Le confidenze del silenzio

di Proiezioni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


 Le confidenze del silenzio.

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Mio padre era un uomo molto particolare. Non era un terrestre, non propriamente e nel vero senso del termine. Lui era un saiyan, una razza dello stesso ceppo di mammiferi a cui appartenevano gli uomini della Terra. I geni dei saiyan e dei terrestri potevano essere assemblati nell’accoppiamento, perché ciò che distingueva i primi dai secondi era solo la forza ed il temperamento, un gene che rendeva diverse le potenze muscolari, il metabolismo, favorendo la mutazione in scimmia. Tuttavia il numero di cromosomi era identico.

Mia madre, scienziata molto importante nel settore tecnologico e leader di un’azienda tra le più conosciute della Terra, si era innamorata di lui al tempo in cui mio padre era reduce da una lunga guerra, mercenario dal comportamento abbietto e uomo temuto in lungo e in largo per le basi aliene dove aveva vissuto la sua adolescenza. Un condannato agli occhi di tutti, lui, che da quelli di mia madre invece era stato redento nell'illogica follia d'amore, o per qualche motivazione che il senso non lo trovava, perchè in certe circostanze solo la chimica può spiegare con le sue leggi - ed era stata proprio mia madre, la donna romantica e sicura di se stessa ad avermelo detto. La loro storia per gli altri era strana e loro due troppo diversi, ma erano stati gli impulsi a legarli. Impulsi molto forti. -. Mio padre era andato via mentre io stavo nascendo, ci aveva lasciato, ma poi era tornato e mia madre non gli aveva rinfacciato niente, non ne aveva avuto il bisogno. Lei mi aveva raccontato anni dopo che mio padre aveva solo provato a scappare, che aveva tentato di tornare quello che era stato un tempo e aveva fallito, perchè io ero troppo importante e lui troppo orgoglioso per dirlo. Lei lo aveva amato troppo per voltargli le spalle, lo aveva conosciuto troppo profondamente per dimenticarlo, per questo lo aveva voluto ancora, senza paura, persino con rabbia, ma di un amore che era parso ad ogni amico assurdo, inconcepibile, disdicevole. Come si poteva amare un guerriero brutale, un mercenario scaltro che aveva seminato attorno a sé solo morte? Che ci aveva lasciati, che si era votato solo alla guerra... Lui, principe fiero ed orgoglioso di un’antica stirpe di guerrieri temuta e rispettata in ogni meandro dell’universo, seminatore di guerre e di paura, accolto e amato da una donna che fino a pochi mesi prima avrebbe ammazzato senza rimorso. Lui, mio padre, quello a cui nessuno osava mancare di rispetto.

Mia madre – intessendo i ricordi del passato con parole frementi di una tacita emozione ancora persistente nel tempo, aveva raccontato con sfolgorio negli occhi di loro , di noi- lo aveva ospitato a casa offrendogli una dimora temporanea, sedotta dalla sua bellezza grezza, dal suo silenzio opprimente e dallo sguardo tormentato. Sembrava un uomo provato - mi aveva detto - , ed invero lo era. Ma quello stato di temporaneità era mutato, come del resto nella vita muto tutto, in uno stato perenne: nonostante le sue stranezze, le dipartite da casa improvvise, le assenze per allenarsi o solo per corroborarsi nella misantropia del suo strano modo di essere, mio padre tornava sempre indietro, a casa. Non che facesse ricomparsa con delle rose né tantomeno con un sorriso stampato sulla faccia. Rincasava con tranquillità, con finta indifferenza, con fierezza e superiorità senza salutare nessuno. E mia madre lo aspettava come io lo aspettavo pieno di speranza. E ora sono certo tornasse sempre e innanzi tutto per lei.

Percorreva di nuovo i corridoi con passo lento, cadenzato, quasi militaresco, guardandosi attorno con calma come volesse cogliere se tutto fosse al proprio posto così come quando era partito, perchè in fondo non era poi estraneo totalmente alla vita della nostra insolita famiglia, e la prima cosa che faceva era cercare mia madre, sempre in silenzio, sempre composto. E quando la trovava per un attimo la guardava negli occhi poggiato allo stipite della porta con una serietà strana e profonda, senza mai un sorriso, e le iridi scure si attaccavano su di lei con un'intensità così divorante che io piccolo, dall'esterno, non avrei voluto essere al suo posto.

Era il suo modo di salutarla, di dirle sono tornato...

