Piume nella cenere di _ayachan_ (/viewuser.php?uid=32975)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Festa di compleanno ***
Capitolo 2: *** Il Gran Consiglio ***
Capitolo 3: *** La maledizione di Juka ***
Capitolo 4: *** L'adolescenza di Jin ***
Capitolo 5: *** L'uomo dell'Hokage ***
Capitolo 6: *** Equilibrio precario ***
Capitolo 7: *** Donne che odiano gli uomini ***
Capitolo 8: *** L'equilibrio in bilico ***
Capitolo 9: *** Sbronza di gruppo ***
Capitolo 10: *** Spiati ***
Capitolo 11: *** Spioni ***
Capitolo 12: *** L'arte di evitare gli argomenti scomodi ***
Capitolo 13: *** Arroganza ***
Capitolo 14: *** Una bella famiglia ***
Capitolo 15: *** Cambiano i piani ***
Capitolo 16: *** Notte fonda ***
Capitolo 17: *** Prima dell'alba ***
Capitolo 18: *** Mattina ***
Capitolo 19: *** Il cavallo rosso ***
Capitolo 20: *** Ombre dal passato ***
Capitolo 21: *** Il ritorno dei fantasmi ***
Capitolo 22: *** Convalescenti ***
Capitolo 23: *** Nessuno ascolta i dottori ***
Capitolo 24: *** Anbu ***
Capitolo 25: *** Il valore delle cose perdute ***
Capitolo 26: *** Bentornato ***
Capitolo 27: *** Sharingan? ***
Capitolo 28: *** Chi non muore si rivede ***
Capitolo 29: *** I mostri della Squadra Assassina ***
Capitolo 30: *** I veri mostri ***
Capitolo 31: *** Il bozzolo ***
Capitolo 32: *** La Volpe e l'Eremita (prima parte) ***
Capitolo 33: *** La Volpe e l'Eremita (seconda parte) ***
Capitolo 34: *** L'orgoglio del clan Uchiha ***
Capitolo 35: *** I sospetti di Sakura ***
Capitolo 36: *** La guerra ha inizio ***
Capitolo 37: *** I chakravakam ***
Capitolo 38: *** Lo Stupido tra noi ***
Capitolo 39: *** L'eccezione e la regola ***
Capitolo 40: *** Di nuovo a casa ***
Capitolo 41: *** Solo un gioco ***
Capitolo 42: *** Non c'è due senza tre ***
Capitolo 43: *** L'ultima alleanza di Chiharu e Baka ***
Capitolo 1 *** Prologo - Festa di compleanno ***
Penne 0+01
06/01/2016
ATTENZIONE - PREMESSA INDISPENSABILE!
Buongiorno
a tutti e buon anno!
Dopo
qualcosa come sei anni dall'ultimo aggiornamento torno a prendere in
mano questa storia per darle un degno (si spera) finale.
Per
farlo, purtroppo, è stato necessario un corposo lavoro di
restyling che è durato circa due anni. Volevo una storia che
mi convincesse, a cui potessi dedicarmi con passione e non storcendo il
naso, e per farlo ho dovuto praticamente riscriverla. C'erano
sottotrame macroscopiche che mi infastidivano e dettagli che non mi
piacevano, così ho tirato su le maniche e mi ci sono messa
con impegno.
E'
stata dura. Non volevo cancellare completamente quello che era stato
fatto, ma volevo anche che si sentisse il nuovo amore che ci ho messo.
Tanti anni fa, quando ho scritto questi capitoli per la prima volta,
ero in un periodo difficile della mia vita e faticavo tantissimo a
trovare l'ispirazione. Mi hanno detto che si percepiva, e in effetti
devo ammettere che è vero. Spero che oggi le cose siano
diverse, anche se vorrei aver mantenuto le atmosfere che erano state il
successo della prima versione.
I
capitoli verranno pubblicati inizialmente a piccoli gruppi (per non
annoiare i vecchi lettori ma nemmeno scoraggiare i - forse - nuovi),
poi, una volta raggiunto il punto in cui la storia diventa a tutti gli
effetti inedita, rallenterò inevitabilmente il ritmo. Per il
momento vi rassicuro dicendo che sono pronti già 31
capitoli... sempre che non la vediate come una minaccia!
Ricordo a tutti che questa storia è concepita come una
prosecuzione alternativa di Naruto. Considerate che praticamente non
tiene conto degli eventi dello Shippuuden (quindi Jiraya e Asuma sono
vivi e vegeti), e soprattutto è il seguito di altre due
storie precedentemente pubblicate: "Sinners" e "Il peggior ninja del
Villaggio della Foglia"... Che sono scandalosamente lunghe, e quindi
non vi biasimerò se interromperete qui la lettura.
Per
ragioni personali molto forti, inoltre, non ho intenzione di cancellare
i capitoli fino al 35, ma li lascerò vuoti e in sospeso fino
al momento in cui saranno riempiti. Quei capitoli portano le tracce di
qualcuno che non c'è più, e voglio che non
scompaiano.
Prima
di lasciarvi alla lettura, un'ultima cosa: in questi giorni ho riletto
le recensioni a "Sinners" e ad altre opere che ho pubblicato in passato.
Se qualcuno di quegli antichi lettori si trovasse a scorrere queste
righe, sappiate che vi ringrazio dal più profondo
del cuore. Mi sono commossa rileggendovi. Vorrei tanto riuscire a darvi
di nuovo una cosa altrettanto coinvolgente e trascinante. Grazie a
tutti! Mi avete fatto riassaporare la vecchia atmosfera di efp, quando
il fandom di Naruto era casa mia e i buoni autori si conoscevano tutti
tra loro... Grazie davvero.
Clà,
tutto questo è dedicato a te.
Prologo
Era
rimasto così poco di quel tratto di foresta.
Lo
sguardo spaziava per centinaia di metri percorrendo una desolazione
quasi assoluta, sorvolava tronchi anneriti, foglie accartocciate che
turbinavano nella brezza, dune di cenere che si alzava e mulinava
infilandosi giù per la gola. Un deserto bianco e nero.
Ma,
nei suoi occhi, ancora scarlatto, oro e giallo. E rovente.
Eppure
in quel momento faceva freddo. La pelle d’oca sulle sue
braccia non
era dovuta alla paura, all’ansia, all’angoscia che
aveva provato
davanti alle fiamme, ma soltanto al vento gelido che soffiava sullo
spiazzo. Un tuono rombò tra le nubi basse. I lampi correvano
da una
parte all’altra del cielo, inseguendosi rapidi come un
battito di
ciglia. La prima goccia di pioggia cadde su un mucchietto di cenere;
uno sbuffo bianco si sollevò nell’aria, poi un
altro e un altro
ancora. Nel giro di pochi minuti il terreno si trasformò in
un
pantano grigio e vischioso in cui i resti di legno carbonizzato
emergevano come isolotti solitari.
Kotaro
non sentiva le gocce che picchiettavano sulle sue spalle né
i
capelli che si appiccicavano alla nuca. Non sentiva il freddo,
anomalo per quel mese, insinuarsi sotto i vestiti, sotto le bende,
fino alla carne, non sentiva nemmeno il suo cuore che batteva. Nelle
orecchie avvertiva soltanto il rombo lontano dell’incendio,
davanti
agli occhi vedeva divampare le fiamme. Abbassò lo sguardo
allontanandolo dai resti lasciati dal fuoco, e rivoletti
d’acqua
gelida gli corsero lungo il collo senza strappargli alcun brivido.
Si
sentiva inutile. Debole e inutile. Per questo i ricordi trovarono il
modo di insinuarsi ancora una volta oltre le sue deboli difese.
Lingue
di fiamma s’alzavano e abbassavano con ritmo irregolare,
risucchiando l’aria e la vita stessa, portando via anni,
sentimenti, tutto un passato. Parole dolorose gli rintronavano in
testa, ossessive e terribili. Avevano sbagliato qualcosa; no, lui
aveva sbagliato tutto. Sentiva il calore del fuoco sulla pelle, il
dolore dei polmoni che cercavano ossigeno, eppure avanzava, stordito,
incapace di comprendere, di realizzare; avanzava e gridava la forza
della sua convinzione, anche se quella forza defluiva come un
torrente ad ogni nuovo passo.
Alla
fine cadeva, impotente. Cadeva, precipitando nel nulla più
oscuro...
«Maledizione...»
mormorò tra i denti serrati convulsamente.
«Maledizione!» ripeté
in un grido, il collo teso e i muscoli doloranti, i capelli che
stillavano gocce d’acqua gelida.
Una
fitta alla schiena lo colse impreparato, saettando lungo la spina
dorsale ed espandendosi dalla testa ai piedi; le gambe cedettero e
cadde in ginocchio, affondando nella cenere impastata. Ansante,
sentì
le mani immergersi nella poltiglia sotto di sé - cadaveri
- e
ne provò disgusto.
«Non
doveva finire così!» ansimò, stringendo
i pugni attorno alla melma
grigia. «Non così!»
In
quel momento, ancora offuscati dai residui del dolore, i suoi occhi
distinsero qualcosa accanto allo scheletro di un tronco. Con gesto
automatico Kotaro tese la mano e lo estrasse dalla cenere. Era una
piuma, un oggetto tanto fuori dal contesto da sembrare surreale. Una
piuma sporca, bagnata, grigia, ma sorprendentemente intatta. Sapeva
qual era il suo vero colore oltre la crosta.
«Non
doveva essere così...» gemette di nuovo. Le sue
spalle si piegarono
sotto il peso del rimpianto, di tutto quello che avrebbe potuto fare
e non aveva fatto, delle promesse non mantenute e della delusione
cocente della realtà sbattuta in faccia.
Un’ombra,
nascosta tra gli alberi poco distanti, sorrise
nell’oscurità. Un
lampo fece brillare sinistramente una fila regolare di denti bianchi
e poco più in basso, tra le dita, barlumi di metallo
affilato.
«Hai
perfettamente ragione.»
Un
sibilo veloce, che si confuse con lo scroscio della pioggia, e il
breve luccichio della lama che fendeva l’aria.
Un
tonfo leggero e attutito, un gemito involontario.
Dalla
sua posizione tra i rami l’ombra vide il kunai affondare nel
dorso
dello shinobi, infilandosi tra le coste e perforando i polmoni. Le
sue labbra si incresparono di nuovo mentre il ragazzo cadeva riverso
in avanti, gli occhi stupiti che si accecavano nella poltiglia
grigia.
Uno
sbuffo di fumo disperso dall’acqua e l’ombra
scomparve.
Testimoni
di ciò che era accaduto restarono soltanto la pioggia, e
piume nella
cenere.
Piume
nella cenere
Capitolo
primo
Festa
di compleanno
Singhiozzi
sommessi, fruscii impercettibili di piedi che scivolano sul legno.
«No,
per favore no...»
Una
supplica, fatta con voce tremante e quasi impercettibile da un angolo
del pavimento polveroso.
Non
era una vera e propria capanna. Era più un riparo di
fortuna,
quattro assi messe insieme per difendersi dalle intemperie.
C’era
uno spiraglio che fungeva da finestra sulla parete opposta alla
porta, ma era sprangato e lasciava entrare soltanto listarelle di
luce grigia in cui la polvere si muoveva lentamente.
«Ti
prego, lasciami andare... Non uccidermi, per favore, non volevo nulla
di tutto questo...» Di nuovo la stessa voce di ragazza, il
fruscio
irregolare, un respiro spezzato nella penombra. «Ti
prego!»
In
un altro angolo giaceva un involto macchiato di sangue, gettato con
malagrazia sul pavimento ammuffito e lì dimenticato.
Un’ombra si
muoveva nello spazio ristretto della baracca.
«Zitta»
sibilò malevola prima di raggiungere la finestra sprangata e
guardare fuori.
Nella
foresta regnava la quiete del mattino, nulla si muoveva tra le
foglie. Una risata tagliò l’aria viziata.
«Li
abbiamo seminati, eh?» chiese la voce. Il suo proprietario,
un uomo
giovane dalla barba mal rasata, si passò una manica sulla
fronte
imperlata di sudore. Con passo leggero raggiunse l’angolo da
cui
proveniva il pianto sommesso e si accucciò appoggiando i
gomiti alle
ginocchia. Un raggio di luce gli attraversava la faccia da zigomo a
zigomo, evidenziando gli occhi affilati e un coprifronte con inciso
il simbolo della Roccia. «Su, non fare così.
Guarda il lato
positivo: non dovrò ucciderti per creare un
diversivo.»
Un
gemito si sollevò dal corpo che tremava
nell’angolo. «Per favore!
Non volevo nemmeno fare questo lavoro, io volevo solo vivere una vita
tranquilla! Lasciami andare, ti prego...» implorò
la voce, e una
mano leggermente abbronzata si tese nel raggio di luce verso il ninja
della Roccia.
«Lasciarti
andare?» rise quello, afferrando il polso che si protendeva
verso di
lui. Con il pollice accarezzò rudemente il palmo graffiato.
«Ma no»
decise, socchiudendo le palpebre. «Ho un’idea
migliore.»
L’uomo
tirò a sé il braccio, e il corpo di ragazza ad
esso attaccato fu
strattonato avanti contro la sua volontà. Capelli neri
trattenuti da
una coda alta frusciarono sul pavimento polveroso mentre la mano
libera frenava la caduta all’ultimo secondo.
«Come
kunoichi sei pessima, ma non sei male come femmina»
commentò l’uomo
tirandola in ginocchio a forza. «Quindi, visto che i tuoi
compagni
ti hanno abbandonata, posso occuparmi io di te, almeno per un
po’»
le sollevò il mento, facendo in modo che la luce fioca le
illuminasse il viso, scorrendo su occhi neri spaventati e una
cicatrice che tagliava il sopracciglio sinistro in una linea quasi
bianca.
«Per
favore, non...» iniziò la ragazza aggrappandosi
alla sua divisa da
Jonin, ma lui bruscamente strinse le mani sulle sue braccia.
«Com’è
che ti chiamavano?» chiese ignorando le sue lacrime. La
spinse
schiena a terra, scivolando carponi su di lei. «Ah, ora
ricordo...»
nella penombra sporca e polverosa sorrise come davanti a
un’importante conquista, e il nome che arrotolò
sulla lingua aveva
una morbidezza lasciva da far accapponare la pelle: «Chiharu,
giusto?»
«Non
arriveremo mai in tempo.»
Ansiti
veloci, mescolati al fruscio delle foglie e agli schiocchi dei
rametti spezzati sotto i piedi. Quando i ninja si muovono sono rapidi
e silenziosi, ma quando sono di corsa riescono ad essere soltanto
rapidi. Era un gruppetto compatto ma frettoloso quello che balzava in
quel momento da un ramo all’altro della foresta, seguendo una
pista
quasi invisibile. Sui coprifronte di tutti i membri balenava il
simbolo della Foglia, alle cinture erano appesi kunai e shuriken.
«Dici
che non ce la facciamo?» domandò lo shinobi alla
guida del gruppo
stirando le labbra in un sorriso.
«Sì
invece» disse tra i denti quello che lo seguiva
più da vicino, un
ragazzo dalle sopracciglia incredibilmente folte e dal taglio di
capelli curiosamente
ovoidale.
«Dobbiamo solo aumentare la velocità!»
«Aumentarla
ancora? E che facciamo, lasciamo indietro i polmoni?»
ansimò il
compagno alle sue spalle, un giovane dai lineamenti morbidi
decisamente più attraente ma anche più affaticato.
«Non
ti alleni abbastanza, Hitoshi!»
«Mi
piace restare entro i limiti umani!»
«Se
avete fiato da sprecare possiamo davvero aumentare il passo»
intervenne lo scompigliato biondo che li guidava, scoccando a
entrambi un’occhiata ghignante. Sembrava il più
anziano dei tre,
ma tutto nel suo atteggiamento provava a nasconderlo.
«Piano
con le minacce!» gridò dal fondo una quarta voce,
femminile questa
volta. Qualche ramo più indietro l’unica ragazza
del gruppo
arrancava ansimando, con un solco di disappunto disegnato in mezzo
alla fronte. Sopra l’occhio sinistro una cicatrice le
tagliava il
sopracciglio in verticale; sotto, un livido violaceo faceva bella
mostra di sé. Il suo nome era Chiharu Nara.
«Non
fare la pigrona, questo è tutto lavoro di gruppo»
sentenziò il
biondo con aria di rimprovero.
«E
poi è colpa tua se siamo in ritardo» aggiunse
quello che chiamavano
Hitoshi, il ragazzo attraente che correva poco più avanti.
«Tua e
dei tuoi errori di calcolo» insinuò, sventolandole
davanti lo
stesso involto macchiato di sangue che era stato nella capanna
polverosa.
La
kunoichi sul fondo lo fulminò con lo sguardo. «Non
ho sbagliato
nulla» sbottò. «Era tutto
previsto.»
«Anche
il livido su quello zigomo? E’ davvero poco
elegante.»
«Non
confonderti, Uchiha, non stiamo parlando della tua faccia. Io non
passo mezzora davanti allo specchio ogni mattina pensando a quanto
sono affascinante.»
«Beh,
è evidente che possiamo andare almeno al doppio
dell’attuale
velocità» li informò il biondo
interrompendoli.
«Allenamento!»
approvò lo shinobi dalle sopracciglia folte con un brillio
di
entusiasmo nello sguardo.
«Asp...!»
iniziò la ragazza, ma non era arrivata ancora alla quarta
lettera
che l’intero gruppo era schizzato avanti. «Io li
odio!» ringhiò
tra i denti, e suo malgrado aumentò il passo.
Sarebbero
dovuti passare di lì più di un’ora
prima, secondo i piani.
Stavano
portando a termine una delle banali missioni di livello A in cui
dovevano recuperare un documento che una spia aveva sottratto ai loro
archivi. Erano partiti all’inseguimento del ladro guardando
l’orologio ogni mezzora, perché quella sera
avevano un impegno a
cui nessuno di loro voleva mancare, poi però avevano avuto
il
classico minuscolo intoppo che capita sempre quando si ha fretta: la
spia si era rivelata più in gamba del previsto, la caccia si
era
trasformata in uno scontro all’ultimo sangue e loro avevano
realizzato che non sarebbero mai tornati a Konoha in tempo.
Così
Chiharu se ne era uscita con la sua brillante idea: fingere un
errore, lasciarsi prendere in ostaggio, mostrarsi debole e impaurita
e quando il ninja della Roccia avesse abbassato la guardia
neutralizzarlo in fretta e senza tante storie. Era sembrato un buon
piano finché non si era ritrovata sotto il nemico, con il
suo alito
acido a solleticarle il naso e un sasso scomodamente conficcato tra
le reni. Allora aveva cercato di concludere in fretta con un calcio
ben piazzato tra le gambe, ma l’altro, tra contorsioni di
bruciante
agonia, aveva tentato di ribattere con un pugno dritto in faccia, da
cui il livido.
Quando
il resto del gruppo aveva raggiunto la baracca nel bosco, dello
shinobi rimaneva soltanto un fagotto tumefatto.
“ Ha
fatto una cosa molto stupida” era stata la spiegazione di
Chiharu,
che continuava a tastarsi lo zigomo pulsante di dolore.
“ Spero
di non farne mai, quando ci sei tu nei paraggi” aveva
risposto
Naruto.
*
«Shh!
Sei rumorosa quanto un branco di pecore!» sibilò
una vocina
irritata nell’oscurità.
«Gregge,
non branco» la corresse un’altra.
«E’
la stessa cosa!»
«Di
chi è il gomito nel mio stomaco?» chiese una terza
voce, soffocata.
«Scusa»
rispose una quarta.
Qualcuno
sbuffò, e le foglie frusciarono scuotendo l’intero
cespuglio.
«Ma
perché mi sono lasciata coinvolgere?»
mugugnò una quinta voce,
leggermente più indietro.
«Zitta,
Mei!» sibilò la prima. «Finalmente
riusciamo a vedere qualc...
oh!» squittì all’improvviso, eccitata.
«E’ arrivato!»
Un
breve sconvolgimento di rami e radici, e quattro corpi in posizioni
contorte si ammassarono su un unico lato, sporgendosi fin quasi oltre
il riparo offerto dalle foglie. Un sospiro collettivo si
levò da
otto polmoni diversi.
«E’
sempre il più bello» commentò una voce
sognante.
«Beh,
il termine di paragone è mio fratello»
bofonchiò quella che prima
si era lamentata. «Chiunque ne uscirebbe vincitore.»
«Zitta!
Vuoi farci scoprire?» insorse di nuovo la prima voce, e il
volume
questa volta fu così alto da essere chiaramente udibile.
«Ha
guardato di qua!» strillò un’altra con
un misto di eccitazione e
panico nel tono. «Oddio,
si sta avvicinando!»
«Via!»
Altro
burrascoso ammassamento di rami, braccia e gambe che si incastrano.
Tra sibili e imprecazioni quattro ragazzine sui quattordici anni
emersero dal cespuglio con le acconciature irrimediabilmente rovinate
e le braccia coperte di graffi. Inciamparono nei loro stessi piedi,
si insultarono e infine piombarono a terra sbattendo il naso sul
terriccio umido.
«Bene
bene... Violazione
di domicilio, direi» commentò una voce flautata
sopra di loro.
Quattro
paia di occhi seguirono il contorno di un paio di piedi protetti da
sandali neri, risalirono lungo le caviglie scoperte, i polpacci
muscolosi e le gambe fasciate in pantaloni al ginocchio; e poi su,
lungo la maglia a rete e il top che copriva il seno, fino a un viso
terribilmente noto e spaventoso. Un viso il cui sopracciglio sinistro
era tagliato da una cicatrice trasversale e che aveva un livido
violaceo a decorarlo.
Chiharu
Nara fissò le quattro intruse con un sorriso che sarebbe
stato dolce
se non fosse stato platealmente falso.
«Volete
un pasticcino?» chiese accucciandosi alla loro altezza.
«E’ la
mia festa di compleanno, no? Siete venute fin qui, almeno mangiate
qualcosa.»
«Ecco,
noi, veramente...» balbettò la ragazzina sotto le
altre, a corto di
fiato.
«Dai,
lasciale andare» sbuffò una voce alle spalle di
Chiharu.
Le
quattro a terra sentirono il cuore rimbalzare dalla gola
all’osso
sacro. Con timore e reverenza si spostarono in modo da vedere oltre
le spalle della ragazza, per scoprire che si trovavano a meno di un
metro dal protagonista indiscusso dei loro sogni d’amore,
dall’obiettivo della missione di spionaggio di quella sera,
dal
sacro idolo che abitava le fantasie delle femmine di Konoha dai
dodici ai vent’anni: Hitoshi Uchiha, in tutto il suo
splendore di
affascinante erede del clan Uchiha, per l’occasione di bianco
vestito.
Se
non fossero già state a terra sarebbero svenute sul posto.
«Si
sono imbucate alla mia festa» disse Chiharu lamentosamente,
appoggiando un gomito al ginocchio e il mento sulla mano.
«Che
almeno rubino qualcosa dal rinfresco.»
«Noi
non volevamo...» pigolò una delle ragazzine,
arrossendo fino alle
orecchie.
«Farvi
scoprire?» suggerì la kunoichi.
«Suppongo
di no» commentò Hitoshi, le mani affondate in
tasca. Gettò
un’occhiata al cespuglio da cui le quattro erano spuntate e
vide
una quinta sagoma rannicchiata nella speranza di diventare
invisibile. «Una c’era quasi riuscita.»
La
ragazzina nell’ombra sospirò, rassegnandosi
all’inevitabile, e
di malavoglia scostò i rami e si tirò in piedi.
«Mei?»
si sorprese Chiharu.
«Ci
tengo a precisare che mi hanno coinvolta contro la mia
volontà!»
brontolò lei arrossendo, e cercò inutilmente di
liberare i capelli
corti dalle foglie che erano rimaste impigliate.
«Me
lo auguro, visto che tu avevi un invito ufficiale e lo hai
rifiutato»
commentò Chiharu.
E
certo che l’aveva rifiutato. Una quattordicenne a disagio
alla
festa dei diciotto anni della kunoichi più odiata e
invidiata di
Konoha, soltanto perché condivideva almeno il sette per
cento del
patrimonio genetico con un suo compagno di squadra?
Quell’invito le
era arrivato solo per dovere, solo perché era il quarto
membro della
famiglia Lee: non si sarebbe mai sognata di prenderlo sul serio.
«Le
porto via» borbottò accennando alle ragazzine a
terra. «Scusate il
disturbo.»
«Ma
no, è stato divertente» ghignò Chiharu,
strappando un brivido alle
intruse. «Tanto questa festa è un
mortorio.»
Mei
aiutò le amiche ad alzarsi, sospirò e rispose
svogliatamente al
cenno di saluto di Chiharu. Le altre si allontanarono incassando la
testa tra le spalle e lei le seguì cupamente.
«Perché
diavolo mi sono lasciata trascinare?» borbottò tra
sé e sé.
File
di lucine gialle correvano al di sopra del giardino dei Nara
intrecciandosi in corrispondenza di tavoli e sedie. Il cielo terso
era solcato da una mezza luna piccola ma nitida, e un’arietta
leggera portava tutt’intorno l’odore dei pruni
selvatici che
fiorivano in abbondanza nella vicina foresta del clan.
Il
due maggio, alla festa di compleanno di Chiharu Nara, era presente
metà della nobiltà di Konoha: i soli membri dei
clan Hyuuga, Uchiha
e Uzumaki avrebbero costituito di per sé materiale pregiato,
ma per
alzare la posta erano anche circondati da storici eroi della Foglia e
personaggi dalle parentele illustri.
Al
centro delle attenzioni c’era il capogruppo della
festeggiata, il
biondo Naruto Uzumaki, che si dava da fare per intrattenere gli
ospiti raccontando chissà quale storia di
gioventù. Da quando le
sue missioni erano diventate ben poco allegre e molto condite di
sangue e feriti aveva preferito variare il tema e buttarla sul ridere
raccontando degli esordi. Sua moglie, ex membro del nobilissimo clan
Hyuuga, era seduta a breve distanza accanto a Yoshino Nara, e di
tanto in tanto alternava un’occhiata al marito e una ai tre
figli
che li accompagnavano, impegnati nella meticolosa esplorazione del
giardino.
Appollaiati
sulle varie sedie messe a disposizione dai Nara e sistemati in
cerchio attorno a Naruto c’erano i Lee, marito e moglie, gli
Akimichi, i coniugi Uchiha, Shikaku Nara e ovviamente i padroni di
casa. Il tavolo degli stuzzichini era posizionato strategicamente a
portata di mano di Choji Akimichi.
Eppure,
nonostante la festa fosse per i diciotto anni di Chiharu,
l’età
media degli invitati era ben al di sopra dei vent’anni.
«Hai
ragione, è un mortorio» dovette convenire Hitoshi
dall’angolo
scuro in cui aveva scoperto le piccole spie con Chiharu. «I
racconti
di Naruto fanno ridere solo chi c’era allora.»
«E’
già un miracolo che alla fine siamo arrivati in tempo. E poi
meglio
soli che male accompagnati» citò Chiharu in un
tono che non
convinceva neanche lei.
«La
classica scusa degli asociali» sorrise lui scoccandole
un’occhiatina
di superiorità. «E comunque non sono del tutto
certo che la
compagnia qui sia ottima...»
Con
un cenno del mento indicò il tavolo degli alcolici, dove
Kotaro
cercava di fare l’indifferente e intanto studiava ogni
etichetta,
ma soprattutto indicò il ragazzo biondo che si versava un
bicchiere
di sakè a qualche passo da lui. Doveva avere più
o meno la loro
età, e il colore dei suoi capelli era così acceso
da indurre
chiunque a definirlo giallo,
più che biondo.
«A
me Yoshi piace» commentò Chiharu in tono un
po’ sostenuto.
«Bah»
fece Hitoshi, frugando nelle tasche alla ricerca di qualcosa.
«Almeno
non c’è Sai» bofonchiò
tirando fuori un pacchetto di sigarette.
Chiharu
non commentò. Se non aveva invitato lo shinobi
più impassibile di
Konoha pur avendo invitato quasi tutti i suoi coetanei era per una
buona, anzi un’ottima ragione.
«Allora,
finalmente ti sei decisa a dare quel benedetto esame?» chiese
Hitoshi dopo essersi acceso la prima sigaretta. Inspirò una
boccata
ed espirò, osservando il fumo che saliva lento verso la luna.
«No»
rispose lei in tono vago.
«Mi
fai incazzare... Sai che è praticamente una
formalità, ma sei così
pigra che non hai voglia nemmeno di iscriverti.»
«A
che mi serve essere Jonin? Tanto le missioni di livello A me le danno
comunque, dov’è il problema?»
«Non
c’è nessun problema» disse Hitoshi
mellifluo. «Se non che sulla
carta io e Kotaro siamo a un livello superiore.»
Chiharu
lo guardò storto. «Se questa è la tua
strategia ti informo che non
funzionerà due volte. Mi sono già fatta fregare
con l’esame per
Chunin, non ripeterò lo stesso errore.»
Qualche
anno prima, in occasione delle selezioni per passare di grado, Kotaro
e Hitoshi non solo avevano iscritto la reticente compagna a sua
insaputa, ma erano anche riusciti a sobillarla nel bel mezzo di una
prova, spingendola a darsi da fare per superarla come se ne andasse
della sua vita. Era bastato farle trovare davanti Baka Akeru e la sua
debordante strafottenza, aggiungere qualche parolina discreta, e
Chiharu si era subito infiammata. L’esame poi era finito in
fretta.
Hitoshi
si strinse nelle spalle e sbuffò. Chiharu era
l’unico essere umano
in grado di farlo incazzare in meno di cinque parole di senso
compiuto. Meglio di lei c’era solo Baka, ma lui partiva
avvantaggiato perché era odioso a prescindere. Irritato,
l’Uchiha
aspirò una boccata dalla sigaretta e si massaggiò
una tempia con le
dita.
«Emicrania?»
chiese Chiharu, appigliandosi alla prima distrazione per cambiare
discorso.
«Colpa
tua» bofonchiò lui.
«O
magari della tua testaccia bacata» replicò lei
puntigliosa. «Inizio
a pensare che ti piaccia soffrire, visto che hai una madre medico e
ti ostini a non farti fare un controllo come si deve.
L’autolesionismo è un problema, sai?»
Hitoshi
studiò per qualche istante la sua sigaretta, senza
commentare, poi
aggrottò la fronte. «Sta’ zitta,
stupida: non si scherza su
queste cose.»
Chiharu
sospirò. «Guardandoti capisco quanto sono
fortunata ad essere
figlia unica.»
Hitoshi
sorrise amaro e lasciò cadere a terra il mozzicone ormai
esaurito,
calpestandolo sotto un piede. Alzò lo sguardo per
controllare che il
cespuglio che lo nascondeva alla vista dei suoi genitori fosse ancora
al suo posto, quindi scrollò le spalle.
«Dovresti
compiere il tuo dovere di festeggiata e farti vedere tra gli
invitati» mormorò ravvivandosi i capelli scuri.
«Giusto.
E fermiamo Kotaro prima che porti via una bottiglia di
sakè»
sospirò lei accennando alla zona alcol.
Insieme
si avviarono verso l’angolo del giardino da dove provenivano
le
risate degli adulti, e Chiharu sorrise a Naruto che le faceva cenno
di avvicinarsi.
«Penso
io a Kotaro» le disse Hitoshi separandosi da lei.
Il
tavolo degli alcolici era poco distante da quello degli stuzzichini,
ma lì le risate giungevano attutite e le voci smorzate.
Hitoshi
raggiunse Kotaro alle spalle.
«Lascia
perdere, idiota» fu il primo gentile commento che gli rivolse.
Il
giovane Lee trasalì e fece un passo indietro.
«Non
stavo facendo niente!»
«Lo
sai che non puoi toccarne neanche un goccio»
replicò Hitoshi, e con
gelida perfidia prese un bicchiere e lo riempì lentamente.
«Non
è colpa mia se non lo reggo» si lamentò
Kotaro affranto. «E’
colpa di papà. Avrebbe dovuto abituarmici pian
piano...»
«O
magari avrebbe dovuto evitare di trasmetterti i geni sbagliati. Con
la sbornia facile poteva passarti almeno la tecnica
dell’ubriaco,
invece niente» ribatté l’Uchiha, bevendo
il primo sorso e
ricacciando giù le spontanee smorfie di disgusto. Non era un
grande
amante dell’alcol, ma stuzzicare Kotaro era uno dei suoi
passatempi
preferiti.
«Tuo
padre invece ti ha trasmesso la simpatia» brontolò
Kotaro tra i
denti.
Lui
e Hitoshi rimasero in silenzio per qualche minuto, fissando gli
adulti che ridevano tra loro. Più oltre, nella zona buia del
giardino, cinque bambini sbucavano e scomparivano tra i cespugli
fingendosi grandi ninja in missione.
«Dov’è
Haru?» chiese Kotaro corrugando la fronte.
Hitoshi
la cercò con lo sguardo tra gli adulti ma non la
trovò, e nel
contempo si rese conto che mancava anche un’altra persona.
Prima
che potesse controllarsi gli sfuggì una smorfia di
irritazione.
«Guarda
caso è sparito anche lo stupido pulcino»
mormorò studiando il sakè
nel suo bicchiere.
Kotaro
si rabbuiò a sua volta. «Cosa ci trova in lui,
poi...»
«Sono
idioti uguali, probabilmente. Lei perché è lei,
lui perché si è
ossigenato anche il cervello quando si è fatto
biondo» commentò
Hitoshi.
Kotaro
si lasciò sfuggire un sorrisino e prese un bicchiere vuoto.
«Kanpai»
disse in tono rassegnato, stringendosi nelle spalle.
L’Uchiha
toccò il bicchiere con il suo, e la plastica
scricchiolò nell’aria
tiepida.
«Ok.
Nessun pericolo.»
«Nulla
nemmeno di qui.»
«Qui
neppure.»
«Allarme!»
Cinque
sagome balzarono fuori dai cespugli e si avventarono
sull’ombra
che, incauta, aveva osato avvicinarsi abbastanza da costituire una
minaccia. Ci fu una breve colluttazione, infarcita di strilletti
acuti, imprecazioni ingenue e tonfi, dalla quale emersero in
posizione eretta soltanto due ragazzini.
«Hanno
cinque anni!» protestò quella tra i due che
sembrava una femmina,
additando i bambini che si rialzavano doloranti.
«Mi
hanno attaccato» replicò l’altro.
«Sapevano cosa aspettarsi.»
«Sì,
il trattamento riservato ai bambini di cinque anni!»
«Zitta
Hina!» scattò il primo dei piccoli che si era
rialzato, premendo
una mano sulla guancia arrossata e tenendo le mascelle contratte nel
tentativo di impedirsi di piangere. Biondo e scompigliato, aveva
occhi di un azzurro molto chiaro ed era probabilmente il più
basso
del gruppo. «Siamo ninja, sappiamo come funziona!»
decretò
orgoglioso.
La
ragazzina che li aveva difesi grugnì e incrociò
le braccia sul
petto, roteando gli occhi candidi. «Ninja!»
ripeté sarcastica.
«Non sai nemmeno raccogliere il chakra, che ninja vuoi
essere?»
Il
bambino arrossì indignato. «Ho solo cinque
anni!» sbottò con voce
vibrante d’orgoglio. «Vedrai che quando ne
avrò quindici dovrai
rispettarmi, stupida sorella!»
«Intanto
tu
vedi di
rispettare me»
sibilò Hinagiku Uzumaki facendogli arrivare un pugno sulla
nuca. «Forza,
andate a giocare altrove, sciò» aggiunse poi,
rivolgendosi questa
volta anche agli altri tre bambini.
«Io?»
balbettò quella un po’ più grande, una
bambina con i suoi stessi
occhi chiari.
«Anche
tu!»
«Sì,
andiamocene» con un brillio malvagio il bambino biondo
scoccò
un’occhiata al ragazzino che aveva cercato invano di
attaccare, ora
silenzioso e vagamente incuriosito. «Mia sorella deve dire a
Jin che
lo ama tanto» concluse perfido.
Hinagiku
avvampò di rabbia. «Ti ammazzo!»
gridò, facendo per avventarsi
sul fratello, ma quello con un gridolino sgusciò via.
«Scappiamo!»
rise, e corse tutto allegro verso il centro del giardino e la
salvezza rappresentata dagli adulti. «Abbiamo tante altre
missioni
da portare a termine anche senza di te!» aggiunse prima di
sparire
dietro il tavolo degli stuzzichini, regalandole un’ultima
boccaccia. L’altra sorella lo guardò incerta, poi
notò gli occhi
furenti di Hinagiku e decise di accodarsi in tutta fretta. Gli ultimi
due bambini, rispettivamente un maschio dagli sconvolgenti capelli
rosa e una femmina castana e paffuta, sbuffarono.
«Stupido
Micchan, perché finisce sempre così?»
si lamentò la bambina.
«Dobbiamo correre, correre e correre quando
c’è lui di mezzo...»
«Sappiamo
com’è fatto» commentò il
bambino stringendosi nelle spalle.
Aveva un occhio verde e uno di un rosso intenso, che insieme ai
capelli rosa lo rendevano particolarmente poco mimetico.
«Andiamo a
mangiare qualcosa?» propose.
«Sì!»
gli occhi azzurri della bambina si accesero di entusiasmo, e con un
ciao frettoloso entrambi corsero via.
Hinagiku
digrignò i denti. «Ehi, guarda che non diceva mica
sul serio!»
scattò subito, fissando ansiosamente il ragazzino che le
stava
davanti.
Lui
ricambiò lo sguardo senza scomporsi, gli occhi blu pacati e
vagamente divertiti. «Ma certo.»
«E’
uno stupido bambino idiota!» continuò lei
infervorata. «Cioè,
pensa te se io devo... Con te, poi, che a volerla dire tutta mi stai
anche antipatico!»
«Davvero?»
«No!»
si affrettò a negare lei, arrossendo di nuovo.
«Cioè, un po’. Ma
solo un pochino. Insomma, sei un po’ troppo bravo in... in...
beh,
in tutto, per essere simpatico.»
«Immagino
di sì» constatò lui, riflessivo.
Hinagiku
si maledisse mille volte. «Comunque non mi piaci»
ci tenne a
chiarire assottigliando gli occhi.
«Va
bene» l’altro annuì. E lei si
sentì un po’ delusa. «Devo
ancora dare il suo regalo a Chiharu» continuò lui,
cercando la
festeggiata con lo sguardo.
Hinagiku
sentì un piccolo peso sullo stomaco. Aveva aspettato che Jin
Hatake arrivasse per metà della serata, e appena faceva la
sua comparsa se
ne andava da un’altra? Forse non avrebbe dovuto unirsi al
finto
attacco dei suoi fratelli, prima; aveva pensato che fosse un modo
scaltro per avvicinarlo, ma probabilmente lo aveva solo indispettito.
«Dieci
minuti fa stava parlando con il suo amico biondo»
borbottò,
notevolmente più fredda. «Ora non so dove si siano
cacciati.»
«Lo
darò a sua madre» Jin la guardò un
istante più del dovuto, come
se esitasse. «Mi accompagni?»
Hinagiku
si illuminò. Accorgendosene schiarì la voce e
cercò di darsi un
contegno. «Va bene» disse noncurante, stringendosi
nelle spalle in
maniera così innaturale che si stirò un muscolo
del collo.
«Comunque ti faccio notare che prima non mi hai
atterrata» aggiunse
dopo un momento, tutta orgogliosa.
Jin
sorrise senza farsi vedere. Era appena rientrato da una missione di
livello A insieme a un Jonin che aveva fatto parte degli Anbu.
Hinagiku, per quanto avesse solo un anno meno di lui, non aveva
ancora finito l’Accademia.
Certe
cose non accadono per caso.
«Come
al solito!» sbuffò Naruto piegando la testa
all’indietro. «Io
l’ho sempre detto che quell’uomo non era adatto a
fare l’Hokage!
Non riesce neanche a liberarsi per un paio d’ore, roba da
matti!»
Jin,
davanti alla sua sedia, si strinse nelle spalle.
«E’ arrivato un
blocco di messaggi un attimo prima che finisse di lavorare,
così
l’assistente lo ha blindato nel suo studio»
spiegò. «Sembra che
ormai le pile di documenti raggiungano il metro d’altezza, ma
potrebbe anche essere una leggenda.»
«Come
se non fosse perfettamente in grado di svignarsela!» Naruto
rialzò
la testa e guardò male Jin, in mancanza di Kakashi.
«Te lo dico io:
sta sfruttando la situazione per leggere L’esperienza
della Pomiciata,
l’ultima schifezza che ha sfornato quel vecchio porco di
Jiraya!»
«E
che anche tu hai letto, prima della pubblicazione»
sottolineò una
voce alle sue spalle. Chiharu comparve dietro la sua sedia e gli
batté una pacca affettuosa sulla spalla.
«Che
stai dicendo?» scattò lui, sulla difensiva.
«Jiraya
mi ha mostrato la copia da mandare in stampa»
spiegò lei con un
sorriso. «Se non sbaglio al capitolo tre c’era un
tuo commento su
una certa scena, che avevi definito... Com’era? Troppo
poco...»
«Ehi,
la roba che scrive Jiraya non è vietata ai
minori?» si intromise
Temari Nara, drizzando le orecchie al primo segno di scorrettezza.
«Questa
festa non è per i miei diciotto anni?»
«Quindi
quando hai letto la bozza non eri affatto maggiorenne!
Perché Jiraya
non è qui? Devo dirgli un paio di cose...»
«Lascia
perdere» gemette Shikamaru, esausto consorte.
«Io
non
ho lasciato nessun
commento sulla bozza del libro!» sottolineò Naruto
gesticolando per
attirare l’attenzione.
«Ammetti di averlo
letto, però» puntualizzò Chiharu.
«No!»
«E tu invece?»
sibilò Temari alla figlia.
«Se vado a prendere
mio padre semplifichiamo le cose?» propose Jin pieno di buona
volontà.
«Ma di che libro
parlano?» chiese Hinagiku.
«Allora, sulla
quarta di copertina dice che...»
«Non
ti azzardare a dire un’altra parola!»
strillò Naruto, tappando convulsamente le orecchie di
Hinagiku.
Shikamaru esalò un
sospiro profondo quanto l’inferno, svuotò il suo
bicchiere di saké
e lo tese flemmaticamente a Choji perché lo riempisse. E fu
allora
che emerse il commento più inaspettato di tutti, proprio dal
rassicurante, tondo, tranquillo Akimichi: «Io l’ho
letto quel
libro. Non è scritto male.»
Gli
ultimi ospiti se ne andarono quando la luna sfiorava il tetto di casa
Nara, disegnando ombre lunghe nei punti del giardino non illuminati.
Sul tavolo del buffet restava solo una tovaglia coperta di briciole,
su quello degli alcolici bottiglie vuote e bicchieri rovesciati. Le
sedie ancora sparse per il prato erano fredde e deserte, una brezza
leggera faceva svolazzare un tovagliolo di carta nel silenzio della
notte. Davanti al cancello tre sagome parlottavano a bassa voce.
«Come
abbiamo potuto distrarci?» sospirò Chiharu
scuotendo tristemente la
testa.
«Io
non so» replicò Hitoshi asciutto. «Ma tu
ci riuscivi abbastanza
facilmente.»
Lei
inarcò un sopracciglio, quindi si lasciò sfuggire
un mezzo sorriso,
cogliendo il riferimento a Yoshi.
«Un
Uchiha geloso, tu guarda» commentò dolcemente, e
Hitoshi arrossì
nel buio.
«Stronzate»
ringhiò. «Buonanotte, eh.»
Kotaro,
accasciato sulla sua spalla, gemette nel sonno quando lui si
voltò.
«Piano...» biascicò in un mormorio, e
dalla sua bocca l’odore
dolciastro dell’alcol si diffuse nell’aria.
Chiharu
guardò i due che si allontanavano, le ombre sovrapposte in
un
grottesco superuomo bitorzoluto, quindi gettò
un’occhiata alla
luna alle sue spalle. A giudicare dalla sua posizione dovevano essere
quasi le due.
Perfetto.
Shikamaru
e Temari Nara, mentre si infilavano sotto le lenzuola discutendo
degli inopportuni gusti letterari di Chiharu, pensarono che la loro
unica figlia avesse deciso di accompagnare a casa i compagni di
squadra per aiutare quello sobrio a trasportare quello ubriaco.
Quando non la sentirono rientrare non si preoccuparono né
ebbero
alcun sospetto. Si limitarono a sbadigliare, posare la testa sul
cuscino, rannicchiarsi l’uno accanto all’altro e
chiudere gli
occhi, la fronte di lei contro la schiena di lui in una diplomatica
tregua notturna.
Se
avessero anche solo sospettato
la verità
probabilmente non sarebbero riusciti a chiudere occhio.
Chiharu
in quel momento si muoveva sui tetti di Konoha: evitava la luce delle
stelle passando rasente i muri, saltava di palazzo in palazzo senza
fare rumore. Le bastarono pochi minuti per arrivare in un quartiere
anonimo del villaggio, una zona densa di condomini e piccole
abitazioni senza giardino, e una volta lì si
fermò nel cono d’ombra
tra due edifici.
Nel
buio, da sola, si concesse un ultimo minuto per ripensarci. Cinque
anni erano tanti e le persone cambiavano... Magari lui non ricordava
neanche più quella promessa. Era molto probabile, in
effetti, quasi
sicuro. Però lei la ricordava ancora. E lavorando in team
con
Hitoshi e Naruto il suo già ampio ego si era sviluppato fino
a
diventare piuttosto invadente, il che le impediva di ignorare le
spacconate sparate in gioventù. Era una questione di
principio.
Lo
ricordò a sé stessa mentre si costringeva ad
accantonare gli ultimi
dubbi, calandosi lungo la parete fino a una finestra precisa.
Non
è il momento di fare l’adolescente,
si rimproverò sistemandosi meglio sul cornicione.
Prima
che il suo corpo potesse opporsi bussò al vetro.
Per
un attimo non accadde niente. Poi, all’improvviso, un viso
bianco
comparve nel riquadro disegnato dal telaio e la finestra si
aprì con
un lieve cigolio. Chiharu si costrinse a sembrare adulta e sicura di
sé mentre Sai, dall’interno, la fissava con lo
sguardo assonnato
di chi è stato appena tirato giù dal letto.
«Che
ci fai qui?» le chiese senza offrirle di entrare.
«Oggi
è il mio compleanno» rispose lei, incapace di
trattenere un sorriso
nervoso.
«Auguri»
commentò Sai senza capire. «Se l’avessi
saputo prima mi sarei
procurato un regalo... Credo.»
Chiharu
non si lasciò smontare dalla freddezza del Jonin, e invece
lo studiò
lasciando indugiare il sorriso sulle labbra. «Non sono qui
per
quello.»
«Allora
che ci fai alle due di notte sul mio davanzale?»
Il
cuore di Chiharu accelerò. «Ti do una mano: quanti
anni compio
oggi?»
Sai
fece un rapido calcolo. «Diciotto?»
«Esatto.
E cosa ti avevo promesso che sarebbe successo una volta che fossi
diventata maggiorenne?»
All’improvviso
un guizzo di comprensione brillò negli occhi del Jonin,
seguito
dalla sorpresa più pura. Allora non se ne era scordato
proprio del
tutto.
«Stai
dicendo sul serio?» domandò. Gli capitava
raramente di essere colto
impreparato.
Chiharu
arrossì nel buio. «Ero serissima cinque anni fa, e
la sono anche
adesso.»
«Ah»
fece lui, suo malgrado incuriosito. «E quindi saresti qui
per...?»
«Di
certo non pretendo risultati immediati» sbottò
Chiharu stizzita.
«Ma devo pur incominciare da qualche parte.»
«A
sedurmi?» chiese Sai, incurvando un angolo
della bocca in un
sorrisino ironico.
Ora
ricordava tutta la conversazione in ospedale. Chiharu aveva promesso
che una volta diventata maggiorenne gli avrebbe fatto perdere la
testa. All’epoca sembrava determinata a costringerlo a
sposarla, ma
poi le occasioni per vedersi si erano diradate e lui non aveva
più
pensato alla ragazzina arrogante che si era presa una cotta per il
maestro dell’Accademia. Dopo tutti quegli anni, lei ancora...?
«Dovresti
prendermi sul serio» la ragazzina ormai cresciuta interruppe
il
flusso dei suoi pensieri.
«E
come faccio?» Sai sospirò. «Potrei
essere tuo padre.»
Chiharu
strinse i denti irritata. Aveva aspettato di essere maggiorenne
proprio perché tutti riconoscessero ufficialmente che era
adulta,
adesso lui cambiava le carte in tavola e iniziava a trattarla come
una bambina?
«Potresti
essere mio padre, è vero, ma io non poterei mai essere tua
figlia»
mormorò.
E,
prima che lui ribattesse, si sporse attraverso il telaio della
finestra e lo baciò. Labbra contro labbra, per la prima
volta nella
sua vita: era una sensazione più delicata di quel che aveva
immaginato, ma ugualmente elettrizzante. Si ritrasse quasi subito,
incapace di reggere alla tensione, e si concesse un sorriso di
trionfo.
«Primo
passo» mormorò, grata alla notte perché
nascondeva il suo rossore.
Schivando
gli occhi sbalorditi di Sai balzò sul tetto della villetta
accanto,
ansiosa di allontanarsi e scaricare i nervi. Si sentiva pervasa da un
piacevole senso di conquista, rovinato solo dal sospetto di essere
passata per ridicola. Ma il primo bacio è il primo bacio,
non si
scappa, e Chiharu aveva diciotto anni e un grande successo di cui
compiacersi.
Se
non fosse stata in mezzo al villaggio in piena notte avrebbe gridato
la sua vittoria al mondo.
Altrove,
sotto lo stesso cielo, una lampada da tavolo illuminava un foglio di
carta coperto da una calligrafia minuta.
La
mano che lo teneva stretto era bianca, grande e immobile. Ma il suo
proprietario, il sesto Hokage del villaggio della Foglia, fissava il
codice e il messaggio che racchiudeva con gli occhi sbarrati e le
palpebre tremanti.
La
scintilla.
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Capitolo 2 *** Il Gran Consiglio ***
02
Capitolo secondo
Il
Gran Consiglio
Il
clima del Paese del Vento era generalmente secco e torrido. Il sole
di mezzogiorno incrinava le pietre e faceva tremare l’aria
avida di
frescura, ma l’afa per fortuna era rara. Nella sua conca di
arenaria rossa il villaggio di Suna riposava sotto un cielo luminoso,
circondato dalla coperta troppo calda della sabbia che si infilava
ovunque; il suo silenzio era rotto soltanto dai ronzii degli insetti
nascosti tra le ombre e da sporadiche voci dalle camere da letto,
dove gli abitanti del villaggio si ritiravano a riposare dopo il
pasto di metà giornata.
Nel
suo studio, con l’aria fredda del condizionatore puntata tra
gli
occhi, il Kazekage teneva la testa appoggiata a una mano e fissava la
porta senza vederla. La mano libera era posata sul piano della
scrivania, morbida, ma con le dita tamburellava nervosamente sul
legno.
Gaara
era teso, il che di recente gli capitava troppo spesso. Da qualche
giorno aspettava un messaggio, certo che fosse sulla strada per il
suo studio, ma ogni volta che attendeva uno
di quelli non
poteva fare a meno di sentire la sudorazione aumentare in maniera
esponenziale. Proprio mentre iniziava a considerare l’idea di
temperare tutte le matite della scrivania un bussare educato ma
improvviso lo fece sussultare.
«Sì,
avanti» disse un po’ troppo in fretta,
ricomponendosi rapido.
Sulla
soglia comparve una donna dall’aria impeccabile, con lunghi
capelli
rossi raccolti in una crocchia e occhiali dalla montatura spessa.
Entrando gettò uno sguardo interrogativo a Gaara, ma quando
si
richiuse la porta alle spalle non fece nessun commento.
«E’
arrivato un messaggio dalla Foglia» disse invece, andando a
raggiungere la scrivania. «Sembra che sia successo
qualcosa.»
Gaara
nascose l’emozione e prese il foglio che lei gli tendeva. I
suoi
occhi lo percorsero velocemente in cerca delle notizie che aspettava,
ma mano a mano che procedeva nella lettura si rese conto che il
messaggio non era quello sperato, anzi: arrivato all’ultima
parola
dovette trattenersi dal serrare il pugno per non stropicciare la
carta.
«Si
direbbe una situazione incresciosa» commentò la
donna. Un sorriso
freddo le incurvò le labbra tinte di rosa.
«Davvero una fortunata
coincidenza, non trovi?»
«Per
voi» sibilò Gaara caustico. Appoggiò il
messaggio sulla scrivania,
bloccandolo sotto un fermacarte di pietra; prima di rialzare lo
sguardo si costrinse a distendere i muscoli del viso.
«Nobile
Kazekage, dovreste rilassarvi» ribatté la donna
ironicamente,
appoggiandosi alla scrivania con un fianco. «Il vostro ruolo
è così
pieno di preoccupazioni che forse sarebbe il caso di delegare
qualcosa alla vostra preziosa segretaria.»
Gli
occhi di lui mandarono un lampo, il sorriso della donna si
ampliò.
«Cos’è quello sguardo, Gaara?»
chiese, lasciando perdere la
finta deferenza. Appoggiò le mani sulla scrivania e si
piegò verso
di lui, osservandolo attraverso gli occhiali. «Non puoi fare
nulla.
Lo sai. Da bravo, non fissarmi così. Anzi, rallegrati: le
notizie
che vengono da Konoha sono ottime notizie, e quando noi siamo
soddisfatti le cose vanno bene per tutti. Non sei sollevato?»
alzò
una mano e sfiorò la guancia di Gaara per una frazione di
secondo,
prima che lui scostasse bruscamente il suo braccio. Il sorriso
scomparve in fretta dal volto della donna. Si fece indietro.
«No,
forse non abbastanza» mormorò piano.
«Stai attento Gaara... Se
dovessi vedere qualcosa che non mi piace nel tuo comportamento, sai
chi ne farebbe le spese.»
Di
scatto si voltò verso l’uscita e la raggiunse in
pochi passi.
Giunta davanti alla porta si fermò, sistemò la
crocchia sulla testa
e lo guardò un’ultima volta, sul viso
l’espressione
professionale della segretaria affidabile.
«Buon
lavoro, nobile Kazekage» disse cortesemente. «Io
credo che mi
assenterò per un paio d’ore, se non vi
è di troppo disturbo.»
Quindi,
senza attendere risposta, uscì.
Non
appena fu di nuovo solo Gaara riprese il messaggio di Konoha e lo
lesse una seconda volta, assottigliando gli occhi nello sforzo della
concentrazione. Tra le righe, dietro gli ideogrammi, lui riusciva a
leggere ciò che nessun altro vedeva: il codice nascosto
dietro il
codice, il vero messaggio che aspettava con tanta impazienza. Quando
arrivò in fondo alla pagina le occhiaie sul suo viso si
erano fatte
più profonde.
Si
passò una mano sulla fronte. Avrebbe dovuto immaginare che
le cose
si sarebbero complicate all’ultimo: fino a quel momento tutto
era
proceduto in maniera troppo scorrevole... Tornò
a guardare il messaggio, rilesse le ultime righe.
Beh.
C’era un grosso impedimento, ma c’era pure qualche
appiglio,
dovette riconoscere.
Anche
se, ne era certo, Naruto doveva essere furioso.
*
Il
primo pensiero che attraversò la testa di Chiharu, quando
incrociò
lungo la strada Baka Akeru, fu che quella si prospettava una giornata
disgraziata. Di solito, da quando lo conosceva, ogni volta che lo
incontrava finiva in sangue o insulti.
Pensò
di ignorarlo, ma ovviamente lui non glielo permise.
«Quale
onore!» commentò non appena fu abbastanza vicino
per scoccarle
un’occhiata piena di stizza. «La novella
maggiorenne.»
«Ciao,
Stupido» sospirò lei.
Crescendo
Akeru si era fatto più alto, e, come se non bastasse, alla
sua già
generosa boria era andato ad aggiungersi un aspetto decisamente
piacevole, probabilmente fin troppo. Mentre camminava impettito lungo
la strada, poi, sfoggiava con orgoglio il tatuaggio che gli marchiava
la spalla sinistra, una fiammella stilizzata che lo qualificava come
membro della squadra speciale del villaggio; e quello, considerato
che era l’unico tra i coetanei ad essersi guadagnato un posto
tra
gli Anbu, sarebbe stato motivo di orgoglio per chiunque, figurarsi
per qualcuno con uno smodato bisogno di complimenti, come era lui.
«Allora?
Mi dicono sia stata una bella festa di vecchietti»
proseguì,
bloccando la strada a Chiharu. «Età media
trentaquattro anni, e
solo perché i figli degli invitati la abbassavano
drasticamente.»
«E’
stato tre giorni fa!» esclamò lei incrociando le
braccia sul petto.
«Per quanto hai intenzione di recriminare? Volevi davvero
venire a
quella festa e farti tormentare da Hitoshi e Kotaro?»
Akeru
arrossì indispettito e le scoccò
un’occhiata offesa. «Quello
là lo hai
invitato» bofonchiò a mezze labbra. «E
nemmeno lui è esattamente
amico dei tuoi stupidi compagni di squadra.»
«Yoshi
non li provoca, almeno» spiegò lei con uno sguardo
eloquente. «Non
avevo voglia di sorbirmi le tue frecciatine e la tua antipatia anche
al mio compleanno, e soprattutto non avevo proprio voglia di imporle
agli altri.»
Il
rossore sulle guance di Akeru aumentò. «Ti hanno
mai detto che sei
una stronza arrogante?»
«Sì,
ma tu puoi fare di meglio» replicò lei.
«E ora scusa, ‘i miei
stupidi compagni di squadra’ mi stanno aspettando. Riesco ad
essere
in ritardo anche da sola, ma se ti ci metti pure tu Hitoshi e Kotaro
finiranno per avere ragione a lamentarsi.»
Prima
che lei potesse muovere un passo lui le prese il braccio e le mise in
mano un pacchetto avvolto in carta velina viola.
«Cos’è?»
indagò Chiharu con una smorfia, mentre Akeru schivava il suo
sguardo.
«Mettilo
su quel livido» borbottò, accennando alla chiazza
bluastra che
ancora le sottolineava l’occhio sinistro. «Lo
farà sparire più
in fretta.»
«Oh.
Grazie» rispose Chiharu sorpresa. Ricevere regali in cambio
di
sarcasmo e battute cattive era un’esperienza nuova.
Akeru
arrossì e la lasciò andare. «Spalmane
un po’ la sera e un altro
po’ la mattina. Nel giro di quattro o cinque giorni non
dovrebbe
più vedersi niente» spiegò affondando
le mani in tasca.
«Non
sei un po’ in ritardo per i regali di compleanno?»
domandò lei,
incapace di ribattere alla gentilezza.
«Te
l’avrei dato alla festa, ma non mi hai invitato. Visto che
non
riesci mai a tornare tutta intera dalle missioni ho pensato che
potesse esserti utile.»
«Se
ben ricordo all’esame per diventare Chunin eri tu quello
messo
peggio.»
«Io
invece non ti ricordo all’esame per diventare Jonin... Ah! Ma
tu
non c’eri proprio, ecco perché!» con
gesto teatrale Akeru si
batté una pacca sulla fronte.
Chiharu
assottigliò gli occhi. Baka la imitò.
«E’
davvero da stupido
che tu mi chieda perché non ti ho invitato al
compleanno» sibilò
lei.
«E’
davvero triste che tu non abbia amici della tua età a parte
i tuoi
compagni di squadra» ribatté lui tra i denti.
«Detto
da uno che si è preparato un regalo da darmi anche se non
era tra
gli invitati fa quasi compassione!»
«Oh,
non ti preoccupare. Non succederà mai più, stanne
certa!» sbottò
Baka tagliente. «Vai a farti ammazzare dove ti pare! Io ti ho
già
aiutata più volte di quante meritassi, non alzerò
un altro dito per
darti una mano!» con espressione furibonda, senza aspettare
la sua
replica, la oltrepassò per andarsene.
Chiharu
lo guardò allontanarsi e poi spostò gli occhi sul
pacchettino che
ancora stringeva in mano. Sorrise, canzonatoria.
«Vai
a farti ammazzare, eh...» ripeté tra sé
e sé. «Come no.»
«Venti
minuti!» sbottò Hitoshi, additando
l’orologio che ancora
campeggiava sulla facciata dell’Ufficio per lo smistamento
delle
missioni. «Venti minuti di ritardo! Giuro che la prossima
volta a te
diciamo che l’appuntamento è mezzora
prima!»
Chiharu,
che lo ascoltava con un orecchio solo, sbadigliò vaga.
«Scusa» fu
il suo commento mentre tormentava distrattamente il livido sullo
zigomo.
Hitoshi
si passò una mano sugli occhi, sentendo
l’emicrania pulsare dietro
le palpebre come un martello pneumatico. Maledisse il giorno in cui
lo avevano messo in gruppo con lei, e poi il giorno in cui era
scampata all’avvelenamento, e ancora quando era sopravvissuta
alla
sua prima vera battaglia. Perché all’epoca era
stato felice
di simili
infausti avvenimenti?
«Sai
che per fare la predica a lei abbiamo perso altri cinque
minuti?»
gli fece notare Kotaro molto pragmaticamente.
Sulla
fronte di Hitoshi una vena pulsò in trasparenza.
«Entriamo e non
rompete!»
«Quand’è
che abbiamo deciso che sei tu il capo?» chiese Chiharu
incamminandosi per prima.
«Quando
tu ti sei addormentata durante quella missione nel Paese
dell’Acqua
e Kotaro si è ubriacato nell’altra al
Fulmine.»
«Oh.
Me ne ero dimenticata. Ma quella roba era di una noia tale che era
impossibile stare svegli!»
«E
io non mi sono ubriacato al Fulmine» puntualizzò
Kotaro. «Sono
stati i vapori dell’incendio. Erano andate a fuoco quelle
botti,
non ricordate? Io ero solo troppo vicino, sarebbe successo anche a
voi se foste stati in quel punto!»
«Noi
eravamo
lì, proprio di
fianco a te» disse Hitoshi.
Kotaro
unì le spesse sopracciglia in un unica riga riflessiva. Non
ricordava proprio, ma in effetti di quel giorno aveva solo
un’immagine molto nebulosa. «Beh, comunque stiamo
aspettando il giorno in cui il fumo o le emicranie ti metteranno K.O.
in terra straniera, signor
‘Ce-L’Ho-Solo-Io’; allora
pareggeremo i conti» disse seccato.
Un
tempo Kotaro era stato la personalità pacata che ammorbidiva
i toni
delle liti tra Chiharu e Hitoshi, ma dopo cinque anni con Naruto di
pacato non era rimasto proprio nulla nel gruppo
sette e anche
lui aveva finito per imparare a rispondere a tono.
Mentre
si punzecchiavano a vicenda i tre shinobi raggiunsero il tavolo delle
missioni e si fermarono davanti a un unico ninja, che li accolse
guardandoli storto.
«Voi
che ci fate qui?» chiese seccato, nascondendo sotto il tavolo
l’ultima copia della serie della Pomiciata.
«Cosa
vuol dire ‘che ci facciamo qui’?» fece
eco Hitoshi. «Siamo
ninja,
di solito svolgiamo missioni.»
«Non
oggi» replicò lo shinobi. «Oggi tutti,
dal grado di Chunin in su,
sono sotto il palazzo dell’Hokage; se la memoria non mi
inganna voi
non siete Genin.»
«Il
palazzo dell’Hokage?» ripeté Kotaro per
primo. «E’ successo
qualcosa?»
Lo
shinobi oltre il tavolo ghignò con malcelata aria di
superiorità.
«Ma come, non lo sapete?» chiese, appoggiando un
gomito al tavolo
sdegnosamente. «L’Hokage ha convocato urgentemente
il Gran
Consiglio, stamattina. Si vocifera che siamo in crisi, o qualcosa di
simile, e tutta Konoha è in fermento. Come fate a non averne
idea,
eh? Persino io sono qui solo per i gruppi che rientreranno in
mattinata, altrimenti sarei con tutti gli altri in piazza.»
Chiharu
scambiò un’occhiata con i compagni.
«Prima ho incrociato Stupido,
ma non ha accennato a niente del genere» mormorò
stranita.
«Ehi,
ricordi di chi stiamo parlando?» le fece notare Hitoshi.
«Un
nome, un perché*. Secondo me ne sa anche meno di noi che non
sappiamo niente.»
«Andiamo
a vedere che succede, no?» disse Kotaro, impaziente.
Sia
lui che l’Uchiha fissarono Chiharu, leggendo nel suo sguardo
le
allarmanti avvisaglie di una defezione pro pisolino mattutino, ma a
metterci l’ultima parola fu lo shinobi dello smistamento, che
ancora li guardava con sprezzante condiscendenza.
«Oh,
potete anche non andare» borbottò, sfilando da
sotto il tavolo
L’esperienza della
pomiciata,
edizione rilegata con sovraccoperta.
«Tanto dubito che siate abbastanza importanti da venir
direttamente
influenzati dalle decisioni del Gran Consiglio.»
«Dovremmo
smettere di avere questo orgoglio spaventosamente sviluppato»
commentò Kotaro, mentre insieme a Hitoshi e Chiharu si
faceva largo
nella calca cercando di guadagnare la prima fila. «Di solito
ci
porta a un mare di guai.»
«Oh,
ma sta’ zitto!» brontolò Chiharu,
seguendolo agile. «Siamo qui
solo perché vogliamo sapere qualcosa... e poi siamo Chunin.
Ne
abbiamo il diritto.»
«Io
sono Jonin» le fece notare Hitoshi, che chiudeva la fila.
Kotaro
roteò gli occhi e aumentò il passo tentando di
seminare entrambi.
Ciò che invece ottenne, purtroppo o per fortuna, fu soltanto
di
arrivare in prima fila con molta più rapidità del
previsto. Così
rapidamente che andò a sbattere contro uno degli shinobi che
presidiavano l’ingresso del palazzo.
«Che
cosa succede?» domandò all’uomo
scusandosi frettolosamente.
«Il
Consiglio è ancora in seduta» rispose quello.
«L’Hokage ieri ha
indetto una riunione straordinaria, ma non ha spiegato il
motivo.»
«Nessun
consigliere si è lasciato sfuggire qualcosa?»
intervenne Hitoshi
scansando Kotaro.
«Che
io sappia, no.»
«Siamo
in crisi?» indagò Chiharu sgusciando tra i
compagni di squadra.
«E
chi lo...»
«Sì,
sì, abbiamo capito» la kunoichi fece un gesto
stizzito. «Non sai
un tubo di niente!»
Lo
shinobi le scoccò un’occhiata offesa, ma non fece
in tempo a
riprenderla che dalla folla alle loro spalle si fece avanti un
trafelatissimo Akeru, scusandosi a destra e a manca.
«Sì,
scusate... Scus... Non stavo palpando niente! Ehi! Il mio
piede!»
Ansante, raggiunse il gruppo sette e scoccò
un’occhiata furiosa
alle persone che si accalcavano nella piazza. «Qualcuno mi ha
toccato il culo!»
«Beh,
se lo metti in mostra sopra quel collo è ovvio che prima o
poi lo
notino» commentò Hitoshi.
«Ah-ah.
Esilarante» ribatté Akeru squadrandolo male, poi
vide lo shinobi
davanti alla porta. «Posso salire?» chiese
mostrando subito il
tatuaggio sulla spalla.
Chiharu,
Kotaro e Hitoshi spalancarono la bocca quando la guardia si fece da
parte, e Baka li salutò esibendo un ghignetto di
superiorità. «A
dopo, pivelli.»
«Aspetta,
Stupido! Sai cosa sta succedendo?» tentò di
chiedere Chiharu, ma
Akeru le rivolse un gestaccio e sparì su per le scale.
I
tre ragazzi ancora fermi fissarono lo shinobi che lo aveva lasciato
passare.
«Possiamo...?»
iniziò Kotaro, ma quello scosse subito la testa.
«Niente
da fare, voi aspettate» disse con un sorriso perfido.
«Perché
quell’idiota può salire e noi no?»
sbottò Hitoshi indignato. «Io
sono Hitoshi Uchiha!»
«Non
mi sembri un Anbu né un membro importante del tuo cosiddetto
clan»
ribatté l’uomo, per nulla colpito.
«Chiudete la bocca e
lasciatemi fare il mio lavoro.»
I tre ragazzi non poterono che fare un passo
indietro e
disporsi all’attesa.
Con
un moto di stizza Hitoshi si accese una sigaretta. Cosiddetto
clan, eh? Un giorno quel tizio e tutti quelli che la pensavano come
lui si sarebbero rimangiati fino all’ultima parola. A costo
di
sfornare sedici figli, entro la prossima generazione avrebbe fatto
sì
che nessuno potesse più permettersi di nutrire dubbi sulla
legittimità del clan Uchiha!
Mentre
lui rimuginava sulle sue sventure, Kotaro si lamentò per il
fumo
passivo che era costretto a ingoiare, cercando di spingerlo
più
lontano. Incidentalmente lo mandò a sbattere contro Chiharu,
la
quale, già innervosita dall’arrivo e partenza di
Baka, non si fece
certo pregare per prenderli a male parole. Se c’era una cosa
che
non avevano mai imparato, nonostante tutti gli anni di lavoro come
shinobi, era la pazienza.
Per
loro fortuna, dopo circa mezzora e tre tentativi di defezione da
parte di Chiharu, un’insperata ancora di salvezza
arrivò a trarli
d’impaccio: dalle scale infatti scese Jin, le mani ficcate in
tasca
e le sopracciglia corrugate. Sembrava pensieroso.
«Jin!
Jin!» lo chiamò Kotaro al volo, sbracciandosi con
foga. «Siamo
qui!»
Il
ragazzino alzò lo sguardo e vide tutti e tre accanto allo
shinobi di
guardia. Li raggiunse, leggermente sorpreso.
«Non
vogliono farci passare!» si lamentò Kotaro.
«Hanno lasciato andare
Akeru, ma non noi!»
«Lui
è un Anbu, voi non siete nessuno»
ribatté il ragazzino con
disarmante franchezza.
Hitoshi
gli scoccò un’occhiata indignata, e anche Chiharu
si riscosse dal
letargo per esternare il suo disaccordo. Jin sospirò di
fronte alle
loro espressioni costernate, ma fece un cenno alla guardia.
«Lasciali
passare, per favore» chiese.
«Sicuro?
Di sopra non avevano finito le sedie?» replicò
quello, vagamente
deluso.
«Mi
prendo io la responsabilità» Jin si strinse nelle
spalle. «Almeno
la smetteranno di infastidirti.»
Lo
shinobi lasciò passare Chiharu, Kotaro e Hitoshi. Loro
tirarono un
sospiro di sollievo, ma erano ancora offesi.
«Vi
cedo il mio posto. Io ho lasciato una cosa in sospeso, devo
andare»
spiegò Jin una volta che furono ai piedi delle scale.
«Ah, Chiharu,
quando tuo padre uscirà di nuovo da quella porta per andare
in
bagno, per favore fagli notare che è la quinta, e che fa una
media
di una volta ogni nove minuti, grazie. Credo che a questo punto
richieda un trapianto di reni.»
Chiharu
si lasciò scappare un sorrisino, e d’istinto
pensò alla possibile
reazione di sua madre alla notizia che il marito scansava ancora ogni
responsabilità con metodo e dedizione. Shikamaru era nel
Consiglio
della Foglia da qualche anno, ma non aveva mai smesso di lamentarsi
della fatica che l’incarico comportava .
«Tu
sai perché si sono riuniti?» chiese Kotaro prima
che Jin se ne
andasse.
«Non
ne ho la minima idea. Sono tre giorni che mio padre sta rinchiuso nel
suo ufficio e non vuole vedere nessuno a parte Koichi... Per essere
sinceri, se non avessi mollato a metà una missione
importante
resterei fino alla fine» il ragazzino lanciò
un’occhiata su per
le scale, pensieroso. «Scusate, ma ora devo proprio andare.
Ci
vediamo in giro.»
«Grazie!»
gridò Kotaro.
Per
un lungo istante Chiharu scrutò Jin che si allontanava,
quindi
corrugò la fronte.
«Non
vi sembrava preoccupato?» chiese.
«Dici?»
replicò Hitoshi, stizzito. «A me sembrava il
solito
menefreghista... ‘Una missione importante’! Tutti
gli shinobi
sono qui, che diavolo può esserci di più
importante?» gettò a
terra il mozzicone di sigaretta ed espirò l’ultima
boccata. «Su,
andiamo.»
Quando
raggiunsero la sala d’aspetto davanti al salone del Consiglio
la
trovarono gremita di gente, sia Anbu e capigruppo, sia nobili di
vario grado. Inutile dire che non una delle sedie era rimasta libera.
«Ma
bene. Si aspetta in piedi» brontolò Chiharu,
contrariata.
Mentre
lei si appoggiava al muro Hitoshi scoccò
un’occhiata rapida ad
Akeru, che occupava una poltroncina e discuteva tutto serio con un
altro Anbu. Visto da quella prospettiva Stupido era discretamente
irritante.
La
triste verità era che qualche mese prima, sulla scia di
Baka,
anche
Hitoshi aveva fatto richiesta per entrare nella squadra speciale. Ma
era stato respinto. Per fortuna la cosa era rimasta confinata
tra lui e Kakashi, però se ci ripensava bruciava ancora, e
sentirselo
rinfacciare persino dal Chunin ai piedi delle scale lo aveva irritato
oltre misura.
«Che
facciamo? Anche noi contro il muro?» propose Kotaro
sottovoce,
accennando a Chiharu.
«Per
forza» grugnì Hitoshi spostandosi.
I
due raggiunsero la compagna e si misero ai suoi lati come guardie del
corpo, pronti a una lunga attesa.
«Speriamo
che esca almeno il papà di Haru...»
mormorò Kotaro a un tratto.
«Sarebbe un bel diversivo.»
E
il diversivo arrivò, come richiamato dai suoi sospiri. Ma
non fu
Shikamaru, alla quinta pausa bagno.
Fu
un grido dalla sala del Consiglio.
I
consiglieri erano esponenti della nobiltà con molto tempo
libero e
poca immaginazione per occuparlo. Ufficialmente erano un organo
consultivo che doveva assistere l’Hokage nel governo del
villaggio
e dare o negare il consenso per le missioni più rischiose,
ma in
pratica erano una manica di vecchi arcigni che voleva assicurarsi che
gli shinobi non si montassero la testa. Unica eccezione era Neji
Hyuuga, sia per età sia per inclinazioni, ma nel gruppo si
trovava
quasi sempre in minoranza.
In
quel momento il giovane capo del clan dagli occhi bianchi era seduto
tra Shikamaru Nara, Stratega in carica, e una vecchia rugosa che
continuava ad accarezzarsi le mani. Tutti scambiavano occhiate
nervose da un capo all’altro della sala.
«E’
un’assurdità!» sbottò alla
fine uno dei consiglieri di fronte a
Neji.
Kakashi,
a capo del lato corto del tavolo, si prese un secondo per lasciarsi
andare a un lungo sospiro. Sapeva che non sarebbe stata una
passeggiata.
«Consigliere
Iida, comprendo le vostre perplessità...»
«Non
credo» lo interruppe il nobile. Rughe di disappunto si
disegnavano
attorno alla sua bocca, i muscoli delle guance risaltavano sotto la
pelle sottile. «Se davvero comprendeste le nostre
perplessità non
sareste venuto ad insultarci con le vostre dimissioni! Non con una
guerra alle porte!»
Nella
mezzora precedente l’Hokage aveva aggiornato il Consiglio
sulla
situazione con la Roccia e presentato un annuncio mai udito prima:
voleva lasciare la sua carica. Il che, considerato che oltre confine
si stavano ammassando eserciti di ninja e soldati, suonava molto male
alle orecchie dei consiglieri.
«E’
proprio perché la guerra è vicina che voglio
lasciare il campo a
shinobi più giovani» ribatté Kakashi
senza agitarsi. «In
battaglia avremo bisogno di un capo che possa guidare i suoi compagni
dalla prima linea, non di un politico di mezza età. Posso
essere un
buon Hokage in tempo di pace, ma non ho più
l’entusiasmo
necessario per trascinare gli eserciti in
un’offensiva.»
Shikamaru
e Neji aggrottarono la fronte, scambiandosi uno sguardo preoccupato.
«Potremmo
non arrivare mai a un conflitto vero e proprio...»
mormorò un
consigliere sul fondo. «Potreste iniziare a farvi affiancare
da
qualcuno, e poi passare la carica quando...»
«La
diplomazia ha fallito» lo interruppe Kakashi.
«Avete tutti una
copia del rapporto di cui vi ho parlato fino a poco fa. Secondo le
nostre spie la Roccia sta solo cercando un pretesto per aprire
ufficialmente le ostilità. Il consigliere Iida ha ragione:
siamo
sull’orlo di una guerra... Ma non sono io l’Hokage
che può
affrontarla.»
«Voi
siete l’Hokage che abbiamo!» esclamò
Iida.
Neji
si schiarì cortesemente la voce, prendendo la parola.
«Immagino che
l’Hokage intenda dire che ha già selezionato i
nomi degli
eventuali candidati alla successione... Mi sbaglio?»
suggerì con
cautela.
Lungo
il tavolo serpeggiò un brivido. Gli sguardi saettarono da
Iida,
livido, alle sedie scomode aggiunte in fondo alla stanza su cui
stavano seduti Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha e Sakura un tempo
Haruno, ora altrettanto Uchiha.
I
tre shinobi non erano membri del Consiglio, ma quella mattina si
erano visti convocare d’urgenza da un segretario e si erano
trovati
nel mezzo del discorso di dimissioni di Kakashi. Anche se Naruto
faceva fatica a capire tutte le sfumature di quel che veniva detto, a
quel punto della discussione persino nella sua testa si era acceso un
campanello.
Iida,
avvertendo la piega che stava prendendo la situazione,
sbatté una
mano sul ripiano lucido e passò a un registro molto
più minaccioso.
«Hatake, non puoi fare di testa tua! Ricordati che siamo noi
consiglieri a decidere chi deve diventare Hokage e chi no!»
«Non
agisco di testa mia, agisco nell’interesse del
villaggio» replicò
Kakashi un po’ più duro. «E penso che
Naruto Uzumaki, nei giorni
difficili che dovremo affrontare, sarà un Hokage migliore di
me.»
Un
silenzio di piombo scese sulla stanza.
Naruto
fissò Kakashi con occhi e bocca spalancati, incapace di
proferir
parola.
Da
quando aveva capito che c’era un posto da Hokage vacante una
minuscola fiammella di speranza si era accesa in fondo al suo
cervello; adesso, alimentata dall’eco delle parole del suo
vecchio
maestro, era appena divampata in un grande incendio: una
cosa è sognare per tutta la vita di raggiungere un certo
obiettivo,
un’altra, ben diversa, è raggiungerlo sul serio. E
lui ci era
riuscito. Finalmente, dopo tutti quegli anni di fatiche e di sforzi
sovrumani, Kakashi gli offriva la possibilità di far
scolpire il suo
volto sulla parete degli Hokage.
Il
sangue risalì di colpo alle sue guance, rendendole
scarlatte. Non si
accorse degli sguardi sgomenti dei consiglieri né delle
occhiate
preoccupate che si scambiarono Shikamaru e Neji. Non vide
l’espressione allarmata di Sakura né
l’occhiata di Iida, ma una
cosa non poté non notarla, e cioè le successive
parole di Kakashi.
«Non
da solo.»
La
porta della sala del Consiglio si spalancò con violenza
quando già
tutti nell’anticamera erano sull’attenti.
Chiharu,
Kotaro e Hitoshi, ora lontani dal muro e con i sensi
all’erta,
videro Naruto uscire con un diavolo per capello, e
all’istante
compresero che il grido che avevano sentito era il suo.
«Non
da solo!» esclamò il Jonin rabbiosamente,
attraversando la porta
con la furia di un tornado. «Che cavolo vuol dire non
da solo? Per chi mi
ha preso? Con chi crede di parlare?»
La
piccola folla radunata nella stanza si fece rapidamente da parte
mentre lui incedeva a passi pesanti. I tre membri della sua squadra
non si sognarono nemmeno di avvicinarlo. Lo guardarono passare con
espressione attonita, la schiena di nuovo premuta contro il muro, e
per un attimo a Chiharu sembrò di vedere una nota scarlatta
nell’azzurro dei suoi occhi.
In
meno di un istante, quando Naruto ancora aveva un piede nella stanza,
si diffusero i mormorii; i più vicini cercarono di sbirciare
oltre
il portone della sala del Consiglio, ma tutto ciò che
riuscirono a
intravedere furono i volti preoccupati di Sakura e Sasuke Uchiha,
prima che un inserviente si affrettasse a richiudere. Akeru, dopo
aver scambiato qualche rapida parola con un compagno della squadra
speciale, raggiunse Hitoshi, Kotaro e Chiharu.
«Voi
avete capito cosa è successo?» domandò
con espressione
preoccupata.
«Qualcuno
ha pestato i piedi a Naruto» rispose Hitoshi accigliandosi.
«Poche
volte l’ho visto tanto incazzato, e in una di quelle volte
ricordo
uno shinobi del Fulmine che chiedeva pietà.»
«Che
ci faceva nella sala del Consiglio?» insisté Baka.
«A voi non ha
detto niente?»
«Neanche
mezzo accenno» furono costretti ad ammettere. A dire il vero
non lo
vedevano dalla festa di Chiharu, perché si era preso qualche
giorno
di ferie per stare con la famiglia.
«Il
punto è che né Naruto né i genitori di
Hitoshi sono consiglieri»
intervenne Chiharu. «Hitoshi, tu non hai sentito niente dai
tuoi?»
«Stamattina
sono uscito presto, non li ho nemmeno incontrati»
mormorò l’Uchiha,
tacendo il dettaglio che ogni mattina cercava di schivare i suoi
genitori e in particolar modo suo padre.
«Ma
che diavolo hanno detto per far arrabbiare Naruto fino a questo
punto?» si chiese Kotaro per tutti. I ragazzi si guardarono,
senza
idee. Dalle porte chiuse della sala riunioni provenivano voci
soffocate e indistinte. Naruto era scomparso, i consiglieri erano
tornati a discutere, e nessuno era ancora uscito per spiegare
qualcosa. Poi, come predetto da Jin, la porta si aprì di uno
spiraglio e Shikamaru si affacciò all’esterno,
adocchiando
l’ingresso dei bagni e calcolando quanti dei presenti sarebbe
riuscito a schivare.
«Papà!»
lo chiamò Chiharu, battendo sul tempo tutti i curiosi che
volevano
interrogarlo.
«Che
ci fate qui?» ribatté Shikamaru stupito,
squadrando lei e i
compagni.
«Di
sotto c’è mezzo villaggio, che sta succedendo?
Abbiamo visto
Naruto andarsene furibondo.»
Shikamaru
li raggiunse e abbassò notevolmente il tono di voce.
«Siete la mia
copertura per arrivare ai bagni. Scortatemi e ve lo dico.»
I
ragazzi obbedirono, circondandolo come guardie del corpo. Per tendere
le orecchie quasi si arrampicarono sulle sue spalle, ma se non altro
nessuno osò tentare di insinuarsi oltre una barriera tanto
compatta.
«Kakashi
ha deciso di renderci la vita impossibile» spiegò
Shikamaru mentre
camminavano. «Vuole dare le dimissioni. Indovina chi ha
scelto per
sostituirlo?»
Chiharu
inarcò le sopracciglia per la sorpresa.
«Naruto?»
«Ah,
magari...» rispose Shikamaru con un lamento.
«Naruto e
me
e Sasuke
e Sakura.»
«Che
cosa?» la mandibola di Chiharu si spalancò.
«Non
oso pensare a quanto sarà orgogliosa
tua madre...» gemette Shikamaru.
«Ma
è legale?» borbottò Akeru confuso.
«Secondo
i consiglieri no. Andremo avanti ancora per ore, temo.»
«Perché
Kakashi molla?» domandò Kotaro, sconvolto
all’idea che qualcuno
potesse non avere più voglia di essere Hokage, obiettivo e
sogno
dichiarato di tre quarti degli shinobi di Konoha.
«Ragazzi,
scusate, adesso non ho proprio tempo» sospirò
Shikamaru, troncando
di colpo le altre domande. «Voglio andare in bagno e poi devo
tornare a litigare: non posso lasciare Neji a lottare da
solo.»
Lui
e lo Hyuuga erano stati i primi a sospettare i piani di Kakashi. Non
appena avevano sentito la parola ‘dimissioni’
aleggiare nella
stanza avevano guardato Naruto, collegato la presenza di Sakura e
Sasuke e fatto due più due. Solo, non pensavano che Kakashi
avrebbe
davvero proposto una cosa del genere: era riuscito in un colpo solo a
far infuriare sia il Consiglio sia il suo pupillo.
«Andate
a casa» consigliò Shikamaru ai ragazzi.
«Ne avremo ancora per un
bel po’, è inutile che perdiate tempo qui attorno.
Ci vediamo per
cena, spero.»
Con
un cenno che la diceva lunga sul suo entusiasmo, il padre di Chiharu
si allontanò verso i bagni. Subito un Anbu si
affrettò ad
avvicinarsi ad Akeru.
«Che
ha detto?» domandò ansiosamente.
Akeru
lo fissò vacuo, ancora stordito dalle notizie.
«Abbiamo
un sostituto Hokage» annunciò, mentre tutti i
presenti si
avvicinavano istintivamente.
«Anzi,
ne abbiamo quattro» lo corresse Chiharu, iniziando a far
lavorare il
cervello. Ripensando a quanto Naruto tenesse alla carica di Hokage e
alle parole di Kakashi di tanti anni prima, quella volta che le aveva
confessato che Naruto era il miglior ninja del villaggio,
improvvisamente realizzò che il suo maestro aveva
decisamente molte
ragioni per aggirarsi con i canini più affilati del dovuto...
«E’
una presa per il culo! Un orribile scherzo stupido!»
Naruto
faceva avanti e indietro nella stanza da letto della sua casa,
pestando i piedi sul tappeto decorato con passo più che
marziale.
Hinata era seduta sul materasso e lo guardava preoccupata, le mani
strette in grembo e le sopracciglia corrugate.
«Naruto,
per favore...» lo richiamò.
«No,
per favore niente!» scattò lui, fermandosi di
botto. «Sono
trent’anni che voglio quel posto e Kakashi lo sa benissimo!
Ma
quando viene l’occasione, cosa fa? Mi mette appresso delle balie!
Cosa pretende che faccia, ancora? Come diavolo gli dimostro di essere
pronto più di quanto abbia fatto fino ad oggi?»
«Naturalmente
l’Hokage può essere uno solo» Hinata
cercò di essere conciliante
«Deve averti affiancato Sasuke, Sakura e Shikamaru soltanto
per un
breve periodo, per consigliarti i primi tempi... Non potete diventare
Hokage in quattro, lo sa anche lui. E’ una cosa
temporanea.»
«Non
è vero» la interruppe Naruto. «Se non
crede che io adesso sia in
grado di reggere le sorti del villaggio, allora non lo
crederà mai.»
Hinata
sospirò, guardandolo passarsi una mano tra i capelli e
mormorare tra
sé. In quegli anni gli era stata vicino abbastanza da capire
quando
qualcosa gli faceva davvero male, e non erano i graffi sulle sue
guance o gli occhi screziati di viola a darle i primi segni di
allarme, ma semplicemente la sua voce, la nota d’angoscia che
trapelava dalle sue parole.
«Naruto»
chiamò di nuovo. «Ti prego, siediti un attimo...
Solo un attimo.»
Lui
le scoccò un’occhiata rovente, alla quale lei
ricambiò con il
solito sguardo mite. Allora sbuffò, amareggiato, e si
lasciò cadere
al suo fianco.
«Ho
completato missione dopo missione» gemette, prendendosi la
testa tra
le mani e posando i gomiti sulle ginocchia. «Mi sono preso
cura di
Chiharu, Hitoshi e Kotaro, ho salvato il villaggio come minimo tre
volte, ho riportato indietro Sasuke, ho superato mio padre, ti ho
sposata senza scatenare una guerra civile, grazie a me siamo alleati
con la Sabbia! Cosa manca ancora? Non sono abbastanza forte? Sono
stupido? Cosa?»
Hinata
posò la fronte contro la sua testa, poco sopra
l’orecchio, e gli
accarezzò il ginocchio con una mano.
«Sappiamo
tutti e due che saresti un ottimo Hokage, e lo sa anche
Kakashi»
sussurrò gentilmente. Naruto fece per protestare, ma lei lo
prevenne. «Io credo che l’abbia fatto per
proteggerti.»
Lui
si immobilizzò con la bocca pronta a sputare insulti.
Corrugò la
fronte, confuso, e le rimandò uno sguardo scettico.
«Il
Consiglio è potente, Naruto» spiegò
Hinata facendosi seria. «Neji
me ne ha parlato: ci sono un paio di consiglieri che di fatto
governano Konoha, e contrastare loro non è semplice. Anche
con tutta
la buona volontà e le migliori intenzioni, ciò
che loro vogliono è
ciò che loro ottengono, nel bene e nel male. Kakashi ha
imparato a
bilanciare le loro richieste con le sue e finora è riuscito
ad
andare avanti soltanto grazie alla sua diplomazia, ma tu ne saresti
in grado? Pensaci un attimo, Naruto, ne saresti in grado?»
«Che
c’entra?» arrossì lui. «Non
sono più il ragazzino idiota che
ero a dodici anni. So che a volte bisogna scendere a
compromessi!»
«Anche
come Hokage?» lo incalzò lei. «Se ti
chiedessero di scegliere tra
sacrificare una squadra Anbu e non ottenere importanti informazioni
che salverebbero la vita a Gaara, cosa faresti?»
«Sicuramente
ci sarebbe un modo per avere tutti e due!»
protestò Naruto,
piccato. «Le cose non sono sempre bianche o nere!»
«Quando
sei Hokage sì» gli spiegò Hinata.
«Spesso le decisioni sono
bianche o nere, e se il Consiglio ti mettesse davanti a una scelta
proibitiva, tu daresti in escandescenze.»
Naruto
si morse l’interno della guancia, offeso. «Non
è vero.»
Hinata
sospirò e gli prese una mano. «Kakashi ha fiducia
in te come in
nessun altro» gli ricordò. «Shikamaru,
Sakura e Sasuke saranno lì
solo per calmarti quando ti andrà il sangue alla testa e per
farti
vedere le soluzioni che non troverai immediatamente. Kakashi avrebbe
potuto scegliere Sasuke, se avesse pensato che fosse più
adatto di
te, invece ha fatto il tuo nome. Significa che in tutta Konoha non
c’è nessun altro che lui consideri
migliore.»
«Migliore
di me, Sakura, Sasuke e Shikamaru messi insieme» la corresse
lui.
«Naruto...»
sospirò Hinata, e se fosse stata una donna normale la sua
sarebbe
stata esasperazione.
«Scusa»
mormorò lui, giocherellando con le dita della sua mano.
«E’ solo
che... sono deluso. Molto deluso. E amareggiato. Era il sogno della
mia vita, capisci? Ciò a cui ho sempre puntato...
Cioè, anche tu
sei importante, Hinata, importantissima. Ma essere Hokage... essere
Hokage...»
Anche
senza bisogno di psicanalisi, Hinata riuscì a cogliere nelle
parole
amare di Naruto l’ombra di Namikaze Minato.
Essere
Hokage per lui significava essere riconosciuto, ma anche percorrere
le orme del padre che non aveva mai incontrato e in qualche modo
stabilire un contatto con lui: sedere sulla sua poltrona, prendere le
sue decisioni, provare ciò che aveva provato, erano tutte
cose che
poteva fare soltanto come Hokage. Avere Sakura, Sasuke e Shikamaru al
fianco significava sedersi solo su un bracciolo della sedia.
«E’
stato come prendere una manciata di sabbia» spiegò
Naruto. «Un
attimo prima era lì, tra le mie mani, e l’attimo
dopo Kakashi ha
detto ‘non
da solo’ ed è
scivolata via.»
Hinata
gli accarezzò una guancia. «Naruto, non devi
abbatterti» gli
sussurrò sollevandogli il viso. «Sono certa che
Kakashi abbia in
mente qualcosa. Sai bene che nel villaggio non esiste nessuno che lui
stimi più di te.»
Naruto
sospirò, incapace di sorridere, e d’impulso tese
le braccia e la
strinse al petto. «Scusa» disse, chiudendo gli
occhi contro la sua
spalla. «Scusa, adesso mi passa. Non sono così
scemo da rifiutare
la carica di Hokage, anche se è monca e suona come una presa
in
giro.»
Hinata
avvolse le braccia attorno alla sua schiena e lo sentì
tiepido come
sempre, non più caldo come Kyuubi.
«Sì»
mormorò confortante, accarezzandolo come se fosse stato uno
dei suoi
figli. «E poi ricorda che avrai sempre me.»
*Baka
significa stupido.
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Capitolo 3 *** La maledizione di Juka ***
Penne 03
7
Capitolo
terzo
La
maledizione di Juka
Chiharu,
Hitoshi e Kotaro entrarono nell’ufficio per lo smistamento
delle
missioni tra i borbottii risentiti di Chiharu e la rassegnata
esasperazione dei compagni. La giornata era tranquilla, i Chunin
dietro il banco chiacchieravano ancora della famosa seduta del
Consiglio e nella stanza era presente soltanto un altro shinobi oltre
a loro.
«Neanche
uno schifosissimo giorno di pausa!» protestò
Chiharu trascinandosi
oltre l’ingresso, a metà tra il petulante e
l’indignato.
«Eleggono un nuovo Hokage e noi dobbiamo comunque andare al
lavoro!
Vi sembra corretto?»
Alla
fine Naruto aveva accettato il posto di Hokage in prova. Si era
lamentato dell’ingiustizia subita con chiunque fosse disposto
ad
ascoltarlo, ma sapeva bene che quella era un’occasione
ghiotta per
dimostrare a Iida e ai suoi sostenitori che poteva essere il
legittimo successore di Kakashi.
«Sono
tre giorni che piagnucoli di volere le ferie, inizi ad essere
noiosa...» sbuffò Hitoshi.
«Tecnicamente
si tratta soltanto di un periodo di prova, non è proprio
l’ascesa
del Settimo» le fece notare Kotaro.
«Ma,
sempre tecnicamente, siamo ancora i preziosi allievi del nuovo quasi
Hokage!» si indignò Chiharu. «Almeno per
noi dovrebbero fare
un’eccezione! Senza contare che
mio
padre sarà
assistente speciale di Naruto!»
«E
i miei genitori chi sono, gli inservienti?» grugnì
Hitoshi.
«Comunque dovevamo aspettarcelo, il Consiglio vuole far
passare la
cosa in sordina: la nomina di Naruto è uno smacco troppo
grande.
Niente cerimonie, niente feste, niente di niente. Forse sperano di
convincere Kakashi a fare un passo indietro.»
«E
chi se ne frega. Io voglio una vacanza.»
«Bonjour
finesse» disse una
voce accanto a loro, lungo il tavolo per lo smistamento.
Chiharu
sentì il sangue salirle al viso riconoscendo la fin troppo
familiare
sagoma di Sai, e si maledisse per non essersi accorta che era proprio
lui lo shinobi presente nella stanza oltre a loro. Sai le sorrise,
rivolgendo un cenno anche ai suoi compagni, quindi la scrutò
per un
lungo istante.
«Missione?»
domandò.
«Sì»
rispose Hitoshi, cauto, pronto alla solita frecciatina.
Ma
Sai per una volta sembrava totalmente inoffensivo. Con un sorriso
prese la pergamena che gli tendeva il Chunin oltre il tavolo e rimase
in silenzio.
Chiharu
non lo vedeva dalla sera del suo compleanno, la stessa sera in cui lo
aveva baciato - dando prova di un coraggio francamente inumano.
Ancora si chiedeva dove avesse trovato il fegato di proporsi in quel
modo, ma nell’immediato presente il vero problema era
impedire a
Hitoshi e Kotaro di accorgersi di qualcosa. Mentre lo pensava
notò
con orrore che tutte le giunture del suo corpo avevano assunto angoli
innaturali.
«Voi
che siete suoi allievi dovreste essere riusciti ad avvicinare Naruto
dopo il trambusto dell’altro giorno...» riprese
Sai, come a
ripensarci. «Oh. A giudicare dalle vostre facce sembra che
non abbia
voluto vedervi. E’ ancora così
arrabbiato?»
«Sono
passati solo tre giorni dalla delibera del Consiglio»
ribatté
Kotaro sulla difensiva. «E’ stato molto impegnato,
per questo non
siamo riusciti a trovarci!»
«Immagino...»
commentò il Jonin, per nulla convinto. «Non ha
trovato nemmeno un
paio d’ore per festeggiare con un brindisi?»
«Molto
impegnato» sillabò Hitoshi, dicendo a se
stesso che il suo
istinto non sbagliava mai.
Sai rivolse loro un sorriso condiscendente e
gettò
un’occhiata alla pergamena che aveva appena ritirato.
«Resterei a
stuzzicarvi tutto il giorno, ma purtroppo ho qualcosa da fare. Devo
salutarvi. Spero che Naruto vi conceda udienza, prima o poi»
augurò
con una nota divertita nella voce.
Prima che Hitoshi e Kotaro riuscissero a trovare
qualcosa di pungente con cui ribattere il Jonin se ne era
già
andato.
Chiharu
riprese a respirare solo allora, accorgendosi con un secondo di
ritardo che stava per entrare in carenza di ossigeno. Espirò
bruscamente, attirando le occhiate perplesse di Hitoshi e Kotaro, ma
ebbe la prontezza di stroncare le loro domande parlando per prima.
«Beh?
Questa missione?»
Tese
la mano verso il responsabile e quello le porse una pergamena
accuratamente sigillata con l’indicazione
‘A’. Chiharu ruppe la
ceralacca, la srotolò, impaziente di sfogare il nervosismo
menando
un po’ le mani, e lesse rapida la consegna.
«Merda»
fu il fine commento che si lasciò scappare a lettura
completa. «E’
una missione da quattro.»
«Ti
prego, dimmi che non ci serve un ninja medico!» gemette
Hitoshi con
una smorfia. L’ultima e unica volta che era capitata una
situazione
simile si erano dovuti portar dietro Baka ed era stato un inferno.
Quasi avrebbero preferito lasciarci le penne, ma farlo in pace.
«Non
credo ce ne sia bisogno» rispose Chiharu tendendogli la
pergamena.
«Per oggi lasciamo stare Stupido e viviamo sereni. Vado a
cercare
Yoshi.»
Hitoshi
e Kotaro scambiarono uno sguardo allarmato: all’improvviso la
prospettiva di portarsi dietro Baka assumeva un certo fascino...
Mentre
camminava impettita lungo le vie di Konoha Chiharu si grattava la
guancia. L’unguento che le aveva regalato Akeru aveva
funzionato
inaspettatamente bene, e il livido sul suo zigomo era quasi scomparso
del tutto, lasciandole solo un po’ di prurito.
Sfruttando
i rari minuti di solitudine ripensò con imbarazzo e
frustrazione
all’incontro con Sai. Doveva mantenere la calma: Sai era
famoso per
essere un uomo impossibile, quindi anche se l’aveva
completamente
ignorata non voleva dire niente. D’altronde che avrebbe
dovuto
fare? Era lei che aveva dato inizio alla cosa, semmai era lei che
avrebbe dovuto rivolgergli un cenno, un segno di qualche tipo.
Avrebbe voluto farlo, ora che ci pensava. Avrebbe dovuto.
Maledizione, perché le idee brillanti venivano sempre un
minuto
troppo tardi?
Raggiunta
l’Accademia si costrinse a tornare al presente. Yoshi
frequentava
ancora i corsi, anche se era vicino al diploma. Era uno studente un
po’ atipico, prima di tutto perché superava il
metro e cinquanta,
e poi perché aveva quasi il doppio degli anni dei compagni
di
classe. Non solo: capitava che di tanto in tanto si alzasse dal suo
banco, chiedesse il permesso di andare in bagno e poi non tornasse
più indietro. E in quel caso non lo si rivedeva fino al
giorno dopo.
Il
sospetto generale era che marinasse le lezioni per imboscarsi con la
figlia di Shikamaru Nara - e in effetti la cosa non sarebbe stata poi
così strana: erano due ragazzi giovani che si piacevano,
nulla di
più facile che si ritagliassero un po’ di tempo
extra per
scambiarsi effusioni. Se non che, poco tempo dopo l’inizio
delle
sparizioni misteriose di Yoshi, Hitoshi Uchiha si era presentato
nell’ufficio dell’Hokage protestando
perché Chiharu aveva
portato in missione uno studente non diplomato come suo sostituto
mentre era malato. La cosa che più lo mandava in bestia, a
quanto
pareva, era che lo studente in questione non solo aveva tenuto il
ritmo, ma alla fine si era anche rivelato utile.
«Non
è un tipo di cui fidarsi» aveva sottolineato
l’Uchiha
testardamente. «Anche se la sua storia è
particolare ed è più
grande degli altri allievi, nessuno dovrebbe cavarsela così
bene con
le tecniche ninja senza essere uno shinobi. Va tenuto
d’occhio!»
In
effetti Kakashi si era trovato d’accordo. Ma le informazioni
che
avevano raccolto su Yoshi prima di ammetterlo all’Accademia
erano
state confermate più volte, e da qualunque parte la si
guardasse le
tecniche che il ragazzo usava erano tutte parte dei programmi di
studio. Per qualche tempo, seguendo i timori di Hitoshi, Kakashi
aveva fatto seguire Yoshi. Poi, dato che non succedeva niente e il
ragazzo sembrava inoffensivo, aveva lasciato perdere. Forse avevano a
che fare con un genio, tutto qui.
Di
sicuro il modo in cui si allontanava dalle lezioni non aveva proprio
nulla di geniale: quando aveva bisogno di lui, Chiharu raggiungeva la
finestra della sua aula, con un foglio segnato in maniera particolare
confezionava un piccolo origami a forma di insetto - centipedi o
cervi volanti se si sentiva creativa, eserciti di banali formiche
quando non aveva voglia - e lo mandava in missione su per il muro e
dentro l’aula fino a raggiungere i piedi di Yoshi. Lui
raccoglieva
la bestiola, accartocciava il foglio con cui era stata creata e
andando verso il bagno lo cestinava discretamente, tirando quindi
dritto fino all’uscita dall’edificio.
Non
sempre Chiharu lo faceva evadere perché aveva bisogno di
lui: era
capitato più di qualche volta che lo chiamasse solo
perché si
annoiava, ma dato che negli origami non erano mai scritti messaggi,
Yoshi non poteva sapere quale fosse lo scopo della convocazione.
Fino
a quel momento, tuttavia, aveva sempre risposto. Anche quel giorno
non si fece attendere: Chiharu lo vide uscire dall’Accademia
come
se fosse un principe conquistatore anziché uno scolaretto
senza
giustificazione, e lo affiancò distrattamente lungo la
strada
principale.
«Cosa
ho interrotto?» domandò.
«La
Storia di Yondaime e Kyuubi» rispose lui roteando gli occhi.
«Forse
l’unica parte interessante delle lezioni di
storia...»
«Non
se censuri i pezzi divertenti.»
«Tipo?»
«Tipo
la tecnica usata da Yondaime per sigillare la Volpe. O dove
l’hanno sigillata» Yoshi le lanciò
un’occhiata obliqua, a metà
strada tra uno sguardo di intesa e uno interrogativo.
Chiharu si strinse nelle spalle e fece la vaga.
«Farò
dire al professor Aburame di inserire nel programma i codici segreti
delle spie di Konoha, così non ti annoi.»
Yoshi scoppiò a ridere e scosse la
testa. «Allora,
oggi perché sono scappato?» chiese cambiando
argomento.
«Ci hanno rifilato una missione da
quattro. E’ una
scorta, ma pare che ci sia un certo rischio di subire imboscate,
quindi il cliente ha insistito per uno shinobi in più. Deve
aver
sborsato un mucchio di ryo.»
«Dove si va?»
«Al Tempio di Juko. O Juka. Qualcosa di
simile,
comunque è ad est» spiegò la kunoichi
guardandosi attorno. «Hai
fatto colazione? Non voglio portarti in giro a stomaco vuoto.»
«Sicura che abbiamo il tempo?»
esitò Yoshi.
«Kotaro e Hitoshi se ne faranno una
ragione... Vieni,
prima facciamo e prima ripartiamo.»
Si
fermarono a un chiosco che aveva ancora dei dango
in esposizione. Chiharu prese tutti quelli che erano rimasti e li
mise in mano a Yoshi senza ascoltare le sue proteste: sapeva che il
ragazzo viveva solo e spesso mangiava male, ma se si prendeva la
responsabilità di portarlo in missione non voleva correre il
rischio
di vederselo svenire a metà dell’opera, e questo
voleva dire dire
che tutte le volte che lo faceva uscire dall’Accademia gli
comprava
qualcosa.
Yoshi divorò le morbide palline di riso
lungo la strada
tra il chiosco e l’ufficio per lo smistamento,
impiastricciandosi
le dita e impastandosi tutta la bocca. Quando lui e Chiharu
raggiunsero Hitoshi e Kotaro il suo saluto inintelligibile venne
accolto da smorfie disgustate e sguardi diffidenti.
«Stai
mangiando dango?»
chiese Hitoshi stizzito. A lui Chiharu non aveva mai offerto niente.
«Lascia stare» lo
fermò Kotaro in tono funebre - non
si era mai impegnato a nascondere le proprie emozioni. «Non
abbiamo
tempo per discutere, se non partiamo subito non riusciremo a tornare
prima di sera.»
«Adoro questo caldo senso di appartenenza
al gruppo»
sussurrò Yoshi a Chiharu, gettando nel cestino un mucchio di
fazzoletti appiccicosi. Lei sorrise ma non disse niente. Capiva che
portare Yoshi in missione era un gioco pericoloso, perché
l’equilibrio del gruppo sette non era mai stato
particolarmente
stabile. D’altronde se l’alternativa era Baka non
aveva dubbi
sulla scelta, e Hitoshi e Kotaro avrebbero fatto meglio a tacere se
non volevano andare a cercarsi da soli qualcuno che reggesse il loro
insolito ritmo di lavoro.
Nessuno dei due protestò,
però, e invece entrambi
ingoiarono le espressioni truci che avevano stampate sulla faccia e
si aggiustarono gli zaini in spalla.
«Andiamo» ordinò
Hitoshi prendendo la testa del
gruppo. «Il villaggio nella consegna è a mezzora
verso nord. Cerca
di non vomitare lungo la strada» mormorò
all’indirizzo di Yoshi.
«Papà,
cos’è successo l'altro giorno?»
La
missione che aveva allontanato Jin dalla sala del Consiglio era
durata più del previsto, e quando il ragazzino era rientrato
la
curiosità lo aveva obbligato a svegliare il padre e
interrogarlo
prima ancora di farsi una doccia. Kakashi, che in quel momento
sognava Naruto che era tornato lattante e non capiva i suoi nuovi
compiti, sobbalzò sul divano e per un momento
pensò che Jin e
Naruto fossero la stessa persona.
«Mi
stavo giusto chiedendo dove fossi» mormorò quando
la vista tornò
lucida, tirandosi a sedere con uno sbadiglio. Quante ore aveva
dormito? Si sentiva come se fossero stati solo pochi minuti...
Istruire i suoi sostituti si era rivelato un compito sfiancante.
«Avevo
una missione da finire. Cos’è successo durante il
Consiglio?»
insisté Jin.
Kakashi
sospirò: avrebbe voluto che Jin si godesse almeno un
po’
l’infanzia, invece di catapultarsi nel triste mondo degli
adulti
con tutta quella fretta.
«Ho
dato le dimissioni dalla carica di Hokage» disse soffocando
un
secondo sbadiglio.
Jin
spalancò occhi e bocca in una curiosa imitazione del Naruto
del suo
sogno. Kakashi provò uno slancio di affetto nei suoi
confronti.
«Sono
troppo vecchio per affrontare una guerra, non riuscirei a guidare gli
shinobi in battaglia» spiegò.
«L’Hokage non è fatto per stare
dietro la scrivania a dirigere le operazioni: l’Hokage
è fatto per
stare in mezzo ai suoi uomini e rischiare la vita con loro. Lo
capisci, Jin?»
Jin
fece una smorfia, ma si affrettò a cancellarla prima che
diventasse
evidente. La ragion di stato non concordava con quella filosofia,
però non poteva certo dirlo a voce alta.
Kakashi
sorrise. «Dovrei farti passare più tempo con
Naruto...» mormorò,
più a se stesso che altro.
A
quel nome nella testa di Jin si accese un collegamento. Naruto.
Conosceva l’opinione di suo padre riguardo a Naruto, anche se
faticava a condividerla; se c’era un posto da Hokage vacante
allora...
«Hai
proposto Naruto come tuo successore?» domandò
stupito. «Con che
coraggio?»
Kakashi
scoppiò a ridere, sentendo qualche goccia della stanchezza
accumulata che scivolava via insieme alla risata.
«Non
è stato semplice» spiegò.
«Perché il Consiglio prendesse almeno
in considerazione la proposta ho dovuto affiancargli Shikamaru,
Sasuke e Sakura. Naruto si è comprensibilmente infuriato e
ha
lasciato la riunione, ma in fondo è stato meglio
così: ho fatto una
gran fatica a strappare un mezzo assenso ai consiglieri anche senza
che lui li provocasse infiammandosi come suo solito.»
«Naruto,
Shikamaru, Sasuke e Sakura? Hokage insieme?»
ripeté Jin allibito.
«Ma è legale?»
«Tecnicamente
no» fu costretto ad ammettere Kakashi.
«E’ stata l’obiezione
più difficile da contestare, in effetti, ma alla fine siamo
giunti a
un compromesso: saranno ‘sostituti
Hokage’... una cosa temporanea,
insomma.»
«Una
specie di banco di prova?»
«Più
o meno» Kakashi si strinse nelle spalle.
«Ma
quindi tu sei ancora Hokage o no?»
«In
questo preciso momento no. Purtroppo i consiglieri hanno detto che si
riserveranno il diritto di richiamarmi se avranno bisogno di me, il
che in effetti è una cosa in loro potere, quindi... Per
adesso sono
soltanto sospeso dalla carica. O qualcosa del genere.»
«E
quando finisce il periodo di prova?»
Kakashi
si alzò dal divano, sgranchendo la schiena dolorante ed
evitando gli
occhi del figlio. «Non ne ho idea, Jin. Per ora basta che
Naruto e
gli altri si insedino, poi sono certo che ogni cosa andrà al
suo
posto: quel ragazzo ha sempre trovato una soluzione per tutti i
problemi, anche quelli più impossibili.»
Jin
aggrottò la fronte. Non gli era sfuggito che suo padre
stesse
evitando il suo sguardo, ma per nascondere cosa?
«Che
fa un ex Hokage durante il giorno?» indagò.
Kakashi
smise di allungarsi e per un attimo rimase immobile. Fuori dalla
finestra un uccello cantò, e la sua ombra
sfrecciò rapida sulla
parete opposta.
«Penso
che andrò in viaggio» disse Kakashi nel suo
miglior tono neutro.
«Ho bisogno di una vacanza, sono anni che non ne prendo
una.»
Un
brivido corse lungo la schiena di Jin.
«Stai
andando dalla mamma?» chiese prima di riuscire a impedirselo.
Silenzio.
La
fronte di Kakashi si corrugò dolorosamente. Poche volte Jin
aveva
pronunciato la parola mamma:
le rare volte in cui l’argomento era
malauguratamente uscito
aveva sempre detto mia madre, mantenendo un certo
distacco. Ma
oggi diceva mamma, come ogni ragazzino di dodici anni, e Kakashi
sapeva che non era in grado di affrontare quella conversazione, non
in quel momento.
«Stai
andando da lei, vero?» mormorò Jin, sentendo il
cuore che
accelerava i battiti nel petto. «Ti prego...»
«No.
Vado in vacanza» lo interruppe Kakashi bruscamente.
«Adesso sono
molto affamato, vorrei...»
«Papà!»
Kakashi
ammutolì. C’era una ragione per cui nei giorni
prima del Consiglio
aveva evitato Jin, ed era che quel ragazzino non si era mai bevuto
una sua bugia in tutta la vita. Mai. Kakashi aveva ingannato tutti i
nobili di Konoha ed era abbastanza sicuro di non aver insospettito
nemmeno Shikamaru, che di solito era così intuitivo, ma con
Jin non
aveva scampo.
«Tu
stai andando dalla mamma» non era più una domanda.
«Tu sai dov’è
e ora stai andando da lei. Perché? Cosa è
successo? E’ in
pericolo?»
«Jin,
non sto andando da nessuna parte...» tentò
un’ultima volta,
inutilmente.
«Smettila
di prendermi in giro!» gridò Jin.
«E’ mia madre! Non mi hai mai,
nemmeno una volta, parlato di lei! Penso di avere il diritto di
sapere dove è stata per tutti questi anni e
perché!»
Kakashi
tacque. Jin aveva il diritto di sapere, certo. Ma lui aveva la forza
di dirglielo? Aveva la forza di spiegargli perché stava per
mettere
in pericolo se stesso e, potenzialmente, tutto il paese del Fuoco?
Aveva il coraggio di parlare del fascicolo nell’Archivio
Segreto
della Foglia, di Jinnai Momori e dei sospetti di Tsunade? No,
comprese: non era pronto a riesumare tutta quella vecchia storia, non
ancora. Dopotutto nemmeno lui era certo di quel che faceva.
«Jin,
vai nella tua stanza» disse alla fine, senza riuscire a
trovare idee
migliori.
«Non
sei più Hokage, non darmi ordini!»
ribatté Jin con veemenza.
«Sono
tuo padre! Vai nella tua stanza!»
Jin
serrò i pugni. Per un attimo sembrò voler
rispondere, poi strinse i
denti, si voltò, si diresse verso l’ingresso e
uscì sbattendosi
la porta alle spalle.
Kakashi
rimase solo. Che fare ora? Doveva trovare il modo di distogliere il
ragazzino dal pensiero che lui stesse andando da sua madre, o non
sarebbe mai riuscito a partire senza ritrovarselo alle costole. Forse
avrebbe dovuto chiedere l’aiuto di Naruto, renderlo parte
della
vicenda - ammesso che Naruto non fosse stato dell’idea che
Jin
doveva sapere, cosa tutt’altro che improbabile.
Sospirò, ripercorrendo mentalmente la
conversazione
appena avuta. Avrebbe voluto che quello fosse l’inizio
dell’adolescenza di Jin... Invece sentiva che era
l’inizio di
qualcosa di ben più doloroso.
*
Quando
i quattro shinobi di Konoha arrivarono al villaggio indicato nella
missione Kotaro era l’unico fresco del gruppo. Nel goffo
tentativo
di mettere in cattiva luce Yoshi e dimostrare quanto lui invece fosse
abile ed efficiente, Hitoshi aveva spinto in velocità
più di quanto
i suoi polmoni affumicati fossero in grado di sopportare,
guadagnandosi un mucchio di insulti da Chiharu e non ottenendo molto
più di un leggero strato di sudore sulla fronte di Yoshi.
Adesso
l’Uchiha cercava di mascherare lo sforzo - perché
avrebbe
preferito sputare i polmoni piuttosto che farsi vedere con
l’affanno
davanti al re della digestione lampo - ma a dire il vero ci riusciva
piuttosto male, dato il colore della sua faccia.
Per
sua sfortuna sembrava che le guance arrossate lo rendessero solo
più
affascinante agli occhi delle ragazze che lo spiavano dai margini
della piccola folla radunatasi per vederli partire. Il punto di
incontro per la missione era una spianata in terra battuta appena
sufficiente a contenere le duecento anime del villaggio, ma la
notizia del loro arrivo si era diffusa così in fretta che
subito
erano stati accerchiati da contadini curiosi, buona parte dei quali
imbracciava ancora la zappa o aveva le mani sporche di terra. Al
centro dell’assembramento, proprio di fronte a loro, stavano
cinque
sacerdoti vestiti di viola tra cui spiccava un ragazzino che
stringeva un involto.
Ciò che il gruppo doveva scortare era il
prezioso
tesoro del tempio del luogo, ovviamente nascosto all’interno
di un
sacchetto ingioiellato e pesantissimo, che partiva in pellegrinaggio
per il tempio gemello a trenta chilometri di distanza. Il
giovanissimo sacerdote pelato che aveva il compito di consegnare il
pacco agli shinobi era un tipo apprensivo: sembrava convinto che
tutti volessero rubare la reliquia - inclusi coloro che dovevano
scortarla - quindi scrutò i ragazzi con molta cura.
A giudicare dalla smorfia disgustata che comparve
sul
suo viso il risultato dell’analisi non sembrò
soddisfarlo granché.
«Il prezioso tesoro del villaggio
sarà scortato da
questi bambini?» esclamò pieno
di indignazione.
«A me sembra di avere almeno un paio
d’anni più di
te» sbottò Hitoshi.
«Avevamo richiesto espressamente una
scorta di un certo
livello...» insisté il giovane monaco, ma Chiharu
lo interruppe
subito.
«Noi siamo di un
certo livello. Siamo i migliori
del nostro anno, e il nostro anno è il migliore del
villaggio»
annunciò, anche se non ne era troppo sicura.
«Quello che la mia compagna intende
dire» intervenne
Kotaro «è che anche se siamo molto giovani il
tesoro con noi sarà
in mani sicure. Konoha non ci avrebbe mai affidato una missione
tanto, ehm, delicata se non avessimo potuto portarla a termine. Ne va
della reputazione dell’Hokage.»
Il monaco li squadrò di nuovo, poco
convinto.
D’altronde i duecento contadini che li circondavano avevano
svuotato le casse delle loro case per pagare la costosa scorta armata
che trasportasse il loro più prezioso cimelio, e rimandare
indietro
i quattro shinobi avrebbe potuto scatenare una rivolta popolare -
anche e soprattutto considerato che una parte della generosa offerta
era stata usata per il nuovo rivestimento della stanza della
meditazione al tempio.
Il ragazzino si voltò e
scambiò uno sguardo con i
compagni vestiti di viola, i quali annuirono scrollando le spalle.
«Così sia»
capitolò. «Ma qualunque cosa dovesse
capitare al tesoro voi ne sarete ritenuti responsabili, e la
maledizione del dio Juka ricadrà sulle vostre
vite!» declamò in
tono tragico. Alcuni tra i contadini fecero gli scongiuri.
«Non capiterà
niente» disse Kotaro in fretta,
troncando il commento di Chiharu con un calcio sugli stinchi.
Il monaco consegnò solennemente il
sacchetto
ingioiellato nelle mani del giovane Lee, gesticolando una benedizione
confusa. I contadini si inginocchiarono reverenti, al che i quattro
shinobi si videro costretti a fare almeno un cenno con la testa. A
quel punto Hitoshi e Chiharu optarono per la partenza immediata, e
con un saluto molto rapido si fecero largo tra la folla per
affrettarsi lungo la strada che puntava ad est.
«Che problemi hanno?»
sbottò Chiharu quando
riuscirono a distanziare l’ultimo bambino che aveva provato a
seguirli.
«Ho ancora i brividi lungo la
schiena» brontolò
Hitoshi, avanzando con determinazione fino a mettersi davanti a
tutti.
«Una scorta di quattro shinobi costa
molto più di
quanto quei contadini guadagnino in un anno»
rifletté Kotaro,
tenendo il pesante sacchetto con reverenza. «Per loro deve
essere
una cosa davvero importante.»
«Scommetto quello che vuoi che
metà dei guadagni di
quegli uomini finisce nelle casse del tempio»
commentò Hitoshi.
«Fai anche tre quarti»
rincarò Chiharu.
«Va tutto bene?» le chiese
Kotaro con un’occhiata
incerta.
Lei strinse le labbra senza rispondere. Normalmente
si
risparmiava i commenti inutili - perché parlare era uno
spreco di
energia, e lei era molto contraria a qualunque spreco di energia - ma
l’incontro con Sai l’aveva innervosita
più di quanto pensasse.
«Davvero non ti ha turbato quello sfoggio
di bigottismo
e malcostume?» domandò Hitoshi in tono di vaga
superiorità, forte
del sostegno di Chiharu e ben determinato a sottolinearlo agli occhi
di Yoshi.
«Bigottismo? Malcostume?»
ripeté Kotaro confuso.
«Perché?»
«Io credo» intervenne Yoshi a
quel punto «che se
continuiamo a camminare conversando non riusciremo a tornare prima di
sera.»
«Domani devi essere a scuola?»
frecciò Hitoshi,
irritato dall’interruzione.
«Veramente sì. E visto che
c’è una lezione sulla
moltiplicazione vorrei partecipare.»
«Tu sai già
moltiplicarti» commentò l’Uchiha
sospettoso.
«C’è sempre da
imparare dai maestri.»
«Ma davvero? E cosa impari?»
Yoshi tacque, lasciando cadere la domanda. Chiharu
passò
lo sguardo da lui all’Uchiha e per un momento
accarezzò l'idea di
conficcare uno shuriken nel collo di quest'ultimo.
«Cosa c’è nel
sacchetto?» chiese invece per
cambiare discorso.
«Non vorrai aprirlo!»
trasalì Kotaro.
«Perché no?»
«E’ sacrilegio!»
«Il monaco non ha detto niente
sull’aprirlo...»
«Sono piuttosto sicuro che non si debba
fare!» Kotaro
strinse forte il sacchetto e fece un passo per allontanarsi da
Chiharu.
«Dai» sbuffò lei.
«Diamo solo un’occhiata, sono
certa che Juka non se la prenderà. Scommetto che
è un pezzo di
legno con la vaga forma di un essere umano.»
«Hai perso» disse Yoshi con un
sorriso. «E’ una
statuetta d’oro massiccio con incastonata una perla grossa
come una
noce.»
I tre shinobi lo fissarono, e lui si interruppe
come se
avesse detto troppo.
«Tu come fai a saperlo?» chiese
Hitoshi cauto.
Yoshi esitò per un istante, poi
spiegò: «perché l’ho
vista un mucchio di volte. Quella statua è la ragione per
cui sono
stato spedito a Konoha, e il Tempio di Juka è praticamente
sopra
casa mia.»
Kotaro guardò Chiharu come a chiedere
conferma, ma lei
si strinse nelle spalle e scosse la testa. Non aveva mai chiesto a
Yoshi i dettagli del suo passato, aveva l’impressione che
quell’argomento non gli piacesse granché.
«Sai, nessuno ha mai capito di preciso
cosa ci fai a
Konoha» disse Hitoshi con deliberata lentezza.
«Adesso che ci
avviciniamo alle tue zone sarebbe bello sapere cosa dobbiamo
aspettarci.»
«Cosa dovete aspettarvi?» Yoshi
ridacchiò. «Niente.
E’ una missione normale, non vi chiederò di fare
una scappata a
casa per salutare i parenti.»
«Perché no? Sarebbe
un’occasione ideale.»
Il sorriso scemò dalle labbra di Yoshi.
«Perché no.
Sono stato mandato a Konoha per addestrarmi, e a mio padre non
farebbe piacere vedermi tornare senza un diploma in mano.»
«Addestrarti a cosa?»
insisté Hitoshi, ignorando i
segni di fastidio di Chiharu.
«Ti preme tanto conoscere la mia
storia?»
«Ti preme tanto nasconderla?»
«Come vanno le cose a casa?»
Hitoshi si irrigidì. «Non sono
fatti tuoi.»
«E viceversa.»
«Okay, adesso basta» intervenne
Chiharu. «Abbiamo
davanti più di sessanta chilometri tra andata e ritorno e io
non
voglio viaggiare al buio. Smettetela di perdere tempo e acceleriamo
il passo.»
Hitoshi e Yoshi si fissarono per qualche secondo
ancora,
poi Hitoshi mollò la presa. «Kotaro, il sacchetto
pesa abbastanza
per avere dentro una statuetta d’oro massiccio?» si
limitò a
chiedere.
Kotaro soppesò l’involto e
annuì. «Va bene. Allora
ripartiamo» concesse l’Uchiha.
Ma
non ti leverò
gli occhi di dosso neanche per un secondo, aggiunse
mentalmente.
Chiharu
soffocò un
sospiro e la voglia di ammazzare Hitoshi. Mentre con Kotaro e Yoshi
riprendevano il viaggio a ritmo sostenuto lei si trovò a
pensare che
da lì in poi avrebbe rifiutato categoricamente ogni missione
a
quattro, se Naruto non li accompagnava. Non erano scientificamente in
grado di collaborare con nessuno, ecco la verità. Quando
cinque anni
prima Kakashi li aveva affidati a Naruto perché imparassero
a
lavorare in gruppo era stato troppo ottimista: nulla li avrebbe mai
convinti a mettere da parte l’orgoglio, già quando
erano loro tre
riuscivano a collaborare solo grazie a Kotaro. Era folle pensare che
qualcuno potesse inserirsi tra di loro.
I
banditi di cui
parlava la consegna della missione provarono un paio di timidi
attacchi lungo il percorso. Un assalto avvenne quasi subito, forse
per sfruttare l’effetto a sorpresa, ma Hitoshi era tanto
arrabbiato
che spaventò a morte i due uomini che gli si avventarono
contro e i
compagni li seguirono in men che non si dica. Il secondo attacco, un
po’ più prevedibile, fu a pochi chilometri dal
Tempio, quando la
stanchezza iniziava a farsi sentire e con essa la fame.
Il
sole era a picco
sul sentiero e loro procedevano nella piccola striscia
d’ombra a
margine del sottobosco. Di lì a poco avrebbero dovuto
lasciare la
strada battuta per inoltrarsi su un percorso non segnato che
attraversava il folto, secondo le istruzioni una via più
breve e che
probabilmente i banditi non avrebbero controllato.
Stavano
appunto
perlustrando i margini della strada quando una freccia
sibilò tra le
braccia di Kotaro tintinnando contro il sacchetto ingemmato. Dalle
ombre dei cespugli emersero due uomini urlanti armati di falcetto, e
una seconda freccia, proveniente da un’altra direzione,
fendette
l’aria conficcandosi accanto ai piedi di Yoshi.
I
quattro shinobi
reagirono come da manuale: Hitoshi e Kotaro si occuparono dei due a
piedi, Chiharu e Yoshi si tuffarono tra gli alberi alla ricerca degli
arcieri. Chiharu trovò il suo arrampicato sul ramo di un
pino. Prima
che potesse incoccare una nuova freccia lo afferrò per un
piede e lo
trascinò a terra, spingendolo violentemente contro il tronco.
«Quanti
siete?»
chiese premendo il braccio contro il suo collo.
«Sei»
rispose
quello in fretta. Era un ragazzo giovane, con la pelle del viso che
tirava sulle ossa e un orecchio solo.
«Quanti
arcieri?»
«Due.»
«Sicuro?»
Chiharu
premette con più forza.
«Sì!»
esclamò
quello aggrappandosi alle sue braccia.
«Ci
sono altre
bande lungo la strada?»
«Forse...»
«Ti
piace il tuo
orecchio?»
«Non
lo so! Giuro
che non lo so!»
Chiharu
strinse gli
occhi e si fece indietro. L’uomo prese fiato per un istante,
poi la
sua testa fu sbattuta violentemente contro il tronco del pino. Un
intenso odore di resina si sprigionò dalla corteccia.
Chiharu
lo lasciò a
terra tramortito, tornando sul sentiero per controllare come stavano
gli altri. Al suo arrivo trovò un bandito riverso in mezzo
al
sentiero e i ragazzi stretti attorno a qualcosa che non vedeva.
«Che
succede?»
«Abbiamo
un
problema» disse Hitoshi.
«Un
grosso, enorme
problema!» strillò Kotaro con voce piena di
angoscia.
Voltandosi
le mostrò
qualcosa che teneva tra le mani, con la tenerezza con cui avrebbe
tenuto un bambino: si trattava della statuetta in oro di un uomo con
una gran pancia tonda intento a mantenere l’equilibrio su un
piede
solo, ma la sua pancia, anziché essere un lucido guscio
dorato, era
una cavità sferica delle dimensioni di una noce circa. E la
perla
che di solito la riempiva giaceva tristemente accanto alla statua.
«Deve
essere stata
la freccia!» gemette Kotaro. «E’ tutta
colpa mia!»
«C’era
una
probabilità su un milione che quella freccia scalzasse la
perla»
borbottò Hitoshi. «Forse è un segno
divino?» aggiunse sarcastico.
«Il
dio Juka ci
disapprova?» inorridì il giovane Lee.
«Piantatela!»
sbottò Chiharu, afferrando la statuetta e cercando di
rimettere la
perla al suo posto.
«Non
era incollata»
spiegò Yoshi rigirandosi tra le mani il sacchetto scalfito.
«Penso
che l’abbiano aggiunta alla statua a caldo, così
che poi l’oro
raffreddandosi la bloccasse.»
«Saperlo ci servirà
a poco» disse Hitoshi secco. «Adesso cosa ci
inventiamo per i
monaci del tuo Tempio?»
Sul
viso di Yoshi
passò un leggero spasmo, come di irritazione a stento
contenuta.
«Dobbiamo ripararla in modo che non si veda il
danno» disse
frugando nel marsupio. Tra uno snack al sesamo e un paio di penne
comparve un tubetto mezzo vuoto di colla universale.
«No!» gridò
Kotaro riprendendo la statua. «Questo è sicuramente
un grave sacrilegio!»
«Ascolta,
non
possiamo fare altro» tentò di blandirlo Yoshi.
«Conosco i monaci
del Tempio: se l’incidente fosse avvenuto a loro avrebbero
fatto la
stessa cosa.»
«O
avrebbero
chiesto tre anni dei guadagni dei contadini per far rifondere la
statua» aggiunse Hitoshi.
«Ma
ce l’hai con
la religione o con i monaci?» cedette Yoshi, vinto
dall’esasperazione.
«Ce
l’ho con i
contadini. E’ la facilità con cui si fanno
prendere in giro da
quattro pelati che mi innervosisce. La loro stupidità mi
offende.»
«Divertente,
detto
da uno shinobi.»
«Non
osare!»
scattò Hitoshi. «Io non...»
«Andiamo,
non
riesci nemmeno a vedere quanto tu sia identico a quei contadini di
cui parli!» lo interruppe Yoshi. «I monaci dicono
che bisogna
onorare il dio con una nuova statua d’oro? I contadini si
privano
del cibo per pagarla! L’Hokage dice che bisogna combattere
contro
la Roccia? Duemila uomini buttano al vento la loro vita per obbedire!
Se il tuo problema non è con la religione ma con la
stupidità
umana, allora tu offendi te stesso!»
«Ma
volete
piantarla, una buona volta?» si intromise Chiharu, alzando la
voce
fino a coprire quella di Yoshi. «Siamo nel mezzo di una
missione!
Avete perso completamente la testa? Pensavo che lasciando a casa
Stupido avremmo evitato queste cose! Perché oggi non
riuscite a
ignorarvi come al solito?»
I
due ragazzi
tacquero, evitando di incrociare i rispettivi sguardi.
Yoshi
riprese la
statua dalle mani di Kotaro e finse di non sentire il suo gemito
quando riempì il fondo della pancia concava di colla
universale.
Chiharu vi premette a fondo la perla finché la colla non
ebbe fatto
presa, quindi testò la solidità
dell’impianto chiedendo a Yoshi
di scuoterla un po’. Sembrava reggere.
«Rimettiamola
nel
sacchetto e partiamo» concluse. «Non voglio
più sentire
discussioni sull’ordine sociale o sulla famiglia o su
qualunque
cosa che non sia da che parte andare o quando fermarci.»
I
ragazzi si
fissarono i sandali, ma dal momento che non protestarono lei lo
registrò come un sì.
Pochi
minuti dopo
trovarono la scorciatoia che doveva portarli al Tempio. Al di
là
delle erbacce e della difficoltà di seguire il sentiero la
strada si
rivelò davvero sicura, come se i banditi non si aspettassero
che
qualcuno passasse di lì. Il percorso procedeva tortuoso fino
ad
accostarsi a un ruscello, poi risaliva lungo il fianco di una
montagna seguendo il corso dell’acqua. Non fu una salita
particolarmente difficile, ma a quell’ora del giorno il bosco
era
caldo e umido e quando raggiunsero la cima a Hitoshi e Chiharu girava
la testa per la fame.
Se
non altro la
vista era spettacolare: la gradinata che avevano salito
nell’ultimo
tratto di strada emergeva su un vasto spiazzo cosparso di massi, tra
cui spuntavano alberi in miniatura e piccoli speroni sbozzati dai
ghiacci. Guardando verso valle il disegno delle strade che
attraversavano il bosco delineava una ragnatela intricata e difficile
da individuare, che si spingeva fin dove gli alberi lasciavano il
posto ai campi e poi all’orizzonte, confondendosi con il
turchese
del cielo. Ma il vero spettacolo era il tempio: padiglioni di legno e
pietre arroccati sugli speroni di roccia più ampi, placidi
nel sole
come lucertole. Quelli rivolti a sud erano costituiti in gran parte
di pareti scorrevoli che lasciavano entrare la luce a fiotti, gli
altri sembravano più robusti, destinati a riparare dalle
intemperie
della cattiva stagione. La struttura del tempio non era unitaria, e i
diversi padiglioni erano connessi l’uno all’altro
da sentieri di
ghiaia bianca; ma tutti convergevano verso lo spiazzo centrale dove
torreggiava un un edificio più grande, le cui porte erano
aperte per
accoglierli.
«Quella
cosa enorme
è una riproduzione della statuetta che abbiamo
portato?» chiese
Hitoshi fissando la scultura d’oro all’interno.
«Spero
sia solo
rivestito...» mormorò Chiharu. «Tu e
Kotaro aspettate qui, io e
Yoshi entriamo.»
I
due esclusi le
scoccarono occhiate costernate.
«Non
voglio altre
discussioni. Prima consegniamo il pacco e prima ripartiamo»
spiegò
lei. «Hitoshi, prendila come un’occasione per
riprendere fiato,
hai le labbra viola.»
L’Uchiha
portò
involontariamente una mano alla bocca, poi la ritrasse subito.
Chiharu afferrò Yoshi per un braccio e avanzò con
passo marziale,
lasciando i due ragazzi sotto il sole.
«Vieni,
là c’è
un po’ di ombra» sospirò Kotaro
avviandosi verso i primi gradini.
«Non
può
concludere una missione con uno che non è neanche
diplomato!»
sbottò Hitoshi seguendolo.
«Non
sta
concludendo la missione, prima dobbiamo rientrare.»
«Hai
capito cosa
intendo! E perché prende sempre le sue parti? La prossima
volta non
me ne resto zitto, gliene dico quattro a lei e a lui!»
I
due si sedettero
sull’ultimo gradino, dove Hitoshi si sdraiò con le
mani dietro la
testa. Un alto albero nodoso gettava su di loro la propria ombra,
l’aria fresca d’altura li cullava insieme al
gorgogliare del
ruscello poco distante.
«Ho
davvero le
labbra viola?» chiese l’Uchiha.
«No»
sbuffò
Kotaro. «Ma non riesco a capire se odi Yoshi
perché sta simpatico a
Chiharu o perché riesce a starci dietro.»
«Lo
odio perché è insopportabile!» rispose
Hitoshi. «Si divertono
solo lui e lei. Nessuno è alla loro altezza, sembra quasi
che
abbiano un codice segreto! E poi non mi piace che un allievo
dell’Accademia sia così bravo! Non è
normale, non va bene! Sono
sicuro che nasconda qualcosa!»
«Tu
dici?» Kotaro inarcò le sopracciglia.
«A
te sembra normale?»
«Immagino
che abbia
un sacco di talento...»
«Io
invece immagino
che abbia dei segreti.»
«Sei
proprio sicuro
di non essere un po’ di parte?» chiese Kotaro in
tono rassegnato.
Le
sopracciglia di
Hitoshi arrivarono a toccarsi sopra la radice del naso.
«Quale
parte?»
Kotaro
sospirò.
«Nessuna» si arrese.
«Mi
piacerebbe
proprio sapere cosa ha a che fare lui con questo tempio...»
borbottò
Hitoshi rischiarando la fronte. «Ha detto che la statuetta
è la
ragione per cui è stato mandato a studiare a Konoha, ma
secondo te
cosa vuol dire?»
«Non
ne ho la
minima idea.»
A
un tratto
sentirono il rumore di qualcosa che cadeva, e Hitoshi si
alzò in
tempo per vedere una donna che scivolava qualche gradino più
in
basso e perdeva un involto pieno di frutti rotondi.
«Si
è fatta male?»
chiese Kotaro raggiungendola in fretta. Con sollecitudine la
aiutò a
rialzarsi, constatando che era molto anziana e affaticata.
«Com’è
arrivata fin qui?» chiese sorpreso, prima di accorgersi che
la
domanda era maleducata.
«Ha
perso questi»
intervenne Hitoshi tendendole i frutti caduti.
«Grazie,
grazie...»
disse la donna massaggiandosi le ginocchia. «Ho fatto proprio
un bel
volo.»
«Lasci,
porto io il
sacco» suggerì Hitoshi mentre Kotaro la aiutava a
fare gli ultimi
gradini.
«Le
mie vecchie
ossa non sono più salde come una volta» sorrise
lei zoppicando
leggermente. «Povera me, spero di non essermi rotta
niente.»
Quando
emersero
sullo spiazzo davanti al Tempio videro Yoshi e Chiharu che tornavano
verso di loro con un paniere pieno di cibo. Li incrociarono a
metà
strada, proprio sotto il sole a picco, e spiegarono cosa era
successo.
«I
monaci ci hanno
offerto il pranzo» disse Chiharu mostrando il paniere.
«Accompagniamo al tempio questa donna e poi mangiamo
qualcosa.»
«Un
momento...»
mormorò Yoshi fissando intensamente la vecchia.
«Non è
possibile... Lena!»
Prima
che qualcuno
potesse capire qualcosa Yoshi prese le mani della donna, che lo
guardò stupita. Ma subito un lampo di riconoscimento
passò nei suoi
occhi, seguito da un ampio sorriso.
«Sei
Yoshi! Proprio
il piccolo Yoshi! Per la pancia del dio Juka, mai avrei pensato di
trovarti qui!» esclamò felice. «Non
dovresti essere a Konoha? E’
accaduto qualcosa?»
«No,
sto bene.
Sono... in missione» sintetizzò lui evasivo.
«Questi
ragazzi
sono ninja» realizzò la donna in quel momento,
passando lo sguardo
sui tre shinobi confusi. «Ma tu non...»
«Io
sto ancora
studiando, sono qui per imparare» la rassicurò
lui, rivolgendosi
poi agli altri. «Questa donna è stata la mia
balia, praticamente
una seconda madre per me» spiegò. «Viene
dal villaggio sull’altro
versante del monte. Come sei arrivata da sola? Quando sei partita?
Sarai esausta...»
La
vecchia scosse la
testa. «Ora che ti vedo non sento più la
stanchezza. Ma cosa hai
fatto ai capelli? Erano neri come le ali di un corvo! Tua madre non
approverebbe... Quando ti vedrà...»
Yoshi
si incupì.
«Sai che non posso ancora tornare.»
«Sono
certa che tuo
padre farebbe un’eccezione...»
«No,
non la
farebbe.»
Negli
occhi di
Hitoshi passò un lampo. «Oh, dai, potremmo fare un
tentativo»
suggerì con un sorriso ampio quanto falso. «Sono
così curioso di
conoscere la tua famiglia.»
«Non
penso che
sarebbe il momento migliore» ribatté Yoshi con uno
sguardo
tagliente. «In questi giorni cade l’anniversario
della morte di
mio fratello.»
Il
sorriso di
Hitoshi si trasformò in una smorfia. Era acutamente
consapevole
dell’occhiata di commiserazione di Kotaro e di quella
esasperata di
Chiharu, ma la frittata era fatta. «Mi dispiace» si
costrinse a
dire.
«Una
storia molto
triste...» mormorò la vecchia scuotendo la testa.
«Il miglior
ragazzo che si sia mai visto, pronto a sostituire il padre come
custode del villaggio. Poi quel tragico incidente, e hanno dovuto
inviarti a Konoha in tutta fretta... Mi si è spezzato il
cuore due
volte.»
«Non
è il caso di
restare sotto il sole» la interruppe lui. «Vieni,
ti accompagno al
Tempio.»
«Ti
aspettiamo
sulla gradinata» annuì Chiharu.
Hitoshi
lasciò a
Yoshi l’involto pieno di frutti e Kotaro prese il paniere con
il
pranzo. Andando verso il riparo offerto dagli alberi Chiharu fece
arrivare a Hitoshi una gomitata di una precisione micidiale.
«Ahia!
Come facevo
a saperlo?» protestò lui.
«Non
ho mai visto
una scena più patetica» replicò lei tra
i denti. «Mi sono
vergognata di essere insieme a te.»
«Un
pochino anche
io» mormorò Kotaro.
«Se
lui ci avesse
detto prima come stavano le cose, la scena patetica
ce la
saremmo risparmiata!» insisté Hitoshi.
«Non
aveva alcun
dovere di dirti niente» precisò Chiharu.
«Smettila di pensare che
nasconda qualcosa.»
«Continuerò
a
farlo sempre: non è normale che uno studente senza diploma
sia così
bravo!»
«Sì,
beh:
sorpresa! Non sei tu il più figo del mondo! Adesso riempiti
la bocca
di cibo e piantala di metterci in imbarazzo.»
Hitoshi
strinse le
labbra e si lasciò cadere pesantemente sul secondo gradino.
Kotaro
mise il
paniere accanto a lui e si sedette vicino a Chiharu. I monaci avevano
preparato per loro onigiri e verdure sottaceto.
Chiharu
raccontò della consegna della statua e disse che al Tempio
non
avevano notato nulla di strano, ma il giovane Lee scosse la testa
afflitto.
«Il
dio Juka se ne
ricorderà» rabbrividì. «Avete
sentito la maledizione di quel
monaco.»
«Il
dio Juka terrà
conto delle tue buone intenzioni» lo rassicurò lei.
Yoshi
tornò che
avevano quasi finito di mangiare. Si sedette dall’altro lato
di
Chiharu e prese i suoi onigiri senza parlare.
Kotaro
toccò
Hitoshi con il piede. Lui lo fissò corrucciato. Il giovane
Lee
inarcò le sopracciglia. L’Uchiha scosse la testa.
Il secondo
contatto con il piede fu un vero e proprio calcio, al che Hitoshi si
girò proprio dall’altra parte. Non si sarebbe
scusato,
assolutamente no.
«La
mia famiglia
viene dallo stesso villaggio di Lena» disse Yoshi a sorpresa.
Tutti
alzarono la testa a guardarlo, ma lui continuò a fissare il
chicco
di riso con cui giocherellava distrattamente. «Da generazioni
il mio
clan rappresenta il potere del signorotto locale, siamo una specie di
guardia armata» raccontò. «Mio padre
è il capoclan, e per
tradizione il primogenito del capoclan viene inviato a studiare a
Konoha perché si trasformi in un ottimo stratega. Sono stati
stipulati accordi vecchi di decenni per questo. Mio fratello era il
primogenito: quando ha compiuto otto anni è venuto a Konoha
e si è
brillantemente diplomato insieme ai ragazzini della sua età.
Poi è
tornato a casa, senza coprifronte ma con un sacco di buone idee per
migliorare la difesa del villaggio e del tempio, e mio padre lo ha
trovato così utile che ne ha fatto il suo braccio destro a
non più
di tredici anni. Era un vero genio. Beh, sapete anche voi come vanno
queste cose... Esci vivo da cinquanta scontri e al cinquantunesimo ci
lasci le penne. La statuetta è una preda attraente per tutti
i
banditi della zona, provano a rubarcela con cadenza regolare. Un
giorno in cui mio fratello era addetto alla difesa del Tempio,
durante uno dei tentativi di rapina è rimasto
ucciso.»
«Stai
dicendo che
anche in questo momento ci sono membri del tuo clan che ci
fissano?»
chiese Kotaro guardandosi le spalle.
«Probabilmente
sì»
sorrise Yoshi.
«E
perché non
pensano loro a trasportare la statua da un villaggio
all'altro?»
«Perché
gli uomini
dell'altro villaggio resterebbero offesi: sono gente religiosa e
pacifica, non hanno una scorta armata in grado di sorvegliare la
statua durante il viaggio. Pensano che sia più onorevole
sacrificarsi pagando qualcuno, piuttosto che lasciare tutto il merito
a noi. Comunque sia, mio fratello è stato ucciso circa un
anno fa, e
allorao ero già troppo grande per l’Accademia. Ma
mio padre aveva
bisogno di un erede addestrato, così ha fatto pressioni
perché mi
accettassero a Konoha. Non era entusiasta di dover ripiegare su di
me, ma non aveva molte altre scelte. In ogni caso ero già
stato
cresciuto con la rigida disciplina militare, tre anni di ulteriore
addestramento non erano un gran dramma.»
Chiharu
scosse
impercettibilmente la testa. Il racconto spiegava perché
Yoshi fosse
già tanto abile anche senza avere un diploma, e allo stesso
tempo
dava una risposta al suo stile di vita così sciatto: doveva
essere
difficile vivere senza regole quando lo avevi fatto per tutta la
vita. Senza farsi notare guardò di sottecchi Hitoshi:
c’erano
alcuni punti in comune tra la sua storia e quella di Yoshi, ma
l’Uchiha non prendeva mai le cose per il verso giusto.
Sperava solo
che non usasse anche questo discorso per attaccare briga.
«Ora
sei
soddisfatto?» chiese Yoshi alzando lo sguardo.
Hitoshi
ricambiò
l’occhiata con malagrazia. «Più o
meno.»
Appunto.
«Beh,
fattelo
bastare» concluse Yoshi, e per chiudere il discorso
addentò il suo
onigiri.
Kotaro
sospirò e appoggiò il mento alla mano. Vedeva fin
troppo bene che
Hitoshi non era per niente soddisfatto: se c’era una cosa che
poteva incrementare il suo astio era proprio l’idea che Yoshi
avesse una stirpe alle spalle per legittimare le sue eroiche imprese
e lui no. Ne avrebbe fatto il perno su cui fondare tutta la sua
teoria della cospirazione... L’invidia era un movente
potentissimo.
Ora che aveva ascoltato la sua storia, lui invece non
pensava che Yoshi avesse qualcosa da nascondere, ma era certo,
proprio assolutamente certo, che Hitoshi invece un paio di cose ce le
avesse: cose che riguardavano Chiharu e gli Uchiha e il suo ruolo nel
clan. L’orgoglioso Hitoshi non lo avrebbe mai confessato, ma,
dopo
tutti quegli anni insieme, Kotaro certe sfumature aveva imparato a
capirle. Dopotutto
anche lui aveva i suoi segreti...
Poco
prima che
Chiharu insistesse per ripartire, un brivido gli corse lungo la spina
dorsale, come se un refolo di aria fredda si fosse infilato sotto il
colletto. Guardò il Tempio alle sue spalle
un’ultima volta, mentre
le parole minacciose del monaco riecheggiavano nelle sue orecchie.
La
maledizione del dio Juka ricadrà sulle vostre vite!
No,
si disse,
sicuramente il dio avrebbe tenuto conto delle sue buone intenzioni...
Il
tempo è vicino.
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Capitolo 4 *** L'adolescenza di Jin ***
enne 04
Capitolo
quarto
L'adolescenza di Jin
Kakashi
era quasi pronto per la partenza.
Erano
passati alcuni giorni dall’annuncio delle sue dimissioni e il
Consiglio ancora insisteva perché continuasse a presentarsi
in
ufficio a dirigere i suoi sostituti, ma non avrebbe concesso loro
molto altro tempo. In quel breve periodo aveva svolto alcune ricerche
discrete, aveva preparato lo zaino da viaggio e aveva cercato di
tenersi sempre incredibilmente impegnato. Voleva evitare i problemi e
voleva evitare Jin; non credeva che la scusa della vacanza avrebbe
retto, ma sperava di defilarsi prima di farsi intrappolare da doveri
e piccoli shinobi intuitivi.
Fino
a quel momento ci era riuscito abbastanza bene.
«Una
squadra di rinforzo verso la Roccia e una medica di supporto. Al
campo base troverete chi dovete sostituire e darete loro il cambio.
Lì attenderete istruzioni.»
La
voce di Kakashi fu soffocata dal ‘sissignore’ degli
Anbu nel suo
studio, tutti a volto coperto e rigidamente sull’attenti. Lui
li
congedò con un cenno, rivolgendosi quindi
all’assistente che
bussava.
«Un
messaggio da Suna» annunciò Koichi posando un
foglio sulla
scrivania. Kakashi lo prese e lo lesse rapidamente. «Chiama
Naruto,
Sasuke, Sakura e Shikamaru» ordinò arrivato in
fondo «In fretta.»
L’assistente
chinò la testa e scomparve oltre la porta, mentre Kakashi
dava fuoco
al messaggio nel posacenere sulla scrivania. Aveva quasi dimenticato
la faccenda di Suna, rifletté preoccupato, ma naturalmente
Gaara
l’aveva sottolineata con una certa urgenza.
L’inaspettata mole di
lavoro che si era trovato a dover sbrigare a causa del Consiglio
rendeva l’Hokage nervoso, distratto e facile agli scatti
d’ira;
per complicare le cose una parte della sua mente si dedicava
costantemente al pensiero del figlio, che non gli rivolgeva la parola
da quando avevano litigato, e in quelle condizioni era difficile non
perdere colpi.
Forse
avrebbe dovuto parlare a Jin: era un ragazzo in gamba, uno shinobi
straordinario, e probabilmente aveva già elaborato una
dozzina di
piani diversi per seguirlo nel suo viaggio. Ma aveva solo dodici
anni... Oppure aveva già
dodici anni. Magari era troppo tardi. Magari non lo avrebbe
perdonato.
Prima
che i suoi pensieri prendessero una piega infelice fu distratto da un
sommesso bussare e vide comparire sulla soglia dello studio Sakura e
Shikamaru.
«Ci
ha fatti chiamare?» chiese Shikamaru, facendosi avanti con
una certa
indolenza. «Dobbiamo già sgobbare?»
«Più
o meno» ammise Kakashi, snebbiando rapido la testa.
«Condividerete
la fatica con Sasuke e Naruto, ma in questo momento ho troppo da fare
per aspettarli; penserete voi ad aggiornarli.»
«Aggiornare
Naruto?» Shikamaru gemette mentre Sakura sbuffava con un
accenno di
sorriso. «Già è difficile fargli capire
le cose, se poi
aggiungiamo che non gli è stato tributato il rispetto che
merita
come sostituto Hokage...»
«Lo
so» tagliò corto Kakashi. «Ma non ho
tempo da perdere in tributi.»
Shikamaru
si tolse dalla faccia l’espressione annoiata e Sakura fece
scomparire il sorriso.
«Ho
detto di volermene andare prima che la situazione precipiti, ma in
effetti anche adesso è piuttosto critica»
continuò Kakashi
sfogliando i dispacci sulla scrivania. «C'è
qualcosa di cui non
siete al corrente, perché non potevo parlarne davanti al
Consiglio,
ma è una cosa della massima importanza: è in
corso un’operazione
segreta a Suna. Non è un caso che abbia affidato dei
supporti a
Naruto, perché francamente non so fino a che punto
riuscirebbe a
gestire, da solo, la diplomazia internazionale e i problemi interni.
Dunque, e mi rivolgo in particolare a te, Shikamaru, ho bisogno di
qualcuno che separi i compiti e in particolare che collabori con
Gaara per portare a termine la sua missione. Che naturalmente non
è
nulla di risolvibile con la sola forza bruta, come proporrebbe
Naruto.»
«Che
seccatura...» bofonchiò Shikamaru.
«Da
quasi sei anni una spia si è infiltrata a Suna»
Kakashi ignorò
l’interruzione. «Pur sapendo da molto tempo della
sua esistenza,
non abbiamo mai potuto eliminarla perché la Roccia, il paese
da cui
la spia proviene, ha un ostaggio. Ma io e Gaara abbiamo lavorato
duramente e siamo riusciti a scoprire dove lo tengono, il che ci ha
permesso di iniziare a elaborare una strategia per liberarlo. Il
piano è praticamente pronto, vanno solo verificate le
condizioni di
partenza e coordinati gli spostamenti. Ritengo di poter affidare
tranquillamente questo compito a te.»
«Aspetti
un attimo» lo interruppe Shikamaru alzando una mano.
«Come è
riuscito a concordare un piano con il Kazekage senza che la spia
né
il Consiglio vi scoprissero?»
«Usiamo
un codice segreto, te lo insegnerò.»
«E
la spia non se n’è mai accorta? Che posizione
occupa? Chi è,
insomma? L’ostaggio è tanto importante?»
Kakashi
sospirò: Naruto era impulsivo, irragionevole, esagitato e
spaccone,
ma ti lasciava la mente libera. I geni invece tendevano a fare le
domande giuste - una cosa molto seccante, se il tempo per i dettagli
era scarso.
«La
spia è la segretaria personale del Kazekage»
rivelò. «O meglio,
uno shinobi appositamente trasformato; e grazie alla sua posizione
può seguirlo in ogni suo spostamento e controllarlo ad ogni
istante.
L’ostaggio è ancora una volta la segretaria del
Kazekage.
L’originale, naturalmente. Ed è importante per una
semplice ma
fondamentale ragione: è la donna che Gaara ama.»
Sia
Sakura sia Shikamaru non riuscirono a non stupirsi.
«Prego?»
fece Shikamaru, allibito. «Gaara ama?»
«Ehi!»
sbottò Sakura. «Certo che ama, come tutti!
E’ un uomo, è
normale... Anzi, era strano che finora non...»
«Sakura»
la interruppe Kakashi. «Capisco che la tua passione per gli
amori
tormentati abbia trovato terreno fertile, ma, ripeto, non ho tempo da
perdere.»
«Chiedo
scusa» arrossì lei.
«Le
ragioni per cui il Consiglio non è stato informato della
missione
sono ovvie» proseguì Kakashi. «Non
avrebbero mai permesso di
mettere in pericolo l’Alleanza solo per salvare una donna di
scarsa
rilevanza strategica. Suggerisco di avvisarli solo dopo aver dato il
via alle operazioni e di prepararvi a momenti molto difficili al
tavolo delle riunioni. Confido nella tua capacità di
riparare le
falle, Shikamaru, sia strategiche sia politiche.»
«Purtroppo»
rognò lui. «Agli ordini» aggiunse dopo
un attimo, quando sentì
l’occhiata di rimprovero di Sakura sul collo.
«Bene,
credo di avervi fornito le informazioni necessarie. Ora, se Sasuke e
Naruto si degnassero di comparire...»
«Ci
sono, ci sono, ci sono!» gridò una voce in quel
preciso istante, e
un Naruto affannato e coperto di sudore spalancò la porta e
quasi
inciampò addosso a Sakura per precipitarsi
all’interno
dell’ufficio. «Ci
sono! Non
iniziate senza di me!»
«E’
un po’ tardi» ribatté Sakura
staccandoselo di dosso.
«Che
cosa? Tardi?» allibì lui, riprendendo fiato.
«Mi
avete lasciato fuori? Ehi, io sono
il legittimo Hokage! Come avete potuto iniziare senza di me?»
Shikamaru
si grattò un orecchio rimpiangendo i bei tempi da Genin e
Sakura si
passò una mano sulla faccia, già stanca. Kakashi
cercò di trovare
mentalmente una scusa per allontanarsi, ma l’irruenza di
Naruto non
era mai facile da schivare con pretesti plausibili.
Fuori
dalla porta Sasuke si fermò, le mani affondate in tasca e
gli occhi
all’interno dello studio.
«Prego,
la stanno aspettando» lo esortò un Koichi
particolarmente zelante.
Ma
il capo della polizia di Konoha, celebre esempio di
integrità e
ardore morale, semplicemente fece dietro front e se ne andò:
il suo
istinto era allenato a subodorare una grana quando se la trovava
davanti.
Kakashi,
vedendolo sgattaiolare via nonostante le proteste di Koichi,
rimpianse di non potersi defilare altrettanto facilmente: con un
profondo sospiro all’indirizzo del furibondo Naruto dovette
accomodarsi meglio sulla sedia e prepararsi a una lunga
discussione... Dubitava che ripetere per l’ennesima volta
quanto
poco tempo avesse avrebbe sortito qualche effetto.
Alla
fine lasciò lo studio dell’Hokage che il sole era
già calato, e
per riuscire a finire tutte le scartoffie urgenti si portò
un pacco
di documenti a casa.
Nonostante
fosse piuttosto tardi, al suo rientro si chiuse nello studio accanto
al salotto per rileggere le consegne che avrebbe lasciato a Sakura.
Sapeva che la parte burocratica sarebbe stata quasi esclusivamente
compito suo, ma sperava che lei e Koichi sarebbero andati
d’accordo.
Tra
un documento e l’altro gettava brevi occhiate allo zaino da
viaggio
pronto su una sedia. Al massimo altre due notti a casa, poi se la
sarebbe svignata. Doveva solo convincere Naruto che partiva per una
bella vacanza; era certo che a differenza di Jin lui avrebbe accolto
l’idea con entusiasmo, prendendola come una splendida
occasione per
dimostrare quale perfetto Hokage poteva essere. Kakashi contava sul
fatto che i suoi ragazzi lo avrebbero difeso davanti al Consiglio
quando fosse sparito, altrimenti rischiava un’accusa di
tradimento... conosceva troppi segreti del villaggio per andarsene a
zonzo come un ragazzino in gita.
Mentre
finiva un noioso documento sui rifornimenti di materiale per
l’Accademia sentì bussare alla porta dello studio
e si irrigidì.
Fino ad allora Jin non si era azzardato a cercarlo: dopo
l’ultima
lite era sempre uscito presto la mattina ed era rientrato tardi la
sera, e tutto il poco tempo che aveva passato a casa era rimasto
rintanato nella sua stanza. Kakashi non pensava che si sarebbe
più
presentato per discutere.
«Sì?»
chiese, sentendo la bocca che si asciugava.
«Posso?»
La
testa castana che che si affacciò sulla soglia non era
quella che si
aspettava. Con grande sorpresa e una piccola fitta allo stomaco
Kakashi vide Natsumi Muto entrare nello studio, e per un istante si
sentì in trappola.
«Non
eri in missione?» le domandò schiarendosi la voce.
«Avevi
fatto in modo che lo fossi, in effetti, ma ho finito prima del
previsto» ribatté lei, piantandogli addosso gli
occhi blu. Natsumi
aveva ormai superato la trentina, e Kakashi, che conosceva
così bene
il viso di Haruka, poteva dire che le due sorelle si somigliavano
molto: avevano gli stessi occhi, anche se in quelli di Natsumi
mancava quel velo di dolcezza con cui Haruka era solito guardarlo,
prima che...
«E’
molto tardi» disse Kakashi, forzandosi a non divagare col
pensiero.
«Mi
ha fatto entrare Jin» spiegò Natsumi, richiudendo
la porta
abbastanza lentamente da permettergli di vedere un’ombra
scomparire
lungo il corridoio.
«Devi
avere molta urgenza di parlarmi, se sei venuta fin qui subito dopo la
missione.»
«Un
uccellino mi ha detto che forse non resterai disponibile a
lungo»
Natsumi lanciò uno sguardo eloquente allo zaino sulla sedia
e
Kakashi si ripromise di nasconderlo dietro la scrivania.
«Jin
è un gran chiacchierone» mormorò.
Avrebbe dovuto immaginare che la
notizia sarebbe arrivata a lei: Natsumi e Jin erano molto legati.
«Sei
un buon bugiardo, Kakashi, ma se continui rischio di
offendermi»
mormorò la kunoichi. «Non hai qualcosa da dirmi su
Haruka?»
Non
ci girava certo intorno.
Negli
ultimi cinque anni Natsumi era stata reintegrata tra i ninja della
Foglia dopo la fine un po’ brusca della sua missione alla
Roccia.
In previsione dell’inizio delle ostilità il
Consiglio aveva deciso
di ritirare lentamente la maggior parte delle spie, per lasciare
oltre confine solo quelle in posizioni strategicamente importanti.
Natsumi era stata una delle prime. Al suo rientro aveva subito
chiesto notizie di sua sorella e di Jin, e Kakashi aveva risposto in
maniera volutamente vaga, lasciando che si facesse un’idea
parziale. Era stato troppo vigliacco per dirle tutta la
verità.
Probabilmente avrebbe dovuto stringere i denti e parlarle subito,
realizzò in quel momento.
«Natsumi,
Jin si è messo in testa un’idea che non
corrisponde alla realtà»
disse in tono paziente, cercando di convincerla con la forza della
persuasione. «Non sto andando a cercare Haruka. Voglio solo
fare una
perlustrazione dei confini...»
«Non
dovevi andare in vacanza?» lo interruppe lei. «Mi
sto arrabbiando,
Kakashi» Questa volta il tono di minaccia nella sua voce era
ben
chiaro. «Non tenermi fuori, questi sono affari di famiglia,
della
mia famiglia! Cosa è successo a mia sorella?»
Kakashi
tacque.
Per
un momento pensò quasi di dirle tutto. Sarebbe stato
così
liberatorio, purificante, un vero sollievo... Ma si trattenne.
Natsumi era la sorella di Haruka: si sarebbe infuriata, avrebbe fatto
una scenata e se ne sarebbe andata da Konoha all’istante.
Non
era proprio il caso.
Per
evitare che la discussione degenerasse si alzò in piedi,
tirando
fuori la vecchia aura di autorità da Hokage. «Hai
già interferito
fin troppo nel rapporto con mio figlio» disse in tono quasi
duro.
«Qualunque cosa io dica o non dica in questa stanza la prima
cosa
che farai sarà correre da lui. E io non posso
permetterlo.»
Le
guance di Natsumi arrossirono di indignazione. «Non
è vero!»
«Sì
che lo è. Da quando hai conosciuto quel bambino gli hai
riempito la
testa di discorsi e idee che io non ti ho mai autorizzato a
diffondere. Ho sbagliato a non fermarti prima, ma mi aspettavo che
avessi più buonsenso» disse asciutto.
«Tu
avresti dovuto parlare a Jin di Haruka! Ho fatto soltanto quello che
non hai mai voluto
fare!»
Kakashi
serrò le
labbra e prese un respiro profondo. «Non ho mai detto che Jin
fosse
tuo nipote.»
Silenzio.
Natsumi
sbatté le
palpebre in un attimo di smarrimento.
«Non
dire
idiozie» ribatté poco dopo, riprendendo lentamente
il controllo.
«Non mi avresti permesso di ronzargli intorno tutto questo
tempo,
non... Non avresti lasciato che credesse a tutto quello che gli
dicevo di Haruka, se... Tu mi avresti fermata prima! Se avessi fatto
un errore così grossolano mi avresti fermata molto tempo
fa!»
Kakashi
tacque e
la fissò.
«Io
non ti
credo!» riprese lei, la voce di qualche tono più
acuta. «E non
capisco perché ti ostini a negare così
spudoratamente! Jin ha gli
occhi di mia sorella! Lo so! La conosco da sempre, da molto
più
tempo di te! E so che Jin è mio nipote, così come
so che ora stai
mentendo! Quello che non capisco è
perché!»
Ancora
nessuna
risposta.
Senza
che Natsumi
potesse impedirlo il tarlo del dubbio si insinuò nella sua
mente...
E se Jin non fosse stato il figlio di Haruka? Era possibile? Ma
allora perché lasciarlo credere a tutti, perché
lasciarla
avvicinare, perché permetterle di affezionarsi a un
ragazzino con
cui non aveva nulla a che fare? Doveva ammetterlo, in quel modo gli
strani silenzi di Kakashi riguardo Haruka potevano trovare una
parvenza di spiegazione... Incompleta, insoddisfacente, piena di
falle, però sempre una spiegazione. Ma non era abbastanza,
perché
distruggevano una serie di certezze che dava per scontate e creavano
garbugli ancora più intricati: se Haruka non era la madre di
Jin
allora chi lo aveva messo al mondo? E che fine aveva fatto sua
sorella?
«Lascia
stare,
Natsumi» le consigliò Kakashi. «In
questo momento Haruka è un
argomento che non può uscire dall’ufficio
dell’Hokage. Sei uno
shinobi di Konoha, sai cosa vuol dire.»
Si
che lo sapeva:
voleva dire che il suo fascicolo era rinchiuso nell’archivio
segreto della Foglia, dove i cospiratori, i demoni e tutte le
malefatte della nobiltà dovevano essere seppelliti per
salvare il
buon nome del Vilaggio.
Perché
si trovava
lì?
Natsumi
deglutì.
«E’
viva?»
domandò piano.
«Natsumi...»
«Ok.
Ok, non
dirmelo. Non ora. Non so se ce la...» deglutì a
vuoto. «Se, come
ha detto Jin, stai partendo per un viaggio di cui non vuoi parlare,
voglio pensare che tu vada da mia sorella. Quando tornerai mi
parlerai. Perché la mia famiglia ha sacrificato tutto quello
che
aveva per questo villaggio, e Konoha ce lo deve. Ce lo deve! Tu mi
racconterai tutta la storia, riservata o no. Va bene?»
ansimò.
Natsumi
aveva
ragione, in fondo. Ma il problema non era Konoha, il problema era
lui, sospirò Kakashi. Se Haruka era un file segreto
nell’ufficio
dell’Hokage in gran parte era proprio per causa sua e della
sua
indecisione. Se il messaggio di Akiko Kato non fosse mai arrivato,
prima o poi avrebbe parlato a Natsumi, le avrebbe spiegato cosa era
successo, cosa ne pensava lui e cosa ne aveva pensato Tsunade
all’epoca, le avrebbe detto tutto. Ma quel messaggio era
arrivato,
e il suo arrivo aveva cancellato tutte le parole che avrebbe potuto
dire. Ormai nemmeno lui sapeva più cosa pensare... Per
questo doveva
andare di persona.
«Quando
tornerò»
cedette crollando le spalle. «Quando tornerò
parleremo.»
«A
Jin devi
parlare adesso» mormorò Natsumi senza guardarlo.
«Io so che è suo
figlio: ha i suoi occhi, non posso sbagliarmi. Che sia viva
o...»
deglutì. «Devi parlargli prima di andartene. Ha il
diritto di
sapere prima di tutti. Glielo devi.»
«Torna
a casa»
sospirò Kakashi. «E’ molto tardi, e
domani dovrai lavorare. Buona
notte Natsumi.»
«Parla
a Jin»
insisté lei un’ultima volta, accogliendo il
congedo suo malgrado:
era scossa, voleva tornare a casa e riflettere sulle cose che aveva
sentito.
Kakashi
non
rispose, ma quando la donna uscì dallo studio si
sentì molto solo.
Natsumi lo aveva sempre guardato con una luce speciale negli occhi:
quando era piccola lui era stato il suo eroe, poi l’uomo di
sua
sorella, poi il padre di suo nipote... Il suo sguardo lo aveva sempre
fatto sentire un po’ migliore di quanto fosse in
realtà, anche se
sapeva di essere crudele a lasciarle alimentare
l’infatuazione. Ora
forse era riuscito a fargliela passare, per il bene di lei e il
proprio sconforto. Non aveva nemmeno dovuto impegnarsi, era bastato
lasciar scivolare gli eventi. Forse anche con Jin sarebbe successa la
stessa cosa, forse se avesse lasciato correre...
No.
Non poteva.
Non con Jin, comprese.
Natsumi
aveva ragione: glielo doveva.
I
giorni in cui il cielo era a pecorelle erano i peggiori per
allenarsi. La luce cadeva in macchie irregolari, era instabile,
confondeva i contorni e accecava all’improvviso, scomparendo
sempre
sul più bello. Ma a Jin andava bene così,
perché in quel momento
aveva bisogno di concentrarsi disperatamente su cose che non
richiedevano pensieri, concentrarsi tanto da dimenticare tutto il
resto e farsi assorbire da qualcosa di difficile.
La
copia con cui stava combattendo gli rilanciò uno sguardo
vacuo
mentre elaborava il suo attacco. All’improvviso si
lanciò contro
di lui, sfruttò una zona d’ombra a terra e
scartò bruscamente,
pronta a colpire sul lato destro. Jin rotolò via
all’ultimo
istante e lasciò partire due shuriken che si persero
nell’aria,
schivati senza difficoltà. Lui e la copia furono di nuovo in
piedi
in meno di un attimo, abbastanza vicini da attaccarsi corpo a corpo.
Jin
sentiva di avere il fiato corto. Per un breve istante si chiese da
quanto andava avanti l’allenamento, ma non seppe rispondersi.
La
distrazione però gli costò cara: sentì
il bruciore del kunai sul
viso quando già c’era un lungo graffio sulla sua
guancia. Si
spinse indietro, allontanandosi con un paio di capriole, e
scagliò
di nuovo i suoi shuriken, ancora una volta scansati. Quindi, senza
che riuscisse a capire esattamente la dinamica degli avvenimenti, si
trovò scaraventato a terra e vide la lama del kunai a pochi
centimetri dai suoi occhi.
«Merda...»
ansimò stringendo la polvere tra i pugni.
La
copia su di lui arretrò e scomparve in uno sbuffo di fumo,
proprio
mentre un lembo di nuvola si faceva da parte e un raggio di sole lo
colpiva sul viso. Jin storse il naso e si schermò la fronte,
senza
rialzarsi, aspettando che il respiro tornasse normale.
Quand’ecco
che il suo campo visivo fu occupato da una faccia decisamente molto
compiaciuta, al centro della quale brillavano un paio di occhi
candidi.
«Jin
Hatake nella polvere. Non pensavo che avrei mai visto una simile
rarità» commentò Hinagiku, facendosi
indietro mentre lui si tirava
a sedere.
«Succede
più spesso di quel che pensi, invece»
sbuffò Jin, scuotendo con
una mano i capelli più grigi del solito.
«Con
le tue copie, forse... Tutto bene?» chiese lei, facendo
sparire il
ghigno e tendendogli una bottiglietta.
«E
questa da dove esce?»
Hinagiku
arrossì e si affrettò a guardare altrove, tutta
interessata a una
formica che trasportava una vespa morta. «Mah,
così... ce l’avevo
dietro per caso» mentì, ricordando di aver
assillato sua madre per
venti minuti affinché fosse acqua fresca, anzi freschissima,
e ricca
di sali minerali.
«Beh,
grazie comunque» disse lui sforzandosi di sorridere e mettere
da
parte il malumore.
«Hai
bisogno di un cerotto?» Hinagiku accennò con il
mento al graffio
sulla sua faccia.
«Passerà
da solo.»
La
ragazzina si lasciò cadere seduta al suo fianco,
abbracciandosi le
ginocchia, e rimase a guardarlo mentre beveva.
Certe
volte pensava di essere strana, ma quando lo guardava dopo gli
allenamenti, sporco e sudato, a lei sembrava sempre un po’
più
bello del solito. Non lo aveva mai detto a nessuno, naturalmente, da
sua madre aveva ereditato una certa introversione e la tendenza a
tenere per sé i fatti personali, ma le piaceva stargli
vicino dopo
che si era allenato.
Jin
smise di bere e riavvitò il tappo, tendendole la bottiglia.
«Grazie
ancora» le disse appoggiando le mani all’indietro
per riprendere
fiato.
«Sai
che in Accademia abbiamo iniziato le prove per il test
finale?»
ricominciò Hinagiku in cerca un argomento di conversazione.
«Davvero?
Come vanno?»
Hinagiku
si strinse nelle spalle. «Vanno. Secondo il maestro Aburame
non
dovrei rilassarmi troppo, ma il maestro Iruka dice che
passerò
l’esame senza problemi, al contrario di mio padre.
Però mi sa che
lui da quando si è sposato con la figlia di Ichiraku ha
messo su un
po’ di buonismo, oltre alla pancetta.»
«Ma
quale pancetta, sono addominali!» borbottò Jin,
imitando la voce
del maestro Iruka.
Hinagiku
scoppiò a ridere e si lasciò cadere con la
schiena a terra,
fissando il cielo nuvoloso.
«Sai,
in realtà non vorrei mai finire
l’Accademia» confessò. «Mi
piace stare lì, ormai conosco tutti gli insegnanti e gli
angoli
della scuola, mi piace dormicchiare durante le lezioni, mi piace la
pausa pranzo, mi piacciono gli esercizi scemi che ci fanno fare...
Non voglio rinunciare a tutto questo, anche se sono contentissima di
avere il coprifronte.»
Jin
la guardò. «Non saprei»
mormorò. «Quando ho studiato io tutti
gli altri ragazzi erano molto più grandi di me, e gli
esercizi
davvero troppo semplici... Non ero particolarmente legato a quel
posto. Però so che quando mi hanno affidato la prima
missione e mi
sono reso conto che era completamente diversa dall’Accademia,
avrei
voluto picchiarli tutti, gli adulti.»
«E’
questo che non mi piace!» Hinagiku tornò a sedere
di scatto. «Che
all’Accademia è tutto un test a punteggio, ma
quando esci fuori –
puf!
– ecco che le cose si fanno serie! Insomma, nessuno ci
prepara a
questo! Potrei anche restare traumatizzata dalla differenza, ci
pensano mai?»
«Suppongo
che questo sia il lavoro dei capogruppo.»
«Seee,
e se mi capita come capogruppo uno scemo come mio padre? Io mica mi
fido ad andare in missione con uno come lui!»
«Tuo
padre è in gamba» sorrise Jin.
«Altrimenti non sarebbe stato
scelto come sostituto Hokage.»
«Bella
roba, insieme ad altri tre!» Hinagiku gonfiò le
guance oltraggiata.
«Una grama volta che fa qualcosa di importante deve rovinare
tutto
facendosi accollare le balie! Come faccio a vantarmi di lui in queste
condizioni? Gli Uchiha non fanno che prendermi in giro, è
frustrante
non poter rispondere per le rime!»
«Che
Uchiha e Uzumaki non si sopportino è una cosa
normale» la rassicurò
Jin. «Anzi, mi stupirei del contrario. Finora gli unici a
ignorare
la tradizione sono Minato e Itachi, ma quei due non sono esattamente
a posto.»
«Tutta
colpa di quel testone di papà!»
commentò Hinagiku. Poi, senza
pensarci, svitò la bottiglia e ne bevve un sorso.
«Un
bacio indiretto» disse Jin osservandola. E lei si fece andare
l’acqua di traverso, se la rovesciò sulle gambe e
ne sputacchiò
metà tutt’attorno, tossendo disperata.
«Che
cavolo ti salta in mente?!» balbettò tra una
lacrima e l’altra,
il viso arrossato e gli occhi fuori dalle orbite.
«L’idea
ti dispiace tanto?»
Hinagiku
sentì qualcosa che esplodeva
nella sua teca cranica, o che comunque andava in pezzi con un grande
spettacolo pirotecnico. Sentì il sangue schizzare su per il
collo e
la testa che girava all’improvviso, e provò il
folle desiderio di
fracassare un macigno sul collo di Jin.
«Certo
che mi dispiace!» esclamò, indignata.
«Chi diavolo ti credi di
essere? Perché dovrebbe piacermi l’idea di
b-b-b...»
«Baciarmi?»
«L’hai
detto tu, non io!»
«Solo
perché tu non ci riuscivi. Comunque» Jin si
rialzò, spolverando il
didietro dei pantaloni con pacche lente. «Grazie ancora per
l’acqua.
Ora è meglio se rientriamo, credo che nel giro di mezzora si
metterà
a piovere.»
Prima
che Hinagiku si rendesse conto che l’improvvisa morte del
discorso
era una delusione per lei, vide Jin che le tendeva una mano e gli
permise di aiutarla a rialzarsi.
«Comunque
ti ricordo che non mi piaci» ci tenne a precisare, e se fosse
stata
un galletto avrebbe arruffato le piume.
«Certo
che no» rispose Jin conciliante, tenendola vicina un secondo
più
del dovuto.
Il
cuore di Hinagiku mancò un battito, al che la ragazzina
sfilò
rapidamente la mano da quella di lui e se la strinse al petto come
faceva sua madre da giovane. Jin sospirò e si
offrì di portarla a
casa.
Dopo
aver accompagnato Hinagiku ed essersi sorbito lungo il tragitto
l’infinita serie dei motivi per cui lui non le piaceva,
correndo
sotto le prime gocce aveva tagliato per i tetti ed era rientrato a
casa passando dalla finestra della sua stanza - che lasciava sempre
aperta in caso di emergenza - evitando per un soffio
l’acquazzone.
Lì
aveva trovato suo padre, seduto sul letto con L’Esperienza
della Pomiciata tra
le mani.
«Oh,
eccoti» gli disse quando lui si bloccò sul
davanzale. «Ti stavo
aspettando.»
Richiuse
il volume, lasciando il segnalibro tra le pagine, mentre Jin
atterrava sul pavimento con atteggiamento sostenuto.
«Che
vuoi? Sei qui per salutarmi prima di svignartela?» chiese
asciutto,
ignorandolo per andare a prendere vestiti puliti da un cassetto.
«Non
esattamente» rispose lui, e qualcosa nel suo tono spinse Jin
a
fermarsi e guardarlo.
Kakashi
inspirò a fondo tormentando il bordo del libro con le dita.
Era lì
principalmente perché il senso di colpa si era fatto troppo
opprimente e perché Natsumi lo aveva fatto sentire un
deficiente. Ma
poteva dirlo in modo migliore.
«Natsumi
è venuta a cercarmi» esordì mantenendo
un tono controllato.
«Immagino che tu le abbia parlato... Mi ha fatto una gran
lavata di
capo, tanto che alla fine ho dovuto riconoscere che su alcune cose
aveva ragione. Quindi ho pensato di chiederti se vorresti partire
insieme a me, domattina.»
Il
cuore di Jin mancò un battito.
«Davvero?»
chiese troppo in fretta.
Kakashi
lo scrutò a lungo, ancora, suo malgrado, combattuto. Non
aveva le
forze per parlare a Jin, non subito almeno. Ma portandolo con
sé gli
avrebbe dimostrato di avere buone intenzioni e forse avrebbe
riacquistato un briciolo della sua fiducia... Anche se il rischio che
proprio quel viaggio la distruggesse per sempre era elevatissimo.
Deglutì,
odiando ciò che stava per dire così come avrebbe
odiato il
contrario. Chiuse gli occhi e chinò appena il capo.
«Sì. Voglio
che tu venga con me, Jin.»
D’istinto
Jin strinse le dita sui vestiti puliti che aveva in mano, tanto forte
da sbiancarsi le nocche.
«Stai
dicendo sul serio?» alitò con gli occhi
scintillanti. «Posso
davvero venire con te, o domani ti sveglierai e mi dirai che hai
cambiato idea?»
«Se
lo facessi resteresti a Konoha?»
«No,
mai!»
«Allora
sarebbe inutile» Kakashi sospirò di nuovo.
«Non cambierò idea,
Jin. Mi seguirai nel mio viaggio e sarai la mia ombra, siamo intesi?
Pretendo che tu non rimanga indietro, che mi obbedisca come e
più di
Pak, che non parli se non ti dico di farlo e soprattutto che non
faccia domande. Pensi di riuscirci?»
Jin
strinse le labbra. Non fare domande era la condizione più
pesante,
ma se non altro suo padre aveva smesso di insistere con la farsa
della vacanza. Era una prova delle sue buone intenzioni, per quanto
piccola.
«Sì,
ce la faccio» assicurò. «Sarò
il miglior compagno che tu abbia
mai avuto, migliore anche di Obito! Lo giuro.»
Kakashi
sorrise mesto sotto la maschera. «Oh, a dire il vero
è piuttosto
semplice essere migliori di Obito... era un tale pasticcione»
mormorò, serio solo a metà. «La nostra
partenza dovrà restare
strettamente riservata» aggiunse dopo un attimo, ogni traccia
di
ilarità completamente scomparsa dalla sua voce. «E
voglio che mi
giuri una cosa, Jin, una cosa molto importante» lui
annuì
rapidamente. Le nocche della mano con cui Kakashi teneva il libro si
delinearono per la tensione. «Qualunque cosa accada,
qualunque cosa
tu veda o senta, devi giurarmi che obbedirai ai miei ordini
finché
non saremo di nuovo a Konoha. Hai capito? Anche se a un certo punto
tu dovessi odiarmi, anche se dovessi perdere il rispetto che hai di
me, dovrai obbedirmi finché non saremo di nuovo
all’interno dei
cancelli.»
Jin
corrugò la fronte. «Che significa?»
chiese, con una strana
sensazione di disagio.
«Significa
esattamente quello che è» rispose Kakashi.
«Giuramelo, Jin.»
Lui
esitò per un lungo istante. Non riteneva possibile che
accadesse ciò
che suo padre temeva: se c’era stato un momento in cui aveva
rischiato di odiarlo e perdere la fiducia che aveva in lui, quel
momento si era concluso pochi minuti prima, quando lo aveva visto
nella sua stanza e aveva sentito ciò che aveva da dire. Non
sembrava
un giuramento impegnativo.
«Va
bene, lo giuro» annuì dubbioso.
Kakashi
tirò un sospiro di sollievo. «Grazie»
mormorò a sorpresa.
«Ricordalo sempre, per favore. Io farò qualunque
cosa perché tu
ritorni a Konoha sano e salvo, ma devi collaborare con me,
Jin.»
«Certo.
Mi sembra scontato» ribatté lui con una certa
perplessità.
E
in questo era ancora immaturo, come ninja e come persona.
Non
esiste nulla di scontato.
Venti
minuti più tardi un piccolo shinobi bagnato e affannato era
davanti
alla casa di Naruto, una grande villa costruita di recente sui resti
dell’abitazione che era andata distrutta cinque anni prima,
per
colpa degli shinobi della Roccia che avevano attaccato Konoha e delle
signore Nara e la loro mania per trappole, terremoti e lame di vento.
Il ragazzino zuppo si fece annunciare da una delle domestiche e
rimase ad attendere nell’ingresso, troppo agitato per
prestare
attenzione ai gatti che sonnecchiavano sul portico evitando il
giardino bagnato dalla pioggia. Sotto la frangia appiccicata alla
fronte e lo scintillare degli occhi si poteva a malapena riconoscere
Jin.
Si
sentiva euforico come mai prima di quel momento: suo padre
l’avrebbe
portato con sé alla ricerca della madre - sì, non
lo aveva mai
detto esplicitamente, ma ormai era chiaro, no? - e finalmente sarebbe
riuscito a incontrarla, dopo averla sognata tante volte. Era un
pensiero così assurdo che se non glielo avessero sbattuto in
faccia
non avrebbe nemmeno osato sperarci. Doveva condividere la
novità con
qualcuno.
«Ci
siamo visti mezzora fa, cosa vuoi da me?» esordì
Hinagiku,
comparendo sulla porta avvolta in un kimono bianco e con i capelli
bagnati raccolti sulla nuca. Aveva il viso arrossato, ma Jin non
avrebbe saputo dire se fosse per via del bagno o cosa. Decise di
ignorare il tono ostile e le sorrise, dimostrando per una volta i
dodici anni che ancora aveva.
«Parto
con mio padre» spiegò tutto d’un fiato.
«Quando sono tornato a
casa mi ha detto di aver parlato con la zia, e ha deciso di portarmi
con sé... Sono... Sono così felice che dovevo
dirlo a qualcuno!»
Hinagiku
rimase interdetta per un attimo. «Dov’è
che vai?» chiese
confusa.
Jin
si bloccò. La clausola di segretezza di Kakashi gli
tornò
improvvisamente alla memoria e per un breve istante si sentì
molto
stupido, evento piuttosto nuovo nella sua vita. Non ci aveva proprio
pensato. Di solito non faceva errori così grossolani, doveva
essere
davvero fuori di sé. Però Hinagiku era
affidabile, e lui doveva,
doveva
far sapere a qualcuno
quello che stava succedendo!
Senza neanche
rendersene conto era sgusciato fuori dai suoi panni di shinobi per
entrare in quelli di un normale ragazzino emozionato.
«Ascolta...»
iniziò, abbassando la voce a un sussurro.
«Domattina partirò con
mio padre. Non so per dove né a fare cosa, ma sono sicuro
che abbia
a che vedere con mia madre. Non devi dirlo a nessuno, intesi? Nemmeno
a Naruto» le spiegò.
Hinagiku
sbatté le palpebre un paio di volte. «Oh.
Congratulazioni» si
sentì dire, con una vocina atona che non era la sua. Non
riuscì
neanche a stupirsi per l’insolita vitalità
dell’apatico Jin.
«Qualcosa
non va?» chiese lui confuso.
«No
no, sono contenta per te» si affrettò ad
assicurare Hinagiku, ma il
ragazzino non smise di fissarla interrogativo. Lei allora strinse le
labbra e confessò. «Beh, non è che
l’idea che tu te ne vada così
all’improvviso, per imbarcarti in una misteriosa e
probabilmente
pericolosa missione, mi entusiasmi poi tanto»
bofonchiò, tanto in
fretta che era quasi difficile distinguere le parole.
Negli
occhi di Jin passò un lampo di comprensione. Sorrise
divertito.
«Pensavo che l’idea della mia morte, o comunque
della mia assenza,
ti piacesse parecchio.»
«Infatti
mi piace da morire!» scattò Hinagiku avvampando.
«Anzi, perché
non stai via un po’ più a lungo, tipo dieci
anni?»
«Hina,
adesso perché piangi?»
«Non
sto piangendo, è la pioggia!» esclamò
rabbiosa, passandosi una
mano sugli occhi umidi.
«Ma
sei ancora in casa...»
«E’
la pioggia! E’
la pioggia... non mi interessa niente di te, stupido
scemo...» un
singhiozzo le sfuggì dalla gola, involontario.
«Beh,
tutto questo mi lusinga» mormorò lui, ora in
leggero imbarazzo.
«E
perché dovrebbe?» gracchiò Hinagiku,
tirando su con il naso. «E’
allergia al polline!»
«Che
non
vola quando piove...»
«Smettila
di fare il saputello, accidenti a te!» la ragazzina
pestò un piede
a terra. «Bene, mi hai detto che vai a farti ammazzare, sono
contenta! Ciao! Ora lasciami stare, devo asciugarmi i
capelli!»
«Hina,
sei sicura?»
«Io?
Non sono mica io quella che parte!»
«No,
dico, sei sicura che vuoi che me ne vada così?»
Silenzio.
Hinagiku si morse le labbra per impedire alle lacrime di debordare,
fissandosi i piedi con testardaggine.
«Sì
che sono sicura...» piagnucolò, dondolandosi
nervosa sui talloni.
«Cioè... tornerai, no?» finalmente
trovò il coraggio di
guardarlo. Arrossì violentemente.
«Me
lo auguro» rispose lui con un sorriso rassicurante.
«Allora
ti insulterò ancora quando sarai tornato»
sussurrò lei, e asciugò
veloce una lacrima che era sfuggita al suo controllo.
«Strano
modo per dimostrare l’affetto.»
«Affetto?
Quale affetto? Tu mi stai antipatico. E non mi piaci.»
«Tu
invece mi piaci.»
Hinagiku
si irrigidì così di botto che anche i suoi
polmoni smisero di
dilatarsi. «Eh?» fece con voce improvvisamente
arrochita.
«Anche
se continui a ripetere che io non ti piaccio, tu mi piaci»
ripeté
lui, con un leggero, leggerissimo batticuore. «Ma
è inutile che te
lo dica adesso, probabilmente è meglio che lo faccia una
volta
tornato.»
«No!»
esclamò Hinagiku. «Cioè, non che non
abbia fiducia nel tuo
ritorno, eh... Però... dillo adesso.»
Jin
prese un respiro profondo. Okay, questo era più difficile
dell’esame
per Jonin.
«Quando
sarò tornato...» mormorò, sentendo il
viso accaldato. «Verrò qui
e ti dirò che mi piaci. Te lo dirò bene, non a
spanne come ora, e
tu la smetterai di ripetere che non ti piaccio e mi dirai che,
invece, ti piaccio. E puoi pure buttare la lista dei motivi per cui
non ti piaccio, perché nemmeno uno sta in piedi.»
Hinagiku
deglutì a vuoto, la bocca improvvisamente asciutta.
«Tecnicamente
uno sì...» mormorò, a corto di frasi
più intelligenti.
«Preferisco i biondi.»
«Davvero?
Non ti piaccio per questo?»
L’orgoglio
di Hinagiku voleva gridare di sì. La sua bocca,
però, glielo
proibì.
«...Nnnnno.
Credo» bofonchiò, grattando il pavimento con la
punta del piede.
«Hina...»
Jin sospirò. «Per favore, solo questa volta, metti
un attimo da
parte la tua testaccia dura, okay?»
«Non
ti conviene di più che lo faccia quando mi ripeterai tutto,
una
volta tornato?» pigolò lei a disagio.
«No,
fallo ora.»
«Oh...
Va bene.»
«Quando
tornerò, dicevamo, verrò qui e ti dirò
che mi piaci» Hinagiku
annuì. «E tu mi dirai che anche io ti
piaccio» Hinagiku esitò.
«Hina?» a fatica, annuì di nuovo.
«E poi mi porterai ancora
l’acqua quando mi alleno, e io farò in modo che tu
faccia l’esame
più memorabile nella storia dell’Accademia, e ti
porterò fuori a
prendere il gelato, e ti permetterò di insultarmi anche
più di
prima» Hinagiku annuì con più
convinzione. «A patto che prima tu
mi dia un bacio» Hinagiku si trovò a scuotere la
testa. «Hina?»
«Proprio
un bacio?» gemette lei in evidente imbarazzo.
«Di
solito si parte da quello.»
«E
le strette di mano che fine hanno fatto?»
«Quelle
sono cose da primo anno di Accademia!»
«Io
non le ho mai fatte!»
Jin
sospirò. «Va bene, va bene. Partiamo da quelle. Ma
poi il bacio.»
«Con
calma e per piacere. O lo dico a papà, e sai che
è tanto
geloso...»
«Perché
siamo già alle minacce?»
«Tu
hai iniziato con le minacce!»
«Non
credi che dovremmo calmarci un po’?»
«E
tu non credi che dovremmo parlarne al tuo ritorno?»
«E
se non torn...»
Hinagiku
gli tappò la bocca prima che finisse di parlare.
«Non
dirlo» mormorò. «Non dirlo mai davanti a
me.»
Jin
sorrise e le allontanò gentilmente la mano, tenendola nella
sua. «Va
bene, non lo dico. Ma tu non dire niente a Naruto, o sarà
lui a
farmi fuori.»
«Va
bene... Vedremo, quando tornerai. Magari starai via tanto che mi
troverò qualcun altro.»
«E
chi potrebbe reggere il confronto?»
Hinagiku
sospirò e liberò la mano dalla sua stretta. Da un
lato avrebbe
voluto invitarlo dentro e stare ancora con lui, sentire cosa avrebbe
e non avrebbe fatto, ma dall’altro voleva correre nella sua
stanza,
buttarsi sul letto e gridare per l’euforia, quindi correre da
sua
madre e raccontarle tutto, parola per parola, e rotolarsi sul suo
letto e ridere, ridere, ridere di felicità.
«Signorina
Hina, i capelli!» chiamò una voce da dentro.
Allora
capì che la scelta era una sola. Con una certa delusione
tornò a
guardare Jin.
«Devo
andare» sospirò. «Ci vedremo ancora
prima della partenza?»
«Credo
di no. Il viaggio deve rimanere riservato, ricordi? Ti prego, non
sbagliarti... Mio padre mi ammazzerebbe prima del tuo. Sul
serio.»
Hinagiku
annuì. Giusto. Non poteva raccontare a sua madre parola per
parola... Avrebbe riferito solo i particolari importanti della
dichiarazione di Jin. Al pensiero il suo cuore tornò a
battere
velocissimo, subito stroncato dai passi della domestica che si
avvicinavano.
«Buona
fortuna!» disse in un sussurro frenetico. «Stai
attento, mi
raccomando!»
«Lo
farò. Tu non dire niente a Naruto,
d’accordo?» rispose lui
sottovoce.
«Non
sono pazza» Hinagiku rabbrividì al pensiero della
reazione del
padre.
E
Jin rise, sollevato, pensando che in quel momento per la prima volta
nella sua vita le cose andavano davvero bene.
Non
altrettanto bene andava a Kakashi, invece. Involontariamente,
infatti, aveva assistito ai primi amoreggiamenti di suo figlio, e tra
i cespugli che circondavano il giardino di Naruto si chiedeva con un
lungo sospiro interiore perché Jin avesse scelto proprio la
primogenita e adoratissima figlia del padre più geloso e
possessivo
di tutta Konoha. Chissà quanto avanti si spingevano i
dodicenni, di
quei tempi? C’era da preoccuparsi? Ma soprattutto: Jin aveva
parlato a Hinagiku della loro missione?
Kakashi
si ritrasse più a fondo tra le ombre mentre Jin correva a
casa a
preparare lo zaino. Vedeva le sue impronte nel fango riempirsi
rapidamente d’acqua piovana, e si disse che erano orme troppo
piccole per andarsene in giro a rischiare la vita... Ma anche lui,
alla sua età, era andato in giro a fare la stessa cosa.
Vivevano in
una triste società.
Non
appena Jin fu fuori dalla sua vista Kakashi percorse il viale
d’ingresso di casa Uzumaki e suonò la campanella
nell’atrio.
«Nobile
Hokage!» lo accolse una domestica. Poi arrossì di
colpo, ricordando
che tecnicamente adesso l’Hokage era il suo datore di lavoro,
e
Kakashi poté immaginare facilmente la reazione di Naruto se
fosse
stato presente. «Nobile... Hatake?» si corresse la
ragazza con
un’occhiata interrogativa.
«Va
bene così, grazie. Potresti annunciare a Naruto il mio
arrivo?»
Kakashi
fu invitato ad entrare e gli fu porto un telo per asciugare viso e
mani. Naruto arrivò quasi subito, imbastendo con risultati
piuttosto
scarsi una seria espressione da autorità preoccupata, ma
Kakashi
quasi scoppiò a ridere, e di fronte a un’ironia
così palese il
biondo allievo si affrettò a imbronciarsi come sempre.
«E’
successo qualcosa?» domandò un po’
stizzito.
«Domani
vorrei partire per un viaggio» rispose il maestro, facendo
scemare
la risata in un tono volutamente discorsivo. «Sono stufo del
Consiglio che mi costringe a stare nell’ufficio
dell’Hokage come
se non avessi mai dato le dimissioni. Voglio prendermi un periodo di
ferie come si deve e non dover vedere nessuno dei Consiglieri almeno
per un po'.»
«Non
credo che ti lasceranno partire...» mormorò Naruto
dubbioso, ma
incapace di nascondere la scintilla di trionfo che per un attimo
aveva brillato in fondo ai suoi occhi.
«Lo
so bene. E’ per questo che ho bisogno del tuo
aiuto» replicò
Kakashi. «Solo tu, dopo la mia partenza, avrai
l’autorità
necessaria per importi sul Consiglio» Parole ben ponderate
che,
sapeva, avrebbero avuto un effetto strabiliante sull’orgoglio
di
Naruto.
«Assolutamente!»
esclamò infatti il Jonin, incrociando le braccia sul petto
proteso.
«Sono
contento di vederti d’accordo» sorrise Kakashi.
«Sapevo che
saresti stato un ottimo Hokage.»
Se
Naruto avesse spinto ancora più in alto lo sterno lo avrebbe
sbattuto contro il mento. Mentre lui scoppiava a ridere un
po’
imbarazzato ma fiero, in lontananza riecheggiò la risata
molto più
acuta ed eccitata di Hinagiku, che proprio in quel momento stava
raccontando a sua madre della confessione di Jin.
«Quando
tornerai?» chiese Naruto ancora gongolante.
Kakashi
si rabbuiò. «In un paio di settimane»
mormorò vago. A dire il
vero non ne aveva la minima idea.
«E
dov’è che vai di preciso?»
«A
nord. Alle terme di Kannon.»
Naruto
si accigliò. Kakashi aveva appena schivato il suo sguardo?
«Maestro,
sei sicuro che vada tutto bene?» indagò.
«Certo.
Sono solo un po’ preoccupato: sai, lascerò tutto
in mano a voi...»
«Non
avrò nessunissimo problema!» scattò
l’allievo. «Sasuke, Sakura
e Shikamaru si annoieranno talmente tanto che tra una settimana
imploreranno il Consiglio di esonerarli dal ruolo di assistenti, e io
potrò avere ufficialmente la mia nomina a settimo
Hokage!»
Kakashi
sospirò. Naruto non avrebbe mai potuto fare a meno di Sakura
per la
burocrazia, ma spiegarglielo adesso sarebbe stato completamente
inutile.
«Allora
posso partire tranquillo?» chiese con un’evidente
patina di
lusinga nel tono.
«Tranquillissimo!»
esclamò Naruto, ignorando fermamente la vocina nella sua
mente che
cercava di esporgli alcune perplessità, prima fra tutte
l’obiezione
che l’Hokage emerito non poteva gironzolare per il Paese in
tempo
di guerra.
Kakashi,
ignaro della lotta che avveniva dentro Naruto, tirò un
silenzioso
sospiro di sollievo. Ora non restava che infilare nel plico delle
missioni già iniziate il nome di Jin, e poi avrebbe potuto
riposare
prima della partenza. Mentre Naruto blaterava qualcosa sul dimostrare
le proprie capacità, lui lanciò
un’occhiata sconsolata alla
pioggia che ancora cadeva: avrebbe cancellato le tracce, ma li
avrebbe costretti a viaggiare bagnati come pulcini. Chissà,
magari
sarebbe riuscito a rispedire Jin a casa prima di aver raggiunto il
confine, se si fosse ammalato?
Partirono
poco prima dell’alba. Il cielo aveva smesso di riversare le
sue
cateratte sulla terra e si era tinto di un brutto color piombo
striato di rosso, che invece di allontanare le ombre sembrava
ricalcarne i contorni come le chine di Sai. In casa Hatake si udivano
rumori leggeri, ma le imposte erano serrate e non lasciavano
trapelare la luce della torcia.
Kakashi
controllò un’ultima volta il contenuto dello zaino
prima di
caricarselo in spalla. Jin, già pronto vicino alla porta,
fremeva di
impazienza come un bambino prima della gita di compleanno.
«Ho
portato le mappe di tutti i Paesi che confinano con il Fuoco»
annunciò orgoglioso.
Kakashi
lo guardò brevemente. «Tieni solo quella della
Roccia» mormorò
spegnendo la torcia. «Le altre non ti serviranno.»
