L'atlante di Arhal

di Yumao
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'accademia ***
Capitolo 2: *** Le cucine ***
Capitolo 3: *** La biblioteca ***
Capitolo 4: *** I bagni ***
Capitolo 5: *** I dormitori ***
Capitolo 6: *** La mensa ***
Capitolo 7: *** Lo studio ***
Capitolo 8: *** L'archivio ***
Capitolo 9: *** Sianel ***
Capitolo 10: *** Latcho Drom ***



Capitolo 1
*** L'accademia ***


L'accademia b

L'accademia

I passi dell’uomo che la stava trasportando rimbombavano sulle pareti del cunicolo sotterraneo, coprendo quasi ogni altro rumore, eccetto l’insistente gocciolio dell’acqua che si faceva più forte man mano che avanzavano. Al di fuori del cerchio di luce della torcia era completamente buio e lei era molto spaventata. Nascose il viso contro la spalla dell’uomo e il dolce dondolio della sua andatura rischiò quasi di farla addormentare, ma lei aveva tutte le intenzioni di restare sveglia. Voleva sentire cosa si stavano dicendo gli adulti, voleva capire dove stavano andando e perché l’avevano strappata dal suo letto quella notte. «Capisco che non te la senti di prenderti cura della bambina, ma devi almeno tenerla con te. Lui l'avrebbe voluto.»

Sua madre rimase zitta, come al solito. Camminava dietro di loro, silenziosa come un’ombra, ma poteva vederla sbirciando da dietro la spalla di quell’uomo grande e grosso che sapeva di sudore. «Abbiamo pensato a tutto. Si è liberato un appartamento sopra casa degli Acquafredda. Ti aiuteranno a badare a lei e ti troveranno un lavoro. Hanno anche un figlio della sua età, sarà più semplice per la bambina.»

Adesso stavano salendo dei gradini e l’uomo iniziava ad avere il fiato corto. Quando si trovarono all’aria aperta socchiuse gli occhi alla luce grigia e piatta che precedeva l’alba e sentì un forte odore di fiume.

«Non raccontarle nulla… troppo rischioso… basso profilo…» Ormai non riusciva più a seguire il discorso. Un attimo dopo stava già dormendo.  

 

Ancora non si era spento il rimbombo del primo dei sei rintocchi di campana, che Emma aveva spalancato gli occhi e calciato via le coperte come se l’avessero attaccata. Abituata per gran parte della sua vita a svegliarsi nel silenzio totale, essere destata da quel rumore cupo che vibrava nelle ossa per lei era ancora un trauma.

Lanciò un’occhiata in tralice alla sua compagna di stanza. Yuri non aveva il suo stesso problema, e se lei non l’avesse svegliata personalmente e costretta ad alzarsi, avrebbe continuato a dormire tutta la mattina. La cosa era notevole, visto che la loro stanza era nella torre del campanile e il rumore era tale da far vibrare le finestre.

Si alzò in fretta mettendo i piedi scalzi sul pavimento di pietra, ignorando i brividi di freddo che le risalirono per la spina dorsale, e fece i tre passi che la separavano dal letto di Yuri saltellando agilmente per evitare i libri sparsi sul pavimento dalla sera prima.  «Yuri, la campana!» Urlò inutilmente per cercare di sovrastare il rumore della campana stessa. Le scosse una spalla per svegliarla e le strappò le coperte di dosso, mentre lei si contorceva e si copriva gli occhi.

Gli altri studenti dell’accademia avrebbero avuto tutto il tempo di alzarsi con calma, fare il bagno, vestirsi, parlare dei compiti e delle lezioni della mattina facendo colazione con latte, pane fresco e, chi poteva permetterselo, frutta. Emma e Yuri, invece, avevano il tempo molto risicato: gli studenti dei rioni dovevano rispettare delle corvè massacranti, per ripagare le divise e i pasti alla mensa che diversamente non avrebbero potuto permettersi. "E se Yuri non si da una mossa anche oggi saltiamo la colazione". Pensò Emma scocciata.

Si diede due colpi di spazzola, letteralmente, senza nemmeno guardarsi nello specchietto crepato appeso sopra il catino, poi si legò i capelli castani in una coda corta, che le rimase dritta sulla nuca in modo leggermente ridicolo. Si infilò la divisa, badando a stento che non fosse a rovescio e, pronta per uscire, si girò verso Yuri, la quale era ancora seduta sul letto disfatto, con le gambe incrociate e le ginocchia magre che spuntavano da sotto la candida veste da notte, che si guardava intorno con aria confusa, gli occhi grigi pieni di sonno. «YURI!» Urlò esasperata, mentre Yuri sussultava e la guardava stupita, come per chiedersi che ci facesse un’estranea in camera sua. Poi con l’espressione di chi ha avuto un’epifania improvvisa sembrò ricordarsi chi era quell’estranea impaziente con cui condivideva la stanza da tre anni, e che la buttava giù dal letto tutte le mattine da allora. «‘Giorno!» disse con il sorriso rilassato di chi ha tutto il tempo del mondo e i bei capelli rossi che la incorniciavano come un’aureola.

Emma sospirò, le prime ciocche di capelli avevano già iniziato a sfuggire dal nastro, incorniciandole disordinatamente il viso.

Yuri si alzò senza scomporsi e iniziò a pettinarsi con cura e a intrecciare i capelli anche troppo lunghi. Emma nel frattempo aveva un gran voglia di prendere a testate la porta, ma siccome sarebbe stato controproducente, decise di iniziare ad andare senza la compagna. Anche perché la porta era, come tutte le cose che si trovavano in quell’area del collegio, piuttosto precaria e malconcia, probabilmente non avrebbe retto a una sua testata.

«Cerca di sbrigarti, ci vediamo alla scala.» La esortò uscendo e sapendo benissimo che sarebbe arrivata che il lavoro era quasi finito. Il ballatoio di legno dava sul chiosco più grande dell’edificio, con un prato ben curato dagli sforzi congiunti dei giardinieri e degli studenti dei rioni. Divideva in due la scuola, la parte femminile da quella maschile, ed era uno dei pochi posti in cui gli studenti di sesso opposto potevano incontrarsi, sotto lo sguardo attento dei sorveglianti. Attraversò il ballatoio senza guardare il cortile vuoto e si diresse decisa verso la scalinata dell’ingresso.

Emma non amava quel compito. Il problema non era pulire le scale in sé, anzi: la scalinata principale era di lucida pietra chiara, resa molto liscia e scivolosa dall’uso. Strofinare quei gradini con la spazzola e vederli tornare al loro candore naturale dava un senso di soddisfazione, e passare la mano sulla pietra levigata era rilassante.

Il problema era che la mattina a quell’ora gli studenti che abitavano nel Cuore della città passavano di lì per andare a lezione, e non perdevano occasione per schernire chiunque dovesse svolgere quelle umili mansioni.

Quando si trattava di Emma, poi, erano particolarmente attenti a non perdere l’occasione di punzecchiarla e di calpestare il più possibile gli scalini ancora bagnati, in modo da sporcarli. Alcuni, soprattutto i più giovani, facevano su e giù dalle scale tante volte da farsi venire il fiatone, con una determinazione ammirevole nel loro intento di dare il più fastidio possibile. Emma si era chiesta più volte perché farle svolgere quel lavoro a quell’ora del mattino, quando tutti gli studenti facevano su e giù dalle scale. Non aveva evidentemente nessuna utilità, e più tardi, mentre tutti sarebbero stati a lezione, una donna di servizio avrebbe dovuto pulirle da capo.

«Lavoro inutile» Borbottò arrabbiata fra sé, strangolando lo straccio innocente. Da sempre aveva il sospetto che il punto delle corvè non fosse contribuire alla manutenzione della scuola, ma ricordare agli studenti più poveri che per quante ambizioni potessero avere e per quanto potessero studiare le loro origini umili sarebbero rimaste tali. Per sempre.

Yuri la raggiunse ovviamente tardissimo e iniziò a canticchiare dolcemente mentre lavorava a testa bassa. Molti ragazzi passando di lì cominciarono a girare la testa di quasi centottanta gradi per osservarla il più a lungo possibile. Era piegata in avanti sui gradini e il suo petto offriva uno spettacolo evidentemente gradito dal pubblico maschile, facendo sì che a chi continuava a passare con l’unico intento di sporcare si aggiungesse un nutrito gruppo di ragazzi interessati alle grazie di Yuri.

Come fa ad essere sempre così allegra? Pensò quasi con rabbia, provando una strana voglia di tirarle lo straccio. Era sicurissima che una persona sempre di buon umore non poteva essere normale, anzi, era il genere di persona che la inquietava di più: i tizi sempre serafici e sorridenti alla fine, con matematica certezza, impazziscono e uccidono qualcuno. Questione di giorni, di sicuro. E lei sarebbe stata la vittima.

O forse era solo invidiosa.

Sospirò, lanciando un’occhiataccia a Yuri, che stava osservando lo straccio con un sopracciglio sollevato in un’espressione di profondo interesse. «Secondo te uno straccio è contento di essere uno straccio?» Emma ormai era abituata a queste domande bizzarre e non ci faceva più molto caso. Ogni volta però doveva trattenersi dal dare una risposta caustica. «Dovresti chiederlo allo straccio.»

«Non so parlare con gli stracci.» La informò Yuri un po’ dispiaciuta riprendendo a strofinare.

Lo stomaco di Emma gorgogliò forte, come a volerle risparmiare la fatica di rispondere. «Certo che sei sempre molto affamata Emi.» Osservò Yuri con cortese distacco, come se non fosse colpa sua se era il terzo giorno di fila che saltavano la colazione.

Emma si limitò a sorridere e a scrollare le spalle. «Forse in una vita passata eri un orso, e l’anima dell’orso vive ancora nel tuo stomaco. Spiegherebbe tante cose.» Se chiunque altro le avesse detto una cosa del genere forse si sarebbe offesa, ma l’assoluta mancanza di malizia di Yuri la lasciava sempre disarmata. Si limitò a un mugolio che poteva significare tutto e niente e portarono secchi, strofinacci e spazzoloni nel locale di servizio.

Le zone di servizio erano completamente diverse dal resto della scuola, tanto che era difficile credere che facessero parte dello stesso edificio. I locali frequentati dagli studenti erano caratterizzati da larghi corridoi, stanze luminose e ben arieggiate, pavimenti di piastrelle lucide e muri intonacati e decorati da elaborati stucchi e dipinti murali. I locali di servizio, così come le stanze degli studenti dei rioni, erano fatti di legno scheggiato, pietra e mattoni di terracotta. Erano bui e caotici, corridoi stretti che si incastravano fra le intercapedini dei muri e scale nascoste dietro ad arazzi.

Ovviamente serviva a non far incrociare le strade degli studenti e della servitù, e questo diminuiva un po’ l’aria di mistero, ma Emma amava quella faccia nascosta della scuola, e preferiva prendere questi passaggi piuttosto che quelli normali. Anche se a volte le allungavano un po’ la strada, avevano l’indiscusso pregio di essere deserti. E poi, per quanto fosse un po’ infantile, si sentiva privilegiata nel conoscere il volto segreto della scuola meglio di quanto qualsiasi studente del cuore della città potesse mai sognare. O desiderare, ma questo era un dettaglio trascurabile.

Lo stomaco le gorgogliò dolorosamente. La cena della sera prima, a base di pane nero e zuppa di verdure con un vago sentore di carne, era un ricordo lontanissimo e il suo stomaco era desolatamente vuoto. A pranzo erano di turno in cucina, per cui era difficile che non riuscisse a sgraffignare nemmeno un pezzo di pane, si ricordò per consolarsi. Solo sei ore… lo ripeté mentalmente come un mantra, mentre si arrampicavano per una ripida scala di legno dal locale di servizio al piano delle aule, mettendo nel “solo” molta più enfasi di quanto in realtà sentisse.

Ehilà! Avevo già pubblicato questa storia, ma visto che la sto ristrutturando e cambiando i nomi ecc ecc, ho deciso di cancellarla e ricominciarla da capo. Chiedo scusa a chi stava seguendo la vecchia versione, cioè non tanti, a dir la verità XD 

Spero che questa versione 2.0 sia più interessante! Fatemi sapere qualcosa!

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Capitolo 2
*** Le cucine ***


2 - Le cucine

Le cucine


«Secondo me è un po’ stupida.» Commentò Anton con una vocetta petulante, guadagnandosi uno scapaccione da sua madre. Una sberla leggera, quasi una carezza. Ben diversa dalle sberle che le dava la sua, di madre. «Ma non dice una parola! Secondo me non sa parlare.»

«Ma certo che sa parlare! È solo un po’ timida. Vero?»

Si limitò a guardare nel suo piatto in perfetto silenzio. Cenava sempre a casa della signora Agnes, al piano di sotto. Era una donna gentile, che però puzzava di pesce, come tutte le persone che aveva incontrato nella nuova casa.

Anche suo figlio Anton di solito era un bambino simpatico, che faceva di tutto per coinvolgerla nei suoi giochi spericolati, però quella sera era un po’ petulante. Doveva essere perché il tatuaggio faceva male anche a lui.

La signora Agnes li aveva accompagnati a ricevere la runa quella mattina, in mezzo a un gruppo di bambini che urlavano e piangevano mentre l’ago trapassava la loro pelle delicata. Anche Anton aveva pianto e urlato, ma lei no. Era rimasta zitta e ferma, e aveva ricevuto un sacco di lodi.

«Perché ce l’hanno fatto?» Quasi non si accorse di aver parlato, ma la prima frase che diceva dopo più di un mese non poteva passare inosservata. «Ecco, vedi che parla? Hanno fatto cosa, tesoro?» Allungò il braccio, mostrando il disegno sinuoso. «Questo.»

«Quello è il simbolo del nostro rione, Sianel. Serve perché così tutti ti riconoscono, e tu non ti dimentichi mai di dove sei nata. In più ti protegge dalle cose brutte.»

«Ma io non sono nata qua.»

