Hope will never die

di Tikal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1 
 
“Alex mi guardò, i suoi occhi si posarono sul mio volto e si soffermarono sulla cicatrice che percorreva la guancia.
 – Abbiamo vinto. – mormorò, lasciando cadere a terra la spada. – È finita, finalmente. – i nostri occhi si incrociarono, un pozzo scuro e senza fine contro il mare dai mille colori. Proprio come la prima volta che la incontrai. Sembravano passati secoli, invece, quel giorno che cambiò per sempre la mia vita, risaliva a poco più di un anno prima. – Siamo liberi. Giustizia è fatta. – annuii. Anche se era costata cara, avevamo vinto. Era così strano pensarlo. Per mesi avevo creduto di stare combattendo per una causa persa, e alle volte avevo pensato che non ce l’avremmo mai fatta, ma in quel momento, davanti a lei, ero felice di non aver rinunciato.
Lei si avvicinò a me, bellissima, anche dopo una battaglia. I capelli castani luccicavano al sole, la ciocca azzurra aveva quasi perso del tutto il suo colore, diventando sempre più chiara. Il viso sporco di sangue e terra si aprì in un sorriso, rivelando la fossetta sulla guancia sinistra. Per ultimi lasciai gli occhi. Verde il destro, azzurro il sinistro, entrambi con una piccola macchia marrone vicino alla pupilla, quando le sue labbra rosse si arcuarono all’insù, anch’essi mi ricambiarono il sorriso, brillando per la gioia e le lacrime. Ne avevamo affrontate così tante assieme, avevamo visto la morte in faccia più di una volta, ma le eravamo sempre sfuggiti.
– Grazie Andrew. – mormorò, avvicinando le sue labbra alle mie.
Fu il più bel bacio del mondo.”
 
Elisa chiuse il computer, un vecchio pc portatile, e sospirò. Le sarebbe piaciuto moltissimo trovarsi al posto di Alex, forse era proprio per quello che aveva creato quel personaggio, tempo prima.
Erano sei mesi che scriveva, quasi ogni giorno, sul suo blog, pubblicando ogni volta un nuovo capitolo della sua storia. Era un modo come un altro per evadere da quella vita che odiava con tutta se stessa, peccato che poi era sempre costretta a tornarvi.
Gettò un’occhiata sul comodino e prese in mano il telefono. Aprì i messaggi ricevuti, controllando gli ultimi, i suoi compagni continuavano a litigare per chi avesse ragione riguardo la soluzione di un problema di fisica. Erano le undici e mezza, probabilmente avrebbero finito per l’una.
Bloccò il cellulare e si mise sotto le coperte, aspettando che il sonno la accogliesse tra le sue braccia.
 
La sveglia suonò in ritardo quella mattina.
Elisa per poco non cadde dal letto, quando la voce di Jovanotti che cantava a squarciagola “La notte dei desideri” non le arrivò alle orecchie, distruggendole i timpani.
Tirò pigramente fuori una mano, spegnendo le note della canzone sugli ultimi accordi. Si alzò a sedere stropicciandosi gli occhi, stanca come non mai, e il suo sguardo cadde sul display luminoso della radiosveglia, che segnava le sei e cinquantatre.
Si precipitò fuori dal letto, terribilmente in ritardo, per poi inciampare in uno dei cuscini a terra e finire a gambe all’aria.
“Odio il lunedì mattina” pensò soffiandosi via un ciuffo castano dagli occhi.
 
– Alla buon’ora. – l’accolse sua madre una volta scesa in cucina. – Ti ho già preparato la colazione, muoviti o farai tardi. – Elisa annuì, ringraziando silenziosamente la madre, e si mise a tavola. Ingurgitò velocemente la brioche e il latte, per poi correre a vestirsi.
Tirò fuori la prima cosa che trovò dall’armadio: un paio di jeans blu e una maglietta bianca a manica corta con una stampa a cui non fece caso. Indossò una vecchia camicia di jeans sopra la maglia e si guardò allo specchio.
Si era tagliata i capelli due anni prima, e da allora li teneva sempre corti, con un taglio asimmetrico. In quel momento erano spettinati e sparati in aria, come se si fosse appena alzata dal letto (cosa peraltro vera).
L’estate precedente si era colorata una ciocca del ciuffo d’azzurro, per somigliare di più ad Alex, la protagonista dei suoi racconti, e molti degli insegnati la guardavano male per quello.
Sorrise all’immagine riflessa nello specchio, e i suoi occhi verdi la ricambiarono allegri.
Nessuno sapeva chi fosse in realtà la scrittrice misteriosa che si firmava “Hope”, speranza in inglese, e che da sei mesi teneva un blog dove pubblicava le sue storie.
Nessuno sapeva chi fosse, nessuno tranne tre persone.
 
– Aspetta! – gridò Elisa al pullman che si allontanava velocemente. Quella giornata non era iniziata affatto nel modo giusto, e alla prima ora avrebbe dovuto incontrare la strega della Bianchi, l’insegnante d’inglese più incompetente del mondo. La ragazza portò le braccia al petto, sbuffando indispettita. Non aveva la minima intenzione di beccarsi una sgridata da una che non sapeva nemmeno coniugare un congiuntivo, ma non sarebbe mai arrivata a scuola in orario.
Controllò l’ora sul display del cellulare; lo schermo segnava le sette e mezza. Sospirò sconsolata e si rassegnò a comporre il numero della madre per farsi portare a scuola in macchina.
– Ehi mamma, si, sono Elisa. Potresti chiedere alla zia se mi potrebbe portare a scuola? Qui il pullman è già passato. – Cercò di farlo sembrare un incidente, e che non era colpa sua. Funzionò, Elisa era un’attrice fantastica grazie alle ore passate a scuola, dove si sforzava di sorridere e di non mandare a quel paese i ragazzi che non sopportava e che la prendevano in giro.
Si appoggiò al palo della luce di fianco alla pensilina e si infilò le cuffie nelle orecchie, cercando di fare in modo che il volume della musica superasse quello dei suoi pensieri. Peccato solo che i suoi pensieri strillavano sempre come se fossero ad un concerto di musica rock. Aumentò il volume ancora di più, e la voce di Jovanotti superò il rumore caotico e disordinato della sua mente.  

 
 
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ANGOLO AUTRICE

Grazie mille per essere giunti fin qui!!
Premetto che è la prima storia originale che pubblico, e spero di non aver fatto un disastro.
Passiamo alla storia. 
Il testo che si legge all'inizio è mio, Andrew ed Alex sono due miei personaggi che fanno però parte di un'altra storia (decisamente incasinata), che però penso non pubblicherò qui. 
Il personaggio di Elisa è ispirato molto a quello di Alex che è a sua volta ispirato ad un'altra persona (faccio troppi giri, lo so.)
Il capitolo è cortissimo, me ne rendo conto, ma i prossimi capitoli si allungheranno.
Pubblicherò ogni venerdì (salvo imprevisiti) e spero vivamente che la storia vi piaccia.
Al prossimo capitolo!!
Virgia99
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
– Elisa! – La voce di sua zia la distolse dai suoi pensieri. Abbassò il volume della musica e si avvicinò all’auto, una vecchia Volkswagen color grigio argento targata Varese. Elisa aprì la portiera posteriore ed entrò, gettando lo zaino sul sedile di fianco al suo.
L’interno dell’abitacolo sapeva di vecchio e vissuto, con l’odore pungente dei deodoranti per auto che permeava i sedili.
La donna al volante indossava una maglia nera ed un paio di leggins del medesimo colore, le braccia pallide ricoperte di bracciali di perline che tintinnavano ogni volta che girava il volante.
– Ho visto che quest’estate andrà di moda il nero… – esordì raggiante. Elisa smise di ascoltarla in quello stesso istante. Alzò di nuovo il volume della musica e si concentrò sul paesaggio del paesino che scorreva fuori dal finestrino.
Lorenza D’Angelo, sorella di Cesare D’Angelo, il padre di Elisa, era una donna decisamente eccentrica. Viveva all’estero per la maggior parte del tempo, ma tornava a casa due o tre giorni al mese, per far visita ai genitori e alla famiglia. Aveva i capelli castani, simili a spaghetti, e gli occhi grandi e scuri, non era magra, ma si sforzava di non darlo a vedere. Un tempo doveva essere stata anche una bella donna, ma con il passare degli anni la sua bellezza era sfiorita, lasciando solamente un’ombra di ciò che era stata.
Come molti degli altri parenti, non tollerava molto la nipote, la “pecora nera” della famiglia, il suo carattere abbastanza ribelle ma allo stesso tempo solitario, e tendeva a caricare, sulle sue spalle di quindicenne, pesi troppo grandi per lei.
Quando poi Elisa, in terza media, aveva espresso il suo desiderio di diventare una scrittrice, Lorenza, come la maggior parte della sua famiglia, si era sentita chiamare in causa dalla scelta della nipote, contrastando in ogni modo il suo sogno.
Avevano fatto di tutto per farle cambiare idea, spingendola a lasciar perdere quella malsana idea di provare a seguire i propri sogni, l’avevano demotivata, dicendole che scriveva male, che non sarebbe mai riuscita a combinare nulla di buono, che forse non sarebbe mai nemmeno riuscita a superare gli esami. Ma Elisa era testarda, aveva continuato a scrivere nonostante la sua famiglia le andasse contro, ed era uscita più forte da quella esperienza. Come una lama, forgiata nel fuoco e temprata nell’acqua, Elisa non si era arresa, ignorava le critiche dei parenti, gli scherzi dei cugini, e continuava, in segreto, a seguire il suo sogno.    
Si era costruita una maschera di indifferenza e sicurezza, lasciando che ogni cosa le scivolasse addosso, aveva accettato, seppur a malincuore, che i suoi genitori la iscrivessero ad un liceo scientifico, perché pensavano di poterla distogliere dai suoi obbiettivi.
Aveva accettato la sconfitta fiera, o almeno così la gente credeva, ma aveva voluto lasciare un ultimo segno dei suoi sogni, e così, al tema scritto della prova di italiano, era tornata a casa con un bel nove.
I suoi genitori avevano creduto che mandarla in quella scuola sarebbe stata la cosa migliore per tarparle le ali, ma si sbagliavano.
Elisa era rimasta affascinata da quella scuola sin dal primo giorno, aveva qualcosa che la stregava dal primo all’ultimo mattone. I banchi, vecchi e ricoperti di disegni e scritte, testimonianze di scorci di vita vissuti all’interno di quelle vecchie classi dai muri scrostati, le persone che percorrevano ogni giorno i corridoi, creando ogni volta la loro storia.
Elisa era affascinata dalle persone, ognuna di loro aveva una storia da raccontare, e lei non aspettava altro che sentirla.
Quella era la scuola che faceva per lei, lo aveva sentito dal primo giorno in cui vi aveva messo piede, la scuola delle persone perennemente indecise, quelle persone che non sapevano ancora che fare della propria vita, ma che non se la sentivano di escludere tutte le possibilità fino all’ultimo. Si era iscritta al giornale della scuola, scoprendo anche la passione per il giornalismo, e quell’anno aveva aperto il blog dove pubblicava le sue storie, in barba a tutti i suoi parenti; quella, era stata una delle sue più grandi soddisfazioni.
 
Il profilo famigliare delle case le scorreva davanti agli occhi, che lo osservavano distratti e disattenti. La mente di Elisa vagava, rilassata dal monotono borbottio delle parole di Lorenza, che le arrivavano distanti e smorzate dagli auricolari che aveva nelle orecchie. La sua fantasia volava, toccando luoghi mai sfiorati da uomini; senza nemmeno dare molta retta al testo della canzone, Elisa tamburellava, seguendo una melodia che suonava nella sua mente, sulla portiera della macchina.
L’auto passò di fianco ad una vecchia casa abbandonata da anni con le assi di legno inchiodate alle finestre e le erbacce che crescevano rigogliose nel giardino. Elisa chiuse gli occhi e lasciò andare l’immaginazione; quando li riaprì, al posto della casa sorgeva un antico maniero dalle spesse e alte mura, da cui provenivano strani lamenti e grida, e sopra cui si concentravano delle nubi scure.
La ragazza sorrise, immaginando la storia che quel vecchio castello poteva celare mentre la strada scorreva veloce. Fuori dal finestrino si susseguivano case, palazzine e giardini che ai suoi occhi assumevano magicamente forme diverse. Era divertente vedere la realtà trasformarsi e piegarsi a un suo comando, assumendo qualsiasi forma lei volesse.
– Siamo arrivati. – l’auto frenò davanti all’entrate di un grande edificio che un tempo doveva essere stato color giallo limone, ma che con gli anni si era scurito. Elisa aprì la portiera e scese dalla macchina, la cartella in spalla. Dietro di lei sentì l’auto ripartire senza che sua zia si fermasse a salutare. Meglio così, andava già bene che lei e i suoi parenti non cercassero di strangolarsi a vicenda ogni volta che si vedevano, non voleva essere in debito con loro più del dovuto.
Gettò di sfuggita un occhiata al display del telefonino che segnava le otto meno cinque, ed entrò.

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Angolo autrice

Pubblico oggi il secondo capitolo perché altrimenti domani non riesco a metterlo.
Questo secondo capitolo è molto breve, me ne rendo conto, ma è di passaggio e serve per capire un 
po' di più il personaggio di Elisa ed una parte della sua storia.
La sua famiglia è anche uno dei motivi, ma non il più importante, per cui lei è così solitaria,
ma verrà spiegato più avanti.
Premetto che sono già molto avanti nello scrivere la storia e spero che piaccia a voi come a me piace scriverla 
e ai miei amici leggerla (i miei compagni si sono autoinvitati a leggere le mie storie ed io sto impazzendo)
Il cognome di Elisa non è un riferimento casuale a un certo personaggio di una certa saga di cui qualcuno è 
innamorata... ;) 
Comunque. Vi avviso che i primi capitoli servono principalmente per inquadrare il 
personaggio di Elisa e l'ambiente in cui si muove, e che la trama vera e propria sarà spiegata bene penso nel quinto capitolo 
da un personaggio speciale... (la smetto, altrimenti rischio di raccontare ogni cosa)
Mi scuso se non ho risposto alle recensioni (tre recensioni al primo capitolo, TRE!!!) ma, come ho già detto è un periodo piuttosto incasinato, ma ringrazio comunque le tre persone che hanno recensito e vi sono infinitamente grata di aver speso due minuti per dirmi cosa ne pensate e vi dico che c'è una ragione ben precisa se Elisa si firma Hope ;)
Bene, penso di aver detto tutto, se non sono stata chiara su qualcosa non esitate a chiedere.
Hope
(nel frattempo, se la richiesta è stata eseguita, ho cambiato nickname) 
Quinidi alla prossima settimana,
Hope


 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
– Chi è Martin? – La voce stridula di una ragazza interruppe Elisa dai suoi pensieri. Seduta sotto la finestra, aveva passato l’ora di inglese e le due ore di matematica a guardare il cielo e ad osservare le nuvole, cercando, per poter dare vita a nuove storie, le forme più strane in quei batuffoli di cotone bianco.
– Cosa? – Domandò confusa. In piedi davanti a lei Alessia sbuffò. Aveva il fisico asciutto come un grissino ed ogni mattina arrivava a scuola con il viso ricoperto di così tanto trucco da far impallidire un clown, i capelli erano stati tinti così tante volte in quegli ultimi due anni che Elisa non si ricordava più di che colore fossero all’inizio della prima. Indossava un paio di jeans molto attillati e una canottiera con una generosa scollatura. 
Molti ragazzi la consideravano bella, o comunque abbastanza attraente ed affascinante da raccogliere su di sé gli sguardi della maggior parte degli alunni di sesso maschile ogni qualvolta che passasse per i corridoi, dal canto suo Elisa aveva in mente moltissimi altri epiteti per definirla, ma “bella” era al penultimo posto della sua lista, sopra “intelligente”.
Non che lei fosse bellissima e attirasse molti ragazzi, il suo carattere solitario e ribelle e la sua propensione a perdere le staffe se infastidita non aiutavano affatto, benché meno le prese in giro di tutta la scuola e la sua reputazione di  “ragazza strana”, ma perlomeno non arrivava a scuola ogni mattina truccata come se avesse appena tuffato la faccia sulla tavolozza di un pittore.
Alessia allungò un dito lungo e affusolato dalla carnagione pallida, su cui faceva bella figura un grosso anello, “pegno d’affetto”, come lo chiamava lei, del suo attuale ragazzo, e lo puntò in direzione della maglietta di Elisa, ancora seduta al suo posto, nonostante la campanella dell’intervallo fosse suonata già da due minuti. – Ho detto, – La voce di Alessia era la stessa che si usava con i bambini piccoli e lenti di comprendonio. – chi è Martin.
Elisa strinse i denti, ricacciando indietro gli insulti che le erano saliti alle labbra, odiava essere trattata come una stupida solo perché non aveva la media più alta della classe, soprattutto se la persona che le si rivolgeva in quel modo era una ragazza con un quoziente intellettivo minore di quello di una formica, e abbassò lo sguardo sulla stampa della maglietta. Andando di fretta, non aveva fatto caso a quale avesse indossato, quella mattina.