Jin
si affrettò a togliere dallo zaino le mappe superflue e
tornò a
fissare il padre. Certo, ora che conosceva la meta non poteva dire di
essersi tranquillizzato granché... Ma si morse la lingua e
mandò
giù la domanda che avrebbe voluto fare. Aveva promesso.
«Ieri
sono stato da Naruto per procurarci una copertura» disse
Kakashi
nella breve parentesi di penombra. «Mi è sembrato
che tu e Hinagiku
siate piuttosto intimi...»
La
schiena di Jin si cosparse di sudore freddo. Hinagiku aveva parlato?
«Credo
che lei mi piaccia» disse per sviare il discorso.
«Non
le hai detto niente, vero?»
Negare,
negare fino alla morte. «Certo che no.»
Naturalmente,
pensò Kakashi con un moto di orgoglio. Suo figlio era
davvero uno
shinobi ineccepibile. «Andiamo»
tagliò corto, nascondendo
un sorriso.
Jin
si accorse che le sue mani tremavano. Era stato così vicino
a
tirarsi la zappa sui piedi da solo... Qualche divinità
benevola
probabilmente vegliava su di lui, si disse, e Hinagiku era
meravigliosa.
Uscirono
di casa in punta di piedi, chiudendo tutte le serrature. Scesero le
scale dell’appartamento e si ritrovarono nella strada
deserta: era
troppo presto perché il villaggio iniziasse a svegliarsi.
La
pioggia aveva smesso di scendere. Ovunque c’erano pozzanghere
color
acciaio e grondaie che sgocciolavano malinconicamente. Padre e figlio
attraversarono il villaggio passando per le vie più contorte
e
nascondendosi dietro gli angoli quando passava un compaesano troppo
mattiniero; era importante che nessuno li vedesse, perché
dovevano
essere ben lontani quando il Consiglio avesse saputo della scomparsa
dell’Hokage. Decisero di uscire dal villaggio da una porta
secondaria, un ingresso riservato alle guardie di cui pochi erano a
conoscenza: si trovava a una certa distanza dall’ingresso
principale, alla base di una torretta di osservazione, e di solito
era ben sprangato dall’interno. Kakashi sciolse i sigilli
apposti
al chiavistello e guardò un’ultima volta Jin.
«Ricorda
le tue promesse» mormorò.
«Sono
uno shinobi» rispose il ragazzino.
Allora,
insieme, uscirono.
Tra
le colonne della torretta sotto cui erano appena passati,
un’ombra
si sporse di poco per scrutare la direzione che avevano preso. Ovest.
Verso la Roccia.
Sorrise.
Sapeva che tenere d’occhio Kakashi Hatake sarebbe tornato
utile...
Quando il gatto non
c’è, i topi
ballano.
* * *
Ed
ecco i primi quattro capitoli del nuovo Penne.
Una
specie di lunga introduzione, per chi già lo conosce,
più
una selva di accenni e indizi gettati a caso che dovreste riconoscere
come nuovi,
sempre
se siete vecchi lettori.
Dal
momento che i vecchi capitoli restano, ma vuoti,
per
farvi sapere quando ci sono nuovi aggiornamenti pubblicherò
un falso nuovo capitolo,
che
vi rimanderà al punto in cui eravamo rimasti.
E'
più complicato da spiegare che da eseguire:
quando
vedete che la storia è aggiornata aprite l'ultimo capitolo e
riceverete istruzioni.
Gli
aggiornamenti saranno a cadenza settimanale,
preferibilmente
di mercoledì.
Grazie
a tutti,
e
in particolar modo a te che leggi.
|
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Capitolo 5 *** L'uomo dell'Hokage ***
05
13/01/2016
Capitolo
quinto
L'uomo
dell'Hokage
Naruto
si presentò a casa Uchiha quando il sole iniziava a farsi
strada
sotto le nubi grigie a oriente. Prima dell'alba, dunque,
tirò giù
dal letto Sakura, Sasuke e un bel numero di pargoli solo per
annunciare con aria pomposa che doveva conferire con i suoi
assistenti.
«Fai
in modo di avere un ottimo motivo per questo»
sibilò Sasuke
trascinandosi fino al salotto con la vestaglia ben chiusa ma i
capelli spettinati. «Perché se non ce
l’hai ti ammazzo qui e
ora.»
«Certo
che ho un ottimo motivo!» esclamò Naruto in un
impeto di orgoglio.
«L’Hokage di Konoha non si muove senza ottimi
motivi!»
«Ti
fermi per colazione?» sbadigliò Sakura,
sforzandosi di ignorare
l'irritazione per essere stata declassata ad assistente.
«Ramen?»
chiese lui speranzoso.
Sasuke
fu colto da un conato di vomito.
«Riso,
tè e uova» rispose Sakura seccamente.
«Allora
passo. A casa Hinata mi sta preparando il ramen!»
Sasuke
si fermò davanti al tavolo, come se all’ultimo
secondo avesse
deciso di non sedersi. Si voltò e tornò alla
porta da cui era
entrato, aprendola bruscamente. Al di là dei pannelli di
carta di
riso un Itachi spione molto poco mimetico fece un balzo e
arrossì.
«A
letto» ordinò Sasuke, e il bambino filò
via rapidamente.
«Itachi?»
domandò Sakura, avviandosi a mettere sul fuoco una teiera.
«Sì.
Allora, cosa c’è?» sbuffò
Sasuke, sedendosi finalmente di fronte
a Naruto.
Il
biondo Hokage gonfiò le penne come un pavone, poi
incassò la testa
tra le spalle come se avesse un grande segreto che premeva per
esplodere.
«Ieri
sera Kakashi è venuto da me» sussurrò
da vero cospiratore. «Ha
detto che stamattina voleva partire per un viaggio.»
Sasuke
corrugò la fronte e snebbiò la mente dal sonno.
«E’ successo
qualcosa?»
«No.
Pare che voglia andare alle terme perché è stufo
del Consiglio.»
«E
a te non è venuto nessun dubbio?»
«Che
dubbio?»
«Per
esempio che l’Hokage, anche se non in carica, non va alle
terme da
solo con una guerra alle porte...»
«Chi
va alle terme?» chiese Sakura di ritorno dalla cucina.
«Kakashi,
stamattina» Sasuke le lanciò un’occhiata
eloquente.
«Che
stupidaggine» sbottò lei. «Non
è possibile che il Consiglio
permetta a Kakashi di allontanarsi in questo momento, per di
più da
solo.»
«Infatti
dovrò convincere io il Consiglio» si intromise
Naruto con un
fremito d’orgoglio.
Entrambi
i coniugi Uchiha gli lanciarono un’occhiata piena di
compassione.
«Naruto,
Kakashi ti ha fregato» mormorò poi Sakura,
cercando di mettere
nella voce più tatto possibile.
«Balle!»
esclamò il biondo, zittendo la vocina nella sua testa che
cercava di
ricordargli che aveva provato ad avvertirlo.
«Pensaci,
Naruto: credi davvero che Kakashi lascerebbe il villaggio in questo
momento per andare a
rilassarsi alle
terme?»
«E se fosse questa la ragione per cui ha
dato le
dimissioni?» si inserì Sasuke pensieroso.
«Se avesse già avuto in
mente di partire e avesse avuto bisogno di lasciare la carica di
Hokage?»
«Ma... Ma ci saremmo accorti di
qualcosa!» esclamò
Naruto. «Me l’avrebbe detto!»
Sasuke gli fece segno di zittirsi. Si
chinò sotto il
tavolino basso, che nascondeva un buco nel pavimento creato per far
sedere gli ospiti, e tese una mano a spostare un pannello laterale.
Un secondo dopo estraeva dalle fondamenta della casa un polveroso e
infangato Itachi.
«Ti ho detto di andare a
letto!» tuonò il
capofamiglia, anche se nel profondo del cuore non poteva che provare
un'ondata di orgoglio per l’intraprendenza del suo
ultimogenito.
«Ci stavo andando! Poi ho visto un...
un... qualcosa, e
l’ho seguito» improvvisò il bambino
facendosi piccolo piccolo.
«Ah, avresti passato il nostro esame da
Chunin in men
che non si dica...» sospirò Sakura, altrettanto
orgogliosa ma anche
un po’ infastidita dalle ragnatele sui capelli del figlio.
«Vieni.»
Prese il bambino per mano e lo portò
verso il
corridoio. Dalla porta chiamò Mikoto, la ragazza
più grande, e gli
affidò il bambino perché lo ficcasse in una vasca
da bagno e ce lo
tenesse almeno un’ora.
«Kakashi mi ha assicurato che voleva
andare alle terme»
brontolò Naruto a voce più bassa. «E
voleva dimostrare a tutti che
io posso essere un ottimo Hokage!»
«Questo è quello che ti piace
credere» sbuffò Sasuke
seccamente. «Ma per quanto Kakashi abbia fiducia in te,
dubito che
se ne sarebbe andato a spasso in tempo di guerra solo per farti
brillare.»
Dalla cucina la teiera mandò un primo
fievole fischio.
«Beh, c’è un modo
molto semplice per venire a capo
della faccenda» commentò Sakura avviandosi a
zittirla. «Andiamo a
recuperare l’ultimo membro della Confederazione del
Settimo.»
«Impossibile»
decretò Shikamaru sbadigliando quando
gli ebbero spiegato la questione, seduti al tavolo della sua
colazione. «Non è andato alle terme.»
«Allora perché
mentirmi?» sbottò Naruto indignato.
«Sono il settimo Hokage! Adesso gli mando dietro una squadra
di
recupero e...»
«Tu non sei il settimo Hokage»
puntualizzò Sakura.
«Noi siamo il settimo Hokage.»
«Ho una mezza idea» la
interruppe Shikamaru,
piluccando qualche chicco di riso. «Ma per confermarla
dobbiamo
andare nello studio dell’Hokage e dare un’occhiata
ai file
riservati.»
«Credi che sia partito per una missione
segreta?»
domandò Sasuke sorseggiando una tazza di tè.
«E’ probabile.»
«Senza dirlo al Consiglio?»
«Il Consiglio in questo momento
è terrorizzato dalla
Roccia» sospirò Shikamaru. «Se avessero
saputo che voleva partire
lo avrebbero legato alla sua testa scolpita.»
«Ma perché mi avrebbe
raccontato tutta quella bugia?»
insisté Naruto pieno di indignazione. «Avrebbe
potuto spiegarmi...
Io avrei capito.»
Shikamaru gli lanciò
un’occhiata di sbieco. «Sì,
avrebbe dovuto. Ma se è partito così di soppiatto
e ha insistito
perché nessuno sapesse, deve essere qualcosa di molto
importante per
lui, forse di molto rischioso. Tecnicamente non avendoti detto niente
non ti rende suo complice. E noi tutti possiamo fingerci molto
sorpresi dalla sua partenza: volendo, tu puoi uscirne molto
bene.»
«Davvero?» Naruto si protese
sul tavolo, mettendo giù
la ciotola di ramen che stava mangiando e schizzando il piatto delle
uova al centro.
«Non fare il maiale!»
scattò Temari bacchettandogli
una mano. Era seduta allo stesso lato del tavolo di Shikamaru ed era
molto innervosita dall’intrusione mattutina e anche
più irritata,
perché aveva dovuto preparare la colazione per un mucchio di
persone. Al diavolo le riunioni urgenti. Meno male che almeno Chiharu
dormiva ancora.
«Scusa» si affrettò
a dire Naruto arretrando. Aveva
tanto insistito per avere il ramen, e Temari si era mostrata tanto
scocciata dal doverglielo preparare che sarebbe stato educato con lei
per molto tempo.
Shikamaru posò la sua ciotola di riso e
assunse un’aria
molto autorevole. «Naruto, è giunto il momento che
tu tiri fuori
tutto il tuo orgoglio di futuro settimo Hokage»
annunciò.
Gli occhi di Naruto brillarono esultanti. Sakura e
Sasuke sbuffarono, e si segnarono mentalmente che avrebbero dovuto
fargli un discorso sui subdoli sotterfugi delle lusinghe politiche.
Dietro il muro della cucina, accucciata con in modo
da
non essere visibile, Chiharu sbadigliò silenziosamente.
Il futuro del villaggio le sembrava in mani molto
inaffidabili.
Nonostante
fossero passati tanti anni da quando erano stati messi nello stesso
gruppo, Chiharu, Kotaro e Hitoshi non avevano mai smesso di passare
il tempo libero nel parchetto per bambini nella parte ovest di
Konoha. Ormai lo consideravano una specie di quartier generale, quasi
casa, e anche i suoi frequentatori avevano imparato lentamente a
considerarli parte del territorio e non minacciosi intrusi
dall’aria
ambigua.
Ma
qualche volta, purtroppo per i bambini, la convivenza pacifica
diventava difficile: quando passavano più di due giorni
senza che
affidassero al gruppo sette nuove missioni il clima si surriscaldava.
L’inattività portava gli shinobi
all’insofferenza,
l’insofferenza agli insulti e gli insulti alle minacce. La
ragione
per cui non erano costantemente impegnati ad azzuffarsi era che
Chiharu era troppo svogliata per alzarsi dalla panchina, Hitoshi
troppo orgoglioso per abbassarsi al loro livello e Kotaro troppo
paziente per permettersi di arrabbiarsi seriamente. Ma questo non
impediva loro di punzecchiarsi fino a spaventare i bambini nel parco,
per poi ignorarsi completamente e infine andarsene lanciando
imprecazioni.
Il
periodo, in quei giorni, era proprio quello che precedeva le crisi di
noia.
Quella
mattina Kotaro era impegnato nell’ennesima serie di
flessioni.
Sapeva che gli altri sarebbero arrivati dopo qualche tempo,
perché
il sole era a malapena sopra i tetti - e questo a casa Nara
significava notte fonda - ma l’idea di rivedere i compagni
non lo
entusiasmava. Sperava che almeno avrebbero ricevuto uno straccio di
missione, perché Chiharu e Hitoshi erano insopportabili e
lui
continuava a ripensare alla storia della maledizione del dio Juka.
Il
primo ad arrivare, a sorpresa, fu Hitoshi. Quando raggiunse la
panchina Kotaro stava finendo la nona decina, e lui dovette attendere
che arrivasse a cento prima di ricevere un saluto.
«Non
è un po’ presto?» gli chiese Kotaro
tamponandosi il collo sudato.
«Di solito arrivi alla sesta ripetizione.»
Hitoshi
gli scoccò un’occhiata infastidita. «Mi
sono svegliato prima.»
«Vuoi
allenarti con me?»
«No.
Dov’è Chiharu?»
«A
quest’ora? In piena fase REM» borbottò
Kotaro deluso, posando
l’asciugamano sulla panchina e sdraiandosi per cominciare con
la
serie degli addominali. Davvero non riusciva a capire come Hitoshi si
mantenesse in forma se non lo vedeva mai allenarsi.
L’Uchiha
sbuffò e si lasciò cadere seduto, sfilando dalla
tasca il pacchetto
di sigarette. Mentre l’aria risuonava dei conteggi entusiasti
di
Kotaro, lui attaccò a fumare senza che la riga tra le sue
sopracciglia scomparisse.
A
dire il vero era stato svegliato all’alba
dall’arrivo di Naruto,
come tutta la sua famiglia. Dato che voleva assolutamente sapere di
cosa dovevano discutere gli Hokage aveva convinto Itachi a cercare di
spiare il loro colloquio in modo che i suoi goffi tentativi
fungessero da diversivo e gli permettessero di origliare dal
sottotetto. Purtroppo aveva captato soltanto una parte della
conversazione, e quando le cose si erano fatte interessanti gli
adulti si erano spostati a casa Nara e lui aveva perso la presa.
«Ma
che diavolo succede stamattina?» esclamò Kotaro
senza preavviso,
interrompendo uno dei suoi piegamenti a testa in giù.
In
lontananza, come un’apparizione, anche Chiharu stava
avanzando; e
sembrava bella carica.
«Missione?»
domandò raggiungendoli a passo marziale.
Hitoshi
la studiò per un lungo istante. Ne sapeva più di
lui?
«Non
ti andrebbe di allenarci un po’ insieme?»
tentò Kotaro
speranzoso.
«Non
vorrai affaticare il mio povero cuore?» ribatté
Chiharu
scandalizzata. «No grazie. Allenarsi al tuo ritmo potrebbe
davvero
causarmi un infarto.»
«Perché
nessuno di voi vuole fare allenamento di gruppo?» si
lagnò Kotaro.
«E’ un miracolo se torniamo vivi dalle missioni,
l’ultima volta
che abbiamo provato uno schema non avevo i peli sotto le
ascelle!»
«Se
fai due calcoli scoprirai che non vogliamo allenarci con te da quando
hai iniziato a blaterare stupidaggini sulle Porte del Chakra. Abbiamo
paura che qualcuno muoia durante i tuoi cosiddetti
allenamenti»
sbuffò lei. «Ma per ora ce la caviamo bene, no?
Siamo vivi. E in
questo momento non ho nemmeno voglia di strozzare questo qui»
aggiunse accennando a Hitoshi. «Facciamo grandi
progressi.»
Sì,
Chiharu aveva il tipico umore da ‘so qualcosa che
voi non sapete
e sono troppo spaccona per nasconderlo decentemente’,
rifletté
l’Uchiha.
«Naruto
è venuto anche a casa tua?» domandò a
bruciapelo.
Chiharu
si bloccò. Ovviamente aveva immaginato che la presenza di
Sakura e
Sasuke significasse che Hitoshi sapeva qualcosa, ma non aveva
intenzione di condividere le sue informazioni con gli altri.
«Può
darsi» rispose vaga, mentre Kotaro passava lo sguardo
alternativamente da lei a lui e viceversa.
«Dov’è
andato Kakashi?» chiese l’Uchiha, incapace di
contenere la
curiosità e anche la stizza, perché Chiharu era
stata più
fortunata e aveva potuto ascoltare la parte interessante della
conversazione.
«Che
ne so?» rispose però lei facendo spallucce.
«Dicevano qualcosa sul
controllare gli archivi della Foglia, ma mio padre non ha voluto
spiegare niente prima di arrivare là.»
«Nello
studio dell’Hokage?» si inserì Kotaro,
completamente smarrito.
«Di che state parlando? Dov’è andato
Kakashi?»
«E’
partito» riassunse Chiharu. «Se ne è
andato non si sa dove e i
suoi sostituti non sanno nemmeno perché.»
«Ma
è gravissimo!» esclamò Kotaro
sbiancando.
«Oh,
sta’ zitto» sbuffò Chiharu.
«Non ha tradito il villaggio,
probabilmente è invischiato in una missione segreta di cui
il
Consiglio non deve sapere niente.»
«Ma
perché? Cosa potrebbe essere?»
«Vuoi
darti una calmata?» disse Hitoshi seccamente.
«Stasera provo a
spiare i miei genitori, sicuramente ne parleranno, prima o
poi.»
Chiharu
strinse le labbra. Lei avrebbe avuto informazioni fresche entro poche
ore, ma questo non poteva davvero condividerlo con gli altri.
«Forse
dovremmo provare a chiedere...» suggerì Kotaro
esitante.
Hitoshi
scoppiò in una risata breve e asciutta. «Prego. A
te l’onore.»
«Beh,
è una soluzione molto più onorevole che
strisciare sotto il
pavimento per origliare!»
«Siamo
ninja, non ufficiali di cavalleria. Strisciare è quello per
cui
veniamo addestrati!»
«Tu,
forse! Io mi alleno duramente per fare qualcosa di
più!»
«Certo
che siete insopportabili quando non andiamo in missione»
sbuffò
Chiharu, meritandosi occhiate scandalizzate e anche un po’
offese.
«Sapete che vi dico? Mi prendo un giorno di ferie.»
«Ah
beh, perché abbiamo lavorato proprio tanto negli ultimi
tempi, eh?
Ne abbiamo davvero bisogno!» esclamò Hitoshi
acidamente.
Chiharu
si strinse nelle spalle. «Tanto anche oggi non avranno niente
da
farci fare: finché sono così incasinati con la
storia degli Hokage
non ci degneranno di uno sguardo. Ma voi fate quel che vi
pare» E a
quel punto, con un vistosissimo sbadiglio e un accenno di
stiracchiamento, la kunoichi diede loro le spalle e si
allontanò.
«Ma
perché? Era arrivata così carica!»
gemette Kotaro, vedendo
profilarsi all’orizzonte l’ennesima giornata di
inattività.
Quasi quasi rimpiangeva la turbolenta e sacrilega missione del dio
Juka, anche se aveva dovuto sopportare 'La triste storia di
Yoshi,
l’eroe tragico'.
«Avrà
le sue cose» borbottò Hitoshi. «Ma
così non possiamo lavorare, me
ne vado a casa anche io. Tanto oggi gli Hokage non avranno tempo di
stare dietro ai gruppi.»
«E
io?» gemette Kotaro.
Hitoshi
lo guardò storto. «Allenati, non è
quello che sai fare meglio?»
Shikamaru
richiuse il cassetto dell’archivio segreto della Foglia con
un
lungo sospiro di comprensione.
«Il
plico su Haruka Muto è scomparso»
annunciò ai tre che lo
seguivano.
«Chi?»
fece Naruto.
«Haruka
Muto!» sibilò Sakura. «L’unica
donna che abbiamo mai visto
girare intorno a Kakashi. La madre di Jin.»
Naruto
fece mente locale. Sì, era piuttosto plausibile che Jin
avesse una
madre. «Ma non era in missione nel Paese delle
Risaie?» chiese dopo
un visibile sforzo mnemonico. «Da anni?»
«A
questo punto ne dubito» rispose Shikamaru. «Gli
shinobi sotto
copertura sono elencati in un’altra sezione
dell’archivio. Ma
sono certo che il suo plico fosse in questo cassetto, perché
una
volta Kakashi mi ha portato qui per parlare di alcuni documenti
segreti e mi è scappato l’occhio sulle altre
cartelle. Sono certo
che ci fosse anche Haruka Muto.»
«Questo
archivio cosa riguarda?» lo interruppe Sasuke occhieggiando
curioso
il cassetto.
«Tutti
i peggiori segreti di Konoha, dalle tecniche più pericolose
all’elenco dei traditori.»
«Traditori?»
Sakura spalancò la bocca. «Allora...»
«Non
è detto» commentò Shikamaru.
«Potrebbe essere qui per qualunque
ragione. C'è anche Naruto tra questi documenti, e Sasuke e
Orochimaru... Ma insieme a loro c'è Jiraya,
perché ha messo le mani
sulle mogli di alcuni consiglieri irascibili. Non avendo aperto il
fascicolo di Haruka non ho la minima idea di cosa contenesse.»
«Fatemi
capire... secondo voi Kakashi è sparito per qualcosa che ha
a che
vedere con la madre di Jin?» domandò Naruto,
occhieggiando con
soddisfazione il proprio fascicolo – si era tanto impegnato
per
riempirlo di dati incredibili!
«E’
molto probabile» annuì Shikamaru. «Penso
di poter escludere che
abbia tradito il villaggio: se così fosse sarebbe partito
senza
cercare di convincerti a difenderlo. Non credo che voglia rovinarti
la vita. Non a te. Quanto a sapere cosa ha intenzione di fare...
Potrebbe essere di tutto.»
«Il
Consiglio ci massacrerà» sbiancò
Sakura. «Rischiamo di essere
accusati di complicità!»
«No,
se Naruto farà quel che gli dirò.»
Naruto
fissò Shikamaru con tanto d’occhi. «Devo
stordirli tutti e
sostituirli con delle copie?»
«No,
certo che no» Shikamaru scoppiò a ridere.
«Ma non dovrai perdere
la testa. Voglio che impari a suonare molto autorevole,
perché il
tuo compito sarà convincerli che hai mandato Kakashi in
missione per
tuo conto.»
«Quale
missione?» Naruto sembrava un po’ smarrito, ma
Shikamaru si
strinse nelle spalle.
«Qualcosa
che ha a che vedere con Kyuubi. E’ l’unica cosa che
potrebbe
zittire i consiglieri: i Bijuu li spaventano molto più della
Roccia.»
«Devo
mentire davanti a tutto il Consiglio?» Naruto
deglutì. «E se mi
chiedono qualcosa? Se non so cosa rispondere? Perderò sicuramente
la testa, lo sai vero?»
«Saremo
vicino a te» assicurò Shikamaru. «Ma
prima c’è un’altra cosa
che vorrei controllare. Venite.»
Mentre
Naruto lottava interiormente con la propria impulsività il
gruppetto
uscì dall’archivio e raggiunse lo studio
dell’Hokage. Prima di
entrare incrociarono Koichi, che li guardò un po’
stupito e un po’
diffidente ma augurò loro un cortese buongiorno.
Probabilmente si
aspettava di veder comparire Kakashi da un momento all’altro,
ma
quel giorno sarebbe rimasto deluso.
Shikamaru
entrò nell’ufficio e fece accomodare anche gli
altri, quindi
richiuse la porta. Sulla scrivania erano impilati diversi plichi di
fogli di altezza diversa. Su un lato del ripiano ’era un
plico più
basso, e fu proprio quello che Shikamaru andò a sfogliare.
«Cosa
cerchi?» gli chiese Sakura.
Shikamaru
le tese un foglio. Era un ordine di missione di livello B: spionaggio
di un plotone della Roccia accampato vicino al confine con il Fuoco.
Gli shinobi assegnati a quel compito erano quattro Jonin, e tra loro
spiccava il nome di Jin Hatake.
«Jin
non è lì» disse Shikamaru a sorpresa.
«L’ho visto ieri mattina
all’Ufficio per lo smistamento, aveva appena finito un
lavoro:
questo gruppo è partito due giorni fa. Ma sono sicuro che se
andassimo a cercarlo non lo troveremmo a casa.»
«E’
andato con Kakashi» comprese Sakura.
«Direi
che il viaggio ha proprio a che vedere con Haruka Muto»
mormorò
Shikamaru annuendo. «Kakashi ha davvero pensato a tutto,
eh?»
Naruto
si imbronciò. «Anche a prendermi per il
culo» brontolò.
«Tu
ti ci presti bene, c’è da dirlo»
commentò Sasuke.
«Vuoi
rogne?»
«Ragazzi!»
li zittì Sakura di colpo. «Fuori di qui
c’è Koichi, abbassate la
voce! Kakashi non ti ha preso per il culo, Naruto, voleva un alleato
che non facesse domande. Anche tu hai avuto dei dubbi quando ti ha
detto che sarebbe partito per le terme, altrimenti non saresti venuto
a dircelo prima dell'alba! Aveva la coscienza sporca, Naruto, ma hai
lasciato andare Kakashi perché eri esaltato
all’idea di essere
finalmente l’unico Hokage. Quindi ora comportati come tale e
smettila di inalberarti per niente» Naruto incassò
la testa tra le
spalle. «Nel giro di un’ora il Consiglio ci
piomberà nell’ufficio
sbraitando che Kakashi è scomparso. Sarà meglio
preparare il
discorso che dovrai propinargli.»
«Va
bene...» mormorò il biondo Jonin.
I
quattro si guardarono con malcelato disagio.
Da
quel momento erano soli contro tutti.
Chiharu
sgattaiolò sul tetto dell’Accademia scivolando da
una grondaia
all’altra. Quando arrivò nei pressi del cortile
sentì il suono
della campanella che trillava nelle aule e attese che i ragazzini
uscissero per la pausa pranzo. Si rannicchiò contro un
camino,
facendo in modo che un albero la nascondesse alla vista dalla strada.
Sbirciò di sotto.
«Carini,
vero?» disse una voce facendola trasalire.
«Non
farlo mai più!» sbottò lei premendosi
una mano sul cuore. «Mai
più!»
Yoshi,
accovacciato a mezzo metro di distanza, soffocò una
risatina.
«Scusa. A cosa devo questa visita?» chiese tutto
interessato,
strisciando fino al camino e lanciandole un’occhiata curiosa.
«Di
solito mi chiami fuori dall’Accademia, non fai gli agguati
sul
tetto. E’ per la missione dell’ultima
volta?»
Chiharu
riprese fiato lentamente, sentendo il cuore che tornava piano piano a
un battito regolare. «Ma va'! Certo, ci penserò
dieci volte prima
di fare un’altra missione a quattro, ma non c’entra
con
quello...»
«Oh,
Hitoshi ne sarà felice. Allora, cosa
c’è?»
Chiharu
non ci girò intorno: «Dov’è
andato Kakashi?»
Negli
occhi di Yoshi passò un brillio di interesse. «Tuo
padre non è
molto discreto quando tratta gli affari dell’Hokage,
vero?»
commentò.
«Dai,
non farmi restare sulle spine!»
«Il
nome Haruka Muto ti dice niente?» Chiharu rifletté
rapidamente e
poi scosse la testa. «Era una kunoichi della Foglia,
ufficialmente
partita in missione per il Paese delle Risaie qualche anno
fa» disse
Yoshi. «Pare che sia la madre di Jin Hatake. Ma il suo file,
invece
di essere tra quelli degli shinobi sotto copertura, era
nell’archivio
dei traditori e dei segreti compromettenti. Ed è sparito
insieme
all’Hokage e, guarda un po’, Jin.»
«Accidenti»
suo malgrado Chiharu era impressionata. «Piuttosto
dettagliata come
spiegazione...»
«Contenta?»
Yoshi appoggiò il mento alla mano e le rivolse un sorriso
sornione.
«Potrei insegnare anche a te come si fa.»
Lei
esitò, poi sbuffò con un mezzo sorriso.
«Ho idea che sia piuttosto
faticoso.»
«Niente
affatto. E’ una cosa elementare, a dire il vero.»
Il
sorriso scemò sul volto di Chiharu. Per un lungo momento si
sentì a
disagio, così distolse lo sguardo e si schiarì la
voce. «Non
essere inquietante» borbottò.
Yoshi
scoppiò a ridere fragorosamente, disperdendo in un attimo la
tensione accumulatasi. «Scusa, scusa, non lo faccio
più!» assicurò
dandole una spintarella con la spalla. «Giuro.»
Chiharu
sospirò. «Non fa niente. Ma stai
attento.»
«Va
bene, va bene! Tanto non mi scopriranno. Nessuno fa mai caso a
me.»
Chiharu
aveva di che dubitarne, considerato il colore accecante della chioma
di Yoshi, ma accantonò rapidamente le perplessità
e invece sbirciò
curiosa la pergamena nella sua borsa.
«Cos’è?
Sembra antica.»
«Un
rotolo del mio villaggio. Una tecnica segreta.»
Gli
occhi di Chiharu ebbero un guizzo. «Segreta?»
«E’
un rotolo di medicina...» Yoshi scrollò le spalle
come a scusarsi.
«Ripristina le falle nel sistema di circolazione del chakra
quando...»
«Ah»
lei sbuffò. «No, non mi interessa. Hai qualcosa da
mangiare?»
«Neanche
per sogno.»
«Tieni»
Chiharu sfilò dal marsupio uno snack al cioccolato.
«Ho solo
questo, ma è meglio di niente.»
«Perché
dovrei affliggermi a cucinare quando ci sei tu che mi offri il pranzo
tanto generosamente?»
«Perché
non sono un distributore di snack.»
«No?»
con un sorrisino Yoshi addentò il riso soffiato e le
strizzò
l’occhio. «E’ buono.»
Chiharu
sorrise.
Era
bello passare il tempo con Yoshi, perché era carino come un
ragazzino. Tutta un’altra storia rispetto al cupo Hitoshi e
al
solito Kotaro sempre rispettoso. Loro la trattavano come un serpente
pronto a mordere, Yoshi come la sorella maggiore che non era mai
stata. Era rilassante passare il tempo con lui: quando andava via si
sentiva sempre piena di autostima e molto in gamba. E lei aveva
bisogno di sentirsi in gamba, un bisogno morboso.
«Mangia,
scemo» gli disse affettuosamente. «Dopo ho un
impegno.»
«Consigliere
Iida, sedetevi.»
Sakura
fece un cenno cortese verso la sedia di fronte alla scrivania di
Naruto, ma l’anziano nobile che era piombato in ufficio pochi
minuti prima non sembrava avere alcuna intenzione di piegare una sola
delle articolazioni del suo corpo.
«E’
un oltraggio!» esclamò, raccogliendo piccoli cenni
di assenso dai
tre o quattro consiglieri che lo accompagnavano. Tra loro non
c’era
Neji, naturalmente. «L’Hokage non può
allontanarsi dal Villaggio
senza un permesso esplicito firmato dal Consiglio!»
«Davvero?»
sussurrò tra i denti Naruto.
«Non
lo so» borbottò Shikamaru in risposta.
«Potrebbe anche essere.»
A
entrambi arrivò una pedata di Sasuke.
«Consigliere
Iida, per favore!» insisté Sakura in tono
più deciso. «Dovete
sedervi e moderare la voce.»
L’occhiata
di fuoco che la raggiunse alzò di qualche grado la
temperatura nella
stanza. «Tutto questo è inaccettabile! Prima
quelle presunte
dimissioni,”
quasi sputò.
“poi la nomina di persone la cui affidabilità
è tutta da
provare...” passò gli occhi su Sasuke, che si
irrigidì
visibilmente. “La situazione passa immediatamente sotto il
controllo del Consiglio. Verranno allertati gli Anbu e
verrà
loro affidata la missione di recupero del traditore.
Verranno...»
«Non
credo proprio» Naruto si alzò dalla sedia
dell’Hokage e scrutò
il consigliere dall’alto al basso.
«Uzumaki,
non siete ancora ufficialmente...»
«Sì
invece» troncò Naruto. «Sono
l’unico Hokage che avete, adesso. E
non impegnerò gli Anbu per andare dietro a un mio
uomo.»
Sakura,
Sasuke e Shikamaru fissarono Naruto a bocca aperta. Secondo il piano
dovevano mostrarsi sorpresi, ma Naruto stava riuscendo ad essere
autorevole tanto bene che parte della sorpresa era genuina.
«Un
vostro uomo?» ripeté Iida perdendo la foga. Fece
un passo indietro
e si lasciò cadere compostamente sulla sedia.
«Cosa significa?»
«Ho
mandato Kakashi ad eseguire una missione segreta dietro mio
ordine»
spiegò Naruto, sollevando il mento in maniera un filino
pomposa.
«Ma
l’autorizzazione del Consiglio...»
farfugliò Iida, cercando lo
sguardo dei nobili che lo accompagnavano.
«L’autorizzazione
del Consiglio sarebbe arrivata troppo tardi. Avevo bisogno che
qualcuno partisse subito, e Kakashi è l’unico di
cui mi fidi per
un compito del genere.»
Allarmato,
il consigliere abbassò lo sguardo sulla sua pancia, intuendo
che la
cosa avesse a che fare con Kyuubi. La fronte gli si bagnò di
sudore
freddo.
«Confido
che manterrete il riserbo sulla faccenda» mormorò
Naruto sedendosi
lentamente. «Vi sarete chiesti perché io abbia
degli assistenti:
loro sono qui per controllare che non si verifichino... incidenti.»
Questa
volta la bocca di Sakura si spalancò per la sorpresa.
Davvero Naruto
conosceva la parola riserbo?
«Non immaginavo... Non
sapevo...» borbottò Iida
facendo lavorare in fretta il cervello. Scrutò Naruto di
sottecchi,
studiando la sua espressione, ma vi colse solo un certo distacco.
Allora deglutì e si alzò dalla sedia.
«In questo caso vi porgo le
mie scuse, nobile Hokage. Sono certo che provvederete a farci avere
al più presto i... i dettagli della missione di Kakashi
Hatake...
per la ratifica ufficiale.»
Naruto si accigliò.
«Naturalmente» bofonchiò,
annotandosi mentalmente di chiedere aiuto a Shikamaru.
«La seduta del Consiglio è
convocata per il primo
pomeriggio?» suggerì Iida.
«Koichi provvederà a diramare
l’avviso» assicurò
Sakura. «Dobbiamo solo avere il tempo di preparare il
materiale.»
«Ma certo. Allora... ci rivedremo
più tardi, nobile
Hokage.»
Iida si piegò in un inchino profondo che
lusingò
Naruto e stizzì i suoi assistenti, completamente ignorati
durante i
convenevoli. Facendo cenni bruschi ai nobili che lo accompagnavano
uscì, e Koichi si affacciò sulla soglia prima che
lasciassero
richiudere la porta.
«Avete bisogno di me?» chiese
un po’ nervosamente,
reprimendo la voglia di domandare che fine avesse fatto Kakashi.
«Sì, per favore. Hai un
minuto?» rispose Sakura
raggiungendolo.
Non appena lei fu uscita Naruto tirò un
gigantesco e
liberatorio sospiro di sollievo, lasciandosi scivolare scompostamente
sulla sedia.
«Un altro secondo e sarei
scoppiato!» esclamò
facendosi vento con una mano. «E’ sempre
così stressante?»
Shikamaru scoppiò a ridere e
andò a sedersi davanti
alla scrivania. «Sei stato incredibile»
commentò scuotendo la
testa. «Non avrei mai pensato che potesse andare
così bene!»
«Nemmeno io»
sussurrò Sasuke corrucciato.
«Ti ho sentito!» si
lamentò Naruto.
«Davvero
conosci la parola riserbo?»
indagò Sasuke.
«Certo che sì! Non vedevo
l’ora di usarla!» gongolò
il biondo. «Hai visto che faccia ha fatto quando ho accennato
a
Kyuubi? E’ diventato bianco!»
«Naruto, sai che oggi dovrai spiegare nel
dettaglio
questa fantomatica missione davanti a tutto il Consiglio?» lo
interruppe Shikamaru.
Naruto impallidì. «Nel
dettaglio?»
«Abbiamo davanti una mattina piena di
creatività...»
sospirò lo svogliato Nara, allungando i piedi sulla
scrivania e
facendo cadere una pila di fogli. «Allora, cosa ci
inventiamo?»
Sotto il palazzo dell’Hokage Iida
camminava a passo
spedito, seguito a ruota da due nobili un po’ affannati.
Nella sua
testa si affollava una mole imponente di pensieri agitati
dall’ansia
e dai ricordi di Kyuubi che riemergevano, e nessuna di quelle
riflessioni metteva in dubbio quanto appena udito: Naruto era
ingenuo, il più grande ingenuo che il Villaggio avesse mai
visto,
dedito all’onestà e alle opere di demolizione
piuttosto che ai
sottili intrighi della politica... Naruto non aveva la più
pallida
idea di cosa fosse un bluff. Perché
perdere tempo a
considerare l’eventualità che ne mettesse in
pratica uno?
Le domande importanti erano altre: il nuovo Hokage
poteva essere la minaccia più pericolosa degli ultimi
trentacinque
anni? La Volpe stava cercando di riguadagnare la libertà?
Forse
Kakashi lo aveva messo così in vista perché tutti
potessero
tenerlo d'occhio?
«Saibatsu, convoca tutti per questa
notte» sussurrò a
uno degli uomini che lo seguivano. «Voglio che interrompiate
immediatamente le procedure per sfiduciare Kakashi. Lasciate perdere
le mozioni contro Sasuke Uchiha, voglio che stia esattamente
dove sta. L’Hokage va sorvegliato.»
* *
*
Da questo capitolo in poi,
la vicenda prende una
strada un po' diversa da quella che conoscevate.
Più
politica, insomma, ma anche più Naruto che fa il figo.
(A noi piace Naruto
che fa il figo, vero? <3)
Un ringraziamento
speciale a tutte le persone che hanno ripreso in mano questa storia,
nonostante i tanti
anni trascorsi dalla sua pubblicazione.
Siete sempre preziosi
per me.
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Capitolo 6 *** Equilibrio precario ***
06
Capitolo
sesto
Equilibrio
precario
«E
dov’ero io in quel momento? Al
confine!»
Sprezzante,
Akeru gettò un sasso verso la foresta e lo vide scomparire
tra i
cespugli dopo essere rimbalzato su un tronco.
«Maledetti
Hokage...» bofonchiò chinandosi per trovare un
altro proiettile tra
l’erba. «Far succedere le cose interessanti mentre
io sono via,
come se non contassi niente!»
La
partenza di Kakashi per una missione segretissima riguardante Kyuubi
era diventata di dominio pubblico in sole poche ore. Prima che le
famiglie di Konoha si fossero ritirate per la notte, quasi tutti
sapevano che il sesto Hokage aveva lasciato il villaggio. Baka
però
era rientrato dalla sua missione molto tardi e aveva saputo la
novità
solo quella mattina.
«Tu
non
conti niente, in
effetti» gli fece notare una voce annoiata alle sue spalle.
Akeru
si voltò indignato e puntò un dito accusatore
contro il vecchio
appollaiato su un masso con un quaderno e una penna tra le mani.
«Per
quanto io la rispetti, nobile Jiraya, non ritengo opportuno
che lei giri il coltello nella piaga in questo modo!»
Jiraya
si grattò un orecchio sbadigliando. «Che
seccante» commentò,
scuotendo la testa. «Dai, vieni un po’ qui. Mi sono
stufato di
sentire le tue lamentele, abbiamo del lavoro da fare.»
Lo
scorrere del tempo era ben visibile tra le rughe sul viso del Sannin:
per quanto fossero poche, erano profonde e segnavano ogni sua
espressione. I suoi capelli si mantenevano folti più per uno
sforzo
di volontà che per effettivo vigore, e nell’intera
figura c’era
un che di fragile, nonostante fosse ancora perfettamente in grado di
difendersi.
Akeru
gli si avvicinò. Il contrasto tra i suoi muscoli scattanti e
i polsi
nodosi di Jiraya fu quanto mai netto. Si lasciò cadere
seduto
accanto a lui, le mani appoggiate indietro, e fissò il cielo
che si
stendeva sopra la radura. «Dove eravamo rimasti?»
«Terzo
capitolo, Miko ha incontrato il fratello di Jumon ed è
rimasta
colpita dalla sua straordinaria prestanza fisica.»
«E
poi?»
«E
poi... siamo già al terzo capitolo, dobbiamo dare un
po’ di
soddisfazione al lettore, no?»
«Okay,
okay, capito» Akeru arricciò le labbra e rimase a
guardare le
nuvole, riflettendo. «C’è un
casinò lì vicino?»
«Idea
già usata nel Paradiso» bofonchiò
Jiraya.
«Ah.
Terme?»
«Idem.»
«Mm...
C’è un ospedale?»
«Ehi,
Stupido che non sei altro, non ti avevo detto di leggere a fondo i
miei libri? Stai proponendo tutte cose già viste!»
Akeru
sbuffò e lo scrutò torvo. «Oggi ho la
testa altrove» ammise
controvoglia.
«Commovente»
masticò Jiraya. «Ma senza la tua fantasia di
verginello non si va
molto avanti.»
«Allora
rimandiamo!» sbottò lui, alzandosi in piedi e
arrossendo senza
volerlo. «Che strazio. Un vecchio scrittore di porno che deve
affidarsi a un ragazzino per far soldi!»
«Ehi,
non è colpa mia se ormai ho provato tutto e non ho idee
nuove!» si
indignò il Sannin. «Ti pago per darmi ispirazione,
non per
lamentarti!»
«I
soldi che mi dà non sono neanche lontanamente sufficienti
per farmi
insultare!»
«Bah!
Vai a farti un giro, trovati una ragazza, e torna quando ti sarai
schiarito le idee.»
Akeru
grugnì una risposta, e incassando la testa tra le spalle
prese ad
allontanarsi. «Trovati
una ragazza...»
mugugnò di malumore. «Non è tanto
semplice! Quella che voglio io
manco mi invita alla sua festa di compleanno!»
Fermo
sul suo sasso Jiraya scrutò la pagina scritta a
metà, quindi
sospirò e richiuse il quaderno.
«Niente
da fare oggi» mormorò, alzandosi in piedi e
spolverandosi i
pantaloni. «Tanto vale andare a trovare Tsunade.»
«Siamo!
In! Guerra!» gridò Hitoshi, mentre Kotaro schivava
i suoi pugni
rabbiosi con l’agilità di un ginnasta.
«E non c’è nemmeno una
missione per noi! Naruto è un idiota! Non sa fare il suo
stupido
mestiere!»
«Che
scoperta» mormorò Chiharu, rannicchiata sulla
solita panchina con
un libro in mano. «Io lo ripeto da giorni, ma nessuno di voi
mi dà
retta.»
«Inizia
a uscirmi il fumo dalle orecchie!» ringhiò
Hitoshi, chinandosi per
evitare un calcio di Kotaro.
«Sei
distratto!» lo sgridò lui, abbassando il tiro
all’improvviso e
prendendolo in piena faccia.
Hitoshi
cadde nella polvere e i bambini del parco alzarono la testa dai loro
giochi, fissando i tre shinobi con occhi intimoriti.
«Testa
di cazzo!» sbottò l’Uchiha, rialzandosi
con una mano sulla
mandibola. «Adesso resterà il livido!»
«Era
un calcio da evitare ad occhi chiusi, non è colpa mia se sei
un
deficiente.»
«Ma
tanto a te non frega niente, vero?» con rabbia, Hitoshi
sputò a
terra. «Ti sei sempre limitato ad obbedire agli ordini, non
hai mai
fatto niente di testa tua e hai solo seguito Naruto come... come...
come l’idiota che è anche lui! Cosa mi
è saltato in testa di
farmi convincere ad allenarci insieme?» sfregò le
dita sulla
fronte, mentre l’emicrania martellava forte dietro le sue
tempie.
«Se
fumassi meno di quelle schifezze che ti porti appresso forse
non avresti mal di testa, e forse
una volta tanto riusciresti a non finire nella polvere quando
combatti con me!» ribatté Kotaro, punto sul vivo.
«Fatti
gli affari tuoi!» lo minacciò Hitoshi.
«L'unica ragione per cui ti
permetto di rivolgermi la parola è che purtroppo ci hanno
infilato
nello stesso gruppo!»
Kotaro
lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Da qualche tempo
gli
scatti di orgoglio di Hitoshi lo portavano al limite più
facilmente.
Non sapeva se era la sua pazienza ad essere calata o l'Uchiha ad aver
alzato i toni, ma sentiva che se gli avesse dato altra corda
avrebbero finito per litigare davvero.
«Arrangiati»
sbottò raccogliendo la maglia che aveva gettato sulla
panchina,
accanto a Chiharu. «Non sono io il più debole tra
noi: se non vuoi
il mio aiuto non ti costringerò ad accettarlo.»
Kotaro
si rivestì e si allontanò, rivolgendo a malapena
un cenno di saluto
a Chiharu. Lei lo guardò andare via reprimendo un sospiro
esasperato.
«Chi
ha detto che sono il più debole? Ma che gli è
preso?» bofonchiò
Hitoshi, rialzandosi e muovendo la mandibola per eliminare il
torpore.
«Spirito
di squadra» mormorò Chiharu, tornando a posare gli
occhi sul suo
libro. «Era il suo modo di preoccuparsi per te, ma tu
l’hai
mandato al diavolo. Sai che è fatto come suo padre: tende ad
assimilare il carattere del maestro.»
«Una
vera fortuna, considerato il maestro.»
Chiharu
scosse la testa senza ribattere. L'equilibrio del gruppo sette era
sempre stato un po' precario, ma ultimamente era davvero fragile.
Hitoshi
si lasciò cadere accanto a lei. Chiharu si fece un
po’ più in là.
«Puzzi.»
«Gentile
da parte tua. Mi sono appena allenato, e neanche tu
quando ti alleni profumi di rosa» le fece notare.
«Ma
non mi spalmo addosso a te» sbuffò lei chiudendo
il libro. «Che
palle, senza Kotaro a tenerti occupato non riesco nemmeno a studiare
in pace.»
«Cos
è?» chiese lui accennando al volume,
più per costringerla a
restare che per vero interesse.
«Evocazioni»
Chiharu scrollò le spalle. «L’ho trovato
nella biblioteca
dell’Hokage.»
«E
che te ne fai? Nessuno di noi ha ancora stretto un contratto.»
«E’
proprio qui che siamo diversi» cantilenò Chiharu
con aria saccente.
«Io anticipo
le cose. Verrà il giorno in cui dovrai evocare qualcosa e
non saprai
nemmeno da che parte girarti, mentre io sarò avanti un
chilometro.»
«Ma
sta’ zitta. Non sei neanche Jonin.»
Lei
arrossì. «Ci godi tanto a ricordarmelo?»
«Non
sai nemmeno quanto» ghignò lui, allargando le
braccia sullo
schienale della panchina. Ma il sorriso si spense in fretta,
sostituito da una smorfia di leggero dolore.
«Hai
mai pensato che forse Kotaro ha ragione?» chiese Chiharu,
riconoscendo i sintomi dell’emicrania.
«No,
Kotaro non ha mai ragione» rispose Hitoshi.
«Idiota.
I mal di testa sono iniziati con le sigarette.»
«Che
fai, ti preoccupi per me?»
«Hai
bisogno della balia?»
«No»
Hitoshi prese una sigaretta dal pacchetto e la accese.
Inspirò a
lungo ed espirò, sentendo l’acre aroma del tabacco
invadergli la
bocca. Chiharu scosse una mano per allontanare il fumo, infastidita,
ma non si alzò dalla panchina.
«Tieni.
Mettilo sulla mandibola, ti eviterà di andare in giro
blu» borbottò
frugando nel marsupio e tendendogli il regalo di Akeru. Hitoshi
scrutò la scatolina con sospetto e la aprì per
annusarne il
contenuto. «L’ho usata anche io, non sto cercando
di avvelenarti»
sbuffò Chiharu.
«Ci
sarà da fidarsi?» ribatté lui, serio a
metà. «Da dove arriva?»
Chiharu
scrollò le spalle e si affrettò a cambiare
discorso. «Come va a
casa?»
«Come
sempre» mormorò Hitoshi mettendo via
l’unguento. «Fugaku e
Mikoto si allenano tanto che prima o poi il cervello gli
schizzerà
fuori dagli occhi, Liara ha iniziato a chiedere a nostra madre come
nascono i bambini, Nobi si sta facendo le prime turbe sullo sharingan
e Arina ha iniziato da poco l’Accademia. Itachi non ho
neanche
bisogno di nominarlo: papà ha deciso che vuole allenarlo
personalmente, probabilmente spera di fargli finire gli studi a sette
anni, come il vecchio Itachi. Non so se sia una cosa saggia, al
Villaggio già qualcuno lo guarda male...»
scrollò le spalle,
studiando a sua volta i ragazzini nella buca della sabbia.
«Con
tutti questi ragazzini intorno la gente ha anche il coraggio di
chiedersi perché ho sempre mal di testa.»
«Perché
lo chiami ‘il vecchio Itachi’, e non
zio?» domandò Chiharu.
Hitoshi
non rispose subito. Inspirò ed espirò un paio di
volte,
soprappensiero, quindi buttò la sigaretta ancora a
metà e la
schiacciò sotto un piede.
Una
volta ammirava Itachi. Perché era forte, il più
forte di tutti gli
Uchiha, un genio, il vero erede, il talento... Voleva diventare come
lui e poi superarlo. Ma quando era stato chiaro che non sarebbe
successo nulla di simile, che sarebbe sempre stato un Uchiha a
metà,
ogni sua speranza era evaporata e aveva iniziato a provare
insofferenza per chi se ne andava in giro a sbandierare occhi
scarlatti. Già, perché Hitoshi, che doveva essere
la gloria e il
riscatto di suo padre e del clan intero, non possedeva lo sharingan,
nemmeno una minima traccia. Anche se si fosse impegnato fino a
uccidersi, non sarebbe riuscito a immaginare una disgrazia
più
umiliante di quella.
«Il
vecchio Itachi era un traditore» disse duro. «Ha
abbandonato il
villaggio, ha sterminato il mio clan, si è alleato con la
feccia
peggiore e alla fine non so neanche come è morto,
perché mio padre
evita l’argomento e anche mia madre non si lascia scappare
niente.
Per quel che mi riguarda, se dovesse comparire all’improvviso
dall’oltretomba ce lo rispedirei al volo.»
Chiharu
sorrise e lo guardò con un filo di commiserazione.
«Come se potessi
riuscirci.»
Lui
le lanciò un’occhiata truce. «Per quanto
ti ostini a non
riconoscerlo, io sono
forte» mugugnò.
«Quanto
il celebre Itachi Uchiha?» insisté lei. Si
alzò in piedi.
«Permettimi di dubitarne.»
«Dove
vai?» Hitoshi la afferrò per un polso.
Lei
fissò la sua mano sul braccio, quindi lui che la guardava.
Senza
sorridere si liberò dalla stretta. «Devo cercare
Yoshi.»
Hitoshi
si irrigidì di colpo, sentendo la spina dorsale farsi di
ghiaccio.
«Divertiti» sibilò aspro dopo un lungo
istante. Ostentando la
massima indifferenza tornò a stendere le braccia sullo
schienale
della panchina e accavallò le gambe, una ruga profonda a
solcargli
la fronte.
Chiharu
trattenne uno sbuffo. «Contaci» rispose laconica, e
si allontanò
tenendo il libro chiuso in mano.
Hitoshi
strinse i denti ignorando le pulsazioni di protesta della mandibola.
«Idiota
che non è altro!»
«Sapevo
che ti avrei trovato qui.»
Naruto
sorrise mesto, le mani affondate in tasca e i capelli scossi da un
lieve alito di vento. Non portava il coprifronte, indossava la solita
tuta arancione e nera, e se non fosse stato perché Jiraya lo
conosceva così bene da sapere esattamente quanti capelli
aveva in
testa, avrebbe potuto quasi confonderlo con il ragazzino che aveva
portato con sé tanti anni prima. Ricambiò il
sorriso, guardandolo
da sopra la spalla, e attese che si avvicinasse.
«Niente
ispirazione, mi annoiavo» si giustificò,
distogliendo gli occhi e
posandoli sulla lapide nera che spiccava tra l’erba.
«Come
fai a passare dalle porcate che scrivi a questo?» Naruto fece
una
smorfia disgustata.
«Beh,
io e Tsunade...»
«No,
alt, non voglio sentire altro!»
Jiraya
ghignò, ma il suo non era più il sorriso
malizioso di un tempo.
«Sono
quasi quattro anni che mi nutro soltanto di ricordi»
mormorò,
assottigliando gli occhi contornati di rughe. «Quando
l’abbiamo
ritrovata le era rimasto davvero poco...»
«Probabilmente
le era rimasto ancora meno» borbottò Naruto.
«Sakura dice che gli
ultimi sei mesi ha tirato avanti solo a forza di volontà...
E tutti
e due siamo convinti che lo abbia fatto per te.»
«Ma
va’. L’ha fatto per godere della mia fantastica
presenza ancora
un po’, non per i miei rimpianti di vecchio scemo.»
Naruto
sorrise appena, vedendo la nostalgia segnare ogni centimetro di pelle
dell’ultimo Sannin.
Quattro
anni prima, nella foresta, avevano seppellito Tsunade per la seconda
ed ultima volta. Sia lui che Jiraya avevano voluto accertarsi che
fosse veramente lei, perché nessuno dei due riusciva a
crederlo,
perché una parte di loro continuava a sperare che sarebbe
ricomparsa
come già aveva fatto una volta, perché era
impensabile che quel
corpo piccolo e scuro fosse quello della vulcanica Tsunade... E
invece era lei, ed era stanca. Così stanca che non si
sarebbe alzata
mai più.
Era
stata una cerimonia più che intima. Avevano partecipato solo
Sakura,
Naruto, Hinata, Jiraya e Kakashi, e alla fine era stata proprio
Sakura ad avvicinare la torcia accesa alla pira funebre.
Piangeva,
quel giorno. Al primo funerale non lo aveva fatto, e tutti avevano
pensato che fosse perché era forte... Invece, quella volta,
aveva
pianto. Ed era stato Naruto a consolarla, perché Sasuke non
sapeva
nulla.
«Sono
tornato ad essere l’ultimo dei ninja leggendari»
sospirò Jiraya,
grattandosi la nuca. «Una vecchia carcassa che si trascina
come un
moribondo e scrive libri senza sostanza.»
«Incredibile,
non pensavo ti avrei mai sentito denigrare i tuoi libri.»
«Sappiamo
entrambi quale sia l’unico lavoro con un minimo di valore
nella mia
bibliografia. Gli altri sono divertenti, ma
nient’altro.»
«Beh,
io non li ho trovati neanche divertenti.»
«Tu
li hai presi come un manuale.»
«Ehi!»
Naruto arrossì indignato. «Non ho bisogno di
manuali, io!»
«Tu
dici?» Jiraya gli rivolse un altro ghigno, più
intenso. «Se tanto
mi dà tanto, quella povera ragazza di Sakura ha patito non
poco, con
un imbranato come te.»
«Abbiamo
finito con la paternale?» rognò Naruto, offeso.
«Non doveva essere
un momento commovente?»
«Quando
arrivi alla mia età speri di trovare più momenti
divertenti che
commoventi... Comunque. Immagino mi cercassi perché hai
bisogno di
aiuto. La storia che hai spedito Kakashi in missione per Kyuubi
è
una montatura, vero?»
«E’
così evidente?»
«No,
lo è solo per me che ti conosco: non affideresti mai niente
che
riguarda Kyuubi a qualcun altro.»
Naruto
sorrise in lieve imbarazzo. I ricordi dell’ultima volta che
Kyuubi
si era rivelata un problema gli passarono davanti agli occhi un
po’
confusamente: aveva demolito la sua stessa casa, un paio di piani
dell’ospedale della Foglia e una vasta zona di foresta. Per
fortuna
da cinque anni a quella parte la Volpe dormiva della grossa in fondo
al suo stomaco e sembrava essersi ritirata a vita privata.
«Kakashi
è andato a ripescare la sua donna dal Paese delle Risaie, o
qualcosa
di simile» sospirò. «Non ho capito
proprio bene, ma Shikamaru dice
che secondo lui non c’è da preoccuparsi.»
«Ah,
se lo dice Shikamaru puoi stare tranquillo. Hai qualche altro
problema?» domandò Jiraya.
Naruto
si fece serio e tornò a fissare la lapide, ormai quasi del
tutto
coperta di nomi. «No, non sono qui per chiederti
consigli» disse
imbarazzato. «E’ solo che... volevo... ecco,
veramente volevo
presentarmi in pompa magna e dimostrare a te e a lei
che sono un grande Hokage, il migliore che Konoha abbia mai avuto. Ma
temo di aver fallito. Sono stati Sakura e Shikamaru a sistemare
tutto, io cercavo di aprire bocca e loro smontavano le mie idee in un
attimo. Troppo poco efficiente, troppo elementare, banale... Non so
neanche archiviare i documenti per argomento» si strinse
nelle
spalle, con un sorriso quasi di scusa. «Ora capisco
perché Kakashi
me li ha affiancati, e inizio a pentirmi della sfuriata che gli ho
fatto prima di accettare l’incarico. Non avevo calcolato
l’aspetto
burocratico della faccenda» si schiarì la voce.
«Comunque non mi
arrendo. Se fossi uno che si arrende al primo ostacolo non sarei mai
diventato ninja!» sbottò alla fine, stringendo un
pugno. «Vedrai,
abbiamo in ballo una gigantesca missione segreta con la Sabbia, ne ho
parlato giusto stamattina con con Rock Lee e Gai: ho tutte le
intenzioni di renderla un successo stratosferico!»
Jiraya
lo osservò con il mezzo sorriso che riservava solo a lui,
poi si
lasciò scappare una risata. «Sei il solito
imbranato» commentò in
tono nostalgico. «E’ bello vedere che ci sono
persone come te, che
non cambiano mai.»
«E’
il mio credo ninja» ghignò Naruto, e Jiraya
rimpianse di non
potergli più posare la mano sulla testa, come un tempo.
«Un
giorno il villaggio sarà orgoglioso di averti avuto come
Hokage»
mormorò. «Verrai ricordato come il più
grande di tutti.»
«Ovvio!»
sbuffò Naruto, nonostante le guance arrossate.
«Vieni,
genio» riprese Jiraya battendogli una pacca sulla spalla.
«Andiamo
a farci un ramen?»
«Sì!»
esclamò Naruto, illuminandosi immediatamente. «A
proposito, hai
sentito? Sembra che Ayame sia incinta! Il maestro Iruka finalmente
diventerà padre!»
Yoshi
aveva finito le lezioni da qualche ora quando Chiharu comparve in
cima al tetto del suo palazzo. Pareva che il ragazzo odiasse gli
spazi chiusi e che avesse una vera predilezione per le altezze.
«Ciao»
lo salutò la kunoichi, andando a sbirciare il rotolo che
aveva
disteso sulle ginocchia. Quando riconobbe il manuale di strategia del
secondo anno si lasciò scappare un sorriso.
«Lo
so, non è degno del tuo livello»
commentò lui roteando gli occhi.
«Ma io sono ancora uno studentello scemo, e più
leggo più imparo e
bla bla bla... Gli esami sono esami.»
«Certo,
la media e tutte quelle cose lì...» disse lei
sedendogli accanto.
Sul tetto soffiava un filo di vento freddo. Chiharu
rabbrividì,
assottigliando gli occhi per guardare il sole che tramontava.
«Quella
roba non ti servirà granché là
fuori.»
«Lasciami
finire il corso di studi prima di gettarmi nella fossa dei
leoni» si
lamentò Yoshi richiudendo il rotolo.
«Già non sono entusiasta di
consacrare la mia giovane vita alla difesa di un villaggio ingrato,
se poi mi ci spingi ancor prima del previsto, tanto vale che tu mi
metta un cappio al collo e mi faccia penzolare da quella
trave.»
Haru
rise sottovoce, abbracciandosi le ginocchia.
«Allora,
che ci fai qui?» indagò lui, piegandosi
leggermente all’indietro
e chiudendo gli occhi. «Ancora niente missioni?»
«No,
per fortuna» rispose lei con una scrollata di spalle.
«Anche se
Kotaro e Hitoshi stanno diventando insopportabili... Non sanno
apprezzare il meritato riposo.»
«Oh,
non sarà per molto» mormorò Yoshi.
Chiharu lo fissò e lui,
sentendo il suo sguardo, riaprì gli occhi e sorrise
sornione. «Di
qui a un paio di giorni al massimo, l’Hokage... pardon, gli
Hokage vi
convocheranno. Siete diretti a Suna.»
A
Chiharu sfuggì un gemito, subito soffocato contro le
ginocchia.
«Così lontano?» si lamentò.
«E immagino che sarà anche una
missione tosta... oh, ma perché sempre a noi?»
«Perché
voi tre siete la loro scommessa» spiegò Yoshi, con
il tono di chi
ha ripetuto la stessa cosa per troppe volte. «Siete
potenzialmente
la squadra migliore, vi terranno insieme fino alla morte, se ci
riescono.»
«Che
culo.»
«Egocentrica»
sorrise Yoshi. «Certe volte penso che tu sia addirittura
ossessionata dall’idea di essere la più
forte.»
«E
allora?» replicò lei stizzita.
«Mica
ho detto che la cosa mi dispiace» fece lui rivolgendole una
lunga
occhiata.
Per
un attimo Chiharu ne fu turbata.
«Che
fai, ci provi?» mormorò sospettosa.
Se
c’era qualcuno che fino a quel momento non aveva mostrato il
minimo
interesse per lei in
quel senso era
Yoshi, ma Chiharu ormai sapeva riconoscere un’occhiata troppo
lunga
quando la vedeva.
«Non
ci sto provando» rispose lui, scoppiando a ridere.
«Lo pensi di
tutti quelli che ti parlano di cose serie?»
«Che
palle» sbuffò lei, suo malgrado sollevata.
«Non sfottere.»
«Credo
che il terreno attorno a te sia già fin troppo
affollato» sorrise
Yoshi passando lo sguardo sul manuale di strategia. «Secondo
questo
testo metà dei meriti di un buon piano consiste nello
scegliere bene
l’obiettivo.»
«Se
puoi
sceglierlo» sottolineò
lei.
«Qui dice anche che un buon generale
evita di farsi
intrappolare in scelte obbligate.»
«Quel libro non è mai uscito
dal Villaggio, non sa
cosa c’è là fuori.»
«Perché, tu
sì?»
Chiharu lo guardò stizzita.
«Sono una kunoichi!»
«Ah, ma certo...» Yoshi
chinò il viso e lei non poté
vedere la sua espressione, ma da una nota nella sua voce le
sembrò
che stesse sorridendo.
«Oggi sei insopportabile»
sbottò.
«Sei mai stata nel paese del
Tè?»
«Probabilmente ci sono
passata...»
«Nel Villaggio della Seta? Sul Picco Blu?
Hai mai visto
il grande ponte Naruto?»
«L’ultimo te lo sei
inventato!»
«Non direi proprio, chiedi al tuo
maestro.»
Chiharu lo fissò stranita e distolse lo
sguardo.
Riflettendoci bene, era sempre stata in missione nei soliti cinque o
sei posti di interesse strategico.
«Se potessi girerei il mondo»
sospirò Yoshi. «Era
bello essere il secondogenito, avevo molta più
libertà: ora che mio
fratello è morto so per certo che passerò tutta
la vita bloccato al
mio villaggio. Invidio le tue possibilità... Se solo volessi
potresti fare fagotto e andare dove vuoi.»
«Sì, e con me verrebbe una
piccola scorta di Anbu con
l’ordine di uccidermi» Chiharu fece una smorfia.
«Guarda il
casino che è successo per il Sesto Hokage.»
«Ma sai quante cose potresti imparare?
Quante tecniche
segrete, quanti insegnamenti di grandi maestri, quanti tesori...
Ciò
che hai qui lo conosci già. Ma cosa potresti avere lontano
da qui?»
insisté lui.
«Probabilmente un mucchio di
seccature.»
Yoshi
sorrise e scosse la testa. «Sei troppo pigra per questo,
lasciamo
perdere... Ieri che avevi da fare di così
importante?» chiese
cambiando discorso.
Colta
alla sprovvista Chiharu distolse lo sguardo, e un lieve rossore le
colorò le guance.
Il
giorno prima aveva lasciato Yoshi dicendo di avere un impegno. Cosa
aveva fatto?
Una
cosa davvero stupida.
Passare
il tempo con Yoshi la faceva sempre sentire molto in gamba. Tanto in
gamba che, visto che aveva il pomeriggio libero, Chiharu
pensò di
investirlo nella sua missione privata e fece vela verso casa di Sai.
Arrivò
passando dai tetti, e si appostò sul palazzo accanto per
cercare di
sbirciare l’interno dell’appartamento. Lo
scoprì vuoto.
Sgattaiolò alla finestra successiva, quella della camera da
letto,
ma anche lì niente. Che fosse impegnato in una delle rare
missioni
che ancora partivano?, si chiese. Poi sentì la sua voce, e
si
appiattì lungo il bordo del tetto per spiare in strada.
Sai
era davanti all’ingresso insieme a una ragazza. Da quella
distanza
Chiharu non riusciva a riconoscerla né a capire cosa
dicessero, ma
vide il cenno di Sai che la invitava a salire e sentì una
vampata di
rabbia indignata: quella stava per intromettersi nella sua
missione!
Per
fortuna la ragazza scoppiò a ridere e scosse la testa, e Sai
non
insisté - non lo faceva mai. Con un cenno si salutarono e il
Jonin
entrò nell’androne del palazzo.
Il
cuore di Chiharu aumentò i battiti. Ben prima che Sai
potesse aver
raggiunto l’appartamento lei si avvicinò alla
finestra della
cucina. Non appena lo vide comparire lungo il corridoio
batté contro
il vetro, e come l’ultima volta riconobbe la sua espressione
stupita.
«Le
porte ti sembrano così orribili?»
domandò lui aprendo la finestra.
«Preferisco
i tetti» rispose lei con un’occhiata eloquente alla
gente che
passava in strada. «Mi fai entrare?»
Sai
esitò, quindi si fece da parte. Chiharu saltò
dentro, e di punto in
bianco si rese conto che non aveva idea di cosa avrebbe fatto da
lì
in poi.
«Chi
era quella donna?» chiese prima che il silenzio diventasse
troppo
opprimente.
«Mi
controlli?» ribatté Sai chiudendo la finestra.
«Perché
no?» Chiharu sollevò il mento.
Lui
sorrise e la oltrepassò. «Posso offrirti qualcosa?
Tè?»
«Sì,
grazie» bofonchiò lei a disagio.
«Accomodati.»
Chiharu
si sedette rigidamente al tavolo. Si sentiva come una bambina di
sette anni che aspettava la merenda a casa di un amichetto. Sai non
fece nulla per rompere il silenzio, quindi lei si scervellò
disperatamente per trovare un argomento di conversazione.
«Tutti
senza missioni, eh?» esordì pateticamente.
Sai
ridacchiò piano, mentre posava il bollitore sul fuoco.
«Gli Hokage
sono impegnati» commentò brevemente.
«Biscotti?»
Ora
sì che sembrava proprio la merenda. «No
grazie.»
«Come
vuoi.»
Silenzio.
«Mi
spieghi come diavolo fai ad avere la coda di donne fuori dalla porta
se sei così noioso?» sbottò Chiharu
quasi subito.
Lui
la guardò. Sollevò un angolo della bocca. Lei
arrossì
furiosamente. «Sono noioso perché non sto cercando
di infilarti tra
le mie lenzuola» spiegò con semplicità,
appoggiandosi al bancone
della cucina e incrociando le braccia. «Se non sbaglio quello
era il
tuo
progetto.»
«Non
ho mai detto...» iniziò lei.
«No,
non lo hai detto» la interruppe lui. «Ma cosa pensi
che serva per
‘far perdere la testa’ a un uomo della mia
età?»
Chiharu
si morse l’interno della guancia. Non aveva mai approfondito
la
questione. I suoi piani erano infarciti di momenti eccitanti ma molto
nebulosi e di qualche casto bacio, tutto lì. In fondo non
aveva mai
neanche avuto un fidanzatino da preadolescenza.
«Sei
carina, sei maggiorenne, ma sei peggio di una neodiplomata,
Chiharu»
continuò Sai, implacabile. «Le ragazzine che
adesso escono
dall’Accademia sono molto più avanti di te in
questo campo. Tu sei
stata troppo impegnata a tenere il passo dei tuoi compagni di squadra
per perdere tempo a imparare l’arte del
corteggiamento.»
«Ehi,
io non devo ‘tenere il passo di Hitoshi e
Kotaro’!» scattò lei
sbattendo una mano sul tavolo.
Sai
rise. «Qualunque altra ragazza si sarebbe infuriata per il
paragone
con le neodiplomate.»
Chiharu
ammutolì. Ok, sapeva di essere un po’
più indietro delle sue
coetanee in campo sentimentale. Ma era stata malata, aveva dovuto
recuperare dopo l’incidente a casa di Naruto, poi
c’erano state
le missioni e la guerra, e un mucchio di altra roba che aveva la
precedenza... Non poteva perdere tempo a flirtare se doveva
sopravvivere.
«Valgo
molto di più di una qualunque di quelle imbecilli che si
diplomano
con il lucidalabbra» sbottò.
«Lo
so» rispose Sai. «Ma questo avrebbe senso se
volessi sfidarmi in
combattimento.»
«Potrei
tenerti testa.»
«So
anche questo. Sono vecchio per essere uno shinobi. Ma tu non vuoi
sfidarmi a combattere, tu vuoi sfidarmi su un campo di cui non sai
nulla - si vede lontano un miglio.»
«Sono
problemi miei, non tuoi.»
«Sono
anche problemi miei, se non ti rispedisco a casa ogni volta che bussi
alla finestra. Sarebbe anche divertente passare il tempo a flirtare,
ma tu non ti impegni, cambi discorso appena te ne offro
l’occasione.
Non è così che funziona il
corteggiamento.»
«Mi
dispiace di non essere una delle quarantenni che ti girano
intorno»
insinuò lei.
«Certe
quarantenni sono sorprendentemente giovanili senza vestiti.»
Chiharu
fece una smorfia. Quell’argomento la metteva a disagio.
Eppure era
certa che buona parte del fascino di una donna consistesse
nell’essere irraggiungibile, i libri di Jiraya lo dicevano
chiaramente - sì, li aveva letti. C’era qualcosa
che le sfuggiva?
«Le
quarantenni sono giovanili anche con la pelle cascante?»
borbottò
tra i denti.
Questa
volta Sai scoppiò a ridere platealmente. «Sono
certo che tu senza
vestiti sia molto gradevole, Chiharu... Ma quando arrivi alla mia
età
importa anche quello che fai mentre sei nuda, non solo come ti
presenti.»
Chiharu
scosse la testa. Il giovanotto si stava spingendo troppo in
là,
iniziava a sentire lo stomaco contrarsi per l’imbarazzo.
La
teiera sul fuoco fischiò leggermente e Sai si
voltò per prendere
due tazze.
«Mi
stai dicendo di lasciar perdere?» sbottò lei
stringendo le mani
l’una all’altra.
«Non
durerai molto in queste condizioni. Io sono annoiato e tu ti stai
conficcando le unghie nella pelle. Un corteggiamento dovrebbe essere
divertente, non ti pare?»
«E
la parte di tormentosa incertezza?»
«La
che?»
«Ah,
dimenticavo... Tu sei tipo da storie leggere.»
«Altrimenti
non sarei arrivato a quest’età senza una moglie e
un paio di
marmocchi.»
Chiharu
si rilassò e appoggiò la schiena alla sedia.
«Ma sì, versa quel
tè e tira fuori due biscotti» sospirò,
sentendo la tensione che
evaporava rapidamente.
L’idea
della femme
fatale non
funzionava, non ci era tagliata. Sai era troppo scaltro e lei troppo
ingenua, pensare di impegolarsi in quella cosa era stata una pessima
idea. Le serviva un piano alternativo. Per oggi poteva comunque
continuare a trattarlo male, la cosa dava le sue soddisfazioni... un
po’ misere, se confrontate con il bacio che era riuscita a
strappargli l’ultima volta, ma sempre meglio di niente.
«Ti
arrendi già?» Sai sedette, posando sul tavolo due
tazze di tè
fumante e un pacco di anonimi frollini.
«E’
stupido insistere quando non c’è
speranza» ribatté lei aprendo i
biscotti e tuffandone uno nel tè. «Sono sicura che
per consolarti
avrai una nutrita riserva di quarantenni ansiose di mostrarti le loro
giovanili performances.»
Sai
rise, appoggiando il viso su una mano. Restò a guardarla
mentre
sgranocchiava il suo biscotto con le labbra piene di briciole e
un’espressione di lieve disappunto; poi, del tutto
inaspettatamente, allungò una mano a sfiorarle il gomito.
Chiharu
si bloccò a metà del boccone.
«Così
va meglio» disse lui. «Ti si addice di
più questo atteggiamento.»
Lei
deglutì. «Strafogarsi di biscotti non ha mai
conquistato
nessuno...» borbottò sentendo le guance
arrossarsi. Era certa che
Sai avesse sentito il tuffo che aveva fatto il suo cuore. Si
affrettò
a pulirsi la bocca.
«Sono
abbastanza certo che invece sia una tecnica piuttosto
sfruttata»
ribatté Sai annuendo.
«Davvero?»
le sopracciglia di Chiharu raggiunsero l’attaccatura dei
capelli.
Ok, non aveva proprio capito niente del corteggiamento: avrebbe
tirato in testa a Jiraya i libri che le aveva regalato.
Sai
ritirò la mano e prese la propria tazza di tè.
«Un po’ sono
curioso di vedere cosa potresti inventarti.»
Chiharu
lo studiò per un lungo istante, quindi pulì le
mani dalle briciole
e sollevò la tazza con entrambe, i gomiti saldamente
appoggiati al
tavolo. «Hai detto che ti annoio»
replicò cercando di controllare
il lieve tremito. «E io ho poca pazienza.
Perciò...» si strinse
nelle spalle. «Pensavo mi avresti cacciato fuori di casa due
minuti
fa.»
«Due
minuti fa hai iniziato a diventare interessante.»
«Perché
ho lasciato perdere?»
«Per
i biscotti.»
Chiharu
ci rinunciò. Sorseggiò il suo tè,
purtroppo bollente, lo posò sul
tavolo e si alzò. «Mi dispiace non poter restare
più a lungo, ma
ho lasciato a metà un libro interessante. Come hai detto tu,
passo
la maggior parte del mio tempo a studiare»
annunciò in un tono che
voleva essere leggero e tronfio, ma che non riusciva a nascondere
completamente le note di esasperazione.
«Mi
hai fatto preparare il tè per niente?»
ribatté Sai.
«Tanto
non era un granché.»
Chiharu
fece svolazzare la coda mentre si voltava verso la finestra.
Nonostante tutto si sentiva piuttosto brava e molto seducente, anche
più in gamba di quando aveva lasciato Yoshi, poco prima.
L’uscita
di scena se non altro funzionava. Quindi doveva semplicemente essere
sgradevole e menefreghista per attirare l’altro sesso? Se
avesse
saputo che quello era stato l’atteggiamento di Shikamaru che
aveva
conquistato Temari sarebbe rimasta stupefatta.
Si
tese per aprire la finestra, ma la mano di Sai fu più
veloce,
frusciando accanto al suo braccio. Chiharu si accorse che si era
spostato alle sue spalle, così vicino che poteva sentire il
calore
del suo corpo, e senza volerlo inspirò bruscamente.
«Le
buone maniere» mormorò Sai, pericolosamente vicino
al suo orecchio.
Posò una mano sul suo fianco e la tirò
leggermente indietro, per
aprire la finestra senza urtarla. Chiharu avvertì il suo
fiato sul
collo e cercò disperatamente di soffocare un brivido.
«Grazie»
replicò con voce di cornacchia, ma la mano di Sai sul suo
fianco non
si spostava. Oh, sicuramente ora il suo cuore era udibile a orecchio
nudo.
«Figurati»
Sai scostò la mano delicatamente, e si arrotolò
una ciocca della
coda di Chiharu attorno al dito. «Mi sembri un po’
tesa.»
Lei
fece una risatina. «Beh...» farfugliò
indecisa.
«Vedi,
bambina...» mormorò lui risalendo con la mano a
sfiorarle la nuca.
«Ciò che ti sconvolge tanto per me è un
gioco. Mi fa sorridere, ma
non mi eccita. Dovrai impegnarti più di così se
vuoi ottenere
qualcosa da me. E, prima di tutto, dovrai almeno imparare a
sopportare questo» concluse allontanando la mano.
Chiharu
deglutì rabbrividendo. Annuì, poi
corrugò la fronte indispettita.
Fino a un attimo prima stava andando tutto così bene! Si
forzò a
prendere un respiro profondo e lanciò un’occhiata
a Sai da sopra
la spalla.
«Farò
i compiti, promesso» assicurò in tono polemico.
«Troverò qualcuno
per fare pratica e poi verrò a insegnarti qualcosa che le
tue
creative quarantenni non sanno.»
«Auguri!»
rise Sai. «Questa sì che sarà
un’impresa!»
Chiharu si ripiegò su se stessa, quasi
schiacciata
dall’imbarazzo riesumato dal ricordo. Yoshi la
osservò con curioso
interesse, ma lei si affrettò ad assicurare che aveva solo
dovuto
litigare con sua madre per una cena di famiglia a cui non voleva
partecipare.
In quale guaio si era cacciata, il giorno del suo
compleanno?
Nota:
so che in Giappone la maggiore età non si raggiunge a 18
anni, ma se
a Konoha li mandano in guerra a 16 non vedo che problemi ci siano!
* * *
Non è
pedofilia,
se lei è
maggiorenne e consenziente.
(Operazione paraculo:
mode on.)
|
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Capitolo 7 *** Donne che odiano gli uomini ***
Penne 07
Capitolo
settimo
Donne
che odiano gli uomini
Tornando
a casa, quel giorno, Chiharu si trovò a camminare nel
momento in cui
i lampioni si accendono e il cielo si tinge di indaco, diffondendo
una luce che sembra più un’ombra viola. Conosceva
quei brevi
minuti, erano i migliori per un’imboscata: disegnavano
contorni
incerti e spigoli sfumati, rendevano il paesaggio indistinto e
impedivano agli occhi di abituarsi all’oscurità.
Passando
per le strade di Konoha sapeva di non aver nulla da temere. Ma
l’abitudine a tenere i sensi all’erta era
così radicata nella
sua mente da farle avvertire anche il più piccolo rumore, e
l’esperienza le fece intuire di chi era il passo leggero che
le
veniva incontro.
Nei
pressi di un lampione che ronzava sommessamente incrociò
Akeru,
scuro in volto, che vedendola assottigliò gli occhi e le
lanciò uno
sguardo malevolo.
«Missione
andata male?» chiese Chiharu, con un velo di ironia, e subito
si
pentì di non averlo ignorato.
Emicrania,
avrebbe voluto rispondere Akeru. Causata dal gigantesco complesso di
inferiorità che lo abbatteva da quando aveva dodici anni,
per la
precisione, complesso che prevedeva lei in una posizione decisamente
privilegiata.
«Che
vuoi?» sibilò; ogni volta che la vedeva era felice
e irritato al
contempo.
«Ringraziarti
per la pomata della settimana scorsa» rispose lei
tralasciando i
giochetti. «Non sono più riuscita a vederti, da
allora.»
Le
arterie attorno alla testa di Akeru smisero bruscamente di pulsare e
il sangue si dirottò alle guance, dissipando rabbia e
malumore.
«Oh»
riuscì a dire, con un gradevole tepore a livello dello
stomaco.
«L’ho fatta io.»
«Commento
arguto» mormorò lei sarcastica.
«Potresti
anche mostrarti più grata.»
«Ti
sto facendo pubblicità: oggi l’ho data a Hitoshi.»
«Tu
cosa?»
«Non
era progettata solo per il mio corredo genetico, vero?»
Akeru
strinse i pugni, e di nuovo sentì l’irritazione
montare. «Certe
volte mi chiedo quale cromosoma sia storto in te!»
ringhiò.
«Nessuno,
o non sarei qui a parlarne» replicò lei scrollando
le spalle, e si
mosse per andarsene. «Ma se i ringraziamenti ti fanno schifo
eviterò
accuratamente di farne altri, in futuro. Ora scusa, ma devo andare a
riposare.»
«Dove
andate?» la interruppe lui, e lei smise di camminare per
alzare
appena la testa.
«Chi?»
«Tu
e il tuo gruppo. Quando te la tiri perché devi riposare
è perché
avete una missione.»
«Quale
missione?»
Lui
digrignò i denti. «Chiharu
Nara...»
Lei
sbuffò e si diede dell’imbecille per aver parlato
troppo. Quando
passava un po’ di tempo con Yoshi tendeva a fare un sacco di
sviste
da arrogante megalomane. «E’ una missione di cui tu
non devi
sapere nulla» tagliò corto. «Almeno per
ora» aggiunse dopo un
istante, ricordando che Akeru era pur sempre un Anbu.
Ma
lui non lasciò cadere il discorso. «E’
una cosa grossa?»
«L’ultima
volta che ti sei mostrato tanto interessato a una mia missione,
è
finita che ti trascinavo per un braccio nel giardino degli Uzumaki e
piagnucolavi che non volevi averci niente a che fare. Vogliamo
replicare?»
«Ormai
ho le mie missioni importanti, non ho bisogno di elemosinarle da
te»
disse Akeru, risentito. «Ero solo...» si interruppe
all’improvviso.
Chiharu
lo fissò, inclinando leggermente la testa. Le
tornò in mente la
sensazione del fiato di Sai sul collo, e suo malgrado ne
imitò il
tono di voce. «Preoccupato?» suggerì. Le
sue labbra si curvarono
impercettibilmente.
Lui
tornò a guardarla; questa volta la sua espressione era
offesa ma
anche amara nelle pieghe attorno alla bocca. «Chi mai
potrebbe
essere tanto idiota da preoccuparsi per l’invincibile
Chiharu Nara?» chiese con una nota di scherno.
«Forse solo l’unico
imbecille che se l’è vista cadere addosso, tanti
anni fa,
insanguinata e quasi in coma.»
«Così
sì che mi incoraggi.»
«Mi
dispiace, ma io me lo sogno ancora, la notte»
proseguì lui. «E per
quanto...» deglutì. «Per quanto a te
possa non fregare niente, io
ricordo che non
sei invincibile. Che il più delle volte esageri apposta,
solo per
dimostrare a tutti quanto sei brava e forte... E ricordo che cinque
anni fa Sakura Uchiha disse che il tuo cuore non sarebbe più
stato
quello di prima. Ma forse tu
non te lo ricordi.»
«So
benissimo come sto e come non sto» troncò Chiharu,
portando
istintivamente una mano al petto. «Non ho bisogno che
l’ultimo
medico novellino venga a farmi la cartella clinica.»
«Non
è sempre una guerra!» sbottò Akeru
alzando la voce. «Non è che
tutto ciò che dico lo dico per ferirti o per intaccare il
tuo
orgoglio!» si rese conto che le sue guance si stavano
scaldando, ma
allo stesso tempo capì che ormai era lanciato e non sarebbe
riuscito
a fermarsi. «Prendi sempre tutto come un’offesa
personale! E’
così inconcepibile che esista qualcuno che si preoccupa per
te? Il
fatto che ora quel qualcuno sia io è tanto sconcertante?
Perché non
sei mia figlia? O mia sorella, o mia cugina? Cazzo, Chiharu! Tira
giù
quel maledetto muro e, per una volta, una sola volta, prova a pensare
che gli altri siano in buona fede!»
Chiharu
si accorse di essersi irrigidita involontariamente. Non era sempre in
guerra. Si teneva moderatamente all’erta, ecco tutto. Itachi
Uchiha
- il vecchio Itachi, naturalmente - insegnava che il tradimento era
dietro l’angolo, e lei voleva soltanto essere pronta, nel
caso...
nel caso qualcuno avesse deciso di ingannarla. Il padre di Hitoshi
era la dimostrazione vivente della necessità di tenere gli
occhi
aperti, e Chiharu voleva essere pronta in ogni momento. Ogni buon
ninja voleva essere pronto.
Ma
le sembrava che qualcosa stonasse, nel suo ragionamento. Di fronte
alla veemenza dello Stupido sempliciotto, che fino a quel momento non
aveva dimostrato nessuna dote per l’inganno, quella che aveva
sempre considerato un’attitudine ragionevole e positiva
diventava
all’improvviso un’ossessione da paranoia.
Non
era sempre in lotta con tutti... Era all’erta.
Ma
era all’erta davanti a una foresta buia o era
all’erta davanti a
un pulcino, questa volta?
Che
domanda idiota,
si trovò
a pensare stizzita. E mentre pensava si lasciò sfuggire una
frase
che, con un minimo di attenzione in più, avrebbe
riconosciuto come
la più stupida che potesse tirare fuori.
«Ma
a te che importa?»
Sentì
la stretta di Akeru sul polso prima ancora di capire cosa aveva
appena detto, e il calore della sua mano le ricordò quello
di
Hitoshi qualche ora prima.
«Non
lo capisci?» esclamò Stupido, arrabbiato, e
turbato, e confuso lui
per primo.
Chiharu
alzò la testa allarmata. Certo che capiva. Aveva sempre
capito. Ma
non prevedeva di metterlo in condizioni di dirlo,
realizzò con uno spiacevole senso di soffocamento.
«Smettila»
sibilò con uno strattone, ma lui non la lasciò
andare. L’aveva
osservata così a lungo che sapeva quando lei intuiva
qualcosa, e ora
sapeva che ciò che stava per dire non l’avrebbe
affatto sorpresa;
tanto valeva aprire la bocca, dunque.
«Lo
so che sei una testa di cazzo» continuò tra i
denti, abbassando la
voce; sentì il cuore battere ferocemente dietro lo sterno.
«E so
anche che pensi io sia ancora peggio di una testa di cazzo,
l’ultimo
deficiente. Ti diverti a prendermi in giro, lasci che ti ronzi
intorno e tendi la tua stupida carota, e io, ancora più
stupido, sto
pure al gioco e la seguo. Ma la carota prima o poi marcisce, e
l’asino si stufa. Io
mi stufo! Quindi, se non volevi ascoltare quello che sapevi
che ti avrei detto, dovevi smetterla di prendermi per idiota.
Perché
per me sei importante più di qualunque altra kunoichi... di
qualunque altra ragazza...»
si interruppe per deglutire, e le sue dita affondarono nel braccio di
Chiharu fin quasi a farle male. «E tu lo sai, sei troppo
intelligente per non saperlo, e nonostante ciò mi tendi
quella
carota e ti diverti a portarmi al guinzaglio!»
alzò gli occhi, e
ora che il cielo era nero e il lampione era l’unica luce,
sembravano gli occhi di un pazzo, o di un sognatore.
«Perciò...
adesso, è arrivato il momento che tu decida. Se vuoi
continuare
questo stupido gioco devi dirmi che anche io valgo qualcosa, che sono
importante almeno un po’! Oppure devi abituarti
all’idea che non
ti ronzerò più attorno!»
Quando
Akeru concluse, la prima cosa che fece fu darsi
dell’imbecille.
Mai dare ultimatum a Chiharu Nara.
La
luce della lampadina era stemperata dalla carta di riso, che la
rendeva morbida e opaca, quasi granulosa. Le ombre si disegnavano
sulle pareti della stanza seguendo i motivi del paralume, una
fantasia che a Konoha non esisteva ma che era tipica di Suna. Quando
le sagome dei corpi si sovrapponevano alle ombre assumevano forme
grottesche.
Shikamaru
sfilò la maglia e riuscì a incastrarsi nel
codino, le braccia
alzate e bloccate in una posizione scomoda.
«Che
seccatura» bofonchiò. Temari si voltò e
gli gettò un’occhiata
di sufficienza, sospirando mentre sistemava le pieghe della camicia
da notte.
«Vieni
qui» disse avvicinandosi. Lo aiutò a liberarsi con
una mossa
precisa e ormai abituale. «Quante volte ti ho detto di
sciogliere
questo maledetto codino prima
di svestirti?»
«Decisamente
troppe» si lamentò lui, gettando la maglia su una
sedia e
tendendosi a prendere il pigiama sotto il cuscino. Temari si sporse
e, mentre Shikamaru aveva le mani impegnate, con uno strattone brusco
gli sfilò l’elastico.
«Ahia»
gemette lui, mentre i capelli si piegavano lentamente, restii a
perdere la forma che ormai avevano assimilato. «Di questo
passo
diventerò calvo entro dieci anni.»
«Questo
è il succo del nostro rapporto» sbuffò
lei, gettando l’elastico
sul comodino e tornando dall’altra parte del letto.
«Tu che
piagnucoli, io che ti faccio del male. Ci siamo proprio evoluti da
quando avevamo diciotto anni, eh?»
«Che
seccatura che sei» rognò lui, rinunciando ad
allacciare l’enorme
numero di bottoni sulla camicia del pigiama e tirando indietro le
coperte.
«Visto?
Esattamente come allora!» esclamò lei a
metà tra il trionfo e
l’amarezza.
«Temari,
per favore, sono stanco» gemette Shikamaru, lasciandosi
cadere sul
materasso a peso morto. «Ho passato tutto il giorno a
riparare le
falle del piano per Suna, e Naruto non ha fatto altro che
intralciarci per tutto il tempo! Vorresti farmi la grazia di non
infierire, almeno oggi?»
Temari
mise il broncio infilandosi sotto il suo lato di coperte.
«Non ti
preoccupare, eh» bofonchiò risentita.
«In fondo hai solo deciso di
spedire tua moglie in territorio nemico, con la certezza
che non la rivedrai per almeno due settimane e il rischio
che le due settimane diventino eterne. Che vuoi che sia? Meriti il
tuo riposo.»
Shikamaru
si coprì gli occhi con un braccio, soffocando un gemito.
L'orgoglio
di Temari per la sua recente promozione era evaporato alla
velocità
della luce quando lui le aveva comunicato che come prima cosa avrebbe
spedito a Suna lei e Chiharu. Temari l'aveva preso come un deliberato
tentativo di liberarsi di lei, e da allora gliela stava facendo
scontare.
Spensero
la luce. Le lenzuola frusciarono quando Temari si mosse nervosa, poi
tornò il silenzio. Shikamaru inspirò a fondo. Lei
si mosse di nuovo
e la luce si riaccese.
«Sei
davvero
così stanco?» sbottò, sollevandosi sui
gomiti e fissandolo
rabbiosa. «No, dico, la prospettiva è che per due
settimane non
sarò in questo letto, e tu pensi a dormire?»
Francamente
ciò che Shikamaru pensava era che per due settimane avrebbe
potuto
stravaccarsi in diagonale, ma si guardò bene dal dirlo.
«Non
parti nemmeno domani» sospirò invece, sforzandosi
di scollare il
braccio dagli occhi e guardarla nella maniera più pietosa e
convincente.
«Appunto»
sibilò lei. «Quindi non devo alzarmi
all’alba.»
«Tutto
questo mi ricorda i tempi in cui mi violentavi nei più
squallidi
motel di Konoha.»
«Erano
squallidi perché non avevi mai un soldo. Ora abbiamo un
letto tutto
nostro, e finalmente Chiharu è uscita
dall’adolescenza e ha smesso
di mandarmi gli ormoni a mille per la rabbia.»
«Ho
già accennato al fatto che oggi ho lavorato come un
mulo?»
«Shikamaru
Nara! Una donna
frustrata può essere peggio dell’intero Consiglio
riunito!»
Shikamaru
chiuse gli occhi e fece una smorfia disperata. «Ti prego,
Temari,
abbi un po’ di pietà...»
Ma
non aveva ancora finito di parlare che sentì il minaccioso
suono
delle coperte che venivano gettate indietro, e poi
l’altrettanto
minaccioso peso di Temari sull’addome.
«Dei.
Se questa è la pietà che hai per tuo marito, sono
contentissimo di
non essere tuo nemico» gemette lui, trovandosela carponi sul
petto.
«Chiudi
quella bocca se non vuoi sprecare energie» sbottò
lei. «E sappi
che sono molto arrabbiata con te.»
«Ah
sì?» sospirò Shikamaru, cercando
inutilmente un colpo di genio che
lo liberasse da quella situazione. Ma non trovò nulla. E
quando
Temari si piegò sul suo collo e gli sfiorò
l’orecchio con il
naso, metà del suo corpo gli gridò che era un
demente e voleva
dormire, l’altra metà che era un uomo e voleva...
beh, di sicuro
non
dormire.
A
giudicare dal sorriso impertinente che fece Temari quando una sua
gamba scivolò tra quelle di lui, aveva vinto la
metà poco
assonnata.
---
Jiraya
si grattò il mento con la parte posteriore della penna,
pensieroso.
Assottigliò gli occhi, scribacchiò qualcosa in
fretta e furia e poi
lo rilesse con aria critica.
«Okay.
Può funzionare» decretò alla fine.
«Ci
credo che funziona. E’ testato» grugnì
la voce risentita di
Akeru, poco più giù.
Lui
e il vecchio Sannin erano di nuovo nella radura in cui erano soliti
incontrarsi, ma quel giorno nel cielo non passavano nuvole e il sole
si abbatteva su di loro senza filtro. Jiraya era seduto sulla sua
roccia, come sempre, ma Akeru era steso al centro del prato con
braccia e gambe aperte e una faccia a dir poco truce.
«Allora,
riepilogando» mormorò Jiraya, sfogliando un paio
di pagine
indietro. «Miko e Jukon restano chiusi nella ghiacciaia
dell’albergo
e, convinti di morire, si danno alle confessioni. Così si
scopre che
Jukon conosceva Miko ai tempi della scuola, che l’aveva
sempre
amata e aveva invidiato a morte il fratello Jumon, con cui lei
usciva... E poi cerca di concretizzare gli istinti che ha represso
per tanto tempo.»
«No.
Vuole solo farle sapere cosa prova, non era così?»
«Oh
beh, ho apportato un paio di modifiche... Siamo già al terzo
capitolo, ricordi?»
Akeru
scattò a sedere indignato. «Non ho messo le mani
addosso a
nessuno!»
«A
meno che non ti chiami Jukon e non sia in una ghiacciaia convinto di
morire, no, credo che tu non l’abbia ancora fatto»
gli concesse
Jiraya. «Forse hai qualche problema di
immedesimazione.»
Akeru
si lasciò cadere di nuovo sull’erba e
incrociò le braccia. «No»
disse mortificato. «Non ho nessun problema.»
Quand’era
venuto lì, quel giorno, non pensava seriamente che avrebbe
aiutato
Jiraya con il suo libro. L’unica ragione per cui non si era
barricato in casa a costruire una bambolina vudù era che
pensava che
il grande eremita autore della serie della Pomiciata
fosse il più adatto a dare consigli, vista la sua nuova
situazione.
Naturalmente
si sbagliava. Perché non appena aveva raccontato a Jiraya
della sua
orribile e patetica figura ormai risalente alla sera prima, lui si
era illuminato e aveva esclamato: ecco
l’idea che cercavo! A
quanto pareva la sentiva frullare in testa da mesi senza riuscire a
tradurla per iscritto; e le spese doveva farle Akeru, che si era
visto vivisezionato dalla penna del Sannin e trasformato in un
maniaco paranoico con problemi ossessivo-compulsivi.
Cercavo
solo comprensione!, si lamentò mentalmente; e, da
bravo maniaco
paranoico ossessivo-compulsivo, si accinse a ripercorrere mentalmente
per la seicentesima volta i minuti più imbarazzanti della
sua intera
esistenza.
«...Se
vuoi continuare questo stupido gioco devi dirmi che anche io valgo
qualcosa, che sono importante almeno un po’! Oppure devi
abituarti
all’idea che non ti ronzerò più
attorno.»
Un
lungo, orribile istante di silenzio.
Akeru
capì che non significava niente di buono ancor prima di
rendersi
conto che Chiharu non sembrava stupita, smarrita, o, per assurdo,
imbarazzata. Sembrava, come dire, traboccante di gelido disprezzo;
sì, era un vocabolo adatto.
Non
cercò nemmeno più di liberare il polso dalla sua
stretta e, quando
parlò, ogni parola fu come una sottile lama di ghiaccio
nell’orgoglio di Akeru.
«Non
ci credo, non pensavo l’avresti detto davvero»
quasi sputò. «Mi
ero stupidamente illusa che, in quanto essere umano, dovessi avere
della materia grigia dentro la scatola cranica. Esattamente, cosa
cercavi di ottenere con questo lungo e stupidissimo discorso? Volevi
smuovere la mia coscienza, il mio supposto affetto per te, o,
addirittura, il mio cuore?
Pensavi che se ho passato gli ultimi cinque anni a lasciarti
‘ronzare’, come dici tu, sbattermelo in faccia
cambi qualcosa?
Potevi almeno salvare la faccia stando zitto!»
Akeru
si trovò a bocca spalancata, e si affrettò a
richiuderla avvampando
bruscamente. Lasciò di scatto il braccio di Chiharu e stese
i pugni
contro i fianchi, con la curiosa sensazione di avere un palloncino
troppo gonfio che premeva contro le pareti interne del cranio.
«Tu...
Tu come... No, dico... E’... E’
assolutamente...» balbettò, la
mente offuscata dall’indignazione, l’umiliazione e
l’imbarazzo.
«Tu non sei normale!» esplose alla fine, fissandola
sconvolto.
«Forse non sarò il miglior oratore del mondo,
ma... ma ti ho messo
in mano il mio cuore! Ti ho praticamente supplicato di dirmi che non
sono uno zerbino, e tu mi hai detto esattamente che sono un fottuto
zerbino! Cosa diavolo c’è che non va in
te?»
Chiharu
si irrigidì sollevando il mento. «Il problema
è cosa non va in te»
puntualizzò. «Sono cinque anni che mi giri
attorno, e lo sai tu, lo
so io, e sai che io lo so. E se fino ad oggi non ho mai fatto nulla
per incoraggiarti vorrà ben dire che una dichiarazione
è la cosa
più stupida che possa venirti in mente, no? Hai creato
dell’inutile
imbarazzo a te stesso e a...»
«No!
Tu hai fatto qualcosa per incoraggiarmi! Tu non mi hai mai
allontanato, tu restavi a guardare i miei tentativi di attirare
l’attenzione! Quando ho deciso di diventare un ninja medico
sono
venuto a dirlo a te! E tu lo sapevi, lo sapevi perfettamente che lo
facevo perché cinque anni fa mi sei piombata addosso mezza
morta! Lo
sapevi che lo facevo per causa tua, e anche se non hai neanche alzato
lo sguardo da quello che stavi leggendo, non mi hai nemmeno detto
‘lascia perdere, non rovinarti la vita, non ho intenzione di
morire
a breve’. Mi hai lasciato fare, perché...
perché... Oh, non lo so
nemmeno io perché!»
«Perché
sono fatti tuoi quel che decidi di fare con la tua vita!»
«Oh,
bene, bello! Quindi è questa la misura in cui ti importa di
me?
Tutto ciò è davvero confortante!»
«Non
ti ho detto io di preoccuparti di quel che pensavo. Non ti ho mai
detto di fare niente.»
«Non
a voce, Chiharu. Ma me lo hai detto in mille altri maledetti
modi!»
Frustrato,
Akeru si passò una mano tra i capelli, con la forte voglia
di
piantare un pugno contro il muro più vicino, o, magari,
nella faccia
di Chiharu. «Perché?» chiese,
scoccandole un’occhiata
sconcertata. «Perché, se riesci a demolirmi pezzo
dopo pezzo ora,
mi hai tollerato fino a dieci minuti fa? Non potevi semplicemente
allontanarmi prima? Sarebbe bastata mezza parola di tutte le
centoventi che mi hai detto adesso, soltanto mezza! Cinque anni fa mi
sarei offeso e ti avrei lasciata in pace, e ora non saremmo qui a
fare questa conversazione!»
«Non
saremmo qui a farla se tu avessi un cervello»
sbuffò lei,
incrociando le braccia. «Sai cosa? Nonostante il tuo supposto
amore
mi stai semplicemente scaricando addosso le colpe, dalla prima
all’ultima. Molto altruista. Anzi, no, molto
Stupido.»
Akeru
digrignò i denti. «Amore? Di che amore
parli?» replicò tagliente.
«Al momento per te provo qualcosa di molto diverso
dall’amore. Al
momento ho una gran voglia di prenderti a pugni. E se mi trattengo
è
solo perché... perché...»
Non
poteva buttarla sul suo cuore malandato, perché
così l’avrebbe
spinta a dimostrarle che funzionava perfettamente. Altre motivazioni
non gli venivano.
«Oh,
al diavolo!» esclamò, e la sua pressione sanguigna
schizzò alle
stelle. «Sei la cosa peggiore che mi sia mai capitata!
Rimpiango il
giorno in cui ho salvato la tua cazzo di vita!»
Chiharu
non si lasciò impressionare. «Lieta di
saperlo.»
E
a quel punto lui, semplicemente, se ne andò.
Come
si può parlare con una persona mentre quella si mette un
tovagliolo
intorno al collo e viviseziona il tuo cuore per mangiarselo?
Poi,
ciliegina sulla torta, Jiraya aveva avuto la brillante idea di
trasporre la sua edificante esperienza in versione cartacea.
Splendido. Un balsamo per il suo ego maciullato.
Steso
sul prato a braccia conserte, si trovò a fissare il sole
finché non
iniziarono a lacrimargli gli occhi. Arrivato a quel punto si
tirò a
sedere.
«Me
ne vado» annunciò cupo. «Così
magari quello sfigato di Jukon
diventa un po’ meno sfigato, senza attingere alle mie
esperienze
personali»
«Quanto
la fai lunga» sbuffò Jiraya. «Hai
diciotto anni, le donne vanno e
vengono, e Chiharu è sempre stata un po’
problematica. La prima
volta che mi ha visto ha alternato ‘sei il mio
eroe’ a ‘i tuoi
libri fanno schifo’! E anche quando li ha letti davvero non
ha
saputo vedere l’ampiezza di respiro delle trame, lo stile
sobrio ma
elegante, il romanticismo intrinseco... Ehi, grazie per
l’attenzione!» gridò, quando si accorse
che Akeru si stava già
allontanando.
Sospirò,
grattandosi il mento ruvido di barba, poi fissò la pagina in
cui
Miko si lasciava convincere dalle argomentazioni
di Jukon, o, per dirla con parole sue, si
davano le prime soddisfazioni al lettore.
Leggendo
della sua eroina dai liberi costumi Jiraya provò un
po’ di pena
per tutti i ragazzi che come Stupido si facevano fregare dalla
frigida di turno. Si chiese se Tsunade avesse mai avuto un
comportamento simile. No, rifletté. Tsunade era umana, aveva
le sue
debolezze. Tsunade arrossiva, Tsunade si preoccupava, Tsunade lo
aveva amato, e l’unica ragione per cui aveva sempre rifiutato
di
sposarlo era che non vedeva l’utilità di perder
tempo e denaro in
una cerimonia puramente formale. Credeva nelle persone, Tsunade, non
nelle istituzioni.
Chiharu,
invece, credeva solo in sé stessa. E in quello era molto
più simile
a Orochimaru che a Tsunade.
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Capitolo 8 *** L'equilibrio in bilico ***
Penne 08
Capitolo
ottavo
L'equilibrio
in bilico
Tutte
le famiglie felici si assomigliano fra loro,
ogni
famiglia infelice è infelice a modo suo.
Lev
Tolstoj,
«Anna
Karenina»
Nonostante
fossero uno dei gruppi di punta di Konoha, i ragazzi del gruppo sette
non erano stati convocati spesso nell’ufficio
dell’Hokage. Fermi
davanti a una scrivania decisamente sovraffollata, però, non
sembravano particolarmente intimoriti
dall’ufficialità della
situazione, quanto piuttosto distratti.
L’unico
che non fissava fuori dalla finestra era Kotaro, il quale tuttavia
era impegnato ignorare il litigio che si svolgeva davanti ai suoi
occhi e non sapeva bene dove guardare.
«No,
credo che dovrei essere io
a parlare» disse Naruto tra i denti, fissando con astio
Shikamaru e
Sakura. «In fondo sono io
il sostituto ufficiale; voi
mi assistete, se ben ricordo.»
«Ma
tu
non hai capito niente dei dettagli del piano!»
replicò Sakura
esasperata. «Naruto, porca miseria, lo sappiamo che
ufficialmente
sei l’Hokage, nessuno vuole usurparti il posto! Siamo qui per
aiutarti!»
Chiharu
sbadigliò, pensando che avrebbe potuto dormire dieci minuti
in più.
Hitoshi, al centro del trio, fissò vacuo la vetrata oltre i
litiganti, cercando di ricordare a memoria la pagina trentadue del
manuale segreto degli Uchiha sullo sharingan. Aveva voglia di una
sigaretta.
«Non
è vero che non ho capito niente del piano!» si
indignò Naruto. «Se
Kakashi mi ha scelto è perché era convinto che
avessi le capacità!
E comunque me la sono sempre cavata, senza bisogno che... Oh, al
diavolo! Hitoshi, Chiharu, Kotaro! Dovete andare a Suna.»
Shikamaru
e Sakura trasalirono. «Naruto! Quanti anni pensi di
avere?»
Oltre
la scrivania Chiharu si grattò distrattamente un orecchio.
«Okay»
rispose laconica. Hitoshi si riscosse dai suoi pensieri e
tornò
faticosamente alla realtà. Si limitò ad annuire.
Kotaro,
finalmente, si degnò di mostrare una parvenza di reazione
dinamica.
«E’ una collaborazione?» chiese serio.
«Non
esattamente» rispose Naruto corrugando la fronte.
«Cioè sì, in
parte... Come dire, qualcuno lo sa e qualcuno no, ecco.»
«Naruto...»
mormorò Shikamaru.
«Nel
senso» insisté lui, sentendo il sangue che
iniziava ad accumularsi
sulle guance. «E’
una missione in collaborazione, ma l’obiettivo è
all’interno di
Suna... E quindi è anche non
in collaborazione...»
«Naruto!»
sbottò Sakura, sbattendo una mano sulla scrivania.
«Piantala di
arrampicarti sui vetri e lascia parlare Shikamaru!»
Naruto
le scoccò un’occhiata mortalmente offesa, ma si
rese conto che
insistere avrebbe solo peggiorato la situazione. Si fece indietro,
borbottando tra sé, e finalmente Shikamaru poté
parlare, con un
sospiro molto più che profondo, dando inizio alla
spiegazione vera e
propria.
«Vogliamo
che andiate a Suna con Rock Lee, mia moglie e Gai Maito»
annunciò,
e questa volta nessuno dei tre shinobi che gli stavano davanti
riuscì
a contenere la sorpresa. «Ufficialmente sarete là
per aiutare a
riparare i danni dell’ultima tempesta di sabbia, come
delegazione
amichevole e volenterosa, ma in realtà avrete una missione
segreta
da portare a termine. Non abbiamo deciso di mandare voi
perché siete
giovani e sembrate innocui, ma perché, sostanzialmente,
Chiharu è
la nipote di Gaara e Temari sua sorella.»
Chiharu
inarcò un sopracciglio e Kotaro e Hitoshi la fissarono con
una punta
di invidia. Anche loro volevano una parentela illustre.
«Riunione
di famiglia?» ipotizzò lei.
«Magari»
commentò Shikamaru. «Gaara sarà il
vostro unico appiglio a Suna, è
il solo a conoscere la situazione e a potervi dare una mano. Non
siamo riusciti a trovare scusa migliore per stare soli con lui di
‘io
e la mia adorabile famigliola prendiamo un tè insieme’.
Anche perché la persona che dovrete assolutamente tenere
lontana è
la sua segretaria, Loria, e ci manca poco che lo segua anche in
bagno.»
«Tradimento?»
chiese Hitoshi, ansioso di rendersi utile e guadagnare punti.
«Non
proprio» rispose Sakura. «Diciamo piuttosto che
Loria non è Loria.
Sei anni fa, quando la guerra tra noi e l’alleanza del
nord-est era
appena agli inizi, la Roccia ha inviato spie a Konoha e a Suna. Qui
si è infiltrata dal basso, cercando di farsi notare il meno
possibile, ma per trattare con la Sabbia ha preferito procurarsi un
ostaggio e saltare direttamente alle alte sfere. Hanno scelto la
segretaria del Kazekage, se la sono portata via e l’hanno
sostituita con una kunoichi perfettamente addestrata a tenere a bada
Gaara. Più di metà delle carestie e tempeste che
negli anni hanno
impedito alla Sabbia di darci manforte nelle schermaglie è
pura
invenzione; la finta Loria scriveva i messaggi per conto di Gaara e
lui non poteva che chinare la testa e obbedire.»
«Perché?»
la interruppe Chiharu, corrugando la fronte. «Senza offesa,
ma la
segretaria di un Kage è importante solo finché ha
informazioni
fresche. E la ragion di stato ha sempre insegnato che la vita di un
uomo vale meno di quella di tutti gli altri.»
Shikamaru
e Sakura si scambiarono uno sguardo.
«Perché
Gaara la ama» rispose Naruto, prima che potessero farlo loro.
Si
sentiva in dovere di difendere le buone intenzioni del Kazekage.
«Non
sappiamo se l’hanno rapita per questa ragione o se
l’hanno
scoperto dopo, ma le cose stanno così. E Gaara non
accetterà mai di
sacrificarla, a costo di partire da solo e salvarla senza
l’aiuto
di nessuno. Cosa che, a quanto pare, non possiamo
permetterci...»
«Leva
quel ‘a quanto pare’, testa di rapa»
sospirò Shikamaru.
«Perdere il Kazekage sarebbe la cosa più terribile
che può
capitarci: ci troveremmo soli contro tutti, ci schiaccerebbero in
meno di un istante.»
«Devono
solo provarci...» borbottò Naruto.
«Comunque,
lasciando da parte le faccende private di Gaara,» intervenne
Sakura
con un discreto colpo di tosse. «ciò che dovrete
fare concretamente
è liberare Loria. In questi sei anni non ce ne siamo rimasti
con le
mani in mano: Gaara è riuscito a eludere la sorveglianza
della
Roccia e a scoprire dove la tengono, ma non può spostarsi
senza che
la spia venga immediatamente a saperlo. Andrete a Suna, Chiharu e
Temari troveranno il modo di ricevere le indicazioni di Gaara, e a
quel punto voi ragazzi entrerete in azione per recuperare Loria. Nel
frattempo Gai, Lee e Temari copriranno la vostra assenza con una
copia a testa. Ci sono domande?»
Hitoshi
si schiarì la voce. «Siamo proprio sicuri che dopo
sei anni sia
ancora viva?»
Sakura
guardò Naruto, che non rispose subito. Alla fine
sbuffò e appoggiò
i gomiti alla scrivania. «Per come lo conosco io, se
così non fosse
Gaara avrebbe già fatto a pezzi la spia nel suo
ufficio.»
I
ragazzi rabbrividirono involontariamente. Non avevano mai visto il
Kazekage di Suna all'opera, ma quando erano all'Accademia girava una
storia inquietante su un vecchio esame per Chunin. Chiharu aveva
provato a chiedere i dettagli a sua madre, una volta. Tragico errore:
lei aveva deviato il discorso sulla sconfitta inflittale da Shikamaru
nel corso del torneo e non era più stato possibile tornare
sull'argomento senza che lei si lamentasse che la promozione del
marito era stata una truffa.
«Quando
partiamo?» chiese per stemperare l'atmosfera.
«Avete
tre giorni per prepararvi» rispose Shikamaru. «E
gradirei che
obbediste ciecamente agli ordini del maestro Gai.»
«Sissignore!»
scattò Kotaro, gli occhi densi di orgoglio ed emozione.
«Ti
pareva» grugnì Hitoshi, e la sua mano
guizzò involontariamente
alla tasca delle sigarette, strategicamente invisibile agli occhi di
Sakura.
«Anche
mamma?» chiese Chiharu con l'ombra di un sorriso.
Le
spalle di Shikamaru si abbassarono, afflitte. Sakura lo
salvò
congedando i ragazzi, e loro lasciarono lo studio dell'Hokage per
andare a prepararsi.
«Siamo
a metà maggio» bofonchiò Chiharu quando
furono di nuovo all'aria
aperta. «Ci saranno come minimo quaranta gradi
all’ombra, a Suna.»
«Ringrazia
che non siamo a luglio, allora» ribatté
nervosamente Hitoshi,
ansioso di allontanarsi per accendersi una sigaretta.
«Non
oso immaginare la fatica lungo la strada...»
continuò lei, gemendo.
«Qualcuno mi ricorda perché sono qui?»
«Perché
Stupido ti ha fatta perdere le staffe all’esame per
Chunin»
rispose Hitoshi stringato. «Andiamo? Qui siamo troppo...
vicini.»
A tua
madre?,
stava per chiedere Chiharu con un ghigno, ma Kotaro la precedette.
«E'
la prima volta che facciamo una missione così seria senza
Naruto»
disse, a metà tra il rammarico e l'orgoglio.
«Adesso che è Hokage
probabilmente passerà sempre meno tempo con noi...»
Chiharu
e Hitoshi rimasero in silenzio. Cosa sarebbe successo al loro gruppo
senza la guida di Naruto? Kotaro sarebbe stato un collante
sufficiente oppure...?
«Beh,
era ora» sbottò l'Uchiha. «Gli altri
gruppi lavorano senza Maestro
da anni.»
«Ma
i loro maestri non sono al livello del nostro!»
ribatté Kotaro
seccamente.
Hitoshi
rise, e il compagno lo fulminò con lo sguardo.
«Sei davvero così
ottuso, Uchiha?»
«State
scherzando? Litigate per Naruto?»
intervenne Chiharu.
«Litighiamo perché qualcuno,
tra noi, ha ancora dodici
anni» replicò Kotaro.
«Già, e quel qualcuno non sono
io» sibilò Hitoshi.
Vorrei
essere io,
pensò Chiharu, che i
compagni diciottenni proprio non li capiva.
Kotaro
serrò i pugni, rimangiandosi la risposta. Sarebbe stato
così facile
– oh, troppo facile
– distruggere Hitoshi, ma non voleva. Aveva passato gli
ultimi
cinque anni a tenere insieme il gruppo, ingoiando rispostacce e
lusingando l'ego dei compagni di squadra; cedere adesso avrebbe reso
vano tutto il suo lavoro. Il suo arduo, sfibrante e doloroso
lavoro...
Ne
vale la pena?,
si chiese,
irritato, guardando Hitoshi.
Chiharu posò una mano sul suo braccio.
«Dobbiamo
andare a prepararci.»
Lui la fissò, esitante, ma alla fine
sorrise.
Sì.
«Hai ragione. Devo andare a comprare gli
snack per i
festini notturni!»
«Non era proprio quello che
intendevo...» borbottò
Chiharu, ma gli batté una pacca sulla spalla.
Kotaro li salutò, annunciando che
avrebbe chiesto a
Rock Lee di preparare un piano speciale di allenamento per il
viaggio, quindi sparì prima che Chiharu potesse lamentarsi.
«Tu
hai qualche impellente faccenda da sbrigare prima della
partenza?»
chiese Hitoshi fissandola.
Lei
pensò a Sai, e, per una minuscola frazione di secondo, anche
a
Stupido; tuttavia si limitò a scrollare le spalle.
«No, non credo.
Ma posso accumulare ore di sonno.»
«Eccola»
bofonchiò Hitoshi contrariato. Ogni attimo di
libertà Chiharu lo
sprecava a dormire, quando avrebbe potuto godere della sua preziosa
compagnia. E se solo avesse saputo quanto poteva essere apprezzabile,
beh, sicuramente non avrebbe parlato così.
«Allora
ci vediamo.»
Hitoshi
non fece in tempo ad alzare lo sguardo che la vide allontanarsi con
le mani in tasca e la testa già altrove.
«Cazzo»
imprecò, digrignando i denti. Sentì le prime
avvisaglie della
solita beffarda emicrania. «Non me ne va bene una che sia
una, eh.»
Tra
l’altro, tra gli Hokage che gli avevano affidato la tanto
pericolosa missione mancava solo suo padre; che non lo aveva visto,
rigido e fiero, mentre ascoltava come un uomo, un Uchiha, e non come
un ragazzino qualunque.
Deluso,
si mosse rapido in cerca di un angolo appartato dove accendere una
sigaretta.
Il
giorno in cui Kakashi aveva stabilito che Sasuke, Sakura e Shikamaru
avrebbero assistito Naruto nel suo compito, Sasuke era tornato a casa
e aveva parlato francamente alla moglie.
«Kakashi
ha nominato anche me solo per contenere Naruto nel caso in cui perda
la testa. Come capo della polizia e capoclan Uchiha sono già
fin
troppo impegnato, per di più la mia fedina penale
è tra le più
sporche di Konoha. Sappiamo bene che non c'entro niente con il ruolo
di Hokage: spero non vi offendiate se passerò molto poco
tempo con
voi.»
Controvoglia
era stato trascinato nella faccenda della missione di Kakashi e
controvoglia aveva perso un pomeriggio per presenziare alla riunione
straordinaria del Consiglio, ma all’infuori delle occasioni
ufficiali aveva detto ai suoi colleghi che avrebbero dovuto fare a
meno di lui, perché era un uomo impegnato e un padre di
famiglia e
un mucchio di altre cose che potevano essere sintetizzate in: non
voglio essere coinvolto negli altri casini che sicuramente
combinerete.
Per
questo in pieno orario lavorativo, mentre Sakura, Shikamaru e Naruto
cercavano di dare un senso alle pile di documenti lasciati da
Kakashi, Sasuke se l’era svignata anche dalla stazione di
polizia
ed era seduto alla sua scrivania di casa, cercando di capire come e
perché sua moglie avesse sborsato centomila ryo in una
boutique per
bambini.
Il
suo cervello rifiutava di accettare che un cappellino da baseball
costasse seimila ryo, anche dopo aver riletto la fattura quattro
volte. Ma forse era perché non riusciva a concentrarsi a
causa dei
rumori che venivano dal giardino. Si alzò e andò
a socchiudere la
porta che dava sul corridoio esterno. Ciò che vide fuori
furono
Fugaku, il suo secondogenito, e Mikoto, la prima figlia femmina, che
si allenavano: tra tecniche e scivoloni il giardino sembrava un campo
di battaglia; di tanto in tanto una fiammata strinava l’erba.
I
due ragazzini avevano rispettivamente tredici e dodici anni, ma
entrambi avevano già completato l’Accademia e
Fugaku sfoggiava con
orgoglio uno sharingan completo e perfetto. Mikoto, diplomatasi lo
scorso settembre, gli teneva testa a fatica e ancora non era in grado
di padroneggiare perfettamente i suoi occhi, per ora semplicemente
scarlatti.
Sasuke
rimase a studiarli ancora un po’, la spalla appoggiata
all’intelaiatura di legno della porta. Alla fine con un
piccolo
sorriso arretrò e la chiuse, tornando alla scrivania.
Fugaku,
Mikoto e Itachi, il suo orgoglio. Tutti e tre degni eredi del clan,
tutti e tre fieri portatori di sharingan, tutti e tre futura gloria
del casato. Ironicamente, tutti e tre portatori di un nome della
precedente generazione.
Alla
nascita di Itachi, cinque anni prima, Sasuke era stato inquieto.
Allora Hitoshi non aveva sviluppato lo sharingan, e quel bambino
calvo che apriva un solo occhio lo aveva preoccupato profondamente.
Dopo qualche giorno, però, Itachi – che allora non
aveva ancora un
nome – aveva rivelato cosa nascondesse sotto la palpebra
sinistra.
E alla vista di uno sharingan già completo Sasuke aveva
provato un
orgoglio sconfinato.
Questo
bambino sarà il vero e miglior erede. Il nuovo genio della
famiglia.
A
quel punto, nonostante le perplessità di Sakura, chiamarlo
Itachi
era sembrato inevitabile. Anche perché in quel periodo erano
comparsi Ryuichiro e Saifon, e lui era stato assalito dai ricordi.
Trovandosi
improvvisamente in quel pensiero Sasuke si incupì. Quasi
distrattamente socchiuse gli occhi e portò una mano a
sfiorare il
segno maledetto che ancora marchiava il suo collo, ormai grigiastro e
sbiadito. Di tanto in tanto Sakura doveva ancora controllare che il
virus non riprendesse forza, ma negli ultimi anni sembrava essersi
assopito definitivamente.
Bussarono
alla porta che dava sul corridoio interno.
«Sì?»
Sasuke alzò lo sguardo e si affrettò ad
allontanare la mano dal
collo.
Hitoshi
entrò nello studio, chinando il capo in un saluto.
«E’ ora di
cena, padre. Devo dire alla cuoca di preparare o aspettiamo
ancora?»
Da
quasi cinque anni aveva smesso di chiamarlo papà.
«Dille
di preparare. Tua madre probabilmente rientrerà
tardi» rispose
Sasuke con una magra e schiva occhiata.
Hitoshi
lottò per tenere le mani distese lungo i fianchi e non
serrarle a
pugno. «Va bene» rispose atono. «Oggi il
mio gruppo è stato
convocato nell’ufficio dell’Hokage»
aggiunse dopo
un’impercettibile esitazione.
Sasuke
rialzò il capo e corrugò la fronte, cercando
nella memoria qualche
accenno di Sakura alla cosa. «E’ per la missione a
Suna?» riuscì
a ricordare alla fine.
«Sì.
Partiamo tra tre giorni.»
«Bene.
Se vuoi allenarti prima della partenza puoi usare il secondo giardino
sul retro. I tuoi fratelli stanno occupando quello
principale.»
«Lo
terrò presente. Grazie» mormorò Hitoshi
tra i denti.
Sasuke
lo guardò finché non si fu inchinato ed ebbe
richiuso la porta.
Hitoshi.
Il ragazzino che doveva essere il baluardo degli Uchiha e che invece
si era rivelato la più grande delusione. Nessuno sharingan
per lui.
Né a dodici, né a quattordici, né a
diciassette anni. Era abile
nel controllo del chakra, era intelligente, era agile, era Jonin e
svolgeva una missione dietro l’altra... Ma non aveva il segno
distintivo degli Uchiha, era solo uno shinobi come tanti altri.
Talentuoso, sì, ma potenzialmente inferiore ad ognuno dei
suoi
fratelli.
Sviluppare
lo sharingan non era scontato, tra gli Uchiha. Sasuke ricordava che
nel clan solo i migliori potevano vantarsi di possederlo e saperlo
usare, e da bambino era fiero che nella sua famiglia tutti ne fossero
in grado. Era convinto che tutti i suoi figli sarebbero stati
all’altezza della loro eredità, invece la prima
delusione era
arrivata proprio da Hitoshi: per quanto fosse forte, per quanto fosse
intelligente, non era abbastanza meritevole per lo sharingan. Dopo la
nascita di Itachi Sasuke aveva inevitabilmente finito per concentrare
le sue attenzioni sull’ultimo arrivato, sul piccolo prodigio.
Poco
dopo, al compimento degli undici anni, Fugaku aveva mostrato i primi
segni dello sharingan, e le attenzioni del padre si erano divise.
Quando anche Mikoto si era presentata a lui con occhi rossi e densi
d’orgoglio era diventato evidente che in Hitoshi qualcosa non
andava. E allora non c’erano più stati timidi
‘papà,
hai un minuto per allenarti con me?’,
né lezioni speciali sulle tecniche oculari. A dire il vero,
non
c’erano stati più ‘papà’,
né ‘oggi com’è
andata la missione?’.
I rapporti tra Sasuke e Hitoshi si erano congelati
nell’attimo che
aveva seguito la nascita di Itachi, fermi a una fredda cortesia.
Poi,
quando erano soli, non pensavano ad altro: Sakura aveva passato notti
su notti a sorbirsi i monologhi di Sasuke, le sue domande retoriche,
le elucubrazioni, le imprecazioni e la delusione. Aveva anche provato
a cercare un contatto con Hitoshi per fare da mediatrice, ma quando
Fugaku aveva mostrato il suo sharingan alla famiglia Hitoshi si era
chiuso in sé stesso e aveva tagliato fuori tutti. Di fatto
viveva
con il suo gruppo, ormai. E che quel gruppo comprendesse Naruto non
poteva che essere un duro colpo per Sasuke.
Ma,
orgogliosi com’erano, né lui né Hitoshi
avevano fatto un passo
per cercare di avvicinarsi; si erano arroccati sulle loro posizioni e
continuavano a rodersi e soffrire in silenzio, perché se
c’era una
cosa che gli Uchiha sapevano fare bene era ferirsi a vicenda e anche
da soli. L’orgoglio era l’unica realtà
che conoscevano.
Sasuke
si passò una mano sugli occhi, forzandosi a tornare ai suoi
conti.
Non gli piaceva inoltrarsi in quei pensieri, era frustrante e
doloroso. Cercò la penna che era scomparsa sotto qualche
foglio,
borbottando corrucciato tra sé, ma sembrava che addendi e
cifre,
guidati dal subdolo pensiero di Sakura, cercassero di schivare il suo
controllo: prima che potesse ritrovare il punto in cui si era
interrotto, infatti, bussarono di nuovo.
Questa
volta a entrare fu Ryuichiro.
Come
ogni volta che lo vedeva Sasuke sentì un curioso miscuglio
di
disagio, affetto, ansia, fastidio e rimpianto. Si mosse nervosamente
sulla sedia e annuì al suo sorriso, avvertendo una fitta
leggera
allo stomaco.
Ryuichiro
aveva più o meno vent’anni ed era naturalmente
portato a mettere
soggezione. Aveva un incarnato delicato, capelli neri che sfioravano
il collo, occhi dello stesso colore bordati da ciglia lunghe e folte.
Le sue mani erano affusolate, eleganti come quelle di una ragazza. Il
portamento era distinto ma poco vistoso. Sarebbe stato soltanto bello
se si fosse limitato a questo, ma ciò che causava tanto
disagio era
che Ryuichiro era la copia vivente di Itachi Uchiha. E chiunque lo
avesse conosciuto, guardandolo non poteva fare a meno di sentire un
brivido correre giù per la schiena e di pensare a quante
terribili
cose avrebbero potuto fare quelle dita affusolate.
«Mi
perdoni se la disturbo» disse con un cenno di scusa, garbato,
qualcuno avrebbe detto timido – e l’impressione era
sempre molto
strana.
«Vedo che è impegnato, se vuole torno in un altro
mo...»
«Non
è nulla» lo interruppe Sasuke, suo malgrado quasi
ansioso di fare
bella impressione. Si disprezzò per quella debolezza
infantile.
«Meglio
così» sorrise Ryuichiro. «Ecco, mi
spiace fare di nuovo una
richiesta del genere, ma mia madre vorrebbe ancora dei... un piccolo
prestito.»
Prestito.
Come se quei soldi fossero destinati a tornare. Sasuke si
accigliò
impercettibilmente ma non fece altra piega. «Torna
domani» disse
senza scomporsi. «Sarò in centrale, di’
che hai un appuntamento
con me. Cinquantamila ryo vanno bene?»
«Trentamila
sarebbero meglio...»
Sasuke
annuì, ripromettendosi di procurarne cinquanta, quindi
studiò
Ryuichiro per un lungo istante. «State bene? Siete abbastanza
comodi
in quell’appartamento?»
«Siamo
sistemati perfettamente» rispose il ragazzo con
un’evidente nota
di gratitudine nella voce. «Mia madre ha sempre qualcosa di
cui
lamentarsi, ma lo fa solo per noia. In realtà le siamo
profondamente
riconoscenti.»
«Non
dovete» lo interruppe Sasuke schivando il suo sguardo.
Ryuichiro
rimase vagamente imbarazzato. Nello studio scese un silenzio teso,
rotto solo dai rumori della lotta all’esterno.
«Allora... beh,
grazie» mormorò il ragazzo chinando il capo.
«Verrò in mattinata,
va bene?»
«Perfetto»
annuì Sasuke.
Solo
quando fu rimasto di nuovo solo si concesse di rilassare i muscoli
del tronco e lasciarsi andare contro lo schienale della sedia. Si
passò una mano sulla fronte, insoddisfatto: non riusciva ad
avere a
che fare con quel ragazzo senza sentirsi sempre sotto esame, un esame
per cui non si era preparato e non sarebbe mai stato pronto. Da
quando Saifon era spuntata nella sua vita era tornato un bambino di
sei anni.
Senza
che se ne accorgesse la sua mano scivolò dalla fronte al
collo,
tornando al segno maledetto. Qualcosa nella punta delle sue dita
fremette; ma, anche se lo avesse notato, non avrebbe saputo dire se
il fremito proveniva dalla mano o da qualcosa di più
profondo.
Hitoshi
fissò Kotaro e imprecò mentalmente.
Kotaro
vide entrare Hitoshi e sospirò dentro di sé.
Si
trovavano entrambi nel negozio di armi gestito da Tenten, che stava
quasi chiudendo per la sera. Entrambi avevano pensato che quello
fosse un buon orario per non incontrarsi, ma dal momento che avevano
studiato sugli stessi testi le loro strategie si assomigliavano
parecchio.
«Quattro
kunai e uno stock di shuriken?» disse Tenten, depositando sul
tavolo
due scatole di legno lucido. «Considerali un regalo di
compleanno in
ritardo» aggiunse, strizzando l'occhio al figlio.
«O
molto in anticipo» ribatté lui, prendendo le
scatole sottobraccio e
incastrandosi un po' con la borsa che già portava.
Si
voltò e fece un cenno a Hitoshi. Lui ricambiò,
silenzioso, e prese
il suo posto al banco.
«Due
stock di shuriken, una confezione da dieci di carta-bombe»
ordinò a
mezze labbra.
Tenten
diede un'occhiata a lui e una al figlio, corrugando la fronte,
finché
Kotaro non fu uscito.
«Ciao
anche a te. Mi sono arrivate le carta-bombe ritardate, ne vuoi
qualcuna?»
«Mi
scusi. Buongiorno. Ne aggiunga un paio, per favore.»
Tenten
si voltò per preparare la merce. Non conosceva molto bene
gli
Uchiha, ma conosceva molto bene i Lee, ed era certa che suo figlio
fosse arrabbiato.
Ora
poteva innescare una carta-bomba ritardata nel pacco di Hitoshi e
ucciderlo, oppure passare la sera a spiegare a Kotaro che non
si
può partire
per una missione
avendo litigato con il compagno di squadra. Chissà se anche
Chiharu
c'entrava qualcosa? Al pensiero della kunoichi sospirò,
guadagnandosi un'occhiata perplessa di Hitoshi.
Dato che il pacco era piuttosto voluminoso, Tenten
gli
diede una borsa e ritirò i contanti. Poi si
schiarì la voce.
Hitoshi subodorò il pericolo, allenato da anni di convivenza
con sua
madre, e aprì bocca prima di lei, con un ampio quanto falso
sorriso.
«Sarà un onore andare in
missione con suo marito»
annunciò fieramente. «Sono sicuro che
potrà insegnarmi un sacco di
cose! Buona serata.»
«Ehi!» lo bloccò
Tenten mentre lui cercava di
svignarsela. «Guarda che io non sono Sakura»
indicò la merce sul
banco. «Vendo armi, non mi si frega così
facilmente.» Hitoshi
strinse le labbra. «Tu e Kotaro avete litigato? No, ok, non
te lo
chiedo nemmeno. Ma, per favore, non fate i bambini: non si
può
andare in missione avendo litigato. Vi farete ammazzare.»
Hitoshi sbuffò. «Lo so.
Cioè, lo sappiamo tutti e
due. Non si preoccupi, sappiamo come comportarci.»
Tenten si appoggiò al banco, lasciando
che il ragazzo
se ne andasse. «Ma davvero?» mormorò una
volta sola. Si ripromise
di parlare a Kotaro, quella sera.
Hitoshi uscì dal negozio e si
incamminò verso casa, la
borsa stretta in una mano e l'altra ad accarezzare il pacchetto di
sigarette in tasca. Quando lui e Kotaro litigavano, di solito era
Kotaro a cedere per amore di convivenza: anche questa volta si
aspettava che il compagno sarebbe venuto a chiedere scusa, e come
sempre avrebbero condiviso una lattina di qualche bevanda gassata e
finto che Chiharu non fosse sempre tra di loro. Non era il miglior
scenario possibile, doveva ammettere, ma visto che non lo avevano
preso negli Anbu era l'unico scenario a disposizione.
A un tratto si fermò. In fondo alla
strada, davanti a
una bancarella di dango, vide una chioma di un
giallo
abbagliante. Accanto a quella, la familiare coda nera di Chiharu.
«Doveva dormire, eh?»
borbottò una voce al suo
fianco. Hitoshi non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che era
Kotaro.
Entrambi rimasero fermi ad osservare Chiharu e
Yoshi,
che prendevano da mangiare e si allontanavano senza notarli. Quando
furono scomparsi dietro un angolo, Kotaro sbuffò e
tirò fuori dalla
sua borsa una lattina dai colori sgargianti. «Vuoi?»
Hitoshi trattenne un sorriso, ma accettò.
Si spostarono in una via traversa meno trafficata,
dove
trovarono un marciapiede su cui sedersi mentre si accendevano i
lampioni.
«Mi dispiace per oggi»
esordì Kotaro, ruotando piano
la lattina tra le mani.
«Non è niente»
rispose Hitoshi scrollando le spalle.
Kotaro
lo fissò, leggermente risentito. Perché quando
lui chiedeva scusa
Hitoshi non rispondeva mai 'è anche
colpa mia'?
Tossicchiò con intenzione, sollevando le sopracciglia.
«Che c'è?»
«Tu non hai niente da dirmi?»
Hitoshi, infastidito, bevve un lungo sorso dalla
sua
lattina. «Cosa vuoi sentirti dire?»
«Per esempio, che anche a te dispiace per
le cose che
hai detto.»
«Ma non mi dispiace.»
Kotaro gli tirò un pugno contro la
spalla, e Hitoshi
rovesciò un po' della sua bevanda sui pantaloni, imprecando.
«Lo sai, vero, che se non fosse per me
questo gruppo
non esisterebbe già da tanto tempo?» disse
seccato. «Perché devo
essere l'unico che si sbatte a tenerci insieme?»
Hitoshi rinunciò a pulire i pantaloni,
ma appoggiò a
terra la lattina. «Credi che io non ci stia
provando?»
«No. Per niente.»
«Beh, invece ci sto provando!»
sbottò Hitoshi. Ma
Kotaro non poteva capire la sua costante frustrazione, il nervosismo,
l'ambizione divorante che lo rendeva sempre irritabile. Kotaro era
forte e amato, non poteva capire proprio niente dei suoi sforzi.
«Fai schifo anche a provarci»
disse il giovane Lee.
Hitoshi sbuffò, frugando nelle tasche in
cerca di una
sigaretta. «Ti preparerò un cartello con scritto
quanto sei figo e
maturo, così che tutti possano ammirarti...»
«Oppure potresti darmi ragione, per una
volta.»
Hitoshi fece una smorfia e inspirò per
accendere la
sigaretta.
Kotaro scosse la testa, snervato. «Non
riesco a capire
perché tu non abbia ancora fatto richiesta per gli
Anbu!»
Hitoshi serrò le labbra. L'aveva fatta,
invece.
Purtroppo.
«Senti...» iniziò,
passandosi una mano tra i capelli.
«Sai che tipo sono.»
«Una testa di cazzo.»
«Come vuoi. Sai che sono una testa di
cazzo. Sai che
non è una scelta, ci sono nato. In fondo sai anche che ci
sto
provando, a modo mio, ma con risultati penosi» Kotaro fece un
cenno
con la testa, suo malgrado concorde. «Non sono io il rischio
più
grosso per questo gruppo... Credimi, se pensassi di poter fare di
più
lo farei.»
La scheggia impazzita, in effetti, non era Hitoshi.
Era
Chiharu, era sempre stata Chiharu.
«Ma certo» Kotaro sorrise
amaramente. Stava per
aggiungere un commento tagliente, poi si trattenne.
Aveva lavorato tanto per tenere insieme quel
gruppo...
Aveva resistito anche a provocazioni peggiori, non avrebbe mandato
tutto all'aria parlando di gelosia. Era il loro tacito accordo, non
parlarne mai: allusioni a fiumi ma nessun argomento concreto.
Era l'unico modo in cui potevano restare in bilico.
«Beh, meno male che io sono un po'
più bravo»
concluse Kotaro, finendo la lattina e gettandola con precisione nel
cestino poco distante. «Dove sareste senza di me,
eh?»
Hitoshi guardò la parabola del
proiettile e lo vide
centrare perfettamente l'apertura del cestino. Ogni centimetro del
corpo di Kotaro era nato per quello, per essere una catena perfetta
di azioni e reazioni. Non come lui, che sarebbe dovuto nascere per lo
sharingan e non ci era riuscito. E in più il giovane Lee
dagli occhi
a palla gli faceva lezioni sul senso di gruppo.
Al diavolo, poteva anche risparmiarselo.
Hitoshi si alzò in piedi e
accartocciò la sua lattina,
avvicinandosi al cestino. Fissò quella lanciata da Kotaro
poco
prima, e lasciò cadere la sua sopra.
Non aveva intenzione di chinare la testa.
* * *
Hitoshi e Kotaro sono
un po' meno amici della vecchia versione, vero?
Quindi come potrebbero
andare le cose dopo il prossimo capitolo,
che è stato
molto poco rimaneggiato e si chiama "Sbronza
collettiva"?
Sangue! Sangue! Sangue!
|
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Capitolo 9 *** Sbronza di gruppo ***
Penne 09
20/01/2016
Capitolo
nono
Sbronza
di gruppo
Gli
ermellini sono animali adorabili.
Candidi,
morbidi, dal muso vispo, i baffi tremuli, si muovono timidi ed
eleganti, sgusciando di ombra in ombra senza capire che sono troppo
chiari per mimetizzarsi. Hanno zampe fini e silenziose, una coda
soffice come seta; in due parole sono esteticamente deliziosi, e
sembrano ricalcare tale deliziosità
anche con il loro comportamento.
Ma
gli ermellini sono carnivori.
Il che vuol dire
che, periodicamente, il loro timido sgusciare di ombra in ombra si
tramuta in un agguato predatorio, e il loro candido musetto si tinge
di rosso mentre affondano i canini nella carne ancora calda e
vibrante dell’altrettanto tenera vittima. Per non parlare di
quando
qualcosa minaccia i loro cuccioli.
Hinata
era un po’ come un ermellino.
Candida,
timida, tenera, eccetera eccetera. E poi, di tanto in tanto,
carnivora.
Era
stata tale a dodici anni, durante il torneo di selezione per Chunin,
combattendo contro Neji; era stata tale, a suo modo, a venticinque,
per sposare Naruto e non lasciarsi abbattere dal parere contrario del
padre; era stata tale anche a trentaquattro, quando, per la prima
volta, Naruto aveva avuto paura di lei.
E
quella era stata la volta peggiore.
Erano
rientrati dall’ospedale un paio di ore prima, con un fagotto
a
testa tra le braccia e due domestiche con relative culle al seguito.
Avevano presentato le ultime arrivate ai loro fratelli, raccogliendo
la studiata indifferenza di Hinagiku, il sorriso tenero di Hanako e
l’entusiasmo del minuscolo Minato – molto offeso
dal fatto che le
neonate non rispondessero ai suoi saluti – e poi avevano
cercato di
spiegare ai gemelli di due anni cosa significasse ‘avete
altre due
sorelline’. Yumi e Iyoku naturalmente non avevano capito
granché,
ma avevano scrutato curiosi le due bambine addormentate e poi avevano
sorriso da dietro gli occhi bianchi degli Hyuuga.
Naruto
e Hinata si erano mostrati soddisfatti e si erano ritirati nella loro
stanza, affidando gli altri figli alla cura delle domestiche. Avevano
posato i fagottini dormienti sulle coperte e si erano stesi ai lati
del letto, tenendoli tra loro, limitandosi a guardarli e a cercare
stupidamente di capire a chi assomigliassero. Li avevano accarezzati,
senza svegliarli, e Naruto aveva chiesto a Hinata come si sentiva:
bene, benissimo, ormai era abituata al tran tran, tutto a posto.
«Meno
male, per fortuna.»
Pausa
di silenzio.
«Siamo
a sette, eh.»
Hinata
gli aveva sorriso un po’ stancamente. «Come Sasuke
e Sakura. Come
desideravi tanto.»
«Beh,
non è che lo volessi proprio per loro...» aveva
bofonchiato Naruto
arrossendo. «Mi piaceva una famiglia numerosa,
ecco!»
«Ed
è quello che hai. E saranno tutti bambini belli e
forti.»
«Come
me.»
«Come
te.»
Altra
pausa.
Naruto
aveva accarezzato la guancia arrossata di una delle bambine, che,
come già appurato, avevano gli occhi azzurri e nessuna
traccia di
byakugan.
«Certo
che i maschi alla fine sono stati solo due, eh» se ne era
uscito in
tono casuale.
«Come?»
«No,
dico... sette figli e due soli maschi. Sasuke e Sakura ne hanno
quattro.»
Silenzio.
Denso silenzio.
«Naruto...»
«Non
sto mica dicendo niente, eh! In fondo le probabilità erano
del
cinquanta percento e le femmine sono fantastiche, sul serio, le
adoro!»
«Naruto...»
«Guarda
Hinagiku! Sembra quasi un maschio, no? E’ come averne uno in
più!
Già, le femmine sono proprio splendide!»
«Naruto,
stai per caso cercando di dire qualcosa?»
Doveva
accorgersene quando Hinata aveva calcato il suo nome, avrebbe pensato
più tardi.
«Ehm...
non esattamente... Cioè, forse sì»
aveva inspirato a fondo, poi,
facendo bene attenzione a non svegliare le bambine, si era sporto
verso Hinata. «Insomma. Abbiamo trentaquattro anni, siamo
giovani,
no?»
«Abbiamo
trentaquattro anni e sette figli, Naruto, quattro dei quali nati in
due soli parti.»
«Sì,
sì, lo so... E’ solo che... Pensaci, dai! Tre bei
maschietti
vivaci tutti uguali a me, e...»
Si
era interrotto bruscamente quando le labbra di Hinata erano
scomparse, livide e biancastre.
«Naruto.»
Un
brivido.
«Ho
trentaquattro anni e due neonate sul letto. Neanche ieri queste due
neonate sono venute alla luce in maniera del tutto naturale, e non lo
augurerei nemmeno al generale della Roccia che voleva uccidermi. Ti
amo, Naruto, e voglio vederti felice: questa è
l’unica ragione che
mi ha permesso di arrivare fino ad oggi senza lamentarmi. Ma, e
credimi, ti amo ancora nonostante tutto, adesso basta. Hai avuto
sette figli come Sasuke, e sono tutti splendidi e perfetti! Io ho
fatto sette figli soffrendo le pene dell’inferno, e ora penso
che
cinque femmine sia quanto di meglio potesse capitarci!
Perciò,
Naruto, non chiedermi altri bambini, non farlo, o potrei trovare
qualcosa da ridire!»
‘Qualcosa
da ridire’. Una minaccia da quattro soldi sulle labbra di
chiunque,
ma non su quelle di Hinata, nonostante le sue urla, se di urla si
poteva parlare, fossero molti decibel al di sotto della rabbia media.
Naruto, fissando i suoi occhi dalle pupille contratte, aveva
deglutito a vuoto, tendendo d’istinto una mano ad accarezzare
la
bambina che si era messa a piangere.
«Ma
no, io non intendevo...» aveva balbettato, imbarazzato, e
Hinata
aveva abbassato rigidamente lo sguardo per accarezzare la seconda
neonata che rischiava di svegliarsi.
«Va
bene così, Naruto» aveva risposto, con una strana
voce monocorde.
«Credo che abbiamo concluso il discorso.»
E
allora, insieme alla drammatica fine delle sue speranze di fondare
una squadra di calcio con i piccoli Uzumaki, a Naruto erano tornate
in mente le parole pronunciate da Tsunade in occasione della
miracolosa nascita di Minato: ‘verrà il giorno in
cui questa
povera donna si ribellerà, statene certi’.
Dopo
due anni, vivo e seduto a una tavola decisamente affollata, Naruto
non pensava più all’Uzumaki
football team –
se non sporadicamente – e riteneva che tenere
d’occhio sette
bocche fosse già abbastanza oneroso, visto che avevano tutte
la
tendenza a strozzarsi con il cibo tre volte al giorno. Non aveva
più
aperto il discorso con Hinata, si era goduto i figli e le figlie e si
era persino rassegnato a tornare alle vecchie precauzioni, cosa che
lo lasciava parecchio stranito, dopo undici anni di libertà.
Poi
aveva praticamente adottato Chiharu, Kotaro e Hitoshi.
«Saranno
almeno sei mesi che non mangio un ramen con quei tre»
rifletté,
ruminando la sua cena con aria assorta.
Hinata
sollevò lo sguardo dal tavolo e sorrise, fingendo di
ignorare
Hinagiku che spostava gli spinaci dal suo piatto a quello di Hanako.
«E’
vero, ultimamente li hai un po’ trascurati» ammise,
tendendosi a
versare dell’acqua a Minato, che tossiva disperato per colpa
di un
boccone di traverso. Non aveva bisogno di chiedere di chi parlasse,
ormai aveva imparato a riconoscere il tono con cui Naruto si riferiva
alla sua squadra.
«Tra
la storia dell’Hokage ora, e tutti i problemi prima li ho
persi di
vista. E’ che se la cavano benissimo anche senza di me, sono
grandi
ormai...» sbuffò, battendo pacche leggere sulla
spalla di Minato.
«Almeno adesso che stanno per partire per Suna dovrei
portarli fuori
a cena. Come facevamo con i ragazzi da giovani! Ma certo!»
«Penso
sia un’ottima idea» approvò Hinata, che
non conosceva i risvolti
alcolici del passato di Naruto. «E se vedi la moglie di Iruka
ricordati di farle i nostri auguri per la gravidanza, mi raccomando.
Alla sua età è già difficile avere
bambini, non credo che abbia
molte altre occasioni...»
«Non
dovremmo portarle un vassoio di dolcetti? Hina, riprendi
immediatamente quegli spinaci o ti spedisco a casa di Neji.»
Hinagiku
impallidì, e sotto lo sguardo timido di Hanako riprese la
poltiglia
verde che tanto odiava.
«Forse
sarebbe meglio un sacchetto di tè pregiato»
obiettò Hinata
pensierosa. «Se non sbaglio dovrebbe essere ancora nel
periodo delle
nausee.»
«Oh,
non ricordarmelo... Cerco il tè, okay? E nel biglietto metto
anche i
bambini?»
«Sì,
penso che possa funzionare. E li inviteremo a cena, una sera.»
«Cucina
Ayame?»
«Naruto!»
«Che
ho detto?»
Dal
momento che la gravidanza era solo agli inizi, ogni sera Ayame
stazionava ancora dietro al bancone di Ichiraku. Accoglieva i
clienti, sorrideva, rispondeva educatamente alle loro domande,
versava sakè in abbondanza e faceva lievitare il conto per
magia.
Quando suo padre se ne accorgeva lei si limitava a ricordargli che un
bambino comporta molte spese, e il futuro nonno si scioglieva e la
lasciava fare, ripromettendosi di ripagare i gentili allocch... ehm,
ospiti, con la preziosa visione del pargolo, una volta che fosse
nato.
Tuttavia,
quando Naruto si presentò al banco insieme ai suoi tre
allievi,
Ayame arrivò a pensare di fermare
il flusso di sakè, anziché alimentarlo: al sesto
rabbocco del vaso
di ceramica tra Chiharu e Kotaro gettò un’occhiata
preoccupata al
padre, chiedendogli silenziosamente come dovesse comportarsi. Oltre
il legno e le ciotole di ramen mezze vuote, illuminati dalle luce
calda delle lampade appese al soffitto, Naruto e Kotaro erano riversi
sul bancone a cantare allegramente una canzone volgarotta. Accanto a
loro Chiharu fissava le bacchette con sguardo intento e poi cercava
invano di prelevare un pezzo di carne dal suo brodo, mancando
clamorosamente qualunque cosa fosse solida nella tazza, mentre
Hitoshi, seduto subito oltre, aveva realizzato che anche se avesse
fumato una sigaretta davanti a Naruto lui non se ne sarebbe
ricordato, e quindi aspirava boccate rassegnate fissando il
menù.
«Ancora!»
esclamò Naruto all’improvviso, sollevando il
sakè e rovesciandone
metà sul tavolo. L’incidente lo fece scoppiare a
ridere, il che
trascinò Kotaro in una risata convulsa che per poco non lo
ribaltò
dallo sgabello.
«Credo
che per stasera sia abbastanza...» intervenne Ichiraku,
avvicinando
cautamente la mano a quella di Naruto. Ma lui tirò indietro
la sua,
offeso, e gli scoccò un’occhiataccia.
«No no» commentò,
cercando di schioccare la lingua e riuscendo quasi a strozzarsi.
«Io
l’ho pagato e io me lo bevo.»
E
giù tutto in un colpo.
«Kaboom!»
fece Chiharu, lasciandosi andare a una risatina isterica che spinse
Hitoshi a fissarla.
«Sei
ubriaca?» le chiese stralunato.
«Chi,
io?» replicò lei, fissandolo improvvisamente seria
come marmo. «No,
sono solo un po’ brilla» e piantò la
bacchetta sul bordo della
ciotola, rischiando di rovesciarla.
Hitoshi
inspirò a fondo: a causa delle solite emicranie quella sera
aveva
evitato l’alcol. Per la stessa ragione aveva anche scordato
di
controllare che i suoi compagni di squadra non si dessero alla pazza
gioia. E ora, con orrore, si rendeva conto che di tutti e quattro era
lui l’unico sobrio. La cosa più irritante era
sentire Naruto che
continuava a ripetere quanto fosse venuta bene la serata.
«Ragazzo,
forse faresti meglio a portarli a casa» suggerì
Ichiraku con una
certa discrezione.
«Da
solo?» Hitoshi fece una smorfia decisamente poco entusiasta.
«Non
lo so. In qualche modo.»
Entrambi
fissarono di nuovo gli altri, e videro Naruto con la ciotola calcata
sulla testa che combatteva accanitamente con Chiharu in una sfida
all’ultima bacchetta. Sotto di loro Kotaro, tut'a un tratto,
piangeva.
«Okay,
ha ragione» si arrese Hitoshi.
«Quant’è?»
«Lascia
stare il conto. Ci penserà Naruto domani. O dopo. O tra una
settimana, se per allora si sarà ripreso. Non l’ho
mai visto bere
tanto.»
«Io
non ho mai visto nessuno di loro
ridursi così» grugnì
l’Uchiha, tirandosi in piedi.
«Forza! Sveglia! Si va in missione!»
chiamò, strappando le
bacchette dalle mani dei due fieri combattenti.
Chiharu
balzò allegramente in piedi, ondeggiando come un salice in
piena
tempesta, Naruto inciampò in una delle gambe dello sgabello
e piombò
a terra ululando dal divertimento.
«Livello
S!» esclamò Chiharu sollevando un pugno.
«Naturale»
grugnì Hitoshi, sospingendola verso il bancone quando la
vide
pendere verso l’asfalto. Lei barcollò per un
istante, si aggrappò
allo sgabello e finì per accasciarsi sulla schiena di
Kotaro, ancora
in lacrime. Nonostante sapesse perfettamente che era solo ubriaca,
Hitoshi provò una punta di irritazione e la tirò
su di nuovo,
assolvendo all’ingrato
compito di
sorreggerla.
«Forza!
Basta schifezze!» gridò Naruto rialzandosi a
fatica. «Tutti a
dormire, mocciosi!»
«E’
arrivato» borbottò Hitoshi, mentre lui sollevava
di peso Kotaro.
«Allora.
Tu porti a casa lui e io porto a casa lei» spiegò
il maestro
sbattendogli addosso il compagno gemente, e senza tanti complimenti
si fece rotolare addosso Chiharu, ancora immersa in una serie di
risatine isteriche. Lei gli si aggrappò al collo e gli
scompigliò i
capelli, e Hitoshi, inaspettatamente, sentì una vena di
irritazione
gonfiarsi sopra la tempia.
«Ma
tu e Kotaro abitate più
vicini» sibilò,
spingendo il compagno verso il maestro e tirando indietro Chiharu.
Naruto
corrugò la fronte, momentaneamente stordito
dall’improvviso
cambiamento, quindi sollevò un indice con
l’intenzione di dire
qualcosa che evidentemente gli era già sfuggita. Ci
rifletté per un
istante, infine se ne uscì con un profondo:
«Uh.»
«Siamo
d’accordo» troncò Hitoshi, facendosi
passare un braccio di
Chiharu attorno al collo e cercando di ignorare la sua risata,
così
vicina all’orecchio che lo avrebbe stordito se non fosse
stata
intrisa d’alcol.
«Aspetta
un attimo» lo bloccò Naruto, mettendolo
improvvisamente a fuoco.
«Non mi suona bene.»
«Tre
per venti?»
«Ottantasei.
No. Cinquantaquattro. Ma che c’entra?»
Hitoshi
stirò le labbra in un sorriso di scherno. «Sei
così ubriaco che
nulla
ti suonerà bene, stasera.»
«Ehi
ehi! Ricorda a chi devi portare rispetto, moccioso!»
tuonò Naruto,
e nella foga lasciò andare Kotaro, che si
schiantò al suolo e si
svegliò dal torpore con un patetico: «Questo
è sleale!»
«Tu
non
porterai a casa
Chiharu» insisté Naruto, riacciuffandolo e
piazzandoselo sulle
spalle – cosa che fece molto male al suo equilibrio.
«Non mi fido
a lasciartela in mano in quelle condizioni.»
«Stai
insinuando qualcosa?» scattò Hitoshi sentendo il
sangue salire
velocemente al viso.
«Certo
che sì!» esclamò Naruto, appoggiandosi
al banco per ritrovare il
baricentro. «Tu sei un Uchiha. Un
Uchiha! Gli
Uchiha saltano addosso alle donne degli altri come... come... come
pulci!»
«Le
donne di chi?» Hitoshi strabuzzò gli occhi.
«Degli
altri! Le mie! No, la mia! Oh, ma chi se ne importa? Se ti lascio con
Chiharu me la mangi!»
Hitoshi
iniziò a pensare che ne aveva abbastanza.
«Premesso che gli Uchiha
si fanno assalire dalle
donne e non il contrario,» esordì pomposamente,
sotto lo sguardo
preoccupato di Ichiraku e figlia. «credo che nessuno abbia il
coraggio di mettere le mani addosso a questa cosa!»
scosse Chiharu, che fissò uno sgabello con un sorriso
stupido. «Io
per primo! Non la spingerò dietro nessun cespuglio, non la
assalirò
tra le ombre, e quando sarai sobrio torneremo sul discorso
‘mie
donne’, signor ‘sono felicemente sposato e me ne
vanto’!»
Naruto
gli rilanciò uno sguardo confuso. «Eh?»
Hitoshi
sentì una vena vicina alla frattura, dalle parti del pomo
d’Adamo,
e comprese che se parlare con Naruto sobrio era difficile, parlare
con Naruto ubriaco era impossibile.
«Ne
discutiamo domani! Vattene a casa!» abbaiò,
minacciando di
calciarlo via.
«Senti
un po’ tu, brutto... brutto...» partì
Naruto, ma Kotaro gli si
aggrappò al collo e gli schiaffeggiò la bocca con
espressione
severa.
«No
no» disse. «No. Non si dice. No. Devo
vomitare.»
Ichiraku
sbiancò, Ayame scomparve nel retro, Naruto fissò
Kotaro
confusamente e Hitoshi soffocò il grido che premeva nella
sua gola.
«Giuro
che se non me ne vado in questo preciso istante do fuoco a tutti,
anche senza Amaterasu» ringhiò tra sé.
E mentre Naruto entrava nel
panico vedendo il colorito di Kotaro e Ichiraku gli tendeva
precipitosamente una ciotola vuota, lui sistemò meglio il
braccio di
Chiharu sulla spalla e la costrinse a voltare la schiena a tutti.
«Ciao
ciao!» rise lei, salutandoli con la mano. Per farlo perse di
nuovo
l’equilibrio e per poco non strozzò Hitoshi.
«Ciao
niente!» strillò Naruto, aggrappandosi al suo
colletto con l’ultimo
barlume di razionalità. «Io lo so cosa vuoi
fare!»
«Ucciderti»
sibilò l’Uchiha voltandosi rabbioso, ma mentre lo
faceva vide la
sua ancora di salvezza oltre le spalle del maestro. E un lampo di
trionfo gli passò nello sguardo.
«Inuzuka!»
Kiba,
che avanzava poco oltre, vide il gruppo al completo e ignaro li
raggiunse, tenendo per mano una bambina sui due anni. Sembrava ancora
il diciottenne di un tempo, ma forse e solo forse aveva domato
leggermente la sua natura ribelle e messo su un paio di chili.
«Naruto!
Saranno settimane che non ci vediamo! Congratulazioni per la
nomina!»
esordì battendo una pacca sulla sua spalla, mentre una donna
e una
bambina un po’ più grande si univano a lui, con il
bisnipotino di
Akamaru al seguito. Naruto lo mise a fuoco con difficoltà,
poi
sorrise, fissando il suo orecchio. «Shino! Quanto
tempo!»
ridacchiò.
«Sbornia
di terzo grado» annunciò la moglie di Kiba, Tsume,
figlia del capo
del clan Nekozuka e storico nemico degli Inuzuka. Il loro era stato
un amore molto turbolento, a partire dal primo incontro al matrimonio
di Naruto che si era risolto in una quasi faida generazionale, e poi
si era evoluto fino a un matrimonio che tuttora lasciava perplessi
tanti e che vedeva le bambine contese tra i due clan: a breve
avrebbero ricevuto un animale di cui occuparsi, ma sarebbe stato un
cane o un gatto?
Naruto
fissò l’intera famiglia mentre Kiba realizzava
lentamente la
situazione, poi ridacchiò scioccamente. «Dove sono
i vostri
insetti?» chiese gioviale. «Ah! Datemi una mano!
Portate a casa
Chiharu!»
«Chi?»
fece Kiba, stordito, e Naruto con una manovra complessa si
voltò per
indicare Hitoshi, mentre Kotaro svuotava lo stomaco in una ciotola
sotto lo sguardo scioccato della figlia minore di Kiba. Ma alle sue
spalle c’era solo la luce aranciata delle lampade di Ichiraku
e un
vago, vaghissimo sentore di fumo.
Hitoshi
procedeva imprecando con la sigaretta tra i denti e un braccio a
sorreggere Chiharu. Se Kiba non fosse comparso all’orizzonte
dubitava che sarebbe riuscito a distrarre Naruto abbastanza a lungo
da allontanarsi.
Sbuffò,
sputando a terra il mozzicone consumato, ma l’attimo di
distrazione
fece sì che Chiharu inciampasse nei suoi stessi piedi e
rischiò di
fargli stirare un muscolo sulla schiena.
«Cosa
dovrei mettere addosso a questa qui?» sbottò
mentre la sentiva
ridere felice. «Neanche la punta di un dito, porca
p...»
«Dove
si va?» lo interruppe lei con la testa reclinata mollemente
sulla
sua spalla.
«A
casa» grugnì lui, trattenendosi a stento
dall’aggiungere
‘idiota’.
«Sembra
divertente...» sospirò lei tamburellandogli i
capelli con le dita.
Hitoshi
roteò gli occhi. Poi, a sorpresa, la sentì
tirarsi leggermente su e
posare il viso nell’incavo del suo collo. Quando il suo
respiro gli
solleticò la pelle, contro ogni logica avvertì un
brivido caldo.
«Puzzi
di fumo» la sentì sussurrare con voce meno
strascicata di quel che
pensasse.
«E
tu di alcol» rispose in un borbottio cercando di scrollarla
via.
La
sentì allontanarsi ridendo e provò un certo
disagio accorgendosi
del suo seno contro il torace.
«Ma
sotto sotto profumi» gli concesse lei, scuotendo la testa
come per
snebbiarsi le idee. «Non lo so. Sento anche puzza di
sakè. Hai
bevuto?»
«Tu
hai bevuto.»
«Oh.
Non mi sembrava.»
«Haru,
sta’ zitta!»
«Perché?»
sollevò la testa, sforzandosi di sfoggiare il suo miglior
ghigno
strafottente, ma tutto ciò che tirò fuori fu un
vago sorriso ebete.
«Perché
straparli!»
Chiharu
sospirò, e di nuovo lui la sentì contro il collo
e la sentì
espirare ridendo piano.
«Smetti
di fare anche questo!» le sibilò, infastidito, in
qualche modo
lusingato, ma soprattutto nervoso.
«Perché?»
ripeté lei in un mormorio roco. «Perché
ti piace?»
«Sei
ubriaca!» se la scrollò di dosso bruscamente e lei
perse per un
attimo l’equilibrio, rischiando di piombare a terra nel mezzo
della
strada silenziosa.
«Se
sono ubriaca non ti conviene lasciarmi in piedi da sola» gli
fece
notare lei, poi gli si appoggiò addosso con uno sbadiglio.
«Lo sai?
Non ho sonno» biascicò.
Hitoshi
sospirò esasperato. Si arrese all’idea di
sostenerla. «Ti odio da
ubriaca» mormorò passandole un braccio attorno al
corpo, e il
disagio che aveva provato fino a un attimo prima si acuì e
trasformò
quando sentì il suo fianco sotto la mano. Forse
l’odore dell’alcol
si stava dissolvendo, perché all’improvviso gli
sembrava molto
meno fastidioso.
E
fu allora, quando meno se lo aspettava, che lei alzò la
testa, gli
posò una mano sulla nuca e lo tirò a
sé, baciandolo.
L’aroma
forte del sakè gli entrò nelle narici tutto in un
colpo,
annebbiandogli per un attimo i sensi. Sentì le dita di
Chiharu tra i
capelli, e dopo un istante la sentì dischiudere le labbra e
ricordò
perché l’alcol gli faceva schifo. Ma fu solo un
istante, subito
travolto da anni di fantasticherie e sogni ad occhi aperti, anni
pieni di notti insonni, riflessioni e sforzi disperati per smettere
di pensarci. Da quanto rimuginava su un bacio di Chiharu? E da quanto
odiava Baka e Yoshi e anche Kotaro e chiunque le si avvicinasse?
Senza contare che fino a due minuti prima la trovava quasi ripugnante
– o si stava sforzando di farlo? – mentre ora,
anche se lui era
debole e lei ubriaca, anche se sapeva che quel bacio era vuoto e
inutile, gettava alle ortiche l’onore, l’etichetta,
gli
ammonimenti deliranti di Naruto e dimenticava l’odore e il
sapore
del saké, stringendosi addosso Chiharu e rispondendo al
bacio con la
foga del miracolato. Si sentiva più ubriaco di lei, e
sentiva che
avrebbe voluto continuare a baciarla fino a un maledetto letto e
fregarsene della morale e di quello che avrebbero detto gli altri,
approfittarne ora che era lei a cercarlo, subito, perché non
sarebbe
capitato di nuovo. Prima di rendersene conto si trovò ad
accarezzarla, a baciarle il collo e la bocca, ancora, respirando
veloce o non respirando affatto.
«Piano...»
sussurrò lei con una risatina, poi lasciò che
tornasse alla pelle
sensibile sotto il mento. Lui la sentì ridere contro il suo
orecchio, le mani affondate nei capelli e l’intero corpo
premuto
contro il suo, e la sospinse contro il muro di una casa. Si
staccò
un solo istante per riprendere fiato.
All’improvviso
lei smise di ridere e lo fissò, mortalmente seria.
«Non
sono ubriaca» mormorò, e quel mormorio
impiegò qualche lungo
istante per diventare comprensibile nella testa di Hitoshi.
Ma,
non appena lo fu, la sorpresa e l’euforia vennero spazzate
via
dalla risata incontrollata di Chiharu.
«Forse
sono un po’ brilla» continuò lei, la
fronte contro la sua spalla
e la voce soffocata contro la maglietta. «Ma non del tutto.
Sai me
l’ha detto che devo esercitarmi. E tu... tu...»
alzò lo sguardo,
cercando di metterlo a fuoco, poi corrugò la fronte.
«Che
cosa ti ha detto Sai?» farfugliò Hitoshi.
«Mmh...
Voglio andare a casa. Devo vomitare.»
Non
c’è che dire, pensò il lato
cinico di Hitoshi, mentre
l’eccitazione spariva di botto. Una conclusione di
classe.
---
Ci volle tutto il giorno seguente perché
i ragazzi e
Naruto recuperassero la lucidità: Chiharu e Kotaro dovettero
lottare
contro un'emicrania feroce, che ostacolava pesantemente la
preparazione degli zaini per la missione; Hitoshi passò la
mattina a
fingere di avere lo stesso problema per concentrarsi sugli ultimi
sviluppi con Chiharu, ma la questione era di tale portata che nel
pomeriggio l'emicrania divenne realtà e dovette restare
davvero
rinchiuso in stanza con le finestre oscurate per diverse ore.
Lo studio dell'Hokage rimase penosamente vuoto:
Naruto
era fuori gioco, Sakura era di turno in ospedale e Sasuke si era
defilato in commissariato prima che a qualcuno venisse in mente di
convocarlo. Shikamaru, subodorando il rischio di una giornata di duro
lavoro, era letteralmente scomparso nel nulla lasciando detto che
aveva importanti questioni di strategia da approfondire. Temari
sospettava che stesse dormendo a casa dei suoi genitori, ma non
poteva provarlo.
Così fu Koichi ad impilare in
bell'ordine i documenti
con le autorizzazioni per la missione di Suna, tutti freschi di
stampa e completamente privi di firme. Nel farlo versò
qualche
lacrima di nostalgia al pensiero di Kakashi, che per quanto
inefficiente almeno si presentava in ufficio. Preparò le
pile di
incartamenti suddividendoli ordinatamente per shinobi,
spolverò le
poche zone libere della scrivania e compilò attentamente il
modulo
per la richiesta di ferie che faceva la polvere nel cassetto da mesi.
Al diavolo il periodo di preavviso, lui domani non
si
sarebbe presentato. Venissero pure a lamentarsi!
Cosa che, in effetti, Sakura fece.
Uscita dall'ospedale passò nello studio
dell'Hokage,
aspettandosi di trovare Naruto o almeno Shikamaru, ma fu accolta
soltanto da sei pile di documenti complicati e un foglio di ferie di
dubbia validità. Allora raccolse il materiale e si
trasferì da
Koichi, chiedendogli di analizzare insieme ogni singolo paragrafo per
evitare che il Consiglio li utilizzasse contro di loro in futuro.
Koichi tentò una flebile protesta, ma la minaccia di non
considerare
valida la sua richiesta di ferie lo ridusse ben presto al silenzio.
Fu così, con una manciata di ore di
sonno all'attivo e
due vistose occhiaie sugli zigomi, che Sakura si presentò
alle porte
del Villaggio la mattina della partenza del gruppo per Suna.
«Tirate fuori i sigilli!»
annunciò distribuendo i
plichi a ogni intestatario. «Nessuno si muove di qui se non
vedo
tutte le vostre firme!»
Ci fu un po' di confusione mentre le penne
passavano di
mano in mano tra i borbottii. Temari colse l'occasione per riversare
fiumi di lamentele sull'inefficienza del marito, che finì
per
nascondersi dietro Chiharu per scamparla. Naruto firmò nei
posti
sbagliati e dovettero discutere sulla validità o meno delle
firme
cancellate da uno scarabocchio. Alla fine, dato che Koichi era in
ferie, stabilirono di accettarle a patto di controfirmare la
correzione con tutti i sostituti Hokage, e in pratica la partenza fu
ritardata di quasi mezzora.
Chiharu riempì i suoi moduli rapidamente
e li consegnò
a Sakura perché li facesse passare agli altri Hokage. Fu la
prima a
finire, il che le concesse qualche minuto per osservare Hitoshi senza
che nessuno se ne accorgesse.
Aveva avuto un incubo, da ubriaca. Aveva sognato
che
Hitoshi la accompagnava a casa dopo il ramen da Ichiraku e la baciava
contro il muro di una casa. Ma non poteva essere reale, doveva per
forza essere un brutto sogno, giusto?
Che razza di sogno, tra l'altro. Baciare Hitoshi?
Neanche sotto tortura. Avrebbe portato conseguenze catastrofiche, tra
cui l'esplosione definitiva del gruppo Sette e le risate eterne di
Sai. Dei, poteva quasi immaginarselo Sai che si sbellicava: le aveva
detto di fare pratica e lei aveva preso un ragazzino inesperto?
Hitoshi finì di compilare i documenti e
incrociò il
suo sguardo. Lo distolse subito. A Chiharu si gelò la spina
dorsale.
Poteva non essere un sogno, dopotutto?
«A pagina trentadue quante firme hai
messo?» chiese
Kotaro facendola trasalire. «Io ne vedo sei, tu?»
Chiharu diede una
rapida occhiata al foglio e confermò, innervosita.
«Credo di avere
ancora qualche postumo dall'altro ieri...» si
scusò il giovane Lee.
«Mia madre dice che ancora non sa come ha fatto Naruto a
trovare
casa nostra, tanto era marcio.»
«Ah, ti ha riportato Naruto?»
«Sì... Ha riportato a casa
tutti, no?»
Chiharu serrò le labbra. Non se lo
ricordava. Kotaro la
fissò per un lungo istante, poi spostò lo sguardo
su quello che
vedeva lei, e notò Hitoshi che aggiungeva un paio di firme
dimenticate insieme a Sakura. Si irrigidì.
«Tua madre non si è lamentata
vedendolo così
ubriaco?» insisté un po' troppo in fretta.
«Insomma, è il nostro
maestro, non...»
«I miei non si sono svegliati»
troncò lei. «Sono una
brava kunoichi anche da ubriaca.»
«Ah, certo...» Kotaro si mosse
a disagio da un piede
all'altro. «Quindi anche tu sei tornata con Naruto.»
Chiharu non confermò. I flash di quello
che si sforzava
di considerare un incubo si ripresentavano alla sua mente con
più
insistenza, davanti a Hitoshi. Qualcosa le serrava lo stomaco. Voleva
solo che Kotaro se ne andasse e la lasciasse in pace.
«Devo riflettere!»
sbottò senza pensarci. Kotaro
ammutolì. «Cioè. Mi sa che ho saltato
una pagina verso la fine. Ci
stavo ripensando adesso. L'avevo lasciata per dopo e non l'ho
più
compilata... Scusa un minuto.»
Senza lasciargli il tempo di ribattere si
allontanò in
direzione di Sakura e Hitoshi. Li raggiunse appena prima che Sakura
fosse chiamata altrove, ma fece in tempo a riprendere in mano i suoi
documenti e chiedere a Hitoshi la penna. Lei e lui rimasero soli, in
silenzio, senza guardarsi.
Hitoshi la vide sfogliare il suo documento avanti e
indietro, come se cercasse qualcosa, ma le firme erano perfette e in
ordine. Una parte di lui voleva dirle di tenersi la penna e
allontanarsi in tutta fretta, un'altra non riusciva a smettere di
sbirciarle il collo in cerca di segni dell'altra sera.
Chissà se
Chiharu ricordava qualcosa?
«Allora... Ti sei ripresa?»
azzardò l'Uchiha
faticosamente.
Chiharu scrollò le spalle e gli
gettò un'occhiata
infinitesimale. «Tu?»
«Ieri è stata dura.»
«Davvero hai bevuto con i tuoi mal di
testa?»
Hitoshi la fulminò con lo sguardo. No,
non ho
bevuto. Però ho pensato a quanto hai bevuto TU,
avrebbe voluto
risponderle. Invece si schiarì la voce e guardò
altrove. Deglutì.
Fuori le palle, si disse prendendo fiato.
«Sai,» lo prevenne Chiharu.
«Kotaro dice che Naruto
lo ha riportato a casa completamente ubriaco. Chissà come ha
fatto
ad accompagnare noi?»
Hitoshi fece una smorfia risentita. «Vuoi
giocartela
così?»
«Giocarmela?» ripeté
lei, per una volta confusa.
«Davvero non ti ricordi niente?»
Chiharu esitò, a disagio. Flash
dell'incubo dell'altra
notte le balenarono davanti agli occhi insieme a un poco opportuno
ricordo del profumo di Hitoshi, che ora le sembrava molto
più
intenso.
Oh-oh.
«No. Non ricordo niente» si
affrettò ad assicurare.
«Ero più marcia di Naruto, si vede... Beh, meno
male che a casa ci
siamo arrivati, giusto?» ripiegò distrattamente i
documenti per la
partenza. «Le firme sono a posto, vado a consegnarle a tua
madre.
Tieni.»
Hitoshi prese meccanicamente la penna che lei gli
tendeva, resistendo all'impulso di insistere. Aveva abbastanza
orgoglio per capire che Chiharu non voleva approfondire la questione.
Bene, allora. Non l'avrebbero approfondita. Al diavolo lei e le sue
avances alcoliche. Al diavolo!
Infilando rabbiosamente la penna nello zaino, si
voltò
e incrociò lo sguardo di Kotaro. In un secondo vi lesse
sospetto,
minaccia e un fondo di paura. Ripensò alla sera in cui
avevano
bevuto seduti sul marciapiede, alla scioltezza con cui lui aveva
centrato il cestino, al fondo di avvertimento che aveva sentito nelle
sue parole. Ripensò, fissandolo, al loro tacito accordo per
tenere
in piedi il gruppo sette.
Senza rispondere all'occhiata, quindi, gli diede di
nuovo le spalle.
In quel momento chiamarono tutti a raccolta. La
cerimonia delle firme era completata, Sakura aveva mollato il faldone
in mano a Naruto e stava facendo gli auguri di rito. Hitoshi
tornò
rapidamente alla realtà constatando che per l'ennesima volta
l'unico
grande assente era suo padre, e questo, sommato all'irritazione
causata da Chiharu, gli fece desiderare una sigaretta con
intensità
quasi morbosa. Sventuratamente, per almeno tre giorni sarebbe dovuto
restare pulito.
«Siate prudenti, non abbassate mai la
guardia» disse
Sakura in conclusione. «Non ho bisogno di sottolineare per
l'ennesima volta quanto sia importante la riservatezza, in questo
caso.»
«Saremo
muti come tombe!» approvò Gai con un sorriso
altrettanto luminoso.
«Torneremo vincitori, mio Hokage!»
«Non
ne dubito» gli concesse lei, magnanima.
«Ehi»
Naruto si schiarì la voce irritato. «Io
sono l’Hokage. Io.
E’ così difficile da ricordare?»
«No
maestro!» si affrettò ad esclamare Kotaro.
«Cioè, no, nobile
Hokage!»
Naruto
lo fissò abbattuto e cercò aiuto guardando
Chiharu.
«Più
aspettiamo, più aumenta il caldo» disse lei
lapidaria.
«Avete
finito di perdere tempo?» annuì Temari, battendo a
terra un piede.
Naruto
piegò la testa sulla spalla di Shikamaru, demoralizzato, e
lui gli
batté una pacca indolente sulla schiena. «Lo so.
Lo so. Sono fatte
così, purtroppo.»
«Forza,
gambe in spalla e partiamo!» esclamò Gai a quel
punto, pieno di
entusiasmo. «La giovinezza non attende!»
In
un balzo fu già diversi metri oltre l’ingresso,
lungo il sentiero.
Rock Lee e Kotaro lo seguirono entusiasti, anche se la gioia di
Kotaro aveva un che di affettato. Dietro di loro partì
Hitoshi,
dribblando i sicuramente umilianti auguri di sua madre, e a seguire
Temari e Chiharu.
Gli
Hokage rimasero a guardarli con un’ombra di inquietudine sul
viso,
non osando augurare buona fortuna a voce alta.
Ma
non erano gli unici a sperare silenziosamente per il meglio. Mentre
correva rasente il bosco Chiharu intravide una sagoma tra i cespugli,
e, ne fu certa, la riconobbe per quella di Baka.
Suo
malgrado si lasciò sfuggire un sorriso impercettibile.
Stupido...
---
Buonasera a tutti!
Aggiornamento in
diretta dalla gelida Olanda.
A questo punto la
storia ha preso un binario proprio diverso
rispetto alla
precedente versione.
Non ho ancora idea di
come si risolverà.
Ehm.
Grazie a tutte le
persone che lasciano una recensione
e a quelli che leggono
soltanto!
Dopo tanti anni mi
commuovete sempre!
|
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Capitolo 10 *** Spiati ***
Penne 10
Capitolo
decimo
Spiati
Correvano
da ormai cinque giorni, calcolò Jin. Ansimando dietro la
schiena di
Kakashi, che per la sua età si muoveva con
un’agilità
impressionante, per la prima volta il ragazzino letale si sentiva
solo un figlio che segue le orme del padre, e ne fu orgoglioso.
Fino
ad allora avevano viaggiato coperti dai mantelli mimetici e
percorrendo i sentieri meno battuti, ma sembrava che nessuno fosse
stato mandato alla loro ricerca. Naruto doveva aver fatto un ottimo
lavoro a Konoha, pensò Kakashi spiegando a Jin quale fosse
la loro
copertura.
Le
notti precedenti le avevano trascorse accampati nella foresta. Jin
aveva visto il nobile Hokage piazzare trappole, controllare il
circondario e tornare sporco di fango, e invece di pensare che fosse
meno nobile aveva pensato che non aveva nulla da invidiare ai Jonin
che uscivano in missione ogni giorno. Più gli stava vicino e
più si
rendeva conto che Kakashi poteva insegnargli molte cose. Non era solo
un burocrate seduto dietro la sua scrivania: le storie sul suo
passato e sul suo talento, prima tanto difficili da accettare, ora
ricevevano continue conferme.
Viaggiando
insieme si erano abituati subito l’uno all’altro,
come se
avessero fatto parte dello stesso gruppo per anni. Sapevano quando
fermarsi, quando mangiare, persino cosa pescare dal sacco delle
provviste; ogni volta che Kakashi estraeva il pacchetto a cui lui
stava pensando, Jin si illuminava e gioiva segretamente per lo strano
senso di comunione che per la prima volta sperimentava con un altro
shinobi. Era così appagato che per il momento riusciva a
resistere
alla tentazione di fare domande.
Nei
pressi di un villaggio di confine si fermarono per studiare la mappa.
Nel Paese del Fuoco avevano evitato i centri abitati, per questo Jin
rimase molto colpito dallo scarto tra il paese che si intravedeva tra
le fronde e la rigogliosa Konoha: le case erano poco più che
baracche di legno tra cui razzolavano pochi polli; non
c’erano
viali né fontane, non c’erano nemmeno strade degne
di questo nome.
Davanti al varco che probabilmente fungeva da via principale due
uomini camminavano con indolenza, scambiandosi informazioni e
sigarette.
«Mercenari»
mormorò Kakashi indicandoli. «La Roccia sta
cercando di rimpolpare
le sua fila.»
«A
cosa pensi che facciano la guardia?» domandò Jin
mentre Kakashi
riponeva la mappa.
«Questo
è uno dei valichi più comodi per oltrepassare il
confine: il
villaggio davanti a noi è per metà nel Paese del
Fuoco e per metà
in quello della Roccia.»
«Quindi
quegli uomini sono ancora nel nostro territorio?»
«Sono
certo che se lo chiedessi a loro direbbero che il villaggio
è
proprietà della Roccia.»
«Li
uccidiamo?»
«No.
Li oltrepassiamo senza che ci vedano» sospirò
Kakashi. «Cerca
sempre di evitare di uccidere, Jin: crea molti più problemi
di
quanti ne risolva.»
Jin
non ne era molto convinto, ma non ribatté. Invece
studiò quel che
vedeva dal loro nascondiglio e indicò al padre un gruppo di
baracche
sul limitare della foresta. «Passando di lì non ci
noteranno.»
«Aspettiamo
il buio» suggerì Kakashi gettando
un’occhiata al sole che si
avviava verso il tramonto. «Nel frattempo mangiamo
qualcosa.»
Dopo
cinque giorni le scatolette di zuppa fredda sarebbero diventate
disgustose per chiunque, ma Kakashi era abituato a cose ben peggiori
e Jin era troppo abituato ad obbedire per sollevare obiezioni. Mentre
consumavano il magro pasto osservarono quel che accadeva nel
villaggio.
Con
il tramonto gli uomini tornarono dal lavoro, sporchi e affamati.
Dalle finestre socchiuse iniziarono a farsi avanti i profumi delle
verdure e del riso, che fecero contrarre dolorosamente lo stomaco di
Jin. Alcuni bambini furono mandati a radunare le galline prime che
calasse l’oscurità. Uno dei mercenari
finì il suo turno di
guardia e venne sostituito da un uomo più grosso.
«Le
città della Roccia sono come Konoha?» chiese Jin
meditabondo.
Durante le sue missioni era sempre stato mandato in luoghi sperduti a
rintracciare informazioni nascoste, mai nelle grandi città
del
centro.
«Non
proprio» rispose Kakashi. «Konoha è il
Villaggio più ricco di
tutti.»
«Posso
capire perché ce l’abbiano con noi,
allora.»
«Le
guerre non hanno mai un’unica causa. Spesso le origini di un
conflitto vanno ricercate nel passato, il più delle volte in
eventi
che al tempo sembravano la mossa giusta da fare. Uno dei motivi
fondamentali per cui le Cinque Grandi Terre continuano a litigare
sono i Bijuu, lo sapevi? Un Bijuu costituisce un enorme potenziale
bellico, se si riesce a controllarlo. Chi ne controlla di
più ha più
possibilità di schiacciare gli altri.»
«E
dopo che li ha schiacciati?»
«Dopo
che li ha schiacciati si prende le loro risorse, il loro denaro, il
potere e tutto il corredo. E ottiene la pace, in teoria.»
«E’
per questo che stiamo combattendo?»
«Non
solo. Non più, almeno... Akatsuki aveva dato il via agli
scontri con
la sua ossessione per i Bijuu, ma dopo siamo stati bravissimi a
trovare altre mille ragioni per combattere. Come vedi le cosiddette
assicurazioni di pace non funzionano.»
«Forse
perché i Bijuu sono un’arma a doppio taglio:
dominarli è quasi
impossibile.»
«Certo,
lo sanno tutti. Anche noi del Fuoco lo sappiamo benissimo,
eppure...»
Kakashi scrutò Jin per un lungo momento. «Tu sai
di Kyuubi, non è
vero?»
«Papà,
lavorare con gli Anbu ha i suoi vantaggi...»
«Hai
ragione» Kakashi sospirò. Non si poteva impedire
alla gente di
spettegolare, dopotutto. «Naruto è il Jinchuuriki
di Kyuubi dal
giorno in cui è nato, e noi lo lasciamo vivere libero anche
se
sappiamo che potrebbe esplodere da un momento all’altro.
Perché ci
fidiamo di lui, certo, ma anche perché abbiamo un enorme
bisogno
della forza di Kyuubi. E’ la nostra assicurazione contro i
Bijuu
degli altri.»
«Cinque
anni fa, durante la battaglia con la Roccia...»
ricordò Jin.
All’epoca aveva provato invidia per la forza spropositata di
Naruto. «Ogni tanto Naruto perde un po’ il
controllo, per caso?»
domandò esitante.
«Più
spesso di quanto sarebbe auspicabile» ammise Kakashi.
«Nonostante
ciò resta sempre più utile averlo dalla nostra
parte che non
averlo.»
Jin
soffocò una smorfia. Se le cose stavano così
aveva poche
probabilità di eguagliare il livello di Naruto, obiettivo
che si era
prefissato il giorno in cui lo aveva visto alla prova. Certo questo
significava che si sarebbe infilato sul gradino appena sotto, non un
centimetro più in basso.
«Ma
se nessuno avesse i Bijuu...» iniziò, e subito
Kakashi lo stroncò.
«Se
nessuno avesse i Bijuu troveremmo altro per cui ammazzarci. Fa parte
della natura umana, credo: essere sempre sull’orlo
dell’equilibrio
e sforzarsi di sbilanciarlo a proprio favore prima che lo facciano
gli altri. Alla fine tutto si riduce a questo.»
Quando
ebbero terminato il pasto i due shinobi si spostarono verso le
baracche indicate da Jin. Kakashi richiamò Pak
perché annusasse la
strada davanti a loro, e al suo via libera uscirono dalla foresta per
inoltrarsi in un vicolo sudicio. Le guardie chiacchieravano poco
più
in là, abbastanza vicine perché brandelli di
conversazione li
raggiungessero. La luce non era ancora scomparsa del tutto, ma
l’aria
aveva quell’ombra grigia in cui è difficile
distinguere i
contorni.
Jin
e Kakashi scivolarono silenziosamente contro le pareti delle case,
abbassandosi quando incrociavano una finestra illuminata e
bloccandosi se si apriva una porta. Il resto del villaggio non era
molto diverso dal suo ingresso: ovunque c’erano fango,
rifiuti e
sporcizia, e i cani randagi venivano allontanati dalle minacce di Pak
prima di poter abbaiare contro di loro.
In
pochi minuti furono dall’altra parte del villaggio, ma anche
lì
trovarono due guardie sedute attorno a un falò. Kakashi fece
un
cenno a Pak, che sparì per qualche minuto. Si udì
un latrare feroce
di cani e le guardie si voltarono a guardare. I due shinobi colsero
l’attimo per correre rapidamente fino alla macchia di arbusti
dove
iniziava la vegetazione. Quando la raggiunsero, tra i rovi trovarono
un cartello annerito dalla muffa che dava il benvenuto nel villaggio
di Izano.
Avevano
superato il confine.
*
Naruto
fissava la macchia sul soffitto da almeno venti minuti, con i piedi
incrociati sulla scrivania dell’Hokage. Era una chiazza
leggermente
più scura dell’intonaco e aveva due specie di
protuberanze;
assomigliava un po’ alle guance di Choji
quand’erano ancora
ragazzini. O al seno di Tsunade, prima che prendesse tutti gli anni
che aveva. Non che lui l’avesse guardato poi così
attentamente,
eh. Cioè, forse tra i sedici e i diciotto anni, un pochino...
La
porta dell’ufficio si spalancò bruscamente, Naruto
trasalì, le
due gambe della sedia su cui si reggeva scivolarono stridendo e lui
sbatté una gran testata contro il pavimento dello studio.
«Adesso
che hai fatto?» chiese Sakura dalla soglia.
«Io?
Niente!» si affrettò a negare lui, alzandosi in
ginocchio con un
gemito. Okay, forse aveva guardato il seno di Tsunade anche mentre
stava con Sakura... Ma insomma, non poteva ignorarlo! Era
così
evidente!
«Se
non è niente di grave alzati» sospirò
Sakura, attraversando la
stanza e lasciando cadere sulla scrivania un plico di fogli.
Aggirò
il mobile e gli tese una mano, che lui prese per tirarsi su.
«Ho
il bernoccolo?» piagnucolò Naruto permettendole di
controllargli la
nuca. Chinò appena il capo e lei si sollevò in
punta di piedi,
scostando le ciocche bionde alla ricerca di lividi.
«Niente
di rotto» commentò con uno scappellotto leggero.
«Puoi ancora
regnare indisturbato, nobile Hokage!»
Naruto
ridacchiò nonostante il dolore, tirò su la sedia
e ci si accomodò.
«Qual’è il programma di oggi, cara
assistente?»
chiese pomposo.
«Che
ti alzi immediatamente per lasciarmi mettere un centinaio di
timbri»
rispose lei. «Devo completare i documenti per l'Archivio
sulla
missione di Suna, e già è abbastanza seccante
essere arrivata a
farlo il giorno dopo la partenza del gruppo.»
Naruto
fece una smorfia. «Se tu sei qui per la burocrazia e
Shikamaru per
la strategia, io cosa faccio di preciso?»
«Ti
glori del tuo titolo» fu la risposta di Sakura. «E
poi fai quello
che noi non facciamo abbastanza: ami il villaggio.»
«Oh,
sono proprio fondamentale!» biascico Naruto incrociando le
braccia
sul petto. «Mi sento più utile quando Hinata
pettina Hanako.»
Sakura
rise e lo raggiunse accanto alla sedia dell’Hokage.
«In piedi,
forza. Non ho tempo da perdere. Ah, e Neji ha detto che stasera devi
invitarlo a cena.»
«Neji?»
fece Naruto alzandosi. «Senza
preavviso? Hinata avrà un colpo.»
«Che
vuoi che ne sappia? Forza, fuori, devo lavorare!»
Con
uno sbuffo risoluto Sakura appoggiò le mani contro il petto
di
Naruto e lo spinse indietro, smuovendolo di qualcosa come due
centimetri.
In
quel momento sentirono un bussare sommesso alla porta aperta e,
voltandosi, entrambi videro Sasuke che li osservava.
Per
una frazione di secondo la scena fu di una chiarezza disarmante:
Sakura che rideva con le mani sul petto di Naruto e lui che sorrideva
di rimando, le dita strette attorno ai suoi polsi.
Buffo.
Se non fossero stati assolutamente certi di essere sposati e felici
da
anni
avrebbero detto che l’atmosfera si era come congelata.
Naruto
lasciò Sakura e lei si tirò indietro.
«Qual
buon vento, mio caro assistente!»
esordì il biondo Jonin, rompendo l’attimo di
tensione.
«Non
direi» replicò Sasuke freddo. Distolse lo sguardo
da Naruto e
Sakura e avanzò fino alla scrivania. «Ho qualche
problema con
Morino, mi sta facendo a pezzi i prigionieri. Visto che se gli parlo
io fa orecchie da mercante, sono qui per un esposto
ufficiale.»
«Ah,
Ibiki...» mormorò Naruto, rabbrividendo al ricordo
dell’esame per
Chunin. «Ultimamente mi hanno detto che ha perso un
po’ il senso
della misura. Forse è il momento di consigliargli la
pensione e
reclutare qualcuno di nuovo.»
«C’è
da chiedere a Koichi» rispose Sakura. «Ha lui i
moduli. Aspetta,
vengo con te.»
Sasuke
girò sui tacchi e si avviò verso il corridoio,
seguito a ruota
dalla moglie.
«E
la burocrazia?» chiese Naruto, fissando allarmato la pila di
fogli
sulla scrivania.
«Dopo»
rispose lei senza guardarlo.
Sakura
uscì dall’Ufficio e si chiuse la porta alle
spalle. Una volta
fuori raggiunse Sasuke davanti alla scrivania di Koichi.
«Credo
di non averne più» stava mormorando il segretario
in quel momento.
«Solo un istante, vado a prenderli in archivio.»
Il
ragazzo si alzò con un cenno di scuse e si
allontanò schivando
offeso lo sguardo di Sakura, che gli aveva revocato le ferie dopo un
solo giorno per farlo sfacchinare su un quintale di scartoffie. Lei
rimase accanto a Sasuke, studiando un portapenne finché i
passi di
Koichi non furono scomparsi.
«Hai
intenzione di fare altre scene del genere?»
sussurrò a quel punto.
«Che
scene?» replicò lui con voce incolore.
«Mi sembra di essere stato
impeccabile mentre tu giocavi con Naruto.»
«Giocavo
in che senso?» sorrise lei, sarcastica, ma i suoi occhi
rimasero
taglienti.
«Stai
cercando di litigare?»
«Forse.»
Cadde
un attimo di silenzio.
«Sakura.
Io mi fido di Naruto.»
Altro
silenzio.
«Solo
di lui?»
Una
pausa.
«No.»
«Ce
ne hai messo per dirlo» Sakura lo fissò
amareggiata. «Quello che
ho fatto a Naruto... Eravamo in due a farlo, non ero sola»
colpì,
incapace di trattenersi.
«Me
lo ricordo» Sasuke ricambiò lo sguardo amaramente.
«Non ho mai
detto di fidarmi di me.»
Sakura
trasalì spalancando gli occhi. Sbatté le
palpebre, confusa, e il
suo cuore accelerò nel petto.
«Allora
non sono solo paranoica?» sussurrò con un filo di
voce. «Quella
volta, non mi sono immaginata tutto...»
Sasuke
le rilanciò un’occhiata perplessa. «Di
che stai parlando?»
«Sto
parlando di quella
donna»
Sakura strinse un pugno sulla scrivania. «Quella con cui
prendi
sempre il tuo maledetto tè.»
A
quell’accenno Sasuke si irrigidì visibilmente, ma
solo per un
istante. L’attimo successivo sbuffò e
guardò Sakura con un misto
di compassione e incredulità. «Non dire
sciocchezze» sospirò
irritato. «Non riesco a capire come diavolo possa anche solo
venirti
in mente.»
«Come?»
negli occhi di Sakura brillò un lampo. «Te lo dico
io come! Quattro
mesi fa sono venuta in dipartimento. Volevo salutarti, avevo un
attimo libero, e mi hanno lasciata passare... Sai cosa ho visto lungo
il corridoio?»
Prima
che potesse rivelare cosa aveva visto Koichi fece il suo baldanzoso
ingresso, trasportando un corposo plico di fogli prestampati.
«Li ho
trovati!» esclamò sbattendoli sulla scrivania.
«Quanti gliene
servono?»
Solo
allora notò l’atmosfera tesa e l’aria
che sfrigolava tra Sasuke
e Sakura.
«Uno
basterà» mormorò lui asciutto, tendendo
una mano e prendendo il
primo in cima. «Lo compilo da solo, grazie.»
Lo
piegò, e senza salutare si allontanò sotto lo
sguardo confuso di
Koichi.
Sakura
fissò la sua schiena finché non fu scomparsa
oltre la porta.
Strinse i pugni con un orribile nodo in gola. Non si sentiva
così da
tanti, tanti anni. Da quando Kiba, in un corridoio di ospedale, aveva
insinuato che tra Hinata e Naruto ci fosse qualcosa.
Quando
tornò nell’ufficio dell’Hokage
ignorò le domande di Naruto e lo
spinse fuori dalla porta. Poi si sedette alla scrivania un tempo
occupata da Tsunade e si prese la testa tra le mani.
I
capelli neri creavano un contrasto netto con il panna delle lenzuola.
Lisci, sinuosi, lucenti, si snodavano lungo la stoffa come strade che
nessuno avrebbe mai percorso, dalle punte fino alle radici sulla
fronte di Neji Hyuuga. Fermo, sveglio e nudo nel letto, il capo del
clan più potente della Foglia fissava il soffitto di una
stanza non
sua e corrugava la fronte.
«Cosa
c’è?»
Una
voce roca, il sospiro di chi si è appena svegliato. Dita
affusolate
che accarezzano i capelli e arrivano fino al suo braccio.
«Sei
sveglia?» Neji si voltò su un fianco e
guardò la donna dai ricci
neri distesa accanto a lui. Lei gli sorrise, assonnata, e si
trascinò
più vicino posandogli un bacio sulla spalla fredda.
«Da
qualche minuto. Sono rimasta a guardarti per un po’.
E’ una vista
per la quale molte pagherebbero, sai?» confessò,
gli occhi verdi
ridenti.
Neji
sbuffò piano, infilando una mano sotto il collo.
«Quante volte
avrai intenzione di ripeterlo ancora?»
«Finché
non sarai rugoso e cadente.»
«Stai
aspettando che io dica qualcosa come ‘tu sei molto
più bella’?»
«Forse»
la donna rise e rotolò contro il suo fianco. «Ma
tanto tu non lo
dici.»
Cadde
un attimo di silenzio, durante il quale le dita affusolate di lei
percorsero gli addominali di lui, delicate, e poi risalirono lungo il
petto e il collo fino alle labbra. «Allora? Cosa
c’è?» ripeté
con un sorriso meno marcato.
Lui
fece una smorfia. «Problemi...»
«Pane
per i miei denti» replicò lei sorniona.
«Ricordi? Sono nella
squadra speciale del prode Uchiha, siamo noi che ci occupiamo di
tenere Konoha al sicuro. E come unica donna, per guadagnarmi il posto
ho dovuto dimostrare di essere più brava di tutti gli altri
uomini,
il che significa che posso affrontare qualunque problema. A meno che
non riguardi il tuo clan...» la sua voce si
abbassò, il sorriso
scomparve del tutto.
Neji
sospirò. «Per ora puoi fare finta di
niente.»
Lei
smise di accarezzargli il mento e posò la testa sul suo
petto.
«Fanno
tante pressioni?»
«Abbastanza.»
«E’
normale. Hai trentotto anni...»
«Smettila,
Fay.»
«Scusa.»
Di
nuovo silenzio. Fay sentiva il battito del cuore di Neji sotto
l’orecchio, ed era un battito lento e regolare, che non
tradiva il
minimo nervosismo. Forse quell’argomento non lo turbava.
Forse
aveva già un piano... O, forse, era la sua presenza che
ormai non
aveva più alcun effetto.
Per
un attimo fu tentata di chiedergli se l’amava. In quasi
cinque anni
non lo aveva mai fatto, e lui non aveva mai preso
l’iniziativa; ma
da qualche tempo pensava che le sarebbe piaciuto sentirgli dire: ti
amo. Sposami.
O qualcosa del genere. Naturalmente erano speranze senza alcun senso.
«Sei
stanco?» mormorò piano.
«No.
