Three Shades of Love - Le tre ombre dell'amore

di Sherry Jane Myers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio alla tempesta ***
Capitolo 2: *** Presenze insolite ed assenze sospette. ***
Capitolo 3: *** Falsi sorrisi e preoccupazioni nascoste ***



Capitolo 1
*** Preludio alla tempesta ***


Three Shades of Love

Capitolo 1: Preludio alla tempesta

«Sbrigati, Ravanello!» strillo, facendo capolino dalla porta per osservare il solito tiratardi abitudinario, sdraiato sul tetto del liceo.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, mettendosi a sedere e voltandosi verso di me. Già, so benissimo quanto odia quando faccio la vocina acuta.
«Nuovo nickname, oggi?» mi domanda, con una faccia da schiaffi assolutamente fantastica.
«Non cambiare discorso, sai? Oggi non farai tardi a lezione, no no e no!» replico, uscendo anche io sul tetto e guardandolo dall’alto in basso.
Castiel, per tutta risposta, torna a sdraiarsi e chiude gli occhi, infastidito dall’argomento. Che rabbia che mi fa! Mi porto sopra di lui e chino il collo in avanti, così che le nostre facce sono esattamente una sopra l’altra mentre lui apre gli occhi e mi fissa attentamente per qualche istante.
Poi fa un sorrisetto, malizioso ed ostentatamente deluso.
«Peccato» mormora «Almeno fossi in gonna…».
«Pervertito» rispondo, e poi all’improvviso tiro fuori anch’io un sorrisetto, che mi si allarga a dismisura sul volto.
E lui sa che i miei sorrisetti sono pericolosi.
«No» dice, fissandomi minaccioso. «Tu non oserai…».
Ma io oso e, afferrati entrambi i suoi piedi, lo trascino giù dalle scale di peso, orgogliosa e soddisfatta nel sentirgli urlare arrabbiato il mio nome mentre tenta inutilmente di non sbattere la testa sui gradini.
«KIM, MOLLAMI SUBITO… QUESTA ME LA PAGHI!».
 
La vita al liceo non inizia mai senza un urlo, da mesi a questa parte. Più precisamente da quando io mi sono trasferita qua, in effetti. Ho fatto amicizia quasi con tutti, nonostante i miei modi esuberanti, bambineschi e da ragazzaccia insieme. Ne ho combinate di cotte e di crude, da quando sono arrivata a scuola e tutti ci hanno fatto l’abitudine.
Nessuno infatti si stupisce, quando la porta della classe si spalanca di colpo, io mi pianto sulla soglia, lascio cadere i piedi di un Castiel ancora stordito ed alzo compostamente la mano.
«Kimberly Gray presente, scusate il ritardo!».
E va detto che, se nessuno si stupisce, tutti quanti scoppiano a ridere.
Nel tempo che il prof impiega a far cessare le risate, sia sue che della classe, io mi sono seduta, seguita da un Castiel di pessimo umore.
«Non hai risposto all’appello» gli faccio notare pazientemente.
«Lo sanno chi sono, idiota» replica lui.
«Si dice lo stesso».
Lui appoggia la testa sul banco, esasperato e con la chiara intenzione di tornare a dormire… borbottando qualcosa che somiglia davvero molto ad un “Castiel presente”.
È ovvio che Castiel non avrebbe problemi a liberarsi dalla mia presa, ad ignorarmi o farsi lasciare in pace una volta per tutte, ma per qualche motivo non lo fa mai. Ho iniziato a costringere Castiel a venire a lezione, a tutte le ore, e incredibilmente, lui ha iniziato davvero a venire in classe. Ci avevano provato tutti gli insegnanti, e forse anche Lysandre per un po’, anche se aveva rinunciato molto tempo prima. Ma io ho trovato un modo molto semplice per aggirare il suo rifiuto delle autorità: semplicemente, faccio quel che mi pare, e poi tocca a lui disfare le cose. Non lo obbligo a fare nulla: semplicemente, lo trascino davanti alla porta della classe, tutti i giorni. Nei primi tempi, lui prendeva e se ne andava via comunque, ma il dover fare la strada al contrario piano piano lo ha convinto che anche il banco può essere un degno giaciglio.
Non fosse che ultimamente, ho deciso che il passo successivo sarà lo stare sveglio durante le lezioni.
 Se chiedete a chiunque del liceo, tutti sono convinti che io e lui ci metteremo insieme, ma lui è solo il mio migliore amico, quello che mi lascia strimpellare sulla sua chitarra, coccolare il suo cane e cose simili. Inoltre, ho sentito dire che ha una ragazza, un’ex forse. Non è il tipo che si innamora così in fretta, e anche io ho tutto in testa tranne che l’amore. Le cose stanno bene così come sono, e non mi importa che tutti quelli convinti che ci metteremo insieme pensino che io sia un’idiota a non accorgermi di nulla.
«Piantala, idiota» è esattamente la frase che riecheggia in classe, dopo che ho, per l’ennesima volta, punzecchiato Castiel con la matita nel tentativo di svegliarlo.
 
A parte quello con Castiel, solo altri due rapporti non sono di semplice amicizia. Con il resto della scuola mi trovo decisamente a mio agio. Le ragazze mi adorano, anche se ogni tanto mi pare che mi trattino troppo come una specie di comica; dato che me la cavo un poco con poesia e metrica, sono riuscita a diventare amica anche di Lysandre, mentre Alexy spesso mi rapisce per un’uscita di shopping ed Armin ha deciso di insegnarmi a giocare ai videogame, dopo che, trovata la sua consolle, mi ci sono messa a giocare ed ho battuto il suo record schiacciando tasti a caso.
Ah, e poi c’è Ambra, che in realtà non mi sopporta, ma è costretta a tollerarmi per non trovarsi tutta la scuola schierata contro, dato che l’ultima volta che ha provato a minacciarmi Lysandre, Armin, Iris e  Violet si sono schierati in mia difesa sollevando scalpore e minacciando la sua posizione di reginetta della scuola.
«Ehilà, caporale!» Esclamo al passaggio di Kentin, improvvisando un saluto militare piuttosto sghembo e facendogli la linguaccia.
«Credevo di avertelo detto, Gray, ma avere i pantaloni militari non ti rende un soldato» risponde lui, stizzito. Non è che mi sia esattamente chiaro il perché, ma con lui è molto più facile fare dispetti che farci amicizia. Sul serio, è divertentissimo. La sua faccia irritata è una meraviglia.
In realtà, da quando Kentin è tornato al liceo dalla scuola militare, è diventato impossibile non notare la somiglianza fra i nostri guardaroba: catenina di metallo al collo, pantaloni militari, ed i miei capelli sono più o meno della stessa lunghezza e colore di quelli del ragazzo, fatta eccezione due lunghi codini, uno alla base della nuca e uno sulla parte destra del viso. Forse è per questa somiglianza che mi infastidisce… No, in realtà lo prendevo in giro già prima.
Ultimamente in particolare, indosso un bustino color verde acqua che evidentemente contraddiceva qualsiasi regola di abbigliamento possa esistere in una scuola militare, dato che Kentin sembra avermi in antipatia anche più del solito.
«Signorsì signore!» rispondo, superandolo e dandogli una poderosa pacca fra le scapole.
«E piantala, Gray….» borbotta infastidito lui, ignorando la nuova provocazione.
Io me ne vado fischiettando, sorridendo fra me e me al sentire le risate che accolgono Ken nel corridoio principale.
Pagherei oro per vedere la sua faccia quando si accorgerà del biglietto che campeggia sulla sua schiena con la scritta a caratteri cubitali: “A-TTENTI!”.
 