Era una maglia che le era stata regalata per i suoi quindici anni, l’estate precedente, e citava la frase di George R. R. Martin:
A reader lives a thousand lives before he dies, the man who never reads lives only one.” 
Elisa si morse il labbro, non metteva mai quella maglia per venire a scuola, poiché l’ultima volta che l’aveva fatto si era ritrovata in vicepresidenza con un labbro spaccato a fronteggiare le ire del vicepreside.
 – Quindi sai leggere! – Alessia non sembrò capire il sarcasmo nella voce di Elisa, perché si limitò a fissarla disorientata.
– È il tuo ragazzo per caso? – Nella voce di Alessia si avvertiva la malizia e la cattiveria. Conosceva benissimo cosa fosse accaduto quell’estate, e voleva spargere il sale su una ferita ancora aperta, facendola sanguinare ancora di più.
Elisa aprì la bocca ma, quando fece per risponderle a tono, una voce antipatica la precedette:  – Andiamo Ale! Chi vuoi che si innamori di una così? – La castana fissò con odio il nuovo venuto: capelli ingelatinati, vestiti firmati, scarpe all’ultima moda e sorriso strafottente. Aveva un braccio attorno alle spalle di Alessia e la guardava nello stesso modo in cui avrebbe guardato uno scarafaggio. Il tipico figlio di papà menefreghista che si diverte a prendere in giro studenti e professori, perché tanto i genitori erano sempre pronti a testimoniare in sua difesa. – Oh, aspetta. Uno si è innamorato di te, e come è finita? Ah già, è in coma, giusto? – Elisa strinse i pugni. “Non ascoltarlo, non ascoltarlo, vuole solo provocarti.” Si ripeté nella mente. Ma era difficile ignorare il tono maligno e canzonatorio che quel ragazzo infondeva nelle sue parole, o le risate sguaiate di Alessia che si doveva tenere a lui per non cadere. I suoi occhi verdi erano accesi per la rabbia mentre fissava con odio crescente i due davanti a lei.
– George Martin è uno scrittore. – La sua voce tremava di rabbia. – Uno dei più grandi scrittori degli ultimi tempi.
– Un idiota in pratica. – Rispose Alessia. – Come tutta quella gente che scrive un libro. Insomma, perché fare un libro o mettersi a leggerlo quando c’è già il film? 
Elisa non ci vide più, non sopportava quella ragazza, il suo amico idiota, e la maggior parte dei suoi compagni, ma quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Come un vulcano in eruzione, Elisa esplose, riversando su Alessia tutta la rabbia, il dolore e il rancore che teneva dentro da mesi.
– Perché? Perché a quelle persone scrivere piace, perché oggi fare qualcosa come scrivere libri è considerato da sfigati. Perché la gente oggi ha una mentalità quadrata e chiusa, che non permette alle persone di guardare oltre la semplice realtà. Siete degli ipocriti. Perché ve la prendete con le persone che cercano di realizzare i propri sogni, o che perlomeno hanno un sogno diverso da quello che la gente impone come modello? Perché siete invidiosi di quelle persone, ecco perché. Perché loro, a differenza vostra, hanno qualcosa per cui continuare a vivere ogni singolo giorno, qualcosa diverso da vestiti e scarpe firmate. Be’, sai che vi dico allora? Vaffanculo!

Elisa corse fuori dalla classe mentre le lacrime le premevano prepotenti sulle palpebre.
Al suo passaggio, tutti si girarono a guardarla, ma quasi nessuno fece niente per fermarla. Sentì una voce chiamare il suo nome, ma continuò a correre senza mai voltarsi indietro.
Raggiunse la porta della biblioteca e la aprì senza esitazione. La pesante porta di metallo sbatté forte quando lei la richiuse alle sue spalle, ma Elisa non ci badò. Si rannicchiò in un angolo, tra due scaffali di libri, quei libri che tanto amava, e lasciò che le lacrime la bagnassero il viso.
Non si preoccupava che la bibliotecaria la trovasse poiché sapeva che era via, e, nel remoto caso in cui qualcuno fosse venuto a cercarla, lo avrebbe cacciato.
Voleva rimanere sola, senza nessuno che la disturbasse per alcun motivo al mondo.
Voleva rimanere sola, piuttosto che accerchiata da persone a cui di lei non importava niente.
Chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime scendevano ancora copiose sulle sue guance, finché le palpebre non si fecero più pesanti e si addormentò.
 
*
 
Una voce la chiamava. – Elisa svegliati. – Elisa aprì gli occhi svogliatamente. Davanti a lei vide l’immagine sfocata di un viso che continuava a chiamarla. Strizzò gli occhi, mettendo meglio a fuoco i contorni del volto sopra di lei. Una ragazza dai lunghi capelli lisci e neri la stava chiamando, cercando di svegliarla. Aveva dei grandi occhi marroni scuri, dolci come quelli di un cerbiatto, in quel momento ricolmi di preoccupazione. Le sue labbra si arricciarono in un sorriso quando notò che era sveglia. – Finalmente. – Sospirò. – Tra un po’ avrei dovuto usare un secchio d’acqua. – Elisa sorrise, il primo vero sorriso che faceva da mesi. – Sarebbe stata una scena decisamente comica. – Commentò.
– Che ore sono? – Domandò stiracchiandosi.
– Le undici e venti, mi ha mandato a chiamare la Galli.
Fu il turno di Elisa di sospirare, doveva essere rimasta lì per venti minuti circa, non troppi, ma nemmeno pochi.
– Si è arrabbiata? – L’altra alzò le spalle e scosse la testa.
– Dille che sei stata male. Non sa del tuo litigio con quei due. E, a proposito, sei stata grande. Era ora che qualcuno gli dicesse qualcosa. Sono insopportabili. – La ragazza sorrise felice. – Avresti dovuto vedere quello che è successo dopo, non penso che nessuno abbia mai gridato con Riccardo in quel modo. Comunque io sono dalla tua parte, così come altri. Non possono continuare a fare così!
Elisa la fissava sottecchi, i capelli neri ondeggiavano quando muoveva la testa e gli occhi da cerbiatto erano ricolmi di rabbia. Era una delle ragazze più tranquille della classe, nessuna rissa, pochi brutti voti, nessuna nota, nemmeno per aver dimenticato un libro a casa. La studentessa modello in poche parole. Non riusciva a capire come mai quella ragazza, all’apparenza così esemplare, dovesse sostenere lei, una che era finita più di una volta in presidenza per aver fatto a botte con qualcuno, una che gridava contro i compagni, una… come lei. – Non li sopporto, sul serio. Abbiamo deciso che d’ora in poi non ci metteranno più i piedi in testa, ne abbiamo tutti piene le scatole. Ci hai dato l’esempio per fare ciò che non abbiamo mai avuto il coraggio di fare. – I suoi occhi da cerbiatto erano puntati in quelli verdi dell’altra. La ragazza si alzò e le tese la mano. Elisa la fissò per qualche istante, indecisa se prenderla o meno. Si era chiusa completamente in se stessa, sia a causa di ciò che era successo l’estate precedente, sia a causa della sua famiglia. Ma non doveva per forza essere così, poteva avere degli amici, cercare di ricominciare daccapo.
– Grazie – disse, afferrando la mano che l’altra le tendeva. – Adesso è meglio tornare in classe, o la Galli mi… cioè, ci ucciderà. – L’altra rise.
– Hai ragione. A proposito, non ci siamo mai presentate come si deve. Io sono Corinna, e adoro la tua maglietta!
Elisa rise di gusto, come non rideva da mesi. Le piaceva quella ragazza, divertente, solare, abbastanza fuori di testa da cercare di diventare sua amica.
– Ti avviso, se diventeremo amiche di addio alla tua vita sociale.
Corinna rise, decisamente divertita.
– La mia vita sociale è all’ultimo posto nella piramide di questa scuola, quindi mi va più che bene.
Si avviarono assieme per i corridoi della scuola, ridendo felici. Per una volta Elisa sentiva il cuore farsi più leggero, come se le avessero tolto un enorme macigno dal petto.
In fondo era questo che voleva dire amicizia: aiutarsi a vicenda, sostenendo assieme i pesi di ognuno.
“Questo” pensò Elisa “è l’inizio di una splendida amicizia.”
 
*
 
Quando rientrò in classe un boato di risate l’accolse. Elisa strinse i pugni, cercando di farsi scivolare addosso le occhiate malevole dei compagni.
– Che è successo, D’Angelo? – Domandò una donna seduta alla cattedra, più per protocollo che per reale preoccupazione.
– Mi ha fermato il professor Bettinelli per avvisarmi di una cosa riguardante la riunione del giornale. – La professoressa sembrò crederci, fintanto che i suoi alunni non si uccidevano a vicenda non ci teneva a indagare i motivi di un ritardo dopo l’intervallo, ed inoltre Bettinelli, il coordinatore del giornalino della scuola, era famoso per la sua tempistica.
Elisa sentiva su di sé le occhiatacce di Riccardo e dei suoi amici, ma cercò di non farci caso. Fece passare invece lo sguardo sui volti degli altri ragazzi e si sorprese quando scoprì che Corinna aveva ragione. Cinque o sei ragazzi la osservavano, raggianti in viso, senza odio o inimicizia negli occhi che esprimevano solo stima e gioia; un ragazzo si arrischiò addirittura a sorriderle e ad alzarle il pollice in su, attirando su di sé le occhiate piene di disgusto di Alessia.
– Va a sederti, ma che non capiti di nuovo. – Sembrava che la donna stesse recitando un copione, senza però metterci la passione che da vita alla storia. Elisa si morse la lingua per non replicare la sua opinione si avviò al suo posto. In viso aveva un’espressone seria, ma dentro il petto si sentiva esplodere di felicità con la potenza di una bomba a idrogeno. Attraversò il corridoio di banchi allineati a due a due a testa alta, diretta al suo posto in fondo alla classe, qualche fila più indietro di quello di Riccardo. Quando passò di fianco al posto del ragazzo sentì una mano, con delle dita simili ad artigli ed una stretta feroce, afferrarle il braccio, trattenendola accanto al suo banco.
– Oggi hai vinto, D’Angelo, ma la guerra è appena incominciata, quindi non crogiolarti troppo per questa tua piccola vittoria. – La voce di Riccardo le salì sulla spina dorsale, sinuosa come un serpente che si preparava all’attacco. Un brivido freddo le percorse la schiena, ma non si scompose, gli rivolse, invece, un’occhiata carica d’odio. I suoi occhi verdi, profondi come due pozzi senza fine, ardevano di rabbia. – Non sottovalutarmi Rossi. Potrei anche vincerla, questa guerra.
Elisa diede uno scrollone al braccio, liberandosi dalla stretta del ragazzo, che ritrasse velocemente la mano. I suoi occhi azzurri non lasciarono la sua figura finché non si sedette.
 
*
 
– Sono con te. – Elisa alzò il viso dal disegno che stava facendo. Gabriele, il suo vicino di banco, le si avvicinò. – Cosa hai detto? – Domandò la ragazza. Lui sorrise, mostrando l’apparecchio. – Sto dalla tua parte – le sussurrò di nuovo sottovoce. Lei sorrise. Tra loro due vigeva il patto non detto di comportarsi come due estranei durante le ore di lezione, e, fino a quel momento, non avevano mai parlato molto, se non piccoli scambi di battute che morivano non appena conclusi.
Il silenzio calò di nuovo tra loro due mentre la prof parlava, spiegando chissà quale poesia di chissà quale poeta che nessuno ascoltava. – Sai… – Fu di nuovo Gabriele ad interrompere il silenzio. – Non ci conosciamo molto, anche se siamo vicini di banco. – Le sue guancie si tinsero di rosso mentre parlava, evidentemente imbarazzato. – Potremmo diventare amici, non mi piace essere vicino di banco a una persona di cui conosco a malapena il nome. – Elisa strabuzzò gli occhi. Non credeva che lui stesse parlando seriamente. – S.. Sul.. Sul serio? –
Lui si rabbuiò. – Perché? Non vuoi? – Elisa si morse il labbro e scoppiò in una piccola risata. – Certo che voglio stupido! – Il volto di Gabriele si illuminò di nuovo. – Davvero?
– Davvero.   
– Davvero davvero davvero?
– Davvero, davvero, davvero.
– Davvero davvero davvero davv…
– Ti ho detto di sì, ma adesso smettila. – Lo interruppe Elisa. Sentiva il cuore farsi grande, traboccante di emozioni contrastanti. Era ancora arrabbiata con Riccardo ed Alessia, ma era felice come non si sentiva da tempo ormai; felice che per una volta la vita le avesse sorriso, regalandole delle persone su cui sentiva di poter contare. Aveva ancora paura di perderle, così come aveva perso lui, ma non voleva che ciò influenzasse troppo la sua scelta.
 
*
 
Prima di morire suo nonno, forse l’unico parente che non aveva osteggiato il suo sogno di diventare scrittrice, era solito ripeterle la frase di un vecchio giornalista: “Nessuno ha detto che sarebbe stato facile, hanno solo promesso che ne sarebbe valsa la pena”. Da piccola Elisa amava passare le ore, seduta sulle sue ginocchia o ai suoi piedi, a sentire le storie che lui le raccontava.
Alle volte, se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire la sua voce roca raccontarle una storia risuonare nella stanza, sentire il suo profumo acre, un misto tra il tabacco della pipa che amava fumare d’inverno, seduto sulla sua vecchia poltrona rovinata, e la terra che aveva sempre sotto le unghie; poteva immaginarselo, un uomo anziano, sull’ottantina, ma senza troppi capelli bianchi, la pelle rugosa scottata dal sole grazie alle ore che passava nell’orto, il suo sorriso caldo, sempre pronto ad accoglierla qualora ce ne fosse stato il bisogno. Quando era piccola le raccontava ogni volta una storia diversa, inventandone sempre di nuove. Era da lui che aveva preso la passione per la scrittura, era lui che le aveva insegnato a vedere la realtà in un modo diverso, a trovare la poesia in ogni istante, a trovare la magia anche nella cosa più comune, a tessere le storie in un disegno infinito, intrecciando le parole come se fossero i fili di un telaio, per dare vita al più meraviglioso degli arazzi.
Era lui che le aveva insegnato a sognare e a crederci fino alla fine;
era lui che le aveva insegnato a non accettare la sconfitta finché non le aveva provate tutte.
La frase che lui le ripeteva sempre, ogni qualvolta si ritrovasse a lamentarsi per qualcosa, le rimbombò in mente.
Ed in quel momento, seduta a un vecchio banco di scuola ricoperto da graffi e disegni, con in sottofondo la voce piatta e monocorde della prof che spiegava una lezione che molti avevano rinunciato da tempo a seguire, un libro di storia aperto sulla pagina sbagliata e un ragazzo che rideva accanto a lei, in quel momento Elisa comprese appieno il senso di quella frase che il nonno le ripeteva sempre.
“Nessuno ha detto che sarebbe stato facile, hanno solo promesso che ne sarebbe valsa la pena.”
 No, non sarebbe affatto stato facile, ricominciare, uscire da quella corazza di solitudine che si era creata, ma probabilmente ne sarebbe valsa la pena; non doveva nascondersi, doveva essere se stessa, anche se era da tempo che non lo era più.   
 
“Nessuno ha detto che sarebbe stato facile, hanno solo promesso che ne sarebbe valsa la pena.”
 
