno se te lo sbattesse in faccia.»
«Beh, tu lo avevi visto con papà.»
Silenzio. Sakura era impallidita.
Hitoshi si era reso conto di essersi spinto troppo oltre, ma aveva deciso di difendere comunque la sua linea. «Tu hai potuto scegliere cosa fare quando papà se ne è andato. Lascia scegliere a me come comportarmi con Chiharu.»
Sakura si era presa qualche secondo per elaborare una risposta, poi aveva distolto lo sguardo da quello del figlio.
«Va bene» aveva detto, a fatica. «Mi dispiace di averlo tenuto nascosto» Hitoshi aveva annuito. «Però, come Hokage, devo importi di non dirle niente dei sospetti su lei e Yoshi. C'è un'indagine in corso. E' sotto sorveglianza.»
Hitoshi aveva serrato le labbra. Era stato difficile promettere quello, perché una parte di lui avrebbe voluto chiedere a Chiharu in che rapporti era precisamente con Yoshi, ma alla fine lo aveva fatto.
Non voleva che sua madre pensasse che era un bambino.

«Mi dispiace» borbottò, anche se non aveva colpa, e tornò a concentrarsi su Chiharu.
«Non fa niente» disse lei, un po' irrigidita. E meno male che non sei venuto prima! «Come... Come stai?»
«Bene» Hitoshi si sedette. La sedia era tornata subito fredda dopo che Akeru se ne era andato. Non si accorse che l'aveva usata qualcun altro.
«Le emicranie?»
«Una ogni tanto... Ma adesso so perché vengono.»
«Kotaro mi ha detto che hai una nuova tecnica.»
«Ah, quindi è venuto a trovarti?»
Il bastardo sapeva che era ricoverata! Altro che equilibrio e diritti...
«Quando ha potuto è venuto, sì» disse Chiharu, un po' perplessa.
Forse mi porterà le arance in carcere, aggiunse mentalmente, con una stretta allo stomaco.
Il quadro che Akeru le aveva dipinto del suo prossimo futuro continuava a ripresentarsi davanti agli occhi: Yoshi che faceva il suo nome, gli interrogatori, la guerra... Non avrebbero mai, mai, mai creduto che aveva solo fatto un errore. Avrebbero detto che era una traditrice.
«Mi stai ascoltando?»
Chiharu si riscosse e fissò Hitoshi.
Lui, innervosito, si alzò dalla sedia. La aggirò, si appoggiò allo schienale, piegò la testa. La rialzò.
«Okay, a cosa stai pensando?»
«A niente.»
«No. Stai pensando a qualcosa, non mi ascolti. Ti parlo del rin'negan e non fai una piega: la Chiharu che conosco io mi avrebbe già ucciso con un paio di battute al vetriolo pur di sentirsi superiore.»
«Come posso invidiarti per lo sharingan? Non lo avrò mai.»
«Non ho detto sharingan.»
Chiharu chiuse la bocca, corrucciata.
«A cosa stai pensando?» ripeté Hitoshi.
«A me» cedette lei, con un sospiro.
Hitoshi lasciò ricadere la testa, constatando amaramente che sua madre aveva ragione. Chiharu Nara pensava sempre prima a se stessa... Per un attimo aveva sperato che fosse turbata dalla sua comparsa, invece non le faceva caldo né freddo. «Non ci vediamo da quella notte a Suna» disse, senza guardarla. «A quella almeno hai pensato?»
Chiharu trattenne un gemito, limitandosi a una smorfia.
No, okay, in quel momento non poteva proprio discutere di chi aveva fatto cosa con chi. C'erano in ballo troppe cose importanti, c'era in ballo la sua vita! E non avrebbe passato la prossima mezzora a spiegare a Hitoshi Uchiha che ora non poteva occuparsi dei suoi ormoni.
Quindi, come chiudere il discorso senza che lui si arrabbiasse e insistesse per continuarlo?
«Hitoshi, guardami un momento» disse. Lui lo fece. «Non sto bene. C'è stato... una specie di incidente, quando siamo tornati. E' per questo che sono ancora qui; non so se l'hai saputo» Hitoshi si accigliò. «Secondo i medici devo abbandonare la carriera, o stavolta ci lascio davvero le penne.»
«Cosa?»
«Ti chiedo davvero scusa, ma in questo momento non ho la testa di pensare a qualunque cosa che non sia la mia salute. Mi dispiace.»
Hitoshi la fissò, turbato, preoccupato. La vita di Chiharu era in pericolo, e proprio in un momento del genere sua madre sospettava che fosse una traditrice... Doveva dirglielo. Non poteva lasciare che qualcuno piombasse in camera e la portasse via per interrogarla, senza preavviso, senza attenzione...
«Come Hokage, devo importi di non dirle niente dei sospetti su lei e Yoshi. C'è un'indagine in corso. E' sotto sorveglianza.»
Serrò i pugni, costringendosi a tacere. Era un ordine dell'Hokage, e lui era un aspirante Anbu... Non poteva, non poteva disobbedire, anche se avrebbe voluto.
Chiharu non è una traditrice, ricordò a se stesso. I sospetti di mia madre scompariranno presto.
«Io potrei starti vicino» disse, in un borbottio quasi inaudibile.
«Lo so» sospirò Chiharu. «Ma io non sarei di gran compagnia. Ho bisogno di tempo.»
Niente sesso parte seconda, dunque.
Hitoshi si tirò su dallo schienale della sedia, per andare a sedersi sul bordo del letto. Senza volerlo Chiharu si fece un po' indietro, in atteggiamento difensivo.
«A me sta bene» disse lui, cercando la mano con la sua. «Solo... Ho bisogno di sapere che lo stai dicendo perché hai davvero bisogno di tempo, e non perché stai pensando a te stessa e io sono solo una seccatura.»
Oh.
«Ti ho detto che ho bisogno di tempo» ripeté Chiharu, lasciando la mano in quella di Hitoshi e sperando che lui non lo prendesse come una dichiarazione. «Questa volta non è come cinque anni fa, è più complicata...»
Hitoshi sospirò, un pochino risentito: perché Chiharu non poteva essere come le altre ragazze e appoggiarsi a lui nei momenti di difficoltà?
«Ho capito. Non insisto, non importa» le lasciò la mano, lanciandole uno sguardo di sbieco. «Spero solo che non sia una scusa.»
Lei inarcò le sopracciglia con espressione indignata.
Hitoshi si rialzò dal letto e affondò le mani in tasca, preda dell'insoddisfazione. Cercò di dirsi che non poteva pretendere di più se le condizioni di salute di Chiharu erano così critiche... Ma aveva diciassette anni e una scarsa attitudine a preoccuparsi del prossimo, quindi si sentiva raggirato.
La guardò un'ultima volta, alla ricerca di qualche segno di colpevolezza. Si chiese che cosa ci fosse stato davvero tra lei e Yoshi, se sua madre sospettava perché erano stati in atteggiamenti intimi o per altro... Ma non poteva chiederglielo.
«Tornerò a trovarti» promise.
«Grazie» rispose lei, anche se il suo stomaco si contrasse sgradevolmente.
Hitoshi annuì, senza sorridere, e andò verso la porta con le spalle un po' curve. Aveva già una mano sulla maniglia quando un pensiero gli attraversò la testa. Si girò un'ultima volta.
«Qualcuno ti ha detto della Roccia?»
«Intendi la dichiarazione di guerra?»
«Sì. Sono stato convocato.»
Chiharu socchiuse leggermente la bocca.
Come cinque anni prima, i suoi compagni venivano chiamati a combattere e lei restava in disparte. Non ci aveva pensato, quando Akeru le aveva detto della guerra, ma davanti a Hitoshi la vecchia rivalità tornava a galla.
«Bene» disse meccanicamente, perché doveva elaborare la cosa prima di esprimere un'opinione.
Sul volto di Hitoshi passò un guizzo di irritazione. «Bene? Ma certo. Cos'altro dovrei aspettarmi da Chiharu Nara?»
Irritato, aprì la porta e uscì sbattendosela alle spalle.
Chiharu rimase confusa. Che diavolo avrebbe dovuto dire? Lei era incastrata in un letto d'ospedale mentre tutti andavano sul campo, che cosa voleva sentire Hitoshi?
Oh, al diavolo!
Aveva problemi molto più gravi da affrontare. Persino la guerra passava in secondo piano ora che Yoshi l'aveva tirata in ballo.
Il suo stomaco si ribellò a quel pensiero, costringendola a cambiare soggetto: l'angoscia per le conseguenze che potevano venirne era semplicemente troppa. Per un attimo desiderò che né Hitoshi né Baka fossero mai venuti a trovarla... Era tutto migliore quando pensava solo a odiare il medico pelato. Adesso invece si sentiva stupida, inutile e braccata, senza punti fermi: aveva sempre pensato di essere un certo tipo di persona, aveva avuto delle certezze; ma erano solo illusioni. Non era la kunoichi più forte del suo anno, non era nel gruppo dei migliori, non era la ragazza brillante che aveva sempre creduto. E Baka, che doveva essere soltanto uno stupido, le aveva aperto gli occhi, e lo aveva fatto senza la cattiveria che si sarebbe aspettata da lui. Questo significava che non li invidiava più, forse... che non ne vedeva più la ragione.
Non sottovalutare Baka, Chiharu. Potrebbe sorprenderti un giorno.”
Lui? Ahah, proprio no!”
Il sesto Hokage glielo aveva anticipato, cinque anni prima, e lei non lo aveva nemmeno ascoltato. Adesso aveva fatto la figura della stupida. Cieca, stupida e arrogante.
Appoggiò la fronte a una mano, ripiegandosi su sé stessa.
Stupido Naruto, stupido gruppo sette, stupida lei e la sua ingenuità, la sua boria, la sua superficialità... Non aveva imparato niente da suo padre.
Stupida, stupida, stupida!


Sakura richiuse il fascicolo di Chiharu e si prese la testa tra le mani.
Non c'era niente che potesse fare per quella ragazza: il suo cuore era troppo compromesso e il sistema del chakra era usurato dal superlavoro per compensare. Honmaru era stato chiaro, e di solito era uno che ci pensava mille volte prima di dare una diagnosi definitiva. Probabilmente avrebbero dovuto proibirle di tornare a essere ninja, cinque anni prima, ma come potevano sapere che sarebbe stata tanto incosciente?
E dire che dovrebbe essere una Nara!
Si lasciò la testa e appoggiò la schiena alla sedia, incrociando le braccia.
Era un bel problema che Chiharu fosse tanto importante per Hitoshi... Più aveva a che fare con lei e più Sakura la prendeva in antipatia.
Sapeva che non era tutta colpa della ragazza: in lei rivedeva molti degli atteggiamenti del Sasuke dodicenne, e guardando Hitoshi, pochi minuti prima, aveva visto se stessa. Non voleva che suo figlio soffrisse come aveva sofferto lei.
D'altronde Sasuke si era preso le sue responsabilità, come avrebbe dovuto fare Chiharu... Invece lei non lo faceva. E di anni ne aveva diciotto, non dodici, quindi era anche meno scusabile.
Spostò il suo fascicolo sopra una pila di esami di altri pazienti, sentendosi vagamente a disagio. Aveva l'impressione che il suo atteggiamento verso Chiharu Nara le segnalasse qualcosa di poco piacevole, tipo una faccenda in sospeso con Sasuke... Ma non poteva permettersi di pensarlo; perché per Sasuke aveva sacrificato tutto, incluso Naruto, e se si faceva venire dei dubbi dopo sette figli e trent'anni di abnegazione, allora poteva anche chiudere bottega e ritirarsi a vivere nella chiocciola di Tsunade, sepolta nel profondo della foresta.
Cosa avrebbe dato per essere adattabile come Naruto, che invece era andato oltre il tradimento di Sasuke, quello di Sakura e persino quella brutta faccenda di suo padre... Non aveva mai capito come riuscisse, ogni volta, a passare sopra a tutto. Doveva avere delle riserve inesauribili.
Persino adesso, se ne era uscito con l'idea di bloccare la guerra anche se di fatto era già iniziata: aveva insistito per creare una piccola task force di ambasciatori da mandare nei Paesi confinanti, aveva voluto a tutti i costi una dichiarazione ufficiale in cui la Foglia si discolpava per il massacro di Anka, e aveva addirittura iniziato a parlare di andare di persona dallo Tsuchikage per discutere la faccenda.
Bello, eh. Molto da Naruto, molto ottimista. Ma assolutamente folle.
Eppure ci credeva, e Sakura sapeva che Naruto riusciva sempre a fare quello in cui credeva - aveva riportato a casa Sasuke, dopotutto. Così anche lei, nel profondo, aveva iniziato a sperare... Ma era difficile andare contro la logica comune per seguire quella di Naruto.
E comunque sarebbe molto meglio se Hitoshi non la seguisse, nel caso di Chiharu, ricordò a se stessa. Se solo avesse potuto fargli vedere a cosa andava incontro... Ma dirlo a Hitoshi era quasi come tradire Sasuke, come ammettere che non lo aveva mai perdonato. Non poteva.
Fu allora che l'argomento Chiharu si impose di nuovo alla sua attenzione, questa volta nella figura di Baka Akeru che bussava alla sua porta.
«Buongiorno. Scusi il disturbo, è impegnata?»
Eccolo qui, l'altro. Messo anche peggio di Hitoshi... Quasi quanto Naruto era fissato con Sasuke, mi tocca ammettere.
«In realtà in ospedale sono sempre impegnata» sospirò, indicandogli la sedia davanti alla scrivania. «E' una cosa veloce, almeno?»
«Ehm...» Akeru fece una smorfia, accomodandosi. «Non tanto.»
«E' urgente?»
«Yoshi ha fatto il nome di Chiharu.»
Silenzio.
Sakura fissò Baka per un lungo istante, elaborando.
Lo sapevo!, pensò una brutta parte del suo cervello. Non è possibile, pensò un'altra.
«In che senso?» chiese cautamente. «Morino non ha scritto niente nel suo rapporto.»
«E' successo mentre Morino non era presente.»
«Ti ha lasciato solo con un prigioniero?» Sakura era allibita.
«Era uscito per una boccata d'aria... Sarà stato via due minuti, non è che sono rimasto proprio...»
«No, non sono arrabbiata: sono stupefatta!» questo poteva voler dire soltanto che a Morino Baka piaceva un sacco. «Continua.»
«Morino era uscito, e io ho curato Yoshi» riprese Akeru, giocando con le proprie dita. «Mentre lo curavo mi sono innervosito, perché... Sa, sono un ninja medico, e la tortura non... Va beh. Gli ho chiesto perché diavolo non parlasse e basta; e lui mi ha detto che se avesse parlato Chiharu ci sarebbe andata di mezzo.»
«E poi?»
«Poi è tornato Morino, e non ha detto più niente.»
«Perché non lo hai riferito subito?»
Akeru distolse lo sguardo, ritrovandosi ad arrossire suo malgrado.
«Che te lo chiedo a fare?» mugugnò Sakura. «Avrebbe più senso chiederti perché me lo stai dicendo, invece di tenerlo per te.»
A quella domanda Akeru avrebbe potuto rispondere facilmente: glielo stava dicendo perché era un Anbu, e in quanto Anbu aveva un quadro molto ben definito dei doveri di uno shinobi e di tutte le possibili declinazioni del tradimento: non dire a Sakura che Yoshi aveva nominato Chiharu era uno dei sottoparagrafi più gravi della casistica, indipendentemente dal fatto che lui fosse convinto della sua innocenza.
Per quanto affezionato a lei, sapeva di non poter soprassedere su una cosa tanto grave.
«Io non credo che Chiharu abbia fatto qualcosa contro Konoha intenzionalmente...» iniziò, chiedendosi se doveva riferire di averne parlato con la diretta interessata. «Piuttosto penso che Yoshi l'abbia usata in qualche modo, finendo per coinvolgerla nei suoi piani.»
«Chiharu non è una stupida. Non può non essersi accorta di niente.»
Sì invece. Purtroppo.
«Ma Yoshi finora si è dimostrato molto abile... Se ha raggirato noi... cioè, voi, potrebbe aver raggirato anche lei.»
Sakura sbuffò. «Smettila di provarci: sei troppo coinvolto, vuoi vedere solo le possibilità che la discolpano.»
«E lei vuole vedere solo quelle che la incastrano.»
«Ne deve passare di tempo, prima che mi offenda per il parere di un ragazzino con la metà dei miei anni...»
Akeru strinse le mani una all'altra.
Aveva promesso a Chiharu che l'avrebbe aiutata, ma iniziava a pensare che avrebbe dovuto parlare con Naruto, invece che con Sakura. Credeva che lei sarebbe stata più ragionevole, ma iniziava a pensare di aver preso una cantonata. Rischiava di finire in tragedia.
«Dovrebbe chiedere il parere di Naruto prima di decidere, credo. L'Hokage è lui» tentò di suggerire.
Sakura corrugò la fronte e si morse la lingua per non sbottare. Se lo immaginava proprio Naruto che affrontava la cosa razionalmente e prendeva le misure per gestirla... Come minimo sarebbe piombato nella stanza di Chiharu per parlarle e ne sarebbe uscito per convincere il Consiglio che era tutto un suo piano per carpire informazioni a Yoshi. Neanche se Chiharu avesse provato ad ucciderlo avrebbe smesso di credere nella sua lealtà. Dopotutto lo aveva già fatto una volta. Era ingenuo, Naruto, un po' troppo ingenuo.
«Basta» disse Sakura. «Hai fatto il tuo dovere riferendo quello che hai scoperto, da qui in poi la cosa non ti riguarda. Considerati fortunato perché sto soprassedendo sul ritardo con cui sei venuto a fare rapporto, ma non tirare la corda più di così.»
«Non voglio tirare la corda, sto solo dicendo che potrebbero esserci mille ragioni per cui Yoshi ha fatto il nome di Chiharu!» insisté Akeru. «Potrebbe anche essere stato un tentativo per confondermi. Lo ha detto solo a me, non a Morino: sapeva che così mi avrebbe mandato in tilt.»
«Oppure lo ha detto a te perché pensava che per proteggere lei avresti dato una mano a lui.»
«Io sono un Anbu. Soltanto un cretino avrebbe pensato che un Anbu potesse comportarsi così, e Yoshi per ora sembra tutto fuorché un cretino.»
A quel punto Sakura esplose. «Per tutti gli dei, lascia perdere quella ragazza! Tutto quello che ho sentito uscire dalla tua bocca fino ad ora è in sua difesa! Se tu fossi un Anbu come si deve ti sarebbe almeno venuto un dubbio.»
«Essere un bravo shinobi quindi vuol dire dubitare dei compagni?» esclamò Akeru, furioso.
Sakura si bloccò per un istante.
Oh, questo sì che era in pieno stile Naruto... Come tanti anni prima, quando tutti gli dicevano di lasciar perdere Sasuke e lui, invece, le aveva promesso che lo avrebbe riportato indietro...
Già, e poi come era finito Naruto grazie al ritorno di Sasuke?
L'espressione di Sakura si addolcì leggermente. «Non rovinarti la vita per qualcuno che non farebbe la stessa cosa per te» disse in tono più gentile.
«Proprio lei me lo dice?» ribatté lui, quasi accusatorio.
«Esatto. Te lo dico proprio perché sono io. La mia storia è l'eccezione, non la regola» Sakura sbuffò. «E vorrei tanto che tu e mio figlio lo capiste, invece di affannarvi dietro a Chiharu Nara.»
Akeru rimase corrucciato, senza rispondere.
«Ascolta, voglio concederti un minimo di fiducia» riprese Sakura, mettendo da parte il tono confidenziale. «Hai ragione quando dici che Yoshi potrebbe averla coinvolta con qualche obiettivo... Voglio vedere come si evolve la situazione. Le permetteremo di tornare a casa, ovviamente sotto sorveglianza. Le faremo sapere che Yoshi è stato catturato e osserveremo le sue reazioni. Tu non hai detto a nessun altro quello che hai detto a me, vero?»
Akeru deglutì.
«Hai rispettato il mio divieto a incontrare Chiharu, vero?» insisté Sakura.
«Naturalmente!» esclamò lui, sudando copiosamente. Per fortuna tra gli Anbu aveva molti amici, e poteva essere sicuro che non lo avrebbero tradito.
«Bene. Perché se sapesse già di Yoshi tutto il mio piano non servirebbe a niente.»
Lo stomaco di Akeru si strizzò in una morsa di senso di colpa. Si augurò che la futura sorveglianza di Chiharu fosse molto abile.
«Adesso vai, devo preparare un po' di cose prima di dire a Chiharu che può tornare a casa» lo congedò Sakura a quel punto.
Akeru si rialzò dalla sedia con le gambe che tremavano leggermente. Forse era riuscito a fare qualcosa per aiutarla, dopotutto... Da lì in poi la faccenda era nelle mani di Chiharu.
«Cosa devo fare con Yoshi e Morino?» domandò esitante.
«Cerca di restare di nuovo solo con Yoshi e scopri qualcosa in più. Non dire niente a Morino... Se capisce che Yoshi nasconde qualcosa lo ammazza davvero.»
Quella sì che era una bella responsabilità. Akeru raddrizzò le spalle e si inchinò in segno di ringraziamento.
«Un'ultima cosa...» aggiunse a testa bassa. «Quando Chiharu sarà a casa potrò incontrarla?»
Sakura roteò gli occhi. Questa cosa stava diventando snervante.
«Dipenderà da quello che dirà o non dirà Yoshi» gli concesse.
Akeru si tirò su sorridendo. «Mi basta.»
Sakura scrollò le spalle, quasi rassegnata. Trovava che Akeru fosse un ragazzo in gamba, un buon medico e un ottimo shinobi... finché non si parlava di Chiharu. Naruto aveva ragione a dire che il problema di Baka era lei: se Chiharu non fosse stata nei dintorni, Akeru sarebbe già stato uno dei membri di punta del Villaggio.
«Non sarai mai più importante delle sue ragioni personali» mormorò.
Akeru non rispose. La salutò cortesemente e se ne andò senza aggiungere altro.
Sakura riprese il fascicolo di Chiharu, sfogliandolo distrattamente mentre si toglieva dalla testa i residui della conversazione con Baka. Quanto era difficile tenere a bada i paragoni con le vicende di vent'anni prima!
Scosse la testa per concentrarsi. Come fare per tenere Chiharu sotto controllo a casa, senza togliere elementi importanti alle squadre di Konoha? Chi poteva metterle alle costole?
Qualcuno bussò alla porta che Akeru aveva lasciato aperta, spingendola ad alzare lo sguardo.
«Sei impegnata?» chiese Sasuke, facendo un passo nella stanza. «Naruto sta progettando il suo viaggio dallo Tsuchikage per fermare la guerra... Prova a fermarlo tu, perché io sto per ammazzarlo» mugugnò irritato.
E, guardandolo, Sakura capì chi poteva mettere a sorvegliare Chiharu.