Ma tra un’ora devo essere a casa perché
c’è una riunione del
clan, e stasera ho un invito a cena da Naruto, anche se lui non lo sa
ancora.»
«Un’ora»
Fay alzò la testa e gli sorrise. «Mi sembra
più che sufficiente.»
Gli
sfiorò il collo con le dita e si chinò a
baciarlo. Neji non si
oppose. Posò le mani sui suoi fianchi quando la
sentì spostarsi su
di lui, entrambi già nudi, entrambi già freddi,
entrambi ormai
disillusi.
Sarebbe
stata una cosa rapida, il tempo di stordirsi per un istante e poi
quello di vestirsi e tornare nel mondo. Il loro piccolo limbo era un
lusso che potevano permettersi sempre meno, di quei tempi.
Eppure,
mentre i loro corpi si scaldavano e i capelli si mescolavano sulle
lenzuola color panna, Fay sentì il cuore di Neji accelerare
sotto la
pelle. E desiderò più che mai sentirlo dire ‘ti
amo. Sposami’.
Cinque
ore e una riunione più tardi Neji si presentò a
casa Uzumaki
vestito come per una cena di gala. Naruto lo squadrò dalla
testa ai
piedi con una smorfia disgustata.
«Pensi
di essere dagli Uchiha?» chiese mentre raggiungevano la sala
da
pranzo. «Guarda che a noi non devi dimostrare
niente.»
Lui
si limitò a scrutarlo impassibile, sistemando dignitosamente
il
kimono ricamato. Dopotutto era nell’abitazione
dell’attuale
Hokage e capoclan Uzumaki, ma a queste cose Naruto non arrivava mai.
Per fortuna sua moglie manteneva un minimo di decoro, pensò
quando
la vide avvolta in un kimono blu e argento, abbigliata come si
conviene a una signora di rango.
«I
bambini?» si informò Neji, accomodandosi a un lato
del tavolo
sorprendentemente deserto.
«Hanno
cenato prima, sono già a letto» rispose Hinata
versandogli da bere.
«Abbiamo pensato a una serata tranquilla.»
Neji
annuì, ringraziando per il saké. Non che avesse
problemi con i
figli di Naruto, ma trovava difficile concentrarsi su un discorso
mentre Minato creava bastioni e fossati con le carote nel piatto.
«Allora,
quando ti sposi?» se ne uscì Naruto con un sorriso
a trentadue
denti, mentre Neji sorseggiava dalla sua coppetta.
Il
capoclan degli Hyuuga si strozzò di colpo e
rischiò di ripetere la
scena di cinque anni prima, quando Choji aveva annunciato la
gravidanza di Ino e lui aveva sputato il tè addosso a tutti.
«Argomento
caldo?» Naruto gli strizzò un occhio.
«Potremmo...»
iniziò Neji, schiarendosi la voce. «Potresti
evitare di menzionare quel lato della mia vita che non ho interesse a
rendere pubblico?»
«E
perché?» Naruto si stupì.
«Insomma, siamo praticamente parenti.
Voglio solo sapere se finalmente pensi di accasarti o cosa.»
«Naruto...»
mormorò Hinata, posandogli una mano sul braccio.
«Non credo che
Neji sia qui per questo.»
«No,
infatti» annuì lui, rizzando fieramente la
schiena. «A dire il
vero non porto buone notizie.»
«Ehi,
ancor prima di iniziare? Non facciamo neanche un po’ di
conversazione distensiva?» si lamentò Naruto.
«Se
la conversazione distensiva riguarda il mio matrimonio,
no.»
Il
padrone di casa borbottò contrariato, giocherellando
immusonito con
le bacchette. Neji lo ignorò e continuò senza
esitazioni.
«Qualche
tempo fa, prima delle dimissioni del sesto Hokage, i miei uomini si
stavano addestrando con il byakugan in cima alla parete di
Konoha»
disse. «Come sapete, da quella posizione si ha
un’ottima visuale
sull’intero villaggio, e alcuni dei miei hanno notato
movimenti
sospetti attorno alla finestra dello studio
dell’Hokage.»
Naruto
si irrigidì. Hinata gli lanciò
un’occhiata preoccupata.
«Proprio
quella finestra?»
«Ne
sono certo» annuì Neji. «Ma non abbiamo
voluto allarmarvi prima di
avere conferme, così ho disposto che un uomo controllasse la
zona
giorno e notte per avere delle prove; in questo modo abbiamo scoperto
che le visite si ripetevano a cadenza irregolare. In poco
più di due
settimane abbiamo registrato movimenti sospetti almeno cinque
volte.»
«Cinque!
E le guardie che facevano?» esclamò Naruto
indignato.
Hinata
gli posò una mano sul braccio, mentre Neji scuoteva la
testa. «Non
è così semplice» riprese intrecciando
le dita sul tavolo.
«Nonostante il byakugan non siamo riusciti a individuare
esattamente
la posizione dell’intruso. Sapevamo che era lì, ma
non capivamo
dove.
E’ la prima volta che ci troviamo davanti a una cosa del
genere.»
Naruto
si accigliò, rimuginando rapidamente. Qualcuno poteva aver
saputo in
anticipo della partenza di Kakashi? Era in pericolo? No, Kakashi era
venuto a casa per informarlo, e lì Naruto aveva preso tutta
una
serie di precauzioni dopo gli eventi di cinque anni prima. Qualunque
discussione su quella faccenda era avvenuta lontano
dall’ufficio
dell’Hokage, tranne quella avuta con Shikamaru, Sakura e
Sasuke
quando però Kakashi era già partito. Naruto si
rilassò
impercettibilmente. Appurato che Kakashi non correva pericoli,
restava la domanda più importante: chi li stava spiando e
perché?
Hinata
si rivolse a Neji. «E’ per questo che hai voluto
parlarne a cena?»
«Sì.
Temo che ormai l’ufficio dell’Hokage non sia
sicuro.»
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Capitolo 11 *** Spioni ***
Penne 11
Capitolo
undicesimo
Spioni
Il
sole rovente oltrepassò le mura gettando la sua luce cruda
contro le
pareti di pietra del palazzo del Kazekage. All'interno i
condizionatori ronzavano e le striscioline di carta attaccate ai
bocchettoni ondeggiavano a pochi centimetri dal soffitto.
Nel
suo studio Gaara era già al lavoro su un complicato schema
di
gestione degli interventi. La ragione ufficiale per cui le due
squadre di Konoha erano arrivate a Suna il giorno prima era che
un'ennesima tempesta di sabbia aveva raso al suolo mezzo Villaggio,
costringendo il Kazekage a chiedere aiuto ai vicini del Fuoco. Gaara
cercava di organizzare i due gruppi in modo che i ragazzi sembrassero
sparpagliati ma riuscissero a tenersi in contatto, ed era un compito
piuttosto difficile, con l’occhio di falco di Loria che
scrutava il
foglio.
«La
ragazza spostala a sud, dove è crollato quel magazzino.
E’ troppo
vicina a sua madre» commentò la donna additando
l’ultima
posizione di Chiharu.
Gaara
trattenne un’imprecazione e cancellò un nome,
riscrivendolo
altrove. Al momento la disposizione sulla cartina prevedeva che i sei
shinobi della Foglia fossero dislocati ai sei vertici di un
immaginario esagono disegnato sul villaggio della Sabbia.
«Così
possono dare il massimo dell’aiuto» sorrise Loria
dolcemente.
Gaara
odiò ogni falsa goccia di zucchero che colava da quel
sorriso. «Tra
poco saranno qui» sibilò caustico.
«C’è altro?»
«No,
ora la disposizione mi piace» Loria sistemò gli
occhiali sul naso e
controllò che i capelli fossero a posto nella loro crocchia.
«Sono
in ordine?» chiese a Gaara con finta apprensione.
Lui
le scoccò un’occhiata arida. Lei
arricciò il naso e lo scrutò
abbastanza a lungo da spingerlo a distogliere lo sguardo.
«Sei
più arrogante» gli fece notare meditabonda.
«Stai...»
In
quel momento sentirono bussare alla porta dell’ufficio e la
donna
si interruppe bruscamente.
All’invito
di Gaara si fecero avanti Temari, Chiharu, Hitoshi, Kotaro, Rock Lee
e Gai. Una notte di riposo li aveva ristorati dalle fatiche di un
viaggio durato tre giorni, ma Chiharu non faceva che sbadigliare
borbottando per la sistemazione: non le era gradito condividere la
stanza con Temari, a quanto pareva.
Furono
rivolti i convenevoli di rito, il benvenuto, le felicitazioni tra
parenti. Tutti e sei gli shinobi di Konoha furono impeccabili nel non
tradire il minimo segno di nervosismo di fronte a Loria, e di questo
Gaara fu interiormente soddisfatto.
Poi
venne il momento di assegnare le posizioni, e fu allora che Chiharu
fece sudare freddo un bel po’ di gente.
«Perché
sono così lontana dagli altri?» chiese in tono
insofferente.
Kotaro
le gettò un’occhiata allarmata, Gaara si
irrigidì per un istante,
così come Temari e gli altri Jonin. Cercò di
elaborare in fretta
una risposta. Ma Loria intervenne prima che potesse parlare.
«Il
nobile Kazekage vuole distribuire il vostro aiuto lungo tutto il
perimetro» spiegò con voce vellutata.
«Avete percorso molta strada
per raggiungerci: sono certa che vorrete fare tutto il possibile per
aiutarci... Cosa di cui vi siamo infinitamente grati» il suo
sorriso
si allargò. «So che hai qualche... lieve problema
di salute. Ho
fatto in modo che fossi vicina a una piccola clinica, per ogni
evenienza.»
Chiharu
fece il muso lungo. «Buffo come tutti cerchino di ricordarmi
che
sono in fin di vita» bisbigliò tra i denti.
«Siete
pronti per partire?» intervenne Gaara prima che la sua
allarmante
nipote facesse qualche altro commento. Gli shinobi annuirono senza
protestare. Con un sospiro di sollievo il Kazekage li vide uscire dal
suo ufficio.
«Che
cavolo ti è saltato in mente?» sibilò
Kotaro non appena furono due
piani sotto Loria.
Chiharu
gli scoccò un’occhiata altezzosa.
«Eravamo di plastica!» si
giustificò. «Tutti a dire sì, tutti
bravi manichini che annuiscono
mentre quella ci ficcava agli estremi del villaggio. Andiamo, nessuno
ci avrebbe creduto! Qualcuno doveva sollevare
un’obiezione!»
«Ti
è andata bene che quella Loria ha pensato che fossi soltanto
rognosa» brontolò Kotaro.
«No.
Sapevo
quel che facevo!»
ribatté Chiharu stizzita.
«Finitela»
intervenne Temari, accennando all’ingresso del palazzo.
«L’importante è che sia andata bene,
adesso basta parlarne.»
Chiharu
serrò le labbra e incassò la testa tra le spalle.
Gli ultimi tre
giorni di viaggio con sua madre erano stati tra i più lunghi
della
sua vita, ma forse le avevano finalmente insegnato che ribattere era
morte certa quando si trattava di Temari.
Oltre
al fatto che la signora Nara aveva insistito costantemente per
rallentare l'andatura a causa del suo cuore, mettendola in serio
imbarazzo con i Jonin esperti del gruppo, Chiharu aveva dovuto
sopportare anche le occhiate astiose di Hitoshi. Lo aveva beccato
più
volte a fissarla come se avesse voluto pugnalarla nel sonno, ma senza
mai intavolare un discorso. Il che, in fin dei conti, era meglio che
rivangare la spiacevole discussione avuta alla partenza. Chiharu
aveva scelto di relegare i suoi orribili flash alla categoria incubi
che nessuno vorrebbe mai fare, e
l'idea di riprenderli in mano la riempiva di orrore quasi quanto
l'immagine di Sai che rideva di lei e Hitoshi.
Era
stata talmente concentrata sui suoi problemi da non accorgersi per
niente del gelo che era sceso tra gli altri due membri del gruppo
sette. Era stato relativamente facile nasconderlo con l'entusiasmo di
Kotaro per la missione con il padre e Gai Maito, ma se Chiharu avesse
prestato più attenzione si sarebbe accorta che c'era
qualcosa che
non andava tra lui e Hitoshi.
Se
Tenten avesse saputo come si erano evoluti i rapporti tra i ragazzi,
altro che una ramanzina sul senso di squadra prima di una missione:
li avrebbe rispediti a casa alla velocità della luce.
La
tempesta di sabbia – vera, per una volta – aveva
fatto danni
notevoli. Nonostante le mura di arenaria attorno a Suna, nessuna
parte del villaggio era stata risparmiata e i segni della violenza
del vento erano ben visibili ovunque.
A
nord e ad ovest Rock Lee e Hitoshi si trovarono davanti vere e
proprie distese di macerie, caseggiati abbattuti come fuscelli di
legno e travi che spuntavano dalle pareti di calce. Quelli erano i
quartieri più colpiti e, per ironia della sorte, anche i
più poveri
del villaggio. Ad est Temari si trovò a dirigere una squadra
di
carpentieri che doveva apportare rapidi accorgimenti agli edifici
più
importanti, e, dal momento che il suo ricordo era ancora ben vivo
nella memoria di Suna, non ebbe alcuna difficoltà a far
rispettare i
suoi ordini. A sud est e a sud ovest Gai e Kotaro decisero di
prendere attivamente parte ai lavori, liberandosi in fretta degli
abiti e mettendosi a trasportare travi e blocchi di pietra con un
entusiasmo persino ridicolo, quando non avvilente, ma a sud Chiharu
si guardò un po’ attorno, disse a tutti che
stavano lavorando
magnificamente e poi si appollaiò sotto una tettoia per
tirare fuori
un rotolo sulle evocazioni. Ogni trecento righe circa gettava
un’occhiata ai lavoratori, approvandoli distrattamente.
Tra
una riga del suo libro – che si era rivelato ben
più noioso e
inutile del previsto – e un pensiero
sull’ubriachezza, fece
passare il tempo sprecando la minor quantità di energie
possibile.
Quando vide il bordo inferiore del sole sfiorare a malapena le mura
attorno a Suna chiuse il rotolo, si alzò, si
stiracchiò e salutò
gli uomini che lavoravano con un cenno stanco. Loro si chiesero chi
diavolo fosse e perché avesse passato tutto il giorno a
guardarli.
Tornò
al palazzo del Kazekage, scoprendo ovviamente che sua madre non si
era ancora fatta vedere, si fece una doccia, infilò con una
smorfia
gli abiti ampi di Suna che cinque anni prima l’avevano fatta
sentire nuda, e raccolse i capelli nella solita coda un attimo prima
che Temari rientrasse, stanca e sudata.
«Da
quanto sei tornata?» le chiese corrucciandosi.
«Oh,
un paio di minuti» mentì lei con disinvoltura.
«Giornata pesante,
eh?»
«Non
strapazzarti» le ricordò Temari con uno sguardo
severo, poi,
intravedendo nello specchio l’espressione più
innocente e falsa
di Chiharu, si rese conto che la figlia di Shikamaru Nara
probabilmente quel giorno aveva sorseggiato un analcolico mentre
guardava gli altri lavorare. Filò in bagno sbuffando ma
senza aprire
bocca. Era decisamente troppo accaldata per iniziare una discussione
in quel momento.
Un’ora
e mezza più tardi, dopo cena, Gaara le fece chiamare per il
famoso
tè
in famiglia.
*
Già
da quattro giorni Chiharu, Hitoshi e Kotaro erano stati spediti a
Suna in missione top secret insieme a tre Jonin di tutto rispetto.
Naturalmente lui non provava nessun tipo di invidia per loro.
Nessuna. Era forte. Era un Anbu. Aveva missioni rischiose come
noccioline.
Però,
porca miseria, perché loro
erano stati mandati in una missione così segreta che nemmeno
un Anbu
poteva conoscerla?
«Sono!
Un! Anbu!» sbottò per la trecentesima volta, le
mani premute sul
ripiano della scrivania dell’Hokage e le vene del collo che
minacciavano di scoppiare da un momento all’altro. Se avesse
saputo
quanto assomigliava all’Hitoshi di pochi giorni prima si
sarebbe
picchiato, ma non lo sapeva. «Non ho tradito nessuno, non
tradirò
nessuno, mi avete accordato la vostra fiducia per cose ben
più
gravi! Perché non posso sapere qual è la
stramaledetta missione di
quei tre?» esclamò riversando rabbiose goccioline
di saliva sulla
scrivania.
Naruto
lo fissò con un misto di rabbia e insofferenza.
«Sei più stupido
di quel che pensassi, Stupido!»
ringhiò, le mani sulla scrivania in posizione perfettamente
speculare a quella di Baka. «Ti ho detto già dieci
volte che non!
Te! Lo! Posso! Dire! Cos’ha di tanto difficile questa frase,
eh?»
«Non
c’è un perché!»
esclamò Akeru battendo ferocemente la mano sul ripiano.
«Non sento
la parolina magica!»
«E
io invece sento che hai una gran voglia di prendere un pugno in
faccia!»
«L’Hokage
non prende a pugni nessuno!» strillò Koichi
superando le voci di
entrambi, e lasciò cadere dodici chili di carta sulle loro
mani.
Sia
Naruto che Akeru si fecero indietro precipitosamente, le nocche
contuse e doloranti. Il segretario sbuffò sistemando gli
occhiali
sul naso sudato. Scoccò occhiatacce all’uno e
all’altro.
«Rimpiango amaramente il giorno in cui il sesto Hokage se
n’è
andato!» sibilò stizzito.
Akeru
fissò torvo Naruto. «Perché non posso
saperlo?» brontolò cupo.
Naruto
sbuffò e roteò gli occhi. Non poteva certo
spiegargli gentilmente
che l’ufficio era controllato. E se gli avesse detto
‘vieni un
istante, facciamoci un giro’, avrebbe corso il rischio di
insospettire chiunque li spiasse. Purtroppo per Stupido, questa volta
avrebbe fatto bene a mollare l’osso o a cercarlo altrove.
«Top
secret»
sillabò Naruto, come se avesse a che fare con un minorato
mentale.
«Sai cosa vuol dire?»
«E
allora al diavolo questa cazzo di missione!»
esclamò Baka
arrossendo rabbioso. «Che si arrangi!»
«Non
è così che la conquisterai, Stupido!»
gli gridò dietro Naruto,
sospirando esasperato. Mentre la porta dell’ufficio sbatteva
contro
lo stipite lui si lasciò cadere sulla sedia dietro la
montagna di
carta depositata da Koichi, che colse la palla al balzo e gli
piazzò
sotto il naso i primi fogli. Naruto li prese distrattamente,
chiedendosi che fine avesse fatto Sakura, e subito si rese conto che
era troppo nervoso per leggere.
Perché
nessuno riusciva a capire chi teneva sotto controllo
l’ufficio?
E
perché Stupido era così maledettamente stupido?
Una
volta fuori dal palazzo dell’Hokage Akeru non
pensò nemmeno
lontanamente a sbollire la rabbia. Sì, Chiharu lo aveva
scaricato
senza mezzi termini. Sì, lui si era ripromesso di ignorarla
da quel
momento in avanti. Sì, ci era riuscito piuttosto
egregiamente, a
parte la leggera ricaduta al momento della partenza. Ma no,
non sarebbe rimasto impassibile se le fosse successo qualcosa. Per
quanto stronza, insensibile e disumana fosse Chiharu Nara, certi
sentimenti non si cancellano dalla sera alla mattina. Certi
sentimenti, malgrado tutto, durano. E quando ci pensava Akeru non
poteva fare a meno di trovarsi Stupido come tutti dicevano.
Decise
che non aveva voglia di sorbirsi le occhiate inquiete di chi lo
incrociava per strada. Procedeva a passo marziale, probabilmente
rosso in viso e con qualche vena in rilievo, e a mente lucida avrebbe
pensato anche lui di fare una certa impressione. Ma in quel momento
era troppo nervoso per pensare a mente lucida e optò per una
via
traversa. Balzò su un balcone e da lì a un tetto.
Avrebbe raggiunto
la foresta per un’altra strada, e forse il vento che soffiava
al di
sopra di Konoha gli avrebbe schiarito le idee.
Perché
non riusciva a chiudere il capitolo che riguardava Chiharu? Non
doveva essere tanto difficile. Aveva avuto altre ragazze, prima: ci
si era divertito, le aveva portate dietro ai cespugli del parco e le
aveva baciate, le aveva accarezzate, le aveva fatte ridere. Era
bravissimo a farle ridere. Ma non aveva mai fatto l’amore con
nessuna di loro, perché nessuna di loro era quella
giusta.
Solo
che probabilmente quella
giusta
non sarebbe mai stata giusta per lui.
Chiharu
non sarebbe mai stata giusta per lui.
Si
passò una mano tra i capelli, scompigliandoli furiosamente,
e si
accorse di essere arrivato alle ultime case di Konoha. Balzò
a terra
senza rallentare, accogliendo con gioia il bruciore
dell’ossigeno
nei polmoni. Tirato un profondo sospiro di sollievo si
addentrò tra
le ombre degli alberi, in quel piccolo tratto di foresta compreso
ancora tra le mura.
Azzerò
ogni rumore. Niente più respiro affannoso, niente fruscii di
foglie
sotto i sandali, niente giunture che scricchiolano o stoffa che
sfrega. Invisibile, tra le ombre, avanzava cauto con i muscoli tesi e
i movimenti innaturalmente lenti. Gli avevano insegnato che quello
era il miglior modo per distendere la mente: concentrarsi sulle fibre
del corpo, sentire ogni tendine, ogni millimetro di pelle, ogni
goccia di sangue, e controllarli. Immergersi dentro la propria
corporeità al punto da escludere qualunque pensiero. Gli
piaceva
quell’esercizio, gli piaceva ancora di più tra le
ombre della
foresta, dove le foglie lo circondavano e ridevano dei suoi tentativi
di non sfiorarle. Ne usciva stanco nel corpo ma disteso nella mente,
e quando tornava a casa riusciva ad essere di buonumore per almeno
due giorni, se non incontrava nessun membro del gruppo sette o Jin
Hatake.
Oggi
era stato più difficile del solito. Aveva faticato a trovare
la
giusta concentrazione; aveva dovuto provare quasi mezzora prima di
raggiungere lo stato mentale corretto, ma quando ci era riuscito
aveva sentito gli addominali distendersi e assecondare
l’andamento
del diaframma. Camminava nel sottobosco senza seguire sentieri,
schivava radici, foglie secche e rami con movimenti armoniosi. Si
piegava al di sotto delle fronde più basse, costeggiava i
cespugli
senza sfiorarli, passava accanto a file di formiche al lavoro e
quelle nemmeno sembravano vederlo.
Un
mormorio diverso dalla brezza.
Si
immobilizzò all’improvviso, i sensi
all’erta.
Fruscio.
Sussurro.
Il
cuore accelerò leggermente nel suo petto. Akeru lo costrinse
a
rallentare prima di riprendere il cammino. L’esercizio era
finito.
I suoi occhi guizzavano da un lato all’altro della foresta
densa di
ombre.
Sussurro.
Abbassò
il ritmo del respiro mentre si acquattava dietro i cespugli. Aveva
sentito una voce, ne era sicuro: poco più di un fievole
mormorio, il
rantolo di un moribondo con i polmoni vuoti d’aria, ma
c’era.
All’interno di Konoha. Quella consapevolezza improvvisa gli
strinse
lo stomaco. Gli abitanti del villaggio non sussurravano come
cospiratori nel loro territorio. Chi aveva penetrato le mura? Chi era
riuscito a passare, chi li minacciava? E se l’intruso lo
avesse
ucciso? Se lo avesse scoperto e lo avesse ammazzato, lì, in
quel
momento, per impedirgli di avvisare qualcuno?
Allora
l’ultimo ricordo di Chiharu su di loro sarebbe stato quello
della
sua patetica confessione.
Bel
lavoro Akeru. Il tuo esercizio per il rilassamento ha funzionato come
una ruota quadrata.
L’attimo
di distrazione gli impedì di accorgersi della foglia che
scricchiolò
impercettibilmente sotto il suo piede. Andò avanti comunque,
aguzzando l’udito alla ricerca del fruscio che lo aveva
attirato.
Doveva essere lì, doveva esserci ancora, anche se si era
zittito,
anche se...
Scattò
dietro un tronco e premette la schiena contro la corteccia. Il cuore
gli fece un balzo nel petto quando vide una sagoma umana tra due
alberi. La spiò da sopra la spalla, trattenendo il fiato, ma
gli
bastò meno di un’occhiata per riconoscere quei
capelli: lisci,
ordinati, lunghi quel tanto che bastava per non coprire il collo, di
un biondo così chiaro da ferire la vista.
Perché
Yoshi era lì? E
con chi parlava?
Senza
fare rumore Akeru sfilò dalla tasca lo specchietto di
ordinanza. Si
rintanò meglio dietro l’albero e lo
sollevò, orientandolo in modo
da mettere bene a fuoco Yoshi. Lo mosse a destra e a sinistra,
persino in alto, ma non vide nessun altro con lui. Sentì la
sua voce
che borbottava qualcosa, ma nessuna risposta. Un altro mormorio, uno
schiocco di lingua, e poi una fiammata si sollevò verso
l’alto
rischiando di appiccare il fuoco alle prime foglie.
«No,
no, no!» gridò Yoshi, saltellando per spegnere le
braci sulle punte
dei rami.
Una
foglia secca si carbonizzò in una vampata, dando fuoco al
rametto
sovrastante.
«Acqua!
Acqua!» sibilò Yoshi, correndo con le mani alla
borraccia, ma si
incastrò con il tappo e le fiamme si allargarono ai primi
rami
dell’albero più vicino.
Akeru
avvertì una contrazione allo stomaco. Non ci
credo. Sta per dare
fuoco alla foresta?
Ora,
perché le cose fossero ben chiare: lui detestava Yoshi anche
più di
Hitoshi e Kotaro. Lo aveva odiato dal primo istante in cui aveva
posato gli occhi sui suoi stupidi capelli da pulcino e aveva chiuso
il suo fascicolo quando lo aveva visto in giro per Konoha con
Chiharu. Non che credesse a una loro improbabile storia,
naturalmente. Chiharu era troppo... troppo,
per uno che se ne andava in giro con la testa come un limone. Ma lo
indispettiva saperli tanto vicini, e soprattutto sapere che Chiharu
riservava a lui il tempo e le gentilezze che Akeru avrebbe voluto per
sé. Per queste ragioni e per mille altre, radicate nella sua
natura
antipatica e nel lato infantile che non avrebbe mai debellato,
avrebbe volentieri girato le spalle alla foresta in fiamme e puntato
il dito contro Yoshi al momento giusto. Sfortunatamente il gene
dell’eroe-a-tutti-i-costi si attivò in quel
preciso istante,
vagheggiando di riconoscimenti e ringraziamenti improbabili, e,
contro la sua stessa volontà, lo spinse a mostrarsi nella
maniera
più spettacolare.
Un
piccolo
drago d’acqua si abbatté sulle querce che
iniziavano a crepitare,
infrangendosi sul sottobosco e addosso a Yoshi. Il ragazzo
lanciò
un’imprecazione, voltandosi di scatto, e quando vide Akeru
che lo
fissava sbuffò, tirando indietro i capelli appiccicati alla
fronte.
«Grazie»
mormorò tra l’amareggiato e il riconoscente.
«Cosa
stavi cercando di fare?» indagò Akeru,
scandagliando l’area
circostante alla ricerca di intrusi nascosti.
«Provavo
una tecnica» Yoshi si strinse nelle spalle con leggero
imbarazzo.
«Lo so che è patetico da dire a un Anbu, ma
è così. Non ho ancora
un diploma, io.»
«Sei
solo?» lo zittì Akeru piantando gli occhi
chiarissimi nei suoi.
«Come?»
«Ti
ho chiesto se sei solo.»
Yoshi
gli scoccò un’occhiata confusa.
«Veramente pensavo di organizzare
uno spettacolo e far pagare il biglietto a chiunque volesse ammirare
i miei insuccessi. Mi devi quindici ryo.»
Akeru
non spostò lo sguardo. Yoshi distolse il suo massaggiandosi
un
braccio.
«Senti,
ehm» mormorò a disagio. «Grazie, va
bene. Ma se continuerai a
fissarmi in quel modo finirò per pensare che tu abbia...
Insomma,
non vorrai un ringraziamento più... Girano certe voci sugli
Anbu...»
Akeru
arrossì. «Le
voci che girano sugli Anbu sono stronzate»
puntualizzò. «E tu trova un altro posto in cui
allenarti: la
foresta non è il massimo per provare le tecniche di
fuoco.»
«Sì,
chiedo scusa» annuì Yoshi nascondendo la propria
espressione in un
inchino.
Akeru
gli voltò le spalle stizzito. «Torna al villaggio,
sei bagnato come
un pulcino»
gli ordinò, calcando leggermente l’ultima parola.
Balzò via prima
ancora che Yoshi potesse cogliere l’ironia.
Se
aveva parlato poco era solo perché in realtà
stava pensando tanto:
forse Yoshi aveva davvero fatto un pasticcio ed era soltanto un
deficiente. Ma forse non era così
deficiente
da dar fuoco alla foresta. E, in questo caso non c’era alcun forse,
lui di voci che sussurravano ne aveva sentite due.
*
Le
stanze di
Gaara erano straordinariamente sobrie, nonostante fossero abitate da
tanti anni. Se la personalità dell’ultimo Kazekage
si era
insinuata in qualche modo tra quelle mura lo aveva fatto come sabbia
ed era andata a infilarsi in angoli invisibili. Mobili e soprammobili
erano neutri, di classe ma evidentemente datati. Probabilmente Gaara
non aveva mai pensato a sciocchezze come l’arredamento, e,
più
tardi, aveva lasciato tutto in mano ai suoi assistenti, Loria
inclusa. Forse era a causa della spia che da sei anni fingeva di
occuparsi della casa che il salotto aveva un che di affettato.
Era
stata Temari a preparare il tè. Loria si era offerta di
servirlo a
tutti quanti, ma lei le aveva lanciato un’occhiata di
intensità
tale da incrinare per un attimo la sua maschera.
«So
dove sono le tazze» aveva sibilato irritata, e la segretaria
aveva
fatto marcia indietro in tutta fretta sotto le occhiate ironicamente
compassionevoli di Chiharu e quella inafferrabile di Gaara. Non
appena Loria era uscita Temari aveva guardato il fratello e gli aveva
sorriso con aria di intesa. Lui non aveva risposto solo
perché da
sei anni era abituato a nascondere ogni reazione spontanea, ma anche
Chiharu aveva capito che l’atmosfera si era notevolmente
distesa.
In
quel momento erano seduti attorno a un piattino di dolci del luogo e
si godevano un istante di silenzio mentre Temari versava il
tè.
«Ho
saputo che non sei ancora Jonin» iniziò Gaara
guardando Chiharu.
Lei
fece una smorfia. «La prossima mossa è chiedermi
come sta il
cuore?» si lamentò tuffando un biscotto nella
tazza.
«Sono
constatazioni» le fece notare Temari.
«Ciò che tu ti ostini a non
considerare.»
«Hai
ragione. Che sciocca. Come ho potuto non accorgermi del tunnel bianco
davanti ai miei occhi? Oh, vedo una luce. Dovrò
seguirla?»
«Ehi»
Temari la fulminò con lo sguardo. «Cinque anni fa
hai fatto
l’arrogante e per poco non mi sei morta in braccio. Fammi il
favore
di ricordartene, prima di scherzare.»
Chiharu
sbuffò e nascose il rossore nel vapore del tè che
saliva. Aveva la
terribile impressione che quell’incontro si sarebbe
trasformato in
una tortura.
«Kankuro?»
chiese Temari.
«Credo
stia arrivando» rispose Gaara con una tranquillità
un po’
forzata. «Ha una donna... una cosa seria, a suo dire. Forse
sta
perd...»
«Scusate
il ritardo!»
La
porta si aprì sulle sue parole e Kankuro entrò
con il fiatone e un
sorriso radioso. «Sono imperdonabile, lo so, ma imploro la
vostra
clemenza!» esclamò gioviale. Con una risatina
andò ad accomodarsi
sull’ultima sedia, davanti alla quarta tazza ancora vuota.
«I
dolcetti al cocco! Li adoro.»
«Un’entrata
di un’eleganza spaventosa» commentò
Temari.
«Quello
cool
è lui» ribatté Kankuro additando Gaara.
I
fratelli si scambiarono uno sguardo lungo meno di un frammento di
secondo.
«Sei
un idiota» mormorò Gaara in tono disteso. Occhiata
interrogativa.
«Sono
il tuo esempio» rispose Kankuro allegro. Rapida conferma con
il
capo.
Temari
sbuffò, tradendo un guizzo nervoso, e versò il
tè nella tazza del
nuovo arrivato. «Kankuro, dicci di questa donna e falla
finita.
Muori dalla voglia di parlarne, no?»
Chiharu
trattenne segretamente il fiato, la tazza premuta contro le labbra.
Aveva colto lo scambio di sguardi, aveva capito che anche Kankuro era
a conoscenza del piano, e ora sapeva che la spia li stava tenendo
d’occhio, da qualche parte. Il che significava che di lavoro
avrebbero parlato altrove.
Vedeva
già i minuscoli granelli della sabbia di Gaara che
scivolavano
inosservati attraverso gli interstizi della porta, diretti in
un’altra ala del palazzo, e sperò che la donna di
Kankuro fosse un
argomento abbastanza ampio da tenerli impegnati per due giorni.
«Ah,
la mia storia è non è poi
così...» si schermì lo zio in quel
preciso istante, con un’occhiata furba e falsamente modesta,
quindi
la fissò. «Perché invece non ci parli
un po’ di te, nipotina
cara?»
Chiharu
soffocò un gemito.
La
sabbia passata sotto le loro porte formò un messaggio breve
e
conciso sul pavimento della stanza. Hitoshi e Kotaro lessero e
memorizzarono prima che perdesse forma e si dissipasse negli angoli;
Rock Lee e Gai Maito, altrove, raccolsero i vestiti e si prepararono
a uscire.
Dieci
minuti dopo si trovarono tutti e quattro in un vicolo sul retro del
palazzo. A loro una copia di Gaara spiegò il piano nei
dettagli.
*
Akeru
incontrò Naruto sulla via del ritorno, lontano dal palazzo
dell’Hokage. Con una risata gli raccontò che Yoshi
aveva quasi
dato fuoco alla foresta, mentre Naruto lo scrutava stranito in attesa
della sfuriata su Chiharu. Ma lui non fece alcuna scenata. Naruto per
qualche secondo pensò di introdurre personalmente il
discorso sulla
missione a Suna, visto che non erano nell’ufficio
sorvegliato, ma
Akeru non gliene lasciò il tempo. Gli batté
un’amichevole pacca
sulla spalla, depositò un segno pressoché
invisibile sulla sua tuta
e si allontanò con espressione allegra.
Una
volta a casa, Naruto staccò dalla stoffa la minuscola goccia
di
resina nera lasciatagli da Stupido. Era uno degli ultimi ritrovati di
Konoha, estratta dallo stesso albero con cui creavano i fogli per
riconoscere il chakra. Si trattava di una resina speciale che reagiva
a seconda della stimolazione; di solito era utilizzata per custodire
segreti, veniva modellata come inchiostro e poi sigillata con il
chakra: non avrebbe svelato il suo mistero senza la chiave giusta, e
la chiave era la stessa che l’aveva resa impenetrabile.
Akeru
era l’unico della sua generazione ad aver sviluppato un
chakra di
tipo vento, anche se poi si era specializzato nell’arte
medica.
Quando Naruto lo aveva scoperto le sue speranze di allevare uno
shinobi della sua specialità si erano miseramente infrante:
tutti ma
non
lui.
Già aveva poca pazienza con il gruppo sette, figurarsi con
quella
bomba a mano di Stupido. Si era sentito quasi sollevato quando il
ragazzo aveva parlato di vocazione medica.
Eppure,
per ironia della sorte, Baka era l’unico al villaggio con cui
Naruto potesse scambiare messaggi con il metodo della resina, dopo
Asuma: se un altro shinobi avesse cercato di sciogliere il sigillo la
goccia avrebbe reagito come reagiva la carta ottenuta dalla cellulosa
dell’albero, tagliandosi di netto, e avrebbe perso per sempre
il
suo messaggio. Ma quando Naruto la chiuse tra le mani e
liberò un
po’ di chakra, per lui la resina si modellò
dolcemente sul palmo
fino a formare una breve scritta. E quando lesse dei sospetti di
Akeru, collegarli a quelli di Neji fu questione di un istante.
---
E questa parte su Yoshi sembrerebbe
rimasta...
Ma come si evolverà?
Devo dire che ha un che di
divertente presentare una storia già nota.
Certe cose sembrano invariate e invece
cambiano del tutto,
altre sono diversissime ma portano
alle medesime conclusioni.
E' un altro modo per stupirvi, in
fondo.
Spero
di riuscirci fino alla fine!
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Capitolo 12 *** L'arte di evitare gli argomenti scomodi ***
Penne 12
03/02/2016
Capitolo
dodicesimo
L'arte
di evitare gli argomenti scomodi
Quando
erano state assegnate le stanze agli shinobi di Konoha, Chiharu non
era stata l'unica infastidita dagli assortimenti: anche Kotaro e
Hitoshi, che pure avevano sempre dormito insieme senza farne
questioni, avevano storto il naso all'idea di condividere la camera.
Non
avevano ancora parlato, dal giorno della partenza. Di fronte ai
cancelli di Konoha era successo qualcosa, nemmeno loro avrebbero
saputo dire cosa, ma era successo. Da allora avevano trascorso
insieme meno tempo possibile, ma arrivati a Suna si erano visti
mettere nella stessa stanza ed era stato chiaro che non sarebbero
più
riusciti ad evitarsi. Se era stato un sollievo sapere che avrebbero
lavorato tutto il giorno a chilometri di distanza, non altrettanto si
poteva dire della notte.
Kotaro
si rigirò per l'ennesima volta, cercando di convincere i
muscoli
affaticati a rilassarsi per lasciarlo dormire. Durante il giorno
aveva lavorato più duramente del solito, sudando fino a
quando gli
uomini che lavoravano con lui lo avevano costretto a smettere, eppure
il sonno tardava ad arrivare. Forse era la consapevolezza che a un
metro dal suo letto c'era Hitoshi, e che quello stesso Hitoshi aveva
combinato qualcosa, in
qualche modo, qualcosa che andava oltre i loro taciti accordi.
Si
rigirò ancora. Lo aveva visto
confabulare con Chiharu. Aveva sentito la stranezza nella voce di
lei, aveva visto la postura colpevole di lui. Lo aveva visto,
maledizione, e qualunque cosa fosse non era corretto!
«Cosa
hai fatto?» chiese di
colpo, sorprendendo se stesso per primo.
«Dormirei,
se tu la piantassi di
far casino» borbottò Hitoshi dal suo letto,
aprendo gli occhi a
fissare il buio. Ci siamo, pensò con una
punta d'ansia.
«Cosa
hai fatto con Chiharu.»
Silenzio.
«Niente.»
Non
appena
lo ebbe detto Hitoshi si maledisse per l'attimo di esitazione, e
capì
di aver fatto un grave errore.
«Era
ubriaca. Le hai messo le mani addosso?» continuò
Kotaro, le
mandibole serrate al punto da far male.
«Che
diavolo dici?»
«L'altra
sera, dopo il ramen. Cosa è successo?»
«Che
vuoi
che ne sappia? Io sono tornato a casa mia.»
«E
Chiharu?»
«Non
sono
la sua balia. Chiedilo a lei se ti interessa tanto!»
«Allora
cosa vi siete detti il giorno della partenza?»
Hitoshi
serrò le labbra, ragionando febbrilmente. Si sentiva ancora
irritato
al pensiero di come Chiharu aveva volutamente scelto di ignorare quel
che era successo tra loro, ma non poteva certo confidarlo a Kotaro.
«Parlavamo
delle firme» tentò.
«Palle!»
scattò Kotaro, gettando indietro le lenzuola e accendendo
rabbiosamente la luce del comodino.
Hitoshi
si
tirò su per riflesso, pronto a rispondere in caso di
pericolo. I due
ragazzi si fissarono, in pigiama, arruffati e sul piede di battaglia
come galli in un pollaio: da un lato Kotaro, le braccia muscolose e i
buffi occhi a palla, dall'altro Hitoshi, attraente e pallido, sulla
difensiva.
«Tutti
i
bei discorsi di quella sera erano stronzate?»
continuò Kotaro.
«Stai davvero provando a tenere insieme il gruppo o stai solo
cercando di convincere me a continuare a farlo?»
Hitoshi
accusò il colpo. In effetti la sera del ramen non aveva
pensato al
loro gruppo neanche per un minuscolo frammento di secondo... Ma si
poteva davvero fargliene una colpa?
Per
un
istante pensò di vuotare il sacco e mandare al diavolo
Kotaro.
Poi
ricordò
che Chiharu non voleva sapere niente di quello che era successo tra
loro. Era l'equivalente di un rifiuto, un rifiuto che non aveva
proprio voglia di condividere... Così si trattenne.
«Ma
che
diavolo ti prende all'improvviso?» disse, buttando indietro
le
coperte e facendo per alzarsi.
«Cosa
fai?»
scattò Kotaro irrigidendosi.
«Vado
in
bagno. Tu ritorna in sesto.»
Hitoshi
sparì oltre la porta sotto le occhiate guardinghe di Kotaro,
che
rimase fermo a darsi dello stupido. Quando sentì il rumore
dell'acqua che scorreva, gemette, ripiegandosi su sé stesso.
Aveva
affrontato la questione nella peggior maniera possibile. L'unico modo
che avevano per restare in bilico era non parlarne mai, e lui aveva
appena infranto il loro patto più segreto.
Cosa
mi è
preso?,
si domandò passandosi
una mano tra i capelli. Solo perché li aveva visti
confabulare quel
giorno, non significava che Hitoshi lo avesse tradito. Non
necessariamente. Potevano aver parlato di centinaia di altre cose
diverse, probabilmente di uno dei mille patemi dell'Uchiha, dallo
sharingan ai suoi fratelli a Naruto. Una cosa qualunque.
«Sono
un imbecille...» mormorò sfregandosi il viso. Stavo per
mandare all'aria il lavoro di cinque anni per una paranoia.
Quando
Hitoshi uscì dal bagno Kotaro trasalì.
«Adesso
possiamo dormire?» chiese subito l'Uchiha, trascinando la
voce in tono estenuato. «E' stata una giornata
pesante.»
«Io...
Credo che sarebbe il caso, sì.»
Hitoshi
sospirò interiormente, sollevato. Aveva schivato un brutto
fendente, poteva dirsi quasi graziato. Raggiunse il letto e
tornò
sotto le coperte mentre Kotaro spegneva la luce.
Silenzio.
«Scusa.»
«Dormi,
Kotaro.»
Kotaro
tirò su le lenzuola e rimase a fissare il buio.
Cinque
anni passati a salvare l'idea di loro tre insieme. Cinque
minuti per rischiare di far saltare tutto. Questo significava che era
vicino al limite di sopportazione: presto non sarebbe più
riuscito a
mettere il gruppo davanti alle sue esigenze.
Si
rigirò ancora una volta, dando le spalle a Hitoshi e
abbracciando
il cuscino nervosamente.
«Quindi...
Parlavate solo delle firme?» sussurrò.
Hitoshi
finse di non sentire. Kotaro non insisté.
*
Nei
quattro giorni trascorsi dal loro ingresso nel Paese della Roccia,
Jin e Kakashi avevano raccolto molte più informazioni del
previsto e
visto cose peggiori di quanto si aspettassero. La situazione era
più
drammatica di quanto dicevano i dispacci, constatò Kakashi
mentre
correva con Jin attraverso la campagna. Nel cielo notturno brillava
solo un piccolo spicchio di luna, a malapena sufficiente per indicare
il cammino. Attorno al sentiero che percorrevano, i campi di miglio e
grano mostravano tracce di ferite ormai vecchie, forse opera del
maltempo, e le spighe giacevano abbandonate e ormai marce. Dei
contadini che dovevano raccoglierle non c’era traccia.
Jin
correva dietro al padre senza aprire bocca, muto e obbediente come il
migliore dei Jonin, ma Kakashi iniziava a chiedersi quando avrebbe
mostrato la prima reazione. Da Izano a lì si erano
già imbattuti in
una ventina di villaggi, metà dei quali era stata
saccheggiata o
versava in stato di estrema povertà: per quanto Jin fosse
preparato
Kakashi sapeva che nessun uomo può nascondere i propri
sentimenti
troppo a lungo, in special modo quando sono sentimenti forti come la
repulsione. O la paura. La sua
paura, tanto per cominciare, perché il discorso valeva anche
per
lui.
Temeva
che prima o poi Jin se ne sarebbe accorto. Chissà se in quel
momento
avrebbe rotto il suo giuramento per fargli delle domande? Lui se lo
sarebbe aspettato, forse lo avrebbe fatto per primo, alla sua
età.
Se alla sua età avesse ancora avuto un padre.
Sbatté le palpebre
per allontanare quel pensiero: la campagna devastata di un paese
nemico non era il luogo migliore per riesumare vecchie ferite. Se
voleva aiutare Jin a mantenere la parola doveva mostrarsi sicuro ed
efficiente, senza una sola debolezza.
«Più
avanti c’è un villaggio» disse Jin a
quel punto, e Kakashi aguzzò
la vista. In lontananza si alzava un filo di fumo sotto cui si
intravedeva una massa informe di abitazioni. «Controlliamo la
situazione?»
Kakashi
annuì. La loro meta, aveva spiegato a Jin una volta entrati
nella
Roccia, era Anka, un villaggio di medie dimensioni
all’interno del
Paese. Per raggiungerlo la via più breve era la vecchia
strada
commerciale che portava al Paese del Fuoco, ma spesso avevano dovuto
viaggiare ai margini del percorso per evitare carovane di profughi o
mercenari in cammino, così avevano allungato un
po’ i tempi. Se
non vedevano tracce di militari passavano all’interno dei
centri
abitati, ma se notavano guardie dovevano fare ampie deviazioni.
Si
avvicinarono con cautela. Il nome del villaggio era scritto con gli
ideogrammi di ‘vento’ e ‘sole’,
ma il cartello che lo
indicava giaceva a terra tra i resti della vegetazione marcescente e
un angolo era stato eroso dalla muffa. Poco oltre, la strada si
inoltrava tra costruzioni buie e maleodoranti, invasa da assi
spezzate, porte divelte, vasi rovesciati e cenci probabilmente pieni
di persone. Non si vedevano guardie.
Kakashi
capì subito che anche se fossero passati per la strada
principale
nessuno avrebbe fatto domande. Mentre lui e Jin camminavano, il passo
istintivamente lento, non poterono fare a meno di guardarsi intorno.
Quella di Kakashi fu un’occhiata breve, che si
posò leggera su uno
spettacolo avvilente e passò oltre; quella di Jin fu di
natura
opposta: quando i suoi occhi incrociarono un ragazzino infagottato
che dormiva contro una parete, una voce dentro di lui
insinuò che
probabilmente aveva la sua età, che forse era una femmina,
magari
assomigliava a Hinagiku, e che quasi sicuramente, in quelle
condizioni, per vivere era arrivata a fare le cose peggiori.
Non
riuscì più ad allontanare gli occhi. La volta
dopo fu un vecchio,
che forse era già morto nei suoi stracci. Più
oltre una donna
cercava di rompere un osso e succhiarne il midollo, nascosta in un
anfratto buio; quando li vide si ritrasse spaventata. Andando avanti,
altri fagotti, altra stoffa sottile e fredda, altri polsi e altri
resti. Jin sentì lo stomaco contrarsi inorridito. Kakashi se
ne
accorse e aumentò il passo. Le case saccheggiate erano pozzi
di
oscurità che si offrivano allo sguardo senza pudore, la
strada era
percorsa da un rigagnolo maleodorante. Negli angoli più bui
si
sentiva il fruscio delle zampe dei ratti che lottavano ad armi pari
con gli uomini, e ovunque, in sottofondo, il sussurro del vento che
spazzava i campi perduti.
Quando
furono fuori Jin tossì, cercando di controllare la nausea.
Il
cattivo odore lo aveva preso alla gola, gli aveva fatto pizzicare gli
occhi e aveva azzerato la salivazione. Aveva visto luoghi simili
negli ultimi giorni, ma la somma del fetore e della desolazione dei
villaggi precedenti qui gli aveva fatto raggiungere il limite.
Kakashi
gli permise di respirare un soffio d’aria che veniva dalla
campagna
perché gli ripulisse i polmoni. Jin si piegò
sulle ginocchia,
costringendo il cuore a rallentare e lo stomaco a distendersi, poi
incrociò il suo sguardo.
«Tutti
quei posti... Sono stati i mercenari del Daimyo?» chiese con
un filo
di voce.
«Sì.
Siamo troppo lontani dal confine perché sia opera dei
nostri.»
«Perché
non se ne vanno? Perché restano lì a
marcire?»
«Alcuni
se ne sono andati. La maggior parte, probabilmente. Chi è
rimasto sa
che non vivrà a lungo. Marciscono, come hai detto
tu.»
«Ma
perché?»
C’era
rabbia nella voce di Jin ora. Non si chiedeva perché i
mercenari
saccheggiassero i villaggi, si chiedeva perché la gente si
arrendesse.
«Perché
in fondo siamo tutti deboli» mormorò Kakashi,
passando lo sguardo
sul miglio piegato dalla pioggia. «Arriva sempre un momento
in cui
ci arrendiamo e lasciamo che la disperazione ci consumi. Per ognuno
è
un momento diverso, e io spero che il tuo sia stupido, che riguardi
una tecnica che non riesci a completare o un rivale che non riesci a
battere, come me e Gai. Ma prega che non riguardi mai la vita di
nessuno. Prega che sia così, Jin, perché se
lascerai libera la
disperazione di fronte alla morte, sarà difficile non
seguirla...»
Papà,
dove stiamo andando esattamente?,
avrebbe voluto chiedere Jin. Perché
ho paura che le tue parole riguardino la mamma, se stiamo andando a
prenderla?
Ma
aveva giurato. Aveva dato la sua parola, non avrebbe fatto domande.
Finché riusciva ancora a trattenersi non avrebbe infranto il
loro
patto, sarebbe stato alle regole del gioco. Per quanto il suo stomaco
si contraesse, per quanto la sua schiena fosse umida di sudore freddo
poteva ancora lasciare a suo padre i segreti che custodiva tanto
gelosamente. Ancora per un po’.
Kakashi
vide che aveva ripreso colore. «Sei pronto?» gli
chiese.
Jin
annuì, serio, e ripartirono di corsa. Anka distava meno di
due
giorni di viaggio.
*
Era
raro che a Suna il cielo si rannuvolasse. Chiharu alzò lo
sguardo
verso la massa che si muoveva sopra il villaggio stemperando il blu
dell’orizzonte. Corrugò la fronte, sentendo
qualcuno prevedere
pioggia, e fissò i batuffoli di zucchero filato con
scetticismo.
«‘Sti
cosi non fanno nemmeno ombra» brontolò accaldata.
«Che
c’è?» chiese Temari, facendo dondolare
il piede mentre
aspettavano a un tavolino del bar vicino al palazzo. «Non
stai
bene?»
«Sì
che sto bene» ringhiò lei irritata.
La
sera precedente, durante il famoso tè in famiglia, non
avevano fatto
che parlare del suo cuore e di quanto fosse stata stupida a sbagliare
droga cinque anni prima. Per l’intera durata della riunione
tutti
gli occhi erano rimasti puntati su di lei, ma la cosa davvero
irritante era che nessuno le aveva mai fatto un complimento per aver
aiutato a evitare il peggio.
Sperava
che almeno Loria la spiona si fosse annoiata a morte, ammesso che non
avesse avuto a sua volta un saggio consiglio da darle: se avesse
seguito tutti i suggerimenti avrebbe dovuto mangiare solo carote e
riso al vapore, dormire sedici ore al giorno e farsi portare in
braccio su per le scale. Era inutile cercare di spiegare che il suo
cuore era perfettamente a posto e che detestava che la considerassero
invalida: prendersi cura della sua salute era diventato un passatempo
internazionale.
Afferrò
un tovagliolo sul tavolino e si fece aria mentre girava intorno lo
sguardo. Lei e Temari erano arrivate prima degli altri, ma
l’ora
dell’appuntamento per il pranzo era passata già da
qualche minuto.
Forse Loria aveva trovato sospetto che decidessero di fare pausa
tutti insieme e aveva trovato il modo di ostacolare gli altri?
«Vuoi
un bicchiere d’acqua? Ci spostiamo dentro?» le
chiese Temari
scrutandola con attenzione. «Siamo sotto
l’ombrellone, ma è
sempre il clima di Suna...»
«Mamma,
basta!» sibilò Chiharu. «Stai diventando
insopportabile!»
«Hai
preso le tue pastiglie stamattina?»
Stava
per rovesciarle addosso il tavolino, ma fu interrotta dalla comparsa
degli altri. Controllò lo scatto d’ira e
tirò un sospiro di
sollievo.
«Scusate
il ritardo!» esordì Rock Lee, mentre i ragazzi
univano un altro
tavolo e aggiungevano le sedie mancanti. «Abbiamo preferito
fare una
doccia prima di presentarci al gentil sesso.»
«Tanto
fra dieci minuti sarete di nuovo impestati di sudore»
commentò
Chiharu sbracciandosi per attirare l’attenzione del cameriere.
«Non
io» replicò dignitosamente Hitoshi. Lui non sudava
per il caldo,
era una delle cose per cui le ragazzine andavano in visibilio.
Il
cameriere si avvicinò per prendere le ordinazioni. I due Lee
e Gai
Maito rischiarono di svuotare la dispensa del bar, e Chiharu fu
costretta a prendere una bottiglia d’acqua da due litri
perché sua
madre continuava a blaterare qualcosa sui rischi della
disidratazione. Mentre aspettavano che il cibo arrivasse si diedero a
chiacchiere vaghe e rapide occhiate. Durante quella pausa Gai e gli
altri, che avevano saputo i dettagli del piano da Gaara, dovevano
condividere le informazioni con Temari e Chiharu. Per farlo avevano
stabilito di parlare in metafora, qualunque cosa significasse.
«Stanotte
ho fatto un sogno assurdo!» esclamò Kotaro
all’improvviso. «Devo
assolutamente raccontarvelo.»
Chiharu
e Temari lo guardarono storto.
«No,
dai!» esclamò anche Rock Lee con eccessivo
entusiasmo. «Non vedo
l’ora!»
Chiharu
fece una smorfia di incredulità.
«Anche
io!» si unì Gai enfaticamente. «Vogliamo
proprio sapere!»
Temari
fece arrivare un calcio sotto la sedia a Chiharu, che le
gettò
un’occhiata stralunata di fronte ai suoi cenni con le
sopracciglia.
Le sfuggiva qualcosa?
«Dovresti
stare attenta, Haru» disse Hitoshi con un'occhiata di
rimprovero.
«Penso che ti interesserà parecchio.»
Allora,
finalmente, anche la kunoichi capì cosa intendevano quando
avevano
parlato di ‘metafora’ e fece un piccolo gemito: non
aveva alcuna
fiducia nelle capacità creative di Kotaro, era certa che
sarebbe
stato un disastro.
Ed
ebbe ragione. Perché venti minuti dopo, davanti ai resti del
pranzo
e con i due litri d’acqua di Chiharu agli sgoccioli, tutti
fissavano Kotaro con la fronte imperlata di sudore, Hitoshi incluso.
«...Quindi
abbiamo aggirato la sorveglianza delle guardie, siamo entrati nella
stanza blindata e abbiamo rapinato l’intero
incasso» sorrise
Kotaro, dopo aver simulato un vivace schema d’azione sul
tavolo.
«L’incasso...»
borbottò Rock Lee, teso nello sforzo della concentrazione.
«L’incasso,
figliolo!» ripeté Gai in tono incerto, una mano a
sostenere il
mento prostrato.
«L’obiettivo
della mis... Rapina» sbottò Hitoshi esasperato.
«La rapina del
sogno di Kotaro, che voi avete sentito anche ieri!»
«Sicuro!»
esclamarono i due realizzando all’improvviso.
«L’oro!»
Chiharu
si lasciò andare contro lo schienale della sedia e
portò una mano
alla fronte. Dopo la contorta narrazione di Kotaro le era sbocciato
un mal di testa da far invidia a Hitoshi.
«Com’è
che siamo scappati?» chiese Temari, e Chiharu non
poté evitare di
lanciarle un’occhiata ammirata, perché
evidentemente lei era
riuscita a stare dietro al discorso.
«Con
un diversivo» rispose Kotaro pronto, gli occhi brillanti ed
entusiasti. «Uno di noi faceva da esca e ha convinto i cowboy
a
seguirlo mentre ce la svignavamo a cavallo.»
«Cavallo?»
Temari si accigliò.
«Oh,
sì, cavallo» ribatté Kotaro, lievemente
incerto. Guardò Chiharu.
«Non ricordo bene, ma forse ce lo procuravi tu...»
inarcò le
sopracciglia con intenzione.
Chiharu
ricambiò lo sguardo senza capire.
«Non
ho un maneggio» gli fece notare lentamente, parlando come si
fa con
i pazzi.
«Ehi,
era un sogno!» protestò lui.
«Il
che mi fa pensare che dovresti rivedere il menù della tua
cena,
ragazzo» commentò una voce flautata alle sue
spalle.
I
sei shinobi di Konoha alzarono gli occhi contemporaneamente: con un
brivido si accorsero che Loria era lì, le mani appoggiate
alla sedia
di Kotaro, e li abbracciava con lo sguardo sorridendo a tutti.
«Pausa
pranzo?» chiese Temari ricambiando il sorriso – a
Chiharu sembrò
più che altro che snudasse i denti in un avvertimento.
«Volevo
solo vedere come procedono i lavori...» spiegò
Loria vagamente, e
spostò la sua attenzione su Gai e Rock Lee che si sfidavano
con le
dita per prendere l’ultima arachide – il tutto nel
riuscito
tentativo di cancellare lo schema disegnato da Kotaro con le
cannucce.
«Vuole
bere qualcosa?» offrì Hitoshi
all’improvviso, senza sorridere.
Loria
lo fissò leggermente sorpresa. «Ho già
pranzato, grazie.»
«Posso
raccontarle il mio sogno, se le interessa!»
esclamò Kotaro con
entusiasmo forse eccessivo, e a quel punto Loria corrugò la
fronte e
iniziò ad apparire imbarazzata.
«Veramente
non...»
«E’
interessante, davvero interessante» la incitò
Chiharu sfoderando un
sorriso ampio e sornione. «Soprattutto la parte in cui gli
alieni
scendono sulla mongolfiera e ci danno manforte.»
La
segretaria la fissò sbattendo le palpebre. Aveva saputo che
gli
shinobi di Konoha avevano intenzione di pranzare insieme e
l’aveva
considerato sospetto. Allora li aveva raggiunti in fretta, convinta
di trovarli a confabulare sottovoce, e invece li aveva scoperti
rilassati e a loro agio nel mezzo di un racconto fantascientifico che
tuttavia aveva sollevato in lei qualche dubbio. Li aveva avvicinati,
certa di cogliere qualche segno di colpevolezza almeno nei ragazzini,
i più inesperti, invece si era vista offrire un cocktail e
un
riassunto di quello che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto
essere un progetto per liberarsi di lei.
O
era davanti a un esperto piano di depistaggio, o stava diventando
paranoica.
In
fondo Gaara non aveva alcuna possibilità di comunicare con
Konoha,
tentò di dirsi. Lo aveva sorvegliato attentamente in quei
sei anni,
ed era certa che nessuno sapesse del ricatto. Aveva controllato anche
i messaggi che Kazekage e Hokage si scambiavano, ed era tutto
regolare. Probabilmente gli aiuti dalla Foglia erano soltanto
aiuti, dopotutto.
Si
rilassò impercettibilmente, sfoggiando il solito
imperturbabile
sorriso. «Siete molto gentili»
ringraziò. «Ma ora che mi sono
accertata che siate a vostro agio penso che vi lascerò di
nuovo
soli. Il Kazekage ha bisogno del mio aiuto, altrimenti non saprebbe
mai organizzare il suo tempo. Buon pomeriggio e buon lavoro.»
Così
com’era arrivata, se ne andò senza fare danni.
Chiharu guardò
Kotaro, pensando che per una volta la sua ossessione per i dettagli
li aveva salvati tutti. Lui, accorgendosi del suo sguardo,
arrossì
di piacere e si strinse impercettibilmente nelle spalle, al che lei
lo gratificò di un sorriso, per quanto piccolo.
E
Hitoshi, che aveva visto tutto mentre Temari rubava l’ultima
arachide a Gai e Lee, tamburellò nervosamente le dita sul
tavolino.
A lui Chiharu non sorrideva dalla famosa sera della sbronza.
Credimi,
se pensassi di poter fare di più lo farei,
aveva detto a Kotaro.
Ma per essere
proprio onesti, gli
stava passando la voglia.
*
La vita di Sai
da qualche anno era
piuttosto monotona.
Se avesse dovuto
spiegarne le
ragioni, si sarebbero ridotte a un breve e avvilente elenco il cui
andamento sarebbe stato all’incirca così:
- dopo
una certa età le ragazze che facevano la coda alla sua porta
avevano iniziato a presentarsi con la speranza di un anello, il che
riduceva la percentuale di tempo dedicata al divertimento e
incrementava quella dedicata alle discussioni sulle variazioni della
carta da parati;
- le
missioni che svolgeva come Jonin quasi anziano non potevano
più essere molto impegnative, perché banalmente
il suo fisico non le avrebbe rette;
- tutti
i suoi amici erano stati rapiti dai doveri famigliari, eclissandosi in
una nube di pannolini, crisi ormonali e ansie di paternità
inaspettate.
Vedendo le
persone con cui era
cresciuto andare avanti su percorsi sempre più lontani dal
suo,
aveva dovuto fare alcune riflessioni sgradevoli ma necessarie.
Per esempio, per
quanto
apprezzasse la libertà che comportava il celibato, ogni
tanto Sai si
trovava a pensare che avrebbe potuto cedere a uno dei brillii che
scorgeva negli occhi delle sue amanti... Forse il matrimonio gli
avrebbe ridato qualcuno di quegli stimoli che sentiva venir meno anno
dopo anno. Le donne che gli ronzavano intorno con quelle intenzioni
erano due o tre, tutte ragazze pericolosamente vicine al limite in
cui non potevano più definirsi ragazze,
signorine di
bell’aspetto che avevano atteso il partner giusto per troppo
tempo
o avevano rifiutato le offerte in maniera sconsiderata. Almeno una di
loro avrebbe accettato una proposta di matrimonio senza pensarci un
secondo, ma sfortunatamente era anche quella a cui proprio non lo
avrebbe chiesto.
Però
pensava di sposarsi, questo
sì, e ci pensava abbastanza seriamente. Avrebbe avuto la
soddisfazione di applicare una carta da parati - una qualunque,
purché non se ne parlasse più - comprare un
maledetto anello,
appendere i kunai al chiodo e finalmente chiacchierare con i vecchi
amici di pannolini e crisi premestruali. Non era una prospettiva
entusiasmante, ma sembrava piuttosto naturale.
Fino
all’arrivo di Chiharu.
Sai non aveva
mai preso sul serio
le sue promesse da tredicenne. Aveva sempre pensato che avesse detto
che lo avrebbe conquistato solo perché
aveva mezzo litro di
morfina in circolo, non perché ci credesse davvero. E invece
aveva
fatto male i conti.
Questo era stato
un elemento
imprevisto nella sua monotona vita, una novità in grado di
scardinare la sua risoluzione di prendere moglie e fargli riprovare
il brivido del Sai ventenne che veniva corteggiato da ragazze come
Ino. Era stata una bella sensazione, certo inaspettata, ma bella. Lo
aveva fatto sentire affascinante e potente, gli aveva fatto credere
che poteva ancora essere l’aitante giovanotto di un tempo.
Quando
l’aveva vista comparire
sul cornicione della finestra per la seconda volta aveva provato una
punta di fastidio, perché aveva pensato alla
difficoltà di spedirla
a casa da suo padre; ma poi, accogliendola e mettendola alle strette,
aveva vissuto un déjavu che da tempo non
gli tornava alla
mente: Ino. Ino che giurava e spergiurava che avrebbe dettato lei i
ritmi del corteggiamento, Ino che si stizziva quando lui nominava
Shikamaru, Ino che lo guardava con un sorriso furbo ogni volta che si
accorgeva che il suo flirt andava a segno. Erano passati tanti anni,
ma il brivido di quei tempi era ancora lì, sepolto sotto la
polvere
del tempo.
Certo, ora Ino
era sposata con
Choji e Sai la incontrava solo come amico, quando capitava, ma era
stata per certi versi la sua relazione più importante. E
ironicamente, se le cose fossero andate in maniera completamente
diversa, Chiharu sarebbe potuta essere sua figlia,
non di
Temari. La cosa aveva un che di perverso, si era detto, ma non aveva
mai avuto grossi problemi ad affrontare le proprie perversioni.
Naturalmente
tutto ciò non aveva
a che vedere con qualche merito particolare di Chiharu. Anzi, la
ragazza era molto goffa, una corteggiatrice noiosa e una pessima
conversatrice. Se avesse cercato di sedurlo vent’anni prima
le
avrebbe riso in faccia, ma adesso che si avvicinava ai quaranta non
faceva più lo schizzinoso. Era un peccato che fosse stata
spedita in
missione proprio adesso.
Nello stimolante
panorama della
sua seconda giovinezza c’era solo un piccolo grande problema:
faticava ad essere spontaneo quando si trovava davanti Shikamaru - e
temeva che se per disgrazia avesse incontrato sua moglie la
situazione sarebbe stata anche più difficile. Per fortuna
era facile
evitarlo, considerato che il pigro Nara cercava di rendersi
irreperibile il più possibile, ma ora che Temari era via lo
si
vedeva in giro un po’ più spesso. Sai avvertiva un
insolito senso
di disagio quando lo incrociava per strada.
«Tu
hai qualcosa che ti
preoccupa» gli disse un giorno Ino, mentre Sai si rassegnava
a
comprare dei fiori al suo negozio per una delle aspiranti spose che
gli ronzavano intorno. «Hai le pieghe attorno alla bocca
quando
qualcosa ti preoccupa. Dovresti smettere di fare quella smorfia, alla
nostra età le rughe di espressione si cementano nella
pelle.»
«Sei
davvero così attenta a
dettagli come questi?» chiese lui lisciandosi la faccia con
una
mano.
«Il
mio mestiere è vendere: devo
sapere di che umore sono i miei clienti. Allora, cosa
c’è che non
va? Un’altra spasimante che piangerà vedendo le
margherite perché
voleva un anello?»
«Piangerà?»
Sai scrutò il
mazzo di fiori e cercò di visualizzare il momento in cui li
avrebbe
consegnati. Oh sì, la ragazza quasi non-ragazza avrebbe
pianto.
«Potrei prendere delle rose...»
«Se
lei vuole un anello, non ti
basterà comprare tutto il negozio. Quando metterai la testa
a posto,
eh?» sbuffò Ino appoggiandosi al bancone con i
gomiti. «Essere
sposati non è così male. Sesso regolare, almeno i
primi tempi,
affitto dimezzato e una spalla su cui piangere. E i bambini! Oh, i
bambini sono adorabili.»
«Pensi
davvero che potrei trovare
i bambini adorabili?»
«Li
troveresti molto
interessanti. Totalmente imprevedibili, privi di schemi e
convenzioni. Per te sarebbero divertentissimi.»
«Posso
studiare quelli degli
altri, se è questo che intendi.»
Ino fece una
smorfia. «Quelli
degli altri sono rischiosi... Non sai mai come la prendono i loro
genitori. Comunque se vuoi farla piangere un po’ meno, prendi
un
mazzo gigante di rose rosse e scrivile un biglietto che la carichi di
aspettative.»
«Per i
genitori?»
«Per
la tua spasimante, stupido!»
Sai mise
giù il mazzo di
margherite e obbedì docilmente. Ino gli preparò
un mazzo di rose
che minò seriamente il suo budget mensile, gli scrisse un
biglietto
che lasciava intendere vaghe promesse sul futuro e lo salutò
con un
sorriso smagliante e la cassa rigurgitante di banconote. Sicuramente
sapeva fare il suo mestiere. Chissà come avrebbe reagito
sapendo che
la figlia diciottenne della sua più vecchia fiamma stava
cercando di
infilarsi sotto le stesse lenzuola che aveva occupato lei un tempo...
Al ricordo, parte della concentrazione di Sai deviò su
piacevoli
episodi del passato a cui non ripensava spesso: in effetti la giovane
Ino avrebbe potuto dare molte dritte alle entusiaste quarantenni di
oggi; Choji era stato un ragazzo molto fortunato o incredibilmente
abile, Sai non aveva mai scoperto quale delle due.
Qualcosa
disturbò i margini della
sua area di attenzione, riportandolo bruscamente alla
realtà. Smise
di camminare e si voltò, appena in tempo per vedere un piede
sparire
dietro un muro.
Normalmente non
faceva molto caso
alle persone, a meno che non appartenessero alla famiglia Nara - e
solo di recente - ma qualcosa nella figura appena scomparsa gli aveva
fatto suonare un campanello d’allarme.
Alzò
lo sguardo sui palazzi che
delimitavano la strada, inizialmente estranei, poi sempre
più
familiari, e prima che fossero passati dieci secondi si
incamminò
rapido nella direzione in cui aveva visto sparire il piede
misterioso.
Quella zona del
villaggio era
benestante: ville dagli ampi parchi recintati, palazzi con portieri
che facevano il quarto grado ai visitatori, aiuole accanto ai
cancelli e asfalto sempre fresco. L’aria era pervasa dal
profumo di
fiori che emergeva dagli invisibili giardini, e in quella cornice
Sai, con il suo mazzo di rose gigante e i suoi abiti da quattro
soldi, sembrava un facchino in cerca dell’indirizzo per una
consegna.
Eppure conosceva
quelle vie, anche
se le aveva sempre attraversate di notte, saltando di ombra in ombra.
Le conosceva così bene che avrebbe potuto attraversare
l’isolato
ad occhi chiusi senza mai attirare l’attenzione di una
guardia.
Svoltò l’angolo a cui aveva svoltato
l’uomo; lo vide in fondo
alla strada, fermo davanti a un cancello. Stava parlando con una
guardia, e un secondo dopo fu introdotto all’interno
dell’abitazione, inghiottito dalle mura di roccia spessa.
Sai raggiunse il
cancello oltre il
quale l’uomo era sparito. Si fermò ad osservare
l’alta struttura
di bambù affilato, oltre la quale si intravedeva un tetto
decorato,
quindi scivolò con lo sguardo all’ingresso. Dal
nome sulla
tavoletta dell’indirizzo riemerse il ricordo di una famiglia
nobile
piuttosto in vista, i cui membri erano storiche colonne del
Consiglio.
Mentre leggeva
gli ideogrammi
incisi nella lacca e cercava un collegamento con l’uomo che
gli era
sembrato di riconoscere, la memoria di Sai scavò indietro,
molto
indietro, anni e anni prima, quando ancora Naruto era il più
incapace allievo di Jiraya e lui un valido membro della Radice agli
ordini di Danzo. Scavando così a fondo un volto riemerse
dalla
nebbia dei ricordi, il volto di un compagno d’armi di cui non
ricordava il nome - anzi sì, Hatsu - e insieme a quel volto
si
fecero avanti una gran quantità di informazioni.
Quando Danzo era
stato arrestato e
la Radice smantellata, Hatsu era stato rilasciato perché era
poco
più di un ignaro esecutore. Con lui molti altri erano stati
mandati
a casa senza note sulla fedina penale, e Sai ricordava bene che
alcuni di loro lo avevano considerato uno sporco traditore. Hatsu non
era tra quelli: alla caduta della Radice aveva scrollato le spalle e
aveva detto che avrebbe continuato a lavorare come shinobi anche se
gli avessero affidato incarichi minori. Non sapeva fare altro che il
suo mestiere, e non era particolarmente devoto alla causa di Danzo.
Se Sai non
andava errato Hatsu era
rimasto Chunin e lavorava all’Ufficio per lo Smistamento
delle
Missioni; il che, sia per lo stipendio che per il prestigio che
questo comportava, rendeva assolutamente incomprensibile la sua
presenza in quella zona del Villaggio e il fatto che fosse appena
stato invitato all’interno di una residenza nobiliare. Tanto
più
che quello era stato il quartiere di Danzo, tanti anni prima.
«Cerca
un indirizzo in
particolare?» chiese un portiere alle spalle di Sai.
Il Jonin si
voltò e gli sorrise.
«No.»
Il portiere lo
scrutò con
sospetto, quindi guardò l’abitazione di fronte e
si chiese se
fosse il caso di avvisare la sicurezza della casa.
«Sono
solo un ammiratore della
signorina» aggiunse Sai, ostentando i fiori con un movimento
vago.
«Ma ora che sono qui davanti il mio dono sembra totalmente
inadeguato.»
Il portiere
guardò con
compassione le rose rosse e l’abbigliamento del giovane.
«Vai a
casa, ragazzo» consigliò in tono paterno.
«Qui non c’è niente
per te.»
* * *
Salve
a tutti!
Chiedo
scusa per il ritardo nell'aggiornamento,
ma
ho trovato improvvisamente del lavoro e mi hanno chiesto di presentare
una quantità impressionante di documenti,
per
cui devo scomodare tribunale, medici del lavoro e il Papa, credo.
In
compenso abbiamo finalmente capito qualcosa di più sulle
losche (?) motivazioni di Sai,
e
introdotto una grossa, grossissima parte che nella vecchia versione di
Penne non esisteva.
(E
che dà uno scopo all'esistenza di Sai. Tipo.)
Niente
Naruto in questi capitoli,
ma
presto tornerà in gran forma
(perché mi sono
riletta le parti di Sinners in cui dava di matto. Aww!).
|
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Capitolo 13 *** Arroganza ***
Penne 13
Capitolo
tredicesimo
Arroganza
E'
solo un bacio.
Non
può essere così difficile, giusto?
Temari
non aveva preso affatto bene l'idea che Chiharu fosse responsabile
del piano di fuga e non volesse condividerlo con lei.
Per
tutta la sera aveva provato a estorcerle informazioni con le buone e
con le cattive, ma invano: Chiharu si era trincerata prima dietro
vaghe risposte, poi in un silenzio inespugnabile fatto di grugniti ed
espressioni di esasperazione. Alla fine, chiudendo lo zaino per
l'indomani con uno strattone violento, si era voltata e aveva posto
fine alla questione con uno stolido: «ho diciotto anni e
l'autorizzazione dell'Hokage. Vado a dormire altrove.»
E
lo aveva fatto davvero, sfruttando senza vergogna la sua nuova
maggiore età e ignorando pericolosamente le minacce di
Temari. Era
uscita dalla porta con lo zaino in spalla, senza scucire una parola,
senza augurare la buonanotte né salutare prima della
partenza, ed
era trottata via. Aveva fatto una cosa imprudente, considerati i
rischi a cui andava incontro l'indomani. Ma aveva diciotto anni, si
sentiva invincibile e non pensava affatto alla possibilità
che
qualcosa nella missione andasse male.
Prima
di andare a bussare alle stanze di Gaara per supplicarlo di darle un
letto, decise che le serviva una boccata d'aria. Tenendo stretto lo
zaino e facendo attenzione a non incrociare nessuno dietro le curve
dei corridoi raggiunse le scale. Risalì fino all'ultimo
piano,
un'ala in evidente stato di abbandono dove la polvere si radunava
negli angoli male illuminati, e da lì arrivò alla
porta che dava
sul tetto. La trovò socchiusa.
Immediatamente
allertò tutti i suoi riflessi, lasciando scivolare lo zaino
a terra.
Sapeva che durante la notte tutti gli accessi al palazzo venivano
chiusi dall'interno; dubitava che qualcuno avesse sbadatamente
scordato la porta sul tetto.
Accucciatasi
contro il muro, socchiuse leggermente la porta per sbirciare fuori.
La terrazza sembrava deserta. Con un po' meno cautela si sporse per
aumentare il campo visivo...
«Che
stai facendo?»
Per
la sorpresa Chiharu trasalì e picchiò la testa
contro lo stipite,
che risuonò con un tintinnio metallico. Imprecando e
massaggiandosi
la fronte vide la porta che veniva aperta e la faccia pallida di
Hitoshi che la scrutava preoccupato.
«Sto
bene» assicurò rialzandosi.
«Sicura?»
«Che
cazzo ci fai qua fuori?»
Hitoshi
alzò la mano che stringeva la sigaretta, scrollando
contemporaneamente la cenere. «Il solito. Tu?»
Chiharu
avvicinò lo zaino con un piede. «Scappo da mia
madre.»
«Avete
retto solo una notte?»
Chiharu
scrollò le spalle e si chinò per raccogliere lo
zaino. La metteva a
disagio trovarsi di nuovo sola con Hitoshi. Non voleva parlare con
lui. «Ho visto la porta aperta e ho pensato di controllare,
ma se è
tutto a posto vado a cercare un letto.»
Hitoshi
esitò per un istante. Ancora una volta erano lui e lei,
senza Kotaro
né qualcuno degli onnipresenti adulti. Non succedeva dalla
sera
della sbronza. Al ricordo il cuore fece una piccola capriola nel
petto e piombò giù, al centro dello stomaco.
Ma
lei lo aveva rifiutato, ricordò. O meglio, aveva finto
malamente di
non sapere nulla di quel che era successo, che era come rifiutarlo.
Vigliaccamente e pure un po' da stronza. Il pensiero lo
irritò.
«Davvero
non ricordi niente della sera del ramen?»
Chiharu
si pietrificò sulla soglia, e Hitoshi con lei. Ok, forse gli
era
sfuggito in maniera un po' impulsiva.
«Assolutamente
niente. Ubriaca marcia» assicurò lei senza
guardarlo.
Lui
si innervosì ancora di più.
«Perché fingi di non ricordarlo?
Dovremmo parlarne, invece...»
«Non
sto fingendo proprio un tubo!» scattò Chiharu
lanciandogli
un'occhiata di fuoco. «Non c'è niente di cui
parlare, perché non
ricordo assolutamente niente di quella sera!»
«Se
è questo il punto, posso spiegartelo io»
sbottò Hitoshi stizzito.
Chiharu
alzò una mano in segno di avvertimento. Lui resse ancora
qualche
secondo, poi fece un verso esasperato e distolse lo sguardo,
aspirando una lunga boccata dalla sua sigaretta. Voleva davvero
giocare a quel gioco? Beh, non sarebbe rimasto in silenzio a farsi
massacrare. «Allora dimmi cosa c'entra Sai.»
Chiharu
spalancò occhi e bocca, inorridita. Davvero aveva
menzionato Sai?
Era stata così assolutamente idiota da raccontare a Hitoshi
quello
che era successo con Sai?
«Non
ci provare» disse l'Uchiha
in fretta, vedendo che lei stava per negare qualunque coinvolgimento.
«Hai smesso di baciarmi apposta per dire qualcosa su di
lui.»
«Ba-Ba-Ba...?»
balbettò
Chiharu, lasciando cadere a terra lo zaino. Allora l'incubo non era
solo un incubo. Era molto peggio.
«Baciarmi,
sì. Hai presente?
Quella cosa che succede quando due persone...»
«Ho
presente!»
Entrambi
tacquero, improvvisamente
consapevoli del fatto che era successo: stavano infrangendo il patto
più importante del gruppo sette, stavano parlando di
qualcosa che
non sarebbe mai e poi mai dovuto succedere. Chiharu aveva una vaga
idea di quelli che erano i rapporti tra Hitoshi e Kotaro, anche se
nessuno aveva mai scoperchiato il vaso di Pandora: discutere di
ciò
di cui stavano discutendo rischiava di ipotecare seriamente
l'equilibrio del gruppo.
La faccia di
Chiharu era
abbastanza chiara al riguardo, e Hitoshi lo capì.
Pensò a Kotaro e
sentì una stilettata di vergogna piazzarsi nei visceri,
insieme a
una minuscola punta di trionfo. Chiharu gli sorrideva? Beh, lui la
baciava, invece.
«Adesso
ti ricordi?»
Chiharu
mugolò qualcosa di
indistinto. Spezzoni confusi di memoria si avvicendarono rapidamente,
aumentando il disagio e facendola sentire sempre più fuori
posto.
Avrebbe tanto voluto che Hitoshi non fosse così cocciuto e
se ne
fosse rimasto zitto. Ma doveva scoprire se si era tradita su Sai. Era
una cosa che poteva metterla in un mare di guai, nelle mani di
Hitoshi. Dei, se solo pensava alla reazione di sua madre...
«Cosa
hai detto che c'entrava
Sai?» tentò.
«Non
lo so, dimmelo tu»
infastidito, Hitoshi lasciò cadere il mozzicone di sigaretta
e lo
spense con un piede. «Hai ancora quella stupida cotta per
lui?»
«E tu
che ne sai?»
«Lo
sanno anche i sassi. E' per
questo che ne hai parlato? Avresti preferito saltare addosso a lui,
invece che a me?»
«Stai
dando la colpa a me?»
«Hai
iniziato tu! Io ti stavo
portando a casa in maniera assolutamente innocente!»
«Cosa
vuol dire che ho iniziato
io?» sbottò lei.
«Che
hai iniziato tu: di punto in
bianco mi hai ficcato la lingua in bocca. Come lo
definiresti?»
Chiharu
si passò una mano sul viso, sognando che il pavimento si
aprisse e
la inghiottisse in un momento. Già era abbastanza umiliante
che
fosse successo qualcosa,
figurarsi sapere che era anche stata una sua iniziativa.
«Senti...
Ero ubriaca. Non sapevo
cosa facevo...» farfugliò confusamente.
«E non
possiamo parlarne?»
rispose lui, una minuscola scintilla di speranza che si accendeva in
fondo al tunnel.
«Per
dire cosa?»
Hitoshi
deglutì una, due volte.
Pensò a Kotaro, lo cancellò.
«Per
esempio, per dire che si
potrebbe rifare...»
Al diavolo
Kotaro. Dopotutto lui
era un Uchiha, e gli Uchiha hanno un solo gruppo: il clan.
Chiharu
rialzò lo sguardo e fissò
Hitoshi. «Sono sobria» gli fece notare
nervosamente. Un fremito le
fece pizzicare la punta delle dita.
«Appunto.
Così potremmo... avere
un'idea più precisa di come funziona...» Hitoshi
si passò una mano
tra i capelli, spostando il peso da un piede all'altro.
«Non
credo che sia una buona
idea» mormorò Chiharu, sfregando le dita tra loro.
«Non
lo sai» Hitoshi fece un
passo verso di lei, e lei arretrò, trovandosi il muro alle
spalle.
«Non
va bene, ne sei consapevole,
vero?» sibilò Chiharu, premendosi contro il muro
mentre il suo
cuore accelerava come impazzito.
«Non
ti sto mica chiedendo di
sposarmi» replicò lui, ora abbastanza vicino da
sentire il calore
che emanava il suo corpo. E poi, con falsa arroganza, aggiunse:
«è
solo un bacio.»
Chiharu
si trovò a corto di risposte. Tutto, tutto
dentro di lei gridava che si stava infilando in una montagna di guai
grossa come la Rupe degli Hokage. Non poteva lasciare che Hitoshi
demolisse così spudoratamente il gruppo sette, non poteva
permetterglielo. E allo stesso tempo una parte generosa del suo corpo
ricordava con piacere la sera del ramen e reclamava una replica.
Chiharu ricordava quel bacio, ricordava la sensazione delle labbra di
Hitoshi contro le sue e delle sue mani che la accarezzavano. Qualcosa
formicolava nei suoi visceri quando ci ripensava, e il profumo di
Hitoshi, così vicino, così familiare, risvegliava
le sensazioni di
allora e le amplificava un milione di volte.
La carne
è debole.
Hitoshi attese
per almeno dieci
secondi, sentendosi come il bersaglio di una gara di kunai. Era quasi
certo che gli sarebbe arrivato un cazzotto, invece Chiharu rimase
immobile, a fissarlo con gli occhi sbarrati. Allora lui si fece
avanti.
Impacciato le
sfiorò un braccio,
perché non sapeva dove mettere le mani. La vide trasalire,
ma non
partirono shuriken. Con l'altra mano andò ad accarezzarle il
collo,
avvertendo il battito forsennato della carotide e la quasi familiare
sensazione della sua pelle, infinitamente più morbida di
qualunque
altra. Posò il pollice sulla sua guancia, sfiorandola
appena, e si
chinò su di lei. Appena prima di baciarla gli
sembrò che Chiharu
alzasse il viso e si tendesse verso di lui, ma poi ci fu solo la
strana morbidezza delle sue labbra, e tutto perse importanza.
Chiharu
scoprì che dal vivo era
meglio che in un ricordo sbiadito dall'ubriachezza. Non era proprio
come il bacio che aveva dato a Sai: questo era il bacio di qualcuno
che sta facendo di tutto per non mangiarti viva. Dischiuse le labbra
e sentì il retrogusto di tabacco che aleggiava intorno a
Hitoshi.
Qualcosa, nemmeno lei sapeva cosa, balzò nella sua pancia e
accese
una scintilla. Prima di rendersi conto di cosa stava facendo, aveva
circondato il collo di lui e lo aveva attirato contro il muro. Si
ricordò di respirare quasi con un momento di ritardo.
Hitoshi
sfruttò la pausa per affondare il viso nel suo collo, e
Chiharu non
riuscì ad evitarlo: annaspò. Era una cosa che non
aveva mai provato
prima, un'ondata di sensazioni impossibile da arginare.
Affondò le
dita nella schiena di Hitoshi, lo strinse con più forza,
cercò la
sua bocca in un modo che non avrebbe mai creduto degno di lei.
Lui
non lo disse, ma in realtà sapeva come sarebbe andata ancor
prima di
iniziare: altro che solo un bacio;
non gli sarebbe bastato mai più. Premette il corpo contro il
suo,
intrufolando le mani sotto la maglietta, e percorse la pelle nuda
della sua schiena con un brivido di trionfo. Sentì le dita
di lei
artigliargli la nuca, ma si staccò prima di andare troppo
oltre. Il
tetto era presumibilmente tenuto d'occhio dalle guardie di palazzo:
la sua idea di intimità non era esattamente quella di
fornire uno
spettacolo straordinario agli Anbu della Sabbia, ma sapeva anche che
gli attimi di grazia di Chiharu erano pericolosamente instabili.
Quasi non le
lasciò capire cosa
succedeva. La prese per un fianco, sospingendola verso le scale.
Scese i primi gradini, la bloccò, la baciò di
nuovo.
«Che
diav...» tentò di dire
lei, ma lui la fece scendere ancora, e ancora la fermò, ogni
tre o
quattro passi.
«Vieni
con me» le sussurrò
arrivati al piano, e la tenne per le mani mentre la conduceva lungo
il corridoio e tentava di aprire una porta, depositando rapidi baci
sul suo collo.
«Cosa
vuoi fare?» chiese lei, un
tremito nella voce di difficile definizione.
La prima
maniglia cedette al tocco
di Hitoshi, che cercò tentoni un interruttore per la luce.
Quando lo
trovò si rese conto di aver avuto una fortuna sfacciata:
l'ala
abbandonata un tempo era stata riservata agli ospiti, e quelle erano
stanze con un letto e coperte un po' polverose.
Chiharu
fissò la camera con un
tuffo al cuore. Quello era un po' prematuro. Assolutamente fuori dai
programmi. Fu presa dal panico.
Hitoshi la
sentì irrigidirsi e le
lasciò le mani, circondandole il viso per baciarla di nuovo.
«Non
credo che...» iniziò lei,
ma lui le morse le labbra e lei perse il filo del pensiero.
Lasciò
che la spingesse dentro, richiudendo la porta, e si lasciò
portare
fino al letto. Una parte della sua mente la stava sgridando, ma con
voce lontana lontana. Un'altra parte, quasi fosse di nuovo ubriaca,
le comunicava con urgenza che era molto fastidioso avere ancora
addosso i vestiti.
Hitoshi tolse le
coperte
impolverate, la spinse sulle lenzuola e scivolò su di lei,
ancora
senza ricevere cazzotti. Immaginava che anche Chiharu avesse perso il
timone delle proprie azioni, come stava succedendo a lui, ma la cosa
lo rendeva leggero e felice come era stato poche altre volte in vita
sua, invece di preoccuparlo. Il sospiro che le sfuggiva quando la
mordeva appena sotto l'orecchio era inebriante; la sensazione delle
sue mani che cercavano il margine della maglietta era esaltante, il
fatto che lo attirasse a sé invece di respingerlo nuovo e
incredibile. Davvero, onestamente non avrebbe scommesso mezzo ryo su
quell'avvenimento se glielo avessero chiesto il giorno prima; invece
era lì. E anche lei era lì, e non accennava a
volersene andare.
Si spogliarono
goffamente, perché
fretta e inesperienza mal si combinano a diciotto anni. Per tutto il
tempo Chiharu zittì la vocina interiore che tentava
disperatamente
di metterla in guardia, finché, arrivati al dunque, quella
vocina
ebbe uno scatto d'orgoglio e si fece sentire.
«Fermo»
sussurrò lei
piantandogli le mani sul petto.
«Che
c'è?» ribatté lui
tornando faticosamente alla lucidità.
«Non
vorrai farlo così?»
«Così
come?»
«Senza...
Senza... Oh, hai
capito: mia madre ha trentanove anni. Sono sicura che non voglia diventare
nonna prima dei cinquanta.»
Hitoshi si
immobilizzò.
Preservativi. Ma certo. Quale diciottenne non ha con sé un
mucchio
di preservativi, per ogni evenienza? Beh, i suoi erano in camera.
«Non
ce li ho» fu costretto ad
ammettere.
«Levati
di dosso, allora.»
Chiharu fece per
spingerlo via, ma
lui non cedette. «Ci sto attento»
assicurò, l'ansia che
gorgogliava in fondo alla gola.
«Ah!
Scommetto che sono state le
ultime parole di mio padre, diciotto anni fa!»
esclamò lei con una
risata sprezzante e un po' spaventata. Avrebbe perso la scommessa, ma
non poteva saperlo. «Te lo scordi.»
«Ma...
Non puoi!» allibì
Hitoshi. «E' inumano fermarmi a questo punto!»
«Lasciami
alzare.»
«Ascolta,
Chiharu... te lo giuro,
ci sto attento.»
«Lasciami
alzare!»
La voce di
Chiharu si era fatta
stridula, pericolosamente acuta. Hitoshi vide la paura in fondo ai
suoi occhi, vide le arterie sul suo collo pulsare velocemente, e
capì
che stava per arrivare il cazzotto che aveva temuto per tutto il
tempo.
«Vado
a prenderli» si affrettò
a dire allora.
«Cosa?»
«Mando
una copia in camera.
Tornerà in un minuto. Dico davvero.»
Chiharu
ammutolì. I suoi ormoni
si erano abbassati abbastanza da permettere alle prime avvisaglie del
dubbio di farsi avanti. Per un momento si rese conto
dell'enormità
dell'errore che stavano per fare, poi Hitoshi ritornò a
baciarla e
il momento di lucidità si fece da parte, sostituito da un
molto più
triviale 'Sai, a questo giro vince lui'. Non era un
pensiero
particolarmente brillante, ma c'era molto poco in grado di pensare,
in lei, a quel punto.
Hitoshi si
staccò per creare una
copia e mandarla fuori dalla stanza, operazione che non richiese
più
di un paio di secondi. Arrivato fin lì aveva capito che
Chiharu
aveva una resistenza di una decina di secondi, dopodiché
iniziava a
farsi venire mille dubbi e minacciarlo di piantarlo in asso sul
più
bello. Così non perse tempo, non lasciò nemmeno
che si raffreddasse
la pelle sulla sua pancia. Quasi prima che la copia avesse richiuso
la porta, le sue labbra si trovarono a percorrere i contorni della
cicatrice sul petto di Chiharu, e gli ultimi dubbi di lei si
sfrangiarono delicatamente, facendo crollare le ultime resistenze.
Da
molti – anzi da tutti – gli occhi di Kotaro erano
definiti a
palla. Quand’era
nato c’erano stati orgoglio e gioia per Rock Lee e un filo di
preoccupazione per Tenten. Fintanto che sono piccoli tutti i bambini
sono brutti uguali, certo, ma il suo aveva proprio gli occhi rotondi.
Non
che la cosa la turbasse. Cioè, non era una madre che voleva
lanciare
il figlio in televisione o vederlo fare strage di cuori, e se Rock
Lee aveva trovato qualcuno con cui accoppiarsi anche Kotaro un giorno
ce l’avrebbe fatta. Solo che prevedeva tempi duri per lui,
così
aveva velatamente cercato di spingerlo a evitare espressioni troppo
sorprese e occhi eccessivamente sbarrati.
Se
lo avesse visto fissare il soffitto in quell’afosa notte di
Suna
avrebbe dovuto rimproverarlo. Gli occhi di Kotaro non erano
spalancati: trascendevano
il
concetto di occhi spalancati. Di profilo sarebbero stati tondi come
quelli di un pesce, ma, estetica a parte, il problema era la domanda
che li aveva originati.
Dov’era
Hitoshi?
Quasi
le undici e non era ancora rientrato. Probabilmente stava rovinandosi
i polmoni appollaiato su qualche tetto. O in un vicolo. O nelle
fogne. A Kotaro sarebbe tanto piaciuto convincersene, soprattutto
delle fogne. E invece aveva l’orribile presentimento che ci
fosse
un altro letto vuoto nel palazzo del Kazekage, e che fosse un letto
che non
avrebbe mai voluto sapere vuoto. Al solo pensiero sentiva il cuore
esplodere e la voglia triviale e atavica di godersi il rumore delle
ossa di Hitoshi che si spezzavano sotto le sue mani. Parlando con lui
la sera prima si era sforzato di non mandare all'aria il loro
equilibrio... Dio, che idiota! L’aveva soltanto provocato.
Strinse
i pugni, rigido come un pezzo di legno.
Se
non torna a dormire, domani non inizierà nessuna missione.
Domani
sarà morto, pensò, e non perse nemmeno
tempo a stupirsi della
propria veemenza.
Ma
fu allora che la porta della stanza si aprì, facendolo
trasalire, e
sulla soglia si presentò esattamente Hitoshi, vestito, in
ordine e
avvolto da un penetrante alone di fumo.
«Sei
ancora sveglio?» chiese vedendo Kotaro che scattava a sedere.
«Dormi, che tra poche ore dobbiamo essere in piedi.»
«Dove
sei stato?» replicò Kotaro al volo, gli occhi
ancora spalancati.
Sorpresa, speranza e rabbia si alternavano frenetiche nel suo petto.
«A
fumare» rispose Hitoshi. «Dove sarei dovuto essere
prima di una
missione?»
Kotaro
sentì il rumore della cerniera dello zaino che veniva aperta
e il
rumore discreto delle sigarette che tornavano nella tasca
più
nascosta, bene in fondo.
«Ah...
Ho lasciato indietro l'accendino» borbottò Hitoshi
rapidamente,
rialzandosi per raggiungere la porta. «Torno subito. Domani
abbiamo
una tabella di marcia serratissima.»
E
Kotaro, finalmente rassicurato, per il sollievo di sua madre smise di
fissare il soffitto.
Soffitto
che invece Chiharu si trovò a squadrare con infinita cura,
anche se
dopo aver spento la luce non riusciva a vederlo.
La
copia di Hitoshi era tornata, poi era ripartita. Chiharu non aveva
chiesto dove andasse perché a quel punto era stata impegnata
nella
parte più difficile delle operazioni con Hitoshi, ed era
stato...
complesso. Molto più complesso delle previsioni iniziali.
Lei
e l’Uchiha avevano affrontato tante prime volte insieme, nel
bene e
nel male: la prima volta che avevano indossato un coprifronte, la
prima volta che avevano ucciso un uomo, la prima volta che avevano
fallito una missione, la prima volta che Naruto li aveva sgridati e
quella in cui li aveva lodati. Non sapevano se il bacio fosse stato
il primo per l’uno e per l’altra, ma erano certi
che il
momento presente
fosse una novità assoluta, una specie di esclusiva mondiale.
Avrebbero voluto cullarsi nella familiare sensazione del primato, ma
le cose non erano andate esattamente lisce: l’inesperienza
gioca
brutti scherzi, soprattutto se mescolata a un orgoglio sfrenato, e
loro erano completamente privi di precedenti, smodatamente imbevuti
di tracotanza e ben determinati a nascondere il disagio e il senso di
inadeguatezza.
In
qualche modo se l’erano cavata, nonostante gli intoppi
anatomici e
i momenti di stizza nervosa, ma non era stato piacevole. In effetti,
anche se non lo avrebbero mai ammesso a voce alta, era stato
piuttosto deludente.
Solo
ora che sentiva il respiro di Hitoshi contro una spalla e il suo
braccio sull’addome, Chiharu, rigida e un po' intirizzita per
il
freddo, si concesse il pensiero di aver commesso la più
colossale
stronzata della sua vita, anche peggiore dell’avventura
adolescenziale con le piantine allucinogene del nonno. Di tutte le
persone con cui poteva esercitarsi,
era andata a prendere quella che avrebbe portato alle conseguenze
più
disastrose di tutte.
Oh, non sarebbe
mai dovuta
crollare. Mai. Si vergognava di essere stata così stupida, e
debole,
e accecata dall'esaltazione del momento. Aveva sbagliato tutto,
dall'istante in cui aveva negato quel bacio a quando aveva accettato
di aspettare l'arrivo dei preservativi. E pensare che si credeva
intelligente.
Tentò
invano di riprendere sonno,
ma si rivelò impossibile. Cambiò posizione
più volte, cercò di
sgusciare via dall'abbraccio di Hitoshi, ma la paura di svegliarlo
ebbe la meglio e la tenne a letto. Quando le sembrò che
fosse quasi
ora di alzarsi, con infinita concentrazione spostò la mano
di
Hitoshi e scivolò lentamente fuori dalle lenzuola.
Si
inginocchiò sul pavimento, cercando di ricordare dove erano
finiti i
suoi vestiti, ma si accorse con sgomento di non riuscire a
capire le dimensioni solo con il tatto. Si lasciò scappare
un’imprecazione smozzicata, mentre le sue mani finivano su
quello
che – grazie al cielo – sembrava un reggiseno, ma a
quel punto si
accese una luce.
«Che
ore sono?» chiese la voce impastata di Hitoshi dal letto.
Chiharu
afferrò la prima cosa che le capitò a tiro e se
la infilò. Appena
in tempo per vederlo girarsi sulla schiena, totalmente incurante
dell’assenza di vestiti, e notare che si accigliava
impercettibilmente.
«Che
fai con la mia maglietta addosso?» domandò,
strisciando sulla
pancia fino al bordo del letto.
Merda,
pensò Chiharu. Si sentì arrossire.
«Dov’è
il mio elastico?» fu la cosa più intelligente che
le uscì di
bocca.
«Da
qualche parte tra le lenzuola» sbadigliò Hitoshi.
«Che ore sono?»
ripeté.
«Ricordi?
Abbiamo una missione» rispose lei nervosamente, scivolando
con
cautela alla ricerca dei pantaloni.
«Manca
quasi un'ora alla partenza...» si lamentò lui con
un'occhiata
all'orologio. «Potevamo dormire ancora un po'.»
«Non
ho più sonno.»
Hitoshi
si lasciò andare a una smorfia ironica, che
l’intera fauna
femminile di Konoha avrebbe trovato assolutamente perfetta e che
anche Chiharu dovette riconoscere come discretamente accattivante.
«Chiharu Nara che non ha sonno? Pagherei per poterlo
comunicare via
radio» commentò sornione, sollevandosi sui gomiti.
Chiharu
dovette costringersi con la forza a non abbassare lo sguardo dai suoi
occhi al petto, e soprattutto a non ricordare come quel petto era
caldo, e di come e perché lei lo aveva toccato, o baciato,
o...
Interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri.
«Non
sei divertente» sibilò secca, afferrando un paio
di pantaloni e
scoprendo che erano di Hitoshi.
«Neanche
tu» rispose lui sereno. Per una volta non sembrava irritato
né
nervoso o insofferente. Sembrava in pace con il mondo, cosa rara per
un Uchiha.
Chiharu
schivò i suoi occhi e sentì il cuore accelerare
nel petto. Come
poteva dire a un ragazzo che ha raggiunto la pace interiore
‘scusa
sai, ma è stato tutto uno sbaglio’? Non poteva.
Maledizione, non
poteva. Ma non poteva nemmeno lasciare che continuasse ad avere
stampato in faccia quel sorriso: era troppo palese, e anche molto
irritante.
«Torna
qui, invece di spulciare i vestiti» sbuffò
Hitoshi, battendo una
pacca sul lenzuolo caldo. «Dieci minuti.»
«Dobbiamo
andare» sibilò lei nervosamente, dandogli la
schiena.
«Non
costringermi a venire lì...»
Chiharu
arrossì e gli scoccò un’occhiata di
fuoco. «Adesso non prenderti
troppe libertà!» iniziò, tra i denti,
ma l’attimo dopo dovette
girare la testa tanto velocemente che sentì un crack
preoccupante,
perché Hitoshi si era alzato dal letto, così come
Sakura l’aveva
fatto, e aveva messo in atto la sua minaccia.
«Non
pensavo che ti avrei mai vista imbarazzata»
ridacchiò,
inginocchiandosi dietro la sua schiena. Senza apparente sforzo la
tirò indietro, facendola cadere tra le sue braccia, poi si
alzò in
piedi, novella divinità sorta dalle acque spumeggianti del
mare, e
la scaricò delicatamente sul letto.
«Senti,
dobbiamo parlarne...» iniziò Chiharu, furente,
confusa,
imbarazzata, e maledizione,
perché era così terribilmente perfetto senza
vestiti? Lui
naturalmente non la lasciò finire; dieci secondi e la
raggiunse
sopra le lenzuola, altri dieci e le chiuse la bocca con la sua, e ne
bastarono solo due perché la sua mano corresse fino al
comodino su
cui erano
posati i preservativi che quasi avevano mandato all'aria tutto. Era
felice. Era tutto come doveva essere. Alle conseguenze avrebbe
pensato più tardi, almeno dopo il sorgere del sole.
---
Era
stato facile non insospettire Kotaro. Chiharu si era presentata
appena fuori dalle mura alle tre e un quarto con i quindici minuti di
ritardo di prassi, e aveva trovato ad attenderla sia il giovane Lee
che la copia dell’Uchiha.
Alle
domande di Kotaro aveva scrollato le spalle borbottando qualcosa su
sua madre, al che lui si era limitato a mugugnare un po’ per
il
ritardo. Poi la copia di Hitoshi aveva buttato la sua sigaretta e
aveva detto che prima di partire si sarebbe appartata per andare in
bagno. Al suo ritorno non era più una copia.
La
missione non sarebbe potuta partire sotto auspici migliori: Kotaro
era sereno, efficiente come sempre, Hitoshi per una volta non era il
nicotinomane nevrotico a cui erano abituati e Chiharu si sentiva
decisamente parca di commenti, il che era positivo per
l’umore
generale.
Non
era riuscita a parlare con Hitoshi. Si diceva che non ce n'era stato
il tempo, che doveva elaborare un discorso efficace, ma la
verità
era che non sapeva da che parte cominciare. La seconda volta era
stata un po' meglio della prima, doveva ammetterlo; ma non l'aveva
cercata né voluta, semplicemente non era riuscita a dire di
no:
avere diciotto anni e il corpo pieno di ormoni poteva essere un
brutto ostacolo per certe cose, tipo la razionalità.
Decise
interiormente di posticipare il discorso alla fine della missione,
per non rischiare intoppi. Hitoshi avrebbe fatto bene a fare finta di
niente fino ad allora. Questo, ovviamente, significava che sarebbero
stati sì vicinissimi, sì pieni di ormoni, ma
impossibilitati a
toccarsi - il che tornava tutto a suo vantaggio. Doveva solo tenere
la testa sulle spalle per qualche giorno, poi avrebbe chiuso il
discorso con Hitoshi ed eventualmente affrontato le conseguenze. Solo
qualche giorno.
Cercò
di darsi un tono, sollevando la testa con fiera arroganza mentre
lasciavano Suna sgusciando di ombra in ombra.
Non
può essere così difficile, giusto?
Secondo
atto;
gli
eventi precipitano.
* * *
Dal
prossimo capitolo ci sarà un piccolo stacco.
Per
dare a questa parte il peso che merita (?)
oggi
aggiorno soltanto due capitoli,
non
vogliatemene.
Dal prossimo aggiornamento, inoltre,
ci sarà il primo grosso cambiamento nella trama.
Finalmente cose nuove!
Nel
frattempo vorrei ricordare ai detrattori di Chiharu
(la
maggior parte di voi, in pratica)
che
so che
è odiosa.
E'
una diciottenne saccente convinta di aver capito tutto della vita,
che
invece non sa una mazza.
Ma
visto che sono una brutta persona glielo faccio capire in maniera
realistica,
cioè
lunga e dolorosa.
Un
po' come Sasuke in Sinners.
Tanto
il mio unico preferito è sempre stato Naruto.
XD
Grazie
a voi che continuate a leggere e a chi commenta.
A presto!
|
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Capitolo 14 *** Una bella famiglia ***
Penne 14
10/02/2016
Capitolo
quattordicesimo
Una
bella famiglia
Anka
era un villaggio particolarmente bello nella luce dell’alba.
I
tetti inclinati delle case si accavallavano l’uno
sull’altro
risalendo le pendici della montagna e il silicio usato per ricoprirli
brillava al sole. Le pareti delle abitazioni erano stinte e talvolta
scrostate, ma in origine dovevano essere state dipinte a colori
vivaci, perché le tracce degli antichi toni erano ancora
visibili.
Jin
e Kakashi raggiunsero il paese con qualche ora di anticipo rispetto
al previsto. Avevano pensato di arrivare in pieno giorno e
confondersi tra la folla di artigiani, fabbri e ambulanti che
affollavano le strade del villaggio nei giorni di mercato, invece a
mezzora dall’alba avevano visto le sue mura profilarsi oltre
i
campi. Non erano mura solide come quelle di Konoha né
altrettanto
alte: si trattava in realtà di ammassi di calce e pietre che
bastavano a malapena per nascondere un uomo di media statura, ed
erano evidentemente state costruite in fretta e furia. Ma erano
sorvegliate.
Appostato
dietro una macchia di arbusti Kakashi osservava la situazione. Una
volta tanto le sentinelle erano mercenari che facevano bene il loro
lavoro: probabilmente quel luogo era una delle loro roccaforti,
difenderlo non era più questione di denaro, ma di
sopravvivenza. A
giudicare dalle loro condizioni, però, quella doveva essere
la fine
di un lungo turno di guardia, e qua e là si aprivano vasti
sbadigli
e sospiri di stanchezza.
Kakashi
fece un cenno a Jin, che sgattaiolò al suo fianco. Si
avvicinarono
all’abitato sfruttando il grigiore dell’alba, e
attraverso un
prato coperto di sterpaglie riuscirono a raggiungere la base delle
mura acquattandosi in un angolo buio. Non c’era bisogno di
parlare;
addestramento e sintonia erano più che sufficienti per
oltrepassare
un ostacolo di un metro e sessanta: i due shinobi furono
dall’altra
parte prima che il guerriero di guardia finisse di sbagliare.
Kakashi
fece un cenno silenzioso. Jin si separò da lui. Fece qualche
passo
in direzione est, scivolando non visto tra le prime case,
finché non
individuò un edificio abbandonato e ne sfruttò il
ballatoio per
studiare i dintorni. Era stanco, ma l’idea di essere
così vicino,
l’idea di respirare la stessa aria di sua madre e forse
guardare lo
stesso paesaggio era sufficiente a spingerlo avanti. Lei era
lì, tra
i visi assonnati che facevano capolino dietro le finestre. Era
lì, a
un passo di distanza, e finalmente l’avrebbe conosciuta.
La
strada principale del villaggio si inerpicava zigzagando lungo la
montagna, tagliata a intervalli regolari da una griglia di vie
secondarie. Dopo essersi lasciata alle spalle le abitazioni del
centro si faceva quasi sentiero brullo, fino a raggiungere una grande
costruzione che dominava l’intero pendio: la rocca dei
mercenari.
«Ottimo
punto d’osservazione» approvò Kakashi
comparendo al fianco di
Jin. «Ho contato le sentinelle di guardia, sono sei. Vuoi che
ci
riposiamo qualche ora prima di iniziare a raccogliere informazioni?
Questo edificio sembra abbandonato, potremmo usarlo per
nasconderci.»
«No!
Sono a posto. Iniziamo subito.»
Kakashi
lo fissò. Jin cercò di sostenere il suo sguardo
senza arrossire.
«La
stanchezza è il peggior nemico» gli
ricordò il padre in tono
pacato. «Non strafare.»
«Sto
bene» insisté Jin. «Davvero. E comunque
non riuscirei a dormire.»
Era
strano, rifletté Kakashi. Nonostante le labbra di suo figlio
sillabassero chiaramente tutte le parole, a lui sembrava sempre di
sentire soltanto 'voglio
trovarla'.
Ignorò la contrazione che per un attimo gli aveva serrato lo
stomaco
e invece fissò la strada che saliva verso la rocca. Di tanto
in
tanto una coppia di guardie si fermava lungo il sentiero e tirava un
calcio a un sasso.
«Deve
esserci un passaggio segreto» disse Jin per interrompere il
silenzio. «E’ perfettamente difendibile, ma in caso
di assedio
deve avere una via di fuga.»
«Poco
ma sicuro» mormorò Kakashi, lasciando vagare lo
sguardo sul fitto
bosco che sovrastava villaggio e cittadella.
«Come
procediamo?»
«Ci
servono informazioni. A giudicare da quel che ho visto, i rapporti
tra gli abitanti e i mercenari non devono essere rosei: con le giuste
maniere potremmo scoprire qualche punto debole del palazzo.»
Jin
annuì. «Priorità?»
Kakashi
esitò per un lungo istante prima di rispondere, quindi
fissò la
rocca. «Chiedi del signore del villaggio.»
Dopo
aver impartito le ultime istruzioni, lasciò che Jin partisse
per
primo e si prese un momento di pausa.
Fece
vagare lo sguardo sui tetti e le strade oltre il ballatoio. Si
chiese, forse per la millesima volta, se non avesse commesso un
errore madornale. Se non fosse tutta una trappola e avesse condannato
a morte sé e il bambino. La mano che aveva tenuto stretto il
biglietto giunto tanti giorni prima fremeva ancora al ricordo del
momento in cui aveva letto quelle parole, ma i dubbi erano tanti, e
con essi la paura di restare deluso di nuovo.
All’immagine
di Anka si sovrappose quella di un villaggio diverso, altrove, di un
bambino che lo fissava diffidente e una tomba con un nome
sconosciuto. A quel tempo aveva pensato di poterci finalmente mettere
una pietra sopra, ma Tsunade era stata irremovibile: per lei
c’erano
ancora cose poco chiare.
Kakashi
avrebbe tanto voluto poter finalmente essere convinto della morte di
Haruka, ma anche dopo che era stata la stessa Tsunade a morire, la
sua voce in fondo al cervello continuava a ricordargli che non poteva
esserne sicuro.
Fece
un respiro profondo. Sia che fosse una trappola sia che non lo fosse,
questa volta voleva tornare a Konoha con una certezza.
*
Sette
figli non erano soltanto un numero imponente. Sette figli,
soprattutto se Uchiha, erano sette Problemi con la P maiuscola, tutti
diversi, tutti contorti e tutti ugualmente importanti.
Sakura
sapeva che il suo dovere di madre imponeva che prestasse attenzione a
ognuno di loro, dall’adolescente incompreso al bambino che
voleva
ancora salire in braccio, ma certe volte – parecchie volte
– si
diceva che non ce l’avrebbe fatta.
Era
successo quando aspettava Itachi, durante l’attacco della
Roccia a
Konoha, e per un attimo Sakura aveva pensato di non desiderare quel
bambino. In fondo al cuore era conscia del fatto che per un secondo
lo aveva odiato, e che le più nobili intenzioni non
l’avrebbero
giustificata. Ancora adesso ogni giorno, ogni notte, ogni minuto si
chiedeva se lui in qualche modo lo avesse sentito.
Era
successo di nuovo quando aveva sorpreso Nobi a guardare con occhi
languidi Hanako, secondogenita di Naruto, anche se erano solo
bambini. Aveva pensato di poter mantenere il segreto, invece Sasuke
lo aveva scoperto, e anche se non aveva detto nulla di esplicito Nobi
aveva percepito che qualcosa non andava; allora aveva rapidamente
smesso di guardare Hanako e aveva iniziato ad ossessionare con lo
sharingan chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. Sakura non era
più
riuscita a incontrare i suoi occhi verdi, gli unici di quel colore
tra i suoi figli, e aveva avuto la netta sensazione di aver tradito
la sua fiducia.
Piuttosto
di recente c’era stata un’ultima occasione in cui
davvero si era
sentita una pessima madre, ed era stato a causa del mancato sharingan
di Hitoshi.
Ci
aveva pensato, qualche volta: si era detta che se uno dei suoi figli
non avesse avuto lo sharingan lei avrebbe fatto da mediatrice tra
l’orgoglioso Sasuke e il ragazzino, li avrebbe avvicinati e
avrebbe
fatto sì che si accettassero a vicenda. Conosceva la storia
di
Fugaku e voleva evitare che si ripetesse.
Ma
aveva fallito clamorosamente.
Per
circa due anni in casa avevano trattenuto il fiato in attesa del
primo segno di sharingan negli occhi di Hitoshi; poi Fugaku aveva
tagliato il traguardo davanti a tutti e l’onta, per il
primogenito,
era stata troppo grande. Da quel momento era diventato difficile
persino parlargli al di fuori delle occasioni ufficiali, e
suggerirgli di incontrare suo padre equivaleva a sferzare
l’ultimo
colpo alla sua dignità in pezzi.
Sakura
aveva cercato di spingere Sasuke al dialogo – lo stesso
Sasuke che
le aveva confessato che era rimasto deluso, sì, ma che
più di tutto
temeva di replicare gli errori di suo padre – però
lui non aveva
saputo avvicinare Hitoshi: perché sapeva cosa provava,
perché era
la stessa inadeguatezza che lui aveva sperimentato a suo tempo e
perché per quell’incubo non c’erano
soluzioni. Era Hitoshi a
dover cambiare, e lui non poteva – non sapeva –
aiutarlo, in
questo.
Sakura
non era riuscita a fare nulla di ciò che si era ripromessa,
meno che
mai a mediare. Aveva la sensazione di essere un fallimento come madre
e moglie. Sapeva che, a parte Hitoshi, gli altri suoi figli non
avevano problemi particolarmente gravi, ma è normale che
quando
tutto è perfetto la spina nel dito mignolo si senta mille
volte più
del dovuto. Per sua fortuna, almeno dalla prospettiva ‘madre
modello’, in quello stesso periodo oltre alla spina nel
mignolo era
in corso una grave forma di infezione sistemica, questa volta dalla
prospettiva ‘moglie ideale’: si chiamava tradimento.
Sakura
riteneva di essere fin troppo afferrata in materia, considerati i
suoi trascorsi. Non ne andava fiera e francamente avrebbe preferito
dimenticarlo, ma pensava almeno di saper cogliere i segnali di
infedeltà, dato che era stata dalla parte opposta della
barricata.
Il problema era proprio che li
coglieva.
Normalmente
non se lo sarebbe mai nemmeno sognato. Di tutti avrebbe potuto
sospettare, mai però di Sasuke,
che ci aveva messo dieci anni per affezionarsi a lei e Naruto...
Eppure un giorno era andata a trovarlo al dipartimento.
L’avevano
lasciata passare senza avvisarlo, perché era normale che
ogni tanto
lei gli portasse qualcosa. E lì lo aveva visto in un
corridoio
deserto, davanti a un distributore di bevande, con un’altra
donna.
L’aveva
riconosciuta subito: era l’unico membro della squadra
speciale di
Sasuke a non dotarsi di un cromosoma Y, e, lo ammetteva anche lei,
era davvero bella, in grado di far cadere ai suoi piedi qualunque
uomo. Si sarebbe fermata a una punta di gelosia e una sana dose di
invidia, se i due si fossero limitati a bere un tè insieme.
Ma loro
non si limitavano a bere quello stupido tè; loro
confabulavano a una
distanza decisamente troppo ridotta, si sussurravano chissà
cosa in
chissà che tono. Poche volte Sakura aveva visto Sasuke
concentrato
come in quei momenti, pochissime volte aveva visto quella piega di
attenzione all’angolo dei suoi occhi, e aveva ricordato con
uno
sgradevole senso di soffocamento che era così con lei. Solo
con lei.
Forse
avrebbe dovuto interromperli, intervenire con un sorriso e sondare la
situazione. Invece, con il cuore che si contraeva dolorosamente,
aveva fatto dietrofront e se ne era andata in tutta fretta, sentendo
un nodo alla gola e l’orribile sensazione di essere di troppo.
Anche Naruto
aveva provato quelle
cose, quando aveva avuto il primo sospetto?
Non
aveva mai parlato a Sasuke della sua scoperta. Aveva cercato di
capire da sola da che parte tirasse il vento, era stata affettuosa ma
indagatrice, lo aveva messo alla prova e tranquillizzato. Non aveva
mai colto segnali strani, mai una volta; finché, poco tempo
prima,
Sasuke non se ne era uscito con quella frase infelice nel palazzo
dell’Hokage.
Non
ho mai detto di fidarmi di me.
Era
una confessione? Era solo per discolpare lei? Era una provocazione?
Cosa? Cos’era?
Forse
Sasuke aveva una storia segreta con la donna del dipartimento e si
era stufato di tenerla segreta.
Forse quella... come si chiamava? Fay, quella Fay lo aveva preso
tanto da spingerlo a rinunciare all’orgoglio e lasciare la
moglie
ufficiale, portandosi via i ragazzi – perché non
li avrebbe mai
lasciati indietro, oh no – a costo di farsi additare come
vergogna
degli Uchiha.
Era
un’idea terrorizzante. Non tanto la prospettiva di trovarsi
in
mezzo alla strada, perché sola non sarebbe certamente
rimasta, ma la
prospettiva di trovarsi senza di lui.
La prospettiva di vederlo per Konoha a braccetto con un’altra
donna. La prospettiva di sapere che l’avrebbe amata e avrebbe
passato le notti con lei, che forse avrebbero anche avuto altri figli
insieme. Che avrebbero vissuto la vita che era stata sua.
Solo
ora capiva appieno l’enormità di ciò
che aveva fatto a Naruto.
Continuava a sperare che il suo amore di diciottenne non fosse
‘per
sempre’, che, anche senza il suo tradimento, prima o poi si
sarebbero lasciati e lui avrebbe incontrato Hinata, che fosse una
specie di scelta obbligata, o il destino. Ma, se anche per assurdo
–
e Sakura non osava pensarlo, non ne aveva il diritto –
l’amore di
Naruto per lei fosse stato meno intenso del suo per Sasuke, anche la
metà, anche un decimo, si rendeva conto che tradirlo era
stata la
cosa peggiore che potesse fargli.
Aveva
pensato che tradire fosse terribile, ma ora scopriva che essere
traditi era molto peggio.
Dal
giorno della discussione nel palazzo dell’Hokage Sasuke era
stato
sempre impegnato: il loro ufficio era sorvegliato da una spia e la
polizia era stata mobilitata in gran segreto perché desse
una mano
agli Anbu incaricati delle indagini. Per far fronte
all’emergenza
Sasuke si svegliava all’alba, andava in dipartimento e
tornava la
sera tardi, esausto, pronto per crollare sul letto. Il
che significava che presumibilmente passava tutto il giorno con
quella donna.
In
quei giorni Naruto aveva provato ad avvicinare Sakura in mille modi.
Si vedeva che aveva capito che qualcosa non funzionava, ma a lei
sembrava in qualche modo sbagliato
parlare proprio a lui dei suoi timori, perché erano gli
stessi che
lei una volta gli aveva procurato.
Si
sentiva inutile, isterica e spaventata. Voleva indietro le sue
certezze, voleva la sua vita quasi perfetta e la speranza di poter
intervenire tra Hitoshi e Sasuke, perché di certo non poteva
farlo
tra sé
e
Sasuke. Voleva ricominciare a mangiare, voleva smettere di pensare a
un’improvvisata al dipartimento, voleva che suo marito la
rassicurasse e, una buona volta, le dicesse che la amava.
Invece
mescolava furiosamente il suo tè da circa dodici minuti,
seduta da
sola al tavolo della cucina, piena di astio, rimorso e tristezza.
Voleva andare al commissariato a controllare la situazione, ma allo
stesso tempo voleva infilarsi sotto le coperte e svegliarsi
l’anno
venturo. Probabilmente anche Naruto e Sasuke, per un motivo o per
l’altro, erano così impegnati da non vedersi, e a
quel pensiero
non poté fare a meno di chiedersi tristemente che fine
avesse fatto
il loro gruppo sette.
A
un tratto sentì la porta della cucina aprirsi. Alzando lo
sguardo si
trovò davanti Itachi, e anche se in realtà
avrebbe voluto piangere
si costrinse a sorridere e gli disse di sedersi con lei.
«Allora?
Cosa c’è, hai fame?» gli chiese, mentre
lui toccava la tazza e
corrugava la fronte.
«E’
freddo, mamma» le fece notare.
«Lo
butterò via» commentò Sakura scrollando
le spalle, smise di
mescolare il tè e lo spinse più in là.
«Vuoi qualcosa? Un dolce?»
Itachi
sembrò pensarci un po’ su, poi accettò,
anche se in realtà non
aveva così fame. Mentre Sakura si alzava e raggiungeva una
credenza,
lui la guardò e pensò che gli sembrava triste.
Forse se fosse
rimasto con lei l’avrebbe fatta sentire meglio... anche se
qualche
volta pensava di non piacerle. Cioè, raramente... Ma proprio
raro
raro, comunque. Era sempre la sua mamma, no?
Sakura
tornò con un sacchetto di biscotti e lo mise in mezzo al
tavolo,
sedendosi di nuovo. Itachi allungò la mano e ne prese uno
iniziando
a sgranocchiarlo in silenzio.
«Mamma,
sei triste?» chiese dopo un po’, fissandola con la
scomoda
schiettezza dei bambini.
Sakura
si irrigidì. «Un po’» si
trovò a rispondere, perché negare le
sembrava inutile di fronte agli occhi di Itachi. «Succede,
quando si
diventa grandi.»
«Sempre?»
chiese lui un po’ allarmato.
«Ma
no, solo qualche volta. Se sei fortunato, poco poco.»
«E
tu perché sei triste, mamma?»
Perché
sospetto che tuo padre intrattenga una relazione extraconiugale con
una collega.
Improponibile come
risposta. Sakura decise di non rischiare e si
limitò a
scompigliare i capelli di Itachi, di quel rosa così
discutibile.
«Non
preoccuparti delle cose dei grandi, intanto che sei piccolo»
gli
consigliò. «Finisci la merenda e poi vai a
giocare.»
«Non
posso, papà ha detto che devo allenarmi» la
contraddisse lui,
addentando un altro biscotto per educazione. «Ah, ma a me
piace. Mi
diverto... è un po’ come giocare» si
affrettò ad aggiungere dopo
un attimo, quasi a scusarsi.
Sakura
lo fissò tristemente. Tutti tendevano a giustificare Sasuke,
da
sempre. Naruto prima, lei poi, e adesso anche i suoi figli. Avrebbe
tanto voluto affibbiargli qualche colpa e scaricare almeno parte
della sua angoscia su di lui, invece di sopportare tutto da sola.
Fece
un mezzo sorriso, accarezzò il bambino e gli disse di non
stancarsi
troppo. Mentre Itachi usciva lei mise la tazza di tè nel
lavello, i
biscotti nella credenza e uscì in giardino, a guardare gli
esercizi
che il bambino completava alla perfezione.
Fu
lì che incontrò Ryuichiro.
Quasi
sussultò nel vederlo, presa com’era ad avvitarsi
nella sua
tristezza. Il ragazzo, alto e sottile, era fermo sulla passatoia
esterna come se fosse stato sul punto di bussare. Si
affrettò a
salutare Sakura con un inchino.
«Sasuke
è al dipartimento?» chiese dopo i convenevoli di
rito, lasciando il
tempo a Sakura di riprendersi dalla sorpresa.
«Sì,
come sempre» rispose lei, sforzandosi di cancellare la nota
metallica nella sua voce. «Avevi bisogno di lui?»
Ryuichiro
le rivolse un sorriso di scusa, che, sovrapposto alle poche immagini
che Sakura aveva di Itachi, le provocò un brivido di
sconcerto.
Faceva sempre una certa impressione vedere qualcosa di catalogabile
come ‘timidezza’ su una faccia che con la timidezza
non avrebbe
dovuto aver nulla a che fare.
«Non
è che avessi proprio bisogno» mormorò,
lo sguardo su Itachi che si
allenava. «Volevo solo parlargli.»
Sakura
sapeva dei soldi che ogni tanto scivolavano fuori dalle casse del
clan per confluire nelle tasche di Saifon. Lei e Sasuke ne avevano
parlato ed erano rimasti entrambi d’accordo
sull’argomento.
Sapeva anche che Ryuichiro talvolta cercava Sasuke per faccende che
esulavano dal lato economico, e la cosa in fondo le faceva piacere:
tutto ciò che contrastava la tendenza alla solitudine di
Sasuke era
gradita.
«Mi
dispiace, ultimamente lavora tutto il giorno»
mormorò. Ed era
realmente dispiaciuta, per lui e anche per se stessa che non lo
vedeva mai.
Le
era parso di capire che a Ryuichiro Sasuke piacesse davvero, non come
Saifon che se lo faceva andar bene perché contribuiva a
riempirle lo
stomaco. E sapeva che Sasuke non avrebbe mai potuto rifiutare il
figlio di Itachi, perché sin dalla nascita di Hitoshi Sakura
aveva
capito che quel nome era un po’ troppo simile a Itachi per
essere
casuale. Si sforzò di sorridere, cercando di apparire
tranquillizzante.
«Prova
a tornare nel fine settimana. Dovrebbe essere a casa, con un
po’ di
fortuna.»
«Va
bene, lo farò» assicurò lui. Ma non se
ne andò subito. Rimase
qualche istante a guardare Itachi, poi di nuovo Sakura.
«E’
un bambino eccezionale» disse, senza traccia di ironia.
«Non ne
capisco molto, ma mi piace pensare che potrebbe essere forte quanto
suo zio... Sperando che sia più fortunato di lui,
crescendo.»
Sakura
esitò un istante prima di annuire. Aveva notato che
Ryuichiro non
parlava mai di Itachi come suo padre, e se riusciva evitava di
pronunciare anche il suo nome. Mentre Saifon se ne riempiva la bocca
anche per chiedere l’ora – oh,
ricordo che era un pomeriggio così, quando io e Itachi ci
siamo
conosciuti. Scusa, che ore sono?
– lui sembrava voler mettere una certa distanza tra
sé e il primo
Itachi Uchiha. Sakura non sapeva se lo facesse per una forma di
rispetto nei confronti di Sasuke o se in qualche modo covasse del
rancore verso Itachi, ma la cosa l’aveva sempre avvilita,
nello
stesso modo in cui l’avviliva sentire Hitoshi che chiamava
Sasuke
‘padre’.
«Credo
che Fugaku e Mikoto abbiano cercato di crescere Itachi nel miglior
modo possibile» mormorò, guardando il suo
minuscolo bambino che in
futuro sarebbe potuto essere qualunque cosa. «Poi la vita ci
mette
del suo e non sai mai come va a finire... Certe volte penso che gli
sforzi di un genitore siano perlopiù vani.»
Contro
ogni aspettativa Ryuichiro si lasciò sfuggire una risatina,
che pur
stupendo Sakura riuscì a non offenderla –
Ryuichiro non riusciva
mai
ad offendere, in effetti.
«E’
strano sentir dire queste cose a una persona come lei»
spiegò, con
un cenno di scusa.
«Perché?»
«Perché
è una buona madre. I suoi figli sono fortunati.»
Se
in quella frase c’era un accenno a Saifon, Ryuichiro lo
nascose
alla perfezione. E comunque Sakura non se ne sarebbe nemmeno accorta,
occupata com’era a metabolizzare il complimento. Senza
volerlo
arrossì. La franchezza di Ryuichiro era così
cortese da non aver
nulla a che vedere con quella di Sai, ma entrambe turbavano allo
stesso modo.
«La
ringrazio per avermi dedicato parte del suo tempo e mi scuso per
averla trattenuta. Sarà meglio che vada, adesso»
disse il ragazzo
riscuotendola dai suoi pensieri.
«Oh,
sì, capisco» Sakura annuì.
«Immagino che tua madre abbia bisogno
di te. Mi ha fatto piacere vederti, torna più spesso... La
prossima
volta ti offro un tè.»
Ryuichiro
sorrise. Stranamente Sakura non sovrappose la sua immagine a quella
di Itachi e lo trovò soltanto confortante.
Lo
guardò allontanarsi finché non fu scomparso oltre
il giardino, poi
tornò a fissare il piccolo Itachi stringendosi le braccia al
petto.
I
suoi figli erano fortunati, aveva detto. Certamente la prospettiva di
un ragazzo come Ryuichiro dava tutto un altro aspetto alla
situazione... Cresciuto senza un padre, usato dalla madre come prova
tangibile del suo diritto ad essere mantenuta dal clan Uchiha,
educatosi da solo all’ombra di un genitore mitico morto senza
farsi
conoscere, probabilmente vedeva in una famiglia come la loro soltanto
unione e amore.
Ma
non c’era anche qualcosa di vero nelle sue parole? La
famiglia che
Sakura aveva cresciuto era il risultato di tanti anni di sofferenze,
incomprensioni, sforzi sovrumani, ma era una bella famiglia. Lei
conosceva tutti i suoi figli e conosceva Sasuke: sapeva che dietro i
muri di orgoglio che avevano eretto si nascondevano una profonda
dedizione e legami che andavano ben oltre il sangue. Lei conosceva
le persone che le erano intorno, sapeva che non erano frammenti
taglienti ma un unico insieme armonioso, per quanto la loro armonia
fosse difficile da afferrare.
Cosa
l’aveva resa tanto insicura? Era la scena intravista al
commissariato? Erano i sensi di colpa verso Naruto che riaffioravano?
L’età? Hitoshi che non le rivolgeva la parola? No,
quello era
niente in confronto a Sasuke che tradiva il villaggio, niente in
confronto a Kyuubi che per poco non lo ammazzava in ospedale, in
confronto alla nascita del suo primo prezioso bambino, al dolore,
alle lacrime, ai rimorsi che in tutti quegli anni erano venuti e
passati.
La
ragione per cui era così ripiegata sulla propria sofferenza
era che
aveva permesso che accadesse, nient’altro. Se ne rese conto
all’improvviso, e fu chiaro come se ci avesse riflettuto per
giorni.
Ma
poteva ancora fare qualcosa. Non come Ryuichiro e Saifon,
perché
Itachi non c’era e non ci sarebbe stato più: lei
poteva agire;
poteva e doveva. E voleva. Voleva diventare una donna che lotta per
essere tutto quanto: madre, moglie, amante, anche con arroganza,
anche con la Sakura che aveva sempre tenuto nascosta, se necessario.
Voleva la determinazione della vecchia sé stessa, il suo
coraggio e
la sua forza, e il primo passo per ottenerle, per quanto facesse
paura, era affrontare Sasuke.
Nel giardino
Itachi fece un salto
all’indietro e scivolò su una chiazza di erba
schiacciata da
Fugaku e Mikoto durante i loro allenamenti. Prima di picchiare il
sedere a terra roteò agilmente e atterrò a
quattro zampe.
Sakura sorrise.
Non poteva essere
da meno: avrebbe dovuto imparare di nuovo a cadere in piedi.
Appollaiato
sulla cima di un tetto
decorato da fregi e scaglie di drago Sai osservava l’ingresso
della
residenza che teneva d’occhio ultimamente.
Nel corso della
mattinata erano
stai fatti entrare due fattorini e un uomo vestito elegantemente, ma
nessuna traccia di Hatsu, il vecchio membro della Radice che aveva
visto scomparire oltre i cancelli di bambù poco tempo prima.
Erano passati
solo un paio di
giorni da quando aveva iniziato a tenere d’occhio la zona, ma
anche
se passava lì soltanto le poche ore libere dalle missioni la
sua
memoria ci aveva messo poco a catapultarlo nel passato, quando
saltare giù dal secondo piano non era una cosa che
richiedesse molta
meditazione: aveva meno di vent’anni ed era una macchina di
muscoli
perfetti e movimenti precisi, con la testa piena di insegnamenti sul
dovere e la fedeltà ma lo stomaco vuoto di sentimenti.
All’epoca
le convocazioni più segrete della Radice avvenivano tra
quelle
strade, dietro ingressi nascosti noti solo a pochi eletti, e lui era
tra quei pochi, orgoglioso del suo privilegio. Con il passare degli
anni il ricordo di Danzo si era affievolito fino a ridursi a una
nebbia confusa, sovrapposto alle immagini dei suoi ultimi giorni di
vita in carcere: sapeva che al tempo era stato un uomo duro e
determinato, ma faticava a credere alla storia quando lo rivedeva
ammalato.
Un nuovo ospite
lo costrinse a
distogliersi dai ricordi. Si rannicchiò meglio tra un fregio
e un
angolo del tetto mentre il portiere apriva i cancelli per lasciar
passare un uomo ben vestito. Sai non ne fu sicuro, ma gli
sembrò di
riconoscere un membro del Consiglio della Foglia. Il vento
portò
fino a lui brandelli di conversazione, permettendogli di capire che
l’uomo aveva un appuntamento con il padrone di casa, e tra i
convenevoli e le espressioni di deferenza gli parve di comprendere
che erano attese altre persone.
Nell’arco
di una mezzora altri
uomini eleganti si fecero annunciare, chi da solo e chi accompagnato
dai servitori. Sai contò non meno di dieci nuovi arrivi, tra
cui
spiccavano un paio di persone piuttosto note e una gran
quantità di
anonimi misteriosi. Annotò con cura i nomi di coloro che
conosceva,
e quando non li conosceva tracciava uno schizzo velocissimo dei loro
visi sperando di fare un lavoro discreto.
Arrivò
e passò l’ora di
pranzo. Per quel giorno Sai aveva preso un giorno di vacanza dal
lavoro, quindi poté cambiare punto di osservazione con tutta
calma.
Attorno alle tre di pomeriggio rivide il primo uomo che era entrato,
uno dei Consiglieri che aveva riconosciuto senza fatica, e
pensò che
di lì a poco anche gli altri sarebbero usciti.
Ma non accadde
nulla del genere.
Il nobile se ne andò tranquillamente e nessun altro
uscì
dall’abitazione per almeno un’ora. A quel punto,
con grande
sorpresa di Sai, fu il padrone di casa ad andarsene insieme a un
servitore.
C’era
solo una possibilità che
gli veniva in mente, una volta escluso l’omicidio: gli uomini
che
erano entrati dall’ingresso principale dovevano essere usciti
da
uno secondario. Ma perché prendere una precauzione
così elaborata?
Li preoccupava essere notati nei dintorni?
Meditabondo, Sai
si domandò quale
poteva essere il ruolo di Hatsu in una faccenda così
misteriosa. Le
risposte che si affacciarono alla sua mente gli piacquero ben poco...
Ma non aveva nulla di chiaro per le mani. Avrebbe dovuto pazientare e
osservare ancora per qualche tempo.
* * *
Buongiorno
a tutti!
Rieccomi
con un aggiornamento più corposo,
che
finalmente vi permette di dimenticare proprio la vecchia trama
(per
quanto riguarda Kakashi, Jin e Sai)
ed
entrare nella nuova!
Capitolo lento e noioso, lo so,
ma queste parti mi servono e talvolta devo condensarle.
Ancora
un poco di pazienza,
presto
sarà tutto inedito.
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Capitolo 15 *** Cambiano i piani ***
Penne 15
Capitolo
quindicesimo
Cambiano
i
piani
I
polpastrelli delle dita che premevano sui suoi fianchi.
Il
fremito quando le labbra sfregavano il collo.
Il
suono della sua voce, roca come non l'aveva mai sentita...
Chiharu
aprì gli occhi di scatto. Il cuore le batteva veloce come
quello di
un topo, gli occhi guizzarono istintivamente in cerca di pericoli.
L’alba
era dietro l’angolo, e Kotaro era già di ritorno
dai cespugli.
Vedendola sveglia le rivolse un sorriso.
«Buongiorno» mormorò
chinandosi sullo zaino.
Chiharu
grugnì una risposta, con una malcelata sensazione di nausea.
Aveva
dormito più o meno sette minuti, tutti gli altri li aveva
passati a
considerare che Hitoshi era a meno di un passo di distanza e che in
quello stesso buio, l’ultima volta, si erano trovati molto
più
vicini. Nonché nudi.
Viaggiavano
da un giorno e una notte, ma ancora non riusciva a rimuovere dalla
testa quei
momenti. Non ne era nemmeno stata soddisfatta, era tuttora convinta
di aver commesso un errore madornale, eppure lo sapeva: se per
disgrazia Hitoshi si fosse avvicinato nel suo sacco a pelo avrebbe
ceduto; perché sì, perché il suo corpo
le diceva che era piacevole
e che ne voleva ancora, nonostante la testa protestasse.
Non
può essere così difficile, giusto?,
borbottò parodiando se stessa. Lo era, invece. Lo era tantissimo.
Si
passò una mano sul viso tirato e sentì che anche
Hitoshi si
svegliava. Se non altro sembrava ancora più stanco di lei.
«Come
va l’emicrania?» si informò Kotaro
scrutandolo preoccupato.
«Male.»
Era
iniziata poche ore dopo la partenza, più o meno verso
l’alba. Se
nella notte passata con Chiharu il dolore sembrava averlo abbandonato
completamente, non appena avevano iniziato la missione era tornato
più feroce che mai.
«Ce
la fai?» chiese Kotaro guardandolo di sottecchi.
«Per
forza» sibilò Hitoshi alzandosi. «Il
piano non funziona se non
siamo almeno tre.»
Kotaro
guardò Chiharu in cerca di sostegno, ma lei era troppo
occupata a
voltare la schiena a entrambi. Sospirò e scrollò
le spalle.
«Va
bene... Ma se non ce la fai, dillo. Mangiamo qualcosa e
ripartiamo.»
Secondo
le indicazioni ricevute da Gaara, a quel punto dovevano aver
già
oltrepassato il confine ed essere penetrati in uno degli staterelli
che dividevano il Paese della Sabbia da quello della Roccia. Se non
avevano commesso errori si trovavano a un passo dal Paese della
Pioggia. Poco oltre c’era il Fuoco.
Allontanandosi
da Suna il terreno si era fatto molto più verde. Presto si
erano
trovati a percorrere sentieri che si snodavano in una campagna
rigogliosa, fino a camminare per boschi umidi e paludi. Quindi il
clima era cambiato così rapidamente che nell’arco
di poche ore
erano tornati a una calura secca e arida che asciugava la gola. Sotto
i loro passi il terreno si era indurito fino a diventare roccia, e
qua e là si aprivano macchie di cespugli riarsi.
Verso
mezzogiorno furono costretti a una sosta forzata, perché
l’emicrania
di Hitoshi si era fatta così forte da impedirgli di capire
dove
metteva i piedi. Si fermarono a mangiare su una zolla di erba
rinsecchita, e Kotaro costrinse il compagno a stendersi e prendere un
analgesico, anche se era largamente appurato che su di lui non
funzionavano. Per non perdere tempo ripassò il piano insieme
a
Chiharu.
Nessuno
di loro voleva ammetterlo, ma erano preoccupati: Hitoshi non era mai
stato così male.
«Hai
fatto qualcosa di diverso dal solito?» tentò di
chiedere Kotaro.
Chiharu
si irrigidì. Hitoshi si rifiutò anche solo di
fingere di ascoltarlo
e rimase steso ad occhi chiusi.
Verso
il tramonto arrivarono alla loro meta. Da lontano era soltanto un
costone roccioso che pendeva sghembo dalla montagna: qualche albero
smagrito protendeva i suoi rami verso il cielo, pericolosamente
sospeso nel vuoto, e ai piedi del marmo e del granito c’era
il
letto prosciugato di un ruscello. Più o meno a venti metri
dal suolo
si apriva nella roccia un passaggio quasi invisibile, collegato a
terra mediante una cengia scoscesa perfettamente mimetizzata. Sotto,
a un centinaio di metri, c’era un edificio di fortuna attorno
al
quale si muovevano due figure.
Accovacciati
tra i cespugli sull'altura di fronte, Chiharu, Kotaro e Hitoshi
spiavano le guardie e cercavano di capire i loro movimenti.
«Quante
saranno?» sussurrò Chiharu.
«Due
a terra. Altre due stanno scendendo da lassù»
bisbigliò Kotaro
indicando il sentiero. «Nella caverna ce ne sarà
almeno un altro...
Cinque?»
«Sì,
mi pare buono. Per precauzione diciamo che sono sei. Sono tanti, ma
potrebbe essere il cambio della guardia.»
Restarono
in silenzio mentre i due che scendevano dal sentiero si fermavano a
scambiare qualche parola con quelli a terra. Li videro gesticolare
verso la parete alle loro spalle, poi uno entrò nel rifugio.
«La
donna è nella grotta?» chiese Chiharu.
«Sì.
Non credo che l’abbiano spostata.»
«E’
là per forza» sibilò Hitoshi ad occhi
chiusi. «E’ una trappola
perfetta, molto più difendibile di quell’ammasso
di legno marcio.»
Chiharu
e Kotaro lo fissarono. Erano abituati al suo tono tagliente, ma non
al gemito con cui concluse la frase. Scambiarono un'occhiata tra
loro.
«Quante
sono?» chiese Kotaro sollevando tre dita nella sua direzione.
Hitoshi
gli scoccò un’occhiata furente.
«Dimmi
quante sono!»
L’Uchiha
sbatté le palpebre per alcuni lunghi istanti e
sforzò la vista al
massimo. Davanti ai suoi occhi le dita sembravano tre. Per un
momento. Poi diventavano due, sei, una, quattro, cinque.
«Quattro»
provò a indovinare.
«Sbagliato.
Sono tre» Kotaro scosse la testa. Esitò un
momento, poi, a
malincuore, aggiunse: «Hitoshi, non ce la fai.»
Hitoshi
lo afferrò per il bavero. «Ce la faccio»
sibilò tra i denti. «Ce
la faccio, dammi solo un minuto! Sono tre stupide dita.»
«Se
non ci vedi come pretendi di reagire a un attacco?»
replicò Kotaro,
scrollandoselo di dosso bruscamente. «Tu non ce la fai,
Hitoshi!
L’emicrania ti sta uccidendo e io mi rifiuto di scendere in
campo
con una zavorra!»
Chiharu
strinse una mano sul braccio di entrambi, zittendoli. Con un cenno
indicò gli uomini di guardia. Hitoshi si sottrasse al suo
tocco e si
allontanò rabbiosamente tra i cespugli in cui si erano
nascosti.
Kotaro guardò la sua schiena che scompariva tra le fronde
con un
misto di rimorso e compassione.
«L’unico
modo per farglielo capire era essere brutale»
bisbigliò risentito,
a mo’ di scusa.
«Lo
so»» annuì Chiharu. «E lo sa
anche lui.»
Kotaro
posò a terra lo zaino chinando la testa. Si sentiva molto
piccolo e
meschino: anche se lo aveva fatto con le migliori intenzioni, aveva
calcato la mano, e lo aveva fatto apposta. Non solo per il bene di
Hitoshi. Alzò a malapena lo sguardo, scrutando Chiharu che
radunava
le foglie secche per crearsi un giaciglio.
Quanto
ancora sarebbe riuscito a mantenersi neutrale?
*
Il
cielo era grigio e basso, il giorno in cui Sasuke rientrò
dal lavoro
prima del tramonto. Sakura lo vide spuntare sulla porta della cucina
mentre si preparava un tè e lo fissò ad occhi
spalancati. Solo il
giorno prima aveva preso la risoluzione di lottare per la sua vita,
ma in quel momento non era proprio pronta; pensava che avrebbe avuto
più tempo.
«Ce
n'è per me?» mormorò Sasuke
stancamente, lasciandosi cadere su una
sedia.
«Sì»
sussurrò lei affrettandosi a dargli le spalle.
Con
movimenti molto poco naturali aggiunse dell’acqua al
bollitore e lo
rimise a scaldare. Quindi prese una tazza in più, si
avvicinò al
tavolo lentamente e si sedette davanti a lui.
Non
restavano soli dal giorno in cui lei gli aveva fatto quella mezza
scenata, nell’ufficio dell’Hokage. Per tutto quel
tempo i loro
incontri si erano limitati alle notti che trascorrevano nello stesso
letto, e spesso arrivavano e se ne andavano quando l’altro
era già
via o addormentato. Sakura non sapeva se Sasuke lo avesse fatto
apposta o se negli ultimi tempi fosse solo molto impegnato, ma di
sicuro sapeva che lei non aveva fatto nulla per cercarlo.
Intrecciò
le mani sul tavolo, nervosa, e le fissò.
Sasuke
la guardò.
«Come
va in ufficio?»
Sakura
trasalì e per sbaglio tirò un calcio al tavolo.
«Con Naruto?» si
lasciò sfuggire. Stare insieme a Sasuke significava tradurre
tutti i
discorsi in ‘Naruto’ e ‘Fay’,
si rese conto con sgomento.
Sasuke
si irrigidì e distolse gli occhi. «Volevo sapere
più che altro
cosa succede con la spia. Quel ragazzino... avete scoperto
qualcosa?»
Sakura
si strinse nelle spalle e si rese conto che da alcuni giorni non si
interessava più ai suoi compiti di Hokage, ma si limitava a
timbrare
fogli senza nemmeno vederli.
«Credo...
Forse... Dovresti chiedere a Na... a Shikamaru»
farfugliò.
Sasuke
annuì. «Bene.»
«Bene»
ripeté lei in un sussurro.
Cadde
il silenzio. L’acqua iniziò a bollire
sommessamente e un fischio
si librò nell’aria. Sakura andò a
prendere il bollitore, versando
all’interno le foglie di tè. Mentre lo faceva le
sue mani
tremavano.
E’
ora. Non puoi rimandare ancora, non con questa occasione.
Attese
che l’infuso fosse pronto. Rimase immobile per cinque interi
minuti, raccogliendo il coraggio e le parole adatte, cercando di
prepararsi al peggio. Poi portò la teiera in tavola.
Versò il tè.
Per sé, per lui. Si sedette di nuovo.
Nessuno
dei due toccò la tazza che fumava.
Sakura
prese la parola.
«Mi
tradisci?»
Sasuke
finalmente alzò gli occhi. Attese che lei facesse
altrettanto.
«No»
disse poi pacato, come se si fosse sempre aspettato una domanda del
genere.
Sakura
sentì un nodo che si scioglieva nel suo stomaco, ma
capì anche che
qualcosa non andava. Non poteva semplicemente rispondere no,
non era così che funzionavano le cose.
«No?»
ripeté con voce tremante. «Tutto qui?»
Sasuke
non rispose, inspirando a fondo, e a Sakura sembrò di
cogliere una
nota di disprezzo nel suo sguardo. Scosse la testa. «Non
è tutto
qui. Non mi basta» bisbigliò fissando un angolo
del tavolo. «Io ti
ho visto con quella donna, Fay. Ho visto come vi parlavate, ho visto
come la ascoltavi, ho visto quanto eravate vicini. E tu non sei uno
che dà confidenza facilmente, tu non... non stai vicino alle
altre
donne così!» di scatto, con il viso arrossato,
tornò a fissarlo.
«E poi te ne sei uscito con quella frase! Non
mi fido di me.
Cosa vuol dire?»
Sasuke
scosse la testa quasi infastidito. «Non hai capito
niente.»
«E
allora spiegamelo!» Quasi urlò, Sakura,
protendendosi verso di lui.
«Ti sto solo chiedendo di spiegarmelo! Voglio
solo...»
«Fay
è la donna di Neji.»
Sakura
si bloccò a metà dell’invettiva.
«Fay
ha una relazione con Neji» ripeté Sasuke parlando
veloce. «Da
cinque anni. Si vedono, si incontrano, fanno sesso, dillo come
preferisci. Stanno insieme. E non deve diventare di dominio
pubblico.»
Sakura
sbatté le palpebre, stordita. «E tu... tu cosa
c’entri?»
«Io
l’ho scoperto per caso. Li aiuto a tenerlo segreto.
Nient’altro.»
Di
nuovo Sakura scosse la testa. «Forse questo è
anche peggio del
semplice no»
commentò amareggiata. «Come diavolo fai a
inventarti una storia del
genere?»
Negli
occhi di Sasuke passò un lampo d’ira.
«Gli Hyuuga vogliono che
Neji si sposi. Con una donna della casata principale, naturalmente,
visto che Kakashi ha avuto la cattiva idea di mettere in mano il clan
alla casata cadetta. Hanno già predisposto tutto, nessuno di
loro
accetterà che una come Fay entri a far parte del clan. Sai
come sono
gli Hyuuga, lo sappiamo tutti. Se si sapesse che Neji e Fay si vedono
sarebbe una tragedia: non so fino a che punto potrebbero spingersi,
ma se Neji insistesse per restare con lei, e se anche lei fosse
d’accordo...» fece una brusca pausa. «Io
non posso permettermi di
fare a meno di un elemento come Fay, né posso permettere che
gli
Hyuuga creino problemi al Villaggio.»
Di
nuovo silenzio. Il tè fumava placido nelle tazze intatte.
Sakura
fissava Sasuke ad occhi sgranati.
«Ma
allora... se è per questo...» mormorò
confusa. «Se stai solo
cercando di proteggere Neji e Fay perché mi hai detto quella
frase?»
Sasuke
assottigliò gli occhi amareggiato, ma Sakura, come sempre,
vide solo
disprezzo.
«Perché
sono un idiota» mormorò. «Quando ti ho
sentito dire che avevamo
fatto del male a Naruto io ho ricordato tante cose...
All’epoca
sapevo che stavate insieme. Lo sapevo ma non mi sono fermato, e ho
trascinato te e lui in quel disastro. Io non l’ho mai
dimenticato,
per me quella è ancora una cosa che...» si
interruppe. «Tu invece
hai pensato subito che stessi tradendo te»
Sasuke si passò
una mano sulla fronte. Il peso degli anni che aveva tentato di
dimenticare piombò nuovamente sulle sue spalle.
«Nella tua testa
sono sempre sul punto di tradire come vent'anni fa...»
Sakura
trasalì. «No! No, non quello, non in quel
senso!» scattò, quasi
spaventata. «Che diavolo dici? Io non... mai...»
Sasuke
si alzò dalla sedia, senza guardarla, senza guardare il
tè sul
tavolo. «Sono stanco» disse troncando i suoi
balbettii. «Vado a
dormire nella stanza degli ospiti.»
«Sasuke!»
lo chiamò Sakura balzando in piedi. «Non puoi
andartene adesso!»
Ma
Sasuke aprì la porta senza girarsi. Sulla soglia
trovò due
pallidissimi Nobi e Liara che lo fissavano spaventati. Con
delicatezza scostò Liara e li oltrepassò, uscendo
nel corridoio.
Sakura
rimase ferma accanto al tavolo, livida, le mani premute sul ripiano
nero e le palpebre che sbattevano sugli occhi tentando invano di
arginare le lacrime. Abbassò lo sguardo sui bambini.
«Non
è successo niente» mormorò rapida,
afferrando le tazze sul tavolo
e portandole fino al lavello. «Non è successo
niente» si ripeté
con la vista offuscata, rovesciando il tè bollente
giù per lo
scarico. «Niente...»
Solo
con il primo singhiozzo si accorse di essersi ustionata le dita.
C’erano
diversi incubi nelle notti di Sasuke.
Molti
parlavano del suo clan, della famiglia, di suo fratello.
Ma
tanti altri parlavano dei suoi amici, di sua moglie, del suo maestro.
Dello sguardo deluso di chi è stato tradito.
E
per lui quelli erano i peggiori.
*
Chiharu
trovò Hitoshi dopo neanche cinque minuti di ricerche.
Com’era
prevedibile si era rintanato in una macchia ombrosa e si era steso
sul primo fazzoletto di foglie secche che aveva incontrato, con un
braccio premuto sugli occhi.
Prima
di rivolgergli la parola si fermò a guardarlo, cercando di
nascondere anche a sé stessa l’inquietudine.
L’ultima volta che
erano rimasti soli lei aveva sfoderato in tutta la sua magnificenza
il suo fenomenale punto debole, e francamente non teneva molto a
ripetere l’esperienza – oh
sì invece che voleva! Deglutì,
mandando al diavolo il pensiero perverso che le diceva ‘tanto
è
già steso e inerme’, e ciò che fece fu
avvicinarsi producendo più
rumore possibile.
Hitoshi
sospirò, senza muoversi, finché non la
sentì accanto a sé.
«Arrivo» disse soltanto.
«Idiota»
replicò lei, fissandolo dall’alto del suo
imponente metro e
sessanta.
Hitoshi
scostò il braccio e la scrutò torvo.
«Non
sono qui per riportarti indietro, ci mancherebbe»
sospirò lei.
«Volevo sapere se dovevamo seppellire il tuo
cadavere.»
«Risparmiami
il sarcasmo!» ringhiò Hitoshi tornando a
nascondersi dietro il
braccio. «Cazzo!»
Per
una volta Chiharu decise di non infierire. Non sapeva se fosse per
l’improvvisa debolezza di Hitoshi o per quello che era
successo tra
loro, ma non aveva più voglia di fargli del male gratuito:
le
sembrava una cosa particolarmente spregevole.
«Non
passa proprio?» chiese piano, inginocchiandosi accanto a lui.
«No»
rispose Hitoshi a mezza bocca. «E’ come un
martello. O un trapano,
largo come un campo d’addestramento. E’
lì, dietro la fronte, e
le ho provate tutte, mi manca solo il vudù,
ma quello non si
calma.»
«Nemmeno
quando dormi?»
«Pensi
davvero che riesca a dormire in queste condizioni?»
Chiharu
controllò l’irritazione. «Beh, sagace
umorista, se hai tanto
spirito in corpo pensi di restare qui a fare la muffa ancora a
lungo?» chiese.
«No.
Te l’ho detto, adesso arrivo» sibilò lui
nervosamente.
«Okay.
Allora ti aspetto con Kotaro» sbottò Chiharu
– la sua tolleranza
aveva limiti ridottissimi.
Ma
lui la afferrò per un polso prima che potesse alzarsi in
piedi.
«Aspetta» sussurrò, sempre nascosto
dietro il braccio.
Il
cuore di Chiharu accelerò nel petto. Senza volerlo
ricordò il
giorno in cui lui aveva provato a fermarla nello stesso modo, al
parchetto, e ricordò il disprezzo con cui si era liberata
dalla sua
stretta. Quante cose erano cambiate...
«Mi
sembrava di infastidirti» mormorò polemica, ma
senza allontanarsi.
«Non
è vero. L’ultima volta che sono stato davvero bene
ero con te,
quindi resta.»
Chiharu
lo vide arrossire leggermente. Non ribatté. L’ultima
volta
era un’introduzione che aveva il potere di ammutolirla, in
quel
momento.
Così
rimase ferma, inginocchiata accanto a lui, con la sua mano fredda
stretta attorno al polso. Rimase lì e non parlò,
non sbuffò, non
sbadigliò, non fece assolutamente nulla fuorché
pensare a quali
rimedi conosceva contro l’emicrania, a cosa sarebbe successo
se
Kotaro avesse deciso di cercarli in quel momento, a quanto il suo
stupido corpo le suggerisse che in due abili mosse poteva essere su
di lui... Finché Hitoshi non se ne uscì con quella
cosa
– e lei capì che prima o poi sarebbe dovuto
accadere, e maledì
il momento in cui si era sentita pietosa nei suoi confronti.
«Baciami.»
Chiharu
trasalì. Lo fissò, con un’espressione
che era un curioso
miscuglio di sorpresa, orrore e incredulità.
«Scusa?»
Hitoshi
sbuffò e tolse il braccio dalla faccia, lasciandolo cadere
sulle
foglie secchie. La guardò. «L’ultima
volta stavo bene. Davvero
bene, intendo, nemmeno un vago accenno di emicrania. Ora invece non
passa, e forse non è sufficiente
che tu sia qui. Forse erano le cose che facevamo a... Insomma, mi
capisci?»
Chiharu
si trovò di nuovo con la bocca asciutta di fronte
all’incipit
l’ultima
volta.
Da qualche parte, dentro la sua testa, un neurone aveva dato il via a
un’entusiasmante manifestazione di giubilo.
«Haru?»
la richiamò Hitoshi. Ormai aveva intuito che quando si
introducevano
certi argomenti Chiharu perdeva tutta la sua verve, ma vederla
così
imbarazzata solo per un bacio non sapeva se era irritante o
semplicemente ridicolo.
«Sei
un cretino» sibilò lei riscuotendosi dal torpore,
il viso
arrossato. «Nel mezzo di una missione in territorio nemico e
con
Kotaro a venti metri tu mi chiedi un bacio. Ti sei bruciato
più
cervello di quanto immaginassi.»
«Se
io sono un cretino tu sei una deficiente» replicò
Hitoshi
stancamente, incapace di raggiungere la vera esasperazione.
«Sono
due giorni che non ci tocchiamo neanche, e se sei umana lo sai anche
tu cosa si prova. Se fossimo stati almeno in quattro avrei mollato
Kotaro con Naruto molto prima e saremmo rimasti soli.»
A
quella confessione una parte di lei si risvegliò, ma Chiharu
guardò
altrove e la respinse nel profondo. «Non confonderti. Io non
sono un
animale, come evidentemente sei tu.»
«Haru...»
sbuffò Hitoshi fiaccamente.
Chiharu
sentì il rumore delle foglie secche che scricchiolavano.
Tornò a
guardarlo in tempo per vederlo che si tirava su e la fissava.
«Baciami»
le ripeté in un sussurro.
Lei
sbatté le palpebre. Oh,
merda, pensò
con convinzione. E un attimo dopo, la convinzione a quel paese,
rispondeva al suo bacio, pensando pure che anche se stava tanto male
non si sentiva affatto. E due attimi dopo, mentre Hitoshi si faceva
indietro con un gemito, staccava la mano dalla sua maglietta pregando
che non si fosse accorto del suo trasporto.
«Non
va...» sussurrò lui, appoggiando la fronte alla
sua spalla. «E’
massacrante. E’ una tortura. Non riesco nemmeno a baciarti,
mi
sento la testa tutta rintronata...»
Chiharu
ringraziò il cielo per la sua testa rintronata: altrimenti,
missione
o no, temeva che l’elenco dei suoi errori si sarebbe
allungato.
«Rimettiti
giù» gli consigliò allontanandolo
delicatamente. «Io vado a
scambiare due parole con Kotaro.»
Hitoshi
obbedì, perché con la schiena a terra la testa
almeno non girava.
La guardò con un leggero dispetto: avrebbe voluto sapere
cosa c’era
di tanto importante da dire a Kotaro, per lasciarlo in un momento
così difficile, ma tacque. Dopo la missione avrebbe messo le
cose in
chiaro con lui; adesso la priorità era rimettersi in sesto
per
eseguire il piano.
Chiharu
liberò il polso e si rialzò in piedi, avviandosi
verso il riparo in
cui avevano lasciato gli zaini. Hitoshi non la salutò,
convinto di
avere davanti molto tempo per le effusioni... E questo fu un grave,
ingenuo errore.
Chiharu
tornò da Kotaro con espressione funerea.
«Allora?»
si informò lui, seduto accanto agli zaini con una mappa tra
le mani.
Vederla indietro così in fretta lo rassicurò: era
stato difficile
non seguirla di nascosto per controllare Hitoshi.
Lei
non rispose subito né si accomodò. Rimase in
piedi, circondata
dagli arbusti in cui si erano nascosti, e si morse nervosamente
l’interno di una guancia.
«Non
ce la fa» ammise alla fine. «Non riesce quasi a
stare seduto.»
Kotaro
fece una smorfia. «Porca miseria...»
mormorò inquieto. «Così la
missione salta.»
Chiharu
esitò. «Non è detto»
sussurrò dopo qualche istante, con una
certa reticenza. «Possiamo cambiare un po' il
piano...»
«Lascia
perdere le copie» sbuffò Kotaro. «Se ci
mollano nel mezzo delle
operazioni siamo morti.»
«Lo
so» sbottò lei stizzita. «Non parlavo di
copie. Pensavo a una
sostituzione.»
Kotaro
la fissò stranito. «Che ce ne facciamo di un
tronco?»
«Non
quella
sostituzione! Mandiamo a casa Hitoshi.»
Kotaro
sollevò le sopracciglia in un'espressione sorpresa.
«Hai intenzione
di chiamare Naruto?»
«No.
Cioè, ci ho pensato, e sarebbe l’ideale... magari
verrebbe anche,
scemo com’è, ma adesso è Hokage,
sarebbe una richiesta idiota.
Per questo...» rallentò, fece un grande respiro.
«...chiamiamo
Stupido.»
Anche
se l’ultima missione a quattro l’aveva convinta che
non potevano
collaborare con nessuno, la situazione era di pura emergenza e non
poteva semplicemente concludersi con un rientro. Non avrebbero avuto
altre occasioni per salvare Loria: se la spia a Suna si fosse accorta
del tentativo, l’ostaggio sarebbe stato spostato altrove e le
condizioni di Gaara sarebbero diventate più che critiche.
Non
potevano abbandonare la missione e non potevano metterla a rischio
con Hitoshi, quindi l’unica soluzione era chiedere a Baka di
sostituire l’Uchiha, per quanto complicato apparisse. Lei
forse era
quella meno entusiasta di chiamare proprio Stupido – visto
come si
era svolto il loro ultimo incontro – ma non aveva altre
proposte
valide, dato che non avrebbe mai chiamato Yoshi per una missione
fuori dal Paese del Fuoco.
Oh,
Hitoshi non l'avrebbe presa affatto bene... Chiharu si sentiva molto
a disagio all'idea di comunicare la notizia all'Uchiha: avrebbe avuto
più tempo per decidere come affrontare la situazione con
lui, ma
contemporaneamente avrebbe rischiato di offenderlo abbastanza da non
avere più niente di cui discutere.
Kotaro
fissò Chiharu con cautela, aspettandosi di vederla scoppiare
a
ridere da un momento all’altro.
«Stai
scherzando, vero?» chiese quando il silenzio si fu protratto
considerevolmente.
«No»
sbottò lei un po’ irritata. «Hitoshi
è K.O., non possiamo
perdere tempo e Baka è l’unico che abbia mai
vagamente collaborato
con noi, l’unico che possa reggere il ritmo.»
«Ma
è una follia!» esclamò Kotaro.
«Baka è un Anbu, avrà le sue
missioni! Non può mica fare fagotto e venire con noi solo
perché tu
pensi che sia adatto! Piuttosto Jin!»
«Jin
è con Kakashi.»
«Come
lo sai?»
«Ho
ficcato il naso prima di partire...» Chiharu si mantenne sul
vago.
«Comunque
non esiste. Un Anbu non può staccarsi dalla sua squadra per
venire
ad aiutare noi, e Hitoshi...» Kotaro si lasciò
andare a
un’esclamazione sprezzante. «Piuttosto che farsi
rimandare a casa
- per di più sostituito da Stupido! -
preferirebbe far
incidere il suo nome sulla lapide degli eroi!»
«Non
ho intenzione di tornare a Konoha con un nulla di fatto per salvare
l’orgoglio di un Uchiha! E Baka verrà. Naruto ce
lo spedirà di
corsa, lo recupererà ovunque lui sia, fidati. Se fosse
già
diplomato mi sarei fatta spedire Yoshi, ma data l’importanza
della
missione chiamarlo sarebbe un rischio...»
Kotaro
dentro di sé pesò Yoshi e Stupido e si rese conto
che nello scambio
gli era andata bene. Ma comunque restava un’idea destinata al
fallimento: chi avrebbe portato a casa Hitoshi? Quanto tempo ci
sarebbe voluto perché Baka arrivasse? Come li avrebbe
trovati?
C’erano troppi punti di domanda, e Kotaro lo fece presente.
Ma
Chiharu, a sorpresa, sospirò come se si fosse sempre
aspettata
quella parte della discussione.
«Temo
di poter intervenire io...»
«Stai
dicendo che sai come portare Hitoshi a casa, farci trovare da Baka e
farlo arrivare in tempi ragionevoli?» allibì
Kotaro.
Lei
alzò gli occhi verso il cielo che si tingeva
d’arancio e perse
qualche secondo in calcoli.
«Ad
occhio e croce direi che per domani notte Baka sarà
qui.»
«No.
No, è assurdo» Kotaro si arruffò i
capelli. «E’ fisicamente
impossibile! Che diavolo stai dicendo?»
«Senti,
il cervello del gruppo sono io, giusto? Ho fatto i conti e ti dico
che ce la possiamo fare.»
«Ma...
Ma... Anche se fosse, Hitoshi...»
«Per
domani Hitoshi non capirà nemmeno chi
è» promise lei cupa. «E,
per quanto sembri una minaccia, in realtà è solo
una previsione.»
Kotaro
la fissò ansiosamente. Era un piano raffazzonato in fretta e
furia,
lacunoso, approssimativo... Chiharu sembrava sicura di sé,
ma a lui
pareva che le probabilità che tutto andasse per il verso
giusto
fossero infime. Scosse la testa, per niente convinto, e
scrutò torvo
i suoi occhi, che invece erano quelli a cui era abituato, gli stessi
che dicevano in lettere capitali: NON ME NE FREGA NIENTE DI QUELLO
CHE PENSI TU.
«E’
proprio l’unica soluzione?» mormorò con
una smorfia.
«Ne
ho valutate altre, ovviamente, ma questa è la più
sicura» sbuffò
Chiharu. «Per chi mi hai preso?»
Kotaro
si strinse nelle spalle sconsolato. Se questa è la
più sicura,
siamo messi davvero male, disse dentro di sé. E a
quel punto,
come previsto, come era scontato e come era necessario,
scrollò le
spalle e assentì con il capo.
A
fare tutto senza nemmeno parlare con Hitoshi si sentiva un verme. Ma
sapeva che guardandolo negli occhi avrebbe perso quel poco di
convinzione che Chiharu gli aveva inculcato, così
preferì voltargli
le spalle e seguire la via più semplice. Per il bene di
tutti, si
disse, e cercò di convincersi che quella fosse la sola
ragione...
Anche se era difficile sentirsi con la coscienza pulita.
«Vado
a spedire il messaggio» concluse Chiharu, e prima che Kotaro
le
chiedesse come aveva intenzione di fare scomparve tra i cespugli
sfilandosi il kunai dalla cintura.
*
Ormai
era quasi impossibile tenere la bocca chiusa. Jin si aggirava per le
strade di Anka famelico, nervoso come un trentaquattrenne esaurito,
le mani pesantemente affondate in tasca e le occhiaie sulle guance di
ragazzino.
Mentre
camminava per quella che gli sembrava l’ennesima vita - anche
se si
trattava solo di un paio di giorni - senza trovare nulla di utile,
senza sentir parlare di donne dai capelli rossi e soprattutto senza
sapere niente di passaggi segreti, capì che sarebbe stato
molto
difficile non sommergere Kakashi di domande quando lo avesse rivisto.
Gettò un’occhiata alla montagna su cui si ergeva
la rocca dei
mercenari, già illuminata dalle torce. Non dovette nemmeno
socchiudere le palpebre per contrastare il chiarore del tramonto
vicino a scomparire. Era ora di rientrare.
Con
passo nervoso girò per una stradina delle tante che ormai
conosceva
come le sue tasche e si trovò immerso in un’ombra
più densa di
quanto si aspettasse. Si fermò per abituarsi
all’oscurità, ma non
si agitò: la sera prima un povero idiota aveva avuto il
coraggio di
provare a sfogare le sue perversioni su di lui ed era tornato a casa
con il naso fratturato e una spalla lussata.
Trottò
senza far rumore fino in fondo al vicolo, sbucando in una piazzetta
squallida e ancor più buia al cui centro troneggiavano i
resti di
una fontana coperta di muschio. Probabilmente tanti anni prima Anka
era stato un villaggio ricco e prospero. Forse c’era stato un
uomo
importante che ne aveva controllato i campi, le entrate, le
provviste, forse c’era stato un capovillaggio forte, persone
ricche, facce felici. Ma evidentemente quell’epoca era
tramontata
da tanto tempo che nessuno sembrava ricordarsene più.
Jin
scattò di lato e puntò il kunai alla gola
dell’uomo che lo
seguiva.
«Calma»
disse subito quello, levando le mani. La voce era di Kakashi.
«Zio?»
ribatté Jin senza abbassare l’arma.
«Sono
tuo padre.»
Jin
si rilassò e fece un passo indietro. Ogni volta che si
incontrava
con Kakashi gli faceva una domanda a trabocchetto per verificare che
non fosse un nemico trasformato, ma quella sera la conferma non lo
rilassò granché.
«Allora?»
chiese seccamente. «Abbiamo qualcosa o no,
finalmente?»
«Forse»
Kakashi raggiunse il limitare della piazza e percorse un vicolo senza
spiegarsi. Jin lo seguì stizzito, ma non lo costrinse a
parlare
finché non ebbero raggiunto l’edificio che usavano
come
nascondiglio dal giorno del loro arrivo. Kakashi si assicurò
che le
imposte fossero sigillate e accese una candela.
«Oggi
ho giocato a dadi con un mercenario» spiegò
cercando il suo zaino.
«Aveva lavorato come guardia nella rocca, mi ha descritto gli
appartamenti interni» Tirò fuori un rotolo di
pergamena bianca e
una penna. Prima di continuare tracciò alcune righe sul
foglio
mentre Jin si inginocchiava accanto a lui. «Ci sono due ali
principali, quella del signore e quella delle donne e dei bambini. I
domestici dormono quasi tutti in una stanza nell’ala delle
donne e
comunicano con l’esterno grazie ai mercenari. Nessuno esce e
nessuno entra, gli scambi avvengono qui» cerchiò
l’ingresso
principale.
«Aspetta,
fermo» lo interruppe Jin. «Noi a cosa puntiamo di
preciso?»
«All’ala
delle donne.»
«La
mamma è lì, vero?» un fremito nella
voce.
«Jin,
hai promesso di non fare domande.»
«Devo
sapere cosa andiamo a fare!»
I
due shinobi si fissarono corrucciati.
«Papà,
non fare il vigliacco» mormorò Jin. «Non
puoi tirarti indietro
adesso che siamo arrivati qui.»
Kakashi
non rispose. Più si avvicinava il momento di agire e meno
era sicuro
di come muoversi. Nelle sue indagini non aveva sentito parlare di
donne dai capelli rossi.
«Non
è così semplice» si passò
una mano sul viso. «Nemmeno io so con
certezza cosa stiamo facendo.»
A
quelle parole Jin sentì tutta la frustrazione covata negli
ultimi
giorni risalire in gola ed esplodere, e non fece nulla per arginarla:
«cosa vuol dire che non sai cosa stiamo facendo?»
gridò. «Siamo
partiti da Konoha nel massimo segreto, come dei ladri! Hai mollato la
carica di Hokage per venire fin qui, e non sai
perché?» Kakashi non
ribatté. Jin tirò una manata al suo zaino, che
rotolò sul
pavimento perdendo parte del suo contenuto. «E’
davvero per la
mamma, almeno?» domandò con voce vibrante.
«Spero
di sì» mormorò Kakashi crollando le
spalle. Stanchezza e tensione
gli pesavano addosso come macigni. «Non so se riuscirei ad
affrontare la sua morte per la terza volta.»
«Cosa?»
Kakashi
si protese per radunare le cose sfuggite dallo zaino, rimproverandosi
per l’attimo di debolezza.
«Jin,
ti avevo esposto chiaramente le condizioni» disse
riacquistando
rapidamente il controllo della situazione. «Io comando, tu
esegui.
Non fai domande, obbedisci e basta. Adesso ti parlerò del
piano.
Qualunque rimostranza o lamentela tu voglia fare, rimandale a quando
avremo varcato i confini del Fuoco. Mi sono spiegato?»
Jin
deglutì un paio di volte prima di annuire rigidamente. Non
era
particolarmente turbato dal tono severo di Kakashi, quanto dalla
breve frase che si era lasciato sfuggire. Terza volta?
«Allora»
riprese il Jonin puntando la mappa. «Dobbiamo raggiungere
l’ala
delle donne, e per farlo passeremo dallo scolo del laghetto del
giardino.»
«Impossibile.
Ho controllato il perimetro, non ci sono varchi. Il canale di scolo
è
ostruito da una grata infissa nella roccia»
mormorò Jin.
Kakashi
sfilò dallo zaino un involto e glielo tese:
all’interno era pieno
di bombe carta impermeabilizzate per essere utilizzate
sott’acqua.
«Non
sei riuscito a scoprire niente sul passaggio segreto?»
Kakashi
scosse la testa e proseguì: «una volta entrati
restiamo nel canale
fino a raggiungere il laghetto, ed emergiamo in un punto riparato. Da
lì ci insinuiamo sotto le fondamenta e strisciamo fino
all’ala
delle donne. Tutto chiaro?»
«Come
evitiamo le guardie?»
«In
questo lato del palazzo la sorveglianza è minore. I
mercenari sono
alloggiati negli appartamenti esterni e il signore del villaggio
è
dall’altra parte della residenza. Sarà sufficiente
non farsi
scoprire in mezzo al giardino.»
«E
per la fuga?»
«Usiamo
la stessa via per cui siamo arrivati, oppure ci inventiamo qualcosa
al momento.»
Jin
si passò una mano sulla fronte, osservando lo schizzo di
mappa sulla
pergamena e cercando di ricordare la zona vicino al canale di scolo.
Gli sembrava un piano troppo vago e pieno di incognite, ma capiva che
non avrebbero avuto informazioni più precise.
«Quante
possibilità ci sono che sia un fallimento?» chiese
con la gola
secca.
«Dipende
da cosa intendi per fallimento» rispose Kakashi.
Jin
annuì. Sulla punta della lingua sentiva fremere un milione
di
domande che esigevano una risposta, ma ne selezionò solo
una, quella
che aveva più probabilità di non essere zittita
bruscamente.
«L’obiettivo della missione... Come la
riconoscerò?»
Kakashi
però scosse la testa. «Lascia stare. Se
c’è la riconoscerò io.»
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Capitolo 16 *** Notte fonda ***
Penne 16
Capitolo
sedicesimo
Notte
fonda
Jin
e Kakashi si mossero la notte stessa in cui Kakashi portò le
informazioni sulla rocca. Recuperarono gli zaini, riempirono le
tasche dei gilet di bombe carta impermeabili e cancellarono dal
rifugio tutte le tracce del loro passaggio. Jin si legò un
pezzo di
stoffa nera attorno alla bocca e al naso, come il padre. In quel modo
sembravano l’uno la copia in miniatura dell’altro.
Attraversarono
il villaggio addormentato passando per vicoli e tetti, aiutati dalle
ombre che coprivano la luna. Risalirono la collina che portava alla
rocca nascondendosi tra gli alberi che costeggiavano la strada
principale, e acquattati nel sottobosco raggiunsero il lato
dell’edificio da cui partiva il canale di scolo del laghetto.
Le
guardie di vedetta non si accorsero di nulla.
Come
previsto da Kakashi la zona non era sorvegliata e la luce delle torce
non arrivava nemmeno a lambirla. Il rigagnolo che scorreva sotto le
mura aveva una profondità di poche decine di centimetri ed
era
sbarrato da una grata di metallo arrugginito con sbarre spesse due
dita: sembrava impossibile passare di lì a meno di demolire
parte
della parete.
Jin
non si fece impressionare. Inginocchiatosi accanto al canale immerse
un braccio nell’acqua e iniziò ad applicare le
bombe carta
all’interno e all’esterno della barriera.
Kakashi
evocò Pak e un paio di altri cani e si abbassò
per dare loro alcune
istruzioni. Quando Jin ebbe terminato gli animali furono mandati via
attraverso il sottobosco e i due shinobi rimasero in attesa.
«Papà?»
mormorò Jin nervosamente. «Che diavolo faccio se
ti perdo?» Non
era nuovo alle missioni rischiose, ma era la sua prima volta in una
missione di famiglia.
«Corri
fino al Paese del Fuoco» disse Kakashi.
«E
poi?»
«Quando
arrivi parla solo con Naruto e digli cosa abbiamo fatto qui.»
«Bella
roba... Non lo so cosa stiamo facendo.»
«Ho
messo nel tuo zaino un fascicolo. Dagli quello.»
Prima
che Jin potesse frugare nello zaino sentirono dei latrati venire
dalla zona dell’ingresso principale e voci concitate in
risposta.
Kakashi fece un cenno e Jin intrecciò le dita per attivare
le bombe
carta. L’esplosione fu notevolmente attutita
dall’acqua, ma
sollevò alti spruzzi e fece risuonare il ferro divelto. Un
paio di
sassi si staccarono dal muro e piombarono nel canale con un tonfo, ma
l’insieme dei rumori era comunque meno intenso del latrare
lontano
e dei clamori dei mercenari.
Kakashi
rimosse la grata di metallo. Jin prese un ampio respiro, scese nel
canale e si sdraiò sul fondo, quindi si aggrappò
con le mani ai
resti delle sbarre per tirarsi dall’altra parte. Kakashi lo
seguì
poco dopo, a fatica, e riemerse con uno strappo sul telo impermeabile
che avvolgeva lo zaino. Per fortuna il canale passava tra una macchia
di cespugli fitti, così poterono procedere tenendolo
sollevato.
Spingendosi
con le ginocchia sul fondo limaccioso avanzarono lungo una stretta
ansa, che emergeva dal folto per scintillare tra le felci fino a un
laghetto ombreggiato da un salice piangente. Jin e Kakashi si
fermarono. Il laghetto era a pochi metri dalle fondamenta
dell’abitazione, ma per raggiungerle avrebbero dovuto
percorre un
bel pezzo scoperti. Decisero di abbandonare il canale e si spinsero
fino al bordo della vegetazione, troppo fitta per passarci in mezzo.
In lontananza le voci di uomini e cani erano scemate fino ad
esaurirsi.
Kakashi
bloccò Jin, indicandogli una figura seduta sul bordo del
corridoio
esterno dell'edificio. Indossava la divisa dei mercenari e faceva
ciondolare le gambe nel vuoto; non l’avevano vista
perché la sua
ombra si confondeva con quella della colonna a cui si appoggiava. Per
non farsi individuare i due shinobi cercarono di spingersi un
po’
più a fondo nella vegetazione, quando a un tratto sentirono
un
richiamo e si immobilizzarono.
Videro
il mercenario seduto sul ballatoio alzarsi e fare un cenno
militaresco. Un altro uomo lo aveva raggiunto e gli stava dicendo
qualcosa che non riuscirono a capire, quindi entrambi scoppiarono a
ridere. Il nuovo arrivato batté una pacca sulla spalla
dell’altro
e gli strinse il mento tra le dita, infine tornò da dove era
venuto.
Il mercenario di guardia aprì una porta scorrevole ed
entrò
nell’ala delle donne.
Jin
e Kakashi si affrettarono a raggiungere l’edificio
finché non
c’era nessuno in vista e si tuffarono tra le colonne di
sostegno. I
vestiti bagnati si gelavano loro addosso, avevano foglie, rami e
fango impigliati ovunque. Le fondamenta erano fredde e immerse in un
buio impenetrabile, così erano costretti a posare le mani su
cuscinetti di muschio viscido e resti dei pasti di piccoli animali.
Riuscivano a malapena a intuire le reciproche posizioni. In silenzio
strisciarono alla cieca per qualche metro, finché udirono
delle voci
sopra le loro teste.
«...E
quei cani si sono avventati sullo spiedino del mercenario e glielo
hanno portato via» ridacchiava una donna.
«Chi
era il mercenario? Quello piccolo e tarchiato con la cicatrice sul
mento?» domandò un’altra.
«Quello
non si farebbe rubare il cibo nemmeno da sua madre se stesse morendo
di fame» replicò una terza, scatenando un coro di
risate -
impossibile stabilirne il numero.
«Oh,
quanto avrei voluto assistere!» sospirò la prima
voce.
«Sciocchezze»
sibilò aspra un’altra. «Nessuno entra e
nessuno esce, soprattutto
voi.»
Calò
il silenzio. Una porta scorse sulla sua guida e fu richiusa, quindi
ripresero i mormorii concitati.
Jin
e Kakashi si spostarono nella direzione in cui avevano sentito aprire
e chiudere. Dopo pochi metri le voci divennero inudibili e capirono
di essere sotto un’altra stanza. Kakashi tastò
sopra la propria
testa. I tatami erano fissati saldamente e non c’era la
possibilità
di smuoverli. Richiamò l’attenzione di Jin, che
estrasse dallo
zaino un accendino per illuminare l’intelaiatura del
pavimento.
Ombre senza contorni corsero a nascondersi negli angoli più
lontani
tra squittii e scricchiolii leggerissimi. Nella tenue
luminosità i
due shinobi si guardarono attorno, ma videro solo colonne annerite
dalla muffa e vasti brandelli di buio: nessuna traccia di un
passaggio segreto.
«Là»
indicò Kakashi. Poco oltre, alcuni pannelli di legno
delimitavano un
cubo ribassato rispetto al pavimento. Lo raggiunsero, e Kakashi
spinse e tirò finché non sbloccò uno
dei pannelli, posandolo a
terra. Si sporse cautamente dall’apertura e scoprì
di essere sotto
un tavolo in una stanza in penombra.
Lui
e Jin sgusciarono sul pavimento senza fare il minimo rumore. Fecero
passare gli zaini e lasciarono il pannello aperto per avere una via
di fuga rapida, quindi si accovacciarono, in ascolto.
Si
trovavano in una stanza di sei tatami con le pareti di carta di riso
e un tavolo basso al centro, nel più classico degli stili.
Alcuni
dei pannelli di carta erano riparati con delle toppe e mancavano due
listarelle di legno, ma tutto sommato il Signore del Villaggio
sembrava essere benestante. La leggera luce che rischiarava la stanza
veniva da un punto oltre i pannelli.
Un’ombra
passò lungo il corridoio nascondendo la luce, forse la
guardia di
prima. I suoi passi erano silenziosi. Kakashi attese che fosse
scomparsa prima di muoversi. Insieme a Jin strisciò lungo il
pavimento e fece scorrere la parete di carta quel tanto che bastava
per sporgere la testa. Il corridoio era deserto, rischiarato da una
fiammella a un metro e mezzo di altezza. Da qualche parte, oltre un
muro, sentirono le donne ridere ancora.
Con
passo felpato padre e figlio scivolarono lungo il corridoio, spiando
dietro gli angoli e passando rasenti le pareti. Dovettero fare quasi
mezzo giro dell’ala prima di ritrovare la stanza sotto cui si
erano
nascosti, ma quando ci riuscirono Kakashi fece segno a Jin di
aspettare e rimosse un pannello del sottotetto per arrampicarvisi.
Jin
si acquattò in un angolo oscuro, cercando di sbirciare
l’interno
della stanza attraverso uno strappo nella carta di riso: intravide
stoffe di vari colori, lunghi nastri di capelli neri, futon
stropicciati e piedi minuscoli che scomparivano sotto l’orlo
degli
yukata. Tra quelle
donne c’era forse sua madre?
Si
avvicinò di più per aumentare la visuale, ma non
scorse capelli
rossi. La tentazione di aprire lo zaino e leggere il fascicolo di cui
gli aveva parlato suo padre era fortissima.
A
un tratto il chiarore tremulo della luce oltre la curva fu oscurato
da un’ombra. Jin balzò in piedi e con orrore
sentì dei passi
avvicinarsi. Era troppo scoperto: nel corridoio non c’erano
posti
in cui nascondersi e se avesse seguito Kakashi nel sottotetto avrebbe
fatto rumore. Si guardò freneticamente attorno,
individuò un’altra
porta scorrevole e si tuffò oltre, trattenendo il fiato.
I
passi lo raggiunsero. Attraverso le pareti traslucide vide
l’ombra
fermarsi a pochi centimetri da dove lui era stato poco prima.
Sentì
la porta della stanza delle donne che si apriva e la voce aspra che
aveva parlato per ultima quando le spiavano dalle fondamenta:
«Basta
chiacchiere! Andate a letto! Il vostro Signore non sarà
contento di
sapervi così indisciplinate!»
Le
donne levarono un lamento collettivo, ma a giudicare dai fruscii
obbedirono. L’ombra che le aveva sgridate richiuse la porta,
poi
però non si mosse. Jin sentì il cuore accelerare
nel petto. L’ombra
si spostò di un passo e si fermò di nuovo. Tese
una mano verso
l’alto...
Aveva
visto il pannello rimosso.
*
Sasuke
iniziava a capire come doveva sentirsi Hitoshi.
Seduto
alla scrivania del suo studio si premeva una mano sulla fronte e
cercava invano di capire cosa stava leggendo. Maledetta emicrania.
Lasciando
perdere il documento si appoggiò allo schienale della sedia
e chiuse
gli occhi. Provò a massaggiare le tempie con le dita, ma la
tensione
dei muscoli sulla sua nuca non accennava a diminuire e le arterie
attorno alla sua testa pulsavano dolorosamente. Si sarebbe lasciato
andare a un gemito, se fosse stata sua abitudine.
Non
sarebbe dovuto essere lì. A quell’ora di notte
Sasuke sarebbe
dovuto essere a letto con sua moglie nella sua bella casa a godere
del sonno dei giusti. Invece si rodeva anima e fegato occupando
l’unico ufficio con la luce accesa del dipartimento.
Si
costrinse a risollevare le palpebre pesanti. Nonostante la stanchezza
non sarebbe mai riuscito a dormire: c’era la spia di cui
occuparsi,
tutta la microcriminalità di Konoha, qualche disordine nelle
prigioni, Morino da mandare in pensione, mille problemi e
preoccupazioni che non lo abbandonavano nemmeno in sogno. Il
più
importante, e anche il peggiore di tutti: Sakura. E con lei Naruto, e
tutte le altre persone che si
supponeva
lo avessero accolto tra loro quando era tornato a Konoha.
Spossato,
Sasuke appoggiò i gomiti al ripiano della scrivania e si
prese la
testa tra le mani. Un traditore resta sempre un traditore,
rifletté.
Per quanto possa redimersi, per quanto possa cambiare e punirsi per
aver sbagliato, gli altri non smetteranno mai di temere che li
abbandoni di nuovo. Era semplice. Così maledettamente
semplice che
non riusciva a trovare nemmeno un motivo per cui le persone attorno a
lui non dovessero pensarlo.
E
in fondo non avevano nemmeno tutti i torti, si disse amaramente: la
prima volta, quando si era presentato qualcosa di più
importante,
non aveva esitato un istante a lasciarsi tutto alle spalle. Ora cosa
gli avrebbe impedito di ripetere la stessa esperienza? Chi garantiva
che non sarebbe mai comparso qualcosa di più
importante
di
Sakura, della polizia, del clan, della stessa Konoha?
Travolto
da quei pensieri si fregò la fronte rabbiosamente.
No,
non era così. Lui aveva
esitato. Si era tormentato l’anima prima di abbandonare
Naruto,
Sakura e Konoha. Per inseguire Itachi e mettersi nelle mani di
Orochimaru si era strappato un pezzo di cuore, la parte che poteva
sperare di essere felice e immaginare un futuro, e farlo era stato
infinitamente doloroso... molto più di quanto Sakura, o
Naruto, o
chiunque a Konoha avrebbe potuto capire.
Aveva
amato i suoi compagni di squadra. Aveva amato Kakashi, aveva amato
Konoha. Aveva amato ogni singola cosa che si era lasciato alle
spalle, e ciò che lo aveva seguito nel suo tradimento era
stato solo
ciò che lo faceva soffrire: i ricordi, la vendetta, il
dolore della
solitudine.
Chi
non aveva mai tradito non poteva capire cosa volesse dire: un
tradimento non sussiste senza la sofferenza del traditore. Un
traditore che se ne va a cuor leggero non è mai stato fedele
a
nessuno. E lui a Konoha era stato fedele; alle persone che vivevano a
Konoha era stato assolutamente fedele.
Ma
nessun altro intorno a lui aveva tradito ed era tornato, nessun altro
si era strappato un pezzo di cuore e poi si era chinato nella polvere
a cercarlo. Nessuno aveva provato il sollievo di ritrovarlo, la
desolazione di scoprire che non combaciava né mai lo avrebbe
fatto,
nessuno aveva tentato disperatamente di provare ad essere la persona
di prima.
Scioccamente
aveva pensato di esserci riuscito alla fine, anche se a fatica. Con
Sakura al suo fianco, con Naruto, Kakashi, e tutte le persone che gli
avevano dato fiducia, aveva pensato di aver ricucito lo squarcio.
Invece era stata proprio lei a ricordargli che quel cuore non sarebbe
stato mai più integro. Lei, che per prima gli si era
avvicinata, che
per prima e più di tutti aveva lenito la sua ferita. Lei,
che diceva
di amarlo al di sopra di ogni cosa, che per lui aveva tradito Naruto
e sopportato il peso che ogni tradimento comporta, lei che aveva
fatto la scommessa di sposarlo. Lei che lo sosteneva, che era
ciò
per cui lui stava a galla, lei all’improvviso si era fatta da
parte. E allora tutto era crollato.
Dopo
Sakura chi altri lo avrebbe guardato con sospetto? Naruto? I suoi
uomini? E poi? Forse avrebbero iniziato a sospettare che la spia
fosse lui. Quale tecnica migliore dello sharingan per confondere il
byakugan?
Si
sentiva come nelle prime notti passate al covo di Orochimaru, quando
la ferita del suo cuore doleva in maniera insopportabile. Allora il
sigillo sul suo collo pulsava, marcando la sofferenza e risuonando
insieme a lei, e il pensiero della vendetta era l’unico che
riuscisse a sovrastarlo e placarlo, ottenebrando qualunque senso.
Solo a quel punto sì, dormiva.
Oggi
non aveva nessun pensiero di vendetta che potesse salvarlo.
Però il
segno sul suo collo, sbiadito e grigiastro, aveva ripreso a
tormentarlo con il solito dolore sottile.
Fissando
vacuo un angolo della scrivania, Sasuke fece scivolare una mano fino
al punto tiepido che le sue dita conoscevano tanto bene. Qualcosa,
sotto i polpastrelli, riprendeva forza. Alimentato dal dolore
cominciava a ribollire silenzioso, in attesa del momento di tornare a
vivere.
*
Kakashi
strisciava solo sulle assi più grandi, facendo attenzione ad
evitare
gli scricchiolii del legno sotto polsi e ginocchia. Attraverso le
fessure del sottotetto penetravano lame di luce che gli rendevano
possibile orientarsi. Raggiunse la stanza in cui erano riunite le
concubine e si fermò, sentendole ridacchiare sotto di
sé. Con le
dita cercò i bordi del pannello più vicino e lo
sollevò per
scrutare al di sotto. Lo spicchio di stanza che si intravedeva non
era sufficiente per permettergli di studiare tutte le donne, ma
quelle che vide non gli erano familiari.
Si
accorse che era più nervoso del previsto: aveva le mani
coperte di
sudore, il suo unico occhio vagava quasi famelicamente.
Quanto
tempo era passato dall’ultima volta che aveva avvertito
quella
stessa fitta d’ansia e trepidazione? Undici anni,
ricordò.
All’epoca Tsunade era ancora Hokage, e il peso delle
decisioni
importanti gravava sulle sue spalle; di lì a poco lei gli
avrebbe
chiesto di prendere il suo posto, ma allora era ancora il capo e le
patate bollenti erano sue.
Kakashi
ricordava con precisione il giorno in cui era entrato nello studio
del quinto Hokage con la lettera di Jinnai Momori tra le mani:
ricordava la trepidazione, la folle speranza che ci fosse una
spiegazione, l’ansia, l’incertezza... Le ricordava
così bene che
se le sentiva ancora addosso.
La
lettera non nominava Haruka, ma doveva per forza avere a che fare con
lei. La sua semplice comparsa aveva provocato un grosso shock in
Kakashi, perché all’epoca era ancora in lutto: due
anni prima lui
e Haruka erano stati inviati in missione nel Paese delle Risaie, e
lei non era tornata.
Qualcosa
era andato storto, l’edificio in cui si erano introdotti
aveva
preso fuoco e loro erano stati separati da un crollo. Kakashi non
aveva visto Haruka uscire, ma non l’aveva nemmeno vista
morire.
Con
il cuore pesante era ritornato a Konoha e aveva fatto rapporto a
Tsunade; lei gli aveva chiesto se avesse cercato il cadavere, lui
aveva risposto che del palazzo era rimasto solo un cumulo di cenere.
Ma era certo che fosse morta: non potevano esserci alternative,
perché stavano parlando di Haruka e lui non poteva accettare
l’insinuazione che avesse tradito il villaggio. Tsunade
invece ci
aveva pensato e non aveva trovato l’idea troppo improbabile.
Conosceva la storia della famiglia Muto, sapeva di cosa erano capaci
e pensò che scomparire misteriosamente nel crollo di un
palazzo in
fiamme sarebbe stato esattamente ciò che avrebbe fatto una
come
Haruka per scomparire dalla scena.
Quello
appena successivo era stato un periodo orrendo: per giorni Kakashi
aveva discusso con Tsunade pregandola di rivedere le sue opinioni,
supplicandola di non parlare con il Consiglio dei suoi sospetti,
ricostruendo nel dettaglio gli ultimi momenti in cui aveva visto
Haruka. Era tornato nel Paese delle Risaie in cerca almeno della
placchetta di metallo del suo coprifronte, ma evidentemente era
andata sciolta nel calore dell’incendio.
Alla
fine Tsunade era stata clemente: gli aveva concesso un anno per
recuperare le prove della morte di Haruka, ma se entro allora non ci
fosse riuscito avrebbe parlato al Consiglio e inserito il nome della
donna nella lista dei dispersi. L’età la stava
ammorbidendo, sotto
certi aspetti.
Kakashi
purtroppo non aveva trovato nulla, e allo scadere del tempo era
tornato da Tsunade a mani vuote. Lei gli aveva detto che non poteva
più tenere segreta la questione. Ne avrebbe parlato al
Consiglio,
Haruka sarebbe stata inserita nella lista dei dispersi e tenuta in
disparte nell’archivio dei sospetti. Non si poteva agire
diversamente.
Poi
era arrivato quel messaggio, il primo messaggio, un biglietto
recapitato via posta e firmato da una mano sconosciuta. Nessun
codice, soltanto parole chiare e un po’ sgrammaticate:
‘Alla
cortese attenzione del signor Hatake Kakashi. Sono spiacente di
informarla che la signorina Akiko Kato è morta dopo lunga
malattia.
Il mio nome è Jinnai Momori, vivo nel villaggio di Nogane
sul
confine con il Paese delle Risaie. La prego di venire a prendere il
bambino. La signorina Akiko ha detto che lei lo prendeva. Per favore,
non posso sfamare una bocca in più’.
Si
era precipitato da Tsunade e avevano passato tutta la notte a fare
ipotesi. Il nome Akiko aveva una correlazione con il nome Haruka*, ma
non potevano esserne certi. D’altronde chi altri avrebbe dato
il
suo indirizzo come persona di fiducia? E di che bambino parlavano?
«Pensi
che sia suo figlio?» aveva chiesto Kakashi.
«Penso
che sia tuo figlio» aveva risposto Tsunade.
Se
davvero nel messaggio si parlava di Haruka, allora non era morta in
quell’incendio. Che ci faceva al confine con il Paese delle
Risaie?
Perché era sparita senza dire niente? Perché
ricompariva di nuovo
come cadavere? Tutto troppo strano e confuso.
Kakashi
pregò Tsunade di mandarlo a controllare da solo, e lei
acconsentì.
Partì immediatamente, raggiunse il villaggio di Nogane e
cercò
Jinnai Momori, scoprendo che era un ometto nervoso con una schiera di
figli. Tra i figli gli presentò un bimbo che a malapena si
reggeva
in piedi: aveva pochi capelli chiari, grandi occhi blu e nessuna
intenzione di parlare. L'uomo gli disse che si chiamava Jin, e che
era il figlio di Akiko Kato.
Kakashi
chiese di vedere la tomba della madre. Lo accompagnarono al cimitero
del paese e gli mostrarono una lapide in legno posata di recente. Non
c’erano ornamenti né fiori, l’urna era
stata interrata sotto un
mucchio di terra pieno di erbacce. Ancora ceneri e nessun corpo.
Kakashi
domandò del padre del bambino, ma a quanto pareva Akiko Kato
era
arrivata al villaggio già incinta e non era stata mai vista
insieme
a un uomo. Il Jonin accarezzò l’idea di torturare
Jinnai Momori
per capire quanto effettivamente gli stesse tenendo nascosto, ma si
rese conto che se davvero dietro a quel messaggio c’era
Haruka
doveva aver organizzato le cose perché il poveretto non
sapesse più
dello stretto necessario. Così prese il bambino,
lasciò all'uomo
una generosa mancia e tornò a Konoha.
Una
volta a casa il Quinto Hokage diede le dimissioni e suggerì
il suo
nome come successore. Kakashi le chiese consiglio sulla questione e
lei disse che Haruka andava considerata un traditore a tutti gli
effetti: la lapide non era nemmeno lontanamente una prova sufficiente
per dirla morta, e già una volta era tornata
dall’aldilà per
regalargli un marmocchio sbavante... nulla di più facile che
comparisse ancora. Lei non l'aveva schedata per fargli un enorme
favore personale, ma adesso che prendeva il posto di Hokage avrebbe
dovuto valutare la situazione da solo.
Kakashi,
tuttavia, esitò.
Ci
vollero intere settimane perché decidesse di seguire il
consiglio di
Tsunade, ma senza parlarne al Consiglio. Non poteva ignorare il fatto
che Haruka si fosse finta morta per quasi due anni, però non
voleva
nemmeno credere che avesse tradito il villaggio e fosse ancora in
circolazione. Perché chiedergli di occuparsi del bambino, in
quel
caso? Cosa le impediva di portarselo dietro o lasciarlo a qualcun
altro? Con un vitalizio avrebbe potuto risolvere il problema trovando
una famiglia disposta a curarsi di lui, anziché coinvolgerlo
in quel
modo misterioso. Se invece la tomba fosse stata vera, la comparsa di
Jin avrebbe avuto un senso... Solo quella, ma era già
qualcosa.
