Dimmi che non hai paura

di Emera96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

 

 

La luce entra dalla finestra, tenue nel suo bagliore mattutino, ma allo stesso tempo incredibilmente energica quando si posa sul profilo del suo corpo. Ne accentua i contrasti tra chiaro e scuro, riempie il volto leggermente scavato intorno agli zigomi e illumina l’espressione rilassata nel sonno, la bocca semiaperta in un sorriso.

Inclino la testa delicatamente a destra, ormai sveglio per la troppa luminosità proveniente dalla finestra. Pochi minuti ad occhi aperti e sono già perso nella precisione di quei piccoli dettagli che, messi assieme, fanno il mio migliore amico. Sorrido e mi lascio sfuggire un sospiro, che nella sua pesantezza esprime il dolore del silenzio e la sua incredibile rumorosità inespressa. Il silenzio che vorrebbe sfociare in un fiume di parole in piena, fino a ricoprire ogni centimetro di quel corpo meravigliosamente imperfetto, in cui ogni cicatrice, mostrata con orgoglio, è un pezzo di storia passata a miglior vita.

I miei occhi attenti, puri e azzurri come il mare al tramonto, assaporano ogni piccolezza di quel corpo immerso nell’ennesimo sogno. Un sogno che assomiglia ad un quadro di cui non mi resta che fare da cornice, mentre Matteo ed Elena ne sono i protagonisti al centro, intenti in una delle loro smancerie. Il volto dapprima disteso di Matteo si apre come le ali di un’enorme farfalla, regalando inconsciamente un nuovo spettacolo da ammirare. Gli occhi, castani come i capelli annodati e scomposti, mi fissano per un attimo mentre, disinvolto, cerco di ritrarmi, spaventato da quel gioco di sguardi. Perché Matteo non deve sapere. Non deve sapere quanto io vorrei mettere qualcosa in più tra di noi rispetto a semplici e fugaci occhiate. Che quello che io vorrei attraversa un limite indicibile, che sfocia nella vergogna di esporsi troppo. Un bacio, una carezza, una frase diversa dal solito.

Un limite che varca la linea sottile dell’amicizia e che si converte in amore.

«Da quanto sei sveglio?» domanda Matteo, lo sguardo ancora smarrito a causa della sbronza della sera precedente.

«Da qualche minuto.» rispondo, omettendo quello che in pochi minuti mi ero ritrovato a pensare. Lo stomaco si contorce al pensiero di un nuovo giorno di bugie e omissioni. Un altro giorno da depennare.

«Ti prego, la prossima volta che decidi di sbronzarti, evita di coinvolgere anche me. Domani inizia anche scuola, in questo stato mi potrebbero scambiare per un nuovo barbone!» aggiunge nel giro di qualche secondo lui, come a voler riempire gli spazi vuoti di una conversazione che si sorregge sul nulla.

Un funambolo, un filo su cui camminare, e nessuna rete a proteggerlo: una parola sbagliata, una giornata storta e la corda si torce, si tende troppo, fino a far cadere l’equilibrista nel baratro dell’imbarazzo. Ho paura, non voglio cadere da quel filo così sottile, e so che basterebbe avvicinarmi di qualche centimetro per ottenere, anche se in una parte infinitamente piccola, quello che vorrei. Ma non lo farò.

«Ma smettila, tanto con Elena non hai problemi in qualunque stato tu sia.» replico, il tono evidentemente scocciato, la voce incrinata.

«Ancora con questa storia? Dai, per favore.»

«Per favore? Ma con che coraggio? Sai come la penso. È una come tante. Lei andrà via col primo che passa e io rimarrò qui, come ogni volta.»

«Perché finisce sempre così?»

«Così come?»

«Basta che venga fuori il suo nome e tu subito diventi una furia. Non ha senso. Adesso c’è lei, e so che domani potrebbe non esserci e tu invece rimarrai. Ma non so che dirti per convincerti e sono stanco. Io torno a dormire.»

Un muro invisibile, suddiviso in milioni di mattoni pesanti come macigni, si erge tra noi al termine della breve conversazione. Il peso di quel silenzio non fa che crescere e crescere, sommergendo la mia bocca. Il respiro di Matteo, aggravato dalla pesantezza dello scontro in corso, si fa regolare e lieve, soave come il ronzio lontano di un’ape che sai essere innocua.

E se stavolta ci riuscissi? No, l’ennesima idea da scacciare via controvoglia. Un’idea pericolosa, che potrebbe spezzare l’equilibrio precario di quell’amicizia costruita in diciotto anni di silenzi. Non posso mandare tutto alle ortiche per un istinto. Non devo. Ma nessuno lo saprebbe. Nessuno lo vedrebbe. Rimarrebbe un segreto incastonato tra le lenzuola leggere, tra la federa colorata del cuscino e le labbra, morbide e carnose, di Matteo. Un segreto suggellato da quel contatto fisico a cui aspiro da tempo immemore.

Ormai non si torna indietro: sarebbe vigliaccheria. Sarebbe idiota lasciarsi sfuggire l’unica cosa che è capace di rimetterti al mondo, abbastanza forte da permetterti di rialzarti in piedi, ma sufficientemente lieve da rimanere sospesa nell’aria respirata, nelle pulsazioni di due cuori che si trovano vicini come mai prima sono stati. Separati da quello che nessuno si aspetterebbe di vedere, una di quelle azioni troppo spontanee per essere razionali.

Ora o mai.

Impegnato nel non fare movimenti troppo bruschi che potrebbero svegliare Matteo, mi alzo dal letto, sentendo il peso del mio corpo completamente fuori controllo.

Niente ripensamenti.

Le molle del letto sembrano volermi spingere nella direzione desiderata, come se ogni oggetto e atomo nell’aria sapesse la cosa giusta da fare.

Marionetta nelle mani di una cosa più grande di me.

Ogni passo è uno sbaglio da non rifare, ogni centimetro che mi lascio alle spalle è un’imprecazione a tutto quello che non ho fatto per paura di un rifiuto che mi avrebbe marchiato a fuoco la pelle, rendendomi visibile a chiunque fosse nei paraggi. Adesso non siamo noi, adesso non ci sono io: ci sono due corpi qualunque, in una stanza qualunque di una città qualunque. C’è qualcuno che dall’alto ha scelto noi, facendo scorrere un dito sul mappamondo e poi fermandone la forza motrice. La gente comune lo chiama destino. Io la chiamo fortuna.

Ma basterà la fortuna a non svegliarlo, a non perdere l’occasione che ho rincorso dal primo momento in cui ho incrociato il suo sguardo? Nessuno può saperlo adesso. Un altro passo e quell’occasione diventerà concreta, trasformandosi in ricordo. Uno dei ricordi ai quali finisci per affezionarti, forse condizionato proprio dalla sua segretezza, dal fatto che solo tu ne sei a conoscenza, e che quella impercettibile esperienza si aggiungerà all’interminabile lista di cose da non dire.

La vicinanza è tale che basterebbe un orecchio più attento per sentire il battito regolare di Matteo che, come musica, dà un ritmo alla mia timidezza e a tutte le paure che non rinunciano a frenarmi nonostante tutto. Ma adesso basta.

 

Di che colore è il coraggio?

La stanza, claustrofobica per la sua improvvisa piccolezza, riflette ogni colore proveniente dall’esterno come uno specchio d’acqua pura in una giornata soleggiata. Il viola che forma una sottile striscia per terra, tra la finestra e la parete bianca. Il rosso, l’arancione e il giallo che come una freccia indicano il percorso da seguire per raggiungere il viso disteso di Matteo, che dorme nella sua inconsapevole bellezza.

Indeciso sul da farsi, scelgo di chinarmi per evitare di far muovere troppo il letto, scansando così la remota possibilità di un risveglio non previsto che rovinerebbe un attimo sconsiderato, cercato infinite volte. Tengo gli occhi ben aperti e catturo ogni istante come una fotografia che potrò rivedere successivamente, quando la mia bolla di sapone sarà scoppiata in aria. Li chiudo solo quando sento il mio naso sfiorare il suo con un brivido.

Pochi secondi e il mondo rinasce e muore istantaneamente, il tempo necessario per la mia mente di scattare quelle famose fotografie che, però, sapranno di un sapore del tutto nuovo, inaspettatamente dolce e leggero, al quale per poco non finisco per abituarmi.

Come si spiega un bacio su cui ti sei soffermato a fantasticare così tante volte da non riuscire più a tenere il conto? Come descrivi il rumore dei tuoi pensieri che, come in tilt, non smettono di rimbalzare da un angolo all’altro della tua testa, piccole molle alticce perse in un respiro lieve? Un bacio si vive, non si racconta.

Le labbra di Matteo, seppur addormentate e socchiuse in un piccolo cerchio perfetto, sembrano ricambiare l’errore che non sa fermarsi, un errore di cui potrò darmi la colpa e il merito finché la memoria me lo consentirà. Il fuoco che stava per spegnersi sembra bruciarci fino alla morte, quando il mio corpo si appoggia con leggerezza al suo, in un accostamento che va oltre al dormire col proprio amico, che assomiglia più a quello che, di solito, Matteo fa con Elena. Le mie labbra, avide di un piacere succoso, divorano con dolcezza la stanchezza alcolica di Matteo, la sua calma che non riesce a placare la mia insistenza. Il suo sonno che arriva solo a risvegliarmi.

Il nostro, il mio bacio dolce sancisce una promessa fatta a me stesso, una promessa che non sono mai stato capace di mantenere: niente più dolore.

Ma l’amore è soffrire. L’amore è aspettare momenti come questo, che ti ripagano di tutte le volte in cui avresti voluto prendere a sberle quel poco che la vita ti offriva. L’amore è a senso unico. L’amore è quel bacio che solo tu ricorderai.

Quando decido di staccarmi, la realtà mi si appiccica addosso come una pellicola trasparente, mi incatena al suolo e non mi lascia muovere, il peso delle emozioni che non mi fa stare in piedi ma al tempo stesso mi permette di non cadere nell’immediato. È una forza invisibile che parte dalla bocca e arriva dritta al cuore, senza seguire un percorso preciso. Zigzaga un po’ ovunque senza un criterio, colpendo muscoli e ossa e lasciando cicatrici come quelle di cui Matteo va tanto fiero. Ma queste cicatrici non si mostrano come un trofeo di guerra, non sono il risultato di una caduta dal motorino, di un taglio con la carta, di un gioco con la sorella che finisce male. Queste sono le mie ferite. Le ferite di un guerriero che combatte contro un nemico silenzioso, identificando quest’ultimo con il silenzio stesso.

Il sangue che sento scorrere nelle vene, fino a evidenziarne il colore bluastro che risalta sulla mia carnagione bianchiccia, corre fregandosene delle pulsazioni, di quello che il resto del corpo decide di fare. E la stanza inizia a girare vorticosamente, in un moto oscillatorio e instabile che mi fa apprezzare l’abituale stabilità che, nella mia vita, regna sovrana. Mi permetto di guardare ancora una volta la persona che riesce a far tremare il pavimento sotto ai miei piedi, e mi sorprendo del suo aspetto: può qualcuno cambiare da un momento all’altro solo grazie ad un bacio?

Gli zigomi, che fino a qualche minuto fa vedevo come una parte insignificante e nemmeno troppo bella del viso di Matteo, adesso sono il punto del suo volto in cui il mio respiro si è posato per la prima e ultima volta.

Gli occhi, che sono in procinto di aprirsi, diventano le finestre sbarrate che non ho avuto il coraggio di spalancare.

La bocca piena diventa il luogo in cui vorrei rifugiarmi nei momenti più neri.

Le braccia, muscolose ma non troppo, in pochi minuti mutano il loro scopo: quelle due braccia, che prima potevano essere utili a sollevare qualche peso in palestra, o magari a cingere la vita stretta di Elena, adesso sono custodi di un segreto indicibile, di quel gesto sconsiderato che farebbe spalancare la bocca ai più bigotti.

 

Il petto si alza e si abbassa a ritmo lento, quasi ipnotizzandomi in una cantilena senza alcun rumore reale, un movimento continuo che sembra evidenziare la maglietta stropicciata, sulla quale ho da poco poggiato le mani. Tutto cambia, tutto cambia e tu non puoi far nulla per fermare il corso delle cose che, a velocità limite, ti sbattono da una parte all’altra della tua realtà. Quel mondo che hai l’impressione giri solo attorno a te solo per un attimo. Non c’è nessun altro: non sei la spalla di nessuno, non sei lì da una parte a guardare la vita degli altri come le persone comuni guardano un bel film. No, stavolta tocca a te, anche se il tuo momento di gloria è durato un solo istante. In quel minuto, in quei sessanta secondi o più, la tua vita, i tuoi problemi, e quella maledetta sensazione permanente di non saper mai fare la cosa giusta al momento giusto spariscono, per lasciar spazio alla parte più audace di te.

Ma basta un minuto ancora, e quelle impronte lasciate diventano invisibili, il sapore del tuo respiro diventa tutt’uno con l’ossigeno, i due battiti cardiaci che sembrano essersi fusi in un cuore solo perdono la loro sincronia. Un minuto soltanto.

Lo stesso lasso di tempo che serve alla causa di tanto trambusto per svegliarsi appena, voltandosi su un fianco in posizione fetale, l’innocenza di un bambino a contrasto con l’alito che manda un forte olezzo alcolico.

«Edo?»

«Che c’è?»

Gli occhi di Matteo stentano nel rimanere aperti, prossimi ad un cedimento che, senza ombra di dubbio, durerà più di qualche minuto.

«Sei il mio migliore amico, vero?»

Eccolo. Il momento in cui potrei rispondere negativamente. Ma anche stavolta mi gioca un brutto tiro, facendo riemergere quella parte di me che alla luce preferisce il buio. Che alla verità preferisce una bugia dolceamara, un segreto sporco.

«Certo, che domande fai?» rispondo, mentre sento un groviglio pesante crescere nella gola, spezzandomi il fiato, troncando seconde opportunità.

Al sentire l’ovvietà di quella risposta, Matteo chiude nuovamente gli occhi e, con un sorriso etereo stampato sul viso, affonda la testa nel cuscino e crolla addormentato.

Senza pensare troppo, esco dalla mia camera sbattendo la porta. Mi trovo faccia a faccia con mia madre che, sbigottita, è accovacciata all’altezza della serratura della mia porta. L’aria colpevole accentua incredibilmente le rughe d’espressione che le incorniciano il viso senza appesantirla troppo, diventando poi più profonde in prossimità degli angoli degl’occhi. Quegli stessi occhi che non è riuscita a tramandarmi, di quel verde chiaro che nelle fredde giornate d’inverno sembrano piccoli cerchietti d’oro puro, adesso schizzano in ogni direzione con frenesia. Come a voler trovare una buona scusa, un nascondiglio, in poco tempo. Ma perché?

«Tutto bene, mamma?»

«Sì, certo. Mi era caduta una molletta e mi sono chinata a raccoglierla. Tutto bene?»

Noto subito che in mano non ha assolutamente niente. Distolgo lo sguardo.

«Sì, Matteo sta dormendo. Ieri  ha bevuto troppo. Devo uscire, ci vediamo dopo.»

E per tranquillizzarla, consapevole di ciò che ha appena visto accadere tra me e Matteo, sfodero il più falso dei sorrisi, uno di quelli talmente forzati da risultare credibili a chiunque.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


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Capitolo 1

 

 

 

«Edoardo, svegliati.»

La voce sottile di mia madre mi scrolla, ricordandomi in un solo momento che giorno è oggi. Oggi inizia la scuola. Non per me, ovvio. Non puoi permetterti di sognare un futuro diverso da quello che hanno già deciso per te, se fai parte di questa famiglia. Non puoi minimamente pensare di apprendere quelle poche nozioni in più che ti farebbero spiccare il volo verso la vetta della tua personale montagna di sogni, quel monte voluminoso che ti è concesso solo guardare da lontano.

Per me scalare quella montagna e toccarne la cima sarebbe la realizzazione di tutte quelle parole che metto insieme, senza star attento all’ordine. Parole che raccolgo negli angoli del ripostiglio, nella polvere di una delle mie mensole stracolme di libri. Ma sono un lusso che non posso permettermi.

«Mamma, perché mi hai svegliato? Tanto a scuola non ci vado più.»

Ancora spossato dal sonno, vedo gli occhi verdi di mia madre che si alzano verso il soffitto, gesto che fa abitualmente quando è stufa di qualcosa. Gesto che, negli ultimi diciotto anni, ha ripetuto infinite e infinite volte.

«Ieri sera mi avevi detto di svegliarti, perché volevi accompagnare Matteo a scuola. Ma dove hai la testa? Fai come vuoi, io adesso devo andare a lavoro.»

Le sento sussurrare l’ultima frase, con quel tono spaventato e un po’ scocciato che nasconde un segreto. Un segreto che, se attraversasse la parete e arrivasse in cucina, potrebbe essere la causa dell’ennesima serata sbagliata.

Quelle ore in cui vorrei solo scavare un tunnel sotterraneo per andare in quella che tutti chiamano famiglia.  In una famiglia vera. Una famiglia senza angoli bui, senza segreti inconfessabili. Una famiglia dove non dovrei preoccuparmi di ogni respiro che faccio. Un altro sogno non concesso, tenuto stretto tra i denti per non farlo trapelare. Un’altra montagna da scalare in solitario, coperta dalla vergogna di doversi nascondere agli occhi della persona che hai promesso di amare.

«Ah, lo avevo dimenticato. Ci vediamo a pranzo.» dico, alzandomi e poggiando il peso su un gomito e stampandole un piccolo bacio sulla guancia.

Prima di andarsene mi regala un sorriso. Era da mesi che non la vedevo sorridere davvero.

La sveglia accanto a me, praticamente nuova, segna il mio ritardo con chiarezza. Veloce come mai prima, ma in ogni caso attento a non creare troppo scompiglio, prendo i vestiti del giorno prima, appoggiati sulla sedia in completo disordine. E perché agghindarsi? Oggi sono di troppo, oggi non dovrei nemmeno esserci. Maledetto Matteo e maledetta forza di volontà che viene sempre a mancare. Infilo i jeans sdruciti senza neanche provare a dar loro una piega decente, e in tutta fretta metto la maglietta bianca che l’anno scorso Matteo mi ha regalato per il compleanno. Consapevole che nemmeno un cartellone con scritto sopra quel che vorrei dire, che vorrei urlare, sarebbe capace di attirare la sua attenzione. Un fantasma al quale passerebbe attraverso, mano nella mano con Elena.

Preso dalla frenesia e dalla paura di far tardi, come mio solito, mi accorgo appena di qualcuno che, dall’altra parte della porta, sta bussando. Tre tocchi e un piccolo singhiozzo. Non ci sarebbe neanche bisogno di aprire la porta, ma lo faccio. Un metro o poco più, il dito in bocca come sua abitudine, una cascata di capelli biondissimi che le ricadono fin sotto alla schiena, lisci come spaghetti, con qualche piccolo ricciolo in fondo. Gli occhi, verdi chiari come quelli della madre, sono impregnati di lacrime, guardano da una parte all’altra senza fermarsi. Ha quell’aria dolcemente spaventata che, in cinque anni, ho imparato a riconoscere. Una serie irregolare di singulti le scuotono il corpo esile, una bambolina in miniatura: così fragile e delicata che, se la stringessi troppo, avrei paura di romperla.

«Edo, io paura.» le sento dire con voce flebile, il piccolo cuore che corre all’impazzata dopo un qualcosa che sembra averla spaventata a morte. O qualcuno.

«Piccolina, che è successo?» le chiedo. Mi inginocchio per vederla da vicino.

«Papà è arrabbiato, ha la faccia tutta rossa!» mi spiega velocemente, piangendo.

«E che ha fatto papà?» le domando con dolcezza, accarezzandole il viso umido.

 «Ha fatto male alla mamma… Edo, ho paura!»

«Tesoro, lo sai com’è papà, dopo gli passa tutto. Io adesso devo andare a scuola con Matteo, tu mi prometti che torni a dormire e non piangi più?»

Accompagno la mia richiesta con un buffetto sulla guancia, scherzoso. Alice annuisce con convinzione, scuotendo un po’ la testolina bionda.

«E fammi un sorriso, che le principesse sorridono sempre.» le sussurro piano all’orecchio, intento nel non svegliare l’energumeno accalorato e rabbioso sdraiato sul divano. Quell’uomo che, convenzionalmente, dovrei identificare come mio padre.

«Quando sarò grande come te, io sarò una principessa e tu un principe!» ribatte allegramente Alice, asciugandosi le lacrime con una mano.

Torna, sulla punta dei piedi per non fare rumore, nella cameretta, voltandosi appena prima di entrarci per mandarmi un bacio con la mano. E in quel momento la sola cosa che chiederei come ultimo desiderio ad un ipotetico genio della lampada, sarebbe vedere quel volto sorridente lontano dalla cattiveria e dalle mani pesanti di quell’uomo. In una famiglia vera, in cui i segreti sono piccoli e innocenti, in cui la sera è normale vedere la televisione tutti insieme o parlare della propria giornata, e non andarsi a nascondere per evitare la furia del suo componente principale. Ma sono troppo in ritardo per fantasticare.

Corro con passi piccoli e veloci verso la porta, concedendomi un’occhiata rapida alla cucina, per essere sicuro di una relativa pace fin quando non sarò tornato: il silenzio regna in ogni metro quadrato della casa. Unica eccezione è il respiro lento e pesante di mio padre che, sudato e rosso in volto per le troppe bottiglie scolate la sera precedente, dorme scompostamente sul divano, bizzarro in giacca e cravatta e con quell’odoraccio che ormai riconosco al volo cosparso su tutto il corpo grassoccio.

Sento il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni, come a volermi ricordare il mio ritardo spropositato. Rispondo alla chiamata, pronto a sentire la voce di Matteo all’altro capo che sbraita per la mia perenne lentezza.

«Ma dove sei finito? Fra venti minuti chiudono i cancelli! Sei sempre il solito. Io fra cinque minuti parto con la macchina. Ah, c’è anche Elena. A dopo!» dice, tutto in un fiato, prima di riattaccarmi in faccia senza troppe spiegazioni. Come al solito.

