Cigarette's Smoke di Nezu (/viewuser.php?uid=23981)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The storm ***
Capitolo 2: *** Hit the ground ***
Capitolo 3: *** Dance in the snow ***
Capitolo 4: *** Face the truth ***
Capitolo 5: *** The wound keeps bleeding ***
Capitolo 6: *** The final countdown ***
Capitolo 7: *** Epilogue ***
Capitolo 1 *** The storm ***
Note: Questa
fan fiction partecipa alla quarta edizione di Big Bang Italia
e ha ricevuto un bellissimo gift (Qui
<3) da quella meravigliosa donna che
è sanny_pirate,
oltre ad essere stata betata dalla pazienza fatta persona, dylan_mx.
Ringrazio tantissimo entrambe <3
1
– The storm
A
volte riusciva a capire, anche solo per un
istante, che c’era qualcosa di sbagliato: troppe
preoccupazioni, troppi
pensieri che lo distraevano dal presente. Era lì, seduto, il
suo whiskey davanti
come quasi ogni sera, e lui guardava quel bicchiere, osservava quella
ditata di
sporco sul bordo, una chiara traccia del fatto che la lavastoviglie non
funzionava poi così bene o che la cameriera non aveva
asciugato con attenzione.
Lo fissava con insistenza, ma l’immagine non si imprimeva
nella sua mente. Lo
fissava come se in quel minimo particolare fosse racchiusa
l’essenza del mondo
intero, ma la sua mente non la coglieva, il suo pensiero era lontano
mille
miglia. Perso, completamente perso a cercare.
Ariadne
glielo diceva spesso – lo ricordava ora dopo
così tanti anni – lo
diceva che, anche
quando lui era con lei, in realtà non c’era. Era
distante, sempre più distante
mentre l’onda lo trascinava a fondo, annaspava per
l’aria, l’acqua gli
scivolava addosso e gridava, ma la voce non usciva. Aveva sempre avuto
questa
tempesta dentro, il desiderio inconscio di alzarsi in piedi e gridare a
pieni polmoni,
gridare fino a rovinarsi le corde vocali. Poi si fermava a pensare, a
riflettere sul fatto che forse non valeva poi tanto la pena di alzarsi.
Non era
quello il punto di rottura, poteva reggere ancora un po’,
poteva sostenere il
tutto e non far crollare il castello di carte che aveva costruito con
tanta
cura. Lei non ne aveva colpa, mentre gli altri che ti stavano accanto
forse non
erano poi così innocenti. E lui, invece, poteva solo
biasimarsi per essere nato
sbagliato: le persone normali non si fanno uccidere così
facilmente dalla
realtà.
Pioveva
da giorni, ormai, una pioggia battente che
non accennava assolutamente a smettere. Il Maria’s Bar era
immerso in un
silenzio di tomba, rotto solo dal fruscio delle carte sul legno del
tavolo; il
maltempo aveva dimezzato la clientela e solo dei tristi camionisti e un
paio di
irriducibili frequentatori avevano avuto il coraggio di uscire dai loro
ripari
per annegare le loro preoccupazioni in del buon liquore. A Jigen
piaceva quel
luogo: era tranquillo, intimo, isolato. Poteva fumare senza
preoccupazioni,
nessuno si lamentava del puzzo in quel posto.
Quel
tempo piovoso, invece, gli andava molto meno a
genio. Ariadne amava le tempeste, amava uscire sul balcone a piedi
nudi,
lasciare che il vento le scompigliasse i capelli e urlare con forza
quando il
rombo del tuono esplodeva nel cielo. Lui restava a fissarla, al sicuro
dentro
il loro appartamentino. Lui odiava la pioggia, il bagnato, il freddo;
avrebbe
preferito una poltrona accanto al caminetto, Ariadne al suo fianco e la
sigaretta in bocca. E questo lei lo sapeva, perché dopo aver
gridato al vento
rientrava, bagnata fradicia, si gettava un asciugamano sui capelli e lo
raggiungeva, accoccolandosi accanto a lui. Ora che lei non era
più lì a
confortarlo, la pioggia aveva perso la sua ultima attrattiva.
<
E’ qui per te?> La sua voce si perse nel
vuoto assieme al fumo della sigaretta. Fissò da sotto la
tesa del cappello il
volto della ragazza: giovane, pallida, leggermente inquieta. La paura
era evidente
nei suoi occhi, nonostante lei facesse di tutto per nasconderla. Le sue
dita
giocavano nervosamente con il bicchierino che aveva davanti. Uno sherry.
<
No, lui non sa che sono qui. Non può
saperlo.> Un altro silenzio, un’altra boccata di fumo.
<
Ne sei sicura? Il tuo amico potrebbe aver
parlato.> C’era una nota di dolore negli occhi di
Shiho Miyano, una ferita
ancora aperta che Jigen non poteva ignorare. Lasciare il suo
“amico” era stato
il passo più difficile, il prezzo più alto da
pagare per ottenere la sua
libertà. Shinichi Kudo era di certo un ragazzo sveglio, ma
era anche
terribilmente coraggioso, tanto da finire per essere avventato:
l’ultima
caratteristica che doveva avere se voleva sopravvivere
all’Organizzazione.
Sherry
lo sapeva, conosceva bene quel cocciuto di un
detective e i metodi utilizzati dai suoi ex-colleghi non le erano certo
estranei: aveva preso la decisione più saggia. Una pillola,
una semplice
capsula bianca che tenesse lontano il ragazzino da lei e dai guai,
cancellando
ogni ricordo della scienziata dalla sua memoria. E così
aveva fatto anche con
tutti gli altri del loro gruppo, tutti quelli che conoscevano la sua
vera
identità. Aveva curato il suo piano in ogni minimo
particolare e poi era
sparita in Europa, dove sperava che non l’avrebbero mai
trovata.
<
Non è possibile. “Il mio
amico”… non ricorda
più niente. Ho preso le mie precauzioni, Jigen. Sono certa
che non può aver
scoperto che mi trovo qua. Dev’essere una
coincidenza.> Pareva più un
tentativo di convincersi da sola che una certezza matematica;
l’uomo la fissò a
lungo da sotto l’ombra del cappello, la sigaretta ridotta
ormai a un mozzicone.
<
Se lui scoprisse dove ti trovi…>
<
Verrebbe a cercarmi. – Shiho represse un
brivido – Sono certa che sarebbe al settimo cielo.> Si
portò alle labbra il
drink, nel tentativo di annegare in un gesto meccanico la paura che
cominciava
a farsi sentire con più insistenza.
<
Se lui mi trovasse… – continuò lei,
guardando
di sottecchi l’uomo – te ne occuperesti tu?>
Jigen dovette frenarsi per non
ridere, ma la bocca gli si storse ugualmente in un mezzo sorriso.
<
E’ da pazzi volersi mettere contro un uomo come
Gin. Se proprio ci dovessimo incontrare, preferirei non averlo come
nemico.>
Fu la volta di Shiho di lasciarsi andare ad un sorriso sarcastico.
<
Perché tu credi di poterlo avere come amico?
Non fare l’idiota, Jigen. Alleati con Gin e appena gli
volterai le spalle ti
troverai una pallottola in testa.> L’uomo
sputò il mozzicone di sigaretta
nel portacenere e si portò alle labbra il suo amato whiskey;
gli seccava
ammetterlo, ma la ragazzina aveva perfettamente ragione.
<
Chiunque sia al di fuori dell’Organizzazione è
un nemico. Va usato se utile, va eliminato appena non serve
più.> continuò
imperterrita Miyano, abbassando la voce e lanciando
un’occhiata attorno a sé.
La
scarsa clientela del Maria’s Bar era ben poco
interessata ai discorsi di quella stravagante coppia, ma la ragazza era
sempre
cauta quando nominava l’Organizzazione: c’erano
occhi e orecchie ovunque e lei
rischiava troppo in quei momenti.
<
Per cui ti conviene pensarci bene prima di fare
un passo falso: non avrai un’altra
possibilità.> concluse con voce tetra e
ingollò d’un fiato quel che rimaneva del suo
drink. Jigen studiò con finta
attenzione il proprio bicchiere.
<
Tieniti fuori dalla faccenda e mi farai un
grosso favore. Non ho tutta questa fretta di rivedere il nostro comune
amico.
Se tutto andrà come deve andare, farà quello per
cui è venuto e se ne andrà
come se niente fosse. E noi non dovremo più pensarci.>
Se
Shiho fosse stata in pericolo, sarebbe
intervenuto in sua difesa. Aveva troppi debiti con la scienziata per
lasciarla
al suo amaro destino, anche se il gioco dell’Organizzazione
non lo attirava
minimamente. Sperava solo che niente andasse storto e che le loro
strade non
fossero costrette a incrociarsi nuovamente.
*
Le
folate di vento facevano tremare le finestre in
continuazione, un rumore che dava terribilmente sui nervi a Vodka. Si
aggirava
senza sosta nella microscopica cucina del bilocale in cui si erano
sistemati,
sussultando un poco ad ogni tuono, gettando occhiate preoccupate fuori
dalla
finestra. Gin era stufo del suo comportamento infantile, ma non aveva
neanche voglia
di riprenderlo: non era sua madre e non aveva intenzione di diventarlo
ora.
Osservò
con un certo distacco i documenti appoggiati
sul tavolino di fronte a lui: il volto dell’uomo era
paonazzo, i baffoni
coprivano buona parte del volto e gli occhietti cerulei erano resi
più grandi
da un paio di spessi occhiali. A vederlo così non pareva
proprio un cuor di
leone. Bé, che lo fosse o meno, non sarebbe cambiato nulla
comunque.
La
ragazza, invece, era completamente diversa: aveva
fissato l’obbiettivo con uno sguardo che Gin vedeva molto di
rado, ma che non
mancava mai di mandargli il sangue alla testa. Erano gli occhi decisi,
seri,
cinici e disincantati da vecchi guerrieri, pronti a smantellare la
realtà, a
sopravvivere a qualsiasi prezzo, a guardare la morte in faccia. Anche
la sua
Sherry aveva quegli occhi.
Gettò
per l’ennesima volta un’occhiata al suo nome:
Erika Lenher. Sorrise: non le sarebbe bastato quello sguardo per
sopravvivere,
una bomba non fa differenza tra un vecchio codardo e una giovane
combattente.
Presto se ne sarebbe resa conto.
Spense
la sigaretta e fissò la pioggia scrosciante
contro il vetro. Già, se ne sarebbe resa conto.
*
<
Non capisco proprio perché tu mi abbia
convocata a quest’ora! Guarda che ho una vita sociale, io, e
non ti permetterò
di mandare a monte il mio appuntamento così.>
Che
Fujiko avesse un appuntamento di vitale
importanza era più che evidente: Jigen era quasi certo di
non averle mai visto
addosso così tanti gioielli e capi di lusso. La preda doveva
essere un qualche
riccastro raffinato, così preso dalle sue curve da non
badare a quella voce
terribilmente petulante, voce che gli stava facendo venire un terribile
mal di
testa.
Era
chiaro anche che la vita sociale di Lupin era
morta diverso tempo prima, visto che il suo telefono rimaneva
misteriosamente
silenzioso e lui non indossava altro che un paio di boxer e una
canottiera. Se
l’avesse trovato a farsi una granita alla birra, avrebbe
capito che aveva
toccato il fondo della depressione, com’era successo qualche
anno prima.
<
Ma come, cherì! Non saresti venuta se non fossi
certa che il tuo Lupin ha in mente un qualche colpo bello grosso,
no?> A
dispetto del suo abbigliamento, l’umore del ladro
più famoso del mondo era
ottimo. Bastò quello per attirare l’attenzione
della donna.
<
Di che si tratta?> Jigen si sentì lo sguardo
della donna su di sé, quasi non si fosse accorta prima che
lui era lì. Avrebbe
preferito continuare ad essere trasparente piuttosto che attirare
l’attenzione
di quella vipera.
<
Oh, Jigen, sapevo
che non mi avresti voltato le spalle!
C’è un bel tesoro che ci aspetta lì
fuori, tutto tutto per noi!> Lupin pareva pronto a spiccare il
volo per
l’eccitazione, ma mai quanto Fujiko.
<
Un tesoro?! E quanto? Quanto?> Jigen li
avrebbe volentieri lasciati lì in preda a quei loro momenti
di pazzia totale,
in cui il suo collega faceva il misterioso e la ragazza provava ogni
tecnica
per scoprire quel che voleva sapere, ma fuori la pioggia continuava ad
abbattersi sul mondo e lui ne aveva abbastanza d’inzupparsi.
La
cifra che mandò Fujiko in visibilio catturò anche
la sua attenzione: era un bel gruzzolo, non c’era dubbio. Ma
aveva come il
presentimento che non sarebbe stato affatto facile metterci le mani
sopra.
<
Il tesoro della famiglia Lenher è tanto antico
quanto sconosciuto. Il suo ammontare e il suo nascondiglio sono stati
celati
accuratamente per secoli, tramandati di generazione in generazione: ora
basterà
recuperare questo piccolo segreto da questo pacioso signore o dalla sua
bella
figliola.>
Jigen
osservò le due foto che Lupin teneva in mano:
l’uomo pareva un gran codardo, ma la ragazza… di
nuovo si disse che non sarebbe
stata una passeggiata. Gli vennero in mente Shiho e quelli
dell’Organizzazione:
un brivido gli attraversò la schiena, ma non disse nulla. Il
ladro più famoso
del mondo e la sua infida partner stavano già festeggiando
per la riuscita
dell’impresa.
