Frozen Shadows

di visbs88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In the sun ***
Capitolo 2: *** In the blood ***
Capitolo 3: *** In your arms ***
Capitolo 4: *** In despair ***
Capitolo 5: *** In apathy ***



Capitolo 1
*** In the sun ***


Contest: Giallo a scelta multipla indetto da Faejer sul forum di Efp.

Note: la storia si svilupperà secondo le linee del contest a turni a cui partecipa; colgo l'occasione per ringraziare la giudice, che sono certa farà un ottimo lavoro e che mi ha permesso di concepire questo piccolo progetto, sebbene io non nutra grandi speranze per il risultato finale. ^^' Il rating potrebbe salire più avanti, mentre dubito che la lunghezza dei capitoli sarà mai eccessiva, anzi; spero che ciò non vi infastidisca e che possiate apprezzare almeno questo prologo. Grazie in anticipo a chiunque passerà a dare un'occhiata e buona lettura ^^

 

 

 

Frozen Shadows

 

 

 

1. In the sun

 

Caroline aveva trovato un nome ai propri fantasmi: li chiamava “ombre di ghiaccio”.

Pensava fosse una definizione poetica, terribile e perfetta. Non che fosse una sua invenzione: il destino le aveva donato una sensibilità all'arte e alla bellezza fuori dal comune, ma le aveva negato l'abilità di crearle, perlomeno nei modi in cui avrebbe desiderato farlo.

Era stato in una mostra a Parigi che aveva trovato quel connubio di parole che l'aveva colpita così a fondo, risvegliando i recessi più remoti della sua anima. Era stato il quadro di un emergente pittore francese: “Come ombre ghiacciate nella pioggia”, il titolo dell'opera. Senza di esso, il dipinto forse non avrebbe suscitato il suo interesse; ma, oh, quelle vaghe figure umane, perse in un diluvio di pennellate dai colori del gelo e dell'acqua chiarissima, sullo sfondo blu della neve livida e del cielo al crepuscolo... ombre ghiacciate nella pioggia, e una scheggia si era fatta strada nel suo cuore, come il frammento di specchio della Regina delle Nevi nello spirito del piccolo Kai.*

Così, anche in quella splendida giornata di sole estivo, i cui raggi si riflettevano mille e mille volte sui grattacieli di Manhattan, il ghiaccio era al centro dei suoi pensieri.

Perché un'ultima ombra si era aggiunta di recente alle più vecchie – ed era già puro cristallo, acuminato, doloroso e brillante.

Caroline piangeva lacrime fredde che scendevano lente sulle sue guance arrossate dal caldo dei primi di agosto. Avrebbe voluto smettere: per questo camminava senza meta, in mezzo alla folla degli abitanti di New York mescolati ai turisti, in mezzo a mille colori, mille lingue e mille volti. Cercava nel caos un sollievo che la distraesse, qualcosa di bello e di familiare, qualcosa di magico da guardare come se fosse la prima volta, come se in quella città non fosse cresciuta e vissuta durante l'intero corso della propria vita, fatta eccezione per l'ultimo anno.

Il vetro e l'acciaio, gli eleganti uomini d'affari e i venditori ambulanti di hot dog, Harlem, Little Italy e Chinatown non avevano avuto né il tempo né lo spazio di mancarle, mentre viaggiava nella lontana Europa; li aveva allontanati del tutto dalla propria mente per fare spazio alle meraviglie di un mondo per lei del tutto nuovo, per lasciare che la sua sensibilità non fosse offuscata da ricordi o confronti. Adesso, tra il cemento, i taxi e gli odori, le costruzioni surreali di Gaudì a Barcellona, il pittoresco porto di Nyhavn a Copenaghen e l'imponenza del Colosseo di Roma sembravano terribilmente lontani e sfuocati – come se li avesse visti solo in qualche foto, in un album sfogliato senza nemmeno troppo interesse. Tutto questo malgrado l'arte acclamata, celebrata e famosa in tutto il mondo l'avesse estasiata, senza alcun dubbio, sfavillando di fronte a lei dopo essere stata studiata con tanta cura su libri illustrati e precisi; anche l'arte novella non l'aveva certo lasciata indifferente, poiché il panorama in apparenza desolato dei nuovi geni doveva essere solo scrutato con maggiore attenzione per diventare più ricco di quello che le aspettative di molti si figuravano. Infine, e per questo Caroline piangeva, l'arte più pura l'aveva sedotta, annichilita e abbattuta. Dove sperare di trovarla, se non nelle spiagge bianchissime della madre più feconda di ogni bellezza, se non nel mare più scintillante che tanti eroi erranti avevano solcato, se non nelle isole verdi della Grecia?

 

Il suo nome rimandava al guerriero più forte, alla perfezione più alta, alla gloria più eterna; i suoi capelli non erano la chioma d'oro decantata nell'Iliade, ma ricci neri come nei dipinti lucidi sui vasi di terracotta modellati e decorati dagli artigiani di quei tempi lontani; nei suoi occhi, il blu delle onde che portarono la grande flotta alle porte di Troia. Sul volto abbronzato dal sole ridente un sorriso più candido del marmo delle statue l'aveva lusingata e ammaliata come il fascino di Ulisse aveva stregato Circe, Calipso e Nausicaa.

L'amore era stato romantico, profondo, intenso; la passione e la dolcezza si erano intrecciate sotto i cieli che avevano visto amanti Enea e Didone.

Caroline non avrebbe mai avuto l'ardire di paragonarsi davvero alle dee, alle ninfe, alla tormentata regina di Cartagine, ma di quest'ultima ormai poteva quantomeno intuire i sentimenti con un senso di sorellanza e affinità molto più bruciante che in passato.

Tutto aveva avuto l'aspetto di un poema d'altri tempi, nella poesia di ogni parola, di ogni gesto, di ogni sguardo. Ma Caroline viveva nel presente, con i suoi problemi e i suoi ostacoli pungenti, insormontabili.

Del Pelide immortale lui aveva ereditato anche la caparbietà e i capricci; lei aveva un lavoro da seguire, fiutare, rincorrere lontano ovunque fosse necessario, insieme ad una casa a cui tornare, alla fine di tutto. Le richieste e le preghiere di accompagnarla servirono solo ad irritarlo, le lacrime furono inutili. Per rinnegare quei progetti messi a punto con cura tanto minuziosa e che la sua mente non poteva vedere sconvolti, Caroline non era stata abbastanza forte; la sua indole era di quelle che seguivano le correnti senza mai deviare, non per determinazione, ma per inerzia, per debolezza, per una pigrizia e una codardia dell'anima che nemmeno quella volta aveva saputo combattere.

Forse, se lui non fosse stato altrettanto egoista e meno radicato nella sua oasi di pace, la storia sarebbe continuata anche nelle vie di Brooklyn e del Queens, ma si interruppe con un volo verso Vienna.

 

Ormai quel viso lontano era un'ombra di ghiaccio perfetta, striata di rimpianto e scheggiata di rimprovero. Ombra perché lontano, scuro, sfuggente; ghiaccio perché doloroso e freddo. Come tutti.

Central Park verdeggiava sotto ai suoi piedi mentre Caroline continuava a camminare. C'era solo una differenza tra lui e gli altri: graffiava, mentre il resto era oblio. Il gelo, alla lunga, non brucia più; quando il dolore è troppo, la pelle smette di sentire e si consuma in silenzio.

La nostalgia e i dubbi erano più intensi, ora che la culla dei luoghi natii l'aveva riaccolta lasciandole lo spazio di pensare a ciò che non fosse un albergo da trovare, un monumento da visitare, una mostra a cui recarsi per lavoro.

Questo pensiero le ricordò Rosaline. La riportò al sicuro sulla spiaggia dopo il suo essersi smarrita tra i flutti, sussurrandole di lasciare entrare l'estate nel suo cuore come la città le suggeriva con i suoi turisti sgargianti e i gelati variopinti. Tra le ombre di ghiaccio, Rosaline era l'ultimo raggio tiepido che rimaneva. Caroline e ogni sua certezza si erano sempre aggrappate a lei, e viceversa. In ogni momento buio, in ogni respiro, in ogni giornata vissuta insieme, fianco a fianco, sempre unite, perché il cielo le aveva volute così: gemelle dagli identici tratti e dagli identici sentimenti, con mani fatte per incastrarsi le une nelle altre senza nessun ostacolo o difetto.

Quando tanti dei loro amici erano andati incontro a destini strani e orribili, senza la possibilità di tornare indietro; quando voci attonite e mormorii incerti avevano bisbigliato l'ipotesi atroce che Sean, il brillante della classe, scomparso nel nulla, ora uccidesse per lavoro; quando tutti gli altri spiriti gelidi nel passato si erano persi nei vicoli più malsani del Bronx, vendendo la droga e le notti, le sorelle così legate a quei compagni di vita avevano resistito insieme non come rami simmetrici di un albero comune, ma come un unico tronco, tenace solo finché completo.

