Broken winds

di Inathia Len
(/viewuser.php?uid=388274)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo -The girl who dreamt ***
Capitolo 2: *** 1. What's wrong with your sleeping? ***
Capitolo 3: *** 2. Us ***
Capitolo 4: *** 3. The game is on ***
Capitolo 5: *** 4. You are dreaming your past ***
Capitolo 6: *** 5. Meet me for dinner ***
Capitolo 7: *** 6. Of talking and running away ***
Capitolo 8: *** 7. The haunting haunted kind ***
Capitolo 9: *** 8. Afraid in the darkness ***
Capitolo 10: *** 9. You've drawn the answer ***
Capitolo 11: *** 10. Where is home? ***
Capitolo 12: *** 11. A dinner with my collegue ***
Capitolo 13: *** 12. A call from a lost clock ***
Capitolo 14: *** 13. Raçaris Serthelia ***
Capitolo 15: *** 14. I'll explain everything ***
Capitolo 16: *** 15. The tale of the Doctor -part One- ***
Capitolo 17: *** 16. The tale of the Doctor -part Two- ***
Capitolo 18: *** The tale of the Doctor -part Three ***
Capitolo 19: *** Epilogue -But life still goes on- ***



Capitolo 1
*** prologo -The girl who dreamt ***


 

Prologo

The girl who dreamt

 

 

Celia Stebbins era una ragazza normale. Forse leggermene sopra le righe, forse non la ragazza che le madri avrebbero sognato per i propri angioletti, forse non la più aggraziata e docile tra le fanciulle, ma era, in fondo una ragazza normale dai gusti un po' strani.

Per esempio, Celia Stebbins era tipo da girare con un lungo cappotto, o nero o beige, sia che fuori ci fossero quaranta gradi, sia che vi fosse la neve a mezza gamba. Era tipo, Celia Stebbins, da cambiare colore di capelli due volte nella stessa settimana, passando dal suo castano naturale a un verde acceso, per poi tingersi di viola e infine di rosso. Solo, non era mai stata nera. Il nero in testa le sarebbe entrato dentro, diceva. E così di nero portava solo quel famoso cappotto. Tutto nel suo abbigliamento era sempre colorato, a partire dalle calze arcobaleno sulle gambe magre. Non era una bellezza da copertina, ma aveva un certo fascino che solo in pochi notavano.

Studiava Lettere a Londra, Celia Stebbins. Aveva rifiutato la borsa di studio a Oxford e a Cambridge, preferendo una piccola università in centro, e aveva dei voti nella media. Ma era molto intelligente, Celia Stebbins.

E aveva un sogno ricorrente. Sognava di una cabina del telefono blu, una cabina più grande al suo interno, una cabina capace di viaggiare tra i mondi e nello spazio. E sognava anche di un uomo, dalla giacca di pelle, i capelli corti e gli occhi grigi, che la salvava dai mostri. O dagli alieni. Su questo punto non era d'accordo nemmeno con se stessa.

Non aveva mai parlato con nessuno dei suoi sogni, nemmeno a sua madre, nemmeno al gatto. E a Clark di solito diceva tutto. Ma ora voleva sapere, Celia Stebbins, sapere se era matta come un cavallo o se quelli erano in un certo senso dei ricordi, se c'era qualcosa di vero. Perché Londra non era più la stessa città di quando era bambina, cosa strane erano successe e il suo ottavo senso (con il sesto intuiva le bugie e con il settimo se stava per piovere) le diceva che l'uomo che viaggiava con la cabina telefonica blu era in un qualche senso collegato a quegli strani avvenimenti.

Per quello, in un pomeriggio di metà maggio, con il cappotto beige, le calze arcobaleno e i capelli lilla, bussò al 221B di Baker Street.

 

 

 

 

Angolo della persona poco normale che ha partorito tutto questo quando avrebbe dovuto chiaramente fare altro:

 

ehilà, buonsalve a tutti quanti. Intanto, grazie se siete giunti fin qua e non siete morti di noia/annegati nel vostri stesso vomito causato dalla storia. Come prologo è piccolino, me ne rendo conto, infatti pubblicherò subito anche il primo capitolo, così che possiate rendervi conto un po' della storia. 

L'idea è molto semplice, in realtà, ma spero vi appassioni almeno la metà di quanto abbia appassionato me scriverla. (un po' contorto, spero si capisca).

Un bacio e al prossimo capitolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. What's wrong with your sleeping? ***


CAPITOLO1
 

What’s wrong with your sleeping?

 



-John, la porta!-

L'uomo in vestaglia urlò al coinquilino. Come al solito, nessuna risposta. Nonostante fosse ormai passato un anno, doveva ancora abituarsi al fatto che il dottor Watson non vivesse più lì. Per quanto stesse divorziando, non era tornato a Baker Street.

Spazio cerebrale.

Ma che stesse divorziando… oh, quello lo ricordava bene.

-Signora Hudson!- provò quindi.

-Solo per questa volta, Sherlock. Sono la tua padrona di casa, non la tua domestica- sentì la voce della donna replicare stizzita, mentre dei passi al piano di sotto si dirigevano verso la porta.

Apertura della porta.

Domande di rito

Voci, voci di donne.

La signora Hudson, banale.

E una giovane, sui ventuno, ventidue massimo.

Fine delle chiacchiere.

Passi su per le scale.

Tempo di alzarsi dal divano.

Sherlock abbandonò il teschio sul pavimento e si chiuse la vestaglia, passandosi una mano tra i capelli in disordine. Due giorni senza uno straccio di caso e già respirare stava tornando ad essere noioso. E poi, con John impegnato con la nascita della bambina...

-Permesso? Cercavo Sherlock Holmes.-

Il detective consultivo scannerizzò la figura sulla soglia del suo salotto.

Ventuno anni e mezzo.

Studentessa universitaria.

Materie umanistiche, Lettere?

Cappotto logoro, probabilmente unico esemplare del suo armadio. Un ricordo?

Capelli lilla, evidentemente tinti, forse... castani in origine, sì, castani. Lunghi e poco curati.

Tinta fatta in casa, cappotto vecchio, non particolarmente ricca.

Mani quasi perfette, dita lunghe, ma unghie poco curate.

Spesso sotto stress, qualcosa la preoccupa da parecchio tempo.

Un famigliare scomparso, un delitto, un fidanzato che non si è fatto più vedere... No, banale!, nulla che giustifichi la sua presenza qui in un sabato pomeriggio di fine maggio.

Occhiaie sotto gli occhi, dorme male, forse non dorme affatto.

-Problemi a dormire, signorina Stebbins?-

Gli occhi sgranati della ragazza mandarono in visibilio il detective.

-Non mi sono presentata, come...?-

Sherlock le indicò il bigliettino che le era caduto dalla tasca, prima di congiungere le mani sotto il mento e socchiudere gli occhi.

-La ricevuta della lavanderia, certo. Della sua vista a raggi X non mi aveva parlato nessuno, signor Holmes- commentò la ragazza, raccogliendolo. -Comunque mi chiamo Celia. Signorina mi fa sentire una donnina del novecento.-

-Come preferisce. Ora, mi vuole dire cosa turba i suoi sogni?- chiese di nuovo Sherlock, facendole cenno di sedersi sulla sedia di fronte al divano.

-Le occhiaie, vero? Questa era facile persino per lei. Ma verrò al punto, signor Holmes, sarò breve. Faccio dei sogni strani. Sogno di viaggiatori nel tempo e nello spazio e cabine telefoniche blu più grandi all'interno che all'esterno. So che tutto questo le potrà sembrare assurdo, e io stessa non ci ho dato molto credito per anni, ma dopo gli avvenimenti degli scorsi anni, dei Natali... Io sento che le cose sono collegate.-

-E io cosa centrerei in tutto questo?-

-Mi crede?-

-Mettiamo di sì. Cosa dovrei fare, esattamente? Come le sarei utile io?-

-Bè, lei è il detective... O detective consultativo, qualsiasi cosa significhi, deve scoprire se quello che ho sognato era vero o no.-

Sherlock si prese un attimo per riflettere. Poteva farlo? Poteva davvero, per una volta, percorrere la strada dell'impossibile?

-Prima dovrei sapere perché lo sogna, Celia. Lo so che ha una teoria, glielo leggo negli occhi e nelle unghie rosicchiate delle sue mani.-

-Io credo che non siano solo sogni, ma ricordi, forse di quando ero molto piccola. Come se quell'uomo mi avesse salvato la vita. È questa la sensazione. So che è assurdo, che sembro pazza a raccontarlo...-

-Chiunque durante l'infanzia crea storie e amici immaginari- comincio Sherlock, interrotto dalla foga di Celia.

-Ma non me lo sono inventato!-

-Mi lasci finire!- ringhiò a bassa voce Sherlock, puntando improvvisamente i suoi occhi in quelli di lei. -Come dicevo, è tipico dei bambini. Ma questi, una volta cresciuti, sanno che erano solo storie, che non era reale. E, soprattutto, non continuano a sognarlo per più di dieci anni, notte dopo notte. Per cui sì, Celia, le credo. E sì, credo di poterla aiutare.-

Celia si alzò improvvisamente dalla sedia e stritolò uno spaesato Sherlock in un abbraccio.

-Sapevo di poter contare su di lei! Allora quando cominciamo?-

Sherlock sollevò un sopracciglio e la guardò di sbieco.

-"Cominciamo"? Io non lavoro in coppia.-

-Oh, certo. E John Watson è il suo amico immaginario, allora.-

-Dove vuole arrivare?-

-Bè, il signor Watson si è sposato, me lo ha detto la mia amica Sheila, che segue sempre il suo blog. E quindi lei è solo... Se la fa sentire più a suo agio potrei scriverci su anche io.-

-Non ho bisogno del suo aiuto, Celia.-

-Ma a lei serve un assistente!-

Sherlock le lanciò uno sguardo assassino.

-Solo se John... ehm... il dottore Watson non darà la sua disponibilità. Solo in quel caso!- le urlò dietro Sherlock, ma Celia stava già volando giù e lo salutava dalla strada, sillabandogli che sarebbe tornata il giorno dopo di buon ora.

Sherlock si buttò di nuovo su divano, arrotolandosi nella vestaglia, dopo aver dato un calcio al teschio.

-Signora Hudson, un the!- gridò, imbronciato con un bambino di due anni. -Con tre cucchiai di zucchero.-

-Non sono la tua domestica!-

 

Angolo della brava personcina che si fa troppi viaggi mentali:

ecco il primo capitolo, il POV, ovviamente, è quello di Sherlock. Le parti in corsivo sono i suoi pensieri, il suo “scannerizzare” la gente.
Mi sono presa un paio di libertà rispetto alla storia originale: questa è la Londra anche del Dottore, in cui a Natale capitano sempre dei disastri e gli alieni capitano a Downing Street e John sta divorziando. Non sparatemi, voglio bene a Mary, e anche tanto, ma Jawn è di Sherlawk, punto e basta. Vedrete anche l’evolversi della loro “relazione” durante la storia.
Bene, questo è quanto.
Ora, credo che aggiornerò tra sabato e domenica, mantenendo questo ritmo settimanale.
Un bacio.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. Us ***


  1. Us
 
 
Ho un nuovo caso
SH
 
Grazie al cielo! Così la signora Hudson smetterà di chiamarmi per sfogarsi delle tue maniere.
JW
 
...
SH
 
Lo sai che sei piuttosto maleducato, quando ti ci metti.
JW
 
Non mi chiedi nulla del caso?
SH
 
Se vuoi decidere come la conversazione deve procedere, perché non parli con il tuo teschio?
JW
 
L'ho calciato da qualche parte
SH
 
Che ti aveva fatto?
JW
 
Non era te
SH
 
Stai per morire? Seriamente, intendo. Questa gentilezza è sospetta.
JW
 
Era una battuta? Perché non faceva ridere
SH
 
Ok, vecchietta stizzosa, come vuoi tu, mi arrendo. Parliamo del caso. Dimmi tutto.
JW
 
Celia Stebbins sogna/ricorda di un uomo che viaggia nel tempo con una cabina telefonica blu. Sei dei nostri?
SH
 
Stai scherzando tu, questa volta?
JW
 
Mai stato più serio, mi conosci.
SH
 
Si, esatto ti conosco. E lo Sherlock Holmes che conosco io non indaga su cabine telefoniche che... No, non ha senso.
JW
 
Perché, gli alieni un Natale sì e l'altro pure ce l'hanno un senso? Magari è tutto collegato, magari questa è la scoperta che renderà tutto chiaro!
SH
 
...
JW
 
John?
SH
 
Dammi tregua! Ammetterai che è tutto assurdo, però.
JW
 
Concordo
SH
 
Ma hai comunque deciso di prendere il caso. Perché?
JW
 
Mi annoiavo
SH
 
Avrei dovuto immaginarlo
JW
 
Allora, vieni domani?
SH
 
Non posso. Mancano due settimane al parto... Voglio stare vicino a Mary, nonostante tutto.
JW
 
Sai che ci metto sempre due giorni, massimo tre, a risolvere un caso.
SH
 
Non puoi fare senza di me, per una volta?
JW
 
John...
SH
 
C'è qualcosa che non mi stai dicendo
JW
 
Ho detto a Celia Stebbins che potrà farmi da assistente se tu non sarai... disponibile.
SH
 
Ahahahahah!
JW
 
John?
SH
 
Smettila di scrivere il mio nome, lo so come mi chiamo. Però ammetterai che la situazione è comica.
JW
 
No, non lo è.
SH
 
Adesso dobbiamo andare in ospedale per l'ecografia, non ti posso più scrivere, devo guidare. Però ci penserò, ok? Non ti posso promettere nulla, però. Nel frattempo...
JW
 
Quei puntini?
SH
 
Potresti dare una possibilità a Celia Stebbins. Falle indossare maglioni, se ti fa sentire più a tuo agio.
JW
 
Era una battuta?
SH








Angoletto della disperata che condivide con voi i suoi deliri:
eccoci al terzo capitolo. tutto SMS tra Sherlock e John (come suggerisce il titolo :P). non avevo mai scritto qualcosa del genere e, devo ammetterlo, mi sono divertita molto. spero di essere riuscita a rendere al meglio i nostri due òmini, ho sempre paura di scivolare nel OOC. John, come personaggio attivo nella storia, rimane ancora un attimo in stand-by, ma vi assicuro che arriverà anche il suo turno.
ringrazio le due fantastiche ragazze che mi hanno lasciato un commento e spero che il capitolo vi piaccia. fatemi sapere.
un bacio

