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La luce
entra dalla finestra, tenue nel suo bagliore mattutino, ma allo stesso tempo
incredibilmente energica quando si posa sul profilo del suo corpo. Ne accentua
i contrasti tra chiaro e scuro, riempie il volto leggermente scavato intorno agli
zigomi e illumina l’espressione rilassata nel sonno, la bocca semiaperta in un
sorriso.
Inclino
la testa delicatamente a destra, ormai sveglio per la troppa luminosità
proveniente dalla finestra. Pochi minuti ad occhi aperti e sono già perso nella
precisione di quei piccoli dettagli che, messi assieme, fanno il mio migliore
amico. Sorrido e mi lascio sfuggire un sospiro, che nella sua pesantezza
esprime il dolore del silenzio e la sua incredibile rumorosità inespressa. Il
silenzio che vorrebbe sfociare in un fiume di parole in piena, fino a ricoprire
ogni centimetro di quel corpo meravigliosamente imperfetto, in cui ogni
cicatrice, mostrata con orgoglio, è un pezzo di storia passata a miglior vita.
I miei
occhi attenti, puri e azzurri come il mare al tramonto, assaporano ogni piccolezza
di quel corpo immerso nell’ennesimo sogno. Un sogno che assomiglia ad un quadro
di cui non mi resta che fare da cornice, mentre Matteo ed Elena ne sono i
protagonisti al centro, intenti in una delle loro smancerie. Il volto dapprima
disteso di Matteo si apre come le ali di un’enorme farfalla, regalando
inconsciamente un nuovo spettacolo da ammirare. Gli occhi, castani come i
capelli annodati e scomposti, mi fissano per un attimo mentre, disinvolto,
cerco di ritrarmi, spaventato da quel gioco di sguardi. Perché Matteo non deve
sapere. Non deve sapere quanto io vorrei mettere qualcosa in più tra di noi
rispetto a semplici e fugaci occhiate. Che quello che io vorrei attraversa un
limite indicibile, che sfocia nella vergogna di esporsi troppo. Un bacio, una
carezza, una frase diversa dal solito.
Un
limite che varca la linea sottile dell’amicizia e che si converte in amore.
«Da
quanto sei sveglio?» domanda Matteo, lo sguardo ancora smarrito a causa della
sbronza della sera precedente.
«Da
qualche minuto.» rispondo, omettendo quello che in pochi minuti mi ero
ritrovato a pensare. Lo stomaco si contorce al pensiero di un nuovo giorno di
bugie e omissioni. Un altro giorno da depennare.
«Ti
prego, la prossima volta che decidi di sbronzarti, evita di coinvolgere anche
me. Domani inizia anche scuola, in questo stato mi potrebbero scambiare per un
nuovo barbone!» aggiunge nel giro di qualche secondo lui, come a voler riempire
gli spazi vuoti di una conversazione che si sorregge sul nulla.
Un
funambolo, un filo su cui camminare, e nessuna rete a proteggerlo: una parola
sbagliata, una giornata storta e la corda si torce, si tende troppo, fino a far
cadere l’equilibrista nel baratro dell’imbarazzo. Ho paura, non voglio cadere
da quel filo così sottile, e so che basterebbe avvicinarmi di qualche
centimetro per ottenere, anche se in una parte infinitamente piccola, quello
che vorrei. Ma non lo farò.
«Ma
smettila, tanto con Elena non hai problemi in qualunque stato tu sia.» replico,
il tono evidentemente scocciato, la voce incrinata.
«Ancora
con questa storia? Dai, per favore.»
«Per
favore? Ma con che coraggio? Sai come la penso. È una come tante. Lei andrà via
col primo che passa e io rimarrò qui, come ogni volta.»
«Perché
finisce sempre così?»
«Così
come?»
«Basta
che venga fuori il suo nome e tu subito diventi una furia. Non ha senso. Adesso
c’è lei, e so che domani potrebbe non esserci e tu invece rimarrai. Ma non so
che dirti per convincerti e sono stanco. Io torno a dormire.»
Un muro
invisibile, suddiviso in milioni di mattoni pesanti come macigni, si erge tra
noi al termine della breve conversazione. Il peso di quel silenzio non fa che
crescere e crescere, sommergendo la mia bocca. Il respiro di Matteo, aggravato
dalla pesantezza dello scontro in corso, si fa regolare e lieve, soave come il
ronzio lontano di un’ape che sai essere innocua.
E se
stavolta ci riuscissi? No, l’ennesima idea da scacciare via controvoglia.
Un’idea pericolosa, che potrebbe spezzare l’equilibrio precario di quell’amicizia
costruita in diciotto anni di silenzi. Non posso mandare tutto alle ortiche per
un istinto. Non devo. Ma nessuno lo saprebbe. Nessuno lo vedrebbe. Rimarrebbe
un segreto incastonato tra le lenzuola leggere, tra la federa colorata del
cuscino e le labbra, morbide e carnose, di Matteo. Un segreto suggellato da
quel contatto fisico a cui aspiro da tempo immemore.
Ormai
non si torna indietro: sarebbe vigliaccheria. Sarebbe idiota lasciarsi sfuggire
l’unica cosa che è capace di rimetterti al mondo, abbastanza forte da
permetterti di rialzarti in piedi, ma sufficientemente lieve da rimanere
sospesa nell’aria respirata, nelle pulsazioni di due cuori che si trovano
vicini come mai prima sono stati. Separati da quello che nessuno si
aspetterebbe di vedere, una di quelle azioni troppo spontanee per essere
razionali.
Ora o
mai.
Impegnato
nel non fare movimenti troppo bruschi che potrebbero svegliare Matteo, mi alzo
dal letto, sentendo il peso del mio corpo completamente fuori controllo.
Niente
ripensamenti.
Le molle
del letto sembrano volermi spingere nella direzione desiderata, come se ogni
oggetto e atomo nell’aria sapesse la cosa giusta da fare.
Marionetta
nelle mani di una cosa più grande di me.
Ogni
passo è uno sbaglio da non rifare, ogni centimetro che mi lascio alle spalle è
un’imprecazione a tutto quello che non ho fatto per paura di un rifiuto che mi
avrebbe marchiato a fuoco la pelle, rendendomi visibile a chiunque fosse nei
paraggi. Adesso non siamo noi, adesso non ci sono io: ci sono due corpi qualunque,
in una stanza qualunque di una città qualunque. C’è qualcuno che dall’alto ha
scelto noi, facendo scorrere un dito sul mappamondo e poi fermandone la forza
motrice. La gente comune lo chiama destino. Io la chiamo fortuna.
Ma
basterà la fortuna a non svegliarlo, a non perdere l’occasione che ho rincorso
dal primo momento in cui ho incrociato il suo sguardo? Nessuno può saperlo
adesso. Un altro passo e quell’occasione diventerà concreta, trasformandosi in
ricordo. Uno dei ricordi ai quali finisci per affezionarti, forse condizionato
proprio dalla sua segretezza, dal fatto che solo tu ne sei a conoscenza, e che
quella impercettibile esperienza si aggiungerà all’interminabile lista di cose
da non dire.
La
vicinanza è tale che basterebbe un orecchio più attento per sentire il battito
regolare di Matteo che, come musica, dà un ritmo alla mia timidezza e a tutte le
paure che non rinunciano a frenarmi nonostante tutto. Ma adesso basta.
Di che
colore è il coraggio?
La
stanza, claustrofobica per la sua improvvisa piccolezza, riflette ogni colore
proveniente dall’esterno come uno specchio d’acqua pura in una giornata
soleggiata. Il viola che forma una sottile striscia per terra, tra la finestra
e la parete bianca. Il rosso, l’arancione e il giallo che come una freccia
indicano il percorso da seguire per raggiungere il viso disteso di Matteo, che
dorme nella sua inconsapevole bellezza.
Indeciso
sul da farsi, scelgo di chinarmi per evitare di far muovere troppo il letto,
scansando così la remota possibilità di un risveglio non previsto che
rovinerebbe un attimo sconsiderato, cercato infinite volte. Tengo gli occhi ben
aperti e catturo ogni istante come una fotografia che potrò rivedere
successivamente, quando la mia bolla di sapone sarà scoppiata in aria. Li
chiudo solo quando sento il mio naso sfiorare il suo con un brivido.
Pochi
secondi e il mondo rinasce e muore istantaneamente, il tempo necessario per la
mia mente di scattare quelle famose fotografie che, però, sapranno di un sapore
del tutto nuovo, inaspettatamente dolce e leggero, al quale per poco non
finisco per abituarmi.
Come si
spiega un bacio su cui ti sei soffermato a fantasticare così tante volte da non
riuscire più a tenere il conto? Come descrivi il rumore dei tuoi pensieri che,
come in tilt, non smettono di rimbalzare da un angolo all’altro della tua
testa, piccole molle alticce perse in un respiro lieve? Un bacio si vive, non
si racconta.
Le
labbra di Matteo, seppur addormentate e socchiuse in un piccolo cerchio
perfetto, sembrano ricambiare l’errore che non sa fermarsi, un errore di cui
potrò darmi la colpa e il merito finché la memoria me lo consentirà. Il fuoco
che stava per spegnersi sembra bruciarci fino alla morte, quando il mio corpo
si appoggia con leggerezza al suo, in un accostamento che va oltre al dormire
col proprio amico, che assomiglia più a quello che, di solito, Matteo fa con
Elena. Le mie labbra, avide di un piacere succoso, divorano con dolcezza la
stanchezza alcolica di Matteo, la sua calma che non riesce a placare la mia
insistenza. Il suo sonno che arriva solo a risvegliarmi.
Il
nostro, il mio bacio dolce sancisce una promessa fatta a me stesso, una
promessa che non sono mai stato capace di mantenere: niente più dolore.
Ma l’amore
è soffrire. L’amore è aspettare momenti come questo, che ti ripagano di tutte
le volte in cui avresti voluto prendere a sberle quel poco che la vita ti
offriva. L’amore è a senso unico. L’amore è quel bacio che solo tu ricorderai.
Quando
decido di staccarmi, la realtà mi si appiccica addosso come una pellicola
trasparente, mi incatena al suolo e non mi lascia muovere, il peso delle
emozioni che non mi fa stare in piedi ma al tempo stesso mi permette di non
cadere nell’immediato. È una forza invisibile che parte dalla bocca e arriva
dritta al cuore, senza seguire un percorso preciso. Zigzaga un po’ ovunque
senza un criterio, colpendo muscoli e ossa e lasciando cicatrici come quelle di
cui Matteo va tanto fiero. Ma queste cicatrici non si mostrano come un trofeo
di guerra, non sono il risultato di una caduta dal motorino, di un taglio con
la carta, di un gioco con la sorella che finisce male. Queste sono le mie
ferite. Le ferite di un guerriero che combatte contro un nemico silenzioso,
identificando quest’ultimo con il silenzio stesso.
Il
sangue che sento scorrere nelle vene, fino a evidenziarne il colore bluastro
che risalta sulla mia carnagione bianchiccia, corre fregandosene delle
pulsazioni, di quello che il resto del corpo decide di fare. E la stanza inizia
a girare vorticosamente, in un moto oscillatorio e instabile che mi fa
apprezzare l’abituale stabilità che, nella mia vita, regna sovrana. Mi permetto
di guardare ancora una volta la persona che riesce a far tremare il pavimento
sotto ai miei piedi, e mi sorprendo del suo aspetto: può qualcuno cambiare da
un momento all’altro solo grazie ad un bacio?
Gli
zigomi, che fino a qualche minuto fa vedevo come una parte insignificante e
nemmeno troppo bella del viso di Matteo, adesso sono il punto del suo volto in
cui il mio respiro si è posato per la prima e ultima volta.
Gli
occhi, che sono in procinto di aprirsi, diventano le finestre sbarrate che non
ho avuto il coraggio di spalancare.
La bocca
piena diventa il luogo in cui vorrei rifugiarmi nei momenti più neri.
Le
braccia, muscolose ma non troppo, in pochi minuti mutano il loro scopo: quelle
due braccia, che prima potevano essere utili a sollevare qualche peso in
palestra, o magari a cingere la vita stretta di Elena, adesso sono custodi di
un segreto indicibile, di quel gesto sconsiderato che farebbe spalancare la
bocca ai più bigotti.
Il petto
si alza e si abbassa a ritmo lento, quasi ipnotizzandomi in una cantilena senza
alcun rumore reale, un movimento continuo che sembra evidenziare la maglietta stropicciata,
sulla quale ho da poco poggiato le mani. Tutto cambia, tutto cambia e tu non
puoi far nulla per fermare il corso delle cose che, a velocità limite, ti
sbattono da una parte all’altra della tua realtà. Quel mondo che hai
l’impressione giri solo attorno a te solo per un attimo. Non c’è nessun altro:
non sei la spalla di nessuno, non sei lì da una parte a guardare la vita degli
altri come le persone comuni guardano un bel film. No, stavolta tocca a te,
anche se il tuo momento di gloria è durato un solo istante. In quel minuto, in
quei sessanta secondi o più, la tua vita, i tuoi problemi, e quella maledetta
sensazione permanente di non saper mai fare la cosa giusta al momento giusto
spariscono, per lasciar spazio alla parte più audace di te.
Ma basta
un minuto ancora, e quelle impronte lasciate diventano invisibili, il sapore
del tuo respiro diventa tutt’uno con l’ossigeno, i due battiti cardiaci che
sembrano essersi fusi in un cuore solo perdono la loro sincronia. Un minuto
soltanto.
Lo
stesso lasso di tempo che serve alla causa di tanto trambusto per svegliarsi
appena, voltandosi su un fianco in posizione fetale, l’innocenza di un bambino
a contrasto con l’alito che manda un forte olezzo alcolico.
«Edo?»
«Che
c’è?»
Gli
occhi di Matteo stentano nel rimanere aperti, prossimi ad un cedimento che,
senza ombra di dubbio, durerà più di qualche minuto.
«Sei il
mio migliore amico, vero?»
Eccolo. Il
momento in cui potrei rispondere negativamente. Ma anche stavolta mi gioca un
brutto tiro, facendo riemergere quella parte di me che alla luce preferisce il
buio. Che alla verità preferisce una bugia dolceamara, un segreto sporco.
«Certo,
che domande fai?» rispondo, mentre sento un groviglio pesante crescere nella
gola, spezzandomi il fiato, troncando seconde opportunità.
Al
sentire l’ovvietà di quella risposta, Matteo chiude nuovamente gli occhi e, con
un sorriso etereo stampato sul viso, affonda la testa nel cuscino e crolla
addormentato.
Senza
pensare troppo, esco dalla mia camera sbattendo la porta. Mi trovo faccia a
faccia con mia madre che, sbigottita, è accovacciata all’altezza della
serratura della mia porta. L’aria colpevole accentua incredibilmente le rughe
d’espressione che le incorniciano il viso senza appesantirla troppo, diventando
poi più profonde in prossimità degli angoli degl’occhi. Quegli stessi occhi che
non è riuscita a tramandarmi, di quel verde chiaro che nelle fredde giornate
d’inverno sembrano piccoli cerchietti d’oro puro, adesso schizzano in ogni
direzione con frenesia. Come a voler trovare una buona scusa, un nascondiglio,
in poco tempo. Ma perché?
«Tutto
bene, mamma?»
«Sì,
certo. Mi era caduta una molletta e mi sono chinata a raccoglierla. Tutto
bene?»
Noto
subito che in mano non ha assolutamente niente. Distolgo lo sguardo.
«Sì,
Matteo sta dormendo. Ieriha bevuto
troppo. Devo uscire, ci vediamo dopo.»
E per
tranquillizzarla, consapevole di ciò che ha appena visto accadere tra me e
Matteo, sfodero il più falso dei sorrisi, uno di quelli talmente forzati da
risultare credibili a chiunque.
La voce sottile di mia madre mi scrolla,
ricordandomi in un solo momento che giorno è oggi. Oggi inizia la scuola. Non
per me, ovvio. Non puoi permetterti di sognare un futuro diverso da quello che
hanno già deciso per te, se fai parte di questa famiglia. Non puoi minimamente
pensare di apprendere quelle poche nozioni in più che ti farebbero spiccare il
volo verso la vetta della tua personale montagna di sogni, quel monte
voluminoso che ti è concesso solo guardare da lontano.
Per me scalare quella montagna e
toccarne la cima sarebbe la realizzazione di tutte quelle parole che metto
insieme, senza star attento all’ordine. Parole che raccolgo negli angoli del
ripostiglio, nella polvere di una delle mie mensole stracolme di libri. Ma sono
un lusso che non posso permettermi.
«Mamma, perché mi hai svegliato? Tanto a
scuola non ci vado più.»
Ancora spossato dal sonno, vedo gli
occhi verdi di mia madre che si alzano verso il soffitto, gesto che fa
abitualmente quando è stufa di qualcosa. Gesto che, negli ultimi diciotto anni,
ha ripetuto infinite e infinite volte.
«Ieri sera mi avevi detto di svegliarti,
perché volevi accompagnare Matteo a scuola. Ma dove hai la testa? Fai come
vuoi, io adesso devo andare a lavoro.»
Le sento sussurrare l’ultima frase, con
quel tono spaventato e un po’ scocciato che nasconde un segreto. Un segreto
che, se attraversasse la parete e arrivasse in cucina, potrebbe essere la causa
dell’ennesima serata sbagliata.
Quelle ore in cui vorrei solo scavare un
tunnel sotterraneo per andare in quella che tutti chiamano famiglia.In una famiglia vera. Una famiglia senza
angoli bui, senza segreti inconfessabili. Una famiglia dove non dovrei
preoccuparmi di ogni respiro che faccio. Un altro sogno non concesso, tenuto
stretto tra i denti per non farlo trapelare. Un’altra montagna da scalare in
solitario, coperta dalla vergogna di doversi nascondere agli occhi della
persona che hai promesso di amare.
«Ah, lo avevo dimenticato. Ci vediamo a
pranzo.» dico, alzandomi e poggiando il peso su un gomito e stampandole un
piccolo bacio sulla guancia.
Prima di andarsene mi regala un sorriso.
Era da mesi che non la vedevo sorridere davvero.
La sveglia accanto a me, praticamente
nuova, segna il mio ritardo con chiarezza. Veloce come mai prima, ma in ogni
caso attento a non creare troppo scompiglio, prendo i vestiti del giorno prima,
appoggiati sulla sedia in completo disordine. E perché agghindarsi? Oggi sono
di troppo, oggi non dovrei nemmeno esserci. Maledetto Matteo e maledetta forza
di volontà che viene sempre a mancare. Infilo i jeans sdruciti senza neanche
provare a dar loro una piega decente, e in tutta fretta metto la maglietta
bianca che l’anno scorso Matteo mi ha regalato per il compleanno. Consapevole
che nemmeno un cartellone con scritto sopra quel che vorrei dire, che vorrei
urlare, sarebbe capace di attirare la sua attenzione. Un fantasma al quale
passerebbe attraverso, mano nella mano con Elena.
Preso dalla frenesia e dalla paura di
far tardi, come mio solito, mi accorgo appena di qualcuno che, dall’altra parte
della porta, sta bussando. Tre tocchi e un piccolo singhiozzo. Non ci sarebbe
neanche bisogno di aprire la porta, ma lo faccio. Un metro o poco più, il dito
in bocca come sua abitudine, una cascata di capelli biondissimi che le ricadono
fin sotto alla schiena, lisci come spaghetti, con qualche piccolo ricciolo in
fondo. Gli occhi, verdi chiari come quelli della madre, sono impregnati di
lacrime, guardano da una parte all’altra senza fermarsi. Ha quell’aria dolcemente
spaventata che, in cinque anni, ho imparato a riconoscere. Una serie irregolare
di singulti le scuotono il corpo esile, una bambolina in miniatura: così
fragile e delicata che, se la stringessi troppo, avrei paura di romperla.
«Edo, io paura.» le sento dire con voce
flebile, il piccolo cuore che corre all’impazzata dopo un qualcosa che sembra
averla spaventata a morte. O qualcuno.
«Piccolina, che è successo?» le chiedo.
Mi inginocchio per vederla da vicino.
«Papà è arrabbiato, ha la faccia tutta
rossa!» mi spiega velocemente, piangendo.
«E che ha fatto papà?» le domando con
dolcezza, accarezzandole il viso umido.
«Ha fatto male alla mamma… Edo, ho paura!»
«Tesoro, lo sai com’è papà, dopo gli
passa tutto. Io adesso devo andare a scuola con Matteo, tu mi prometti che
torni a dormire e non piangi più?»
Accompagno la mia richiesta con un
buffetto sulla guancia, scherzoso. Alice annuisce con convinzione, scuotendo un
po’ la testolina bionda.
«E fammi un sorriso, che le principesse
sorridono sempre.» le sussurro piano all’orecchio, intento nel non svegliare
l’energumeno accalorato e rabbioso sdraiato sul divano. Quell’uomo che,
convenzionalmente, dovrei identificare come mio padre.
«Quando sarò grande come te, io sarò una
principessa e tu un principe!» ribatte allegramente Alice, asciugandosi le
lacrime con una mano.
Torna, sulla punta dei piedi per non
fare rumore, nella cameretta, voltandosi appena prima di entrarci per mandarmi
un bacio con la mano. E in quel momento la sola cosa che chiederei come ultimo
desiderio ad un ipotetico genio della lampada, sarebbe vedere quel volto
sorridente lontano dalla cattiveria e dalle mani pesanti di quell’uomo. In una
famiglia vera, in cui i segreti sono piccoli e innocenti, in cui la sera è
normale vedere la televisione tutti insieme o parlare della propria giornata, e
non andarsi a nascondere per evitare la furia del suo componente principale. Ma
sono troppo in ritardo per fantasticare.
Corro con passi piccoli e veloci verso
la porta, concedendomi un’occhiata rapida alla cucina, per essere sicuro di una
relativa pace fin quando non sarò tornato: il silenzio regna in ogni metro
quadrato della casa. Unica eccezione è il respiro lento e pesante di mio padre
che, sudato e rosso in volto per le troppe bottiglie scolate la sera
precedente, dorme scompostamente sul divano, bizzarro in giacca e cravatta e
con quell’odoraccio che ormai riconosco al volo cosparso su tutto il corpo
grassoccio.
Sento il telefono vibrare nella tasca
dei pantaloni, come a volermi ricordare il mio ritardo spropositato. Rispondo
alla chiamata, pronto a sentire la voce di Matteo all’altro capo che sbraita
per la mia perenne lentezza.
«Ma dove sei finito? Fra venti minuti
chiudono i cancelli! Sei sempre il solito. Io fra cinque minuti parto con la
macchina. Ah, c’è anche Elena. A dopo!» dice, tutto in un fiato, prima di
riattaccarmi in faccia senza troppe spiegazioni. Come al solito.
Ormai abituato alla sua fretta e alla
mia lentezza che, ai due poli opposti, invece di completarsi a vicenda
finiscono spesso per scontrarsi, inizio a correre. Èbuffo come la
maggior parte del tempo, in vita mia, io mi sia ritrovato a correre: correvo da
piccolo, dopo qualche mese appena che avevo imparato a reggermi in piedi.