Si
allontanò dall’appartamento di Lupin con un gran
senso di nausea; fuori la pioggia continuava imperterrita a scrosciare
e lui
aveva una gran voglia di prendere a calci qualcosa. Forse dopo si
sarebbe
sentito meglio.
<
Ti dai agli appuntamenti galanti, Jigen?> La
voce suadente alle sue spalle lo fece fermare di botto, mentre con un
fruscio
di costosi abiti Fujiko gli arrivò affianco e gli pose una
mano sulla spalla.
L’occhiata in tralice che le lanciò non
bastò a fulminarla.
<
Che intendi?> borbottò controvoglia: era
già
abbastanza irritato per conto suo senza che quella stramaledetta donna
ci
mettesse lo zampino. Lei sfoderò uno di quei sorrisi
maliziosi che in genere
riservava solo alle sue prede e Jigen sentì lo stomaco
contrarsi.
<
Oh, non far finta di niente… –
ridacchiò prima
di superarlo con la sua andatura ondeggiante – Sono sicura
che non è tuo,
questo profumo da donna che hai addosso.> Si voltò un
istante, il sorriso
che le aleggiava ancora sulle labbra. < Ma se ti secca,
farò in modo che
rimanga un segreto.>
L’uomo
la guardò sparire nel buio del corridoio e ci
mise un po’ per capire a cosa si riferiva: aveva addosso il
profumo di Shiho.
Doveva essergli rimasto appiccicato ai vestiti dalla loro conversazione
al
Maria’s Bar. Scosse la testa: solo un’infida serpe
come Fujiko avrebbe potuto
percepire un odore così debole, lavato dall’acqua
e coperto dal puzzo di
sigaretta. Si allontanò a sua volta, borbottando improperi
contro la donna.
Sulla spalla sentiva ancora la leggera pressione della sua mano.
*
<
Questo tempo d’inferno non accenna a cambiare,
eh?>
La
voce del tassista era allegra, nonostante il
continuo martellare sul parabrezza e la visibilità ridotta
al minimo. Anche la
musica che passava alla radio era alquanto vivace: davvero un riparo
confortevole, quei quattro sedili. Peccato che fosse già
giunto a destinazione.
<
Sono 15 euro.>
Glieli
porse senza commentare e scese dal taxi: la
pioggia si abbatté contro il suo cappuccio rialzato come una
tempesta di
sassolini. Presto, probabilmente, sarebbe sopraggiunta la grandine.
Sorrise, il
dente d’oro che brillava nell’oscurità:
era un tempo perfetto per cacciare.
Sarebbe stato un vero divertimento.
Accarezzò
il manico del coltello che teneva al
sicuro nella sua tasca e, senza indugiare un secondo di più,
si mise in cammino
verso un riparo sicuro. I fari del taxi che si allontanava illuminarono
per un
istante la figura slanciata di Crazy Mash.
|
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Capitolo 2 *** Hit the ground ***
2
– Hit the ground
Non
aveva granché voglia di uscire: anche se finalmente
il sole aveva fatto capolino da dietro le nubi, l’aria era
satura d’umidità e
le sue povere ossa scricchiolavano fastidiosamente. Aveva dormito male,
un po’
per i tuoni, un po’ per i pensieri che continuavano ad
ossessionarla: rivedeva
la figura di sua madre stesa sul letto, pallida come un cencio.
Risentiva le
parole vuote dei colleghi di lei, le loro pacche sulla schiena. E non
era
riuscita a chiudere occhio.
Suo
padre l’aveva convocata per le 10: lei non
sapeva neanche se sentirsi onorata perché le aveva riservato
un posto in agenda
o offesa per essere trattata a quel modo. Comunque, ora che mancava un
quarto
d’ora all’appuntamento, non aveva proprio voglia di
presentarsi.
Erika
Lenher si guardò allo specchio e decise di
avere un aspetto orribile: probabilmente suo padre non
l’avrebbe voluta vedere in
quelle condizioni. Avrebbe detto che gettava una cattiva luce
sull’azienda. Non
poteva dargli torto, si faceva paura da sola. Proprio per quello
sarebbe andata
da lui: l’idea di fare una pessima impressione ai suoi soci
non le dispiaceva
affatto.
Sua
madre l’aveva sempre detto, fin da quando lei
era piccola: il papà lavorava troppo, il papà non
pensava ad altro che all’azienda
e alla sua reputazione. E, fin da quando ne aveva memoria, Erika aveva
sempre
visto suo padre come un estraneo, sempre lontano da casa, sempre preso
in mezzo
ai suoi affari. Se le andava bene poteva vederlo per Natale e per il
suo
compleanno. Sempre che, ovviamente, non ricevesse una chiamata
urgentissima nel
bel mezzo dei festeggiamenti.
<
Signorina, Suo padre L’aspetta.>
Il
tono del capo della scorta era gentile, ma in
quel momento Erika l’avrebbe mandato volentieri a quel paese.
Afferrò
l’orologio da taschino che teneva sulla scrivania, si
alzò, controllò che la
maglietta che aveva indossato fosse abbastanza presentabile e
uscì.
I
tre uomini della scorta le si accostarono
immediatamente, ben vigili che nessuno si avvicinasse a lei. La ragazza
era
abituata ad averli attorno, era sempre stato così. Era come
se suo padre
cercasse di nascondere la sua assenza assicurandosi che lei fosse
sempre al
sicuro, ogni volta che usciva di casa. Erika non poteva dire se le
seccasse o
meno, quegli uomini erano simpatici, ma la loro presenza la lasciava
indifferente: il suo rapporto con loro si limitava ad un semplice
scambio di
parole cortesi quando venivano da lei e quando la lasciavano. Per il
resto lei
era miglia e miglia lontana da loro.
Ascoltò
come da dentro una bolla d’aria il rumore
delle portiere che sbattevano, la macchina che si metteva in moto, le
ruote che
sollevavano schizzi d’acqua dalle pozzanghere.
Pensò ad altro: a com’era tutto
più facile prima che la malattia si portasse via sua madre,
a come non era
stata costretta a sopportare i commenti acidi di suo padre, a come si
era
sentita libera di essere se stessa.
Ora
era tutto un altro paio di maniche: a lui non
andavano bene i capelli corti, voleva che indossasse qualcosa di
diverso dai
soliti jeans informali e dalle t-shirt, voleva che
s’impegnasse in politica,
andasse a circoli culturali e si facesse conoscere nella
società. A lei non
poteva importare di meno: i suoi unici interessi erano i libri e la
danza. Non
quella classica, tutù e scarpette come avrebbe voluto suo
padre, ma quella di
strada, break e hip-hop, attività che facevano accapponare
la pelle al suo
beneamato genitore. Inutile dire che gli scontri tra i due erano
all’ordine del
giorno.
L’automobile
si fermò davanti ad un grattacielo che,
in mezzo al grigio della strada, risaltava tremendamente per le enormi
vetrate
senza neanche una macchiolina di sporco. Era pulito fuori
com’era pulito
dentro. Erika camminò lungo corridoi interminabili e
ascensori splendenti. Non
le era mai piaciuto quel posto, sapeva di disinfettante.
Si
aspettava di trovare suo padre in ufficio, seduto
dietro la sua scrivania ricoperta di scartoffie. Invece lui
uscì, tutto
impettito nel suo nuovo completo blu, da una porta laterale, con tre
collaboratori alle calcagna che ripetevano numeri e altre frasi per lei
incomprensibili. Lo osservò sconvolta mentre le si
affiancava e le appoggiava
una mano sulla spalla: qualcosa in quel gesto le diede tremendamente
fastidio
e, se non fossero stati davanti a tutti, si sarebbe volentieri scansata.
*
<
Sei pronto?>
Spense
la sigaretta sul muricciolo di cemento e
riprese in mano il binocolo: erano quasi al punto segnato, solo pochi
metri più
in là. Avevano preparato tutto con cura in quegli ultimi
giorni e, lo sapevano
entrambi, non ci sarebbero stati errori.
<
Vodka, ci sei?>
<
Sì, aniki… tutto pronto.>
Gin
sorrise. Sapeva che anche il suo compare stava
sorridendo come lui. Stava andando tutto alla perfezione: un passo, un
altro
ancora, tre metri, due…
<
Ora.>
Dall’altro
capo della linea sentì il “click” del
dispositivo che veniva azionato. E poi venne il finimondo.
*
<
Oh, eccola là! Non è carina? Eh, Jigen?
Eh?>
Se
non avessero dovuto mantenere un basso profilo,
Daisuke avrebbe volentieri preso a calci quell’idiota del suo
collega.
<
L’hai già vista, quella ragazza. E’ da
giorni
che non fai altro che sventolare la sua foto e a sbavarci
sopra.> rispose
brusco, chiedendosi come facesse a sopportare quel lato da maniaco del
suo
compare.
<
Ma dal vivo è diverso! Guardala, che cara, non
ha un faccino adorabile?>
<
Smettila, Lupin! Ci sentiranno.> Non si
sarebbe messo in quel momento a discutere sul fatto che qualsiasi
donna, per il
più famoso ladro del mondo, era una sorta di dea, sapeva di
aver già perso in
partenza. Ma già stavano camminando come se nulla fosse in
quel maledetto
grattacielo, l’ultima cosa che voleva in quel momento era
trovarsi di fronte la
security o quegli omaccioni che scortavano la nuova inconsapevole
fiamma di
Lupin.
<
Di chi è che stai parlando?!> La voce acuta
di Fujiko colpì dritto al timpano attraverso
l’auricolare e l’uomo
s’immobilizzò d’un tratto, passandosi
nervosamente la mano dietro la testa.
<
Ma di nessuno, cherì, cosa vai a pensare?>
Jigen
non ascoltò l’irritante risposta della donna.
Non seppe mai se aveva effettivamente risposto; c’era stato
un movimento, sul
palazzo di fronte, un qualcosa che aveva luccicato dal tetto
dell’edificio
dirimpetto al loro. Aggrottò le sopracciglia e di nuovo il
brutto presentimento
fece la sua comparsa.
Si
voltò d’un tratto e un pensiero gli
attraversò la
mente: Lenher e i suoi uomini erano una ventina di metri davanti a
loro. Un
nuovo movimento alla sua sinistra, di nuovo quel luccichio.
Guardò Lupin e vide
che ricambiava il suo sguardo, improvvisamente serio. Poi quella lucina
rossa
lampeggiò tre volte e Jigen capì. Troppo tardi.
*
Lasciò
andare avanti suo padre, stanca di quella
mano che le pesava sulla spalla. Rallentò un poco,
avvicinandosi all’ultimo
uomo della sua scorta, giusto per scambiare due parole. Poi non
capì più
niente.
L’esplosione
fu tanto violenta quanto improvvisa.
Erika si sentì sbalzare contro un muro, picchiò
di schiena, cadde in avanti. Un
secondo boato e qualcosa la colpì alla testa. Le ci volle un
attimo per capire
che quella cosa era il pavimento: sentiva un rigagnolo di sangue
colarle tra i
capelli, lungo la fronte, davanti ad un occhio, il mondo che diventava
rosso.
C’era un corpo che l’ancorava al suolo, forte,
muscoloso e terribilmente
immobile.
Il
boato continuava ad echeggiare nelle sue
orecchie, ma attorno a lei tutto era d’una calma irreale: il
corridoio, così
impeccabilmente pulito fino a qualche minuto prima, era completamente
coperto
di bianco, calcinacci, intonaco e materiale di vario genere.
C’erano corpi lì
attorno, pozze rosse che s’allargavano sulle piastrelle, urla
che le sembravano
lontane mille miglia.
Finché
qualcuno non spostò il corpo che le pesava
addosso e la prese per un braccio. Fece in tempo a riconoscere
l’uomo della
scorta che le era accanto mentre camminava, poi cacciò un
urlo e girandosi
verso quella mano estranea colpì il più forte
possibile. Il suo gomito urtò
contro quelle che verosimilmente erano costole.
<
Ahio!> Guardò stupita quell’uomo con la
faccia da scimmia che si teneva lo stomaco con le braccia. Non sapeva
cosa
stava facendo, ma prima che qualcosa, qualsiasi cosa, accadesse, si
alzò e
cominciò a correre. Saltò due corpi ammassati uno
affianco all’altro, due dei
collaboratori che stavano parlando con suo padre.
Lui
era lì, un metro più avanti. Lo riconobbe per un
lembo della giacca, l’unica parte dell’abito che
non fosse ricoperta di una
patina bianca: era blu, il colore del completo nuovo di suo padre. Il
resto del
suo corpo era davvero difficile riconoscerlo. Non ci provò
neppure. Superò
anche lui, una morsa che le stringeva lo stomaco, la testa che pulsava
all’impazzata. La gamba sinistra le faceva male, come la
ferita che si era
procurata sbattendo il capo contro il pavimento e che continuava a
sanguinare.
Dietro
di lei sentiva urla di uomini. Non osò
guardarsi indietro neanche per controllare se la stavano seguendo o
meno. Poi
qualcosa fischiò accanto al suo orecchio e per poco lei non
cadde in avanti.