«Beh… non importa, perché sei qua adesso, ed è qui che andrai a scuola e diventerai grande.» Spiegò con tono ragionevole. «Ma io voglio tornare dov’ero prima…» Dov’era prima? Iniziava a dimenticarlo. Ricordava solo fiori e risate, invece del silenzio che c’era in casa sua adesso.

Un rumore li fece sobbalzare tutti e tre, mentre un uomo grande e grosso entrava in casa sbattendo la porta. Di solito Luis Acquafredda era un uomo tranquillo, con la faccia accartocciata dal sole e da un perenne ghigno furbesco, ma quella sera sembrava agitato.

«La accompagno di sopra. Tu metti a letto Anton.» Disse subito Agnes, alzandosi da tavola e facendole cenno di seguirla. Le trotterellò dietro fuori dalla porta, nella strada buia, e poi su dalle scale sconnesse che portavano all’appartamento cercando di non far rumore. «Ricorda, se tua mamma si arrabbia vieni giù da me. Non starle fra i piedi. Capito?» Annuì, seria, e Agnes le diede una rapida carezza, prima di tornare al piano di sotto.

 

Emma stava giocherellando distrattamente con la penna, fissando il soffitto affrescato. Dei bambini con delle alucce bianche grassi come polli arrosto facevano capolino da alcuni striscioni, recanti apologie sul patrono Aristides II che aveva fatto costruire quell’ala dell’accademia tanti secoli prima.

Ironico che proprio il costruttore di quel luogo non l’avesse mai visitato: i membri della famiglia patronale non potevano mai abbandonare il palazzo e i suoi giardini. Al massimo, nelle occasioni speciali, si affacciavano al balcone.

La lezione di etica politica era certamente quella che le piaceva meno, e non riusciva a impedire alla sua mente di divagare. Forse era meglio così: se si fosse concentrata sarebbe stata costretta a sentire le continue frecciatine che la professoressa Bramhs lanciava a lei e a Yuri, per il tremendo crimine di essere uscite dalla loro cerchia sociale originale.

Ogni anno solo otto persone provenienti dai quattro rioni avevano la possibilità di iscriversi all’accademia. Sempre ammesso che raggiungessero i severi requisiti per ottenere la borsa di studio, quindi di solito erano solo in sei: era rarissimo che qualcuno di Sianel ci riuscisse. O anche solo che ci provasse: erano troppo orgogliosi per sopportare lo snobismo delle gilde e dei nobili rampolli del Cuore, quindi, saggiamente, si tenevano lontani dai guai.

Da quel che sapeva lei erano almeno dieci anni che nessuno del suo rione veniva ammesso alla scuola, e questo l’aveva resa l’ultimo gradino della scala sociale. Quello su cui tutti si puliscono gli stivali sporchi di cacca di cavallo. La cosa positiva, però, era che se i professori potevano fingere di non averla in classe lo facevano, quindi nessuno l’avrebbe rimproverata se si fosse distratta.

Stava dedicando qualche piacevole minuto a pensare al pranzo imminente, quando un pezzetto di carta che le colpiva il gomito la strappò ai suoi sogni di pane fragrante, carne succosa e pasta con le vongole, come quella che preparava Agnes nei giorni di festa.

La voce monotona della professoressa, che spiegava come l’amministrazione centrale stabiliva in maniera assai saggia ed equilibrata le quote di produzione che i rioni dovevano raggiungere, si aprì sgradevolmente un varco nella sua mente. Si guardò attorno per vedere chi le aveva lanciato il bigliettino, e vide Yuri che le faceva segno di leggere.

“Ti ho fatto arrabbiare?”

Emma la guardò perplessa, sollevando un sopracciglio. Non avrebbe mai sospettato che a Yuri interessasse se era arrabbiata o no. Non avrebbe mai sospettato nemmeno che Yuri sapesse cos’è la rabbia.

Tutta quell’attenzione al suo stato d’animo, così, da un giorno all’altro? Da parte di una persona che non chiede a nessuno “come va”, nemmeno per formalità? Decisamente strano. Trattenne un sospiro e aggiunse la cosa alla lunga lista delle stranezze di Yuri, cercando di assumere un’aria più allegra, e negò decisa, con un solo movimento del capo. Yuri parve subito rincuorata e non indagò oltre.

Per quanto fosse stata carina a preoccuparsi, preferiva mantenere un certo distacco: se qualcuno si preoccupa per te come minimo devi restituire il favore, ed Emma non avrebbe saputo da che parte iniziare.

 

Appena finite le lezioni Yuri ritirò le sue cose leggermente più in fretta del solito, tanto che Emma dovette aspettare solo un paio di minuti prima che la seguisse nei tortuosi corridoi secondari che conducevano alle cucine.

Le piacevano le cucine: il vapore, l’odore di fumo e di cibo, la folla di cuoche che chiacchieravano… tante cose che rendevano facile passare inosservata e rubare un po’ di cibo extra per rifarsi di quello perso a colazione. Infatti appena entrarono, allungò una mano verso il cestino del pane, pronto per essere portato in refettorio, quando qualcosa la fece bloccare a metà del gesto.

Anche Yuri, a giudicare dall’espressione attonita, si era accorta che qualcosa era diverso dal solito. Almeno metà delle massaie erano raccolte attorno a Jane, che singhiozzava con discrezione. Le altre lavoravano con la solita efficienza, ma in silenzio.

Jane era una delle cameriere più giovani: aveva al massimo una decina d’anni più di loro, ed era sempre allegra ed energica, con il volto lentigginoso e gli occhi scuri.

Raggiunsero la loro postazione di pelapatate in silenzio, mentre Emma, incuriosita, aguzzava le orecchie.

«Ci siamo passate tutte… doveva succedere prima o poi… sacrificio necessario…»

Non ci volle molto perché Emma capisse. «Secondo figlio.» Osservò Yuri dando voce ai suoi pensieri con insolita acutezza.

I figli secondogeniti erano destinati ad essere un tributo alle mura, come gli orfani, i bambini illegittimi e i figli dei criminali. Nell’inverno del loro terzo anno di vita venivano marchiati con la runa che li indicava come morti viventi e portati via. Venivano allevati nelle zone interdette fra la cinta di mura interna e quella esterna, per poi diventare soldati o minatori.

Un sacrificio doloroso ma necessario, che ogni cittadino coscienzioso deve compiere per la sicurezza e la prosperità della città stessa. Era scritto così in tutti i libri di storia, con ridicole parole pompose.  

Emma non si capacitava di come potesse essere possibile mettere al mondo un figlio solo per vederlo sparire dietro le mura, mandato a combattere… cosa? Ignoti nemici dell’umanità, di cui non era nemmeno permesso parlare? Era soprattutto quello che non sopportava, il non sapere. Per quello aveva deciso di non avere figli e di non avere una famiglia, barattando queste cose con il sapere che l'accademia le offriva.

«Oh … ahia» Emma sussultò, strappata ai suoi pensieri, e si girò verso Yuri, che si osservava assorta un lungo taglio sul dito. «Fai attenzione Yuri, almeno quando maneggi i coltelli!»

Le premette un panno da cucina sulla mano tremante. Era difficile vederla meno che impassibile, ma a quanto pare quello era un giorno di prime volte. Il canovaccio si macchiò in fretta di sangue.

«Che combinate voi due?» La capo cuoca si avvicinò a grandi passi. «Vai a farti medicare bimba. A nessuno piacciono le patate al sugo di sangue.» Yuri annuì, stringendosi il dito ferito. «E tu accompagnala.» Aggiunse più bruscamente, rivolta ad Emma. «Non sembra che stia molto bene.»

Emma uscì a testa bassa tenendo la compagna per il gomito. «Mi dispiace Emy. Ti faccio saltare anche il pranzo.»

Aveva un tono così triste che la fece preoccupare. Bisognava mettere un freno a quell’atmosfera da confidenze. «Non importa.» Rispose secca e decisa.

Una persona normale avrebbe cercato di capire qual era il vero problema… Forse avevano ragione quando dicevano che gli abitanti di Sianel avevano la sensibilità di una triglia dall’occhio spento.

L’infermeria era vuota, Emma pensò con un po’ d’invidia che l’infermiera probabilmente stava pranzando, mangiando riso e stufato… chiudendo gli occhi ne sentiva ancora l’odore.

Aspettò un minuto, impaziente, poi frugò nei cassetti, si servì abbondantemente di bende e disinfettante e si sedette davanti alla compagna, prendendole la mano. Non poteva lasciarla lì se non voleva essere affettata dalla capocuoca (Yuri era la sua aiutante preferita), ma nemmeno aveva voglia di aspettare per tutta la pausa pranzo.

Yuri non protestò e non disse nulla. «Hai fratelli o sorelle?» Lo chiese così, senza rendersi conto di aver parlato, guidata da una curiosità che l’aveva tradita più di una volta.

Stai zitta, cosa ti salta in mente di chiedere? Si rimproverò irritata, maledicendosi. Se non voleva confidenze, ecco, quella era proprio la domanda da non fare.

Yuri rimase in silenzio, ed Emma si stava chiedendo sollevata se l’avesse offesa e se il discorso sarebbe morto lì, ma nonostante lo sguardo un po’ velato Yuri parlò con la stessa voce soave di sempre. «Un fratellino. Adesso avrebbe sette anni.»

Avrebbe, non ha. La sua sensazione venne confermata: Yuri era turbata perché vedere Jane piangere per il secondo genito doveva aver risvegliato ricordi dolorosi.

L’aveva sempre considerata una specie di buffo animaletto distratto, incapace di emozioni profonde, e improvvisamente si sentì in colpa.

Voleva dire qualche frase di conforto, tipo è un onore poter difendere le mura, però le risultò impossibile. Qualcosa le fece credere che se avesse detto una cosa del genere le corde vocali le sarebbero andate a fuoco per protesta, per cui rimase zitta finché non ebbe finito di medicarle il taglio.

«Comunque… non ero arrabbiata oggi. Sto bene.» Assicurò un po’ goffamente ricordando il bigliettino.

Yuri sorrise «Meno male!» Poi iniziò a canticchiare e a far dondolare le gambe.

Beh, se la sua crisi di tristezza passava così in fretta, allora era davvero una specie di buffo animaletto. Un buffo animaletto psicopatico.

Le venne da ridere, una risata strana e improvvisa che non riuscì a trattenere, e provò un’ancora più inaspettata ondata d’affetto per quella strana ragazza.

E ora cosa pensi di fare? Vi volete fare le treccine a vicenda scambiandovi confidenze sui ragazzi più carini della scuola? La rimproverò irritata una voce forte e chiara nella sua testa. Si sentì improvvisamente in imbarazzo, e quando ebbe finito di mettere via tutto e si ritrovò senza nulla da fare il suo imbarazzo crebbe ancora di più. «Emy, vai pure … se ti sbrighi trovi ancora qualcosa da mangiare.»

«E tu non vieni?» Yuri scosse la testa sorridendo. «Ho delle cose da fare.»

Emma non perse l’occasione per scappare veloce come un fulmine e mettere più distanza possibile fra lei e una qualsiasi manifestazione umana di sentimenti. Fino a quel momento era andata abbastanza d’accordo con Yuri proprio perché il loro rapporto mancava di qualsiasi profondità. Si tolleravano, si salutavano e avevano gli stessi turni di corvè.

Ed era determinata a fare in modo che le cose restassero esattamente così, diversamente sarebbe stato deludente e doloroso per tutte e due. Poi ovviamente Yuri voleva stare sola. Lei avrebbe voluto stare sola, lo voleva sempre. Era il suo più intimo desiderio essere lasciata in pace, a bollire nel suo brodo senza doversi preoccupare di chi le stava intorno.

Ma vorrei anche che qualcuno, almeno ogni tanto, si rifiutasse di lasciarmi e mi rimanesse accanto. Pensò chiudendosi la porta alle spalle. Che le stava succedendo? Stava diventando sentimentale? Da un momento all’altro si sarebbe ritrovata a leggere stucchevoli poesie d’amore e a giurare amicizia eterna a chiunque le dicesse “ciao”? No, quella non era lei. Di sicuro Yuri sarebbe stata bene. Era Yuri, non una persona comune.

Solo una cosa adesso avrebbe potuto aiutarla ad allontanare subito quella sgradevole ondata di umanità: la biblioteca.

Hohey!! 

Ho pubblicato il secondo capitolo in due giorni, poi probabilmente sparirò per un po' perché parto e non so se potrò usare internet o no.  

Potrei non farmi più viva per due-tre settimane. Vi appioppo sti due capitoli revisionati (se riesco magari anche tre) e poi ci vediamo quando torno!  Se torno. Buone vacanze! ---- 羽毛

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Capitolo 3
*** La biblioteca ***


3 - La biblioteca

La biblioteca


«Ti dico che non è strana! L’ho sentita io, parla benissimo!»

«Sì che è strana, non importa se parla. Non vedi che ha gli occhi strani?»

Osservò Anton litigare con i monelli di strada sbattendo gli occhi incriminati, di un azzurro intenso, la forma allungata e il taglio diagonale, così diversi dagli occhi scuri e rotondi dei monelli dei canali. «E allora? A me piacciono. Sei solo geloso!»

Ci stava facendo l’abitudine ormai. Più o meno da quando era arrivata, più di un anno prima, ogni volta che uscivano a giocare senza la supervisione degli adulti Anton si accapigliava almeno tre volte al giorno con gli altri bambini Sianelesi, per difenderla dalle prese in giro. Gli aveva detto che non le importava, ma per lui difendere il suo onore sembrava essere il massimo del divertimento.

Lasciò i due ragazzini ai loro giochi e si allontanò dalle vie sopraelevate, dove le case erano costruite su complicate impalcature di legno per tenerle lontane dall’umidità dei canali, scendendo delle strette scalette e correndo per viuzze secondarie.

In realtà le era stato raccomandato dalla signora Agnes di stare lontano da quei bassifondi, dove si respirava aria cattiva e si rischiava di incontrare gente poco raccomandabile, ma a lei piaceva sentire i sentieri di solido acciottolato sotto i piedi, tanto per cambiare. Le piaceva cercare i fiori che crescevano fra le crepe e tirare i sassi nei canali secondari per guardare i pesci che affioravano sperando di trovare qualcosa da mangiare.