Shikaku aveva raggiunto il limite.
Ormai era in ospedale da giorni, ma ancora non aveva potuto sapere cosa aveva di preciso sua nipote: il personale non scuciva mezza informazione, lei men che meno; tutti non facevano che ripetergli che erano dati riservati. Aveva provato a comunicare con Shikamaru, ma anche lì i suoi messaggi erano tornati indietro con la dicitura rispedito al mittente, e allora aveva capito che non sarebbe andato da nessuna parte.
Adesso però era stufo.
«Spiegami perché le notizie sulla tua salute sono improvvisamente materiale top secret» sbottò, in piedi accanto al letto di Chiharu.
Lei roteò gli occhi e li fissò fuori dalla finestra.
«Se non me lo dici chiamo Inoichi Yamanaka e glielo faccio scoprire con la forza.»
Questa volta Chiharu lo guardò malissimo. Il che non ebbe assolutamente nessun effetto. Allora sospirò, fissò tutte la pareti della stanza, e alla fine tornò a lui.
«Perché ho diciotto anni e ho firmato un foglio che mi permette di decidere a chi dire cosa» sbottò.
«Va bene. Chiamo Inoichi.»
«Non puoi!» abbaiò Chiharu, ma Shikaku già era lanciato verso la porta e aveva abbassato la maniglia...
Per trovarsi davanti Sakura.
«Buongiorno, Shikaku» disse lei, inarcando un sopracciglio di fronte alla sua espressione corrucciata.
Lui si limitò a un cenno del capo. «Sakura» borbottò, facendo un passo indietro.
Chiharu trasalì capendo chi stava per entrare.
Fu assalita dalla nausea: Sakura aveva saputo di Yoshi? Akeru era stato scoperto? La sua vita stava per finire in una cella nei seminterrati di Konoha? Lanciò un'occhiata spaventata al nonno, che non la comprese, e poi si domandò quante possibilità avesse di cavarsela se tentava la fuga dalla finestra.
«Scusate il disturbo» disse Sakura, entrando nella stanza a passo deciso. Passò lo sguardo da Shikaku a Chiharu e viceversa, poi si voltò verso la donna che l'accompagnava, e che era subito dietro di lei. Trattenne una smorfia di disappunto. «Shikaku, posso chiederti di uscire?»
«Preferirei restare» tentò lui, gli angoli della bocca rivolti verso il basso.
«Questo va contro le volontà di Chiharu...»
«Nonno, per favore esci» intervenne subito lei. Se Sakura doveva accusarla di tradimento non voleva che succedesse di fronte a lui.
Shikaku non la prese bene, ma negli ultimi tempo tutti non facevano che congedarlo quando si trattava di Chiharu; così represse le polemiche, si costrinse a un respiro profondo e fece un inchino un po' rigido. «Aspetterò fuori.»
Sakura attese che il vecchio uscisse, poi la donna che era con lei chiuse la porta e si mise al suo fianco. Chiharu la squadrò vagamente, ma era troppo spaventata per ragionare.
«Puoi tornare a casa.»
Il ronzio nelle orecchie di Chiharu divenne un fischio.
«Cosa?» alitò.
«Puoi tornare a casa» ripeté Sakura. «Mi sono consultata con il medico che si occupa del tuo caso, e insieme abbiamo pensato che saresti stata contenta di uscire di qui.»
«Perché? Non stavo morendo?» Chiharu sentì tutti i peli sul suo corpo rizzarsi per la diffidenza.
«Non sei guarita miracolosamente, se è questo che intendi. Ma non abbiamo nemmeno ragioni per tenerti ricoverata, e crediamo che tornando a casa la tua salute mentale sarà un po' meno precaria.»
L'istinto di Chiharu sarebbe stato di ribattere acidamente, ma qualcosa la spinse alla cautela. Era strano che allentassero la sorveglianza, se Akeru credeva che la sospettassero...
«E se stessi male?» indagò.
Sakura sorrise, accennando alla donna al suo fianco. «Questa è Fay. E' una tirocinante del dottor Senju, e ha cortesemente accettato di restare accanto a te per i primi tempi... Come misura preventiva. Sempre che tu voglia tornare a casa tua e non preferisca invece andare da tuo nonno.»
Finalmente Chiharu prestò attenzione alla donna che era entrata con Sakura: era una bella donna, con lunghi ricci scuri e le labbra carnose. Ma di sicuro non aveva l'aria del medico.
Una guardia, realizzò.
«Ovviamente non andrò da mio nonno» disse tra i denti – prima o poi sarebbe diventato impossibile tenere tutto nascosto.
Sakura represse un sorriso di trionfo: la pagliacciata della privacy alla fine le era tornata utile, non poté fare a meno di notare. Si limitò ad annuire, guardando poi Fay.
«La accompagnerai in ospedale per tutti gli esami e prenderai i parametri ogni giorno, come accordi.»
Fay annuì. Nonostante l'espressione neutra era evidentemente poco entusiasta dell'incarico, ma per qualche ragione non aveva potuto opporsi. Chiharu sperò che significasse che l'avrebbe ignorata per la maggior parte del tempo, ma capì subito che non l'avrebbero mai messa in mano a un'imbecille.
«La tua sospensione rimane confermata» continuò Sakura rivolta a lei. «Naruto lo ha deciso perché è un impulsivo, ma con la tua cartella clinica è l'unica soluzione sensata.»
Che coincidenza, vero?, pensò Chiharu, stringendo involontariamente il lenzuolo con la mano.
Sakura dovette accorgersene, perché un muscolo sulla sua guancia ebbe un guizzo e oltrepassò i suoi sforzi per mantenersi neutrale.
«Ogni azione ha delle conseguenze» disse in tono più duro, pensando a Yoshi, ma la rigirò sul piano medico. «Avresti dovuto pensarci prima di ignorare le tue condizioni di salute.»
Chiharu si morse la lingua per non insultarla. «E Baka?» chiese invece. «Le sue conseguenze per avermi aiutato?»
«Per tua e sua fortuna in questo momento non possiamo fare a meno di nessun membro utile... La sua punizione è stata rimandata.»
Chiharu annuì, intimamente sollevata, e si accorse che per tutto il tempo aveva tenuto la schiena così rigida che ora le doleva tra le scapole. Si lasciò andare contro i cuscini.
«Bene, faccio rientrare Shikaku» concluse Sakura. «Fay ti accompagnerà a casa non appena avrai raccolto le tue cose.»
Chiharu chiuse gli occhi.


«Vedi ancora il fumo?»
Un ciuffo di capelli di un rosa improponibile spuntava tra gli aghi del pino più alto di Konoha, ondeggiando dolcemente al vento del tardo mattino.
«Neanche un filo!» esclamò Itachi, abbarbicato su un ramo tanto sottile da piegarsi sotto il suo scarso peso.
«Allora vieni giù!» piagnucolò Minato.
Itachi scese dall’albero con l’agilità di un gatto, e balzò a terra davanti ai compagni come se fosse nato tra le liane.
«Sei solo più fortunato...» bofonchiò il giovane Uzumaki, scalciando un sasso con rabbia. «Potevo arrivarci anche io lassù!»
La bambina che era con loro sbadigliò e si stropicciò la pancia mugolando. «Adesso possiamo andare a mangiare?»
«No! Adesso scopriamo cosa è successo!» sbottò Minato con foga, alzando un pugno verso il cielo.
Itachi sbuffò e distolse lo sguardo, grattandosi il collo.
Visti dall’esterno i tre erano davvero un bizzarro assortimento: Minato, con i vestiti sporchi e i capelli in disordine, sembrava appena uscito da una lotta nel fango; Itachi, immacolato come appena alzato, si era visto rifilare dalla madre una maglietta arancione che strideva con i capelli rosa in maniera quasi imbarazzante; Chomi, degna figlia di Ino, portava un enorme fiocco azzurro tra i capelli, ma considerata la stazza ricordava pesantemente un uovo di Pasqua. Se un adulto si fosse affacciato a una finestra e avesse visto il misterioso conciliabolo, davvero non sarebbe riuscito a intuirne la ragione.
In verità era molto semplice; e traeva la sua origine – com’era ovvio – da Minato Uzumaki. Alcuni minuti prima infatti, Itachi era stato bruscamente distratto dallo studio da sassi tirati contro il suo vetro con forza poco meno sufficiente a spaccarlo; imbestialito, aveva costruito mentalmente un rimprovero con i fiocchi, ma non aveva fatto in tempo ad affacciarsi sul giardino che Minato lo aveva afferrato per il colletto e lo aveva trascinato in strada, blaterando qualcosa su una colonna di fumo dalla foresta.
«Dobbiamo scoprire cosa è successo!» sosteneva entusiasta; e Itachi non era riuscito a bloccarlo.
Com’era prevedibile, il giovane Uzumaki aveva giudicato imprescindibile la presenza del terzo membro del loro gruppo, Chomi, ed era andato a tirare fuori di casa anche lei. Poi li aveva fatti correre come degli scemi fino all’albero più alto del villaggio e aveva tentato di arrampicarsi sul pino, finendo immancabilmente con il sedere a terra. Itachi si era offerto di sostituirlo per risparmiargli l’umiliazione, ma il degno figlio di Naruto si era intestardito, allora se l’erano giocata con una sfida, e insomma... la maglietta si era ridotta a uno straccio e Itachi aveva vinto sette incontri di fila.
«Per me te lo sei sognato» disse Chomi, frugando nelle tasche in cerca di una caramella.
«Figurati se mi sogno una roba del genere!» protestò Minato, furioso.
«Anche se fosse, ci sono gli shinobi seri per queste cose» constatò Itachi pragmaticamente.
Minato gonfiò le guance oltraggiato. Quei due non avevano il minimo spirito d'avventura! Era quasi avvilente giocare con loro. Ma lui era assolutamente certo di aver visto del fumo nella foresta, una bella colonna nera che saliva verso il cielo, e per questo non aveva intenzione di mollare l'osso.
«Andiamo a indagare?» propose tutto fiero.
«Neanche per sogno» sospirò Itachi.
«Allora ti obbligherò a farlo!» Minato si esibì in un ghigno spaventosamente simile a quello del padre, e con espressione tronfia assunse la posa da combattimento di Naruto. «Ora vi mostrerò la mia nuova, strabiliante tecnica ninja!»
Chomi e Itachi lo fissarono in tralice: da un paio di mesi il loro giovane e sciocco amico era ossessionato dall’esame d’ammissione all’Accademia, il che si traduceva in giornate passate a ideare allenamenti ninja e cercare di coinvolgere anche loro. A Chomi la faccenda era indifferente – lei stava da una parte e sgranocchiava patatine – ma per Itachi era la seconda sessione della tortura dopo gli allenamenti con il padre.
«Micchan, tu non sai raccogliere il chakra» sbuffò Chomi indispettita. «Smettila di fare lo scemo e andiamo a pranzo!»
«Certo che so raccoglierlo! Mia sorella mi ha insegnato!»
Bugia spudorata: Hinagiku lo aveva schernito per venti minuti, il giorno in cui l’aveva scoperto a provarci. Ma Minato era un tipo cocciuto, ancor più cocciuto del padre: unì le mani sotto il mento, serrò i denti da latte fino a sentirli scricchiolare, e imitò l’urlo paterno di concentrazione.
Itachi e Chomi non fecero una piega: attorno al bambino non si muoveva una foglia.
«Lascia perdere... Te lo insegnano all’Accademia» sbuffò Itachi annoiato. Lui il chakra lo sapeva già raccogliere, grazie a Sasuke, ma non gli sembrava nulla di straordinario – e di certo non avrebbe commesso l’errore di dirlo in quel momento.
«Invece io ti dico che lo so fare!» gridò Minato.
E fu anche l’ultima cosa che disse: un secondo dopo divenne bianco come cenere, gli occhi gli si rovesciarono dietro le palpebre e le sue gambe cedettero di schianto, facendolo piombare con la faccia nella polvere.
«Micchan! Micchan!» gridarono Itachi e Chomi, correndo a scuoterlo spaventati. Pallidi quanto lui, lo girarono sulla schiena e lo schiaffeggiarono.
Qualcosa piombò dall’alto, balzato giù dal tetto più vicino. I due bambini nemmeno lo notarono, ma l'anziano Naruto-gatto zampettò silenzioso fino al corpo di Minato, lo annusò con delicatezza, e poi guardò verso il cielo, in un’imitazione terribilmente realistica di essere umano.
«C’è-c’è un gatto...» balbettò Chomi, le guance piene ormai rigate di lacrime. «E’ venuto a portare via la sua anima?»
«Non è mica morto!» ribatté Itachi con la voce strozzata. «Respira ancora... Vero che respira?»
Si chinò in fretta sul suo viso, e con orrore si accorse che il filo d’aria che usciva dalla bocca di Minato era terribilmente fievole.
«Dobbiamo chiamare aiuto!» ansimò, schizzando in piedi.
I baffi del gatto vibrarono, mentre posava gli occhi azzurri sul bambino. In quel momento Minato tornò alla vita, ingoiando aria come un affogato.
«Micchan!» gridò Chomi, strattonando la maglietta fino a strapparla sulle cuciture. «Sei vivo?»
Il bambino tossì, allontanando la sua mano, e si tirò a sedere faticosamente.
«Cosa... Cosa è successo?» ansimò, gli occhi umidi di lacrime. «Male... La gola mi fa male...»
«Sembravi morto!» singhiozzò Chomi, asciugandosi il naso con la manica. «Sei caduto giù e sembravi morto!»
Minato si guardò le mani, premute a terra; tremavano. Non capiva cosa fosse successo, ma si sentiva la testa leggera e allo stesso tempo pesantissima... Come se per un attimo fosse stata sul punto di andare altrove, e all’ultimo istante fosse piombata bruscamente indietro.
«Stai bene?» chiese Itachi con un filo di voce, bianco quasi quanto lui.
«Ora sì...» mormorò Minato.
Le imposte di una casa si aprirono sbatacchiando, e la testa di un uomo si affacciò sulla strada.
«Bambini! Che avete da urlare?» chiamò, evidentemente irritato ma anche un filino ansioso.
«Ci scusi!» rispose pronto Itachi, tirando in piedi Minato. «Ci scusi, noi...»
«Ci scusi!» strillò Chomi, e tenendo Minato per le braccia insieme a Itachi corse via come una furia.
L’uomo alla finestra richiuse le imposte borbottando contro i genitori moderni.
Naruto-gatto, quasi invisibile, zampettò via facendo ondeggiare la coda in un ombra simile a un serpente.
Mentre si allontanavano dalla zona con il fiatone, Itachi e Chomi furono costretti a promettere malvolentieri di non dire ad anima viva quello che era successo.

Nella foresta, dove la colonna di fumo vista da Minato era salita verso il cielo, una squadra Anbu osservava i resti di un falò deserto chiedendosi cosa diavolo fosse.




Nessuno di loro l’aveva ancora capito,
ma quella mattina di stravolgimenti avrebbe segnato l’inizio della fine.




Il tempo è giunto.











* * *

E... BAM!
Siamo entrati nell'ultima fase della storia.
Più o meno. Quasi, diciamo.

Perdonate il ritardo nell'aggiornamento,
ma la mia vita è tornata frenetica e stancante.
So che è stato orribile tardare dopo il cliffhanger della volta scorsa, ma siate buoni!

In più non ho pronto assolutamente niente del prossimo capitolo,
però spero di avere un'ispirazione fulminante nei prossimi giorni.
Lo spero intensamente.

Che dire a questo punto?
...Che spesso voi lettori leggete prima questo angolino che il capitolo.
Quindi niente anticipazioni.

Mi sono anche dimenticata di preparare i disegni dei mocciosi che avevo promesso,
il che mi rende veramente una persona inutile, ecco.
Giuro che provo ad averli scannerizzati per la prossima volta!

Grazie a voi che siete ancora qui
nonostante la mia scarsa affidabilità.
Siete sempre il mio pilastro!

A presto!



Susanna

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Capitolo 40
*** Di nuovo a casa ***


Penne 40
Capitolo quarantesimo

Di nuovo a casa




Alcuni giorni prima.



Temari era semplicemente furiosa.
Poche cose al mondo erano in grado di mandarla completamente fuori di testa, ma quelle poche portavano tutte il cognome Nara.
Chiharu se ne era andata senza avvisarla.
Le aveva lasciato un ridicolissimo biglietto sotto la porta, una cosa di uno squallore unico, ed era partita per Konoha insieme agli altri. Nonostante le sue condizioni di salute!
Dopo la terribile scoperta, per almeno mezzora Temari aveva provato a convincere Gaara a mandarle dietro una squadra di recupero, ma quando il fratello le aveva mostrato il contratto di custodia aveva ritrattato: adesso voleva una squadra per ammazzare Baka Akeru. Maledetto lui e la sua finta faccia da bravo ragazzo!
«Potresti seguirli e tornare a Konoha con loro» aveva suggerito Gaara.
Temari aveva stritolato il biglietto di Chiharu e si era rifiutata.

‘‘Visto che tu non vuoi dirmi cosa ha fatto papà, torno a Konoha con gli altri. Me lo faccio dire da lui e lo spedisco a riprenderti (se davvero hai ragione).
Ringraziami al ritorno.’’

Ed ecco l’altro Nara snervante.
Shikamaru sarebbe venuto a Suna; Temari aveva organizzato tutto perché accadesse, e se ora fosse tornata a Konoha avrebbe mandato all’aria l’intero piano.
Al solo pensiero si era trovata ad arrossire come una ragazzina, più per la rabbia che per l’imbarazzo: come aveva potuto pensare di ricreare le condizioni di diciotto anni prima, quando avevano concepito Chiharu?
Sì, il loro matrimonio si era assestato su un ritmo lento e un po’ noioso, fatto di frustrazioni quotidiane e rarissimi momenti di complicità... ma era il destino di tutti i matrimoni. Non c’era niente di strano in questo.
Da dove le era venuta la presunzione di riportare in vita i loro diciotto anni? La loro figlia aveva diciotto anni, si trattava di cose che ormai riguardavano lei...
Eppure... eppure non voleva rinunciare a quell’idea.
Sciocca nostalgica egoista. Avrebbe dovuto pensare alla salute di sua figlia, non alle sue lamentele di moglie...
«Quali sono le conseguenze legali se Baka permette che le capiti qualcosa?» aveva domandato a Gaara.
«Pene pecuniarie, radiazione dall’albo dei medici, eventuale carcere.»
Temari aveva annuito. «Benvenuto nel mondo delle responsabilità.»
Gaara non aveva commentato.
Lui aveva una mezza idea del perché Temari avesse deciso di restare a Suna. La cosa non lo entusiasmava – principalmente perché restava sua sorella anche a 37 anni – ma adesso che era tornata Loria si sentiva più incline ad essere clemente riguardo alle faccende di cuore.
E dunque non si era sorpreso più di tanto nel vedere comparire Shikamaru, il giorno dopo.
«Gaara, il matrimonio è un campo minato» gli aveva detto il cognato, depositando sulla sua scrivania una borsa piena di messaggi di Naruto, con la faccia tirata di uno che ha viaggiato a dorso di rospo per due giorni. «Non sposarti mai.»


Temari richiuse la tenda con un fremito rabbioso.
Shikamaru era a Suna da almeno mezza giornata e non l’aveva ancora contattata!
Ovviamente aveva saputo del suo arrivo cinque minuti dopo che lui aveva oltrepassato i confini. Aveva calcolato una mezzora per parlare con Gaara, un’altra ora per rinfrescarsi, magari un pisolino di venti minuti – era sempre un Nara – e il minimo indispensabile per scoprire in quale stanza alloggiava lei... Ma anche facendo tutto con incredibile lentezza, stava lasciando passare troppo tempo.
Temari fece avanti e indietro lungo la camera, mordendosi nervosamente un’unghia.
Certo, anche lei vedeva l’ironia della situazione: diciotto anni prima aveva inflitto a Shikamaru la stessa identica tortura – e per molto più di mezza giornata -, ma lo aveva fatto solo per preservare la propria dignità di sorella del Kage! Lui che diavolo doveva preservare? Il proprio ruolo di supremo istigatore?
Ma soprattutto: davvero non aveva capito perché lo aveva fatto venire fin lì?
Frustrata, si lasciò cadere seduta in fondo al letto. Aveva riservato la stanza più elegante del palazzo di Suna: letto a due piazze e mezzo, tappeti spessi tre centimetri, bagno privato, vista panoramica. Una stanza da re, altro che quella di tanti anni prima!
Una stanza assolutamente inutile, se andava avanti così.
E’ una vendetta? Vuole farmela pagare perché l’ho costretto a un lungo viaggio?
Ormai era quasi ora di cena. La tentazione di Temari era quella di scovare la camera di Shikamaru e tirarlo giù dal letto a suon di ceffoni – perché sicuramente stava dormendo -, ma un’altra parte di lei era solo molto demoralizzata.
A quel punto, appena prima del forfait, Temari sentì bussare alla porta. Il cuore sobbalzò nella sua gola.
«Chi è?» chiese fremente.
«Vengo per conto del Kage suo fratello.»
Le spalle di Temari si piegarono per la delusione. Si alzò dal letto e andò ad aprire. Fuori dalla porta c’era uno shinobi alto e biondo, che non conosceva.
«Che c’è?» gli chiese in un borbottio.
«Il nobile Gaara desidera invitarla fuori per cena. Ecco l’invito» rispose l’uomo tendendo una busta.
All’interno c’era un foglio di carta elegantemente decorato, con il sigillo e la calligrafia di Gaara.
Non covare rancore, diceva.
Temari lo accartocciò ferocemente e rispedì indietro messaggio e messaggero.
Non covare rancore? Altro che rancore, il rancore è acqua di rose al confronto!
Quella sera non mangiò. Invece scoprì in quale stanza dormiva Shikamaru e si procurò un passepartout per entrare.
Se si aspettava di trovare il marito, tuttavia, rimase delusa: la camera era deserta, il letto in ordine, lo zaino chiuso su una sedia.
Già era ridicolo che Shikamaru avesse chiesto una stanza per sé sapendo che lei era lì, ma essere in giro per il villaggio senza nemmeno salutarla rasentava i presupposti per il divorzio.
A che gioco sta giocando?, si chiese Temari.
Shikamaru era troppo intelligente per non sapere che quel comportamento avrebbe avuto delle conseguenze... Se nonostante ciò non lo cambiava, voleva dire che aveva un piano.
Io avevo un piano per prima! Come osa pianificare contro il mio piano?, si infuriò.
A quel punto si lasciò cadere sul letto e incrociò le braccia in atteggiamento bellicoso. Al diavolo Shikamaru e i suoi piani malsani! Pensava di evitarla? Credeva davvero di batterla sul suo terreno?Povero illuso! Lo avrebbe aspettato fino al giorno dopo, se fosse stato necessario...

Le dita strette alle sue, contro il dorso della mano.
Il leggero solletico dei capelli dietro la nuca, alternati ai baci e ai morsi.
Il calore del petto di Shikamaru contro la schiena, il suo respiro caldo, il modo in cui la stringeva, aggrappato alla sua spalla in una specie di abbraccio violento...
Uno Shikamaru inedito e inebriante... Per una volta, una volta lontana, quasi sparita nel ricordo...
Temari si svegliò.
Sbatté le palpebre alcune volte, ma il buio non se ne andava. Allora capì che era notte.
Si tirò su sentendo la schiena indolenzita, si fregò gli occhi. Impiegò qualche secondo a ricordare che si era fermata ad aspettare Shikamaru, poi il suo stomaco le fece presente che non aveva cenato.
«Che sonno pesante.»
Temari fece un salto, voltandosi di scatto.
Seduta su una sedia davanti alla finestra c’era la sagoma inconfondibile di un ciuffo ribelle, seguita poco più sotto dalla curva di spalle che conosceva meglio delle sue. Senza volerlo Temari sentì il cuore accelerare, ma lo costrinse a non agitarsi.
«E’ notte» disse, e avrebbe voluto essere altera e scocciata, invece sentì una nota tremula vibrare in gola.
«Ti ho portato la cena» ribatté la voce di Shikamaru. Nella fioca luce che entrava dalla vetrata Temari lo vide sollevare un braccio verso il tavolino, e intuì che sopra c’era un vassoio. Il suo stomacò brontolò sonoramente. «Dovrebbe piacerti.»
Temari si morse le labbra per non rispondere, visto che non era sicura della propria voce. Quello che fece fu alzarsi dal letto, raggiungere il tavolino con la maggiore dignità possibile e sedersi al buio di fronte a Shikamaru.
«Non ci vedo» borbottò, cercando il piatto a tentoni.
«E’ questo il bello» sorrise lui – o almeno, dalla voce sembrava che sorridesse.
Temari trovò le bacchette e scoprì la ciotola, lasciando che nell’aria si sprigionasse un aroma intenso di verdure e zenzero. Arricciò il naso, perché non era il suo piatto preferito, ma la fame è fame: con cautela sollevò la ciotola e mangiò, distinguendo solo vaghi contorni del piatto.
Però che strano... A casa cucinava usando pochissimo zenzero. Shikamaru non ne andava pazzo, lei nemmeno, e Chiharu era cresciuta praticamente senza assaggiarlo... Perché sarebbe dovuto piacerle?
Comunque lo finì, e finì anche l’insalata di accompagnamento e i datteri come dolce. Nessuna di quelle cose era particolarmente di suo gusto, cosa che Shikamaru doveva sapere bene... Qual era il suo scopo, dunque?
«Perché ti sei fatto dare questa stanza?» chiese Temari non appena ebbe posato le bacchette.
«Credevo che saresti venuta a cena» disse Shikamaru, ignorando la sua domanda. «Probabilmente avevo sottovalutato il tuo grado di rancore... Devo essere un po’ arrugginito.»
«Non era un invito di Gaara?»
«Non proprio.»
«Che cos’hai in mente?»
Shikamaru si alzò, aggirando il tavolo.
«Prova a pensarci...» sussurrò, portandosi alle spalle di Temari e chinandosi vicino al suo orecchio. «Hai già mangiato questo piatto.»
Temari fremette.
«Conosci già questa stanza...» continuò lui, scivolando con la mano lungo il suo braccio e su fino alla spalla.
Temari trattenne il fiato, sentendo le labbra di Shikamaru sfiorarle l’orecchio come non succedeva da anni.
«...Conosci perfino il ragazzo che ti ha portato l’invito.»
Adesso sentì distintamente le labbra di lui tendersi in un sorriso, e in un lampo capì tutto.
La stanza era quella che Shikamaru aveva già avuto, diciotto anni prima; il cibo era lo stesso del ristorante in cui avevano cenato quella volta, quando lei si era fatta offrire tutto; persino il ragazzo, era lo shinobi biondo per cui lui ai tempi si era ingelosito.
«Come hai fatto?» tentò di chiedere Temari, ma Shikamaru le voltò il capo e la baciò prima che potesse finire la frase, spingendo la sedia contro la parete.
Il respiro di Temari si mozzò in gola, tradito da un sussulto di sorpresa. Durò solo un istante, poi le sue mani andarono a cercare il collo di lui, avvinghiandosi avide alla maglia.

Sentì le sue braccia attorno al collo, il suo respiro spezzato nell’orecchio, e le sollevò la gamba fino al fianco.

Temari lo spinse indietro, alzandosi per baciarlo di nuovo. Affondò le mani nei capeli stretti dal codino, gli sfilò l’elastico con uno strattone.
Barcollarono fino al letto, e lì Shikamaru fu spinto sul materasso. Temari si mise su di lui a cavalcioni, piegando la testa in cerca del suo collo, mentre Shikamaru afferrava il bordo della maglietta e gliela sfilava convulsamente. Poi, con un brusco colpo di reni ribaltò le posizioni, inchiodandole i polsi contro il materasso.