Un’altra pallottola partì nella sua direzione, la
sentì sfrecciare a pochi
centimetri dal suo ginocchio; una parte del suo cervello la
informò che gli
spari non venivano da dietro di lei, ma dalla sua sinistra. Non
guardò neanche
in quel momento. A dieci metri da lei si trovava la porta che dava
verso le
scale d’emergenza.
Altri
due proiettili cercarono di colpirla, ma prima
che il tiratore potesse aggiustare la mira, lei era già
oltre la porta e
scendeva le scale due a due, la sua gamba che implorava
pietà, il mondo attorno
a lei che girava all’impazzata.
Poi,
senza rendersene conto, sbatté contro qualcosa
di duro, sentì delle braccia che le stringevano la vita.
Urlò fino a che tutta
l’aria che aveva nei polmoni non uscì. Poi
sentì le forze venirle meno ed Erika
s’accasciò, priva di sensi.
|
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Capitolo 3 *** Dance in the snow ***
3
– Dance in the snow
Il
tè, già caldo di suo,
le pareva
ancor più bollente mentre
teneva la tazza con le dita intirizzite per il gelo.
L’inverno stava arrivando
e si sentiva parecchio: la temperatura s’era abbassata tutta
d’un colpo e lei
si era trovata con indosso una magliettina di cotone e dodici gradi al
sole.
Shiho
sorseggiò la bevanda mentre sfogliava il giornale:
le foto dell’esplosione erano agghiaccianti, ma almeno gli
inviati avevano
avuto il buongusto di non mostrare i corpi. C’era lo zampino
dell’Organizzazione sotto quell’attacco, lei poteva
riconoscerlo senza
problemi; avrebbe voluto illudersi che, fatta esplodere una bomba in
uno dei
palazzi più importanti della città, Gin avesse
portato a termine il suo
compito. Ma c’era un piccolo particolare riportato dalla
cronaca che aveva
fatto calare un’ombra sulla sua speranza.
“La
figlia ventenne del signor Lenher, Erika Lenher,
è attualmente dispersa. Il suo corpo non è stato
rinvenuto tra le macerie, ove
son stati trovati gli uomini della sua scorta…”
Miyano
fissò quelle righe sentendo il gelo farsi più
acuto: non invidiava minimamente quella ragazza. Sperava vivamente che
fosse
riuscita a fuggire, o che qualcuno l’avesse aiutata a
sottrarsi
all’Organizzazione. Altrimenti per lei sarebbe stato un
inferno.
*
Il
risveglio non era stato dei più traumatici: la
sua testa non era mai stata così leggera, anche se le doleva
fortemente se
faceva movimenti troppo bruschi. Non c’era nessuno a vegliare
su di lei e,
quando aveva aperto gli occhi e aveva visto che era sola, si era
sentita come
se le avessero levato un gran peso dal petto.
Così
aveva avuto un po’ di tempo per pensare. Troppo
tempo, a dire il vero. Più i minuti passavano e
più si augurava che qualcuno
aprisse quella stramaledetta porta; non indossava i suoi abiti e questo
la mise
nel panico: la camicia azzurro chiaro che si ritrovava addosso sapeva
di pulito,
ma era decisamente troppo grande per lei, come un paio di pantaloncini
che le
coprivano le gambe sino al ginocchio.
Aveva
sete, ma quando provò ad alzarsi la testa
cominciò a girare. Infilò la porta del bagno e
vomitò l’anima nel lavandino, le
gambe le tremavano e sentiva il volto caldo e febbricitante; ogni volta
che
chiudeva gli occhi le si ripresentava davanti quella terribile scena:
il
corridoio, i calcinacci, i corpi.
Si
accasciò a terra, tremante. Respirò a fondo una
volta, due volte, poi, reggendosi al lavandino e ad ogni appiglio che
trovava,
si trascinò nuovamente verso il letto e vi si
gettò, affondando il volto nel
cuscino. C’era una benda sulla sua gamba, un gran dolore al
gomito e la testa
che la stava uccidendo.
Ma
ogni volta che provava a ripensare a quanto era
successo, la sua mente si rifiutava di collaborare: sentiva come un
grande
vuoto dentro di sé, profondo, terribile. Avrebbe voluto
provare qualcosa:
rabbia, dolore, indignazione, paura. Non sentiva niente e questo
l’angosciava.
Si addormentò dopo quelli che le parvero secoli, il volto
rigato di lacrime.
*
Vodka
sapeva quando era meglio lasciare il suo
compare da solo, davvero. Dopo anni di collaborazione aveva imparato a
leggere
i messaggi subliminali giusti e a tagliare la corda quando Gin era in
una di
quelle giornate in cui avrebbe volentieri fatto saltare le cervella a
qualcuno.
Quello
era uno di quei giorni, ma il povero Vodka
non poteva assolutamente fuggire dal suo partner: dovevano progettare
un
secondo piano, per rimediare al loro parziale fallimento. Vermouth era
stata
abbastanza chiara su quel punto, altro elemento che aveva mandato Gin
su tutte
le furie.
Ora
il biondo stava, guarda caso, fumando una
sigaretta nel tentativo di calmarsi mentre sul monitor davanti a loro
scorrevano
le riprese delle telecamere di sicurezza; Vodka non aveva idea di come
fosse
riuscito a procurarsele, ma aveva smesso di stupirsi anni prima di
quanto una
pistola in mano al suo compagno fosse assai persuasiva.
<
Eccoli qui.> La voce del biondo sferzò
l’aria
come una frusta. L’uomo si avvicinò per fissare i
due individui colti sul fatto
dalla telecamera: erano alti e magri, uno con una faccia molto stupida,
l’altro
con un cappello a tesa larga calcato in testa.
Osservò
in silenzio mentre Gin faceva le sue
ricerche, le labbra strette in una linea sottile, gli occhi che
lanciavano
fulmini. Non era abituato a farsi fregare a quel modo: aveva avuto la
ragazza a
portata di tiro, aveva sparato più e più volte,
ma quella piccola serpe era più
veloce di un furetto. Ancora non riuscivano a capire come avesse fatto
a
sfuggire all’esplosione. Forse c’era proprio lo
zampino di quei due tipi.
<
Trovati.>
*
<
Perché io? Dovresti andarci tu, è un affare da
donne!>
Se
Jigen aveva avuto dei dubbi sul conto di Fujiko
fino a quel momento, tutte le sue perplessità stavano
svanendo molto in fretta;
lui non aveva alcuna intenzione di occuparsi della ragazzina, questo
non era
contrattabile. Avrebbe dovuto pensarci Lupin, ma il suo collega era
sparito Dio
solo sapeva dove, lasciando la sua fidata spalla nei casini.
L’idea
di trovarsi davanti un’adolescente in preda a
crisi di pianto lo terrorizzava, per questo aveva sperato per un
millesimo di
secondo che la ladra, in quanto donna, avrebbe avuto la
sensibilità giusta per
consolare quella povera ragazzina. Ma lei aveva un’opinione
completamente
diversa.
<
Ah, no, carino! I patti erano ben diversi: io
mi sarei occupata del signor Lenher, non certo di una mocciosa. Quello
spetta a
voi!> replicò lei a voce alta, afferrando la tesa del
suo cappello e
tirandogliela giù sugli occhi.
<
E che diamine…> borbottò seccato,
risistemandosi il copricapo e accendendosi una sigaretta. Il brutto
tempo di
qualche giorno prima aveva lasciato il posto ad un gelo improvviso e
singoli
fiocchi cadevano dal cielo per sciogliersi appena toccato il suolo.
<
Uffa, e io che volevo un bel miliardario tutto
per me…> continuò a lamentarsi la donna,
alzandosi dal divanetto su cui era
praticamente sdraiata e afferrando il cellulare che teneva in borsa.
Jigen capì
che il suo tentativo era fallito alla grande: si alzò,
sommamente irritato, e
s’incamminò verso la stanza in cui avevano
lasciato la ragazzina.
Davanti
alla porta esitò, bussò leggermente e si
fece coraggio. Entrò lentamente, schiarendosi la gola.
<
Si può?>
Non
venne risposta e l’uomo ci mise qualche secondo
per abituare gli occhi all’oscurità della stanza;
per un attimo temette di
averla svegliata, ma la signorina Lenher non stava affatto dormendo.
Era là,
seduta a letto, la schiena appoggiata contro il cuscino, la benda alla
testa leggermente
macchiata di rosso: il suo volto era una maschera di cera.
Si
mosse piano, facendo attenzione a non spaventare
quella creatura così fragile; passo dopo passo, raggiunse il
comodino accanto a
lei, accese la lampada da lettura e si sedette, sempre con
circospezione, ai
piedi del letto. C’era qualcosa, negli occhi di quella
ragazzina, che lo
turbava profondamente…
<
Come ti senti?> In tutta la sua vita non
credeva di aver mai fatto una domanda così stupida; Cristo,
faceva schifo a
confortare le persone! Persino quella voltafaccia di Fujiko Mine
avrebbe fatto
un lavoro migliore. La ragazza lo guardò, gli occhi
improvvisamente vivi.
<
Chi sei?> La sua voce era strana: sicura, ma
rassegnata. Non c’era voglia di combattere, di reagire, di
vendicarsi, ma v’era
la certezza che, qualunque cosa accadesse, la sua sopravvivenza era
assicurata.
Jigen mascherò il suo disagio, ma dentro di lui la
risentiva: quella dannata
tempesta, l’acqua che tornava a prenderlo.
<
Non si risponde ad una domanda con un’altra
domanda, ragazzina.> Diamine, avrebbe dovuto rassicurarla, non
certo
rischiare di spaventarla. Ma Erika Lenher, con le sue profonde occhiaie
e la
testa fasciata, non sembrava affatto impaurita, solo terribilmente
stanca.
<
Ho la testa avvolta in bende, un gran male al
gomito e alla schiena e la gamba sinistra che fa un male del diavolo.
Senza
contare che da un momento all’altro mi sono trovata coinvolta
in quel casino e
ho visto mio padre morire. Come mi sento, secondo te?>
Jigen
si morse l’interno guancia: parlava di
quell’avvenimento con un tale distacco che gli venne da
chiedersi se non
provasse alcuna emozione a riguardo. Proprio come Ariadne, la prima
volta che
l’aveva vista. Ecco cosa gli ricordavano quegli occhi e,
purtroppo, non erano
memorie che voleva rivivere.
Si
costrinse a tornare con la mente alla realtà, ma
altre immagini si sovrapponevano al presente: Ariadne che gli
sorrideva, quella
dannata pioggia, una risata acuta, terribile, che gli penetrava nelle
ossa.
Ancora una volta sentì di essere sbagliato: le persone
normali hanno la
forza di gettarsi
alle spalle certe
cose. Lui no.
<
Mi chiamo Jigen. Soddisfatta?>
No,
Erika Lenher non era soddisfatta. Avrebbe
preferito di gran lunga che quell’uomo magro, che puzzava di
sigarette e alcol
lontano un miglio, la lasciasse dormire; aveva desiderato un
po’ di compagnia,
prima, ma la sua presenza la disturbava. Non poteva vedere gli occhi di
quello
strano tipo, ma aveva la sensazione che non fosse lui la persona che
poteva
aiutarla: anzi, a pelle le sembrava che fosse lui quello che doveva
essere
aiutato.
Lei,
invece, nel momento in cui aveva dichiarato che
suo padre era morto, aveva sentito qualcosa scattare dentro di
sé: una
consapevolezza, cioè che non le importava più di
tanto. Era cresciuta come se
non avesse mai avuto un padre, in fin dei conti. La sua famiglia era
racchiusa
tutta in quell’adorabile donna che l’aveva
cresciuta e che, qualche settimana,
aveva trovato immobile nel suo letto, di un pallore spettrale, gelida.
L’uomo
che era stato dilaniato di fronte ai suoi
occhi non significava più nulla per lei da molto tempo.
Tutto ciò che voleva
ricordare di lui era quell’orologio da taschino che le aveva
regalato per il
suo settimo compleanno, un oggetto antico, che si tramandavano i Lenher
da
generazioni. Quell’orologio ora giaceva accanto a lei,
appoggiato sul comodino
di legno.
<
Sei uno di quelli che mi ha portato via,
vero?> chiese, ricordando man mano qualcosa di più di
quella dannata
esplosione. Gli tornò in mente l’uomo con la
faccia da scimmia a cui aveva dato
la gomitata più forte della sua vita, poi gli spari, infine
la persona che
l’aveva afferrata mentre scendeva dalle scale…
doveva essere proprio l’uomo che
si trovava davanti. Il quale annuì in risposta alla sua
domanda.
<
Chi è che ha piazzato quell’affare? Non avrebbe
dovuto essere possibile, c’è la sicurezza a
controllare ogni porta,
costantemente, e telecamere ovunque… e chi è che
sparava, mentre scappavo? Sai
chi era?>
Jigen
si portò una mano alla tempia: erano tutte
domande a cui poteva rispondere per supposizioni. Fondate sino a un
certo
punto, ma supposizioni. < Chi ha cercato di ucciderti
è probabilmente la
stessa persona che ha piazzato la bomba. Non sappiamo ancora con
certezza di
chi si tratta, ma con ogni probabilità stava cercando di
finire ciò che
quell’esplosione aveva cominciato.>
La
distruzione della famiglia Lenher. Per quel che
poteva significare. Daisuke sentiva nelle ossa che quella era opera di
Gin e
dell’Organizzazione: non poteva essere una coincidenza, il
suo arrivo e,
qualche giorno dopo, quell’attacco così violento.