Rosaline, il lavoro, Rosaline e il suo caldo abbraccio: le ultime lacrime caddero sull'asfalto mentre riusciva a concentrarsi sul fatto che l'altra parte di sé, la sua metà – la sua metà più vera e inconfutabile – stava per sorriderle di nuovo, gli occhi pieni di tenero affetto che sarebbero stati specchio perfetto dei suoi. Non aveva voluto andare a casa prima di aver domato e sopito l'ansia e lo sgomento causati dalle memorie, che l'avevano assalita non appena i suoi piedi avevano toccato il pavimento dell'aeroporto JFK, lo stesso che l'aveva vista partire un anno prima. Non aveva voluto turbare un animo fragile quanto il suo, perché il rischio di cadere insieme, come un castello di carte colpito dal soffio di un respiro, esisteva. Avevano accettato l'addio solo sapendo di potersi scrivere, guardare, parlare, quasi sfiorare attraverso schermi e computer, in ogni istante libero, in ogni attimo delle giornate più tempestose. Quando Caroline le aveva raccontato delle proprie pene d'amore, Rosaline aveva iniziato a soffrire, perché condividevano lo stesso cuore e la stessa debolezza. Caroline non avrebbe mai sopportato di farla piangere in un momento di gioia, solo perché lei non era riuscita a frenare il proprio turbamento.

Nei momenti in cui erano state lontane come mai prima, si erano spesso fissate negli occhi grazie alle webcam, in silenzio, per poi allungare le dita l'una verso l'altra e tentare di far coincidere le loro mani, anche solo poggiandole su quel misero pezzo di vetro e plastica, che diventava appena un po' più caldo. La loro dolce e magnetica complicità non era venuta meno malgrado mille onde e mille città a tentare di frapporsi in quel legame indissolubile; avevano continuato a lavorare insieme, senza spezzare il loro prezioso equilibrio.

Critiche d'arte dal sottile intelletto e dal gusto squisito, visitavano, studiavano e scrivevano per pubblicare su articoli e giornali dedicati alla loro passione, alla cultura. L'inizio non era stato difficile come avevano pensato: la fortuna aveva eletto loro a proprie predilette, in mezzo a tutte le persone con cui erano cresciute. La via dell'affermazione e della fama cominciava a delinearsi sempre più nitida di fronte a loro, ancora giovani e fresche, un nastro d'argento che scintillava di speranza e attorno al quale stringevano le loro dita sottili: non troppo piano, per paura di smarrirlo, non troppo forte, nel timore che si spezzasse. Si erano accorte che la sua linea non era retta, ma piena di curve, e arrivava lontano: per seguirla fino in fondo, quindi, lontano era dove occorreva andare. Avevano fatto un patto tra loro, con se stesse e con la via di seta che le guidava: prima la loro terra, insieme, con cura, per tutto il tempo necessario; poi, per un anno ogni volta, Caroline l'Europa, Rosaline l'Asia, Caroline l'Africa, Rosaline l'America del Sud. Questi i luoghi in cui le avrebbe condotte quella strada sinuosa e impalpabile. Una doveva rimanere a New York, a curare e osservare l'arte di origine, per non perderla mai di vista; l'altra volare a scoprire i misteri dei mondi che più l'attiravano, a rendere più ricchi di colori gli articoli che proponevano. Una scriveva, l'altra leggeva e sognava, correggeva, domandava, suggeriva; amavano insieme, sentimenti all'unisono, menti collegate, amiche, colleghe, gemelle.

 

Rosaline l'aspettava, forse la stava facendo preoccupare: il suo vagare in città non era stato previsto, era in ritardo. Doveva tornare all'aeroporto a recuperare i bagagli e andare da lei. Lasciare che una spremuta d'arancia bevuta insieme sedute alla finestra alleviasse le pene per l'ombra di ghiaccio. Dormire sotto le stesse lenzuola, come quando erano bambine, fronte contro fronte, niente di più. Recuperare ogni singolo attimo di un anno in quei due mesi prima della partenza di lei, quando sarebbe toccato a Caroline attendere e pazientare immaginando le pagode e i ciliegi.

Abbracciarla e lasciarsi scaldare.

 

 

 

 

 

 

*La fiaba ufficiale di Andersen parla dello specchio di un troll malvagio, ma ci sono varianti in cui lo specchio è della Regina da cui il racconto prende il nome; concedetemi la licenza poetica di riferirmi a queste ultime.

 

Nota finale: la città di New York in cui è ambientata la storia, la professione di critica d'arte della protagonista e la stagione estiva in cui svolgere le vicende sono gli elementi che ho trovato nel pacchetto “Giallo” del contest.

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Capitolo 2
*** In the blood ***


Ringraziamenti: grazie mille a Victoria_Missa per aver messo la storia nelle ricordate, a zzzrosazzz per aver recensito e alla giudice del contest per la valutazione del primo capitolo ^^ spero che il secondo sia all'altezza. Buona lettura! ^^

 

 

 

2. In the blood

 

Dove sei?”.

Caroline aveva suonato il campanello e non aveva ricevuto risposta; aveva dovuto, allora, trasportare a fatica i bagagli nell'androne, da sola, fino all'ascensore; ve li aveva stipati dentro con difficoltà. Era sudata per il caldo e gli occhi le bruciavano per il pianto. Aveva tirato fuori le valigie mettendole davanti alla porta dell'appartamento, che era chiusa, impassibile di fronte al suo ritorno. Ne fu ferita. Come poteva combattere ricordi e amarezze, se nessuno la accoglieva con quella dolcezza in cui lei aveva risposto ogni sua speranza, se si aggiungeva una nuova delusione a quella che già l'affliggeva? Era forse un pensiero troppo egocentrico, troppo egoista, questo? No, perché tra pensare a se stessa e pensare a lei non esisteva differenza alcuna: ognuna era entrambe – o così credeva.

Dove sei?” si chiese, facendo scattare la serratura.

Dov'era il sole?

Mosse qualche passo all'interno della prima stanza. Non riuscì a respirare a fondo l'avvolgente odore di legno, orchidee e libri, a riconoscerlo come quello di casa, come in momenti romantici e malinconici aveva sognato; non provò gioia nel guardare i mobili, le lampade, le poltrone e i quadri. Mancava chi aveva costruito insieme a lei tutto ciò, la voce identica alla sua a sussurrarle il benvenuto, la figura che aveva il suo medesimo modo di camminare e allargare le braccia per stringerla.

Mancava l'abbraccio. Mancava la luce e ogni tinta scelta con tanto gusto sbiadiva di fronte al vuoto.

Dove sei?” si chiese, rimanendo immobile nel silenzio.

Nel momento più importante Rosaline la stava lasciando sola. Dita spiacevoli, dure e fredde, si serrarono attorno al suo cuore, mentre Caroline ammutolita guardava e non vedeva. “Sarò giù ad attenderti, non un secondo andrà sprecato”: non le era stato detto così? Non avevano descritto, immaginato, programmato insieme ogni attimo di quel rientro? Possibile che il loro progetto fallisse in maniera così misera?

Muovere le labbra, cercare di chiamare ad alta voce il nome tanto amato, tentare di vincere il peso nel petto e nella gola avrebbe significato rompere in maniera troppo brusca il silenzio che le sibilava nelle orecchie. Non lo desiderava: si sentiva isolata e immersa in un'atmosfera astratta di cupa irrealtà che impediva alla verità di ferirla.

Percepiva se stessa come un fantasma e tale avrebbe voluto essere: scivolare senza sforzo sul pavimento e lungo le pareti, muoversi senza peso, senza costringere i muscoli a tendersi e le sue scarpe a frusciare sui tappeti. Quei sussurri che causò al suo passaggio, inevitabili per quanto lievi fossero i suoi passi, furono piccoli graffi sulle sue tempie: riecheggiarono insieme allo scricchiolio di un mobile, ricordandole piano ma con fermezza che esisteva lei ed esisteva quell'abbandono ed esisteva quel sogno, che il tempo scorreva e gli oggetti potevano essere toccati.

Il ghiaccio gorgogliava tra le sue viscere. Quel vuoto era troppo denso. Rosaline non c'era.

Si diresse verso le camere da letto, la parte più lontana della casa, da cui forse Rosaline avrebbe potuto non accorgersi del suo arrivo, anche se avrebbe dovuto aspettarla con animo fremente e cuore traboccante di affetto, come il suo. Il sole del pomeriggio inondava anche quelle stanze.

Il ronzio di una mosca riempì l'aria. L'insetto scuro svolazzò davanti agli occhi di Caroline per poi entrare, goffo e nero, nella stanza che non la vedeva da un anno ma che rimaneva sempre sua, sua e di Rosaline, due letti affiancati, due cuscini, due armadi, due gemelle a riposare nella pace della vicinanza.

Caroline si accinse a seguire la piccola creatura e il ronzio crebbe di volume, come se nella camera essa avesse trovato almeno altre due compagne.

Cosa...?” si domandò, prima di affacciarsi sull'uscio.

E Rosaline era lì.

Aveva le braccia aperte, come nei loro desideri. Tese sul letto, a cingere coperte macchiate di rosso.

Caroline si vide morta.

Vide se stessa e il volto pallido, le labbra socchiuse, gli occhi sbarrati che avrebbe avuto; vide il proprio sangue scorrerle sulla guancia e lungo il collo, insinuarsi sotto la maglia e fermarsi lì, vicino al seno, in quella macchia scura come un livido e orlata di rosa, là dove la sua tinta sfumava; vide le mosche affaccendarsi sul buco sulla sua tempia, come se volessero penetrare in lei, nella sua testa, scavare nella carne distrutta e bruciata.

Vide la fine.