Qualche
anno dopo Tsunade era morta. Con lei era scomparsa l’unica
persona
oltre a lui che sapesse che Haruka aveva fatto perdere le sue tracce,
e Kakashi aveva scelto di lasciar credere a tutti che la madre di Jin
fosse in missione sotto copertura. Un giorno avrebbe raccontato che
era arrivata la notizia della sua morte e avrebbe inciso il suo nome
sulla lapide degli eroi, sempre che prima lei non ricomparisse a
sorpresa. Un giorno lo avrebbe fatto, se non fosse tornata. Un
giorno, quando Jin fosse stato più grande...
Le
bugie si erano impilate una sull’altra mentre gli anni si
accumulavano: prima ai suoi allievi, poi al ragazzino che cresceva,
infine a Natsumi quando era ricomparsa. Presto si era trovato
invischiato in una rete di menzogne da cui era diventato impossibile
districarsi, quindi aveva deciso di non fare nulla: affrontare la
questione era doloroso, presentarla a Jin quasi impossibile, e lui
aveva tanto da fare, un Villaggio da guidare, compiti, doveri,
impegni... Non aveva tempo per impegolarsi in un’altra cosa
complicata. Avrebbe aspettato qualche tempo ancora.
Finché,
poche settimane prima, non era arrivato un messaggio in un codice
obsoleto da almeno dodici anni. Un messaggio indirizzato a Kakashi,
non al Sesto Hokage, un messaggio in cui uno shinobi sotto copertura
chiedeva assistenza immediata perché la sua vita e i suoi
segreti
erano in pericolo, ed era bene che il Consiglio non ne sapesse
niente. Quel messaggio era firmato Akiko Kato.
Da
lì tutto aveva avuto inizio.
Kakashi
ritornò al presente, abbassando con delicatezza il pannello
che
aveva sollevato per spiare le concubine.
Akiko
Kato non era uno pseudonimo utilizzato da altri shinobi: chiunque
fosse non aveva specificato in cosa consistesse la sua copertura, ma
aveva menzionato il Signore di Anka; la soluzione più
probabile era
che fosse nascosta tra la servitù o tra le donne del palazzo.
Kakashi
pregava che si trattasse di Haruka dal momento in cui aveva posato
gli occhi sul messaggio. Ma se così non fosse stato? Se non
fosse
stata Haruka? Allora cosa sarebbe successo? Aveva condannato a morte
sé e Jin?
Fu
allora che il sottotetto cedette improvvisamente e Kakashi cadde nel
vuoto.
*
Ogni
volta che pensi che le cose non potrebbero andare peggio, ecco che
puntualmente precipitano.
Hitoshi
aveva pensato che con il buio il mal di testa si sarebbe placato,
invece era riuscito addirittura ad aumentare. Che lui tenesse gli
occhi chiusi o aperti era del tutto irrilevante: tra le sue tempie la
tortura continuava e si acuiva, ora dopo ora, incendiandogli la
fronte e congelandogli la schiena, intorpidendolo, stordendolo e
umiliandolo fino all’ultimo grammo d’orgoglio.
Uno
shinobi K.O. è uno shinobi che ha fallito. Un Uchiha che ha
fallito
che diavolo è? Feccia.
«Merda!»
sibilò rabbioso, premendo il braccio sugli occhi fin quasi a
farsi
male.
Il
dolore era tanto e tale che aveva scordato Chiharu e Kotaro stesi a
poca distanza. Ma loro naturalmente non avevano scordato lui;
entrambi aprirono gli occhi nel buio scambiandosi un rapido sguardo.
Chiharu
fu la prima a distogliere il viso, raggomitolandosi su sé
stessa.
Hitoshi l’avrebbe odiata quando avesse scoperto cosa avevano
fatto
lei e Kotaro; definitivamente e completamente odiata. Non si dice a
un Uchiha che ha fallito, non si demolisce impunemente il suo
orgoglio senza subirne le conseguenze.
Per
quel che la riguardava le conseguenze si sarebbero tradotte in un
addio definitivo a qualunque contatto, qualunque bacio, qualunque
amore. Hitoshi l’avrebbe detestata, e lei, stoica e
masochista, ne
sarebbe stata pure felice. Niente più debolezze, una vera
manna, una
vera dura.
Fece
una smorfia.
Niente
più carezze. Niente più baci.
«Uhn.»
Si
accorse di essersi lasciata scappare un gemito di disappunto quando
sentì il fruscio della testa di Kotaro che si muoveva per
guardarla,
e allora si finse addormentata.
Ma
Kotaro era ingenuo, non stupido. Si accorse del suo nervosismo,
trovandolo leggermente insolito: Chiharu non temeva le reazioni
violente di Hitoshi così come non le temeva lui, e
francamente
dubitava che avvilire il povero Uchiha fosse una gran fonte di
cordoglio per lei. Magari aveva mal di pancia. O magari era lui ad
avere mal di pancia, da quando Hitoshi aveva fatto tardi, prima di
partire...
Corrugò
la fronte e si diede dell’idiota. Hitoshi era rimasto lontano
troppo poco. Ed era tornato pieno di fumo. Non era con Chiharu. Lei
dormiva.
Strizzò
le palpebre con foga, forse sperando di far schizzare gli occhi
dentro il cervello e addormentarsi di botto, ma la verità
era che
aveva sempre la sensazione di essersi lasciato fregare e che qualcosa
fosse cambiato mentre lui guardava altrove; ed era una sensazione
orribile, molto più orribile dei sensi di colpa per aver
deciso di
rispedire Hitoshi a casa.
Per
fortuna nessuno dei tre shinobi avrebbe dovuto combattere il giorno
dopo, perché tra un pensiero e l’altro finirono
per non dormire.
Come
loro, sveglio e silenzioso, un uccellino scarlatto sorvolava il
territorio del Fuoco sfrecciando nel cielo terso.
*
Jin
rifletté meno di una frazione di secondo, quindi si mosse.
Balzò
nel corridoio e assalì alle spalle l’ombra che si
era fermata per
esaminare il sottotetto.
Nel
minuscolo istante in cui riuscì a osservarla riconobbe il
mercenario
che era seduto sul ballatoio al loro arrivo, ma subito dopo fu
aggrappato alla sua schiena e ci fu tempo solo per la lotta.
Serrò
una mano sulla bocca dell’uomo, pronto a ruotare il suo collo
con
un movimento secco, ma il mondo si capovolse prima che potesse
riuscirci, e si trovò scaraventato contro la parete che li
divideva
dalla stanza delle concubine. Il telaio di legno andò in
mille pezzi
spargendo schegge e brandelli di carta, parte del sottotetto cedette
e venne giù in una nube di polvere.
Jin
rotolò al centro del gruppo di futon
e si trovò soffocato da un turbinare di stoffe e capelli
lunghissimi, le orecchie piene delle grida stridule delle donne.
«Santissimi
dei, è solo un bambino!» urlò qualcuno
avvolgendolo tra le
braccia.
«Guardie!
Chiamate qualcuno!»
«E’
tutto bagnato!»
«Silenzio!»
una voce sovrastò le altre, che subito ammutolirono.
Jin
riemerse dall’abbraccio soffocante della concubina che
cercava di
proteggerlo; per la prima volta si accorse che la secca voce
femminile che avevano udito per tutta la sera apparteneva al
mercenario, che, di conseguenza, era in realtà una
mercenaria. Solo
ora che la polvere calava riusciva a vederla in faccia.
E
allora ne fu assolutamente certo: quella era Haruka Muto.
*Aki
in giapponese è autunno. Haru
è primavera.
* * *
Sì,
l'ho fatto.
|
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Capitolo 17 *** Prima dell'alba ***
Penne 17
Capitolo
diciassettesimo
Prima
dell’alba
Lasciando
il Paese della Roccia, Natsumi Muto aveva portato con sé
solo una
manciata di fotografie di famiglia, dando fuoco alla maggior parte
delle altre insieme ai pochi effetti compromettenti nascosti nella
sua casa. Molte delle fotografie superstiti ritraevano tutti e
quattro i Muto, un paio ritraevano solo i genitori e le restanti
erano immagini delle due sorelle.
Era
stato grazie a quei cimeli che Jin aveva potuto vedere il volto di
sua madre. Natsumi gli aveva regalato una fotografia di Haruka
scattata poco prima che la comparsa di Kakashi la costringesse a far
saltare la propria copertura: nell’immagine le due sorelle
non
indossavano divise né coprifronte e sorridevano sporgendosi
da una
balaustra in pietra, i visi illuminati dai riflessi di fuoco della
chioma di Haruka.
Jin
non aveva mai chiesto dove fosse stata scattata la fotografia o chi
l’avesse fatta, ma l’aveva piegata e nascosta con
cura nel
manuale di strategia del primo anno d’accademia, un libro che
nessuno avrebbe mai aperto. L’aveva guardata così
a lungo che gli
angoli si erano rovinati e ammorbiditi come stoffa. Di notte, seduto
sul letto con la fotografia tra le mani, aveva studiato i tratti di
Haruka alla ricerca di somiglianze con i suoi, di dettagli,
particolari, qualunque cosa che potesse permettergli di riconoscerla
se l’avesse incontrata: l’aveva immaginata bionda,
pelata,
sfigurata, vecchia, aveva memorizzato la disposizione delle poche
lentiggini che aveva sul naso e del neo sopra la clavicola, aveva
immaginato decine e decine di incontri con lei.
Si
era preparato spasmodicamente per non lasciarsela sfuggire, alla
completa insaputa di Kakashi, e quando se la trovò danti
agì come
il suo addestramento lo aveva preparato a fare: non fallì,
riconoscendola nonostante i capelli fossero corti e castani e ci
fossero rughe profonde attorno alla bocca. Nella nube di polvere
scatenata dal crollo del sottotetto individuò il neo sopra
la
clavicola e la forma delle sopracciglia, gli occhi blu - come i suoi
- la bocca dal taglio severo e gli zigomi poco accennati. Gli
bastò
una frazione di secondo per notare tutti questi dettagli, ma in
quello stesso lasso di tempo lei vide il suo coprifronte e
serrò i
denti in una morsa.
«Un
ragazzino?» domandò infastidita. «La
Foglia è a corto di
shinobi?»
Jin
annaspò per liberarsi dalla stretta della concubina che
cercava di
proteggerlo. La parola che voleva gridare era sulla punta della sua
lingua, allettante e dolce, ma esitava a pronunciarla.
In
un balzo Haruka oltrepassò le donne urlanti e fu davanti a
lui, un
corto coltello stretto nella mano sinistra. Lo afferrò per
il
bavero, lo fece voltare a forza e si premette la sua schiena contro
il petto, avvicinando la lama al suo collo.
Al
contatto del metallo gelido Jin realizzò che sua madre non
aveva la
minima idea di chi lui fosse.
«E’
Saibatsu che ti manda?» chiese lei in un sibilo.
«Non
farlo» disse un’altra voce.
Le
donne cacciarono alte grida, disperdendosi in un fruscio di piedini
goffi. Haruka si immobilizzò, sentendo la punta di un kunai
tra le
scapole.
«Non
farlo» ripeté la stessa voce dietro la sua nuca.
«Se tu sei Akiko
Kato, quello è tuo figlio.»
La
stretta contro il collo di Jin si sciolse tutt’a un tratto.
Il
ragazzino scivolò via e si voltò, abbassando la
maschera che gli
copriva metà del volto. Finalmente, con un tremito, la
parola che da
tempo avrebbe voluto pronunciare oltrepassò le sue labbra, e
per la
prima volta nella sua vita Jin chiamò sua madre.
Le
concubine trattennero il fiato subodorando le prime battute di un
intrigo succulento. Kakashi, la mano priva di kunai posata sulla
spalla di Haruka, sentì il suo cuore accelerare di colpo e
poi
forzarsi a rallentare. Nonostante quella chioma irriconoscibile, non
appena si era ripreso dal crollo del sottotetto non aveva avuto
dubbi: quella era la donna che aveva amato, e la sua esistenza tra i
vivi significava che Tsunade aveva ragione, e in qualche modo li
aveva traditi.
«Riconosci
la mia voce?» chiese, costringendosi a comportarsi da shinobi.
«Sì»
rispose Haruka dopo un attimo di incertezza.
«Perché sei qui?»
«Mi
hai mandato un messaggio.»
Le
spalle della kunoichi si rilassarono visibilmente, accompagnate
dall’allontanarsi del kunai dalla sua schiena. Haruka rimase
ferma,
gli occhi fissi su Jin e le labbra dischiuse, le pupille che
correvano dalla punta dei suoi capelli fino all’ultima
pagliuzza
sotto i sandali. Si soffermò sui suoi occhi con una punta di
orgoglio, quindi si riscosse bruscamente, dandogli le spalle.
«Non
abbiamo tanto tempo» disse in fretta a Kakashi.
«Dobbiamo
andarcene, il crollo ha sicuramente attirato il mio compagno di
guardia. Passeremo dal tetto, con un po’ di fortuna
non...»
«Il
passaggio!» squittì una delle donne, coprendosi la
bocca subito
dopo. Tutti la guardarono, e quella, un esserino minuto ma
rotondetto, arrossì di piacere.
«C’è un passaggio segreto creato
per la nostra incolumità» spiegò
vergognosamente. «Voi mercenari
non dovevate saperne niente...» Un’altra concubina
le sferrò una
gomitata tra le costole.
«Dove?»
insisté Haruka puntando il coltello verso di lei.
«Vi
accompagno!» si affrettò ad assicurare la donnina.
«Mitsuru!»
sibilò una concubina alta e ossuta. «Non
è saggio!» La lama del
coltello si spostò nella sua direzione, e quella tacque
precipitosamente.
Kakashi
non esitò: se Haruka era viva non poteva fidarsi di lei come
avrebbe
fatto tredici anni prima. Con un gesto brusco la privò del
coltello
e le strinse i polsi dietro la schiena. «Adesso ci aiuterai
ad
uscire di qui senza avere problemi. In caso contrario, sarò
costretto a prendere provvedimenti.»
Haruka
deglutì ma non ribatté, conscia che ogni minuto
perso era un
rischio in più. Kakashi ordinò alla concubina che
si era offerta di
aiutarli di condurli al passaggio segreto, poi si girò verso
Jin,
che era precipitato in una sorta di torpore istupidito.
«Dopo»
sussurrò, afferrandolo per un gomito e costringendolo a
seguirlo.
La
donna chiamata Mitsuru li guidò fuori dalla stanza e lungo
il
corridoio da cui erano arrivati, ma nella direzione opposta. I suoi
piedi nudi facevano molto più rumore di tutti quegli degli
shinobi
messi insieme, ma le svolte attraverso cui li condusse sembravano
sicure. Li portò fino a una stanza priva di finestre, un
magazzino
buio in cui erano conservati sottaceti e vasi di verdure sotto sale.
Accese una candela e cercò tentoni sopra uno scaffale. Dopo
un paio
di secondi si udì il rumore del legno che gratta contro
altro legno
e la donnina spinse il mobile su cardini invisibili fino a rivelare
un passaggio stretto e odoroso di muffa, evidentemente scavato nella
roccia della montagna.
Kakashi
lasciò libere le braccia di Haruka, ma premette il manico
del
coltello contro la sua schiena come monito. «Attenta a quello
che
fai.»
«Non
uccidetemi» sussurrò la concubina adocchiando la
lama,
rannicchiandosi timorosa contro le grandi otri dei sottaceti.
«Vi ho
mostrato il passaggio.»
Se
lo avesse fatto per paura, idiozia o desiderio di emozione non
potevano dirlo. Comunque nel palazzo c’era
un’intera stanza piena
di testimoni che potevano descriverli, e quella donnina rotonda stava
probabilmente evitando loro un mucchio di grane. Kakashi le fece un
cenno, dicendole di tornare con le sue compagne. Quella
trottò via
impaurita, non senza aver gettato al gruppo un’ultima
occhiata.
Haruka
non lasciò che l’imbarazzo riempisse il silenzio.
Prese la candela
rimasta accesa e si avviò senza indugio attraverso il
passaggio
segreto.
«Saibatsu
sa che sei venuto?» chiese a bruciapelo, mentre tutti insieme
avanzavano nel cunicolo a passo sostenuto.
«Chi?»
rispose Kakashi senza perderla di vista.
«Saibatsu»
Haruka si voltò per guardarlo nervosamente.
Kakashi
la fissò senza capire, e vide sul suo viso un'espressione
confusa,
in parte spaventata.
«Non
ho idea di chi sia questo Saibatsu.»
«Che
bastardi!»
L’imprecazione
sulle labbra della donna colse Jin impreparato, riscuotendolo dallo
shock. Aveva sempre immaginato che le madri fossero incaricate di
sopprimere le parolacce dalla bocca dei figli, non che le
pronunciassero per prime. Quel piccolo pensiero ne sbloccò
molti
altri, e mentre camminavano nel cunicolo freddo la sua mente fu
sommersa dalla furia di dodici anni di domande mai fatte.
«Mi
devi molte spiegazioni» mormorò Kakashi tenendo
dietro al passo
rapido di Haruka. «Cosa sta succedendo?»
«Credo
che vogliano uccidermi» rispose lei, e la sua voce era la
stessa, ma
più tesa, più distante, priva
dell’inflessione dolce che una
volta gli aveva riservato.
«Chi?»
«La
Foglia.»
«Non
è possibile» Kakashi accelerò e la
affiancò. «Alla Foglia
nessuno sa che ti trovi qui. Ufficialmente sei in missione sotto
copertura nel Paese delle Risaie, ho fatto in modo che tutti lo
pensassero.»
«Nessuno
sa che sono qui?» ripeté Haruka con voce acuta.
«Non è vero. Sono
alle dirette dipendenze del Consiglio di Konoha. Sono tredici anni
che lavoro per voi!»
Kakashi
ebbe un sussulto, ma si costrinse a riflettere rapidamente.
«Per chi
lavori? Il Saibatsu di prima?»
«Sì.
E’ un consigliere. L’ho incontrato solo un paio di
volte, poi ha
sempre agito tramite intermediari. Dei del cielo, Kakashi, dimmi che
sai cos’è la Radice...»
«L’organizzazione
di Danzo?»
«Non
è come allora.»
Kakashi
la afferrò per un braccio e la costrinse a fermarsi e
guardarlo.
«Stai dicendo che Saibatsu ha ripristinato la vecchia Radice
e ti ha
reclutata come spia?»
Haruka
esitò. Il tono di Kakashi le faceva intuire che non fosse
una cosa
di cui andare fieri. «Pensavo fosse
un’organizzazione autorizzata
dall’Hokage» si giustificò, sentendosi
comunque stupida.
«La
Radice è fuori legge da quasi
vent’anni!» Kakashi soffocò la
voce per non gridare, stringendo la presa sul suo braccio.
«Eri
presente quando abbiamo preso Danzo!»
Haruka
si liberò con uno strattone e fece un passo indietro.
«Quando hanno
arrestato Danzo ero appena rientrata a Konoha!»
replicò, ricordando
improvvisamente il lontano processo a Sasuke Uchiha, dove il Quinto
Hokage aveva fatto arrestare il suo Consigliere più
importante. «Ho
visto solo il suo arresto, non sapevo niente
dell’organizzazione!
Me ne hanno parlato per la prima volta dodici anni fa, e mi hanno
mostrato i documenti che scagionavano la Radice dai crimini di Danzo!
Sulle carte che ho firmato c'erano i timbri dell'Hokage!»
«E
non ti è passato per la mente di parlarmene?»
«C'era
una clausola di segretezza!»
Kakashi
si passò una mano tra i capelli e ne strinse una ciocca per
costringersi a recuperare la calma. «Va bene. Di questo
discuteremo
dopo. Pensi che ora ci siano uomini della Radice sulle tue
tracce?»
«Sì.
Negli ultimi mesi ho subito non meno di tre agguati, e
l’ultimo dei
sicari aveva addosso il tatuaggio dei Nekozuka. Probabilmente sono
diventata troppo vecchia come spia. Ma non pensavo che...»
Haruka
deglutì e involontariamente si lasciò sfuggire un
brivido. «Credevo
che mi avrebbero fatta tornare a Konoha, non che mi avrebbero uccisa.
Mi sono spaventata. Ho provato a chiedere spiegazioni tramite i
soliti corrieri, ma nessuno mi ha più risposto.»
«Quindi
hai cercato di contattarmi tramite altri canali» comprese
Kakashi.
«Ho
pensato che se una volta ero riuscita a raggiungerti privatamente,
allora potevo farlo di nuovo» confermò Haruka.
«Ho usato un nome
in codice che solo tu potevi conoscere e ho sperato che non fossi
d’accordo con loro.»
«Hai
davvero pensato che avessi approvato l’ordine di
eliminarti?»
chiese lui sbalordito.
«Ho
pensato qualunque cosa» sibilò lei.
«Quando sei diventato Hokage
ho dato per scontato che controfirmassi gli ordini che
ricevevo.»
Nella
grotta scese il silenzio. Kakashi e Haruka si fissarono per alcuni
lunghi secondi, mentre Jin, immobile, passava lo sguardo
dall’uno
all’altro. La voglia di chiedere gli faceva fisicamente
dolere la
mandibola, ma aveva giurato. Pur di tacere si morse la lingua.
«Adesso
dobbiamo tornare a Konoha» mormorò Kakashi dopo
qualche istante.
«Qui non abbiamo tempo per un interrogatorio. Dobbiamo
evitare sia i
mercenari sia sicari di Saibatsu... Non saremo al sicuro
finché non
saremo davanti a Naruto. Più tardi parleremo e mi
racconterai tutto,
per adesso considerati nostra prigioniera. Jin, andiamo» con
un
gesto brusco strappò la candela a Haruka e riprese il
cammino.
Jin
lanciò uno sguardo intimidito alla kunoichi, trattenendo un
sussulto
quando incrociò i suoi occhi, e aspettò che lei
si avviasse prima
di seguirli.
Nell’ultima
mezzora si era sentito più vulnerabile che mai. Voleva
capire più a
fondo, voleva chiedere a Haruka qual era il suo piatto preferito e
voleva sapere come la nuova Radice era riuscita ad ingannarla, ma
inserirsi nel discorso tra i due shinobi sembrava impossibile.
Sperava
che una volta raggiunta l’uscita del tunnel si sarebbe
ripreso
dall’intorpidimento, perché stentava a riconoscere
se stesso: era
come se tutti i suoi primi anni di vita fossero stati condensati
negli ultimi trenta minuti e l’addestramento ricevuto
all’Accademia
relegato in un angolino minuscolo della sua mente.
Il
sentiero sotto i loro piedi curvava e scendeva verso il basso,
probabilmente dentro il fianco della montagna. Il rumore dei loro
passi riecheggiava amplificato, dando l’impressione che
fossero
almeno in sei, ma da lontano non provenivano echi di eventuali
inseguitori. Erano solo loro, una famiglia ritrovata. Quasi una
scampagnata.
Eppure
un brivido attraversò la schiena di Jin, mentre un pensiero
sfrecciava nella sua mente: anche se finalmente è
davanti ai miei
occhi, io questa donna non la conosco.
*
La
mandibola scricchiolò sinistramente mentre veniva distesa in
uno
sbadiglio di proporzioni sovrumane. La testa bionda
ciondolò,
ondeggiando avanti e indietro, e Koichi, al limite
dell’esasperazione, arrivò ad accartocciare un
importante
documento per sbatterlo in testa a Naruto, il che provocò la
sua
totale perdita di equilibrio e il rovinoso abbattersi sui fogli che
invadevano la scrivania.
«Che
male!» si lamentò lo sfortunato shinobi, premendo
entrambe le mani
sulla faccia. «Koichi, maledetto traditore, stai cercando di
liberarti del tuo Hokage? Per chi lavori? Parla!»
piagnucolò con
voce nasale.
«Non
passa giorno in cui io non mi chieda perché lei è
qui» sibilò
Koichi, stirando con premura il documento. «Non fa altro che
dondolarsi sulla sedia, guardare il soffitto e farsi portare ramen!
Non è nemmeno in grado di firmare i documenti!»
«Questo
doveva farlo Sakura...» bisbigliò Naruto
risentito. «Insomma,
perché sei venuto a buttare giù dal letto me e
non uno dei miei
assistenti? Sono solo firme, potevano occuparsene loro!»
Koichi
snudò i denti nella brutta imitazione di un sorriso.
«Perché il
piacere che mi ha dato vederla arrancare fin qui non è
minimamente
paragonabile a quello che avrei provato con uno qualunque dei suoi
assistenti» rispose. «Era tanto ansioso di essere
Hokage...»
«Va
bene, va bene! Ho capito!» lo interruppe Naruto incarognito,
afferrando la penna con rabbia. «Ma prima o poi
troverò il modo di
metterti in mano a Morino, sappilo.»
Koichi
si degnò di riversargli addosso il suo sorriso
più compiaciuto,
quindi rimase in piedi accanto alla sua sedia come un falco sulla
preda. Naruto sbuffò sonoramente, scarabocchiando la sua
firma sui
fogli senza nemmeno leggerli.
Nel
mondo succedevano milioni, miliardi di cose interessanti, e lui era
costretto ad alzarsi prima dell’alba per firmare della
stupida
cartaccia! Che ne era degli Hokage eroici che salvavano il villaggio
da nemici, demoni e calamità naturali? Perché non
c’era mai
un’alluvione a portata di mano quando serviva?
Sbuffò
di nuovo, per sport ormai, e mugugnò tra sé. Se
l’avessero
svegliato per dirgli che c’erano importanti novità
sulla spia di
Konoha sarebbe stato quasi entusiasta. Insomma, era piuttosto
convinto che, una volta chiariti i chi e i come, sarebbe sceso in
campo personalmente per guadagnarsi il definitivo posto da settimo
Hokage, dimostrando all’intero villaggio la propria intensa
devozione e la grande, immensa, mirabolante abilità di cui
era
dotato. Solo che di novità non ce n’erano e tutto
era
irrimediabilmente, disgustosamente e idilliacamente – secondo
Shikamaru – tranquillo.
Sul
fronte ufficiale.
In
effetti, a voler essere precisi, sul fronte personale qualcosa che
non andava c’era. Ed era anche qualcosa di piuttosto grosso.
Anzi,
era qualcosa di probabilmente enorme: Sakura e Sasuke; tra loro era
successo qualcosa, Naruto ne sentiva l’odore fin
lì dentro.
Si
rifiutava di credere che Sasuke fosse geloso del suo rapporto con
Sakura, visto che, dati i presupposti, al massimo avrebbe dovuto
essere il contrario; eppure non riusciva a non ripensare
all’atmosfera che si era creata pochi giorni prima, quando
era
entrato nello studio dell’Hokage e li aveva trovati insieme.
Al
ricordo si accigliò, mentre era chino su un trattato per
calmierare
i prezzi del riso. Aveva ancora ben presente il periodo in cui era
lui a irrigidirsi stando nella stessa stanza con Sasuke e Sakura, e
la sensazione era stata inquietantemente simile.
Ma
Sasuke era Sasuke.
Era il suo opposto, era sicuro di sé, impassibile,
intoccabile,
ineguagliabile – sì, beh, con le dovute eccezioni.
Sasuke non si
ingelosiva se trovava lui e Sakura che ridevano insieme. Non Sasuke.
Voleva vederlo e parlargli, maledizione!
«Narumaki
Uzuto?»
La
voce di Koichi trascinò Naruto di nuovo sulla terra,
facendogli
fissare il foglio che aveva appena firmato. «Oh
cavolo» bofonchiò
accigliandosi. «E questo che schifo è?»
«Per
una volta siamo d’accordo» bofonchiò
Koichi, sfilandogli il
foglio di mano. «Vado a prepararne un’altra copia.
Lei non si
muova! Per quando torno deve aver firmato almeno cento
documenti!»
raggiunse la porta scrutandolo come un avvoltoio, e Naruto fece una
smorfia indignata.
«Non
posso non
muovermi e
firmare!»
si lamentò petulante, ma Koichi non gli diede la
soddisfazione di
una risposta.
Naruto
crollò la fronte su una pila di carta. L’Hokage
doveva
preoccuparsi di una spia, del villaggio, di Sakura e Sasuke... E
invece lo costringevano a mettere timbrini su carta straccia!
Afflitto, fissò il portamatite a forma di rospo che aveva
insistito
per tenere sulla scrivania; avrebbe tanto voluto richiamare Gamakichi
e scappare per una scampagnata insieme. Sospirò, tirandosi
su
faticosamente.
Poche
storie. Nessuna evocazione lo avrebbe salvato, e nessun miracolo
avrebbe fatto sì che Sakura all’improvviso
decidesse di parlare
dei suoi problemi di coppia con lui. Sia per firmare quegli stupidi
documenti sia per i suoi amici si sarebbe dovuto arrangiare da solo.
Stava
già chiedendosi quante copie riuscisse a far stare nella
stanza e
quante penne ci fossero in archivio, quando le sue previsioni furono
clamorosamente smentite da un becchettio alla vetrata alle sue
spalle.
Naruto
si voltò sorpreso. Nella luce grigia che precede
l’alba vide un
uccellino rosso e arancio che frullava oltre la finestra, avanti e
indietro, avanti e indietro. Non sapeva ancora che sarebbe stato la
soluzione a tutti i suoi problemi, ma lo riconobbe senza esitare un
istante: cinque anni prima, mentre esausto si riprendeva dopo aver
eliminato un’intera divisione della Roccia, quello stesso
uccellino
era arrivato a portargli il messaggio in cui gli dicevano che Hinata
era stata catturata.
E
oggi, proprio con un’evocazione, Chiharu sarebbe arrivata a
fornirgli inconsapevolmente la più grande via di fuga dalla
burocrazia.
Meno
di un quarto d’ora dopo, con il cielo rosato e, ad est, color
del
fuoco, un trafelato e contrariatissimo Koichi si trovò a
bussare
alla porta di Reira, ex segretaria di Danzo, ex spia
dell’Hokage
nella Radice e attualmente pre-pre-prepensionata a carico del
villaggio.
Di
norma l’avrebbe squadrata con disapprovazione,
perché era giovane
e ancora perfettamente in grado di lavorare; ma ricordava che il suo
stato di nullafacente era dovuto alla pericolosa missione di
spionaggio condotta in gioventù, e sapeva quanto il suo
ruolo avesse
significato per l’inizio di quella che nei libri di storia
era
chiamata l’era del Quinto Hokage.
Così quella mattina,
quando la tirò giù dal letto maledicendo Naruto e
la sua fortuna
sfacciata, si sforzò con tutto sé stesso di
essere cordiale quando
lei venne ad aprire. E fu sorridendo che disse:
«Chiedo
scusa per l’ora indecente, ma l’Hokage richiede con
urgenza la
presenza di suo figlio Akeru.»
*
«Qual
è il bilancio?» chiese il capo dei mercenari di
stanza ad Anka,
dopo aver radunato tutti i suoi uomini nello spiazzo antistante il
palazzo.
«Manca
solo Tashigi. Tutti gli uomini sono illesi» rispose il suo
primo
ufficiale.
«Dove
diavolo è finita quella baldracca?»
sbottò il capo, un uomo di
bassa statura ma piazzato come una vecchia quercia.
Qualcuno
spinse avanti una donnina piccola e rotondetta che cercava
disperatamente di coprire i frammenti di pelle che sfuggivano allo
yukata. Nella luminosità incerta dell’ora prima
dell’alba
appariva pallida e terrorizzata.
«Le
concubine hanno qualcosa da raccontare» spiegò il
primo ufficiale.
«Mio
signore, siate clemente!» strillò la donna
gettandosi ai piedi del
capo. «Vi supplico, sono solo una povera serva!»
«Cosa
hai visto?» chiese lui allontanandola con la punta del piede.
«Due
uomini, mio signore» riferì lei tremante.
«Un adulto e un
ragazzino. Sono entrati nel palazzo e hanno lottato con la donna che
ci sorvegliava.»
«Due
shinobi della Foglia» precisò il primo ufficiale.
«Il
Paese del Fuoco!» esclamò il capo rabbuiandosi.
«Chi ha vinto la
lotta?»
«Nessuno,
mio signore. L’uomo ha detto alla donna che il ragazzino era
suo
figlio e poi si sono allontanati insieme.»
Il
primo ufficiale le diede un colpetto con la punta del piede.
«Digli
come si sono allontanati.»
«Mio
signore...» la donna prese a tremare visibilmente.
«Mi hanno
minacciata! Volevano sapere del passaggio!»
«Quale
passaggio?» domandò il capo.
«Il
passaggio segreto che dal palazzo conduce a valle»
spiegò il primo
ufficiale. «E’ un’antica via di fuga
scavata nella montagna. Il
Signore del villaggio non ce ne ha mai parlato.»
«Portatelo
qui!» tuonò il capo, e subito due mercenari si
allontanarono dalle
fila per entrare nel palazzo. «Avete mandato degli uomini
all’inseguimento?»
«Sì,
mio signore» confermò il primo ufficiale.
«Sono partiti con molto
ritardo, ma stanno percorrendo il passaggio nella speranza di
scoprire le tracce dei fuggitivi alla fine del tunnel.»
Il
capo fece un brusco cenno di approvazione e unì le mani
dietro la
schiena, sprofondando nei suoi pensieri.
Tutti
i responsabili delle divisioni dei mercenari della Roccia avevano
ricevuto ordini ben precisi: trovare un pretesto perché il
Daimyo
potesse dichiarare guerra al Paese del Fuoco. Le leggi belliche erano
molto severe al riguardo: scaramucce tra gli shinobi non potevano
costituire un valido motivo per l’entrata in guerra di due
interi
Paesi, ma se gli shinobi di un Paese avessero attaccato i civili di
un altro la questione sarebbe stata diversa: si sarebbe trattato di
un atto di aperta ostilità.
«Ci
sono danni al palazzo o ai civili?» chiese il capo.
«La
stanza da letto delle concubine è distrutta»
rispose il primo
ufficiale. «Ma non ci sono feriti.»
«Tashigi?
Sappiamo qualcosa?»
«Nulla,
signore. Si è allontanata con i due shinobi della Foglia
abbandonando tutti i suoi effetti personali. Li abbiamo perquisiti ma
non ci sono indizi sulla sua vera identità.»
«Una
spia!» borbottò il capo con disprezzo.
«La feccia degli eserciti!»
Dal
palazzo provennero alte grida. Il capo si voltò in tempo per
vedere
il Signore del villaggio che veniva trascinato fuori dagli uomini che
erano stati mandati a prenderlo, tenuto saldamente per le braccia.
«Esigo
delle spiegazioni!» strillò il Signore, un uomo di
mezza età con
pochi capelli e un paio di baffi spioventi lucidati con cura.
«Questi
non erano gli accordi!»
«Nemmeno
tenere nascosto il passaggio segreto era negli accordi»
replicò il
capo bruscamente.
Il
Signore sbiancò, afflosciandosi nelle mani dei due
mercenari. Fu
portato fino al punto in cui la concubina era ancora rannicchiata, e
lì si sforzò di farsi sorreggere dalle ginocchia
tremanti.
«Dove
inizia e dove termina il passaggio?» chiese il capo.
«Inizia
nella dispensa dell’ala delle donne»
mormorò il Signore
fievolmente. «Lo sbocco è sul lato ad est della
montagna, in una
piccola gola.»
«E’
raggiungibile da qui?»
«No.
Il terreno è dissestato e non ci sono sentieri.
L’unica strada
parte dall’uscita del passaggio e si allontana verso
est.»
«Avresti
dovuto parlarmene...» gli occhi del capo si strinsero in due
fessure.
Il
Signore del villaggio sembrò ripiegarsi su se stesso in un
goffo
tentativo di umiltà. Dalla sua bocca presero a uscire scuse
e
giustificazioni, ma il capo non si prese la briga di ascoltarle.
Osservando la lucida pelata sulla sommità della sua testa,
invece,
rifletté sulla magra figura che aveva fatto il suo drappello
quella
notte: non solo avevano lasciato che due intrusi oltrepassassero le
difese del palazzo, ma avevano anche scoperto di essersi lasciati
giocare dal Signore del villaggio e, dulcis in fundo,
che uno
dei loro uomini era in realtà una spia. Non vedeva come le
cose
sarebbero potute essere peggiori.
Però
vedeva come sarebbero potute migliorare.
Fece
cenno al suo primo ufficiale di seguirlo e si allontanò in
direzione
del palazzo. Salì i gradini che conducevano
all’ingresso, le mani
sempre allacciate dietro la schiena e la fronte solcata da rughe
profonde. Doveva pensare al proprio bene e all’onore dei suoi
uomini.
Una
volta al riparo dalle orecchie dei suoi si fermò e
guardò l’uomo
che lo seguiva.
«Nozaki,
mi hai sempre servito bene» esordì. «Sai
quanto me che da questa
notte deludente può venire il disastro per entrambi. Ma io
cercherò
di evitarlo. Confido che anche questa volta mi sarai fedele.»
«Senza
dubbio» assicurò il primo ufficiale piegandosi nel
saluto dei
mercenari, un inchino rigido con il pugno al petto.
«Prima
che il sole abbia raggiunto la sommità del cielo tutti i
civili
all’interno del palazzo devono essere morti» Il
primo ufficiale
esitò per un secondo, poi si inchinò nuovamente.
«Scriverò una
lettera per il Daimyo spiegandogli che un drappello di shinobi della
Foglia ha fatto irruzione e trucidato tutti quanti. Questo dovrebbe
essere sufficiente per dichiarare guerra al Fuoco e preservare il
nostro onore. Fai in modo che gli uomini si convincano della
verità
del messaggio.»
Il
primo ufficiale annuì e si inchinò per
l’ultima volta. Nel
momento in cui si voltava per uscire, il primo raggio di sole invase
l’atrio, attraversando la decorazione in vetro colorato che
sovrastava l’ingresso. Così facendo tinse le
pareti della stanza
del colore del sangue fresco.
La
prima fiammella.
*
* *
Gente
che resuscita,
guerre
che stanno per essere dichiarate,
organizzazioni
segrete redivive.
Perché
volevo semplificare il vecchio Penne, giusto?
(Si sente che ho riletto "Il peggior bla bla bla".)
Arrivederci alla prossima settimana,
e sempre un grande grazie a voi che leggete!
|
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Capitolo 18 *** Mattina ***
Penne 18
17/02/2016
Capitolo
diciottesimo
Mattina
Il
Grande Scheggia era vissuto quasi duecento anni prima, nei tempi in
cui i Rospi avevano appena deciso di darsi un’organizzazione
simile
a quella umana. Scheggia
non era il nome che avevano scelto i suoi genitori, naturalmente.
Prima
di assegnare i vari ruoli all’interno della
società dei Rospi un
rudimentale consiglio aveva ideato un meccanismo di selezione basato
sulla prestanza fisica, e i giovani che si vantavano delle proprie
zampe si erano subito resi disponibili. La prima corsa, destinata a
selezionare il corriere più veloce, era stata vinta da un
giovanotto
ben allenato, senza troppe sorprese per il pubblico. Già
pochi
minuti dopo il taglio del traguardo un nomignolo aveva preso a
serpeggiare tra gli spettatori, e nell’arco di poche
settimane il
vincitore della gara aveva assunto ufficiosamente
l’appellativo di
Scheggia. Da lì in poi prendere l’abitudine di
definire con lo
stesso nome tutti i successivi corrieri del mondo dei Rospi era stata
questione di un attimo.
Lo
Scheggia odierno, dunque, non era lo stesso Scheggia che aveva
trasportato Naruto nel paese del Fulmine più di diciotto
anni prima.
Durante quel lasso di tempo c’era stata un’altra
gara, un altro
vincitore e un tranquillo scambio di consegne. Il vecchio Scheggia
aveva continuato a farsi chiamare così, ma il nuovo Scheggia
aveva
adottato il nome ufficiale di Scheggia XIII, che tuttavia aveva
significato solo all’interno della comunità dei
Rospi: aveva
imparato infatti che gli umani erano esseri sostanzialmente
inferiori, pressoché incapaci di distinguere un Rospo da un
altro.
Lo aveva imparato quando, presentandosi a Naruto come Scheggia XIII,
si era visto ridere in faccia per più di dieci minuti.
Probabilmente
gli umani non sapevano contare, aveva dedotto, e si era rassegnato
con una certa dose di magnanimità a lasciarsi chiamare
semplicemente
Scheggia. D’altronde non potevano certo pretendere che non li
disprezzasse, almeno un filino.
Per
questo non accettò esattamente di buon grado che lo sellassero.
«Il
nodo è abbastanza stretto?»
«Sì,
ma pende dalla mia parte!»
«Potrebbe
gentilmente evitare di tendere i muscoli?» Uno shinobi
sudato,
stretto con foga a corde spesse cinque centimetri, si sporse fino ad
entrare nel campo visivo del grosso occhio acquoso del rospo che
stava cercando di domare. Nonostante iride e pupille fossero tondi e
innocui, per un attimo ebbe la netta impressione di ricevere
un’occhiataccia.
«Avete
finito?» gracidò il rospo con irritazione,
scuotendo leggermente la
schiena.
«Se
potesse stare fermo!»
sibilò lo shinobi, smozzicando una parolaccia a mezze labbra.
«Ci
vuole ancora molto?» chiamò una voce stizzita dal
basso.
I
due shinobi che si occupavano delle operazioni digrignarono i denti e
fulminarono con lo sguardo Naruto, che dalla sua posizione comoda e
sicura osava addirittura avanzare rimostranze.
«Un
istante, nobile
Hokage» ringhiarono ansanti, e con uno sforzo sovrumano
tirarono la
sella per raddrizzarla. Ma Scheggia decise in quel momento di
espirare, e l’improvvisa mancanza di tensione sulle corde
fece sì
che l’imbracatura si spostasse troppo, così che
uno shinobi si
trovò a penzolare da un fianco del rospo e l’altro
steso sul suo
dorso.
Naruto,
a terra, sbuffò nervosamente. «Ho alle mie
dipendenze un branco di
imbecilli!» esclamò.
Ma
in fondo non era poi così irritato: qualunque cosa era
meglio di
duecento firme su carta straccia.
Con
leggera impazienza schermò gli occhi dal riverbero del sole
che
sorgeva e spinse lo sguardo lungo la strada che puntava a sud.
Dov’era quel benedetto ragazzo? Perché Koichi ci
stava mettendo
tanto?
Gli
parve di intravedere del movimento in fondo alla via, ma prima che
potesse guardare con più attenzione sentì un urlo
strozzato e
dovette voltarsi di scatto per guardare Scheggia che con apparente
indolenza si grattava un fianco, mentre i due shinobi che lo
bardavano strillavano terrorizzati, appesi per le punte delle dita
alle corde impazzite della sella.
«Che
diavolo state combinando?» gridò allora.
«Ma chi ve l’ha data la
promozione a Chunin?» Scheggia gracidò con placida
stizza e un filo
di sarcasmo. Naruto gli puntò un dito contro.
«Anche tu: diciotto
anni fa eri molto più collaborativo!»
«Diciotto
anni fa non ero io» brontolò il rospo con il tono
di chi deve
ripetere la stessa cosa per la centesima volta.
E
un attimo prima che Naruto avesse l’infelice idea di
ribattere,
finalmente qualcuno arrivò a sedare la rivolta:
«cosa state
facendo?» chiese Baka Akeru, comparendo insieme a Koichi
nello
sfolgorante splendore dell’alba, quasi aureolato, tanta era
la
soddisfazione che trasudava da ognuno dei suoi pori.
«Oh,
eccoti» sbuffò Naruto vedendolo. «Alla
buon'ora!»
«Ci
ho messo pochissimo» lo corresse Akeru, con un ampio e
inscalfibile
sorriso. «Lo zaino era pronto da secoli.»
Come
a dire: ero
certo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato.
«Sì,
sì, buon per te» disse Naruto spiccio.
«Siamo pronti con la
sella?»
«No!»
alitò uno shinobi, strozzato, mentre cercava di mantenere
l’equilibrio sulla pelle viscida di Scheggia.
«Che
sella?» indagò Akeru.
«La
sella per farti cavalcare il rospo.»
«A
me?»
«A
te!
Dei, ma tua madre ti ha fatto proprio così scemo?»
«Lo
scemo sarai tu.»
«Lo
scemo sarà lei»
corresse Koichi. «E’ l’Hokage, un
po’ di rispetto.»
«Koichi!»
esclamò Naruto indignato.
«Okay,
okay. Ma io non ho bisogno di nessuna sella» lo interruppe
Akeru.
«Non sono un deficiente, per cavalcare un rospo bastano
pollici
opponibili e un minimo di chakra.»
«Finalmente
un umano che sembra intelligente!» approvò
Scheggia.
«Come
si vede che non lo conosci» borbottò Naruto, e
Akeru si sentì
arrossire d’indignazione.
«Io
almeno
non mi sono fatto affibbiare l’appellativo di peggior ninja
di
Konoha!» sibilò.
«Io
almeno
sono Hokage.»
«L’unico
Hokage in
prova
dell’intera storia!»
Gli
shinobi sul dorso del rospo si scambiarono un’occhiata
estenuata.
Quindi, mentre il battibecco a terra continuava, uno dei due prese il
kunai dalla cintura, cercò la corda portante
dell’intera sella e
con un muso lungo come una pertica la recise di netto.
La
pesante impalcatura di cuoio cedette con uno schianto e un fruscio
sonoro, scivolando nella polvere. Sia Akeru che Naruto trasalirono,
ma Scheggia si lasciò andare a un ampio sospiro di sollievo
e
stiracchiò le vertebre senza curarsi degli uomini che erano
ancora
sulla sua schiena. «Siamo pronti o no?» chiese in
un profondo
gracidio, mentre i Chunin balzavano a terra imprecando.
«Sono
nato pronto!» esclamò Akeru con baldanza.
«Andiamo,
è ridicolo!» sibilò Naruto.
«Salta
in groppa, ragazzo» esortò Scheggia, tendendo una
delle zampe
anteriori perché Akeru salisse più agevolmente.
«Grazie»
rispose lui con una nota di genuino entusiasmo – nulla
avrebbe
potuto renderlo meno allegro, non nel giorno del suo trionfo. Naruto
simulò un conato di vomito, in parziale regressione
infantile,
quindi, mentre Akeru prendeva posto appena dietro la testa del rospo,
si schiarì rumorosamente la voce. «Dove vuoi
andare senza
istruzioni?»
Akeru
incassò la testa tra le spalle, sperando che da terra il
rossore non
si vedesse, ma rimase in attesa.
«Ristabiliamo
la gerarchia» annuì Naruto soddisfatto.
Lì accanto, Koichi levò
gli occhi al cielo. «Tu e Scheggia dovrete seguire
lui» cominciò
l’Hokage, additando il piccolo uccellino scarlatto che li
fissava
da un albero poco distante, e che nessuno aveva notato fino a quel
momento. Per segnalare la sua presenza quello arruffò le
piume rosse
dandosi arie di importanza. Guardandolo, Akeru lo riconobbe anche se
erano passati cinque anni: era uno degli uccellini di Chiharu.
Il
suo buonumore ebbe una leggerissima oscillazione, ma non
calò.
Semplicemente si trasformò da genuino orgoglio a un velo di
piccata
determinazione, perché l’impavida Chiharu Nara,
che non aveva mai
bisogno di niente e nessuno, aveva appena fatto chiamare lui. Era un
dettaglio abbastanza importante da permettergli di presentarsi a
testa alta nonostante il suo recente e bruciante rifiuto.
«Mi
ascolti?» gridò Naruto all’improvviso,
riportandolo con i piedi
per terra.
«Ah?
Sì!» esclamò lui riscuotendosi
forzatamente.
«Davvero?
Ripeti, allora.»
Akeru
lo fissò sdegnosamente, con una fitta di leggero panico.
«Invece di
perdere tempo in giochetti infantili e idioti, perché non
riepiloghi
come ogni buon capogruppo?»
«Aha!
Adesso chi è che non sa fare il suo mestiere?»
«Hokage,
il tempo...» borbottò Koichi, additando con una
certa insistenza
l’orologio.
«Siete
tutti delle piaghe!» esclamò Naruto, esasperato.
«Stupido!»
«Mi
chiamo Akeru!»
«Stammi
a sentire, maledizione! Segui quel coso peloso rosso...»
«Piumato»
tossicchiò Koichi.
«Ho
detto: segui quel coso peloso
rosso! Ti porterà dal gruppo sette! Vedete di passare
inosservati, o
farete i conti con me! Entro domani mattina voglio che tu sia con
Chiharu e Kotaro, e una volta lì hai l’incarico di
tramortire
Hitoshi e legarlo sul rospo: verrà a casa, volente o
nolente. Tu
prenderai il suo posto nella missione, i ragazzi ti spiegheranno i
dettagli. Non è difficile, cerca di non sbagliare, ok? Sei
un Anbu,
che diamine!»
«Io
ricordo perfettamente quello che sono» bofonchiò
Akeru stizzito.
«Sono gli altri che tendono a scordarlo!»
Esausto,
Koichi si permise una mancanza di rispetto che mai avrebbe
contemplato in pubblico normalmente: prima che Naruto potesse
ribattere gli piazzò una mano sulla bocca e fece un cenno al
rospo.
«Potete andare.»
«Voi
umani siete dei gran perditempo» commentò Scheggia
con un sonoro
gracidio di disappunto. Akeru ebbe a malapena il tempo di aderire con
il chakra alla sua pelle che quello partì a grandi balzi.
«Ehi!»
gracidò il rospo mentre sfrecciavano lungo il largo sentiero
che si
inoltrava nella foresta, inebriato dalla sensazione del vento contro
il muso. «Tu sai contare?»
«Certo
che so contare!» disse Akeru rischiando di mordersi la lingua
durante un salto particolarmente brusco.
«Ottimo!»
gongolò Scheggia tutto soddisfatto. «Lo sapevo che
quel Naruto
doveva essere la mela marcia!»
Mentre
Akeru sorrideva compiaciuto – tacendo che anche Naruto sapeva
contare, ma solo perché non ne era poi così
sicuro
– e il rospo aumentava baldanzosamente la
velocità, nessuno dei
due si ricordò del minuscolo uccellino rosso che arruffava
le penne
qualche metro più indietro, lottando per guadagnare terreno
e
ricordare ai due che doveva essere la loro guida.
«Il
gruppo di Naruto Uzumaki ha richiesto un sostituto per la missione in
cui è impegnato» riferì lo shinobi
mascherato nella stanza
sotterranea.
Il
Consigliere Iida annuì pensieroso, accarezzando lentamente
la lunga
manica del kimono. L’ambiente era sobrio e privo di
ornamenti,
illuminato da una lampadina appesa al soffitto che diffondeva una
luce polverosa. Sembrava una cantina abbandonata. La porta alle sue
spalle scorse silenziosamente e lasciò entrare un altro
uomo, lo
stesso che aveva parlato con Haruka dodici anni prima e che
rispondeva al nome di Saibatsu. Pur di rispondere in fretta alla
chiamata portava ancora i capelli raccolti nella treccia scomposta
della notte.
«Perdonate
il ritardo, nobile Iida» disse affrettandosi ad inchinarsi.
«Non
era nulla di importante, Saibatsu. Credevo che Kakashi Hatake fosse
di ritorno, ma mi sbagliavo.»
Saibatsu
afflosciò lievemente le spalle, cercando di reprimere il
lieve
affanno dovuto alla corsa. Era un po’ deluso, si era
aspettato di
più da un allarme all’alba.
«Dal
momento che sei qui, hai qualcosa da riferire riguardo a
Nekozuka?»
gli chiese Iida, facendo un cenno di attesa all’uomo
mascherato.
«Non
abbiamo più avuto nessun contatto. A questo punto siamo
ragionevolmente certi che sia morto» rispose Saibatsu
corrucciato.
«Ragionevolmente
certi?»
«Certi,
nobile Iida.»
Il
Consigliere rifletté in silenzio per qualche istante, poi si
rivolse
allo shinobi in ginocchio. «Convoca Senju, Kin e
Oga.»
L’uomo
annuì, si inchinò ed uscì per una
porta semi-invisibile all’altro
lato della stanza. Iida e Saibatsu rimasero soli uno accanto
all’altro.
«C'è
altro?» chiese Saibatsu, reso incerto dal suo silenzio.
Iida
sembrò riflettere, ignorando l'uomo in attesa. Dopo qualche
minuto
rialzò lo sguardo e socchiuse le palpebre. «Haruka
Muto verrà a
Konoha.»
«Tenterebbe
una mossa tanto imprudente?» chiese Saibatsu esitante.
«Ormai
avrà capito che i sicari che hanno tentato di ucciderla
erano nostri
uomini. Cercherà aiuto in Kakashi Hatake.»
«E
se invece decidesse di scomparire all'estero?»
«Spero
che scelga di farlo. Sarebbe saggio, e molto meno rischioso per noi.
Sempre che all'estero non incontri fatalmente il Sesto Hokage, cosa
che ci rovinerebbe tutti quanti. In ogni caso, se sta tornando a
Konoha siamo fortunati: Hatake è lontano e il suo sostituto
è un
incompetente; liberarsi di lei sarebbe semplice. Ho dato disposizioni
perché un gruppo pattugliasse i confini se Haruka Muto o
l'Hokage li
attraversassero.»
«C’è
qualcosa che posso fare io?»
Iida
annuì gravemente, fissandolo con aria assorta.
«Osserva e impara»
disse poi. «Ricorda sempre qual è lo scopo della
nostra esistenza,
qual è la fonte del nutrimento della Foglia e del grande
albero che
la sorregge: senza Radici non c’è vita, anche se
gli ultimi Hokage
pensavano di poter fare a meno di noi» Iida si erse in tutta
la sua
statura, il petto orgogliosamente proteso e il mento alto e fiero.
«Noi siamo il passato, il presente e il futuro di questa
società.
Ricordalo, Saibatsu, e non permettere che veniamo
dimenticati!»
Saibatsu
annuì e si inchinò a fondo, il viso nascosto dai
capelli scuri. La
sua espressione era indecifrabile, ma dopo anni di vita politica non
sarebbe potuto essere altrimenti. Con poche parole cortesi si
congedò.
A
quel punto Iida rimase solo nella stanza in penombra. Una volta che i
passi di Saibatsu si furono allontanati e prima che comparissero gli
uomini che aveva convocato, le sue spalle si abbassarono di qualche
centimetro e il vecchio si concesse il tempo per un dubbio che lo
aveva a malapena sfiorato: se Kakashi Hatake e Haruka Muto
fossero
stati insieme?
In
quel caso Naruto Uzumaki avrebbe architettato una messinscena
piuttosto elaborata per la sua mediocre intelligenza... Forse i suoi
assistenti avrebbero potuto aiutarlo. Quel Nara? O il ninja medico?
Forse lo stesso Kakashi aveva gettato le basi per un intrigo di
quella portata, forse arruolando Haruka, tanti anni prima, avevano
rischiato troppo e fatto una sciocchezza. Forse lei era riuscita a
mettersi in contatto con il sesto Hokage e poi...
Eppure
no, era troppo contorto, troppo complesso per essere verosimile.
Nonostante la sua abitudine all’intrigo Iida sapeva che
avendo a
che fare con Naruto Uzumaki non doveva aspettarsi sottigliezze: se un
uomo come quello avesse saputo che un discepolo di Danzo aveva
portato avanti la sua opera avrebbe fatto fuoco e fiamme per
distruggerla - il probabile settimo Hokage non era fine quanto il
Quinto.
Oltre
a questo, Iida credeva che nessuno, prima o dopo la sua generazione,
avrebbe mai avuto l’ardire di fare il nome di Kyuubi senza
un’ottima ragione: il tabù, l’orrore, il
ricordo erano ancora
troppo spaventosi per lui e gli uomini come lui. Se Kakashi era stato
inviato in missione per qualcosa che riguardava Kyuubi, doveva
necessariamente essere vero.
Con
un sospiro Iida si massaggiò la fronte. Era troppo anziano
per
continuare quel tipo di vita... Le sue notti erano popolate di incubi
in cui la Volpe lo aggrediva, spalleggiata dagli shinobi che nel
corso degli anni aveva dovuto eliminare. Lui cercava di spiegare che
lo aveva fatto per il bene del Villaggio, ma nessuno gli credeva mai.
In effetti, a lui stesso le sue parole suonavano ipocrite.
Restava
il fatto che ogni notte, in modi atroci e sempre diversi, il suo
corpo veniva sbranato e dilaniato dagli artigli scarlatti di Kyuubi,
e quando si svegliava in un bagno di sudore gli sembrava di essere
tornato il ragazzino che si era nascosto nelle cantine della villa il
giorno in cui Namikaze Minato aveva affrontato e vinto il demone.
Il
vecchio consigliere rabbrividì. Anche da sveglio, era
difficile
scrollarsi di dosso quella sensazione.
*
Gli
Uchiha erano geneticamente pallidi. La loro circolazione era
assolutamente perfetta, ma a quanto pareva aveva la discrezione di
scorrere ben lontana dall’ultimo strato della pelle. Che
fossero
chiari e perfetti era risaputo. Che fossero lividi, un po’
meno.
«Sto
bene» ripeté Hitoshi per la trecentesima volta,
seduto sull'erba
con una mano a sorreggere la testa. La voce gli si incrinò
sull’ultima sillaba.
Chiharu
e Kotaro si scambiarono un’occhiata: non avevano mai visto le
vene
sotto la pelle di Hitoshi, ma oggi erano lì, bluastre e
definite
come inchiostro.
«Smettetela
di guardarmi come se fossi un malato terminale!» esplose
l’Uchiha,
e l’emicrania reagì all’inaspettato
afflusso di sangue con un
picco vertiginoso. «Sto bene! Ripassiamo il piano e
muoviamoci!»
Chiharu
sbuffò fissandosi distrattamente una minuscola crosticina
sull’avambraccio, residuo di un vecchio graffio. Non poteva
tirarla
ancora per le lunghe.
«Il
piano è già perfetto» se ne
uscì, costringendosi ad alzare lo
sguardo e puntare gli occhi su Hitoshi. «Ed è un
piano in cui tu
non compari.»
Kotaro
trattenne il fiato mentre l’Uchiha si irrigidiva
visibilmente. «Non
è possibile» lo sentì sibilare.
«Non si può fare in due. E’
troppo rischioso.»
«Non
si può, infatti» annuì Chiharu con
un’occhiata di sottecchi. «E’
per questo che sta arrivando il tuo sostituto.»
Kotaro
riuscì a sentire distintamente il suono del silenzio che si
tende,
come un elastico vicino alla rottura. Alzò lentamente lo
sguardo
dall’erba fino al viso di Hitoshi e gli sembrò di
non aver mai
visto nulla di più simile a una maschera. Per un attimo gli
venne il
dubbio che non respirasse.
«Cosa?»
lo sentì mormorare dopo un tempo che sembrava infinito.
«A
quest’ora sarà già in
viaggio» riprese Chiharu, distogliendo lo
sguardo con una leggera tachicardia. Oddio, e se la notizia lo avesse
ucciso? Non avevano pensato agli infarti.
«Di
cosa stai parlando?» scattò Hitoshi, serrando un
pugno sull’erba.
«Sostituto? Come? Quando? Non serve!»
«Ah
no?» frecciò lei assottigliando gli occhi, e lui
digrignò i denti.
«Io
sto bene!» urlò quasi. «Non serve
sostituirmi! Nessuno ne sarebbe
in grado! E’ una missione per il gruppo sette!»
«Credi
che non lo sappiamo?» sbottò Chiharu.
«Credi che siamo felici di
dover aspettare due giorni?»
«E
allora non fatelo!»
«Non
essere infantile, adesso!» lo interruppe Kotaro. Sia Chiharu
che
Hitoshi si voltarono a fissarlo, quasi irritati per
l’intromissione.
«Anche un imbecille vedrebbe che non stai bene, figuriamoci
un
nemico. In missione saresti più d’intralcio che
d’aiuto.»
Cadde
il silenzio. Non che questa parte non fosse ponderata nella
discussione... Solo, nessuno si aspettava che a tirarla fuori sarebbe
stato Kotaro: secondo i piani sarebbe dovuta uscire dalla bocca di
un’irritatissima e saccente Chiharu, non dalla voce quasi
dimessa
dello shinobi gentile del gruppo sette – che comunque, per
essere
proprio onesti, non andava proprio fiero del suo operato.
E
infatti per un attimo Hitoshi non seppe come ribattere. Stordito, si
trovò a fissare l’erba con un vago senso di
nausea... Che diavolo
era successo? Fino a pochi anni prima era il più promettente
e
geniale allievo della sua generazione, ora all’improvviso era
un
incapace che non riusciva a portare a termine i suoi compiti?
Un
Uchiha che ha fallito cos’è?
«Chi
è il mio sostituto?» si trovò a
chiedere con la bocca arida.
Chiharu
e Kotaro incassarono impercettibilmente la testa tra le spalle. Anche
se erano riusciti a stordirlo fino a quel momento, sicuramente dopo
il nome di Baka Hitoshi avrebbe dato fuori.
«Akeru»
mormorò Chiharu, sperando che dare un filino di
dignità in più a
Stupido avrebbe aiutato Hitoshi a sentirsi meno inutile.
Ovviamente
non funzionò. Videro un lampo d’ira nel suo
sguardo. «Stupido?
Stupido?»
inveì, e qualche animale scappò spaventato nel
sottobosco. «Mi
state dicendo che per sostituire me
voi chiamate lui?»
«Akeru
è un Anbu» tentò di giustificarsi
Chiharu. «Non un imbecille.
Magari avremmo chiamato Jin, se non fosse impegnato, ma non credo che
essere sostituito da un dodicenne ti avrebbe fatto sentire
meglio.»
«Voi
avete chiamato Stupido!» insisté Hitoshi, ormai
ben oltre i limiti
dell’indignazione. «Mi state facendo sostituire da
uno che si
chiama stupido!
State dicendo che valgo quanto lui!» Decisamente chiamare
Akeru con
il suo nome era proprio passato inosservato.
«E’
un Anbu!» ripeté Kotaro, iniziando a sentire
l'esasperazione che
montava.
«Oh,
sentiamo, chi avremmo dovuto chiamare, eh?» sbottò
Chiharu. «Solo
Naruto l’Hokage è al livello del prodigioso
Uchiha?»
«Non
avreste dovuto chiamare nessuno! Se voi aveste solo un briciolo di
fiducia...»
All’improvviso,
del tutto inaspettatamente, Hitoshi si trovò con la schiena
a terra
e una mano premuta contro il collo a mozzargli il respiro. Sotto gli
occhi di una Chiharu stupefatta Kotaro lo aveva appena aggredito.
«Mi
sono mosso lentamente»
sibilò arrabbiato. «E tu non mi hai nemmeno
sentito. Ora, me lo
dici cosa diavolo intendi con fiducia?
Dobbiamo fiduciosamente
lasciarti morire, compromettere la missione e finire sulla lapide
degli eroi solo per salvare il tuo orgoglio?»
Allentò
la stretta con cautela e Hitoshi, pur cercando di trattenersi,
dovette tossire ingoiando bruscamente l’aria.
«Kotaro...»
mormorò Chiharu nervosamente.
Kotaro
si fece indietro e si portò a qualche distanza, passandosi
una mano
sul viso tirato. Hitoshi si tirò a sedere e si
portò una mano alla
gola. Scioccato e furioso fissò il compagno di squadra, ma
non
riuscì a incontrare il suo sguardo. Al che, come ogni
maschio
indignato che si rispetti, a sua volta prese a fissare il suolo con i
denti serrati.
Chiharu
passò gli occhi dall’uno all’altro,
respirando con molta
cautela; a un tratto si rese davvero conto di essere una femmina: a
prescindere dalla sua capacità di comprenderli o meno, non
poteva
fare a meno di trovare i compagni di squadra un po’
inquietanti.
Finché si trattava di battibeccare con Hitoshi sapeva che
non si
sarebbe arrivati alle mani; ma tra lui e Kotaro come sarebbe potuta
finire? Fino a che punto si parlava di amicizia nel loro caso? E che
cosa diavolo significava amicizia per due maschi?
Chiharu
sciolse lentamente i muscoli della schiena. Calma. I gruppi erano
composti da più di due elementi proprio per evitare il
genere di
situazione che si era creata: il terzo membro del team aveva il
compito di riportare tutti alla ragione e ricordare che la missione
veniva prima di tutto. Certo. Porca miseria, dov’era Naruto
quando
serviva?
Chiharu
sospirò. Naruto li avrebbe fatti ragionare al volo: lui era
un
maschio, era uno stupido ed era impulsivo - insomma, li comprendeva
alla perfezione. Lei poteva soltanto appellarsi alla sacrosanta
razionalità e sperare che i due cretini ne avessero in dose
sufficiente.
«Comunque
Baka è già in viaggio» disse
schiarendosi la voce. «Arriverà
presto, con l’ordine di riportarti a Konoha. Che
l’emicrania ti
passi o meno, non possiamo rischiare che torni all’improvviso
mentre attacchiamo. Devi farti vedere da un medico, Hitoshi.»
L’Uchiha
non diede nemmeno segno di averla sentita, ma Chiharu vide la sua
mano stringersi convulsamente a un ciuffo d’erba. Poi, senza
dire
altro, si alzò di scatto, voltò le spalle al
gruppo e si inoltrò
rabbiosamente tra i cespugli del sottobosco.
Kotaro
non si mosse, Chiharu nemmeno. Sembrava che il loro gruppo sette
fosse vicino a una frattura insanabile.
*
Usciti
dalla gola in cui terminava il passaggio segreto, Kakashi
riuscì a
orientarsi in fretta. Guidò Jin e Haruka lungo i sentieri
degli
animali del bosco, aiutato da un segugio ninja che cercava tracce di
esseri umani, finché gli alberi si diradarono ed emersero
lungo
un’ampia strada in terra battuta. Le ruote dei carri avevano
inciso
solchi profondi nel fango rinsecchito, ma, forse perché era
appena
l’alba, non si vedeva anima viva.
«Gli
odori sono vecchi» guaì il cane che li aveva
guidati fin lì. «Non
è una strada trafficata.»
«Grazie,
ti richiamerò se avremo ancor bisogno di aiuto» lo
congedò
Kakashi.
Il
cane scomparve in un piccolo sbuffo di fumo. Kakashi guardò
da una
parte e dall’altra: il sentiero sembrava provenire da nord,
dirigendosi poi ad est in un’ampia curva tra gli alberi.
«Jin,
la mappa.»
Jin
sfilò lo zaino e ne estrasse la cartina del Paese della
Roccia,
tendendola al padre. Facendolo gli cadde l’occhio su un
fascicolo
giallo all’interno dello zaino e con un sussulto comprese che
era
quello su sua madre a cui avevano accennato nei giorni precedenti.
Kakashi
stese a terra la cartina e cercò Anka. La puntò
con un dito. Alzò
lo sguardo per valutare le dimensioni della strada, la posizione dei
monti limitrofi e quella del sole, poi la direzione da cui erano
venuti. Haruka si sporse oltre la sua spalla e indicò una
via poco
ad est del villaggio, una strada di medie dimensioni che collegava
Anka alle città del nord.
«E’
questa» spiegò. «Non la usano da anni
perché a nord non c’è
più molto da commerciare.»
«Non
possiamo viaggiare scoperti. Passeremo per il bosco»
rifletté
Kakashi. Con la mano tracciò una linea retta che congiungeva
Anka e
il villaggio di Izano, attraverso cui avevano passato il confine
all’andata.
«I
boschi sono molto fitti» lo corresse però Haruka.
«Dobbiamo
seguire delle strade: nel folto saremmo costretti a continue
deviazioni e rischieremmo di perderci.»
«Sarà
il primo posto in cui verranno a cercarci» replicò
Kakashi brusco.
«Ma
è anche la nostra sola possibilità. Conosco
questo Paese.»
«Va
bene, allora. Resteremo protetti dalla vegetazione, ma terremo sempre
d’occhio la strada» Kakashi indicò la
via ben marcata che
proseguiva tortuosa fino al Paese del Fuoco, poi ripiegò la
cartina
e la diede di nuovo a Jin.
Tutti
insieme si spostarono all’interno del bosco, qualche metro
dentro
il folto. Se qualcuno avesse guardato verso di loro l’ombra
della
vegetazione li avrebbe nascosti, ma da lì potevano
distinguere
chiaramente chiunque passasse sulla via. Le loro intenzioni erano di
camminare per tutta la prima parte della giornata, trovare un posto
relativamente sicuro in cui riposare per un breve periodo e poi
riprendere il viaggio durante le ore notturne.
«A
chi sono collegati i mercenari con cui lavoravi?» chiese
Kakashi
quando ebbero ripreso il cammino al riparo del sottobosco.
«Hanno
contatti con tutti i villaggi del confine» rispose Haruka
cupamente.
«Sicuramente ci sono già dei corrieri in viaggio
con le nostre
descrizioni.»
Kakashi
calcolò quanti giorni avrebbero impiegato per tornare
seguendo la
strada indicata da Haruka: troppi, se volevano avere qualche speranza
di farcela. Alla prima pausa avrebbe dovuto estrarre di nuovo la
cartina e studiare un percorso alternativo: doveva valutare la
possibilità che lei cercasse consapevolmente di metterli
nelle mani
del nemico, per quanto la sua natura si ribellasse a quell'idea.
Avrebbe
tanto voluto potersi fidare ciecamente, come in passato, come prima
che scomparisse nell'incendio al Paese delle Risaie...
D’altronde
era così difficile discutere con lei! Si sentiva esplodere
ad ogni
contraddizione, ad ogni ‘ma’, ad ogni intromissione
nei suoi
piani. Si stava sforzando di comportarsi in maniera professionale, ma
tutti gli anni in cui l’aveva creduta morta stavano premendo
dentro
il suo stomaco quasi a farlo scoppiare. Prima di ragionare come un
Hokage di fronte a un possibile traditore, si trovava a reagire solo
come un amante abbandonato.
Senza
farsi notare gettò un’occhiata verso Jin, che
chiudeva il gruppo.
I suoi occhi brillavano come mai prima, incuranti della stanchezza.
Anche da quella distanza Kakashi poteva vedere i muscoli delle
mandibole che si contraevano nello sforzo di non aprire bocca, ma gli
occhi non potevano essere camuffati: bruciavano, fissi sulla nuca di
Haruka, come se volessero frugarla dentro.
Fecero
la prima pausa quando il sole era alto nel cielo e le borracce
completamente vuote. Trovarono i resti di un villaggio che sorgeva
nei pressi di un ruscello limaccioso e si fermarono
all’interno
dell’edificio che sembrava più solido, un pollaio
con il tetto di
paglia e ramaglie.
Mentre
Jin riempiva le borracce, Kakashi riprese la mappa e
sprofondò nella
ricerca di percorsi alternativi.
Haruka
lo guardò per qualche istante, studiando le nuove rughe
sulla sua
fronte e attorno agli occhi. Tredici anni avevano lavorato sul suo
viso senza che lei potesse vederlo, ed ora lui era un uomo diverso da
quello che aveva conosciuto: la linea delle spalle si era
ammorbidita, le mani e le dita, quelle dita un poco ruvide che in
passato la avevano accarezzata, ora erano lisce e levigate dal lavoro
d’ufficio. Il suo sguardo, poi, parlava chiaro: risentimento,
dolore, rifiuto. Non una briciola di amore.
«Ehm...
V-Vuoi?»
Il
balbettio di Jin la colse impreparata. Lo vide tenderle la borraccia
piena e si affrettò ad allungare la mano per prenderla.
Dovette
forzarsi a bere, perché nonostante la gran sete il cuore le
era
risalito su per la gola e ora la bloccava con un nodo di ansia e
senso di colpa. Jin attese qualche secondo, poi, gettando uno sguardo
nervoso in direzione di Kakashi, si sedette accanto a lei.
«Pensavo
che i capelli fossero rossi» esordì, guardandola
di sottecchi
perché non aveva il coraggio di fissarla direttamente.
«Hanno
cambiato molti colori nel corso degli anni» rispose Haruka,
fissandolo come prima aveva fissato Kakashi. «Era un buon
modo per
non farsi riconoscere.»
Sì,
aveva proprio i suoi occhi. Lo stesso taglio, la stessa sfumatura di
blu. I capelli erano di Kakashi, e il viso ancora in piena
trasformazione, ma gli occhi erano suoi - per quel poco che riusciva
a incrociarli.
Cosa
poteva dire a un figlio dodicenne? L’ultima volta che lo
aveva
visto ciondolava in equilibrio precario e le chiedeva a gesti di
attaccarsi al seno. Chi gli aveva insegnato a parlare, chi lo aveva
accompagnato al primo giorno in Accademia, chi gli aveva messo i
cerotti quando si era ferito con i primi shuriken?
L’impegnatissimo
Sesto Hokage di Konoha? Ne dubitava.
«La
zia mia ha parlato di te» disse Jin impulsivamente.
Finalmente alzò
lo sguardo. «Mi ha dato questa...» con gesti
frenetici frugò in
fondo allo zaino ed estrasse la fotografia usurata di Haruka e
Natsumi che aveva sfilato dal suo nascondiglio prima di partire.
Naturalmente non aveva detto nulla a Kakashi. «Nel caso ti
avessi
incontrata. Per poterti riconoscere» spiegò
arrossendo, e si rese
conto che l’istupidimento provato nel passaggio segreto non
era
affatto passato.
Haruka
prese la fotografia e la studiò. «Ricordo questo
giorno. Eravamo
con dei... delle persone. Gente che conoscevamo»
mormorò. Amici che
poi aveva tradito, ecco la parola che cercava. «Molti anni
fa.»
Jin
strinse i pugni cercando il coraggio di fare la prima domanda.
Sbirciò in direzione di Kakashi, pronto a cogliere qualunque
ammonimento, ma il Jonin sembrava troppo assorto nella cartina -
strategicamente assorto, avrebbe compreso se avesse
avuto
qualche anno in più. Allora deglutì, prese un
respiro e disse tutto
d’un fiato: «quando sono nato?»
Jin
non aveva un compleanno.
Jinnai
Momori non si era premurato di riferirlo a Kakashi e lui non era
tornato indietro per chiederlo. Per convenzione aveva stabilito che
il bambino avesse un anno quando glielo avevano affidato e aveva
fatto i suoi conti a partire da lì, ma non aveva mai
festeggiato con
lui nulla di simile a un compleanno. A Jin non interessava
particolarmente - non aveva mai capito la necessità di fare
o
ricevere regali - ma Hinagiku era rimasta molto delusa dalla
scoperta.
Haruka
girò uno sguardo stupito su Kakashi. «Non te
l’ha detto?»
Kakashi
le lanciò un’occhiata di avvertimento. Lei
esitò per un istante,
poi capì che Jin non sapeva nulla del messaggio di Akiko
Kato né
della sua finta morte né dell'uomo che si era preso cura di
lui per
alcune settimane. Sentì il peso bloccato in gola sprofondare
di
nuovo nello stomaco.
«Undici
febbraio» disse a bassa voce.
Jin
si chiese solo per un istante chi avrebbe dovuto dire a suo padre
quand’era nato, poi la novità di dare una data
alla sua venuta al
mondo ebbe il sopravvento. Febbraio! Significava feste in casa e
stuzzichini caldi, forse anche la neve...
«Credo
di aver trovato una strada più breve» Kakashi
interruppe le sue
fantasticherie avvicinandosi a entrambi e stendendo la cartina tra
loro. Haruka lo interpretò correttamente come un modo per
interrompere la conversazione, ma Jin provò solo un
po’ di
fastidio. «Sono vie secondarie, però ci permettono
di accorciare
notevolmente il percorso» spiegò Kakashi indicando
quelle che sulla
cartina erano segnati come minuscole righe quasi invisibili, di
scarsissima importanza. «Così dovremmo riuscire ad
evitare buona
parte dei villaggi più grandi e forse a seminare chi ti sta
cercando.»
Haruka
studiò il percorso che Kakashi aveva segnato e
annuì. «Possiamo
farcela. Non sarà la prima strada che controlleranno...
Però
dovremo stare attenti a non dare nell’occhio: incontreremo
sicuramente gruppi di mercenari. Speriamo che siano abbastanza
isolati da non avere una nostra descrizione.»
«Speriamo»
mormorò Kakashi annuendo. «Adesso
mangiamo.»
Ripiegò la cartina e la cedette
nuovamente a Jin, che la mise via senza fiatare. Haruka
cercò di
incrociare il suo sguardo, ma quello si fece sfuggente.
Risentimento, dolore e rifiuto
avevano appena guadagnato un nuovo compagno: paura.
Kakashi
aveva paura di quel che sarebbe successo, di tutte le conseguenze del
suo ritorno, comprese Haruka.
Prima di affrontare di nuovo una
conversazione con Jin avrebbe dovuto parlare con suo padre e capire
cosa gli aveva raccontato.
*
Scaricato.
Sostituito
da Stupido.
Da
Stupido!
Inaudito.
Più
ci pensava e più gli sembrava incomprensibile e surreale.
Perché
mai qualcuno avrebbe dovuto pensare
di sostituire un Uchiha con qualcuno il cui cognome era Baka?
Con
rabbia Hitoshi si passò una mano tra i capelli, sentendo
l’emicrania
scavare tenacemente sotto la pelle. Una cosa da niente, una cosa da
ragazzine, avrebbe detto; eppure non riusciva quasi a stare in piedi,
trovava un briciolo di sollievo soltanto disteso. Lo rendeva
praticamente invalido.
Perché
a lui? Non solo era l’unico Uchiha privo di sharingan, ma era
anche
l’unico che fosse mai stato rispedito a casa da una missione.
Il
pensiero di quale sarebbe stata l’espressione di suo padre lo
angosciava terribilmente.
Forse,
tanto valeva morire.
«Stai
mica pensando al suicidio?»
Hitoshi
si tirò su di scatto, e per un istante il mondo
ruotò attorno a
lui. Con una smorfia di dolore, tra le palpebre semichiuse, intravide
le gambe di Chiharu qualche passo alle sue spalle e sentì un
fiotto
d’irritazione andare ad alimentare l’emicrania.
«Che
vuoi?» sibilò, sforzandosi di restare acido ma non
isterico.
«Controllare
che arrivi a stasera.»
Ovvio.
Lei sapeva sempre cosa pensava lui. Lei sapeva cosa pensava chiunque
in ogni momento, maledetta spaccona arrogante.
«Vattene»
sbottò Hitoshi, chiedendosi se negare sarebbe sembrato tanto
patetico. «Tu e Kotaro avete da fare, no?»
sibilò.
Questo
suonava molto
patetico.
Chiharu
si degnò finalmente di guardarlo e sbuffò con
aria di sufficienza.
«No» negò, incrociando le braccia sul
petto. «Veramente, finché
non arriva Stupido siamo a riposo anche noi.»
Oh,
perfetto. Lei, Kotaro e Stupido. Che terzetto entusiasmante.
«Vattene»
ripeté, ora con una nota di vero isterismo nel tono.
«Non ho voglia
di parlare, e soprattutto non ho voglia di farlo con te.»
Hitoshi
non poteva vederla, ma fu sicuro che Chiharu gli scoccasse una delle
sue celebri occhiatacce. «Ricordami un istante quanti anni
hai»
replicò stizzita. «E chi sei.»
«Per
favore, vattene» gemette Hitoshi, improvvisamente sfibrato.
«Vattene
e basta.»
Lei
non ribatté. Il silenzio si dilatò
nell’umidità del mezzogiorno,
densa di ronzii e fruscii segreti. Nessuno dei due aprì
più bocca.
Chiharu
sapeva cosa stava succedendo: Hitoshi si sentiva umiliato, e
l’umiliazione lo avrebbe portato ad allontanarla. Lei,
d’altronde,
non aspettava altro, dunque se ne sarebbe andata senza nemmeno
soffrirci troppo. Giusto?
Oppure...
Oppure avrebbe potuto avvicinarsi ed essere gentile, quindi, memore
di quello che c’era stato, avrebbe potuto cercare di... Un
brivido
le corse lungo la schiena - non un brivido di piacere: dopo la
faccenda della sostituzione, la distanza tra loro non le permetteva
di fare più di quello che stava facendo adesso, che era poco
e
niente. Provava pena per Hitoshi, ma sopra la pena provava uno strato
di rabbia ribollente, perché lo vedeva commiserarsi e
crogiolarsi
nelle sue sventure invece di affrontarle. Una parte di lei avrebbe
voluto scuoterlo e ordinargli di smetterla di piangersi addosso, ma
un’altra, più forte, le diceva che se lo avesse
fatto avrebbe
decretato la sua condanna a morte: per salvare l’orgoglio di
un
Uchiha doveva fargli credere di avere ancora qualcosa a cui
aggrapparsi.
«Sei
un idiota» sussurrò.
Allora,
vincendo l’impulso a restare, si voltò e se ne
andò.
Hitoshi
rimase seduto sulle foglie secche. Non cercò di fermarla.
Serrando i
denti, invece, si prese la testa tra le mani pensando a lei e lui, a
Baka, a suo padre, all'umiliazione bruciante con cui avrebbe dovuto
convivere nei tempi a venire. Scommetteva che l'idea di sostituirlo
era venuta a Chiharu e Kotaro nello stesso momento. Non vedevano
l'ora di far vedere a tutti che erano migliori di lui. E in fondo,
rifletté, forse avevano ragione.
Nessun
Uchiha è disposto a lasciarsi guardare quando fallisce.
Piuttosto
che ricevere compassione preferisce il disprezzo e la solitudine. A
costo di lasciar andare l’unica cosa che vorrebbe difendere
con le
unghie e con i denti.
Immerso nel suo personale
tormento, non si accorse nemmeno di Kotaro che si allontanava
silenziosamente dal suo nascondiglio tra i cespugli. Soltanto allora,
davvero, rimase solo.
* * *
Salve a tutti!
Finalmente entra in campo "il cattivo"!
("Uno dei...". Lo sapete come ragiono, ormai.)
Quello di oggi dovrebbe essere uno degli ultimi aggiornamenti
modificati;
molto presto entreremo nella parte di storia sconosciuta.
E lì per me sono cazzi.
(Perché mi sono un po' persa e devo riprendere tutti i fili.)
Sperando che Jin e Haruka vi risultino un po' meno insopportabili
rispetto alla "parte di Jin" della vecchia versione,
li lasciamo a fare conoscenza
e ci trasferiamo dai mocciosi.
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Capitolo 19 *** Il cavallo rosso ***
Penne 19
Capitolo
diciannovesimo
Il
cavallo rosso
Una
foschia leggera restava sospesa a un metro da terra, avvolgendo i
pochi suoni e rendendo incerti i contorni del sottobosco, entro i cui
confini non penetravano i raggi del sole pomeridiano. Tra una grande
felce e una roccia avvolta dalle radici di un albero enorme
c’era
un piccolo tratto di foglie schiacciate dalla forma particolare.
Un
topo si avvicinò con cautela, annusando stranito il
sottobosco.
Sotto i baffi tremanti sentiva odori sconosciuti. Percorse con
attenzione il contorno della traccia appena scoperta, quindi si
azzardò a tendere una zampa verso la zona calpestata, un
milione di
volte più grande del suo intero corpo, e la ritrasse
vibrando
freneticamente il naso rosa. Come se ci avesse ripensato,
trottò
rapido per un lungo tratto fino a raggiungere di nuovo il sottobosco
familiare, infine se la squagliò sotto un cespuglio.
I
rospi giganti non erano tra i suoi incontri preferiti.
Duecento
metri più avanti gli alberi tremavano all’impatto
delle zampe
robuste sul terreno. Il grande rospo procedeva spedito, spiccando
balzi che oltrepassavano abbondantemente gli alberi e ripiombando a
terra con massiccia brutalità. Sul suo dorso, aggrappato
disperatamente alla pelle rugosa della nuca, uno shinobi
scombussolato cercava di mantenere l’equilibrio serrando
convulsamente le ginocchia.
«Tutto
bene, ragazzo?» chiamò Scheggia, in un curioso
miscuglio di
tenerezza e divertimento.
«Sì!»
mentì Akeru, smozzicando poi tutti gli insulti che conosceva.
Un
giorno di viaggio interrotto solo per i bisogni fisiologici, il
chakra che ormai rispondeva a sbalzi e lo stomaco che protestava con
violenza gli facevano rimpiangere le carinissime missioni di livello
S che gli affidavano come Anbu.
«Ottimo»
approvò il rospo, piombando su una macchia di aceri e
mandando nel
panico un nido di tordi. «Sapevo che eri in gamba! Il
biondino a
quest’ora avrebbe avuto lo stomaco sottosopra!»
Akeru
ingoiò un conato di vomito e si guardò bene dal
rispondere,
cercando di ignorare i sussulti del paesaggio circostante. Poco
più
avanti rispetto a loro il minuscolo uccellino rosso di Chiharu volava
senza un’incertezza, come se la fatica non esistesse. Li
guidava
dall’inizio e probabilmente aveva già percorso
quella strada in
senso opposto, eppure non rallentava e non si riposava mai. Ma
all’improvviso Akeru lo vide virare bruscamente e tornare sui
suoi
passi in un ampio cerchio.
Scheggia
si fermò di scatto, tanto che per un attimo il ragazzo
temette di
scivolare oltre la sua testa e finire a terra.
«Che
succede?»
L’uccellino
svolazzò davanti al muso del grosso rospo. Quello rimase
immobile,
come in ascolto. Annuì un paio di volte, poi
gracidò piano.
«Scendi,
ragazzo.»
«Perché?»
indagò lui, domandandosi se i muscoli doloranti delle cosce
avrebbero risposto.
«Perché
da qui devi andare a piedi. Io sono troppo ingombrante per passare
inosservato.»
Akeru
obbedì e scese dal dorso di Scheggia, muovendosi con cautela
sulle
gambe piene di acido lattico. Cercò con lo sguardo
l’uccellino che
li aveva guidati, ma non appena lo vide quello ripartì nella
direzione che stavano già percorrendo.
«Tornerete
più tardi, con l’altro girino che devo portare
indietro» lo
rassicurò bruscamente Scheggia. «Io vi aspetto
qui.»
Akeru
rimase dietro alla sua guida iperattiva costringendosi a non pensare
alla stanchezza. Ben presto, tuttavia, si accorse che il vero
problema non erano le mancate ore di riposo, quanto piuttosto
l’immobilità a cui era stato costretto sul dorso
del rospo.
All’improvviso scoprì che correre un po’
sui suoi piedi gli
faceva bene.
Procedettero
per quasi un quarto d’ora. L’uccellino non gli
semplificò
affatto la vita, insinuandosi in passaggi minuscoli e rischiando
più
volte di perdersi. Akeru masticò insulti tra i denti,
convinto che
fosse stata Chiharu a istruirlo così, e, impegnato
com’era a
tenere il passo, non si accorse di aver oltrepassato la linea
invisibile che il gruppo sette aveva disegnato attorno al luogo in
cui era accampato, e che aveva il compito di avvisarli di ogni
intrusione.
A
un tratto l’uccellino si fermò; Akeru lo
imitò, riprendendo
fiato, e tese i sensi alla ricerca di un segnale. Si trovava al
centro del nulla, circondato dagli alberi e immerso nel silenzio. La
sua guida si era posata su un ramo ed era intenta a lisciarsi le
piume con cura.
Baka
si chinò per studiare il terreno, strusciando le dita sui
resti
quasi invisibili di un accampamento recente. L’erba
schiacciata e
rade tracce di cenere lasciavano intendere che il luogo fosse stato
liberato in fretta e furia, probabilmente dieci minuti prima. Si
rialzò, guardandosi attorno furtivo.
«Sono
io» sussurrò alle foglie, sentendosi vagamente
stupido.
L’unica
risposta che ottenne fu il basso richiamo dell’uccellino, che
lo
fissava severamente. Si schiarì la voce.
«Siete
ancora vivi?»
L’uccellino
arruffò le penne e prese il volo, librandosi sopra la sua
testa.
Akeru non sapeva perché, ma era sicuro di stargli
antipatico. Fu per
quella ragione che gli sembrò di cogliere nel richiamo
successivo
una nota di esasperato sarcasmo, quasi un rimprovero: devo
fare tutto io, sciocco implume.
Finalmente,
da un albero, Chiharu balzò a terra.
‘Alla
buonora!’ avrebbe voluto esclamare Akeru indignato.
E invece
non appena la vide gli tornò in mente la loro ultima,
illuminante
conversazione, e con essa tutto il disprezzo di cui lei
l’aveva
sommerso. Così si limitò a fare un passo indietro
e guardarla male,
arrossendo leggermente.
«Ce
ne hai messo di tempo» si sentì dire mentre anche
Kotaro atterrava
davanti a lui.
«Si
fa quel che si può» sibilò
nervosamente. «Allora, dov’è
l’Uchiha?» aggiunse quasi subito, prima di
infuriarsi.
«Qui»
rispose Kotaro; e nel momento in cui lo diceva Hitoshi sbucò
dai
cespugli, con l’espressione funerea di un condannato a morte.
Akeru
cercò il suo sguardo con una punta di malignità. Adesso
chi è il perdente?
si trovò a pensare.
«Che
vuoi?» ringhiò Hitoshi sulla difensiva.
«Niente»
rispose Akeru, sollevando leggermente il mento. Poi si voltò
a
guardare Chiharu, come se fosse diventata lei il leader del gruppo.
«Un rospo ci aspetta a venti minuti da qui. Lo accompagno e
torno.»
Chiharu
si limitò ad annuire, ma a lui non sfuggì il modo
in cui evitava lo
sguardo di Hitoshi. Anche se non avrebbe voluto, dentro di
sé sentì
una vocina esultare.
«Ce
la fai?» chiese, con un tocco di sufficienza nel tono.
L’Uchiha
lo fulminò con lo sguardo. «Se non chiudi quella
bocca ti do un
pugno» minacciò, ma l’emicrania gli
impedì di essere sferzante
come avrebbe voluto.
Akeru
decise per buona pace di mantenersi sul neutrale. «Andiamo.
Non c’è
neanche gusto...»
Accompagnò
Hitoshi da Scheggia sforzandosi di essere uno shinobi impeccabile.
Non fece frecciatine, non insinuò nulla, non
cercò di mettere alla
prova la sua velocità né di carpirgli punti
deboli. Quando
arrivarono a destinazione si limitò a guardare con un certo
distacco
la smorfia che comparve sul viso di Hitoshi, un misto di sorpresa,
stizza e dolore, e gli chiese nel tono più incolore se
riusciva a
stare in groppa al rospo.
Hitoshi
bofonchiò qualcosa che sapeva di insulto, al che Akeru fu a
un passo
dall’assestargli un calcio. Poi optò per una
tattica diversa.
«Scheggia,
vacci piano con lui. E’ allievo di Naruto.»
«Cioè
dobbiamo eliminare sei guardie, recuperare l’ostaggio e
darcela a
gambe senza feriti?» sbalordito, Akeru passò lo
sguardo da Chiharu
a Kotaro e di nuovo a Chiharu. «Noi tre?» aggiunse
per chiarire il
concetto.
All’improvviso
la battuta con cui aveva annunciato che non aveva bisogno di riposo
prima di iniziare la missione gli sembrò un po’
troppo spavalda.
Sentiva l’acido lattico che ancora gli indolenziva le cosce.
«Paura?»
insinuò Chiharu. Ma, senza il solito sorriso sarcastico, il
suo
commento sembrò un insulto velenoso.
Akeru
si rattrappì impercettibilmente, comprendendo che tirarsi
indietro
ora gli avrebbe portato dosi di umiliazione non tollerabili. Si
convinse che da quel momento l’avrebbe odiata: solo
perché aveva
fatto l’idiozia di dichiararsi non voleva dire che ora lei
potesse
permettersi qualunque cosa. Ovviamente non sapeva che il malumore di
Chiharu era dovuto a ben altre questioni – e persone
– per cui
decise di renderle pan per focaccia.
«Paura
per voi»
rettificò acido. «Io sono un Anbu: ho completato
missioni ben
peggiori. Mi chiedo solo se voi
uscirete
vivi da questa... E, detto in tutta franchezza, non mi fido della via
di fuga escogitata da te all’ultimo minuto. Quindi: o ci dici
cos’è
prima di partire, o non ci muoviamo.»
Chiharu
gli rivolse una faccia di marmo. Si impose di contare fino a tre,
arrivò almeno a sette, quindi inspirò a fondo.
«Piccola
e boriosa testa di cazzo» esordì gelida.
«La mia non è una via di
fuga escogitata all’ultimo minuto, è la via di
fuga suggerita dal
Sesto Hokage. E se lui non ha detto cos’è, allora
sono autorizzata
a non spiegarti niente. Se hai problemi prepara un esposto scritto e
presentalo al suo segretario.»
Akeru
sentì il sangue che saliva alle guance.
«Sì, beh, autorizzata un
bel niente» mugugnò sotto lo sguardo esasperato di
Kotaro, che
ormai aveva gettato la spugna. «Ti ricordo che io sono un
Anbu,
l’élite di Konoha, e tecnicamente nella
gerarchia...»
«Tu
sei un ninja medico» troncò Chiharu.
«Noi combattiamo. Se sei qui
oggi è perché sei l’unico che riesca
più o meno a collaborare,
volente o nolente, quindi rispolvera le tue tecniche di lotta e non
rompere. Devi solo seguirci. Ce la fai, vero?»
Kotaro
fece una smorfia: umiliare Baka Akeru prima di iniziare non gli
sembrava la mossa più intelligente.
«Chiharu...»
mormorò infatti, sottovoce.
Lei
gli scoccò un’occhiataccia. Non si sarebbe
scusata. No. E comunque
Stupido lavorava meglio quando lo insultavano, era appurato.
Akeru
serrò i pugni e la fissò con rabbia. Oh, quanto
sarebbe stato
facile risponderle, lì su due piedi, e distruggerla con
poche
parole... Lui era un Anbu: aveva visto del mondo molto più
di quello
che Chiharu poteva anche solo immaginare, e soprattutto aveva visto
di Konoha tutto quello che lei non aveva nemmeno la più vaga
idea
che esistesse. Sarebbe bastato un istante per farle capire quanto
inferiore era rispetto a lui. Ma rimandò giù le
parole,
conservandole per un momento migliore - anche se gli costò
uno
sforzo notevole. Sapeva che quel momento sarebbe venuto, prima o poi, perché lo attendeva da cinque lunghi anni.
Kotaro
sbuffò e tirò un calcio a un ciottolo, sentendo
evaporare il
sollievo provato all’idea che venisse Stupido e non Yoshi. Ma
anche
se tutti erano preda di un vortice di ribellione
tardo-adolescenziale, qualcuno doveva riportare le cose alla
normalità, no?
«Comunque
per oggi non ci muoviamo» disse dunque in tono risoluto.
«Domattina
al cambio della guardia agiremo. Baka, cerca di riposare più
che
puoi nelle prossime ore.»
«Vado
a dormire anche io» disse Chiharu cogliendo la palla al balzo.
«Va
bene» grugnì Akeru rassegnato, lasciandole la sua
piccola vittoria.
Dopotutto era appurato che Chiharu lavorava meglio quando il suo ego
era alle stelle.
*
L’aveva
inseguita giorno e notte, braccata come una preda, circondata, messa
in trappola, accerchiata; e ancora gli sfuggiva. Come un animale
riusciva ad evitarlo, a fare finta di nulla, a nascondersi ai suoi
occhi indagatori. L’aveva cercata a casa, al lavoro, le aveva
fatto
agguati lungo la strada, ma invano. Se c’era una sola persona
al
mondo che poteva schivare le tattiche di Naruto Uzumaki, quella
persona era Sakura Uchiha, al secolo Haruno.
Eppure
alla fine anche lei aveva commesso un passo falso. D’altronde
era
stata malvagiamente ingannata dal peggior cavallo di Troia che mente
umana potesse cogitare. Come avrebbe potuto immaginarlo? Il piccolo
Itachi che la avvicinò in cucina, chiedendo un biscotto con
sorriso
angelico, sembrava esattamente l’Itachi che era uscito dal
suo
ventre cinque anni prima. E quando all’improvviso esplose
in una nuvoletta di fumo e si tramutò in un idiota biondo,
ormai era
troppo tardi.
«Naruto!»
esclamò Sakura, al momento troppo sorpresa per arrabbiarsi.
«Presa!»
esultò lui trionfante. «Adesso non puoi dire che
hai altro da fare,
o che ti chiamano, o che non mi hai visto! Sei in trappola!»
Sakura
sentì il sangue salire alle guance, e nemmeno per un istante
pensò
che fosse colpa o imbarazzo: sapeva di per certo che era ribollente,
vendicativa e assolutamente giustificata collera.
«Io
ti ammazzo!» ringhiò serrando la mano a pugno.
«No!
Sei in casa tua!» strillò Naruto, gettandosi al
volo oltre il
tavolo. «Sakura! Sakura, è roba tua! Non vuoi
davvero spaccarla!»
«Come
ti sei permesso? Hai preso le sembianze di mio figlio - mio
figlio!
E ti sei introdotto in casa mia!»
Sakura
scattò attorno al tavolo e Naruto sgusciò rapido
dall’altro lato.
«Ho
dovuto farlo! Sakura! Sakura-chan, ti prego!»
«Vorrei
dire che sei inqualificabile, ma sei anche peggio!»
Naruto
si aggrappò al tavolo pensando freneticamente a quali kunai
segnati
avesse in giro per casa e se fosse possibile dislocarsi là
prima di
morire.
«Sakura!
Dai! Lo sai che dobbiamo parlare!» la supplicò,
sperando di farle
sufficientemente pena.
Sakura
si bloccò, strinse i denti ed espirò
pesantemente, costringendosi a
scaricare la tensione. Prima o poi sarebbe dovuto succedere,
riconobbe. Con rabbia, allora, afferrò una sedia e ci si
sedette
bruscamente.
«Dimmi
quello che devi e poi vattene» disse irosa.
Naruto
sbatté le palpebre all’altro capo del tavolo.
«Davvero?»
balbettò incerto. «Non è un trucco? Non
mi schiaccerai sotto il
tavolo appena mi sarò seduto?»
Sakura
lo fulminò con lo sguardo e lui si affrettò a
gettarsi sulla prima
sedia a tiro. Appoggiò le mani sul tavolo.
Tossicchiò.
«Sì,
ehm, dunque.»
Trovarsi
seduti a parlarne era abbastanza disagevole. Nelle sue fantasie lui e
Sakura discutevano come vecchi amici, magari davanti a una tazza di
tè o al ramen Ichiraku. Qualunque problema avesse, lui le
metteva
una mano sulla spalla e lei si confidava. Probabilmente in quelle
fantasie c’era una grossa parte del Naruto tredicenne
innamorato di
Sakura, ma era irrilevante. Calcolò ad occhio la lunghezza
del
tavolo e, prima di introdurre l’argomento, si chiese se
stendendosi
sul piano sarebbe riuscito a battere pacche confortanti sulla sua
mano.
«Cosa
sta succedendo tra te e Sasuke?» chiese facendosi coraggio.
Sakura
strinse le mani l’una all’altra.
«Niente...» mormorò, incapace
di convincere persino sé stessa.
«Sakura-chan,
io sarò un idiota, ma se anche quest’idiota ha
capito che qualcosa
non va allora è
qualcosa di grosso» protestò lui quasi offeso.
«Perché me ne vuoi
tenere fuori? So che Sasuke è asociale quanto un calcio nei
denti,
ma pensavo che almeno tu... Insomma, noi siamo ancora il gruppo
sette!»
Sakura
si azzardò ad alzare gli occhi, ma vedendo
l’espressione sicura di
Naruto si sentì schiacciata e li riabbassò.
«Questa
volta non è nulla che tu possa sistemare»
sospirò, raddrizzando
lentamente la schiena. «Sono problemi di coppia. Seri
problemi di
coppia. Non c’entrano niente con il gruppo sette.»
Naruto
si accigliò. Problemi di coppia? La stessa coppia che era
nata
demolendo brutalmente la sua felicità? Quella coppia che, in
un
certo senso, aveva il dovere
di essere ancor più felice?
«Cosa
vuol dire ‘problemi di coppia’?»
Sakura
evitò il suo sguardo. «Fraintendimenti. Nello
specifico, io che
sono un’idiota» spiegò sbrigativa.
«Quindi, vedi, non è nulla
per cui tu possa fare qualcosa.»
Naruto
si grattò la nuca. Problemi di coppia, certo. Faccende
private.
Eppure loro erano ancora il gruppo sette: lui avrebbe dovuto essere
l’ago che faceva tornare l’equilibrio se gli altri
litigavano.
Perché né Sakura né Sasuke si erano
rivolti a lui? E perché
sembravano tanto convinti che non avrebbe potuto fare nulla? Quasi
come se del gruppo non fosse rimasto niente...
«Non
so come stiano le cose, ma...» sussurrò, quasi a
disagio. «Beh,
sono sicuro che ci sia qualcosa che potete fare, giusto? Non
può
essere una faccenda seria. Dai, Sakura, tu e Sasuke... Lui
è... E
tu... Insomma, voi siete sempre...»
Tacque,
sentendosi infinitamente idiota. Di solito riusciva a trovare le
parole giuste, quelle che cambiavano le cose e le miglioravano;
perché oggi non ci riusciva? Il fatto che il problema
riguardasse
Sasuke e Sakura aveva ancora il potere di paralizzarlo?
Non
sentì Sakura ribattere, quindi giocherellò
nervosamente con le
proprie dita. Seduti nel silenzio entrambi rimasero fermi. La casa
era deserta, loro erano deserti, e non potevano fare altro che
ascoltare il tempo che scorreva, calpestando ogni cosa.
Naruto
inspirò ed espirò lentamente, prima di parlare di
nuovo.
«Devo
dirti una cosa. Il momento è il più schifoso, me
ne rendo conto,
ma... Hitoshi sta tornando a casa.»
*
Dal
punto in cui erano appostati, i tre shinobi vedevano chiaramente lo
sperone di roccia dove Loria era tenuta prigioniera. La baracca ai
piedi della montagna era silenziosa, ma da un’apertura nel
tetto
saliva una sottile spira di fumo. Venti metri più su, alla
fine di
un sentiero invisibile e aspro, la grotta in cui Loria era tenuta
prigioniera si perdeva nell’oscurità del granito.
Dovevano
essere vicini al cambio della guardia, avevano calcolato, e per
questo decisero di attendere finché non avessero visto gli
uomini
scendere lungo la cengia. Avevano osservato le guardie per tutto il
tempo in cui avevano aspettato Akeru, e avevano notato che prendevano
il loro lavoro molto alla leggera: i turni si susseguivano con lieve
irregolarità, senza troppe precauzioni;
dall’ostaggio restava
sempre un uomo, ma i sostituti non sputavano certo sangue prima di
raggiungerlo. Probabilmente sei anni di routine avevano diffuso la
convinzione che non sarebbe mai successo nulla.
Gli
shinobi della Foglia non dovettero attendere molto: quando il sole
andò a illuminare la base della grotta videro una delle
guardie
uscire sbadigliando. Chiharu fece un cenno veloce, e tutti e tre
scattarono all’unisono. Scesero la scarpata che li aveva
riparati
fino a quel momento, sentendo il terriccio franare sotto i piedi e le
foglie che frusciavano contro le braccia. Non si preoccuparono
eccessivamente di essere silenziosi, quanto piuttosto di fare alla
svelta: era di fondamentale importanza che agissero quando da Loria
c’era solo un uomo.
Raggiunsero
il tratto di terreno pianeggiante che separava i due costoni rocciosi
e oltrepassarono il letto di un ruscello scavalcando il rigagnolo che
lo attraversava. Muovendosi come un sol uomo si tuffarono nella
vegetazione riarsa per proseguire carponi verso la capanna poco
distante. Spiarono l’uomo di ritorno dalla grotta mentre
rientrava
chiedendo a gran voce del cibo, e quando fu fuori dalla vista loro
emersero dal nascondiglio e si separarono con un cenno del capo.
Kotaro
raggiunse l’ingresso della capanna scivolando sotto le
aperture che
servivano da finestre. Si acquattò accanto alla porta, tese
l’orecchio; dentro gli uomini si scambiavano commenti, e si
sentiva
rumore di stoviglie. Il ragazzo prese un respiro profondo, guardando
per l’ultima volta la grotta in cui tenevano Loria, infine
sfilò
due kunai dalla cintura e in un balzo attraversò la porta
aperta.
Gli
shinobi all’interno furono colti completamente di sorpresa,
mentre
erano immersi in un pasto freddo consumato attorno a un tavolo. In
quel momento tre erano seduti e un altro era in piedi, pronto a
sostituire nella grotta il compagno che era appena rientrato. Prima
che potessero rendersi conto di essere stati attaccati un kunai si
conficcò nella spalla di quello in piedi e Kotaro si
lanciò in
avanti per rovesciare il tavolo.
Nella
capanna si scatenò il putiferio: le grida
dell’uomo ferito si
mescolarono al rumore dei piatti rovesciati e del legno che si
spaccava. I tre shinobi che stavano mangiando reagirono armandosi dei
coltelli caduti tutt’intorno, ma contemporaneamente Chiharu e
Akeru
entrarono dalle finestre per assalirli alle spalle. Nella
concitazione Kotaro non riuscì mai a capire chi
tirò fuori la
carta-bomba, ma a un certo punto un’esplosione lo
scaraventò
contro una parete e gli fece sfondare il legno ormai vecchio,
piombando di schiena nella polvere. Tossì, rotolando sul
fianco, e
vide che anche i nemici erano rimasti coinvolti: uno giaceva privo di
sensi sui resti del tavolo rovesciato, gli altri si stavano
rialzando. Di Chiharu e Akeru, però, non c’era
alcuna traccia.
Soltanto piccoli sbuffi di fumo dove le loro copie erano scomparse.
«Già
a questo punto?» mormorò Kotaro distendendo le
labbra in un
sorriso. «Tre contro uno, eh!»
Alla
fine del sentiero che si inerpicava su per il costone di roccia
c’era
un piccolo spiazzo di poco più ampio. Quando l’eco
dell’esplosione
raggiunse lo shinobi dentro la grotta quello cacciò fuori la
testa
per vedere cosa fosse successo, e per poco non scivolò
giù dal
dirupo per la sorpresa. D’istinto si voltò a
guardare il
prigioniero nascosto tra le ombre, poi di nuovo la capanna,
finché
un ciottolo non gli rimbalzò sulla spalla facendogli alzare
lo
sguardo.
Sopra
il margine superiore dell’apertura, dove le assi di sostegno
si
incrociavano, incontrò lo sguardo sorpreso e un
po’ stizzito di
quella che aveva tutta l’apparenza di una kunoichi della
foglia
appena scivolata.
«Akeru!»
chiamò Chiharu, balzando giù non appena vide le
mani della guardia
correre alla cintura.
Lui
reagì in fretta, accanto a lei, e la coprì da una
pioggia di
shuriken intercettandoli con i propri. Lo shinobi della Roccia
lanciò
un’imprecazione di rabbia e intrecciò le dita in
un serie di
sigilli, ma Chiharu lo intrappolò nel controllo dell'ombra
prima che
la terminasse.
Akeru
saltò giù e si chinò di scatto per
evitare la fiammata della
trappola che aveva innescato. Con la coda dell'occhio si accorse che
tutt'attorno erano state sistemate pergamene-trappola più o
meno
mimetizzate. Si girò per avvisare Chiharu, ma in quel
momento lei
mosse un piede, lottando con i tentativi del nemico di liberarsi, e
ne innescò un'altra.
Ci
fu un'esplosione, e Chiharu fu sbalzata oltre il bordo del sentiero.
«No!»
gridò Akeru, scagliandosi avanti per prenderla.
La
afferrò per un braccio appena prima che si allontanasse dal
suo
raggio d'azione, e quando ricadde contro la parete sentì le
ossa
della spalla scricchiolare e i muscoli stirarsi dolorosamente.
Chiharu sbatté contro la roccia con un gemito soffocato,
svuotando i
polmoni in un colpo solo. Akeru vide con la coda dell’occhio
che il
nemico si rialzava, lo vide estrarre il kunai e avventarsi su di lui.
«Tieniti!»
gridò a Chiharu, mollandola di scatto, e si voltò
per parare il
colpo.
Chiharu
perse per un attimo la concentrazione e sentì il chakra che
non
aderiva alla roccia. Scivolò forse per un paio di metri,
lottando
per riprendere fiato e dimenticare il dolore alle costole, quindi
guardò su verso le sagome che spuntavano oltre il bordo,
impegnate
nel corpo a corpo. Ignorò i flash che andavano attenuandosi
davanti
agli occhi e si issò di nuovo fino al sentiero, ansante.
Lasciò
Akeru che ribaltava le posizioni con il ninja della Roccia,
spingendolo schiena per bloccargli entrambe le braccia, e piegata per
il dolore raggiunse la grotta.
La
luce del mattino illuminava solo un brevissimo tratto
dell’insenatura
di pietra. La maggior parte dell’angusto spazio era immerso
nell’oscurità e impregnato dell’odore
del muschio. In un angolo,
a terra, c’erano delle coperte dall’aria macilenta
e una sagoma
più scura.
«Loria?»
ansimò Chiharu, entrando con cautela.
La
sagoma nell’ombra si mosse impercettibilmente, ma non
parlò.
«Siamo
ninja di Konoha. Veniamo per conto di Suna» spiegò
lei,
avvicinandosi.
«...Vi
manda Gaara?» chiese finalmente una voce, arrochita e sottile.
«Sì.
Siamo qui per liberarti.»
Chiharu
si inginocchiò sulle coperte stese a terra e
sentì le rocce aguzze
sotto le rotule, mentre le sue costole lanciavano lamenti di dolore.
Cercò a tentoni le corde che tenevano Loria imprigionata e
le trovò
ai polsi e alle caviglie, non troppo strette ma nemmeno lente. Mentre
le sue mani si muovevano su quel corpo buio ne sentì il
gelo, la
magrezza, l’atrofia dei muscoli troppo a lungo fermi. Sciolse
i
nodi che la assicuravano e le chiese se riusciva a reggersi in piedi.
Loria provò ad alzarsi, ma con magri risultati. Chiharu la
aiutò a
farlo e iniziò a condurla verso l’uscita.
Non
avevano ancora messo piede nel cono di luce dell’ingresso che
le
raggiunse la voce di Akeru, un grido allarmato che
riecheggiò sulle
pareti umide: «Fuori!»
Un
istante dopo i bordi sfrangiati dell’apertura tremarono sotto
la
violenza di due esplosioni, e davanti agli occhi sgranati di Chiharu
una frana andò a coprire la loro unica via di fuga,
gettandole in un
buio impenetrabile.
Akeru
si affrettò a raggiungere l'ingresso crollato della grotta,
scavando
a mani nude tra i detriti che l'avevano chiusa. Aveva appena ridotto
all'impotenza lo shinobi con cui stava lottando, che quello gli aveva
sorriso e aveva sussurrato: «Bum.»
Allora aveva capito che
portare via Loria avrebbe innescato un'altra trappola, ma il suo
avvertimento era arrivato tardi.
L’acciottolio
dei sassi che cadevano si mescolò al suo respiro rapido e ai
pensieri che gli si accavallavano in testa. La frana era solo
esterna? O era crollato anche l’interno? Quanto era spesso lo
strato di roccia? Kotaro? Quanto ancora avrebbe tenuto duro? E
Chiharu... Chiharu, che in teoria lui odiava, che non avrebbe curato,
Chiharu che lo guardava con disprezzo e che lo aveva rifiutato senza
il minimo rimorso... Chiharu che forse non c’era
più, e lui
sperava soltanto di poterla curare, ora, perché non era vero
che la
odiava, perché non gli importava se l’aveva
rifiutato e lo
disprezzava, perché tanto era uno stupido, e non imparava
mai.
«Fatti
indietro...»
Akeru
si bloccò all’improvviso. La polvere gli
grattò la gola, acre.
Forse non aveva davvero sentito quel che gli sembrava di aver
sentito.
«Haru?»
chiamò incredulo.
«Fatti
indietro!» ripeté la voce attutita oltre le
pietre, ora più forte.
Akeru
si spostò lungo il sentiero, sentendosi improvvisamente
stupido.
Chiharu che c’era ancora, dopotutto, con la solita soluzione
pronta
e l’irritante senso di inferiorità che era in
grado di instillare
in chiunque. Chiharu che, in fin dei conti, odiava,
e che probabilmente non
avrebbe curato. Nonostante fosse incredibilmente sollevato di saperla
viva.
La
frana rimase immobile e muta per un lunghissimo istante. Poi i
ciottoli più piccoli, sulla sua superficie, vibrarono. I
frammenti
più grandi si unirono ai loro sussulti, scivolarono verso il
basso,
e furono seguiti dai massi più pesanti che rotolarono oltre
la
scarpata. Lo shinobi della Roccia fu travolto dalla caduta di uno
degli ultimi: scomparve oltre il bordo senza avere il tempo di fare
un lamento.
La
polvere si sollevò nell’aria, diradandosi quasi
subito. Akeru
aguzzò la vista per distinguere qualcosa tra le particelle
grigie e
vide una mano fare presa su un grosso masso.
«Chiharu!»
esclamò raggiungendola. «Tutto bene?»
«Uno
schifo» tossicchiò lei, issandosi fuori con gli
occhi arrossati e
le mani graffiate. «Ci è quasi caduto addosso, non
ti dico la
polvere... Si soffocava.»
Akeru
si sporse nel tratto aperto tra l’esterno e la grotta e
afferrò le
braccia pallide che si protendevano in cerca di aiuto. Tirare fuori
Loria richiese molta meno forza del previsto, dal momento che
sembrava fatta d’aria, ma quando il sole la accecò
e si accasciò
addosso a lui fu evidente che avrebbero dovuto portarla in spalla per
tutto il tempo. Akeru le gettò solo una veloce occhiata:
aveva tra
le braccia un fantasma dai capelli sbiaditi.
«Ci
sei?» chiese Chiharu starnutendo.
«Sì,
è fuori.»
Con
una specie di sospiro Chiharu allontanò la mano che fino a
quel
momento aveva tenuto premuta sulla roccia. Come lo ebbe fatto i sassi
che si mantenevano immobili al di sopra del passaggio precipitarono,
e la fenditura fu ricoperta. Non usava molto spesso il chakra
elementale, ma all’improvviso fu contenta che Naruto
l’avesse
tormentata perché imparasse qualche tecnica.
«Kotaro
ci aspetta» ricordò, cercando di liberare la gola
dalla polvere.
«Stai
bene?» le chiese Akeru, incapace di nascondere la
preoccupazione.
«Oh,
per favore!» ribatté lei infastidita.
«Per
favore
cosa?»
«Per
favore tutto!»
Stizzita,
Chiharu scavalcò Akeru e toccò terra nonostante
qualche difficoltà.
Stava
bene? Probabilmente no. Come dire, aveva la leggera impressione di
non essere molto abituata alle missioni in cui doveva faticare, e il
suo cuore stava iniziando a farglielo notare... Ma qualunque accenno
alla faccenda davanti a un ninja medico sarebbe stato un suicidio
professionale: aveva avuto a che fare con quella specie di creature
abbastanza a lungo per capire che non ragionavano come gli altri, che
facevano di ogni erba un fascio. Quindi, prima che Akeru potesse
ribattere, lo richiamò e fissò la scarpata che
scendeva a valle.
«E’
fattibile?» chiese, accennando a Loria che guardava
giù con gli
occhi sgranati.
«No»
troncò lui, teso. «Non con lei, si spezza al primo
urto.»
Chiharu
sfregò le dita sulla fronte e imprecò.
«Kakashi,
maledizione...» mugugnò.
«Che?»
replicò Akeru.
Chiharu
sbuffò e sfilò dal marsupio un piccolo involto di
carta di riso.
«Ricordi
il mio famoso antidolorifico di cinque anni fa?»
spiegò,
estraendone una pillola verdastra del diametro di un centimetro.
«Quello che poi era una droga?»
«Lophenaria?
Quello che ti ha quasi fatto ammazzare?»
«Che
ci ha salvato» puntualizzò lei. «Mio
nonno e i suoi hanno studiato
quella roba, questo è il risultato. E’ simile alle
pillole degli
Akimichi, o a quelle degli Inuzuka per i loro cani. Uno schifo,
insomma. Ma ci porterà tutti a casa.»
Akeru
la fissò confuso.
«Aspetta.
Stai per prendere una pasticca di... droga?»
esclamò poi, quasi
strozzandosi.
«Appositamente
trattata» minimizzò lei, cacciandosela in bocca.
«E comunque non
potrei fare altrimenti: è il nostro famoso cavallo
segreto»
aggiunse dopo un istante. E dentro di lei un pizzico di orgoglio si
mescolò al dubbio: perché Kakashi le aveva sempre
proibito di
evocare quelle bestie, eppure ora lo aveva suggerito
esplicitamente...
«Ma
porca di quella...» imprecò Akeru, tentato di
spingerla giù dalla
scarpata. «Tra te e tuo nonno non so chi sia più
deficiente!»
«Ehi»
lo rimproverò Chiharu, guardandolo male. «E' di
mio nonno che stai
parlando, maleducato.»
Con
una smorfia si morse il pollice.
Kotaro
sentiva le fibre dei muscoli che tremavano per la fatica mentre
atterrava un ninja della Roccia crollandogli addosso. Si strinse al
nemico per impedirgli di coprirlo di pugni, gli prese la testa tra le
mani e la sbatté a terra violentemente. Sentì un
kunai contro la
schiena appena in tempo per deviarlo rotolando, e con un calcio
tentò
di far cadere lo shinobi che lo aveva attaccato.
«Come
puoi avere ancora fiato?» gridò quello finendo in
ginocchio.
Kotaro
si rialzò e si asciugò la bocca con il dorso
della mano. «Non lo
spreco a lamentarmi» borbottò, stordendolo con un
calcio.
Si
guardò intorno ansimando. Un uomo giaceva poco distante, gli
ultimi
due a pochi passi; lo shinobi riverso sul tavolo non si era mai
ripreso. Kotaro pensò che suo padre sarebbe stato fiero di
lui, e al
pensiero un sorriso gli distese i muscoli del volto. Ma insieme a
quelli cedettero anche i muscoli delle gambe, e senza volerlo si
trovò a terra con gli arti tremanti e un brutto senso di
nausea.
Sperando che la vista del cielo lo avrebbe aiutato a non svenire
annaspò per girarsi sulla schiena, ma vide soltanto le
nuvole
vorticare sopra la sua testa. Oh, sapeva che era colpa sua; sapeva
che tre contro uno e due porte del chakra potevano essere
un’idea
stupida... Ma era figlio di Rock Lee e discepolo di Naruto, non
poteva fare nulla di diverso.
E
fu così, mentre la vista gli si annebbiava, che il suo campo
visivo
fu invaso da una fiammata intensa e accecante, rossa come il fuoco.
Due punti neri densi di intelligenza si pararono su di lui prima che
iniziasse a cadere nell’oblio.
In
quel modo, tra gli artigli di un uccello scarlatto e arancio, alla
fine perse conoscenza.
Tra
le ali del volatile Chiharu si aggrappava con forza alle penne della
schiena. Si sporse verso i resti della baracca che si allontanavano
mano a mano che risalivano.
«Ce
l’abbiamo?» chiese sovrastando il fischio del
vento, e prima che
Akeru potesse sporgersi e rispondere fu preceduto dal richiamo acuto
del loro cavallo,
un enorme uccello rosso screziato d’arancio e porpora.
Irrigiditosi, l’Anbu lo fissò con disappunto,
quasi offeso.
«Lei
sta bene?» chiese ancora Chiharu, voltandosi a malapena per
gettare
un’occhiata a Loria; la vide che si stringeva con tutte le
poche
forze alle penne scarlatte che frusciavano tutt’attorno, e
vide
Akeru che teneva una mano a coprirla nel caso in cui il vento
l’avesse sbalzata via. Era un idiota, ma come medico
dimostrava un
po’ di buonsenso. E d’altronde, lei per prima aveva
qualche serio
problema con la cavalcatura.
«Tu
come stai?» replicò Akeru scrutandola con aria di
rimprovero;
sembrava che non le avrebbe mai perdonato quella pasticca.
Lei
finse di non sentire e si voltò. Si sforzò con
tutta se stessa di
sembrare calma e perfettamente in salute, anche se no, non stava
bene, e non sarebbe stata meglio a breve. Nonostante la Lophenaria
di Shikaku sentiva lo stomaco contratto e la testa pesante, ma
soprattutto sentiva un peso in mezzo al petto. Un peso che conosceva,
e che avrebbe dovuto ignorare fino all’atterraggio.
Quasi
ad ammonirla, l’uccello sotto di lei tese i muscoli della
schiena
in maniera innaturale, e Chiharu, in risposta, si piegò sul
suo
collo così da non intralciarne la forma.
Il
viaggio di ritorno sarebbe durato quindici lunghe ore.
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Capitolo 20 *** Ombre dal passato ***
Penne 20
Capitolo
ventesimo
Ombre
dal passato
Erano
almeno dieci anni che Jiraya non metteva piede nell’Archivio
Segreto della Foglia: scaffali e scaffali di documenti si inseguivano
attraverso un grande stanzone spoglio rigurgitando fogli e reperti.
Al di sopra del legno e del metallo alte pile di carta ingiallivano e
subivano l’usura del tempo, illuminate in maniera irregolare
dal
fascio di luce di una torcia.
Scrutando
la polvere che impregnava l’aria Jiraya sbadigliò
e si grattò la
nuca. Se anni prima non avesse fatto un duplicato delle chiavi
dell’archivio, in quel momento si sarebbe trovato
già a letto;
purtroppo quel duplicato lo aveva fatto, e così facendo
aveva
rinunciato a ore di sonno e sogni poco casti.
Bighellonando
tra le file di documenti, sbuffò come un cavallo ricordando
i
progetti per un libro che gli frullava in testa e non aveva a che
fare con la serie della Pomiciata:
“I
segreti della rupe degli Hokage”.
All’inizio aveva pensato a una storia contro corrente,
l’amore
illecito tra due Anbu nel mezzo di una difficile missione di
salvataggio, poi aveva scoperto che lo yaoi lo turbava e si era
orientato sulla storia di una giovane e procace Hokage che seduce il
suo segretario. Purtroppo una vicenda simile esisteva davvero negli
annali di Konoha – sebbene riguardasse una kunoichi della
squadra
medica – e se voleva evitare la censura e scrivere
un’opera
davvero originale aveva bisogno di conoscere la vicenda nel
dettaglio. Ovviamente fare richiesta esplicita era fuori discussione
– il nome di quella donna era stato relegato
nell’angolino delle
personalità sgradite, a nessuno piaceva l’idea che
qualcuno lo
spolverasse – ma uno scrittore serio non si lascia fermare da
sciocchezze simili: poco prima dell’alba, dunque, si era
infiltrato
nel palazzo dell’Hokage e aveva dato il via
all’incursione.
A
rigor di logica i documenti risalenti alla vicenda dovevano trovarsi
nella zona più lontana, quella riservata al materiale
segreto.
Attraversò lo stanzone per tutta la lunghezza, ignorando
anni e anni
di storia e tradizione, e raggiunse un archivio che sembrava
scoppiare di materiale; Konoha aveva molti scheletri
nell’armadio,
pareva.
Jiraya
aprì il primo cassetto fischiettando. Spulciò
qualche foglio, captò
qualche ordine di omicidio, un paio di irregolarità del
terzo
Hokage, verbali delle sedute segrete del Consiglio... Cose che, nella
maggior parte dei casi, conosceva o immaginava. Richiuse il cassetto
– troppo serio per contenere scandali sessuali – e
aprì quello
accanto. Era forse l’unico angolo ordinato
dell’archivio, scoprì
con stupore: pieno di pergamene arrotolate e con qualche sigillo
gettato alla rinfusa, conservava ancora una certa dignità.
Incuriosito, Jiraya prese un rotolo e lo aprì; si trattava
di un
antico trattato con le altre grandi Terre, all’epoca della
fondazione: stabiliva confini e diritti, ma, a quanto pareva, non era
stato molto rispettato. Lo rimise via, dando un’occhiata a un
medaglione di legno consunto e bruciacchiato – probabilmente
un
sigillo contro il fuoco che non aveva resistito alle vicende di
Kyuubi – quindi adocchiò una pergamena che
sembrava nuova, e
aprendola scoprì con stupore che conteneva le istruzioni per
il
Rasenshuriken. Si chiese come, quando o perché Naruto
l’avesse
fatta – chi lo avesse aiutato, più che altro
– e fu tentato di
sbirciarla più a fondo...Ma si ricordò che era
vecchio. Troppo
vecchio per cose come nuove tecniche. Rimise giù il foglio
con un
sospiro e un pensiero per Tsunade. Si disse che forse tanto impegno
era vano, per un libro che non sapeva nemmeno se avrebbe finito...
Poi sorrise.
Vecchio
sì; morto non ancora.
Prima
di richiudere il cassetto e tornare alle sue ricerche si concesse un
ultimo istante di curiosità: afferrò la pergamena
più usurata,
forse perché gli sembrava che avessero qualcosa in comune, e
ne
sciolse con delicatezza i sigilli; la aprì, scrutandola con
sguardo
gentile, e ne riconobbe le caratteristiche. Si accigliò
impercettibilmente, poi si stupì, infine corse lungo la
carta con lo
sguardo... Quando arrivò in fondo, sgranò gli
occhi.
Il
penultimo di una breve lista di nomi era quello di Chiharu Nara.
Le
notti di Konoha erano ancora fresche, nonostante fosse ormai pieno
maggio. Le finestre delle case erano serrate e buie, la luna faceva
capolino dietro una nube biancastra e c’era una brezza
leggera
nell’aria, un venticello già tiepido che spirava
da ovest e sapeva
di sabbia.
Sasuke
era ancora nel suo studio nonostante l’orologio segnasse
quasi
mezzanotte. Come sempre il lavoro si protraeva fino a tardi,
generalmente fino al momento in cui era certo che Sakura dormisse. I
fogli sulla scrivania lo guardavano con rimprovero, ci avrebbe
giurato. Soffocò uno sbadiglio e inconsciamente si
massaggiò il
collo nel punto in cui il Sigillo di Orochimaru formicolava. Cercava
di non pensarci, ma era inevitabile che accadesse. Ogni tanto si
chiedeva ‘cosa sto facendo?’. Si guardava allo
specchio e si
riconosceva colpevole, ma distoglieva lo sguardo prima che le ferite
lasciassero il segno.
Firmò
annoiato l’ennesima relazione sui confini, dove, tra
l’altro, non
succedeva niente di interessante per la polizia. Tese la mano verso
il secondo plico della serata, pronto a continuare fino a che le
palpebre non fossero crollate sugli occhi, quando qualcuno
bussò
alla porta.
Sasuke
si bloccò. Guardò l’orologio,
verificò che effettivamente era
mezzanotte, e poi, perplesso, diede il permesso di entrare.
«Chiedo
scusa» annunciò uno dei ragazzi che stavano al
piano di sotto,
lottando per non sbadigliargli in faccia. «Pare che ci sia
una
grossa, grossa emergenza.»
Sasuke
drizzò la schiena. Il ragazzo si fece da parte con
espressione
vagamente annoiata, lasciando passare un vecchio dal naso rubizzo e
la camminata sbilenca.
«Chi
è lei?» chiese Sasuke.
«Piano
con le parole, sbarbato» bofonchiò quello in
risposta, studiandolo
con uno sguardo particolarmente acido. «E’ questo
il modo di
trattare un cittadino che paga regolarmente le tasse?»
Sasuke
sbatté le palpebre e fece un cenno al ragazzo, che lo
lasciò per
tornare a sonnecchiare sulla sua sedia. A quel punto
assottigliò gli
occhi e fissò attentamente il vecchio prima di parlare.
«Che
diavolo vuoi, Naruto?»
L’uomo
sussultò impercettibilmente; con lo sguardo di un animale
braccato
si avvicinò alla sedia e ci si sedette, lentamente, senza
fretta.
Scrutò il capo della polizia di Konoha - il giovane e
affascinante
Uchiha per cui tutte avrebbero venduto la nonna se solo non fosse
stato sposato - infine sbuffò sonoramente.
«Come
mi hai riconosciuto, teme?»
disse tornando alla sua forma normale con un pop
attutito: i capelli biondi sembrarono esplodere sulla pelata del
vecchio, i lineamenti tornarono giovani all’improvviso, gli
abiti
cambiarono in un esplosione di arancio.
«Dopo
trent’anni che mi giri attorno?» replicò
Sasuke stizzito. «Ormai
ti riconosco dall’odore» Senza farsi notare Naruto
si annusò
discretamente. Sapeva di ramen. «Per non parlare del mio
sharingan,
idiota. Cosa vuoi a quest’ora?»
«A
quest’ora? Sarei arrivato anche prima del tramonto, se i tuoi
uomini non si rifiutassero categoricamente di farmi passare!»
Sasuke
fece mente locale. Qualche mese prima, in effetti, dato che Naruto
aveva preso l’irritante abitudine di passarlo a trovare ogni
volta
che aveva un attimo libero, forse aveva dato un ordine che suonava
molto come: ‘voglio
Naruto Uzumaki fuori dai piedi. Ad ogni costo’.
Ecco perché il dipartimento era così tranquillo,
ultimamente.
«Comunque
lo sai perché sono qui» riprese Naruto, dopo aver
aspettato invano
delle scuse.
Sasuke
lo fissò vacuo. «Francamente no.»
«Sì
che lo sai!» Naruto scattò in piedi e premette le
mani sulla
scrivania, indeciso se infuriarsi con l’idiozia di Sasuke o
con la
propria cocciutaggine. «Tu e Sakura! Sakura e te!»
Sulla
fronte di Sasuke si disegnò una piccola ruga.
«Hai
parlato con Sakura?» indagò.
«Sì!»
«Allora
perché sei qui?»
«Perché...
Perché...»
«Perché
lei non
ha parlato» con un mezzo sospiro, Sasuke abbassò
lo sguardo sui
suoi fogli, rilassandosi impercettibilmente. «Cosa ti fa
pensare che
io invece lo farò?»
Naruto
si lasciò cadere di nuovo sulla sedia.
«Stronzo.»
L’Uchiha
gli rivolse a malapena un’occhiata sdegnosa.
«Comunque
non sono qui solo
per questo!» riprese l’Uzumaki dopo un attimo.
«Sono qui perché
ho anche un’importante informazione da darti in quanto Hokage
della
Foglia.»
«Io
o tu?»
«Io
o tu cosa?»
«Io
o tu Hokage?»
Un
muscolo guizzò d’irritazione sulla guancia di
Naruto, mentre
Sasuke lo fissava di sottecchi.
«Che
hai da ghignare, eh?» ringhiò Naruto. «Io
Hokage, ovviamente. Tu mi assisti, ti ricordo. Mi
assisti!»
Sasuke
sbuffò sfogliando distrattamente i documenti sulla
scrivania.
«Allora, che vuoi?»
Naruto
strinse gli occhi, vicino all’esasperazione.
«Avvisarti che tuo
figlio sta tornando a casa.»
Sasuke
alzò la testa bruscamente. «Hitoshi?»
«Hai
altri figli in missione?»
«Di
che diavolo stai parlando?»
Naruto
sbuffò. «Le solite emicranie... Ci è
arrivato un messaggio di
Chiharu in cui chiedeva di sostituirlo. Pare che non ce la
facesse.»
«In
che senso non ce la faceva?» insisté Sasuke.
«Ci
vedeva doppio, barcollava, magari piangeva, che ne so? Mi fido del
giudizio di Chiharu, e conoscendo Hitoshi doveva stare davvero male
per non opporsi.»
Sasuke
abbassò lo sguardo, colto alla sprovvista. Hitoshi rientrava
dalla
missione, rispedito a casa perché incapace di portarla a
termine.
Hitoshi, che non aveva lo sharingan, era anche il primo Uchiha che
veniva rimandato indietro. Un fallimento completo.
«Maledizione...»
mormorò, passandosi una mano sulla fronte.
«Ehi»
mormorò Naruto, scrutandolo torvo. «Sei arrabbiato
per quale
motivo, precisamente?»
Sasuke
gli gettò un’occhiata rapida e cupa.
«Sei
arrabbiato perché torna a casa o perché sta
male?» insisté
Naruto, implacabile.
«Non
sono fatti tuoi.»
«Sì
che lo sono: Hitoshi è uno dei miei ragazzi, e tu... tu sei
sempre
tu.»
Scese
il silenzio.
Sasuke
si passò le mani sul viso, di nuovo, interrogandosi a fondo.
Poi
sbuffò e si lasciò andare contro lo schienale
della sedia
imbottita. «Quando arriva?»
«Non
lo so. Sakura ha detto che si terrà sempre pronta.»
Quindi
non c’era speranza di vederla addormentata.
«Va
bene. Grazie per avermelo detto. Puoi andare, Naruto.»
Naruto
sbuffò, alzandosi di malavoglia dalla sedia.
«Guarda
che Hitoshi è più scemo di te, lo sai?»
borbottò sottovoce.
«Attento a quello che combini...»
Sasuke
non sentì nemmeno il rumore della porta che si chiudeva.
Quando
appoggiò i gomiti alla scrivania e si prese la testa tra le
mani il
vero significato delle parole di Naruto andò a riempirgli i
timpani
come un avvertimento, serrandogli il cuore in una morsa
d’acciaio.
Hitoshi
è più fragile di quanto fossi tu alla sua
età... Ancora più
fragile di quel ragazzo che voleva morire perché non aveva
uno
scopo.
E
il sigillo maledetto bruciava, bruciava, bruciava...
Naruto
rientrò a casa borbottando imprecazioni tra i denti. Hinata,
che
sapeva da dove veniva, scese dal letto per chiedergli com’era
andata con Sasuke, ma già al primo sguardo intuì
che non sarebbe
stata una domanda saggia.
«Con
i genitori che si ritrova, ci credo che Hitoshi è venuto
fuori così
storto!» sbottò lui infatti, gettando la casacca
in un angolo del
pavimento.
«Almeno
sei riuscito a incontrarlo, finalmente» tentò di
mediare lei.
«Avrei
fatto meno fatica e avrei ottenuto di più se avessi
organizzato un
incontro diplomatico con il Daimyo della Roccia!»
«Ha
reagito così male?»
Naruto
sbuffò e si lasciò cadere seduto sul letto.
«Non ho cavato un
ragno dal buco. Hitoshi sta rientrando e il suo ego sarà a
pezzi, ma
quell’idiota di suo padre è lì che
rimugina su quanto Fugaku
dovrà lavorare per cancellare l’onta
sull’onore di famiglia!»
«Questo
mi sembra eccessivo...»
«Ah,
scommetto che è proprio quello che gli passa per la testa,
invece!»
«Naruto,
così svegli i ragazzi.»
Naruto
incassò la testa tra le spalle mentre Hinata gli si sedeva
accanto.
«E poi... c’è un’altra
cosa» mormorò giocherellando con le
mani. «Tra Sakura e Sasuke sta succedendo qualcosa. Non so
che cosa
e nessuno di loro vuole parlarne, ma sento che qualcosa non va.
Insomma, noi siamo il gruppo sette... In questi casi dovrei essere io
a rimettere a posto le cose tra loro, no?»
«Forse
tu sei l’unico a pensare di essere ancora in tre»
suggerì Hinata
sottovoce. «Intendo... Sono passati molti anni Naruto: Sakura
e
Sasuke non sono più compagni, ma una famiglia. E anche tu
hai una
tua famiglia, ora.»
Naruto
avvertì una leggera nota di rimprovero, ma non
alzò lo sguardo.
Hinata non avrebbe mai potuto capire cosa aveva rappresentato per lui
il gruppo sette, perché era cresciuta circondata da una
famiglia;
opprimente, asfissiante, ma sempre una famiglia. Naruto invece aveva
passato quasi metà della sua vita ad aggrapparsi
spasmodicamente a
Sasuke e Sakura, e adesso che si vedeva escluso dai loro problemi si
sentiva di nuovo come quando aveva otto anni. Sospirò,
passandosi
una mano tra i capelli.
«Sai
che per me anche Hitoshi, Chiharu e Kotaro fanno parte della
famiglia» disse. «Se Sasuke mi devasta Hitoshi ho
il dovere morale
di prenderlo a cazzotti.»
Hinata
sorrise e fece scivolare una mano sulle sue. «Oppure puoi
concentrarti su Hitoshi e dimostrare a Sasuke che vale molto
più di
quel che pensa.»
«Alzare
l’autostima a un Uchiha? E’ più facile
che Jiraya si faccia
monaco!»
«Se
c’è qualcuno che può farlo, quella
persona sei tu.»
Naruto
aprì la bocca per ribattere, ma si bloccò:
c’era del buon senso
nelle parole di Hinata... Non era possibile convincere Sasuke che una
persona valesse qualcosa anche senza uno straccio di tecnica oculare,
ma era possibile – forse – fare
qualcosa per Hitoshi. Il
ragazzo non era vecchio e cocciuto come il padre.
«In
effetti qualcosa potrei provare a farla...»
mormorò meditabondo.
«Certo, ammesso che Hitoshi non sia moribondo come dice
Chiharu.»
Hinata
si fece indietro sorridendo, e lo lasciò a rimuginare sul
bordo del
letto. Magari avrebbe passato la notte a dormire male e sentire il
materasso che si muoveva, ma il giorno dopo Naruto l’avrebbe
svegliata annunciandole di avere un infallibile piano di battaglia,
ne era certa. Era anche per questo che lo amava. Con delicatezza,
dunque, gli sfiorò la spalla gentilmente e
scivolò silenziosa sulla
sua parte di materasso.
*
Jin
aveva la chiara percezione che le cose non stavano andando nel modo
giusto.
Il
viaggio di ritorno con sua madre - madre, che
parola strana e
potente sulle sue labbra! - sarebbe dovuto essere pieno di discorsi,
aneddoti sul passato, momenti di imbarazzato affetto e,
perché no,
di intimità tra Kakashi e Haruka. Invece non stava accadendo
nulla
di tutto ciò. Anzi, viaggiare con i suoi genitori finalmente
riuniti
aveva la pesantezza di una scorta militare, forse peggio.
Per
tutto il giorno e la notte precedente avevano costeggiato il percorso
secondario individuato da Kakashi, restando nascosti nel bosco.
Camminare si era rivelato difficile come aveva previsto Haruka,
perché tutto il terreno libero dagli alberi era invaso da
cespugli,
erbacce e arbusti spinosi, quindi avevano impiegato più
tempo di
quanto immaginassero. Poco dopo mezzogiorno erano stati costretti a
fermarsi nel mezzo del nulla, ricavando scomodi giacigli dalle
contorsioni per stendersi tra un albero e l’altro. Kakashi
aveva
fatto il primo turno di guardia e Jin il secondo, ma Haruka non ne
era stata felice: sembrava offesa da una mancanza di fiducia
così
plateale. Jin pensò che fosse per quello che non gli dava
più
confidenza, dopo l’accenno di discorso del giorno prima.
Al
risveglio erano stati meno cauti e nelle ore buie avevano
approfittato del sentiero. Si erano dovuti nascondere un paio di
volte grazie alle provvidenziali segnalazioni di un cane mandato in
avanscoperta, ma non c’erano stati incidenti. Solo una volta
avevano davvero temuto, e cioè quando per poco non erano
stati
sorpresi da un cavaliere che veniva galoppando dalle loro spalle. Era
passato proprio davanti ai loro nascondigli nel sottobosco, e avevano
potuto vedere che indossava la divisa dei mercenari.
«Il
corriere con le nostre descrizioni» disse Haruka.
Dopo
il passaggio dell’uomo a cavallo avevano cercato un luogo
più
riparato per riposare e si erano sistemati sul fondo di una piccola
scarpata franata di recente, libera da rovi e tronchi. Lo spazio era
a malapena sufficiente per far dormire due persone, ma di nuovo
Kakashi stabilì due turni di guardia e risolse il problema.
Per
trovarsene subito di fronte un altro.
«E’
un’idiozia» sbottò Haruka.
«Abbiamo tutti bisogno di dormire, se
faccio un turno anche io guadagniamo ore di sonno.»
«No»
rispose Kakashi, e Jin riconobbe il tono di comando che di solito
aveva il potere di farlo ammutolire. Evidentemente non aveva lo
stesso effetto su tutti, perché Haruka invece non si
zittì.
«Perché
dovrei tradirvi adesso?» ribatté. «Tanto
valeva consegnarvi al
capo dei mercenari quando eravamo ancora nel palazzo!»
Obiezione
sensata, tono secco privo di esitazioni, sguardo puntato su di lui.
Tutto lasciava intendere che Haruka fosse sincera, ma tredici anni di
finta morte non si dimenticano in due giorni.
«Ho
fatto giurare a Jin di obbedirmi ciecamente finché non
fossimo
tornati a Konoha, tu non avrai un trattamento diverso»
replicò
Kakashi estraendo dallo zaino l’ultima confezione di stufato
in
scatola. «Non mi metterò a interrogarti mentre
siamo in territorio
nemico, ma non chiedermi più di questo. Conosci
l'alternativa. Più
tardi dovremo trovare qualcosa da mangiare»
annunciò per chiudere
la discussione, mostrando la lattina di zuppa.
Haruka
non disse nulla, ma si sedette rigidamente a terra e si
passò una
mano tra i capelli con gesto frustrato. Doveva parlare a Kakashi: non
potevano andare avanti così, se speravano di arrivare vivi a
Konoha.
Dovevano collaborare, dovevano fidarsi l’uno
dell’altro. Lui
doveva fidarsi di lei.
Mangiarono
lo stufato freddo e bevvero con parsimonia dalle borracce. Jin era
incaricato del primo turno di guardia. Dopo mangiato
controllò i
kunai e gli shuriken, si infilò in tasca un paio di carta
bombe e
poi risalì la scarpata per trovare un punto
d’osservazione.
Kakashi
e Haruka si sistemarono sui giacigli di foglie che avevano creato in
fondo al dislivello. Dal terreno saliva la fredda umidità
del
sottobosco e un odore non sgradevole di muschio e humus. La foresta
attorno a loro brulicava di crepitii e sussurri, il cielo era
oscurato dalle fronde che li avvolgevano come una cupola. I due
shinobi posavano la testa sugli zaini, Haruka su quello di Jin; se si
concentrava poteva immaginare di sentire sotto l’orecchio il
fruscio della fotografia che lui aveva conservato per tutti quegli
anni.
Cosa
sapeva Jin di lei? Cosa gli era stato detto? Aveva colto un accenno a
Natsumi, la sorella che aveva lasciato bambina e ora ritrovava donna,
ma cosa poteva aver raccontato? E Kakashi? Aveva permesso che tutti
la credessero in missione nel Paese delle Risaie, ma a Jin cosa aveva
detto? Non poteva rischiare di comunicare di nuovo con il ragazzino
senza saperlo.
«Kakashi,
ho bisogno di parlarti» sussurrò contro lo zaino,
tendendo poi le
orecchie per captare i movimenti di Jin.
«Penso
sia più saggio varcare il confine prima di farlo»
rispose Kakashi
con voce a malapena udibile. Il suo tono era distaccato.
Haruka
ignorò la sua obiezione. «Cosa hai raccontato di
me a Jin?»
Silenzio.
Non
gli aveva raccontato niente, questa era la triste verità.
Aveva
fatto tutto Natsumi, peraltro contro il suo volere.
«Ho
raccontato quello che tutti sapevano» rispose vago.
«Che eri in
missione nel Pese delle Risaie.»
«Prima,
intendo. Si ricorda del periodo in cui non eravate insieme?»
«Credo
di no...» la voce di Kakashi si fece esitante. Avrebbe voluto
essere
duro e troncare il discorso, ma la sensazione di essere nel giusto
che lo aveva riempito fino a poco prima era venuta improvvisamente a
mancare. «Sa di non essere nato a Konoha, perché
il Villaggio
mormora, ma non gli ho mai chiesto se ricordasse qualcosa di
prima.»
«Gli
hai detto di quell’uomo? Del mio messaggio, del...»
«Come
avrei potuto?» scattò Kakashi. «Avevo
solo un biglietto con un
nome sconosciuto, una tomba che poteva anche essere falsa e un
bambino spuntato dal nulla. Come gli avrei spiegato che non ero
nemmeno sicuro che fosse mio figlio? O tuo, se per questo...»
«Cos’altro
avrei dovuto fare?»
Kakashi
fece un movimento brusco. «Tornare! Spiegare, spiegarmi...
Tsunade ti credeva una traditrice» sussurrò
rabbioso. «Anche io ho
iniziato a crederlo a un certo punto: ti sei rifatta viva soltanto
per lasciarmi Jin e farmi trovare un'altra tomba, dimmi cosa avrei
dovuto pensare!»
Haruka
tacque. Sarebbe stato semplice dire che era convinta di lavorare per
la Foglia, che era sicura che lui lo avesse saputo una volta
diventato Hokage... Ma l’ignoranza non era una scusa. Non per
Kakashi, glielo aveva fatto capire chiaramente in quel tunnel.
«Sai
che ho fatto quel che ho potuto» mormorò, lo
stomaco stretto dal
rimorso. «Tu non hai avuto mie notizie per dodici anni, ma io
non ho
visto crescere mio figlio.»
Questa
volta fu Kakashi a rimanere senza una risposta. Riconobbe che era
vero: sapeva come funzionavano le missioni sotto copertura e
immaginava che la Radice non fosse stata entusiasta della gravidanza
di Haruka. Jin sarebbe potuto semplicemente scomparire nel nulla se
lei avesse chiesto ai suoi superiori di metterla in contatto con lui.
«Non
ti è venuto nessun dubbio quando non hanno interrotto la
missione,
sapendoti incinta?» domandò, troppo arrabbiato per
darle
comprensione.
Haruka
serrò le labbra e rispose dopo una pausa. «Non lo
sapevano.»
«Non
è possibile.»
«Sì
che è possibile. Non volevo che lo sapessero. Sarebbe
stato...
sarebbe stato disonorevole tornare a casa dopo
pochi mesi. La
mia famiglia non mi ha educata così. Noi abbiamo sempre
messo la
missione al primo posto.»
Kakashi
ricordò la storia dei Muto e di come si erano infiltrati
all'estero
in blocco, trasformandosi tutti in spie di Konoha.
«Ma
non si può nascondere una gravidanza»
protestò, incapace di
comprendere il suo ragionamento.
«Nascondere
una gravidanza è abbastanza semplice, in realtà.
Incontri in luoghi
oscuri, mantelli ampi... Nascondere un bambino è molto
più
complicato. Quando Jin è nato ho capito che non avrei potuto
tenerlo» Haruka si interruppe per un attimo, quasi esitante.
«Speravo che avresti capito. La missione, il mio compito...
Credevo
che la Radice fosse un organo autorizzato, che il Quinto Hokage,
vedendoti tornare con Jin, ti avrebbe spiegato dov'ero e
perché. Non
vedendo arrivare risposte ho pensato che avessi capito, che mi stessi
approvando.»
Kakashi
si morse la lingua per non ribattere. Avrebbe voluto gridarle che non
poteva davvero aspettarsi comprensivo silenzio da
un uomo che
si era appena visto recapitare un figlio di un anno, ma si costrinse
a tacere perché non avrebbe saputo controllarsi.
«Naturalmente
i miei superiori nella Radice mi hanno chiesto di Jin, quando sei
tornato al Villaggio con lui» riprese Haruka in tono
sbrigativo.
«Adesso capisco che temevano che ti avessi contattato, ma
all'epoca
la mia unica preoccupazione era che non mi rimandassero a Konoha.
Così mi sono mostrata stupefatta ma comprensiva, gli ho
raccontato
che per la mia missione era un sacrificio sopportabile e sono andata
avanti. Non avevano nulla che collegasse Jin a me, e anche se
avessero sospettato... Beh, pensavo che avrebbero apprezzato il mio
sacrificio in nome della missione. Non avrei mai immaginato che
avrebbero cercato di uccidermi, a un certo punto.»
Kakashi
serrò i pugni. C'era qualcosa di distorto nel modo di
pensare di
Haruka, qualcosa che Tsunade aveva cercato di eradicare da Konoha
vent'anni prima: il mondo in cui vivevano non poteva essere
così
oscuro e perverso. Erano shinobi, vero, ma non per questo dovevano
rinunciare alla loro umanità. Non erano, non dovevano essere
soltanto strumenti nelle mani del potere. Il mondo buio in cui viveva
Haruka era quello che Danzo aveva sognato di creare per il suo
esercito personale, lo stesso mondo in cui Sai era cresciuto e che
Tsunade aveva combattuto ferocemente. Ma lui non era riuscito a
tirarne fuori Haruka, anche se lo aveva creduto: lei continuava a
strisciare tra le ombre, e con lei chissà quanti altri,
corrotti
dalla filosofia distorta della Radice.
«Avresti
dovuto sapere di Danzo» disse, quasi arrabbiato.
«Non avresti
dovuto essere così ingenua...»
«Ti
ho detto che...»
«Avresti
dovuto parlarmene!» esclamò, incurante
del volume della voce.
«Se mi avessi detto una parola, soltanto una parola non
sarebbe
successo niente di tutto questo! Non ti avrei vista morire, non
saresti sparita per tredici anni, non avrei dovuto trascinare Jin in
territorio nemico per venire a riprenderti!»
«Infatti
non avresti dovuto!» sbottò Haruka, che credeva di
avere buone
giustificazioni ed era stufa di passare per l'unica stupida.
«Tu
non sai niente di Jin!» ribatté Kakashi.
«Non lo conosci, non sai
del suo diploma a sette anni né del livello delle sue
missioni! Non
sai quanto io abbia provato a tenerlo fuori da questa storia!»
«Diploma
a sette anni?»
Kakashi
si passò una mano sulla fronte e costrinse il suo cuore a
rallentare. Avevano alzato troppo i toni; così rischiavano
di farsi
sentire non solo da Jin, ma da chiunque nel raggio di qualche
centinaio di metri.
«Io
ho cresciuto Jin» mormorò con voce roca.
«L’ho cresciuto senza
nemmeno sapere se fosse davvero figlio mio, e l’ho cresciuto
da
solo, credendoti morta eroicamente e non rintanata nella peggior
feccia di Konoha. Non pensare di poter sindacare sulle mie scelte
solo perché pensavi che stessimo
seguendo la sua crescita
insieme!»
«E
tu non pensare di potermi escludere dalla sua vita perché
non sono
riuscita a seguirlo» rispose Haruka ferita, tagliente.
«Che ti
piaccia o no, resto sempre sua madre.»
Le
due voci si acquietarono, ritirandosi nei propri pensieri accusatori.
Poche
parole in dieci anni, troppe in dieci minuti. Nessuno dei due
intendeva davvero quel che aveva detto, ma parlarne in territorio
ostile, stanchi e inseguiti non fu l’idea migliore di quella
missione.
Senza
che Haruka né Kakashi se ne accorgessero, Jin si
acquattò in cima
alla scarpata e premette la guancia contro uno strato di muschio
freddo. Sentiva il cuore battere in gola, il sangue ronzare nelle
orecchie.
Come
gli avrei spiegato che non ero nemmeno sicuro che fosse mio figlio? O
tuo, se per questo... Tsunade ti credeva una traditrice. Anche io ho
iniziato a crederlo a un certo punto: ti sei rifatta viva soltanto
per lasciarmi Jin e farmi trovare un'altra tomba, dimmi cosa avrei
dovuto pensare!
Jin
sarebbe stato molto maturo anche se avesse avuto trent’anni.
Capiva
che nella vita c’erano cose che una volta fatte o dette non
si
potevano ritirare. Capiva che non sarebbero bastate le scuse di
Haruka né che Kakashi ritirasse le sue accuse
perché le cose
magicamente si sistemassero. Capiva tutto questo, ogni singola e
minuscola implicazione, capiva che nessuno aveva ragione e che
entrambi erano feriti e non sapevano come comportarsi. Lo capiva
benissimo, sì.
Ma
i suoi dodici anni, dal fondo dello stomaco, gridavano con tutta la
loro forza che sua madre era tornata, e che suo padre, anche se era
suo padre, non aveva alcun diritto di trattarla in quel modo.
Perché
lui l’aveva sognata, per giorni, mesi e anni,
l’aveva immaginata
e idealizzata, e ora non era possibile che quel padre che non
l’aveva
mai trovata, che non gli aveva mai parlato di lei, che non era
nemmeno mai stato sicuro di essere davvero suo padre,
non era
possibile che quel padre vigliacco le desse tutta la colpa. Non era
ammissibile.
E
avrebbe avuto delle conseguenze.
* * *
Capitolo spaventosamente difficile.
Odio aver ripescato Danzo.
Spero di essere riuscita a farvi capire
cosa c'è nella testa (malata) di Haruka,
ma non ne sono mica sicura.
Grazie a tutti voi che leggete e a chi mi lascia un'opinione.
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Capitolo 21 *** Il ritorno dei fantasmi ***
Penne 21
24/02/2016
Capitolo
ventunesimo
Il
ritorno dei fantasmi
A
Suna l’aria non era mai fresca, di notte come di giorno. Se a
Konoha il profumo dell’estate era ancora una brezza
impercettibile,
nel Villaggio della Sabbia era già l’acre odore
della polvere
misto al rumore dei grilli e al ronzio dei condizionatori.
Gaara
era avvezzo ai rumori della notte praticamente da sempre. Anche dopo
la scomparsa di Shukaku l’insonnia per lui era stata una
compagna
inseparabile, probabilmente ridotta a normale ciclo sonno-veglia da
anni e anni di abitudine. Non soffriva particolarmente la mancanza di
sonno, ma da quando aveva iniziato ad avere rapporti con le altre
persone provava dispiacere nel passare tante ore da solo: con
l’arrivo di Loria le cose erano cambiate, perché
averla accanto e
sentirla respirare al suo fianco era confortante come una ninnananna,
ma quando la Roccia l’aveva portata via le notti erano
tornate
tristi e solitarie.
Quella
notte, finalmente, lei sarebbe tornata.
Fermo
sulla cima del palazzo dell’Hokage, Gaara scrutava il cielo
punteggiato di stelle opache. Poche decine di minuti prima un
uccellino rosso era sfrecciato davanti alla sua finestra con un
messaggio di Chiharu, e adesso lui li attendeva cercando di
distinguerli nonostante la foschia.
Cosa
le avrebbe detto? E lei cosa gli avrebbe detto? Come
l’avrebbe
vista, cosa le avevano fatto, era arrabbiata con lui? Sei anni erano
un tempo enorme... Sei anni che lei aveva passato rinchiusa, per
colpa sua. Se non fosse stata la segretaria del Kazekage non le
sarebbe accaduto nulla, lo sapeva lui, lo sapevano quelli della
Roccia e lo sapeva anche lei. Aveva avuto fin troppo tempo per covare
rancore nei suoi confronti, e lui ne aveva avuto altrettanto per
coltivare il senso di colpa. Ma al di là di tutto, tra senso
di
colpa e rancore, cosa sopravviveva dell’amore di una volta?
Era
quella la domanda che davvero lo turbava. Gaara sentiva i palmi delle
mani sudare e il cuore battere giù nello stomaco.
Una
sagoma scura emerse dalla foschia, spostando una nube di vapore e
polvere, stagliata nel riquadro di cielo limpido al di sopra del
palazzo. Da lontano non sembrava tanto imponente, ma quando fu
abbastanza vicina da essere paragonata agli edifici circostanti si
dimostrò di dimensioni ragguardevoli, tanto che ogni colpo
di coda
dava origine a un risucchio incredibilmente sonoro. La luna
illuminava ogni cosa con la nitidezza di un piccolo sole bluastro.
L’uccello era enorme, molto più grande di
qualunque altro Gaara
avesse visto prima. Aveva una forma affusolata, con un collo lungo e
mobile che sorreggeva la testa dal becco affilato. Gli occhi erano
neri, grossi come i pugni chiusi di un uomo e privi di ciglia, le
zampe spesse come un tronco giovane, dotate di artigli lunghi una
spanna. Nonostante l’incredibile apertura alare, che al
massimo
dell’estensione copriva alcuni metri, il dettaglio che
più colpiva
dell’animale era senza dubbio la coda: una massa di lunghe
penne
nelle sfumature dell’oro e del rosso, che si allargavano a
ventaglio durante il volo e si riunivano in uno spesso fascio una
volta a terra. Gaara individuò quattro sagome sul dorso
dell’uccello, e non appena fu sicuro della sua intuizione con
un
cenno chiamò tre ninja a volto coperto.
«Prendetela»
ordinò, e quelli scomparvero.
Sentì
la prima folata di aria tiepida sul viso, una manciata di sabbia gli
solleticò il naso. Sbatté a malapena le palpebre,
seguendo i
movimenti dell’uccello che tentava di atterrare sulla piccola
superficie del tetto e facendosi bruscamente indietro quando uno
spostamento d’aria quasi lo abbatté. Gli artigli
del volatile
stridettero sulla roccia del palazzo, cercando di mantenere
l’equilibrio sulle due zampe. Le ali sbatterono a vuoto per
alcuni
secondi, poi finalmente si placarono e tornò il silenzio
della
notte.
Una
delle quattro ombre sul dorso dell’animale si
spostò con movimenti
un po’ rigidi e si lasciò cadere a terra passando
davanti alle
grandi ali. Gaara si avvicinò appena in tempo per vedere
un’altra
ombra che, aiutata da chi ancora era sul dorso dell’uccello,
veniva
fatta scivolare giù subito dopo; e lì, alla luce
della luna e delle
poche stelle, rivide dopo sei anni l’unica compagna delle sue
notti
di solitudine, con l’aspetto emaciato di chi ha sopportato
una
lunghissima prigionia e stretta a un Anbu esausto. Allora il suo
stomaco sprofondò fino in fondo ai piedi.
Akeru,
che sorreggeva Loria e avvertiva il tremito delle sue gambe,
gettò
uno sguardo verso l’alto e uno a Gaara; poi, con delicatezza
ma
anche un filo di fretta, sospinse gentilmente Loria verso il Kazekage
e lasciò che fosse lui a reggerla. Gaara la prese tra le
braccia
come se fosse fatta di vetro, registrando in un secondo tutti gli
angoli acuti delle ossa, la fragilità della pelle, le fibre
sottili
dei muscoli atrofizzati. Ricordava bene come era abbracciarla,
ricordava le curve del suo corpo con precisione millimetrica, ma non
ne riconosceva nessuna. Sentì però la fatica che
le costava
mantenersi in piedi, e capì che la prima cosa da fare era
metterla
in mano ai ninja medici del palazzo.
«E’
lei?» chiese una voce distante.
Con
uno sforzo di volontà Gaara si costrinse a spostare lo
sguardo sulla
ragazza sconosciuta che gli stava davanti, e con fatica anche
maggiore si rese conto che si trattava di sua nipote. Strinse la
presa attorno alle braccia di Loria.
«Ho
un tatuaggio sulla schiena» disse rapidamente.
«Loria, cosa
rappresenta?»
«Niente»
sospirò lei. «Non hai nessun tatuaggio.»
«E’
lei» confermò con un moto di sollievo.
«Bene»
Chiharu annuì distrattamente, passando lo sguardo
sull’enorme
animale che li aveva portati lì. «Vado a
riposare.»
«Dov’è
l’infermeria?» chiese Akeru, reggendo un Kotaro
praticamente privo
di sensi.
«Vi
accompagno» propose Gaara.
Chiharu
aprì la bocca per protestare, ma prima che potesse farlo
l’uccello
scarlatto gettò un grido acuto e penetrante, che li spinse
tutti a
tapparsi le orecchie e strappò un gemito al povero Kotaro.
La
kunoichi si voltò e scambiò uno sguardo rabbioso
con l’animale.
«Certo
che puoi andare!» sibilò tra i denti.
L’uccello
la studiò inclinando la testa da un lato. Con un fremito
distese le
ali - quasi buttando a terra Akeru - e prima di darsi la spinta
gorgheggiò qualcosa dal fondo della gola. Poi, dispiegando
una
potenza invidiabile, graffiò il tetto in
profondità e causò un
piccolo ciclone per sollevarsi verso il cielo.
Non
appena fu partito le spalle di Chiharu si afflosciarono
percettibilmente.
«Io
vado a dormire» annunciò con voce roca.
«Dobbiamo
andare in infermeria...» tentò di dire Akeru, ma
lei si era già
diretta verso le scale interne e non sembrava avere intenzione di
considerare le sue ultime parole. Il ragazzo si innervosì:
negli
Anbu ogni volta che completavano una missione si complimentavano
l’uno con l’altro; anche i meno socievoli non
dimenticavano mai
di rivolgere un grazie smozzicato ai compagni, perché in una
squadra
è importante mantenere rapporti civili. Quella ragazza era
un vero
scorpione.
«Le
manderò un medico in camera» mormorò
Gaara, già proiettato verso
le cure da fornire a Loria. «Vieni, l’infermeria
è al
pianterreno. Che è successo all’Uchiha?»
«E’
tornato a Konoha» spiegò Akeru sintetico. Gaara lo
fissò con aria
interrogativa, ma lui non aggiunse altro: Hitoshi era uno snob
spocchioso e irritante, ma restava uno shinobi della Foglia come lui
e l’unico che valesse la pena di definire rivale. Non lo
avrebbe
umiliato di fronte a uno straniero, anche se erano alleati ed era lo
zio di Chiharu. Gaara comprese, o forse aveva faccende più
immediate
a cui dedicarsi, perciò non insisté oltre. Con un
cenno fece capire
ad Akeru che doveva seguirlo e insieme si diressero verso la porta
che conduceva all’interno del palazzo.
Le
dita premettero sul muro, quasi volessero perforarlo. Il dorso della
mano, livido e sudato, era coperto dai minuscoli sentieri delle vene
sotto pelle.
Chiharu
serrò i denti e si appoggiò alla parete con
l’intero avambraccio,
premendovi la fronte. I polmoni bruciavano, le gambe erano pesanti,
la nausea le attanagliava lo stomaco, ma la cosa peggiore era la mano
maligna che si era serrata attorno al suo cuore e sembrava impedirgli
di lavorare come doveva. Era solo una sensazione, ne era più
che
consapevole: finché il sangue scorreva nelle vene il cuore
batteva,
era un postulato inaggirabile.
Nonostante
questo, nonostante la Lophenaria, nonostante gli
allenamenti,
però, non poteva fare a meno di odiare sé stessa
e la propria
scellerataggine di tredicenne. Non passava giorno senza che si desse
dell’idiota, e, anche se non l’avrebbe mai ammesso
a voce alta,
sapeva che le cose non andavano affatto bene.
«Ho
provato a rappezzarlo in viaggio, ma il nostro mezzo
sussultava troppo e rischiavo di fare un danno!»
ripeté Akeru per
la terza volta, ormai esasperato.
Il piccolo medico canuto che si
affaccendava attorno al letto di Kotaro gli rivolse un cenno
sprezzante e borbottò qualcosa che somigliava parecchio a un
insulto, mandandolo definitivamente fuori dai gangheri.
«Senta, lo vede questo? Eh?»
sbottò il ragazzo sventolando il tatuaggio da Anbu sulla
spalla.
«Sono un Anbu della squadra medica, non il primo pivellino
che
passa! Ho visto più morti io in due anni che lei in tutta la
sua
carriera! Se dico che non si poteva fare niente, non si poteva fare
niente!»
«Una costola fratturata per
più
di otto ore con un paio di porte del chakra aperte e processi di
guarigione a briglia sciolta...» smozzicò il
vecchio medico
scuotendo la testa. «Roba da farti radiare
dall’albo, anche se per
miracolo non ci sono danni ai polmoni.»
Akeru si voltò e strinse i pugni
per non pestarli addosso all’uomo. «Facciamo
così: io vado a
riposarmi e lei fa finta di non avermi mai incontrato, ok?»
Il medico non si degnò nemmeno di
rispondergli.
Con un’esclamazione poco cortese
Baka scostò violentemente la tenda che separava il lettino
del
giovane Lee dal resto dell’infermeria e attraversò
la stanza a
passo pesante. Non solo era dovuto stare dietro a due pazzi suicidi
come Chiharu e Kotaro, ma gli si rimproverava pure di non aver posto
un limite alla loro follia! Questo era troppo. I due dementi erano
maggiorenni e vaccinati, se volevano drogarsi e spalancare le otto
porte del chakra erano liberissimi di farlo. Lui non poteva esserne
ritenuto responsabile, era contrario a qualunque concetto di etica
medica! E poi ci aveva provato. Ci aveva sempre provato a spiegare a
Chiharu che non poteva scherzare con le droghe del nonno, ci aveva
provato a tredici anni e anche adesso, eccome se ci aveva provato...
Se poi lei non ascoltava non poteva farci niente. Proprio niente.
Rallentò il passo fino a fermarsi
nel corridoio.
Certo che non aveva proprio una
bella faccia quando se ne era andata, ricordò. Occhiaie fino
agli
zigomi, labbra viola, mani che tremavano... Mentre rifletteva vide un
uomo passargli davanti e lo riconobbe come il medico che era stato
mandato da Chiharu.
«Dov’è la
ragazza?» gli
chiese fermandolo.
«Non l’ho trovata. Nella sua
stanza c’era solo la madre, adesso la sta cercando. Io vado a
chiamare il Ka...»
«Ci penso io» lo interruppe
Akeru. «Dica al Kazekage che so dov’è, e
anche a sua madre. Penso
a tutto io.»
Prima
che il medico potesse protestare lui era già ripartito.
Nella sua
testa si affacciavano diversi scenari, dal peggiore - Chiharu in coma
in fondo a una scala con la testa spaccata e un collasso
cardiorespiratorio - a quelli praticamente ridicoli - Chiharu che si
era addormentata nella prima stanza aperta.
Raggiunse
i gradini che portavano ai piani superiori, e mentre iniziava a
salirli estrasse dal marsupio un foglietto bianco, stringendolo tra
indice e medio. In un attimo il foglietto si separò in due,
e poi in
quattro, otto, sedici... Dei frammenti venutisi a creare uno
scivolò
a terra qualche gradino più avanti, un altro poco oltre.
Akeru li
seguiva mano a mano che piovevano, docili, e quando il primo
foglietto si esaurì ne estrasse un secondo. I coriandoli
fruscianti
lo portarono fino all’ultimo piano, in un corridoio laterale
rispetto a quello che aveva percorso con Gaara poco prima. Il piano
sembrava essere deserto: era male illuminato da lampadine di
emergenza, e a distanze regolari si aprivano porte senza insegne.
L’idea che Chiharu fosse crollata addormentata nella prima
camera a
disposizione tornò a solleticargli il cervello.
Avanzò lungo il
corridoio trattenendo gli ultimi frammenti di carta, cercando di
tendere l’orecchio in cerca di suoni o fruscii. Non si
sentiva
nulla. Poi, davanti a una delle prime porte, l’ultimo
quadratino di
carta andò ad appiccicarsi alla maniglia e lì
rimase, senza cadere
al suolo.
Akeru sbuffò, alzò il pugno e
bussò in tono deciso. Nessuna risposta.
«Se non apri porto qui tua
madre»
annunciò.
All’interno ci fu il rumore di
qualcosa che cade e poi dei passi ovattati, seguiti dal suono di una
serratura che scatta. Baka fece un passo indietro, pronto a
difendersi se necessario, ma scoprì che non era proprio il
caso: ad
aprirgli la porta fu una pallida imitazione della Chiharu che
conosceva, una ragazzina dalle spalle curve e le labbra asciutte che
teneva a fatica gli occhi aperti.
«Se chiami mia madre ti denuncio
all’ordine dei ninja medici» piagnucolò
con un filo di voce. «Il
mio nascondiglio voglio che sia un segreto professionale.»
«Che ci fai qui?»
balbettò
Akeru, cercando di spiare dentro la stanza buia.
«Dormo. Cosa vuoi?»
sospirò
Chiharu. «Ti prego, ho solo bisogno di dormire...»
«Non credo proprio. Devo
visitarti.»
Le spalle della ragazza si
raddrizzarono impercettibilmente. «Tu?» chiese, e
il tono della sua
voce sembrava quello di qualcuno che ha appena scoperto un verme nel
suo piatto.
«Avevano mandato un altro medico,
ma non ti ha trovata. Allora hanno avvisato tua madre, e spero che le
sia bastato il mio ‘ci penso io’, altrimenti tra
poco la
sentiremo gridare il tuo nome per tutto il palazzo.»
Chiharu si guardò attorno
nervosamente, quindi incassò la testa tra le spalle e fece
un passo
indietro. «Ti concedo cinque minuti.»
Akeru si infilò nella stanza
mentre lei accendeva una luce polverosa. Quelli dovevano essere gli
appartamenti per gli ospiti che usavano solo in caso di estrema
necessità, e avevano l’aria di essere vecchie
suite in disuso.
Sicuramente durante il giorno da lì doveva godersi un
panorama
spettacolare, ma in quel momento gli spessi tendoni scuri erano
tirati a coprire le finestre, e sugli oggetti era posato un leggero
strato di polvere.
Peccato che non sapesse che quella
era anche la stanza in cui Chiharu e Hitoshi avevano dormito la notte
prima della missione.
«Fai in fretta» disse Chiharu
richiudendo la porta e lasciandosi cadere seduta sul letto.
«Sono
sfinita.»
«Lo vedo» mormorò
Akeru, e non
appena l’eco della sua voce si spense, tutto a un tratto si
accorse
che era solo con lei e stava per giocare al dottore. Cioè.
Stava per
visitarla. Gli si seccò la bocca di colpo.
Chiharu lo fissò con sguardo
interrogativo finché lui non riuscì a schiodare i
piedi dal
pavimento. Professionalità, ecco cosa serviva. Era un
medico. Aveva
un’etica. Chiharu era visibilmente bisognosa di cure, e lui
avrebbe
messo da parte le sue pulsioni e lavorato come si conveniva.
Inspirò a fondo, costringendosi a
guardarla: con quegli occhi da animale braccato e l’aspetto
di un
malato oncologico poteva anche dirsi che non era proprio lei. Ci
somigliava e basta.
Muovendosi rigido le si sedette
accanto. Chiharu si scostò impercettibilmente. Lui la
ignorò e le
prese una mano, al che lei si ritrasse di scatto.
«Come te lo sento il polso?»
Chiharu strinse le labbra e
allungò il braccio. Akeru posò tre dita poco
sotto il pollice e
attese, consultando l’orologio per qualche tempo.
«Non mi dire, sarò mica
tachicardica?» sbottò ironica Chiharu prima che
lui finisse,
incapace di trattenersi più a lungo. «Che
sorpresa!»
«Non ho mai visto la tua laurea
in medicina» borbottò lui mollandole il braccio di
colpo.
«Finito?»
«Stai scherzando?»
Chiharu si agitò leggermente.
Quale perverso sadismo muoveva quel ragazzo? Perché la
torturava
così sfacciatamente?
«Devo posarti una mano sul
torace.»
Chiharu sussultò scandalizzata.
«Non sono sicura che faccia parte della pratica
medica» obiettò
stringendo le braccia al petto.
«E questo te lo hanno insegnato
sempre nella scuola per medici di cui parlavamo prima?»
replicò
Akeru. «Sullo sterno. Sopra il cuore.» Chiharu non
diede segno di
volersi muovere. «Oh, andiamo! Sei una stramaledetta
cardiopatica,
ti avranno visitata così decine di volte!»
Mai
medici con una cotta quinquennale per me.
«Posso sempre uscire di qui,
tornare da tua madre, e...»
Chiharu
abbassò le braccia di scatto. «Sei uno stronzo
bastardo, e giuro
che te la farò pagare!» ringhiò, la
testa incassata tra le spalle
nello spasmodico tentativo di non prenderlo a cazzotti. «Te
lo
giuro!»
Akeru chinò il capo in un ironico
cenno di ringraziamento, quindi, cercando di mascherare la tensione,
deglutì a vuoto.
Giocare
al dottore era
un’espressione
travisata, si disse. I bambini scrupolosi mostrano in questo gioco
solo un puro interesse scientifico per la più nobile delle
professioni. Sono poi gli adulti maliziosi che danno al gioco una
connotazione negativa. Poteva vederla da questo punto di vista.
Controllando
il lieve tremito della mano la sollevò e la posò
delicatamente
sullo sterno di Chiharu, avvertendo subito il battito forsennato del
suo cuore. Come medico, in quel momento si pentiva amaramente della
sua sciagurata confessione. Liberò la mente dai pensieri che
non
c’entravano e si concentrò sul flusso del chakra,
facendo scendere
un minuscolo filo-sonda giù per lo sterno, nel periostio e
fino al
pericardio. Sembrava che coronarie e annessi fossero in ordine. Le
valvole funzionavano bene, i ventricoli pompavano un po’
stancamente ma con ritmo discreto. Sotto le dita sentiva ancora una
lievissima traccia di Lophenaria,
che tuttavia era già stata trasferita al fegato, e gli altri
organi,
nonostante la stanchezza generale, non mostravano particolari
criticità, a parte le costole contuse quando aveva rischiato
di
volare giù per il dirupo. Poi, mentre si stava avvicinando
ad
indagare i canali del chakra, si scontrò con qualcosa di
molto
strano: era una specie di flusso anomalo, la circolazione del chakra
sembrava alterata; come se due liquidi di densità differente
si
fossero mescolati ma non lo avessero fatto troppo bene. Stava per
approfondire l’analisi, quando Chiharu allontanò
la mano dal suo
petto.
«Mi sembra più che
sufficiente!»
L’ondata
di irritazione che attraversò Akeru gli aumentò
la temperatura
corporea di qualche decimo di grado: anche lui era stanco, anche lui
avrebbe preferito dormire piuttosto che litigare con lei, anche lui
aveva fatto dieci ore di volo senza mai distrarsi e con una spalla
dolorante. Se era lì era per il suo
bene, perché lei era
una cretina imprudente e lui un medico, e quella cretina imprudente
non faceva che ostacolarlo!
«Razza di decerebrata in crisi
adolescenziale!» sbottò afferrandola per il polso.
«Sto facendo il
mio lavoro! Smettila di mettermi i bastoni tra le ruote!»
In quel momento, del tutto senza
preavviso, gli tornò alla mente la prima volta che aveva
giocato al
dottore con una bambina.
Lei aveva cinque anni ed era
bionda, con dei graziosi codini che la facevano somigliare a un
cocker. Lui aveva solo qualche mese in meno e un fortino magnifico di
sabbia e sassolini. Lei gli aveva detto che il suo papà era
un ninja
medico e lui, per non dire che invece del suo papà non
sapeva
niente, le aveva chiesto cosa facesse un medico. «Visita le
persone», aveva risposto lei, e aveva finto di provargli la
febbre
per dimostrare la sua affidabilità. «Il mio
dottore mi mette una
cosa fredda sulla schiena e mi dice di tossire» aveva
ribattuto lui,
ansioso di non fare brutta figura. «Vuoi giocare al
dottore?» aveva
chiesto lei. Akeru aveva sentito un fremito corrergli lungo tutto il
corpo, un brivido di cui non aveva la benché minima nozione
e che lo
stupì ed esaltò insieme. Prima che potesse
cercare un sasso da
usare per auscultare i polmoni della bambina, però, la madre
era
piombata sulla scena e l’aveva riportata a casa.
Grazie a quell'incontro, di una
cosa, anche a distanza di anni, Baka era assolutamente certo: i
bambini giocano al dottore proprio per mettere le mani addosso alle
bambine.
Chiharu sentì l’aria farsi
pesante e sgradevole sotto lo sguardo fisso del suo presunto medico.
Questa volta forse non avrebbe avuto la forza di rimetterlo al suo
posto, non quando era così esausta e non nella stessa stanza
in cui
era successo quel che era successo con con Hitoshi. Avrebbe voluto
alzarsi di scatto e spedirlo fuori, ma il solo pensiero di fare
qualcosa di scatto le portava via le energie. E in fondo, ma molto
molto molto in fondo, per un istante un lievissimo brivido le aveva
attraversato la spina dorsale. Si chiese cosa avrebbe fatto se lui
avesse provato a metterle le mani addosso...
Invece Akeru lasciò andare il suo
polso e si alzò in piedi.
«Non credo che morirai entro
stanotte» disse evitando di guardarla.
«Però domattina fatti fare
un esame accurato; non per me o per tua madre, ma perché il
Kazekage
ti ha affidato una missione importante e non puoi fare cazzate se lui
ci mette la firma. E piantala con la Lophenaria, il
tuo fegato
ci metterà settimane a metabolizzarla come si deve. Buona
notte.»
Chiharu lo fissò istupidita
mentre lui usciva frettolosamente. Per alcuni lunghi istanti rimase
seduta sul bordo del letto, sola, troppo stanca per riflettere
sull’accaduto e allo stesso tempo profondamente perplessa. Si
era
aspettata altro. Non sapeva bene cosa, ma sicuramente qualcosa di
diverso. E, rendendosene conto, con gran sconcerto si accorse di
provare un barlume di delusione.
Gaara era con Loria in una stanza
privata della clinica del palazzo. Un ninja medico l’aveva
già
visitata a fondo e la aveva attaccata a una flebo, diagnosticandole
disidratazione, denutrizione e una serie di malattie minori dovute
alla scarsa igiene e alla pessima qualità di vita.
Guardandola alla
luce fredda dei neon, il Kazekage di Suna si sentì
schiacciare di
nuovo dal senso di colpa.
«Sei comoda?» chiese per
spezzare il silenzio.
«Finalmente sì»
sospirò lei a
occhi chiusi, accarezzando il lenzuolo. «Non ricordavo
neanche più
com’è un materasso morbido.»
«Hai sete? Fame?»
Lei sollevò il braccio dentro cui
scompariva la flebo, agitandolo con sforzo incredibile.
«Devo farti portare altri
cuscini?»
«Va bene così. Voglio solo
riposare.»
Gaara lo percepì come un congedo,
e non riuscì ad aggiungere altro. Le augurò a
mezza bocca un buon
riposo, quindi, quasi con la coda tra le gambe, uscì dalla
stanza.
Fuori lo aspettava il medico, che gli fece un resoconto semplificato
delle condizioni della donna: avrebbe avuto bisogno di cure per i
prossimi mesi, ma se il danno psicologico non era troppo grave si
sarebbe ripresa. Gaara lo ringraziò e ordinò che
restasse qualcuno
di guardia per l’intera notte, poi si assicurò che
anche Kotaro
fosse in mano a uno dei medici e domandò di Chiharu. Gli fu
detto
che Akeru aveva scelto di occuparsene, ma la notizia non lo
tranquillizzò particolarmente.
In ogni caso, aveva qualcosa di
urgente da fare.
Senza farsi accompagnare da
nessuno scese le scale che portavano ai sotterranei, a
quell’ora
scarsamente illuminate e attraversate da un filo di aria fresca.
Scese due rampe, percorse un corridoio su cui si aprivano diverse
porte, e infine entrò nell’ultima in fondo.
La stanza in cui si venne a
trovare era piccola e male arieggiata. C’era una sedia al
centro, e
sulla sedia una versione di Loria ben pasciuta, ancora in pigiama e
visibilmente furiosa. Aveva le mani legate dietro lo schienale.
«Tu non sai cosa hai fatto!»
gridò non appena vide entrare Gaara.
«Toh, allora parla ancora»
commentò Kankuro, appoggiato al muro accanto alla porta di
ingresso.
«L’abbiamo prelevata senza problemi, ma si
è rifiutata di aprire
bocca fino a questo preciso istante» spiegò.
Gaara si avvicinò alla donna.
«Sciogli la trasformazione, ormai è
inutile.»
«Perché ti sembra
inutile?»
ringhiò la finta Loria. «Quando i miei compagni
non vedranno
arrivare il mio solito messaggio la uccideranno. Pensi di farmi
parlare prima che questo accada? Vuoi che mi trasformi
perché pensi
di non riuscire a torturarmi se ho la sua faccia?»
Gaara la fissò. «Non hai la
sua
faccia. Lei non ha mai avuto quell’espressione da topo. Ne
sono
certo, l'ho appena lasciata a riposare.»
Per la donna sulla sedia fu una
brutta sorpresa. Il fiato le si mozzò in gola e un velo di
paura le
coprì gli occhi. «Non è
vero...» tentò di protestare, ma il
Kazekage la interruppe.
«I miei ragazzi l’hanno
riportata poco fa. Naturalmente sei libera di non credermi. Ma
quando, fra tre giorni, io sarò ancora qui a cercare di
farti
parlare e nessuno dei tuoi sarà venuto a cercarti, confido
che
diventerai più collaborante. Forse dovresti riflettere sul
perché,
dopo sei anni, finalmente ti abbia affrontata apertamente.»
Un sottile filo di sabbia risalì
le gambe della sedia, le dita della donna e il gomito, fino a
solleticarle il collo. Gaara incrociò le braccia sul petto
senza
distogliere lo sguardo.
«Per me non regge neanche
un'ora...» borbottò Kankuro.
La sabbia si avvolse attorno al
collo della falsa Loria, percorse il mento e andò a coprire
la
bocca, mentre il respiro della donna accelerava sensibilmente.
Tentò
di divincolarsi, ma i primi granelli si insinuarono su per il naso e
le serrarono le labbra.
Gaara assottigliò lievemente gli
occhi. «Quando smetterai di avere le sue sembianze lo
prenderò come
il segnale che sei pronta a parlare... O almeno a respirare»
disse
sottovoce.
La sabbia ormai copriva tutta la
parte inferiore del viso.
O aveva fatto una cosa molto
stupida, o ne aveva fatta una molto etica, si disse Akeru mentre
tornava avvilito verso la sua stanza: visitando Chiharu aveva sentito
l’impulso fortissimo di saltarle addosso – aveva
sempre avuto un
debole per le donzelle in difficoltà – ma,
inaspettatamente, lo
aveva combattuto.
Ancora adesso non sapeva come
interpretare la cosa. Che la sua cotta storica stesse finalmente
passando? Il braccio gli faceva troppo male per permettergli
performances di cui andare fiero? Forse era solo
sfinito,
oppure... Oppure boh. Non si era mai ritenuto un gran modello di
etica.
«Finalmente!»
esclamò di colpo
una voce.
Akeru alzò lo sguardo, e proprio
davanti alla stanza che gli avevano assegnato trovò una
bellicosissima Temari in assetto da battaglia.
«E’ un’ora che ti
aspetto!
Dov’è mia figlia?»
Segreto
professionale,
balenò nella
mente del ragazzo.
«Prova a mentirmi che non rivedi
più Konoha» aggiunse lei leggendogli il pensiero.
Akeru non tentò nemmeno di
difendersi. «Si sta nascondendo. E’ da qualche
parte nel palazzo a
dormire. L’ho visitata, non è in pericolo di vita,
e le ho fatto
giurare di farsi fare un controllo completo domattina.»
«Tu
l’hai visitata?»
«Anche lei lo dice come se avesse
appena trovato un verme nel piatto... perché?»
«Senti un po’, se non mi dici
immediatamente dove...»
Akeru
alzò entrambe le mani e la interruppe. «Con tutto
il rispetto,
signora Nara, per questa notte ho già affrontato la sua
famiglia. Se
vuole trovare sua figlia io non voglio avere responsabilità,
la
cerchi da sola. In questo momento voglio soltanto dormire dieci ore e
svegliarmi per fare colazione. La prego. La
supplico.»
Temari richiuse la bocca
infastidita «Come l’hai visitata? Non le avrai mica
messo le mani
addosso?»
«Onestamente ci ho pensato, ma
alla fine la mia etica professionale ha avuto la meglio e mi sono
limitato a farle un esame cardiologico.»
Temari spalancò la bocca. Akeru
pure. Aveva risposto senza riflettere.
«Non intendevo...»
Temari
lo fermò con un gesto. «Non continuare. Finora sei
andato bene con
la risposta sull’etica. Ti conviene andare a dormire prima
che io
cambi idea... Spera che domani mia figlia sia viva e reperibile.»
«Guardi, domani se non la
troviamo la porto alla sua camera, promesso» si arrese Baka.
«Ora,
per favore, la prego, posso andare a dormire?»
Sbuffando insoddisfatta, Temari si
fece da parte e liberò il passaggio.
*
Sin
da girino, Scheggia XIII si era rivelato tollerante quanto un gerarca
fascista. Se la sua zona di stagno veniva invasa dal minimo granello
di plancton non autorizzato, lo spingeva a testate fuori dai confini;
se un girino rivale intralciava il suo percorso, lo sbatteva sul
fondo; se un ranocchio quasi formato si azzardava a fargli notare che
non aveva ancora le zampe, lui quasi staccava le sue a morsi.
All’epoca
della sua nomina a nuovo Scheggia qualcuno aveva sollevato obiezioni:
è
troppo aggressivo, disobbediente, individualista, arrogante,
assolutamente inadatto. Più
di un rospo si era schierato contro di lui, anche nomi influenti, ma
alla fine la maggioranza aveva deciso di fidarsi – e ancora
oggi
qualcuno si chiedeva se il consiglio non fosse stato corrotto o
minacciato. Così era nato l’attuale Scheggia XIII.
E, se qualcuno
aveva sperato che con il tempo si calmasse, aveva avuto
un’amara
delusione: incredibile a dirsi, il carattere di Scheggia non aveva
fatto che peggiorare. L’orgoglio per la nomina a corriere
ufficiale
ingigantì la sua autostima; sotto gli occhi sbigottiti della
comunità la sua velocità crebbe allo stesso ritmo
della sua
tracotanza, e in breve tempo divenne una sorta di boss mafioso di cui
molti avevano terrore.
Naturalmente
gli umani non potevano sapere nulla di tutto questo. Se così
fosse
stato, sicuramente qualcuno avrebbe notato l’interessante
parallelo
con Naruto – e poi, se lo avesse espresso a voce alta,
sarebbe
morto sotto una zampata.
Comunque
nessuno lo sapeva e neppure lo immaginava, tanto meno Akeru, che si
era inspiegabilmente trovato d’accordo con il rospo e lo
riteneva
decisamente a modo e dotato di raziocinio. Per questo Hitoshi non
poteva nemmeno lontanamente sospettarlo. E non sospettandolo,
rischiò
seriamente di cadere dalla groppa quando Scheggia si diede alla corsa
più folle che la foresta del Fuoco avesse mai visto.
«Senti
un po’, mi sono rotto di andare come un girino! Prima
arriviamo e
prima scendi: tieniti stretto che si vola!»
Una
manciata di parole aspre, e poi il balzo traumatizzante.
L’unica
cosa che Hitoshi avrebbe ricordato del viaggio sarebbe stata
l’emicrania: dopo quell’esperienza dovette
riscrivere
completamente le sue tabelle, aggiungendo nuovi e straordinari picchi
di sofferenza, che se avevano avuto un pregio era stato unicamente
quello di eclissare qualsiasi tipo di vertigine avrebbe potuto
provare durante quei terribili salti.
Grazie
alla momentanea ondata di follia, comunque, ridussero notevolmente la
durata del tragitto: nonostante la prima parte a rilento, riuscirono
a raggiungere Konoha nello stesso tempo impiegato per il viaggio
d’andata. Che Hitoshi, una volta al villaggio, fosse
più morto che
vivo, sembrava irrilevante.
«Come
deve soffrire!» commentò una delle guardie,
scrutandone con
preoccupazione il colorito terreo. «Spero per lui che non sia
nulla
di grave... E’ così giovane!»
Fu
raccolto dai piantoni alla porta, mentre qualcuno faceva arrivare una
piscina d’acqua per il rospo e una ventina di litri di
sakè. In
tutta fretta fu mandato un messo all’ospedale, alla ricerca
di un
medico, e Hitoshi si premurò finalmente di svuotare lo
stomaco,
confortato dalle comprensive pacche delle guardie.
Sakura
impiegò meno di cinque minuti per raggiungere le porte di
Konoha,
seguita da un paio di infermieri fidati, e non appena lo vide
avvertì
una stretta allo stomaco: all’improvviso le ricordava Sasuke,
ma
quel Sasuke atono che aveva curato dopo la morte di Itachi; nulla a
che vedere con l’orgoglioso Uchiha di sempre. Lo raggiunse
rallentando leggermente il passo – correndo lo avrebbe messo
in
imbarazzo – e mentre l’alba andava a tingere i suoi
capelli
d’arancio, si inginocchiò accanto a lui,
sforzandosi di soffocare
la madre a beneficio del medico.
«Come
va?» sussurrò, cercando di intrappolare la voce
perché gli altri
non sentissero. «Come ti senti?»
«Abbattete
quel rospo» replicò Hitoshi, con voce roca.
«Abbattetelo o lo
faccio a pezzi non appena sto meglio.»
Scheggia,
il cui udito era molto superiore a quello umano, gli scoccò
un’occhiataccia.
Sakura,
invece, inarcò le sopracciglia. «Beh,
finché fai del sarcasmo non
sei in pericolo di vita» sospirò,
impercettibilmente sollevata.
«Dove senti dolore?»
«Ovunque.»
Sakura
annuì e fece un cenno agli infermieri, che si avvicinarono
con una
lettiga.
«Ce
la faccio da solo!» sibilò Hitoshi, furente, ma
lei gli scoccò
un’occhiataccia e lo ridusse al silenzio.
«Io
decido cosa riesci o non riesci a fare» rispose asciutta.
«Andiamo.»
«Allievo
di quello là» grugnì
Scheggia in tono chiaramente udibile.
Lo
fecero stendere sul supporto di stoffa sotto gli occhi preoccupati
delle guardie – che ancora lo consideravano in fin di vita,
anzi
già parlavano di lui al passato – e quando lo
sollevarono Hitoshi
nascose il viso rosso di umiliazione dietro un braccio, digrignando i
denti.
Un
moribondo dallo stomaco debole, ecco cosa pensavano tutti quegli
uomini. E anche sua madre, che era arrivata con quegli occhi pieni di
compassione, non era diversa da loro: nessuno avrebbe più
avuto
fiducia in lui, nessuno avrebbe più collegato il suo nome
alla
stirpe degli Uchiha; da quel momento sarebbe sempre stato trattato
come un invalido, perché lui era tornato indietro, lui e
solo lui.
Lo sapeva benissimo, con ogni fibra del suo corpo; e lo detestava.
Chiharu
Nara, questa me la paghi.
* * *
Akeru nuovo simbolo della cavalleria!
Ahah, lo so.
Ho cambiato anche quella parte.
Buongiorno a tutti,
e bentrovati di nuovo.
Da oggi gli aggiornamenti saranno più piccini,
con meno capitoli,
perché sono vicina alla fine del materiale già
pronto
e ho bisogno di un po' più di tempo per scrivere altro.
In compenso gli eventi da qui in poi sono
COMPLETAMENTE NUOVI E INEDITI!
Evviva! Ce l'abbiamo fatta!
Spero di non fare erroracci di coerenza...
Se ne trovate qualcuno, per favore scrivetemelo.
Il bello della pubblicazione online è che si può
sempre correggere.
Grazie a chi commenta e a chi legge!
Un abbraccio a tutti.
|
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Capitolo 22 *** Convalescenti ***
Penne 22
Capitolo
ventiduesimo
Convalescenti
La
falsa Loria non aveva impiegato molto a cedere alle pressioni di
Gaara. Nel giro di un paio d'ore il Kazekage aveva saputo nome e
cognome dei mandanti del rapimento, vita morte e miracoli della spia
e, già che c'era, qualche dettaglio sull'organizzazione
gerarchica
della Roccia, anche se probabilmente erano dati vecchi di sei anni.
Una volta concluse le domande importanti, aveva ritirato le sue dita
di sabbia e se ne era andato lasciando a Kankuro il compito di
spremere le ultime gocce dalla prigioniera. La donna che aveva
lasciato accasciata sulla sedia era di statura più alta di
Loria,
con una struttura ossea più massiccia e l'incarnato quasi
olivastro.
Era talmente diversa dall'immagine che aveva mantenuto fino a quel
momento che per Gaara non era stato difficile infierire.
Mentre
risaliva le scale dello scantinato verso i piani illuminati dalla
luce dell'alba gli sembrò che i suoi passi fossero
più leggeri:
Loria era tornata, era viva. E non importava che forse non lo avrebbe
amato mai più, perché almeno era fuori pericolo.
Passando
dall'infermeria si affacciò per controllare la situazione e
la vide
dormire un sonno agitato ma indisturbato. Chiese delle sue condizioni
e di quelle di Kotaro, quindi, rassicurato, si diresse al suo studio
per scrivere un messaggio urgente a Kakashi: la missione si era
conclusa nel migliore dei modi. Ora, se guerra doveva essere, la
Sabbia sarebbe stata in prima linea per combatterla.
Chiharu
fu svegliata da un bussare sommesso e un po' cospiratore.
Faticò per
riemergere dal sogno confuso che la stava impegnando, ma quando il
pensiero di sua madre le sfiorò la coscienza si
affrettò a tirarsi
in piedi con le orecchie ben dritte.
«Haru?»
sussurrò una voce oltre la porta. «Sei viva? Dimmi
che sei viva.»
Baka.
Con un sospiro Chiharu si rilassò, e andò a
scostare le tende per
capire che ore fossero. Il sole stava sorgendo al limitare della
città, il che significava che non aveva riposato
granché.
«Sono
viva» mormorò funebre, trascinando i piedi fino
alla porta.
«Come
ti senti?» le chiese Baka non appena gli fu aperto,
scansionandola
con lo sguardo alla ricerca di segni clinici.
«Assonnata.»
Akeru
alzò una piccola torcia a forma di penna e le
puntò il fascio di
luce negli occhi.
«Ehi!»
protestò lei scuotendo la testa, ma lui la tenne ferma e le
chiese
di seguire la luce. Solo quando vide le sue pupille restringersi e
gli occhi guizzare furiosi da tutte le parti si azzardò a
tirare un
sospiro di sollievo.
«Ascolta,
non ho molto tempo» disse prima che lei potesse lamentarsi.
«Stamattina devo portare qui tua madre. Me l'ha fatto
promettere.
Arriveremo tra circa mezzora, tu renditi presentabile: ieri sera le
ho assicurato che ti avevo visitato a fondo e non avevo trovato
problemi, vedi di confermare la mia diagnosi.»
Chiharu
gemette penosamente e si lasciò cadere seduta sul letto.
«Tu che
sei medico, mi spieghi perché alla gente fa tanto schifo
l'idea di
lasciar riposare in pace una povera cardiopatica?»
«Non
sei una povera cardiopatica. Alzati e fatti una doccia, puzzi da far
schifo.»
Chiharu
si annusò discretamente e non poté che
concordare. «Hai detto
mezzora?»
«Venticinque
minuti. E mi aspetto ringraziamenti principeschi quando torniamo a
Konoha!»
Chiharu
lo guardò di sbieco, chiedendosi se la sua boriosa
affermazione
nascondesse significati lascivi, ma rimase sola prima di poter
approfondire il pensiero.
Temari
arrivò precisamente ventidue minuti dopo, al seguito di un
Akeru
inquietantemente sollecito. Quando la vide pulita, con le guance
arrossate dalla doccia e intenta a rifare il letto con aria innocente
si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Poi
attaccò a urlare.
Baka
si fece piccolo piccolo contro lo stipite, anche se non poté
trattenere un mezzo ghigno quando sentì Temari rimproverare
a
Chiharu le stesse cose per cui l'aveva rimproverata lui. La sfuriata
della signora Nara, tuttavia, non schivò del tutto il suo
ruolo,
perché la sua 'sprovveduta spacconeria
avrebbe potuto portare gravi conseguenze, e se Chiharu avesse avuto
un briciolo di cervello si sarebbe fatta visitare da un medico serio,
uno a cui fosse cresciuto almeno qualche pelo di barba!'. Akeru si
controllò il mento con disappunto.
«Sei la degna, irresponsabile
figlia di tuo padre!» esclamò Temari in quello che
tutti speravano
essere un tono conclusivo.
«Adesso posso andare a cercare un
medico con la barba?» borbottò lei con la testa
incassata tra le
spalle.
«Io
ho
la barba» ci tenne
a precisare Akeru.
«Tu taci!» inveirono madre e
figlia.
Non proprio di umore gioviale
scesero insieme le scale che dal tetto portavano al pianterreno e
fino all'infermeria. Quando la raggiunsero Akeru si defilò
in
fretta, sostenendo di voler sapere come stava Kotaro, e le due Nara
rimasero sole in attesa del medico che stava facendo il giro-visita
mattutino.
«Ogni volta spero che ti entri un
po' di sale in zucca, ma non succede mai» brontolò
Temari a quel
punto.
«Non hai un bottone di
spegnimento, vero?» ribatté Chiharu.
«Papà è un eroe per averti
sopportato tutto questo tempo!»
«Non tirare in ballo tuo padre
adesso!»
«Va bene. Tanto ti rendi
insopportabile da sola, non hai bisogno del mio aiuto.»
Temari strinse i denti e diede le
spalle a Chiharu. Per un momento la ragazza si chiese se l'avesse
offesa.
«A proposito di tuo padre»
riprese Temari in tono strano. «Non ho intenzione di tornare
a
Konoha insieme a voi.»
Chiharu inarcò le sopracciglia
fin quasi all'attaccatura dei capelli, sbalordita. Stava per chiedere
se fosse un regalo di compleanno in ritardo, quando fu interrotta dal
rumorosissimo arrivo di Gai Maito e Rock Lee, che vedendola
lanciarono grida festanti e la avvolsero in un abbraccio pieno di
entusiasmo.
«Ce l'avete fatta, ragazzi!»
esclamò il primo dei Grandi Maestri, occhi lucidi e stretta
di mano.
«Dov'è Kotaro?»
chiese Rock Lee
guardandosi intorno.
«Qui!» rispose una voce
ovattata
oltre una tendina.
«Figliolo!»
La riunione fu densa di lacrime ed
esclamazioni ammirate. A sentir parlare delle Porte del Chakra tutti
gli uomini tranne Akeru fecero salti di gioia, che sicuramente Tenten
avrebbe ridimensionato, una volta a Konoha. L'entusiasmo fu tanto e
tale che dopo pochi minuti il medico di turno comparve con il camice
svolazzante e ingiunse a tutti di levarsi di torno perché
infastidivano i suoi pazienti. Alla fine rimasero nell'infermeria
solo Kotaro, Temari e Chiharu, e fu a lei che il medico si rivolse.
«Vieni. Chiharu, giusto? Mi hanno
parlato di te, vediamo se sei tutta intera dopo gli ultimi
giorni...»
L'uomo le fece cenno di seguirlo
in una stanza adiacente, quindi chiuse la porta con un'occhiata di
ammonimento a Temari, che già stava per chiedere di poter
entrare.