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. The game is on ***


The game is on
 

Celia, per l'occasione, sulla via di rientro a casa comprò una nuova tinta. Un bel biondo, questa volta, meglio non dare nell'occhio. Già il signor Holmes non era sembrato molto contento della loro collaborazione, se poi lei si presentava conciata da Fata Turchina...
-Mamma, sono io!-
Roona alzò a malapena gli occhi dalla tv e le rivolse uno svogliato cenno di saluto dal divano.
-Bentornata anche a me- borbottò Celia, sparendo in bagno con la tinta.
-Non ti farai di nuovo qualcosa ai capelli, vero?-
La voce di sua madre le arrivò smorzata, ma il tono scocciato c'era tutto.
Celia sbuffò, cominciando a distribuire il prodotto sulla lunga chioma.
-Ti cadranno, tra un po'!-
-Di chi sono, i capelli?- le gridò in risposta lei, impegnata in una strana contorsione per raggiungere tutta la lunghezza. -I miei! E chi diventerà calva? Io! Fine della storia.-
Dei passi strascicati le dissero che sua madre stava raggiungendo il bagno.
-Lascia, ti aiuto- borbottò Roona, togliendole di mano pennello e coppetta. Celia la lasciò fare. Era raro che sua madre la aiutasse con quegli intrugli, meglio prenderla per il verso giusto.
-Ho comprato il biondo, questa volta.-
-Esci con qualcuno?-
Celia alzò un sopracciglio.
-Il biondo è per le grandi occasioni. Mitchell ti ha invitata di nuovo?-
-Cosa? No, Mitchell è gay, mamma. Esce con Ted da due mesi, ormai.-
-E quindi a cosa dobbiamo l’onore?- insistette Roona, prendendo il tempo sull'orologio.
-Sono andata da un detective, bè, un detective consultivo, così si fa chiamare, per i sogni che faccio...-
Roona si passò una mano tra i capelli scuri.
-Celia, non ricominciare. Sono sogni, solo sogni.-
-Gli alieni esistono, mamma, ne abbiamo avuto la prova più volte. E allora perché i miei sogni devono essere una fantasia?-
-Celia...-
La ragazza allontanò stizzita la carezza di Roona.
-Lui mi ha creduta, mamma. Ha detto che mi aiuterà.-
-Ma certo che ti aiuterà! Guardati, Celia, sei una bella ragazza... chiunque farebbe di tutto pur di adescarti!-
-Mamma! Lascia perdere, vai, torna di là, la pubblicità è finita.-
 
La mattina seguente, Sherlock fu svegliato da rumore della pioggia. Proprio un giorno da rimanere sotto le coperte, dove il mondo e le persone noiose non potevano entrare.
Ma lo squillo del telefono lo costrinse ad alzarsi. Tirandosi dietro il lenzuolo, raggiunge il salotto.
-Sherlock Holmes. Chi parla?-
-Signor Holmes, sono Celia Stebbins, abbiamo parlato ieri. Volevo chiederle a che ora devo venire oggi e dove.-
Sherlock sbuffò coprendo la cornetta. Nessun messaggio da John dopo l'ecografia, doveva per forza rassegnarsi alla collaborazione con quella ragazza.
-Vengo io a casa sua, tra un'ora. Mi dia l'indirizzo.-
Annotò il tutto su un foglietto e riattaccò.
-Signora Hudson, il mio caffè?-
Per una volta, lei evitò il solito copione e comparve dopo qualche minuto con un vassoio con una caffettiera e una brioche sopra. E il giornale.
-Quella ragazza che è venuta ieri, Sherlock, l'aiuterai, vero?- gli chiese, mentre Sherlock scannerizzava le notizie del giorno e sorseggiava il caffè.
-Ovviamente. Anzi, potrebbe prenotarmi un taxi per le nove e mezza?-
-Sherlock!-
-Lo so, lo so. Non la mia domestica- la prese in giro, lasciandole un leggero bacio sulla guancia al gusto di caffè e brioche. -Ma il taxi me lo chiama lo stesso?-
 
Mezz'ora più tardi, Sherlock Holmes salì sul famoso taxi chiamato dalla signora Hudson, diretto verso la casa di Celia Stebbins, mentre Celia Stebbins provava a convincere sua madre a uscire di casa, nonostante la pioggia. Convinta Roona che, nonostante il diluvio, fosse la giornata ideale per uscire a fare due passi, Celia si fiondò sotto la doccia. Le piaceva che l’acqua fosse sempre bollente, anche quando fuori era molto caldo, e quel giorno non fece eccezione.
Era nervosa, Celia, nervosa come poche volte nella sua vita. Aveva sognato di nuovo la cabina blu, ma questa volta ci era entrata. Era grande, l’interno, grande e con la soffusa luce dorata, con una consolle che sembrava un fungo. E c’era un uomo, ai comandi, quello con la giacca di pelle nera e le grandi orecchie. Le aveva sorriso, le aveva preso la mano… e lei si era sentita a casa, protetta e al sicuro.
Chiuse di scatto il getto e uscì dalla doccia con un brivido, iniziando a vestirsi. Aveva scelto di rinunciare alle calze arcobaleno, convinta che non fossero adatte al suo nuovo ruolo di assistente del grande Sherlock Holmes. Si chiese che faccia avrebbe fatto Sheila se l’avesse saputo.
Si infilò di fretta il vestitino bianco che aveva preso dall’armadio della madre, lo coordinò con un cardigan verde, indossò le calze nere e degli scarponcini che di primaverile avevano poco. Legò i nuovi capelli biondi, che la convincevano poco anche se le stavano bene, in uno chignon spettinato e si sedette in salotto, giocherellando nervosa con la frangia.
Quando suonò il campanello, saltò su come punta da uno spillo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4. You are dreaming your past ***


You are dreaming your past

 

L’uomo era già sulla soglia, alto e scuro nel suo cappotto nero, e con gli occhi sbirciava all’interno dell’appartamento.

-Signor Holmes- balbettò confusa Celia, aprendo la porta e facendolo accomodare. Improvvisamente, mentre lui entrava a passo sicuro nella stanza e si toglieva la sciarpa lasciandola cadere sul divano, si sentì inadeguata come poche volte nella sua vita, con il suo vestitino della festa e la nuova tinta.

-Il piano era scritto sul campanello e qualcuno aveva lasciato la porta aperta, nel caso in cui se lo stesse domandando- disse con la sua voce profonda, togliendo anche il soprabito e rimanendo in giacca nera e camicia viola. Celia non poté impedire al suo cuore di avere un guizzo.

-Può mostrarmi la casa?-

Celia rimase un attimo interdetta. Fuori pioveva in un modo assurdo, come faceva quell’uomo a non essere nemmeno umido?

-Celia…?-

-Oh, la casa, certo. Per di qua- farfugliò, lisciandosi la gonna bianca e dirigendosi verso il corridoio.

Casa sua le era sempre piaciuta. Ci abitava da quando era molto piccola, erano sempre state lei e Roona, suo padre non lo aveva mai conosciuto, e quell’appartamento era pieno di cose loro. Si sentiva un po’ in imbarazzo a mostrarlo a uno sconosciuto –per quanto maledettamente attraente-. In cucina, per esempio, sua madre aveva lasciato i disegni di quando era bimba appesi sul frigorifero; in bagno, invece, il piano accanto allo specchio era caoticamente pieno di prodotti femminili più o meno imbarazzanti; la sua camera da letto, per quanto l’avesse riordinata appena sveglia, era la stessa di quando era una teen-ager, con ancora poster di band assurde e attori sconosciuti ai più, ma belli da morire, appesi alle pareti. Non si era mai vergognata della sua stanza, era la sua in fondo, ma provò ad immaginare come dovesse sembrare agli occhi di Holmes e si fece piccola piccola dietro la sua schiena.

-È tutta qui?- chiese lui, quando ritornarono in salotto.

-Nessun super attico o ambiente nascosto dietro una qualche porta a scomparsa- provò a ironizzare, gelata dallo sguardo di Holmes. –No, niente di niente.-

Holmes tornò sui suoi passi e si diresse verso la cucina. Celia lo seguì curiosa e lo vide tirare fuori uno strano oggetto –che si rivelò essere una lente d’ingrandimento- ed esaminare a uno a uno i disegni appesi sul frigorifero.

-Cerca qualcosa in particolare?- chiese Celia, schiarendosi la voce.

Sherlock la guardò storto, ma rispose alla sua domanda.

-Vede lì, in quell’angolo in alto a destra? In ogni suo disegno compare sempre la stessa macchia di colore blu che, se esaminata attentamente, si rivela essere un micro disegno.-

-E cosa rappresenta?-

-Lo ha dipinto lei, dovrebbe dirlo lei a me.-

-Ma ero una bambina. E poi nessuno se n’è mai reso conto…-

-Oh, questo è perché voi vedete, ma non osservate.-

-E poi, non potrebbe essere semplicemente una macchia di pennarello? I bambini paciugano sempre, quando disegnano…-

-No, questo è impossibile. Sempre la stessa posizione, sempre gli stessi tratti, identico il colore… Guardi lei stessa- disse, porgendo a Celia la lente.

mbiente nascosto dietro una qualche porta a scomparsa- provò a ironizzare, gelata dallo sguardo di Holmes.agli occhi di Holmes –Non ci credo- sussurrò lei, restituendo l’oggetto al proprietario.

-Che cosa?-

-Quella è la stessa cabina telefonica che continuo a sognare!-

Il rumore della porta che si chiudeva fece sobbalzare Celia. Sua madre era tornata e non era di buon umore, a giudicare del tono di voce.

-Celia! Il negozio qua sotto era chiuso, sono dovuta andare...- entrò in cucina lasciando cadere le buste della spesa e poi si bloccò, fraintendendo la vicinanza tra sua figlia e lo sconosciuto. -Oh, adesso capisco perché ti serviva casa libera- disse acida, lanciando un'occhiataccia ai due.

-No, mamma, non è come pensi!-

-E si spiega anche la tinta- mormorò Roona, cominciano a mettere a posto la spesa.

Sherlock, nel frattempo, era rimasto come congelato tra le due, facendo saettare lo sguardo tra madre e figlia. Non capiva cosa stava succedendo. C'era uno scontro in atto, ma non ne capiva il motivo.

-Lui è il detective di cui ti parlavo ieri- cominciò a spiegare Celia, ma lui si sentì in dovere di precisare che si trattava di un "detective consultivo".

-E che diavolo dovrebbe significare? Non esiste come lavoro!-

-L'ho inventato io. Evidentemente non ha mai sentito parlare di me- commentò Sherlock. -Ho risolto molti casi, aiutando la polizia. A essere sinceri, la polizia non ha fatto più di tanto, se non proporre ipotesi assurde.-

-Quanto ego per una persona così sottile- fece Roona, avvicinandosi.

-Non mi crede?-

Sherlock era spiazzato. Non gli era mai capitato di dover convincere qualcuno. Di solito, la gente lo conosceva, lo trovava insopportabile e poi gli diceva si togliersi dai piedi. Con pochissime eccezioni a questa regola. Leggi John.

-Per niente. I detective consultivi non esistono e, se anche fosse, lei non sarebbe tra quelli. Se è qui per fare del male a mia figlia, sappia che dovrà fare i conti con me!-

-Posi quella padella, sappiamo entrambi che c'è solo un minimo di verità in quello che mi ha detto.-

Ora fu il turno di Celia di strabuzzare gli occhi.

-Che cosa sta insinuando?- sibilò Roona. -Esca subito da casa mia!-

-Posso dimostrarle che ho ragione- ribatté Sherlock, sforzandosi di mantenere la calma.

-Mamma, lascialo parlare- si intromise Celia, facendo abbassare la padella alla madre.

-Non c'è nessun signor Stebbins, non è vero? Non c'è mai stato.-

-Che cosa...?-

-Dia un'occhiata in giro, Celia! Non c'è una sua singola fotografia in giro, nemmeno la più piccola o insignificante.-

-La sua prematura scomparsa mi ha troppo sconvolta,- disse sicura Roona, -per quello ho tolto le foto.-

-Me le mostri, dunque, e se è vero io me ne andrò e non sentirete più parlare di me. Ma non può, vero Roona? Perché quelle foto non esistono. Come non ne esistono di Celia appena nata o quando aveva meno di quattro anni.-

-E questo cosa dovrebbe significare, cos'ha a che fare con il mio nome?- chiese Celia, con voce tremante.

-Roona non è sua madre. E quei sogni sull'uomo nella cabina telefonica blu... quelli sono ricordi.-

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5. Meet me for dinner ***


Meet me for dinner

 

Com'è andato il sopralluogo?

JW

 

Come sai che ero là?

SH

 

Ho imparato dal migliore.

JW

 

No, non è vero. Sono passato da Baker Street la signora Hudson mi ha detto dove eri andato. Allora, com'è andata?

JW

 

Se ti dicessi che sono stato minacciato con una padella?

SH

 

Ti direi che mi sono perso un gran bello spettacolo. Il grande Sherlock Holmes messo in fuga da un'antiaderente. Avrei voluto vedere la scena.

JW

 

Non è colpa mia se non c'eri.

SH

 

Sherlock, Mary aveva l'ecografia. Anche se stiamo divorziando, è pur sempre di mia figlia che si tratta.

JW

 

Figlia?

SH

 

Io non riesco a smettere di sorridere da quando me lo hanno detto. Anche Mary è molto felice. Bè, per quanto possa esserlo dell'intera situazione.

JW

 

Non è colpa tua. Ci avete provato, non ha funzionato. Fine.

SH

 

Lo so, ma a volte... Senti, lascia perdere. Domani è il mio giorno libero all'ambulatorio, è ancora valida l'offerta? Voglio proprio conoscere chi riesce a metterti in fuga armato di una sola padella.

JW

 

Si tratta della "madre" della cliente, certa Roona Stebbins.

SH

 

Perché le virgolette?

JW

 

Vieni da Angelo sta sera e te lo spiego.

SH

 

Se mette di nuovo la candela e ci strizza l'occhio mi alzo e me ne vado.

JW

 

Allora è un sì?

SH

 

Certo che lo è.

JW

 

Come mai riesco a percepire il tuo tono sconsolato anche dai messaggi?

SH

 

Perché mi conosci troppo bene. Ecco perché non sono tornato a Baker Street, ma mi sono cercato un appartamento.

JW

 

Ore 18.30 davanti al ristorante.

SH

 

A dopo

JW

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6. Of talking and running away ***


Of talking and running away

 

Sherlock era arrivato in anticipo di venti minuti e John di dieci. Si erano seduti a tavola alle 18.20 e si erano alzati alle 18.23. Bè, in realtà, era stato John ad alzarsi e Sherlock gli era corso dietro, maledicendo mentalmente Angelo e la sue cavolo di candele.

E così erano finiti a camminare a vuoto per Londra, mentre le persone normali andavano a casa a mangiare, con lo stomaco vuoto e la mente piena. La città era piena di turisti, gruppi chiassosi di italiani e spagnoli, armate ordinate di giapponesi, nord europei già ubriachi... E poi c'erano loro due, figure improbabili ammantate di silenzio.