La fermò prima di rendersene conto, afferrandola per un braccio, e la tirò bruscamente indietro.
«Ehi...!» protestò lei, e lui la spinse contro il muro, quasi violentemente, bloccandole le braccia sopra la testa.

Temari ansimò, inarcando la schiena.
Shikamaru sorrise contro il suo collo, per poi mordere la carne tenera.
Oh, che sensazione...

Diciotto anni, un matrimonio e una figlia dopo... Diciotto anni per riprovare lo stordimento di saperla in suo potere. La cosa aveva richiesto giorni di elaborati preparativi e una fatica notevole, ma i risultati erano all’altezza delle aspettative.

Sentirla tra le sue braccia e sapere che non era lei a comandare. Sentirla respirare sulla sua spalla e sapere che non era lei a decidere il ritmo. Sentire la sua pelle sotto le labbra, e sapere che non era calda per la doccia, ma perché erano le sue mani a renderla tale.

I baci di Shikamaru scesero lungo il petto, fino all’ombelico e ancora più giù, verso i fianchi.
Le dita di Temari si posarono sulle sue spalle, poi afferrarono la maglia e gliela tolsero, per affondare le unghie sulla pelle libera della schiena.
Shikamaru risalì fino alla sua bocca, le prese il viso e la baciò, scivolando con le dita fino alle ciocche bionde alla base della nuca. Le strinse.
«Sai cosa manca» mormorò contro le sue labbra.
Temari percorse con i palmi i contorni della sua schiena, avvolgendo le braccia attorno alle sue spalle. Piegò le gambe, serrò le ginocchia attorno ai suoi fianchi e riprese quel tanto di controllo che bastava per sorridere, mordendogli il labbro inferiore.
«Dopo tutti questi anni ti servirà qualcosa in più di un bacio e due morsi...» chiosò.
Shikamaru sorrise a sua volta, facendo scendere una della mani lungo il corpo di lei.
«Non ricordo di aver mai perso in una sfida contro di te» disse, un’ombra di divertimento nella voce bassa. «Vediamo quanto ci vuole...»

Sorrise, e la sua mano scivolò giù, lungo il fianco e poi all’ombelico, e sempre più giù.
Ed eccolo, in un sussurro appena udibile e spezzato.

Il suo nome.



Oggi.

«Ti vedo sciupato.»
Shikamaru alzò lo sguardo dai documenti che stava leggendo e trapassò con gli occhi la testa di Kankuro. Lui, per tutta risposta, fece un sorrisetto furbo.
«Potrei diventare di nuovo zio?» insisté.
«I tassi di natalità in effetti si impennano in periodo di guerra...» mormorò Shikamaru tornando a ignorarlo.
A dire il vero non si sentiva poi così stanco.
Sì, dopo quella prima notte con Temari la loro vita di coppia aveva fatto un notevole salto di qualità, e le repliche erano state oltremodo interessanti, ma per qualche strana ragione si sentiva molto più riposato che se avesse dormito tutte le notti. Riposato e sereno, il che era piuttosto controproducente se si considerava che la Roccia stava ammassando i suoi eserciti e la Sabbia era completamente impreparata a sostenere un conflitto.
«Dove hai messo i dati demografici?» domandò Shikamaru, frugando tra i fogli della scrivania.
Kankuro si alzò dalla sua sedia e lo aiutò a cercarli, mettendo da parte le battute sulla vita sessuale della sorella.
In quel momento stavano cercando di delineare con precisione la situazione militare del paese del Vento.
Dopo la liberazione di Loria era stato necessario rifornire tutti i magazzini, censire gli shinobi, recuperare quelli a cui era stato suggerito di restare a casa, capire a che punto era l’addestramento delle nuove reclute, come erano messi ad armi e soprattutto se c’era ancora fiducia per il governo, dopo tanti anni di mala gestione imposta dalla Roccia.
Era un lavoro enorme e difficile. Gaara, d’accordo con Naruto, aveva pensato di chiedere la consulenza di Shikamaru per portarlo a termine intanto che lavoravano sul coordinamento logistico. I coniugi Nara avevano accolto la proposta praticamente come una seconda luna di miele.
«Temari è andata a valutare i ragazzini della Scuola?» chiese Kankuro, tendendo il fascicolo sui dati demografici a Shikamaru.
«Sì, dovrebbe finire a breve» rispose lui afferrandolo. «Speriamo che non siano completamente senza speranza...»
«Quelli semmai sono i vostri mocciosi. Alla Sabbia li tiriamo su come si deve.»
«Vedo» Shikamaru gli lanciò un’occhiata di sbieco.
«Io pure» replicò Kankuro con un ghigno.
Forse Shikamaru avrebbe avuto di che ribattere, ma prima che potesse farlo qualcuno aprì la porta della stanza e fece irruzione senza bussare.
«L’abbiamo evocata!» esclamò Kankuro, incrociando il saluto della sorella.
Temari lo fissò, a metà tra l’irritazione e la perlessità, ma decise di ignorarlo. Quindi raggiunse la scrivania di Shikamaru, ci piazzò le mani sopra e sbuffò sonoramente.
«Sono tutti incapaci» annunciò senza giri di parole.
«Traditrice del tuo sangue!» inorridì Kankuro.
«Tu perché sei qui?» lo fulminò lei.
«Sto aiutando Shikamaru con la logistica.»
Temari assottigliò gli occhi verdi.
«Bene. Adesso proseguo io.»
Kankuro passò lo sguardo da lei a Shikamaru, che fingeva di ignorarli con il naso affondato in un fascicolo. Accarezzò l’idea di fare qualche battuta particolarmente pungente, poi realizzò che se Temari lo sostituiva significava avere il pomeriggio libero.
«Come vuoi» disse quindi, alzando le mani in segno di resa. «Sai com’è il detto, no? Tra moglie e marito...»
«Sì, prima di citare una roba del genere trovati una moglie» lo stroncò Temari.
Con una smorfia di suprema offesa, Kankuro se ne andò borbottando indignato.
La porta si richiuse mentre Shikamaru abbassava i fogli da davanti al naso.
«Sono davvero così impreparati?» chiese preoccupato.
«Sì. No... Insomma, non sono male per essere ragazzini, ma in una guerra sarebbero carne da macello. Non mi hai salutato.»
Shikamaru fece un sorriso sghembo, abbassando lo sguardo dal suo viso alla scollatura, che lei insisteva nel proporgli così generosamente. «Bentornata.»
Temari ricambiò il sorriso, passando all’altro lato della scrivania. Senza chiedergli il permesso gli sfilò di mano i documenti che stava leggendo per scorrerli con lo sguardo.
«Sono poco longevi a Suna» commentò, voltando le pagine fino all’ultima. «E fanno pochi figli.»
«Sai, fa caldo» rise Shikamaru, facendo scivolare una mano lungo la sua coscia e fino al fianco.
«Non sembra essere un grave problema, per te» mormorò lei, senza voltarsi. «Almeno di recente. No, veramente non è un grave problema per molti...» aggiunse poi rabbuiandosi.
«A chi stai pensando?» la mano di Shikamaru si intrufolò sotto il bordo della sua maglietta, solleticando la pelle della schiena.
«Allo schifoso voltagabbana.»
«Baka Akeru?»
«Non pronunciare il suo nome, mi viene l’orticaria!»
Shikamaru tirò indietro la mano e sospirò. Se c’era una cosa che in quei giorni poteva distrarre Temari da lui era solo lo sciagurato contratto tra Akeru e Chiharu.
«Non credo che Chiharu si conceda a qualcuno così facilmente, se è questo che pensi» disse. «Più probabilmente lo ha raggirato in qualche modo oscuro.»
«Ma lui si è fatto raggirare perché pende dalle sue labbra» mugugnò Temari, mettendo giù il foglio e appoggiandosi alla scrivania con un fianco. «Tu non hai dovuto sentirlo dire ho pensato di saltarle addosso, poi la mia etica ha avuto la meglio... Se fossi stato al mio posto avresti usato lo strangolamento dell’ombra.»
«Può darsi» mormorò Shikamaru. «Ma ha anche detto di non averla toccata.»
«Sì, quella volta.»
«Ripeto: Chiharu è troppo concentrata su se stessa per pensare di cedere alle avances di qualcuno. È sempre tua figlia, dopotutto.»
Temari inarcò le sopracciglia con intenzione. «In che modo questo dovrebbe rassicurarmi?»
Shikamaru ricordò i loro primi turbolenti incontri, e in effetti si rabbuiò leggermente. «Beh... Speriamo che sia anche figlia mia e mantenga un po’ di buonsenso.»
«Ti ricordo che siamo diventati genitori a diciotto anni.»
Shikamaru accusò il colpo, incassando la testa tra le spalle. «Allora spero che la guerra la distragga a sufficienza da non pensare agli uomini.»

Né lui né Temari, a causa del foglio sulla privacy firmato da Chiharu, sapevano che lei non sarebbe stata coinvolta nella prossima guerra.
Non sapevano nemmeno che Baka Akeru aveva rischiato la sua carriera per lei, o che Hitoshi Uchiha vagava attorno alla figlia come un falco sulla preda.
Ma soprattutto non sapevano che Yoshi aveva fatto il nome di Chiharu... Perché in quel caso, sicuramente, avrebbero raccolto armi e bagagli per correre a Konoha, invece di ravvivare la loro relazione a Suna.

E forse, se lo avessero fatto, le cose sarebbero andate diversamente...


* * *


I resti carbonizzati del sottobosco mandavano ancora lievissime spire di fumo.
La squadra Anbu era arrivata rapidamente, ma quando avevano raggiunto il punto da cui erano scaturite le fiamme non era rimasta che una nuvola nera e acre.
Non avevano capito cosa fosse bruciato, non c’erano resti più grossi di una nocciola.
Konohamaru studiò il perimetro dell’area in cerca di tracce, invano. Spedì alcuni dei suoi uomini in avanscoperta, nel caso in cui ci fossero segni in un raggio più ampio, ma tornarono tutti a mani vuote.
L’unica cosa che poterono riferire a Naruto fu che l’aria era satura di ozono e zolfo, un odore inconfondibile.


Chiharu arricciò il naso rientrando in casa.
Nonostante sua nonna si fosse occupata di arieggare le stanze e tenerle pulite nei giorni in cui la casa era rimasta vuota, le sembrava che ci fosse un cattivo odore. Come di uovo marcio, o di zolfo. Probabilmente erano tutte le medicine che prendeva, si disse... Le lasciavano sempre un saporaccio in bocca.
Shikaku, entrando dietro di lei, andò ad aprire le finestre del salotto per far entrare un po’ di luce.
«Carina. Posso vedere la stanza degli ospiti?» domadò la voce di Fay alle sue spalle.
Chiharu quasi sussultò: aveva dimenticato che la sua nuova guardia del corpo sarebbe diventata anche la sua coinquilina.
Con un pizzico di inquietudine si voltò a guardarla, e non poté fare a meno di pensare che stavolta era proprio in trappola.
Fay si era portata una borsa di vestiti, che teneva appesa a una spalla con noncuranza. Si guardava attorno con l’espressione fintamente annoiata di chi sta registrando tutti i dettagli, e in una mano teneva la sigaretta accesa.
«Non fumare in casa» borbottò Chiharu, facendosi avanti. «Spegni quella roba e vieni con me. Ti faccio vedere dove dormirai.»


«Come hai osato?»
La voce di Naruto risuonò lungo il corridoio, facendo trasalire Koichi alla sua scrivania. Nonostante la porta dell’ufficio fosse chiusa, riecheggiava come se fosse stato a un metro di distanza.
Sakura, seduta sulla sedia dell’Hokage davanti a un elenco dei rifornimenti dell’ospedale, impiegò meno di un secondo per capire a cosa si riferisse. Allora raddrizzò le spalle e sollevò il mento.
«Sono il diretto superiore del medico curante di Chiharu. L’ho dimessa perché lo ritenevo giusto» disse sostenuta.
«Non sto parlando di quello, e tu lo sai benissimo!» Naruto avanzò a grandi passi, sbattendo le mani sulla scrivania. «L’hai messa sotto sorveglianza!»
«Sì, mi sembra il minimo.»
«Potevi tenerla in ospedale, invece di mandarla via con un cane da guardia travestito! Pensi che non capisca cosa vuoi fare? E poi perché diavolo lasciarla andare?»
Sakura intrecciò le dita delle mani. «Perché Yoshi ha fatto il suo nome.»
Naruto si immobilizzò.
«Cosa?»
«Me lo ha riferito Baka. Yoshi l’ha tirata in ballo, ma non ha spiegato in che modo è coinvolta. Io devo sapere cosa c’entra con quella faccenda, e l’unico modo che abbiamo per farlo è illuderla che vada tutto bene.»
«Potrebbe averla nominata per creare confusione...» tentò Naruto.
«Sì, certo. Ma devo esserne sicura» Sakura lo fissò. «Naruto, anche tu eri d’accordo con me.»
«Nel mandarla lontano dalle cure mediche di emergenza, con un uomo di Sasuke e due Anbu a sorvegliare la casa? No, non era proprio questo che avevamo detto.»
«Una donna di Sasuke» lo corresse lei.
«Sakura!»
Bussarono alla porta dello studio, e proprio Sasuke entrò senza attendere risposta.
«Mi fischiano le orecchie...» mormorò studiando Naruto. «Cos’hai da lamentarti oggi?»
Naruto serrò entrambi i pugni, lanciando occhiate di fuoco agli ex compagni di gruppo.
«L’Hokage sono io!» esclamò. «Dovete finirla di fare le cose alle mie spalle. Voglio l’ultima parola su qualunque decisione esca da questo studio, soprattutto quando riguarda i miei allievi. Sono stufo di essere scavalcato. Se Kakashi avesse voluto nominare voi Hokage, lo avrebbe fatto.»
Sasuke scambiò un’occhiata con Sakura, e la vide abbassare lo sguardo a disagio.
Avevano discusso parecchio di quella faccenda. Per Sasuke Naruto era perfettamente in grado di fare il suo lavoro e andava solo riportato a terra quando prendeva la tangente, ma per Sakura il loro compito era quello di istruirlo sulle sottigliezze del potere e impedire che ragionasse come aveva sempre fatto. Sasuke aveva obiettato un po’, ma alla fine si era detto che Naruto avrebbe dimostrato da solo quel che sapeva fare.
Ora, invece, gli veniva qualche dubbio.
«Naruto, cosa avresti suggerito di fare con Chiharu?» domandò.
Naruto, colto alla sprovvista, boccheggiò per un istante. «Beh, appena avessi avuto un po’ di tempo le avrei parlato... Stavo già organizzando...»
«Per dirle?»
«Non è che mi preparo i discorsi in anticipo!»
Sasuke sospirò, chiudendo gli occhi. «Naruto, questa non è una situazione normale» disse con calma. «Forse hai bisogno di un po’ di aiuto.»
«Un po’ di aiuto non significa fare le cose alle mie spalle!»
Sasuke guardò Sakura, che arrossì. «No, non significa fare le cose alle tue spalle» ammise. «Non accadrà più.»
Naruto sbuffò, passandosi una mano tra i capelli già spettinati.
Oh, era così difficile mettere in pratica i bei discorsi fatti a Jiraya... Anche se aveva mandato tre delegazioni di ambasciatori in giro per le grandi Terre, non gli sembrava che il suo piano per interrompere la guerra stesse dando grandi frutti; in più Sakura e Sasuke si comportavano come il peggiore degli insubordinati, e non era riuscito a parlare con Chiharu perché gli era sparita da sotto il naso.
Su una cosa Sasuke aveva ragione: quella non era una situazione normale, nemmeno per un Hokage.
«Maledetto Kakashi...» mormorò, sfregandosi la fronte.
Dalla porta, rimasta socchiusa dopo l’arrivo di Sasuke, si affacciò Koichi con sguardo esitante.
«Perdonate il disturbo» disse tossicchiando. «Konohamaru è tornato dalla perlustrazione nella foresta. Lo faccio aspettare?»
«Anche questa...» Naruto prese un respiro profondo. «No, fallo entrare. Sakura, alzati dalla mia sedia. Andrò da Chiharu appena avrò tempo.»


«Mettiti comoda, io continuo ad aprire le finestre» disse Chiharu, dopo aver fatto vedere la stanza degli ospiti a Fay.
Ma lei sorrise, lasciando cadere la borsa con i vestiti al centro del pavimento, e insisté per aiutarla.
Allora è così che andrà?, si domandò Chiharu, trovandosela attaccata alla schiena. Mi starai appiccicata qualunque cosa io faccia? Va bene, se è questo che vuoi... Ma da me non caverai proprio niente.
Anche perché non c’era niente da cavare.
Insieme a Shikaku aprirono tutte le imposte e arieggiarono i locali. Al termine dell’operazione Shikaku invitò Chiharu e Fay da Yoshino, ma Chiharu rifiutò: l’idea di sottoporsi subito all’interrogatorio della nonna non la entusiasmava particolarmente. Nemmeno l’idea di restare sola con Fay era esaltante, ma di recente il convento passava solo quello.
«Sono stanca» disse, simulando una spossatezza che non provava. «Magari domani verrà a trovarmi, va bene? Adesso voglio solo riposare un po’... Fay è un dottore, impedirà che io muoia di infarto sul pavimento. Giusto, Fay?»
Fay sorrise. «Può stare tranquillo.»
Shikaku guardò le due ragazze senza nemmeno la più vaga ombra di tranquillità. Tuttavia sapeva con certezza che se avesse insistito per restare non avrebbe cavato un ragno dal buco, così, per l’ennesima volta, dovette cedere e abbandonare il campo. Yoshino lo avrebbe massacrato.
Fay e Chiharu allora rimasero sole per la prima volta.
Probabilmente ci sono degli shinobi anche all’esterno, rifletté Chiharu, tornando nella sua camera con la scusa di un mal di testa. Sono praticamente prigioniera in casa mia.
D’altronde, c’erano posti dove sarebbe voluta andare? Per fare cosa, poi?
Appunto: cosa poteva fare adesso, a parte aspettare il ritorno dei suoi genitori e farsi ammazzare da Temari per aver rovinato la reputazione della famiglia?
«Scusa, posso entrare?»
Chiharu scrutò la porta infastidita. Così era un po’ troppo, però.
«Ho mal di testa, ti ho detto» bofonchiò.
«Chi meglio di un dottore, allora?»
Fay entrò senza attendere il permesso, ricevendo un’occhiata di fuoco. Impassibile, si avvicinò al letto di Chiharu e depositò sulla sua scrivania una mole di medicinali impacchettati.
«Devo prenderti i parametri tre volte al giorno» le ricordò, tirando fuori un apparecchio per la pressione. «E segnalare ogni anomalia... Incluse le emicranie.»
Chiharu roteò gli occhi e allungò il braccio, senza muoversi dal letto. Di certo non le avrebbe facilitato il lavoro.
Fay non si lasciò impressionare dalla scarsa collaborazione. Si sedette sul bordo del letto per misurarle la pressione. Mentre lo faceva, scansionò con cura tutte la parte di camera cui riusciva ad arrivare senza farsi notare.
«Il mal di testa migliora stando sdraiata?» chiese in tono colloquiale, gonfiando il bracciolo per la pressione.
«No.»
«Poi ti do qualcosa, allora. Prima vediamo questo...»
Gonfiò fin quasi a stritolarle il braccio, il che fece capire a Chiharu che l’avevano addestata a farlo solo negli ultimi giorni, e poi mollò la valvola dell’aria con lentezza esasperante.
«E’ regolare. Fammi sentire il battito... Hai una stanza poco femminile.»
«Lo so» borbottò Chiharu, mentre la sentiva cercare le arterie del polso con dita incerte.
Va bene tutto, ma io sono esperta di medici... Come diavolo hanno pensato di fregarmi con questa qui?
«Scusa, sono un po’ maldestra... Sai, sono solo una tirocinante» disse Fay a mo’ di giustificazione. «Sei stata ricoverata a lungo, ho visto» continuò, arrendendosi con il polso e passando direttamente all’auscultazione del petto. «E prima eri lontana... Ti hanno aggiornato sulla guerra con la Roccia?»
«So della dichiarazione» tagliò corto lei.
«Sai anche che il tuo amico Yoshi è in stato di fermo, sospettato di spionaggio?»
Chiharu trasalì in maniera perfettamente naturale, perché proprio non si aspettava un attacco così presto. In un istante realizzò che il suo cuore aveva triplicato i battiti e Fay lo stava ascoltando in diretta.
«Hanno arrestato Yoshi?» alitò, simulando uno choc piuttosto convincente. «Ma come... Quando?»
«Alcuni giorni fa» Fay studiò il suo viso quasi morbosamente. «C’è stata una segnalazione. Lui non ha collaborato.»
«Ma... perché? Che genere di segnalazione?»
Un lampo guizzò negli occhi di Fay, e Chiharu capì che non doveva mostrarsi troppo curiosa, non ancora.
«E’ assurdo!» sbottò, allontanando il braccio che ancora la visitava e tirandosi a sedere. «Yoshi è un mio amico, non mi ha mai dato ragione di sospettare che fosse un traditore!»
«E’ questo che fanno le buone spie. Non sollevano sospetti» ribatté Fay, in tono francamente un po’ petulante.
Non come te, pensò Chiharu in un impeto di ribellione interiore. Distolse lo sguardo, passandosi una mano tremante sulla bocca.
«Non ci credo. Ha confessato? E’ davvero una spia?»
«Qualcosa ha detto...» Fay lasciò la frase in sospeso, studiandola, ma Chiharu non si fece fregare. Invece si stropicciò il viso con le mani.
«Non riesco a crederci» continuò, come se l’insinuazione di Fay non la riguardasse. «Era al primo anno di Accademia! Come avrebbe fatto? E i controlli... L’avrenno controllato prima di permettergli l’iscrizione.»
«Le buone spie non sollevano sospetti.»
L’hai già detto.
Chiharu la guardò, sfoderando la sua miglior faccia di innocente preoccupazione. «Devo essere interrogata anche io?»
«Forse» le concesse Fay.
Chiharu annuì, come stordita. «Certo... Quando volete. Ma è assurdo. Dev’essere un errore...»
Fay si strinse nelle spalle, sospirando un po’.
Le reazioni di Chiharu erano compatibili con una genuina sorpresa e un po’ di paura per sé stessa. Non le sembrava di vedere senso di colpa o terrore, che l’avrebbero messa più in allarme; d’altro canto aveva bisogno di più tempo per coglierla in flagrante – se c’era qualcosa da cogliere – e quell’attacco serviva solo per saggiare le sue reazioni a caldo.
«Adesso non pensarci» le disse, alzandosi in piedi. «Ti do una cosa per il mal di testa e ti lascio riposare.»
«Sì, per favore. Il dolore è decuplicato negli ultimi due minuti...» gemette Chiharu coprendosi gli occhi con una mano.
Fay le preparò un bicchiere d’acqua insieme alle pastiglie. Apettò che prendesse entrambi, rimise in ordine i blister sulla scrivania, quindi socchiuse le persiane e finalmente la lasciò sola.
Chiharu attese che la porta scorresse nelle guide separandola da Fay, e solo in quel momento si concesse di aggrottare la fronte, facendo lavorare febbrilmente il cervello.
Se non fosse stato per Akeru, adesso sarei nei sotterranei del dipartimento insieme a Yoshi, realizzò.
Già gli doveva la vita per averla letteralmente riportata indietro dopo l’evocazione del chakravakam, ora gli doveva anche la libertà per essersi dimostrato leale nonostante i suoi sospetti... Era un genere di devozione a cui non era abituata. Nessuno tra i suoi conoscenti si comportava così.
Avvertì un crampo allo stomaco, che la spinse a rannicchiarsi su un fianco. Essere di nuvo nella sua stanza riduceva lievemente l’angoscia provata in ospedale, ma non riusciva a cancellarla del tutto.
Anche se Akeru la stava proteggendo, se Yoshi avesse deciso di tirarla in mezzo lui non avrebbe potuto fare niente – anzi, probabilmente avrebbe passato dei guai insieme a lei.
A proposito di Yoshi... Era riuscita a non pensarci fino ad ora, ma dopo il mezzo interrogatorio di Fay non riusciva più ad arginarlo. Così, i pensieri fluirono incontrollabili.
Perché l’aveva avvicinata? A quale scopo? Lei non gli aveva mai dato nessuna informazione importante. Avrebbe avuto più senso se l’avesse uccisa, quando aveva scoperto che spiava l’ufficio dell’Hokage... Perché invece l’aveva invischiata nel suo gioco?
E tutto il tempo che avevano passato insieme, i loro discorsi, i pranzi condivisi... Tutto falso! Un’abile messinscena per conquistare la sua fiducia e poi... e poi boh. Non aveva idea di quale potesse essere il suo scopo.
Se erano le informazioni che cercava, io ero un ostacolo, si disse. Non era quello il suo obiettivo.
D’altronde, nemmeno parlare di lei a Baka sembrava una mossa sensata.
Ma allora a cosa puntava?
Di nuovo il crampo allo stomaco. Piegò le ginocchia contro il petto, mordendosi le labbra. Non credeva che fosse colpa delle medicine... Era qualcosa di diverso, qualcosa che non aveva mai provato prima.
Era il profondo senso di sconforto nello scoprire che qualcuno a cui teneva si era servito di lei. Il dolore fisico del tradimento e dell’umiliazione.
Anche Naruto e Sakura avevano provato la stessa cosa, quando Sasuke se ne era andato?
Chiharu stritolò la maglietta tra le dita, rivedendo dietro le palpebre serrate tutti i sorrisi che Yoshi le aveva rivolto, il cibo che gli aveva comprato, gli origami che gli aveva spedito in aula...
Tutto, tutto, tutto falso.
Finalmente quella consapevolezza le invadeva la testa, si faceva strada oltre le sue barriere e i blocchi, squarciando certezze e comode abitudini... Come un’ondata di piena distruggeva i suoi muri interni, lasciando sulla strada soltanto macerie.
Non è mai stato mio amico. Non è mai stato nemmeno mio compagno. Io non sono mai stata nulla per lui.
La mano che si stringeva allo stomaco salì fino alla faccia, nascondendola sotto il braccio ripiegato.
Fa male...