Molto stizzita, purtroppo, lei dovette desistere dal suo proposito e
trovarsi una sedia su cui attendere.
Akeru cacciò dentro la testa e
chiese a gesti se Chiharu fosse entrata. Solo quando ne ebbe avuto la
conferma si rilassò e pensò bene di tornarsene a
letto per
recuperare qualche ora di sonno.
Temari si mosse nervosamente sulla
sedia. Da quando il cuore di Chiharu era stato danneggiato non
passava giorno che non si aspettasse la visita di due ufficiali della
Foglia con la notizia della morte di sua figlia; non tanto
perché la
poverina fosse cardiopatica – confidava che i geni di
Shikamaru le
avrebbero impedito di strafare – quanto perché
aveva più volte
dimostrato di essere incosciente, orgogliosa e con una sconfortante
vena teatrale. Ogni tanto Temari si augurava che il cuore di Chiharu
peggiorasse quel tanto che bastava per farle chiudere la carriera
ninja, ma in fondo sapeva che non sarebbe stata una soluzione.
Qualcuno bussò alla porta
dell'infermeria, e nel dubbio lei disse «Avanti». A
entrare fu,
sorprendentemente, Gaara.
«Chiharu?» chiese dopo un cenno
di saluto.
«La stanno visitando adesso. Eri
preoccupato?»
«Ero venuto per un altro
paziente, ma riposa.»
«Loria?»
Gaara annuì, quindi si
avvicinò
alla tenda di Kotaro e la scostò con delicatezza. Alla sua
vista il
ragazzino scattò a sedere, ma il movimento gli
ricordò le costole
che si erano rotte e gli fece mancare il fiato.
«Tutto suo padre»
borbottò
Temari.
«Come ti senti?» chiese Gaara,
ignorandola.
«Meglio» ansimò lui.
«Secondo
il medico avrò bisogno di una settimana di riposo, poi
potrò
tornare a Konoha.»
«Una settimana?»
Kotaro arrossì. «Potrebbe aver
detto due o tre... Ma sono sicuro di riuscire a guarire in una
settimana.»
Il Kazekage e sua sorella si
scambiarono un'occhiata circospetta: avevano una vaga conoscenza dei
meccanismi delle Porte del Chakra, ma non ne sapevano abbastanza per
ribattere. In ogni caso Gaara si disse contento di sapere che stava
bene, e Temari colse l'occasione per chiedere che fine avesse fatto
Hitoshi.
«Lui è... rientrato a
Konoha.»
«Quando?»
«Prima della missione. Non
stava... tanto bene.»
«Perché balbetti?»
Kotaro tacque, arrossendo
ulteriormente. Avrebbe voluto dare un'immagine più positiva
di
Hitoshi, ma le circostanze non aiutavano. Adesso che la missione era
finita in un trionfo, il senso di colpa per aver tradito il compagno
tornava più forte che mai.
«In ogni caso tu, Chiharu e
l'altro ragazzo riceverete una menzione speciale» lo
informò Gaara.
«Ho appena inviato un messaggio a Konoha per farvela
assegnare.»
«Grazie!» annaspò
Kotaro con
gli occhi brillanti di entusiasmo.
«Non appena sarete tutti in forma
migliore stenderete un rapporto dettagliato sulla missione.»
«Così sapremo finalmente quale
misterioso cavallo vi ha riportati a
Suna» aggiunse Temari.
«Non un cavallo. Era un
uccello»
ribatté Gaara.
«Da dove avete tirato fuori un
uccello?»
«Lo ha evocato Chiharu.»
Temari si accigliò: non sapeva
che sua figlia avesse stretto un contratto di sangue. Quando era
successo? E con che animale? Di uccelli ce ne erano almeno due
decine...
«Scusate... Sarebbe possibile far
rientrare mio padre e il maestro Gai?» chiese Kotaro
timidamente.
Gaara sospirò, ma lo
accontentò.
Prima di andarsene dalla stanza ora affollata scambiò uno
sguardo
d'intesa con Temari, e anche senza parlare lei seppe che la spia
aveva vuotato il sacco.
Chiharu riemerse dallo studio
medico quasi mezzora dopo, con l'espressione infastidita e un
voluminoso plico di ricette in mano. Prima che Temari potesse aprire
bocca e interrogare il dottore, lei fulminò lui con lo
sguardo e
piazzò in mano alla madre tutti i fogli che aveva.
«Dice che devo riposare per un
po'. Almeno una settimana, prima di ritornare a Konoha. Mi ha dato
qualche... ricostituente» quasi
sputò. «perché il mio
metabolismo faccia fuori un po' di tossine.»
«Che tossine?»
«Tossine, le solite tossine!»
Chiharu si tenne sul vago. Temari non sapeva della Lophenaria,
ed era meglio che continuasse a non sapere: avanti con le manovre
evasive. «A quanto pare avrai molto tempo per spiegarmi cosa
c'entra
papà con il tuo non ritorno a Konoha.»
Temari si irrigidì e sollevò
il
mento. «Tu invece hai tutto il tempo di spiegarmi come e
quando hai
stretto un contratto di sangue, invece.»
«Chi te lo ha detto?»
inorridì
Chiharu.
Prima che la discussione crescesse
di volume il medico tossicchiò lievemente.
«Vi ricordo che i miei pazienti
hanno bisogno di silenzio...» iniziò, ma mentre lo
faceva posò lo
sguardo su Gai Maito e Rock Lee, che cercavano invano di nascondersi
dietro la tendina che separava Kotaro. «Siete
rientrati!»
Soltanto dieci turbolenti minuti
dopo l'infermeria riuscì a svuotarsi degli ospiti molesti e
rimase
prerogativa del medico, di Kotaro e di Chiharu, che per evitare
l'interrogatorio di Temari aveva insistito per farsi mettere sotto
osservazione. Il dottore pretese che si infilasse sotto le coperte e
mandasse giù un integratore, con tono a dire il vero
piuttosto
seccato.
«Tua madre ha il diritto di
sapere che...» iniziò, ma Chiharu
sbarrò gli occhi in un'occhiata
d'avvertimento, accennando a Kotaro. Il medico scosse la testa e non
proseguì. La maggiore età di Chiharu e il segreto
professionale
erano più che sufficienti per causargli un sacco di grane;
per il
bene della sua carriera preferì lasciar perdere e andare a
controllare le condizioni di Loria.
Rimasta sola con Kotaro, Chiharu
gli fece un cenno di saluto e si propose di evitare come la peste
qualunque domanda sulle proprie condizioni di salute.
«Quante costole rotte?» si
informò educatamente.
«Due.»
«Contento?»
Kotaro la guardò incerto. «Non
capisco se è una battuta...»
«Lascia stare»
sospirò Chiharu
accomodandosi meglio tra i cuscini.
«Tu come stai?»
«Come al solito. Cardiopatica,
circondata da nevrotici e molto assonnata» troncò
in fretta.
«Vuoi che ti lasci riposare?»
Chiharu mugugnò qualcosa che
somigliava molto a un sì. Kotaro si fece piccolo piccolo e
iniziò a
tirare un filo che pendeva dalle bende attorno al suo torace. La
guardò di sottecchi, indeciso: era felice di trovarsi solo
con lei,
dal momento che la cosa non capitava praticamente mai, ma come al
solito lei non si impegnava a tenere viva la conversazione e lui si
sentiva un po' scemo.
«E' vero che hai stretto un
contratto di sangue?» chiese, sperando che fosse un buon
appiglio
per farsi degnare di qualche attenzione.
Nel suo letto Chiharu quasi
sussultò, ma si stampò in faccia l'espressione
più annoiata di cui
era capace. «Un contratto di sangue?»
ripeté lamentosamente. «Sei
pazzo? Sai quanto chakra richiede una di quelle evocazioni? Mi
verrebbe una sincope prima di finire i simboli.»
«Gaara ha detto che ci hai
riportati a casa con un'evocazione» insisté
Kotaro, anche se più
incerto. «Ha detto...»
«Era di Stupido» lo interruppe
Chiharu. «Io avevo dietro un rotolo per la dislocazione, ma
l'ho
perso – sai, per la storia del cavallo di
cui parlava il
Sesto Hokage... Così Stupido ha evocato
quel bestione. Gaara
avrà pensato che fosse mio perché Baka nel
frattempo si stava
occupando sia di te che di Loria: hai presente, no, tutto il suo
pomposo ripetere che è medico e Anbu e Unico Depositario
della
Verità...»
Chiharu rivolse un sorrisino
d'intesa a Kotaro e lui, bevendosi quel minuscolo momento di
complicità, prese per buona la sua versione senza dubitarne
nemmeno
un secondo.
«Ogni tanto anche Baka torna
utile» commentò con una risatina.
Soprattutto per distrarre i
compagni di squadra impiccioni...
Come naturale conseguenza
dell'averlo nominato, Chiharu ripensò alla visita in camera
della
sera prima, al momento di esitazione di Akeru e anche alla sua
delusione quando se ne era andato. Sì, ogni tanto Baka
tornava
utile... Per fortuna, però, era abbastanza Stupido da non
rendersene
conto.
*
Hitoshi odiava l'odore del
disinfettante, le uniformi bianche del personale e l'arredamento
privo di stile. Odiava le pantofole antiscivolo, i camicioni che gli
lasciavano scoperto il sedere e il pappagallo, che
avevano
provato a fargli usare per ben due volte. Odiava
quasi tutto
ciò che si muoveva o semplicemente stazionava all'interno
dell'ospedale, ma soprattutto, in quel preciso momento, odiava la
lontana Chiharu Nara. E un po' anche la vicinissima e ospedaliera
Sakura Uchiha, sua madre.
«Ahi!» sussultò
quando lei gli
staccò il cerotto che teneva fermo l'ago nell'avambraccio.
«Abbiamo finito con i prelievi»
gli annunciò lei sorridendo un po' tirata. «Il
tempo di farli
analizzare e sapremo cosa c'è che non va.»
Hitoshi distolse lo sguardo.
Sapevano entrambi cosa c'era che non andava: probabilmente i suoi
geni dello sharingan, invece di svilupparsi normalmente come quelli
di Fugaku e Mikoto, erano mutati in una neurotossina che lo avrebbe
ucciso lentamente. O rapidamente, a seconda della fortuna.
«Adesso posso riposare un po'?»
chiese rabbrividendo. «Il viaggio su quel rospo è
stato tremendo.»
«Certo» Sakura gli
accarezzò la
fronte, ma lui si scostò impacciato.
«Ho diciotto anni!»
E non aveva vissuto nemmeno un
decimo di quello che lei aveva già passato alla sua
età, pensò la
madre. Con un sospiro si scostò per gettare in un sacchetto
l'ago
utilizzato e i cerotti. Prima di lasciare solo Hitoshi si
premurò di
tirare le tende e assicurarsi che sul suo letto non arrivasse la luce
del mattino.
«Dà ancora fastidio?»
«No, così va meglio.»
«Hai fame?»
«Prima devo dormire almeno due
ore. Per favore. La testa mi esplode!»
Sakura si scusò sottovoce e
uscì
dalla stanza. Una volta all'esterno fece un lunghissimo sospiro e si
strinse nelle braccia. Dov'era Sasuke quando lei e Hitoshi avevano
più bisogno?
«Sakura! Sakura!»
Una voce altissima la fece
sobbalzare e per poco non la mandò a sbattere contro la
porta da cui
era appena uscita. In fondo al corridoio, a passo di corsa e agitando
freneticamente una mano, avanzava Naruto.
«Ho saputo che Hitoshi è
arrivato!» esclamò raggiungendola.
«Shhh! Sei in un
ospedale!
Sì, è arrivato, ma ha bisogno di riposare. Quel
tuo rospo gli ha
quasi dato il colpo di grazia!»
«Devo vederlo!»
Sakura gli piantò una mano in
mezzo al petto e attinse alle antiche risorse della leggendaria forza
di Tsunade.
«Oltre che sua madre, sono anche
il suo medico» lo minacciò. «Se cerchi
di disturbare il riposo del
mio paziente ti scaravento fuori dall'ospedale a calci!»
A sorpresa Naruto le prese la mano
e la strinse tra le sue, sfoderando un ampio sorriso.
«Fidati di me, Sakura. Alla fine
mi ringrazierai!»
Lei esitò per un secondo o poco
più, momento che Naruto sfrutttò per prenderla di
peso e spostarla.
Hitoshi lo vide comparire sulla
soglia senza tradire la minima sorpresa: con l'emicrania alle stelle
il suo udito si acuiva, e aveva intuito l'arrivo di Naruto dal
momento preciso in cui aveva aperto bocca in fondo al corridoio.
«Non azzardarti a dire qualcosa
di banale» lo minacciò puntandolo con il dito.
Naruto aprì la bocca e la
richiuse. Rifletté per un secondo, si grattò la
testa cespugliosa,
infine scrollò le spalle. «Meno male che sei
già arrivato!»
«Meno male?» ripeté
Hitoshi
sconcertato.
«Il team di punta lontano da
Konoha in un momento così critico!»
continuò Naruto,
calcando un po' la mano. «Non hai idea del putiferio che
è
scoppiato qui mentre voi eravate via! Ora che sei tornato puoi
aiutarmi a risolvere la situazione!»
Hitoshi fece una smorfia densa di
disprezzo. «E' scappato un altro furetto? Qualcuno richiede
urgentemente uova di nibbio?»
Naruto scosse la testa, sorridendo
come se lo avessero appena nominato Hokage di tutti gli Hokage. Se
Sakura avesse saputo della discussione tra lui e Sasuke si sarebbe
potuta aspettare un'iniziativa balzana; ma non lo sapeva. Fu
così
che, per il suo totale sbalordimento, Naruto spalancò le
braccia e
fece un annuncio.
«Sei appena stato promosso
Anbu!»
* * *
Bum!
Incomincia la riscossa (?) di Hitoshi!
O la fine di Naruto, per mano di Sakura.
Una delle due.
In ogni caso, avrete un po' di Uchiha aggratis
e tanto Naruto (che all'autrice piace assai).
Arrivederci alla prossima settimana!
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Capitolo 23 *** Nessuno ascolta i dottori ***
Penne 23
02/03/2016
Capitolo
ventitreesimo
Nessuno
ascolta i dottori
«Tu
non puoi
promuovere le
persone ad Anbu di punto in bianco!» sbottò Sakura
afferrando
Naruto per il colletto della giacca.
«Io sono l'Hokage!»
protestò
lui.
«Io
sono Hokage quanto te, testa vuota di un deficiente, sono anche
il medico del ragazzo che hai appena promosso, e ti dico che non puoi
farlo!»
«Ma perché no? Dai, Sakura,
lasciami fare! Non sai neanche cosa...»
«Scusate?» intervenne Hitoshi,
tirando il pappagallo – inutilizzato – tra i due.
Scese il
silenzio. «Come faccio ad essere promosso Anbu senza aver
fatto
l'esame?»
«Appunto!» concordò
Sakura con
evidente sollievo.
«Chissenefrega
dell'esame» rispose però Naruto. «Ho
già preparato tutte le
carte. E ti informo, cara Sakura,
che esiste una clausola nelle disposizioni per gli Anbu che dice che
in caso di grave necessità per il Villaggio i nuovi membri
della
squadra speciale possono essere eletti per nomina diretta dall'Hokage
in carica. Ovvero io.»
«Non c'è una grave
necessità
per il Villaggio!»
«Certo che c'è: la
spia.»
«Quale spia?» chiese Hitoshi.
«Stai divulgando informazioni
riservate!»
«Ormai è Anbu, non sono
più
riservate!»
«Naruto!» Sakura lo
afferrò per
un braccio. «Vieni fuori un momento.»
Naruto sbuffò e acconsentì a
seguirla di malavoglia. Insieme uscirono e lei richiuse la porta
della stanza.
«Sei impazzito?»
sibilò
furiosa. «Hitoshi è stanco e depresso, ha bisogno
di riposo! Cosa
ti è saltato in mente?»
«Hitoshi non ha bisogno di
riposo. Ha bisogno di fare qualcosa per dimostrare che non è
un
fallito!» rispose lui in un sussurro impaziente.
«Ma non capisci,
Sakura? Gli fa più male vedersi coccolato da te che fare una
missione con gli Anbu! Hitoshi ha bisogno di mettere a segno almeno
un punto prima delle tue cure, non puoi rinchiuderlo qui! Gli daresti
il colpo di grazia.»
Sakura si strinse nervosamente
nelle braccia. Come madre sentiva che c'era un fondo di
verità nelle
parole di Naruto, ma come medico sapeva che non conoscendo la causa
delle emicranie di Hitoshi poteva essere rischioso mandarlo in
missione.
«Ascolta... Aspettiamo il
risultato degli esami» propose schivando il suo sguardo.
«Ci
penserò, ma prima voglio vedere le analisi.»
Naruto annuì, anche se dentro di
sé penso che se ne sarebbe ampiamente infischiato delle
analisi.
«Posso tornare dentro?» chiese
subito.
«Per fare cosa, prima degli
esami?»
«Dai Sakura, gli ho accennato
della spia e non sono più andato avanti! Starà
morendo di
curiosità!»
Sakura roteò gli occhi e fece un
gesto esasperato. «Va bene! Ma se viene fuori anche solo un
parametro sballato sarai tu a dirgli che non può fare niente
di
tutte le grandi cose che stai per promettergli!»
Il volto di Naruto si aprì in un
grande sorriso orgoglioso. Senza neanche risponderle sgusciò
alle
spalle di Sakura e ritornò in tutta fretta nella stanza di
Hitoshi.
Sakura sospirò, turbata. Sasuke
avrebbe saputo come contenere Naruto... Se solo fosse stato
lì...
Dentro la stanza, nel frattempo,
la testa di Hitoshi minacciava di scagliare pezzetti di cervello in
tutte le direzioni: gli faceva talmente male che non era sicuro di
aver capito quello che stava dicendo Naruto.
«Non posso essere Anbu»
biascicò
reggendosi la fronte. «Non sono all'altezza...»
«Questo lo vedremo più
tardi»
rispose Naruto trascinando una sedia accanto al suo letto.
Hitoshi fece un gesto di fastidio
e si lasciò ricadere sui cuscini. Non avrebbe dato a Naruto
la
soddisfazione di sapere che era già stato respinto al test
per Anbu,
ma non poteva impedire a se stesso di saperlo fin troppo bene. Che
figura avrebbe fatto in mezzo a tutti quei ninja d'élite?
«Mi stai ascoltando?»
sbottò
Naruto accorgendosi che era distratto.
«Naruto, ti prego... La mia
testa...»
«Se tu mi avessi ascoltato,
saresti già fuori dal letto in cerca del tuo zaino. Non vuoi
sapere
chi è la spia?»
«Quale spia?» cedette Hitoshi,
aprendo gli occhi.
«Ora ragioniamo! Stavo dicendo
che mentre eravate via abbiamo scoperto che lo studio dell'Hokage
è
sorvegliato. Non sappiamo da chi né come, persino gli Hyuuga
si sono
arresi e hanno ammesso di non riuscire a individuare nessuno, ma
sappiamo che c'è qualcosa là
fuori.»
Hitoshi si sollevò su un gomito,
suo malgrado intrigato.
«Nemmeno gli Hyuuga ci sono
riusciti?» chiese, segnando mentalmente un punto contro le
tecniche
oculari.
«Nemmeno gli Hyuuga. Per fortuna
il corpo di polizia della Foglia non è composto solo da quel
cretino
di tuo padre, ma anche da tanti bravi ragazzi, e, grazie a una
soffiata, loro sono riusciti a restringere i sospetti su una sola
persona... Vuoi sapere chi?» ghignò Naruto.
«Chi?» Hitoshi si sporse in
avanti.
Naruto si tirò indietro e di
colpo si alzò, allontanando la sedia dal letto.
«Ehi!» protestò
Hitoshi, ma il
maestro scrollò le spalle senza smettere di sorridere
allegro.
«Tua madre mi ha fatto giurare di
attendere i risultati delle tue analisi, quindi fino a domani potrai
pensarci da solo.»
«Pensarci da solo? Senza indizi?
Ero via quando avete scoperto della spia, come diavolo
faccio?»
«Consideralo il tuo test di
ammissione.»
«Ma... E se le analisi danno
cattive notizie?»
«Dai, siamo seri: chi li ascolta
davvero i dottori?»
Hitoshi ricadde pesantemente sui
cuscini, masticando insulti tra i denti mentre Naruto turbinava
fuori.
La testa pulsante tornò a
catturare tutta la sua attenzione, perversa, ma i suoi pensieri
dribblarono il dolore e iniziarono a macinare possibilità.
Una spia?
A Konoha? Da quanto tempo? Perché? Un paio di idee le
aveva...
Tra un sospetto e l'altro,
concentrato com'era ad analizzare i comportamenti di tutti gli
shinobi che conosceva, non si accorse nemmeno che la nuova
preoccupazione gli stava impedendo di piangersi addosso, ma
soprattutto di chiedersi perché suo padre non fosse ancora
venuto a
trovarlo.
*
«Non
ho una tua cartella clinica, ho solo parlato con il Kazekage.»
Il
medico sfogliò gli appunti sulla scrivania con espressione
corrucciata. La parte pratica della visita si era appena conclusa, e
Chiharu stava finendo di rivestirsi.
«Se
fossi una mia paziente ti farei ricoverare immediatamente per un
ciclo di analisi complete e ti spedirei uno psicologo per discutere
di un cambio di carriera.»
Chiharu
tirò fuori la coda dalla maglietta e sbuffò.
«Non sto così male.»
Il
medico prese dal cassetto della scrivania un blocco di fogli nuovi e
una penna. «Le malattie cardiache sono spesso asintomatiche,
finché
non conducono all'arresto circolatorio. Di solito l'unica cosa che
riferiscono i pazienti è un po' di dolore sotto
sforzo.»
Chiharu
ricordò tutte le volte che nel mezzo di una missione aveva
sentito
un peso sopra lo sterno, come una mano che si stringeva attorno al
cuore e le rendeva difficile respirare... Si sforzò di non
mostrare
reazioni e si sedette davanti alla scrivania.
«Ma
io sono uno shinobi» disse in tono neutro.
Il
medico firmò il primo foglio e la guardò da sopra
le lenti degli
occhiali. «Se continui a ignorare la tua salute, potresti non
dovertene preoccupare ancora per molto.»
Chiharu
deglutì. Normalmente non avrebbe ascoltato il parere di uno
sconosciuto, ma il ricordo del malessere che l'aveva colta dopo la
missione di Loria era abbastanza fresco da farle sorgere qualche
timore. Aveva sempre preso relativamente alla leggera i problemi del
suo cuore, anche perché andare in missione con Naruto voleva
dire
non essere mai realmente in pericolo, ma ora che Naruto non poteva
più seguirli, quanto spesso avrebbe dovuto faticare come
l'ultima
volta? Quante volte ancora sarebbe dovuta ricorrere alla Lophenaria
del nonno?
«Ti
sto segnando alcune analisi...» riprese il medico,
continuando a
compilare fogli. «Posso chiedere un favore all'ospedale di
Suna e
farti ricoverare immediatamente. Nel giro di un paio di giorni avremo
i primi...»
«Aspetti
un minuto» lo interruppe lei. «Non voglio farmi
ricoverare.»
Il
medico smise di scrivere per fissarla. «Non vuoi?»
posò la penna.
«Chiharu... Credo che tu non abbia ben chiara la
gravità della
situazione. Il tuo cuore in questo momento è molto
più simile a
quello di un settantenne che a quello di una ragazza di diciotto
anni. Non sono sicuro che riusciresti a ritornare a Konoha... Anzi,
per quanto mi riguarda è troppo rischioso.»
«Quindi
dovrei restare qui ad aspettare... cosa?»
«Abbiamo
bravi specialisti...»
«No»
Chiharu si irrigidì. «Se devo fare qualcosa per la
mia salute
voglio farlo a casa mia, con i miei medici e le mie cose. Voglio
tornare a Konoha.»
Aveva
parlato in fretta, resa nervosa dal tono serio del dottore.
Perché
sembrava tanto preoccupato? Perché parlava di ricovero,
analisi,
cambi di mestiere...? Non poteva essere così grave.
«Non
posso darti il mio consenso» disse l'uomo, intrecciando le
mani
sulla scrivania.
«E'
indispensabile?»
«No.
Sei maggiorenne, hai il diritto di essere informata e scegliere
liberamente... Ma...»
«Allora
voglio tornare a casa.»
Il
medico corrugò la fronte. «Potresti stare male
lungo il viaggio.»
«Ho
alcuni... integratori che mi hanno dato alla Foglia. Per le
emergenze» disse Chiharu pensando alla Lophenaria.
«Sarebbe
meglio evitare medicinali e integratori, almeno finché non
avrai
fatto degli esami completi.»
Chiharu
serrò le labbra, agitandosi un altro po'. Niente
Lophenaria? Allora quello stupido di Stupido un
po' ci
aveva preso? Ma senza Lophenaria
come avrebbe nascosto agli altri shinobi di Konoha quanto fosse
faticoso il viaggio per lei?
«Resta
a Suna» tentò ancora il medico, sfoderando il
meglio delle tecniche
di persuasione che aveva imparato nel corso degli studi. «Ci
prenderemo cura di te, faremo esami approfonditi e valuteremo il modo
migliore per farti tornare a casa. Sarà questione di pochi
giorni,
al massimo alcune settimane, e non resterai da sola: probabilmente il
tuo compagno dovrà trattenersi un po' di tempo in attesa che
calcifichino le coste... E anche tua madre resterà
sicuramente con
te.»
Intere
settimane sola con Temari? Chiharu inorridì.
«Voglio
tornare a Konoha» ripeté meccanicamente.
«Dove devo firmare per
scaricarla della responsabilità?»
Il
medico sospirò e spinse verso di lei un piccolo plico di
ricette,
chiedendosi perché nessuno ascoltasse mai i dottori..
«Ti farò
avere i moduli... Ma pensaci un altro po'. Il Kazekage non ha ancora
deciso quando far ripartire il vostro gruppo, prenditi del tempo per
rifletterci. Almeno una settimana.»
Chiharu
annuì distrattamente, prendendo i fogli.
«Visto
che non vuoi farti fare esami approfonditi, ho aggiunto un
ricostituente per eliminare le tossine. Quando il miocardio entra in
sofferenza...» il medico si interruppe, scrollando la testa.
«Penso
che non ti interessi. Prendi le pillole che ti ho segnato, aiuteranno
a eliminare un po' di schifezze dal tuo sangue. Inclusi quegli
integratori che ti hanno dato a Konoha.»
Chiharu
annuì di nuovo, lo sguardo a frugare la calligrafia
incomprensibile
sui fogli che aveva ricevuto. «Una cosa» disse,
prima di alzarsi.
«Non voglio che i dati sulla mia salute vengano comunicati a
mia
madre o a mio zio. Se no la trascino in tribunale.»
Il
medico scosse la testa, stringendosi nelle spalle. Non era d'accordo,
non era soddisfatto, ma alla fine la sua coscienza era a posto: non
poteva salvare tutti.
Seduta a gambe incrociate sul
letto dell'infermeria, Chiharu si fissava i polsi alla luce della
luna. Dietro la tenda sentiva il russare sommesso di Kotaro, da
qualche parte il ronzio di un condizionatore. La pelle dei suoi
avambracci riluceva debolmente nella penombra. Là dove il
polso si
assottigliava emergevano lievemente le vene.
Con tre dita andò a sentire il
battito cardiaco poco sotto il pollice: tu-tum. Tu-tum.
Tu-tum.
Faceva il suo lavoro. Tu-tum. Tum. Tutum. Tolse le
dita.
Davvero era bastata una sola
missione per ridurla a una settantenne?, si chiese ripensando alla
visita di quella mattina. Si era trattato di
naturale peggioramento o la Lophenaria c'entrava
qualcosa? Era
stata imprudente? Forse era stata l'evocazione?
All'ultimo pensiero la sua
mandibola si irrigidì visibilmente. Kotaro aveva chiesto
dell'uccello, Gaara lo aveva visto, sua madre ne era stata
informata... Cosa aveva in mente Kakashi? Le aveva sempre
espressamente vietato di usare quell'evocazione, perché
adesso le
aveva chiesto di farlo? Doveva sapere che una cosa del genere nel
mezzo di una missione di gruppo avrebbe suscitato domande... Le
veniva in mente solo una possibile motivazione, ma anche quella non
spiegava perché l'avesse fatto proprio adesso.
E comunque, rifletté con
disappunto, se il suo peggioramento era dovuto all'evocazione, beh,
non era nei patti.
Scivolò fuori dal letto e
silenziosamente indossò le ciabatte che le avevano lasciato
per
quella notte. Dal momento che voleva evitare le domande di Temari
aveva chiesto di restare a dormire in infermeria, e visto che il
medico preferiva averla sott'occhio aveva accolto l'idea senza fare
storie. In punta di piedi, facendo attenzione a non svegliare Kotaro
né il medico di guardia, uscì e percorse i
corridoi che portavano a
una porticina sul retro, allarmata durante la notte. Lì
accanto
c'era un piccolo deposito di biancheria sporca, a quell'ora vuoto.
Chiharu vi entrò silenziosamente, guardandosi alle spalle
per un
istante.
Dentro era completamente buio, ma
non le serviva luce per fare quel che stava per fare:
nell'oscurità
compose un'elaborata serie di sigilli, sentì l'enorme
prelievo di
chakra che le fece vacillare le gambe, e un momento dopo dal nulla
comparve uno sbuffo di polvere tenuemente illuminata, al centro del
quale svolazzava un minuscolo uccellino dorato.
Nel vederla lanciò un gridolino
acuto, e frullando le ali si posò su un tavolo libero.
«Shh» sussurrò lei
ansiosamente, quindi trattenne il respiro per alcuni secondi: nessun
rumore. Solo allora si rilassò. «Ho un messaggio
per Suzaku»
sibilò inginocchiandosi. «Non ha rispettato i
patti. Sono molto
arrabbiata con lui.»
L'uccellino la guardò inclinando
la testa in un espressione meditabonda o calcolatrice, era difficile
dirlo, poi scrollò le penne in una sorta di risposta
incomprensibile. Senza aspettare il via libera di Chiharu si
sgranchì
un'ala per volta e scomparve nella stessa nuvoletta di fumo in cui
era arrivato.
Chiharu si rialzò a tentoni,
cercando la maniglia della porta nel buio. Il suo cuore batteva
forte, questa volta per l'agitazione: forse aveva osato troppo,
aggiungendo l'ultima frase? Si sarebbe dovuta fermare ai patti non
rispettati? Quell'azzardo le sarebbe costato qualcosa? Anche se fosse
stato, ormai era fatta.
Una volta fuori la penombra del
corridoio le sembrò piena luce dopo le tenebre dello
stanzino. Con
cautela richiuse lo sgabuzzino e tornò verso l'infermeria.
La mattina dopo sia lei che Kotaro
furono svegliati da un'infermiera brusca e assai poco
compassionevole. Nonostante gli infruttuosi tentativi di Chiharu per
scomparire sotto le coperte, Kotaro cercò in ogni modo di
fare
conversazione, felice e allegro come solo un maniaco dell'allenamento
sa essere di prima mattina. Il medico passò a visitarli
subito dopo
colazione, poi, a sorpresa, arrivò anche Gaara.
«Sembra che abbiate bisogno di
più tempo del previsto» commentò
corrucciato scrutando i due
ragazzi. «Ho parlato con il personale dell'infermeria, hanno
consigliato almeno una settimana di riposo per entrambi prima di
rifare il viaggio verso Konoha. A questo punto immagino che il resto
del gruppo partirà senza di voi» Sia Chiharu che
Kotaro scattarono
a sedere e iniziarono a protestare contemporaneamente, ma Gaara li
fermò con un cenno. «Non è una mia
scelta, sono disposizioni
mediche. E non posso trattenere un'intera squadra per
aspettarvi.»
«Io non ho niente che non va!»
sbottò Chiharu, mentendo con una naturalezza invidiabile.
«Non
potete costringermi a restare qui da sola un'intera
settimana!»
Soprattutto se ci resta anche
mia madre!, aggiunse mentalmente.
«Ero solo venuto a
comunicarvelo»
specificò Gaara, ignorandola. «Gai Maito, Rock Lee
e Baka Akeru
partiranno in tarda mattinata.»
«Stupido
tornerà a
prendersi tutto il merito della missione?» esclamò
Kotaro
indignato. «Nobile Kazekage, la prego, mi dia ancora tre
giorni.
Anzi, due! Solo due giorni! Tra due giorni sarò abbastanza
in forma
per...»
«Tra due giorni sarai in forma
meno di oggi, se non la smetti di gridare» intervenne il
medico
scostando la tendina che separava i tre dal resto dell'infermeria.
Kotaro strinse le mani sul
lenzuolo, le folte sopracciglia corrucciate fino ad unirsi. Per una
volta, la prima e forse unica volta che poteva prendersi il merito di
una missione in cui Hitoshi Uchiha non c'entrava, Baka Akeru
si sarebbe preso il suo trionfo?
«Stasera» digrignò i
denti.
«Stasera mi visiti di nuovo e mi dia il via libera oppure no.
Soltanto dodici ore!»
Gaara e il medico scambiarono
un'occhiata, poi il medico sospirò e scrollò le
spalle. «Non
cambierà niente in dodici ore.»
«Se non sarà cambiato niente
accetterò di restare a riposo. La prego!»
Gaara socchiuse gli occhi e sembrò
valutare la richiesta. Alla fine accettò, ma disse che prima
avrebbe
sottoposto la questione a Gai, Rock Lee e Akeru. Kotaro tirò
un
visibile sospiro di sollievo, lasciandosi ricadere sui cuscini.
Chiharu, lì accanto, pensò con orrore che in
dodici ore non sarebbe
mai e poi mai riuscita a convincere il medico a lasciarla partire.
«Posso firmare le carte per
partire contro il parere del medico, vero?» chiese
ansiosamente.
Gaara la fissò per un lungo
momento. «Potresti» disse quindi, lentamente.
«Ma tua madre non mi
perdonerebbe mai se sapesse che te l'ho lasciato fare, soprattutto
considerato che hai espressamente vietato al nostro personale di
farci sapere quali sono le tue condizioni. Se davvero tu firmassi
quei fogli mi vedrei costretto a trattenerti per vie
politiche.»
Chiharu fu certa di vedere
l'accenno di un sorriso all'angolo della bocca del medico. Che odio!
Strinse il lenzuolo tra le dita e non disse più niente,
facendo
lavorare furiosamente il cervello.
Quando Gaara e il medico si furono
allontanati parlando tra loro, Chiharu gettò un'occhiata di
fuoco a
Kotaro.
«Dodici ore?» ripeté
furente.
«Io che diavolo faccio in dodici ore?»
«Chiharu, mi dispiace...»
balbettò lui improvvisamente mortificato. «Non ho
pensato...
Perdonami, è solo che...»
«E tu che diavolo fai
in
dodici ore?» lo interruppe lei. «Hai due costole
rotte, per la
miseria!»
Kotaro abbassò lo sguardo e
giocherellò con il lenzuolo, mormorando scuse
inintelligibili.
Chiharu strinse i denti, buttò indietro le coperte e scese
rabbiosamente dal letto.
«Dove vai?» chiese Kotaro tutto
ansioso. Ma Chiharu non rispose, e avvolta solo nel camicione
dell'infermeria uscì in corridoio sbattendo la porta.
Avrebbe seguito Gaara, si disse.
Lo avrebbe preso a quattr'occhi e gli avrebbe spiegato che restare a
Suna con sua madre un'intera settimana avrebbe scatenato cataclismi
di proporzioni inaudite. In qualche modo lo avrebbe convinto a
lasciarla andare. E avrebbe fatto emigrare il medico dell'infermeria
prima che potesse infrangere il segreto professionale.
Invece incontrò Temari, neanche a
due minuti dalla partenza. Trasalì, considerando l'idea di
nascondersi dietro un vaso di fiori, ma capì che era troppo
tardi.
«Cosa fai in giro mezza nuda?»
si sentì chiedere.
«Cosa fai in giro a quest'ora?»
replicò stringendosi addosso il camicione.
«Ho una figlia ricoverata, per
esempio.»
«E io sono vestita da ricoverata,
per esempio.»
Temari la scrutò sospettosamente.
Conosceva le tattiche evasive di Chiharu come le sue tasche. Qualcosa
puzzava.
«Dove stavi andando?» chiese
senza mezzi termini.
La miglior difesa è l'attacco,
pensò Chiharu al volo.
«Perché non vuoi tornare a
Konoha?»
Temari serrò le labbra e assunse
la stessa posizione della figlia, con le braccia serrate sul petto.
«C'entra papà, ma
perché?»
insisté Chiharu.
«E tu perché hai stretto un
Contratto di Sangue senza dirmelo?»
«Cosa gli hai fatto, per doverti
nascondere fin qui?»
All'improvviso le guance di Temari
si coprirono di rossore rabbioso. «Perché dai
sempre per scontato
che i problemi in famiglia li causi io? Se resto a Suna è
per
qualcosa che tuo padre ha fatto!»
Chiharu fu colta completamente
alla sprovvista. Per un attimo non seppe cosa ribattere, fissando
Temari a bocca aperta.
«E se Shikamaru ha un briciolo di
buonsenso, alzerà il sedere e verrà a
riprendermi» concluse lei
recuperando il controllo. «Stavamo parlando del tuo
Contratto,
giusto?»
«No. No no no, torna indietro un
momento. Che cosa ha fatto papà per farti arrabbiare fino a
questo
punto? Papà: quello che piuttosto che
perdere energie a
litigare ti dà ragione anche quando non ne hai per
niente!»
Temari roteò gli occhi. Quando ci
si metteva Chiharu era sgradevolmente testarda, peggio di lei: non
poteva spiegarle dinamiche familiari che i figli avrebbero fatto
meglio a non indagare.
«Bene, visto che vuoi parlare
parliamo della notte prima della missione»
contrattaccò. «Perché
Gaara dice che non ti sei fatta viva per chiedergli un'altra stanza,
quindi dov'eri?»
Chiharu impiegò qualche istante
per capire a cosa alludesse. Poi i ricordi della notte con Hitoshi le
affollarono la mente tutti insieme, e per un momento si
sentì
vacillare. La notte con Hitoshi. Sembrava mille
anni prima.
«Mi-mi sembrava che la segretaria
mi tenesse d'occhio» improvvisò.
«L'avevo vista intorno alla
stanza e non volevo che sospettasse qualcosa... Mi sono infilata in
una camera vuota. La più vicina.»
Temari strinse le palpebre, poco
convinta. Stava per aggiungere una domanda, ma Chiharu lo sapeva,
così come sapeva che la storia non era pronta nella sua
mente e che
in faccia era di un colore che la accusava più di qualunque
parola.
Capì che doveva correre in ritirata, subito, prima di
crollare, o le
conseguenze sarebbero state catastrofiche.
«Se vuoi chiedere a Kotaro ti
confermerà che non ho fatto tardi» disse in
fretta, quasi da
mangiarsi le parole. «Ma poi che te ne frega? Ho diciotto
anni e la
missione è stata un successo! Sei opprimente!»
si lamentò
con tono petulante. E allora, stringendosi convulsamente addosso la
camicia – perché aveva l'impressione che si
vedesse, che
Temari avrebbe capito anche solo guardandola – si fece
piccola per
sgusciare tra la madre e il muro e si allontanò quasi
correndo, le
orecchie sorde ai richiami alle sue spalle. Non poteva davvero
affrontare una discussione su Hitoshi e sulla sua imbarazzante
incapacità di respingere le sue avances.
Non in quel momento,
quando aveva questioni molto più importanti da risolvere.
Arrivò fino in fondo al
corridoio, salì il primo piano di scale, e solo quando fu
oltre il
secondo si fermò per riprendere fiato. Hitoshi!,
pensò
allora. Tornare a Konoha significava rivedere Hitoshi, che
sicuramente si aspettava un chiarimento, che forse la odiava per
averlo spedito a casa, e che addirittura in quel momento poteva
essere ricoverato, mezzo moribondo... Al pensiero non era
più tanto
sicura di voler correre indietro.
D'altro
canto restare era almeno doppiamente pericoloso, per sua madre e per
quel maledetto medico ficcanaso, e poi... le seccava che Stupido si
prendesse il merito per una missione del gruppo sette. Stupido,
dai!
E fu pensando a lui che capì di
doverlo costringere ad aiutarla.
Prima di andare a cercarlo tornò
a rivestirsi, ignorando Kotaro che dietro la sua tenda faceva
chissà
cosa – probabilmente riti sciamanici proibiti per la
guarigione
immediata delle costole. Aveva raggiunto l'infermeria per una strada
contorta e lontana dai passaggi abituali di Temari, ma continuava ad
avere l'impressione che la madre sarebbe sbucata da dietro i vasi per
sottoporla a un nuovo interrogatorio.
Prima di tutto pensò di cercare
Kankuro per scoprire quale fosse la stanza di Stupido,
perché gli
sembrava la persona più affidabile e meno coinvolta a cui
rivolgersi. Ma non avendo la minima idea di dove trovarlo si
trovò a
vagare nei pressi dello studio di Gaara sperando che lo zio decidesse
di fare un salto dal fratello. Mentre aspettava cercando di sembrare
innocente, si imbatté precisamente nel gruppetto degli
shinobi di
Konoha che avevano appena finito di discutere del rientro nel paese
del Fuoco. Un attimo prima di trovarseli di fronte intrecciò
le dita
in una serie frenetica di sigilli e si appiccicò alla parete
attivando la tecnica della mimetizzazione.
Gai, Rock Lee e Stupido le
passarono davanti senza accorgersi di nulla, immersi in una
conversazione serena: Chiharu captò qualcosa riguardo a sua
madre
che aspettava l'arrivo di Shikamaru e un paio di agghiaccianti
battute che avrebbe preferito non sentire, poi lasciò che
svoltassero oltre una curva del corridoio e sciolse la tecnica per
pedinarli.
Per sua fortuna Stupido si separò
dagli altri quasi subito, dicendo che gli doleva ma doveva rinunciare
al loro allenamento nel deserto per preparare lo zaino. Rock Lee e
Gai lo lasciarono andare e sparirono pieni di entusiasmo, lui invece
salì fino al primo piano e aprì una porta nel
corridoio degli
ospiti. Fu allora che Chiharu si fece vedere.
«Non dovresti essere in
infermeria con un camicione e una flebo nel braccio?»
trasalì Akeru
notandola.
«Ho bisogno del tuo aiuto.»
Lo stupore di Akeru durò una
frazione di secondo, subito sostituito dalla tracotanza. Con un gesto
cerimonioso le indicò l'ingresso della stanza e la
lasciò passare
per prima, gongolando silenziosamente. Quando furono entrambi dentro
richiuse la porta e ci si appoggiò, il mento ben alto e un
sorriso
di trionfo impossibile da nascondere.
«Gaara ci ha detto che tu e
Kotaro volete fare gli splendidi cercando di auto-curarvi in dodici
ore... Lasciami indovinare: vuoi che falsifichi i tuoi esami per
farti tornare a Konoha con noi?»
Chiharu fece un gesto stizzito,
ferma in un angolo con le braccia strettamente ripiegate sul petto.
«Non voglio che falsifichi niente. Dimmi come posso
falsificarmi gli
esami da sola.»
«Non puoi falsificarti gli
esami...»
«Sì che posso. Dimmi cosa devo
prendere perché il mio cuore sembri in ordine e il mio
sangue
scintillante.»
«Ti sto dicendo che non puoi.
Anche se fossi d'accordo nel lasciartelo fare – e non
lo sono,
sia chiaro – avresti bisogno almeno di un paio di giorni
perché le
droghe facciano effetto come si deve.»
Chiharu serrò la mandibola.
«Sono
piuttosto sicura che ci sia qualcosa che non mi stai dicendo.»
Akeru ridacchiò, allontanandosi
dalla porta. «Nessuno ascolta mai i dottori, eh? Prova con la
Lophenaria di tuo nonno, probabilmente è
più potente di
qualunque mio intruglio. Ora scusa ma ho da fare. Mi dispiace di non
esserti stato d'aiuto.»
Mentre lui allungava il braccio
per raggiungere lo zaino ai piedi del letto, Chiharu gli
afferrò il
polso.
«Non ti prenderai il merito della
mia missione!»
Lui la guardò un po' stupito, poi
scoppiò a ridere. «Allora è questo il
problema? Non ho bisogno di
prendermi il merito della vostra missione, Chiharu. Sono un Anbu,
ricordi?»
Lei aumentò la stretta.
«Ricordo
fin troppo bene chi sei; per questo voglio tornare con voi, o non
tornerai neanche tu.»
Akeru inspirò a fondo, senza
cercare di sottrarre il braccio. «Ascolta, Chiharu. Qui non
è
questione di una missione in più o in meno» le
spiegò con tono
vagamente cerimonioso. «E' questione del tuo cuore, che fa
schifo,
soprattutto se vuoi fare la kunoichi. Non puoi farti tre giorni di
corsa con la cartella clinica che ti ritrovi: ci costringeresti ad
andare al piccolo trotto, e neanche così sarei sicuro di
farti
arrivare tutta intera. Forse dovresti iniziare a guardare in faccia
la realtà e fare qualcosa per rappezzarti i
ventricoli.»
«Non voglio la paternale, voglio
solo un paio di indicazioni mediche» insisté lei,
mollandogli il
braccio di scatto.
«E' così importante tornare
prima di me?»
«E' importante non restare a
Suna con mia madre!»
Di nuovo Akeru scoppiò a ridere,
questa volta tanto da doversi sedere sul letto. «Sul serio?
Hai
paura di restare qui con lei?»
«Non. Ridere.» Chiharu
digrignò
i denti, sentendo le guance infiammarsi per la frustrazione.
Akeru riprese fiato e si costrinse
a limitarsi a un sorriso. In effetti, ora che ci pensava, neanche lui
avrebbe fatto i salti di gioia all'idea di restare in balia di
Temari... Ma, insomma, Chiharu Nara sull'orlo della supplica era
troppo allettante per rinunciare a infierire in nome della
pietà.
«Chiedimelo per favore»
suggerì.
Chiharu avvampò, colta
dall'insopprimibile desiderio di scoprire di che colore fosse il suo
sangue. Si disse che aveva fatto un errore colossale pensando di
rivolgersi a lui, e per un momento fu tentata di tirargli un cazzotto
e andarsene... Poi si fermò.
Akeru era davvero la sua unica
speranza di tornare a Konoha. Solo un medico poteva trovare il modo
di fregare un altro medico. Doveva convincerlo ad aiutarla, non
poteva permettersi di lasciarlo vincere. Non poteva. Non voleva
restare di nuovo indietro, come cinque anni prima, bloccata in un
letto di ospedale mentre Kotaro apriva Porte del Chakra come fossero
sacchetti di patatine.
Ingoiò gli insulti che le erano
saliti alle labbra, ingoiò l'orgoglio e gli anni di odio
conclamato,
per un secondo si trovò addirittura a pentirsi di essere
stata
crudele con Baka quando le aveva fatto la sua confessione... Poi fece
un respiro profondo, sentendosi morire dentro, e parlò.
«Per favore.»
Il sorriso sfumò dalle labbra di
Akeru. Di punto in bianco l'aria si riempì di disagio.
«Ascolta...» tentò
lui, ma lei
si avvicinò e lo interruppe.
«Per favore.»
Akeru ammutolì, fissandola. Vide
le labbra pallide, le occhiaie sotto le palpebre, i muscoli del collo
tesi. Sembrava importante, anche se probabilmente non gli stava
dicendo tutto: di solito Chiharu lo guardava con disprezzo, sarcasmo,
o almeno un filo di supponenza; oggi invece lo guardava come se dal
suo parere dipendesse ogni cosa.
Pensò di chiederle di spiegargli
davvero perché voleva andarsene, ma appena prima che potesse
farlo
la sua mano si mosse da sola e la afferrò per il polso. La
tirò a
sé, dimenticandosi la domanda e il bel discorso sull'etica
che aveva
propinato a Temari; la tirò giù, cercando la sua
bocca come non
aveva mai nemmeno osato pensare, e la baciò.
Chiharu, abbastanza sbalordita da
non riuscire a reagire, si irrigidì per un istante; poi,
sorprendentemente, cedette e dischiuse le labbra.
Akeru si chiese cosa stava
facendo. Fece scivolare l'altra mano sulla sua nuca e con un unico
movimento la sospinse sul letto, scivolando su di lei per bloccarla
con il peso del proprio corpo. Cosa stava facendo?, domandò
ancora,
e sprofondò il viso nell'incavo del suo collo, rabbrividendo
quando
un suo ansito gli solleticò l'orecchio. Cosa,
cosa, cosa diavolo
stava facendo?, si chiese per l'ultima volta.
E alla fine, quando sentì le dita
di Chiharu premere sulla sua schiena, smise di chiederselo.
* * *
Chiedo umilmente il vostro perdono.
Come è mia sgradevole abitudine vi ho ingannati di nuovo.
Dopotutto, *quella parte* è rimasta.
Però questa volta hanno fatto una doccia.
Buongiorno a tutti!
La primavera è alle porte e io sono stata risucchiata dal
terribile vortice del giardinaggio.
Ma non temete: la notte è per forza dedicata alla scrittura,
dovrei riuscire ancora a cavarmela.
E' davvero dura incastrare nella trama le cose che devono ancora
accadere
(a 20 anni sembrava tutto molto più semplice, mannaggia),
ma riempiendo interi file di "cose da ricordare" e rileggendoli spesso
ci sto dietro.
Spero.
Ancora una volta: se vedete incongruenze avvisatemi!
Grazie per essere arrivati fin qui!
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Capitolo 24 *** Anbu ***
Penne 24
Capitolo
ventiquattresimo
Anbu
Hitoshi si era preparato come se
quella mattina non si fosse svegliato in un letto d'ospedale, ma
direttamente nella sua camera. Profumato e vestito in maniera
impeccabile studiò il proprio riflesso nello specchio;
sistemò un
ciuffo di capelli che ricadeva male. Ora sembrava abbastanza
rispettabile.
Quella notte aveva riposato come
un bambino. Il mal di testa si era spento nel sonno – o negli
analgesici – e non si era ripresentato al risveglio. Si
sentiva
riposato come non gli accadeva da giorni. Ora doveva solo aspettare
le analisi di sua madre, poi si sarebbe presentato a Naruto
annunciandogli che aveva una rosa di tre candidati al ruolo di spia.
La porta della camera si aprì, e
Sakura si fermò stupita sulla soglia.
«Cosa fai fuori dal letto?»
«Ciao mamma. Ottimizzo il
tempo.»
Sakura lasciò cadere le braccia
lungo i fianchi, facendo frusciare i fogli che stringeva in mano.
«Naruto ha avuto una pessima influenza sul tuo
sviluppo.»
«Naruto? Non dire sciocchezze,
è
l'ultima persona a cui potrei mai ispirarmi. Gli esami?»
«Niente che non vada. Niente di
particolarmente strano, niente valori anomali, niente di niente di
niente!» sbottò lei.
«Preferivi il contrario?»
«No! Ma vorrei capire perché
ti
si spacca la testa se non hai nulla che non va!»
Hitoshi sorrise amaro, abbassando
lo sguardo su un pelucco invisibile per non incontrare quello di lei.
«Sappiamo cosa c'è che non va.»
«Oh, adesso non cercare di
insegnarmi il mestiere. Devo ancora arrivare ai test
genetici.»
Suo malgrado Hitoshi rise,
rialzando la testa. «Bene, il tuo patto con Naruto
è salvo. Adesso
posso andare a cercarlo?»
Sakura sbuffò. «Figurati. L'ho
bloccato al piano di sotto, altrimenti sarebbe già qui
davanti...»
Hitoshi rise di nuovo, ma non
perse altro tempo. Con un saluto un po' distratto la lasciò
sola e
uscì in tutta fretta, già proiettato verso
l'incontro con Naruto e
la sua imminente promozione. Sakura lo guardò andare via e
fece un
sospiro profondo.
Non vedeva Sasuke da prima che
Hitoshi tornasse.
Hitoshi trovò Naruto che fremeva
ai piedi delle scale. Non ebbe nemmeno il tempo di annunciargli che
gli esami erano in perfetto ordine, che il maestro lo
afferrò per la
nuca e lo trascinò fuori dall'ospedale, completamente
disinteressato
alle analisi.
«Adesso ti do il materiale e tu
te lo studi tutto entro stasera» disse senza nemmeno
salutarlo.
«Frena, frena!»
esclamò Hitoshi
divincolandosi dalla sua stretta. «Quale materiale? Non
dovevamo
parlare? Io ho pensato a chi può essere la spia!»
Naruto lo fissò stranito. «Ma
quello era per far stare tranquilla tua madre!»
«Cosa? Ho passato tutta la
giornata a scervellarmi!»
«Davvero? Ma noi sappiamo già
chi è la spia. Cioè, chi pensiamo che
sia...» abbassò di colpo la
voce, passando a un tono a malapena udibile.
«Hai detto che era il mio esame
di ammissione!»
«Prima di quello ho detto che per
quanto mi riguarda eri già stato ammesso. Sei poco
attento!»
Hitoshi lasciò crollare le
spalle, arrendendosi. Naruto aveva deciso tutto chissà
quanto tempo
prima, incurante del suo parere o di quello di Sakura. Probabilmente
anche se gli esami avessero indicato che era in fin di vita lo
avrebbe trascinato in quella missione solo perché ormai
aveva deciso
così.
«Naruto...» sussurrò
nervosamente, evitando il suo sguardo. «Ti ricordi che non ho
lo
sharingan, vero?»
«E con questo?» Naruto gli fece
arrivare una scoppola. «Nessun altro Anbu ce l'ha, e questo
non è
mai stato un problema. Forse solo per quel rimbambito di tuo padre.
Ma lui è pazzo.»
Hitoshi non seppe come reagire.
Ammettere a voce alta di non avere lo sharingan era una cosa che gli
capitava assai di rado: un po' era sollevato, ma anche più
afflitto.
Non aveva voglia di difendere suo padre, in quel momento; preferiva
seguire Naruto.
«Dove dobbiamo andare?»
sospirò.
«A casa mia, ovviamente. Lo
studio è sorvegliato, ricordi? Micchan sarà
felice di vederti!»
L'enorme villa di Naruto era come
sempre popolata di gatti in varie sfumature del beige, accoccolati
sul portico a prendere il sole o impegnati a pattugliare i tetti.
Prima dell'ora di pranzo Hitoshi si trovò seduto nel
salottino
informale della villa davanti a un tè bollente, con un
gattino di
pochi mesi che gli annusava meticolosamente i piedi. Strano che la
casa non puzzasse come il covo di una zitella.
«Questo è il mattone con i
documenti» stava spiegando Naruto, sfogliando davanti a lui
un plico
spesso diversi centimetri. «La maggior parte dei fogli sono
inutili,
gli Hyuuga sanno essere noiosissimi. Vai direttamente agli
ultimi.»
Hitoshi tirò un calcetto discreto
al gattino e si protese per sbirciare.
«Quindi chi è la
spia?» non
poté fare a meno di chiedere.
«Yoshi, quel ragazzino con i
capelli assurdi che fa l'Accademia anche se ha l'età per
votare.»
Suo malgrado, Hitoshi esultò
interiormente: «Lo sapevo!»
«Lo sapevi?» Naruto gli
puntò
gli occhi addosso, e Hitoshi sentì un brividino correre
lungo la
schiena. Non capitava spesso che Naruto lo fissasse così, ma
quando
succedeva si sentiva di nuovo un tredicenne incapace.
«No che non lo sapevo»
balbettò.
«Lo sospettavo. Andiamo, fa l'Accademia e ci sta dietro nelle
missioni di livello A? Avevo già detto al Sesto Hokage che
la cosa
mi puzzava!»
Naruto rilassò le spalle e
annuì.
«Sembrava solo un allievo molto promettente. Avevano
controllato
tutte le sue referenze, eravamo sicuri che non fosse una minaccia...
Immagino che invece la Roccia gli abbia offerto qualcosa di succoso e
lo abbia convinto a passare dalla loro parte. Uno dei nostri Anbu
qualche tempo fa lo ha trovato nel bosco, completamente solo. Quando
lo ha interrogato lui ha detto di essere lì per esercitarsi,
ma S...
l'Anbu ha detto di essere sicuro di averlo sentito confabulare. Lo
abbiamo tenuto un po' d'occhio in questi giorni, così
abbiamo
scoperto che ci sono dei brevi periodi di tempo in cui sparisce
completamente nel nulla. Non siamo riusciti a capire dove va.
Shikamaru ha fatto due più due e abbiamo pensato che sarebbe
il caso
di fare qualche domanda seria al signorino.»
Hitoshi continuò ad annuire anche
quando Naruto ebbe concluso il discorso. Ne aveva ascoltato solo tre
quarti, tutto preso a crogiolarsi nell'orgoglio di aver confermato
che Yoshi non era un bravo ragazzo, ma quando si accorse che era
tornato il silenzio capì che avrebbe dovuto dire qualcosa.
«Sì, era uno dei tre a cui
avevo
pensato» commentò allora in tono noncurante. Non
vedeva l'ora di
sbatterlo in faccia a Chiharu.
Naruto lo fissò un po'
sospettoso, poi sospirò e gli porse il faldone al di sopra
del tè.
«Si parte questa notte. Pensi di riuscire a studiartelo
tutto?»
«Per chi mi hai preso? Certo che
ce la faccio!»
«E la testa sta bene?»
«La farò stare bene.»
Naruto fece un largo sorriso,
fiero delle proprie capacità di educatore. «Questo
è il mio
ragazzo!» esclamò ripromettendosi di fare un
resoconto accurato a
Hinata.
«Beh, piano con le parole...»
mormorò Hitoshi incassando la testa tra le spalle, ma
proprio in
quel momento sentì un fruscio sotto il sedere, dove c'era lo
spazio
per le fondamenta. Si irrigidì. Scambiò uno
sguardo con Naruto, che
invece pareva non essersi accorto di niente, e all'improvviso si
sentì afferrare una caviglia sotto il tavolino.
Il primo istinto fu di sfoderare
un kunai e pugnalare la mano, ma non era armato. E per fortuna non lo
era: perché una vocina entusiasta iniziò a
strillare che lo aveva
catturato, e da sotto il pavimento spuntò un
impolveratissimo Minato
– sia lui sia Itachi avevano una grande passione per le
fondamenta.
«Hitocchi!» strillò
cercando di
abbracciarlo.
Hitoshi lo tenne lontano con un
gomito, facendo rallentare i battiti del cuore.
«Ti avevo detto che sarebbe stato
contento di vederti» ridacchiò Naruto sorseggiando
il tè.
Nonostante la schiera di
fratellini minori, Hitoshi non riusciva a sentirsi a suo agio con i
bambini. Chissà perché, questo di solito si
traduceva nel loro
sconfinato amore e in tremendi tentativi di coinvolgerlo in giochi e
avventure.
«Non hai portato Itachi?»
chiese
Minato rubando un cracker dal tavolo.
«Non sono passato da casa»
borbottò Hitoshi, cercando rapidamente una scusa per
allontanarsi.
Aveva bisogno di una sigaretta. Subito.
«L'altro giorno con lui e Chomi
abbiamo catturato un furetto, lo sai?»
Hitoshi provò una punta di
fastidio al pensiero che tre bambini di cinque anni avessero fatto la
stessa cosa che al suo gruppo di tredicenni aveva portato via
un'intera giornata. Si sentì un po' in
inferiorità, e quasi si
strozzò con il tè.
«Ho molto da fare... Devo proprio
andare...» borbottò alzandosi in tutta fretta.
«Posso venire con te? Papà,
posso andare a giocare da Itachi?»
Hitoshi lanciò a Naruto
un'occhiata colma di panico, anche se si convinse che fosse
un'occhiata d'avvertimento. Il maestro ridacchiò sotto i
baffi, ma
alla fine prese Minato per una mano e se lo trascinò sulle
ginocchia.
«Per oggi no, Micchan. Facciamo
un altro giorno, ok? Hitoshi ha tanto lavoro da fare e ha bisogno di
tranquillità. Magari può dire a Itachi di venire
a giocare qui da
noi.»
Hitoshi li fissò, le braccia
dell'uno a circondare le piccole spalle impolverate dell'altro.
Suo padre non lo aveva mai
abbracciato così. Non gli aveva mai parlato con quella voce.
Non
aveva mai appoggiato la guancia alla sua in quel modo.
Avvertì una
stilettata di invidia in fondo allo stomaco, mista all'urgenza di
andarsene, e per farlo si congedò in tutta fretta, quasi
maleducatamente. Sperava di non incontrare Sasuke prima della
missione di quella notte, e sperava con quella missione di riparare
al disastro di Suna e potersi presentare a lui con il mento ben
alto... Ma anche se ci fosse riuscito, sapeva che il loro rapporto
non sarebbe mai potuto essere come quello tra Naruto e i suoi figli.
*
Otto di sera, tramonto. La luce
del sole morente tingeva le pareti dell'infermeria di un morbido
arancio, disegnando lunghe ombre dai margini smussati sui muri
altrimenti bianchi. Il piccolo medico dalla testa canuta stava
terminando la visita di Kotaro con l'espressione di uno che ha appena
incontrato Buddha per strada.
«E' impossibile, eppure... Le
coste sono quasi completamente ripristinate»
mormorò.
Kotaro stava evidentemente
trattenendo un'ondata di orgoglio prorompente. Chiharu, seduta a
gambe incrociate sul letto accanto, gli rivolse un'occhiata furibonda
e incredula.
«Come diavolo hai fatto?»
«Le Porte del Chakra»
spiegò
Gaara, lievemente corrucciato. «Sei già a questo
livello?»
Chiharu fissò Kotaro indispettita
e gli augurò di squarciarsi le labbra per il troppo
sorridere.
«Ho avuto un po' di tempo per
concentrarmi...» disse il ragazzo, quasi in tono di scusa.
«Adesso
posso tornare a Konoha?»
Il medico scosse la testa e
scrollò le spalle, guardando Gaara in attesa di un commento.
«Ci sono controindicazioni?»
chiese il Kazekage.
«Nulla, a parte un discreto
invecchiamento precoce.»
«Allora domattina partirai con
gli altri shinobi di Konoha, dopo...»
«E io?» intervenne Chiharu, il
cuore che batteva all'impazzata nel petto. «Io
resterò qui da
sola?»
«E' meglio...»
iniziò il
medico, ma lei lo interruppe furibonda.
«Io voglio curarmi a casa mia, se
devo scegliere! E' questo posto che mi sfinisce, il clima fa schifo,
la qualità delle cure è pessima!»
«Dal momento che ti rifiuti di
farmi conoscere i dettagli della tua salute, credo che sia meglio per
tutti, te inclusa» disse Gaara senza scomporsi, mentre Kotaro
passava lo sguardo dall'uno all'altro.
«E io dovrei restare qui con un
ciarlatano che non ha mai neanche letto la mia cartella clinica
completa?» sbottò lei.
«Quando vorrai
condividere...»iniziò Gaara, ma un bussare
improvviso lo
interruppe. Vagamente infastidito si voltò , e con gran
sorpresa si
trovò davanti Baka Akeru, tutto scuse e sorrisi dispiaciuti.
«Sono davvero mortificato per
l'interruzione, nobile Kazekage. Scusate tutti, mi dispiace, ho una
cosa urgentissima da fare» garantì il ragazzo,
sgusciando dentro
senza essere stato invitato. Sotto lo sguardo attonito dei presenti
si avvicinò al letto di Chiharu, le dispose sulle ginocchia
un
foglio fittamente scritto e le mise in mano una penna.
«Qui» disse
indicando una linea in un angolo in basso.
«Cosa diavolo è?»
ringhiò lei,
nonostante tutto incapace di guardarlo. Averlo a pochi centimetri di
distanza le faceva bruciare tutti i punti in cui l'aveva baciata
poche ore prima.
«Fidati» sussurrò
lui in tono
di urgenza. «E' quello che vuoi.»
Lei gli gettò un'occhiata
nervosa, che spostò sul foglio subito dopo. Fece scorrere
rapidamente le righe, lesse qualche termine sconosciuto e clausole
confuse che avevano a che vedere con qualche tipo di assicurazione,
poi si costrinse a far funzionare il cervello, e finalmente
capì.
«Che cos'è quel
foglio?» chiese
Gaara.
Chiharu sperò che Akeru non
dovesse pentirsene, e firmò.
«La prima copia»
annunciò Akeru
con un ampio sorriso. Prese il documento dalle ginocchia di Chiharu
per porgerlo a Gaara, e facendolo le sfiorò intenzionalmente
la
pelle; poi prese una seconda, una terza e una quarta copia e le
rimise sulle sue gambe, facendole firmare anche quelle. «Qui
ci sono
la sua, dottore, e la mia. Chiharu, puoi tenere l'ultima.»
«Ma che cos'è?»
ripeté il
dottore, innervosito.
«Un contratto di custodia
medico-sanitaria, redatto secondo le più minuziose norme di
Suna»
spiegò Akeru schiarendosi la voce. «Io
sottoscritto Baka Akeru,
Jonin di Konoha, dichiaro di prendere su di me l'intera
responsabilità della custodia e della salute della
firmataria Nara
Chiharu, Chunin di Konoha, nel tragitto tra Suna e Konoha. Il
suddetto viaggio si intende improrogabile in conseguenza delle
precarie condizioni di salute della firmataria. Di seguito le
clausole principali che regolano il rapporto di custodia...»
«Io non ho dato il benestare per
un viaggio del genere!» sbottò il dottore.
«Non è necessario. Il mio
grado
come ninja medico mi pone un livello più su del
suo» rispose Akeru
in tono flautato, prendendosi la rivincita che sognava dal momento in
cui l'aveva sentito criticare il suo lavoro su Kotaro.
«Avrei dovuto esserne
informato»
obiettò Gaara.
«Clausola numero quattro: in caso
di contingenza di priorità elevata o più, il
permesso può essere
accordato dal Kage di riferimento a posteriori» lesse Akeru
premurosamente. «Considerata la situazione di
instabilità
internazionale e la necessità di avere a disposizione tutti
gli
shinobi, penso che si possa parlare di contingenza di
priorità
elevata... Il documento è perfetto» non
riuscì a non aggiungere.
«Ho firmato tutte le copie»
sottolineò Chiharu. «Adesso posso
andare?»
Gaara passò lo sguardo da lei ad
Akeru, scrutandoli sospettoso. «Spero che tu sappia cosa stai
facendo» mormorò fissando lo shinobi.
«Se dovesse succedere
qualcosa...»
Akeru sollevò orgogliosamente il
mento, e per un attimo a Gaara sembrò di scorgere un segno
arrossato
poco sotto l'orecchio. Come un livido.
«So esattamente cosa sto facendo.
Sono perfettamente in grado di gestire la situazione.»
Il medico dell'infermeria scosse
la testa, maledicendo i ragazzini idioti e le scuole per i ninja
medici. Un conto era cercare di far del bene, un altro conto era
essere circondato da deficienti. «Non voglio più
saperne niente»
annunciò, uscendo dall'infermeria. «Sparitemi da
davanti!»
Gaara, rimasto solo, sospirò e
scrollò debolmente le spalle. Avrebbe potuto impugnare il
contratto
sulla clausola relativa alla contingenza, ma con una guerra alle
porte l'ultimo dei suoi desideri era far sospendere due buoni shinobi
per trascinarli in tribunale. Credeva che Akeru, come ninja medico,
fosse perfettamente informato della situazione clinica di Chiharu e
che avrebbe vigilato in maniera responsabile... Credeva.
«Avete il mio permesso»
annunciò. Chiharu si raddrizzò, accendendosi di
entusiasmo, ma lui
la ammonì levando un dito. «Non sarò io
a dirlo a Temari.»
Un'ombra di timore passò veloce
sul viso di entrambi i ragazzi, ma fu presto spazzata via dal calore
confortevole della vittoria.
«Nessun problema»
assicurò
Akeru.
Gaara si ritirò con la sua copia
del documento, sperando segretamente di trovare qualche falla che gli
permettesse di renderlo non valido, e lasciò i tre ragazzi
soli
nell'infermeria. Kotaro guardò nervosamente Baka e Chiharu.
Si
schiarì la voce.
«Sei davvero sicuro di quello che
hai fatto?»
Baka si girò a guardarlo quasi
stupito, perché aveva dimenticato che fosse lì.
«Hai qualcosa da
obiettare?»
Kotaro
scrollò le spalle e fissò Chiharu con
un'espressione che in
chiunque altro sarebbe stata di sospetto, e invece in lui era di vago
dispiacere. Avrebbe voluto chiederle se stava davvero bene, invece
quello che gli uscì di bocca fu: «ma... Baka?»
Chiharu arrossì e corrugò le
sopracciglia. «Era l'unico medico nei paraggi.»
Se lui fu indispettito dal
commento, lo nascose magistralmente. Kotaro passò ancora una
volta
lo sguardo dall'uno all'altra, sentendo una piccola stretta allo
stomaco all'idea di essere escluso da qualunque cosa li legasse.
Eppure lei, lui e Hitoshi erano ancora il gruppo sette. Stupido non
c'entrava niente, era un sostituto di cui si sarebbero liberati
appena rientrati. Sicuramente Chiharu aveva insistito per non
perdersi il merito della missione, come aveva fatto anche lui...
Doveva ricordarselo.
«Quindi domattina si va a
casa?»
chiese sforzandosi di sorridere.
«Grazie al cielo!»
sbuffò
Chiharu scendendo dal letto.
«Ci resta ancora una notte»
commentò Akeru gettandole un'occhiata veloce. Lei
schivò il suo
sguardo, ma sentì il viso riscaldarsi e si
affrettò a raggiungere
il bagno perché nessuno se ne accorgesse.
Era molto difficile restare
concentrata sul presente, ora che Baka era lì. Ogni volta
che posava
gli occhi su di lui ricordava un dettaglio delle ore che avevano
passato insieme, e questo aveva una certa capacità
distraente.
Non lo aveva fatto
intenzionalmente, si disse quando fu sola nel bagno. Fissò
il
proprio riflesso. Non lo aveva programmato, non era previsto, e
nemmeno si aspettava che Akeru la aiutasse davvero, alla fine. Non
era stata un'azione calcolata: un minuto prima stavano parlando, e un
minuto dopo lui la stava baciando. E lei... lei decisamente non
affrontava i baci nella maniera giusta. Non era normale che uno la
baciasse e lei automaticamente si spogliasse. Questa cosa andava
discussa. Anche perché Hitoshi e Baka erano proprio le
persone con
cui non avrebbe mai e poi mai pensato di finire a letto, e fino al
momento in cui avevano iniziato a distribuire baci se l'era cavata
egregiamente nel tenerli a bada. Si passò una mano sul viso.
Probabilmente era finita come era finita perché erano
ragazzi
giovani e prima o poi gli ormoni impazzivano, ecco perché;
ma non
andava bene comunque. Anche con la scusa del mestiere che li metteva
sempre in pericolo di vita, non era giustificabile che uno la
baciasse e lei si ritrovasse nuda. Maledizione agli ormoni e alle
sparate che si era lasciata scappare davanti a Sai: di esercizio
ne stava facendo fin troppo.
Sperava
che almeno Akeru non pensasse che lo aveva fatto per interesse...
Essendo Stupido il pericolo era relativo, ma se gli avevano dato un
posto negli Anbu una ragione doveva pur esserci. Dopo il sesso
avevano scambiato solo poche parole di circostanza, piene di
imbarazzo e commenti sul tempo, e si erano separati prima che a
qualcuno venisse in mente di parlare di quel che era successo.
Chiharu non poteva avere la minima idea che poi lui si sarebbe
sentito in dovere di esporsi per lei. Non glielo aveva mai chiesto,
né durante né dopo.
Oltretutto,
anche se fosse stato, lei aveva pensato a un trucco medico, non a un
contratto di custodia. Quello sì che era contorto. E furbo.
E
pericoloso, per lui: persino Chiharu sapeva di essere una testa
calda, se le avessero detto di prendersi la responsabilità
di una
sua gemella avrebbe rifiutato. O comunque non avrebbe accettato senza
pretendere di vedere una cartella clinica. Akeru doveva essere
mostruosamente Stupido
o schifosamente borioso, una delle due.
Sperava per lui che tutto andasse
bene...
Osservò ancora il suo riflesso
allo specchio, le guance arrossate e le labbra leggermente umide.
Aveva una cera molto migliore rispetto a quella mattina, doveva
ammetterlo.
Con irritazione aprì l'acqua
fredda e si lavò energicamente la faccia.
*
Il profilo dei tetti di Konoha si
stagliava su un cielo straordinariamente sereno e ingombro di stelle.
Le sagome dei palazzi si disegnavano lunghe sulle strade, descrivendo
coni d'ombra e triangoli di luce improvvisa, e i pochi passanti si
affrettavano a rientrare a casa dopo aver fatto tardi.
Le finestre delle abitazioni erano
per la maggior parte buie. Anche quelle del palazzo che Hitoshi stava
osservando, nascosto dietro un comignolo poco distante. Accucciato
dietro il tubo di alluminio contava i piani cercando di abituarsi
alla difficoltà di portare la maschera da Anbu e mantenere
la
visione periferica, per non parlare della consapevolezza dei metri
che lo separavano dal terreno.
Naruto non lo aveva presentato
agli altri Anbu, prima di partire. Il luogo stabilito per l'incontro
era già pieno di gente mascherata quando era arrivato, e
nessuno
aveva detto nulla. Non sapeva nemmeno se si conoscessero tra loro,
ora che ci pensava. L'unico a volto scoperto era Naruto, che
evidentemente gongolava all'idea di essere potenzialmente il
bersaglio più appetibile, e Hitoshi sperava che almeno lui
fosse
sicuro di avere intorno solo Anbu e non Yoshi in persona... Ma
conoscendo il maestro non era poi così tranquillo.
Dopo il raduno, gli uomini si
erano dispersi per Konoha andando a occupare le posizioni che erano
state assegnate a ciascuno. Con una nota di timore – per non
dire
vero e proprio panico – Hitoshi si era accorto di essere tra
quelli
più vicini al centro dell'azione, e questo significava che
avrebbe
sicuramente avuto un ruolo non marginale nell'intera impresa. Ne era
fiero e, tutto sommato, grato; ma l'orgoglio non gli impediva di
sentirsi suggerire da una vocina maligna che probabilmente non
sarebbe stato all'altezza del compito. Era triste essere finalmente
dove aveva sempre sognato, e non poterne godere.
Guardò l'orologio per la
trecentesima volta. Mancavano un paio di minuti all'entrata in scena,
ma già il cuore minacciava di schizzargli fuori dalle
orecchie per
la tensione. Cercò di non pensare né alle
vertigini né al
pacchetto di sigarette nascosto nel marsupio a casa, però
purtroppo
era precisamente ciò su cui finiva per concentrarsi.
All'improvviso un fruscio a
margine del tetto gli fece tirare fuori spasmodicamente i kunai, ma
era solo Naruto. Gli si avvicinò facendogli cenno di stare
in
silenzio, lo raggiunse e indicò una finestra buia all'ultimo
piano
del palazzo.
Hitoshi annuì nervosamente.
Naruto era venuto ad accertarsi che non svenisse per la fifa? Grazie
tante. Scommetteva che non era certo andato dagli altri Anbu,
maledizione. Sentì sul collo lo sguardo immaginario di suo
padre e
con un brivido si grattò la nuca, dicendosi che era
paranoico. Non
lo aveva ancora incontrato da quando era tornato da Suna.
Tutto libero, sillabò
Naruto senza emettere suono.
Hitoshi annuì, asciugando le mani
sudate sui pantaloni. Naruto sospirò appena e fece per
posargli una
mano sulla spalla, poi si trattenne.
Sai
cosa mi aspetto.
La cosa strana, ora che Hitoshi ci
pensava, era che in tutti quegli anni non si era mai reso conto di
quanto Naruto fosse stato esigente con loro. Non aveva grandi doti di
educatore, ma nel corso degli anni li aveva portati a fare
esattamente tutto quello che lui aveva chiesto: non aveva mai
permesso a nessuno di restare indietro, di dire 'non ce la faccio' o
farsi da parte; anche quando credevano di essere arrivati al limite
lui li spronava un poco più oltre, e loro buttavano
giù una porta e
scoprivano che c'erano molte altre cose che potevano fare, molti
altri livelli da raggiungere. Era riuscito a farlo persino con quella
testaccia bacata di Chiharu, quando aveva blaterato di non voler
più
essere ninja, ma nessuno capiva come diavolo ci fosse riuscito e ci
riuscisse tuttora. Forse doveva correggersi: non faceva così
schifo
come educatore...
Al pensiero Hitoshi si sentì un
po' riconfortato: anche senza Sharingan restava un Jonin speciale
della squadra dell'Hokage – ma non lo avrebbe mai, mai
detto
a voce alta.
Naruto lo riportò al presente
facendogli un rapido cenno e sparendo in una nuvoletta di fumo. Le
lancette sull'orologio dicevano che mancavano pochi secondi alla
partenza. Hitoshi le fissò con il pugno serrato fino a
segnarsi i
palmi delle mani. Quando la lancetta sottile toccò lo zero
partì
come un fulmine verso l'obiettivo, e tanti saluti alle vertigini.
Yoshi era fermo sul letto
perfettamente rifatto, vestito di un improbabile pigiama a paperelle.
Se ne stava a pancia in su, le ginocchia piegate e le mani che
tamburellavano sulla pancia, e fissava l'orologio fosforescente
appeso alla parete di fronte. Non c'era molto intorno a lui, a parte
il letto, un cassettone e quell'orologio: a una sedia erano posati
disordinatamente i vestiti del giorno, i sandali spuntavano per
metà
da sotto il letto.
Anche lui vide la lancetta sottile
toccare lo zero, e quando ciò accadde si alzò di
scatto, disfece le
coperte e ci si sedette con le punte dei piedi che sfioravano il
pavimento, pronte a farlo scattare.
Puntò gli occhi sulla finestra,
brillanti di aspettativa, e trattenne un sorriso. Stava contando.
La finestra andò in frantumi al
suo dieci, esplodendo in mille pezzi come una palla di vetro. Il
kunai che l'aveva infranta si conficcò al centro del letto,
nel
punto esatto in cui era stato il suo sedere fino a pochi istanti
prima, ma lui era già dall'altra parte della stanza, oltre
la porta
che conduceva in corridoio. Sentì un certo numero di passi
invadere
la casa mentre correva fino alla porta del bagno. Due shuriken
sibilarono accanto al suo orecchio quando spalancò la porta,
un
altro scheggiò il lavandino quando salì sul
water, spalancando la
finestrella con grata poco più sopra.
«E' in trappola!»
sentì dire a
una voce soffocata. Sorrise.
Le sue mani si strinsero sulle
sbarre di metallo, spingendo. Quelle cedettero delicatamente e
caddero all'esterno, facendo un volo di svariati piani. Yoshi si
issò
nello stretto passaggio, da lì si aggrappò alla
grondaia, fece
presa con i piedi nudi e raggiunse la finestra accanto. Sotto di lui
Konoha dormiva, ignara della silenziosa concitazione attorno al
palazzo.
Uno spiffero di aria gelida si
insinuò nella schiena di Yoshi, che con un brivido si
issò ancora
più in alto per raggiungere il margine del tetto. Un ultimo
sforzo e
fu in ginocchio sulle tegole, i sensi all'erta.
Un kunai si conficcò accanto al
suo piede, un altro gli mancò di poco la testa.
Sentì dei richiami
simili a quelli degli uccelli, ma non li confuse neanche per un
momento. Si sollevò quel tanto che bastava per correre,
volò quasi
lungo il margine del tetto fino a un angolo lontano, da cui
spiccò
un balzo verso il palazzo vicino. Si voltò appena, vedendo
non meno
di quattro ombre seguirlo con velocità sorprendente, e
sorridendo
sgusciò giù per un abbaino e si
moltiplicò in tutta fretta. Lui
rimase rannicchiato nell'ombra, la copia continuò oltre fino
a un
balcone dall'altra parte della strada.
Le ombre che lo seguivano lo
oltrepassarono per raggiungere lo Yoshi fasullo, saltando sopra di
lui convinti di non averlo mai perso. Yoshi si accomodò tra
le
tegole e attese ancora qualche secondo, quindi strisciò fino
al
bordo del tetto e si lasciò scivolare silenziosamente su un
balcone.
Dove trovò Naruto e un Rasengan
lucente.
«Molto veloce» disse Naruto
approvando la sua trasformazione.
Yoshi sorrise, gli occhi fissi
sulla sua mano. «Allora, quando arriva il piccolo?»
Naruto arricciò la base del naso.
A cosa si riferiva? «Vuoi tirarla per le lunghe?»
ribatté, le
pupille che rapidamente si assottigliavano fino a ridursi a due
fessure acuminate.
«Sembri molto sicuro di te...»
Yoshi allungò una mano coperta di
chakra verso la parete, Naruto reagì scagliando il rasengan,
ma il
balcone vibrò sotto i loro piedi e il braccio del Jonin
deviò,
mandando la sfera di vento a esplodere contro il palazzo. Il balcone
fu divelto dall'onda d'urto, schiantandosi diversi piani più
in
basso. Yoshi cadde, cercando di tenersi adeso alla parete del
palazzo. Le sue mani sfregavano contro l'intonaco, da cui si
staccavano granelli di sabbia che gli finivano negli occhi, ma a un
certo punto incontrò una ringhiera e frenò la sua
corsa.
Sapeva che l'esplosione avrebbe
richiamato gli inseguitori, così scappò nel
vicolo più vicino
senza guardare dove portasse. Naruto, aggrappato al cornicione di una
finestra, imprecò e risalì veloce verso il tetto,
per dare
indicazioni agli Anbu in arrivo.
Nel frattempo Hitoshi si era un
po' perso.
Era stato sul tetto del palazzo
quando avevano sfondato la finestra ed erano entrati in camera di
Yoshi, lo aveva inseguito quando era scappato sul tetto vicino e alla
fine lo aveva visto sparire in una nuvoletta di fumo come la copia
che era. La cosa lo aveva irritato più di quanto amasse
riconoscere,
anche perché fino a un istante prima si stava complimentando
con se
stesso per come affrontava bene le cose. Ma lo aveva anche lasciato
smarrito. Per fortuna, poco dopo, il rumore di un'esplosione aveva
indicato a lui e agli altri membri del gruppo la direzione giusta, e
tornando indietro avevano trovato Naruto che dava istruzioni su come
muoversi..
Doveva darsi una svegliata, si
disse con un breve attimo di angoscia, o avrebbe fatto il flop
definitivo. Mentre lo pensava, una piccola fitta dietro l'orecchio
corse a ricordargli che l'effetto degli analgesici sovradosati era
ormai attenuato dall'assuefazione, e che presto sarebbe finito.
Seguendo le indicazioni di Naruto
corse sul cornicione del tetto fissando l'impenetrabile
oscurità del
vicolo. Con il dolore era tornato il pensiero di Kotaro e Chiharu e
Stupido – Dei, Stupido! - che portavano
a termine la sua
missione lasciandolo in un letto d'ospedale, mentre lui rischiava di
fallire anche la seconda possibilità che gli davano per
entrare
negli Anbu... Era proprio furioso. Così furioso che
l'aumento di
sangue al cervello estese il leggero pulsare dell'emicrania all'altro
orecchio.
Poi colse un movimento con la coda
dell'occhio, molto più in basso, una sagoma che si muoveva
rasente
il muro. Prima ancora di pensare si trovò a sputare una
palla di
fuoco, illuminando a giorno il piccolo vicolo e tutte le finestre che
vi si affacciavano. Nella luce improvvisa tutti videro Yoshi guardare
stupito verso l'alto, riparandosi il viso con le braccia.
Gli Anbu conversero su di lui,
accerchiandolo. Kunai e shuriken si conficcarono a pochi centimetri
dalla sua sagoma, costringendolo a rannicchiarsi per evitare ferite.
Hitoshi dimenticò in un attimo le vertigini e il mal di
testa,
saltando di balcone in balcone per essere il primo a mettergli le
mani addosso; quando arrivò giù per poco non fu
colpito dai kunai
diretti a Yoshi, ma fu senza ombra di dubbio il più veloce.
Senza
esitare lo spinse pancia a terra e gli bloccò le mani dietro
la
schiena.
«Come diavolo hai fatto?» lo
sentì bofonchiare contro l'asfalto, appena prima che un
altro Anbu
gli premesse la testa per costringerlo all'immobilità
completa.
Nonostante la tentazione Hitoshi non rispose, perché se gli
Anbu
indossavano una maschera una ragione c'era, ma quando vide il mezzo
sorriso con cui Yoshi lo guardava sentì un brivido gelido
correre
lungo la spina dorsale.
«So chi sei.»
«Bravi!» esclamò la
voce di
Naruto mentre li raggiungeva trionfante. «Ottimo lavoro,
ragazzi!
Legatelo e andiamo indietro!»
Hitoshi si fece da parte per
lasciare che due Anbu stringessero corde coperte di sigilli bloccanti
attorno ai polsi di Yoshi. Il mal di testa era tornato e si era
spostato più al centro, seguendo il battito rapido del suo
cuore.
Guardò Naruto, che gli strizzò l'occhio in segno
di approvazione,
ma non riuscì a condividere il suo entusiasmo: Yoshi sapeva
che
c'era lui dietro quella maschera.
Non solo l'ufficio dell'Hokage era
sorvegliato.
* * *
Hitoshi fa quasi
tenerezza in questo capitolo.
Dai, un pochino.
Ino-ino?
In ogni caso, nel
prossimo capitolo incontrerà Sasuke!
*effetti sonori*
...E anche Naruto
incontrerà Sasuke.
Ci siamo un po' rotti
le scatole del capo Uchiha, diciamocelo.
E' il momento di
dargli una scrollata!
Un saluto a tutti e
ancora grazie a voi che leggete sempre!
|
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Capitolo 25 *** Il valore delle cose perdute ***
Penne 25
09/03/2016
Capitolo
venticinquesimo
Il
valore delle cose perdute
Dopo
averlo bendato e stordito, portarono Yoshi alla stazione di polizia.
Entrando
nel grande palazzo severo, a quell'ora semi-deserto, Hitoshi non
poté
fare a meno di guardare la finestra dello studio di suo padre: la
luce era accesa.
Avvertì
una stretta allo stomaco al pensiero di incontrarlo. Lo avrebbe
riconosciuto anche se era mascherato? Cosa avrebbe pensato? Sarebbe
stato fiero di sapere che era stato proprio lui a permettere la
cattura di Yoshi, anche senza lo sharingan?
Naruto
fece segno al gruppo di fermarsi nel grande atrio dell'ingresso. Ad
accoglierli c'erano due poliziotti armati e Sasuke in persona, in
attesa ai piedi delle scale. Hitoshi sentì il cuore
accelerare nel
petto: era proprio davanti a tutti, di fianco a Naruto, e per un
folle istante fu sicuro che suo padre lo avesse riconosciuto.
Non
era così: Sasuke lo guardò dritto negli occhi e
passò oltre senza
esitazioni. A gesti indicò il corridoio. Da quando avevano
stordito
Yoshi nessuno aveva parlato: tutti volevano essere sicuri che non si
svegliasse proprio nel momento in cui qualcuno dava importanti
dettagli sulla posizione.
Insieme
a Sasuke il gruppo arrivò a una scala sorvegliata che
scendeva nei
sotterranei. Naruto diede indicazioni perché venissero con
lui
soltanto i due Uchiha e un altro paio di Anbu, ai restanti fu
richiesto di trattenersi davanti alla porta.
Era
la prima volta che Hitoshi vedeva le celle delle prigioni. Solo
scendendovi di persona si rese conto di quanto doveva essere
deprimente il lavoro di suo padre: gli spazi angusti, l'aria stantia,
i rumori osceni di chi era costretto a seguire i ritmi del corpo
nello stesso luogo in cui dormiva...
Yoshi
non fu abbandonato in una cella come le altre. In fondo al corridoio
c'era una stanza più ampia, ricoperta di piastrelle anche
sul
soffitto, con un grande tavolo d'acciaio e una sedia inchiodati al
pavimento. Non aveva finestre; l'aria veniva ricambiata grazie a una
ventola polverosa che si accese insieme alla luce, raschiando
rumorosamente. Hitoshi non sapeva se pensare che fosse meglio delle
altre, o peggio.
Naruto
scaricò il prigioniero sulla sedia, sostituendo le corde ai
polsi
con delle manette e usando poi le corde per legarlo alla scrivania.
Il capo biondissimo di Yoshi era reclinato sul pigiama a paperelle in
maniera quasi surreale: sembrava un bambino troppo cresciuto che si
fosse addormentato nel posto sbagliato.
A
gesti Naruto lasciò nella stanza i due Anbu che li
accompagnavano, e
uscì insieme a Sasuke e Hitoshi.
«Abbiamo
fatto un po' di fatica» confessò a quel punto,
senza nascondere la
scocciatura. «Di certo non era al livello di uno studente
dell'Accademia.»
Hitoshi
serrò le labbra: voleva dire a Naruto che Yoshi sapeva che
sarebbero
andati da lui, che sapeva chi c'era sotto la maschera e probabilmente
che sapeva molto più di quello che loro pensavano... Ma come
fare
con Sasuke davanti? Sbandierare così la sua
identità alla prima
missione gli sembrava da vero idiota.
Con
tutta la concentrazione di cui era capace si schiarì la
voce,
abbassandola di parecchi toni.
«Sapeva
che saremmo arrivati» brontolò in un rantolo
gutturale.
Sia
Naruto che Sasuke lo fissarono stupiti.
«Come
fai a dirlo?» indagò Sasuke, scrutandolo a fondo.
«Conosce
la mia identità.»
Naruto
trasalì. Lui e Hitoshi avevano parlato della missione solo a
casa
sua: questo voleva dire che le difese che credeva insuperabili erano
state ampiamente abbattute. Si fermò un secondo, chiudendo
gli
occhi, e comunicò alla copia che aveva lasciato a casa di
alzarsi e
fare immediatamente un giro di ricognizione.
Mentre
questo accadeva, Sasuke studiò attentamente l'Anbu
mascherato che
parlava con voce malamente contraffatta. Aveva un che di familiare,
ma non avrebbe saputo dire cosa.
«Sasuke,
dobbiamo occuparci delle scartoffie» annunciò
Naruto prima che
potesse indagare più a fondo. «Tu, vai a casa mia.
Troverai una mia
copia, segui le sue istruzioni» ordinò all'Anbu.
Quello sembrò
esitare un secondo, poi annuì e si allontanò
rapidamente.
«Lo
conosco?» chiese Sasuke quando si fu allontanato.
Naruto,
incerto, lo fissò. Era quasi sicuro che Hitoshi sarebbe
volato di
corsa ad annunciare a suo padre la promozione ad Anbu, invece
sembrava proprio che non lo avesse nemmeno accennato. Idem per
Sakura, a giudicare dalla faccia inespressiva di Sasuke. Non sapeva
che gli Uchiha non si parlavano da giorni.
«E'
il ragazzo che ha fermato Yoshi un attimo prima che ci
scappasse»
spiegò cauto.
«E
prima non è mai...» iniziò Sasuke, poi
si interruppe, scrollando
le spalle. «Non importa. Andiamo nel mio studio, intanto
mando a
chiamare Morino.»
I
due si rintanarono nell'ufficio ai piani alti, di fronte a una pila
di autorizzazioni e incartamenti solo in parte completati. Sasuke, in
quanto assistente dell'Hokage, stava firmando tutto a nome Uzumaki
perché sapeva che Naruto avrebbe lasciato ammuffire i
documenti
sulla scrivania.
«Morino
dà ancora problemi?» domandò Naruto
mentre Sasuke recuperava i
documenti per la cattura di Yoshi.
«Sempre
più. Se non assisto personalmente agli interrogatori quasi
mi
ammazza i prigionieri. Non capisce più quando uno non ha
altro da
dire» sbuffò l'Uchiha scuotendo la testa.
«Sinceramente, non so
cosa succederà al ragazzo che abbiamo messo di
sotto.»
«E'
che non ne abbiamo altri abbastanza qualificati. Fanno tutti un po'
schifo» borbottò Naruto sfogliando distrattamente
gli incartamenti,
senza nemmeno prendere in mano la penna.
«Lo
so. Dovremmo fare una selezione e mandarne a scuola
qualcuno...»
Naruto
mugugnò un vago dissenso, perché la tortura non
gli andava troppo a
genio, poi fissò Sasuke di sottecchi. Lui non
alzò lo sguardo.
«Quindi
sorvegliavano anche casa tua?» continuò l'Uchiha,
iniziando a
riempire gli spazi vuoti nei moduli prestampati.
«A
questo punto direi di sì. E devono essere bravi, pensavo che
mi
sarei accorto di qualunque cosa.»
«Farò
ricontrollare anch'io tutto il palazzo.»
«Mh.»
Scese
il silenzio, mentre Naruto si rigirava la penna tra le mani.
Sasuke
sbuffò e si interruppe. «Lascia stare, qui finisco
io. Vai da
Hinata, se ti preoccupa tanto.»
Naruto
si inclinò all'indietro, con una smorfia meditabonda. Non
c'entrava
Hinata, a casa c'era già la sua copia. Il punto era un
altro: ci
aveva messo un po', ma alla fine aveva tratto un paio di conclusioni
dal fatto che Sasuke non sapesse della nuova promozione di Hitoshi.
«Se
non ho capito male, quello che non
mi stai dicendo, ma che hai
fatto, in sostanza è...» lasciò la
frase in sospeso, dondolandosi
sulle gambe posteriori della sedia.
Sasuke,
seduto dall’altra parte della scrivania, non si
impegnò nemmeno
per capire dove volesse andare a parare. «Quello che non
ti sto dicendo ma che dovrei
dirti, è che se non hai intenzione di lavorare allora sei
caldamente
invitato a levare le tende» suggerì.
«No,
non è questo!» Naruto sbatté una mano
sul ripiano lucido, facendo
trasalire Sasuke. «Quello che non mi stai dicendo,
perché forse fa
schifo anche a te, è che non sei andato nemmeno una volta a
trovare
tuo figlio in ospedale! Nemmeno
una volta!»
sbottò.
«Adesso
cosa c'entra? E’ rimasto ricoverato solo un
giorno...» si difese
Sasuke, tacendo che non aveva visto nemmeno Sakura nel frattempo. I
suoi occhi si fecero schivi. «Lo vedrò quando
tornerà a casa.»
«Ma
dai! Vuoi dirmi che hai ripreso a tornare a casa? Qualcuno sostiene
che tu viva qui, ormai!»
Sasuke
mise giù la penna, fulminandolo con lo sguardo.
«Quel che succede a
casa mia sono fatti miei. Io non vengo a farti la predica su come
cresci i tuoi figli.»
«Non
si tratta di te e Hitoshi! Si tratta di te e basta.»
«Peggio
ancora: è una vita che cerco di levarti dai piedi.»
«Ma
porca miseria! Non impari mai niente dai tuoi errori!»
esplose
Naruto. «Dovevi solo farti vedere! Dimostrare a tua moglie e
tuo
figlio che non sei lo stronzo che ti stai rivelando! Dovevi solo far
vedere il tuo brutto muso e dire: salve! Sono tuo padre! E lo
sarò
sempre, anche se fai cazzate!» Sasuke lo scrutò
torvo,
irrigidendosi, ma Naruto continuò implacabile.
«Cosa ne hai fatto
del buonsenso? Che ti sta succedendo? Da quando a Fugaku è
spuntato
lo sharingan hai perso completamente la testa!»
«Precisamente!»
lo interruppe Sasuke, alzandosi in piedi. E all’improvviso si
scoprì furioso, con l’impiccione che non si faceva
i fatti suoi e
con le insinuazioni che arrivavano dove faceva più male.
Che
ne capiva Naruto della sua famiglia? Nel suo mondo fatato, composto
solo di figli felici e mogli devote, che ne sapeva di come andavano
le cose altrove?
«Da
quando a Fugaku è spuntato lo sharingan, cosa pensi che sia
successo
a casa?» esplose. «Come pensi che mi sia sentito,
io, che ho sempre
creduto che Hitoshi sarebbe stato l’orgoglio degli Uchiha? E
come
pensi che si sia sentito lui,
che lo sapeva? E Sakura? Cosa pensi che sia successo? Se ci conosci
almeno un decimo di quanto dici, lo sai cosa è successo.
Dovrei
andare da Hitoshi! Per dirgli cosa? So
che hai fallito. Non importa. Mi vai bene anche debole e inutile,
perché io sono il tuo paparino!
Questo dovrei dirgli? E lui cosa mi risponderebbe, eh?»
Naruto
raddrizzò la schiena, scuotendo la testa.
«Sei
rimasto il solito coglione!»
«Forse.
Ma Hitoshi è coglione quanto me, e so che se io andassi a
dirgli mi
vai bene comunque, a lui
non andrebbe bene!»
«Perché
voi Uchiha siete ossessionati sempre dalla stessa robaccia?»
«Perché
siamo fatti così. Abbiamo un orgoglio, che conta
più di ogni altra
cosa, e non ci interessa essere accettati nonostante tutto!
Noi vogliamo conquistarcele le cose. Vogliamo essere forti, vogliamo
farcela da soli. E mio figlio è come me: della compassione
non se ne
fa nulla.»
«Lo
vedi che sei una testa di cazzo?» sospirò Naruto,
passandosi,
frustrato, una mano tra i capelli. «Hitoshi è uno
shinobi, come te.
Ma è anche tuo figlio. Sono due cose diverse, che non hanno
a che
fare con compassione e orgoglio. Tu sarai anche rimasto orfano, ma
lui un padre ancora ce l’ha: forse a te non fregava niente di
avere
l’approvazione incondizionata di qualcuno, ma a lui
probabilmente
sì. E se non ti accorgi nemmeno di come la cerca
disperatamente,
allora che ti parlo a fare?»
Sasuke
strinse i pugni sulla scrivania. Lui conosceva suo figlio. Lo
conosceva meglio di tutti, meglio di sua madre, dei suoi fratelli, e
soprattutto del suo maestro, che non aveva alcun legame di sangue con
lui. Aveva bisogno di convincere sé e gli altri di
quest’unica,
grandissima verità. E per farlo doveva smontare tutte le
altre.
«Non
venire a farmi la predica sui rapporti padre-figlio. Non
tu»
sibilò.
Nello
sguardo di Naruto passò un lampo d’irritazione. I
vecchi ricordi
sull’avere e sul perdere tornarono a galla, insieme alla voce
di un
Sasuke dodicenne che gli diceva che non erano uguali, che Naruto non
poteva capirlo.
«Proprio
perché tu un padre lo hai avuto, ti dico di non fare
cazzate!»
disse. «Io andrò anche a tentativi, ma non ho alle
spalle né
esempi positivi, né negativi. Tu li hai! Per assurdo, in
questo caso
sei più fortunato di me» abbassò la
testa, scrutando Sasuke da
sotto in su. «E sai cosa ti dico? Che, per quanto stupido
possa
apparire, per me Hitoshi è quasi come un figlio.
E’ il Sasuke che
non ho potuto aiutare quando avevo dodici anni, lo stesso Uchiha che
vorrei vedere meno imbecille e più felice. Quella volta ho
dovuto
combattere per riportarti indietro... ma Hitoshi non lo
lascerò
andare. Se non sarai tu a tenerlo qui, ci penserò
io.»
Nell’ufficio
del capo della polizia piombò il silenzio. Sasuke e Naruto
si
scrutarono, immobili.
«Cos’è,
una vendetta tardiva per Sakura?» mormorò Sasuke
dopo lunghi e
penosi istanti, inarcando a forza un sopracciglio. Era crudele, ma
non gli era venuto in mente nient'altro da dire.
«No»
rispose Naruto, senza raccogliere. «E’
l’unico modo che ho per
non rivederti nello stato in cui eri dopo la morte di Itachi. Ti
accorgi di quanto vale una cosa sempre solo quando l’hai
già
persa.»
L’accenno
a Itachi fu troppo. Dopo i ricordi del tradimento e del padre, dopo
le allusioni al figlio, arrivare al fallimento della sua vendetta fu
la goccia che fece traboccare il vaso.
«Vattene,
Naruto» sibilò Sasuke, indicando la porta.
«Adesso.»
Naruto
sollevò il mento senza nascondere
l’insoddisfazione.
«Oh,
vai all'inferno!» sbottò alzandosi di scatto, e
uscì dall'ufficio
senza guardarsi indietro.
Sasuke,
ancora dentro, si lasciò ricadere sulla sedia; nascose gli
occhi
dietro una mano, le tempie martellate da un’emicrania
accecante, e
per un attimo ebbe quasi voglia di ridere.
Ovunque
lui falliva, Naruto era pronto a raccogliere i cocci del suo lavoro,
risistemarli e gloriarsene.
Dopo
Itachi, si sarebbe preso anche Hitoshi?
Naruto
se ne andò dal commissariato pestando i piedi per la rabbia,
resosi conto di non aver combinato proprio nulla: poteva anche
atteggiarsi a padre con Hitoshi, ma lui, come Sasuke, non avrebbe mai
smesso di guardare sempre altrove, all’unica persona della
quale
volesse davvero le attenzioni. E quella persona, per
l’ennesima
volta, era cieca e sorda a ogni richiamo.
«Guarda
te se deve farmi incazzare così dopo tutti questi
anni!» sbottò.
E
va bene. Conosceva gli Uchiha, forse meglio di quanto si conoscessero
loro stessi; avevano bisogno di una sfida per muovere il culo? Che
sfida fosse.
Ricordò
le parole di Hinata quando gli aveva suggerito di fare qualcosa per
Hitoshi. Perfetto: la questione non era solo alzare la sua autostima,
ma dare anche una svegliata a quel rimbambito di suo padre.
Sebbene
Naruto sapesse che era impossibile, Sasuke probabilmente temeva che
Hitoshi si sarebbe attaccato al maestro più che a lui.
Perché non
avrebbe dovuto pensarlo, dopotutto? Da ragazzi, prima di sposarsi e
avere dei figli, erano stati speciali l’uno per
l’altro. E
Hitoshi era così schifosamente simile a suo padre che in
effetti il
pericolo sembrava reale.
Avrebbe
messo un po' di pepe sotto il didietro di Sasuke, che lui lo volesse
o no.
Se
doveva essere guerra, che
guerra
fosse.
*
Non
era stata davvero colpa sua.
Un
funzionario del Kazekage si era presentato alla porta dell'infermeria
subito dopo cena e le aveva detto che c'era un problema con il
documento preparato da Stupido. Cosa avrebbe potuto fare, a parte
seguirlo?
Seguendolo,
però, si era ritrovata in un corridoio sospetto, che non
aveva nulla
a che fare con la parte diplomatica del palazzo. Un corridoio
deserto. L'avevano fatta entrare in una stanza che decisamente non
era lo studio del Kazekage. Avevano chiuso la porta. La luce era
spenta. E il funzionario non era un funzionario. Era Baka.
A
dire il vero il problema non era nemmeno quello, alle quattro di
mattina, senza vestiti, sdraiata a pancia in giù su un letto
non
suo; il vero, enorme problema, era che avevano appena scoperto che
nessuno di loro aveva avvisato Temari della partenza anticipata.
Chiharu
fissò il pezzo di carta bianco con la testa piena dell'ira
furiosa
della signora Nara. Non esisteva niente che avrebbe potuto scriverle
per non farsi diseredare. Niente.
«Io
non
vado a
bussarle alla porta in piena notte» ripeté Akeru
per la
trecentesima volta, seduto a gambe incrociate sul letto accanto a
lei.
«Sta' zitto cinque minuti!»
sibilò Chiharu, scostando rabbiosamente i capelli che
continuavano a
ricaderle davanti agli occhi. «Ti sei vantato mezzora che
glielo
avresti detto! Deficiente!»
«Potevi ricordarmelo prima di
spogliarti.»
«Stai rischiando grosso.»
Akeru
tacque, appoggiando il mento alla mano. Ripensò alle
piacevoli ore
che avevano trascorso insieme fino a poco prima. Era un vero peccato
che a un certo punto avessero ricordato il dettaglio Temari,
perché
si era giocato gli ultimi trenta minuti.
«Mentre pensi vado a farmi una
doccia» sbuffò deluso, scivolando giù
dal letto.
Chiharu
affondò la faccia nel cuscino per soffocare un gemito di
disperazione. Perché non aveva mai esercitato un po' della
rigida
disciplina ninja? Se non avesse passato tutte quelle ore a dormire e
cercare di schivare le proprie responsabilità, forse avrebbe
avuto
abbastanza forza per mandare al diavolo sia Hitoshi che Stupido. Che,
per inciso, avrebbe avuto nello stesso luogo geografico di
lì a tre
giorni. Quante
possibilità c'erano di riuscire a nascondere a tutti quello
che era
successo?
Nella
sua testa le ore passate con Akeru si sovrapposero a quelle passate
con Hitoshi. C'erano molte differenze, tra cui l'abisso di esperienza
che separava il gene misogino in dotazione a tutti gli Uchiha e la
fama di donnaiolo ora confermata di Baka, ma c'era qualcosa di comune
a entrambi e decisamente fondamentale: il
disagio.
Non voleva ritrovarsi con loro
nella stessa situazione. Non voleva affrontare discussioni sul
significato di quello che era successo. Non voleva nemmeno pensarci,
a un eventuale significato, e soprattutto non le interessava. Come
aveva ampiamente sottolineato Sai, le sue priorità erano ben
altre.
Sospirò,
costringendosi a tornare al messaggio per Temari. Iniziò
firmando il
pezzo di pergamena su cui doveva scrivere. Davvero, non sapeva come
dirle che partiva senza avvisarla. Non c'era un modo, e anche far
leva sulla maggiore età non era sufficiente.
O
forse no. Forse una cosa, una sola piccola cosa che poteva salvarla
c'era.
Colta
dall'illuminazione buttò giù tre righe e le
rilesse più volte:
Visto
che tu non vuoi dirmi cosa ha fatto papà, torno a Konoha con
gli
altri. Me lo faccio dire da lui e lo spedisco a riprenderti (se
davvero hai ragione).
Ringraziami
al ritorno.
Dopo
lunga e penosa riflessione, aggiunse anche un fievole 'ti
voglio bene',
nonostante i brividi scatenati dal movimento insolito della mano.
Questo forse l'avrebbe salvata.
Stupido uscì dalla doccia proprio
in quel momento, e si protese per sbirciare il messaggio di Chiharu.
«Che è successo con tuo
padre?»
domandò asciugandosi i capelli.
«Sono fatti nostri» rispose lei
ripiegando con cura il biglietto.
«Ti preferisco quando hai la
bocca impegnata.»
Questa volta gli arrivò un
calcio, e arrivò anche nel posto giusto. Chiharu
pensò che era
arrivato il momento di mettere in chiaro le cose, almeno con lui.
«Quello che succede a Suna resta
a Suna» disse seccamente. «Non ti aspettare
trattamenti di favore a
Konoha né che io menzioni mai più qualunque tipo
di rapporto tra
noi. Quando uscirò da quella porta tutto questo non
sarà mai
successo.»
«Che cos'hai nel cervello?»
boccheggiò Akeru, rannicchiato sul letto con gli occhi pieni
di
lacrime. «Tu potrai anche non volerne più sapere
niente, ma questo
mi serve ancora!»
«I concetti si ricordano meglio
se accompagnati da emozioni forti» spiegò lei
inclemente,
raccogliendo i suoi vestiti e avviandosi verso il bagno. «Mi
lavo e
vado a lasciare il biglietto a mia madre.»
«Avrei dovuto non essere gentile
con te, stronza maledetta...» bofonchiò Akeru
trascinandosi
ansimante al bordo del letto.
Anche se si era conclusa in
maniera brusca, però, si disse che era stata una notte di
vittorie:
era stato molto astuto ad attirarla con il trucchetto del
funzionario, e si sentiva molto orgoglioso delle sue performances.
Jiraya sarebbe stato fiero di apprendere della sua verginità
perduta, quando si sarebbero rivisti.
Per quanto riguardava Chiharu,
confidava che a Konoha avrebbe continuato con l'ottimo lavoro. Anche
se lei blaterava di cose che succedevano a Suna e restavano a Suna, i
fatti erano fatti: lo aveva rifiutato verbalmente, ma poi si erano
ritrovati nudi sotto le lenzuola. Per ben due
volte. Questo la
diceva lunga sulla sua capacità di giudizio.
Mentre il dolore scemava
lentamente, si concesse un sorriso di soddisfazione. Aveva scoperto i
punti deboli di Chiharu, possedeva una perfetta conoscenza
dell'anatomia umana e lei gli doveva un enorme
favore con
quella storia del contratto di custodia... Era praticamente fatta.
Purtroppo non sapeva niente di
Hitoshi, e come avrebbe potuto? A Konoha, per rovinare i suoi piani,
ci sarebbe stato anche lui.
Partirono alle cinque,
perfettamente puntuali.
Incontrandola, Kotaro chiese a
Chiharu che fine avesse fatto quella notte, ma lei disse che aveva
discusso con Gaara intorno a una clausola stupidissima del contratto
di custodia, perché non volevano farla partire e lei non era
proprio
d'accordo, come lui capiva bene – per rafforzare il concetto
accennò con intenzione ad Akeru, sapendo quanto entrambi
tenessero a
vedersi riconoscere il merito della missione.
Kotaro non fu proprio del tutto
convinto. C'era qualcosa che gli puzzava in tutta quella storia del
contratto... Akeru non era mai stato loro amico. Tuttavia non
trovò
nulla da ribattere a Chiharu, e dovette prendere per buono quel che
lei gli diceva con una scrollata di spalle. In ogni caso, anche se
era riuscito a fare un gran lavoro di restauro con la sua costola,
era ancora convalescente, e fare il viaggio tenendo aperta la Porta
della Ferita non sarebbe stata una passeggiata; non voleva davvero
avere il pensiero di Chiharu a distrarlo, preferiva mettersi il cuore
in pace e stare sereno. Dopotutto Akeru faceva ancora Baka
di
cognome, non era una vera minaccia.
Gai, Rock Lee e i tre ragazzi si
congedarono dal Kazekage alle porte della città.
Gaara interrogò con lo sguardo
Akeru, che assicurò di aver avvisato Temari, e lui se lo
fece andare
bene. Non avrebbe corso il pericolo di bussare alla porta della
sorella prima dell'alba solo per accertarsene: piuttosto avrebbe
fatto ricadere sul ragazzo tutte le conseguenze di un'eventuale
menzogna. Ancora non era convinto dell'idea di Akeru, ma il suo
contratto era disgraziatamente perfetto, e Chiharu una kunoichi
maggiorenne in grado di intendere e volere. Guardandoli, si disse che
probabilmente sua nipote aveva sedotto il giovanotto per avere il suo
aiuto; ma non aveva autorità né confidenza per
intromettersi.
Sospirò, augurandosi che tutto
andasse per il meglio e Temari non se la prendesse troppo, e
salutò
il gruppo di shinobi in partenza.
Mentre se ne andavano, l'alba
sorse in tutto il fulgore del deserto. In lontananza, alle spalle di
Suna, il cielo si stava tingendo di uno spiacevole rosso, stranamente
simile ai bagliori di un incendio.
* * *
Buongiorno a tutti!
Ok, il famoso incontro Hitoshi-Sasuke
forse non è stato proprio un incontro...
Ma spero di essermi fatta perdonare
con un po' di buon NaruSasu vecchio stampo!
Sfortunatamente devo informarvi che da oggi
si aggiorna a singoli capitoli.
Sto impazzendo nel riaggiustare i prossimi,
li ho scritti a dicembre e sono ancora qui che li scrivo e riscrivo e
riscrivo.
Spero sia solo un'impasse temporanea,
ma piuttosto che interrompere gli aggiornamenti
preferisco rallentarli.
Se vi consola, sono particolarmente ricchi di azione.
(e con un mucchio di gente. Per questo è così
complicato!)
Spero che il risultato varrà l'attesa.
Un abbraccio a tutti!
|
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Capitolo 26 *** Bentornato ***
Penne26
16/03/2016
Capitolo
ventiseiesimo
Bentornato
Non
avevano mai smesso di seguirli, da quando erano partiti da Anka.
Jin
non aveva più contato i giorni dopo aver parlato con sua
madre, ma
se si guardava indietro gli sembrava che fosse passata
un'eternità
dalla partenza. Tutto, tutto era diverso adesso.
Le
tre ombre scivolavano silenziose da un albero all'altro, senza quella
fluidità che avrebbe permesso loro di essere invisibili:
erano
stanchi, tutti quanti, e la fuga li aveva costretti a zigzagare
più
volte per evitare posti di blocco, villaggi e spedizioni di ricerca.
L'ordine
di cattura contro di loro era stato diramato con rapidità
sorprendente: non erano mai riusciti a dormire tranquilli per
più di
una manciata di ore, il che aveva portato la tensione a livelli
elevatissimi. Alla fine Kakashi si era arreso all'idea che se
volevano raggiungere Konoha sani e salvi avrebbero dovuto collaborare
con Haruka, ma questo non voleva dire che la situazione tra loro si
fosse distesa. Al contrario, ora nessuno parlava più a
nessuno al di
fuori delle necessità quotidiane. Anche Jin, che pure
smaniava
all'idea di conoscere sua madre, si era rinchiuso in un cupo mutismo
rabbioso, rimandando le discussioni al rientro.
Mentre
correvano, un ramo cedette sotto i piedi di Haruka e la fece
precipitare nei cespugli di sotto.
Jin
fu il primo ad accorrere, scoprendo che nella caduta un frammento di
legno spezzato le aveva aperto un taglio sul braccio. Prima che
potesse fare qualunque cosa Kakashi aveva estratto dallo zaino bende
e disinfettante, tamponando subito la ferita.
«Servono
dei punti» commentò, fasciandola rozzamente.
«Non
siamo lontani dal confine» mormorò Haruka.
«Ce la faremo.»
Jin
sussultò sentendo attivarsi una delle pergamene di
segnalazione che
si era lasciato alle spalle.
«Dobbiamo
andare, c'è qualcuno vicino» disse con urgenza,
aiutando la madre a
rialzarsi. «Prendi questa» aggiunse poi, tendendole
una pillola per
sedare il dolore della ferita.
«Non
saremo al sicuro finché non saremo davanti a
Naruto» disse Kakashi
a quel punto, forzandoli a ripartire immediatamente. «La
Nuova
Radice avrà messo ai confini tutte le sentinelle che ha a
disposizione per intercettarti.»
«Lo
so» confermò lei. «E' da quando siamo
partiti che cerco un modo
per evitarli, ma non mi è venuto in mente niente.»
«Non
possiamo evitarli. Siamo troppo stanchi, troppo pochi. Dobbiamo
chiedere aiuto.»
«Non
faremo in tempo.»
«Un
modo c'è... Ma prima devo controllare dov'è
Chiharu.»
«Chi?»
chiese Haruka, ma Kakashi la ignorò per comporre una
complessa serie
di sigilli.
Senza
che la loro corsa fosse rallentata, un uccellino dalle piume
scarlatte si materializzò al loro fianco e li
salutò con un
cinguettio. Kakashi perse il ritmo per un istante, ma lo
recuperò
subito.
«Scopri
dov'è Chiharu Nara» disse, e l'animale
frullò via virando
rapidamente.
«Cos'era
quello?» chiese Jin corrucciato. «Non è
una normale evocazione, i
sigilli erano strani.»
«Quello
è una cosa che faresti meglio a ignorare» sorrise
Kakashi, ma le
pieghe agli angoli del viso non si aprirono con le labbra.
«Purtroppo
non potevo farne a meno.»
Haruka
lo fissò, mentre un sospetto si faceva lentamente strada.
«Non
sarà...» iniziò, ma Kakashi
alzò una mano e bloccò tutti.
Poche
centinaia di metri alle loro spalle, una carta-bomba di Jin
saltò in
aria disegnando una nube nel cielo terso.
«Via veloci!»
*
Hitoshi
aveva controllato tutto il perimetro della casa di Naruto insieme
alla sua copia, senza trovare la minima traccia di esseri umani oltre
a loro. Alle prime luci dell'alba aveva chiesto di poter tornare a
casa, ma il senso di disagio non si era allentato. Tutta quella
faccenda non gli piaceva per niente: avevano catturato Yoshi, certo,
ma qualunque cosa avesse fatto per sorvegliarli era stata fatta
così
bene che iniziava a temere che catturarlo non sarebbe stato
sufficiente...
Quando
rientrò incontrò Sakura che preparava la
colazione. Dalle occhiaie
sotto le palpebre era piuttosto chiaro che non aveva chiuso occhio.
«Hitoshi!»
scattò non appena lo vide entrare dalla porta. Gli
gettò le braccia
al collo, e lui, stupito, si bloccò senza saper rispondere.
«Stai
bene? Com'è andata?» continuò lei,
partendo subito con una visita
agli occhi e le dita a misurare il polso.
«Mamma,
ferma... Ferma!» sbottò lui a disagio, facendo un
passo indietro.
«Lasciami respirare!»
«Scusa»
Sakura strinse le mani una all'altra.
«Lo
abbiamo preso» disse allora Hitoshi, sistemandosi il colletto
un po'
sdegnoso. «E io sono stato quello che lo ha fermato appena
prima che
ci sfuggisse.»
«Sei
stato male?»
Hitoshi
crollò le spalle. Perché le madri medico non
imparavano mai a
gioire dei successi dei figli?
«Un
po' di mal di testa, ma niente di invalidante.»
Sakura
tirò un profondo sospiro di sollievo, rilassandosi
impercettibilmente. Con un gesto stanco tese una tazza a Hitoshi e
gli ordinò di bere un poco di tè prima di fare la
doccia e
riposare.
Hitoshi
obbedì senza proteste, sedendosi al tavolo. Era insolito che
lui e
sua madre si trovassero soli: con tutti i fratelli in circolazione la
casa era peggio di un porto di mare, e da quando a Fugaku era
spuntato lo sharingan Hitoshi cercava di evitare gli incontri a
quattr'occhi con gli altri membri della famiglia.
Oggi,
però, qualcosa era cambiato.
Senza
quasi rendersene conto, Hitoshi sospirò e le
parlò come avrebbe
parlato a Naruto.
«Mamma,
ci aspettava» disse stringendo la tazza tra le mani.
«Sapeva chi
sono, sapeva che saremmo arrivati... In qualche modo ha aggirato le
difese attorno a casa di Naruto, perché è stato
lì che lui me ne
ha parlato. Io e una sua copia abbiamo controllato il perimetro
insieme, ma non abbiamo trovato mezza traccia. E' bravo, troppo
bravo. Non è normale.»
Sakura
si sedette al suo fianco, rabbuiandosi. Probabilmente la spia attorno
al palazzo dell'Hokage seguiva Naruto anche fuori dall'ufficio.
Avevano dato per scontato che trattandosi di Naruto se ne sarebbe
accorto... invece probabilmente non era andata così. Forse
la spia
usava qualche nuovo ritrovato della tecnica ninja.
«Non
è detto che Yoshi lavorasse da solo. Dobbiamo procurarci un
linguaggio in codice» disse, cercando subito una soluzione.
«E
forse nemmeno questo sarà sufficiente... Chiederò
agli Hyuuga di
elaborare una strategia anti-spionaggio. Non lo so, forse anche
Shikamaru dovrà aiutarci» Sakura si interruppe.
«E' strano parlare
di queste cose con te...»
«Anche
per me» borbottò Hitoshi, a disagio. «E'
la prima volta che non mi
cacci via gridando che sono cose serie e non mi riguardano.»
Sakura
rimase in silenzio, le mani attorno alla tazza e lo sguardo un po'
distante. Hitoshi era diventato grande, era entrato nel suo mondo.
Non un bel mondo, purtroppo, ma era lì, e lei non poteva
più
proteggerlo come avrebbe voluto...
Inspirò
a fondo e lasciò uscire l'aria. Solo ora capiva quello che
dovevano
aver provato i suoi genitori, e la prospettiva della guerra alle
porte non glielo rendeva più facile.
«Stai
attento, ti prego» mormorò, tendendo una mano a
prendere la sua.
Lui
esitò. Avrebbe voluto parlarle dell'incontro con Sasuke e di
come
non lo avesse riconosciuto, ma qualcosa glielo impedì.
Vergogna,
forse, o riserbo. Alla fine decise di tacere e prese la mano che lei
gli porgeva.
«Stai
attenta anche tu, mamma.»
Hitoshi
dormì tutta la mattina e buona parte del pomeriggio,
svegliandosi
soltanto quando la fame lo costrinse a riempire lo stomaco.
In
casa c'erano solo i suoi fratelli e i domestici, perché
Sakura era
di turno e suo padre ancora disperso al commissariato, così
si fece
preparare un pasto veloce e lo consumò nella sua stanza
ripassando
gli eventi di quella notte.
Era
soddisfatto di sé stesso, cosa che avveniva con una
rarità
spaventosa: alla fine essere rimandato a casa gli aveva dato
l'opportunità della vita, invece del disastro che temeva.
Non
avrebbe ucciso Chiharu, decise. Anzi, forse l'avrebbe anche
ringraziata.
Ripensando
a lei gli tornarono in mente una serie di inevitabili immagini
collaterali, e un fremito gli corse lungo la schiena all'idea che
presto sarebbe rientrata. Cosa sarebbe successo allora? Come si
sarebbero comportati, cosa sarebbero diventati? Non avevano avuto
occasione di parlarne, ma sapeva, era certo che lei fosse sensibile
al suo fascino, o qualunque cosa fosse. Se aveva un'occasione era
quella, e doveva sfruttarla.
Finì
il pasto rapidamente, poi si vestì e andò dritto
allo studio
dell'Hokage. Voleva chiedere com'era andata la missione a Suna e
voleva sapere quando sarebbero rientrati i compagni, ma voleva anche
capire se la sua promozione ad Anbu era ancora valida o se Naruto si
sarebbe rimangiato la parola.
Nonostante
fosse piuttosto tardi lo studio dell'Hokage era affollato e in piena
attività. Dando un'occhiata in giro Hitoshi intuì
che gli Hyuuga
erano stati mobilitati per elaborare una strategia anti-spionaggio e
che la cosa era ritenuta urgentissima: messaggeri continuavano ad
andare e venire portando involti dalle forme bizzarre, e Hitoshi
capì
che probabilmente avevano dislocato il quartier generale in diversi
punti di Konoha per mettere in difficoltà chiunque li
osservasse.
Per
farsi ricevere da Naruto dovette attendere una mezzora; quando alla
fine Koichi lo fece entrare, trovò nell'ufficio anche
Shikamaru, sua
madre e il vecchio Jiraya.
«Eccolo
qua!» esclamò Naruto accogliendolo con un sorriso
tirato. «Sei
ancora tutto intero? Sakura mi sta mettendo addosso un sacco
d'ansia!»
«Sono
in perfetta forma, anche più del solito»
assicurò lui, adocchiando
le pile di documenti che ricoprivano ogni superficie libera.
Sembravano persino più alte del solito. «So che
non è il momento
migliore, ma volevo sapere qualcosa della missione di Kotaro e
Chiharu.»
«Ah,
certo!» Naruto si tuffò sotto una pila di fogli ed
estrasse un
documento stropicciato. «E' andata benissimo, sono vivi e
hanno
recuperato la ragazza. Da oggi abbiamo di nuovo la Sabbia!»
Shikamaru,
seduto contro il muro dietro la sedia dell'Hokage, gemette
impercettibilmente. Il messaggio di Gaara non conteneva solo
informazioni tattiche, ma anche una sgradevole parentesi riguardo a
Temari. Affondò il naso nel faldone che stava leggendo.
«Quando
tornano?» domandò Hitoshi, reprimendo una punta
d'invidia per il
successo dei compagni.
«Sono
partiti stamattina, dagli tre giorni.»
«Non
c'è speranza che Stupido sia rimasto ucciso in azione,
vero?»
«Hitoshi!»
esclamò Sakura, che aveva fatto lezione ad Akeru e non lo
aveva
trovato malaccio.
Naruto
rise e scosse la testa. «No no, anche lui ha fatto bella
figura.
Purtroppo.»
«Dovreste
migliorare i rapporti, ora che siete colleghi»
ridacchiò Jiraya.
«Ricordi che è un Anbu, vero?»
Sakura
si irrigidì e fissò Naruto con insistenza.
«Sì...
Ehm...» tossicchiò lui. «A proposito
della tua promozione...»
«Non
osare tirarti indietro» ringhiò subito Hitoshi.
«Abbiamo preso
Yoshi grazie a me!»
«Lo
so, lo so!» Naruto gettò un'occhiata a lui e una a
Sakura,
schiarendosi la voce. «Però cosa me ne faccio di
Chiharu e Kotaro
senza di te? Siete il mio gruppo di punta, non posso mandarli in giro
in coppia.»
«Non
sono affari miei» sbottò l'Uchiha.
Naruto
crollò le spalle mugugnando. Il suo piano per diventare la
figura di
riferimento di Hitoshi si stava già scontrando con
l'invisibile muro
di Sakura. Uscire da quella trappola sarebbe stato difficilissimo.
Shikamaru,
dalla sua sedia, inarcò un sopracciglio e fece un lungo
sospiro.
Conoscendo le inesistenti capacità diplomatiche di Naruto,
immaginava che non ne sarebbe venuto niente di buono.
Per
il bene di sua figlia, dunque, decise di prendere in mano la
situazione e tirò fuori il naso dai documenti.
«Va
bene, allora. Naruto, prova a chiedere a Baka Akeru se è
interessato
a sostituire Hitoshi. Un ninja medico in un gruppo da tre è
sempre
un bel bonus, e gli Anbu ne hanno in abbondanza» disse con
tono
incolore. Hitoshi si irrigidì visibilmente.
«Inoltre lui e Chiharu
hanno già collaborato per quel fattaccio di cinque anni fa,
giusto?
Vanno piuttosto d'accordo.»
Hitoshi
sentì il gelo scendere lungo la schiena all'idea che Baka
Akeru
andasse piuttosto d'accordo con Chiharu
e lo sostituisse nel gruppo Sette. Baka e Chiharu si odiavano! Non
andavano d'accordo. E
di sicuro non avrebbero mai e poi mai collaborato, per non parlare di
quel che ne avrebbe pensato Kotaro!
Per un attimo pensò che diventare
Anbu in quel momento sarebbe stato un tragico errore. Poi,
però,
ricordò che diventare Anbu era il suo sogno più
grande, subito dopo
l'ottenimento dello sharingan.
A salvarlo intervenne un
indignatissimo Naruto, che senza capire niente di quello che
sottintendevano i discorsi di Shikamaru si inalberò subito:
«Non ce
lo voglio Stupido nella mia squadra! Sei pazzo? Hitoshi, tu non molli
il gruppo, punto! Ci sarà sempre tempo per fare l'Anbu,
considerati
abilitato ma non in servizio!»
Sakura sospirò visibilmente di
sollievo, Shikamaru guardò Hitoshi di sottecchi.
Hitoshi esitò ancora, combattuto.
«Beh... in realtà Baka e Chiharu si
odiano» chiarì. «Anche senza
di me...»
«Non credo si odino poi tanto»
lo interruppe Shikamaru, che voleva concludere in fretta.
«Lui ha
firmato un contratto di custodia praticamente folle per riportarla a
casa contro il parere dei medici di Suna. Se devo essere onesto la
cosa mi puzza parecchio.»
«Che contratto? I medici volevano
che restasse là?» chiese Hitoshi ansiosamente.
A Jiraya bastarono tre secondi per
fare due più due, e di colpo scoppiò a ridere
fragorosamente.
«Sarebbe quasi carino, se non fosse un Uchiha!»
esclamò
additandolo allegramente. «Così palese!»
Hitoshi avvampò e si irrigidì
tutto, ma il primo a rispondere fu Shikamaru: «Ehi, non
voglio
allusioni su mia figlia dall'autore delle peggiori porcate nella
biblioteca di Konoha.»
«Akeru non si sarebbe preso la
responsabilità di riportarla indietro se ci fossero dei
rischi»
intervenne Sakura, adocchiando l'indignazione negli occhi del Sennin
e temendo una rispostaccia. «E' un ninja medico della squadra
Anbu,
e in parte li ho addestrati io, non dimenticatelo. Sempre a proposito
degli Anbu, Hitoshi, credo che in questo momento siano ben
bilanciati. Abbiamo più bisogno di te come membro del gruppo
sette.
Poi, quando la situazione si sarà calmata, parlerete degli
Anbu...»
Shikamaru sbuffò
impercettibilmente: nessuno sapeva se la situazione si sarebbe
calmata. Sakura stava giocando sporco, e quel cretino di suo figlio
ci sarebbe anche cascato. Ma a diciotto anni erano tutti
così
annebbiati dagli ormoni?, si chiese, evidentemente dimentico del fatto che i suoi, di ormoni, a diciotto anni lo avevano reso padre. Tanto più che, per come conosceva
Chiharu,
non avrebbe mai degnato di uno sguardo uno dei boriosi Uchiha, e
tanto meno Baka Akeru, che si era evidentemente fatto manovrare da
sua figlia perché non voleva restare sola con Temari.
Ogni tanto anche Shikamaru
sbagliava.
«Bene! Allora torni nel
gruppo!»
esclamò Naruto cogliendo la palla al balzo. Poteva
conquistare
Hitoshi anche senza regalargli la promozione, in fondo... Non avrebbe
sopportato di avere a che fare con Baka troppo spesso.
Hitoshi strinse le labbra. «Voglio
essere il capo» sbottò. «Sono al livello
di un Anbu, dopotutto!»
«Se volete me lo porto in viaggio
e gli insegno un po' di umiltà» propose Jiraya.
«Non sei mai stato umile» gli
fece notare Naruto.
«Posso ricordarvi che abbiamo un
mucchio di lavoro?» sbuffò Shikamaru dal fondo.
«Per favore!»
Hitoshi si schiarì la voce.
«Infatti... Volevo chiedere se Yoshi ha parlato.»
Sakura lanciò un'altra occhiata
di avvertimento a Naruto, e lui si ricompose obbediente.
«Hitoshi,
ti siamo grati per il contributo che hai dato alla sua cattura, ma
capisci che da questo punto in poi le informazioni sono strettamente
riservate. Se avremo ancora bisogno di aiuto sarai il primo che
contatteremo.»
«Se fossi Anbu...»
«Non te lo diremmo comunque»
troncò Sakura, che comunque cercava di tenere il figlio ai
margini
dell'azione, se proprio non poteva tenerlo fuori. «E di certo
non
qui» aggiunse in tono di rimprovero, ricordando
implicitamente
ai presenti che potevano essere ancora sotto controllo.
«Se hai del tempo libero ti posso
dare un paio di consigli per recuperare la tua bella» rise
Jiraya. I
triangoli gli piacevano da impazzire, aveva già una mezza
idea per
un nuovo libro...
«Non ho mai tempo libero»
ringhiò Hitoshi.
«E neanche noi» si
inserì
Shikamaru, chiudendo il documento che stava leggendo e fregandosi la
fronte stancamente. «Resto ancora stanotte per vedere se
riesco a
dare una mano agli Hyuuga. Domani mi presti un rospo, Naruto? Vado a
vedere cosa è preso a Temari e iniziamo a coordinarci con la
Sabbia.»
«Hitoshi, vai a casa» disse
Sakura al figlio, troncando sul nascere altre possibili discussioni.
«Resti a riposo fino al rientro dei tuoi compagni.»
Sasuke si prese un tè caldo in
bicchiere di plastica al posto della cena. I distributori del
commissariato in quei giorni gli avevano salvato la vita, ma di certo
non lo aiutavano a prendere la risoluzione di tornare a casa. Per sua
fortuna aveva talmente tante cose da fare che i suoi subordinati non
trovavano strano vederlo sempre in giro: anche in quel momento sapeva
che erano appena arrivati dispacci dai quartieri bassi e un ordine di
coordinamento con gli Hyuuga per la faccenda della spia, e che
avrebbe dovuto analizzare tutto entro l'indomani.
Grattandosi distrattamente il
collo rientrò in ufficio con la testa piena di dati e
congetture, ma
non fece in tempo a sedersi che qualcuno bussò alla sua
porta.
Quasi sussultò vedendo entrare
Ryuichiro.
«Buonasera. Sono mortificato per
l'ora, ma non riuscivo mai a trovarla a casa e allora ho
pensato...»
il ragazzo si strinse nelle spalle timidamente.
«Non preoccuparti. Vieni,
siediti. Ho molto lavoro in questi giorni...» Sasuke si
affrettò ad
accomodarsi dietro la scrivania, frugando tra le carte per trovare
posto al suo tè. «Mi dispiace, non ho pensato ad
avvisarti.»
«Non era necessario» si
affrettò
ad assicurare Ryuichiro, sedendosi di fronte a lui con un po' di
disagio. «Anzi, mi scuso per essere tornato così
presto. E' che mia
madre... non è stata molto bene, abbiamo avuto delle spese
impreviste...»
«Non hai bisogno di spiegare»
lo
interruppe Sasuke. «Per domattina sarà tutto
sistemato.»
Ryuichiro tacque, fissandolo quasi
tristemente. «Non mi piace quello che faccio»
ammise piano. «Ma
non so che altro fare. Nessuno mi dà un lavoro, e mia madre
si
rifiuta di trasferirsi altrove. Vuole...»
Continuare
ad approfittarsene,
pensò
Sasuke, ma non lo disse. Dopotutto se Ryuichiro non trovava lavoro
né
accoglienza al Villaggio era colpa degli Uchiha: nessuno si fidava di
lui. Anche Kakashi lo considerava un sorvegliato speciale; aveva
chiesto espressamente a Sasuke di tenerlo d'occhio, perché
chissà
mai che Akatsuki o il paparino non avessero elaborato un piano
macchinoso per mettere di nuovo in pericolo il Villaggio... Sasuke
scrollò la testa per smettere di pensarci.
Itachi,
il vecchio Itachi, si era lasciato alle spalle una scia destinata a
durare parecchi anni.
«Per la mia famiglia non è una
difficoltà» disse in tono pacato. «Se lo
fosse ti avrei avvisato.»
Ryuichiro sorrise. «Qualche tempo
fa ho avuto occasione di parlare con sua moglie. E' una buona madre,
non so come faccia a stare dietro a tutti i suoi impegni. Forse
è
grazie al suo aiuto.»
Sasuke si irrigidì in preda al
senso di colpa. Il suo aiuto? Stava evitando di tornare a casa, di
occuparsi dei suoi doveri di sostituto Hokage, di seguire
l'allenamento dei suoi figli... Stava trascurando un mucchio di cose.
«Ho detto qualcosa di
sbagliato?»
chiese Ryuichiro gentilmente.
Sasuke scosse la testa e si
schiarì la voce, cercando un modo per congedarlo, ma il
ragazzo lo
precedette.
«So che non dovrei
permettermi...» iniziò esitante. «Ma
penso che dovrebbe tornare a
casa, questa notte.»
Sasuke lo guardò. E per un
istante al suo viso si sovrappose quello del fratello, tanti anni
prima, un'intera vita prima... Il fratello grande che lo mandava a
dormire quando si allenava troppo a lungo, che gli dava colpetti
sulla fronte quando si lamentava, che gli mostrava pazientemente i
suoi errori...
All'improvviso il peso di quello
che stava facendo gli crollò addosso tutto insieme, e le sue
spalle
si piegarono sotto il ricordo dei rimproveri di Naruto, della
solitudine e del senso di colpa.
«Sì...»
sussurrò, esausto,
fissando il tè che fumava. «Penso che
seguirò il tuo consiglio.»
Sakura era rientrata quando tutti
i suoi figli erano già a letto da alcune ore, sfinita
dall'estenuante giornata di lavoro, e aveva pensato di prepararsi un
tè per distendere i muscoli prima di andare a dormire.
Era così stanca che non aveva
nemmeno la forza di pensare. Si sentiva schiacciare dalla
responsabilità, sentiva che l'indomani, senza Shikamaru,
sola con
Naruto, non avrebbe più retto: sarebbe crollata, avrebbe
parlato di
Sasuke, e Naruto avrebbe fatto una scenata, avrebbe cercato di
intromettersi, tutto si sarebbe complicato...
Non aveva la forza di sopportarlo.
Era stanca di combattere da sola. Non era più una ragazzina
piena di
energie, non riusciva ad affrontare di nuovo la fuga di Sasuke. Non
più.
Finché, senza preavviso, davanti
a una tazza di tè a malapena tiepida, proprio allora vide
rientrare
Sasuke.
E
allora
silenzio.
La
tazza sul tavolo, la teiera sul fuoco spento, le sedie in ordine e i
bicchieri a sgocciolare. Il lampadario che pendeva dal soffitto al
centro della stanza.
Sasuke
entrò senza fare rumore. Tenendo lo sguardo basso,
com’era sua
abitudine, raggiunse la teiera e si versò una tazza di
tè. Sedette
accanto a Sakura, allo stesso lato del tavolo, e fissò le
mani
strette alla ceramica.
Silenzio.
Il
cuore di Sakura batteva pesantemente.
Sasuke
si era seduto. Voleva parlarle, ma di cosa?
Silenzio.
Lui
alzò lo sguardo, incontrò quello di lei.
Ancora
silenzio,
per un lungo, infinito, pesantissimo attimo.
Infine
la sua voce.
«Sono
tornato.»
Sakura
rilassò i muscoli con cautela. Abbassò gli occhi,
nascondendoli nel
vapore che saliva dalla tazza di tè. Annuì.
«Bentornato.»
La
voce leggermente incrinata, la vista incerta, il nodo alla gola.
Niente era a posto, davvero niente; non bastava ripresentarsi a quel
tavolo perché ogni cosa acquistasse senso...
Ma
Sasuke era lì. Dopo tanto tempo, dopo tanto scappare, era di
nuovo
lì, da lei.
Domani avrebbe pensato al da
farsi. Quella notte voleva che restasse così, sospesa.
*
L'evocazione di Kakashi ricomparve
dal nulla, facendo trasalire Jin e Haruka.
«Chiharu Nara è a quaranta
chilometri a sud, diretta verso il Villaggio della Foglia»
annunciò
posandosi a terra.
Kakashi imprecò a mezze labbra,
fermandosi per tirare fuori la cartina.
Quel giorno avevano riposato meno
del previsto, perché avvicinandosi al confine avevano dovuto
fare
più attenzione. I mercenari mandati alla loro ricerca si
erano
moltiplicati e sparpagliati, e adesso dovevano fare lunghe deviazioni
per non incontrare nessuno che fosse allettato dalla taglia sulla
loro testa.
Kakashi aveva sperato che Chiharu
fosse a già Konoha, possibilmente vicinissima a suo padre:
in quel
modo avrebbe potuto informare Naruto della situazione e chiedere
rinforzi per eliminare le sentinelle della Radice. Ma se Chiharu era
lontana quanto lui la faccenda si complicava... I suoi segugi non
sarebbero riusciti a oltrepassare lo sbarramento di Roccia e Radice,
e non si fidava abbastanza dell'altra evocazione per chiederle di
rischiare la traversata. Cosa era andato storto nella missione di
Loria per farli tardare così?
«Dovremo aspettare il confine»
mormorò, mentre Jin illuminava debolmente la cartina e
Haruka faceva
da schermo perché la luce non filtrasse tra gli alberi.
Ormai era
buio. «In quanti viaggiano con Chiharu?»
«Altri quattro shinobi.»
«Quattro?» ripeté
Kakashi,
chiedendosi chi fosse rimasto ferito nella missione. Ma non aveva
tempo di preoccuparsene, e accantonò il problema.
«Chiederemo anche
il loro aiuto, quando arriverà il momento»
mormorò ripiegando la
cartina. «Deviamo verso sud, cerchiamo di avvicinarci al
gruppo che
viene da Suna.»
Jin e Haruka annuirono. Il braccio
ferito di Haruka continuava a sanguinare in mancanza di punti, la
fame e la stanchezza li rendevano più lenti, più
vulnerabili.
Kakashi guardò entrambi,
chiedendosi se ce l'avrebbero fatta.
Con desolazione, si accorse di non
saperlo.
* * *
Buongiorno a tutti!
Capitolo schifosamente Uchihacentric, lo confesso.
Però Hitoshi sta riacquistando un pochino di
dignità (forse)
e sinceramente lo preferisco così, piuttosto che emo e
disperato.
Nel prossimo capitolo continua la scia Uchiha,
MA
il terribile capitolo 28,
che ho riscritto mille volte perché è pieno di
combattimenti,
è dietro l'angolo...
Che finalmente si avvicini la scena del prologo?
Grazie a tutti voi che siete arrivati a leggere fin qui.
Un abbraccio.
Alla settimana prossima!
|
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Capitolo 27 *** Sharingan? ***
Penne27
23/03/2016
Capitolo
ventisettesimo
Sharingan?
Dormire,
dopo tanto tempo, nello stesso letto in cui dormiva Sakura fu tutto
fuorché un sollievo per Sasuke. Sorvolando sulla distanza
che
separava i loro corpi e sulle schiene rigidamente contrapposte, la
sola idea di esserle di nuovo accanto lo innervosiva: la sua
amorevole ma inflessibile moglie avrebbe preteso delle spiegazioni;
spiegazioni che lui, ancora, non possedeva. E questa volta Naruto non
avrebbe rigirato le carte in suo favore, come aveva fatto in passato.
Pensieri
angoscianti e opprimenti riempirono la stanza lungo tutta la nottata,
contaminando i sogni confusi dell’uno e dell’altra.
Tensione e
stanchezza si diedero il cambio più volte, plasmando un
dormiveglia
estenuante e velenoso. A un tratto Sasuke si accorse che la luce
dell’alba penetrava attraverso le imposte socchiuse. Nello
stesso
istante percepì chiaramente che Sakura non era dietro di lui.
Si
voltò, stendendo una mano a cercarla, ma trovò
soltanto le lenzuola
ancora remotamente tiepide. Allora indugiò sulla leggera
curva del
materasso, respirando il profumo della sua casa, un misto di quello
di Sakura, del suo, di legno e carta e bambini, di tutta una vita...
Inspirò
a fondo, riempiendosi i polmoni di quello a cui aveva rinunciato
scappando in commissariato, e si girò sulla pancia,
richiudendo gli
occhi. Da solo era più facile.
Di
nuovo a casa.
La
porta dell'ufficio dell'Hokage si spalancò senza che nessuno
bussasse, e Ibiki Morino fece il suo ingresso con passo marziale.
«Sono
qui per un reclamo ufficiale contro il Dipartimento di
Polizia!»
annunciò bellicoso.
Naruto
si alzò in tutta fretta, pronto a difendersi. Un paio di
penne
caddero a terra nella concitazione.
«Quell'imbecille
del capo della Polizia non mi lascia fare il mio lavoro!»
sbottò
Ibiki.
«In
che senso?» chiese Naruto cautamente.
«Mi
mette i bastoni tra le ruote! Interferisce! Mi fa ridere in
faccia
da quel ragazzino!»
«Ehm... Interferisce come, di
preciso?»
Morino sbatté una mano sul
tavolo, e dal suo pugno emerse un foglio accartocciato, che Naruto
riconobbe come il foglio di sospensione del dipartimento di Polizia.
«Senza di me non caverete una
sola parola da quel tizio!» ringhiò il gigantesco
shinobi.
Il che probabilmente era vero,
perché le notizie che arrivavano dalla sala degli
interrogatori
erano sconfortanti; ma ammazzare Yoshi non gli sembrava una buona
soluzione, così Naruto si spremette le meningi per trovare
il modo
di calmare Morino.
«Ascolta, io non posso
d'ufficio...»
«Non mi interessa!»
Fallito.
«Scusate?»
Sia Naruto sia Morino guardarono
la porta dell'ufficio, e videro Sakura che li fissava con un ampio
sorriso.
«Buongiorno a entrambi. Morino,
la sospensione non è sindacabile, ci serve» lui
fece per
protestare, ma lei lo zittì con un gesto. «Non
capisci? Non abbiamo
nessuno a parte te che sappia interrogare i prigionieri come si deve:
dobbiamo testare qualcuno prima che scoppi la guerra, o tra dieci
anni saremo con il culo a terra. Abbiamo bisogno che tu finga di
essere fuori di scena, e in segreto voglio che studi le nuove leve e
ci dica chi lavora bene e chi no. Lo sai, se ti vedono nella sala
interrogatori diventano delle ragazzine...»
Morino richiuse la bocca,
sospettoso. Guardò Naruto, che si strinse nelle spalle come
se
avesse sempre saputo tutto, quindi di nuovo Sakura.
«E' una sospensione
temporanea?»
chiese.
«Naturalmente. Presto avrai il
documento di reintegro in servizio. Mi stupisce che Sasuke non te lo
abbia spiegato personalmente.»
Morino rilassò la mandibola e
riprese il foglio che aveva sbattuto sul tavolo di Naruto. Con bassi
mormorii di protesta, si scusò per il trambusto e promise
che
sarebbe tornato da Sasuke a sgridarlo. Sakura lo gratificò
di un
sorriso che significava 'ehh, sono cose che capitano!'
e lo
esortò ad andare subito al dipartimento.
Quando Morino fu uscito, Sakura
tirò un sospiro di sollievo e fece scivolare un plico di
fogli sopra
la pila più bassa della scrivania. «Qui ci sono i
nomi dei
candidati a sostituirlo» gemette. «Alcuni sono suoi
allievi, altri
sono esterni. Non so, proviamole tutte... Effettivamente senza di lui
siamo nei guai.»
«Non
possiamo aspettare che Shikamaru rientri? Davvero, non vorrei proprio
occuparmi di questa faccenda...» Naruto si interruppe e
sembrò
ricordare qualcosa. «Hai davvero detto culo
a terra?»
Sakura rise, facendo un gesto per
minimizzare, poi si schiarì la voce. «Tra i
candidati c'è anche
Baka Akeru.»
«Cosa? Perché?»
«Ha fatto punteggi stratosferici
ai test attitudinali.»
«Ma è un medico!»
«Lo so. E anche se da regolamento
i medici non possono condurre gli interrogatori... Beh, siamo
così a
corto di personale che faremo uno strappo alla regola.»
«Sakura, ha diciotto anni...»
«Come Yoshi.»
«Non ne siamo sicuri.»
Sakura fece un sorriso triste.
«Naruto, ti ricordi dove eravamo noi a diciotto
anni?»
«Dove non vorrei mai mettere i
miei figli e i loro coetanei.»
«...Disse l'uomo che aveva
promosso mio figlio ad Anbu senza nemmeno valutarlo.»
Naruto distolse lo sguardo
tossicchiando. «Ma tu non eri impegnata con la tua crisi
coniugale,
invece di pensare a queste cose?»
Sakura tacque. Deglutì.
«Sasuke
è tornato a casa, stanotte.»
«Finalmente!»
esclamò Naruto,
lasciandosi cadere sulla sedia a braccia spalancate. «Cosa
aspettavi
a dirmelo?»
«Che Morino fosse fuori dai
piedi.»
«Ha parlato con Hitoshi?»
«Non si sono incontrati,
stamattina Hitoshi è uscito presto...»
«Testaccia dura!»
sbottò
Naruto, picchiando un pugno sul tavolo. «Se non si
dà una mossa
glielo mando in ufficio!»
«Non ficcare il naso, Naruto.»
Il Jonin biondo le puntò un dito
contro. «Lo farò quando tuo marito
imparerà a stare al mondo!»
Sakura sbuffò ed evitò il suo
sguardo.
Se c'era una nota stonata nella
sua convinzione, era quella che l'aveva spinta ad alzarsi prima che
Sasuke fosse sveglio, quella mattina. Era tornato, sì, ma
non
avevano ancora parlato di niente. Hitoshi, Fay, il tradimento...
Argomenti che le pesavano sul cuore come un macigno e la facevano
sentire una vigliacca.
Prima o poi ne avrebbero discusso,
si disse nervosamente. Prima o poi...
Sperando che non diventasse troppo
tardi.
Hitoshi non si era alzato molto
presto per evitare di incontrare suo padre; neanche sapeva che era
rientrato, suo padre. Hitoshi si era alzato molto presto
perché non
riusciva a dormire. E non riusciva a dormire perché aveva la
testa
piena di pensieri. Così, nonostante ufficialmente fosse in
vacanza,
ben prima dell'alba si era preparato per uscire ed era finito a
guardare il sorgere del sole dalla cima della parete degli Hokage,
adeguatamente lontano dal bordo.
Certo, la scelta della posizione
non era stata casuale.
Seduto sotto un fitto cespuglio di
rododendro sgranocchiava uno snack proteico, perso nei suoi pensieri.
Non riusciva a levarsi dalla testa l'idea che Chiharu e Akeru
avessero firmato un contratto.
Che contratto era? Perché
l'avevano stretto? Non si odiavano, quei due? Cosa era successo a
Suna dopo la sua partenza?
Continuava a ricordare
ossessivamente quanto Chiharu avesse ceduto in fretta alle sue
avances... Poteva pensare che fosse a causa del suo
incredibile fascino, ma poteva anche essere che lei non sapesse
gestire quel genere di proposte. E se Akeru gliene avesse fatta una?
No dai, doveva pensare veramente
male di lei per credere una cosa del genere!, si disse, quasi
vergognandosi di sé. Non voleva pensare che Chiharu andasse
con il
primo che passava... Preferiva di gran lunga credere di essere unico
e speciale – anche se poi c'era stato quello spiacevole
dettaglio
della sostituzione.
Davvero, non vedeva l'ora che
tornasse: le avrebbe detto di Yoshi, del suo ruolo nel catturarlo e
di quanto fosse stato figo stare tra gli Anbu.
L'avrebbe fatta
rodere per giorni, e alla fine l'avrebbe costretta a riconoscere di
aver fatto un errore quando aveva deciso di rispedirlo a Konoha.
Naturalmente avrebbe fatto un
discorso analogo anche a Kotaro... Dovevano sentirsi piccoli e miseri
come si era sentito lui in sella a Scheggia XIII.
No,
aspetta. Forse è meglio se prima chiarisco la situazione con
Chiharu, si
disse interrompendo
il flusso di pensieri rancorosi. E se la sua
risposta non
mi piace, allora procedo con il piano di vendetta.
Si sentiva molto astuto.
Qualcosa entrò nel suo campo
visivo. Rotolò via appena in tempo, evitando un attacco
improvviso.
Mentre recuperava la visuale estrasse un kunai, lanciandolo verso la
sagoma che lo aveva sorpreso, ma quella lo fermò con due
dita.
Hitoshi prese un secondo kunai appena in tempo per difendersi da un
nuovo attacco, e finalmente i due si guardarono.
«Hyuuga» disse Hitoshi per
primo. «Sono Hitoshi Uchiha, non la vostra spia. Posso
riavere il
mio kunai?»
Lo Hyuuga, chiaramente
riconoscibile per il Byakugan attivo, non mosse un muscolo,
diffidente. «Sai che stiamo pattugliando questa zona:
perché sei
qui?» rispose senza smettere di premere la lama contro quella
di
Hitoshi.
«Guardavo l'alba.»
Lo Hyuuga strinse gli occhi, e con
il Byakugan l'effetto era un po' inquietante.
«Ok, pensavo a una ragazza!»
Lo Hyuuga esitò ancora un
istante, poi abbassò il kunai e riportò la vista
alla normalità.
Hitoshi si chiese perché tutti prendevano per buono che un
diciottenne sospirasse languidamente osservando il sorgere del sole,
ma rimase zitto e si spolverò la maglietta.
«Non startene qua intorno» lo
rimproverò la sentinella, gettando il kunai ai suoi piedi.
«Potresti
essere frainteso.»
Hitoshi guardò con rammarico lo
snack che era caduto nella colluttazione. «Mi
dispiace» disse con
voce monocorde. «Non accadrà
più.»
«Sarà meglio...»
Lo Hyuuga si fece da parte e si
intrufolò tra i rododendri senza salutare. Erano sempre
così snob i
membri di quel clan! Doveva darsi da fare a rimpolpare gli Uchiha per
rimetterli al loro posto.
Avvertì un brivido, come uno
spiffero gelido. Si voltò.
Alle sue spalle c'erano solo i
cespugli del sottobosco e i primi alberi. Il suo cuore
iniziò a
battere un po' più veloce, i sensi si acuirono: non c'era
solo il
verde; c'era qualcosa, lì in mezzo, qualcosa di invisibile.
C'era una cosa che accomunava
tutti i membri del gruppo sette: tutti, nessuno escluso, prima o poi
finivano per pensare che il loro intervento in qualche difficile
problema avrebbe risolto la situazione. Anche se non avevano le
conoscenze e nemmeno la capacità di valutare il contesto,
sapevano
che prima o poi avrebbero salvato il mondo, da soli. Lo sapevano.
Non era arrivato fin lassù solo
per ammirare l'alba pensando a Chiharu. Quel giorno Hitoshi era
salito fin lì, combattendo le vertigini, perché
dopo il successo
della missione con gli Anbu una piccola parte di lui era convinta che
se si fosse impegnato per scoprire se Yoshi aveva un complice ci
sarebbe riuscito di sicuro; in barba a un'intera squadra di Hyuuga e
mezzo Villaggio che tentavano la stessa cosa.
Non lo avrebbe mai detto a
nessuno, perché anche lui si rendeva conto della presunzione
di un
simile pensiero, ma in fondo ci credeva. E quindi, avvertendo la
strana sensazione che gli Hyuuga avevano descritto nei loro rapporti
sulla spia, subito il pensiero era corso alla riuscita delle sue
fantasie e la sua mente aveva galoppato verso grandi riconoscimenti.
Ci
siamo, si
disse emozionato,
guardandosi attorno con cautela. Sentiva la schiena coperta di sudore
freddo e le mani tremare, ma non avrebbe saputo dire se per l'ansia o
l'eccitazione.
Non aveva bisogno di uno stupido
Sharingan per essere tra i migliori shinobi del Villaggio. Forse per
Fugaku era indispensabile, ma lui era sempre stato abituato a farne a
meno, si disse, accucciandosi come per raccogliere il kunai.
Ne fu certo: qualcosa, ai margini
del bosco, si mosse per osservarlo. Provò una sensazione
strana,
come se qualcuno gli avesse infilato giù per la schiena un
secchio
di alghe gelate.
Lentamente raggiunse il kunai,
cercando di definire il misterioso osservatore. Non riusciva a vedere
niente. Sentiva orribili brividi lungo la schiena quando fissava un
punto preciso tra i cespugli, ma anche sforzandosi non capiva dove o
cosa fosse.
Forse,
se avessi lo Sharingan...
Una macchia, come quelle che si
vedono osservando direttamente il sole. Gli sembrò di
intravederla
nel momento in cui gli occhi gli mandarono una piccola fitta di
protesta.
Non era la prima volta che la sua
vista si lamentava perché cercava di applicare gli
insegnamenti del
manuale segreto dello Sharingan, ma questa volta il dolore fu
più
intenso. Serrò le palpebre, mancando la presa sul kunai e
facendolo
tintinnare contro un sasso. Riaprì subito gli occhi, e
questa volta
la macchia si fece più distinta, quasi acquosa, come un
riflesso
d'acqua nell'aria.
Le dita afferrarono il kunai e lo
scagliarono nel folto, diretto con precisione verso il punto in cui
lo spazio si distorceva. Vide le foglie dei cespugli che si
scrollavano, il kunai che veniva deviato e rimbalzava contro un
tronco. Si lanciò in avanti prima che il metallo toccasse di
nuovo
terra, ma quando tese le mani la macchia traslucida si era dileguata,
lasciandolo ad afferrare l'aria.
Non si perse d'animo, la cercò di
nuovo. Si era spostata nel folto degli alberi. Si intrufolò
tra i
cespugli per inseguirla, ma nelle ombre era molto più
difficile. La
perse e la riprese più volte, cercando di ignorare il dolore
che
aumentava dietro le tempie. Era lì, a pochi passi! Bastava
avere
l'intuizione giusta, e...
Qualcosa lo colpì in piena
faccia, mandandolo a sbattere contro un grosso tronco.
Cacciò un
urlo strozzato, sentendo miriadi di granelli di polvere che gli
invadevano occhi, naso e bocca. Si sfregò la pelle con una
mano,
tossendo, e subito avvertì un bruciore insopportabile salire
su per
i polmoni.
Boccheggiando portò una mano alla
borraccia. La aprì, si piegò di lato e
sciacquò gli occhi,
sperando che lenisse il dolore, ma non accadde. In pochi istanti
tutte le sue mucose si erano gonfiate. Respirare diventò
difficile,
così come sollevare le palpebre.
Un trucco tanto semplice che lo
insegnavano la prima settimana di Accademia... Una manciata di
polvere urticante, e il grande Hitoshi Uchiha era finito K.O.
«Che è successo?»
domandò una
voce familiare, in tono concitato. «Stai fermo, ho
qualcosa.»
Hitoshi sentì una mano che lo
afferrava saldamente per la nuca, e poi il sollievo di un panno
freddo sul viso.
«Respira.»
Obbedì, avvertendo il mentolo che
gli invadeva immediatamente i polmoni. Le vie respiratorie si
decongestionarono leggermente, permettendogli di respirare quel tanto
che bastava, e presto prese a tossire, ansante.
«C'era... Qualcosa...» si
sforzò
di dire. «Qualcuno...»
«Lo hai visto?»
«Ho visto...» un accesso di
tosse lo interruppe.
«Fermo. Ti accompagno in
ospedale... Quello che ti ho fatto respirare è solo un
palliativo.»
Allora Hitoshi riconobbe la voce:
si trattava dello Hyuuga che lo aveva attaccato poco prima.
Quando arrivarono in ospedale il
medico di turno mandò a chiamare Sakura e si consultarono
sulla
natura della sostanza irritante. Fu avvisato anche Naruto, che si
precipitò a interrogare Hitoshi, ma non ottenne
granché.
«Richiama Morino, dobbiamo
scoprire con chi lavorava Yoshi. Adesso»
disse a Sakura.
«Neanche per sogno»
sbottò lei.
«Morino lo ammazzerebbe senza ottenere niente. Piuttosto ci
vado
io.»
Senza volerlo Hitoshi rise, una
risata raspante e incompleta, mentre aspirava un aerosol che puzzava
di uovo marcio. Gli avevano spalmato su tutta la faccia uno spesso
strato di unguento lenitivo, e sugli occhi avevano messo una benda
impregnata di chissà che diavoleria. Qualcuno, poco prima,
gli aveva
anche iniettato un siero che doveva ridurre la reazione cutanea, ma
quello ci avrebbe messo un po' ad agire.
«Non ridere. Non sai di cosa è
capace quando le toccano i figli» lo mise in guardia Naruto
con un
brivido.
«Non possiamo avere un rischio
simile in giro per il Villaggio. Dobbiamo sguinzagliare gli Hyuuga,
tutti quelli che sono in città, e organizzare squadre di
pattuglia»
continuò Sakura. L'idea che qualcuno avesse avuto l'ardire
di
mettere le mani addosso a suo figlio l'aveva resa aggressiva e
spaventosamente efficiente.
Un discreto colpetto di tosse
interruppe le sue pianificazioni. Lo shinobi che aveva salvato
Hitoshi, fermo in un angolo, fece un passo avanti.
«Perdonate l'interruzione. Il
ragazzo ha detto di aver visto qualcosa» disse. «Mi
piacerebbe
capire meglio cosa ha visto, dal momento che
neanche il nostro
Byakugan è riuscito a distinguere nulla.»
«E' difficile da descrivere»
spiegò Hitoshi, mettendo da parte l'aerosol.
«Sembrava come una
macchia... a metà tra un'ombra e un riflesso, senza contorni
definiti. Era grossomodo delle dimensioni di un essere umano.»
«Qualunque cosa sia, voglio tutto
il vostro clan sulle sue tracce!» sbottò Sakura
rivolta allo
Hyuuga.
«Così li mettiamo in allarme,
però» le fece notare Hitoshi. «Se
vogliamo prenderli non è una
buona mossa.»
«Non venire a dirmi cosa devo
fare o non fare a chi mette le mani sui miei figli!»
Hitoshi tacque, trattenendo un
fremito di impazienza. Dietro le palpebre abbassate gli sembrava di
avvertire un nuovo potere pulsante, lo stesso potere che aveva
agognato per anni senza mai capire come raggiungerlo. Forse era
l'infiammazione, ma forse la pulsazione era qualcos'altro...
«Nemmeno gli Hyuuga riescono a
capire cosa sorveglia il palazzo degli Hokage» disse con voce
quasi
tremante. «Io invece ho visto... qualcosa. Non era ben
definito, ma
non era niente che avessi visto prima... Può darsi che io
possa...»
lasciò la frase in sospeso, con una vibrazione eccitata
sull'ultima
sillaba. Non osava dirlo a voce alta.
«Lo Sharingan?» chiese Naruto
per lui, inarcando le sopracciglia fino all'attaccatura dei capelli.
«Non lo so. Forse»
mormorò
Hitoshi tutto impacciato. Parlare di Sharingan senza esserne sicuro?
Cosa diavolo gli era saltato in mente? La fronte gli si
coprì di
sudore freddo all'idea di averla sparata troppo grossa. «So
solo che
ho visto qualcosa, mentre gli Hyuuga non sono mai riusciti a
distinguere niente di più di un turbamento nella forza...
Beh, in
qualunque cosa vedano con i loro occhi.»
«Flussi di chakra»
brontolò lo
Hyuuga presente, piuttosto seccato.
Naruto si fece pensieroso. «Sasuke
non ha mai fatto turni di guardia per cercare la spia» si
disse. E'
stato troppo impegnato a fare il cazzone, aggiunse
mentalmente.
«Dobbiamo verificare la teoria dello Sharingan. Voglio una
squadra
con Sasuke, Hitoshi e Fugaku.»
Sakura serrò le labbra.
«Fugaku?»
«Avanti, Hitoshi alla sua età
poteva venire in giro con me e Fugaku non può andare in giro
con suo
padre?» ghignò Naruto. «Sono tanto
più bravo di lui?»
Sakura tacque. Hitoshi con lo
Sharingan e Fugaku improvvisamente coinvolto nelle missioni
pericolose? Succedeva tutto un po' troppo in fretta.
«Non siamo sicuri che sia lo
Sharingan. Potrebbe anche essere un tumore al cervello, per quel che
ne sappiamo» protestò, e Hitoshi la
odiò un pochino, perché era
quello che temeva anche lui.
Ma Naruto le rivolse un'occhiata
incredula. «Quante probabilità ci sono che un
Uchiha sviluppi un
tumore al cervello piuttosto che lo Sharingan? Ti prego! Anche io ho
passato la fase in cui volevo proteggerli, ma così mi
costringerai a
chiamare Rock Lee e Shikamaru per farti ragionare!»
Sakura fece un respiro profondo.
Vedere Hitoshi che boccheggiava non le rendeva entusiasmante l'idea
di mandare in avanscoperta Fugaku... Ma Fugaku sarebbe impazzito di
gioia, questo lo sapeva. E ricordava fin troppo bene quanto era
sembrato ridicolo Naruto nel periodo in cui era paranoico.
«Torno a casa per avvisarli»
cedette.
«Vengo con te!»
esclamò Hitoshi
raggiante, pronto a togliere la benda dalla faccia.
«Neanche per sogno. Voglio che i
tuoi occhi vengano esaminati in lungo e in largo. Intanto ti
ringrazio...» proseguì in direzione dello Hyuuga.
«Farò sapere a
Neji che hai salvato mio figlio. Se non fosse stato per te...»
Naruto schivò lo sguardo di
Sakura, tossicchiando come se fosse stato in imbarazzo. Sakura non
sembrò accorgersi di niente, e invece prese la mano di
Hitoshi, che
nella sua cecità temporanea sussultò leggermente.
«Dato che non siamo sicuri che
sia davvero lo Sharingan, non dirò niente a casa. Ti sta
bene?»
Hitoshi annuì rigidamente.
«Lo farà lui più
tardi»
sorrise allegro Naruto. «Figurati se non è
Sharingan. Anzi, se non
è Sharingan ti declasso a Genin, Hitoshi.»
«Cosa? Non puoi!»
«Certo che posso! Ti ho promosso
Anbu, posso anche declassarti a Genin.»
«Mamma, digli qualcosa! Sei
Hokage quanto lui.»
«Non voglio saperne niente»
borbottò Sakura, lasciandolo con una pacchetta sulla mano.
«Non
azzardarti a tornare senza un referto oculistico, mi raccomando... A
dopo.»
Nonostante le affermazioni
spavalde, Naruto non sapeva da che parte iniziare a risolvere i suoi
problemi. A parte Hitoshi, che forse si era risolto da solo, tutto il
resto era una gigantesca incognita. Non era mai stato un genio del
problem solving... Era più quello che faceva saltare in aria
la
baracca e ripartiva da zero, dicevano tutti.
Nel pomeriggio Sakura lo rispedì
a casa, perché in ufficio faceva più danni che
altro, e lui si
ritrovò inattivo, frustrato e preoccupato.
Hinagiku lo trovò che giocava con
uno degli ultimi cuccioli nati a casa Uzumaki, propropropronipote del
primo Naruto-gatto. Quando lo vide pensò che fosse un segno
divino,
perché in quel momento lei voleva sospirare un po' al
pensiero di
Jin, ma nessuno dei suoi fratelli era adatto al ruolo di confidente e
sua madre era uscita per una commissione.
«Non eri andata con mamma?» le
chiese Naruto sorprendendola dietro la porta.
«Non avevo voglia» rispose lei,
entrando nella stanza e sedendosi al suo fianco. «Ho la testa
piena
di pensieri...»
«Siamo in due» con un sorriso,
Naruto le circondò le spalle e la abbracciò.
«Allora, vuoi provare
ad alleggerirti un po' parlandomi di questi brutti pensieri?»
«Mi sa che non ti
piacerebbero...»
«C'entrano con Jin? Devo andare a
ucciderlo?»
Hinagiku rise, ma per poco. Poi il
bisogno di confidarsi la sopraffece. «Sono preoccupata: non
ha più
fatto sapere niente... So che se lo avesse fatto me lo avresti detto.
Vero?» guardò il padre con sospetto.
«Sì che te lo avrei
detto»
assicurò lui.
«Se non ha fatto sapere niente
potrebbe essergli successo qualcosa...» gli occhi della
ragazzina si
riempirono di lacrime, che cercò di asciugare prima che
cadessero
lungo le guance.
«Ma no, dovresti stare
tranquilla. Se qualcuno avesse messo le mani sul Sesto Hokage lo
avremmo saputo. Niente nuove, buone nuove.»
«Io non credo»
insisté lei.
«Sono via da tanti giorni... Non è normale,
nemmeno un
messaggio...»
Naruto rise. «Hina, questo è
quello che vuol dire missione segreta. Non possono comunicare con
nessuno.»
Solo allora ricordò che
ufficialmente Jin era in missione al confine, e non insieme a
Kakashi. Ma soprattutto che Hinagiku non avrebbe dovuto saperne
niente.
Trattenendo un'imprecazione
strinse di più le spalle della figlia, con l'inquietante
sensazione
di essere osservato. Lei prese l'abbraccio per una rassicurazione e
scoppiò a piangere.
«Lo so che sono stupida,
papà...
Però non è bello, io sono piccola, non
è giusto che mi capitino
queste cose. Perché non poteva essere un ragazzino normale?
Perché
non poteva essere un cretino qualunque, che non doveva andare a
ripescarsi la mamma in terra nemica... Oh, quanto la odio quella
donnaccia dai capelli rossi!»
Naruto le tappò la bocca, ma
ormai la frittata era fatta. Con l'altra mano le fece cenno di
tacere, guardandosi intorno. Non percepiva nulla, non sentiva nulla.
Hinagiku lo fissava spaventata: di colpo realizzò che aver
appena
tradito l'unico segreto che Jin le avesse mai confidato, e si
sentì
sprofondare.
Naruto la fece alzare in piedi. La
portò allo scrittoio, le diede in mano una penna e le fece
intendere
che doveva vuotare il sacco, senza dire una parola.
Lei esitò, fissandolo implorante,
chiedendogli in silenzio di capire che non poteva, non poteva!
Ma lui fu impietoso.
Lontano da lì, in un seminterrato
reso confortevole attraverso un futon e un tavolino con una tazza di
tè fumante, da un apparecchio radio usciva il fievole suono
della
matita sulla carta, amplificato e ripulito dalle impurità.
Accanto alla tazza del tè stava
un blocco note, su cui erano ancora ben visibili in rilievo gli
ideogrammi che aveva vergato il ragazzo che si era allontanato pochi
secondi prima.
Jin
e Kakashi Hatake.
Haruka
Muto.
* * *
Buongiorno a tutti!
Direi che è piuttosto evidente che questo è
l'ultimo capitolo di pace.
Dal prossimo giro si torna a combattere!
Saranno quattro capitoli di interruzioni bastarde
e incubi di subordinate descrittive,
ma spero che ne varrà la pena.
Visto che PERSINO un
personaggio come Hinagiku
ha uno scopo serio nella trama?
In attesa dell'apertura delle ostilità
vi saluto e vi auguro Buona Pasqua!
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Capitolo 28 *** Chi non muore si rivede ***
Penne 28
30/03/2016
Capitolo
ventottesimo
Chi
non muore si rivede
Kakashi
si accorse del momento in cui superavano i confini perché
gli sembrò
di attraversare un invisibile schermo di elettricità statica.
«Ci
siamo» annunciò fermandosi di botto.
Jin
e Haruka lo raggiunsero mentre sfilava dalla borsa un tubetto di
plastica blu e presero le pillole ricostituenti che diede loro,
indistinguibili nel tramonto che tra gli alberi era quasi notte.
«Da
questo momento dovremo correre fino a Konoha. Non fidatevi del
terreno davanti, continuate a controllare alle spalle. L'ultimo
gruppo di inseguitori non è lontano, e i nostri di qua dal
confine
non sono affidabili. Mi hai capito Jin? Non sono affidabili,
nessuno di loro.
Attaccate
chiunque.»
Jin
mandò giù la prima pillola, che aveva un vago
retrogusto di marcio.
Fece una smorfia, ma non protestò. Accanto a lui Haruka
masticava
due compresse premendo la benda intrisa di sangue che non smetteva di
sgorgare dal braccio. Kakashi aveva ragione, sarebbero
serviti
dei punti; ma loro non avevano il materiale, e anche se lo avessero
avuto non ci sarebbe stato il tempo per lavorare.
Kakashi evocò di nuovo
l'uccellino di due giorni prima; lo sforzo gli rese il viso quasi
grigio.
«Trova Chiharu Nara e dalle le
nostre coordinate» ansimò. «Devono
venire con te. Senza di te li
attacco. Capito?»
L'uccello fischiò acuto e si
alzò
in volo, scomparendo tra le fronde degli alberi. Senza concedersi
neanche un minuto, Kakashi evocò un levriero color terriccio
e fece
avvicinare Jin.
«Koa, devi arrivare a Konoha
senza farti prendere» disse al cane, prendendo dallo zaino di
Jin il
fascicolo su Haruka. «Davanti a te ci sono degli uomini che
ci
stanno cercando. Fai il giro largo, ma corri come il vento. Porta
questo a Naruto Uzumaki, Sakura Haruno o Sasuke Uchiha. Solo a loro,
è chiaro? Non fidarti di nessun altro» mentre
parlava, aprì il
fascicolo ed estrasse il primo foglio, che conteneva le
generalità e
il curriculum di una Haruka molto più giovane. Prese dal
marsupio
una matita e scrisse poche parole, quindi arrotolò il foglio
e lo
assicurò al collare del cane. «Vai!»
Koa si voltò è scomparve tra
i
cespugli con una grazia quasi inconcepibile per una bestia
così
grossa. Jin rimise via il fascicolo, Haruka guardò Kakashi.
«Questa Chiharu... E' una
ragazzina. Vuoi farla ammazzare insieme a noi?» disse piano.
«Siamo
fregati, lo sai» e senza volerlo posò gli occhi su
Jin, che
rabbrividì.
«Di sicuro è almeno con Rock
Lee
o Gai Maito. Se riescono a raggiungerci in tempo abbiamo qualche
possibilità di reggere fino all'arrivo di Naruto. Senza di
loro
siamo morti, certo. Ma con loro potremmo riuscire a riportare a casa
nostro figlio.»
Jin sentì qualcosa sciogliersi,
in fondo allo stomaco, e poi infuocarsi.
«Allora forse dovresti smettere
di farle la guerra!» esplose, senza averne avuto
l'intenzione; ma
ormai era lanciato, e l'adrenalina nel suo sangue fece il resto.
«Dovresti smetterla di accusarla, di sospettarla, di... di...
di
umiliarla così. Per dodici anni ha fatto esattamente quello
che hai
fatto tu, sei stato altrettanto assente. Nostro figlio?
Non
eri nemmeno sicuro di essere mio padre! Adesso sono vostro,
adesso finalmente sei convinto che mio padre non sia un altro? Alla
buon'ora! Vuoi sapere come tornare a casa? Fidandoti di mia madre e
smettendola di recriminare!»
Kakashi e Haruka lo fissarono a
bocca spalancata. Era evidente che Jin aveva origliato i loro
discorsi, ma quello non era il momento migliore per affrontare la
questione.
«Jin...» iniziò
Kakashi, però
lui lo zittì con un cenno.
«Lo so. Non dovremmo parlarne
adesso... Ma se non fai adesso quello che ti ho
detto, a casa
non ci arrivo vivo nemmeno io. Devi fidarti della mamma. Dico
davvero.»
Kakashi guardò Haruka, che rimase
ferma e zitta. Allora, con una sensazione di oppressione al petto si
costrinse ad annuire.
Più tardi avrebbe raccontato a
Jin tutti i dettagli della storia, i tormenti di quei dodici anni
passati a crescerlo non sapendo se lei era viva o no, se li aveva
traditi o era ancora dei loro... Gli avrebbe spiegato che c'erano
cose che non si risolvevano ricomparendo dal mondo dei morti, ma che
anzi si complicavano, e gli avrebbe parlato senza nascondergli
più
nulla.
Tuttavia riconosceva che in quel
momento la loro unica possibilità di tornare vivi era
abbassare le
ostilità, e non era così sciocco da rinunciarci.
«Va bene. Come una volta,
allora»
disse a bassa voce.
«Come una volta»
ripeté Haruka.
*
Iida attendeva nervosamente nella
cantina che usava per ricevere i messaggeri, lisciando le pieghe del
kimono con movimenti sempre uguali, ossessivi.
Non riusciva a credere di essere
stato così cieco e ignorante; gli sembrava impossibile di
aver
commesso un errore di tale gravità, così facile
da evitare, così
ingenuo... Eppure lo aveva commesso. Le informazioni che venivano da
casa Uzumaki, recapitate da pochi minuti, non lasciavano alcun
dubbio.
«Signore?»
Il messaggero materializzatosi
davanti a lui lo fece sussultare.
«Hanno passato il confine.
Mobilito la squadra?»
«No» rispose brusco.
«Voglio
tutti dietro Kakashi Hatake e Haruka Muto.
Priorità assoluta!
Se raggiungono Konoha siamo finiti.»
Il messaggero sembrò esitare
dietro la maschera, poi annuì rapidamente e scomparve.
Iida fece un giro su sé stesso e
si passò le mani sulla fronte. Kakashi Hatake e Haruka Muto,
insieme. E Jin Hatake! Figlio di Haruka Muto. Da quanto si tenevano
in contatto? Cosa sapeva Kakashi? Non tutto, non abbastanza...
Altrimenti li avrebbe distrutti prima.
Naruto aveva mentito su Kyuubi, su
Kakashi, su ogni cosa. Li aveva raggirati come Genin alle prime armi.
Non si erano nemmeno accorti della nascita di Jin. Come avevano
potuto essere così sprovveduti? Come? Se
Danzo fosse stato
ancora vivo, quale vergogna avrebbero provato!
Scrollò la testa,
rimproverandosi. Adesso doveva concentrarsi, la missione doveva
andare bene. Non potevano fallire, o tutto quello che avevano fatto
non avrebbe avuto alcun senso, anni e anni di sforzi, investimenti,
anni di sacrifici... Doveva andare bene, e allora avrebbero ripreso a
lavorare dietro le quinte perché Konoha restasse grande...
Avrebbero... Dopo...
Serrò i denti, le mani, le
palpebre.
Doveva
andare bene.
*
Chiharu era stanca.
L'ultima pausa risaliva a tre ore
prima, e l'effetto della Lophenaria stava iniziando
a scemare.
Gettò uno sguardo critico a Baka, ma lui, che era molto
risentito
per l'assenza di intimità tra loro, fece finta di non
notarla:
sapeva che avrebbe potuto reggere ancora dieci minuti, e non era
disposto a concederle sconti.
«Lo sentite il profumo dei nostri
boschi?» esclamò Gai gioiosamente, le mani tutte
impiastricciate di
resina aromatica.
«Sì maestro!»
rispose Kotaro,
ma la costola incrinata gli impedì di essere fiero come
avrebbe
voluto.
«E se... Ci fermassimo... Per
sentirlo meglio?» ansimò Chiharu dal fondo.
«Ragazza nostalgica!» rispose
Rock Lee. «Ancora due chilometri, su! Poi ceniamo.»
Chiharu si sentì quasi mancare, e
fu per questo, oltre alla poca luce rimasta, che non vide subito
l'uccellino rosso che le sfrecciò davanti. Colta alla
sprovvista
tentò di evitarlo goffamente, perse l'equilibrio e
piombò dritta
nella polvere del sentiero.
«Fermi! Haru si è
ammazzata!»
annunciò Baka rallentando. «Che hai
combinato?»
«Una bestia davanti!» rispose
lei, tendendo il gomito dolorante verso di lui. «Fai
qualcosa! Fa
malissimo!»
Un fischio acuto fece trasalire
entrambi, e finalmente Chiharu riconobbe l'uccellino.
«Cos'è quello?»
domandò Rock
Lee raggiungendoli con gli altri.
«Che è successo?»
chiese subito
Chiharu. «Akeru, il gomito. Presto.»
«Supporto. Dodici chilometri a
nord, uno a ovest» disse l'evocazione. «Nemici
dietro e davanti.
Dovete venire con me.»
«Da dove arriva questa bestia?»
chiese Akeru.
«Merda» sbottò
Chiharu,
frugando freneticamente nel marsupio. Per essere più veloce
lo
rovesciò completamente e afferrò l'involto della Lophenaria,
in cui erano rimaste solo poche pillole. Ne prese un'altra,
mandandola giù asciutta, e si rimise in piedi prima che
Akeru
potesse finire di guarirle il gomito o inorridire per l'abuso
farmacologico.
«Quanti nemici?» chiese.
«Ma di che state parlando?»
intervenne Kotaro.
«Questo uccello viene
dall'Hokage» spiegò Chiharu. «Vuol dire
che è in pericolo. Com'è
messo?»
«Dovete seguirmi»
ripeté la
bestiola, come un disco rotto
«Aspetta, facci capire»
intervenne Gai. «Quell'uccello viene da Naruto?»
«Non Naruto!» sbottò
lei. «Il
Sesto Hokage! Evidentemente è dove dice
questo uccello, e ha
bisogno di aiuto! Non lo avrebbe mandato se non fosse in
pericolo!»
«Tu sapevi dov'era sparito
l'Hokage?» Kotaro spalancò la bocca.
«No che non lo sapevo! Ma so che
se ha mandato questo messaggio ha bisogno urgente
di aiuto! Lo
so, fidatevi, cazzo! E' difficile capire che non abbiamo il tempo di
discutere?»
«Ehi ehi ehi, frena un
momento!»
Akeru la afferrò per il braccio. «Ho firmato un
contratto che mi
rovina se fai casini!»
«Ma certo, che sciocca! Hai
ragione. Lo scrivi tu il discorso per il funerale?»
«Non sto scherzando, Chiharu!»
«Allora sei stupido!»
Gai e Rock Lee si scambiarono uno
sguardo, esitanti. Chiharu strinse i denti e lanciò
un'imprecazione,
evocando un uccellino dorato più piccolo di quello rosso che
veniva
da Kakashi.
«Vai a Konoha. Trova Naruto.
Digli che abbiamo bisogno di aiuto. Digli che siamo con Kakashi.
Kakashi, hai capito? Dodici chilometri a nord e uno a ovest da qui.
Più veloce che puoi!» gli ordinò,
raccogliendo le cose che aveva
tolto dal marsupio. L'uccellino quello partì subito.
«Noi non stiamo andando da
Kakashi!» strillò Akeru.
«Dodici chilometri a nord?»
chiese invece Gai, guardando il cielo scuro tra gli alberi.
«E uno a ovest.»
«Lo stiamo facendo?» Akeru
sbiancò.
«Senti, mi dispiace. Mi dispiace
davvero» disse Chiharu in tutta fretta, e nella foga gli
prese le
mani. Kotaro sussultò. «Prometto che non ti
farò causa.»
«Se muori e me la fa tua
madre?»
sbottò Stupido. «O Gaara! Gaara aspetta solo
questo!»
«Allora cerca di tenermi in
vita!» Chiharu gli mollò di scatto le mani e
balzò su un albero,
ordinando all'uccellino di guidarli. Sentiva l'effetto della
Lophenaria darle forza. Era davvero spiacente per
Akeru, ma
sapeva che dovevano andare, e pure in fretta. Kakashi non avrebbe mai
mandato il suo messaggio in quel modo, se non fosse
stato
costretto...
«Cos'è
quell'uccello?» chiese
Gai affiancandola, come se le avesse letto nel pensiero.
«Un'evocazione...»
«E' un Chakravakam, vero?»
Chiharu gli lanciò un'occhiata
allarmata, ma Gai sorrise. «Ho qualche anno più di
voi. Se Kakashi
ti fa usare una roba del genere, allora deve essere nei guai fino al
collo» mormorò, aguzzando la vista per non perdere
la loro piccola
guida. «E' la mia occasione per segnare un punto nella nostra
sfida!»
Chiharu gli rilanciò un'occhiata
perplessa, ma lui si guardò alle spalle, dove gli altri li
seguivano, e poi le strizzò un occhio. «Non ti
preoccupare per
Baka: cercheremo di dargli una mano a restare fuori dal
carcere...»
*
Haruka aveva premuto l'ultima
benda rimasta sopra quella zuppa di sangue, perché non
avevano
nemmeno il tempo di fermarsi a cambiarla. Gli inseguitori alle loro
spalle erano tanto vicini che si sentiva il rumore dei loro passi; le
bombe carta erano finite, le trappole richiedevano tempo per essere
preparate.
Kakashi aveva vagliato cinquanta
possibili alternative – nessuna delle quali prevedeva che
sopravvivessero tutti e tre – ma aveva comunque deciso che
entro
dieci minuti avrebbero affrontato gli inseguitori, o non avrebbero
avuto abbastanza energie quando sarebbe diventato inevitabile.
«Mi fermo a rallentarli»
annunciò Jin bloccandosi di colpo.
Kakashi lo afferrò per lo zaino e
lo spinse avanti, intimandogli di non dire sciocchezze.
«Ascolta tuo padre»
ansimò
Haruka. «Se dobbiamo scegliere qualcuno che sopravviva, non
sperare
di poter discutere con noi.»
«Sono quello più
riposato!»
«Sei il futuro»
tagliò corto
lei. «Sei l'unica cosa che ha senso salvare.»
Il braccio ferito mancò la presa
su un ramo e Haruka andò a sbattere violentemente contro il
tronco.
Kakashi agì subito: con un balzo
tornò indietro di dieci metri, lanciando kunai in tutte le
direzioni. Ad ogni kunai era legato un filo, e ogni filo legava due
kunai; conficcandosi nella corteccia degli alberi crearono una rete
difficile da individuare.
«Nel
sottobosco» sibilò allora, tirando Jin e Haruka
fino ai cespugli
più vicini. La rapidità con cui era
tornato da Haruka fece
capire a Jin che forse finalmente avrebbe agito come se lei fosse una
dei loro, e non un potenziale nemico in incognito.
Gli inseguitori arrivarono quasi
subito: i primi restarono impigliati nei fili e caddero a terra, con
lunghi tagli aperti nella pelle. Di quelli che li seguivano, uno si
fermò a soccorrerli, gli altri proseguirono, superando il
punto in
cui si nascondevano Kakashi, Haruka e Jin. Erano almeno una decina,
tutti molto più freschi di loro. E non erano mercenari, ma
shinobi.
«Dove sono i tuoi rinforzi,
eh?»
sibilò Haruka gettando via la nuova garza, ormai pregna.
«Anche se fossero vicini come ci
troverebbero?» chiese Jin. «Ci stiamo
nascondendo!»
«Ci troveranno»
assicurò
Kakashi, stringendo un nuovo straccio attorno al braccio di Haruka.
Jin fece un gesto di
esasperazione. «Dovremmo uccidere quelli che si sono
fermati...»
«Aspettiamo Chiharu. Dieci
minuti.»
Il ragazzino fissò gli adulti.
Non aveva mai visto nessuno di loro così spossato... Erano
tutti al
limite. Si rese conto che si sarebbero fatti ammazzare per tenerlo in
vita, e al pensiero fu travolto da un'angoscia oscura.
Non lo avrebbe permesso. No. Mai.
Aveva passato tutta la vita con mezza famiglia, adesso che ne aveva
una intera non era disposto a perderla di nuovo.
Fece scivolare una mano nello
zaino alla ricerca degli ultimi shuriken. Calcolò la
distanza che lo
separava dai nemici e si domandò quale tempo di reazione
potessero
avere i suoi genitori. Non lo sapeva, ma doveva agire prima dei dieci
minuti chiesti da Kakashi, perché allora avrebbe agito lui,
glielo
leggeva in faccia.
Gli shinobi della Roccia erano
quattro, di cui tre feriti. Se fosse riuscito ad atterrare quello
sano in un colpo solo, forse avrebbe fatto in tempo a finire gli
altri prima che chiamassero aiuto...
Tra i nemici qualcuno urlò. Poi
un altro, e un altro ancora.
Jin iniziò a correre senza uscire
dai cespugli, gli shuriken pronti. Sentì la mano di Haruka
che
cercava di fermarlo e lo mancava per un soffio, poi fu avanti da
solo...
E scoprì che Rock Lee aveva
già
sistemato i cinque shinobi come fossero foglie secche.
Ma non era accompagnato da
uccellini rossi.
Jin fece partire gli shuriken.
Rock Lee li schivò per istinto, prima che il suo cervello
registrasse il pericolo. Agganciando difesa e attacco in un solo
movimento balzò sul ragazzino nel tentativo di atterrarlo,
ma Jin
rotolò di lato e gli sferrò un calcio alle
ginocchia. Rock Lee lo
riconobbe, lo chiamò per nome, ma Jin aveva ricevuto
istruzioni
precise e gli riversò addosso gli ultimi shuriken, alcuni
dei quali
andarono a segno.
«Piccolo ingrato!»
sbottò alle
sue spalle una voce inaspettata. Gai Maito lo placcò,
bloccandogli
le braccia contro il corpo. «Siamo i vostri rinforzi, razza
di
cretino! Tutto tuo padre!»
Alle sue spalle emersero anche
Akeru, Kotaro e un uccellino rosso che fischiò acutamente.
«Ragazzi!» li chiamò
Kakashi,
il sollievo che traspariva dalla voce come luce in una stanza buia,
mentre li raggiungeva insieme a Haruka. «Stavamo perdendo le
speranze!»
«Qualcuno si atteggia a spaccone
ma poi ci fa da zavorra...» borbottò Akeru. Si
voltò, e dopo
diversi secondi Chiharu emerse dalla boscaglia ansimando
pesantemente.
«Ti... ammazzo...»
balbettò
aprendogli lo zaino in cerca d'acqua. Lui si oppose, lei
insisté, e
allora cedette. Gli svuotò mezza bottiglia. «Come
custode fai
davvero schifo!»
«La situazione?» chiese Gai a
Kakashi lasciando andare Jin.
«Siamo esausti, Haruka è
ferita,
ci sono dieci shinobi della Roccia in direzione Konoha e
probabilmente mezzo esercito di traditori in arrivo dal
Villaggio.»
«Traditori? Aspetta, questa è
quella Haruka? Iniziavo a pensare che fosse
morta!»
«Beh, chi non muore si rivede»
disse Akeru, senza farsi impressionare dalla sconosciuta. Come
avrebbe fatto qualunque medico rispettabile, le strappò dal
braccio
lo straccio insanguinato e subito tirò fuori del
disinfettante per
pulire la ferita. «Non ho il tempo di guarirla»
disse. «Ci sono i
primi segni di infezione, ci metterei almeno mezzora. Devo suturare e
poi rivederla a Konoha. Mi spiace, non ho anestetici con me.»
«Direi che nessuno di noi è
morto: vi vedo tutti. Ottimo!» sorrise Gai, con una generosa
pacca
sulla spalla di Kakashi. «Questo vale come una mia vittoria,
vero?»
Mentre Akeru ricuciva la ferita di
Haruka, Gai e Rock Lee si fecero dare informazioni più
precise da
Kakashi; quando arrivarono alla Nuova Radice si rabbuiarono.
«Quanti potrebbero essere?»
domandò Gai.
«Non ne ho idea. Sono quasi
sicuro che abbiano messo rilevatori al confine per verificare il
passaggio di Haruka, ma non so quanto sia importante per
loro...»
«Tanto. Senza di lei non esistono
prove della loro esistenza» sbottò Chiharu,
frugando nel marsupio
con rabbia. Detestava essere quella più in
difficoltà, soprattutto
se Baka ce l'aveva con lei e non perdeva occasione per sottolinearlo.
Finalmente trovò l'involto della Lophenaria
e con orrore si
accorse che erano rimaste solo due pillole. «Gli shinobi
della
Roccia che sono andati avanti staranno per tornare» disse,
rimettendole via per i tempi difficili. «Si saranno accorti
che vi
hanno persi e cercheranno le vostre tracce. Dobbiamo farli fuori e
procedere verso nord, sperando di aggirare i traditori che vengono
dal Villaggio. Ho mandato un messaggero a Naruto.»
«Anch'io. Ma se aggiriamo i
traditori perdiamo lui» disse Kakashi.
«No. Lui arriverà dritto da
noi.
Tenga, recuperi un po' di energie» con uno scatto rapido
Chiharu
afferrò l'uccello rosso che li aveva guidati fino a loro e
lo tese a
Kakashi, ma quello scomparve in uno sbuffo di fumo prima che finisse
di parlare. «Che bastardo!»
«Lascia stare...»
mormorò
l'Hokage. «Dammi una pillola di tuo nonno, abbiamo finito le
nostre».
«Non ti azzardare a dargliela!
Aspettate un attimo» disse Akeru, finendo di cucire la ferita
di
Haruka e ricoprendola con uno spesso strato di garza. «E' un
lavoro
da macellaio, ma dovrebbe tenere qualche ora.»
Prima di lasciarla, Akeru le
premette un mano sul petto, e dopo l'iniziale sorpresa lei
sentì un
fiotto di nuove energie invaderla. Lui fece lo stesso con Kakashi,
Jin, Rock Lee e Gai, ma non toccò Chiharu né
Kotaro.
«E' uno stimolante per il sistema
cardiocircolatorio. Se lo faccio a voi, vi do il colpo di
grazia»
spiegò.
«Posso anche chiuderla, la Porta
della Ferita» suggerì Kotaro speranzoso.
«Ma il tuo cuore sta pompando al
doppio della velocità da almeno tre giorni. Lascia stare,
fidati.
Tanto domani starete tutti da schifo, tu più di
tutti.»
«Smettetela di perdere tempo!»
sbottò Chiharu, che aveva appena finito di studiare il
tratto di
bosco in cui si trovavano. «Non possiamo fare niente qui.
Raduniamoci. Haruka al centro. Come siete messi in difesa?»
«Non possiamo resistere a lungo
se difendiamo e basta» obiettò Gai, ma si
avvicinò.
«Lo so» rispose Chiharu,
cercando qualcosa tra il contenuto in disordine del marsupio.
«Sto
sperando di dover durare non più di quindici
minuti.»
«Anche quindici minuti sono
tantissimi, in difesa» insisté Rock Lee.
«Più o meno» con un
verso di
apprezzamento Chiharu sollevò un rotolo di pergamene avvolte
l'una
sull'altra. «Sapevo di averlo portato! Ok, ditemi al volo
cosa
sapete fare per il combattimento a distanza.»
Venne fuori che Kakashi aveva
mezzo sharingan, Baka alcune tecniche di tipo vento e lei il
controllo dell'ombra. Più qualche kunai. Gai, Rock Lee e
Kotaro non
potevano fare niente senza contatto diretto, Jin aveva bisogno almeno
della media distanza per usare le tecniche del fulmine e Haruka era
piena di idee per lo spionaggio, ma nessuna era utile in quel
momento.
«Non ho tempo di spiegarvi il
piano: fate quello che vi dico quando ve lo dico» disse
Chiharu,
srotolando le pergamene febbrilmente. «Lanciatele
tutt'attorno, la
distanza non importa.»
«Giurami che questo mi terrà
fuori dal carcere» borbottò Akeru, raccogliendo
una pergamena e
scagliandola tra i cespugli.
«Mio padre è lo stratega di
Konoha, un paio di cose me le ha insegnate»
replicò lei sorridendo
sotto i baffi.
Qualcosa esplose a breve distanza,
e improvvisamente una gran nube di fumo li avvolse tutti quanti,
aggredendoli alle vie respiratorie.
«Okay, per quella la distanza era
importante, forse» ansimò Chiharu.
«Stringiamoci! Akeru, mi serve
uno scudo di vento!»
Akeru compose i sigilli e alzò le
mani: il fumo prese a turbinare, dissipandosi in volute acri.
Qualcosa di lucente e vibrante si dispiegò sulle loro teste,
scompigliando i capelli di tutti e avvolgendoli in una coltre di
sibili. Chiharu disse a Kakashi di usare il suo Sharingan per
studiare la posizione dei nemici, e lui riferì che erano
circondati.
Un grido tra le ombre fece loro capire che si era attivata un'altra
trappola. Poi ci fu una piccola esplosione e un rantolo di
sofferenza, infine un silenzio immobile.
«Ci stanno studiando...»
mormorò
Chiharu, girando su se stessa per osservare le chiome degli alberi
sopra di loro. Il tramonto stava calando nel sottobosco, presto
avrebbero avuto enormi difficoltà di visuale. «La
madre di Jin
soffre di claustrofobia?»
«No. Perché?»
rispose Haruka.
«Potremmo dover cambiare il
piano.»
«Ti ricordo che se ti fai male
sono rovinato per sempre» fece notare Akeru in tono petulante.
«Se lo ammazzo e do la colpa a un
nemico posso farla franca?» sussurrò Kotaro a Rock
Lee.
«Baka, li vedi i rami sopra di
noi?» continuò Chiharu, persa nei suoi
ragionamenti. «Adesso ti
devo chiedere una cosa complicata.»
Gli shinobi della Roccia erano
esperti del loro mestiere. Facevano parte di una compagnia stanziata
al confine con il Paese del Fuoco, e questo li aveva resi bravi in
poco tempo. Quando avevano ricevuto l'ordine di catturare niente meno
che il Sesto Hokage di Konoha, non lo avevano sottovalutato neanche
per un minuto. Adesso, fermi attorno alla barriera dentro cui si
nascondevano quelli del Fuoco, si erano fermati per consultarsi.
C'erano trappole tutt'attorno, e
chissà cosa sotto la cupola di vento. Sapevano che una buona
pianificazione era più efficace della sorpresa scenografica,
per
questo si presero qualche minuto in più.
Tra loro c'era uno shinobi esperto
in tecniche di fuoco. Quando decisero di entrare in azione fu lui a
farsi avanti, facendo attenzione a non incappare in un'altra
pergamena trappola. Compose i sigilli, prese un respiro profondo, e
poi soffiò tra le dita aperte della mano per far partire un
ventaglio di dardi infuocati.
La barriera di Akeru esplose al
primo contatto, smembrandosi in decine di mulinelli furiosi. Residui
di vento e fiamme arrivarono fino alle prime foglie degli alberi, che
presero fuoco immediatamente, ma i vortici d'aria non si esaurirono
allontanandosi da Akeru: si divisero in due, poi in quattro, e
andarono ad alimentare le fiamme; alcuni raggiunsero gli shinobi
della Roccia, che per evitarli attivarono un'altra pergamena
esplosiva.
«Okay, il piano è
saltato!»
gridò Chiharu afferrando Haruka per un braccio.
«Via di qui prima
che vada tutto a fuoco!»
«Se sopravvivi giuro che ti
ammazzo io!» ribatté Akeru, afferrando l'altro
braccio di Haruka e
correndo insieme verso il riparo di un cespuglio.
«Suppongo sia un via libera»
esclamò Gai, scambiando un occhiolino con Kakashi.
«Finalmente!»
E con un balzo andò a cercare il
più vicino degli avversari, subito imitato da Rock Lee e
Kotaro, che
al pensiero di combattere accanto ai suoi idoli si sentiva invadere
dal Sacro Fuoco della Giovinezza peggio che aprendo tutte le porte
del chakra.
Kakashi si voltò appena in tempo
per parare un attacco alle spalle. Il suo avversario gli rivolse un
sorriso trionfante, fiero di essere faccia a faccia niente meno che
con l'Hokage... Ma il sorriso divenne una smorfia quando il suo petto
fu attraversato dal Raikiri di Jin, che scagliò il corpo
poco più
in là. Lo videro trasformarsi in un tronco.
Padre e figlio scattarono in
difesa, schiena contro schiena, lo Sharingan di Kakashi in piena
attività e le mani di Jin che formicolavano di
elettricità.
Dall'alto arrivò improvvisa una pioggia di shuriken, che
schivarono
rotolando in direzioni opposte. Rialzarono la testa, separati di
qualche metro, e videro uno shinobi della Roccia comporre i sigilli
per una tecnica di fuoco. Ebbero appena il tempo di guardarsi, poi
una pioggia di dardi incandescenti si staccò dalle dita
dell'uomo,
diretta verso di loro.
Chiharu spinse Haruka contro Baka
e si infilò tra i cespugli per ultima.
«Dobbiamo spegnere il fuoco e
riorganizzarci» disse subito, cercando le pillole di Lophenaria
quasi automaticamente. «Ormai non sono rimasti molti
avversari, ma
se arrivano quelli di Konoha...»
«Non più di quindici minuti,
eh?» quasi sputò Akeru, furibondo.
«Abbiamo retto sì e no trenta
secondi! Di questo passo non finirai ammazzata solo tu, ma anche io e
tutti quelli che sono con noi!»