Sentì delle voci e si infilò in una viuzza secondaria per non farsi scoprire. A quell’ora tutti gli abitanti dei canali erano a pesca, chi poteva essere?

Sbirciò da dietro una botte per la raccolta dell’acqua piovana e vide il capomastro del rione, Maurus Bondesan, confabulare con una figura grigia incappucciata davanti a un pontile seminascosto. «Ma certo… ma certo, siamo sempre al servizio della vostra congrega… come volete, stanotte. Troverete la barca pronta, proprio qui.»

Rimase perplessa nel vedere Maurus balbettare agitato. Di solito era un omone baffuto, allegro e rumoroso, la cui voce si sentiva spiccare chiara e forte anche sopra il rumore della folla raccolta nella piazza, per l’assemblea domenicale.

Rimase accucciata dietro alla botte finché Maurus e l’uomo in grigio non furono scomparsi, poi corse a cercare Anton.

«Quello era un frate grigio!» Esclamò con ammirazione Bruno, il monello con cui si stava azzuffando fino a un minuto prima. Anton lo guardò scettico. «I frati grigi non esistono, scemo! E nemmeno quelli neri!»

«Ti dico di sì, cretino! Ho sentito mia mamma che ne parlava con una sua amica!»  

«Cos’è un frate grigio?» Intervenne veloce, prima che ricominciassero a litigare. «Sono un po’ dei maghi, un po’ degli studiosi. Super intelligenti, leggono tanti libri… stanno in un posto nel centro della città e non escono quasi mai, a meno che non devono fare degli incantesimi sulle mura.» Spiegò Bruno dandosi un tono. «Ti dico che non esistono!» Insistette Anton. «Sì, invece. Se non mi credi stasera andiamo al posto dove l’ha visto Emma e li spiamo. Così li vedi con i tuoi occhi.» 

«Se ci sono per davvero giuro che mi bevo l'acqua del canale Grando!»

 
«Ancora ricerche per quello strano professore eh?» Emma annuì, con i gomiti appoggiati all'alto bancone del bibliotecario e il sorriso più educato ed innocente che riuscì a produrre. Lo strano professore era Phyllis Astropher, anziano ometto canuto ma energico, unico professore proveniente dai rioni nonché unica altra persona in tutta la scuola ad essere Sianelese. Non a caso insegnava la materia più denigrata di tutta la scuola: scienze geografiche.

In effetti a che servivano le scienze geografiche quando lo spazio abitabile era così ristretto da poterlo conoscere palmo a palmo? Di certo non c’era il bisogno pratico di orientarsi con le stelle. In più ogni tanto parlava di cose che sconfinavano nella mitologia, se non nell’eresia: diceva che quelle conoscenze erano un retaggio di un’epoca in cui i loro antenati erano stati esploratori e avventurieri, epoca che secondo i dogmi che tutti imparavano fin da bambini non poteva essere esistita. Ogni anno la sua materia rischiava di essere cancellata e se si era salvata fin ora era stato grazie all’intercessione del patrono, che si diceva fosse segretamente appassionato delle leggende sul mondo di fuori.

Forse per solidarietà fra derelitti, forse perché l’accento Sianelese del professore le attenuava la nostalgia di casa, Emma aveva eletto scienze geografiche a sua materia preferita e ogni anno sceglieva il professor Astropher come tutor per la tesi finale.

Il bibliotecario scosse la testa con disapprovazione. «Una signorina come te non dovrebbe farsi riempire la testa di grilli in questo modo.» Emma rimase in silenzio, sorridendo educatamente e insultandolo mentalmente, mentre il bibliotecario la scrutava dall’alto del suo scranno. «Avanti, fila, la strada la sai!» Si rassegnò alla fine, azionando il meccanismo che apriva il cancello.

Emma si avventurò fra le alte file di scaffali in legno scuro, facendo scorrere la mano destra sulle coste dei libri quasi potesse percepire le storie che avevano da raccontare solo sfiorandoli. Man mano che avanzava e che i suoi passi risuonavano leggeri sul pavimento in pietra i libri si facevano più vecchi, malconci e impolverati. I libri nelle altre sezioni erano frequentemente ristampati dalla gilda dei tipografi, ma quelli erano codici vecchi di svariate decine di anni e non venivano sostituiti finché non cadevano a pezzi.

Stava cercando i libri assegnatele dal professore quando il suo sguardo cadde su un grosso libro di pelle con delle borchie ai lati, che si trovava sullo scaffale più alto. Non sapeva perché attirasse così tanto la sua attenzione. Forse per l’aspetto antico e misterioso, o forse solo perché sporgeva un po’ dallo scaffale, o perché mancava il titolo. Circondato da libri molto più piccoli e di materiale più scadente, sembrava essere stato messo sullo scaffale sbagliato.

Non sapendo resistere alla curiosità si guardò attorno cercando una scaletta. Ne trovò una pochi scaffali più in là, in legno di noce come la libreria, con dei ganci metallici in cima per agganciarla allo scaffale. La sollevò con qualche difficoltà e, inciampando un po’, la posizionò accanto al libro che aveva notato. Cercò di convincersi che probabilmente era solo un libro noioso, un catalogo o un testo di vecchie poesie scritte male da qualche nobilotto borioso, ma mentre si arrampicava non riuscì a soffocare uno strano senso di aspettativa. Prese il libro dallo scaffale, notando con un angolo della mente che non era impolverato come gli altri. Era così grande e pesante che era difficile da maneggiare. Scese la scaletta stringendolo a se con un braccio e andò a cercare un angolino appartato della biblioteca. Trovò una finestra a incasso con un divanetto che faceva proprio al caso suo, in fondo alla già poco frequentata ala di geografia e aprì la prima pagina con un timore reverenziale.

Atlante storico di Arhal e delle sue genti.

Il titolo la confuse. Aveva sentito dire che Arhal era il nome con cui qualche studioso si riferiva alla terra emersa su cui sorgeva la città, e aveva visto anche qualche mappa. Ma perché atlante storico? E cosa voleva dire con “le sue genti?”

Un rumore nella corsia accanto la fece sobbalzare e chiudere il libro di scatto. Senza sapere bene perché nascose il libro sotto al divano e se stessa dietro una tenda. Anzi, sapeva perché si era nascosta dietro la tenda: aveva riconosciuto la voce di Rebecca Stieber e non voleva essere vista da lei in un posto isolato e con un’espressione così colpevole stampata in faccia.

Con suo orrore scoprì che Rebecca era in compagnia di un ragazzo. «Dai, qualcuno potrebbe vederci…» stava dicendo il poverino con aria terrorizzata. Anche lei sarebbe stata terrorizzata ad avere Rebecca così vicina. Era una ragazza carina, non la bellezza prorompete di Yuri, una bellezza più sobria ma comunque apprezzabile.

Peccato che fosse una delle persone più perfide che Emma avesse mai incontrato, ed essendo nella sua stessa classe era sicura di parlare con cognizione di causa. A quanto pare essere parte di una delle famiglie più potenti della Città fa questo effetto.

«Non ci vedrà nessuno bello. Questo è il reparto geografico.» da come lo disse lei, “geografico” sembrava un’imprecazione ben peggiore di quelle che si sentivano a Sianel. E a Sianel sapevano imprecare come da nessun’altra parte.

«Certo tu sei tranquilla… se ci scoprono tu te la caverai con un rimprovero e una punizione. Io invece…» “Bello” esitava molto nel parlare, come se Rebecca avesse potuto staccargli la testa da un momento all’altro. Per un attimo se la immaginò come una grossa mantide religiosa, come quelle che osservava da bambina sui pochi fili d’erba che crescevano sulle rive dei canali. Effettivamente aveva uno strano modo di tenere le mani quando camminava che rendeva il paragone con l’insetto ancora più azzeccato. Chissà cosa avrebbe avuto da dire Yuri.

Ovviamente a Rebecca non importava nulla di quello che sarebbe successo all’amico se li avessero beccati, perché dal disgustoso rumore di risucchio pareva che gli si fosse attaccata come una ventosa.

Le relazioni fra studenti erano proibite, ma Rebecca era praticamente intoccabile quindi non si curava molto di seguire le regole, anzi: le infrangeva solo per dimostrare che lei poteva farlo.

Improbabile che si potesse dire lo stesso per il povero Bello, Rebecca non era stupida e non avrebbe mai giocato così con un suo pari. Emma cercò di trattenere un sospiro e sbirciò fuori dalle tende. I due ragazzi erano circa a sei metri da lei, appoggiati al muro in fondo alla fila di scaffali. Con un raro moto d’orgoglio, decise che lei aveva diritto di essere lì tanto quanto Rebecca, e che non si sarebbe nascosta come una ladra solo per paura di una ragazzina viziata. E poi sembravano piuttosto impegnati, probabilmente sarebbe riuscita a scivolare via senza farsi vedere.

Fece qualche passo trattenendo il respiro. Era arrivata quasi al corridoio, poi poteva sparire dietro un’altra fila di scaffali e… «Cos’è stato?»

Maledisse con tutto il cuore Bello, la sua ipervigilanza e la piastrella sconnessa che l’aveva tradita producendo un lieve tonfo, poi si girò piano cercando di sembrare tranquilla, anche se era sicura di avere la stessa faccia rassegnata di una mucca con il cappio al collo. Rebecca la vide ed emise un verso rabbioso.

«Cosa ci fa qua dentro una stupida carpa come te? Dovevi proprio venire a disturbarmi?»

Tu dovevi proprio venire qui a tormentare Bello, con tutti i posti che potevi scegliere?  Sarebbe stato poco saggio rispondere in modo del genere, a meno che non avesse deciso di passare il resto della sua vita come schiava in una miniera di carbone, così si affannò cercando una risposta che non suonasse irrispettosa. «Io… leggevo?» la frase le uscì come una domanda un po’ balbettante, che la fece vergognare di sé. «L’ho capito che leggevi, siamo in una biblioteca! Sei più cretina di quanto pensassi.» La guardò con disprezzo, riflettendo, mentre Emma si fissava le scarpe. «O forse pensi che sia cretina io?» Aggiunse con tono minaccioso.

Era un colpo basso, quello. Cioè, sì, pensava che fosse un po’ cretina, ma Rebecca aveva una così alta opinione di sé che non avrebbe mai veramente creduto che qualcuno la considerasse meno che perfetta, stava solo cercando di metterla in difficoltà. «No… io…»

Non essere vigliacca, tirale un pugno! Un pugno sul naso! O hai paura? La accusò una voce in un angolo della sua mente, mentre cercava di decidere cosa dire.

Non è che ho paura, è che non voglio guai.

Sì, hai paura.

Ok, ho paura, ma sono giustificata. Questa è una squilibrata.

E allora rompile il naso.

Sì certo, quando vorrò essere arrestata e impiccata nella pubblica piazza per aver aggredito una Stieber.

Probabilmente aveva mantenuto uno sguardo vitreo per tutta la durata di questo piccolo dialogo mentale. Unito al boccheggiare in cerca di una giustificazione doveva farla sembrare una replica piuttosto fedele di una carpa.

Ora Rebecca si trovava a circa cinque centimetri dal suo naso e la cosa la metteva un po’ a disagio. Parecchio a disagio.

«Se osi dire a qualcuno quello che hai visto ti ributto nel canale a cui appartieni.» Disse glaciale. Evidentemente era già stufa di giocare con lei. Emma aveva bisogno di deglutire ma si impose di non farlo. Guardò un attimo Bello da sopra la spalla di Rebecca e non poté che provare pena per lui. Non lo conosceva: frequentava troppo poco le aree comuni per conoscere i ragazzi della scuola.

La cravatta rossa lo identificava come uno dell’ultimo anno, e lo stemma sulla giacca come uno della gilda dei tipografi. Era piuttosto bello in effetti: biondo, occhi turchesi, delicato… sembrava decisamente terrorizzato. «Non dirò nulla a nessuno.» Disse decisa guardando Bello negli occhi per un attimo. Se non altro perché mi dispiace per te. Lui sembrò sollevato ed Emma si aggrappò all’idea che se non denunciava il rapporto illecito di Rebecca non era per paura delle conseguenze ma per generosità d’animo.

Solo Rebecca non sembrava molto soddisfatta, forse avrebbe preferito che lei provasse a denunciarla, così avrebbe avuto una scusa per farla cacciare fuori. Probabilmente era anche per quello che l’aveva provocata tanto, sperando di spingerla oltre al limite.

Se ne andò con un passo marziale, lasciando lei e il ragazzo soli nel corridoio per un attimo.

Bello la fissava. Emma fissava il pavimento come se fosse la cosa più interessante che avesse mai visto.

Dopo un minuto, che evidentemente era il tempo di sicurezza che doveva aspettare prima di seguire Rebecca da qualche parte, se ne andò anche lui, passandole molto vicino. Emma faceva molta fatica a credere di averla passata liscia, ed era abbastanza sicura che avrebbe subito altre ripercussioni in futuro. Si affrettò a cercare sugli scaffali i libri che servivano e a tornare a scuola prima che chiudessero i cancelli, prima del tramonto. Rimanere fuori dai cancelli voleva dire passare la notte all’aperto, e se l’avessero trovata sarebbe potuta finire nei guai. E guai, per la gente dei rioni che aveva la fortuna di frequentare l’accademia, voleva dire guai molto brutti: peggio dell’espulsione. Amavano usarli come esempio del perché la gente semplice non deve avere ambizioni, appena ne avevano occasione.

In camera trovò ad aspettarla una Yuri tornata completamente alla normalità, che leggeva canticchiando seraficamente. Come facesse a leggere e contemporaneamente a canticchiare per Emma era un mistero, ma il mistero era parte integrante di Yuri, e lei la preferiva così che sconvolta. Forse.

«Ehilà!» la salutò sorridente prima di reimmergersi nel suo libro. Poi fece un balzo come se uno scorpione l’avesse punta. «Oh, Emy, ho una cosa per te!»