Tante, troppe volte aveva letto del gelo che invadeva le membra, del torpore, del cuore che si riempiva di schegge fredde e acuminate come acciaio, come sintomi poetici e raccapriccianti del momento estremo. Li provò, li sentì. Lasciò che la invadessero, che prendessero pian piano possesso di ogni briciola di lei, di quella statua calda e immobile che rimase per decine e decine di secondi a fissare la propria morte. Lasciò che comparissero ombre di fronte ai suoi occhi. Infine, cadde.

Nell'urto doloroso delle ginocchia sul pavimento, nei capelli che le scivolarono davanti al viso, nelle mani che in un riflesso immediato si appoggiarono a terra per impedire alla testa di ferirsi, nel respiro che le si mozzò e la soffocò sentì la vita fluire in tutta la propria potenza. Il cuore martellava furibondo, il sangue ribolliva, il ghiaccio si sciolse in lacrime di neve, il freddo morse, strappò, smembrò, si dibatté con rabbia nel suo petto nella disperazione e nel folle desiderio di infliggerle tutto lo strazio che doveva provare. I fantasmi urlarono e lei emise un rantolo, ma nulla di più, assordata, strisciando fuori dalla sua tomba, appoggiandosi alla parete del corridoio, stringendosi le ginocchia al petto in uno spasmo incontrollabile. Strilli acuti come di demoni le dilaniavano le orecchie e la mente; serrò gli occhi tanto forte che anche le sue palpebre iniziarono a gemere di sofferenza, mentre le sue labbra erano aperte in un grido muto, la fronte sulle gambe, il buio a circondarla, le ombre di ghiaccio che danzavano e ferivano – e ormai non c'era più alcun sole in mezzo a loro.

Tutto era tempesta, grandine, voragine, orrore. Mai più un sorriso sincero ad allontanarle e darle conforto, mai più il caldo ad avvolgerla, mai più... mai più se stessa. Aveva cessato di esistere. Era a metà, mutilata, squarciata – un braccio una gamba un piede una sola. Una lastra affilata si era abbattuta su di lei, ghigliottina implacabile. Un'ascia aveva reciso quella parte del fusto del suo albero che più era necessaria a sorreggerla. Lei era foglie, rami, radici senza alcuna simmetria. Aveva perso il suo riflesso, la sua anima.

Tra tutte le ombre di ghiaccio Rosaline era ora quella che la guardava dritta negli occhi, pallida e livida e chiara e morta, con l'espressione congelata nella fine, vicinissima e irraggiungibile.

Irraggiungibile.

Eppure dovevano stare fianco a fianco. Dovevano. Era inevitabile. Caroline voleva andare da lei.

Questa consapevolezza crebbe lenta, ma inesorabile. Aveva sempre più freddo ed era sempre più rigida. Il tempo la guardò indifferente e continuò a scorrere, lei lo ignorò a propria volta. Lo lasciò passare, minuto dopo minuto, a lungo, a lungo, a lungo, soffrendo. Desiderando Rosaline.

Quanto insignificante sembrava l'ombra di ghiaccio che tanto aveva invaso i suoi pensieri solo poche ora prima. Era lì, sbiadita, mentre Rosaline risplendeva. Caroline le si stava avvicinando senza accorgersene – alla luce accecante della finestra. Didone come se Anna fosse partita insieme ad Enea verso il mare infinito e l'eternità.

Didone che guardò verso il basso, oltre il davanzale, guardò la sua pira di cemento e automobili e passanti, lontani tre piani da lei. Alzò una gamba, cercò di scavalcare. Rimase in bilico, protesa verso il sole, sentendosi già fumo e terra fredda.

– Ehi, lei! Ehi! Ferma! Ferma! Quella ragazza! Ferma!

Un uomo sbraitava, una donna strillò. Bastò solo questo.

Caroline sussultò e si ritrasse. La luce sbiadì per diventare il grigio della città, il torpore divenne dolore, lei cadde sul pavimento del salotto, sbatté la testa contro il divano, si aggrappò al bracciolo per risollevarsi, rimase seduta contro il muro, il respiro affannoso, gli occhi ciechi.

Perché?” si domandò. Perché tenerla divisa da se stessa? Perché non lasciarla porre rimedio all'orrore? Perché far sorgere nel suo cuore quella paura che un attimo prima era solo aleggiata incorporea attorno a lei – quel terrore che le attanagliava lo stomaco, che le rubò con inaudita violenza il respiro un'altra volta, che la fece tremare, rabbrividire, piangere. Il nero perpetuo, il nulla, la fine assoluta, abbandonare ogni sapore, ogni odore, ogni attimo, quel nero orribile...

Non sarebbe più riuscita a correre verso Rosaline, a correre per riprendersi il suo essere e la sua vita. Non ora che tanto sgomento era riuscito a invaderla, non ora che capiva, non ora che nessuna sofferenza e nessuna perdita sarebbero riuscite a vincere la sua codardia. Era stata sull'orlo della più effimera prova di forza, ma ormai la sua schiacciante debolezza non le avrebbe più consentito di rischiare di nuovo a testare il suo coraggio. Rosaline fluttuava più fredda che mai – ma era Rosaline, semplicemente Rosaline. Ciò che di più importante il mondo le aveva donato e poi tolto, ciò che aveva più valore di ogni briciola d'arte in quel loro infame universo, ciò che era stato bellezza e calore, ma che rimaneva Rosaline. Non Caroline.

Rosaline era morta. Caroline era viva. L'aveva saputo quasi subito, lo accettò solo allora.

Il freddo non si dissolse, non ci fu sollievo né pace. Solo una nuova immobilità, una nuova posizione rigida in cui rimanere ad ascoltare i secondi passare scanditi dai lamenti delle ombre di ghiaccio, dalle ferite che con ritmo lento e costante sanguinavano sempre più e la scavavano, divorandola.

Le sirene ulularono sotto casa sua. I poliziotti trovarono le valigie e la porta aperta, irruppero con chiasso, si precipitarono su di lei, che rimase inerte mentre le domande si agitavano come onde che correvano a infrangersi sullo scoglio del suo silenzio. Li guardò con occhi vacui. Condannata a vivere spezzata, rotta, un vaso in frantumi di cui erano stati rubati la metà dei cocci. Lo scoprirono presto.

In breve nelle loro parole ininterrotte e confuse come i flutti di un fiume in piena si intromise l'argomento di un cadavere, di là, nella camera da letto, un'altra giovane donna, molto simile, anzi del tutto identica. Un delitto, un colpo di arma da fuoco alla testa. Erano concitati, erano stupiti, erano disgustati. Provavano un dolore così insulso da far addensare dentro di lei il gelo più cupo.

Mandarono a chiamare esperti. Nel frattempo, bisognava occuparsi di lei.

– Signorina, si sente bene? Signorina, mi sente?

Caroline annuì senza guardare.

– Si sente bene?

Annuì di nuovo.

– La vittima... è sua sorella?

Lo guardò. Vide una sagoma incombente e gentile, un corpo confuso.

– Può... dirmi i vostri nomi?

– Caroline – sussurrò – io sono Caroline.

– Va bene, signorina. L'ambulanza è stata chiamata e sarà presto qui anche per lei.

Il poliziotto si allontanò.

– Omicidio e tentato suicidio? Avete trovato la pistola in casa?

– No, non credo che la ragazza ce l'abbia addosso e la perquisizione completa dovrà aspettare l'arrivo dei detective.

– Pensate davvero sia stata lei?

– Si trova in uno stato di shock fin troppo allarmante. Guardala.

– Amico, forse era la sua gemella. Shock è un eufemismo. E il movente?

– Bisognerà interrogarla.

– La portiamo con noi?

– L'ospedale è il luogo più adatto ad accoglierla. Ma ci farà visita presto. Il suo sguardo non mi piace.

– Pensate che dovremmo arrestarla? Voglio dire, che possa scappare?

– Non sembra nelle condizioni di scappare.

All'inizio era rumorio, confusione, un sottofondo non richiesto al suo dolore. Tuttavia le parole a poco a poco presero forma nella sua mente, che la costrinse a registrarle, ricordarle, capirle, sempre con qualche secondo di ritardo, come se dovessero essere tradotte da un interprete impacciato. Penetrarono in lei, acquistarono un senso – fecero infine sorgere una domanda semplice e terribile, la prima che sarebbe dovuta affiorare e invece si era persa negli abissi del tormento, dell'oceano ribollente e schiumante che l'aveva travolta. Una sola parola, breve. La risposta conteneva tutto.

Chi?”.

Gli occhi vacui di Caroline recuperarono un'espressione, una scintilla di umanità. Non si sentiva meglio, ma ricominciò a riflettere.

Chi? Non lei, come la polizia credeva – follia, follia tanto assurda che solo sfiorarla con il pensiero rischiò di spezzarle il cuore. Quegli uomini avrebbero forse potuto infliggersi da soli coltellate, sfregiarsi, straziarsi, ma lei no. Lei aveva posseduto l'amore più profondo, così assoluto da essere certa che loro non ne avessero mai provata neppure una briciola. Distruggere quell'affetto così incontenibile, quel legame che era dono e ossessione e sollievo, annientarlo con le proprie mani era una bestialità così orripilante che perfino le ombre di ghiaccio si agitarono per distogliere la sua fantasia da un sogno tanto turpe. No, erano state altre mani, altre dita, un'altra mente a partorire l'incubo. Chi?