Ormai abituato alla sua fretta e alla mia lentezza che, ai due poli opposti, invece di completarsi a vicenda finiscono spesso per scontrarsi, inizio a correre. È buffo come la maggior parte del tempo, in vita mia, io mi sia ritrovato a correre: correvo da piccolo, dopo qualche mese appena che avevo imparato a reggermi in piedi. Correvo via da mia madre che, al culmine della felicità quando la casa era libera ed eravamo soli, mi inseguiva in giro senza stancarsi mai. Non c’erano “se”, non c’erano le scuse ricorrenti della stanchezza, del poco tempo, della poca voglia o del dovere morale di far silenzio. C’erano un bambino e una giovane donna, nella loro personale fiaba. Nessun mostro sotto il letto o sul divano. Correvo qualche anno dopo, quando i mostri avevano iniziato a venire fuori e ad essere una presenza fissa in casa nostra, insieme a Matteo, nel giardino di casa sua. E adesso corro incessantemente, ma non dietro alle persone, al cane dei vicini che non la smette di abbaiare, non dietro ad una sorella piccola che vorrebbe giocare con me tutto il giorno: corro dietro alle occasioni in bilico, alle persone che stanno appese ad un filo sottile, ai ricordi che non saresti in grado di replicare.

Corro dietro a cosa non c’è, a cosa c’è stato e non tornerà più indietro.

Corro dietro all’astratto, a ciò che non puoi toccare, sentire, gustare. A cose o persone che non staranno ad aspettarti in eterno, che devi essere abbastanza svelto da acchiappare. C’è chi rincorre i treni in ritardo, chi l’amore e chi un sogno.

Io rincorro quel tipo di occasione che non ti darà una seconda possibilità. E so che se non mi sbrigo, una persona non aspetterà certo me per iniziare l’ultimo anno di liceo. A maggior ragione se in dolce, dolcissima compagnia.

Non posso dire di odiare Elena. L’odio è qualcosa di enorme, che ti spinge alle azioni più sconsiderate e spregevoli senza che tu te ne possa accorgere. Io sono più un tipo che disprezza: sono capace di fingere un sorriso, magari parlando con la persona interessata per qualche minuto, ma di covare dentro tutto il male che mi passa per la mente. È un sentimento aspro, che finisce per incenerire quel briciolo di bontà che ancora ti rimane e che si accende nel momento esatto in cui incroci lo sguardo della persona scatenante il sapore dell’amaro in bocca. La cura? La sopportazione.

Ma come sopportare la vista di quel visino irritabile che si avvicina con pathos, e che si butta sul volto che fino ad un giorno fa era tuo?

Come sopportare le loro mani intrecciate? Le mani di Matteo nei capelli di Elena? Il momento in cui lui la solleva di qualche centimetro da terra?

L’apice è quando lei lo bacia davanti a me, come a sottolineare a chi appartiene chi. Come se non lo sapessi già abbastanza bene da solo e senza il suo contributo.

«Alla buon ora!»

La voce squillante di Elena mi scuote dai miei pensieri fitti.

E quel trillare fastidioso, incredibilmente simile al rumore di un paio d’unghie lunghe che graffiano una lavagna, mi ricorda perché non ho ancora capito cosa Matteo ci trovi in lei. Un bel culo? Un bel corpo? I bei capelli? Gli occhi grandi e celesti? Le gambe slanciate, le braccia esili? La solita lista della spesa. Le caratteristiche di una vecchia barbie, passato da un pezzo di moda. Una barbie che, personalmente, butterei nel primo cestino disponibile.

«Scusate, a casa c’era il solito casino e ho fatto tardi.» cerco di giustificarmi con Matteo, ignorando volutamente lo sguardo impertinente e scocciato di Elena che mi squadra da capo a piedi senza alcun ritegno. Salgo in macchina e cedo con finta galanteria il posto dietro ad Elena, che è così costretta ad allontanarsi da Matteo. Le rivolgo un sorriso forzato, e mi volto verso Matteo che, nervoso e a tutta velocità, tiene le mani ferme sul volante in una corsa folle contro il tempo e il traffico del lunedì mattina. Senza dire una parola mi guarda facendomi capire, senza doverlo dire esplicitamente, che sarebbe bello se almeno provassi a non essere così apertamente odioso nei confronti di Elena. Senza aprire bocca a mia volta, alzo gli occhi al cielo com’è solita fare mia madre quando dico la cosa sbagliata al momento sbagliato, facendo intendere il mio rifiuto alla sua proposta silenziosa. Ed è proprio Elena ad interrompere quel taciturno scambio d’opinioni.

«Che è ‘sto silenzio? Avete litigato?» squittisce lei, da una parte speranzosa nell’intonazione della domanda, dall’altra mostrandosi interessata, fingendo.

«Ma no, è una cosa che facciamo sempre. Non puoi capire.» rispondo sbrigativo io.

«Ah, certo, io non posso mai capire.» ribatte Elena offesa, mettendo su il broncio come mia sorella, che è almeno giustificata dalla sua tenera età per i suoi capricci, e rintanandosi nel sedile dietro, a braccia conserte.

I capelli, originariamente castano scuro, diventati biondo chiaro qualche settimana fa in contrasto, almeno secondo me, con la sua carnagione olivastra, sono legati in una treccia lunghissima, che le arriva fino a metà schiena e ondeggia lievemente da una parte all’altra. Come se il nervosismo le passasse direttamente nei capelli lunghi, che si trasformano in milioni di fili elettrici pronti a fulminarmi da un momento all’altro. Pronti ad eliminare l’unico ostacolo tra lei e Matteo, l’unica persona che non si limita a guardarli sognante, invidiando chi lui e chi lei. L’unico a non averla mai davvero apprezzata.

«Veramente io…»

«Quello che Edoardo intendeva, è che spesso ci capiamo senza parlare. Magari ti può sembrare strano. Era questo che volevi dire, vero, Edo?» mi interrompe bruscamente Matteo, cercando di non creare l’ennesimo litigio e dandomi un’occasione per rimediare.

«Sì, è più o meno come hai detto tu.» rispondo meccanicamente io.

C’è una lunga pausa, un silenzio imbarazzante ogni tanto interrotto da un melodrammatico sospiro proveniente dal sedile posteriore, o dalla musica particolarmente alta di una macchina truccata che ci sfreccia accanto nel traffico.

«Ieri pomeriggio ho fatto un sogno stranissimo, sapete?» inizia a dire Matteo.

«Che hai sognato?» chiedo subito io, incuriosito dalla precisazione di Matteo.

Ieri pomeriggio? Ma intende il momento in cui stava dormendo a casa mia? Il momento in cui mi ha fatto amare la sua incapacità di reggere l’alcool?

«È stato quando mi sono addormentato a casa tua, Edo. Non so se sia stato l’effetto dell’alcool, o la stanchezza assurda che avevo addosso. Non lo so proprio. Ma era strano, non so neanche descriverlo bene a parole.» inizia lui, a stento.

«In ogni caso, ero in una stanza bianca, senza niente sui muri, sul pavimento, niente di niente. Ero disteso su un letto e anche nel sogno dormivo.»

Il racconto di Matteo è bruscamente interrotto.

«Che vuol dire anche nel sogno? Dove stavi dormendo, scusa?»

Il tono che Elena usa per porgere la sua domanda è tutto fuorché comprensivo. Il tono di una donna che vuole il suo uomo tutto per sé.

«Ero a casa di Edo, avevo bevuto un po’ troppo. In ogni caso… dormivo, ma ero cosciente di quello che stava succedendo intorno a me, però non riuscivo ad aprire gli occhi per controllare la situazione. Mi sentivo in trappola, come se qualcuno mi stesse tenendo prigioniero chissà dove.»

«Come quando hai un incubo e non vedi l’ora di svegliarti.» aggiungo io.

«Sì, esatto. Ad un certo punto, sento un rumore di passi. Ed era così reale che mi sembrava di sentire davvero tutto. Improvvisamente, sento una mano fare pressione sul mio braccio, come se mi stesse accarezzando. E in quel momento apro gli occhi. Nel sogno, non in realtà. E cosa vedo? Una figura senza volto, con lineamenti confusi.» continua a raccontare Matteo, mantenendo gli occhi sulla strada. «E questa figura si avvicinava sempre di più, sempre con un fare dolce e gentile, e all’improvviso mi bacia. Così, dal nulla. Ma non mi sentivo strano, o in trappola come quando avevo gli occhi obbligatoriamente chiusi. Mi sentivo a casa. Come quando capisci qualcosa dopo tanto tempo e ti senti più leggero. Non so spiegarlo. So solo che quando mi sono svegliato sorridevo.» conclude.

Nel momento esatto in cui Matteo finisce di raccontare, mi accorgo che sto sorridendo anche io, di uno di quei sorrisi che sembrano tirarti la faccia fino ad allargarla in ogni direzione. Quei sorrisi che ti si attaccano e non riesci più a mandare via, che ti fanno vedere un mondo storpiato, ma nel verso giusto. Cerco di tornare serio per non attirare una delle domande stupide di Elena.

«Voi sapete che può significare?» chiede curioso Matteo.

«L’ho cercato su Google mentre raccontavi. Qui c’è scritto che sognare qualcuno senza volto o con lineamenti poco chiari è molto ricorrente, e rappresenta qualche elemento della nostra realtà che ci sfugge e che sarebbe bene invece conoscere. Possono essere anche persone esistenti a cui dovremmo dare più attenzione, o almeno così c’è scritto in questo sito. Non è che mi nascondi qualcosa?» chiede sospettosa Elena, rimettendo bruscamente il cellulare in tasca.

«Ma che stai dicendo? Dai, Ele, ma scherzi?» risponde al volo Matteo, visibilmente irritato dai sospetti, apparentemente infondati, della sua ragazza.

Che sia la volta buona? La volta in cui capirà davvero accanto a chi si è messo? La volta in cui un bel culo e una risatina acuta non basteranno ad incantarlo?

«Vorresti negare che passi più tempo con lui che con me? Dai, siete peggio di una coppia sposata: dove va uno, va anche l’altro. Se uno sta male, va a casa dell’altro che gli sta dietro finché non torna in piedi sulle proprie gambe. Vivete in simbiosi. E io starei dicendo cose strane? Non prendermi in giro. Lo hanno già fatto in tanti, prima di te. Io non devo essere seconda a nessuno.»

Il tono di voce, non più lezioso e provocante bensì scocciato e quasi ferito, dà al discorso fondamentalmente stupido di Elena un peso maggiore di quello che anche lei stessa avrebbe potuto immaginare. Non siamo due ragazze, che vanno pure in bagno insieme. Eppure, per chi ci vede dall’esterno, questa vicinanza rasenta i limiti dell’ossessione, di quella cosa di cui mi vergogno e che continuo a tenermi dentro, per non far scoppiare una bomba appena innescata da Elena. È davvero così strano avere un migliore amico del tuo stesso sesso? Ed è davvero così assurdo passarci così tanto tempo insieme? Nessuno risponde, nessuno controbatte, nessuno osa contraddire questa tesi.

«Ele, puoi scendere un attimo dalla macchina? Vorrei parlare con Edoardo. Da soli, se non ti dispiace.» chiede stordito Matteo, invitando Elena ad uscire con un gesto della mano. Elena, senza scomporsi e senza azzardare ulteriori domande, lascia la borsetta sul sedile ed esce dalla macchina di Matteo con tutta calma.

Ora sì che i nodi vengono al pettine.

«Le credi, non è così?» inizio immediatamente io, per non lasciare spazi vuoti.

«Non è così semplice, Edo. Non è mai stato semplice, lo sai.»

«Non pensavo sarebbe andata a finire in questo modo.»

«E chi ti dice che sta finendo?»

Un sorriso incerto si apre sul volto di Matteo, gli occhi brillano di quella complicità che non vedevo da mesi, ormai. Quel qualcosa che solo io e lui sappiamo e sapremo.

«Scusami, ma proprio non ti seguo.»

«È semplice. Elena non ti sopporta, tu non la sopporti.»

«Fin qui ci arrivavo anch’io.» sentenzio sarcastico.

«Lei è gelosa, perché a suo dire quando siamo tutti e tre insieme, lei diventa il terzo incomodo, e tu sai che dovrebbe essere il contrario. D’altra parte, ti conosco da quando ne ho memoria, è inevitabile che con te basti un’occhiata per capire quel che vorresti dirmi. Io amo Elena. La amo davvero, e so che non riesci a capirne il perché, ma è così. Ma non ho intenzione di scegliere tra te e lei.» spiega Matteo, paziente.

«Arriva al punto, prima che alla tua ragazza crescano i capelli bianchi.»

«La soluzione è semplice. Tu adesso rimani con noi, io e lei andiamo a scuola, e tu ritorni a casa. Da domani, quando io sono con te, lei non ci sarà, e viceversa. Non sopporto più questi litigi e questi dubbi inutili.»

La naturalezza della sua spiegazione, così chiara e lineare, mi lascia senza parole. Come ho potuto avere anche solo il minimo dubbio su di lui?

«Posso farti un paio di domande, prima di farla risalire?» chiedo, curioso.

«Certo. Ma sbrigati, non voglio far tardi il primo giorno.» risponde lui, di corsa.

«Perché proprio lei? Insomma, di tutte le ragazze carine che hai in classe. Perché Elena e non qualcun altro?» domando, esprimendo un dubbio lungo sei mesi.

«Non so spiegarlo, Edo. È come quel bacio così strano e assurdo nel sogno di ieri: era strano, non era da me e non so dargli una spiegazione, ma aveva quel senso illogico capace di farmi impazzire. Elena mi dà alla testa. Tu la vedi come una smorfiosa, come una bambola, ma c’è di più: c’è una ragazza che è stata presa in giro da chiunque e che ha paura di iniziare una storia nuova. È una ragazza piena di sfaccettature, da una parte provocante, dall’altra impaurita, mai del tutto sicura di quello che cerco di dimostrarle, tanto che si ritrova ad essere intimidita dal mio rapporto con te, che sei solo mio amico. È il mio opposto, ma le sue mancanze si incastrano coi miei punti forti.»

Solo adesso capisco quanto le parole, pur nella loro bellezza, possano far male. Come una domanda voluta proprio da me sia in grado di spezzarmi. Come una coltellata alle spalle, ben piantata in mezzo alla schiena, sarebbe stata capace di scalfirmi in minor misura. Me la sono cercata, ma non mi sarei aspettato certo una risposta così a cuore aperto. La ama. La ama davvero. Non è la storiella di qualche mese, di cui ricordi le prodezze con gli amici, sminuendola a rendendola una semplice avventura, una “ragazzata”, come direbbe mia madre, ricordandone i suoi momenti goliardici. Ha trovato quella giusta per lui. Quella che, ho paura, non farà che allontanarmi ulteriormente da Matteo. Quella che non saprò combattere con un’uscita fuori e un boccale di birra chiara. Quella che mi spaventa e che non fa che aumentare il ricordo di quel bacio rubato.

«Che altro volevi chiedermi?»

«Volevo sapere di più di quel sogno che hai fatto.»

«E perché scusa? Ho detto qualcosa mentre stavo dormendo?»

«No, non è per quello.»

«Tu mi stai nascondendo qualcosa, vero?»

Adesso sono ad un bivio: cadere da quel filo invisibile che per anni ha tenuto in equilibrio il nostro rapporto, spiattellando tutto a Matteo, o continuare la mia camminata su quel filo sottile, fingendo e raccontando l’ennesima balla? Rischiare e fallire o mentire ancora? Amore, o quel che sarebbe, o amicizia.

«No, ero solo curioso. Che dovrei nasconderti?» dico io, sulla difensiva.

Prima che Matteo possa replicare, mandando all’aria una delle mie scuse patetiche, sentiamo Elena bussare al finestrino della macchina, come a voler attirare l’attenzione. Matteo, in tutta risposta, abbassa il finestrino.

«Che c’è? Successo qualcosa?» chiede Matteo, ancora assorto nella nostra conversazione di appena un minuto fa. Per una volta almeno, Elena ha interrotto un discorso al momento giusto. La ringrazio silenziosamente, consapevole della sua fretta di arrivare a scuola per far sfoggio di qualche bacio davanti a tutti.

«No, nulla, ma tra dieci minuti suona la campanella e sai che non voglio arrivare tardi proprio oggi. Già i prof non mi sopportano, se arrivo anche in ritardo il primo giorno…» insiste Elena, col tono petulante di chi non ammette repliche a ciò che dice. Matteo, arrendevole quanto stupito da come il tempo sia passato in fretta, la fa salire e ingrana subito la terza, a tutta velocità.

Fin da quando eravamo piccoli, due minuscoli bambolotti di poco meno di un metro che giocavano insieme con le macchinine, era sempre stato lui quello attento. Lui, quello più bravo a scuola. Lui, quello più negato negli sport per la troppa pigrizia, nonostante il fisico atletico e i muscoli scolpiti che le ragazze si perdevano ad ammirare nell’ora di educazione fisica. Lui era sempre stato quello che saltava all’occhio, nonostante facesse di tutto per starsene per conto proprio. Ma non ci riusciva, e non ci riesce tuttora. È qualcosa che va oltre lui stesso. Era quel tipo di ragazzo che, per un motivo o per l’altro, diventava l’esempio per qualche ragazzino disastrato che in lui vedeva un modello da imitare. E Matteo, nonostante la perenne stanchezza che si porta addosso da sempre, trovava sempre un minuto, che spesso diventava un pomeriggio intero, da dedicare a quel ragazzino.

Probabilmente per ingannare l’attesa, Elena spezza quel breve silenzio col sottofondo di una vecchia canzone appena trasmessa in radio, con una delle sue domande.

«Ma voi come vi siete conosciuti?»

Decido di rispondere io, visto quante volte Matteo ha dovuto raccontarlo.

«Le nostre madri andavano al liceo insieme. Ma dopo la maturità si persero di vista, perché mia madre iniziò subito a lavorare, mentre la sua frequentò l’università più vicina. A quei tempi non c’erano telefoni, e se due persone smettevano di vedersi era difficile poi rintracciarle. Per caso, si sono rincontrate. E sai dove? In sala parto.»

«In sala parto?» chiede sbigottita Elena.

«Io e Matteo siamo nati nella stessa clinica, lo stesso giorno. Si misero a parlare, e anche se in un primo momento non avevano capito chi avevano di fronte, poi compresero di essersi ritrovate. E da quel momento, hanno fatto sempre stare me e Matteo insieme, fin da piccolissimi. Io però dall’anno scorso ho smesso di andare a scuola, ma come puoi vedere continuiamo a vederci fin quando possiamo.»

«Oddio, sembra la storia di un film, quella delle vostre madri. Matteo non me ne aveva mai parlato. Ma quindi loro sono ancora amiche?» chiede Elena, affascinata da quella storia così simile a quella di un banalissimo romanzo rosa.

«Sì, però non si vedono più tanto spesso. Sono entrambe molto impegnate, e non riescono a trovare del tempo per loro molto facilmente. Infatti sono contente di vedere me e Matteo così amici, perché ricorda loro quel che erano al liceo. È come se si rivedessero in noi. È strano, non saprei come spiegarlo.»

L’attenzione di Elena si sposta rapidamente sull’ingresso della scuola, zeppo di studenti di tutti le età. Seppure sia un modo cinico di vedere le persone, ogni anno, il primo giorno di scuola, il cortile sembra trasformarsi in una vetrina dello zoo. Sarà l’invidia, perché non potendo più andare a scuola non so che darei per stare al posto di uno di quelli che si lamentano perché ci sono obbligati. Come in uno zoo, adesso in cortile ci sono persone di tutte le specie, alle quali si aggiungono con nonchalance anche Matteo ed Elena che se ne vanno mano nella mano, rivolgendomi a malapena un saluto, poiché troppo impegnati a dar sfoggio di quel che sono: la nuova coppia dell’ultimo anno da invidiare a tutti i costi.

Ci sono quelli del primo anno, che come dei cagnolini scodinzolano a quelli più grandi, per non essere sbattuti subito in un angolo ed essere additati come sfigati. Ci sono le ragazze popolari, che siano di prima o di quinta, le cosiddette “oche”: così come l’animale dal quale prendono il nome, sono particolarmente stupide, camminano dondolando, o meglio sculettando, e spesso hanno quella voce particolarmente irritante e stridula, che assomiglia in modo impressionante a quando le oche starnazzano. Ovviamente, considero anche Elena parte della categoria. Poi ci sono i corrispettivi delle oche, ovvero i “galli”: di questa parte dello zoo fanno parte tutti quei ragazzi pieni di gel, che spesso si vantano di quanto siano lenti a scegliere i propri vestiti la mattina, surclassando anche le famigerate oche. Da una parte, nell’angolo più buio, ci sono gli “orsi”: così chiamo quei ragazzi, e quelle ragazze a volte, che se ne stanno in disparte semplicemente per pigrizia, con lo sguardo perso nel vuoto, spesso con una sigaretta consumata in mano. Poi la specie che ho sempre disprezzato di più: i “vermi”. A questa categoria può appartenere chiunque, e spesso riesce a ingannare le altre specie. Sono quegli individui infimi, inaffidabili, viscidi e arrendevoli quanto cattivi. Sai che potresti schiacciarli ma non lo fai mai. Perché? Perché questo gruppo vive solo grazie ad un fattore, che sta alla base della loro vita: la pietà. Queste persone campano letteralmente grazie alla pietà di tutti gli altri, professori e preside compresi. Basta un accenno alla loro vita personale, un finto svenimento o qualche lacrima, e chiunque si ritrova piegato al loro volere. Se c’è qualcosa che decisamente non mi manca della scuola, è quest’insieme di persone. Riuscivano a disgustarmi semplicemente battendo ciglio. Un vero e proprio talento, devo dire.

Prima di andarmene sul primo autobus, vedo Matteo ed Elena che, prima di varcare il grande portone del liceo, si concedono uno dei loro momenti di grande spettacolo: Elena, leggera e spumeggiante nel suo vestitino a fiori, che le copre a malapena le ginocchia, lasciando ben poco all’immaginazione, che viene sollevata per qualche istante dalle braccia possenti di Matteo, facendole compiere una piccola giravolta in aria. Nelle sue mani, Elena sembra solo una ragazzina bisognosa di tanto amore, nelle mani di un uomo che la ama davvero. E queste continue smancerie forse sono solo il risultato di anni e anni in cui nessun uomo ha mai fatto lo sforzo di darle attenzione. Compreso il padre che, anni e anni fa, è sparito dalla circolazione, tra le braccia di una ventenne. Un brutto colpo che l’ha fatta passare da un ragazzo all’altro senza criterio, che le ha fatto credere che l’unico modo per far tornare suo padre da lei fosse quello di gettarsi tra le braccia del primo che capita. Mostrarsi facile era diventata l’unica arma per difendersi. Non avere cuore, né sentimenti o legami, l’unico modo per sembrare forte.

Senza indugiare ancora sulla soglia del cortile, mentre i più ritardatari entrano correndo a scuola, mi incammino verso la fermata dell’autobus, che arriva dopo qualche minuto d’attesa sotto il sole pallido di settembre.

L’autobus è talmente affollato e caldo da sembrare una scatoletta di metallo che, dopo una giornata passata sotto il sole, ha trattenuto troppo calore. Mi ritrovo stipato in un angolo, quasi incastrato tra una vecchia signora che a malapena si regge in piedi, e un signore in giacca e cravatta che mi ricorda in modo inquietante mio padre. Per alleggerire un viaggio che so che, tra il traffico e la mia solita sfortuna, durerà una quarantina di minuti, tiro fuori le cuffie e le collego al telefono.