Ne avrebbe dovuto parlare con
Shiho, per sicurezza: di certo lei riconosceva lo zampino dei suoi
ex-colleghi
meglio di quanto non potesse fare lui.
<
Perché mi avete portato qui? Cosa volete da
me?>
<
Oh oh oh, ma cherì, non fare quel faccino
preoccupato! Non vogliamo farti del male!>
Jigen
sobbalzò e per poco non mise mano alla sua
pistola: non si era accorto che Lupin era entrato nella stanza. Vide un
lampo
negli occhi della ragazza, probabilmente l’aveva riconosciuto
come la causa di
quel livido bluastro sul suo gomito.
<
Vedi, mi è giunta voce che la tua famiglia
conserva un inestimabile tesoro, da qualche parte in questo paese. E
che tu, mia
cara, possiedi la chiave per accedervi.>
Ci
fu un attimo di pausa. Poi lo sguardo della
ragazza si posò inevitabilmente sull’orologio da
taschino del padre.
*
Era
una gran brutta storia e più ci pensava più se
ne convinceva. La ragazza non aveva affatto voglia di collaborare,
questo era
evidente, ma d’altro canto non sembrava per niente
interessata al tesoro di
famiglia: con ogni probabilità era reticente solo
perché non si fidava di loro
e, ad esser sincero, Jigen non poteva darle torto.
In
fin dei conti era miracolosamente scampata per ben
due volte all’Organizzazione, prima all’esplosione
e poi a quella scarica di
proiettili, e poteva ben dirsi fortunata. Un po’ di
diffidenza era più che
naturale. Col tempo, quasi certamente, Lupin sarebbe riuscito a
conquistare la
sua fiducia.
Fiducia…
quel termine lo faceva sorridere, ma senza
allegria. C’erano poche persone di cui si era veramente
fidato, in tutta la sua
vita, gente a cui dava le spalle senza preoccuparsi di che cosa poteva
accadere. Purtroppo il tempo gli aveva dimostrato che aveva commesso
molti
errori.
No,
ciò che preoccupava Jigen non era certo quella
povera ragazzina. Doveva contattare Shiho e in fretta: gli servivano
certezze
e, probabilmente, l’ex scienziata aveva delle informazioni di
vitale
importanza.
Fuori
gli sparuti fiocchi di neve avevano lasciato
il posto ad una tormenta vera e propria: folate di nevischio e vento
facevano
sbattere le imposte esterne e le strade cominciavano a diventare sempre
più
bianche man mano che la notte calava.
L’uomo
imprecò a denti stretti mentre si preparava
ad affrontare il suo destino: prima Fujiko, poi il mal
tempo… qualcuno lassù
doveva proprio avercela con lui. Si calcò con forza il
cappello in testa e uscì
dalla porta d’ingresso, diretto alla macchina.
Un’ombra di fronte a lui catturò
la sua attenzione e la mano corse automaticamente verso la fidata
pistola.
Poi
si bloccò, un groppo in gola. Non poteva essere,
non in così poco tempo. Fece un passo verso quella figura in
nero, poi un
altro, sforzando gli occhi in modo da scoprire se era davvero chi
pensava lui o
se la neve gli giocava brutti scherzi.
<
Quanto tempo, Jigen.>
No,
non era quel maledetto nevischio a confondere i
suoi sensi, quella voce l’avrebbe riconosciuta tra mille. Il
barlume di un
accendino portato alla bocca fugò gli ultimi dubbi: davanti
a lui, stretto nel
suo cappotto nero, cappello in testa e sigaretta in bocca, stava Gin.
<
Anni, a dire il vero. Non posso dire di aver
sentito la tua mancanza.> replicò asciutto. Si chiese
se valeva la pena
correre il rischio e allontanare la mano dall’arma: una
vocina nella sua testa
lo informò che al biondo non piaceva sentirsi minacciato.
Con lentezza spostò
la destra e andò a recuperare una cicca dalla tasca interna
della giacca.
<
Un vero peccato… eravamo un’ottima squadra a
quei tempi. Ma ho sentito che hai trovato un nuovo partner ora, giusto?
Quel
ladruncolo con la faccia da scimmia…>
Jigen
non poté trattenere un sorrisetto a quelle
parole. Si accese la sigaretta, ignorando il freddo e quella sensazione
di
pericolo che gli martellava nel petto.
<
Da quel che mi risulta, Gin, tu non lavori in
squadra.>
Anche
il killer dell’Organizzazione sorrise, un
sorriso freddo come la neve che non raggiunse gli occhi.
<
Solo quando sono obbligato.> C’era qualcosa,
nel suo tono, che mandò un brivido lungo la schiena
dell’altro. Ricordava fin
troppo bene il periodo passato a lavorare al fianco del biondo e di
quell’altro
folle… Dio, non poteva credere di essere caduto
così in basso. Poi Gin era
sparito, di punto in bianco, attirato da una proposta molto
più allettante,
mentre Mash… con Mash era finita diversamente. Ancora lo
prendeva un moto di
disgusto quando per caso sfiorava con le dita le cicatrici che quelle
pallottole gli avevano lasciato in ricordo.
Sbuffò,
una nuvola di fiato e fumo gli passò davanti
agli occhi.
<
Fa freddo, Gin, e io ho altro da fare che
scambiare convenevoli qui con te. Che cosa vuoi?>
Sapeva
già la risposta, è vero, ma contava di
mandare avanti il discorso per molto: Lupin era nella casa con la
ragazzina e
Fujiko, se fosse riuscito a dilungarsi e guadagnare tempo forse tutti
loro
sarebbero riusciti a mettersi in salvo.
<
Lo sai già, Jigen. Cerco Erika Lenher e, se le
mie informazioni non sono errate, si trova proprio nel palazzo alle tue
spalle.>
<
Ma davvero? Che coincidenza.>
<
Proprio. Bé, immagino che non ci sia più molto
da dirci.>
Il
movimento improvviso delle sue mani lo prese alla
sprovvista, ma prima che la sua amata pistola potesse trovarsi nelle
sue mani
si bloccò: Gin non stava estraendo nessuna arma
né si preparava ad attaccarlo.
Gettò semplicemente la sigaretta in terra e, mani nelle
tasche, cominciò ad
avanzare nella neve.
Era
come se il tempo fosse stato improvvisamente
rallentato: lo vide dirigersi verso di lui, quello sguardo gelido, i
lineamenti
affilati, tutto faceva pensare ad un predatore e Jigen non era certo
abituato
ad essere una preda. Non si rese conto di aver trattenuto il fiato
finché Gin,
senza degnarlo di un’ulteriore occhiata, non lo
superò, sfiorandolo appena con
un lembo del cappotto.
Ci
mise un secondo per capire cosa stava accadendo,
solo uno: un attimo di troppo e non sarebbe riuscito a fermarlo. Il
calcio
della pistola era più freddo che mai, le sue dita
protestarono flebilmente al
contatto; un brivido, una sorta di brutto presentimento, gli
attraversò la
spina dorsale mente puntava l’arma verso quella figura nera:
era, stranamente,
una sensazione che aveva già provato tempo addietro.
<
Non fare un altro passo, Gin.>
Se
il biondo non gli avesse dato le spalle, Jigen
sarebbe stato certo che un sorriso beffardo gli increspava le labbra in
quel
preciso istante. La porta era a meno di due metri da lui,
l’unico ostacolo tra
quell’uomo spietato e la povera ragazzina travolta dagli
eventi. Forse Lupin
sarebbe stato in grado di difenderla, forse no.
Più
ci pensava e più ricordava le parole che aveva
rivolto a Shiho: era giunto il momento di mettere da parte il suo
egoistico
buonsenso e fare quello che non avrebbe mai voluto fare.
Perché mettersi contro
Gin e l’Organizzazione equivaleva più o meno a
suicidarsi.
<
Da te non me lo sarei mai aspettato, Jigen…>
Percepì
il movimento della mano e la rotazione del
busto prima ancora che il biondo potesse effettivamente compierli. I
suoi
riflessi non lo tradirono, ma qualcosa, che non riuscì ad
identificare subito,
gl’impedì di sparare: una risata, alta, acuta, una
di quelle risate che ti
tormentano nei tuoi peggiori incubi.
Anche
Gin si congelò sul posto, quel suono era
familiare anche per lui. Poi una scarica di proiettili si
abbatté nel poco
spazio che separava i due contendenti, mentre la risata si faceva
sempre più
ossessiva. Jigen scattò di lato, trovando rifugio dietro una
macchina di lusso
nuova di zecca: di certo il suo proprietario non sarebbe stato felice
la
mattina seguente.
Il
primo pensiero che gli passò per la mente fu che
almeno Lupin doveva aver sentito gli spari e quindi, con ogni
probabilità, si
era già attivato perché Erika Lenher fosse messa
in salvo. Il secondo fu che
quella dannatissima risata che ancora echeggiava nell’aria
l’aveva già sentita
tanto tempo prima.
<
Mad Mash…> bofonchiò e
nell’attimo in cui
pronunciò quel nome sentì un moto di disgusto
risalirgli dallo stomaco: aveva
sperato di non vederlo mai più, di non dover più
sentire quella terribile
risata. Un movimento alla sua destra lo prese di sprovvista, vide la
figura
scura di Gin cercare di raggiungere la porta d’ingresso.
Sparò.
Il rumore del proiettile gli sibilò nelle
orecchie, mentre un grugnito di dolore e un tonfo gli confermavano che
il colpo
era andato a segno; vide il biondo sgattaiolare via, una mano premuta
sul
fianco. Una nuova risata gli piovve addosso, mescolandosi alla neve e
al
freddo.
Una
sensazione opprimente lo prese, cominciò a
pesargli sulla gola, sullo stomaco. La testa gli girava, le mani
tremavano.
Prima che quel folle di Mash lo trovasse ancora, prima che potesse
sfoderare il
suo sorriso beffardo e riportargli alla mente tutto quello che avrebbe
preferito dimenticare, fece l’unica cosa possibile: ventre a
terra, si trascino
da una macchina all’altra, facendo attenzione a non perdere
di vista la
posizione del suo avversario.
Pregò
affinché Lupin e la ragazzina fossero riusciti
a mettersi in salvo; imprecò a denti stretti e
scappò con la coda tra le gambe,
vergognandosi come un cane.
|
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Capitolo 4 *** Face the truth ***
4
– Face the truth
Non
nevicava più. Continuò a fissare il vetro con
insistenza, ammirando quando il suo fiato lasciava nuvolette appannate
su
quella fredda superficie. Non riusciva ad essere pienamente
soddisfatto: lui
era così vicino, eppure non abbastanza. Gli era sfuggito
ancora, come quella
volta, nove anni prima, quando era riuscito a regalargli solo buchi di
pallottole. Non erano sufficienti, per un regalo d’addio.
Ma,
nonostante avesse fallito la sua missione, non
riusciva a trattenere la risata che cominciava a risalirgli nel petto,
per
esplodere alta, cattiva, terribilmente distorta. Lui era lì
ed era fuggito come
un cucciolo spaventato. “Ahi, ahi, Jigen…
è il tempo che ti ha rammollito o il
tuo nuovo amichetto? O è perché lei non
c’è più?”
Se
la ricordava bene, dopo così tanti anni, ma non
era una cosa strana: donne di quel genere sono assai rare. La miglior
killer in
circolazione, corteggiata da tutte le organizzazioni malavitose del
mondo; si
era lasciata assoldare da un uomo prestigioso, che pagava in contanti,
ma si
era sempre rifiutata di
lavorare in
gruppo fino a quando non aveva conosciuto Jigen.
Oh,
se la piccola Ariadne avesse capito subito che
seguire quell’uomo col cappello era pericoloso…
specie a causa degli altri
componenti del gruppo. Scoppiò a ridere e il vetro davanti a
lui s’appannò così
tanto da celargli alla vista la città addormentata.
Erano
stati un bel gruppetto in fin dei conti, no?
Lui, Jigen, Ariadne e Gin. Il loro datore di lavoro non si era mai
lamentato
del loro operato, erano professionisti dopotutto; un vero peccato,
proprio, che
tutto quell’oro finisse nelle mani di un lardoso miliardario
e che quel misero
30% che il vecchio intendeva rifilare loro andasse diviso per quattro
– sei,
contando quelle due macchiette che dovevano aiutarli. Un vero peccato,
specie
quando c’era qualcuno che sul mercato offriva molto di
più per i suoi servigi.
Davvero,
se si fosse lasciato sfuggire un’occasione
come quella se ne sarebbe pentito… rimpianti per tutta la
vita, no, non avrebbe
potuto sopportarlo. Il primo era stato Jigen. Davvero, doveva fidarsi
ciecamente di lui se gli dava le spalle senza tanti problemi, quando
sapeva di
che pasta era fatto il suo collega.
Una
scarica era bastata per lui e per quel paio
d’idioti mandati dal capo; ancora si chiedeva come fosse
riuscito a
sopravvivere, con tutti quei buchi nella schiena: fortuna,
probabilmente, solo
una sfacciatissima fortuna.