Prima o poi dovresti dirle che odi essere chiamata così.

Preferisco non anticipare il momento in cui mi sgozzerà nel sonno con la penna d’oca. Può chiamarmi come vuole.

Yuri frugò nella borsa che usava per portare i libri a lezione e tirò fuori un tovagliolo. Emma lo aprì e vide che era pieno di biscotti. Gli occhi le luccicarono voraci.

«Mi dispiace averti fatto saltare così tanti pasti, così ho chiesto alla capo cuoca se poteva darmi dei biscotti. Lei mi adora.» Emma sentì un’onda di calore partirle dallo stomaco gorgogliante e arrivare al viso, fino a pungerle gli occhi. Regalarle del cibo era il modo migliore di guadagnarsi la sua riconoscenza. Specie se si trattava di dolci, cosa di cui la sua vita era sempre stata tristemente priva. «Grazie…»

Avrebbe voluto aggiungere altro… ma non sarebbe stato da lei. E poi poteva sembrare esagerato reagire così per qualche biscotto. Aveva già la bocca piena quando pensò che sarebbe stato educato dividere.

«Nhe voi unho?» Chiese cercando di non sputacchiare troppe briciole e ignorando la voce che le urlava “taci e divorati tutti i biscotti”.

Con suo grande sollievo Yuri declinò l’offerta ed Emma poté finire di abbuffarsi in pace.



Ed ecco che è venuto fuori questo misterioso atlante del titolo! Ma perché svelare tutto subito quando può apparire la str**za di turno a far stare tutti sulle spine? Sì, è un po' stereotipa in stile le sorellastre di Cenerentola, ma visto che Emma ha conosciuto solo questo lato di lei e che la storia è raccontata dal suo punto di vista ho trovato appropriato rappresentarla così.
Avrei tanto voluto che Emma avesse ascoltato la sua voce interiore e le avesse tirato un pugno sul naso, ma più che altro per istinto di sopravvivenza ha preferito evitare. Yuri sembra aver trovato la strada più diretta per il cuore di Emma! Sarà stato un caso o una mossa calcolata? Chissà! XD ----- 羽毛
 

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Capitolo 4
*** I bagni ***


4 - i bagni

I bagni

Nessun Sianelese si ritirerebbe da una sfida, e i bambini ancora meno degli adulti. Per quello uscì di casa in punta di piedi, attenta a non fare il minimo rumore. Le riusciva bene, muoversi in silenzio e senza farsi vedere: Agnes la paragonava spesso a un topolino silenzioso.

Anton la aspettava nascosto nel vicolo e assieme corsero via nella fresca notte primaverile. C’era la luna piena a rischiarare i loro passi, ma la luce non avrebbe raggiunto i bassifondi, che sarebbero stati bui e spaventosi. La paura la attraversò con un brivido quasi piacevole mentre ci pensava.

Bruno li raggiunse nella piazzetta dove i ragazzi si trovavano sempre per giocare, strisciando contro il muro per restare in ombra, e assieme scesero nei bassifondi senza dire una parola.

Se un qualsiasi adulto li avesse visti in giro a quell’ora li avrebbe rispediti a casa così in fretta che la loro ombra non avrebbe fatto in tempo a seguirli.

Poco dopo erano nascosti nel vicolo, dietro la botte piena di acqua e di moscerini morti, a scrutare il pontile deserto. «Hai visto? Non c’è nessuno, te l’avevo detto.» Esultò Anton, prima che lei gli tappasse bruscamente la bocca con una mano.

Un’ombra scura stava salendo i gradini che conducevano direttamente all’acqua, come se fosse sorta dal canale stesso. Fu seguita subito da altre due ombre nere e da una figura più minuta, coperta da capo a piedi di una veste bianca che brillò quando catturò un singolo raggio di luna, riflettendolo.

Da dove erano arrivati? Non c’era nessuna barca ormeggiata in quel momento, e i quattro erano perfettamente asciutti, non potevano essere arrivati a nuoto. Avrebbe voluto correre via, ma al pari dei suoi amici era paralizzata dal terrore.

Maurus arrivò pochi secondi dopo, coperto dalla mantellina blu tipica dei pescatori sianelesi, spingendo la barca con una lunga pertica. I quattro salirono in perfetto silenzio e si allontanarono fra lo sciabordio dell’acqua e il lieve scricchiolio del legno.

Anton aveva la bocca spalancata e Bruno era pallido come un fantasma. Lei si alzò subito con le gambe tremanti e andò a guardare il punto da cui le quattro figure sinistre erano comparse.

I gradini scendevano di un metro e mezzo circa, e finivano direttamente nell’acqua. Erano veramente comparsi dal nulla. Anton e Bruno arrivarono alle sue spalle. «Te l’avevo detto che esistevano. E anche che sono maghi.»

Anton tenne fede alla promessa davanti a una folla di marmocchi che lo incitavano, e poi passò a letto un’intera settimana con fortissimi crampi alla pancia.

 

Per i giorni che seguirono Emma evitò Rebecca con più attenzione del solito, cercando di non incrociare il suo sguardo in classe e infilandosi a tutta velocità in qualche corridoio secondario appena le lezioni finivano.

Yuri l’accompagnava fedelmente senza dare segno di accorgersene, eccetto il fatto che fosse diventata insolitamente lesta nel raccogliere i libri e seguirla dopo le lezioni.

Nonostante la sua attenzione non riuscì a evitare di incorrere negli incidenti più strani, come ricevere secchiate d’acqua quando lavorava nel cortile, essere urtata con un’insolita frequenza da ragazzine che correvano avanti e indietro nei corridoi senza una meta apparente, o inciampare in gambe tese in strane attività ginniche.

Per ora la sua evasività e la sua prontezza di riflessi le avevano evitato la maggior parte delle cadute rovinose o delle secchiate d’acqua, ma ormai aveva i nervi a pezzi per il continuo guardarsi le spalle. Rebecca le aveva aizzato contro tutta la scuola e non era al sicuro nemmeno in sua assenza. Non è che non ricevesse scherzi di cattivo gusto anche prima, ma il fatto che fossero così frequenti la stava lentamente logorando, rendendola intollerante e irascibile.

 

Marzo volgeva al termine e, nonostante piovesse quasi tutti i giorni, l’aria era tiepida e sapeva di polline. Gli studenti della scuola passavano i pomeriggi seduti sui muretti sotto i portici del chiosco grande, a guardare la pioggia che scendeva, parlare, studiare, i più grandi anche a fumare. Emma lo evitava come se fosse stato il focolare di un’epidemia di peste.

Un pomeriggio rientrò in camera solo per trovare la scrivania sgombra e i suoi libri scomparsi. Lo stomaco le si attorcigliò sgradevolmente. Qualcuno doveva essere entrato per farli sparire. Il bibliotecario le avrebbe fatto passare dei momenti decisamente poco piacevoli per quei libri scomparsi. Avrebbe dovuto spazzare i pavimenti della biblioteca tutta l’estate per ripagarli… tutte le estati della sua vita, anzi.

Rassegnata salutò Yuri e decise di andare in biblioteca. Tanto presto o tardi avrebbe dovuto affrontare il problema, non valeva la pena di rimanere indietro con lo studio solo per rimandare l’inevitabile.

Quando arrivò allo scranno del bibliotecario e chiese l’accesso aspettò con la sensazione di aver ingoiato una grossa pietra che lui, sfogliando i registri, si accorgesse che aveva dei libri da restituire.

«Allora, sempre reparto geografico?» Chiese con tono di disapprovazione. Emma alzò gli occhi stupita. Si era aspettata un tono arrabbiato, dei rimproveri, o anche solo che le facesse notare che doveva restituire i libri prima di prenderne altri.

Sbirciò il registro e vide, accanto al suo nome e alla runa di Sianel, l’elenco dei libri che aveva perso coperti dal timbro che li indicava come restituiti.

Che razza di scherzo stupido era rubarle i libri solo per restituirli alla biblioteca?

«Allora signorina! Pensi che abbia tutto il giorno?» Emma si riscosse all’improvviso, arrossendo.

«Oh… umh… sì. Geografico.»

«Tsk. Lo sapevo io. Già è diventata mezza tonta a furia di leggere stupidaggini.» Borbottò fra sé e sé aprendo il cancello. Emma non se ne curò e scappò via, dimenticandosi dello strano episodio, già rapita dall’odore dei libri.

Fece il percorso tortuoso che portava all’area geografica, proprio in fondo alla biblioteca, in una zona nascosta e desolata.

Fu quando arrivò alla finestra a incasso che, sentendo una scossa percorrerle tutta la spina dorsale, si ricordò dell’Atlante. Se ne era accorto qualcuno? Si abbassò e guardò sotto al divanetto. Era lì, in mezzo alla polvere dei secoli. Lo tirò fuori con un po’ di fatica e si sedette. Si guardò intorno furtiva e, appurato che non c’era nessuno a pomiciare nei paraggi, allungò le gambe sul divano, mettendosi di lato perché la poca luce che c’era illuminasse bene il libro.

Per un attimo si sentì in pace col mondo: nessuno lì l’avrebbe disturbata questa volta, era il suo territorio. Rebecca non sarebbe tornata in un giorno così piovoso, avrebbe rischiato di rovinarsi i capelli. Il pannello più alto della finestra era aperto ed entrava l’odore del glicine. Aprì delicatamente la prima pagina e si soffermò un secondo sul titolo, poi con il cuore in gola e la paura di essere di nuovo interrotta, girò la pagina.

Era pergamena spessa e pesante, come quella dei libri molto antichi. Ormai erano secoli che la carta era leggera e di qualità peggiore, ma più economica. L’aveva studiato al corso di filologia: una carta di quel genere indicava che il libro era vecchio di almeno quattrocento anni, constatò con timore reverenziale.

C’era una cartina che occupava tutte e due le pagine, che rappresentava la terra. Aveva già visto una mappa della grande terra emersa su cui si trovava la città, ma mai così. Le mappe che aveva visto rappresentavano nei dettagli la città, sulla costa ovest, e i campi esterni che le appartenevano verso sud, le miniere un po’ più lontane, a est. Tutto il resto era indicato come un deserto.

Sfiorò con il dito la zona di costa dove avrebbe dovuto esserci la città. Vuota. Quella mappa risaliva a prima che le mura fossero costruite. Le avevano sempre insegnato che la storia iniziava con la costruzione delle mura, messe lì da una divinità benigna da cui discendeva in linea diretta il Patrono.

Prima delle mura gli uomini erano selvaggi disorganizzati, che vivevano in accampamenti di tende e morivano prima dei trent’anni. Senza cultura, senza coscienza, senza morale, senza anima, che si arrabattavano per sopravvivere in un deserto ostile.

Ma quella mappa sembrava pensarla diversamente.

Ebbe l’impressione che qualcuno le avesse infilato della neve nel colletto della camicia, una scossa elettrica le fece solleticare la nuca e rizzare i capelli. Quello era sicuramente un libro proibito. Non poteva essere una cosa accessibile a tutti gli studenti. Erano proibite cose molto più innocue di quella, quella era praticamente eresia. Un rumore improvviso e un lampo di luce la fecero quasi urlare.

Un fulmine era caduto molto vicino, sul campanile della biblioteca. Calmati… cercò di calmare la respirazione e il tremito delle mani.

Ormai il libro l’ho visto, pensò. Tanto vale andare avanti. In realtà avrebbe dovuto fermarsi, e fermarsi subito. Rimettere il libro dove l’aveva trovato e fingere di non averlo mai visto. Ma la curiosità la teneva incollata alle pagine come un magnete.

Dove ora sorgeva la città non c’era nulla, ma più a nord c’era una folta massa di alberi, disegnati con un leggero tratto di china verde. Al limite sud c’era un puntino con una scritta: Khot. Aveva l’aria di essere una città, anche se infinitamente più piccola. Grande al massimo come una delle gilde. A nord c’erano delle montagne, che spuntavano dalla foresta. Sopra di esse erano segnati altri puntini, altri nomi. Così come sulla costa. Il centro della terra emersa sembrava essere un altopiano, lo capiva dalle linee isometriche, disegnate con inchiostro rosso. Non sembravano esserci alberi lì, se non vicino al fiume dove erano segnati altri due o tre puntini, con accanto i rispettivi nomi. Nel centro esatto c’era un massiccio, da cui nasceva il fiume Golyn che attraversava la Città ancora oggi.

La costa est sembrava caratterizzata da scogliere frastagliate, altre città, altre zone boscose. A sud i boschi erano ancora più fitti, mentre a nord c’erano montagne e ghiaccio azzurrino. Si soffermò a lungo su ogni nome, cercando di memorizzarlo. Erano suoni insoliti, che non aveva mai sentito e che non era sicura di saper pronunciare, ma in qualche modo cercò di ripeterli più e più volte nella sua mente, cercando di ricordare con precisione il punto in cui li aveva visti sulla mappa.

Il suono della campana le fece di nuovo scorrere un fiume di panico attraverso le gambe. Quanto tempo era rimasta a guardare la mappa? Era tardissimo, stavano per chiudere i cancelli! Mise il libro sotto il divano un’altra volta e iniziò a correre, stupita del fatto che anche se si sentiva le gambe fatte di gelatina, tutto sommato erano ancora funzionanti.

 

Si lanciò scivolando oltre al cancello che già si stava chiudendo, sopportando uno sguardo di rimprovero da parte delle guardie. Ansimando fece vedere i documenti e le due rune sull'avambraccio, e appena ricevette il via libera ricominciò a correre.

Arrivò in camera gocciolante e stravolta. Yuri sembrava essersi preoccupata per il suo ritardo, perché appena Emma entrò nella stanza sollevò lo sguardo dal libro che stava leggendo e la studiò con attenzione. «Emy stai bene?»

«Benissimo.» disse decisa. Non poteva raccontare a nessuno del libro, soprattutto a Yuri. Conoscendola, sarebbe andata in giro canticchiando “la mia compagna di stanza ha letto un libro proibito” senza nemmeno rendersene conto. E poi non le piaceva tanto l’idea di metterla nei guai.