Tanti dei suoi fantasmi erano vivi, anche se ridotti a un'esistenza da spettri lividi nei recessi del mondo e della sua memoria, ma nessuno la odiava, o le odiava, o le aveva odiate. Si erano distrutti da soli, le gemelle mano nella mano li avevano guardati sparire senza poter impedirlo, ma non avevano mai ferito. Erano sopravvissute pure, senza scivolare nel liquido viscoso che erano inganni, depravazione, perversione. Scrivevano. Avevano mai rovinato qualcuno? No – se non suscitava emozioni, un'opera non era degna di essere descritta e capita; se deludeva, venivano offerti consigli con grazia, gentilezza, armonia. Tuttavia il precipizio era sempre così vicino che cadervi per un errore del tutto inconsapevole era un'eventualità tremenda, ma non impossibile.

Chi? Non era successo, come accade che una mela cada per sbaglio o che un cuore si fermi perché stremato dal suo compito incessante e faticoso; non era capitato per un caso crudele, come tante disgrazie nel suo passato. Era stato commesso. E da qualcuno.

Quello avrebbe dovuto essere il momento in cui l'eroina, affranta e forte, alzava la testa con disperato coraggio e iniziava a combattere, fiera, determinata, disposta a distruggersi e ad affrontare ogni pericolo per giungere alla verità, quella parola sacra e solenne. Ma Caroline era già distrutta e soprattutto Caroline era debole. Si alzò lentamente – le voci si zittirono –, si assestò sulle gambe tremanti, guardò gli agenti stupiti e tesi. Mosse qualche passo, il corpo la sostenne con garbo e non la tradì. Parlò piano.

– Non ho bisogno dell'ambulanza. Devo camminare.

– Signorina – le rispose un agente – Non possiamo lasciarla andare.

Lo fissò dritto negli occhi.

– Ho paura.

– Stia tranquilla...

– Ho paura della morte. Non lo farò di nuovo.

Riusciva a percepire l'assenza di colore nella propria voce. La polizia la osservò seria e poi svanì: uno, due, tre passi ed erano dietro di lei, nella sua casa a sorvegliare il suo cadavere, la lasciarono andare perché la videro fredda, viva, lucida e debole, sarebbe stato facile ritrovarla, non avevano prove. Lei si sarebbe lasciata andare per questo.

Le dita si strinsero attorno alla borsa abbandonata sopra una valigia, le gambe sottili la portarono in strada, dove respirò.

Che cosa pensava? Era a metà. Non poteva fare nulla. Sapeva di non voler andare in ospedale, che non sarebbero mai riusciti a trascinarla lì, che nessuna ragione e nessun motivo l'avrebbero portata in quell'inferno bianco – la mamma v'era entrata fragile e ne era uscita in frantumi, convinta della propria debolezza, convinta a non risollevarsi mai più, convinta di avere bisogno di cure e dottori e medicine, convinta a rinchiudervisi. Le ombre di ghiaccio distruggevano il cuore, ma insegnavano.

Rosaline era morta, Rosaline era stata uccisa, la sua gemella, la sua gemella era svanita. Le vetrine riflettevano una figura integra di donna giovane e completa, eppure – eppure i contorni sulla sinistra apparivano così sfuocati.

Entrò nel loro ristorante preferito.

Se esisteva un modo per non annegare, era inghiottire l'acqua salata e amara, a costo di riempirsene i polmoni, per giungere poi all'aria limpida. Chi? Quella era la brezza.

Una bava effimera che fece tendere la vela del suo io e la sospinse, alla deriva, ma avanti.

Chi?

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Capitolo 3
*** In your arms ***


3. In your arms

 

Era presto, per cenare.

Il suo corpo l'aveva portata lì perché nei suoi sogni era in quel ristorante semplice, sobrio, raffinato e tranquillo che lei e Rosaline avrebbero dovuto recarsi per mangiare insieme, per la prima volta dopo un anno.

Avremmo riso, avremmo parlato, avremmo raccontato, saremmo rimaste in silenzio senza imbarazzo alcuno”.

Ai tavoli, alle pochissime persone già sedute con i menù in mano, ai vasi di fiori e ai quadri alle pareti si sovrappose con chiarezza estrema e crudele un'immagine: Rosaline che ora si nutriva non di cibi, ma di quei condizionali ormai radicati nei pensieri di Caroline – l'ombra di ghiaccio che si allontanava sempre di più, diventando possibilità distrutta, ipotesi frantumata, futuro spezzato.

Non c'era conforto in quel luogo. Era troppo presto perché il ricordo delle serate passate insieme suscitasse nostalgia e non nausea, non vuoto, non dolore. Sarebbe mai venuto il giorno di ripensare agli anni trascorsi senza sentirsene smembrata, frammento di anima dopo frammento? Forse no. Di certo no.

Ma il mondo proseguiva e il passato le veniva incontro.

Marianne le si avvicinò con il suo passo rapido e scattante al punto da apparire nervoso. Figura familiare – proprietaria di quel locale da quando le gemelle l'avevano scoperto – ma non abbastanza per soffiare sul suo cuore più di un tiepido refolo di sorpresa nel rivederla.

– Rose, cara, sei qui per la conferma della prenotazione? Jayson non te l'ha detto? È tutto a posto, sono riuscita a trovarvi un cantuccio anche se verrete all'ora di punta...

Caroline annuì in silenzio. Il pugno di ghiaccio attorno al suo cuore la aiutò a rimanere impassibile mentre un'idea viscida ma brillante le sfiorava la mente. “Se non sanno, non mentono. Parleranno a lei e io ascolterò. Lei era più vicina al mostro di me”.

– Puoi tornare con calma più tardi. Sei pallida, tesoro. Come stai?

Il tono e lo sguardo di una persona che conosceva dei problemi e si chiedeva se fossero stati risolti o se ci fossero ancora. Marianne era una buona donna. Era materna.

Come stava? Come stava Rosaline prima di morire? Caroline non aveva percepito cambiamenti in lei negli ultimi tempi – solo commozione all'idea del suo ritorno, o così era sembrato. C'era stato qualcosa nei suoi occhi che lo schermo del computer aveva nascosto?

Scelse la risposta più semplice e più profonda – quella che poteva essere la più pacifica delle verità e la più falsa delle menzogne, quale era per lei in quel momento.

– Bene.

Marianne si rabbuiò, ma tentò di ricomporsi.

– Come va con quegli articoli? Sei riuscita a pubblicarli, alla fine? O devi sistemarli ancora?

Caroline tenne lo sguardo basso, in silenzio. Era un argomento delicato e cruciale, se Marianne ne parlava con voce tanto morbida, tanto cauta. Ma lei non capiva, anche se riuscì a impedire alla propria fronte di corrugarsi. Nessuna delle ombre di ghiaccio si fece avanti per suggerirle la risposta – stavano lì a far stridere le loro unghie sulle sue ossa, confondendola. Rosaline aveva pubblicato tutto quello che aveva scritto negli ultimi tempi. Era stata pagata bene.

Solo il silenzio l'aiutò.

– Passerà, vedrai – riprese Marianne, poggiando una carezza affettuosa sul suo braccio – Sarà successo a tutti gli scrittori, no? Ho letto l'ultimo articolo di tua sorella, un bel pezzo davvero, ma anche l'ultimo tuo non aveva niente da invidiare, presto lo capiranno... a proposito, tesoro, Caroline doveva tornare in questi giorni, giusto?

– A più tardi, Marianne.

Fece un cenno di saluto senza guardarla negli occhi, si voltò e uscì.

Le parole erano scivolate fuori dalle sue labbra spezzate – quella scena surreale era stata come prendere un respiro profondo e ridare ossigeno e sollievo a membra provate da un malessere ammorbante, salvo poi espirare e tornare a sentire ogni briciolo di nausea e orrore, mentre la delusione e il disincanto aggravavano ogni tormento. Sopportare, fingere, celare si erano rivelate prove ardue che era sì riuscita a vincere, ma a testa bassa e senza onore, solo grazie al gelo e a quel dolore che tentava di rifuggire. E Marianne non era sembrata sorpresa nel vedere Rosaline spettrale, tetra, chiusa come mai doveva essere apparsa in vita propria.

L'ombra di ghiaccio più amata non solo feriva, ma le aveva anche voltato le spalle.

E da quando? Da quanto tempo Rosaline aveva smesso di parlarle? Da quando covava difficoltà e dubbi senza sussurrarglieli per trovare una soluzione insieme? Quanto abili erano entrambe a mentire e nascondere, aiutate da un'indole silenziosa e malinconica che non risultava mai insolita a chiunque le conoscesse, e ancor meno a loro stesse? E cosa? Cosa era mai accaduto di sbagliato, mentre Caroline si bagnava nel sole della Grecia, o perfino prima?

Sentì le lacrime affacciarsi ai suoi occhi già stanchi e provati dal bruciore della sofferenza, per la prima volta dopo la fine del suo universo. La strada di fronte a lei si appannò e per un attimo l'angoscia sembrò troppa – e si domandò quale senso potesse avere tale crudeltà del destino, a quale osceno spirito dovesse essere stata affidata la sua sorte, se essa continuava a rivelarsi così meschina, se perdita e paura e incertezza dovevano mescolarsi in quella maniera così vivida, repentina e asfissiante.

Poi un passante la urtò, le lacrime caddero sul marciapiede nero come gocce di pioggia estiva e lo sguardo poté notare un giornale sotto il braccio dello sconosciuto.

Forse ogni cosa da lì proveniva e lì si trovava.