Mentre Kentin ancora si arrovella sul motivo delle risate, e tutta la scuola ha capito che in quel nuovo baccano c’è ancora il mio zampino, io sto facendo irruzione in sala delegati.
«Eccoti qui Nath! Non che mi aspettassi di trovarti altrove…» lo saluto allegramente.
Il ragazzo biondo si volta verso di me, con un sospiro non molto divertito. «Buongiorno, Kimberly» replica, con un sorriso estremamente forzato.
Io incrocio le braccia e metto il broncio, appoggiata alla soglia. «Come mi chiamo io…?» domando, con una voce assurdamente bambinesca.
Nathaniel prende i documenti che stava consultando e si siede alla scrivania, fissandomi perplesso.
«Hai un secondo nome? Mi pare di averlo visto, in effetti, quando ho guardato il tuo modulo di iscrizione ma non ricordo…».
È evidentemente impaziente di occuparsi d’altro, ma non cedo. «Ti ho detto mille volte di chiamarmi Kim, non dovresti avere problemi di memoria con tutto il tempo che studi!» mi lagno.
«Solo duecento cinquantasei, a dire il vero. E non penso sia appropriato, Kimberly».
Mi avvicino e sbatto entrambe le mani sul tavolo, in maniera piuttosto rumorosa e impedendo al delegato di leggere i documenti.
«Kim» ribadisco ancora. «Io ti chiamo Nath, no?».
«E nemmeno quello è appropriato, ma non dipende da me. Ora siediti, dobbiamo sbrigare del lavoro…» mi riprende lui.
Arrabbiata, mi siedo al suo fianco… sul tavolo. Incrocio le gambe sopra lo schienale della sedia ed afferro parte dei documenti sparsi sul tavolo. «Come ti pare, Nath» borbotto. «Non ho ancora capito perché ho deciso di aiutarti...».
«Già, e queste sono quattrocento sedici tonde. Ora firma lì, per piacere» risponde pacatamente lui.
Sbuffo, ma eseguo l’ordine. «Aiutante delegata, eh? Che fregatura. Solo scartoffie per cosa, poi? Che gusto c’è?» poi mi rivolgo al biondo, abituato ma contrario alle mie chiacchiere e al modo in cui mi siedo. «Ehi, tu perché fai il delegato? Chi te l’ha fatto fare?».
«Per piacere Kimberly, concentrati».
«Dai… se me lo dici mi siedo e faccio la brava» propongo, sventolandogli un piede davanti al viso, tanto per richiamare la sua attenzione. Indosso delle scarpe da ginnastica, quindi non c’è molto da vedere, ma Nathaniel scatta indietro come se mi fossi appena levata la maglia. A proposito, nemmeno lui apprezza il mio vestiario.
«Ehi, Nath, sei rosso» lo prendo in giro.
«Davvero, Kimberly, concentrati. Sei qui solo perché Melody è in viaggio, cerca di farle trovare il lavoro fatto, quando torna» replica lui, ricomponendosi e gettandomi il piede di nuovo sulla sedia.
«Ti costa tanto dirmi perché hai deciso di fare questo lavoro?».
Ma tutte le risposte che ottengo iniziano con “Concentrati” e finiscono con “Kimberly”, perciò inizio a parlare da sola, mentre lavoro. Non venendo più interpellato, Nathaniel sembra essere più a suo agio, finché, come sempre, io non esco dalla stanza e lo lascio solo con altre scartoffie.
 
C’è una solida routine, nella mia vita. Uscita dalla sala delegati, raccatto la mia cartella dalla classe ed esco. Solitamente faccio un giro per negozi con Alexy, anche se oggi lui non può perché ha già speso tutta la sua paghetta. Ogni tanto mi sento anche con Lysandre, ma oggi vado dritta in palestra, dove spendo un’oretta buona tutti i giorni. È di mio padre, perciò posso frequentare liberamente più o meno qualsiasi corso si tenga qui dentro. Oggi mi limito ad un po’ di corsa sul tapis roulant, e poi via, a casa, cena e poi partita online con Armin, a quel nuovo videogame che mi ha portato oggi. Credevo fosse un gioco di macchine, ma a giocarci sembra più uno sparatutto. Vince lui, ma di poco. Sembra che io abbia talento, per queste cose. Finita la partita mi metto il pigiama e mi infilo sotto le coperte, addormentandomi quasi subito.
 