È incredibile come la musica riesca ad essere il filo conduttore di giornate intere in modo del tutto casuale, totalmente inconsapevole di quanto riesca a far riflettere le persone. Una canzone, i cosiddetti “brani casuali”, e quello che ti è successo prende una sfumatura e una direzione diversa: diventa più insignificante o più emozionante, più triste o più allegro, ma in ogni caso diventerà più qualcosa. Acquisterà un briciolo di luce in più, per sembrare più vivido e più reale, ma allo stesso tempo così lontano da non apparire neanche più come un tuo ricordo. È questo il potere della musica: può fermarsi al ruolo di colonna sonora, come un simpatico sottofondo di ogni tuo gesto, o può ampliarsi, fino a diventare protagonista.

Approfittando di un posto a sedere, liberatosi quasi per miracolo, mi siedo e, cercando di svuotare la testa, mi concedo una bella canzone a occhi chiusi e cuore aperto. La mente? Spalancata ad ogni tipo di pensiero.

 

“I was left to my own devices,

many days fell away with nothing to show.”

 

Non sono mai stato una cima in inglese, ma almeno di queste due frasi qualcosa ho capito. L’ultima parte: “nothing to show”, “niente da mostrare”. Sono io, giusto? Non mostrare mai quello che pensi, quello che vorresti, quello in cui credi. Nascondere, nascondere a ancora nascondere, fino ad eclissarsi del tutto, a creare un piccolo buco nero in cui ti perdi e non sai più ritrovarti. Non riesci nemmeno più a ricordare quale parte di te è quella autentica e quale sta recitando.

 

“But if you close your eyes,

does it almost feel like nothing changed at all?”

 

Questa frase l’ho tradotta tempo fa, perché mi incuriosiva. Insomma, se una frase fosse priva di senso non la ripeterebbero tanto spesso in una canzone, giusto?

“Ma se chiudi gli occhi, non ti senti come se nulla è cambiato?” Sono io.

Se chiudo gli occhi, se ripenso a ieri, a quel bacio, se chiudo gli occhi e ripenso a Matteo, al discorsetto su Elena, ai vecchi tempi senza nessuno tra di noi, mi accorgo che davvero non è mai cambiato nulla. Tra alti e bassi, tra litigi e periodi relativamente tranquilli, io sono sempre io e lui è sempre lui. Da sempre.

Nonostante gli anni che passavano, nonostante le persone nuove che abbiamo conosciuto, come gruppo di amici o singolarmente, nonostante le ragazze, i mille impegni, gli scontri che sembravano sancire la fine di tutto, non è cambiato mai nulla.

E quel bacio? Se solo lo avesse saputo, se si fosse svegliato, avrebbe cambiato le cose in modo radicale? Quel confine che ci eravamo posti, sarebbe stato spazzato via.

Un milione di domande e nemmeno una risposta soddisfacente.

E se, e se, e se. E se la smettessi di pensare e facessi qualcosa di concreto?

Maledetta musica e maledetti dubbi portati da lei.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 



Ad Erika, che mi ha dato il coraggio di far nascere questa storia.
Ad A-mors, che aspetta ogni capitolo con ansia.

E ad Anfiya, senza la quale questa storia non sarebbe su Efp.

 

 

“Perché dici che ti manca la scuola? Io non so che darei per stare a casa.”
Dio solo sa quante volte mi sono sentito ripetere queste parole: gli sconosciuti sull’autobus che mi tormentano con qualche domanda, gli amici più stretti e quelli più distanti, persino alcuni miei parenti. Perché preferisco star fuori? Forse perché quando entro a casa, quando varco quella soglia, è come se una pressione altissima mi spingesse contro il muro, come il bulletto di quando eri piccolo che ti sollevava da terra e ti appendeva al muro senza sforzarsi troppo. È la percezione continua di una mano, viscida ma con le dita ben salde, che ti prende al collo e ti stringe forte, impedendoti di urlare aiuto ma anche solo di respirare per un po’. E tu sai che quella stretta non smetterà mai di tormentarti, non finché sarai chiuso tra quelle quattro mura bianche. Che poi, in nessun posto più che in casa mia è vero che l’apparenza inganna. Tanto che tutti sembrano cadere nella nostra trappola.
Le mura bianche sono tappezzate da vecchie foto di famiglia: quando mio padre non aveva ancora scoperto il piacere di un superalcolico perennemente in circolo, quando mia madre non era costretta a bugie continue, quando Alice era solo un fagottino nelle mani della mamma e quando io ero un bambino felice tra le braccia del padre. Quel padre che, fino al primo compleanno di Alice, era per me un eroe da imitare, da cercare di eguagliare, pur sapendo che era troppo per me. Era bellissimo.
Quando mi vantavo coi miei amici delle elementari e delle medie, dicendo che mio padre era dipendente in un grosso studio d’avvocati, e tutti mi guardavano con ammirazione. Tutti si immaginavano un uomo invincibile. Pure io, lo ammetto. Ma un giorno il mio supereroe cadde in rovina. La seconda gravidanza di mamma, le complicazioni del parto che rischiavano di uccidere non solo quel fagottino biondo. E poi la morte di mio nonno, il padre di mio padre. Quell’uomo piccolo e buono, che fin da quando gattonavo mi chiamava “il mio ometto” con una punta d’orgoglio. E dove trovare consolazione per quel brutto periodo se non nel fondo di una bottiglia? Le bollicine, il calore dell’alcool che ti fa arrossare le guance. Le gambe che non reggono, la vista che traballa e si sdoppia. E quel bisogno incessante di urlare, di sputare tutto quel che pensi in faccia alla prima persona che ti capita.
Nel caso di mio padre, la persona in questione era il suo capo.
Non ho mai saputo che cosa gli disse precisamente, ma non doveva essere di certo un complimento per una delle sue cravatte eleganti, visto l’immediato licenziamento.
Per far capire a quella miriade di persone perché preferivo immergermi in una versione di Catullo piuttosto che cenare con la mia famiglia, dovrei spiegare tutta questa serie di dettagli. Fino a rimanere scoperto, nudo nel mio imbarazzo.
Un ologramma poco chiaro rispetto a quelle foto adesso così finte ma comunque così lucide e reali, una macchia che non va via rispetto a quei volti sorridenti, abbracciati fino a che la macchina non scatta. Finita la foto, si tornava alla normalità. Non appena il flash si esauriva, mio padre tornava fedele ad una delle sue bottigliette tascabili, che teneva religiosamente nel taschino interno della giacca, per non sfigurare con quei cravattoni dei suoi colleghi.
Quando cresci in una famiglia in cui l’apparenza è tutto, preghi solo di avere un paio d’ore al giorno per evadere e per essere davvero te stesso, senza alcun filtro. Ed io adesso, fermo davanti alla porta, so di aver finito il mio momento di realtà.
Apro pianissimo, per non far troppo rumore, consapevole del fatto che troverò mio padre sdraiato sul divano, esattamente dove l’ho lasciato stamattina. Sbronzo, la faccia calda, il segno del cuscino che gli segna il viso. E ad una stanza di distanza, sono sicuro, ci sarà la piccola Alice che, grazie al cielo, già da qualche mese ha imparato dove può trovarsi le merendine per fare colazione. Perché anche una cosa talmente stupida come preparare la colazione a tua figlia di cinque anni diventa un disturbo se vivi con mio padre. Sempre attenti a non svegliarlo, sempre servizievoli, sempre nella paura che esploda per le troppe birre o per i superalcolici bevuti. Una vita in punta di piedi, attento a non romper nulla. Come un ladro nella mia stessa casa. Come se fossi io di troppo, e non lui.
Troppo preso dalle mie riflessioni, ormai monotone e tremendamente quotidiane,  non mi accorgo che Alice, probabilmente preda di una dei suoi molteplici incubi, ha appena cacciato un urlo. Stridulo, sopportabile ovunque. Ma non qui.
«Ma cos’è ‘sto rumore?» tuona subito mio padre, visibilmente furioso.
La vena sul collo inizia a ingrossarsi e ad alleggerirsi ad intervalli regolari, lo sguardo si fa dritto e quasi lucido di razionalità su di me, unico obbiettivo nel suo ormai prossimo sfogo. Cerco di mantenere la calma, mostrando una sicurezza che non ho.
«È stato solo un urlo di Alice, avrà avuto un incubo.»
«Alice chi? Chi è? Una delle ragazze che ti porti qua dentro? Chi è?»
Reprimo il disgusto, mando giù il groppo che mi si è appena formato in gola, e tento di rispondergli e di sviare quella rabbia cieca e priva di fondo.
«È tua figlia.» dico semplicemente, omettendo la serie di insulti che mi rimbomba in testa come un mantra. Insieme a quella frase, a quella maledetta frase.
“Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo posto infernale. Scappa.”
«Non scappare, ragazzo. La bambina se la sa cavare bene anche da sola. E tu, cosa ci fai qui? Perché non sei a scuola, perché non sei a lavoro? Perché sei qui?» ribatte.
«Alice ha bisogno di me, ha avuto un incubo. Io devo andare.» replico in fretta, evitando i suoi occhi iniettati di sangue che sembrano squadrarmi da capo a piedi.
Non riesco a fare un passo che sento la sua mano, grande e dura, di chi non ha mai avuto paura di attaccare briga in uno dei tanti bar in cui passa la sera, che mi prende per il bavero della giacca con fare minaccioso. E non voglio dare colpa all’alcool.
Non voglio. Perché so che lo avrebbe fatto anche da sobrio.
Probabilmente me lo merito.
“Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo posto infernale. Scappa.”
«Tu non vai da nessuna parte, chiaro?» mi dice quasi ringhiando, e per ribadire al meglio il concetto stringe la sua presa intorno alla mia gola, rendendo maledettamente reale quella stretta soffocante che per ora si limitava ad essere momentanea ed irreale. Sento il respiro bloccato dalla sua rabbia, sento la sua mano grande e forte che mantiene fermo il controllo sul mio collo, stringendo e scrollandomi quanto basta per farmi andare nel panico.
Poi un attimo. Quel secondo di lucidità, e lo sento allentare la presa su di me. Come se, anche solo per un attimo, fosse tornato l’uomo gioviale delle foto attaccate alla parete. Come se non stesse fingendo affatto, ma sia solo posseduto, in un certo senso, da un alito maligno che riesce a capovolgere la sua personalità buona. Ma so che fondamentalmente è solo l’effetto dell’alcool, che va e viene.
La cosa che più riesce a farmi male, più del suo dimenticarsi della sua famiglia, più delle accuse senza senso, e più di quel colpo al collo così pressante, è vederla: vedere che Alice, piccolissima nel suo pigiama blu e con in mano il peluche preferito, ha assistito a tutta alla scena, senza pronunciare una parola.
“Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo posto infernale. Scappa.”
«Alice, ti va di fare una passeggiata fuori? Dai, vestiti, andiamo a prendere un gelato insieme! È una bella giornata, non puoi stare chiusa qua dentro.» le dico nel tono più normale per cercare di tranquillizzarla, prendendole la mano, minuscola nella mia, e accompagnandola nella cameretta per vestirla. Nel frattempo, mio padre si è addormentato di nuovo, e so che non si sveglierà prima di stasera.
«Edo, perché papà ti aveva preso qua?» mi chiede, indicandosi il collo candido e pieno di lentiggini chiare con le mani. E adesso? Che dovrei rispondere a quel visino innocente in cerca di spiegazioni? Che stavamo giocando alla lotta?
«Te lo dico quando usciamo, va bene? Dai, adesso devi vestirti.» le dico, sviando la sua domanda e cercando di farla divertire mentre la vesto.
Fin da piccolissimi, nostra madre aveva inventato una specie di gioco tutto suo per farci sorridere quando, la mattina presto, ci svegliava per andare a scuola. Tirava fuori i vestiti da mettere e ce li metteva nei posti sbagliati: calzini nelle mani, maglietta sulla testa, cappello in un piede, sciarpe a mo’ di pantaloni. Aveva sempre fatto di tutto, pur di vederci felice. E in sua assenza, è compito mio portare un po’ d’allegria in casa.
Inizio col metterle le calze rosa a pois sulla testolina bionda, e sorrido vedendo il suo piccolo volto coprirsi di divertimento. Inizia a ridere senza riuscire più a smettere.
«Edo, ma che fai? Non vanno qui le calze, hai sbagliato!» mi rimprovera, con quell’espressione che cerca in tutti i modi di essere severa, ma che si trasforma ben presto in un sorriso enorme e divertito dal mio patetico errore.
«Davvero? E dove vanno, dove, principessa?» le chiedo scherzoso.
«Vanno qua, qua!» mi risponde con la sua voce squillante e adorabile, prendendomi la mano e mettendola con cura sulla sua testa. Ne approfitto per accarezzarla, come faceva sempre nostro padre quando ero piccolo, e le sussurro quel che prima diceva.
«Ma come farei io senza di te?»
Mentre lo faccio, mi abbasso alla sua stessa altezza, e le do un piccolo buffetto sulla guancia, prima di baciarla delicatamente sulla fronte. Anche questo lo faceva nostro padre con me. Ma non voglio ripetere solo quel che lui faceva, senza nulla in più. Così, mi avvicino ad Alice e, finendola di vestire nel modo giusto, la avvicino a me in uno dei nostri singolari abbracci. Se qualcuno ci vedesse adesso, potrebbe vedere un ragazzo piegato sulle ginocchia che abbraccia una bambina dai capelli biondi e lunghissimi che, con le sue braccia troppo corte e magre, riesce a malapena a stringergli il busto. In quella stretta imperfetta, ci sono le spiegazioni non date e quei baci sulla fronte che dovrebbe ricevere da quel mostro in cucina, ci sono gli incubi di ogni notte placati soltanto da qualche parola dolcissima o da una delle mie favole. In quell’abbraccio così nostro, forse vedrà una famiglia quasi del tutto normale, che non ha bisogno di nascondersi o di fingere davanti agli altri, ma che si mostra per quello che è senza timore del giudizio altrui, fregandosene di come appare il tutto.
Come spieghi ad una bambina che non avrà mai davvero un padre? Che probabilmente non sarà mai sobrio abbastanza da esserle accanto? Come le dici che qualche minuto fa neanche si ricordava di avere una figlia femmina? Come, come?
Sono stufo di tappare i buchi lasciati da una persona incapace di vivere, sono stufo di chiudere gli occhi davanti agli orrori consumati tra queste quattro mura. Sono stufo di una famiglia disastrata, infelice, incompleta, anormale. Ma non posso pensare a me. Non posso semplicemente andarmene, non posso ascoltare la voce che, minuto dopo minuto, mi urla di scappare via: questo non è un film, e io non sono il ragazzo complessato che può permettersi di prendere un treno e fuggire chissà dove.
Potrei. Ma sarebbe una condanna per le due donne più importanti della mia vita. Per la donna più coraggiosa che conosco e per la bambina più matura del mondo.
Faccio segno ad Alice di far silenzio mentre sgattaioliamo fuori dalla porta, sotto di noi il respiro irregolare e frettoloso di mio padre, che si è voltato su un fianco per dormire meglio sul divano, già dimentico dell’eccesso d’ira verso di me.
Riprendo la sua piccolissima mano nella mia, agganciandomi a lei con la sola forza dell’indice e del pollice, ai quali si aggrappa come se fossero il suo unico sostegno per rimanere in piedi. Come se senza di me fosse costretta a gattonare ancora. E le lascio credere, promettendo a me stesso che quella mano non la lascerò mai.
Scendiamo le scale, passando dai vari pianerottoli dai quali si sprigiona il buon profumo di un pranzo appena preparato: al secondo piano, appena sotto casa nostra, la porta socchiusa ci lascia intravedere una signora di mezz’età intenta a preparare una torta al cioccolato dall’aria invitante, al primo piano si può sentire l’odore di fritto uscire dalla serratura da quanto è denso, a piano terra la televisione troppo alta per poco non ci spaventa a morte. Sono guizzi di vita vera e cristallizzati come fotografie, un attimo prima ricche di sfumature, odori e colori e un attimo dopo già non ci ricordiamo più quel che la signora stava cucinando al secondo piano, troppo presi dai nostri pensieri folli e febbricitanti, troppo presi da noi stessi.
Viviamo in un mondo in cui nessuno si accorge se sei triste, felice, arrabbiato o confuso, in un mondo in cui anche le persone più intime pensano di essere apposto con la coscienza soltanto chiedendoti come stai. Credendo sia sufficiente. Troppo assorbiti da noi stessi per prestare attenzione alle vite degl’altri.
Decido di fare il tragitto fino al parco più vicino a piedi, per apprezzare al meglio la bella giornata di sole, ma soprattutto per regalare un po’ di luce ad Alice che, talmente abituata a stare in casa, si è già staccata da me per indicare e sorridere qualunque cosa e persona, causando il divertimento di molti passanti. La guardano intenerita, quella piccola Barbie con gli occhi verde chiaro, quegli occhi grandi e con ciglia lunghissime che, adesso, brillano appena vedono qualcosa di nuovo: prima una farfalla che si posa sul suo naso, poi una signora con un cane al guinzaglio, poi tornano su di me, come a volermi ricordare che io rimango il punto fisso da guardare.
«Ali, vieni qua e stai attenta che ora dobbiamo attraversare la strada! Dammi la mano, non puoi andarci da sola.» le dico, riconoscendo nella mia voce un vecchio calore paterno, appartenente alla mia scatola invisibile dei ricordi.
«Perché non posso andare da sola? Io sono grande.» si ribella lei, incrociando le braccia e mettendomi il broncio, offesa nell’orgoglio dalla mia proposta.
«Ma tu sei grande, tesoro. Ma è pericoloso, e non voglio che ti succeda nulla.»
La mia giustificazione le pare sensata, per questo mi affida di nuovo la sua mano per quel breve tratto di strada, continuando a saltellare ovunque, anche mentre stiamo attraversando. Nelle macchine ferme davanti a noi, i conducenti sorridono.
Alice ha questa specie di superpotere: riesce a portare allegria ovunque, nonostante la tristezza e la monotonia nelle quali è vissuta dalla nascita. Per lei il sorriso, la risata, sono un bisogno fisiologico, da trasmettere agli altri come una curiosa malattia. Quando vede qualcuno triste, anche un estraneo, o che sta piangendo, lei subito fa di tutto pur di vederlo sorridere: non si ridicolizza, non fa strane smorfie, né scimmiotta qualcuno che la fa ridere a sua volta. Lei riesce a far ridere di cuore.
E forse, il vero supereroe da imitare è lei, la piccolina di casa. Quella piccola donna che fa nascere il sorriso sul volto di chiunque la incontri.
Dopo vari isolati a piedi, ci fermiamo poco dopo l’entrata del parco, di nuovo mano nella mano, alla ricerca di un chiosco dei gelati non troppo lontano da noi.
La vedo, seduta su una panchina a due passi da me.
Si tormenta con le dita i capelli rosso ramato, che le ricadono mossi fin sotto alla schiena, in una cascata arancione priva di tinte o di correzione. Sono naturali, come lei. Le lentiggini le punteggiano il viso, come a voler creare un disegno se una persona a caso volesse unire quei punti tra loro. Gli occhi azzurri sono velati di lacrime chiare, che le solcano la pelle diafana e le scivolano in fretta sul viso paffuto, soffermandosi qualche secondo in più sulle guance morbide. Il bel corpo, che io so essere magro ma con le curve nei punti giusti, è nascosto dietro un maglione marrone scuro, troppo grande e inadatto per il caldo che fa. Come se volesse nascondersi, come se una parte di lei fosse cambiata e lei non volesse farla vedere agli altri. I capelli rossi sono scomposti, indomati, per una parte attorcigliati sulle sue dita esili che, per quel tremore che le sta scuotendo, potrebbero strapparsi da un momento all’altro, perdere la loro forza in un attimo. Sembra piccolissima, fragile come carta. Non si limita ad un pianto composto, alle lacrime subito tamponate da un fazzolettino. Singhiozza, lei è scossa da quel dolore palpabile. Un dolore che non si limita a tenere per sé, che vorrebbe passare a qualcuno.
Sembra aver trovato in quella panchina verde un rifugio, una specie di igloo nel quale solo lei può entrare. Un rifugio che la rende invisibile, che copre le sbavature. Che la rende allegra e cancella la tristezza, come una gomma.
Guardo Sofia, e in lei non vedo più la ragazza forte che, per qualche mese, era stata la mia ragazza, prima di trasferirsi in un’altra città senza dare spiegazioni. Sparita come una macchia da una maglietta bianca. Con la rapidità con cui una lacrima cade da un occhio, con cui gli occhi si chiudono.
Se c’è qualcosa di cui Alice non sa fare a meno, è la felicità degli altri. Le si appiccica addosso come una pellicola e finché non riesce a liberarsene non molla. E per quanto potrei provare a fermarla, so che si avvicinerà a Sofia. So che proverà, con le poche parole che conosce, a capire cosa non va in lei, come se i problemi che tanto tormentano i bambini fossero paragonabili ai problemi normali. Se solo fosse così semplice.
Come potevo immaginare, vedo Alice avvicinarsi a lei, ma non con la solita irruenza che fa tanto ridere chiunque. Le si avvicina in punta di piedi, con la paura di far rumore che è tanto abituata ad usare in casa. Una ballerina che cammina sulle punte. Come se sapesse che lei è diversa, che è tremendamente vicina alla rottura.
Si siede accanto a lei con dolcezza, prendendo le sue mani nella sua, piccolissima.
Sofia, sorpresa dalla sua apparizione, le rivolge un sorriso stanco, di chi davvero non ne può più di lottare contro la sua ombra. Le accarezza il viso, sfiorandole gli zigomi pieni con la punta delle dita, visibilmente bagnate.
«Perché piangi?» le chiede, richiamando la sua attenzione con un colpetto sulla spalla, che spinge Sofia a rivolgerle il suo sguardo, senza poterla evitare.
Sofia cerca di trattenere i singulti, si dà un contegno davanti a quella bambina così piccola. Vuole prendere in mano una situazione che le sfugge da troppo tempo.
Io, nascosto da qualche albero, assisto alla scena senza intromettermi. Sento il cuore scoppiarmi in petto, vuoi per la rabbia di rivedere Sofia dopo la sua fuga improvvisa di due anni fa, vuoi perché vederla mi fa, e mi farà sempre, effetto.
Alice si avvicina ulteriormente a Sofia, scordandosi della mia presenza per un attimo. Sentendo quel briciolo di indipendenza a cui la sua tenera età può aspirare.
Le sue piccole gambe, avvolte dai calzettoni colorati, toccano appena le cosce magre di Sofia, un’ombra nei jeans slargati che si è messa. Tutto è troppo largo, tutto sembra un pretesto per nascondersi dietro a qualcosa della taglia sbagliata. Ora come ora, sembra quasi difficile distinguere chi delle due sia una bambina.
«Non è facile da spiegare, sono problemi da grandi, piccolina.»
Alice, perplessa, non frena la sua curiosità, quando chiede: «Come da grandi?»
Sofia la guarda con dolcezza, rivedendo in quella di mia sorella una versione precedente di se stessa, meno spigolosa e più morbida. Il viso esprime in pieno la sua sorpresa quando Alice, con tutta la spontaneità che una bambina può esprimere, libera le sue piccole mani dalla sua, come a volerla scacciare via con cattiveria.
«Io sono grande, lo ha detto anche Edo!» protesta lei, scalciando i piedini.
Al sentire quel soprannome Sofia sembra illuminarsi. Come se sapesse che, da qualche parte, io sono lì a guardarla di nascosto.
«Com’è che ti chiami, tesoro?» chiede Sofia, improvvisamente interessata.
Per sottolineare la sua curiosità le offre un fazzoletto candido con cui scacciare via le lacrime, aiutandola in quell’operazione quotidiana quanto significativa.
«’Lice.» risponde semplicemente lei, mangiandosi appena l’iniziale del nome.
Un soffio d’aria gelida scompiglia i capelli di entrambe e spinge Sofia a coprire mia sorella con un gesto del braccio, accogliendola vicino al suo corpo esile quasi a volerla riparare da quello spicchio d’inverno improvviso. Come due sorelle.
«Vedi, Alice, io lo so che tu sei grande, ma quando i grandi piangono spesso non sanno nemmeno perché lo fanno. Come quando lo fanno i bambini piccoli piccoli, che piangono e nessuno capisce mai il motivo. Per me è così.»
Alice sembra riflettere su quelle parole veloci, gli occhi socchiusi per pensare meglio.
«Io quando piango poi abbraccio la mamma e passa tutto.»
La voce squillante di mia sorella mi fa sorridere, portandomi un soffio della sua dolcezza. Sofia, dal canto suo, sorride con un velo di tristezza negli occhi, lo sguardo di chi sa, in un angolo del cuore, di non sentirsi a casa.
«Sì, ma per noi grandi ci vorrebbe l’abbraccio di qualcun altro.» confessa Sofia, osservando un punto lontano nel cielo, cercando lo sguardo di questo qualcuno che lei vorrebbe tanto ritrovare. Un qualcuno che possa riaccendere i suoi occhi verdi.
Alice cerca una nuova risposta per far crollare le salde convinzioni di quella strana ragazza sulla panchina, ma per una volta dalla sua bocca minuscola non esce un suono. Questo silenzio prolungato sembra metterla a disagio. Si alza dalla panchina con un piccolo balzo, appoggia i piccoli piedi sull’erba soffice del prato, atterrando con la grazia di una ballerina. E come se fosse la cosa più naturale del mondo, invita Sofia a fare lo stesso, tentando di alzarla con le sue mani.
«Attenta piccolina, ti fai male così!» la ammonisce Sofia, alzandosi di fronte a lei.
Alice sorride timida, quando le dice in un sussurro: «Se vuoi ti abbraccio io.»