Correvo via da mia madre che, al culmine della felicità quando la casa era
libera ed eravamo soli, mi inseguiva in giro senza stancarsi mai. Non c’erano
“se”, non c’erano le scuse ricorrenti della stanchezza, del poco tempo, della
poca voglia o del dovere morale di far silenzio. C’erano un bambino e una
giovane donna, nella loro personale fiaba. Nessun mostro sotto il letto o sul
divano. Correvo qualche anno dopo, quando i mostri avevano iniziato a venire
fuori e ad essere una presenza fissa in casa nostra, insieme a Matteo, nel
giardino di casa sua. E adesso corro incessantemente, ma non dietro alle
persone, al cane dei vicini che non la smette di abbaiare, non dietro ad una
sorella piccola che vorrebbe giocare con me tutto il giorno: corro dietro alle
occasioni in bilico, alle persone che stanno appese ad un filo sottile, ai
ricordi che non saresti in grado di replicare.
Corro dietro a cosa non c’è, a cosa c’è
stato e non tornerà più indietro.
Corro dietro all’astratto, a ciò che non
puoi toccare, sentire, gustare. A cose o persone che non staranno ad aspettarti
in eterno, che devi essere abbastanza svelto da acchiappare. C’è chi rincorre i
treni in ritardo, chi l’amore e chi un sogno.
Io rincorro quel tipo di occasione che
non ti darà una seconda possibilità. E so che se non mi sbrigo, una persona non
aspetterà certo me per iniziare l’ultimo anno di liceo. A maggior ragione se in
dolce, dolcissima compagnia.
Non posso dire di odiare Elena. L’odio è
qualcosa di enorme, che ti spinge alle azioni più sconsiderate e spregevoli
senza che tu te ne possa accorgere. Io sono più un tipo che disprezza: sono
capace di fingere un sorriso, magari parlando con la persona interessata per
qualche minuto, ma di covare dentro tutto il male che mi passa per la mente. È
un sentimento aspro, che finisce per incenerire quel briciolo di bontà che
ancora ti rimane e che si accende nel momento esatto in cui incroci lo sguardo
della persona scatenante il sapore dell’amaro in bocca. La cura? La
sopportazione.
Ma come sopportare la vista di quel
visino irritabile che si avvicina con pathos, e che si butta sul volto che fino
ad un giorno fa era tuo?
Come sopportare le loro mani
intrecciate? Le mani di Matteo nei capelli di Elena? Il momento in cui lui la
solleva di qualche centimetro da terra?
L’apice è quando lei lo bacia davanti a
me, come a sottolineare a chi appartiene chi. Come se non lo sapessi già
abbastanza bene da solo e senza il suo contributo.
«Alla buon ora!»
La voce squillante di Elena mi scuote
dai miei pensieri fitti.
E quel trillare fastidioso,
incredibilmente simile al rumore di un paio d’unghie lunghe che graffiano una
lavagna, mi ricorda perché non ho ancora capito cosa Matteo ci trovi in lei. Un
bel culo? Un bel corpo? I bei capelli? Gli occhi grandi e celesti? Le gambe
slanciate, le braccia esili? La solita lista della spesa. Le caratteristiche di
una vecchia barbie, passato da un pezzo di moda. Una barbie che, personalmente,
butterei nel primo cestino disponibile.
«Scusate, a casa c’era il solito casino
e ho fatto tardi.» cerco di giustificarmi con Matteo, ignorando volutamente lo
sguardo impertinente e scocciato di Elena che mi squadra da capo a piedi senza
alcun ritegno. Salgo in macchina e cedo con finta galanteria il posto dietro ad
Elena, che è così costretta ad allontanarsi da Matteo. Le rivolgo un sorriso
forzato, e mi volto verso Matteo che, nervoso e a tutta velocità, tiene le mani
ferme sul volante in una corsa folle contro il tempo e il traffico del lunedì
mattina. Senza dire una parola mi guarda facendomi capire, senza doverlo dire
esplicitamente, che sarebbe bello se almeno provassi a non essere così
apertamente odioso nei confronti di Elena. Senza aprire bocca a mia volta, alzo
gli occhi al cielo com’è solita fare mia madre quando dico la cosa sbagliata al
momento sbagliato, facendo intendere il mio rifiuto alla sua proposta
silenziosa. Ed è proprio Elena ad interrompere quel taciturno scambio
d’opinioni.
«Che è ‘sto silenzio? Avete litigato?»
squittisce lei, da una parte speranzosa nell’intonazione della domanda,
dall’altra mostrandosi interessata, fingendo.
«Ma no, è una cosa che facciamo sempre.
Non puoi capire.» rispondo sbrigativo io.
«Ah, certo, io non posso mai capire.»
ribatte Elena offesa, mettendo su il broncio come mia sorella, che è almeno
giustificata dalla sua tenera età per i suoi capricci, e rintanandosi nel
sedile dietro, a braccia conserte.
I capelli, originariamente castano
scuro, diventati biondo chiaro qualche settimana fa in contrasto, almeno
secondo me, con la sua carnagione olivastra, sono legati in una treccia
lunghissima, che le arriva fino a metà schiena e ondeggia lievemente da una
parte all’altra. Come se il nervosismo le passasse direttamente nei capelli
lunghi, che si trasformano in milioni di fili elettrici pronti a fulminarmi da
un momento all’altro. Pronti ad eliminare l’unico ostacolo tra lei e Matteo,
l’unica persona che non si limita a guardarli sognante, invidiando chi lui e
chi lei. L’unico a non averla mai davvero apprezzata.
«Veramente io…»
«Quello che Edoardo intendeva, è che
spesso ci capiamo senza parlare. Magari ti può sembrare strano. Era questo che
volevi dire, vero, Edo?» mi interrompe bruscamente Matteo, cercando di non
creare l’ennesimo litigio e dandomi un’occasione per rimediare.
«Sì, è più o meno come hai detto tu.»
rispondo meccanicamente io.
C’è una lunga pausa, un silenzio
imbarazzante ogni tanto interrotto da un melodrammatico sospiro proveniente dal
sedile posteriore, o dalla musica particolarmente alta di una macchina truccata
che ci sfreccia accanto nel traffico.
«Ieri pomeriggio ho fatto un sogno stranissimo,
sapete?» inizia a dire Matteo.
«Che hai sognato?» chiedo subito io,
incuriosito dalla precisazione di Matteo.
Ieri pomeriggio? Ma intende il momento
in cui stava dormendo a casa mia? Il momento in cui mi ha fatto amare la sua
incapacità di reggere l’alcool?
«È stato quando mi sono addormentato a
casa tua, Edo. Non so se sia stato l’effetto dell’alcool, o la stanchezza
assurda che avevo addosso. Non lo so proprio. Ma era strano, non so neanche
descriverlo bene a parole.» inizia lui, a stento.
«In ogni caso, ero in una stanza bianca,
senza niente sui muri, sul pavimento, niente di niente. Ero disteso su un letto
e anche nel sogno dormivo.»
Il racconto di Matteo è bruscamente
interrotto.
«Che vuol dire anche nel sogno? Dove
stavi dormendo, scusa?»
Il tono che Elena usa per porgere la sua
domanda è tutto fuorché comprensivo. Il tono di una donna che vuole il suo uomo
tutto per sé.
«Ero a casa di Edo, avevo bevuto un po’
troppo. In ogni caso… dormivo, ma ero cosciente di quello che stava succedendo
intorno a me, però non riuscivo ad aprire gli occhi per controllare la
situazione. Mi sentivo in trappola, come se qualcuno mi stesse tenendo
prigioniero chissà dove.»
«Come quando hai un incubo e non vedi
l’ora di svegliarti.» aggiungo io.
«Sì, esatto. Ad un certo punto, sento un
rumore di passi. Ed era così reale che mi sembrava di sentire davvero tutto.
Improvvisamente, sento una mano fare pressione sul mio braccio, come se mi
stesse accarezzando. E in quel momento apro gli occhi. Nel sogno, non in
realtà. E cosa vedo? Una figura senza volto, con lineamenti confusi.» continua
a raccontare Matteo, mantenendo gli occhi sulla strada. «E questa figura si
avvicinava sempre di più, sempre con un fare dolce e gentile, e all’improvviso
mi bacia. Così, dal nulla. Ma non mi sentivo strano, o in trappola come quando
avevo gli occhi obbligatoriamente chiusi. Mi sentivo a casa. Come quando
capisci qualcosa dopo tanto tempo e ti senti più leggero. Non so spiegarlo. So
solo che quando mi sono svegliato sorridevo.» conclude.
Nel momento esatto in cui Matteo finisce
di raccontare, mi accorgo che sto sorridendo anche io, di uno di quei sorrisi
che sembrano tirarti la faccia fino ad allargarla in ogni direzione. Quei
sorrisi che ti si attaccano e non riesci più a mandare via, che ti fanno vedere
un mondo storpiato, ma nel verso giusto. Cerco di tornare serio per non
attirare una delle domande stupide di Elena.
«Voi sapete che può significare?» chiede
curioso Matteo.
«L’ho cercato su Google mentre
raccontavi. Qui c’è scritto che sognare qualcuno senza volto o con lineamenti
poco chiari è molto ricorrente, e rappresenta qualche elemento della nostra
realtà che ci sfugge e che sarebbe bene invece conoscere. Possono essere anche
persone esistenti a cui dovremmo dare più attenzione, o almeno così c’è scritto
in questo sito. Non è che mi nascondi qualcosa?» chiede sospettosa Elena,
rimettendo bruscamente il cellulare in tasca.
«Ma che stai dicendo? Dai, Ele, ma
scherzi?» risponde al volo Matteo, visibilmente irritato dai sospetti, apparentemente
infondati, della sua ragazza.
Che sia la volta buona? La volta in cui
capirà davvero accanto a chi si è messo? La volta in cui un bel culo e una
risatina acuta non basteranno ad incantarlo?
«Vorresti negare che passi più tempo con
lui che con me? Dai, siete peggio di una coppia sposata: dove va uno, va anche
l’altro. Se uno sta male, va a casa dell’altro che gli sta dietro finché non
torna in piedi sulle proprie gambe. Vivete in simbiosi. E io starei dicendo
cose strane? Non prendermi in giro. Lo hanno già fatto in tanti, prima di te.
Io non devo essere seconda a nessuno.»
Il tono di voce, non più lezioso e
provocante bensì scocciato e quasi ferito, dà al discorso fondamentalmente
stupido di Elena un peso maggiore di quello che anche lei stessa avrebbe potuto
immaginare. Non siamo due ragazze, che vanno pure in bagno insieme. Eppure, per
chi ci vede dall’esterno, questa vicinanza rasenta i limiti dell’ossessione, di
quella cosa di cui mi vergogno e che continuo a tenermi dentro, per non far
scoppiare una bomba appena innescata da Elena. È davvero così strano avere un
migliore amico del tuo stesso sesso? Ed è davvero così assurdo passarci così
tanto tempo insieme? Nessuno risponde, nessuno controbatte, nessuno osa
contraddire questa tesi.
«Ele, puoi scendere un attimo dalla
macchina? Vorrei parlare con Edoardo. Da soli, se non ti dispiace.» chiede
stordito Matteo, invitando Elena ad uscire con un gesto della mano. Elena,
senza scomporsi e senza azzardare ulteriori domande, lascia la borsetta sul
sedile ed esce dalla macchina di Matteo con tutta calma.
Ora sì che i nodi vengono al pettine.
«Le credi, non è così?» inizio
immediatamente io, per non lasciare spazi vuoti.
«Non è così semplice, Edo. Non è mai
stato semplice, lo sai.»
«Non pensavo sarebbe andata a finire in
questo modo.»
«E chi ti dice che sta finendo?»
Un sorriso incerto si apre sul volto di
Matteo, gli occhi brillano di quella complicità che non vedevo da mesi, ormai.
Quel qualcosa che solo io e lui sappiamo e sapremo.
«Scusami, ma proprio non ti seguo.»
«È semplice. Elena non ti sopporta, tu
non la sopporti.»
«Fin qui ci arrivavo anch’io.» sentenzio
sarcastico.
«Lei è gelosa, perché a suo dire quando
siamo tutti e tre insieme, lei diventa il terzo incomodo, e tu sai che dovrebbe
essere il contrario. D’altra parte, ti conosco da quando ne ho memoria, è
inevitabile che con te basti un’occhiata per capire quel che vorresti dirmi. Io
amo Elena. La amo davvero, e so che non riesci a capirne il perché, ma è così.
Ma non ho intenzione di scegliere tra te e lei.» spiega Matteo, paziente.
«Arriva al punto, prima che alla tua
ragazza crescano i capelli bianchi.»
«La soluzione è semplice. Tu adesso
rimani con noi, io e lei andiamo a scuola, e tu ritorni a casa. Da domani,
quando io sono con te, lei non ci sarà, e viceversa. Non sopporto più questi
litigi e questi dubbi inutili.»
La naturalezza della sua spiegazione,
così chiara e lineare, mi lascia senza parole. Come ho potuto avere anche solo
il minimo dubbio su di lui?
«Posso farti un paio di domande, prima
di farla risalire?» chiedo, curioso.
«Certo. Ma sbrigati, non voglio far
tardi il primo giorno.» risponde lui, di corsa.
«Perché proprio lei? Insomma, di tutte
le ragazze carine che hai in classe. Perché Elena e non qualcun altro?»
domando, esprimendo un dubbio lungo sei mesi.
«Non so spiegarlo, Edo. È come quel
bacio così strano e assurdo nel sogno di ieri: era strano, non era da me e non
so dargli una spiegazione, ma aveva quel senso illogico capace di farmi
impazzire. Elena mi dà alla testa. Tu la vedi come una smorfiosa, come una
bambola, ma c’è di più: c’è una ragazza che è stata presa in giro da chiunque e
che ha paura di iniziare una storia nuova. È una ragazza piena di
sfaccettature, da una parte provocante, dall’altra impaurita, mai del tutto sicura
di quello che cerco di dimostrarle, tanto che si ritrova ad essere intimidita
dal mio rapporto con te, che sei solo mio amico. È il mio opposto, ma le sue
mancanze si incastrano coi miei punti forti.»
Solo adesso capisco quanto le parole,
pur nella loro bellezza, possano far male. Come una domanda voluta proprio da
me sia in grado di spezzarmi. Come una coltellata alle spalle, ben piantata in
mezzo alla schiena, sarebbe stata capace di scalfirmi in minor misura. Me la
sono cercata, ma non mi sarei aspettato certo una risposta così a cuore aperto.
La ama. La ama davvero. Non è la storiella di qualche mese, di cui ricordi le
prodezze con gli amici, sminuendola a rendendola una semplice avventura, una “ragazzata”,
come direbbe mia madre, ricordandone i suoi momenti goliardici. Ha trovato
quella giusta per lui. Quella che, ho paura, non farà che allontanarmi
ulteriormente da Matteo. Quella che non saprò combattere con un’uscita fuori e
un boccale di birra chiara. Quella che mi spaventa e che non fa che aumentare
il ricordo di quel bacio rubato.
«Che altro volevi chiedermi?»
«Volevo sapere di più di quel sogno che
hai fatto.»
«E perché scusa? Ho detto qualcosa
mentre stavo dormendo?»
«No, non è per quello.»
«Tu mi stai nascondendo qualcosa, vero?»
Adesso sono ad un bivio: cadere da quel
filo invisibile che per anni ha tenuto in equilibrio il nostro rapporto,
spiattellando tutto a Matteo, o continuare la mia camminata su quel filo
sottile, fingendo e raccontando l’ennesima balla? Rischiare e fallire o mentire
ancora? Amore, o quel che sarebbe, o amicizia.
«No, ero solo curioso. Che dovrei
nasconderti?» dico io, sulla difensiva.
Prima che Matteo possa replicare,
mandando all’aria una delle mie scuse patetiche, sentiamo Elena bussare al
finestrino della macchina, come a voler attirare l’attenzione. Matteo, in tutta
risposta, abbassa il finestrino.
«Che c’è? Successo qualcosa?» chiede
Matteo, ancora assorto nella nostra conversazione di appena un minuto fa. Per
una volta almeno, Elena ha interrotto un discorso al momento giusto. La
ringrazio silenziosamente, consapevole della sua fretta di arrivare a scuola
per far sfoggio di qualche bacio davanti a tutti.
«No, nulla, ma tra dieci minuti suona la
campanella e sai che non voglio arrivare tardi proprio oggi. Già i prof non mi
sopportano, se arrivo anche in ritardo il primo giorno…» insiste Elena, col
tono petulante di chi non ammette repliche a ciò che dice. Matteo, arrendevole
quanto stupito da come il tempo sia passato in fretta, la fa salire e ingrana
subito la terza, a tutta velocità.
Fin da quando eravamo piccoli, due
minuscoli bambolotti di poco meno di un metro che giocavano insieme con le
macchinine, era sempre stato lui quello attento. Lui, quello più bravo a
scuola. Lui, quello più negato negli sport per la troppa pigrizia, nonostante
il fisico atletico e i muscoli scolpiti che le ragazze si perdevano ad ammirare
nell’ora di educazione fisica. Lui era sempre stato quello che saltava
all’occhio, nonostante facesse di tutto per starsene per conto proprio. Ma non
ci riusciva, e non ci riesce tuttora. È qualcosa che va oltre lui stesso. Era
quel tipo di ragazzo che, per un motivo o per l’altro, diventava l’esempio per
qualche ragazzino disastrato che in lui vedeva un modello da imitare. E Matteo,
nonostante la perenne stanchezza che si porta addosso da sempre, trovava sempre
un minuto, che spesso diventava un pomeriggio intero, da dedicare a quel
ragazzino.
Probabilmente per ingannare l’attesa,
Elena spezza quel breve silenzio col sottofondo di una vecchia canzone appena
trasmessa in radio, con una delle sue domande.
«Ma voi come vi siete conosciuti?»
Decido di rispondere io, visto quante
volte Matteo ha dovuto raccontarlo.
«Le nostre madri andavano al liceo
insieme. Ma dopo la maturità si persero di vista, perché mia madre iniziò
subito a lavorare, mentre la sua frequentò l’università più vicina. A quei
tempi non c’erano telefoni, e se due persone smettevano di vedersi era
difficile poi rintracciarle. Per caso, si sono rincontrate. E sai dove? In sala
parto.»
«In sala parto?» chiede sbigottita
Elena.
«Io e Matteo siamo nati nella stessa
clinica, lo stesso giorno. Si misero a parlare, e anche se in un primo momento
non avevano capito chi avevano di fronte, poi compresero di essersi ritrovate.
E da quel momento, hanno fatto sempre stare me e Matteo insieme, fin da
piccolissimi. Io però dall’anno scorso ho smesso di andare a scuola, ma come
puoi vedere continuiamo a vederci fin quando possiamo.»
«Oddio, sembra la storia di un film,
quella delle vostre madri. Matteo non me ne aveva mai parlato. Ma quindi loro
sono ancora amiche?» chiede Elena, affascinata da quella storia così simile a
quella di un banalissimo romanzo rosa.
«Sì, però non si vedono più tanto
spesso. Sono entrambe molto impegnate, e non riescono a trovare del tempo per
loro molto facilmente. Infatti sono contente di vedere me e Matteo così amici,
perché ricorda loro quel che erano al liceo. È come se si rivedessero in noi. È
strano, non saprei come spiegarlo.»
L’attenzione di Elena si sposta
rapidamente sull’ingresso della scuola, zeppo di studenti di tutti le età.
Seppure sia un modo cinico di vedere le persone, ogni anno, il primo giorno di
scuola, il cortile sembra trasformarsi in una vetrina dello zoo. Sarà
l’invidia, perché non potendo più andare a scuola non so che darei per stare al
posto di uno di quelli che si lamentano perché ci sono obbligati. Come in uno
zoo, adesso in cortile ci sono persone di tutte le specie, alle quali si
aggiungono con nonchalance anche Matteo ed Elena che se ne vanno mano nella mano,
rivolgendomi a malapena un saluto, poiché troppo impegnati a dar sfoggio di
quel che sono: la nuova coppia dell’ultimo anno da invidiare a tutti i costi.
Ci sono quelli del primo anno, che come
dei cagnolini scodinzolano a quelli più grandi, per non essere sbattuti subito
in un angolo ed essere additati come sfigati. Ci sono le ragazze popolari, che
siano di prima o di quinta, le cosiddette “oche”: così come l’animale dal quale
prendono il nome, sono particolarmente stupide, camminano dondolando, o meglio
sculettando, e spesso hanno quella voce particolarmente irritante e stridula,
che assomiglia in modo impressionante a quando le oche starnazzano. Ovviamente,
considero anche Elena parte della categoria. Poi ci sono i corrispettivi delle
oche, ovvero i “galli”: di questa parte dello zoo fanno parte tutti quei
ragazzi pieni di gel, che spesso si vantano di quanto siano lenti a scegliere i
propri vestiti la mattina, surclassando anche le famigerate oche. Da una parte,
nell’angolo più buio, ci sono gli “orsi”: così chiamo quei ragazzi, e quelle
ragazze a volte, che se ne stanno in disparte semplicemente per pigrizia, con
lo sguardo perso nel vuoto, spesso con una sigaretta consumata in mano. Poi la
specie che ho sempre disprezzato di più: i “vermi”. A questa categoria può
appartenere chiunque, e spesso riesce a ingannare le altre specie. Sono quegli
individui infimi, inaffidabili, viscidi e arrendevoli quanto cattivi. Sai che
potresti schiacciarli ma non lo fai mai. Perché? Perché questo gruppo vive solo
grazie ad un fattore, che sta alla base della loro vita: la pietà. Queste
persone campano letteralmente grazie alla pietà di tutti gli altri, professori
e preside compresi. Basta un accenno alla loro vita personale, un finto
svenimento o qualche lacrima, e chiunque si ritrova piegato al loro volere. Se
c’è qualcosa che decisamente non mi manca della scuola, è quest’insieme di
persone. Riuscivano a disgustarmi semplicemente battendo ciglio. Un vero e
proprio talento, devo dire.
Prima di andarmene sul primo autobus,
vedo Matteo ed Elena che, prima di varcare il grande portone del liceo, si
concedono uno dei loro momenti di grande spettacolo: Elena, leggera e
spumeggiante nel suo vestitino a fiori, che le copre a malapena le ginocchia,
lasciando ben poco all’immaginazione, che viene sollevata per qualche istante
dalle braccia possenti di Matteo, facendole compiere una piccola giravolta in
aria. Nelle sue mani, Elena sembra solo una ragazzina bisognosa di tanto amore,
nelle mani di un uomo che la ama davvero. E queste continue smancerie forse
sono solo il risultato di anni e anni in cui nessun uomo ha mai fatto lo sforzo
di darle attenzione. Compreso il padre che, anni e anni fa, è sparito dalla
circolazione, tra le braccia di una ventenne. Un brutto colpo che l’ha fatta
passare da un ragazzo all’altro senza criterio, che le ha fatto credere che
l’unico modo per far tornare suo padre da lei fosse quello di gettarsi tra le
braccia del primo che capita. Mostrarsi facile era diventata l’unica arma per
difendersi. Non avere cuore, né sentimenti o legami, l’unico modo per sembrare
forte.
Senza indugiare ancora sulla soglia del
cortile, mentre i più ritardatari entrano correndo a scuola, mi incammino verso
la fermata dell’autobus, che arriva dopo qualche minuto d’attesa sotto il sole
pallido di settembre.