Poi
aveva cercato Gin, ma invano. Quella volpe
doveva aver annusato il pericolo nell’aria o qualche offerta
più allettante, ma
non c’erano più tracce di lui. Scomparso, come una
nuvola di fumo. Era andato
dal capo, allora, pronto a regolare i conti e a prendersi un
po’ di extra dalla
sua cassaforte, quando Ariadne gli si era parata davanti.
Lei
gli aveva dato qualche problema, effettivamente,
ma alla fine il proiettile decisivo era arrivato anche per lei. Tutto
il resto
era filato liscio come l’olio e, davvero, Mash aveva
considerato la faccenda
chiusa, almeno fino a che non era venuto a sapere di Jigen. Il caso
aveva
voluto che anche Gin sbucasse fuori nel momento più
opportuno.
Ridacchiò:
tutto sembrava andare per il verso
giusto. Il panico sul volto del suo caro vecchio amico era stato
qualcosa di
impagabile; non vedeva l’ora di trovarselo di fronte, di
vederlo scappare come
un coniglio. L’avrebbe inseguito, sì,
l’avrebbe inseguito con sommo piacere.
Chissà se anche Gin si sarebbe unito a loro…
forse era tempo di organizzare una
rimpatriata in grande stile. In memoria dei vecchi tempi, ovviamente.
*
<
Bé, non è stato molto carino da parte tua
lasciarci
in quel modo, sai?>
In
un’altra situazione Jigen avrebbe volentieri
mandato al diavolo quell’idiota del suo collega, ma date le
circostanze sentiva
di meritarsi un poco di biasimo. Non riusciva a darsi pace. Cosa gli
fosse
preso, in quel momento, sdraiato tra la neve del parcheggio, non lo
sapeva
proprio, sapeva solo che più ripensava a quanto era successo
e più se ne
vergognava.
In
realtà neanche Lupin sembrava troppo intenzionato
a fargliela pesare: vagava pensoso per la stanza, mentre ripeteva ad
alta voce
tutte le informazioni che aveva accumulato fino a quel momento e come
pensava
di articolare il suo geniale piano. Dal divanetto lì vicino
Erika Lenher lo
fissava attenta.
Sembrava
aver recuperato un po’ di lucidità dopo
quanto era successo poche notti prima e per fortuna, perché
se l’Organizzazione
avesse provato ad attaccare di nuovo bisognava essere tutti pronti e
reattivi.
Avevano richiamato anche Goemon per l’evenienza e ora il
samurai stava seduto
accanto alla ragazza, spada in grembo e occhi chiusi, intento a
meditare.
Ad
un certo punto il ladro più famoso del mondo
interruppe il suo andirivieni e guardò Jigen come se lo
vedesse per la prima
volta dopo secoli. < Dov’è Fujiko?>
L’uomo
sgranò gli occhi da sotto il cappello.
<
Credevo fosse con voi quando Gin ha
attaccato.>
<
Lo era, ma poi si è precipitata fuori non
appena sono cominciati gli spari. Credevo fosse venuta da te.>
Calò
un silenzio di tomba e Jigen non poté fare a
meno di pensare che quello era l’inizio di un altro,
terribile, casino.
*
C’erano
delle regole che si era data, dopo essere
stata costretta a lasciare Shinichi e il dottor Agasa. Regole che aveva
seguito
con cura maniacale, perché, lo sapeva, se qualcuno,
chiunque, l’avesse
riconosciuta, per lei sarebbe stata la fine. Troppe volte aveva sfidato
la
sorte, troppe volte si era salvata per il rotto della cuffia: non
doveva
accadere più.
Così
non usciva mai prima d’indossare la sua
maschera; non quella che aveva dovuto portare per tutti gli anni in cui
era
stata costretta a collaborare con l’Organizzazione, ma un
travestimento fisico:
occhiali spessi, parrucca, lenti a contatto, abiti completamente
diversi da
quelli che indossava usualmente.
Da
quando aveva saputo che Gin era in circolazione,
la sua attenzione aveva rasentato la paranoia. Specie in quei momenti,
in cui
era costretta a camminare per strade particolarmente affollate, doveva
costringersi a non voltare continuamente la testa per controllare che
non ci
fosse nessuno di sospetto; era un logorio nervoso massacrante.
Fece
un respiro profondo, cercando di mantenere la
calma. Accanto a lei una fiumana di persone si lasciava trascinare
dalle solite
faccende di poco conto; avrebbe tanto voluto mischiarsi a loro,
riuscire a
comportarsi con naturalezza come tutta quella gente così
banale, così normale.
Ci
provò. Si mise davanti ad una vetrina, come
moltissime altre donne, e osservò la merce esposta: una
serie infinita di
scarpe, nessuna delle quali le piaceva veramente. Se Akemi
l’avesse vista in
quel momento, con ogni probabilità sarebbe scoppiata a
ridere: la sua
sorellina, quella che aveva consacrato la sua vita allo studio e alla
scienza,
cercava quella frivolezza che le aveva sempre dato il voltastomaco.
Davvero
ridicolo.
Ma
era davvero così innaturale? Shiho lanciò
un’occhiata
attorno a sé, per vedere se aveva attirato
l’attenzione di qualcuno: nessuno la
stava osservando. Si sentì un po’ rincuorata,
forse non era così fuori luogo
come le sembrava.
Tornò
a fissare la vetrina, ma qualcosa nel riflesso
le fece gelare il sangue: cappotto nero, tratti affilati, occhi di
ghiaccio.
Gin.
Rimase
immobile, sguardo fisso sulla vetrina, ma
dentro di lei si stava scatenando un putiferio: l’aveva
vista? L’aveva
riconosciuta? Forse se fosse rimasta lì dov’era,
continuando a guardare il negozio,
non l’avrebbe neanche notata. In fin dei conti aveva il suo
travestimento, no?
Come poteva riconoscerla?
Lo
osservò nel riflesso mentre avanzava piano, lungo
la strada dietro di lei; il suo passo, in genere così
deciso, sembrava
affaticato, più lento del solito. Che gli fosse successo
qualcosa? Forse era
ferito? Le venne il sospetto che ci fosse la storia della ragazzina
Lenher
dietro tutto questo, ma non ne aveva più sentito parlare
dopo quella terribile
esplosione. E difficilmente Gin si sarebbe fatto coinvolgere in un
attacco del
genere.
Era
così presa nelle sue riflessioni che ci mise
qualche secondo per rendersi conto che l’uomo si era fermato
proprio dietro di
lei e che i suoi occhi erano puntati su quelli di lei, nel riflesso.
Vacillò
per un istante, deglutì, poi tentò disperatamente
di fissare quel dannato paio
di scarpe attraverso la vetrina.
Ci
fu un attimo in cui si sentì morire. Poi Gin,
come se niente fosse, si allontanò così come si
era avvicinato, lasciando Shiho
in balia del suo stremato autocontrollo e dei brividi di panico.
Era
ancora parecchio scossa quando tornò a casa; si
chiuse la porta dietro le spalle con un po’ troppa forza e si
disfò in fretta e
furia di quella terribile parrucca che le dava un gran fastidio. Mise
sul
fornello il pentolino per il tè e si gettò sul
divano, il viso affondato tra i
cuscini.
Si
sentiva veramente stanca, come se quell’incontro
inaspettato l’avesse prosciugata di tutte le sue poche
energie; mentre lasciava
che il calore e il buio la cullassero e le permettessero un
po’ di meritato
riposo, un pensiero le attraversò la mente: doveva avvisare
Jigen di quanto era
successo. In fin dei conti lui le aveva promesso di aiutarla, no? Aveva
paura
di non essere riuscita a mascherare così bene la sua
identità. Forse all’uomo
qualche dubbio era venuto, mentre la fissava a quel modo…
Si
alzò e frugò nella borsa per recuperare il
cellulare. Stava per chiamare Jigen, ma qualcosa la trattenne: era
sempre
restia a parlare con lui, specie quando non poteva guardarlo in
faccia… scosse
la testa e gli inviò un sms, chiedendogli dove e quando
potevano incontrarsi
per parlare con comodo.
L’aveva
appena spedito quando qualcuno bussò alla
porta, facendola sobbalzare. Gettò un’occhiata
all’orologio: non aspettava visite
a quell’ora. Deglutì nervosamente: forse stava
davvero diventando paranoica.
Piano,
ma molto piano, frugò ancora nella borsa ed
estrasse la pistola: erano secoli che non la utilizzava, ma si sentiva
più
tranquilla ad averla sempre affianco. Tenendola ben stretta si
avvicinò alla
porta d’ingresso e cercò di sbirciare dallo
spioncino, ma il corridoio era buio
e non riuscì a vedere nessuno.
<
Chi è?>
Avrebbe
preferito che la sua voce suonasse un po’
più ferma, ma la pistola nella sua mano era più
pesante che mai e lei sentiva
che non era fisicamente in grado di resistere ad alcun assalto. Ci fu
un
silenzio inquietante dall’altro lato della porta e per
lunghi, interminabili
secondi la ragazza sentì il cuore martellarle nel petto.
Poi,
quasi provenisse dall’oltretomba, arrivò
strozzata la voce della sua anziana vicina.
<
Per favore, signorina, potrebbe aprire?>
Questo
la prese completamente alla sprovvista;
abbassò immediatamente l’arma, senza
però lasciarla andare, e aprì con cautela
la porta. Ciò che vide di fronte a lei le mozzò
il fiato in gola: nel corridoio
c’era Gin, pistola puntata alla tempia della povera vicina di
pianerottolo.
*
Quando
Fujiko riprese conoscenza pensò di essere
diventata improvvisamente cieca. Solo dopo qualche secondo si rese
conto di
molti elementi di primaria importanza: la benda legata attorno agli
occhi, la
testa che le pulsava dolorosamente, la scomoda sedia su cui era
costretta a
stare, le braccia legate allo schienale.
Cercò
di sforzare la propria memoria e ricordare
cosa diavolo le era accaduto: le era tutto chiaro fino al momento in
cui lei e
Lupin non avevano sentito gli spari nel parcheggio. Ricordava di aver
intravisto una figura là fuori, di averla inseguita per
tramortirla e ci
sarebbe anche riuscita a mettere fuori gioco quell’uomo tozzo
e dall’aria un
po’ stupida, se qualcuno non fosse strisciato alle sue spalle
e non l’avesse
colpita con una violenza inaudita.
Il
mal di testa lo doveva al suo aggressore,
probabilmente. Senza perder tempo cominciò a saggiare le
corde che le legavano
le braccia, sperando di riuscire a trovare un punto di cedimento, ma
pareva
fosse il lavoro di un vero professionista. Stava quasi per lasciar
perdere e
preparare un nuovo piano, quando delle voci attirarono la sua
attenzione.
Vodka
era più perplesso ogni giorno che passava:
prima Vermouth arrivava di punto in bianco, poi Gin se ne andava senza
dare
spiegazioni, Vermouth lo costringeva a seguirlo e alla fine di tutto si
ritrovavano con una donna – una gran bella donna –
legata ad una sedia e senza
Gin, che aveva fatto perdere completamente le proprie tracce.
<
Non fare quella faccia stupida, Vodka.>
L’uomo
osservò un po’ perplesso la donna mentre si
stiracchiava come un gatto, elegante in ogni suo movimento. Vermouth si
avvicinò con nonchalance alla prigioniera, un sorrisetto
dipinto sulle labbra.
<
Fujiko Mine… – le soffiò in un orecchio
– tu
sarai la chiave che ci permetterà di giungere a
Lupin.>
*
Fosse
stato per lui, non si sarebbe certo scomodato
per andare a cercare una tale piantagrane, anzi, l’avrebbe
lasciata ben
volentieri nelle mani del primo malintenzionato che passava; ma,
ovviamente, la
cosa non dipendeva da lui e, non appena si era reso conto che la sua
amata
cherì non si trovava da nessuna parte, Lupin aveva
letteralmente dato di matto.
Dal
canto suo, Jigen si sentiva in debito verso il
suo amico, specie dopo quanto era accaduto quella sera, e non era
riuscito a
tirarsi indietro quando l’uomo gli aveva chiesto di
ritrovarla mentre lui
cercava di scoprire il nascondiglio di quel meraviglioso tesoro. Jigen
gli
avrebbe dato volentieri il cambio, ma in quel momento Lupin era il
più adatto
per trattare con Erika.
La
ragazzina non sembrava nutrire una gran simpatia
nei suoi confronti, mentre si trovava molto più a suo agio
con il ladro e
questo aveva tolto ogni possibilità di scelta. Quando lui e
Goemon erano usciti
dal nuovo nascondiglio per cominciare le ricerche, Lupin e Erika
stavano ad un
tavolo a smontare pezzo per pezzo quel vecchio orologio da taschino che
pareva
contenesse tutte le informazioni necessarie per trovare il tesoro.
<
Che facciamo ora?>
Daisuke
lanciò un’occhiata al samurai che aspettava
stoicamente al suo fianco, la Zantetsu-ken
stretta in pugno e un’espressione indecifrabile
sul volto. L’uomo si sistemò meglio il cappello e
si accese una sigaretta:
l’aria si era fatta più fredda in quei giorni e il
cappotto che indossava non
era sufficiente a ripararlo dal gelo.