Le prime volte, al tempo in cui avevo iniziato a fare le domande tipiche dei bambini di quattro anni e poi a comprendere il peso della sua assenza, ero convinto che ci avrebbe abbandonati, ma poi in me una strana e imperitura sicurezza mi aveva rasserenato convincendomi che lui sarebbe tornato prima o dopo, che fosse decorsa una settimana, un mese o due giorni io lo avrei visto percorrere il ciottolato di casa o riaprire una finestra all'inverso. Mia madre aveva rafforzato le mie certezze e lenito i miei dubbi infantili col tempo e la pazienza, perché lei conosceva qualcosa di lui oscuro ad ogni altro, persino a me che ero suo figlio. All’epoca non sapevo cosa condividessero e quanta intimità tra loro ci fosse, non potevo dare contorni neppure sfuggevoli a mio padre nel letto di mia madre, il suo corpo nudo intrecciato al suo così esile, magari a sussurrarle con quel suo tono serio e profondo parole segrete, troppo loro per poter essere ipotizzate dalla mia mente estranea al loro rapporto intenso e burrascoso, di sicuro bollente come i loro temperamenti, e avrei potuto giurare - infantile com'ero del resto - che si volessero bene così, limitandosi a discutere e a parlare come due conoscenti, e magari a dormire nella stessa stanza senza fare altro. Non avevo mai visto mio padre, quel guerriero indomito e duro, elargire un gesto di affetto. Non gli aveva mai sentito dire cose carine verso di noi nè tantomeno rivolgersi a lei che era sua moglie con l'atteggiamento di un amante, ma coglievo il suo rispetto nei suoi confronti, la stima che provava verso quella donna che gli teneva testa, e per contro leggevo negli occhi di mia madre una determinazione a stargli accanto che mi levava le parole di bocca: non aveva avuto mai paura che lui se ne andasse? Era sempre così serio e silenzioso, così autoritario e impenetrabile. Sembrava essere in grado di insinuare timore persino nei muri che gli erano attorno. Io lo avevo temuto, i nostri amici lo avevano temuto e persino gli estranei che lo incrociavano si sentivano a disagio quando lui era nei paraggi, ma non mia madre. Lei non aveva mai avuto paura del suo sguardo. Invero gli aveva sempre parlato come se di lui conoscesse ben altro, rivolgendogli la parola con confidenza, con schiettezza che io non osavo neppure immaginare di usare, e ovviamente era così: ero io, eravamo noi, noi altri, a non conoscere l'altra faccia del suo volto, il viso che lui celava dietro l'austera maschera e che mia madre invece scorgeva quando quella maschera gliela sfilava, e non so in che modo ma di sicuro con suadenza, con quell'abilità che proviene da un potere tutto femminile, perchè sapeva come irretirlo, come fregarlo, e a me sembrava assurdo - ed in parte ancora adesso mi appare quasi bizzarro - che lui le cedesse, che sapesse dimostrarle con le mani e con la bocca quanto la amasse. Era stato un sanguinario, mio padre, era nato per essere una macchina da guerra che proprio non sembrava a proprio agio nell'elargire un abbraccio. Aveva un nome, un nome importante che faceva anche tremare e che invece mia madre pronunciava con gentilezza. Lei gli sorrideva, lo faceva spesso anche dopo averci litigato come fosse un uomo qualunque, come non fosse la belva che in fondo mio padre era, e lui non ricambiava il suo sorriso ma gli leggevo negli occhi quello che oggi so essere un sentimento forte, importante più di una sola voglia d'amante. Il sorriso di mia madre gli piaceva, lo rabboniva come un sedativo, gli entrava dentro e dentro esplodeva: lui ne era geloso, non lo diceva nè in apparenza lo apprezzava, forse lo disprezzava più concretamente, ma nonostante tutto lo custodiva e io ho imparato a capirlo, perchè mio padre sapeva esprimersi molto bene con la forza dello sguardo e il suo silenzio talvolta urlava parole che solo noi intimi riuscivamo ad udire chiaramente. Sono questi i segreti di famiglia del resto, il potere dei legami di sangue che ci inchiodano l'uno all'altro anche quando il collante è rabbia, non solo amore, paura, rispetto. E io li avevo provati tutti. Avevo vissuto tutti quei sentimenti mentre cercavo di conoscere mio padre, di farmi spazio nella sua oscurità cercando di sondarla, di non perdermi insieme ai dubbi del bambino e dell'adolescente che ero stato.