* * *

Buongiorno a tutti!
Sono in ritardo.
Ma ho un'ottima giustificazione:
ho traslocato e sono momentaneamente priva di internet!

Il che significa che scrivo di più
ma fatico a pubblicare.

Ad ogni modo, spero che stiate tutti bene.
In questo capitolo succedono un sacco di cose,
tra cui il ritorno di vecchi spezzoni da Sinners
(controllate pure, sono proprio copia-incolla Shikatema!)
e l'introduzione di eventi che boh neanche io so bene cosa siano
(la storia del fumo nella foresta).
Da qui in poi sarà difficile avere capitoli di transizione, almeno per un pochino,
perché presto ripartiamo con le botte da orbi.
Non vedo l'ora!
<3

Grazie a tutti voi che ancora seguite questa storia.
Mi scuso sempre per i ritardi,
vorrei davvero essere più costante,
ma vivendo da sola è dura...

A proposito, ho lasciato a casa i disegni che vi avevo promesso,
che quindi non ho potuto scannerizzare.
Sono una bruttissima persona.
Prima o poi li metto, ve lo giuro.

Spero di farmi risentire prestissimo!
Un abbraccio.



Susanna

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Capitolo 41
*** Solo un gioco ***


Penne 41
Capitolo quarantunesimo

Solo un gioco




Sasuke scrutava Konoha dalla finestra dello studio dell’Hokage, le braccia incrociate e i fianchi appoggiati alla scrivania.
Non era sicuro di stare agendo per il meglio... Aveva il sospetto che avessero frainteso qualcosa del loro ruolo.
Ci aveva riflettuto dopo che si era riconciliato con Sakura, quando aveva trovato il tempo di pensare a qualcosa che non fosse solo se stesso, gli Uchiha e il suo marchio. Si era chiesto perché Kakashi avesse voluto circondare Naruto di persone così diverse tra loro, e aveva concluso che non era per guidarlo, come sosteneva Sakura. Più probabilmente c’erano dietro dei giochi politici.
Alla moglie non lo aveva detto, ma da quando Kakashi se ne era andato aveva ricevuto un paio di visite da eminenti consiglieri di Konoha, che gli avevano proposto di organizzare un golpe e prendere il posto di Hokage. Per aiutarlo offrivano il sostegno di alcune famiglie influenti e in cambio chiedevano una fetta di potere.
Sasuke sospettava che qualcosa del genere fosse successo anche a Shikamaru – probabilmente persino più spesso, visto che lui non era un ex traditore riabilitato per il rotto della cuffia – ma non glielo aveva mai chiesto.
In effetti Naruto doveva essere una bella gatta da pelare per il Consiglio... Impulsivo, arrogante, completamente refrattario alle regole della gerarchia; non riusciva a immaginare niente di più ingestibile. Tanto più che era uno di quei rari uomini che nella vita potevano dire di essere riusciti a realizzare il proprio sogno, e dato che non era mai stato un tipo modesto questo gli aveva montato la testa.
Forse Kakashi aveva voluto che loro tre affiancassero Naruto per difenderlo proprio da questi intrighi politici, di cui lui non capiva e non avrebbe mai capito niente... Oppure la verità era semplicemente banale, ed erano lì come rete di salvataggio nel caso in cui fosse successo esattamente quello che stava succedendo: la situazione si era complicata, Kakashi non poteva dare aiuto e Naruto iniziava ad essere in difficoltà.
Ma quello non era il modus operandi di Kakashi...
«A che pensi?»
Una mano si posò sulla sua schiena, scivolando poi fino alla vita per stringerlo delicatamente. Sakura, del cui ingresso Sasuke si era accorto ai margini della coscienza, posò la testa sulla sua spalla e cercò di capire cosa stava guardando.
«Penso a Naruto» rispose lui senza girarci intorno.
Sakura si irrigidì e ritirò la mano. Lei e Sasuke non avevano le stesse idee riguardo a quell’argomento, e al momento preferiva proprio non parlarne, visto che era ancora arrabbiata per come Naruto aveva giudicato la sua gestione del caso Chiharu. Erano passati alcuni giorni dall’incidente, ma evidentemente erano ancora troppo pochi.
Sasuke si accorse della rigidità di Sakura e chiuse gli occhi.
«Sto pensando anche a Fugaku e Hitoshi» disse per cambiare argomento. «Hitoshi sta cercando di riavvicinarsi.»
«L’ho notato anche io» Sakura fece un mezzo sorriso. «Ma già sapevo che sarebbe stato lui: Fugaku è il più orgoglioso dei due.»
Sasuke avrebbe potuto spiegarle le dinamiche nelle famiglie numerose, ma lei, che era figlia unica, non avrebbe capito che il primogenito aveva molti doveri nei confronti dei minori, e che i minori questi doveri li sentivano meno... E comunque per farlo avrebbe dovuto tirare fuori l’argomento Itachi, la qual cosa non gli piaceva.
«Non sarà semplice» disse invece. «Sono molto competitivi...»
«Ma non mi dire!» Sakura finse enorme sorpresa. «Da chi avranno mai preso?»
Sasuke incurvò un angolo della bocca. «E’ nel sangue degli Uchiha...»

«Dopotutto, così come ha controllato quel marchio riuscirà a controllare ogni cosa. E' nel sangue degli Uchiha.»

Un ricordo improvviso, la voce di Ryuichiro.
Era qualche tempo che non lo vedeva... Chissà come stava?
Meditabondo, Sasuke si accarezzò involontariamente il collo, dove il marchio di Orochimaru gli segnava indelebilmente la pelle.
Forse era giunto il momento di andare a cercare il nipote.


Ma Sasuke non poteva trovare Ryuichiro, perché Ryuichiro, in quel momento, era nel posto meno probabile di tutti: in piedi accanto al letto di Kakashi.
Aveva aspettato che la stanza fosse vuota perché nessuno lo vedesse entrare, e adesso stava immobile, le mani in tasca. Una sola ruga, sottilissima, si disegnava verticalmente tra le sue sopracciglia.
Kakashi non dava segni di ripresa. Sempre pallido, attaccato a una flebo dopo l’altra, sembrava addormentato come Biancaneve. Forse sognava, o forse era intrappolato nel proprio corpo... Gli Aburame che erano stati interpellati come consulenti non avevano saputo dare una risposta certa.
La porta si aprì all’improvviso, e Ryuichiro si voltò di scatto, colto di sorpresa.
Sulla soglia, lievemente interdetto, Jin incrociò il suo sguardo.
«Salve» disse Ryuichiro per primo, con un sorriso di scuse. «Mi dispiace, credevo non ci fosse nessuno.»
«Sono appena tornato da una missione» spiegò il ragazzino, entrando con aria guardinga.
In quei giorni faceva da scorta per i gruppi di ambasciatori che Naruto aveva sguinzagliato in giro per le grandi Terre. Anche se una parte di lui avrebbe preferito restare accanto al padre, sapeva che lavorare lo avrebbe aiutato a mantenere la lucidità.
«Perché è qui?» domandò in atteggiamento guardingo, adottando involontariamente il lei.
«Stavo cercando Sasuke. In commissariato non c’era, mi hano detto di provare in ospedale. Ma qui non c’è nemmeno sua moglie, e trovandomi a passare...» Ryuichiro si strinse nelle spalle. «Mi dispiace, ero solo curioso.»
Jin lo scrutò ancora per un istante, poi distolse lo sguardo. «Non è un problema.»
Non era il primo che veniva a trovare Kakashi per curiosità, e in ogni caso lui non percepiva minacce. Solo un certo imbarazzo.
Jin sapeva quasi tutto di Ryuichiro, ovviamente: per tutta la vita si era sentito ripetere che era simile a Itachi, il traditore morto tragicamente per mano di Naruto, e quando era spuntato l’erede e fotocopia del defunto Itachi aveva voluto studiarlo per bene. Però non era riuscito a capire granché... Ryuichiro non era uno shinobi; non aveva niente del grande Itachi, neanche un tratto che lo ricollegasse a lui – a parte la somiglianza impressionante. Così, presto Jin aveva perso interesse, e ora poteva dire in tutta onestà che gli prestava attenzione per la prima volta dopo tantissimo tempo.
Ma anche Ryuichiro, a modo suo, era interessato a Jin. Le voci a Konoha correvano veloci, e non era dovuto passare molto tempo prima che alle sue orecchie arrivassero i paralleli tra il figlio del sesto Hokage e il padre che non aveva mai conosciuto. Un po’ di curiosità era naturale.
Ryuichiro rimase fermo a guardare Jin che si toglieva il marsupio. Lo vide posarlo sulla sedia con movimenti precisi, lo vide slacciare le protezioni attorno ai polsi e lasciarle accanto al marsupio, lo studiò mentre inclinava il collo per tendere un muscolo contratto.
Anche Itachi aveva avuto quella precisione nei movimenti, o era una caratteristica comune a tutti i ninja?
No, capì quasi subito. Jin aveva qualcosa di speciale, quello stesso qualcosa che probabilmente doveva aver avuto anche suo padre...
In qualche modo quella consapevolezza glielo fece sentire più vicino, meno alieno.
«Veramente sono venuto per lo sharingan di Obito Uchiha» confessò.
Jin tornò a guardarlo. «Lo sharingan di mio padre?»
«Sì» Ryuichiro annuì, senza abbassare gli occhi. «È straordinario che una persona comune, senza una goccia di sangue Uchiha, abbia potuto padroneggiare una tecnica oculare ereditaria. Kakashi Hatake deve essere uno shinobi straordinario.»
«Infatti è il sesto Hokage» Jin lo disse quasi come se stesse parlando a un idiota.
Ryuichiro fece un sorriso quasi impercettibile, da vero Uchiha, uno di quelli che a Sasuke non mostrava. «Ciò che si tramanda nel sangue va ben oltre le cariche elettive» disse lentamente. «Se un uomo come Kakashi Hatake fosse nato nella casata Uchiha, sarebbe stato uno shinobi di altissimo livello.»
«Può darsi...» borbottò Jin, a disagio. «Intendo, più di adesso – che comunque è praticamente il livello massimo a cui può aspirare uno shinobi...»
Ryuichiro allargò il sorriso, socchiudendo gli occhi quasi con tenerezza. «Mi scuso ancora per la visita inattesa. Vi lascio soli.»
Jin annuì e salutò senza cercare di trattenerlo. Il disagio provato nel trovarlo lì non si era ancora attenuato, anche se poteva semplicemente essere dovuto all’intrusione nel suo momento con Kakashi... Tuttavia si sentiva sollevato al pensiero che Ryuichiro andasse via.
Uscendo, i due si scambiarono un ultimo sguardo.
Dopotutto non era nemmeno nato, quando mio padre è morto, pensò Ryuichiro, perdendo interesse.
Nel sangue degli Uchiha c’è sicuramente qualcosa di malato, pensò Jin.
Kakashi continuò a dormire, senza pensare a niente.


La brezza tiepida di giugno era carica di profumi.
Dopo tutti i giorni trascorsi in ospedale persino l’odore della terra sembrava un balsamo al naso di Chiharu, ma gli aromi che venivano dal bosco dei Nara quasi la stordivano. Era un vero peccato che dovesse studiare, invece di appisolarsi sotto un albero.
Alla fine aveva deciso di fare qualcosa: visto che era inchiodata a casa con il cane da guardia, si era detta che poteva investire qualche ora del suo tempo nel capire come funzionava un cuore umano e cosa non andava nel suo in particolare.
L’idea le era venuta pensando al contratto che aveva firmato con Baka e a tutte le cose che Sakura aveva detto sarebbero potute andare storte. Quante e quali erano? Cosa aveva rischiato? Cosa stava rischiando?
La medicina era l’unico ramo della conoscenza che non avesse quasi mai sfiorato, a parte le lezioni di anatomia all’Accademia. In quei giorni aveva capito che probabilmente era perché non voleva davvero sapere quanti danni stava facendo a se stessa, ma dopo il discorso di Jiraya in ospedale aveva iniziato a pensare che ci fossero motivi per preoccuparsi. E se c’era una preoccupazione, allora doveva pensarci alla maniera dei Nara.
Insieme a Fay aveva chiesto di visitare la biblioteca dell’ospedale – la stessa che quasi vent’anni prima aveva ospitato il primo bacio di Naruto e Sakura. Lì aveva preso una manciata di volumi di medicina per principianti e se li era portati a casa, riempiendo il salotto di conoscenza e polvere.
Fay l’aveva osservata senza fare commenti, spesso dal cortile, dove si ritirava a fumare almeno venti volte al giorno.
Non le aveva più parlato di Yoshi; di questo Chiharu era grata, perché nemmeno lei aveva molta voglia di pensare a lui o alle conseguenze di quello che lui poteva dire.
Dopo aver lasciato l’ospedale era riuscita a darsi una calmata: ci aveva riflettuto, e aveva concluso che Yoshi non poteva dimostrare in nessun modo di averla coinvolta in qualcosa di oscuro ai danni di Konoha. L’unica cosa che le si poteva imputare era di non aver indagato su come recuperava le sue informazioni, ma nessuno poteva dire che lui l’avesse fatta partecipare a qualcosa di losco. Questa era una certezza. E anche se avessero voluto incastrarla, avrebbero dovuto fare leva su Akeru, che non l’avrebbe mai messa in mezzo. Probabilmente. Forse. Beh, lo sperava...
Ora, per stare proprio tranquilla, doveva solo trovare il modo di tornare nelle grazie dei suoi superiori, Naruto in primis: doveva fare la brava, essere una kunoichi obbediente, seguire le cure e mostrarsi pentita. Orgogliosa com’era, si faceva praticamente una violenza; ma sapeva che probabilmente non aveva alternative per risalire dal baratro... Anche perché la voce di Jiraya che le parlava della sua salute risuonava anche delle parole che aveva speso riguardo a Orochimaru, ed era fresca e spaventosa alle sue orecchie.
Shikaku veniva a trovarla più volte al giorno, portandosi dietro anche Yoshino. I primi tempi c’erano stati momenti di altissima tensione, perché la nonna trovava inaccettabile la storia sulla privacy medica e soprattutto non capiva come mai Chiharu rifiutasse la sua tenpura, che fino a quel giorno era stata sempre un successo garantito; poi le cose erano migliorate, e Yoshino aveva iniziato a lamentarsi con Shikaku perché aveva allevato un figlio che aveva allevato una nipote ingestibile.
Passando tanto tempo con la nonna, Chiharu aveva finalmente capito che non era colpa di Shikamaru se era finito con Temari: ce l’aveva nel sangue.
«Come mai ti è venuto questo improvviso amore per la medicina?» chiese Fay, sfogliando distrattamente un manuale di fisiologia del chakra.
«Perché mi annoio» mormorò Chiharu, senza neanche alzare gli occhi. «Sapevi che gli effetti del fumo nei polmoni impiegano non meno di quattro anni per svanire, e anche allora non se ne vanno del tutto?»
«Sono una specializzanda, due cose di medicina me le hanno insegnate» le ricordò Fay.
Chiharu ricambiò il sorriso – specializzanda, come no! – e tornò a ignorarla subito dopo.
Studiando dal mattino alla sera, nel giro di alcuni giorni aveva appreso i rudimenti della fisiologia cardiaca, con un excursus nel sistema respiratorio e nel sistema circolatorio del chakra. I concetti erano un po’ confusi nella sua testa, ma i geni dei Nara stavano già lavorando per collocare le informazioni al posto giusto. E soprattutto, quel tipo di impegno non le faceva venire l’affanno dopo dieci minuti.
«Hai visite.»
Nel sentire ancora la voce di Fay Chiharu spostò lo sguardo oltre la finestra aperta. Dal fondo del cortile, lungo il vialetto serpeggiante, avanzava Naruto.
Immediatamente il cuore di Chiharu assunse un ritmo irregolare – le succedeva molto più spesso, dopo l’incidente con i chakravakam. Richiuse il libro che stava leggendo, scattando in piedi, e Fay strinse le palpebre per studiare la sua reazione.
L’ultima volta che Chiharu si era trovata faccia a faccia con Naruto lui l’aveva sospesa dai suoi incarichi; poi Jiraya aveva detto che gli avrebbe parlato, ma visto che la situazione descritta da lui era anche peggiore di quella iniziale, Chiharu non sapeva con che spirito accogliere il maestro.
Nel dubbio, si fece trovare ritta in piedi come un militare.
«Posso entrare?» chiese Naruto, aprendo la porta senza bussare. «Ti ho vista da fuori. Oh. Fay» fece un cenno verso la donna, esitante.
«Settimo» rispose lei con un sorriso lieve.
«Ciao» disse Chiharu.
«Ciao» Naruto tossicchiò, guardandosi intorno.
«Posso offrirle un tè?» propose Fay, dopo almeno due secondi di silenzio da entrambe le parti.
«Sì. Per favore. Grazie» Naruto si schiarì la voce per la terza volta nell’arco di trenta secondi.
Fay li lasciò soli. In teoria Sakura le aveva ordinato di sorvegliare Chiharu soprattutto quando qualcuno veniva a visitarla, ma immaginava che l’Hokage fosse un ospite abbastanza sicuro.
«Lei è il tuo... medico?» esordì Naruto un po’ goffamente.
«Pare sia una specializzanda» borbottò Chiharu, in un tono così poco convinto che per un attimo temette di aver rivelato che sapeva di essere sorvegliata.
«Capisco» Naruto si adattò malvolentieri al copione di Sakura, senza insistere. «Senti, sono qui per... Insomma, ti ho cercata in ospedale ma eri già stata dimessa. Ho parlato con Jiraya.»
Chiharu annuì, stringendo le braccia al petto in attesa del seguito.
«Mi ha detto quella cosa dei charva... chaka... dell’evocazione. La storia che non muoiono se ti riprendi il chakra» Naruto si massaggiò la nuca, guardando ovunque fuorché lei. Era sempre difficile ammettere un errore, figurarsi farlo con una come Chiharu. «Non lo sapevo. Ma perché non me lo hai detto subito?»
Chiharu scrollò le spalle, di nuovo incapace di parlare. Era snervante vederlo succedere così spesso, e sempre in presenza di Naruto.
Si morse l’interno della guancia, sperando di riuscire a convincersi a superare il blocco, ma ebbe il solo effetto di affondare troppo i denti e provocarsi una ferita.
«Non che cambi completamente le cose, eh» chiarì subito Naruto. «Anche se quelle evocazioni non muoiono restano tuoi compagni, e come tali vanno rispettati. Mi incazzerei anche se dessi solo uno spintone a un compagno per il tuo tornaconto... Ma se mi avessi detto che quell’uccello non era morto magari avrei potuto parlare con... avremmo potuto parlarne. Perché non vuoi mai spiegare niente?»
Perché non ci riesco, rispose Chiharu dentro di sé. E davvero, ancora non ci riusciva.
Naruto aspettò qualche secondo, ma non vide arrivare risposte. Pensò che Chiharu si stesse rifiutando di comunicare, e per un attimo provò uno scatto d’ira: in passato aveva avuto a che fare con teste ben più dure della sua, e sempre era riuscito a spuntarla; aveva convinto Gaara, Sasuke e persino Kyuubi! Perché quella ragazzina si ostinava così ferocemente? Cosa serviva per farla aprire?
«Mi dispiace» disse Chiharu, con una fatica enorme.
«Ti dispiace per cosa?»
«Per...» Chiharu aprì e richiuse la bocca, a corto di saliva.
Naruto fece un respiro profondo, cercando una sedia con lo sguardo, ma Chiharu alzò una mano per fermarlo. Chiuse gli occhi, passò una mano sulle palpebre.
Voleva chiedere aiuto a Naruto, ma non le usciva la voce. Non riusciva a capire se era il suo orgoglio a paralizzarla o la paura di quello che sarebbe successo dopo.
«Prima ho bisogno di sapere una cosa» disse quindi, accorgendosi che era più facile attaccare che chiedere aiuto. «Perché ci accompagnavi in missione anche quando gli altri maestri non accompagnavano più i loro gruppi? Perché le nostre missioni non erano mai troppo difficili?»
«In che senso?» replicò Naruto, colto alla sprovvista.
«Ci avete sempre detto che il nostro gruppo era stato assemblato per raccogliere i migliori del nostro anno... Ma da quando ci siamo diplomati, con Kotaro e Hitoshi non abbiamo fatto niente di imporante. Ci hai tenuto in disparte volontariamente?»
«Ti sembro il tipo che tiene in disparte qualcuno?» sbottò Naruto indignato.
Chiharu provò un moto di sollievo. Sentire che non era stato intenzionale era già qualcosa... «Però le nostre missioni non sono mai state davvero pericolose. C’eri sempre tu con noi.»
«Io non facevo tutto...»
«Tu sei la Volpe a nove code, andare in giro con te già dimezza gli avversari» disse Chiharu, ricalcando le parole di Akeru.
Naruto si accigliò. Sapeva che c’era qualcosa di vero in quello che lei diceva, ma era la prima volta che ci faceva caso.
Eppure era convinto di aver cresciuto i suoi ragazzi nella maniera migliore... Certo, non li aveva mandati allo sbaraglio tra le fila nemiche ed era rimasto con loro molto più a lungo degli altri maestri... Ma quello era soltanto il suo modo di fare.
E comunque affidare al gruppo la missione di Loria era stata una bella dimostrazione di fiducia, giusto? Per non parlare della promozione di Hitoshi ad Anbu!
«Non mi sembra di essere stato...» iniziò a difendersi, ma tutt’a un tratto sussultò.
Chiharu lo vide immobilizzarsi, gli occhi sbarrati su un punto tra il divano e il muro. Poi, all’improvviso, scomparve in una nuvoletta di fumo, rivelando di essere soltanto una copia.
«Che è successo?» chiese Chiharu a voce alta.
Dalla cucina si affacciò Fay, appena in tempo per vedere le ultime volute che sparivano negli angoli del soffitto. «Dov’è andato?» chiese, il tè pronto tra le mani.
«Che ne so?» Chiharu strinse leggermente i denti, indignata.
«Uhm.» Fay sorseggiò il tè che aveva preparato, attraversando il salotto per andare verso la stanza degli ospiti. Avrebbe mandato subito un messaggio a Sasuke per capire se stava succedendo qualcosa.
Chiharu invece lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
Non era riuscita a dire niente, alla fine. Anzi, Naruto non l’aveva proprio ascoltata.
Che diavolo è venuto a fare qui?, si chiese risentita. E poi, in un attimo di lucidità: ma soprattutto, perché se ne è andato in quel modo?