-Devi fare tutte le volte questa scena?-

La voce bassa di Sherlock non gli era mai sembrata così simile allo scricchiolare delle foglie in autunno. Era come se fosse stato ferito dal suo comportamento, ferito e deluso al tempo stesso.

-Lo sai che non lo sopporto quando fa così- fu l'unica risposta di John mentre entravano a Hyde Park e cercavano una panchina dove fermarsi a magiare il take away cinese che avevano comprato.

-E tu lo sai che Angelo lo fa apposta proprio perché sei un cavolo di permaloso?-

-Questo non è essere permaloso, è... Oh, diamine! Si, va bene, sono permaloso e Angelo lo sa. Ma pensavo che dopo quasi cinque anni si fosse stancato.-

-La tua corsa fuori è ormai l'attrattiva del locale.-

-Era una risata quella? Mi stai forse prendendo in giro?- scherzò John, agitandogli il suo involtino primavera pericolosamente vicino alla faccia. -Non mi faccio prendere in giro da un sociopatico iperattivo, sappilo- concluse, dandogli un buffetto sul naso con il suddetto involtino e lasciandoli una macchia di sugo.

-Questo era decisamente poco gay- commentò Sherlock. -Adesso devi solo andare a buttare la carta sculettando, sistemarti i capelli con un gesto scocciato della testa e poi mi hai convinto al cento per cento- disse, pulendosi il naso.

-Evita- lo fulminò John. -C'è abbastanza salsa da fartici fare il bagno dentro.-

-Di bene in meglio.-

-Sherlock! Non sono gay, smettila! Io sono sposato, anche se ancora per poco, e sto per diventare padre.-

-Ottima osservazione. Sei sposato, ma stai divorziando- ghignò Sherlock, guadagnandosi un'altra involtinata sul naso. -Quanto al fatto che stai per diventare padre... Bè, anche le coppie gay possono adottare dei bambini...-

-Ti stai proponendo come partner?- tentò di scherzare John, dandogli un fazzoletto per pulirsi.

-Sposato con il lavoro, mettiti in coda.-

-Parlando di lavoro, quindi, che mi dici della pazza con la padella che ti ha fatto tanta paura?- chiede John, ridendo e passando all'attacco delle nuvole di drago. -Perché mi hai scritto che è la madre, ma lo hai messo tra virgolette?-

-Perché non è la madre. Celia è stata adottata, ma lei non glielo ha mai detto. Anzi, ha provato a negarlo anche davanti a me.-

-Bè, sai essere piuttosto maleducato e insistente, quando ti ci metti. Magari avrebbe preferito parlargliene con calma.-

-La ragazza ha quasi ventidue anni e fa dei sogni strani. Ricorda, secondo me. Fossi la madre, mi farei delle domande.-

-Quindi, come pensi di muoverti adesso? Non puoi certo andare in giro a chiedere se qualcuno ha mai visto una cabina telefonica blu.-

-Pensavo di fare ricerche su Roona Stebbins, a essere sincero. Quello che Celia sa di lei potrebbero essere bugie.-

-E con la ragazza hai già parlato a proposito?-

-Domani mattina abbiamo appuntamento. Pomeriggio controllerò quanto mi avrà detto.-

 

 

 

 

Aveva litigato con Roona -non le riusciva più di chiamarla mamma- non appena Sherlock Holmes se n'era andato e il tutto era finito in urla e pianti, in porte sbattute e musi lunghi, in valige e suppliche.

Se n'era andata.

Aveva chiuso la porta dietro sé, si era tappata le orecchie e aveva sceso le scale di corsa, trascinandosi dietro il borsone. Solo una volta che aveva girato l'angolo, quando aveva cominciato a piovere e Celia si era accorta di non aver portato l'ombrello, si era lasciata andare alle lacrime. Si era accasciata per terra, raggomitolata intorno al borsone, zuppa nell'abitino bianco e nel cardigan verde.

Era scesa la sera e aveva smesso di piovere, ma le lacrime non si erano fermate.

Qualcuno, passando, le aveva addirittura gettato degli spiccioli, mal interpretando la sua aria distrutta e i vestititi sporchi di smog e acqua.

-Scappata di casa?-

Quella era stata l'unica voce gentile.

Celia aveva alzato lo sguardo e aveva messo a fuoco l'uomo. Non era tanto alto, sulla quarantina, i capelli biondo cenere e gli occhi blu scuro gli sorridevano cortesi.

-Come fa a saperlo?-

L'uomo sorrise e le porse una mano per aiutarla ad alzarsi.

-Dopo un po', uno inizia a fare davvero caso ai dettagli. John Watson, piacere.-

-Celia Stebbins- si presentò a sua volta, alzandosi. -Anche se non sono più tanto sicura che sia il mio nome- mormorò.

John Watson la guardò sorpreso.

-Celia Stebbins, hai detto?-

Lei annuì.

-Per caso conosci Sherlock Holmes?-

-John Watson? Lei è per caso quel John... dottor Watson?-

Entrambi si sorrisero.

-Strano come ci conosciamo senza conoscerci- commentò lui, aiutandola con il borsone. -Sherlock mi ha parlato di quello che è successo oggi. Mi dispiace non esserci stato, di solito riesco a renderlo più "docile"- disse, virgolettando in aria l'ultima parola.

-Bè, in fondo l'ho chiamato io, me la sono cercata.-

-Ma c'è modo e modo di dire le cose. Sherlock è il migliore nel suo campo, ma solo finché ha a che fare con cadaveri, logica e me. Per il resto, è peggio di un bambino di tre anni. Dice tutto quello che gli passa per la testa, senza preoccuparsi delle conseguenze.-

-Deve essere faticoso essere suo amico- commentò Celia.

-Abbastanza. Cambiando un attimo argomento, se non ho capito male non hai dove stare, giusto?-

-No. E non ho intenzione di tornarmene a casa, questo è fuori discussione.-

-Oh, non ti preoccupare. So io dove potresti andare. So di un bell'appartamento non lontano da qui che ha una camera sfitta...-

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7. The haunting haunted kind ***


The haunting haunted



Quando Celia scoprì che l’appartamento di cui parlava il suo salvatore era al 221B di Baker Street, quasi le venne da ridere.

Per quanto fosse ormai notte fonda, la padrona di casa, un’adorabile signora di mezza età, insistette per prepararle qualcosa da mangiare e si offrì di lavarle i vestiti. Il signor Watson, invece, sparì al piano di sopra non appena misero piede in casa. Probabilmente voleva essere lui ad avvertire il signor Holmes della nuova coinquilina.

Celia ancora non riusciva a credere alla propria fortuna. Certo, rispetto a quando si era svegliata quella mattina, la sua vita era completamente diversa, ma questo non doveva per forza significare che fosse cambiata in peggio. Tutti erano stati incredibilmente gentili con lei, anche considerando il fatto che era una sconosciuta a tutti gli effetti e gli era praticamente piombata tra capo e collo. In particolare, il signor Watson –che insisteva per essere chiamato John- si era offerto di pagarle le prime due settimane di affitto, con la speranza che lei nel frattempo appianasse le cose con sua madre. In caso contrario, si era già detto disponibile per anticiparle l’intero mese e anche quello seguente, nell’attesa che lei trovasse un lavoro part-time.

-Ecco cara, questa dovrebbe tirarti su- disse la signora Hudson, allungandole una cioccolata calda.

-Puoi sistemarti nella mia vecchia stanza, al secondo piano. Ho controllato, Sherlock l’ha tenuta decentemente- disse il signor Watson, comparendo nella piccola cucina.

-Oh, l’ha tenuta più che decentemente! Quasi credevo ci avrebbe fatto un santuario- commentò la signora Hudson, strizzando l’occhio a Celia che scoppiò a ridere sommessamente.

-Signora Hudson, quante volte glielo devo ripetere? Non siamo una coppia, non lo siamo mai stati e, cosa da sottolineare più e più volte, io non sono gay!-

Ma la signora Hudson continuò come se il dottore non avesse mai aperto bocca.

-Gli si è spezzato il cuore quando ha saputo che ti saresti sposato. Povero Sherlock! Ha passato interi pomeriggi a suonare musiche tristi con quel suo violino. Io le sentivo persino da qui. Erano i lamenti di un cuore che andava in mille pezzi…-

-Non interessa a nessuno, signora Hudson- la interruppe bruscamente Holmes, facendo il suo ingresso nella stanza. Era sceso in vestaglia, ma non aveva l’aria di uno che era appena stato svegliato. –Celia Stebbins, John mi ha detto che verrà a stare all’ultimo piano.-

-Spero non sia un problema- mormorò lei. Quell’uomo la mandava nella confusione più totale, con quei modi calmi e garbati, con quegli occhi che sembravano poterti leggere dentro e, allo stesso tempo, riflettevano tutta la tristezza del mondo. C’era qualcosa in lui che lo rendeva diverso da chiunque altro. E quel qualcosa era in quegli occhi dal colore strano. Era come se qualche cosa lo cacciasse dall’interno e lo costringesse a cacciare il mondo intero.

-Affatto. Anzi, credo ci sarà utile per la mia indagine.-

-Nostra- puntualizzò il signor Watson e Holmes sollevò un sopracciglio, mentre la signora Hudson ridacchiava. –Che c’è? Me lo hai chiesto tu!-

-Ora sarà meglio che vada a dormire, Celia, se vuole esserci di qualche utilità… bè, non propriamente domani. Diciamo tra qualche ora.-

Detto questo, sparì silenzioso com’era comparso.

 

Era di nuovo nella cabina blu ma, per la prima volta nella sua vita, era terrorizzata. Aveva una paura folle e non capiva cosa stesse succedendo. Se ne stava accucciata in un angolo, le mani premute sulle orecchie e gli occhi spalancati.

-Dov’è la mia mamma?- chiedeva, ma l’uomo ai comandi non le rispondeva. Tirava leve, pigiava bottoni e pulsanti… senza mai alzare lo sguardo su di lei. E lei era piccola, piccola e terrorizzata, senza la sua mamma e il suo papà.

Uno scossone la fece sobbalzare e cominciò a piangere.

-Ssh, non avere paura.-

Accanto a lei era comparsa una ragazza bionda dagli occhi scuri e dolci.

Rose era il suo nome, lo sapeva.

Rose la strinse forte, premendola contro il suo petto.

Rose era morbida e le ricordava la sua mamma.

Rose la teneva al sicuro.

-Dov’è la mia mamma? Voglio andare a casa!-

Rose alzò lo sguardo verso l’uomo ai comandi, il quale scosse la testa.

-Ti troveremo una nuova casa, promesso- sussurrò, posandole un bacio sulla fronte.

Rose era buona.

Rose poteva essere la sua nuova mamma, se voleva.

Rose e quell’uomo dalle grandi orecchie. In quella strana cabina blu.

 

Dato che il suo pianeta non esisteva più.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8. Afraid in the darkness ***


Afraid in the darkness

 

Quando Celia si svegliò, la prima cosa che notò era Holmes accovacciato accanto al suo letto, le mani giunte sotto il mento e gli occhi socchiusi puntati su di lei.

-Che cosa...?- mormorò Celia.

-Ha urlato. Ho dedotto che stesse di nuovo sognato. E, se non vado errato, si tratta sempre della stessa cabina blu.-

Celia non rispose, ma le labbra di Holmes si arricciarono in un ghigno.

-Mi dica cosa ha visto.-

Ma Celia non era certa di essere pronta a parlarne. Il sogno stava già cominciando a scivolare via dalla sua memoria, come capitava sempre, e non voleva che succedesse. Quella ragazza era stata così buona con lei... Non voleva dimenticarla di nuovo. E se ricordarla significava rivivere quel terrore ogni notte, era pronta.

-Celia, non posso aiutarla se lei non mi dice cosa ha sognato- insistette Holmes.

-Signor Holmes...-

-Sherlock, per favore. Siamo più o meno coinquilini, adesso.-

Celia prese una gran respiro. Sapeva di potersi fidare, lui era lì per aiutarla, ma già un altro era stato il suo salvatore e poi l'aveva abbandonata...

-Il mio pianeta è andato distrutto- disse in un sussurro. -Ha senso?-

-In realtà no. Altro?-

-C'era una ragazza, questa volta. Ma sono certa che ci sia sempre stata, solo che non riuscivo a ricordarla.-

-Oh, questo può essere davvero d'aiuto. Ricordi anche un nome?-

Il passaggio dal "lei" al "tu" le provocò un brivido lungo la schiena.

-Rose. Ma non so il cognome. Però ricordo che era bionda e aveva circa la mia età adesso.-

Il sorriso di Sherlock vacillò, ma fu solo per un secondo.

-La troverò. Se questa ragazza viaggia in una cabina blu, qualcuno l'avrà notata- disse, alzandosi e facendo per uscire.

-Signor... Sherlock?- lui si voltò che era già sulla soglia. -Grazie.-

 

 

 

Devi trovarmi una persona.

SH

 

È scomparso qualcuno che conosco?

GL

 

No. Non è scomparso nessuno.

SH

 

Allora come faccio a trovare qualcuno che non è scomparso? E poi, per una volta, non puoi passare a Scotland Yard anziché messaggiarmi i tuoi ordini?

GL

 

Si chiama Rose, è bionda e giovane. Sui diciannove/venti.

SH

 

Oh, questo si che aiuta.

GL

 

Fatti aiutare da mio fratello, se proprio non sei in grado.

SH

 

Di solito sei tu quello a cui ci rivolgiamo quando non... Bè, quando vogliamo una prospettiva diversa.

GL

 

Bel modo di vederla. Immaginati che io ti stia applaudendo, al momento.

SH

 

E poi, cosa sono queste insinuazioni su me e tuo fratello? Non so nemmeno che faccia abbia!

GL

 

Una relazione virtuale. Intrigante.

SH

 

Definisci "virtuale" e "intrigante".

GL

 

Anzi no, lascia perdere.

GL

 

Quando hai notizie, mandami un messaggio.

SH

 

Erano circa le nove del mattino quando John arrivò a Baker Street e venne accolto dall'usuale sclero mattutino della signora Hudson contro il caos che Sherlock seminava dietro di sé. La povera donna vagava tra il primo e il piano terra, borbottando cose incomprensibili, tra le quali comparivano spesso il nome del detective, uno scheletro ritrovato sotto il divano, e la sua abitudine di considerarla la sua cameriera.

-Non sono la sua domestica!- sbottò non appena incrociò John. -Quindi, adesso glielo porti tu, questo benedetto the, altrimenti salgo io e glielo rovescio in testa!-

-Si calmi, signora Hudson, si calmi- provò John, cercando di nascondere un sorriso. -Vado io.-

-Grazie, John, grazie- sospirò lei, consegnandogli il vassoio. -Qualche possibilità che tu possa tornare a vivere qui? Sai, le cose andavano molto meglio...- aggiunse con tono da cospiratore.