L’autobus è talmente affollato e caldo
da sembrare una scatoletta di metallo che, dopo una giornata passata sotto il
sole, ha trattenuto troppo calore. Mi ritrovo stipato in un angolo, quasi
incastrato tra una vecchia signora che a malapena si regge in piedi, e un
signore in giacca e cravatta che mi ricorda in modo inquietante mio padre. Per
alleggerire un viaggio che so che, tra il traffico e la mia solita sfortuna,
durerà una quarantina di minuti, tiro fuori le cuffie e le collego al telefono.
È incredibile come la musica riesca ad
essere il filo conduttore di giornate intere in modo del tutto casuale,
totalmente inconsapevole di quanto riesca a far riflettere le persone. Una
canzone, i cosiddetti “brani casuali”, e quello che ti è successo prende una
sfumatura e una direzione diversa: diventa più insignificante o più emozionante,
più triste o più allegro, ma in ogni caso diventerà più qualcosa. Acquisterà un
briciolo di luce in più, per sembrare più vivido e più reale, ma allo stesso
tempo così lontano da non apparire neanche più come un tuo ricordo. È questo il
potere della musica: può fermarsi al ruolo di colonna sonora, come un simpatico
sottofondo di ogni tuo gesto, o può ampliarsi, fino a diventare protagonista.
Approfittando di un posto a sedere,
liberatosi quasi per miracolo, mi siedo e, cercando di svuotare la testa, mi
concedo una bella canzone a occhi chiusi e cuore aperto. La mente? Spalancata
ad ogni tipo di pensiero.
“I
wasleft to myowndevices,
many days fell away with nothing to show.”
Non sono mai stato una cima in inglese,
ma almeno di queste due frasi qualcosa ho capito. L’ultima parte: “nothing to show”, “niente da mostrare”. Sono io, giusto? Non
mostrare mai quello che pensi, quello che vorresti, quello in cui credi. Nascondere,
nascondere a ancora nascondere, fino ad eclissarsi del tutto, a creare un
piccolo buco nero in cui ti perdi e non sai più ritrovarti. Non riesci nemmeno
più a ricordare quale parte di te è quella autentica e quale sta recitando.
“But if you close your eyes,
does it almost feel like nothing changed at all?”
Questa frase l’ho tradotta tempo fa,
perché mi incuriosiva. Insomma, se una frase fosse priva di senso non la
ripeterebbero tanto spesso in una canzone, giusto?
“Ma se chiudi gli occhi, non ti senti
come se nulla è cambiato?” Sono io.
Se chiudo gli occhi, se ripenso a ieri,
a quel bacio, se chiudo gli occhi e ripenso a Matteo, al discorsetto su Elena,
ai vecchi tempi senza nessuno tra di noi, mi accorgo che davvero non è mai
cambiato nulla. Tra alti e bassi, tra litigi e periodi relativamente
tranquilli, io sono sempre io e lui è sempre lui. Da sempre.
Nonostante gli anni che passavano,
nonostante le persone nuove che abbiamo conosciuto, come gruppo di amici o
singolarmente, nonostante le ragazze, i mille impegni, gli scontri che
sembravano sancire la fine di tutto, non è cambiato mai nulla.
E quel bacio? Se solo lo avesse saputo,
se si fosse svegliato, avrebbe cambiato le cose in modo radicale? Quel confine
che ci eravamo posti, sarebbe stato spazzato via.
Un milione di domande e nemmeno una
risposta soddisfacente.
E se, e se, e se. E se la smettessi di
pensare e facessi qualcosa di concreto?
Maledetta musica e maledetti dubbi
portati da lei.
Ad Erika, che mi ha dato il coraggio di far nascere questa storia.
Ad A-mors, che aspetta ogni capitolo con ansia. E ad Anfiya, senza la quale questa storia non sarebbe su Efp.
“Perché dici che ti manca la scuola? Io non so che darei per stare a casa.”
Dio solo sa quante volte mi sono sentito ripetere queste parole: gli sconosciuti sull’autobus che mi tormentano con qualche domanda, gli amici più stretti e quelli più distanti, persino alcuni miei parenti. Perché preferisco star fuori? Forse perché quando entro a casa, quando varco quella soglia, è come se una pressione altissima mi spingesse contro il muro, come il bulletto di quando eri piccolo che ti sollevava da terra e ti appendeva al muro senza sforzarsi troppo. È la percezione continua di una mano, viscida ma con le dita ben salde, che ti prende al collo e ti stringe forte, impedendoti di urlare aiuto ma anche solo di respirare per un po’. E tu sai che quella stretta non smetterà mai di tormentarti, non finché sarai chiuso tra quelle quattro mura bianche. Che poi, in nessun posto più che in casa mia è vero che l’apparenza inganna. Tanto che tutti sembrano cadere nella nostra trappola.
Le mura bianche sono tappezzate da vecchie foto di famiglia: quando mio padre non aveva ancora scoperto il piacere di un superalcolico perennemente in circolo, quando mia madre non era costretta a bugie continue, quando Alice era solo un fagottino nelle mani della mamma e quando io ero un bambino felice tra le braccia del padre. Quel padre che, fino al primo compleanno di Alice, era per me un eroe da imitare, da cercare di eguagliare, pur sapendo che era troppo per me. Era bellissimo.
Quando mi vantavo coi miei amici delle elementari e delle medie, dicendo che mio padre era dipendente in un grosso studio d’avvocati, e tutti mi guardavano con ammirazione. Tutti si immaginavano un uomo invincibile. Pure io, lo ammetto. Ma un giorno il mio supereroe cadde in rovina. La seconda gravidanza di mamma, le complicazioni del parto che rischiavano di uccidere non solo quel fagottino biondo. E poi la morte di mio nonno, il padre di mio padre. Quell’uomo piccolo e buono, che fin da quando gattonavo mi chiamava “il mio ometto” con una punta d’orgoglio. E dove trovare consolazione per quel brutto periodo se non nel fondo di una bottiglia? Le bollicine, il calore dell’alcool che ti fa arrossare le guance. Le gambe che non reggono, la vista che traballa e si sdoppia. E quel bisogno incessante di urlare, di sputare tutto quel che pensi in faccia alla prima persona che ti capita.
Nel caso di mio padre, la persona in questione era il suo capo.
Non ho mai saputo che cosa gli disse precisamente, ma non doveva essere di certo un complimento per una delle sue cravatte eleganti, visto l’immediato licenziamento.
Per far capire a quella miriade di persone perché preferivo immergermi in una versione di Catullo piuttosto che cenare con la mia famiglia, dovrei spiegare tutta questa serie di dettagli. Fino a rimanere scoperto, nudo nel mio imbarazzo.
Un ologramma poco chiaro rispetto a quelle foto adesso così finte ma comunque così lucide e reali, una macchia che non va via rispetto a quei volti sorridenti, abbracciati fino a che la macchina non scatta. Finita la foto, si tornava alla normalità. Non appena il flash si esauriva, mio padre tornava fedele ad una delle sue bottigliette tascabili, che teneva religiosamente nel taschino interno della giacca, per non sfigurare con quei cravattoni dei suoi colleghi.
Quando cresci in una famiglia in cui l’apparenza è tutto, preghi solo di avere un paio d’ore al giorno per evadere e per essere davvero te stesso, senza alcun filtro. Ed io adesso, fermo davanti alla porta, so di aver finito il mio momento di realtà.
Apro pianissimo, per non far troppo rumore, consapevole del fatto che troverò mio padre sdraiato sul divano, esattamente dove l’ho lasciato stamattina. Sbronzo, la faccia calda, il segno del cuscino che gli segna il viso. E ad una stanza di distanza, sono sicuro, ci sarà la piccola Alice che, grazie al cielo, già da qualche mese ha imparato dove può trovarsi le merendine per fare colazione. Perché anche una cosa talmente stupida come preparare la colazione a tua figlia di cinque anni diventa un disturbo se vivi con mio padre. Sempre attenti a non svegliarlo, sempre servizievoli, sempre nella paura che esploda per le troppe birre o per i superalcolici bevuti. Una vita in punta di piedi, attento a non romper nulla. Come un ladro nella mia stessa casa. Come se fossi io di troppo, e non lui.
Troppo preso dalle mie riflessioni, ormai monotone e tremendamente quotidiane, non mi accorgo che Alice, probabilmente preda di una dei suoi molteplici incubi, ha appena cacciato un urlo. Stridulo, sopportabile ovunque. Ma non qui.
«Ma cos’è ‘sto rumore?» tuona subito mio padre, visibilmente furioso.
La vena sul collo inizia a ingrossarsi e ad alleggerirsi ad intervalli regolari, lo sguardo si fa dritto e quasi lucido di razionalità su di me, unico obbiettivo nel suo ormai prossimo sfogo. Cerco di mantenere la calma, mostrando una sicurezza che non ho.
«È stato solo un urlo di Alice, avrà avuto un incubo.»
«Alice chi? Chi è? Una delle ragazze che ti porti qua dentro? Chi è?»
Reprimo il disgusto, mando giù il groppo che mi si è appena formato in gola, e tento di rispondergli e di sviare quella rabbia cieca e priva di fondo.
«È tua figlia.» dico semplicemente, omettendo la serie di insulti che mi rimbomba in testa come un mantra. Insieme a quella frase, a quella maledetta frase. “Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo posto infernale. Scappa.”
«Non scappare, ragazzo. La bambina se la sa cavare bene anche da sola. E tu, cosa ci fai qui? Perché non sei a scuola, perché non sei a lavoro? Perché sei qui?» ribatte.
«Alice ha bisogno di me, ha avuto un incubo. Io devo andare.» replico in fretta, evitando i suoi occhi iniettati di sangue che sembrano squadrarmi da capo a piedi.
Non riesco a fare un passo che sento la sua mano, grande e dura, di chi non ha mai avuto paura di attaccare briga in uno dei tanti bar in cui passa la sera, che mi prende per il bavero della giacca con fare minaccioso. E non voglio dare colpa all’alcool.
Non voglio. Perché so che lo avrebbe fatto anche da sobrio.
Probabilmente me lo merito. “Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo posto infernale. Scappa.”
«Tu non vai da nessuna parte, chiaro?» mi dice quasi ringhiando, e per ribadire al meglio il concetto stringe la sua presa intorno alla mia gola, rendendo maledettamente reale quella stretta soffocante che per ora si limitava ad essere momentanea ed irreale. Sento il respiro bloccato dalla sua rabbia, sento la sua mano grande e forte che mantiene fermo il controllo sul mio collo, stringendo e scrollandomi quanto basta per farmi andare nel panico.
Poi un attimo. Quel secondo di lucidità, e lo sento allentare la presa su di me. Come se, anche solo per un attimo, fosse tornato l’uomo gioviale delle foto attaccate alla parete. Come se non stesse fingendo affatto, ma sia solo posseduto, in un certo senso, da un alito maligno che riesce a capovolgere la sua personalità buona. Ma so che fondamentalmente è solo l’effetto dell’alcool, che va e viene.
La cosa che più riesce a farmi male, più del suo dimenticarsi della sua famiglia, più delle accuse senza senso, e più di quel colpo al collo così pressante, è vederla: vedere che Alice, piccolissima nel suo pigiama blu e con in mano il peluche preferito, ha assistito a tutta alla scena, senza pronunciare una parola. “Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo posto infernale. Scappa.”
«Alice, ti va di fare una passeggiata fuori? Dai, vestiti, andiamo a prendere un gelato insieme! È una bella giornata, non puoi stare chiusa qua dentro.» le dico nel tono più normale per cercare di tranquillizzarla, prendendole la mano, minuscola nella mia, e accompagnandola nella cameretta per vestirla. Nel frattempo, mio padre si è addormentato di nuovo, e so che non si sveglierà prima di stasera.
«Edo, perché papà ti aveva preso qua?» mi chiede, indicandosi il collo candido e pieno di lentiggini chiare con le mani. E adesso? Che dovrei rispondere a quel visino innocente in cerca di spiegazioni? Che stavamo giocando alla lotta?
«Te lo dico quando usciamo, va bene? Dai, adesso devi vestirti.» le dico, sviando la sua domanda e cercando di farla divertire mentre la vesto.
Fin da piccolissimi, nostra madre aveva inventato una specie di gioco tutto suo per farci sorridere quando, la mattina presto, ci svegliava per andare a scuola. Tirava fuori i vestiti da mettere e ce li metteva nei posti sbagliati: calzini nelle mani, maglietta sulla testa, cappello in un piede, sciarpe a mo’ di pantaloni. Aveva sempre fatto di tutto, pur di vederci felice. E in sua assenza, è compito mio portare un po’ d’allegria in casa.
Inizio col metterle le calze rosa a pois sulla testolina bionda, e sorrido vedendo il suo piccolo volto coprirsi di divertimento. Inizia a ridere senza riuscire più a smettere.
«Edo, ma che fai? Non vanno qui le calze, hai sbagliato!» mi rimprovera, con quell’espressione che cerca in tutti i modi di essere severa, ma che si trasforma ben presto in un sorriso enorme e divertito dal mio patetico errore.
«Davvero? E dove vanno, dove, principessa?» le chiedo scherzoso.
«Vanno qua, qua!» mi risponde con la sua voce squillante e adorabile, prendendomi la mano e mettendola con cura sulla sua testa. Ne approfitto per accarezzarla, come faceva sempre nostro padre quando ero piccolo, e le sussurro quel che prima diceva.
«Ma come farei io senza di te?»
Mentre lo faccio, mi abbasso alla sua stessa altezza, e le do un piccolo buffetto sulla guancia, prima di baciarla delicatamente sulla fronte. Anche questo lo faceva nostro padre con me. Ma non voglio ripetere solo quel che lui faceva, senza nulla in più. Così, mi avvicino ad Alice e, finendola di vestire nel modo giusto, la avvicino a me in uno dei nostri singolari abbracci. Se qualcuno ci vedesse adesso, potrebbe vedere un ragazzo piegato sulle ginocchia che abbraccia una bambina dai capelli biondi e lunghissimi che, con le sue braccia troppo corte e magre, riesce a malapena a stringergli il busto. In quella stretta imperfetta, ci sono le spiegazioni non date e quei baci sulla fronte che dovrebbe ricevere da quel mostro in cucina, ci sono gli incubi di ogni notte placati soltanto da qualche parola dolcissima o da una delle mie favole. In quell’abbraccio così nostro, forse vedrà una famiglia quasi del tutto normale, che non ha bisogno di nascondersi o di fingere davanti agli altri, ma che si mostra per quello che è senza timore del giudizio altrui, fregandosene di come appare il tutto.
Come spieghi ad una bambina che non avrà mai davvero un padre? Che probabilmente non sarà mai sobrio abbastanza da esserle accanto? Come le dici che qualche minuto fa neanche si ricordava di avere una figlia femmina? Come, come?
Sono stufo di tappare i buchi lasciati da una persona incapace di vivere, sono stufo di chiudere gli occhi davanti agli orrori consumati tra queste quattro mura. Sono stufo di una famiglia disastrata, infelice, incompleta, anormale. Ma non posso pensare a me. Non posso semplicemente andarmene, non posso ascoltare la voce che, minuto dopo minuto, mi urla di scappare via: questo non è un film, e io non sono il ragazzo complessato che può permettersi di prendere un treno e fuggire chissà dove.
Potrei. Ma sarebbe una condanna per le due donne più importanti della mia vita. Per la donna più coraggiosa che conosco e per la bambina più matura del mondo.
Faccio segno ad Alice di far silenzio mentre sgattaioliamo fuori dalla porta, sotto di noi il respiro irregolare e frettoloso di mio padre, che si è voltato su un fianco per dormire meglio sul divano, già dimentico dell’eccesso d’ira verso di me.
Riprendo la sua piccolissima mano nella mia, agganciandomi a lei con la sola forza dell’indice e del pollice, ai quali si aggrappa come se fossero il suo unico sostegno per rimanere in piedi. Come se senza di me fosse costretta a gattonare ancora. E le lascio credere, promettendo a me stesso che quella mano non la lascerò mai.
Scendiamo le scale, passando dai vari pianerottoli dai quali si sprigiona il buon profumo di un pranzo appena preparato: al secondo piano, appena sotto casa nostra, la porta socchiusa ci lascia intravedere una signora di mezz’età intenta a preparare una torta al cioccolato dall’aria invitante, al primo piano si può sentire l’odore di fritto uscire dalla serratura da quanto è denso, a piano terra la televisione troppo alta per poco non ci spaventa a morte. Sono guizzi di vita vera e cristallizzati come fotografie, un attimo prima ricche di sfumature, odori e colori e un attimo dopo già non ci ricordiamo più quel che la signora stava cucinando al secondo piano, troppo presi dai nostri pensieri folli e febbricitanti, troppo presi da noi stessi.
Viviamo in un mondo in cui nessuno si accorge se sei triste, felice, arrabbiato o confuso, in un mondo in cui anche le persone più intime pensano di essere apposto con la coscienza soltanto chiedendoti come stai. Credendo sia sufficiente. Troppo assorbiti da noi stessi per prestare attenzione alle vite degl’altri.
Decido di fare il tragitto fino al parco più vicino a piedi, per apprezzare al meglio la bella giornata di sole, ma soprattutto per regalare un po’ di luce ad Alice che, talmente abituata a stare in casa, si è già staccata da me per indicare e sorridere qualunque cosa e persona, causando il divertimento di molti passanti. La guardano intenerita, quella piccola Barbie con gli occhi verde chiaro, quegli occhi grandi e con ciglia lunghissime che, adesso, brillano appena vedono qualcosa di nuovo: prima una farfalla che si posa sul suo naso, poi una signora con un cane al guinzaglio, poi tornano su di me, come a volermi ricordare che io rimango il punto fisso da guardare.
«Ali, vieni qua e stai attenta che ora dobbiamo attraversare la strada! Dammi la mano, non puoi andarci da sola.» le dico, riconoscendo nella mia voce un vecchio calore paterno, appartenente alla mia scatola invisibile dei ricordi.
«Perché non posso andare da sola? Io sono grande.» si ribella lei, incrociando le braccia e mettendomi il broncio, offesa nell’orgoglio dalla mia proposta.
«Ma tu sei grande, tesoro. Ma è pericoloso, e non voglio che ti succeda nulla.»
La mia giustificazione le pare sensata, per questo mi affida di nuovo la sua mano per quel breve tratto di strada, continuando a saltellare ovunque, anche mentre stiamo attraversando. Nelle macchine ferme davanti a noi, i conducenti sorridono.
Alice ha questa specie di superpotere: riesce a portare allegria ovunque, nonostante la tristezza e la monotonia nelle quali è vissuta dalla nascita. Per lei il sorriso, la risata, sono un bisogno fisiologico, da trasmettere agli altri come una curiosa malattia. Quando vede qualcuno triste, anche un estraneo, o che sta piangendo, lei subito fa di tutto pur di vederlo sorridere: non si ridicolizza, non fa strane smorfie, né scimmiotta qualcuno che la fa ridere a sua volta. Lei riesce a far ridere di cuore.
E forse, il vero supereroe da imitare è lei, la piccolina di casa. Quella piccola donna che fa nascere il sorriso sul volto di chiunque la incontri.
Dopo vari isolati a piedi, ci fermiamo poco dopo l’entrata del parco, di nuovo mano nella mano, alla ricerca di un chiosco dei gelati non troppo lontano da noi.
La vedo, seduta su una panchina a due passi da me.
Si tormenta con le dita i capelli rosso ramato, che le ricadono mossi fin sotto alla schiena, in una cascata arancione priva di tinte o di correzione. Sono naturali, come lei. Le lentiggini le punteggiano il viso, come a voler creare un disegno se una persona a caso volesse unire quei punti tra loro. Gli occhi azzurri sono velati di lacrime chiare, che le solcano la pelle diafana e le scivolano in fretta sul viso paffuto, soffermandosi qualche secondo in più sulle guance morbide. Il bel corpo, che io so essere magro ma con le curve nei punti giusti, è nascosto dietro un maglione marrone scuro, troppo grande e inadatto per il caldo che fa. Come se volesse nascondersi, come se una parte di lei fosse cambiata e lei non volesse farla vedere agli altri. I capelli rossi sono scomposti, indomati, per una parte attorcigliati sulle sue dita esili che, per quel tremore che le sta scuotendo, potrebbero strapparsi da un momento all’altro, perdere la loro forza in un attimo. Sembra piccolissima, fragile come carta. Non si limita ad un pianto composto, alle lacrime subito tamponate da un fazzolettino. Singhiozza, lei è scossa da quel dolore palpabile. Un dolore che non si limita a tenere per sé, che vorrebbe passare a qualcuno.
Sembra aver trovato in quella panchina verde un rifugio, una specie di igloo nel quale solo lei può entrare. Un rifugio che la rende invisibile, che copre le sbavature. Che la rende allegra e cancella la tristezza, come una gomma.
Guardo Sofia, e in lei non vedo più la ragazza forte che, per qualche mese, era stata la mia ragazza, prima di trasferirsi in un’altra città senza dare spiegazioni. Sparita come una macchia da una maglietta bianca. Con la rapidità con cui una lacrima cade da un occhio, con cui gli occhi si chiudono.
Se c’è qualcosa di cui Alice non sa fare a meno, è la felicità degli altri. Le si appiccica addosso come una pellicola e finché non riesce a liberarsene non molla. E per quanto potrei provare a fermarla, so che si avvicinerà a Sofia. So che proverà, con le poche parole che conosce, a capire cosa non va in lei, come se i problemi che tanto tormentano i bambini fossero paragonabili ai problemi normali. Se solo fosse così semplice.
Come potevo immaginare, vedo Alice avvicinarsi a lei, ma non con la solita irruenza che fa tanto ridere chiunque. Le si avvicina in punta di piedi, con la paura di far rumore che è tanto abituata ad usare in casa. Una ballerina che cammina sulle punte. Come se sapesse che lei è diversa, che è tremendamente vicina alla rottura.
Si siede accanto a lei con dolcezza, prendendo le sue mani nella sua, piccolissima.
Sofia, sorpresa dalla sua apparizione, le rivolge un sorriso stanco, di chi davvero non ne può più di lottare contro la sua ombra. Le accarezza il viso, sfiorandole gli zigomi pieni con la punta delle dita, visibilmente bagnate.
«Perché piangi?» le chiede, richiamando la sua attenzione con un colpetto sulla spalla, che spinge Sofia a rivolgerle il suo sguardo, senza poterla evitare.
Sofia cerca di trattenere i singulti, si dà un contegno davanti a quella bambina così piccola. Vuole prendere in mano una situazione che le sfugge da troppo tempo.
Io, nascosto da qualche albero, assisto alla scena senza intromettermi. Sento il cuore scoppiarmi in petto, vuoi per la rabbia di rivedere Sofia dopo la sua fuga improvvisa di due anni fa, vuoi perché vederla mi fa, e mi farà sempre, effetto.
Alice si avvicina ulteriormente a Sofia, scordandosi della mia presenza per un attimo. Sentendo quel briciolo di indipendenza a cui la sua tenera età può aspirare.
Le sue piccole gambe, avvolte dai calzettoni colorati, toccano appena le cosce magre di Sofia, un’ombra nei jeans slargati che si è messa. Tutto è troppo largo, tutto sembra un pretesto per nascondersi dietro a qualcosa della taglia sbagliata. Ora come ora, sembra quasi difficile distinguere chi delle due sia una bambina.
«Non è facile da spiegare, sono problemi da grandi, piccolina.»