Capitava raramente che Sasuke andasse a cercare Ryuichiro, soprattutto perché di solito era lui a cercarlo; ma ogni tanto si chiedeva che fine avesse fatto, e soprattutto, come gli aveva richiesto Kakashi, controllava la situazione.
Quel giorno dunque, dopo aver lasciato Sakura nello studio dell’Hokage, lui si era avviato verso il quartiere Uchiha per bussare alla porta di Saifon, la donna che sosteneva di essere la madre di Ryuichiro – cosa di cui Sasuke non era mai troppo sicuro, visto che il ragazzo somigliava esclusivamente a Itachi.
Qualche tempo prima aveva assegnato ai due un’abitazione al limitare del quartiere, in una zona tranquilla. Per raggiungerla doveva superare la propria casa e attraversare quasi tutto l’abitato, in quel tempo deserto. Li aveva sistemati distanti per dare loro privacy, e anche perché non sapeva se sarebbe riuscito a incrociare tutte le mattine la faccia di Itachi, uscendo di casa... Questo poteva rendere difficile la sorveglianza richiesta da Kakashi, ma se non altro gli dava un po’ di pace interiore.
Era vagamente inquietante che sentisse il bisogno di incontrare un ragazzino con la metà dei suoi anni per rasserenarsi. Era inquietante anche che il ragazzino avesse il volto dei suoi incubi da adolescente. Ryuichiro in sé era inquietante, per dirla proprio tutta, ma, poveretto, di questo non aveva colpa.
Mentre camminava lungo le vie del quartiere, prendendo nota dei piccoli lavori di manutenzione che avrebbe dovuto commissionare ai carpentieri di Konoha, Sasuke si accorse di un gruppetto di voci concitate a breve distanza.
Dal momento che il quartiere era disabitato, la cosa lo mise sull’attenti.
Alleggerì immediatamente il passo, avvicinandosi alla parete di una casa. Le voci venivano da un vicolo tra due costruzioni, che secondo i suoi ricordi si apriva in una piazzetta con un pozzo in disuso. Era un vicolo cieco, chiunque si fosse introdotto in quell’anfratto aveva poche vie di fuga.
Sasuke avanzò cautamente, portando una mano al kunai di emergenza che teneva nascosto sulla schiena...
Le voci che aveva sentito aumentarono di volume; non sembravano tentare di nascondersi. Lui tese le orecchie per distinguere le parole, i sensi all’erta, e solo allora, di colpo, capì che conosceva gli intrusi.
«...E comunque Hina è super noiosa adesso... Non vuole più giocare con nessuno. Tiene il muso. Per questo sono poco allenato!»
«Tutte scuse... Sei scemo.»
La mano che si stava avvicinando al kunai scese lungo il fianco, mentre Sasuke esalava un sospiro a metà con un grugnito. Aveva proibito mille volte a Itachi di giocare dove nessuno poteva vederlo, ma tentare di proibire qualcosa a un bambino di quell’età era follia, dovette riconoscere.
Comunque, con la guerra e le spie e tutti i problemi che aveva in quel momento, preferiva di gran lunga sapere Itachi al sicuro dentro casa, quindi aveva intenzione di aggiungere alla proibizione pacata un rimprovero di quelli davvero efficaci.
Percorse gli ultimi metri del vicolo pestando i piedi perché lo sentissero arrivare. I bambini abbassarono la voce istantaneamente, ma ormai era tardi: Sasuke comparve all’imbocco della piazzola, le mani sui fianchi e le sopracciglia aggrottate, e loro ebbero solo il tempo di radunarsi tutti vicini.
«Cosa state facendo?» chiese seccamente il capoclan degli Uchiha.
«Niente» risposero loro in coro.
«Itachi?»
Itachi lanciò ai compagni uno sguardo mortificato. «Li ho portati a giocare qui...»
Sasuke prese un respiro profondo ed esalò lentamente. «Ti ho già detto che il quartiere Uchiha è pericoloso... Adesso sono arrabbiato.»
«Ma è per questo che ci stiamo allenando!» insorse Minato, nell’identico modo in cui lo avrebbe fatto Naruto trent’anni prima. «Così anche le cose pericolose diventeranno cose sicure!»
«Cretino!» sibilò Chomi, rifilandogli una gomitata tra le costole per farlo tacere.
Ovviamente l’educazione di Naruto aveva poco a che vedere con la sua, constatò Sasuke: se uno dei suoi figli avesse risposto in quel modo a un altro genitore... no, non riusciva neanche a immaginare cosa sarebbe potuto succedere. Ma Minato non era suo figlio, poteva farci poco.
«Non adesso. Quando sarete più grandi e frequenterete l’Accademia...» tentò di dire.
Minato non lo lasciò finire: «Io mi sto allenando già adesso!» esclamò pomposamente.
«Chiudi la bocca!» sussurrò anche Itachi, con una gomitata dall’altro lato.
«Allenando?» suo malgrado Sasuke esitò.
Sakura non faceva che ripetergli che Itachi era troppo piccolo per allenarsi seriamente, ma se lo faceva Minato allora anche lui era legittimato a imitarlo, giusto?
«Certo! Guarda!»
In uno slancio d’orgoglio Minato unì le manine per raccogliere il chakra. Itachi e Chomi si lanciarono uno sguardo spaventato, ma non riuscirono a muoversi per fermarlo.
Sasuke vide l’impostazione di Minato e la trovò buona, per questo si incuriosì... Poi però notò qualcosa che non andava.
Di colpo attivò lo sharingan.
Vide Minato impastare il chakra, vide il chakra sfumare tra le sue mani come una nuvola. Vide il sussulto delle sue braccia, intuì il sobbalzo del suo piccolo cuore, e infine il collasso.
Intervenne appena prima che fosse troppo tardi, spostandosi in un lampo accanto a Minato e separando le sue mani giunte.
Minato lo guardò stupito.
Poi rovesciò gli occhi all’indietro e perse i sensi.
«Micchan!» strillò Chomi. «Oh no, no! E’ successo ancora!»
«Papà!» esclamò Itachi spaventato.
«Non è la prima volta? Quando è successo prima?» Sasuke cercò il polso di Minato, sentì se respirava.
«Un po’ di tempo fa» disse Chomi. «Stavamo giocando, e poi è caduto a terra... Ma era solo un gioco! Era solo un gioco!»
«Stava provando a raccogliere il chakra» intervenne Itachi.
Sasuke sollevò il mento di Minato per liberare le vie aeree. Respirava, ma a malapena. Le sue labbra erano diventate viola.
«Itachi, corri a chiamare Naruto. Chomi, corri all’Ufficio dell’Hokage e trova Sakura!»
«Dove lo porti?» chiese Itachi.
«Fateli venire in ospedale!» ordinò Sasuke brusco.
Poi sollevò il corpo esanime di Minato, e in un balzo fu sui tetti. I bambini partirono in direzione della strada più veloci che potevano.
Mentre correva Sasuke ne era sicuro: se si fosse trattato di uno dei suoi figli non sarebbe potuto andare più veloce.
Minato, tra le sue braccia, era innaturalmente flaccido e pesante. A un tratto prese a tremare convulsamente, senza riprendere conoscenza. Sasuke si fermò, incerto sul da farsi, ma la crisi smise subito. Allora ripartì.
Nonostante tutti quegli anni accanto a Sakura, non aveva idea di cosa fare. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era alla faccia di Naruto quando Minato era nato, cinque anni prima; al sollievo con cui aveva raccontato come il parto era avvenuto miracolosamente.
Vide l’ospedale in lontananza, grande e bianco contro la rupe degli Hokage. Allungò il passo.

Sakura dovette tradurre i singhiozzi di Chomi prima di capire che era successo qualcosa a Minato. Purtroppo quando la figlia di Choji era agitata mangiava, e quando mangiava era difficile decifrare le parole; tanto più se intanto piangeva come una fontana. In qualche modo alla fine capì che doveva volare in ospedale, e lasciando la bambina nelle mani di Koichi se ne andò velocissima.
Raggiunse Sasuke quando Minato era già tra le mani di un medico del pronto soccorso, che lo aveva steso su un lettino e stava percorrendo il suo petto con la mano avvolta dal chakra. A Sakura bastò un’occhiata per capire che il ragazzo era inesperto, così lo fece spostare mentre chiedeva a Sasuke cosa fosse successo.
«Mentre raccoglieva il chakra?» chiese conferma al termine del racconto, recidendo con il chakra i vestiti di Minato e scoprendogli il petto.
«Aveva appena iniziato. L’ho fermato subito.»
Sakura avvicinò il palmo della mano al torace di Minato, senza toccarlo. Un sottile strato di chakra si dispose tra lei e lui, come gelatina; poi alcuni lembi si staccarono, strisciarono assottigliandosi fino alla nuca, al petto, all’addome. Una volta in posizione aderirono alla pelle come ventose, e da lì Sakura chiuse gli occhi. Sasuke tacque.
Trascorsero pochi secondi, forse mezzo minuto. Le mani di Minato sussultarono.
«E’ sempre rimasto svenuto?» mormorò Sakura, corrucciata.
«Sì. Ma ha avuto una specie di attacco mentre venivo qui.»
«Che tipo di attacco?»
«Sembravano convulsioni.»
Altre due lingue di chakra partirono dai lembi che si congiungevano alla nuca, e si posarono delicatamente sulle tempie di Minato. Sakura posò l’altra mano sulla fronte del bambino e attese.
Minato sospirò. Sul suo collo le arterie pulsarono debolmente, le guance smisero di essere così pallide. Le labbra si schiarirono leggermente.
Il chakra che lo aveva perlustrato si ritirò lentamente, tornando alla mano di Sakura. Lei la tolse con cautela, come un chirurgo che richiude una ferita, e riaprì gli occhi. Non smise di essere corrucciata.
«Sakura?» chiese solo Sasuke.
Lei scosse la testa, gli fece segno di tacere. La mano sulla fronte di Minato era ancora lì.
«Sakura!»
La porta dello studio si spalancò con tanta violenza che quasi uscì dai cardini. Naruto si catapultò nella stanza, con un’infermiera agitata al seguito, e non appena vide Minato fece per avvicinarsi, ma Sasuke lo bloccò.
«Adesso sta meglio» disse subito Sakura, congedando l’infermiera che si scusava per aver lasciato passare Naruto. Tolse la mano dalla fronte del bambino.
«Minato!» esclamò Naruto, scansando Sasuke e correndo con le mani al viso addormentato del figlio. «Micchan... Ehi...»
Lui gemette, con un brivido. Cercò di alzare una mano, ma ricadde.
«Cos’ha, Sakura?» domandò Naruto con voce angosciata.
«Non lo so» rispose lei sottovoce. «Cioè, ho visto dove è il problema, ma non capisco perché. Devo fare qualche ricerca prima di risponderti...»
«Vuol dire che è grave?» Naruto sollevò su Sakura uno sguardo implorante.
Lei non lo aveva mai visto così, e le si strinse lo stomaco. «Preferisco non sbilanciarmi adesso. Prima voglio fare delle ricerche. Intanto voglio fargli fare alcuni esami, e... Naruto, sarebbe meglio che restasse in ospedale per un po’.»
Naruto deglutì, accarezzando la testa di Minato. Con l’altra mano gli coprì la pancia, usando i lembi della maglietta che Sakura aveva tagliato.
Aveva le orecchie invase dal rumore del suo sangue che scorreva forsennato, le mani sudate e gelide. Quando Itachi era comparso alla sua porta il mondo gli era caduto addosso. Aveva perso le sue copie, aveva perso il contatto con Kyuubi, aveva perso tutto di colpo. Non si sentiva così dal giorno in cui Sakura gli aveva confessato di amare Sasuke. Anzi, si sentiva anche peggio di allora... Perché Minato era Micchan, era il suo bambino, e il suo bambino non poteva stare male, non di nuovo, aveva fatto di tutto perché stesse bene...
Tentò di deglutire, ma non ci riuscì. Sentì confusamente Sakura che gli diceva che dovevano portare Minato altrove, e allora lo prese in braccio. Era così pesante, così freddo. Doveva avvisare anche Hinata... Come glielo avrebbe detto? Chi glielo avrebbe detto? Dopo, ci avrebbe pensato dopo...
«Sakura, dimmi a cosa pensi. Ti prego» insisté, e non riconobbe la sua voce. «Morirà?»
«Non lo so, non credo... Spero di no» farfugliò Sakura, cercando di non sbilanciarsi. «Ti ho detto che per adesso non posso dire niente» deglutì. «Però, probabilmente non potrà mai essere uno shinobi.»
Naruto annuì meccanicamente. Cosa gli interessava avere un figlio shinobi se poteva avere un figlio vivo? Purché stesse bene, purché stesse bene, purché...
Sasuke vide Naruto uscire dallo studio con lo sguardo perso nel vuoto. Solo allora si accorse di aver tenuto la mandibola serrata per tutto il tempo, e la rilassò. Sentì la schiena fredda. Pensò ai suoi figli, a casa, alle battaglie del prossimo futuro.
Erano stati preparati per la guerra, per la morte dei maestri e degli amici; erano stati preparati alle ferite e alla malattia. Erano stati addestrati a resistere a tutto... Ma nessuno li aveva addestrati all’idea di perdere un figlio.
Sasuke si passò una mano sulla fronte, la fece scivolare lungo la guancia e si fermò a coprire la bocca. Naruto era sconvolto, Sakura era sconvolta, persino lui era turbato. E Shikamaru era a Suna.
Tralasciando Kakashi, che era in coma, Konoha si ritrovava senza Hokage.
E adesso?





L’ultimo giorno sereno era appena finito.









* * *

Buongiorno a tutti!
Sono tornata indietro nel tempo,
a un'epoca in cui internet non esisteva.
Di nuovo.
Trasferirsi crea sempre danni secondari imprevisti.

Quindi perdonate la lunga assenza,
ma vivere di connessione dal cellulare è una faccenda assai grama!

Nel frattempo ho scoperto l'esistenza di
BORUTO,
la seconda serie di Naruto,
e sento l'esigenza di chiarire subito:

praticamente hanno plagiato tre quarti dei miei piani futuri
(nel senso che ci sono molte cose nel manga che saranno presenti anche in questa storia.
Non la trama, sulla quale non mi esprimo,
ma alcuni dettagli di una certa rilevanza).

Quando troverete invenzioni della storia inquietantemente simili a quelli della serie,
SAPPIATE CHE IO LE AVEVO PENSATE PRIMA,
stramaledizione!
Sono super indignata.
E scema.
Se avessi portato a termine la storia otto anni fa
avrei potuto citarli per plagio e diventare ricca.
Piango.

Ciò detto, mi sono presa benissimo anche con
Fantastic Beast and where to find them,
quindi sto scrivendo pure di loro.
(Strano ma vero.)
Spero di riuscire a pubblicare qualcosa entro breve!

Grazie a voi che continuate a leggere,
spero di pubblicare presto!

Susanna



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Capitolo 42
*** Non c'è due senza tre ***


Penne 42
Capitolo quarantaduesimo

Non c’è due senza tre




I tanto decantati geni dei Nara avevano dei limiti, dunque.
Chiharu dovette constatarlo con amarezza quando fu costretta a rileggere per la quarta volta un minuscolo paragrafo sugli scambi ormonali, di cui non stava capendo assolutamente niente.
Il salotto era invaso dalla cultura in tutte le sue forme – libri, modellini, schemi e appunti, tutti etichettati dalla biblioteca dell’ospedale e segnati sul registro dei prestiti. Chiharu era seduta sul tappeto con un dizionario medico sulle ginocchia e tre libri ammonticchiati sul tavolo, circondata da fogli scribacchiati nei margini e appallottolati con negligenza.
Stava per dare forfeit.
Per quanto uno fosse un genio e avesse una schiera di geni tra gli antenati, evidentemente le basi erano sempre le basi: senza un maestro che le spiegasse come funzionavano le cose, era praticamente impossibile capire il corpo umano soltanto dai libri. Finalmente aveva anche capito perché i medici studiavano tutti quegli anni. Arrivata in fondo al paragrafo per l’ultima volta decise di chiudere il libro e appoggiarci la testa.
Stava studiando da tutto il giorno, cosa che non aveva mai fatto prima, e la schiena da un po’ di tempo si lamentava per la carenza di esercizio fisico. D’altronde in quel momento il suo cuore minacciava di lasciarla a piedi se provava ad allenarsi per più di mezzora filata, quindi o così o niente. Tanto più che, le poche volte che aveva provato ad allenarsi, Fay l’aveva controllata per tutto il tempo, e lei non aveva nessuna voglia di mostrarle quanto fosse debole.
«Ehi, ho un problema con le ghiandole surrenali...» disse senza alzare la testa, rivolta alla donna che fumava dall’esterno, appoggiata contro lo stipite della finestra aperta. «Mi dai una mano, tu che sei medico? E smettila di far entrare il fumo.»
Fay le scoccò un’occhiata irritata. Aveva convissuto con Chiharu abbastanza a lungo per iniziare a sospettare che sapesse della sua copertura. Non aveva elementi per dirlo, ma la sensazione era fortissima... Le piaceva sempre meno.
«Tu non sei una studentessa di medicina» disse stizzita, espirando volutamente all’interno della casa. «Non dovresti neanche avere quei libri.»
Chiharu si alzò da terra e la raggiunse. «Il fumo», borbottò richiudendo la finestra.
Fay dovette spegnere la sigaretta e rientrare. Che nervi quella ragazzina, dei santissimi! Con espressione scocciata la donna si lasciò cadere sul divano, fissandola.
«Che c’è?» sbottò Chiharu.
«Non pensare di essere l’unica persona intelligente in tutta Konoha. E’ stato il tuo errore finora, e lo sarà anche in futuro.»
Chiharu lo aveva già sentito dire da persone che stimava più di lei, non le faceva più effetto. E comunque non pensava di essere l’unica persona intelligente in tutta Konoha, però sapeva che di sicuro non era inferiore a Fay.
Certo, la sua opinione avrebbe fatto meno male se una certa parte di lei, a causa delle recenti conversazioni con Baka e Jiraya, non fosse stata d’accordo. Tanto più che le visite dei giorni precedenti le avevano fatto capire che saggia proprio non era...

«Sei tornata a casa.»
Hitoshi. Chiharu se lo ritrovò sulla porta a tradimento. Non pensava che sarebbe venuto così presto, lo faceva più orgoglioso.
«Ciao...»
«Ciao. Mi fai entrare?»
«Veramente ho ospiti.»
Hitoshi sbirciò oltre la sua spalla e vide Fay che lo guardava dal divano, sdraiata a leggere un libro.
«Perché la conosci?» chiese stupito, avendola vista altre volte insieme a Sasuke.
Fay subodorò il rischio di essere smascherata e balzò accanto a Chiharu in un istante. «Guarda un po’, il rampollo Uchiha» disse con un sorriso. «E’ il tuo fidanzato?»
Sia Hitoshi sia Chiharu fecero una smorfia, anche se di natura profondamente diversa.
«Dicevo, un’ospite molto sgradevole» disse Chiharu tra i denti. «Facciamo che torni un’altra volta?»
Hitoshi si guardò intorno a disagio. Adesso basta. Fare lo zerbino per un po’ andava anche bene, ma così era troppo... Aveva fatto una fatica dell’accidente a trovare il coraggio di bussare a quella porta!
«Allora non è il tuo fidanzato?» insisté Fay, che di psicologia adolescenziale un po’ ne sapeva, in fondo. «Peccato, lui è più carino di quello che è venuto ieri.»
Chiharu levò gli occhi al cielo quando vide il lampo d’ira nello sguardo di Hitoshi.
«Sì, è meglio se torno un’altra volta» disse il ragazzo con rabbia.
«Ciao» sospirò Chiharu.
E, dopo la partenza di Hitoshi, scrutò Fay con aria indagatrice. «Lo hai fatto filare proprio in fretta...» mormorò.
«Non era mia intenzione. Ho sbagliato?» rispose lei vaga, tornando al divano. Evitava il suo sguardo.
«In realtà no» ammise Chiharu.
Ma capì che Hitoshi forse conosceva la vera identità di Fay, e questo le confermò che aveva a che fare con le forze dell’ordine di Konoha.

Che poi, era vero che il giorno prima era venuto qualcun altro, ma Hitoshi non aveva chiesto chi.
Si trattava di Kotaro.

«Mi hanno dimesso, finalmente! Come stai?»
Neanche il tempo di finire con i saluti, che già aveva tirato fuori la domanda sbagliata.
«Congratulazioni per le dimissioni. Ora prova a chiedere qualcosa di diverso» suggerì Chiharu.
«Oh. Ehm... Ti hanno dato il permesso di tornare al lavoro?»
Chiharu roteò gli occhi.
«Scusa, scusa, scusa! Aspetta, ci riprovo... Chi è lei?» domandò Kotaro additando Fay. Lei, appoggiata al muro con aria da bodyguard, gli rivolse un cenno di saluto. Kotaro arrossì.
«Il mio medico di fiducia» disse Chiharu, scambiando con Fay un sorriso falso. «Anzi, è proprio qui per visitarmi.»
«Quindi non posso entrare?»
«Sono un po’ impegnata...»
«Ma...»
Chiharu si rendeva conto di essere orribile. Una buona compagna avrebbe invitato Kotaro a prendere un tè, gli avrebbe chiesto come stava, avrebbe parlato dei suoi problemi e avrebbe tirato fuori un bel pomeriggio tranquillo.
Ma una buona compagna non era una kunoichi agli arresti domiciliari, quindi almeno era coerente con sé stessa.
E, soprattutto, non aveva la forza di guardare in faccia Kotaro e sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene, che le cose si sarebbero sistemate, che era pieno di energie e avrebbero trovato il modo di far funzionare la baracca. Lo avrebbe preso a cazzotti, ci giurava.
«Scusa. Facciamo un’altro giorno, ok?»
Quindi aveva chiuso la porta.