 

Non c'era nessun altro all'edicola – non nel lato dedicato alle riviste più specialistiche, tra scienze, scoperte, meccanica e arte, quello a cui era abituata a rivolgersi sin dalla più tenera età, ignorando quasi del tutto ciò che non concernesse il suo interesse più profondo. Era stata una gioia tremante e avvolgente vedere per la prima volta il proprio nome stampato su quelle pagine accarezzate e annusate nei pomeriggi grigi dell'adolescenza, ma quel giorno la sensazione cambiò fin nel profondo delle proprie radici.

Perché quel pezzo, firmato da lei, a lei non apparteneva davvero.

Lo lesse due volte, costringendo quella sua mente stanca, torturata e debole a concentrarsi su ogni parola, ogni frase, ogni virgola, in piedi in mezzo alla folla indifferente che tornava a casa e comprava il giornale della sera per scoprire i drammi altrui o collettivi. Entro poco tempo anche lei sarebbe finita nella cronaca nera grondante di sangue, forse; quello che sapeva per certo era che quell'articolo lo aveva scritto Rosaline, le era stato inviato da Rosaline, Rosaline le aveva detto di averlo sistemato e pubblicato – e c'erano le poche correzioni di Caroline e tante modifiche sconosciute, superflue, che alle sue orecchie suonavano stonate e inutili rispetto all'originale. Parole e costruzioni che forse, in realtà, lei era solita usare più della sua vecchia gemella, della sua nuova ombra di ghiaccio. E il nome alla fine era quello sbagliato.

Ripose la rivista, ne prese un'altra e l'angoscia nelle sue viscere crebbe un altro poco – fino a quando, al terzo pezzo trasfigurato in quella maniera, Caroline dovette fuggire via da quei demoni d'inchiostro che urlavano menzogna e misteri disgustosi.

 

Avrebbe voluto rannicchiarsi, accoccolarsi, chiudere gli occhi e non vedere più nulla, ma il rumore del traffico le sussurrava che la città era ancora viva e la guardava, che il mondo respirava e la giudicava ancora, che era meglio fissare il vuoto davanti a sé, composta sulla panchina, diventare un ordinario fantasma e non una bizzarra creatura rinchiusa nel dubbio e nel dolore penetrati nella sua carne.

Cos'era accaduto di sbagliato? Quale passaggio della scrittura un tempo così spontanea si era bloccato in Rosaline? L'idea o la forma? Il contenuto o lo stile? L'inizio o la conclusione? Domande inutili, ormai, perché non v'era più modo di rimediare – nessuno che potesse rimediare, nessuno che avesse bisogno di farlo, perché la luce dell'ispirazione di una giovane scrittrice si era spenta con la sua vita. Ma esistevano questioni diverse, questioni che non riguardavano una sola mente ormai estinta, ma due.

Perché lei non aveva notato nulla?

La risposta non poteva essere semplicemente che il tutto le era stato nascosto. Problemi tanto profondi da meritare di divenire segreti dovevano avere radici tenaci e crudeli. Leggendo gli articoli originali nulla le era parso insolito o sgraziato – ma se c'era qualcosa che mordeva le sue interiora, che le scavava le ossa, che sfibrava i muscoli e torturava ogni centimetro della sua pelle come se essa avesse dovuto squarciarsi da un istante all'altro, quello non era il possibile fallimento del suo sensibile senso artistico, bensì il tormento di non aver saputo decifrare nemmeno il cuore della sua metà, il cuore che riteneva anche suo.

Aveva già perso Rosaline, prima ancora che la morte l'accogliesse tra le sue ali gelide? La distanza aveva ucciso ciò che avevano – o aveva – creduto immortale? I soldi, le menzogne, il mercato, la richiesta, una crisi, un vuoto, una paura, qual era il fulcro?

E lei – lei, Caroline, lei che avrebbe dovuto capire ogni cosa e proteggere il loro mondo – lei, quante colpe aveva? Come avrebbe mai potuto espiarle, in passato e in futuro? In lei non esisteva ancora nessuna ipotesi, nemmeno remota, su chi si fosse macchiato le mani di quel sangue così prezioso e innocente e forse disperato; nessun colpevole materiale e solo l'orribile, oscena idea di essere l'omicida della propria anima, l'assassina maledetta che non aveva premuto nessun grilletto, ma che aveva lasciato altri agire – e la lontananza non era una giustificazione, non era una scusa. L'immagine di un ladro disperato o crudele, colto a rubare e pronto a sparare per salvare la propria libertà, era dolce rispetto a quella di un nemico spietato che non erano riuscite a combattere insieme perché insieme non erano state. Perché Rosaline non aveva usato la difesa più naturale, quella che aveva sempre risolto ogni cosa, fin da quando le difficoltà erano la crudeltà dei bambini ingenui a scuola o un padre assente? Perché non correre a ripararsi sul suo seno, piangendo e cercando aiuto? Perché non tentarvi, anche se da lontano? Forse per non farla soffrire, come lei aveva nascosto la sua ombra di ghiaccio più recente, il suo dio infedele, il suo effimero amore? Rosaline aveva cercato di essere troppo forte, sottovalutando o non accorgendosi di un pericolo?

Quanto avevano perso di loro stesse mentre fingevano che il viaggio non contasse e che fosse tutto come prima?

 

La folla iniziò a fluire nei ristoranti, nei locali, a casa per una cena preparata con amore o per abitudine, con passione o con noia. Caroline vi si mescolò, annullandosi in mezzo alla massa, nella vana illusione di essere ancora una persona come tutti loro e non la pallida imitazione di una vita interrotta. Ai loro occhi non era nessuno – ed era una sensazione quasi rassicurante, pensare di non esistere o di essere solo un numero fra tanti, un'unità indistinta, uno spirito normale. La coperta della bugia era avvolgente e profumava di infima calma.

Dovette aspettare, stavolta, per avere l'attenzione di Marianne: il ristorante era affollato, persone attendevano nervose che venisse assegnato loro il proprio tavolo, il tintinnio di posate già riempiva l'aria e magliette, gonne, sandali e bibite si avvicendavano di fronte ai suoi occhi come i costumi di uno spettacolo teatrale che risuonava di mille idiomi diversi, realistico, ma vuoto.

– Jayson non è ancora arrivato, tesoro, ma puoi andare a metterti comoda...

Caroline annuì. Una cameriera giovane quanto lei la condusse in un angolo della sala più lontana, a un tavolino apparecchiato per due.

– Posso portarle qualcosa da bere, intanto?

Scosse la testa e si sedette per aspettare Jayson.

Per quanto provasse a scavare nella propria memoria, anche frugando tra le ombre di ghiaccio, non riusciva a ritrovare nessuno con quel nome che fosse già entrato nella sua vita. Doveva essere un amico di Rosaline, qualcuno con cui lei era uscita spesso, se Marianne mostrava tanta familiarità. Un'altra informazione taciuta e scoperta troppo tardi per chiedere spiegazioni.

Sul tavolo era posata una piccola candela, la cui fiamma ondeggiava languida. I suoi occhi si persero tra i riflessi del fuoco, mentre lei si domandava quale calore sarebbe mai riuscito a toccarla davvero. Il dolore iniziò a riemergere, affilato e fosco, stringendole il cuore e offuscandole la vista – rimaneva solo quel bagliore dorato a ipnotizzarla, mostrandole l'allegoria di una gioia che le era stata negata per l'eternità.

– Ciao, Rose.

Sollevò la testa per guardare due occhi azzurri e seri, brillanti ma maturi. Il volto di un bel ragazzo, incorniciato da ricci neri e ornato di un debole sorriso che si spense in fretta mentre Jayson si chinava su di lei.

Non era uguale. Non era un sosia. Non era una copia perfetta. Ma gli assomigliava – assomigliava al suo dio, al suo caparbio e arrogante ed egoista eroe, e bastò questo a farle capire: si protese appena, al momento giusto, mentre lui posava le proprie labbra sulle sue in un bacio casto, rapido, ma non privo di una sfumatura d'affetto che perfino lei seppe cogliere. Quando si divisero Jayson la guardò negli occhi, un fugace velo di tristezza a offuscargli lo sguardo, e qualcosa dentro Caroline tremò – l'avrebbe riconosciuta? Ma la luce era scarsa, in quel locale. Talvolta si era trattato di un dettaglio fastidioso, in altre occasioni aveva aiutato a creare un'atmosfera dolcemente intima, questa volta forse fu provvidenziale: Jayson si allontanò, per poi sedersi di fronte a lei.

Il fidanzato affascinante di Rosaline, di cui Rosaline non aveva mai parlato.

– Come stai?

– Bene.

Jayson fece un piccolo cenno, come d'assenso, poi aprì un menù. Caroline lo imitò, salvo poi non leggere alcuna parola di ciò che vi era scritto.

Il destino era così spietato da metterle i brividi – o forse erano solo le due ombre di ghiaccio che la fissavano, le ultime due, che si agitavano permeandola del loro gelo, fondendosi in quell'unico individuo davanti a lei, reminiscenza del passato e schiaffo del presente. La sua mente era bloccata e forse era meglio così: non aveva nemmeno la forza di porsi quelle domande ovvie, scontate e tremende che si sarebbero limitate a roderle l'anima, in attesa di risposte che non sarebbero mai giunte.

Sapeva solo che lui non poteva averla uccisa, se non era stato sorpreso di incontrarla lì.

