Da Me a Te

di Michan_Valentine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Impulsi ***
Capitolo 3: *** Mostri - Prima Parte ***
Capitolo 4: *** Attrazione ***
Capitolo 5: *** Illusioni ***
Capitolo 6: *** Mostri - Seconda Parte ***



Capitolo 1
*** Risveglio ***


Progetto Jenova: 5 anni dopo.

Buio. Vischioso buio. Ovunque. E il corpo rigido come un pezzo di legno. Si dimenò; ma un unico spasmo gli attraversò le membra. Roteò gli occhi al di sotto delle palpebre serrate: uno sforzo senza eguali. Qualcosa l’avvolgeva da capo a piedi. Gli scorreva sugli arti e lo sosteneva delicatamente. Era sospeso. Eppure quella sensazione non andò a rassicurarlo. Tentò di dimenarsi una seconda volta; e un altro, debole spasmo gli sconquassò il corpo. Delle voci provenivano da lontano. Attutite. Confuse. A fatica schiuse gli occhi e la luce l’accecò. Serrò nuovamente le palpebre e aprì la bocca. Voleva urlare, ma qualcosa gli inondò la cavità orale. Per un lungo, terribile istante gli sembrò di annegare. Si dimenò ancora, violentemente; disperatamente. E impattò contrò la dura, liscia consistenza di qualcosa

Ancora voci. Qualcuno stava guardando. Lo osservava mentre soffriva, mentre il liquido gli occludeva la gola e i suoi polmoni collassavano, esasperati. In un ultimo, violento spasmo piantò i palmi sulla superficie che lo costringeva e aprì gli occhi. Delle sagome bianche si stagliarono dall’altra parte del vetro, indistinte. Lucrecia…?

Sconfitto inalò, lasciando a quella roba la possibilità di invadergli le vie respiratorie; e con sgomento si accorse di poter respirare. Non ebbe il tempo di tranquillizzarsi. Il liquido iniziò a defluire e il suo corpo acquisì pesantezza. Toccò il fondo con i piedi, ma non riuscì a sorreggersi. Suo malgrado finì contro il vetro, riscoprendo ogni muscolo del proprio corpo intontito. Debole. Quasi atrofizzato. Annaspò in cerca d’aria. Quella vera. E il petto divenne un mare di fuoco. Batté le palpebre, ancora e ancora, cercando di riacquistare nitidezza.

Lo sportello s’aprì d’improvviso e finì bocconi per terra, debole e nudo come un verme. Gemette e si rannicchiò su se stesso alla stregua di una bestia ferita a morte.

“Ah!” esclamò qualcuno di cui a stento riusciva a distinguere i piedi; e quella voce stridula andò a ottundergli l’udito, a perforargli il cervello “Così ci incontriamo di nuovo… Vincent Valentine.” soggiunse quello; e gli piantò la punta della scarpa nel costato.

Sobbalzò e strinse i denti, trattenendo un sibilo di dolore. Vincent Valentine? Sì, era il suo nome. E quella voce…

“Professore, i parametri sono stabili. Respira autonomamente e non c’è necessità di terapia cardiotonica. Guardi lei stesso, è incredibile.” commentò un altro individuo. Sollevò stentatamente lo sguardo e nella penombra dell’ambiente intravide una cartella medica ricca di fogli passare da una mano all’altra. “Per sicurezza consiglierei di somministrare integratori salini ed elettroliti. E della creatina per favorire l’attività motoria.”

L’uomo che l’aveva colpito, il professore, assottigliò le palpebre e lasciò scorrere i suoi piccoli, pungenti occhi sulle scartoffie. La luce dei monitor si rifletteva sinistramente sui suoi occhiali ogni volta che annuiva fra sé, mentre valutava assorto le righe del rapporto.

Non sapeva di cosa stessero parlando o cosa ci fosse scritto su quei fogli, ma non gli sembrò nulla di buono. Tanto più che non riusciva a muoversi. Deglutì dolorosamente. La gola, i polmoni gli bruciavano terribilmente. E aveva la bocca secca. Deglutì ancora per scacciare la ruvida sensazione, inutilmente, e cercò di modulare i suoni.

“D-dove… mi trovo… dove…” la sua voce pervenne roca e bassa. In una parola: fioca. Come quella di un vecchio.

Non ottenne risposta. Il professore restituì la cartella all’altro individuo e ribatté, stridulo: “Non ce ne sarà bisogno. Ha una mente semplice. Tuttavia il suo corpo è speciale. Forte. E resistente, devo dire. Si riprenderà. Dopotutto sarebbe dovuto essere morto. Non è così, ragazzo?”

L’ultima parola gli riecheggiò nelle orecchie, carica di scherno, e solleticò ricordi sopiti. Un flash gli attraversò la mente e l’immagine di lei, di Lucrecia, si delineò con estrema nitidezza davanti ai suoi occhi. Eterea, nel suo camice bianco. Lo guardava dall’alto, le mani davanti alla bocca a coprire un urlo muto. Eppure agghiacciante. I lineamenti delicati del suo viso erano stravolti dal dolore; e negli occhi aveva lacrime e rimpianti. Perché lo guardava così? Uno sparo l’assordò, improvviso. Si raggomitolò maggiormente a terra e cacciò un gemito di dolore. Portò la mano al petto e affondò con le unghie nella pelle, annaspando di nuovo in cerca d’aria. Di rimando i polpastrelli incapparono in una lunga, regolare cicatrice che gli attraversava per intero torace e addome. Disegnando una y.

Ora ricordava.  Era andato a parlare con Hojo e quest’ultimo gli aveva sparato a tradimento, intimandogli il silenzio. Eterno. Poi era sopraggiunta lei
Hojo. Digrignò i denti e sollevò lo sguardo sul professore, carico d’astio.

“Tu…” ringhiò, a dispetto del poco fiato “Tu!” ripeté, con più rabbia. E qualcosa s’agitò dentro di lui. Qualcosa di più istintivo. Primordiale.

L’altro inarcò il sopracciglio e lo fissò con noncuranza e una punta di fastidio, come avrebbe fatto con del fango sulle scarpe. L’assistente invece sobbalzò e batté le palpebre, stringendo al petto la cartella coi dati.

“Dov’è lei!? Che c-cosa… che cosa le hai fatto?!” sputò; e fece forza sulle braccia, sulle gambe con tutta l’intenzione di alzarsi, agguantarlo per il bavero e sbatterlo sulla parete più prossima. Inutilmente.

Piombò nuovamente sul pavimento, esausto. Tremiti gli agitavano le membra sottili, deboli. Atrofiche. Per quanto tempo era rimasto immobile in quel contenitore? Troppo, in ogni caso; e ora il dubbio gli divorava l’animo. Assieme a qualcos’altro di cui ignorava l’entità; ma che percepiva dentro di sé. E che gli dava l’impressione di poter osare.  Di poter chiedere di più al proprio, debilitato organismo.

“Lei? Lei…” ripeté Hojo, passandosi le dita sul mento “Ah!” esclamò poi, come folgorato dalla risoluzione di un arduo enigma “Ti riferisci a quella donna, certo.” concluse; e s’aprì in un orrido, untuoso sogghigno “Ha fatto un favore alla scienza… ed è morta, tempo fa.”

Sgranò gli occhi, la bocca e un tremito più violento lo percorse da capo a piedi; mentre lo stomaco sembrava accartocciarsi su se stesso. Morta…? Scosse la testa. Una, due volte; e piantò le unghie a terra. No. No! Non poteva essere. Quel verme di scienziato stava mentendo! Soltanto il giorno prima l’aveva incontrata lungo il corridoio della Shinra Mansion e l’aveva vista arrancare e collassare, stremata dalla gravidanza e dagli esperimenti. Soltanto il giorno prima…
…ma quanti mesi, quanti anni erano trascorsi da allora? La risposta lo spaventò; e la possibilità che le parole di Hojo corrispondessero al vero si fece più concreta. E insopportabile. Un tarlo che l’insidiava e gli toglieva il respiro. Un chiodo piantato nella carne viva. Insinuato saldamente fra la rabbia e la disperazione.

“Sei un bugiardo!” urlò, scuotendo furiosamente la testa e rifiutando l’eventualità “Bugiardo!” reiterò, più forte; e stavolta la voce acquisì le temibili sfumature di un ringhio.

L’assistente fece un passo indietro e andò nervosamente con lo sguardo allo scienziato.

“P-professore, forse dovremmo…” accennò; ma Hojo gli riservò una smorfia e un verso di stizza.

Pusillanime.” rispose, sferzante “Se temi le conseguenze non otterrai mai risultati degni di nota.” continuò, finché l’altro chinò anche il capo; poi rise e tornò a puntare lui con i suoi luminosi occhietti “Vedi, ragazzo…  nella sua mediocrità la dottoressa Crescent ha avuto un’illuminazione. Un brillante colpo di fortuna, se vogliamo. E una tesi assurda e a dir poco ridicola si è rivelata improvvisamente attendibile. E interessante. Chi l’avrebbe mai detto!” lo scienziato si spostò, gesticolando, immerso in astrusi ragionamenti di cui non poteva, né voleva comprendere la grandezza “L’ho chiamato il Progetto Omega.” rivelò “E tu, Vincent Valentine, sarai la mia piccola, obbediente e utile cavia. Ah! Quella stupida non può nemmeno immaginare il favore che mi ha fatto! La mia geniale mente trasformerà la sua insignificante intuizione in una grandiosa scoperta! Un viaggio che innalzerà il mio superiore intelletto fino al mare di stelle e oltre!”

La risata di Hojo tornò a ottundergli l’udito, a perforargli il cervello. Serrò la mandibola, digrignò i denti e lo fissò con odio. Più l’altro parlava, più l’ira aumentava; e più l’ira aumentava, più il calore l’infiammava. E poteva avvertire il sangue scorrergli più velocemente nelle vene, rapido e violento come un fiume in piena; poteva sentire qualcosa battergli selvaggiamente nel petto e rimbombargli perfino nello stomaco, nelle orecchie; e poteva percepire i muscoli contrarsi in spasmi sempre più intensi, più frequenti... più vigorosi. Nemmeno se ne accorse, ma si acquattò al suolo ed espose i denti. Pronto al balzo.

L’assistente tremò e lasciò cadere a terra la cartella medica. Hojo invece non si scompose. Il sogghigno si delineò sul viso emaciato dello scienziato, che arrestò il passo, si sistemò meglio gli occhiali sul naso e lo fissò attentamente.

“Sì, così…” gli disse “Fammi vedere di cosa sei capace. Mostrami che cosa sei diventato.” continuò; e rise, insopportabile “Ah! Scommetto che la piccola mente di quella puttanella lamentosa nemmeno conosceva le vere potenzialità della sua scoperta. È morta nell’ignoranza, poveretta. Ma non temere… io farò di meglio.”

Non voleva ascoltare! Graffiò il pavimento. Ringhiò. E sentì la gola chiudersi in un doloroso, saldo nodo. Il viso di Lucrecia gli passò innanzi agli occhi. Bella, delicata. Fragile. Come il sorriso che le aveva illuminato i lineamenti la prima volta che si erano incontrati; e qualcosa di caldo gli bagnò le gote. Hojo l’aveva uccisa. E lui gli aveva permesso di farlo, quando invece avrebbe dovuto proteggerla. Una colpa troppo grave da sopportare: come le parole impietose dello scienziato. Scavò solchi. Urlò, fino a perdere il fiato. Urlò fino a lacerarsi la gola. Fino a che la voce non divenne un sordo, lugubre e implacabile ruggito. Inconsolabile. Mentre le membra s’ingrossavano, si dilatavano e ricompattavano, modellandosi in maniera innaturale. Inumana.

Infine balzò. Nella mente una sola, semplice consapevolezza: distruggere Hojo. E il mondo intero. Vide lo scienziato arretrare e spingere l’assistente innanzi a sé. Quello sgranò gli occhi, la bocca e urlò, paralizzato dal terrore. Un istante soltanto; poi calò gli artigli su di lui e lo dilaniò con orribile rumore. Percepì appena il calore, l’odore del sangue. Poi tutto divenne buio. Vischioso buio. E perse nuovamente coscienza di sé; affrancato da una frenesia di devastazione che gli apparteneva solo per metà.
 
***
 
Ansimò, inginocchiato fra membra maciullate e irriconoscibili, completamente ricoperto di sangue. Il petto gli si alzava e gli si abbassava a ritmo incredibile. La testa gli girava furiosamente, dandogli la sensazione che presto o tardi sarebbe collassato. Eppure il dolore e l’atrofia dei muscoli non erano che un lontano ricordo. Anzi, non si era mai sentito meglio; e ogni cellula del suo corpo sembrava urlarlo a gran voce, reattiva.

Tremò, deglutì e si portò le mani innanzi al viso. Su di esse il sangue si raggrumava, scuro. Che cosa aveva fatto? Che cosa era diventato? Un mostro, probabilmente. Lo stomaco gli si contrasse e l’acido gli risalì la gola, costringendolo a piegarsi in due e a ricacciare nient’altro che succhi gastrici. Gemette e si passò il dorso della mano sulla bocca, spingendo oltre lo sguardo. Nella stanza regnava il caos. I monitor erano distrutti, le scrivanie divelte, le attrezzature fatte letteralmente a pezzi; e profondi solchi si stendevano su tutte le superfici, come se una bestia feroce avesse sfogato su di esse l’aggressività. La porta blindata era invece ammaccata al centro, scardinata e bloccata in posizione sbilenca all’interno del vano che avrebbe dovuto chiudere. Rabbrividì.

Del rumore bianco si spanse per la stanza. Sconvolto ne cercò il punto di provenienza e sul soffitto intercettò altoparlanti e camere di sorveglianza ancora intonsi. Salvo per gli schizzi di sangue che ne imbrattavano la superficie. Qualcuno lo stava guardando. Studiando, sarebbe stato meglio dire.

“Giorno 1. Il soggetto si è svegliato dopo cinque anni di coma. Non si riscontrano deficit fisici, cognitivi e comportamentali. La rapida ripresa è da attribuire al Chaos Gene. Lo stress favorisce la comparsa della creatura ospite: Chaos. In questo stato il soggetto è fuori controllo.”

Scosse la testa e incurvò le spalle. Chaos…? Non capiva. Ma sapeva che era stato lui a compiere quello scempio. E con orrore tornò a fissarsi le mani; le ginocchia incollate al suolo e fra i resti, appesantite dal senso di colpa. Il pensiero tornò a lei. Lucrecia… la sua Lucrecia non c’era più…

“Che cosa… mi hai fatto…” sussurrò, svuotato; poi s’irrigidì, strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche e puntò con astio la telecamera che stava sulla sommità della parete.

Sapeva che il verme stava guardando, al sicuro da qualche parte in quella struttura.

“Che cosa mi hai fatto?!” urlò “Che cosa hai fatto a lei?! A Lucrecia! È così che si chiamava, omuncolo senz’anima! Non provi nemmeno un po’ di vergogna?!  Lei ti ha dato tutto! Tutto. Se stessa, un figlio… e…”

Ammutolì. Il bambino! Erano passati cinque anni, ma forse era ancora vivo. Chissà dov’era, chissà come stava.

“Dov’è?” chiese quindi “Dov’è il bambino. Il figlio di Lucrecia.” specificò “Voglio vederlo. Fammelo vedere… o giuro che butterò giù tutto. Ogni porta, muro o essere fatto di carne e sangue che si frapporrà fra me e lui.”

Forse era la disperazione a parlare; magari l’adrenalina; o forse la creatura che si annidava dentro di lui. Tuttavia in passato aveva già tentennato e nel preciso momento in cui aveva deciso di andare a parlare con Hojo, cinque anni prima, aveva ponderato di mettere da parte qualsiasi forma di diplomazia. E stavolta non c’era proiettile che avrebbe potuto fermarlo. Lo sentiva dentro, in ogni insignificante cellula di sé.

Non si stupì quando il rumore bianco tornò a spandersi per la stanza. Poi la voce di Hojo giunse dall’altoparlante: “Non vuoi proprio startene buono. Non è così, Vincent Valentine?”
 
Ah... ah... ah... =_='' Lol. Scusate. È che non ho potuto resistere. oo Certe idee vogliono venire fuori a tutti i costi. Solo che... boh... ora mi sento demoralizzata. ^^' Avete presente la pubblicità dei panini del Mc Donalds? Dove i panini sono bellerrimi e gustosissimi a guardarli? E poi quando andate al Mc Donalds vi danno lo stesso panino dieci volte più brutto e un'infinità di volte meno appetitoso? Ecco. oo A me è capitato lo stesso con 'sta roba scritta qua. ^^'' Nella mia mente sembrava la pubblicità del Mc Donalds... e poi, una volta butatta giù... <-<'' Boh. ç_ç Siate clementi. >_<
A proposito... Vincent potrebbe apparire un po' OOC. oo Però cappio, in questa situazione non ce lo vedevo proprio a restare calmo! xD Lol.
CompaH

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Capitolo 2
*** Impulsi ***


Progetto Jenova: 6 anni dopo.

Barcollò appena, arretrando. Quasi inciampò sui suoi stessi piedi. Gli mancava il fiato; le piccole labbra schiuse in cerca d’aria. Ma, per quanto inspirasse, l’ossigeno sembrava non bastargli mai. Deglutì, tremò e si strinse nelle spalle. Il sudore gli inumidiva la pelle e gli scivolava lungo la schiena. Il cuore gli batteva furiosamente nel petto e lo assordava, squarciando la patina ovattata che gli aveva annebbiato il cervello nel momento in cui aveva afferrato il vassoio. E che l’aveva reso cieco e sordo a qualsiasi altra cosa esulasse da quel preciso impulso.

Batté le palpebre e mise a fuoco l’immagine innanzi a sé, come se la vedesse per la prima volta soltanto in quel momento. L’inserviente stava raggomitolato a terra, sui cocci e sul cibo sparsi, con le braccia disperatamente avvolte attorno al capo. Sotto di lui, s’allargava una densa pozza di sangue. Abbassò lo sguardo e fissò quanto teneva fra le mani. Lo stesso rosso spiccava sullo spigolo metallico del vassoio, dipanandosi in schizzi lungo tutta la superficie. Quel colore così vivo lo colpì con la violenza di uno schiaffo e lo riportò completamente alla realtà. Di rimando boccheggiò e avvertì una morsa attanagliargli lo stomaco. Panico.

Lasciò cadere il vassoio, che si abbatté sul pavimento con rumore metallico. Percepì le gambe cedere, la testa vorticare e finì sul pavimento accanto all’uomo e all’oggetto insanguinato. L’aveva… ucciso? Non sapeva rispondersi. L’inserviente gemette, si fece più piccolo e scongiurò l’eventualità paventata. Ciononostante non si sentì rassicurato; non quando urla e passi provenivano dal corridoio. Sarebbe arrivato anche lui, lo sapeva. E ne aveva il terrore. L’avrebbe rimproverato. L’avrebbe punito. E ognuna delle possibilità rafforzava la tenaglia che gli comprimeva lo stomaco. Quasi vomitò, allorché i primi assistenti di laboratorio irruppero nella stanza e gli sciamarono attorno. Fra loro riconobbe due paramedici.

Sollevò il capo e incappò in individui che si chinavano, si protendevano verso di lui. In facce anonime, prive d’espressione. In occhi che lo osservavano da vicino, senza pudori. In mani che lo toccavano, in bocche che gli parlavano, senza che potesse afferrare il significato delle parole. Dei dati. Si dimenò appena, rifiutando il contatto, e spostò lo sguardo più in là, sull’uomo a terra. E la domanda gli si delineò nella mente: “Perché?” Era soltanto un bambino, ma capiva che quella situazione era strana. Surreale. Non era lui a essersi fatto male, eppure si trovava al centro dell’attenzione. E nessuna di quelle persone sembrava curarsi di ciò che aveva fatto. Di chi aveva colpito.

“Basta!” strillò; e si divincolò con più decisione.

Si alzò, barcollò e scansò malamente da sé uno dei paramedici. Approfittò del varco per sfuggire alla cerchia di assistenti; ma di fatto non c’era luogo in cui avrebbe potuto rifugiarsi. O sentirsi al sicuro. E tutto il suo mondo si riduceva a quell’asettica, spoglia stanzetta bianca; ai corridoi luminosi e ai laboratori che puzzavano di disinfettante.

Raggiunse il letto e vi scivolò sotto, lontano da quelle mani, da quegli occhi. Si rannicchiò su se stesso, strinse i piccoli pugni e serrò anche le palpebre, cercando di estraniarsi. Forse, se fosse rimasto sufficientemente zitto e fermo, quelle persone sarebbero scomparse. O sarebbe scomparso lui. Si concentrò sul proprio respiro. Dentro e fuori. Fuori e dentro. Lo ascoltò e si tranquillizzò man mano, mentre le voci e i rumori circostanti divenivano solo una vaga, lontana consapevolezza.

Schiuse lentamente le palpebre e tornò ad adocchiare quanto stava accadendo tramite la bassa visuale che il letto gli offriva. Vide dei piedi e le ruote di una barella: i paramedici stavano portando via l’inserviente. Poco più in là, un altro addetto stava chino sul pavimento a ripulire il sangue. A ogni passata lo straccio disegnava sulla superficie ampie strisce rosate. Rabbrividì; ma quando sentì il suono stridulo di quella voce un nodo andò direttamente a occludergli la gola. Stava arrivando! E il suo misero nascondiglio poco avrebbe potuto contro di lui, il professore.

“Ah! Che spreco.” gli sentì dire; e le sue parole andarono a perforargli le orecchie, il cervello per quanto erano stridule.

Lo scienziato scansò con il piede la coscia di pollo che si trovava sul suo cammino e mosse i primi passi all’interno della stanza, le mani rigorosamente giunte dietro la schiena. Di rimando trattenne il respiro.
Da quella prospettiva poteva distinguere poco altro di Hojo, a parte le scarpe e il margine inferiore del camice. Ciononostante poteva benissimo immaginare l’espressione contrariata del suo viso aspro ed emaciato. O l’irritazione che pervadeva ogni fibra del suo corpo rachitico e curvo, così devoto alla ricerca. Ma, soprattutto, poteva intuire a cosa stava pensando: “Che seccatura”.

“È da ieri che rifiuta il cibo.” a parlare era stato uno degli assistenti “Sappiamo che è impegnato, professore, ma abbiamo ritenuto opportuno avvisarla. Ha aggredito l’inserviente addetto ai pasti, così…”

“Precisamente. Sono molto impegnato.” l’interruppe l’altro, scandendo lentamente parole e concetti “È mai possibile che un intero branco di adulti non riesca a gestire un solo bambino?” domandò, sferzante e retorico; poi si lasciò scappare un verso di stizza e soggiunse “E dimmi… è morto?”

“Prego?” fece l’altro.

“L’inserviente.” specificò Hojo con noncuranza “L’ha ucciso?”

“N-no.” balbettò l’assistente, forse confuso dalla domanda; poi si affrettò a essere il più esauriente possibile “Ma se non fossimo sopraggiunti sarebbe indubbiamente deceduto per dissanguamento. Sembra che l’abbia colpito ripetutamente sulle gambe. E che poi abbia infierito… fino a spaccargli il cranio.”

Interessante.” fu il semplice e assorto commento “E dov’è ora? Non ho tempo da perdere con i suoi capricci. E solo perché voi siete un branco d’incapaci sovra stipendiati! Immagino che sia qui sotto…” fece; e sollevò il margine delle coperte.

Istintivamente si ritrasse, nel disperato tentativo di sfuggirgli. Dopotutto, per quanto desiderasse, non poteva diventare né invisibile, né incorporeo. Anche chiudere gli occhi, stringere i pugni e far finta che fosse un incubo non sarebbe servito a niente, se non a rimandare l’inevitabile. Gli altri non sarebbero scomparsi. Lo sapeva, anche se nel buio quel pensiero riusciva spesso a confortarlo.

Sephiroth.” il suo nome pronunciato da quella voce gli strappò un brivido e un sussulto; suo malgrado sgranò gli occhi e puntò i piedi ai margini del letto “Esci immediatamente da lì. Devi nutrirti.”

Scosse la testa, senza trovare il fiato per replicare. Non voleva mangiare; l’aveva detto anche a quell’inserviente così insistente.

“No!” strillò poi, riacquistando coraggio.

“Ah! Piccolo stupido! Non ti rendi conto di quanto tu sia prezioso?! Sei un bambino speciale e ti comporti come un deludente e ordinario moccioso! Ma se credi di poter agire di testa tua e di vanificare così il mio ingegnoso operato ti sbagli di grosso!”

L’ira trapelò dal tono dello scienziato e rese la sua voce ancora più alta, più stridula. E decisamente meno rassicurante. Con orrore vide la mano dell’altro infilarsi sotto il letto e spalancare le dita, pronto ad afferrarlo e a trascinarlo fuori con la forza. Serrò gli occhi e si preparò al peggio. L’ultima volta che aveva disobbedito Hojo gli aveva portato via fogli e pastelli. La volta prima ancora il suo unico giocattolo: un vecchio, consunto orsetto di pezza cui mancava un occhio e un orecchio. Ma stavolta non c’era altro di cui avrebbe potuto privarlo, perciò l’avrebbe preso a schiaffi.

Attese col cuore in gola; ma i secondi si susseguirono velocemente e ciò che si era prospettato non accadde. Riaprì gli occhi, titubante e un po’ sorpreso.

“Non ho tempo da perdere con queste sciocchezze.” stabilì lo scienziato; e ritrasse l’arto tanto temuto “Infilategli un ago nel braccio e nutritelo con la flebo.” soggiunse, allontanandosi alacremente.

“Prima di ricorrere alla flebo potremmo far tentare lui.” intervenne l’assistente.

Hojo arrestò il passo ed esitò in prossimità dell’ingresso, volgendo leggermente la punta dei piedi all’interlocutore. Il tempo si stiracchiò, lasciandolo sulle spine.

“Sì! Sì, certo!” esclamò infine lo scienziato; e gli sembrò inquietantemente entusiasta “Fatelo uscire.”

Non capì il riferimento, ma sapeva che stavano parlando di Vincent. Al solo pensiero sentì il cuore battergli più impetuosamente, più dolorosamente nel petto e le lacrime salirgli agli occhi; ma le trattenne, ostinato. A maggior ragione non poteva uscire da lì. Non dopo quello che aveva fatto. Non voleva che l’altro lo guardasse e vedesse che cos’era realmente. Se ne vergognava. E le iridi dell’altro era già così tristi…

Ingoiò il magone, aggrottò le sopracciglia e s’imbronciò. Determinato. Dal suo nascondiglio continuò a osservare il via vai di assistenti e inservienti, finché il pavimento non tornò perfettamente bianco e la stanza completamente vuota. Una manciata di minuti più tardi la porta si riaprì e Vincent Valentine lo raggiunse come da ordini. Di rimando l’odore di minestra calda si spanse nell’ambiente e andò a stuzzicargli l’olfatto.