Insomma, c’erano due persone che si preoccupavano di lei – e due non era metaforico, era proprio il numero totale – e lei le cacciava via a calci. Sapeva bene che non era una mossa saggia né intelligente. Nessuno le avrebbe detto brava, così si fa!, nemmeno lei se lo diceva. D’altronde, facendoli entrare avrebbe dovuto spiegare loro perché non usciva più in missione, e avrebbe dovuto ripensare a Naruto e alle loro faccende in sospeso, ai suoi problemi, a Yoshi... Non aveva voglia. Prima o poi sarebbe stato inevitabile, ma per il momento poteva ancora posticipare.
Questo la rendeva una persona poco lungimirante e sicuramente non saggia, ma rispondeva benissimo al suo bisogno di proteggersi.
Proprio in quel momento bussarono alla porta di casa. Di nuovo.
Baka?, si chiese Chiharu. Suo malgrado avvertì un minuscolo sussulto interno. O Naruto? Le si contrasse lo stomaco.
Ma non era nessuno dei due.
Era Sai.
«Ok. Questo è inaspettato» commentò Chiharu vedendolo. Sentì le sopracciglia che si corrucciavano automaticamente.
«Ciao Chiharu. Anche io sono felice di vederti. Tutto bene, grazie, sono ancora vivo» ribatté lui sorridendo.
Ora che lei ci pensava, l’ultima volta che lo aveva incrociato erano successe cose oltremodo imbarazzanti. Sentì il sangue risalire alle guance velocissimo.
«Cosa fai qui?» chiese, balbettando leggermente.
«Ho sentito un po’ di voci sul tuo conto, sono venuto a vedere come stai.»
Chiharu si gettò un’occhiata alle spalle e vide Fay che li fissava, in piedi dietro il tavolino. Veramente fissava più Sai che lei, ma di certo non sembrava intenzionata ad andarsene.
«Mi offri un tè?» domandò lui, cogliendo la sua esitazione.
«Veramente...»
Sai sorrise sornione. «Con i biscotti. Fay, vuoi unirti a noi?»
Chiharu guardò lui e guardò lei. Vide Fay scrutare Sai, intuì qualche tipo di sottinteso di cui non era a conoscenza, e poi cedette.
Al diavolo. Sai non sono mai riuscita a controllarlo.
«Trova un posto dove sederti...» sospirò, accennando al salotto invaso dalla carta. «Io vado a preparare il tè.»
Mentre era in cucina tentò disperatamente di origliare la conversazione tra Sai e Fay, ma i pochi frammenti che captò erano commenti casuali sul clima, sulla guerra e sul disordine della casa. Sapeva perfettamente che i due stavano confabulando, e una parte di lei temeva che stesse succedendo qualcosa alle sue spalle, ma non riuscì a sentire niente di strano.
Quando tornò in salotto, Sai aveva spostato i libri dal divano e si era seduto in un angolo, con aria perfettamente rilassata. Fay si era ranicchiata su una poltrona in un modo che a Chiharu ricordò un felino sulla difensiva.
«Hai portato anche i biscotti» disse Sai adocchiando il vassoio. «Quelli che ti piacciono.»
Chiharu arrossì di nuovo, ricordando la ridicola merenda a casa di Sai, una vita prima. «Mi pareva che piacessero anche a te.»
«Sono i miei preferiti. Fay, tu puoi mangiarli? Sono pieni di olio di palma, so che ai medici non piace.»
Chiharu vide un guizzo sulla guancia di Fay, che rifiutò i biscotti con un borbottio. Posò il vassoio sul tavolo e ignorò il posto libero accanto a Sai, sedendosi a gambe incrociate sul tappeto.
Dopo i primi momenti di shock, preparando il tè aveva riacquistato l’autocontrollo. L’ultima volta che aveva visto il Jonin erano successe cose imbarazzanti, sì, ma poi lei aveva avuto a che fare con Hitoshi e Akeru in modi molto pragmatici, e ricordarlo le aveva dato coraggio: adesso era una donna.
«Perché stai seduta per terra?» chiese Sai, battendo una pacca sul divano. «Qui c’è posto.»
Chiharu avvampò.
Fanculo.
«Non sei mai venuto in ospedale, perché ti presenti adesso?» divagò, cacciandosi in bocca un biscotto .
«Ero via. Faccio parte delle micro delegazioni che Naruto ha formato per cercare di trattare con i paesi tra noi e la Roccia: vuole provare a fermare la guerra, anche se c’è già stata la dichiarazione ufficiale; noi andiamo a incontrare i capivillaggio offrendo trattati di non aggressione in cambio della neutralità.»
«Quindi non è detto che si finisca per combattere?»
«Oh no, combatteremo di sicuro. La Roccia ci prova da vent’anni: ora che ha trovato un pretesto farà di tutto per invaderci...» Era inquietante sentirlo parlare di quelle cose con tono tanto lieve. «Magari non combatteremo subito, ecco.»
«Improbabile» mormorò Fay dalla sua tazza di tè.
Sai le rivolse un sorriso educato. «In effetti è improbabile. Tutti i clan nobili della Foglia si stanno attrezzando per prepararsi al peggio. Ho sentito che gli Hyuuga stanno organizzando il matrimonio di Neji per non rischiare di interrompere la dinastia.»
Questa volta Chiharu vide distintamente il volto di Fay che si oscurava, appena prima che lo nascondesse nel tè. Le sembrò che la tazza sussultasse leggermente, ma non ne fu sicura.
«Se il capoclan morisse senza eredi dovrebbero rivolgersi ad Hanabi, cosa che non piace a nessuno» proseguì Sai fingendo di non essersi accorto di nulla. «In quel caso probabilmente busserebbero alla porta di Naruto per reclamare i figli di Hinata, ma sappiamo tutti come andrebbe a finire.»
Chiharu ridacchiò, anche se non ne aveva l’intenzione – era ancora arrabbiata con Naruto: non aveva più avuto sue notizie dopo la visita in cui era sparito tanto in fretta.
«Sono affari del clan Hyuuga» disse però Fay, in tono più brusco di quanto volesse. «Immagino che anche gli altri clan stiano facendo gli stessi ragionamenti.»
«I Nara no, posso garantire» disse Chiharu alzando una mano.
«Aspetta che tua madre torni da Suna, potrebbe avere un’opinione diversa» suggerì Sai allegramente.
«Prima che mia madre scelga di diventare nonna entro i quarant’anni il deserto del Paese del Vento diventerà un lago con carpe, sirene e fate.»
Sai rise, e Chiharu sorrise di riflesso.
Mai avrebbe pensato che una visita di Sai sarebbe stata divertente; invece sentirlo punzecchiare Fay la metteva di buonumore. Non sapeva cosa c’entrasse la donna con il clan Hyuuga, ma sicuramente si stava irritando.
«Esco a fumare» annunciò infatti, mollando il tè sul tavolo e alzandosi di scatto.
Chiharu scrollò le spalle, inzuppò un biscotto e lo masticò con soddisfazione. Attese che Fay fosse uscita, e allora prese il suo posto sulla poltrona, accoccolandosi con il tè tra le ginocchia ripiegate.
«Cosa c’entra con il clan Hyuuga?» chiese in un sussurro rapido.
«Non ti riguarda» sussurrò Sai in risposta. «Sono sicuro che riuscirai a gestirla anche senza il mio aiuto.»
Chiharu arricciò le labbra, delusa.
«Tu invece cos’hai combinato?» lui smise di sorridere. «Ti ho lasciata che dovevi solo recuperare la segretaria del Kazekage, e ti ri trovo in un mare di guai.»
Chiharu si fece indietro leggermente, spostando lo sguardo sui suoi piedi. «Sono stata sfortunata» borbottò.
«Chi si mette contro Naruto non è sfortunato, è pazzo.»
«Non mi sono messa contro Naruto, è lui che ha fatto le cose di fretta.»
«Cioè ha fatto le cose da Naruto. E il tuo cuore? E cosa ci fa qui Fay?»
«E’ il mio medico» sibilò Chiharu, inarcando le sopracciglia fin quasi all’attaccatura dei capelli. «Non chiedermi altro, se no finisco in carcere.»
Sai ridacchiò, controllando che la schiena di Fay fosse fuori dalla finestra chiusa. Stranamente non stava vigilando con la solita attenzione: sembrava quasi che fosse uscita per stare davvero da sola,forse perché si fidava di Sai.
«Comunque, tieniti stretto Naruto» suggerì il Jonin smettendo di sorridere. «Qualunque cosa accada, se lui è tuo amico ne verrai fuori.»
E in questo momento, anche se tu non sei stata informata, non può permettersi di avere un problema in più, aggiunse dentro di sé. Metti la testa a posto, sciocca.
Chiharu annuì lentamente. Lo sapeva, in fondo; a Konoha tutti sapevano che il migliore amico in ciroclazione era Naruto, nonostante spesso fosse irascibile e insopportabile... Ma era così difficile mettere da parte l’orgoglio e chiedere aiuto: avrebbe voluto che lui la vedesse sempre splendida e senza debolezze, invece ogni volta faceva più schifo della precedente.
Sai la scrutò per qualche secondo, poi incurvò un angolo della bocca. «Cos’è successo a Suna?»
Chiharu ebbe un secondo di vuoto mentale. Poi, di colpo ricordò Hitoshi e Baka e sentì le orecchie in fiamme.
Come diavolo fa a saperlo?
«Se te lo stai chiedendo, ho tirato a indovinare» sottolineò lui, appoggiando un gomito allo schienale del divano con aria interessata. «Non sapevo niente finché non me lo hai detto tu adessoma mi pareva che ci fosse qualcosa di diverso... Hitoshi Uchiha?»
«Non ho idea di cosa tu stia parlando» farfugliò lei.
«Aspetta. A Suna è venuto anche Baka Akeru...»
«Non ti ascolto!»
«O Kotaro Lee?»
«Smettila!»
«Davvero? Kotaro?»
Chiharu sbattè la tazza sul tavolino. Non era mai stata più in crisi di quel momento.
Sai la studiò attentamente. Il suo sorriso si allargò. «Tutti e tre?»
«Vuoi davvero che mi venga un infarto qui e ora?» sibilò lei.
«No. Ero solo curioso. E’ sempre divertente quando i ragazzini sono alle prime cotte.»
«Non lo è altrettanto quando i vecchi si intromettono!»
«Adesso sono vecchio?»
«Cosa mi sono persa?»
Chiharu si voltò di scatto, scoprendo che Fay era rientrata senza che lei se ne accorgesse. Esausta, si lasciò andare contro lo schienale della poltrona.
«Degli ottimi biscotti» disse Sai, pronto. «Sicura di non volerne?»
Fay passò lo sguardo da lui a Chiharu, e si chiese se avesse commesso una leggerezza a lasciarli soli.
«Andiamo, non fare quella faccia» rise lui. «L’ho solo presa in giro. Se vuoi prenderle i parametri, da bravo medico, scoprirai che è in perfetta salute.»
Francamente ne dubito, pensò Chiharu, passandosi una mano sulla fronte. Sentiva un inizio di emicrania. Ma Fay non fece altri commenti, e invece chiese a Sai se non aveva di meglio da fare, possibilmente altrove.

Eppure non riuscì a smettere di pensare alla sua visita.
Da tempo Fay sapeva che il clan Hyuuga faceva pressioni a Neji perché prendesse moglie e producesse un degno erede. Quando era scoppiata la guerra aveva immaginato che il consiglio interno del clan avrebbe chiesto un matrimonio con maggiore insistenza, ma poi c’era stata la faccenda di Chiharu e lei non era più riuscita a vederlo. Da quando era stata incastrata in quell’orribile missione non aveva più saputo niente di Neji: nessuna notizia, nessun messaggio. Come poteva essere sicura che lui avrebbe resistito alle pressioni? Forse aveva già ceduto. Dopotutto non le aveva mai detto di amarla, né le aveva fatto promesse... In fondo sapevano entrambi che la loro relazione era destinata a finire male.
Però era difficile lasciar perdere così.
Non voleva rinunciare ai loro anni insieme senza vederlo, senza parlargli... Voleva provarci, almeno. Forse, se fosse stata abbastanza convincente, le necessità del clan sarebbero passate in secondo piano. Forse avrebbe potuto convincerlo che il matrimonio non era inevitabile, e sarebbero rimasti così come erano finché il clan non avesse scelto Hanabi per la successione... Forse, in qualche modo, lo avrebbe convinto a rinunciare ai suoi eredi. Era improbabile, ma non poteva abbandonare senza un tentativo.
Aveva provato a prendere sonno per ore, invano. Girandosi e rigirandosi nel letto si era figurata infinite conversazioni mentali con Neji, ma non era riuscita a calmarsi. Alla fine, nel cuore della notte, si alzò. Si tormentò nella stanza degli ospiti dei Nara per quasi un’ora, camminando avanti e indietro, avanti e indietro...
Chiharu, dalla sua camera, si svegliò e rimase con l’orecchio teso.
La sentì aprire i cassetti, richiuderli. La sentì frugare tra le sue cose. Poi sentì la finestra della camera che si apriva, lentissima, quasi senza fare rumore. Trattenendo il respiro per captare i fruscii più lievi, sentì Fay che scavalcava, anche se cercò di essere silenziosa.
E poi la sua guardia fu fuori.
Chiharu gettò indietro le lenzuola, onestamente sbalordita.
«Ma non mi dire!» mormorò, tirandosi a sedere. Di colpo era sveglia.
La brava Fay, il cane da guardia inossidabile, aveva appena abbandonato la postazione. Che diavolo le aveva sussurrato Sai quel giorno? Quali tasti aveva toccato per farla partire così?
Avrei dovuto insistere per farmi svelare i suoi punti deboli!, disse a sé stessa, tutto sommato ammirata.
Poi si alzò, senza accendere la luce. Non aveva cattive intenzioni – anche perché, dove sarebbe potuta andare? - ma avere la casa di nuovo libera era una sensazione troppo bella.
Canticchiando, raggiunse la cucina a tentoni. Aprì il frigorifero, tirò fuori un frutto e un vasetto di yogurt. Poteva fare uno spuntino notturno in mutande, finalmente! Senza avere l’ossessione di doversi vestire perché quella là sarebbe sicuramente spuntata a controllarla.
Sempre senza accendere le luci passò al salotto. Spalancò le finestre, lasciò che il profumo di giugno la avvolgesse. Il divano era rimasto libero dopo la visita di Sai, e lei ci si tuffò allungando le gambe nude come non avrebbe mai osato fare con Temari in casa. Si stiracchiò, si grattò la pancia. Fece finire una gamba sopra lo schienale, soltanto perché poteva farlo, e addentò la mela che aveva preso dal frigorifero. La libertà doveva avere quel sapore...
A metà del terzo morso qualcuno scavalcò la finestra più vicina.
Chiharu rotolò giù dal divano, si strozzò con il boccone di mela e prese a tossire convulsamente.
Non aveva armi a portata di mano, ma aveva un vasetto di yogurt. Lo afferrò, pronta a gettarlo sugli occhi dell’intruso, quando una mano si serrò attorno al suo polso e glielo sfilò.
«Prima respira, per favore» sussurrò una voce.
«Ma che cazzo di modo di entrare è?» alitò lei, riprendendosi con una certa fatica.
Baka Akeru rimise lo yogurt sul tavolo e si fece indietro, tendendo una mano per aiutarla ad alzarsi. Lei la ignorò, tirandosi in piedi da sola.
«Cosa ci fai qui?» chiese tra i denti, mentre il suo cuore faticava a rallentare dopo lo spavento.
«Ho colto l’occasione» rispose lui. «E non mi è mica andata male» aggiunse dopo un attimo, abbassando lo sguardo dagli occhi alle gambe nude. La luce della mezzaluna fuori dalla finestra era più che sufficiente per lasciar vedere a uno shinobi quanto bastava.
«Guarda in alto!» sbottò lei.
«Non è la prima volta che ti trovo senza pantaloni» Akeru si lasciò sfuggire un micro sorriso, ma Chiharu lo avrebbe visto anche nel buio più completo.
«La tua ombra è sulla mia, non tentarmi» ringhiò, arrossendo comunque. «Perché sei qui?»
«Sto cercando di parlarti da alcuni giorni, ma oggi è la prima volta che il tuo cane da guardia lascia il terreno...»
«E gli altri Anbu?» Chiharu guardò ansiosamente fuori dalla finestra.
«I due che fanno la guardia stanotte sono miei amici. Gli ho salvato il collo un paio di volte, si sono girati dall’altra parte senza fare storie.»
«Ti fidi di loro?»
«Considerato che Sakura non mi ha ancora dato il permesso di vederti e loro mi hanno lasciato passare senza dire beh, direi di sì...»


«E se fossero entrambi traditori?» chiese l’Anbu senza cappuccio, seduto su un cornicione con il compagno. Stavano nel cono d’ombra di una mansarda di nuova costruzione, le gambe a penzoloni, e si godevano l’aria quasi estiva.
«Non dire stupidaggini» rispose l’altro, dandogli di gomito. «Stiamo parlando di Stupido! Quante volte ti ha ricucito?»
«Sì, lo so... Ma lei è praticamente la prima in cima alla lista dell’anti-terrorismo. E hai visto come la guarda lui.»
«E’ piacevole da guardare, la ragazza» commentò l’Anbu con cappuccio, con una risatina divertita dietro la maschera.
«Sì, ma se ci avessero fregato entrambi? Se Baka adesso la stesse aiutando a scappare?»
«Dai, smettila... Se non siamo più sicuri neanche della nostra squadra dove andremo a finire?»
«Sì, ma se fosse così?»
L’Anbu con il cappuccio rimase in silenzio per un istante.
«Vuoi andare a controllare?»


«Mi hai fatto prendere un infarto!» Chiharu si passò le mani sul viso, costringendosi a calmarsi.
«Scusa. Non pensavo che stessi facendo lo spuntino di mezzanotte in mutande.»
«Puoi smettere di sottolineare cosa indosso?»
«E’ difficile...»
«Senti, dimmi cosa vuoi in fretta o lascia che vada a vestirmi.»
Akeru sbuffò. «Yoshi vuole parlare con te.»
Chiharu sentì freddo all’improvviso. Dieci punti per la sintesi esauriente, ma pessimo argomento.
«Io non ho niente da dirgli» mormorò scrollando le spalle. «Non c’entro con quello che ha fatto, sai che...»
«Sì, lo so. Non c’è bisogno che ti giustifichi con me. Non sono qui per accusarti, sono qui per chiederti aiuto.»
Chiharu strinse le braccia al petto, rimpiangendo di aver aperto la finestra. «Sai che non posso parlare con lui. Sakura la prenderebbe come una confessione e mi metterebbe nella cella accanto alla sua.»
«Certo che lo so... Infatti ti sto proponendo di farlo di nascosto.»
Chiharu gli lanciò un’occhiata di fuoco.
«Sto cercando di guadagnare la fiducia degli Hokage, non mi metterò a infilarmi di soppiatto nelle celle dei prigionieri. Non se ne parla!»
«Lo so! Lascia che ti spieghi, almeno.»
Akeru sbuffò. Anche lui rischiava molto a stare lì: se Sakura lo avesse scoperto lo avrebbe infilato nella cella in cui temeva di finire Chiharu.
«Non riusciamo a farlo parlare» spiegò. «Morino ci ha provato in tutti i modi, tutti, credimi, ma non scuce una parola.»
«Perché con me dovrebbe farlo?» chiese subito Chiharu, sulla difensiva.
«Perché me lo ha chiesto. Morino ci ha lasciati soli, e già una volta lui aveva fatto il tuo nome, così gli ho chiesto spiegazioni. Ha detto che parlerà, ma solo con te. Ha detto che quando ti avrà parlato sarà tutto chiaro.»
«Tutto cosa?»
«Che ne so!» Akeru sospirò. «Io non so più cosa fare, Haru. Morino lo ammazzerà davvero: quando c’è in programma il suo interrogatorio mi viene la nausea... Tu non hai idea...» si interruppe, spostando lo sguardo altrove.
Chiharu sapeva che in parte era colpa sua se Akeru era finito nelle celle degli interrogatori con Morino, sapeva che se non avesse fatto cazzate a Suna probabilmente si sarebbe potuto rifiutare. Sentì una fitta di senso di colpa, e pensando a Yoshi una di paura.
«Lo so che mi avevi detto che ucciderlo sarebbe stata la soluzione...» riprese Akeru.
«No» Chiharu scosse la testa. «Non sarebbe una soluzione, e di sicuro non dormirei più se sapessi che è morto tra le mani di Morino» Akeru annuì. «Ma non posso venire a parlargli. Non c’è nessun modo. Digli che accetterei volentieri ma non si può. Digli di parlare con te e scagionarmi, poi lo andrò a trovare.»
«Pensi che non glielo abbia già detto? Ha rifiutato.»
«Allora io non posso fare niente! Non metterò a rischio la mia sola speranza di far tornare le cose a posto!» esclamò lei.
«Veramente un modo sicuro ci sarebbe...» disse Akeru in un bisbiglio.


«Vuoi andare a controllare?» domandò l’Anbu incappucciato al compagno.
«Magari...»
«Stupido ha detto di stare alla larga.»
«Solo un minuto.»
«Se sta scopando mi offri una cena. Giuralo.»
«Va bene, va bene...»
I due uomini si alzarono dal cornicione. Attraversarono il tetto, balzarono sulla cima dei palazzi vicini e raggiunsero l’ultimo edificio prima dei terreni dei Nara. Una volta lì l’Anbu con il cappuccio tirò fuori il binocolo e si tolse la maschera, cercando la finestra del salotto nella villa distante.
«Li vedi? Che cosa stanno facendo?» chiese il compagno diffidente.
«Tieni, guarda un po’ tu...»


«Sicuro?» ripeté Chiharu, scettica.
«Ragionevolmente sicuro» si corresse Akeru. «E’ stato Yoshi a suggerirlo, e, anche se non mi entusiasma, forse è l’unica cosa che può funzionare.»
Chiharu si mosse nervosamente sul tappeto. I fogli su cui aveva studiato si appiccicavano alla pianta dei piedi; li scalciò rabbiosamente. Akeru prese il suo silenzio per un incitazione a continuare, e così fece.
«Prenderai le mie sembianze» spiegò. «Ti dirò la parola d’ordine del giorno, tu entrerai con Morino, e poi farò in modo che venga richiamato fuori appena inizia l’interrogatorio. Così resterete da soli e potrai parlargli.»
Chiharu scosse la testa. «No. Se ci scoprono non sono rovinata soltanto io, ma anche tu. E’ troppo pericoloso. L’unico che non avrebbe problemi sarebbe Yoshi, che peggio di così non può finire... E’ un piano che non ha niente di sicuro né di ragionevole.»
«Se ci scoprono. Ma se va tutto bene non lo saprà nessuno...»
«Da quando ti interessa così tanto che il povero Yoshi non si faccia ammazzare da Morino?» sbottò Chiharu esasperata.
Akeru rimase in silenzio, fissandola.
«Se accetterai di seguire il mio piano, vedrai cosa fa Morino agli uomini che interroga. Allora capirai» disse. Chiharu rabbrividì. «Non voglio riabilitare Yoshi, voglio farlo parlare. Tutto quello che mi hanno costretto a fare finora è stato fatto per farlo parlare, non per farlo morire. Se basta farlo incontrare con te, allora sono ben felice di rischiare: non intendo immolarmi per quel cretino traditore; voglio solo continuare a dormire la notte, come dicevi tu.»
Chiharu gemette, passando lo sguardo su tutti gli angoli della stanza.
«Mi dispiace di doverti coinvolgere...» riprese lui.
Ma Chiharu scosse la testa. Era stata lei a coinvolgere Baka, prima di tutto. Stupido non c’entrava niente con quella storia, era finito in mezzo perché lei se lo era portato a letto e lui si era sentito in dovere di garantire per lei. Stupida idiota!
Akeru la guardò, e riconobbe i segni del cedimento – ormai era un esperto di segnali da Chiharu Nara. Fece un respiro profondo, si sforzò di non abbassare lo sguardo sulle sue gambe e aggiunse l’ultima spinta.
«Però ho bisogno di sapere se posso fidarmi.»


«Non capisco tanto bene...» l’Anbu senza cappuccio regolò il fuoco del binocolo, mentre il compagno scuoteva la testa commiserandolo. «Non è che ci sia tanta luce.»
«Mah, insomma» l’Anbu con il cappuccio sbatté le palpebre a causa di un riverbero ai margini della proprietà dei Nara. Una pozzanghera, si disse, e comunque quando guardò meglio non trovò niente. «Lo sai usare quel coso o devo rispedirti all’Accademia?»
«Riprenditelo, se sei tanto bravo!»


Chiharu si irrigidì.
Se poteva fidarsi?
«Scusa?»
«So che ti sto chiedendo tanto, ma questo è importante. Non sarebbe la prima volta che resto fregato a causa tua. Anzi, posso elencare almeno una quindicina di avvenimenti da te prodotti che sono stati fonte di disgrazia per la mia vita. Adesso voglio sapere che non avrai colpi di testa, che non ti lascerai coinvolgere in nulla, che entrerai lì dentro con il mio aspetto e ti comporterai esattamente come mi comporterei io, per il mio bene.»
Chiharu provò l’impulso di ricoprirlo di insulti perché veniva a supplicare il suo aiuto accusandola di aver incasinato le cose. Se era così incapace, poteva anche fare a meno di lei!
«Non fare quella faccia, sai che ho ragione» Akeru le puntò un dito contro prima che agisse.
Chiharu ingoiò tutti i titoli che erano affiorati alle sue labbra. In effetti aveva ragione.
Ad essere proprio pignoli, lei doveva ad Akeru la propria libertà - anche se temporanea -, la vita - anche se con una salute traballante – e almeno una lezione sull’idiozia di cui avrebbe fatto tesoro. Tirarsi indietro adesso sarebbe stato proprio meschino.
«Non ho mai avuto intenzione di crearti problemi» borbottò comunque, perché l’orgoglio è davvero una brutta bestia. «Sono stata sfortuna...» ricordò che aveva detto le stesse cose a Sai, quel pomeriggio, e cosa lui le aveva risposto. «C’è stata una serie di eventi che ha portato a conclusioni inaspettate» si corresse. «E lo sai che mi dispiace per averti coinvolto.»
«Stai dicendo che non posso fidarmi, perché il destino trama contro di te?» cercò di capire Akeru.
No. Era risentita perché lui le dava tutta la colpa di quello che era successo, mentre lei si sentiva responsabile solo in parte.
«Ascolta... non farmi cambiare idea, per favore» gemette Akeru. «Io mi fido di te. Mi sono sempre fidato, e mi fido ancora – anche se il buonsenso mi dice che sono un imbecille. Mi fido davvero. So che fai un mucchio di cazzate, ma niente di davvero irrimediabile: solo tu potevi arrivare così vicina a una condanna per tradimento ed essere ancora salvabile, dai! Sappiamo entrambi che se dobbiamo stare sul filo del rasoio, forse soltanto tu puoi cadere in piedi. Dimmi che non succederà niente.»
Chiharu fu lusingata e un po’ stupita. In quel momento non pensò che dopo tutte le ore di interrogatori che si era dovuto sorbire Akeru probabilmente era diventato bravo a convincere le persone. Non pensò neanche al fatto che già prima aveva provato a far andare bene le cose, ma non ci era mai riuscita. Si sentì solo arrossire e avvertì un piccolo calore dentro il petto. Pensò a quando aveva incasinato tutto per orgoglio, per non restare indietro rispetto agli altri. Giurò che questa volta avrebbe lasciato correre; giurò che avrebbe fatto solo il minimo indispensabile per aiutare Akeru.
Ma dal pensare una cosa al dirla ne passava, soprattutto ultimamente.
Akeru sentì il silenzio che si protraeva e temette di aver fallito. Sbuffò, dandole le spalle, e si passò le mani tra i capelli. Muovendosi, il suo piede scivolò su un foglio che era per terra, e per poco non lo fece cadere.
«Ma che è?» chiese imprecando. «Perché hai tutti questi libri in giro? Sono libri di medicina...»
«Sto cercando di informarmi sul mio cuore, alla fine» si giustificò lei, un po’ imbarazzata. Si sentiva una bambina che impara a scrivere di fronte a uno scrittore affermato.
«E ci capisci qualcosa?» si stupì lui.
«Sì. Più o meno. Insomma, a dire il vero mi sono un po’ impantanata.»
«Tu non ti sei mai interessata di medicina.»
«Ma sono agli arresti domiciliari e mi viene il fiatone quando faccio le scale! Che altro potevo fare?»
Akeru sollevò un libro e lo mise sotto la luce della luna, cercando di leggere la scrittura minuscola.
«Anche se sei un genio, c’è una ragione per cui ci fanno studiare tutti quegli anni... Ora hai capito perché ogni volta che ti vedo partire in quarta mi viene un infarto?» domandò.
«In parte...» ammise lei.
Lui sorrise rimettendo giù il libro. «Stai davvero cercando di mettere la testa a posto... Tu pensa!»
«Te l’ho detto. Sei tu che non ti fidi di me...»
«Io mi fido, ma tu non mi hai detto che faccio bene a farlo.»
«Dovresti sapere che ho qualche problema con le parole... Io non faccio discorsi lunghi un’ora che aprono gli occhi alla gente. Dico due frasi, di solito sarcastiche, e la cosa finisce lì.»
«Discorsi che aprono gli occhi alla gente? Parli di me? Sono stato convincente in ospedale?» il sorriso di Akeru si allargò, in parte sorpreso e in parte compiaciuto.
Chiharu distolse lo sguardo; era stato molto più che convincente: aveva ribaltato la sua prospettiva sul mondo.
«Se... Se per caso avessi del tempo libero, prima o poi, avrei bisogno di aiuto per capire alcuni paragrafi» mugugnò a mezza bocca. «Gli ormoni, hai presente. Le ghiandole surrenali e quella roba complicata.»
Gli ormoni.
Argomento molto infelice, in quel momento.
O adeguato.
L’atmosfera era cambiata all’improvviso.
«Ora come ora non so se avremo mai più del tempo libero» mormorò Akeru fissandola.
«Ho detto se...» bisbigliò lei di rimando, chiedendosi perché diavolo avesse avuto l’idea di parlare proprio di ormoni.
Akeru spostò lo sguardo dai suoi occhi alle sue gambe, poi risalì fino a fermarsi alle labbra. Chiharu fremette.
Quel momento sapeva di déjavu. Déjavu due volte, per la precisione.
Non baciarlo, si disse Chiharu con determinazione.