– Hai fame?

– Non molta.

– Nemmeno io. Prendiamo qualcosa di leggero e andiamo a casa. Forse... niente.

– Cosa?

– Niente, lascia stare.

Lo guardò negli occhi, lui e quel pallido sorriso che aveva sul volto. Forse era più simile all'eroe di quanto Caroline non avesse voluto ammettere all'inizio – forse si sentiva disperata e l'ombra di ghiaccio era lì per lei, lì per confortarla, o forse per distruggerla. Era un angelo destinato a rimanere tale per sempre o era un demone uscito dal suo cuore solo per farle comprendere che il dolore non avrebbe avuto mai fine?

Era così tranquillo mentre ordinava per entrambi alla cameriera, così composto e silenzioso quando la ragazza se ne fu andata. Di tanto in tanto si guardavano negli occhi e Caroline sentiva che forse avrebbe dovuto parlare, ma le parole morivano prima ancora di giungerle in gola, attratte e inghiottite dal vortice delle sue paure e dei suoi dubbi. Perché non rivelargli la verità? Perché c'era qualcosa di strano, nell'espressione di quel volto attraente. Qualcosa che pareva sottendere una sorta di ansia mascherata con maestria – ma non a sufficienza –, un fremito nelle ciglia, un piccolo morso al labbro: dettagli, nulla di più, forse dettati dall'imbarazzo per l'assenza della benché minima conversazione. No. La verità era che ciò che di sbagliato c'era in quella situazione era proprio quello: non pareva sorpreso del silenzio della sua ragazza, della sua aria turbata, del pallore del suo viso, dell'inquietudine che non poteva essere celata del tutto. Sembrava sapere che lei covava dolore nel proprio petto. E tuttavia non le chiedeva nemmeno il perché. Non un accenno agli strani articoli, non una domanda sulla sorella ritornata – Rosaline poteva non averlo avvertito dell'imminente arrivo di Caroline? Si era chiusa a tal punto in se stessa? Non esisteva nessuno che sapesse qualcosa di lei? O forse Caroline era stata dimenticata da lungo tempo, ritenuta un'entità lontana, inutile, insignificante? Mangiarono in silenzio e Jayson si arrogò il diritto di affermare che non volevano nessun dolce senza prima averla consultata, per poi chiedere il conto – come se intuisse il profondo disagio di quella situazione, come se tutto fosse naturale così, come se quella scena l'avesse vissuta migliaia e migliaia di volte insieme a una persona identica in ogni particolare. Tuttavia, a poco a poco durante la serata pareva essersi rilassato, almeno in parte: il suo sguardo era più caldo, ora che aspettavano il conto e che aveva stretto una mano di Caroline nella propria. L'espressione era più dolce e più magnetica.

Era un estraneo e la amava. E lei sentiva di avere bisogno di fingere l'amore.

 

Non un'occhiata interrogativa, quando Rosaline continuò a camminare dopo che ebbero raggiunto la casa di Jayson, come se non se ne ricordasse l'ubicazione; non un'alzata di sopracciglia al modo in cui la sua ragazza si guardava attorno in quella casa sconosciuta; non un moto di sorpresa quando dovette percepire la sua tensione mentre la abbracciava, stringendola al proprio petto prima di legarla in un bacio in cui pretese e ottenne di più rispetto al primo. Le ricordò il sapore di sale sulla riva del mare.

La lasciò distendersi nel letto con calma; con cautela prese posto accanto a lei, sopra di lei.

Rosaline era morta, ma Caroline la sentì vivere sotto le dita che le sfiorarono la pelle con esperta delicatezza – sentì quante volte quelle labbra avevano massaggiato con dolcezza i seni di una donna che non era mai stata lei. Spesso lui la guardava negli occhi, come a chiedere il permesso di proseguire, insinuandosi con le dita sotto la gonna stretta, slacciandola, abbassandola. E alla fine lei abbassò le palpebre perché il pensiero di quell'azzurro le rimanesse impresso nel cervello, e perché potesse sovrapporlo al volto del suo dio di ghiaccio e lasciare che un tepore si sciogliesse tra le sue cosce. Jayson le prese una mano prima di iniziare a baciarla tra le gambe, facendole inarcare la schiena e spezzando ciò che era rimasto in lei: Caroline pianse senza singhiozzi tra mugolii di piacere, odiandosi e non potendosi odiare se la sua parte più debole aveva bisogno di aiuto, bisogno di calore, se il dolore era troppo per essere sconfitto ma lei doveva aggrapparsi al piacere più carnale e immediato per sopravvivere alla prima notte senza la sua gemella – se quel sollievo che la invase alla fine era tutto ciò a cui poteva aspirare, una bugia afrodisiaca, pochi secondi in cui dimenticare.

Jayson si distese a fianco a lei, la coprì con le lenzuola, l'abbracciò. Le asciugò le lacrime e non le domandò nulla.

– Andrà tutto bene – le sussurrò, accarezzandole i capelli.

No, non esisteva più nulla che potesse andare bene – tutto il peggio era accaduto ed era un male a cui non si poteva porre rimedio.

C'era un assassino, fuori nella città variopinta e sfrenata, e c'era un'anima irrequieta che le chiedeva giustizia, ma c'era anche lei, che dalla verità rischiava di essere sconfitta.

E dunque rimase tra le braccia di quell'uomo così strano o così umano, così vicino e così distante, così sospetto nella sua calma e così rassicurante nel suo semplice esistere.

Il dio e Rosaline dormirono stretti l'uno all'altra.

Era metafora o realtà?

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Capitolo 4
*** In despair ***


Ringraziamenti: grazie mille a fantajiro per aver messo la storia nelle seguite e alla giudice per il giudizio al secondo capitolo ^^ questo sarà parecchio breve, ma spero intenso. Buona lettura. ^^

 

 

4. In despair

 

Una debole luce filtrava attraverso le tende, lambendo le lenzuola chiare.

La penombra era così dolce. I suoi freddi colori si perdevano nel calore delle braccia che avvolgevano Caroline.

Attraverso le ciglia della proprie palpebre socchiuse vedeva soprattutto buio, il volto premuto contro il petto del suo dio.

Abbastanza stremata da essere stata cullata da un oblio senza incubi, tentò di chiudere ancora gli occhi per scivolarvi di nuovo, come quella notte, lontana dal male, ma già sapeva che sarebbe stato inutile – non funzionava mai, perché mai si svegliava sola. A poco a poco anche le orbite vuote dei suoi fantasmi si illuminavano trafiggendole lo stomaco con il bagliore del loro dolore; da lì salivano strisciando, a volte più leste, a volte più caute, fino al petto, per portarla a domandarsi cosa fosse quel peso sul suo cuore. E a ricordarsene, avviluppando la sua mente. Sempre.

Quella mattina il rito ormai consueto e accettato fu rapido – un unico attimo per vedere i frantumi di se stessa, ancora distrutta, ancora sola, mentre anche il velo dell'ultima illusione si alzava per lasciare spazio alla realtà nella sua interezza.

Rosaline era morta, morta disperata, morta senza di lei. Jayson ancora non ne era a conoscenza, viveva anche lui in una mera finzione in cui era protagonista insieme a un'estranea. L'eroe era lontano e non esisteva alcuna speranza che la salvasse. Tre anime intorno alla sua, la sua, stolta, bugiarda e indifesa. Debole.

Iniziò a piangere lacrime sommesse, cristalli di quel ghiaccio dentro di lei.

Era stato il più ingenuo e stupido dei pensieri, quello di poter scoprire un assassino con le proprie forze. Quell'idea non avrebbe mai dovuto insinuarsi nelle sue fibre squarciate dalla pena.

Cos'aveva fatto, in verità? Si era abbandonata a uno sconosciuto e sentiva che non sarebbe più riuscita a rialzarsi. Sarebbe rimasta lì, a guardare mentre la polizia fiutava e rifletteva, sospettava e indagava e accusava, il grottesco teatro del delitto e della giustizia che giocavano a rincorrersi, ladro e guardie, omicida e sbirri, e una ignava ragazza a soffrire e a languire, innocente e accidiosa, di fronte a uomini troppo esperti e pratici e rapidi per lei. Forse si sarebbero accaniti contro quella vittima del loro intuito, ma difendersi, difendersi a quel punto avrebbe avuto un senso? Era quello il peso della sua volontà lasciata a se stessa: nullo di fronte all'immensità della morte e del destino, di fronte a difficoltà che potevano essere aggirate senza compiere nulla, solo continuando una vita trasparente e colma fino all'orlo di dolore. Lo aveva sempre saputo, erano pure constatazioni, non critiche, non riteneva di poter cambiare – aveva solo giocato a sognare nel momento peggiore; e alla crudele amarezza si aggiunse la più aspra delusione – tentare nuoce nel momento in cui si fallisce senza possibilità di rimedio, perdendosi nel fango dei rimorsi senza più riuscire a uscirne, affondando di più nell'abisso da cui ci si era riproposto di uscire. E allora, anziché nuotare nella melma, rimanere immobili e lasciarsi corrompere dalla sua putredine fino a scomparire: tortura lenta, ma lungo rifugio, la via dei codardi.

Non erano singhiozzi rumorosi, i suoi, erano i lamenti di un fil di voce di un'anima esangue. Tuttavia il falso dio si mosse, alla fine, si agitò, allentò e strinse l'abbraccio, chiamò il nome di Rose.