Ingollò a vuoto; ma perseverò sulle sue posizioni. Immobile. L’altro si avvicinò al comodino e vi poggiò sopra il vassoio con il cibo; dopodiché si accomodò sul margine del letto. La rete cigolò appena e il materasso s’incurvò sotto il suo peso.

“Non vuoi proprio uscire?” chiese Vincent, il tono calmo. E caldo.

Scosse di nuovo la testa.

“Vattene!” replicò “Lo so perché sei qui! Non ho fame!”

“Io sono qui per stare con te. Ci penserà il signore che sta arrivando a farti mangiare.”

Strabuzzò gli occhi, interdetto. Si era aspettato una risposta diversa e molta più insistenza da parte sua. E invece… sentì le guance scottare, contento che fosse lì soltanto per stare con lui. Magari avrebbe potuto chiedergli di raccontargli la sua favola preferita… Accennò un sorriso; tuttavia l'allusione al signore che stava per arrivare smorzò il suo entusiasmo e lo preoccupò un po’. Di chi si trattava? Forse era uno degli uomini di Hojo. Di sicuro non si trattava di un altro inserviente, non dopo quello che era successo…

“Chi è questo signore?” chiese.

“Lo vedrai.” fu la rapida, elusiva risposta.

Si morse il labbro, intimorito ma sempre più curioso. Fece forza sulle braccia e scivolò leggermente più avanti, i gomiti puntati sul pavimento e i pugni chiusi.

“E quando arriva?”

“Al momento giusto. È puntuale come un orologio. Non sbaglia mai.” rispose Vincent.

Doveva essere un tipo preciso, rigoroso; e Vincent sembrava certo del fatto che sarebbe riuscito a farlo mangiare. Ma lui era stanco dei dottori, delle iniezioni e dei test psicologici. Era stanco di starsene sempre rinchiuso in quella piccola, spoglia stanzetta tutto da solo e di obbedire agli ordini. Voleva vedere il cielo, sentire il sole sulla pelle e giocare all’aria aperta. Voleva essere normale, come i bambini che aveva visto di lontano e di nascosto da una delle finestre del laboratorio. E, soprattutto, non voleva essere il bambino speciale di Hojo.

Sbucò con la testa da sotto il letto e puntò Vincent dal basso. Di rimando l’altro chinò lo sguardo e lo fissò dritto negli occhi. Il rosso di quelle iridi era ancora più caldo di quanto ricordasse; e quasi si sentì in colpa per quanto stava per dirgli.

“Anche se dovesse arrivare, non mangerò.” puntualizzò.

“Chissà...” commentò l’altro, affatto preoccupato; e arricciò leggermente gli angoli della bocca verso l’alto.

Sorrise di rimando, sgusciò fuori dal suo nascondiglio e si alzò in piedi. Tuttavia l’accenno sulle labbra dell’altro si spense in fretta e nei suoi occhi comparve una luce meno brillante. Inclinò il capo e corrucciò le sopracciglia, chiedendosi che cosa gli fosse preso tutto d’un tratto; poi la domanda di Vincent gli schiarì le idee e gli ricordò perché avrebbe dovuto restarsene nascosto sotto il letto.

“Sephiroth…” fece l’altro, scrollando il capo, le spalle “Perché hai colpito l’inserviente?” chiese.

Non lo stava accusando. Né rimproverando. Quella che percepiva nel tono di voce era genuina preoccupazione. Lo sapeva. Eppure davanti a quello sguardo non poteva che sentirsi in colpa. E sbagliato. Perché fra tutti era l’unico che aveva deluso davvero. Ma non poteva farci niente. Non era riuscito a fermarsi, era stato un impulso più grande, più forte di lui; e quando si era accorto di ciò che stava facendo, era ormai troppo tardi.

“Non è colpa mia!” strillò quindi; e s’irrigidì, stringendo i pugni “Gli avevo detto di andare via! Gli avevo detto di riprendersi il vassoio e il suo stupido pollo! Ma lui niente! Mi ha fatto arrabbiare e… e…”

“Stava solo facendo il suo lavoro. Voleva che mangiassi perché si preoccupava per te.”

No! Non voleva ascoltare. Perché se l’avesse fatto avrebbe dovuto dargli ragione e si sarebbe sentito anche peggio. Avvertì gli occhi bruciare, la gola chiudersi e il respiro accorciarsi; mentre le mani di Vincent Valentine si protendevano verso di lui, forse presagendo le lacrime. Le scansò malamente da sé. Non doveva piangere. Perché al professore dava fastidio.

“Non è vero!” lo contraddisse poi, scuotendo furiosamente il capo; e sentì suo malgrado caldo e umido scivolargli lungo le guance “È solo un trucco! Se avessi ubbidito loro mi avrebbero fatto un’altra puntura! È sempre così! E mi guardano e mi toccano! E non mi fanno mai uscire! E…”

Stavolta le braccia dell’altro lo raggiunsero e l’avvolsero in una vigorosa, calorosa stretta. Si divincolò ancora; inutilmente. Di rimando singhiozzò più forte, smise di opporre resistenza e si rifugiò sul petto dell’altro. Si aggrappò alla camicia di Vincent, affondò con il viso fra la stoffa e pianse, pianse. E pianse ancora. Unicamente confortato dalle dita che gli carezzavano la cute, i capelli e quella voce gentile che di tanto in tanto andava a sussurragli: “Ssh”.

Quando si calmò e tornò a sollevare la testa, ad attenderlo c’erano ancora quegli occhi rossi, che lo fissavano dall’alto con tranquillità. Era cosi strano potersi abbandonare all’amarezza quando gli era stato ripetuto di non fare i capricci fino alla nausea… Tirò su col naso, si stropicciò gli occhi ed eliminò i residui delle lacrime.

“Vincent?” fece.

“Mh.”

“Non volevo colpire l’inserviente.” si giustificò infine.

“Lo so.”

Silenzio. Si sentì svuotato. Capito. E pensò che l’indomani avrebbe chiesto scusa all’addetto ai pasti.

“Mi racconti la favola della Principessa Triste?”

Un velo di malinconia intaccò i lineamenti di Vincent. Ciononostante l’altro si posizionò a ridosso della tastiera del letto e gli fece più spazio accanto a sé. Accennò un sorriso e si arrampicò sul materasso. Lo raggiunse e si accoccolò nuovamente sul suo petto, le piccole braccia serrate attorno alla vita dell’altro. Da quella posizione poteva sentire il cuore di Vincent pulsare, forte. Socchiuse gli occhi. Si sentiva così stanco…

“C’era una volta una Principessa bellissima, che viveva in un palazzo nascosto fra le montagne… un giorno ella rivolse la parola ad un soldato, ed egli rimase ammaliato dai suoi occhi, dalla sua cristallina risata. E pensò: “Tutto quello che voglio, è vederla sorridere per sempre”. Ma il soldato non immaginava che il cuore della Principessa fosse colmo di tristezza…”

Cullato da quella voce, da quella presenza rassicurante e dal ritmico pulsare di quel cuore si addormentò; e sognò di una donna bellissima, con un sorriso bellissimo e delle calde braccia che lo stringevano affettuosamente.

Si svegliò più tardi, vittima dei crampi. Fece una smorfia, ignorò il fastidio allo stomaco e cercò d’inseguire le immagini di quel sogno, quasi potesse afferrarle e tenerle per sé. Riaprì gli occhi poco dopo, sconfitto. Vincent lo stringeva ancora a sé; e puntava gli occhi dritti sullo specchio a muro, mandibola contratta. S’inquietò, allorché riconobbe in quello sguardo le cupe sfumature dell’odio. Un attimo soltanto; poi gli occhi rossi dell’altro calarono su di lui e riacquistarono la solita, rassicurante lucentezza. Batté le palpebre, confuso. Tuttavia non fece in tempo a indagare che lo stomacò tornò a brontolargli sonoramente. Istintivamente corrucciò le sopracciglia, le labbra e andò con lo sguardo al vassoio che stava sul comodino. Tanto più che quel fantomatico signore non era più venuto per obbligarlo a mangiare…

“Quel signore non è puntuale per niente.” osservò “È meglio che mangi un po’, mentre lo aspetto.”

Vincent rilasciò un piccolo sbuffo e abbozzò un sorriso. Non capì.

“A quanto pare il Signor Appetito è appena arrivato.” rivelò invece l’altro; e gli fece schiudere le labbra dalla sorpresa.

***
 
Hojo poggiò contro lo schienale della sedia e si rilassò. I suoi occhiali riflettevano sinistramente la luce della stanza attigua. Oltre lo specchio a muro, le cose si stavano svolgendo esattamente come aveva programmato. Nonostante le occhiate di fuoco di Valentine. Non c’era da stupirsene, comunque: i suoi calcoli erano sempre impeccabili. Da quel punto di vista, poi, le menti semplici non lo deludevano mai. Ed era curioso, quasi affascinante, vedere come il pensiero e il comportamento di un individuo variassero a seconda dell’interazione proposta. E il bambino si era nutrito. Chissà, forse fra mostri c’era un’affinità che esulava dalle concezioni puramente scientifiche cui faceva sempre riferimento.

L’assistente sollevò il capo, lo sguardo dalle cartelle che stava compilando alla scrivania lì di fianco e interloquì: “Sta mangiando autonomamente. Incredibile! Sinceramente non credevo che avrebbe accettato il mio consiglio e che avrebbe permesso al Soggetto CG di vedere Sephiroth. Non dopo i due tentativi di fuga.”

Fece una smorfia. Quell’idiota aveva interrotto il flusso dei suoi pensieri; e solo per dar aria alla bocca nella maniera più banale e inutile possibile. Gli aveva dato quel consiglio, certo; ma non si era spinto oltre. Non era approdato a nessuna, geniale intuizione che superasse il mero scopo di sfamare il suo piccolo, disubbidiente figliolo.

Sciocco!” sibilò quindi “Se ci basassimo sempre su vecchi dati e trascorsi risultati non arriveremmo mai da nessuna parte. Ingabbieremmo la nostra mente e chiuderemmo i nostri occhi davanti a chissà quante possibilità. Accontentarsi significa essere ciechi! E un cieco non può scorgere la grandezza che si cela oltre il fallimento! Esso è un limite. E come tale va superato!”

L’assistente distolse lo sguardo, chinò il capo e si schermì subito: “Naturalmente, professore. Stavo solo constatando che lo stratagemma ha funzionato.”

Ghignò. Certo che aveva funzionato. E avrebbe funzionato meglio in seguito. C’era una lezione da impartire e Sephiroth avrebbe dovuto impararla a dovere. Non gli avrebbe permesso di disobbedirgli ancora o di mandare a monte i suoi progetti per lui; e soltanto perché era un piccolo testardo che non comprendeva la fortuna e il grande onore che gli erano toccati. Anzi, che lui gli aveva offerto su di un piatto d’argento. Giocare? Uscire? Ah! Erano tutte sciocchezze, una perdita di tempo. E suo figlio era destinato a grandi cose. A riempirlo di orgoglio e di gloria, tanto per cominciare.

“Tu non te ne andrai, vero? Non scomparirai come ha fatto il Dottor Gast, vero? Promettilo.” fece il bambino, tirando Vincent Valentine per la manica della camicia.

Li osservò quasi con disgusto attraverso il vetro, mentre la sua creatura implorava l’affetto e l’approvazione di quell’inutile Turk. Che smidollato! Che avesse sei anni non importava, ovviamente.

“Te lo prometto.” rispose l’altro; come se fosse la cosa più naturale e ovvia del mondo.

Rise e scosse il capo, come un padre avrebbe fatto dinanzi all’estrema ingenuità dei propri figli. Tuttavia avrebbe permesso loro di crogiolarsi in quella fantasia ancora per un po’. Bastone e carota, dicevano alcuni. Bene, il tempo del bastone sarebbe giunto al momento più opportuno. E li avrebbe colpiti così duramente da trasformare in veleno il dolce ricordo della carota. E Sephiroth avrebbe infine capito; e fatto tesoro delle sue lezioni.
 
Salve. oo' Ok, non saprei che dire. Sinceramente spero che sia decente. Intanto vorrei fare giusto un paio di precisazioni. La prima: Vincent è da immaginarsi in versione Turk. Quindi col capello corto e senza il mantello rosso. Lol. La seconda: Sephiroth è un bambino, ma non è così infantile. Me ne rendo conto. Ciononostante resta un bambino speciale, perciò mi è sembrato naturale dargli delle sfumature un po' più mature. A parte ciò, vorrei precisare che la storia si dipanerà negli anni e che alla fine il nostro argentato raggiungerà i diciotto anni. oo O giù di lì... potrebbero aumentare in corso d'opera. xD 
Ok, credo sia tutto. Per ora la storia mi sembra strana. Non so se è solo una mia impressione! °A° Intanto ho immaginato uno dei possibili finali... e anche questo mi è sembrato strano. oo Sto ancora ponderando, comunque, perché nel caso non sarebbe propriamente un finale dolce. oo'''' Spero che la "stranezza" di questa storia non vi abbia deluso... ^^''' Intanto Hojo li asseconda... cosa avrà in mente? xD Stupido Hojo. <-< (°A° Come osi? Io sono un genio! ndHojo)
CompaH

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Capitolo 3
*** Mostri - Prima Parte ***


Progetto Jenova: 12 anni dopo.

Recuperò la cartella e si avvicinò al contenitore del Soggetto N. La luce proveniente dalla capsula l’accecò. Assottigliò le palpebre e analizzò le condizioni della cavia. Fra i reflussi verdastri del Mako, il bambino galleggiava in posizione fetale, con gli occhi chiusi, le ginocchia ritirate e i piccoli pugni stretti al petto. Si era stabilizzato, constatò, nonostante scure vene si diramassero lungo i suoi arti e sotto la sua pelle, dandogli un’aria quasi malsana. Di tanto in tanto, degli sbuffi di tenebra si manifestavano attorno alle membra nude del bambino. Un fenomeno imprevisto e del tutto sconosciuto che si dissolveva nel breve spazio di un istante.

Arricciò le labbra verso l’alto e fremette; mentre un brivido d’eccitazione gli percorreva la colonna vertebrale. Era interessante. Oltre che completamente inesplorato. Quel piccolo mucchietto d’ossa era forse il clone meglio riuscito della serie. Intanto non era ancora morto, sopraffatto dal CG. Non era resistente come l’originale, né come il Soggetto W; pertanto non avrebbe potuto usarlo come contenitore. Ma aveva sviluppato quel singolare, allettante potere… che gli apriva innanzi un mare di possibilità. Ancora da verificare. Al contempo un risultato degno di nota e uno stimolo per il suo superiore intelletto. Era inarrivabile.

Rise fra sé, immaginando l’invidia di assistenti e colleghi, e appuntò velocemente lo stato del Soggetto N sulla cartella. Per il momento avrebbe continuato a tenerlo in animazione sospesa e a monitorarne ciascuna fase di sviluppo. Non poteva permettersi di perderlo, non dopo gli ultimi risultati ottenuti. Poi l’avrebbe inserito nel Progetto G. Hollander sarebbe rimasto a bocca aperta innanzi al suo genio. E chissà, confrontando un così perfetto esemplare con i suoi scarti di laboratorio avrebbe perfino imparato qualcosa, risollevando la sua mente dal baratro di mediocrità in cui era caduta. Ne dubitava, comunque. Se uno scienziato restava sempre uno scienziato, un ciarlatano restava pur sempre un ciarlatano.

Tornò alla scrivania, illuminata unicamente dal riverbero dei monitor lì disposti, e sedette. Frugò fra le scartoffie del Progetto Omega e recuperò i dati relativi al Soggetto CG. Il suo adorato Vincent Valentine. Sfogliò la cartella e si soffermò sui risultati degli ultimi test; dopodiché recuperò il registratore vocale dal primo cassetto della scrivania e se lo portò alle labbra, acceso.

“Deprivazione del sonno. Deprivazione sensoriale. Deprivazione dei bisogni elementari. Negativo.” recitò, scorrendo le righe del rapporto “Il Soggetto, pur riscontrando i relativi sintomi psicologici, ne subisce gli effetti fisici, quali stanchezza, disidratazione, indolenzimento, solo in parte e per breve periodo. In maniera pittoresca, il fenomeno potrebbe quasi definirsi una sorta di “incapacità a morire”. La creatura ospite, Chaos, sopperisce laddove il Soggetto raggiunge il limite, ripristinando le normali funzioni vitali. A tal proposito, mi accingo nuovamente a valutarne i tempi di reazione tramite stimolazione elettrica.”

Spense il registratore e lo poggiò sul piano. Poi, ammantato d’infida calma, si sistemò gli occhiali sul naso e rivolse le iridi ai monitor. Le inquadrature mostravano il laboratorio sotterraneo, ripreso da diverse angolazioni. Al centro della stanza stava il tavolo operatorio, su cui giaceva supino Vincent Valentine, trattenuto da robuste, spesse cinghie. Un utile e indispensabile accorgimento per un animale. Una bestia dissennata, per la precisione.

Nella penombra dell’ambiente le membra nude dell’altro apparivano pallide, quasi fragili. Sbattute dalla luce della lampada scialitica, svilite dalle cicatrici e dagli elettrodi che gli ricoprivano il busto, le braccia e le gambe. Avrebbe potuto apparire prostrato, sconfitto e assoggettato alla sua mente superiore. Eppure negli occhi rossi che lo fissavano di rimando attraverso le telecamere s’agitava un fuoco indomito e imperituro. Uno sguardo che non aveva mai visto in nessun’altra delle sue cavie, nemmeno negli occhi di giada di suo figlio. Uno sguardo che lo raggiungeva, lo trafiggeva nonostante l’altro non potesse affettivamente vederlo. E che lo rendeva speciale. Perché quella che vedeva non era né paura, né speranza, né una tacita e vana supplica. No. Era qualcosa di più profondo, di più pericoloso. Una promessa, forse.

Si umettò le labbra, fremette; e il desiderio di fargli del male lo colse impreparato. Voleva vederlo contorcersi, voleva sentirlo urlare. Voleva piegarlo. E non perché la scienza glielo imponesse, in qualità di dazio per la conoscenza. Era una questione… personale. E ammetterlo gli comportò sforzo. E una buona dose di frustrazione. Dannato Vincent Valentine!

Tuttavia sapeva che quell’inutile, sporco Turk non avrebbe emesso un suono. Non subito, almeno. Ottuso e ostinato come sempre, considerò scuotendo la testa. Eppure avrebbe dovuto saperlo: resistergli era inutile. E doloroso. Perché in un modo o nell’altro otteneva sempre ciò che voleva. Come quando quella stupida donna aveva fatto la sua scelta. Confortato da ciò, arricciò le labbra in un sogghigno sghembo e abbassò la leva del macchinario. Di rimando lo schermo proiettò la figura di Vincent Valentine che s’incurvava, sbatteva e si attorcigliava, mentre le cinghie gli affondavano nella pelle e gli tagliavano la carne.

“Com’è?” chiese, assottigliando le palpebre e godendo di quello spettacolo “Che cosa si prova? Desiderarla… arrivare a un passo da essa, sfiorarla, assaporarla. E non poterla avere.” rise, rise ancora e si beò della sottile ironia insita in quelle parole “A quanto pare scegli sempre l’amante sbagliata. E perfino la Morte ti rifugge, Valentine.”
 
***
 
Strinse i denti e sibilò di dolore, muovendosi lentamente lungo il corridoio. La testa sembrava volergli scoppiare e la schiena gli faceva male da impazzire, pulsava e bruciava a ogni minimo movimento, rendendogli difficile stare in piedi e camminare. Tuttavia aveva rifiutato la sedia a rotelle. Poteva farcela, anche se le gambe gli tremavano. Si soffermò, rilasciandosi con la spalla lungo la parete, si portò la bottiglietta alle labbra e prese un altro, lungo sorso d’acqua. Dopo la rachicentesi doveva sempre ripristinare il liquor spinale. E starsene a letto, supino; a fissare il soffitto della sua piccola, asettica stanzetta. La sola idea gli rivoltò lo stomaco. E per poco non ricacciò i liquidi che aveva appena ingerito. Un altro effetto collaterale della puntura lombare, considerò.

Sollevò lo sguardo e osservò l’assistente che l’accompagnava. L’ultima volta che gli avevano estratto il Liquido Cefalorachidiano era stato Vincent ad accompagnarlo. E gli aveva tenuto la mano per tutto il tempo. La persona che gli stava accanto in quel momento, invece, non aveva fatto altro che fargli tediose lezioni sulla procedura, descrivendogli passo passo definizioni, finalità, esecuzione e controindicazioni. Tutte cose che conosceva meglio di lui. Ed ora, mentre lo scortava in camera, continuava a leggere appunti e analizzare dati, con la testa sprofondata nel suo taccuino. Senza degnarlo d’attenzione.

“Perché Vincent non è qui?” domandò; e quello quasi sobbalzò, forse preso alla sprovvista.

L’assistente sollevò la testa dagli appunti, batté le palpebre e lo fissò stranito.

“V-Vincent?” chiese, dandogli l’impressione di non sapere di chi stesse parlando “Ecco… Oh, ma certo! Vincent. È impegnato altrove, con il Professor Hojo.” soggiunse l’altro; e tornò ai suoi dati.

Arricciò il naso e fece una smorfia. Che voleva quel vecchio da Vincent? Sorseggiò nuovamente dalla bottiglietta e riprese il cammino. L’assistente gli andò dietro, senza nemmeno guardare dove metteva i piedi. L’adocchiò di sottecchi finché raggiunsero la diramazione. Dopodiché, invece di girare a sinistra, imboccò il corridoio di destra, sul cui fondo spiccava l’uscita d’emergenza. L’altro nemmeno se ne accorse e continuò nella direzione prestabilita e verso la sua stanza. Idiota.

Allungò il passo. O almeno ci provò, mettendo quanta più distanza possibile fra sé e l’assistente in questione. Dopotutto si sarebbe accorto a breve della sua assenza. Molto probabilmente avrebbero entrambi passato dei guai a causa di quella bravata; ma non gli importava. Voleva vederlo. Voleva vedere Vincent; e sentire il tocco rassicurante di quelle dita sulla sua mano. Soltanto così si sarebbe fatto una ragione di quel tormento. Del dolore pulsante alla schiena, della nausea, della cefalea e degli arti così intorpiditi da dargli la sensazione che presto o tardi sarebbero caduti e finiti in pezzi.

Strinse i denti, raggiunse l’uscita di sicurezza e imboccò le scale. Non sapeva dove andare e per un attimo la paura prese il sopravvento, facendogli riconsiderare l’eventualità di tornare in camera e di sdraiarsi come da indicazioni. Ricacciò i dubbi, si ancorò disperatamente al corrimano e scese lentamente, dolorosamente i gradini che gli si profilavano innanzi. Raggiunse il piano inferiore e si fermò a riprendere fiato. Bevve ancora; poi fece per aprire la porta e addentrarsi nel piano. Tuttavia vociare e rumori di passi lo costrinsero a ritrarsi e a nascondersi nell’ombra, dietro la porta. Quest’ultima s’aprì e due inservienti imboccarono le scale, risalendo lì da dov’era venuto. Il cuore gli arrivò direttamente in gola, certo che se l’avessero scoperto l’avrebbero riportato immediatamente in camera. Per poi chiamare il professore.

Si fece più piccolo, finché i due scomparvero al piano di sopra. Riprese a respirare. Raggiunse l’uscio, si sollevò sulle punte e si sporse a guardare oltre la piccola finestrella che stava sulla porta. Aggrottò le sopracciglia quando incappò in uno scenario che poco aveva a che vedere con i corridoi luminosi, bianchi e asettici cui era abituato. Semplicemente, oltre regnava il caos. Sul pavimento c’erano macerie, detriti, porte divelte, mobilio fatto a pezzi. E ogni superficie era sfregiata da profondi, irregolari solchi.  Degli operai stavano sgombrando l’area, caricando le scorie su una carriola. Che cosa era successo?

Incuriosito schiuse la porta e sgusciò oltre, nascondendosi dietro un grosso cumulo di macerie. Poco più in là due assistenti supervisionavano ai lavori, parlottando fra loro. Tese le orecchie.

“…diventa sempre più forte. E più aggressivo. Quel… quel mostro! Non si può andare avanti così. La settimana scorsa ha sorpassato tre porte a tenuta stagna ed è arrivato fin quassù. Mi vengono i brividi solo a ripensarci. Io c’ero e l’ho visto. Ha disseminato il panico fra i dipendenti e ha ucciso tre persone …” stava dicendo uno di loro.

“Mi hanno detto che è stato impossibile distinguere i resti gli uni dagli altri.” commentò l’altro, scrollando il capo e le spalle “Quell’Hojo si crede un genio, ma è solo un pazzo. Un megalomane visionario. Mi da la nausea. Vedrai che presto o tardi il Presidente Shinra si stancherà di lui e smetterà di finanziare le sue ricerche. O di scucire Gil per riparare a tutti questi danni!”

Batté le palpebre, tralasciò i due e appuntò lo sguardo sul varco che conduceva al sotterraneo. Qualunque cosa fosse passata da lì, considerò, aveva divelto una porta a tenuta stagna di almeno trenta centimetri. Schiuse le labbra, incuriosito, stupito. E anche un po’ ammirato. Deglutì e si guardò attorno, valutando la posizione di operai e assistenti.  Voleva scendere di sotto, saperne di più. Voleva vederlo con i suoi occhi, il mostro. Che avesse ucciso tre persone lo spaventava un po’; ma nessuno meglio di lui poteva comprendere il desiderio di libertà, il bisogno di fuggire da quel posto. Dalle iniezioni, dai dottori, dai laboratori che puzzavano di disinfettante. A qualunque costo.

Sentì gli occhi pungere, ma ricacciò lo sconforto. Non gli serviva. Si morse il labbro inferiore, invece, e manifestò la propria impazienza; poi, inaspettatamente, uno degli assistenti propose all’altro la pausa caffè. Li seguì con lo sguardo, mentre si allontanavano. Aspettò che anche gli operai si spostassero con la carriola carica e sgusciò oltre il proprio nascondiglio, dritto verso il passaggio che s’apriva sul sotterraneo.

Il buio e l’umidità l’accolsero. Discese la scalinata il più velocemente possibile, certo che almeno gli addetti ai lavori sarebbero presto tornati. Lo sforzò lo sfinì. Inciampò nei suoi stessi, stanchi piedi e ruzzolò sugli ultimi tre scalini. Atterrò di sedere e gemette, mentre scariche di dolore si propagavano dalla schiena a tutto il resto del corpo; tuttavia piantò i palmi, le ginocchia a terra e si rialzò ostinatamente.