«Se non chiudi la bocca
sprecherò
le mie energie per farti uno strangolamento dell'ombra!»
«Ma non dovevi essere un
maledetto genio?»
Chiharu lo fissò nervosamente,
smettendo di cercare la Lophenaria. «Se
tu mi lasciassi il
tempo di pensare, potrei anche esserlo!»
Il corpo di uno shinobi della
Roccia cadde a un passo da loro, privo di conoscenza, facendoli
trasalire ma interrompendo la discussione.
«Kotaro e suo padre» comprese
Chiharu, sporgendosi per studiare la situazione. «Il fuoco si
espande troppo in fretta, dobbiamo... Cazzo!»
Baka intuì quel che sarebbe
successo praticamente subito. Tese una mano per afferrarla, mentre,
là dove stava guardando Chiharu, Jin e Kakashi si
accorgevano
dell'attacco dall'alto; ma lei fu più veloce. Akeru la vide
balzare
in avanti graffiandosi le braccia sui cespugli spinosi, la vide
sporcarsi le dita con il sangue delle ferite e iniziare la serie dei
sigilli per l'evocazione...
Poi ci fu un unico turbinio di
foglie, vento e lame di aria tagliente, che sferzarono la guancia di
Chiharu e la costrinsero a rotolare via, interrompendo la tecnica.
Il fuoco che divampava sopra le
loro teste rimase privo di ossigeno e si spense. Una pioggia di
foglie semi-carbonizzate mulinò per qualche istante,
trasformandosi
in cenere che si infilava dritta negli occhi e giù per il
naso,
irritando la gola. Nella concitazione tutti si erano fermati,
aggrappati ai rami più grossi o atterrati precipitosamente.
E dalle loro posizioni,
sbalorditi, videro comparire nell'occhio del ciclone la zazzera
bionda di Naruto, che aveva appena salvato dall'arrostimento Jin e
Kakashi.
Chiharu sentì il sollievo
invaderle le membra, mentre scoppiava in una risata liberatoria.
«Era ora, accidenti a te!»
* * *
Buongiorno a tutti!
Si comincia!
Finalmente se le danno di santa ragione,
e continueranno ancora per qualche capitolo.
E' stato un vero incubo descrivere questa parte,
ma posso assicurarvi che non è noiosa.
Per il resto,
qualunque curiosità abbiate sui Chakravakam tenetevela
ancora un po'.
E se googlate il nome, non fidatevi di quel che leggete:
l'ho usato soltanto perché suonava bene.
Nel prossimo capitolo,
il ritorno di una vecchia amica con tante code.
<3
Un abbraccio e un sentito ringraziamento a voi che siete ancora qui a
leggere!
|
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Capitolo 29 *** I mostri della Squadra Assassina ***
Penne 29
06/04/2015
Capitolo
ventinovesimo
I
mostri della Squadra Assassina
Non appena Hinagiku aveva finito
di mettere per iscritto quel che sapeva della missione di Jin e
Kakashi, Naruto era corso a casa Uchiha per consultarsi con Sakura.
Hinagiku non aveva aggiunto nulla
di nuovo ai dati in loro possesso, ma Naruto temeva che qualcuno, lo
stesso qualcuno che aveva spiato i suoi dialoghi con Hitoshi, avrebbe
potuto captare l'informazione e usarla per i propri scopi.
«Anche se fosse, non sappiamo
dove si trovano» aveva commentato Sakura analizzando la
situazione.
«Possiamo solo sperare che vada tutto bene...»
Neanche a farlo apposta,
esattamente in quel momento l'uccellino di Chiharu li aveva raggiunti
con le informazioni sulla posizione di Kakashi e la richiesta di
aiuto del gruppo proveniente da Suna.
Naruto aveva sentito le mani
prudere: finalmente si facevano cose da vero Hokage! Senza riflettere
a fondo sulla questione aveva evocato decine di rospi giganti nel
giardino di Sakura – per la delizia di Itachi e dei ragazzini
più
giovani – e le aveva detto di riempirli di Anbu e spedirli a
raggiungere Kakashi.
«E tu?» aveva domandato Sakura,
accantonando temporaneamente la sfuriata per i rospi sulle ortensie.
«Mi troveranno là»
aveva
risposto Naruto.
E a metà dell'ultima parola era
già scomparso.
Sakura aveva allertato tutti gli
Anbu disponibili, convocandoli immediatamente per la partenza.
Considerata la situazione di tensione aveva fatto chiamare anche
Sasuke, e in quel momento, circondata da un gracidare assordante e
dagli urletti dei figli che si divertivano con i rospi, cercava
disperatamente di concentrarsi sui suoi compiti.
«Ho ancora tre o quattro rospi
liberi» mormorava sfogliando elenchi a matita.
«Sarebbe meglio un
medico? O un esperto di piste?»
«Posso andare io?» chiese
Fugaku, coraggiosamente ritto in mezzo al putiferio.
«Neanche per sogno!»
scattò
subito Sakura.
A Sasuke invece non dispiaceva che
un Uchiha partecipasse a una simile impresa, rifletteva, osservando
il figlio meditabondo: c'erano ottime probabilità che la
missione
finisse nei libri di storia, e l'unica ragione per cui non si offriva
in prima persona era che non si fidava del segno maledetto sul suo
collo.
«Se va lui allora ci vado anche
io» sbottò Hitoshi, comparendo al fianco del
fratello con una
strafottenza debordante. La sua faccia era ancora a chiazze rosse e
bianche, ma sembrava che occhi e vie respiratorie stessero bene.
Avvicinandosi aveva cercato di fare cenni d'intesa agli Anbu
raggruppati in giardino, però nessuno di loro aveva capito
cosa
volesse.
«Figuriamoci!» Sakura
strappò
il foglio che stava leggendo e ne afferrò un secondo con
tutta la
ferocia di cui era capace. «Faccio uscire dal villaggio tutti
gli
elementi validi in un colpo solo, ma certo! Non vedevo l'ora di
essere ricordata come l'Hokage più incompetente della
storia!»
disse, nel tentativo di distrarli con le lusinghe.
«Veramente non sei proprio tu
l'Hokage...» le fece notare Fugaku – sempre
insopportabilmente
saccente.
«Sei in punizione finché
Itachi
non si sposa!»
I rospi alzarono il volume del
gracidio, spostandosi per il giardino con vibrazioni sorde. Sakura e
Sasuke si voltarono per capire cosa stava succedendo, e in quel
momento videro comparire tra le grandi zampe palmate il minuscolo
corpo di un cane coperto di sudore, che li raggiunse di corsa e
piegò
il collo davanti a Sakura.
«E' di Kakashi» si sorprese
lei,
prendendo il messaggio legato al collare. «E' il fascicolo di
Haruka
Muto» lesse rapida. «Oh, merda!»
Sasuke si protese per leggere a
sua volta, e subito alzò lo sguardo sui figli, vibranti di
curiosità.
«Hitoshi e Fugaku, con me.
Sakura, convoca Jiraya e un'altra squadra di Anbu. Li voglio in cima
alla rupe degli Hokage tra quindici minuti al massimo.»
Sakura fece per protestare, poi
ricordò l'idea di testare lo sharingan sulla spia che gli
Hyuuga non
riuscivano a prendere, e si morse la lingua. Tanto valeva testarlo
adesso.
«Faccio chiamare anche Sai» fu
quel che disse invece. «Stava indagando su quell'ex membro
della
Radice da giorni... Scommetto quello che vuoi che Yoshi lavora per
loro, non per la Roccia. Ecco perché non apriva bocca:
chissà
quanto sono infiltrati! Argomento blindato, non fatevi scappare una
parola con nessuno al di fuori dei presenti.»
Nella parte superiore del foglio,
appena sotto il sigillo riservato della Foglia,
Kakashi aveva
scritto poche parole in una calligrafia frettolosa:
Saibatsu
ha fondato una nuova Radice.
Stanno
che stiamo tornando per smascherarli.
Prendeteli
prima che scompaiano.
*
«Per la miseria, siete messi uno
peggio dell'altro!» esclamò Naruto facendo un
rapido controllo dei
presenti.
«Da dove sei spuntato?»
domandò
Jin sbalordito, ma Kakashi non lo lasciò rispondere,
anticipandolo.
«Ci saranno altri nemici tra
poco» disse tirandosi in piedi. «E' arrivato Koa?
Saibatsu ha
fondato una nuova Radice, hanno convinto Haruka a lavorare per loro e
adesso vogliono eliminarla prima che li denunci.»
«Chi è Koa? Aspetta, la nuova
Radice si è formata sotto il mio naso?»
«Sotto il mio»
precisò
Kakashi. «Ho mandato un cane messaggero a Konoha
perché vadano a
prendere i capi, così dovremmo riuscire a evitare che
fuggano... Ma
gli uomini che hanno inviato per noi non sanno che ormai
l'organizzazione è andata. Loro penseranno che eliminandoci
le cose
verranno messe a tacere.»
«Meno male che il lavoro
d'ufficio mi stava annoiando» sospirò Naruto.
«A me invece piacerebbe tanto!»
gemette Akeru strisciando fuori dai cespugli con Haruka.
«Finirò in
carcere, ormai è certo.»
Dagli alberi alle loro spalle
emersero Kotaro, Rock Lee, Gai e una copia di Naruto, coperti di
graffi ma sostanzialmente in salute. Si erano liberati degli ultimi
nemici.
«Beh, adesso che sei qui siamo al
sicuro» disse Chiharu, il cui umore era salito di parecchie
tacche
all'arrivo del maestro.
«Non ho intenzione di mettermi da
parte e lasciar fare tutto alle copie di Naruto!» insorse
Rock Lee.
«Potrei cavarmela anche senza
copie» commentò lui allegro. «Ho
scoperto che se mischio il
Rasenshuriken a una tecnica nemica escono fuori mosse
incredibili!»
«Davvero?» Kotaro
spalancò la
bocca, a metà tra l'ammirazione e l'invidia.
«Adesso basta» li
zittì
Kakashi. «Haruka è ferita, noi siamo esausti e non
sappiamo cosa
sta arrivando. Non possiamo affidarci solo a Naruto, è
troppo
rischioso.»
«Ma quella volta, contro
l'esercito della Roccia...» mormorò Kotaro,
ricordando la
moltitudine di copie che Naruto aveva evocato cinque anni prima.
«Naruto non può salvarci
sempre»
troncò Kakashi brusco.
L'accenno a Kyuubi e a quello che
succedeva quando Naruto perdeva il controllo rimase sospeso per un
istante. I presenti si scambiarono sguardi di sottecchi, e
così
facendo capirono che tutti sapevano della Volpe.
Naruto, per nulla turbato dal
discorso, scrollò la testa. Si guardò attorno,
meditabondo, e alla
fine si soffermò su Chiharu. «Tu e Stupido state
lontani dal campo.
Perché lei è grigia, e tu sei il suo medico e
custode, se Gaara non
si è spiegato male.»
Akeru annuì, visibilmente
sollevato all'idea di restare a vigilare su Chiharu, ma lei rimase in
silenzio. Un conto era se tutti si facevano da
parte per
lasciar fare a Naruto, un altro era se lei era
l'unica che
doveva mettersi buona e aspettare.
«Beh, io potrei dare un supporto
strategico...» tentò, ma Naruto la
zittì con un gesto.
«Abbiamo Kakashi e Jin per la
strategia. So che sei partita contro il parere dei medici di Suna, e
non ho la minima intenzione di permettere a Temari di ammazzarmi
perché ti è successo qualcosa.»
Chiharu serrò le labbra. «Solo
io?»
«Tu e Stupido.»
«Oh, fantastico!»
sbottò lei,
lasciandosi cadere contro un tronco e incrociando le braccia
rabbiosamente. «Non vedevo l'ora di ritrovarmi nella stessa
situazione di cinque anni fa! Tutti vanno in guerra tranne me!
Perché
anche lei non resta a riposare, visto che sta morendo
dissanguata?»
chiese additando Haruka.
Naruto sembrò notarla solo
allora. Si fermò, la fissò, e infine si
lasciò scappare un:
«porcaccia la miseria! Sei davvero tu!»
Haruka sorrise, e con lei la
maggior parte degli altri. Naruto era sempre uguale a sé
stesso.
«Quel braccio è
grave?»
«Ha perso molto sangue...»
«Abbiamo una nuova amica?»
commentò Chiharu ironica. «Vuoi sederti e prendere
un tè con noi?»
«Vuoi piantarla, per una
volta?»
esclamò Kotaro a sorpresa «Non stiamo andando a
una scampagnata,
andiamo a combattere! E tu dici sempre che non hai voglia di fare un
cazzo, quindi stai zitta e aspettaci!»
Akeru nascose un sorriso dietro la
mano; Chiharu sentì le guance arrossarsi, ma ebbe il
buonsenso di
tacere. Insieme agli altri decisero che anche Haruka sarebbe rimasta
nascosta, e ad Akeru fu affidato il dubbio onore di proteggere le due
kunoichi.
«Adesso ci serve una strategia»
annunciò Naruto radunando i ragazzi. «Ho detto a
Sakura di mettere
tre squadre di Anbu sui miei Rospi, non ci metteranno molto a
raggiungerci. Spero che arrivino almeno insieme a questa nuova
Radice, ma non possiamo esserne sicuri. Dobbiamo organizzarci come se
non dovessero fare in tempo» si interruppe, guardando i visi
che lo
circondavano, e a quel punto sorrise. «Caspita! Proprio come
ai
vecchi tempi, eh?»
*
«Non è da Saibatsu il quartier
generale» fu la prima cosa che disse Sai quando Sakura lo
ebbe messo
al corrente dei nuovi sviluppi. «Non è lui la
testa della nuova
Radice, di solito si radunano nella villa del consigliere
Iida.»
«Iida?» Sakura
spalancò occhi e
bocca. «E' il consigliere più potente del
Villaggio! Com'è
possibile?»
«Degno erede di Danzo»
mormorò
Sai, segnando l'abitazione di Iida sulla cartina stesa nello studio
dell'Hokage. «Ora tutto torna, i loro incontri acquistano un
senso... Ho segnato i nomi di chi veniva alle riunioni, e ho fatto un
ritratto di quelli che non conoscevo. Non posso provare che
partecipassero a qualcosa di diverso da un tè in compagnia,
ma se
riusciamo a prenderli tutti e a metterli uno contro l'altro dovremmo
avere delle confessioni.»
«Hai un elenco dei nomi? Mando i
Chunin in servizio a controllare casa per casa... Questa volta voglio
che non resti nemmeno la più piccola traccia di questa
maledetta
Radice!» sibilò Sakura, serrando la mandibola con
rabbia.
Sai giudicò opportuno non
commentare. Come membro della prima Radice preferiva mantenersi
emotivamente neutrale, anche se la sua lealtà era
naturalmente per
Naruto.
Eseguì gli ordini di Sakura nel
migliore dei modi, compilando una lista accurata di nomi e
lasciandole i ritratti degli uomini che non conosceva. Lei
mobilitò
tutto il personale disponibile per il riconoscimento, quindi gli
affidò il compito di aggiornare Sasuke in cima alla rupe
degli
Hokage.
Sai arrivò appena prima che il
gruppo partisse, bloccando sei uomini mascherati, Jiraya e tre Uchiha
impazienti.
«E' cambiato l'obiettivo»
annunciò stendendo a terra una cartina.
Hitoshi si fece in quattro per
essere in prima fila a leggere, dando una spallata a due Anbu quasi
con strafottenza. Dopotutto anche lui era dei loro, no? A livello
teorico, in un certo senso. E poi doveva tenere altissimo l'orgoglio
personale, visto che Fugaku lo tallonava strettamente e non perdeva
occasione di sfoggiare il suo sharingan.
Sai spiegò dove si trovava la
villa di Iida e come l'avrebbero raggiunta. Ascoltò i
suggerimenti
di Sasuke e Jiraya, concordò con loro un piano d'azione e
ricordò a
tutti di tenere spente le ricetrasmittenti.
«Una volta là sarete
soli»
sottolineò. «Se le spie che ci stavano tenendo
sotto controllo sono
dei loro, saranno già stati informati del nostro arrivo.
Manteniamo
il contatto visivo.»
Hitoshi fissò Fugaku nella
speranza di cogliere segni di paura o cedimento, ma rimase deluso: il
fratellino era stato bravo a imparare le espressioni del padre,
perché era ugualmente atono e pallido. Allora lui, in quanto
primogenito, raddrizzò le spalle guardandosi attorno come se
fosse
stato perlomeno il vicecapitano. Jiraya lo vide e scosse la testa:
poteva vantarsi del suo sangue Uchiha quanto gli pareva, ma non
sarebbe mai riuscito a togliersi dalla faccia le tracce che Naruto vi
aveva impresso negli anni.
Partirono appena Sai ebbe finito
di aggiornarli, e una volta terminato li seguì, in
qualità di unico
esperto reperibile sul modus operandi della Radice.
Sasuke, a
capo della missione, ordinò che gli Anbu lo affiancassero e
che
Jiraya fungesse da supporto tecnico. Il vecchio sennin gli
parlò
brevemente di Iida e degli uomini che erano vicini a Danzo: come
previsto si trattava di politici, nobili, raramente shinobi; ma
secondo Jiraya erano probabilmente circondati di guardie del corpo, e
quelle sarebbero state un problema. Sai confermò,
sciorinando
qualche nome.
«Fugaku, voglio che supervisioni
la situazione dall'alto» ordinò Sasuke.
«Tieni sempre attivo lo
sharingan; lo farò anche io, ma se ci trovassimo in
difficoltà
voglio indicazioni da te.»
Hitoshi quasi inciampò per
l'indignazione: anche se il suo sharingan non era conclamato
praticamente era già lì, no? E
probabilmente sotto le
maschere degli Anbu che li accompagnavano c'erano ragazzi che avevano
partecipato alla cattura di Yoshi con lui. Lui, non
Fugaku,
sarebbe stato la scelta migliore in caso di difficoltà! E
poco
importava che Sasuke non sapesse niente della missione tra gli Anbu o
dello sharingan, perché se ne sarebbe dovuto accorgere da
solo,
ecco.
Rimase in attesa di qualche altro
ordine speciale che ristabilisse la giustizia, ma non arrivò
niente.
In più gli sembrò che Sai gli rivolgesse un
sorrisetto di
sufficienza – anche se probabilmente la sua era pura paranoia
– e
questo lo fece letteralmente infuriare. Che diavolo ci aveva mai
trovato Chiharu in lui? Nemmeno l'idea di essere stato il primo
ragazzo di Chiharu, sorpassando quindi Sai, riusciva a risollevargli
il morale in quel momento.
Forse avrebbe fatto meglio a
rivelare a suo padre la partecipazione alla cattura di Yoshi, si
disse amareggiato. Aveva pensato di fare la persona adulta e
dimostrargli sul campo quel che valeva, ma di quel passo sarebbe
finito a controllare che i servitori non fuggissero dalla porta sul
retro, invece di dimostrare a Sai e Fugaku quanto era in gamba.
Appena prima di arrivare alla
villa di Iida, Sasuke fece fermare il gruppo e smistò gli
Anbu tutto
attorno al giardino. Fugaku si posizionò sul tetto di un
palazzo
adiacente, Jiraya scivolò fino a una statua sul muro di
recinzione e
si appostò in modo da essere invisibile, Hitoshi fu mandato
precisamente sul retro, dove il suo umore precipitò sotto le
scarpe.
Sai rimase con Sasuke, e per Hitoshi fu anche peggio.
Il cielo si tingeva di viola in
quei momenti, virando rapidamente dal tramonto alla notte. I contorni
delle case delimitavano sagome nere punteggiate dalle prime luci, ed
era difficile distinguere le ombre che si muovevano tra altre ombre.
All'interno della villa sembrava
tutto tranquillo. Fin troppo.
Sasuke controllò che i suoi
uomini fossero in posizione. Quando fu certo che tutti fossero al
loro posto, sputò una palla di fuoco che andò a
illuminare l'intero
giardino e si infranse contro le pareti di carta di riso della villa,
appiccando un incendio.
Gli Anbu balzarono fuori dai loro
nascondigli, due nel giardino e gli altri quattro dentro la casa. Le
voci che mandavano segnali riempirono gli spazi vuoti tra i crepitii
del fuoco, ma non se ne udivano altre oltre alle loro.
Sasuke e Sai si fecero avanti per
ultimi,
entrando in quel che
rimaneva del salotto.
Era
molto tempo che Sasuke non scendeva in campo personalmente. Quando
era arrivato il messaggio di Kakashi, per necessità aveva
dovuto
accantonare le preoccupazioni riguardo al segno maledetto, ma ora che
si trovava sul campo avvertiva un fremito insolito alla bocca dello
stomaco e una vibrazione minacciosa a lato del collo. Non
riusciva a capire cosa gli suscitassero.
Un Anbu li raggiunse quasi subito,
scuotendo la testa. «Non c'è nessuno. In cantina
ho trovato un vano
segreto con una postazione di ascolto. Sembra che stia registrando da
casa Uzumaki.»
Sasuke annuì e avanzò verso
il
corridoio principale, radunando gli uomini. Quando arrivò
sul retro
chiamò anche Hitoshi, che accorse nella speranza di un
incarico.
«Hitoshi, resta qui con Fugaku.
Voglio che esploriate l'abitazione da cima a fondo: trovate
documenti, comunicazioni, codici, tutto quello che potete. Usate lo
sharingan, non tralasciate nulla. Fatevi aiutare da Jiraya, io porto
i ragazzi a controllare la casa di Saibatsu. Potrebbero essersi
radunati là, è più periferica. Ci
ritroviamo nello studio
dell'Hokage.»
Le spalle di Hitoshi si
abbassarono vistosamente. Sasuke se ne accorse, e trattenendo un
sospiro si costrinse ad aggiungere qualche altra parola.
«Da questo momento sei il
capitano in carica.»
Non poteva spiegargli che Sakura
lo avrebbe ammazzato se avesse saputo che non li aveva tenuti nelle
retrovie, ma poteva distrarlo abbastanza perché non
infierisse su
Fugaku... O almeno sperava.
*
I membri della nuova Radice che
erano stati mobilitati dall'allarme generale erano la
totalità dei
rami combattenti, in tutto una cinquantina di shinobi a volto
coperto. Tutti avevano superato un addestramento lungo anni e
partecipato a missioni di diverso tipo, ma nella massa spiccava una
squadra di tre elementi, conosciuta come la Squadra Assassina: quando
la Radice doveva liberarsi di qualcuno, per stare
sicura
mandava sempre loro. Nessuno ne aveva mai visto il volto, ad
eccezione di Iida, eppure tutti avevano imparato a provare rispetto
per le loro gesta, e in parte a temerli quasi come mostri.
Nell'avanzata sparsa degli uomini
della Radice, la Squadra Assassina stava in un punto intermedio, ben
mimetizzata tra gli altri, ma presto il segugio del gruppo sarebbe
passato in testa per guidarli verso l'obiettivo. Ad aiutarli c'era un
invisibile sciame di insetti Aburame che pattugliava una vasta zona
davanti a loro.
Non sapevano dell'attacco di
Sasuke a Iida, né della squadra di Anbu a dorso di rospo che
percorreva la strada alle loro spalle. Avevano ricevuto ordini
importanti, e quegli ordini erano di sterminare tutti coloro che
avrebbero trovato nel luogo concordato, anche se si fosse trattato di
un esercito. La priorità era la più alta
possibile.
Nella nuova Radice gli uomini
erano molto obbedienti.
Chiharu pensò che la situazione
aveva qualcosa di sgradevolmente simile alla missione per il recupero
di Loria: ancora una volta era di fianco ad Akeru e Akeru faceva il
carino con una donna malridotta.
Non che le interessasse qualcosa.
Però non poteva fare a meno di notare che Stupido faceva con
tutti
il medico perfetto, ma con lei era incosciente, irascibile ed
eticamente discutibile.
In quel momento stavano correndo
verso Konoha alla massima velocità raggiungibile dai membri
feriti
del gruppo, che non era elevata. Avevano deciso di non chiedere a
Kakashi altre evocazioni, e, invece di mandare avanti un cane, Naruto
aveva mandato due copie kamikaze per essere pronti prima
dell'incontro.
Chiharu ricontò mentalmente le
pillole di Lophenaria rimaste, ma non fu
sufficiente per
distrarla dal battito affaticato del suo cuore – anche
perché
erano solo due. Avrebbe obbligato Stupido a farle la mossa che aveva
fatto agli altri, se solo avesse potuto... Invece era costretta a
fare la spavalda, perché se il suo affanno fosse aumentato
ancora
l'avrebbero seppellita in una buca promettendole di venire a
recuperarla quando la via fosse stata sicura.
E poi non poteva essere più
acciaccata della donna vicina ad Akeru, dai: quella aveva almeno
quarant'anni! Era come le tizie cadenti che giravano attorno a Sai!
«Stai male?» si
allarmò Stupido
vedendola che lo fissava.
«Stiamo solo correndo, sei
scemo?» ribatté lei rischiando di inciampare.
«Se stai male dimmelo in tempo,
per favore. Non come l'ultima volta.»
«L'ultima volta... Sono passati
cinque anni! Non sto male.»
Da davanti giunse un'intimazione
al silenzio, e i ragazzi tacquero.
Non erano troppo distanti da
Konoha. Il sole stava tramontando all'orizzonte, il che significava
che nel sottobosco era già notte. Forse sarebbero riusciti
ad
evitare gli uomini di Saibatsu... Dopotutto avevano fatto una bella
deviazione a nord, se le copie di Naruto avessero continuato a
vigilare e...
«Via tutti!» sibilò
Naruto di
colpo.
In un attimo la strada fu sgombra
come se nessuno fosse mai passato di lì.
«Le copie sono scomparse. Non so
perché» spiegò il biondo dal cespuglio
in cui era nascosto con
Kakashi. Gli altri affondarono nella vegetazione, estraendo i residui
di kunai e shuriken che avevano portato con sé. Chiharu, per
essere
più sicura, cercò di prendere un'altra pillola di
Lophenaria.
Akeru, inorridito, tentò di toglierle l'involto e lo fece
cadere,
perdendo le ultime compresse nella polvere e nell'oscurità.
«Cosa hai fatto?»
sibilò
Chiharu rabbiosamente.
«Tu cosa stai facendo?»
sussurrò
lui. «Non sono mentine!»
«Sono mie!»
«Non fare la drogata adesso!»
Un insetto dal posteriore
debolmente illuminato passò tra loro, con un ronzio
impercettibile e
un'andatura un po' oscillante. Akeru lo seguì con le
orecchie, e un
flash delle prime lezioni di medicina gli balzò davanti agli
occhi;
il giorno in cui parlavano di parassiti, per la precisione, e poi
degli insetti che colonizzano gli esseri viventi, come quelli del
clan Aburame. Avevano un ronzio tutto particolare, e un meccanismo di
fluorescenza simile a quello delle lucciole.
«Hanno qualcuno degli Aburame!»
esclamò balzando fuori dai cespugli. «Sono
già qui!»
Due uomini piombarono su di lui
dall'alto, i volti coperti da maschere bianche senza espressione.
Baka se ne accorse appena in tempo
per evocare uno scudo di vento, ma Naruto calò tra lui e gli
avversari con un Rasengan già pronto, e gli uomini andarono
a
sbattere contro i tronchi circostanti.
«Questa è
l'avanguardia!» disse
Kakashi emergendo dai cespugli. «Dobbiamo trovare un luogo
più
favorevole per combattere!»
«Seguitemi!» chiamò
Chiharu,
ripulendo la mano sporca di terra sui pantaloni. Per un momento aveva
pensato di raccogliere le pillole di Lophenaria che
riusciva a
trovare, poi aveva lasciato perdere e aveva scandagliato con il
chakra il terreno circostante, per trovare spazi più ampi.
Il gruppo corse freneticamente tra
i rami bassi , dietro a Chiharu che apriva la strada. Se li avessero
trovati in mezzo a quel bosco li avrebbero finiti in un attimo. Baka
sperò che Chiharu sapesse quel che stava facendo, e mentre
se lo
augurava, all'improvviso, una chiazza di ombra meno densa si
rivelò
essere una radura.
«Stupido, qui con me!» lo
chiamò
Naruto, correndo al centro dello spiazzo. «Ho bisogno uno
scudo di
vento.»
«Cosa vuoi fare?»
«Muoviti!»
Akeru si morse le labbra, che
fremevano dalla voglia di rispondere male. Se non fosse stato salvato
da lui poco prima avrebbe ribattuto; invece eseguì la
tecnica senza
protestare, sollevando mulinelli di polvere al crescere delle
correnti d'aria che guizzavano su di loro. Naruto le studiò
per
alcuni secondi, quindi intrecciò le dita in uno schema
complesso,
stese le mani verso la parete di vento e quella andò
letteralmente
in frantumi, scagliando lamelle d'aria tutt'intorno.
«Altre trappole!»
gridò allora,
rivolto agli altri. «Stupido, te la cavi con il chakra
elementale.
Bravo!» aggiunse solo per lui, battendogli una pacca tra le
scapole.
Suo malgrado Akeru arrossì,
debole com'era a qualunque tipo di complimento, ma si diede subito un
contegno e radunò Chiharu e Haruka, trascinandole al margine
della
radura.
«Dobbiamo nasconderci, per non
essere il primo obiettivo» disse cercando un varco tra gli
arbusti.
«Smettila di perdere tempo»
brontolò Chiharu chinandosi per posare le mani a terra.
Subito tra
le radici davanti a loro si aprì un fosso grande abbastanza
per
nasconderli tutti e tre, senza che dovessero allontanarsi dagli
altri.
«Potresti spostarlo un po' più
nel folto...» tentò Akeru.
Chiharu lo fulminò con lo
sguardo. Non dovette dire niente, ma era chiaro che non aveva la
minima intenzione di farsi troppo da parte.
«Tu non hai proprio in mente come
si protegge qualcosa, eh?» sibilò Akeru
spingendola verso il fosso.
«Sono arrivati!»
gridò a quel
punto la voce di Kotaro, e sperando che non fosse troppo tardi Baka
si tuffò nel nascondiglio con Haruka e Chiharu.
Alte grida si levarono
tutt'attorno, seguite da alcune piccole esplosioni.
«Il grosso arriva da quella
direzione» sussurrò Naruto a Kakashi, indicando un
punto verso est.
«Ma si stanno allargando, vogliono accerchiarci.»
«Riesci a capire quanti sono?»
«No. Le trappole di vento possono
rallentarli, ma non sono come i Kage Bunshin» Naruto si
voltò a
guardarlo. «Kakashi, non fare stupidaggini. Vi
riporterò tutti a
casa, a costo di chiedere aiuto a Kyuubi.»
«Sono arrivato fin qui, a questo
punto ho tutte le intenzioni di tornare sulla mia sedia nello studio
dell'Hokage» replicò lui, sollevando il
coprifronte fino a lasciar
libero l'occhio di Obito.
«Ah no, quella adesso è
mia!»
ghignò Naruto. E ancor prima che il sorriso fosse sparito, i
due
shinobi si gettarono dal ramo che li nascondeva, evitando un kunai
esplosivo.
Una pioggia di schegge li ricoprì,
accecandoli, quando l'albero si spezzò nello scoppio e
precipitò
verso la radura. Naruto roteò al di sopra di Kakashi e
scaraventò
lontano altri kunai esplosivi, deviandoli con una scia di vento. Nel
farlo studiò da dove venivano, allora balzò tra i
cespugli,
afferrando una spalla che cercò di divincolarsi. Prese lo
shinobi
per le braccia, cercando di farlo ribaltare, ma quello usò
il suo
stesso impeto, si contorse e lo rivolse contro di lui, mandandolo
schiena a terra. Conficcò un kunai esplosivo tra loro e
scomparve.
Alle sue spalle, verso il centro
della radura, risuonavano le grida del combattimento. Naruto si
tirò
su e vide Kakashi impegnato con due avversari. Più oltre, le
sagome
che guizzavano da tutte le parti erano almeno trenta, anche se era
difficile distinguerle nel buio.
Imprecò, stringendo le mani per
iniziare a evocare i Kage Bunshin; ma a quel punto, con sgomento, si
accorse di non riuscire a recuperare nemmeno una goccia di chakra.
Se avesse potuto controllare
avrebbe trovato un minuscolo marchio sul suo collo, un marchio nero
che bloccava i canali d'uscita del chakra. Ma ebbe poco tempo per
restare sconvolto, perché due shinobi mascherati si
avventarono su
di lui e dovette difendersi.
Lo shinobi dai kunai esplosivi,
che rispondeva al nome di Kin, sorrise sotto la maschera e
andò a
chiamare i compagni della Squadra Assassina.
Alcuni tra gli uomini della Radice
lo chiamavano mostro; perché era veloce, preciso,
praticamente
infallibile... Ma per affrontare un mostro come Naruto Uzumaki, lui
sapeva che era un altro mostro ciò che serviva.
Kotaro schivò un pugno per pochi
centimetri, afferrò il braccio dello shinobi di fronte e lo
fece
ruotare, mandandolo a sbattere contro l'altro che cercava di colpirlo
alle spalle. Prima che quelli fossero caduti si abbassò,
rotolò per
evitare una spada e sfruttò il momento per far roteare un
calcio e
colpire non meno di quattro avversari.
Si rialzò, il fiato corto ma
l'adrenalina che sprizzava nelle vene. La costola incrinata gli
mandava grida di protesta ad ogni movimento azzardato, ma quanto si
sentiva vivo! Si abbassò di scatto per evitare una tecnica
d'acqua,
che colpì uno degli shinobi mascherati, e vide Jin
circondato da tre
uomini. Con un grido selvaggio piombò dritto in mezzo a
loro, ne
stordì uno e tirò Jin a terra prima che un kunai
lo pugnalasse alla
schiena.
«Non pensavo che ti avrei salvato
la vita, un giorno!» esclamò con un ampio sorriso,
ma Jin lo
scavalcò e colpì uno shinobi che lo stava
puntando, riportandoli in
parità. «Diavolo!» brontolò
il giovane Lee.
«Kotaro!» gridò Rock
Lee
raggiungendolo. Lo tirò su per la collottola.
«Tutto bene? La
costola?»
«Sto bene, sto bene!»
assicurò
lui con una smorfia di dolore. «Dietro di te!»
Rock Lee si abbassò di scatto, e
lo shinobi che aveva alle spalle fu abbattuto da un calcio violento
di Gai Maito.
«Non sia mai che qualcuno tocchi
i miei allievi!» ruggì la Bestia verde della
Foglia, facendo
allontanare gli shinobi che li circondavano.
«Così non va affatto
bene»
ansimò Jin, ricoprendo di chakra elettrico un kunai e
scagliandolo
in mezzo agli avversari. «Dov'è Naruto?
Perché non si moltiplica?»
Una pioggia di shuriken li
costrinse ad appiattirsi a terra, mentre Jin ergeva una barriera
elettrica e bloccava il metallo magnetizzato a mezz'aria. Ad ogni uso
del chakra si sentiva più debole, ma tra loro era l'unico
che
potesse usarlo bene, e i nemici erano ovunque, innumerevoli,
onnipresenti... Ah, se non fosse stato così stanco...
Mamma,
pensò, stringendo i denti. Devo
riportarla a casa!
Naruto scaraventò uno shinobi
contro l'altro, aiutando Kakashi a rialzarsi da terra.
«Non sento scorrere il chakra!»
gridò. «Non posso moltiplicarmi, non posso evocare
i rospi! Finché
non arrivano gli Anbu siamo sotto!»
«Perché non ci
riesci?»
«Devono avermi fatto qualcosa...
Maledizione! Dobbiamo raggiungere gli altri! Restiamo uniti!»
Insieme balzarono fuori dai
cespugli, dove un gruppo di shinobi li vide e li attaccò
subito.
Naruto schivò i primi colpi, rispose agilmente, li
disorientò, e
mentre combatteva vide Kakashi in difficoltà.
Tornò indietro, fu
colpito tra le scapole, ma riuscì comunque a raggiungere il
maestro.
«Lavoriamo in combinazione!»
esclamò lui, il naso che perdeva sangue copiosamente e lo
sharingan
che brillava altrettanto scarlatto.
Un kunai si conficcò nella gamba
di Naruto, strappandogli un grido di sofferenza. Senza pensarci si
voltò, un movimento di una rapidità inumana, e un
lembo di chakra
rosso afferrò violentemente lo shinobi che lo aveva
pugnalato,
spezzandogli un braccio come fosse di zucchero.
Il dolore, dimenticato e
lancinante, lo sconvolse per un istante. Niente chakra a proteggerlo,
niente velo di rivestimento contro la Volpe... Solo l'odore acre
delle ustioni da acido.
Non
dimenticarti di me,
soffiò la
voce di Kyuubi, quasi divertita.
Un fremito attraversò i nemici
che assistettero alla scena, i quali arretrarono istintivamente. Ma
in quel momento dall'alto piovve una rete alle cui maglie erano
intrecciati sigilli di controllo simili a quello sulla pancia di
Naruto, e anche il chakra della Volpe, che era riuscito a
oltrepassare il marchio nero di Kin, fu schiacciato a terra con i due
shinobi. Nella testa di Naurto risuonò il verso di dispetto
di
Kyuubi.
Subito dopo una mano enorme si
abbatté su di loro, privandoli del fiato e facendo
scricchiolare le
casse toraciche. Il chakra rosso scomparve, lasciando il posto ai
processi di guarigione.
«La Squadra Assassina!»
gridò
qualcuno tra i nemici, vibrante di ammirazione.
Naruto riuscì ad aprire un occhio
e vide tre uomini a una certa distanza dagli altri: uno dei tre era
l'Akimichi che aveva ingigantito la propria mano, un altro era lo
shinobi agile con cui aveva combattuto prima, e l'ultimo era
circondato da un velo di insetti ronzanti.
«Ma Choji e Shino con chi cazzo
sono imparentati?» quasi sputò.
Vide lo sciame di insetti gettarsi
verso di loro formando un muro compatto.
Subito pensò a Kakashi, ma quando
provò a muoversi il peso della mano che li schiacciava
aumentò.
Cercò di richiamare il chakra di Kyuubi, ma ogni tentativo
di
utilizzo gli faceva sentire la testa leggera e le forze che venivano
meno. Non c'era niente che potesse fare, proprio niente.
Poi lo sciame di insetti esplose
letteralmente, sparando in tutte le direzioni, e una pioggia di
sabbia li ricoprì infilandosi tra bocca e orecchie, quasi
soffocandoli.
«Visto che senza di me non andate
da nessuna parte?» ansimò Chiharu, rannicchiata
tra loro e i nemici
con aria spavalda.
Gai, che vide la scena dal punto
in cui si trovava, ripensò alla promessa di aiutare Akeru a
riportarla a casa tutta intera.
«Inizio a vederla grigia...»
borbottò.
Ci sarebbe voluto davvero tanto
Spirito della Giovinezza per dare una mano a Stupido.
* * *
Buonasera a tutti!
Ho tardato molto prima di fare questo aggiornamento,
vi chiedo scusa. Giornata piena.
Non sono nemmeno completamente soddisfatta
di come è venuto.
C'è una certa possibilità che questo capitolo
subirà qualche piccola modifica
prima del prossimo,
ma nel caso accadesse verrete avvisati.
Come promesso è tornata Kyuubi,
ma per essere sincera avrà più spazio la prossima
volta.
Dopotutto, non sono ancora entrati in scena i mostri veri.
E nemmeno gli adorabili fratelli Uchiha!
Un abbraccio a tutti e un saluto.
Alla prossima settimana!
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Capitolo 30 *** I veri mostri ***
Penne 30
13/04/2016
Capitolo
trentesimo
I
veri mostri
Chiharu aveva deciso già da un
po' che non se ne sarebbe rimasta con le mani in mano. Dal momento in
cui era comparso il primo messaggero volante di Kakashi, per la
precisione. Anche lei, come Sasuke, aveva capito che quel che stava
per succedere sarebbe entrato nei libri di storia e non aveva la
minima intenzione di restarne fuori.
Cinque anni prima, in occasione
della sua prima possibile partecipazione alle cronache di Konoha,
Chiharu aveva avuto la brillante idea di farsi venire una crisi
esistenziale e auto-sospendere la propria carriera di kunoichi. Anche
se alla fine l'unico che era entrato davvero nella storia era stato
Naruto, perché aveva eliminato un'intera divisione della
Roccia da
solo, chi avrebbe potuto dire cosa sarebbe riuscita a fare lei
partecipando agli eventi? Magari avrebbe avuto qualche brillante idea
nel momento decisivo e avrebbe lasciato un'impronta negli annali
della Foglia. Magari. Perché no? Anche Chiharu, come
Hitoshi, viveva
nell'errata convinzione che un giorno avrebbe risolto da sola qualche
situazione insolubile, possibilmente di interesse internazionale.
E dal momento che ne era convinta,
mentre Baka si ingegnava per rendere la loro postazione più
sicura,
lei si spremeva le meningi per trovare il modo di fare qualcosa di
notevole.
«Senza i rinforzi da Konoha siamo
spacciati» mormorò Akeru, sistemando i rami dei
cespugli in modo
che coprissero meglio il loro nascondiglio. «Non capisco
perché
Naruto non si sia ancora moltiplicato.»
«Naruto è ancora il Jinchuriki
di Kyuubi?» domandò Haruka, cogliendoli di
sorpresa.
Sia Akeru che Chiharu
ammutolirono, scambiandosi sguardi cauti.
Non avevano mai parlato della cosa
tra di loro, anche se entrambi, attraverso fonti diverse, erano
arrivati a conoscere il segreto di Naruto; tutto ciò che
trapelava
al di fuori delle alte sfere era che l'informazione era coperta da
autorizzazioni di altissimo livello, e per averla dovevi essere
qualcuno. O avere spiccate doti di spionaggio.
«Non lo sapevate?» aggiunse
Haruka, corrucciata. «Pensavo che tutti...»
«La nostra generazione non sa
tante cose come la tua» disse Chiharu lentamente.
«Alcuni di noi,
per varie ragioni, sanno...» scoccò un'occhiata
interrogativa ad
Akeru, che annuì. «Ma chi non ha avuto a che fare
con Naruto non ha
idea di nulla. Pensano che conosca delle tecniche molto strane, tutto
qui.»
Chiharu non aggiunse che il
Consiglio aveva suggerito a Naruto di non pubblicizzare la cosa, se
ambiva davvero a raggiungere la posizione di Hokage, ma lo fece
soltanto perché in teoria lei non avrebbe dovuto saperne
niente –
era tra le persone con spiccate doti di spionaggio.
«Se Naruto è ancora un
Jinchuriki, cosa lo sta fermando?» chiese Haruka.
«Intendo... Con
la potenza di Kyuubi non dico che potrebbe liberarsi facilmente di
tutti gli avversari, ma quasi...»
«Infatti» Chiharu
tornò a
spiare il campo di battaglia, interrompendola. «E' proprio
quello
che non mi spiego.»
«Non ti azzardare a sporgere il
naso!» scattò Akeru tirandola subito indietro.
«So cosa vuoi
fare.» Chiharu sbuffò indispettita. «E
niente smorfie!» la ammonì
lui. «E' stato Naruto a dirti di stare buona, non sono solo
io ad
essere fissato con la tua salute.»
«Sì, beh, peccato che fuori di
qui ci siano Kotaro con le Porte del Chakra spalancate, due
cinquantenni e un maledetto bambino! Un bambino!»
«Uscendo da questo buco non
salverai la situazione. Aggiungerai soltanto una cardiopatica
all'elenco.»
Chiharu levò le braccia al cielo,
preda dell'esasperazione. La testa di Baka era piena di segatura!
Là
fuori si scriveva la storia, e loro stavano rannicchiati in disparte.
«Ok, senti. Mia madre dice sempre
che non si può riempire un bicchiere rovesciato»
annunciò. Akeru
la fissò stranito. «Vuol dire che posso andare
avanti a parlarti
due ore, ma se non ti entra, non ti entra...»
«Non pro...»
Le parole morirono nella gola di
Akeru, che si ritrovò improvvisamente privo di controllo sul
proprio
corpo. Chiharu sospirò, gettando uno sguardo alla propria
ombra che
si congiungeva alla sua, controllandola. Anche l'ombra di Haruka era
stata agganciata senza che se ne accorgesse.
«Prometto di restare viva»
assicurò la ragazza. «Ma se Naruto non si
moltiplica, nessuno di
noi torna a casa intero. Ora, hai presente quando ho chiesto alla
madre di Jin se era claustrofobica? Bene, spero che non lo sia
neanche tu, perché passo al piano B.»
Sempre tenendoli sotto controllo,
compose una serie di sigilli, che per forza di cose si ritrovarono a
fare anche loro. Si chinò per posare una mano sulle rocce ai
loro
piedi, e nel giro di pochi secondi le piccole zolle del fosso si
ammonticchiarono a formare una cupola di terra sopra le teste di
Akeru e Haruka, rinchiudendoli in un solido guscio. L'ultima fessura
in cima alla cupola si richiuse quando il filo-ombra di Chiharu si
ritrasse.
«Tranquilli, siete perfettamente
al sicuro!» la sentirono gridare da fuori.
All'interno del rifugio, appena
riuscì a muoversi, Akeru percorse tutta la superficie con le
mani,
senza individuare punti deboli. Riusciva a stare dritto soltanto al
centro, perché ai margini la cupola diventava subito troppo
bassa.
«Io la ammazzo!»
ruggì,
sferrando un pugno contro il guscio e graffiandosi le nocche.
«Non perdere la calma»
intervenne Haruka, posando entrambe le mani sulla superficie interna
della cupola. «So qualcosa del chakra di tipo
terra.»
E allora, dapprima lentamente, poi
sempre più rapidamente, i legami tra le zolle si sfaldarono
e la
barriera franò, aprendo uno spiraglio verso l'esterno.
«Grande!» esclamò
Akeru, subito
ringalluzzito, mentre Haruka si arrampicava all'esterno.
Ma lei si voltò a guardarlo,
l'espressione nascosta dalle ombre della notte. «Mi
dispiace»
mormorò. «Si tratta di mio figlio, non posso stare
a guardare.»
«Non...!» tentò di
nuovo Akeru,
e per la seconda volta le parole gli morirono in gola, mentre il
passaggio si richiudeva al comando di Haruka. Appena prima che
l'ultima zolla prendesse il suo posto lui si gettò in
avanti, e mise
una mano avvolta di chakra nella fessura che stava per saldarsi.
«Scordatevi di lasciarmi qui
dentro!» ringhiò. «Appena esco vi
ammazzo tutte e due!»
Chiharu non si sentiva
particolarmente in colpa: se di colpa ce n'era, veniva soffocata
ampiamente dall'eccitazione del combattimento e dall'adrenalina che
le scorreva nelle vene.
Non fu semplice individuare
Naruto: gli avversari erano ovunque, maschere bianche che comparivano
da tutti i lati oscurando la vista e rimescolandosi come una marea di
petali. Poi un'ombra enorme si sollevò fino ai rami che si
protendevano verso la radura, e anche nel crepuscolo Chiharu
capì
che stava succedendo qualcosa. E che lei stava rischiando di arrivare
tardi.
Si fece largo a forza, evitando
tutti quelli che cercavano di afferrarla, e quando fu vicina
posò le
mani sulle spalle di un avversario e lo oltrepassò con una
capriola.
A mezz'aria impastò il chakra, appena in tempo per toccare
terra con
i palmi e far sollevare una colonna di sabbia.
Gli insetti diretti contro Naruto
e Kakashi si sparpagliarono come foglie al vento. Chiharu
atterrò,
fiera e raggiante di orgoglio, esattamente tra i nemici e gli
alleati.
Sapeva che Naruto la vedeva, alle
sue spalle, e un fremito di eccitazione le corse lungo la schiena.
Non era proprio il momento di commettere errori. Nonostante fosse
praticamente circondata su tutti i lati, la potenza del suo
sconfinato orgoglio le faceva credere di essere tornata in forma come
quando non aveva problemi di cuore, rendendo la Lophenaria di
Shikaku una blanda aspirina. E dire che accadeva solo perché
aveva
salvato ben due Hokage in un colpo solo!
Rannicchiata con le mani a terra
studiò gli avversari. Se avevano atterrato Naruto e Kakashi
non si
illudeva di poterli sconfiggere, ma incrociò le dita, e il
punto in
cui i tre stavano fermi si frantumò in centinaia di zolle,
costringendoli a saltare via.
La mano enorme che teneva fermi
Kakashi e Naruto si allontanò, lasciando solo la rete a
bloccarli.
Chiharu si voltò per strapparla a mani nude, e
così facendo non
vide lo shinobi che le fece lo sgambetto. Cadde, sentendo il sapore
del sangue invaderle la bocca e il respiro mozzarsi nei polmoni. Si
rigirò sulla schiena, respingendo l'avversario con i piedi,
per
vederne altri quattro che prendevano il suo posto.
All'improvviso un artiglio
scarlatto li respinse tutti, sfrigolando a contatto con la loro
pelle.
«Adesso mi avete fatto
incazzare!» gridò Naruto, improvvisamente al suo
fianco.
Alle spalle di Chiharu, Baka
masticò imprecazioni come il peggior portuale, sollevando le
dita
dalla rete che aveva appena sezionato con la tecnica bisturi che
insegnavano al secondo anno di medicina. Chiharu lo intravide con la
coda dell'occhio mentre liberava anche Kakashi.
«Haruka?» chiese subito
quest'ultimo, vedendolo solo.
«Ha detto 'è mio
figlio',
e se l'è filata. Che mi prenda un colpo la prossima volta
che
accetto di fare la guardia a due femmine!» ringhiò
Baka. Ed evitò
lo sguardo di Kakashi, fingendosi molto impegnato.
Ora. Quando era riuscito a
scavarsi un'uscita dalla trappola di terra di Chiharu in
teoria
avrebbe dovuto seguire Haruka, considerato che era l'obiettivo
principale dei nemici... Ma in pratica non lo aveva fatto, non ci
aveva neanche pensato; perché se doveva scegliere tra Haruka
e
Chiharu, la scelta era scontata. Il che non gli impediva comunque di
sentirsi parecchio in colpa.
Kakashi non perse tempo a chiedere
ulteriori informazioni, ma si liberò dei resti della rete e
partì
subito alla ricerca di Jin e Haruka. Akeru avvertì una fitta
di
vergogna, ma era troppo tardi per fare qualcosa. D'altronde si
trattava sempre di un Hokage, chi meglio di lui per salvare la
situazione?
A breve distanza, al fianco di
Chiharu, Naruto allargò le braccia, muovendo le dita per
assicurarsi
che il chakra della Volpe scorresse senza problemi.
Cos'è
questo puntino nero sul nostro collo?,
sussurrò lei sorniona. Vogliono
scherzare?
«Chiharu» disse Naruto, con un
mezzo sorriso. «Ricordi quel che ho detto sul tenerti in
disparte
per non dover affrontare tua madre? Lascia perdere. Spacchiamo la
faccia a questi presuntuosi!»
Chiharu sorrise entusiasta, un
fremito di soddisfazione che le scorreva lungo la spina dorsale. Si
rimise in piedi, memore di quando Naruto aveva fatto sul serio cinque
anni prima, e afferrò Akeru per un braccio, costringendolo a
fare un
passo indietro senza ascoltare i suoi insulti. «Chiudi la
bocca e
guarda!»
Naruto alzò lo sguardo sugli
shinobi che li circondavano. Snudò le zanne, sotto pupille
strette e
circondate di rosso. Sentiva il dolore delle ustioni, ma
calcolò che
avrebbe resistito quanto bastava.
«Se volete scappare, fatelo in
fretta» suggerì.
Poi nove code di chakra scarlatto
esplosero dal suo corpo. Roventi, dense di acido corrosivo,
strisciarono sul terreno e si avventarono sugli avversari come se
avessero vita propria. Muovendosi diffondevano una leggera
luminosità
rossastra, anche più terribile del sibilo delle ustioni che
producevano.
Kotaro e Jin schivarono una delle
code per un pelo, Gai, vicino a loro, afferrò Haruka prima
che il
chakra le sfiorasse una gamba. Gli uomini colpiti lanciarono grida di
agonia, l'odore di carne bruciata impregnò l'aria di una
nota acida,
mentre i corpi cadevano a terra sibilando dalle vesciche aperte.
Chiharu fu attraversata da un
brivido. Di nuovo, non capì se provava solo ammirazione o
anche
timore, soggezione, orrore. Era uno spettacolo affascinante e
disgustoso al tempo stesso... Ma quanta potenza in quelle code!
Naruto ritirò il chakra, senza
farlo scomparire. Si guardò intorno per trovare i tre che li
avevano
messi con le spalle al muro, ma a causa delle maschere identiche non
riuscì ad individuarli.
Una vibrazione scosse il terreno
sotto i loro piedi. Baka si appiattì a terra, Chiharu
insinuò il
suo chakra tra le rocce, ma quando si rese conto che non era una
tecnica sbiancò.
«Insetti!» gridò,
facendo per
balzare via. Un tentacolo brulicante di creature la afferrò
per la
caviglia, tenendola giù. Baka capì con un secondo
di ritardo, e gli
insetti si avvolsero al suo petto, trascinandolo a terra.
Solo Naruto sembrò salvarsi,
perché gli insetti sfrigolavano e bruciavano al contatto con
il suo
chakra. Ma tra i corpicini neri comparve una mano, e quella mano,
incurante dei danni, oltrepassò la barriera scarlatta che
rivestiva
Naruto fino a posarsi sulla pelle della sua caviglia.
Kyuubi scomparve.
Naruto avvertì un dolore
bruciante al collo, cadde in ginocchio senza fiato.
Dal terreno sotto di lui emerse
Kin, lo shinobi che gli aveva applicato il marchio di cui Kyuubi
aveva riso. Allargò le braccia, armate entrambe di kunai.
Chiharu, guardando le sue spalle,
capì che non avrebbe sbagliato a colpire.
*
«Invece cerchi ancora in
cantina!» esplose Hitoshi, afferrando Fugaku per il bavero.
«Usa
quel maledetto sharingan per scoprire qualunque fessura
segreta!»
«Ho già guardato
tutto!» gridò
Fugaku, liberandosi con uno strattone.
«Buoni...» sbuffò
Jiraya.
Che strazio. Gli Uchiha erano
insopportabili a qualunque età, di qualunque generazione
fossero.
«Andiamocene!»
sbottò il minore
degli Uchiha, con un'occhiata piena di astio verso il fratello.
«Se
non dovessi stare qui a fare la balia a te sarei avanti con
papà!»
«A farmi da balia!» Hitoshi
scoppiò in una risata acida. «Guarda che
è proprio il contrario.»
«Il
mio
sharingan sarebbe
stato utile!»
Jiraya afferrò entrambi per il
colletto e li sollevò di qualche centimetro, facendo cozzare
una
testa contro l'altra.
«Non ho grande simpatia per la
vostra famiglia» sottolineò. «Non
costringetemi a uccidervi.»
Bruscamente li rimise a terra,
ripromettendosi di andare in pensione appena fosse tornato Kakashi. I
due ragazzi si massaggiarono la fronte imprecando contrariati, ma non
osarono alzare la voce contro uno dei ninja più celebri
nella storia
di Konoha.
«Scendiamo tutti e tre, diamo
un'ultima occhiata e ce ne andiamo» ordinò il
sennin.
«Sono io il capitano...»
sibilò
Hitoshi, ma si guardò bene dal dirlo a volume udibile.
Tutti insieme scesero le scale che
portavano al piano interrato, Jiraya in testa, armato di torcia.
In fondo c'era un breve corridoio
e una stanzetta priva di finestre. L'ambiente era angusto, ma
arredato in modo da ospitare poche persone per molto tempo: c'erano
un futon, un tavolino, e una radio che trasmetteva le voci
riconoscibili di Hinata e delle sue figlie.
Jiraya si abbassò e spense la
radio, facendo correre la luce negli angoli e sul soffitto.
«Fugaku?»
«Non ci sono scomparti segreti
né
uscite» borbottò il ragazzino, attivando lo
Sharingan per scrutare
nell'ombra delle zone che Jiraya non illuminava. «E lei si
sta
mettendo un dito nel naso!» Jiraya abbassò la
mano. «Adesso
possiamo andare?»
«Adesso
sì», sottolineò Hitoshi, voltandosi per
risalire davanti a tutti.
Avrebbe venduto tutte le missioni
con il gruppo sette pur di far ingoiare a Fugaku la sua spocchia
boriosa, pensò attraversando il corridoio alla base delle
scale.
Alla sua età non era così snervante e
irrispettoso, si disse
mentendo spudoratamente.
Qualcosa entrò nel margine del
suo campo visivo.
«Che succede?» chiese Jiraya
vedendolo fermarsi.
Hitoshi fissò il muro alla base
delle scale. Aveva una strana sensazione, come di freddo. Qualcosa di
viscido, umido, traslucido... Come la sagoma nella foresta.
Appoggiò una mano al muro.
«Non toccare!» gridò
Fugaku, lo
sharingan che gli rimandava le immagini dell'immediato futuro; ma il
suo avvertimento arrivò troppo tardi.
La parete esplose in mille pezzi,
facendo crollare una parte del soffitto soprastante, e nel crollo
seppellì i due ragazzi e il vecchio.
*
L'uomo mascherato allargò le
braccia, un kunai stretto in ogni mano. Tutti i i ninja di Konoha
erano a terra o lontani.
Chiharu vide la scena al
rallentatore, come se il tempo si fosse dilatato per farle capire
tutto.
L'espressione di Naruto, colma di
dolore.
I muscoli tesi, alle estremità
delle maniche dello shinobi mascherato.
Il guizzo ribelle del chakra
rosso, le bolle che si formavano sulla pelle di Naruto.
La contrazione degli avambracci
del nemico, prima che il colpo partisse.
E all'improvviso, enorme e
terribile, il volto di Kyuubi e i suoi occhi bianchi, vuoti. Le
zanne. Il ghigno, perverso, soddisfatto, sadico. Il mostro, quello
vero, dietro il sigillo e la volontà di Naruto. Il mostro con cui
nessuno, Squadra Assassina o meno, avrebbe potuto competere.
Disse solo una parola, sgorgata da
profondità
lontane, con una voce che non aveva nulla a che fare con quella che
conoscevano.
Sparisci.
Lo shinobi mascherato scomparve in
una bolla di chakra scarlatto, con uno sgradevole sfrigolio. Non
emise un suono né un lamento, nulla. Il chakra
colò a terra e
scomparve, inghiottito dalle crepe tra le pietre.
Il corpo annerito dell'uomo che
era stato Kin cadde al suolo, tra le mani ancora i kunai contorti,
ricoperti di una patina verde.
Naruto boccheggiò, strinse i
denti, e Chiharu lo vide premere una mano sullo stomaco, le cinque
dita aperte attorno all'ombelico. Il viso enorme di Kyuubi si
ritrasse, inghiottito dal corpo di Naruto, e lui crollò a
terra
senza fiato.
Tra i nemici scoppiò un boato;
tutti gli si avventarono contro, vedendolo in difficoltà.
Chiharu sentì la stretta degli
insetti allentarsi; li scrollò via, avvertendo il panico
risalire
lungo le gambe. Vide Akeru che veniva aggredito praticamente accanto
a lei, ma Naruto era lì, Naruto era l'obiettivo della folla,
Naruto
era Naruto, e nessuno, nessuno poteva venire prima
di lui!
Nessuno!
Si sporcò la mano con il sangue
che le imbrattava le labbra, mentre annaspava verso il centro
dell'attacco. Compose i sigilli senza sapere quello che stava
facendo. Si gettò sul corpo di Naruto, ripiegandosi attorno
alla
sua schiena, protettiva, piccola, così piccola rispetto a
lui...
Sentì la mano del primo nemico serrarsi sulla sua spalla,
quando
premette le mani a terra.
Il calore improvviso le tolse
l'aria dai polmoni e la fece rannicchiare ancora più stretta
contro
Naruto, per proteggerlo, per proteggersi, perché non aveva
più
pensieri in testa.
Sentì il rombo dell'ossigeno che
viene divorato dal fuoco, le urla in lontananza, e a fatica
alzò lo
sguardo, schiacciata dalla pressione dell'aria e dalla luce che
feriva gli occhi.
Qualcosa di enorme e dorato era
sopra di lei, spropositatamente caldo, brillante come il sole. Un
uccello dalla lunga coda di fiamma, le ali spiegate, che
incontrò il
suo sguardo e la fece fremere. Aveva grandi occhi neri, che
sembravano inghiottire la luce delle penne, e un lungo becco
acuminato. La notte si era ritratta sotto il suo fulgore.
Chiharu fu corta che stesse
sorridendo, ma non in maniera amichevole... E poi sentì la
sua voce,
solo per lei, dritta nella testa, e sapeva che non era
un'allucinazione: «il signore Suzaku non
è clemente con chi lo
offende.»
Allora sentì la fitta in mezzo al
petto, tremenda, come mai prima. Tentò di respirare, ma non
ci
riuscì. Il calore dell'aria era insopportabile, il dolore
nel petto
anche peggio. La Lophenaria! Ricordò
confusamente le pillole
che cadevano nella polvere, poi non riuscì più a
concentrarsi, e fu
solo dolore. Artigliò Naruto con una mano; lui, stordito,
riuscì a
sollevare la testa.
«Che cosa...»
balbettò,
impossibile sentirlo nel rombo dell'ossigeno che veniva risucchiato.
Si voltò, vide l'enorme uccello, i suoi occhi intelligenti,
il becco
acuminato, gli artigli impressionanti... Un po' troppo, per una
cardiopatica di ritorno da una missione rischiosa.
«Cosa hai fatto?»
gridò,
strappandole la maglietta per liberare il petto. Ad ogni mancato
respiro si formavano solchi tra le coste e alla base del collo, le
sue labbra stavano scomparendo nel pallore del viso.
Chiharu guardò Naruto, e nei suoi
occhi lesse quello che lui vedeva, la gravità di
ciò che aveva
fatto.
Fu il panico.
Di colpo, senza che fosse
previsto, il panico più puro.
Non
voglio morire!
La sua mano si tese
spasmodicamente, fino a incontrare uno dei grandi artigli
dell'uccello.
NON
VOGLIO MORIRE!
Chiharu estese il collo e lo vide,
lo sguardo minaccioso del mostro, il lieve guizzo di sorpresa,
l'accenno di avvertimento... Serrò i denti; senza esitare si
riprese
il chakra usato per evocarlo, tutto quanto.
Non
voglio morire.
L'uccello lanciò un grido
acutissimo, una nota di puro dolore, e con un'ondata di aria calda
scomparve nel nulla.
Chiharu inspirò, sentendo
l'ossigeno che le invadeva i polmoni come un balsamo. Sconvolta, si
piegò su un fianco e prese a tossire, il cuore che batteva
impazzito
nel petto, i denti tremanti, le mani gelide.
Alzò lo sguardo, a fatica,
seguì
le ginocchia di Naruto fino al petto e infine il viso... Ma non
riuscì a vedere i suoi occhi, e perse conoscenza.
Naruto non tese nemmeno una mano.
Immobile, gli occhi spalancati e
le labbra serrate, la fissava, come se non la conoscesse, come se la
vedesse per la prima volta. Vedeva il suo respiro spezzarsi nel
petto, vedeva il sangue gocciolare dalle labbra a terra, ma non si
protese per aiutarla. Rimase lì, impietrito, e la
fissò soltanto.
Qualcosa lo urtò, costringendolo
a spostarsi. Gli sembrò di vedere Baka che si chinava su
Chiharu, lo
sentì gridare qualcosa, ma non capì cosa. La
scomparsa improvvisa
dell'uccello e dell'ossigeno di cui si era alimentato gli aveva
lasciato le orecchie tappate, gli occhi dovevano abituarsi di nuovo
all'oscurità. Sentì il mormorio di Kyuubi nel
profondo, distante.
Al tenue bagliore del chakra di Baka vide il volto esanime di
Chiharu, e la sua mano, ancora stesa là dove era stato
l'uccello
dorato.
Al suo posto, ora, soltanto un
mucchio di ceneri e brandelli di fiamma.
* * *
Lo so,
mi dispiace.
Chiharu è insopportabile.
Ho cercato di renderla migliore,
ma mi è sfuggita di mano.
Se vi può consolare,
è finito il tempo in cui le concedevano tutto,
e per i suoi detrattori i prossimi capitoli saranno un sollievo.
Beh, avete avuto un salutino da Kyuubi!
Contenti?
A me prudono le mani dalla voglia di infilarla a caso nella trama...
Ma così rischiamo di finire al capitolo 345, e non mi sembra
il caso.
Oh sì, e poi gli Uchiha,
ai quali è interamente dedicato il prossimo capitolo!
Se fossi un lettore odierei Fugaku,
ma da autrice mi fa ridere tanto.
Chissà che la famigliola non diventi finalmente felice?
(Seeeeh, ma chi ci crede?)
Un saluto a tutti,
alla prossima settimana!
Grazie per essere qui a leggere!
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Capitolo 31 *** Il bozzolo ***
Penne
20/04/2016
Capitolo
trentunesimo
Il
bozzolo
Frammenti di cemento e schegge di
legno rotolavano verso quel che restava del giardino, emergendo dalle
nubi di polvere sollevate dal crollo.
Gli uccelli erano ammutoliti
quando le fondamenta della residenza di Iida avevano ceduto;
nell'oscurità incipiente i primi a riprendersi furono i
grilli, con
timidi friniti ai margini più lontani del terreno cintato.
Un'ombra si allontanò dalla
statua contro cui si era nascosta fino a quel momento.
Osservò le
macerie della villa, silenziosa, in attesa del depositarsi della
polvere.
Quando Iida era fuggito tutto il
quartiere si era svuotato: i vicini erano complici e conniventi, e al
primo sentore di minaccia avevano fatto i bagagli insieme alla
servitù. Non c'erano altri rumori, a parte quelli della
notte e il
leggero acciottolio del crollo che si assestava.
Un bagliore improvviso illuminò
la foresta a occidente, facendo voltare l'ombra. Durò pochi
istanti,
poi si indebolì; del fulgore rimase soltanto un alone rosso
al di
sopra degli alberi.
Una parte delle macerie franò
rovinosamente. L'ombra trasalì, tornando a nascondersi
dietro la
statua.
Dalle travi ammonticchiate emerse
una mano, che spinse via una parete di carta di riso determinando un
altro piccolo crollo. L'ombra si fece traslucida, come un riflesso
sull'acqua. Dalle rovine della villa emersero una testa bianca di
polvere e un paio di spalle, seguite dal corpo di Hitoshi Uchiha.
L'ombra scese veloce dal muretto e scomparve nell'oscurità
della
notte.
«Avevi controllato tutto, eh?»
tossì Hitoshi, scuotendo i capelli per farli tornare del
solito nero
corvino.
«Sì, avevo controllato e non
c'era niente!» starnutì Fugaku, uscendo per lo
stesso passaggio.
«Avevo controllato due volte!»
«Beh, allora il tuo sharingan fa
schifo!»
«Almeno io ce l'ho!»
«Si dà il caso, ragazzino
ignorante, che il mio sharingan abbia visto la
trappola!»
«Il tuo cosa? Tu non hai lo
sharingan! E se avessi visto la trappola, non ci sarebbe caduta in
testa la casa!»
«Se vi ammazzo tacete?»
grugnì
Jiraya, arrampicandosi fuori con qualche difficoltà. Sulla
sua
fronte c'era un taglio profondo, che sanguinava lungo tutto un lato
del viso.
«Aspetti, ho una benda...»
disse
Fugaku aprendo il marsupio.
«Bel lavoro, Hitoshi»
sospirò
Jiraya sedendosi su una grossa trave. «Anche se non ho capito
come
hai fatto.»
«Non ha fatto niente, ecco come
ha fatto...» brontolò Fugaku.
«Non lo so nemmeno io» ammise
Hitoshi, guardando storto il fratello e provando un'ondata di
desiderio per le sigarette nascoste in fondo al marsupio.
Quando la trappola si era
innescata e la struttura dell'edificio aveva ceduto, lui aveva
cercato di proteggere tutti e tre con una barriera; ma lo scudo che
aveva impastato con il chakra non si era formato, e invece in qualche
modo i frammenti più pesanti li avevano completamente
evitati.
«Fammi vedere il tuo sharingan.»
Hitoshi si avvicinò a Jiraya in
improvviso imbarazzo. «Non sono sicuro che sia... Insomma...
Con mia
madre pensavamo...»
Jiraya gli puntò una torcia in
faccia e studiò i suoi occhi per un lungo istante. Anche
Fugaku si
sporse per vedere, e con un sorrisetto soddisfatto si fece indietro
poco dopo: nessuna traccia di rosso.
«Allora?» chiese Hitoshi
ansiosamente.
«Allora niente. Facciamo rapporto
a Sakura e disinfettiamo le ferite» borbottò
Jiraya, mentre Fugaku
terminava la fasciatura alla testa.
«Sì ma, il mio
sharingan?»
«Non c'è nessuno
sharingan»
puntualizzò Fugaku. «Se vuoi ti faccio vedere io
com'è uno
sharingan.»
«Se vuoi ti faccio vedere la mia
maschera da Anbu, saccentello rompipalle.»
Fugaku scoppiò a ridere.
«Sharingan e Anbu in un colpo solo! E poi? Verrai a dirmi che
ti
hanno nominato Hokage?»
Jiraya si passò una mano sul
viso. Era sollevato all'idea di non avere fratelli. «Torniamo
da
Sakura.»
«No, dobbiamo fare rapporto a mio
padre» disse Hitoshi.
«Lei o lui è la stessa cosa. E
io ho bisogno di farmi ricucire la testa.»
«Preferisco andare da mio padre.
Lei se vuole...»
«Voi due siete sotto la mia
custodia.»
«Io sono il capitano!»
Hitoshi e Jiraya si fissarono,
ostili. Jiraya premette la fasciatura sulla fronte e sbuffò.
«Se vuoi sapere cosa sta
succedendo ai tuoi occhi, dovremmo andare da tua madre»
suggerì.
Ma Hitoshi ebbe un brillio di
soddisfazione nello sguardo. «Allora nei miei occhi
c'è qualcosa!»
Fugaku fece un gesto di esasperazione, che il fratello
ignorò.
«Andiamo da papà, potrebbero aver bisogno di
me.»
«Probabile» commentò
Fugaku
grondando sarcasmo.
«Io sono il capitano. Io. Se
sento un'altra lamentela ti spedisco a casa, e se non lo fai ti
denuncio per insubordinazione!»
«Ma non possiamo davvero essere
agli ordini di uno così!» protestò
Fugaku in cerca di sostegno.
«Invece temo proprio di
sì»
borbottò Jiraya. Si rialzò dalla trave su cui era
seduto. «Lasciami
indovinare: pensi che se raggiungeremo tuo padre potrai catturare
Iida da solo grazie ai tuoi nuovi grandi poteri?»
Anche nel buio le guance di
Hitoshi si arrossarono visibilmente. Jiraya fece un sorrisetto,
ricordando le sparate adolescenziali di Naruto e tutte le missioni
sceme in cui erano rimasti coinvolti durante il loro allenamento.
Sentì un fiotto di calore invaderlo, eliminando il dolore
della
ferita alla testa e la cinquantina di anni di troppo sulle spalle.
«Questi sono proprio i piani che
mi piacciono!» annunciò fieramente.
Fugaku nascose il viso tra le
mani.
Sasuke e la sua squadra avevano
intrappolato qualcuno all'interno della villa di Saibatsu, ma non
sapevano chi.
Erano arrivati un attimo prima che
il gruppo partisse, pronto al viaggio sotto la guida di alcuni
shinobi, ma avevano rovinato i loro piani costringendoli a rintanarsi
nella villa. Lì era iniziato l'assedio.
Sasuke sapeva che avevano bisogno
di catturarli tutti insieme, se volevano liberarsi della Radice una
volta per tutte. Sperava intensamente che Iida fosse all'interno
della casa insieme ai suoi consiglieri, ma non aveva modo di
accertarsene. A titolo precauzionale aveva disposto i suoi uomini
tutt'attorno al perimetro, poi aveva attivato lo sharingan e fatto
lavorare il cervello insieme a Sai. Quasi quasi pensava di buttare
giù tutta la casa e poi estrarre i sopravvissuti
dispiacendosi a
profusione; ma sospettava che Sakura lo avrebbe ammazzato per una
cosa del genere... E gli Dei soltanto sapevano quante ragioni
già
avesse per ammazzarlo. Scartò il piano a malincuore.
«Sasuke, abbiamo dei
tirocinanti»
sussurrò Sai a un tratto.
Sasuke si voltò, per ritrovarsi
di fronte Hitoshi, Fugaku e Jiraya con un po' di fiatone.
«Vi avevo detto di restare alla
villa di Iida!» li rimproverò subito.
«Non c'è più. E'
crollata,
avevano piazzato una trappola nel seminterrato» lo
informò Hitoshi.
Solo allora Sasuke si accorse
della fasciatura attorno alla testa di Jiraya. «Sareste
dovuti
tornare da Sakura.»
«Infatti» Fugaku
annuì con
forza, provocando l'insorgenza di una quantità di istinti
omicidi in
Hitoshi. L'idea di accendersi una sigaretta stava rapidamente
trasformandosi nell'idea di dare fuoco al fratellino.
«Ma no, questo non è
niente»
minimizzò invece Jiraya, che ormai era in
modalità avventurosa e si
sentiva almeno vent'anni più giovane. «Piuttosto,
ho pensato che
aggiungere alla caccia un po' di tecniche oculari ti avrebbe fatto
piacere.»
Sasuke fece una smorfia di fronte
al plurale usato da Jiraya: Fugaku aveva lo sharingan, ma Hitoshi?
Jiraya si accorse della sua espressione e gli strizzò un
occhio, al
che Sasuke non capì più niente: lui con il
vecchio non riusciva ad
avere a che fare; come diavolo facesse Naruto, restava un mistero.
«Comunque il gruppo si è
asserragliato dentro la villa, stiamo pensando a come
stanarli»
intervenne Sai.
«Avete controllato se ci sono
passaggi segreti?» chiese Hitoshi, ansioso di rendersi utile.
«Non sapremmo come fare... A meno
che tu non riesca a vedere oltre le pareti e sottoterra.»
«Buona idea!»
approvò Jiraya.
«Perché non fai un tentativo, Hitoshi?»
Tutti lo fissarono. Hitoshi si
sentì in imbarazzo per lui, e quasi pensò che lo
stesse prendendo
in giro.
«Sono serio, ragazzino»
insisté
Jiraya. «Dai un'occhiata intorno.»
«Che diavolo...»
sussurrò
Sasuke, ma Jiraya gli strinse un braccio per farlo tacere.
Hitoshi esitò. Sentiva le
occhiate strafottenti di Fugaku e lo sguardo fisso di Sai sul collo,
e questo non lo aiutava ad essere molto concentrato. D'altronde era
la sua occasione, di nuovo. Con gli Anbu era andata bene,
perché non
provare il bis? Se avesse potuto accendersi una sigaretta sarebbe
stato molto più semplice, però.
Si arrampicò sul muro di
recinzione di una villa vicina, e da lì arrivò al
tetto. Aveva il
batticuore. Rannicchiato sull'estremità più alta
poteva vedere
tutto il giardino e la villa, poco più di ombre immerse
nella prima
oscurità. Deglutì, e come aveva tentato di fare
mille volte senza
riuscirci, cercò di attivare lo sharingan seguendo i
consigli sul
manuale degli Uchiha.
Subito avvertì la familiare fitta
di dolore dietro agli occhi, a cui si stava quasi abituando. I
contorni del panorama si fecero più netti, i contrasti si
accentuarono. Era la prima volta che faceva caso a quel dettaglio, e
per l'emozione quasi perse l'equilibrio.
Poi, indistinto, vide qualcosa che
si muoveva nel giardino. No, non nel giardino. Sotto. Piccole vene di
qualcosa che scorreva, si intrecciava, si sovrapponeva, migrava
lentamente verso la periferia... Uomini. Flussi di chakra.
Il cuore gli fece una capriola nel
petto. Prima di scendere ad avvisare gli altri dovette prendersi un
momento per assaporare l'attimo.
Eccolo. Quello, alla fine, era il
coronamento di diciotto anni di fatiche e frustrazioni, la firma sul
suo pedigree e il sigillo di qualità
come shinobi. Era tutto
ciò che aveva sempre desiderato, da quando aveva iniziato a
muovere
i primi passi; era lo sharingan, finalmente!
O meglio: non poteva essere altro,
anche se sembrava uno sharingan perlomeno strano. Gli restava solo da
capire come usarlo senza spaccarsi la testa e come sbatterlo
degnamente in faccia a Fugaku... Catturare Iida sembrava un buon
modo.
Scese dal tetto lasciando che la
fitta dietro gli occhi scemasse fino a scomparire, e spiegò
ai
presenti che sotto il giardino c'era un passaggio e nel passaggio
delle persone che camminavano. Sai e Fugaku lo scrutarono scettici,
ma Sasuke no.
«In che direzione?» chiese, gli
occhi assottigliati a valutare il figlio.
«Verso la periferia.»
«Sai, tu resta qui con Fugaku e
gli Anbu. Hitoshi, Jiraya: con me.»
«Papà, ma sei
serio?» inorridì
Fugaku. «Lo ha detto solo per vantarsi!»
«Spero proprio che nessuno dei
miei figli metta gli interessi personali davanti alla riuscita di una
missione» rispose lui in tono incolore, ma suonò
un po' come una
minaccia. Fugaku arrossì.
«Cerchiamo la fine del tunnel?»
intervenne Jiraya. «Di solito questo genere di passaggi
sbocca nella
foresta.»
«Sì. Andiamo.»
Hitoshi fremette di soddisfazione
e un po' di paura. Era la prima volta che riusciva ad attivare lo
sharingan volontariamente, e non era neanche tanto sicuro di farlo
nel modo giusto; si chiese se ci sarebbe riuscito ancora... Ma, santo
cielo, che enorme soddisfazione vedere la smorfia di dispetto sulla
faccia di Fugaku!
Hitoshi, Sasuke e Jiraya si
allontanarono rapidamente verso la foresta confinante. Quando furono
a una certa distanza dalla casa, Jiraya posò una mano sulla
spalla
di Hitoshi.
«Prova a dare un'occhiata come
hai fatto prima, nel giardino.»
Hitoshi obbedì istantaneamente,
perché il tono incoraggiante del vecchio sennin era miele su
cinque
anni di orgoglio ferito. Sia Jiraya che Sasuke lo fissarono mentre si
concentrava, ma l'oscurità era troppa per distinguere
cambiamenti
nei suoi occhi.
«Là»
sussurrò Hitoshi,
indicando un punto nel folto. «Credo che siano vicini
all'uscita dal
tunnel, stanno risalendo.»
La foresta oscillò, o forse lui
oscillò, in ogni caso perse l'equilibrio.
«Tutto bene?» chiese Jiraya,
scrutandolo.
«Le prime volte lo sharingan è
faticoso...» mormorò Sasuke cautamente.
Hitoshi evitò il suo sguardo e
annuì. Una piccola parte di lui temeva ancora che non fosse
sharingan, o che fosse difettato, o che fosse tutto un sogno...
Sentirne parlare suo padre era stranamente terrorizzante: e se alla
fine lo avesse deluso di nuovo?
Seguendo le sue indicazioni
raggiunsero una zona ricca di cespugli, e sotto i cespugli trovarono
una botola, anche se era ben mimetizzata. Sasuke distribuì i
lembi
di una grossa rete e fece salire Hitoshi e Jiraya sugli alberi,
seguendoli poco dopo.
L'attesa fu breve. Nel giro di
pochi minuti i cardini della botola cigolarono e lo sportello si
aprì
lentamente, lasciando filtrare una tenue luminosità.
Il primo a emergere fu un uomo dal
volto coperto; indossava una maschera bianca senza espressione, e a
giudicare da come si muoveva doveva essere uno shinobi. Si
guardò
intorno, studiò l'oscurità tra gli alberi, poi
fece un cenno a
quelli che erano ancora nel tunnel. Uno per volta uscirono altri
uomini, almeno una decina, tutti vestiti elegantemente e con il fiato
corto. L'ultimo ad emergere fu un altro shinobi a volto coperto.
Hitoshi attivò di nuovo lo
sharingan, controllando che il tunnel fosse vuoto. Quando ne ebbe
avuta la conferma diede un leggero strattone alla rete, e sia lui sia
Sasuke sia Jiraya lasciarono andare le estremità piombate.
La trappola si depositò sui
nobili e sulle loro guardie, bloccandoli. Dalle maglie rinforzate
provennero esclamazioni e grida, un tentativo di corruzione,
imprecazioni.
Sasuke e Jiraya scesero dagli
alberi e radunarono gli uomini come avrebbero fatto con un gregge,
mentre Sasuke cercava il razzo di segnalazione per avvisare gli Anbu
che erano rimasti indietro.
«Hitoshi?» chiese Jiraya a quel
punto.
E allora il corpo di Hitoshi cadde
privo di sensi dall'albero su cui era salito, restando inerme tra i
cespugli.
Le sue guance erano striate di
sangue.
*
Haruka
rialzò il capo, con un sibilo feroce a riempirle entrambe le
orecchie.
Nessuno
aveva capito bene cosa fosse successo, ma era stato come
un'esplosione di luce e calore; e ora la foresta era in fiamme.
Tutt'intorno gli shinobi mascherati si stavano rialzando, qualcuno
lamentandosi. I corpi erano disposti come se una grande forza li
avesse respinti da un punto preciso, ma non era quello che i suoi
occhi cercavano. I suoi occhi cercavano ciò che stringeva.
Serrò
le braccia attorno al corpo di Jin, premuto contro il suo petto fin
quasi a fargli male, e lo sentì che si divincolava.
«Mamma...
Mamma, non respiro» ansimò.
Mamma.
Non cessava di stupirsi di fronte a quella parola, a quella voce...
Non poteva lasciarlo, non di nuovo.
Lo
aveva raggiunto non appena aveva lasciato il medico che doveva
sorvegliarla, e, anche se sapeva che era pericoloso, pensava soltanto
a non perderlo di vista nemmeno per un istante, mai più.
Sapeva che
standogli vicino probabilmente lo esponeva a rischi maggiori, ma
l'idea di non sapere cosa gli succedeva, il pensiero che qualcuno
avrebbe potuto sopraffarlo senza che lei intervenisse, l'ansia, la
preoccupazione, l'incertezza, erano state più forti del
buonsenso e
l'avevano spinta a fare sciocchezze, sulla scia della ragazza dei
Nara che se l'era svignata nonostante glielo avessero proibito.
«Mamma,
lasciami!» Le braccia si allargarono contro il suo volere,
mentre
Jin sfuggiva alla sua stretta. Quasi con la stessa forza le prese il
viso tra le mani.
«Giuro
che torneremo a casa insieme. Te lo giuro»
le disse, come se l'adulto fosse lui e non viceversa.
Un
piccolo insetto nero si posò sulla spalla di Haruka.
E
all'improvviso, tra di loro, si erse una montagna di insetti
identici, una nube scura che li separò a forza, celando il
corpo di
uno shinobi con la maschera infranta.
Haruka
incrociò lo sguardo tra le crepe della maschera, dove le
fiamme
disegnavano ombre profonde. Vi riconobbe odio, paura, trionfo.
Quell'uomo sapeva che sarebbe morto pochi istanti dopo, ma non gli
importava; perché sapeva anche che stava per portare a
termine la
sua missione, e questa era l'unica cosa di valore.
Jin
si mise in mezzo un attimo prima che l'uomo affondasse il kunai nel
petto di Haruka, afferrandogli il polso con la mano avvolta
dall'elettricità. Quello mandò un grido e fu
respinto indietro,
circondato dagli insetti che vibravano terrorizzati.
«Kotaro!
Maestro Gai! Rock Lee!» chiamò Jin, la voce resa
roca dal fumo
dell'incendio che iniziava a diffondersi.
I
tre si affrettarono a raggiungerli, fortunatamente vicini, e quando
videro Haruka capirono subito che tutti i nemici si sarebbero
concentrati su di loro.
«Sarebbe
carino se qualcuno spegnesse il fuoco» tossicchiò
Kotaro.
«Figliolo,
quello con il chakra di tipo acqua sei tu» gli
ricordò Rock Lee.
«Ma
quale chakra! Se ruotiamo abbastanza velocemente possiamo...»
Un
nemico si avventò su Gai prima che finisse di parlare. Il
maestro
diede un saggio di cosa intendeva con se ruotiamo abbastanza
velocemente, e quello fu scagliato contro tre suoi compagni,
atterrandoli come birilli.
«Signorina,
nonostante io disapprovi i suoi gusti in fatto di uomini, sono al suo
servizio» aggiunse alla fine, strizzando un occhio in
direzione di
Haruka. «Faremo in modo di riportarla a Konoha in un pezzo
unico.»
«Maestro!»
L'enorme
mano dell'Akimichi della Radice cercò di abbattersi su di
loro, ma
Gai e Rock Lee la bloccarono prima che potesse schiacciarli. Kotaro
si attivò subito per allontanare i primi avversari che
avanzavano, e
Jin compose i sigilli per il Raikiri, brandendolo con aria
minacciosa.
Haruka
ruotò su se stessa, esaminando la situazione: nemici
ovunque, il
fumo che riduceva la visibilità e riempiva i polmoni, il
fuoco che
rischiava di diventare incontrollabile, Naruto che non interveniva...
Le probabilità che tutti tornassero a casa in buona salute
le
sembravano sempre più basse.
Guardò
Jin, così piccolo, che affrontava i nemici nonostante la
spossatezza. Lo guardò, e deprecò il mondo dei
ninja, il mondo che
aveva rovinato lei, lui e qualunque cosa avesse iniziato con Kakashi.
Pensò anche a Kakashi, sperando che fosse al sicuro...
Perché
piuttosto che vedere Jin in pericolo si sarebbe sacrificata, lo
sapeva, e sperava che almeno Kakashi sarebbe rimasto per aiutarlo a
crescere – anche se l'idea di non esserci, ancora, le faceva
dolere
fisicamente il petto.
Proprio
allora, mentre lo pensava, sentì qualcosa stringerle una
caviglia.
Abbassò lo sguardo, vide un velo di insetti che le
avvolgevano il
piede. Lo rialzò, ma Jin era di spalle e gli altri shinobi
erano
impegnati. Fece un salto indietro, però gli insetti non si
staccarono; anzi, da una fessura nel terreno ne emerse una nube
intera, e nella nube le mani dello shinobi che li governava.
Haruka
cercò di allontanare gli insetti, ma era come smuovere
acqua. Le
mani dell'Aburame si serrarono attorno alle sue braccia, tirandola
verso di sé, e con orrore si accorse che già le
prime bestioline
correvano sulla sua pelle, risalendo verso le spalle e il collo.
Qualcosa
la strattonò indietro bruscamente, buttandola a terra.
Mentre
cadeva, Haruka vide Kakashi voltarsi per affrontare l'Aburame, lo
sharingan scarlatto che brillava nell'occhio di Obito. Vide
metà del
suo viso, e lo riconobbe, era esattamente il viso che aveva lasciato,
che aveva amato...
Poi
lo sciame di insetti lo avvolse nella sua ombra, inghiottendolo
completamente.
«Kakashi!»
gridò, rialzandosi nonostante le proteste dei muscoli
doloranti.
Jin
si voltò, Kotaro si voltò, Gai e Rock Lee si
voltarono.
Contemporaneamente
un'enorme bolla d'acqua esplose sopra le loro teste, estinguendo
l'incendio e riportando il buio sulla foresta. Decine di sfere
luminose si accesero tutt'intorno, illuminando schiere di rospi
giganti cavalcati dagli Anbu, e gli uomini mascherati, invasi da
nugoli di avversari dalla fama terribile, abbassarono le armi tutti
insieme.
«Da questo momento siete sotto la
custodia del Settimo Hokage di Konoha!» annunciò
qualcuno con voce
stentorea. «Lasciate cadere ogni arma, ogni pergamena,
ogni...»
Jin raggiunse Kakashi, guardando
con orrore il brulichio degli insetti che lo ricoprivano.
Afferrò
per il bavero l'Aburame dalla maschera spezzata, che lo fissava
sorridendo con le mani alzate in segno di resa.
«Liberalo!»
«Ormai non...»
Ma non finì la frase; Haruka lo
strappò dalle mani di Jin, lo sbatté a terra e
gli levò i resti
della maschera con un calcio, piantando la punta del kunai nella sua
guancia.
«Liberalo subito.»
Un velo di inquietudine passò sul
viso dello shinobi. Gli occhi di Haruka erano fissi nei suoi, le
palpebre spalancate, immobili, le pupille dilatate per l'adrenalina.
«Jin, trova un medico»
ordinò,
e il ragazzino, impietrito, si riscosse per andare a cercare Baka.
Haruka affondò la lama di un
centimetro, perforando la parete della guancia dell'uomo. «Se
non lo
liberi subito ti apro da orecchio a orecchio, e ti riempio la bocca
di sale. Subito.»
L'Aburame, recuperate dalla
memoria le informazioni che aveva su Haruka, impallidì
ulteriormente; fare la spia rendeva le persone pericolose.
Esitò
ancora un istante, poi fece un cenno con la mano e gli insetti si
ritirarono.
Haruka estrasse il kunai,
lasciando una striscia di gocce scarlatte lungo il collo dell'uomo.
Subito si voltò verso Kakashi, ma ciò che
trovò al posto degli
insetti fu un bozzolo violaceo, piuttosto viscido, dalla forma umana.
L'uomo della Radice fece una
smorfia che voleva essere un sorriso, nonostante il dolore, e la
guardò scuotendo la testa. «Non c'è
molto che possiate fare per
questa tecnica, in mezzo alla foresta. Nel giro di mezzora il veleno
lo avrà ucciso.»
«Neanche per sogno! E il tuo nome
verrà cancellato dalle cronache degli Aburame»
ringhiò Naruto,
comparendo dalla calca al seguito di Jin e Akeru. Tra le braccia
stringeva Chiharu, ancora esanime. «Baka, buoi fare
qualcosa?»
«Chiharu!» esclamò
Kotaro, ma
Naruto gli fece un cenno e lo ridusse al silenzio.
Akeru si inginocchiò accanto al
bozzolo e lo percorse con una mano foderata di chakra. Sentiva un
veleno potente, questo sì, e il cuore di Kakashi che batteva
come
impazzito. Passò due dita lungo l'ovale del viso, incidendo
il
bozzolo con attenzione; rimosse la parte che rivestiva il volto e
impediva a Kakashi di respirare. Il viso dello shinobi era cereo,
sudato. Akeru abbassò la maschera che gli copriva naso e
bocca,
gesto che i presenti ebbero la discrezione di non guardare.
«Ha bisogno di essere trasportato
in ospedale, e in fretta. Non so se facciamo in tempo»
mormorò.
«Posso pensarci io, ma devi
venire con noi. E non sarà piacevole» disse Naruto.
«In che senso?»
«Nel senso che stai per
sperimentare il peggio dell'essere Jinchuriki.»
«In che senso?»
Naruto sbuffò. «Non posso
usare
il mio chakra, posso usare solo quello della Volpe. Ma io non so
spiegare ai medici quello che è successo, quindi devi venire
con
me.»
«Chakra? Eh?»
«Se lo fai ti darò una mano
per
il contratto disgraziato che hai firmato con Gaara. Basta che tu ti
muova!»
Akeru gemette.
«Vuoi dislocarti con il chakra
della Volpe?» intervenne Gai, dando una spiegazione a tutti.
«Non mi vengono in mente altre
idee per arrivare in ospedale in tempo.»
Gai strinse le labbra e fissò
Chiharu e Kakashi. Fargli sperimentare il chakra della Volpe in
quelle condizioni non gli sembrava un'idea brillante, ma di solito
Naruto sapeva quel che faceva... Più o meno. Non come Baka,
che
invece ormai era legalmente spacciato. Si scusò mentalmente
per non
aver mantenuto la promessa fatta a Chiharu.
«Ok... Ok, forse posso fare
qualcosa...» mormorò Akeru, pallido come un
cencio. L'immagine del
nemico ucciso dal chakra di Kyuubi continuava a oscillargli davanti
agli occhi.
Tirò su il bozzolo in cui era
avvolto Kakashi, appoggiandolo contro Naruto. Con uno sforzo quasi
sovrumano costrinse il proprio chakra ad avvolgersi attorno al
proprio corpo, a quello di Chiharu e a quello di Kakashi. Non era uno
strato uniforme e forte come quello di Naruto, ma le lamelle di vento
che li accarezzavano erano taglienti solo di tanto in tanto.
«Cercherò di fare in
fretta»
disse Naruto, suo malgrado preoccupato. «Squadre Anbu! Da
questo
momento rispondete agli ordini di Gai Maito. Tornate a Konoha con i
prigionieri.»
Alzando lo sguardo incrociò gli
occhi di Jin, Haruka e Kotaro, tutti ugualmente angosciati. Si
sforzò
di sorridere, anche se non era del tutto fiducioso. Loro non
ricambiarono. Jin in particolare si comportava stoicamente, ma le sue
mani tremavano.
Allora Naruto lasciò perdere;
fece un respiro profondo, chiuse gli occhi, e un attimo dopo lui e i
suoi passeggeri non c'erano più.
Ricomparvero nel mezzo
dell'accettazione dell'ospedale di Konoha, causando un gran
trambusto. In un angolo poco visibile di una piastrella era disegnata
una formula confusa.
In teoria a quell'ora l'ospedale
sarebbe dovuto essere vuoto,; tuttavia Sakura aveva allertato tutto
il personale in vista del rientro delle squadre Anbu in missione,
così Naruto piombò nel mezzo di un gruppetto di
infermieri che si
stavano dividendo i reparti, e buona parte di loro cacciò un
grido,
gettandosi sotto i mobili.
«Chiamate Sakura Haruno!»
esclamò appena i suoi piedi si furono posati. «E
ho bisogno di due
medici, subito!»
Baka lanciò un'imprecazione,
crollando a terra mentre il suo chakra si spegneva un attimo dopo
quello della Volpe. Nonostante i tentativi di proteggere sé
e gli
altri, le parti del suo corpo non coperte dagli abiti erano
arrossate, ulcerate in alcuni punti. Si era concentrato più
su
Chiharu e Kakashi che su se stesso, ma in quel momento un po' lo
rimpiangeva.
«Ti odio, ti odio tantissimo»
ringhiò, rivolto a Naruto: le ferite sulla sua pelle si
erano già
quasi completamente rimarginate.
«Sei stato bravo» rispose lui,
ignorando le lamentele. Depose a terra Kakashi e Chiharu, poi
alzò
la testa per parlare con i medici in arrivo.
Akeru si stese supino, sentendo il
fresco del pavimento che gli dava un po' di sollievo. Per un istante
pensò alla Volpe, a quanto doveva essere faticoso e doloroso
avere a
che fare con un mostro simile; pensò a Naruto, che la
portava dentro
di sé da quando era bambino, e alla potenza straordinaria
che aveva
avvertito durante la tecnica di poco prima. Rabbrividì,
sentendosi
debole come non mai.
Il volto di Sakura comparve nel
suo campo visivo, riscuotendolo all'improvviso.
«Akeru! Devi dirmi cosa è
successo.»
«Il Sesto Hokage, veleno»
ansimò
lui, rotolando su un fianco e poi in ginocchio. Gli girava la testa.
«Sono stati gli Aburame, dovrebbero avere anche un antidoto.
Chiharu, idiozia. Collasso cardiaco. La circolazione del chakra
è
aritmica. Il flusso è agitato. Ho tamponato in qualche modo,
ma
servono i farmaci.»
Sakura si rivolse agli infermieri
e ai medici presenti, mandandoli a eseguire i suoi ordini; poi
tornò
a guardare Baka. «Questo è il chakra di
Kyuubi...» mormorò
studiando le sue ustioni.
«Sono nei guai?» chiese lui con
un filo d'ansia. L'acido della Volpe aveva conseguenze a lungo
termine? Era radioattivo?
«Per questo no» rispose Sakura,
fissandolo. «Ma per tutto il resto sì, sei in un
mare di guai.»
* * *
Finalmente i mocciosi riuniti!
E' stata dura rimetterli tutti nello stesso luogo geografico,
ma ce l'abbiamo fatta.
E io ho praticamente finito i capitoli pronti.
Niente panico.
Anzi, un pochino sì.
Ma mi impegnerò per non lasciarvi senza aggiornamento,
croce sul cuore.
Nel frattempo avrete ormai capito
cosa intendo quando dico che Fugaku è insopportabile
ma anche tanto divertente.
Ah, e riguardo alla tecnica del quarto Hokage,
so che non funziona proprio così
(Narutopedia docet),
ma nel Peggior bla bla bla l'ho usata in questo modo
e continuerò a farlo.
Laddove modificare un dettaglio del manga non crea gap di trama
me lo terrò come più mi aggrada.
Tanto anche Kishimoto ne ha fatte di cazzate...
Ciò detto un saluto a tutti,
e ci rivediamo la prossima settimana!
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Capitolo 32 *** La Volpe e l'Eremita (prima parte) ***
Penne 32
27/04/2016
Capitolo
trentaduesimo
La
Volpe e l'Eremita
(prima parte)
«Yoshi si rifiuta di parlare, non
sappiamo più cosa inventarci.»
Konohamaru era seduto di traverso
su una sedia nello studio dell'Hokage, i gomiti appoggiati allo
schienale e due vistose occhiaie sopra gli zigomi. Aveva l'aria di
uno che non dormiva da giorni, e in effetti era più o meno
così.
«Iida invece continua a sostenere
di non aver mai avuto a che fare con il ragazzo» disse Sai,
che
occupava compostamente la sedia accanto, fresco e riposato.
«Ha
cantato come un uccellino per quanto riguarda la Radice, ma quando
gli abbiamo mostrato una foto di Yoshi non ha avuto reazioni. Credo
stia perdendo qualche rotella, tra l'altro: continua a parlare
dell'attacco di Kyuubi di quarant'anni fa.»
«Quindi non riusciamo a trovare
collegamenti tra i due?» gemette Naruto, disegnando una
spirale su
un importante documento segreto.
«No» sospirò
Konohamaru. «Sto
quasi pensando di far rimettere al lavoro Morino...»
«Per carità! Sai quanto ci
vuole
a compilare i fogli per la morte dei prigionieri?»
«Ti ho portato il rapporto sulla
Radice» Sai posò sulla scrivania un raccoglitore
che a occhio e
croce pesava dieci chili, zeppo di fogli, fotografie e appunti.
«Nella prima pagina c'è un riassunto.»
Naruto impallidì. «E meno
male... Ti ricordo che in questo momento lavoro da solo.»
«Sono le prove generali per
quando sarai ufficialmente il Settimo Hokage» ridacchio
Konohamaru,
tirandosi su e stirando i muscoli indolenziti, pronto a congedarsi.
«In
questo momento una decina di assistenti mi farebbero molto comodo.
Voi due non...?»
«Io
devo tornare agli interrogatori di Saibatsu e degli altri
nobili»
disse Sai al volo.
«Io
sto per addormentarmi qui» disse Konohamaru.
«E
poi adesso sei ufficialmente il grande stratega che ha sgominato la
nuova Radice grazie all'infiltrato Kakashi... Puoi fare questo e
altro» sorrise Sai, ripetendogli quello che tutti gli
ripetevano da
quando avevano catturato Iida.
«Va
bene, va bene... Smettetela di farmi perdere tempo» Naruto li
scacciò con un cenno infastidito. «Mentre uscite
dite a Koichi di
trovarmi almeno Jiraya!»
Era trascorso qualche giorno dal
ritorno di Kakashi a Konoha; maggio si stava avviando a diventare
giugno, l'aria era profumata di miele e il villaggio intero
tratteneva il respiro, in attesa.
Nello scontro avvenuto ai confini
del Paese erano rimasti feriti in maniera grave soltanto Chiharu e
Kakashi, il che poteva già considerarsi un piccolo miracolo;
gli
uomini della Radice si erano arresi non appena erano stati circondati
dagli Anbu, e questo aveva evitato di accrescere il numero dei
feriti.
Grazie a quella missione e alla
retata di Sasuke ora alla Foglia si ritrovavano con le prigioni
piene, il che si traduceva in un mucchio di lavoro in più
per
shinobi, forze dell'ordine e personale amministrativo, ma soprattutto
per Naruto: a causa del ricovero di tutti i membri del gruppo sette,
infatti, l'intero staff degli assistenti dell'Hokage si era reso
irreperibile.
Kotaro era quello che se la
passava meglio: lo avevano esaminato da cima a fondo per verificare
che l'apertura forzata delle porte del chakra non lo avesse reso
precocemente anziano, avevano decretato che poteva cavarsela e poi lo
avevano incatenato a un letto perché finalmente permettesse
ai
normali processi di guarigione di agire. Tenten gli aveva fatto una
predica leggendaria, che probabilmente aveva fatto più danni
di
qualunque nemico, e poi gli aveva formalmente proibito di riprendere
gli allenamenti fino alla completa guarigione – punizione
orribile
per qualunque Lee.
Almeno lui era cosciente. Chiharu
e Hitoshi, invece non lo erano.
A dire il vero Chiharu aveva
ripreso conoscenza per un momento, mentre un medico le faceva i
prelievi per gli esami: aveva cercato di attaccarlo, era stata
rimessa giù a forza, e quando aveva capito di trovarsi in
ospedale
aveva detto che se qualcuno di loro avesse avvisato i suoi genitori
lo avrebbe ammazzato. Considerati i parametri completamente sballati
non l'avevano presa sul serio, finché non aveva aggiunto 'o
trascinato in tribunale'. I medici sono molto sensibili alle
questioni legali... Per evitare ulteriori aggressioni l'avevano
sedata mentre completavano le analisi, e avevano disposto il massimo
riserbo sulle sue condizioni in attesa di ordini dall'alto.
Hitoshi invece non aveva riaperto
gli occhi da quando era precipitato da un albero con la faccia sporca
di sangue. Sasuke lo aveva fatto trasportare in ospedale d'urgenza,
ma Sakura in quel momento era impegnata con Kakashi e lo avevano
affidato alle cure di un altro medico. Quando lei era riuscita a
liberarsi e vederlo, non aveva potuto fare molto più di
quello che
aveva fatto il collega, confermando il coma. Le cause erano ignote.
Da allora non si era mai staccata
dal suo capezzale; aveva letto e riletto le analisi almeno ottocento
volte, lo aveva visitato, esaminato, vegliato; Sasuke le dava il
cambio quando usciva dal dipartimento, così da permetterle
di
tornare a casa dagli altri figli, ma si incrociavano solo per pochi
minuti ogni giorno e si parlavano appena.
Sasuke si sentiva responsabile per
quello che era successo: non avrebbe dovuto permettere a Hitoshi di
partecipare a una missione così impegnativa
finché aveva quelle
emicranie; era stato imprudente, aveva messo l'orgoglio degli Uchiha
davanti alla salute di suo figlio. Il senso di colpa lo rendeva
schivo e taciturno, il che non migliorava i suoi rapporti con Sakura.
A tutto questo, che già dava non
pochi pensieri a Naruto, si aggiungeva la vera ragione per cui il
villaggio tratteneva il respiro: anche Kakashi era ricoverato.
Il veleno iniettato dall'Aburame
della Radice era un signor veleno, e nonostante avessero recuperato
l'antidoto in tempo Kakashi non si era svegliato, né aveva
reagito a
uno qualunque dei farmaci che gli avevano dato. I medici non sapevano
prevedere cosa sarebbe successo né darne una spiegazione.
Jin, da solo, passava quasi tutto
il giorno a vegliarlo.
La luce del pomeriggio veniva
schermata dalle tende spesse, disegnando un quadrato netto ai piedi
del letto. La camera, singola, era quella riservata alle
celebrità,
quindi includeva una poltrona, uno specchio e un attaccapanni
inaspettatamente grazioso.
Jin teneva una gamba sul bracciolo
della poltrona, facendola ondeggiare di tanto in tanto, e un libro
sui veleni tra le mani.
Sorvegliando il sonno di suo padre
aveva visto passare alti dignitari del Paese del Fuoco, shinobi,
Anbu, gente di tutti i tipi che entrava, confabulava e infine si
congedava con tante condoglianze. Aveva capito che la maggior parte
dei visitatori dava suo padre per spacciato, e che la loro
preoccupazione principale era chi lo avrebbe sostituito, ma aveva
avuto la saggezza di non dire niente di ciò che pensava
né di
soffermarcisi troppo a lungo.
Gli piacevano molto di più le
visite di Natsumi, anche se erano per forza brevi: come tutti gli
shinobi disponibili era stata messa al lavoro negli interrogatori
sulla Radice, ma quando poteva venire a trovare Jin portava vestiti,
snack e informazioni.
Proprio in quel momento Natsumi
bussò ed entrò con un cambio di biancheria che
aveva preso da casa
Hatake, di cui in quei giorni aveva le chiavi.
«Ciao. Hai già finito l'altra
lettura?» disse con un'occhiata al volume tra le mani di Jin,
sistemando la borsa con i vestiti in un angolo. L'altra
lettura
a cui si riferiva era il fascicolo di Haruka, che Jin era riuscito a
far sparire prima che qualcuno si chiedesse che fine aveva fatto.
«Sì. L'ho rimessa
nell'Archivio,
non dovrebbero accorgersene per un po'... Nel caso volessi dare
un'occhiata.»
Natsumi sorrise un po'
tristemente. Aveva un'idea di almeno metà del contenuto di
quel
fascicolo, ed era certa che non fosse la lettura ideale per un figlio
che non conosceva sua madre. Ma Jin non era un ragazzino comune: lo
scrutò a fondo, senza riuscire a intuire cosa ne pensasse.
Allora
spostò lo sguardo su Kakashi e il sorriso scemò.
I capelli grigi del Jonin erano
sparsi sul cuscino con il solito disordine. Non indossava la
maschera, ma le coperte erano state tirate fin sopra il naso. Aveva
lo stesso colore delle lenzuola.
«Nessuna novità?»
chiese
Natsumi.
«Non si è mosso. Sai qualcosa
di
mamma?»
Le labbra di Natsumi si serrarono
leggermente.
Haruka era stata arrestata dagli
Anbu non appena Naruto era sparito con Kakashi, Chiharu e Baka. Anche
se la Radice aveva manifestamente provato ad ucciderla, dopo tutti
quegli anni al servizio di Iida non potevano semplicemente farla
rientrare a Konoha con una stretta di mano: sarebbe stata
interrogata, messa alla prova e giudicata.
Purtroppo in quel momento gli
organi di giudizio avevano talmente tanto da fare che il procedimento
sarebbe inevitabilmente andato per le lunghe.
«E' tutto fermo» disse Natsumi,
sistemando un angolo delle coperte del letto. «Stiamo
lavorando come
degli schiavi, credimi. Non potremmo andare più in
fretta.»
«Lo so» rispose Jin.
Natsumi evitò di incrociare il
suo sguardo, mentre ripensava al suo incontro con Haruka...
Anche
lei era stata messa in allerta come gli altri non appena era iniziata
la missione di salvataggio di Kakashi. L'avevano assegnata agli
shinobi che coordinavano le operazioni di rientro. Come tutti, sapeva
che Kakashi non tornava da solo.
Quando
diedero la notizia della comparsa degli Anbu a dorso di rospo Natsumi
fece in modo di essere tra i primi ad accoglierli. Appostata appena
dietro al cancello vide passare decine di uomini, alcuni mascherati e
altri no. Cercò tra i passanti la chioma rossa di sua
sorella, ma
senza successo. All'inizio pensò che fosse colpa delle luci
artificiali e delle ombre della notte, poi vide del trambusto tra le
prime file. Le raggiunse nel momento in cui consegnavano Haruka ai
capitani Anbu, e Jin cercava di opporsi.
«Fermalo
o lo arrestiamo!» sbottò Konohamaru vedendola
comparire. Jin stava
iniziando ad alzare le mani.
Natsumi
afferrò il ragazzino per le spalle e lo tirò
indietro, bloccandogli
le braccia. «Stai tranquillo. Ci penso io.»
Allora,
dietro Konohamaru, incrociò gli occhi di sua sorella, sotto
una
massa di capelli castani che la rendevano quasi irriconoscibile. Era
invecchiata dal loro ultimo incontro, ma gli occhi erano sempre i
suoi, ed erano anche quelli di Jin.
«Non
devono arrestarla!» ringhiò Jin cercando di
divincolarsi. «E'
grazie a lei che hanno saputo della Radice!»
«Lo
so, calmati. Stai fermo. Lascia fare a me.»
Jin
smise di agitarsi, ma rimase teso; Natsumi capì che nulla lo
avrebbe
allontanato da Haruka adesso che era tornata. Si chiese dove fosse
Kakashi.
«Spediscilo
da suo padre» suggerì Konohamaru, provvidenziale.
«E' in
ospedale.»
«Cosa
gli è successo?»
«Veleno.»
Natsumi
sentì un brivido correre lungo la schiena. Era combattuta
tra il
desiderio di sapere come stava Kakashi e quello di parlare con la
sorella che non vedeva da quasi vent'anni, ma prima di tutto doveva
occuparsi di Jin.
«Ti
accompagno in ospedale» disse al ragazzino, che fece per
protestare.
«Prima ti togli dai piedi e prima posso fare
qualcosa» gli sussurrò
in un orecchio. «Li stai irritando.»
Jin
mollò la presa, fissandola torvo. Per fortuna aveva grandi
dosi di
buonsenso e capì che il consiglio di Natsumi era buono.
«Vado in
ospedale da solo» annunciò, liberandosi con uno
strattone. «Tu
occupati di mamma.»
Natsumi
lo lasciò andare, con gran sollievo di Konohamaru. Jin
lanciò a
Haruka un'ultima struggente occhiata, lo sguardo di qualcuno che
preferirebbe farsi tagliare un braccio piuttosto che andarsene, e fu
ricambiato, anche se Haruka stava automaticamente entrando nella
parte della spia. Poi si allontanò con le spalle curve e i
pugni
serrati, come un adulto con troppo peso sulle spalle. Guardandolo,
Natsumi provò un'ondata di affetto nei suoi confronti;
nonostante
l'occhiata di amore di Jin fosse per un'altra persona, sarebbe stata
lei a sostenerlo nei giorni a venire. Voleva essere lei.
«Posso
seguirvi?» chiese a Konohamaru.
Lui
esitò, sapendo che lei e Haruka erano sorelle e che
probabilmente
una sorella non avrebbe apprezzato la parte successiva all'arresto,
ma alla fine cedette. Conosceva Natsumi, erano amici: non le avrebbe
fatto un torto del genere.
Così
Natsumi affiancò gli altri Anbu e li seguì fino
al dipartimento di
polizia, dove Haruka sarebbe stata lasciata in attesa che Sasuke le
trovasse una collocazione. Mentre camminavano attraverso Konoha le
due sorelle si studiarono: vent'anni lasciano segni profondi sul viso
di una persona, soprattutto di una che si conosceva bene. I
rispettivi tratti adesso erano quasi sconosciuti, ma gli occhi di
entrambe erano rimasti identici. Non si vedevano da quando Haruka era
fuggita dalla Roccia insieme a Kakashi, lasciando Natsumi a gestire
da sola lo spionaggio di famiglia. All'epoca aveva diciotto anni.
Adesso ne aveva trentasei.
«Sei
tornata» disse Haruka, sorridendo incerta.
«Anche
tu» rispose Natsumi, senza ricambiare.
«Come
stai?»
«Meglio
di te» questa volta fu Natsumi a sorridere.
«Sono
felice di vederti.»
«Anche
io.»
Quando
arrivarono al dipartimento Konohamaru si allontanò per
parlare con
Sasuke. Natsumi rimase con Haruka e altri due Anbu.
«Cosa
è successo a Kakashi?» chiese subito Natsumi.
«Mi
stavano attaccando, e lui si è messo in mezzo. Era un
Aburame,
dicevano che i suoi insetti sono velenosi...»
«Sì,
lo sono.»
Haruka
tacque e la fissò. Natsumi si rese conto che la sua ultima
risposta
suonava un po' tagliente, quasi come se la stesse accusando di
qualcosa. Si passò una mano sul viso.
«Mi
dispiace» disse Haruka.
«Lo
so. Lo so, è solo... Siamo tutti molto nervosi. Erano anni
che non
si presentava una crisi del genere.»
«Sono
tornata per restare.»
Natsumi
tornò a fissarla, e una parte di lei si sentì
minacciata dalle sue
parole. Negli ultimi cinque anni aveva fatto quasi da madre a Jin, era
stata tra le persone più vicine a Kakashi... Ora, con il
rientro di
Haruka, avrebbe perso qualunque privilegio.
«Bene»
riuscì a rispondere in qualche modo. «Vedrai,
sistemeranno tutto...
E appena Kakashi si sarà ripreso nessuno avrà
più niente da dire
contro di te.»
A
quelle parole Haruka sorrise, forse in maniera un po' strana, quasi
come se non ci credesse davvero; poi arrivò Sasuke e la fece
portare
via.
Peccato che Kakashi non si fosse
svegliato.
Una volta stabilita la sua
collocazione Haruka era rimasta in carcere. Poco dopo erano
cominciati gli interrogatori, ma andavano molto a rilento. Natsumi
aveva continuato a fare da madre e da compagna, almeno per un po'.
Sapeva che era una condizione destinata a interrompersi, sapeva che
Jin fremeva dalla voglia di conoscere Haruka e che Kakashi avrebbe
avuto occhi solo per lei, una volta sveglio... Sapeva tutto quanto,
ma non riusciva a non aggrapparsi a quelle cose, finché
erano solo
sue.
«Volevo tornare a casa con tutti
e due» mormorò Jin, riscuotendo Natsumi dai suoi
pensieri. «Avevo
promesso a mia madre che ci sarei riuscito... Invece guarda che
disastro.»
«Tecnicamente sono a
casa»
tentò di sdrammatizzare lei, accennando un sorriso che
scomparve in
fretta. C'era troppo peso nelle parole di Jin, troppo senso di colpa.
«Non potevi fare più di quello che hai
fatto.»
Il ragazzino rimase pensieroso,
distante. «Sai... Mio padre e mia madre hanno litigato
tantissimo
durante il viaggio» disse di punto in bianco. «Lei
gli aveva fatto
credere di essere morta.»
«Non ne sapevo nulla... Tuo padre
ha sempre detto che era in missione nel Paese delle Risaie»
rispose
Natsumi cautamente. Si vergognava per il saltello speranzoso che
aveva appena fatto il suo cuore, ma non poteva farlo trapelare.
«E invece era in missione per
conto della Radice, nel Paese della Roccia»
proseguì Jin, senza
accorgersi di nulla. «Papà era furioso... Ma non
era colpa della
mamma; e io capisco perché si sia arrabbiato, davvero, ma
non era
colpa della mamma. Dodici anni fa l'hanno contattata...»
Jin iniziò a raccontare, senza
chiedere il permesso, senza introduzione. Iniziò a parlare
perché
sentiva qualcosa che premeva in gola, e aveva bisogno di alleviare la
tensione raccontando tutto quello che era successo.
Natsumi aveva degli impegni di lì
a poco, ma guardando gli occhi sfuggenti del ragazzino decise che li
avrebbe posticipati. Si sedette in fondo al letto di Kakashi,
appoggiò i gomiti alle ginocchia e lasciò che Jin
tirasse fuori
tutto quello che aveva dentro. Rimase lì, con le mani
strette l'una
all'altra, tra padre e figlio. Quasi sua madre, ancora per un po'.
«Dove sei stato tutto questo
tempo?» si lamentò Naruto non appena Jiraya ebbe
messo piede nello
studio dell'Hokage. «Io sto morendo sotto la montagna di cose
che ci
sono da fare e tu scompari?»
«Sento la tua voce ma non ti
trovo tra le pile di carte... Batti la fiacca?»
replicò il sennin,
fingendo di non vederlo. Spostò gli incartamenti che
occupavano la
sedia degli ospiti e ci si accomodò, grattando la zona
intorno al
taglio sul viso. Aveva un vistoso cerotto bianco che gli copriva
quasi mezza faccia, ma in ospedale avevano detto che era una ferita
superficiale.
«Aha. Quanto sei divertente.
Ascolta, ho bisogno di una mano per la storia della
Radice...»
iniziò Naruto.
«Hai bisogno di una mano per
molto più di quello» borbottò Jiraya
adocchiando il disordine
imperante.
«Non me ne parlare: ho tutti gli
assistenti fuori gioco e un miliardo di cose da fare!»
«Come Tsunade ai tempi della
prima Radice... E' sempre la stessa storia. Non hai fatto richiamare
Shikamaru da Suna?»
«Non posso! Sakura me lo ha
proibito. E' stata l'unica cosa che mi ha detto prima di dedicarsi
completamente a Hitoshi.»
«E perché?»
«Ma che ne so!» Naruto
scostò
bruscamente il braccio, in cerca di una penna, e un'intera pila di
carte franò al suolo. «Porca... Quando ci vanno di
mezzo i suoi
figli va fuori di testa.»
«Strano che non sia andato fuori
di testa pure tu» borbottò Jiraya, notando che
Naruto non sembrava
avere intenzione di raccogliere i documenti caduti. «Ma
è
preoccupante che Sakura non abbia fatto tornare Shikamaru. Gli ha
detto di Chiharu, vero?»
Naruto si lasciò cadere contro lo
schienale della sedia. «No. Segreto professionale. Non dirmi
niente,
lo so. Ci ho litigato. Ma Sakura dice che se chiamiamo Shikamaru,
Chiharu non si fiderà mai più di noi, e che
essendo maggiorenne ha
dei diritti, e bla bla bla.»
«Quindi le parlerai tu quando si
sveglia?»
Naruto nascose gli occhi dietro un
documento. «Sì, le parlerò»
mormorò vago.
Ma non di quel che si aspettava
Jiraya, probabilmente.
«E Stupido?» chiese il vecchio.
«Peggio ancora. Quella faccenda
del contratto mi farà diventare scemo. Ho una stanza piena
di
avvocati che studiano come tenerlo fuori dalle carceri di Suna, ma mi
sta venendo voglia di gettarlo in pasto a Gaara e fregarmene. Si
può
essere così imbecilli? Non aveva nemmeno guardato la
cartella
clinica di Chiharu, che fa impressione persino a me che non ne
capisco niente!»
«Però. Il vecchio adagio ha
sempre ragione: tira più un pelo di...»
«...Che un carro di buoi. Lo so!
Ma perché tutti i casini devono farli quando il responsabile
sono
io?» gemette Naruto, grattandosi nervosamente il collo nel
punto in
cui era stato il marchio nero di Kin. Quando era tornato dalla
missione glielo avevano rimosso per mandarlo a studiare, ma gli era
rimasta una snervante irritazione.
«Senti, starei a parlare dei
giorni, ma non ho tempo: ho bisogno di aiuto con la Radice...»
«Non posso.»
«Ancora? Davvero...»
«C'è una cosa più
importante di
cui occuparsi, prima.»
Naruto smise di grattarsi e fissò
Jiraya a bocca spalancata. «Cosa?»
«Hitoshi Uchiha.»
Naruto lasciò cadere le braccia
sui braccioli della sedia, esausto. «Un altro come Sakura. E
da
quando ti interessa Hitoshi?»
«Da quando vede cose che né lo
sharingan né il byakugan vedono» rispose Jiraya,
scrutando Naruto
di sottecchi.
«Di che stai parlando?»
«Durante la missione della Radice
ha usato tecniche che lo sharingan non conosce.»
«Aspetta, frena. L'altro giorno
ha detto di aver visto qualcosa là dove igli Hyuuga non
vedevano
niente, ma pensavamo fosse merito dello sharingan...»
«Durante la missione Fugaku non
vedeva niente, e ha uno sharingan perfettamente formato. Hitoshi
invece ha visto i flussi del chakra dei nobili che tentavano la fuga,
e ha fatto completamente scomparire i detriti che stavano per caderci
addosso. Questa non è roba da sharingan.»
«E allora che diavolo
è?»
Jiraya si protese verso di lui,
con un brillio eccitato negli occhi. «Non ne ero sicuro,
così sono
andato a frugare nei vecchi incartamenti di Orochimaru, quelli
dell'archivio segreto... Se dico rin'negan ti suona
qualche
campanello?»
«Per niente.»
«Lo immaginavo...» Jiraya
sospirò, mettendosi più comodo sulla sedia.
«Il Rin'negan è una
tecnica oculare leggendaria posseduta dall'Eremita delle Sei Vie. Si
dice che sia stata la prima delle tecniche oculari, e che da essa
abbiano avuto origine sia il byakugan sia lo sharingan. Qualcuno
sostiene che dall'Eremita discenda l'intera stirpe dei ninja.»
«L'intera stirpe dei ninja... E
Hitoshi dovrebbe avere 'sta roba figa?» Naruto lo
fissò scettico.
«Forse. Nemmeno Orochimaru aveva
molte certezze riguardo al rin'negan... Ma gli occhi di Hitoshi non
sono occhi da sharingan, e alcune delle cose che ha fatto sembrano
compatibili con quel che dicono gli appunti di Orochimaru sul
rin'negan. Sempre secondo lui, è possibile che un possessore
di
sharingan sviluppi il rin'negan, ma i meccanismi secondo cui questo
dovrebbe accadere restano oscuri...»
«Fammi capire... Hitoshi avrebbe
sviluppato questo popò di roba da solo?» Naruto
sbatté le
palpebre, incredulo. «E io che pensavo che il suo unico
merito fosse
quello di essere mio allievo!»
«Io pensavo che fosse quello di
essere belloccio» Jiraya si strinse nelle spalle.
«Comunque no, non
credo che lo abbia sviluppato da solo. Credo che sia merito di
Kyuubi.»
«Cosa c'entra Kyuubi? Mi sto
perdendo...» Naruto mandò un gemito.
«Alcune leggende dicono che
l'Eremita delle Sei Vie è colui che ha creato Kyuubi e tutti
i
Bijuu. Il suo rin'negan sarebbe legato al chakra della Volpe. Se
usiamo questa affermazione come punto di partenza, è
possibile
ipotizzare che il continuo contatto di Hitoshi con te e Kyuubi abbia
in qualche modo stimolato l'evoluzione dello sharingan in
rin'negan.»
«Adesso mi sono proprio perso.»
Jiraya sbuffò. «Io credo che
Hitoshi abbia sviluppato una specie di evoluzione dello sharingan, e
che questa evoluzione sia legata in qualche modo a Kyuubi. Per questo
lui l'ha sviluppata e, per esempio, Sasuke no: è questione
di
esposizione al chakra della Volpe. A furia di combattere accanto a
te, nello sharingan di Hitoshi deve essere scattato qualcosa.
Nessuno, nemmeno Sasuke ti è stato più vicino dei
ragazzi del tuo
gruppo, in combattimento. Forse l'unica è Sakura, ma non ha
eredità
genetiche. Almeno, questa è la mia teoria. Orochimaru non
diceva
niente al riguardo.»
«Ah. Peccato che Hitoshi non
possa sentire tutte queste belle novità» disse
Naruto, non del
tutto convinto ma tutto sommato fiducioso. «Finché
non si sveglia
può anche essere Buddha...»
«Appunto.»
«Appunto cosa?»
«Finché non si
sveglia.»
«Eh?»
«Naruto...» Jiraya si protese
nuovamente sopra la scrivania. «Se il chakra della Volpe ha
risvegliato il rin'negan, forse il chakra della Volpe può
svegliare
anche il suo possessore.»
La mandibola di Naruto scese di
diversi centimetri, dandogli un'espressione particolarmente sciocca.
«Non sto dicendo che ne sono
sicuro. Sto dicendo che possiamo provare» borbottò
Jiraya
scrollando le spalle.
Naruto richiuse la bocca. Di colpo
batté il pugno sulla scrivania, facendo sobbalzare le pile
di
documenti. «Vecchio, sei un genio!»
La
stanza in cui era ricoverato Hitoshi non era lussuosa come quella di
Kakashi, ma poco ci mancava. Sakura aveva fatto in modo che il figlio
avesse la camera migliore subito dopo la suite, come era stato
vent'anni prima per Sasuke. La situazione, sotto molti aspetti, era
analoga a quella di allora... Ma essere madre,
adesso, rendeva tutto infinitamente peggiore.
Anche essere
quello in salute rendeva le cose peggiori, rifletté Sasuke,
seduto
sul divanetto accanto alla porta con un faldone di documenti da
leggere. Non ricordava troppo bene il periodo in cui era stato
ricoverato dopo il suo ritorno a Konoha, ma credeva difficile che
fosse peggiore di quello attuale.
Mise
giù
l'ennesimo resoconto degli interrogatori agli uomini della Radice
–
tutti ugualmente irrilevanti – e prese un altro fascicolo,
con
poche speranze.
Era nei
momenti in cui il lavoro lo opprimeva in quel modo che rimpiangeva la
presenza del suo vecchio mentore, Taira. Lui e Reiki gli avevano
insegnato il mestiere, ma probabilmente si erano portati in pensione
un paio di trucchi, lasciando la sua squadra personale disperatamente
a corto di esperienza. Sasuke era stato tentato di richiamarli in
servizio per avere una mano... poi una conversazione avuta con
Ryuichiro gli aveva fatto cambiare idea.
Si erano
incontrati mentre Sasuke usciva per andare in commissariato, dopo
aver dormito qualche ora di ritorno dall'ospedale. Ovviamente la
madre di Ryuichiro aveva bisogno di altri soldi, e ovviamente lui
glieli avrebbe passati senza fiatare. Indennità di
vedovanza, la
definiva tra sé.
In quel
periodo lo stress lo aveva reso irrequieto. Senza rendersene conto
aveva iniziato a passare molto più tempo a tormentare il
segno
maledetto sul suo collo, e forse era stato per quello che lo sguardo
di Ryuichiro era caduto proprio lì.
«E' un
tatuaggio curioso» aveva commentato educatamente.
«Non
è
un tatuaggio.»
Sasuke
non sapeva perché non aveva semplicemente evitato
l'argomento.
Ryuichiro lo aveva fissato con aria interrogativa, perché
lui non
era uno shinobi, non conosceva il marchio maledetto, non sapeva di
Orochimaru e di tutta la sua storia passata... Ryuichiro non lo
conosceva affatto, parlando in termini generali, e nemmeno Sasuke
conosceva Ryuichiro.
Forse era
stato quello a farlo sentire diverso: tutti a Konoha sapevano chi era
Sasuke Uchiha, tutti guardandolo vedevano il traditore dietro al
poliziotto, al marito, all'onesto cittadino. Ma non Ryuichiro.
«In
realtà è una maledizione» aveva ripreso
Sasuke, nonostante non
fosse sua intenzione. «Un marchio che risale a tanti anni fa,
e che
per un certo periodo ha cercato di divorarmi. Adesso è sotto
controllo, ma deve essere sempre monitorato.»
«Non
sembra in gran forma» aveva detto Ryuichiro, osservandolo con
la
testa inclinata. Poi aveva sussultato come se avesse detto qualcosa
di offensivo. «Mi dispiace.»
«Lo
so»
aveva risposto rigidamente Sasuke. «Lo farò
esaminare da Sakura,
quando Hitoshi starà bene.»
«Ho
saputo del ragazzo...»
«Scusa,
ma sono in ritardo per il lavoro.»
«Certo.
Mi perdoni, sono stato inopportuno.»
Ryuichiro
si era fatto da parte con un inchino frettoloso, e Sasuke si era
sentito come se fosse stato lui quello che veniva congedato.
«Non
sei
stato inopportuno... Grazie per la tua preoccupazione» aveva
borbottato a disagio.
«Prego,
anche se non merito ringraziamenti» Ryuichiro aveva rialzato
la
testa. «Dopotutto, così come ha controllato quel
marchio riuscirà
a controllare ogni cosa. E' nel sangue degli Uchiha.»
Sasuke non
pensava che Ryuichiro fosse attaccato al nome che dopotutto non
portava nemmeno, ma a quanto pareva era così. E, come
sempre, anche
quella volta aveva toccato i tasti giusti.
Quel ragazzo
riusciva a influenzarlo al punto da renderlo inquieto. Non era solo
la somiglianza con Itachi, né i suoi sensi di colpa per non
essere
riuscito a portare a termine la vendetta per la sua famiglia... Era
qualcosa di più: la sensazione di essere piccoli e inermi;
come il
brivido che si avverte durante le eclissi di sole. In fondo, la
stessa sensazione che aveva trasmesso Itachi tanti anni prima.
Eppure
Ryuichiro lo spingeva sempre verso la luce. Itachi lo aveva attratto
verso le tenebre di Akatsuki e della vendetta, ma Ryuichiro lo aveva
indirizzato più volte verso il sole. Era strano,
inspiegabile.
Soltanto Naruto e Sakura, prima, erano riusciti a fare una cosa del
genere.
Sasuke
accarezzò distrattamente il marchio sul suo collo. Era
tiepido al
tatto. Anzi, caldo.
Il sangue
degli Uchiha...
Posò
lo sguardo su Hitoshi, che riposava apparentemente sereno.
Anche Hitoshi era un Uchiha. Come tutti gli Uchiha, avrebbe lottato e
alla fine avrebbe vinto. Il suo sharingan era la dimostrazione che la
perseveranza veniva premiata. Doveva essere così, dovevano
essere
vicini alla vittoria. Erano un clan. Anche se erano un clan
maledetto...
La porta della
stanza si spalancò inaspettatamente, facendolo
trasalire e decretando la caduta rovinosa di tutti i documenti che
erano accanto a lui sul divano. Non ebbe bisogno di voltarsi per
sapere chi era entrato, perché l'irruenza bastava da sola a
presentarlo.
«Sasuke!
Proprio tu, bravo!» esclamò Naruto, incrociando il
suo
sguardo con aria baldanzosa.
«Sei
rumoroso» sospirò Sasuke, chinandosi per
raccogliere i fogli.
«Poche
balle, abbiamo cose molto importanti da fare, qui!»
«Quali
cose? Sakura è d'accordo?» Sasuke
rialzò la testa e vide
che Jiraya si era unito a Naruto. Questo gli accese tutti i
campanelli di allarme. «Sakura non ne sa niente»
realizzò.
«Non
ha bisogno di saperlo» minimizzò Naruto, con un
cenno vago.
«Cosa
vuoi fare?»
«Un
tentativo per svegliarlo» intervenne Jiraya.
Sasuke si
irrigidì subito, sulla difensiva.
«Fidati,
vuoi provare questa cosa anche più di me»
ghignò Naruto.
«Qui stiamo parlando dell'evoluzione dello
sharingan!»
Sasuke fu
preso alla sprovvista. Guardò Naruto, poi Jiraya, e ancora
Naruto. «Cosa c'entri tu con lo sharingan?»
«Non
lui» rispose Jiraya, «La Volpe.»
Sasuke fece
una smorfia. Quasi tutti i suoi incontri con Kyuubi erano
stati burrascosi, e avevano implicato la distruzione di un gran
numero di palazzi. Non aveva tanta simpatia per i Bijuu.
«Senti,
lo sai che non sono bravo a spiegarmi» disse Naruto con
impazienza, dondolandosi da un piede all'altro. «Lasciami
fare, dai.
Di solito ci prendo.»
Sasuke stava
per ribattere acidamente, ma si fermò prima di aprire
bocca. In effetti, di solito Naruto ci prendeva con le idee
strampalate.
«Non
è nulla che Sakura non farebbe»
assicurò Jiraya. «Almeno
credo.»
Sasuke
fece un respiro profondo. Avrebbe preferito dividere la
responsabilità con sua moglie, ma dubitava che Naruto
avrebbe
aspettato il suo arrivo. E poi... un'evoluzione dello
sharingan?
Aveva senso,
considerati gli strani poteri di Hitoshi. Aveva senso eccome. La
comparsa tardiva, il modo in cui vedeva il chakra... Sasuke fremette.
In fondo Naruto aveva ragione: voleva provare quella cosa anche
più
di lui.
«Come
funziona?» chiese, spostando lo sguardo su Hitoshi.
Jiraya
fissò Naruto, che si strinse nelle spalle.
«Chiederò a
Kyuubi.»
Rin'negan?
La mole di
Kyuubi era come sempre imponente rispetto alla
rappresentazione che Naruto aveva di sé stesso. Fermo
davanti alle
grandi sbarre della gabbia, l'uomo cercava di attirare l'attenzione
della Volpe.
Mai
sentito nominare.
«Bugiarda!»
sbottò Naruto. «Sento puzza di menzogna fin
qui.»
La Volpe
tacque, immersa nei propri pensieri. Era accoccolata in un
angolo, con le code rivolte verso l'ingresso. Ogni tanto le muoveva
nell'aria.
Non mi
piacciono gli Uchiha,
disse. Non
mi sono mai piaciuti. Rimpiango di non essere riuscita a uccidere
l'ultimo, vent'anni fa.
«Piantala,
dai. L'Eremita delle Sei Vie non è quello che ha creato
te e gli altri Bijuu? Non vuoi rivedere il suo rin'negan?»
Perché
dovrei voler rivedere l'unica cosa che ha il potere di soggiogarmi?,
disse Kyuubi a sé stessa, guardandosi bene dall'esprimerlo a
voce
alta.
L'Eremita
non è negli occhi di quel ragazzino,
fu ciò che spiegò invece. L'Eremita è
morto secoli fa.
«Dai,
non costringermi a costringerti» piagnucolò
Naruto,
aggrappato alle sbarre della gabbia in atteggiamento di supplica.
«Voglio vedere com'è questo rin'negan. Svegliami
Hitoshi! Fammi
questo favore.»
La Volpe fece
un lungo sospiro di esasperazione. Naruto avrebbe
potuto costringerla, effettivamente. C'erano molti modi in cui
avrebbe potuto farle fare quel che voleva... ma aveva sempre chiesto;
o supplicato, come in quel momento. Kyuubi non sapeva se fosse per
ignoranza o bontà d'animo, tuttavia sapeva di occupare una
posizione
di inferiorità rispetto a Naruto: era lui ad avere potere
sul
sigillo che la imprigionava.
Ci
pentiremo di averlo fatto...
mormorò, sollevandosi sulle quattro zampe e voltandosi a
fronteggiare il Jonin biondo. Portami da lui.
Sì,
se ne
sarebbero pentiti.
*
* *
Buongiorno a tutti!
Sono riuscita a
completare in tempo il capitolo,
e sono persino a buon
punto con quello successivo!
Ohibò,
questa parte della storia è stata una
sorpresa anche per me,
devo confessarlo.
Ma visto che mi piace
ed è divertente, ho deciso di
tenerla...
Anche
perché stranamente mi ricorda un po' le vecchie
atmosfere di Sinners.
Grazie a tutti voi che
leggete e a chi trova il tempo di lasciare una
recensione.
Arrivederci alla
prossima settimana!
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Capitolo 33 *** La Volpe e l'Eremita (seconda parte) ***
Penne 33
04/05/2016
Capitolo
trentatreesimo
La
Volpe e l'Eremita
(seconda parte)
Lo
sapevo, lo sapevo, l'ho sempre saputo...
Hitoshi attraversò di corsa un
cespuglio pieno di spine, e sentì una miriade di taglietti
aprirsi
lungo le braccia. Aveva il fiato corto, il cuore che batteva veloce,
lo stomaco che si contraeva per la vergogna.
Come ci era riuscito, di nuovo?
Come era riuscito a deludere per l'ennesima volta suo padre, dopo
tutta l'aspettativa che aveva creato? Ma quale sharingan, quale
pedigree, quale conquista... Era il fallito di sempre, e in
più
rischiava di mandare all'aria tutta la missione.
Le voci nella foresta risuonavano
come un coro dissonante, così che era impossibile capire da
dove
provenissero. Hitoshi tentò di attivare lo sharingan per
stanare i
seguaci di Iida in fuga, ma ottenne solo una stilettata di dolore e
la sensazione delle lacrime sugli zigomi. Si passò una mano
sul viso
per asciugarle; non vide la striscia di sangue che gli disegnarono
sulle guance.
«Sharingan, eh?»
esclamò
Fugaku, balzando al suo fianco con occhi rossi e furiosi.
«Hai
voluto fare lo spaccone, e adesso per colpa tua li abbiamo lasciati
fuggire. Mi fai pena! Anzi, no: mi fai schifo.»
«Tu dovevi restare con gli
Anbu!»
esclamò Hitoshi, sentendo la vergogna attanagliargli le
viscere.
«Li ho portati qui. Perché con
loro e il mio sharingan forse potremo combinare
qualcosa...»
Uno shuriken sibilò accanto
all'orecchio di Hitoshi, facendogli perdere la presa sul ramo. Cadde
nei cespugli sottostanti, riempendosi la bocca di foglie e insetti, e
alla fine sbatté malamente contro il terreno. Il polso gli
rimandò
segnali di sofferenza. Il suo primo istinto fu quello di
rannicchiarsi per proteggersi.
«Non
avresti dovuto tirartela tanto» disse Fugaku, atterrando
accanto a lui. Voltò la testa, in attesa, e Hitoshi vide
avanzare
uno degli uomini mascherati di Iida. Fugaku tornò a guardare
il
fratello, senza muoversi per allontanare il nemico. Si
chinò, gli
tamburellò sulla fronte, come aveva sempre fatto mamma.
«Dirò a
papà che hai fatto del tuo meglio, ma non era proprio un
avversario
alla tua portata...»
Il ragazzino
si scostò di poco, permettendo all'uomo mascherato di
avvicinarsi. Hitoshi cercò di rialzarsi, ma aveva tutte le
membra
intorpidite. Fissò l'uomo, la maschera senza espressione, le
mani e
le armi. Un attimo prima che calassero su di lui, serrò le
palpebre.
Non accadde
nulla.
Hitoshi rimase
immobile per alcuni secondi, in attesa. Quando il
silenzio gli sembrò troppo strano riaprì un
occhio e scoprì di
essere solo, rannicchiato su un grande ramo. Tra le mani stringeva i
lembi di un'ampia rete, alle cui estremità sapeva che
c'erano Jiraya
e Sasuke.
La missione,
ricordò. Gli uomini della Radice. Ma certo, stavano per
uscire dal passaggio... Doveva solo attivare lo sharingan e cogliere
il momento opportuno.
Eccoli; con il
suo nuovo potere li vide accalcarsi in un punto ben
preciso nell'oscurità del sottobosco. Strinse convulsamente
la rete
tra le mani, e facendolo avvertì una scarica di dolore al
centro
della testa. Chiuse gli occhi, scosse il capo. Cercò di
riattivare
lo sharingan, ma ad ogni tentativo seguiva solo dolore, un dolore
tremendo, e la cecità più completa. A un tratto
sentì la rete che
veniva strattonata e gli sfuggiva di mano, calando verso il basso.
Gli uomini che
erano con Iida gridarono, ma erano già usciti, alcuni
erano già tra i cespugli. Avevano sbagliato il tempismo; lui
aveva sbagliato il tempismo.
Disperato, si
tuffò verso il basso per cercare di fermare almeno
qualcuno, ma l'oscurità gli sembrava sempre più
fitta. Sentì lo
sconforto emergere dalla disperazione, poi l'orrore, la delusione, la
paura.
Lo
sapevo, lo sapevo, l'ho sempre saputo...,
si disse per la milionesima volta, intrappolato nel loop
creato dalla sua stessa illusione.
E tutto
ricominciò, sempre uguale.
Sempre
fallimentare.
Kyuubi rimase ad osservare il ciclo alcune volte, nascosta tra le
fronde di un albero. L'illusione di Hitoshi era acerba, imprecisa: le
foglie erano soltanto abbozzate, le voci indistinte, il realismo
assolutamente scadente; doveva essere molto sconvolto o molto
inesperto per restare intrappolato in una costruzione così
grossolana.
Comunque
fosse, Naruto voleva che il ragazzo si svegliasse – anche
se Kyuubi non ne vedeva l'utilità – e lei aveva
acconsentito a
provarci, a condizione di farlo da sola.
A Naruto aveva
detto che era una precauzione per scongiurare il
rischio che lui restasse intrappolato nell'illusione di Hitoshi, ma
la verità era che doveva prendere alcune necessarie misure:
il
rin'negan era l'unica cosa che avesse potere su di lei, oltre al
sigillo di Naruto; voleva capire fino a che punto il ragazzo degli
Uchiha lo padroneggiasse, in che modo fosse legato all'Eremita delle
Sei Vie e, infine, quanto fosse pericoloso per lei. Perché
Naruto si
era rivelato un buon compagno, certo, ma gli uomini non erano mai
stati affidabili. Mai, in centinaia di anni.
Per fortuna
sembrava che il rin'negan di Hitoshi fosse poco più di
una farsa... anzi, non era nemmeno un vero rin'negan. Era
più un
abbozzo, un embrione di rin'negan misto allo sharingan. Praticamente
un giocattolo.
Sorrise da
sola, facendo guizzare la punta delle code.
Il
ragazzino deve imparare subito qual è il suo posto.
Uno shuriken sibilò accanto
all'orecchio di Hitoshi, facendogli perdere la presa sul ramo. Cadde
nei cespugli sottostanti, riempendosi la bocca di foglie e insetti, e
alla fine sbatté malamente contro il terreno. Il polso gli
rimandò
segnali di sofferenza. Il suo primo istinto fu quello di
rannicchiarsi per proteggersi, ma appena prima che lo mettesse in
pratica un'esplosione di luce lo costrinse a rotolare per difendere
la vista dall'abbagliamento.
Tu
dunque, essere miserabile, sei l'erede dell'Eremita delle Sei Vie?
Hitoshi boccheggiò, stordito, ma
non riuscì ad aprire gli occhi.
«Chi sei?» ansimò,
correndo con
le mani alla ricerca dei kunai, inesistenti.
Io
sono la tua salvezza.
La foresta scomparve con il rumore
di un risucchio sibilante, avviluppando Fugaku, Iida, gli uomini
della Radice, tutto quanto.
Hitoshi si ritrovò carponi su una
superficie liscia, né fredda né calda. La luce
accecante si ridusse
a un bagliore, permettendogli di riaprire gli occhi.
Davanti a lui stava una figura,
forse un gatto, o un procione... no, una volpe. Era enorme, alta
almeno sei metri, avvolta da una calda luminosità aranciata.
Con un
attimo di ritardo Hitoshi si accorse che aveva più di una
coda: ne
aveva nove.
Una colata di freddo terrore gli
piombò sulle spalle e corse lungo la schiena, paralizzandolo.
Aveva conosciuto la storia di
Kyuubi quando aveva visto Naruto usare il suo chakra, durante gli
scontri dei suoi dodici anni. All'inizio era stato difficile capire
quale strana abilità possedesse il maestro, poi, aprendo gli
archivi
segreti della Polizia di Konoha, tutto era diventato chiaro.
Ora i ricordi di Naruto che
combatteva, avvolto dal chakra di Kyuubi, si riversarono nella sua
testa, confondendosi in un'unica macchia scarlatta.
Perché si trovava di fronte la
Volpe? Cosa era successo? Dov'era Naruto?
Fai
bene a temermi,
disse Kyuubi con
voce bassa e compiaciuta, leggendo la sua espressione. Se
la scelta fosse stata mia, ti avrei lasciato nella tua illusione
finché avessi cessato di respirare.
«Quale illusione?»
Kyuubi ruggì, esasperata da tanta
stupidità. Hitoshi trasalì e si guardò
intorno, scoprendo di
essere immerso nel nulla per trecentosessanta gradi, circondato da
oscurità. Allora capì. E, capendo, il terrore
divenne vergogna.
«Come l'hai fermata?» chiese
con
un filo di voce.
Sei
debole, inesperto. Una volta penetrata la tua mente, è stato
facile
guidarti.
«Che cosa è successo? Chi
è
l'Eremita... L'Eremita delle...?»
L'Eremita
delle Sei Vie.
Kyuubi fece una pausa. Chi era
l'Eremita? Il suo creatore, il suo mentore, suo padre... Era molto
più di quanto desiderasse condividere con un ragazzino
qualunque,
per di più così indegno erede.
Studia,
ignorante.
Hitoshi incassò la testa tra le
spalle, in soggezione. Avrebbe voluto rispondere malamente, ma per la
prima volta in vita sua non trovava il coraggio.
Kyuubi fece un mormorio basso, a
metà tra un ringhio e delle fusa, e agitò le code
nel vuoto.
Quando
riaprirai gli occhi, cerca il vecchio sennin Jiraya. Lui ti
condurrà
alle risposte che puoi avere.
«Ma perché tu sei
qui?»
Non
chiedere più di quanto ti è concesso! Dalle
code di Kyuubi si levò una fiammata di luce. I suoi occhi,
scarlatti, erano una delle cose più spaventose che Hitoshi
avesse
mai visto. Hai un debito nei miei confronti,
Hitoshi
Uchiha. Ricordalo per sempre, lo
ammonì.
Dopodiché, anche lei scomparve
nell'oscurità.
Hitoshi rimase solo, scoprendosi
piccolo e spaventato. Era come quando aveva paura del buio, da
bambino. La stessa sensazione di freddo strisciante.
Attese che qualcosa gli segnalasse
il risveglio, ma non accadde nulla. Nonostante l'intervento di Kyuubi
non sembrava uscire dalla dimensione in cui era intrappolato.
Si guardò intorno, senza vedere
niente. Dal suo corpo aveva origine una tenue luminosità che
gli
permetteva di vedere sé stesso, ma non c'era nient'altro da
guardare.
Poi, la sua mano produsse il
fantasma di una mano, che si staccò da lui come una foglia.
L'altro
braccio fece la stessa cosa, seguito dal tronco, le gambe, il capo.
Una figura evanescente gli si parò davanti, la sua stessa
sagoma
priva di lineamenti.
Due linee si disegnarono dove
sarebbero dovute essere le palpebre, una terza in mezzo alla fronte,
e la figura aprì gli occhi; ma non erano occhi normali. Al
posto
dell'iride vi erano cerchi concentrici che ricoprivano l'intera
cornea, di un grigio lattiginoso e vuoto. Hitoshi non conosceva quel
segno, ma sapeva che non era sharingan né byakugan.
«E' bello conoscerti» disse il
fantasma senza bocca, e la sua voce sembrò riecheggiare
ovunque.
Hitoshi non disse niente, perché
le risposte di Kyuubi erano ancora fresche nella sua memoria e aveva
paura di sbagliare di nuovo.
«Io sono la memoria dell'Eremita
delle Sei Vie» continuò allora l'ombra.
«Dimoravo nel rin'negan
che hai risvegliato. Ero in attesa del mio erede.»
«Io?» chiese Hitoshi cautamente.
«Tu.»
«Non vorrei suonare presuntuoso,
ma... Come ho fatto?»
«Non hai fatto niente» gli
occhi
della Memoria dell'Eremita si assottigliarono come se sorridesse.
«Era destino che le cose andassero così. Tutto
è già stato
scritto. Anche tu sei parte della profezia di Naruto.»
«La profezia di Naruto?»
«Quando ti sveglierai, chiedi al
vecchio sennin Jiraya di farti leggere il suo libro. Allora
capirai.»
Un altro che gli diceva di cercare
Jiraya. Sembrava che il vecchio porco non fosse solo un vecchio
porco, dopotutto.
«Perché non sono ancora
sveglio?»
«Perché dovevo incontrarti,
per
metterti in guardia.»
Hitoshi drizzò le orecchie.
«Non fidarti di Kyuubi»
continuò
la Memoria dell'Eremita. «Non è malvagia come
potrebbe essere un
uomo, ma persegue sempre i suoi obiettivi. Per quanto io la ami, devo
guardarla per quello che è.»
«Per quanto tu... lei...
voi...»
iniziò Hitoshi, ma si impappinò.
«Non è lei che ti ha
risvegliato
dall'illusione» lo interruppe la Memoria dell'Eremita,
impedendogli
di chiedere in che rapporti fosse con Kyuubi. «Avvicinandosi
a te ha
permesso a me di emergere. Non hai nessun debito nei suoi confronti.
Quando verrà il momento, agisci con
libertà.»
«Quale momento?»
«Non angustiarti adesso... Ci
penserai a tempo debito.»
La Memoria dell'Eremita tese una
mano verso il viso di Hitoshi, posando le dita sulle sue palpebre.
Hitoshi avvertì il suo tocco
freddo, l'odore come di polvere e ghiaccio, poi l'aria che si
insinuava nei suoi polmoni, espandendoli.
Prese un respiro profondo, e si
svegliò.
Chiharu aprì gli occhi
lentamente, sentendo nelle orecchie il bip-bip del
cuore
monitorato da una macchina.
Subito non capì dove fosse.
Pensò
di essere di nuovo a Suna, ma l'aria era troppo fresca. Allora
pensò
di essere a casa, ma il soffitto era troppo alto e la luce troppo
intensa. Finalmente si decise a sollevarsi su un gomito per guardarsi
intorno, e a quel punto, con una certa fatica, riconobbe l'ambiente
ormai familiare dell'ospedale.
«Ciao. Come ti senti?» chiese
una voce.
Chiharu voltò la testa,
procurandosi un capogiro con i fiocchi. Chiuse e riaprì gli
occhi, e
al secondo tentativo davanti a lei comparve la faccia sconosciuta di
una giovane donna.
«Mi viene da vomitare» rispose,
la bocca impastata e amara. «Voglio dell'acqua.»
«Va bene. Fai piano, se ti sembra
che torni su fermati subito...» la donna le porse un
bicchiere,
aiutandola a sollevare il braccio.
Chiharu si accorse con sgomento
che quel semplice movimento le portava via buona parte delle energie.
Il bicchiere sembrava pesantissimo, la stanza iniziò a
vorticare
quasi subito. Bevve un paio di sorsi, poi scosse la testa e si rimise
coricata. Era sfinita.
«Vado a chiamare il medico»
disse allora la donna, e quando si allontanò dal letto
Chiharu vide
che indossava l'uniforme delle infermiere.
«Devi vomitare?»
Chiharu girò di nuovo la testa.
Questa volta la stanza vorticò meno velocemente, e subito si
stabilizzò sulla faccia di Shikaku Nara, suo nonno, che la
fissava
preoccupato sporgendosi verso il letto.
«No» rispose lei. Allora,
improvvisamente, ricordò che aveva proibito ai medici di
informare
delle sue condizioni la famiglia. «Perché sei
qui?» scattò di
colpo, il cuore a mille.
«Perché sei mia
nipote?»
«No, cioè... Cosa ti hanno
detto?»
«Nulla. Prognosi riservata.»
Chiharu si rilassò, richiudendo
gli occhi per un istante. Niente panico. Le cose andavano meno peggio
del previsto. «E papà?»
«Tuo padre ormai sarà arrivato
a
Suna. Non te l'hanno detto?»
«Per quella cosa di mamma?»
«A me ha spiegato vagamente che
era una missione riguardo al coordinamento Sabbia-Fuoco... Ma non
faccio fatica a credere che tua madre c'entri qualcosa»
sogghignò
Shikaku. Poi tornò serio. «Tu invece cos'hai
combinato per arrivare
a Konoha in questo stato?»
Prima che Chiharu potesse
accampare qualche scusa la porta della camera si riaprì ed
entrarono
l'infermiera di prima e un medico di mezza età,
completamente privo
di capelli. Salutarono Shikaku stringendo un po' di mani, ma nel giro
di un minuto gli chiesero di accomodarsi fuori per parlare da soli
con Chiharu. Shikaku, nonostante la perplessità, tenne per
sé le
domande e uscì.
«Allora, come ti senti?»
iniziò
subito il medico.
«Mi gira la testa e mi viene da
vomitare. Ma sono lucida e orientata e voglio che le notizie sulla
mia salute restino solo tra me e voi.»
Medico e infermiera si scambiarono
un'occhiata.
«Va bene» annuì lui.
«Dovrai
firmare alcune carte, per questo. Ma prima di farlo vorrei esporti la
situazione completa, potresti cambiare idea.»
Chiharu serrò le labbra e non
ribatté.
«Non credo che tu mi conosca»
proseguì allora il medico, aprendo una cartellina che aveva
portato
con sé. «Il mio nome è Honmaru Senju,
sono tra i collaboratori
stretti di Sakura Uchiha. Ho avuto occasione di parlare con lei
riguardo all'esito dei tuoi esami, e francamente il quadro è
sconfortante.»
«Perché?» Chiharu si
irrigidì.
«Non c'è un parametro che sia
in
ordine. Mi sono fatto mandare la cartella che ti hanno fatto a Suna,
ma la situazione è anche peggiorata da allora. Quello che ci
è
stato riferito è che hai tentato un'evocazione troppo
azzardata e il
tuo fisico non ha retto. Confermi?»
Chiharu annuì, incerta. I suoi
ricordi al riguardo erano molto confusi.
«A quanto ho capito» riprese il
medico, «hai cercato di tamponare il tuo errore di
valutazione
recuperando chakra dall'evocazione... Ma mi dispiace informarti che
non è stata un'idea brillante; il tuo sistema del chakra fa
acqua da
tutte le parti, usarlo per bilanciare la fisiologia è un
azzardo
enorme. Per fortuna era presente un ninja medico che è
intervenuto
in maniera corretta, ma questo non significa che non ci siano stati
danni.»
«Gravi?»
«Temo di sì.»
Chiharu strinse il lenzuolo tra le
dita per fermarne il tremore. L'unica cosa che ricordava bene di
quella disgraziata evocazione era la voce dell'uccello nella sua
testa e il dolore lancinante che l'aveva seguita.
«Anche l'ultima volta avevano
detto una cosa del genere» tentò, scoprendo che la
sua voce era
roca e incerta.
«L'ultima volta eri in crescita.
Adesso non hai più assi da giocarti»
troncò il medico bruscamente.
«Se vuoi arrivare ai vent'anni, devi chiudere con il mestiere
di
ninja.»
Chiharu spalancò la bocca, senza
fiato.
Era la prima volta che glielo
dicevano senza mezzi termini. Fino a quel momento le avevano sempre
suggerito di non fare cose azzardate, di non esagerare, di
riguardarsi... Non le avevano mai detto di smettere e basta.
Le fece male, molto più di quanto
si aspettasse.
«Sicuramente ci sarà qualche
medicina... Qualche nuovo trattamento... Se la cosa fosse stata
così
grave non sarei qui a parlarne!» annaspò, la testa
ronzante per lo
choc.
«Ringrazia il medico che ti ha
soccorsa, per questo. Senza il suo intervento non saresti arrivata
nemmeno in ospedale.»
Chiharu richiuse la bocca,
raggelata. «Voglio parlare con Sakura Uchiha» disse
dopo un
momento, quasi a fatica.
«Non è disponibile.
Attualmente
è completamente assorbita da un altro incarico, io sono il
medico
che ti è stato assegnato.»
«Beh, non mi piaci!»
ringhiò
Chiharu di scatto.
Il medico fece un respiro
profondo, passando la cartella clinica sotto il braccio. «Mi
dispiace sentirtelo dire, perché con la crisi in corso sono
l'unico
medico a disposizione. Sono stato spostato al tuo caso invece di
aiutare i miei colleghi perché sono quello che
più di tutti se ne
intende di chakra e cuore. Se ti dico che non ci sono alternative,
non ce ne sono.»
Chiharu deglutì a vuoto un paio
di volte. Meccanicamente si tirò su, tese la mano e prese il
bicchiere mezzo pieno sul comodino, portandoselo alle labbra
tremanti. Buttò giù un sorso, poi dovette
abbassare il braccio.
«Voglio firmare le carte per
tenere la cosa riservata» disse in tono metallico.
«E voglio una
copia della mia cartella e un altro consulto.»
Il medico si strinse nelle spalle.
«Come vuoi. Ti farò avere tutto in giornata. Nel
frattempo
inizierai a seguire una terapia...»
Chiharu smise di ascoltare,
concentrandosi sul battito del cuore nelle sue orecchie. Sembrava
così placido, così innocuo, eppure minacciava di
ucciderla ad ogni
piccolo sforzo.
Aveva il sospetto che i
Chakravakam avessero un ruolo non marginale nell'intera faccenda.
Si riscosse dalla sua trance
quando sentì la porta richiudersi. Vide suo nonno riprendere
posto
sulla sedia accanto al letto, e solo allora capì che medico
e
infermiera se ne erano andati.
«Gente molto seria»
commentò
Shikaku, grattandosi la barba ingrigita. «Cosa ti hanno
detto?»
«Stanno ancora aspettando il
risultato di alcuni esami» mentì Chiharu
automaticamente. «Per ora
non si sbilanciano.»
Shikaku la scrutò a fondo, come
avrebbe scrutato un avversario di shogi. Vide le nocche delle mani
sbiancate nello sforzo di stringere le lenzuola, vide il pallore del
viso, gli occhi sfuggenti, e fece due più due.
«Non hai intenzione di informare
i tuoi genitori, a Suna?» chiese piano. Chiharu
serrò le labbra.
«Sei maggiorenne, puoi farlo. Ma un genitore ha il diritto di
preoccuparsi per il figlio...»
«La preoccupazione di un nonno
è
già troppa» borbottò lei in risposta,
passandosi una mano sulla
fronte. «Sono molto stanca... Ti spiace se mi rimetto
giù?»
«Fai pure, aspetto che ti
addormenti.»
Chiharu scivolò meglio sotto le
coperte e chiuse gli occhi, cercando di dare al suo respiro un ritmo
lento e regolare. Mentre lo faceva ripercorse con la mente il momento
in cui aveva evocato il Chakravakam, per capire dove aveva sbagliato,
cosa era successo...
Pensava che Kakashi le avesse dato
il via libera, a partire dalla missione di Loria. Pensava che questo
significasse che era all'altezza, che non c'erano rischi... Si era
sbagliata? O semplicemente aveva esagerato evocandolo mentre era
già
stanca?
Non lo sapeva. Non sapeva niente,
né cosa era successo prima, né cosa sarebbe
accaduto poi. Non
voleva avvisare sua madre e suo padre perché non avrebbe
saputo cosa
dire: ho fallito? Sono una stupida? Tanto non avevo voglia di essere
ninja? Non preoccupatevi, farò la studiosa...
Serrò le palpebre,
rannicchiandosi con le ginocchia contro il petto. Sentì le
lacrime
premere per uscire, calde e bagnate, ma concentrò tutti i
suoi
sforzi nell'impedirsi di singhiozzare. Non voleva che suo nonno
capisse.
Se
vuoi arrivare ai vent'anni, devi chiudere con il mestiere di ninja.
La prima cosa che vide Hitoshi
aprendo gli occhi fu la faccia enorme di Naruto, praticamente a dieci
centimetri dalla sua.
«Checcaz...» iniziò,
riuscendo
ad articolare ben poche consonanti.
«E' sveglio!»
esclamò Naruto
facendosi indietro. «Ci siamo riusciti!»
«Sono un genio»
commentò
Jiraya, annuendo seriosamente. «Naruto, vai a cercare Sakura.
Io e
Sasuke restiamo con lui.»
«Ma io voglio chiedergli cosa
è
successo con Kyuubi!» piagnucolò Naruto.
Non
ti dirà proprio niente,
commentò lei dalla sua gabbia.
«Stupido cretino! Dopo potrai
chiedergli quello che vuoi, ora vai a dare la buona notizia a sua
madre» rispose Jiraya bellicosamente.
Hitoshi cercò di capire chi
parlava e di cosa, ma aveva la testa troppo confusa per distinguere
le voci. Cercò di sollevarsi sui gomiti, e non appena lo
fece la
stanza si capovolse, togliendogli il fiato. Naruto non c'era
più.
«Resta giù. Come ti
senti?»
Quella voce l'avrebbe riconosciuta
tra mille. Suo padre.
«Come se fossi caduto dalla Rupe
degli Hokage...» rispose a fatica.
«Bevi qualcosa, che non capiamo
quel che dici» intervenne Jiraya, aiutandolo a bere un sorso
d'acqua.
«Qual è l'ultima cosa che
ricordi?» riprese Sasuke quasi subito.
Hitoshi chiuse gli occhi e si
sforzò di trovare le immagini nella sua mente. Per un
momento fu
tutto scuro, poi vide flash confusi, pieni di ombre, e alla fine due
volti: Kyuubi e l'Eremita delle Sei Vie.
Trova
Jiraya, gli
avevano detto.
«Devo aver fatto un sogno molto
strano» mormorò, sfregandosi gli occhi.
«Non era un sogno» gli disse
Jiraya bonariamente. «Cioè, se ti riferisci alla
Volpe a nove code
non era un sogno. Se invece parli di dodici vergini senza vestiti
sì,
probabilmente lo era.»
Sasuke e Hitoshi fissarono Jiraya,
che sbuffò borbottando qualcosa sul senso dell'umorismo.
«Mi ha detto di parlare con
lei»
disse Hitoshi. «Ha detto che lei avrebbe avuto le
risposte.»
«Dubito di avere qualche
risposta, ma ho un paio di buone domande» commentò
Jiraya in tono
riflessivo. «La Volpe non ti ha spiegato niente?»
«Ha parlato di un Eremita...»
Sasuke passò lo sguardo dal
figlio al sennin, senza capire. Jiraya lo vide e batté le
mani,
troncando improvvisamente la discussione.
«Parleremo dopo che Sakura ti
avrà fatto un check up completo»
annunciò. «Prima voglio essere
sicuro che tu non abbia un'emorragia cerebrale in atto»
Hitoshi
portò una mano alla fronte, Sasuke lo scrutò
preoccupato. «Si fa
per dire...»
«La missione!»
ricordò Hitoshi
all'improvviso. «La Radice, il tunnel... Li avete
presi?»
«Non agitarti. Li abbiamo presi
tutti» confermò Sasuke.
Hitoshi si lasciò ricadere sul
letto, chiudendo gli occhi. Allora i ricordi di Iida che fuggiva e
Fugaku che lo lasciava in balia dei nemici erano solo incubi... Era
ancora troppo stordito per distinguere sogno e realtà: la
luce gli
dava fastidio, le voci gli davano fastidio; era ipersensibile a
tutto.
Accanto al letto Sasuke esitò,
combattuto tra il chiedergli del rin'negan e domandargli se stava
bene. Vedendolo sveglio il sollievo aveva prevalso sulla
curiosità,
ma ora stava perdendo terreno. Almeno il senso di colpa era scemato
fino a scomparire.
Sakura ci mise quasi un quarto
d'ora ad arrivare, perché Naruto aveva dovuto cercarla a
casa.
Quando spalancò la porta della stanza tutti trasalirono,
incluso
Hitoshi che aveva ricominciato a sonnecchiare, e poi furono travolti
da un turbine di singhiozzi, esclamazioni e rimproveri mescolati alle
lacrime. Sakura si gettò al collo di Hitoshi, ignorando
tutti gli
altri, e gli accarezzò la testa ringraziando il cielo.
«Mamma, sto be...»
iniziò lui,
ma arrivato all'ultima parola Sakura gli piantò una pila
degli occhi
e prese a visitarlo, tirando su con il naso.
«Non lo sai se stai bene»
ribatté. «Prima dobbiamo controllare. Sei rimasto
in coma per dei
giorni...»
«Ma io mi sento bene»
tentò di
dire Hitoshi, completamente inascoltato.
«Adesso posso chiedergli quella
cosa?» sussurrò Naruto a Jiraya, che
sospirò.
«No, non puoi. Dopo.»
«Dopo quando?»
«Naruto» lo chiamò
Sakura. Lui
sobbalzò. «Come lo avete svegliato?»
«Ci ha pensato...»
iniziò il
Jonin biondo, ma Jiraya lo fermò subito.
«Possiamo parlarne più
tardi?»
si intromise. «Devo prima verificare alcune teorie con
Hitoshi.»
Il ragazzo annuì senza
protestare. Sasuke e Sakura si accigliarono, ma non trovarono nulla
con cui ribattere. Alla fine Sakura prese la mano di Hitoshi e gli
sorrise, asciugandosi le ultime lacrime.
«Faremo tutti i controlli per
essere sicuri che tu stia bene... Ma intanto sono così
felice di
vederti sveglio.»
Jiraya tirò una gomitata a
Naruto, facendogli segno di uscire. Lui esitò, poi cedette.
Prima di
andarsene scambiò uno sguardo con Sasuke e gli
sillabò una frase
muta: stagli vicino o lo faccio io.
Sasuke strinse le labbra e fece
istintivamente un passo verso il letto. Naruto sorrise, e
uscì.
Era stato divertente competere con
Sasuke per l'affetto di Hitoshi... Ma adesso sarebbe stata una
partita persa.
«Sono stato bravo?» chiese,
quando lui e Jiraya furono fuori dalla porta.
«Sei stato bravissimo» gli
concesse lui con un sospiro.
«Scusate» li interruppe una
voce. «Mi hanno riferito che Hitoshi Uchiha si è
svegliato...
Sakura è qui?»
«Honmaru!» esclamò
Jiraya,
riconoscendo il medico che li aveva avvicinati. Accanto a lui stava
un altro uomo senza camice, che non salutò.
«Sì, Sakura è qui...
Sono mesi che non ti vedo. Come stai?»
«Bene, grazie. Ma ho fretta,
dovremo rimandare i convenevoli alla prossima volta. Scusate.»
Senza salutare i due uomini
bussarono alla stanza di Hitoshi ed entrarono, lasciando Naruto e
Jiraya.
«Chi era quel simpaticone?»
domandò Naruto.
«Un lontano parente di Tsunade...
Non è mai stato l'anima della festa.»
«Perché aveva la cartella
clinica di Chiharu sotto braccio?»
«L'hai notata anche tu? Dovresti
controllare se si è svegliata: Shikamaru e Temari devono
sapere come
sta, non può continuare con il capriccio sulla
privacy.»
Naruto non rispose, ma fece una
smorfia. «Dopo, quando avremo sistemato la faccenda di
Hitoshi...
Lasciami affrontare un problema alla volta.»
«Come vuoi» rispose Jiraya,
facendo spallucce. «Solo una cosa: perché c'era un
membro degli
Anbu con Honmaru?»
Ma Naruto aveva già smesso di
ascoltare. Non appena aveva detto a Jiraya che prima voleva sistemare
la questione di Hitoshi, si era concentrato per trovare Kyuubi dentro
di sé e interrogarla. Eppure, per quanto ci provasse,
l'accesso alla
sua gabbia era inequivocabilmente sbarrato...
Nell'oscurità la Volpe ricordava.
C'era stato un periodo
lontanissimo in cui lei e gli altri Bijuu erano una famiglia.
Ancora prima, c'era stato un
momento in cui erano stati una cosa sola.
All'epoca tutti i Bijuu erano
un'unica bestia dotata di dieci code, e l'Eremita delle Sei Vie li
aveva combattuti come mai nessuno prima aveva ardito fare. Come una
divinità, quasi.
Kyuubi non aveva un ricordo
preciso di quei tempi, perché non esisteva ancora nella
forma
attuale: l'Eremita aveva creato lei e gli altri Bijuu quando
già era
diventato il jinchuuriki della Decacoda. Eppure i suoi primi ricordi
erano chiari, caldi, ammantati di nostalgia: lei e i suoi fratelli,
insieme a Hagoromo. Uniti.
Spesso rimpiangeva quei giorni.
Ora era sigillata nel corpo di
Naruto, i suoi fratelli e sorelle erano dispersi nel mondo alla
mercé
dei riti per la creazione di Jinchuuriki, e tutti, nessuno escluso,
venivano usati per combattere le guerre degli uomini. Anche lei.
Rimpiangeva davvero i giorni
felici dell'Eremita, i giorni della libertà... Ma una
domanda la
tormentava, insinuando il tarlo del dubbio e della delusione.
Padre,
perché ci hai mandato per il mondo se il nostro destino era
una
gabbia?
Davvero
non lo avevi visto, con il rin'negan nei tuoi occhi?
* * *
Buongiorno a tutti!
Sono spiacente di informarvi che ho cambiato lavoro.
Questo significa il quadruplo dell'impegno rispetto a prima,
e molto meno tempo e meno forze per scrivere.
Ripeto: mi impegnerò per non lasciarvi a secco,
ma siate un poco pazienti, almeno i primi tempi...
In compenso, se non sapete cosa fare della vostra vita
vi suggerisco di prendere una laurea in fisioterapia.
A casa ci restate molto poco.
Ciò detto, ho tirato in ballo l'Eremita.
Ebbene sì.
Si vede che ci stiamo avvicinando a cose importanti, vero?
Ma questo paventato rin'negan, che tutti pensavano fosse un super jolly,
è probabilmente meno figo di quel che sembra...
per ora.
Vi informo che mi sono studiata tutta Narutopedia per farlo funzionare,
quindi abbiate fede!
Ho anche iniziato a dare a Chiharu le bastonate che si merita.
Vediamo un po' cosa ne esce.
Prima che scocchi la mezzanotte vi saluto e vi do appuntamento
alla prossima settimana!
Grazie a tutti per aver letto!
PS per DARKSHIN: non mi è possibile rispondere alla tua
recensione,
probabilmente perché postata prima che inserissero l'opzione
risposta...
Mi dispiace! :(
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Capitolo 34 *** L'orgoglio del clan Uchiha ***
Penne 34
18/05/2016
Capitolo
trentaquattresimo
L'orgoglio
del clan Uchiha
Hitoshi si era addormentato nel
vecchio mondo e si era svegliato in quello nuovo.
Adesso Sasuke gli ronzava intorno
in maniera quasi fastidiosa, chiedendogli costantemente se stava bene
o poteva fare qualcosa per lui, Sakura lo coccolava di più e
i suoi
fratelli erano persino venuti a trovarlo in ospedale: la piccola
Liara, che chissà come aveva saputo che il fratello aveva
una nuova
tecnica strabiliante, lo aveva fissato per tutto il tempo come Buddha
ridisceso in terra. L'unico familiare che Hitoshi non aveva visto era
Fugaku, ma francamente aveva troppe cose a cui pensare per
preoccuparsi anche di lui.
Dopo il suo risveglio Sakura aveva
disposto un milione di esami e analisi, la maggior parte dei quali al
cervello. Hitoshi aveva provato a chiedere di Jiraya, ma prima di
ricevere una risposta era piombato in camera un dottorino impettito e
aveva chiesto a sua madre un consulto urgente. Quando poi lei era
tornata aveva voluto sapere nel dettaglio cosa era successo durante
la missione in cui si era sentito male, così lui aveva perso
il filo
del discorso. Ma con il calar della sera la curiosità era
tornata, e
con essa il nervosismo.
«Questa notte tua madre
resterà
con te» disse Sasuke, raccogliendo le sue cose per tornare a
casa a
dormire. «Hai bisogno che ti porti qualcosa?»
«Sai che fine ha fatto Jiraya?»
«No.»
E
se fosse per me lo attaccherei al muro, così si decide a
parlare del
tuo sharingan.
«Mh... Grazie, papà. Buona
notte.»
Sasuke non uscì subito.
Guardò
il figlio. Sperava che adesso le cose avrebbero preso la giusta
piega, che tutto si sarebbe sistemato; che sarebbe diventato come
doveva essere, o almeno come Naruto gli aveva intimato di farlo
diventare.
Per un secondo provò
l'irresistibile impulso di alleggerirsi la coscienza con Hitoshi, di
raccontargli tutto quello che aveva fatto da quando era nato ad ora,
tutte le cose sbagliate, le cose malvagie, gli errori e i
tradimenti... Poi si vergognò. Era già stata dura
essere lì, quel
pomeriggio, e ricordare come doveva comportarsi un padre.
Prima di sprofondare
nell'imbarazzo decise di uscire.
Hitoshi rimase solo, lo sguardo
puntato oltre il vetro della finestra.
Aveva la sensazione che il suo
cervello fosse pieno di ovatta. Le emozioni erano come smorzate,
affievolite. Sapeva che si sarebbe dovuto sentire euforico,
orgoglioso, fiero all'inverosimile... Invece si sentiva soltanto
stanco. Non aveva nemmeno la forza di gioire delle attenzioni di
Sasuke.
Ripensò all'incontro con Kyuubi,
rivide nella sua mente le zanne e le code. Rabbrividì. La
Volpe gli
aveva detto che era merito suo se si era svegliato, ma l'Eremita
l'aveva smentita. A chi credere? E perché?
Più pensava al fantasma
traslucido della sua visione e meno gli sembrava reale. Il suo
ricordo sfumava di minuto in minuto, nonostante gli sforzi che faceva
per mantenerlo.
Soltanto una cosa rimaneva, perché
ci si aggrappava con tutte le forze, soltanto una frase: non
fidarti di Kyuubi. Non hai nessun debito nei suoi confronti.
Qualcuno bussò alla porta della
camera. Hitoshi tornò alla realtà e diede il
permesso di entrare,
ma non fu Sakura quella che comparve all'ingresso: era Jiraya.
«Tu non hai idea di quanto sia
stato difficile liberarsi di Naruto!» esordì il
sennin lasciandosi
cadere sul divano.
«E' venuto per parlare con me?»
chiese subito Hitoshi, scostando le lenzuola e facendo scendere i
piedi dal letto.
«Non muoverti! Se Sakura ti vede
alzato mi uccide» Hitoshi tirò su i piedi.
«Allora, spiegami un
po' chi ti ha detto di parlare con me e perché»
continuò Jiraya.
«E' stata la Volpe a nove code.»
Il vecchio annuì, appoggiando i
gomiti alle ginocchia. «Ti ha detto perché abbiamo
provato a usarla
per svegliarti?»
«Non mi ha detto niente... Mi ha
soltanto insultato perché non conosco un certo Eremita delle
Sei
Vite.»
«Eremita delle Sei Vie» lo
corresse Jiraya. «Come al solito, Kyuubi non trova molto
simpatici
gli Uchiha: l'ultima volta che ha incontrato tuo padre lo ha quasi
ucciso.»
Hitoshi non faceva fatica a
credere che Kyuubi potesse farlo, ma nessuno gli aveva mai accennato
la cosa, e la notizia lo colpì.
«Dunque, ciò che sto per dirti
è
nel campo della pura ipotesi» riprese Jiraya, tornando
all'argomento
principale. «Sono supposizioni basate su una manciata di
vecchi
appunti che ho ritrovato nell'archivio della Foglia, pertanto
potrebbero essere inventate di sana pianta. Ma sono il nostro punto
di partenza, e almeno finora hanno funzionato.»
Hitoshi annuì, concentratissimo.
«Esiste una leggenda che racconta
della nascita dei Bijuu» raccontò Jiraya.
«Secondo questa leggenda
il creatore delle Bestie sarebbe un uomo dai poteri straordinari,
chiamato Eremita delle Sei Vie. Quest'uomo era dotato della prima
tecnica oculare che la storia ricordi, la tecnica da cui poi hanno
avuto origine sia sharingan sia byakugan: il rin'negan. Attraverso il
rin'negan l'Eremita aveva potere su tutti i Bijuu e, dice qualcuno,
su tutti gli elementi e tutte le tecniche. Pare che fosse una
caratteristica a trasmissione ereditaria, e, secondo la persona che
ha scritto questi appunti, c'è qualche
possibilità che lo
sharingan, discendente diretto del rin'negan, si evolva in rin'negan
stesso.»
«Sta dicendo che il mio non è
uno sharingan... Ma un rin'negan?»
«E' l'ipotesi più verosimile
che
mi sia venuta in mente.»
Hitoshi sbatté le palpebre,
stranamente stordito. Le sue emozioni non erano ancora tornate.
«Cioè questo rin'negan... E'
una
tecnica potentissima che supera sia byakugan sia sharingan? E io ce
l'ho? A caso?» chiese per sicurezza.
«Non a caso» lo
frenò Jiraya.
«Io credo che tu l'abbia sviluppato perché hai
passato molto tempo
accanto a Naruto mentre usava il chakra di Kyuubi, e quello in
qualche modo lo ha risvegliato. Non devo raccontarti la storia di
Naruto e Kyuubi, vero? Con l'età che hai sarai penetrato
come minimo
in tutti gli archivi segreti di tuo padre» Hitoshi
arrossì,
colpevole, ma Jiraya ridacchiò. «Bravo
ragazzo!»
«Come si usa il rin'negan?»
chiese Hitoshi schiarendosi la voce. «Intendo... Per lo
sharingan
esiste un manuale, ma per il rin'negan?»
«Non ne ho la più pallida
idea.»
«Ah.»
Hitoshi e Jiraya si fissarono, a
corto di soluzioni.
«Perché non volevi che Naruto
sentisse questo discorso?» domandò poi Hitoshi.
«Naruto? Ci avrebbe interrotto
ogni dieci parole, avrebbe chiesto di rispiegare le cose mille volte,
ti avrebbe tormentato per sapere cosa ti ha detto Kyuubi...»
Jiraya
roteò gli occhi. «Io non voglio mica passare qui
tutta la notte per
colpa sua!»
Di colpo una nuvoletta di polvere
si materializzò nel mezzo della stanza, e Naruto comparve
esattamente tra Hitoshi e Jiraya.
«Lo sapevo!» sbottò
istantaneamente. «Sei venuto senza di me! Come hai
potuto?»
«Appunto...» sospirò
Jiraya.
«Un momento» intervenne
Hitoshi,
balzando giù dal letto per oltrepassare Naruto.
«Mi è venuta in
mente una cosa... Potrei leggere gli appunti di cui mi ha parlato.
Forse troverei qualche indicazione utile per il rin'negan.»
«Allora è
rin'negan!» esclamò
Naruto, inascoltato.
«Questo si può fare»
approvò
Jiraya. «Non appena Sakura ti avrà dimesso ci
lavoreremo insieme.»
«Io e lei?» Hitoshi fece una
smorfia, a metà tra l'onorato e il reticente.
«Con lui ho fatto un buon
lavoro»
brontolò Jiraya additando Naruto. «E guarda che
era partito
malissimo.»
«Ehi, ero già praticamente
perfetto quando ci siamo conosciuti!» protestò
Naruto. «Ma questo
non è il momento di parlarne. Hitoshi, cosa vi siete detti
tu e la
Volpe?»
«Niente.»
«Come niente?»
«Niente. Mi ha detto che ero
ignorante e dovevo chiedere a Jiraya perché.»
Naruto provò a interrogare
Kyuubi, ma ottenne solo una bassa risata dal profondo. «E non
è
successo altro?» tentò ancora. «Dai,
dimmi qualcosa sul suo
passato... Lei è sempre così
scorbutica.»
Hitoshi fece per aprire bocca, ma
si accorse di non sapere come rispondere. La Volpe era comparsa, lo
aveva insultato, e poi... Poi si era svegliato. Non era successo
altro.
Non
fidarti di Kyuubi. Non hai nessun debito nei suoi confronti.
Che strano pensiero,
all'improvviso...
«La Volpe ha detto che ho un
debito con lei, ma ho l'impressione che cercasse di fregarmi.»
«Non saresti il primo né
l'ultimo che si fa fregare da Kyuubi. Vero, Naruto?»
esclamò
Jiraya, con un'occhiata al vecchio allievo. Naruto
tossicchiò,
negando tutto.
Hitoshi rimase pensieroso ancora
un momento. Davvero c'era stata solo la Volpe nel suo sonno?
«Dai, facciamo una prova prima
che arrivi Sakura» sussurrò Naruto in tono
cospiratorio. «Prova ad
attivare il rin'negan.»
«Sakura ci ammazza se succede
qualcosa» lo ammonì Jiraya.
«Se succede qualcosa mandiamo
avanti Kyuubi, e lei non se ne accorgerà mai. Dai,
Hitoshi.»
«Non so come fare...»
«Come hai sempre fatto. Prova.»
Allora Hitoshi si concentrò, come
si concentrava le volte che cercava di attivare lo sharingan.
Sentì
una leggera scossa dietro gli occhi, solo vagamente dolorosa, ma
nella stanza non cambiò nulla.
Jiraya e Naruto ammutolirono.
«Funziona?» chiese il ragazzo
ansiosamente.
Jiraya tirò fuori da una tasca lo
specchio in dotazione standard agli shinobi, aprendolo verso di lui.
Per poco Hitoshi non si riconobbe:
i suoi occhi, solitamente neri e perfetti, ora erano di un grigio
uniforme, cornee incluse, segnati da cerchi concentrici più
scuri.
«Per una volta non sei nemmeno
belloccio» mormorò Jiraya, quasi in soggezione.
Hitoshi sbatté le palpebre e
sentì le energie venire meno, mentre il suo riflesso gli
mostrava
gli occhi che tornavano alla normalità.
«Richiede un sacco di chakra»
boccheggiò, sostenuto da Naruto.
«Ma ce lo abbiamo. E sarà
fichissimo vedere cosa ne tirerai fuori!»
esclamò il
maestro, felice come un bambino.
Hitoshi, dietro le palpebre
abbassate, vide per un secondo il profilo di un uomo con tre
rin'negan.
Ci
penserai a tempo debito,
disse
l'uomo.
Poi scomparve, e con lui anche il
suo ricordo.
Di colpo la porta della stanza si
aprì, dopo una bussata infinitesimale, e Sakura fece il suo
ingresso
con un mucchio di abiti di ricambio e una cena in vassoio sulla cima
della pila.
La prima cosa che vide fu suo
figlio, in piedi, sorretto da Naruto. La seconda, che era senza
ciabatte.
Scoppiò il putiferio.
Sasuke rientrò a casa in tempo
per unirsi alla cena, ma rifiutò. Invece si fece portare un
piatto
di zuppa in ufficio e ci si chiuse dentro da solo.
Lo sharingan di Hitoshi era
evidentemente uno sharingan anomalo. Non riusciva a capire se fosse
difettoso o migliorato rispetto al suo, ma voleva scoprirlo di
persona; la sola parola di Naruto non era sufficiente.
Mentre la zuppa di raffreddava lui
aprì la cassaforte in cui conservava i documenti segreti del
clan.
All'interno erano nascoste decine di libri usurati che racchiudevano
conti, intrighi e nascondigli dei più svariati tesori, ma il
libro
più prezioso era senza dubbio il manuale segreto sullo
sharingan, un
volumetto rilegato in rosso che aveva l'aria più consunta
degli
altri.
Sasuke lo tirò fuori e lo
sfogliò: all'interno era pieno di appunti e note a margine,
tutti
vergati con calligrafie diverse. Riconobbe una riga scritta da suo
padre e avvertì una stretta al petto. Subito accanto, poche
parole
di Itachi.
Cambiò pagina rapidamente,
arrivando fino alla prima. In uno stile ormai quasi illeggibile, con
inchiostro ormai sbiadito, l'autore del manuale aveva rivolto un
messaggio ai suoi eredi. Chissà chi era? Cosa aveva voluto
dire?
Qualcuno bussò alla porta dello
studio. Sasuke richiuse in fretta il libro e lo fece scivolare sotto
la scrivania. «Sì?»
«Posso entrare?»
Sasuke si rilassò e diede il
permesso, tirando fuori di nuovo il manuale. Dalla porta scorrevole
comparve Fugaku, che si massaggiava nervosamente un braccio.
«Come... Come sta Hitoshi?»
domandò.
«Si è svegliato. Sembra che
stia
bene, ma tua madre vuole aspettare l'esito degli esami per
dirlo.»
Fugaku annuì. Per evitare lo
sguardo di Sasuke posò gli occhi sul libro rosso che
stringeva, e
riconoscendolo si irrigidì. «Quindi ha lo
sharingan?»
«Probabilmente...»
mormorò
Sasuke. «Ma non ne siamo ancora sicuri.»
«Non c'era quando eravamo in
missione!» sbottò Fugaku. «Ho guardato,
ti giuro che l'ho
guardato! Non c'era!»
«Potrebbe essere uno sharingan
anomalo. Spiegherebbe perché è stato
più lungo da sviluppare,
perché vede cose che tu non vedi...»
«Oppure Hitoshi ha mentito per
tutto il tempo e sta fingendo anche adesso.»
Sasuke tacque, fissando Fugaku. Il
ragazzino resse il suo sguardo per pochi secondi, poi
arrossì.
«E' un bene che i tuoi fratelli
sviluppino lo sharingan» disse Sasuke lentamente.
«Il nostro clan
basa il suo orgoglio sullo sharingan. Considerato che tua madre non
è
nata Uchiha, è già tanto che tu, Hitoshi e Mikoto
abbiate ereditato
i vostri occhi.»
«Però...!»
scattò Fugaku,
interrompendosi quasi subito. Si morse le labbra. Come spiegare al
padre che voleva ricevere il dovuto riconoscimento per aver
sviluppato lo sharingan prima e meglio di Hitoshi? Come fargli capire
che aveva bisogno delle sue lodi?
«Però cosa?»
«Niente.»
Sasuke sospirò. Fugaku gli
ricordava un po' se stesso da piccolo: sempre in corsa, sempre sulla
scia del fratello maggiore... Ma non era lui a poterlo liberare della
sua ombra: finché Fugaku non avesse superato la cosa da
solo, lui
avrebbe potuto lodarlo all'infinito, eppure non sarebbe mai bastato.
«So che domani hai una missione
importante» disse, cambiando discorso. «Ti sei
preparato?»
«Come sempre.»
«Bene. Continua così. Buona
notte, Fugaku.»
Fugaku ricambiò il saluto,
chinò
rapidamente la testa e uscì dallo studio. Sasuke
sospirò, riaprendo
il manuale sullo sharingan. Ogni tanto si chiedeva come diavolo
facessero gli altri padri a dire sempre la cosa giusta. A lui non
riusciva mai.
Mentre borbottava qualcosa sulla
maledizione di avere sei figli ancora piccoli, le sue mani fecero
voltare le prime pagine del libro, in cerca di indizi sullo sviluppo
dello sharingan.
Non vide i caratteri della dedica
iniziale che perdevano un poco del loro pallore, facendosi
più
definiti. Tra essi, spiccavano gli ideogrammi che componevano la
parola eremita.
Naruto aveva sempre avuto una
imbarazzante tendenza alla teatralità. Nel corso delle
missioni
questo si traduceva spesso in ritardi, scompiglio e azzardati
recuperi dell'ultimo minuto; nei momenti di calma si traduceva in
improbabili melodrammi tragicomici.
Assecondando le sue inclinazioni
alla ricerca di un pubblico, Naruto decise di comunicare le notizie
sul rin'negan convocando personalmente Sakura e Sasuke.
«Lo sai che si arrabbieranno per
questa sceneggiata?» chiese Jiraya, rovistando con un dito in
una
narice. Era stravaccato sul divano nella stanza di Hitoshi, e teneva
un pacchetto di patatine sulla pancia come se fosse davanti a uno
spettacolo.
«Certo che si arrabbieranno. Ma
è
tutta la vita che aspetto il momento di sbattere in faccia a Sasuke
un te l'avevo detto, non puoi togliermi il trionfo
proprio
ora» ribatté Naruto piccato, camminando avanti e
indietro accanto
al letto di Hitoshi.
«Io non voglio
responsabilità»
ricordò quest'ultimo. «Non sono d'accordo con
questa pagliacciata,
e se mia madre se la prende voglio restarne fuori!»
«Tu diventerai il loro cocco per
sempre, fidati.»
In quel momento Sakura aprì la
porta della stanza senza bussare, e si precipitò dentro
insieme a
Sasuke, trafelata.
«Che succede? Perché ci hai
fatti chiamare?» esordì puntando dritta verso il
letto di Hitoshi.
Naruto
tese una mano a fermarla, fissandola severamente.
«Allora?»
insisté Sasuke dopo pochi secondi di immobilità.
«Dovrete
essere forti...» mormorò Naruto.
I
due Uchiha raggelarono, fissando lo sguardo sul figlio. Hitoshi in
quel momento nascondeva il viso dietro una mano, con espressione
abbastanza ambigua per sembrare preoccupata. Jiraya invece
sgranocchiava patatine, e il lavorio delle mascelle nascondeva la
risata che gli premeva in gola.
«D’ora
in poi sarà dura...» proseguì Naruto,
chinando la testa con aria
compita. «Ma voi siete resistenti, lo so meglio di chiunque
altro.»
Sakura
serrò i denti. «Se non ci spieghi subito giuro
che...»
«Insomma,
avevo ragione» si arrese Naruto, incapace di nascondere
ancora
l’orgoglio. «Dovrete baciarmi i piedi per un mese,
perché grazie
alle mie brillanti intuizioni Hitoshi non ha sviluppato quella mezza
schifezza dello sharingan, ma la sua versione evoluta: il rin'negan.»
«Il
cosa?» chiese Sakura, mentre Sasuke sussultava.
«E
qui intervengo io» sospirò Jiraya, tirandosi su
dal divano per
mettere in mano a Naruto il pacchetto di patatine. «Il
rin'negan era
la tecnica oculare dell'Eremita delle Sei Vie, di cui, al contrario
di quell'ignorante di Naruto, sicuramente avrete sentito parlare.
Naruto
scoccò a Jiraya un'occhiata indignata, ma Sakura e Sasuke
spalancarono la bocca, fissando Hitoshi come se lo vedessero per la
prima volta. Lui arrossì, però si mise un po'
più dritto, suo
malgrado orgoglioso.
«La
mia teoria è che in qualche modo il rin'negan sia stato
stimolato
dal chakra della Volpe, con cui Hitoshi ha avuto a che fare
più di
tutti noi» continuò Jiraya. «Orochimaru
aveva studiato la cosa:
secondo lui era possibile che byakugan e sharingan, entrambi derivati
dal rin'negan, evolvessero in rin'negan in presenza di condizioni
particolari. Purtroppo i frammenti che ho raccolto dai suoi appunti
sono incompleti... Non sono nemmeno sicuro della mia teoria, ma
Hitoshi ci ha mostrato il suo rin'negan e su questo non ci sono
dubbi.»
«Quindi,
chi aveva ragione?» esclamò Naruto, il petto
proteso fino a
scoppiare.
«Tu...
Tu sei...» disse Sakura, stralunata. «Naruto, sei
il più grosso
idiota che abbia mai conosciuto!»
«Fosse
la prima volta che me lo dici, potrei anche offendermi»
replicò
lui. «Ma dovremmo essere alla trecentesima, o giù
di lì. E
comunque è merito mio se Hitoshi finalmente può
diventare uno
stronzo bastardo come il padre, perché senza questa missione
non
avrebbe scoperto il suo rin'negan; e se è merito mio voi
avete un
gigantesco debito con me, il che non sarà proprio
divertente, vero?»
il suo sorriso si allargò a dismisura. «Sapete che
le mie bambine
non vedono l’ora di essere ospiti da voi per una settimana?
Sono
sempre state così curiose di vedere le stanze private di
Hitoshi!»
Gli
Uchiha si irrigidirono. Ci fu un attimo di impasse, un lungo,
sfrigolante attimo in cui l’aria della stanza si divise in
una zona
gelida e una bollente. Alla fine Sakura sospirò, scuotendo
la testa.
«A
stare con te la vita di una persona non fa che
accorciarsi...»
borbottò.
«Potreste anche mostrare un po'
più di entusiasmo» si lamentò Naruto.
«Diglielo anche tu,
Hitoshi!»
«Io non ero d'accordo con questa
pagliacciata» fu ciò che esclamò
Hitoshi.
«Ingrato!»
«Va bene, Naruto, sei stato
bravo» intervenne Jiraya. «Adesso però
vieni con me; ora che
Hitoshi è sistemato hai altre cose di cui
occuparti.»
«Ma nessuno di loro mi ha
ringraziato!»
«Sparisci o ti faccio a pezzi!»
ruggì Sakura, trattenuta da Sasuke.
Di fronte alla minaccia Jiraya si
affrettò a portare via Naruto, lasciando soli gli Uchiha.
Allora
Sasuke lasciò andare la moglie, e insieme raggiunsero
Hitoshi.
Sembravano intimoriti, preoccupati, ma in fondo all'ansia brillava
una scintilla di ammirazione.
«Non sappiamo niente di questo
rin'negan...» mormorò Sakura, prendendo il viso
del figlio tra le
mani come se le risposte fossero nei suoi occhi.
«Chiederò a
Shizune di fare qualche ricerca. Forse tra le carte della maestra
Tsunade troverà qualcosa di utile.»
«Come funziona?» chiese invece
Sasuke, guadagnandosi un'occhiata di disappunto da Sakura.
«Non lo so bene nemmeno io»
ammise Hitoshi. Si sentiva di nuovo piccolo, in imbarazzo. Aveva una
nuova tecnica strabiliante, ma nessuno sapeva come usarla, lui meno
di tutti. «Per ora sembra che si attivi come lo sharingan, ma
si usa
in maniera diversa.»
Sasuke fece per chiedere di
provare ad attivarlo, ma Sakura lo fermò prima:
«non ci pensare
nemmeno! Adesso Hitoshi deve finire i controlli e riprendersi, poi
farete tutte le prove che volete.»
Padre e figlio si scambiarono uno
sguardo, ma non osarono protestare. Sakura fece scivolare la mano
lungo il viso di Hitoshi, accarezzandogli la guancia. «Non mi
interessa cosa ci sia dentro i tuoi occhi... A me basta che tu stia
bene.»
Hitoshi abbassò lo sguardo.
Sapeva che anche Sasuke aveva fatto la stessa cosa, perché
sentiva
che entrambi stavano elaborando il medesimo pensiero: solo un
Uchiha può capire.
Jiraya si riprese le patatine che
aveva lasciato a Naruto, affondando la mano e scoprendo con
disappunto che doveva arrivare fino in fondo per trovare qualcosa.
«E' andata bene, giusto?»
chiese
l'allievo, mentre attraversavano i lunghi corridoi dell'ospedale.
«E' solo l'inizio» rispose il
maestro. «Il rin'negan è un'arma potentissima se
Hitoshi impara ad
usarlo, ma finché non sappiamo cosa farcene è
come non averlo.
Piuttosto, mi stavo chiedendo una cosa...» Jiraya smise di
camminare, e Naruto lo fissò, interrogativo. «Se
l'Eremita delle
Sei Vie ha creato i Bijuu utilizzando il rin'negan, può
essere che
il rin'negan di Hitoshi abbia potere su Kyuubi?»
Naruto corrugò la fronte. Il suo
primo istinto fu di difendersi, di difendere la creatura con cui
aveva diviso lo spirito per tutti quegli anni, ma lo
controllò.
«Dubito che un ragazzino con una
tecnica sconosciuta possa farci paura» cercò di
sdrammatizzare.
Jiraya serrò leggermente le
labbra, prima di parlare di nuovo. «Tu e la Volpe siete due
creature
distinte, Naruto. Smettila di parlare al plurale, lo facevi quando
hai perso la testa a diciotto anni.»
Naruto accusò il colpo,
distogliendo lo sguardo. «Sai cosa intendo, dai... Non ci
sarà mai
bisogno di mettere Kyuubi e il rin'negan uno contro l'altro.»
«Lo spero, Naruto. Lo spero.»
Jiraya sospirò profondamente,
riflettendo su come la vita unisce e separa le persone: neanche lui
avrebbe mai pensato di ritrovarsi a combattere con Orochimaru per
decidere chi doveva vivere, eppure era accaduto. Si augurava che per
Naruto le prove fossero finite, ma sapeva per esperienza che una
persona come lui non sarebbe mai rimasta in pace troppo a lungo...
«Adesso basta Uchiha, mi fanno
venire l'orticaria!» esclamò il sennin, passando
un braccio attorno
al collo di Naruto e riprendendo a camminare. «Hai ancora
quell'incosciente di Chiharu da strigliare, e devi farmi sapere se
Baka potrà continuare a farmi da musa per la saga della
Pomiciata o
verrà consegnato nelle mani di Gaara. Ma attento: se
è la seconda
opzione avrai tutti i miei fan contro!»
«Cosa? Baka ti fa da musa per la
saga della Pomiciata? Stai scrivendo un libro omosessuale?»
«Non essere ridicolo! Lo uso
perché i verginelli hanno una fantasia molto più
fervida dei padri
di famiglia come te.»
«Baka verginello? Ma da quando?
E' famoso per cambiare una donna a settimana.»
«Cambiarle non significa portarle
a letto... E comunque lui è schifosamente innamorato di
Chiharu, che
non gliela darà mai. Quindi mi sarà di
ispirazione per sempre.
Tienilo fuori dalle carceri di Suna, fallo per me...»
Naruto fece una smorfia: tutto
quel parlare di Chiharu gli ricordava che doveva affrontare la sua
questione, anche se non sarebbe stato piacevole. Respirò
profondamente, cercando invano la voglia di farlo, e alla fine
sbuffò.
«Vedrò cosa riesco a
fare...»
mugugnò.
Nel buio Kyuubi meditava.
Lei e il rin'negan, di nuovo
faccia a faccia? Lei e gli occhi di Hagoromo...
Agitò le code, abbassando le
palpebre.
Non sapeva se l'idea la facesse
fremere di timore o impazienza...
* * *
Salve a tutti!
Perdonate l'assenza della scorsa settimana,
ma il nuovo lavoro mi sta succhiando l'anima.
Nonostante ciò sono riuscita a completare anche questo
capitolo,
e finalmente lo metto a vostra disposizione.
Purtroppo non è lunghissimo, ma avevo bisogno di
mettere un punto alla faccenda di Hitoshi, almeno per ora.
Ora dovremmo aver finito con gli Uchiha,
hanno avuto fin troppo spazio.
Dal prossimo capitolo torniamo a rompere le scatole
ai ragazzini!
E a Naruto.
Grazie per la pazienza dimostrata nel seguire questa lunga e lenta
storia,
un abbraccio a tutti.
Susanna
Il prossimo capitolo è amorevolmente dedicato
ai detrattori di Chiharu.
|
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Capitolo 35 *** I sospetti di Sakura ***
Penne 35
08/09/2016
Capitolo
trentacinquesimo
I
sospetti di Sakura
«Non
sono sicuro che tutta questa immobilità faccia davvero
bene.»
«Io
invece sono sicura che seguire gli ordini dei medici sarà
l'unica
cosa che ti permetterò di fare.»
Kotaro,
coricato sotto un mucchio di lenzuola spiegazzate, si rigirò
nervosamente, dando le spalle a sua madre. Tenten era seduta su una
sedia con le gambe accavallate e lucidava un kunai dalla lama
già
scintillante.
Il
povero Kotaro era stato ricoverato non appena lui, Chiharu e Baka
erano tornati da Suna. I medici gli avevano imposto di chiudere tutte
le porte del chakra e lasciare che il corpo recuperasse naturalmente
le proprie energie, ma questo sarebbe successo in non meno di venti
giorni. Il che, per lui, era assolutamente intollerabile.
Purtroppo
o per fortuna Tenten aveva deciso di interrompere la scia degli
insegnamenti disastrosi del marito e si era sostituita a lui
nell'educazione del suo primogenito, almeno temporaneamente: per
essere sicura che Kotaro seguisse alla lettera le prescrizioni
mediche si era installata nella sua camera d'ospedale e non aveva
più
levato le tende. Era umiliante, ma accompagnava Kotaro persino in
bagno – per essere sicura che non tenti la fuga
dalla finestra,
diceva.