John represse a stento una risata e cominciò a salire le scale. In soggiorno stavano Sherlock e Celia, lei sulla sua vecchia poltrona, e parlavano tranquillamente. Quello lo lasciò interdetto. Aveva sempre creduto che il suo rapporto con Sherlock fosse, se non unico, almeno speciale. Ricordava bene com'era il detective prima di incontrarlo, il freak della polizia e lo psicopatico da tenere occupato con casi sempre nuovi, nella speranza che non cominciasse ad uccidere la gente solo perché si annoiava. Gli ci era voluto un po', ma era riuscito a penetrare quella corazza che Sherlock si era costruito intorno a sé, fino a diventare il suo migliore amico. Ed era fiero di ciò.

Ma poi era arrivata questa ragazzina, si era sistemata nella sua vecchia camera, nella sua vecchia poltrona... Aveva preso il suo posto nella sua vecchia vita. Lui era stato troppo impegnato a cercare di far funzionare il suo matrimonio con Mary per preoccuparsi di lui... E Sherlock stava cercando di sostituirlo.

Forse, se lo meritava, quel pugno nello stomaco.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 9. You've drawn the answer ***


You’ve drawn the answers

 

Entrò nella stanza schiarendosi la gola, sentendosi come colpevole di una qualche interruzione.

-Oh, John, la colazione- disse Sherlock, sorridendo a Celia, mentre a lui si accartocciavano le viscere.

-Grazie, signor Watson.-

-Dottor Watson- puntualizzò Sherlock.

-John basta e avanza, davvero.-

-Sei arrivato giusto in tempo. Celia mi stava raccontando di "sua madre"- disse Sherlock, virgolettando in aria le ultime parole e raggomitolandosi sul divano con il the in mano. -Siediti.-

John fece per andare a recuperare una sedia dalla cucina, ma Sherlock gli fece cenno di prendere posto accanto a lui.

-Allora, tua madre, eh?- chiese John, giusto per riprendere il filo del discorso. -Nessun padre?-

L'occhiata che gli scoccò Sherlock lo fece sentire piccolo e stupido.

-Sherlock sostiene che io non abbia un padre, che Roona mi abbia adottata quando avevo circa quattro anni. Io non ricordo nulla.-

-Nessuna domenica dai nonni, regali o feste di compleanno?- insistette John, curioso.

Celia scosse la testa.

-Mamma diceva che papà era morto quando ero molto piccola, in un incidente d'auto quando viaggiava insieme ai suoi genitori. Lei, invece, aveva perso i suoi che era poco più che adolescente.-

-Hai mai visto le tombe?- chiese Sherlock.

-La gente non fa gite domenicali al cimitero, Sherlock- lo riprendi tu.

-Ma comunque la risposta è no. Ogni volta che provavo a farle domande, soprattutto quando ero più piccola, cambiava sempre argomento. E alla fine ho imparato ad accettarlo come un dato di fatto. C'erano famiglie numerose, con tanti cugini, zii e nonni... E poi c'eravamo noi due.-

-E i sogni? Quando sono cominciati?- domandò John. -Ne hai parlato con tua madre?-

-All'inizio sì. Bè, cominciati è una parola grossa. Li ho sempre fatti, ma di recente sono diventati più dettagliati.-

-Da quando, riesci a ricordare?-

-Da quando a Londra hanno cominciato a succedere cose strane.-

Calò il silenzio, interrotto dalla suoneria di un messaggio. Sherlock tirò fuori il suo telefono e una smorfia insoddisfatta si disegnò sul suo volto. John allungò il collo e Sherlock gli mostrò lo schermo.

-Sempre il solito incompetente- borbottò, mentre John aggrottava le sopracciglia.

-Bè, non è che avesse molti dati...-

-Non prendere le sue difese. A volte mi domando se non abbia vinto il lavoro a Scotland Yard con i punti della spesa.-

-Sherlock!- lo riprese John, ma si vedeva che stava ridendo.

-Scusate, qualcuno mi vuole dire cosa sta succedendo?- si intromise Celia.

-Ho chiesto a Lestrade, uno che sostiene di essere detective ispettore a Scotland Yard...-

-Sherlock!-

-... di trovare la famosa Rose, ma mi ha risposto che ha troppi pochi elementi. Oh, toccherà rivolgermi a Mycroft. Quale gioia- aggiunse in tono funereo.

-Mycroft è suo fratello, lavora per il governo- spiegò John.

-Lui È il governo, di fatto- puntualizzò Sherlock. -Ma ho ragione di credere che non avremo migliore fortuna con lui.-

-Tu non ricordi nient'altro?- chiede John. -Con il cognome saremmo a cavallo.-

Celia si passò entrambe le mani sul viso e sospirò.

-Forse nel prossimo sogno... Ma non lo so davvero. Non è un qualcosa che posso controllare. Potrebbero anche smettere di punto in bianco.-

Sherlock socchiuse gli occhi e giunse le mani sotto il mento.

Quando aprì di nuovo gli occhi, il suo sguardo era appena appena folle.

-I disegni!- gridò, saltando suo divano. -Ah, sono certo che la chiave sia lì! Dobbiamo andare a casa tua, Celia, e farci dare tutti i tuoi disegni!-

E poi sparì verso la camera da letto, da dove riemerse dopo qualche istante, vestito di tutto punto e con il cappotto in mano.

-Bè? Datevi una mossa!-

 

Mezz'ora dopo erano tutti e tre strizzati nel sedile posteriore di un taxi e sfrecciavano verso casa di Celia. Lei guardava fuori dal finestrino, persa tra i suoi pensieri, nervosa per l'incontro prossimo con la madre. Da quando, la sera prima, aveva sbattuto la porta e se n'era andata, non l'aveva chiamata né, tanto meno, le aveva detto dove era andata a stare. Forse non avrebbe approvato la sua scelta, ma l'appartamento di Baker Street le piaceva, come le piaceva la signora Hudson e, in particolare, le piaceva il suo coinquilino. Sherlock era folle, più lo conosceva più se ne rendeva conto, ma quella follia era geniale e contagiosa. E forse poteva davvero esserle d'aiuto. Perché quei sogni la inquietavano, soprattutto per il fatto che stavano cambiando. L'iniziale sentimento di calma e gioia stava scomparendo, sostituito da un terrore e una paura terribile. E poi c'era quella consapevolezza che l'aveva tanto sconvolta nella notte: il suo pianeta era stato distrutto. Cosa significava? Era stato detto e ridetto alla tv che le esplorazioni spaziali non avevano trovato alcuna forma di vita extraterrestre... Com'era quindi possibile che lei venisse da un altro pianeta che, addirittura, era andato distrutto? Però non c'erano dubbi, sapeva che quello era vero come che il cielo fosse azzurro e l'erba verde.

Sherlock aveva detto che la risposta era nei suoi disegni. Nei disegni c'era la cabina blu, lo sapeva e lo stesso anche nei sogni. Quella cabina era stata la sua Arca di Noè, ormai ne era certa...

Ma come erano collegate le cose? Chi erano l’uomo dalla giacca di pelle nera e Rose, la buona ragazza bionda?

-Siamo arrivati- mormorò funerea, quando il taxi si fermò, indicando il palazzo di fronte a loro.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 10. Where is home? ***


Where is home?

 

 

 

La voce di Roona al citofono sembrava quella di una donna sul punto di scoppiare in lacrime e Celia si sentì in colpa, per un attimo. Sua madre era sempre stata iper protettiva con lei, soprattutto quando era più piccola, e un comportamento del genere, in circostante normali, le avrebbe fatto passare grossi guai.

-Sono io- rispose, cercando di mantenere un tono di voce saldo. John le strinse la spalla in segno di solidarietà e accennò un sorriso.

-Celia?!- gridò Roona, aprendo il portone automatico dall’appartamento.

I tre si infilarono nell’androne ed entrarono in ascensore. Salirono fino al quarto piano.

Quando le porte si aprirono, Celia venne soffocata dall’abbraccio di Roona che non aveva ancora messo piede sul pianerottolo.

-Ma dove eri finita? Ho chiamato anche la polizia, ma mi hanno detto che non potevano farci nulla, che per loro devono passare un tot di ore prima di considerare scomparsa una persona… e poi tu sei maggiorenne … Ma avresti potuto dire qualcosa…- la sgridò, le lacrime agli occhi. Ma Celia, per nulla commossa, la allontanò poco gentilmente.

-Siamo qui per i disegni- disse gelida, senza guardarla negli occhi.

Roona guardò confusa John e Sherlock, soprattutto il primo.

-Ah, scusi ma non mi sono presentato. Dottor John Watson, piacere- disse John, allungando la mano a Roona, che la strinse come inebetita. –Possiamo entrare?-

Lei annuì e si fece da parte, cercando di afferrare la mano di Celia mentre i tre sfilavano dentro casa.

-Vuoi spiegarmi cos’è questa storia?- sbottò, mentre Sherlock, in piedi accanto al divano, scannerizzava la casa ad occhi socchiusi. –Di che disegni parli?-

-Di quelli di quando Celia era bambina, ovviamente- rispose Sherlock, mentre Celia guardava fissa il pavimento, tormentandosi la lunga frangia.

-Ma sono sul frigorifero, li avete già visti… Celia, quando la smetterai con questa buffonata e tornerai a casa?-

-E dove sarebbe, esattamente, la mia casa, mamma?- chiese Celia, sarcastica e pungente. –Perché non è qui, né tanto meno a Londra- aggiunse, mentre la voce saliva di tono e sfiorava l’isteria. Stava per piangere, lo sapeva. Mannaggia a lei e alle sue lacrime facili. Ancora una volta, la mano di John trovò la sua spalla e lei si sentì rassicurare.

-Celia, di cosa stai parlando?- boccheggiò Roona, crollando sul divano accanto a lei, ma Celia si spostò più lontana.

-Quelli non sono i soli disegni che io abbia mai fatto, ne sono certa. Quale bambina si limiterebbe a dieci fogli?-

-Cosa ti fa credere che io li abbia conservati? Magari li ho buttati anni fa…- tentò di bluffare Roona.

-Signora Stebbins, ci servono quei disegni. Ora, possiamo fare un due modi: o ce li da ora, una cosa rapida e indolore, oppure sarò io stesso ad andarli a prendere- disse Sherlock, smettendo per un attimo di analizzare l’ambiente intorno a lui e concentrandosi su Roona. –A lei la scelta.-

Per un attimo lei rimase immobile, gli occhi fissi in quelli di Sherlock in uno sguardo di sfida e puro odio insieme, poi Roona si alzò, sparendo in camera da letto.

Quando ricomparve, qualche minuto dopo, tra le mani teneva una vecchia scatola di biscotti decorata con l’immagine di Harrods davanti. Era di un bel verde scuro, tutt’intorno, con i bordini dorati.

-Ingegnoso- ammise Sherlock- Anche se con lei devo essere sincero, signora, era piuttosto ovvio che fossero lì dentro.-

-Stia zitto e prenda questa scatola, prima che cambi idea- lo fulminò Roona, sedendosi accanto a Celia che, come prima si spostò lontano da lei.

John aprì delicatamente il coperchio, appoggiandolo sul divano, e poi cominciò a scorrere i disegni, passandone alcuni a Sherlock e a Celia. I soggetti erano diversi rispetto a quelli esposti sul frigorifero. Se i primi erano un inno alla gioia e alla normalità, tutti fiori, principesse e Soli sorridenti, i secondi facevano rabbrividire. Gli scenari raffigurati erano inquietanti, scuri e polverosi. Le poche figure rappresentate, solo lontanamente umane, avevano i volti sfigurati dall’angoscia e dalla paura e sembravano pregare lo spettatore in cerca di aiuto. Si trattava di figure lunghe e sottili, dalla pelle diafana e quasi trasparente, dipinti con straordinaria abilità per una bambina di circa otto anni. I loro visi, deformati dal terrore, erano leggermente allungati e gli occhi grandi come quelli di un gatto e privi di pupilla. I capelli si agitavano come mossi da un vento che spirava solo per loro. E protendevano le mani verso l’osservatore, mentre dietro di loro delle rovine fumanti bruciavano nel crepuscolo.

-Mio Dio…- fu l’unica cosa che riuscì a dire John, restituendo la sua parte di disegni a Sherlock.

-Questo lo riconosci?- chiese Sherlock, porgendone uno a Celia. C’era l’uomo dei suoi sogni, raffigurato come sulla soglia della cabina blu, che tendeva la mano a chi guardava il disegno. Stessa giacca nera, stessi occhi chiari, stessi capelli corti… persino stesse grandi orecchie. Sembrava una fotografia, sembrava quasi che potesse cominciare a muoversi da un momento all’altro. Dietro di lui, faceva capolino la ragazza bionda, l’angoscia dipinta sul volto.

-È lui, l’uomo che continuo a sognare! E lei è Rose. Sì, sono loro!- esclamò felice Celia, prendendo in mano il disegno e passando le dita sulle linee di colore, come accarezzando una persona cara perduta da tempo. –Adesso la possiamo trovare… li possiamo trovare!-

-In questo disegno c’è solo Rose- si fece avanti John, mostrando loro il disegno che aveva in mano. Questa volta si trattava solo della ragazza, rappresentata di tre quarti, gli occhi scuri che guardavano lontano. Era bella, la bocca grande e leggermente piegata all’insù, i capelli biondi raccolti in alto…

-Questo- disse Sherlock, facendo una foto al disegno, -lo mandiamo subito a Lestrade, sperando che almeno questa volta si renda utile.-

-Ho scritto qualcosa dietro- mormorò Celia, girando il foglio e notando la sua grafia da bimba. –Rose Tyler.-

-Rose Tyler?-ripeté John, guardando attentamente il volto della ragazza. –Rose Tyler… Perché mi suona famigliare?-

-Perché è il nome della ragazza che scomparve per dodici mesi circa cinque anni fa, per poi rispuntare dal nulla, sana come un pesce. Venne sospettato il fidanzato, pensavano l’avesse uccisa, ma lo rilasciarono per mancanza di prove. Quando tornò a casa, la madre ritirò la denuncia di scomparsa e fu come se non fosse mai successo nulla. Ecco perché te ne ricordi, è stata in prima pagina sui giornali per un bel po’- spiegò Sherlock. –Ora, la domanda è la seguente. Quest’uomo, può avere avuto anche a che fare con la sua scomparsa? Il mistero si infittisce.-

-È un bene?- chiese Celia, non riuscendo ad interpretare l’espressione che stava nascendo sul viso di Sherlock.