Forse non sarebbe riuscito a vedere Vincent, a sentire il tocco rassicurante di quelle mani, il tono caloroso di quella voce… ma sarebbe sceso e avrebbe scoperto cosa gli altri nascondevano lì sotto. Doveva farlo. Lo sentiva. Pertanto strinse i denti e proseguì lungo il corridoio che si stendeva alla base della scalinata. Il ronzio dei neon accompagnò il suono dei suoi passi; mentre la luce illuminava il cammino a tratti e solo a intermittenza. Cercò sostegno e poggiò la mano contro il muro, incappando nei segni impressi sulla parete. Ne delineò la traiettoria con i polpastrelli e li analizzò attentamente. Sembravano profonde, decise artigliate. Ciò non lo scoraggiò, anzi. Acuì la sua determinazione e lo spinse ad affrettarsi.

Poco dopo un boato riecheggiò lungo il corridoio. E poi un altro e un altro ancora. Le vibrazioni si propagarono lungo i muri e lo raggiunsero, strappandogli un sussulto. Non sapeva di cosa si trattasse, ma l’avrebbe scoperto. Si diresse da quella parte e tese le orecchie ai rumori, il fiato corto e il cuore a mille nel petto. Ancora tonfi, schianti e… si concentrò al massimo e riconobbe in quel suono le sfumature bestiali di un ringhio. Il mostro! Dunque era lì che lo tenevano rinchiuso.

Spiccò la corsa, sibilò di dolore e incespicò nei propri piedi una, due volte, rischiando di finire lungo disteso. Mano a mano che si avvicinava gli schianti si facevano sempre più forti, più frequenti e andavano a contundergli l’udito, le membra… e il cuore, comunicandogli l’impellente desiderio di fuggire. Di liberarsi da quella prigione fatta di pietra e acciaio. E ciò che percepiva nel verso disumano di quell’essere non era forse rabbia?  Sì. Molta. Esuberante, incontenibile. Disperata. Gli si strinse il cuore a sentirlo; perché lo capiva molto più di quanto gli piacesse ammettere.

Raggiunse la porta a tenuta stagna che il fiato gli mancava. Le membra invece gli tremavano a causa dello sforzo e del dolore. Gemette e si sentì quasi svenire, ma persistette. Allungò il braccio e poggiò la mano sul freddo metallo di quell’ingresso, chiedendosi se l’altro potesse sentirlo. Percepirlo, comprenderlo e afferrare quanto li accomunava. Dall’altra parte il mostro impattò contro la superficie e sotto il suo tocco. Sgranò gli occhi, schiuse la bocca e rifuggì il contatto, ritraendo l’arto e facendo un passo indietro. Seguirono altri colpi, più violenti dei primi. Il metallo s’incurvò, si dilatò, finché cedette come burro. Degli artigli si fecero spazio fra le lamiere e disegnarono sulla porta varchi paralleli fra loro. Sgomento e vagamente intimorito scorse degli occhi gialli fissarlo di rimando attraverso le fessure. La creatura emise un basso, sordo ringhio che poco aveva a che vedere col ruggito rabbioso che l’aveva investito in precedenza; e gli sembrò di percepire del cordoglio. Spinto da ciò tornò ad avvicinarsi, ad allungare il braccio; e sfiorò gli artigli conficcati fra le lamiere come fosse la cosa più naturale del mondo. Dopotutto era così che Vincent gli donava conforto…

Il mostro fremette e si ritrasse come se l’avesse scottato. E ruggì. Ruggì così forte che per un attimo pensò avrebbe buttato giù tutto il sotterraneo. Incespicò all’indietro, perse l’equilibrio e cadde a terra, mentre le sfumature nel verso cambiavano e divenivano man mano meno vibranti, meno bestiali. Quasi umane.

L’istante successivo calò il silenzio; e si accorse di aver sudato freddo. Deglutì e riprese fiato, incapace di muoversi. Dall’altra parte pervennero fruscii e lamenti. Batté le palpebre, confuso. Che cosa era successo? Si alzò, combattendo contro la stanchezza e il dolore sempre più pulsante. Raggiunse nuovamente la porta e si sollevò sulle punte dei piedi, deciso a sbirciare attraverso i varchi impressi nel metallo.

Si accorse dei passi troppo tardi; e qualcuno gli artigliò il braccio. Serrò le palpebre e squittì, colto alla sprovvista, mentre veniva strattonato via. Sentì le gambe cedere, ma la morsa attorno all’arto gli impedì di cadere. Riaprì gli occhi e sollevò lo sguardo. Il professore lo stava fissando dall’alto con i suoi piccoli, pungenti occhi. Il biasimo trapelava chiaro dai suoi aspri tratti, dalla bocca piegata verso il basso alle sopracciglia severamente aggrottate. Nel suo sguardo, invece, si leggeva irritazione e un pizzico di disprezzo.

“Ah! Mi sembrava di aver sentito un ratto quaggiù!” esordì l’uomo; e quella voce stridula gli arrivò dritta al cervello.

Serrò le labbra, piantò i piedi a terra e cercò di divincolarsi. Di conseguenza l’altro rafforzò la stretta. Non si arrese.

“Dov’è Vincent?” sputò, accigliandosi a sua volta.

Gli occhi di Hojo lampeggiarono d’ira, come se quella domanda l’avesse schiaffeggiato in pieno volto. Non se ne stupì, comunque. Tuttavia l’attimo dopo il sogghigno tornò a delinearsi sulle labbra dello scienziato, rendendolo decisamente più inquietante. E infido.

“Che ragazzino sfrontato.” osservò l’altro, trascinandolo lungo il corridoio “Ti piace gironzolare, vero? Dev’essere perché sei giovane e pieno di energie. Oltre che totalmente sconsiderato. Ma tu non dovresti essere qui.” sottolineò “Dovresti essere a letto, a riposare. Il tuo organismo ne ha bisogno e io non ho intenzione di mettere a repentaglio il tuo glorioso futuro.”

Scosse la testa. Non gliene importava niente di quali erano o non erano le intenzioni di Hojo. Né del futuro di cui stava blaterando. Puntò i piedi, tirò e cercò di scansare quelle dita con l’altra mano.

“Che cosa c’è lì dentro? Perché lo tenete rinchiuso?” strillò, sordo agli ammonimenti impliciti.

Non ottenne risposta, soltanto la lancinante sensazione di essere dilaniato da quelle dita ossute e adunche.

“Hai una mente vivace, Sephiroth. Me ne compiaccio davvero.” continuò Hojo; e il suo sguardo si fece più affilato “Eppure il rispetto ti manca del tutto. Ma non temere, ci penserò io. Il Presidente Shinra ha manifestato il suo interesse per te. E sono sicuro che fra i ranghi dei SOLDIER imparerai il significato della parola deferenza. E ora ascoltami bene…”

L’altro lo strattonò nuovamente, s’incurvò su di lui e lo costrinse a fissarlo dritto in faccia.

“Tu non mi deluderai, ragazzino. In nessun modo. Sei destinato alla grandezza. Ce l’hai nel sangue. Perciò questa è l’ultima volta che mi disubbidisci. È chiaro?”

Aggrottò le sopracciglia e lo fissò con astio; ma la paura era più forte dell’odio.

È chiaro?” reiterò l’altro, senza sciogliere di un minimo la tenaglia che gli dilaniava le carni.

“Sissignore.” rispose infine, abbassando la testa; e Hojo ritrasse finalmente la mano, lasciandogli evidenti segni rossi sul braccio.

“Ora torna in camera tua e resta a letto. Se ti trovo qui sotto un’altra volta a piagnucolare sciocchezze su Vincent Valentine, stai pur certo che non ti permetterò di vederlo mai più.” concluse lo scienziato; e si allontanò.

A quella minaccia sentì gli occhi pungere, il fiato mancargli. Si sentiva a pezzi, nel corpo per via delle punture, nello spirito per via di quella resa incondizionata. E ora quell’uomo infieriva anche dov’era più vulnerabile: nei sentimenti. Era troppo. La rabbia l’invase. Strinse i pugni, serrò i denti e immaginò di saltargli addosso, di strappargli la giugulare a morsi e di osservarlo mentre si dissanguava rantolando sul pavimento. Di rimando l’adrenalina gli scivolò lungo tutto il corpo, in ogni fibra, in ogni cellula…
…poi lo sguardo triste di Vincent gli balenò alla mente e si sentì in colpa anche solo per aver concepito un simile pensiero. Non doveva lasciarsi andare. No. Perché se c’era un mostro in quella struttura, quello era lui: il professore.
 
Non ho idea di come sia venuto fuori. oo''' Questa storia continua a essere "particolare", come dice la cara One Winged Angel! xD Perciò boh. oo' Ditemi voi. Sono accettate anche le critiche, ovviamente. Qualsiasi cosa per migliorare. >////< Intanto ho cambiato un po' di cose negli eventi di FF. Lol. Spero che siano modifiche gradite. ùù''' A parte ciò... siate clementi! °A°
Alla prossima! 
CompaH

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Capitolo 4
*** Attrazione ***


Progetto Jenova: 17 anni dopo.

L’ennesima scarica di dolore lo colse impreparato, percorrendogli il braccio per tutta la lunghezza. Sgranò gli occhi, strinse l’arto al petto e si piegò in due sul letto. Boccheggiò, senz’aria, e s’irrigidì tutto, con la faccia premuta contro le lenzuola; mentre ogni fibra muscolare, ogni cellula di quelle membra sembrava contrarsi, dilatarsi e squarciarsi dall’interno. Come se qualcosa si agitasse al di sotto della sua pelle e premesse per uscire, mordendo e graffiando. Una sensazione che non gli era nuova. Odiata e temuta al contempo. Deglutì, serrò i denti, gli occhi e trattenne strenuamente il lamento che gli era salito alla bocca. Sperando che quel tormento cessasse in fretta. Prima che Sephiroth tornasse, almeno.

Man mano il dolore scemò in un sordo indolenzimento. Di rimando rilassò le membra, sciolse la morsa dei denti e riprese a respirare, affannato. Aveva sudato freddo; e l’umidità gli si era attaccata addosso come un sudario, sulla fronte e lungo la schiena. Batté le palpebre, deglutì una, due volte; ma non trovò la forza per rimettersi a sedere. E dire che era abituato al tormento…

Portò le dita al braccio in questione e si arrotolò la camicia fin sopra il gomito, ponendosi in contemplazione di ciò che la stoffa nascondeva. Era peggiorato ulteriormente, scoprì. L’arto era livido, malsano e ricoperto di grosse vene sporgenti che gli dilatavano la pelle fino allo spasmo, dandogli l’impressione che presto o tardi sarebbero esplose per ricacciare putridume. E tremava. Convulsamente. Provò a stringere il pugno, a piegare il gomito, ma tutto ciò che ottenne fu altro dolore, altri spasmi. In quelle condizioni dubitava di poterlo usare, tanto più che lo percepiva torpido… come se non gli appartenesse più. Un disturbo sconosciuto, forse degenerativo, che Hojo aveva trovato molto interessante dal punto di vista scientifico. E non solo. Probabile che stesse osservando anche in quel momento, godendo della sua sofferenza.

Ricoprì il braccio e appuntò meticolosamente i bottoni del polsino. Sephiroth non doveva vederlo. Si rimise faticosamente a sedere, si scansò i capelli dal viso, dal collo e, per quanto possibile, cercò di riacquistare il suo solito contegno. Lo sforzo comportò altro sudore. Si asciugò con l’ausilio della mano buona e puntò la porta della stanza. Ancora niente. Sospirò, in attesa; e il silenzio si stiracchiò per minuti che parvero infinti. Lentamente si rilasciò contro la parete accanto al letto, sfinito dal dolore, sopraffatto dalla quiete e dalla solitudine. Socchiuse le palpebre e si concesse un po’ di riposo.

Il rumore di passi lo strappò dal dormiveglia. Sentì la porta girare sui cardini e riaprì gli occhi. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso, ma si costrinse a scacciare il torpore e a distaccarsi dalla parete. Diresse lo sguardo da quella parte e incappò nella figura di Sephiroth, che si stagliava sull’uscio della stanza. Impeccabile nella divisa da SOLDIER. Ammorbidì i tratti del viso. L’altro invece schiuse le labbra e sfoderò un’espressione sorpresa. Poi accennò un sorriso; che gli morì sulle labbra l’istante successivo. Di rimando corrucciò le sopracciglia e si domandò cosa avesse spento il suo entusiasmo. Rifuggiva persino il suo sguardo, si accorse, e se ne stava rigido sulla soglia della stanza senza emettere suono. Si era fatto ancora più alto, più robusto dall’ultima volta che si erano visti. E i capelli gli scivolavano lungo la schiena e ben oltre i fianchi alla stregua di una cascata argentata. Indubbiamente sembrava più adulto della sua età. Eppure quando si comportava così tornava automaticamente  il bambino introverso di un tempo, chiuso in  pensieri che gli maceravano l’animo poco per volta e sempre più a fondo.

“Che cosa è successo?” domandò.

Sephiroth s’irrigidì ulteriormente. Poi scosse la testa e sfoderò un sorriso affettato. Talmente diverso dal piccolo, spontaneo accenno di poco prima da fargli male.

“Non credevo di trovarti qui.” disse l’altro, senza tuttavia guardarlo in faccia “Dicevano sempre che non c’eri, che eri impegnato… così ho smesso di chiedere di te. E invece eccoti. Immagino che potrei definirla ironia della sorte… a cosa devo l’onore?”

Abbassò lo sguardo e accolse l’acredine in silenzio. La comprendeva, dopotutto. Non aveva la possibilità di uscire a piacimento; ma l’altro non poteva immaginare dove e come avesse speso il tempo, avvertendo semplicemente la sua mancanza. Accusò una fitta al petto.

Tuttavia sapeva che stava cercando di eludere la domanda, di usare freddezza e risentimento per schermirsi. Per tenerlo a distanza. Un’impeccabile maschera, degna del più ammirato fra i SOLDIER. Efficace con i commilitoni, con il presidente Shinra e, chissà, magari anche con quel verme di suo padre. Ma non poteva ingannare lui. C’era qualcosa che non andava e ne ebbe la conferma quando notò il sangue sulla divisa. Che fosse… ferito? Avvertì una stretta alla bocca dello stomaco. Si alzò di scatto e gli andò incontro. Troppo improvvisamente; e il braccio sinistro tornò a pulsargli dolorosamente. Strinse i denti e l’ignorò. Raggiunse l’altro, invece, e allungò la mano buona per controllarne le condizioni.

“Sei ferito. È stato Genesis? Non devi per forza rispondere alle sue provocazioni.” disse.

Il ragazzo si discostò con freddezza. Poi sollevò gli occhi su di lui, inclinò il capo e sfoderò un sogghigno sprezzante. Uno sfregio su quel viso armonioso.

“Sei il solito ingenuo…” commentò; e d’improvviso tutto divenne chiaro.

Fece un passo indietro. A ben vedere non c’erano ferite, non c’erano strappi sulla stoffa. Semplicemente quello non era il sangue di Sephiroth; e le chiazze rosse sulla divisa dell’altro spiccavano come un’inequivocabile ammissione di colpevolezza. Perché? Sprofondò nuovamente in quelle iridi di giada, in cerca di risposte; e il ragazzo chinò il capo, sfuggente.

“È quello che vogliono da me.” spiegò; e scrollò le spalle con noncuranza “Non importa se due soldati sono morti. Non importa se era solo una dimostrazione. Devo essere il migliore. Sono il migliore. Non posso deludere le aspettative.”

“Essere il migliore non vuol dire infierire sui compagni d’addestramento.” ribatté.

Sephiroth strinse i pugni, sollevò il capo e lo fissò con rabbia. Come quando era bambino. Non mutò espressione.

“Non è colpa mia! Erano Second Class addestrati! Avrebbero dovuto difendersi meglio e non dimostrarsi così deboli, inadeguati. Così… inferiori. Non sono responsabile dell’incapacità altrui!” sbottò; e lesse nei suoi occhi, fra le fiamme dell’ira, anche le chiare sfumature dell’incertezza. Non si stupì quando il ragazzo cominciò a muoversi furiosamente per la stanza e addusse ulteriori questioni, più verosimilmente scuse; dandogli l’amara sensazione che cercasse di convincere se stesso in primis. “Il Presidente Shinra è rimasto molto impressionato. Diverrò Generale e andrò a Wutai. Guiderò un intero esercito, sederò la ribellione e diverrò un eroe! Perfino il professore è soddisfatto dei miei progressi. I compagni mi ammirano, mi rispettano e...”

“Ti temono. Non è la stessa cosa. Non si può considerare compagno qualcuno che ti reputa inferiore.” lo interruppe, mantenendo il tono calmo, ma perentorio “La strada che stai percorrendo è in salita, senza uscite. E solitaria.” l’ammonì; ma sapeva che l’altro ne era già consapevole, perché la frustrazione che gli usava contro parlava per lui “Sei sicuro che è questo che vuoi?”

Sephiroth s’arrestò, come folgorato, ma la domanda sfumò nel silenzio. Ciò gli riportò alla memoria lei. Lucrecia. E il giorno in cui aveva imboccato il vicolo cieco che l’aveva distrutta. Erano passati quasi sedici anni da allora, eppure gli sembrava che fosse accaduto solo ieri. Ricordarlo gli provocò un’altra fitta al petto, mentre tutti i dettagli tornavano ad affollargli la mente. Vividi. Intatti. Dolorosi. La luce che filtrava dalle vetrate, tagliante; il lungo tavolo rettangolare che li separava; la silenziosa, inquietante presenza di Hojo… e loro due, uno di fronte all’altra, che nemmeno riuscivano più a guardarsi negli occhi. E per un attimo gli sembrò di trovarsi lì. Deglutì.

In quell’occasione non si era dimostrato all’altezza della situazione. Non aveva detto o fatto abbastanza per lei; e l’aveva guardata autodistruggersi. Strinse i pugni e sentì la rabbia nei confronti di se stesso crescergli in corpo, mentre pensava che un simile peccato meritasse ogni scarica elettrica, ogni bisturi piantato nella carne e ogni ora passata al buio della cella sotterranea.

No. Non poteva permettere che il ragazzo lì di fronte affrontasse pari destino. E Sephiroth era così simile alla donna che aveva amato da togliergli il fiato ogni volta che rivedeva in lui le stesse espressioni, gli stessi atteggiamenti. Lo stesso, fragile animo. Disperso in chissà quali, velenosi ragionamenti di cui lui poteva solo immaginare l’entità. Eppure, com’era stato in passato per Lucrecia, desiderava unicamente vederlo sorridere…

“Suppongo che sia giusto così.” commentò improvvisamente l’altro; e quasi gli sembrò di ascoltare uno dei vaneggiamenti di Hojo “Io non sono come loro. Sono meglio di loro. E il cammino che conduce alla gloria non è di certo alla portata di tutti. Sono destinato a grandi cose, non posso tirarmi indietro. Perché se c’è qualcuno che può risalire la china, quello sono io.”

Non era una risposta. Era un concetto preso in prestito, ascoltato chissà quante volte fin da bambino e ripetuto all’occorrenza come adagio. Come se una simile affermazione potesse chiudere la questione, giustificare qualsiasi azione. O eliminare le opzioni. Fremette, mentre l’odio si mescolava alla rabbia e andava a consumarlo: quell’omuncolo senz’anima doveva essere davvero molto orgoglioso della sua creazione, considerò.

Allungò il braccio sano e poggiò la mano sulla spalla di Sephiroth. Il ragazzo s’irrigidì; poi, lentamente, sollevò gli occhi e finalmente ricambiò il suo sguardo. Non c’era più rabbia in quelle iridi, né incertezza; soltanto consapevolezza e un pizzico d’accettazione. E i tratti del suo viso erano tornati immoti, in una fredda maschera d’impeccabilità. Mai come allora gli sembrò distante.

“Non devi dimostrare niente a nessuno, Sephiroth.” disse “Non devi essere per forza chi non vuoi essere. Sei libero di scegliere. C’è un mondo fuori da questo laboratorio. Fuori da SOLDIER, lontano dalla Shinra. Un mondo dove puoi incontrare persone nuove. Né dottori, né militari. Dove puoi fare esperienze diverse. Essere diverso.” continuò; e strinse le dita sulla spalla dell’altro, quasi potesse infondergli il concetto tramite il semplice contatto “Devi solo essere te stesso. Osare e afferrare quanto desideri.” concluse; e abbozzò un sorriso.

Era difficile, dopo anni passati in ambiente circoscritto. La prospettiva poteva perfino spaventare. Ma Sephiroth era grande abbastanza per rivendicare la libertà, allargare i suoi orizzonti e decidere con la propria testa; e di sicuro aveva tutti i mezzi per farlo.

Lentamente la maschera dell’altro s’infranse e le labbra di Sephiroth s’incurvarono timidamente, genuinamente verso l’alto, mostrando uno stralcio di quel ragazzo che si nascondeva sotto la facciata del futuro Generale dei SOLDIER. E di quel bambino che aveva visto crescere. Ciò lo rasserenò e quasi lenì le sue sofferenze; poi l’altro coprì la distanza che li separava e l’abbracciò con una naturalezza che non aveva niente a che vedere con le battute iniziali di quell’incontro. Automaticamente rilasciò il fiato, sollevò il braccio buono e ricambiò la stretta, avvolgendogli le spalle. L’aveva quasi raggiunto in altezza, notò.

“Mi sei mancato.” ammise Sephiroth.

“Anche tu.” ribatté.

Seguì un attimo di silenzio, senza che l’altro accennasse a staccarsi. Anzi, sentì chiaramente le sue dita avvinghiarsi alla camicia. Non si scompose.

“Vincent?”

“Mh.”

“Non volevo uccidere quei Second Class.” confessò quindi.

“Lo so.”

Non poteva considerarsi un incidente. Ma contrastare determinati impulsi era pressoché impossibile; specie se sotto pressione. Ne sapeva qualcosa. E di sicuro Hojo non si preoccupava delle conseguenze quando usava il figlio come meglio preferiva, come esperimento, come macchina da guerra o come semplice strumento per accrescere il proprio ego. Se c’era un responsabile, quello era lo scienziato; e la rabbia tornò a macerargli dentro. Di rimando il braccio tremò più violentemente. Serrò la mandibola, s’irrigidì e cercò di contrastare il dolore. Sephiroth si distaccò e lo guardò dritto negli occhi, interrogativo. Finse indifferenza; o almeno provò: non voleva, non doveva metterlo a parte di determinate questioni. Specie quando era già così turbato. Sentì il sudore imperlargli la fronte e per un attimo pensò che l’avrebbe scoperto; poi il ragazzo gli fece una richiesta improvvisa e del tutto inaspettata.

“Mi racconti la favola della Principessa Triste?”

“Sei grande per le favole.” ribatté.

“Hai ragione.” convenne l’altro, squadrandolo da capo a piedi “Ma riesce a calmarmi. E tu hai bisogno di sederti. Stai sudando.” soggiunse.

Si concesse un piccolo sbuffo. Era troppo sveglio. Annuì e raggiunse il giaciglio. Si accomodò, poggiò la schiena contro la tastiera del letto e gli fece spazio. L’altro si sdraiò accanto a lui come quand’era piccolo, gli avvolse le braccia attorno alla vita e si appoggiò contro il suo petto, in ascolto. Iniziò a raccontare, confortato dalla sua presenza. Ciononostante rivangare il passato non era mai facile…

“…la tristezza nel cuore della principessa era così profonda che tutto intorno a lei divenne fiele. Ma il soldato era troppo stupido, troppo innamorato per accorgersene. Così il signore del castello si fece avanti. Il soldato pensò: “Se lei è felice, non m’importa.” Ma il sorriso non illuminò più il volto della principessa, perché gli abiti nobiliari del suo sposo nascondevano lo spietato Ragno Tessitore. Egli imbastì la sua tela, attese… e al momento più opportuno affondò le lunghe, adunche zampe. E la ingoiò...”

Le parole erano come pugnalate, s’accorse. S’interruppe suo malgrado, fremette e si passò la mano sul viso, mentre il nodo gli si stringeva alla gola e i sensi di colpa tornavano ad angosciarlo. Gli sembrò di soffocare. Deglutì, cercando di scacciare quella sensazione; inutilmente. Sephiroth rafforzò la stretta delle braccia.

“Non mi hai mai raccontato la fine della storia.” osservò, senza muoversi “Il soldato riesce a sconfiggere il Ragno?”

Chinò il capo e non rispose. La partita era ancora aperta e nemmeno lui poteva conoscerne l’esito. Ma di una cosa era certo: Hojo avrebbe pagato per tutto il male che aveva fatto. In un modo o nell’altro.

Inaspettatamente il ragazzo protese la mano e gliela passò sulla gota, discostandogli dal viso una lunga ciocca di capelli. Batté le palpebre, sorpreso, e abbassò lo sguardo. Sephiroth lo fissava di rimando dal basso coi suoi penetranti occhi di giada, in una maniera che non aveva mai usato prima. Intensa. E quasi gli sembrò che potesse leggergli dentro. S’irrigidì.

“Sono cresciuti così tanto…” notò l’altro, senza ritrarre le dita. Invece seguì con le iridi ciascuno dei suoi lineamenti, indugiò in una carezza e soggiunse: “Cinque anni. Sembrano un’eternità. Sono cambiato molto nel frattempo. Mi sono alzato di cinquantotto centimetri. Sono diventato un uomo e un First Class SOLDIER.” sottolineò “Ma tu… tu sei sempre lo stesso. Intatto. Come una bellissima fotografia.”

Quell’ultima precisazione lo colse fra capo e collo, alla stregua di una doccia gelida. E quando notò lo sguardo dell’altro calare e soffermarsi sulle sue labbra l’impulso d’allontanarsi divenne addirittura preponderante. E la domanda gli si delineò spontanea nella mente: “Dove aveva sbagliato?” Boccheggiò, nuovamente senz’aria, e scivolò via dal contatto, desideroso d’alzarsi e ripristinare le distanze. Sephiroth invece l’agguantò per ambo le braccia e lo trattenne alla tastiera del letto. Il dolore che gli risalì lungo l’arto sinistro per poco non lo fece svenire. Ondeggiò, gemette e puntò il ragazzo che aveva di fronte. Nei suoi occhi trovò un mare d’amarezza.

“Hai detto che dovevo osare! Hai detto che dovevo afferrare quanto desideravo!” gli rinfacciò.

“Questo è diverso.” ribatté; e sibilò di dolore.

