Le confidenze del silenzio di Proiezioni (/viewuser.php?uid=30970)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 1 *** 1. ***
Le
confidenze del silenzio.
Mio
padre era un uomo
molto particolare. Non era un terrestre, non propriamente e nel vero
senso del termine. Lui era un
saiyan, una
razza dello stesso ceppo di mammiferi a cui appartenevano gli uomini della Terra. I geni dei saiyan e
dei
terrestri potevano essere assemblati nell’accoppiamento,
perché ciò che
distingueva i primi dai secondi era solo la forza ed il temperamento, un gene che rendeva diverse le potenze muscolari, il metabolismo, favorendo la mutazione in scimmia. Tuttavia il
numero di cromosomi era identico.
Mia
madre, scienziata
molto importante nel settore tecnologico e leader di
un’azienda tra le più
conosciute della Terra, si era innamorata di lui al tempo in cui mio
padre era
reduce da una lunga guerra, mercenario dal comportamento
abbietto e uomo temuto in lungo e in largo per le basi aliene dove aveva vissuto la sua adolescenza. Un condannato agli occhi di
tutti,
lui, che da quelli di mia madre invece era stato redento nell'illogica follia
d'amore, o per qualche motivazione che il senso non lo trovava,
perchè in certe circostanze solo la chimica può
spiegare con le sue leggi - ed era stata proprio mia madre, la donna romantica e sicura di se stessa ad avermelo detto. La loro storia per gli altri era strana e loro due troppo diversi, ma erano stati gli impulsi a legarli. Impulsi molto forti. -. Mio padre era andato via mentre io stavo nascendo, ci aveva lasciato, ma poi era tornato e mia madre non gli aveva rinfacciato niente, non ne aveva avuto il bisogno. Lei mi aveva raccontato anni dopo che mio padre aveva solo provato a scappare, che aveva tentato di tornare quello che era stato un tempo e aveva fallito, perchè io ero troppo importante e lui troppo orgoglioso per dirlo. Lei lo aveva amato troppo per voltargli le spalle, lo aveva conosciuto troppo profondamente per dimenticarlo, per questo lo aveva voluto ancora, senza paura, persino con rabbia, ma di un
amore che era parso
ad ogni
amico assurdo, inconcepibile, disdicevole. Come si
poteva
amare un
guerriero brutale, un mercenario scaltro che aveva seminato attorno a
sé solo
morte? Che ci aveva lasciati, che si era votato solo alla guerra... Lui, principe fiero ed orgoglioso di un’antica stirpe
di guerrieri temuta
e rispettata in ogni meandro dell’universo, seminatore di
guerre e di paura, accolto e amato da una donna che fino a pochi mesi
prima avrebbe ammazzato senza rimorso. Lui,
mio padre, quello a cui nessuno osava mancare di rispetto.
Mia
madre – intessendo i ricordi del passato con parole frementi di una tacita emozione ancora persistente nel tempo, aveva raccontato con sfolgorio negli occhi di loro , di noi- lo aveva ospitato a casa
offrendogli
una dimora temporanea, sedotta dalla sua bellezza grezza, dal suo
silenzio opprimente e dallo sguardo tormentato. Sembrava un uomo
provato - mi aveva detto - , ed invero lo era.
Ma
quello stato di temporaneità era mutato, come del resto
nella vita muto tutto,
in uno stato perenne: nonostante le sue stranezze, le dipartite da casa
improvvise,
le assenze per allenarsi o solo per corroborarsi nella misantropia del
suo
strano modo di essere, mio padre tornava sempre indietro, a casa. Non
che
facesse ricomparsa con delle rose né tantomeno con un
sorriso stampato sulla
faccia. Rincasava con tranquillità, con finta indifferenza,
con fierezza e
superiorità senza salutare nessuno. E mia madre lo aspettava
come io lo aspettavo
pieno di speranza. E
ora sono certo tornasse sempre e innanzi tutto per lei.
Percorreva
di nuovo i corridoi con passo lento, cadenzato, quasi militaresco, guardandosi attorno con calma come volesse cogliere se
tutto fosse al proprio posto così come quando era partito, perchè in fondo non era poi estraneo totalmente alla vita della nostra insolita famiglia, e la
prima cosa che faceva era cercare mia madre, sempre in
silenzio, sempre composto. E
quando la trovava per un attimo la
guardava
negli occhi poggiato allo stipite della porta con una
serietà strana e
profonda, senza mai un sorriso, e le iridi scure si attaccavano su di
lei con
un'intensità così divorante che io piccolo,
dall'esterno, non avrei voluto
essere al suo posto.
Era il suo modo di salutarla, di dirle sono tornato...
Le
prime volte, al tempo in cui avevo iniziato a fare le
domande
tipiche dei bambini di quattro anni e poi a comprendere il peso della
sua
assenza,
ero
convinto
che ci avrebbe abbandonati, ma poi in me una
strana e imperitura sicurezza mi aveva rasserenato convincendomi che
lui
sarebbe tornato prima o dopo, che fosse decorsa una
settimana, un mese
o due
giorni io lo avrei visto percorrere il ciottolato di casa o riaprire una
finestra all'inverso.