Alice, perplessa, non frena la sua curiosità, quando chiede: «Come da grandi?»
Sofia la guarda con dolcezza, rivedendo in quella di mia sorella una versione precedente di se stessa, meno spigolosa e più morbida. Il viso esprime in pieno la sua sorpresa quando Alice, con tutta la spontaneità che una bambina può esprimere, libera le sue piccole mani dalla sua, come a volerla scacciare via con cattiveria.
«Io sono grande, lo ha detto anche Edo!» protesta lei, scalciando i piedini.
Al sentire quel soprannome Sofia sembra illuminarsi. Come se sapesse che, da qualche parte, io sono lì a guardarla di nascosto.
«Com’è che ti chiami, tesoro?» chiede Sofia, improvvisamente interessata.
Per sottolineare la sua curiosità le offre un fazzoletto candido con cui scacciare via le lacrime, aiutandola in quell’operazione quotidiana quanto significativa.
«’Lice.» risponde semplicemente lei, mangiandosi appena l’iniziale del nome.
Un soffio d’aria gelida scompiglia i capelli di entrambe e spinge Sofia a coprire mia sorella con un gesto del braccio, accogliendola vicino al suo corpo esile quasi a volerla riparare da quello spicchio d’inverno improvviso. Come due sorelle.
«Vedi, Alice, io lo so che tu sei grande, ma quando i grandi piangono spesso non sanno nemmeno perché lo fanno. Come quando lo fanno i bambini piccoli piccoli, che piangono e nessuno capisce mai il motivo. Per me è così.»
Alice sembra riflettere su quelle parole veloci, gli occhi socchiusi per pensare meglio.
«Io quando piango poi abbraccio la mamma e passa tutto.»
La voce squillante di mia sorella mi fa sorridere, portandomi un soffio della sua dolcezza. Sofia, dal canto suo, sorride con un velo di tristezza negli occhi, lo sguardo di chi sa, in un angolo del cuore, di non sentirsi a casa.
«Sì, ma per noi grandi ci vorrebbe l’abbraccio di qualcun altro.» confessa Sofia, osservando un punto lontano nel cielo, cercando lo sguardo di questo qualcuno che lei vorrebbe tanto ritrovare. Un qualcuno che possa riaccendere i suoi occhi verdi.
Alice cerca una nuova risposta per far crollare le salde convinzioni di quella strana ragazza sulla panchina, ma per una volta dalla sua bocca minuscola non esce un suono. Questo silenzio prolungato sembra metterla a disagio. Si alza dalla panchina con un piccolo balzo, appoggia i piccoli piedi sull’erba soffice del prato, atterrando con la grazia di una ballerina. E come se fosse la cosa più naturale del mondo, invita Sofia a fare lo stesso, tentando di alzarla con le sue mani.
«Attenta piccolina, ti fai male così!» la ammonisce Sofia, alzandosi di fronte a lei.
Alice sorride timida, quando le dice in un sussurro: «Se vuoi ti abbraccio io.»
Spazio autrice:
Non sono mai stata brava con gli spazi autrice, ma questa storia per me è uno sforzo enorme.
Spero che vi entri nel cuore, che vi faccia sognare, ridere e piangere. Parte dei capitoli sono stati scritti un anno fa, alcuni sono ancora da scrivere.
Che dire? Questa storia è una parte di me, quindi vorrei ringraziare chi legge, chi ha recensito e chi mi ha messo tra preferite/seguite.
E, giusto per dare un volto ai personaggi, vi linko i prestavolto che ho scelto per i vari personaggi.
Nel banner riconosciamo:
Edo (il ragazzo biondo),
Matteo (http://31.media.tumblr.com/tumblr_ly7y1ddEqs1qag9xpo1_1280.jpg)
Sofia (http://media-cache-ec0.pinimg.com/736x/42/f0/a6/42f0a6122d06188a3c0bec41f6974212.jpg)
In più, ci sono
Elena (http://www.fashiongonerogue.com/wp-content/uploads/2013/05/candice-vogue-shoot5.jpg)
e Alice (http://www.pinterest.com/pin/39406565463143661/)
Ho
chiesto a Matteo di uscire anche stasera: solito pub, solito amico. Quando mi
ha chiesto il motivo di tanta urgenza ho preferito sorvolare, riassumendo il
tutto con un semplice «Ti spiego tutto stasera». E so che quando si tratta di Sofia
non è facile nemmeno cominciare il discorso, sputar fuori le parole. Il
riflesso che lo specchio mi rimanda indietro mi fa riflettere. Forse, per colpa
della mia indole di sognatore ad occhi aperti, forse per il gioco che avevo
inventato da piccolo, proprio davanti allo specchio. Mi vestivo, mi pettinavo i
capelli e poi, nei cinque minuti che mi rimanevano, improvvisavo smorfie per
ogni occasione: un bel sorriso per ringraziare dopo un complimento, una lacrima
per un livido scoperto dopo mesi, un urlo di protesta. Quando raccontavo a mia
madre di questo mio gioco lei mi prendeva in giro, diceva che sarei diventato
un attore ottimo da grande. Quello che non immaginava era che quella mia
abitudine non voleva trasformarsi in lavoro. Che da quelle mie smorfie sarebbe
derivata l’attitudine a fingere, a scappare dalle emozioni vere per rifugiarmi
in un mondo composto da sorrisi e pianti fittizi. E adesso, una dozzina di anni
dopo, mi limito a guardarmi, a studiare il mio riflesso come se non mi
appartenesse. I capelli biondo chiaro non ne vogliono sapere di prendere la
forma che vorrei dare loro, stanno spettinati come al solito. Gli occhi blu non
se ne stanno fermi un attimo, incapaci di fissarsi su un punto solo. Un po’
come me: in bilico. Penso a Matteo, intento ad aspettarmi con la sua nuova
macchina sotto casa, l’orologio in mano quasi a cronometrare il mio ritardo
perenne. Mi scopro a sorridere senza sforzo. Perché le cose che ti piacciono
non le vuoi far aspettare nemmeno un minuto. Arrivi in anticipo per fare uno
sgambetto all’attesa, alla paranoia. Regali sorrisi come fossero fiori, senza
che farlo ti pesi. Perché quando sei felice e lo sei con qualcuno, senti che
niente può andare storto.
Prendo
le chiavi di casa e il portafoglio, con la mano libera accarezzo al volo Alice,
come a ricordarle che nemmeno con tutta la fretta del mondo la dimenticherei.
Mia madre, nel salutarmi, si raccomanda come fa ogni volta che esco con Matteo.
Nonostante lo conosca dalla nascita, il suo modo di divertirsi e di farmi divertire
con lui non l’ha mai attirata più di tanto. Ma piuttosto che vedermi sorridere,
che non farebbe? Mi bacia sulla fronte, lasciando una microscopica impronta che
mi rimane impressa sulla pelle, come quando ero un bambino. Mi dice di non bere
tanto, che stavolta tocca a me guidare al ritorno. Come se cambiasse qualcosa.
Se le cose brutte arrivano, non si fermano certo per bussare ed avvisare.
Arrivano e basta, spazzano via tutto, senza lasciare campo libero. Ma cosa
potrebbe mai capitarci?
La
macchina sportiva di Matteo, scura come la notte, spicca nella sua
brillantezza. Matteo, dal canto suo, se ne sta al posto del conducente con
l’aria fiera di chi sta per guidare per città intere senza nemmeno
accorgersene. Da quando i suoi gli hanno regalato la macchina, la usa anche
solo per fare cento metri. Per sfoggiarla. Non nel senso più negativo del
termine. Come chi vuol far vedere a tutti qualcosa che ha tanto desiderato e
che ha ottenuto. D’altra parte io, quando vedo quella lucentezza blu cobalto,
vedo solo una macchina. Un volante, quattro ruote e una bella carrozzeria. Un
bel colore scuro. Mi siedo al posto del passeggero inizialmente senza troppo
trasporto, aprendomi in un sorriso alla vista del sorriso di Matteo che, con
una naturalezza totalmente dettata dall’abitudine, mi regala uno dei suoi
abbracci veloci, caldi e spaventosi come la scossa. La radio passa una canzone
che non conosciamo, ma che ci sforziamo di cantare. Io e Matteo siamo così:
sempre intenti in quello che non sappiamo fare. E a cosa può mai servire la
radio, quando c’è il suono della sua voce a farmi compagnia? Cosa saranno mai
le parole di uno sconosciuto, se messe in confronto con le sue, con quei gesti
che ci scambiamo inconsapevolmente da anni? Piccolezze, dettagli stupidi.
«Cos’è
tutta questa voglia di vedermi? Sentivi la mancanza di questo bel visino?» mi
chiede scherzosamente Matteo, indicando il proprio volto con un gesto circolare
della mano, passando qualche secondo di troppo a guardarmi coi suoi occhi
languidi. Uno sguardo che so reggere senza far trapelare nulla.
«Quanto sei stupido! Devo parlarti di una cosa
senza avere Elena tra i piedi, tutto qui.» Sfogo il mio risentimento senza
trattenermi, senza paura di sbagliare.
«Ehi,
piano con le parole! È pur sempre la mia ragazza.» mi riprende lui.
O
forse mi sbagliavo. «Va bene, scusa. Possiamo semplicemente non nominarla per
una sera?»
«Questo
lo decidi tu, sei tu che trovi sempre un pretesto per parlarne.» ribatte
polemico. Gli do una piccola pacca sulla spalla, come a ricordare che questa è
la nostra serata, che non sarà lo spettro di Elena, abbinato a qualche cocktail
particolarmente forte che Matteo non saprà reggere, a rovinare tutto come
sempre. Non può essere presente anche non essendoci fisicamente.
«Ma
di chi mi devi parlare stasera?» Il tono della domanda di Matteo non mi
stupisce: la sua curiosità è leggendaria.
«E
chi ha mai detto che si tratta di una persona?» replico io, sulla difensiva.
«Fammi
indovinare. Scontroso, non vuoi dire di chi si vuol parlare, hai detto di avere
molto bisogno di parlarmi, quando sappiamo entrambi che ci siamo visti ieri… Sofia!»
Maschero
il mio sguardo preoccupato con una risata che smorza un po’ la tensione. È
inutile cercare di nascondergli qualcosa: basta un’occhiata storta, una risposta
con un tono diverso dal solito o anche solo una richiesta apparentemente
banale. Potrei mentire a me stesso senza nemmeno accorgermene. Ma quando si
tratta di lui, fingere diventa un’impresa ardua. Anche con tutte le smorfie
davanti allo specchio del mondo.
«Adesso
mi spieghi come hai fatto.»
«Semplice,
ti conosco troppo bene. Dai, scendi, Innamorato, che siamo arrivati.» Sospiro,
sento il cuore più leggero. Una preoccupazione in meno, un nodo in meno da
sciogliere. Il rapporto che si è creato tra noi è complementare, e mi fa star
tranquillo. Il locale che frequentiamo è lo stesso da un paio d’anni, da quando
ci permettono di star fuori fino a tardi senza doverci chiamare ogni quarto
d’ora. Da qualche tempo ci siamo creati una tradizione da seguire: quando
qualcosa non va, o c’è qualcosa di importante da dire, ci troviamo sempre qua.
Il proprietario del locale, un ragazzo che avrà qualche anno più di noi, ci
saluta con un cenno della mano accompagnato da un sorriso radioso, chiedendo ad
una cameriera di portarci al nostro tavolo. Proprio nell’angolo del locale,
appena sotto la luce al neon bianca che rende tutto un po’ opaco e ruvido, con
la cassa della musica non troppo vicina, abbastanza lontana da non perdere un
timpano ogni volta che ci dobbiamo parlare.
Il
locale, piccolo anche se sempre stracolmo di persone, è diventato il nostro
rifugio. «Cosa vi porto, ragazzi?» chiede la ragazza, ammiccando in direzione
di Matteo.
«Fai
tu, ci fidiamo!» risponde Matteo, facendole un occhiolino che la fa sorridere.
La cameriera, su di giri per quella piccola conquista, se ne va via quasi
correndo a passi piccolissimi, volando sui tacchi alti come fosse a piedi nudi.
Matteo, dal canto suo, ride.
«Non
ti basta Elena, eh?»
«Come
sei esagerato, Edo! Ho solo trovato un modo per avere uno sconticino.» Nella
sua leggerezza, anche solo giudicarlo male mi è impossibile. Matteo saluta con
un’occhiata eloquente la cameriera che, ancora più velocemente di qualche
minuto fa, è già di ritorno con le nostre ordinazioni, traballanti sul vassoio.
Qualche lamentela si leva dai tavoli in fondo, scontenti di quel servizio così
repentino.
«La
prossima volta provo anch’io a rimorchiarti, magari sei più veloce!» grida
qualcuno. La ragazza, troppo impegnata a perdersi nel sorriso brillante di
Matteo, che sembra avere occhi solo per lei per quel momento interminabile, non
sembra accorgersi delle lamentele e ci serve i drink come se nulla fosse.
«Sei
stata gentilissima, grazie! Adesso puoi andare.» la liquido io. Il mio tono non
particolarmente accogliente la spinge ad allontanarsi atterrita. Matteo mi
ammonisce con lo sguardo prima di riprendere la parola.
«Dimmi che è successo con Sofia, dai.»
Prendo
fiato, come se qualche boccata d’aria non basti quando si parla di lei, dello
sguardo triste che aveva appena qualche giorno fa al parco, delle lacrime
grandi e chiare. Mi schiarisco la voce e prendo coraggio.
Racconto
tutto: del parco, di come ho lasciato avvicinare Alice ad una Sofia
particolarmente triste, della mia paura di farmi vedere. Non tralascio niente,
nemmeno quell’attimo in cui avrei davvero voluto farmi riconoscere da lei e
abbracciarla. Mi perdo, descrivendo la rassegnazione dei suoi gesti, la
stanchezza dei suoi occhi. Non nascondo il rimorso, la paura e la voglia di
poter tornare indietro per cambiare le cose, per trovare quel poco coraggio che
mi avrebbe fatto affrontare la situazione. Matteo si prende un momento per
rispondermi, evita qualsiasi interruzione.
«Hai
avuto paura, Edo. Però non riesco a capire.»
«Figurati
io.» sospiro io, rassegnato.
«Non
capisco perché ti fa quest’effetto. Insomma, sono passati due anni.» Matteo
conficca il suo sguardo interrogativo dritto nel mio, come a voler cercare un
barlume di speranza, una base da cui poter partire per ricominciare.
«Eppure
quei due anni sembrano aver perso importanza. O almeno, questo è quello che ho
provato oggi.»
«Stiamo parlando degli stessi due anni in cui
avevi promesso di aspettarla e di capirla, mentre lei stava chissà dove a
spassarsela?» mi chiede con una punta di sarcasmo Matteo, avvicinandosi il
bicchiere alla bocca, bevendo una bella sorsata di un drink che non riconosco.
Cerco di ripensare a quei due anni, tentando
di trovarci qualcosa di positivo da poter schierare a favore di Sofia. Mi
accorgo di non avere niente da cercare subito dopo.
«In
effetti, non sono stati due anni facili, quelli.» ammetto.
«Mi prendi in giro? Avevi la voglia di vivere
di mio nonno! Ti ho scarrozzato da una festa all’altra per settimane e tu avevi
anche il coraggio di tornare a casa dopo un’ora.»Rido
con lui, ricordando il pessimismo di quei giorni, di quelle notti in cui tutte
le ragazze me la facevano ricordare. Quando il sorriso di una sconosciuta me la
riportava alla mente, come se la sua allegria fosse la soluzione a tutti i
nostri problemi. Alla sua fuga improvvisa che, tuttora, non so spiegarmi.
«E
con questo che vorresti dire?»
«Che
Sofia ti destabilizza. Non è la persona che ti offre la mano per rialzarti, ma
è quella che ti butta giù.» sentenzia Matteo, con la sua leggerezza
caratteristica che toglie amarezza un po’ a tutto. E in fondo so quanto ha
ragione.
«Matt,
posso chiederti una cosa?»
«Al
suo servizio, signore!» risponde, compiendo una piccola riverenza scherzosa.
«Cosa dovrei fare? Buttare via il fatto che sia tornata?»
Un
sapore amaro mi secca la gola. Sa di sconfitta.
«Non
ho detto questo. Per una volta, non arrovellarti su Sofia, e pensa ad altro.»
mi esorta Matteo, catapultandomi in una vita diversa, presa per quello che è.
Una vita fatta di momenti e non di preoccupazioni. Come quella di qualsiasi
diciottenne che si rispetti.
«A partire da ora!» esulta lui, lasciando
perdere le parole e passando ai fatti. I suoi occhi marroni brillano di vita,
le luci del locale quasi risplendono in lui, con maggiore intensità di quella
usuale. Tutto, in lui, brilla un po’ di più.
«Che
vuoi fare? Devo ricordarti che sei fidanzato?»
«Scappiamo
per un po’.» dice Matteo, strattonandomi con forza verso l’uscita,
dimenticandosi di pagare il conto.
«Tanto
chi vuoi che se ne accorga?» urla, chissà se a me o al mondo intero. Non ha
mezze misure, Matteo: o tutto o niente, senza sfumature. Senza colori che si
mischiano per crearne di nuovi.
«Dove
hai intenzione di andare? Domani hai anche scuola.»
«Vorrà
dire che domani sarò molto malato!» risponde con aria divertita Matteo,
diventando man mano paonazzo per fingere un colpo di tosse convincente. E con
la media che si ritrova a scuola, da vero ragazzo modello come i suoi hanno
sempre sperato, un giorno in meno tra quelle quattro mura non potrà certo
nuocergli.
Decido
di guidare al posto di Matteo, fin troppo preso dall’idea di una fuga verso
chissà dove, verso un posto troppo lontano perché le ombre possano
raggiungerci. Per evitare impicci, avverto mia madre che stasera dormo da
Matteo, e lui fa lo stesso con la sua. Sento il suo profumo, fresco e frizzante
come il suo modo d’essere, inebriarmi la mente e invadere di prepotenza tutta
la macchina, rendendo le cose più difficili del solito. Ma, si sa, ormai sono
un maestro della finzione. Le stelle sembrano guidarci e, senza metterci
d’accordo, capiamo all’unisono la giusta strada da seguire. Una strada che
odora di salsedine e sabbia fresca che rimane incastrata dappertutto, la strada
verso il mare che tutti hanno dimenticato ormai da settimane. Tutti, tranne noi
due. Le stelle più luminose del cielo. Due ore volano sotto le ruote della
macchina che, come se scorresse sul velluto, prende ogni curva con velocità e
leggerezza, quasi fosse un’appendice improvvisata di ogni mossa tipica di
Matteo. Anche se al volante, tecnicamente, ci sono io. Matteo, dal canto suo,
si limita a cambiare ossessivamente stazione radio, canticchiando sprazzi di
canzoni che conosce e inventandosi nuove parole per quelle che sente per la
prima volta con me, coinvolgendomi nella sua risata chiara quando se ne esce
con una delle sue. Con la sua allegria contagiosa che mi fa dimenticare per un
po’ quanto possa essere ingiusto dover fingere persino con lui.
Solo
quando arriviamo nella prima spiaggia che troviamo sul lungomare capiamo quanto
sia normale pianificare le cose: il cancello chiuso si staglia tra noi e la
spiaggia argentea sotto la luce della luna come fosse un muro di mattoni.
«E
adesso che si fa?» chiedo io, già pronto a dover tornare indietro per nulla.
«E me lo chiedi? Hai due gambe: usale.»
risponde Matteo, senza scomporsi. Come a voler dare il buon esempio sul da
farsi, Matteo si dà la spinta e inizia ad arrampicarsi con maestria sul
cancello che, sotto i suoi piedi agili, sembra scorrere fin troppo facilmente.
I piedi non sbagliano un colpo, le mani sembrano delle ventose per quanto sono
capaci di attaccarsi alla vecchia inferriata senza scivolare mai. Lo sforzo fa
gonfiare i muscoli delle gambe e delle braccia, che pulsano armonici, come in
una danza. La fatica di non guardare come vorrei diventa quasi impossibile da
sostenere. Dopo un attimo di difficoltà, nel momento in cui con una gamba deve
darsi lo slancio per passare dall’altra parte del cancello, Matteo finalmente
si lascia andare con naturalezza, atterrando con una delicatezza quasi
innaturale sulla sabbia umida. «Cosa aspetti? Dai, scavalca, forza!» mi incita
lui, scuotendo il cancello con forza. Dopo un momento di incertezza, la paura
viene vinta dalla voglia di raggiungerlo. Il suo sorriso sembra scintillare a
contrasto con il buio che ci circonda.
Cerco
di imitare le sue mosse, col risultato di un bambino goffo che tenta di seguire
i gesti che il padre vorrebbe insegnargli. Al momento, assomiglio ad una
caricatura di Matteo, coi piedi che non fanno che scivolare e le mani sudaticce
che non aiutano nell’impresa. Matteo non trattiene una risata spontanea,
incitandomi con i suoi «Dai, forza, ci sei quasi, ancora un passo e sei
dall’altra parte» anche se, puntualmente, i passi da fare sono più di uno. Mi
concentro sul suono della sua voce, invitante, e mi lascio cadere sulla sabbia,
trovandomi sdraiato per terra senza sapere come ci sono arrivato. Non faccio in
tempo a rialzarmi che Matteo subito mi riempie di sabbia, senza ascoltare le
mie lamentele che, mucchietto dopo mucchietto, si fanno sempre più deboli, fino
ad arrendermi alla sua voglia di giocare come bambini. Quando sento la sabbia
finirmi sotto la maglietta, mi alzo con uno scatto, spingendo Matteo per terra
e afferrandolo per i piedi.
«Ora ti faccio vedere cosa succede a riempirmi
di sabbia!» urlo io, privo di qualsiasi inibizione, come se al mondo ci fossimo
solo noi due. Faccio finta di non sentire le suppliche di Matteo che, pur di
non essere buttato di peso in mare, cerca di far forza sulla sabbia
sottostante, aggrappandosi ai granelli con tutta la forza che gli rimane e
creando così dei piccoli solchi in corrispondenza delle sue mani. Quando si
arrende, la sua risata chiara si mescola con la mia, mi riporta a quando nessun
problema sarebbe mai stato in grado di allontanarci. Quando non c’erano
ragazze, quando per descrivere la nostra amicizia bastava una parola: semplice.
E mentre il vento pigro di inizio settembre ci scompiglia i capelli, sento che
l’amore che mi lega a lui non renderà mai più possibile descriverci come
semplici. Perché l’amore tutto può essere tranne che semplice. Io lo so bene.
La
sabbia sotto i nostri piedi si fa sempre più umidiccia, i piedi, a stento
dentro le scarpe, affondano senza troppe difficoltà mentre le onde si
increspano dietro di noi. Matteo, ormai disteso in tutta comodità, si lascia
buttare in acqua senza opporre più resistenza, alzandosi improvvisamente quando
entra in contatto con l’acqua gelida e trascinandomi dietro di lui. Finiamo
dentro l’acqua con facilità, le onde ci fanno mancare la terra sotto ai piedi.