 

 
 
 Spazio autrice: 

Non sono mai stata brava con gli spazi autrice, ma questa storia per me è uno sforzo enorme.
Spero che vi entri nel cuore, che vi faccia sognare, ridere e piangere. Parte dei capitoli sono stati scritti un anno fa, alcuni sono ancora da scrivere.
Che dire? Questa storia è una parte di me, quindi vorrei ringraziare chi legge, chi ha recensito e chi mi ha messo tra preferite/seguite.
E, giusto per dare un volto ai personaggi, vi linko i prestavolto che ho scelto per i vari personaggi.
Nel banner riconosciamo:
Edo (il ragazzo biondo),
Matteo (http://31.media.tumblr.com/tumblr_ly7y1ddEqs1qag9xpo1_1280.jpg)
Sofia (http://media-cache-ec0.pinimg.com/736x/42/f0/a6/42f0a6122d06188a3c0bec41f6974212.jpg) 
In più, ci sono
Elena (http://www.fashiongonerogue.com/wp-content/uploads/2013/05/candice-vogue-shoot5.jpg)
e Alice (http://www.pinterest.com/pin/39406565463143661/) 
 
Al prossimo capitolo!
E.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


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Capitolo 3

 

                              

Ho chiesto a Matteo di uscire anche stasera: solito pub, solito amico. Quando mi ha chiesto il motivo di tanta urgenza ho preferito sorvolare, riassumendo il tutto con un semplice «Ti spiego tutto stasera». E so che quando si tratta di Sofia non è facile nemmeno cominciare il discorso, sputar fuori le parole. Il riflesso che lo specchio mi rimanda indietro mi fa riflettere. Forse, per colpa della mia indole di sognatore ad occhi aperti, forse per il gioco che avevo inventato da piccolo, proprio davanti allo specchio. Mi vestivo, mi pettinavo i capelli e poi, nei cinque minuti che mi rimanevano, improvvisavo smorfie per ogni occasione: un bel sorriso per ringraziare dopo un complimento, una lacrima per un livido scoperto dopo mesi, un urlo di protesta. Quando raccontavo a mia madre di questo mio gioco lei mi prendeva in giro, diceva che sarei diventato un attore ottimo da grande. Quello che non immaginava era che quella mia abitudine non voleva trasformarsi in lavoro. Che da quelle mie smorfie sarebbe derivata l’attitudine a fingere, a scappare dalle emozioni vere per rifugiarmi in un mondo composto da sorrisi e pianti fittizi. E adesso, una dozzina di anni dopo, mi limito a guardarmi, a studiare il mio riflesso come se non mi appartenesse. I capelli biondo chiaro non ne vogliono sapere di prendere la forma che vorrei dare loro, stanno spettinati come al solito. Gli occhi blu non se ne stanno fermi un attimo, incapaci di fissarsi su un punto solo. Un po’ come me: in bilico. Penso a Matteo, intento ad aspettarmi con la sua nuova macchina sotto casa, l’orologio in mano quasi a cronometrare il mio ritardo perenne. Mi scopro a sorridere senza sforzo. Perché le cose che ti piacciono non le vuoi far aspettare nemmeno un minuto. Arrivi in anticipo per fare uno sgambetto all’attesa, alla paranoia. Regali sorrisi come fossero fiori, senza che farlo ti pesi. Perché quando sei felice e lo sei con qualcuno, senti che niente può andare storto.

Prendo le chiavi di casa e il portafoglio, con la mano libera accarezzo al volo Alice, come a ricordarle che nemmeno con tutta la fretta del mondo la dimenticherei. Mia madre, nel salutarmi, si raccomanda come fa ogni volta che esco con Matteo. Nonostante lo conosca dalla nascita, il suo modo di divertirsi e di farmi divertire con lui non l’ha mai attirata più di tanto. Ma piuttosto che vedermi sorridere, che non farebbe? Mi bacia sulla fronte, lasciando una microscopica impronta che mi rimane impressa sulla pelle, come quando ero un bambino. Mi dice di non bere tanto, che stavolta tocca a me guidare al ritorno. Come se cambiasse qualcosa. Se le cose brutte arrivano, non si fermano certo per bussare ed avvisare. Arrivano e basta, spazzano via tutto, senza lasciare campo libero. Ma cosa potrebbe mai capitarci?

La macchina sportiva di Matteo, scura come la notte, spicca nella sua brillantezza. Matteo, dal canto suo, se ne sta al posto del conducente con l’aria fiera di chi sta per guidare per città intere senza nemmeno accorgersene. Da quando i suoi gli hanno regalato la macchina, la usa anche solo per fare cento metri. Per sfoggiarla. Non nel senso più negativo del termine. Come chi vuol far vedere a tutti qualcosa che ha tanto desiderato e che ha ottenuto. D’altra parte io, quando vedo quella lucentezza blu cobalto, vedo solo una macchina. Un volante, quattro ruote e una bella carrozzeria. Un bel colore scuro. Mi siedo al posto del passeggero inizialmente senza troppo trasporto, aprendomi in un sorriso alla vista del sorriso di Matteo che, con una naturalezza totalmente dettata dall’abitudine, mi regala uno dei suoi abbracci veloci, caldi e spaventosi come la scossa. La radio passa una canzone che non conosciamo, ma che ci sforziamo di cantare. Io e Matteo siamo così: sempre intenti in quello che non sappiamo fare. E a cosa può mai servire la radio, quando c’è il suono della sua voce a farmi compagnia? Cosa saranno mai le parole di uno sconosciuto, se messe in confronto con le sue, con quei gesti che ci scambiamo inconsapevolmente da anni? Piccolezze, dettagli stupidi.

«Cos’è tutta questa voglia di vedermi? Sentivi la mancanza di questo bel visino?» mi chiede scherzosamente Matteo, indicando il proprio volto con un gesto circolare della mano, passando qualche secondo di troppo a guardarmi coi suoi occhi languidi. Uno sguardo che so reggere senza far trapelare nulla.

 «Quanto sei stupido! Devo parlarti di una cosa senza avere Elena tra i piedi, tutto qui.» Sfogo il mio risentimento senza trattenermi, senza paura di sbagliare.

«Ehi, piano con le parole! È pur sempre la mia ragazza.» mi riprende lui.

O forse mi sbagliavo. «Va bene, scusa. Possiamo semplicemente non nominarla per una sera?»

«Questo lo decidi tu, sei tu che trovi sempre un pretesto per parlarne.» ribatte polemico. Gli do una piccola pacca sulla spalla, come a ricordare che questa è la nostra serata, che non sarà lo spettro di Elena, abbinato a qualche cocktail particolarmente forte che Matteo non saprà reggere, a rovinare tutto come sempre. Non può essere presente anche non essendoci fisicamente.

«Ma di chi mi devi parlare stasera?» Il tono della domanda di Matteo non mi stupisce: la sua curiosità è leggendaria.

«E chi ha mai detto che si tratta di una persona?» replico io, sulla difensiva.

«Fammi indovinare. Scontroso, non vuoi dire di chi si vuol parlare, hai detto di avere molto bisogno di parlarmi, quando sappiamo entrambi che ci siamo visti ieri… Sofia!»

Maschero il mio sguardo preoccupato con una risata che smorza un po’ la tensione. È inutile cercare di nascondergli qualcosa: basta un’occhiata storta, una risposta con un tono diverso dal solito o anche solo una richiesta apparentemente banale. Potrei mentire a me stesso senza nemmeno accorgermene. Ma quando si tratta di lui, fingere diventa un’impresa ardua. Anche con tutte le smorfie davanti allo specchio del mondo.

«Adesso mi spieghi come hai fatto.»

«Semplice, ti conosco troppo bene. Dai, scendi, Innamorato, che siamo arrivati.» Sospiro, sento il cuore più leggero. Una preoccupazione in meno, un nodo in meno da sciogliere. Il rapporto che si è creato tra noi è complementare, e mi fa star tranquillo. Il locale che frequentiamo è lo stesso da un paio d’anni, da quando ci permettono di star fuori fino a tardi senza doverci chiamare ogni quarto d’ora. Da qualche tempo ci siamo creati una tradizione da seguire: quando qualcosa non va, o c’è qualcosa di importante da dire, ci troviamo sempre qua. Il proprietario del locale, un ragazzo che avrà qualche anno più di noi, ci saluta con un cenno della mano accompagnato da un sorriso radioso, chiedendo ad una cameriera di portarci al nostro tavolo. Proprio nell’angolo del locale, appena sotto la luce al neon bianca che rende tutto un po’ opaco e ruvido, con la cassa della musica non troppo vicina, abbastanza lontana da non perdere un timpano ogni volta che ci dobbiamo parlare.

Il locale, piccolo anche se sempre stracolmo di persone, è diventato il nostro rifugio. «Cosa vi porto, ragazzi?» chiede la ragazza, ammiccando in direzione di Matteo.

«Fai tu, ci fidiamo!» risponde Matteo, facendole un occhiolino che la fa sorridere. La cameriera, su di giri per quella piccola conquista, se ne va via quasi correndo a passi piccolissimi, volando sui tacchi alti come fosse a piedi nudi. Matteo, dal canto suo, ride.

«Non ti basta Elena, eh?»

«Come sei esagerato, Edo! Ho solo trovato un modo per avere uno sconticino.» Nella sua leggerezza, anche solo giudicarlo male mi è impossibile. Matteo saluta con un’occhiata eloquente la cameriera che, ancora più velocemente di qualche minuto fa, è già di ritorno con le nostre ordinazioni, traballanti sul vassoio. Qualche lamentela si leva dai tavoli in fondo, scontenti di quel servizio così repentino.

«La prossima volta provo anch’io a rimorchiarti, magari sei più veloce!» grida qualcuno. La ragazza, troppo impegnata a perdersi nel sorriso brillante di Matteo, che sembra avere occhi solo per lei per quel momento interminabile, non sembra accorgersi delle lamentele e ci serve i drink come se nulla fosse.

«Sei stata gentilissima, grazie! Adesso puoi andare.» la liquido io. Il mio tono non particolarmente accogliente la spinge ad allontanarsi atterrita. Matteo mi ammonisce con lo sguardo prima di riprendere la parola.

 «Dimmi che è successo con Sofia, dai.»

Prendo fiato, come se qualche boccata d’aria non basti quando si parla di lei, dello sguardo triste che aveva appena qualche giorno fa al parco, delle lacrime grandi e chiare. Mi schiarisco la voce e prendo coraggio.

Racconto tutto: del parco, di come ho lasciato avvicinare Alice ad una Sofia particolarmente triste, della mia paura di farmi vedere. Non tralascio niente, nemmeno quell’attimo in cui avrei davvero voluto farmi riconoscere da lei e abbracciarla. Mi perdo, descrivendo la rassegnazione dei suoi gesti, la stanchezza dei suoi occhi. Non nascondo il rimorso, la paura e la voglia di poter tornare indietro per cambiare le cose, per trovare quel poco coraggio che mi avrebbe fatto affrontare la situazione. Matteo si prende un momento per rispondermi, evita qualsiasi interruzione.

«Hai avuto paura, Edo. Però non riesco a capire.»

«Figurati io.» sospiro io, rassegnato.

«Non capisco perché ti fa quest’effetto. Insomma, sono passati due anni.» Matteo conficca il suo sguardo interrogativo dritto nel mio, come a voler cercare un barlume di speranza, una base da cui poter partire per ricominciare.

«Eppure quei due anni sembrano aver perso importanza. O almeno, questo è quello che ho provato oggi.»

 «Stiamo parlando degli stessi due anni in cui avevi promesso di aspettarla e di capirla, mentre lei stava chissà dove a spassarsela?» mi chiede con una punta di sarcasmo Matteo, avvicinandosi il bicchiere alla bocca, bevendo una bella sorsata di un drink che non riconosco.

 Cerco di ripensare a quei due anni, tentando di trovarci qualcosa di positivo da poter schierare a favore di Sofia. Mi accorgo di non avere niente da cercare subito dopo.

«In effetti, non sono stati due anni facili, quelli.» ammetto.

 «Mi prendi in giro? Avevi la voglia di vivere di mio nonno! Ti ho scarrozzato da una festa all’altra per settimane e tu avevi anche il coraggio di tornare a casa dopo un’ora.»   Rido con lui, ricordando il pessimismo di quei giorni, di quelle notti in cui tutte le ragazze me la facevano ricordare. Quando il sorriso di una sconosciuta me la riportava alla mente, come se la sua allegria fosse la soluzione a tutti i nostri problemi. Alla sua fuga improvvisa che, tuttora, non so spiegarmi.

«E con questo che vorresti dire?»

«Che Sofia ti destabilizza. Non è la persona che ti offre la mano per rialzarti, ma è quella che ti butta giù.» sentenzia Matteo, con la sua leggerezza caratteristica che toglie amarezza un po’ a tutto. E in fondo so quanto ha ragione.

«Matt, posso chiederti una cosa?»

«Al suo servizio, signore!» risponde, compiendo una piccola riverenza scherzosa. «Cosa dovrei fare? Buttare via il fatto che sia tornata?»

Un sapore amaro mi secca la gola. Sa di sconfitta.

«Non ho detto questo. Per una volta, non arrovellarti su Sofia, e pensa ad altro.» mi esorta Matteo, catapultandomi in una vita diversa, presa per quello che è. Una vita fatta di momenti e non di preoccupazioni. Come quella di qualsiasi diciottenne che si rispetti.

 «A partire da ora!» esulta lui, lasciando perdere le parole e passando ai fatti. I suoi occhi marroni brillano di vita, le luci del locale quasi risplendono in lui, con maggiore intensità di quella usuale. Tutto, in lui, brilla un po’ di più.

«Che vuoi fare? Devo ricordarti che sei fidanzato?»

«Scappiamo per un po’.» dice Matteo, strattonandomi con forza verso l’uscita, dimenticandosi di pagare il conto.

«Tanto chi vuoi che se ne accorga?» urla, chissà se a me o al mondo intero. Non ha mezze misure, Matteo: o tutto o niente, senza sfumature. Senza colori che si mischiano per crearne di nuovi.

«Dove hai intenzione di andare? Domani hai anche scuola.»

«Vorrà dire che domani sarò molto malato!» risponde con aria divertita Matteo, diventando man mano paonazzo per fingere un colpo di tosse convincente. E con la media che si ritrova a scuola, da vero ragazzo modello come i suoi hanno sempre sperato, un giorno in meno tra quelle quattro mura non potrà certo nuocergli.

Decido di guidare al posto di Matteo, fin troppo preso dall’idea di una fuga verso chissà dove, verso un posto troppo lontano perché le ombre possano raggiungerci. Per evitare impicci, avverto mia madre che stasera dormo da Matteo, e lui fa lo stesso con la sua. Sento il suo profumo, fresco e frizzante come il suo modo d’essere, inebriarmi la mente e invadere di prepotenza tutta la macchina, rendendo le cose più difficili del solito. Ma, si sa, ormai sono un maestro della finzione. Le stelle sembrano guidarci e, senza metterci d’accordo, capiamo all’unisono la giusta strada da seguire. Una strada che odora di salsedine e sabbia fresca che rimane incastrata dappertutto, la strada verso il mare che tutti hanno dimenticato ormai da settimane. Tutti, tranne noi due. Le stelle più luminose del cielo. Due ore volano sotto le ruote della macchina che, come se scorresse sul velluto, prende ogni curva con velocità e leggerezza, quasi fosse un’appendice improvvisata di ogni mossa tipica di Matteo. Anche se al volante, tecnicamente, ci sono io. Matteo, dal canto suo, si limita a cambiare ossessivamente stazione radio, canticchiando sprazzi di canzoni che conosce e inventandosi nuove parole per quelle che sente per la prima volta con me, coinvolgendomi nella sua risata chiara quando se ne esce con una delle sue. Con la sua allegria contagiosa che mi fa dimenticare per un po’ quanto possa essere ingiusto dover fingere persino con lui.

Solo quando arriviamo nella prima spiaggia che troviamo sul lungomare capiamo quanto sia normale pianificare le cose: il cancello chiuso si staglia tra noi e la spiaggia argentea sotto la luce della luna come fosse un muro di mattoni.

«E adesso che si fa?» chiedo io, già pronto a dover tornare indietro per nulla.

 «E me lo chiedi? Hai due gambe: usale.» risponde Matteo, senza scomporsi. Come a voler dare il buon esempio sul da farsi, Matteo si dà la spinta e inizia ad arrampicarsi con maestria sul cancello che, sotto i suoi piedi agili, sembra scorrere fin troppo facilmente. I piedi non sbagliano un colpo, le mani sembrano delle ventose per quanto sono capaci di attaccarsi alla vecchia inferriata senza scivolare mai. Lo sforzo fa gonfiare i muscoli delle gambe e delle braccia, che pulsano armonici, come in una danza. La fatica di non guardare come vorrei diventa quasi impossibile da sostenere. Dopo un attimo di difficoltà, nel momento in cui con una gamba deve darsi lo slancio per passare dall’altra parte del cancello, Matteo finalmente si lascia andare con naturalezza, atterrando con una delicatezza quasi innaturale sulla sabbia umida. «Cosa aspetti? Dai, scavalca, forza!» mi incita lui, scuotendo il cancello con forza. Dopo un momento di incertezza, la paura viene vinta dalla voglia di raggiungerlo. Il suo sorriso sembra scintillare a contrasto con il buio che ci circonda.

Cerco di imitare le sue mosse, col risultato di un bambino goffo che tenta di seguire i gesti che il padre vorrebbe insegnargli. Al momento, assomiglio ad una caricatura di Matteo, coi piedi che non fanno che scivolare e le mani sudaticce che non aiutano nell’impresa. Matteo non trattiene una risata spontanea, incitandomi con i suoi «Dai, forza, ci sei quasi, ancora un passo e sei dall’altra parte» anche se, puntualmente, i passi da fare sono più di uno. Mi concentro sul suono della sua voce, invitante, e mi lascio cadere sulla sabbia, trovandomi sdraiato per terra senza sapere come ci sono arrivato. Non faccio in tempo a rialzarmi che Matteo subito mi riempie di sabbia, senza ascoltare le mie lamentele che, mucchietto dopo mucchietto, si fanno sempre più deboli, fino ad arrendermi alla sua voglia di giocare come bambini. Quando sento la sabbia finirmi sotto la maglietta, mi alzo con uno scatto, spingendo Matteo per terra e afferrandolo per i piedi.

 «Ora ti faccio vedere cosa succede a riempirmi di sabbia!» urlo io, privo di qualsiasi inibizione, come se al mondo ci fossimo solo noi due. Faccio finta di non sentire le suppliche di Matteo che, pur di non essere buttato di peso in mare, cerca di far forza sulla sabbia sottostante, aggrappandosi ai granelli con tutta la forza che gli rimane e creando così dei piccoli solchi in corrispondenza delle sue mani. Quando si arrende, la sua risata chiara si mescola con la mia, mi riporta a quando nessun problema sarebbe mai stato in grado di allontanarci. Quando non c’erano ragazze, quando per descrivere la nostra amicizia bastava una parola: semplice. E mentre il vento pigro di inizio settembre ci scompiglia i capelli, sento che l’amore che mi lega a lui non renderà mai più possibile descriverci come semplici. Perché l’amore tutto può essere tranne che semplice. Io lo so bene.