“Perché?!” incalzò Sephiroth, stringendo la morsa; poi scosse il capo, ritrasse le dita e abbassò il tono di voce “Ti ricordi quel giorno? Avevo sei anni. Mi infagottasti in una coperta e mi portasti fuori. Per una passeggiata, dicesti. Uscimmo dal vano di smaltimento rifiuti. Ci tenemmo lontani dalle strade, dalle zone affollate. Non mi permettesti di togliere la coperta nemmeno per un momento. Ma i soldati ci trovarono. Ricordo che mi spaventai a morte. Eppure quando restai solo nella mia stanza il mio pensiero andò unicamente al cielo, al vento e ai prati verdi che non avrei assaporato. E di cui tu mi avevi così a lungo parlato.” scosse la testa e sfoderò un sorriso amaro “Ero troppo piccolo per capire. Ma ora so che non si trattava di una passeggiata.” continuò; e si umettò le labbra, facendosi più determinato “L’hai detto tu stesso. C’è un mondo fuori da questo laboratorio. Lontano da SOLDIER, dalla Shinra. Possiamo scappare. Insieme, come un tempo.”

Spaziò con lo sguardo sui lineamenti di Sephiroth; sulle sopracciglia corrucciate, sulla bocca piegata verso il basso, in una linea triste, e in quegli occhi dall’iride serpentina che gli si rivolgevano colmi di speranza. Amava tutto di lui. Ogni, insignificante dettaglio. E lo amava dalla prima volta che l’aveva visto, nascosto dietro il camice di uno degli assistenti come un animaletto selvatico. Era il suo primo pensiero quando apriva gli occhi e l’ultimo prima di chiuderli. Era la ragione che lo spingeva a resistere, a combattere quando sarebbe stato più facile e meno doloroso abbandonarsi a ciò che gli si agitava in corpo. E spegnersi, consumato dall’ira e dal desiderio di rivalsa di Chaos. Lo amava in una maniera impossibile da esprimere a parole. E di sicuro come avrebbe fatto un genitore. Eppure Sephiroth non era suo figlio. E non lo considerava suo padre. E per quanto la sola idea di ferirlo lo facesse impazzire, ciò che l’altro desiderava da lui era…

“Sephiroth…” sospirò e scosse la testa, senza che potesse trovare le parole giuste per spiegargli.

Semplicemente non poteva corrispondere alle aspettative. Il suo cammino s’era interrotto anni addietro, mentre quello dell’altro doveva ancora cominciare. Perfino condurre un’esistenza normale, fuori dalla cella sotterranea e fra la gente comune, gli sembrava impossibile. E ingiusto. Erano troppe le persone morte a causa sua. E lasciare il laboratorio significava metterne a repentaglio delle altre: e c’era soltanto un uomo che meritava i suoi artigli. Sephiroth invece aveva l’opportunità di rifarsi una vita lontano da tutto quello squallore, a dispetto del terribile esperimento che l’aveva creato, rendendolo vittima della scienza e dei suoi stessi genitori. Un segreto che avrebbe serbato per entrambi. E per l’eternità, se necessario. Questo e altro pur di saperlo sereno. E felice.

Il silenzio si dilungò e nell’altro lesse le chiare sfumature della delusione. L’istante successivo Sephiroth si ritrasse, abbandonò il letto e prese a lisciarsi le pieghe della divisa con estrema freddezza. Di rimando abbandonò la tastiera del letto e tornò a sedere sul margine del materasso, gli occhi puntati sulla schiena dell’altro. Poi la porta si spalancò e uno degli assistenti fece il suo ingresso, cartella alla mano.

“Siamo pronti per il controllo di routine. Da questa parte.” annunciò.

Senza né voltarsi, né accomiatarsi, Sephiroth raggiunse il dottore, uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. In qualche modo, considerò mentre si massaggiava il braccio dolorante, sperò che avrebbe capito… e che prima o poi sarebbe tornato a sorridergli.
 
***
 
Scosse la testa, si passò la mano sul viso e si aggiustò gli occhiali, trattenendo l’incredulità e l’ilarità crescente. Attraverso lo specchio osservò suo figlio abbandonare la stanza. Poi appuntò gli occhi su Valentine, ancora seduto sul letto e prostrato dal dolore, dalla stanchezza. Sciocco Turk. Si adagiò sullo schienale della sedia e scosse le spalle, convulsamente. E rise. Rise di gusto, pensando ai vani sforzi dell’altro. E all’ironia della situazione. Tuttavia trovava abbastanza seccante che quella bestia cercasse in tutti i modi di sabotare i suoi gloriosi progetti, blaterando assurdità sul futuro di suo figlio. Come se esistesse di meglio, poi. E c’era mancato poco che Sephiroth gli desse credito, trasportato dalla vergognosa attrazione nei confronti del Turk. Una svolta inaspettata, pericolosa; e una piega malata che avrebbe raddrizzato quanto prima. Se fosse stato possibile, l’avrebbe qualificata come una tara genetica ereditata da quella donna. Peccato che all’epoca non avesse potuto scegliere con maggiore cura la fattrice, valutò, mentre abbandonava la scrivania e si appropinquava alla porta.

Ciononostante non riuscì a reprimere il rammarico quando considerò che se uno dei due soggetti fosse stato femmina avrebbe potuto ottenere tramite naturale concepimento degli esemplari comprensivi sia di Cellule Jenova, sia di Chaos Gene. Potenzialmente: gli esseri più forti e inarrestabili del Pianeta. Anzi no, dell’intero universo! Il tutto senza l’ausilio d’instabili procedimenti destinati a fallire al minimo errore. Il solo pensiero di poter mettere le mani su embrioni così pregiati gli provocò brividi per tutto il corpo, di già disperso in ragionamenti e relativi progetti di ricerca. Ritornò alla realtà che stava girando la maniglia della porta: un risultato così grandioso non avrebbe mai visto la luce.

Ciò spense completamente eccitazione e ilarità in favore della sola irritazione. Imboccò il corridoio, costeggiò la stanza attigua e si diresse ai laboratori del settore C, bisognoso d’impegnare la mente altrimenti. Almeno finché Sephiroth non avesse terminato i controlli di routine. Svoltò alla prima diramazione e incappò in Vincent Valentine, attorniato da quattro soldati e da due assistenti. Lo stavano riportando di sotto, considerò. Che sfortunata coincidenza… Ricambiò distrattamente il cenno di saluto degli altri e si concentrò unicamente su di lui. Sogghignò, mentre lasciava scorrere le piccole, pungenti iridi sul braccio sinistro dell’altro. Doveva fargli male da impazzire; e lui non vedeva l’ora di scoprire cosa sarebbe successo al termine di quel singolare, sconosciuto processo. A volte anche i vecchi esperimenti potevano riservare interessanti soprese…

“Sephiroth se n’è andato.” esordì, mellifluo “È cresciuto bene, sa quali sono i suoi doveri, le sue responsabilità. È un ragazzo di cui essere orgogliosi.” continuò; e gli occhi di Valentine lampeggiarono d’ira “Ciononostante trovo increscioso e abbastanza ridicolo che uno scampolo d’uomo senza alcun diritto cerchi d’inculcargli simili assurdità. Di minare il suo senso d’obbedienza e di lealtà alla Shinra… A me.” sottolineò.

“Tu non hai idea di cosa sia la lealtà.” ribatté l’altro, la bestia.

Rise di lui, sprezzante. Sapeva benissimo cos’era. E ne faceva volentieri a meno, preferendo usare quella degli altri a proprio vantaggio.

“Ah! Sei davvero ingenuo come dice Sephiroth, Vincent Valentine!” commentò; poi scrollò le spalle, sogghignò maliziosamente e soggiunse “Non trovi che sia ironico? Desideravi così tanto quella donna. E il figlio nato dai suoi lombi ti desidera nella stessa maniera. Se avessi aperto le gambe per lui sono certo che avresti ottenuto più risultati, comunque. Non sarebbe stato un po’ come la coronazione di un vecchio sogno d’amore?”

Continuò a ridere, ritrovando il buonumore nell’umiliazione dell’altro; e fece per allontanarsi.

“Tu…!” accennò invece Valentine; ma stavolta uno dei soldati lo zittì subito, assestandogli il calcio del fucile nel costato.

L’ex-Turk ondeggiò e si piegò sotto la violenza del colpo, ma non emise suono. Né distolse lo sguardo, specchio di un antico e primordiale desiderio. Dubitò che avesse sentito l’impatto. E che le minacce del soldato potessero spingerlo a muoversi. Di rimando s’irrigidì; e si sentì improvvisamente preda. Il sorriso sprezzante che aveva stampato in faccia sì congelò, forzatamente ostentato per mascherare l’inquietudine, e il suo cervello iperattivo calcolò subito le probabilità. Con sgomento si accorse che non c’erano barriere fra lui e Vincent Valentine. Nessuna, spessa cinghia a trattenerlo, nessuna porta a tenuta stagna che potesse arrestarne l’impeto. Eccetto la carne da macello costituita da soldati e inservienti. Labile protezione. Aveva commesso un errore, ammise con sommo sforzo.

L’organismo reagì di conseguenza. Il battito del cuore gli invase addirittura le orecchie, impellente e assordante. Il respiro gli si accorciò e il sudore l’avvolse da capo a piedi, gelido. Deglutì, mentre le gambe gli si facevano molli. Poi l’altro ignorò le guardie, scattò in avanti e gli arrivò addosso in una manciata di secondi. Istintivamente chiuse gli occhi ed emise un verso stridulo; finché impattò contro la parete del corridoio e ricacciò il poco fiato rimastogli tutto in una volta. Annaspò, agitando i piedi per aria; e si accorse di essere a diversi centimetri dal pavimento. Squittì, portò le mani al collo e cercò di liberarsi dalla stretta soffocante, ma le sue gracili, vecchie membra poco potevano contro la forza disumana dell’altro. Sentì urla, percepì scossoni, ma l’unica cosa chiara restò la mancanza d’ossigeno. Schiuse gli occhi, batté le palpebre e cercò di mettere a fuoco. Mentre la morte sopraggiungeva, incappò negli occhi rossi di Vincent Valentine... e qualcosa di caldo, di umido andò a bagnargli le brache.

Poi l’altro urlò, si ritrasse; e uno dei soldati riuscì a toglierglielo di dosso. Cadde al suolo, tossì, sputò e cercò per quanto possibile di riprendere aria, attorniato dagli assistenti e dalle urla quasi animalesche di Vincent Valentine. Diresse lo sguardo da quella parte, tremante, e osservò l’altro contorcersi al suolo; mentre il suo braccio sinistro s’allungava, s’inspessiva e s’anneriva fino ad assumere fattezze bestiali. Con sgomento e interesse al contempo seguì la metamorfosi dell’arto, mentre le unghie di Valentine divenivano artigli, si conficcavano nel pavimento e scavavano profondi solchi. In qualche modo, considerò, l’ospite stava affermando la sua presenza e rivendicando il possesso di quel corpo. Pezzo dopo pezzo. Si sistemò gli occhiali, si riavviò i capelli e si concentrò sulla cavia…
…ma l’odore d’urina lo richiamò all’attenzione. Abbassò lo sguardo e notò la chiazza scura che gli si allargava all’altezza del cavallo, sui pantaloni. Avvampò d’imbarazzo e andò freneticamente con le iridi dagli assistenti ai soldati; e su ognuno dei loro volti gli sembrò di distinguere lo scherno. Uno fra essi gli si avvicinò e gli tese perfino la mano, offrendogli aiuto per rimettersi in piedi.

“Tutto bene, professore?” chiese il giovane.

Stava ridendo! Stava ridendo di lui, ne era certo. Poteva fingere che non fosse così, ma lui sapeva che dentro stava mettendolo alla berlina. Ed era tutta colpa di Vincent Valentine! Si alzò, scansò l’assistente dalla traiettoria e corse oltre, chiudendo frettolosamente i lembi del camice per nascondere la propria vergogna.

“Portatelo via! Portate via il Soggetto CG! Chiudetelo di sotto e buttate via la chiave!” strepitò, dirigendosi verso il suo ufficio.

Quello sporco, inutile Turk aveva segnato la sua condanna. Non gli serviva più. Gli avrebbe strappato la Protomateria dal petto e l’avrebbe lasciato a marcire lì sotto per l’eternità, dietro spessi muri di pietra e porte a tenuta stagna. Dopotutto aveva pensato a quella soluzione anni addietro; ed era giunto il momento di impartire a Sephiroth l’ultima e più importante lezione di vita: mai legarsi. 
 
Salve. oo Dunque... che dire? L'avvertimento c'era, ed ecco che lo shonen-ai viene fuori. Spero di aver reso la situazione chiara, anche perché la tensione fra tutti è palpabile. E molto contorta. È una pentola che sta per scoppiare. Lol. O almeno è un po' l'idea che vorrei rendere... Naturalmente non sono convinta, al solito! ^^'' Chiedo venia. >-< Perciò se c'è qualcosa che secondo voi non va, fatemelo pure notare! °A° Anche perché il Sephiroth adolescente e con gli ormoni a mille è stato difficile da rendere! °AAAA° Intanto ringrazio tutti quelli che credono in me. >-< Grazie. Grazie davvero. Non potete nemmeno immaginare quanto vi reputi preziosi!
Alla prossima!
CompaH

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Capitolo 5
*** Illusioni ***


Piantò i gomiti e si protese rigidamente sulla scrivania, mentre i dati proiettati dai monitor lì disposti gli si riflettevano sugli occhiali: non credeva alle sue orecchie! Inarcò le sopracciglia, assottigliò le palpebre e serrò le dita sulla cornetta.

“Devo forse ricordarti chi è che comanda qui dentro?!” strepitò; l’ottusità della bassa manovalanza riusciva a irritarlo persino più dell’insubordinazione in sé “Sei pagato per eseguire i miei ordini, perciò se ti dico di murare l’entrata del sotterraneo, tu e la tua squadra di operai murate l’entrata del sotterraneo! È chiaro?!” sputò, retorico, mentre dall’altro capo del telefono piovevano ulteriori, irrilevanti pretesti “Non m’interessa se hanno paura!” replicò quindi, spiccio “Il punto è che siete un branco di pusillanime! Ti sorprenderebbe sapere quant’è alta la percentuale d’incidenti sul lavoro e a quanto ammonta il tasso di mortalità sui cantieri! E non mi sembra che per questo abbiano smesso di costruire palazzi! Perciò o fai quello che ti ho detto oppure sei licenziato! Siete tutti licenziati!”

Ciò puntualizzato, riabbassò violentemente la cornetta; e per poco non fece volare il telefono giù dalla scrivania. In compenso un folto fascicolo si schiantò al suolo con un tonfo e una miriade di fogli si sparpagliò tutt’attorno. Non se ne curò. Schioccò le labbra, si rilasciò contro la sedia e fece scivolare i denti gli uni sugli altri, stizzito. Da quando aveva estratto la Protomateria dal petto di Valentine la situazione era diventata tesa. E instabile. A maggior ragione urgeva rafforzare le fondamenta e chiudere definitivamente ogni accesso ai sotterranei; e invece si ritrovava costantemente costretto a combattere contro l’inettitudine e la codardia di chi lo circondava. Ovviare era impossibile. Di certo non avrebbe potuto sopprimere il problema con una più semplice e letale iniezione…

“Non vuoi proprio lasciarmi in pace, vero, Valentine?” mugugnò fra sé; e appuntò lo sguardo sulla sfera luminosa che teneva in bella vista sul piano “Ma non poteva essere altrimenti…” continuò, scuotendo dolentemente la testa “Sei ostinato… come lo sporco. Lo sei sempre stato. Meglio. Perché non ho ancora finito di ringraziarti per il simpatico scherzetto.” stabilì; e ammorbidì l’espressione.

Allungò il braccio, allargò le dita e afferrò la Protomateria. Il cuore di Vincent Valentine. Quasi ne percepì il vigoroso, intenso battito; e tenerla in mano gli provocò una soddisfazione e un senso di potere assoluti. Lo aveva in pugno. Sogghignò e si rigirò il trofeo fra le dita, mentre osservava come rapito il brillante microcosmo all’interno della Materia. E per la prima volta nella vita trovò estremamente affascinante qualcosa che esulasse dai suoi meri risultati scientifici. Deglutì, assaporando l’attimo. O l’illusione, realizzò d’improvviso; e il dolce sapore della vittoria divenne bile. Storse le labbra in un’aspra smorfia mano a mano che la realtà si concretizzava nella sua mente, crudele: l’aveva torturato, l’aveva recluso, gli aveva strappato il cuore dal petto, l’amore e perfino la speranza… Eppure Vincent Valentine non aveva vacillato neppure una volta. Non davanti a lui. Né aveva riconosciuto la sua indubbia superiorità. E i suoi occhi l’avevano sempre guardato con odio. E disprezzo.

Al solo pensiero di quelle iridi rosse un brivido gli scivolò lungo la schiena, ricordandogli strenuamente l’umiliazione che gli era stata inflitta solo qualche giorno prima. E il terrore che aveva provato allorché aveva visto la propria fine nello sguardo penetrante dell’altro. Una sconfitta in piena regola che gli bruciava nell’orgoglio alla stregua di una fiamma viva; e che alimentava la sua vecchia e insensata ossessione nei confronti di quella bestia. Gli bastava chiudere gli occhi per rivederlo, compassato ed elegante nel completo scuro da Turk, il primo giorno che si era presentato alla Shinra Mansion come guardia del corpo. Il figlio di Grimoire Valentine. Alto, giovane, avvenente. Così innamorato di quella stupida femmina. E particolarmente irritante per tutti gli argomenti sopra elencati. Ma nemmeno sparargli dritto al petto era servito a qualcosa.

Serrò le dita sulla Protomateria fino a farsi sbiancare le nocche. Sì. Voleva, doveva piegarlo. A tutti i costi. E quando nei suoi occhi avrebbe letto la resa e lo stesso terrore che aveva provato, l’avrebbe infine dimenticato. Se ne sarebbe liberato, come aveva fatto con tutti gli altri esperimenti falliti che gli erano passati per le mani. Una prospettiva che l’allettava e lo tranquillizzava al contempo.

Qualcuno bussò alla porta e interruppe il flusso dei suoi pensieri. Sobbalzò e appuntò lo sguardo sull’ingresso dell’ufficio, chiedendosi chi fosse lo scocciatore che osava disturbarlo in un frangente così… intimo. Probabile che si trattasse dell’ennesimo inetto. Fra assistenti e colleghi c’era solo l’imbarazzo della scelta. Non si premurò di rassettare, né di riporre la Protomateria; semplicemente schiuse svogliatamente le labbra e pronunciò un breve e secco: “Avanti.”

L’uscio s’aprì e la figura di suo figlio si stagliò austera nella penombra del corridoio. Batté le palpebre, sorpreso; poi, inevitabilmente, sorrise. Era arrivato, finalmente! E poteva immaginare cosa l’avesse spinto lì: forse l’ultimo posto del Pianeta in cui avrebbe voluto trovarsi. Tralasciò il fastidio, si rilassò sulla sedia ed esortò il ragazzo ad avvicinarsi con un cenno della mano. C’erano delle questioni da sistemare, dopotutto.

“Buongiorno, professore…” fece l’altro, entrando e dimostrandogli deferenza.

“Che sorpresa! Il quasi Generale SOLDIER. Credevo che fossi ripartito.” mentì di rimando.

Sephiroth raggiunse fluidamente la scrivania e si fermò a pochi passi da essa, composto nella posa da SOLDIER. Ne analizzò le fattezze. Con la schiena dritta, il capo eretto e il petto in fuori appariva semplicemente perfetto: un modello per gli altri e un vanto per lui. Sì, aveva fatto un ottimo lavoro; e sistemata la sua vergognosa, malata fissazione avrebbe potuto considerare l’opera finalmente conclusa.

“Infatti, il congedo è terminato. Sono di partenza. Volevo solo salutare un vecchio amico…” continuò il ragazzo; non stava parlando di lui, ovviamente, ma ciò non lo turbò, né lo sorprese “…mi è stato detto di chiedere a lei, così...”

Sephiroth esitò; e si accorse che stava fissando la Protomateria, con le labbra leggermente schiuse e l’aria assorta. Intuito o pura coincidenza? Quale che fosse la risposta, sapeva che l’altro si faceva sempre troppe domande. Non si scompose, ma rinsaldò istintivamente la presa, quasi l’altro potesse infine capire e strappargli la preziosa sfera dalle mani. Non glielo avrebbe permesso, comunque, perché quel particolare ninnolo gli apparteneva e gli era a dir poco indispensabile, come coronamento del Progetto Omega in primis… e come simbolo di supremazia in secundis. Forse proprio per questo trovò che sventolarla sotto l’ignaro naso di suo figlio fosse stranamente elettrizzante, oltre che divertente. Peccato che dilettarsi non rientrasse nei suoi principali e più imminenti scopi; pertanto si costrinse a scacciare l’ilarità e a riportare l’attenzione sull’argomento che, lo sapeva, premeva a entrambi molto più.

“Suppongo che si tratti di Vincent Valentine.” osservò quindi, distrattamente, come se non gl’importasse; e nel farlo  carezzò un’ultima volta la lucida superficie della Protomateria.

L’improvvisa menzione spinse Sephiroth a infrangere l’attenti e a spostarsi da un piede all’altro. Non si lasciò sfuggire quel dettaglio. Assottigliò le palpebre, aguzzò la vista e si concentrò sul restante linguaggio del suo corpo. L’espressione del First Class non era cambiata di una virgola, ma di certo il precedente gesto era stato dettato dall’irrequietezza. Perché Valentine era il nervo scoperto di Sephiroth. La sua deprecabile debolezza.

“Capisco.” proseguì, aprendo il primo cassetto della scrivania e riponendovi la preziosa Materia; poi appuntò lo sguardo dritto negli occhi verdi di suo figlio “Ma tu non sei più un bambino, Sephiroth.” puntualizzò “Dovresti lasciarti alle spalle le vecchie, infantili abitudini e puntare unicamente al futuro che t’aspetta. A essere troppo indulgenti con se stessi si finisce inevitabilmente col diventare indolenti. E certe distrazioni potrebbero influire sul tuo rendimento, sul tuo giudizio. Perciò... ”

Distrazioni…?” l’osservazione di Sephiroth tagliò il discorso alla stregua di un coltello.

Stavolta il ragazzo non si mosse, ma percepì il disappunto serpeggiargli direttamente sottopelle. Poteva intravederlo nella luce intensa e pungente dei suoi occhi, o nelle piccole e quasi impercettibili rughe che gli si erano formate sulla fronte, alla base del naso e ai margini della bocca, in quel momento distesa in una linea forzatamente neutra. Una malcelata smorfia che esprimeva più di quanto l’altro intendesse. E che ne rivelava tanto il disaccordo quanto l’estrema immaturità. Ma l’avrebbe spinto alla ragione, in un modo o nell’altro. Indurì l’espressione, distaccò la schiena dalla sedia e incrociò le mani innanzi a sé, protendendosi lentamente, infidamente sulla scrivania.

“I legami sono pericolosi.” insistette “Ingabbiano la mente, stroncano lo spirito, instillano dubbi e scrupoli ancora peggiori. Sono il più grande limite che possiamo imporre a noi stessi, Sephiroth.” spiegò; e si concesse un sogghigno sprezzante “I migliori non hanno bisogno di simili sciocchezze. Non se vogliono raggiungere la grandezza.”

L’altro non commentò. Strinse i pugni, invece. E dalla scrivania sentì chiaramente i suoi guanti di pelle contrarsi e crepitare. Si stava scaldando, considerò. Ma non c’era da preoccuparsi: lo conosceva fin troppo bene e sapeva come tenerlo a bada. Sephiroth doveva solo metterlo alla prova. E servirgli su di un piatto d’argento il pretesto per ritorcergli contro quanto ne infiammava l’animo in quel momento: l’amore e la fiducia nei confronti di Vincent Valentine. Dopotutto l’acciaio più pregiato doveva essere arroventato, battuto e raffreddato senza esitazioni per essere temprato alla perfezione. Era una mera questione di fisica…

“Con tutto il rispetto, professore, non le stavo chiedendo un parere.” ribatté Sephiroth, rigido sulle sue posizioni “Quindi, dato che sa perfettamente perché sono qui, facciamo un favore a entrambi. Mi dica dove posso trovare Vincent Valentine e chiudiamo la questione. Sono certo che ha molto da fare.”

Il sogghigno impresso sul suo viso s’allargò.

“Mi vedo costretto a rifiutare la gentile offerta, quasi Generale.” rispose; e lasciò che la negazione sortisse il suo effetto.

Sulle prime Sephiroth batté unicamente le palpebre, probabilmente sorpreso da quel dire beffardo; e quasi pensò che non avrebbe contestato. Poi, semplicemente, il ragazzo scosse il capo, arricciò le labbra verso l’alto e gli rivolse un’occhiata maliziosa, mostrando uno stralcio di ciò che celava dietro la maschera. Sephiroth coprì i passi che lo separavano dalla scrivania. Lentamente, fluidamente pose ambo i palmi sul piano e si protese a sua volta verso di lui, puntandolo dall’alto con le sue penetranti iridi serpentine. Di rimando i capelli gli scivolarono lungo il collo e oltre le spalle, fino a toccare il tavolo. Sembrava un Dio pronto al giudizio, considerò. Suo malgrado, deglutì.

“È sempre così, non è vero?” chiese il ragazzo “Fin da quando ero bambino… qual è il suo problema, professore?” la luce negli occhi di Sephiroth si fece più fredda, più tagliente; di rimando s’irrigidì, ma non distolse lo sguardo, né si ritrasse “Perché non vuole che lo veda? Perché le da così fastidio? Tutta quest’opposizione nei confronti di un solo uomo… o forse dovrei dire interesse? In questo caso le faccio notare che il suo fervente impegno nel mettermi in guardia acquisisce le inequivocabili sfumature della gelosia.”

Sgranò gli occhi, preso alla sprovvista, mentre l’insinuazione lo colpiva nell’orgoglio alla stregua di un maglio. Boccheggiò e si sentì vulnerabile. Umano. No! Era una sporca calunnia! Lui non provava simili, ottuse pulsioni! E in ogni caso per nulla che esulasse dalla pura e mera scienza. Era al di sopra di determinati concetti, di mere distrazioni che avrebbero potuto annebbiargli il cervello e mettergli unicamente i bastoni fra le ruote. Mai come il quel frangente il sorrisino supponente di suo figlio l’irritò. Nemmeno se ne accorse che balzò in piedi e gli assestò un manrovescio dritto in faccia. Sephiroth voltò il capo, mentre il rumore dello schianto sfumava nel silenzio e un sordo, intenso formicolio gli pervadeva il braccio fin dentro le ossa. Era duro come il marmo. Si portò l’arto al petto e trattenne ostinatamente i gemiti di dolore. Prima ancora di tornare a fronteggiarlo, il ragazzo mosse le iridi serpentine e lo fissò di sbieco, attraverso le lunghe ciocche di capelli che gli erano finite sul viso. Il sorriso era scomparso dal suo viso, ma ciò non lo rassicurò. Anzi. Avvertì lo stomaco accartocciarsi su se stesso e si fece indietro; tuttavia cozzò contro la sedia e cadde nuovamente a sedere. Avrebbe potuto strillare, ma fortunatamente per lui la frustrazione surclassava di gran lunga la paura.