«Non hai preso i libri.» Le fece notare con tono leggero.

«Piove.» Disse cercando di giustificare il fiato corto e l’aria sconvolta.  

«Avevo notato anch’io.» Disse Yuri con comica mancanza di ironia, guardando fuori dalla finestra. La loro stanza era proprio sotto un doccione, e quando pioveva una rumorosissima cascata d’acqua scorreva proprio fuori dalla loro finestra per andare a schiantarsi in strada tre piani più sotto. Faceva così tanto rumore che dovevano parlare molto forte per capirsi.

«Sì, piove.» Aggiunse Emma più decisa. «È perché piove che non ho preso i libri, si sarebbero bagnati e sono rimasta fino a tardi perché qui non avrei potuto studiare ecco…» Fece un respiro profondo. Aveva parlato così in fretta che le era mancato il fiato prima di finire. «Ecco perché non ho preso i libri.»

Le sembrò di vedere un sorriso diverso dal solito sol volto di Yuri, quasi di trionfo o di divertimento. Ebbe la netta sensazione che la sua compagna sapesse qualcosa che a lei sfuggiva. Durò appena un attimo, poi tornò allo sguardo stralunato di sempre. «Ah – ha.» Commentò prima di rimettersi a studiare, indifferente. Sto diventando seriamente paranoica, decise Emma. Un rischio che si corre quando si leggono libri proibiti.

Si sentiva gelare fino nelle ossa, e non solo perché era completamente bagnata.

«Vado a lavarmi. Ci vediamo a cena.» Annunciò cercando di mettere assieme tutta la compostezza e la dignità che riuscì a racimolare. Mise un asciugamano e una divisa asciutta in un cesto e partì di corsa alla volta del bagni.

I bagni c’erano su ognuno dei tre piani di dormitorio e la prima volta che li aveva visti, abituata a lavarsi a secchiate con l’acqua del pozzo, aveva quasi pianto dalla commozione.

C’erano due grosse vasche di acqua, una fredda e una bollente. L’acqua veniva attinta da una sorgente calda con un ingegnoso sistema di tubi, che servivano anche a scaldare l’edificio, e poi scaricata nel fiume. Di solito li usava a notte fonda, appena prima che svuotassero le vasche, quando era sicura di non trovare nessuno, ma adesso aveva veramente bisogno di stare a mollo nell’acqua calda.

Fu fortunata: nell’anticamera c’erano solo un paio di cestini contenenti le uniformi pulite, riposte con cura sullo scaffale apposito. Sistemò anche la sua, avendo cura di metterla in modo che lo stemma blu e arancione, simbolo di Sianel, non fosse visibile.

Poi si spogliò lasciando l’uniforme bagnata di pioggia nella cesta del bucato ed entrò nella stanza calda e piena di vapore. Le due ragazze già presenti chiacchieravano in un angolo, lavandosi la schiena a vicenda. Erano del primo anno, due ragazze della gilda dei farmacisti. La guardarono appena. Senza vestiti, con il fisico minuto e il viso tondo, nessuno avrebbe mai detto che era già al terzo anno. A stento sembrava una del primo. Se a questo si aggiunge il fatto che difficilmente i suoi lineamenti restavano impressi nella memoria, contò sul vapore e sull’assenza della divisa per mascherare la sua identità, e si immerse in fretta in acqua dando le spalle alle ragazze per sicurezza.

Appoggiò la testa sulle braccia incrociate sul bordo della vasca e chiuse gli occhi. In pochi istanti il calore le entrò fino nelle ossa, lasciandole le membra piacevolmente intorpidite e la mente un po’ annebbiata. L’acqua calda e il chiacchiericcio sommesso erano riusciti a farla rilassare un pochino, anche se aveva ancora la sensazione di avere un’ancora sul petto.

Non riusciva a togliersi la mappa dalla mente. Poteva essere pericoloso dire a qualcuno che l’aveva vista. Le persone venivano mandate nelle miniere e nei campi esterni per molto meno, e le poche persone che aveva visto tornare dai campi esterni erano ridotte a gusci vuoti, scheletri con lo sguardo fisso. Era una pena peggiore della morte.

Come il nonno di Anton.

Le venne una fitta allo stomaco ricordando il suo amico. Non parlava con lui da quando aveva iniziato la scuola, tre anni prima. Stava bene o si era messo nei guai? Le avrebbero scritto se gli fosse successo qualcosa? Si strofinò gli angoli degli occhi, poi tuffò la testa sott’acqua.

Le ragazzine erano andate via ed Emma uscì dall’acqua per insaponarsi. Doveva essere tardi. Quel giorno il tempo sembrava scorrere a velocità doppia… O forse era lei, appesantita da tutti quei pensieri, a funzionare a velocità dimezzata.

Dopo essersi sciacquata si avvolse nell’asciugamano e uscì.

Qualcosa era profondamente sbagliato, se ne accorse subito, ma ci volle un attimo perché capisse cosa non andava, e quando lo realizzò un’ondata di puro panico partì dal centro del suo stomaco e le inondò le gambe e le braccia, dandole la sensazione di avere un grosso sacco di farina legato ad ogni arto.

L’anticamera era deserta. La sua uniforme era sparita. Il suo cesto era desolatamente vuoto. Con le gambe che tremavano e una seria voglia di piangere di rabbia guardò nel cesto della biancheria sporca. Sparita anche quella.

Doveva uscire e tornare in stanza solo con l’asciugamano, che la copriva a stento? Ma avrebbe dovuto passare dal ballatoio per arrivare in camera sua, l’avrebbe vista chiunque, anche i ragazzi: a quell'ora erano tutti radunati nel chiosco. Avrebbe dato spettacolo. Magari sarebbe stata espulsa per comportamento osceno.

Poteva chiamare qualcuno, ma nessuno l’avrebbe aiutata: l’unico risultato sarebbe stato radunare un folto gruppo di studenti che assistesse alla sua pubblica umiliazione.

Aveva l’impressione che una forza premesse da sotto la sua pelle in ogni direzione, cercando di liberarsi. Un mostro imprigionato in uno spazio troppo stretto che si dibatteva disperatamente cercando di uscire, a costo di farla esplodere in minuscoli coriandoli, e lei avrebbe voluto lasciarlo fare.

Ridotta in coriandoli avrebbe risolto la maggior parte dei suoi problemi.

Però evidentemente la sua pelle era troppo dura per il mostro, che poteva solo dibattersi e farla stare ancora peggio. Urlò frustrata, tirando un pugno al muro, poi sibilò fra i denti un rosaio di imprecazioni fra le migliori di Sianel, massaggiandosi le nocche ammaccate. Non era servito a nulla.

Se invece di tirare un pugno al muro l’avessi tirato a Rebecca, come ti avevo suggerito, sicuramente ti avrebbe fatto stare meglio e a quest'ora non saresti qui.

No, a quest'ora sarei in una cassa da morto nel forno crematorio.

Si accucciò in un angolo della sala, le ginocchia strette al petto, rassegnata ad aspettare che arrivassero le donne che avrebbero dovuto svuotare la vasca, a notte fonda. Intanto il mostro ancora si dibatteva, facendole male.

 

«Emy sei ancora qui?» Emma sollevò la testa con il sollievo che la invadeva come un’onda bollente, più calda dell’acqua del bagno. Saltò subito in piedi cercando di apparire calma e padrona della situazione, per non perdere del tutto quella poca dignità che le era rimasta, ma la voce le tremava.

«Mi hanno rubato la divisa mentre facevo il bagno, non sapevo come uscire e…» Si interruppe prima che la sua voce cedesse un po’ troppo, e scrollò le spalle con una nonchalance perfettamente simulata. O almeno era quello che sperava. «E niente, stavo aspettando che arrivassero le inservienti a svuotare la vasca.»

Yuri la abbracciò affettuosamente, senza preavviso e senza darle il tempo di capire cosa stesse succedendo e di scansarsi. Nonostante quell’abbraccio fosse stato decisamente non richiesto, Emma sentì il nodo della tensione accumulata in quelle settimane sciogliersi dentro di il petto e si trovò pericolosamente vicina alle lacrime.

Si tirò indietro bruscamente, tirando su col naso e cercando di riprendere il controllo. Coglierla di sorpresa a quel modo era quantomeno scorretto.

«Va tutto bene, te ne vado a prendere una subito.» La rassicurò con fare materno dandole dei colpetti sulla spalla e lasciandola ancora più basita.

Yuri sparì di corsa e tornò un minuto dopo, dandole appena il tempo di ricomporsi.

«Mi sono preoccupata non vedendoti arrivare per cena. Magari se corriamo facciamo ancora in tempo.» Spiegò mentre Emma si rivestiva con la divisa invernale. Era un po’ troppo pesante, di lana spessa, ma quelle primaverili erano sparite chissà dove. Con un po’ di fortuna le avrebbe ritrovate in lavanderia.

«Non ho fame… sono troppo stanca.» Yuri sgranò gli occhi. Poi si avvicinò e le posò una mano fresca sulla fronte. Emma si ritrasse. Cos’era, la giornata cittadina del contatto fisico indesiderato? «Non ho la febbre.»

«Oh… allora hai mal di stomaco?»

«Non ho nemmeno mal di stomaco!» Emma cominciava ad essere un po’ offesa. «Non posso non avere appetito senza essere malata?» Dallo sguardo di Yuri, che la osservava come se dovesse manifestare da un momento all’altro i primi segni di una malattia mortale, era evidente che la pensava proprio così.

«Tranquilla, sto bene. Sono solo stanca. Sbrighiamoci con la corvè così posso andare a letto.»

Oheyyy!!! Che dire? In questo capitolo viene fuori qualche lato in più di Emma. A suo modo piuttosto fifona, ma troppo curiosa per farsi fermare dalla paura. Cosa che ammiro, visto che in una situazione del genere, onestamente, proverei profondo disinteresse per qualsiasi cosa potesse mettere in pericolo la mia vita. E nonostante sia una tosta che sopporta stoicamente qualsiasi maltrattamento (in fondo lo sapeva che l'accademia sarebbe stata così) ha anche lei un punto di rottura in cui diventa quasi umana. Certo non era una situazione senza via d'uscita la sua, prima o poi qualcuno sarebbe arrivata ad aiutarla in ogni caso, ma è stato uno scherzo abbastanza antipatico secondo me. Per fortuna che c'è Yuri, più presente di quello che sembra.

Certo che, un abbraccio così a sorpresa... che cosa sleale! tsk!

Grazie mille a chi ha letto fin qui, recensendo o leggendo in silenzio! Le opinioni, positive o negative che siano, fanno sempre piacere, ma anche vedere che ci sono tante visualizzazioni mi fa felice ^^

Alla prossima!  羽毛

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Capitolo 5
*** I dormitori ***


Il dormitorio

I dormitori




Nota: in questo capitolo il "piccolo Anton" avrà un dialogo più lungo del solito con Emma, e sono venute fuori tutte le sue carenze grammaticali. Un po' perché qui ha solo sei anni, un po' perché proprio di suo non ne azzecca una.  E non sapete quanto la cosa faccia sentire Emma frustrata! Povera, la capisco. 
Comunque vogliate per favore essere pazienti con lui <3 <3. --- 羽毛

Si svegliò nel cuore della notte, sentendo qualcuno urlare. Un urlo disarticolato, che aveva poco di umano. Sua madre si era messa a sedere sul letto, poi evidentemente aveva deciso che la fonte del rumore non le interessava un granché, ed era tornata a dormire. Nel giro di un minuto il suo respiro era tornato regolare.

Sua madre non si interessava molto di niente. Mai. Soprattutto se riguardava lei.

Avrebbe voluto essere rassicurata, quel grido l’aveva spaventata, ma sapeva di non poter trovare conforto presso sua madre. Dal piano di sotto ancora arrivavano dei gemiti, che le facevano rizzare i capelli sulla nuca. Decise che l’unico modo di calmarsi e tornare a dormire era andare a vedere chi faceva quei rumori e dimostrare a sè stessa che c'era una spiegazione assolutamente razionale. In fondo aveva sei anni, presto avrebbe iniziato la scuola. Non aveva più l’età per raggomitolarsi sotto le coperte e piangere di paura.

Uscì in punta di piedi, senza produrre il minimo rumore. Ormai era bravissima ad andare e venire senza che sua madre la sentisse. Aprì la porta di uno spiraglio e scivolò fuori. Quasi urlò di paura quando andò a sbattere contro un’ombra nera. «Shhht, sono io!» Bisbigliò Anton prima che lei potesse emettere un fiato.

«Cosa succede a casa tua?» Chiese sedendosi sui gradini e cercando di spiare al di là della ringhiera di legno un po’ marcio. Anton sembrava molto a disagio. «Sono arrivati i miei nonni.»

«I tuoi nonni? Pensavo che avessi solo una nonna.» Anton scosse la testa e fece la classica espressione cospiratrice che assumeva prima di rivelarle un segreto. Lo sapeva anche senza bisogno vedere bene il suo volto.

«Mio nonno era nei campi esterni, perché era un ribelle. Adesso non può più lavorare perché è troppo vecchio e malato e l’hanno mandato a casa a morire.»

Fece una smorfia scettica. «Non poteva essere un ribelle. I ribelli li uccidono subito, non li mandano nei campi.»

«Era un ribelle ti dico!» Insistette Anton oltraggiato. «Gli hanno tagliato la lingua e l’hanno mandato a lavorare fuori. È peggio della pena di morte. Ed è perché era un ribelle fortissimo, la pena di morte non bastava.»

Era ancora un po’ scettica. Aveva sentito dire che i ribelli, o almeno quei pochi che c'erano stati, venivano impiccati davanti a tutti.

«E allora perché l’hanno rimandato a casa, se era un ribelle? Potrebbe ribellarsi di nuovo, no?» Chiese con una smorfia. Anton assunse un tono sinistro.

«Perché così gli altri ribelli vedono che è diventato matto, e che non ha più la lingua, e si spaventano.»