Mia madre aveva rafforzato le mie certezze e lenito i miei dubbi
infantili col tempo e la pazienza, perché
lei conosceva qualcosa di lui oscuro ad ogni altro, persino a me che
ero suo
figlio. All’epoca non sapevo cosa condividessero e quanta
intimità tra loro ci
fosse, non potevo dare contorni neppure sfuggevoli a mio padre nel
letto di
mia madre, il suo corpo nudo intrecciato al suo così esile,
magari a sussurrarle con quel suo tono serio e profondo parole segrete, troppo loro per poter
essere ipotizzate dalla mia mente estranea al loro rapporto intenso e burrascoso, di sicuro
bollente come i loro temperamenti,
e avrei potuto giurare - infantile com'ero del resto - che si volessero
bene così, limitandosi a discutere e a parlare come due
conoscenti, e magari a
dormire nella stessa stanza senza fare altro. Non avevo mai visto mio padre, quel guerriero indomito e duro, elargire un
gesto di affetto. Non gli aveva mai sentito dire
cose carine verso di noi nè tantomeno rivolgersi a lei che era sua moglie con l'atteggiamento di un amante, ma coglievo il suo rispetto nei suoi
confronti, la stima che provava verso quella donna che gli teneva testa,
e per contro leggevo
negli occhi di mia
madre una
determinazione a stargli accanto che mi levava le parole di bocca: non
aveva
avuto mai paura che lui se ne andasse? Era sempre così serio
e silenzioso, così
autoritario e impenetrabile. Sembrava essere in grado di insinuare
timore
persino nei muri che gli erano attorno. Io lo avevo temuto, i nostri amici lo avevano temuto e persino gli estranei che lo incrociavano si sentivano a disagio quando lui era nei paraggi, ma non mia madre. Lei non aveva mai avuto paura del suo sguardo. Invero gli aveva sempre parlato come se di lui conoscesse ben altro, rivolgendogli la parola con confidenza, con schiettezza che io non osavo neppure immaginare di usare, e ovviamente era così: ero io, eravamo noi, noi altri, a non conoscere l'altra faccia del suo volto, il viso che lui celava dietro l'austera maschera e che mia madre invece scorgeva quando quella maschera gliela sfilava, e non so in che modo ma di sicuro con suadenza, con quell'abilità che proviene da un potere tutto femminile, perchè sapeva come irretirlo, come fregarlo, e a me sembrava assurdo - ed in parte ancora adesso mi appare quasi bizzarro - che lui le cedesse, che sapesse dimostrarle con le mani e con la bocca quanto la amasse. Era stato un sanguinario, mio padre, era nato per essere una macchina da guerra che proprio non sembrava a proprio agio nell'elargire un abbraccio. Aveva un nome, un nome importante che faceva anche tremare e che invece mia madre pronunciava con gentilezza. Lei gli sorrideva, lo faceva spesso anche dopo averci litigato come fosse un uomo qualunque, come non fosse la belva che in fondo mio padre era, e lui non ricambiava il suo sorriso ma gli leggevo negli occhi quello che oggi so essere un sentimento forte, importante più di una sola voglia d'amante. Il sorriso di mia madre gli piaceva, lo rabboniva come un sedativo, gli entrava dentro e dentro esplodeva: lui ne era geloso, non lo diceva nè in apparenza lo apprezzava, forse lo disprezzava più concretamente, ma nonostante tutto lo custodiva e io ho imparato a capirlo, perchè mio padre sapeva esprimersi molto bene con la forza dello sguardo e il suo silenzio talvolta urlava parole che solo noi intimi riuscivamo ad udire chiaramente. Sono questi i segreti di famiglia del resto, il potere dei legami di sangue che ci inchiodano l'uno all'altro anche quando il collante è rabbia, non solo amore, paura, rispetto. E io li avevo provati tutti. Avevo vissuto tutti quei sentimenti mentre cercavo di conoscere mio padre, di farmi spazio nella sua oscurità cercando di sondarla, di non perdermi insieme ai dubbi del bambino e dell'adolescente che ero stato.