“Impertinente!” l’apostrofò infatti, cercando piuttosto di darsi un contegno “Per un attimo il portamento e la divisa mi avevano ingannato… Ma sei rimasto l’ingrato e il piccolo stupido che s’infilava sotto il letto! Ignaro di quanto fosse fortunato! Guardati! Sei arrivato dove sei solo grazie a me! Dovresti baciare il suolo su cui cammino e invece mordi la mano che ti ha sfamato per anni!” sputò.

L’altro si sistemò meticolosamente i capelli e la divisa, indifferente alle accuse. Eppure, quando tornò a puntarlo, avvertì le sfumature della tempesta nella calma ostentata. Una sensazione che s’insinuava subdolamente sottopelle e che gli faceva rizzare i peli del corpo, caricandolo d’anticipazione.

“Glielo chiedo un’ultima volta, professore… Dov’è Vincent?” domandò il ragazzo, se possibile con freddezza anche maggiore.

Lo stava minacciando! Trasalì per l’ardire; ma, contrariamente alle aspettative di Sephiroth, ignorò i campanelli d’allarme, si portò la mano al  viso, scosse il capo e rise. Rise di lui, della sua sicurezza, della sua noncuranza; pronto a spazzarle via e a insegnargli innanzi tutto un po’ di rispetto. Poteva essere dotato di una mente analitica e di un corpo sovrumano, di sicuro faceva troppe domande e coglieva un mucchio di dettagli scomodi, ma fino a prova contraria era ancora lui a tenere il coltello dalla parte del manico. E Sephiroth era solo un ragazzino arrogante e pieno d’illusioni che sottovalutava la portata del suo punto debole.

“Se n’è andato.” ribatté quindi; e ritrovò parte della propria calma nel tremito involontario che percorse le sopracciglia di suo figlio.

Il silenzio seguì l’affermazione, pesante; e gli sembrò che l’altro avesse addirittura trattenuto il respiro. Patetico. E prevedibile. Come lo smarrimento che doveva governarlo in quel momento, dacché messo faccia a faccia con una situazione imprevista ma tutt’altro che sconosciuta, probabilmente temuta. Dopotutto, quando Gast aveva abbandonato il Progetto Jenova, Sephiroth aveva piagnucolato per giorni alla stregua di un ordinario bambino.

“Non… non è vero.” negò il ragazzo, scuotendo anche la testa; ma sapeva che il dubbio e il timore stavano già consumandolo.

Si sistemò gli occhiali sul naso e sedette più compostamente alla scrivania, nuovamente padrone di sé. Tutto quello che doveva fare era fornirgliene prova incontestabile e il resto si sarebbe sistemato di conseguenza. Era sempre stato bravo a giocare con la debolezza altrui. Paura, vergogna e sensi di colpa potevano rivelarsi delle vere e proprie forze motrici, se abilmente solleticate. Forze capaci di rendere possibile l’impossibile. Come indurre alla compiacenza una donna altrimenti refrattaria, ad esempio. E Sephiroth era così simile a sua madre, così fragile, così succube delle emozioni da non avere scampo. Non contro di lui.

“Oh, sì, invece.” sottolineò; e sfoderò un sorriso mellifluo “Proprio ieri mattina si è presentato nel mio ufficio e mi ha riferito di una situazione… imbarazzante.” fece una pausa, dandogli il tempo di assimilare il concetto, di realizzare le implicazioni; e vide gli occhi del First Class dapprima sgranarsi e poi rivolgersi altrove, forse per l’imbarazzo, di sicuro per la consapevolezza “Mi ha detto di essersi sentito molto a disagio.” continuò; e infierì in tranquillità, con tutta l’intenzione d’imprimergli il concetto a fuoco nella coscienza “Per questo mi ha chiesto di essere trasferito in un altro dipartimento. Puoi ben capire che non ho potuto ignorare le sue ragioni. Né prendere le tue difese. Come posso dire…” fece, fingendo di cercare le parole più adatte “Da qualunque punto la si guardi, ti sei comportato in maniera avventata. E inopportuna.” disse infine, tornando a poggiare contro lo schienale della sedia.

Lasciò andare le iridi sull’elegante figura di suo figlio e verificò il risultato delle sue affermazioni. Nuovamente sull’attenti, in silenzio, con lo sguardo basso e l’espressione spenta, Sephiroth appariva finalmente spoglio dell’insolenza che tanto l’aveva irritato. Era deluso, amareggiato. Sfiancato nello spirito. E pronto a ragionare, se non a corrispondere alle aspettative. Doveva soltanto umiliarlo un altro po’ e la vergogna, la rabbia avrebbero fatto il resto. E c’era soltanto una persona che avrebbe potuto biasimare, per questo: se stesso. O in alternativa Valentine. Era semplicemente geniale!

“Capisco che non t’interessi conoscere il mio parere.” riprese in tono più accondiscendente, quasi accorato “Sei giovane, forte e sicuro di te. Ma la troppa sicurezza spesso porta a commettere passi falsi. Perciò lascia che ti dica una cosa… ” si umettò le labbra “Questa situazione sgradevole, questa svista, non riguarda soltanto te. Ci mette tutti in grande imbarazzo.” sottolineò “Che cosa direbbe il Presidente Shinra? Cosa penserebbero i tuoi commilitoni? Riderebbero di te. Se solo sapessero diventeresti lo zimbello di tutta SOLDIER.” scosse la testa, dolente; poi lo guardò dritto negli occhi “Stai per compiere grandi imprese. Andrai a Wutai, sederai la ribellione, diverrai un eroe e lascerai un segno indelebile nella storia. Sarai un modello da seguire. A maggior ragione non puoi concederti il lusso di sbagliare. O di renderti ridicolo. Devi comportarti come si conviene e ci si aspetta da un leader. Vuoi forse che si dica che il Generale dei SOLDIER non è un vero uomo?”

La domanda sfumò senza risposte; e il silenzio imperversò a lungo, unicamente rotto dall’intenso respiro di Sephiroth. Non vi badò, né gli riservò ulteriori ammonimenti. In fondo aveva già colpito nel segno, lì dov’era più vulnerabile; e difficilmente avrebbe potuto impartirgli insegnamento più efficace. In futuro l’avrebbe ringraziato. Perciò afferrò una delle tante cartelle che stavano sulla scrivania e finse di concentrarsi sui dati ivi trascritti, come se il resto non esistesse più.

“Se non c’è altro, puoi andare.” lo congedò infine, freddamente; e recuperò anche la stilografica dal taschino del camice.

Sfogliò distrattamente le pagine del rapporto e aspettò di sentire i passi dell’altro allontanarsi, certo che non l’avrebbe più deluso e che sul campo di battaglia avrebbe saputo come meglio sfogare il vigore giovanile. Tuttavia non percepì movimenti; e l’unico suono che gli arrivò chiaro alle orecchie restò il respiro di suo figlio, sempre più impellente, quasi affannoso.

“Lui… Vincent…”

Sollevò gli occhi sul First Class e lo trovò nella stessa identica posizione, a capo chino oltre la scrivania. Il petto gli si alzava e gli si abbassava a una velocità incredibile, notò. Un fenomeno imprevisto, sconosciuto e dalle cause ignote che non riuscì a catalogare. Inarcò il sopracciglio, sospettoso, mentre l’altro si portava la destra al petto e stringeva, sulla divisa.

“…ha detto qualcos’altro?” domandò il ragazzo, fra un respiro e l’altro “Qualcosa… per me?” specificò.

Non tentennò.

“Niente di particolare.” rispose “Dopotutto per lui era solo lavoro.”

Il silenzio seguì l’affermazione, greve; eppure immaginò perfettamente la stilettata decisiva che aveva appena affondato nel petto dell’altro, lì dove stringeva le dita. Se possibile, Sephiroth sbiancò ulteriormente.

“Con permesso.” fece quindi il ragazzo; e gli voltò le spalle per raggiungere la porta.

Lo seguì con iridi attente, senza capire. Fece spallucce. Aspettò che uscisse e che si richiudesse l’uscio alle spalle; poi lasciò andare i dati che teneva fra le mani e tornò al cassetto della scrivania, lì dove aveva nascosto la Protomateria. Fece appena in tempo ad aprirlo che percepì un sonoro tonfo fuori dalla porta. Che cosa era successo? Scansò la sedia e si alzò. Percorse a grandi falcate l’ufficio, pestando fogli e fascicoli, schiuse l’uscio e guardò oltre la soglia. A terra, accasciato lungo il corridoio, stava Sephiroth, in un bagno di sudore, col respiro affannoso e la mano disperatamente stretta al petto. Per la prima volta in vita sua, accusò un tuffo al cuore: il suo prezioso esperimento!

***
 
“Attacco di panico!?” l’esclamazione di Genesis l’investì; l’altro cercò anche di affiancarlo, ma non glielo permise e proseguì spedito per la sua strada “Cioè… A te? C’è da spanciarsi! Hai sentito, Angeal? A quanto pare il qui presente futuro Generale conosce la paura!”

Genesis rise. Angeal no. Ignorò entrambi e continuò a camminare per il corridoio del quartier generale di SOLDIER, il capo eretto e lo sguardo fisso innanzi a sé. Voleva soltanto chiudersi in camera e restare da solo. Si sentiva svuotato, ancora stordito; e l’ultima cosa che desiderava era discutere di determinate questioni con i suoi amici. O presunti tali. A questo punto non sapeva più cosa pensare, cosa credere vero e cosa falso. Come distinguere. Non poteva più fidarsi nemmeno di se stesso, delle sue percezioni. E intanto il dubbio lo tormentava, lo confondeva e l’annientava, proiettando ombre tutt’attorno. Ma se la realtà restava ambigua e insidiosa, di certo c’era il dolore. Il tormento era stato così vivo, così acuto da strappargli il fiato direttamente dai polmoni. E quando il giorno prima era uscito dall’ufficio di Hojo aveva temuto di morire, pensando che il cuore gli sarebbe addirittura esploso. Scosse il capo e rise mentalmente di sé. Dopo dottori, iniezioni e ferite di ogni tipo riportate in battaglia, a fargli più male era stata una semplice reazione somatica. E la consapevolezza che lui…
…serrò la mandibola, scacciò il pensiero latente e deglutì, cercando di allentare il nodo alla gola. Non voleva, non poteva dimostrare la propria debolezza. Sarebbe stato indecoroso, dopotutto.

“È comprensibile. Come Generale di SOLDIER e massima autorità sul campo di Wutai sono molte le responsabilità che graveranno sulle spalle di Sephiroth. Dovresti dimostrargli maggiore rispetto, Genesis. E anche un pizzico di solidarietà.” stava dicendo Angeal; e il suo tono calmo e profondo contribuì a ricordargli Vincent.

Strinse i pugni. A ben pensarci anche Angeal era un tipo ingenuo, per certi aspetti. E non poteva nemmeno lontanamente immaginare cosa invero lo turbasse. Il suo onore, la sua fedeltà alla causa e a SOLDIER gli impedivano di vedere che non gli importava niente né di Wutai, né della promozione a Generale. Per un attimo si chiese come avrebbe reagito se solo avesse scorto uno stralcio di quella cosa, di quella pulsione, che si annidava dentro di lui. In attesa. Un impulso che l’avrebbe portato a fare della Shinra e del Wutai lo stesso, purulento ammasso di carne e sangue. Anche gli occhi di Angeal si sarebbero riempiti di delusione? Probabile; ma forse sarebbe stato l’orrore a far capolino per primo. In ogni caso dubitava che sarebbero risultati altrettanto tristi, altrettanto preoccupati… come quelli di Vincent. E che avrebbero potuto fargli altrettanto male con un solo sguardo.

Possibile che avesse preso un abbaglio? Possibile che quelle iridi calorose, colme di sentimento per lui, fossero in realtà unicamente specchi, pronti a riflettere quanto aveva bisogno di vedere? Una rassicurante e dolce illusione…

“Naah!” blaterava intanto Genesis “Come sei banale. Bla, bla, solidarietà, rispetto, bla, bla, onore e responsabilità. Sembri un disco rotto, Angeal!”

“Disse l’accanito lettore di Loveless.” rimbrottò il diretto interessato.

“Così mi lusinghi.” puntualizzò l’altro “E comunque la guerra ce l’ha nel sangue, il nostro Generale. Figurati se a preoccuparlo sono un paio di Wutai incazzati. Senza contare che ci sono più probabilità che Sephiroth inciampi nel suo orgoglio che nei suoi capelli. Ed è tutto dire, amico mio.” continuò il SOLDIER, come niente fosse “Certo, avrebbero potuto promuovere me. Intanto sui giornali sarei venuto meglio. Sono più fotogenico.”

“E più vanesio.” suggerì Angeal.

“Non essere invidioso del mio sorriso.” ribatté Genesis; e per un attimo s’illuse che avesse cambiato argomento “E comunque il punto non è la mia indubbia beltà.” sottolineò invece l’amico “Una simile reazione da parte di Mr Ghiacciolo non è certo cosa da tutti i giorni. Ci dev’essere per forza dell’altro.” fremette, improvvisamente irritato da tutta quell’insistenza; poi l’altro diede prevedibilmente e ulteriormente aria alla bocca e lo pungolò più di quanto potesse sopportare “La persona per cui spasima ogni volta che prende congedo, ad esempio. Ehi, Sephiroth! Quando ti decidi a presentarci la pollastra? Prometto che Angeal terrà le mani a posto. Ah, ma forse ti ha appena scaricato e si spiega perché sei così… stravolto.”

Si fermò di scatto e Genesis andò a sbattergli contro, sulla schiena. Sentì chiaramente Angeal trattenere un singulto di sorpresa, ma non lo considerò neppure. Si girò, li fronteggiò entrambi e allungò il braccio, ma di fatto le sue dita andarono a serrarsi senza indugi sul bavero di Genesis soltanto.

“Adesso basta, Rhapsodos.” sibilò, guardandolo dall’alto in basso con freddezza “Invece di sprecare tempo in chiacchiere faresti bene ad allenarti con più impegno. La tua tecnica di spada è passabile. Ma in quanto a strategia lasci molto a desiderare. Sei troppo… impulsivo. Dovresti riflettere di più, prima di agire. O di dare aria alla bocca.”

Genesis non batté ciglio. Anzi, inclinò il capo, gli scoccò un’occhiata più intensa e si aprì un sorrisetto malizioso.

“Oh-oh! Finalmente mi degni di uno sguardo!” esclamò infine “Inavvertitamente devo essere finito con i piedi sul tuo orgoglio, mi dispiace. Ma già che ci sono ti ricordo che non sei ufficialmente nella posizione di darmi ordini, Generale. Non ancora. Perciò perché non vieni tu a illustrarmi l’essenza della strategia militare? Così ne approfitto per dimostrarti quanto passabile è la mia tecnica di spada.”

Non cambiò espressione, i lineamenti congelati in una maschera di perfetta superbia, ma strinse maggiormente le dita sul bavero dell’altro. Non aveva voglia di corrispondere alle provocazioni, non razionalmente, ed era meglio per tutti se fosse andato a rinchiudersi in camera da letto seduta stante e fino al giorno seguente; ma Genesis era indubbiamente specializzato nel far leva sul suo spirito di competizione. E forse, nel profondo, lo scontro era proprio quello che desiderava. Per spegnere la mente, dimenticare quanto l’angosciava e dare sfogo a quella parte nascosta di sé talmente arrabbiata da poter distruggere il mondo intero, ammesso e non concesso che questo potesse dargli un po’ di pace. E chissà, forse l’altro l’aveva capito ancora prima di lui… Istinto, forse. Tuttavia non fece in tempo a scendere a patti con se stesso che Angeal gli si fece più vicino e gli pose la mano sul braccio, ancora teso nell’atto di afferrare.

“Sephiroth…” fece il SOLDIER, tono perentorio “Sei stanco per il viaggio. Domani c’è la cerimonia d’investitura e presto partiremo per Wutai. Hai bisogno di riposare.”

“Stanne fuori, Angeal!” ringhiò Genesis.

Esitò ancora un po’, aizzato dal fuoco negli occhi del rivale; poi si concentrò sul tocco pacato, fermo di Angeal e si ritrasse con uno sbuffo infastidito. Nemmeno se n’era accorto, ma tutt’attorno si era radunato un capannello di First e Second Class. I soldati lo guardavano, lo studiavano, e parlottavano fra loro, probabilmente curiosi di sapere chi fra i due contendenti sarebbe prevalso in caso di battaglia. Avevano gli occhi grandi, colmi d’anticipazione e di quella che avrebbe potuto definire ammirazione nei suoi confronti… o la mera illusione di quest’ultima, realizzò d’improvviso: una maschera che celava soltanto invidia. E paura. Di rimando dubitò che ci fosse realmente qualcuno disposto a perorare la sua causa; e quasi gli sembrò di percepire il recondito, sadico e rassicurante piacere che avrebbero ricavato dall’osservarlo fallire e cadere nel fango. In quel momento le ammonizioni di Hojo acquisirono di spessore e veridicità: se solo glielo avesse permesso, lo avrebbero fatto a pezzi. Brandello dopo brandello. E quando la macchina da guerra avrebbe annientato ciò che minacciava o intralciava la Shinra, essa stessa sarebbe divenuta un intralcio. O una minaccia. Deglutì e chinò lo sguardo, vittima dei propri ragionamenti.

Genesis invece schioccò la lingua, stizzito, e si allontanò bruscamente. Nel passargli accanto non mancò di assestargli una decisa spallata, che lo costrinse suo malgrado a spostarsi di lato. Lo seguì con la coda dell’occhio e lo vide dileguarsi tra la folla, recitando accorati versi.

“Amico mio, le parche sono crudeli. Non ci sono sogni, non c’è più onore. La freccia ha lasciato l’arco della dea.”

La voce del SOLDIER sfumò in lontananza, coperta dal brusio degli astanti. Ciononostante i seguenti versi del quarto atto di Loveless gli echeggiarono ugualmente in testa, alla stregua di un monito.
 
La mia anima corrotta dalla vendetta.
Ho sopportato il tormento per trovare
la fine del viaggio nella mia salvezza
e nel tuo sonno eterno.
 
La leggenda racconterà
di sacrificio alla fine del mondo.
Il vento viaggia sulla superficie dell’acqua.
Lento, ma inarrestabile.
 
Avvertì una morsa alla bocca dello stomaco, ma nessuno dei suoi lineamenti palesò il turbamento. Perseverò immobile lungo il corridoio, con le spalle dritte, il capo eretto e le braccia distese lungo i fianchi. Perfetto tanto nelle maniere quanto nella postura. Un fantoccio di finissima fattura. Angeal invece scrollò il capo, le spalle e si concesse un lungo, mesto sospiro, mentre i curiosi cominciavano a disperdersi, tornando probabilmente alle rispettive mansioni. Qualcuno fra essi si attardò per rivolgergli un sorriso o un cenno del capo cui non replicò.

“Vado a recuperarlo.” disse Angeal; e non ebbe bisogno di chiedere delucidazioni in proposito “Lo sai com’è fatto, no? Si accende e si spegne all’istante come un fuoco di paglia. Scommetto che si è già dimenticato perché era arrabbiato e che si è messo a fare il pagliaccio con qualche First Class alla macchinetta del caffè.” poi si fece più serio “Tu nel frattempo cerca di non strafare. Dicevo davvero, prima. Riposati.”

Il SOLDIER continuò a fissarlo dritto negli occhi, in attesa, ammantato di una determinazione che sapeva di preoccupazione. Annuì. Di rimando Angeal distese i lineamenti, accennò un sorriso e gli diede le spalle, avviandosi nella direzione in cui Genesis era sparito. Era davvero ingenuo, considerò.

Riprese la marcia, confortato dal silenzio, dalla solitudine, e svoltò lungo il corridoio. Dietro l’angolo un piccolo gruppo di soldati stava facendo comunella, ma nel trovarselo davanti scattarono immediatamente sull’attenti. Riservò loro uno sguardo, un cenno del capo e passò oltre; ciononostante il commento bisbigliato gli arrivò ugualmente alle orecchie, impietoso e del tutto inaspettato.

“È inconcepibile che degli adulti debbano prendere ordini da un ragazzino. Sarà anche il più abile, ma ci sono un mucchio di soldati con più anni di servizio e di esperienza. Mi chiedo a chi abbia leccato il culo, per accaparrarsi il titolo di Generale.”

Si fermò e voltò leggermente il capo. Da sopra la spalla adocchiò l’intero gruppo, ma gli bastò un attimo per individuare l’uomo che aveva osato proferire simili calunnie. Non indossava il casco, portava la barba, dimostrava almeno trentacinque anni e aveva una grossa, irregolare cicatrice che gli tagliava le labbra di netto. Per un attimo, immaginò di tornare sui propri passi, di afferrarlo per il braccio e di torcerglielo dietro la schiena… fino a che un sordo rumore d’ossa rotte avrebbe riempito l’ambiente. Possibilmente accompagnato da urla inarticolate e pietose suppliche cui non avrebbe corrisposto, dall’alto del suo castigo. Si umettò le labbra, pregustando di già il suono della disperazione; ma, come sempre in quei momenti, il pensiero tornò a Vincent.

I sensi di colpa l’invasero di rimando e lo costrinsero a proseguire verso la stanza da letto. Tuttavia la frustrazione crebbe di pari passo col pentimento. Indurì l’espressione, serrò la mandibola e accelerò il passo. Odiava quella sensazione. E odiava l’influenza che l’altro aveva su di lui. Vincent se n’era andato senza dirgli nemmeno una parola, al pari di Gast. L’aveva ingannato, l’aveva tradito e abbandonato; e la promessa infranta gravava sul suo cuore di bambino alla stregua di un macigno. Gli aveva riempito la testa di false speranze, nient’altro che menzogne per farlo stare buono, per renderlo collaborativo e accondiscendente nei confronti di assistenti, infermieri e dottori. Aveva perfino mortificato e messo alla berlina i suoi sentimenti per lui, parlandone con Hojo, l’essere che più disprezzava al mondo; e mai come in quel momento si era sentito rifiutato, umiliato. E sbagliato. Gli aveva aperto uno squarcio in pieno petto, l’aveva svuotato di tutto e gli aveva lasciato dentro soltanto amarezza, confusione… E rabbia. Ardente, viscerale, incontrollabile rabbia. Eppure, non riusciva che a pensare a lui, a quegli occhi, e al fatto che invero fosse tutta colpa sua. Perché non era riuscito a trattenersi dal desiderarlo, ad esempio. Deludendolo, mettendolo alle strette. In pratica: costringendolo ad andarsene…

Raggiunse l’alloggio che gli mancava nuovamente il respiro. Entrò, si richiuse la porta alle spalle e nel buio dell’ambiente fissò la Midgar notturna che si stagliava oltre la grande finestra della stanza; uno spettacolo maestoso che riuscì solo a inquietarlo maggiormente. Non accese la luce. Si tolse frettolosamente la divisa di dosso, invece, quasi gli abiti da SOLDIER potessero stringerglisi addosso e soffocarlo. Lasciò cadere gli spallacci, i guanti e si diresse in bagno, disseminando pezzi di stoffa lungo tutto il tragitto. Raggiunse la meta che era completamente nudo e sprofondò nella doccia. Aprì il getto d’acqua fredda e il gelo l’avvolse da capo a piedi. Di rimando i muscoli gli si contrassero, la pelle gli si accapponò e intensi brividi gli scivolarono lungo tutto il corpo: una sensazione travolgente che riuscì a restituirgli la calma. E un minimo di lucidità. Di conseguenza, oltre il tradimento, oltre la rabbia e il disprezzo nei confronti di se stesso, intravide la spaventosa realtà: senza Vincent, non c’era più “casa”. Non c’era più “famiglia”. Nessun dove cui tornare, cui appartenere; nessun confortante abbraccio che dicesse “bentornato” e in cui spegnere doveri, responsabilità, aspettative non desiderate. In cui essere se stesso… fosse anche un’illusione. E tutto quello che gli restava era SOLDIER e il ruolo di Generale che gli era stato cucito addosso.

Poggiò la destra contro le piastrelle del bagno e restò immobile, a capo chino sotto il getto che gli pioveva impietoso sulle membra intirizzite; e il silenzio si stiracchiò per attimi che parvero infiniti, interrotto unicamente dallo scrociare dell’acqua. Tutto quello in cui aveva riposto fiducia e che credeva di conoscere si era sgretolato e aveva lasciato polvere dietro di sé. Senza che potesse trovarvi un senso e farsene una ragione; ma continuare ad arrovellarsi non avrebbe portato a niente. Solo ad altro dolore. Lentamente, faticosamente chiuse il getto dell’acqua. Come un automa uscì dalla doccia e si asciugò con il telo disposto lì di fianco, prima i capelli e poi il corpo. Allo stesso modo tornò in camera, raggiunse il letto e si lasciò cadere su di esso. Allungò il braccio, afferrò un lembo della coperta e se lo tirò su di sé. Aveva ragione Angeal: doveva riposare. E dimenticare.

Chiuse gli occhi, si aggrappò al cuscino e sognò di una donna bellissima, con un sorriso bellissimo. Sognò di due sfere gialle, che lo fissavano intensamente di lontano, avvolte dall’oscurità. E sognò di un grosso, peloso ragno dai lunghi e acuminati pedipalpi, che s’inerpicava sulla lucida superficie di un globo fluttuante, etereo come vapore. E ciascuno degli elementi rappresentava un punto luminoso all’interno dello stesso, affascinante microcosmo.

Si svegliò di soprassalto, madido di sudore. Spaziò con lo sguardo in lungo e in largo per la stanza, alla ricerca di quelle immagini sfuggenti; inutilmente. L’intenso, deciso bussare disperse i residui dell’inconscio e richiamò tutta la sua attenzione altrove, sulla porta d’ingresso. Deglutì e si passò la mano fra i capelli, scansandosi le lunghe ciocche argentate dal viso. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso da che si era assopito, ma qualcuno lo stava cercando; e lui era tutt’altro che presentabile.

“Sephiroth?” la voce di Angeal gli arrivò attraverso la porta “È ora di cena.” l’amico tacque e sospirò con rassegnazione; poi soggiunse “Ho un messaggio da parte di Genesis. Dice: sei il Generale, mica la Principessa. Perciò alza il culo e datti una mossa, che mentre aspettiamo vossignoria la sbobba si fredda.” Angeal rise “Credo che sia solo ansioso di raccontarti delle sue ultime, geniali trovate. Perciò armati di santa pazienza e andiamo. Anche perché fra un po’ chiederò al direttore Lazard lo stipendio da babysitter.”

Si mise a sedere sul letto, scosse il capo e si concesse un piccolo sbuffo divertito.

“Vi raggiungo.” comunicò quindi.