L’acqua gelida ci fa rabbrividire, sento i vestiti diventare sempre più
aderenti. Troppo infreddolito, seguo Matteo che, prima di me, è già uscito
dall’acqua. Rimpiango i vestiti asciutti di pochi minuti fa, quando sento un
rivolo di vento notturno alzarmi appena la maglia, ormai attaccata alla pelle
per la troppa acqua. Mi volto appena e, nel buio, incontro lo sguardo
sofferente di Matteo, le braccia di entrambi si ricoprono ben presto di brividi
di freddo, evidenziandone la fisionomia: forti e muscolose quanto basta le sue,
magre e del tutto inconsistenti le mie. E lo so io cosa ci vorrebbe per dare un
po’ di calore alle mie braccia mingherline. Mi avvicino a Matteo, disteso sulla
sabbia, i granelli attaccati ai vestiti fradici. Gli occhi rivolti verso le
stelle, i pensieri che volano verso il cielo fino a dissolversi, rinascendo un
attimo prima di scomparire per poi tornare alla mente. Strofino le mani una
contro l’altra per scaldarmi appena, ottenendo scarsi risultati.
Mi sdraio accanto a Matteo, appoggiando la
testa sulla sabbia fresca, morbida come il cuscino che mi aspetta a casa.
«Ci voleva una serata così.» butto lì, per
spezzare il silenzio. Perché se c’è una cosa che amo fare è riempire le pause
silenziose di parole, qualunque esse siano. «Decisamente. Fa bene scappare via,
ogni tanto. Dovremmo farlo più spesso» risponde lui, spostando il suo sguardo
dalle stelle a me, la stanchezza di queste ore passate insieme che non lo
sfiora neanche. Mi costringo a tenere gli occhi aperti, e godo di questo
momento così nostro.
«Ma
a volte non basta scappare via. Dio, è tutto così complicato una volta tornati
a casa. Vorrei solo che le cose fossero semplici.»
«Ti
riferisci a Sofia? È più facile di quanto tu non creda.» La voce secca di
Matteo scuote ogni mio proposito.
«Come
fai a dirlo?» domando io, incuriosito.
«Se
ami qualcuno, niente è davvero difficile. Lo sai e basta, anche se fai di tutto
per non ammetterlo. E poi, i tuoi occhi parlano.» aggiunge Matteo, con un
sospiro rumoroso che gli dona un’aria pensierosa, riflessiva, diametralmente
opposta al suo modo d’essere.
«I
miei occhi?»
«Per
chi ti conosce, si vede se a qualcuno ci tieni. Basta guardarti negli occhi.
Quelli non mentono mai, sono una specie di garanzia. Tu la ami, si vede anche
al buio. E se me ne sono accorto io, dovresti farlo anche tu.»
Matteo
sbadiglia, improvvisamente pieno di sonno. Si alza, facendo forza sui gomiti, e
mi avverte che, se voglio, lo trovo in macchina a dormire. Annuisco,
inventandomi qualcosa pur di rimanere solo per un po’. È questo che succede a
chi vive di bugie come me: prima o poi, una di esse ti intrappola, fino a
convincere anche chi ti circonda. Spazza via tutto, fin quando non rimane
nulla. Arriva il momento in cui l’amore per una persona è ingabbiato in
quell’immensa finzione.
«Si
vede anche al buio. Tu la ami.»
Le lacrime scendono sulle guancie e fanno
quasi male, perché sanno di verità. E con Matteo a pochi metri, basterebbe così
poco.
«Per
una volta ti sei sbagliato, Matt. Non è Sofia che amo.» dico ad alta voce tra
me e me, quasi provando un discorso imparato a memoria, privo di sentimenti.
«E
chi, allora?»
Matteo non è più in macchina. È dietro di me e
aspetta una risposta.
La
nottata al mare passata con Matteo è volata via da più di una settimana. Sette
giorni in cui mi sono prefissato un solo obiettivo: evitare Matteo più che
posso, evitando di conseguenza anche le sue domande continue. Quella notte, non
è stato semplice sviare la sua curiosità. Ho provato a cambiare discorso e,
vedendo che non avrebbe mai potuto funzionare, ho finto che quella frase detta
tra me e me fosse solo frutto dell’alcool ingerito da Matteo ore prima. Lui,
sfinito, ha lasciato cadere l’argomento, giusto per darmi qualche giorno in più
per macchinare l’ennesima bugia. Niente è mai stato in grado di spegnere la
curiosità innata di Matteoda quando lo
conosco, soprattutto quando si tratta di me.
Il
telefono squilla insistentemente e, quando riattacco ancor prima che Matteo
possa rispondere, spingendomi con la sua bella voce a cambiare idea, capisco
quanto quel che provi per lui sia in grado di allontanarlo da me. Proprio
l’amore, l’eterno collante di cuori infranti e storie sbagliate, adesso me lo
sta portando via. E quello che fa più male è sentirlo scivolare via essendo
perfettamente consapevole del fatto che non posso fare niente di concreto per
trattenerlo qui con me.
E, come se non bastasse, c’è Sofia. La
ciliegina sulla torta.
Sento
la testa pesante, il silenzio della casa vuota non riesce a farmi stare meglio.
Per la prima volta dopo anni, sento addosso un senso di solitudine. Troppo
piccolo in una casa troppo grande. Mi alzo dal letto, nel quale ormai non
facevo altro che rigirarmi, incapace di prendere di nuovo sonno. Mia madre è
con Alice dal dottore, mio padre, sbronzo in qualche locale sporco e piccolo
come lui. Senza nemmeno togliermi il pigiama, costituito da una vecchia tuta
usata per le ore di ginnastica fino all’anno scorso, infilo le scarpe, quasi
corro fuori da quella casa poco mia. Faccio le scale a due a due, spinto da una
fretta che non mi appartiene, da un vento che spinge i piedi in avanti e fa
battere il cuore ad un ritmo serrato. Seguendo una direzione scelta
istintivamente, vedo davanti a me una fermata dell’autobus e decido di prendere
il primo che passa, ignorandone volutamente la destinazione.
Per
una volta, dopo anni, mi concedo una fuga in solitaria, pronto a tutto pur di
lasciarmi alle spalle il fantasma di Sofia che, da troppo tempo, non fa che
perseguitarmi, senza darmi tregua.
Cerco
un posto libero sull’autobus, già stracolmo di gente a quest’ora. Attraverso il
piccolo corridoio, voltandomi spesso. Noto un posto tra i sedili in fondo,
quelli che sembrano essere statifatti
col solo scopo di fungere da nascondiglio a chi ci si siede. Mi accorgo che
accanto al posto vacante se ne sta seduta una ragazza incappucciata, di spalle
rispetto al mio sguardo, ma la mia pigrizia vince il non gradire persone
attorno. Prendo posto, le cuffie già nelle orecchie per allontanarmi da quello
che mi circonda, ma un tocco leggero sulla spalla mi scuote. Una mano candida,
piccola, è appoggiata sulla mia spalla e in quell’istante capisco dove avevo
già visto quella mano. Quella mano minuscola era, fino a due anni fa, sempre
stretta alla mia. Pur essendo già a conoscenza di chi mi ritroverò davanti,
risalgo con lo sguardo lungo le braccia della ragazza, coperte da una felpa
ingrigita, i polsi delicati che spuntano quasi per sbaglio. Continuando il mio
percorso, scorgo un ciuffo di capelli ramati che, disordinatamente, scappano
fuori da ogni dove. Mentre una canzone risuona nelle orecchie, alzo
ulteriormente lo sguardo fino a imbattermi nel viso. Ed è quando incontro
quegli occhi azzurro cielo che capisco di essere felice di averla incontrata di
nuovo. Sofia mi scruta con la stessa precisione che io stesso le ho dedicato,
aprendosi in un sorriso quando capisce che l’ho riconosciuta. Le guance
paffute, ricoperte di lentiggini, prendono istantaneamente colore, diventate
ora di un rosso molto simile a quello delle labbra, tutte da baciare.
Un
sorriso imbarazzato, di chi davvero non sa cosa dire, la illumina.
«Edo.
Sei davvero tu? » mi chiede, conoscendo già la risposta. Ancor prima che io
abbia il tempo di risponderle con un cenno divertito, data la risposta ovvia,
lei si precipita ad abbracciarmi, perdendo l’equilibrio quando l’autobus prende
male un dosso e finendo così, conseguentemente, tra le mie braccia.
Sofia
arrossisce di conseguenza, avvampando quando cerca di districarsidalle mie braccia, incastrati l’uno
nell’altra come fossimo un puzzle. I nostri abbracci sono sempre stati così: un
gioco ad incastro, un riempirsi a vicenda con dolcezza.
La
guardo ancora e in lei rivedo la ragazza che mi aveva fatto soffrire.
Fuggita
via, senza voltarsi indietro per dirmi addio.
«Ciao
Sofia. L’ultima volta che ti ho visto stavamo ancora insieme.»
Reprimo
un “mi sei mancata” che se ne stava sulla punta della lingua da quando l’avevo
vista giocare con Alice al parco. La sua espressione perennemente allegra si
rabbuia, preda del senso di colpa che è impossibile non notare nei suoi occhi.
Sofia,
nervosa, arrotola e srotola la ciocca di capelli al di fuori del cappuccio
ingrigito, ancora calato sulla fronte. Sembra essere rimpicciolita tutta
insieme.
Nel suo
viso noto la paura di dire la cosa sbagliata, gli occhi che guizzano da una
parte all’altra come se, attorno a noi due, stessero fluttuando tutte le parole
che lei non è in grado di dirmi, che sembra voler catturare con la forza dello
sguardo.
«Non
aver paura, non mordo mica, eh.» le dico scherzosamente, cercando di smorzare
una tensione che, dopo due anni di distacco, si è venuta a creare con fin
troppa naturalezza. Sofia prende un respiro profondo, come se dovesse
immergersi nelle acque più profonde, e finalmente mi rivolge lo sguardo senza
poi avere fretta nel guardare qualcos’altro o qualcun altro sull’autobus.
Ci siamo
solo io e lei, soli, in un autobus affollato verso chissà dove.
«Comincia
tu. Se inizio io a parlare mi incasino e basta.»
La voce
di Sofia è finalmente decisa, nonostante le incertezze che cerca di
nascondermi. Imitandola volutamente, respiro con calma, cercando di arraffare
quanto più fiato e coraggio possibile e, allo stesso tempo, di reprimere la
rabbia.
«Prima
di dirti quel che ho da dirti, promettiamoci una cosa. Niente bugie e niente
omissioni, per oggi. Io ti dirò tutto, e tu farai lo stesso con me. Ci stai?»
le propongo io, risoluto.
«Mi
sembra il minimo che tu possa chiedere. Inizia.» mi incita lei. Si mette comoda
come può sul sedile dell’autobus e appoggia la testa sulla mia spalla, con quel
gesto abitudinario di chi conosce il corpo di chi le sta accanto.
La sua
vicinanza improvvisa mi colpisce.
Sento
chiaramente il profumo fresco che emanano i suoi capelli: un misto di fiori
dolce, quasi impercettibile a causa del cappuccio che copre in parte i suoi
capelli.
Reprimo
un gesto istintivo, che ero solito fare quando ancora stavamo insieme: i suoi
capelli sempre intrecciati nelle mie mani, pronto ad attorcigliarli infinite
volte e a disfare il tutto pochi minuti dopo, senza mai annoiarmi.
Mi
costringo a mettere da parte i ricordi felici che mi legano a lei, per lasciar
spazio a quel pizzico di rancore che, dopo anni, non se n’è mai andato.
«Sono
stati due anni orribili. Tuttora mi chiedo perché te ne sei andata via senza
dire una parola. Qualunque motivo tu avessi, sappi che non ti avrei mai
trattenuta qui.»
Mentre
formulo quel pensiero, Sofia si scosta dalla mia spalla, su cui si era posata
poco prima, come se la durezza delle mie parole l’avesse spinta a ritrarsi.
Sembra
sul punto di ribattere ma, con sguardo colpevole, mi fa cenno di continuare.
«Avrei rispettato la tua decisione e ti avrei
lasciata andare. Ma andarsene così? Quale razza di motivo spinge una persona a
scappare senza dire nulla al suo ragazzo?»
Sento la
rabbia premere in testa, il battito accelerare all’improvviso, al solo ricordo
di tutto il dolore di quei mesi. Fingo di distrarmi guardando fuori dal
finestrino, oltrepasso il corpo di Sofia come fosse trasparente e ci potessi
passare attraverso.
«Da
quando sei andata via non sono più riuscito ad avere un’altra storia. Nei primi
mesi Matteo mi portava da una festa all’altra solo per strapparmi un sorriso
ma, se mi conosci un po’, sai che non sono queste le cose che mi fanno
dimenticare quel che avevamo insieme.»
A questo
punto sono quasi obbligato a fare una pausa, anche solo per riprendere fiato.
Mi concedo un altro viaggio tra i bei momenti condivisi in quei mesi insieme,
quel noi che avevamo costruito piano, con l’attenzione ai dettagli di uno
scrittore.
Scorrendo
nella mia mente ciò che era stata la nostra storia, mi accorgo di quanto, in
quei sei mesi, Sofia era riuscita a rendermi felice.
Dopo
anni e anni in cui tutti sbavavano dietro a Matteo, chi per un motivo e chi per
un altro, per la prima volta in sedici anni una ragazza aveva notato me per
primo.
I primi
giorni in cui, impacciati e con un po’ di imbarazzo, camminavamo avanti e
indietro nei corridoi guardandoci negli occhi e stringendoci a vicenda, come se
volessimo dimostrare a tutti che anche due persone pazze e un po’ fuoriposto
come noi potevano trovare qualcuno che li rendesse felici e quasi normali.
E poi il
primo mese, e quel pomeriggio in centro a Firenze, il primo come una coppia a
tutti gli effetti che si tiene per mano mentre cammina e che sembra non avere
occhi per nessun altro, che esclude tutto il resto del mondo con il suo
sguardo.
E quelle
labbra perennemente inamidate da un velo leggero di lucidalabbra alla fragola,
che finiva sempre per appiccicarsi a me, facendomi ridere o semplicemente
sorridere mentre tentava di baciarmi.
Il
brivido che pervadeva entrambi dopo ogni bacio, la voglia di averne ancora, di
avere di più. Il sorriso di Sofia il giorno in cui l’avevo presentata come “la
mia ragazza”. E, appena una settimana prima che lei partisse, la prima notte
passata insieme, la paura di rovinare tutto, il voler rivivere tutto daccapo.
Riprendo
a parlare con la stessa sicurezza di prima, senza lasciarmi trasportare dal
peso di quei bei momenti. Non ho bisogno di volgere lo sguardo verso Sofia per
sapere che sta piangendo. Decido che nemmeno i suoi singhiozzi mi scuoteranno
dal mio intento, e continuo, imperterrito.
«Per un periodo sono passato da una ragazza
all’altra senza nemmeno farci caso, vedendo in tutte loro qualcosa che mi
riportava a te, in quel modo. Ragazze tutte uguali, illuse e usate per
rimpiazzarti.»
Mentre
ammetto il vuoto che Sofia aveva lasciato, capisco quanto quei due anni fossero
stati difficili. I tentativi di Matteo che andavano in fumo ancor prima di
realizzarsi, la mia voglia di studiare che era stata portata via da Sofia, nel
momento esatto in cui se n’era andata chissà dove. Ricordo le passeggiate al
parco con mia sorella, troppo piccola per capire il mio dolore, ma sempre
pronta a farmi ridere.
Tutto
torna alla mente, e col ricordo, torna anche la consapevolezza di aver sofferto
troppo per una persona che non se lo era mai meritato. Che alle spiegazioni
aveva preferito la fuga, una via più facile, senza pensare alle conseguenze
delle sue azioni.
«Lasciami
spiegare, Edo. C’è un motivo se ho fatto quel che ho fatto.»
«Ne sono
sicuro. Ma non sono disposto ad ascoltarti. Ti ho aspettata per due anni, sono
stato fermo, ad aspettare una spiegazione che non è mai arrivata. Sono stufo.
Non puoi pensare che il mio mondo giri solo intorno a te. Io l’ho pensato, e
guarda come sono ridotto. Finisce qui.»
Il
pianto di Sofia ormai sembra un fiume in piena, pronto a far crollare argini troppo
fragili. Mi volto per un attimo, cercando di capire se guardarla basterà a
farmi cambiare idea. Davanti a me c’è una ragazza di diciotto anni con la
consapevolezza di una bambina, la fragilità delle ali di una farfalla appena
acchiappata con le mani e la tristezza di chi non riesce ad apprezzarsi.
In
un’altra vita, sarei stato in grado di perdonarla dopo una visione simile.
Ma il
dolore mi ha cambiato più di ogni altra cosa al mondo. Sofia compresa.
Gli
occhi azzurri, gonfi di lacrime, sembrano pregarmi di restare.
Le
altre persone presenti nell’autobus, ormai quasi completamente vuoto, sono
ormai concentrate solo su di noi, lo sguardo puntato su me e Sofia come se
fossimo due attori di una storia melodrammatica, che non sa giungere al
termine.
Noto
in particolar modo una signora attempata, che osserva minuziosamente Sofia con
uno sguardo carico di compassione. Scuote la testa con disappunto, delusa.
Una
donna poco dietro di me sembra sostenermi, mi rivolge un sorriso ricco di
empatia, come se fosse al mio posto e capisse perfettamente cosa sto pensando.
Infastidito
dalla curiosità degli astanti, mi lascio scappare un «E voi che avete da
guardare? Lo spettacolo è finito.» che lascia tutti in sospeso. Cogliendo al
volo la prima occasione per lasciarmi alle spalle questo incontro disastroso,
scendo alla prima fermata che mi capita a tiro, privo di senso
dell’orientamento, ma con addosso la voglia di scappare che mi aveva portato su
quell’autobus.
Incapace
di capire da che parte di Firenze sono capitato, mi limito a sedermi sul bordo
del primo marciapiede che trovo, senza preoccuparmi della sporcizia o del
quartiere in cui sono capitato, apparentemente tetro e non troppo invitante.
Alle
mie spalle, due donne discutono all’interno di un negozio, per decidere chi
delle due dovrebbe accaparrarsi l’ultimo paio di scarpe a metà prezzo.
Origliando quella discussione futile sento il fastidio crescere, paragonandolo
col litigio con Sofia di poco prima. Un velo di tristezza si fa spazio dentro
me, oscurando la rabbia.
Perché
per la seconda volta sono stato capace di perderla.
Perché,
probabilmente, non saprà mai quel che davvero avrei voluto dirle.
«Edo!»
La
voce di Sofia risuona in tutto il vicinato, coprendo il litigio tra le due
donne nel negozio, che si zittiscono per un attimo. Quando alzo lo sguardo, una
Sofia piuttosto trafelata mi si presenta davanti, ancora col fiatone. La felpa
che prima la proteggeva come un bozzolo è legata in vita, così larga e sformata
da far strusciare il cappuccio a terra. Sofia stringe un fazzoletto tra le
mani, bagnato dalle troppe lacrime, e mi guarda, sfinita dalla corsa che l’ha
portata fino a qui.
«Non
puoi semplicemente lasciarmi in pace?»
La
mia voce rasenta l’esasperazione, solo per coprire la sorpresa di vederla ancora.
«Avevamo
promesso di non omettere nulla. Di dirci tutto. E se tu non vuoi farlo, allora
lo farò io per entrambi. Non devi dire nulla, ascoltami e me ne andrò via.»
ribatte lei, priva della sua solita parlantina, le lacrime trattenute sulla
punta delle ciglia, a stento.
Senza
proferire parola, senza nemmeno farle un cenno d’assenso, spingo Sofia a
cominciare, troppo curioso per proseguire la rotta del mio orgoglio, massacrato
dal troppo amore verso la ragazza che mi aveva spezzato il cuore. Vedo Sofia
sedersi sul bordo del marciapiede, vicina a me, ma con un certo distacco.
«Non
sono scappata a causa tua. E credo che non potrò mai scusarmi abbastanza per
avertelo fatto credere. Gli ultimi due mesi che ho passato qui sono stati un
inferno. Non l’ho mai dato a vedere, perché ti saresti preoccupato per me, e
non credo di meritarmelo. In seguito a questo brutto periodo, io e mia madre ci
siamo trasferite a Roma, per farmi seguire da uno specialista, che mi ha
aiutato ad affrontare il tutto.»
«Scusa
se ti interrompo, ma questo “tutto” cosa comprendeva?» chiedo io, incredulo di
fronte alla rivelazione di Sofia. Sento la testa farsi pesante, il senso di
colpa che mi attanaglia lo stomaco perché, per due anni, avevo accusato una
persona che stava cadendo a pezzi proprio davanti a me, senza che io me ne
fossi mai reso conto.
Troppo
preso a crogiolarmi nel mio dolore per accorgermi di quanto lei soffrisse.
«Ti
ricordi che un mese prima che me ne andassi spesso rimanevo a casa e saltavo
scuola? Ti avevo detto che dovevo aiutare mia madre, perché si era fatta male
cadendo, e da sola in casa non ce la faceva. Ti ho mentito.» ammette, con tono
grave, riuscendo a malapena a sostenere il mio sguardo, di volta in volta più
deluso.
Sofia
si tampona le lacrime col fazzoletto umido, i singulti che le scuotono il petto
per un attimo non le permettono di parlare. La sua voce è ridotta ad un
sussurro quando dice «La verità è che nell’ultimo mese mi ero accorta di
essermi innamorata di un altro. Non per una tua particolare mancanza, probabilmente
era solo la confusione di quel brutto periodo. Non sapevo come dirtelo, il
senso di colpa mi stava distruggendo. E così, è iniziato tutto. E con tutto,
intendo questo.»
Sofia
inizia ad alzarsi con lentezza le maniche del cardigan, con una delicatezza
quasi da copione, come se avesse paura di rompere qualcosa. Nonostante il suo
essere così trasandata, arrotola con precisione maniacale ogni centimetro di
tessuto, cercando di ottenere piccoli strati della stessa misura. Solo dopo
qualche minuto da questo processo così minuzioso, riesco ad intravedere la
pelle candida delle sue braccia.
Entrambe
le braccia, pallide anche più delle mie, sono interamente ricoperte di
cicatrici: alcune sono più profonde, altre più superficiali, altre ancora sono
sul punto di rimarginarsi, probabilmente le più vecchie.
Eccola,
la cosa da nascondere. Il motivo della felpa troppo grande, del maglioncino
tirato fin sotto le mani, troppo a contrasto con la mia maglietta di cotone, a
maniche corte. La mia curiosità persistente mi fa allungare una mano sulla
superficie della sua pelle, azzardando un «Posso toccarle?» incerto.
«Certo
che puoi. Pensavo ti avrebbero fatto impressione.» replica lei, con un
espressione a metà tra il divertito e lo stupito. Un sorriso sghembo le illumina
il viso, un sorriso triste, di una guerriera che ha fatto di tutto per non
affondare e che, allo stremo delle forze, si è lasciata trascinare sul fondo.
Lascio
scorrere la punta delle dita sul suo braccio destro, gracile, facile da
spezzare. Mentre avverto la durezza delle cicatrici che contrastano con la
morbidezza della sua pelle, capisco che quelle braccia sono come una strada
piena di buche, che impediscono di godersi il percorso.
«Posso
farti una domanda?»
«Smettila
di chiedere il permesso, per favore.»
«Di chi
ti eri innamorata per sentirti così in colpa?» domando, tutto d’un fiato.