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ANGOLO AUTRICE
Ce l'ho fatta! Sono riuscita ad aggiornare!
Ok, la pianto e passo alla storia, ma ciò non toglie che sono felicissima!
La storia... 
Devo dire che la prima parte non mi convince molto.
In questo capitolo non c'è molta magia e troviamo un'Elisa alle prese con i compagni di classe, ma solamente perché avevo bisogno di introdurre due personaggi - Gabriele e il nonno - che poco più avanti riserveranno molte sorprese.
Come ho già detto, tendo a trasportare molte delle persone che conosco all'interno delle storie che scrivo, e i personaggi di Gabriele, Riccardo e Corinna ne sono la prova. 
Così come Elisa, anche io mi sono ritrovata a gridare con dei miei compagni - uno in particolare - per pressappoco gli stessi motivi, ho pensato che forse il mio personaggio avrebbe avuto una reazione simile alla mia, ma devo dire che ho impiegato un giorno per cercare di trovare le parole giuste che Hope avrebbe dovuto pronunciare.
Ho pensato che la citazione finale sarebbe potuta essere adatta alla situazione che Elisa sta vivendo, nonostante una famiglia che non la appoggia, dei compagni che la prendono in giro per svariati motivi, ed un'altra situazione - tra tutte quella che probabilmente l'ha portata più di tutte a diventare così schiva e che è lievemente accennata in questo capitolo - sta cercando di ricominciare a vivere la sua vita, sa che non sarà facile, ma è disposta a tentare.
Per ultima cosa, ma non per importanza, ringrazio caldamente coloro che hanno recensito i capitoli precedenti e tutti coloro che seguono/ricordano questa storia. Spero vivamente di non deludere le aspettative di tutti voi.
Bene, e dopo questo papiro mi dileguo.
Baci e a presto 
(Anche se ho cambiato nickname continuerò a firmarmi Hope)
A venerdì prossimo,
Hope 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


A Gabriele,
vicino di banco e
compagno di mille avventure.
Anche se spesso rompi le scatole
ti ho dedicato lo stesso il capitolo
 
 
Capitolo 4
 
Elisa e Gabriele parlarono per entrambe le due ore della Galli, scoprendo di avere molte cose in comune, o altre che erano l’esatto opposto.
Gabriele era solare e molto estroverso, con una carica di energia pari a quella rilasciata da un reattore nucleare, allegro, spiritoso e sempre pronto a fare scherzi. Era la persona migliore da scegliere come amico, una di quelle che ti sarebbero rimaste accanto in qualsiasi momento.
Aveva i capelli scuri e la carnagione olivastra, sembrava un folletto di Babbo Natale, basso e con gli occhi neri in cui ardeva di continuo una scintilla che poteva benissimo essere genialità così come pazzia. Spesso se ne usciva con le idee più strampalate, dietro cui però c’era sempre un grande ragionamento.
Come Elisa, coltivava un sogno, nonostante la sua famiglia non fosse pienamente d’accordo con le sue scelte.
Voleva diventare un attore teatrale.
Ed, in effetti, era anche piuttosto bravo.
Aveva un modo di muoversi sul palco, destreggiandosi abilmente tra i vari personaggi, conferendo ad ogni ruolo un poco di se, che ad Elisa ricordava molto come lei riusciva a muoversi altrettanto abilmente tra le parole e le pagine.
Anche lui, inoltre, non sopportava molto Riccardo e la sua banda di bulli, ma faceva, come si suol dire, buon viso a cattivo gioco con loro, nonostante lo prendessero spesso in giro per i suoi sogni.
 
– Un giorno mi dedicherai una tua storia? Quando scriverai il tuo primo libro, ricordati di me. – Le disse quel giorno, quando toccarono l’argomento. Elisa sorrise. – Certo. E tu, ogni volta che salirai su un palco, ricordati della tua vicina di banco che teme il pubblico. – Si guardarono per un istante negli occhi, sorridendosi a vicenda. – Allora affare fatto. – Rispose tendendole la mano lui, senza mai smettere di guardarla negli occhi. – Affare fatto. – Disse lei, stringendo la mano.
 
*
 
Un fischio acuto sferzò l’aria, rompendo il silenzio che, fino a pochi secondi prima, era stato interrotto solamente dal rumore della scopa che una bidella stava usando per pulire i corridoi e le occasionali urla di alcuni professori.
Un fischio acuto e trillante, il suono di una campanella, seguito subito dopo dalle grida entusiaste di centinaia di ragazzi che si riversavano felici fuori dalle classi.
Quel suono che veniva sempre accolto dagli studenti come una melodia ancestrale e melodiosa, nonostante ferisse le orecchie con il suo continuo strillare.
Elisa si precipitò fuori dalla classe, seguita da Corinna e Gabriele. – Dobbiamo uscire tutti assieme, una volta. – Stava dicendo la ragazza mentre l’altro annuiva energicamente, raggiante in viso. – Anche solo andare a prendere un gelato o un giro in bici. Siamo una banda di pazzi, questo è vero, ma ci si diverte. – Continuò lui. La felicità si leggeva sul viso di tutti e tre che, allegri, continuavano a chiacchierare.
– Ragazzi, io devo andare. Ho il pullman tra due minuti. – Disse Elisa una volta usciti dall’edificio scolastico. Gabriele imprecò sottovoce in una lingua che assomigliava allo spagnolo. – Almeno scambiamoci i numeri di telefono! Ci conosciamo da due anni, ma io non ho ancora avuto il tuo!
– Certamente, avete un foglio? – Chiese Elisa, prendendo in mano la penna che teneva dietro l’orecchio e facendola scattare. I due scossero la testa. – E va bene. Datemi il braccio. – Corinna e Gabriele si scambiarono un’occhiata confusa, ma alla fine tesero entrambi il braccio. Elisa vi scrisse sopra le cifre che componevano il suo numero di cellulare. – Ecco fatto. Adesso avete il mio numero di cellulare. Ora però devo proprio andare. A domani! – Gridò, correndo via, in direzione del pullman.
Corinna e Gabriele rimasero basiti ad osservarla correre via agitando il braccio e con un sorriso dipinto sulle labbra. Le loro braccia, su cui Elisa aveva scritto di fretta il numero di telefono, rimasero abbandonate lungo i fianchi mentre i due ragazzi si scambiavano degli sguardi sorpresi.
Non si aspettavano affatto che Elisa D’Angelo fosse così.
Non se lo aspettava nessuno.
 
*
 
Il pullman si fermò con uno scossone davanti a una pensilina ricoperta di scritte e manifesti pubblicitari di centinaia di prodotti diversi.
Prima di scendere gli scalini, Elisa trasse un respiro profondo, cercando di tranquillizzarsi.
Camminò per qualche minuto, finché non si trovo davanti all’entrata di un edificio bianco, scurito dal tempo e dallo smog.
Varcò la soglia titubante, continuando a concentrarsi sul suo respiro per evitare di pensare troppo al perché fosse lì. Proprio come ogni giorno.
Al banco accettazioni una donna abbastanza robusta la salutò con un cenno del capo, a cui lei rispose alzando la mano e rivolgendole un piccolo sorriso.
Ormai in quel posto era di casa, le infermiere e i medici la conoscevano, tante erano le volte in cui era stata lì.
Si diresse alla porta di servizio che dava sulla tromba delle scale e iniziò a salire; spesso le avevano detto di prendere l’ascensore, ma lei preferiva farsi sei serie di scale piuttosto che rischiare di rubare il posto sull’ascensore a un paziente che avrebbe potuto averne bisogno.
Iniziò a contare i gradini, passo dopo passo, cercando di tenere la mente libera, di non pensare a chi fosse venuta a trovare, ma il suo cervello aveva deciso di fare, come al solito, a modo suo.
Cinquantatre…
Cinquantaquattro…
I volti amichevoli di Corinna e Gabriele le apparvero davanti agli occhi.
Cinquantasette…
Cinquantotto…
La voce canzonatoria di Riccardo le risuonò nella mente, seguita dal suono delle risate di Alessia.
Sessantuno…
Sessantadue…
“Oh, aspetta. Uno si è innamorato di te…”
Sessantacinque…
Sessantasei… 
“E come è finita?”
Sessantotto…
Sessantanove… 
“Ah già, è in coma, giusto?”
Settantuno…
Settantadue…
La voce roca di suo nonno le bisbigliò nella mente, più flebile di un sussurro.
Settantaquattro…
Settantacinque…
“Ricorda, Elisa.”
Settantasette…
Settantotto…
“Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile.”
Ottanta…
Ottantuno…
“Hanno solo promesso che ne sarebbe valsa la pena.”
Ottantatre.
Elisa si fermò alla fine delle scale per riprendere fiato anche se, dopo così tanto tempo che faceva quel percorso, non si stancava nemmeno troppo.
Guardò la porta verde di metallo senza però vederla realmente; al suo posto c’era un cancello scuro in ferro battuto che la sovrastava con la sua mole imponente. Elisa non aveva paura di ciò che si trovava oltre esso, ma di varcarlo. Temeva che, una volta oltrepassato, questo sarebbe svanito, lasciandola per sempre nel limbo oltre esso. Chiuse gli occhi e, quando gli riaprì, la porta verde era tornata una semplice porta verde di metallo su cui qualcuno aveva attaccato un adesivo che pubblicizzava qualche prodotto che lei non aveva ne tempo ne voglia di scoprire. Respirò profondamente, cercando di rilassarsi, e poi, per niente tranquillizzata, afferrò il maniglione antipanico e spinse.
 
Il corridoio era semideserto. Solo una giovane infermiera in tenuta verde oliva passeggiava per la corsia, gettando ogni tanto un occhio all’interno delle camere socchiuse. Una carrozzina era posta fuori dalla porta di una delle stanze, dimenticata lì da chiunque l’avesse utilizzata per ultimo. L’aria sapeva di medicinali e di detergente per pavimenti agli agrumi, ma, una persona un po’ più attenta, avrebbe potuto fiutare nell’aria un altro sapore che non aveva nulla a che fare con la frutta. Ed era quell’odore dolciastro che Elisa sentiva più di tutti, le penetrava prepotente nelle narici, insinuandosi in ogni angolo di quel reparto. L’odore della rassegnazione, l’odore dolciastro di chi abbandona i propri sogni, conscio che non riuscirà mai a realizzarli. Elisa odiava con tutta se stessa quell’odore dolciastro, era l’odore di chi si arrende, di chi smette di sperare, e lei non aveva intenzione di farlo. Eppure, ogni singolo giorno, continuava a tornare in quel posto, in quel luogo dove molte delle persone smettono di sperare. Solo che lei ci tornava ogni giorno per il motivo opposto. Lei continuava a sperare. A sperare che il ragazzo dai capelli corvini che l’aveva difesa quella tragica sera tornasse da lei, l’abbracciasse di nuovo, le confidasse ancora il suo amore.
Si diresse senza esitazione alcuna verso una stanza alla fine del corridoio, la numero 311. Aprì la porta, lasciata socchiusa dalla donna delle pulizie ed entrò.
Era una bella stanza, ampia, assolata. Su un tavolino davanti all’unico letto erano posati una quantità enorme di libri di tutte le dimensioni, seppelliti da una marea di biglietti d’auguri, e una bottiglia di vetro, riempita d’acqua fino all’orlo, dentro cui Elisa aveva posato una rosa rossa il giorno precedente.
Sembrava una comunissima camera d’ospedale, ma, non appena Elisa si girò, dei pesanti macchinari fecero capolino nel suo campo visivo. Dei piccoli cavi li collegavano al petto del ragazzo steso sotto le coperte, immobile come una statua.
Elisa si avvicinò al letto, gettando uno sguardo al volto del ragazzo.
Pareva addormentato, in un sonno leggero e senza sogni, il petto che si alzava e si abbassava imperticcibilmente, l’unico segno, oltre al continuo ronzio delle macchine e al sonoro bip che risuonava nell’aria a intervalli regolari, che fosse ancora vivo.
Le sue gote erano pallide, a differenza di quando lo aveva conosciuto, quando ancora si imporporavano dalla rabbia o dall’amore, e, in quel momento in cui il sole la baciava con i suoi raggi caldi, il chiarore delle guancie spiccava ancora di più. La ragazza ripercorse con dolcezza ogni singola svolta di quel viso che aveva imparato ad amare, ripensando con tenerezza e malinconia alle ore di laboratorio in cui ne aveva studiato di nascosto, come uno scultore con il volto di un modello, ogni singolo particolare, ogni singolo difetto o imperfezione, ogni singola lentiggine che mesi prima spiccava su quel volto abbronzato, ora pallido come un fantasma. Si soffermò sulle  palpebre chiuse che non aspettava altro che vedere riaprirsi di nuovo, rivelando ancora quegli occhi azzurro chiaro che le erano rimasti impressi sin dal primo istante.
I suoi pensieri in quel momento erano tutti rivolti a quella fatidica serata in cui si erano scambiati quel bacio, il loro primo ed unico bacio. “Non ti lascerò mai” le aveva detto sorridente dopo che le loro labbra si erano staccate. “Da adesso in poi sei la mia unica ragione di vita” Si ricordava di aver sorriso, seduta su quella panchina nel parco del suo piccolo paesino, con le stelle che le illuminavano il viso, uniche testimoni di quella dichiarazione.
Chissà a quante dichiarazioni avevano assistito quelle stesse stelle, magari su quella stessa panchina, in quello stesso parco, su quello stesso palco che è la vita!
Elisa sospirò mesta. Era colpa sua se Andrea era lì, in quel letto d’ospedale dove ci sarebbe dovuta essere lei. Era colpa sua se l’unico ragazzo che l’avesse mai amata in quel momento stava lottando contro quel sonno di morte che da dieci mesi lo teneva fermo in quel letto.
Era colpa sua, unicamente colpa sua. Non avrebbe dovuto lasciare che Andrea si affezionasse a lei o che lei si affezionasse a lui. Eppure era successo, come due poli opposti di una calamita che, quando si incontrano, non possono fare a meno di essere attratti l’uno dall’altro, così era stato per i due ragazzi. Due poli di una calamita che, man mano che si avvicinano, sentono l’attrazione farsi più forte e capiscono che resisterle è impossibile. Elisa ed Andrea avevano impiegato diversi mesi prima di diventare amici e capire di piacersi, ma tutto era stato spazzato via, in quella sera maledetta. Erano bastati pochi minuti per far crollare come un castello di carte ciò che avevano costruito con tanta fatica. Andrea era stato uno dei pochi a riuscire a fare breccia nella sua corazza di ragazza solitaria, ma era stato tutto vano. Le vite umane sono qualcosa di estremamente delicato e fragile, basta poco per stroncarle, ed Andrea ne era la prova.
 
*
 
La ragazza chiuse gli occhi, scacciando le lacrime. Andrea l’aveva vista piangere solo due volte da quando si conoscevano, ma in quel momento doveva essere forte anche per lui. Non doveva, non poteva, cedere alle lacrime.
Gli prese la mano. Era fredda come il ghiaccio, ma non si meravigliò troppo; in quel corpo il calore era svanito da tempo.
Si sedette ai piedi del letto, sulle lenzuola candide, e iniziò a parlare.
Di solito, se non aveva nulla di speciale di dire, dopo avergli assicurato che stava bene iniziava a narrare le sue storie, le magnifiche avventure dei suoi personaggi che affrontavano milioni di imprese e di sfide per giungere alla meta agognata, e avevano sempre per protagonisti loro due. Nel reparto le infermiere la chiamavano “la Cantastorie” per quella sua strana abitudine di parlare a un ragazzo che non poteva rispondere, e, spesso, i bambini degli altri reparti salivano per sentirsi raccontare una fiaba da quella ragazza dal ciuffo blu, capace di stregare con un solo sguardo.
Ma quel giorno Elisa non raccontò nessuna fiaba, si limitò a parlare, eccitata, dei suoi due nuovi amici.
– Ti piacerebbero un mondo, Andre – disse entusiasta, cercando di isolare i brutti pensieri dalla mente.
– Gabriele è molto divertente, sembra un folletto di Babbo Natale, e si diverte a fare scherzi. Corinna invece sembra più seria, ma è molto dolce e simpatica una volta conosciuta un po’ – Se lo poteva immaginare, davanti a lei, che la osservava felice con i suoi occhi azzurri e che le sorrideva.
Fino all’anno prima erano in classe assieme, prima dell’incidente, e lui conosceva gli altri compagni meglio di lei, ma la faceva sentire meglio raccontargli di come fosse riuscita a farsi degli amici.
– Oggi ho litigato con Riccardo, non lo sopporto più, ma alcuni degli altri ragazzi mi danno ragione. Sono in pochi, ma sono felice che non se la siano presa.  
Elisa parlò per mezz’ora del più e del meno, raccontando di tutto ciò che le era capitato. Non stava parlando al ragazzo steso in quel letto d’ospedale, immobile e ghiacciato, ma con il ragazzo di quella sera di luglio, quello con gli occhi azzurri divertiti e ricolmi d’amore che l’aveva baciata su quella panchina del parco, sussurrandole dolcemente parole piene d’affetto e passione.
 
*
 
– Cantastorie! – La voce di un’infermiera distolse Elisa dalla lettura del libro che le era stato assegnato da leggere entro la settimana successiva. Da quando Andrea era in coma lei passava i pomeriggi a studiare o a fare i compiti in ospedale, seduta al tavolino accanto al letto.
Una donna vestita in uniforme verde dell’ospedale era ferma all’ingresso della camera e la osservava con un cipiglio severo. Si chiamava Roberta, ed era l’unica infermiera dell’ospedale che mal sopportava quella visitatrice giornaliera. – L’orario di visita è finito. Sono le cinque. – Elisa sospirò, chiudendo il libro che stava leggendo e riponendolo nello zaino, assieme all’astuccio ed ad un vecchio quaderno dalla copertina azzurra e consunta. – Adesso vado. – Rispose alzandosi e mettendosi in spalla la cartella. Prese il giubbino sottobraccio e si avvicinò al letto di Andrea. – A domani amore. – Disse chinandosi su di lui e lasciandogli, come ogni giorno, un bacio sulla fronte ghiacciata.
 