Poi un giorno di inverno mentre la pioggia rendeva fangoso il giardino, la nebbia si addensava sulla strada ed io giocherellavo con la penna senza riuscire a concentrarmi, osservando l'incedere del grande guerriero che mio padre era, avevo compreso in silenzio tutto quello che a voce non poteva essere detto, spiegato, raccontato. Guardavo mia sorella tornare di corsa con quel modo impacciato di camminare da infante, e mio padre starle dietro tranquillo, senza cercare riparo nell'ombrello, tenerla d'occhio mentre rincasava ridendo al vocio di mia madre che le ordinava di sbrigarsi: era ancora un bell'uomo, non era invecchiato, e nonostante tutto non aveva mai cercato un'altra donna. Era stato un compagno molto fedele, mia madre diceva che lo avrebbe potuto lasciare circondato da belle donne senza temere un suo tradimento. E sembrava strano ma era vero. Per mio padre le altre donne non esistevano, non le degnava neppure di uno sguardo che non fosse puramente valutativo. E allora avevo iniziato a capire, avevo percepito le strane confidenze del silenzio, sembrava fosse stata proprio quella pioggia a sussurrarle. Avevo compreso il loro segreto e lo avevo iniziato a custodire come quanto di più prezioso esistesse: mio padre non lo diceva, ma mi amava, come del resto amava in una maniera smisurata ed orgogliosa mia madre. Il suo sacrificio contro MajinBu mi era rimasto dentro, mi aveva lacerato e rafforzato allo stesso tempo, rendendomi fiero di essere suo figlio nonostante mio padre vantasse un curriculum abbietto e deprecabile che al tempo ignoravo: allora ero troppo piccolo per sapere cosa lui avesse fatto, ma quando ne ero diventato cosciente non avevo smesso di adorarlo. Mi era bastato sentirgli raccomandare a me, piccolo uomo che doveva crescere, solo una volta nella vita le cure materne ed era stato come se mi avesse rivelato tutto ciò che non aveva mai detto. Mio padre era scorbutico, vantava un pessimo carattere, i rapporti sociali e familiari per lui erano come acqua e olio a contatto, eppure possedeva il dono di ottenere un grande risultato con un solo piccolo gesto. Il suo amore per me e per mia madre era ineguagliabile, e anche nell'ultimo momento della sua vita, pieno di fierezza e di voglia di andare in battaglia, senza paura di morire, aveva conservato nel cuore il sorriso di mia madre, quello che si custodiva dentro, che non ricambiava mai... Quello che io sapevo conservava in sè con riserbo, gelosamente. La sua bocca taceva, non esternava mai il suo affetto nei nostri confronti come se lo temesse, ma i suoi occhi ardevano di una verità bruciante quando compariva di nuovo da una delle sue improvvise assenze e ci rivolgeva lo guardo: eravamo la sua condanna, glielo leggevo negli occhi, ma eravamo anche la casa in cui ritornare di punto in bianco senza dare spiegazioni a nessuno, atteso da tutti con il sorriso sulle labbra, e nonostante l’autorità severa con cui mi educava e l'insofferenza con cui trattava mia madre in apparenza, ci era legato distruttivamente.

A mia madre legato con il cuore, con la parte più pulsante e infuocata della carne, e a me e a mia sorella legato con il sangue. In ambo i casi, tuttavia, rimaneva legato in maniera irreversibile a quella che era la sua famiglia.

Lo avevamo cambiato. Non poteva più tornare indietro pur desiderando essere ancora libero come lo era stato un tempo. So bene che per lui eravamo come catene, e che i saiyan sono troppo impavidi e selvaggi per tollerarle.  

 

 

Continua…

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Capitolo 2
*** 2 ***


Preciso che questo breve racconto si colloca nella serie Z ma anche in universo what if, poichè ci sono riferimenti astratti ed ipotetici non trattati da Toryama, poichè la serie Z finisce quando Bra ha circa 6 anni ed io mi sono divertita a fare allusioni su possibili e poco chiari risvolti del loro futuro .

Buona lettura!

2.

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Mio padre aveva fatto la guerra. Noi non l’avevamo fatta. Era questa la differenza che ci rendeva così diversi e che si coglieva nelle sfumature indurite del suo carattere: i dolori interiori, le botte, la rabbia, la sete di vendetta e di gloria avevano ulteriormente rafforzato una corazza di orgoglio che fin da bambino aveva caratterizzato il suo carattere - era stato lui ad avermi rivelato qualcosa di quando era stato un infante, dipanando la totale oscurità che gravava sul suo passato e che lui nascondeva per riserbo o per pudore, non avrei saputo dirlo, ma non penso che mio padre si vergognasse di ciò che aveva fatto, forse si sentiva troppo superiore per raccontarlo -. Era un veterano, un uomo di quelli che si guarda sempre con rispetto, ma era anche un capo che la guerra l’aveva portata insieme al vessillo di un crudele tiranno per cui aveva lavorato per anni, perché mio padre era stato un mercenario. E mercenario significa vendere la propria violenza.

Non gli faceva onore tutto ciò nè gli rendeva omaggio. Eppure noi lo omaggiavamo come un uomo grande, perché realmente lui era per noi troppo importante. Aveva fatto vibrare la terra con l’apprestarsi dei suoi passi quando il vento faceva ululare il suo nome nelle valli, aveva fatto penare eserciti col suo arrivo sul campo, aveva fatto paura alle genti e il suo nome non era stato dimenticato nei meandri dell’universo.

Ora cos’era diventato mio padre? Un uomo normale, in apparenza, un padre di famiglia tranquillo, un tipo ombroso e poco loquace ma presente. Lo avevamo reso umano, o forse eravamo riusciti a far placare la parte più selvaggia che albergava in lui come un diavolo che dorme. Ma che non è morto.