Sofia si
prende un momento per sé, come se dovesse riflettere prima di potermi
rispondere adeguatamente. Imitando il gesto già compiuto quando eravamo
sull’autobus, prende un bel respiro, prima di riprendere in mano il discorso.
«Matteo.»
Il suono
di quel nome inizia e finisce nel giro di un istante che, per la sua gravità,
rimane per un attimo sospeso in aria, passando dalla bocca semiaperta di Sofia,
in tensione, fino a sbattere sulla mia bocca, inerte.
Una
bocca che si piega in un sorriso ogni qualvolta si imbatte in quel nome.
«Credo
che nemmeno tutte le scuse del mondo potranno mai bastare per rimediare a
questo. Insomma, Matteo è il tuo migliore amico, so che non c’è niente di
peggio.» cerca di giustificarsi Sofia, con quel filo di voce che le rimane.
Mi dico
che finché non incrocerò lo sguardo di Sofia, supplichevole e pronto a tutto
pur di essere perdonata, riuscirò a mantenere la poca calma che ancora ho in
corpo.
Rivolgo
il mio sguardo verso la punta dei miei piedi, e sento crescere la delusione di
una scoperta fatta troppo tardi, quando, ormai, non dovrebbe avere più
importanza. Immagino, per un secondo, la Sofia di due anni fa, presa da quegli
occhi marroni, da quel sorriso aperto e pieno di vita. Visualizzo nella mia
mente le nostre mani intrecciati, i baci che ci regalavamo fin troppo
spesso.Esamino nella mia mente gli
ultimi due mesi insieme, alla ricerca di un errore che non riuscirò a scovare,
perché offuscato dalla troppa felicità di quel periodo.
«Edo, ti
prego, dì qualcosa. Qualsiasi cosa.» implora Sofia, afferrandomi la mano e
stringendola con forza tra le sue, con l’intento di non lasciarla andare.
«Che
vuoi ti dica? Che sono felice di aver scoperto che negli ultimi momenti insieme
che abbiamo avuto tu pensavi a Matteo? Che hai preferito sentirti in colpa e
farti di male piuttosto che dirmelo in faccia? Forse sarebbe stato meglio non
sapere niente.»
«Almeno
io ho rispettato la promessa.» risponde Sofia, brusca.
«Che
cosa intendi?» replico io, sulla difensiva.
«Mi hai
fatto promettere di dirci tutto, senza omissioni. Tu sei innamorato, eppure non
mi hai detto nulla. Tu, quello sguardo che hai adesso, non lo hai mai avuto
finché stavi con me, Edo. Come dovrei sentirmi, secondo te?» ribatte lei,
scostando la sua mano dalla mia come se avere un contatto fisico con me,
adesso, fosse troppo.
Reprimo
un «Come fai a dire che sono innamorato?» quando mi tornano alla mente le
parole di Matteo, di appena una settimana fa. I miei occhi, quei dannati occhi,
capaci di giocarmi l’ennesimo brutto tiro con la persona sbagliata.
«Sì,
sono innamorato. E sì, probabilmente quando stavo con te si è limitato tutto ad
una cotta. Ma questo non toglie che hai sbagliato, Sof. Avresti dovuto dirmelo.
Avresti dovuto fidarti di me, e lasciarti andare. Amare qualcuno non è mai
sbagliato.» concludo io, indirizzando quell’ultima frase più a me, che a lei.
«Scusa.
Ho preferito farmi del male, piuttosto che farne a te.»
Senza
pensare al significato del mio gesto, mi alzo dal bordo del marciapiede ed
invito Sofia a fare lo stesso. Prima di poterci ripensare, la attiro a me e la
stringo con forza, ma senza esagerare, per paura di rompere ulteriormente quel
che già lei è stata capace di scalfire. Maledico la mia bontà, la mia forza di
volontà che manca quando mi imbatto in persone più deboli e bisognose di me.
Sofia finalmente si lascia andare, abbandona il suo corpo leggero al mio,
appoggia la testa sulla mia spalla, alzandosi appena sulle punte per
incastrarsi al meglio nell’incavo.
Ripetendo
un gesto che uso spesso quando Alice piange, le accarezzo la testa con garbo,
ritmicamente, creando un movimento oscillatorio che assomiglia alla culla di
una bambino che non riesce a prendere sonno. Sofia ricambia la stretta, il suo
respiro si calma, abituandosi ad una vicinanza che non abbiamo avuto per troppo
tempo.
Quando,
un minuto dopo, ci sciogliamo dall’abbraccio, le lacrime sul suo volto sono
sparite, sostituite da un’espressione curiosa, che, a suo tempo, adoravo.
«Allora,
chi è la ragazza fortunata che ti ha rubato il cuore?»
Dopo
i due incontri casuali con Sofia, fissare un’uscita con lei mi mette subito in
agitazione. I giorni da aspettare, da contare sulle dita quasi a volersi
ricordare quanto manca ancora, si sono trasformati in una manciata di ore che
non so minimamente come trascorrere. Per svuotare la mente, offuscata da quello
che dovrò dirle in seguito, decido di andare al parco a fare una corsa,
scappando via per l’ennesima volta dai problemi che non la smettono di
inseguirmi, sotto le forme più strane.
Cerco
nell’armadio l’abbigliamento più adatto, con la certezza che i risultati siano
più che scarsi: da due anni a questa parte, tutto ciò che ha a che fare con lo
sport ha cessato di esistere nel mio armadio. L’uscita di Sofia dalla mia vita
è stata capace persino di rendermi svogliato, inerte. Privo di quell’energia
che prima mi caratterizzava e mi faceva sentire attivo.
Nell’angolo
più recondito del mio armadio di legno scuro, intravedo una maglietta dismessa,
di un blu sgargiante che sembra entrare subito in sintonia coi miei occhi.
Senza la volontà di perdere altro tempo prezioso, mi accontento di un paio di
pantaloni corti, che so essere parte di una tuta di qualche anno fa. Mi concedo
un minuto per riflettere su cosa dire, in cerca di parole giuste che, però, non
arrivano.
Troppi
pensieri, troppi punti interrogativi che non so sciogliere, che non so
trasformare in affermazioni certe e concrete. È più
forte di me.
Troppo
debole per prendere una decisione, troppo stupido per dire quel che penso, quel
che credo, quello che rimarrà un segreto sempre, da non liberare mai davvero.
Ho
bisogno di sfogarmi, di allentare la pressione. Di sentirmi leggero.
Scrivo
rapido un messaggio a mamma chiedendo se posso andare al parco a correre per un
paio d’ore. La risposta arriva, rapida e affermativa. Prima di andarmene,
controllo la situazione che lascio per due ore: senza che me ne fossi accorto,
mio padre non è ancora tornato dal solito bar o da qualsiasi tana lo abbia
fatto prigioniero, mia sorella, invece, è tutto il pomeriggio a casa di
un’amichetta per giocare.
Altri al
posto mio starebbero in casa, magari con qualche videogioco, i più sfigati, o
con una bella ragazza sdraiata sul divano, i più fortunati. Ma l’aria è troppo
pesante, il pavimento è troppo liscio e asettico sotto i miei piedi, e quel di
cui ho bisogno è uno schiaffo d’aria fresca dritto in faccia, dei colori vivaci
della fine dell’estate che brillano ai miei occhi spenti e casalinghi. Ho
bisogno di uscire, di scaricare la tensione.
Mi
allaccio in fretta le scarpe da ginnastica e, volutamente senza cuffie per
poter apprezzare nel miglior modo tutto quello che posso sentire che non sia
musica, esco in fretta e furia dal palazzo, riscaldandomi in fretta, facendo le
scale a due a due, come se qualcosa mi spingesse a correre più forte. Una sfida
contro me stesso.
Corro, e
ogni passo rappresenta un pensiero da cancellare dalla mia infinita lista: mio
padre, mia sorella, mia madre, Matteo, Sofia, io, il futuro, la paura, e ancora
io, io, io. Io che sbaglio, io che dimentico, io che confido, io che nascondo,
io che amo.
Io che
faccio di tutto per non essere notato, io che voglio attirare l’attenzione.
E ancora
io che non so decidermi, io che amo Matteo, che mi illudo di una storia che non
accadrà mai, a prescindere dalla ragazza con cui lui decide di passare qualche
mese. E poi io che ritrovo Sofia, che mi fido senza neanche sapere se sia la
cosa giusta da fare, io che non faccio che pensare alla nostra storia, ai
nostri baci, al suo sorriso dolce che si distingue dal grigio delle altre
persone.
Un
passo, un altro, non so più contarli. Un passo, ancora uno, uno e poi sparisco
del tutto. Un passo, due passi, un milione di passi in avanti mentre io vado
all’indietro, regredisco a quello stato di vuoto assoluto, dove nessuno c’è, ma
tutti ci sono.
E vorrei
che questo percorso senza criterio mi portasse da qualcuno, che portasse ad un
segno di quel che devo fare: un estraneo che mi ricordi Matteo, un’amica che mi
parli all’improvviso di Sofia. Per una volta, vorrei che fosse il caso a
decidere per me. Che quel qualcosa in cui tutti, tranne me, credono, mi facesse
capire da che parte stare, anche solo per esclusione. Lo vorrei, quanto lo
vorrei.
Lancio
un’occhiata fugace all’orologio, stupendomi quando mi accorgo di quanto
velocemente sia passata la prima ora di corsa. Lo sguardo si scosta sulla punta
delle mie scarpe e mi abbasso per allacciarle nuovamente entrambe, i lacci
scomposti pronti a farmi inciampare in qualche buca sulla strada.
«Edo!
Sei tu?» sento dire da una voce lontana, che non riesco a riconoscere.
Mi
volto, speranzoso in qualcosa che so che non accadrà.
Mi volto
e capisco l’errore.
Matteo,
solare ed evidentemente felice, è proprio davanti a me. Non riesco nemmeno ad
avere il tempo per sperare che sia solo, che subito vedo sbucare Elena al suo
fianco, altrettanto allegra e leggera, fresca come il vento di fine estate.
«Ciao!
Ero venuto qui per fare una corsetta.» dico io.
Che
idiota. Come se non si notasse dalla maglietta madida di sudore e dal fiatone.
«Noi ci
godiamo uno dei pochi pomeriggi senza niente da fare per il giorno dopo. I
professori non fanno altro che parlare dell’esame e avevamo bisogno di
rilassarci un pochino.» risponde Matteo, lo sguardo adorante sempre fisso su
Elena.
Noi. Non
io, non io e Elena. Ha detto noi. E quel noi è il segnale che tanto stavo
aspettando, è la realizzazione di quanto la mia cotta, o quel che sento per
Matteo, sia irrealizzabile.Parla al
plurale, parla di quel “noi” in cui io non posso e non devo fare parte, se non
come terzo incomodo quando a Matteo viene la malsana idea di uscire in tre.
Quel noi, quelle tre lettere, raccontano una storia colorata, solare, una
storia bella come quella dei film, tra due persone altrettanto belle e
invidiate da tutti. Quel noi comprende sei mesi in cui sono sempre stato a
guardare, senza agire.
Ma ora
basta.
Anche io
voglio un “noi” di cui fare parte. Anche io voglio parlare al plurale.
«Fate
bene, non è facile trovare tempo quando sei a scuola tutta la mattina.» mi
limito a rispondere, spaventosamente in ritardo, troppo preso dai miei
pensieri.
Elena si
allontana per rispondere al telefono che squilla insistentemente, e sento
l’imbarazzo che cresce quando mi ritrovo faccia a faccia con Matteo, dopo due
settimane in cui ho sempre declinato la sua richiesta di spiegazioni dopo la
nottata al mare.
Matteo
non perde un attimo e, non appena Elena scompare dietro l’angolo, mi chiede il
perché di quelle due settimane di silenzio. E non c’è curiosità nel tono della
domanda: è il tono di un migliore amico desideroso di una delucidazione.
«La tua
domanda improvvisa, quella notte, mi ha messo alle strette. Non volevo che
sapessi di chi sono innamorato, volevo che rimanesse un segreto. Scusa.»
ammetto.
«Dopo diciott’anni che mi conosci, come fai ad avere segreti con
me?» chiede lui, al limite dello sdegnato. Mi guarda e sembra non riconoscermi
nemmeno.
«Non è
una cosa di cui vado fiero, tutto qui. Dammi un po’ di tempo, potrei non
esserne nemmeno innamorato. E poi, adesso devo andare, ho appuntamento con
Sofia.» mi giustifico frettolosamente, pronto a correre via.
«Sofia?
La stessa che non volevi nemmeno vedere?» domanda Matteo, incredulo.
«È una
storia lungo. Dopo ti chiamo e ti spiego, devo andare!»
Inizio a
correre ad una velocità assurda, senza nemmeno aspettare che torni Elena per
scambiarci i nostri soliti convenevoli forzati. Matteo mi guarda sparire,
guarda il punto in cui fino ad un attimo fa c’ero io, quel migliore amico che
non sembra più fidarsi di lui, che sente lontano per la prima volta in diciotto
anni.
Corro
con la stessa foga di poco prima, lasciandomi alle spalle Matteo e tutti i suoi
dubbi. Ignoro i problemi, li calpesto con le mie scarpe da ginnastica logore,
ci corro sopra e li schiaccio con la poca forza che mi rimane.
Corro
senza voltarmi indietro perché, se lo facessi, finirei per pentirmi.
E non
c’è niente di peggio di una vita fatta di rimpianti.
Frammenti
di cose che avresti voluto fare, dire, vedere. Uno strazio per l’anima.
Corro,
corro e sorrido, sorrido e mi stupisco e corro ancora. Perché sorrido?
Sorrido
perché, in cuor mio, so che sto facendo la scelta giusta.
Sorrido
perché lei non farà domande, perché è indecisa quanto me.
Sorrido
perché si possono amare due persone, ma puoi stare solo con una.
Sorrido
perché adesso è giusto sorridere, adesso è il momento di essere felici.
Sorrido
perché Matteo ha scelto Elena. Perché non mi sceglierà mai, e non serve a
niente piangermi addosso. Lui non verrà da me. Non ci verrà e basta.
Per lui
sarò quell’amico che consideri un fratello, quello che lo fa sbronzare il
sabato sera, quando la sua ragazza decide di uscire con le amiche e gli lascia
la libera uscita. Io sono l’amico dell’asilo, delle elementari, delle medie, in
parte del liceo.
Non sarò
il ragazzo che gli ha fatto scoprire di essere diverso, questo non accadrà.
E non
posso aspettare in eterno un momento sì, in cui poter dire tutto. Non posso.
Posso
solo accontentarmi. Posso avere altre persone che, a modo loro, riescono a
rendermi felice almeno quanto lui, anche se la persona in questione è una
ragazza.
Mentre
sento il fiatone che arriva e l’adrenalina in circolo, scrivo velocemente a
Sofia, chiedendole dove abita, e sperando non sia troppo lontano.
«Partendo
da casa tua, se stai ancora nella stessa casa, basta che vai a dritto fino alla
fine della strada. Poi giri a destra, a sinistra, e ci sei. Sono nella prima
casa che vedi, quella con l’intonaco giallognolo. Comunque ti aspetto fuori.
PS. Ma perché stai venendo?»
Decido
volutamente di non risponderle, per fare aumentare in lei quella voglia di
vedermi e la curiosità che da sempre la caratterizza. Questo mi ricorda di
quando, dopo tre mesi che stavamo insieme, decisi di organizzarle una festa a
sorpresa per il suo compleanno. Sembrava una bambina da quante domande faceva: “Dove
vai? Che fai? Ma stasera che facciamo? Che regalo mi hai preso? Mi hai preso il
regalo?”
La
voglia di sapere di più le faceva brillare gli occhi, e il nervosismo la
corrodeva come una candela accesa, la cera che scorre fino a consumarla del
tutto.
Lei
iniziava assillando, facendo domande su domande. Poi venivano i dubbi.
L’incertezza, la paura di un buco nell’acqua, la pressione per il mio silenzio.
Gli
occhi azzurri iniziavano a guardare ovunque, destra, sinistra, su e giù, e in contemporanea
iniziava a sbuffare, nei casi più estremi metteva il broncio com’è solita fare
Elena. Cercava di impietosirmi, di estorcermi qualcosa con la pena.
Quando
vedeva che non funzionava, iniziava coi baci. Prima uno candido sulla guancia,
a schiocco, come i bambini. Poi all’angolo della bocca, più prolungato, quasi
un minuscolo succhiotto. E poi si avvicinava sempre di più, sempre di più.
Forse
quello era l’unico modo in cui riusciva a scoprire qualcosa.
Mi
immagino queste diverse fasi adesso, e sorrido ancora. Mi sento leggero.
Leggero
nel vento che mi spinge in avanti, che mi fa passare la paura. Il vento mi
guida in quel percorso più veloce e semplice del previsto, il vento si confonde
al mio respiro e non mi fa sentire il peso del fiato corto, del cuore veloce.
Prendo
la prima strada a destra, poi a sinistra. Ormai è questione di metri.
La vedo
in lontananza, una figura piccola piccola, che in
prospettiva sta tra il pollice e l’indice. Mi avvicino, ma rallento il passo.
Non voglio arrivare in fretta e furia.
Voglio
vivere questo momento. Voglio che si crogioli nell’attesa.
Ma
questo non succede, perché non appena mi riconosce, inizia anche lei a
camminare a passi lenti verso di me. Come nelle scene più belle dei film, in
cui i due protagonisti si vengono incontro, e alla fine iniziano a correre
l’uno verso l’altro.
Un
attimo. Mi sono davvero identificato nella parte del protagonista?
Vedo che
inizia ad accelerare il passo, diventando sempre più vicina e nitida. Faccio lo
stesso, iniziando una camminata veloce che, ben presto, diventa una corsa.
È come
se sapessimo entrambi cosa sta per succedere, cosa dobbiamo fare.
Non c’è
un copione da seguire, non ci sono regole da rispettare. Siamo noi. Siamo quel “noi”
che ho visto prima in due persone completamente diverse, così opposte a me e
Sofia da assomigliarci quasi. Quasi. Nel nostro “noi” c’è l’indecisione, c’è
una storia già vissuta, c’è la paura di un grosso sbaglio, c’è anche l’amore di
due pazzi.
A questo
punto ci dividono solo pochi passi, e decidiamo di rallentare di nuovo, forse
per goderci meglio quel che avremo da dirci, per pensare a cosa faremo.
Come se
la spontaneità si potesse programmare.
Inizio a
parlare, quando me la ritrovo a pochi metri, troppo lontana per improvvisare
uno di quei baci spettacolari, ma troppo vicina per essere banale e amichevole.
«Ho
bisogno di parlarti, Sof. È
urgente.»
«Quello
l’avevo intuito, da come sei vestito sembra che sei appena andato a fare una
corsa. È per
quella storia di dirmi di chi sei innamorato? Se non te la senti, non importa,
Edo, io non obbligo nessuno.» replica Sofia, così vicina a me che ne sento il
profumo dolce.
«Si
tratta proprio di quello. C’è un posto dove possiamo sederci e stare soli?» le
chiedo, preoccupato dal fatto che qualche orecchio indiscreto potrebbe sentire.
Sofia
sembra afferrare la mia inquietudine, mi prende per mano con una presa sicura
che annulla qualsiasi tipo di paura, e mi porta verso i giardini pubblici
giusto dietro casa sua. Noto con piacere che siamo gli unici presenti all’interno
di quell’immensa macchia verde, e sento la tensione allentarsi gradualmente.
Il parco
che si distende tutt’attorno a noi è punteggiato dai colori dei giochi per
bambini, al momento deserti. Colori vivaci e cangianti che spiccano nel verde
di un prato poco curato, per la maggior parte lasciato crescere senza la minima
cura, con alcune porzioni di terreno ben tagliate, prossime alle zone più
frequentate dai bambini.
L’aria
che si respira è quella di un’estate pigra, ma incapace di volgere al termine,
una brezza apparentemente calda che, quando arriva a contatto con la pelle
scoperta, mi fa rabbrividire per un attimo. Quel tipo di stagione in cui non
sai mai cosa indossare, una via di mezzo tra la libertà dell’estate e i limiti
poco definiti dell’autunno.
«Devo
parlarti di Matteo, Sof.»
Sofia
sfodera un’espressione perplessa, quasi imbronciata, al sentire quel nome. Si
prende un secondo per rifletterci sopra, probabilmente ripensando a quando,
anche lei, si era invaghita di Matteo, senza tuttora trovare una spiegazione
logica.
«Ma non
avresti dovuto dirmi di chi ti sei innamorato?» chiede, con un tono lieve, come
se avesse paura di turbare qualche equilibrio invisibile ai suoi occhi chiari.
«Appunto.»
lascio trapelare io con un sussurro imbarazzato, nascondendo il volto tra le
mani con un gesto volutamente plateale. Sento il peso di quel segreto passare
dalla mia testa, agli occhi increduli di Sofia, ancora intenta ad immagazzinare
quell’informazione così assurda. Insieme a quel macigno, le lacrime lasciano i
miei occhi alla svelta, come se fossero in fuga, e avessero come unico
desiderio quello di inondare il viso di qualcun altro.
Da quel
poco che riesco a vedere dalle fessure che si vengono a creare tra le mie dita,
premute sopra gli occhi intrisi di lacrime, c’è un fazzoletto intonso, nella
mano candida di Sofia, tesa come se fossi un naufrago in mare aperto che ha
bisogno di qualcuno per ritornare in superficie. Mi aggrappo a quella minuscola
ancora di salvezza, agguantando la mano di Sofia con una forza tale da farle
quasi male.
«Quando
hai capito di esserti innamorato?» chiede, curiosa.
Sofia ha
gli occhi lucidi almeno quanto i miei, nonostante cerchi di nasconderlo.
«Non lo
so. Non è stato un momento preciso.» rispondo io, senza sforzarmi.
«Pensaci
meglio, e non far caso a me. Tu racconta e basta.» mi incita lei.
«È
iniziato tutto quando sei andata via. Mi convincevo che non avrei mai amato
nessun altro, che ti eri portata via tutto ciò contava. E quando nessuno c’era,
quando tu eri sparita, c’è stato sempre e solo lui. Ad ascoltarmi, a rialzarmi
quando cadevo. Non mi ha mai lasciato solo e, poco a poco, la sensazione di
amare di nuovo è tornata da me, e ha trovato espressione in lui.» cerco di
spiegare io, rendendomi conto di quanto l’amore che provo per lui sia
impossibile da definire usando le parole.
Sento la
mano di Sofia stringersi con maggiore forza alla mia, senza aver paura di quel
contato fisico che non avevamo mai cercato. Mi concedo per un attimo di alzare
lo sguardo su di lei, per farla entrare per un secondo in quell’universo solo
mio e di Matteo, che non avevo mai avuto il coraggio di rendere pubblico.
L’immagine che i miei occhi mi rimandano non è delle migliori: una versione
distrutta di Sofia mi scruta con tristezza, con la malinconia di chi capisce di
essere destinato ad essere la seconda scelta in eterno. Gli occhi azzurri sono
bagnati di lacrime vive, un misto di delusione e sorpresa che nemmeno la
spiegazione più chiara potrà mai cancellare. Nello sguardo afflitto di Sofia,
una domanda risplende inespressa: perché mi hai rimpiazzato proprio con lui?
Perché non sei rimasto ad aspettare, a combattere?