Un fiume tumultuoso le sbarrava la strada, troppo violento e profondo per essere guadato.
Lei avanzava, piano ma sempre costante, senza la libertà di fermarsi o di accelerare; solo camminando, inesorabilmente, verso i tre ponti. Proveniva da un luogo verso il quale non le era dato di voltarsi, e su cui la memoria rifiutava di soffermarsi. Davanti a lei, solo una scelta.
Il fiume avvolgeva il sentiero da entrambi i lati, vi si stringeva intorno, curvando come per abbracciarlo. Un ponte a sinistra, nella direzione da cui il fiume proveniva; uno a destra, nel senso in cui il fiume andava; Uno avanti a lei, oltre il punto più impetuoso del fiume.
Oltre i tre ponti, tre ciliegi dai petali rosati, appartenenti fiori non ancora sbocciati, in attesa come d’un segnale per aprirsi, da un sole che in quel luogo non pareva esistere.
E una frase che riecheggiò nell’aria:
“L’amore ha tre ombre: il Passato, il Presente e il Futuro”.
Una campanella suonò una volta in lontananza: Dling. Un’ombra era sul ponte di sinistra, come se da sempre fosse stata lì.
“La prima è l’ombra che ci siamo lasciati alle spalle. Diffida di chi amerà la prima delle tre ombre, poiché desidera l’immagine di te che i suoi stessi ricordi hanno distorto.”.
E il ciliegio, ricevuto il segnale che aveva tanto atteso, perse tutti i petali ad uno ad uno, portati via da un vento che lei non sentiva, lasciandolo spoglio senza mai essere fiorito. Il ponte di sinistra era crollato.
Dling. L’ombra era sul ponte di destra, abbandonato il ciliegio ormai spoglio e morente.
“L’ultima ombra è quella che ancora dobbiamo raggiungere. Diffida di chi amerà l’ultima delle tre ombre, poiché vuole solo una delle tante persone che puoi diventare, precludendoti le altre”.
Il secondo ciliegio ebbe il suo segnale alla voce dell’ombra; un suo ramo fiorì, uno solo, splendidamente e maestosamente, mentre gli altri precipitavano a terra. E quando il ponte di destra crollò, anche quel ramo seguì la sorte dei compagni.
Dling. L’ombra era lontana, lontana da lei, che ancora non aveva raggiunto gli altri ponti, lontana dall’ultimo ponte su cui essa ora stava, impassibile, lontana, voltata non più verso di lai, ma verso l’albero.
“L’ombra di mezzo è l’ombra che ci accompagna dal primo istante, quella che vediamo tutti i giorni. È un’ombra proiettata dalla luce”.
E questa volta, al suono della voce, il ciliegio fiorì, in un tripudio di petali, odori e colori. Fiorivano, e l’albero pareva crescere come se quella luce lo illuminasse davvero, in quel mondo cupo e senza cielo. La campanella suonò ancora.
“Chi amerà l’ombra di mezzo delle tre ombre amerà la vera te stessa, poiché sei tu, e non un amore cieco e volatile a proiettarla”.
E come di comune accordo, i venti sollevarono i petali degli alberi avvizziti, radunandoli intorno all’ombra e poi alla chioma maestosa dell’albero, ora splendido e vivo come nella più fiorente delle primavere. E l’ombra si allungava, piano, nella tempesta, raggiungeva l’albero e diventava una cosa sola con esso, mentre le stagioni passavano, il ciliegio dava frutti ed imbruniva, ed infine le foglie cadevano naturalmente.
E mentre le foglie cadevano, ad una ad una, una nuova luce illuminava l’albero, come un raggio di luce in mezzo ad una coltre di nebbia; e la luce calda proiettava a terra, finalmente, l’ombra dei rami spogli dell’albero, promettendo, presto, una nuova primavera.
E quando la campanella suonò la quinta volta, Kim si svegliò.
 
Interrotta da un sogno, la sicura routine che animava la vita della ragazza e di tutti gli studenti del liceo stava per spezzarsi. Era stato uno schiocco silenzioso di quel qualcosa che aveva sempre tenuto insieme le vite dei ragazzi, una rottura improvvisa che stava per portare a svolte e scelte che nessuno voleva davvero affrontare.
Una tempesta stava per arrivare sulla città, con il solo preludio di un sogno, dato alla ragazza che sarebbe stata il centro di tutto quello che stava per accadere.







Buongiorno a tutte :D
Questa è la prima FF che pubblico da tanto tempo, nonchè la prima in questo fandom! Grazie alle coraggiose che sono arrivate in fondo a questo primo capitolo, che è un po' prologo, spero che vi piaccia e che mi facciate avere i vostri commenti, accetto critiche e pareri di ogni sorta ^^
Dalle mie vecchie Fanfic, mi è rimasta in oltre un'abitudine: sono solita aggiungere, alla fine, una piccola anteprima del prossimo capitolo, chi ha voglia la legge e mi dica se è cosa da dismettere o da portare avanti ;-)
Baci, Shè ^.*





Nel prossimo capitolo di Three Shades of Love:
Quando qualcuno si trova fuori posto, ce ne accorgiamo sempre.
Diamo sempre per scontato che chiunque sarà dov’era ieri.
Così, se qualcuno si sposta, tutte le certezze possono essere distrutte.
Il prossimo capitolo di Three Shades of Love: Presenze insolite ed assenze sospette.
“Castiel mi snobba. Nathaniel bigia. Kentin mi evita.”


 

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Capitolo 2
*** Presenze insolite ed assenze sospette. ***


Three shades of love
Capitolo 2: presenze insolite ed assenze sospette
La voce di quell’ombra mi sta ancora nella testa e DIO, quant’è  fastidiosa. Per essere strambi, i miei sogni sono strambi, c’è da dirlo, ma questo batte anche i soliti. E per tutta la notte non sono riuscita a riprendere sonno, dopo essermi svegliata: sentivo qualcosa, ecco, che mi metteva a disagio. È stato troppo… carico, come se avesse voluto dirmi qualcosa di profondo che io non capivo… come un presagio.
Ed in effetti, quando salgo sul tetto, Castiel non c’è. Scendo le scale di corsa, controllo nel salone del concerto: niente neanche lì. Nelle aule vuote, niente. Al suono della campanella, arrabbiata, entro in classe, meditando su dove possa essersi infilato.
E quando entro in classe, lui è al solito banco, con un libro aperto, a studiare.
In più d’uno, me compresa, sono fermi sulla soglia, con occhi sgranati, mascelle spalancate ed un certo numero di libri caduti a terra.
Poi arriva il professore che, dopo un occhiata sorpresa ma fugace, manda tutti ai posti, fa l’appello mentre io attendo il nome di Castiel, prima del mio. Lui risponde, lasciandomi stupefatta.
«Hanno trovato foto compromettenti con cui ricattarti?» gli domando sottovoce.
«Oh, sta’ zitta» replica lui, senza però irritazione nel tono, se non per la domanda inopportuna.
Se non conoscessi Castiel, direi che lo sta facendo di sua spontanea volontà. Storco il naso a quel pensiero, mentre il professore prosegue. Non è possibile, eppure sembra proprio che sia così. Ma cosa…
Un nome mi distrae dai miei pensieri: «…Nathaniel».
Non avrebbe attirato la mia attenzione, se non fosse stato seguito da un silenzio imbarazzante. Il professore sembra a sua volta stupito, ha la penna ferma e sollevata di poco: stava già segnando la presenza, animato dalla stessa certezza che ha spinto tutta la classe al silenzio.
Nathaniel non ha MAI, mai, mai fatto un’assenza prima d’ora.
Un brusio si accende, qualcuno mormora, guardando il banco vuoto e non credendoci, si girano per assicurarsi che non si sia cambiato di banco.
È Castiel a rompere il silenzio: «Assente» sbotta, non senza una certa dose di soddisfazione. Si sa che fra loro non corre buon sangue.
Il prof, sbalordito ma non soddisfatto dalla seconda novità della giornata si rivolge alla sorella.
«Ambra, sai dirci perché…».
«Non ne ho idea, mica vengo a scuola con mio fratello» sbotta lei, evidentemente irritata e non dalla domanda del professore.
Sulla classe cala di nuovo il silenzio, di cui il professore si approfitta per iniziare la lezione, dimentico della delusione per l’assenza del suo studente modello, ma apparentemente compensato dall’insolita solerzia con cui Castiel stava prendendo appunti. Tutta la classe, invece, lo fissava apprensiva, aspettando l’istante in cui si sarebbe stufato, avrebbe buttato tutto all’aria e infilato la porta.
Istante che, per fortuna del prof, non arrivò mai.
 