La sabbia sotto i nostri piedi si fa sempre più umidiccia, i piedi, a stento dentro le scarpe, affondano senza troppe difficoltà mentre le onde si increspano dietro di noi. Matteo, ormai disteso in tutta comodità, si lascia buttare in acqua senza opporre più resistenza, alzandosi improvvisamente quando entra in contatto con l’acqua gelida e trascinandomi dietro di lui. Finiamo dentro l’acqua con facilità, le onde ci fanno mancare la terra sotto ai piedi. L’acqua gelida ci fa rabbrividire, sento i vestiti diventare sempre più aderenti. Troppo infreddolito, seguo Matteo che, prima di me, è già uscito dall’acqua. Rimpiango i vestiti asciutti di pochi minuti fa, quando sento un rivolo di vento notturno alzarmi appena la maglia, ormai attaccata alla pelle per la troppa acqua. Mi volto appena e, nel buio, incontro lo sguardo sofferente di Matteo, le braccia di entrambi si ricoprono ben presto di brividi di freddo, evidenziandone la fisionomia: forti e muscolose quanto basta le sue, magre e del tutto inconsistenti le mie. E lo so io cosa ci vorrebbe per dare un po’ di calore alle mie braccia mingherline. Mi avvicino a Matteo, disteso sulla sabbia, i granelli attaccati ai vestiti fradici. Gli occhi rivolti verso le stelle, i pensieri che volano verso il cielo fino a dissolversi, rinascendo un attimo prima di scomparire per poi tornare alla mente. Strofino le mani una contro l’altra per scaldarmi appena, ottenendo scarsi risultati.

 Mi sdraio accanto a Matteo, appoggiando la testa sulla sabbia fresca, morbida come il cuscino che mi aspetta a casa.

 «Ci voleva una serata così.» butto lì, per spezzare il silenzio. Perché se c’è una cosa che amo fare è riempire le pause silenziose di parole, qualunque esse siano. «Decisamente. Fa bene scappare via, ogni tanto. Dovremmo farlo più spesso» risponde lui, spostando il suo sguardo dalle stelle a me, la stanchezza di queste ore passate insieme che non lo sfiora neanche. Mi costringo a tenere gli occhi aperti, e godo di questo momento così nostro.

«Ma a volte non basta scappare via. Dio, è tutto così complicato una volta tornati a casa. Vorrei solo che le cose fossero semplici.»

«Ti riferisci a Sofia? È più facile di quanto tu non creda.» La voce secca di Matteo scuote ogni mio proposito.

«Come fai a dirlo?» domando io, incuriosito.

«Se ami qualcuno, niente è davvero difficile. Lo sai e basta, anche se fai di tutto per non ammetterlo. E poi, i tuoi occhi parlano.» aggiunge Matteo, con un sospiro rumoroso che gli dona un’aria pensierosa, riflessiva, diametralmente opposta al suo modo d’essere.

«I miei occhi?»

«Per chi ti conosce, si vede se a qualcuno ci tieni. Basta guardarti negli occhi. Quelli non mentono mai, sono una specie di garanzia. Tu la ami, si vede anche al buio. E se me ne sono accorto io, dovresti farlo anche tu.»

Matteo sbadiglia, improvvisamente pieno di sonno. Si alza, facendo forza sui gomiti, e mi avverte che, se voglio, lo trovo in macchina a dormire. Annuisco, inventandomi qualcosa pur di rimanere solo per un po’. È questo che succede a chi vive di bugie come me: prima o poi, una di esse ti intrappola, fino a convincere anche chi ti circonda. Spazza via tutto, fin quando non rimane nulla. Arriva il momento in cui l’amore per una persona è ingabbiato in quell’immensa finzione.

«Si vede anche al buio. Tu la ami.»

 Le lacrime scendono sulle guancie e fanno quasi male, perché sanno di verità. E con Matteo a pochi metri, basterebbe così poco.

«Per una volta ti sei sbagliato, Matt. Non è Sofia che amo.» dico ad alta voce tra me e me, quasi provando un discorso imparato a memoria, privo di sentimenti.

«E chi, allora?»

 Matteo non è più in macchina. È dietro di me e aspetta una risposta.

 

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


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Capitolo 4

 

La nottata al mare passata con Matteo è volata via da più di una settimana. Sette giorni in cui mi sono prefissato un solo obiettivo: evitare Matteo più che posso, evitando di conseguenza anche le sue domande continue. Quella notte, non è stato semplice sviare la sua curiosità. Ho provato a cambiare discorso e, vedendo che non avrebbe mai potuto funzionare, ho finto che quella frase detta tra me e me fosse solo frutto dell’alcool ingerito da Matteo ore prima. Lui, sfinito, ha lasciato cadere l’argomento, giusto per darmi qualche giorno in più per macchinare l’ennesima bugia. Niente è mai stato in grado di spegnere la curiosità innata di Matteo  da quando lo conosco, soprattutto quando si tratta di me.

Il telefono squilla insistentemente e, quando riattacco ancor prima che Matteo possa rispondere, spingendomi con la sua bella voce a cambiare idea, capisco quanto quel che provi per lui sia in grado di allontanarlo da me. Proprio l’amore, l’eterno collante di cuori infranti e storie sbagliate, adesso me lo sta portando via. E quello che fa più male è sentirlo scivolare via essendo perfettamente consapevole del fatto che non posso fare niente di concreto per trattenerlo qui con me.

 E, come se non bastasse, c’è Sofia. La ciliegina sulla torta.

Sento la testa pesante, il silenzio della casa vuota non riesce a farmi stare meglio. Per la prima volta dopo anni, sento addosso un senso di solitudine. Troppo piccolo in una casa troppo grande. Mi alzo dal letto, nel quale ormai non facevo altro che rigirarmi, incapace di prendere di nuovo sonno. Mia madre è con Alice dal dottore, mio padre, sbronzo in qualche locale sporco e piccolo come lui. Senza nemmeno togliermi il pigiama, costituito da una vecchia tuta usata per le ore di ginnastica fino all’anno scorso, infilo le scarpe, quasi corro fuori da quella casa poco mia. Faccio le scale a due a due, spinto da una fretta che non mi appartiene, da un vento che spinge i piedi in avanti e fa battere il cuore ad un ritmo serrato. Seguendo una direzione scelta istintivamente, vedo davanti a me una fermata dell’autobus e decido di prendere il primo che passa, ignorandone volutamente la destinazione.

Per una volta, dopo anni, mi concedo una fuga in solitaria, pronto a tutto pur di lasciarmi alle spalle il fantasma di Sofia che, da troppo tempo, non fa che perseguitarmi, senza darmi tregua.

Cerco un posto libero sull’autobus, già stracolmo di gente a quest’ora. Attraverso il piccolo corridoio, voltandomi spesso. Noto un posto tra i sedili in fondo, quelli che sembrano essere stati  fatti col solo scopo di fungere da nascondiglio a chi ci si siede. Mi accorgo che accanto al posto vacante se ne sta seduta una ragazza incappucciata, di spalle rispetto al mio sguardo, ma la mia pigrizia vince il non gradire persone attorno. Prendo posto, le cuffie già nelle orecchie per allontanarmi da quello che mi circonda, ma un tocco leggero sulla spalla mi scuote. Una mano candida, piccola, è appoggiata sulla mia spalla e in quell’istante capisco dove avevo già visto quella mano. Quella mano minuscola era, fino a due anni fa, sempre stretta alla mia. Pur essendo già a conoscenza di chi mi ritroverò davanti, risalgo con lo sguardo lungo le braccia della ragazza, coperte da una felpa ingrigita, i polsi delicati che spuntano quasi per sbaglio. Continuando il mio percorso, scorgo un ciuffo di capelli ramati che, disordinatamente, scappano fuori da ogni dove. Mentre una canzone risuona nelle orecchie, alzo ulteriormente lo sguardo fino a imbattermi nel viso. Ed è quando incontro quegli occhi azzurro cielo che capisco di essere felice di averla incontrata di nuovo. Sofia mi scruta con la stessa precisione che io stesso le ho dedicato, aprendosi in un sorriso quando capisce che l’ho riconosciuta. Le guance paffute, ricoperte di lentiggini, prendono istantaneamente colore, diventate ora di un rosso molto simile a quello delle labbra, tutte da baciare.

Un sorriso imbarazzato, di chi davvero non sa cosa dire, la illumina.

«Edo. Sei davvero tu? » mi chiede, conoscendo già la risposta. Ancor prima che io abbia il tempo di risponderle con un cenno divertito, data la risposta ovvia, lei si precipita ad abbracciarmi, perdendo l’equilibrio quando l’autobus prende male un dosso e finendo così, conseguentemente, tra le mie braccia.

Sofia arrossisce di conseguenza, avvampando quando cerca di districarsi  dalle mie braccia, incastrati l’uno nell’altra come fossimo un puzzle. I nostri abbracci sono sempre stati così: un gioco ad incastro, un riempirsi a vicenda con dolcezza.

La guardo ancora e in lei rivedo la ragazza che mi aveva fatto soffrire.

Fuggita via, senza voltarsi indietro per dirmi addio.

«Ciao Sofia. L’ultima volta che ti ho visto stavamo ancora insieme.»

Reprimo un “mi sei mancata” che se ne stava sulla punta della lingua da quando l’avevo vista giocare con Alice al parco. La sua espressione perennemente allegra si rabbuia, preda del senso di colpa che è impossibile non notare nei suoi occhi.

Sofia, nervosa, arrotola e srotola la ciocca di capelli al di fuori del cappuccio ingrigito, ancora calato sulla fronte. Sembra essere rimpicciolita tutta insieme.

Nel suo viso noto la paura di dire la cosa sbagliata, gli occhi che guizzano da una parte all’altra come se, attorno a noi due, stessero fluttuando tutte le parole che lei non è in grado di dirmi, che sembra voler catturare con la forza dello sguardo.

«Non aver paura, non mordo mica, eh.» le dico scherzosamente, cercando di smorzare una tensione che, dopo due anni di distacco, si è venuta a creare con fin troppa naturalezza. Sofia prende un respiro profondo, come se dovesse immergersi nelle acque più profonde, e finalmente mi rivolge lo sguardo senza poi avere fretta nel guardare qualcos’altro o qualcun altro sull’autobus.

Ci siamo solo io e lei, soli, in un autobus affollato verso chissà dove.

«Comincia tu. Se inizio io a parlare mi incasino e basta.»

La voce di Sofia è finalmente decisa, nonostante le incertezze che cerca di nascondermi. Imitandola volutamente, respiro con calma, cercando di arraffare quanto più fiato e coraggio possibile e, allo stesso tempo, di reprimere la rabbia.

«Prima di dirti quel che ho da dirti, promettiamoci una cosa. Niente bugie e niente omissioni, per oggi. Io ti dirò tutto, e tu farai lo stesso con me. Ci stai?» le propongo io, risoluto.

«Mi sembra il minimo che tu possa chiedere. Inizia.» mi incita lei. Si mette comoda come può sul sedile dell’autobus e appoggia la testa sulla mia spalla, con quel gesto abitudinario di chi conosce il corpo di chi le sta accanto.

La sua vicinanza improvvisa mi colpisce.

Sento chiaramente il profumo fresco che emanano i suoi capelli: un misto di fiori dolce, quasi impercettibile a causa del cappuccio che copre in parte i suoi capelli.

Reprimo un gesto istintivo, che ero solito fare quando ancora stavamo insieme: i suoi capelli sempre intrecciati nelle mie mani, pronto ad attorcigliarli infinite volte e a disfare il tutto pochi minuti dopo, senza mai annoiarmi.

Mi costringo a mettere da parte i ricordi felici che mi legano a lei, per lasciar spazio a quel pizzico di rancore che, dopo anni, non se n’è mai andato.

«Sono stati due anni orribili. Tuttora mi chiedo perché te ne sei andata via senza dire una parola. Qualunque motivo tu avessi, sappi che non ti avrei mai trattenuta qui.»

Mentre formulo quel pensiero, Sofia si scosta dalla mia spalla, su cui si era posata poco prima, come se la durezza delle mie parole l’avesse spinta a ritrarsi.

Sembra sul punto di ribattere ma, con sguardo colpevole, mi fa cenno di continuare.

 «Avrei rispettato la tua decisione e ti avrei lasciata andare. Ma andarsene così? Quale razza di motivo spinge una persona a scappare senza dire nulla al suo ragazzo?»

Sento la rabbia premere in testa, il battito accelerare all’improvviso, al solo ricordo di tutto il dolore di quei mesi. Fingo di distrarmi guardando fuori dal finestrino, oltrepasso il corpo di Sofia come fosse trasparente e ci potessi passare attraverso.

«Da quando sei andata via non sono più riuscito ad avere un’altra storia. Nei primi mesi Matteo mi portava da una festa all’altra solo per strapparmi un sorriso ma, se mi conosci un po’, sai che non sono queste le cose che mi fanno dimenticare quel che avevamo insieme.»

A questo punto sono quasi obbligato a fare una pausa, anche solo per riprendere fiato. Mi concedo un altro viaggio tra i bei momenti condivisi in quei mesi insieme, quel noi che avevamo costruito piano, con l’attenzione ai dettagli di uno scrittore.

Scorrendo nella mia mente ciò che era stata la nostra storia, mi accorgo di quanto, in quei sei mesi, Sofia era riuscita a rendermi felice.

Dopo anni e anni in cui tutti sbavavano dietro a Matteo, chi per un motivo e chi per un altro, per la prima volta in sedici anni una ragazza aveva notato me per primo.

I primi giorni in cui, impacciati e con un po’ di imbarazzo, camminavamo avanti e indietro nei corridoi guardandoci negli occhi e stringendoci a vicenda, come se volessimo dimostrare a tutti che anche due persone pazze e un po’ fuoriposto come noi potevano trovare qualcuno che li rendesse felici e quasi normali.

E poi il primo mese, e quel pomeriggio in centro a Firenze, il primo come una coppia a tutti gli effetti che si tiene per mano mentre cammina e che sembra non avere occhi per nessun altro, che esclude tutto il resto del mondo con il suo sguardo.

E quelle labbra perennemente inamidate da un velo leggero di lucidalabbra alla fragola, che finiva sempre per appiccicarsi a me, facendomi ridere o semplicemente sorridere mentre tentava di baciarmi.

Il brivido che pervadeva entrambi dopo ogni bacio, la voglia di averne ancora, di avere di più. Il sorriso di Sofia il giorno in cui l’avevo presentata come “la mia ragazza”. E, appena una settimana prima che lei partisse, la prima notte passata insieme, la paura di rovinare tutto, il voler rivivere tutto daccapo.

Riprendo a parlare con la stessa sicurezza di prima, senza lasciarmi trasportare dal peso di quei bei momenti. Non ho bisogno di volgere lo sguardo verso Sofia per sapere che sta piangendo. Decido che nemmeno i suoi singhiozzi mi scuoteranno dal mio intento, e continuo, imperterrito.

 «Per un periodo sono passato da una ragazza all’altra senza nemmeno farci caso, vedendo in tutte loro qualcosa che mi riportava a te, in quel modo. Ragazze tutte uguali, illuse e usate per rimpiazzarti.»

Mentre ammetto il vuoto che Sofia aveva lasciato, capisco quanto quei due anni fossero stati difficili. I tentativi di Matteo che andavano in fumo ancor prima di realizzarsi, la mia voglia di studiare che era stata portata via da Sofia, nel momento esatto in cui se n’era andata chissà dove. Ricordo le passeggiate al parco con mia sorella, troppo piccola per capire il mio dolore, ma sempre pronta a farmi ridere.

Tutto torna alla mente, e col ricordo, torna anche la consapevolezza di aver sofferto troppo per una persona che non se lo era mai meritato. Che alle spiegazioni aveva preferito la fuga, una via più facile, senza pensare alle conseguenze delle sue azioni.

«Lasciami spiegare, Edo. C’è un motivo se ho fatto quel che ho fatto.»

«Ne sono sicuro. Ma non sono disposto ad ascoltarti. Ti ho aspettata per due anni, sono stato fermo, ad aspettare una spiegazione che non è mai arrivata. Sono stufo. Non puoi pensare che il mio mondo giri solo intorno a te. Io l’ho pensato, e guarda come sono ridotto. Finisce qui.»

Il pianto di Sofia ormai sembra un fiume in piena, pronto a far crollare argini troppo fragili. Mi volto per un attimo, cercando di capire se guardarla basterà a farmi cambiare idea. Davanti a me c’è una ragazza di diciotto anni con la consapevolezza di una bambina, la fragilità delle ali di una farfalla appena acchiappata con le mani e la tristezza di chi non riesce ad apprezzarsi.

In un’altra vita, sarei stato in grado di perdonarla dopo una visione simile.

Ma il dolore mi ha cambiato più di ogni altra cosa al mondo. Sofia compresa.

Gli occhi azzurri, gonfi di lacrime, sembrano pregarmi di restare.

Le altre persone presenti nell’autobus, ormai quasi completamente vuoto, sono ormai concentrate solo su di noi, lo sguardo puntato su me e Sofia come se fossimo due attori di una storia melodrammatica, che non sa giungere al termine.

Noto in particolar modo una signora attempata, che osserva minuziosamente Sofia con uno sguardo carico di compassione. Scuote la testa con disappunto, delusa.

Una donna poco dietro di me sembra sostenermi, mi rivolge un sorriso ricco di empatia, come se fosse al mio posto e capisse perfettamente cosa sto pensando.

Infastidito dalla curiosità degli astanti, mi lascio scappare un «E voi che avete da guardare? Lo spettacolo è finito.» che lascia tutti in sospeso. Cogliendo al volo la prima occasione per lasciarmi alle spalle questo incontro disastroso, scendo alla prima fermata che mi capita a tiro, privo di senso dell’orientamento, ma con addosso la voglia di scappare che mi aveva portato su quell’autobus.

Incapace di capire da che parte di Firenze sono capitato, mi limito a sedermi sul bordo del primo marciapiede che trovo, senza preoccuparmi della sporcizia o del quartiere in cui sono capitato, apparentemente tetro e non troppo invitante.

Alle mie spalle, due donne discutono all’interno di un negozio, per decidere chi delle due dovrebbe accaparrarsi l’ultimo paio di scarpe a metà prezzo. Origliando quella discussione futile sento il fastidio crescere, paragonandolo col litigio con Sofia di poco prima. Un velo di tristezza si fa spazio dentro me, oscurando la rabbia.

Perché per la seconda volta sono stato capace di perderla.

Perché, probabilmente, non saprà mai quel che davvero avrei voluto dirle.

«Edo!»

La voce di Sofia risuona in tutto il vicinato, coprendo il litigio tra le due donne nel negozio, che si zittiscono per un attimo. Quando alzo lo sguardo, una Sofia piuttosto trafelata mi si presenta davanti, ancora col fiatone. La felpa che prima la proteggeva come un bozzolo è legata in vita, così larga e sformata da far strusciare il cappuccio a terra. Sofia stringe un fazzoletto tra le mani, bagnato dalle troppe lacrime, e mi guarda, sfinita dalla corsa che l’ha portata fino a qui.

«Non puoi semplicemente lasciarmi in pace?»

La mia voce rasenta l’esasperazione, solo per coprire la sorpresa di vederla ancora.

«Avevamo promesso di non omettere nulla. Di dirci tutto. E se tu non vuoi farlo, allora lo farò io per entrambi. Non devi dire nulla, ascoltami e me ne andrò via.» ribatte lei, priva della sua solita parlantina, le lacrime trattenute sulla punta delle ciglia, a stento.

Senza proferire parola, senza nemmeno farle un cenno d’assenso, spingo Sofia a cominciare, troppo curioso per proseguire la rotta del mio orgoglio, massacrato dal troppo amore verso la ragazza che mi aveva spezzato il cuore. Vedo Sofia sedersi sul bordo del marciapiede, vicina a me, ma con un certo distacco.

«Non sono scappata a causa tua. E credo che non potrò mai scusarmi abbastanza per avertelo fatto credere. Gli ultimi due mesi che ho passato qui sono stati un inferno. Non l’ho mai dato a vedere, perché ti saresti preoccupato per me, e non credo di meritarmelo. In seguito a questo brutto periodo, io e mia madre ci siamo trasferite a Roma, per farmi seguire da uno specialista, che mi ha aiutato ad affrontare il tutto.»

«Scusa se ti interrompo, ma questo “tutto” cosa comprendeva?» chiedo io, incredulo di fronte alla rivelazione di Sofia. Sento la testa farsi pesante, il senso di colpa che mi attanaglia lo stomaco perché, per due anni, avevo accusato una persona che stava cadendo a pezzi proprio davanti a me, senza che io me ne fossi mai reso conto.

Troppo preso a crogiolarmi nel mio dolore per accorgermi di quanto lei soffrisse.

«Ti ricordi che un mese prima che me ne andassi spesso rimanevo a casa e saltavo scuola? Ti avevo detto che dovevo aiutare mia madre, perché si era fatta male cadendo, e da sola in casa non ce la faceva. Ti ho mentito.» ammette, con tono grave, riuscendo a malapena a sostenere il mio sguardo, di volta in volta più deluso.

Sofia si tampona le lacrime col fazzoletto umido, i singulti che le scuotono il petto per un attimo non le permettono di parlare. La sua voce è ridotta ad un sussurro quando dice «La verità è che nell’ultimo mese mi ero accorta di essermi innamorata di un altro. Non per una tua particolare mancanza, probabilmente era solo la confusione di quel brutto periodo. Non sapevo come dirtelo, il senso di colpa mi stava distruggendo. E così, è iniziato tutto. E con tutto, intendo questo.»

Sofia inizia ad alzarsi con lentezza le maniche del cardigan, con una delicatezza quasi da copione, come se avesse paura di rompere qualcosa. Nonostante il suo essere così trasandata, arrotola con precisione maniacale ogni centimetro di tessuto, cercando di ottenere piccoli strati della stessa misura. Solo dopo qualche minuto da questo processo così minuzioso, riesco ad intravedere la pelle candida delle sue braccia.

Entrambe le braccia, pallide anche più delle mie, sono interamente ricoperte di cicatrici: alcune sono più profonde, altre più superficiali, altre ancora sono sul punto di rimarginarsi, probabilmente le più vecchie.

Eccola, la cosa da nascondere. Il motivo della felpa troppo grande, del maglioncino tirato fin sotto le mani, troppo a contrasto con la mia maglietta di cotone, a maniche corte. La mia curiosità persistente mi fa allungare una mano sulla superficie della sua pelle, azzardando un «Posso toccarle?» incerto.

«Certo che puoi. Pensavo ti avrebbero fatto impressione.» replica lei, con un espressione a metà tra il divertito e lo stupito. Un sorriso sghembo le illumina il viso, un sorriso triste, di una guerriera che ha fatto di tutto per non affondare e che, allo stremo delle forze, si è lasciata trascinare sul fondo.

Lascio scorrere la punta delle dita sul suo braccio destro, gracile, facile da spezzare. Mentre avverto la durezza delle cicatrici che contrastano con la morbidezza della sua pelle, capisco che quelle braccia sono come una strada piena di buche, che impediscono di godersi il percorso.