Caroline soffocò nella propria gola ogni suono, ma ormai una mano di Jayson era sul suo volto e di certo sentiva le lacrime umide, la guancia fredda, le labbra tremanti. Nel buio gli occhi azzurri scintillarono, prima che un bacio tentasse di consolarla. Stavolta non vi rispose.

Si allontanò, disgustata da se stessa, un guizzo di disperazione, un attimo di ribellione. Si sedette sul letto appoggiando la schiena al muro, nuda, i capelli che seguivano le scie bagnate sul suo collo, sottili viscidi serpenti di una Medusa del tutto indifesa. Quale immagine di Rosaline stava mostrando? Ormai, forse, aveva smesso di interessarle – ogni maschera avrebbe dovuto cadere, presto o tardi.

Una luce si accese sul comodino più distante da lei. Jayson si sedette a propria volta, gli occhi bassi, la fronte aggrottata. Caroline aveva smesso di piangere e riusciva a vederlo: turbato, ma non stupito. Distante nella sua compassione. Forse lo temeva, lui e il suo mistero, lui e quegli atteggiamenti incomprensibili, lui e tutto ciò che, al contrario di lei, sapeva di Rosaline.

– Sei la persona più forte che io abbia mai conosciuto.

Tutta la crudeltà dell'ironia di quelle parole pronunciate con lenta dolcezza minacciò di toglierle il respiro. Strinse a pugno la mano all'altezza del cuore, lo sguardo fisso di fronte a sé, le unghie piantate nella carne. Ma tacque.

– Stai affrontando la sua morte in un modo che... ero ben lontano dall'aspettarmi.

Era troppo tesa per sussultare, ma il fiato mancò di nuovo e fu uno sforzo non muoversi, mentre domande di ogni tipo iniziavano a sibilarle nelle orecchie – sapeva? Come poteva sapere? Perché? –, ma le parole, quelle vere, non erano ancora finite e lei le ascoltò pallida, il cuore in gola, gli occhi vacui, tutto il suo essere meno il suo corpo a tremare con violenza.

– Sai che era necessario. Ora andrà tutto bene, continua così. Sean avrà fatto un buon lavoro. Caroline... da lassù... capirà.

E qualcosa dentro di lei, quel poco che ancora esisteva, si infranse per sempre con uno schianto assordante, prima che regnasse il silenzio più assoluto per lunghissimi attimi.

 

Mormorò poche parole riguardo al bagno, si liberò delle lenzuola, si alzò, si diresse verso una porta diversa da quella da cui era entrata, ebbe fortuna.

Si chiuse nella stanzetta pulita e in ordine. Lo specchio rifletté un'immagine di un pallore spettrale, occhi colmi di terrore febbrile, un mostro annientato che si accasciò sul pavimento l'attimo seguente.

Come un feto sulle piastrelle fredde Caroline si rannicchiò, gli occhi sbarrati senza vedere, le ombre di ghiaccio che ridevano e urlavano e gemevano con una forza che lei non aveva mai sperimentato. Mai. Mai. Neppure... neppure quando...

Voleva rifiutare quel pensiero, pregava e implorava che qualcosa le sussurrasse che non aveva davvero udito quelle parole, che ogni sua conclusione era fuorviata dalla sua ragione offuscata dalle pene, che poteva esserci molto altro... ma la violenza dell'intuito aveva ormai preso il sopravvento e non lasciava neppure una via di fuga, non riusciva a vedere altre soluzioni, c'era solo quella sconvolgente scoperta e l'orrore racchiuso in essa, l'abisso, la follia.

A morire era stata quella sbagliata.

Quel suo corpo attraversato da spasmi di paura e orrore, perché era ancora vivo? Non perché nessuno non avesse mai provato a recidere il suo filo. Solo un errore: aspetto giusto, vita diversa.

Sean. Sean, l'amico perduto, il compagno scomparso nel delitto, l'assassino per denaro. Rosaline sapeva e ricordava quanto lei.

Tutto ruotava, ruotava attorno a quel fulcro. Ed era un centro pulsante di dolore, sangue, un vortice infernale, una voragine così profonda e oscura e corrotta quale mai mente umana avrebbe potuto immaginare. Il peccato più osceno e straziante che potesse essere concepito. I poliziotti vi avevano accennato con leggerezza, senza sapere di essere quasi nel giusto, raccapricciante giusto, aborto di umanità.

Strisciò fino al water, in preda alla nausea. Gli sforzi non produssero altro che saliva e acido, non c'era nulla da vomitare nel suo stomaco, solo pochi liquidi aspri e disgustosi che rischiarono di soffocarla, marci e brucianti.

I dettagli, il perché, il piano, cosa vi era andato storto, il ruolo di Jayson erano particolari infimi. La pallida impronta dell'ultima ombra di ghiaccio assumeva un profilo di demone.

Caroline avrebbe potuto dilaniarsi, graffiarsi e mordersi, rigurgitare le interiora o piangere sangue, ciò non avrebbe cambiato le cose.

Rosaline aveva ordinato di uccidere lei.

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Capitolo 5
*** In apathy ***


Ringraziamenti: grazie mille a Verde Pistacchio per aver messo la storia nelle ricordate ^^ questo capitolo era pronto da molto tempo, ma per via del contest giunge solo ora. ^^ il finale si avvicina, spero di non rovinare tutto quanto proprio adesso. Buona lettura ^^

 

 

 

5. In apathy

 

Il cuore le martellava nel petto. Gemette.

Riusciva a vedere solo ombre nere muoversi rapide e lente – spettri di gelida tenebra le aleggiavano davanti – chi erano quei mostri che correvano e tornavano, scappavano e scivolavano come ladri nella notte della sua mente?

Le gambe si muovevano nervose, strisciando senza meta, le unghie graffiavano il petto e le braccia, la molle carne si contraeva e si arrendeva, la fronte si imperlava di sudore.

Il delirio era l'unico sollievo ed era insopportabile.

Forse era giunta al proprio punto di non ritorno, al proprio confine, al proprio orizzonte maledetto – giù, giù nella cascata dei limiti della vita, giù con il suo corpo e giù con quello che era stata. Se la bocca dell'Inferno non si fosse spalancata sotto di lei in quel momento, quando? Se il precipizio non l'avesse inghiottita, quale altro orrore avrebbe potuto farla scivolare nelle sue spire oscure? Se le ombre di ghiaccio non avessero colpito a morte, che occasione più propizia e più devastante avrebbero aspettato?

La fine doveva essere lì. Avrebbe dovuto essere lì.

La porta, aprendosi, urtò la sua schiena. Materia inanimata contro fisico esangue, pareva un dettaglio effimero nell'ovattato mondo del baratro, ma le sue conseguenze ebbero ben diverse proporzioni: permise a uno spirito vivo di entrare, a due braccia di sollevarla, a un petto caldo di accogliere il suo volto scavato dal tormento. Pochi secondi di vuoto ed era di nuovo sul letto, insieme all'eroe, stretta all'eroe, aggrappata all'assassino che sussurrava parole di miele.

– Scusami, è stata colpa mia, non avrei dovuto... va tutto bene, va tutto bene, va tutto bene, amore. Non mollare proprio ora.

Non sapeva che ormai era cominciata la discesa e speranza non avrebbe più baciato quei capelli che lui accarezzava, né quella pelle chiara. Restava solo l'inerzia del vivere, che quietò i sussulti del petto e gli occhi lucidi. Basta: troppo intensa, troppo profonda la disperazione – talmente immensa da diventare impercettibile. Si avvolse come un guanto di preziosa e ruvida stoffa attorno al suo cuore e lì rimase, mentre lei ascoltava per minuti e minuti scuse colme di crudele dolcezza, ignorandole fino a quando non fu interpellata davvero.

– Andrà tutto bene, tesoro. Devi solo... quando potrai... dirmi cos'hai fatto.

– Io...

Spaventoso udire quanto la sua voce fosse roca. La lasciò infrangersi nella sua gola, con orrore – e non voleva più schiudere quelle labbra avvelenate dalla crudeltà del destino, non voleva più muovere gli occhi fissi che vedevano un angolo e poco altro. Congelarsi lì era perfetto, perché non era rimasto nulla.

Il tocco di quelle dita, l'abbraccio più stretto, il respiro profondo di quel petto cosa preannunciavano? Che segnale stava dando, con la propria calma?

– Va tutto bene. Non preoccuparti. Io capisco, Rose. Ma dobbiamo essere pronti e io devo sapere. Perché non sei venuta da me, dopo?

Perché non sapevo dove fossi, non sapevo di dover venire, non sapevo che doveste incontrarvi dopo la mia morte”. Restò in silenzio.

– Va bene. Posso capirlo. Dimmi solo dove sei andata. Con calma.

Se fossi morta, non potrei dirtelo. Non dovrei dirtelo. Non sarei costretta. Starei bene”.

– Casa.

La parola strisciò fuori trascinandosi su sillabe stanche, cadendo come una goccia di fiele su un lago di menzogna. Nessun luogo meritava ormai quel nome, nessuno avrebbe mai potuto riacquistarlo – era un termine dolce e intimo, speciale e profondo, intenso e positivo, e nulla di tutto ciò poteva più albergare in lei.

La stretta si serrò ancora, mentre un tremito attraversava chi pensava di proteggerla.

– L'hai guardata tutto quel tempo?