*
 
– Arrivederci – Elisa salutò l’infermiere seduto al banco accettazioni ed uscì dall’ospedale. Nel cortile interno l’aria le solleticò il volto, giocando allegra con i suoi capelli corti.
Elisa sorrise, lasciando che il vento sbarazzino le scompigliasse i capelli castani, spettinandoli ancora di più. Non aveva bisogno di un orologio per sapere che ora fosse, mancava un’ora all’arrivo dell’autobus che l’avrebbe riportata a casa, come ogni giorno.  
Si incamminò per strada, passeggiando sul marciapiede che costeggiava la strada, dove le macchine scorrevano veloci, con le cuffie nelle orecchie e le note del suo cantante preferito che le risuonavano negli auricolari. Si era alzato il vento, che ora le spazzava i vestiti leggeri. Elisa gettò uno sguardo al cielo, ricoperto da una patina di nuvole scure e spente che non facevano arrivare i raggi del sole. In quella zona della città il traffico era sempre elevato ed i gas di scarico delle automobili coloravano il cielo e il paesaggio di un grigio malsano, sporco e spento come la gente che le passava accanto di corsa.
Elisa si domandava spesso il motivo per cui le persone, anziché passeggiare tranquillamente, dovessero andare così di fretta, per ogni cosa facessero, senza godere delle piccole cose che la vita offriva ogni giorno. Sin da piccola aveva cercato una risposta a quella domanda così semplice ma così complessa, dettata dalla curiosità di una bambina sveglia e creativa che amava osservare le persone e cercare storie nei loro occhi sfuggenti, nei gesti affrettati, nelle parole non dette e in quelle urlate.
Una volta, all’età di sei anni, aveva provato a chiederne il motivo ai parenti; i più l’avevano presa per matta, limitandosi però a guardarla storto e a liquidare velocemente la faccenda.
Era stato l’inizio della fine.
Perché la gente non può mica prendersi tutto il giorno! Le persone hanno tante cose da fare!” Le aveva risposto scorbutico il padre.
Le persone fanno ciò che vogliono, cosa t’importa a te, che sei una bambina, se desiderano andare di fretta?” Elisa ancora ricordava l’occhiata tagliente che le aveva rivolto sua zia Lorenza che, dopo aver sentito la questione che la piccola le aveva proposto, aveva subito provveduto ad informare i suoi genitori del fatto che, secondo lei, Elisa non era del tutto sana di mente e che necessitava al più presto di alcune sedute con un bravo analista. I suoi genitori avevano subito concordato con la donna, asserendo che, nemmeno per loro, la primogenita era del tutto normale, condannandola, come sosteneva Elisa, ad otto anni di sedute infruttuose ed inutili con uno psicologo noioso e grigio.
Da piccola non capiva perfettamente chi fosse quell’uomo di mezza età sempre vestito di bianco e nero che le faceva in continuazione domande sui suoi pensieri e sulla sua vita, e pensava che fosse curioso, proprio come lei, sulle persone, quindi spesso gli rispondeva raccontando le cose come le vedeva lei, trasformando la realtà per renderla più interessante. L’interrogazione di matematica diventava quindi una lotta contro un drago sputa fuoco, o un semplice viaggio in macchina un’avventura a bordo di una nave pirata. Inutile dire che, così facendo, Elisa confermò, alla tenera ed innocente età di otto anni, quando la fantasia è uno dei giochi più belli, le teorie dei suoi genitori e della sua famiglia secondo le quali non era sana di mente.
Tuttavia, col passare degli anni, iniziò a ribellarsi a quelle sedute forzate da quell’uomo grigio che le parlava nella stessa maniera  a cui avrebbe parlato a dei bambini piccoli. Quando le venivano poste delle domande rimaneva in silenzio senza rispondere, oppure non si presentava alle sedute, lasciando i genitori all’oscuro. Non riusciva a comprendere che ci fosse di sbagliato nel sognare, nel trasformare la fantasia in realtà, rendendo ogni cosa speciale con le sue parole.
Ma il disastro più grande avvenne quando, due anni prima, aveva espresso il desiderio di diventare scrittrice. Non appena quelle fatidiche parole erano uscite dalla sua bocca i suoi genitori avevano chiamato il dottore, prenotando una seduta di tre ore. In quelle tre ore Elisa tirò fuori la grinta: litigò con lo psicologo ed urlò parole pesanti in direzione di quell’uomo grigio che pretendeva di insegnarle cosa fosse la vita ed all’indirizzo della sua famiglia che reclamava a gran voce l’obbligo di introdursi nei suoi sogni. Il dottore, dal canto suo, non fece nulla per migliorare la situazione. Gridò a sua volta con la ragazza, insistendo nell’affermare che ciò in cui credeva erano cose sciocche, cose in cui solo una pazza avrebbe potuto credere ancora. Insultò la ragazzina davanti a lui e ciò che amava di più al mondo, i suoi libri, la sua passione per la scrittura, affermando che coloro che scrivevano e che continuavano a credere nei valori in cui credeva erano pazzi tanto quanto lei e che andavano curati. “Sa una cosa?” Aveva urlato Elisa, con i pugni stretti dalla rabbia e il viso distorto dall’ira. “Meglio essere dei pazzi ma continuare a credere in qualcosa e vedere il mondo a colori, piuttosto che diventare persone grigie e spente come lei, che pretende di conoscere la vita e spiegarla agli altri, ma che in realtà non sa un bel nulla!” Era uscita dallo studio gridando e sbattendo la porta alle sue spalle.
Aveva corso fino a casa di suo nonno, poco distante dallo studio del dottore, e lo aveva trovato nell’orto a vangare la terra.
Suo nonno l’aveva abbracciata, cercando di consolarla. Avrebbe potuto fare ciò che voleva, la scelta era la sua, e la sua famiglia non avrebbe dovuto obbiettare.
Tutto per colpa di quella semplice domanda, posta da una bambina di sei anni curiosa.
Perché le persone vanno così di fretta?
Lei voleva solamente sapere perché le persone non riuscissero più a passeggiare per la strada chiacchierando con tranquillità e osservando le vetrine dei negozietti. Si chiedeva da quando la gente avesse smesso di vivere in favore di una copia sbiadita della vita, o da quando le persone avessero smesso di godersi le piccole cose che la vita offre ogni giorno. Le risate di un bambino, l’odore dei libri, vecchi e nuovi, le passeggiate tra i negozietti la sera sotto Natale, un bacio dato sotto il portone di casa mentre piove forte, l’abbraccio di un amico, una vecchia foto in bianco e nero, i sorrisi della persona amata, una giornata di sole, il vento che sferza i vestiti, le onde del mare che si lanciano sugli scogli, sollevando spruzzi di acqua salata.
 
Suo nonno aveva cercato di consolarla, ma Elisa, con le lacrime agli occhi, aveva alzato la testa e gli aveva posto la stessa domanda che, sette anni prima, l’aveva condannata.
Perché le persone vanno così di fretta?
Suo nonno aveva sospirato e, guardandola con tenerezza, le aveva risposto:
Tesoro mio, se tu non fossi così sveglia… le persone, Elisa, vanno di fretta perché scappano.
Da cosa scappano?
Scappano perché hanno smesso di sognare e di credere. Scappano dalle loro paure, perché temono che queste le raggiungano, ma, allo stesso tempo, corrono verso qualcosa che hanno perso, senza rendersi conto che spesso, per trovare ciò che cercano, non serve andare troppo lontani o troppo di fretta.
Le persone hanno smesso di vedere le cose a colori, Elisa. Non vedono più il giallo brillante del sole, o il rosso acceso di passione dell’amore, ai loro occhi il verde della speranza o l’azzurro dei sogni appaiono grigi perché hanno smesso, per loro scelta, di sognare. Sono ciechi, perché hanno smesso di vedere le cose con il cuore. Ma tu, Elisa, sei speciale. Vedi il mondo in un modo diverso dagli altri, e questo ti rende unica. Ricordatelo sempre.
 
*
 
Elisa aveva capito solo in seguito cosa il nonno intesse con quelle parole, seduta alla scrivania in mogano dello psicologo, mentre i suoi genitori firmavano l’iscrizione al liceo sotto lo sguardo attento del dottore.
 
*
 
Elisa sospirò. Pensare a suo nonno le metteva addosso una grande malinconia, con la quale doveva ancora abituarsi a convivere. Era morto da quasi un anno e mezzo ormai, ma desiderava che lui fosse lì con lei. era stato forse l’unico parente che non aveva avuto da ridire sul sogno di Elisa, oltre a Sara e Alessandro, due cugini, figli della sorella di sua madre, che l’avevano sostenuta nella sua scelta, spingendola ad entrare nel giornalino della scuola e, più avanti, ad aprire il blog.
Di fianco a lei l’Arnetta gridava, dando voce ai pensieri della ragazza. Elisa, con un piccolo balzo, si issò sul muricciolo che divideva il marciapiede dal salto di cinque metri nelle acque melmose del fiume. Aprì le braccia, lasciando che il vento modellasse i vestiti attorno alla sua minuta figura, e chiuse gli occhi, escludendo dalla sua mente ogni rumore, tranne quello della corrente che giocava allegra tra i suoi capelli.
Quando rivolse di nuovo lo sguardo davanti a lei, sotto i suoi piedi non vi era più il muretto di cemento sul quale era salita poco prima, ma bensì una sottile fune da equilibrista che proseguiva, probabilmente, all’infinito. Attorno a sé sentiva il pubblico trattenere il fiato, aspettando il momento in cui lei avrebbe concluso il suo pericoloso cammino.
Sentiva il cuore batterle forte mentre metteva un piede davanti all’altro. Battito dopo battito, passo dopo passo, Elisa avanzava su quella fune, le braccia spalancate per trattenere l’equilibrio, ed un sorriso le increspò le labbra. Si sentiva libera.
     
 
Angolo autrice
Buon pomeriggio, aggiorno oggi poiché nei prossimi giorni non riuscirò (stupida scuola)
Passo subito al capitolo che, come le altre volte, spero vi sia piaciuto.
Non vi dico nulla sul ragazzo di Elisa, scoprirete cosa gli è successo tra qualche capitolo ;)
Ho immaginato la storia ambientata in un contesto vicino a me, che abito dalle parti di Varese,
ed Elisa non ce la vedo ad abitare in una grande città come Milano o Roma, lei è una ragazza che si trova bene nei paesini semisolati – come il mio – e, per chi volesse saperlo, la scuola che lei frequenta è
a Gallarate tanto non lo vuole sapere nessuno.
Devo ammettere che ho avuto un po' di difficoltà nello scrivere la prima parte e sono leggermente incerta sulla grammatica della parte centrale, che riguarda il flashback di Elisa, di norma non faccio grandi errori, ma in questo capitolo non ne sono sicura; vi chiedo di farmelo notare nel caso in cui ce ne fossero, in modo che possa sistemarli. Grazie mille.
Dal prossimo capitolo inizieranno ad apparire nuovi personaggi, e, perché no, qualche storia d’amore ;)
Come al solito ringrazio chiunque abbia recensito o inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate, è anche grazie a voi che la storia va avanti, spero vivamente di non deludere le aspettative in futuro.
Che altro dire?
Al prossimo capitolo!
Baci,
Hope 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


A Bose, Cory, Betty, Eu e Fede,
i miei Sognatori preferiti.
Non so cosa farei senza di voi
 
Capitolo 5
 
Il campetto risuonava delle grida dei ragazzi che giocavano a calcio sotto il tiepido sole di maggio. Solo una ragazza dal ciuffo azzurro era seduta, sola, sul muretto poco distante dal luogo dove i compagni giocavano a palla. Elisa sospirò. Il professore di ginnastica, non appena aveva dato il pallone ai ragazzi, era scomparso da qualche parte, come ogni altra volta d’altronde.
Sulle gambe di Elisa era aperto il suo quaderno dalla copertina azzurra su cui la ragazza scriveva, lasciando che la penna blu tracciasse le lettere sul foglio bianco, quasi come per incanto, mentre le parole le si presentavano da sole alla mente.
Corinna insisteva nell’affermare che vederla scrivere, osservarla solcare le pagine bianche con l’inchiostro, dando voce alle immagini della sua mente, fosse una specie di magia. Eppure Elisa non riusciva a capire come mai l’amica reputasse ciò che faceva magico. Lei metteva semplicemente nero su bianco le parole che le vorticavano in testa.
 
Un tempo, in un luogo chiamato “Terra”, vivevano sei ragazzi. I loro nomi erano Elizabeth, Alyssa, James, Federico, Sarah, Steve e George, e nessuno di loro si aspettava ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto, sconvolgendo per sempre le loro vite.
 
Elisa lasciò che la penna si muovesse da sola, stendendo il suo inchiostro sulla pagina ingiallita, mentre la sua fantasia lavorava, trasportandola lontana da lì, lontana dalla scuola, dai problemi, le preoccupazioni. In un altro universo.
Improvvisamente l’ambiente attorno a lei si trasformò, plasmandosi in una città dagli enormi grattacieli su cui aleggiava una spessa coltre di nubi grigie, attraverso la quale il sole cercava di fare capolino senza riuscirci. La ragazza non alzò un attimo gli occhi dalla pagina, eppure seppe di non trovarsi più seduta sul muretto del campo da calcio della scuola. Era come se stesse osservando la scena da un punto di vista esterno ma si trovasse lo stesso nel luogo dove si svolgevano i fatti.
 
Alyssa aprì piano gli occhi. Attorno a lei le voci di altri ragazzi riempivano l’aria fresca del mattino mentre un tiepido e pallido sole cercava di bucare la spessa coltre di nubi che ricopriva la città. Davanti a lei sfrecciavano veloci gli abitanti dei Quartieri, quelli che contavano, ma senza che nessuno si fermasse un secondo a gettare una moneta con una scintilla di pietà in viso alla povera ragazza accovacciata accanto al muro. Era sempre così. Nessuno aveva mai dimostrato nemmeno un briciolo di compassione per quella giovane vestita di stracci che aspettava seduta a terra che qualcuno le offrisse un pezzo di pane o quant’altro. Nessuno, tranne una persona.
Alyssa lo ricordava bene, quel giorno. Era stata la prova che, forse, in quel mondo privo di pietà e compassione, esisteva ancora qualcuno in grado di provare quei sentimenti.  
<< Aly! Muoviti, dobbiamo andare! >> la voce acuta di uno dei bambini più piccoli distolse la ragazza dai suoi pensieri cupi. Alyssa si voltò, sorridendo ad un bambino sugli undici anni che la incitava ad alzarsi.
<< Dobbiamo andare da James, Aly! >> gridò di nuovo Mike. La ragazza si alzò. L’imminente incontro con quell’idiota di James le apriva prospettive molto più invitanti per quel giorno che starsene in strada ad osservare disgustata uomini che non sembravano nemmeno notarla.
 
*
 
Elisa riaprì gli occhi quando sentì qualcuno toccarle delicatamente la spalla. – Oh, sei sveglia allora! – La ragazza davanti a lei lanciò un gridolino di gioia. – Pensavo che stessi dormendo – Si giustificò imbarazzata. Elisa rise. – Sì, be’… ci mancava poco – Disse sorridente, riuscendo a strappare una risata allegra alla ragazza davanti a lei.  
Era abbastanza alta e piuttosto magra. I capelli rosso fuoco erano lasciati sciolti sulle spalle ed aveva gli occhi azzurro ghiaccio, in netto contrasto con il colore acceso della chioma. I vestiti che indossava per fare sport le fasciavano il corpo magro, mettendo in risalto il fisico, ma senza essere volgare. Solamente un leggero tocco di mascara le circondava le palpebre, mettendo in risalto gli occhi azzurri. Elisa ripensò ad Alessia, che ogni giorno sembrava truccata come un clown, e al modo in cui si vestiva.   
Francesca era cento volte più bella di lei. Alessia si ostinava a mostrare una bellezza forzata, costruita a suon di trucchi ed ampie scollature, Francesca, al contrario, era bella perché non si sforzava di esserlo, era naturale, così come la sua risata.
La rossa le sorrise allegramente. – Ti va di venire a giocare? Magari riusciamo a battere Pino – Francesca sollevò un pallone da pallavolo, appoggiato a terra poco prima, e lo mostrò all’altra. Elisa lo guardò sorpresa, nessuno le aveva mai chiesto di venire a giocare. Aveva fatto pallavolo per alcuni anni, ma aveva lasciato lo sport alla fine della terza media. Non che non le piacesse giocare, ma le compagne di squadra non la sopportavano - l’odio era reciproco - e le rifilavano spesso scherzi di cattivo gusto.
– Allora? – Domandò Francesca sorridendole. La castana esitò. Chi le diceva che non era uno scherzo di qualche suo compagno? Magari Riccardo che si voleva vendicare per il litigio di qualche giorno prima…
“Piantala, Elisa.” Si disse. “Che male c’è a tentare?”
Francesca non le sembrava il tipo che pugnala alle spalle. La stava semplicemente invitando a giocare a pallavolo. Ma allora perché era così restia all’idea?
Elisa non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva paura. Temeva di non venire accettata dal gruppo dei compagni, di perdere l’amicizia che stava nascendo tra lei, Corinna e Gabriele, di rimanere di nuovo sola.
Aveva paura di perdere qualcosa che non aveva ancora tentato di costruire.
Si può avere paura che si rompa qualcosa che ancora non è stato creato?
No, doveva provarci, tentare. E se fosse andata male avrebbe avuto la consapevolezza che ci aveva provato.
Elisa chiuse il quaderno e si alzò, seguendo Francesca.
 