Un vulcano quiescente. Non spento. Mio padre era questo.  Gli ardeva negli occhi una fiamma di desiderio di guerra che solo quando mi ci ero scontrato negli allenamenti avevo scorto: se lo sfidavo, come lui mi chiedeva di fare provocando il guerriero che era in me, e lo combattevo sempre con quel reverenziale timore di mancargli di rispetto – non mi sarei mai permesso di farlo, un po’ per via dell’educazione che avevo ricevuto, un po’ per paura, lo ammetto – il principe che era in mio padre sembrava prendere coscienza in una sorta di dormiveglia, ma non si svegliava mai del tutto, forse era lui stesso ad impedirgli di farlo, forse la sua parte umana lo tratteneva in quello strano sonno in cui fluttuava come in un mare tempestoso da anni. Non riemergeva, ma io avevo scorto più volte la sua ombra avvicinarsi alla superficie di quella precaria pazienza.

Mia madre non era mai sembrata preoccuparsi della cosa, invero faceva finta di niente trattandolo sempre con gentilezza e affrontandolo anche con un grande coraggio. L’avevo ammirata molto per questo, per me lei era stata il rifugio, ma anche l'appiglio da cui trarre la forza, la sicurezza,  perché non era facile trovare qualcuno in grado di tenere testa ad un uomo com’era stato mio padre. Lui avrebbe potuto ammazzare per orgoglio, avrebbe potuto ammazzare anche solo per rabbia, senza mai rifuggire un tale peccato con la coda tra le gambe: aveva avuto sempre un coraggio smisurato ma anche una gran voglia di tornare all’inferno per cercare gli avversari che lo stavano ancora insultando.

Mia madre invece aveva cercato sempre di trattenerlo, di rabbonire quel guerriero impavido che dietro la corazza di orgoglio e di fierezza, e persino di una timidezza spessa come la patina d’ombra dei suoi occhi, aveva un cuore grande, un cuore ferito, un cuore rinnegato per anni, ripudiato, esiliato, dimenticato… Un cuore che mio padre aveva ritrovato, o forse solo scoperto, quando era stata mia madre a risvegliarlo. 

Aveva battuto per lei, quel cuore...  Aveva pulsato per lei, di questo ne ero certo, come il giorno in cui per me e per lei mio padre era andato a fare la guerra, sacrificandosi per salvarci, barattando la sua vita di cui forse era persino stanco perché si preservasse la nostra. Ci aveva salvati comunque, anche se la guerra ci aveva poco dopo distrutto.

Lui ci aveva salvati dalla sua indifferenza.  

Mia madre lo aveva pianto disperatamente e per la prima volta forse chi ci era attorno si era accorto di quel legame forte e intenso, perché neppure io avrei saputo definirlo diversamente. A casa mia la vita era stata tranquilla, la coppia dei miei genitori turbolenta, ma nonostante i continui litigi nessuno dei due si era mai voltato le spalle e aveva detto basta. Si amavano. A volte li avevo visti parlare con una strana tranquillità, in quell’insolita intimità in cui raramente venivo coinvolto: erano riserbati amanti, i miei genitori, e non che mia madre fosse timida, piuttosto era risaputa la sua esuberanza, sono a conoscenza che al tempo della sua giovinezza era stata con Yamcha e che si era persino parlato di sposarsi, ma la sua discrezione era il filo con cui era riuscita ad irretire mio padre ancorandolo a questo posto che noi chiamiamo casa, e se a volte lo metteva a disagio volutamente come per sfidarlo, e noi ne ridevamo complici, invero mia madre controllava fin troppo se stessa: aveva gli slanci di una bambina, l’animo romantico di una sognatrice, la dolcezza di un’adolescente che con lui non veniva a galla. Anche mia madre aveva dovuto sacrificare qualcosa di importante per avere quell'uomo al proprio fianco, e ciò che aveva sacrificato per amore era una parte di se stessa.

Era una donna forte. Per amore di mio padre avrebbe fatto di tutto, e forse era stato proprio quell’amore devastante a conquistarlo. Com’era stato per lui sentirsi amato a quel modo, in quella maniera viscerala, profonda, ritrovarsi gli occhi di mia madre addosso nella camera da letto, a venerarlo, e poi in un salotto, a sfidarlo.  Immaginarli insieme mi aveva fatto sempre accapponare la pelle, ma credo sia una forma di orticaria che colpisce tutti noi figli. Il sesso non è roba pudica, è una cosa sporca, cruda ed esplicita come lo è la carne senza gli abiti addosso. Non potevo ipotizzare - e neppure adesso riesco a farlo concretamente – che loro due condividessero il letto, che mi avessero concepito per sbaglio, come frutto di una passione incontrollata che aveva avuto una conseguenza imprevista.

E quella conseguenza ero io.