«Posso farti una domanda?»

«Smettila di chiedere il permesso, per favore.»

«Di chi ti eri innamorata per sentirti così in colpa?» domando, tutto d’un fiato.

Sofia si prende un momento per sé, come se dovesse riflettere prima di potermi rispondere adeguatamente. Imitando il gesto già compiuto quando eravamo sull’autobus, prende un bel respiro, prima di riprendere in mano il discorso.

«Matteo.»

Il suono di quel nome inizia e finisce nel giro di un istante che, per la sua gravità, rimane per un attimo sospeso in aria, passando dalla bocca semiaperta di Sofia, in tensione, fino a sbattere sulla mia bocca, inerte.

Una bocca che si piega in un sorriso ogni qualvolta si imbatte in quel nome.

«Credo che nemmeno tutte le scuse del mondo potranno mai bastare per rimediare a questo. Insomma, Matteo è il tuo migliore amico, so che non c’è niente di peggio.» cerca di giustificarsi Sofia, con quel filo di voce che le rimane.

Mi dico che finché non incrocerò lo sguardo di Sofia, supplichevole e pronto a tutto pur di essere perdonata, riuscirò a mantenere la poca calma che ancora ho in corpo.

Rivolgo il mio sguardo verso la punta dei miei piedi, e sento crescere la delusione di una scoperta fatta troppo tardi, quando, ormai, non dovrebbe avere più importanza. Immagino, per un secondo, la Sofia di due anni fa, presa da quegli occhi marroni, da quel sorriso aperto e pieno di vita. Visualizzo nella mia mente le nostre mani intrecciati, i baci che ci regalavamo fin troppo spesso.  Esamino nella mia mente gli ultimi due mesi insieme, alla ricerca di un errore che non riuscirò a scovare, perché offuscato dalla troppa felicità di quel periodo.

«Edo, ti prego, dì qualcosa. Qualsiasi cosa.» implora Sofia, afferrandomi la mano e stringendola con forza tra le sue, con l’intento di non lasciarla andare.

«Che vuoi ti dica? Che sono felice di aver scoperto che negli ultimi momenti insieme che abbiamo avuto tu pensavi a Matteo? Che hai preferito sentirti in colpa e farti di male piuttosto che dirmelo in faccia? Forse sarebbe stato meglio non sapere niente.»

«Almeno io ho rispettato la promessa.» risponde Sofia, brusca.

«Che cosa intendi?» replico io, sulla difensiva.

«Mi hai fatto promettere di dirci tutto, senza omissioni. Tu sei innamorato, eppure non mi hai detto nulla. Tu, quello sguardo che hai adesso, non lo hai mai avuto finché stavi con me, Edo. Come dovrei sentirmi, secondo te?» ribatte lei, scostando la sua mano dalla mia come se avere un contatto fisico con me, adesso, fosse troppo.

Reprimo un «Come fai a dire che sono innamorato?» quando mi tornano alla mente le parole di Matteo, di appena una settimana fa. I miei occhi, quei dannati occhi, capaci di giocarmi l’ennesimo brutto tiro con la persona sbagliata.

«Sì, sono innamorato. E sì, probabilmente quando stavo con te si è limitato tutto ad una cotta. Ma questo non toglie che hai sbagliato, Sof. Avresti dovuto dirmelo. Avresti dovuto fidarti di me, e lasciarti andare. Amare qualcuno non è mai sbagliato.» concludo io, indirizzando quell’ultima frase più a me, che a lei.

«Scusa. Ho preferito farmi del male, piuttosto che farne a te.»

Senza pensare al significato del mio gesto, mi alzo dal bordo del marciapiede ed invito Sofia a fare lo stesso. Prima di poterci ripensare, la attiro a me e la stringo con forza, ma senza esagerare, per paura di rompere ulteriormente quel che già lei è stata capace di scalfire. Maledico la mia bontà, la mia forza di volontà che manca quando mi imbatto in persone più deboli e bisognose di me. Sofia finalmente si lascia andare, abbandona il suo corpo leggero al mio, appoggia la testa sulla mia spalla, alzandosi appena sulle punte per incastrarsi al meglio nell’incavo.

Ripetendo un gesto che uso spesso quando Alice piange, le accarezzo la testa con garbo, ritmicamente, creando un movimento oscillatorio che assomiglia alla culla di una bambino che non riesce a prendere sonno. Sofia ricambia la stretta, il suo respiro si calma, abituandosi ad una vicinanza che non abbiamo avuto per troppo tempo.

Quando, un minuto dopo, ci sciogliamo dall’abbraccio, le lacrime sul suo volto sono sparite, sostituite da un’espressione curiosa, che, a suo tempo, adoravo.

«Allora, chi è la ragazza fortunata che ti ha rubato il cuore?»

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


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Capitolo 5

 

 

Dopo i due incontri casuali con Sofia, fissare un’uscita con lei mi mette subito in agitazione. I giorni da aspettare, da contare sulle dita quasi a volersi ricordare quanto manca ancora, si sono trasformati in una manciata di ore che non so minimamente come trascorrere. Per svuotare la mente, offuscata da quello che dovrò dirle in seguito, decido di andare al parco a fare una corsa, scappando via per l’ennesima volta dai problemi che non la smettono di inseguirmi, sotto le forme più strane.

Cerco nell’armadio l’abbigliamento più adatto, con la certezza che i risultati siano più che scarsi: da due anni a questa parte, tutto ciò che ha a che fare con lo sport ha cessato di esistere nel mio armadio. L’uscita di Sofia dalla mia vita è stata capace persino di rendermi svogliato, inerte. Privo di quell’energia che prima mi caratterizzava e mi faceva sentire attivo.

Nell’angolo più recondito del mio armadio di legno scuro, intravedo una maglietta dismessa, di un blu sgargiante che sembra entrare subito in sintonia coi miei occhi. Senza la volontà di perdere altro tempo prezioso, mi accontento di un paio di pantaloni corti, che so essere parte di una tuta di qualche anno fa. Mi concedo un minuto per riflettere su cosa dire, in cerca di parole giuste che, però, non arrivano.

Troppi pensieri, troppi punti interrogativi che non so sciogliere, che non so trasformare in affermazioni certe e concrete. È più forte di me.

Troppo debole per prendere una decisione, troppo stupido per dire quel che penso, quel che credo, quello che rimarrà un segreto sempre, da non liberare mai davvero.

Ho bisogno di sfogarmi, di allentare la pressione. Di sentirmi leggero.

Scrivo rapido un messaggio a mamma chiedendo se posso andare al parco a correre per un paio d’ore. La risposta arriva, rapida e affermativa. Prima di andarmene, controllo la situazione che lascio per due ore: senza che me ne fossi accorto, mio padre non è ancora tornato dal solito bar o da qualsiasi tana lo abbia fatto prigioniero, mia sorella, invece, è tutto il pomeriggio a casa di un’amichetta per giocare.

Altri al posto mio starebbero in casa, magari con qualche videogioco, i più sfigati, o con una bella ragazza sdraiata sul divano, i più fortunati. Ma l’aria è troppo pesante, il pavimento è troppo liscio e asettico sotto i miei piedi, e quel di cui ho bisogno è uno schiaffo d’aria fresca dritto in faccia, dei colori vivaci della fine dell’estate che brillano ai miei occhi spenti e casalinghi. Ho bisogno di uscire, di scaricare la tensione.

Mi allaccio in fretta le scarpe da ginnastica e, volutamente senza cuffie per poter apprezzare nel miglior modo tutto quello che posso sentire che non sia musica, esco in fretta e furia dal palazzo, riscaldandomi in fretta, facendo le scale a due a due, come se qualcosa mi spingesse a correre più forte. Una sfida contro me stesso.

Corro, e ogni passo rappresenta un pensiero da cancellare dalla mia infinita lista: mio padre, mia sorella, mia madre, Matteo, Sofia, io, il futuro, la paura, e ancora io, io, io. Io che sbaglio, io che dimentico, io che confido, io che nascondo, io che amo.

Io che faccio di tutto per non essere notato, io che voglio attirare l’attenzione.

E ancora io che non so decidermi, io che amo Matteo, che mi illudo di una storia che non accadrà mai, a prescindere dalla ragazza con cui lui decide di passare qualche mese. E poi io che ritrovo Sofia, che mi fido senza neanche sapere se sia la cosa giusta da fare, io che non faccio che pensare alla nostra storia, ai nostri baci, al suo sorriso dolce che si distingue dal grigio delle altre persone.

Un passo, un altro, non so più contarli. Un passo, ancora uno, uno e poi sparisco del tutto. Un passo, due passi, un milione di passi in avanti mentre io vado all’indietro, regredisco a quello stato di vuoto assoluto, dove nessuno c’è, ma tutti ci sono.

E vorrei che questo percorso senza criterio mi portasse da qualcuno, che portasse ad un segno di quel che devo fare: un estraneo che mi ricordi Matteo, un’amica che mi parli all’improvviso di Sofia. Per una volta, vorrei che fosse il caso a decidere per me. Che quel qualcosa in cui tutti, tranne me, credono, mi facesse capire da che parte stare, anche solo per esclusione. Lo vorrei, quanto lo vorrei.

Lancio un’occhiata fugace all’orologio, stupendomi quando mi accorgo di quanto velocemente sia passata la prima ora di corsa. Lo sguardo si scosta sulla punta delle mie scarpe e mi abbasso per allacciarle nuovamente entrambe, i lacci scomposti pronti a farmi inciampare in qualche buca sulla strada.

«Edo! Sei tu?» sento dire da una voce lontana, che non riesco a riconoscere.

Mi volto, speranzoso in qualcosa che so che non accadrà.

Mi volto e capisco l’errore.

Matteo, solare ed evidentemente felice, è proprio davanti a me. Non riesco nemmeno ad avere il tempo per sperare che sia solo, che subito vedo sbucare Elena al suo fianco, altrettanto allegra e leggera, fresca come il vento di fine estate.

«Ciao! Ero venuto qui per fare una corsetta.» dico io.

Che idiota. Come se non si notasse dalla maglietta madida di sudore e dal fiatone.

«Noi ci godiamo uno dei pochi pomeriggi senza niente da fare per il giorno dopo. I professori non fanno altro che parlare dell’esame e avevamo bisogno di rilassarci un pochino.» risponde Matteo, lo sguardo adorante sempre fisso su Elena.

Noi. Non io, non io e Elena. Ha detto noi. E quel noi è il segnale che tanto stavo aspettando, è la realizzazione di quanto la mia cotta, o quel che sento per Matteo, sia irrealizzabile.  Parla al plurale, parla di quel “noi” in cui io non posso e non devo fare parte, se non come terzo incomodo quando a Matteo viene la malsana idea di uscire in tre. Quel noi, quelle tre lettere, raccontano una storia colorata, solare, una storia bella come quella dei film, tra due persone altrettanto belle e invidiate da tutti. Quel noi comprende sei mesi in cui sono sempre stato a guardare, senza agire.

Ma ora basta.

Anche io voglio un “noi” di cui fare parte. Anche io voglio parlare al plurale.

«Fate bene, non è facile trovare tempo quando sei a scuola tutta la mattina.» mi limito a rispondere, spaventosamente in ritardo, troppo preso dai miei pensieri.

Elena si allontana per rispondere al telefono che squilla insistentemente, e sento l’imbarazzo che cresce quando mi ritrovo faccia a faccia con Matteo, dopo due settimane in cui ho sempre declinato la sua richiesta di spiegazioni dopo la nottata al mare.

Matteo non perde un attimo e, non appena Elena scompare dietro l’angolo, mi chiede il perché di quelle due settimane di silenzio. E non c’è curiosità nel tono della domanda: è il tono di un migliore amico desideroso di una delucidazione.

«La tua domanda improvvisa, quella notte, mi ha messo alle strette. Non volevo che sapessi di chi sono innamorato, volevo che rimanesse un segreto. Scusa.» ammetto.

«Dopo diciott’anni che mi conosci, come fai ad avere segreti con me?» chiede lui, al limite dello sdegnato. Mi guarda e sembra non riconoscermi nemmeno.

«Non è una cosa di cui vado fiero, tutto qui. Dammi un po’ di tempo, potrei non esserne nemmeno innamorato. E poi, adesso devo andare, ho appuntamento con Sofia.» mi giustifico frettolosamente, pronto a correre via.

«Sofia? La stessa che non volevi nemmeno vedere?» domanda Matteo, incredulo.

«È una storia lungo. Dopo ti chiamo e ti spiego, devo andare!»

Inizio a correre ad una velocità assurda, senza nemmeno aspettare che torni Elena per scambiarci i nostri soliti convenevoli forzati. Matteo mi guarda sparire, guarda il punto in cui fino ad un attimo fa c’ero io, quel migliore amico che non sembra più fidarsi di lui, che sente lontano per la prima volta in diciotto anni.

Corro con la stessa foga di poco prima, lasciandomi alle spalle Matteo e tutti i suoi dubbi. Ignoro i problemi, li calpesto con le mie scarpe da ginnastica logore, ci corro sopra e li schiaccio con la poca forza che mi rimane.

Corro senza voltarmi indietro perché, se lo facessi, finirei per pentirmi.

E non c’è niente di peggio di una vita fatta di rimpianti.

Frammenti di cose che avresti voluto fare, dire, vedere. Uno strazio per l’anima.

Corro, corro e sorrido, sorrido e mi stupisco e corro ancora. Perché sorrido?

Sorrido perché, in cuor mio, so che sto facendo la scelta giusta.

Sorrido perché lei non farà domande, perché è indecisa quanto me.

Sorrido perché si possono amare due persone, ma puoi stare solo con una.

Sorrido perché adesso è giusto sorridere, adesso è il momento di essere felici.

Sorrido perché Matteo ha scelto Elena. Perché non mi sceglierà mai, e non serve a niente piangermi addosso. Lui non verrà da me. Non ci verrà e basta.

Per lui sarò quell’amico che consideri un fratello, quello che lo fa sbronzare il sabato sera, quando la sua ragazza decide di uscire con le amiche e gli lascia la libera uscita. Io sono l’amico dell’asilo, delle elementari, delle medie, in parte del liceo.

Non sarò il ragazzo che gli ha fatto scoprire di essere diverso, questo non accadrà.

E non posso aspettare in eterno un momento sì, in cui poter dire tutto. Non posso.

Posso solo accontentarmi. Posso avere altre persone che, a modo loro, riescono a rendermi felice almeno quanto lui, anche se la persona in questione è una ragazza.

Mentre sento il fiatone che arriva e l’adrenalina in circolo, scrivo velocemente a Sofia, chiedendole dove abita, e sperando non sia troppo lontano.

«Partendo da casa tua, se stai ancora nella stessa casa, basta che vai a dritto fino alla fine della strada. Poi giri a destra, a sinistra, e ci sei. Sono nella prima casa che vedi, quella con l’intonaco giallognolo. Comunque ti aspetto fuori. PS. Ma perché stai venendo?»

Decido volutamente di non risponderle, per fare aumentare in lei quella voglia di vedermi e la curiosità che da sempre la caratterizza. Questo mi ricorda di quando, dopo tre mesi che stavamo insieme, decisi di organizzarle una festa a sorpresa per il suo compleanno. Sembrava una bambina da quante domande faceva: “Dove vai? Che fai? Ma stasera che facciamo? Che regalo mi hai preso? Mi hai preso il regalo?”

La voglia di sapere di più le faceva brillare gli occhi, e il nervosismo la corrodeva come una candela accesa, la cera che scorre fino a consumarla del tutto.

Lei iniziava assillando, facendo domande su domande. Poi venivano i dubbi. L’incertezza, la paura di un buco nell’acqua, la pressione per il mio silenzio.

Gli occhi azzurri iniziavano a guardare ovunque, destra, sinistra, su e giù, e in contemporanea iniziava a sbuffare, nei casi più estremi metteva il broncio com’è solita fare Elena. Cercava di impietosirmi, di estorcermi qualcosa con la pena.

Quando vedeva che non funzionava, iniziava coi baci. Prima uno candido sulla guancia, a schiocco, come i bambini. Poi all’angolo della bocca, più prolungato, quasi un minuscolo succhiotto. E poi si avvicinava sempre di più, sempre di più.

Forse quello era l’unico modo in cui riusciva a scoprire qualcosa.

Mi immagino queste diverse fasi adesso, e sorrido ancora. Mi sento leggero.

Leggero nel vento che mi spinge in avanti, che mi fa passare la paura. Il vento mi guida in quel percorso più veloce e semplice del previsto, il vento si confonde al mio respiro e non mi fa sentire il peso del fiato corto, del cuore veloce.

Prendo la prima strada a destra, poi a sinistra. Ormai è questione di metri.

La vedo in lontananza, una figura piccola piccola, che in prospettiva sta tra il pollice e l’indice. Mi avvicino, ma rallento il passo. Non voglio arrivare in fretta e furia.

Voglio vivere questo momento. Voglio che si crogioli nell’attesa.

Ma questo non succede, perché non appena mi riconosce, inizia anche lei a camminare a passi lenti verso di me. Come nelle scene più belle dei film, in cui i due protagonisti si vengono incontro, e alla fine iniziano a correre l’uno verso l’altro.

Un attimo. Mi sono davvero identificato nella parte del protagonista?

Vedo che inizia ad accelerare il passo, diventando sempre più vicina e nitida. Faccio lo stesso, iniziando una camminata veloce che, ben presto, diventa una corsa.

È come se sapessimo entrambi cosa sta per succedere, cosa dobbiamo fare.

Non c’è un copione da seguire, non ci sono regole da rispettare. Siamo noi. Siamo quel “noi” che ho visto prima in due persone completamente diverse, così opposte a me e Sofia da assomigliarci quasi. Quasi. Nel nostro “noi” c’è l’indecisione, c’è una storia già vissuta, c’è la paura di un grosso sbaglio, c’è anche l’amore di due pazzi.

A questo punto ci dividono solo pochi passi, e decidiamo di rallentare di nuovo, forse per goderci meglio quel che avremo da dirci, per pensare a cosa faremo.

Come se la spontaneità si potesse programmare.

Inizio a parlare, quando me la ritrovo a pochi metri, troppo lontana per improvvisare uno di quei baci spettacolari, ma troppo vicina per essere banale e amichevole.

«Ho bisogno di parlarti, Sof. È urgente.»

«Quello l’avevo intuito, da come sei vestito sembra che sei appena andato a fare una corsa. È per quella storia di dirmi di chi sei innamorato? Se non te la senti, non importa, Edo, io non obbligo nessuno.» replica Sofia, così vicina a me che ne sento il profumo dolce.

«Si tratta proprio di quello. C’è un posto dove possiamo sederci e stare soli?» le chiedo, preoccupato dal fatto che qualche orecchio indiscreto potrebbe sentire.

Sofia sembra afferrare la mia inquietudine, mi prende per mano con una presa sicura che annulla qualsiasi tipo di paura, e mi porta verso i giardini pubblici giusto dietro casa sua. Noto con piacere che siamo gli unici presenti all’interno di quell’immensa macchia verde, e sento la tensione allentarsi gradualmente.

Il parco che si distende tutt’attorno a noi è punteggiato dai colori dei giochi per bambini, al momento deserti. Colori vivaci e cangianti che spiccano nel verde di un prato poco curato, per la maggior parte lasciato crescere senza la minima cura, con alcune porzioni di terreno ben tagliate, prossime alle zone più frequentate dai bambini.

L’aria che si respira è quella di un’estate pigra, ma incapace di volgere al termine, una brezza apparentemente calda che, quando arriva a contatto con la pelle scoperta, mi fa rabbrividire per un attimo. Quel tipo di stagione in cui non sai mai cosa indossare, una via di mezzo tra la libertà dell’estate e i limiti poco definiti dell’autunno.

«Devo parlarti di Matteo, Sof

Sofia sfodera un’espressione perplessa, quasi imbronciata, al sentire quel nome. Si prende un secondo per rifletterci sopra, probabilmente ripensando a quando, anche lei, si era invaghita di Matteo, senza tuttora trovare una spiegazione logica.

«Ma non avresti dovuto dirmi di chi ti sei innamorato?» chiede, con un tono lieve, come se avesse paura di turbare qualche equilibrio invisibile ai suoi occhi chiari.

«Appunto.» lascio trapelare io con un sussurro imbarazzato, nascondendo il volto tra le mani con un gesto volutamente plateale. Sento il peso di quel segreto passare dalla mia testa, agli occhi increduli di Sofia, ancora intenta ad immagazzinare quell’informazione così assurda. Insieme a quel macigno, le lacrime lasciano i miei occhi alla svelta, come se fossero in fuga, e avessero come unico desiderio quello di inondare il viso di qualcun altro.

Da quel poco che riesco a vedere dalle fessure che si vengono a creare tra le mie dita, premute sopra gli occhi intrisi di lacrime, c’è un fazzoletto intonso, nella mano candida di Sofia, tesa come se fossi un naufrago in mare aperto che ha bisogno di qualcuno per ritornare in superficie. Mi aggrappo a quella minuscola ancora di salvezza, agguantando la mano di Sofia con una forza tale da farle quasi male.

«Quando hai capito di esserti innamorato?» chiede, curiosa.

Sofia ha gli occhi lucidi almeno quanto i miei, nonostante cerchi di nasconderlo.

«Non lo so. Non è stato un momento preciso.» rispondo io, senza sforzarmi.

«Pensaci meglio, e non far caso a me. Tu racconta e basta.» mi incita lei.

«È iniziato tutto quando sei andata via. Mi convincevo che non avrei mai amato nessun altro, che ti eri portata via tutto ciò contava. E quando nessuno c’era, quando tu eri sparita, c’è stato sempre e solo lui. Ad ascoltarmi, a rialzarmi quando cadevo. Non mi ha mai lasciato solo e, poco a poco, la sensazione di amare di nuovo è tornata da me, e ha trovato espressione in lui.» cerco di spiegare io, rendendomi conto di quanto l’amore che provo per lui sia impossibile da definire usando le parole.

Sento la mano di Sofia stringersi con maggiore forza alla mia, senza aver paura di quel contato fisico che non avevamo mai cercato. Mi concedo per un attimo di alzare lo sguardo su di lei, per farla entrare per un secondo in quell’universo solo mio e di Matteo, che non avevo mai avuto il coraggio di rendere pubblico. L’immagine che i miei occhi mi rimandano non è delle migliori: una versione distrutta di Sofia mi scruta con tristezza, con la malinconia di chi capisce di essere destinato ad essere la seconda scelta in eterno. Gli occhi azzurri sono bagnati di lacrime vive, un misto di delusione e sorpresa che nemmeno la spiegazione più chiara potrà mai cancellare. Nello sguardo afflitto di Sofia, una domanda risplende inespressa: perché mi hai rimpiazzato proprio con lui? Perché non sei rimasto ad aspettare, a combattere?