*
 
Sulle prime, Elisa aveva pensato che Pino fosse una persona. Non aveva capito che si trattava di un pino vero e proprio, un gigantesco albero che si ergeva in mezzo alla piazzola dove alcuni ragazzi chiacchieravano.
Una ragazza era di fronte all’albero e gli urlava contro inviperita, agitando i pugni. – Piantala, Pino! Non puoi giocare a pallavolo, non hai le braccia! – Sembrava così convinta che il pino le rispondesse che Elisa scoppiò a ridere a crepapelle.
Otto paia di occhi si girarono a fissarla.
Elisa si fermò di colpo, arrossendo dall’imbarazzo. Odiava essere al centro dell’attenzione. – Emh… – Cercò di uscire da quella situazione imbarazzante, mentre il rossore le saliva alle guancie. Fortunatamente Corinna venne in suo aiuto: – Eli, vuoi giocare anche tu? – Le disse allegra.
Elisa ringraziò silenziosamente tutti gli dei esistenti per l’amica che l’aveva appena tirata fuori da quella situazione, e annuì.
– Ehi! Aspettate! Gioco anch’io! – Gabriele apparve all’improvviso da dietro l’angolo. Fino a qualche minuto prima stava giocando a calcio con gli altri ragazzi e il fiatone lo dimostrava. – Ti unisci a noi? – Gli domandò Elisa quando lui le si avvicinò sorridendo. Lui le fece l’occhiolino, senza smettere di sorridere malizioso. – Vuoi che mi perda tutto il divertimento ora che hai iniziato a socializzare? – Le chiese ironico. Lei sbuffò e gli diede un pugno sulla spalla, ma non ribatté.
Francesca prese la palla e la lanciò in aria, uno dei ragazzi la ricevette e la rilanciò in direzione della ragazza che poco prima aveva gridato contro l’albero. Continuarono così, passandosela tra di loro. Alle volte cadeva, altre invece finiva impigliata tra i rami dei cespugli e qualcuno doveva andare a riprenderla.
Una volta Stefano, uno dei compagni di Elisa, la lanciò troppo forte e la palla finì sui rami del pino. La risata di Elisa si unì alle altre mentre tiravano ogni oggetto capitasse sotto tiro - lei si ritrovò a tirare addirittura la scarpa di qualcuno - per cercare di far scendere la palla dall’albero. I loro sforzi alla fine si conclusero quando Gabriele decise di arrampicarsi e cadde a nemmeno metà dal punto di arrivo. Le risate riempirono la piazzola, sovrastando persino le urla dei ragazzi che giocavano a calcio.
Elisa tese una mano all’amico per rialzarsi, ma questi, una volta afferratola, la tirò a terra.
I due si ritrovarono faccia a faccia, con i nasi che quasi si toccavano.
– So di essere bello, ma tu non sei proprio leggerissima – Scherzò il ragazzo. Elisa sentì il rossore salirle fin sopra le orecchie mentre Gabriele scoppiava a ridere. Eppure l’imbarazzo durò poco, sostituito dalle risate per la situazione mentre tutti gli altri attorno a loro gridavano e scherzavano. – Oh, davvero? Non sapevo che i folletti di Babbo Natale potessero essere sexy. – Rispose lei,  punzecchiandolo.
Ed in quell’istante, con i suoi compagni che ridevano e la prendevano scherzosamente in giro e Gabriele che la guardava sorridendo malizioso, in quel momento Elisa sentì una strana sensazione allo stomaco. Una sensazione che aveva smesso di provare da tempo ormai.
Felicità.
In quel momento, Elisa D’Angelo, si sentì veramente parte di qualcosa.
Qualcosa che era ancora tutto da costruire, ma che stava iniziando a mettere radici nel suo cuore e in quello degli altri ragazzi.
E lei non aveva nessuna intenzione di mollare.
 
*
 
L’autobus si fermò in una piazza semideserta. Nonostante fosse maggio e ci fosse ancora il sole, i lampioni erano già accesi.
Elisa scese velocemente dal mezzo, pensando alla strada più breve da fare per poter giungere a casa il prima possibile.
Affrettò il passo, lasciandosi velocemente alle spalle la piazza e introducendosi in una delle strette vie che percorrevano l’intero paesino.
Le piaceva il suo paesino, uno di quei piccoli borghi che costellano l’Italia, sembrava rimasto a cinquant’anni prima, con i ragazzi che gridavano per strada d’estate, l’oratorio affollato la domenica, i vecchietti al bar a giocare a carte e a fumare la pipa, ma allo stesso tempo progrediva assieme alla tecnologia moderna.
Dietro di lei sentì il rumore di un sasso calciato e si fermò. – D’Angelo. – Disse una voce che lei conosceva bene. – Vattene via Pagani – Ringhiò la ragazza senza voltarsi. Non sopportava quel ragazzo e la sua banda, anzi, li odiava con tutta se stessa.
– Che hai, D’Angelo? Ce l’hai ancora con me per quella storia? – La ragazza si morse il labbro, ma alla fine rispose, con un tono più alto del dovuto: – Perché non dovrei avercela con te? Sei un bastardo, Pagani! – Elisa si girò, il volto arrossato dall’ira. Davanti a lei c’era un ragazzo in maglietta mimetica e pantaloni del medesimo colore, il piercing al sopracciglio destro brillò quando il sole lo colpì. – Andrea è in coma da dieci mesi, e probabilmente non si sveglierà più, e tu hai pure il coraggio di chiedermi se ce l’ho ancora con te? – Lui sorrise. – Mi piacerebbe molto continuare a parlare di quella sera, ma ho del lavoro da sbrigare. Quindi ora tu verrai con noi. – Elisa lo guardò confusa e per un attimo la sua rabbia vacillò, sostituita dalla paura e dalla sete di curiosità. Cosa intendeva con “Verrai con noi”?
Nella mano del ragazzo si materializzarono due coltelli. Elisa sentì un brivido scorrerle sulla spina dorsale, ma cercò di non darlo a vedere. Aveva la brutta sensazione che, se lo avesse fatto, Pagani ne sarebbe stato tutt’altro che dispiaciuto.
– Cosa vuoi da me? – Ringhiò, senza perdere di vista le lame dei coltelli. Pagani sfoderò di nuovo il suo sorriso sadico. – Niente di personale, D’Angelo, ma il mio padrone ha fatto esplicita richiesta della Sognatrice, e io devo accontentarlo. – I suoi occhi brillavano di cupidigia. La paura si impossessò della ragazza, che però si rifiutava ancora di mostrarla. Rivolse invece uno sguardo confuso al ragazzo davanti a lei. – Chi sei tu? Chi è il tuo padrone? Perché sta cercando me? – L’altro sbuffò infastidito. – Voi Sognatori. Mi avevano detto che la curiosità è uno dei vostri tratti principali, ma non mi aspettavo così tante domande. Comunque sia, se non ti vuoi consegnare a noi, saremo costretti ad utilizzare le maniere forti. – Elisa rabbrividì. Qualcosa nella voce di Pagani e nel luccichio crudele che aveva attraversato i suoi occhi le dava il cattivo presentimento che non si sarebbe fermati davanti a nulla, pur di averla.
Agì d’istinto. Chiuse gli occhi.
Una voce in un angolo della sua mente le sussurrò ciò che le aveva detto suo nonno due anni prima:
Ma tu, Elisa, sei speciale. Vedi il mondo in un altro modo, e questo ti rende speciale. Ricordatelo, sempre.
Davanti a sé la sua mente immaginò un’arma.
Improvvisamente sentì le sue mani stringersi attorno a quella che sapeva essere l’elsa fredda di un pugnale. Riaprì gli occhi e si sorprese nel vedere che le sue dita stringevano un piccolo pugnale con uno smeraldo verde incastonato sul pomo. – Pensavo fossi più inesperta sui tuoi poteri. – Esclamò Pagani davanti a lei. – Poco male, anzi, meglio per noi. Il padrone ne sarà contento. – Elisa mise il coltello davanti a sé, cercando di darsi un’aria di sicurezza, mentre dentro stava tremando dalla paura. Non sapeva combattere, come poteva salvarsi? Deglutì a fatica. – Non mi avrete mai, chiunque sia il tuo padrone. – Pagani sorrise. – Metti giù quel coltello, Elisa. O forse dovrei chiamarti Hope? – La ragazza si irrigidì di colpo. – Avevo ragione. La misteriosa Hope altri non è che una sciocca ragazzina. – Elisa sentiva la bile risalirle al cervello. – Come…– Lui le sorrise.
– Come ho fatto a scoprirlo? Ho i miei metodi, cara Elisa. E adesso metti giù quel pugnale. – Sembrava spaventato dall’arma che la ragazza stringeva in mano.
Elisa si riscosse di colpo mentre la rabbia le invadeva di nuovo il petto. – MAI! – Gridò, tenendo il pugnale davanti a sé. Sentiva che le dita le si erano irrigidite attorno all’elsa, ma si preparò lo stesso all’attacco. Il ragazzo le si avvicinò, cercando di tenersi fuori dalla portata dell’arma, ma invano. Elisa sentiva il cuore battere veloce, sempre più veloce. Era terrorizzata, ma non voleva che la paura prendesse il controllo. Non voleva che le persone la vedessero come una ragazza spaurita, soprattutto dopo che quel ragazzo l’aveva definita una sciocca.
Ma in quel momento si era sentita crollare il mondo addosso. Hope, il segreto che aveva cercato di celare per così tanto tempo, la sua soddisfazione nel violare le regole imposte dalla famiglia, era venuta alla luce, là, in quel vicolo buio e sporco, ad opera di una delle persone che odiava più di ogni altre.
– Pensavo che la nipote dell’ultimo Mago del Tempo fosse più sveglia. Te lo proporrò un’ultima volta. Vieni con noi, Elisa. Potrai realizzare il tuo sogno, nessuno ti metterà più i bastoni tra le ruote e tu potrai diventare una scrittrice. Il tuo amato tornerà da te. L’unica cosa che devi fare è posare quel coltello. – La voce di Pagani era carezzevole e tentatrice. Per un terribile istante, Elisa si ritrovò a valutare l’idea di lasciar cadere il pugnale, di alzare le mani e consegnarsi a quel ragazzo. Avrebbe potuto realizzare il suo sogno, sarebbe diventata una scrittrice. Andrea si sarebbe svegliato finalmente. Ogni cosa sarebbe tornata al proprio posto. Allentò di poco la presa sull’elsa, quando una voce, dietro le sue spalle, gridò. – Mio caro William! Non ti è bastata l’ultima volta? – Elisa si girò nell’esatto istante in cui una freccia argentata andava a conficcarsi poco distante dalla testa di Pagani. All’entrata del vicolo Elisa vide una ragazza, completamente vestita di verde, che preparava un’altra freccia per il suo arco. Aveva i capelli scuri raccolti in un’elegante treccia che le cadeva sulla spalla e la carnagione olivastra, messa in risalto dal colore acceso dei vestiti. Pagani le lanciò uno sguardo carico d’odio e lei, in tutta risposta, lanciò un’altra freccia, che si conficcò poco distante da lui. – Che ci fai qui, Mezz’elfa? I tuoi cari ribelli ti hanno cacciata? – La ragazza puntò un’altra freccia contro Pagani. – Fa pure! Uccidimi, se ne hai il coraggio! Ma non penso che tu abbia il fegato di lasciar andare la corda, Haniya. Così come tuo padre, quando l’ho ucciso non ebbe il coraggio di premere il grilletto contro di me. – La ragazza si irrigidì di colpo, mentre la rabbia invadeva i suoi occhi. Elisa poteva vedere le sue mani stringere l’arco con forza, cercando di trattenere l’ira. – Quello non è più il mio nome da tempo ormai. – Disse fredda lasciando andare la corda. Per un attimo il tempo sembrò congelarsi mente la freccia volava in direzione di Pagani, puntata al suo petto.
Elisa guardò l’arma sferzare l’aria. Chiuse gli occhi nell’istante in cui pensava che la freccia avrebbe trapassato il costato del ragazzo, aspettando che accadesse lo stesso anche a lei. Aspettò per quella che le parve un’eternità, ma che sarebbero potuti benissimo essere poco più di una manciata di secondi, ma non accadde nulla. Riaprì gli occhi, sorpresa di non vedere nessun corpo steso a terra. La giovane vestita di verde la fissava con gli occhi spalancati dallo stupore ma, quando aprì la bocca per parlare, fu interrotta.
La risata sadica di Pagani irruppe nell’aria, facendo gelare il sangue alla ragazza. – Sciocchi! Pensate che avere al vostro fianco la Sognatrice vi possa essere d’aiuto in qualche modo? Allora che venga con voi, ma, in un modo o nell’altro, ella giungerà da me e dal mio padrone. – Elisa trattenne il fiato. Stava parlando di lei. Volevano lei. Erano disposti ad uccidere pur di poterla avere dalla loro. – Ma vi voglio lasciare un piccolo regalo. Buon divertimento, cari ribelli. – Una colonna di fuoco si materializzò tra le due ragazze, incendiando ogni cosa sul suo cammino. – Dannazione! – Sentì gridare Elisa.
Buon divertimento, aveva detto Pagani.
Elisa imprecò a mezza voce mentre si scansava velocemente dalla scia della colonna di fuoco. Quel tipo non aveva per niente un buon senso dell’umorismo.     
Sentiva delle voci gridare attorno a sé mente le fiamme divampavano all’interno del vicolo, divorando ogni cosa trovassero sul loro cammino.
Cadde a terra, portando le mani alle orecchie, come per cercare di isolare quelle urla. Aveva paura, paura di morire ora che stava finalmente cercando di rimettere insieme i pezzi della sua vita.
Una mano le toccò la spalla, facendola sussultare. Elisa si voltò. Alle sue spalle c’era un ragazzo che le tendeva la mano per aiutarla ad alzarsi. Quel gesto le ricordava terribilmente ciò che aveva fatto qualche giorno prima la ragazza dagli occhi da cerbiatto, Corinna. – Alzati. – Disse pacato. Elisa puntò lo sguardo sul suo viso ed il suo cuore perse un battito. Era identico ad Andrea. Le stesse lentiggini, gli stesso capelli corvini e spettinati, gli stessi occhi azzurri come il cielo.
Il ragazzo si inginocchiò di fianco a lei e la afferrò per le spalle, scuotendola bruscamente. – Devi scappare, qui sei in pericolo. – Le disse. La sua voce era piena di preoccupazione.
Elisa, dal canto suo, era rimasta shockata dagli ultimi avvenimenti. Quando Pagani aveva provato a rapirla era riuscita a mantenere una parvenza di sangue freddo per cercare di non cedere alla paura, ma, in quel momento, con quel ragazzo dai capelli corvini che le intimava di scappare, era stato troppo facile cedere al terrore. “Non è lui. Non è lui.” Si ripeteva, poco convinta. Eppure, sembrava identico al ragazzo steso in un letto d’ospedale che aveva visto solamente poco prima. Le pareva passata un’eternità da quando lo aveva lasciato, mentre invece erano passate solamente poche ore. – Andrea… – Mormorò. Aveva gli occhi vitrei e pieni di lacrime, i capelli castani erano sporchi e spettinati e aveva sbucciato i jeans all’altezza del ginocchio. – Devi scappare. Ti prometto che ti spiegherò ogni cosa non appena me ne sarà possibile, ma adesso va’! – Il ragazzo la lasciò andare e lei, come in un sogno, obbedì e corse via. Mise le ali ai piedi, quasi senza toccare terra, e si allontanò dal vicolo.
Sentiva solamente i battiti accelerati dalla paura e dalla corsa del suo cuore, che pompava il sangue a tutto l’organismo, mentre nella sua testa continuavano a ripresentarsi le parole di Pagani: “Il mio padrone ha fatto esplicita richiesta della Sognatrice, ed io devo accontentarlo.”
Cosa intendeva quel ragazzo con quelle parole?
Aveva il presentimento che suo nonno c’entrasse quella storia, con ciò che Pagani aveva detto. Si stava per immischiare in un grosso guaio, ne era più che certa. Eppure la curiosità la divorava come un tarlo col legno. Anche in un momento come quello, il suo desiderio di sapere, di capire che stesse succedendo, la assillava.
 
*
 
Smise di correre solo quando giunse davanti a casa sua. Il sole stava cominciando a tramontare, tingendo le nuvole e il cielo di rosso acceso. Le ombre sparivano un poco alla volta dalla strada, i lampioni si accendevano sulla via. Elisa si fermò, piegandosi su sé stessa e tossendo forte. Cosa stava succedendo? Chi erano quei ragazzi? Perché quel tipo era così simile ad Andrea? Pagani aveva detto che era la nipote dell’ultimo Mago del Tempo, cosa intendeva? Sentiva la testa esploderle mentre cercava di fare luce sul disordine che regnava nella sua mente.
Sentiva che lo stomaco minacciava di ributtare fuori la povera colazione che aveva fatto quella mattina, ma si rialzò lo stesso. Puntò lo sguardo in direzione della casa e si affrettò a varcare la soglia.
 