Non so se mio padre sarebbe rimasto se io non fossi nato, a dire il vero me lo sono sempre chiesto. Mia madre mi aveva raccontato di un mio alter ego, di un altro me che era venuto da un futuro diverso cercando di aiutarci. Io iniziavo a muovere i primi passi all’epoca in cui egli era giunto, non posso ricordarlo, ma lei mi aveva rivelato, perché a sua volta le era stato riferito da Yamcha, che quando quel Trunks era morto mio padre si era arrabbiato ferocemente. E solo l’idea mi fa sentire ancora importante. Significare qualcosa per mio padre non può essere da me quantificata con nessun prezzo. I suoi rari segni di affetto, timidi ma profondi, mi hanno segnato dentro, me li sono portati con me tutta la vita, li ho stampati nella mia mente in un posto dove non esiste l’annientamento.  Quei ricordi mi riscaldano quando nei momenti di solitudine e di malinconia mi ritrovo a cercarli, sentendomi ancora un adolescente e percependo mio padre accanto, presente, pur se chiuso in un silenzio perenne.

Al tempo in cui giunse un nuovo nemico sulla Terra, teatro di sventure ormai perenni, mio padre come sempre aveva risposto alzandosi in piedi al grido della battaglia. Non si tirava mai indietro davanti a nessuna guerra, era sempre pronto per questo, combattere e morire non gli faceva paura né gli insinuava un brivido di debolezza, e costantemente mi rammentava che neppure io dovevo averne, che il più grande onore per un guerriero è morire in battaglia.

Eppure aveva tradito le sue parole severe e importanti, era venuto a meno ai precetti con cui mi aveva educato in quell’epoca moderna dove lui sembrava un pezzo d' antichità fuori posto: non mi aveva portato con sé… Mi amava troppo. Io, mia madre e mia sorella eravamo diventati il suo tallone d’Achille, il punto debole della sua ignobile e travagliata esistenza: mio padre era stato venduto da suo padre quando era un bambino; era stato venduto come una mera merce di scambio e come principe lui aveva rappresentato la garanzia di un freddo patto; poi aveva perso tutto, un giorno di neppure un anno dopo che prendeva gli ordini di Freezer, il suo popolo era stato distrutto. E un principe senza popolo è principe solo del niente.

Avevano cercato di togliergli il nome mandandolo a viversi tutte le guerre, forse sperando che lui lì perisse, ma alla fine lo avevano reso un ramingo nell’universo, perchè lui non era morto, perchè la guerra non l'aveva distrutto, perchè quel suo nome significava regale, significava avere sangue blu dentro la carne e mio padre era un principe fiero e indomito dentro, anche se i suoi geni non erano stati diversi da quelli di Goku o di Gohan, o di qualcun altro, e nelle radici della sua esistenza c’era la storia di un’antica famiglia, di un popolo forte, bellicoso, violento; c’era la storia di una razza di guerrieri che quel mestiere spietato lo avevano scritto nel sangue come una condanna. Alla fine era tornato libero, aveva cessato di prendere ordini, e rinunciare a combattere per mio padre era stata una scelta, un sacrificio, una privazione profonda e importante; era stato come strappare una parte di quelle radici, come cercare di uccidere una parte di se stesso. Quello che l’aveva salvato era stato l’amore di mia madre, così serena, costante, presente, il soporifero per la belva infuocata che mio padre aveva imprigionato e che ferocemente si era mossa per anni come la tigre in una gabbia che guarda oltre le sbarre.   

“Mi vuole bene?” Ricordo di averlo chiesto a mia madre quando avevo sei anni.

“Te ne vuole molto” mi aveva risposto lei con sicurezza. “Solo non è bravo a dimostrarlo. Non dubitare mai dei suoi sentimenti. Le persone che nella vita ti circonderanno, non sempre saranno quello che sembrano in apparenza.”

“Tu come fai a saperlo?”

“Perché lo so”.

E mi aveva sorriso. E ora so che dietro quel sorriso, dietro quella sua sicurezza c’era l’abbraccio di mio padre, la sua stretta silenziosa e ferrea ma totale e rassicurante. So che la notte, quando nessuno osava intromettersi in quella loro intimità proibita a chiunque, lui doveva abbracciarla. E invero una sola volta nella vita l’avevo visto farlo, ed era stato quando era andato via ancora una volta per difenderci, allontanandosi da casa sempre con quella fierezza, con quell’orgoglio che gli impediva di dimostrarci quanto fossimo importanti. Mia sorella all’epoca aveva sette anni, io poco più del doppio ed ero ormai pronto a combattere anche in una grande battaglia, al fianco di mio padre - e quando avevo bramato quel momento, voi non potete immaginarlo -.  Mi ero aspettato lui mi portasse con sé, ma invero non mi aveva chiesto di seguirlo e me lo aveva impedito duramente, perché nel suo cuore, pur senza avermelo detto, voleva che la parte di lui che in me stava vivendo rimanesse a vegliare su sua moglie.

Come poteva amarla così smisuratamente e trattenerlo? Come riusciva a non darlo a vedere se era così forte il proprio amore nei suoi confronti? Mentre mia madre si affannava per non perderlo, cercando di farlo desistere dall'andare in battaglia, avevo scorto mio padre compiere per la prima volta un gesto spontaneo di affetto.  Avevo diciassette anni. Ricordo bene quello che ho visto.