Controllò
un’ultima volta il cellulare: Shiho
l’aveva contattato una mezz’ora prima per fissare
un incontro, ma, nonostante lui
le avesse risposto subito, non gli aveva più scritto.
“Avrà altro da fare che
mandare messaggi a te” si disse mentre riponeva il telefono
nel cappotto.
<
Adesso, mio caro Goemon, setacciamo tutta la
città, metro per metro.>
|
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Capitolo 5 *** The wound keeps bleeding ***
5
– The wound keeps bleeding
Nonostante
la situazione poco vantaggiosa, Fujiko
sentiva di avere tutto sotto controllo, o quasi: certo, la benda sugli
occhi
era un grande ostacolo, ma nei momenti in cui era rimasta sola
– e ne era
certa, perché aveva sentito i passi dei suoi due rapitori
allontanarsi e le
loro voci affievolirsi – aveva analizzato tutto
ciò che poteva analizzare dalla
sua posizione.
Intanto
sapeva di essere nei pressi di un qualche
ristorante o simile, perché la quantità di
odorini appetitosi che le giungevano
alle narici non lasciavano dubbi a riguardo, e in effetti anche il suo
stomaco
reagiva brontolando. Molto probabilmente era anche in zona di mercato,
era
riuscita a distinguere senza tanti problemi le grida
dei venditori, i prezzi e quant’altro.
Si
era anche fatta un’idea sui suoi rapitori e, a
dirla tutta, non era stata una grande impresa. Si chiamavano con i nomi
in
codice, ma lei non era una sprovveduta: conosceva di fama
l’Organizzazione e,
un paio di volte, le era capitato di vendere informazioni su alcuni dei
suoi
membri.
Uno
di questi, Vodka, era un perfetto idiota. Fosse
stato per lui, Fujiko sarebbe riuscita a scappare almeno una ventina di
volte.
Lo sentiva andare e venire dalla stanza in cui la teneva e, un paio di
volte,
avevano scambiato qualche parola: la donna avrebbe volentieri cercato
di
avvicinarlo per prenderlo alla sprovvista, ma la presenza del secondo
rapitore
rendeva tutto più difficile.
Non
sapeva nulla circa questa Vermouth, ma da quel
che aveva potuto capire era uno dei pezzi grossi ed era molto, ma molto
più
astuta del suo collega; doveva sapere perfettamente che non era saggio
lasciare
Vodka da solo, doveva aver annusato il pericolo, perché lei
era sempre,
costantemente, lì a controllare, non si sapeva se Fujiko o
Vodka stesso.
Era
una situazione un po’ snervante: doveva essere
passato circa un giorno da quando l’avevano rapita e ormai le
braccia le
facevano male e quel poco che le davano da mangiare non soddisfaceva
certo il
suo appetito.
Sbuffò
scocciata: come al solito non poteva contare
su quel fannullone di Lupin. Se la sarebbe cavata da sola,
approfittando del
momento giusto e liberandosi senza tanti problemi. Doveva solo
aspettare ancora
un po’ e mantenere la propria lucidità mentale.
*
Alla
vista di quegli occhi
così gelidi e così familiari Shiho
restò di sasso: una parte di lei, quella che
probabilmente aveva più voglia di continuare a vivere, le
fece stringere con
forza la pistola tra le dita, mentre l’altra non rispose a
nessuno stimolo,
lasciandola lì, paralizzata di fronte al nemico.
“Forse,
se lo prendo
alla sprovvista, riesco a sparargli” sussurrò una
vocina nella sua testa, ma i
suoi occhi tornarono a fissare la canna della pistola
dell’uomo, troppo vicina
al volto rugoso dell’anziana vicina. Shiho sapeva quanto
rapido poteva essere
Gin, aveva avuto la sfortuna di assistere ad un paio di esecuzioni: con
tutta
la sua buona volontà non sarebbe mai riuscita a batterlo sul
tempo, senza
contare che i suoi muscoli si rifiutavano esplicitamente di muoversi.
<
Metti via la
pistola, Sherry. Non ti servirà a niente.>
Quasi
ci fosse una
forza invisibile che la comandava, la ragazza lasciò
scivolare lentamente
l’arma sul tavolino e arretrò, lasciando che
l’uomo e il povero ostaggio
entrassero in casa. Gin diede un colpo secco alla porta e il botto
improvviso
fece sobbalzare le due donne. Il cervello di Shiho stava cominciando a
mettersi
in moto e già malediceva il momento in cui aveva abbandonato
la pistola.
<
Ne è passato di
tempo dall’ultima volta, vero? Sherry…>
Prima
che lei potesse
reagire, prima che potesse cercare di fermarlo, Gin
scaraventò la vecchia per
terra e con due falcate le fu addosso, una mano d’acciaio che
le teneva il
polso e quella terribile sensazione d’impotenza che aveva
provato così tante volte
in passato.
Provò
a ribellarsi
cercando di assestargli una ginocchiata dove faceva più
male, ma nelle sue mani
era come una bambola di pezza; il suo attacco fu fermato con una
facilità
estrema, mentre la canna fredda della pistola le pungolò il
fianco.
Si
fissarono. Il biondo
stava per aprire la bocca quando un rumore improvviso li fece trasalire
entrambi: proveniva dalla tasca del suo cappotto. Imprecando a bassa
voce, Gin
fece un passo indietro e, sempre tenendo sotto tiro Shiho,
recuperò il
telefono.
Gli
occhi della ragazza
sfrecciarono sulla povera donna riversa sul pavimento: pareva che fosse
svenuta
per l’impatto o forse per l’emozione.
Sperò con tutto il cuore che a quella
cara vecchietta non fosse venuto un infarto.
Riportando
lo sguardo
sul suo aggressore, notò quello che avrebbe dovuto vedere
sin dal primo
momento: una macchia scura all’altezza del fianco destro. Il
cervello della
giovane si sintonizzò su quanto l’uomo stava
dicendo nel frattempo.
<
… ho altro da fare
in questo momento, Vodka… questi sono problemi suoi. Dille
che la chiamerò
quando avrò finito.>
Quelle
parole
cominciavano ad avere un senso nella sua testa: non era lì
per conto
dell’Organizzazione? Non era venuto per ucciderla? Stava
agendo da solo,
all’insaputa di Vodka e degli altri?
Gin
fece scivolare
nuovamente il cellulare nella tasca del cappotto con
un’espressione di stizza,
ma Shiho non era più intimorita come prima quando
tornò a fissarla con quegli
occhi freddi.
<
Cosa vuoi da me,
Gin?>
L’ultima
cosa che si
aspettava, in quel momento, era che il biondo abbassasse la pistola e
si
sbottonasse il cappotto; come aveva supposto, una macchia rosso vivo si
era
allargata sulla camicia bianca. Visto come l’uomo si muoveva
non doveva essere
una cosa così grave, ma Shiho aveva scoperto anni prima che
quel che poteva
uccidere un uomo qualunque non intaccava più di tanto il
corpo di Gin. Era
abituato a tenere il dolore sotto controllo e a mascherarlo
perfettamente.
<
Spero che tu abbia
delle garze in casa, non vorrei dover uscire a comprarle in questo
stato.>
Se
c’era una cosa più
insopportabile delle occhiate che Gin le lanciava, ebbene, era il suo
silenzio;
non un fruscio, non uno scricchiolio involontario: il biondo stava
fermo
immobile, la pistola sempre in mano, il volto una maschera di gesso,
mentre la
ragazza sopportava a stento quell’atmosfera così
opprimente e cercava di
mantenere la calma per disinfettare la ferita.
Quel
bastardo aveva
avuto fortuna – quel bastardo aveva sempre fortuna; era stato
colpito solamente
di striscio, e, anche se la zona era molto delicata, se l’era
cavata con poco.
L’idea di lasciare che la ferita s’infettasse le
passò per la mente, ma si
trattenne: Gin controllava tutte le sue mosse, non sarebbe mai riuscita
ad
ingannarlo.
<
I tuoi colleghi
non sanno che sei qui, vero?>
L’aveva
chiesto solo
per spezzare la tensione, ma sapeva già la risposta.
Gliel’aveva letta in
faccia.
<
No.>
<
Mi ucciderai?>
<
Ho altre priorità
al momento.>
Shiho
non sapeva se
esserne onorata o meno; le tornò in mente
l’esplosione di cui aveva letto sul
giornale. Non aveva sbagliato allora, c’era davvero
l’Organizzazione dietro
quella faccenda. Si chiese se Jigen avesse letto il suo
messaggio… il
cellulare! Non ricordava neanche dove l’aveva messo.
Una
mano sulla spalla
la distolse dai suoi pensieri; Gin aveva uno sguardo strano, che la
mise a
disagio più del solito. Si affrettò a concludere
l’operazione e si alzò in
fretta.
<
Fatto.>
Il
biondo si alzò con
lei, agile e scattante nonostante la ferita appena medicata. La sua
mano si
strinse al suo polso, ma questa volta non le fece male; si guardarono
per
qualche secondo e più il tempo passava più Shiho
sentiva il disagio crescere in
lei.
<
Vieni con me,
Sherry. Abbiamo ancora bisogno di te, sei una pedina troppo importante
per
noi.>
La
ragazza provò ad
arretrare, ma la presa dell’uomo si fece più salda.
<
Lasciami, Gin.>
<
L’ho già fatto una
volta, non ripeterò lo stesso errore.>
Era
una lotta a chi
cedeva per primo, ma Shiho non aveva alcuna intenzione di perdere; non
sarebbe
mai riuscita a dimenticare ciò che era stata costretta a
vedere quando lavorava
per l’Organizzazione, non si sarebbe mai dimenticata del
dolore sordo che
sentiva costantemente in petto. Non avrebbe lasciato che Gin la
riportasse da
loro.
Il
cellulare dell’uomo
tornò a squillare improvvisamente e, prima che lui potesse
rendersi conto di
cosa stava accadendo, prima che la giovane capisse quel che stava
facendo, gli
assestò una ginocchiata al fianco, appena sotto la ferita
che aveva appena
finito di medicare. Si liberò con uno strattone dalla sua
presa e, mentre il
biondo lottava per rimettersi in piedi e afferrarla, corse come una
furia verso
la porta e uscì.
Solo
diversi minuti
dopo, quando si arrestò dentro un bar stracolmo di gente, si
rese conto di aver
lasciato il cellulare e la pistola in casa.
*
Se
prima aveva fatto di tutto per ignorarlo, ora un
minimo di senso di colpa Jigen ce l’aveva; senso di colpa
misto ad ansia,
perché dopo aver setacciato l’intera
città palmo per palmo di Fujiko neanche
l’ombra e nemmeno un cenno di vita da parte di Sherry.
Lui
e Goemon si erano divisi dopo qualche ora,
sperando di risolvere in fretta la faccenda, ma non era servito poi a
molto.
Controllò ancora una volta il cellulare, sempre
terribilmente silenzioso, e
svoltò l’angolo: la strada era ampia e immersa
nella più totale confusione.
Bancarelle da mercato ovunque, venditori che urlavano, un odorino da
leccarsi i
baffi che si spargeva nell’aria. Osservò quella
che doveva essere l’insegna di
un ottimo ristorante e il suo stomaco brontolò.
Non
era certo il caso di fermarsi a mangiare, data
la situazione, ma proprio mentre Jigen stava lì, immobile, a
decidere se cedere
alla tentazione o continuare la ricerca, un ragazzotto
dall’aria poco sobria
gli si avvicinò barcollando vistosamente.
<
Vieni anche tu per la bella signora?>
Se
il cappello non gli avesse coperto buona parte
del volto, il ragazzo avrebbe visto le sopracciglia dell’uomo
inarcarsi ai
limiti dell’immaginabile.
<
Bella signora?>
<
Oh, sì! – ridacchiò quello e Jigen si
chiese come
si facesse a ridursi in quello stato per l’ora di pranzo
– E’ arrivata due
notti fa… una gran bella donna, davvero. Anche se non
sembrava molto contenta
di esser portata qui… anzi, non era molto cosciente, in
verità…>
Un
dubbio attraversò la sua mente e si fece più
concreto man mano che il giovane continuava a parlare. Che fosse..?
Poggiò una
mano sulla spalla del ragazzo, che aveva preso a dondolare sul posto e
rischiava di cadere da un momento all’altro.
<
E dove hanno portato questa bella signora?>
*
Era
da un paio d’ore che non sentiva più le voci dei
suoi rapitori, ma questo non le era sufficiente per tranquillizzarsi.
Non
riusciva ancora a capire quale fosse il loro obiettivo: se avessero
voluto un
riscatto, avrebbero già contattato Lupin e lui si sarebbe
fiondato subito a
pagarlo, Fujiko non ne dubitava. Eppure erano passati già
due giorni secondo i
suoi calcoli e del ladro gentiluomo neanche l’ombra.
Era
stanca di aspettare, ma quella donna, quella
Vermouth, sapeva il fatto suo: non le aveva lasciato il minimo
spiraglio che le
avrebbe permesso di fuggire. Era qualcosa di terribilmente estenuante.
Un
rumore improvviso la mise in guardia. Erano dei
passi felpati, che si distinguevano appena, ma la cosa che non le
piaceva era
che non erano né pesanti come quelli di Vodka né
rapidi come quelli di
Vermouth. Più si avvicinavano e più Fujiko si
preparava a reagire in qualunque
modo.