*
 
– Come è andata oggi a scuola? – Le domandò sua madre quando Elisa rientrò in casa. La ragazza gettò la cartella a terra e mise via il giubbino, inutile con il caldo alle porte. Sua madre era in cucina a preparare da mangiare, affettando la carne da cucinare.
Monica era un brillante avvocato, uno dei migliori. Veniva da Milano, il grande e famoso capoluogo lombardo, il luogo dove molti ragazzi si trasferivano in cerca di fortuna e di sogni - o almeno così era come Elisa lo aveva sempre immaginato - e, in un tempo in cui i sogni erano ancora permessi, si era trasferita in quel piccolo paesino sperduto della provincia di Varese per l’amore che nutriva verso un giovane, uno studente di medicina di origini fiorentine prossimo alla laurea. Per Monica e Cesare era stato amore a prima vista. Lei, studentessa universitaria in giurisprudenza, la migliore del suo corso, lui, universitario scansafatiche che non pensava altro che a far festa. Si erano fidanzati e, una volta laureati, si erano finalmente sposati. Erano felici insieme, erano riusciti a trovare due lavori che li soddisfacessero e che gli permettessero di guadagnare quel tanto che bastava per poter comprare ciò che serviva. Erano giovani, felici, spensierati e credevano ancora nei sogni, nelle possibilità. Ma era stato tanto tempo prima.
 
– Bene – Rispose alla domanda di sua madre. Per una volta le stava dicendo la verità, o almeno parte di essa. Elisa tremava, ma Monica non sembrò accorgersene. – Sei andata a fare visita ad Andrea? – Le chiese la donna mentre accendeva il fuoco. Non si era cambiata, indossava ancora il tailleur con cui era andata al lavoro quella mattina. Si sistemò dietro l’orecchio una ciocca bionda sfuggita al severo chignon che portava in ufficio. – Si – Fu la risposta di Elisa. La ragazza lasciò che il silenzio cadesse tra loro due, come al solito.
– Vado a fare la doccia. – Disse Elisa, interrompendo il silenzio. Si girò ed uscì dalla cucina, diretta al bagno. Ecco a cosa si erano ridotte da tempo le conversazioni tra lei e sua madre. Ad un veloce botta e risposta che stava bene ad entrambe e che nessuna delle due aveva mai cercato di ampliare.
L’acqua le scivolò sul corpo mentre lei continuava a pensare a ciò che le era successo. Pagani aveva parlato di un Mago del Tempo e lei, anche se non riusciva a capire che significasse, aveva inteso che doveva essere qualcuno molto temuto da chiunque fosse il suo padrone.
Chiuse l’acqua ed uscì dalla doccia in una nuvola di vapore, mentre la sua mente continuava a pensare a quel pomeriggio, e soprattutto, a quel ragazzo dai capelli corvini che l’aveva incitata a scappare.
Salì le scale, diretta a camera sua mentre lo stomaco ruggiva affamato. Non mangiava quasi mai a pranzo per andare da Andrea, ma riteneva che quelle visite fossero più importanti di un pasto. Era un debito che aveva verso quel ragazzo che l’aveva salvata, in ogni senso. Per lui Elisa era anche disposta a saltare i pasti pur di non lasciarlo solo.
Per lui era disposta a tutto.
 
Elisa aprì la porta della camera, stando bene attenta a non inciampare in qualcuno degli oggetti sparsi qua e là per la stanza. Non era affatto portata per l’ordine. Ogni volta che sua madre tentava di “dare un senso” - come sosteneva Monica - a quel “disordine organizzato” - come lo chiamava invece Elisa – la ragazza non riusciva a orientarsi all’interno della camera. “Il disordine è la seconda legge della termodinamica” aveva detto Elisa una volta, dopo che la madre aveva messo in ordine, “e chi sono io per andare contro la termodinamica?” Monica aveva sbuffato, arrendendosi al fatto che sarebbe bastato pochissimo perché la stanza ripiombasse nel caos abituale.
La verità era che Elisa, nel disordine, riusciva a ragionare meglio. La sua camera la rispecchiava, in un certo senso. Così come per trovare un quaderno si doveva cercare sotto cuscini, libri, fogli, matite e quant’altro, per trovare la vera Elisa si doveva scavare a fondo, sotto la sua corazza.
Se qualcuno fosse entrato mentre la stanza fosse stata in ordine avrebbe potuto capire chi fosse la vera Elisa. Avrebbe notato le fotografie che la ritraevano con i compagni in prima superiore, quella a cinque anni con il padre, la volta che erano andati a trovare i nonni e lei aveva costruito una capanna con ombrelli, vecchie tende, mollette del bucato e molta inventiva, nascosta dietro il poster di un concerto di Jovanotti al quale avrebbe tanto voluto partecipare, la foto con Andrea, il giorno in cui erano andati in bici al Ticino e erano caduti nel fango. Avrebbe notato i sorrisi di quella ragazza - così diversa da quella che era diventata - che rideva verso l’obbiettivo mentre si toglieva il fango dal viso e lo spalmava in faccia al ragazzo moro di fianco a lei mentre lui scattava la foto.
Elisa però non voleva che la gente guardasse sotto quel disordine, vedesse quei sorrisi, capisse chi era. L’unica persona a cui aveva permesso di conoscere la vera Elisa era stato Andrea, gli aveva mostrato chi fosse realmente, e lui era finito in coma.
La ragazza si vestì e si gettò sul letto, osservando il soffitto.
La camera in sé non era grandissima, ma per una sola persona bastava. Le pareti erano azzurre e bianche, ma in alcuni punti si potevano notare delle macchie di colori diversi: rosso, giallo, viola, verde, arancione… ogni colore che Elisa fosse riuscita a recuperare di nascosto quando avevano ritinteggiato la casa tre anni prima. L’azzurro era il suo colore preferito, ma a lei non piaceva doversi limitare ad un solo colore per le pareti. Si era divertita un mondo a gettare macchie di vernice colorata in giro per la stanza, senza tralasciare i mobili. Non si sarebbe mai dimenticata le facce sorprese e arrabbiate dei suoi genitori quando l’avevano trovata con un pennello in mano e i vestiti ricoperti di tonalità di viola, blu, giallo, rosso, verde, mentre osservava soddisfatta la sua opera. Quella di Cesare e Monica era stata una sfuriata colossale, ma in compenso le avevano permesso di lasciare le pareti così, e a lei era andato più che bene.
Il tappeto, la scrivania e il pavimento erano ricoperti di libri di tutte le forme e dimensioni. Pile e pile si volumi che non trovavano più posto sulle mensole della camera e che Elisa non si sentiva di trasferire in mansarda. Il vecchio PC portatile, regalo di Sara e Alessandro per la cresima, era a terra, seminascosto da una pila di volumi e dei cuscini.
Elisa riusciva a ragionare meglio, in mezzo a quella confusione. La faceva sentire speciale, riuscire a trovare un senso alle cose anche all’interno del caos che persisteva nella sua mente e nella sua camera.
Sospirò, alzandosi dal letto. Tremava ancora dalla paura, ma i suoi sensi erano vigili, come se si aspettasse che un’altra colonna di fuoco la attaccasse di colpo.
In quel momento c’era un solo posto dove voleva andare.
 
*
 
Elisa si sedette ai piedi dell’albero, una vecchia quercia nodosa sui cui rami gli uccellini cantavano. Amava quel posto, il vecchio boschetto vicino a casa. Era uno dei pochi luoghi in cui non aveva ricordi spiacevoli.
Chiuse gli occhi, mentre la memoria tornava pian piano a galla.
 
*
 
Era uno splendido pomeriggio di fine giugno. L’aria era afosa, come non lo era da anni. tra gli alberi gli uccellini cantavano allegri, riempiendo l’aria con le loro voci melodiose. Il sole giocava tra le fronde degli alberi, cercando di trapassare la barriere verdeggiante.
Se qualcuno si fosse inoltrato nel bosco avrebbe potuto udire, oltre al cinguettio dei pettirossi, i singhiozzi sommessi di una ragazza seduta ai piedi di un vecchio cipresso.
Elisa tirò su col naso, mentre le lacrime sgorgavano dai suoi occhi verdi, bagnando le pagine ingiallite del quaderno che teneva sulle ginocchia.
Quel quaderno. L’ultimo regalo che suo nonno aveva voluto fare alla nipote, l’ultimo pegno d’affetto prima di lasciarla.
Per non dimenticarti mai di non mollare. Le aveva detto quando le lo aveva dato.
Le lacrime si fecero più insistenti al ricordo.
Si era ripromessa di non farlo, di non scoppiare a piangere davanti ai parenti durante la cerimonia, ma, in quel momento, nessuno poteva vederla.
Era sola, più sola che mai.
Suo nonno non c’era più.
Se ne era andato silenziosamente, seduto nella sua poltrona preferita, con la pipa accesa ancora stretta tra le dita ed un sorriso sereno sul volto segnato dal tempo.
Quando lo aveva visto aveva pensato che stesse solamente dormendo. Aveva creduto che da un momento all’altro si sarebbe risvegliato e l’avrebbe abbracciata, sorridendole affettuoso. Ma non era stato così.
Le sue speranze erano crollate come un castello di sabbia.
Suo nonno era morto.
Solo una parola. Cinque lettere.
Come potevano, quelle cinque lettere, suscitare così tanto dolore?
Elisa non lo sapeva.
Sapeva che, quando aveva capito che il nonno non si sarebbe più svegliato, era rimasta immobile, gli occhi spalancati e rivolti verso di lui. Nessuna reazione, nessun grido, nessuna lacrima.
Solo incredulità e stupore.
Si era ripromessa di non piangere, lui non lo avrebbe voluto vedere le lacrime sul suo viso, non avrebbe voluto che lei fosse triste per la sua morte.
Durante la cerimonia si era sentita gli occhi di tutti i presenti addosso, come se stessero cercando di perforarla con lo sguardo, e, più di una volta, aveva quasi ceduto alle lacrime. Ma non poteva farlo.
Un rumore interruppe il pianto della ragazza. Il suono dei rami spezzati.
Elisa si guardò intorno, il volto rigato dalle lacrime, gli occhi accesi di tristezza nei quali stava nascendo una scintilla di curiosità.
– C-c-chi va là? – Domandò con voce flebile. Nessuna risposta.
Elisa chinò di nuovo il capo. Probabilmente stava avendo le allucinazioni e aveva solo immaginato il rumore.
Accarezzò la copertina azzurra del quaderno, già allora leggermente rovinata, mentre le lacrime tornavano a scorrerle sul viso.
Le sue orecchie si drizzarono. Di nuovo quel rumore.
Non fece in tempo ad alzarsi che un grido fendette l’aria. La ragazza si guardò intorno, confusa e spaventata mentre cercava di capire da dove provenisse il grido.
Fu un attimo, ed Elisa si trovò a terra, sdraiata sulla schiena, mentre un grosso cane lupo le leccava la faccia. – Axa! – Una voce le giunse alle orecchie mentre tentava di togliersi l’animale dal petto. Elisa chiuse gli occhi, scacciando alla cieca il muso del cane dal suo viso.
– Non farlo mai più, Axa – La ragazza riaprì gli occhi. Davanti a lei si ergeva, in controluce, la figura snella di un ragazzo. – Serve una mano? – Domandò porgendole la mano libera; con l’altra tratteneva il cane lupo, che cercava di divincolarsi, per il collare. Elisa lo fissò, schermandosi gli occhi con una mano.
Era un bel ragazzo, su questo non aveva nulla da ridire. La corporatura era snella ma allenata, non era altissimo, ma la superava di una decina di centimetri. I capelli erano neri, scuri come la pece, e ribelli.
Ma ciò che la catturò furono gli occhi. Azzurri, glaciali. Erano profondi come due pozzi senza fine dove Elisa si sarebbe lasciata volentieri cadere e brillavano dolci e maliziosi. Come se qualcuno avesse imprigionato una fiamma all’interno di un pezzo di ghiaccio dove essa continuava a bruciare.
Un leggero colpo di tosse la distolse dai suoi pensieri. – Tutto okay? – Domandò il ragazzo preoccupato. Non aveva ancora lasciato cadere la mano. Lei sorrise imbarazzata e annuì. – Sì sì, tutto okay – Gli rispose afferrando la mano.
Lui la issò in piedi e i loro occhi si incontrarono. In quel momento le onde del mare si alzarono verso il cielo, cercando di toccarlo, e il cielo si tuffò tra la schiuma marina. I loro sguardi si incatenarono in un abbraccio senza tempo e né fine e la stretta delle loro mani si rafforzò.
– Comunque, io sono Andrea – Disse il ragazzo, senza distogliere lo sguardo. – Elisa – Sussurrò lei di rimando senza accennare a sciogliere la stretta.
Un abbaio li riportò alla realtà. Axa era riuscita a liberarsi dalla presa di Andrea ed ora correva tra gli alberi, abbaiando allegra ad ogni cosa incontrasse.
Elisa abbassò lo sguardo mentre le sue guancie si imporporavano d’imbarazzo.
– Scusa – Mormorò ad Andrea. Lui la fissò stranito. – Per cosa ti stai scusando? – Chiese confuso. Tutt’un tratto Elisa sembrò molto interessata alla punta delle sue scarpe. – Ho fatto scappare il tuo cane, mi dispiace – Si spiegò. Andrea la fissò, prima di scoppiare a ridere. – Scusa, ma non riesco a capire. Ti stai scusando per qualcosa di cui non hai nemmeno colpa? Axa è una forza della natura, nessuno può tenerla ferma. Non serve che ti scusi. – Andrea le sorrise, guardandola in viso. Elisa avrebbe voluto sprofondare, ma non poteva, quindi si limitò a ricambiare timidamente il sorriso. Era abituata a sentirsi addossare tutte le colpe per ciò che accadeva, ovunque lei fosse.
Pensava di conoscere le persone, di saperle leggere, ma quel ragazzo per lei era come una porta chiusa e senza serratura che lei non sapeva come aprire.
Da qualche parte Axa abbaiò.
Andrea le si avvicinò, scrutandola in volto. – Stavi piangendo per caso? – Le domandò. Elisa sobbalzò. Com’era possibile che quel ragazzo riuscisse a capirla così bene?
La ragazza annuì mesta. Lui le si avvicinò di più. – Potrei sapere il perché? È vero ci siamo appena conosciuti ma… – Elisa non aspettò che lui dicesse altro. Le parole sgorgarono dalla sua bocca come un fiume in piena, senza che lei se ne accorgesse. Gli raccontò ogni cosa.
Gli disse del periodo in cui era stata costretta dai parenti alle sedute dallo psicologo, del suo sogno di diventare scrittrice, di suo nonno, della sua morte. In quel tempo Elisa parlò, buttando fuori tredici anni di  tristezza, dolore e solitudine. Ed Andrea ascoltò. Si sedette di fianco a lei ed ascoltò attento ogni singola parola che usciva dalle sue labbra, come se stesse cercando di non dimenticarle mai più.
Parlò poco ed ascoltò molto, sentendo la storia di quella ragazzina entrargli nel cuore pian piano.
– Sei la persona più forte che io conosca – Le disse quando Elisa finì il suo racconto. La guardava ammirato dalla sua forza e dalla sua tenacia con le quali aveva lottato per i suoi sogni fino alla fine. La ragazza arrossì ed abbassò lo sguardo. – Non scherzo, Lisa. Pochi sarebbero riusciti a continuare a sperare come hai fatto tu. – Andrea le pose di nuovo la mano. – Amici?
Elisa lo guardò, incredula. Stava davvero accadendo a lei? Non era possibile. Doveva essere un sogno. Eppure quel ragazzo era lì, davanti a lei, e la fissava sorridente tendendole una mano. Elisa sorrise, asciugandosi le ultime lacrime sul volto con la manica del golfino. – Amici – Disse stringendo la mano al ragazzo.
 
*
 
La ragazza aprì gli occhi. Per un attimo pensò di trovare la risata di Andrea ad accoglierla, come ogni altra volta, ma il ragazzo non c’era. Era in un letto d’ospedale e forse non si sarebbe più risvegliato.
Fu come se un grosso macigno le fosse caduto improvvisamente addosso, schiacciandola sotto il suo peso. “È colpa mia, solo colpa mia se lui è in coma” si ripeteva tremante.
Il sole stava calando e l’aria iniziava a diventare più fresca, sollevando un leggero venticello che modellò la maglia troppo grande attorno al suo corpo minuto. Elisa si alzò, consapevole, in qualche modo, che non poteva arrivare tardi a cena, quella sera.
Si spazzolò i pantaloncini e corse via, i pensieri che infuriavano come un tornado nella sua mente.
 