Akeru socchiuse gli occhi, deglutì.
Il silenzio si dilatò.
Non baciarlo!
Troppo tardi.
Akeru si protese in avanti, la afferrò per i fianchi, lei gli prese il viso tra le mani e lo baciò.
Merda.
Un attimo dopo erano sul divano, e il singolo strato di stoffa su Chiharu volava sopra il dizionario medico, seguito dalla maglietta di Akeru. Il suo marsupio si incastrò dietro un cuscino, i sandali scivolarono sotto la poltrona.
Chiharu dimenticò Fay, Yoshi e tutti i suoi problemi, mentre le mani di Akeru scivolavano lungo il suo collo e poi giù sul suo corpo.
Lui le baciò le labbra, il collo, le spalle. Allora anche Akeru dimenticò tutto, Morino e Sakura e il resto. Dimenticò persino i due Anbu che avrebbero dovuto sorvegliare Chiharu.
Ma loro non dimenticarono lui.


«Li vedi? Che cosa stanno facendo?» chiese l’Anbu senza cappuccio.
«Per vederli li vedo. Almeno, vedo un piede e, credo, un pezzo di schiena» tese il binocolo al compagno, ridendo sotto i baffi. «Mi devi una cena, e ne voglio una buona. Non guardare troppo a lungo, va’».
Alla luce della luna un riflesso traslucido, come un’ombra sull’acqua, guizzò ai margini del terreno dei Nara, dove prima c’era stato il breve riflesso.
I due uomini non se ne accorsero.
Un lievissimo alito di vento portò fino a loro un sentore di zolfo, ma durò soltanto un secondo.









* * *

Buongiorno e buone feste a tutti!
Capitolo allegro ma foriero di tempesta.
Vi informo che dal prossimo aggiornamento si parte con il Casino!

Come state? Spero bene!
Io sono sempre al lavoro e sempre indaffarata,
ma i mocciosi chiamano con insistenza e forse riusciamo ad arrivare in fondo.

Spero che stiate passando delle vacanze piacevoli
(almeno voi che avete delle vacanze),
e spero che sopravviviate ai pranzi e alle cene in corso.
Nel frattempo un saluto a tutti e un abbraccio!

Arrivederci all'anno prossimo!

(PS: prima o poi riuscirò a scannerizzare i disegni dei mocciosi. Giuro.)
(PPS: un giorno riuscirò anche ad abituarmi al nuovo modus operandi di efp,
dove lettori e scrittori non interagiscono più, e ci sono centinaia di letture ma due commenti.
Per adesso è ancora un po' straniante, ma va beh.)




Susanna

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Capitolo 43
*** L'ultima alleanza di Chiharu e Baka ***


Penne 43
Capitolo quarantatreesimo

L’ultima alleanza di Chiharu e Baka




«Non sono riuscito a lasciarlo là.»
Minato era una copia in miniatura di Naruto. Vedere il suo capo appoggiato sul cuscino dove di solito c’era suo marito fece sentire Hinata più smarrita che mai. Stesa al suo fianco, gli occhi fissi sul suo viso, gli accarezzò per l’ennesima volta la fronte tiepida.
«Sakura ha detto che non dobbiamo mai perderlo d’occhio» continuò Naruto. Se succede qualcosa, qualunque cosa, mi ha dato il permesso di dislocarmi in casa sua.»
«Posso tornare in ospedale con lui...» propose Hinata.
«Per cosa? Per restare a guardarlo come stai facendo qui, e farlo svegliare in ospedale, dove detesta andare?»
Hinata annuì. Minato odiava l’ospedale dai tempi delle prime vaccinazioni. D’altronde sapere che non sarebbe stata vicina ai mezzi di emergenza le creava ansia.
«Stai tranquilla. Non chiuderò occhio» le assicurò Naruto, seduto su una sedia accanto al letto. «Fidati di me.»
Erano passati pochi giorni dal malore di Minato. In ospedale il bambino si era svegliato, era stato visitato e aveva eseguito tutti gli accertamenti. Sakura aveva detto che non era ancora sicura di cosa potesse avere, ma aveva accennato a un’anomalia nel sistema del chakra, e alle domande di Naruto aveva risposto solo che era una cosa seria, ma voleva informarsi meglio prima di sbilanciarsi.
Minato era spaventato, ma visto che nessuno riusciva a spiegargli cosa avesse era costantemente nervoso. Così Naruto aveva insistito per riportarlo a casa, dove finalmente lo aveva visto crollare in un sonno profondo.
«Naruto... Tu credi che questo abbia a che fare con i problemi alla sua nascita?» domandò Hinata con un nodo in gola.
«Non lo so, ma non importa. Sakura troverà una soluzione... E se non la troverà lei, ci penserò io.»
Hinata si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Naruto lasciò la sedia e si sdraiò al suo fianco, cingendole le spalle con un braccio.
«Ho paura» la sentì mormorare. «Abbiamo rischiato di perderlo già una volta...»
Lui la strinse un po’ più forte. «Non succederà più. Te lo prometto. Io mantengo sempre le mie promesse.»
Hinata singhiozzò sommessamente, posando la mano sopra quella di Minato.
Lei e Naruto rimasero così, abbracciati, a guardare il piccolo che dormiva.

Dietro la porta socchiusa, appoggiata con le spalle alla parete, Hinagiku sperò che nessuno sentisse il battito del suo cuore.
Era andata a cercare i genitori per la cena, ma si era trovata a origliare più di quanto avrebbe voluto. A lei e ai suoi fratelli avevano detto solo che Minato non stava bene. Nessuno aveva pensato che la cosa potesse essere seria, tutti avevano dato per scontato che si fosse preso un’influenza o che avesse mangiato qualcosa di strano. Erano rimasti un po’ perplessi dal fatto che Hinata avesse trascurato gli altri figli per alcuni giorni, ma era stata presa come una casualità.
Ci sarei potuta arrivare, si rimproverò Hinagiku. Sono quasi una kunoichi, insomma!
Ma in quel periodo aveva pensato solo e soltanto a Jin, al modo in cui l’aveva trattata quando era tornato, e tutto il resto era diventato insignificante... Di colpo rimise piede nella realtà, nel modo più brusco.
Si sentiva una ragazzina idiota, poco più grande di Minato. Non era da lei essere così distratta, né tenere il muso e sospirare guardando il cielo. Che diavolo le stava succedendo?
Senza fare rumore si staccò dalla parete e tornò indietro verso la sala da pranzo, riflettendo sul da farsi. Non voleva essere il tipo di persona che centrava tutta la sua vita sul ragazzo di turno. Voleva essere una kunoichi seria che si preoccupa del fratello e cerca di aiutare la madre, la primogenita affidabile su cui contare. Tuttavia era anche una ragazzina, e per una ragazzina il ragazzino di turno è quasi tutto. Dunque, riteneva di dover chiarire le cose con Jin una volta per tutte, e solo allora, qualunque fosse l’esito del chiarimento, si sarebbe concentrata su Minato. Sembrava un piano sensato, soprattutto se elaborato da una diretta discendente di Naruto Uzumaki.
Invece di entrare in sala da pranzo deviò verso l’ingresso. Si mise le scarpe cercando di non far rumore, ma una domestica vide la luce accesa e andò a chiederle cosa stava facendo.
«Esco. Non disturbare i miei genitori, non è proprio il momento» borbottò lei in risposta. «Torno subito, tenetemi la cena da parte.»
La domestica esitò, ma, come tutto il personale, era stata informata della malattia del signorino Minato. Chinò la testa e le ricordò di fare attenzione.
E così Hinagiku andò, lungo le strade illuminate della città al crepuscolo. Mentre camminava, due Anbu mascherati, uno con il cappuccio e uno senza, prendevano servizio alla sorveglianza di Chiharu Nara; in quello stesso momento Fay si tormentava ripensando a tutte le insinuazioni che Sai aveva lasciato cadere nella visita a casa Nara, e Akeru si chiedeva se prima o poi sarebbe riuscito ad avere campo libero, o se avrebbe dovuto piazzare un’esca per far muovere Fay. Ma Hinagiku, ignara di tutte le trame che le si dipanavano intorno, camminò dritta fino alla casa di Kakashi, e suonò il campanello per incontrare Jin.
Non dovette aspettare molto: la porta si aprì quasi subito, e quando Hinagiku vide la zazzera grigia di Jin la sua risoluzione si indebolì tutt’a un tratto.
«Ciao» la salutò lui, evidentemente sorpreso.
«Ciao... Sono venuta per... Cioè, l’altra volta me ne sono andata così in fretta... Ma disturbo?» balbettò lei.
Jin si voltò a guardare lungo il corridoio. Dal fondo proveniva una luce e il suono sommesso di due voci.
«Senti, non ho bisogno di entrare» disse Hinagiku, avvertendo nell’aria la sensazione che lui l’avrebbe cacciata di nuovo. «Volevo solo scusarmi per l’altro giorno. Sono stata preoccupata per tutto il tempo mentre eri via, e volevo vedere come stavi... Ma mi sono innervosita subito e ti ho trattato male. Scusa.»
Jin la fissò confuso. Non pensava proprio che Hinagiku si fosse comportata male nei suoi confronti, anzi era ragionevolmente sicuro di essere stato lui quello sgradevole. Nel frattempo si rese conto che gli era mancata, e la cosa lo mise in difficoltà anche maggiore.
«Non ti sei comportata male, è che... è un periodo molto complicato...» disse esitante.
Hinagiku rimase in silenzio, in attesa di un seguito. Ma quello non venne.
Jin si guardò di nuovo alle spalle, prese un respiro profondo e strinse la presa sulla maniglia della porta. Doveva farlo.
«Mi dispiace, Hinagiku. Sono successe tante cose mentre ero via, e io sono cambiato... Non credo di riuscire a tornare quello che ero. Mi capisci?» disse lentamente.
Le parole di Jin le piombarono addosso come una doccia fredda, perché anche se pensava di essere pronta a tutte le risposte, in realtà Hinagiku non era pronta a quella. Cercò qualche segno di intima sofferenza sulla faccia di lui, ma non ne trovò. Allora si sforzò di distruggere tutti quelli che erano sicuramente comparsi sulla propria.
«S-Sì, certo. Capisco» balbettò, arretrando involontariamente.
E avrei dovuto capirlo già la volta scorsa, invece di tornare a farmi dare il colpo di grazia.
«Ci saranno tante cose di cui ti devi... E anche io...» per un attimo pensò di raccontargli di Minato, ma poi pensò che sarebbe sembrato un modo per impietosirlo e lo tenne per sé. «Va bene. Scusa il disturbo. Ci vediamo in giro...» mormorò, sentendo il sangue che oltrepassava le sue barriere e risaliva su per le guance, inarrestabile. «Ciao!» esclamò con voce stridula. E senza aspettare la risposta se ne andò di corsa.
Jin fece per andarle dietro, ma si bloccò. A quel punto lasciò che sulla sua faccia comparissero tutte le emozioni che aveva trattenuto così bene – rabbia, tristezza, dolore – e si passò le mani sul viso da bambino. Inspirò, sbuffò, riaprì gli occhi.
Allora l’aveva fatta finire così, pensò richiudendo la porta. Prima di partire aveva fatto a Hinagiku tutte quelle promesse, le aveva riempito la testa di tutta quell’aspettativa... E poi era tornato e l’aveva scaricata.
D’altronde era vero: lui non era più la persona di prima. Adesso era un soldato che si preparava per la guerra, figlio di una traditrice e con il padre in coma. Cosa poteva dare a una ragazza come Hinagiku, uno come lui? Solo un mucchio di giornate piene d’ansia.
Tornò in cucina riprendendo l’espressione neutra. Sedute al tavolo, di fronte a una cena mezza consumata, c’erano Natsumi e Haruka.
«Chi era?» chiese Natsumi.
«Un messaggio dell’Hokage» mentì Jin. «Un’altra scorta.»
Haruka non fece commenti. Era seduta dove di solito si sedeva Kakashi, ma non lo sapeva. L’avevano liberata quella mattina, dopo averla rivoltata come un calzino in cerca di segni di tradimento; per sua fortuna Morino era stato impegnato con Yoshi e non aveva avuto il tempo di occuparsi di lei, ma chi l’aveva sostituito aveva fatto il suo dovere fino in fondo. Non l’avevano trattata troppo male: Haruka non aveva l’aria smagrita né ferite visibili, però le occhiaie sulle sue guance denunciavano la carenza di sonno.
Per mandarla a casa avevano chiamato Natsumi, che invece di portarla nel suo appartamento l’aveva portata in quello di Jin. Era stato un incontro incredibilmente imbarazzante, ora che non c’era più la necessità di scappare e che Kakashi stava male. Jin, che in viaggio l’aveva difesa a spada tratta e aveva potuto odiare liberamente il padre, adesso si sentiva in dovere di giustificare le scelte e lo stile di vita di Kakashi, quasi come se lei fosse un’intrusa. E poi, anche se non sapeva spiegarsene la ragione, si sentiva a disagio a stare nella stessa stanza con madre e zia.
«Vieni, finisci di mangiare» disse Natsumi. «Mentre eri via tua madre mi stava dicendo che per il momento le affideranno piccoli incarichi amministrativi, quindi sarà a casa. Pensavo di tornare nel mio appartamento.»
Jin si corrucciò per una frazione di secondo: non era sicuro di voler restare solo con Haruka. «Ma là sei sola» obiettò. «Haru... Mamma può occuparsi di tutti e due.»
«Tua madre si è già occupata abbastanza di me.»
«E Natsumi si è occupata abbastanza di te» disse Haruka, e anche se nelle sue intenzioni voleva risparmiare della fatica alla sorella, sia lei che Jin lo presero come l’insinuazione che Natsumi avesse voluto prendere il suo posto.
«Io e Jin siamo stati piuttosto bene» puntualizzò lei infatti.
«Sai cosa intendevo.»
Natsumi si irrigidì. Il vecchio tono di condiscendenza di Haruka la irritò più del previsto.
«Io penso che dovrebbe restare con noi» insisté Jin. «Dove mangiano in due mangiano anche in tre, e comunque sarà impegnata quanto me: non la sentirai nemmeno.»
Haruka passò lo sguardo da Natsumi a Jin, chiedendosi se fossero davvero affezionati l’uno all’altra o se invece si sentissero troppo a disagio restando soli con lei. Alla fine scrollò le spalle. «Va bene» disse semplicemente. Ci sarebbero state comunque le occasioni per stare insieme a suo figlio.


Si potevano improvvisare davvero molte cose con un divano e un tavolino. La curva della schiena di Chiharu si adattava perfettamente all’angolo tra schienale e braccioli, l’altezza della seduta era più o meno delle dimensioni del suo femore. E poi era diventata più leggera dopo l’ultimo ricovero: adesso era ancora più facile sollevarla e sistemarla meglio.
E tuttavia, nonostante la gran quantità di posizioni acrobatiche che uno shinobi era in grado di praticare, la comodità rendeva sempre tutto migliore. Alla fine lo sapeva: averla su di sé, aggrappata allo schienale del divano, e sentire le sue cosce stringersi attorno ai fianchi sarebbe stato ben più che sufficiente.
Certo, era inquietante che ricordasse con tutta quella precisione un divano che aveva visto al massimo tre volte.
Hitoshi si sistemò il ciuffo per la milionesima volta, sentendosi completamente stupido. Era fermo all’inizio del vialetto di casa Nara da un tempo ridicolmente lungo, circondato dai mozziconi di mezzo pacchetto di sigarette.
Il punto era che stava dando di matto. Non riusciva più a dormire bene. Da quando Chiharu era tornata a Konoha niente era andato come si era aspettato: lei non aveva più accennato a quello che era successo a Suna, lui non era riuscito a costringerla a farlo. Le aveva parlato una volta sola, e lei aveva rimandato il discorso vero, poi lo aveva sempre congedato in modi più o meno maleducati. E Hitoshi non era famoso per la sua pazienza. Chiharu gli aveva chiesto tempo, ma non aveva specificato quanto. Considerato che quello che era successo a Suna era successo ormai decine di giorni prima – anzi, a lui sembravano mesi – riteneva che a quel punto poteva anche andare da Chiharu e pretendere il chiarimento a cui aveva diritto.
Anche perché in fondo era convinto che sarebbe potuta finire solo in un modo: esattamente come era iniziata, con Chiharu che faceva la ritrosa e poi si scioglieva tra le sue braccia.
E’ necessario parlarne adesso, si disse per farsi coraggio. Perché con il divano di casa sua ho immaginato di fare l’amore con lei su ogni superficie calpestabile di Konoha, e se non lo rifacciamo davvero dovrò andare da un medico.
Sputò la gomma che aveva masticato fino a quel momento, aggiustandosi di nuovo il ciuffo. Prese un respiro profondo, scrollò le spalle, e avanzò lungo il vialetto.
Quella mattina le finestre erano chiuse, perché l’aria era piuttosto fresca. Il cielo era sgombro di nubi, di un bel blu acceso, e le foglie riflettevano la luce del sole. Nessuno lo vide arrivare; Hitoshi dovette bussare.
Chiharu aprì sorprendentemente in fretta, quasi come se lo stesse aspettando. Altrettanto strano, indossava un marsupio come se fosse pronta per uscire. Ma quando vide che era lui le sue sopracciglia si corrucciarono.
«Cosa ci fai qui?» sbottò.
Partiamo bene, pensò Hitoshi.
«Dobbiamo parlare.»
«Senti...»
«No. Ora basta» Hitoshi avanzò risolutamente, spostandola per entrare in casa. «Mi hai allontanato tutte le volte che ho provato a parlare con te, adesso devi ascoltarmi.»
Chiharu gettò uno sguardo allarmato verso il salotto. «Adesso proprio no!»
«La tua agenda è sempre piena, quando si tratta di me!» inveì Hitoshi piantando i piedi in mezzo al corridoio.
Dal salotto emerse Fay, che li fissò infastidita. «Che succede?»
«Niente» si affrettò a rispondere Chiharu, lasciando la porta aperta con intenzione. «Hitoshi se ne stava andando.»
«Non credo proprio.»
Fay guardò lui e guardò lei, con una smorfia di insofferenza stampata sul viso. Quella notte aveva ricevuto pessime notizie: Neji cedeva alle pressioni del clan e si sposava, glielo aveva detto lui stesso dopo ripetute insistenze. Ora non aveva la forza né la voglia di assistere ai battibecchi amorosi di due adolescenti che non sapevano niente della vita, così fece un verso di stizza e se ne andò in cucina, richiudendo la porta scorrevole con un tonfo. Che Hitoshi la tradisse, se doveva tradirla; a lei quasi non interessava più.
Ritrovandosi sola con Hitoshi, Chiharu trattenne un’imprecazione.
«Adesso siamo soli» disse lui, leggendole nel pensiero. «E non abbiamo impegni. Non c’è niente che ti impedisca di parlarmi.»
Oh sì che c’è!, pensò Chiharu disperata. Fece lavorare febbrilmente il cervello, ma l’unica idea che le venne fu di prendere tempo. Guardò rapidamente fuori dalla porta, poi la richiuse.
«Vieni in salotto» disse. Aveva la netta impressione che questa volta Hitoshi non le averebbe permesso di concludere la discussione come le altre volte. Questa volta lui avrebbe preteso una risposta vera, ma, dei santissimi, non poteva trovare momento peggiore.
«Tu lo sai, vero, che la scelta del momento condiziona anche la risposta?» disse seccamente, mettendo il tavolino tra sé e lui.
«Cos’è, una minaccia? Se faccio il bravo e torno quando ti garba cadrai tra le mie braccia adorante?» disse Hitoshi in risposta.
«Ma fammi il piacere!»
«Lo immaginavo» Hitoshi si lasciò cadere sul divano a braccia conserte, come uno che ha tutte le intenzioni di piantare le tende lì.
Chiharu trasalì. «Non ti ho detto di sederti!»
«Non è che tu mi abbia detto molto, negli ultimi tempi. Da quando mi hai spedito a Konoha durante la missione di Suna non abbiamo più parlato. E ce ne sono di cose di cui parlare...»
Chiharu digrignò i denti. Nemmeno lei era famosa per la sua pazienza. «Va bene. Allora parliamo» sbottò bellicosamente, senza sedersi.
«Ok. Ricordi che a Suna siamo stati a letto insieme?»
Chiharu sussultò. «E tu ricordi che di là c’è gente?» sibilò arrossendo. «Parliamo, ma non pubblichiamo i manifesti, va bene? Abbassa la voce!»
«Dovremmo decidere che cosa fare ora» continuò Hitoshi, ma più piano.
«Cosa fare?»
«Cosa fare. Mi sembra evidente che ci piacciamo, quindi...»
Chiharu alzò entrambe le mani, bloccandolo. «Ti sembra evidente che ci piacciamo?» ripeté, incredula.
«Di solito vai a letto con chi non ti piace?»
No, ma faccio molte cazzate.
«Detesto quando un Uchiha pretende di sapere cosa penso o provo. Lo detesto soprattutto quando l’Uchiha sei tu.»
«Va bene, allora. Tu mi piaci. Io, presumo, ti piaccio?»
«Tu presumi
«Beh...»
Il campanello suonò di nuovo.
Chiharu sbiancò visibilmente. «Non ti muovere» sibilò a Hitoshi, e corse all’ingresso per aprire. Arrivò nel preciso momento in cui Fay sporgeva la testa dalla cucina. Innervosita, le fece cenno di sparire e ottenne in risposta un’occhiataccia. Allora aprì la porta di una spanna e cacciò la testa fuori.
Era Akeru.
«Ciao!» la salutò lui tutto allegro.
«Non è il momento» ribatté lei in un sussurro ansioso.
Il sorriso di Akeru scemò leggermente, ma non scomparve. «Credo proprio che lo sia, invece» insisté, alzando le sopracciglia con intenzione. «A proposito, l’ora più buia è prima dell’alba.»
«No, l’ora più buia è proprio ora, credimi» lo corresse lei. «Mi serve... mezzora. No, dieci minuti. Ti prego
«Chi è adesso?» domandò Fay, facendo un passo lungo il corridoio.
«Sono Baka Akeru, signora» disse lui da dietro la porta. Chiharu sentì una colata di ghiaccio scivolare giù per la colonna vertebrale, e si voltò di scatto verso il salotto. «Sono venuto a portare a Chiharu gli esiti delle ultime analisi» e poi abbassò la voce a un sussurro, perché lo sentisse solo Chiharu. «Credo anche di aver dimenticato una cosa.»
«Sarei passata a prenderli io» disse Fay avvicinandosi.
Tremando, Chiharu fu costretta ad aprire la porta e lasciar entrare Akeru, dicendosi che non era ancora proprio finita.
«Ero di passaggio in ospedale» spiegò lui con un sorriso affabile. «Pensavo anche di spiegargliele...»
«Lo posso fare io» borbottò Fay tendendo la mano.
«Ehm...» Akeru esitò, guardando Chiharu in cerca di aiuto.
«Scusate» si intromise una voce dal salotto.
Hitoshi comparve sulla porta, e Chiharu seppe, seppe distintamente che quella era una cosa terribile. Come al rallentatore, vide la mano di Hitoshi alzarsi per mostrare qualcosa. Con orrore si accorse che era un marsupio. Un inconfondibile marsupio Anbu.
Tutti restarono immobili per un lunghissimo secondo.
«L’ho trovato incastrato nei cuscini del divano» disse ancora Hitoshi. La sua voce produceva lo stesso sgradevole effetto del gesso sulla lavagna, e sì: adesso era finita.
Akeru fissò il marsupio e scambiò un’occhiata con Chiharu. «Lui perché è qui?» sussurrò.
«Penso che sia più interessante sapere perché il tuo cazzo di marsupio è qui, invece» sbottò Hitoshi, gettandoglielo di scatto.
Fay inarcò le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e arretrò lentamente. «Torno in cucina» mormorò saggiamente.
Chiharu chiuse gli occhi per un istante, arrendendosi al fallimento dei suoi tentativi per uscirne indenne. Ormai avrebbe dovuto sapere che tutto quello che faceva aveva delle conseguenze, ma si illudeva sempre di poterle evitare in qualche modo.
«Ho detto» riprese Hitoshi, avanzando fino all’ingresso e piantandosi di fronte ad Akeru. «Che non riesco proprio a immaginare come questo sia finito sul tuo divano, Chiharu.»
Chiharu non riuscì ad aprire bocca. Akeru invece sollevò il mento in atteggiamento aggressivo. «Scommetto che se ti sforzi ci arrivi.»
Chiharu richiuse gli occhi. Avrebbe dovuto sapere che Stupido non sarebbe riuscito a trattenersi dal vantarsene, ed essendo Stupido ovviamente lo aveva fatto nel modo peggiore.
Hitoshi non ebbe bisogno di altri suggerimenti per arrivare alla verità; si rivolse a Chiharu, sconvolto. «Sei stata con lui?»
«Vedi che ci arrivi se ti impegni?» Akeru gli regalò un sorrisino di trionfo, rimettendo il marsupio. «Grazie, lo stavo giusto cercando.»
Negli occhi di Hitoshi passò un lampo furibondo, che attraversò Chiharu e poi tornò ad Akeru. «Ah sì? E allora, come medico non ti sei accorto di non essere il primo?»
Il sorriso di Baka si spense bruscamente. «Cosa?» chiese, sconvolto quanto Hitoshi. «Lui è stato il primo?»
Chiharu si passò una mano sul viso, fermandosi alla bocca. Le dita le tremavano.
«Ad occhio e croce, una manciata di giorni prima di te» calcolò Hitoshi. La fissò, con un’espressione mista di disgusto e orrore. Ora capiva. Ora era facile comprendere perché non aveva mai voluto parlarne... E lui era stato davvero cretino a pensare che lei fosse solo in imbarazzo.
Chiharu si costrinse a riprendere fiato per arrestare la discussione prima che degenerasse. «Oh, ma per favore. Datevi una calmata. Non sono la fidanzata di nessuno di voi, e con chi vado a letto sono fatti miei!» esclamò, fissando un punto vago all’altezza dei gomiti di Hitoshi e Baka.
«Non se lo fai tre giorni dopo averlo fatto con me!» esclamò Hitoshi furibondo. «Ora capisco perché dopo non hai più voluto parlarne. E io coglione che mi bevevo le tue palle su quanto stavi male... Non voglio più saperne niente di te. Porca puttana Chiharu... Vai all’inferno!»
Con una spallata ad Akeru, Hitoshi attraversò la porta e uscì di casa pestando rumorosamente i piedi.
Chiharu non provò a fermarlo. Akeru lo guardò allontanarsi, poi, confuso, fissò lei. «Ma che cavolo... Tre giorni dopo? Che senso ha?»
Chiharu scrollò nervosamente le spalle, perché in realtà nemmeno lei sapeva che senso avesse, e disse la prima cosa che le venne in mente: «forse mi piace il sesso?»
«Forse ti piace il sesso?»
Chiharu inspirò ed espirò bruscamente. Sentì Fay che apriva il rubinetto in cucina e immaginò che presto sarebbe tornata in corridoio per controllare la situazione. Allora compose i sigilli e in una nuvoletta di fumo prese le sembianze di Akeru.
«Che stai facendo?» sibilò lui irosamente. «Scordati di andare da Yoshi adesso. Scordatelo!»
«Avevamo un piano» ribatté lei, bloccando la sua ombra sotto i piedi. «Se fossi in te ora mi trasformerei in Chiharu Nara, o dovrai spiegare a Sakura un mucchio di cose.»
E uscì di casa, lasciandolo bloccato finché non fu a distanza, quasi fuori dalla proprietà.
Akeru tornò padrone dei suoi movimenti soltanto pochi secondi dopo, appena in tempo per trasformarsi in lei prima del ritorno di Fay. Compose i sigilli rabbiosamente, e dentro di sé giurò che mai, mai, mai più avrebbe dato fiducia a Chiharu Nara. Mai più!