Poi un giorno di inverno mentre la pioggia rendeva fangoso il giardino, la nebbia si addensava sulla strada ed io giocherellavo con la penna senza riuscire a concentrarmi,
osservando l'incedere del grande guerriero che mio padre era, avevo compreso in silenzio tutto quello che a voce non poteva essere detto,
spiegato, raccontato. Guardavo mia sorella tornare di corsa con quel modo impacciato di camminare da infante, e mio padre starle dietro tranquillo, senza cercare riparo nell'ombrello, tenerla d'occhio mentre rincasava ridendo al vocio di mia madre che le ordinava di sbrigarsi: era ancora un bell'uomo, non era invecchiato, e nonostante tutto non aveva mai cercato un'altra donna. Era stato un compagno molto fedele, mia madre diceva che lo avrebbe potuto lasciare circondato da belle donne senza temere un suo tradimento. E sembrava strano ma era vero. Per mio padre le altre donne non esistevano, non le degnava neppure di uno sguardo che non fosse puramente valutativo. E allora avevo iniziato a capire, avevo percepito le strane confidenze del silenzio, sembrava fosse stata proprio quella pioggia a sussurrarle. Avevo compreso il loro segreto e lo avevo iniziato a custodire come quanto di più prezioso esistesse: mio
padre non lo diceva, ma
mi amava,
come del resto amava in una maniera smisurata ed orgogliosa mia madre. Il suo sacrificio contro MajinBu mi era rimasto dentro, mi aveva lacerato e rafforzato allo stesso tempo, rendendomi fiero di essere suo figlio nonostante mio padre vantasse un curriculum abbietto e deprecabile che al tempo ignoravo: allora ero troppo piccolo per sapere cosa lui avesse fatto, ma quando ne ero diventato cosciente non avevo smesso di adorarlo. Mi era bastato sentirgli raccomandare a me, piccolo uomo che doveva crescere, solo una volta nella vita le cure materne ed era stato come se mi avesse rivelato tutto ciò che non aveva mai detto. Mio padre era scorbutico, vantava un pessimo carattere, i rapporti sociali e familiari per lui erano come acqua e olio a contatto, eppure possedeva il dono di ottenere un grande risultato con un solo piccolo gesto. Il suo amore per me e per mia madre era ineguagliabile, e anche nell'ultimo momento della sua vita, pieno di fierezza e di voglia di andare in battaglia, senza paura di morire, aveva conservato nel cuore il sorriso di mia madre, quello che si custodiva dentro, che non ricambiava mai... Quello che io sapevo conservava in sè con riserbo, gelosamente.
La sua
bocca taceva, non esternava mai il suo affetto nei nostri confronti
come se lo
temesse, ma i suoi occhi ardevano di una verità bruciante
quando compariva di nuovo da
una delle sue improvvise assenze e ci rivolgeva lo guardo: eravamo la
sua
condanna, glielo leggevo negli occhi, ma eravamo anche la casa in cui ritornare di punto in bianco senza dare spiegazioni
a nessuno, atteso da tutti con
il
sorriso sulle labbra, e nonostante l’autorità
severa con cui mi educava e l'insofferenza
con cui trattava mia madre in apparenza, ci era legato
distruttivamente.
A
mia madre legato con
il cuore, con la parte più pulsante e infuocata della carne, e a me e a mia sorella legato con il sangue. In
ambo i casi, tuttavia,
rimaneva legato in
maniera irreversibile a quella che era la sua famiglia.
Lo avevamo cambiato. Non poteva più tornare indietro pur desiderando essere ancora libero come lo era stato un tempo. So bene che per lui eravamo come catene, e che i saiyan sono troppo impavidi e selvaggi per tollerarle.
Continua…
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Capitolo 2 *** 2 ***
Preciso
che questo breve racconto si colloca nella serie Z ma anche in universo
what if, poichè ci sono riferimenti astratti ed ipotetici
non trattati da Toryama, poichè la serie Z finisce quando
Bra ha circa 6 anni ed io mi sono divertita a fare allusioni su
possibili e poco chiari risvolti del loro futuro .
Buona
lettura!
2.
Mio
padre aveva fatto
la guerra. Noi non l’avevamo fatta. Era questa la differenza
che ci rendeva così
diversi e che si coglieva nelle sfumature indurite del suo carattere: i
dolori
interiori, le botte, la rabbia, la sete di vendetta e di gloria avevano
ulteriormente rafforzato una corazza di orgoglio che fin da bambino
aveva
caratterizzato il suo carattere - era stato lui ad avermi rivelato
qualcosa di
quando era stato un infante, dipanando la totale oscurità
che gravava sul suo
passato e che lui nascondeva per riserbo o per pudore, non avrei saputo
dirlo, ma non penso che mio padre si vergognasse di ciò che
aveva fatto, forse si sentiva troppo superiore per raccontarlo -. Era
un veterano, un uomo di quelli che si guarda sempre con rispetto, ma
era
anche un
capo che la guerra l’aveva portata insieme al vessillo di un
crudele tiranno
per cui aveva lavorato per anni, perché mio padre era
stato un mercenario. E mercenario significa vendere la propria violenza.
Non
gli faceva onore tutto ciò nè gli rendeva
omaggio. Eppure noi lo
omaggiavamo come un uomo
grande, perché realmente lui era per noi troppo importante.
Aveva fatto vibrare la terra con l’apprestarsi dei suoi
passi quando il vento faceva ululare il suo nome nelle valli, aveva
fatto
penare eserciti col suo arrivo sul campo, aveva fatto paura alle genti
e il suo
nome non era stato dimenticato nei meandri dell’universo.
Ora
cos’era diventato mio padre? Un uomo normale, in apparenza,
un padre di famiglia
tranquillo, un
tipo ombroso e poco loquace ma presente. Lo avevamo reso umano, o forse
eravamo
riusciti a far placare la parte più selvaggia che albergava
in lui come un
diavolo che dorme. Ma che non è morto.
Un
vulcano quiescente. Non
spento. Mio padre era questo. Gli
ardeva
negli occhi una fiamma di desiderio di guerra che solo quando mi ci ero
scontrato negli allenamenti avevo scorto: se lo sfidavo, come lui
mi
chiedeva di fare provocando il guerriero che era in me, e lo combattevo
sempre
con quel reverenziale timore di mancargli di rispetto – non
mi sarei mai
permesso di farlo, un po’ per via dell’educazione
che avevo ricevuto, un po’
per paura, lo ammetto – il principe che era in mio padre
sembrava prendere
coscienza in una sorta di dormiveglia, ma non si svegliava mai del
tutto,
forse
era lui stesso ad impedirgli di farlo, forse la sua parte umana lo
tratteneva
in quello strano sonno in cui fluttuava come in un mare tempestoso
da anni.