«Ah.» Si limitò a commentare. Aveva senso. Infilò le gambe negli spazi della ringhiera e le lasciò dondolare nel vuoto, fissando la strada sotto di loro. Anton si sedette sul gradino sopra di lei.

«Io non ho paura però. Mia nonna dice che gli somiglio tanto. Non come è adesso, senza lingua e senza capelli e tutto…» Esitò un attimo. «… Tutto magro. Dice che sono uguale a lui quando era giovane. Anche io da grande divento un ribelle, come lui.» Annunciò fiero.

«Non dire scemenze! Vuoi che ti taglino la lingua?»

«Voglio che vedono che non ho paura di loro, anche se hanno fatto male a mio nonno.»

Rimasero in silenzio un po’. Aveva sentito raccontare che anche solo a parlare dei ribelli, se si veniva sentiti dalla persona sbagliata, si potevano ricevere punizioni tremende, ed ebbe paura per Anton. Un ragazzino con cui Anton giocava spesso aveva raccontato loro che un amico di suo cugino, solo perché aveva raccontato in giro delle storie su alcuni ribelli che vivono nel sottosuolo, era stato picchiato da due guardie finché non aveva ammesso fra le lacrime che i ribelli non esistono e che si era inventato tutto. Gli avevano rotto il braccio e ancora adesso era tutto storto e non funzionava bene. Rabbrividì, immaginando Anton che piangeva col volto insanguinato e un braccio che penzolava con un angolo innaturale, e pregò che facesse più attenzione.

«Perché tuo nonno è venuto qui? Non può vivere con tua nonna?»  Anche sapendo che era il nonno del suo amico, Emma avrebbe preferito che quell'uomo se ne andasse da qualche altra parte a gridare nel cuore della notte. Ovunque, basta che fosse fuori portata di udito. Quelle urla la spaventavano ancora parecchio.

«Perché è diventato matto, e la nonna non riesce a occuparsi di lui da sola. Rischia di farle male.» Rimasero in silenzio ancora un po’.

«E perché sei qui sulle scale?» Gli chiese con un sorriso malizioso. «Hai paura di lui? Per il modo strano in cui urla vero?» Nonostante la debole luce lunare le guance di Anton si imporporarono visibilmente.

«Paura? No, certo che no!» Anton si sforzò di ridere. «Sono venuto a vedere se TU avevi paura!»

«Io non ho paura!» Protestò lei, punta sul vivo. «Ho sentito urlare e pensavo ci fossero dei ladri. Sono uscita per venire a difenderti!» Si rimbeccarono a vicenda per un po’ e senza accorgersene alzarono la voce, finché Agnes non li sentì e andò a trascinare via Anton per un orecchio, suggerendo anche a lei di tornare a letto.

Poche settimane dopo, al modesto funerale che la famiglia di Anton aveva messo su per suo nonno, sentì Agnes raccontare a una signora che suo suocero non aveva mai avuto niente a che fare coi ribelli. Aveva solo parlato a sproposito, fatto una battuta di spirito su una delle famiglie del Cuore, ed era stato sentito dalla persona sbagliata. Anton non stava ascoltando, stava lanciando sassi nel canale qualche metro più in là, studiando con espressione corrucciata i cerchi che si formavano nell’acqua.

Per un attimo pensò di raccontargli tutto, ma poi decise di mordersi la lingua. Anche se aveva solo sei anni sapeva già che tutti, per crescere nei rioni, avevano bisogno di un eroe da ammirare. Non sarebbe stata lei a portarglielo via.

Comunque, alla fine, era proprio come pensava. I ribelli li uccidono subito.

 

Le preoccupazioni di Yuri sulla sua salute si rivelarono fondate quando la mattina dopo venne svegliata dalla compagna che la scuoteva. «Emy, Emy siamo in ritardo!»

Sentire il panico nella voce della compagna le face capire che erano veramente in ritardo, e veramente nei guai. Quand’era stata l’ultima volta che non aveva sentito la campana? Non lo ricordava nemmeno.

Scattò in piedi e si rese conto che le gambe non la reggevano. Cercò di non dare a vedere quanto le girasse la testa e si vestì. Nonostante la divisa fosse troppo pesante per l’aria tiepida che soffiava in quei giorni, sentiva brividi freddi correrle lungo la schiena. Non poteva permettersi di perdere la giornata, già il giorno prima non aveva aperto nemmeno un libro. "Anzi, un libro l’ho aperto." Pensò col groppo in gola ricordando il grosso tomo nascosto sotto al divano della biblioteca. Si precipitarono a lezione correndo, ormai troppo in ritardo per la corvè, e arrivarono che la campanella era appena suonata.

«Siete in ritardo voi due.» osservò il professore con tono severo. In realtà doveva ancora arrivare parecchia gente, ma siccome gli altri ritardatari non erano dei rioni, era irrilevante.

«Ci scusi professor Weimer. La mia compagna si è sentita male e l’ho accompagnata in infermeria.» Mentì Yuri prontamente, con una dolcezza e un candore che sciolsero il cuore del professore istantaneamente. Il professor Weimer era un falso cattivo. Sesto figlio di una famiglia nobile, magro come il manico di un rastrello e interessato solo alla matematica, le rimbrottava sempre con severità, ma bastava che una studentessa gli sorridesse perché lui arrossisse e si dimenticasse quello che stava facendo.

Se la studentessa era Yuri, comunque, erano pochi i professori immuni. Le vecchie superstiziose di Sianel avrebbero detto che quella ragazza era una strega. «Si sente meglio, signorina Creuza? Non farebbe meglio a restare in infermeria tutta la giornata?»

Emma scosse la testa, guardando a terra imbarazzata consapevole dello sguardo delle sue compagne di classe. «Solo un malore passeggero professore.»

Il professore non se ne interessò nemmeno un secondo di più, e si limitò a fare un cenno nervoso con una mano verso i loro banchi in fondo alla classe, perché si sedessero in fretta.

Rischiò di addormentarsi più volte nel corso della lezione, la campana del pranzo era un miraggio lontano. Più lontano del solito, almeno. 

Comunque, realizzò all'improvviso profondamente demotivata, prima di potersi riposare avrebbe dovuto pulire il ballatoio dei tre piani dei dormitori, il ché non era certo una prospettiva allettante: era un lavoro lungo che faceva venire mal di schiena. Cercò di sbrigarlo il più in fretta possibile, ma ci vollero comunque quaranta minuti, alla fine dei quali era molto intirizzita.

Avrebbe voluto saltare il pranzo ma sapeva che la cosa avrebbe fatto preoccupare Yuri, così si costrinse a mangiare della zuppa calda e poi arrancò più in fretta che potè fino in camera, dove, dopo aver lanciato un’occhiata nostalgica al letto, si impose di sedersi alla scrivania: aveva un mucchio di compiti da recuperare.

 

I raggi di sole passavano attraverso le foglie degli alberi. La luce era strana, calda e densa. Lei camminava, gli stivali calpestavano foglie bagnate sollevando profumo di terra. I pantaloni avevano uno strappo dove si era impigliata in un rovo. Il cuore le pulsava in petto con una fretta che era dovuta solo in parte alla camminata. Era spaventata, sì, e nervosa... ma anche elettrizzata. All’improvviso gli alberi finirono. Davanti a lei c’erano delle colline brulle, con poche chiazze di cespugli o alberelli rachitici. All’orizzonte, dietro una collina lontana, c’era un fronte di nuvole nere, nonostante il libeccio avesse spazzato via le nubi su tutto il resto della costa. Le sembrò di vedere qualcosa che superava la cresta di una collina. Qualcosa di squadrato. Opera dell’uomo. Il suo cuore fece un buffo sobbalzo, come se fosse inciampato dopo tutto quel correre. Là. È là che ci sono le mura, che corrompono tutto.

 

«Emma?» Emma si sveglio di soprassalto, con la schiena dolorante e scossa dai brividi. «Mettiti a letto se sei stanca.» Le disse Yuri con voce dolce e bassa, come a non volerla disturbare troppo.

Fuori era già buio e pioveva ancora. Di nuovo non aveva studiato quasi nulla. Le colline brulle del sogno erano ancora impresse nel retro delle sue palpebre. Aveva la testa più pesante che mai, così accettò il consiglio e si infilò sotto le coperte. 

 

Aveva il fiato corto e le spalle doloranti per il peso dello zaino. C’era sempre meno luce, i suoi passi risuonavano sulla ghiaia. Poi una gran confusione, uomini armati, senza capelli, con i vestiti dello stesso colore della terra delle colline, saltarono fuori all’improvviso, circondandoli.

 

Il giorno dopo si svegliò e la prima cosa che vide fu che il sole era alto. Presa dal panico saltò in piedi per chiamare Yuri e si accorse che non c’era. C’era un biglietto sul suo letto rifatto.

“Emy, resta pure a dormire. Ti giustifico io con il professore. Rimettiti in salute, ci vediamo a pranzo!”

Un vago ricordo di mani sulla fronte e di sapore di medicina le affiorò nella mente, facendole provare un certo imbarazzo. Era stata male tutta la notte? 

La cosa che ricordava meglio erano sogni agitati e comunque confusi di sangue, battaglia e corsa su un terreno friabile. Sentiva ancora la sensazione delle mani e delle ginocchia sbucciate che bruciavano, si sentiva dolorante come se avesse effettivamente combattuto, ma era abbastanza sicura di non avere più la febbre. 

Sulla scrivania c’era del latte ancora tiepido e del pane, che sbocconcellò guardando il sole che splendeva sul palazzo del Patrono, uomo misterioso che di rado compariva in pubblico. L’aveva visto quattro anni prima, durante i festeggiamenti per i sedici anni del suo erede. Non ricordava con esattezza il suo volto, ma ricordava bene l'erede, un ragazzo non molto più grande di lei, con occhi violetti e capelli argentati. Si dice che quando nasce qualcuno con quelle caratteristiche nella famiglia reale seguono molti anni di prosperità e grandi cambiamenti.

Si dice anche che i regnanti con gli occhi violetti abbiano un carattere instabile e i poteri di un dio. Decisamente non la migliore delle combinazioni. Ma ovviamente questo non veniva mai detto ad alta voce.

Cercò di rimuovere gli ultimi flash della nottata facendo colazione, poi raccolse i libri che aveva trascurato per due giorni e si mise a studiare, con la coperta di lana grigia buttata sulle spalle.

 

Ad ora di pranzo la porta si aprì piano e Yuri mise la testa dentro.

«Meglio?» Emma annuì e Yuri parve sinceramente contenta. Mangiò con una certa voracità la scodella di pasta in brodo che le aveva portato, mentre Yuri la osservava seduta sul suo letto, con una postura protesa verso di lei e l’espressione di chi aveva qualcosa da chiedere.

«Sì?» Chiese Emma incuriosita, invitandola a parlare.

«Sta notte parlavi nel sonno.» Imprecò mentalmente, usando parole che pronunciate ad alta voce le avrebbero fatto crollare il soffitto in testa. «Hai parlato di un atlante.»

Emma cercò disperatamente di controllare l’espressione del viso, cosa in cui riusciva malissimo. Infatti aveva l’aria di qualcuno che sta ingoiando un piccione vivo e molto combattivo. "Ecco fatto. Ora verrà qualcuno ad arrestarmi. Verrò deportata nelle miniere… con la mia corporatura esile sarei perfetta per i tunnel più angusti, mi manderebbero ad esplorare i peggio posti finché non rimarrò incastrata o crollerà un soffitto e io farò la morte del ratto…"

«Deliravo.» disse asciutta, cercando di mettere a tacere la parte della sua mente che farneticava in preda al panico e ingoiando una grande sorsata di brodo bollente che le ustionò gravemente la gola.

«Sì, un po’.» Riconobbe cortesemente Yuri. «Capita quando si legge la mappa per la prima volta.»

«Ne ho viste parecchie di mappe. Studio geografia.» Emma continuò ostinatamente a bluffare, più concentrata sulla necessità di allenarsi davanti allo specchio a fare una faccia normale che su quello che  Yuri stava dicendo.

«Ma quello era diverso. Non negare. L’ho visto anch’io.» Emma rinunciò ad ogni contegno e strabuzzò gli occhi, boccheggiando alla ricerca di qualcosa da dire. Fu Yuri a rompere il silenzio.

«Non l’hai portato in camera vero?» Emma scosse la testa e Yuri sospirò di sollievo. «Non devi farlo vedere a nessuno, ok?»

Emma si sentiva abbastanza confusa. Yuri era molto diversa dal solito, seria e concentrata. Ricordò il lampo di trionfo che l’aveva attraversata due sere prima, quando era tornata dalla biblioteca sconvolta. «Tu già sapevi che lo stavo leggendo, vero?» Yuri si morse le labbra, sembrava stesse soppesando le parole.

«Sospettavo che l’avessi trovato, ma non potevo dirti niente finché non fossi stata sicura.»

«Che cosa sai di quel libro?»

Yuri si alzò, guardò nervosa fuori dalla porta, poi la richiuse e si sedette accanto a lei, trascinando la sedia dalla sua scrivania a quella di Emma. La sensazione di essere parte di una cospirazione si fece più forte.

«Compare periodicamente in biblioteca, in aeree diverse... ma soprattutto in quella di geografia. Ogni tanto uno studente lo trova e lo legge. Poi scompare, per un mese, un anno, tre anni, non c’è una regola. L’hai letto tutto?»

«No, ho solo visto la mappa.»

«L’hai lasciato sullo scaffale?» Emma negò di nuovo, gli occhi spalancati fissi in quelli grigi e seri della compagna. «L’ho nascosto sotto un divano.»

«Bravissima, questo è molto importante!» Disse Yuri sorridendo entusiasta, di nuovo se stessa, per poi tornare seria un attimo dopo. «Se l’avessi messo sullo scaffale non l’avresti più trovato. Intendi tornare a leggerlo vero?»

Emma non sapeva cosa rispondere. «Tu l’hai letto tutto?» Yuri annuì, guardando distrattamente fuori dalla finestra. «Che mi consigli di fare?»