Finite le lezioni, Castiel scappa via con una certa rapidità. O ne ha avuto abbastanza, oppure vuole evitare domande. Le mie domande. Che rabbia!
Non ci credo che mi ha zittito quando ho provato a domandargli qualcosa. Non ci posso credere. Mi sta nascondendo qualcosa… devo sfogarmi su Kentin. Lo cerco per il corridoio, avanti e indietro, ma non lo trovo. Mi sta evitando anche lui? Dannato. Dannati tutti.
Faccio per andarmene: non ho niente da fare e oggi non devo aiutare Nathaniel… guardo la porta chiusa della sala delegati e sospiro.
Odierebbe trovare il lavoro non fatto al suo ritorno.
Rassegnata, nonostante io non sia di turno, apro la porta, butto la cartella vicino all’entrata e la richiudo dietro di me. Individuare il lavoro da svolgere non è per niente difficile: Nathaniel è così ordinato che c’è un raccoglitore per qualsiasi cosa si possa cercare. Ed un po’, ormai, ho capito come funziona la sua testolina bacata.
Tiro fuori un plico di fogli di ragionevole – per gli standard di Nathaniel, almeno – altezza, mi siedo sulla sedia ed inizio, chiacchierando fra me e me. Non che solitamente lui sia di grande compagnia, ma è decisamente deprimente stare qui da sola.
Ed a pensarci, è stranissimo che non abbia perlomeno avvisato, lui o i suoi genitori. Non che io abbia mai osservato il comportamento di Nathaniel in caso di assenza, ma qui a scuola nessuno l’ha fatto: non ha perso un giorno di lezione da… da sempre. Conoscendolo mi sembra il tipo che manderebbe da casa tutte le direttive per svolgere il lavoro qui… o che verrebbe comunque. Una volta è venuto a scuola con un mal di testa assurdo, ricordo che ha finito per passare tutta la giornata in infermeria… dicono che i suoi genitori si rifiutino di tenerlo a casa.
Fra un pensiero e l’altro, i documenti viaggiano dalla pila del “da fare” a quella del “fatto”, ed io  mi sono quasi trasformata nella perfetta, barbosa, sosia di Nathaniel quando, finalmente, ripongo nei raccoglitori gli ultimi fogli, afferro le mie cose ed esco, senza aver più nessun Nathaniel da abbandonare alle scartoffie.
È stata una pessima giornata, e neanche il tempo aiuta: ho dovuto rinunciare alle magliette senza maniche, ed ora si mette anche a piovere, mentre io sono senza ombrello. Tutti sono già andati e non ho nessuno a cui chiedere un passaggio.
Castiel mi snobba. Nathaniel bigia. Kentin mi evita. Non ho appuntamenti pomeridiani con Lysandre o Alexy ed è il giorno di chiusura della palestra. L’unica consolazione della giornata saranno, spero, le partite online con Armin… se la tempesta non abbatte il Wi-Fi.
Attraverso il parco e quando scorgo casa mia sono stanca e zuppa, cani e gatti randagi mi sfottono da sotto le loro tettoie e le coppiette  che limonano sotto i loro ombrelli mi danno la nausea. Piove a dirotto, è buio pesto, tuoni e fulmini mi molestano vista ed udito e voglio solo una grossa, fumante cioccolata calda, la mia cara stufetta e delle coperte asciutte.
Ma la salvezza per me è ancora lontana; mentre sto avvicinando la mano all’amatissimo campanello, un lampo illumina una sagoma in un vialetto laterale. Per un attimo mi chiedo se sia quella dannata nanetta vestita da lolita, ma realizzo in fretta che è qualcuno seduto per terra.
Controvoglia, e con un infinito dolore, stacco il dito dal campanello e giro l’angolo, ancora una volta sotto la pioggia.
Ciò che trovo è fuori da ogni schema o previsione, e mi richiede diversi secondi per elaborare.
Appoggiato al muro, sul punto di scivolare a terra c’è Nathaniel, visibilmente tremante. Indossa gli stessi pantaloni di quando l’ho visto l’ultima volta, troppo leggeri per il clima, ed un cappotto più pesante ma completamente fradicio. Mi accuccio di fianco a lui, ha gli occhi chiusi. I capelli biondi sono talmente appiattiti lungo il viso che non riesco nemmeno a credere che siano gli stessi che vedo a scuola, sempre ordinati e ben pettinati. Gli poggio una mano sulla fronte ed è così calda che non ho nemmeno bisogno di scostargli le ciocche, divenute scure per l’acqua, per sentirgli la temperatura.
Per fortuna che è svenuto dietro casa mia, sarebbe stato difficile trascinarlo dal parco a qui senza che nessuno lo vedesse.
Mi faccio passare un suo braccio sulle spalle e me lo trascino dietro, in qualche modo, abbandonando la cartella nell’atrio senza troppo riguardo. Niente scale, vada per l’ascensore. Non ce la farei.
Il problema è cosa dire a mia mamma. Quando apre la porta e si trova davanti sua figlia fradicia un ragazzo svenuto al fianco, beh, ha bisogno di due secondi per calcolare la situazione.
«Ok, mamma» dico «prima pensiamo a lui e poi alla punizione, ok?».
Lei annuisce e mi aiuta a portarlo dentro, azione che richiama l’attenzione di mio padre, che arriva dal salotto in pantofole ed assiste alla scena.
«Ho fatto l’abitudine al numero di ragazzi che porti a casa… ma questo è un po’ troppo non ti pare?» commenta, prendendo il mio posto nel sorreggere Nathaniel. Più agilmente di me e mamma messe insieme, raggiunge camera mia, mentre mia madre fa in tempo ad afferrare degli asciugamani nel tragitto. Io a malapena riesco a levarmi scarpe, calzini e giacca, fradici.
Mia madre, impegnata ad asciugare come può Nathaniel, lancia un asciugamano anche a me, mentre manda papà a prendere dei suoi vestiti, più asciutti di quanto quel cappotto sia da  molte ore, probabilmente.
«Era svenuto nel vicolo qui di fianco, che dovevo fare?» rispondo io, tentando di aiutare mia mamma nell’asciugatura e venendo scacciata in malo modo.
«Vai a cambiarti, un adolescente svenuto basta e avanza».
Annuisco, tanto mi sento piuttosto inutile. Afferro un morbido e caldo pigiama e mi infilo in bagno. Mi cambio e quasi mi sfiora l’idea di asciugarmi i capelli con il phon, quando sento un grido di mia madre. Scatto fuori a vedere che cosa sia successo.
Nathaniel è sdraiato sul mio letto a schiena in su, in seguito agli sforzi di mamma di levargli il giubbotto… che sono riusciti e lo hanno lasciato a torso nudo. Mi avvicino di più, dubito che mia madre si scandalizzi per gli addominali dei ragazzi della mia età.
Infatti, sulla schiena di Nath, c’è una lunga ferita diagonale che va dalla spalla al fianco.
«È… profonda?» chiedo, incapace di giudicare da me la gravità della cosa. Non sono mai stata il tipo che si impressiona, chiariamoci, ma quando un tuo compagno è disteso ferito sul tuo letto… oh al diavolo, non è che mi sia mai preparata ad un’eventualità simile… ferito poi da cosa, a proposito?
«Non saprei, ma dato che sta sanguinando andrei a prendere la scatola delle medicazioni, tu che dici?» suggerisce mio padre, appena arrivato con i vestiti.
Scappo a prenderla e torno, prima di mettermi ad osservare da lontano le medicazioni di mia madre e di uscire insieme a lei quando mio padre si offre di cambiarlo. Io di certo non ho voglia di farlo, in questo momento, quindi sono ben felice di lasciarlo fare.
«Oddio» borbotto. «Avrei dovuto chiamare un’ambulanza, non so che mi sia saltato in mente a portarlo a casa…» mormoro, affondando le dita fra i capelli.
«La cosa più importante era portarlo all’asciutto» risponde mia madre, facendomi sedere affianco a lei sul divano. «E soprattutto, non potevi fare tutto da sola. Quando papà esce pensiamo al da farsi, ok?».
Io annuisco, buttando all’indietro la testa e chiudendo gli occhi. Giornata di M…
«Lo conosci?» chiede mia madre.
«È il delegato» rispondo. «Un mio compagno di classe. Non è mai venuto qui».
«Pensi che sapesse che è casa tua?».
«Ma va. A meno che non giri con i miei fogli di iscrizione in tasca…».
La conversazione finisce lì, ma mia madre mi stringe a sé, strofinandomi continuamente il braccio. Solitamente dopo un po’ mi stufo delle sue dimostrazioni d’affetto, ma per una volta la lascio fare. Beh, ho scoperto perché Nathaniel non è venuto a scuola oggi.
Mio padre ci raggiunge in salone. «Dorme come un angioletto» esordisce. «O almeno, ha smesso di tremare».
Mamma si lascia andare in un’esclamazione di sollievo e si alza in piedi. «Chiamiamo qualcuno? La scuola, ad esempio, loro avranno i contatti dei genitori… ed un ospedale, non possiamo prenderci noi la responsabilità di…».
«Lo porteremo a fare un controllo quando si sarà svegliato» la interrompe brusco mio padre. Poi, davanti alle pronte proteste di mamma, continua. «Starà bene. Per ora, è meglio lasciare le cose come stanno».
Poi fa alla mamma uno di quei cenni “vieni di là che dobbiamo decidere se dirlo a Kim o meno” e si rivolge a me dicendo semplicemente. «Vai a tenerlo d’occhio, meno gente ha intorno meglio è. Organizzati un posto per dormire, ceniamo e aspettiamo che si svegli, oppure andiamo a letto noi. Se non si sveglia, credo che domani potrai fare a meno della scuola».
Annuisco, in questo momento non riesco neanche a pensare a “domani”. Robe da adulti, io riesco solo a pensare che c’è Nathaniel svenuto in camera mia, e che, probabilmente, non dormirò finché lo fa lui.
 