Non riemergeva, ma io avevo scorto più volte la sua ombra
avvicinarsi alla
superficie di quella precaria pazienza.
Mia
madre non era mai
sembrata preoccuparsi della cosa, invero faceva finta di niente
trattandolo
sempre con gentilezza e affrontandolo anche con un grande coraggio.
L’avevo
ammirata molto per questo, per me lei era stata il rifugio, ma anche
l'appiglio da cui trarre la forza, la sicurezza,
perché non era facile trovare
qualcuno in grado di
tenere testa ad un uomo com’era stato mio padre. Lui avrebbe
potuto ammazzare per
orgoglio, avrebbe potuto ammazzare anche solo per rabbia, senza
mai
rifuggire un tale peccato con la coda tra le gambe: aveva avuto sempre
un coraggio smisurato ma anche
una
gran voglia di tornare all’inferno per cercare gli avversari
che lo stavano
ancora insultando.
Mia
madre invece aveva cercato sempre di trattenerlo, di rabbonire quel
guerriero impavido che dietro
la
corazza di orgoglio e di fierezza, e persino di una timidezza spessa
come la
patina d’ombra dei suoi occhi, aveva un cuore grande, un
cuore ferito, un cuore
rinnegato per anni, ripudiato, esiliato, dimenticato… Un
cuore che mio padre
aveva ritrovato, o forse solo scoperto, quando era stata mia madre a
risvegliarlo.
Aveva battuto
per lei, quel cuore... Aveva pulsato per lei, di questo ne
ero
certo, come
il giorno in cui per me e per lei mio padre era andato a fare la
guerra,
sacrificandosi per salvarci, barattando la sua vita di cui forse era
persino
stanco perché si preservasse la nostra. Ci aveva salvati
comunque, anche se la
guerra ci aveva poco dopo distrutto.
Lui ci aveva
salvati dalla sua indifferenza.
Mia
madre lo
aveva pianto disperatamente e per la prima volta forse chi ci era
attorno si
era accorto di quel legame forte e intenso, perché neppure
io avrei saputo
definirlo diversamente. A casa mia la vita era stata tranquilla, la
coppia dei miei genitori
turbolenta, ma nonostante i continui litigi nessuno dei due si era mai
voltato
le spalle e aveva detto basta.
Si amavano. A volte li avevo visti
parlare con
una strana tranquillità, in quell’insolita
intimità in cui raramente venivo
coinvolto: erano riserbati amanti, i miei genitori, e non che mia madre
fosse
timida, piuttosto era risaputa la sua esuberanza, sono a conoscenza che
al
tempo della sua giovinezza era stata con Yamcha e che si era persino
parlato di
sposarsi, ma la sua discrezione era il filo con cui era riuscita ad
irretire
mio padre ancorandolo a questo posto che noi chiamiamo casa, e se a volte
lo
metteva a disagio volutamente come per sfidarlo, e noi ne ridevamo
complici, invero
mia madre controllava fin troppo se stessa: aveva gli slanci di una
bambina,
l’animo romantico di una sognatrice, la dolcezza di
un’adolescente che con
lui non veniva a galla. Anche mia madre aveva dovuto sacrificare
qualcosa di importante per
avere quell'uomo al proprio fianco, e ciò che aveva
sacrificato per amore era
una parte di se stessa.
Era
una donna forte.
Per amore di mio padre avrebbe fatto di tutto, e forse era stato
proprio
quell’amore devastante a conquistarlo. Com’era
stato per lui sentirsi amato a quel modo, in quella
maniera viscerala,
profonda, ritrovarsi gli occhi di mia madre addosso nella camera da
letto, a
venerarlo, e poi in un salotto, a sfidarlo.
Immaginarli insieme mi aveva fatto sempre accapponare la
pelle, ma credo
sia una forma di orticaria che colpisce tutti noi figli. Il sesso non
è roba
pudica, è una cosa sporca, cruda ed esplicita come lo
è la carne senza gli abiti addosso. Non potevo ipotizzare -
e neppure
adesso riesco a
farlo concretamente – che loro due condividessero il letto,
che mi avessero
concepito per sbaglio, come frutto di una passione incontrollata che
aveva
avuto una conseguenza imprevista.
E
quella conseguenza
ero io.
Non
so se mio padre
sarebbe rimasto se io non fossi nato, a dire il vero me lo sono sempre
chiesto.