Erano nudi, forse stupidamente nudi, ma erano anche diciottenni in una casa vuota e avevano appena fatto sesso.
Chiharu era stesa contro Akeru, scomodamente incastrata su un divano che non era stato progettato per far dormire due persone, e lui le solleticava la schiena con le dita. Le scostò i capelli dal collo, sfiorandole il lobo dell’orecchio.
«Non mi ero mai accorto che avessi un tatuaggio» le disse, accarezzando gli ideogrammi disegnati sulla sua nuca, fino alle prime vertebre dorsali. Non erano parole che lui conosceva, ma gli davano uno strano fremito sotto le dita e sembravano essere tenuemente fosforescenti.
Chiharu si mosse e spostò i capelli per coprire il tatuaggio.
«Ti aiuterò» disse contro la sua spalla, dove un altro tatuaggio, quello da Anbu, faceva mostra di sé. «Cercherò di far parlare Yoshi come hai suggerito tu.»
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?» domandò Akeru in tono lievemente sarcastico, scivolando con la mano fino alla sua coscia e stringendola con intenzione.
«Non quello. Cretino.»
Era solo che aveva già deciso di farlo, ma prima non aveva trovato il modo per dirlo. Sapeva che era arrivato il momento di ricambiare tutti i favori che Akeru le aveva fatto.
«In fondo non sei tutta marcia» ridacchiò lui, abbracciandola e facendola rotolare sopra di sé.
«Non sono marcia neanche un po’!» ribatté lei offesa, cercando di tirarsi su, ma lui la tenne contro il petto e le accarezzò la testa.
«Lo so» disse, la voce soffocata contro i suoi capelli. «Sei solo scema.»
Chiharu sbuffò, ma si lasciò andare e accoccolò la testa sotto il suo collo.

«Se ne sono andati?» chiese Fay, aprendo la porta della cucina con un sospiro.
«Sì. Ma io sono il peggior essere umano che abbia mai camminato sulla terra» rispose Akeru trasformato in Chiharu, accartocciando i fogli degli esami tra le dita. E cancellò dalla memoria gli ultimi brandelli del ricordo della notte con lei, perché ora erano rovinati dalla brutta faccia di Hitoshi che gli diceva di essere stato il primo.
«E’ la prima volta che ti sento esprimere un’opinione sensata» borbottò Fay. «Chiudi la porta e vieni in salotto... Leggiamo gli esami che hanno creato questo disastro.»


Chiharu raggiunse il dipartimento di polizia con le sembianze di Akeru e una frequenza cardiaca di duecento battiti al minuto.
Si sentiva una spia in territorio nemico, un traditore della patria, un farabutto in procinto di fare una strage di bambini... Aveva una paura terribile. Perché mai aveva pensato che il piano di Akeru fosse un buon piano? Andare nella fossa dei leoni con un cosciotto di manzo sotto la maglietta non poteva essere un’idea brillante, ed era proprio quello che stava facendo.
Avrei dovuto far saltare tutto, si disse nervosamente. Perché diavolo mi sono fatta prendere dal panico e mi sono trasformata in Stupido?
Perché il panico, per definizione, fa fare cose imbecilli. E perché l’inaspettata risoluzione del suo triangolo con Akeru e Hitoshi l’aveva sconvolta molto più del previsto.
Comunque ormai era lì, tanto valeva fare qualcosa di utile e seguire il piano per filo e per segno. La sua unica speranza di cavarsela era comportarsi come si sarebbe comportato Akeru: quella notte lui le aveva fornito tutte le istruzioni per arrivare alla sala degli interrogatori senza farsi notare, bastava attenersi alle sue indicazioni e non avere colpi di testa. Quella notte, dopo tutte quelle cose interessanti sul divano...
Nonostante i pensieri confusi, Chiharu riuscì a trovare senza fatica le scale che portavano al seminterrato, e le scese con la sensazione di una trappola spaventosa che si spalancava sotto i suoi piedi. Arrivata alla fine della rampa trovò le prime due guardie, che riconoscendo Akeru si limitarono a fare un cenno e andarono avanti a giocare a shogi.
Chiharu avanzò, continuando a ripensare a tutte le cose che avrebbe potuto dire a Hitoshi per farlo andare via prima che arrivasse Akeru, e che non aveva detto. Man mano che proseguiva l’odore delle celle si faceva sempre più fastidioso, ma a questo Baka l’aveva preparata. Si rese conto che i sotteranei erano molto più ampi del palazzo sovrastante, e un paio di volte temette di aver sbagliato strada. Ma poi si trovò nel corridoio con le celle singole e capì di essere nel posto giusto.
In fondo, dove c’era un neon freddo e una singola porta di metallo, vide un uomo di guardia con la divisa della polizia. Non sembrava amichevole come i due giocatori di shogi. Anche quando lei gli fu di fronte, quello rimase immobile e silenzioso. Chiharu smise di pensare a Hitoshi e Akeru.
«L’ora più buia è prima dell’alba» mormorò nervosamente.
L’uomo annuì e si fece da parte. Lei prese un respiro profondo – il che si rivelò un errore, con tutti i vasi da notte che venivano riempiti nel sotterraneo – ma si affrettò ad aprire la porta prima che la guardia si insospettisse.
Nella stanza degli interrogatori c’erano già due persone: una era Morino, l’altro, sotto gli strati di sporcizia e le tumefazioni, doveva essere Yoshi. Di colpo Chiharu fu concentratissima.
«Sei in ritardo!» abbaiò subito Morino.
«Mi dispiace» sussultò lei.
«Fa niente! Tanto non parla, non parla e non parla!» con il tono esasperato di chi ha recitato la scena troppe volte, gettò contro la parete qualcosa di metallico, che rimbalzò sulle piastrelle e ne scheggiò un paio. Chiharu intuì che doveva essere qualche orribile strumento di tortura, ma non riuscì a vederlo bene. Su un tavolino pieghevole accanto alla porta c’era un’intera valigetta piena di attrezzi dalle forme raccapriccianti.
A quel punto sorse il primo problema: non aveva più la collaborazione di Akeru, e quindi non sapeva se sarebbe riuscita a far uscire Morino. Guardando la valigia degli orrori e la bandana che nascondeva il cranio dello shinobi, pensò che stava rischiando davvero troppo, ed ebbe un fremito.
Se non lo condanna a morte il Consiglio, Yoshi lo ammazzo io, pensò.
In quel momento il ragazzo era legato mani e piedi alla sedia inchiodata al pavimento. Teneva il capo reclinato in avanti, come se riposasse, e non sembrava particolarmente impensierito dalle tracce di sangue sul tavolo.
Morino si avvicinò alla porta e frugò nella valigetta, in cerca di chissà quale diavoleria. Chiharu si spostò impercettibilmente, ricordando che Baka di solito interveniva soltanto quando Morino glielo chiedeva. Si accostò alla parete, stringendo le mani dietro la schiena, e le tornarono in mente le parole di Akeru: se accetterai di seguire il mio piano, vedrai cosa fa Morino agli uomini che interroga. Allora capirai.
Nei minuti successivi, capì davvero.
Dovette farsi violenza per non chiudere gli occhi né vomitare. Morino era esperto, spietato ed evidentemente pazzo, ma l’ultima cosa doveva essere una conseguenza della prima. Usò molti degli strumenti nella valigetta, in modi che Chiharu non avrebbe osato immaginare nemmeno nei suoi momenti peggiori, e li usò con una naturalezza che le fece contrarre lo stomaco fin quasi a farle lacrimare gli occhi. Come faceva Akeru a resistere? Come escludeva dalle orecchie le voci, i rumori che facevano molti di quegli attrezzi, le reazioni di Yoshi? Era possibile? Era umano? Certo che impazzivi, facendo quel mestiere: non poteva finire in altro modo.
«Basta, basta!» gridò Morino a un tratto, allontanandosi dalla sedia di Yoshi.
Chiharu si costrinse a guardarlo e lo vide sudato quanto lei. Doveva averci provato davvero intensamente, ma Yoshi non mollava.
Allora sorse il secondo, più grave problema: Morino le chiese di curarlo. E Chiharu non poteva farlo, naturalmente.
Sentì un’ondata di gelo risalire dalle mani al collo e fino alla testa, oscurandole la vista per un momento. La cura con il chakra non era qualcosa che si poteva improvvisare. Fece lavorare rapidamente il cervello, ma aveva troppa paura di Morino per riuscire a trovare una soluzione. Si staccò dal muro con enorme lentezza, avvicinandosi al tavolo al centro della stanza senza guardare gli strumenti sparsi sulla sua superficie.
«Prima o poi mi sbaglierò, e il medico che ti ricuce non sarà più sufficiente» ringhiò Morino dal fondo della stanza. «Feccia schifosa.»
Chiharu si accovacciò accanto a Yoshi, che sollevò una palpebra gonfia e le lanciò uno sguardo opaco. Sembrava abituato a quell’iter, ma non particolarmente grato. Lei esitò, schiarendosi la voce. Lui alzò leggermente la testa.
«Dove... Da dove inizio?» chiese sottovoce, con un’occhiata nervosa a Morino. «Dove senti più male?»
Yoshi non rispose, ma aprì entrambi gli occhi per guardarla meglio. Poi sorrise – un’immagine davvero agghiacciante con i denti sporchi di sangue – e raddrizzò la schiena.
«Era ora.»
«Che c’è?» chiese Morino. Un attimo dopo roteò gli occhi all’indietro e perse conoscenza, scivolando a terra con un tonfo.
Yoshi ebbe una specie di fremito, e le ferite sul suo viso si riassorbirono a vista d’occhio, lasciando pallidi segni più chiari là dove una persona normale avrebbe avuto delle cicatrici. Accadde così velocemente che Chiharu si rialzò e fece un passo indietro, stupefatta e un po’ spaventata.
«Non fare così, lo insegnerò anche a te» disse lui, muovendo la mandibola e il collo per assicurarsi che fossero in ordine. A quel punto la guardò, con lo sguardo brillante di chi ha fatto una bella notte di sonno, e Chiharu iniziò a temere che la situazione fosse meno sicura di quanto lei e Akeru avevano pensato.
«Sciogli la trasformazione, mi fai impressione» disse Yoshi.
Chiharu riprese le proprie sembianze, ma si tenne sulla difensiva. «Baka ha detto che avresti chiarito tutto» mormorò cauta.
«Sì, la cattura è stato un intoppo fastidioso... Sarei arrivato a te molto prima, se solo non mi avessero preso. Così immagino di averti dato l’impressione sbagliata.»
«Non farmi perdere tempo» lo interruppe lei. «So che vuoi tirarmi in mezzo a questa storia, ma non capisco perché. Sai che non c’entro niente.»
«Invece tu c’entri. Tu sei il centro di tutto! Non la guerra, e non la Roccia, che è un Paese di persone poco intelligenti. La guerra non ha mai avuto niente a che fare con tutto questo, e nemmeno l’Hokage. Si è sempre trattato di te.»
Chiharu non seppe cosa rispondere, a parte che le sembrava di intravedere in Yoshi la stessa scintilla di pazzia che aveva visto in Morino. Nel dubbio rimase in silenzio, con la mano vicina alla cintura dei kunai.
«Haru, io sono qui per te» continuò Yoshi tendendo il collo verso di lei, visto che le mani erano ancora legate dietro la sedia. «Sono venuto a portarti via.»
«Perché?» domandò lei cautamente.
«Come perché? Perché è quello che vuoi!» Yoshi lo esclamò quasi ridendo. «Tu non sei fatta per restare qui, non lo sopporti.»
«No?» Chiharu lo fissò stralunata, ma lui non sembrò turbato dal suo scarso entusiasmo.
«Non mi hai mai riconosciuto, vero?» le chiese.
«Avrei dovuto?»
«Certo che no. Il nostro incontro non ha significato niente per te, allora. Io ero solo una spia di poca importanza, e tu avevi ben altri problemi...»
Chiharu corrugò la fronte, in cerca del ricordo a cui si riferiva Yoshi, ma non lo trovò.
«Cinque anni fa, Haru. Io ero una spia infiltrata, e il tuo gruppo era incaricato di riprendermi. Quella volta che hai scatenato quel terremoto, e subito dopo hai detto di voler lasciare la carriera di kunoichi... Mi chiamavo Ariyoshi Tsuda.»
All’improvviso Chiharu ricordò. Ma erano avvenimenti che sembravano accaduti un’intera vita prima, quando ogni piccolo incarico era importante e lei era ancora sana, boriosa e incosciente: c’era stata una missione, avevano scoperto una spia infiltrata a Konoha, catturarla era stato uno dei suoi test per capire se poteva restare kunoichi... Ricordava vagamente la faccia del ragazzo della Roccia con cui si erano scontrati, e che poi, a causa sua, era fuggito. Forse nei suoi occhi c’era qualcosa di familiare, ma i capelli tinti di Yoshi erano troppo fuorvianti per esserne sicura.
«Non è possibile. Hai un’identità, ci sono persone che ti conoscono da prima... Quella volta al tempio di Juka!» ribatté parlando veloce.
«Non è difficile crearsi un’identità. La famiglia di Yoshi esiste davvero, come tutta la gente che li conosce a Juka. E sì, avevano un eroico figliolo che aveva studiato tra i ninja... Sfortunatamente mi serviva morto. E mi serviva morto anche il fratellino minore, mandato a studiare a Konoha al suo posto. Un’intera famiglia di solide origini mi sembra una copertura sufficiente.»
«Ma perché?» alitò Chiharu.
Yoshi sospirò spazientito. «Te l’ho detto: per te. Ti ho osservata per tutto questo tempo, e quando ho visto che avevi preso da Konoha tutto quello che potevi, ho agito. Certo, gli avvenimenti degli ultimi giorni hanno un po’ complicato la situazione... Ma grazie a quel buon cuore di Baka sono riuscito a farti venire fin qui in ogni caso.»
«Non capisco...»
A quel punto Yoshi sbottò proprio: «Non è complicato: l’ho fatto per darti quello che Konoha non ha; perché qui per una come te non c’è più niente!»
«Ma che ne sai?»
Yoshi sorrise con l’aria di chi sapeva molte cose. Chiharu provò l’istinto di fargli arrivare un pugno in mezzo al naso, ma si trattenne.
«A Konoha c'è tutto quello che mi serve... sono io che non ho niente da dare a loro» disse invece.
«Sì, so che da quando sei tornata la situazione è un po’ peggiorata. Ma sono tutte sciocchezze. Io ho visto il tuo potenziale, ho visto quello che puoi fare...»
«Non più» lo interruppe lei. «Mi sono giocata tutto quel potenziale facendo un mucchio di cazzate, e adesso sono una cardiopatica.»
Il sorriso di Yoshi si fece più insolente. «Fuori da Konoha ci sono cure che neanche immagini. Guarda la mia faccia, pensa a come era ridotta pochi minuti fa; prova a pensare a cosa si potrebbe fare per il tuo cuore.»
Senza volerlo Chiharu fremette. Quello era l’unico argomento che potesse incrinare la sua determinazione a tornare una brava ragazza. Guardò nervosamente il corpo addormentato di Morino, poi di nuovo Yoshi.
«Anche se...» deglutì. «Anche se fosse possibile, non me ne faccio niente di un cuore in salute con una condanna per alto tradimento sulla testa.»
«Non limitarti da sola, andiamo! Il mondo non inizia e non finisce alle porte di Konoha. Te l’ho già detto, questo Villaggio non fa che tarparti le ali: hai visto così poco del mondo là fuori! Voi shinobi della Foglia siete così sottomessi, sempre tanto bravi a scattare al primo ordine... Mai un passo che non sia stato ordinato dall’Hokage, mai un’iniziativa. Vieni con me: ti mostrerò cosa vuol dire non dover rendere conto a nessuno.»
Chiharu si alzò in piedi e fece un giro del tavolo, massaggiandosi il viso con le mani sudate. Ricordò la voce di Yoshi che le elencava una serie di meraviglie oltre i confini, meraviglie di cui lei non sapeva niente. Era successo prima della missione di Loria, quando tutto era ancora normale, e allora l’idea l’aveva infastidita, ma non attratta.
Eppure se là fuori ci fosse una cura..., si trovò a pensare in quel momento.
Smise di camminare, scosse la testa. Guardò di nuovo Yoshi, che sembrava a suo agio nonostante fosse ancora immobilizzato.
«Qui sei sprecata» insisté lui. «Vieni con me, posso mostrarti la via per diventare grande.»
Chiharu serrò le labbra. «No grazie» si costrinse a dire. «Qui ho ancora molte cose da fare. Qualunque cosa ci sia oltre le mura di Konoha, posso arrivarci anche senza il tuo aiuto.»
Il sorriso di Yoshi si spense lentamente, ma non scomparve del tutto.
Per un minuscolo istante il tempo rimase sospeso, in bilico tra due possibili soluzioni.
«Chiharu...» disse poi Yoshi, con voce gentile. «Davvero pensi che avrei rischiato cinque anni della mia vita in un piano che ti lasciasse scelta?»
Una vibrazione scosse il pavimento piastrellato.
Le gambe inchiodate del tavolo cigolarono con un rumore fortissimo, ripiegandosi fino a strapparsi via. Le gambe della sedia si spezzarono con uno schiocco metallico, le catene che immobilizzavano Yoshi esplosero in mille frammenti.
La vibrazione del sotterraneo aumentò, diventando fastidiosa per le orecchie, aumentò e aumentò finché le piastrelle non iniziarono a frantumarsi con piccoli scoppi striduli. Chiharu corse verso la porta, ma prima che potesse raggiungerla la vide deformarsi ed ebbe paura che il metallo si stesse sciogliendo.
«Cosa stai facendo?» gridò a Yoshi, che si massaggiava i polsi guardando verso l’alto.
«Io niente» rispose lui. «Ma a questo punto dovresti aver intuito che non ho organizzato tutto da solo.»
Con un crack assordante un’enorme crepa circolare si aprì lungo le pareti della cella, e contemporaneamente la luce saltò. Una pioggia di scintille si liberò dalle estremità dei cavi recisi dell’elettricità; Chiharu afferrò Morino per una caviglia e lo trascinò lontano.
Annaspando nella polvere e nel buio, Chiharu compose disperatamente i sigilli per riprendere le sembianze di Akeru, appena in tempo: il tetto della stanza degli interrogatori e almeno metà delle pareti si sollevarono nel cielo, scoperchiando il sotterraneo e aprendo una voragine nel cortile del dipartimento di polizia. A quel punto il cemento si sgretolò, franando ai lati del cratere, e Chiharu sentì le voci dei poliziotti che uscivano urlando dall’edificio. Nell’aria si diffuse un penetrante odore di zolfo e polvere, che danzava nelle strisce di sole.
«Andiamo» disse Yoshi, tendendole una mano. «Non credo proprio che esista un modo per spiegare ai signori di sopra che tu non c’entri niente.»
E all’improvviso la trasformazione di Chiharu si sciolse, come se qualcuno le avesse rovesciato addosso una secchiata di acqua gelida. Chiharu ansimò, sentì il cuore accelerare, spaventato e orripilato. Vide le teste dei poliziotti iniziare a sporgersi oltre i detriti ai margini del cratere, vide le dita di Yoshi che si agitavano per incitarla a seguirlo, e fu travolta dalla consapevolezza che era appena stata incastrata nella sua fuga.
Allora capì che c’era solo una cosa da fare: riacciuffarlo prima che si allontanasse dal Villaggio.
«Non sottovalutarmi!» gridò, afferrando una manciata di kunai con entrambe le mani.
Yoshi la vide lanciarsi contro di lui e alzò le braccia appena in tempo per afferrare i suoi polsi.
«Con un cuore in quelle condizioni?» le chiese. «Io non lo farei» di colpo la tirò più vicina, affondando le dita nella carne delle braccia con una forza che lei non si aspettava. «Sei solo un girino in uno stagno, Chiharu. Un minuscolo girino ignorante.»
E la scaraventò a terra come un sacco di foglie secche. Poi, senza più guardarla, in un balzo fu oltre i bordi del cratere.
Dal pavimento ingombro di macerie Chiharu vide i poliziotti che cercavano di fermarlo; fallirono. Provò a tirarsi su, ma le gambe le tremavano troppo.
Cosa ho fatto, cosa ho fatto, cosa ho fatto..., si ripeté disperata. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime mentre elaborava una decina di scenari diversi: non ce n’era nessuno in cui se la cavava. Non solo era fisicamente presente sulla scena dell’evasione, ma era anche fuggita alla sorveglianza di Fay. Non sarebbe stata la sola a finire nei guai: anche per Akeru sarebbe stata una condanna definitiva. Yoshi se l’era studiata bene: o adesso lei alzava il culo e lo seguiva prima che la arrestassero, o l’unico futuro che la attendeva era dietro le sbarre.
«Merda!» gridò, battendo un pugno a terra.


La vibrazione che aveva scosso il sotterraneo si era sentita per tutta Konoha, fino alla residenza dei Nara.
Dalla porta spalancata, Akeru, trasformato in Chiharu, vide la colonna di polvere levarsi in corrispondenza del dipartimento di polizia. Il sangue abbandonò completamente il suo viso, mentre Fay lo raggiungeva all’esterno.
«E’ il dipartimento!» la sentì esclamare ansiosamente.
Lui deglutì, sciogliendo la trasformazione. «Ok, ho una confessione da fare...» sussurrò con un filo di voce.





Il fuoco circonda gli attori.
Tutto è pronto per finire in fumo.






* * *


Un anno dopo la ripresa di Penne
arriviamo al capitolo centrale
(in termini di importanza, non di lunghezza. Calma).

Cosa ho fatto.
La HinaJin. Il triangolo HitoHaruBaka.
E Yoshi, finalmente,
che sembra il piùffigo in circolazione
e dunque non ci si spiega perché sia fissato con Chiharu,
che al momento vale due pacchetti di gomme sul ninjamercato.

Insomma, fuoco alle polveri.
Nel prossimo capitolo ci saranno botte, sangue e violenza,
flashback e un Uchiha dall'orgoglio molto ferito.

In questo, c'è il disegno di Baka che mi avete chiesto mille anni or sono.
http://it.tinypic.com/r/k4t2td/9
Piccolo, lui.
Un po' mi sento in colpa.

A risentirci al prossimo capitolo!
Buon anno a tutti!

Susanna






Questo capitolo ti avrebbe fatto arrabbiare, lo so.
Ma in questo modo avresti messo le mani su Jin,
e presto ti saresti consolata.
Un altro anno.
Ti voglio bene.



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