-Oh, è meraviglioso!- tuonò lui, piroettando su se stesso e trascinando John con sé. -È Natale! Mi manca solo un triplice omicidio e poi sono in paradiso!-

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 11. A dinner with my collegue ***


A dinner with my collegue



-Non riesco a capire perché ti interessi a questo... bè, caso, anche se non sono bene sicuro che lo sia.-

Erano di nuovo al parco, di nuovo si mangiava cinese su una panchina perché Angelo aveva messo la candela al tavolo e aveva fatto loro l'occhiolino. E di nuovo John si era alzato e se n'era andato, rincorso da Sherlock, ed erano finiti al parco.

-Voglio capire- spiegò Sherlock che, come suo solito, non aveva ancora toccato cibo.

-E se avessimo a che fare con una mitomane, con una pazza?- chiese John, partendo all'attacco del suo involtino vietnamita. -Oppure ha visto un cartone animato troppo violento quando era bambina e questo l'ha portata a fare quei disegni...-

-Ed è andata avanti a sognarlo per tutta la vita? No, non ha senso.-

-Forse questa cosa un senso non ce l'ha. Io dico che dovremmo consultare un esperto, solo per essere sicuri che non stiamo perdendo tempo.-

Sherlock scosse la testa, portando le lunghe gambe al petto e circondandole con le braccia.

-Io non consulto nessuno. È la gente che consulta me- disse, con lo stesso tono stizzito di un bambino al quale veniva negato il giocattolo tanto desiderato.

-Non le abbiamo chiesto nulla della madre- realizzò improvvisamente John, rimanendo a mezz'aria con il suo boccone di pollo fritto. Le labbra di Sherlock si arricciarono in un sorriso, anche se continuò a guardare di fronte a sé. -Che c'è, che mi sono perso?-

-Non abbiamo bisogno di sapere nulla, da Celia.-

John represse quel qualcosa che gli rodeva dentro ogni volta che Sherlock là chiamava per nome.

-E chi lo ha deciso?- chiese, la voce salita di un'ottava. L'idea di un loro colloquio privato, chissà perché, lo metteva terribilmente a disagio. Quasi fosse geloso. Che assurdità!

-Roona non centra nulla, sono certo che non sappia niente che possa tornarci utile.-

-Hai fatto indagini per conto tuo- borbottò John, leggermente infastidito, mentre si alzava per buttare i contenitori di cibo.

-Le ha fatte Anderson per me. Mi doveva un favore- aggiunse velocemente Sherlock, notando lo sguardo di John. -Lo sai che non è più quel pezzo di cretino che era un tempo. Bè, non è il genio di Scotland Yard, ma è quasi sopportabile. Lo sapevi che ha messo su un mio fan club?-

-Anderson- borbottò John, passandosi una mano sul volto, -hai chiesto aiuto ad Anderson?!-

-Non farne una tragedia. E poi, il fatto che per un pomeriggio non abbia lavorato per Scotland Yard non può che essere stato un guadagno per la polizia.-

-Ah, ecco. Mi sembrava strano che tu lo riempissi di complimenti improvvisamente- ridacchiò John. -Allora, che ha scoperto il tuo segugio?-

-Assolutamente niente. Ma, per una volta, non è colpa di Anderson. Roona Stebbins è pulita, una tipica cinquantenne londinese. Non c'è mai stato nulla di notevole o strano nella sua vita, tutto nella media, niente che la distingua dagli altri.-

-A parte il fatto che ha una figlia che non è sua figlia, la quale disegnava, a otto anni, alieni con la stessa abilità di un professionista. Ah, senza dimenticare il fatto che è convinta di provenire da un altro pianeta, andato distrutto- commentò sarcastico John.

-A parte quello, esatto- ribadì Sherlock, ma non c'era traccia di ironia nella sua voce. Voleva davvero capire cosa stesse succedendo, il mistero si infittiva e lui si stava divertendo sempre più.

-E riguardo all'adozione che mi dici?-

-Tutto in regola. La bambina è arrivata in orfanotrofio alla mattina e nel pomeriggio era già a casa con Roona.-

-Questo non è molto nella norma.-

-Concordo, ma evidentemente il marito di Roona aveva un bel po' di soldi e sapeva essere piuttosto convincente.-

-Marito? Hai detto che non c'era nessun signor Stebbins!-

-Nei documenti appare solo in quella circostanza e questo sì che è piuttosto strano. Ma niente le impedisce di essere sposata. A quanto risulta dai documenti, si erano appena sposati e lui è deceduto dopo poco.-

-Quindi sembra compaia giusto in tempo per permetterle di adottare Celia- commentò John.

-Esattamente- disse Sherlock, girandosi questa volta verso di lui e guardandolo intensamente. -Quindi...?-

-Quindi bisogna indagare su questo signor Stebbins... O lo hai già chiesto ad Anderson?- chiese John, più amaramente di quanto volesse.

-Questo è tutto per noi. Pensavo di passare domani mattina dalla cara Roona, che sembra sempre contenta di vedermi. Ci vediamo sotto casa sua verso le dieci?-

John scosse la testa.

-Ho il turno al laboratorio, domani. Sono libero nel pomeriggio.-

Sherlock rimase in silenzio, le mani giunte sotto il mento.

-Hai degli appuntamenti?-

-Uno alle undici e uno mezzogiorno.-

-Quindi, se io portassi lì Celia per una visita verso le dieci...-

-Io sarei libero, certo, ma non ne capisco lo scopo. Sta poco bene?-

-John- lo riprese Sherlock.

-Che c'è?-

-Ma per vedere se quelle cose sugli alieni sono vere oppure no!-

-Oh, giusto- commentò John, lo sguardo fisso per terra, mentre uno strano rossore gli colorava le guance. -Bè, tu portala, male non le farà.-

-Così pomeriggio potrai venire con me da Roona- cominciò Sherlock, interrotto dal segnale di arrivo di un messaggio. Tirò fuori il telefono e sbarrò gli occhi. Lo passò poi a John, le mani tremanti.

-Oh cavolo- fu l'unico commento di John. -Doppio cavolo.-

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 12. A call from a lost clock ***


 

A call from a lost clock

 

 

 

-E adesso?- mormorò John, restituendo il telefono a Sherlock con la mano che gli tremava.

-E adesso bisogna concentrarsi su Stebbins "padre"- rispose Sherlock, mettendo via il cellulare.

-Dobbiamo dirlo a Celia. Ne rimarrà sconvolta, poverina.-

-Puoi venire a casa adesso, sono sicuro sarà ancora sveglia- disse Sherlock, alzandosi e dirigendosi verso la strada.

John diede un'occhiata all'orologio. Erano le dieci e mezza. Magari, una volta a casa, sarebbe stato capace di far mangiare qualcosa a Sherlock. Non lo vedeva toccare cibo da quella mattina e, anche se sapeva che poteva stare senza mangiare per giorni interi quando era impegnato in un caso, l'idea che potesse stare male gli metteva uno strano peso sullo stomaco.

Salirono su un taxi diretti a Baker Street.

-Come va la gravidanza di Mary?- chiese Sherlock, improvvisamente, rompendo il silenzio.

-Bene. In un paio di settimane dovremmo esserci.-

-Una bambina, quindi.-

-Non la chiameremo Sherlock, se è lì che vuoi andare a parare. Ne abbiamo già parlato.-

-Peccato. Sherlock Watson suona bene.-

Quasi quanto John Holmes, si ritrovò a pensare John.

Scosse la testa come per scacciare quello strano pensiero. Che diavolo gli stava succedendo?

Rimasero in silenzio per il resto del viaggio, gli sguardi persi fuori dal finestrino. Finiva così ogni volta che parlavano di Mary, l'allegria spariva e un silenzio imbarazzato seguiva regolarmente. John credeva che Sherlock non lo avesse mai perdonato per il fatto che si era rifatto una vita mentre lui "moriva" per proteggerlo. Ma cosa avrebbe dovuto fare? C'erano stati dei momenti in cui aveva pensato di uccidersi a sua volta, quando le giornate erano troppo vuote e grigie, quando quella lapide sembrava troppo nera e cupa. Quando gli sembrava non ci fosse altra via di uscita. Non glielo aveva mai detto, né lo avrebbe mai fatto, ma aveva dovuto consegnare la pistola alla sua analista, per precauzione, dopo che una volta, in una seduta, si era lasciato sfuggire qualcosa. E Mary era stata l'unica a salvarlo. Quindi, anche se poi si era rivelata una bugiarda, un merito lo aveva avuto. Senza di lei, non avrebbe mai rivisto Sherlock e questo non se lo sarebbe mai perdonato. Forse era anche questo che Sherlock si rimproverava. Se lui non fosse "morto", Mary non sarebbe mai entrata nelle loro vite.

Pagarono il tassista e salirono fino al salottino. Come previsto, Celia era lì sulla vecchia poltrona rossa di John, il cucino con la bandiera inglese sulle gambe e un librone sulle ginocchia.

-Buona sera- la salutò Sherlock, entrando nella stanza e togliendosi la giaccia.

-'sera- rispose lei, alzando lo sguardo dalla sua lettura. -Dove siete stati?- chiese curiosa.

-Ho portato John a cena.-

-Oh, non avevo idea che voi due...-

-Non siamo una coppia!- la interruppe un po' troppo velocemente John, incespicando nelle sue stesse parole. -Era solo una cena tra amici... Tra colleghi.-

Celia ridacchiò guardando Sherlock, il quale stava trattenendo male un sorrisino.

-Rimani a dormire qui, John? Porto le mie cose di sotto, posso dormire sul divano...-

-No, no, tranquilla. Sono qui solo di passaggio. Volevamo dirti una cosa- cominciò John, cercando sostengo da parte di Sherlock, il quale era però scomparso in cucina. Sperò almeno che si stesse prendendo qualcosa da mangiare.

-E successo qualcosa?- chiese Celia, mettendo da parte il libro e sedendosi dritta, mentre John prendeva posto di fronte a lei.

-La Rose Tyler di cui ci hai parlato- disse John, mentre Sherlock tornava nelle stanza e si sistemava sul bracciolo della poltrona dove stava seduto John.

-L'avete trovata, la posso vedere?-

-È morta, Celia. Mi dispiace.-

-Morta?-

-Cinque anni fa, nel disastro del Canary Wharf- precisò Sherlock, fulminato da John. Si salvò da un rimprovero solo perché stava mangiando un biscotto. Meglio di niente.

Celia si coprì la faccia con le mani e cominciò a piangere silenziosamente.

-Quindi sogno le persone morte?- chiese, la voce rotta.

-Vedi il lato positivo. Adesso siamo sicuri che tu stia dicendo la verità.-

-Sherlock, non è davvero il momento.-

-La vera domanda- continuò lui, come se John non avesse mai aperto bocca, -è come tu faccia a sapere di lei. Certo, sei anni fa la città era tappezzata con sue foto, ma da qui a sognarsela...-

Suonò il telefono ed interruppe la conversazione.

-Celia, è per te- disse Sherlock, porgendole il cordless. -Roona.-

Celia aggrottò le sopracciglia.

-Dimmi.-

Quella mattina le aveva lasciato quel numero per contattarla, ma aveva specificato che dovevano essere delle vere e proprie emergenze. Per quanto riguardava l'indirizzo, invece, non le aveva detto nulla. Non voleva ritrovarsela alla porta.

-Devo darti una cosa, Celia. Dimmi dove ti posso trovare.-

-Assolutamente no. Di qualsiasi cosa si tratti, può aspettare fino a domani mattina. E poi, è inutile che inventi queste scuse solo per vedermi- disse, gelida.

-Celia, stai bene? Stai piangendo?-

Celia chiuse e gli occhi per trattenere le lacrime. Non voleva che la sentisse singhiozzare al telefono.

-Celia, sono seria adesso. Torna a casa, ti devo dare una cosa.-

-Che cos'è, perché non puoi aspettare domani?-

Roona sospirò al telefono.

-Devi venire, Celia. Si tratta del tuo orologio da taschino e...-

-Cosa avrei a che fare io con tutto ciò?- chiese Celia, dimenticandosi per un attimo di essere arrabbiata con Roona e lasciando trasparire tutta la sua paura.

-Celia, ti prego, vieni a casa…-

-Dimmi cosa centra quel maledetto coso con me! Non è mio, io non ha mai avuto un orologio da taschino in tutta la mia vita!- gridò Celia mentre ormai le lacrime le scorrevano lungo le guance.

-Celia, calmati- intervenne John, togliendole il telefono dalle mani e mettendo il vivavoce. –Signora Stebbins, sono il dottor Watson, ci siamo presentati questa mattina. Celia ha avuto una giornata pesante, è nervosa e si sta lasciando andare al panico. Ma ora si sta calmando, non si preoccupi. Preferirei comunque che spiegasse anche a me e Sherlock questa storia.-

Seguì un attimo di silenzio, poi la voce di Roona uscì di nuovo dalla cornetta, sottile e tremula.

-È l’orologio.-

-Che cosa fa, signora Stebbins?- insistette John, lanciando uno sguardo veloce a Sherlock. Era pallido e fissava il telefono come se potesse morderlo da un momento all’altro, le sopracciglia aggrottate. Non stava capendo, quelle informazioni non avevano senso per lui, la cosa si stava facendo troppo grande e assurda per lui.

-Celia, l’orologio vuole te- sussurrò Roona.

La ragazza impallidì, ma i suoi singhiozzi cessarono. Era troppo spaventata anche per piangere.

-Come fa a dirlo, Ronna?- chiese John, mettendo una mano sulla spalla di Celia e stringendo forte. –Abbiamo bisogno di saperlo.-

-Ti chiama, Celia. Dice il tuo nome. Il tuo vero nome.-

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 13. Raçaris Serthelia ***


Raçaris Serthelia


Dopo neanche due minuti erano di nuovo in un taxi, diretti a casa di Roona. Nessuno aveva aperto bocca, eccezion fatta per Sherlock, che aveva avvertito la signora Hudson, su insistenza di John, della loro uscita e aveva detto lei di non preoccuparsi.

Celia piangeva in silenzio. Nessuno in lei avrebbe mai potuto riconoscere la ragazza dai capelli colorati e le calze arcobaleno che solo tre giorni prima girava per Londra. Ora sedeva abbattuta sul sedile posteriore di quel taxi, la testa abbandonata contro il finestrino. Chi sono? continuava a chiedersi, persa in se stessa. Forse, sarebbe stato meglio se avesse dimenticato i sogni come le aveva consigliato Roona. Forse, se non fosse mai andata a Baker Street e…

-Come stai?- chiese John, interrompendo i suoi cupi pensieri.

Celia si voltò verso di lui e provò a sorridergli, ma non funzionò benissimo.

-Sono stata meglio.-

John rise sommessamente.