Mia madre mi aveva raccontato di un mio alter ego, di un altro me che
era
venuto da un futuro diverso cercando di aiutarci. Io iniziavo a muovere
i primi
passi all’epoca in cui egli era giunto, non posso ricordarlo,
ma lei mi aveva rivelato, perché a sua volta le era stato
riferito da Yamcha,
che quando quel
Trunks era morto mio padre si era arrabbiato ferocemente. E
solo l’idea mi fa
sentire ancora importante. Significare qualcosa per mio padre non
può essere da
me quantificata con nessun prezzo. I suoi rari segni di affetto, timidi
ma
profondi, mi hanno segnato dentro, me li sono portati con me tutta la
vita, li
ho stampati nella mia mente in un posto dove non esiste
l’annientamento. Quei
ricordi mi riscaldano quando nei momenti
di solitudine e di malinconia mi ritrovo a cercarli, sentendomi ancora
un
adolescente e percependo mio padre accanto, presente, pur se
chiuso in un silenzio perenne.
Al
tempo in cui giunse
un nuovo nemico sulla Terra, teatro di sventure ormai perenni, mio
padre come
sempre aveva risposto alzandosi in piedi al grido della battaglia. Non
si
tirava mai indietro davanti a nessuna guerra, era sempre pronto per
questo,
combattere e morire non gli faceva paura né gli insinuava un
brivido di
debolezza, e costantemente mi rammentava che neppure io dovevo averne,
che il
più grande onore per
un guerriero è morire in battaglia.
Eppure
aveva tradito le
sue parole severe e importanti, era venuto a meno ai precetti con cui
mi aveva
educato in
quell’epoca moderna dove lui sembrava un pezzo d'
antichità fuori posto: non mi
aveva portato con sé… Mi amava troppo. Io, mia
madre e mia sorella eravamo
diventati il suo tallone d’Achille, il punto debole della sua
ignobile e
travagliata esistenza: mio padre era stato venduto da suo padre
quando era un bambino; era stato venduto come una mera merce di scambio
e come
principe lui aveva rappresentato la garanzia di un freddo patto; poi
aveva
perso tutto, un giorno di neppure un anno dopo che prendeva gli ordini
di
Freezer, il suo popolo era stato distrutto. E un principe senza popolo
è principe
solo del niente.
Avevano
cercato di
togliergli il nome mandandolo a viversi tutte le guerre, forse
sperando che lui lì perisse, ma alla fine lo avevano
reso un ramingo nell’universo, perchè lui non era morto, perchè la guerra non l'aveva distrutto, perchè
quel suo nome
significava regale, significava avere sangue blu dentro la carne e mio
padre era
un principe fiero e indomito dentro, anche se i suoi geni non erano stati diversi da
quelli di
Goku o di Gohan, o di qualcun altro, e nelle radici della sua esistenza
c’era la
storia di un’antica famiglia, di un popolo forte, bellicoso,
violento; c’era la
storia di una razza di guerrieri che quel mestiere spietato lo avevano
scritto
nel sangue come una condanna. Alla fine era tornato libero, aveva
cessato di prendere ordini, e rinunciare a combattere per mio padre era
stata
una scelta, un sacrificio, una privazione profonda e importante; era
stato come
strappare una parte di quelle radici, come cercare di uccidere una
parte di se
stesso. Quello che l’aveva salvato era stato
l’amore di mia madre, così serena,
costante, presente, il soporifero per la belva infuocata che mio padre
aveva imprigionato
e che ferocemente si era mossa per anni come la tigre in una gabbia che
guarda
oltre le sbarre.
“Mi
vuole bene?” Ricordo di averlo chiesto a mia
madre quando avevo sei anni.
“Te
ne vuole molto” mi
aveva risposto lei con sicurezza. “Solo non è
bravo a dimostrarlo. Non dubitare
mai dei suoi sentimenti. Le persone che nella vita ti circonderanno,
non sempre
saranno quello che sembrano in apparenza.”
“Tu
come fai a
saperlo?”
“Perché
lo so”.
E
mi aveva sorriso. E
ora so che dietro quel sorriso, dietro quella sua sicurezza
c’era l’abbraccio
di mio padre, la sua stretta silenziosa e ferrea ma totale e
rassicurante. So che la
notte, quando nessuno osava intromettersi in quella loro
intimità proibita a
chiunque, lui doveva abbracciarla. E invero una sola volta nella vita
l’avevo
visto farlo, ed era stato quando era andato via ancora una volta per
difenderci,
allontanandosi da casa sempre con quella fierezza, con
quell’orgoglio che gli
impediva di dimostrarci
quanto fossimo importanti. Mia sorella all’epoca aveva sette
anni, io poco più
del doppio ed ero ormai pronto a combattere anche in una grande
battaglia, al fianco di mio padre - e quando avevo bramato quel
momento, voi non potete immaginarlo -.
Mi ero
aspettato lui mi
portasse con sé, ma invero non mi aveva chiesto di
seguirlo e me lo
aveva impedito duramente, perché nel suo cuore, pur senza
avermelo detto,
voleva che la parte di lui che in me stava vivendo rimanesse a vegliare
su
sua
moglie.
Come
poteva amarla così
smisuratamente e trattenerlo? Come riusciva a non darlo a vedere se era
così
forte il proprio amore nei suoi confronti? Mentre mia madre si
affannava per
non perderlo, cercando di farlo desistere dall'andare in battaglia,
avevo
scorto mio padre compiere per la prima volta un gesto
spontaneo di affetto. Avevo
diciassette anni.
Ricordo bene quello
che ho visto.
Continua…
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Capitolo 3 *** 3. ***
3.