Ehilà! Sono tornata!
Questa storia è un triangolo, anzi, un quadrangolo... ed iniziamo con Nath :P Il prossimo capitolo sarà da ridere...
Ringrazio chi ha recensito: Someonetoblame02, sabrinacaione e ciaohello! Grazie ragazze, mi avete fatto felice :D
E un grazie anche a rui, che insieme a Someonetoblame02 e ciaohello ha messo la storia fra le seguite!
Spero di ritrovarvi tutte al prossimo capitolo, magari insieme ad altri che leggeranno la storia!
^.* Shè



Nel prossimo capitolo di Three Shades of Love:
Chi è troppo gentile a volte finisce solo per irritare gli altri.
Ci sono casi in cui bisogna dire le cose come stanno.
E un momento di pace può essere turbato da un solo sorriso falso.
Il prossimo capitolo di Three Shades of Love: Falsi sorrisi e preoccupazioni nascoste.
“Quattro sorrisi di cortesia e un sorriso vero, e sei sveglio solo da mezz’ora.”

 

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Capitolo 3
*** Falsi sorrisi e preoccupazioni nascoste ***


Three shades of love
Falsi sorrisi e preoccupazioni nascoste
Alla fine, sono crollata. Me ne accorgo solo quando mi sveglio, sdraiata sull’altro lato del letto rispetto a Nathaniel e con un braccio formicolante per l’essere stato usato come cuscino. Nath non dà l’impressione di essersi mosso di una virgola da quando mi sono seduta qui ieri; sempre sdraiato a pancia in giù, la testa girata dall’altra parte.
Mi lascio andare ad un lungo sospiro, mentre scendo dal letto, rischiando quasi di inciampare sul giaciglio di emergenza che avevo costruito sul pavimento, prima di addormentarmi di straforo con Nathaniel… ringrazio il cielo di avere insistito tanto per avere un letto a una piazza e mezza.
Lancio uno sguardo all’orologio sulla scrivania: la scuola è già iniziata da due ore. Affondo il volto fra le mani; avrò pure dormito, ma mi sento uno straccio. Il mondo è ancora in piedi, mentre ieri avrei giurato che sarebbe crollato insieme a me per la tensione. Non sono abituata a riflettere sul giorno prima o sul giorno dopo, e se adesso penso a ieri mi sembra impossibile che siamo ancora qua, che dalle tende che ho scordato di tirare stia davvero filtrando un debole raggio di sole e che l’orologio sia andato avanti.
Quando mai mi è servito pensare ad altro che all’”oggi”, per andare avanti?
Afferro una tuta da ginnastica dal cassetto, avendo ben cura che Nath stia ancora dormendo, e mi infilo in bagno per cambiarmi il pigiama stropicciato. Quando esco, mi inginocchio vicino a lui e gli scosto i capelli, che hanno riacquistato il colore ed il volume di prima, e gli poggio una mano sulla fronte per sentirgli la temperatura. Tiro un altro sospiro, di sollievo stavolta, quando sento che è solo un poco più caldo del normale.
Proprio quando sto per allontanare la mano, sento la sua fronte corrugarsi un poco sotto le mie dita. Non volendo che la prima cosa che vedrà al risveglio sia la mia faccia, mi scosto un po’ da lui, abbastanza per garantirgli un risveglio tranquillo ed abbastanza poco per poter intervenire nel caso facesse movimenti improvvisi. Non voglio sangue sulle lenzuola.
Lo osservo aprire un poco gli occhi e tentare di mettere a fuoco dove si trovi, poi di riconoscere il posto, ma senza risultati. Non credo nemmeno di avergli mai parlato fuori dalla sala delegati.
Muove un poco la testa per guardarsi intorno, ed ecco che dopo qualche istante i suoi occhi sono fissi su di me, un po’ più spalancati di prima, dorati e ancora un po’ lucidi per la febbre.
«Kimberly…?» domanda, con la voce roca. Che sfiga, è svenuto sotto la pioggia e non gli è nemmeno rimasta la bocca aperta per berne un po’.
«Così parrebbe» rispondo io, scuotendo le spalle. Nath assottiglia lo sguardo, quasi sospettoso.
«Sono… a casa tua?».
«Risposta esatta!» esclamo «Dieci punti a Grifondoro!».
Nath sospira e chiude gli occhi, ora assolutamente sicuro che non sia un sogno. Il che mi fa sospettare che sia il momento di ricordarmi della situazione in cui ci troviamo, e che dovrei essere un po’ più seria.
Non c’è gusto a scherzare con Nathaniel già di solito, figuriamoci con un Nathaniel ferito.
«E questo ci riporta al fatto che ho un paio di domande da farti» inizio. «Ad esempio, sul motivo per il quale hai scelto la parete del mio condominio per farti un pisolino sotto la pioggia».
Lui chiude gli occhi con fare assente, per un attimo che sembra eterno. «Sono svenuto?» chiede infine.
«Oppure qualcuno ti ha narcotizzato e abbandonato nel vicolo a fianco casa mia perché siamo tutti pedine di un suo piano malvagio, ma propenderei per lo svenimento, sì» commento, sarcastica.
Nath è di nuovo esasperato, il che significa che sta bene perlomeno. Sospira di nuovo, come se avesse voluto ringraziarmi ma semplicemente non ci fosse riuscito, e tenta di alzarsi, ma io scatto avanti e lo fermo in tempo.
«Stai sdraiato, hai una brutta ferita sulla schiena» che non so esattamente se sia brutta, ma meglio spaventarlo per ogni evenienza.
Lui prima mi fissa come se gli avessi appena detto qualcosa di incomprensibile. Poi un lampo di comprensione gli attraversa gli occhi, ed io capisco tre cose: si ricorda quello che gli è successo, sa esattamente cos’ha sulla schiena e, terzo, non voleva che qualcun altro lo sapesse.
Mi siedo di nuovo per terra per lasciargli il suo spazio, fiduciosa che non proverà di nuovo ad alzarsi, e sbuffo, come faccio quando sto per diventare seria e non ne ho voglia.