«Se ti
stai chiedendo il perché non credo che sarò mai pronto a dare una risposta
sensata. Matteo per me è un luogo sicuro in cui ho la certezza di poter tornare
quando voglio. Lui è la mia casa, e lo sarà sempre, indipendentemente da tutto
e da tutti.»
Sofia
brilla di un sorriso mesto, che non so interpretare.
«Perché
sorridi?»
«È buffo.
Io mi sento così quando sto con te.» ammette lei, tentando di offuscare quel
velo di vergogna che le riga il viso, invano. Non esiste una sua espressione
facciale che io non conosca, anche a distanza di anni. I suoi occhi azzurro
cielo non hanno segreti con me, che siano annebbiati da lacrime o brillanti di
felicità.
«Com’è
amarlo? Che effetto ti fa?» domanda Sofia, con la curiosità di chi ha solo
sentito parlare dell’amore, senza avere mai occasione di provare sulla propria
pelle.
«Hai
presente quando una zanzara ti pizzica? Senti prudere, e l’unica cosa che
vorresti fare è grattarti sopra la puntura. Sai che non dovresti farlo, eppure
pensi solo a quanto vorresti farlo. Oppure quando ti proibisci di pensare ad
una persona, ma finisci sempre per pensarci e ripensarci tutto il giorno?»
cerco di spiegare io, gesticolando in modo così plateale da ricordare un
vecchio attore consumato.
«Sì, ma
cosa c’entra?»
«Amarlo
è esattamente così. Più mi dico che è sbagliato e più lo amo.» confesso io,
incredulo di fronte alla facilità con cui le parole riescono ad uscirmi di
bocca.
Come se
fosse la cosa più normale e innocente del mondo, da urlare a chiunque.
«Fammi
capire. Quindi tu sei corso fino a qua per ricordarmi che hai scelto lui?»
«Veramente
sono corso fino a quaggiù per dirti che, per una volta, ho scelto me.» ribatto
io, calcando su quella parola così corta e apparentemente insignificante. Sofia
pare perplessa, come se ciò che sto dicendo sia incomprensibile, detto in una
lingua troppo articolata e lontana perché lei sia in grado di capirmi.
Una
lieve folata di vento le scompiglia i capelli rossicci, un ciuffo le ricopre
gli occhi, nascondendoli per un attimo alla mia vista. Solo adesso, mi rendo
conto di come il tempo attorno a noi stia cambiando: il sole, prima alto in
cielo quasi con orgoglio, sta arrivando al capolinea con lentezza,
trasformandosi in un tramonto dello stesso colore dei capelli di Sofia, ma
spento se messo in confronto al suo modo di splendere.
Sofia
cerca di raccogliere i capelli in una coda, ma le sue intenzioni sono minate
dall’intensità del vento, che non accenna a smettere. Decidiamo, quindi, di
alzarci, in cerca di una zona meno ventosa, che non intralci il nostro dialogo,
già difficoltoso.
Stavolta
sono io a condurla verso un posto che frequentavo da piccolo con Matteo, a
pochi passi dai giardini pubblici. Il luogo in sé non ha niente di
particolarmente bello, e ritornarci dopo tanto tempo rende ancora più lampante
la mia delusione: il piccolo fiume si snoda tra le rocce in modo naturale,
privo di qualsiasi forzatura di natura umana, se non fosse per la vecchia
casetta sull’albero creata da me e Matt da piccoli.
Fino ai
dieci anni, quello era stato il nostro rifugio quando combinavamo qualche
guaio. Abbastanza lontano da casa per essere distanti dai genitori,
sufficientemente vicino per non dimenticare mai il tragitto di andata e
ritorno, considerando lo scarso senso dell’orientamento di entrambi. Unico
complice nella costruzione della casetta era stato, a suo tempo, Luca, il padre
di Matteo, impaurito dalla nostra versione più piccola armata di martello e
chiodi. Dopo aver spergiurato che non avrebbe mai rivelato alle nostre madri di
quel progetto assurdo, ci aiutò a mettere insieme quella casetta sospesa tra
gli alberi di pino che si affacciavano sul fiume, dando vita ad innumerevoli
pomeriggi potenzialmente pericolosi, tra martelli troppo pesanti e chiodi che
finivano puntualmente sotto la pianta del piede. Dai sei ai dieci anni,
quell’angolo di legno tutto nostro mi era apparso come il posto più bello del
mondo.
Quella
che vedo adesso è una casetta sull’albero che ha visto tempi migliori,
ricoperta per una buona parte da muschio scuro, tenuta insieme solo grazie alle
considerevoli abilità di Luca come falegname improvvisato. Vedendo il mio
vecchio nascondiglio andare in pezzi davanti ai miei occhi, sento la bellezza
della mia infanzia svanire.
«Cos’è
quella catapecchia sospesa tra gli alberi?»
«Sofia,
benvenuta nella mia vecchia casa sull’albero. Dai, sali.» la invito io,
tentando di fare apparire quel rifugio fatiscente come un luogo sicuro, privo
di rischi.
Per
convincerla a seguirmi, salgo le scalette, a suo tempo costruite da me e
Matteo, e in poche falcate posso già appoggiarmi sul bordo della casetta, umido
e scivoloso.
Sofia
non nasconde la sua avversione verso quell’impresa e, mentre sale le scale con
cautela, mi sembra di rivedere in lei me stesso, giusto un paio di settimane
fa, mentre cercavo di scavalcare il cancello dello stabilimento balneare.
La
goffaggine nei movimenti e la troppa prudenza ci rendono simili.
Dopo
qualche minuto, la mano di Sofia cerca la mia disperatamente, in cerca di un
sostegno stabile che la aiuti ad entrare nella casetta. Le porgo la mano con lo
stesso garbo che lei aveva riservato a me, tirandola su di peso con facilità.
«Spero
vivamente che quel che mi devi dire valga tutto questo sforzo.»
«Io lo
so che siamo due casi persi. So che mi sto solo incasinando, e forse dovrei
accontentarmi di quella storia che mi sono costruito nella mia testa con
Matteo. Ma non ci riesco proprio. Probabilmente non ho nemmeno un futuro, non
sono quel tipo di ragazzo che ti giri a guardare per strada perché è un bel
vedere. Nessuno sano di mente mi sceglierebbe. Ma tu sei come me. Sei
incasinata, sei insicura, hai paura di non essere abbastanza.» dico io tutto
d’un fiato, senza omettere nemmeno una parola.
Mi
appunto mentalmente che, semmai dovrò dichiararmi ancora, sarebbe più sensato
elencare i pregi, e non i difetti della persona da conquistare.
«Io
voglio te. Presi singolarmente siamo una mina vagante, ma insieme riusciamo a
stabilizzarci. Siamo un po’ come questa casa sull’albero: per chi la guarda
dall’esterno è un miracolo che stia ancora in piedi, ma, una volta dentro,
diventa il luogo più sicuro e stabile possibile.» tento di spiegare io, con
quel pizzico di coraggio che mi è rimasto.
Basta
vedere come sorride per capire quanto non se lo aspettasse.
E questo
non fa che rendermi doppiamente felice di avere appena detto ciò che ho detto.
Perché è la verità. E la verità è sempre capace di lasciare a bocca aperta.
« No, io
sono un casino. Sono una stupida illusa e sono sicura di non meritare una
persona come te, che scappa e lascia tutto in sospeso pur di mettere le cose
apposto.
Io non
ho ancora superato la cotta per Matteo, e non so come fare a superarla del
tutto. Non so che dire, Edo. Mi hai colto alla sprovvista.» confessa Sofia,
ancora spiazzata.
«Dimmi
di sì.»
«Dimmi
che non hai paura.» replica lei.
La
guardo. Mi perdo nel guardarla.
Gli
occhi azzurri sono umidi, come una settimana fa quando sono riuscito a riconoscerli
tra la folla, in mezzo a tutte le altre iridi colorate che mi circondavano.
Ma
quello strato acquoso che li ricopre non sa di tristezza, di malumore, di un
passato troppo difficile da spiegare senza essere giudicato subito da chi ti
sta ascoltando. No.
Adesso
quelle perle azzurre brillano di una bagnata felicità e non sono persi in uno
strano percorso di nervosismo, non guardano ovunque e da nessuna parte.
Guardano
me. Con quell’aria riconoscente di chi vuole ringraziarti in qualche modo.
So già
come mi ringrazierà e mi avvicino al suo viso, prendendolo dolcemente tra le
mani e accarezzandolo, sorridendole, come a volerle dire silenziosamente che
può avvicinarsi di più, che adesso dobbiamo essere solo più vicini. Adesso non
ci sono limiti, non ci sono quelle mezze misure che lei ha sempre odiato:
lontano o vicino, amici o qualcosa di più, sì o no. È così semplice.
Il suo
respiro è parte del mio, mi solletica il naso e mi fa trasalire, al sentire il
sapore della sua pelle così vicino: la dolcezza innata di ogni singolo
centimetro della sua pelle liscia mi inebria, mi fa venir voglia di avere di
più.
Sento
che prima di premere le labbra sulle mie scoppia in una piccola risata, così
diversa ma allo stesso modo uguale a quella di un paio d’anni fa: una risata
libera, che ti fa sentire un sapore dolciastro sotto la lingua. Una di quelle
risate brevi, istantanee, come una delle mie fotografie mentali, colorata e
bella come lei.
Quando
sento le sue labbra carnose e con quel sapore artificialmente dolce di fragola,
che mi si appiccica subito, capisco quanto questo bacio sarà diverso da quello
dato a Matteo. Il bacio a Matteo era e sarà sempre un segreto, un piccolo vizio
che sono riuscito a concedermi senza chiedere il permesso a nessuno, tantomeno
a lui. Quel bacio era una piccola concessione, una fantasia molto reale ma che
solo io conosco.
Era
amarezza e dolcezza, era superare i confini, era sfondare un limite tracciato
dalla società. Era amore? Sì, lo era. E lo è. Ma era diverso.
In
questo bacio, in questo contatto fisico così ravvicinato, io vedo un amore
diverso: un amore che decide di darsi un’altra chance, un amore che nasce
felice, dall’unione di due vite tristi e strane che si intrecciano. Siamo io e
lei, la stessa persona sdoppiata, in versione maschile e femminile. Entrambi
innamorati di due persone. Entrambi con la voglia di scegliere la via più
facile non sapendo come andrà a finire.
Era
bellissimo pensare che avrei sempre e comunque scelto Matteo. Ma, per una
volta, è anche bello sapere che ho scelto me. In questo bacio cerco di più,
cerco una felicità che ho trovato solo con lei.
Sento le
sue mani affondare nei miei capelli, più lunghi rispetto a come li aveva
lasciati quando se n’era andata: le sue dita piccole e veloci si aggrappano ad
ogni ciocca, come a voler dimostrare a chiunque ci vedesse adesso che le
appartengo.
Per
risponderle senza aver bisogno di parlare, la stringo fortea me, più vicina, stretti in un abbraccio che
ci unisce fin quasi a stare male, che ci rende consapevoli di questo regalo, di
questo inizio. E se la fine sarà domani, che importa?
Questo è
un buffo tentativo. È un modo per ricominciare
daccapo.
Sento
che Sofia si stacca per un po’, come a voler riprendere il proprio respiro, ma -solo
per un attimo. Un secondo dopo le sue labbra sottili sono già all’angolo della
mia bocca, in uno dei suoi adorabili succhiotti, e non mi preoccupo del segno
che lascerà, delle domande che verranno fuori, delle spiegazioni da dare. Non
mi importa.
Non ho
paura delle occhiate storte, di chi mi dirà che sto sbagliando, perché quel che
conta è che questo errore gigantesco a me piace. Sbagliare con lei è
bellissimo.
« Lo
avresti mai immaginato? » le chiedo sottovoce, in un sussurro, raccogliendo una
ciocca rossa di capelli, che le era sfuggita per un attimo, e sistemandola
dietro l’orecchio. La vedo sorridere, e penso a quanto è bello farla star bene.
«Immaginato
probabilmente no. Sognato sì, e tanto. Ma non era mai così bello.»
E con la
stessa semplicità di quella frase, mi prende una mano, poggiandola sul suo
petto, in prossimità del cuore. Lo sento battere forte, senza un ritmo preciso,
velocissimo e incontrollato. Preda di emozioni nuove, di quel sogno bello e
vero.
«Senti
come batte forte? Ricordati di questa corsa veloce. E io ti prometto che finché
lo sentirò battere così forte quando ti sono accanto, io non avrò mai dubbi.
Mai. Me ne frego di un ragazzo che non mi vede nemmeno. Voglio qualcuno che
sappia far correre il cuore, come stai facendo tu adesso. Resta, Edo.»
«Io non
me ne vado da nessuna parte, senza te.» prometto io, con aria solenne.
«Non sei
il primo a dirmelo.» afferma lei, dispiaciuta, delusa per un secondo.
«Ma io
te lo sto promettendo. E sono bravo a mantenere le promesse.»
«Questo
lo staremo a vedere. Ti va cenare con noi?» mi chiede, addolcendo la richiesta
con un piccolo bacio, che finisce e inizia allo stesso tempo.
Come un
fuoco d’artificio, scoppio colorato che si posa sulle mie labbra.
«Fammi
avvertire mia madre e ci incamminiamo.»
Mando
rapidamente l’ennesimo messaggio a mia madre, quasi implorandola di concedermi
di non tornare a casa per cena. Accetta senza neanche troppe domande.
Le mando
un “Ti voglio bene” veloce, sperando che basti.
«Posso
restare. Contenta?»
«Contentissima!
Mamma sarà felice di rivederti. È a casa,
ci sta aspettando.»
Ci sta
aspettando. Aspetta noi. Me e lei. Quel “noi” che ritorna, mi schiaffa in
faccia una realtà improvvisamente dolce e bella, simile a un sogno dal quale
non ti vuoi più svegliare. Sai quelli che continui da sveglio, da quanto son
belli? Lei è questo.
Mi
guarda un’ultima volta prima di prendermi per mano, per guidarmi davanti a casa
sua, come se da solo non fossi in grado di andare da nessuna parte. E lo
apprezzo.
La casa,
anche se vista solo da fuori, è accogliente: il giardino è pieno di fiori
variopinti, che lo punteggiano con colori accesi e che ti mettono
istantaneamente d’allegria. Sembra quasi invitarti ad entrare. E non solo me,
un ospite conosciuto negli anni addietro e che già aveva calpestato l’erba
soffice sotto i fiori, ma qualsiasi persona che ci passi davanti.
Un
passante, un bambino che ha momentaneamente perso i propri genitori, una
ragazza che guardando il bel prato vorrebbe sdraiarcisi sopra.
È un
ingresso se ti senti solo, triste, sperduto, senza un posto dove andare.
E se, come
me, sai chi ti sta aspettando all’interno di quella casetta giallognola, allora
sarai doppiamente convinto di quanto quell’ingresso potrà farti sentire a casa.
Rovistando
nelle tasche di una delle sue felpe larghissime, che devo ricordarmi di farle
buttare per trovare qualcosa di più adatto a lei, Sofia apre la porta
impacciata, girando più volte nella serratura senza riuscire ad aprire.
Ricordo
ancora come non riuscisse ad aprire una qualsiasi porta subito. Era più forte
di lei, ogni volta finiva per aggrapparcisi con due mani, come se servisse
forza.
Per
facilitarle il compito la avvolgo da dietro nelle mie braccia, poggiandole
sulle sue, fino ad arrivare alle sue mani piccole e curate. Stringo le chiavi
nelle mie mani, limitandomi poi ad usarne una soltanto, e sento subito scattare
la serratura.
Sofia
alza la testa, che mi arriva di una spanna sotto al mento, e alza gli occhi al
cielo falsamente offesa per la mia velocità nell’aprire la porta. Mi illumina
con la sua allegria. Mi fa toccare il cielo senza accorgersene minimamente.
Subito
davanti a noi si materializza sua madre. Quando la vedo e la riconosco, e lei
mi riconosce a sua volta rivolgendomi un sorriso aperto, capisco quanto
potrebbe piacere a mia madre e alla mamma di Matteo. Lo so, lo sento.
Il corpo
formoso non viene mascherato da abiti larghi, da quel senso di vergogna che di
solito le persone più in carne, almeno una volta nella vita, provano. A
differenza di Sofia, che sente l’esigenza continua di nascondere ogni piccola
imperfezione e ogni difetto sotto strati e strati di stoffa, lana, cotone o che
altro, sua madre si mostra fiera del suo corpo difettoso, stretto in un
tailleur blu cobalto. A modo suo è bella.
Rispetto
a due anni fa, nuove rughe di stress sono spuntate agli angoli degli occhi e un
po’ su tutto il viso, rendendolo più vivo, con più storie da raccontare.
«Ciao,
Edoardo, che piacere vederti. Non ti aspettavamo.» mi dice con la bontà che
solo una mamma sa avere, avvicinandosi un po’ per baciarmi le guance.
Sento
per un attimo il suo profumo, che mi invade le narici. Sa di buono.
«Salve,
signora.»
«No,
niente “signora” qua dentro! Chiamami Andrea, ti prego. Non farmi sembrare più
vecchia di quello che già sono, okay?» mi corregge, ma senza calcare la mano.
«Va bene,
Andrea. Posso rimanere per cena? Spero di non disturbare.»
«Dove si
mangia in due, c’è spazio anche per tre persone. Non c’è bisogno che mi aiutate
ad apparecchiare, vi vedo parecchio stanchi, soprattutto tu, Edoardo. Ma sei
andato a correre? Comunque, c’è qualcosa che dovrei sapere?» chiede maliziosa.
«Non più
di quanto non vedi già, Andrea. » le rispondo, stringendo la mano di Sofia, che
per tutto il tempo da quando siamo entrati non ha detto una parola, limitandosi
a guardare in basso, senza emettere un suono. È chiaramente imbarazzata.
Saliamo
le scale che, se non ricordo male, ci portano alla sua stanza.
È
incredibile come nulla sia cambiato, come siano riusciti a riavere la stessa
casa di quando se n’erano andate: gli stessi quadretti fatti a mano dalla
madre, appesi sui muri bianchi, le stesse porte ampie in legno chiaro, lo
stesso pavimento scivoloso, che scricchiola in continuazione, che causò non
pochi problemi quando cercammo di sgattaiolare in camera di sua madre senza
svegliarla mentre dormiva sul divano a pianterreno. Quella notte, la ricordo
ancora, dopo cinque mesi insieme, riuscimmo ad avere la nostra prima notte
insieme. Sorrido, al solo ricordo.
In un
attimo siamo già in camera sua. Sofia si sdraia sul letto, pensierosa.
Per non
sembrarle troppo appiccicoso, mi siedo per terra, comodo sopra il suo vecchio
tappeto rosso scuro, come il colore dei suoi capelli intorno alla cute.
«Sei
silenziosa. Qualcosa non va?» le chiedo premuroso.
«Va
tutto bene. Dopo nemmeno un quarto d’ora che stiamo insieme mia mamma ficca già
il naso negli affari nostri. Mi infastidisce.» ribatte seccata.
«Vuole
solo che tu sia felice. E lo voglio anch’io.»
Nella
mezz’ora successiva non facciamo che parlare, lei sul letto e io seduto a
terra, a volte concedendoci qualche pausa per guardarci bene negli occhi, a
volte per toccarci le mani, per ricordare quel che eravamo, per pensare a quel
che saremo.
Sentiamo
la voce della madre di Sofia, che devo ricordarmi di chiamare per nome come mi
ha chiesto lei stessa, che ci chiama per la cena, e scendiamo le scale uno
dietro l’altra, sempre stringendoci per mano. Indivisibili.
Andrea
ci accoglie con calore, come se non ci vedessimo da chissà quanto tempo.
Pur
mancando il padre di Sofia, che era morto quando lei era ancora piccola, mentre
mi siedo a tavola, percepisco l’energia positiva di una bella famiglia, seppur
composta da solo due persone: Andrea e Sofia si alternano, passandomi piatti
colmi di pasta e stuzzichini. In un ritmo silenzioso decidono chi deve alzarsi
a prendere i piatti, piuttosto dell’acqua o altro. Sono in sincronia, non hanno
bisogno di parole.
Ipnotizzato
dalla loro intesa, decido di non parlar troppo: rispondo solo alle domande
necessarie, alle curiosità di Andrea a alle battute di Sofia, con cui rido.
La serata
passa in fretta, senza intoppi, lasciandomi con lo stomaco appesantito, che
conferma quanto io abbia mangiato. Sento che potrei rimanere qui sempre,
mischiando questa famiglia un po’ strana e il suo amore incondizionato a quella
di Matteo, senza una macchia e senza segreti a sgretolarla, pronta ad
accogliermi sempre, quando ne ho bisogno.
Il
telefono vibra nuovamente nella mia tasca. Un nuovo messaggio di mia madre.
“Edoardo,
vieni a casa subito. Alice si è fatta male. È stato tuo padre.”
E così
come sono arrivato a casa di Sofia, me ne vado: correndo.
No, non
conosci niente e nessuno. Vorresti solo andare via.
“Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo
posto infernale. Scappa.”
Adesso
non mi è concesso andare via. Non adesso che hanno bisogno di me.
Ma come
sarà successo? Quanto male starà Alice?
Un
pugno, un calcio, uno schiaffo? Cosa, come, ma soprattutto perché?
Perché
tornare a casa in quelle condizioni? Perché sfogare la rabbia su di lei?
Non
avrei accettato un comportamento simile nei miei confronti, né tantomeno in
quelli di mia madre, che si limiterebbe a subire in silenzio. Ma Alice? Ha
sbagliato.
E se
pensa che per perdonarlo basterà definire il tutto “un incidente”, allora
sbaglia ulteriormente. Lei è piccola, non avrebbe saputo difendersi neanche
volendo. Probabilmente neanche si è accorta di quel che stava succedendo.
E anche
se fosse, una volta visto mio padre mettere piede in casa, il suo istinto le
avrebbe comunque suggerito di corrergli incontro, per salutarlo come si deve.
Conoscendola,
nemmeno ha pianto. Uno de suoi pregi migliori è il sapersi dimostrare sempre
coraggiosa, dall’alto dei suoi cinque anni. In questo, non ha preso dal padre.
In pochi
minuti sono già arrivato davanti a casa mia, che vedo illuminata, spicca in
mezzo a tutte le altre. Come se tutti sapessero. Come se tutti avessero visto.
Salgo le
scale per scaricare ancora la tensione, per cercare di pensare razionalmente in
mezzo a quest’insieme sconclusionato di azioni. Mia madre, mio padre, Alice.
Ancora
un gradino, ancora un secondo per razionalizzare i miei pensieri.
Ancora
uno.
La porta
è spalancata, la scena che vedo non potrebbe essere più diversa da quella che
avevo immaginato nei cinque minuti a disposizione per pensare. Il caos calmo.
Mia madre, scossa ma che cerca in tutti i modi
di mantenere la calma, è seduta sul divano con la testa di Alice poggiata sulle
gambe. Ha gli occhi rossi, si vede che ha pianto, ma che ha bisogno di nasconderlo, per il bene
di chi la guarda e di sé stessa.
Alice è difficile da guardare, sento il moto
di rabbia aumentare a mano a mano che scopro i segni che mio
padre le ha lasciato addosso:
un livido che si sta formando sulla guancia, il labbro inferiore spaccato, le
gambe arrossate.