Non
so di preciso come i
miei dormissero. Non so se riposassero abbracciati, a cucchiaio o dandosi le spalle.
Quando ero
piccolo li avevo scorti qualche volta nella stessa stanza al mattino o di sera tardi se facevo storie per addormentarmi, in genere aprivano la porta quando erano
completamente svegli
e mio padre se ne stava ancora buttato sul letto in pantaloncini. Avevo
all’incirca cinque anni quando mi intrufolai attraverso la
finestra dopo
essermi arrampicato lungo il cornicione. Ero sfuggito al controllo di
mia nonna
mentre rimboccava le lenzuola dei letti e sistemava la stanza, penso
fossero le
otto di mattina su per giù, a dire il vero non lo ricordo
con precisione ed
il mio è un ricordo poco chiaro ma comunque ancora impresso
nella mia mente:
avevo l’indole selvaggia e paterna che mi scorreva nel
sangue, spingendomi ad
assecondare impulsi pericolosi anche se i miei non sembravano
eccessivamente
preoccuparsene. Probabilmente davano per scontato avessi la pelle coriacea e non si davano pena all'ipotesi che io cadessi malamente o mi rompessi qualcosa correndo da una parte all'altra della casa come un tornado incontenibile - e l'energia di mio padre d'altronde, dovevo pur spurgarla almeno correndo... - In genere, almeno all’epoca della mia
infanzia, mio padre era
mattiniero e si svegliava sempre all’alba; tuttavia spesso
rimaneva nel letto a
trastullarsi fino all’ora di colazione, prima di chiudersi
nel trainer per
tutto il giorno e rimanerci fino al pomeriggio - io lo spiavo
spesso
bramando il giorno che mi sarei allenato con lui, e osservavo i suoi
movimenti,
notando i suoi orari seppur con vaga consapevolezza e comprendendo poco
responsabilmente quel suo da farsi a cui volevo unirmi -. Quella mattina
in cui
ero svignato alle cure apprensive di mia nonna e mi ero intrufolato
nella
camera dei miei genitori attraverso la fenditura della finestra
socchiusa nel
bagno, avevo scorto per la prima volta i miei nello stesso letto ancora
intontiti dal risveglio, forse reduci da qualcos’altro
– e penso avessero
passato insieme la notte in certi termini intimi di cui non parlo,
perché
ricordo che sul pavimento c’erano dei panni che io avevo
evitato con i miei
passi incerti, capi lasciati per terra con noncuranza, caduti con
fretta -.
Talvolta
mio padre
dormiva solo, qualche volta l’avevo trovato persino sul
divano o su una sdraio
del balcone in piena notte, e per me è sempre stato normale che lui lo facesse. Se mia madre lo raggiungeva a sera inoltrata e quando tutti stavano dormendo - ed io magari fingevo di essermi addormentato da un pezzo - , al
mattino lui si alzava molto presto mentre lei rimaneva nel letto fino a
tardi. Voi
vi chiedere come faccio a ricordarlo… Avevo notato questi
ritmi insoliti nelle
abitudini della mia strana famiglia, ero comunque loro figlio, vivevo a
contatto con loro gran parte della mia esistenza a
quell’età... In effetti,
oggi e col senno di poi, penso che mio padre non fosse abituato a
dormire con
qualcun altro e che la presenza di mia madre lo rendesse più
scattante al
risveglio, come se
ci fosse accanto a lui una persona
di troppo. Eppure negli anni, crescendo, non avevo certo non notato che
i miei
avevano iniziato a dormire insieme molto più spesso e che la
mattina si
alzavano con grande calma: mio padre non era più un
guerriero frenetico e mia
madre non era più la donna in carriera volubile che era
stata nella sua giovinezza. Penso
che la ritrovata maternità, dopo la
nascita di mia sorella, l’avesse rasserenata ulteriormente, e
avevo notato
anche che il rapporto con mio padre era cambiato in certe sfumature,
che lui sorrideva
più spesso, che si isolava meno, che rimaneva con noi
più a lungo in certe
circostanze, che mi coinvolgeva negli allenamenti e nelle sue
conversazioni
adulte più spesso: ero cresciuto, forse mi considerava alla
sua altezza e in
grado di capirlo, e questo mi rendeva contento.
Quella
mattina ad ogni
modo, dopo aver socchiuso la porta del bagno ed aver camminato quatto
quatto
sulla moquet attento a non inciampare nei panni buttati per terra a casaccio, avevo
scorto la
schiena nuda di mio padre sul bordo del materasso e tra le sue gambe
appena scoperte
dal lenzuolo chiaro, altre gambe più sottili e chiare.
Girando attorno al letto
a cui arrivavo a malapena al bordo, avevo visto che mio padre dormiva
e che accanto a lui, a pancia in sotto, riposava anche mia madre. Ed aveva
anche lei
le spalle nude e scoperte. Certo
ai
tempi non avevo colto con malizia la loro nudità celata dal
lenzuolo sciatto,
ma quando mio padre aveva aperto un occhio, perché in
realtà aveva percepito la
mia presenza, ero scappato via con la coda tra le gambe…
Mi
ero vergognato
moltissimo e avevo temuto il momento in cui l’avrei rivisto
durante la
giornata. Mi aveva raggiunto lui poco dopo, captando la mia aura nel
salotto.