«Allora, carte scoperte. Tornavo da scuola sotto la pioggia, sono arrivata a casa e ti ho scorto in un vialetto laterale, svenuto, febbricitante e con vestiti poco abbinati» ok, non riesco a fare un intero discorso senza battute. «Ti ho portato a casa, dove i miei ti hanno sistemato un po’ e sei rimasto svenuto tutta la notte. Ora sono le dieci e credo proprio che andrò a prendere la colazione per entrambi. La febbre è scesa, ma hai bisogno di mangiare qualcosa».
Poi mi alzo in piedi, sgranchendomi un po’ i muscoli nel movimento. «C’è qualcosa in particolare che ti va di mangiare? Praticamente qui non ci sono due persone a cui piaccia la stessa cosa, quindi abbiamo praticamente di tutto».
Nathaniel gratifica la mia spiegazione con un sorriso stanco «Va bene tutto, non preoccuparti».
Alzo gli occhi al cielo mentre mi volto e mi avvio alla porta. Quando sto per uscire però, lo sento aggiungere più imbarazzato di prima. «Però… potrei avere qualcosa da bere?».
Non è una gran richiesta ma è già tanto che abbia chiesto qualcosa, educato com’è. Mi giro e gli faccio l’occhiolino «In arrivo!» rispondo.
Arrivo in sala, dove mio padre sta leggendo il giornale. Al mio passaggio commenta sarcastico «Toh guarda, uno dei due begli addormentati si è svegliato».
Senza degnarlo di risposta faccio capolino in cucina «Colazione per due! Nath si è svegliato e ha sete!».
«Buone notizie allora!» esclama mia madre, che aveva probabilmente intuito il mio risveglio dal rumore, ed estrae prontamente dal microonde una tazza di latte al cacao. «Lui cosa vuole?».
Mia madre non ha avuto modo di conoscerlo, altrimenti non domanderebbe. Guardo la tazza di latte e ricordo la faccia disgustata che Nath ha fatto l’ultima volta che ho portato merendine al cioccolato in sala delegati. «Niente cioccolato per lui» dico, con un tono di voce normale questa volta, per non farmi sentire. Non mi va che si sappia che sono meno menefreghista di quanto sembri, anzi, Nathaniel si meriterebbe una tazza di cioccolata calda per aver lasciato a me il casino di scegliere per lui… ma nemmeno io sono così cattiva da bistrattare un delegato in malattia.
O da sprecare cioccolata innocente.
«Tè, allora» decide mia madre.
Per quanto riguarda il cibo, mi accorgo che qualsiasi cosa io sia solita mettere nella mia colazione è estremamente ed irrimediabilmente dolce, così mi ritrovo a rubare un po’ della pancetta di mio padre, che probabilmente non è la cosa più leggera da dare a un malato, del pane, formaggio, succo d’arancia e poche altre idee scopiazzate dalle colazioni abituali dei miei.
Il tutto viene raccolto su un vassoio insieme alla tazza di tè preparata da mamma, in cui ha infilato una cannuccia per permettergli di non alzarsi dal letto. Con me non lo ha mai fatto!
Comunque sia rientro in stanza, sopraffatta dalla pace mattutina. È stranamente assurdo come stia per fare una normale colazione con un ragazzo nel mio letto. Nathaniel ha gli occhi chiusi, ha di nuovo quella sua espressione stanca che gli vedo ogni tanto, quando crede che nessuno lo guardi. Se ne riscuote quando si accorge di me, sorridendomi di nuovo «Grazie» dice quando appoggio il vassoio sul pavimento a portata di braccio. È sdraiato sul bordo del letto, che è una delle mie posizioni preferite per mangiare; dubito che lui sia abituato a mangiare in posti che non siano una tavola apparecchiata, ma dato che non prova in alcun modo a tirarsi su sospetto che ci abbia provato mentre ero di là, e la sua schiena gli abbia intimato di lasciar stare.
Tiro via il vassoio più piccolo con la mia colazione al cioccolato ed inizio a smangiucchiare la mia brioche.
«A te non piace, no? Lì ce n’è una alla ciliegia… e l’altra credo sia vuota, invece. E se non ti piace il tè ho del succo, e lì c’è una bottiglia di spremuta… se hai bisogno chiedi, non sono esattamente la persona più empatica che trovi qui intorno» borbotto.
Un altro sorriso, ma questa volta accompagnato da una lievissima, quasi impercettibile risatina. «Lo terrò a mente» risponde. «Grazie ancora».
Non parliamo molto mentre mangiamo, e anche se lui più del tè, il succo e un po’ di pane non butta giù, sembra comunque soddisfatto. Il silenzio è allo stesso tempo pesante e tranquillo, la stanza illuminata dalla luce che contrasta in modo assurdo con la tempesta di ieri. E noi che mangiamo qui, tranquilli. Penso ai miei genitori che ieri erano già preparati al giorno dopo, ad aspettare, e penso a ciò di cui dovremo parlare dopo, di quello che Nath non voleva sapessimo.
È così piacevole ora, mangiare in silenzio senza preoccuparci di quello che ci sarà dopo. Anche se in fondo, io ci sto pensando, e probabilmente anche Nathaniel; ecco perché preferisco pensare ad adesso, alla mia gigantesca fetta di nutella e a lui che risucchia pigramente il succo, in cui ora ha spostato la cannuccia.
«Come ti senti?» dico ad un certo punto, vagando fra i miei pensieri. Appoggio per terra la tazza ed inizio a raccogliere i residui della mia colazione, finendo di ripulire il cucchiaio usato per la nutella.
Lui mi allunga il bicchiere. «Sto bene, grazie per l’interessamento» risponde, e sorride ancora.
«4-1» dico, con un sospiro, appoggiando il cucchiaio sul piatto.
Lui mi fissa perplesso. «Parli di calcio…?».
Lo fisso di sottecchi. «Quattro sorrisi di cortesia e un sorriso vero, e sei sveglio solo da mezz’ora» commento. «Seriamente, già che siamo qui potresti almeno dirmi come stai davvero, no? Non è un problema se ti lamenti, se mi dici cosa vuoi mangiare o mi mandi a quel paese».
Nathaniel arrossisce «N-non è v-vero» borbotta. «Mi stai aiutando, e probabilmente mi hai salvato la vita… non erano sorrisi falsi, ti sono grato».
«Ma non sei nello stato d’animo di sorridere» replico. «Sei preoccupato, e lo sei da quando ti ho detto della ferita… sul serio, dimmi che non sono affari miei, che non ne vuoi parlare, scusati, insultami… fa quel che vuoi, ma non rifilarmi i tuoi sorrisi patacca».