 

Continua…

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.

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Non so di preciso come i miei dormissero. Non so se riposassero abbracciati, a cucchiaio o dandosi le spalle. Quando ero piccolo li avevo scorti qualche volta nella stessa stanza al mattino o di sera tardi se facevo storie per addormentarmi, in genere aprivano la porta quando erano completamente svegli e mio padre se ne stava ancora buttato sul letto in pantaloncini. Avevo all’incirca cinque anni quando mi intrufolai attraverso la finestra dopo essermi arrampicato lungo il cornicione. Ero sfuggito al controllo di mia nonna mentre rimboccava le lenzuola dei letti e sistemava la stanza, penso fossero le otto di mattina su per giù, a dire il vero non lo ricordo con precisione ed il mio è un ricordo poco chiaro ma comunque ancora impresso nella mia mente: avevo l’indole selvaggia e paterna che mi scorreva nel sangue, spingendomi ad assecondare impulsi pericolosi anche se i miei non sembravano eccessivamente preoccuparsene. Probabilmente davano per scontato avessi la pelle coriacea e non si davano pena all'ipotesi che io cadessi malamente o mi rompessi qualcosa correndo da una parte all'altra della casa come un tornado incontenibile - e l'energia di mio padre d'altronde, dovevo pur spurgarla almeno correndo... - In genere, almeno all’epoca della mia infanzia, mio padre era mattiniero e si svegliava sempre all’alba; tuttavia spesso rimaneva nel letto a trastullarsi fino all’ora di colazione, prima di chiudersi nel trainer per tutto il giorno e rimanerci fino al pomeriggio - io lo spiavo spesso bramando il giorno che mi sarei allenato con lui, e osservavo i suoi movimenti, notando i suoi orari seppur con vaga consapevolezza e comprendendo poco responsabilmente quel suo da farsi a cui volevo unirmi -. Quella mattina in cui ero svignato alle cure apprensive di mia nonna e mi ero intrufolato nella camera dei miei genitori attraverso la fenditura della finestra socchiusa nel bagno, avevo scorto per la prima volta i miei nello stesso letto ancora intontiti dal risveglio, forse reduci da qualcos’altro – e penso avessero passato insieme la notte in certi termini intimi di cui non parlo, perché ricordo che sul pavimento c’erano dei panni che io avevo evitato con i miei passi incerti, capi lasciati per terra con noncuranza, caduti con fretta -.

Talvolta mio padre dormiva solo, qualche volta l’avevo trovato persino sul divano o su una sdraio del balcone in piena notte, e per me è sempre stato normale che lui lo facesse. Se mia madre lo raggiungeva a sera inoltrata e quando tutti stavano dormendo - ed io magari fingevo di essermi addormentato da un pezzo - , al mattino lui si alzava molto presto mentre lei rimaneva nel letto fino a tardi. Voi vi chiedere come faccio a ricordarlo… Avevo notato questi ritmi insoliti nelle abitudini della mia strana famiglia, ero comunque loro figlio, vivevo a contatto con loro gran parte della mia esistenza a quell’età... In effetti, oggi e col senno di poi, penso che mio padre non fosse abituato a dormire con qualcun altro e che la presenza di mia madre lo rendesse più scattante al risveglio, come se ci fosse accanto a lui una persona di troppo. Eppure negli anni, crescendo, non avevo certo non notato che i miei avevano iniziato a dormire insieme molto più spesso e che la mattina si alzavano con grande calma: mio padre non era più un guerriero frenetico e mia madre non era più la donna in carriera volubile che era stata nella sua giovinezza.  Penso che la ritrovata maternità, dopo la nascita di mia sorella, l’avesse rasserenata ulteriormente, e avevo notato anche che il rapporto con mio padre era cambiato in certe sfumature, che lui sorrideva più spesso, che si isolava meno, che rimaneva con noi più a lungo in certe circostanze, che mi coinvolgeva negli allenamenti e nelle sue conversazioni adulte più spesso: ero cresciuto, forse mi considerava alla sua altezza e in grado di capirlo, e questo mi rendeva contento.

Quella mattina ad ogni modo, dopo aver socchiuso la porta del bagno ed aver camminato quatto quatto sulla moquet attento a non inciampare nei panni buttati per terra a casaccio, avevo scorto la schiena nuda di mio padre sul bordo del materasso e tra le sue gambe appena scoperte dal lenzuolo chiaro, altre gambe più sottili e chiare. Girando attorno al letto a cui arrivavo a malapena al bordo, avevo visto che mio padre dormiva e che accanto a lui, a pancia in sotto, riposava anche mia madre. Ed aveva anche lei le spalle nude e scoperte.  Certo ai tempi non avevo colto con malizia la loro nudità celata dal lenzuolo sciatto, ma quando mio padre aveva aperto un occhio, perché in realtà aveva percepito la mia presenza, ero scappato via con la coda tra le gambe…

Mi ero vergognato moltissimo e avevo temuto il momento in cui l’avrei rivisto durante la giornata. Mi aveva raggiunto lui poco dopo, captando la mia aura nel salotto.