“Non
voglio mai più
beccarti a spiare” mi aveva redarguito mentre facevo
colazione e mia nonna
cinguettava in sottofondo come se nulla fosse. “Mi hai
capito, Trunks?”
Avevo
abbassato lo
sguardo annuendo, colpevole…
“Non
volevo farlo, papà”.
“Tu
fa’ in modo che non
riaccada”.
I
miei genitori avevano
una grande e riserbata intimità a cui mio padre teneva
particolarmente. Averla
violata per me era stato un po’ come rubare qualcosa di loro,
un pezzo del loro
amore segreto che io sapevo esistere mentre rimanevo fuori dalla camera
da
letto. Mi ero
sentito a disagio sotto la
sua occhiata severa ma calma, mio padre aveva quello strano e evidente
potere
di farti tremare anche con uno sguardo, con la voce modulata come si
intonano
gli ordini irreprensibili, e solo col tempo ho compreso quanto fosse
radicata
il lui la carriera militare che aveva fatto.
Era
un soldato anche in
famiglia.
Era
schivo e non si
scioglieva, ma dietro quella sua corazza era buono, noi
lo sapevamo, mia madre mi aveva insegnato a capirlo, e
nonostante ci litigasse di frequente, quando lui entrava in una stanza
veniva
attratta da lui come un satellite si lega ad un pianeta a cui vota
l’esistenza:
il loro era un insolito modo di rapportarsi, molto diverso da quello
delle
altre famiglie sotto alcuni aspetti,
ma
nonostante ciò il legame che li univa so che era forte
immensamente. Lo
percepivo anche se non riuscivo né ancora riuscirei a
spiegarlo con chiarezza,
perché era come una carica elettrica che si sente a fior di
pelle. Certe cose
non si possono mettere per iscritto né si possono provare a
raccontare a tono
alto. Certe cose le avverti, sono percezioni che ti rimangono dentro. Come posso spiegare la
profondità con cui mio
padre sapeva guardarla? Io lo spiavo dal basso, delle volte, e sembrava
che i
suoi occhi brillassero di uno strano possesso, e ora che sono un uomo
adulto sono
in grado di comprendere
quelle sfumature
che un legame come il loro faceva affiorare dagli occhi.
Era
il suo modo di
amarla. Lo faceva con gli occhi prima di usare le mani,
perché mio padre non
era un tipo bravo con le parole né tantomeno coi gesti, e
faceva davvero fatica
ad esternare il suo affetto nei nostri confronti, eppure bastava uno
sguardo e
le sue iridi scure sembravano infiammarsi della profondità
dell’universo: posso
leggergli adesso, pur nel ricordo, che talune volte mentre fissava mia madre le
diceva
le cose più belle solo con gli occhi. E lei non cessava mai
di ricambiarlo, ma sembrava fiorisse…
Comunicavano spesso
così, solo guardandosi. E nessuno di noi poteva intromettersi
perché non
conoscevamo quel loro linguaggio.
La
loro intimità era un
avamposto insormontabile e solo mia madre ogni tanto faceva trapelare
la
complicità che li legava: non erano che accenni della sua
esuberanza, momenti
di euforia in cui riusciva a mettergli scherzosamente le braccia al
collo e mio
padre si tendeva a disagio, evitando i nostri sguardi infantili e
importunanti,
perché non l’avevo mai vista stringersi realmente
e con passione a mio padre
fino all’età di diciassette anni. E dirvi che era
stato strano non renderebbe
la sensazione che mi ha pervaso quando come una cosa sola, ho scorto la
loro
sagoma in un unico abbraccio…
Come
vi ho raccontato mio
padre era dovuto andare di nuovo a combattere con Goku ed io, in
quell’occasione,
l’avevo cercato con rabbia perché volevo che lui
mi portasse con sé in battaglia,
che mi osservasse fargli onore mentre mettevo in atto i suoi insegnamenti.
Volevo la
sua stima ottenendola attraverso il combattimento, per me era come
avere la
possibilità di giocarmi l’asso
nell’ultima carta vincente ed essere impedito
nel farlo: lui non mi aveva dato modo di agire, non aveva voluto che lo
facessi, e forse solo la concitazione di mia madre che già
temeva la sua morte
disperandosi, non gli aveva fatto distinguere il mio apprestarmi alla porta. Dall'uscio
semiaperto li avevo poi visti parlare e avevo udito mio padre zittirla. Ero divenuto testimone di qualcosa che non mi avrebbero fatto
vedere
diversamente… Avevo dovuto spiarli pur senza volerlo, per
sapere…
“Piantala
di
preoccuparti. Non posso fare altro che andare, che cosa pretendi che faccia, che
rimanga
qui a guardare?”
“Non
dimenticarti che i
tuoi figli ti amano, se te ne vai sai quanto gli mancherai?”
Lei aveva abbassato
gli occhi. “E quanto mancherai a me?”
Mia
madre gli aveva parlato di mancanza e non nego che mi aveva fatto molto
strano
sentirla rivolgersi così a mio padre, la roccia austera
capace di resistere
forse a tutto ma non al suo volto.