Raccolgo il vassoio e lo appoggio sulla scrivania con uno sbuffo, mentre Nathaniel sta zitto. Mi infilo in bagno a lavarmi le mani e poi torno in stanza. Nath ha di nuovo gli occhi chiusi, e io ne approfitto per avvicinarmi e sentirgli di nuovo la temperatura. Lui apre gli occhi di scatto e mi fissa, come se si fosse aspettato di non vedermi più.
«Se penso a com’eri ieri, è un miracolo che tu sia sotto i quaranta gradi» borbotto. «Credo che entro un paio di giorni, la febbre sarà andata… vuoi qualcosa per abbassarti la temperatura?».
«Ho solo la testa un po’ pesante, passerà» risponde. Poi esita un istante «Non mi va di parlarne… è… complicato» mormora. Dopo qualche momento aggiunge piano «Scusa».
Ridacchio, giocherellando con la treccia che mi scende sulla spalla. «Tipo quelle cose “Se te lo dicessi dovrei ucciderti” no? Tranquillo, ci tengo alla pelle». Sono abbastanza sicura che se fossimo stati di nuovo noi due, nell’aula dei delegati mi avrebbe semplicemente ignorato o detto che non erano affari miei, ma così va già meglio di prima.
«Kimberly…» sbuffa, con l’aria di chi vuole iniziare un rimprovero ma non ne ha le forze.
Smetto di ridere e gli sorrido a mia volta, finalmente. «Ti preferisco quando mi rimproveri, quindi, per l’ennesima volta… chiamami Kim!».
Il viso di Nathaniel è seminascosto dalle coperte, ma in questo momento scommetterei la mia treccia che sta sorridendo sul serio. 4-2, palla al centro.
Mentre mi preparo a punzecchiarlo di nuovo qualcuno bussa alla porta. Sento la voce di mia madre chiedere «È permesso?». Rispondo di sì e poi entra, salutando me e Nath con un gesto della mano. Poi mi fissa in cagnesco.
«Vai a portare quella roba in cucina, forza» dice, indicando il vassoio della colazione.
La fisso sospettosa «L’ultima volta che ti ho lasciata sola con un mio amico, l’ho trovato stordito sul pavimento per le troppe domande».
Lei ridacchia «Ma ti pare? Io?».
Alzo gli occhi al cielo, esco, riporto il vassoio in cucina e lo mollo sul tavolo. Prima di tornare in stanza, ne approfitto per afferrare un succo di frutta da sorseggiare. Riesco a far durare un succo di frutta per ore, se ho altro per la testa.
Quando entro in stanza mia madre sta cambiando le bende sulla schiena di Nath, il che implica che lui è a torso nudo. Per un maschio dovrebbe essere una cosa normale, ma lui arrossisce come un idiota.
«Insomma, Kim, si bussa!» Mi rimbrotta mia madre.
«Questa. È. Camera. Mia» replico, scandendo le parole una per una.
«Ma ora c’è lui, quindi per un po’ sarà camera di Nathaniel. Fila in sala!».
Al che Nath diventa, se possibile, ancora più rosso «N-no, n-non è necessario…» prova a dire, ma non posso certo rimproverargli di non riuscire a imporsi su mia madre. Nemmeno io ci riesco, e vivo qui da sedici anni. Inoltre, mamma ha uno sguardo da “Adoro-questo-ragazzo” che non le ho mai visto per nessuno dei miei amici, il che ha qualcosa di preoccupante.
Per la terza volta questa mattina, esco da camera mia alzando gli occhi al cielo.
Incrocio mio padre, nella stretta anticamera che separa camera mia dall’ingresso, cosa che significa “Sta per iniziare la parte seria della giornata”.
«In che rapporti sei con lui?» domanda, con quella sua aria severa e meditabonda come se sospettasse che in realtà uno dei due abbia organizzato tutto.
«Lo aiuto con delle scartoffie a scuola, null’altro» rispondo, poi gli lancio un’occhiata annoiata. «Si vergogna già solo perché lo chiamo Nath, non hai motivo di preoccuparti».
«Hm…» è tutto quello che dice.
Passa qualche minuto, poi entra in stanza ed io ne approfitto per seguirlo. Se ci cacciano, posso dire che stavo tentando di fermarlo.
Non succede niente, invece, perché Nath è di nuovo vestito e mia madre sta riavvolgendo le bende non usate. Lui sembra piuttosto tranquillo, ma quando vede mio padre mi pare di vederlo irrigidirsi un poco. Difficile dire se mio padre se ne sia accorto, più intellegibile del suo sguardo c’è poco.
«Come sta la tua schiena?» gli domanda, e giurerei che Nath sia sobbalzato. Beh, non è il primo: il povero Armin praticamente si mette sull’attenti ogni volta che incrocia mio padre.
«N-non fa troppo male, se non mi muovo» risponde, incespicando sulle parole, al che la sua reazione mi pare esagerata rispetto a quanto si trovava a suo agio con mia madre. Ovviamente, la sola aura di mio padre stronca qualsiasi bugia per gentilezza lui potesse aver preparato.
Mio padre non sospira, non lo fa mai, ma rilassa le spalle e chiude gli occhi esattamente come se l’avesse fatto. Solo senza rumore. «Lo immaginavo» commenta, e nessuno nella stanza ha dubbi sul fatto che non si sta riferendo alla schiena di Nathaniel. «Kim, puoi uscire?».
Non credo, dato che Nath è praticamente terrorizzato da te. Vorrei dirglielo, ma nemmeno io oso con mio padre. Non quando è così mortalmente serio. E poi dire terrorizzato è un’esagerazione forse, perché anche Nathaniel è un tipo razionale in fondo; mio padre non gli ha dato motivo di essere spaventato, al massimo un po’ in ansia. Gli lancio un’occhiata apprensiva, come per dirgli “se hai bisogno ci sono” ed esco, apparentemente rassegnata.
Neanche dieci secondi dopo, sento la voce di mio padre: «Cara, puoi occuparti di insegnare a Kim che non si origlia?».
Al che, mia madre apre la porta a cui ero appoggiata, facendomi inciampare goffamente, e mi guarda male. Molto male. Poi mi piglia per la treccia e mi tira via dalla porta, chiudendola dietro di noi e portandomi in sala.
E così, io sono sola con mia madre e Nath è solo con mio padre.
Non prevedo niente di buono.