Dall’altra parte Angeal si pronunciò in un breve e conciso “bene”; dopodiché sentì i suoi passi allontanarsi. Si ravviò nuovamente i capelli e constatò che erano ancora umidi. Non se ne preoccupò. Si alzò, invece, e raccolse quanto aveva sparso a terra in precedenza. Si rivestì con accuratezza, prima la divisa, poi gli spallacci, infine i guanti, premurandosi di lisciare ciascuna, indesiderata piega finché la stoffa non ricadde perfettamente dritta. Dopotutto doveva mantenere la sua rispettabile facciata; e l’indomani sarebbe diventato ufficialmente il Generale dei SOLDIER, massima autorità sul campo di Wutai.

Impeccabile come sempre, uscì dalla stanza e si avviò lungo il corridoio. Di fatto mosse solo pochi passi in direzione della mensa che incappò nell’uomo con la cicatrice sulla bocca che solo qualche ora prima si era permesso di calunniarlo. Quello sollevò lo sguardo su di lui, sobbalzò appena e l’appellò immediatamente con un reverente “Signore!”. Senza i suoi amici attorno non faceva più così il gradasso…
Sorrise, mellifluo, e pensò che fosse giunto il momento di liberarsi delle vecchie abitudini, come diceva Hojo. E Vincent si era sempre sbagliato su di una cosa: non tutti i suoi compagni lo temevano. Non ancora.
 
Duuuunque. Eccomi qua dopo millemila anni. Scusate, ma sono dovuta ripartire per gli States e il viaggio mi ha distrutta. Perciò da oggi in poi preparatevi ad aggiornamenti e risposte a orari improbabili. Lol. E sì, lo so, avrei dovuto aggiornare Meet The End. Ri-Lol. A quanto pare ho un po' litigato con quella storia. ùù' (Ehi, a me si stanno ghiacciando le regali chiappe, di là sui monti! << ndSeph; E io starei morendo infilzato, per cui... =_=' ndVince; E io sono stesa su un letto di rocce con Vinnie che sputa sangue. E non ho nemmeno un impermeabile! °A° ndYuffie). Aaaah-hem. ùù'''' Perciò mi sono dedicata a questo capitolo. Che mi ha sfinita. °A° Non lo commenterò. Lol. Lascio a voi il giudizio. xD Anche se voi siete troppo buoni! °A° E comunque questa storia è davvero... "particolare", sì. Lol. È normale che mi sembrino tutti malati? °A° Loool.
A parte ciò ho giusto un po' di annunci da fare. ùù Faccio la scaletta.
1) Nello scorso capitolo mi sono dimenticata di precisarlo, magari voi l'avete già capito, ma siccome io ho l'ansia di non riuscire a spiegarmi, assecondatemi e lasciatemelo dire qui: I capelli di Vincent sono cresciuti e il suo braccio è mutato, questo perché col passare del tempo volevo renderlo più simile al Vincent del gioco, quello della bara, per intenderci. Per quanto riguarda il braccio, ci sono varie teorie al riguardo. Che gliel'abbiano mozzato e sostituito con quello di metallo, che gli sia mutato (come in questa storia) o che sia lì, sotto l'attrezzo di metallo, sano e salvo. Credo che la risposta esatta sia quest'ultima e che l'artiglio sia solo un "ornamento". Tuttavia trovo molto più affascinante la teoria del braccio perennemente mutato, perciò l'ho inserita nella storia. E se ve lo state chiedendo è lo stesso anche in Meet the End. Lol. Diciamo che il Vincent delle mie fic ha il braccio mutato, ecco. E il taglio a y su torace e addome. =w=  (Un gioiello, proprio. =_='' ndVince; Io ti amo lo stesso... =ççç= ndCompaH; Vade retro, Satana! °A° ndVince che ha cambiato espressione).
2) La Protomateria. Io non so se Vince abbia ancora un cuore (s'intende quello coi ventricoli, lol) oppure no. Ma quando in Dirge of Cerberus Shelke/Lucrecia gli ripiazza la Protomateria nel petto si sente proprio il battito cardiaco. Anche qui diciamo che è una mia licenza petica (?) e quindi per me Vince ha la Protomateria al posto del cuore. ùù' (Ma che razza di essere sono? oo'' nd Vince che sta facendo le facce; E lo chiedi a me? <<' Io ci capisco sempre meno. °A° ndCompaH)
3) Siccome sono una schiappa in matematica, ma di quelle atroci, mi sono fatta i conti "ad canis mentulam" e ho dovuto rivedere tutte le età di Sephiroth per farle coincidere più o meno con gli avvenimenti del gioco, perciò nello scorso capitolo Seph aveva 17 anni e non 15. °A° Perdono, perdono, perdono! >-< *si scosparge il capo di cenere*
4) Sempre per la storia dell'ansia sul non riuscire a spiegarsi, preciso anche questo: In questo capitolo non ho messo la dicitura con gli anni trascorsi dalla creazione di Sephiroth perché semplicemente sono passati pochi giorni dallo scorso capitolo. Nel prossimo Seph avrà tipo 23 anni.
5) Il prossimo capitolo di questa storia è anche l'ultimo. ùù''' E incrocio le dita per riuscire a scriverlo, perché credo che mi prosciugherà di tutte le energie. °A° Anche perché vorrei renderlo come si deve... e finisce sempre che incappo nell'"effetto McDonald"! Lol. E con questo direi che è tutto. Alla prossima con "Mostri - Seconda Parte"! *w* Non vi state già consumando nell'attesa? *e venne tempestata di pomodori, insalata e Hojo volanti* °A°
CompaH

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Capitolo 6
*** Mostri - Seconda Parte ***


Progetto Jenova: 23 anni dopo.

Degli uomini in camice bianco gli sfrecciarono accanto, lungo il corridoio, così impegnati a discutere fra loro di teorie e riscontri da non notarlo neppure. Li seguì con la coda dell’occhio. Ognuno di essi teneva fra le mani una cartella. Assottigliò le labbra. Poteva solo immaginare i dati ivi contenuti e si chiese se, da qualche parte in quella struttura, ci fosse un altro bambino speciale. Così come lo era stato lui tanti anni addietro. Quella considerazione gli strinse il cuore; ma i lineamenti del suo viso non palesarono turbamento, immoti.

La sua guida, qualche passo avanti a lui, voltò appena il capo e gli lanciò un’altra occhiata da sopra la spalla, quasi temesse di smarrirlo per strada. Come se avesse tempo da perdere o voglia di rivisitare i luoghi della sua infanzia: un intricato labirinto di corridoi e luci al neon che sapeva unicamente di disinfettate e di reclusione. E di tradimento. Quell’assistente doveva solo accompagnarlo da Hojo. Lo scienziato gli avrebbe fornito i file necessari e lui sarebbe ripartito immediatamente; per mai più ritornare. Meta: Ninbelheim. La sua ultima missione…

Con la diserzione di Angeal e Genesis un’altra parte di sé era svanita. E nuovi dubbi l’avevano assalito. Non gli aveva fatto male come in passato, ma il pensiero di allontanarsi da SOLDIER riusciva inevitabilmente a confortarlo. Quantomeno non avrebbe dovuto combatterli. Tanto più che trovava decisamente ironico che fra i tre fosse proprio lui ad essere rimasto indietro, ancorato a ideali di lealtà che non gli appartenevano. E di cui era sempre stato Angeal il fervente sostenitore.
L’idea che quest’ultimo avesse sbirciato oltre la patina dorata del loro piccolo mondo tornò a solleticarlo. A instillargli il tarlo che, di qualsiasi cosa si trattasse, fosse una consapevolezza talmente oscura e spaventosa da aver strappato all’amico ogni cosa: perfino l’onore di uomo e di SOLDIER cui tanto teneva.

Un motivo in più per andarsene. Senza contare che non doveva più niente alla Shinra. Aveva preso Forte Tamblin e portato a termine la sanguinosa guerra contro Wutai, aveva combattuto contro AVALANCHE e incontrato Elfè; e in quell’occasione la mancanza di veri obbiettivi aveva messo in evidenza tutta la sua inadeguatezza. Condizione più che normale per qualcuno impegnato da sempre a portare a termine i propositi degli altri; e a rifletterne le aspettative senza possedere una reale immagine di sé. Ma era stanco di fungere da arma o da modello promozionale per la compagnia elettrica. Costantemente situato sotto una virtuale lente d’ingrandimento che l’avrebbe vivisezionato senza pietà al minimo passo falso. Voleva, doveva cercare se stesso, la sua motivazione, in qualcosa che esulasse dal ruolo imposto e da quanto aveva conosciuto fino a quel momento. Essere diverso.

Serrò la mascella e deglutì alla semplice realizzazione; mentre il ricordo della persona che aveva pronunciato quel suggerimento tornava a fargli male. A farlo languire; a dispetto degli anni passati. L’assistente che l’accompagnava gli lanciò un’altra occhiata e si morse il labbro inferiore, richiamandolo dai pensieri. Inarcò appena il sopracciglio e si domandò cosa volesse, perché era chiaro come il sole che qualcosa gli frullava in testa.

“C’è qualche problema?” interloquì, senza rallentare il passo.

L’altro corrucciò le sopracciglia, sfoderò un sorrisetto e si portò la mano fra i capelli.

“Mi scusi, Generale.” rispose “Va tutto benissimo. È che… ecco, è la prima volta che l’incontro di persona e mi stavo chiedendo se… sì, insomma, se non è di troppo disturbo chiederle un autografo.”

Ma certo. Come aveva fatto a non pensarci? A volte la paranoia prendeva il sopravvento e gli faceva vedere ombre anche dove non ce n’erano. Valutò la situazione: non voleva perdere altro tempo per assecondare le fantasie di un ammiratore, ma firmare un autografo in più o in meno non gli avrebbe fatto differenza; e le orecchie di quel ragazzo erano diventate tutte rosse, vuoi per l’emozione, vuoi per l’imbarazzo. Per un attimo si chiese se sarebbe stato altrettanto ansioso di ricevere siffatto riconoscimento; anche avendo idea tangibile dei campi di battaglia, del sangue, della polvere. Della morte. Scacciò quel pensiero con la velocità con cui l’aveva formulato e piegò invece la bocca verso l’alto: un sorriso che si estendeva alle sole labbra.

“Non ho la penna, con me.” replicò.

In compenso la Masamune pendeva algida dal suo fianco e tintinnava ad ogni passo compiuto, in qualità di unica, fidata e inseparabile compagna.

L’assistente s’illuminò alla sola possibilità. Poi si frugò rapidamente nelle tasche del camice, del pantalone e soggiunse: “Accidenti! Ma se aspetta solo un secondo, vado a prenderne una nel mio ufficio! Farò in un lampo! E grazie. Grazie infinite!”

L’altro non gli diede il tempo di convenire. Né di ritrattare. Sorrise, e si allontanò in tutta fretta, scomparendo in breve oltre l’ingresso che conduceva al settore D. La zona riservata all’archivio, considerò. Scosse la testa e sbuffò, incrociando le braccia al petto. Avrebbe dovuto dirgli di no fin dal principio, pensò, mentre si guardava attorno e sulle facce del personale leggeva sorpresa e ammirazione. Scosse leggermente la testa e rise internamente di sé. Molti di loro erano stati assunti di recente e nemmeno potevano immaginare che tempo addietro era stato solo un ragazzino solo e spaventato, chiuso fra quelle mura e desideroso unicamente di scappare. Di essere libero.

Quel pensiero lo turbò, senza che sapesse dirsi perché. Batté le palpebre, ignorò il via vai di assistenti e si guardò meglio attorno, indugiando sui corridoi e sugli uffici. Infine capì; e per un attimo si riscoprì bambino. Non c’erano macerie, operai o solchi sulle pareti e il pavimento era tirato perfettamente a lucido. Ciononostante ravvisò quel luogo senza indugi. Schiuse le labbra, improvvisamente senza fiato, e diresse istintivamente le iridi al varco che ricordava ampio e spaventoso, alla stregua di una bocca spalancata sull’inferno. Ancora una volta incappò in uno scenario diverso e in un muro liscio e regolare che escludeva l’esistenza stessa di un passaggio. Deglutì. Il cuore gli batteva a mille nel petto, proprio come il giorno in cui aveva disubbidito a Hojo e si era infilato nel sotterraneo per incontrare… il mostro. E quasi gli sembrò di risentire l’inconsolabile cordoglio di quel verso inumano. Possibile che avesse proiettato quell’immagine di fantasia per lenire la propria solitudine di bambino?

Sciolse la morsa delle braccia e si avvicinò alla parete in questione: apparentemente un muro come gli altri, soltato più spesso. Allungò il braccio e pose la mano sulla superficie verticale. I guanti gli impedirono di saggiarne la consistenza, di avvertire le piccole imperfezioni dell’intonaco o la polvere depositata su di esso; ma non vi badò, di già concentrato su altri, più rivelatori dettagli. Chiuse gli occhi e per minuti che parvero infiniti trattenne perfino il respiro. Niente. Eccetto il trambusto e il chiacchiericcio di coloro che popolavano il centro di ricerca. Schiuse le palpebre, sospirò e fece per ritrarre la mano, sentendosi estremamente sciocco. E anche un po’ infantile. Proprio in quel momento le sentì; e perse un battito, colto alla sprovvista. Lontane, come un’eco. Quasi sbiadite. Eppure reali. Concrete. Le vibrazioni si propagavano sotto i suoi polpastrelli, a dispetto della stoffa che li ricopriva e di quel muro che mentiva con la mera presenza. Nascondendogli la verità. Perché non aveva immaginato né il passaggio, né i sotterranei; e qualcosa s’agitava oltre la barriera. Sbatteva, graffiava e urlava per uscire esattamente come in passato.

Inarcò le sopracciglia e serrò la mandibola, gli occhi fissi sulla parete bianca. Avrebbe potuto ignorare quel richiamo. Avrebbe potuto firmare l’autografo, recuperare i file che gli servivano e andarsene come da programma, lasciandosi dietro quei laboratori e i ricordi a essi legati. Per sempre. Ma se c’era qualcosa che non riusciva a ignorare era il desiderio di libertà e la volontà di capire; e qualcosa dentro, un languore che sapeva di nostalgia e di solidarietà, gli diceva che quell’essere aveva bisogno di lui. Come lui ne aveva di quell’essere. E il semplice realizzarlo gli gonfiò il petto, gli punse gli occhi.

Non indugiò oltre. Si fece indietro ed estrasse la Masamune. Qualcuno dietro di lui strillò. Una donna. L’ignorò, concentrato sull’ostacolo che si frapponeva sul suo cammino, quasi a sfidarne l’audacia. Dopotutto era stato proprio Hojo a ordinargli di non rimettere più piede lì sotto; e lui aveva obbedito. Un’onta che rinforzò unicamente la sua determinazione nell’osare. E di indagare sul perché di quel divieto così ferreo. Avvertì dei passi avvicinarsi, percepì anche un singulto, ma si accorse che si trattava del suo ammiratore solo quando sentì dire: “Ge-Generale…?” Non lo guardò neppure, ignorando la domanda implicita. Ammesso e non concesso che ci fosse modo di spiegarli, non era interessato a farlo. Divaricò leggermente le gambe, spostò il baricentro verso il basso e sollevò la katana sopra la testa, sordo al vociare sempre più concitato di chi gli stava attorno. Contrasse i muscoli e sferrò un deciso sgualembro dritto, seguito da un rovescio e da un fendente, intagliando nella parete una porzione triangolare. Quando ritrasse la lama e tornò in posizione di guardia, il cemento armato crepitò, si sfaldò e crollò in pezzi sul pavimento. Oltre il muro spesso più di quaranta centimetri, s’intravedeva la porta a tenuta stagna che ricordava. Intatta.

“Aprila.” ordinò.

“Generale! Che cosa ha fatto?” strepitò l’assistente “Il Professor Hojo lo verrà sicuramente a sapere! Si arrabbierà moltissimo e se la riprenderà con me! Verrò licenziato e il Presidente Shinra…”

Diresse le iridi su di lui e quello tremò, ingoiando le parole successive. Gli occhi del ragazzo ora non trasmettevano più alcuna ammirazione, ma solo la paura. Una preda che aveva istintivamente percepito la vicinanza del predatore. Allungò il braccio e l’afferrò per il bavero, traendolo a sé. L’assistente squittì, strizzò gli occhi e serrò le mani sul suo avambraccio, come se potesse liberarsi. Povero stolto. Tanto più che tremava come una foglia battuta dal vento.

Aprila.” reiterò, scandendo ciascuna sillaba.

Il ragazzo boccheggiò, gli occhi sgranati su di lui.

“Io… io…” balbettò.

Gli strappò dal petto il tesserino d’identificazione e lasciò la presa. Di rimando quello s’abbatté al suolo con un tonfo, alla stregua di un sacco di patate. Non vi badò. Semplicemente andò alla serratura elettronica e passò la banda nell’apposito lettore magnetico. Seguì un suono acuto; poi la luce dapprima gialla divenne rossa. Poco ma sicuro: l’unico ad avere libero accesso a quel particolare piano della struttura era lui, il professore. Guardò al trambusto che aveva provocato, alla facce preoccupate o sorprese di chi gli stava attorno. Gli assistenti dovevano aver già allertato la sicurezza, comunque. E presto o tardi sarebbe sopraggiunto anche Hojo. Ciononostante non aveva intenzione d’aspettare fino a quel momento e di lasciarsi intralciare da chicchessia; e solo per impadronirsi del tesserino giusto. Si sarebbe fatto largo con la forza. E subito. Sollevò la Masamune e caricò un altro colpo, più potente dei precedenti. Scattò in avanti e il metallo impatto contro il metallo, una, due volte, emettendo scintille e sinistri stridii. La lama penetrò e fendette, disegnando tagli netti e puliti, e aprendo un varco abbastanza grande da permettergli il passaggio. Guardò oltre. Il buio l’attendeva e si spandeva vischioso oltre la scalinata che conduceva al piano inferiore. Dietro di lui l’assistente balbettava e riferiva la situazione da una ricetrasmittente. Non se ne preoccupò, ma il dettaglio della penna che giaceva ai suoi piedi lo colpì. Rilasciò un piccolo sbuffo, scosse appena il capo e la consapevolezza gli si delineò chiara nella mente: era un viaggio senza ritorno. E una volta varcato quell’ingresso non ci sarebbe più stata nessuna Nibelheim. Nessuna ultima missione.

Rinfoderò la Masamune e scavalcò la porzione di muro che si alzava ancora intatta dal pavimento, sordo agli ammonimenti degli astanti. Poggiò la mano sulle lamiere, spinse e si fece spazio attraverso di esse. Dall’altra parte era umido e l’aria risaliva fredda dal basso, sferzandogli le gote. Ostile. Scese lungo la scalinata, nel silenzio. Più si avventurava verso il basso, più il suono dei suoi passi riverberava nell’ambiente, come unico eco. Raggiunse il sotterraneo e assottigliò le palpebre, scandagliando le ombre e cercando di riconoscere il cammino che in precedenza l’aveva condotto all’obbiettivo; inutilmente. Proseguì, allungò il braccio e sfiorò le pareti con dita leggere, lasciandosi guidare. Incappò in solchi profondi, irregolari e riconobbe in essi le stesse artigliate che aveva visto da bambino. Ciò rafforzò la sua determinazione. Si spinse oltre e poco più avanti intercettò il pannello elettrico. L’aprì e portò in alto gli interruttori. Di rimando i neon lampeggiarono e si accesero, illuminando a giorno i corridoi. Voltò appena il capo e socchiuse le palpebre, infastidito. Si abituò subito, comunque, e la luce dapprima insopportabile si rivelò invece esigua. Proprio come la ricordava.  I neon ronzavano, alcuni erano rotti e proiettavano ampie zone d’ombra lungo il cammino, altri erano semplicemente intermittenti. Riprese la marcia, tendendo le orecchie ai rumori. Niente. Raggiunse un bivio, senza che sapesse di preciso dove dirigersi. Dopotutto in passato era stato l’essere a guidarlo, a dirgli dove andare…

Svoltò a sinistra e proseguì da quella parte. Attraversò luci e ombre, accompagnato unicamente dal suono dei propri passi e dal rassicurante tintinnare della Masamune, ma la strada s’interruppe più avanti, sbarrata da un’altra porta a tenuta stagna. La serratura elettronica lampeggiava di giallo, notò. Serrò la mandibola e indugiò con le dita sull’elsa della katana. Solo poi noto l’altra porta che si stagliava lungo il corridoio. Era diversa dalle altre. Era semplice, di legno, con uno sportello di vetro all’altezza degli occhi. S’accigliò, sospettoso, e la raggiunse. Spinse la maniglia e, contrariamente alle sue aspettative, l’uscio si schiuse con estrema semplicità. Deglutì, aprì la porta e mise piede all’interno. Il buio si stendeva ovunque come una coltre, eccetto per il fascio di luce proveniente dal corridoio. Tastò la parete alla ricerca dell’interruttore e l’azionò appena lo sentì sotto le dita. I neon illuminarono scrivanie colme di fascicoli, monitor e altri tipi di apparecchiature che nemmeno conosceva. Nell’angolo della stanza stava invece un contenitore cilindrico della dimensione di un uomo, colmo di un liquido denso e verdastro. Mako, probabilmente. Schiuse le labbra e provò l’impulso di andare da quella parte per approfondire; ma la sua attenzione venne richiamata dalla scrivania coi monitor, dove stava anche il pannello di controllo delle porte. Contrassegnate da altrettante luci gialle.

Raggiunse il piano e notò che tutte le superfici erano ricoperte di polvere. Doveva essere passato parecchio tempo dall’ultima volta che qualcuno aveva messo piede lì dentro. Tra i fogli sparsi, notò, c’era un registratore vocale abbandonato. Batté le palpebre, interdetto. Poi la curiosità prese il sopravvento e l’afferrò, premendo subito il tasto play. Dall’altra parte, arrivò la voce stridula del professore.

“Il Soggetto CG non risponde alle stimolazioni. Il suo organismo ha smesso di contrastare la creatura ospite ed è sempre più raro vederlo cosciente. Il processo sembra irreversibile e si è riscontrato in seguito all’estrazione della Protomateria.” sentì del rumore non meglio precisato provenire dal registratore; poi nuovamente la voce stridula di Hojo “Non sono da escludersi cause psicologiche. La separazione dal Progetto Jenova ha messo in evidenza sintomi riconducibili a stress e depressione. In soldoni il soggetto potrebbe aver semplicemente perso la volontà di combattere per la supremazia, lasciando alla creatura ospite il pieno controllo.” altri rumori non identificabili “Con questo, mi accingo a dichiarare concluse le ricerche relative al Progetto Omega.”

Il nastro continuò ad andare, sordo; mentre le parole appena ascoltate gli si ripercuotevano nella mente e nella coscienza alla stregua di aghi nella carne. Schiuse le labbra, a corto di fiato e completamente colto alla sprovvista. Non sapeva chi fosse il Soggetto CG, né a cosa alludesse Hojo con Progetto Omega; ma il nome di sua madre non gli era di certo sfuggito. Che cosa c’entrava lei con quegli… esperimenti? Rabbrividì e sentì l’urgenza scivolargli subdola sottopelle, in ogni cellula del corpo, assieme al desiderio sempre più pressante di capire. Lentamente spense il registratore; e il “click” che ne derivò gli arrivò alle orecchie di lontano, di già proiettato con lo sguardo e col pensiero sul mare di fogli che inondava la scrivania. Lasciò andare la presa e l’oggetto cadde, frantumandosi in più parti. Senza degnarlo di ulteriori attenzioni s’avventò sulla carta, sui fascicoli, divorando dati e referti medici uno dopo l’altro. Scorse le righe, i paragrafi, le pagine, ma nella febbrile ricerca l’unico nome cui incappò fu Choas. Il mostro, intuì. La creatura ospite del Soggetto CG. Deglutì, senza fiato, gli occhi grandi puntati dritti innanzi a sé e le dita serrate come ganasce su risme di fogli ormai ridotti a carta straccia. Dalla scrivania gli schermi bui lo fissavano di rimando, come finestre socchiuse, in attesa di essere aperte e di mostrargli quanto si celava oltre. Una prospettiva che l’inquietò. Che si trasse d’istinto o di mera logica, qualcosa dentro lo stava mettendo in guardia, quasi diffidandolo dal varcare il confine; tant’è che esitò, immobile innanzi alla scrivania, col fiato corto e il sudore gelido lungo la schiena. Infine lasciò cadere i fascicoli e con mano ferma accese gli schermi. Gli occhi si spalancarono su di una stanza in penombra, al cui centro stava un lettino medico sovrastato da una lampada scialitica. Batté le palpebre e percorse avidamente ciascun dettaglio di quanto gli veniva mostrato, finché notò il carrello degli strumenti, il cui vassoio recava bisturi di ogni forma e dimensione, forbici, pinze e divaricatori disposti perfettamente in fila, in un ordine che gli parve quasi maniacale. Quando poi notò le macchie rosso scuro che incrostavano le cinghie del lettino, avvertì una stretta allo stomaco e un senso di vertigine. E quasi gli sembrò di sentire l’ago farsi spazio fra la carne, irrompere nella cartilagine e stagliarsi saldamente fra le vertebre. Distolse lo sguardo, si poggiò alla scrivania e deglutì, cercando di scacciare la nausea. Ma non poteva farsi scoraggiare, cedere a quella parte di sé che ancora temeva quei luoghi e ciò che vi era accaduto. Tanto più che alla luce di quanto aveva scoperto, voleva, doveva sapere perché Hojo gli aveva intimato di non avventurarsi mai più lì sotto. Che cosa voleva nascondergli? Qualcosa a proposito di sua madre, probabilmente. Serrò le labbra, la mandibola e tornò con lo sguardo agli schermi. C’era un lettore dvd collegato a uno di essi, forse contenente i record degli esperimenti effettuati sul fantomatico Soggetto CG. L’azionò e il monitor gli rimandò la stessa stanza che aveva appena visto. La differenza consisteva nell’angolazione dell’inquadratura e nella presenza di Hojo, curvo sul tavolo operatorio e intento a parlare con qualcuno di cui poteva intravedere solo i piedi e le mani, saldamente serrati dalle cinghie di contenzione. Trattenne il respiro.

“E così, ragazzo mio, siamo giunti alla fine.” stava dicendo lo scienziato “Potremmo definirlo un addio. O la fine di una proficua collaborazione.” Hojo rise, sinistro; e s’inarcò all’indietro, sotto la luce della lampada scialitica “Proficua per me, s’intende!” specificò poi “Ma dovresti essermi grato per l’onore che ti ho riservato. In fondo ho dato uno scopo alla tua patetica, insulsa esistenza.” concluse; e sì discostò dal tavolo per recuperare il bisturi dal vassoio con gli strumenti.