“Non voglio mai più beccarti a spiare” mi aveva redarguito mentre facevo colazione e mia nonna cinguettava in sottofondo come se nulla fosse. “Mi hai capito, Trunks?”

Avevo abbassato lo sguardo annuendo, colpevole…

“Non volevo farlo, papà”.

“Tu fa’ in modo che non riaccada”.

I miei genitori avevano una grande e riserbata intimità a cui mio padre teneva particolarmente. Averla violata per me era stato un po’ come rubare qualcosa di loro, un pezzo del loro amore segreto che io sapevo esistere mentre rimanevo fuori dalla camera da letto.  Mi ero sentito a disagio sotto la sua occhiata severa ma calma, mio padre aveva quello strano e evidente potere di farti tremare anche con uno sguardo, con la voce modulata come si intonano gli ordini irreprensibili, e solo col tempo ho compreso quanto fosse radicata il lui la carriera militare che aveva fatto.

Era un soldato anche in famiglia.

Era schivo e non si scioglieva, ma dietro quella sua corazza era buono, noi lo sapevamo, mia madre mi aveva insegnato a capirlo, e nonostante ci litigasse di frequente, quando lui entrava in una stanza veniva attratta da lui come un satellite si lega ad un pianeta a cui vota l’esistenza: il loro era un insolito modo di rapportarsi, molto diverso da quello delle altre famiglie sotto alcuni aspetti,  ma nonostante ciò il legame che li univa so che era forte immensamente. Lo percepivo anche se non riuscivo né ancora riuscirei a spiegarlo con chiarezza, perché era come una carica elettrica che si sente a fior di pelle. Certe cose non si possono mettere per iscritto né si possono provare a raccontare a tono alto. Certe cose le avverti, sono percezioni che ti rimangono dentro.  Come posso spiegare la profondità con cui mio padre sapeva guardarla? Io lo spiavo dal basso, delle volte, e sembrava che i suoi occhi brillassero di uno strano possesso, e ora che sono un uomo adulto sono in grado di  comprendere quelle sfumature che un legame come il loro faceva affiorare dagli occhi.

Era il suo modo di amarla. Lo faceva con gli occhi prima di usare le mani, perché mio padre non era un tipo bravo con le parole né tantomeno coi gesti, e faceva davvero fatica ad esternare il suo affetto nei nostri confronti, eppure bastava uno sguardo e le sue iridi scure sembravano infiammarsi della profondità dell’universo: posso leggergli adesso, pur nel ricordo, che talune volte mentre fissava mia madre le diceva le cose più belle solo con gli occhi. E lei non cessava mai di ricambiarlo, ma sembrava fiorisse…

Comunicavano spesso così, solo guardandosi. E nessuno di noi poteva intromettersi perché non conoscevamo quel loro linguaggio.

La loro intimità era un avamposto insormontabile e solo mia madre ogni tanto faceva trapelare la complicità che li legava: non erano che accenni della sua esuberanza, momenti di euforia in cui riusciva a mettergli scherzosamente le braccia al collo e mio padre si tendeva a disagio, evitando i nostri sguardi infantili e importunanti, perché non l’avevo mai vista stringersi realmente e con passione a mio padre fino all’età di diciassette anni. E dirvi che era stato strano non renderebbe la sensazione che mi ha pervaso quando come una cosa sola, ho scorto la loro sagoma in un unico abbraccio…

Come vi ho raccontato mio padre era dovuto andare di nuovo a combattere con Goku ed io, in quell’occasione, l’avevo cercato con rabbia perché volevo che lui mi portasse con sé in battaglia, che mi osservasse fargli onore mentre mettevo in atto i suoi insegnamenti. Volevo la sua stima ottenendola attraverso il combattimento, per me era come avere la possibilità di giocarmi l’asso nell’ultima carta vincente ed essere impedito nel farlo: lui non mi aveva dato modo di agire, non aveva voluto che lo facessi, e forse solo la concitazione di mia madre che già temeva la sua morte disperandosi, non gli aveva fatto distinguere il mio apprestarmi alla porta. Dall'uscio semiaperto li avevo poi visti parlare e avevo udito mio padre zittirla. Ero divenuto testimone di qualcosa che non mi avrebbero fatto vedere diversamente… Avevo dovuto spiarli pur senza volerlo, per sapere…

“Piantala di preoccuparti. Non posso fare altro che andare, che cosa pretendi che faccia, che rimanga qui a guardare?”

“Non dimenticarti che i tuoi figli ti amano, se te ne vai sai quanto gli mancherai?” Lei aveva abbassato gli occhi. “E quanto mancherai a me?”

Mia madre gli aveva parlato di mancanza e non nego che mi aveva fatto molto strano sentirla rivolgersi così a mio padre, la roccia austera capace di resistere forse a tutto ma non al suo volto.