Attese
fingendosi addormentata. Sentì quella figura
su di sé, mentre armeggiava per liberarle i polsi e le
caviglie: volevano
spostarla in un luogo più sicuro mentre era incosciente? Non
appena fu libera
di muoversi non aspettò oltre e colpì con forza
la persona di fronte a sé,
scattando in avanti.
Peccato
che il suo attacco venne bloccato senza
tante cerimonie.
<
Umpf, gran bel ringraziamento per averti
salvata…>
Fu
la voce da fumatore incallito che le fece
accendere una lampadina; si sfilò in tutta fretta la benda
dagli occhi e si
trovò faccia a faccia con un Jigen leggermente contrariato.
Prima che potesse
reagire in qualsiasi maniera lo abbracciò.
<
Oh, Jigen! Sapevo
che saresti venuto a salvarmi!>
L’uomo
ne dubitava fortemente, ma sorvolò sulla
questione: ora che era riuscito a trovarla si sentiva come se si fosse
tolto un
peso dal cuore, anche se avrebbe preferito di gran lunga che quella
piccola
serpe si staccasse da lui. Quel contatto così ravvicinato lo
infastidiva.
<
Meglio andarsene da qui.> borbottò mentre
armeggiava col cellulare: doveva avvisare subito Lupin. Fu un sollievo
sentire
la voce allegra del ladro, specie quando gli comunicò
un’altra ottima notizia.
<
Abbiamo trovato il posto.>
*
<
Era ora che ti facessi vivo.>
Gin
ignorò il commento della donna mentre si
accendeva l’ennesima sigaretta della giornata; Vermouth era
voltata verso lo
specchio e si stava togliendo gli ultimi resti di quello che sembrava
un
travestimento da ragazzino. Un ragazzino molto ubriaco, a giudicare dal
tanfo
di alcol che emanava.
<
Dunque?>
La
donna sorrise trionfante.
<
I vecchi trucchi funzionano sempre e il tuo
caro amichetto Jigen non è così sveglio come
sembra… Sappiamo dove sono. C’è
anche la nostra Erika con loro.>
|
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Capitolo 6 *** The final countdown ***
6 – The final countdown
Misero
piede nel vecchio edificio cadente una
ventina di minuti dopo aver lasciato l’affollata strada del
mercato; secondo
quanto gli aveva spiegato Lupin per telefono, l’area
circostante era stata un
tempo il luogo ove la famiglia Lenher aveva costruito la sua
abitazione, secoli
e secoli prima. L’avevano difesa a spada tratta, generazione
dopo generazione
e, dopo così tanto tempo, era ancora di loro
proprietà; la grigia palazzina che
sorgeva su quel terreno l’aveva fatta costruire il padre di
Erika anni prima,
una semplice succursale del suo smisurato impero.
<
Che meraviglia!>
Jigen
questa volta non poteva che concordare con
Fujiko: da un taglio perfettamente geometrico sul muro –
opera di Goemon, non
c’erano dubbi – s’intravedeva uno
spettacolo incredibile e scintillante di oro,
diamanti e pietre preziose.
<
Oh, Lupin! Sei un genio!> cinguettò la donna
gettandosi tra le braccia del ladro per cinque secondi esatti, passati
i quali
sfuggì subito alla sua presa per buttarsi a pesce sul tesoro.
Solo
in quel momento Jigen si accorse di Erika, poco
dietro al ladro gentiluomo; si chiese se non provasse qualcosa nel
vedere la
ricchezza dei suoi avi depredata senza alcun pudore, ma dal suo viso
non
trapelava alcuna emozione.
L’uomo
scrollò le spalle e si preparò ad aiutare
Goemon a riempire i tanti sacchi di refurtiva, quando però
la voce di Lupin,
più seria del solito, li bloccò tutti quanti.
<
Fujiko… ti dispiacerebbe venire qui, per favore?>
*
Si
sentiva un idiota per non averlo previsto, eppure
c’era cascato; un trucco elementare, vecchia scuola, ma
sempre e comunque
valido. Si fissarono tutti l’un l’altro mentre il
ladro più famoso del mondo
teneva fra le dita quell’oggettino microscopico. Fino a che
Erika Lenher non si
schiarì la voce.
<
Cos’è, esattamente?>
L’uomo
sorrise, uno scintillio particolare negli
occhi; Jigen conosceva fin troppo bene quello sguardo: era lo sguardo
della
sfida.
<
Questa, piccola mia, è una cimice. Il che significa
che presto avremo visite.>
*
Al
loro arrivo l’edificio pareva completamente
deserto, ma tutti e tre sapevano che era tale solo in apparenza. La
cimice non
puntava proprio lì e per quanto provassero a nascondersi, li
avrebbero trovati.
<
Aniki, che facciamo?>
Gin
in tutta risposta si accese una sigaretta, lo
sguardo perso nel vuoto. Gli era sempre più difficile
concentrarsi su quel
lavoro, ora che sapeva che Shiho era in città; poco
importava che gli fosse
scivolata via tra le dita, l’avrebbe ripresa, lo sapeva. E
anche lei lo sapeva.
<
Con un edificio così vasto sarebbe meglio
dividerci o trovare la ragazzina sarà un problema.
– s’intromise Vermouth dal
sedile posteriore della Porsche – Allora, Gin?>
<
Dividiamoci.> acconsentì lui. Sperava solo
di concludere l’affare il più in fretta possibile.
*
<
Eccoli lì.>
Erika
non li aveva mai visti in faccia, ma quando
posò gli occhi su quei volti così indecifrabili,
così strani, non provò niente:
né rabbia né paura né qualche altro
bizzarro sentimento di rivalsa. L’unico
pensiero che le passava per la testa era però
inequivocabile: “devono morire”.
Era una verità semplicissima: se sperava di continuare a
sopravvivere, loro
dovevano sparire.
Lanciò
un’occhiata ai suoi attuali compagni: a
vederli così non sembravano neanche lontanamente pericolosi
come gli uomini in
nero. Ce l’avrebbero fatta? Sarebbe riuscita a continuare a
vivere? Aveva paura
di scoprire la risposta.
<
Il piano?> fece il samurai senza scomporsi
più di tanto.
<
Direi che è meglio dividersi. –
bisbigliò Lupin
senza perdere d’occhio il trio – Da soli sono
certamente meno pericolosi che
assieme.>
<
Voi fate quello che volete. – s’intromise
Fujiko, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio
– Ma io ho un
conto in sospeso con quella sgualdrina.>
Jigen
e il ladro si fissarono.
<
Porta in salvo la ragazzina, Lupin. Gin è affar
mio.>
*
Gin
arrivò prima del previsto e arrivò solo. Jigen
lo aspettava al varco, sigaretta in bocca e cappello calato sugli
occhi, pronto
a prendere la mira: questa volta non avrebbe sbagliato. Dietro di lui
Lupin ed
Erika li osservavano pieni d’apprensione.
Lo
sguardo del biondo si fissò subito sulla
ragazzina, che impallidì vistosamente, ma non
lasciò trapelare altro. Poi,
lentamente, prestò un poco d’attenzione al ladro
gentiluomo.
<
I tuoi standard si stanno visibilmente
abbassando, Jigen. Ha davvero una faccia da scimmia.>
Daisuke
poteva sentire il suo compagno che si
gonfiava e pestava i piedi come un bambino mentre cominciava ad inveire
contro
il killer; in circostanze normali non avrebbe avuto nulla da ridire, ma
in quel
caso la situazione era diversa.
<
Porta via la ragazza, Lupin. Qui ci penso
io.>
Per
una volta tanto, e Jigen non sapeva neanche
quali dei ringraziare, il suo compagno obbedì senza fare
storie; li seguì con
la coda dell’occhio mentre si allontanavano, senza perdere di
vista però il suo
avversario. Era perfettamente consapevole di giocare col fuoco.
<
L’hai notato anche tu, Jigen?>
<
Che cosa?>
<
Che ha i suoi stessi occhi. Lo stesso sguardo
di Ariadne. Ma di certo l’avrai notato.>
Sapeva
che sarebbero arrivati a toccare
quell’argomento, se l’aspettava, ma questo non
rendeva le cose più facili. Si
morse appena il labbro mentre il suo autocontrollo riprendeva piede.
<
Sì, l’ho notato.>
Il
sorriso di Gin era quanto di più disturbante
Jigen avesse visto da tempo; gli faceva venir voglia di sparare, di
colpirlo
per fargli male. Lui aveva sempre saputo, ne era certo. Si aspettava
che Mash
li tradisse, che ordisse alle loro spalle; per questo era sparito,
giusto prima
che tutto colasse a picco. Li aveva lasciati annegare entrambi, solo
che Jigen
aveva avuto la sfortuna di sopravvivere.
<
Direi di chiudere la faccenda qui, Daisuke. Non
ho nulla contro di te, per cui lasciami andare a recuperare la
ragazzina e sarà
come se niente fosse accaduto.>
Le
parole di Shiho gli tornarono in mente,
prepotenti come non mai: “dà loro le spalle e sei
un uomo morto”. Sorrise.
<
Mi spiace, Gin, ma ho commesso già una volta
questo errore. Non credo che lo ripeterò.>
Stava
per sparare, lo sentiva nelle ossa. Stava per
muovere la mano, afferrare la pistola e ficcargli un proiettile in
fronte; ma
qualcosa, qualcosa che Jigen non riuscì a cogliere, lo
bloccò. Lo vide fissare
un punto in alto, alla sua sinistra, con l’aria stupita di un
animale che
s’accorge d’un tratto del pericolo imminente. Poi,
prima che l’uomo riuscisse a
capire cosa stava effettivamente guardando il suo avversario, una
pioggia di
proiettili proveniente dalla parte opposta lo colse alla sprovvista.
<
Porc..!>
Prima
che la scarica lo raggiungesse rotolò di lato,
infilandosi in un corridoio qualsiasi e cominciando a correre, il suono
degli
spari che lo inseguiva senza sosta. Si fermò solo quando
attorno a lui ci fu il
più completo silenzio, interrotto unicamente dal suo
fiatone. Non capiva che
diamine stava succedendo, ma al momento quel che importava era
ritrovare Gin e
pareggiare i conti una volta per tutte.
Mano
alla pistola, avanzò facendo attenzione a dove
metteva i piedi: se il biondo o quel pazzo che aveva cominciato a
sparare a
caso lo stavano cercando, di certo non avrebbe semplificato loro il
lavoro.
Non
seppe per quanto tempo si aggirò per quei
corridoi in penombra – tutti dannatamente uguali…
gli architetti non avevano un
minimo di fantasia – ma quando sentì il suono
distinto di passi che si
avvicinavano alla sua posizione strinse con forza il calcio della
pistola. Era
pronto.
Inspirò,
pronto a premere il grilletto. Lo sentiva
avvicinarsi sempre di più, era lì, dietro
l’angolo. Ma quando la figura sbucò
di lato Jigen non sparò, anzi, per poco il mozzicone di
sigaretta non gli
sfuggì dalle labbra. Davanti a lui c’era Shiho
Miyano.
*
C’era
voluto tutto il suo coraggio per tornare
indietro, in quella che aveva chiamato casa fino a poche ore prima.
L’aveva
fatto con il cuore in gola, aspettandosi di veder sbucare da ogni
angolo, da
ogni ombra, la mano di Gin, pronta a riportarla da quei mostri.
Ma
quando aveva finalmente rimesso piede in quel
posto, era rimasta stupita nel notare che niente era cambiato: la porta
spalancata,
la pistola abbandonata sul tavolino, il cellulare per
terra, sul tappeto. L’anziana signora era
ancora riversa sul pavimento.
Shiho
le si era avvicinata cautamente e, tranquillizzata
nello scoprire che era solo priva di sensi, aveva fatto la cosa
più logica che
le era venuta in mente: aveva chiamato l’ambulanza e, prima
che questa potesse
arrivare, si era cambiata d’abito e, cellulare e pistola in
borsa, si era
allontanata in tutta fretta. Tanto quello non era più un
luogo sicuro per lei.
Si
stava dirigendo verso la stazione, pronta a
prendere il primo treno che la portasse il più lontano
possibile da Gin, quando
aveva visto Jigen in macchina, con una donna che non conosceva al suo
fianco.
Aveva provato a fargli un cenno, ma lui non l’aveva notata.
L’unica cosa che
era riuscita a fare prima che la vettura si allontanasse troppo era
stata
lanciare un rilevatore di posizione sulla targa;
quell’aggeggio – una delle
diavolerie del repertorio di Shinichi – era quanto di
più utile potesse avere
con sé.
Si
era sentita un po’ subdola nell’agire in quel
modo, ma in fin dei conti non sapeva quando l’avrebbe rivisto
e se voleva
davvero sparire dalla circolazione per un po’, doveva prima
salutarlo in
maniera appropriata. In fondo gli era debitrice.
Ci
aveva messo un po’, ma alla fine era riuscita a
raggiungere il posto dov’era segnata la macchina; peccato che
a pochi metri di
distanza fosse parcheggiata anche una Porsche 356. Nera. Ci aveva messo
un po’
per decidere sul da farsi, poi, ignorando la vocina di buon senso che
le diceva
di fuggire, era entrata nell’edificio.