*
 
– Ti pare questa l’ora di tornare a casa? – bofonchiò suo padre come saluto. Elisa chinò il capo, fingendosi affranta. I suoi genitori avevano stranamente accettato il fatto che lei amasse rintanarsi nel boschetto vicino a casa in qualsiasi momento ne avesse l’occasione, ma non erano molto d’accordo sul fatto che arrivasse tardi ai pasti.
– Suvvia, zio! Elisa è ritardo solamente di qualche minuto, non mi sembra il caso di farne un processo – sulla porta apparve il volto sorridente di una ragazza. – Ciao Elisa! – esclamò Sara. Aveva i capelli castani, lunghi fin sotto le scapole, con dei colpi di sole biondi qua e là, e gli occhi marroni e ridenti. Il viso delicato e dai tratti affilati su cui faceva bella mostra un grande sorriso. Cesare rivolse un’occhiataccia alla nipote che però ignorò, troppo concentrata sulla cugina per accorgersi degli sguardi velenosi dell’uomo. – Come sta la mia cuginetta preferita? – domandò allegra Sara, abbracciando la ragazza. Elisa per un istante si dimenticò di ogni problema, concentrandosi solamente sul fatto che sua cugina era lì e che la stava abbracciando.
– Benissimo – disse con un sorriso. – Tu ed Alessandro, invece? – domandò quando l’altra sciolse l’abbraccio. – Per caso parlavate di me? – un ragazzo abbronzato apparve sulla soglia. Alessandro e Sara erano gemelli, l’uno di pochi secondi più grande dell’altra, ma non si assomigliavano quasi per niente. Alessandro superava il metro e ottanta e aveva un fisico decisamente molto allenato grazie agli intensi allenamenti di nuoto. I capelli erano color biondo sporco, tagliati a spazzola. L’unica cosa che lo faceva assomigliare alla gemella erano gli occhi, castani e divertiti, che la osservavano affettuosi.
Si passò una mano tra i capelli, sbuffando. – Anziché rimanere qui fuori tutta la sera che ne dite di entrare a mangiare? – borbottò in direzione delle due ragazze. – Hai fame, Ale? – domandò Elisa sorridente, come ogni singola volta in cui vedeva i due gemelli. – Secondo te, mostriciattolo? – scherzò lui. Elisa rise. – Benissimo, anche io. – disse strizzando l’occhio a Sara con un sorriso colpevole sul viso. – Chi  arriva ultimo è un citrullo! – esclamò Sara, prendendo in giro il fratello.
Elisa rise di nuovo. Poteva davvero bastare così poco per farla stare meglio? Probabilmente no, ma Sara ed Alessandro potevano farle dimenticare, anche se per poco, il dolore e la paura.
Non a caso li adorava.
 
*
 
La serata passò in fretta e, fin troppo presto per i gusti di Elisa, Sara ed Alessandro dovettero andare via. La ragazza li salutò a malincuore, rimanendo sulla porta ad osservare la vecchia e malandata auto di Alessandro scomparire in fondo alla strada, diretta a casa.
Vederli andare via era sempre una pugnalata nel petto per la ragazza.
Loro erano sempre stati la sua vera famiglia, quella che la aiutava a risollevarsi dopo una caduta. Loro le erano stati accanto dopo l’incidente di Andrea, non i suoi genitori, non sua zia. Loro.
I due gemelli diversi, spesso snobbati dal resto dei parenti, i due cugini migliori che Elisa avrebbe mai potuto desiderare.
Le erano stati vicini dopo quell’episodio, confortandola con ogni singolo mezzo a loro disposizione.
Elisa ricordava l’ingresso di Alessandro nell’ospedale, con i capelli ancora bagnati e le ciabatte ai piedi, che si precipitava ad abbracciarla mentre lei piangeva sulla sua spalla. Si era ritirato nel bel mezzo di un’importante gara di nuoto, abbandonando la piscina non appena Sara gli aveva fatto sapere cosa fosse accaduto.
Sara, dal canto suo, l’aveva accolta a casa sua finché le vacanze estive non erano finite, sostenendo che allontanarsi dal suo paesino forse le avrebbe fatto bene. C’erano stati parecchi litigi, ma alla fine Sara aveva prevalso ed Elisa aveva passato l’intero mese di agosto con i due cugini, sforzandosi di non pensare a ciò che era accaduto e di non ritenersi colpevole.
Peccato solo che i fantasmi non dormano mai.
 
*
 
Quella notte Elisa aspettò che i respiri dei suoi famigliari si trasformassero in un leggero russare, per poi sgusciare silenziosamente fuori dal letto. Uscì piano da sotto le coperte, stando ben attenta a non fare rumore ed a non inciampare in qualcuno degli oggetti disseminati sul pavimento e si sedette a terra, su un tappeto logoro ricoperto di libri e cuscini. Cacciò un braccio in un cassetto della scrivania, estraendone una piccola torcia blu, ed afferrò un volume a caso da una pila lì vicino.
La passione della lettura era una delle poche cose che le aveva trasmesso suo padre, anche se lui col tempo aveva iniziato a trascurarla. Iniziò a sfogliare le pagine, alla ricerca del segnalibro che si ricordava aver messo tra esse tempo prima, mentre cercava una posizione più comoda per leggere. Quando la ebbe trovata si accoccolò sul tappeto, immergendosi nella lettura. Cercava di non pensare a quel pomeriggio, a quel ragazzo che assomigliava così terribilmente ad Andrea, anche perché, le doleva ammetterlo, aveva paura. Paura che ciò che aveva visto fosse vero e che, una volta chiusi gli occhi, gli incubi sarebbero arrivati.
Un rumore distolse la ragazza dalla lettura. Si affrettò a spegnere la torcia, per paura che fossero i suoi genitori. Non aveva voglia di altri litigi, quel giorno.
Elisa aguzzò la vista. La luce che filtrava dalle persiane anche di notte permetteva di distinguere quel tanto che bastava delle figure che si stagliavano nella sua camera. Era certa di aver sentito un rumore proveniente da qualche parte alla sua destra, vicino all’armadio. Si alzò in piedi trepidante e stringendo forte le dita attorno al volume che stava leggendo. Alzò il braccio, pronta a colpire.
– Chi sei? –
 
Angolo dell’autrice che molti credevano morta
Sono viva! Ci sono!
Scusate tantissimo se venerdì scorso non sono riuscita ad aggiornare, ma per colpa della scuola (aka arena, Azkaban, Simulazione, Tartaro e chi più ne ha più ne metta) e dei professori simili alla Umbridge e alla Doods (vi assicuro che non è affatto un’esperienza piacevole) non sono riuscita a finire di scrivere prima il capitolo, quindi eccomi qui, con una settimana di ritardo, a scrivere le note autrice di questa storia.
Spero di riuscire a continuarla anche con la situazione che ho adesso.

Quel sacco di sterco di Drago (avete mai notato quanto i libri siano utili per creare insulti di questo genere? Ahaha) della mia prof di matematica e quella sottospecie di Doods che fa fisica hanno deciso di darmi i debiti, quindi dovrò impazzire fino a Settembre tra corsi di recupero ed ansia per gli esami di riparazione che dovrò dare per andare in terza. Inoltre si è aggiunto pure l’oratorio, otto ore sotto il sole per cinque settimane, quattro giorni su sei a inseguire bambini iperattivi di prima e seconda elementare fanno un brutto effetto. Quasi quasi preferivo andare a scuola, almeno avevo le ore di italiano dove scrivere in santa pace.
Ok, sto divagando, passiamo alla storia.
Devo ammettere che questo capitolo, oltre ad essere il più lungo fin’ora, è stato forse il più difficile da scrivere. Non sono molto esperta nelle scene d’azione e temo di non aver fatto trasparire abbastanza i pensieri di Elisa, ma penso che continuare a ripetere all’infinito che ha paura e che è terrorizzata dopo un po’ stanchino i lettori.
Devo ammettere che ho adorato scrivere di Sara ed Alessandro. Io me li immagino come due fratelli gemelli, completamente diversi sia nell’aspetto che nel carattere, ma che si vogliono un mondo di bene e che farebbero di tutto per la loro cuginetta. Volevo aggiungere che Sara è il “manager” di Alessandro, ma dopo appesantiva la storia e non volevo divulgarmi troppo su dettagli che non c’entrano molto (come sto facendo adesso)
Tenete d’occhio entrambi i gemelli, perché saranno molto importanti nel corso della storia ;)
Ho voluto dare uno scorcio del primo incontro tra Elisa ed Andrea, che avviene due anni prima dei fatti narrati in questa storia, lo stesso giorno del funerale del nonno della protagonista (a proposito, nel capitolo precedente ho fatto un errore riguardo il tempo passato dalla morte del nonno ad ora. Sono due anni, non uno e mezzo.) nel flashback, se ho fatto bene i conti, Elisa ha tredici anni, poiché è ambientato a fine giugno e lei li compie l’undici luglio (non chiedetemi perché, mi ispirava la data)

La scena della ragazza che grida contro il pino accade spesso a scuola da me, solo che in quelle occasioni sono io ad urlargli dietro – lo so, non sono del tutto a posto.
Lo ammetto, non sono sicurissima di questo capitolo e temo di non averlo reso abbastanza bene, spero di rifarmi con i prossimi.
Per ultimo (tanto lo so che ho dimenticato di dire qualcosa, ma ancora un po’ e rischio di far diventare le note più lunghe del capitolo) ringrazio di cuore coloro che hanno recensito, mi spiace non essere riuscita a rispondere, ma lo farò il prima possibile, e coloro che hanno inserito la storia tra le seguite/ricordate/preferite. È anche grazie a voi che continuo ad andare avanti.
Spero di non aver dimenticato nulla, se c’è qualche dubbio chiedete pure :)
Alla prossima
Baci,
Hope
 
P.S. per voi chi è il ragazzo simile ad Andrea? Chi è la persona nascosta in camera di Elisa?
Spero di avervi incuriosito,
Hope

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6
 
– Chi sei? – la voce di Elisa uscì simile ad un sussurro soffocato. La ragazza strizzò gli occhi, cercando, nonostante la fioca luce della Luna che entrava dalla persiana chiusa, di distinguere la figura davanti a lei.
– Chi sei? – ripeté, rafforzando la presa sul volume.
La domanda rimase ad aleggiare nell’aria, invisibile, impalpabile, eppure presente, dividendo i due come un abisso.
Elisa rabbrividì. Avvertiva sotto pelle il potere che avevano quelle due semplici parole Chi sei?
Due parole capaci di unire due minuscoli istanti, che altro non sono se non le vite degli esseri umani, così brevi e fugaci.
In quel momento, Elisa avvertiva il loro peso su di sé come un macigno sul petto. Quante volte, durante il corso della nostra vita, incontriamo nuove persone? Spesso.
Quasi ogni giorno si fanno nuovi incontri, ma quasi mai si pone la domanda che tormentava così tanto Elisa in quel momento.
Chi sei?
Chi siamo noi? A questa semplice domanda cercano da secoli risposta alcune delle più grandi menti che l’umanità abbia mai visto nascere, eppure nessuno è ancora riuscito a risolvere l’arcano.
Elisa trasse un profondo sospiro, racimolando il coraggio necessario.
– Chi sei? – domandò ancora.
La terza volta qualcosa si mosse nell’ombra, vicino all’armadio, ed un ragazzo entrò nel cono di luce creato dalla Luna.
Elisa si sentì come se qualcuno le avesse appena tolto la terra da sotto i piedi, mentre uno strano mix di emozioni e sentimenti si riversava in lei. Incredulità e stupore, ma anche rabbia e paura. Ciò che la colpì di più, però, fu scoprire che, in fondo in fondo, si sentiva felice.
Perché il ragazzo davanti a lei era Andrea.
 
*
 
Un brivido freddo risalì la schiena della ragazza, mentre le lacrime le pungevano gli occhi. Chiuse le palpebre, scacciandole via. Non era quello il momento per piangere.
Sentì le sue dita rafforzare ancora di più la presa attorno al libro che impugnava come arma, pronta a fronteggiare quel ragazzo. In quel momento sapere di avere in mano un libro era la sua unica certezza.
Il ragazzo aprì la bocca per rispondere, ma non fece in tempo a proferire parola che un grosso volume dalla copertina rigida gli cadde in testa.
– Ahio! – protestò, massaggiandosi la fronte, là dove il tomo lo aveva colpito. – Perché lo hai fatto? – domandò rialzandosi con una punta di irritazione nella voce. Davanti a lui si ergeva Elisa con un altro libro già in mano e pronto ad essere utilizzato come arma.
– Non mi vengano a dire che le parole non possono ferire – ringhiò la ragazza. I capelli spettinati e gli occhi verdi accesi di determinazione le davano un’aria da folle, ma il ragazzo non sembrò scomporsi.
– Tiri sempre in testa un libro a chiunque venga a portarti delle spiegazioni? – domandò ironico. – E tu sei sempre così simpatico? – gli fece il verso Elisa. – Cosa vuoi da me? – Elisa alzò il braccio, preparandosi ad un altro lancio, ignorando la fitta al cuore che quel ragazzo le dava.
Doveva essere una coincidenza. Una dannatissima e bellissima coincidenza.
La coincidenza in questione si passò una mano tra i capelli e si avvicinò a lei, alzando le braccia in segno di pace e cercando di allontanarsi dalla portata del libro.
– Ti ho promesso delle spiegazioni e sono qui per dartele. Non sono venuto con cattive intenzioni, quindi ti chiederei di abbassare quel libro. La grande bravura della Rowling mi è bastata, non vorrei mai essere seppellito sotto la grandezza di Tolkien – Elisa sbuffò, ma abbassò comunque il libro. Quel ragazzo era decisamente simile ad Andrea.
– Scusami. Ho preso un libro a caso. Sei fortunato che non ti sia caduto addosso il peso della maestria di Paolini; Il ciclo delle Eredità non è sempre una lettura leggera. – scherzò lei. Sul viso del ragazzo si dipinse un piccolo sorriso.
Il cuore di Elisa pianse quando lo notò, ma, ancora una volta, scacciò le lacrime che, prepotenti, le bagnavano gli occhi. Era troppo orgogliosa per piangere davanti a quel ragazzo così simile ad Andrea.
Elisa riportò, a malincuore, lo sguardo su di lui. – Hai detto che sei qui per darmi delle spiegazioni. Per caso riguarda quello che è accaduto oggi pomeriggio? – un sorriso tirato si aprì sul suo volto. – Hai centrato in pieno l’obbiettivo, Elisa. – la ragazza sussultò quando udì il suo nome. – Sì, conosco il tuo nome, ti spiegherò più tardi perché. È una lunga storia, che nemmeno io conosco bene in tutte le sue sfaccettature, ma che tu devi assolutamente conoscere – prima che Elisa potesse replicare in alcun modo, il ragazzo estrasse dalla tasca dei jeans una boccetta di vetro scuro e l’aprì.
Del fumo color perla invase la stanza, avvolgendo i due ragazzi. Elisa sentì il suo cuore accelerare mentre osservava quella strana nebbia avvolgersi attorno alle sue gambe e risalire sul suo petto. Da qualche parte alle sua sinistra quel ragazzo rise, divertito dalla sua reazione. – Puoi anche aggrapparti a me, se hai paura. – la prese in giro. La ragazza puntò i suoi occhi verdi verso il punto in cui presumeva si trovasse lui, lo sguardo che lampeggiava di rabbia. – Non ho paura e posso fare benissimo a meno di te. – lo rimbeccò. Probabilmente lui alzò le spalle, borbottando qualcosa riguardo alle ragazze testarde, ma Elisa non ci fece caso. La nebbia aveva risalito il suo petto ed ora era quasi arrivata alle labbra. Presto non sarebbe più riuscita a respirare. Sarebbe morta e con lei tutti i suoi sogni, i suoi progetti, le sue ambizioni. Avrebbe perso tutto, quel poco che aveva costruito sarebbe crollato come un castello di sabbia, spazzato via dal vento e dalle onde.
No. Pensò, sorprendendosi dei suoi stessi pensieri. Solamente poco tempo prima si sarebbe lasciata andare, avrebbe lasciato che la nebbia la soffocasse. Ma adesso? Dopo ciò che era successo non avrebbe permesso ad una sciocca nebbiolina e ad un ragazzo apparso dal nulla di ucciderla. Non è questo il giorno in cui me ne andrò.
Prese un’ultima boccata d’aria, subito prima che la nebbia le arrivasse alle narici, e chiuse gli occhi. Aspettò per quelle che le parvero ore, mentre sentiva l’aria iniziare a mancarle e il panico cominciava ad assalirla.
Finché, quando le sembrava che ogni speranza di riemergere da quel limbo fosse svanita, sentì un forte strattone alla caviglia destra, come se qualcuno – o qualcosa – stesse cercando di tirarla a terra.
Elisa avrebbe voluto lottare, cercare di liberasi da quella stretta, ma qualcosa nella sua mente le suggerì di fare il contrario, di abbandonarsi ad essa, lasciarsi trascinare.
E così fece. Si fece trascinare verso il basso, sotto quella nube perlacea che l’avvolgeva, senza mai aprire gli occhi.
Si sentiva precipitare, sempre più in basso. Verso il centro della Terra.
 