Rieccomi qui!
Questo è stato un capitolo forse un po' di passaggio, ed ho avuto le mie difficoltà a descrivere Nath *Credeteci o no, l'avevo fatto anche più timido di com'è in questa versione xD* Per ora c'è solo lui, ma nel prossimo capitolo iniziano i problemi anche con Castiel :P
In realtà questo capitolo è importante perchè è dedicato a mia cugina Ciaohello *Saluta cugi* che mi ha costretta convinta a scrivere e pubblicare questa FF, dopo tanti anni che ero scomparsa dai vari fandom del sito.
Qualcuno potrebbe chiedersi: perchè dedicare il terzo capitolo? Perchè non il primo? Semplice: perchè non si può far una dedica a quella golosona di mia cugina senza inserire una GROSSA fetta di nutella :P La colazione di Kim te la dedico tutta, ciaohello! xD TVTB, cugi <3
Un ultimo annuncio: domani parto, perciò potrei aver difficoltà ad aggiornare la storia prima del 28/29. Farò del mio meglio per riuscirci ma, si sa, paese che vai, wi-fi che trovi!
Un grazie a tutti quelli che hanno recensito lo scorso capitolo e a quelli che hanno inserito la storia fra le preferite/seguite/ricordate! Se vi è piaciuto il capitolo, lasciatemi un commento per rallegrarmi le vacanze :P
^.* Shè





Nel prossimo capitolo di Three Shades of Love:
Quando si inizia scherzando, è facile finire piangendo.
E se qualcuno ti tiene nascosto qualcosa, diventa difficile parlarci.
A volte capita che una persona non ti veda allo stesso modo in cui tu vedi lei.
Il prossimo capitolo di Three Shades of Love: Empatia.
“Ho un sacco di problemi. E tu al momento sei quello più grande.”

 

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