Non
si era minimamente accorta dell’ombra che
l’aveva seguita fin lì.
Quel
che le era apparso davanti agli occhi aveva
l’aria di essere una vera e propria resa dei conti; aveva
osservato i due contendenti
dalla rampa di scale alla sinistra di Gin: dalla sua posizione non
riusciva a
vedere bene Jigen, ma sarebbe bastato molto poco, che il biondo girasse
appena
la testa, perché si accorgesse di lei.
Si
era mossa con tutte le cautele del caso, in fin
dei conti si era preparata anche a quell’evenienza; aveva
estratto la pistola
dalla borsa facendo ben attenzione a non fare rumore e
l’aveva puntata dritta
dritta in direzione di Gin. Un colpo e sarebbe tutto finito. Bastava
premere
quel grilletto, un grilletto che non le era mai parso così
pesante. Un
movimento minimo e basta.
Poi
lui si era voltato.
Si
era aspettata che reagisse, che cercasse di
afferrare in tempo la sua amata beretta e che le sparasse, e invece non
aveva
mosso dito. Era rimasto lì, fermo e immobile, ad aspettare
che lei facesse la
sua scelta.
Snervante.
Avrebbe voluto premere quel dannato
grilletto, far partire quello stupido proiettile e chiudere un capitolo
della
sua insensata esistenza, ma il suo dito si era rifiutato di muoversi. E
alla
fine lei aveva abbassato la pistola.
Non
aveva fatto in tempo a notare il cambio di
espressione sul volto di Gin, quel sorriso beffardo che urlava ai
quattro venti
“lo sapevo”, perché una scarica di colpi
era scesa all’improvviso e tutto
quello che lei era riuscita a fare era stato fuggire e perdersi in quel
dedalo
di corridoi.
Aveva
temuto di non trovare più l’uscita, almeno
fino a che non si era trovata Jigen di fronte.
*
Aveva
pensato di avere la situazione sotto controllo
fino a quel momento, ma, evidentemente, era successo qualcosa di cui
non era al
corrente.
<
Che diamine ci fai tu qui?>
Man
mano che Shiho gli raccontava cos’era accaduto,
Jigen cominciava a rimettere assieme i pezzi: con Shiho lì
la situazione
peggiorava ulteriormente. Gin sapeva che lei era lì ed era
bene che se ne
andasse al più presto, prima che lo scoprisse anche Vermouth.
<
Io devo andarmene, Jigen, il prima possibile.
Volevo solo ringraziarti, prima di partire.>
L’uomo
la fissò e, in cuor suo, ringraziò che il suo
cappello gli coprisse gli occhi: avrebbe preferito salutarla in
condizioni più
tranquille. Le posò una mano sulla spalla.
<
Usciamo di qua intanto. E’ pericoloso restare
fermi.>
*
Erano
ritornati al punto di partenza, dove lui e Gin
si erano quasi trivellati a vicenda; stavano per avanzare verso le
macchine,
quando una risata stridula li congelò sul posto. Jigen
sentì il malumore
tornare a crescergli in petto: questo era troppo anche per lui.
<
Ti sono mancato, Jigen? Oh, ti prego, non
scappare di nuovo come un coniglietto, vorrei scambiare due parole con
te, ti
va?>
Uscì
dall’ombra lentamente, come un predatore che
studia la preda; i suoi canini eccessivamente sviluppati scintillavano
in
maniera preoccupante. In mano teneva la mitraglietta a cui era tanto
affezionato. Shiho lanciò un’occhiata
d’intesa al suo compagno, che le fece
cenno di sì con la testa: era meglio che se ne andasse.
Crazy
Mash non batté ciglio quando la ragazza si
allontanò in fretta, uscendo da una porta secondaria; non
era lei che voleva.
No, l’unico obbiettivo che veramente gli interessava era
l’uomo che aveva di
fronte.
<
Quanto tempo, no? L’ultima volta che ci siamo
incrociati sei strisciato via, ventre a terra. Spero che tu riesca ad
elaborare
una fuga più in grande stile, questa volta.>
Jigen
sputò per terra il mozzicone di sigaretta. Non
aveva alcuna intenzione di farsi prendere in giro.
<
Non ho intenzione di scappare, Mash. Piuttosto,
dimmi che vuoi.>
Se
pensava che il volto di quel folle non potesse
sembrare più disturbante, ebbene, non l’aveva
ancora visto con
quell’espressione: era pura cattiveria e, quel che era
peggio, derisione.
<
Solo darti l’estremo saluto, mio caro Jigen. In
fin dei conti, secondo i miei calcoli, abbiamo solo due minuti e
trentasette
secondi prima che questo posticino salti in aria; sai, non sapevo se
avrei
avuto l’occasione di rincontrarti,
visto
quanto sei bravo nel nasconderti, così ho preferito
tappezzare questo posto di
regalini per te. Anche se, ovviamente, mi farebbe molto più
piacere ucciderti
faccia a faccia.>
Ci
volle qualche secondo – qualche preziosissimo
secondo – prima che l’uomo capisse cosa gli stava
esattamente dicendo:
esplosivi. C’era da aspettarselo, da quel pazzoide. Peccato
che non l’avesse
minimamente sospettato.
<
Ancora un minuto e quaranta secondi… non so te,
mio vecchio amico, ma io avrei di meglio da fare che saltare in aria
con te.
Per cui ti saluto.>
Non
fece neanche in tempo a finire la frase, perché
Jigen se l’aspettava. Conosceva dannatamente
quell’uomo e aveva imparato a
leggere attraverso le sue parole, i suoi sguardi, la sua follia: aveva
percepito che la sua mano stava per sfiorare l’arma prima
ancora che questo
accadesse sul serio. Ma lui era più veloce, era sempre stato
il più veloce.
Il
rumore dello sparo riecheggiò nell’aria mentre
Jigen rotolava di lato per evitare i proiettili di Mash; lo
sentì grugnire di
dolore, lo vide tenersi il braccio sanguinante. Poi quel pazzo sorrise
e il
primo carico esplose sull’altro lato dell’edificio.
Sentì
il pavimento sotto i suoi piedi tremare, dei
calcinacci crollarono dal soffitto. Mentre si riparava il viso dalla
polvere
vide Crazy Mash infilare la porta, quello stupido sorrisetto stampato
in volto.
Un
altro boato, un’altra esplosione, questa volta
più vicina. Prima che la situazione degenerasse, Jigen si
decise e uscì dalla
porta d’emergenza più vicina.
*
Non
ne erano usciti tutti indenni, a quanto pareva.
Jigen aveva assistito impotente al crollo, mentre cemento e calcinacci
si
accasciavano a terra, trascinando con loro il tesoro e tutti coloro che
non
erano riusciti a fuggire in tempo.
Aveva
visto Fujiko e Goemon, illesi, allontanarsi
dall’edificio; Vodka e Vermouth li aveva seguiti di
lì a poco, anche loro
salvi. Di Lupin ed Erika neanche l’ombra.
Sferrò
un calcio ad un sasso, mentre l’angoscia
tornava ad attanagliargli il petto. Una parte di lui si rifiutava di
credere
che Lupin fosse morto – quante volte l’aveva visto
rispuntare dal nulla, come
un fantasma? Troppe ormai, troppe per crederci sul serio – ma
l’altro lato,
molto più pessimista, gl’insinuava il dubbio, gli
dava preoccupazioni.
Anche
con Ariadne non aveva mai pensato che potesse
finire, eppure, quando meno se l’era aspettato, era accaduto.
Tutta colpa di
Mash. Era sempre tutta colpa di Mash.
<
E’ inutile che tu stia lì ad aspettare. I morti
non tornano.>
Jigen
lanciò un’occhiata di sbieco a Gin, che si
stava rassettando il cappello in testa.
<
Era destino che la ragazzina ci rimanesse in
un’esplosione. Quanto al tuo amico, aveva l’aria
troppo stupida per poter
vivere a lungo.>
Il
moro si lasciò andare ad un sorriso sarcastico.
<
Su questo non hai tutti i torti.>
<
Te l’ho già detto, Jigen: smettila di
affezionarti alle persone. E’ solo una complicazione in
più.>
Un
gran fiatone e dei passi pesanti e poco saldi
annunciarono l’arrivo di Vodka, la giacca nera ormai
diventata grigia a causa
dell’esplosione.
<
Abbiamo controllato ovunque, aniki, ma della
ragazzina nessuna traccia.>
Gin
scrollò le spalle: evidentemente la notizia non
gli faceva né caldo né freddo.
<
Direi che il nostro compito qui è terminato. –
osservò impassibile, avviandosi verso la sua amata Porsche
– Alla prossima,
Jigen.>
L’uomo
li osservò mentre si allontanavano in
silenzio, uno accanto all’altro. Rimase lì ancora
un po’: presto sarebbero
arrivate le sirene della polizia, sempre in ritardo. Non voleva restare
abbastanza per sentirle, ma non aveva neanche voglia di andarsene. Si
fermò ad
aspettare.
Ci
volle qualche minuto perché accadesse quello che
si era aspettato fin da subito. Sentì prima un leggero
scricchiolio, poi un
movimento minimo in un punto imprecisato alla sua destra. Poi dal
cumulo di
macerie una pietra rotolò giù con gran fracasso;
un’altra la seguì a ruota e
dopo una terza e via dicendo. Jigen osservò la scena,
profondamente divertito,
mentre dal terreno sbucava prima un braccio, poi una testa con un
caschetto da
minatore addosso, poi un corpo intero, anzi due.
<
Sorpresa!>
Mai
un morto vivente era apparso più vitale. Sorrise,
sistemandosi meglio il cappello sul capo, mentre Lupin si scuoteva la
polvere
di dosso e aiutava un’Erika un po’ stralunata a
rimettersi in piedi.
<
Sai, Jigen, questi caschetti sono miracolosi.
Dovresti prendertene uno anche tu, al posto di quel vecchio
cappello!>
Il
diretto interessato scosse la testa e si avviò
verso la macchina: per quel giorno ne aveva viste abbastanza. Con la
coda
dell’occhio vide Lupin posare una mano sulla spalla di Erika
e dirle che il
peggio era passato. Per una buona volta sentiva che aveva ragione.
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Capitolo 7 *** Epilogue ***
Buondì!
In primis mi scuso per aver impiegato ere geologiche per pubblicare
quest'ultimo capitolo, senza contare che l'avevo scritto da tempo. Per
tutti quelli che pensavano che la storia continuasse, purtroppo era
stata strutturata così per ragioni di tempo del fest, ma
ciò non implica che io non possa tornare su questo crossover
e su questi pairing in futuro (anche se mi sto orientando su altri
esperimenti, al momento). Vi ringrazio di cuore per avermi seguito!
7
– Epilogue
L’uomo
di fronte a lei aveva gli occhi spenti, come
se avesse visto talmente tante cose da voler semplicemente serrare le
palpebre
e procedere a tentoni. Erano occhi stanchi e provati e Erika si chiese
come mai
il mondo fosse pieno di persone così: uomini e donne che non
avevano fatto
altro che combattere tutta la vita e si erano ritrovati vecchi e
svuotati ben
prima del previsto. Anche quell’uomo vestito completamente di
nero aveva quello
sguardo, le poche volte che aveva sollevato la tesa del cappello quel
che
bastava per lasciarsi osservare per bene. Doveva essere una malattia
parecchio
diffusa, visto quante volte l’aveva incrociata negli ultimi
tempi.
Compilò
i moduli che l’agente – aveva detto di
chiamarsi Akai, giusto? Non riusciva a ricordare bene – le
passava man mano.
Più firme apponeva su quei fogli e più confusa si
sentiva: Lupin le aveva detto
che era la cosa migliore da fare, che presto o tardi
l’Organizzazione si
sarebbe resa conto che lei era ancora in vita. Il programma di
protezione
testimoni era la scelta più adatta, ma più carte
le passavano davanti e più
aumentava il senso di claustrofobia che provava.
Era
la tempesta che tornava a tormentarla.
Chiuse
gli occhi e sentì nuovamente la mano di quel
ladro così strano sulla sua spalla. Ancora una volta sarebbe
riuscita a non
annegare.
*
<
Uffa, però… tutto
quell’oro…>
Jigen
si concesse un mezzo sorriso mentre Lupin, con
la sua aria affranta di chi ha appena fallito il colpo del secolo,
sorseggiava
la sua granita alla birra.
<
Tutto perduto…
una vera e propria maledizione, no? E poi questa volta non mi sono
neanche
tanto divertito… non c’era nemmeno
Zazà!>
Dall’altro
capo della stanza Fujiko si esibì in un
sorriso smagliante e tirò fuori dalla scollatura un
sacchettino di pelle.
<
Un vero peccato davvero… per fortuna che ho
pensato di prendere un po’ di quei diamanti, prima che
arrivassero quei brutti
ceffi!>
Jigen
non badò alla situazione che andava man mano
degenerando, con Lupin che ripeteva alla donna quanto l’amava
e allungava le mani,
non si sa bene se ad afferrarle la refurtiva o il seno, mentre lei lo
schivava
senza alcuno sforzo e si allontanava trionfante. Si limitò
ad accendersi una
sigaretta e a guardare fuori dalla finestra: il cielo era di un azzurro
intenso, privo di nuvole.
Avrebbe
avuto tempo per riposare, prima che la
tempesta riprendesse.
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