«Ormai
sono inchiodato qui da giorni!» tentò ancora
Kotaro, muovendo i
piedi sotto le lenzuola come un bambino. «Mi fa male la
schiena.»
«Quella
ti fa male perché ti sei rotto due costole»
replicò Tenten.
L'unica
pausa dal tormento materno erano le visite: fino a quel momento erano
venuti a trovarlo il maestro Gai, Naruto e i parenti. Solo in quel
momento Kotaro si era accorto di non avere tanti amici... Gli unici
che chiamava tali erano, a quanto gli era stato riferito, entrambi
ricoverati. E nessuno poteva andare a trovare gli altri.
Almeno
Baka poteva portarmi due arance e un manga... Maledetto spocchioso
arrogante.
Kotaro
stava quasi pensando di convincere sua madre a metterlo su una
carrozzina, quando Mei comparve sulla porta, carica di abiti di
ricambio per Tenten e un cestino di frutta fresca.
«Ciao
mamma, ciao fratello scemo.»
«Sei
venuta a liberarmi?» chiese Kotaro, cercando di tirarsi a
sedere.
Tenten lo bloccò puntandogli contro il kunai lucidato.
«Magari»
sospirò Mei, depositando i vestiti e portando la frutta fino
al
letto. «La casa è un disastro e io sono
completamente incapace di
cucinare. Mamma, ti prego, ritorna!»
«Tornerò
quando potrò» rispose Tenten, afferrando una mela
senza abbassare
il kunai. «Come vedi, tuo fratello non è molto
bravo a seguire le
terapie.»
Mei
sbuffò, scoccando un'occhiataccia a Kotaro.
«Non
guardarmi così: io sto bene! Se non mi puntasse un kunai
contro
sarei già in piedi.»
«Per
correre da Chiharu?»
Tenten
reagì prima che Kotaro, rosso e indignato, scattasse in
risposta:
«Mei, non rendere il mio lavoro più difficile.
Torna a casa, sono
sicura che ci siano un milione di lavori che puoi fare.»
«Tutti
quelli che di solito fai tu...» borbottò lei, che
dopotutto aveva
solo quattordici anni.
Tenten
fece un respiro profondo e abbassò il kunai puntato contro
Kotaro.
«Allora fai qualcosa di utile: prima che tuo fratello esploda
dalla
curiosità, fai un giro a raccogliere notizie dei suoi
compagni di
squadra. Magari se si calma un po' riesco a tornare.
Chiharu
non sapeva quanti giorni fossero passati dal loro rientro a Konoha,
ma da allora non era più riuscita a dormire bene.
Non
aveva idea di quante notti in bianco avesse fatto, né di
quanti
giorni sonnolenti le avessero seguite. L'unica cosa di cui era certa
era che per tutto il tempo Shikaku era sempre stato nella sua camera:
i medici non gli avevano detto niente, per fortuna, ma a causa di
questo era rimasto nervoso e taciturno.
Chiharu
capiva che non sarebbe durata in eterno: prima o poi il nonno avrebbe
preteso di sapere cosa stava succedendo, e se per disgrazia non fosse
riuscito a scoprirlo avrebbe richiamato Temari e Shikamaru, per non
parlare di Yoshino, che l'avrebbero costretta a vuotare il sacco. Ma
fintanto che sonnecchiava, Shikaku non insisteva. E a lei non costava
proprio niente, anzi le veniva naturale.
Mentre
stava sospesa a metà tra il sonno e la veglia il nonno le
aveva
raccontato che anche Kotaro e Hitoshi erano ricoverati. Hitoshi, a
quanto si diceva, era rimasto ferito nella missione in cui avevano
catturato Iida; Kotaro era stato costretto a letto dai medici.
Ma
a Chiharu non interessava, non in quel momento. In quel momento
l'unica cosa che occupava spazio nella sua mente erano le parole del
dottore che l'aveva vista: se vuoi arrivare ai vent'anni,
devi
lasciare il mestiere di ninja.
Era
venuto altre volte dopo la prima: avvolto nel suo camice bianco,
impettito e distante, le aveva annunciato l'esito di alcuni esami, le
aveva portato i fogli sulla riservatezza, l'aveva visitata. Ma se ne
era sempre andato scuotendo la testa pelata, e lei aveva sentito
l'umore scendere più giù di volta in volta.
Devi
lasciare il mestiere di ninja.
Cosa
avrebbe potuto fare, a parte quello? Se si soffermava a pensarci
troppo le veniva da piangere, e dato che non voleva scatenare le
domande di Shikaku si costringeva a ricacciare giù le
lacrime,
posticipando sempre lo sfogo. Aveva passato la vita intera a studiare
per essere ninja. Negli ultimi cinque anni tutti i suoi
sforzi
erano stati tesi a migliorare, ad essere all'altezza delle
aspettative di Naruto, a oltrepassare i limiti imposti dal suo cuore.
Aveva fatto tutto quello che poteva per restare in corsa, ma il
risultato era che aveva fallito comunque. Che senso aveva avuto il
suo impegno?
Era
contenta che nessuno fosse venuto a trovarla: non sarebbe stata
felice di mostrarsi in quelle condizioni a qualcuno che non fosse un
parente stretto. E, in effetti, nessuno che non fosse un parente
stretto si era presentato. Nemmeno Baka o Yoshi. Ci aveva pensato,
tra un incubo e l'altro, ma era stata troppo presa dai suoi problemi
e aveva perso subito interesse.
Concentrata
sulla sua tragedia personale aveva smarrito anche la nozione delle
ore che passavano. Non sapeva se fosse mattina o pomeriggio quando
bussarono alla porta della sua stanza, ma Shikaku si alzò
subito in
piedi, segno che doveva essere importante. Chiharu tese l'orecchio,
continuando a dare le spalle al nuovo arrivato.
«Ci
sono notizie?» chiese Shikaku.
«Devo
parlare con Chiharu. Da solo.»
Allora
lei si voltò, riconoscendo la voce di Naruto. Il maestro era
in
piedi sull'ingresso, scuro in volto. Chiharu si mise sulla difensiva.
Shikaku
li lasciò soli dopo essersi concesso una brevissima
esitazione, e a
quel punto, una volta chiusa la porta che dava sul corridoio, maestro
e allieva si trovarono faccia a faccia, come cinque anni prima.
Naruto
si passò una mano sul viso, con una smorfia di insofferenza.
Detestava dover essere lì, detestava non poter
più posticipare
l'incontro, detestava Jiraya che gli aveva ricordato le sue
responsabilità. Detestava anche la faccia bellicosa di
Chiharu,
perché già sapeva che sarebbero finiti a litigare.
«Sai
perché ti devo parlare?» le chiese.
«Forse»
rispose lei cautamente. «Ha a che fare con la mia ultima
evocazione?»
«E
con cos'altro potrebbe aver a che fare?»
Chiharu
serrò le labbra. Naruto era anche più permaloso
del solito, il che
significava che stava per dirle qualcosa che non gli piaceva.
Probabilmente aveva parlato con il medico che le aveva proibito di
continuare ad essere ninja e adesso le avrebbe fatto una sfuriata.
«Siamo
stati insieme per cinque anni, Chiharu» riprese Naruto,
iniziando a
camminare avanti e indietro in fondo al letto. «So che tu e i
tuoi
compagni siete degli schifosi individualisti, ma pensavo di avervi
insegnato almeno una cosa, in tutto questo tempo; una!»
Chiharu
aggrottò la fronte, francamente perplessa. Naruto si
riferiva alla
prudenza? E quando mai aveva insegnato a qualcuno la prudenza, o
anche il buonsenso, se per questo? «Invece, dopo cinque
anni,»
continuò lui, sempre più nervoso,
«scopro che per te essere ninja
significa soltanto completare le missioni e portare a casa la pelle,
e chi se ne frega se per farlo hai sacrificato uno dei tuoi! Ancora,
come se non fosse cambiato niente dal primo giorno.»
«Io
ti ho salvato!» sbottò lei
indignata. «Stavi per essere
ammazzato! Scusa se non mi sono preoccupata di stare attenta a non
far male a nessuno mentre cercavo di tenerti in vita...»
Naruto
smise di camminare e fece un gesto per zittirla. «Lo vedi?
Non
capisci neanche di cosa parlo!»
Il
gesto funzionò, perché Chiharu effettivamente
tacque, con la rabbia
che pulsava sotto pelle.
«L'evocazione,
Haru» sibilò allora Naruto. «Tu sai cosa
succede a un'evocazione
se ti riprendi il chakra che hai usato per richiamarla?»
Solo
allora lei capì.
Naruto
non era arrabbiato perché aveva messo in pericolo se stessa:
era
arrabbiato perché per non lasciarci le penne aveva rispedito
nella
sua dimensione un'evocazione di chakra, e quando questo accadeva le
evocazioni morivano.
«Le
evocazioni sono compagni come Hitoshi e Kotaro»
esclamò lui. «Non
puoi pensare di evocarli quando ne hai bisogno e liberartene se
diventano d'intralcio. Un buon ninja è colui che si
preoccupa sempre
dei suoi compagni e di chi deve proteggere. Se lasci che uno dei tuoi
muoia per salvare te stessa, allora sei feccia.»
«Stai
dicendo che sarei dovuta morire?» lo interruppe Chiharu.
«No,
certo che no!» Naruto si scompigliò i capelli.
«Sto dicendo che se
fai cazzate troppo grosse non puoi pararti il culo sulla pelle degli
altri! Non dovresti fare cazzate troppo grosse, prima di tutto... Ma
se succede, non puoi farlo pagare ai tuoi compagni.
Mai.
Pensavo che almeno questo ti fosse arrivato, dopo tutte le missioni
che abbiamo fatto insieme.»
«Quindi
sarei dovuta morire» ripeté lei. Questa volta non
era una domanda.
«Non
stravolgere quello che dico» lui le puntò un dito
contro. «Sono
contento che tu sia viva, certo che sono contento! Ma come faccio a
portarti in campo se una parte di me pensa che in caso di pericolo
ammazzeresti il tuo vicino per salvarti la vita? Come faccio a
portarti in missione se non sei affidabile?»
«Ma
io ti ho salvato!» ringhiò Chiharu, stringendo le
lenzuola con
rabbia. «Cosa c'è di più affidabile di
una che rischia la sua vita
per salvarti? Dovresti essermi grato, non farmi la predica!»
«Tu
hai sacrificato la tua evocazione quando hai avuto paura. Hai salvato
me e sacrificato lei. Io non valgo più di un altro, nessuno
vale più
di un altro; non tra gli shinobi di Konoha.»
«Bene!»
Chiharu emise una risata secca. «Me ne ricorderò,
la prossima volta
che rischi di morire.»
«Non
ci sarà una prossima volta, Chiharu.»
«Ah,
ma certo. Tu non sbagli mai, non due volte, almeno.»
«No.
Per te non ci sarà una prossima volta:
non voglio shinobi di
cui non mi posso fidare.»
Chiharu
accusò il colpo per un secondo, poi allargò le
braccia. «Non è la
prima volta che te lo sento dire. Ma stai tranquillo: prima delle tue
sparate un dottore mi ha già detto che se voglio arrivare ai
vent'anni devo mollare la carriera, e questa notizia ha fatto un po'
più male. Per salvarti ho dato il colpo di grazia al mio
cuore,
sembra. E mi sto pure prendendo un congedo con disonore.»
Naruto
si bloccò. «Cosa? Quale medico? Quando?»
«Non
te l'hanno detto? Questa volta non c'è niente da fare: o
smetto, o
muoio. Così ti tolgo un bel problema, vero?»
sbottò lei, sapendo
di essere ridicola, sapendo di essere inutilmente crudele, ma
incapace di fermarsi.
«Smettila
di fare la cretina. Chi è venuto a parlarti? Come si
chiama?»
«Sei
l'Hokage... Saprai bene chi si occupa dei tuoi allievi, anche se sono
soltanto ex» Chiharu incrociò le braccia e si
infossò nei cuscini,
puntando lo sguardo oltre la finestra.
Naruto
emise un verso di esasperazione. «Sei sospesa da tutte le
attività
fino a nuovo ordine» decretò. «Prima di
prendere una decisione
devo capire con chi diavolo hai parlato.»
E
perché non mi è stato riferito niente.
«Bene»
deglutì Chiharu.
Naruto,
senza salutare, uscì nel corridoio.
«Arrivederci»
mormorò lei al vuoto.
Allora,
inaspettatamente, le tornò alla memoria un ricordo. Risaliva
ad
alcuni anni prima, dopo gli eventi della nascita di Minato, ed era un
ricordo a cui ripensava di tanto in tanto.
Un
giorno, raccogliendo il coraggio e la faccia tosta, aveva chiesto a
Naruto di Kyuubi; gli aveva detto che aveva fatto delle ricerche e
che sapeva del demone. Lui, ben poco stupito, aveva risposto a tutte
le sue domande: da quanto tempo era un Jinchuuriki, perché
proprio
lui, come funzionava... Le aveva parlato di Minato Namikaze e Kushina
Uzumaki, le aveva raccontato la sua storia. Avevano passato insieme
una serata intera, poi Naruto l'aveva accompagnata a casa
perché
Temari non le facesse una sfuriata.
Erano
stati così vicini, quel giorno. Lui l'aveva ascoltata senza
criticare le sue domande, come un'adulta.
Oggi,
invece, non l'aveva nemmeno guardata. Era venuto, aveva fatto il suo
discorso ed era sparito senza ascoltare. Non le aveva lasciato il
tempo di spiegare che i chakravakam non muoiono quando vengono
privati del chakra, perché non sono un'evocazione come le
altre...
Anche
se, a dire il vero, Chiharu non aveva voglia di spiegargli
più
nulla.
Ammirava
Naruto, lo ammirava sconfinatamente: lui aveva la forza e l'energia
di perseguire i suoi obiettivi, cosa che a lei mancava; ma se lui la
rifiutava, se lui smetteva di incoraggiarla, allora la sua immagine
sbiadiva come inchiostro al sole, lasciando solo indifferenza.
E
ora?, si
chiese.
Sapeva
cosa si provava a rassegnare le dimissioni, ma non sapeva come
comportarsi quando la medicina e l'autorità la rifiutavano
esplicitamente.
Una
parte di lei sarebbe voluta scoppiare a piangere, però era
una parte
piccola e lontana; qualcosa, un gran peso in mezzo al petto, come una
pietra, le impediva di lasciar spazio a quello che provava.
Bussarono
alla porta, e riconobbe la mano di Shikaku.
«Haru?
Hai, visite, te la senti di riceverle?» chiese aprendo di una
spanna.
«No.»
«Va
bene. Vuoi che me ne vada anche io?»
«No.»
«Arrivo
subito.»
Shikaku
scomparve dalla fessura.
Chiharu
sistemò una ciocca di capelli che ricadeva davanti agli
occhi,
tornando a dare le spalle alla porta.
Coricata
su un fianco, fissava il muro senza sbattere le palpebre.
La
piccola parte di lei che voleva piangere premeva contro la pietra al
centro del petto; ma non c'era niente da fare, quella pietra non si
muoveva.
Mei
impiegò un bel po' per trovare la stanza di Chiharu.
Stranamente
le avevano assegnato una singola, anche se non era una di quelle
lussuose, e per individuarla la ragazzina perse quasi un'ora. Era in
un reparto strano, mezzo deserto, in un'ala lontana da tutto.
Chi
me l'ha fatto fare?,
si chiese
stizzita, consultando la cartina che le aveva fatto un'impiegata
dell'accettazione.
In
pieno borbottio di protesta emerse lungo un corridoio spettrale. Un
uomo era seduto da solo su una sedia, con una lattina di
caffè e un
giornale in mano. All'altro capo della stanza un altro uomo guardava
fuori dalla finestra.
Per
un secondo Mei fu certa che entrambi la squadrassero.
Con
cautela arrivò in fondo al corridoio, fingendo di non
sentirsi
osservata. La stanza di Chiharu doveva essere lì; fuori da
una delle
tre porte sul lato sinistro vide un uomo anziano con un improbabile
codino, e riconobbe subito il clan Nara.
«Chiedo
scusa, è questa la stanza di Chiharu Nara?» chiese
nervosamente.
«Sta
ricevendo una visita importante in questo momento, ma l'hai
trovata»
rispose l'uomo. «Sei la figlia di Rock Lee, vero?»
«Sì.
Mio fratello è ricoverato in un altro reparto e non
può muoversi...
Mi ha chiesto di fare un giro dell'ospedale per sapere come stanno i
suoi compagni.»
«Anche
a me piacerebbe sapere come stanno» borbottò
Shikaku tra sé. «Se
hai tempo possiamo aspettare insieme.»
Mei
guardò nervosamente la porta: non aveva intenzione di
perdere più
di dieci minuti dietro a Chiharu Nara, ma il vecchio era cortese e
non voleva offenderlo. Accettò l'offerta, sedendosi accanto
a lui.
Dalla porta chiusa provenivano voci smorzate.
«Questo
che reparto è?» chiese Mei guardandosi intorno.
«La
vecchia ala delle sale parto» rispose Shikaku.
«Pensavo che ormai
fosse caduta in disuso, invece funziona ancora»
gettò un'occhiata
di sottecchi alla fine del corridoio. «Anche se non ho visto
altri
pazienti... solo un paio di visitatori costanti.»
«In
che senso?»
«Mi
piacerebbe saperlo, credimi. Ci capisco sempre meno.»
Mei
pensò che il signore cortese forse aveva qualche rotella
fuori
posto, ma non lo disse.
In
quel momento le voci nella stanza di Chiharu si alzarono di volume,
poi si riabbassarono, e infine la porta si aprì senza
preavviso,
lasciando uscire un Naruto dall'aria corrucciata.
«Shikaku,
come si chiama il medico che è venuto a
visitarla?» chiese subito,
senza salutare né dare segno di essersi accorto di Mei.
«Senju,
mi pare. Perché? Che sta succedendo? Nessuno mi dice
niente...»
Naruto
ebbe un'illuminazione. «Il pelato! Ah... Scusa, Shikaku, non
posso
dirti nien...» Naruto alzò lo sguardo e
incrociò quello dell'uomo
che guardava fuori dalla finestra, il quale si affrettò
subito a
spostarlo. L'altro, quello che leggeva il giornale, aveva cambiato
sedia, e adesso era proprio di fronte a lui. «Li hai visti
altre
volte?» sussurrò Naruto, abbassando repentinamente
la voce.
«Tutti
i giorni. Ogni tanto cambia coppia, ma sono sempre in due. Non
vengono a trovare nessuno.»
Naruto
studiò il volto dell'uomo che cercava di nascondersi dietro
al
giornale. «Devo trovare Sakura...»
mormorò dopo un istante. «Ci
vediamo.»
Fece
un cenno sbrigativo e si allontanò a passi lunghi, lasciando
Mei e
Shikaku.
«Vuoi
provare a entrare?» chiese lui. Sospirò,
perché ancora una volta
non era riuscito a scoprire niente della salute di Chiharu.
«Non
ne sono sicura...» disse Mei, facendo una smorfia.
«Quante
probabilità ci sono che Chiharu sia dell'umore
giusto?»
«Quasi
nessuna.»
«Ok,
allora le chieda se posso entrare: dirà di no, ma Kotaro non
potrà
lamentarsi.»
E
Chiharu disse di no, senza nemmeno un'esitazione. Mei
ringraziò
Shikaku, lo salutò e prese la strada del ritorno, tutto
sommato
sollevata: non aveva mai avuto confidenza con i compagni di squadra
di Kotaro, perfettini e spocchiosi come erano, e soprattutto con la
femmina del gruppo, che così poco aveva a che fare con lei;
l'ultima
volta che aveva parlato con Chiharu era stato alla sua festa di
compleanno, e solo per dirle che se ne andava.
Attraversò
di nuovo tutto l'ospedale, ritornando all'ingresso per imboccare le
scale dirette all'ala vip. Lungo la strada riconobbe Jin, il figlio
dell'Hokage, che prendeva uno snack a una macchinetta, il che le fece
capire che quello sarebbe stato proprio il giorno degli snob;
avendoci parlato al massimo un paio di volte non lo salutò
nemmeno.
Salì
altre due rampe, girò almeno tre angoli, e infine raggiunse
quella
che in teoria era la stanza di Hitoshi Uchiha.
Se
lo sapessero le mie amiche, altro che invidia!,
pensò, ferma davanti alla porta.
Fece
un respiro profondo. Doveva solo entrare, chiedergli se stava bene e
uscire. A Kotaro sarebbe dovuto bastare.
Alzò
il braccio e bussò.
Questo
manuale è rivolto agli eredi dell'eremita delle Sei Vie,
nella
speranza che sia fonte di ispirazione per percorrere il retto
cammino.
«Figli
miei, non temete il futuro:
esso
è già scritto nei vostri occhi, se saprete
vedere.»
Queste
sono le parole dell'eremita.
Fatene
tesoro, eredi del rin'negan, e agite consapevolmente.
Non
c'era firma.
La
prima pagina del manuale segreto dello sharingan conteneva quelle
poche righe ambigue, senza nessuna rivendicazione.
Ma
anche senza nomi, Hitoshi, leggendole e rileggendole fino a
conoscerle a memoria, sapeva che erano rivolte a lui.
Sfiorò
con le dita la carta ingiallita e l'inchiostro riemerso dalla
polvere. Sasuke aveva detto che quella pagina era sempre stata
sbiadita e illeggibile, finché lui non aveva sviluppato il
rin'negan. Non appena si era accorto della comparsa della dedica,
Sasuke aveva capito che il figlio aveva bisogno del manuale,
così
era tornato in ospedale per portarglielo.
Hitoshi
non avrebbe mai pensato di vedere quello sguardo sul viso di suo
padre... Mai, almeno rivolto a lui: riconoscimento, orgoglio.
Ammirazione.
Qualcun
altro si sarebbe offeso perché venivano solo dopo il
rin'negan, ma
non un Uchiha. Per un Uchiha quello era il più alto dei
riconoscimenti.
Hitoshi
aveva sfogliato il manuale in lungo e in largo, cercando altre frasi
misteriose, ma non aveva trovato niente.
Forse
dipendeva dal fatto che era troppo confuso da ciò che aveva
accompagnato la consegna: chissà cosa era passato per la
testa di
Sasuke in quei momenti, chissà cosa era scattato... Qualcosa
di
imponderabile, senza dubbio, forse la conseguenza dei pensieri che
gli frullavano per il capo da quando qualcuno aveva detto che negli
occhi di Hitoshi c'era qualcosa...
Dopo
avergli dato il manuale, Sasuke era rimasto fermo accanto al letto,
fissando Hitoshi. Per la prima volta, dopo il più grande,
più
stupido e più imperdonabile dei ritardi, si rese conto che
lui e suo
figlio erano uguali. Davvero uguali, al di là della
somiglianza
fisica, dell’atteggiamento, del cognome: nelle frustrazioni,
nelle
aspirazioni, solo ora Sasuke si riconosceva in Hitoshi con disarmante
chiarezza.
In
un certo senso ne fu confortato, quasi illuminato: tutte le volte che
aveva avuto la tentazione di confessarsi, tutte le volte che aveva
provato l'impulso di farlo, si riunivano in quel minuscolo momento
imprevedibile.
Allora
prese un respiro profondo.
Inspirò,
abbassò lo sguardo su un punto neutro del pavimento, e senza
volerlo
si irrigidì. Era come liberarsi di nuovo del sigillo di
Orochimaru... ugualmente faticoso e doloroso. Ma necessario. Con una
mano andò a sfiorare il collo.
«Hitoshi...»
Il
ragazzo smise di sfogliare il manuale; l’aria era cambiata.
«Ci
sono alcune cose... molte cose che devo raccontarti. E devo farlo
adesso. Vuoi ascoltarle?»
Era
stato un racconto lungo e complesso.
Alcuni
avvenimenti Hitoshi li conosceva già, perché
erano scritti su tutti
i libri di storia contemporanea; altri, invece, non glieli aveva
detti nessuno.
Dalle
labbra di Sasuke aveva appreso la sua versione degli ultimi
trentacinque anni di Konoha: il tradimento di Itachi, lo sterminio
degli Uchiha, l'inseguimento e il tradimento di Sasuke. Aveva
conosciuto dettagli che erano rimasti nascosti per volere di Tsunade
- o, più probabilmente, per mediazione di Naruto –
aveva saputo
cosa aveva fatto Sasuke mentre era insieme a Orochimaru e al gruppo
del Falco, aveva saputo di Akatsuki e di Madara.
Poi,
soprattutto, aveva saputo cosa era successo al suo rientro. Aveva
saputo di Sakura e Naruto.
Quella
era stata la parte che più lo aveva disarmato, anche
perché in
diciotto anni di vita non gli era arrivato mai neanche un accenno.
Era la parte che davvero non riusciva a spiegarsi.
Come
poteva Naruto essere ancora amico di Sasuke e Sakura? Come poteva
aver accettato lui come allievo, sapendo che il figlio di Sakura,
secondo i piani, sarebbe dovuto essere anche suo? Come diavolo
riusciva a guardare in faccia Sasuke e non provare ogni volta il
desiderio di farlo a pezzi?
Se
una cosa del genere fosse successa a Hitoshi, non ci sarebbe stato
nessun perdono. Mai. Pensò fugacemente a Chiharu, ma poi si
ritrovò
a ripensare ai suoi genitori e a Naruto, senza capacitarsene.
Alla
fine del suo discorso Sasuke non aveva chiesto cosa ne pensasse. Lo
aveva lasciato riflettere da solo, rigirandosi per le mani il manuale
segreto sullo sharingan, e Hitoshi nemmeno sapeva più da
quanto
andasse avanti.
Almeno
finché Sakura non era entrata di colpo, senza bussare.
Hitoshi
trasalì, lasciando scivolare il libretto per terra. Gli
sguardi di
madre e figlio si incrociarono senza volerlo, e in un attimo fu
chiaro che entrambi sapevano del discorso di Sasuke.
Calò
il gelo.
«Sono...
Sono venuta a vedere come stai» iniziò Sakura,
richiudendo la porta
lentamente.
«Bene.»
Silenzio.
«Posso
visitarti?»
Hitoshi
annuì. Non sapeva cosa dire. Non si era ancora fatto
un'idea, era
troppo fresco... Perché non gli aveva lasciato
più tempo?
Sentì
le mani di Sakura che tremavano mentre gli sollevava le palpebre per
illuminare la pupilla. Quasi poteva sentire il battito del suo cuore,
l'odore della paura. Poteva immaginare piuttosto bene Sasuke che la
incontrava e le diceva di avergli parlato. Conoscendola, forse
pensava persino che fosse rimasto sconvolto da quello che aveva
sentito di loro.
Cosa
che, si accorse all'improvviso, non era vera.
Non
era il tradimento di Sakura e Sasuke ad averlo turbato... Era la
reazione di Naruto.
Sua
madre e suo padre erano... sua madre e suo padre. Non
sarebbe
potuta andare diversamente, perché altrimenti lui non
sarebbe
esistito, e la cosa era al di fuori della sua capacità di
comprensione. Ciò che lo lasciava sbalordito era che Naruto
li
chiamasse ancora amici, che combattesse al loro fianco, che istruisse
i loro figli... Ma loro due, loro erano inevitabili.
Sakura
abbassò le mani alla fine della breve visita, senza fingere
di avere
qualcosa da dire al riguardo.
«Tu
e tuo padre avete parlato...?» domandò esitante,
seduta sul letto
accanto a lui.
«Sì»
rispose Hitoshi dopo un attimo di silenzio.
«Ti
ha... raccontato tutto?»
«Sì.»
Altro
silenzio.
Lei
non aveva il coraggio di chiedere, lui forse non sapeva ancora cosa
dire.
«Be-bene...»
balbettò Sakura, torcendosi le mani.
«Mamma»
chiamò Hitoshi, facendola quasi sussultare.
Tentennò per un lungo
secondo, ma poi continuò, con voce bassa e sicura:
«Io resto della
mia idea. Sono orgoglioso di ciò che sono e del cognome che
porto.»
Perdono,
perdono... Finalmente il perdono.
Sakura
sorrise lentamente; le sue labbra si distesero come un nodo che si
scioglie dopo tanto tempo, facendo un po’ di pieghe, un
po’ in
tensione, infine respirando libere. Sentì gli occhi
pizzicare, come
tante volte davanti agli Uchiha, ma con un respiro profondo trattenne
le lacrime.
Sbatté
le palpebre, tirò su con il naso, si ricompose. Tese le
braccia e
strinse Hitoshi come quando era piccolo, come non accadeva da tempo.
Lui fu certo di averla sentita soffocare un singhiozzo.
Poi
si staccò, asciugandosi velocemente gli occhi.
«I
tuoi esami sono buoni, e ci sono un po' di persone che stanno
smaniando dalla voglia di vedere cosa riesce a fare il
rin'negan»
disse. «Penso che potremo dimetterti tra domani e dopo,
giusto il
tempo di aspettare gli ultimi risultati.»
«Davvero?»
esultò Hitoshi. «Jiraya deve saperlo... Ha
promesso di farmi
leggere gli appunti che ha sul rin'negan.»
Sakura
fece una smorfia al pensiero di Orochimaru che scriveva cose oscure
su pergamene misteriose, ma non glielo proibì. Si
limitò a
prendergli una mano, smettendo di sorridere.
«Fai
attenzione. Non credere a tutto quello che ci sarà scritto,
fidati
sempre del giudizio di Jiraya.»
Hitoshi
fece per rispondere da vero gradasso Uchiha, ma fu interrotto da un
bussare quasi impercettibile.
«Chi
è?» chiese Sakura, voltandosi di scatto.
La
porta si aprì appena appena, lasciando emergere una testa di
capelli
neri a un'altezza ben più bassa delle aspettative.
«Ehm...
Mei Lee» borbottò una vocina.
«Cercavi
me?» Sakura si alzò in piedi, andando ad aprire la
porta. «E' per
Kotaro?»
«No
no, io veramente...» Mei si schiarì la voce, che
era risalita in
maniera imbarazzante. «Quel cretino di mio fratello sta
facendo
impazzire mia madre perché non vuole stare in ospedale.
Allora mi ha
mandato in giro a vedere come stanno i suoi compagni. Così
la smette
di rompere. Forse.»
«Sono
tornati?» sbottò Hitoshi. «Mamma, i
ragazzi sono tornati e non me
l'hai detto?»
«Non
me l'hai mai chiesto» svicolò Sakura.
«Avevi altro a cui
pensare...»
«Kotaro
è ricoverato? Anche Chiharu?»
Sakura
si schiarì la voce rumorosamente, impedendo a Mei di
rispondere.
«Chiharu
aveva solo ferite superficiali, è tornata a casa. Tu e
Kotaro,
invece, è meglio se vi muovete il meno possibile
finché non daremo
il via libera. Non farmi cambiare idea sulle tue dimissioni.»
Mei
fissò Sakura senza sapere cosa pensare.
L'enormità della bugia
della signora Uchiha la metteva in imbarazzo, anche perché
sapeva di
aver usato il plurale quando aveva detto che Kotaro l'aveva mandata a
cercare i suoi compagni. Se Hitoshi l'avesse messa
alle
strette come si sarebbe dovuta comportare?
«Se
sta per essere dimesso posso dire a Kotaro che sta bene?»
tentò di
troncare.
«Mamma,
sai che sto bene. Posso andare a trovare almeno Kotaro? Saranno due
piani di scale. Con l'ascensore» la ignorò
Hitoshi. Aveva avvertito
una piccola fitta di risentimento all'idea che Chiharu fosse a casa
da un po' e non lo avesse cercato.
«E'
meglio di no, Kotaro ha bisogno di molto riposo. Ossa rotte. Tante.
Vero Mei?»
Mei
cercò di rendersi invisibile, sprofondando nell'imbarazzo.
Perché
l'avevano messa in mezzo?
«Sakura!»
Tutti
sobbalzarono per la sorpresa. Sulla porta rimasta aperta, ma
evidentemente mai vuota quel giorno, era comparso all'improvviso
Naruto, e a giudicare dalla ruga tra le sue sopracciglia non era
lì
per una visita di cortesia.
«Sakura,
devo parlarti subito. Vieni con me» disse.
«Solo
un momento, devo...» esitò lei, fissando Mei con
apprensione.
«No.
Subito.»
Sakura
spostò lo sguardo su Naruto. Poi, istintivamente, su
Hitoshi. Si
sentì a disagio, ora che il figlio sapeva tutta la storia, e
dovette
schiarirsi la voce.
«Spero
che sia davvero importante...» mormorò tra i
denti. «Mei, torna da
Kotaro. Hitoshi, se scopro che sei uscito dal letto ti dimetto tra un
anno!»
Naruto
la lasciò passare e richiuse la porta.
Mei
si schiarì la voce, ritrovandosi a pensare ancora una volta
all'invidia delle sue amiche se avessero saputo che era sola con
Hitoshi Uchiha.
«Allora
io vado» disse in fretta, sgusciando verso l'uscita.
«Mei.»
Si
fermò.
Hitoshi
la fissò, lei fissò lui. Se l'Uchiha fosse stato
tipo da sorridere
falsamente lo avrebbe fatto; invece rimase serio, ma le
indicò la
sedia accanto al letto.
«Resta
ancora un po'. Raccontami come stanno Kotaro e Chiharu... Come hai
appena visto, io sono obbligato a stare qui.»
«Dovrei
tornare da mio fratello...»
«Dai,
cinque minuti.»
Mei
deglutì.
Oh,
maledizione alle amiche che le avevano riempito la testa su quanto
fosse figo il rampollo Uchiha!
Naruto
camminava come se avesse sotto i piedi un esercito di scarafaggi da
schiacciare.
Senza
fornire una parola di spiegazione portò Sakura fino
all'ultimo piano
per raggiungere la terrazza dell'ospedale.
A
quel punto, finalmente, si girò a guardarla.
«Che
stai combinando con Chiharu?»
Sakura
si irrigidì visibilmente.
«In
che senso?» tergiversò.
«Perché
è in quella stanza lontano da tutto? Perché gli
Anbu la
sorvegliano? Perché un medico le ha detto che non
può più essere
ninja e io non ne sapevo niente?»
Sakura
si costrinse a fare un respiro profondo, rilassando le spalle.
«Perché,
Naruto, se te lo avessi detto avresti fatto casino.»
«Cosa?
Di che cazzo stai parlando? Metti sotto sorveglianza uno dei miei
ragazzi senza dirmelo, e il casino lo farei io?»
sbottò Naruto.
«Come
hai sempre fatto!» replicò Sakura, alzando la
voce. «A partire da
Sasuke.»
«Ma
che c'entra Sasuke adesso?»
«E'
proprio perché c'entra, se non ti ho detto
niente!» sbottò lei.
«Vuoi sapere perché ho messo Chiharu sotto
sorveglianza? Perché è
da sorvegliare, e da interrogare, e forse dovrà anche essere
trattenuta, se non peggio. Tu ricordi con chi andava in giro prima di
andare in missione a Suna, vero? Era anche al suo compleanno... Era
ovunque insieme a lei.»
Naruto
spalancò la bocca. «Tu pensi che Chiharu lavorasse
con Yoshi?»
«Non
ho detto questo. Non ancora» Sakura si passò una
mano sul viso. «Ma
non può non sapere qualcosa, è impossibile che
non si sia mai
accorta di niente...»
«Chiharu?
Non ha senso. E' la figlia di Shikamaru. E' cresciuta con
noi!»
«Anche
Sasuke era cresciuto con noi.»
Naruto
fece un gesto di esasperazione. «No. Non è
possibile. E' arrogante,
individualista e cretina, ma non è una traditrice. Me ne
sarei
accorto, Sakura! E' la mia allieva.»
«Nemmeno
Kakashi si era accorto...»
«Sì
invece, e lo sai. Sperava che Sasuke non scegliesse Orochimaru, ma
aveva sempre temuto che potesse succedere. Chiharu non è
così,
andiamo! Lei non ha alle spalle la storia di Sasuke, non ha ragioni
per odiarci.»
Sakura
scosse la testa. «Sei proprio sicuro? Quella ragazza
è sempre stata
per i fatti suoi... Davvero sai cosa le passa per la mente?»
Naruto
serrò le labbra, ripensando all'evocazione rimandata
indietro, ma
Sakura continuò, senza lasciargli il tempo di ribattere.
«Da quando
Chiharu ha indossato quel coprifronte ci ha causato più guai
che
altro. Non ascolta nessuno, mai. Per causa sua Hinata è
quasi morta,
cinque anni fa!»
«Sakura,
piantala. Aveva tredici anni, non sapeva quel che faceva...»
«Non
lo sa neanche adesso, è proprio questo il
problema!» Sakura sbuffò.
«Ho chiesto a uno dei miei migliori medici di occuparsi di
lei...
Non hai idea di come si è conciata; le sue analisi fanno
venire i
brividi. Chiharu non ha rispetto nemmeno per il suo corpo,
perché
dovrebbe averlo per Konoha? L'unica cosa che le interessa è
essere
la prima, la più forte. E questo è
pericoloso.»
Naruto
scosse la testa, ma intimamente vacillò. Era vero che
Chiharu era
ossessionata dall'idea di essere forte, ma fino a che punto lo era?
Avrebbe accettato le promesse di uno come Orochimaru, se gliele
avessero fatte? Avrebbe accettato l'aiuto di uno come Yoshi...
«No.
Non è vero che le interessa soltanto essere la
più forte» insisté.
«Lei è già convinta di esserlo, come
tuo figlio e Kotaro. Non si
sarebbe messa dalla parte di Yoshi sperando in qualche stupida
tecnica segreta...»
Sakura
lo interruppe subito. «Tutte supposizioni, Naruto. Tu hai un
debole
per i ragazzi della tua squadra, non sei oggettivo quando ne parli.
Non lo eri nemmeno con Sasuke, non lo ero io né lo era
Kakashi. Per
questo me ne sono occupata da sola, senza coinvolgerti: dobbiamo
capire come si comporta Chiharu adesso che è tornata. Voglio
vedere
se cercherà di contattare Yoshi, come reagirà
sapendo della sua
cattura... Sospetto che c'entri qualcosa, ma non so cosa, e voglio
scoprirlo.»
Naruto
rimase in silenzio. Avrebbe tanto voluto parlare con Kakashi per fare
un po' di chiarezza tra i suoi pensieri, ma il maestro era ancora in
rianimazione. Forse poteva parlarne con Sasuke? Ma come affrontare il
discorso dei suoi anni da traditore?
«Dobbiamo
richiamare Shikamaru» disse torvo.
«No.»
«E'
sua figlia!»
«Lei
ha chiesto espressamente che non sapesse niente delle sue
condizioni»
sospirò Sakura. «Lo vedi che agisce senza pensare?
Comunque
preferisco che sia sola, se posso scegliere. Ho bisogno di vedere
cosa fa senza che la gente cerchi di coprirla»
scoccò
un'occhiataccia a Naruto. «Ho bisogno che tu non ti
intrometta. Ho
bisogno che ti fidi di me.»
Lui
rimase immobile, la testa piena di idee confuse. L'ipotesi che uno
dei suoi ragazzi potesse averli traditi lo faceva sentire come se
anche lui avesse contribuito.
«Non
toglierò la sorveglianza a Chiharu» riprese
Sakura, vedendo che non
obiettava.
«Shikaku
se ne è accorto.»
«Gli
dirò che la stiamo proteggendo nel caso in cui qualche
fuggitivo
della nuova Radice cercasse vendetta. E gli dirò anche di
non
avvisare Shikamaru, per volontà di Chiharu. Se vuole
potrà
occuparsi di lei in persona, per quanto glielo
permetterà.»
«Sakura...
Lo stai facendo davvero?»
«Lo
stiamo facendo, Naruto. E' il nostro dovere come
Hokage.
Kakashi si sarebbe comportato nello stesso modo.»
Calò
il silenzio.
Naruto
non si sentiva così lontano da Sakura almeno da diciotto
anni. Forse
gli faceva più male l'idea che lei sospettasse di Chiharu,
che
l'idea che Chiharu fosse una traditrice.
«E
a proposito di dovere...» Sakura si schiarì la
voce, incrociando le
braccia sul petto. «Dobbiamo decidere cosa fare di Akeru
Baka.»
«Perché?»
«Perché
ha disonorato l'intera squadra medica firmando quel contratto di
custodia. Non aveva neanche letto la cartella clinica di Chiharu...
Come membro del consiglio disciplinare non posso permettere che un
tale cretino sia tra le fila delle mie squadre.»
«Non
è un problema di voi medici?»
«Per
togliergli la carica ho bisogno del tuo sigillo.»
«Vuoi
davvero degradarlo a shinobi semplice?»
«Nella
migliore delle ipotesi è talmente innamorato di Chiharu che
le
avrebbe firmato qualunque cosa; nella peggiore è anche lui
complice
di Yoshi...»
Naruto
fece una smorfia. «Non credo proprio: tutti i maschi intorno
a
Chiharu hanno sempre detestato Yoshi... Smettila di vedere complotti
ovunque.»
«E
va bene, diciamo che non c'entra con Yoshi; resta il fatto che non
voglio tra i miei un medico che si fa manipolare dalle pazienti che
gli fanno vedere mezza coscia.»
Naruto
dovette ricordare a sé stesso che aveva promesso di aiutare
Baka,
perché il primo impulso fu di lasciarsi andare a un commento
da
camerata maschile, e sarebbe stato controproducente. «Io
penso che
lo avrebbe fatto solo con Chiharu» disse. «Invece
di rovinargli la
vita, puniscilo clamorosamente e tienilo sospeso due mesi... O lascia
decidere a Gaara. Dopotutto quel contratto è una cosa della
Sabbia.»
«Ma
così dovrei fargli sapere che Chiharu è
ricoverata, e se lo faccio
violo l'accordo di riservatezza che ha firmato. E comunque ho in
mente un altro lavoro per Akeru, dove potrà fare molti meno
guai:
pensavo di mandarlo da Morino. Ricordi? Abbiamo bisogno di gente che
faccia gli interrogatori.»
«Seriamente?
Ne sarà in grado?»
«Te
l'ho detto, nei test è stato tra i migliori.»
«E
se provassi a parlarci io?»
«Smettila
di difendere tutti gli allievi, Naruto!» esclamò
Sakura esasperata.
La
porta della terrazza si spalancò di colpo, facendo trasalire
entrambi.
«Trovati!»
esclamò Konohamaru, ansante. «E'
successo!»
«Cosa?»
«Hitoshi?»
trasalì Sakura.
«No...
La Roccia. Abbiamo appena ricevuto la loro dichiarazione di
guerra.»
In
conseguenza dell'atroce massacro della Fortezza di Anka,
durante
il quale una squadra di shinobi della Foglia,
in
piena violazione degli accordi,
ha
sgozzato e pugnalato la famiglia del dignitario locale,
Noi
Paese della Roccia
prendiamo
il titolo di parte lesa
e
dichiariamo ufficialmente guerra al Paese del Fuoco.
* * *
Cari lettori e lettrici,
perdonate la mia lunga assenza da queste pagine.
Come anticipato nell'ultimo aggiornamento
avevo trovato un lavoro troppo impegnativo,
al punto che non sono più riuscita a scrivere né
a pubblicare qualcosa.
Per fortuna adesso mi sono liberata di quel lavoro,
tornando ai ritmi che mi sono più consoni,
e sono di nuovo qui per raccontarvi di Naruto e dei mocciosi.
Presentandomi con una bella bomba.
Sì, mi ero interrotta in un punto piuttosto critico.
Ancora una volta vi ringrazio per la pazienza e la dedizione
che dimostrate a questa storia.
Siete voi il vero carburante che la porta avanti.
Scusate se sono così inadeguata come avantreno.
Susanna
|
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Capitolo 36 *** La guerra ha inizio ***
Penne 36
16/09/2016
Capitolo
trentaseiesimo
La
guerra ha inizio
Il
messaggio era reale. Nero su bianco, timbrato e controfirmato da
dieci dignitari della Roccia. La sua sola presenza soffocava tutta la
scrivania dell'Hokage, nonostante fosse solo un pezzo di carta.
Nella
stanza regnava il caos: la porta si apriva ogni trenta secondi per
lasciar entrare Anbu che dovevano riferire, in un angolo Konohamaru
sfogliava gli enormi archivi degli shinobi per reclutare tutti quelli
che poteva, da un lato all'altro della scrivania Sakura prendeva
pezzi di carta, li leggeva e li dimenticava sopra alte pile di fogli.
Naruto
faceva avanti e indietro, intralciando praticamente tutti, nel mezzo
di una violenta invettiva contro Kakashi - che aveva il cattivo gusto
di essere in coma proprio in quel momento. Aspettava notizie da
Shizune, che era stata mandata in ospedale per capire se c'erano
speranze di risveglio a breve.
«Cosa
devo farne di Baka?» domandò Konohamaru a un
tratto, sovrastando il
vocio. «Lo considero tra gli Anbu medici o...?»
«No,
toglilo» lo interruppe Sakura. «Manda qualcuno a
chiamare Morino!»
«Sono
il messaggero del Daimyo, devo conferire con l'Ho... gli Ho...
Chiunque sia il capo, qui» tentò di inserirsi un
ometto un po'
troppo elegante, facendosi largo oltre la porta.
«Che
c'è?» sbottò Naruto. «Non ho
tanto tempo, parla in fretta.»
«Naruto!»
Sakura si mise in mezzo, afferrando il funzionario per il gomito e
traghettandolo con mille scuse verso una stanza privata.
«Shizune,
finalmente! Kakashi?» gridò Naruto, vedendo
arrivare le notizie
sperate dal fondo del corridoio.
Ma
lei scosse la testa: «nessun cambiamento. Dorme.»
«Maledizione!»
Naruto si trattenne dallo sbattere il pugno sulla scrivania,
voltandosi di nuovo. «Ho bisogno di Sasuke qui. Andatemelo a
prendere!»
Qualche
centimetro oltre il bordo della scrivania, in cima a una piccola pila
di promemoria, la dichiarazione di guerra della Roccia se ne stava
quieta, un po' stropicciata. Così leggera, eppure
così devastante.
Erano
stati i dieci minuti più lunghi nella vita di Mei Lee.
Confrontati
con l'interrogatorio di Hitoshi, anche gli esami per il coprifronte
sembravano una bazzeccola.
Quando
tornò da Kotaro e Tenten, Mei era fisicamente e mentalmente
spossata, tanto che si lasciò cadere seduta a terra con una
mano a
coprire gli occhi.
«Chiharu
non ha neanche voluto farmi entrare, il che secondo suo nonno
è un
buon segno» disse facendo un respiro profondo.
«Hitoshi sta bene.
Fin troppo bene. E' più insopportabile che mai, spero che
prima o
poi gli si paralizzi la lingua...»
«Non
sei riuscita a sapere qualcos'altro di Haru?» la interruppe
Kotaro.
«No!
Se ti interessa tanto alza il culo e vai a farti insultare tu da
lei!»
«Non
istigarlo...» borbottò Tenten, porgendole un
piattino di arance a
spicchi.
«E
Hitoshi perché è ancora in ospedale, se sta
bene?» insisté
Kotaro.
«Perché
ha una nuova tecnica misteriosa, e sua madre lo tiene in ostaggio
come la nostra fa con te. Ha detto che appena lo dimetteranno
verrà
a fartela vedere.»
«Una
nuova tecnica? Ancora?» le spalle di Kotaro si afflosciarono
di
qualche centimetro, ma durò appena un secondo.
«Beh, io ho aperto
quattro porte del chakra e sto lavorando sulla quinta...»
«Tu
stai cosa?» chissà come, il kunai lucidato era
ricomparso tra le
mani di Tenten.
«Significa
che non tornerai a casa?» gemette Mei.
«Dai
mamma, lasciami in pace!» si lamentò Kotaro.
Mei
sbuffò, prendendosi la testa tra le mani. Era fastidioso
sentire la
sua famiglia che battibeccava ogni giorno, ogni ora, per ogni cosa...
Hitoshi e Sakura avevano almeno l'eleganza di litigare quasi
sottovoce; considerato che Kotaro e Tenten invece lo facevano a
volume altissimo, Mei ammirava un po' gli Uchiha.
D'altronde,
c'era qualcosa che quella famiglia non facesse con classe? Persino le
minacce di Hitoshi erano state molto velate e quasi gentili. Alcune
le aveva prese per complimenti, anche se riflettendoci meglio
probabilmente non lo erano.
Sì,
perché Hitoshi l'aveva invitata a restare in maniera molto
minacciosa, su questo non c'era dubbio, e la minaccia era proseguita
per tutto il tempo che erano rimasti insieme: per circa un minuto
aveva finto di essere interessato a Kotaro, poi si era concentrato
sull'elaborazione di un piano contorto per arrivare a scoprire se lei
sapeva qualcosa di Chiharu.
Ed
era stato difficilissimo sostenere la bugia di
Sakura: mentre
Mei si arrampicava sugli specchi per parlare di Kotaro senza nominare
Chiharu, Hitoshi l'aveva vivisezionava alla ricerca di punti deboli;
un po' l'aveva lusingata, un po' aveva preso i discorsi alla larga,
un po' aveva cercato di coglierla di sorpresa, ma lei si era
aggrappata all'unica frase che aveva pronunciato Sakura prima di
uscire, e aveva ripetuto a oltranza che Chiharu era a casa
perché
aveva riportato solo ferite lievi.
Non
aveva idea che un bel faccino potesse essere tanto suadente... Forse
iniziava a capire un po' le sue amiche.
«Mamma,
secondo te perché la madre di Hitoshi gli ha detto che
Chiharu non è
qui in ospedale?» chiese Mei tutt'a un tratto.
Tenten
e Kotaro, che stavano ancora battibeccando, si zittirono per
fissarla.
«Te
lo ha detto Hitoshi?» chiese Tenten.
«No.
L'ho sentito da lei. Quando Hitoshi ha chiesto se anche Chiharu era
in ospedale mi ha impedito di rispondere e gli ha detto subito che
era a casa, perché era rimasta ferita solo
lievemente.»
«Se
Hitoshi sapesse che Chiharu è qui andrebbe a cercarla anche
con
tutte e due le gambe rotte» borbottò Kotaro, con
voce quasi
inaudibile.
Tenten
gli gettò un'occhiata veloce, poi socchiuse le palpebre,
riflettendo.
«Mei,
posso chiederti un cambio? Resta a controllare tuo fratello un paio
d'ore, mi è venuta in mente una cosa che devo fare
subito.»
«Ma
io voglio tornare a casa!» piagnucolò Mei.
«Un'ora,
non di più. Vado e torno.»
«Non
voglio... Kotaro è vecchio, può cavarsela da
solo!»
«Per
una volta sono d'accordo» si inserì lui.
«E
invece stai qui e gli proibisci di mettere i piedi giù dal
letto.
Non voglio sentire storie!»
Tenten
si alzò dalla sedia, incurante delle proteste congiunte dei
suoi
figli. Lei sapeva che Yoshi era stato catturato – anche se
gli
ordini erano di non diffondere la notizia - e sapeva da Kotaro che
lui e Chiharu erano molto intimi. Dal momento che si trattava pur
sempre della squadra che doveva parare le spalle al suo primogenito,
voleva capire se Chiharu era nei guai o cosa.
Quando
la porta sbatté, lasciando scomparire Tenten, Mei e Kotaro
si
ritrovarono soli, ai lati opposti della camera, a squadrarsi con
risentimento.
«Non
ho bisogno di una balia più piccola di me»
protestò Kotaro.
«Per
me puoi anche andare subito a sbavare ai piedi del letto di Chiharu,
sai che me ne frega?»
«Cosa?
Io non... ah, lasciamo perdere! Sei spietata, Mei. Non capisco cosa
ti ho fatto per renderti così crudele.»
Mei
scrollò le spalle. Cosa gli aveva fatto, a parte essere uno
degli
alunni più brillanti del suo anno, l'allievo del quasi
Hokage, aver
aperto le porte del chakra e, particolare di grande rilevanza, essere
il cocco indiscusso di papà? Ah sì: e non
rendersi minimamente
conto di tutto questo?
«Scommetto
che Chiharu ti tratta molto peggio, ma a lei non dici niente»
insinuò caparbia.
Kotaro
non raccolse la provocazione, invece buttò le lenzuola in
fondo al
letto.
«Dove
vai?» scattò subito Mei. «La mamma ha
detto...»
«Vado
in bagno! Vuoi seguirmi? Mamma lo fa.»
«Non
voglio seguirti in bagno. Ma se provi a scappare...»
Qualcuno
bussò alla porta. I due Lee si voltarono contemporaneamente,
aspettandosi per un folle secondo che Tenten fosse tornata a
controllarli; realizzarono che lei non avebbe bussato solo quando ad
aprire la porta fu, a sorpresa, Hitoshi.
Mei
si lasciò scappare un piccolo gemito sorpreso.
«Disturbo?»
esordì Hitoshi, sgusciando all'interno rapidamente per poi
richiudere subito la porta.
«Hitoshi!
Non eri bloccato anche tu in camera?» esclamò
Kotaro, suo malgrado
felice di vedere un volto amico dopo tutte quelle ore di Tenten.
«Mi
sono ricordato di essere un ninja: ho lasciato una copia in camera e
sono venuto qui.»
Kotaro
sospirò: lui non poteva lasciare copie da nessuna parte, e
non era
ancora stata trovata la porta del chakra che lo avrebbe aiutato.
L'unica consolazione era che Hitoshi fosse venuto subito da lui, il
che non era proprio scontato, anche se erano compagni di squadra...
Non si vedevano da prima della missione di Loria. Finalmente sentiva
un po' di spirito di gruppo – forse.
«E'
vero che hai una nuova tecnica?» chiese al volo,
dimenticandosi il
bagno.
«Visto
che c'è lui io posso andare?» tentò Mei.
«Sì
sì, vai pure...»
«Poi
mi copri con mamma?»
«Io
non copro un tubo! Se devi andare vai, prenditi le tue
responsabilità... Che tecnica è?»
Hitoshi
rivolse una brve occhiata a Mei, che si sentì arrossire di
colpo.
Non era per il suo sguardo: era per tutte le bugie che gli aveva
raccontato. O almeno le piaceva pensarlo.
«Sì,
ho una nuova tecnica...» disse l'Uchiha, mantenendosi
volutamente
sul vago. «Per adesso è ancora acerba, ma il
sennin Jiraya si è
offerto di darmi una mano a svilupparla.»
«Jiraya!»
esclamò Kotaro, colpito.
«Sì,
mentre eravate via abbiamo fatto qualche missione insieme...»
Hitoshi scrollò le spalle con finta noncuranza, incapace di
resistere al vecchio vizio di vantarsi. Poi guardò di nuovo
Mei, e
si schiarì la voce. «A proposito, com'è
andata la missione?»
«Quella
di Loria, dici?» Kotaro esitò, incrociando lo
sguardo allarmato di
Mei. Doveva trovare un modo per non parlare di Chiharu.
«Tutto bene,
a parte un paio di costole rotte. Baka è stato... uhm... Sai
che non
dirò che è stato bravo. Mi fa venire i
brividi.»
Hitoshi
incurvò un angolo della bocca - l'equivalente di un sorriso,
per lui
- e Mei decise che doveva assolutamente andarsene.
«Le
tue emicranie, invece?» riprese subito Kotaro, per non dargli
il
tempo di chiedere di Chiharu. «Sono passate con la nuova
tecnica?
Stai meglio?»
«Spero
che passino. Per adesso vanno e vengono, ma riesco a
controllarle»
fece una smorfia. «Di sicuro non mi farò
più rispedire a casa a
metà missione.»
Kotaro
sentì chiaro come il sole il biasimo nella voce di Hitoshi:
probabilmente non gliela avrebbe mai perdonata. Ma non ebbe la
prontezza di cambiare subito argomento, e così si
fregò da solo,
lasciando a lui il tempo per farlo.
«A
proposito... Chiharu?»
Mei
gettò uno sguardo orripilato a Kotaro, che
ricambiò a malapena.
«E'
passata a trovarmi ieri mattina» disse con calma.
«E' a casa,
perché è rimasta ferita solo superficialmente...
Le sue costole
sono più dure delle mie, sembra.»
«Capisco...»
mormorò Hitoshi sottovoce. Allora da Kotaro ci era andata.
Che
stronza.
«Non
è venuta da te?» Kotaro inarcò le
sopracciglia, fingendo grande
sorpresa. Ok, anche lui prendeva le sue piccole vittorie quando
poteva.
«Ero
in un reparto protetto. Probabilmente non aveva le
autorizzazioni»
ribatté Hitoshi seccamente.
«Capisco...»
Kotaro
e Mei scambiarono un'altra occhiata, che non sfuggì a
Hitoshi. Lo
irritò.
«Domani
dovrei essere dimesso» disse per cambiare discorso.
«Andrò a
trovarla io. Tu invece? Quanto ancora resti qui?»
«Chi
lo sa? Per cercare di curarmi più in fretta ho aperto
quattro porte
del chakra e adesso i medici vogliono che io riposi come si
deve.»
Mei
soffocò una risatina in un colpo di tosse, mentre Kotaro
arrossiva
riconoscendo la sparata. Hitoshi invece ebbe un piccolo tic stizzito,
e infilò le mani in tasca per chiuderle a pugno senza che lo
vedessero.
Quattro
porte del chakra?
«Bene.
L'importante è che non ci siano conseguenze...»
borbottò vago.
«Allora torno a trovarti nei prossimi giorni.»
«Oh...
Ok. Spero che ti dimettano davvero domani. In bocca al lupo.»
Hitoshi
salutò con un cenno del capo, affrettandosi ad uscire. Era
venuto
nella speranza di sapere qualcosa in più di Chiharu, ma
sembrava che
tutti volessero sempre e solo ripetergli le due cose che già
sapeva.
Forse Sakura non gli aveva detto che erano rientrati perché
aveva
visto che nessuno era venuto a trovarlo. Beh, Kotaro aveva le mani
legate e Chiharu era una stronza, si sapeva. Sakura non si sarebbe
dovuta preoccupare per quello... Anche se lui, con quello che era
successo tra loro, un po' arrabbiato lo era.
Quando
lui se ne fu andato, Mei tirò un enorme sospiro di sollievo.
«Grazie.
Non pensavo fossi un bravo bugiardo» disse, le gambe che
tremavano
leggermente.
«Nemmeno
io» ammise Kotaro stupito. «Comunque mi devi un
favore: ti ho
aiutato anche se non lo meritavi.»
Mei
sbuffò. «Cosa vuoi?»
«Devi
creare una copia e metterla sotto le coperte trasformata in
me.»
«No!
Se mamma lo scopre...»
«Vado
a richiamare Hitoshi?»
«No!
Oh, accidenti a te! Non sei affatto buono come credi, sei perfido
quasi quanto me. So cosa vuoi fare: vacci e torna presto.»
Kotaro
sorrise, sfilandosi la camicia da ospedale per afferrare al volo dei
vestiti buoni. «Grazie. Sei proprio un tesoro di
sorellina!»
...Anche
se un po' ingenua.
Kotaro
non avrebbe mai rincorso Hitoshi per rivelargi che Chiharu era
ricoverata: l'ultima cosa che voleva era che l'Uchiha andasse a
trovarla con la sua nuova tecnica e il ciuffo bruno che ricadeva
sulla fronte con quell'onda perfetta. E se Hitoshi avesse scoperto
della sua visita segreta, gli avrebbe detto di aver saputo di Chiharu
dopo aver parlato con lui.
Aveva
trovato la stanza giusta grazie alle spiegazioni di Mei. Una volta
arrivato in quella strana ala dell'ospedale si era accorto dei due
uomini fuori dalla porta, ma aveva pensato che fossero lì
per altri
pazienti. A quel punto, visto che c'erano dei testimoni, aveva dovuto
bussare senza potersi preparare adeguatamente.
«Chi
è?»
La
sua voce, un po' ovattata. Non sembrava aggressiva. Forse era solo
stanca quando Mei era passata...
«Kotaro.»
Silenzio.
«Posso
entrare?»
Altro
silenzio.
Kotaro
si voltò e vide i due uomini che si scambiavano un'occhiata.
«Chi
tace acconsente?» tentò di buttarla sul ridere.
Non
aveva voglia di diventare la barzelletta dell'ospedale
perché era
stato rimbalzato da Chiharu, così, di fronte all'ennesimo
silenzio,
abbassò la maniglia e aprì la porta.
Chiharu,
che era coricata di spalle, sentendolo entrare si girò di
scatto e
lo fulminò.
«No,
non puoi entrare!» sbottò.
«Io...»
iniziò Kotaro, esitando; poi vide le occhiaie scure sotto i
suoi
occhi, i capelli che non venivano pettinati da giorni e il vassoio
con il pranzo intatto. «Come sei ridotta?» gli
sfuggì.
«Oh,
perfetto!» esclamò Chiharu, tirandosi il lenzuolo
sopra la testa.
«Un altro medico.»
Kotaro
entrò nella stanza e richiuse la porta, avvicinandosi al
letto.
«Dai
Haru, sono io... Ti ho vista venire fuori da un condotto fognario,
una volta. Non puoi essere peggio di così. Almeno non
puzzi.»
«Che
vuoi?» chiese lei, senza uscire dal lenzuolo.
«Sono
venuto a trovarti. E per farlo ho dovuto ricattare mia sorella e
convincerla a mettere una copia nel mio letto, perché mia
madre mi
sta facendo la guardia peggio di un mastino.»
«E
quindi?»
«Volevo
sapere come stai...»
Un
medico le aveva detto che sarebbe morta, il suo maestro le aveva
detto che faceva schifo e suo nonno non le aveva detto proprio niente
per tirarla su, perché non sapeva nulla di tutto
ciò. Stava di
merda.
«Sto.
Ora te ne vai?» mormorò.
Kotaro
sbuffò, ma prese una sedia e la trascinò accanto
al letto. «Non te
ne è mai fregato niente di essere pettinata, non sei sotto
le
coperte per quello. E' per come è finita la
missione?»
Chiharu
spinse via il lenzuolo e si scagliò contro di lui.
«Cioè con me
che salvo il culo a tutti, dici?»
«No,
intendo perché sei stata male... Perché Baka
diceva...»
«Non
sono stata male! Ho solo... Beh, in ogni caso ho
salvato il
culo a tutti! Perché vi fissate sul fatto che poi sono
crollata?
Perché nessuno tiene presente il dettaglio che siamo qui a
parlarne
grazie a me?»
«Tu?
Ma allora... Aspetta un secondo. Quell'evocazione era tua? Quando te
l'ho chiesto a Suna avevi detto che era di Baka.»
«Dei
del cielo, perché vuoi chiacchierare a tutti i
costi?» esasperata,
Chiharu nascose il viso dietro le mani.
Kotaro
rimase in silenzio a lungo, ma lei non accennò a muoversi
né a
parlare ancora. Lui non voleva andarsene così. Voleva
trovare il
modo di comunicare con Chiharu, voleva essere sicuro di essere ancora
parte di un gruppo. Di un gruppo con lei.
«Era
un'evocazione figa» disse esitante. «Non ne ho mai
vista una così
grande. Sei stata... Beh, ok, io non riesco a evocare neanche un
girino di Naruto, quindi forse i miei complimenti sull'argomento
fanno schifo. Però sei stata grandiosa.»
Grandiosa,
si ripeté Chiharu. Peccato che fosse la sua ultima
evocazione, a
detta dei medici.
Era
incredibilmente frustrante sapere di avere tutto quel potenziale e
non poterlo usare. Sentire Kotaro che si complimentava con lei era
come assaggiare del miele dopo un lungo digiuno... Avrebbe dato
qualunque cosa per continuare a farlo.
«Grazie»
mormorò.
Intuendo
uno spiraglio, Kotaro si fece coraggio e proseguì:
«io sono ancora
fermo a quattro porte del chakra. Mezzo ospedale e mia madre mi
stanno addosso perché non tenti di aprirne altre e lasci che
i
processi di guarigione vadano avanti da soli. Il che, con due costole
rotte, è di una lentezza orripilante.»
Chiharu
tolse le mani dal viso e lo fissò.
«Mamma
mi fa la guardia per essere sicura che non bari. Ti rendi conto? Ma
tuo padre?»
«E'
andato a Suna.»
«Ah.
E non è tornato quando ha saputo...»
«Stavi
andando bene finché parlavi di te.»
Kotaro
si accigliò, ma tacque.
«Hitoshi?»
chiese Chiharu distrattamente, in fretta, per non lasciargli il tempo
di pensare ad altre domande.
«Hitoshi...»
Kotaro si passò una mano sul collo, formicolante per il
senso di
colpa. «Lui è in forma, direi... I suoi mal di
testa gli hanno
fatto sviluppare una nuova tecnica – che sorpresa, Uchiha che
fanno
cose straordinarie solo sbattendo le palpebre. Strano, vero?»
«Una
nuova tecnica» ripeté Chiharu.
«Non
ha voluto dirmi cos'è. Dice che Jiraya lo aiuterà
a usarla...»
Un
muscolo sulla guancia di Chiharu guizzò nervosamente.
Hitoshi
Uchiha, rispedito a casa con infamia perché inabile a
completare la
missione, sviluppava una nuova tecnica sotto la supervisione di uno
dei tre ninja leggendari.
Lei
veniva rinchiusa in una stanza di ospedale con l'etichetta di
invalida, incosciente e minaccia per i compagni.
E
Kotaro apriva porte del chakra come fossero noccioline.
Era
ingiusto, troppo ingiusto.
«Dovresti
andarsene» disse in tono duro.
«Ho
detto qualcosa di sbagliato?» chiese Kotaro, senza capire.
Chiharu
sentì un'ondata d'ira risalire dallo stomaco alla testa.
«Hai
sempre...» iniziò, furiosa, ma fu interrotta.
«Permesso,
buon... oh.»
Sia
lei che Kotaro si voltarono verso la porta, da dove era appena
entrata un'infermiera con un vassoietto metallico.
«Scusate,
ma è l'ora dell'iniezione» disse sorridendo.
«Può aspettare
fuori, per cortesia?»
Kotaro
si alzò dalla sedia così in fretta che la fece
cadere. «Certo.
Vado subito» assicurò, scusandosi a profusione.
«Anzi, vado del
tutto. Haru...» esitò, cercando il suo sguardo.
«Noi siamo ancora
il gruppo sette.»
Lei,
guardando fuori dalla finestra, strinse le labbra senza dire nulla.
Kotaro
sospirò e uscì.
«Allora,
come stai oggi?» chiese l'infermiera, tirando fuori una
boccetta
trasparente e una siringa.
«Bene.
Come sempre» ribatté lei, lasciandosi cadere sul
cuscino e
sollevando la manica. «Quando mi dimettono?»
«Sai
che non lo devi chiedere a me. Chi era il ragazzo che è
venuto a
trovarti?»
«Un
mio compagno.»
«Spero
che la sua visita ti abbia fatto piacere.»
Chiharu
fece una smorfia. Kotaro le aveva portato notizie orribili, ma... era
venuto da lei. L'unico. Né Hitoshi né Baka,
nonostante tutto quello
che c'era stato, si erano presentati.
L'infermiera
riempì la siringa con il medicinale e si avvicinò
al letto, laccio
emostatico alla mano.
Chiharu
fece un respiro profondo, abbandonando l'espressione scontrosa per
assumerne una afflitta. Le aveva fatto piacere vedere qualcuno che le
voleva bene, oltre a suo nonno?
«Sì,
mi ha fatto piacere.»
Negli
occhi dell'infermiera passò un guizzo, il bagliore di
qualcosa
troppo rapido per essere definito. «Prima ti riprenderai,
prima
potrai uscire di qui» disse, con un sorriso un po' enigmatico.
Chiharu
non la guardò mentre iniettava il medicinale - non le
piaceva vedere
l'ago che entrava nella pelle - ma lei guardò Chiharu.
Sorridendo.
La
giornata era finita, anche se a fatica, ed era stata un incubo. Sia
la dichiarazione di guerra sia la necessità di prepararsi ad
affrontarla erano stati un brutto sogno scagliato nella
realtà da
una divinità crudele.
Molte
famiglie, quasi tutte, quella notte avrebbero faticato a prendere
sonno. Molte vite erano state stravolte, e molte cose dovevano ancora
succedere.
Sasuke
e Sakura, messi a letto i bambini, si trovarono soli nella loro
camera da letto, in silenzio.
Si
prepararono per andare a dormire scambiandosi brevi sguardi cauti,
senza aprire bocca. Come automi compirono i gesti meccanici che
avevano sempre preceduto le ore di sonno, in attesa del momento in
cui uno dei due avrebbe parlato, o di un miracolo che avrebbe
appianato ogni ruga. Infine si trovarono l’uno di fronte
all’altra,
in piedi alle estremità del letto, pronti per andare a
dormire,
eppure immobili.
Fu
Sakura a parlare per prima.
«Vorrei
solo svegliarmi domattina e scoprire che non è mai
successo» disse
sottovoce.
Sasuke
annuì.
«Sono
esausta. E so che domani sarà peggio, dopodomani peggio
ancora e via
così... E mi sento in colpa.»
«Perché?
Non è colpa tua.»
Sakura
strinse le labbra, parlando a fatica. «Mi sento in colpa...
Perché
anche se mi sarei dovuta preoccupare soltanto della guerra e di come
prepararla, non ho mai smesso di pensare a Hitoshi e a quello che ha
saputo di noi.»
Un
attimo di silenzio.
«Avete
parlato.»
«Sì.»
«E
lui?»
«Ha
detto che non è cambiato nulla. Che è ancora
orgoglioso del cognome
che porta e di quello che è.»
Sakura
rialzò leggermente gli occhi, incrociando quelli di Sasuke.
Lo vide
esalare un sospiro di sollievo, e le sembrò che distendesse
i
muscoli del viso.
«Sei
sicuro di avergli raccontato proprio tutto?»
domandò dubbiosa.
Lui,
sorprendentemente, si lasciò andare a un mezzo sorriso.
«Dalla
prima all’ultima parola» assicurò.
«Da quando avevo sei anni a
oggi.»
«Quindi...
Anche di Naruto...?»
«Anche
di Naruto.»
«E
lui è comunque orgoglioso di noi?»
«A
quanto pare, sì.»
Sakura
fece una smorfia. «Probabilmente non ha capito del
tutto...»
«Io
credo che abbia capito, invece» la contraddisse Sasuke.
«Ma non so
di preciso cosa gli frulli nella testa... Ha parlato molto poco,
mentre io raccontavo, e alla fine non ha detto una parola. Credevo
che avesse perso ogni briciola di stima...»
«Figurati»
questa volta fu Sakura a sorridere. «Non è solo
tuo figlio, è
anche mio. Lo sai che, come me, non smetterà mai di amarti
incondizionatamente.»
Sasuke
la guardò. Erano sposati da quasi vent’anni, e
dopo tanto tempo
insieme certe frasi non si sentono più. Ne fu quasi
imbarazzato.
«Nessun
altro è stato dalla nostra parte, allora»
mormorò, scurendosi di
nuovo.
Sakura
camminò attorno al letto fino a raggiungerlo; gli prese le
mani tra
le sue.
«Ma
Hitoshi è parte di noi» disse. «Hitoshi
è un Uchiha, ed è mio
figlio. E poi... E' anche come Naruto. Un po' ingenuo, un po’
idiota... un po’...» la voce le morì in
gola, soffocata da un
nodo imprevisto. «Ci ha messo del tempo, ma alla fine
è stato lui
il primo a mettersi dalla nostra parte. Senza di lui nessuno ci
avrebbe mai perdonati.»
Sasuke
appoggiò la fronte contro quella di Sakura, serrando le
palpebre. La
luce delle lampade li avvolse in un abbraccio caldo, simile a quello
delle parole che abbiamo bisogno di dire a voce alta, che premono per
uscire fino a far male, fino a scavare solchi nella gola, fino a
sfuggire, involontarie, rischiando di uccidere. Quelle stesse parole
che, dette volontariamente, spesso salvano chi le dice e chi le
ascolta.
«Perché
ci ha perdonati?» sussurrò Sasuke.
«Perché, nonostante quello che
gli abbiamo fatto, ci ha perdonati?»
«Non
lo so» rispose Sakura. «Ma lo ha fatto. E anche
Hitoshi lo ha
fatto... E forse, alla fine, gli unici che non sono riusciti a
perdonare siamo proprio noi.»
Sasuke
prese il volto di Sakura tra le mani e premette la bocca contro la
sua con forza, come il primo giorno, quel giorno maledetto in cui
avevano pugnalato Naruto alle spalle. Lei non si sottrasse - non lo
aveva mai fatto - affondò le mani nella camicia del suo
pigiama e si
strinse a lui, il cuore che batteva forsennato dopo tanto e tanto
tempo.
«Siamo
orribili» sussurrò, a un passo dai singhiozzi,
nascondendo il viso
contro il suo collo. «In tutto questo tempo non ci siamo mai,
mai
pentiti...»
«Eppure
lui ci ha perdonati» replicò Sasuke, baciandole i
capelli, la
fronte, le tempie. «E credo che se sapesse cosa pensiamo,
direbbe
che è ora che lo facciamo anche noi.»
Le
sollevò il mento, asciugando le lacrime che erano arrivate
alle
guance. Guardandola, gli sembrò che il tempo non fosse mai
passato;
che fossero rimasti lì, a diciotto anni prima, intrappolati
nell’attimo in cui avevano scoperto l’uno
nell’altra.
Come
allora, la baciò.
Come
allora, le sue mani cercarono la sua pelle, il suo tepore, i contorni
che aveva dimenticato, ma che erano sempre lì, familiari e
rassicuranti.
Come
allora, dopo tantissimo tempo, chiusero gli occhi, affondando nel
mormorio dei loro respiri. E, baciandosi, sentirono che le guance di
entrambi erano bagnate di lacrime.
«Sasuke...
Quante volte ancora te ne andrai?» sussurrò
Sakura, contro il suo
orecchio.
«Non
lo so.» rispose, sincero. Era inutile mentire.
«Ma
tornerai sempre?»
«Sì.»
Sakura
lo strinse più forte.
Tornare.
Questo era l’importante, se Sasuke non poteva fare a meno di
allontanarsi: che tornasse da lei.
Come
lo aveva inseguito e ripreso una volta, lo avrebbe fatto altre cento,
altre mille. Sempre.
Non
potevano perdonarsi.
Non
potevano dimenticare gli occhi di Naruto il giorno in cui lo avevano
tradito, né la morsa allo stomaco quando si erano resi conto
di
avergli strappato passato, presente e futuro, tutti insieme.
Anche
se gli altri erano riusciti a perdonare, loro non lo avrebbero fatto
mai, non completamente...
Ma
non si sarebbero nemmeno pentiti.
Nell'ufficio
dell'Hokage, finalmente solo, Naruto fissava le stelle sorte da poco.
Aveva
lavorato anni per evitare che si arrivasse a quel punto. Lui e
Kakashi, insieme, avevano fatto di tutto perché la
diplomazia
scongiurasse il peggio... E poi era stato proprio Kakashi a far
scattare la scintilla.
Assurdo.
Triste. Arrabbievole.
Esisteva
la parola arrabbievole? Ne dubitava. Ma era molto arrabbiato.
Dagli
interrogatori di Haruka e Jin era emerso che si erano allontanati da
Anka senza uccidere nessuno che non fosse un mercenario. La Roccia,
quindi, aveva barato.
Avrebbero
potuto fare ricorso, cercare di dimostrare che loro non c'entravano
niente con il massacro di Anka, ma a cosa sarebbe servito?
Dimostrare
che la loro dichiarazione di guerra era illegittima sarebbe stato
macchinoso, complicato e lungo... Nel frattempo avrebbero dovuto
combattere comunque. Non ne valeva la pena. La Roccia voleva la
guerra e aveva avuto il suo pretesto; non li avrebbero ascoltati.
Con
Sakura avevano stabilito di rilasciare una dichiarazione di non
colpevolezza senza tante speranze, e nel frattempo di prepararsi a
difendersi. Sarebbe stato difficile, doloroso e, a suo dire, inutile
– come tutte le guerre. Ma che altro potevano fare? Erano
caduti
nella trappola.
E'
per questo che siete stati addestrati, gli
ricordò Kyuubi dalla sua gabbia. E'
per questo che io e te
siamo insieme.
Era
davvero così?
La
loro esistenza, la loro personalità, i loro sentimenti erano
stati
guidati per arrivare a sostenere quella guerra?
La
profezia, Naruto... E' il tuo destino.
Erano
solo fantocci senza potere? Le loro vite, i loro dolori, erano solo
lo sfondo per qualcosa di più grande? Tutto quello che aveva
vissuto
con Sakura, Sasuke, con Hinata e i ragazzi che aveva cresciuto...
Tutti asserviti al piano di una volontà misteriosa?
Come
tutti gli uomini.
Naruto
strinse le labbra.
«Io
non sono come gli altri uomini» sussurrò.
«Te l'ho detto tanti
anni fa, te lo ripeto anche adesso. Io non sono così. E te
lo
dimostrerò.»
Fuoco.
* * *
Buongiorno a tutti!
Eccomi di nuovo qui,
con un nuovo capitolo (in tempo!).
Presto arriveremo a superare il capitolo in cui ci eravamo arenati,
yuhu!
Nel frattempo io ho scoperto il Tai Chi.
Allora!
Nonostante il titolo, questo capitolo parla di tutto meno che di guerra.
I mocciosi hanno ricominciato a quagliare
e Sasuke e Sakura hanno smesso di pesare con le loro paturnie.
Nel prossimo appuntamento,
il grande ritorno di Baka!
Ho allungato un poco i capitoli,
ma non so se per chi legge via cellulare sono troppo pesanti.
Fatemi sapere, se è necessario li dimezzo.
Grazie per aver letto anche oggi.
A presto!
Susanna
|
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Capitolo 37 *** I chakravakam ***
Penne 37
Capitolo
trentasettesimo
I
chakravakam
Nel
corso della prima notte di guerra, mentre Konoha cercava invano di
addormentarsi, c'era una zona del Villaggio che era ancora in pieno
fermento, e la era stata ininterrottamente da quando avevano
catturato la nuova Radice: i sotterranei del dipartimento di polizia.
Laggiù,
sotto metri di cemento armato e sistemi di sorveglianza, le celle
strabordavano di prigionieri, suddivisi per grado di influenza: i
nobili avevano avuto il privilegio di condividere il soggiorno con
due o al massimo tre parirango, i servitori e i ninja erano stati
ammucchiati fino alla capienza massima. Nonostante tutte le finestre
- che affacciavano nel cortile del commissariato, all'altezza del
terreno – fossero spalancate, l'odore era raccapricciante.
Morino
si passò una mano sulla faccia.
«Ancora
una volta» disse, sfregandosi le palpebre arrossate per la
stanchezza.
Si
trovava nella stanza degli interrogatori, la stessa in cui avevano
rinchiuso Yoshi quando lo avevano catturato. Alla sedia inchiodata
sul pavimento adesso era seduta l'ombra di quello che un tempo era
stato il consigliere Iida, o almeno il poco che ne rimaneva: un uomo
sgomento, ricurvo, con lo sguardo di un animale braccato.
«Non
so niente di Anka...» gemette, ondeggiando avanti e indietro.
«Non
sai niente» ripeté lo shinobi seduto davanti a
lui, la testa
appoggiata alle mani come se non avesse la forza per stare su da
sola. «Quindi» riprese sfogliando un fascicolo.
«Non hai mai
assgnato Haruka Muto allo spionaggio dei mercenari di stanza ad
Anka.»
Iida
sussultò. Alzò lo sguardo per posarlo
sull'incartamento, e per un
attimo vi passò un lampo di rabbia.
Baka
Akeru, scrutandolo, richiuse il materiale e lo passò a
Morino.
Con
l'arrivo della dichiarazione di guerra era stato impossibile
costringere il vecchio shinobi a restare in disparte, perché
aveva
iniziato a sbraitare che senza di lui sarebbe stato tutto un
fallimento. Così Sakura lo aveva dirottato sugli
interrogatori della
Radice, dicendogli che Baka sarebbe stato il suo successore e che
voleva che si dedicasse unicamente al suo addestramento, e Morino si
era lasciato convincere.
Una
buona idea, strategicamente parlando; ma non per Akeru, che nel giro
di sei ore si era visto sprofondare in un mondo fatto di violenza e
crudeltà. Aveva dovuto imparare a compiacere in fretta il
suo
superiore per non rischiare improvvisi scoppi d'ira, e per fare le
cose come diceva lui aveva dovuto dimenticare temporaneamente tutto
quello che sapeva di etica e medicina. A causa delle pretese di
Morino aveva dovuto progredire dieci volte più in fretta
degli
altri, così adesso stava crollando.
«I
tuoi uomini non sono buoni servitori» disse. Aveva la faccia
di chi
è a un passo dal vomitare per la stanchezza.
«Parlano tutti. Un po'
più di te, devo dire.»
«Sono
uomini inferiori» ringhiò Iida, facendo finire
qualche schizzo di
saliva sul tavolo metallico. «Feccia della feccia
della...»
«Li
hai scelti tu» lo interruppe Akeru. «Avrai scelto
male. Quindi,
parliamo di Anka.»
«Non
so niente di Anka...»
Un
ceffone colpì Iida in pieno orecchio, facendolo cadere dalla
sedia.
A
terra, il vecchio si raggomitolò su se stesso e gemette, la
mano
contro la testa, un rivolo di sangue che usciva dal labbro spaccato.
«Questo
è quello che si fa quando iniziano a ripetere la stessa
cosa» disse
Morino. «Tiralo su.»
Akeru
obbedì, sperando che il suo nuovo mentore non si accorgesse
della
sua tensione: per poco non aveva fatto un salto dalla sedia quando
era partito il manrovescio.
Si
accovacciò accanto a Iida e lo aiutò a rialzarsi,
rimettendolo
seduto. Guardò Morino, che gli fece un piccolo cenno con il
capo;
allora alzò una mano, avvolta da sottile chakra azzurrino, e
la posò
sull'orecchio lesionato.
Iida
sussultò, ma poi la sua espressione si ammorbidì,
spingendolo a
riaprire gli occhi.
«Sei
un ninja medico» mormorò, quasi con orrore.
«In
tempo di guerra tutti siamo un po' tutto...»
Soprattutto
se fai arrabbiare l'Hokage.
«Sì,
è un ninja medico» intervenne Morino.
«Questo significa che posso
farti molto più male di così, perché
lui ti manterrà tra
l'incoscienza e la lucidità quel tanto che basta per farti
sentire
il dolore. Dicci quello che sai di Anka!»
Akeru
si morse la lingua per non intervenire. Lo aveva fatto una volta,
quel giorno, perché Morino si era spinto troppo oltre, e per
poco
non si era beccato un ceffone pure lui. Tornò a sedersi
dall'altra
parte del tavolo.
Iida
fissò Morino, spaventato, poi guardò Akeru.
Aprì la bocca,
probabilmente per supplicare, ma Baka gli fece un cenno
impercettibile con la testa.
Non
ti conviene.
«Anka...»
ansimò allora il vecchio. «Anka è un
villaggio nel Paese della
Roccia... Haruka Muto era ad Anka, perché la compagnia in
cui si era
infiltrata era stata mandata lì. Non so altro. Non ci
interessava.
Noi volevamo solo i mercenari, sapere se si muovevano, come si
spostavano...»
«E
per conto di chi» lo anticipò Akeru.
«Chi li faceva spostare?»
«I
loro generali. Uomini della capitale, vicini ai vertici della
Roccia... Non li conosco, non siamo mai riusciti ad arrivare fino a
loro...»
«Altrimenti
ci avreste venduti subito?» quasi sputò Morino.
«No»
disse Akeru, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia.
«Altrimenti avrebbero fatto accordi con loro
perché fossero
eliminati tutti i detentori del potere a Konoha, così che
qualcuno
di più adatto, come un vero discepolo di Danzo, potesse
finalmente
occuparsi del Villaggio e renderlo di nuovo grande... Ma alla Roccia
avrebbero detto che erano disposti ad essere un governo
fantoccio.»
Iida
tacque, sollevando il mento di qualche centimetro.
Akeru
si passò una mano sulla fronte, e Morino annunciò
che avevano
finito. Andò alla porta, chiamò le guardie
perché riportassero
Iida in cella.
«Sei
stato bravo» disse, una volta rimasto solo con Akeru.
«Secondo
il manuale, quando interroghiamo un non militare non dobbiamo
prenderlo a sberle» replicò lui nervosamente.
«Per
le palle degli dei, non hai mai interrogato un politico
prima!»
Morino sbatté sul tavolo il fascicolo di Iida. Se non fosse
stato
esausto, Akeru sarebbe trasalito. «Quello non è un
impiegato delle
poste, è un ex consigliere! Ci dirà solo e
soltanto quello che
sappiamo già. Se stiamo sul suo terreno ci rivolta come
guanti e ci
divora: l'unica possibilità è spaventarlo con la
violenza.»
«Non
mi sembra che rompergli un timpano abbia portato a grandi
rivelazioni... Comunque non sapeva niente di Anka, e non credo che si
sia accordato con la Roccia per far scoppiare la guerra»
Akeru si
alzò in piedi, massaggiandosi il collo.
«Non
lo credo nemmeno io» ammise Morino, sorvolando sulla prima
parte
della frase. «Avrebbe organizzato qualcosa di più
subdolo... Una
guerra è incontrollabile. Almeno, se non sei
Hokage.»
«Adesso
posso tornare a casa? Sono sfinito.»
«Sì,
vai. Io scrivo il rapporto. E leggiti i testi che ti hanno dato...
Ora che ci hanno dichiarato guerra dobbiamo far parlare quel
ragazzino. Non possiamo permetterci altre spie dentro le
mura.»
Akeru
grugnì una risposta, andando verso la porta prima che gli
venisse
revocato il permesso.
Ovviamente
Morino si riferiva a Yoshi, che come Iida era stato rinchiuso in
cella di isolamento. Ripensando a lui, Baka avvertì
contemporaneamente una fitta d'ansia e una di umiliazione: l'ansia
era dovuta alle alte aspettative che avrebbe avuto Morino –
con
conseguenti metodi di interrogatorio -, l'umiliazione al ricordo di
quando pensava di ricevere i complimenti di Sakura perché
aveva
segnalato Yoshi, e invece era stato completamente demolito per la
faccenda del contratto di Chiharu...
«Non
riesco a credere che un membro della squadra medica, un ninja a cui
io stessa
ho
insegnato, firmi un contratto di custodia che non conosce e si prenda
la responsabilità di un paziente senza
guardare la sua cartella clinica! E' la cosa
più stupida
che abbia sentito da quando lavoro in questo campo!»
Akeru
era rimasto a testa china, con aria umile.
Sakura
aveva voluto la sua copia del contratto di custodia, gliela aveva
letta in faccia, aveva sottolineato ogni punto che lo rendeva
responsabile di qualunque cazzata di Chiharu, e poi gli aveva chiesto
di vedere la cartella clinica della ragazza, per capire quanti rischi
si fosse davvero assunto.
Ma
lui quella cartella non la aveva. Non l'aveva neanche mai vista.
«A
cosa pensavi mentre firmavi questa schifezza?»
esclamò Sakura,
accartocciando il contratto in un impeto di rabbia.
Pensavo
a quanto mi sarebbe stata grata Chiharu. E a tutti i modi pratici in
cui lo avrebbe dimostrato, rispose lui interiormente.
«Non
so a cosa pensavo...» fu ciò che
mormorò a voce alta. «Immagino
che mi dispiacesse lasciarla lì e tornare a prendere il
merito di
una missione che lei...»
«Balle!»
abbaiò Sakura. «Ti sei sempre preso il merito di
qualunque cosa su
cui sei riuscito a mettere le mani! Sei uno spaccone arrogante e
vanaglorioso, non raccontarmi la storia dell'anima
caritatevole!»
Akeru
alzò la testa, moderatamente offeso, ma di fronte allo
sguardo di
fuoco di Sakura la riabbassò.
«Pensavo
di riuscire a controllarla» confessò allora.
«Pensavo che non ci
fossero rischi, che saremmo tornati e basta...»
«Ma
stiamo parlando di Chiharu Nara!» Sakura si passò
una mano tra i
capelli. «A tredici anni è quasi riuscita a
suicidarsi sulle tue
ginocchia, a far ammazzare la moglie e il figlio di Naruto e a far
morire i suoi genitori di infarto! Quella ragazza è una mina
vagante, pericolosa per sé e per gli altri! Come diavolo
pensavi di
controllarla?»
Lui
pensava che portarsela a letto fosse più difficile che
scortarla da
Suna a Konoha, e visto che era riuscito a fare la prima delle due
cose si era sentito in grado di fare anche l'altra. Aveva sbagliato,
adesso lo riconosceva, ma non era completamente colpa sua.
«Incontrare
tutto quel casino sulla strada del ritorno era una cosa assolutamente
improbabile» tentò di difendersi. «Il
sesto Hokage che rientra,
squadre dalla Roccia e traditori dalla Foglia? Seriamente, quante
possibilità c'erano che si verificasse una cosa del
genere?»
«Non
importa! Quando firmi un pezzo di carta devi essere consapevole che
se anche si verifica un'eccezione straordinaria, tu
sarai responsabile di quell'eccezione. E devi firmare solo per cose
che sai di poter affrontare, non a scatola chiusa» Sakura
prese un
respiro profondo. «L'attuale cartella clinica di Chiharu
è un
orrore. Francamente mi stupisco che sia uscita viva da quello
scontro. Se a Suna non volevano lasciarla partire immagino che
facesse schifo anche allora... Cosa avresti fatto se le fosse preso
un attacco cardiaco a metà strada? Non sapevi nemmeno che
fosse
possibile.»
In
effetti, considerato che l'attività sessuale è
tra i fattori di
rischio per l'infarto, gli era andata bene anche prima che partissero
per Konoha. Due volte.
«Ho
sbagliato» ammise.
«Certo
che hai sbagliato!» inveì Sakura. Poi si costrinse
a calmarsi.
«Devo ancora decidere cosa fare di te. Per adesso sei sospeso
da
tutti gli incarichi. Torna a casa, tua madre non merita di stare in
ansia per un...» sbuffò. «Lasciamo
stare. Mi hai deluso, Akeru.»
Lui
strinse le labbra, mortificato.
Prima
di lasciarlo andare Sakura aggiunse ancora una cosa:
«ovviamente ti
è fatto esplicito divieto di far visita in ospedale a
Chiharu.»
Che
era praticamente l'unica cosa che volesse, in quel momento.
Ritrovarsi
per strada alle cinque di mattina dopo aver passato tutta la notte ad
assistere alle violenze di Morino lo aveva provato nello spirito e
nel corpo. Sakura inizialmente lo aveva sospeso, poi, con l'arrivo
della dichiarazione della Roccia, lo aveva assegnato alla piccola
squadra degli interrogatori, perché imparasse il mestiere.
Ed
era un mestiere orribile, crudele e opprimente.
Pensava
che fosse un tipo particolarmente meschino di punizione da Hokage, ma
sperava anche che quando ci fosse stato da combattere lo avrebbero
reintegrato tra i ninja medici.
Adesso
aveva solo un pensiero, ben più impellente che tornare a
fare
l'Anbu: avrebbe voluto più che mai vedere Chiharu, e
abbracciarla, e
farsi dire che al mondo non esistevano solo gli orrori di Morino... E
sapere se stava bene, chi si prendeva cura di lei, se ripensava a
quello che era successo a Suna quanto ci pensava lui... Ma non
poteva, perché Sakura glielo aveva proibito, e Sakura era
l'Hokage,
o quasi.
Sono
ridotto male,
si disse
abbattuto. L'unica persona a cui penso quando
sono in
difficoltà è proprio quella che di solito mi
mette nei guai.
«Devo
parlare con qualcuno, o perderò la testa in quel bunker
senz'aria»
mormorò, fermandosi a un bivio. «E quando dico che
devo parlare con
qualcuno, non intendo me stesso. Diavolo.»
E
allora imboccò la strada di sinistra, anche se casa sua era
a
destra. Attraversò le vie deserte, oltrepassando il vecchio
quartiere a luci rosse per raggiungere un quartiere nuovo ma
squallido, dove i condomini si affacciavano l'uno sull'altro fino a
togliersi il sole. Ben nascosto in una via laterale c'era il cancello
di una minuscola casa in stile tradizionale, il residuo di un tempo
lontano, ormai soffocato dalle mura dei palazzi. Non aveva citofono,
solo una campanella.
Solo
allora Akeru esitò, perché erano le cinque e
mezzo del mattino. Poi
l'idea di restare solo a ripensare agli interrogatori di Morino gli
fece paura, così tirò la catena della campanella.
Subito
non ci furono reazioni; ma alla fine, dopo quasi un minuto intero,
emerse dal silenzio un borbottio che si fece piano piano udibile:
«spero che tu sia una donna...» grugnì
una voce da dietro la
porta. «Perché stavo sognando una donna, una gran
donna, e
per svegliarmi a quest'ora devi essere davvero una fi...»
Jiraya
aprì la porta e tacque. «Non lo sei.»
«Non
sapevo dove altro andare» disse subito Akeru. «Mi
scusi per
l'orario.»
Jiraya
si esibì in un enorme sbadiglio, facendogli cenno di
entrare. La
ferita che si era fatto nella casa di Iida non era più
fasciata, ma
ancora vistosa «Dimmi che sei appena uscito dal letto di una
ragazza, almeno...»
«Ero
con Morino.»
«Pessima
scelta.»
I
due entrarono nell'appartamento di Jiraya, che era piccolo,
disordinato e pieno di cianfrusaglie. Baka non era mai stato
all'interno, e la prima impressione gli fece arricciare il naso.
«Se
eri con Morino ti ci vuole qualcosa di meglio del solito
sakè
dozzinale...» mormorò Jiraya frugando in un
mucchio di sacchetti
semi-sepolti. «Questo l'ho vinto al casinò dieci
anni fa, ormai
sarà delizioso.»
«Non
sono qui per ubriacarmi...» Akeru esitò.
Ripensò al gemito di
dolore di Iida, alla sua figura rannicchiata sul pavimento.
«Okay, i
bicchieri non servono. Bevo a collo.»
«La
missione a Suna ti ha messo un po' di buonsenso in quella zucca
vuota» rise Jiraya, stappando la bottiglia. «E' da
prima che
partissi che non ci vediamo... Allora, mi hai reso fiero di
te?»
«Per
sentire quello dovrà aspettare che sia andato giù
un po' di
alcol...»
Non
poteva parlare di Chiharu con le immagini di Morino che spuntavano a
sorpresa tra una frase e l'altra, e Jiraya sembrò capirlo.
Nella
mezzora successiva Akeru buttò giù sorsi generosi
di sakè,
raccontando del contratto con Suna e di come Sakura l'aveva presa
male. Parlò dei suoi nuovi compiti come allievo di Morino e,
da
brillo, si lasciò scappare un piccolo sfogo sulla
perversione del
sistema della tortura, che come medico lo ripugnava.
Jiraya
lo lasciò fare, perché dopo i settant'anni sono
poche le cose che
possono turbare un ninja, e gli allungò degli snack quando
capì che
avrebbe rischiato di vederselo vomitare sui piedi a causa dello
stomaco vuoto. Già sapeva molte delle cose che Akeru stava
raccontando, ma sapeva anche che lui aveva bisogno di dirle.
«...E
io quel contratto l'ho firmato perché sono un
cretino» biascicò il
ragazzo, spargendo briciole ovunque.
«Non
ho mai avuto nessun dubbio al riguardo. Tira più un pelo
di...»
«...Che
un carro di buoi» Akeru cercò di afferrare la
bottiglia,
mancandola.
«Conoscendo
Chiharu, poi non te l'avrà neanche data.»
«No,
infatti» Baka si fece scappare un singhiozzo.
«Quello è successo
prima.»
Jiraya
si riprese la bottiglia, tenendogli ferma la testa con una mano.
«Sei
riuscito a portarti a letto Chiharu?» chiese lentamente.
«Signorsissì!
Due volte.»
«Questa
sì che è una cosa su cui non avrei mai scommesso!
Brindiamo.»
Jiraya rovesciò la testa all'indietro e bevve un lungo sorso
di
sakè. «Ragazzo, sono molto orgoglioso dei tuoi
progressi!»
annunciò, battendogli pacche affettuose sulla testa.
«E come
scrittore sono rovinato... Ma pazienza, Miko e Jumon se ne faranno
una ragione. Quindi, come è stato?»
«Non
lo so. Cioè, lo so. Però non trovo le parole. Ho
sete...»
«Aspetta,
prendo qualcosa per scrivere – questo materiale è
oro, sai quanta
roba ci tiro fuori?»
«Ehi,
vuole prendere appunti sulla mia prima volta?»
«Preferisci
che rida dall'inizio alla fine del racconto? Era la prima volta anche
per lei?»
«No.»
«No?»
«No.
Mi pare di no. Sa, ci sono anche ragazze che... che non te ne
accorgi... Ma mi sembrava di no.»
«Ah.
E la cosa non ti ha dato da pensare?»
Tipo,
al fatto che Hitoshi Uchiha è in squadra con lei?
«Sì,
certo. Ci ho pensato e ripensato e straripensato. Ma cosa posso
farci? Con chi è stata prima non sono affari miei.
Cioè, non posso
cambiare il passato.»
«Saggio,
figliolo, molto saggio» Jiraya gli ridiede la bottiglia di
sakè.
«Ma adesso tu e lei cosa siete?»
«Boh?
Sakura Uchiha mi ha proibito ufficialmente di andare a trovarla, e
l'ultima volta lei era svenuta... Non lo so. Siamo qualcosa?»
«Considerato
il soggetto, non ne ho idea.»
«Voglio
vederla...» Akeru crollò su un fianco,
rannicchiandosi attorno alla
bottiglia. «Stare con Morino fa schifo, mi sembra di vivere
in un
mondo di merda... Voglio sapere che non esiste solo quello.»
Jiraya
sospirò, grattandosi il mento ispido con il retro della
matita.
«Quanto hai ragione, Akeru...» mormorò,
ripensando agli anni in
cui nascondeva l'orrore per le battaglie che doveva combattere dentro
donne sempre diverse. «Non esiste solo quello. Ci sono cose
belle
nel mondo, anche se adesso siamo in guerra e per un po' ci
sembrerà
che siano sparite...»
«Secondo
lei Chiharu mi ama?» piagnucolò Akeru,
più addormentato che
sveglio.
«Questo
mi sembra piuttosto improbabile... Ma andrò a sondare il
terreno per
te. Così, per capire se disobbedire agli ordini dell'Hokage
può
portarti cose buone o no.»
Akeru
russò sommessamente, riverso sul pavimento.
Jiraya
sorrise. Sperava che l'alcol sarebbe riuscito a cancellare anche gli
incubi che sarebbero venuti fuori dalla guerra, quando la mente
avrebbe vacillato... Così come aveva fatto con lui.
C'era
qualcosa in Akeru che gli ricordava se stesso da giovane, e anche
Naruto. Forse era la spavalderia, forse la stupidità, ma lo
riempiva
di nostalgia. Non riusciva a non aiutarlo.
Lo
lasciò a dormire sul suo pavimento, e andò a
vestirsi.
Con
tutte le cose che erano successe negli ultimi tempi Jiraya aveva
perso di vista Chiharu e quel che le succedeva. Mentre raggiungeva
l'ospedale, attraversando le strade semideserte, fece mente locale e
ricordò Honmaru Senju, il medico che aveva incrociato una
volta con
Naruto, e che aveva la cartella clinica di Chiharu sotto braccio e un
Anbu al fianco.
Conoscendo
Sakura, sapeva che non aveva proibito ad Akeru di vedere Chiharu
perché voleva preservare il suo cuore innamorato:
probabilmente
c'era sotto qualcosa. E anche Naruto era stato strano al riguardo,
perché sembrava che non volesse avere a che fare con lei.
Per non
parlare di quanto era sospetto l'Anbu con Honmaru... Sì,
Naruto e
Sakura stavano sicuramente nascondendo qualcosa.
Chissà
se era la stessa cosa che aveva scoperto lui nell'Archivio?
Improbabile, eppure...
Poco
dopo l'orario delle colazioni in ospedale, si trovò ad
attraversare
i corridoi deserti dell'ex ala delle sale parto, chiedendosi
perché
Chiharu fosse così isolata dagli altri e come mai ci fossero
due
visitatori palesemente ninja lungo il corridoio. Finse di non
vederli.
Trovò
la porta dopo aver bussato invano a un paio di stanze vuote. Chiharu
non rispose subito, e quando lo fece il suo tono era molto
sospettoso.
«Chi
è?»
«Jiraya»
rispose lui, aprendo per cacciare dentro la testa.
Chiharu
si voltò verso la porta, illuminandosi senza rendersene
conto.
Jiraya ne fu lusingato. Entrò nella stanza con un largo
sorriso, che
però si affievolì quando vide il vassoio della
colazione intatto e
le borse sotto gli occhi di Chiharu.
«Cosa
è successo alla sua faccia?» chiese subito
Chiharu, vedendo la
ferita che gli sfregiava un lato del viso.
«Oh,
la vecchiaia... I miei riflessi non sono più buoni come una
volta:
penso che presto mi limiterò a insegnare, senza uscire in
missione.»
A
quelle parole Chiharu ricordò che Jiraya aveva accettato di
allenare
Hitoshi, che era praticamente una specie di tradimento, e
irrigidì
la mandibola.
«Come
stai?» esclamò Jiraya, avvicinando una sedia al
letto. Il sole del
primo mattino cadeva sulle lenzuola, rendendo più acuti gli
spigoli.
«Non sono riuscito a venire prima, Naruto sta chiedendo aiuto
a
tutti per gestire il casino degli ultimi giorni...» Sentendo
nominare Naruto Chiharu si oscurò. «Allora? Che mi
racconti?»
«Secondo
i medici se non smetto di essere ninja muoio. E Naruto non le ha
detto che mi ha radiata dall'ordine con disonore?» disse
acidamente.
Ecco,
questa Chiharu era molto più familiare di quella sorridente,
e così
si spiegavano sia Honmaru che Naruto... Ma Naruto era quello che lo
preoccupava di più.
«Radiata
con disonore?» ripeté Jiraya. «E
perché lo avrebbe fatto?»
«Perché
gli ho salvato la vita.»
«Spiega
con ordine...»
Lo
sguardo di Chiharu si fece sfuggente. «Nella foresta ho
evocato
un... una cosa perché ci aiutasse. E ci ha aiutato. Ma non
è stato
proprio... Insomma, io non ho retto e l'ho mandata indietro per
recuperare il chakra. Naruto se l'è presa.»
Era
una descrizione che c'entrava molto poco con il litigio che aveva
avuto con Naruto, ma non se la sentiva di spiegarlo nei dettagli:
avrebbe dovuto aggiungere molte cose, e non tutte erano facili da
dire.
Jiraya
rimase in silenzio per un secondo, ripensando alla sua visita
all'Archivio segreto di qualche tempo prima. Nonostante il racconto
scarno di Chiharu, lui aveva un'idea chiara di cosa doveva essere
successo...
«Vediamo
se ho capito» disse piano. «Quando avete incontrato
il sesto Hokage
nella foresta vi siete trovati in difficoltà, e tu hai
evocato un
chakravakam» Chiharu sussultò. «Poi
però ti sei accorta di aver
fatto male i calcoli, e hai pensato di riprenderti il chakra che
avevi usato per evocarlo... Cosa che normalmente uccide
un'evocazione. Ma non i chakravakam. E Naruto, che non lo sa, ha
pensato che tu avessi sacrificato un compagno, così si
è
infuriato.»
Chiharu
fissò Jiraya, mettendosi sulla difensiva. «Sa dei
chakravakam?»
«Una
volta erano molto famosi...» Jiraya sospirò.
«E qualche tempo fa
mi è capitata in mano la pergamena del contratto di sangue
con
Suzaku. Che, per inciso, pensavo fosse sigillata e inaccessibile alle
ragazzine.»
«L'ho
trovata sei anni fa» Chiharu riabbassò lo sguardo;
se Jiraya
conosceva già una parte, era più facile
raccontare il resto della
storia. «Quel contratto sembrava una cosa seria, e...
e...» senza
volerlo arrossì.
...E
rubarlo era sembrata una mossa da vera ninja, allora; ma adesso
sembrava solo una bravata imbecille.
«Hai
firmato il contratto con Suzaku a dodici anni?» Jiraya la
fissò.
«Sì.
Non ha fatto problemi perché ero piccola» si
difese lei. «E poi il
ses...» si interruppe di colpo.
«E
poi il sesto Hokage ha cercato di proteggerti? Era l'ultimo nome,
dopo il tuo.»
Chiharu
si strinse nelle spalle, sentendosi più imbecille ad ogni
ipotesi
azzeccata del sennin. «L'Hokage mi ha autorizzato ad usarli,
nella
missione a Suna...» mormorò, quasi per
giustificarsi.
«Ma
neanche Kakashi sa tutta la storia...» Jiraya si
passò una mano sul
viso. «I chakravakam sono stati messi al bando prima che lui
finisse
l'Accademia.»
«In
che senso messi al bando? Quando ho trovato la pergamena ho provato a
cercare informazioni sui chakravakam, ma non ho trovato niente da
nessuna parte.»
«Perché
non sono tra le evocazioni. Sono stati cancellati, proprio per
evitare che a qualche studentello avido venisse voglia di cercarli...
Il terzo Hokage pensava che bastasse eliminarli dalla memoria
perché
non tornassero mai più. Ovviamente si sbagliava.»
«Ma
il Sesto Hokage doveva sapere qualcosa, altrimenti non avrebbe
insistito per firmare il contratto dopo di me: Suzaku non ne era
stato felice» protestò Chiharu.
«Raccontami
come è andata precisamente.»
«Quando
ho trovato la pergamena avevamo appena finito di studiare la tecnica
del Richiamo.... Non pensavo che quella particolare evocazione fosse
un problema, così ho seguito le istruzioni sul documento:
è
spuntato un chakravakam, uno di quelli piccoli, che usano come
messaggeri, e mi ha portato da Suzaku...»
«Un
messaggero dei chakravakam ti ha praticamente evocata nella loro
dimensione?» Jiraya si tirò su di scatto.
«Sei sicura di non
averli mai incontrati prima?»
«Assolutamente
sicura: non avevo ancora il coprifronte. Comunque, quando sono
arrivata lì Suzaku ha presentato i chakravakam come la cosa
più
figa dell'universo; mi ha detto che non morivano, ma rinascevano
dalle loro ceneri, che erano in grado di tener testa ai Bijuu, e che
potevano cedere a me una parte del loro chakra in caso di bisogno...
Avevo dodici anni, sembrava tutto fantastico: ho firmato
immediatamente.»
A
dirlo ora sembrava una cosa stupidissima, ma all'epoca aveva una sua
logica – da qualche parte.
«E
Kakashi?» chiese Jiraya.
«Il
sesto Hokage mi ha trovata quando sono rientrata. Stava cercando le
chiavi dell'archivio, mi ha beccata con la pergamena in mano. Mi ha
rimproverata. All'epoca non aveva ancora passato l'esame
all'Accademia, era furioso... Insomma, ha detto che il contratto non
si poteva sciogliere, ma che poteva controllare come andava.
Così ha
voluto stringere il patto anche lui. Non so cosa abbia detto a
Suzaku, non ero presente, ma il messaggero dei chakravakam era
furioso.»
«Che
pasticcio...» borbottò Jiraya stropicchiandosi la
faccia. Fece una
smorfia quando tirò involontariamente la ferita.
«Chiharu, non puoi
avere un contratto con i chakravakam senza sapere con cosa hai a che
fare.»
Anche
perché evidentemente nemmeno i tuoi superiori lo sanno.
«Immagino
di no» deglutì Chiharu.
«Hai
detto che quando hai evocato un chakravakam l'ultima volta il tuo
cuore non ha retto, giusto?» domandò. Lei
annuì. «Non era colpa
del tuo cuore.»
«No?»
«No.
La ragione per cui i chakravakam sono stati relegati a un archivio
polveroso è che il flusso di chakra, con loro, va in
entrambe le
direzioni: se un chakravakam decide di prelevare il tuo
chakra, nulla gli impedisce di farlo.»
Chiharu
rabbrividì. «Sono stata male perché il
chakravakam ha deciso di
prelevare il chakra da me?»
«Sì:
non è possibile evocare qualcosa di superiore alle proprie
possibilità.»
«Ma
perché avrebbe dovuto? Cosa se ne fanno del mio chakra? Io
ho visto
la loro dimensione, e sono sicura di essere una goccia nell'oceano
rispetto alle loro riserve...»
«Come
credi che abbiano accumulato tutto quel chakra? Anni di contratti
sciagurati, shinobi ridotti a fantasmi di loro stessi... Eravamo in
guerra, Chiharu, e i Bijuu erano più spesso nemici, che
alleati.
Avevamo bisogno di qualcosa che potesse difenderci, e ci siamo
rivolti ai chakravakam. Ma abbiamo fatto male» Jiraya
socchiuse le
palpebre, ricordando gli eventi di allora. «Non sono mai
stati
affidabili: scomparivano nei momenti di difficoltà,
rifiutavano di
combattere, prelevavano chakra dai feriti per non rischiare di
perderlo se fossero morti... Erano fortissimi, immortali; ma non
sapevi mai se ti si sarebbero rivoltati contro. Così il
Terzo Hokage
decise di levarli dalla circolazione. Ovviamente non fu semplice. I
chakravakam si ribellarono; ci furono degli scontri. Il Quarto
Hokage, che all'epoca era solo un Anbu, fu colui che trovò
il modo
di arginarli. Allora la pergamena con il loro contratto fu nascosta,
e le loro tracce cancellate; pensavamo che fosse sufficiente per
tenerli sotto controllo... Fino alla tua bravata. Ah, me lo immagino
proprio Suzaku che gongola quando ti vede comparire al suo cospetto
dopo tutti quegli anni...»
Chiharu
sentì le guance arrossarsi di nuovo, per la vergogna e la
rabbia.
«Non
può essere così tragica... Dopo la Lophenaria
sono stata
attenta a non fare più errori troppo gravi. Non sono
stupida; io
sono intelligente.»
«Sì,
forse te lo abbiamo detto un paio di volte di troppo.»
A
quel punto Chiharu avvampò. Di certo non era la sola
stupida,
in quella faccenda: se non avessero cancellato le tracce dei
chakravakam dalla storia di Konoha, non avrebbe mai frmato quel
contratto. Invece loro avevano voluto eliminare tutto, e lei come
poteva sapere a cosa stava andando incontro?
«Se
qualcuno mi avesse informato...» iniziò, ma Jiraya
non la lasciò
continuare.
«Se
ti avessimo informato avresti firmato comunque. Come hai sempre
fatto. Pur di avere un briciolo di potere in più venderesti
tua
madre.»
Chiharu
spalancò la bocca. «Non è
vero» disse meccanicamente, ma una voce
nella sua testa si sovrappose alle parole e chiese: davvero?
Jiraya
si grattò la ferita alla tempia, facendo attenzione a non
riaprirla.
«Stai percorrendo un sentiero pericoloso, Chiharu»
disse a bassa
voce. «In passato ho già visto altri comportarsi
come te, e non è
mai finita bene. Tu conosci la storia di me, Tsunade e Orochimaru...
Orochimaru aveva scelto la via che stai prendendo tu» Chiharu
aprì
la bocca per protestare, ma lui, ancora, non glielo permise.
«So
quel che dico. Io c'ero. Non pensare che uno si svegli una mattina e
pensi di mollare tutto il villaggio per andare con i nemici: il
processo è lento, quasi invisibile, e inizia con
l'allontanarsi
dagli amici. Quanti amici hai, Chiharu, e cosa ne stai facendo? Non
vuoi nemmeno far sapere ai tuoi genitori che stai male. E stai molto
male, lo so io e lo sai tu; basta guardarti. Smetterai di essere
ninja?» Chiharu strinse le labbra senza rispondere.
«Come puoi
continuare ad essere ninja, così? Non ci sono
possibilità, noi non
ne conosciamo. Quello che finirai per fare è cercare una
soluzione
fuori dal villaggio... Ma questo è tradimento. Questo
è quello che
ha fatto Orochimaru.»
«Io
non sono Orochimaru!» esclamò Chiharu.
«Sei
molto più Orochimaru che Tsunade!»
sbottò Jiraya in risposta.
«Smettila di pensare di essere superiore a tutti! Non lo sei.
Sei
una ragazzina, non hai neanche vent'anni: hai stretto un contratto
suicida pensando di essere la più furba del villaggio, e in
questo
modo hai messo nei guai te stessa e Kakashi; usando i chakravakam
senza saperne niente hai creato problemi anche a Baka, che
sarà pure
uno scemo, ma è un Anbu, e sta rischiando la carriera per
te; e per
tutta questa serie di cose sei riuscita a litigare con Naruto,
Naruto, che ti ha sempre difesa e ha difeso chiunque
da quando
lo conosco, anche i più indifendibili! Per cosa? Alla fine
sei
comunque in un letto d'ospedale, più di là che di
qua. Per tutti
gli dei, Chiharu, stai facendo un errore dietro l'altro e non vuoi
ascoltare nessuno! Non fai che scaricare sugli altri la colpa dei
disastri che combini, ma la responsabilità delle tue azioni
è
soltanto tua! »
Chiharu
boccheggiò, in cerca di una replica. Sentiva le guance
bruciare per
l'umiliazione, un ronzio dentro le orecchie.
E'
vero, è vero, è tutto vero,
diceva la voce della sua coscienza. Ma era piccola, schiacciata sotto
quel masso pesante che le impediva di piangere.
«Nessuno
è nella mia situazione» disse alla fine, con uno
sforzo. «Nessuno
è dentro di me, nessuno vede quello che vedo io, sa cosa
provo... E'
facile parlare da fuori. Lei non ha visto i suoi compagni che la
lasciavano indietro, non ha mai dovuto... faticare...»
deglutì,
senza fiato.
«Tutti
devono faticare» rispose Jiraya, inflessibile. «I
migliori sono
quelli che hanno faticato più di tutti. Se scendessi dal tuo
piedistallo e chiedessi a Naruto cosa ha dovuto sopportare prima di
diventare quello che è, sapresti che tu sei una
privilegiata.»
«Io
ho parlato con Naruto...» mormorò Chiharu.
«No.
Nessuno ha mai parlato davvero
con Naruto, tu meno di tutti. Se davvero avessi parlato con lui delle
cose che contano, non avremmo mai dovuto fare questa conversazione.
Ma tu Naruto non lo hai mai voluto ascoltare, perché non hai
mai
voluto ascoltare nessuno.»
A
quel punto Chiharu si accorse di aver stretto il bordo del lenzuolo
tanto da sentir male alle dita. Le distese, tremanti, e le
fissò.
Jiraya
fece un respiro profondo, si costrinse a calmarsi. «Non
volevo
essere così duro. Mi dispiace. Ma non puoi continuare a
fingere di
non vedere dove ti stai dirigendo... Perché a un certo punto
sarà
troppo tardi per tornare indietro, e io non voglio che arrivi a quel
punto.»
Chiharu
sbatté le palpebre, cercando una risposta. Ma non riusciva
ad aprire
la bocca.
«Lascia
che qualcuno si avvicini» insisté Jiraya.
«Non allontanare chi ti
vuole bene, non isolarti dai tuoi amici. I tuoi compagni di squadra
sono bravi ragazzi, anche se uno è un Uchiha»
incurvò un angolo
della bocca. «E pure Stupido, per quanto stupido, ha un cuore
d'oro.
Se non vuoi i consigli di gente troppo vecchia, con cui non senti di
aver niente in comune, almeno stai con loro.»
Con
un enorme sforzo di volontà, Chiharu rialzò lo
sguardo. Deglutì,
la gola ancora bloccata. Perché era così
difficile parlare? C'erano
cose che avrebbe voluto dire, c'erano giustificazioni, c'erano
ammissioni... Ma non usciva niente.
Jiraya
rimase in attesa per quasi un minuto, poi, non sentendo risposte,
fece un respiro profondo.
Chiedimelo
ancora una volta!,
pensò
Chiharu, angosciata. Non riesco a parlare.
«A
proposito di Stupido...» borbottò invece Jiraya,
passandosi una
mano sul collo. Non era proprio il clima più adatto per
parlarne, ma
aveva promesso che lo avrebbe aiutato. «E' nei guai per colpa
di
quel contratto che avete firmato a Suna. Dato che tu sei stata male,
il contratto prevede delle conseguenze legali, che al momento sono in
sospeso solo perché per informare Gaara dovremmo andare
contro la
tua richiesta di privacy... Però Sakura si è
infuriata con lui
perché ha accettato senza guardare la tua cartella clinica,
e lo ha
sospeso dai suoi incarichi» Chiharu avvertì un
fitta di senso di
colpa. «Ora, io non voglio neanche chiederti se sapevi che lo
avresti messo in questi casini...»
«Non
lo sapevo» disse Chiharu di scatto. «Non volevo
dargli problemi, ma
poi c'era il sesto Hokage in difficoltà...»
«Non
mi interessa, lascia stare» Jiraya fece un gesto vago.
«Il punto è
che lui è Stupido. Lo conosci. Vorrebbe venire a trovarti,
ma Sakura
glielo ha proibito, e, sai, andare contro un ordine esplicito
dell'Hokage può avere conseguenze gravi... Devo capire se ne
vale la
pena o no.»
Chiharu
si mosse a disagio, sentendosi arrossire. Ok, parlare di faccende
sentimentali con Jiraya era appena entrata nella top three delle cose
più imbarazzanti della sua vita.
«Non
voglio che abbia altri problemi...» borbottò,
evitando lo sguardo
del sennin.
«Fin
qui siamo d'accordo. Ma, ripeto, è Stupido: se gli dico che
ti
preoccupi di non fargli avere altri problemi si precipita qui con un
mazzo di rose. Voglio solo essere sicuro che tu non rovini la vita di
quel ragazzo. Se viene qui, dovrai essere gentile. Non mi interessa
se provi qualcosa per lui o no, ma io gli voglio bene e non voglio
che soffra più di quanto è necessario. Se devo
rispondergli che il
corridoio è pieno di trappole e deve aspettare le tue
dimissioni,
glielo dico.»
Chiharu
si massaggiò un braccio. Le aveva fatto piacere vedere
Kotaro, e
doveva ammettere che sapere che Akeru non era venuto solo
perché gli
era stato proibito l'aveva fatta sentire un po' meglio. Ma se avesse
detto a Jiraya di farlo venire, per cosa sarebbe venuto?
Voleva
diventare la sua ragazza?
Per
carità, un problema in più.
Lui
però avrebbe voluto qualcosa del genere. Allora era meglio
non farlo
venire? Ma Jiraya le aveva detto di non allontanare gli amici, e ne
aveva tipo quattro, quindi Akeru era un quarto delle sua amicizie
totali...
«Non
lo so» disse alla fine. «In questo momento non ho
proprio la testa
per pensare anche ad Akeru... Ma lei ha detto che non devo
allontanare gli amici, quindi se le dico di non farlo venire ne perdo
uno.»
Jiraya
rifletté per un istante. «Va bene, ci penso io:
gli dirò che non è
proprio il momento. Quando uscirai dall'ospedale, però, vai
a
cercarlo tu, altrimenti se la lega al dito.»
Chiharu
annuì. Poi serrò la mascella, e si costrinse a
continuare. «Non...
Non riesco a parlare. Volevo risponderle mentre diceva tutte quelle
cose, ma non mi uscivano le parole. Non ci riesco. Non ci sono
riuscita neanche con Naruto. Volevo dirgli che i chakravakam non
muoiono, però...» si interruppe, di nuovo a corto
di parole.
Jiraya
le rimandò uno sguardo scettico, ma decise di concederle il
beneficio del dubbio. «Questo posso dirglielo io. Non
garantisco che
cambi qualcosa, ma posso provare. Considera che in questo momento
Naruto è sommerso di impegni...» esitò.
Chiharu sapeva della
guerra? Probabilmente no, e non sarebbe stato lui a dirglielo.
«E
pensa anche che il tuo cuore è indipendente dalle scelte di
Naruto:
se non stai bene non puoi continuare a ignorarlo. Io comunque ci
provo.»
Chiharu
lo ringraziò, sentendo il peso in fondo alla gola che si
alleggeriva
un pochino.
Jiraya
le mise davanti il vassoio della colazione senza chiedere il suo
parere, e prima di andarsene le arruffò i capelli
già spettinati.
Se
Stupido venisse a trovarla adesso, deciderebbe di salvarla
sposandosela su due piedi. Figuriamoci. Gli dico che è nel
reparto
psichiatrico e che servono venti autorizzazioni per entrare.
Dopodiché,
visto che era in piedi e che Akeru sarebbe rimasto steso ancora a
lungo, Jiraya decise di tagliare la testa al toro e andò a
cercare
Naruto nello studio dell'Hokage.
Lo
trovò sommerso dagli incartamenti, smarrito nelle pile di
promemoria
di Sakura come un topo in un labirinto. Quando arrivò,
Naruto gli
lanciò uno sguardo disperato, e subito lo aggredì.
«Fantastico!
Ho bisogno di riordinare un paio di cose, dovresti
prendere...»
Jiraya
alzò le mani verso di lui. «Alt, alt alt! Non sono
qui per sbrigare
le tue faccende, per di più senza stipendio.»
«Allora
mi stai facendo perdere tempo!»
«Abbassa
le ali, sono sempre il tuo maestro.»
Naruto
fece un sospiro. «Cosa sei venuto a fare?»
«Sono
stato a trovare Chiharu.»
Un'enorme
torre di carta oscillò e si sfaldò, sommergendoli
in una nube di
fogli e polvere.
«Forse
dovremmo prendere una boccata d'aria...» suggerì
Jiraya,
tossicchiando.
«Sì,
probabilmente sì» cedette Naruto, rinunciando
all'idea di sistemare
il disastro. «Andiamo in cortile.»
Lasciarono
aperta la porta dello studio, nella speranza che Koichi, l'ormai
nevrotico segretario dell'Hokage, decidesse di metterla in ordine, e
si allontanarono verso un'ala più tranquilla del palazzo,
che dava
su un cortile interno.
«Chiharu
ti ha detto cosa ha fatto?» disse Naruto una volta fuori.
«Più
o meno. Anzi, non proprio. Ci sono arrivato da solo, lei è
stata
molto vaga.»
«Non
so cosa fare con quella ragazza... Da qualunque parte provi a
prenderla, finisce sempre che deve essere sospesa. Non riesco a farle
passare nessun messaggio.»
«Oh,
benvenuto nell'inferno dei maestri» Jiraya fece una mezza
risata,
che però durò poco. «Non è
facile con nessun allievo
problematico, Naruto, altrimenti non sarebbe problematico»
spiegò pazientemente. «Certo aiuterebbe che gli
allievi dicessero
le cose come stanno, invece di mettere il muso e lasciarsi accusare
di tutto...»
«Cioè?»
«Per
esempio, le evocazioni di Chiharu non muoiono se vengono rimandate
nella loro dimensione. Sono bestie speciali, diverse dai rospi o
dalle lumache, e rinascono dalle loro ceneri. Se tu avessi potuto
vedere cosa è successo quando Chiharu si è
ripresa il suo chakra,
sapresti che nella sua dimensione un chakravakam era appena
nato.»
«Chakrache?»
«Chakravakam.
E' il loro nome.»
«Ma
che diavolo... Da dove esce un'evocazione del genere?»
Jiraya
fece un cenno vago. «Dall'archivio segreto della Foglia -
che,
evidentemente, è tutto fuorché segreto. Il Terzo
ha cercato di
farli sparire, perché sono evocazioni strane, pericolose:
possono
avere accesso al chakra di chi le ha evocate, non sono fedeli, non
muoiono. Erano un'arma a doppio taglio, e per questo sono stati
relegati in fondo ai ricordi di Konoha. Ma poi Chiharu li ha
ritrovati, ci ha firmato un contratto senza saperne niente, e adesso
è stata sospesa dal lavoro perché secondo te ha
ucciso un
compagno.»
Naruto
lo interruppe bellicosamente: «nessuno mi ha detto che non
morivano,
neanche lei! Ha chiuso la bocca e si è fissata i piedi per
tutto il
tempo, quando non mi rispondeva in malo modo!»
«Non
fare l'allievo problematico anche tu...»
Naruto
fece un gesto stizzito. «Comunque cambia poco. Anche se
questi
chakravara... queste bestie non muoiono, resta il fatto che
un'evocazione non è un oggetto: è un compagno.
Anche solo ferire un
compagno per pararti il culo non può andare bene.»
«Ah
no?» lo interruppe Jiraya, con sguardo un po' distante.
«Non vorrei
contraddirti, ma visto che siamo ufficialmente in guerra forse
è il
caso che tu sappia che probabilmente tra poco succederà un
milione
di volte. Pochi pazzi, come te, mettono a rischio la loro vita per
salvare quella degli altri: la maggior parte sacrifica quella dei
compagni per salvare la propria.»
«Sono
vent'anni che lotto per cambiare questo stato di
cose!»
«Non
so se sia possibile...»
«Questo
lascialo decidere a me!»
Da
qualche parte Kyuubi rise, riecheggiando tutte le parole che Naruto
aveva detto al riguardo. Infastidito, lui scosse la testa per
zittirla.
«Lasciamo
perdere, non è il momento di infilarsi in discussioni
complicate»
disse Jiraya, scrollando le spalle. «Anche se non vuoi
rivedere la
tua posizione riguardo a Chiharu, devo però avvertirti:
andando
avanti così finirà come era finita con Orochimaru
e con Sasuke.»
Naruto
si irrigidì. Le stesse parole di Sakura, la stessa opinione.
Così
erano in due, e due pareri valgono molto più di uno isolato.
«Perché?»
chiese Naruto. «Cosa vi fa pensare che sia come
allora?»
«Vi?»
«Anche
Sakura la pensa allo stesso modo... Secondo lei Chiharu era complice
di Yoshi, perché era l'unica con cui lui parlasse.»
Così
si spiegavano anche gli shinobi fuori dalla porta di Chiharu, e non
si spiegavano felicemente. «Non so niente di questo... Ma
posso
dirti che quella ragazza non ha molto che la tenga qui. Non ha un bel
rapporto con la famiglia, i compagni di corso sono amici per modo di
dire, il suo maestro adesso la scansa, e la sua salute fa acqua da
tutte le parti. Il passo successivo è lasciare il villaggio
per
cercare una soluzione fuori dai confini.»
«Allora
cosa dovrei fare?» Naruto allargò le braccia.
«Non va mai bene
niente! Cerco di essere comprensivo e si allontana, divento severo e
si offende, la lascio stare e lei affonda nelle sue manie...
Più
faccio e più sbaglio. E tutti si aspettano sempre che io
abbia la
soluzione, che schiocchi le dita e magicamente le cose vadano a
posto, perché l'ho sempre fatto e non è possibile
che non lo farò
sempre... Ahh!» si scompigliò i capelli con le
mani, esasperato.
«Io non ce la faccio più!»
«Oh,
piano, piano» Jiraya gli batté una pacca sulla
spalla, un po'
stupito. «Riprenditi. E' ovvio che essere Hokage sia
pesante...»
«Con
una maledetta guerra alle porte? Sì!»
«Non
avevo finito. E' ovvio che essere Hokage sia pesante, con una guerra
alle porte e gli allievi che danno di matto e tutti i tuoi affari
personali, ma – che diavolo! Sei Naruto Uzumaki. Devo
ricordartelo
io?»
Naruto
esitò per un attimo, poi fece un respiro profondo.
«Okay, hai
ragione... E' che è tutto così
complicato...» gemette. «Avere
Sakura e Sasuke dovrebbe aiutarmi, invece mi incasina: loro vedono
complotti che io non immagino neanche, mi presentano come
fondamentali problemi che normalmente avrei liquidato con una
scrollata di spalle, vogliono pianificare, organizzare, prevedere
tutto... Ma quello di Sakura non è il mio metodo. E non
riesco a
capire se il suo metodo è quello giusto, e io non ho mai
capito
niente dell'essere Hokage, o se devo cercare la mia strada. »
«Tu
che pensi?»
«Io
non lo so più; ed è proprio questo il problema.
Ho cercato in tutti
i modi di evitare che scoppiasse la guerra, ma non ci sono
riuscito... Non mi sono nemmeno accorto della nuova Radice! Mi sembra
di essere un cretino, Tsunade mi avrebbe ammazzato per una roba del
genere. Vuol dire che qualcosa nel mio modo di fare è
sbagliato.
Vuol dire che non riesco sempre ad ottenere le cose per cui mi
impegno...» tormentato, Naruto scosse la testa.
«Ma
questo lo sapevi già» disse Jiraya, a sorpresa.
«Ricordi Sakura?
Non mi pare che il tuo obiettivo fosse quello di farla diventare una
Uchiha.»
«Era
diverso!»
«In
cosa?»
Naruto
aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse.
«Forse sto
invecchiando?»
Jiraya
rise. «Non dirlo mai davanti a me. Non stai invecchiando,
Naruto, ma
probabilmente ti stai affidando un po' troppo ai tuoi assistenti.
Ricorda che l'Hokage sei tu, e tu devi impostare il piano. Che fine
ha fatto il Naruto che spaccava il mondo senza guardare in faccia
nessuno? Ti ho visto difendere Sasuke quando tutti erano contro di
lui, ti ho visto sigillare la Volpe da solo, cambiare le persone,
superare tuo padre, sposare una Hyuuga, diventare Hokage e mettere al
mondo una nidiata di figli! Cosa potrebbe fermarti a questo
punto?»
Suo
malgrado, Naruto si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. Prese
un altro
respiro profondo.
«Hai
ragione. Mi sono lasciato trascinare dai problemi e non ho
più
capito niente. Questa storia dell'essere Hokage è un po' una
trappola... Ma non ho intenzione di mollare. Il mio sogno era
diventare il miglior Hokage che Konoha abbia mai avuto, e questa
è
la mia occasione» riempì i polmoni fino a
scoppiare, sentendo
l'ossigeno che gli rinfrescava le idee. «Ho un sacco di
lavoro
davanti!»
«Non
avrei saputo dirlo meglio» approvò Jiraya.
Naruto
annuì. «Grazie, maestro.»
E
se non lo chiamava maestro porcello la faccenda era
seria.
Jiraya
sorrise, pensando che era venuto per Chiharu e invece aveva ottenuto
molto di più.
Sapeva
che di fronte a Naruto c'erano altre sfide, altri ostacoli altissimi,
e sapeva che il suo sfortunato allievo si sarebbe trovato in crisi
altre mille volte. Ma aveva fede in lui, nella sua profezia, e sapeva
che alla fine ne sarebbe uscito vincitore.
Tsunade,
la tua scommessa sarà quella giusta.
* * *
Salve a tutti!
Siamo finalmente approdati ai nuovi aggiornamenti ufficiali.
Capitolo centrale nella storia,
finalmente spiega cosa diavolo sono questi benedetti uccelli di Chiharu
e inizia a farle capire quanto le cose sono diventate serie.
Spero che il ritorno di Baka sia stato di vostro gradimento,
ma sappiate che nel prossimo aggiornamento sarà ancor
più presente!
Insieme a Jin.
E Hinagiku.
(Non dico di più.)
Il capitolo 38 è il capitolo che aspetto di pubblicare da
ANNI!
Oh, non sapete quanto sono impaziente!
Noticina sulla scena di Iida:
spero che sia ancora inclusa nel rating della storia,
ma invecchiando mi sono fatta pudica e non ne sono più tanto
sicura.
Grazie per aver letto fin qui,
spero che ne stia valendo la pena.
Un saluto a tutti!
Susanna
|
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Capitolo 38 *** Lo Stupido tra noi ***
Capitolo
trentottesimo
Lo
Stupido tra noi
Oh,
quanto sarebbe stato facile risponderle, lì su due piedi, e
distruggerla con poche parole...
Lui
era un Anbu: aveva visto del mondo molto più di quello che
Chiharu
poteva anche solo immaginare, e soprattutto aveva visto di Konoha
tutto quello che lei non aveva nemmeno la più vaga idea che
esistesse...
Sarebbe
bastato un istante per farle capire quanto inferiore era rispetto a
lui.
Ma
rimandò giù le parole, conservandole per un
momento migliore -
anche se gli costò uno sforzo notevole.
Sapeva
che quel momento sarebbe venuto, prima o poi, perché lo
attendeva da
cinque lunghi anni.
Baka
Akeru, capitolo 19.
Jin
non sapeva nemmeno quanti giorni fossero passati dall'ultima volta
che era entrato in casa.
Sicuramente
c'era stato prima di partire per la missione di sua madre, ma poi,
una volta tornato, non riusciva a ricordare se fosse passato da casa.
Forse era rimasto sempre in ospedale.
Essere
lì, ora, era straniante. Le stanze odoravano di chiuso, come
se
fosse una casa disabitata. Insieme a Natsumi aveva aperto tutte le
finestre per cambiare l'aria, ma ci era voluto un po' perché
la
brezza quasi estiva le rinfrescasse. La luce aveva illuminato lo
strato di polvere che ricopriva i mobili e i loro oggetti, rendendoli
più grigi. Jin li aveva osservati con uno strano senso di
distaccamento.
«Sono
entrata solo nella tua stanza, per prendere i vestiti di
ricambio»
disse Natsumi vedendolo soffiare su una cornice polverosa.
«Non ho
toccato altro.»
Jin
osservò la fotografia all'interno della cornice: lui e suo
padre, il
giorno del diploma. Uno accanto all'altro, senza abbracci né
sorrisi
– a meno che Kakashi non sorridesse sotto la maschera.
«Grazie»
disse, posandola di nuovo sul ripiano. «Io non ci avrei
neanche
pensato.»
«Vuoi
mangiare qualcosa?»
«Più
tardi, magari. Non hanno detto niente di mamma?»
«Ancora
no» Natsumi diede le spalle a Jin per nascondere il viso,
iniziando
a sistemare la spesa posata sul tavolo. «Ma presto la
lasceranno
andare... Non hanno trovato niente che faccia dubitare della sua
lealtà, e adesso ci serve ogni shinobi
disponibile.»
«Immagino
che gli interrogatori siano stati... approfonditi» Jin
corrugò la
fronte.
Natsumi
gli si avvicinò. «Non pensarci»
mormorò, prendendolo per una
spalla e accompagnandolo fino al tavolo della cucina. «Quando
la
lasceranno libera potrai vivere qui insieme a lei, finché
tuo padre
non si sveglia. E poi deciderete insieme.»
Era
difficile dire quelle parole con tono dolce, ma non poteva fargli
capire quanto il ritorno di Haruka la stesse tormentando. Ultimamente
ciò che faceva e ciò che provava erano sempre in
contrasto.
«Sì,
vivere insieme per quanto tempo?» Jin fece una smorfia amara.
«Sai
che presto partiremo per combattere.»
Sia
Natsumi sia Jin, come tutti i ninja in servizio, erano stati
convocati per la guerra. La ragione per cui erano tornati
nell'appartamento degli Hatake era proprio quella: dovevano iniziare
a organizzarsi.
Natsumi
non disse niente per un po'. Poi gli chiese se voleva almeno un
tè.
«Sì,
va bene. Intanto vado a vedere se in camera ho delle riserve per
sostituire quello che ho perso nell'ultima missione...»
Voleva
stare un po' da solo. Gli piaceva passare il tempo con la zia, e
sapeva benissimo che era una delle poche cose che ancora gli dava
stabilità, ma spesso aveva bisogno di stare per i fatti
suoi: erano
cambiate troppe cose nell'ultimo mese. Sua madre di ritorno, suo
padre in coma, la guerra... Anche se era un bambino straordinario,
aveva dei limiti.
Entrò
in camera al buio, raggiungendo la finestra senza urtare nulla.
Aprì
le imposte, inspirò l'odore dell'aria all'esterno. Ricordava
il
giorno in cui era tornato a casa per quella via e aveva trovato
Kakashi ad attenderlo, con la notizia che sarebbero partiti insieme.
Vederlo seduto sul suo letto lo aveva fatto arrabbiare,
perché aveva
invaso la sua intimità. Ora provava solo nostalgia.
Le
sue dita si strinsero involontariamente al bordo del davanzale. Diede
le spalle alla finestra, andando ad aprire un armadio per non
pensare.
Suo
padre si sarebbe svegliato, e dopo una prova del genere sua madre
sarebbe stata accolta a casa con tutti gli onori, disse a sé
stesso.
Si sarebbero voluti bene, sarebbero stati la famiglia che Jin aveva
sempre sognato. Magari sarebbe arrivato anche un fratellino, e allora
avrebbero dovuto cambiare casa...
Si
accorse che aveva aperto l'armadio senza ragione. Lo richiuse.
Era
difficile pensare a qualcosa che non fosse la sua famiglia.
Fece
un sospiro profondo, dicendosi che forse era meglio andare a prendere
il tè con Natsumi. Gettò un ultimo sguardo al
letto su cui si era
seduto Kakashi, quindi uscì nel corridoio.
Fu
una curiosa coincidenza che passasse davanti all'ingresso quando
suonarono il campanello. In quel modo aprì la porta prima
ancora che
il suono scemasse, e la persona al di là non ebbe nemmeno un
secondo
per prepararsi all'accoglienza.
Quella
persona era Hinagiku.
Ci
fu un attimo di gelo da entrambe le parti. Non si erano ancora visti
da quando Jin era rientrato: lui non l'aveva cercata, lei non era mai
passata in ospedale.
«Sei
tornato» disse Hinagiku, con la voce di uno che cerchi di
deglutire
e parlare contemporaneamente.
«Ciao»
disse lui, per una volta senza parole.
«Non
sapevo... Cioè, sono passata altre volte e non hai mai
risposto...»
«Ero
in ospedale.»
«Ah.»
Hinagiku
sapeva perfettamente dove era Jin. Aveva continuato ad andare a
suonare quel campanello perché sapeva che non lo avrebbe
trovato, e
in realtà era terrorizzata all'idea di incontrarlo: c'era
una sola
ragione per cui lui poteva non averla contattata, cioè
perché
sapeva che era stata lei a dire a Naruto che erano partiti per
cercare sua madre. Evidentemente era furioso.
«Come
stai?» chiese rigidamente.
«Bene.
Vuoi entrare?»
«Jin,
chi è?» domandò Natsumi dalla cucina.
«No
no, lascia stare. Non sei solo, non voglio disturbare... Non pensavo
nemmeno che fossi in casa» si affrettò a dire
Hinagiku, facendo un
passo indietro. Non era proprio pronta, maledizione!
Jin
corrugò la fronte. Non aveva pensato a lei nemmeno una
volta, da
quando suo padre era entrato in coma. Si sentì male per
questo, si
sentì in colpa. Ma non poteva farci niente, era stato
distratto da
cose più importanti.
«Senti...
In questo momento sono un po'...» sbatté le
palpebre, a disagio.
«Sono stato convocato per la guerra, sto cercando le cose che
potrebbero servirmi. Forse dovremmo vederci in un altro
momento.»
Hinagiku
ammutolì. Non si vedevano da settimane, eppure lui le diceva
che
dovevano vedersi in un altro momento. Evidentemente
lei non
gli era mancata quanto lui era mancato a lei... Non l'aveva cercata,
non voleva vederla. Rabbia o meno, era un segnale abbastanza chiaro.
«Non
ti preoccupare» disse, alzando entrambe le mani.
«Ho capito. Ciao.»
«Capito
cosa?» fece per chiedere lui, ma Hinagiku si era
già voltata e
incamminata lungo il corridoio. Jin non ne era sicuro, ma gli
sembrava che avesse gli occhi lucidi. «Hina!» la
chiamò, cacciando
la testa fuori. Lei non si girò.
«Chi
era?» chiese Natsumi, comparendo dalla cucina.
«Hinagiku.
Ma non ho capito cosa è successo» Jin
tornò nell'appartamento, con
lo stomaco in subbuglio e la mente confusa.
«Perché
non l'hai fatta entrare?»
«Ci
ho provato. Poi però non ho avuto il coraggio.»
«Il
coraggio?» Natsumi inarcò le sopracciglia, posando
sul tavolo due
tazze di tè fumante.
Jin
scrollò le spalle. «Le ho proposto di vederci in
un altro momento,
ma ha detto 'non ti preoccupare. Ho capito. Ciao'. E
se n'è
andata.»
Natsumi
inspirò l'aria tra i denti serrati, con una smorfia che fece
fare
una capriola allo stomaco di Jin. «Le hai davvero detto di
incontrarvi un'altra volta?»
«Cosa
c'è di male?»
«Non
la vedi da quando sei andato via con tuo padre, non ha più
saputo
niente di te da allora, probabilmente per metà del tempo ha
pensato
che tu fossi morto... E le dici ci vediamo dopo?»
Jin
aprì e richiuse la bocca. Come spiegare a Natsumi il suo
disagio?
Non aveva nemmeno pensato a Hinagiku...
«E'
arrabbiata?» chiese, incerto.
«Più
probabilmente è disperata.»
Jin
fissò Natsumi senza capire. Poi ripensò a
Hinagiku, la sua
espressione quando aveva aperto la porta, e sospirò, facendo
girare
la tazza di tè con una mano. Si lasciò cadere su
una sedia.
«Io
faccio sempre fatica a capire le persone...»
borbottò.
Natsumi
gli passò accanto, posandogli una mano sui capelli grigi.
Povera
Hinagiku.
Hitoshi
era in perfetta forma, secondo i tecnici del laboratorio di analisi.
Sakura
lo aveva dimesso il giorno pattuito, e fuori dall'ospedale aveva
trovato subito Jiraya ad attenderlo. La sua idea originale, per
essere del tutto onesti, era quella di sgattaiolare a casa Nara e
chiedere a Chiharu perché non era mai andata a trovarlo;
però il
sennin si era messo in mezzo e lui aveva dovuto posticipare.
Era
stato un incontro molto strano: a casa di Jiraya aveva trovato Baka
Akeru, abbracciato a una bottiglia vuota di sakè e immerso
nel
sonno. Jiraya gli aveva detto di lasciarlo stare, perché
stava
facendo un lavoraccio, e lui si era incuriosito ma non aveva potuto
chiedere cosa facesse. Quindi aveva iniziato innervosendosi. Poi
avevano passato ore intere a spulciare vecchie carte in una scrittura
pressoché incomprensibile, cercando tracce del rin'negan tra
i
geroglifici di formule antiche, appunti sconclusionati e descrizioni
raccapriccianti di vivisezioni. Ma avevano trovato soltanto
annotazioni senza valore.
A
una certa ora Baka si era svegliato, più o meno, e aveva
annunciato
che barcollava a casa. Probabilmente non si era nemmeno accorto che
c'era anche Hitoshi. E solo a quel punto le cose si erano fatte
interessanti: perché Jiraya gli aveva raccontato di Yahiko,
l'allievo che per poco non lo aveva ucciso, e dei suoi occhi
marchiati dal rin'negan.
«Non
mi piace ricordare quel combattimento» aveva detto,
insolitamente
serio. «Yahiko era un bravo ragazzo, prima di farsi
coinvolgere
dall'Akatsuki. Ma aveva un rin'negan come il tuo, e forse, se
ripensiamo insieme a come aveva combattuto contro di me, potremmo
capire qualcosa in più di come usare il rin'negan.»
«Mi
sta dicendo che lei ha sconfitto un possessore di rin'negan?»
il
tono di Hitoshi era stato a metà tra lo sbalordito e lo
scettico.
Jiraya,
stranamente, non si era vantato. «Avrei preferito non doverlo
mai
fare.»
E
così Hitoshi aveva scoperto che il vecchio porco Jiraya non
era solo
un vecchio porco. Aveva avuto degli allievi e delle tragedie alle
spalle, e un pochino, anche se involontariamente, aveva iniziato a
entrare nella sua vita.
Si
era sentito molto lusingato quando aveva saputo che Naruto cercava
ambasciatori per dialogare con la Roccia e Jiraya aveva rifiutato per
seguire lui. Lusingato e orgoglioso.
Il
sennin gli aveva dato una quantità di compiti da svolgere,
per
imparare ad utilizzare il rin'negan: gli aveva imposto di attivarlo
spesso, per brevi periodi; gli aveva descritto minuziosamente le
tecniche utilizzate da Yahiko e gli aveva chiesto di analizzarle; gli
aveva insegnato un tipo di meditazione che lui non conosceva e che
aiutava a focalizzare la concentrazione, gli aveva fatto riscrivere
gli appunti di Orochimaru, anche quelli inutili, per averli sempre
sotto mano... Insomma, lo aveva massacrato. Gli aveva anche messo in
mano un libro non erotico, dicendogli che era la sua più
grande
opera, ma Hitoshi subitava che lo avrebbe mai letto.
Alla
fine era tornato a casa con un'emicrania terribile. Non era riuscito
a vedere nessuno dei suoi fratelli, ma solo i domestici con gli
analgesici e i brodini di verdure. Forse sua madre si era lamentata
di Jiraya, ma non lo ricordava perché aveva avuto troppo
male.
Poi,
il giorno dopo, si era ripreso. Aveva iniziato gli allenamenti,
combattendo contro l'incredibile prelievo di chakra che richiedeva il
rin'negan. Aveva tirato fuori il manuale dello sharingan, che non
aveva mostrato a Jiraya perché era una cosa degli Uchiha, e
aveva
provato anche ad applicare gli insegnamenti dei suoi antenati. Ed era
riuscito ad ottenere qualcosa, anche se lentamente.
I
suoi genitori si interessavano ai suoi progressi, i fratelli avevano
ricominciato a guardarlo con ammirazione – tranne Fugaku, che
lo
odiava. Era arrivata anche la convocazione per la guerra, ma nessuna
notizia sugli altri membri del suo gruppo.
E
Chiharu non era mai in casa.
L'aveva
cercata più volte, anche in orari diversi. I primi tempi
aveva
pensato che fosse uscita, ma a un certo punto aveva iniziato a
credere che non fosse lì. Allora, irritato, aveva ceduto
alla
tentazione di andare a chiedere a Kotaro se sapesse dove diavolo era
finita, e per questo era tornato in ospedale.
Non
gli piaceva elemosinare informazioni da Kotaro, tanto più
che lui
era stato a letto con Chiharu, e quindi lui avrebbe
dovuto
essere quello che dispensava informazioni agli altri; ma non aveva
alternative, a parte chiedere a un adulto, e chiedere di Chiharu a un
adulto ultimamente era sempre imbarazzante.
Rientrare
in ospedale gli diede i brividi: l'odore di disinfettante gli
ricordò
i giorni che aveva dovuto trascorrere inchiodato a letto,
indispettendolo. Non ricordava dove fosse la stanza di Kotaro,
così
dovette chiedere alla reception, e quelli gli fecero storie
perché
non era un parente. Alla fine, esasperato, decise di cercarla da
sola; e si perse.
Poi,
miracolosamente, vide la sorella di Kotaro che prendeva una bibita a
una macchinetta.
«Mei!»
la chiamò, dopo aver frugato nella memoria per ricordare il
suo
nome.
Lei
trasalì, lasciando cadere la lattina, e lo fissò
a bocca aperta.
Aveva
sbagliato il nome?
«Perché
sei qui?» chiese la ragazza, subito sulla difensiva.
Hitoshi
si chinò a raccogliere la lattina e gliela porse.
«Sono venuto a
trovare Kotaro.»
«Davvero?»
Mei fece una smorfia per nascondere l'ondata di sollievo. Quando lo
aveva visto aveva pensato che avesse scoperto che Chiharu era
ricoverata e volesse fargliela pagare.
«Siamo
sempre compagni di squadra...» borbottò Hitoshi,
fraintendendo
l'espressione di Mei e pensando che lei non lo credesse in grado di
preoccuparsi per gli amici – cosa non troppo lontana dalla
verità.
«Certo,
non intendevo... Va beh» giocherellò con la
linguetta della
lattina.
«Non
mi ricordo dov'è la sua stanza, e all'accettazione hanno
fatto
storie perché non sono un parente. Puoi accompagnarmi da
lui?»
Mei
scrollò le spalle, cercando di controllare il cuore che era
salito
in gola, e gli fece cenno di seguirla.
Ok,
la cosa non andava affatto bene. Aveva sempre avuto a che fare con
Hitoshi Uchiha senza avere la tachicardia, perché adesso si
agitava
così?
«Sono
stata convocata per la guerra» disse per rompere il silenzio.
«Anche
se mi diplomo a settembre.»
«Hai
voti molto alti?» chiese lui, sforzandosi di smettere di
pensare a
cosa avrebbe detto a Chiharu.
«Ad
aprile mi hanno rimandata...» mormorò lei, dandosi
della stupida
per aver introdotto il discorso.
«Stanno
chiamando proprio tutti» disse Hitoshi, più a
sé stesso che a lei.
Jiraya aveva detto che Naruto voleva impedire l'inizio dei
combattimenti, ma evidentemente i suoi assistenti premevano
perché
la Foglia si tutelasse. «Anche due dei miei fratelli sono
stati
convocati.»
«So
chi sono. Loro sì che daranno qualche
contributo.»
«Hai
paura?»
Mei
esitò. Poi sospirò. «Sì. Per
me, per i miei parenti, per i miei
amici... Ho molta paura.»
Hitoshi
la osservò, forse per la prima volta. Se avesse fatto la
stessa
domanda a Kotaro o a Chiharu avrebbero sparato altissimo, dicendo
qualche stupidaggine su come avrebbero riequilibrato le sorti del
conflitto – cosa che forse avrebbe fatto anche lui. A quanto
pareva, Mei aveva più buonsenso di tutti loro. Strano,
perché nelle
poche volte che ci aveva parlato gli aveva dato l'impressione di una
ragazzina balbuziente e sciocca.
Sentendo
nominare i parenti, pensò a Fugaku e Mikoto, che nonostante
il loro
sharingan erano appena usciti dall'infanzia. Si accigliò,
avvertendo
una lieve contrazione allo stomaco, e poi guardò di nuovo
Mei.
«Anche
Kotaro è stato convocato?»
«Certo.
Come mio padre e mia madre. Tutti.»
Hitoshi
si sentì in difetto: aveva preso con orgoglio la
convocazione alla
guerra di mezza famiglia, ma parlando con Mei iniziava a vedere gli
aspetti più cupi della faccenda. E, pensandoci a fondo,
iniziava a
rendersi conto che si trattava di mandare in guerra dei
quattordicenni.
Spero
che Naruto riesca a fare quel che ha promesso,
si disse. E si impegnò, una volta a casa, a trovare Fugaku e
parlare
del loro rapporto.
«Siete
troppo inesperti per una cosa del genere» disse, nonostante
avesse
solo tre anni più di Mei. «E'
un'idiozia.»
Lei,
nonostante tutto, si risentì. «Non ho mai detto
che ci avrebbero
mandati in prima linea» replicò un po' stizzita.
«Siamo inesperti
ma abbiamo completato gli studi... Possiamo essere di
supporto.»
«Non
sai di cosa parli.»
Mei
serrò le labbra nello stesso modo in cui le serrava Tenten
quando
era arrabbiata. «Neanche tu. Pensi sempre di essere una
spanna sopra
gli altri, che ne sai del livello medio?»
Hitoshi
si chiese dove trovasse il coraggio di dirgli una cosa simile, e
sollevò leggermente il mento. «Dall'alto si
può guardare giù, ma
non viceversa» puntualizzò.
«Cioè
io non devo azzardarmi a parlare di te perché sei il
magnifico
Hitoshi Uchiha, ma tu puoi giudicare me perché sono una
mezza sega?»
Mei si chiese perché diavolo aveva sentito le farfalle nello
stomaco
vedendolo, dato che era così insopportabile.
«Non
voglio offenderti, davvero, ma te le cerchi» senza volerlo,
Hitoshi
incurvò un angolo della bocca.
Mei
aprì la lattina che aveva preso al distributore.
Quella
esplose tra le sue mani, inondandole la faccia e la maglietta. In
effetti, prima era caduta.
Rimase
a gocciolare con le braccia alzate e il desiderio di sparire sotto
terra, sconvolta. Hitoshi non riuscì a trattenersi: dalla
sua
distanza di sicurezza scoppiò a ridere senza ritegno.
E
allora Mei sentì le guance che si scaldavano, furiosa, e
all'improvviso diventò molto cattiva.
«Scommetto
che c'è una cosa che non sai» disse, maligna.
«Perché io,
tra gli altri, te l'ho tenuta nascosta. Indovina un po'? Chiharu
è
sempre stata ricoverata qui, a duecento metri dalla tua
stanza»
Hitoshi smise bruscamente di ridere, facendo capire a Mei che aveva
fatto centro. «Lasciami indovinare: hai provato a cercarla un
sacco
di volte a casa, e adesso vuoi chiedere a Kotaro se ne sa
qualcosa?»
capì di aver colto nel segno, e, trionfante,
esclamò: «non si può
guardare dal basso verso l'alto, vero?»
Hitoshi
non rispose.
Chiharu
era sempre stata in ospedale? Allora stava male. Per quello non era
andata a trovarlo... Forse era grave, forse...
«In
che stanza è?»
«Arrangiati,
figo come sei puoi scoprirlo anche da solo» Mei si
voltò
bruscamente, sgocciolando dappertutto.
«Mei!»
la chiamò Hitoshi, ma lei lo ignorò.
Che
cosa ho fatto?,
si chiese allora
con orrore, sentendo il gelo della paura che le attanagliava le
viscere.
Sakura
Uchiha l'avrebbe ammazzata.
Mentre
Hitoshi incontrava Mei, Baka fissava la porta della stanza di
Chiharu.
Erano
successe molte cose in quei giorni.
Jiraya
gli aveva detto che Chiharu era in un reparto particolare e non
poteva ricevere visite; la psichiatria, a quanto pareva. Lui ci era
rimasto male, e si era pure preoccupato, ma poi Morino lo aveva
scaraventato nell'occhio del ciclone degli interrogatori e non era
più riuscito a fare nient'altro.
Finché,
proprio negli interrogatori, non era venuto fuori il nome di Chiharu.
E
allora Akeru aveva recuperato i favori che gli dovevano in ospedale,
e aveva scoperto che non era affatto ricoverata in psichiatria, ma
nell'ala che usavano per i sorvegliati speciali; aveva scoperto che
due Anbu la tenevano sotto controllo ventiquattr'ore al giorno e che
Sakura in persona decideva le sue sorti. Ma soprattutto, aveva
scoperto che tutto questo aveva a che vedere con Yoshi.
E
non lo aveva scoperto dalla Foglia.
Scrutò
le guardie con la coda dell'occhio. Vide che lo fissavano, ma era
normale: si conoscevano.
Esitò
qualche secondo, per vedere se gli avrebbero impedito di entrare;
quelli si limitarono a un piccolo cenno di saluto. Sicuramente
sapevano perché era stato rimosso dagli Anbu, e molto
probabilmente
sapevano anche che non sarebbe dovuto essere li, ma Baka era
benvoluto tra i colleghi, e non lo avrebbero tradito. Era
imbarazzante sbandierare così la propria cotta, ma in fondo
non era
lì per quello, disse a se stesso, tentando di convincersi.
Prese
un respiro profondo, perché per disobbedire agli ordini
diretti
dell'Hokage bisogna essere proprio sicuri, e bussò.
«Chi
è 'stavolta?»
Senza
rispondere lui entrò.
«Baka!»
esclamò lei, più stupita che indignata. Di colpo
le tornarono in
mente le parole di Jiraya, e senza volerlo arrossì.
«Non sei...
tipo in carcere...?» mormorò, affievolendo la voce
man mano. Jiraya
non doveva convincerlo a non venire? L'ultima cosa di cui aveva
bisogno in quel momento erano i problemi sentimentali.
Suo
malgrado Akeru fece un mezzo sorriso, immaginando che Jiraya avesse
descritto a Chiharu una situazione tragica. «Più o
meno.»
Aveva
pensato di incontrarla in mille modi diversi, uno più eroico
dell'altro, ma ora non sapeva come affrontarla. Forse perché
non era
lì in veste di grandioso salvatore, ma come allievo di
Morino.
Era
mattina, la stanza era inondata di luce. Anche quella notte Akeru
aveva lavorato, e le occhiaie erano ben visibili sulla pelle. Chiharu
le notò. Per una volta le peggiori non erano le sue.
«Ehm...»
iniziò, esitante. Una grossa parte di lei si opponeva alla
gentilezza verso Akeru, ma le minacce di Jiraya la preoccupavano.
«Mi
dispiace per come è andata con il contratto...»
iniziò, a fatica.
«Se c'è qualcosa che posso fare...»
«No,
non c'è» lui la bloccò subito.
«Avresti potuto evitare di cercare
di suicidarti mentre eri sotto la mia sorveglianza, ma credo che
ormai sia un po' tardi per quello.»
Ok,
una piccola stoccata poteva concedersela... Piccola piccola.
Chiharu
si zittì, lievemente risentita, ma durò poco.
«Ho cercato di
salvare il culo a tutti, e mi pare di esserci anche riuscita.»
«Tutti
tranne te.»
«Non
è stata una mia scelta. L'evocazione non era
sbagliata.»
«Ah
no? E allora cosa è andato storto?»
Chiharu
tacque. Il riserbo sui chakravakam ora era anche più
importante.
Akeru sospirò, lasciando perdere la rivincita, e si sedette
sulla
sedia accanto al letto.
«Non
era storta la tecninca. Tu sei storta,
Chiharu...»
Lei
roteò gli occhi, pronta all'ennesima tirata sulla sua
ambiguità
sentimentale, ma quella non arrivò.
«Sai
di cosa mi occupo adesso?» le chiese Baka, cambiando
completamente
discorso.
Lei
scosse la testa, guardinga.
«Interrogatori.
Sono diventato allievo di Morino. Sì, esatto. Anche se sono
un
medico. Fa parte della mia punizione per aver firmato il tuo
contratto, ed è orrendo. Ma non voglio parlare di
questo» la fissò
con attenzione. «Tu non sai chi è stato catturato
mentre eravamo
via, vero?»
Chiharu
rabbrividì, esitante. Aveva un brutto presentimento: Akeru
che
veniva a cercarla per parlare del più e del meno era
inquietante
quanto un Jiraya casto e morigerato. «Chi è stato
catturato?»
domandò.
«Yoshi.»
La
notizia era così inaspettata che Chiharu ci mise almeno due
secondi
prima di capire di chi stava parlando Akeru. Poi realizzò.
«Cosa?
Perché?»
Nel
momento esatto in cui lo chiedeva, Chiharu si rese conto di saperlo:
le informazioni che Yoshi le portava dall'ufficio dell'Hokage.
Sbiancò.
Dopo
tutte le pagine che aveva dovuto leggere sulle microespressioni,
Akeru non si lasciò sfuggire la sua reazione, e una ruga gli
attraversò la fronte in verticale. «E' stato
catturato per
spionaggio» disse. «Sospettiamo che tenesse sotto
controllo
l'ufficio dell'Hokage.»
Chiharu
deglutì, mentre la schiena le si copriva di sudore.
Menti!
Menti! Menti!
«Non
ne sapevo niente. Parlavamo solo di sciocchezze quando eravamo
insieme...» disse, la gola improvvisamente asciutta.
«Ma
certo» Akeru si passò una mano sulla fronte. Fare
con Chiharu
quello che faceva negli altri interrogatori era di una
difficoltà
abissale.
Ma
doveva tirarle fuori la verità se voleva aiutarla...
Perché era
stato proprio Yoshi a nominarla.
«E'
inutile, non scuce una parola!» Morino prese a calci una
gamba del
tavolo inchiodato al pavimento, asciugandosi il sudore sul viso.
Akeru,
livido, attese che gli ordinasse di guarire Yoshi dalle ferite
– lo
aveva fatto spesso, quella notte. Ma Morino non gli disse niente.
«Vado
a prendere una boccata d'aria» sbottò invece, e
per la prima volta
da quando lavoravano insieme lasciò Akeru da solo in un
interrogatorio.
Lui
esitò. Doveva curare Yoshi o doveva solo aspettare? Morino
non gli
aveva dato ordini, però lui, come medico, sentiva le dita
formicolare per il desiderio di agire. Resistette soltanto pochi
minuti, poi la sua coscienza si ribellò e lo fece avvicinare
a
Yoshi.
«Perché
non parli e basta?» sussurrò tra i denti, mentre
passava le mani
avvolte di chakra attorno al viso del ragazzo. I suoi capelli, un
tempo di un biondo brillante, adesso erano sporchi e neri alla
radice.
Yoshi
aprì un occhio pesto, puntandolo su di lui. Poi contrasse i
muscoli
della guancia per fare una smorfia simile a un ghigno.
«Se
io parlo, Chiharu ci va di mezzo...»
Poi
Morino era rientrato e Yoshi era ripiombato nel mutismo.
Akeru
aveva sempre pensato che Chiharu non fosse coinvolta nella faccenda;
credeva che avesse solo un pessimo gusto nello scegliere le amicizie,
ma mai avrebbe detto che lei c'entrasse qualcosa. All'improvviso,
davanti a una singola frase, le sue certezze avevano traballato.
Baka
non era più stato in grado di lavorare decentemente da
allora: ad
ogni domanda aveva avuto il terrore che Yoshi avrebbe fatto il nome
di Chiharu, e se quel nome fosse finito nelle mani di Morino sarebbe
stato un vero disastro.
D'altro
canto non poteva nemmeno ignorare il coinvolgimento di Chiharu nella
faccenda, e per questo, dopo altre ore di angoscia, aveva risolto che
gli restava solo da rivolgersi direttamente a lei.
Il
che era probabilmente la cosa più lontana dalle fantasie di
riunione
che aveva avuto.
«Chiharu»
disse, appoggiandosi coi gomiti alle proprie ginocchia. «Sto
passando giorno e notte a interrogare gente molto più brava
di te a
mentire... Puoi risparmiarmelo? Dimmi solo cosa c'entri in questa
storia.»
Lei
rimase a fissarlo, la testa vuota. Avrebbe dovuto fare colazione, si
disse, almeno avrebbe avuto le forze di inventare qualcosa di
plausibile. Ma c'era una scusa che poteva vendergli?
«Chiharu,
è stato Yoshi a fare il tuo nome. Se tu non parli con me,
dovrò
riferirlo a Morino.»
Chiharu
si accorse che le tremavano le mani. Era in trappola.
Ripensò
al giorno in cui Yoshi le aveva parlato per la prima volta delle
informazioni che riusciva a recuperare dallo studio dell'Hokage;
ripensò alla tentazione di denunciarlo, e poi alla rinuncia.
Si
pentì di ogni singola parola scambiata allora.
Deglutì a fatica,
senza una goccia di saliva in bocca.
«Lui
cosa...» tergiversò.
«Chiharu!»
«Okay!
Era... Una cosa innocente» disse piena di imbarazzo, anche se
ora la
cosa innocente non sembrava proprio. «Lui
mi passava delle
informazioni, prima che le sapessero gli altri. Non mi ha mai detto
come faceva, e io non glielo chiedevo.»
«Che
genere di informazioni?»
Chiharu
distolse lo sguardo, sentendosi morire. «Informazioni dallo
studio
dell'Hokage.»
«Stai
scherzando?» Akeru spalancò la bocca.
«No»
Chiharu fece una smorfia, mentre lui si alzava di scatto, passandosi
le mani sul viso. «Erano tutte cazzate, roba di poco
conto!» provò
a difendersi. «Mi diceva se stavamo per essere mandati in
missione,
se... se succedeva qualcosa alla Sabbia...»
«Cose
innocenti?» gridò Akeru, facendola
sussultare. Poi si ricordò
degli uomini fuori dalla porta e si costrinse ad abbassare il tono.
«Mi stai dicendo che sapevi che uno shinobi teneva sotto
controllo
l'ufficio dell'Hokage, e invece di avvisare qualcuno ne hai
approfittato?»
«Solo
per...»
«Porca
puttana, Chiharu! Questo è tradimento.»
Pietrificata,
Chiharu rimase a fissarlo senza sapere cosa rispondere.
«Come
cazzo ti è venuto in mente?» Akeru riprese a
camminare avanti e
indietro. «Yoshi non era neanche uno shinobi di Konoha... E'
uno
straniero, un signor chiunque. Avresti dovuto avvisare subito
Naruto...» si fermò di botto, colto da un
presentimento. La fulminò
con lo sguardo. «Cosa ti ha promesso?»
Chiharu
si strinse nelle spalle cercando di farsi piccola. «Niente,
in
realtà» mormorò.
«Certo,
come no!»
«Non
mi ha promesso niente!» insisté lei.
«Io... ho solo pensato che mi
sarebbe stato utile. Yoshi sembrava inoffensivo, e quando l'ho
scoperto ha giurato che era solo per mettere alla prova le sue
capacità...» Ripensandoci adesso, la storia
suonava assurda anche a
lei.
«Cioè
pensavi di controllarlo? Ma che cos'hai nel cervello?»
Aveva
paura, ecco cosa aveva nel cervello.
Quando
aveva scoperto Yoshi si stava accorgendo che faceva sempre
più
fatica a migliorare, mentre Kotaro riusciva in tutto ciò che
provava
e Akeru era appena entrato negli Anbu. L'unico che non la facesse
sentire inferiore era Hitoshi, ma poi i suoi fratelli avevano
sviluppato lo sharingan e lei si era detta che sarebbe stata
questione di tempo... Voleva soltanto avere un po' di vantaggio,
visto che gli altri non avevano nessun handicap a rallentarli.
«Era
al prmo anno di Accademia!» gemette. «Pensavo che
non sarebbe stato
difficile controllarlo...»
«Ti
sembra normale che uno al primo anno di Accademia riesca a spiare
l'ufficio dell'Hokage senza farsi beccare?» Akeru si mise le
mani
nei capelli. «Pensavi che non sarebbe stato
difficile
controllarlo!» esasperato, si lasciò
cadere di nuovo sulla
sedia.
Sentì
un peso piombare giù nello stomaco, fino ai talloni: non
c'era
assolutamente niente che potesse fare per difenderla,
realizzò - a
parte sostenere l'infermità mentale.
La
fissò, ed entrambi rimasero in silenzio, consapevoli dei
rispettivi
pensieri.
«Come
hai potuto fare un errore così madornale?» chiese
Akeru dopo un
po'. «Ti credevo intelligente...»
«Beh,
forse invece ero disperata» mormorò lei,
distogliendo lo sguardo al
ricordo di Jiraya che la smentiva.
Te
lo abbiamo detto un paio di volte di troppo,
le aveva detto. Solo ora capiva quanto aveva ragione.
Akeru
si fissò le ginocchia, costringendosi a calmarsi. Disperata,
Chiharu
Nara? Al punto da chiedere aiuto? Scosse la testa. «No, non
eri
disperata» la contraddisse. «Non più del
solito; non più di
cinque anni fa, o di quando quell'evocazione ti ha quasi uccisa... Il
problema è quello che Naruto vi ha fatto.»
Chiharu
perse il filo del discorso. «Naruto?»
Akeru
lasciò cadere la testa all'indietro. Per anni aveva avuto la
tentazione di spiegare a Chiharu come stavano davvero le cose, ma
quando gli veniva il desiderio di farlo era sempre per ferirla, e si
tratteneva ogni volta. Ora avrebbe dovuto farlo per la ragione
opposta.
«Il
gruppo sette non è il gruppo dei migliori» disse,
raddrizzando la
testa per guardarla. «Una volta, forse, lo era... appena
diplomati.
Ma lo è stato per poco tempo. Da lì in poi le
vostre missioni sono
sempre state iperprotette: andare in giro con Naruto era di per
sé
la garanzia di tornare vivi, qualunque livello decideste di fare. E
lui non ha mai permesso che vi fossero affidate missioni con dei veri
rischi.»
«Questo
non è vero!» insorse istintivamente Chiharu.
«Spesso...»
«Spesso
un cazzo!» sbottò lui. «Io ho letto i
file Anbu su Naruto. Gli
shinobi delle altre Nazioni hanno l'ordine di darsela a gambe se lo
incontrano. L'ordine di scappare, mi segui? E'
facile
andarsene in giro con la Volpe a Nove Code come guardia del corpo!
Pensi che qualcuno avrebbe davvero osato attaccarvi mentre eravate
con lui? E perché credi che venisse ancora in missione
inseieme a
voi, se gli altri gruppi lavoravano senza maestro già da
anni? Per
proteggervi, Chiharu. Per essere sicuro che tornaste
sempre a
casa.»
«Naruto
si fida di noi!» esclamò Chiharu. «Il
gruppo sette è stato
selezionato per raccogliere i migliori diplomati del nostro anno. Non
veniva con noi per tenerci in vita, veniva con noi perché le
nostre
missioni erano difficili.»
«Difficili?»
Akeru scoppiò in una risata secca. «Quante volte
siete stati più
in là dei confini del paese del Fuoco?»
Chiharu
aprì la bocca per rispondere, ma nessun ricordo le venne in
aiuto.
C'erano sicuramente, ma erano pochi e vaghi.
«Quante
volte avete dovuto uccidere qualcuno?» continuò
Akeru, implacabile.
«Quante volte avete dovuto fare scelte eticamente
discutibili?
Quante volte hai rischiato di morire?»
«Guarda,
giusto l'altro giorno» riuscì a interromperlo.
«Sì.
E poi?»
Nessuna
risposta.
«Sono
Anbu da due anni, Chiharu» Akeru alzò la mano
aperta. «In questi
due anni ho rischiato di morire cinque volte. E me le ricordo
tutte... Perché, credimi, quando ti salvi per un soffio te
lo
ricordi. Voi siete stati davvero in pericolo soltanto quando Naruto
non aveva programmato la missione, ma sai qual è la prova
più
forte? Sei tu: una kunoichi cardiopatica non avrebbe tirato fino ad
oggi senza stare sotto una cupola di vetro.»
Chiharu
si portò una mano alla fronte, con la fastidiosa sensazione
che la
stanza ondeggiasse.
Perché
la sua parte razionale non riusciva a trovare falle nel ragionamento
di Akeru? Perché una voce, nel profondo, le diceva che
davvero era
proprio strano che fossero così bravi da tornare sempre
senza ferite
importanti?
Tutti
gli anni passati con Naruto, le prove che avevano superato, le
fatiche... Tutte versioni edulcorate della vita dei loro compagni?
«Naruto
vi ha tenunto nella bambagia per tutti questi anni, e adesso tu non
sai distinguere una minaccia da una matricola curiosa» disse
Akeru
in tono meno duro, vedendola vacillare. «Se solo aveste
potuto
vedere cosa c'è oltre i confini, cosa c'è
davvero, non avresti
fatto questo errore... Là fuori è pieno di
persone molto più forti
di voi, di me, della maggior parte dei nostri compagni; è
pieno di
mostri pericolosi, e se non stai attenta, per quanto tu sia
intelligente, quelli fanno esattamente quello che ha fatto Yoshi con
te: ti usano.»
Ti
usano.
Come
Itachi Uchiha aveva fatto con Sasuke, e Madara con Itachi...
Esattamente ciò a cui aveva creduto di prepararsi per tutta
la vita,
ciò che l'aveva spinta a trattare male il prossimo per
evitare di
restare ferita. Ed era finita che la prima volta che avevano provato
davvero a manipolarla, ci era cascata in pieno. Aveva passato tutta
la vita a stare in guardia, contro i suoi genitori, contro i
compagni, anche contro Akeru... E si era tradita con Yoshi,
così:
banalmente. Come una ragazzina all'Accademia.
Come
l'allieva di un maestro troppo, troppo protettivo.
Provava
vergogna.
Tra
lei e Akeru, per la prima volta pensava che il cognome Baka fosse
finito alla persona sbagliata, ma non era facile accettarlo.
«Non
ha senso...» mormorò, quasi stordita.
«Naruto ci ha allenato per
combattere, non è un vigliacco. Lui ci ha sempre spinto a
migliorare, ci ha fatto rischiare...»
Akeru
la guardò bene, stretta nelle spalle, aggrappata al
lenzuolo. Stava
distruggendo tutto quello in cui lei credeva, ma doveva farlo. Anche
a lui faceva male vederla così, ma per Chiharu era arrivato
il
momento di capire fino a che punto Naruto li avesse condizionati...
Prima che la guerra la travolgesse.
«Tu
conosci la profezia di Naruto?» chiese.
«Intendi
il libro di Jiraya?» lei rialzò la testa.
«Sì.
La profezia secondo cui Naruto sarà il salvatore del mondo
ninja, o
il suo distruttore. Tra gli Anbu circola da parecchio tempo, anche se
non tutti credono che si riferisca proprio a Naruto.
Tu
hai letto il romanzo? Io ammiro Jiraya per tante cose, ma quel libro
è davvero una stronzata. C’è un solo
modo in cui Naruto può
salvare il mondo dei ninja, ed è allevando una generazione
di
shinobi diversa dalla precedente; è affidando a loro il
futuro. Di
sicuro non rivelandosi la mistica reincarnazione del dio della Pace,
e imponendo forzosamente la tregua a tutto il mondo ninja! Per
favore! Questo non è uno scenario possibile: in questo modo
non si
ottiene la pace, si ottiene soltanto altro odio.
Ma,
se lui ci crede davvero, non faccio fatica a immaginarlo che pensa di
tenervi fuori dai pericoli, perché tanto impedirà
lo scoppio della
guerra, porterà la pace tra i popoli e vi
regalerà un futuro tutto
rose e fiori!» Akeru fece una smorfia amara. «Per
ora vi ha
regalato solo l'odio degli altri gruppi, perché ve la siete
tirata
per tutto il tempo mentre non c'era proprio nulla di cui vantarsi. E,
visto come è andata con Yoshi, non avevamo tutti i torti a
considerarvi viziati.»
Chiharu
si passò le mani sul viso, premendo le dita sulla fronte.
Aveva
la testa invasa da un ronzio: sentiva la voce di suo padre, anni
prima: fuori di qui ci sono cose pericolose di
cui tu non
sai niente, le
aveva detto. E
lei lo aveva ignorato, perché si sentiva forte e Shikamaru
era lì,
quindi lei lo dava per scontato, non lo ascoltava nemmeno, come tutte
le cose che aveva sempre intorno... Quanto avrebbe voluto averlo
vicino, adesso. Ma quanto si vergognava di cercarlo, ora che si
vedeva per quello che era!
Fece
scivolare le mani ai lati del viso, tenendo lo sguardo piantato sulle
lenzuola.
«E
adesso la guerra è arrivata» disse Akeru piano.
«E voglio che tu
sia preparata.»
«La
guerra?» finalmente lo guardò.
«La
Roccia ha fatto arrivare la dichiarazione ufficiale. Questo significa
che Yoshi non è sospettato di spionaggio e basta, ma
è sospettato
di lavorare per loro. E, in parte, lo sei anche tu.»
«Io
non lavoro per la Roccia!» esclamò Chiharu
indignata.
«Beh,
alcuni pensano che sia così. Ho scoperto che Sakura Uchiha
è
convinta che tu sia coinvolta con Yoshi.» le
spiegò lui.
«Ovviamente non poteva metterti uno Yamanaka nella testa per
interrogarti - Naruto non glielo avrebbe mai permesso - ma fuori
dalla tua stanza ci sono due Anbu, e nel corridoio non ci sono altri
malati. E' come se fossi prigioniera anche tu.»
«Ha
già deciso tutto» alitò Chiharu.
Per
quanto sconvolgente, la cosa non la stupiva più di tanto:
Sakura non
si fidava di lei da quando le aveva disobbedito, cinque anni prima,
quando Hinata aveva rischiato di perdere Minato.
Akeru
annuì lentamente, corrucciato.
«Cercherò di aiutarti...»
«Come?»
lo interruppe lei. «L'unica soluzione che vedo io
è uccidere Yoshi.»
Lui
rimase in silenzio. In effetti era anche l'unica che vedeva lui, ma
se qualcosa fosse andato storto, altro che tradimento...
«Non
posso ucciderlo» sospirò, appoggiando la fronte
alle mani. «Mi
inventerò qualcosa, proverò a restare solo con
lui.»
E
come, visto che anche tu hai un piede in carcere?,
non riuscì a non pensare lei. Ma vide le buone intenzioni di
Akeru,
e insieme all'angoscia provò ancora il senso di colpa e la
vergogna.
Jiraya
l'aveva messa in guardia sul prendersi le proprie
responsabilità...
Adesso non c'era nessuno su cui scaricare la colpa; non la Lophenaria
di suo nonno, non il suo cuore, nemmeno Yoshi. C'era solo e soltanto
lei.
«Sono
finita, vero?» chiese con un filo di voce.
Akeru
non riuscì a risponderle.
«Merda...»
sussurrò Chiharu, alzando gli occhi verso il soffitto. Si
sarebbe
aspettata di sentire le lacrime premere dietro gli occhi, ma ancora
un volta non arrivavano. Si chiese se si stessero accumulando da
qualche parte, dentro di lei, e se l'avrebbero avvelenata. «E
io che
pensavo che il mio problema più grande fosse la
salute» disse.
«Farò
tutto ciò che posso, davvero» insisté
Akeru.
«Allora
convincerai Sakura che avevo un piano e costringerai Yoshi ad
appoggiarmi?»
«Chiharu,
sto parlando seriamente.»
«Anch'io.
A proposito, il dottore che si occupa di me dice che questa volta il
mio cuore è davvero al limite: se continuo sono morta.
Questo può
tenermi fuori dal carcere o è un problema solo se voglio
restare
ninja?»
Akeru
esitò, combattendo contro la propria etica di medico, ma
alla fine
si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «L'ultima
volta che te l'hanno
detto non mi sembra ti abbia fermato.»
Chiharu
scosse la testa e continuò a fissare il soffitto.
«Haru,
guardami.»
Lei
non reagì.
«Chiharu!»
«Cosa?»
sbottò abbassando lo sguardo.
E
allora lui si protese in avanti, appoggiando una mano sul letto, e
l'altra la posò sulla sua guancia, e le labbra le premette
contro
quelle di lei. Le sentì fredde, screpolate, ma
riuscì a
riconoscerle.
La
baciò delicatamente, poco più di una carezza, poi
si fece indietro.
«Farò
tutto ciò che posso, davvero» ripeté,
scivolando con la mano dal
viso al collo.
Qualcosa
pizzicò, sotto le palpebre di Chiharu. Ed era straordinario,
perché
stava iniziando a pensare che non sarebbe più successo.
Forse, come
aveva supposto Jiraya, ci voleva qualcuno della sua età,
qualcuno
che fosse al suo livello, per farla sbloccare.
Per
un folle istante Chiharu sentì l'istinto di posare la sua
mano su
quella di Akeru, ancora ferma contro il suo collo... Ma prima che
potesse farlo qualcuno li interruppe bussando.
* * *
Cliffhanger!
Questo capitolo, dal punto di vista dei contenuti,
sarebbe lungo il doppio.
Purtroppo il capitolo successivo non è ancora completo,
inoltre se lo avessi lasciato unito sarebbe stato enormemente lungo,
per questo ho pensato di spezzarlo qui.
E' forse l'unica libertà che ci si può prendere
con le storie a capitoli.
Vi prego di essere comprensivi.
Solo nel prossimo capitolo saprete chi sta bussando a quella porta.
Ciò detto,
oh! Finalmente questo capitolo!
Non vedevo l'ora di scrivere di questo Stupido meno stupido del
previsto.
E' stata una soddisfazione quasi indecente.
Per chi avesse delle perplessità sul discorso di Baka,
(soprattutto riguardo a Naruto),
vi ricordo che il mio Naruto è un po' diverso da quello di
Kishimoto.
Per esempio,
ALLERTA SPOILER QUARTA GUERRA DEI NINJA!
(E' SCRITTO IN BIANCO, SELEZIONATELO CON IL CURSORE PER LEGGERLO)
il mio avrebbe
risposto alla dichiarazione di Hinata,
invece di
dimenticarsene completamente.
FINE SPOILER!
Ad ogni modo,
ho creato qualche difficoltà anche a Hinagiku
(perché dodici anni è l'età migliore
per i fraintendimenti)
e alla povera Mei
(forse sono stata crudele)...
Giusto per ricordarvi che ci sono anche altri personaggi femminili
al di là di Chiharu.
Spero che vi siano gradite
(almeno loro sono normali, più o meno).
Ancora una volta vi ringrazio per aver letto,
e se vorrete farmi sapere cosa pensate di questo capitolo
il form delle recensioni dovrebbe essere qui sotto.
Oggi purtroppo sono molto stanca,
ma la prossima volta vorrei lasciarvi il link ai disegni dei mocciosi
che ho fatto nel lontano 2008,
e magari la preview del capitolo successivo...
Chissà se mi ricordo! XD
Un abbraccio,
Susanna
|
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Capitolo 39 *** L'eccezione e la regola ***
Penne 39
Capitolo
trentanovesimo
L'eccezione
e la regola
La
bussata di Hitoshi non ottenne risposta.
Il
ragazzo si guardò attorno nervosamente, cercando di evitare
gli Anbu
che fingevano di essere impegnati e in realtà se la ridevano
sotto i
baffi. Non riusciva a capire cosa ci fosse di tanto divertente, ma lo
irritavano per principio. Se non avesse saputo perché erano
lì
avrebbe attaccato briga.
Comunque
un Uchiha era un Uchiha, e non sarebbe rimasto a farsi prendere in
giro. Incurante della risposta oltre la porta, abbassò la
maniglia e
si intrufolò all'interno della stanza di Chiharu.
Ebbe
forse due secondi per osservarla prima che lei si girasse, ma
notò
molte cose: la curva della sua guancia era più spigolosa di
quanto
ricordasse, così come le spalle sotto la camicia da
ospedale. Il suo
colorito era più vicino al giallo che al bianco, e i
capelli,
raccolti in una coda molle, spettinati e opachi. Quando si
voltò
verso di lui, Hitoshi vide tutto il resto che c'era da vedere, la
conseguenza della solitudine e delle medicine: le labbra asciutte, le
palpebre gonfie, le minuscole rughe tra gli occhi, e gli occhi
stessi, che ci misero un po' a metterlo a fuoco. E allora Chiharu
sbatté le palpebre, al che Hitoshi provò un misto
di orgoglio e
offesa nel vedere che era assolutamente sorpresa dalla sua visita.
Non
si vedevano dalla missione di Loria, praticamente da quando avevano
passato la notte insieme. Trovandosela davanti senza essersi
preparato adeguatamente, subito avvertì sulle labbra la
sensazione
dei suoi baci, e questo abbassò di colpo il livello di
risentimento
nei suoi confronti.
«Hitoshi»
disse Chiharu, evidentemente a corto di parole.
«Chiharu»
rispose lui, con un cauto cenno del capo.
Sentendo
la sua voce lei si raddrizzò leggermente, avvertendo un
lungo
brivido lungo la colonna vertebrale: pochissimi minuti prima Akeru
era uscito da quella stessa stanza perché l'infermiera era
tornata
per l'iniezione. Se l'infermiera non fosse venuta, o se Hitoshi fosse
arrivato prima... Represse un brivido. Sperava che Hitoshi e Akeru
non si fossero incrociati lungo il corridoio.
«Non
sapevo che fossi in ospedale» disse Hitoshi, avvicinandosi.
«Sarei
venuto prima, altrimenti.»
Sarebbe
venuto all'istante, per essere precisi, andando contro tutti i
desideri e gli ordini di Sakura. A dire il vero nemmeno in quel
momento sarebbe dovuto essere lì. Sua madre era stata molto
chiara
al riguardo, e ripensandoci provò una piccola fitta di
inquietudine...
Mei
Lee gli aveva messo la pulce nell'orecchio dicendogli che Chiharu era
in ospedale, e lui aveva provato a cercarla chiedendo al personale.
Purtroppo non era riuscito a trovare nessuno che sapesse dove era la
ragazza, così, furioso, aveva deciso di cercare direttamente
sua
madre per avere spiegazioni.
«Hitoshi!
Stai male?» gli aveva chiesto lei vedendolo. Era nel suo
studio, e
lui per entrare aveva interrotto una piccola riunione.
«Perché
mi hai detto che Chiharu era a casa?» l'aveva aggredita,
senza darle
il tempo di capire che c'era da difendersi.
Sakura
si era fatta rigida. Con un'occhiata di intesa aveva congedato il
medico calvo con cui stava discutendo, e a quel punto aveva offerto a
Hitoshi una sedia.
«Non
voglio sedermi. Voglio sapere perché non mi hai detto che
Chiharu è
in ospedale!»
Sakura
aveva incrociato le braccia sul petto, assumendo la sua tipica posa
da madre inflessibile, ma Hitoshi aveva già deciso che non
sarebbe
servito a niente.
«Da
chi l'hai saputo?» chiese lei.
«Non
importa. Perché non me lo hai detto?»
«Non
ti ho detto che era in ospedale perché eri emotivamente
fragile
e...»
«Ero
cosa? Mi stai prendendo in giro? Mi hai fatto credere che stesse
bene, e invece adesso scopro che è ricoverata!»
«Ci
sono persone che si prendono cura di lei egregiamente.»
«Mamma!»
Sakura
aveva sbuffato. «Non pensare che abbia chiesto di te. Come al
solito, sta pensando solo a se stessa.»
«Ma
tu non avevi il diritto di nascondermi che...»
«Non
avevo il diritto di proteggere mio figlio da una stupida cotta
sbagliata?»
Hitoshi
era arrossito, poi però aveva alzato il mento.
«Sì, beh, è la mia
cotta. Non sono fatti tuoi!»
Sakura
gli aveva dato le spalle, una mano a nascondere le labbra come per
trattenersi dal parlare. Per un attimo Hitoshi aveva pensato di
andarsene sbattendo la porta, ma poi Sakura si era girata di nuovo e
aveva parlato.
«Sono
fatti miei, invece; perché sospetto che Chiharu sia
coinvolta in
qualche modo con Yoshi. E non posso permettere che mio figlio resti
invischiato nella faccenda.»
Hitoshi
ci aveva messo qualche secondo a capire cosa lei intendesse.
«Chiharu
una traditrice? Ma per favore!» aveva esclamato allora.
«Lavoro con
lei da cinque anni, e ti posso giurare su qualunque cosa che quella
ragazza non ha voglia nemmeno di fare il suo lavoro, figuriamoci il
doppiogioco!»
«Tu
hai una cotta per lei! Non vedresti il doppiogioco nemmeno se te lo
sbattesse in faccia.»
«Beh,
tu lo avevi visto con papà.»
Silenzio.
Sakura era impallidita.
Hitoshi
si era reso conto di essersi spinto troppo oltre, ma aveva deciso di
difendere comunque la sua linea. «Tu hai potuto scegliere
cosa fare
quando papà se ne è andato. Lascia scegliere a me
come comportarmi
con Chiharu.»
Sakura
si era presa qualche secondo per elaborare una risposta, poi aveva
distolto lo sguardo da quello del figlio.
«Va
bene» aveva detto, a fatica. «Mi dispiace di averlo
tenuto
nascosto» Hitoshi aveva annuito. «Però,
come Hokage, devo importi
di non dirle niente dei sospetti su lei e Yoshi. C'è
un'indagine in
corso. E' sotto sorveglianza.»
Hitoshi
aveva serrato le labbra. Era stato difficile promettere quello,
perché una parte di lui avrebbe voluto chiedere a Chiharu in
che
rapporti era precisamente con Yoshi, ma alla fine lo aveva fatto.
Non
voleva che sua madre pensasse che era un bambino.
«Mi
dispiace» borbottò, anche se non aveva colpa, e
tornò a
concentrarsi su Chiharu.
«Non
fa niente» disse lei, un po' irrigidita. E meno
male che non sei
venuto prima! «Come... Come stai?»
«Bene»
Hitoshi si sedette. La sedia era tornata subito fredda dopo che Akeru
se ne era andato. Non si accorse che l'aveva usata qualcun altro.
«Le
emicranie?»
«Una
ogni tanto... Ma adesso so perché vengono.»
«Kotaro
mi ha detto che hai una nuova tecnica.»
«Ah,
quindi è venuto a trovarti?»
Il
bastardo sapeva che era ricoverata! Altro che equilibrio e diritti...
«Quando
ha potuto è venuto, sì» disse Chiharu,
un po' perplessa.
Forse
mi porterà le arance in carcere,
aggiunse mentalmente, con una stretta allo stomaco.
Il
quadro che Akeru le aveva dipinto del suo prossimo futuro continuava
a ripresentarsi davanti agli occhi: Yoshi che faceva il suo nome, gli
interrogatori, la guerra... Non avrebbero mai, mai, mai creduto che
aveva solo fatto un errore. Avrebbero detto che era una traditrice.
«Mi
stai ascoltando?»
Chiharu
si riscosse e fissò Hitoshi.
Lui,
innervosito, si alzò dalla sedia. La aggirò, si
appoggiò allo
schienale, piegò la testa. La rialzò.
«Okay,
a cosa stai pensando?»
«A
niente.»
«No.
Stai pensando a qualcosa, non mi ascolti. Ti parlo del rin'negan e
non fai una piega: la Chiharu che conosco io mi avrebbe già
ucciso
con un paio di battute al vetriolo pur di sentirsi superiore.»
«Come
posso invidiarti per lo sharingan? Non lo avrò
mai.»
«Non
ho detto sharingan.»
Chiharu
chiuse la bocca, corrucciata.
«A
cosa stai pensando?» ripeté Hitoshi.
«A
me» cedette lei, con un sospiro.
Hitoshi
lasciò ricadere la testa, constatando amaramente che sua
madre aveva
ragione. Chiharu Nara pensava sempre prima a se stessa... Per un
attimo aveva sperato che fosse turbata dalla sua comparsa, invece non
le faceva caldo né freddo. «Non ci vediamo da
quella notte a Suna»
disse, senza guardarla. «A quella almeno hai
pensato?»
Chiharu
trattenne un gemito, limitandosi a una smorfia.
No,
okay, in quel momento non poteva proprio discutere di chi aveva fatto
cosa con chi. C'erano in ballo troppe cose importanti, c'era in ballo
la sua vita! E non avrebbe passato la prossima
mezzora a
spiegare a Hitoshi Uchiha che ora non poteva occuparsi dei suoi
ormoni.
Quindi,
come chiudere il discorso senza che lui si arrabbiasse e insistesse
per continuarlo?
«Hitoshi,
guardami un momento» disse. Lui lo fece. «Non sto
bene. C'è
stato... una specie di incidente, quando siamo tornati. E' per questo
che sono ancora qui; non so se l'hai saputo» Hitoshi si
accigliò.
«Secondo i medici devo abbandonare la carriera, o stavolta ci
lascio
davvero le penne.»
«Cosa?»
«Ti
chiedo davvero scusa, ma in questo momento non ho la testa di pensare
a qualunque cosa che non sia la mia salute. Mi dispiace.»
Hitoshi
la fissò, turbato, preoccupato. La vita di Chiharu era in
pericolo,
e proprio in un momento del genere sua madre sospettava che fosse una
traditrice... Doveva dirglielo. Non poteva lasciare che qualcuno
piombasse in camera e la portasse via per interrogarla, senza
preavviso, senza attenzione...
«Come
Hokage, devo importi di non dirle niente dei sospetti su lei e Yoshi.
C'è un'indagine in corso. E' sotto sorveglianza.»
Serrò
i pugni, costringendosi a tacere. Era un ordine dell'Hokage, e lui
era un aspirante Anbu... Non poteva, non poteva disobbedire, anche se
avrebbe voluto.
Chiharu
non è una traditrice, ricordò
a se stesso. I sospetti di mia madre
scompariranno presto.
«Io
potrei starti vicino» disse, in un borbottio quasi inaudibile.
«Lo
so» sospirò Chiharu. «Ma io non sarei di
gran compagnia. Ho
bisogno di tempo.»
Niente
sesso parte seconda, dunque.
Hitoshi
si tirò su dallo schienale della sedia, per andare a sedersi
sul
bordo del letto. Senza volerlo Chiharu si fece un po' indietro, in
atteggiamento difensivo.
«A
me sta bene» disse lui, cercando la mano con la sua.
«Solo... Ho
bisogno di sapere che lo stai dicendo perché hai davvero
bisogno di
tempo, e non perché stai pensando a te stessa e io sono solo
una
seccatura.»
Oh.
«Ti
ho detto che ho bisogno di tempo» ripeté Chiharu,
lasciando la mano
in quella di Hitoshi e sperando che lui non lo prendesse come una
dichiarazione. «Questa volta non è come cinque
anni fa, è più
complicata...»
Hitoshi
sospirò, un pochino risentito: perché Chiharu non
poteva essere
come le altre ragazze e appoggiarsi a lui nei momenti di
difficoltà?
«Ho
capito. Non insisto, non importa» le lasciò la
mano, lanciandole
uno sguardo di sbieco. «Spero solo che non sia una
scusa.»
Lei
inarcò le sopracciglia con espressione indignata.
Hitoshi
si rialzò dal letto e affondò le mani in tasca,
preda
dell'insoddisfazione. Cercò di dirsi che non poteva
pretendere di
più se le condizioni di salute di Chiharu erano
così critiche... Ma
aveva diciassette anni e una scarsa attitudine a preoccuparsi del
prossimo, quindi si sentiva raggirato.
La
guardò un'ultima volta, alla ricerca di qualche segno di
colpevolezza. Si chiese che cosa ci fosse stato davvero tra lei e
Yoshi, se sua madre sospettava perché erano stati in
atteggiamenti
intimi o per altro... Ma non poteva chiederglielo.
«Tornerò
a trovarti» promise.
«Grazie»
rispose lei, anche se il suo stomaco si contrasse sgradevolmente.
Hitoshi
annuì, senza sorridere, e andò verso la porta con
le spalle un po'
curve. Aveva già una mano sulla maniglia quando un pensiero
gli
attraversò la testa. Si girò un'ultima volta.
«Qualcuno
ti ha detto della Roccia?»
«Intendi
la dichiarazione di guerra?»
«Sì.
Sono stato convocato.»
Chiharu
socchiuse leggermente la bocca.
Come
cinque anni prima, i suoi compagni venivano chiamati a combattere e
lei restava in disparte. Non ci aveva pensato, quando Akeru le aveva
detto della guerra, ma davanti a Hitoshi la vecchia rivalità
tornava
a galla.
«Bene»
disse meccanicamente, perché doveva elaborare la cosa prima
di
esprimere un'opinione.
Sul
volto di Hitoshi passò un guizzo di irritazione.
«Bene? Ma certo.
Cos'altro dovrei aspettarmi da Chiharu Nara?»
Irritato,
aprì la porta e uscì sbattendosela alle spalle.
Chiharu
rimase confusa. Che diavolo avrebbe dovuto dire? Lei era incastrata
in un letto d'ospedale mentre tutti andavano sul campo, che cosa
voleva sentire Hitoshi?
Oh,
al diavolo!
Aveva
problemi molto più gravi da affrontare. Persino la guerra
passava in
secondo piano ora che Yoshi l'aveva tirata in ballo.
Il
suo stomaco si ribellò a quel pensiero, costringendola a
cambiare
soggetto: l'angoscia per le conseguenze che potevano venirne era
semplicemente troppa. Per un attimo desiderò che
né Hitoshi né
Baka fossero mai venuti a trovarla... Era tutto migliore quando
pensava solo a odiare il medico pelato. Adesso invece si sentiva
stupida, inutile e braccata, senza punti fermi: aveva sempre pensato
di essere un certo tipo di persona, aveva avuto delle certezze; ma
erano solo illusioni. Non era la kunoichi più forte del suo
anno,
non era nel gruppo dei migliori, non era la ragazza brillante che
aveva sempre creduto. E Baka, che doveva essere soltanto uno stupido,
le aveva aperto gli occhi, e lo aveva fatto senza la cattiveria che
si sarebbe aspettata da lui. Questo significava che non li invidiava
più, forse... che non ne vedeva più la ragione.
“Non
sottovalutare Baka, Chiharu. Potrebbe sorprenderti un giorno.”
“Lui?
Ahah, proprio no!”
Il
sesto Hokage glielo aveva anticipato, cinque anni prima, e lei non lo
aveva nemmeno ascoltato. Adesso aveva fatto la figura della stupida.
Cieca, stupida e arrogante.
Appoggiò
la fronte a una mano, ripiegandosi su sé stessa.
Stupido
Naruto, stupido gruppo sette, stupida lei e la sua
ingenuità, la sua
boria, la sua superficialità... Non aveva imparato niente da
suo
padre.
Stupida,
stupida, stupida!
Sakura
richiuse il fascicolo di Chiharu e si prese la testa tra le mani.
Non
c'era niente che potesse fare per quella ragazza: il suo cuore era
troppo compromesso e il sistema del chakra era usurato dal
superlavoro per compensare. Honmaru era stato chiaro, e di solito era
uno che ci pensava mille volte prima di dare una diagnosi definitiva.
Probabilmente avrebbero dovuto proibirle di tornare a essere ninja,
cinque anni prima, ma come potevano sapere che sarebbe stata tanto
incosciente?
E
dire che dovrebbe essere una Nara!
Si
lasciò la testa e appoggiò la schiena alla sedia,
incrociando le
braccia.
Era
un bel problema che Chiharu fosse tanto importante per Hitoshi...
Più
aveva a che fare con lei e più Sakura la prendeva in
antipatia.
Sapeva
che non era tutta colpa della ragazza: in lei rivedeva molti degli
atteggiamenti del Sasuke dodicenne, e guardando Hitoshi, pochi minuti
prima, aveva visto se stessa. Non voleva che suo figlio soffrisse
come aveva sofferto lei.
D'altronde
Sasuke si era preso le sue responsabilità, come avrebbe
dovuto fare
Chiharu... Invece lei non lo faceva. E di anni ne aveva diciotto, non
dodici, quindi era anche meno scusabile.
Spostò
il suo fascicolo sopra una pila di esami di altri pazienti,
sentendosi vagamente a disagio. Aveva l'impressione che il suo
atteggiamento verso Chiharu Nara le segnalasse qualcosa di poco
piacevole, tipo una faccenda in sospeso con Sasuke... Ma non poteva
permettersi di pensarlo; perché per Sasuke aveva sacrificato
tutto,
incluso Naruto, e se si faceva venire dei dubbi dopo sette figli e
trent'anni di abnegazione, allora poteva anche chiudere bottega e
ritirarsi a vivere nella chiocciola di Tsunade, sepolta nel profondo
della foresta.
Cosa
avrebbe dato per essere adattabile come Naruto, che invece era andato
oltre il tradimento di Sasuke, quello di Sakura e persino quella
brutta faccenda di suo padre... Non aveva mai capito come riuscisse,
ogni volta, a passare sopra a tutto. Doveva avere delle riserve
inesauribili.