*
 
Elisa riaprì gli occhi solamente quando sentì che il mondo aveva smesso di girare.
– Te lo avevo detto di stare attenta. Potevi accettare il mio aiuto. – una voce maschile l’accolse. La ragazza si girò, puntando i suoi occhi verdi in quelli azzurri del ragazzo accanto a lei. Lui le sorrise malizioso, ignorando l’occhiataccia che Elisa gli rifilò. – Ti pregherei di lasciare il mio braccio, mi stai chiudendo la circolazione. – disse. Elisa arrossì. Dopo la caduta doveva essersi aggrappata a lui mentre la testa le girava. Si diede della stupida per averlo fatto. Si spostò velocemente, allontanandosi da quel ragazzo, ma qualcosa la bloccò.
Si voltò di colpo e suoi occhi incontrarono quelli azzurri del ragazzo. Sentì una morsa stringersi attorno al suo cuore, mentre la guardava. Nei suoi occhi non si intravedeva più la scintilla maliziosa di poco prima, erano seri, quasi tristi, e ricolmi di malinconia.
Era troppo simile ad Andrea.
– Seth. – sussurrò. Gli occhi di Elisa saettarono velocemente sulla mano di lui, stretta attorno al suo polso, per poi tornare a puntare lo sguardo nei suoi occhi. – Cosa? – domandò, inclinando un poco la testa verso sinistra. – Il mio nome. È Seth – spiegò lui, senza distogliere lo sguardo. Elisa sorrise imbarazzata. – Come il dio egizio? – chiese. Seth arrossì lievemente e sorrise impacciato. – Sei una delle prime persone che capisce da dove provenga il mio nome – Elisa arrossì di nuovo e distolse lo sguardo prima che lui se ne accorgesse.
– Per me Rick Riordan è fin troppo sottovalutato, non hai idea di quanto si possa imparare grazie ad un buon libro. – lui le sorrise, forse ripensando alle pile di libri in camera di Elisa. – Sei una ragazza che legge molto. Potresti diventare una scrittrice. – Elisa avrebbe voluto scappare. Il suo sogno era un argomento delicato, non di certo la prima cosa che diceva quando incontrava una nuova persona. Probabilmente Seth si accorse dello sbaglio perché non disse più nulla. Il silenzio calò tra i due, un silenzio imbarazzante, di cui Elisa avrebbe fatto volentieri a meno.
– Dove siamo? – domandò infine, per cercare di spezzare quel silenzio opprimente. La ragazza lasciò vagare lo sguardo sul luogo in cui si trovavano.
La cortina di nebbia si diradò davanti al suo sguardo, rivelando un lungo corridoio dal pavimento in mogano.
La parete di sinistra era ricoperta di fotografie e ritratti. Elisa si avvicinò, spinta da uno strano desiderio. Tra tutti quelli appesi suoi occhi furono catturati da un ritratto in particolare: un disegno a carboncino del volto di una ragazza.
I tratti del disegno erano gentili, ma il suo volto, colto dall’artista in una strana espressione, a metà tra il preoccupato ed il divertito, era quello di una persona che ha attraversato l’inferno e che ne è uscita a testa alta. Elisa le lo leggeva dagli occhi.
Scrollò la testa, cercando di dimenticare le immagini che le si presentarono alla mente: una ragazza dai capelli rossi, il lugubre rintocco di un orologio e subito dopo lo scorcio di una torre illuminata dalla fioca luce dei lampioni.
Seth le si avvicinò, sfiorandole il braccio, cercando di farla emergere da quella specie di trance in cui era caduta. – Chi è? – Domandò Elisa, toccando appena il ritratto. – È molto bella. – Il ragazzo aprì la bocca per parlare, ma venne interrotto. Seth si portò un dito alle labbra, chiedendole il silenzio, mentre lei lo fissava confusa. – Cos.. – La ragazza si interruppe.
Il suono ovattato delle scarpe che camminano sul legno invase il corridoio, sincronizzato ai battiti del cuore impazzito di Elisa.
Il silenzio regnava sovrano, invisibile ma presente, stringendo ogni cosa tra le sue spire soffocanti, inghiottendo ogni rumore, ogni parola, ogni emozione, ogni cosa.
Elisa odiava il silenzio. Odiava il silenzio che si forma dopo la fine di una cosa, dopo che due persone che non hanno più niente da dirsi smettono di parlarsi, il silenzio delle notti passate in bianco con l’ansia che attanaglia lo stomaco.
Per lei il silenzio era vuoto, il nulla. Un’assenza di parole, di sogni, di speranze, di azioni.
Per Elisa coloro che avevano smesso di sognare erano spettri, cuori dentro ai quali il silenzio si era pian piano aggrappato, mettendo radici profonde e quasi impossibili da strappare.
La sua paura era che il silenzio avvolgesse anche il suo cuore, che le facesse dimenticare come si facesse a sognare, a vivere, a credere.
Istintivamente la sua mano cercò quella del ragazzo accanto a lei e, quasi senza accorgersene, la strinse forte. Un’ombra si affacciò sul pavimento, i contorni sfocati per colpa della tremolante luce delle lampade. La stretta sulla mano di Seth si fece più forte, mentre il proprietario dell’ombra appariva lentamente nella visuale di Elisa.
Dapprima un paio di vecchie scarpe nere e rovinate, poi le gambe lunghe ed atletiche fasciate da un paio di pantaloni beige sporchi di grasso. Elisa risalì piano con lo sguardo sul torace allenato coperto da una camicia che un tempo doveva essere bianca, fino ad arrivare al viso.
La carnagione era chiara, tipica dei paesi europei e, giudicare dalle piccole rughe che circondavano le sue labbra, era un uomo che sorrideva spesso, anche se in quel momento gli angoli della sua bocca erano rivolti all’ingiù, la fronte corrucciata in un’espressione preoccupata.
Teneva lo sguardo fisso a terra, verso i suoi piedi che si muovevano veloci sul pavimento, che, ad ogni suo passo, scricchiolava.
I capelli castani gli coprivano gli occhi, ma Elisa riuscì a scorgere una pallida cicatrice sul suo zigomo sinistro, come se avesse fatto a botte con qualcuno.
Quell’uomo aveva qualcosa di famigliare, ma in quel momento ad Elisa sfuggiva cosa potesse essere. Seth le strinse la mano, ed Elisa sentì una piccola scossa pervaderle il palmo e risalire per tutto il braccio. Emise un lieve gemito di dolore e tornò a fissare il ragazzo, distogliendo per qualche istante la sua attenzione dall’uomo davanti a lei. – Dove ci troviamo? – Tentò di nuovo, alla ricerca di risposte. Seth la scrutò per qualche secondo, incerto se dirle o meno la verità. – Siamo in un ricordo. – Mormorò alla ragazza. – Un ricordo? Come diamine hai fatto a… – Elisa fissò il ragazzo di fronte a lei, mentre il suo cervello registrava particolari che sulle prime non aveva notato: il fodero di una spada appeso a tracolla sulla schiena, una benda sporca di sangue che gli fasciava il braccio destro, un tatuaggio sull’avambraccio sinistro.
– Chi sei? – Domandò la ragazza, sentendo di nuovo il peso di quelle due parole gravare su di lei come un macigno. Seth si accigliò, guardandola con un espressione talmente seria che Elisa per un istante credé che l’avrebbe uccisa. E invece fortunatamente Seth parlò: – Sappi che potrei farti la stessa identica domanda, Elisa, eppure neppure tu sapresti dargli risposta. – I suoi occhi azzurri erano puntati in quelli verdi di Elisa, la voce che faceva trasparire una sorta di allarme. Sembrava stranamente sulla difensiva, come se la ragazza fosse stata sul punto di aver scoperto qualcosa che lui non voleva si sapesse.
E poi dicono che sono le ragazze ad essere lunatiche. Pensò Elisa mentre Seth la fissava severo.
Restarono così per alcuni istanti, gli occhi di uno puntati in quelli dell’altro, studiandosi con uno strano interesse da parte di entrambi, come due bambini che giocano a chi sbatte per primo le palpebre.
Elisa non si era per niente preoccupata del fatto di essere in pigiama fino a quel momento, ma, mentre lo sguardo scrutatore di Seth indugiava sul suo corpo minuto, coperto solamente da un paio di vecchi pantaloncini colorati e una maglia scolorita, accarezzandolo con gli occhi, desiderò, avvampando violentemente, aver avuto tempo di cambiarsi.
Le sembrava che il tempo si fosse fermato come per magia, congelato nello stesso istante in cui lui aveva puntato i suoi occhi su di lei, ma, come ogni incantesimo nelle favole, l’incanto si spezzò, non ad opera di un principe, certo, ma a causa del rumore di una porta mal oliata che girava sui cardini.
I due ragazzi si voltarono verso una porta che dava sul corridoio, osservando la testa di una donna dai capelli leggermente ingrigiti spuntare dall’uscio per chiamare l’uomo che, fino a quel momento, non aveva mai smesso di camminare per il corridoio, nervoso. – Jack, santo cielo! – Disse la donna. La sua voce era chiara e limpida, nonostante dimostrasse settant’anni. Un tempo doveva essere stata bellissima, ed il tempo, nonostante avesse portato con sé i segni tipici dell’età che avanza, l’aveva conservata tale.
L’uomo, che aveva continuato a percorrere avanti e indietro il corridoio per tutto quel tempo, alzò il viso, rivolgendo il suo sguardo verso la donna.
– Potresti smetterla di andare avanti e indietro? Mi stai facendo venire il mal di mare solo a guardarti. – Confessò lei. Jack mascherò un sorriso e si fermò. – Vedo che il tempo non ha scalfito il tuo umorismo, Elizabeth. – La donna sbuffò all’udire quel nome, ma non si scompose.
Sul volto di Jack si dipinse di nuovo la maschera di preoccupazione che aveva tenuto sin da quando aveva fatto il suo ingresso, mentre la donna lasciava cadere il silenzio tra loro.
– Avanti, sputa il rospo. – Fu l’uomo a rompere la quiete. La donna lo fissò con aria interrogativa, finché lui non parlò di nuovo. – Se sei venuta qui ci sono solo tre motivi. Il primo è che sia successo qualcosa a Dream, il secondo è che sia andato tutto bene e il terzo implica uno dei due motivi precedenti e che tu sia venuta qui per prendere di nascosto una bella sorsata di Gin. – La donna lo guardò, un sorriso sarcastico e dolce dipinto sul volto. – Dream sta bene, ed anche il piccolo. Non avrei mai pensato di diventare nonna, ho sempre creduto che voi due vi sareste fatti ammazzare prima di poter avere dei figlia. – Jack gettò gli occhi al cielo. – Per fortuna ti sbagliavi. Adesso, se non ti dispiace, vorrei vedere mia moglie e mio figlio. – Elizabeth annuì e si scansò per far passare l’uomo, richiudendo la porta dietro di sé.
– Vieni. – Sussurrò Seth. Elisa per poco non gridò. Intenta com’era ad osservare la scena, si era completamente dimenticata del ragazzo di fianco a lei.
Seth la prese delicatamente per mano e la guidò verso la porta. – È chiusa, gen… – La ragazza lasciò la frase a metà. Seth non la stava portando verso la porta, la stava portando contro la porta.
Chiuse gli occhi, preparandosi all’impatto, ma non accadde nulla. – Puoi aprire gli occhi. – Elisa guardò Seth, di fianco a lei. Era totalmente rilassato e non aveva ancora lasciato la sua mano. – Essendo in un ricordo siamo come dei fantasmi, quindi possiamo passare attraverso i muri, genio. – Continuò il ragazzo. – Ancora mi devi spiegare questa storia dei ricordi. – Mormorò Elisa imbronciata, staccando di scatto la sua mano da quella di Seth e portando le braccia al petto. Era solo una recita, certo, ma la sua curiosità diventava ogni secondo più accesa. Aveva semplicemente deciso che quella cosa era troppo assurda persino per essere stata partorita dalla sua mente, e quindi aveva accettato la cosa, mettendo da parte il terrore e la paura per far spazio alla curiosità. – Dopo te lo spiego, adesso guarda. – Rispose Seth, indicando le figure davanti a loro.
Su un letto matrimoniale sedeva la ragazza del disegno, Elisa ne era certa. Aveva lo stesso sguardo, la stessa piccola macchia sotto lo zigomo destro, anche se parevano passati parecchi anni da quando l’artista doveva averla ritratta. Nel disegno non doveva essere poco più grande di Elisa, ora dimostrava trent’anni.
Stringeva in braccio un piccolo fagotto, che Elisa intuì essere il piccolo di cui poco prima Jack aveva accennato. L’uomo in questione era in piedi, vicino al letto, e osservava con occhi ricolmi d’amore la sua famiglia. Jack si avvicinò alla moglie, accarezzandole la testa di ricci capelli rossi con una mano. – E’ bellissimo – Disse. – Proprio come sua madre. – La donna arrossì, ma gli rivolse un tenero sorriso. – Non essere modesto, un giorno sarà forte come suo padre. – Elisa si sentiva fuori luogo, in quel piccolo ed intimo quadretto famigliare. Le sorse spontanea la domanda se i suoi genitori alla sua nascita si fossero comportati come Jack e sua moglie, o se avessero semplicemente accettato la sua nascita, rassegnati dall’idea di dover concludere un era di divertimenti e spassi per dedicarsi a stare dietro alla figlia.
Scacciò l’idea dalla mente e puntò il suo sguardo su Seth. Il ragazzo aveva i pugni serrati e una sorta di scintilla di desiderio negli occhi azzurri, tant’è che Elisa provò pena per lui.
Non conosceva bene quello strano ragazzo, ma avrebbe giurato che c’era qualcosa che lo tormentava e lei avrebbe tanto voluto saperlo, per poter provare ad aiutarlo.
Mi meraviglio di te, Elisa. Da dove viene questa spinta di altruismo?
Fece una voce nella sua testa. Elisa non lo sapeva - o meglio, fingeva di non saperlo.
Tornò a guardare la coppia quando lo sguardo di Seth si puntò di nuovo su di lei.
– Come lo chiameremo? – Domandò la donna dai capelli rossi. – Non lo so, Dream. Un nome ti resta per tutta la vita, bisogna stare attenti quando si sceglie. – Dream sorrise. – Da quando sei diventato così saggio? – Domandò ironica al marito. – Lui alzò gli occhi al cielo, esasperato. – Lo sono sempre stato, ma tu te ne accorgi solo ora. – Dream rise, una risata argentina, che illuminò la stanza. – Che ne dici di Andrew? – Domandò. Jack si sporse in avanti, accarezzando le piccole dita paffute del figlio. – Che mi piace. Benvenuto in famiglia, Andrew.
Andrew. Elisa giurò di aver già sentito quel nome, nella sua famiglia, gridato da sua nonna a…
I pensieri le attraversarono la mente velocissimi, il suo cervello vegliò velocemente ogni ipotesi, scartandone alcune, formulandone delle altre.
Nello stesso istante Jack puntò il viso verso la porta, e la ragazza poté finalmente vedere i suoi occhi.
Erano la prima cosa che cercava in ogni persona, gli occhi dicevano tutto di tutti. Elisa poteva capire tante cose di una persona prima ancora di parlarci solo guardando i suoi occhi.
Perché gli occhi gridavano in silenzio storie celate che le parole non avrebbero mai rivelato, svelavano bugie e assicuravano la verità.   
La sua sorpresa quindi fu ancora più grande quando Jack alzò la testa, mostrandole finalmente i suoi occhi.
Verdi.
Occhi verdi, proprio come i suoi.
Le tessere del puzzle si incastrarono da sole, rivelando un mosaico tanto stupendo quanto assurdo.
Perché stava guardando negli occhi, anche se lui non lo sapeva, il suo bisnonno, Jack.
 
 
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ANGOLO DELLA PAZZA DI NOME HOPE CHE AGGIORNA ALLE DUE DEL MATTINO AUTRICE
Pensavate di esservi liberati di me, vero?
E INVECE NO.
Okay, scusate. L’ho detto che avrei aggiornato venerdì anche se non è più venerdì da più di un’ora e mezza
La devo piantare di lasciare tutti questi finali aperti, ma è l’una e mezza di notte, io ho finito di scrivere da dieci minuti, il pc sta per lasciarmi e mi devo alzare tra cinque ore, quindi non me la sento di rischiare e fare il capitolo più lungo.
Direi che sono messa piuttosto bene D:
Comunque sia spero che il capitolo vi piaccia, ecco che si scopre (circa) chi fosse il ragazzo di quel pomeriggio [per chi lo spera: no, non è Andre e nemmeno un suo gemello esperto in combattimenti (?)]
Che ne pensate del colpo di scena finale?
Se non si fosse capito, Jack e Dream sono i genitori del nonno di Elisa, Andrew.
Sto seriamente prendendo in considerazione l’idea di scrivere uno spin-off su di loro una volta finita questa storia, ma sono ancora molto indecisa.
Devo dire che scrivere questo capitolo è stato divertente, almeno i battibecchi tra Seth ed Elisa (tirargli un libro in testa, poi XD)
Come al solito ringrazio chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite e naturalmente chi ha recensito (scusate se non ho risposto, lo farò il prima possibile).
Un ultima cosa e poi scappo via a dormire. Domani parto e starò via fino a sabato prossimo, quindi buon per voi settimana prossima non aggiornerò.
Mi sento orgogliosa di me, stranamente le note del capitolo non hanno superato la lunghezza di una flash fic u.u
Adesso scappo a dormire, mi aspettano dieci lunghe ore di macchina con mio fratello e mia sorella che fanno i pazzi, devo essere psicologicamente pronta a tutto.
Ci si vede (si fa per dire ”^^) tra due settimane!
Un abbraccio,
Hope

 
 

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