«Dipende.» 

Emma si passò le mani fra i capelli, cercando di non cedere alla tentazione di mettersi a letto e dormire fino alla vecchiaia. «Dipende da cosa?» Chiese cercando di non perdere la pazienza.

«Da tante cose.» Iniziò a dire Yuri con voce assorta. Poi, forse vedendo lo sguardo esasperato di Emma, sorrise con dolcezza. «Dipende da quanto ti interessa sapere la vera storia, da quanti rischi sei disposta a correre per conoscerla... Soprattutto da quanto sei felice delle cose così come stanno.»

«Da quanto sono felice? Cosa centra questo?»

«Se pensi le tue prospettive per il futuro siano buone, se ti sta bene avere meno opportunità degli altri solo perché sei nata in un rione, se pensi che la Città venga gestita nel migliore dei modi… Allora ti consiglio di andare in biblioteca e rimettere il libro sullo scaffale. La mattina dopo non lo troverai più, potrai continuare con la tua vita come se niente fosse successo.»

Emma tacque pensosa, mentre una serie di immagini si susseguì nella sua mente, troppo confusa per esprimersi a parole. Pensò a Jane che piangeva in cucina, al nonno di Anton, al dolore dell’ago sulla pelle ogni volta che le rinnovavano le rune, una volta l’anno, e alle catene che legavano ognuno nel proprio angolino di terra. All’ombra delle mura che incombeva sulla loro vita, a come le aveva viste in sogno, spuntare da sopra le colline brulle. Corrompere tutto.

No, quello non centrava. Era solo un sogno, e avrebbe fatto meglio a scordarsene.

Forse in quel libro era nascosto un segreto per uscire dagli schemi che avevano regolato la sua vita da quando era nata? Yuri le lesse la risposta negli occhi.

«Allora leggilo. Devi sapere come stanno veramente le cose, se vuoi sperare di cambiarle.»

Emma sospirò e lasciò cadere la testa sulla scrivania con un sonoro tonfo. Qualcosa le diceva che conoscere la verità non sarebbe stata una cosa priva di rischi. Poi, come colta da una rivelazione improvvisa, guardò Yuri a bocca spalancata.

«Che cosa c’è?» Chiese toccandosi i capelli rossi, come per cercare un insetto che ci fosse rimasto incastrato. Emma scosse la testa, scioccata. «Niente è che… ti facevo molto più… svampita.» Yuri le fece l’occhiolino, divertita.

«È una cosa che prima o poi mi dicono tutti.»

Hey!! 

Yuri ha rivelato qualcosa in più su di sé, cioè che è ancora più incasinata di quanto si pensi °___°

Viene fuori anche il cognome di Emma, che non era mai stato pronunciato prima. L'avevo deciso fin dall'inizio ma ora lo sapete anche voi :p 

Piccola curiosità: il suo cognome viene dalla canzone Creuza de Ma, di De Andrè, che è un po' il mio personale tormentone estivo, tanto che ci ho scritto sopra pura una one shot XD. La canzone non c'entra nulla con la storia e aver messo parte del titolo come cognome della protagonista è solo un omaggio. Comunque, visto che farsi una cultura musicale non è mai mala cosa, vi lascio il link della canzone, nel caso non l'aveste mai sentita. <3https://www.youtube.com/watch?v=KoVxtw5V3GQ

P.S: Le immagini le scelgo da deviant art, cercando qualche cosa che renda una vaga idea dell'atmosfera e dell'ambiente. Non sono state fatte apposta quindi non sempre coincidono con le cose come descritte nella storia, ma soprattutto non le ho create io. Se schiacciate con il pulsante destro sull'immagine troverete l'URL originale. Non è assolutamente mia intenzione prendermi il merito per i disegni, anche perché so disegnare solo omini stecchino e verrei sgamata subito. Love <3 --- 羽毛

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Capitolo 6
*** La mensa ***


La mensa

La mensa

Aveva ancora sulla lingua il sapore della colazione speciale preparata da Agnes in occasione del loro primo giorno di scuola. Chissà come, si era procurata dello zucchero e aveva preparato una torta, un po’ secca e friabile ma dolce. Le era piaciuta tantissimo, distraendola per qualche attimo dall’ansia che provava da giorni. Le sembrava impossibile imparare a dare un senso a tutti quei simboli che vedeva incisi sui cartelli o scarabocchiati su manifesti dall’aria ufficiale. Era sicura che sarebbe stata una frana.

«Fate quello che vi viene detto senza discutere e state quieti. Tu soprattutto, disgraziato!» Consigliò loro Agnes, lanciando uno sguardo severo al figlio mentre dava manate energiche alla divisa di Emma.

«Porca la miseria fradicia! Questa roba è così stinta che sembra che ti sia rotolata nella polvere.» Onestamente Emma pensava che i colori stinti fossero il minore dei problemi di quella divisa. Le maniche della giacchetta di lana blu erano rimboccate parecchie volte ed erano state strappate e ricucite tanto da farla sembrare grinzosa come una grattugia, mentre la parte inferiore dell’abito di tela sottile, nonostante i trenta centimetri di orlo, le arrivava ben oltre al ginocchio ed era più lungo da un lato che dall’altro. Per non parlare delle scarpe. Preferiva proprio evitare di pensarci, alle scarpe.

Anton, per dimostrarle solidarietà, aveva provveduto a rotolarsi un paio di volte sul pavimento, ma non aveva ottenuto altro effetto che quello di ricevere una sberla sulla nuca ed essere paragonato a un triglia di fango.

Adesso era impegnato a guardare in cagnesco tutti quelli che avevano intorno e a lamentarsi tirando il braccio di sua madre, imbronciato. «Lo odio già questo posto. Portami a casa!» Agnes non si sprecò nemmeno a dirgli di no, impegnata ad abbracciare il cortile con uno sguardo carico di nostalgia. 

Nemmeno se avesse voluto (ed Emma era certa che non voleva) Agnes avrebbe potuto far saltare la scuola ad Anton. La scuola era obbligatoria per tutti, dai sei fino ai tredici anni.  Aveva sentito parlare di un uomo che qualche anno prima aveva ceduto alle suppliche del figlio e, invece di portarlo a scuola, l'aveva portato a pesca di rane. "L'ultimo giorno, prima che il suo bambino diventasse una qualsiasi formichina all'interno del formicaio." Si era giustificato. Aveva dovuto pagare una multa salata e ancora adesso i funzionari lo controllavano da vicino, nell'attessa che facesse un passo falso per poterlo cogliere in fallo. Ed era solo questione di tempo. 

Ad Emma invece non dispiaceva iniziare la scuola, se non si soffermava troppo a pensare alla sua divisa. 

Era un vecchio edificio in pietra leggermente trasandato, che sorgeva su un’isoletta nel mezzo del braccio principale del fiume, e si sentiva quasi privilegiata a poter scendere finalmente le scale che dal soppalco del terzo livello portavano direttamente lì. Il cortile poi, un largo spiazzo di terra polverosa che con le piogge primaverili sarebbe diventato un pantano, vantava ben sei dei dieci alberi che si potevano vedere a Sianel. Le piacevano gli alberi, e una delle prime cose che avrebbe fatto, appena Agnes l’avesse lasciata libera, sarebbe stato correre ad esaminarli da vicino.

Un uomo che non aveva mai visto uscì per fare l’appello. Era abbastanza evidente che non era nato lì, dal momento che aveva la pelle ancora più chiara della sua e capelli molto lisci, precocemente ingrigiti. Si schiarì la voce e tutti si zittirono istantaneamente.

«Buon giorno a tutti, e buon inizio di anno scolastico. Per chi non mi conoscesse sono Zlatan Jenen, direttore di questa scuola rionale da ben quindici anni…»

Anton scoppiò subito a ridere, una delle sue risate sonore e contagiose. «Non solo questo tizio parla strano, ma ha pure un nome assurdo!» Bisbigliò nell’orecchio di Emma prima che Agnes lo prendesse per un orecchio torcendolo lievemente e riducendolo subito al silenzio. “Quando sarà grande avrà le orecchie lunghissime” Pensò Emma oziosamente, mentre il direttore Jenen proseguiva il suo interminabile discorso di presentazione, in sostanza una sviolinata sull’importanza di studiare a fondo le leggi e la storia della città per diventare cittadini responsabili.

Anton adesso era inginocchiato a disegnare nella polvere, come a voler mettere in chiaro da subito che lui era lì contro la sua volontà e che non aveva la minima intenzione di diventare un cittadino responsabile. Forse Agnes l’avrebbe richiamato, ma anche lei, come chiunque fosse nel cortile in quel momento, guardava il vuoto con aria distratta, senza ascoltare una parola.

Emma aveva imparato presto che la soglia dell’attenzione bassissima era prerogativa della gente di quel rione, ma nemmeno lei riusciva a seguire il discorso noiosissimo del direttore. In realtà sembrava che nemmeno il direttore seguisse con attenzione il suo stesso discorso.

Un paio di ragazze dell’ultimo anno stavano bisbigliando qualcosa poco lontano.

«È per questo che è così una merda con gli studenti allora?»

«Sì ti dico! È stato mandato qui per punizione dopo l’accademia…»

«Ohi, Em, guarda qui!» La chiamò Anton tutto fiero, mostrandole una caricatura del direttore con il sedere al vento e una specie di refolo d’aria che gli usciva dal di dietro. Emma ridacchiò sommessamente mentre Agnes, tornando a posare lo sguardo sul figlio, gli tirò un sonoro coppino, che Anton incassò dignitosamente.

Poi il direttore iniziò l’appello, catturando finalmente l’attenzione degli studenti che, uno per uno, andarono a mettersi in fila davanti allo stendardo con il simbolo del patrono per pronunciare il giuramento mattutino.  

 

Era stata la conversazione più seria che aveva mai avuto con Yuri, dopodiché tutto sembrò tornare normale e lei ricominciò a comportarsi come al solito, anche se tutte le volte che sorprendeva Emma osservarla con tutta la sua perplessità stampata in faccia sorrideva e faceva l’occhiolino con aria complice, come se loro due stessero condividendo un segreto ignoto a tutti gli altri. Cosa che in effetti era, ma Emma non poteva fare a meno di essere perplessa per le stranezze della sua compagna di stanza.

Comunque questo era già un miglioramento da quando temeva di svegliarsi una mattina e scoprirsi morta.

Quello che era ben lontano da essere normale era il fatto che Emma, ora ancora più consapevole della pericolosità di quello che stava facendo, sgattaiolava ogni giorno in biblioteca, recuperava il libro sotto al divano e lo leggeva.

 

La prima volta, il pomeriggio successivo a quello in cui aveva parlato con Yuri, era rimasta un po’ interdetta nel trovare una parola che non conosceva come titolo della prima sezione del libro: “Guida etnografica di Arhal”. Sperando di capire comunque il senso di quanto avrebbe letto, scoprì che il misterioso autore non faceva altro che confrontare le strane popolazioni che aveva trovato sull’isola (non aveva mai considerato Arhal un’isola, e questo fatto da solo era stato un trauma culturale non indifferente) con le proprie usanze, abbastanza simili a quelle che anche Emma conosceva. Il dizionario più vecchio che era riuscita a trovare aveva trovato posto sotto al divano, accanto al libro, ma spesso non trovava il significato di tutte le parole oscure e arcaiche che l’atlante conteneva.

Però c’erano molte immagini, dipinte a colori vivi, di persone strane intente in attività quasi incomprensibili. Il primo popolo di cui trovò la descrizione era un popolo nomade, gli Yubo.

Non coltivavano la terra, si spostavano una volta ogni stagione con grosse mandrie di armenti e di pecore e si limitavano a raccogliere quello che trovavano in natura e a produrre latte e formaggio.

Una natura molto più generosa di quella che Emma aveva sempre immaginato, a cui gli uomini dovevano strappare nutrimento attraverso sangue e sudore.

Gli Yubo erano disegnati con occhi allungati, ancora più di quelli di Emma che comunque erano notevolmente lunghi, e si diceva che avessero la pelle chiara e occhi e capelli neri. I loro vestiti, quasi tutti di lana, erano tinti a colori sgargianti e avevano forme insolite, con bottoni molto lunghi e cappucci squadrati.

Ma più di qualsiasi altra cosa, l’aveva colpita una nota che occupava più o meno metà pagina.

Gli stregoni degli Yubo sono più potenti di quelli di ogni altro popolo di questa terra. Anche un semplice apprendista può comunicare con estrema facilità con i numi della prateria.

«Stregoni!» Sibilò a Yuri quando tornò in camera quella sera. «Parla di stregoni come se fossero comuni come cavoli negli orti!» Yuri sorrise, assente.

«Sarebbe strano non credi? Nascere pian piano spuntando dalla terra ed essere costretti a restare immobili sapendo che qualcuno da un momento all’altro può raccoglierti e mangiarti. Se fossi un cavolo non credo che sarei contenta di nascere in un orto…» Emma sbuffò e le lanciò il cuscino.

«Non fare la finta tonta, tu. Ormai non attacca più!» Yuri fece un’espressione confusa.

«Non so proprio di cosa stai parlando.» Emma sbuffò e si lasciò cadere sul letto, a braccia aperte e con la faccia premuta contro al materasso. «Andiamo a cena, dai.» Le disse Yuri con il tono dolce di quando parlava sul serio, sporgendosi per darle un paio di colpetti affettuosi sulla nuca. Emma si tirò su stancamente e la seguì strascicando i piedi, mentre Yuri sproloquiava su una teoria secondo cui quello che lei vedeva lilla, forse agli occhi di qualcun altro era verde pallido, ma che tutti e due avrebbero continuato a chiamare lilla quel colore perché così avevano imparato da bambini. E se il cielo fosse stato rosso e lei avesse sempre conosciuto il “rosso” col nome di “azzurro”?