«Se ti stai chiedendo il perché non credo che sarò mai pronto a dare una risposta sensata. Matteo per me è un luogo sicuro in cui ho la certezza di poter tornare quando voglio. Lui è la mia casa, e lo sarà sempre, indipendentemente da tutto e da tutti.»

Sofia brilla di un sorriso mesto, che non so interpretare.

«Perché sorridi?»

«È buffo. Io mi sento così quando sto con te.» ammette lei, tentando di offuscare quel velo di vergogna che le riga il viso, invano. Non esiste una sua espressione facciale che io non conosca, anche a distanza di anni. I suoi occhi azzurro cielo non hanno segreti con me, che siano annebbiati da lacrime o brillanti di felicità.

«Com’è amarlo? Che effetto ti fa?» domanda Sofia, con la curiosità di chi ha solo sentito parlare dell’amore, senza avere mai occasione di provare sulla propria pelle.

«Hai presente quando una zanzara ti pizzica? Senti prudere, e l’unica cosa che vorresti fare è grattarti sopra la puntura. Sai che non dovresti farlo, eppure pensi solo a quanto vorresti farlo. Oppure quando ti proibisci di pensare ad una persona, ma finisci sempre per pensarci e ripensarci tutto il giorno?» cerco di spiegare io, gesticolando in modo così plateale da ricordare un vecchio attore consumato.

«Sì, ma cosa c’entra?»

«Amarlo è esattamente così. Più mi dico che è sbagliato e più lo amo.» confesso io, incredulo di fronte alla facilità con cui le parole riescono ad uscirmi di bocca.

Come se fosse la cosa più normale e innocente del mondo, da urlare a chiunque.

«Fammi capire. Quindi tu sei corso fino a qua per ricordarmi che hai scelto lui?»

«Veramente sono corso fino a quaggiù per dirti che, per una volta, ho scelto me.» ribatto io, calcando su quella parola così corta e apparentemente insignificante. Sofia pare perplessa, come se ciò che sto dicendo sia incomprensibile, detto in una lingua troppo articolata e lontana perché lei sia in grado di capirmi.

Una lieve folata di vento le scompiglia i capelli rossicci, un ciuffo le ricopre gli occhi, nascondendoli per un attimo alla mia vista. Solo adesso, mi rendo conto di come il tempo attorno a noi stia cambiando: il sole, prima alto in cielo quasi con orgoglio, sta arrivando al capolinea con lentezza, trasformandosi in un tramonto dello stesso colore dei capelli di Sofia, ma spento se messo in confronto al suo modo di splendere.

Sofia cerca di raccogliere i capelli in una coda, ma le sue intenzioni sono minate dall’intensità del vento, che non accenna a smettere. Decidiamo, quindi, di alzarci, in cerca di una zona meno ventosa, che non intralci il nostro dialogo, già difficoltoso.

Stavolta sono io a condurla verso un posto che frequentavo da piccolo con Matteo, a pochi passi dai giardini pubblici. Il luogo in sé non ha niente di particolarmente bello, e ritornarci dopo tanto tempo rende ancora più lampante la mia delusione: il piccolo fiume si snoda tra le rocce in modo naturale, privo di qualsiasi forzatura di natura umana, se non fosse per la vecchia casetta sull’albero creata da me e Matt da piccoli.

Fino ai dieci anni, quello era stato il nostro rifugio quando combinavamo qualche guaio. Abbastanza lontano da casa per essere distanti dai genitori, sufficientemente vicino per non dimenticare mai il tragitto di andata e ritorno, considerando lo scarso senso dell’orientamento di entrambi. Unico complice nella costruzione della casetta era stato, a suo tempo, Luca, il padre di Matteo, impaurito dalla nostra versione più piccola armata di martello e chiodi. Dopo aver spergiurato che non avrebbe mai rivelato alle nostre madri di quel progetto assurdo, ci aiutò a mettere insieme quella casetta sospesa tra gli alberi di pino che si affacciavano sul fiume, dando vita ad innumerevoli pomeriggi potenzialmente pericolosi, tra martelli troppo pesanti e chiodi che finivano puntualmente sotto la pianta del piede. Dai sei ai dieci anni, quell’angolo di legno tutto nostro mi era apparso come il posto più bello del mondo.

Quella che vedo adesso è una casetta sull’albero che ha visto tempi migliori, ricoperta per una buona parte da muschio scuro, tenuta insieme solo grazie alle considerevoli abilità di Luca come falegname improvvisato. Vedendo il mio vecchio nascondiglio andare in pezzi davanti ai miei occhi, sento la bellezza della mia infanzia svanire.

«Cos’è quella catapecchia sospesa tra gli alberi?»

«Sofia, benvenuta nella mia vecchia casa sull’albero. Dai, sali.» la invito io, tentando di fare apparire quel rifugio fatiscente come un luogo sicuro, privo di rischi.

Per convincerla a seguirmi, salgo le scalette, a suo tempo costruite da me e Matteo, e in poche falcate posso già appoggiarmi sul bordo della casetta, umido e scivoloso.

Sofia non nasconde la sua avversione verso quell’impresa e, mentre sale le scale con cautela, mi sembra di rivedere in lei me stesso, giusto un paio di settimane fa, mentre cercavo di scavalcare il cancello dello stabilimento balneare.

La goffaggine nei movimenti e la troppa prudenza ci rendono simili.

Dopo qualche minuto, la mano di Sofia cerca la mia disperatamente, in cerca di un sostegno stabile che la aiuti ad entrare nella casetta. Le porgo la mano con lo stesso garbo che lei aveva riservato a me, tirandola su di peso con facilità.

«Spero vivamente che quel che mi devi dire valga tutto questo sforzo.»

«Io lo so che siamo due casi persi. So che mi sto solo incasinando, e forse dovrei accontentarmi di quella storia che mi sono costruito nella mia testa con Matteo. Ma non ci riesco proprio. Probabilmente non ho nemmeno un futuro, non sono quel tipo di ragazzo che ti giri a guardare per strada perché è un bel vedere. Nessuno sano di mente mi sceglierebbe. Ma tu sei come me. Sei incasinata, sei insicura, hai paura di non essere abbastanza.» dico io tutto d’un fiato, senza omettere nemmeno una parola.

Mi appunto mentalmente che, semmai dovrò dichiararmi ancora, sarebbe più sensato elencare i pregi, e non i difetti della persona da conquistare.

«Io voglio te. Presi singolarmente siamo una mina vagante, ma insieme riusciamo a stabilizzarci. Siamo un po’ come questa casa sull’albero: per chi la guarda dall’esterno è un miracolo che stia ancora in piedi, ma, una volta dentro, diventa il luogo più sicuro e stabile possibile.» tento di spiegare io, con quel pizzico di coraggio che mi è rimasto.

Basta vedere come sorride per capire quanto non se lo aspettasse.

E questo non fa che rendermi doppiamente felice di avere appena detto ciò che ho detto. Perché è la verità. E la verità è sempre capace di lasciare a bocca aperta.

« No, io sono un casino. Sono una stupida illusa e sono sicura di non meritare una persona come te, che scappa e lascia tutto in sospeso pur di mettere le cose apposto.

Io non ho ancora superato la cotta per Matteo, e non so come fare a superarla del tutto. Non so che dire, Edo. Mi hai colto alla sprovvista.» confessa Sofia, ancora spiazzata.

«Dimmi di sì.»

«Dimmi che non hai paura.» replica lei.

La guardo. Mi perdo nel guardarla.

Gli occhi azzurri sono umidi, come una settimana fa quando sono riuscito a riconoscerli tra la folla, in mezzo a tutte le altre iridi colorate che mi circondavano.

Ma quello strato acquoso che li ricopre non sa di tristezza, di malumore, di un passato troppo difficile da spiegare senza essere giudicato subito da chi ti sta ascoltando. No.

Adesso quelle perle azzurre brillano di una bagnata felicità e non sono persi in uno strano percorso di nervosismo, non guardano ovunque e da nessuna parte.

Guardano me. Con quell’aria riconoscente di chi vuole ringraziarti in qualche modo.

So già come mi ringrazierà e mi avvicino al suo viso, prendendolo dolcemente tra le mani e accarezzandolo, sorridendole, come a volerle dire silenziosamente che può avvicinarsi di più, che adesso dobbiamo essere solo più vicini. Adesso non ci sono limiti, non ci sono quelle mezze misure che lei ha sempre odiato: lontano o vicino, amici o qualcosa di più, sì o no. È così semplice.

Il suo respiro è parte del mio, mi solletica il naso e mi fa trasalire, al sentire il sapore della sua pelle così vicino: la dolcezza innata di ogni singolo centimetro della sua pelle liscia mi inebria, mi fa venir voglia di avere di più.

Sento che prima di premere le labbra sulle mie scoppia in una piccola risata, così diversa ma allo stesso modo uguale a quella di un paio d’anni fa: una risata libera, che ti fa sentire un sapore dolciastro sotto la lingua. Una di quelle risate brevi, istantanee, come una delle mie fotografie mentali, colorata e bella come lei.

Quando sento le sue labbra carnose e con quel sapore artificialmente dolce di fragola, che mi si appiccica subito, capisco quanto questo bacio sarà diverso da quello dato a Matteo. Il bacio a Matteo era e sarà sempre un segreto, un piccolo vizio che sono riuscito a concedermi senza chiedere il permesso a nessuno, tantomeno a lui. Quel bacio era una piccola concessione, una fantasia molto reale ma che solo io conosco.

Era amarezza e dolcezza, era superare i confini, era sfondare un limite tracciato dalla società. Era amore? Sì, lo era. E lo è. Ma era diverso.

In questo bacio, in questo contatto fisico così ravvicinato, io vedo un amore diverso: un amore che decide di darsi un’altra chance, un amore che nasce felice, dall’unione di due vite tristi e strane che si intrecciano. Siamo io e lei, la stessa persona sdoppiata, in versione maschile e femminile. Entrambi innamorati di due persone. Entrambi con la voglia di scegliere la via più facile non sapendo come andrà a finire.

Era bellissimo pensare che avrei sempre e comunque scelto Matteo. Ma, per una volta, è anche bello sapere che ho scelto me. In questo bacio cerco di più, cerco una felicità che ho trovato solo con lei.

Sento le sue mani affondare nei miei capelli, più lunghi rispetto a come li aveva lasciati quando se n’era andata: le sue dita piccole e veloci si aggrappano ad ogni ciocca, come a voler dimostrare a chiunque ci vedesse adesso che le appartengo.

Per risponderle senza aver bisogno di parlare, la stringo forte  a me, più vicina, stretti in un abbraccio che ci unisce fin quasi a stare male, che ci rende consapevoli di questo regalo, di questo inizio. E se la fine sarà domani, che importa?

Questo è un buffo tentativo. È un modo per ricominciare daccapo.

Sento che Sofia si stacca per un po’, come a voler riprendere il proprio respiro, ma -solo per un attimo. Un secondo dopo le sue labbra sottili sono già all’angolo della mia bocca, in uno dei suoi adorabili succhiotti, e non mi preoccupo del segno che lascerà, delle domande che verranno fuori, delle spiegazioni da dare. Non mi importa.

Non ho paura delle occhiate storte, di chi mi dirà che sto sbagliando, perché quel che conta è che questo errore gigantesco a me piace. Sbagliare con lei è bellissimo.

« Lo avresti mai immaginato? » le chiedo sottovoce, in un sussurro, raccogliendo una ciocca rossa di capelli, che le era sfuggita per un attimo, e sistemandola dietro l’orecchio. La vedo sorridere, e penso a quanto è bello farla star bene.

«Immaginato probabilmente no. Sognato sì, e tanto. Ma non era mai così bello.»

E con la stessa semplicità di quella frase, mi prende una mano, poggiandola sul suo petto, in prossimità del cuore. Lo sento battere forte, senza un ritmo preciso, velocissimo e incontrollato. Preda di emozioni nuove, di quel sogno bello e vero.

«Senti come batte forte? Ricordati di questa corsa veloce. E io ti prometto che finché lo sentirò battere così forte quando ti sono accanto, io non avrò mai dubbi. Mai. Me ne frego di un ragazzo che non mi vede nemmeno. Voglio qualcuno che sappia far correre il cuore, come stai facendo tu adesso. Resta, Edo.»

«Io non me ne vado da nessuna parte, senza te.» prometto io, con aria solenne.

«Non sei il primo a dirmelo.» afferma lei, dispiaciuta, delusa per un secondo.

«Ma io te lo sto promettendo. E sono bravo a mantenere le promesse.»

«Questo lo staremo a vedere. Ti va cenare con noi?» mi chiede, addolcendo la richiesta con un piccolo bacio, che finisce e inizia allo stesso tempo.

Come un fuoco d’artificio, scoppio colorato che si posa sulle mie labbra.

«Fammi avvertire mia madre e ci incamminiamo.»

Mando rapidamente l’ennesimo messaggio a mia madre, quasi implorandola di concedermi di non tornare a casa per cena. Accetta senza neanche troppe domande.

Le mando un “Ti voglio bene” veloce, sperando che basti.

«Posso restare. Contenta?»

«Contentissima! Mamma sarà felice di rivederti. È a casa, ci sta aspettando.»

Ci sta aspettando. Aspetta noi. Me e lei. Quel “noi” che ritorna, mi schiaffa in faccia una realtà improvvisamente dolce e bella, simile a un sogno dal quale non ti vuoi più svegliare. Sai quelli che continui da sveglio, da quanto son belli? Lei è questo.

Mi guarda un’ultima volta prima di prendermi per mano, per guidarmi davanti a casa sua, come se da solo non fossi in grado di andare da nessuna parte. E lo apprezzo.

La casa, anche se vista solo da fuori, è accogliente: il giardino è pieno di fiori variopinti, che lo punteggiano con colori accesi e che ti mettono istantaneamente d’allegria. Sembra quasi invitarti ad entrare. E non solo me, un ospite conosciuto negli anni addietro e che già aveva calpestato l’erba soffice sotto i fiori, ma qualsiasi persona che ci passi davanti.

Un passante, un bambino che ha momentaneamente perso i propri genitori, una ragazza che guardando il bel prato vorrebbe sdraiarcisi sopra.

È un ingresso se ti senti solo, triste, sperduto, senza un posto dove andare.

E se, come me, sai chi ti sta aspettando all’interno di quella casetta giallognola, allora sarai doppiamente convinto di quanto quell’ingresso potrà farti sentire a casa.

Rovistando nelle tasche di una delle sue felpe larghissime, che devo ricordarmi di farle buttare per trovare qualcosa di più adatto a lei, Sofia apre la porta impacciata, girando più volte nella serratura senza riuscire ad aprire.

Ricordo ancora come non riuscisse ad aprire una qualsiasi porta subito. Era più forte di lei, ogni volta finiva per aggrapparcisi con due mani, come se servisse forza.

Per facilitarle il compito la avvolgo da dietro nelle mie braccia, poggiandole sulle sue, fino ad arrivare alle sue mani piccole e curate. Stringo le chiavi nelle mie mani, limitandomi poi ad usarne una soltanto, e sento subito scattare la serratura.

Sofia alza la testa, che mi arriva di una spanna sotto al mento, e alza gli occhi al cielo falsamente offesa per la mia velocità nell’aprire la porta. Mi illumina con la sua allegria. Mi fa toccare il cielo senza accorgersene minimamente.

Subito davanti a noi si materializza sua madre. Quando la vedo e la riconosco, e lei mi riconosce a sua volta rivolgendomi un sorriso aperto, capisco quanto potrebbe piacere a mia madre e alla mamma di Matteo. Lo so, lo sento.

Il corpo formoso non viene mascherato da abiti larghi, da quel senso di vergogna che di solito le persone più in carne, almeno una volta nella vita, provano. A differenza di Sofia, che sente l’esigenza continua di nascondere ogni piccola imperfezione e ogni difetto sotto strati e strati di stoffa, lana, cotone o che altro, sua madre si mostra fiera del suo corpo difettoso, stretto in un tailleur blu cobalto. A modo suo è bella.

Rispetto a due anni fa, nuove rughe di stress sono spuntate agli angoli degli occhi e un po’ su tutto il viso, rendendolo più vivo, con più storie da raccontare.

«Ciao, Edoardo, che piacere vederti. Non ti aspettavamo.» mi dice con la bontà che solo una mamma sa avere, avvicinandosi un po’ per baciarmi le guance.

Sento per un attimo il suo profumo, che mi invade le narici. Sa di buono.

«Salve, signora.»

«No, niente “signora” qua dentro! Chiamami Andrea, ti prego. Non farmi sembrare più vecchia di quello che già sono, okay?» mi corregge, ma senza calcare la mano.

«Va bene, Andrea. Posso rimanere per cena? Spero di non disturbare.»

«Dove si mangia in due, c’è spazio anche per tre persone. Non c’è bisogno che mi aiutate ad apparecchiare, vi vedo parecchio stanchi, soprattutto tu, Edoardo. Ma sei andato a correre? Comunque, c’è qualcosa che dovrei sapere?» chiede maliziosa.

«Non più di quanto non vedi già, Andrea. » le rispondo, stringendo la mano di Sofia, che per tutto il tempo da quando siamo entrati non ha detto una parola, limitandosi a guardare in basso, senza emettere un suono. È chiaramente imbarazzata.

Saliamo le scale che, se non ricordo male, ci portano alla sua stanza.

È incredibile come nulla sia cambiato, come siano riusciti a riavere la stessa casa di quando se n’erano andate: gli stessi quadretti fatti a mano dalla madre, appesi sui muri bianchi, le stesse porte ampie in legno chiaro, lo stesso pavimento scivoloso, che scricchiola in continuazione, che causò non pochi problemi quando cercammo di sgattaiolare in camera di sua madre senza svegliarla mentre dormiva sul divano a pianterreno. Quella notte, la ricordo ancora, dopo cinque mesi insieme, riuscimmo ad avere la nostra prima notte insieme. Sorrido, al solo ricordo.

In un attimo siamo già in camera sua. Sofia si sdraia sul letto, pensierosa.

Per non sembrarle troppo appiccicoso, mi siedo per terra, comodo sopra il suo vecchio tappeto rosso scuro, come il colore dei suoi capelli intorno alla cute.

«Sei silenziosa. Qualcosa non va?» le chiedo premuroso.

«Va tutto bene. Dopo nemmeno un quarto d’ora che stiamo insieme mia mamma ficca già il naso negli affari nostri. Mi infastidisce.» ribatte seccata.

«Vuole solo che tu sia felice. E lo voglio anch’io.»

Nella mezz’ora successiva non facciamo che parlare, lei sul letto e io seduto a terra, a volte concedendoci qualche pausa per guardarci bene negli occhi, a volte per toccarci le mani, per ricordare quel che eravamo, per pensare a quel che saremo.

Sentiamo la voce della madre di Sofia, che devo ricordarmi di chiamare per nome come mi ha chiesto lei stessa, che ci chiama per la cena, e scendiamo le scale uno dietro l’altra, sempre stringendoci per mano. Indivisibili.

Andrea ci accoglie con calore, come se non ci vedessimo da chissà quanto tempo.

Pur mancando il padre di Sofia, che era morto quando lei era ancora piccola, mentre mi siedo a tavola, percepisco l’energia positiva di una bella famiglia, seppur composta da solo due persone: Andrea e Sofia si alternano, passandomi piatti colmi di pasta e stuzzichini. In un ritmo silenzioso decidono chi deve alzarsi a prendere i piatti, piuttosto dell’acqua o altro. Sono in sincronia, non hanno bisogno di parole.

Ipnotizzato dalla loro intesa, decido di non parlar troppo: rispondo solo alle domande necessarie, alle curiosità di Andrea a alle battute di Sofia, con cui rido.

La serata passa in fretta, senza intoppi, lasciandomi con lo stomaco appesantito, che conferma quanto io abbia mangiato. Sento che potrei rimanere qui sempre, mischiando questa famiglia un po’ strana e il suo amore incondizionato a quella di Matteo, senza una macchia e senza segreti a sgretolarla, pronta ad accogliermi sempre, quando ne ho bisogno.

Il telefono vibra nuovamente nella mia tasca. Un nuovo messaggio di mia madre.

“Edoardo, vieni a casa subito. Alice si è fatta male. È stato tuo padre.”

E così come sono arrivato a casa di Sofia, me ne vado: correndo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


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Capitolo 6

 

Un passo.

Ancora uno.

Resisti resisti resisti.

Stai per arrivare, riconosci le strade?

No, non conosci niente e nessuno. Vorresti solo andare via.

Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo posto infernale. Scappa.”

Adesso non mi è concesso andare via. Non adesso che hanno bisogno di me.

Ma come sarà successo? Quanto male starà Alice?

Un pugno, un calcio, uno schiaffo? Cosa, come, ma soprattutto perché?

Perché tornare a casa in quelle condizioni? Perché sfogare la rabbia su di lei?

Non avrei accettato un comportamento simile nei miei confronti, né tantomeno in quelli di mia madre, che si limiterebbe a subire in silenzio. Ma Alice? Ha sbagliato.

E se pensa che per perdonarlo basterà definire il tutto “un incidente”, allora sbaglia ulteriormente. Lei è piccola, non avrebbe saputo difendersi neanche volendo. Probabilmente neanche si è accorta di quel che stava succedendo.

E anche se fosse, una volta visto mio padre mettere piede in casa, il suo istinto le avrebbe comunque suggerito di corrergli incontro, per salutarlo come si deve.

Conoscendola, nemmeno ha pianto. Uno de suoi pregi migliori è il sapersi dimostrare sempre coraggiosa, dall’alto dei suoi cinque anni. In questo, non ha preso dal padre.

In pochi minuti sono già arrivato davanti a casa mia, che vedo illuminata, spicca in mezzo a tutte le altre. Come se tutti sapessero. Come se tutti avessero visto.

Salgo le scale per scaricare ancora la tensione, per cercare di pensare razionalmente in mezzo a quest’insieme sconclusionato di azioni. Mia madre, mio padre, Alice.

Ancora un gradino, ancora un secondo per razionalizzare i miei pensieri.

Ancora uno.

La porta è spalancata, la scena che vedo non potrebbe essere più diversa da quella che avevo immaginato nei cinque minuti a disposizione per pensare. Il caos calmo.

Mia madre, scossa ma che cerca in tutti i modi di mantenere la calma, è seduta sul divano con la testa di Alice poggiata sulle gambe. Ha gli occhi rossi, si vede che ha pianto, ma che ha bisogno di nasconderlo, per il bene di chi la guarda e di sé stessa.

Alice è difficile da guardare, sento il moto di rabbia aumentare a mano a mano che scopro i segni che mio padre le ha lasciato addosso: un livido che si sta formando sulla guancia, il labbro inferiore spaccato, le gambe arrossate.