“Non posso rinnegare quello che sono. E se vado è anche perchè quella bestia prima o poi vi ammazza, lo sai che i terrestri non sono in grado di fermarla”.

Mia madre si era girata facendo una smorfia infelice e aveva poggiato la fronte e i pugni contro il muro, come se cercasse da quell’appiglio la forza. Mio padre in silenzio invece le aveva preso una spalla e l’aveva costretta a voltarsi.  E poi contro il muro le aveva detto qualcosa che non avevo distinto, forse un guardami a cui mi madre aveva risposto alzando solo lo sguardo.

Piangeva.

“Non trattarmi come se fossi una debole… Non lo sopporto” lo aveva redarguito con la voce tremante.

La dolcezza di mia madre era infinita, ma nonostante ciò rimaneva immutata la sua forza interiore, quella sua percepibile grinta che la rendeva capace di essere la moglie di un uomo come mio padre.

Lui dal canto suo l’aveva guardata un lungo istante, poi con le dita ruvide aveva cancellato la scia di lacrime sulla sua guancia e mia madre in risposta aveva posato le mani sul suo petto. Era stato strano vederli comportarsi con quella franchezza, con quel sentimento che non avevo mai scorto, non così, non con tale spudoratezza che per gli altri era parte della normalità e per me invece dell’assurdo. Con le orecchie spalancate e con avidità, nascosto dietro la striscia di luce che proveniva dalla porta, avevo spiato quel momento cercando di sentire i loro discorsi. Stavo venendo meno agli ordini di mio padre. Li stavo spiando di nuovo, come tanti anni prima...

“Tu sei forte dentro, donna.”

La chiamava così ogni tanto, lo faceva quando in lui il principe saiyan prendeva il sopravvento, quando si arrabbiava o quando le stava dicendo qualcosa di importante. Era lo strano modo di esprimersi di mio padre, di rappresentare il suo secondo volto, di sentirsi ancora nel proprio mondo antico, vicino alle sue radici guerriere. Ciò che si apprende in infanzia del resto è duro a morire nella mente.

E credo che in rimando mia madre gli avesse mormorato abbracciami , non riuscivo a leggerle con chiarezza le labbra ma mi era sembrato di interpretare così quel movimento, perché mio padre all’improvviso le aveva preso le spalle, le aveva agguantate con decisione come se volesse fare qualcosa, ma lei l'aveva anticipato e dopo qualche istante gli si era stretta addosso. Non saprei neppure descrivere com’è stato vedere le mani di mio padre, il guerriero capace di trucidare impietosamente, aggrappate alla schiena di mia madre con quella forza, come se volesse distruggersi con lei; scorgere i polpastrelli ruvidi e callosi stringere il tessuto della canotta  e poi cogliere - con timidezza che ancora sento - il suo capo selvaggio avvicinarsi al suo volto e vederlo insinuare il naso tra i suoi capelli, all’altezza dell’orecchio. Aveva annusato in un respiro il suo odore, lo avevo visto, l’aveva respirato come si inspira l’aria in alta montagna: a polmoni completamente aperti, profondamente, e mia madre l’aveva stretto a sua volta con le braccia aggrappate alla sua schiena enorme senza riuscire a trattenerlo. E giuro che abbracciandola con quella forza disperata sembrava averle urlato sei la luce della mia vita in tutte le lingue del mondo ma con una fierezza immane e assurda.  

“Non aspettarmi, Bulma”.

Gliel’aveva detto come si pronuncia un verdetto o una condanna, con quel tono assolutista di un monarca che mio padre sapeva avere all’occorrenza, ma so che era stato il suo modo di dirle che l’amava senza provare vergogna. Non aveva aggiunto nient’altro, aveva preso da lei le distanze trovando il suo sguardo disperato che aveva ricambiato con serietà assoluta e inequivocabile. Se ne stava andando, niente di più facile per mio padre l’averla così distrutta, con quella scelta. Ne sono stato certo dopo aver visto negli occhi di mia madre guizzare una luce d'ansia e disperazione.

Lei aveva cercato di trattenerlo con la forza di parole che erano uscite dalla sua bocca e dall'espressione amareggiata con rabbia e tristezza. “Le vostre guerriere seguivano i loro compagni in battaglia… No? Per te sono solo un peso perchè sono una terrestre, non è così?”

Lui si era fermato sull’uscio calamitato da un qualche pensiero sorto nella sua mente senza preavviso, scoppiato come una stella che collassa, e si era girato verso di lei. Una parte del mio cuore aveva sperato che avesse cambiato idea, che forse il suo orgoglio immenso lo lasciasse cedere alla richiesta di mia madre di rimanere, ma mio padre le aveva solo lanciato uno sguardo strano, complice eppure duro, e ricordo la sua voce ferma e sicura, senza un minimo accenno di debolezza. Aveva un tono profondo.

 “Tu per me non sei una guerriera o una terrestre. Tu sei mia moglie. È molto diverso”.

 

 

Continua…

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