-La stai prendendo piuttosto bene.-

-Se non tieni conto delle urla da gallina spennata di poco fa e le lacrime con le quali potresti riempire un secondo Tamigi…-

-È comprensibile, tranquilla. Dopo tutto, si sta ipotizzando che tu sia una specie di aliena che sogna anzi, ricorda, ragazze morte da cinque anni e sa di cabine telefoniche blu che viaggiano nello spazio.-

-Sembra una serie televisiva, no?-

-Io la guarderei- commentò John, riuscendo a farla ridere.

-Arrivati- disse Sherlock. –Mi dispiace interrompere l’idillio, ma siamo arrivati.-

In un attimo, era già sceso dal taxi e stava pagando.

-Scusalo, queste cose lo rendono nervoso.-

-Ah, il nervoso è lui- commentò Celia, alzando al cielo gli occhi.

 

Roona li aspettava sulla soglia, la porta spalancata, in pigiama e con i capelli in disordine. Come quella mattina, tentò un approccio con Celia, la quale la ignorò completamente.

-L’orologio di cui parlavi al telefono- disse, porgendo la mano con il palmo rivolto verso l’alto.

-L’ho lasciato di là. Adesso sembra essersi come calmato…-

-Se era una scusa per farmi correre qua, stai sicura che non mi vedi più- la interruppe Celia.

-Sono sempre tua madre, signorina- la riprese Roona.

-Sì, certo, come no- fu l’unico commento della ragazza, che si diresse verso quella che, fino a due giorni prima, era la sua camera da letto. Sembrava non fosse cambiato nulla, eppure niente era rimasto lo stesso da quando aveva oltrepassato quella soglia l’ultima volta. Non era più la ragazza dai mille colori e dai lunghi cappotti, non era più nemmeno Celia Stebbins, forse.

L’orologio era sul letto. Era d’argento, piccolo e rotondo, dalla lunga catena. Sarebbe potuto passare per un qualsiasi orologio, se non fosse stato per i sussulti, per i bisbigli e per gli strani fumi che ne uscivano. Celia si avvicinò con cautela, seguita da Sherlock e John, mentre Roona rimase sulla soglia. Fissava l’oggetto con una paura cieca dipinta sul volto.

A ogni passo che Celia faceva, i sobbalzi e i sussurri aumentavano, ma lei sembrava non avere paura. Era come ipnotizzata dai disegni sulla cassa, dagli strani geroglifici incisi. I suoi occhi non si staccavano dall’orologio e le sue labbra avevano cominciato a mormorare qualcosa. Sembrava quasi stesse leggendo cose che vedeva solo lei.

-È vero, vuole me- disse dopo un po’, senza distogliere lo sguardo.

-Che cosa dice?- chiese Sherlock. 

-Canta- mormorò Celia, le lacrime agli occhi. Ma questa volta erano di gioia e sollievo. –Canta della mia gente e della loro fine, delle loro vite. È… è bellissimo.-

-E ti chiama con un nome diverso?- chiese John, facendosi più vicino.

-Celia Stebbins non sono io.-

Poi calò di nuovo il silenzio. Aveva cominciato a cantare sottovoce, asciugandosi le gocce di pianto.

-Raçaris Serthelia- disse, tendendo una mano verso l’orologio. Quando lo prese in mano, i fumi dorati si fecero più intensi e tutti loro poterono finalmente sentire le voci e le canzoni di cui aveva parlato Celia. Erano l’unica eredità di quel popolo di cui nessuno di loro aveva mai sentito parlare, ma che sapevano reale e finito al tempo stesso.

-Sono loro- sussurrò Celia. –Mi stanno chiamando. Li sentite anche voi, vero?-

Poi fece per aprire l’orologio, ma qualcosa la interruppe.

Nella camera era comparsa una cabina telefonica blu e un uomo sulla soglia la stava implorando di non muoversi.






Inathia's nook:


ecco ecco il nuovo capitoletto... ci avviciniamo alla fine e presto scoprirete chi è davvero Celia... ooops, volevo dire Raçaris Serthelia :) piaciuto il colpo di scena finale?

bè, spero di sì. in realtà, non ho molto da dirvi, sono un po' di fretta. devo assolutamente rileggere la tesina che ho scritto in meno di due gioni (maturità in meno di due settimane) e poi lunedì si comincia il ripasso.... VOGLIO solo dormire e scrivere fic e invece... ecco cosa mi ritrovo in cambio!
vabbè, vi prometto comunque che aggiornerò la settimana prossima (prima che tutto il casino cominci) e anche quella dopo (tanto gli scritti sono mercoledì, giovedì e il lunedì dopo...) dato che i capitoli sono già scritti....
compatitemi :(
un bacione e buone vacanze a chi se le può permettere!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 14. I'll explain everything ***


I'll explain everything

-Fermati, Celia. Ti prego, fermati.-

L’uomo sulla porta fissava con occhi sgranati la scena. Era sulla trentina, ma i suoi occhi scuri suggerivano che quella non fosse la verità, ed era alto e sottile in un completo marrone e cappotto dello steso colore, dai capelli scuri sparati in tutte le direzioni.

-Celia no, ascoltami- cominciò, avvicinandosi alla ragazza, senza però toccare l’orologio.

-Quello non è il mio nome- disse lei, parlando come ipnotizzata.

-In questa forma sì. Raçaris Serthelia, fintanto che esiste Celia, non ha senso di essere.-

-Chi è lei, perché sa tutte queste cose?- intervenne John, facendo un passo avanti, ma Sherlock lo trattenne per un braccio dall’avvicinarsi di più.

-John- sussurrò, senza staccare gli occhi dal nuovo arrivato e dalla strana cabina blu che si era materializzata nella stanza.

-È tutto ok, tranquillo- bisbigliò John, prendendogli istintivamente la mano e stringendo forte. Il suo cuore saltò un paio di battiti quando i due palmi coincisero e Sherlock reagì alla sua stretta con la stessa intensità. Non lo avrebbe più lasciato andare, lo sapeva.

-Io ti conosco- esclamò improvvisamente Roona. –Hai cambiato faccia, ma sei sempre tu. Non è vero, Dottore?-

Lui, sentendosi chiamare, si voltò e le sorrise.

-Roona Stebbins, è fantastico rivederti!-

-“Fantastico”… lo dicevi sempre prima….-

-Sì, bè, sono cambiate un po’ di cose, da allora.-

Un’ombra scura gli attraversò gli occhi.

-Celia,- riprese, tornando a guardare la ragazza, -Posso spiegarti tutto quanto, ma ora posa l’orologio.-

-Tutto?- chiese lei, sgranando gli occhi.

Il Dottore annuì lentamente.

-I ricordi, i sogni, l’orologio… tutto quanto- promise e Celia lasciò cadere sul letto l’oggetto.

 

Si erano spostati in salotto. Roona aveva preparato del caffè per tutti e ora aspettavano che il Dottore cominciasse il suo racconto. Si era seduto in poltrona, la tazza in mano e lo sguardo triste e pensieroso al tempo stesso. Celia era sul divano e, per la prima volta nella giornata, sembrava che la presenza di Ronna accanto a sé non le desse fastidio. Fissava avida di risposte il Dottore, quasi non senza battere ciglio. John, invece, era sull’altra poltrona con Sherlock alle sue spalle, quasi fosse la sua guardia del corpo.

-Non so bene da dove cominciare, è piuttosto complicato- iniziò il Dottore, scorrendo con il dito le decorazioni arabescate della tazza.

-Bè, potresti dirmi se sono davvero… un’aliena- disse Celia. Ora che non era più sotto l’effetto dell’orologio, sembrava non ricordare nulla di quanto aveva detto o sentito poco prima.

-Questa è semplice. Sì, non sei umana. Ma, ehi, non è una cosa tremenda- aggiunse, quando Celia si coprì il viso con le mani. –Anche io non lo sono, eppure vivo bene lo stesso e voglio un gran bene alla Terra.-

-Quindi non erano dei sogni, ma dei ricordi?-

-Cosa hai visto, esattamente?-

-Quella cabina blu, un uomo dalla giacca di pelle nera…-

-Oh, sì, quello ero io prima della rigenerazione.-

-Rigenerache?- intervenne John.

-Quando sono in pericolo di morte, c’è questa specie di meccanismo di difesa che rigenera ogni singola cellula del mio corpo, facendomi cambiare aspetto come conseguenza.-

-E c’era anche una ragazza- continuò Celia, -Rose.-

-Rose Tyler- confermò il Dottore, pronunciando quel nome come se fosse la formula magica per la felicità, ma negli occhi un’ombra triste.

-Ho saputo che è morta- aggiunse la ragazza, cecando conferme in Sherlock, il quale annuì.

-Tecnicamente è bloccata in un universo parallelo, ma è sana e salva. Meglio dire che era morta in quel casino, piuttosto che spiegare la verità- la contradisse il Dottore. Celia intuì che non ne volesse parlare più di tanto e fu rapida a cambiare argomento.

-Quell’orologio cosa centra esattamente con me?-

-C’è la tua vecchia te, lì dentro. O la tua vera te, dipende da come la vuoi vedere. Quando Rose mi implorò di salvarti e di trovarti una nuova casa, ero consapevole del fatto che il tuo vero aspetto non sarebbe potuto essere rivelato. Non ti avrebbero accettata, ma studiata e tratta come una bestia da esposizione. Ed eri solo una bambina, non volevo che ti accadesse nulla di male. Non ti avevo salvata per condannarti.-

-Il mio vero aspetto sarebbe…?-

Roona porse la scatola con i disegni al Dottore, il quale ne passò uno in particolare a Celia. Era il meno cruento di tutti. Su sfondo bianco stavano un essere femminile e uno maschile, abbracciati stretti. Le loro vesti bianche e larghe svolazzavano mosse da un vento che spirava solo per loro e così anche i capelli dai mille colori. Tra loro stava quella che poteva essere considerata una bambina, aggrappata alla spalla del padre e con una ciocca dei capelli della madre stretta nel piccolo pugno.

-Questi sono i tuoi veri genitori: Udesh Rhercas e Thalia Xarzert - disse il Dottore, indicando la piccola figura tra i due. –E quella dovresti essere tu.-

Celia accarezzò con dolcezza il disegno, soffermandosi sul “suo” volto.

-Hai presente quando prima ho parlato della mia rigenerazione?- riprese il Dottore. –Su di te ho operato un processo simile, ma reversibile. Ti ho resa umana perché sapevo che qui avresti trovato una nuova casa, ma se tu aprissi quell’orologio riprenderesti il tuo vero aspetto.-

-Per quello mi hai fermata.-

-Lo ricordi?- chiese stupito il Dottore.

-Quello e poco altro. C’erano delle voci… qualcuno cantava?-

-Venivano dall’orologio. Ti chiamano, ma tu non devi per forza obbedire, sta a te la scelta. Qui, adesso, hai una nuova vita… il tuo pianeta e la tua gente non esistono più, questo lo devi tenere bene a mente. Puoi sentire le loro voci chiamarti, ma non torneranno mai- disse con voce grave. Aveva l’aria di uno che sapeva bene di cosa stava parlando, in materia di pianeti distrutti ed echi di civiltà.

-E se tornassi com’ero…?-

-Il processo sarebbe irreversibile e non potresti rimanere qui. Anzi, a essere sincero, non so bene dove potresti andare.-

-Tu c’eri quando è successo. Puoi raccontarmelo?-





Inathia's nook.
ciaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaao! eccomi qua :)
mi dispiace avervi deluso, ma Celia/Raçaris Serthelia non è un Signore del Tempo. non mi picchiate, vi prego.
comunque, questo è un capitolo un po' di passaggio. ormai non manca troppissimo alla fine (anche se non vi libererete tanto presto di me ;P). dalla prossima cominceremo il racconto del Dottore, così tutto finalmente sarà chiaro. e farà la sua comparsa Rose (insieme a Nine)... solo io saltello all'idea?
ok, me ne vado. torno ai miei schemi di latino.
ps: grazie millissime per le recensioni bellissime. mi avete davvero ridato speranza per questa storia <3

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 15. The tale of the Doctor -part One- ***


 

The tale of the Doctor   -part One-

 

 

-Dove mi hai portato questa volta?- chiese Rose, saltellandomi accanto e togliendole mie mani dalla consolle per intrecciare le sue dita con le mie.

-Oh, è fantastico, ti piacerà di sicuro!-

-Che pianeta è? E quando siamo?-

-Dunque, l’anno è sempre lo stesso, ma ci troviamo circa a sei galassie dalla tua. E il pianeta…- ma il mio discorso venne interrotto da uno scossone che ci fece finire lunghi distesi.

-Sempre così turbolento qui?-

-No anzi, di solito è un posto tranquillo. Per quello ti ci ho voluta portare, un po’ di riposo ogni tanto non ci ammazza mica- dico, riflettendo a voce alta.

-E come si chiama “qui”?- chiese Rose, cercando di leggere sul monitor senza molto successo.

-Tharacorix.-

-Tarcox- provò Rose, ingarbugliandosi nella sua stessa lingua e facendomi ridere.

-Tharacorix- dissi, più piano. –Riprova.-

-Thara…-

-…corix- completai io.

-Tharacorix- esclamò, saltando dall’eccitazione di essere riuscita a pronunciarlo giusto. –Tharacorix, Tharacorix!-

-Fantastico!-

-Suona anche bene.-

-E gli abitanti sono gente a posto, vedrai, ti piacerà. Vengo spesso qui quando non ho voglia di guai, è un posto davvero…-

-Fantastico?- completò lei per me, facendomi ridere.

Ma la risata su interruppe in fretta. Un altro scossone ci rispedì per terra.

-Questo è davvero strano, però. Qui non ci sono mai terremoti- borbottai, andando alla porta del Tardis deciso a capirci qualcosa.

Quello che vidi fuori mi sconvolse.

Il verde e boscoso pianeta che ricordavo stava letteralmente bruciando davanti ai miei occhi. I campi che avevo vantato a Rose come perfetti duplicati della campagna toscana, le montagne in lontananza, così alte e imponenti da sembrare eterne, gli specchi d’acqua… da ogni parte era scomparso qualsiasi altro colore, trascinato via dal nero fumo e dal rosso delle fiamme.

Chiusi la porta e rientrai nel Tardis con ancora le grida della popolazione nelle orecchie. Tornai ai comandi camminando come uno zombie e cominciai ad inserire nuove coordinate.

-Che succede?- chiese Rose confusa, notando il mio sguardo sconvolto.

-Ce ne andiamo.-

-Come? E tutto quello di cui mi avevi parlato? Le cascate che cantano, i frutti che ti volano in bocca da soli…?-

-Non esistono più, non esiste più niente.-

-Che significa?-

Aveva già visto lhie. al rosso delle fiamme.a fine del suo pianeta una volta e anche io ero a posto, quindi l’unica cosa che mi rimaneva da fare era portarla da qualche altra parte, lontano da quell’inferno di grida e distruzione. Non poteva vedere, non la mia Rose, non la mia dolce e sensibile Rose.