Persino
adesso, se ne era uscito con l'idea di bloccare la guerra anche se di
fatto era già iniziata: aveva insistito per creare una
piccola task
force di ambasciatori da mandare nei Paesi confinanti, aveva voluto a
tutti i costi una dichiarazione ufficiale in cui la Foglia si
discolpava per il massacro di Anka, e aveva addirittura iniziato a
parlare di andare di persona dallo Tsuchikage per discutere
la
faccenda.
Bello,
eh. Molto da Naruto, molto ottimista. Ma assolutamente folle.
Eppure
ci credeva, e Sakura sapeva che Naruto riusciva sempre a fare quello
in cui credeva - aveva riportato a casa Sasuke, dopotutto.
Così
anche lei, nel profondo, aveva iniziato a sperare... Ma era difficile
andare contro la logica comune per seguire quella di Naruto.
E
comunque sarebbe molto meglio se Hitoshi non la seguisse, nel caso di
Chiharu,
ricordò a se stessa. Se solo avesse potuto fargli vedere a
cosa
andava incontro... Ma dirlo a Hitoshi era quasi come tradire Sasuke,
come ammettere che non lo aveva mai perdonato. Non poteva.
Fu
allora che l'argomento Chiharu si impose di nuovo alla sua
attenzione, questa volta nella figura di Baka Akeru che bussava alla
sua porta.
«Buongiorno.
Scusi il disturbo, è impegnata?»
Eccolo
qui, l'altro. Messo anche peggio di Hitoshi... Quasi quanto Naruto
era fissato con Sasuke, mi tocca ammettere.
«In
realtà in ospedale sono sempre impegnata»
sospirò, indicandogli la
sedia davanti alla scrivania. «E' una cosa veloce,
almeno?»
«Ehm...»
Akeru fece una smorfia, accomodandosi. «Non tanto.»
«E'
urgente?»
«Yoshi
ha fatto il nome di Chiharu.»
Silenzio.
Sakura
fissò Baka per un lungo istante, elaborando.
Lo
sapevo!, pensò una brutta parte del suo cervello. Non
è
possibile, pensò un'altra.
«In
che senso?» chiese cautamente. «Morino non ha
scritto niente nel
suo rapporto.»
«E'
successo mentre Morino non era presente.»
«Ti
ha lasciato solo con un prigioniero?» Sakura era allibita.
«Era
uscito per una boccata d'aria... Sarà stato via due minuti,
non è
che sono rimasto proprio...»
«No,
non sono arrabbiata: sono stupefatta!» questo poteva voler
dire
soltanto che a Morino Baka piaceva un sacco.
«Continua.»
«Morino
era uscito, e io ho curato Yoshi» riprese Akeru, giocando con
le
proprie dita. «Mentre lo curavo mi sono innervosito,
perché... Sa,
sono un ninja medico, e la tortura non... Va beh. Gli ho chiesto
perché diavolo non parlasse e basta; e lui mi ha detto che
se avesse
parlato Chiharu ci sarebbe andata di mezzo.»
«E
poi?»
«Poi
è tornato Morino, e non ha detto più
niente.»
«Perché
non lo hai riferito subito?»
Akeru
distolse lo sguardo, ritrovandosi ad arrossire suo malgrado.
«Che
te lo chiedo a fare?» mugugnò Sakura.
«Avrebbe più senso
chiederti perché me lo stai dicendo, invece di tenerlo per
te.»
A
quella domanda Akeru avrebbe potuto rispondere facilmente: glielo
stava dicendo perché era un Anbu, e in quanto Anbu aveva un
quadro
molto ben definito dei doveri di uno shinobi e di tutte le possibili
declinazioni del tradimento: non dire a Sakura che Yoshi aveva
nominato Chiharu era uno dei sottoparagrafi più gravi della
casistica, indipendentemente dal fatto che lui fosse convinto della
sua innocenza.
Per
quanto affezionato a lei, sapeva di non poter soprassedere su una
cosa tanto grave.
«Io
non credo che Chiharu abbia fatto qualcosa contro Konoha
intenzionalmente...» iniziò, chiedendosi se doveva
riferire di
averne parlato con la diretta interessata. «Piuttosto penso
che
Yoshi l'abbia usata in qualche modo, finendo per coinvolgerla nei
suoi piani.»
«Chiharu
non è una stupida. Non può non essersi accorta di
niente.»
Sì
invece. Purtroppo.
«Ma
Yoshi finora si è dimostrato molto abile... Se ha raggirato
noi...
cioè, voi, potrebbe aver raggirato anche lei.»
Sakura
sbuffò. «Smettila di provarci: sei troppo
coinvolto, vuoi vedere
solo le possibilità che la discolpano.»
«E
lei vuole vedere solo quelle che la incastrano.»
«Ne
deve passare di tempo, prima che mi offenda per il parere di un
ragazzino con la metà dei miei anni...»
Akeru
strinse le mani una all'altra.
Aveva
promesso a Chiharu che l'avrebbe aiutata, ma iniziava a pensare che
avrebbe dovuto parlare con Naruto, invece che con Sakura. Credeva che
lei sarebbe stata più ragionevole, ma iniziava a pensare di
aver
preso una cantonata. Rischiava di finire in tragedia.
«Dovrebbe
chiedere il parere di Naruto prima di decidere, credo. L'Hokage
è
lui» tentò di suggerire.
Sakura
corrugò la fronte e si morse la lingua per non sbottare. Se
lo
immaginava proprio Naruto che affrontava la cosa razionalmente e
prendeva le misure per gestirla... Come minimo sarebbe piombato nella
stanza di Chiharu per parlarle e ne sarebbe uscito
per
convincere il Consiglio che era tutto un suo piano per carpire
informazioni a Yoshi. Neanche se Chiharu avesse provato ad ucciderlo
avrebbe smesso di credere nella sua lealtà. Dopotutto lo
aveva già
fatto una volta. Era ingenuo, Naruto, un po' troppo ingenuo.
«Basta»
disse Sakura. «Hai fatto il tuo dovere riferendo quello che
hai
scoperto, da qui in poi la cosa non ti riguarda. Considerati
fortunato perché sto soprassedendo sul ritardo con cui sei
venuto a
fare rapporto, ma non tirare la corda più di
così.»
«Non
voglio tirare la corda, sto solo dicendo che potrebbero esserci mille
ragioni per cui Yoshi ha fatto il nome di Chiharu!»
insisté Akeru.
«Potrebbe anche essere stato un tentativo per confondermi. Lo
ha
detto solo a me, non a Morino: sapeva che così mi avrebbe
mandato in
tilt.»
«Oppure
lo ha detto a te perché pensava che per proteggere lei
avresti dato
una mano a lui.»
«Io
sono un Anbu. Soltanto un cretino avrebbe pensato che un Anbu potesse
comportarsi così, e Yoshi per ora sembra tutto
fuorché un cretino.»
A
quel punto Sakura esplose. «Per tutti gli dei, lascia perdere
quella
ragazza! Tutto quello che ho sentito uscire dalla tua bocca fino ad
ora è in sua difesa! Se tu fossi un Anbu come si deve ti
sarebbe
almeno venuto un dubbio.»
«Essere
un bravo shinobi quindi vuol dire dubitare dei compagni?»
esclamò
Akeru, furioso.
Sakura
si bloccò per un istante.
Oh,
questo sì che era in pieno stile Naruto... Come tanti anni
prima,
quando tutti gli dicevano di lasciar perdere Sasuke e lui, invece, le
aveva promesso che lo avrebbe riportato indietro...
Già,
e poi come era finito Naruto grazie al ritorno di Sasuke?
L'espressione
di Sakura si addolcì leggermente. «Non rovinarti
la vita per
qualcuno che non farebbe la stessa cosa per te» disse in tono
più
gentile.
«Proprio
lei me lo dice?» ribatté lui, quasi accusatorio.
«Esatto.
Te lo dico proprio perché sono io. La mia storia
è l'eccezione, non
la regola» Sakura sbuffò. «E vorrei
tanto che tu e mio figlio lo
capiste, invece di affannarvi dietro a Chiharu Nara.»
Akeru
rimase corrucciato, senza rispondere.
«Ascolta,
voglio concederti un minimo di fiducia» riprese Sakura,
mettendo da
parte il tono confidenziale. «Hai ragione quando dici che
Yoshi
potrebbe averla coinvolta con qualche obiettivo... Voglio vedere come
si evolve la situazione. Le permetteremo di tornare a casa,
ovviamente sotto sorveglianza. Le faremo sapere che Yoshi è
stato
catturato e osserveremo le sue reazioni. Tu non hai detto a nessun
altro quello che hai detto a me, vero?»
Akeru
deglutì.
«Hai
rispettato il mio divieto a incontrare Chiharu, vero?»
insisté Sakura.
«Naturalmente!»
esclamò lui, sudando copiosamente. Per fortuna tra gli Anbu
aveva
molti amici, e poteva essere sicuro che non lo avrebbero tradito.
«Bene.
Perché se sapesse già di Yoshi tutto il mio piano
non servirebbe a
niente.»
Lo
stomaco di Akeru si strizzò in una morsa di senso di colpa.
Si
augurò che la futura sorveglianza di Chiharu fosse molto
abile.
«Adesso
vai, devo preparare un po' di cose prima di dire a Chiharu che
può
tornare a casa» lo congedò Sakura a quel punto.
Akeru
si rialzò dalla sedia con le gambe che tremavano
leggermente. Forse
era riuscito a fare qualcosa per aiutarla, dopotutto... Da
lì in poi
la faccenda era nelle mani di Chiharu.
«Cosa
devo fare con Yoshi e Morino?» domandò esitante.
«Cerca
di restare di nuovo solo con Yoshi e scopri qualcosa in più.
Non
dire niente a Morino... Se capisce che Yoshi nasconde qualcosa lo
ammazza davvero.»
Quella
sì che era una bella responsabilità. Akeru
raddrizzò le spalle e
si inchinò in segno di ringraziamento.
«Un'ultima
cosa...» aggiunse a testa bassa. «Quando Chiharu
sarà a casa potrò
incontrarla?»
Sakura
roteò gli occhi. Questa cosa stava diventando snervante.
«Dipenderà
da quello che dirà o non dirà Yoshi»
gli concesse.
Akeru
si tirò su sorridendo. «Mi basta.»
Sakura
scrollò le spalle, quasi rassegnata. Trovava che Akeru fosse
un
ragazzo in gamba, un buon medico e un ottimo shinobi...
finché non
si parlava di Chiharu. Naruto aveva ragione a dire che il problema di
Baka era lei: se Chiharu non fosse stata nei dintorni, Akeru sarebbe
già stato uno dei membri di punta del Villaggio.
«Non
sarai mai più importante delle sue ragioni
personali» mormorò.
Akeru
non rispose. La salutò cortesemente e se ne andò
senza aggiungere
altro.
Sakura
riprese il fascicolo di Chiharu, sfogliandolo distrattamente mentre
si toglieva dalla testa i residui della conversazione con Baka.
Quanto era difficile tenere a bada i paragoni con le vicende di
vent'anni prima!
Scosse
la testa per concentrarsi. Come fare per tenere Chiharu sotto
controllo a casa, senza togliere elementi importanti alle squadre di
Konoha? Chi poteva metterle alle costole?
Qualcuno
bussò alla porta che Akeru aveva lasciato aperta,
spingendola ad
alzare lo sguardo.
«Sei
impegnata?» chiese Sasuke, facendo un passo nella stanza.
«Naruto
sta progettando il suo viaggio dallo Tsuchikage per fermare la
guerra... Prova a fermarlo tu, perché io sto per
ammazzarlo»
mugugnò irritato.
E,
guardandolo, Sakura capì chi poteva mettere a sorvegliare
Chiharu.
Shikaku
aveva raggiunto il limite.
Ormai
era in ospedale da giorni, ma ancora non aveva potuto sapere cosa
aveva di preciso sua nipote: il personale non scuciva mezza
informazione, lei men che meno; tutti non facevano che ripetergli che
erano dati riservati. Aveva provato a comunicare con Shikamaru, ma
anche lì i suoi messaggi erano tornati indietro con la
dicitura
rispedito al mittente, e allora aveva capito che non
sarebbe
andato da nessuna parte.
Adesso
però era stufo.
«Spiegami
perché le notizie sulla tua salute sono improvvisamente
materiale
top secret» sbottò, in piedi
accanto al letto di Chiharu.
Lei
roteò gli occhi e li fissò fuori dalla finestra.
«Se
non me lo dici chiamo Inoichi Yamanaka e glielo faccio scoprire con
la forza.»
Questa
volta Chiharu lo guardò malissimo. Il che non ebbe
assolutamente
nessun effetto. Allora sospirò, fissò tutte la
pareti della stanza,
e alla fine tornò a lui.
«Perché
ho diciotto anni e ho firmato un foglio che mi permette di decidere a
chi dire cosa» sbottò.
«Va
bene. Chiamo Inoichi.»
«Non
puoi!» abbaiò Chiharu, ma Shikaku già
era lanciato verso la porta
e aveva abbassato la maniglia...
Per
trovarsi davanti Sakura.
«Buongiorno,
Shikaku» disse lei, inarcando un sopracciglio di fronte alla
sua
espressione corrucciata.
Lui
si limitò a un cenno del capo. «Sakura»
borbottò, facendo un
passo indietro.
Chiharu
trasalì capendo chi stava per entrare.
Fu
assalita dalla nausea: Sakura aveva saputo di Yoshi? Akeru era stato
scoperto? La sua vita stava per finire in una cella nei seminterrati
di Konoha? Lanciò un'occhiata spaventata al nonno, che non
la
comprese, e poi si domandò quante possibilità
avesse di cavarsela
se tentava la fuga dalla finestra.
«Scusate
il disturbo» disse Sakura, entrando nella stanza a passo
deciso.
Passò lo sguardo da Shikaku a Chiharu e viceversa, poi si
voltò
verso la donna che l'accompagnava, e che era subito dietro di lei.
Trattenne una smorfia di disappunto. «Shikaku, posso
chiederti di
uscire?»
«Preferirei
restare» tentò lui, gli angoli della bocca rivolti
verso il basso.
«Questo
va contro le volontà di Chiharu...»
«Nonno,
per favore esci» intervenne subito lei. Se Sakura doveva
accusarla
di tradimento non voleva che succedesse di fronte a lui.
Shikaku
non la prese bene, ma negli ultimi tempo tutti non facevano che
congedarlo quando si trattava di Chiharu; così represse le
polemiche, si costrinse a un respiro profondo e fece un inchino un
po' rigido. «Aspetterò fuori.»
Sakura
attese che il vecchio uscisse, poi la donna che era con lei chiuse la
porta e si mise al suo fianco. Chiharu la squadrò vagamente,
ma era
troppo spaventata per ragionare.
«Puoi
tornare a casa.»
Il
ronzio nelle orecchie di Chiharu divenne un fischio.
«Cosa?»
alitò.
«Puoi
tornare a casa» ripeté Sakura. «Mi sono
consultata con il medico
che si occupa del tuo caso, e insieme abbiamo pensato che saresti
stata contenta di uscire di qui.»
«Perché?
Non stavo morendo?» Chiharu sentì tutti i peli sul
suo corpo
rizzarsi per la diffidenza.
«Non
sei guarita miracolosamente, se è questo che intendi. Ma non
abbiamo
nemmeno ragioni per tenerti ricoverata, e crediamo che tornando a
casa la tua salute mentale sarà un po' meno
precaria.»
L'istinto
di Chiharu sarebbe stato di ribattere acidamente, ma qualcosa la
spinse alla cautela. Era strano che allentassero la sorveglianza, se
Akeru credeva che la sospettassero...
«E
se stessi male?» indagò.
Sakura
sorrise, accennando alla donna al suo fianco. «Questa
è Fay. E' una
tirocinante del dottor Senju, e ha cortesemente accettato di restare
accanto a te per i primi tempi... Come misura preventiva. Sempre che
tu voglia tornare a casa tua e non preferisca invece andare da tuo
nonno.»
Finalmente
Chiharu prestò attenzione alla donna che era entrata con
Sakura: era
una bella donna, con lunghi ricci scuri e le labbra carnose. Ma di
sicuro non aveva l'aria del medico.
Una
guardia,
realizzò.
«Ovviamente
non andrò da mio nonno» disse tra i denti
– prima o poi sarebbe
diventato impossibile tenere tutto nascosto.
Sakura
represse un sorriso di trionfo: la pagliacciata della privacy alla
fine le era tornata utile, non poté fare a meno di notare.
Si limitò
ad annuire, guardando poi Fay.
«La
accompagnerai in ospedale per tutti gli esami e prenderai i parametri
ogni giorno, come accordi.»
Fay
annuì. Nonostante l'espressione neutra era evidentemente
poco
entusiasta dell'incarico, ma per qualche ragione non aveva potuto
opporsi. Chiharu sperò che significasse che l'avrebbe
ignorata per
la maggior parte del tempo, ma capì subito che non
l'avrebbero mai
messa in mano a un'imbecille.
«La
tua sospensione rimane confermata» continuò Sakura
rivolta a lei.
«Naruto lo ha deciso perché è un
impulsivo, ma con la tua cartella
clinica è l'unica soluzione sensata.»
Che
coincidenza, vero?,
pensò Chiharu, stringendo involontariamente il lenzuolo con
la mano.
Sakura
dovette accorgersene, perché un muscolo sulla sua guancia
ebbe un
guizzo e oltrepassò i suoi sforzi per mantenersi neutrale.
«Ogni
azione ha delle conseguenze» disse in tono più
duro, pensando a
Yoshi, ma la rigirò sul piano medico. «Avresti
dovuto pensarci
prima di ignorare le tue condizioni di salute.»
Chiharu
si morse la lingua per non insultarla. «E Baka?»
chiese invece. «Le
sue conseguenze per avermi aiutato?»
«Per
tua e sua fortuna in questo momento non possiamo fare a meno di
nessun membro utile... La sua punizione è stata
rimandata.»
Chiharu
annuì, intimamente sollevata, e si accorse che per tutto il
tempo
aveva tenuto la schiena così rigida che ora le doleva tra le
scapole. Si lasciò andare contro i cuscini.
«Bene,
faccio rientrare Shikaku» concluse Sakura. «Fay ti
accompagnerà a
casa non appena avrai raccolto le tue cose.»
Chiharu
chiuse gli occhi.
«Vedi
ancora il fumo?»
Un
ciuffo di capelli di un rosa improponibile spuntava tra gli aghi del
pino più alto di Konoha, ondeggiando dolcemente al vento del
tardo
mattino.
«Neanche
un filo!» esclamò Itachi, abbarbicato su un ramo
tanto sottile da
piegarsi sotto il suo scarso peso.
«Allora
vieni giù!» piagnucolò Minato.
Itachi
scese dall’albero con l’agilità di un
gatto, e balzò a terra
davanti ai compagni come se fosse nato tra le liane.
«Sei
solo più fortunato...» bofonchiò il
giovane Uzumaki, scalciando un
sasso con rabbia. «Potevo arrivarci anche io
lassù!»
La
bambina che era con loro sbadigliò e si
stropicciò la pancia
mugolando. «Adesso possiamo andare a mangiare?»
«No!
Adesso scopriamo cosa è successo!»
sbottò Minato con foga, alzando
un pugno verso il cielo.
Itachi
sbuffò e distolse lo sguardo, grattandosi il collo.
Visti
dall’esterno i tre erano davvero un bizzarro assortimento:
Minato,
con i vestiti sporchi e i capelli in disordine, sembrava appena
uscito da una lotta nel fango; Itachi, immacolato come appena alzato,
si era visto rifilare dalla madre una maglietta arancione che
strideva con i capelli rosa in maniera quasi imbarazzante; Chomi,
degna figlia di Ino, portava un enorme fiocco azzurro tra i capelli,
ma considerata la stazza ricordava pesantemente un uovo di Pasqua. Se
un adulto si fosse affacciato a una finestra e avesse visto il
misterioso conciliabolo, davvero non sarebbe riuscito a intuirne la
ragione.
In
verità era molto semplice; e traeva la sua origine
– com’era
ovvio – da Minato Uzumaki. Alcuni minuti prima infatti,
Itachi era
stato bruscamente distratto dallo studio da sassi tirati contro il
suo vetro con forza poco meno sufficiente a spaccarlo; imbestialito,
aveva costruito mentalmente un rimprovero con i fiocchi, ma non aveva
fatto in tempo ad affacciarsi sul giardino che Minato lo aveva
afferrato per il colletto e lo aveva trascinato in strada, blaterando
qualcosa su una colonna di fumo dalla foresta.
«Dobbiamo
scoprire cosa è successo!» sosteneva entusiasta; e
Itachi non era
riuscito a bloccarlo.
Com’era
prevedibile, il giovane Uzumaki aveva giudicato imprescindibile la
presenza del terzo membro del loro gruppo, Chomi, ed era andato a
tirare fuori di casa anche lei. Poi li aveva fatti correre come degli
scemi fino all’albero più alto del villaggio e
aveva tentato di
arrampicarsi sul pino, finendo immancabilmente con il sedere a terra.
Itachi si era offerto di sostituirlo per risparmiargli
l’umiliazione,
ma il degno figlio di Naruto si era intestardito, allora se
l’erano
giocata con una sfida, e insomma... la maglietta si era ridotta a uno
straccio e Itachi aveva vinto sette incontri di fila.
«Per
me te lo sei sognato» disse Chomi, frugando nelle tasche in
cerca di
una caramella.
«Figurati
se mi sogno una roba del genere!» protestò Minato,
furioso.
«Anche
se fosse, ci sono gli shinobi seri per queste cose»
constatò Itachi
pragmaticamente.
Minato
gonfiò le guance oltraggiato. Quei due non avevano il minimo
spirito
d'avventura! Era quasi avvilente giocare con loro. Ma lui era
assolutamente certo di aver visto del fumo nella foresta, una bella
colonna nera che saliva verso il cielo, e per questo non aveva
intenzione di mollare l'osso.
«Andiamo
a indagare?» propose tutto fiero.
«Neanche
per sogno» sospirò Itachi.
«Allora
ti obbligherò a farlo!» Minato si esibì
in un ghigno
spaventosamente simile a quello del padre, e con espressione tronfia
assunse la posa da combattimento di Naruto. «Ora vi
mostrerò la mia
nuova, strabiliante tecnica ninja!»
Chomi
e Itachi lo fissarono in tralice: da un paio di mesi il loro giovane
e sciocco amico era ossessionato dall’esame
d’ammissione
all’Accademia, il che si traduceva in giornate passate a
ideare
allenamenti ninja e cercare di coinvolgere anche loro. A Chomi la
faccenda era indifferente – lei stava da una parte e
sgranocchiava
patatine – ma per Itachi era la seconda sessione della
tortura dopo
gli allenamenti con il padre.
«Micchan,
tu non sai
raccogliere il chakra» sbuffò Chomi indispettita.
«Smettila di
fare lo scemo e andiamo a pranzo!»
«Certo
che so raccoglierlo! Mia sorella mi ha insegnato!»
Bugia
spudorata: Hinagiku lo aveva schernito per venti minuti, il giorno in
cui l’aveva scoperto a provarci. Ma Minato era un tipo
cocciuto,
ancor più cocciuto del padre: unì le mani sotto
il mento, serrò i
denti da latte fino a sentirli scricchiolare, e imitò
l’urlo
paterno di concentrazione.
Itachi
e Chomi non fecero una piega: attorno al bambino non si muoveva una
foglia.
«Lascia
perdere... Te lo insegnano all’Accademia»
sbuffò Itachi annoiato.
Lui il chakra lo sapeva già raccogliere, grazie a Sasuke, ma
non gli
sembrava nulla di straordinario – e di certo non avrebbe
commesso
l’errore di dirlo in quel momento.
«Invece
io ti dico che lo
so fare!» gridò
Minato.
E
fu anche l’ultima cosa che disse: un secondo dopo divenne
bianco
come cenere, gli occhi gli si rovesciarono dietro le palpebre e le
sue gambe cedettero di schianto, facendolo piombare con la faccia
nella polvere.
«Micchan!
Micchan!» gridarono Itachi e Chomi, correndo a scuoterlo
spaventati.
Pallidi quanto lui, lo girarono sulla schiena e lo schiaffeggiarono.
Qualcosa
piombò dall’alto, balzato giù dal tetto
più vicino. I due
bambini nemmeno lo notarono, ma l'anziano Naruto-gatto
zampettò
silenzioso fino al corpo di Minato, lo annusò con
delicatezza, e poi
guardò verso il cielo, in un’imitazione
terribilmente realistica
di essere umano.
«C’è-c’è
un gatto...» balbettò Chomi, le guance piene ormai
rigate di
lacrime. «E’ venuto a portare via la sua
anima?»
«Non
è mica morto!» ribatté Itachi con la
voce strozzata. «Respira
ancora... Vero che respira?»
Si
chinò in fretta sul suo viso, e con orrore si accorse che il
filo
d’aria che usciva dalla bocca di Minato era terribilmente
fievole.
«Dobbiamo
chiamare aiuto!» ansimò, schizzando in piedi.
I
baffi del gatto vibrarono, mentre posava gli occhi azzurri sul
bambino. In quel momento Minato tornò alla vita, ingoiando
aria come
un affogato.
«Micchan!»
gridò Chomi, strattonando la maglietta fino a strapparla
sulle
cuciture. «Sei vivo?»
Il
bambino tossì, allontanando la sua mano, e si
tirò a sedere
faticosamente.
«Cosa...
Cosa è successo?» ansimò, gli occhi
umidi di lacrime. «Male... La
gola mi fa male...»
«Sembravi
morto!» singhiozzò Chomi, asciugandosi il naso con
la manica. «Sei
caduto giù e sembravi morto!»
Minato
si guardò le mani, premute a terra; tremavano. Non capiva
cosa fosse
successo, ma si sentiva la testa leggera e allo stesso tempo
pesantissima... Come se per un attimo fosse stata sul punto di andare
altrove,
e all’ultimo istante fosse piombata bruscamente indietro.
«Stai
bene?» chiese Itachi con un filo di voce, bianco quasi quanto
lui.
«Ora
sì...» mormorò Minato.
Le
imposte di una casa si aprirono sbatacchiando, e la testa di un uomo
si affacciò sulla strada.
«Bambini!
Che avete da urlare?» chiamò, evidentemente
irritato ma anche un
filino ansioso.
«Ci
scusi!» rispose pronto Itachi, tirando in piedi Minato.
«Ci scusi,
noi...»
«Ci
scusi!» strillò Chomi, e tenendo Minato per le
braccia insieme a
Itachi corse via come una furia.
L’uomo
alla finestra richiuse le imposte borbottando contro i genitori
moderni.
Naruto-gatto,
quasi invisibile, zampettò via facendo ondeggiare la coda in
un
ombra simile a un serpente.
Mentre
si allontanavano dalla zona con il fiatone, Itachi e Chomi furono
costretti a promettere malvolentieri di non dire ad anima viva quello
che era successo.
Nella
foresta, dove la colonna di fumo vista da Minato era salita verso il
cielo, una squadra Anbu osservava i resti di un falò deserto
chiedendosi cosa diavolo fosse.
Nessuno
di loro l’aveva ancora capito,
ma
quella mattina di stravolgimenti avrebbe segnato l’inizio
della
fine.
Il
tempo è giunto.
* * *
E... BAM!
Siamo entrati nell'ultima fase della storia.
Più o meno. Quasi, diciamo.
Perdonate il ritardo nell'aggiornamento,
ma la mia vita è tornata frenetica e stancante.
So che è stato orribile tardare dopo il cliffhanger della
volta scorsa, ma siate buoni!
In più non ho pronto assolutamente niente del prossimo
capitolo,
però spero di avere un'ispirazione fulminante nei prossimi
giorni.
Lo spero intensamente.
Che dire a questo punto?
...Che spesso voi lettori leggete prima questo angolino che il capitolo.
Quindi niente anticipazioni.
Mi sono anche dimenticata di preparare i disegni dei mocciosi che avevo
promesso,
il che mi rende veramente una persona inutile, ecco.
Giuro che provo ad averli scannerizzati per la prossima volta!
Grazie a voi che siete ancora qui
nonostante la mia scarsa affidabilità.
Siete sempre il mio pilastro!
A presto!
Susanna
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Capitolo 40 *** Di nuovo a casa ***
Penne 40
Capitolo
quarantesimo
Di
nuovo
a casa
Alcuni
giorni prima.
Temari
era semplicemente furiosa.
Poche
cose al mondo erano in grado di mandarla completamente fuori di
testa, ma quelle poche portavano tutte il cognome Nara.
Chiharu
se ne era andata senza avvisarla.
Le
aveva lasciato un ridicolissimo biglietto sotto la porta, una cosa di
uno squallore unico, ed era partita per Konoha insieme agli altri.
Nonostante le sue condizioni di salute!
Dopo
la terribile scoperta, per almeno mezzora Temari aveva provato a
convincere Gaara a mandarle dietro una squadra di recupero, ma quando
il fratello le aveva mostrato il contratto di custodia aveva
ritrattato: adesso voleva una squadra per ammazzare Baka Akeru.
Maledetto lui e la sua finta faccia da bravo ragazzo!
«Potresti
seguirli e tornare a Konoha con loro» aveva suggerito Gaara.
Temari
aveva stritolato il biglietto di Chiharu e si era rifiutata.
‘‘Visto
che tu non vuoi dirmi cosa ha fatto papà, torno a Konoha con
gli
altri. Me lo faccio dire da lui e lo spedisco a riprenderti (se
davvero hai ragione).
Ringraziami
al ritorno.’’
Ed
ecco l’altro Nara snervante.
Shikamaru
sarebbe venuto a Suna; Temari aveva organizzato tutto perché
accadesse, e se ora fosse tornata a Konoha avrebbe mandato
all’aria
l’intero piano.
Al
solo pensiero si era trovata ad arrossire come una ragazzina,
più
per la rabbia che per l’imbarazzo: come aveva potuto pensare
di
ricreare le condizioni di diciotto anni prima, quando avevano
concepito Chiharu?
Sì,
il loro matrimonio si era assestato su un ritmo lento e un
po’
noioso, fatto di frustrazioni quotidiane e rarissimi momenti di
complicità... ma era il destino di tutti i matrimoni. Non
c’era
niente di strano in questo.
Da
dove le era venuta la presunzione di riportare in vita i loro
diciotto anni? La loro figlia aveva diciotto anni, si trattava di
cose che ormai riguardavano lei...
Eppure...
eppure non voleva rinunciare a quell’idea.
Sciocca
nostalgica egoista. Avrebbe dovuto pensare alla salute di sua figlia,
non alle sue lamentele di moglie...
«Quali
sono le conseguenze legali se Baka permette che le capiti
qualcosa?»
aveva domandato a Gaara.
«Pene
pecuniarie, radiazione dall’albo dei medici, eventuale
carcere.»
Temari
aveva annuito. «Benvenuto nel mondo delle
responsabilità.»
Gaara
non aveva commentato.
Lui
aveva una mezza idea del perché Temari avesse deciso di
restare a
Suna. La cosa non lo entusiasmava – principalmente
perché restava
sua sorella anche a 37 anni – ma adesso che era tornata Loria
si
sentiva più incline ad essere clemente riguardo alle
faccende di
cuore.
E
dunque non si era sorpreso più di tanto nel vedere comparire
Shikamaru, il giorno dopo.
«Gaara,
il matrimonio è un campo minato» gli aveva detto
il cognato,
depositando sulla sua scrivania una borsa piena di messaggi di
Naruto, con la faccia tirata di uno che ha viaggiato a dorso di rospo
per due giorni. «Non sposarti mai.»
Temari
richiuse la tenda con un fremito rabbioso.
Shikamaru
era a Suna da almeno mezza giornata e non l’aveva ancora
contattata!
Ovviamente
aveva saputo del suo arrivo cinque minuti dopo che lui aveva
oltrepassato i confini. Aveva calcolato una mezzora per parlare con
Gaara, un’altra ora per rinfrescarsi, magari un pisolino di
venti
minuti – era sempre un Nara – e il minimo
indispensabile per
scoprire in quale stanza alloggiava lei... Ma anche facendo tutto con
incredibile lentezza, stava lasciando passare troppo tempo.
Temari
fece avanti e indietro lungo la camera, mordendosi nervosamente
un’unghia.
Certo,
anche lei vedeva l’ironia della situazione: diciotto anni
prima
aveva inflitto a Shikamaru la stessa identica tortura – e per
molto
più di mezza giornata -, ma lo aveva fatto solo per
preservare la
propria dignità di sorella del Kage! Lui che diavolo doveva
preservare? Il proprio ruolo di supremo istigatore?
Ma
soprattutto: davvero non aveva capito perché lo aveva fatto
venire
fin lì?
Frustrata,
si lasciò cadere seduta in fondo al letto. Aveva riservato
la stanza
più elegante del palazzo di Suna: letto a due piazze e
mezzo,
tappeti spessi tre centimetri, bagno privato, vista panoramica. Una
stanza da re, altro che quella di tanti anni prima!
Una
stanza assolutamente inutile, se andava avanti così.
E’
una vendetta? Vuole farmela pagare perché l’ho
costretto a un
lungo viaggio?
Ormai
era quasi ora di cena. La tentazione di Temari era quella di scovare
la camera di Shikamaru e tirarlo giù dal letto a suon di
ceffoni –
perché sicuramente stava dormendo -, ma un’altra
parte di lei era
solo molto demoralizzata.
A
quel punto, appena prima del forfait, Temari
sentì bussare
alla porta. Il cuore sobbalzò nella sua gola.
«Chi
è?» chiese fremente.
«Vengo
per conto del Kage suo fratello.»
Le
spalle di Temari si piegarono per la delusione. Si alzò dal
letto e
andò ad aprire. Fuori dalla porta c’era uno
shinobi alto e biondo,
che non conosceva.
«Che
c’è?» gli chiese in un borbottio.
«Il
nobile Gaara desidera invitarla fuori per cena. Ecco
l’invito»
rispose l’uomo tendendo una busta.
All’interno
c’era un foglio di carta elegantemente decorato, con il
sigillo e
la calligrafia di Gaara.
Non
covare rancore,
diceva.
Temari
lo accartocciò ferocemente e rispedì indietro
messaggio e
messaggero.
Non
covare rancore? Altro che rancore, il rancore è acqua di
rose al
confronto!
Quella
sera non mangiò. Invece scoprì in quale stanza
dormiva Shikamaru e
si procurò un passepartout per entrare.
Se
si aspettava di trovare il marito, tuttavia, rimase delusa: la camera
era deserta, il letto in ordine, lo zaino chiuso su una sedia.
Già
era ridicolo che Shikamaru avesse chiesto una stanza per sé
sapendo
che lei era lì, ma essere in giro per il villaggio senza
nemmeno
salutarla rasentava i presupposti per il divorzio.
A
che gioco sta giocando?,
si chiese Temari.
Shikamaru
era troppo intelligente per non sapere che quel comportamento avrebbe
avuto delle conseguenze... Se nonostante ciò non lo
cambiava, voleva
dire che aveva un piano.
Io
avevo un piano per prima! Come osa pianificare contro il mio piano?,
si infuriò.
A
quel punto si lasciò cadere sul letto e incrociò
le braccia in
atteggiamento bellicoso. Al diavolo Shikamaru e i suoi piani malsani!
Pensava di evitarla? Credeva davvero di batterla sul suo
terreno?Povero illuso! Lo avrebbe aspettato fino al giorno dopo, se
fosse stato necessario...
Le
dita strette alle sue, contro il dorso della mano.
Il
leggero solletico dei capelli dietro la nuca, alternati ai baci e ai
morsi.
Il
calore del petto di Shikamaru contro la schiena, il suo respiro
caldo, il modo in cui la stringeva, aggrappato alla sua spalla in una
specie di abbraccio violento...
Uno
Shikamaru inedito e inebriante... Per una volta, una volta lontana,
quasi sparita nel ricordo...
Temari
si svegliò.
Sbatté
le palpebre alcune volte, ma il buio non se ne andava. Allora
capì
che era notte.
Si
tirò su sentendo la schiena indolenzita, si fregò
gli occhi.
Impiegò qualche secondo a ricordare che si era fermata ad
aspettare
Shikamaru, poi il suo stomaco le fece presente che non aveva cenato.
«Che
sonno pesante.»
Temari
fece un salto, voltandosi di scatto.
Seduta
su una sedia davanti alla finestra c’era la sagoma
inconfondibile
di un ciuffo ribelle, seguita poco più sotto dalla curva di
spalle
che conosceva meglio delle sue. Senza volerlo Temari sentì
il cuore
accelerare, ma lo costrinse a non agitarsi.
«E’
notte» disse, e avrebbe voluto essere altera e scocciata,
invece
sentì una nota tremula vibrare in gola.
«Ti
ho portato la cena» ribatté la voce di Shikamaru.
Nella fioca luce
che entrava dalla vetrata Temari lo vide sollevare un braccio verso
il tavolino, e intuì che sopra c’era un vassoio.
Il suo stomacò
brontolò sonoramente. «Dovrebbe
piacerti.»
Temari
si morse le labbra per non rispondere, visto che non era sicura della
propria voce. Quello che fece fu alzarsi dal letto, raggiungere il
tavolino con la maggiore dignità possibile e sedersi al buio
di
fronte a Shikamaru.
«Non
ci vedo» borbottò, cercando il piatto a tentoni.
«E’
questo il bello» sorrise lui – o almeno, dalla voce
sembrava che
sorridesse.
Temari
trovò le bacchette e scoprì la ciotola, lasciando
che nell’aria
si sprigionasse un aroma intenso di verdure e zenzero.
Arricciò il
naso, perché non era il suo piatto preferito, ma la fame
è fame:
con cautela sollevò la ciotola e mangiò,
distinguendo solo vaghi
contorni del piatto.
Però
che strano... A casa cucinava usando pochissimo zenzero. Shikamaru
non ne andava pazzo, lei nemmeno, e Chiharu era cresciuta
praticamente senza assaggiarlo... Perché sarebbe dovuto
piacerle?
Comunque
lo finì, e finì anche l’insalata di
accompagnamento e i datteri
come dolce. Nessuna di quelle cose era particolarmente di suo gusto,
cosa che Shikamaru doveva sapere bene... Qual era il suo scopo,
dunque?
«Perché
ti sei fatto dare questa stanza?» chiese Temari non appena
ebbe
posato le bacchette.
«Credevo
che saresti venuta a cena» disse Shikamaru, ignorando la sua
domanda. «Probabilmente avevo sottovalutato il tuo grado di
rancore... Devo essere un po’ arrugginito.»
«Non
era un invito di Gaara?»
«Non
proprio.»
«Che
cos’hai in mente?»
Shikamaru
si alzò, aggirando il tavolo.
«Prova
a pensarci...» sussurrò, portandosi alle spalle di
Temari e
chinandosi vicino al suo orecchio. «Hai già
mangiato questo
piatto.»
Temari
fremette.
«Conosci
già questa stanza...» continuò lui,
scivolando con la mano lungo
il suo braccio e su fino alla spalla.
Temari
trattenne il fiato, sentendo le labbra di Shikamaru sfiorarle
l’orecchio come non succedeva da anni.
«...Conosci
perfino il ragazzo che ti ha portato l’invito.»
Adesso
sentì distintamente le labbra di lui tendersi in un sorriso,
e in un
lampo capì tutto.
La
stanza era quella che Shikamaru aveva già avuto, diciotto
anni
prima; il cibo era lo stesso del ristorante in cui avevano cenato
quella volta, quando lei si era fatta offrire tutto; persino il
ragazzo, era lo shinobi biondo per cui lui ai tempi si era
ingelosito.
«Come
hai fatto?» tentò di chiedere Temari, ma Shikamaru
le voltò il
capo e la baciò prima che potesse finire la frase, spingendo
la
sedia contro la parete.
Il
respiro di Temari si mozzò in gola, tradito da un sussulto
di
sorpresa. Durò solo un istante, poi le sue mani andarono a
cercare
il collo di lui, avvinghiandosi avide alla maglia.
Sentì
le sue braccia attorno al collo, il suo respiro spezzato
nell’orecchio, e le sollevò la gamba fino al
fianco.
Temari
lo spinse indietro, alzandosi per baciarlo di nuovo. Affondò
le mani
nei capeli stretti dal codino, gli sfilò
l’elastico con uno
strattone.
Barcollarono
fino al letto, e lì Shikamaru fu spinto sul materasso.
Temari si
mise su di lui a cavalcioni, piegando la testa in cerca del suo
collo, mentre Shikamaru afferrava il bordo della maglietta e gliela
sfilava convulsamente. Poi, con un brusco colpo di reni
ribaltò le
posizioni, inchiodandole i polsi contro il materasso.
La
fermò prima di rendersene conto, afferrandola per un
braccio, e la
tirò bruscamente indietro.
«Ehi...!»
protestò lei, e lui la spinse contro il muro, quasi
violentemente,
bloccandole le braccia sopra la testa.
Temari
ansimò, inarcando la schiena.
Shikamaru
sorrise contro il suo collo, per poi mordere la carne tenera.
Oh,
che sensazione...
Diciotto
anni, un matrimonio e una figlia dopo... Diciotto anni per riprovare
lo stordimento di saperla in suo potere. La cosa aveva richiesto
giorni di elaborati preparativi e una fatica notevole, ma i risultati
erano all’altezza delle aspettative.
Sentirla
tra le sue braccia e sapere che non era lei a comandare. Sentirla
respirare sulla sua spalla e sapere che non era lei a decidere il
ritmo. Sentire la sua pelle sotto le labbra, e sapere che non era
calda per la doccia, ma perché erano le sue mani a renderla
tale.
I
baci di Shikamaru scesero lungo il petto, fino all’ombelico e
ancora più giù, verso i fianchi.
Le
dita di Temari si posarono sulle sue spalle, poi afferrarono la
maglia e gliela tolsero, per affondare le unghie sulla pelle libera
della schiena.
Shikamaru
risalì fino alla sua bocca, le prese il viso e la
baciò, scivolando
con le dita fino alle ciocche bionde alla base della nuca. Le
strinse.
«Sai
cosa manca» mormorò contro le sue labbra.
Temari
percorse con i palmi i contorni della sua schiena, avvolgendo le
braccia attorno alle sue spalle. Piegò le gambe,
serrò le ginocchia
attorno ai suoi fianchi e riprese quel tanto di controllo che bastava
per sorridere, mordendogli il labbro inferiore.
«Dopo
tutti questi anni ti servirà qualcosa in più di
un bacio e due
morsi...» chiosò.
Shikamaru
sorrise a sua volta, facendo scendere una della mani lungo il corpo
di lei.
«Non
ricordo di aver mai perso in una sfida contro di te» disse,
un’ombra
di divertimento nella voce bassa. «Vediamo quanto ci
vuole...»
Sorrise,
e la sua mano scivolò giù, lungo il fianco e poi
all’ombelico, e
sempre più giù.
Ed
eccolo, in un sussurro appena udibile e spezzato.
Il
suo nome.
Oggi.
«Ti
vedo sciupato.»
Shikamaru
alzò lo sguardo dai documenti che stava leggendo e
trapassò con gli
occhi la testa di Kankuro. Lui, per tutta risposta, fece un
sorrisetto furbo.
«Potrei
diventare di nuovo zio?» insisté.
«I
tassi di natalità in effetti si impennano in periodo di
guerra...»
mormorò Shikamaru tornando a ignorarlo.
A
dire il vero non si sentiva poi così stanco.
Sì,
dopo quella prima notte con Temari la loro vita di coppia aveva fatto
un notevole salto di qualità, e le repliche erano state
oltremodo
interessanti, ma per qualche strana ragione si sentiva molto
più
riposato che se avesse dormito tutte le notti. Riposato e sereno, il
che era piuttosto controproducente se si considerava che la Roccia
stava ammassando i suoi eserciti e la Sabbia era completamente
impreparata a sostenere un conflitto.
«Dove
hai messo i dati demografici?» domandò Shikamaru,
frugando tra i
fogli della scrivania.
Kankuro
si alzò dalla sua sedia e lo aiutò a cercarli,
mettendo da parte le
battute sulla vita sessuale della sorella.
In
quel momento stavano cercando di delineare con precisione la
situazione militare del paese del Vento.
Dopo
la liberazione di Loria era stato necessario rifornire tutti i
magazzini, censire gli shinobi, recuperare quelli a cui era stato
suggerito di restare a casa, capire a che punto era
l’addestramento delle nuove reclute, come erano messi ad armi
e
soprattutto se c’era ancora fiducia per il governo, dopo
tanti anni
di mala gestione imposta dalla Roccia.
Era
un lavoro enorme e difficile. Gaara, d’accordo con Naruto,
aveva
pensato di chiedere la consulenza di Shikamaru per portarlo a termine
intanto che lavoravano sul coordinamento logistico. I coniugi Nara
avevano accolto la proposta praticamente come una seconda luna di
miele.
«Temari
è andata a valutare i ragazzini della Scuola?»
chiese Kankuro,
tendendo il fascicolo sui dati demografici a Shikamaru.
«Sì,
dovrebbe finire a breve» rispose lui afferrandolo.
«Speriamo che
non siano completamente senza speranza...»
«Quelli
semmai sono i vostri mocciosi. Alla Sabbia li tiriamo su come si
deve.»
«Vedo»
Shikamaru gli lanciò un’occhiata di sbieco.
«Io
pure» replicò Kankuro con un ghigno.
Forse
Shikamaru avrebbe avuto di che ribattere, ma prima che potesse farlo
qualcuno aprì la porta della stanza e fece irruzione senza
bussare.
«L’abbiamo
evocata!» esclamò Kankuro, incrociando il saluto
della sorella.
Temari
lo fissò, a metà tra l’irritazione e la
perlessità, ma decise di
ignorarlo. Quindi raggiunse la scrivania di Shikamaru, ci
piazzò le
mani sopra e sbuffò sonoramente.
«Sono
tutti incapaci» annunciò senza giri di parole.
«Traditrice
del tuo sangue!» inorridì Kankuro.
«Tu
perché sei qui?» lo fulminò lei.
«Sto
aiutando Shikamaru con la logistica.»
Temari
assottigliò gli occhi verdi.
«Bene.
Adesso proseguo io.»
Kankuro
passò lo sguardo da lei a Shikamaru, che fingeva di
ignorarli con il
naso affondato in un fascicolo. Accarezzò l’idea
di fare qualche
battuta particolarmente pungente, poi realizzò che se Temari
lo
sostituiva significava avere il pomeriggio libero.
«Come
vuoi» disse quindi, alzando le mani in segno di resa.
«Sai com’è
il detto, no? Tra moglie e marito...»
«Sì,
prima di citare una roba del genere trovati una moglie» lo
stroncò
Temari.
Con
una smorfia di suprema offesa, Kankuro se ne andò
borbottando
indignato.
La
porta si richiuse mentre Shikamaru abbassava i fogli da davanti al
naso.
«Sono
davvero così impreparati?» chiese preoccupato.
«Sì.
No... Insomma, non sono male per essere ragazzini, ma in una guerra
sarebbero carne da macello. Non mi hai salutato.»
Shikamaru
fece un sorriso sghembo, abbassando lo sguardo dal suo viso alla
scollatura, che lei insisteva nel proporgli così
generosamente.
«Bentornata.»
Temari
ricambiò il sorriso, passando all’altro lato della
scrivania.
Senza chiedergli il permesso gli sfilò di mano i documenti
che stava
leggendo per scorrerli con lo sguardo.
«Sono
poco longevi a Suna» commentò, voltando le pagine
fino all’ultima.
«E fanno pochi figli.»
«Sai,
fa caldo» rise Shikamaru, facendo scivolare una mano lungo la
sua
coscia e fino al fianco.
«Non
sembra essere un grave problema, per te» mormorò
lei, senza
voltarsi. «Almeno di recente. No, veramente non è
un grave problema
per molti...» aggiunse poi rabbuiandosi.
«A
chi stai pensando?» la mano di Shikamaru si
intrufolò sotto il
bordo della sua maglietta, solleticando la pelle della schiena.
«Allo
schifoso voltagabbana.»
«Baka
Akeru?»
«Non
pronunciare il suo nome, mi viene l’orticaria!»
Shikamaru
tirò indietro la mano e sospirò. Se
c’era una cosa che in quei
giorni poteva distrarre Temari da lui era solo lo sciagurato
contratto tra Akeru e Chiharu.
«Non
credo che Chiharu si conceda a qualcuno così facilmente, se
è
questo che pensi» disse. «Più
probabilmente lo ha raggirato in
qualche modo oscuro.»
«Ma
lui si è fatto raggirare perché pende dalle sue
labbra» mugugnò
Temari, mettendo giù il foglio e appoggiandosi alla
scrivania con un
fianco. «Tu non hai dovuto sentirlo dire ho pensato
di saltarle
addosso, poi la mia etica ha avuto la meglio... Se fossi
stato al
mio posto avresti usato lo strangolamento
dell’ombra.»
«Può
darsi» mormorò Shikamaru. «Ma ha anche
detto di non averla
toccata.»
«Sì,
quella volta.»
«Ripeto:
Chiharu è troppo concentrata su se stessa per pensare di
cedere alle
avances di qualcuno. È sempre tua figlia,
dopotutto.»
Temari
inarcò le sopracciglia con intenzione. «In che
modo questo dovrebbe
rassicurarmi?»
Shikamaru
ricordò i loro primi turbolenti incontri, e in effetti si
rabbuiò
leggermente. «Beh... Speriamo che sia anche figlia mia e
mantenga un
po’ di buonsenso.»
«Ti
ricordo che siamo diventati genitori a diciotto anni.»
Shikamaru
accusò il colpo, incassando la testa tra le spalle.
«Allora spero
che la guerra la distragga a sufficienza da non pensare agli
uomini.»
Né
lui né Temari, a causa del foglio sulla privacy firmato da
Chiharu,
sapevano che lei non sarebbe stata coinvolta nella prossima guerra.
Non
sapevano nemmeno che Baka Akeru aveva rischiato la sua carriera per
lei, o che Hitoshi Uchiha vagava attorno alla figlia come un falco
sulla preda.
Ma
soprattutto non sapevano che Yoshi aveva fatto il nome di Chiharu...
Perché in quel caso, sicuramente, avrebbero raccolto armi e
bagagli
per correre a Konoha, invece di ravvivare la loro relazione a Suna.
E
forse, se lo avessero fatto, le cose sarebbero andate diversamente...
*
* *
I
resti carbonizzati del sottobosco mandavano ancora lievissime spire
di fumo.
La
squadra Anbu era arrivata rapidamente, ma quando avevano raggiunto il
punto da cui erano scaturite le fiamme non era rimasta che una nuvola
nera e acre.
Non
avevano capito cosa fosse bruciato, non c’erano resti
più grossi
di una nocciola.
Konohamaru
studiò il perimetro dell’area in cerca di tracce,
invano. Spedì
alcuni dei suoi uomini in avanscoperta, nel caso in cui ci fossero
segni in un raggio più ampio, ma tornarono tutti a mani
vuote.
L’unica
cosa che poterono riferire a Naruto fu che l’aria era satura
di
ozono e zolfo, un odore inconfondibile.
Chiharu
arricciò il naso rientrando in casa.
Nonostante
sua nonna si fosse occupata di arieggare le stanze e tenerle pulite
nei giorni in cui la casa era rimasta vuota, le sembrava che ci fosse
un cattivo odore. Come di uovo marcio, o di zolfo. Probabilmente
erano tutte le medicine che prendeva, si disse... Le lasciavano
sempre un saporaccio in bocca.
Shikaku,
entrando dietro di lei, andò ad aprire le finestre del
salotto per
far entrare un po’ di luce.
«Carina.
Posso vedere la stanza degli ospiti?» domadò la
voce di Fay alle
sue spalle.
Chiharu
quasi sussultò: aveva dimenticato che la sua nuova guardia
del corpo
sarebbe diventata anche la sua coinquilina.
Con
un pizzico di inquietudine si voltò a guardarla, e non
poté fare a
meno di pensare che stavolta era proprio in trappola.
Fay
si era portata una borsa di vestiti, che teneva appesa a una spalla
con noncuranza. Si guardava attorno con l’espressione
fintamente
annoiata di chi sta registrando tutti i dettagli, e in una mano
teneva la sigaretta accesa.
«Non
fumare in casa» borbottò Chiharu, facendosi
avanti. «Spegni quella
roba e vieni con me. Ti faccio vedere dove dormirai.»
«Come
hai osato?»
La
voce di Naruto risuonò lungo il corridoio, facendo trasalire
Koichi
alla sua scrivania. Nonostante la porta dell’ufficio fosse
chiusa,
riecheggiava come se fosse stato a un metro di distanza.
Sakura,
seduta sulla sedia dell’Hokage davanti a un elenco dei
rifornimenti
dell’ospedale, impiegò meno di un secondo per
capire a cosa si
riferisse. Allora raddrizzò le spalle e sollevò
il mento.
«Sono
il diretto superiore del medico curante di Chiharu. L’ho
dimessa
perché lo ritenevo giusto» disse sostenuta.
«Non
sto parlando di quello, e tu lo sai benissimo!» Naruto
avanzò a
grandi passi, sbattendo le mani sulla scrivania.
«L’hai messa
sotto sorveglianza!»
«Sì,
mi sembra il minimo.»
«Potevi
tenerla in ospedale, invece di mandarla via con un cane da guardia
travestito! Pensi che non capisca cosa vuoi fare? E poi
perché
diavolo lasciarla andare?»
Sakura
intrecciò le dita delle mani. «Perché
Yoshi ha fatto il suo nome.»
Naruto
si immobilizzò.
«Cosa?»
«Me
lo ha riferito Baka. Yoshi l’ha tirata in ballo, ma non ha
spiegato
in che modo è coinvolta. Io devo sapere cosa
c’entra con quella
faccenda, e l’unico modo che abbiamo per farlo è
illuderla che
vada tutto bene.»
«Potrebbe
averla nominata per creare confusione...» tentò
Naruto.
«Sì,
certo. Ma devo esserne sicura» Sakura lo fissò.
«Naruto, anche tu
eri d’accordo con me.»
«Nel
mandarla lontano dalle cure mediche di emergenza, con un uomo di
Sasuke e due Anbu a sorvegliare la casa? No, non era proprio questo
che avevamo detto.»
«Una
donna di Sasuke» lo corresse lei.
«Sakura!»
Bussarono
alla porta dello studio, e proprio Sasuke entrò senza
attendere
risposta.
«Mi
fischiano le orecchie...» mormorò studiando
Naruto. «Cos’hai da
lamentarti oggi?»
Naruto
serrò entrambi i pugni, lanciando occhiate di fuoco agli ex
compagni
di gruppo.
«L’Hokage
sono io!» esclamò.
«Dovete finirla di fare le cose alle mie
spalle. Voglio l’ultima parola su qualunque decisione esca da
questo studio, soprattutto quando riguarda i miei
allievi.
Sono stufo di essere scavalcato. Se Kakashi avesse voluto nominare
voi Hokage, lo avrebbe fatto.»
Sasuke
scambiò un’occhiata con Sakura, e la vide
abbassare lo sguardo a
disagio.
Avevano
discusso parecchio di quella faccenda. Per Sasuke Naruto era
perfettamente in grado di fare il suo lavoro e andava solo riportato
a terra quando prendeva la tangente, ma per Sakura il loro compito
era quello di istruirlo sulle sottigliezze del potere e impedire che
ragionasse come aveva sempre fatto. Sasuke aveva obiettato un
po’,
ma alla fine si era detto che Naruto avrebbe dimostrato da solo quel
che sapeva fare.
Ora,
invece, gli veniva qualche dubbio.
«Naruto,
cosa avresti suggerito di fare con Chiharu?»
domandò.
Naruto,
colto alla sprovvista, boccheggiò per un istante.
«Beh, appena
avessi avuto un po’ di tempo le avrei parlato... Stavo
già
organizzando...»
«Per
dirle?»
«Non
è che mi preparo i discorsi in anticipo!»
Sasuke
sospirò, chiudendo gli occhi. «Naruto, questa non
è una situazione
normale» disse con calma. «Forse hai bisogno di un
po’ di aiuto.»
«Un
po’ di aiuto non significa fare le cose alle mie
spalle!»
Sasuke
guardò Sakura, che arrossì. «No, non
significa fare le cose alle
tue spalle» ammise. «Non accadrà
più.»
Naruto
sbuffò, passandosi una mano tra i capelli già
spettinati.
Oh,
era così difficile mettere in pratica i bei discorsi fatti a
Jiraya... Anche se aveva mandato tre delegazioni di ambasciatori in
giro per le grandi Terre, non gli sembrava che il suo piano per
interrompere la guerra stesse dando grandi frutti; in più
Sakura e
Sasuke si comportavano come il peggiore degli insubordinati, e non
era riuscito a parlare con Chiharu perché gli era sparita da
sotto
il naso.
Su
una cosa Sasuke aveva ragione: quella non era una situazione normale,
nemmeno per un Hokage.
«Maledetto
Kakashi...» mormorò, sfregandosi la fronte.
Dalla
porta, rimasta socchiusa dopo l’arrivo di Sasuke, si
affacciò
Koichi con sguardo esitante.
«Perdonate
il disturbo» disse tossicchiando. «Konohamaru
è tornato dalla
perlustrazione nella foresta. Lo faccio aspettare?»
«Anche
questa...» Naruto prese un respiro profondo. «No,
fallo entrare.
Sakura, alzati dalla mia sedia. Andrò da Chiharu appena
avrò
tempo.»
«Mettiti
comoda, io continuo ad aprire le finestre» disse Chiharu,
dopo aver
fatto vedere la stanza degli ospiti a Fay.
Ma
lei sorrise, lasciando cadere la borsa con i vestiti al centro del
pavimento, e insisté per aiutarla.
Allora
è così che andrà?,
si domandò Chiharu, trovandosela attaccata alla schiena. Mi
starai appiccicata qualunque cosa io faccia? Va bene, se è
questo
che vuoi... Ma da me non caverai proprio niente.
Anche
perché non c’era niente da cavare.
Insieme
a Shikaku aprirono tutte le imposte e arieggiarono i locali. Al
termine dell’operazione Shikaku invitò Chiharu e
Fay da Yoshino,
ma Chiharu rifiutò: l’idea di sottoporsi subito
all’interrogatorio
della nonna non la entusiasmava particolarmente. Nemmeno
l’idea di
restare sola con Fay era esaltante, ma di recente il convento passava
solo quello.
«Sono
stanca» disse, simulando una spossatezza che non provava.
«Magari
domani verrà a trovarmi, va bene? Adesso voglio solo
riposare un
po’... Fay è un dottore, impedirà che
io muoia di infarto sul
pavimento. Giusto, Fay?»
Fay
sorrise. «Può stare tranquillo.»
Shikaku
guardò le due ragazze senza nemmeno la più vaga
ombra di
tranquillità. Tuttavia sapeva con certezza che se avesse
insistito
per restare non avrebbe cavato un ragno dal buco, così, per
l’ennesima volta, dovette cedere e abbandonare il campo.
Yoshino lo
avrebbe massacrato.
Fay
e Chiharu allora rimasero sole per la prima volta.
Probabilmente
ci sono degli shinobi anche all’esterno,
rifletté Chiharu, tornando nella sua camera con la scusa di
un mal
di testa. Sono
praticamente prigioniera in casa mia.
D’altronde,
c’erano posti dove sarebbe voluta andare? Per fare cosa, poi?
Appunto:
cosa poteva fare adesso, a parte aspettare il ritorno dei suoi
genitori e farsi ammazzare da Temari per aver rovinato la reputazione
della famiglia?
«Scusa,
posso entrare?»
Chiharu
scrutò la porta infastidita. Così era un
po’ troppo, però.
«Ho
mal di testa, ti ho detto» bofonchiò.
«Chi
meglio di un dottore, allora?»
Fay
entrò senza attendere il permesso, ricevendo
un’occhiata di fuoco.
Impassibile, si avvicinò al letto di Chiharu e
depositò sulla sua
scrivania una mole di medicinali impacchettati.
«Devo
prenderti i parametri tre volte al giorno» le
ricordò, tirando
fuori un apparecchio per la pressione. «E segnalare ogni
anomalia...
Incluse le emicranie.»
Chiharu
roteò gli occhi e allungò il braccio, senza
muoversi dal letto. Di
certo non le avrebbe facilitato il lavoro.
Fay
non si lasciò impressionare dalla scarsa collaborazione. Si
sedette
sul bordo del letto per misurarle la pressione. Mentre lo faceva,
scansionò con cura tutte la parte di camera cui riusciva ad
arrivare
senza farsi notare.
«Il
mal di testa migliora stando sdraiata?» chiese in tono
colloquiale,
gonfiando il bracciolo per la pressione.
«No.»
«Poi
ti do qualcosa, allora. Prima vediamo questo...»
Gonfiò
fin quasi a stritolarle il braccio, il che fece capire a Chiharu che
l’avevano addestata a farlo solo negli ultimi giorni, e poi
mollò
la valvola dell’aria con lentezza esasperante.
«E’
regolare. Fammi sentire il battito... Hai una stanza poco
femminile.»
«Lo
so» borbottò Chiharu, mentre la sentiva cercare le
arterie del
polso con dita incerte.
Va
bene tutto, ma io sono esperta di medici... Come diavolo hanno
pensato di fregarmi con questa qui?
«Scusa,
sono un po’ maldestra... Sai, sono solo una
tirocinante» disse Fay
a mo’ di giustificazione. «Sei stata ricoverata a
lungo, ho visto»
continuò, arrendendosi con il polso e passando direttamente
all’auscultazione del petto. «E prima eri
lontana... Ti hanno
aggiornato sulla guerra con la Roccia?»
«So
della dichiarazione» tagliò corto lei.
«Sai
anche che il tuo amico Yoshi è in stato di fermo, sospettato
di
spionaggio?»
Chiharu
trasalì in maniera perfettamente naturale, perché
proprio non si
aspettava un attacco così presto. In un istante
realizzò che il suo
cuore aveva triplicato i battiti e Fay lo stava ascoltando in
diretta.
«Hanno
arrestato Yoshi?» alitò, simulando uno choc
piuttosto convincente.
«Ma come... Quando?»
«Alcuni
giorni fa» Fay studiò il suo viso quasi
morbosamente. «C’è
stata una segnalazione. Lui non ha collaborato.»
«Ma...
perché? Che genere di segnalazione?»
Un
lampo guizzò negli occhi di Fay, e Chiharu capì
che non doveva
mostrarsi troppo curiosa, non ancora.
«E’
assurdo!» sbottò, allontanando il braccio che
ancora la visitava e
tirandosi a sedere. «Yoshi è un mio amico, non mi
ha mai dato
ragione di sospettare che fosse un traditore!»
«E’
questo che fanno le buone spie. Non sollevano sospetti»
ribatté
Fay, in tono francamente un po’ petulante.
Non
come te,
pensò Chiharu in un impeto di ribellione interiore. Distolse
lo
sguardo, passandosi una mano tremante sulla bocca.
«Non
ci credo. Ha confessato? E’ davvero una spia?»
«Qualcosa
ha detto...» Fay lasciò la frase in sospeso,
studiandola, ma
Chiharu non si fece fregare. Invece si stropicciò il viso
con le
mani.
«Non
riesco a crederci» continuò, come se
l’insinuazione di Fay non la
riguardasse. «Era al primo anno di Accademia! Come avrebbe
fatto? E
i controlli... L’avrenno controllato prima di permettergli
l’iscrizione.»
«Le
buone spie non sollevano sospetti.»
L’hai
già detto.
Chiharu
la guardò, sfoderando la sua miglior faccia di innocente
preoccupazione. «Devo essere interrogata anche io?»
«Forse»
le concesse Fay.
Chiharu
annuì, come stordita. «Certo... Quando volete. Ma
è assurdo.
Dev’essere un errore...»
Fay
si strinse nelle spalle, sospirando un po’.
Le
reazioni di Chiharu erano compatibili con una genuina sorpresa e un
po’ di paura per sé stessa. Non le sembrava di
vedere senso di
colpa o terrore, che l’avrebbero messa più in
allarme; d’altro
canto aveva bisogno di più tempo per coglierla in flagrante
– se
c’era qualcosa da cogliere – e
quell’attacco serviva solo per
saggiare le sue reazioni a caldo.
«Adesso
non pensarci» le disse, alzandosi in piedi. «Ti do
una cosa per il
mal di testa e ti lascio riposare.»
«Sì,
per favore. Il dolore è decuplicato negli ultimi due
minuti...»
gemette Chiharu coprendosi gli occhi con una mano.
Fay
le preparò un bicchiere d’acqua insieme alle
pastiglie. Apettò
che prendesse entrambi, rimise in ordine i blister sulla scrivania,
quindi socchiuse le persiane e finalmente la lasciò sola.
Chiharu
attese che la porta scorresse nelle guide separandola da Fay, e solo
in quel momento si concesse di aggrottare la fronte, facendo lavorare
febbrilmente il cervello.
Se
non fosse stato per Akeru, adesso sarei nei sotterranei del
dipartimento insieme a Yoshi,
realizzò.
Già
gli doveva la vita per averla letteralmente riportata indietro dopo
l’evocazione del chakravakam, ora gli doveva anche la
libertà per
essersi dimostrato leale nonostante i suoi sospetti... Era un genere
di devozione a cui non era abituata. Nessuno tra i suoi conoscenti si
comportava così.
Avvertì
un crampo allo stomaco, che la spinse a rannicchiarsi su un fianco.
Essere di nuvo nella sua stanza riduceva lievemente
l’angoscia
provata in ospedale, ma non riusciva a cancellarla del tutto.
Anche
se Akeru la stava proteggendo, se Yoshi avesse deciso di tirarla in
mezzo lui non avrebbe potuto fare niente – anzi,
probabilmente
avrebbe passato dei guai insieme a lei.
A
proposito di Yoshi... Era riuscita a non pensarci fino ad ora, ma
dopo il mezzo interrogatorio di Fay non riusciva più ad
arginarlo.
Così, i pensieri fluirono incontrollabili.
Perché
l’aveva avvicinata? A quale scopo? Lei non gli aveva mai dato
nessuna informazione importante. Avrebbe avuto più senso se
l’avesse
uccisa, quando aveva scoperto che spiava l’ufficio
dell’Hokage...
Perché invece l’aveva invischiata nel suo gioco?
E
tutto il tempo che avevano passato insieme, i loro discorsi, i pranzi
condivisi... Tutto falso! Un’abile messinscena per
conquistare la
sua fiducia e poi... e poi boh. Non aveva idea di quale potesse
essere il suo scopo.
Se
erano le informazioni che cercava, io ero un ostacolo,
si disse. Non
era quello il suo obiettivo.
D’altronde,
nemmeno parlare di lei a Baka sembrava una mossa sensata.
Ma
allora a cosa puntava?
Di
nuovo il crampo allo stomaco. Piegò le ginocchia contro il
petto,
mordendosi le labbra. Non credeva che fosse colpa delle medicine...
Era qualcosa di diverso, qualcosa che non aveva mai provato prima.
Era
il profondo senso di sconforto nello scoprire che qualcuno a cui
teneva si era servito di lei. Il dolore fisico del tradimento e
dell’umiliazione.
Anche
Naruto e Sakura avevano provato la stessa cosa, quando Sasuke se ne
era andato?
Chiharu
stritolò la maglietta tra le dita, rivedendo dietro le
palpebre
serrate tutti i sorrisi che Yoshi le aveva rivolto, il cibo che gli
aveva comprato, gli origami che gli aveva spedito in aula...
Tutto,
tutto, tutto falso.
Finalmente
quella consapevolezza le invadeva la testa, si faceva strada oltre le
sue barriere e i blocchi, squarciando certezze e comode abitudini...
Come un’ondata di piena distruggeva i suoi muri interni,
lasciando
sulla strada soltanto macerie.
Non
è mai stato mio amico. Non è mai stato nemmeno
mio compagno. Io non
sono mai stata nulla per lui.
La
mano che si stringeva allo stomaco salì fino alla faccia,
nascondendola sotto il braccio ripiegato.
Fa
male...
* * *
Buongiorno a tutti!
Sono in ritardo.
Ma ho un'ottima giustificazione:
ho traslocato e sono momentaneamente priva di internet!
Il che significa che scrivo di più
ma fatico a pubblicare.
Ad ogni modo, spero che stiate tutti bene.
In questo capitolo succedono un sacco di cose,
tra cui il ritorno di vecchi spezzoni da Sinners
(controllate pure, sono proprio copia-incolla Shikatema!)
e l'introduzione di eventi che boh neanche io so bene cosa siano
(la storia del fumo nella foresta).
Da qui in poi sarà difficile avere capitoli di transizione,
almeno per un pochino,
perché presto ripartiamo con le botte da orbi.
Non vedo l'ora!
<3
Grazie a tutti voi che ancora seguite questa storia.
Mi scuso sempre per i ritardi,
vorrei davvero essere più costante,
ma vivendo da sola è dura...
A proposito, ho lasciato a casa i disegni che vi avevo promesso,
che quindi non ho potuto scannerizzare.
Sono una bruttissima persona.
Prima o poi li metto, ve lo giuro.
Spero di farmi risentire prestissimo!
Un abbraccio.
Susanna
|
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Capitolo 41 *** Solo un gioco ***
Penne 41
Capitolo
quarantunesimo
Solo
un gioco
Sasuke
scrutava Konoha dalla finestra dello studio dell’Hokage, le
braccia
incrociate e i fianchi appoggiati alla scrivania.
Non
era sicuro di stare agendo per il meglio... Aveva il sospetto che
avessero frainteso qualcosa del loro ruolo.
Ci
aveva riflettuto dopo che si era riconciliato con Sakura, quando
aveva trovato il tempo di pensare a qualcosa che non fosse solo se
stesso, gli Uchiha e il suo marchio. Si era chiesto perché
Kakashi
avesse voluto circondare Naruto di persone così diverse tra
loro, e
aveva concluso che non era per guidarlo, come sosteneva Sakura.
Più
probabilmente c’erano dietro dei giochi politici.
Alla
moglie non lo aveva detto, ma da quando Kakashi se ne era andato
aveva ricevuto un paio di visite da eminenti consiglieri di Konoha,
che gli avevano proposto di organizzare un golpe e prendere il posto
di Hokage. Per aiutarlo offrivano il sostegno di alcune famiglie
influenti e in cambio chiedevano una fetta di potere.
Sasuke
sospettava che qualcosa del genere fosse successo anche a Shikamaru
–
probabilmente persino più spesso, visto che lui non era un
ex
traditore riabilitato per il rotto della cuffia – ma non
glielo
aveva mai chiesto.
In
effetti Naruto doveva essere una bella gatta da pelare per il
Consiglio... Impulsivo, arrogante, completamente refrattario alle
regole della gerarchia; non riusciva a immaginare niente di
più
ingestibile. Tanto più che era uno di quei rari uomini che
nella
vita potevano dire di essere riusciti a realizzare il proprio sogno,
e dato che non era mai stato un tipo modesto questo gli aveva montato
la testa.
Forse
Kakashi aveva voluto che loro tre affiancassero Naruto per difenderlo
proprio da questi intrighi politici, di cui lui non capiva e non
avrebbe mai capito niente... Oppure la verità era
semplicemente
banale, ed erano lì come rete di salvataggio nel caso in cui
fosse
successo esattamente quello che stava succedendo: la situazione si
era complicata, Kakashi non poteva dare aiuto e Naruto iniziava ad
essere in difficoltà.
Ma
quello non era il modus operandi
di Kakashi...
«A
che pensi?»
Una
mano si posò sulla sua schiena, scivolando poi fino alla
vita per
stringerlo delicatamente. Sakura, del cui ingresso Sasuke si era
accorto ai margini della coscienza, posò la testa sulla sua
spalla e
cercò di capire cosa stava guardando.
«Penso
a Naruto» rispose lui senza girarci intorno.
Sakura
si irrigidì e ritirò la mano. Lei e Sasuke non
avevano le stesse
idee riguardo a quell’argomento, e al momento preferiva
proprio non
parlarne, visto che era ancora arrabbiata per come Naruto aveva
giudicato la sua gestione del caso Chiharu. Erano passati alcuni
giorni dall’incidente, ma evidentemente erano ancora troppo
pochi.
Sasuke
si accorse della rigidità di Sakura e chiuse gli occhi.
«Sto
pensando anche a Fugaku e Hitoshi» disse per cambiare
argomento.
«Hitoshi sta cercando di riavvicinarsi.»
«L’ho
notato anche io» Sakura fece un mezzo sorriso. «Ma
già sapevo che
sarebbe stato lui: Fugaku è il più orgoglioso dei
due.»
Sasuke
avrebbe potuto spiegarle le dinamiche nelle famiglie numerose, ma
lei, che era figlia unica, non avrebbe capito che il primogenito
aveva molti doveri nei confronti dei minori, e che i minori questi
doveri li sentivano meno... E comunque per farlo avrebbe dovuto
tirare fuori l’argomento Itachi, la qual cosa non gli piaceva.
«Non
sarà semplice» disse invece. «Sono molto
competitivi...»
«Ma
non mi dire!» Sakura finse enorme sorpresa. «Da chi
avranno mai
preso?»
Sasuke
incurvò un angolo della bocca. «E’ nel
sangue degli Uchiha...»
«Dopotutto,
così come ha controllato quel marchio riuscirà a
controllare ogni
cosa. E' nel sangue degli Uchiha.»
Un
ricordo improvviso, la voce di Ryuichiro.
Era
qualche tempo che non lo vedeva... Chissà come stava?
Meditabondo,
Sasuke si accarezzò involontariamente il collo, dove il
marchio di
Orochimaru gli segnava indelebilmente la pelle.
Forse
era giunto il momento di andare a cercare il nipote.
Ma
Sasuke non poteva trovare Ryuichiro, perché Ryuichiro, in
quel
momento, era nel posto meno probabile di tutti: in piedi accanto al
letto di Kakashi.
Aveva
aspettato che la stanza fosse vuota perché nessuno lo
vedesse
entrare, e adesso stava immobile, le mani in tasca. Una sola ruga,
sottilissima, si disegnava verticalmente tra le sue sopracciglia.
Kakashi
non dava segni di ripresa. Sempre pallido, attaccato a una flebo dopo
l’altra, sembrava addormentato come Biancaneve. Forse
sognava, o
forse era intrappolato nel proprio corpo... Gli Aburame che erano
stati interpellati come consulenti non avevano saputo dare una
risposta certa.
La
porta si aprì all’improvviso, e Ryuichiro si
voltò di scatto,
colto di sorpresa.
Sulla
soglia, lievemente interdetto, Jin incrociò il suo sguardo.
«Salve»
disse Ryuichiro per primo, con un sorriso di scuse. «Mi
dispiace,
credevo non ci fosse nessuno.»
«Sono
appena tornato da una missione» spiegò il
ragazzino, entrando con
aria guardinga.
In
quei giorni faceva da scorta per i gruppi di ambasciatori che Naruto
aveva sguinzagliato in giro per le grandi Terre. Anche se una parte
di lui avrebbe preferito restare accanto al padre, sapeva che
lavorare lo avrebbe aiutato a mantenere la lucidità.
«Perché
è qui?» domandò in atteggiamento
guardingo, adottando
involontariamente il lei.
«Stavo
cercando Sasuke. In commissariato non c’era, mi hano detto di
provare in ospedale. Ma qui non c’è nemmeno sua
moglie, e
trovandomi a passare...» Ryuichiro si strinse nelle spalle.
«Mi
dispiace, ero solo curioso.»
Jin
lo scrutò ancora per un istante, poi distolse lo sguardo.
«Non è
un problema.»
Non
era il primo che veniva a trovare Kakashi per curiosità, e
in ogni
caso lui non percepiva minacce. Solo un certo imbarazzo.
Jin
sapeva quasi tutto di Ryuichiro, ovviamente: per tutta la vita si era
sentito ripetere che era simile a Itachi, il traditore morto
tragicamente per mano di Naruto, e quando era spuntato
l’erede e
fotocopia del defunto Itachi aveva voluto studiarlo per bene.
Però
non era riuscito a capire granché... Ryuichiro non era uno
shinobi;
non aveva niente del grande Itachi, neanche un tratto che lo
ricollegasse a lui – a parte la somiglianza impressionante.
Così,
presto Jin aveva perso interesse, e ora poteva dire in tutta
onestà
che gli prestava attenzione per la prima volta dopo tantissimo tempo.
Ma
anche Ryuichiro, a modo suo, era interessato a Jin. Le voci a Konoha
correvano veloci, e non era dovuto passare molto tempo prima che alle
sue orecchie arrivassero i paralleli tra il figlio del sesto Hokage e
il padre che non aveva mai conosciuto. Un po’ di
curiosità era
naturale.
Ryuichiro
rimase fermo a guardare Jin che si toglieva il marsupio. Lo vide
posarlo sulla sedia con movimenti precisi, lo vide slacciare le
protezioni attorno ai polsi e lasciarle accanto al marsupio, lo
studiò mentre inclinava il collo per tendere un muscolo
contratto.
Anche
Itachi aveva avuto quella precisione nei movimenti, o era una
caratteristica comune a tutti i ninja?
No,
capì quasi subito. Jin aveva qualcosa di speciale, quello
stesso
qualcosa che probabilmente doveva aver avuto anche suo padre...
In
qualche modo quella consapevolezza glielo fece sentire più
vicino,
meno alieno.
«Veramente
sono venuto per lo sharingan di Obito Uchiha»
confessò.
Jin
tornò a guardarlo. «Lo sharingan di mio
padre?»
«Sì»
Ryuichiro annuì, senza abbassare gli occhi.
«È straordinario che
una persona comune, senza una goccia di sangue Uchiha, abbia potuto
padroneggiare una tecnica oculare ereditaria. Kakashi Hatake deve
essere uno shinobi straordinario.»
«Infatti
è il sesto Hokage» Jin lo disse quasi come se
stesse parlando a un
idiota.
Ryuichiro
fece un sorriso quasi impercettibile, da vero Uchiha, uno di quelli
che a Sasuke non mostrava. «Ciò che si tramanda
nel sangue va ben
oltre le cariche elettive» disse lentamente. «Se un
uomo come
Kakashi Hatake fosse nato nella casata Uchiha, sarebbe stato uno
shinobi di altissimo livello.»
«Può
darsi...» borbottò Jin, a disagio.
«Intendo, più di adesso –
che comunque è praticamente il livello massimo a cui
può aspirare
uno shinobi...»
Ryuichiro
allargò il sorriso, socchiudendo gli occhi quasi con
tenerezza. «Mi
scuso ancora per la visita inattesa. Vi lascio soli.»
Jin
annuì e salutò senza cercare di trattenerlo. Il
disagio provato nel
trovarlo lì non si era ancora attenuato, anche se poteva
semplicemente essere dovuto all’intrusione nel suo momento
con
Kakashi... Tuttavia si sentiva sollevato al pensiero che Ryuichiro
andasse via.
Uscendo,
i due si scambiarono un ultimo sguardo.
Dopotutto
non era nemmeno nato, quando mio padre è morto,
pensò Ryuichiro, perdendo interesse.
Nel
sangue degli Uchiha c’è sicuramente qualcosa di
malato,
pensò Jin.
Kakashi
continuò a dormire, senza pensare a niente.
La
brezza tiepida di giugno era carica di profumi.
Dopo
tutti i giorni trascorsi in ospedale persino l’odore della
terra
sembrava un balsamo al naso di Chiharu, ma gli aromi che venivano dal
bosco dei Nara quasi la stordivano. Era un vero peccato che dovesse
studiare, invece di appisolarsi sotto un albero.
Alla
fine aveva deciso di fare qualcosa: visto che era inchiodata a casa
con il cane da guardia, si era detta che poteva investire qualche ora
del suo tempo nel capire come funzionava un cuore umano e cosa non
andava nel suo in particolare.
L’idea
le era venuta pensando al contratto che aveva firmato con Baka e a
tutte le cose che Sakura aveva detto sarebbero potute andare storte.
Quante e quali erano? Cosa aveva rischiato? Cosa stava rischiando?
La
medicina era l’unico ramo della conoscenza che non avesse
quasi mai
sfiorato, a parte le lezioni di anatomia all’Accademia. In
quei
giorni aveva capito che probabilmente era perché non voleva
davvero
sapere quanti danni stava facendo a se stessa, ma dopo il discorso di
Jiraya in ospedale aveva iniziato a pensare che ci fossero motivi per
preoccuparsi. E se c’era una preoccupazione, allora doveva
pensarci
alla maniera dei Nara.
Insieme
a Fay aveva chiesto di visitare la biblioteca dell’ospedale
– la
stessa che quasi vent’anni prima aveva ospitato il primo
bacio di
Naruto e Sakura. Lì aveva preso una manciata di volumi di
medicina
per principianti e se li era portati a casa, riempiendo il salotto di
conoscenza e polvere.
Fay
l’aveva osservata senza fare commenti, spesso dal cortile,
dove si
ritirava a fumare almeno venti volte al giorno.
Non
le aveva più parlato di Yoshi; di questo Chiharu era grata,
perché
nemmeno lei aveva molta voglia di pensare a lui o alle conseguenze di
quello che lui poteva dire.
Dopo
aver lasciato l’ospedale era riuscita a darsi una calmata: ci
aveva
riflettuto, e aveva concluso che Yoshi non poteva dimostrare in
nessun modo di averla coinvolta in qualcosa di oscuro ai danni di
Konoha. L’unica cosa che le si poteva imputare era di non
aver
indagato su come recuperava le sue informazioni, ma nessuno poteva
dire che lui l’avesse fatta partecipare a qualcosa di losco.
Questa
era una certezza. E anche se avessero voluto incastrarla, avrebbero
dovuto fare leva su Akeru, che non l’avrebbe mai messa in
mezzo.
Probabilmente. Forse. Beh, lo sperava...
Ora,
per stare proprio tranquilla, doveva solo trovare il modo di tornare
nelle grazie dei suoi superiori, Naruto in primis: doveva fare la
brava, essere una kunoichi obbediente, seguire le cure e mostrarsi
pentita. Orgogliosa com’era, si faceva praticamente una
violenza;
ma sapeva che probabilmente non aveva alternative per risalire dal
baratro... Anche perché la voce di Jiraya che le parlava
della sua
salute risuonava anche delle parole che aveva speso riguardo a
Orochimaru, ed era fresca e spaventosa alle sue orecchie.
Shikaku
veniva a trovarla più volte al giorno, portandosi dietro
anche
Yoshino. I primi tempi c’erano stati momenti di altissima
tensione,
perché la nonna trovava inaccettabile la storia sulla
privacy medica
e soprattutto non capiva come mai Chiharu rifiutasse la sua tenpura,
che fino a quel giorno era stata sempre un successo garantito; poi le
cose erano migliorate, e Yoshino aveva iniziato a lamentarsi con
Shikaku perché aveva allevato un figlio che aveva allevato
una
nipote ingestibile.
Passando
tanto tempo con la nonna, Chiharu aveva finalmente capito che non era
colpa di Shikamaru se era finito con Temari: ce l’aveva nel
sangue.
«Come
mai ti è venuto questo improvviso amore per la
medicina?» chiese
Fay, sfogliando distrattamente un manuale di fisiologia del chakra.
«Perché
mi annoio» mormorò Chiharu, senza neanche alzare
gli occhi. «Sapevi
che gli effetti del fumo nei polmoni impiegano non meno di quattro
anni per svanire, e anche allora non se ne vanno del tutto?»
«Sono
una specializzanda, due cose di medicina me le hanno
insegnate» le
ricordò Fay.
Chiharu
ricambiò il sorriso – specializzanda,
come no! – e tornò
a ignorarla subito dopo.
Studiando
dal mattino alla sera, nel giro di alcuni giorni aveva appreso i
rudimenti della fisiologia cardiaca, con un excursus nel sistema
respiratorio e nel sistema circolatorio del chakra. I concetti erano
un po’ confusi nella sua testa, ma i geni dei Nara stavano
già
lavorando per collocare le informazioni al posto giusto. E
soprattutto, quel tipo di impegno non le faceva venire
l’affanno
dopo dieci minuti.
«Hai
visite.»
Nel
sentire ancora la voce di Fay Chiharu spostò lo sguardo
oltre la
finestra aperta. Dal fondo del cortile, lungo il vialetto
serpeggiante, avanzava Naruto.
Immediatamente
il cuore di Chiharu assunse un ritmo irregolare – le
succedeva
molto più spesso, dopo l’incidente con i
chakravakam. Richiuse il
libro che stava leggendo, scattando in piedi, e Fay strinse le
palpebre per studiare la sua reazione.
L’ultima
volta che Chiharu si era trovata faccia a faccia con Naruto lui
l’aveva sospesa dai suoi incarichi; poi Jiraya aveva detto
che gli
avrebbe parlato, ma visto che la situazione descritta da lui era
anche peggiore di quella iniziale, Chiharu non sapeva con che spirito
accogliere il maestro.
Nel
dubbio, si fece trovare ritta in piedi come un militare.
«Posso
entrare?» chiese Naruto, aprendo la porta senza bussare.
«Ti ho
vista da fuori. Oh. Fay» fece un cenno verso la donna,
esitante.
«Settimo»
rispose lei con un sorriso lieve.
«Ciao»
disse Chiharu.
«Ciao»
Naruto tossicchiò, guardandosi intorno.
«Posso
offrirle un tè?» propose Fay, dopo almeno due
secondi di silenzio
da entrambe le parti.
«Sì.
Per favore. Grazie» Naruto si schiarì la voce per
la terza volta
nell’arco di trenta secondi.
Fay
li lasciò soli. In teoria Sakura le aveva ordinato di
sorvegliare
Chiharu soprattutto quando qualcuno veniva a visitarla, ma immaginava
che l’Hokage fosse un ospite abbastanza sicuro.
«Lei
è il tuo... medico?» esordì Naruto un
po’ goffamente.
«Pare
sia una specializzanda» borbottò Chiharu, in un
tono così poco
convinto che per un attimo temette di aver rivelato che sapeva di
essere sorvegliata.
«Capisco»
Naruto si adattò malvolentieri al copione di Sakura, senza
insistere. «Senti, sono qui per... Insomma, ti ho cercata in
ospedale ma eri già stata dimessa. Ho parlato con
Jiraya.»
Chiharu
annuì, stringendo le braccia al petto in attesa del seguito.
«Mi
ha detto quella cosa dei charva... chaka... dell’evocazione.
La
storia che non muoiono se ti riprendi il chakra» Naruto si
massaggiò
la nuca, guardando ovunque fuorché lei. Era sempre difficile
ammettere un errore, figurarsi farlo con una come Chiharu.
«Non lo
sapevo. Ma perché non me lo hai detto subito?»
Chiharu
scrollò le spalle, di nuovo incapace di parlare. Era
snervante
vederlo succedere così spesso, e sempre in presenza di
Naruto.
Si
morse l’interno della guancia, sperando di riuscire a
convincersi a
superare il blocco, ma ebbe il solo effetto di affondare troppo i
denti e provocarsi una ferita.
«Non
che cambi completamente le cose, eh» chiarì subito
Naruto. «Anche
se quelle evocazioni non muoiono restano tuoi compagni, e come tali
vanno rispettati. Mi incazzerei anche se dessi solo uno spintone a un
compagno per il tuo tornaconto... Ma se mi avessi detto che
quell’uccello non era morto magari avrei potuto parlare
con...
avremmo potuto parlarne. Perché non vuoi mai spiegare
niente?»
Perché
non ci riesco,
rispose Chiharu dentro di sé. E davvero, ancora non ci
riusciva.
Naruto
aspettò qualche secondo, ma non vide arrivare risposte.
Pensò che
Chiharu si stesse rifiutando di comunicare, e per un attimo
provò
uno scatto d’ira: in passato aveva avuto a che fare con teste
ben
più dure della sua, e sempre era riuscito a spuntarla; aveva
convinto Gaara, Sasuke e persino Kyuubi! Perché quella
ragazzina si
ostinava così ferocemente? Cosa serviva per farla aprire?
«Mi
dispiace» disse Chiharu, con una fatica enorme.
«Ti
dispiace per cosa?»
«Per...»
Chiharu aprì e richiuse la bocca, a corto di saliva.
Naruto
fece un respiro profondo, cercando una sedia con lo sguardo, ma
Chiharu alzò una mano per fermarlo. Chiuse gli occhi,
passò una
mano sulle palpebre.
Voleva
chiedere aiuto a Naruto, ma non le usciva la voce. Non riusciva a
capire se era il suo orgoglio a paralizzarla o la paura di quello che
sarebbe successo dopo.
«Prima
ho bisogno di sapere una cosa» disse quindi, accorgendosi che
era
più facile attaccare che chiedere aiuto.
«Perché ci accompagnavi
in missione anche quando gli altri maestri non accompagnavano
più i
loro gruppi? Perché le nostre missioni non erano mai troppo
difficili?»
«In
che senso?» replicò Naruto, colto alla sprovvista.
«Ci
avete sempre detto che il nostro gruppo era stato assemblato per
raccogliere i migliori del nostro anno... Ma da quando ci siamo
diplomati, con Kotaro e Hitoshi non abbiamo fatto niente di
imporante. Ci hai tenuto in disparte volontariamente?»
«Ti
sembro il tipo che tiene in disparte qualcuno?»
sbottò Naruto
indignato.
Chiharu
provò un moto di sollievo. Sentire che non era stato
intenzionale
era già qualcosa... «Però le nostre
missioni non sono mai state
davvero pericolose. C’eri sempre tu con noi.»
«Io
non facevo tutto...»
«Tu
sei la Volpe a nove code, andare in giro con te già dimezza
gli
avversari» disse Chiharu, ricalcando le parole di Akeru.
Naruto
si accigliò. Sapeva che c’era qualcosa di vero in
quello che lei
diceva, ma era la prima volta che ci faceva caso.
Eppure
era convinto di aver cresciuto i suoi ragazzi nella maniera
migliore... Certo, non li aveva mandati allo sbaraglio tra le fila
nemiche ed era rimasto con loro molto più a lungo degli
altri
maestri... Ma quello era soltanto il suo modo di fare.
E
comunque affidare al gruppo la missione di Loria era stata una bella
dimostrazione di fiducia, giusto? Per non parlare della promozione di
Hitoshi ad Anbu!
«Non
mi sembra di essere stato...» iniziò a difendersi,
ma tutt’a un
tratto sussultò.
Chiharu
lo vide immobilizzarsi, gli occhi sbarrati su un punto tra il divano
e il muro. Poi, all’improvviso, scomparve in una nuvoletta di
fumo,
rivelando di essere soltanto una copia.
«Che
è successo?» chiese Chiharu a voce alta.
Dalla
cucina si affacciò Fay, appena in tempo per vedere le ultime
volute
che sparivano negli angoli del soffitto.
«Dov’è andato?» chiese,
il tè pronto tra le mani.
«Che
ne so?» Chiharu strinse leggermente i denti, indignata.
«Uhm.»
Fay sorseggiò il tè che aveva preparato,
attraversando il salotto
per andare verso la stanza degli ospiti. Avrebbe mandato subito un
messaggio a Sasuke per capire se stava succedendo qualcosa.
Chiharu
invece lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
Non
era riuscita a dire niente, alla fine. Anzi, Naruto non
l’aveva
proprio ascoltata.
Che
diavolo è venuto a fare qui?,
si chiese risentita. E poi, in un attimo di lucidità: ma
soprattutto, perché se ne è andato in quel modo?
Capitava
raramente che Sasuke andasse a cercare Ryuichiro, soprattutto
perché
di solito era lui a cercarlo; ma ogni tanto si chiedeva che fine
avesse fatto, e soprattutto, come gli aveva richiesto Kakashi,
controllava la situazione.
Quel
giorno dunque, dopo aver lasciato Sakura nello studio
dell’Hokage,
lui si era avviato verso il quartiere Uchiha per bussare alla porta
di Saifon, la donna che sosteneva di essere la madre di Ryuichiro
–
cosa di cui Sasuke non era mai troppo sicuro, visto che il ragazzo
somigliava esclusivamente a Itachi.
Qualche
tempo prima aveva assegnato ai due un’abitazione al limitare
del
quartiere, in una zona tranquilla. Per raggiungerla doveva superare
la propria casa e attraversare quasi tutto l’abitato, in quel
tempo
deserto. Li aveva sistemati distanti per dare loro privacy, e anche
perché non sapeva se sarebbe riuscito a incrociare tutte le
mattine
la faccia di Itachi, uscendo di casa... Questo poteva rendere
difficile la sorveglianza richiesta da Kakashi, ma se non altro gli
dava un po’ di pace interiore.
Era
vagamente inquietante che sentisse il bisogno di incontrare un
ragazzino con la metà dei suoi anni per rasserenarsi. Era
inquietante anche che il ragazzino avesse il volto dei suoi incubi da
adolescente. Ryuichiro in sé era inquietante, per dirla
proprio
tutta, ma, poveretto, di questo non aveva colpa.
Mentre
camminava lungo le vie del quartiere, prendendo nota dei piccoli
lavori di manutenzione che avrebbe dovuto commissionare ai
carpentieri di Konoha, Sasuke si accorse di un gruppetto di voci
concitate a breve distanza.
Dal
momento che il quartiere era disabitato, la cosa lo mise
sull’attenti.
Alleggerì
immediatamente il passo, avvicinandosi alla parete di una casa. Le
voci venivano da un vicolo tra due costruzioni, che secondo i suoi
ricordi si apriva in una piazzetta con un pozzo in disuso. Era un
vicolo cieco, chiunque si fosse introdotto in quell’anfratto
aveva
poche vie di fuga.
Sasuke
avanzò cautamente, portando una mano al kunai di emergenza
che
teneva nascosto sulla schiena...
Le
voci che aveva sentito aumentarono di volume; non sembravano tentare
di nascondersi. Lui tese le orecchie per distinguere le parole, i
sensi all’erta, e solo allora, di colpo, capì che
conosceva gli
intrusi.
«...E
comunque Hina è super noiosa adesso... Non vuole
più giocare con
nessuno. Tiene il muso. Per questo sono poco allenato!»
«Tutte
scuse... Sei scemo.»
La
mano che si stava avvicinando al kunai scese lungo il fianco, mentre
Sasuke esalava un sospiro a metà con un grugnito. Aveva
proibito
mille volte a Itachi di giocare dove nessuno poteva vederlo, ma
tentare di proibire qualcosa a un bambino di
quell’età era follia,
dovette riconoscere.
Comunque,
con la guerra e le spie e tutti i problemi che aveva in quel momento,
preferiva di gran lunga sapere Itachi al sicuro dentro casa, quindi
aveva intenzione di aggiungere alla proibizione pacata un rimprovero
di quelli davvero efficaci.
Percorse
gli ultimi metri del vicolo pestando i piedi perché lo
sentissero
arrivare. I bambini abbassarono la voce istantaneamente, ma ormai era
tardi: Sasuke comparve all’imbocco della piazzola, le mani
sui
fianchi e le sopracciglia aggrottate, e loro ebbero solo il tempo di
radunarsi tutti vicini.
«Cosa
state facendo?» chiese seccamente il capoclan degli Uchiha.
«Niente»
risposero loro in coro.
«Itachi?»
Itachi
lanciò ai compagni uno sguardo mortificato. «Li ho
portati a
giocare qui...»
Sasuke
prese un respiro profondo ed esalò lentamente. «Ti
ho già detto
che il quartiere Uchiha è pericoloso... Adesso sono
arrabbiato.»
«Ma
è per questo che ci stiamo allenando!» insorse
Minato,
nell’identico modo in cui lo avrebbe fatto Naruto
trent’anni
prima. «Così anche le cose pericolose diventeranno
cose sicure!»
«Cretino!»
sibilò Chomi, rifilandogli una gomitata tra le costole per
farlo
tacere.
Ovviamente
l’educazione di Naruto aveva poco a che vedere con la sua,
constatò
Sasuke: se uno dei suoi figli avesse risposto in quel modo a un altro
genitore... no, non riusciva neanche a immaginare cosa sarebbe potuto
succedere. Ma Minato non era suo figlio, poteva farci poco.
«Non
adesso. Quando sarete più grandi e frequenterete
l’Accademia...»
tentò di dire.
Minato
non lo lasciò finire: «Io mi sto allenando
già adesso!» esclamò
pomposamente.
«Chiudi
la bocca!» sussurrò anche Itachi, con una gomitata
dall’altro
lato.
«Allenando?»
suo malgrado Sasuke esitò.
Sakura
non faceva che ripetergli che Itachi era troppo piccolo per allenarsi
seriamente, ma se lo faceva Minato allora anche lui era legittimato a
imitarlo, giusto?
«Certo!
Guarda!»
In
uno slancio d’orgoglio Minato unì le manine per
raccogliere il
chakra. Itachi e Chomi si lanciarono uno sguardo spaventato, ma non
riuscirono a muoversi per fermarlo.
Sasuke
vide l’impostazione di Minato e la trovò buona,
per questo si
incuriosì... Poi però notò qualcosa
che non andava.
Di
colpo attivò lo sharingan.
Vide
Minato impastare il chakra, vide il chakra sfumare tra le sue mani
come una nuvola. Vide il sussulto delle sue braccia, intuì
il
sobbalzo del suo piccolo cuore, e infine il collasso.
Intervenne
appena prima che fosse troppo tardi, spostandosi in un lampo accanto
a Minato e separando le sue mani giunte.
Minato
lo guardò stupito.
Poi
rovesciò gli occhi all’indietro e perse i sensi.
«Micchan!»
strillò Chomi. «Oh no, no! E’ successo
ancora!»
«Papà!»
esclamò Itachi spaventato.
«Non
è la prima volta? Quando è successo
prima?» Sasuke cercò il polso
di Minato, sentì se respirava.
«Un
po’ di tempo fa» disse Chomi. «Stavamo
giocando, e poi è caduto
a terra... Ma era solo un gioco! Era solo un gioco!»
«Stava
provando a raccogliere il chakra» intervenne Itachi.
Sasuke
sollevò il mento di Minato per liberare le vie aeree.
Respirava, ma
a malapena. Le sue labbra erano diventate viola.
«Itachi,
corri a chiamare Naruto. Chomi, corri all’Ufficio
dell’Hokage e
trova Sakura!»
«Dove
lo porti?» chiese Itachi.
«Fateli
venire in ospedale!» ordinò Sasuke brusco.
Poi
sollevò il corpo esanime di Minato, e in un balzo fu sui
tetti. I
bambini partirono in direzione della strada più veloci che
potevano.
Mentre
correva Sasuke ne era sicuro: se si fosse trattato di uno dei suoi
figli non sarebbe potuto andare più veloce.
Minato,
tra le sue braccia, era innaturalmente flaccido e pesante. A un
tratto prese a tremare convulsamente, senza riprendere conoscenza.
Sasuke si fermò, incerto sul da farsi, ma la crisi smise
subito.
Allora ripartì.
Nonostante
tutti quegli anni accanto a Sakura, non aveva idea di cosa fare.
Tutto ciò a cui riusciva a pensare era alla faccia di Naruto
quando
Minato era nato, cinque anni prima; al sollievo con cui aveva
raccontato come il parto era avvenuto miracolosamente.
Vide
l’ospedale in lontananza, grande e bianco contro la rupe
degli
Hokage. Allungò il passo.
Sakura
dovette tradurre i singhiozzi di Chomi prima di capire che era
successo qualcosa a Minato. Purtroppo quando la figlia di Choji era
agitata mangiava, e quando mangiava era difficile decifrare le
parole; tanto più se intanto piangeva come una fontana. In
qualche
modo alla fine capì che doveva volare in ospedale, e
lasciando la
bambina nelle mani di Koichi se ne andò velocissima.
Raggiunse
Sasuke quando Minato era già tra le mani di un medico del
pronto
soccorso, che lo aveva steso su un lettino e stava percorrendo il suo
petto con la mano avvolta dal chakra. A Sakura bastò
un’occhiata
per capire che il ragazzo era inesperto, così lo fece
spostare
mentre chiedeva a Sasuke cosa fosse successo.
«Mentre
raccoglieva il chakra?» chiese conferma al termine del
racconto,
recidendo con il chakra i vestiti di Minato e scoprendogli il petto.
«Aveva
appena iniziato. L’ho fermato subito.»
Sakura
avvicinò il palmo della mano al torace di Minato, senza
toccarlo. Un
sottile strato di chakra si dispose tra lei e lui, come gelatina; poi
alcuni lembi si staccarono, strisciarono assottigliandosi fino alla
nuca, al petto, all’addome. Una volta in posizione aderirono
alla
pelle come ventose, e da lì Sakura chiuse gli occhi. Sasuke
tacque.
Trascorsero
pochi secondi, forse mezzo minuto. Le mani di Minato sussultarono.
«E’
sempre rimasto svenuto?» mormorò Sakura,
corrucciata.
«Sì.
Ma ha avuto una specie di attacco mentre venivo qui.»
«Che
tipo di attacco?»
«Sembravano
convulsioni.»
Altre
due lingue di chakra partirono dai lembi che si congiungevano alla
nuca, e si posarono delicatamente sulle tempie di Minato. Sakura
posò
l’altra mano sulla fronte del bambino e attese.
Minato
sospirò. Sul suo collo le arterie pulsarono debolmente, le
guance
smisero di essere così pallide. Le labbra si schiarirono
leggermente.
Il
chakra che lo aveva perlustrato si ritirò lentamente,
tornando alla
mano di Sakura. Lei la tolse con cautela, come un chirurgo che
richiude una ferita, e riaprì gli occhi. Non smise di essere
corrucciata.
«Sakura?»
chiese solo Sasuke.
Lei
scosse la testa, gli fece segno di tacere. La mano sulla fronte di
Minato era ancora lì.
«Sakura!»
La
porta dello studio si spalancò con tanta violenza che quasi
uscì
dai cardini. Naruto si catapultò nella stanza, con
un’infermiera
agitata al seguito, e non appena vide Minato fece per avvicinarsi, ma
Sasuke lo bloccò.
«Adesso
sta meglio» disse subito Sakura, congedando
l’infermiera che si
scusava per aver lasciato passare Naruto. Tolse la mano dalla fronte
del bambino.
«Minato!»
esclamò Naruto, scansando Sasuke e correndo con le mani al
viso
addormentato del figlio. «Micchan... Ehi...»
Lui
gemette, con un brivido. Cercò di alzare una mano, ma
ricadde.
«Cos’ha,
Sakura?» domandò Naruto con voce angosciata.
«Non
lo so» rispose lei sottovoce. «Cioè, ho
visto dove è il problema,
ma non capisco perché. Devo fare qualche ricerca prima di
risponderti...»
«Vuol
dire che è grave?» Naruto sollevò su
Sakura uno sguardo
implorante.
Lei
non lo aveva mai visto così, e le si strinse lo stomaco.
«Preferisco
non sbilanciarmi adesso. Prima voglio fare delle ricerche. Intanto
voglio fargli fare alcuni esami, e... Naruto, sarebbe meglio che
restasse in ospedale per un po’.»
Naruto
deglutì, accarezzando la testa di Minato. Con
l’altra mano gli
coprì la pancia, usando i lembi della maglietta che Sakura
aveva
tagliato.
Aveva
le orecchie invase dal rumore del suo sangue che scorreva forsennato,
le mani sudate e gelide. Quando Itachi era comparso alla sua porta il
mondo gli era caduto addosso. Aveva perso le sue copie, aveva perso
il contatto con Kyuubi, aveva perso tutto di colpo. Non si sentiva
così dal giorno in cui Sakura gli aveva confessato di amare
Sasuke.
Anzi, si sentiva anche peggio di allora... Perché Minato era
Micchan, era il suo bambino, e il suo bambino non poteva stare male,
non di nuovo, aveva fatto di tutto perché stesse bene...
Tentò
di deglutire, ma non ci riuscì. Sentì
confusamente Sakura che gli
diceva che dovevano portare Minato altrove, e allora lo prese in
braccio. Era così pesante, così freddo. Doveva
avvisare anche
Hinata... Come glielo avrebbe detto? Chi glielo avrebbe detto? Dopo,
ci avrebbe pensato dopo...
«Sakura,
dimmi a cosa pensi. Ti prego» insisté, e non
riconobbe la sua voce.
«Morirà?»
«Non
lo so, non credo... Spero di no» farfugliò Sakura,
cercando di non
sbilanciarsi. «Ti ho detto che per adesso non posso dire
niente»
deglutì. «Però, probabilmente non
potrà mai essere uno shinobi.»
Naruto
annuì meccanicamente. Cosa gli interessava avere un figlio
shinobi
se poteva avere un figlio vivo? Purché stesse bene,
purché stesse
bene, purché...
Sasuke
vide Naruto uscire dallo studio con lo sguardo perso nel vuoto. Solo
allora si accorse di aver tenuto la mandibola serrata per tutto il
tempo, e la rilassò. Sentì la schiena fredda.
Pensò ai suoi figli,
a casa, alle battaglie del prossimo futuro.
Erano
stati preparati per la guerra, per la morte dei maestri e degli
amici; erano stati preparati alle ferite e alla malattia. Erano stati
addestrati a resistere a tutto... Ma nessuno li aveva addestrati
all’idea di perdere un figlio.
Sasuke
si passò una mano sulla fronte, la fece scivolare lungo la
guancia e
si fermò a coprire la bocca. Naruto era sconvolto, Sakura
era
sconvolta, persino lui era turbato. E Shikamaru era a Suna.
Tralasciando
Kakashi, che era in coma, Konoha si ritrovava senza Hokage.
E
adesso?
L’ultimo
giorno sereno era appena finito.
* * *
Buongiorno a tutti!
Sono tornata indietro nel tempo,
a un'epoca in cui internet non esisteva.
Di nuovo.
Trasferirsi crea sempre danni secondari imprevisti.
Quindi perdonate la lunga assenza,
ma vivere di connessione dal cellulare è una faccenda assai
grama!
Nel frattempo ho scoperto l'esistenza di
BORUTO,
la seconda serie di Naruto,
e sento l'esigenza di chiarire subito:
praticamente hanno plagiato tre quarti dei miei piani futuri
(nel senso che ci sono molte cose nel manga che saranno presenti anche
in questa storia.
Non la trama, sulla quale non mi esprimo,
ma alcuni dettagli di una certa rilevanza).
Quando troverete invenzioni della storia inquietantemente simili a
quelli della serie,
SAPPIATE CHE IO LE AVEVO PENSATE PRIMA,
stramaledizione!
Sono super indignata.
E scema.
Se avessi portato a termine la storia otto anni fa
avrei potuto citarli per plagio e diventare ricca.
Piango.
Ciò detto, mi sono presa benissimo anche con
Fantastic Beast and where to find them,
quindi sto scrivendo pure di loro.
(Strano ma vero.)
Spero di riuscire a pubblicare qualcosa entro breve!
Grazie a voi che continuate a leggere,
spero di pubblicare presto!
Susanna
|
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Capitolo 42 *** Non c'è due senza tre ***
Penne 42
Capitolo
quarantaduesimo
Non
c’è due senza tre
I
tanto decantati geni dei Nara avevano dei limiti, dunque.
Chiharu
dovette constatarlo con amarezza quando fu costretta a rileggere per
la quarta volta un minuscolo paragrafo sugli scambi ormonali, di cui
non stava capendo assolutamente niente.
Il
salotto era invaso dalla cultura in tutte le sue forme –
libri,
modellini, schemi e appunti, tutti etichettati dalla biblioteca
dell’ospedale e segnati sul registro dei prestiti. Chiharu
era
seduta sul tappeto con un dizionario medico sulle ginocchia e tre
libri ammonticchiati sul tavolo, circondata da fogli scribacchiati
nei margini e appallottolati con negligenza.
Stava
per dare forfeit.
Per
quanto uno fosse un genio e avesse una schiera di geni tra gli
antenati, evidentemente le basi erano sempre le basi: senza un
maestro che le spiegasse come funzionavano le cose, era praticamente
impossibile capire il corpo umano soltanto dai libri. Finalmente
aveva anche capito perché i medici studiavano tutti quegli
anni.
Arrivata in fondo al paragrafo per l’ultima volta decise di
chiudere il libro e appoggiarci la testa.
Stava
studiando da tutto il giorno, cosa che non aveva mai fatto prima, e
la schiena da un po’ di tempo si lamentava per la carenza di
esercizio fisico. D’altronde in quel momento il suo cuore
minacciava di lasciarla a piedi se provava ad allenarsi per
più di
mezzora filata, quindi o così o niente. Tanto più
che, le poche
volte che aveva provato ad allenarsi, Fay l’aveva controllata
per
tutto il tempo, e lei non aveva nessuna voglia di mostrarle quanto
fosse debole.
«Ehi,
ho un problema con le ghiandole surrenali...» disse senza
alzare la
testa, rivolta alla donna che fumava dall’esterno, appoggiata
contro lo stipite della finestra aperta. «Mi dai una mano, tu
che
sei medico? E smettila di far entrare il fumo.»
Fay
le scoccò un’occhiata irritata. Aveva convissuto
con Chiharu
abbastanza a lungo per iniziare a sospettare che sapesse della sua
copertura. Non aveva elementi per dirlo, ma la sensazione era
fortissima... Le piaceva sempre meno.
«Tu
non sei una studentessa di medicina» disse stizzita,
espirando
volutamente all’interno della casa. «Non dovresti
neanche avere
quei libri.»
Chiharu
si alzò da terra e la raggiunse. «Il fumo»,
borbottò
richiudendo la finestra.
Fay
dovette spegnere la sigaretta e rientrare. Che nervi quella
ragazzina, dei santissimi! Con espressione scocciata la donna si
lasciò cadere sul divano, fissandola.
«Che
c’è?» sbottò Chiharu.
«Non
pensare di essere l’unica persona intelligente in tutta
Konoha. E’
stato il tuo errore finora, e lo sarà anche in
futuro.»
Chiharu
lo aveva già sentito dire da persone che stimava
più di lei, non le
faceva più effetto. E comunque non pensava di essere
l’unica
persona intelligente in tutta Konoha, però sapeva che di
sicuro non
era inferiore a Fay.
Certo,
la sua opinione avrebbe fatto meno male se una certa parte di lei, a
causa delle recenti conversazioni con Baka e Jiraya, non fosse stata
d’accordo. Tanto più che le visite dei giorni
precedenti le
avevano fatto capire che saggia proprio non era...
«Sei
tornata a casa.»
Hitoshi.
Chiharu se lo ritrovò sulla porta a tradimento. Non pensava
che
sarebbe venuto così presto, lo faceva più
orgoglioso.
«Ciao...»
«Ciao.
Mi fai entrare?»
«Veramente
ho ospiti.»
Hitoshi
sbirciò oltre la sua spalla e vide Fay che lo guardava dal
divano,
sdraiata a leggere un libro.
«Perché
la conosci?» chiese stupito, avendola vista altre volte
insieme a
Sasuke.
Fay
subodorò il rischio di essere smascherata e balzò
accanto a Chiharu
in un istante. «Guarda un po’, il rampollo
Uchiha» disse con un
sorriso. «E’ il tuo fidanzato?»
Sia
Hitoshi sia Chiharu fecero una smorfia, anche se di natura
profondamente diversa.
«Dicevo,
un’ospite molto sgradevole» disse Chiharu tra i
denti. «Facciamo
che torni un’altra volta?»
Hitoshi
si guardò intorno a disagio. Adesso basta. Fare lo zerbino
per un
po’ andava anche bene, ma così era troppo... Aveva
fatto una
fatica dell’accidente a trovare il coraggio di bussare a
quella
porta!
«Allora
non è il tuo fidanzato?» insisté Fay,
che di psicologia
adolescenziale un po’ ne sapeva, in fondo.
«Peccato, lui è più
carino di quello che è venuto ieri.»
Chiharu
levò gli occhi al cielo quando vide il lampo d’ira
nello sguardo
di Hitoshi.
«Sì,
è meglio se torno un’altra volta» disse
il ragazzo con rabbia.
«Ciao»
sospirò Chiharu.
E,
dopo la partenza di Hitoshi, scrutò Fay con aria
indagatrice. «Lo
hai fatto filare proprio in fretta...» mormorò.
«Non
era mia intenzione. Ho sbagliato?» rispose lei vaga, tornando
al
divano. Evitava il suo sguardo.
«In
realtà no» ammise Chiharu.
Ma
capì che Hitoshi forse conosceva la vera identità
di Fay, e questo
le confermò che aveva a che fare con le forze
dell’ordine di
Konoha.
Che
poi, era vero che il giorno prima era venuto qualcun altro, ma
Hitoshi non aveva chiesto chi.
Si
trattava di Kotaro.
«Mi
hanno dimesso, finalmente! Come stai?»
Neanche
il tempo di finire con i saluti, che già aveva tirato fuori
la
domanda sbagliata.
«Congratulazioni
per le dimissioni. Ora prova a chiedere qualcosa di diverso»
suggerì
Chiharu.
«Oh.
Ehm... Ti hanno dato il permesso di tornare al lavoro?»
Chiharu
roteò gli occhi.
«Scusa,
scusa, scusa! Aspetta, ci riprovo... Chi è lei?»
domandò Kotaro
additando Fay. Lei, appoggiata al muro con aria da bodyguard, gli
rivolse un cenno di saluto. Kotaro arrossì.
«Il
mio medico di fiducia» disse Chiharu, scambiando con Fay un
sorriso
falso. «Anzi, è proprio qui per
visitarmi.»
«Quindi
non posso entrare?»
«Sono
un po’ impegnata...»
«Ma...»
Chiharu
si rendeva conto di essere orribile. Una buona compagna avrebbe
invitato Kotaro a prendere un tè, gli avrebbe chiesto come
stava,
avrebbe parlato dei suoi problemi e avrebbe tirato fuori un bel
pomeriggio tranquillo.
Ma
una buona compagna non era una kunoichi agli arresti domiciliari,
quindi almeno era coerente con sé stessa.
E,
soprattutto, non aveva la forza di guardare in faccia Kotaro e
sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene, che le cose si sarebbero
sistemate, che era pieno di energie e avrebbero trovato il modo di
far funzionare la baracca. Lo avrebbe preso a cazzotti, ci giurava.
«Scusa.
Facciamo un’altro giorno, ok?»
Quindi
aveva chiuso la porta.
Insomma,
c’erano due persone che si preoccupavano di lei – e
due non era
metaforico, era proprio il numero totale – e lei le cacciava
via a
calci. Sapeva bene che non era una mossa saggia né
intelligente.
Nessuno le avrebbe detto brava, così si fa!,
nemmeno lei se
lo diceva. D’altronde, facendoli entrare avrebbe dovuto
spiegare
loro perché non usciva più in missione, e avrebbe
dovuto ripensare
a Naruto e alle loro faccende in sospeso, ai suoi problemi, a
Yoshi... Non aveva voglia. Prima o poi sarebbe stato inevitabile, ma
per il momento poteva ancora posticipare.
Questo
la rendeva una persona poco lungimirante e sicuramente non saggia, ma
rispondeva benissimo al suo bisogno di proteggersi.
Proprio
in quel momento bussarono alla porta di casa. Di nuovo.
Baka?,
si chiese Chiharu. Suo malgrado avvertì un minuscolo
sussulto
interno. O Naruto? Le
si contrasse lo stomaco.
Ma
non era nessuno dei due.
Era
Sai.
«Ok.
Questo è inaspettato» commentò Chiharu
vedendolo. Sentì le
sopracciglia che si corrucciavano automaticamente.
«Ciao
Chiharu. Anche io sono felice di vederti. Tutto bene, grazie, sono
ancora vivo» ribatté lui sorridendo.
Ora
che lei ci pensava, l’ultima volta che lo aveva incrociato
erano
successe cose oltremodo imbarazzanti. Sentì il sangue
risalire alle
guance velocissimo.
«Cosa
fai qui?» chiese, balbettando leggermente.
«Ho
sentito un po’ di voci sul tuo conto, sono venuto a vedere
come
stai.»
Chiharu
si gettò un’occhiata alle spalle e vide Fay che li
fissava, in
piedi dietro il tavolino. Veramente fissava più Sai che lei,
ma di
certo non sembrava intenzionata ad andarsene.
«Mi
offri un tè?» domandò lui, cogliendo la
sua esitazione.
«Veramente...»
Sai
sorrise sornione. «Con i biscotti. Fay, vuoi unirti a
noi?»
Chiharu
guardò lui e guardò lei. Vide Fay scrutare Sai,
intuì qualche tipo
di sottinteso di cui non era a conoscenza, e poi cedette.
Al
diavolo. Sai non sono mai riuscita a controllarlo.
«Trova
un posto dove sederti...» sospirò, accennando al
salotto invaso
dalla carta. «Io vado a preparare il tè.»
Mentre
era in cucina tentò disperatamente di origliare la
conversazione tra
Sai e Fay, ma i pochi frammenti che captò erano commenti
casuali sul
clima, sulla guerra e sul disordine della casa. Sapeva perfettamente
che i due stavano confabulando, e una parte di lei temeva che stesse
succedendo qualcosa alle sue spalle, ma non riuscì a sentire
niente
di strano.
Quando
tornò in salotto, Sai aveva spostato i libri dal divano e si
era
seduto in un angolo, con aria perfettamente rilassata. Fay si era
ranicchiata su una poltrona in un modo che a Chiharu ricordò
un
felino sulla difensiva.
«Hai
portato anche i biscotti» disse Sai adocchiando il vassoio.
«Quelli
che ti piacciono.»
Chiharu
arrossì di nuovo, ricordando la ridicola merenda a casa di
Sai, una
vita prima. «Mi pareva che piacessero anche a te.»
«Sono
i miei preferiti. Fay, tu puoi mangiarli? Sono pieni di olio di
palma, so che ai medici non piace.»
Chiharu
vide un guizzo sulla guancia di Fay, che rifiutò i biscotti
con un
borbottio. Posò il vassoio sul tavolo e ignorò il
posto libero
accanto a Sai, sedendosi a gambe incrociate sul tappeto.
Dopo
i primi momenti di shock, preparando il tè aveva
riacquistato
l’autocontrollo. L’ultima volta che aveva visto il
Jonin erano
successe cose imbarazzanti, sì, ma poi lei aveva avuto a che
fare
con Hitoshi e Akeru in modi molto pragmatici, e ricordarlo le aveva
dato coraggio: adesso era una donna.
«Perché
stai seduta per terra?» chiese Sai, battendo una pacca sul
divano.
«Qui c’è posto.»
Chiharu
avvampò.
‘Fanculo.
«Non
sei mai venuto in ospedale, perché ti presenti
adesso?» divagò,
cacciandosi in bocca un biscotto .
«Ero
via. Faccio parte delle micro delegazioni che Naruto ha formato per
cercare di trattare con i paesi tra noi e la Roccia: vuole provare a
fermare la guerra, anche se c’è già
stata la dichiarazione
ufficiale; noi andiamo a incontrare i capivillaggio offrendo trattati
di non aggressione in cambio della neutralità.»
«Quindi
non è detto che si finisca per combattere?»
«Oh
no, combatteremo di sicuro. La Roccia ci prova da vent’anni:
ora
che ha trovato un pretesto farà di tutto per
invaderci...» Era
inquietante sentirlo parlare di quelle cose con tono tanto lieve.
«Magari non combatteremo subito, ecco.»
«Improbabile»
mormorò Fay dalla sua tazza di tè.
Sai
le rivolse un sorriso educato. «In effetti è
improbabile. Tutti i
clan nobili della Foglia si stanno attrezzando per prepararsi al
peggio. Ho sentito che gli Hyuuga stanno organizzando il matrimonio
di Neji per non rischiare di interrompere la dinastia.»
Questa
volta Chiharu vide distintamente il volto di Fay che si oscurava,
appena prima che lo nascondesse nel tè. Le sembrò
che la tazza
sussultasse leggermente, ma non ne fu sicura.
«Se
il capoclan morisse senza eredi dovrebbero rivolgersi ad Hanabi, cosa
che non piace a nessuno» proseguì Sai fingendo di
non essersi
accorto di nulla. «In quel caso probabilmente busserebbero
alla
porta di Naruto per reclamare i figli di Hinata, ma sappiamo tutti
come andrebbe a finire.»
Chiharu
ridacchiò, anche se non ne aveva l’intenzione
– era ancora
arrabbiata con Naruto: non aveva più avuto sue notizie dopo
la
visita in cui era sparito tanto in fretta.
«Sono
affari del clan Hyuuga» disse però Fay, in tono
più brusco di
quanto volesse. «Immagino che anche gli altri clan stiano
facendo
gli stessi ragionamenti.»
«I
Nara no, posso garantire» disse Chiharu alzando una mano.
«Aspetta
che tua madre torni da Suna, potrebbe avere un’opinione
diversa»
suggerì Sai allegramente.
«Prima
che mia madre scelga di diventare nonna entro i quarant’anni
il
deserto del Paese del Vento diventerà un lago con carpe,
sirene e
fate.»
Sai
rise, e Chiharu sorrise di riflesso.
Mai
avrebbe pensato che una visita di Sai sarebbe stata divertente;
invece sentirlo punzecchiare Fay la metteva di buonumore. Non sapeva
cosa c’entrasse la donna con il clan Hyuuga, ma sicuramente
si
stava irritando.
«Esco
a fumare» annunciò infatti, mollando il
tè sul tavolo e alzandosi
di scatto.
Chiharu
scrollò le spalle, inzuppò un biscotto e lo
masticò con
soddisfazione. Attese che Fay fosse uscita, e allora prese il suo
posto sulla poltrona, accoccolandosi con il tè tra le
ginocchia
ripiegate.
«Cosa
c’entra con il clan Hyuuga?» chiese in un sussurro
rapido.
«Non
ti riguarda» sussurrò Sai in risposta.
«Sono sicuro che riuscirai
a gestirla anche senza il mio aiuto.»
Chiharu
arricciò le labbra, delusa.
«Tu
invece cos’hai combinato?» lui smise di sorridere.
«Ti ho
lasciata che dovevi solo recuperare la segretaria del Kazekage, e ti
ri trovo in un mare di guai.»
Chiharu
si fece indietro leggermente, spostando lo sguardo sui suoi piedi.
«Sono stata sfortunata» borbottò.
«Chi
si mette contro Naruto non è sfortunato, è
pazzo.»
«Non
mi sono messa contro Naruto, è lui che ha fatto le cose di
fretta.»
«Cioè
ha fatto le cose da Naruto. E il tuo cuore? E cosa ci fa qui
Fay?»
«E’
il mio medico» sibilò Chiharu,
inarcando le sopracciglia fin
quasi all’attaccatura dei capelli. «Non chiedermi
altro, se no
finisco in carcere.»
Sai
ridacchiò, controllando che la schiena di Fay fosse fuori
dalla
finestra chiusa. Stranamente non stava vigilando con la solita
attenzione: sembrava quasi che fosse uscita per stare davvero da
sola,forse perché si fidava di Sai.
«Comunque,
tieniti stretto Naruto» suggerì il Jonin smettendo
di sorridere.
«Qualunque cosa accada, se lui è tuo amico ne
verrai fuori.»
E
in questo momento, anche se tu non sei stata informata, non
può
permettersi di avere un problema in più,
aggiunse dentro di sé. Metti la testa
a posto, sciocca.
Chiharu
annuì lentamente. Lo sapeva, in fondo; a Konoha tutti
sapevano che
il migliore amico in ciroclazione era Naruto, nonostante spesso fosse
irascibile e insopportabile... Ma era così difficile mettere
da
parte l’orgoglio e chiedere aiuto: avrebbe voluto che lui la
vedesse sempre splendida e senza debolezze, invece ogni volta faceva
più schifo della precedente.
Sai
la scrutò per qualche secondo, poi incurvò un
angolo della bocca.
«Cos’è successo a Suna?»
Chiharu
ebbe un secondo di vuoto mentale. Poi, di colpo ricordò
Hitoshi e
Baka e sentì le orecchie in fiamme.
Come
diavolo fa a saperlo?
«Se
te lo stai chiedendo, ho tirato a indovinare»
sottolineò lui,
appoggiando un gomito allo schienale del divano con aria interessata.
«Non sapevo niente finché non me lo hai detto tu
adessoma mi pareva
che ci fosse qualcosa di diverso... Hitoshi Uchiha?»
«Non
ho idea di cosa tu stia parlando» farfugliò lei.
«Aspetta.
A Suna è venuto anche Baka Akeru...»
«Non
ti ascolto!»
«O
Kotaro Lee?»
«Smettila!»
«Davvero?
Kotaro?»
Chiharu
sbattè la tazza sul tavolino. Non era mai stata
più in crisi di
quel momento.
Sai
la studiò attentamente. Il suo sorriso si
allargò. «Tutti e tre?»
«Vuoi
davvero che mi venga un infarto qui e ora?» sibilò
lei.
«No.
Ero solo curioso. E’ sempre divertente quando i ragazzini
sono alle
prime cotte.»
«Non
lo è altrettanto quando i vecchi si
intromettono!»
«Adesso
sono vecchio?»
«Cosa
mi sono persa?»
Chiharu
si voltò di scatto, scoprendo che Fay era rientrata senza
che lei se
ne accorgesse. Esausta, si lasciò andare contro lo schienale
della
poltrona.
«Degli
ottimi biscotti» disse Sai, pronto. «Sicura di non
volerne?»
Fay
passò lo sguardo da lui a Chiharu, e si chiese se avesse
commesso
una leggerezza a lasciarli soli.
«Andiamo,
non fare quella faccia» rise lui. «L’ho
solo presa in giro. Se
vuoi prenderle i parametri, da bravo medico, scoprirai che è
in
perfetta salute.»
Francamente
ne dubito,
pensò Chiharu,
passandosi una mano sulla fronte. Sentiva un inizio di emicrania. Ma
Fay non fece altri commenti, e invece chiese a Sai se non aveva di
meglio da fare, possibilmente altrove.
Eppure
non riuscì a smettere di pensare alla sua visita.
Da
tempo Fay sapeva che il clan Hyuuga faceva pressioni a Neji
perché
prendesse moglie e producesse un degno erede. Quando era scoppiata la
guerra aveva immaginato che il consiglio interno del clan avrebbe
chiesto un matrimonio con maggiore insistenza, ma poi c’era
stata
la faccenda di Chiharu e lei non era più riuscita a vederlo.
Da
quando era stata incastrata in quell’orribile missione non
aveva
più saputo niente di Neji: nessuna notizia, nessun
messaggio. Come
poteva essere sicura che lui avrebbe resistito alle pressioni? Forse
aveva già ceduto. Dopotutto non le aveva mai detto di
amarla, né le
aveva fatto promesse... In fondo sapevano entrambi che la loro
relazione era destinata a finire male.
Però
era difficile lasciar perdere così.
Non
voleva rinunciare ai loro anni insieme senza vederlo, senza
parlargli... Voleva provarci, almeno. Forse, se fosse stata
abbastanza convincente, le necessità del clan sarebbero
passate in
secondo piano. Forse avrebbe potuto convincerlo che il matrimonio non
era inevitabile, e sarebbero rimasti così come erano
finché il clan
non avesse scelto Hanabi per la successione... Forse, in qualche
modo, lo avrebbe convinto a rinunciare ai suoi eredi. Era
improbabile, ma non poteva abbandonare senza un tentativo.
Aveva
provato a prendere sonno per ore, invano. Girandosi e rigirandosi nel
letto si era figurata infinite conversazioni mentali con Neji, ma non
era riuscita a calmarsi. Alla fine, nel cuore della notte, si
alzò.
Si tormentò nella stanza degli ospiti dei Nara per quasi
un’ora,
camminando avanti e indietro, avanti e indietro...
Chiharu,
dalla sua camera, si svegliò e rimase con
l’orecchio teso.
La
sentì aprire i cassetti, richiuderli. La sentì
frugare tra le sue
cose. Poi sentì la finestra della camera che si apriva,
lentissima,
quasi senza fare rumore. Trattenendo il respiro per captare i fruscii
più lievi, sentì Fay che scavalcava, anche se
cercò di essere
silenziosa.
E
poi la sua guardia fu fuori.
Chiharu
gettò indietro le lenzuola, onestamente sbalordita.
«Ma
non mi dire!» mormorò, tirandosi a sedere. Di
colpo era sveglia.
La
brava Fay, il cane da guardia inossidabile, aveva appena abbandonato
la postazione. Che diavolo le aveva sussurrato Sai quel giorno? Quali
tasti aveva toccato per farla partire così?
Avrei
dovuto insistere per farmi svelare i suoi punti deboli!,
disse a sé stessa, tutto sommato ammirata.
Poi
si alzò, senza accendere la luce. Non aveva cattive
intenzioni –
anche perché, dove sarebbe potuta andare? - ma avere la casa
di
nuovo libera era una sensazione troppo bella.
Canticchiando,
raggiunse la cucina a tentoni. Aprì il frigorifero,
tirò fuori un
frutto e un vasetto di yogurt. Poteva fare uno spuntino notturno in
mutande, finalmente! Senza avere l’ossessione di doversi
vestire
perché quella là
sarebbe sicuramente spuntata a controllarla.
Sempre
senza accendere le luci passò al salotto.
Spalancò le finestre,
lasciò che il profumo di giugno la avvolgesse. Il divano era
rimasto
libero dopo la visita di Sai, e lei ci si tuffò allungando
le gambe
nude come non avrebbe mai osato fare con Temari in casa. Si
stiracchiò, si grattò la pancia. Fece finire una
gamba sopra lo
schienale, soltanto perché poteva farlo, e
addentò la mela che
aveva preso dal frigorifero. La libertà doveva avere quel
sapore...
A
metà del terzo morso qualcuno scavalcò la
finestra più vicina.
Chiharu
rotolò giù dal divano, si strozzò con
il boccone di mela e prese a
tossire convulsamente.
Non
aveva armi a portata di mano, ma aveva un vasetto di yogurt. Lo
afferrò, pronta a gettarlo sugli occhi
dell’intruso, quando una
mano si serrò attorno al suo polso e glielo sfilò.
«Prima
respira, per favore» sussurrò una voce.
«Ma
che cazzo di modo di entrare è?» alitò
lei, riprendendosi con una
certa fatica.
Baka
Akeru rimise lo yogurt sul tavolo e si fece indietro, tendendo una
mano per aiutarla ad alzarsi. Lei la ignorò, tirandosi in
piedi da
sola.
«Cosa
ci fai qui?» chiese tra i denti, mentre il suo cuore faticava
a
rallentare dopo lo spavento.
«Ho
colto l’occasione» rispose lui. «E non mi
è mica andata male»
aggiunse dopo un attimo, abbassando lo sguardo dagli occhi alle gambe
nude. La luce della mezzaluna fuori dalla finestra era più
che
sufficiente per lasciar vedere a uno shinobi quanto bastava.
«Guarda
in alto!» sbottò lei.
«Non
è la prima volta che ti trovo senza pantaloni»
Akeru si lasciò
sfuggire un micro sorriso, ma Chiharu lo avrebbe visto anche nel buio
più completo.
«La
tua ombra è sulla mia, non tentarmi»
ringhiò, arrossendo comunque.
«Perché sei qui?»
«Sto
cercando di parlarti da alcuni giorni, ma oggi è la prima
volta che
il tuo cane da guardia lascia il terreno...»
«E
gli altri Anbu?» Chiharu guardò ansiosamente fuori
dalla finestra.
«I
due che fanno la guardia stanotte sono miei amici. Gli ho salvato il
collo un paio di volte, si sono girati dall’altra parte senza
fare
storie.»
«Ti
fidi di loro?»
«Considerato
che Sakura non mi ha ancora dato il permesso di vederti e loro mi
hanno lasciato passare senza dire beh, direi di
sì...»
«E se fossero entrambi
traditori?» chiese l’Anbu senza cappuccio, seduto
su un cornicione
con il compagno. Stavano nel cono d’ombra di una mansarda di
nuova
costruzione, le gambe a penzoloni, e si godevano l’aria quasi
estiva.
«Non dire stupidaggini» rispose
l’altro, dandogli di gomito. «Stiamo parlando di
Stupido! Quante
volte ti ha ricucito?»
«Sì, lo so... Ma lei
è
praticamente la prima in cima alla lista
dell’anti-terrorismo. E
hai visto come la guarda lui.»
«E’ piacevole da guardare, la
ragazza» commentò l’Anbu con cappuccio,
con una risatina
divertita dietro la maschera.
«Sì, ma se ci avessero fregato
entrambi? Se Baka adesso la stesse aiutando a scappare?»
«Dai, smettila... Se non siamo
più sicuri neanche della nostra squadra dove andremo a
finire?»
«Sì, ma se fosse
così?»
L’Anbu con il cappuccio rimase
in silenzio per un istante.
«Vuoi andare a controllare?»
«Mi
hai fatto prendere un infarto!» Chiharu si passò
le mani sul viso,
costringendosi a calmarsi.
«Scusa.
Non pensavo che stessi facendo lo spuntino di mezzanotte in
mutande.»
«Puoi
smettere di sottolineare cosa indosso?»
«E’
difficile...»
«Senti,
dimmi cosa vuoi in fretta o lascia che vada a vestirmi.»
Akeru
sbuffò. «Yoshi vuole parlare con te.»
Chiharu
sentì freddo all’improvviso. Dieci punti per la
sintesi
esauriente, ma pessimo argomento.
«Io
non ho niente da dirgli» mormorò scrollando le
spalle. «Non
c’entro con quello che ha fatto, sai che...»
«Sì,
lo so. Non c’è bisogno che ti giustifichi con me.
Non sono qui per
accusarti, sono qui per chiederti aiuto.»
Chiharu
strinse le braccia al petto, rimpiangendo di aver aperto la finestra.
«Sai che non posso parlare con lui. Sakura la prenderebbe
come una
confessione e mi metterebbe nella cella accanto alla sua.»
«Certo
che lo so... Infatti ti sto proponendo di farlo di nascosto.»
Chiharu
gli lanciò un’occhiata di fuoco.
«Sto
cercando di guadagnare la fiducia degli Hokage, non mi
metterò a
infilarmi di soppiatto nelle celle dei prigionieri. Non se ne
parla!»
«Lo
so! Lascia che ti spieghi, almeno.»
Akeru
sbuffò. Anche lui rischiava molto a stare lì: se
Sakura lo avesse
scoperto lo avrebbe infilato nella cella in cui temeva di finire
Chiharu.
«Non
riusciamo a farlo parlare» spiegò.
«Morino ci ha provato in tutti
i modi, tutti,
credimi, ma non scuce una parola.»
«Perché
con me dovrebbe farlo?» chiese subito Chiharu, sulla
difensiva.
«Perché
me lo ha chiesto. Morino ci ha lasciati soli, e già una
volta lui
aveva fatto il tuo nome, così gli ho chiesto spiegazioni. Ha
detto
che parlerà, ma solo con te. Ha detto che quando ti
avrà parlato
sarà tutto chiaro.»
«Tutto
cosa?»
«Che
ne so!» Akeru sospirò. «Io non so
più cosa fare, Haru. Morino lo
ammazzerà davvero: quando c’è in
programma il suo interrogatorio
mi viene la nausea... Tu non hai idea...» si interruppe,
spostando
lo sguardo altrove.
Chiharu
sapeva che in parte era colpa sua se Akeru era finito nelle celle
degli interrogatori con Morino, sapeva che se non avesse fatto
cazzate a Suna probabilmente si sarebbe potuto rifiutare.
Sentì una
fitta di senso di colpa, e pensando a Yoshi una di paura.
«Lo
so che mi avevi detto che ucciderlo sarebbe stata la
soluzione...»
riprese Akeru.
«No»
Chiharu scosse la testa. «Non sarebbe una soluzione, e di
sicuro non
dormirei più se sapessi che è morto tra le mani
di Morino» Akeru
annuì. «Ma non posso venire a parlargli. Non
c’è nessun modo.
Digli che accetterei volentieri ma non si può. Digli di
parlare con
te e scagionarmi, poi lo andrò a trovare.»
«Pensi
che non glielo abbia già detto? Ha rifiutato.»
«Allora
io non posso fare niente! Non metterò a rischio la mia sola
speranza
di far tornare le cose a posto!» esclamò lei.
«Veramente
un modo sicuro ci sarebbe...» disse Akeru in un bisbiglio.
«Vuoi andare a controllare?»
domandò l’Anbu incappucciato al compagno.
«Magari...»
«Stupido ha detto di stare alla
larga.»
«Solo un minuto.»
«Se sta scopando mi offri una
cena. Giuralo.»
«Va bene, va bene...»
I due uomini si alzarono dal
cornicione. Attraversarono il tetto, balzarono sulla cima dei palazzi
vicini e raggiunsero l’ultimo edificio prima dei terreni dei
Nara.
Una volta lì l’Anbu con il cappuccio
tirò fuori il binocolo e si
tolse la maschera, cercando la finestra del salotto nella villa
distante.
«Li vedi? Che cosa stanno
facendo?» chiese il compagno diffidente.
«Tieni, guarda un po’
tu...»
«Sicuro?»
ripeté Chiharu, scettica.
«Ragionevolmente
sicuro» si corresse Akeru. «E’ stato
Yoshi a suggerirlo, e, anche
se non mi entusiasma, forse è l’unica cosa che
può funzionare.»
Chiharu
si mosse nervosamente sul tappeto. I fogli su cui aveva studiato si
appiccicavano alla pianta dei piedi; li scalciò
rabbiosamente. Akeru
prese il suo silenzio per un incitazione a continuare, e
così fece.
«Prenderai
le mie sembianze» spiegò. «Ti
dirò la parola d’ordine del
giorno, tu entrerai con Morino, e poi farò in modo che venga
richiamato fuori appena inizia l’interrogatorio.
Così resterete da
soli e potrai parlargli.»
Chiharu
scosse la testa. «No. Se ci scoprono non sono rovinata
soltanto io,
ma anche tu. E’ troppo pericoloso. L’unico che non
avrebbe
problemi sarebbe Yoshi, che peggio di così non
può finire... E’
un piano che non ha niente di sicuro né di
ragionevole.»
«Se
ci scoprono. Ma se va tutto bene non lo saprà
nessuno...»
«Da
quando ti interessa così tanto che il povero Yoshi non si
faccia
ammazzare da Morino?» sbottò Chiharu esasperata.
Akeru
rimase in silenzio, fissandola.
«Se
accetterai di seguire il mio piano, vedrai cosa fa Morino agli uomini
che interroga. Allora capirai» disse. Chiharu
rabbrividì. «Non
voglio riabilitare Yoshi, voglio farlo parlare. Tutto quello che mi
hanno costretto a fare finora è stato fatto per farlo parlare,
non per farlo morire. Se basta farlo incontrare con te, allora sono
ben felice di rischiare: non intendo immolarmi per quel cretino
traditore; voglio solo continuare a dormire la notte, come dicevi
tu.»
Chiharu
gemette, passando lo sguardo su tutti gli angoli della stanza.
«Mi
dispiace di doverti coinvolgere...» riprese lui.
Ma
Chiharu scosse la testa. Era stata lei a coinvolgere Baka, prima di
tutto. Stupido non c’entrava niente con quella storia, era
finito
in mezzo perché lei se lo era portato a letto e lui si era
sentito
in dovere di garantire per lei. Stupida idiota!
Akeru
la guardò, e riconobbe i segni del cedimento –
ormai era un
esperto di segnali da Chiharu Nara. Fece un respiro profondo, si
sforzò di non abbassare lo sguardo sulle sue gambe e
aggiunse
l’ultima spinta.
«Però
ho bisogno di sapere se posso fidarmi.»
«Non
capisco tanto bene...» l’Anbu senza cappuccio
regolò il fuoco del
binocolo, mentre il compagno scuoteva la testa commiserandolo.
«Non
è che ci sia tanta luce.»
«Mah,
insomma» l’Anbu con il cappuccio sbatté
le palpebre a causa di un
riverbero ai margini della proprietà dei Nara. Una
pozzanghera, si
disse, e comunque quando guardò meglio non trovò
niente. «Lo sai
usare quel coso o devo rispedirti all’Accademia?»
«Riprenditelo,
se sei tanto bravo!»
Chiharu
si irrigidì.
Se
poteva fidarsi?
«Scusa?»
«So
che ti sto chiedendo tanto, ma questo è importante. Non
sarebbe la
prima volta che resto fregato a causa tua. Anzi, posso elencare
almeno una quindicina di avvenimenti da te prodotti che sono stati
fonte di disgrazia per la mia vita. Adesso voglio sapere che non
avrai colpi di testa, che non ti lascerai coinvolgere in nulla, che
entrerai lì dentro con il mio aspetto e ti comporterai esattamente
come mi comporterei io, per il mio
bene.»
Chiharu
provò l’impulso di ricoprirlo di insulti
perché veniva a
supplicare il suo aiuto accusandola di aver incasinato le cose. Se
era così incapace, poteva anche fare a meno di lei!
«Non
fare quella faccia, sai che ho ragione» Akeru le
puntò un dito
contro prima che agisse.
Chiharu
ingoiò tutti i titoli che erano affiorati alle sue labbra.
In
effetti aveva ragione.
Ad
essere proprio pignoli, lei doveva ad Akeru la propria
libertà -
anche se temporanea -, la vita - anche se con una salute traballante
– e almeno una lezione sull’idiozia di cui avrebbe
fatto tesoro.
Tirarsi indietro adesso sarebbe stato proprio meschino.
«Non
ho mai avuto intenzione di crearti problemi»
borbottò comunque,
perché l’orgoglio è davvero una brutta
bestia. «Sono stata
sfortuna...» ricordò che aveva detto le stesse
cose a Sai, quel
pomeriggio, e cosa lui le aveva risposto.
«C’è stata una serie di
eventi che ha portato a conclusioni inaspettate» si corresse.
«E lo
sai che mi dispiace per averti coinvolto.»
«Stai
dicendo che non posso fidarmi, perché il destino trama
contro di
te?» cercò di capire Akeru.
No.
Era risentita perché lui le dava tutta la colpa di quello
che era
successo, mentre lei si sentiva responsabile solo in parte.
«Ascolta...
non farmi cambiare idea, per favore» gemette Akeru.
«Io mi
fido di te. Mi
sono sempre
fidato, e mi fido ancora – anche se il buonsenso mi dice che
sono
un imbecille. Mi fido davvero. So che fai un mucchio di cazzate, ma
niente di davvero irrimediabile: solo tu potevi arrivare
così vicina
a una condanna per tradimento ed essere ancora salvabile, dai!
Sappiamo entrambi che se dobbiamo stare sul filo del rasoio, forse
soltanto tu puoi cadere in piedi. Dimmi che non succederà
niente.»
Chiharu
fu lusingata e un po’ stupita. In quel momento non
pensò che dopo
tutte le ore di interrogatori che si era dovuto sorbire Akeru
probabilmente era diventato bravo a convincere le persone. Non
pensò
neanche al fatto che già prima aveva provato a far andare
bene le
cose, ma non ci era mai riuscita. Si sentì solo arrossire e
avvertì
un piccolo calore dentro il petto. Pensò a quando aveva
incasinato
tutto per orgoglio, per non restare indietro rispetto agli altri.
Giurò che questa volta avrebbe lasciato correre;
giurò che avrebbe
fatto solo il minimo indispensabile per aiutare Akeru.
Ma
dal pensare una cosa al dirla ne passava, soprattutto ultimamente.
Akeru
sentì il silenzio che si protraeva e temette di aver
fallito.
Sbuffò, dandole le spalle, e si passò le mani tra
i capelli.
Muovendosi, il suo piede scivolò su un foglio che era per
terra, e
per poco non lo fece cadere.
«Ma
che è?» chiese imprecando.
«Perché hai tutti questi libri in
giro? Sono libri di medicina...»
«Sto
cercando di informarmi sul mio cuore, alla fine» si
giustificò lei,
un po’ imbarazzata. Si sentiva una bambina che impara a
scrivere di
fronte a uno scrittore affermato.
«E
ci capisci qualcosa?» si stupì lui.
«Sì.
Più o meno. Insomma, a dire il vero mi sono un po’
impantanata.»
«Tu
non ti sei mai interessata di medicina.»
«Ma
sono agli arresti domiciliari e mi viene il fiatone quando faccio le
scale! Che altro potevo fare?»
Akeru
sollevò un libro e lo mise sotto la luce della luna,
cercando di
leggere la scrittura minuscola.
«Anche
se sei un genio, c’è una ragione per cui ci fanno
studiare tutti
quegli anni... Ora hai capito perché ogni volta che ti vedo
partire
in quarta mi viene un infarto?» domandò.
«In
parte...» ammise lei.
Lui
sorrise rimettendo giù il libro. «Stai davvero
cercando di mettere
la testa a posto... Tu pensa!»
«Te
l’ho detto. Sei tu che non ti fidi di me...»
«Io
mi fido, ma tu non mi hai detto che faccio bene a farlo.»
«Dovresti
sapere che ho qualche problema con le parole... Io non faccio
discorsi lunghi un’ora che aprono gli occhi alla gente. Dico
due
frasi, di solito sarcastiche, e la cosa finisce
lì.»
«Discorsi
che aprono gli occhi alla gente? Parli di me? Sono stato convincente
in ospedale?» il sorriso di Akeru si allargò, in
parte sorpreso e
in parte compiaciuto.
Chiharu
distolse lo sguardo; era stato molto più che convincente:
aveva
ribaltato la sua prospettiva sul mondo.
«Se...
Se per caso avessi del tempo libero, prima o poi, avrei bisogno di
aiuto per capire alcuni paragrafi» mugugnò a mezza
bocca. «Gli
ormoni, hai presente. Le ghiandole surrenali e quella roba
complicata.»
Gli
ormoni.
Argomento
molto infelice, in quel momento.
O
adeguato.
L’atmosfera
era cambiata all’improvviso.
«Ora
come ora non so se avremo mai più del tempo
libero» mormorò Akeru
fissandola.
«Ho
detto se...»
bisbigliò lei di rimando, chiedendosi perché
diavolo avesse avuto
l’idea di parlare proprio di ormoni.
Akeru spostò lo sguardo dai suoi
occhi alle sue gambe, poi risalì fino a fermarsi alle
labbra.
Chiharu fremette.
Quel momento sapeva di déjavu.
Déjavu due volte, per la precisione.
Non baciarlo,
si disse Chiharu con determinazione.
Akeru socchiuse gli occhi,
deglutì.
Il silenzio si dilatò.
Non
baciarlo!
Troppo tardi.
Akeru si protese in avanti, la
afferrò per i fianchi, lei gli prese il viso tra le mani e
lo baciò.
Merda.
Un attimo dopo erano sul divano, e
il singolo strato di stoffa su Chiharu volava sopra il dizionario
medico, seguito dalla maglietta di Akeru. Il suo marsupio si
incastrò
dietro un cuscino, i sandali scivolarono sotto la poltrona.
Chiharu dimenticò Fay, Yoshi e
tutti i suoi problemi, mentre le mani di Akeru scivolavano lungo il
suo collo e poi giù sul suo corpo.
Lui le baciò le labbra, il collo,
le spalle. Allora anche Akeru dimenticò tutto, Morino e
Sakura e il
resto. Dimenticò persino i due Anbu che avrebbero dovuto
sorvegliare
Chiharu.
Ma loro non dimenticarono lui.
«Li vedi? Che cosa stanno
facendo?» chiese l’Anbu senza cappuccio.
«Per vederli li vedo. Almeno,
vedo un piede e, credo, un pezzo di schiena» tese il binocolo
al
compagno, ridendo sotto i baffi. «Mi devi una cena, e ne
voglio una
buona. Non guardare troppo a lungo, va’».
Alla luce della luna un riflesso
traslucido, come un’ombra sull’acqua,
guizzò ai margini del
terreno dei Nara, dove prima c’era stato il breve riflesso.
I due uomini non se ne accorsero.
Un lievissimo alito di vento portò
fino a loro un sentore di zolfo, ma durò soltanto un secondo.
* * *
Buongiorno e buone feste a tutti!
Capitolo allegro ma foriero di tempesta.
Vi informo che dal prossimo aggiornamento si parte con il Casino!
Come state? Spero bene!
Io sono sempre al lavoro e sempre indaffarata,
ma i mocciosi chiamano con insistenza e forse riusciamo ad arrivare in
fondo.
Spero che stiate passando delle vacanze piacevoli
(almeno voi che avete delle vacanze),
e spero che sopravviviate ai pranzi e alle cene in corso.
Nel frattempo un saluto a tutti e un abbraccio!
Arrivederci all'anno prossimo!
(PS: prima o poi riuscirò a scannerizzare i disegni dei
mocciosi. Giuro.)
(PPS: un giorno riuscirò anche ad abituarmi al nuovo modus
operandi di efp,
dove lettori e scrittori non interagiscono più, e ci sono
centinaia di letture ma due commenti.
Per adesso è ancora un po' straniante, ma va beh.)
Susanna
|
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Capitolo 43 *** L'ultima alleanza di Chiharu e Baka ***
Penne 43
Capitolo
quarantatreesimo
L’ultima
alleanza di Chiharu e Baka
«Non
sono riuscito a lasciarlo là.»
Minato
era una copia in miniatura di Naruto. Vedere il suo capo appoggiato
sul cuscino dove di solito c’era suo marito fece sentire
Hinata più
smarrita che mai. Stesa al suo fianco, gli occhi fissi sul suo viso,
gli accarezzò per l’ennesima volta la fronte
tiepida.
«Sakura
ha detto che non dobbiamo mai perderlo d’occhio»
continuò Naruto.
Se succede qualcosa, qualunque cosa, mi ha dato il permesso di
dislocarmi in casa sua.»
«Posso
tornare in ospedale con lui...» propose Hinata.
«Per
cosa? Per restare a guardarlo come stai facendo qui, e farlo
svegliare in ospedale, dove detesta andare?»
Hinata
annuì. Minato odiava l’ospedale dai tempi delle
prime
vaccinazioni. D’altronde sapere che non sarebbe stata vicina
ai
mezzi di emergenza le creava ansia.
«Stai
tranquilla. Non chiuderò occhio» le
assicurò Naruto, seduto su una
sedia accanto al letto. «Fidati di me.»
Erano
passati pochi giorni dal malore di Minato. In ospedale il bambino si
era svegliato, era stato visitato e aveva eseguito tutti gli
accertamenti. Sakura aveva detto che non era ancora sicura di cosa
potesse avere, ma aveva accennato a un’anomalia nel sistema
del
chakra, e alle domande di Naruto aveva risposto solo che era una cosa
seria, ma voleva informarsi meglio prima di sbilanciarsi.
Minato
era spaventato, ma visto che nessuno riusciva a spiegargli cosa
avesse era costantemente nervoso. Così Naruto aveva
insistito per
riportarlo a casa, dove finalmente lo aveva visto crollare in un
sonno profondo.
«Naruto...
Tu credi che questo abbia a che fare con i problemi alla sua
nascita?» domandò Hinata con un nodo in gola.
«Non
lo so, ma non importa. Sakura troverà una soluzione... E se
non la
troverà lei, ci penserò io.»
Hinata
si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Naruto
lasciò la
sedia e si sdraiò al suo fianco, cingendole le spalle con un
braccio.
«Ho
paura» la sentì mormorare. «Abbiamo
rischiato di perderlo già una
volta...»
Lui
la strinse un po’ più forte. «Non
succederà più. Te lo
prometto. Io mantengo sempre le mie promesse.»
Hinata
singhiozzò sommessamente, posando la mano sopra quella di
Minato.
Lei
e Naruto rimasero così, abbracciati, a guardare il piccolo
che
dormiva.
Dietro
la porta socchiusa, appoggiata con le spalle alla parete, Hinagiku
sperò che nessuno sentisse il battito del suo cuore.
Era
andata a cercare i genitori per la cena, ma si era trovata a
origliare più di quanto avrebbe voluto. A lei e ai suoi
fratelli
avevano detto solo che Minato non stava bene. Nessuno aveva pensato
che la cosa potesse essere seria, tutti avevano dato per scontato che
si fosse preso un’influenza o che avesse mangiato qualcosa di
strano. Erano rimasti un po’ perplessi dal fatto che Hinata
avesse
trascurato gli altri figli per alcuni giorni, ma era stata presa come
una casualità.
Ci
sarei potuta arrivare,
si rimproverò Hinagiku. Sono
quasi una kunoichi, insomma!
Ma
in quel periodo aveva pensato solo e soltanto a Jin, al modo in cui
l’aveva trattata quando era tornato, e tutto il resto era
diventato
insignificante... Di colpo rimise piede nella realtà, nel
modo più
brusco.
Si
sentiva una ragazzina idiota, poco più grande di Minato. Non
era da
lei essere così distratta, né tenere il muso e
sospirare guardando
il cielo. Che diavolo le stava succedendo?
Senza
fare rumore si staccò dalla parete e tornò
indietro verso la sala
da pranzo, riflettendo sul da farsi. Non voleva essere il tipo di
persona che centrava tutta la sua vita sul ragazzo di turno. Voleva
essere una kunoichi seria che si preoccupa del fratello e cerca di
aiutare la madre, la primogenita affidabile su cui contare. Tuttavia
era anche una ragazzina, e per una ragazzina il ragazzino di turno
è
quasi tutto. Dunque, riteneva di dover chiarire le cose con Jin una
volta per tutte, e solo allora, qualunque fosse l’esito del
chiarimento, si sarebbe concentrata su Minato. Sembrava un piano
sensato, soprattutto se elaborato da una diretta discendente di
Naruto Uzumaki.
Invece
di entrare in sala da pranzo deviò verso
l’ingresso. Si mise le
scarpe cercando di non far rumore, ma una domestica vide la luce
accesa e andò a chiederle cosa stava facendo.
«Esco.
Non disturbare i miei genitori, non è proprio il
momento» borbottò
lei in risposta. «Torno subito, tenetemi la cena da
parte.»
La
domestica esitò, ma, come tutto il personale, era stata
informata
della malattia del signorino Minato. Chinò la testa e le
ricordò di
fare attenzione.
E
così Hinagiku andò, lungo le strade illuminate
della città al
crepuscolo. Mentre camminava, due Anbu mascherati, uno con il
cappuccio e uno senza, prendevano servizio alla sorveglianza di
Chiharu Nara; in quello stesso momento Fay si tormentava ripensando a
tutte le insinuazioni che Sai aveva lasciato cadere nella visita a
casa Nara, e Akeru si chiedeva se prima o poi sarebbe riuscito ad
avere campo libero, o se avrebbe dovuto piazzare un’esca per
far
muovere Fay. Ma Hinagiku, ignara di tutte le trame che le si
dipanavano intorno, camminò dritta fino alla casa di
Kakashi, e
suonò il campanello per incontrare Jin.
Non
dovette aspettare molto: la porta si aprì quasi subito, e
quando
Hinagiku vide la zazzera grigia di Jin la sua risoluzione si
indebolì
tutt’a un tratto.
«Ciao»
la salutò lui, evidentemente sorpreso.
«Ciao...
Sono venuta per... Cioè, l’altra volta me ne sono
andata così in
fretta... Ma disturbo?» balbettò lei.
Jin
si voltò a guardare lungo il corridoio. Dal fondo proveniva
una luce
e il suono sommesso di due voci.
«Senti,
non ho bisogno di entrare» disse Hinagiku, avvertendo
nell’aria la
sensazione che lui l’avrebbe cacciata di nuovo.
«Volevo solo
scusarmi per l’altro giorno. Sono stata preoccupata per tutto
il
tempo mentre eri via, e volevo vedere come stavi... Ma mi sono
innervosita subito e ti ho trattato male. Scusa.»
Jin
la fissò confuso. Non pensava proprio che Hinagiku si fosse
comportata male nei suoi confronti, anzi era ragionevolmente sicuro
di essere stato lui quello sgradevole. Nel frattempo si rese conto
che gli era mancata, e la cosa lo mise in difficoltà anche
maggiore.
«Non
ti sei comportata male, è che... è un periodo
molto complicato...»
disse esitante.
Hinagiku
rimase in silenzio, in attesa di un seguito. Ma quello non venne.
Jin
si guardò di nuovo alle spalle, prese un respiro profondo e
strinse
la presa sulla maniglia della porta. Doveva farlo.
«Mi
dispiace, Hinagiku. Sono successe tante cose mentre ero via, e io
sono cambiato... Non credo di riuscire a tornare quello che ero. Mi
capisci?» disse lentamente.
Le
parole di Jin le piombarono addosso come una doccia fredda,
perché
anche se pensava di essere pronta a tutte le risposte, in
realtà
Hinagiku non era pronta a quella. Cercò qualche segno di
intima
sofferenza sulla faccia di lui, ma non ne trovò. Allora si
sforzò
di distruggere tutti quelli che erano sicuramente comparsi sulla
propria.
«S-Sì,
certo. Capisco» balbettò, arretrando
involontariamente.
E
avrei dovuto capirlo già la volta scorsa, invece di tornare
a farmi
dare il colpo di grazia.
«Ci
saranno tante cose di cui ti devi... E anche io...» per un
attimo
pensò di raccontargli di Minato, ma poi pensò che
sarebbe sembrato
un modo per impietosirlo e lo tenne per sé. «Va
bene. Scusa il
disturbo. Ci vediamo in giro...» mormorò, sentendo
il sangue che
oltrepassava le sue barriere e risaliva su per le guance,
inarrestabile. «Ciao!» esclamò con voce
stridula. E senza
aspettare la risposta se ne andò di corsa.
Jin
fece per andarle dietro, ma si bloccò. A quel punto
lasciò che
sulla sua faccia comparissero tutte le emozioni che aveva trattenuto
così bene – rabbia, tristezza, dolore –
e si passò le mani sul
viso da bambino. Inspirò, sbuffò,
riaprì gli occhi.
Allora
l’aveva fatta finire così, pensò
richiudendo la porta. Prima di
partire aveva fatto a Hinagiku tutte quelle promesse, le aveva
riempito la testa di tutta quell’aspettativa... E poi era
tornato e
l’aveva scaricata.
D’altronde
era vero: lui non era più la persona di prima. Adesso era un
soldato
che si preparava per la guerra, figlio di una traditrice e con il
padre in coma. Cosa poteva dare a una ragazza come Hinagiku, uno come
lui? Solo un mucchio di giornate piene d’ansia.
Tornò
in cucina riprendendo l’espressione neutra. Sedute al tavolo,
di
fronte a una cena mezza consumata, c’erano Natsumi e Haruka.
«Chi
era?» chiese Natsumi.
«Un
messaggio dell’Hokage» mentì Jin.
«Un’altra scorta.»
Haruka
non fece commenti. Era seduta dove di solito si sedeva Kakashi, ma
non lo sapeva. L’avevano liberata quella mattina, dopo averla
rivoltata come un calzino in cerca di segni di tradimento; per sua
fortuna Morino era stato impegnato con Yoshi e non aveva avuto il
tempo di occuparsi di lei, ma chi l’aveva sostituito aveva
fatto il
suo dovere fino in fondo. Non l’avevano trattata troppo male:
Haruka non aveva l’aria smagrita né ferite
visibili, però le
occhiaie sulle sue guance denunciavano la carenza di sonno.
Per
mandarla a casa avevano chiamato Natsumi, che invece di portarla nel
suo appartamento l’aveva portata in quello di Jin. Era stato
un
incontro incredibilmente imbarazzante, ora che non c’era
più la
necessità di scappare e che Kakashi stava male. Jin, che in
viaggio
l’aveva difesa a spada tratta e aveva potuto odiare
liberamente il
padre, adesso si sentiva in dovere di giustificare le scelte e lo
stile di vita di Kakashi, quasi come se lei fosse un’intrusa.
E
poi, anche se non sapeva spiegarsene la ragione, si sentiva a disagio
a stare nella stessa stanza con madre e zia.
«Vieni,
finisci di mangiare» disse Natsumi. «Mentre eri via
tua madre mi
stava dicendo che per il momento le affideranno piccoli incarichi
amministrativi, quindi sarà a casa. Pensavo di tornare nel
mio
appartamento.»
Jin
si corrucciò per una frazione di secondo: non era sicuro di
voler
restare solo con Haruka. «Ma là sei
sola» obiettò. «Haru...
Mamma può occuparsi di tutti e due.»
«Tua
madre si è già occupata abbastanza di
me.»
«E
Natsumi si è occupata abbastanza di te» disse
Haruka, e anche se
nelle sue intenzioni voleva risparmiare della fatica alla sorella,
sia lei che Jin lo presero come l’insinuazione che Natsumi
avesse
voluto prendere il suo posto.
«Io
e Jin siamo stati piuttosto bene» puntualizzò lei
infatti.
«Sai
cosa intendevo.»
Natsumi
si irrigidì. Il vecchio tono di condiscendenza di Haruka la
irritò
più del previsto.
«Io
penso che dovrebbe restare con noi» insisté Jin.
«Dove mangiano in
due mangiano anche in tre, e comunque sarà impegnata quanto
me: non
la sentirai nemmeno.»
Haruka
passò lo sguardo da Natsumi a Jin, chiedendosi se fossero
davvero
affezionati l’uno all’altra o se invece si
sentissero troppo a
disagio restando soli con lei. Alla fine scrollò le spalle.
«Va
bene» disse semplicemente. Ci sarebbero state comunque le
occasioni
per stare insieme a suo figlio.
Si
potevano improvvisare davvero molte cose con un divano e un tavolino.
La curva della schiena di Chiharu si adattava perfettamente
all’angolo tra schienale e braccioli, l’altezza
della seduta era
più o meno delle dimensioni del suo femore. E poi era
diventata più
leggera dopo l’ultimo ricovero: adesso era ancora
più facile
sollevarla e sistemarla meglio.
E
tuttavia, nonostante la gran quantità di posizioni
acrobatiche che
uno shinobi era in grado di praticare, la comodità rendeva
sempre
tutto migliore. Alla fine lo sapeva: averla su di sé,
aggrappata
allo schienale del divano, e sentire le sue cosce stringersi attorno
ai fianchi sarebbe stato ben più che sufficiente.
Certo,
era inquietante che ricordasse con tutta quella precisione un divano
che aveva visto al massimo tre volte.
Hitoshi
si sistemò il ciuffo per la milionesima volta, sentendosi
completamente stupido. Era fermo all’inizio del vialetto di
casa
Nara da un tempo ridicolmente lungo, circondato dai mozziconi di
mezzo pacchetto di sigarette.
Il
punto era che stava dando di matto. Non riusciva più a
dormire bene.
Da quando Chiharu era tornata a Konoha niente era andato come si era
aspettato: lei non aveva più accennato a quello che era
successo a
Suna, lui non era riuscito a costringerla a farlo. Le aveva parlato
una volta sola, e lei aveva rimandato il discorso vero, poi lo aveva
sempre congedato in modi più o meno maleducati. E Hitoshi
non era
famoso per la sua pazienza. Chiharu gli aveva chiesto tempo, ma non
aveva specificato quanto. Considerato che quello che era successo a
Suna era successo ormai decine di giorni prima – anzi, a lui
sembravano mesi – riteneva che a quel punto poteva anche
andare da
Chiharu e pretendere il chiarimento a cui aveva diritto.
Anche
perché in fondo era convinto che sarebbe potuta finire solo
in un
modo: esattamente come era iniziata, con Chiharu che faceva la
ritrosa e poi si scioglieva tra le sue braccia.
E’
necessario parlarne adesso, si
disse per farsi coraggio. Perché con
il divano di casa sua
ho immaginato di fare l’amore con lei su ogni superficie
calpestabile di Konoha, e se non lo rifacciamo davvero dovrò
andare
da un medico.
Sputò
la gomma che aveva masticato fino a quel momento, aggiustandosi di
nuovo il ciuffo. Prese un respiro profondo, scrollò le
spalle, e
avanzò lungo il vialetto.
Quella
mattina le finestre erano chiuse, perché l’aria
era piuttosto
fresca. Il cielo era sgombro di nubi, di un bel blu acceso, e le
foglie riflettevano la luce del sole. Nessuno lo vide arrivare;
Hitoshi dovette bussare.
Chiharu
aprì sorprendentemente in fretta, quasi come se lo stesse
aspettando. Altrettanto strano, indossava un marsupio come se fosse
pronta per uscire. Ma quando vide che era lui le sue sopracciglia si
corrucciarono.
«Cosa
ci fai qui?» sbottò.
Partiamo
bene,
pensò Hitoshi.
«Dobbiamo
parlare.»
«Senti...»
«No.
Ora basta» Hitoshi avanzò risolutamente,
spostandola per entrare in
casa. «Mi hai allontanato tutte le volte che ho provato a
parlare
con te, adesso devi ascoltarmi.»
Chiharu
gettò uno sguardo allarmato verso il salotto. «Adesso
proprio no!»
«La
tua agenda è sempre piena, quando si tratta di
me!» inveì Hitoshi
piantando i piedi in mezzo al corridoio.
Dal
salotto emerse Fay, che li fissò infastidita. «Che
succede?»
«Niente»
si affrettò a rispondere Chiharu, lasciando la porta aperta
con
intenzione. «Hitoshi se ne stava andando.»
«Non
credo proprio.»
Fay
guardò lui e guardò lei, con una smorfia di
insofferenza stampata
sul viso. Quella notte aveva ricevuto pessime notizie: Neji cedeva
alle pressioni del clan e si sposava, glielo aveva detto lui stesso
dopo ripetute insistenze. Ora non aveva la forza né la
voglia di
assistere ai battibecchi amorosi di due adolescenti che non sapevano
niente della vita, così fece un verso di stizza e se ne
andò in
cucina, richiudendo la porta scorrevole con un tonfo. Che Hitoshi la
tradisse, se doveva tradirla; a lei quasi non interessava
più.
Ritrovandosi
sola con Hitoshi, Chiharu trattenne un’imprecazione.
«Adesso
siamo soli» disse lui, leggendole nel pensiero. «E
non abbiamo
impegni. Non c’è niente che ti impedisca di
parlarmi.»
Oh
sì che c’è!, pensò Chiharu
disperata. Fece lavorare febbrilmente il cervello, ma l’unica
idea
che le venne fu di prendere tempo. Guardò rapidamente fuori
dalla
porta, poi la richiuse.
«Vieni
in salotto» disse. Aveva la netta impressione che questa
volta
Hitoshi non le averebbe permesso di concludere la discussione come le
altre volte. Questa volta lui avrebbe preteso una risposta vera, ma,
dei santissimi, non poteva trovare momento peggiore.
«Tu
lo sai, vero, che la scelta del momento condiziona anche la
risposta?» disse seccamente, mettendo il tavolino tra
sé e lui.
«Cos’è,
una minaccia? Se faccio il bravo e torno quando ti garba cadrai tra
le mie braccia adorante?» disse Hitoshi in risposta.
«Ma
fammi il piacere!»
«Lo
immaginavo» Hitoshi si lasciò cadere sul divano a
braccia conserte,
come uno che ha tutte le intenzioni di piantare le tende lì.
Chiharu
trasalì. «Non ti ho detto di sederti!»
«Non
è che tu mi abbia detto molto, negli ultimi tempi. Da quando
mi hai
spedito a Konoha durante la missione di Suna non abbiamo più
parlato. E ce ne sono di cose di cui parlare...»
Chiharu
digrignò i denti. Nemmeno lei era famosa per la sua
pazienza. «Va
bene. Allora parliamo» sbottò bellicosamente,
senza sedersi.
«Ok.
Ricordi che a Suna siamo stati a letto insieme?»
Chiharu
sussultò. «E tu ricordi che di là
c’è gente?» sibilò
arrossendo. «Parliamo, ma non pubblichiamo i manifesti, va
bene?
Abbassa la voce!»
«Dovremmo
decidere che cosa fare ora» continuò Hitoshi, ma
più piano.
«Cosa
fare?»
«Cosa
fare. Mi sembra evidente che ci piacciamo, quindi...»
Chiharu
alzò entrambe le mani, bloccandolo. «Ti
sembra evidente
che ci piacciamo?»
ripeté,
incredula.
«Di
solito vai a letto con chi non ti piace?»
No,
ma faccio molte cazzate.
«Detesto
quando un Uchiha pretende di sapere cosa penso o provo. Lo detesto
soprattutto quando l’Uchiha sei tu.»
«Va
bene, allora. Tu mi piaci. Io, presumo, ti piaccio?»
«Tu
presumi?»
«Beh...»
Il
campanello suonò di nuovo.
Chiharu
sbiancò visibilmente. «Non ti muovere»
sibilò a Hitoshi, e corse
all’ingresso per aprire. Arrivò nel preciso
momento in cui Fay
sporgeva la testa dalla cucina. Innervosita, le fece cenno di sparire
e ottenne in risposta un’occhiataccia. Allora aprì
la porta di una
spanna e cacciò la testa fuori.
Era
Akeru.
«Ciao!»
la salutò lui tutto allegro.
«Non
è il momento» ribatté lei in un
sussurro ansioso.
Il
sorriso di Akeru scemò leggermente, ma non scomparve.
«Credo
proprio che lo sia, invece» insisté, alzando le
sopracciglia con
intenzione. «A proposito, l’ora
più buia è prima dell’alba.»
«No,
l’ora più buia è proprio ora,
credimi» lo corresse lei. «Mi
serve... mezzora. No, dieci minuti. Ti prego.»
«Chi
è adesso?» domandò Fay, facendo un
passo lungo il corridoio.
«Sono
Baka Akeru, signora» disse lui da dietro la porta. Chiharu
sentì
una colata di ghiaccio scivolare giù per la colonna
vertebrale, e si
voltò di scatto verso il salotto. «Sono venuto a
portare a Chiharu
gli esiti delle ultime analisi» e poi abbassò la
voce a un
sussurro, perché lo sentisse solo Chiharu. «Credo
anche di aver
dimenticato una cosa.»
«Sarei
passata a prenderli io» disse Fay avvicinandosi.
Tremando,
Chiharu fu costretta ad aprire la porta e lasciar entrare Akeru,
dicendosi che non era ancora proprio finita.
«Ero
di passaggio in ospedale» spiegò lui con un
sorriso affabile.
«Pensavo anche di spiegargliele...»
«Lo
posso fare io» borbottò Fay tendendo la mano.
«Ehm...»
Akeru esitò, guardando Chiharu in cerca di aiuto.
«Scusate»
si intromise una voce dal salotto.
Hitoshi
comparve sulla porta, e Chiharu seppe, seppe distintamente che quella
era una cosa terribile. Come al rallentatore, vide la mano di Hitoshi
alzarsi per mostrare qualcosa. Con orrore si accorse che era un
marsupio. Un inconfondibile marsupio Anbu.
Tutti
restarono immobili per un lunghissimo secondo.
«L’ho
trovato incastrato nei cuscini del divano» disse ancora
Hitoshi. La
sua voce produceva lo stesso sgradevole effetto del gesso sulla
lavagna, e sì: adesso era finita.
Akeru
fissò il marsupio e scambiò un’occhiata
con Chiharu. «Lui perché
è qui?» sussurrò.
«Penso
che sia più interessante sapere perché il tuo
cazzo di marsupio
è qui, invece» sbottò Hitoshi,
gettandoglielo di scatto.
Fay
inarcò le sopracciglia fino all’attaccatura dei
capelli e arretrò
lentamente. «Torno in cucina» mormorò
saggiamente.
Chiharu
chiuse gli occhi per un istante, arrendendosi al fallimento dei suoi
tentativi per uscirne indenne. Ormai avrebbe dovuto sapere che tutto
quello che faceva aveva delle conseguenze, ma si illudeva sempre di
poterle evitare in qualche modo.
«Ho
detto» riprese Hitoshi, avanzando fino all’ingresso
e piantandosi
di fronte ad Akeru. «Che non
riesco proprio a immaginare come questo sia finito sul tuo divano,
Chiharu.»
Chiharu non riuscì ad aprire
bocca. Akeru invece sollevò il mento in atteggiamento
aggressivo.
«Scommetto che se ti sforzi ci arrivi.»
Chiharu richiuse gli occhi.
Avrebbe dovuto sapere che Stupido non sarebbe riuscito a trattenersi
dal vantarsene, ed essendo Stupido ovviamente lo aveva fatto nel modo
peggiore.
Hitoshi non ebbe bisogno di altri
suggerimenti per arrivare alla verità; si rivolse a Chiharu,
sconvolto. «Sei stata con lui?»
«Vedi che ci arrivi se ti
impegni?» Akeru gli regalò un sorrisino di
trionfo, rimettendo il
marsupio. «Grazie, lo stavo giusto cercando.»
Negli occhi di Hitoshi passò un
lampo furibondo, che attraversò Chiharu e poi
tornò ad Akeru. «Ah
sì? E allora, come medico non ti sei accorto di non essere
il
primo?»
Il sorriso di Baka si spense
bruscamente. «Cosa?» chiese, sconvolto quanto
Hitoshi. «Lui è
stato il primo?»
Chiharu si passò una mano sul
viso, fermandosi alla bocca. Le dita le tremavano.
«Ad occhio e croce, una manciata
di giorni prima di te» calcolò Hitoshi. La
fissò, con
un’espressione mista di disgusto e orrore. Ora capiva. Ora
era
facile comprendere perché non aveva mai voluto parlarne... E
lui era
stato davvero cretino a pensare che lei fosse solo in imbarazzo.
Chiharu si costrinse a riprendere
fiato per arrestare la discussione prima che degenerasse.
«Oh, ma
per favore. Datevi una calmata. Non sono la fidanzata di nessuno di
voi, e con chi vado a letto sono fatti miei!»
esclamò, fissando un
punto vago all’altezza dei gomiti di Hitoshi e Baka.
«Non se lo fai tre giorni dopo
averlo fatto con me!» esclamò Hitoshi furibondo.
«Ora capisco
perché dopo non hai più voluto parlarne. E io
coglione che mi
bevevo le tue palle su quanto stavi male... Non voglio più
saperne
niente di te. Porca puttana Chiharu... Vai
all’inferno!»
Con una spallata ad Akeru, Hitoshi
attraversò la porta e uscì di casa pestando
rumorosamente i piedi.
Chiharu non provò a fermarlo.
Akeru lo guardò allontanarsi, poi, confuso, fissò
lei. «Ma che
cavolo... Tre giorni dopo? Che senso ha?»
Chiharu scrollò nervosamente le
spalle, perché in realtà nemmeno lei sapeva che
senso avesse, e
disse la prima cosa che le venne in mente: «forse mi piace il
sesso?»
«Forse ti piace il sesso?»
Chiharu inspirò ed espirò
bruscamente. Sentì Fay che apriva il rubinetto in cucina e
immaginò
che presto sarebbe tornata in corridoio per controllare la
situazione. Allora compose i sigilli e in una nuvoletta di fumo prese
le sembianze di Akeru.
«Che stai facendo?»
sibilò lui
irosamente. «Scordati di andare da Yoshi adesso.
Scordatelo!»
«Avevamo un piano»
ribatté lei,
bloccando la sua ombra sotto i piedi. «Se fossi in te ora mi
trasformerei in Chiharu Nara, o dovrai spiegare a Sakura un mucchio
di cose.»
E
uscì di casa, lasciandolo bloccato finché non fu
a distanza, quasi
fuori dalla proprietà.
Akeru
tornò padrone dei suoi movimenti soltanto pochi secondi
dopo, appena
in tempo per trasformarsi in lei prima del ritorno di Fay. Compose i
sigilli rabbiosamente, e dentro di sé giurò che
mai, mai, mai più
avrebbe dato fiducia a Chiharu Nara. Mai più!
Erano
nudi, forse stupidamente nudi, ma erano anche diciottenni in una casa
vuota e avevano appena fatto sesso.
Chiharu
era stesa contro Akeru, scomodamente incastrata su un divano che non
era stato progettato per far dormire due persone, e lui le
solleticava la schiena con le dita. Le scostò i capelli dal
collo,
sfiorandole il lobo dell’orecchio.
«Non
mi ero mai accorto che avessi un tatuaggio» le disse,
accarezzando
gli ideogrammi disegnati sulla sua nuca, fino alle prime vertebre
dorsali. Non erano parole che lui conosceva, ma gli davano uno strano
fremito sotto le dita e sembravano essere tenuemente fosforescenti.
Chiharu
si mosse e spostò i capelli per coprire il tatuaggio.
«Ti
aiuterò» disse contro la sua spalla, dove un altro
tatuaggio,
quello da Anbu, faceva mostra di sé.
«Cercherò di far parlare
Yoshi come hai suggerito tu.»
«Cosa
ti ha fatto cambiare idea?» domandò Akeru in tono
lievemente
sarcastico, scivolando con la mano fino alla sua coscia e
stringendola con intenzione.
«Non
quello. Cretino.»
Era
solo che aveva già deciso di farlo, ma prima non aveva
trovato il
modo per dirlo. Sapeva che era arrivato il momento di ricambiare
tutti i favori che Akeru le aveva fatto.
«In
fondo non sei tutta marcia» ridacchiò lui,
abbracciandola e
facendola rotolare sopra di sé.
«Non
sono marcia neanche un po’!» ribatté lei
offesa, cercando di
tirarsi su, ma lui la tenne contro il petto e le accarezzò
la testa.
«Lo
so» disse, la voce soffocata contro i suoi capelli.
«Sei solo
scema.»
Chiharu
sbuffò, ma si lasciò andare e
accoccolò la testa sotto il suo
collo.
«Se
ne sono andati?» chiese Fay, aprendo la porta della cucina
con un
sospiro.
«Sì.
Ma io sono il peggior essere umano che abbia mai camminato sulla
terra» rispose Akeru trasformato in Chiharu, accartocciando i
fogli
degli esami tra le dita. E cancellò dalla memoria gli ultimi
brandelli del ricordo della notte con lei, perché ora erano
rovinati
dalla brutta faccia di Hitoshi che gli diceva di essere stato il
primo.
«E’
la prima volta che ti sento esprimere un’opinione
sensata»
borbottò Fay. «Chiudi la porta e vieni in
salotto... Leggiamo gli
esami che hanno creato questo disastro.»
Chiharu
raggiunse il dipartimento di polizia con le sembianze di Akeru e una
frequenza cardiaca di duecento battiti al minuto.
Si
sentiva una spia in territorio nemico, un traditore della patria, un
farabutto in procinto di fare una strage di bambini... Aveva una
paura terribile. Perché mai aveva pensato che il piano di
Akeru
fosse un buon piano? Andare nella fossa dei leoni con un cosciotto di
manzo sotto la maglietta non poteva essere un’idea brillante,
ed
era proprio quello che stava facendo.
Avrei
dovuto far saltare tutto,
si
disse nervosamente. Perché diavolo mi
sono fatta prendere
dal panico e mi sono trasformata in Stupido?
Perché
il panico, per definizione, fa fare cose imbecilli. E perché
l’inaspettata risoluzione del suo triangolo con Akeru e
Hitoshi
l’aveva sconvolta molto più del previsto.
Comunque
ormai era lì, tanto valeva fare qualcosa di utile e seguire
il piano
per filo e per segno. La sua unica speranza di cavarsela era
comportarsi come si sarebbe comportato Akeru: quella notte lui le
aveva fornito tutte le istruzioni per arrivare alla sala degli
interrogatori senza farsi notare, bastava attenersi alle sue
indicazioni e non avere colpi di testa. Quella notte, dopo tutte
quelle cose interessanti sul divano...
Nonostante
i pensieri confusi, Chiharu riuscì a trovare senza fatica le
scale
che portavano al seminterrato, e le scese con la sensazione di una
trappola spaventosa che si spalancava sotto i suoi piedi. Arrivata
alla fine della rampa trovò le prime due guardie, che
riconoscendo
Akeru si limitarono a fare un cenno e andarono avanti a giocare a
shogi.
Chiharu
avanzò, continuando a ripensare a tutte le cose che avrebbe
potuto
dire a Hitoshi per farlo andare via prima che arrivasse Akeru, e che
non aveva detto. Man mano che proseguiva l’odore delle celle
si
faceva sempre più fastidioso, ma a questo Baka
l’aveva preparata.
Si rese conto che i sotteranei erano molto più ampi del
palazzo
sovrastante, e un paio di volte temette di aver sbagliato strada. Ma
poi si trovò nel corridoio con le celle singole e
capì di essere
nel posto giusto.
In
fondo, dove c’era un neon freddo e una singola porta di
metallo,
vide un uomo di guardia con la divisa della polizia. Non sembrava
amichevole come i due giocatori di shogi. Anche
quando lei gli
fu di fronte, quello rimase immobile e silenzioso. Chiharu smise di
pensare a Hitoshi e Akeru.
«L’ora
più buia è prima dell’alba»
mormorò nervosamente.
L’uomo
annuì e si fece da parte. Lei prese un respiro profondo
– il che
si rivelò un errore, con tutti i vasi da notte che venivano
riempiti
nel sotterraneo – ma si affrettò ad aprire la
porta prima che la
guardia si insospettisse.
Nella
stanza degli interrogatori c’erano già due
persone: una era
Morino, l’altro, sotto gli strati di sporcizia e le
tumefazioni,
doveva essere Yoshi. Di colpo Chiharu fu concentratissima.
«Sei
in ritardo!» abbaiò subito Morino.
«Mi
dispiace» sussultò lei.
«Fa
niente! Tanto non parla, non parla e non parla!» con il tono
esasperato di chi ha recitato la scena troppe volte, gettò
contro la
parete qualcosa di metallico, che rimbalzò sulle piastrelle
e ne
scheggiò un paio. Chiharu intuì che doveva essere
qualche orribile
strumento di tortura, ma non riuscì a vederlo bene. Su un
tavolino
pieghevole accanto alla porta c’era un’intera
valigetta piena di
attrezzi dalle forme raccapriccianti.
A
quel punto sorse il primo problema: non aveva più la
collaborazione
di Akeru, e quindi non sapeva se sarebbe riuscita a far uscire
Morino. Guardando la valigia degli orrori e la bandana che nascondeva
il cranio dello shinobi, pensò che stava rischiando davvero
troppo,
ed ebbe un fremito.
Se
non lo condanna a morte il Consiglio, Yoshi lo ammazzo io,
pensò.
In
quel momento il ragazzo era legato mani e piedi alla sedia inchiodata
al pavimento. Teneva il capo reclinato in avanti, come se riposasse,
e non sembrava particolarmente impensierito dalle tracce di sangue
sul tavolo.
Morino
si avvicinò alla porta e frugò nella valigetta,
in cerca di chissà
quale diavoleria. Chiharu si spostò impercettibilmente,
ricordando
che Baka di solito interveniva soltanto quando Morino glielo
chiedeva. Si accostò alla parete, stringendo le mani dietro
la
schiena, e le tornarono in mente le parole di Akeru: se
accetterai di seguire il mio piano, vedrai cosa fa Morino agli uomini
che interroga. Allora capirai.
Nei
minuti successivi, capì davvero.
Dovette
farsi violenza per non chiudere gli occhi né vomitare.
Morino era
esperto, spietato ed evidentemente pazzo, ma l’ultima cosa
doveva
essere una conseguenza della prima. Usò molti degli
strumenti nella
valigetta, in modi che Chiharu non avrebbe osato immaginare nemmeno
nei suoi momenti peggiori, e li usò con una naturalezza che
le fece
contrarre lo stomaco fin quasi a farle lacrimare gli occhi. Come
faceva Akeru a resistere? Come escludeva dalle orecchie le voci, i
rumori che facevano molti di quegli attrezzi, le reazioni di
Yoshi? Era possibile? Era umano? Certo che impazzivi, facendo quel
mestiere: non poteva finire in altro modo.
«Basta,
basta!» gridò Morino a un tratto, allontanandosi
dalla sedia di
Yoshi.
Chiharu
si costrinse a guardarlo e lo vide sudato quanto lei. Doveva averci
provato davvero intensamente, ma Yoshi non mollava.
Allora
sorse il secondo, più grave problema: Morino le chiese di
curarlo. E
Chiharu non poteva farlo, naturalmente.
Sentì
un’ondata di gelo risalire dalle mani al collo e fino alla
testa,
oscurandole la vista per un momento. La cura con il chakra non era
qualcosa che si poteva improvvisare. Fece lavorare rapidamente il
cervello, ma aveva troppa paura di Morino per riuscire a trovare una
soluzione. Si staccò dal muro con enorme lentezza,
avvicinandosi al
tavolo al centro della stanza senza guardare gli strumenti sparsi
sulla sua superficie.
«Prima
o poi mi sbaglierò, e il medico che ti
ricuce non sarà più
sufficiente» ringhiò Morino dal fondo della
stanza. «Feccia
schifosa.»
Chiharu
si accovacciò accanto a Yoshi, che sollevò una
palpebra gonfia e le
lanciò uno sguardo opaco. Sembrava abituato a
quell’iter, ma non
particolarmente grato. Lei esitò, schiarendosi la voce. Lui
alzò
leggermente la testa.
«Dove...
Da dove inizio?» chiese sottovoce, con un’occhiata
nervosa a
Morino. «Dove senti più male?»
Yoshi
non rispose, ma aprì entrambi gli occhi per guardarla
meglio. Poi
sorrise – un’immagine davvero agghiacciante con i
denti sporchi
di sangue – e raddrizzò la schiena.
«Era
ora.»
«Che
c’è?» chiese Morino. Un attimo dopo
roteò gli occhi all’indietro
e perse conoscenza, scivolando a terra con un tonfo.
Yoshi
ebbe una specie di fremito, e le ferite sul suo viso si riassorbirono
a vista d’occhio, lasciando pallidi segni più
chiari là dove una
persona normale avrebbe avuto delle cicatrici. Accadde così
velocemente che Chiharu si rialzò e fece un passo indietro,
stupefatta e un po’ spaventata.
«Non
fare così, lo insegnerò anche a te»
disse lui, muovendo la
mandibola e il collo per assicurarsi che fossero in ordine. A quel
punto la guardò, con lo sguardo brillante di chi ha fatto
una bella
notte di sonno, e Chiharu iniziò a temere che la situazione
fosse
meno sicura di quanto lei e Akeru avevano pensato.
«Sciogli
la trasformazione, mi fai impressione» disse Yoshi.
Chiharu
riprese le proprie sembianze, ma si tenne sulla difensiva.
«Baka ha
detto che avresti chiarito tutto» mormorò cauta.
«Sì,
la cattura è stato un intoppo fastidioso... Sarei arrivato a
te
molto prima, se solo non mi avessero preso. Così immagino di
averti
dato l’impressione sbagliata.»
«Non
farmi perdere tempo» lo interruppe lei. «So che
vuoi tirarmi in
mezzo a questa storia, ma non capisco perché. Sai che non
c’entro
niente.»
«Invece
tu c’entri. Tu sei il centro di tutto! Non la guerra, e non
la
Roccia, che è un Paese di persone poco intelligenti. La
guerra non
ha mai avuto niente a che fare con tutto questo, e nemmeno
l’Hokage.
Si è sempre trattato di te.»
Chiharu
non seppe cosa rispondere, a parte che le sembrava di intravedere in
Yoshi la stessa scintilla di pazzia che aveva visto in Morino. Nel
dubbio rimase in silenzio, con la mano vicina alla cintura dei kunai.
«Haru,
io sono qui per te» continuò
Yoshi tendendo il collo verso
di lei, visto che le mani erano ancora legate dietro la sedia.
«Sono
venuto a portarti via.»
«Perché?»
domandò lei cautamente.
«Come
perché? Perché è
quello che vuoi!» Yoshi lo esclamò quasi
ridendo. «Tu non sei fatta per restare qui, non lo
sopporti.»
«No?»
Chiharu lo fissò stralunata, ma lui non sembrò
turbato dal suo
scarso entusiasmo.
«Non
mi hai mai riconosciuto, vero?» le chiese.
«Avrei
dovuto?»
«Certo
che no. Il nostro incontro non ha significato niente per te, allora.
Io ero solo una spia di poca importanza, e tu avevi ben altri
problemi...»
Chiharu
corrugò la fronte, in cerca del ricordo a cui si riferiva
Yoshi, ma
non lo trovò.
«Cinque
anni fa, Haru. Io ero una spia infiltrata, e il tuo gruppo era
incaricato di riprendermi. Quella volta che hai scatenato quel
terremoto, e subito dopo hai detto di voler lasciare la carriera di
kunoichi... Mi chiamavo Ariyoshi Tsuda.»
All’improvviso
Chiharu ricordò. Ma erano avvenimenti che sembravano
accaduti
un’intera vita prima, quando ogni piccolo incarico era
importante e
lei era ancora sana, boriosa e incosciente: c’era stata una
missione, avevano scoperto una spia infiltrata a Konoha, catturarla
era stato uno dei suoi test per capire se poteva restare kunoichi...
Ricordava vagamente la faccia del ragazzo della Roccia con cui si
erano scontrati, e che poi, a causa sua, era fuggito. Forse nei suoi
occhi c’era qualcosa di familiare, ma i capelli tinti di
Yoshi
erano troppo fuorvianti per esserne sicura.
«Non
è possibile. Hai un’identità, ci sono
persone che ti conoscono da
prima... Quella volta al tempio di Juka!» ribatté
parlando veloce.
«Non
è difficile crearsi un’identità. La
famiglia di Yoshi esiste
davvero, come tutta la gente che li conosce a Juka. E sì,
avevano un
eroico figliolo che aveva studiato tra i ninja... Sfortunatamente mi
serviva morto. E mi serviva morto anche il fratellino minore, mandato
a studiare a Konoha al suo posto. Un’intera famiglia di
solide
origini mi sembra una copertura sufficiente.»
«Ma
perché?» alitò Chiharu.
Yoshi
sospirò spazientito. «Te l’ho detto: per
te. Ti ho osservata per
tutto questo tempo, e quando ho visto che avevi preso da Konoha tutto
quello che potevi, ho agito. Certo, gli avvenimenti degli ultimi
giorni hanno un po’ complicato la situazione... Ma grazie a
quel
buon cuore di Baka sono riuscito a farti venire fin qui in ogni
caso.»
«Non
capisco...»
A
quel punto Yoshi sbottò proprio: «Non è
complicato: l’ho fatto
per darti quello che Konoha non ha; perché qui per una come
te non
c’è più niente!»
«Ma
che ne sai?»
Yoshi
sorrise con l’aria di chi sapeva molte cose. Chiharu
provò
l’istinto di fargli arrivare un pugno in mezzo al naso, ma si
trattenne.
«A
Konoha c'è tutto quello che mi serve... sono io che non ho
niente da
dare a loro» disse invece.
«Sì, so che da quando sei
tornata la situazione è un po’ peggiorata. Ma sono
tutte
sciocchezze. Io ho visto il tuo potenziale, ho visto quello che puoi
fare...»
«Non più» lo
interruppe lei.
«Mi sono giocata tutto quel potenziale facendo un mucchio di
cazzate, e adesso sono una cardiopatica.»
Il sorriso di Yoshi si fece più
insolente. «Fuori da Konoha ci sono cure che neanche
immagini.
Guarda la mia faccia, pensa a come era ridotta pochi minuti fa; prova
a pensare a cosa si potrebbe fare per il tuo cuore.»
Senza volerlo Chiharu fremette.
Quello era l’unico argomento che potesse incrinare la sua
determinazione a tornare una brava ragazza. Guardò
nervosamente il
corpo addormentato di Morino, poi di nuovo Yoshi.
«Anche se...»
deglutì. «Anche
se fosse possibile, non me ne faccio niente di un cuore in salute con
una condanna per alto tradimento sulla testa.»
«Non limitarti da sola, andiamo!
Il mondo non inizia e non finisce alle porte di Konoha. Te
l’ho già
detto, questo Villaggio non fa che tarparti le ali: hai visto
così
poco del mondo là fuori! Voi shinobi della Foglia siete
così
sottomessi, sempre tanto bravi a scattare al primo ordine... Mai un
passo che non sia stato ordinato dall’Hokage, mai
un’iniziativa.
Vieni con me: ti mostrerò cosa vuol dire non dover rendere
conto a
nessuno.»
Chiharu si alzò in piedi e fece
un giro del tavolo, massaggiandosi il viso con le mani sudate.
Ricordò la voce di Yoshi che le elencava una serie di
meraviglie
oltre i confini, meraviglie di cui lei non sapeva niente. Era
successo prima della missione di Loria, quando tutto era ancora
normale, e allora l’idea l’aveva infastidita, ma
non attratta.
Eppure
se là fuori ci fosse una cura...,
si trovò a pensare in quel momento.
Smise di camminare, scosse la
testa. Guardò di nuovo Yoshi, che sembrava a suo agio
nonostante
fosse ancora immobilizzato.
«Qui sei sprecata»
insisté lui.
«Vieni con me, posso mostrarti la via per diventare
grande.»
Chiharu serrò le labbra. «No
grazie» si costrinse a dire. «Qui ho ancora molte
cose da fare.
Qualunque cosa ci sia oltre le mura di Konoha, posso arrivarci anche
senza il tuo aiuto.»
Il sorriso di Yoshi si spense
lentamente, ma non scomparve del tutto.
Per un minuscolo istante il tempo
rimase sospeso, in bilico tra due possibili soluzioni.
«Chiharu...» disse poi Yoshi,
con voce gentile. «Davvero pensi che avrei rischiato cinque
anni
della mia vita in un piano che ti lasciasse scelta?»
Una vibrazione scosse il pavimento
piastrellato.
Le gambe inchiodate del tavolo
cigolarono con un rumore fortissimo, ripiegandosi fino a strapparsi
via. Le gambe della sedia si spezzarono con uno schiocco metallico,
le catene che immobilizzavano Yoshi esplosero in mille frammenti.
La vibrazione del sotterraneo
aumentò, diventando fastidiosa per le orecchie,
aumentò e aumentò
finché le piastrelle non iniziarono a frantumarsi con
piccoli scoppi
striduli. Chiharu corse verso la porta, ma prima che potesse
raggiungerla la vide deformarsi ed ebbe paura che il metallo si
stesse sciogliendo.
«Cosa stai facendo?»
gridò a
Yoshi, che si massaggiava i polsi guardando verso l’alto.
«Io niente» rispose lui.
«Ma a
questo punto dovresti aver intuito che non ho organizzato tutto da
solo.»
Con un crack assordante
un’enorme crepa circolare si aprì lungo le pareti
della cella, e
contemporaneamente la luce saltò. Una pioggia di scintille
si liberò
dalle estremità dei cavi recisi
dell’elettricità; Chiharu afferrò
Morino per una caviglia e lo trascinò lontano.
Annaspando nella polvere e nel
buio, Chiharu compose disperatamente i sigilli per riprendere le
sembianze di Akeru, appena in tempo: il tetto della stanza degli
interrogatori e almeno metà delle pareti si sollevarono nel
cielo,
scoperchiando il sotterraneo e aprendo una voragine nel cortile del
dipartimento di polizia. A quel punto il cemento si
sgretolò,
franando ai lati del cratere, e Chiharu sentì le voci dei
poliziotti
che uscivano urlando dall’edificio. Nell’aria si
diffuse un
penetrante odore di zolfo e polvere, che danzava nelle strisce di
sole.
«Andiamo» disse Yoshi,
tendendole una mano. «Non credo proprio che esista un modo
per
spiegare ai signori di sopra che tu non c’entri
niente.»
E all’improvviso la
trasformazione di Chiharu si sciolse, come se qualcuno le avesse
rovesciato addosso una secchiata di acqua gelida. Chiharu
ansimò,
sentì il cuore accelerare, spaventato e orripilato. Vide le
teste
dei poliziotti iniziare a sporgersi oltre i detriti ai margini del
cratere, vide le dita di Yoshi che si agitavano per incitarla a
seguirlo, e fu travolta dalla consapevolezza che era appena stata
incastrata nella sua fuga.
Allora capì che c’era solo una
cosa da fare: riacciuffarlo prima che si allontanasse dal Villaggio.
«Non sottovalutarmi!»
gridò,
afferrando una manciata di kunai con entrambe le mani.
Yoshi la vide lanciarsi contro di
lui e alzò le braccia appena in tempo per afferrare i suoi
polsi.
«Con un cuore in quelle
condizioni?» le chiese. «Io non lo farei»
di colpo la tirò più
vicina, affondando le dita nella carne delle braccia con una forza
che lei non si aspettava. «Sei solo un girino in uno stagno,
Chiharu. Un minuscolo girino ignorante.»
E la scaraventò a terra come un
sacco di foglie secche. Poi, senza più guardarla, in un
balzo fu
oltre i bordi del cratere.
Dal pavimento ingombro di macerie
Chiharu vide i poliziotti che cercavano di fermarlo; fallirono.
Provò
a tirarsi su, ma le gambe le tremavano troppo.
Cosa ho fatto, cosa ho fatto,
cosa ho fatto...,
si ripeté
disperata. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime mentre
elaborava una
decina di scenari diversi: non ce n’era nessuno in cui se la
cavava. Non solo era fisicamente presente sulla scena
dell’evasione,
ma era anche fuggita alla sorveglianza di Fay. Non sarebbe stata la
sola a finire nei guai: anche per Akeru sarebbe stata una condanna
definitiva. Yoshi se l’era studiata bene: o adesso lei alzava
il
culo e lo seguiva prima che la arrestassero, o l’unico futuro
che
la attendeva era dietro le sbarre.
«Merda!»
gridò, battendo un pugno a terra.
La vibrazione che aveva scosso il
sotterraneo si era sentita per tutta Konoha, fino alla residenza dei
Nara.
Dalla porta spalancata, Akeru,
trasformato in Chiharu, vide la colonna di polvere levarsi in
corrispondenza del dipartimento di polizia. Il sangue
abbandonò
completamente il suo viso, mentre Fay lo raggiungeva
all’esterno.
«E’ il dipartimento!»
la sentì
esclamare ansiosamente.
Lui deglutì, sciogliendo la
trasformazione. «Ok, ho una confessione da fare...»
sussurrò con
un filo di voce.
Il
fuoco circonda gli attori.
Tutto
è pronto per finire in fumo.
* * *
Un anno dopo la ripresa di Penne
arriviamo al capitolo centrale
(in termini di importanza, non di lunghezza. Calma).
Cosa ho fatto.
La HinaJin. Il triangolo HitoHaruBaka.
E Yoshi, finalmente,
che sembra il piùffigo in circolazione
e dunque non ci si spiega perché sia fissato con Chiharu,
che al momento vale due pacchetti di gomme sul ninjamercato.
Insomma, fuoco alle polveri.
Nel prossimo capitolo ci saranno botte, sangue e violenza,
flashback e un Uchiha dall'orgoglio molto ferito.
In questo, c'è il disegno di Baka che mi avete chiesto mille
anni or sono.
http://it.tinypic.com/r/k4t2td/9
Piccolo, lui.
Un po' mi sento in colpa.
A risentirci al prossimo capitolo!
Buon anno a tutti!
Susanna
Questo capitolo ti avrebbe fatto arrabbiare, lo so.
Ma in questo modo avresti messo le mani su Jin,
e presto ti saresti consolata.
Un altro anno.
Ti voglio bene.
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