Di conseguenza scorse le fattezze dell’uomo che giaceva disteso sul piano, intubato e con la testa reclinata da un lato. All’apparenza privo di sensi. Sedato, sarebbe stato meglio supporre. Sgranò gli occhi, manco un battito e vacillò sul posto, incapace di distogliere lo sguardo dal viso che aveva popolato i suoi sogni di bambino e di adolescente. Con ricordi amari e dolci che ancora lo facevano sospirare.

“Vincent…” sussurrò; e poggiò anche l’altra mano sul tavolo, in cerca di sostegno.

Impotente osservò lo scienziato tanto odiato premere la lama nella carne dell’altro e ricalcare le vecchie cicatrici di un taglio a y. Con sgomento vide quell’uomo orribile imbracciare la sega chirurgica e spezzare lo sterno della persona lì distesa, aprendosi un varco nel suo petto. Il ronzio e il rumore d’ossa rotte gli strapparono un brivido freddo che gli percorse la schiena per tutta la lunghezza. Con orrore seguì le dita di quel macellaio, mentre affondavano, si tingevano di rosso e afferravano quanto cercavano senza alcuna delicatezza; in quella ferita pulsante, aperta direttamente nella carne viva. Provò l’impulso di chiudere gli occhi; proprio lui, l’eroe che aveva portato a termine la guerra contro Wutai. Spegnendo nel sangue anche il più piccolo focolaio di rivolta. Scosse la testa, deglutì e tornò a puntare lo schermo, notando solo in quel momento ciò che Hojo stringeva fra le mani insanguinate: una sfera al cui interno brillava un intero microcosmo. La Protomateria. E il mondo per come lo conosceva finì per sgretolarsi nuovamente, lasciandogli intravedere quella verità così dolorosa da essere addirittura inaccettabile.

Rivide Hojo, seduto dietro la scrivania del suo ufficio, col sogghigno disegnato sulle labbra sottili, la malizia impressa negli occhi piccoli, pungenti e quella stessa sfera fra le mani; mentre lo umiliava, si prendeva gioco di lui, dei suoi sentimenti e gli sbatteva in faccia la menzogna.

Digrignò i denti fino a farli scricchiolare. No. No! Non poteva essere! Tornò al lettore dvd, armeggiò freneticamente con i comandi e frugò fra le registrazioni più vecchie, alla ricerca di altre prove o dettagli che avrebbero potuto confutare quanto gli si stava angosciosamente delineando nella mente; ma per quanto smaniasse non trovò rassicurazioni nelle immagini a seguire. Vide il corpo nudo di Vincent collegato a una serie di elettrodi, lo vide sbattere e contorcersi. Vide le cinghie tendersi e tagliargli i polsi, le caviglie. Lo sentì gemere e urlare; e ciascuno di quei tormenti gli si ripercosse nell’animo alla stregua di una pugnalata. Nemmeno si stupì quando vide le fattezze umane dell’altro trasfigurare e acquisire i tratti bestiali dell’essere, del mostro, che aveva incontrato da bambino. In qualche modo, realizzò, l’aveva sempre saputo. Sentito. Ma era stato così cieco, così sciocco ed egoista da ignorare i segnali insiti nelle parole, nei comportamenti e nelle assenze ingiustificate dell’altro. Nei tratti del suo viso: bellissimi e immutabili, come una fotografia.

Affannato, sopraffatto dalla consapevolezza, smise di tormentare il lettore dvd e lasciò allo sconforto la possibilità di attanagliarlo: era stato lui ad abbandonare Vincent, a voltargli le spalle. A lasciarlo tra le grinfie di Hojo. Perché Vincent non se n’era mai andato, né era mai stato uno degli inservienti o degli assistenti di Hojo. Si era lasciato ingannare dallo scienziato. Aveva visto soltanto quello che voleva vedere; e le sue insicurezze avevano fatto il resto. E ora della persona che amava non era rimasto che il ricordo. E il rimpianto. Chinò il capo, incurvò le spalle e restò immobile, appoggiato alla scrivania. Annichilito dal vuoto, schiacciato dalla colpa; mentre dal monitor giungevano i suoni di un avvenimento passato che quasi non riusciva a toccarlo dal baratro in cui era scivolato.

“….dovresti vedere i risultati che ha ottenuto.” diceva la voce sottile dello scienziato, appena alterata dalla riproduzione digitale “È preciso, letale, infallibile. Il Progetto Jenova è un gran successo! Il Presidente Shinra ne è davvero soddisfatto. Si è perfino congratulato con me! E ha deciso di aumentare i fondi destinati alla ricerca del 5%...”

La menzione a sua madre lo riscosse appena e lo portò a dirigere lo sguardo nuovamente sullo schermo e sulla figura di Hojo, che camminava febbrilmente avanti e indietro innanzi alla telecamera.

“Ha un nome. Usalo.” lo ammonì Vincent, saldamente trattenuto dalle cinghie.

Lo scienziato tacque, arrestò il passo e guardò la cavia con sufficienza, probabilmente infastidito dall’interruzione. Poi si aprì in un ghigno sferzante e riprese da dove aveva lasciato, ricominciando a muoversi avanti e indietro, le mani giunte dietro la schiena.

“Fossilizzarsi su dettagli insignificanti è tipico di chi possiede una mente semplice.” puntualizzò Hojo; e notò che la voce gli era salita di una tonalità “Anche quella stupida femmina non è riuscita a vedere oltre il suo naso. Pensava che una volta dato alla luce il bambino avrebbe potuto giocare a fare la madre. Ah! Semplicemente imbarazzante. Uno scienziato che si rispetti non perde mai di vista l’obbiettivo!” il professore scosse la testa, dolente; poi fece spallucce e soggiunse “Ma suppongo che da una donna mediocre come lei non potessi aspettarmi di meglio…”

A quell’allusione Vincent contrasse i muscoli e scattò in avanti, gli occhi roventi. Le cinghie si tesero, crepitarono e si allungarono oltre l’effettiva portata, affondando nella carne. E per un attimo pensò, sperò, che le avrebbe spezzate. Anche se il passato non si poteva cambiare. Doveva averlo pensato anche Hojo, comunque, perché sullo schermo lo scienziato balzò indietro e cacciò un verso stridulo.

“Lei… Lucrecia…” ringhiò invece Vincent “…era una scienziata brillante e appassionata! Sapeva sorridere ed essere gentile! Ma sei arrivato tu. Tu! Ti sei approfittato di lei. Le hai offuscato la mente e il cuore con le tue pericolose ambizioni! E lei non lo vedeva, non poteva, ma amava il suo bambino più di ogni altra cosa. E tu glielo hai portato via!” urlò; e ricadde sul lettino, affannato “Tu l’hai uccisa.”

Lo scienziato restò a debita distanza dalla cavia, ma fremette da capo a piedi e strillò, rosso come un peperone: “Ah! Che assurdità. Quella stupida ha fatto tutto da sola! Si è uccisa perché era nient’altro che una pusillanime! E Sephiroth non è mai stato un bambino come gli altri! Non aveva bisogno di una madre!”

Batté le palpebre e deglutì, mentre il battito del cuore gli arrivava in gola e fin dentro le orecchie al semplice suono di quelle parole. Che cosa aveva appena detto quel verme? Sua madre si chiamava Jenova. Era morta subito dopo averlo messo al mondo. Sua madre… I versi di una vecchia favola gli solleticarono improvvisamente la memoria, prendendo il posto delle sue frenetiche elucubrazioni; e, mentre la verità si rimodellava nella mente, la registrazione gli rimandò senza margine d’errore il prosieguo di quell’impietosa invettiva.

“Lui è… una cosa. Una macchina da guerra implacabile e infallibile! La perfetta miscela di Mako e Cellule Jenova. Il prodotto meglio riuscito della serie e il mio risultato scientifico più grandioso! Quello che mi garantirà di passare alla storia come la mente più ingegnosa dell’intero Pianeta!”

“È di tuo figlio che stai parlando!” sputò Vincent, stringendo i pugni, digrignando i denti.

Lo scienziato tacque e guardò l’altro come fosse qualcosa d’insignificante.

“Il fatto che sia mio figlio è una mera e ininfluente coincidenza.” puntualizzò quindi; e rise. Rise di Vincent. Rise di lui.

Il suono così registrato andò a ottundergli l’udito, a perforargli il cervello, mentre il significato di quanto aveva appena ascoltato gli strappava direttamente l’ossigeno dai polmoni. E più di qualche battito. Vacillò ancora e piantò le dita sulla scrivania, incapace di muoversi, di ragionare lucidamente o di distogliere lo sguardo dalla figura del professore, di suo padre, che s’incurvava sotto la lampada scialitica e tremava di gioia sullo schermo innanzi a sé. Ma il peggio doveva ancora arrivare; e quando ascoltò le parole di Vincent, sentì qualcosa morirgli dentro.

“Sei un mostro senz’anima e senza vergogna! E mi fai pena… perché non capisci.” disse “Ti vanti dei tuoi risultati, di come Sephiroth sia diventato il perfetto SOLDIER che desideravi. E ti compiaci di quanto sia speciale, credendo di averne merito. Ma sei soltanto un uomo piccolo e cieco che neanche immagina cosa lo renda effettivamente tale. Sono bontà, gentilezza e sensibilità a renderlo migliore degli altri. Di te. E la sua volontà di resistere alla cattiveria, agli impulsi violenti della cosa dentro di lui. Ma tu questo non potrai mai capirlo.”

Deglutì ancora, una, due volte e sentì gli occhi pungere. Nessuno mai l’aveva accettato come Vincent. Nessuno mai aveva avuto così tanta fiducia in lui. In maniera totale. Ingenua. Perché, anche se aveva desiderato di corrispondere alle aspettative, lui non era affatto come l’altro lo descriveva. Perché, ora lo sapeva, fin da bambino era stato l’esperimento riuscito di Hojo. La perfetta miscela di Mako e Cellule Jenova di cui l’altro decantava. La macchina da guerra al soldo della Shinra. Il Generale temuto dai compagni e dai nemici senza distinzione. Unicamente capace di spegnere la propria sete nel sangue e di trarre soddisfazione dalla disfatta altrui. E dalla propria, incontestabile supremazia. Se solo avesse dato ascolto alla parte più oscura di sé, avrebbe volentieri fatto del Pianeta tutto un mare di lava incandescente, bruciando e spazzando via qualsiasi altra forma di vita inferiore. E ammetterlo gli provocò insperato sollievo.

Rise. Rise di sé, rise dell’ingenuità di Vincent e della vergogna che provava per averlo prima deluso e poi perso per sempre. Rise del destino che gli era toccato e di quanto fosse stato sciocco a pensare di poter intraprendere un cammino diverso. Di poter essere diverso dal mostro che era nato per essere. Ma ora che i suoi occhi erano aperti e vedevano chiaramente oltre il velo della menzogna, dell’inganno, sapeva esattamente dove andare. E cosa fare.

La rabbia sopraggiunse con la consapevolezza. Afferrò il monitor che gli rimandava le immagini del laboratorio sotterraneo e lo scagliò via. L’apparecchio descrisse un arco perfetto e andò a schiantarsi contro la parete, riducendosi in pezzi. Preso dalla frenesia gettò all’aria anche i computer, i fascicoli relativi al Progetto Omega e la sedia ivi disposta. Poteva solo immaginare tutte le volte in cui Hojo si era accomodato a quella scrivania per giocare con la sua cavia prediletta. Digrignò i denti, ringhiò e infierì sulle altre apparecchiature. Fece per lanciare da un lato anche il tavolo; ma si soffermò sul pannello di controllo delle porte e sulle luci gialle che si stagliavano una dietro l’altra, in fila. Si scansò i capelli dalla faccia, raggiunse il macchinario e senza pensarci due volte sbloccò gli accessi. Seguì un suono acuto, le spie divennero verdi e del clangore metallico risuonò per tutto il sotterraneo, lasciando intendere l’apertura dei passaggi. Il silenzio si stiracchiò per qualche istante, interrotto unicamente dal suo ansimare. Poi il ruggito si spanse stentoreo per l’ambiente, riverberando lungo tutti i muri e facendo tremare perfino i suppellettili del piccolo laboratorio in cui si trovava. Sorrise. Non gli interessava se era cosciente o meno. Finalmente l’aveva ritrovato… e stavolta non avrebbe permesso a nessuno di mettersi in mezzo.

Uscì dal laboratorio e percorse la strada a ritroso, passo svelto e cadenzato. Tornò alla biforcazione e guardò allo sbocco precedentemente ignorato. La luce andava e veniva, rendendo impossibile scorgere la fine del corridoio. Andò da quella parte; ma vociare e rumore di passi lo costrinsero ad arrestare il cammino. Voltò il capo e da sopra la spalla osservò la situazione. Un folto gruppo di soldati gli sbarrava la strada verso l’uscita del piano interrato, fucili puntati su di lui. Patetici.

“Signore!” l’apostrofò quello che riconobbe come il capitano della squadra di sicurezza “Ha infranto il protocollo, ha danneggiato le strutture del dipartimento di ricerca e si è introdotto in una zona preclusa e ad alto rischio. Sono certo che si tratta di un malinteso, ma la prego ugualmente di non opporre resistenza e di seguirci al quartier generale per effettuare rapporto!”

Un verso basso e gutturale fece eco all’ammonizione, serpeggiando sinistramente lungo le pareti. Di rimando lo sgomento si dipinse sulle facce dei soldati. Qualcuno fra essi indietreggiò, qualcun altro tremò, mentre la maggior parte di essi si guardava attorno senza capire, le mani rigidamente ancorate ai fucili. Perfino il capitano era sbiancato, forse sorpreso da quell’evento singolare e del tutto inaspettato. Hojo non li aveva informati, calcolò. Tanto più che non ravvisava lo scienziato fra essi. Scosse la testa. Era un codardo. Ma un codardo furbo, pensò.

Si lasciò scappare un piccolo sbuffo divertito e s’avviò lungo il corridoio che gli interessava, indifferente al gruppo alle sue spalle. E alle armi puntate su di lui.

“Questo è l’ultimo avvertimento, Generale!” urlò il capitano “Ci segua, o sarò costretto a spararle!”

Se l’immaginò, con il braccio alzato, pronto a dare il segnale di fuoco. Guardò dritto innanzi a sé e continuò a camminare, sordo agli ammonimenti. Il neon illuminò il corridoio, poi calò nuovamente il buio. Percepì uno spostamento d’aria e i suoi capelli, i suoi vestiti ondeggiarono. Quando tornò la luce, la creatura stava innanzi a lui e lo squadrava coi suoi grandi occhi gialli. Vincent. Il cuore aumentò i battiti. Chissà se riusciva a riconoscerlo… chissà se dentro di sé provava ancora delle emozioni. Si studiarono per attimi che parvero infiniti, mentre dietro di lui dilagava il panico, fra urla d’orrore, passi e voci concitate. Qualcuno fra i soldati non aspettò alcun segnale; e il rombo dello sparo invase il sotterraneo. Istintivamente serrò gli occhi. Il proiettile invece lo colpì di striscio sul braccio e poi andò a conficcarsi nel muro, lasciandosi dietro una scia di fuoco.

Si affrettò a riaprire le palpebre, incurante del bruciore, e vide le grandi ali membranose di Chaos schiudersi, proiettando alte ombre scure sulle pareti del corridoio. Schiuse le labbra, affascinato da così tanta magnificenza. Poi l’altro mostrò i denti e ruggì, così forte da scuotergli le membra, da ottundergli l’udito. S’irrigidì, mentre la creatura imprimeva un poderoso colpo d’ali e scattava in avanti a una rapidità incredibile; e quasi pensò che l’avrebbe aggredito. Invece gli sfrecciò accanto, investendolo soltanto con lo spostamento d’aria. I vestiti ondeggiarono, sbatterono e i capelli gli vorticarono attorno, coprendogli la visuale. Alle orecchie invece gli arrivarono chiari le urla, i versi inarticolati di Chaos e gli spari dei fucili. Labile difesa.

Si voltò a osservare la carneficina, ad assaporare il rumore della carne dilaniata, delle ossa in frantumi e dei lamenti strozzati nel sangue. Vide pezzi di membra cadere a terra e schizzi cremisi imbrattare le pareti, il pavimento a ogni morso, a ogni artigliata, mano a mano che la creatura si faceva largo verso l’uscita. Inebriato, s’incamminò a sua volta verso il piano superiore, seguendo la scia di distruzione che l’altro lasciava dietro di sé. Ad ogni passo gli stivali affondavano nella consistenza molliccia delle interiora e scivolavano sul pavimento viscido di sangue. L’odore era acre, pungente. Sapeva di polvere da sparo, di escrementi e di fluidi corporei. Sapeva di morte.

Raggiunse le scale che Vincent era già scomparso alla vista, inghiottito dalla luminosità abbacinante che si stendeva oltre l’uscita in cima. Iniziò l’ascesa con estrema tranquillità, accompagnato dal trambusto e dalle urla che dal piano superiore si riversavano nel sotterraneo. Sì, era così che doveva essere. L’equilibrio naturale delle cose era infine stato ripristinato. E c’era ancora qualcuno che doveva esserne messo a parte: un messaggio che avrebbe presto recapitato di persona. Sorrise fra sé, pregustando il momento, e continuò a salire, ammantato di una gelida calma che mai come in quel momento sentì totale. Dopotutto non doveva più fingere, né trattenersi. Doveva solo essere se stesso; ed era la cosa che gli riusciva meglio, pensò, mentre sfoderava la Masamune.

***
 
Corse a perdifiato lungo il corridoio illuminato di rosso. L’allarme era scattato solo da pochi minuti e la voce preregistrata continuava a ripetere l’ordine di evacuazione, assordante e leggermente metallica. Non sapeva come si fossero svolti i fatti, ma Sephiroth aveva varcato la soglia del sotterraneo e ora Vincent Valentine, anzi no, quella bestia dissennata di Chaos s’aggirava liberamente per i laboratori, disseminando morte e distruzione. Difficile dire dove finisse l’uno e iniziasse l’altra, comunque. Ma di una cosa era certo: stava cercando lui. Sapeva che era così. E l’unica via di salvezza era sparire senza lasciare traccia. I soldati e i sistemi di sicurezza della struttura soprastante non erano progettati per resistere a una simile furia…

Svoltò alla prima diramazione, incespicò nei propri piedi e finì contro il muro. Frappose le mani nel mezzo, riacquistò l’equilibrio e riprese la corsa. Il cuore gli batteva nel petto, nella gola e perfino nelle orecchie, come impazzito. Lo sforzo era indubbiamente superiore alle sue capacità fisiche, vuoi per l’età, vuoi per la scarsa prestanza, ma l’adrenalina lo sosteneva ancora adeguatamente. Doveva abbandonare il suo centro di ricerca. E in fretta. Il mondo non avrebbe pianto la scomparsa degli altri dipendenti. Dopotutto erano carne da macello, pedine sacrificabili per un fine superiore. Dovevano solo resistere per il tempo necessario. Ma lui non rientrava nella categoria e doveva assolutamente mettere al sicuro la sua mente geniale. Preservarla per il bene della scienza e del progresso. Tuttavia non poteva andarsene a mani vuote, senza le sue ricerche e i risultati di una vita. E tutto per colpa di quel ficcanaso di suo figlio!

Sfoderò una smorfia e lasciò schioccare le labbra, stizzito. Gli anni erano passati, sì, ma le vecchie, incresciose abitudini di Sephiroth erano rimaste le stesse: e suo figlio ancora non sapeva rimanere al suo posto. S’appuntò mentalmente di rimediare, se e quando ce ne sarebbe stata occasione, e s’infilò nel Settore D, dirigendosi di gran carriera all’ufficio che gli interessava. Si lasciò dietro la sala computer, sfrecciò oltre la divisione di coordinamento, attraversò lo spazio ristoro e raggiunse l’ingresso in questione che il fiato gli raschiava letteralmente la gola, tanto era affannoso. Puntò il lettore magnetico accanto alla porta e mise mano al proprio tesserino d’identificazione, pronto a sbloccare l’accesso. Passi, urla e parecchio clangore proruppero dal corridoio sulla sinistra, strappandogli un sussulto. Lasciò cadere il cartellino, complici le dita sudate, e adocchiò freneticamente da quella parte. Il passaggio era sgombro fin dove arrivava lo sguardo, ma il rumore parlava da sé. Doveva essersi avvicinato al pericolo, considerò; ma si costrinse a ignorare la paura. Si accovacciò a terra per recuperare quanto aveva perso e per lunghi, infiniti istanti annaspò con le dita sul pavimento. Quando sentì la sottile consistenza della plastica fra indice e pollice rilasciò un sospiro di sollievo. Tornò alla serratura, mentre il trambusto s’avvicinava inesorabilmente, e passò la banda nel lettore magnetico. Non appena il “beep” gli comunicò il via libera  si gettò di peso sulla porta.

L’uscio si schiuse e lo catapultò all’interno, richiudendosi poi alle sue spalle con un leggero tonfo. Caracollò in avanti di qualche passo per via dell’impeto e per poco non cadde a terra lungo disteso. Allargò le braccia, puntò i piedi e riacquistò l’equilibrio per un soffio; dopodiché andò rapidamente con gli occhi agli schedari che si stendevano per tutta l’area della stanza, ordinatamente disposti in file. Molta della roba lì contenuta non era che carta straccia: banali test su cellule animali, teorie senza alcun fondamento pratico sul Life Stream o dati inerenti ai suoi precedenti, straordinari risultati scientifici. Come quelli legati al suo sciocco e ingrato figliolo, ad esempio. Eppure c’era qualcosa di cui necessitava per il Progetto Omega, il suo ultimo, più grande esperimento. Adocchiò l’indicizzazione e individuò subito la fila e il numero di schedario che gli serviva. Lo raggiunse a grandi passi, lo aprì e per lunghi istanti scartabello fra le schede lì disposte. Infine trovò quanto cercava: i dati riguardanti il Soggetto W. Il vascello di Omega.

Piegò le labbra in un sogghigno soddisfatto e restò in contemplazione di quanto teneva fra le dita; ma l’urlo di una donna trapassò la consistenza della porta e lo riscosse dal suo personale angolo di compiacimento. Non si premurò di chiudere lo schedario; semplicemente rafforzò la stretta sui fogli che stringeva e si diresse all’uscita, nuovamente verso i corridoi del Settore D. Schiuse l’uscio e guardò all’esterno. La luce rossa si proiettava a intermittenza lungo i muri e la voce preregistrata echeggiava in ogni dove, sovrastando gli altri suoni. Ciononostante poteva riconoscere nel rumore di sottofondo le grida, i passi e… i versi inumani della bestia. Ingollò a vuoto. Attraverso lo spiraglio il corridoio appariva deserto, ma se voleva raggiungere il suo ufficio, recuperare ciò che gli mancava e abbandonare il dipartimento di ricerca  doveva rischiare. E continuare a correre, anche se le sue gambe erano pesanti, vittime dei crampi e scosse da insopprimibili, violenti tremori.

Lasciò scivolare i denti gli uni sugli altri, trasse un profondo respiro e sgusciò fuori dall’archivio. All’inizio annaspò, quasi i margini inferiori del camice cercassero di intralciarlo, di agguantarlo per le caviglie. Poi combatté contro la stoffa, contro i limiti del proprio organismo e in qualche modo riuscì a prendere il giusto ritmo, proseguendo abbastanza spedito. Imboccò il tragitto da cui era venuto: indubbiamente la strada più breve per il suo ufficio. Attraversò nuovamente la zona ristoro, passò una seconda volta davanti alla divisione di coordinamento e raggiunse la sala computer. Poco oltre tre individui, fra assistenti e inservienti, gli sfrecciarono accanto. Uno di essi quasi l’investì, così impegnato a guardarsi alle spalle da non prestare attenzione a dove metteva i piedi. Si gettò di lato, sul muro; e un brivido gli risalì la spina dorsale, carico d’anticipazione. Dopotutto poteva ben immaginare da cosa stavano scappando. E forse aveva commesso un frettoloso errore di calcolo quando aveva assunto che la via più breve fosse anche quella più sicura. Tanto più che il suo respiro era ormai un rantolo doloroso, che gli graffiava la gola e i polmoni. Le sue gambe erano molli, intorpidite. Il sudore invece gli imperlava la fronte, gli bagnava il petto e la schiena, scendendo a rivoli lungo le tempie e il collo. Era sfinito. Indugiò contro la parete, gli occhi rivolti alla svolta che l’attendeva, pochi passi avanti a sé: un angolo cieco che accresceva soltanto la paura dell’ignoto. Percepì pietosi lamenti, qualche supplica e passi concitati provenire proprio da lì. Tremò e, mano a mano che i secondi si susseguivano, avvertì il pericolo accendersi in ogni cellula del corpo; poi un sonoro ruggito face eco ai lamenti e si ripercosse sulle pareti, facendole tremare. Non c’erano più dubbi: stava arrivando. E lui era sulla sua strada.

Avrebbe voluto fuggire nella direzione opposta e mettere quanta più distanza possibile fra sé e la creatura; ma il suo cervello sempre reattivo non riusciva a inviare i giusti impulsi al resto del corpo, condannandolo all’immobilità. Panico. Ne era pienamente conscio eppure completamente incapace di contrastarlo, ormai intrappolato in un velo di sudore gelido. Con orrore puntò le ombre che si proiettavano sulla porzione di corridoio che riusciva a scorgere da dietro l’angolo. Vide la sagoma dell’uomo arrancare, cadere e rialzarsi per continuare a correre disperatamente. Percepì lo spostamento d’aria, riconobbe le ali enormi di Chaos schiudersi, offuscare la luce dei neon e proiettare ombre più lunghe, più scure sul pavimento e sulle pareti. Tremò, scosso dal verso inumano, rabbioso della creatura. Di rimando si appiattì lungo il muro e serrò le palpebre. Poi urla soffocate e rumore di membra dilaniate si ripercossero nelle sue orecchie, quale nefasto preludio. Riaprì gli occhi, strinse le schede al petto e portò la mano libera alla bocca, impedendosi così di emettere anche solo un fiato. Oltre l’angolo, disegnate sulla parete, le due sagome apparivano come una. Incapace di distogliere lo sguardo, vide le ombre muoversi, separarsi con un sonoro, netto schiocco; e qualcosa accasciarsi a terra con un tonfo. L’arto di Chaos si tese all’indietro per poi scagliarsi rapidamente in avanti. Qualcos’altro volò oltre la copertura, lungo la porzione di camminamento visibile, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue. Quando riconobbe nell’ammasso di carne la testa dell’uomo ancora attaccata a parte della colonna vertebrale, sentì le forze venirgli meno. Dall’altra parte, così vicino, Chaos indugiava in piedi lungo il corridoio, emettendo un basso, sordo ringhio. E pensò che stesse annusando l’aria, captando la sua paura. Annaspò in cerca d’ossigeno e per poco non fece cadere a terra i fogli, rivelando così al mostro la sua posizione. S’irrigidì ulteriormente, quasi si accartocciò su se stesso, incapace di fare altro se non aspettare l’inevitabile. O sperare nella buona sorte: un concetto non dimostrabile e in cui non aveva mai creduto. Gli occhi fissi sui resti di colui che l’aveva preceduto.