– Ore.

– Ore? Quante?

– Non lo so.

– Quando sei uscita?

– Non lo so...

Il tono stanco interruppe per qualche secondo l'interrogatorio, prima che esso riprendesse più dolce, più pacato. “Sei amorevole. Sei viscido”.

– Scusami. Andiamo piano. Cioè, se vuoi continuare... altrimenti dormi un po'...

Scosse la testa.

– Va bene. Lei era in orario?

Un'ombra di ghiaccio ebbe un guizzo. Per un attimo, un fugace attimo, assunse una sfumatura più calda nel suo buio; si illuminò di un barlume sciocco e infantile di riconoscenza che nel vuoto di Caroline si accese come una lucciola morente, mentre una consapevolezza ironica e cinica prendeva forma di realtà.

L'eroe l'aveva salvata davvero. Senza il dolore, lo sgomento, la nostalgia e il rimpianto con cui le aveva ferito l'anima, senza la necessità di asciugare le lacrime salate e amare, senza il bisogno di perdersi per le strade e fra i grattacieli, Caroline avrebbe varcato la porta di casa per abbracciare non Rosaline, non il suo cadavere distrutto, ma la morte stessa.

Annuì, mentendo.

– Le hai parlato come volevi?

– Sì.

Jayson prese un profondo respiro.

– E poi lei è salita in casa, mentre tu sei andata dove dovevi.

Rosaline l'avrebbe aspettata per darle l'addio. Avrebbe usato una scusa per farle entrare da sola. Sarebbe stata lontana, mentre un proiettile spegneva la vita della sua gemella adorata.

Ma stavolta era più saggio scuotere il capo, affermare una pallida verità.

– Cosa? Sei salita anche tu?

– Sono... in giro... un po'...

Un secondo di riflessione.

– Non sei andata a prendere quella torta. Non importa. Ti sei solo dimenticata. Non potranno provare il contrario, anche se...

Anche se è importante avere un alibi semplice ma solido”.

– Sei tornata... a... controllare?

Annuì.

Perché Rosaline era salita prima di vederla? Perché aveva commesso quell'errore, malgrado il piano perfetto? Si era spazientita? O forse... o forse... forse aveva vacillato, sola ad attenderla davanti al loro nido, sola per ucciderla e guardarla negli occhi e mantenere sangue di ghiaccio. Forse nell'attesa il cuore aveva avuto la meglio, l'amore si era risvegliato in tutta la propria forza. Forse era salita in casa per impedire ciò che sarebbe dovuto succedere, fermare l'assassino, mandarlo via. Ma forse lei non conosceva le mosse che lui aveva programmato con la sua spietata esperienza di professionista, forse aveva errato a non chiamarlo, forse lui era stato nascosto e aveva solo colpito quello che aveva ritenuto il giusto obiettivo. Forse, di certo con il silenziatore, e poi via, nell'oblio del suo mondo oscuro e violento e colmo di sangue.

La scena si distendeva davanti agli occhi della sua mente, la sua copia perfetta che si aggirava esitante nelle stanze come lei stessa aveva fatto, forse impaurita, forse confusa dalla scelta e dalla paura, una debole falena priva di una luce da seguire, o confusa da troppi barlumi senza sapere a quale affidarsi. Una creatura disperata e pentita di essere stata crudele?

– Sei rimasta lì fino al momento di venire a cena?

– No.

– Ricordi cos'hai fatto?

– Stavo per morire.

– Cosa?

Di tutto ciò che lei gli aveva detto, dubitava della verità più certa. Due volte Caroline era scampata alla falce inesorabile, anche se ne stava svelando una soltanto. Quell'incredulità nella voce suonava sciocca e futile. Ogni cosa era uno scherzo macabro, un labile gioco. E ormai la prima tessera di quel domino sporco di sangue era caduta – la sua voce assorbita dalla monotonia del parlare solo per riempire il vuoto di quei brevi istanti, lasciando che la realtà si mescolasse con la morbida illusione.

– Volevo cadere giù, ma mi hanno fermata. È arrivata la polizia. Sono uscita, mi hanno lasciata andare. Sono andata da Marianne e in un parco. Sono venuta da te.

Ancora ignara, ancora viva – oh, tutto quel dolore che aveva creduto l'avrebbe annientata, cos'era in confronto a ciò che il suo cuore provava in quel momento? Cos'era la morte di fronte al tradimento? Cos'era l'incertezza paragonata alla verità? Nebbia, fumo, detriti, polvere.

– La polizia? Rose... cosa hanno visto?

La paura rivelava la crudeltà. Difficile immaginare un nemico più temibile di un codardo, di un vigliacco. Nessuna persona capace di essere più spregevole di quella minacciata e vulnerabile – anche perché... anche perché...

– Caroline – esalò lei, con una voce tornata fragile come un filo di neve, un sussurro impalpabile.

– Certo, ma...

– Ho detto di chiamarmi Caroline.

L'abbraccio si allentò e nel silenzio le parole fluttuarono come sospese nell'aria pesante, nella penombra sempre più chiara, spiriti invisibili immobili nel vuoto, trasparenti con tutto il loro peso.

La bugia, la tragica commedia continuava, e Caroline non sapeva perché continuasse a recitare. Era solo naturale così, semplice così.

Una goccia umida le cadde sulla fronte, una mano si intrecciò ai suoi capelli portandole la testa di nuovo vicina a quel petto ricolmo di enigmi e orrori. Il male piangeva.

– No – sussurrò il dio, la voce rotta – Tu sei Rosaline, amore. Tu sei... la mia... la mia bellissima Rose. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace.

Dunque intuiva qualcosa della natura oscena del delitto che avevano ordito? Era consapevole delle conseguenze delle proprie azioni? Aveva una coscienza, anche solo per amore di quella creatura che adorava e che aveva portato a mutilare, squarciare, smembrare se stessa?

– Dovevamo – riprese, tremando, ma senza più lacrime – Dovevamo, sai che non c'era altro modo. So... so che ti fidavi di lei... so... quanto... importante... so che ti avrebbe aiutata, se avesse potuto... ma non poteva. La colpa è di quei bastardi, avrebbero continuato... a chiedere lei, sempre, e tu... noi... nell'ombra... mai disperati, ma mai felici... così, invece...

Le sue viscere si contorsero con violenza, il suo volto tornò cereo. Strinse le labbra, soffocando il proprio gemito e le grida della sua anima, schegge delle ombre di ghiaccio che si allungavano e penetravano nei suoi polmoni.

Non voleva più sapere nulla, eppure sapeva, capiva.

E la ragione, la ragione era sempre quella, sempre, sempre, sempre. Alla fine, solo quella. Era un ritornello spietato, una parola breve e sonante, una maledizione, una follia, il motore più pratico e concreto di ogni moto della Terra, inestirpabile, indistruttibile, incontrollabile, la spinta più potente nei cuori corrotti per amare e per odiare: denaro.

Mai disperati, ma mai felici”. Così parlava il dio, spietato e avido nella propria debolezza e nella propria lungimiranza: se davvero gli editori avessero preferito per puntiglio la penna di Caroline, di certo mai lei avrebbe abbandonato la preziosa gemella e la persona a questa più cara. Avrebbe condiviso ogni centesimo – morire di fame lei, piuttosto che il suo sole. Ma l'irrequieto desiderio d'indipendenza, l'egoismo, l'orgoglio, la frustrazione, l'invidia, quante cose potevano essere state suscitate in un animo fragile. Con Caroline in vita, mai più speranza di firmare ai piedi della pagina; con Caroline morta, ogni giornale avrebbe dovuto rassegnarsi e imparare ad apprezzare ciò che restava, pari talento, pari potenzialità, forse minor fantasia – forse i colori dell'Europa avevano alterato ogni cosa.

Forse ogni singolo passo era stato un immenso errore.

– Non importa cosa tu abbia detto – sussurrava intanto Jayson – Andrà tutto bene.

 

Il nome sbagliato? Un lapsus dovuto allo shock. I cellulari scambiati? Solo perché Rosaline aveva preso come incosciente la borsa della sorella morta, lasciando a casa i propri effetti. Quel buco di ore? Il minimo per la perdita di una parente tanto stretta. Poteva provare di essere stata altrove al momento del delitto? No, nella concitazione del ricongiungimento aveva dimenticato i soldi per la torta ed era tornata a prenderli, facendo la scoperta. Possibile provare il contrario? No. Testimoni? Quelli che avevano assistito al tentato suicidio, per il resto nessuno aveva notato le gemelle – nessun tassista si fece avanti per dire qualcosa, tutti persi nel loro caos di bagagli e volti da trasportare ogni giorno tutto il giorno. L'arma del delitto? Introvabile. Movente? Non c'era nessuna vera ristrettezza economica, l'ispirazione era in crisi, ma questo non era un motivo per odiare una gemella. Tabulati e computer mostravano affetto continuo e reciproco. Nessuna prova a sfavore.

Jayson l'abbracciava confabulando con l'avvocato, i giornali parlavano e la difendevano e si commuovevano, la polizia dubitava ma si mordeva le labbra.

Caroline guardava con occhi vacui. Gli eventi scorrevano rapidi di fronte a lei, che aveva perso ogni cosa, ogni motivo per agire.

Il tempo goccia a goccia strisciava avanti, mentre lei, in attesa di una svolta del cammino che scivolava sotto ai suoi piedi, rimaneva immobile.

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