“Non
posso rinnegare
quello che sono. E se vado è anche perchè quella
bestia prima o poi vi ammazza,
lo sai che i terrestri non sono in grado di fermarla”.
Mia
madre si era girata
facendo una smorfia infelice e aveva poggiato la fronte e i pugni
contro il
muro, come se cercasse da quell’appiglio la forza. Mio padre
in silenzio invece
le aveva preso una spalla e l’aveva costretta a voltarsi. E poi contro il muro le
aveva detto qualcosa
che non avevo distinto, forse un guardami
a cui mi madre aveva risposto alzando solo lo sguardo.
Piangeva.
“Non
trattarmi come se
fossi una debole… Non lo sopporto” lo aveva
redarguito con la voce tremante.
La
dolcezza di mia
madre era infinita, ma nonostante ciò rimaneva immutata la
sua forza interiore,
quella sua percepibile grinta che la rendeva capace di essere la moglie
di un
uomo come mio padre.
Lui
dal canto suo l’aveva
guardata un lungo istante, poi con le dita ruvide aveva cancellato la
scia di
lacrime sulla sua guancia e mia madre in risposta aveva posato le mani
sul suo
petto. Era stato strano vederli comportarsi con quella franchezza, con
quel
sentimento che non avevo mai scorto, non così, non con tale
spudoratezza che
per gli altri era parte della normalità e per me invece
dell’assurdo. Con le
orecchie spalancate e con avidità, nascosto dietro la
striscia di luce che
proveniva dalla porta, avevo spiato quel momento cercando di sentire i
loro
discorsi. Stavo venendo meno agli ordini di mio padre. Li stavo spiando di nuovo, come tanti anni prima...
“Tu
sei forte dentro,
donna.”
La
chiamava così ogni
tanto, lo faceva quando in lui il principe saiyan prendeva il
sopravvento,
quando si arrabbiava o quando le stava dicendo qualcosa di importante.
Era lo
strano modo di esprimersi di mio padre, di rappresentare il suo secondo
volto,
di sentirsi ancora nel proprio mondo antico, vicino alle sue radici
guerriere.
Ciò che si apprende in infanzia del resto è duro
a morire nella mente.
E
credo che in rimando
mia madre gli avesse mormorato abbracciami
, non riuscivo a leggerle con chiarezza le labbra ma mi era sembrato di
interpretare così quel movimento, perché mio
padre all’improvviso le aveva
preso le spalle, le aveva agguantate con decisione come se volesse fare qualcosa, ma lei l'aveva anticipato e dopo qualche istante gli si era stretta addosso. Non saprei neppure descrivere
com’è stato
vedere le mani di mio padre, il guerriero capace di trucidare
impietosamente,
aggrappate alla schiena di mia madre con quella forza, come se volesse
distruggersi con lei; scorgere i polpastrelli ruvidi e callosi
stringere il
tessuto della canotta e
poi cogliere -
con timidezza che ancora sento - il suo capo selvaggio avvicinarsi al
suo volto
e vederlo insinuare il naso tra i suoi capelli, all’altezza
dell’orecchio.
Aveva annusato in un respiro il suo odore, lo avevo visto,
l’aveva respirato
come si inspira l’aria in alta montagna: a polmoni
completamente aperti,
profondamente, e mia madre l’aveva stretto a sua volta con
le braccia
aggrappate alla sua schiena enorme senza riuscire a trattenerlo. E
giuro che
abbracciandola con quella forza disperata sembrava averle urlato sei la luce della mia vita in tutte le
lingue
del mondo ma con una fierezza immane e assurda.
“Non
aspettarmi, Bulma”.
Gliel’aveva
detto come
si pronuncia un verdetto o una condanna, con quel tono assolutista di
un
monarca che mio padre sapeva avere all’occorrenza, ma so che
era stato il suo
modo di dirle che l’amava senza provare vergogna. Non aveva
aggiunto
nient’altro, aveva preso da lei le distanze trovando il suo sguardo
disperato che
aveva ricambiato con serietà assoluta e inequivocabile. Se
ne stava andando,
niente di più facile per mio padre l’averla
così distrutta, con quella scelta. Ne sono stato certo dopo aver visto negli occhi di mia madre guizzare una luce d'ansia e disperazione.
Lei aveva cercato
di trattenerlo con la forza di parole che erano uscite dalla sua bocca e dall'espressione amareggiata con rabbia e tristezza. “Le vostre guerriere seguivano
i loro compagni in battaglia… No? Per te sono solo un peso perchè sono una
terrestre, non è così?”
Lui
si era fermato
sull’uscio calamitato da un qualche pensiero sorto nella sua
mente senza
preavviso, scoppiato come una stella che collassa, e si era girato
verso di lei.
Una parte del mio cuore aveva sperato che avesse cambiato idea, che
forse il
suo orgoglio immenso lo lasciasse cedere alla richiesta di mia madre di rimanere, ma mio
padre le aveva
solo lanciato uno sguardo strano, complice eppure duro, e ricordo la sua
voce ferma e sicura, senza un minimo
accenno di
debolezza. Aveva un tono profondo.
“Tu
per me non sei
una guerriera o una terrestre. Tu sei mia
moglie. È molto
diverso”.
Continua…
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