Non piange, non si dimena. È immobile, inerme.

E la sua immobilità non fa che spaventarmi ancora di più.

Quello che più mi stupisce è un pianto, sommesso e furioso proveniente dal bagno.

Calcio la porta del bagno, senza ottenere nulla. Si è chiuso a chiave.

Ha paura.

 

«Ma ti sei bevuto il cervello? Mi fai schifo! Schifo!» urlo a perdifiato io, sputando rabbia e rancore sempre preoccuparmi del troppo rumore, confidando nella porta che mi separa da mio padre. Sento i suoi lamenti aumentare di volume, come in segno di protesta verso la mia ira, che non fa che accendersi come una miccia.

«Piangi quanto vuoi, tu qua dentro non ci metti più piede. Chiaro? Sei un mostro! Perché non puoi rovinare solo la tua vita? Perché devi rovinare anche la nostra?»

Sto piangendo, ma a differenza sua non cerco di nascondermi dietro una porta: sento ogni goccia scorrere salata sulla guancia, la prima dopo anni e anni di forzature.

Un uomo, un ragazzo o quel che è non dovrebbe piangere.

Ma ora come ora sento che se non lo facessi potrei esplodere in una rabbia cieca che non saprei controllare. La stessa che ha investito Alice ingiustamente.

«Andiamo al pronto soccorso.» affermo io, secco.

«Ma tuo padre? Lo lasciamo lì in bagno?» chiede mia madre, terrorizzata.

«Sì, e spero di non trovarlo quando torniamo. Dammi le chiavi della macchina, guido io. Tu stai dietro con Alice. E prendile il peluche che ha sul letto. Le dà forza.»

Mi accorgo solo adesso dell’assurdità di quel che sto facendo: sto dicendo a mia madre cosa fare, come se da sola non riuscisse in niente. Le sto dicendo come comportarsi con la sua stessa figlia. E so che mi odierà per questo.

Ma qualcuno deve prendere in mano la situazione, e stavolta tocca a me.

Vedo nei suoi occhi verdi la disperazione di un genitore che capisce di aver sbagliato tutto, di una persona persa e che ha solo bisogno di essere guidata.

Le scale volano sotto i nostri piedi agitati e veloci, mentre il respiro di Alice, tenuta saldamente dalle braccia di mia mamma, si fa sempre più flebile. Solo ora mi chiedo come potrò rimanere calmo nei venti di minuti di viaggio per l’ospedale più vicino.

Corriamo nella notte come insetti, appiccicosi e sudati di paura e di troppa fretta, di quell’ansia del tempo che passa troppo velocemente quando vorrei solo fermarlo.

Come insetti ronziamo di pensieri che preferiamo non esprimere ad alta voce, un brusio fastidioso che potrebbe essere placato solo da una parola qualsiasi detta da Alice, con la sua voce adorabile.

Siamo in macchina ancora prima di accorgercene e subito mi siedo al volante, con le mani che tremano per l’agitazione. Uso un vecchio trucco di Matteo, che impiegava nelle situazioni più svariate, quando aveva bisogno di calmarsi: prendo aria, una bella boccata dal naso, e la butto fuori, allentando la tensione per un po’.

Tutto rallenta, tutto adesso è sotto controllo. Adesso le mani sono ferme.

Parto piano, come se il tempo potesse moderare il suo corso solo per noi, per poi ingranare e accelerare qualche minuto più tardi, dopo aver notato quanto desolate siano le strade che portano a Firenze a quest’ora.

Dove sono le macchine, i furgoni, i tir, i taxi, gli scooter?

Dove sono i motociclisti pieni di tatuaggi sulle loro braccia troppo abbronzate, dove sono le coppie innamorate che bisticciano in auto?

Dove sono le signore di mezza età chiuse nei taxi che spettegolano col conducente?

Probabilmente sono tutti nelle loro case, a mangiare un bel piatto di pasta simile a quello che sto ancora digerendo, assimilato lentamente insieme a tutti quei lividi.

Ho paura della strada troppo vuota, di quelle macchine invisibili che ci sfiorano senza creare strane collisioni, che non ci urtano e non creano danni che possiamo vedere.

Ho paura di questa notte nera che ci inghiotte e ci rende insicuri e fragili.

Ho paura anche di questo viaggio, così stupido, che avremmo potuto evitare se fossi capitato in una famiglia normale con un padre normale, che non ha bisogno di sfogare la sua rabbia sulla figlia piccola per sentirsi bene con se stesso.

«Non credi che sarebbe meglio rallentare un pochino? Stai oltrepassando il limite, tesoro.» mi avverte mia madre docile e remissiva, mentre carezza piano le guance paffute e colorite di Alice, ancora addormentata.

«In strada non c’è nessuno, perché dovrei rallentare?»

Il mio tono è sopra le righe, collerico e preoccupato allo stesso tempo.

«Edoardo, tua sorella non starà meglio se prendi una multa per eccesso di velocità, chiaro? Siamo quasi arrivati e lei si è addormentata. Non voglio rischiare un incidente solo perché sei in pensiero per lei. » mi riprende lei, ferma e decisa.

La linea bianca dell’autostrada si avvicina progressivamente agli pneumatici della macchina di mamma, che teoricamente non potrei neanche guidare.

Ma a chi importa? Al diavolo la sua prudenza: Alice sta male, e io devo aiutarla.

Vedere le luci quasi fluorescenti dell’ospedale pediatrico mi rassicura, facendomi rallentare non poco la velocità, per accostare e trovare al più presto parcheggio.

In una manciata di minuti siamo di nuovo in corsa folle con il respiro debole ed addormentato di Alice che soffia sulla spalla sinistra di mia madre, ormai umida.

Non chiediamo niente a nessuno, non aspettiamo il nostro turno, e quella prudenza da sempre intrinseca in mia madre sparisce nell’istante stesso in cui ogni malato o dottore che ci vede, e che vede Alice, ci riserva uno sguardo molto preoccupato.

Dopo un lasso di tempo che a noi sembra sconfinare nell’infinito, un dottore in carne e con una barba incolta e candida riesce a riceverci con un sorriso incerto.

Come se, senza neanche sapere quel che è successo, sapesse tutto.

«È da molto che aspettate? Mi hanno detto che si tratta di una bambina.»

Lo afferma mentre gira intorno al corpo ostile di mia madre, fino a trovarsi faccia a faccia con Alice, che continua a dormire imbronciata, da tempo immemore ormai.

Il labbro inferiore, che a casa colava sangue rosso cremisi, adesso è gonfio e quasi ricurvo su quello superiore. Il volto di una bambina che diventa un sacco sul quale un adulto squilibrato ha deciso di tirare calci e pugni, senza alcun risentimento.

Ma a mio padre basta piangere.

Perché pensare ai segni che rimarranno sul suo viso, quando il tuo unico pensiero è quello di andare nel bar di turno per il tuo prezioso whisky?

Il medico ci conduce con un gesto della mano verso una stanzetta bianca e asettica, che puzza in modo esagerato di disinfettante e di lacrime di bambini malati.

Il suo sguardo non si stacca mai dal labbro pieno di Alice, dai lividi sul viso che stanno diventando violacei, dalle piccole gambe bianchissime punteggiate da segni rossi troppo simili a dita cattive per essere equivoci.

«Da quanto non si sveglia?»

«Da poco dopo la caduta. Io stavo cucinando e lei è caduta dalle scale.»

« Questi segni  non sono quelli di una caduta, signora. Lì vede, questi qua sulle gambe? Non può esserseli fatta cadendo. Questi sono colpi lasciati da una mano, da delle dita, non da una scalinata. Non menta, signora. Come si è fatta male?»

«Lei è …caduta. Lei è caduta.» replica mia madre, la voce ridotta ad una nenia.

Mia madre ripete quella specie di mantra un paio di volte, mentre io rimango in disparte, per non dare nell’occhio. Vorrei portarmi una mano alla bocca, per tenerla ferma e chiusa fino alla fine della visita. Per non parlare. Ma so che non mi tratterrò.

«Tu sei il fratello della bambina?» mi chiede il dottore, scovandomi subito.

«Sì, sono il fratello di Alice.» rispondo nervoso, dando un nome a quel volto che, fra un paio d’ore scarse, per quell’uomo distinto non significherà più niente.

Solo l’ennesimo paziente da curare, l’ennesima storia triste da dissotterrare.

«Come si è fatta male Alice? È caduta?»

Mi squadra dall’alto verso il basso, mi mette in dubbio ancor prima di ascoltarmi.

«Io non ero in casa quando si è fatta male. Non lo so.» dico, tormentandomi le mani fino a non sentirle neanche, conficcandomi le unghie poco curate nei palmi, per avvertire il dolore necessario a non dire tutto quel che invece so.

«Figliolo, non è proteggendo questa persona che farai bene a tua sorella, ad Alice. Se capitasse di nuovo, cosa vi inventerete? Che è caduta di nuovo? Non ha senso nascondere una cosa di una tale gravità. Dimmi come si è fatta male.»

Mia madre è china su Alice, che ha aperto gli occhi lamentandosi senza nemmeno provare a star meglio. Il piccolo viso è distorto da una smorfia di dolore che lo rende più adulto, un volto che ha vissuto e sofferto. Il suo viso di appena cinque anni non dovrebbe avere quel velo di tristezza e di dolore. Non deve, non dovrà mai.

Sento mia madre singhiozzare, facendo crollare la maschera di donna, moglie e madre forte, che quando cade si rialza subito, spolverandosi appena con le mani e sfoderando uno dei sorrisi falsi, che come i miei, convincono sempre tutti.

È crollata, io lo so che è così. Che stavolta non si rialzerà subito.

Che ha bisogno della mia mano per tornare alla sua vita normale.

E posso aiutarla solo in un modo: infrangendo il nostro patto silenzioso.

«Alice è stata picchiata da mio padre dopo che lui aveva bevuto troppo. È la prima volta che succede, ma in precedenza lo aveva fatto con me. Non so come sia successo, ma so che avrebbe il coraggio e abbastanza alcool in corpo per farlo ancora.» confesso io, traballante, come se ogni verità mi svuotasse un po’.

«Alice non è fatta di gomma. Ho paura per lei, per mia madre e per me. Non ce la faccio. Non ce la faccio più. » rispondo carico di tensione, carico di quel peso che gravava sulla mia coscienza da troppo tempo.

Non bastano più le fotografie sorridenti, i pianti e le lacrime di coccodrillo per giustificare un gesto che non dovrebbe essere neanche umano. Non bastano più le suppliche silenziose di mamma, i sorrisi incoraggianti di Alice, che senza saperlo mi spingeva a credere in un futuro più felice e tranquillo. Non basta più crederci.

Il pianto di mia madre sembra essersi placato, forse troppo calmo per esserlo davvero.

Erano anni che desiderava sentire quelle parole. Voleva solo farle uscire dai suoi sogni e farle entrare nella realtà. E chi lo avrebbe mai detto che sarei stato io?

Sono stufo di tutti questi segreti. Di quella lista invisibile di cose da dire e da tacere. Voglio poter parlare liberamente anche dei miei mostri. Lo voglio realmente.

«Io adesso vedo che posso fare con Alice, ma per stanotte è meglio se rimane qua con noi per degli accertamenti.  E rimanete anche voi. Adesso chiamiamo la polizia e dovete dire loro quello che avete detto adesso a me.»

Il suo sguardo è positivo, gli occhi brillano dello stesso sogno che ho visto riflettere nelle ombre verdastre delle iridi di mia madre per anni. Forse adesso quel sogno, il sogno di una famiglia vera e normale, si realizzerà davvero.

Ma quanti respiri profondi dovrei fare per avere la calma necessaria a spifferare tutto a quei poliziotti? Come potrò non risultare banale, con quella storiella sentita mille volte da mille famiglie più sfortunate di noi?

Non voglio una denuncia.

Non voglio la rabbia folle e disperate di mio padre quando verrà a sapere questa storia. Non voglio che faccia male a mia madre o ad Alice.

Che affronti me. Da anni, ormai,  che aspettavo questo momento senza neanche saperlo. Da quel pomeriggio che rimase incastrato nella porta dello scantinato, che rimase segreto tra me e lui. Sento che è il momento di rievocare quel pomeriggio.

Nel frattempo il dottore dalla barba lunga inizia una breve visita di Alice, toccandone i punti dolenti con la paura di spezzarla, di farle troppo male.

È davvero troppo vederla soffrire. Non è ammesso nessun margine d’errore: verità o menzogna, realtà o immaginazione fervida.

Alice tenta in ogni modo di non mostrarsi debole, come le avevamo sempre insegnato io e mia madre inconsapevolmente. Ma non ci riesce, il dolore è troppo, glielo leggo in viso, mentre chiude gli occhi e vedo scendere una lacrima sulla guancia.

Prendo con uno strattone la borsa di mia madre, capiente e spaziosa, e ne estraggo il peluche di Alice, che, a suo tempo, era stato anche il mio. Lo nascondo dietro alla schiena, come un mago che sta per estrarre un coniglio bianco dal suo cilindro.

«Principessa, c’è una sorpresa per te, qua dietro.»

La vedo illuminarsi per un attimo, divertita e sorpresa da quell’attimo di allegria e di colore. Sta per sorridere, ma qualcosa la frena. Ha paura di brutte sorprese.

«C’è un amico qua dietro che vorrebbe abbracciarti. Ma mi ha detto che abbraccia solo le bambine che fanno un bel sorriso. Lui non le vuole le lacrime, sai?»

Nuovamente colpita da quel piccolo gioco, così stonato all’interno della serietà di quella fredda stanza d’ospedale, Alice sembra rinascere. E nel gesto che segue, io in lei vedo quel che diventerà: una donna forte, che combatte gli imprevisti con un sorriso. Che non sorride per finzione, che non muore dentro mentre lo fa.

Una donna che regala a tutti la sua positività, senza sconti per nessuno.

Una donna che si rialza, sempre.

Vogliosa di saperne di più, trattenendo una smorfia di dolore causata dai suoi movimenti troppo bruschi, Alice si asciuga le lacrime con un fazzoletto dimenticato sul suo corpicino da mia madre. Si soffia il naso maldestra, abituata ad essere sempre aiutata da mamma in questa piccola operazione, e, poi lo getta via.

Sorride senza ritegno, come se questo fosse il suo giorno migliore. Sorride e allontana i demoni scuri che volevano trangugiarla.

«Fammi vedere, fammi vedere!» mi chiede, frenetica nella sua curiosità.

E come quel mago che rende felice miriadi di bambini con i suoi trucchetti stupidi, faccio uscire il vecchio peluche dalla mia schiena, porgendolo ad Alice e fingendone la voce, rendendo la mia acuta e piccolissima. È così bella quando sorride per me.

Il peluche in sé non è niente di speciale: un vecchio orso, per la precisione un panda enorme, che accanto alla piccolezza di Alice sembra ancora più grande.

In alcuni punti è stato rattoppato, i medesimi punti in cui una versione più piccola e distruttiva di me aveva deciso di giocare col cane. Sì, avevamo un cane.

In quei punti la stoffa nera e bianca è interrotta da quadrati colorati, verdi, blu, rossi.

Un patchwork che era sempre riuscito a divertire Alice che, negli anni, aveva visto in quel peluche così strano e diverso una parte di sé stessa. La vedo mentre stringe a se il pupazzo, a tal punto che sembra quasi scoppiare. Non c’è dolore che tenga.

Lei adesso ha bisogno di quel giocattolo che le ricordi che è solo una bambina.

Lei adesso ha bisogno di stoffa e imbottitura da stringere a sé.

Quasi certamente perché di quel pupazzo non ha paura. Non ha motivo di averne.

Forse perché sa che quel ricordo felice non sarebbe stato in grado di farle male.

Sento trasparire il rumore di una sirena, prettamente inutile, dall’esterno, che trapassa il vetro sottile della finestra con facilità sorprendenti. Inizia la spettacolo.

Vedo uscire dalla volante due agenti, dissimili quando ben assortiti insieme: sembra di aver appena acceso la televisione, sul canale che trasmette i polizieschi che tanto appassionano mia madre. Gli stessi polizieschi che mio padre da sempre odiava.

« Quegli sbirri impiccioni, si facessero gli affari loro invece che rovinare la gente.»

Incredibile come saranno proprio gli “sbirri” a rovinare lui.

In pochi minuti, il tempo di arrivare al primo piano dove siamo noi con Alice, li vediamo arrivare e attraversare la porta. Non hanno quel fare spaccone che pensavo li caratterizzasse anche nella realtà, oltre lo schermo. Si avvicinano a me e mia madre con modi discreti, senza improvvisare grandi scenate o sorrisi senza senso.

Sono qui e so che faranno il loro lavoro, che vorranno sapere sempre di più.

«Salve signora, il dottore ha detto che dovevate raccontarci delle cose che dovremmo sapere. Dottore, noi andiamo nella stanza accanto, abbiamo visto che è vuota. Ci sono problemi?» chiede con garbo uno dei due, più magro e allampanato.

Il dottore risponde con un cenno raccolto del capo, per non svegliare Alice che, abbracciata al suo peluche con tutta la forza possibile, si è addormentata di nuovo.

Io e mia madre seguiamo a capo basso i due poliziotti che ci guidano verso la stanza accanto, identica a quella in cui eravamo, meno vissuta, più artificiale della precedente. Forse perché ancora nessun malato c’era passato, di lì.

Ci fanno sedere sulle uniche due sedie a disposizioni, senza una parola, lasciandoci ancora un po’ di spazio per riordinare le idee, i segreti, i fatti di una vita intera.

Come raccontarli tutti senza tralasciare niente? Da dove partire? E dove finire?

I due uomini camminano avanti e indietro. Anche loro hanno bisogno di capire ancor prima di porci domande: su cosa insistere, a chi chiedere, e come?

Non è facile stare da nessuna delle due parti. Ma è necessario, e decido di iniziare.

«Non so cosa vi ha detto il dottore, ma quello che dobbiamo dire noi non è affatto semplice. Non vogliamo parlare solo di stanotte, ma anche di notti e giorni precedenti. Non voglio più tornare a casa con la paura di farmi male.»

I poliziotti annuiscono, mi lasciano fare senza fare domande, quasi spaventati.

E inizio. Parlo, descrivo, racconto, spiego.

A intervalli imprecisi interviene mia madre, rivelando come e dove aveva conosciuto mio padre, di cui i due agenti prendono subito le generalità per l’arresto.

Mamma racconta episodi che neanche immaginavo, di una violenza e di una cattiveria che non avrei creduto possibile neanche al peggiore degli uomini.

Parla di come all’inizio tutto fosse stato bello, delle attenzioni premurose di mio padre, dei suoi regali costosi e dei nonni che non avevo mai conosciuto, che con mia madre si erano da subito dimostrati carini, come i genitori che le mancavano tanto.

Un quadretto felice, un matrimonio lampo dopo un paio d’anni di convivenza.

I primi anni, belli e spensierati, senza troppi pensieri per la testa e con progetti che avevano dell’incredibile, in parte realizzati con viaggi, splendide cene, belle serate.

Poi arrivai io, quell’errore che mio padre non aveva mai incluso nei suoi piani.

Quel minuscolo intruso nella loro vita di coppia felice. Una macchia nera nelle loro pagine bianche, che avrebbe cambiato radicalmente tutto quello che avevano fatto.

Iniziano le domande mirate, i perché a cui non sappiamo dare risposta.

Capisco che è il momento giusto per dire quel che so, quella brutta verità, sporca di dettagli spiacevoli, che mi fa girare la testa al solo pensiero di doverla riesumare.

«Quando avevo sei anni, ero andato con mio padre a fare un giro in bicicletta. Eravamo appena tornati, e stavamo mettendo le bici nello scantinato. È uno stanzino che sta dove gli altri condomini hanno il garage, che noi non abbiamo. Era di buonumore. Lo avevo visto bere più volte da  una boccetta piccola, che teneva nella tasca dei pantaloni. Non sapevo cosa ci fosse dentro, ma potevo intuire che non fosse acqua, per l’odore forte che lasciava su di lui. Ci chiuse a chiave nello scantinato.»

Mia madre inizia a tremare, spaventata da quell’episodio di cui non sa nulla.

Trattiene il fiato, per poter affrontare meglio quello che seguirà. O almeno lo spera.

I poliziotti mi guardano, si sono seduti entrambi sulla scrivania. Sono già passate un paio d’ore, e so che sono sfiniti da tutto quello che avevamo già detto loro.

Ma non posso fermarmi adesso, questo sarà decisivo, io lo so. Anche se fa male ricordarlo, anche se mi ero convinto fosse stato solo un brutto sogno dell’infanzia.

«Poi che è successo?» incalza il poliziotto tarchiato, più silenzioso e discreto.

«Poi iniziò a ridere. Mi faceva paura. E mentre rideva iniziò a spogliarmi e lui fece lo stesso. Diceva che faceva caldo, che era meglio così. Io avevo paura, ma obbedii, senza fare storie. Nel silenzio si sentiva solo la sua risata che cresceva.»

Rivedo tutta la scena sotto i miei occhi, come se fossi solo un narratore esterno che racconta quel film osceno. Come se tutto stesse accadendo adesso, a me, di nuovo.

Rivedo quel bambino tutto sudato, felice dopo il pomeriggio passato insieme al padre, che da qualche giorno era sempre più strano: cupo, a volte rabbioso senza nessun motivo. Erano momenti isolati che riuscivano sempre a confondermi.

Rivedo quel supereroe che si trasforma nel cattivo della storia, in quella figura nera e senza cuore e pietà che avrebbe risucchiato tutta la felicità di quel giorno.

Inizio a tremare come mia madre, e sento la sua mano che prende la mia.

Mi sta aiutando. Vuole che tiri fuori il coraggio. Vuole sapere quella brutta storia.

«Iniziò a toccarmi, io non capivo. Urlava, e urlava. Mi molestò, quel pomeriggio.

Mi fece rivestire, io stavo piangendo. Mi fece promettere di non parlarne mai con nessuno. E questa è la prima volta che lo dico a qualcuno. La prima.»

Ormai non cerco più di trattenermi, sono perso dentro quel buco nero.

Il sorriso infame di mio padre, la mia inconsapevolezza che si trasforma prima in paura e poi in semplice terrore. Tremo e sento che cadrò dalla sedia, che non sorreggerà il peso mio e di quel ricordo.

Ma è successo davvero?

Sento la vista che si annebbia un po’ mentre la mano tremante di mia madre diventa ferma e si posa sulla mia schiena, tenendomi dritto.

Dovrei sentirmi più leggero, libero da quel segreto che mi buttava giù.

Mi sento solo sporco, sbagliato, una spia uscita male, con dieci anni di ritardo.

 

 

 

 

 

 

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