Non piange, non si dimena. È immobile, inerme.
E la sua immobilità non fa che spaventarmi
ancora di più.
Quello che più mi stupisce è un pianto, sommesso e
furioso proveniente dal bagno.
Calcio
la porta del bagno, senza ottenere nulla. Si è chiuso a chiave.
Ha paura.
«Ma ti sei bevuto il cervello? Mi fai schifo!
Schifo!» urlo a
perdifiato io, sputando rabbia e rancore sempre preoccuparmi del troppo rumore,
confidando nella porta che mi separa da mio padre. Sento i suoi lamenti aumentare
di volume, come in segno di protesta verso la mia ira, che non fa che
accendersi come una miccia.
«Piangi quanto vuoi, tu qua dentro non ci metti
più piede. Chiaro? Sei un mostro! Perché non puoi rovinare solo la tua vita? Perché devi
rovinare anche la nostra?»
Sto piangendo, ma a differenza sua non cerco
di nascondermi dietro una porta: sento ogni goccia scorrere salata sulla
guancia, la prima dopo anni e anni di forzature.
Un uomo, un ragazzo o quel che è non dovrebbe
piangere.
Ma ora come ora sento che se non lo facessi
potrei esplodere in una rabbia cieca che non saprei controllare. La stessa che
ha investito Alice ingiustamente.
«Andiamo
al pronto soccorso.» affermo
io, secco.
«Ma tuo padre? Lo lasciamo lì in bagno?» chiede mia madre, terrorizzata.
«Sì, e spero di non trovarlo quando torniamo.
Dammi le chiavi della macchina, guido io. Tu stai dietro con Alice. E prendile
il peluche che ha sul letto. Le dà forza.»
Mi accorgo solo adesso dell’assurdità di quel
che sto facendo: sto dicendo a mia madre cosa fare, come se da sola non
riuscisse in niente. Le sto dicendo come comportarsi con la sua stessa figlia.
E so che mi odierà per questo.
Ma qualcuno deve prendere in mano la
situazione, e stavolta tocca a me.
Vedo nei
suoi occhi verdi la disperazione di un genitore che
capisce di aver sbagliato tutto, di una persona persa e che ha solo bisogno di
essere guidata.
Le scale volano sotto i nostri piedi agitati e
veloci, mentre il respiro di Alice, tenuta saldamente dalle braccia di mia mamma, si
fa sempre più flebile. Solo ora mi
chiedo come potrò rimanere calmo nei venti di minuti di viaggio per l’ospedale
più vicino.
Corriamo nella notte come insetti, appiccicosi
e sudati di paura e di troppa fretta, di quell’ansia del tempo che passa troppo
velocemente
quando vorrei solo fermarlo.
Come insetti ronziamo di pensieri che
preferiamo non esprimere ad alta voce, un brusio fastidioso che potrebbe essere
placato solo da una parola qualsiasi detta da Alice, con la sua voce adorabile.
Siamo in macchina ancora prima di accorgercene
e subito mi siedo al volante, con le mani che tremano per l’agitazione. Uso un
vecchio trucco di Matteo, che impiegava nelle situazioni più svariate, quando aveva bisogno di calmarsi:
prendo aria, una bella boccata dal naso, e la butto fuori, allentando la
tensione per un po’.
Tutto rallenta, tutto adesso è sotto
controllo. Adesso le mani sono ferme.
Parto piano, come se il tempo potesse moderare il suo corso solo per noi, per poi ingranare
e accelerare qualche minuto più tardi, dopo aver notato quanto desolate siano
le strade che portano a Firenze a quest’ora.
Dove sono le macchine, i furgoni, i tir, i
taxi, gli scooter?
Dove sono i motociclisti pieni di tatuaggi
sulle loro braccia troppo abbronzate, dove sono le coppie innamorate che
bisticciano in auto?
Dove sono le signore di mezza età chiuse nei
taxi che spettegolano col conducente?
Probabilmente sono tutti nelle loro case, a
mangiare un bel piatto di pasta simile a quello che sto ancora digerendo,
assimilato lentamente insieme a tutti quei lividi.
Ho paura della strada troppo
vuota, di quelle macchine
invisibili che ci sfiorano senza creare strane collisioni, che non ci urtano e
non creano danni che possiamo vedere.
Ho paura di questa notte nera che ci inghiotte
e ci rende insicuri e fragili.
Ho paura anche di questo viaggio, così stupido, che avremmo potuto evitare se fossi capitato
in una famiglia normale con un padre normale, che non ha bisogno di sfogare la
sua rabbia sulla figlia piccola per sentirsi bene con se stesso.
«Non
credi che sarebbe meglio rallentare un pochino? Stai oltrepassando il limite, tesoro.» mi avverte mia madre docile e remissiva, mentre carezza
piano le guance paffute e colorite di Alice, ancora addormentata.
«In strada non c’è nessuno, perché
dovrei rallentare?»
Il mio tono è sopra le righe, collerico e
preoccupato allo stesso tempo.
«Edoardo, tua sorella non starà meglio se
prendi una multa per eccesso di velocità, chiaro? Siamo quasi
arrivati e lei si è addormentata. Non voglio rischiare
un incidente solo perché sei in pensiero per lei. » mi riprende lei, ferma e decisa.
La linea bianca dell’autostrada si
avvicina progressivamente agli
pneumatici della macchina di mamma, che teoricamente non potrei neanche
guidare.
Ma a chi importa? Al diavolo la sua prudenza:
Alice sta male, e io devo aiutarla.
Vedere le luci quasi fluorescenti
dell’ospedale pediatrico mi rassicura, facendomi rallentare non poco la
velocità, per accostare e trovare al più presto parcheggio.
In una manciata di minuti siamo di nuovo in
corsa folle con il respiro debole ed addormentato di Alice che soffia sulla
spalla sinistra di mia madre, ormai umida.
Non chiediamo niente a nessuno, non aspettiamo
il nostro turno, e quella prudenza da sempre intrinseca in mia madre sparisce
nell’istante stesso in cui ogni malato o dottore che ci vede, e che vede Alice, ci riserva uno sguardo molto preoccupato.
Dopo un lasso di tempo che a noi sembra sconfinare nell’infinito, un
dottore in carne e con una barba incolta e candida riesce a riceverci con un
sorriso incerto.
Come se, senza neanche sapere quel che è
successo, sapesse tutto.
«È da molto che aspettate? Mi hanno detto che si
tratta di una bambina.»
Lo
afferma mentre gira intorno al corpo ostile di mia madre, fino a trovarsi
faccia a faccia con Alice, che continua a dormire imbronciata, da tempo
immemore ormai.
Il
labbro inferiore, che a casa colava sangue rosso cremisi, adesso è gonfio e
quasi ricurvo su quello superiore. Il volto di una bambina che diventa un sacco
sul quale un adulto squilibrato ha deciso di tirare calci e pugni, senza alcun
risentimento.
Ma a mio
padre basta piangere.
Perché
pensare ai segni che rimarranno sul suo viso, quando il tuo unico pensiero è
quello di andare nel bar di turno per il tuo prezioso whisky?
Il
medico ci conduce con un gesto della mano verso una stanzetta bianca e
asettica, che puzza in modo esagerato di disinfettante e di lacrime di bambini
malati.
Il suo
sguardo non si stacca mai dal labbro pieno di Alice, dai lividi sul viso che
stanno diventando violacei, dalle piccole gambe bianchissime punteggiate da
segni rossi troppo simili a dita cattive per essere equivoci.
«Da
quanto non si sveglia?»
«Da poco
dopo la caduta. Io stavo cucinando e lei è caduta dalle scale.»
« Questi
segninon sono quelli di una caduta,
signora. Lì vede, questi qua sulle gambe? Non può esserseli fatta cadendo.
Questi sono colpi lasciati da una mano, da delle dita, non da una scalinata.
Non menta, signora. Come si è fatta male?»
«Lei è …caduta. Lei è caduta.» replica mia madre, la voce ridotta
ad una nenia.
Mia
madre ripete quella specie di mantra un paio di volte, mentre io rimango in
disparte, per non dare nell’occhio. Vorrei portarmi una mano alla bocca, per
tenerla ferma e chiusa fino alla fine della visita. Per non parlare. Ma so che
non mi tratterrò.
«Tu sei
il fratello della bambina?» mi chiede il dottore, scovandomi subito.
«Sì,
sono il fratello di Alice.» rispondo nervoso, dando un nome a quel volto che,
fra un paio d’ore scarse, per quell’uomo distinto non significherà più niente.
Solo
l’ennesimo paziente da curare, l’ennesima storia triste da dissotterrare.
«Come si
è fatta male Alice? È caduta?»
Mi
squadra dall’alto verso il basso, mi mette in dubbio ancor prima di ascoltarmi.
«Io non ero in casa quando si è fatta male.
Non lo so.» dico,
tormentandomi le mani fino a non sentirle neanche, conficcandomi le unghie poco
curate nei palmi, per avvertire il dolore necessario a non dire tutto quel che
invece so.
«Figliolo, non è proteggendo questa persona che
farai bene a tua sorella, ad Alice. Se capitasse di nuovo, cosa vi inventerete?
Che è caduta di nuovo? Non ha senso nascondere una cosa di una tale gravità.
Dimmi come si è fatta male.»
Mia madre è china su Alice, che ha aperto gli
occhi lamentandosi senza nemmeno provare a star meglio. Il piccolo viso è
distorto da una smorfia di dolore che lo rende più adulto, un volto che ha
vissuto e sofferto. Il suo viso di appena cinque anni non dovrebbe avere quel
velo di tristezza e di dolore. Non deve, non dovrà mai.
Sento mia madre singhiozzare, facendo crollare
la maschera di donna, moglie e madre forte, che quando cade si rialza subito,
spolverandosi appena con le mani e sfoderando uno dei sorrisi falsi, che come i
miei, convincono sempre tutti.
È crollata, io lo so che è così. Che stavolta
non si rialzerà subito.
Che ha bisogno della mia mano per tornare alla
sua vita normale.
E posso aiutarla solo in un modo: infrangendo il
nostro patto silenzioso.
«Alice è stata picchiata da mio padre dopo che
lui aveva bevuto troppo. È la prima volta che succede, ma in precedenza lo
aveva fatto con me. Non so come sia successo, ma so che avrebbe il coraggio e abbastanza alcool in
corpo per farlo ancora.» confesso io, traballante, come se ogni verità mi
svuotasse un po’.
«Alice non è fatta di gomma. Ho paura per lei,
per mia madre e per me. Non ce la faccio. Non ce la faccio più. » rispondo
carico di tensione, carico di quel peso che gravava sulla mia coscienza da troppo
tempo.
Non bastano più le fotografie sorridenti, i
pianti e le lacrime di coccodrillo per giustificare un gesto che non dovrebbe
essere neanche umano. Non bastano più le suppliche silenziose di mamma, i
sorrisi incoraggianti di Alice, che senza saperlo mi spingeva a credere in un
futuro più felice e tranquillo. Non basta più crederci.
Il pianto di mia madre sembra essersi placato,
forse troppo calmo per esserlo davvero.
Erano anni che desiderava sentire quelle
parole. Voleva solo farle
uscire dai suoi sogni e farle entrare nella realtà. E chi lo avrebbe mai detto
che sarei stato io?
Sono stufo di tutti questi segreti. Di quella
lista invisibile di cose da dire e da tacere. Voglio poter parlare liberamente anche dei
miei mostri. Lo voglio realmente.
«Io adesso vedo che posso fare con Alice, ma
per stanotte è meglio se rimane qua con noi per degli accertamenti. E rimanete anche voi. Adesso chiamiamo la polizia e dovete dire loro
quello che
avete detto adesso a me.»
Il suo sguardo è positivo, gli occhi brillano
dello stesso sogno che ho visto riflettere nelle ombre verdastre delle iridi di
mia madre per anni. Forse adesso quel sogno, il sogno di una famiglia vera e
normale, si realizzerà davvero.
Ma quanti respiri profondi dovrei fare per
avere la calma necessaria a spifferare tutto a quei poliziotti? Come potrò non
risultare banale, con quella storiella sentita mille volte da mille famiglie più sfortunate
di noi?
Non voglio una denuncia.
Non voglio la rabbia folle e disperate di mio
padre quando verrà a sapere questa storia. Non voglio che faccia male a mia
madre o ad Alice.
Che affronti me. Da anni, ormai, che
aspettavo questo momento senza neanche saperlo. Da quel pomeriggio che rimase
incastrato nella porta dello scantinato, che rimase segreto tra me e lui. Sento
che è il momento di rievocare quel pomeriggio.
Nel frattempo il dottore dalla barba lunga
inizia una breve visita di Alice, toccandone i punti dolenti con la paura di
spezzarla, di farle troppo male.
È davvero troppo vederla soffrire. Non è
ammesso nessun margine d’errore: verità o menzogna, realtà o immaginazione
fervida.
Alice tenta in ogni modo di non mostrarsi
debole, come le avevamo sempre insegnato io e mia madre inconsapevolmente. Ma
non ci riesce, il dolore è troppo, glielo leggo in viso, mentre chiude gli occhi
e vedo scendere una lacrima sulla guancia.
Prendo con uno strattone la borsa di mia
madre, capiente e spaziosa, e ne estraggo il peluche di Alice, che, a suo
tempo, era stato anche il mio. Lo nascondo dietro alla schiena, come un mago
che sta per estrarre un coniglio bianco dal suo cilindro.
«Principessa, c’è una
sorpresa per te, qua dietro.»
La vedo illuminarsi per un attimo, divertita e
sorpresa da quell’attimo di allegria e di colore. Sta per sorridere, ma
qualcosa la frena. Ha paura di brutte sorprese.
«C’è un amico qua dietro che vorrebbe
abbracciarti. Ma mi ha detto che abbraccia solo le bambine che fanno un bel
sorriso. Lui non le vuole le lacrime, sai?»
Nuovamente colpita da quel piccolo gioco, così
stonato all’interno della serietà di quella fredda stanza d’ospedale, Alice
sembra rinascere. E nel
gesto che segue, io in lei vedo quel che diventerà: una donna forte, che
combatte gli imprevisti con un sorriso. Che non sorride per finzione, che non
muore dentro mentre lo fa.
Una donna che regala a tutti la sua
positività, senza sconti per nessuno.
Una donna che si rialza, sempre.
Vogliosa di saperne di più, trattenendo una
smorfia di dolore causata dai suoi movimenti troppo bruschi, Alice si asciuga
le lacrime con un fazzoletto dimenticato sul suo corpicino da mia madre. Si
soffia il naso maldestra, abituata ad essere sempre aiutata da mamma in questa
piccola operazione, e, poi lo getta via.
Sorride senza ritegno, come se questo fosse il
suo giorno migliore. Sorride e allontana i demoni scuri che volevano
trangugiarla.
«Fammi vedere, fammi vedere!» mi chiede, frenetica nella sua curiosità.
E come quel mago che rende felice miriadi di
bambini con i suoi trucchetti stupidi, faccio uscire
il vecchio peluche dalla mia schiena, porgendolo ad Alice e fingendone la voce,
rendendo la mia acuta e piccolissima. È così bella quando sorride per me.
Il peluche in sé non è niente di speciale: un
vecchio orso, per la precisione un panda enorme, che accanto alla piccolezza di
Alice sembra ancora più grande.
In alcuni punti è stato rattoppato, i medesimi
punti in cui una versione più piccola e distruttiva di me aveva deciso di
giocare col cane. Sì, avevamo un cane.
In quei punti la stoffa nera e bianca è
interrotta da quadrati colorati, verdi, blu, rossi.
Un patchwork che era sempre riuscito a
divertire Alice che, negli anni, aveva visto in quel peluche così strano e
diverso una parte di sé stessa. La vedo mentre stringe a se il pupazzo, a tal
punto che sembra quasi scoppiare. Non c’è dolore che tenga.
Lei adesso ha bisogno di quel giocattolo che le
ricordi che è solo una bambina.
Lei adesso ha bisogno di stoffa e imbottitura
da stringere a sé.
Quasi certamente perché di quel pupazzo non ha
paura. Non ha motivo di averne.
Forse perché sa che quel ricordo felice non
sarebbe stato in grado di farle male.
Sento trasparire il rumore di una sirena,
prettamente inutile, dall’esterno, che trapassa il vetro sottile della finestra
con facilità sorprendenti. Inizia la spettacolo.
Vedo uscire dalla volante due agenti,
dissimili quando ben assortiti insieme: sembra di aver appena acceso la
televisione, sul canale che trasmette i polizieschi che tanto appassionano mia
madre. Gli stessi polizieschi che mio padre da sempre odiava.
«
Quegli sbirri impiccioni, si facessero gli affari loro invece che rovinare la gente.»
Incredibile come saranno proprio gli “sbirri”
a rovinare lui.
In pochi minuti, il tempo di arrivare al primo
piano dove siamo noi con Alice, li vediamo arrivare e attraversare la porta.
Non hanno quel fare spaccone che pensavo li caratterizzasse anche nella realtà,
oltre lo schermo. Si avvicinano a me e mia madre con modi
discreti, senza improvvisare grandi scenate o sorrisi
senza senso.
Sono qui e so che faranno il loro lavoro, che
vorranno sapere sempre di più.
«Salve signora, il dottore ha detto che
dovevate raccontarci delle cose che dovremmo sapere. Dottore, noi andiamo nella
stanza accanto, abbiamo visto che è vuota. Ci sono problemi?» chiede con garbo uno dei due, più magro e allampanato.
Il dottore risponde con un cenno raccolto del
capo, per non svegliare Alice che, abbracciata al suo peluche con tutta la
forza possibile, si è addormentata di nuovo.
Io e mia madre seguiamo a capo basso i due
poliziotti che ci guidano verso la stanza accanto, identica a quella in cui
eravamo, meno vissuta, più artificiale della precedente. Forse perché ancora
nessun malato c’era passato, di lì.
Ci fanno sedere sulle uniche due sedie a
disposizioni, senza una parola, lasciandoci ancora un po’ di spazio per
riordinare le idee, i segreti, i fatti di una vita intera.
Come raccontarli tutti senza tralasciare
niente? Da dove partire? E dove finire?
I due uomini camminano avanti e indietro.
Anche loro hanno bisogno di capire ancor prima di porci domande: su cosa
insistere, a chi chiedere, e come?
Non è facile stare da nessuna delle due parti.
Ma è necessario, e decido di iniziare.
«Non so cosa vi ha detto il dottore, ma quello
che dobbiamo dire noi non è affatto semplice. Non vogliamo parlare solo di
stanotte, ma anche di notti e giorni precedenti. Non voglio più tornare a casa con
la paura di farmi male.»
I poliziotti annuiscono, mi lasciano fare
senza fare domande, quasi spaventati.
E inizio. Parlo, descrivo, racconto, spiego.
A intervalli imprecisi interviene mia madre,
rivelando come e dove aveva conosciuto mio padre, di cui i due agenti prendono
subito le generalità per l’arresto.
Mamma racconta episodi che neanche immaginavo,
di una violenza e di una cattiveria che non avrei creduto possibile neanche al
peggiore degli uomini.
Parla di come all’inizio tutto fosse
stato bello, delle attenzioni
premurose di mio padre, dei suoi regali costosi e dei nonni che non avevo mai
conosciuto, che con mia madre si erano da subito dimostrati carini, come i
genitori che le mancavano tanto.
Un quadretto felice, un matrimonio lampo dopo
un paio d’anni di convivenza.
I primi anni, belli e spensierati, senza
troppi pensieri per la testa e con progetti che avevano dell’incredibile, in
parte realizzati con viaggi, splendide cene, belle serate.
Poi arrivai io, quell’errore che mio padre non
aveva mai incluso nei suoi piani.
Quel minuscolo intruso nella loro vita di
coppia felice. Una macchia nera nelle loro pagine bianche, che avrebbe cambiato
radicalmente tutto quello che avevano fatto.
Iniziano le domande mirate, i perché a cui non
sappiamo dare risposta.
Capisco che è il momento giusto per dire quel
che so, quella brutta verità, sporca di dettagli spiacevoli, che mi fa girare
la testa al solo pensiero di doverla riesumare.
«Quando avevo sei anni, ero andato con mio
padre a fare un giro in bicicletta. Eravamo appena tornati, e stavamo mettendo
le bici nello scantinato. È uno stanzino che sta dove gli altri condomini hanno
il garage, che noi non abbiamo.Era di buonumore. Lo avevo visto bere più volte da una boccetta piccola, che teneva nella tasca dei pantaloni. Non sapevo
cosa ci fosse dentro, ma potevo intuire che non fosse acqua, per l’odore forte
che lasciava su di lui. Ci chiuse a chiave nello scantinato.»
Mia madre inizia a tremare, spaventata da
quell’episodio di cui non sa nulla.
Trattiene il fiato, per poter affrontare
meglio quello che seguirà. O almeno lo spera.
I poliziotti mi guardano, si sono seduti
entrambi sulla scrivania. Sono già passate un paio d’ore, e so che sono sfiniti
da tutto quello che avevamo già detto loro.
Ma non posso fermarmi adesso, questo sarà
decisivo, io lo so. Anche se fa male ricordarlo, anche se mi ero convinto fosse
stato solo un brutto sogno dell’infanzia.
«Poi che
è successo?» incalza il poliziotto tarchiato, più silenzioso e
discreto.
«Poi iniziò a ridere. Mi faceva paura. E mentre
rideva iniziò a spogliarmi e lui fece lo stesso. Diceva che faceva caldo, che
era meglio così. Io avevo paura, ma obbedii, senza fare storie. Nel silenzio si
sentiva solo la sua risata che cresceva.»
Rivedo tutta la scena sotto i miei occhi, come
se fossi solo un narratore esterno che racconta quel film osceno. Come se tutto
stesse accadendo adesso, a me, di nuovo.
Rivedo quel bambino tutto sudato, felice dopo
il pomeriggio passato insieme al padre, che da qualche giorno era sempre più
strano: cupo, a volte rabbioso senza nessun motivo. Erano momenti isolati che
riuscivano sempre a confondermi.
Rivedo quel supereroe che si trasforma nel
cattivo della storia, in quella figura nera e senza cuore e pietà che avrebbe
risucchiato tutta la felicità di quel giorno.
Inizio a tremare come mia madre, e sento la
sua mano che prende la mia.
Mi sta aiutando. Vuole che tiri fuori il
coraggio. Vuole sapere quella brutta storia.
«Iniziò a toccarmi, io non capivo. Urlava, e
urlava. Mi molestò, quel pomeriggio.
Mi fece rivestire, io stavo piangendo. Mi fece
promettere di non parlarne mai con nessuno. E questa è la prima volta che lo
dico a qualcuno. La prima.»
Ormai non cerco più di trattenermi, sono perso
dentro quel buco nero.
Il sorriso infame di mio padre, la mia
inconsapevolezza che si trasforma prima in paura e poi in semplice terrore.
Tremo e sento che cadrò dalla sedia, che non sorreggerà il peso mio e di quel
ricordo.
Ma è successo davvero?
Sento la vista che si annebbia un po’ mentre
la mano tremante di mia madre diventa ferma e si posa sulla mia schiena,
tenendomi dritto.
Dovrei sentirmi più leggero, libero da quel
segreto che mi buttava giù.
Mi sento solo sporco, sbagliato, una spia
uscita male, con dieci anni di ritardo.