Improvvisamente udì altri passi, altre urla in lontananza. E l’ombra di Chaos si ritrasse con un ruggito per tornare da dov’era venuta, all’inseguimento di chi era stato così sciocco da attirare la sua attenzione. Scivolò a terra, lungo la parete, col cuore che gli batteva così forte nel petto da fargli vibrare tutta la gabbia toracica. Ansimò, tremò e si asciugò il sudore dalla fronte con la manica del camice. L’universo doveva essere dalla sua parte, considerò brevemente; ciononostante non poteva restarsene lì accovacciato, non quando gli era stata riservata l’occasione di proseguire e di perseverare nei suoi intenti.

Si appoggiò al muro retrostante, fece forza su di esso e si rialzò faticosamente. Era troppo vecchio per simili sforzi. Barcollò e riprese la marcia, a dispetto del dolore, a dispetto della fatica. Ignorò il corpo smembrato che stava ai suoi piedi, ignorò l’allarme, i colpi di fucile e le urla sempre più disperate, lasciandosi alle spalle il Settore D. Lungo la strada qualcuno l’appellò, lo scosse per le spalle, forse per spingerlo a seguire il piano di evacuazione. Ciononostante si scrollò di dosso i seccatori e, senza guardare in faccia a nessuno, svolta dopo svolta, passo dopo passo, raggiunse finalmente la soglia del suo ufficio.

L’interno era in ordine, esattamente come l’aveva lasciato quella mattina quando era uscito per il giro di controllo dei laboratori, attorniato dai suoi assistenti. Si diresse alla scrivania senza chiudersi la porta alle spalle, aggirò il piano colmo di carte e andò con la mano alla maniglia del primo cassetto. L’aprì e il prezioso contenuto rotolò verso l’esterno. La Protomateria rifulgeva nella penombra del vano, in attesa di lui. Si umettò le labbra, descrivendone brevemente la lucida linea; dopodiché l’afferrò con decisione e s’incamminò nuovamente all’uscita. Doveva sbrigarsi e abbandonare l’edificio una volta per tutte. Se avesse rispettato i piani di sicurezza come tutti gli altri idioti lì presenti non ce l’avrebbe fatta. Il panico ormai dilagava e le uscite d’emergenza dovevano essere intasate, colme d’individui mediocri che spasimavano per la propria, inutile vita. Tuttavia, come la maggior parte del personale ignorava, si poteva uscire anche dal vano smaltimento rifiuti. Ironico che dovesse ringraziare proprio Vincent Valentine e i suoi vecchi tentativi di fuga, per questo.

In prossimità della soglia sollevò lo sguardo e il cuore mancò un battito. Non l’aveva nemmeno sentito arrivare, ma Sephiroth stava in piedi sull’uscio, algido nella sua impeccabile, austera figura. E gli sbarrava la strada: uno scenario che non aveva previsto. Barcollò all’indietro per lo sgomento e face appello a tutta la propria forza di volontà per restare in piedi.

“Stava andando da qualche parte, professore?” esordì l’altro; poi il ragazzo sfoderò un sorrisetto malizioso “Quando la nave affonda il capitano affonda con essa. Ma i ratti fuggono sempre per primi dalla stiva, non è così?” lo schernì; e i fogli, la Protomateria gli caddero di mano.

La sfera rimbalzò a terra, sui documenti e rotolò sul pavimento, raggiungendo gli stivali del First Class. Con estrema tranquillità Sephiroth si chinò e la raccolse con un unico, fluido gesto. S’irrigidì e fece un passo avanti, desideroso di strappargliela di mano; ma di fatto non c’era niente che avrebbe potuto fare per impedirgli di toccarla. Non subito, almeno. Inarcò le sopracciglia, storse le labbra e strinse i pugni, mentre l’altro se la rigirava fra le dita con perfetta nonchalance.

“Questa la prendo io.” affermò il Generale “Dopotutto non ti appartiene.” soggiunse; e lo puntò dritto negli occhi con le sue iridi serpentine.

Sembrava sicuro di sé, calcolò, e nel suo sguardo non c’era traccia di dubbi. Solo malizia e un pizzico di disprezzo; ma a differenza di Vincent Valentine, o di ciò che ne rimaneva, considerava Sephiroth un avversario alla sua portata. Non sapeva di preciso cosa avesse scoperto nel sotterraneo, di certo non si era aspettato di fronteggiarlo così presto e in un simile, scomodo momento, ma con un po’ d’astuzia e la giusta calma era sicuro di poter ancora volgere la situazione a proprio vantaggio. Di indurlo alla ragione. Di rimando si spazzolò i lembi del camice, si riavviò i capelli e si sistemò meglio gli occhiali sul naso, dandosi una sorta di contegno.

“E a chi apparterebbe? A te, forse?” domandò, retorico “O magari a quella bestia dissennata.” sottolineò infidamente, cercando invero di capire se l’ex Turk fosse ancora il nervo scoperto di suo figlio. E il giovane First Class non mancò di dargli soddisfazione.

“Il suo nome è Vincent.” puntualizzò infatti; e ciò gli conferì ulteriore sicurezza.

Scrollò le spalle e soggiunse: “Affannarsi è inutile, Sephiroth. Se n’è andato. E stavolta per sempre. Credi che riesca a ragionare? Che ti riconosca? Ah! Sciocchezze. L’unica cosa che gli interessa è distruggere. Cose, persone. Tutto quanto. È stato il Pianeta stesso a designarlo per questo. È la sua natura.”

Il Generale non replicò e seguitò a presidiare l’ingresso senza colpo accusare. Assottigliò le palpebre, incerto su come interpretare simile comportamento. Era già consapevole della sorte toccata a Valentine o non gli importava, contrariamente a quanto presupposto? Quale che fosse la risposta non poteva esitare, rimanere in silenzio o l’altro avrebbe percepito il suo netto svantaggio.

“Capisco che tu sia sconvolto.” convenne “Ma è così che dovevano andare le cose, Sephiroth. E la Protomateria è più utile nelle mie mani che nelle tue.” specificò; e tese anche il braccio, in attesa che gliela restituisse.

A dispetto della sicurezza ostentata, l’arto gli tremava. L’ignorò e continuò ad aspettare come niente fosse. Tuttavia il First Class restò immobile e in silenzio, a fissarlo di lontano. Nient’affatto propenso a venirgli incontro. Non si era di certo immaginato una resa immediata e senza condizioni, ovviamente, ma sotto la facciata da Generale dei SOLDIER Sephiroth era sempre stato un tipo emotivo. La persona che aveva di fronte in quel momento, invece, non aveva niente del ragazzo che ricordava. E non sapeva cosa aspettarsi. O come prenderlo, s’accorse con sgomento. L’idea che stesse semplicemente giocando con lui, logorandogli i nervi col silenzio, con l’attesa, andò improvvisamente a stuzzicarlo. Dopotutto non aveva tutto il tempo del mondo e ne aveva già perso a sufficienza. Ciò lo destabilizzò ulteriormente. Digrignò i denti, ritrasse il braccio e rispose con aggressività alla freddezza.

“Possibile che tu non te ne renda conto?” domandò quindi “Ho fatto tutto questo per te! Per noi! Per un grandioso, straordinario disegno che ancora ti ostini a non vedere! Di certo non potevo permettere a quel piccolo, sporco Turk di mettersi in mezzo e di rovinare tutto! Ho dovuto distruggerlo.” si umettò le labbra; e si accorse che la rabbia aveva infine preso il sopravvento sul timore, forse aizzata dall’ingratitudine dimostratagli. Si concesse un lungo, mesto sospiro e cercò di riacquistare la calma; poi sfoderò un’espressione più morbida e soggiunse: “Intralciarmi non ha alcun senso, Sephiroth. Sono l’unico alleato che hai. Che hai sempre avuto. E la sola cosa che puoi fare per lui, per quella bestia, è porre fine alla sua follia. Alla sua sofferenza. Sarebbe misericordioso da parte tua, non trovi?”

Quell’ultima precisazione infranse l’immobilità del Generale, perché Sephiroth scosse la testa e rise. Un suono così lugubre da fargli accapponare la pelle.

“Sembrerebbe un suggerimento saggio. Quasi appassionato.” commentò poi, le labbra arricciate verso l’alto in un terribile sogghigno “Comodo per cavarsi d’impaccio, soprattutto. Mi sbaglio?”

L’ulteriore scherno contribuì a mandare definitivamente in frantumi la sua maschera di compostezza.

“Io so cos’è giusto per te, ragazzino!” strillò, i pugni serrati e le braccia adese ai fianchi “Dovresti obbedirmi, portarmi rispetto! Da quando sei nato ho sempre agito nel tuo interesse! Sempre. E guarda dove sei arrivato! Chi sei diventato!” sottolineò, puntandogli l’indice contro “Tutto il Pianeta ti acclama come eroe! E Valentine… Ah! Non devi proprio niente a quel Turk! Per lui sei sempre stato nient’altro che un insignificante, pietoso surrogato di…”

 “…di mia madre.” concluse Sephiroth “Di Lucrecia.” specificò; e nel sentire quel nome pronunciato dalle vivide labbra di suo figlio perse tutta la ferocia e fece un passo indietro.

Si morse il labbro inferiore e cercò sostegno nella scrivania retrostante. Le dita sudate scivolarono sul piano e per poco, vuoi per le gambe molli come burro, vuoi per lo sgomento, non finì col sedere per terra.

“Faresti meglio a tenere per te la tua ragnatela di bugie.” continuò l’altro; e fece un passo avanti “Sei sempre stato bravo con le parole, devo ammetterlo. Ma stavolta non ti serviranno. Vedi, non sono mai stato più conscio del mondo attorno a me. E so esattamente cosa stai cercando di fare… padre mio.”

Il Generale rise e scrollò il capo, le spalle, compiendo un altro passo in avanti. Di rimando aderì alla scrivania, affatto sorpreso di sentirsi appellare in quella maniera. Più un moto di scherno che un effettivo riconoscimento, comunque. Ingollò a vuoto; mentre l’altro accorciava ulteriormente le distanze, prendeva la Protomateria con la sola destra e lasciava indugiare la sinistra sull’elsa della Masamune. Sentì lo stomaco contrarsi.

“Sephiroth!” strillò, tremò e deglutì ancora, come se avesse un limone incastrato in gola “Non puoi farmi questo! Io sono tuo padre! Sangue del tuo sangue!” strillò ancora, guardandosi freneticamente attorno, alla ricerca di una via di fuga o di qualcosa con cui difendersi “Possiamo ancora uscirne puliti. Insieme. Restituiscimi la Protomateria, uccidi quel mostro e sarai l’eroe che ha salvato il dipartimento di ricerca! Il Presidente Shinra ti ricompenserà di certo!” spergiurò, vittima del panico “Potresti addirittura prendere il posto di Lazard nei SOLDIER e io…”

Sephiroth rise più forte, di lui, delle sue speculazioni; ed estrasse la katana. La Masamune baluginò nell’ambiente, ma ciò che maggiormente l’atterrì fu il sangue che già ne macchiava il filo della lama. E capì che suo figlio aveva preso la sua decisione molto prima di mettere piede in quell’ufficio, falciando chi aveva osato mettersi sul suo cammino. Mancò un battito e si artigliò al piano retrostante, occhi e bocca sgranati. Dall’alto, Sephiroth lo fissava così come un gigante avrebbe fatto con una formica.

“Un ragionamento ineccepibile, professore.” disse; il suo tono di voce era calmo, ma nella freddezza dei suoi occhi non c’era comprensione, né pietà “Ma ti è sfuggito un dettaglio importante: io non sono un eroe.” puntualizzò; e rise, stavolta più mestamente “Non è buffo? Sono sempre stato così intimorito da te, un misero omuncolo senza spina dorsale, da confondere chi fra i due fosse realmente il mostro.”

Rabbrividì, incapace di muoversi, incapace di parlare o di fare altro che esulasse dal fissare l’essere lì davanti, terribile nella sua glaciale determinazione. Sephiroth si chinò su di lui, così vicino da sfiorargli le membra con i capelli, e gli sussurrò all’orecchio.

“Dimmi, come ci si sente?” gli domandò; e rabbrividì al semplice suono di quella domanda insidiosa “Tutto ciò in cui credevi è stato ridotto in pezzi. Le tue certezze sono state spazzate via. E il potere che pensavi di possedere si è rivelato nient’altro che un’illusione. Non hai mai avuto controllo su di me. Su di noi. Ma la troppa sicurezza ti ha reso cieco. E ottuso. La verità è che sei niente. E ora il pavimento sembra crollarti sotto i piedi. Il cuore sembra esploderti nel petto. Spaventato e messo alle strette dai tuoi stessi strumenti. Temi di morire a un passo dalla meta. E di essere dimenticato, di passare alla storia come uno dei tanti nessuno che sono morti prima di te, accecati dalla vanagloria. Perché nel profondo, oltre l’istinto di sopravvivenza, sai che è questo ciò che succederà…”

Digrignò i denti, oltraggiato da quel dire così irriverente.

“…e io mi assicurerò di bruciare ogni cosa di questo posto. E di bruciarne le ceneri. Finché del tuo passaggio su questo mondo non resterà niente. O nessuno che lo ricordi.”

No. Non gli avrebbe permesso di passarla liscia, di vanificare così tutti i sacrifici che aveva fatto in anni di duro lavoro.

“Tu, piccolo ingrato…” sibilò.

Con dita tremanti afferrò la stilografica che stava sulla scrivania e cercò di colpirlo nell’occhio, sperando di toglierselo di dosso il tempo necessario per scappare.
Il Generale si scansò, schivò la penna e sollevò il braccio. Di rimando la Masamune descrisse un lungo arco argentato, tagliando perfino l’aria con un sordo sibilo. Cacciò un singulto e lasciò cadere l’arma impropria, ma grazie all’adrenalina guizzò in avanti, con tutta l’intenzione di imboccare l’uscita e far perdere le proprie tracce. Il pensiero fu meno veloce della stoccata. La lama penetrò all’altezza della spalla e lo trapassò di netto, inchiodandolo alla scrivania. Urlò e serrò gli occhi, mentre il fuoco si diffondeva dall’arto a tutto il resto del corpo, intorpidendolo. Le gambe cedettero e per lunghi, dolorosi istanti restò appeso per la ferita. Urlò ancora e slittò sul pavimento, cercando la forza per rimettersi in piedi. Innanzi a lui, Sephiroth presenziava impassibile.

“Infido fino all’ultimo, noto.” commentò “E che sia chiaro: il fatto che tu sia mio padre è una mera e ininfluente coincidenza.” stabilì il SOLDIER prima di dargli le spalle.

Batté le palpebre, sibilò di dolore e lo guardò allontanarsi. Sephiroth uscì, ma indugiò in prossimità della soglia. Non capì; e quasi pensò di aver ottenuto quanto desiderava. La sopravvivenza. Aveva perso la Protomateria e i dati relativi al Progetto Omega, ma aveva conservato la cosa più importante: la sua mente geniale. Sì, certo!, considerò febbrilmente: con essa non avrebbe faticato a ricominciare da capo; e gli imprevisti, le avversità erano sempre state uno stimolo a fare di più. A osare di più. Doveva solo liberarsi e…

“Sta arrivando.” disse Sephiroth; e soltanto allora, oltre l’allarme, oltre il trambusto di sottofondo, riconobbe il verso basso e gutturale di Chaos. E il disegno di Sephiroth.

Il cuore prese a battergli all’impazzata nel petto, lo stomaco gli si accartocciò su se stesso, mentre alla mente gli tornava nitido soltanto il dettaglio della testa di quell’uomo, divelta con parte della colonna vertebrale ancora attaccata. Annaspò, senz’aria. Andò con le mani alla Masamune e piantò i palmi nella lama, nel disperato tentativo di liberarsi. Sgusciò, tentò di nuovo, sordo al dolore e al sangue caldo che gli scorreva sulle braccia; ma la lama era stata impressa così a fondo nel legno da risultare inamovibile. Il panico sopraggiunse subito dopo. Scalciò e cercò di alzarsi, di scappare, anche a costo di strapparsi via il braccio. Inutilmente. Percepì un tonfo in lontananza. Puntò le iridi alla porta. Seguì un altro tonfo, nettamente più vicino. Infine, con un ruggito poderoso, Chaos abbatté l’ultima barriera e irruppe nell’ufficio, sfondando la porta e parte del muro come fossero fatti di cartapesta. Mentre gli si gettava addosso, gli artigli protesi e le ali spalancate, il buio calò su di lui. E urlò. Urlò fino a perdere la voce, fino ad assordarsi. Artigliata dopo artigliata. Di lontano la voce di suo figlio recitò, impassibile: “E così il Soldato affrontò il Ragno Tessitore e vendicò la Principessa cui era stato rubato il sorriso.”

***
 
Sentì pulsare. Dapprima piano, poi sempre più vigorosamente. Batté le palpebre e trasse un profondo respiro, come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno. Non sapeva dove si trovava e le uniche certezze risiedevano nel calore che avvertiva sulla pelle, nel sapore acre che aveva in bocca e nelle urla, nei lamenti che di tanto in tanto gli raggiungevano l’udito. Sollevò lo sguardo: selvagge volute si arrampicavano lungo i pilastri e le travi del luogo in cui si trovava, annerendo e consumando ogni cosa. Un pezzo del soffitto crepitò, si sfaldò e cadde al suolo, a pochissima distanza da lui, portandosi dietro fiamme, scintille e fumo nero. Non vi badò.

Si portò le estremità superiori innanzi al viso, invece, e adocchiò con attenzione i propri artigli. Erano viscidi, interamente sporchi di sangue. I rivoli cremisi gli arrivavano ben oltre i gomiti, ormai raggrumati in macchie più scure, e gli incrostavano la pelle tanto da tirargliela. Doveva averne degli altri anche sulla faccia e lungo il collo, perché si sentiva sporco e appiccicoso anche lì. Emise un verso basso, vibrante e provò a schiudere le ali. Di rimandò impattò contro il muro; e un’altra porzione di cemento cadde a terra, sollevando polvere, detriti e altre volute di fuoco. Scoprì le zanne e ruggì, ritraendosi.  

“Vincent.”

La voce era maschile, calma. Si girò da quella parte. Accanto a sé c’era l’uomo dai capelli argentati, col braccio teso e la mano poggiata sul suo petto. Al di sotto di essa, il calore avvampava e il cuore –il suo cuore- batteva ormai all’impazzata. Schiuse le labbra, i canini che premevano internamente, inclinò appena il capo e lo fissò dritto negli occhi, senza capire. Vincent…? Vincent. Non sapeva cosa significasse, ma per un istante si chiese se un tempo era stato umano anche lui. Provo a ripetere la parola ma dalla sua bocca uscì nient’altro che un gorgoglio incomprensibile. L’altro corrucciò le sopracciglia e scosse la testa. Poi sorrise mestamente.

“È troppo presto. Andrà meglio, vedrai.” disse; ma non sembrava crederci davvero, perché le iridi smeraldine che lo stavano scrutando erano velate dall’incertezza.

Accusò una fitta al petto. Non sapeva dove si trovasse, chi fosse o cosa era successo, ma conosceva quell’uomo. Lo sentiva. Perché era l’unica cosa sulla faccia della terra che, nonostante l’odio, nonostante la rabbia e il tormento, non era disposto a dilaniare. Forse proprio per questo, non riusciva a sopportare la luce fioca di quegli occhi.

“… phi… roth…” gorgogliò; e l’altro s’illuminò per un flebile istante.

Allungò anche il braccio, gli artigli e fece per sfiorargli il viso. Voleva… consolarlo? Non seppe rispondersi, ma non poteva toccarlo. Non quando ogni centimetro di sé era ricoperto di sangue. Emise un basso, vibrante lamento e ritirò la mano artigliata. Di rimando Sephiroth si protese in avanti, afferrò l’arto in questione e gli impedì di sottrarsi. S’irrigidì appena, mentre l’altro lo fissava intensamente, affatto intimorito da lui; poi Sephiroth chinò lo sguardo, il capo e si portò il dorso della mano artigliata alle labbra, posandovi un bacio delicato.

“Perdonami.” disse; e strinse febbrilmente con le dita, indugiando in una specie di carezza “Per essere stato così cieco. Per non aver capito… che da me a te non c’era che un passo di distanza.”

L’altro s’inginocchiò davanti a lui e protese ambo le braccia. Gliele passò attorno alla vita e lo strinse a sé come fosse la cosa più naturale del mondo. Lo lasciò fare, cercando di capire il senso della situazione e delle parole.

“Ma non permetterò più a nessuno di farti del male. Né di mettersi in mezzo.” proferì; e il tono della sua voce si fece più duro “Finalmente mi è tutto chiaro. Ho capito chi sono, cosa voglio. E non ho più intenzione di scappare da me stesso.” proclamò “Insegnerò loro, a questa stolta umanità, il vero significato della paura, del dolore. E che il tradimento si paga col sangue. Hanno avuto a disposizione l’Eden e guarda cosa ne hanno fatto! I Reattori ne usurpano la vita, la guerra ne annerisce le lande. C’è bisogno di un nuovo inizio. Brucerò ogni cosa dalle fondamenta, eradicherò la speranza dai loro cuori, e quando il suono della disperazione riempirà l’aria, infliggerò a questo Pianeta corrotto il colpo decisivo. Il mio sarà un castigo misericordioso, perché libererò l’umanità dalla menzogna, dalla cupidigia, e libererò il Pianeta dal cancro dell’umanità. Con te al mio fianco darò inizio a un’era in cui saremo liberi. E padroni dell’Eden che ci è stato negato.”

La determinazione di Sephiroth, la sua voglia di distruggere stuzzicarono la parte più viscerale, più ferina di lui. Fremette da capo a piedi, contrasse i muscoli e serrò spasmodicamente gli artigli, emettendo un lungo, basso ringhio. Carico d’anticipazione. L’altro sollevò il capo e lo guardò dal basso, senza smettere di abbracciarlo.

“Con te al mio fianco. Finalmente insieme.” reiterò, in attesa; e nei suoi lineamenti, nelle sopracciglia corrucciate, negli occhi colmi di languore, gli sembrò di scorgere una supplica e una speranza “La strada che voglio percorrere è in salita, senza uscite. Proprio come dicesti tu. Ma non dev’essere per forza solitaria. Perciò stavolta andiamo insieme, come un tempo.” soggiunse; e rafforzò la stretta delle braccia.

Il calore di Sephiroth andò a scaldarlo più delle fiamme e molto più in profondità, risvegliando sensazioni sopite. E qualche vecchia reminescenza: un bacio mancato, un desiderio disatteso. Non capiva bene la situazione, ma di una cosa fu improvvisamente certo: gli bastava ricambiare quello sguardo per ricordare che sì, un tempo era stato umano; e che l’aveva amato immensamente. E che ciononostante l’aveva perso, come aveva perso qualcun altro prima di lui. E che senza ciò che aveva ritrovato sarebbe stato nuovamente null’altro che un mostro, incapace di provare emozioni o sentimenti. Eccetto il primordiale desiderio di distruggere…

Il soffitto crepitò e altri detriti caddero dall’alto, trascinandosi dietro fiamme e fumo. Di rimando ricambiò l’abbraccio, schiuse le ali e avvolse Sephiroth fra le membrane rosso scuro. Voleva… proteggerlo? Sì. E tenerlo con sé. Il cemento impattò su di lui e scivolò oltre, sul pavimento, mentre l’altro rilasciava il fiato, gli passava le braccia attorno al collo e gli si avvinghiava maggiormente addosso. Come se avesse aspettato quel momento da anni. Percepì umido, captò un lieve singhiozzo e accusò un’altra fitta al petto. Di rimando emise un basso, lungo ringhio di cordoglio. Non voleva che soffrisse. Voleva che sorridesse, invece; e nel futuro di cui Sephiroth gli aveva parlato, quegli occhi verde smeraldo non si sarebbero più velati d’amarezza, realizzò: una prospettiva per cui avrebbe volentieri annientato qualsiasi altra forma di vita esistente. Come natura gli imponeva.
 
Quando la guerra delle bestie porterà la fine del mondo,
la dea scenderà dal cielo.
 
Ali di luce e oscurità si dispiegheranno.
Ella ci guiderà verso la felicità, il suo dono eterno.
La leggenda racconterà di sacrificio alla fine del mondo.
 
The end. oo' *e venne randellatta da tutti* (Sono... morto! °A° ndHojo; Sono rimasto bloccato in versione Chaos. =_=' ndVincent; Sono impazzito. Al solito, insomma. << ndSeph)
Ok, ok. Innanzi tutto scusate per la sparizione ma sotto le feste ho avuto un periodo parecchio impegnato. ^^' Ma sappiate che risponderò a tutti in questi giorni. >-< Giurin giuretto parola di lupetto! °A° *e venne randellata di nuovo*
Passando alla storia, avevo preannunciato che non sarebbe stato un finale roseo. oo' Non lo è. *fa ciao ciao con la manina al Pianeta* ùù''' Spero comunque di avervi intrattenuti piacevolmente e che quest'ultimo capitolo abbia chiuso in maniera soddisfacente tutte le parentesi aperte nei precedenti. Per eventuali domande sono a disposizione! Lol. Da una parte, comunque, mi rendo conto che questa conclusione faccia nascere domande del tipo "Ok, ma ora che ne sarà del Pianeta e di tutti gli altri?". O almeno io ci ho pensato... e da qualche parte mi è nato il desiderio di scrivere un prosieguo. Non so come e quando, però. (Cloud! *w* Vuoi essere il mio prossimo protagonista? *w* ndCompaH; Yoh! Finalmente mi prendi in considerazione! ** ndCloud; Pensa, Zack non morirà e potrà combattere con te i cattivoni che vogliono distruggere tutto! *w* ndCompaH; Evviva! *w* ndCloud; Però considera che Hojo è già morto e che a Nibelheim non sei stato modificato con le cellule Jenova, per cui sei un fante scarserrimo. oo' ndCompaH; <<''' ndCloud che fa le valige; Ma dove vai? °A° ndCompaH; Su un altro Pianeta, ovvio! °A° ndCloud) .
Non so dire come sia venuto il capitolo, ma sono comunque contenta e soddisfatta per essere riuscita a portare a termine il tutto. Fatemi sapere cosa ne pensate e se nel complesso la storia è ben strutturata! Naturalmente ringrazio tutti quelli che mi hanno seguita e commentata. Scrivere fanfiction è molto divertente, ma condividere quest'avventura assieme a voi è ancora meglio! Vi voglio bene! *w* Per concludere, se vi va e per chi non l'ha già fatto, potete trovare le mie altre storie nella mia pagina autore. O in alternativa qui: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=59904
A presto! *w*

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