-Dottore, spiegami cosa sta succedendo- disse decisa, fermando le mie mani e guardandomi fisso negli occhi. Scorse le lacrime ma non arretrò. –Dimmelo.-

-Tharacorix sta morendo. Tempo qualche ora e non ne rimarrà più nulla. I vulcani stanno eruttando tutta la loro lava e tra poco la crosta si spaccherà, facendo sprofondare tutto e tutti- dico con un filo di voce.

-Tutti? Non si salverà nessuno?- chiese Rose con voce tremante.

Scossi la testa e le lacrime comparvero anche nei suoi occhi.

-Non possiamo fare nulla?-

Di nuovo feci cenno di no e la tenni stretta tra le mie braccia.

-Mi dispiace. Ti sarebbe piaciuto tanto- mormorai, evitando di dire che Tharacorix sarebbe mancata anche a me. Non era Gallifrey, ma qui ero stato bene e la gente aveva cominciato a conoscermi, a volermi bene.

-Ma tu puoi salvarli, lo so! Abbiamo affrontato situazioni peggiori- cominciò Rose, ma io la interruppi.

-Questo è un punto fisso nella storia del cosmo. Accadrebbero cose terribili se modificassimo qualcosa. La vita del pianeta non vale quella dell’intero universo.-

Rose rimase in silenzio. Sapevo che la cosa non le andava giù, ma non avrei cambiato idea. Avevo promesso a Jackie che l’avrei protetta, ma ora non si trattava più solo di mantenere una promessa a una madre. Amavo quella ragazza, non avrei permesso che le sarebbe successo nulla. E se questo doveva consistere nel portarla via di peso prima che Tharacorix sprofondasse… bè, ero pronto. Non le avrei fatto di nuovo vedere la morte di un pianeta. Quando le avevo proposto di viaggiare con me, avevo in mente luoghi fantastici e posti sconosciuti, le avrei fatto vedere le meraviglie più spettacolari… perché, invece, finivamo sempre in mille disastri? Non volevo che piangesse, Rose doveva ridere ed essere felice! Nella mia vita c’era stato tanto dolore prima che lei arrivasse, avevo sofferto tanto, troppo… non potevo permettermi che lei passasse attraverso tutto quello che ero passato io. Una fine del mondo a vita bastava e avanzava. Anche per chi, di vite, ne aveva a disposizione infinite.

Rose rimase stretta a me mente piangeva.

-Posso almeno vedere una città?- chiese dopo un po’, asciugandosi le lacrime e il trucco scuro che le colava dagli occhi.

-Non è un gran bello spettacolo là fuori- la avvertii io, ma sapevo che questo non l’avrebbe fermata. Mi misi così ai comandi. Sarebbe stata una cosa veloce, mi dissi, quindi meglio andare con il Tardis e non lasciarlo chissà dove.

Pochi scossoni dopo eravamo nella capitale, Babilki. Se Rose doveva vedere qualcosa di Tharacorix, anche se il giorno della sua fine, volevo che fosse la sua splendida capitale. Babilki era stata costruita tra le montagne, a ridosso di quella cascata che le avevo promesso avremmo visto. Ora, ero pronto a scommetterci, vi scorreva lava, anziché acqua limpida.

Era una città antica, maestosa, dall’architettura imponente, dove i templi ricordavano l’antica Grecia, i viali alberati quelli delle capitali europee e le case un borgo medioevale, mentre qua e là spuntavano canali e ponticelli come a Venezia. Era sempre stata bellissima e non avrei mai potuto credere che ne avrei visto la fine.

-Babilki, la capitale- la presentai a Rose, aprendo la porta del Tardis. –Solo un’occhiata veloce e nei dintorni, poi ce ne andiamo- la avvertii.

Eravamo arrivati in una piazzetta e c’erano tharacorixiani che correvano ovunque, chiamando i loro cari in quella loro lingua che mi era sempre sembrata un antico canto, ma che adesso sapeva di morte e paura. Cercavano rifugio, ma non ne avrebbero trovato alcuno. Tempo poche ora e tutto sarebbe scomparso.

Fu il pianto di una bambina piccola a darci la direzione. Rose non poté resistere, non appena lo sentì, e io ovviamente le andai dietro, chiedendomi in che guaio mi stavo andando a cacciare, e solo per lei, questa volta. 

 

 

 

 

 

 

Quella bambina eri tu.

 

 

 

 

 

 

Inathia's nook:

 

ciao belle fanciulle, come va la vita? Qui quasi tutto bene, se non si tenesse conto del fatto che sono nel bel mezzo dell'esame (non fisicamente e letteralmente, ovvio, non sono così pazza da caricare il capitolo a metà versione ;P) ma diciamo che la prossima prova è lunedì, quindi... sì, sono tecnicamente a poco più di metà dell'esame. Gli scritti, ovviamente. Perchè la culona qui presente non potrà bruciare i libri (ho davvero in mente di fare un falò con quelli di fisica e matematica) fino al 3 luglio, essendo stata estratta la lettera I ed iniziando il mio cognome con la G. 

Le gioie della vita.

Meno male che ci siete voi :)

Ho notato un calo nelle recensioni dello scorso capitolo e, nonostante vi capisca (il caldo da alla testa a chiunque), spero che questo capitolo un po' più "movimentato" vi spinga a dirmi le vostre opinioni. 

Abbiamo il ritorno di Rose, la piccola dolce Rose che si incarta a dire i nomi dei pianeti ( e come darle torto!) e Nine, ovviamente. Perchè anche se è Ten, tecnicamente, a parlare, è Nine il protagonista del racconto. Non ho mai scritto un suo POV, quindi spero di non aver fatto un casino :)

Be', alla prossima settimana, quando avrò già i risultati degli scritti *corre via piangendo*

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 16. The tale of the Doctor -part Two- ***



The tale of the Doctor  -part Two-


 

-Dottore, veniva da là!-

-Rose, non possiamo salvare nessuno- sottolineai per l’ennesima volta, correndole dietro.

-Ma è una bambina…-

-È una tharacorixiana, il suo posto è qui.-

-A morire? Stai condannando davvero una bamb… tharacorixiana a morte?- chiese lei, sconvolta. –Ti credevo diverso.-

Un macigno si depositò sul mio stomaco quando disse quelle parole. Lei non sapeva, non poteva sapere quello che avevo passato…

-Andiamo solo a vedere se si è persa- insistette Rose, -Magari i suoi genitori la stanno cercando. Dico solo questo.-

-Va bene- accettai alla fine, prendendola per mano e mettendomi a correre insieme a lei in mezzo al tumulto. Molti tharacorixiani mi riconobbero, ma non accennarono nemmeno un saluto. Era comprensibile, in un momento come quello, ma mi si stringeva il cuore a sapere che stavano correndo verso il nulla.

Svoltammo in una stradina a sinistra e poi la vedemmo. Ferma su un ponticello, il vestitino chiaro che le copriva a mala pena le gambe grassocce, una mano che stringeva una specie di pupazzo e le lacrime che rigavano il viso, stava la piccola che avevamo sentito gridare. Nonostante fosse una tharacorixiana, di slanciato ed elegante aveva ben poco. Era solo una bimba, come mille ce n’erano stati su Gallifrey quel giorno…

Rose si slanciò verso di lei, lasciando la mia mano, mentre io mi guardai intorno alla ricerca dei genitori. Non potevano essere lontani, avevamo sentito il suo pianto noi dalla piazzetta…

L’ennesimo sobbalzo mi riscosse dai miei pensieri. Dovevamo andarcene e anche in fretta.

-Rose!- gridai, ma il mio tono concitato e il tremare del suolo fecero piangere ancora di più la piccola. Rose lo aveva preso in braccio e  stava guardando in giro a sua volta.

-Non possiamo lasciarla qui!-

-Rose, cosa ti avevo detto?-

Ma lei non mi rispose, era impegnata a consolare la bambina. Era riuscita a farla smettere di piangere, finalmente, e diceva cose buffe e faceva facce strane con il suo pupazzo, riuscendo a farle spuntare un sorriso tra le lacrime. Era un qualcosa di meraviglioso vederla giocare così con la bimba, ma non avevamo tempo per le tenerezze.

-Sono serio. Andiamocene!-

-E lei?-

-Rose!-

Stavo già pensando di andare là e trascinarla a forza verso il Tardis, quando la piccola cominciò di nuovo ad agitarsi, tendendo le braccia grassocce verso qualcuno che si stava avvicinando. Erano i suoi genitori di sicuro, a giudicare dal modo in cui correvano verso di lei.

-Raçaris Serthelia!- gridò la madre, prendendola in braccio e stringendola forte, mentre il padre abbracciava entrambe. Poi si girò verso di me. Ci conoscevamo, era un pittore piuttosto noto e avevo ammirato spesso i suoi quadri. Mi era sempre sembrato la calma incarnata, una persona che non sarebbe potuta essere sconvolta da nulla… ma la fine del proprio pianeta era qualcosa di grosso.

-Dottore- mi approcciò, -grazie.-

Gli strinsi la mano e lui provò a sorridermi, senza successo.

-Raçaris Serthelia ci è scappata mentre andavamo a casa della madre di Thalia Xarzert- spiegò, indicando la moglie. –Eravamo disperati. Dicono sia la fine del mondo, è vero?-

Provai ad evitare il suo sguardo, ma lui era intelligente e aveva già capito tutto.

-Non puoi aiutarci?-

Scossi la testa e lui perse quel poco colore che gli era rimasto sul volto.

-Thalia Xarzert- chiamò e la moglie si avvicinò, insieme a Rose.

-Dottore- mi salutò lei, ma il suo sorriso non conquistava gli occhi. -È vero quello che dicono, dunque? Mi dispiace che la tua compagna abbia visto Tharacorix il giorno della sua fine.-

Il grande cuore dei tharacorixiani si vedeva anche nei loro attimi più bui.

-Noi ce ne stavamo andando- cominciai, ma Rose mi lanciò un’occhiataccia. –Forse voi dovreste andare dalla vostra famiglia, rimanere insieme…-

-Fino alla fine- commentò Udesh Rhercas, accarezzando la guancia della figlia. –Solo pensavo non arrivasse così in fretta.-

Tirai Rose per una mano, ma lei non accennava a muoversi. Sapevo delle lacrime nei suoi occhi anche senza avere il bisogno di guardarla. Ma glielo avevo già detto, non potevamo fare nulla.

-Rose- mormorai.

-Ma non potete scappare?- chiese lei, guardando Udesh Rhercas e Thalia Xarzert. –Nessuna astronave nascosta da qualche parte…-

-E andare dove?- domandò Udesh Rhercas. –Non abbiamo navicelle spaziali, ma se anche le avessimo… questa è casa nostra. Meglio morire con il proprio popolo che vivere soli e raminghi- mormorò, guardandomi fisso.

-Ma morirete tutti!- esclamò sconvolta Rose. Non capiva, ma non poteva capire la loro mentalità. Per i tharacorixiani la comunità era tutto, il gruppo, la famiglia, era la loro vita. E quindi la scelta di accettare passivamente la morte era qualcosa di coraggioso, per loro.

Presi Rose da parte.

-Ce ne dobbiamo andare adesso, il tutto può peggiorare da un momento all’altro.-

Lei annuì lentamente, ma nuove lacrime spuntarono nei suoi occhi.

Salutammo velocemente i tre e tornammo correndo al Tardis. Cominciai ad inserire le coordinate di ritorno. Sapevo che Rose, dopo un’esperienza del genere, avrebbe avuto voglia di andare a casa. Lei non aveva ancora aperto bocca. Si era lasciata cadere sul sedile e piangeva in silenzio.

-Cosa?- chiesi, notando che mi stava fissando.

-Ti prego…- mormorò, spostandosi i capelli dal viso. –Quella bambina… Non puoi condannarla a morte! Tu conosci anche i suoi genitori!- gridò, piangendo.

Sospirai, cercando di non guardarla.









Inathia's nook:

Cortino, me ne rendo conto. Ho diviso la parte due dalla tre perchè se no veniva davvero troppo lungo. E poi così vi tengo ancora un altro po' con il fiato sospeso (muahahahah).
AH, prima che mi dimentichi, ho una bella notizia (almeno lo è per me, spero lo sia anche per voi). Dato che questa storia, con il passare del tempo, è riuscita ad appassionare sempre più, (se non vado errata), e dato che siamo praticamente alla fine (mancano un capitolo e l'epilogo), ho deciso di scrivere un seguito ambientato 3 anni dopo queste vicende. 
Sempre con Celia, il Dottore, Sherlock e John.
E un vecchio nemico del Dottore.
Questo significherebbe che il Dottore in questione sarebbe Eleven, così dopo avrò scritto di tutti e tre quelli "nuovi" :)
Be', fatemi sapere se vi potrebbe interessare :)

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** The tale of the Doctor -part Three ***


The tale of the Doctor  -part Three-


-Rose- le avevo detto –Non credi che se potessi salverei l’intero pianeta? Non è così che funziona, però, non le faccio io le regole.-

Ma pochi istanti dopo eravamo di nuovo in strada. Non avrei mai potuto dire di no a Rose, neppure per tutto l’ universo. Correvamo verso dove avevamo lasciato i tre poco prima, ma la stradina non c’era praticamente più. Spaccature nell’acciottolato, dalle quali fuoriusciva lava incandescente, crepe nelle case… un inferno vero e proprio. Ci guardammo intorno, ma dei genitori e della bimba nessuna traccia.

Rose sbarrò gli occhi e si fermò improvvisamente, lasciando la mia mano.

Udesh Rhercas e Thalia Xarzert, con la piccola, non erano troppo distanti rispetto a dove li avevamo lasciati poco prima. Evidentemente avevano cominciato a scappare per raggiungere il resto della famiglia, ma l'ennesima scossa aveva impedito la loro fuga, intrappolandoli tra le macerie. La colonna di un tempio poco distante, nel crollare, li aveva colpiti e così loro si trovavano a terra, quasi sicuramente morti. Il pilastro li aveva sorpresi alle spalle, schiacciandoli quasi completamente. Non riuscivo a pensare a nulla, se non al fatto che fino a pochi istanti stavamo parlando tranquillamente ed ora erano morti, andati per sempre. Quanta gente che conoscevo era destinata a quella fine? Lanciai uno sguardo a Rose, consapevole che un giorno sarebbe arrivato anche per lei, ma scossi dalla mente quel pensiero. Ora stava bene, perché angosciarsi per il futuro?

Di Udesh Rhercas quasi non rimaneva nulla, solo la mano che stringeva quella di Thalia Xarzert era visibile, sbucava dalle macerie. Forse l'aveva avvertita del pericolo e aveva provato a spingerla lontano, insieme alla piccola. Ma, nonostante ciò, neppure lei si era salvata. Giaceva poco distante, probabilmente colpita all'altezza dello stomaco da un pezzo del cornicione del tempio. Solo Raçaris Serthelia era illesa. Probabilmente Thalia Xarzert era riuscita a spingerla lontana prima dell'inevitabile. Stava poco distante dalla madre e sembrava tentare inutilmente di svegliarla e la chiamava, piangendo, in quella lingua che mi era sembrata tanto melodiosa e dolce la prima volta che l'avevo ascoltata. Ora sapeva solo di morte e dolore e disperazione.  

Rose la prese in braccio con cautela e io mi assicurai di persona che non fosse ferita.

-Non possiamo portarla dai suoi parenti. Non sappiamo chi siano, e poi sarebbe troppo pericoloso- sentenziò Rose.

Annuii, ben consapevole di quello che stava proponendo. Ma in fondo, non era per quello che eravamo tornati?

-Diamoci una mossa, allora. Mi è venuta un'idea.-

Tornammo di corsa al Tardis, con Raçaris Serthelia che aveva cominciato a piangere tra le braccia di Rose. Non c'era più nessuno per le strade, probabilmente avevano tutti trovato i loro cari e si preparavano alla fine uniti.

Una volta all'interno del Tardis, mi misi ai comandi per tornare subito sulla Terra. Su Tharacorix non c'era più nulla per noi, per quanto morissi dentro ogni volta che lo pensavo. Rose, mentre io combattevo con le leve ribelli, consolava Raçaris Serthelia tenendola stretta e sussurrandole qualcosa all’orecchio. E la piccola aveva quasi smesso di piangere.

Quando atterrammo, tirai fuori una specie di casco collegato a una moltitudine di cavi e fili e chiesi a Rose di passarmi l’orologio da taschino che tenevo sulla mensola.

-Che cosa le farai?- chiese, porgendomelo.

-La renderò umana. Questo marchingegno le ridisegnerà il DNA, ma la sua vera essenza non andrà perduta, perché la chiuderemo qui- dissi, sventolandole davanti agli occhi l’orologio. –E quando lo vorrà aprire, perché arriverà quel giorno, sentirà il richiamo del suo popolo… quel giorno arriverà un messaggio al Tardis, cosicché la potremo trovare e spiegare tutto quanto.-

Rose annuì, soddisfatta del mio piano, e mi aiutò a sistemare Raçaris Serthelia sotto il casco. Feci partire il processo e in un attimo tutto quanto di tharacorixiano c’era in lei scomparve. I capelli divennero castani e si arricciarono leggermente, il volto acquisì colore e perse la forma allungata, gli occhi da gatta si fecero più umani e più scuri. Nel mentre, una strana polvere dorata entrava nell’orologio, relegando al suo interno la vera essenza di Raçaris Serthelia.

-E adesso?- chiese Rose, una volta che il procedimento fu ultimato. –Non ha nemmeno un nome…-

-Pensavo glielo potessimo dare noi… Che ne dici di Celia? Significa “dono del cielo”, “paradiso”. È un nome romano.-

-È perfetto. Pensi la rivedremo più? Prima della storia dell’orologio, intendo. Mentre crescerà…-

-Meglio di no. Solo quando verrà il momento di parlarle di Tharacorix.-

-Spero sarà felice, se lo merita.-

-Lo meritiamo tutti- commentai, guardandola un po’ troppo intensamente. –Ma conosco io la persona adatta per lei- dissi, riscuotendomi dai miei pensieri.

 

Un attimo dopo eravamo a casa di Roona Stebbins. L’avevo conosciuta in passato, sapeva chi ero e le volevo bene. Ero a conoscenza del fatto che il suo più grande cruccio era quello di non potere avere figli, ma io le potevo offrire questa possibilità. Meglio lei che qualsiasi altro umano che magari sarebbe stato spaventato dalla verità su Celia. Roona era una grande e lo sapevo.

-Ai documenti penso io- la rassicurai, dopo averle raccontato per sommi capi di Raçaris Serthelia e di quello che era successo al suo pianeta di origine. -Figurerà che la bambina è arrivata in orfanotrofio questa mattina e che tu ed io (in qualità di tuo marito) l'abbiamo adottata nel pomeriggio.-

Roona si limitò ad annuire, prendendo in braccio la piccola.

-Le hai già dato un nome?- chiese piano per non svegliarla.

-Celia- rispose Rose, accarezzandole piano una guancia paffuta.

-Celia- ripeté sognante Roona. -Avrò cura di lei, Dottore, di me ti puoi fidare.-

-Lo so. Sarai una mamma fantastica.-





















Inathia's nook:

Ed eccoci qua. Io e voi, all'ultimo capitolo. 
No, non temete, c'è ancora l'epilogo, ho ancora alcune cose da chiarire, non temete.
Però manca ormai una settimana.... se non vorrete seguire il seguito (?).
Cooooomunque, ecco come Celia è arrivata sulla Terra e il perchè del suo nome. Non odiatemi per la fine dei suoi genitori, si sapeva fin dall'inizio.... almeno hanno protetto Celia/Raçaris Serthelia fino alla fine. ok... è che, almeno io, mi ero affezionata a quei due, anche se erano comparsi solo per qualche pagina...
Vabbè. Vi lascio stare.
Come sempre, vi aspetto nei commenti :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Epilogue -But life still goes on- ***


epilogue
 

But life still goes on





Alla fine del racconto Celia era in lacrime e piangeva sulla spalla di Roona.

-Mi dispiace, sono stata orribile... Tu mi hai protetta per tutti questi anni e io non ho fatto altro che urlarti contro...- continuava a ripetere, mentre la madre le accarezzava i capelli.

-Avrei dovuto parlartene prima, è colpa mia. Ma ero spaventata, ero terrorizzata dall'idea che tu, una volta scoperta la verità, non mi avresti più voluto bene...-

-Ma tu mi hai concesso una nuova vita, è come se fossi davvero mia madre. Se la madre di Raçaris Serthelia è morta, Celia Stebbins non avrebbe potuto aspirare a una migliore!-

Vedere madre e figlia finalmente riunite fece spuntare una lacrima persino al Dottore.

-Quindi non hai più intenzione di aprire l'orologio?- chiese John.

La ragazza scosse la testa.

-Raçaris Serthelia non può vivere in questo mondo e il suo è andato distrutto. E poi sono stata Celia Stebbins per così tanto tempo... È la mia vita- disse, porgendo l'orologio al Dottore. -Meglio se lo prendi tu. Non voglio fare qualcosa di cui potrei pentirmi.-

Il Dottore prese l'oggetto e se lo mise nella tasca interna del completo marrone.

-Lo terrò al sicuro. Bene, tutto è bene quello che finisce bene?- chiese, notando che stava albeggiando. Aveva parlato per tutta la notte.

-Grazie, Dottore. Diciotto anni fa mi hai fatto un dono enorme, ma quello di oggi è ancora più grande- disse Roona, commossa, mentre ancora una volta abbracciava Celia, quasi incredula di poterla stringere di nuovo.

-Noi andremmo- disse Sherlock a un certo punto, interrompendo il silenzio che si era creato. Si sentiva di troppo e poi voleva parlare con John a quattrocchi di quella faccenda. Quando qualcosa lo confondeva quanto quel caso, era di John che aveva bisogno. Lui era l'unico che riusciva a tenerlo nel giusto.

Salutarono Roona e il Dottore, abbracciarono Celia e poi scesero in strada. In fondo non era un addio, dato che la ragazza doveva ancora passare a Baker Street per riprendersi le sue cose. Era improbabile, infatti, che non ritornasse a casa, ora che aveva sistemato le cose con sua madre.

Una volta in strada, le dita di John cercarono di nuovo quelle di Sherlock, istintivamente, e quest'ultimo accennò un sorriso.

-E questa novità?- chiese, ottenendo in risposta da John solo un farfuglio. Lui cercò di spostare la mano, ma la presa di Sherlock era salda.

-John.- L'altro lo guardò interrogativo. -Torni a Baker Street?-

John fece un mezzo sorriso.

-Ero di quell'idea, sai?- disse, mentre Sherlock fermava un taxi.

-La gente parlerà- lo avvertì.

-Non mi importa più un tubo della gente. Sono stato uno stupido- mormorò, sistemandosi sul sedile. -Ti ho già perso troppe volte.-

-La signora Hudson lo ha sempre sospettato.-

-Cosa, che fossi uno stupido?-

Sherlock sbuffò e poggiò la testa sulla spalla di John, il quale affondò il volto nei capelli dell'altro, passandoci la mano libera in mezzo.

-Ho tenuto la tua camera…- cominciò Sherlock, voltandosi verso John.

-Non più.-

 

Il pomeriggio seguente, quando Celia tornò a Baker Street a prendere le sue cose, non fu stupita di vedere John fare il suo stesso percorso, ma la contrario. Lo salutò sorridendo, scuotendo la nuova chioma blu elettrico. Questa volta, niente fai-da-te, era andata dal parrucchiere -regalo di Roona- e lì aveva anche leggermente tagliati, sistemando la frangetta troppo lunga.

-John- lo salutò, incontrandolo per le scale mente l'uomo portava su uno scatolone. Dietro di lui, Sherlock reggeva un borsone.

-Celia... È Celia, giusto?- chiese John sorridendo, mentre Sherlock accenna un saluto con il capo.

-Sì, sì. Raçaris Serthelia non faceva per me. Celia, quindi, Celia Stebbins- confermò sorridendo. -Ah, ti devo un sacco di soldi io, a proposito.-

-Nah, lascia perdere.-

-Ti ritrasferisci qui? In camera ho lasciato la finestra aperta...- Sherlock si schiarì la gola e Celia si interruppe, facendo scorrere lo sguardo tra i due. -Oh, scusate, avrei dovuto immaginare che...-

John sollevò un sopracciglio, più imbarazzato di lei.

-Come "avrei dovuto immaginarlo"?- chiese, schiarendosi la gola e guardando per terra.

-Bè... Oh, lasciamo perdere. Sono tanto felice per voi, davvero!- esclamò, abbracciando entrambi di slancio. -Se poi più tardi volete passare da noi, il Dottore vorrebbe salutarvi prima di andare.-

 

Ancora una volta a casa di Roona e Celia. Sembrava che negli ultimi due giorni non avessero fatto altro che andare avanti e indietro da quel condominio. Ma adesso, l'atmosfera era completamente diversa. Innanzitutto, la mano di John stringeva salda quella di Sherlock. Ancora non lo avevano detto a nessuno -solo alla signora Hudson, alla quale sarebbe stato difficile nasconderlo- e John tuttora sobbalzava quando le loro dita di sfioravano anche solo inavvertitamente, ma poi sorrideva e a Sherlock questo bastava. In fondo, non stava a lui dare lezioni sui sentimenti, erano un campo -forse l'unico- a lui completamente sconosciuto, ma tutto quello che sapeva era che voleva John non più solo come amico, la definizione di “migliore amico” gli andava stretta. Il resto lo avrebbero scoperto insieme, con calma.

Suonarono il campanello e una sorridente Roona venne ad aprire e li fece accomodare in soggiorno. Celia era già là, seduta sul bracciolo della poltrona dove stava il Dottore, e chiacchieravano tranquillamente. Non appena li vide, si alzò e corse loro in contro per abbracciarli.

-Cominciavo a perdere le speranze.-

-Saremmo arrivati prima, ma John non riusciva a decidere da quale lato del letto vuole dormire e, di conseguenza, su quale comodino poggiare la sua roba- spiegò Sherlock, facendo diventare John rosso come un peperone.

-Bene, ora che ci siamo tutti, non mi rimane che salutarvi- esclamò il Dottore, infilandosi il lungo cappotto marrone. -Celia, sicura di voler rimanere?-

-Lo so, sarebbe meraviglioso viaggiare insieme, ne sono certa, ma qui sulla Terra ci sono troppe cose che devo fare... Forse ho persino un matrimonio a cui andare- disse, lanciando un'occhiata maliziosa a John e Sherlock. -Quindi grazie, ma no.-

-Allora io vado, ma ti capisco- sorrise. -Roona, inutile dire che hai fatto un capolavoro con Celia. Grazie davvero- disse, stritolandola in un abbraccio.

-Oh, ma grazie a te! Spero di rivederti.-

-Non posso assicurarti la stessa faccia, ma tornerò di sicuro per un salutino. Celia- disse poi, stringendo la ragazza.

-Ciao Dottore, Salutami Rose se la incontri.-

-Lo farò di sicuro- promise, adombrandosi solo per un secondo. Poi lasciò andare Celia, che rimase vicino a Roona. -Grazie anche a voi e buona fortuna- disse, stringendo la mano a John e Sherlock. -E, se decideste di fare il grande passo, chiamatemi. Non me lo perderei per nulla al mondo.-

John farfugliò qualcosa, mentre Sherlock annuì sorridendo leggermente.

-Arrivederci, allora.-  







Inathia's nook:

ebbene sì, arrivederci. o almeno spero che sia, un arrivederci. 
La storia è finita, ma l'avventura continua e per quello sono meno triste. sappiate che il seguito è già bello che pronto e sarà pubblicato già dalla prossima settimana :)
però, questa parte si è conclusa e, devo ammetterlo, un po' triste lo sono. Nata come un piccolo esperimento, è diventata qualcosa di più. Mi sono affezionata a Celia, alla mia piccola e coraggiosa tharacorixiana, ho amato scrivere di John e Sherlock, di come il loro rapporto sia evoluto. E il Dottore.... soprattutto la parte del suo racconto <3
Quindi spero davvero che questo sia un arriverci e di ritrovarvi in massa, la settimana prossima, con il seguito.
piccolo spoiler: 
si intitolerà "Broken World" e i protagonisti saranno Sherlock e John (ve lo dicevo che ci sarebbe stato un possibile matrimonio), Eleven come Dottore (perchè la storia si svolge tre anni dopo rispetto a questa), Celia e un nuovo personaggio. E ci saranno gli Angeli Piangenti...

Ora ho detto davvero tutto e anche troppo :)
Ringrazio quanti hanno seguito silenziosamente la storia, che mi sono stati vicini con la loro lettura silente.
Ringrazio quanti hanno seguito/preferito/ricordato, e anche chi è arrivato qui oggi e quindi è un novello delle avventure di Celia.
Ringrazio quanti hanno recensito, perchè mi avete dato davvero speranza, quando credevo che questa storia non piacesse. Ero arrivata al punto di lasciarla incompiuta, ma mi avete spronato a proseguire anche solo con la vostra presenza. Il finale è dedicato a voi, perchè mi avete dato la speranza di cui avevo bisogno. Ed è anche merito vostro se questo è un arrivederci e non un addio.

Quindi bacioni bacioni e (spero) alla settimana prossima :)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2512126