Per qualche motivo quella possibilità turbò Emma profondamente, distraendola per qualche strano momento da quello che aveva letto durante la giornata. Per una volta ascoltò le dissertazioni strambe di Yuri con autentica curiosità, tanto che non si accorse di un ragazzo della gilda dei bottegai, Danilo Torres, che aveva allungato la gamba per farla inciampare. Emma non riuscì a recuperare l’equilibrio ma, con una mossa agile, riuscì a girarsi a mezz’aria e a tenere alta la ciotola di minestrone, rovesciandosene addosso solo poche gocce.

Dovette pagare il salvataggio della cena con una craniata considerevole sul pavimento, ma pazienza. Il bernoccolo sulla nuca sarebbe sparito, la minestra versata non si poteva raccogliere.

Yuri le prese la ciotola di mano e aspettò pazientemente che Emma si rialzasse, mentre Danilo, noto per essere una delle persone più moleste dell’intera accademia, rideva divertito assieme ai suoi vicini di tavolo.

Un ragazzo del rione degli allevatori, Alì, si era fermato a guardare la scena accanto a Yuri. «Certo che la tua amica sacrificherebbe la vita pur di non perdere la cena.» Commentò perplesso guardandola massaggiarsi la nuca con lo stesso interesse con cui dei bambini esaminerebbero un insetto strano mai visto prima. Yuri annuì pensosa. «Meno male che non può mangiarsi da sola, o l’avrebbe già fatto.»

Emma era piuttosto seccata e decise che lo spettacolo era finito. Si tirò in piedi di scatto, stizzita, prese la ciotola dalle mani di Yuri e si diresse a passo marziale verso la scala di servizio che portava alle cantine. Era lì seduta che mangiava da un paio di minuti quando Yuri la raggiunse.

«Di solito non mi faccio i fatti tuoi, so che ti dà fastidio.» Annunciò scavalcandola per sedersi sul gradino sotto al suo.

«E io lo apprezzo molto.» Commentò Emma laconica, con l’implicita speranza che le cose restassero così il più possibile. Yuri invece calpestò quella speranza e procedette a farsi i fatti suoi, come se la compagna non avesse mai aperto bocca.

«Però ammetto di essere curiosa di sapere che hai fatto a Rebecca Stieber per meritarti tutto questo.»

Emma sbuffò. «Non ho fatto nulla. L’ho vista per sbaglio, mentre era con uno… sai il bel biondino dell’ultimo anno? Quello dei tipografi?»

«Etienne. Etienne Rolan.» Emma la guardò con una smorfia, un po’ stupita un po’ irritata.

«Ecchiccavolo ti ha detto come si chiama?» Yuri la guardò sospirando e le diede due colpetti amichevoli sulla cima della testa. «Ahh Emma, Emma. Lo sanno tutti qui come si chiama il ragazzo più promettente e simpatico della scuola. Vivi proprio fra le nuvole.»

La cosa detta da lei le fece rizzare i capelli sulla nuca, lasciandola sempre più irritata e con una gran voglia di insultare qualcuno. Guardò il proprio cucchiaio e lo ficcò nella ciotola come se il povero utensile avesse appena paragonato un suo amico intimo a un mucchio di letame. Yuri non colse la minaccia implicita nella foga del gesto e continuò a parlare. «Però hai strane priorità, tu. Scommetto che il nome del ragazzo ritenuto più insopportabile lo sai.»

«Pensavo di essere io quella più impopolare!» Esclamò Emma quasi offesa, ritenutasi ingiustamente spogliata dal suo titolo.

«No, tu non conti, ovviamente. Nessuno ti considera. Intendevo quello coi baffi spelacchiati che ti ha fatto lo sgambetto prima.»

Yuri aveva ragione, ma Emma era abbastanza determinata a non dargliela vinta, soprattutto perché l'indelicatezza di Yuri stava passando il limite. Decise che preferiva parlare dei fatti propri piuttosto che continuare quella discussione, con la piega che stava prendendo. «Insomma lei era lì in mezzo alla biblioteca a pomiciare col suo ragazzo-giocattolo e se la prende con me solo perché li ho visti per sbaglio. Ti sembra giusto?»

«Certo che no!» Esclamò Yuri indignata. «È una cosa stupida! Pensavo che fosse scivolata sul pavimento perché avevi usato troppo sapone, o cose così, non che l’avessi vista con Etienne. Pensa di intimidirti con degli sgambetti?» Scosse la testa, bevve con calma un sorso di minestrone e poi corrugò la fronte. «Per ridurre qualcuno al silenzio io userei metodi più eleganti, tipo lasciare delle lettere minacciose in camera, oppure un messaggio sulla porta della tua stanza scritto col sangue di pollo o una ciocca di capelli di tua madre sul tuo cuscino, o cose così. Gli sgambetti sono una cosa infantile.»

Emma lasciò cadere il cucchiaio nella minestra con un sonoro tonfo e guardò la compagna orripilata.

«Facevo per dire.» Si affretto a rassicurarla dandole un altro paio di colpetti sulla testa, con aria divertita. «Comunque ti sbagli.» Annunciò Yuri con voce leggera, ricominciando a sorbire il minestrone.

Emma aprì e chiuse la bocca un paio di volte prima di riuscire a parlare, distratta dalla vocina che in qualche angolo della sua testa le suggeriva di arretrare lentamente e senza sbattere le palpebre. «Mi sbaglio su cosa?»

«Non è il suo giocattolo. Sono seri.»

Sbuffò scettica e ricominciò a mangiare. Non ci avrebbe creduto per nulla al mondo che Rebecca fosse seriamente innamorata di Bello. Cioè, di Etienne.

In ogni caso la paura di essere uccisa nel sonno era tornata come nuova.

 

Sempre accogliente fu l’isola di Arhal con profughi e migranti, tanto che numerose genti abitano questa terra.

Profughi e migranti. Altre due parole sconosciute.

Chiuse il dizionario con un tonfo mandando alla malora quell’antico scrittore figlio di un capperaio mezzo deficiente, che aveva scritto quella cosa assurda usando parole cretine solo per dimostrare che era più intelligente di lei, povera disgraziata nata come minimo quattrocento anni dopo.

Poi si rese conto che stava perdendo un po’ di lucidità, dopo più di due ore che leggeva l’atlante sobbalzando ad ogni minimo rumore e dovendo cercare tre parole ogni due righe. Aveva bisogno di respirare un po’ d’aria pulita e di rilassarsi.

Quel giorno il pannello superiore della finestra era chiuso, forse era per questo che si sentiva così irritata e con la mente intorpidita. Sospirando si alzò in piedi sul divanetto e armeggiò con i ganci che la tenevano chiusa.

Subito entrò odore di glicine e di pioggia, che Emma respirò a pieni polmoni.

«Non dovresti stare in piedi sul divano, se il bibliotecario ti vedesse ti spingerebbe di sotto.» Emma riuscì a stento a trattenere un urlo e si girò di scatto, come una lucertola che si è appena resa conto di avere un gatto alle spalle.

Era lui, Bello, il biondino… come aveva detto che si chiamava Yuri? «Etienne Rolan.» Bisbigliò sollevata, con il cuore che le batteva ancora molto più forte del normale. Nel suo cervello era una delle poche persone classificate come innocue.

«Emma Creuza.» Rispose lui con un cenno del capo, a mo' di saluto. Le fece una strana impressione sentire il suo nome pronunciato da lui. Se c’è lui non starà mica arrivando anche la strega? Venne assalita dal sospetto e si guardò intorno freneticamente, aspettandosi di vederla sbucare da dietro una libreria.

Etienne interpretò correttamente la sua ansia e la rassicurò. «No, stai tranquilla, lei non c'è per ora. Ma arriverà più tardi, ho pensato di venirti ad avvisare…» Emma si sorprese mentre osservava incanta i suoi occhi brillanti e il ciuffo di capelli sbarazzino che gli ricamava la tempia sinistra. Si promise di prendersi a schiaffi più tardi e guardò fuori dalla finestra con ostentato interesse. Come se non fossero settimane che la pioggia continuava… ormai era quasi ora che arrivasse la stagione secca, e poi ci sarebbero stati gli esami...

«Cosa leggi?» Chiese il ragazzo guardando l’atlante buttato con noncuranza sul divanetto. Emma emise un gemito di orrore, poi uno di dolore quando uno spigolo del libro le penetrò nello stomaco, a causa del suo melodrammatico tuffo per cercare di nasconderlo.

Bravissima, a questo punto penserà sicuramente che stai nascondendo qualcosa! Fai una faccia normale! Fai una faccia normale, subito!

Annaspò cercando di riprendere fiato e si sforzò di sorridere, cosa che le venne malissimo. Ridacchiò isterica, mettendosi seduta e sistemandosi nervosamente i capelli. «Niente. Geografia. Cose stupide e noiose. Ora vado eh? Prima che arrivi…» …la strega. Abbracciò il libro cercando di coprirne una porzione più ampia possibile e si incamminò a passo svelto, ma Etienne la fermò. «Aspetta!»

Ok, ora, prima che possa parlarne con qualcuno, ti giri e gli tiri il libro su una tempia. Di spigolo, così fa più male. Poi scappi. Al mio tre. Uno, due…

Emma scrollò la testa, cercando di non farsi prendere dal panico. Non avrebbe tirato il libro in testa ad Etienne… e poi dove avrebbe potuto scappare?

«Volevo ringraziarti per non aver parlato con nessuno di me e…» Nemmeno lui pronunciò il nome di Rebecca. Sembrava essere diventato una specie di tabù.

«Non fa niente B… Etienne. Non è che avessi qualcuno con cui parlarne, no?»

Bugiarda! Ne hai parlato con quella spostata della tua compagna di stanza. Emma serrò le labbra e pregò che quella voce insistente se ne stesse zitta. Yuri non contava.

Etienne scrollò le spalle. «Grazie lo stesso. Mi dispiace che lei sia così meschina con te… le ho chiesto di smettere, ma…»

Emma gemette. «Non insistere. Si accanirà ancora di più, solo per ripicca.» Etienne annuì con aria rassegnata.

«Beh, allora vado!» Prima che potesse fermarla ancora Emma trotterellò via, ancora abbracciata al libro e facendo muovere la stessa lastra di pietra che l’aveva tradita la volta prima.

 
Aveva bisogno di un altro posto dove leggere ora. Salì al terzo piano della biblioteca, dove erano conservate le vecchie tesi degli studenti dell’accademia. Uno dei pochi posti ad essere tranquillo come l’area di geografia. Di sicuro lì avrebbe trovato un mucchio di cartacce dietro cui nascondere il libro, e nel frattempo poteva sfruttare l’ultima luce del pomeriggio per leggere.

Sempre accogliente fu l’isola di Arhal con profughi e migranti, tanto che numerose genti abitano questa terra. Certo anche le nostre genti, provate dalle guerre e dalle carestie di quest’ultimo secolo, vi troveranno un luogo dove vivere in pace.

Ohey!!!

Ho finalmente concluso il mio girovagare estivo (purtroppo) e sono pronta a caricare un nuovo capitolo! Yeeeeeeey! Forse questa volta ho sforato un po' nella demenzialità? Non so, una parte del capitolo l'ho scritta da ubriaca XD Fatemi sapere se devo trattenermi o se avete apprezzato e devo fare scorta di limoncello. 

Yuri fa la finta tonta ma rivela anche lati abbastanza inquietanti e vendicativi del suo carattere, ed Emma rivela attitudini da giocoliere con il suo numero con la scodella di minestra. Forse in un altra vita si guadagnerà da vivere lavorando in un circo!

Prossimamente può darsi che rallenterò il ritmo, visto che sarò molto impegnata, ma pian piano continuerò ad andare avanti, per cui abbiate fede!

A presto! <3 羽毛

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Capitolo 7
*** Lo studio ***


Lo studio

Lo studio

«Ripetili ancora una volta.» Lo esortò con la pazienza agli sgoccioli. Anton la guardò con astio, come se lei fosse un’aguzzina che lo stava interrogando sotto tortura.

«Ma che palle! Li so ormai!»

«No, non li sai invece. Vuoi essere bocciato?» Anton sbuffò e imprecò peggio di un adulto, nonostante non avesse ancora dieci anni. «Se mi dici giusti i nomi dei rioni e delle gilde poi ti faccio copiare il resto dei compiti.» Il suo amico si illuminò speranzoso e raccolse le idee con una smorfia di concentrazione. «I rioni: Sianel ha i canali, Abincil i campi, Rudnik il legno, Berhan gli animali. Le gilde: i tipografi-librai, i medici-erboristi, i mercanti-artisti e i giudici-contabili.»

Emma chiuse il libro con uno scatto irritato. «Se li sapevi perché stiamo qui da due ore? Volevi solo strapparmi la promessa di farti copiare, vero?» Anton le rivolse un sorriso sornione, confermando i suoi sospetti e facendola infuriare.

Ormai aveva promesso, quindi gli lanciò il quaderno con malagrazia, sperando di colpirlo sul naso, ma Anton aveva i riflessi troppo pronti. Prese al volo il quaderno e lo aprì sul tavolo della cucina deserta. I suoi genitori erano entrambi a lavoro, quindi si ritrovavano sempre lì a fare i compiti, nella fresca penombra dei pomeriggi estivi o accanto al fuoco caldo del caminetto durante i mesi invernali.

«Dai Em, non fare quella faccia. In fondo queste cose a che ci serve impararle? Non ce ne andremo mai da Sianel.»

«Ma sapere com’è fatto il mondo in cui vivi è importante! E poi…» Arrossì. Un po’ per rabbia, un po’ perché lo teneva per sé da troppo tempo, decise di dirglielo. «E poi parla per te. Io andrò via da Sianel. Io voglio andare all’Accademia.» Anton lasciò cadere la penna e la guardò atterrito.

«Mi prendi in giro.» Emma era sempre più rossa ma si costrinse a guardarlo negli occhi con aria di sfida, anche se sentiva che stava per mettersi a piangere.

«No. Ci vado davvero.»

Anton assunse un’espressione assieme spaventata e mortificata. «Perché? È colpa mia? È perché ti faccio i dispetti? O perché devi sempre obbligarmi a fare i compiti? Da adesso li faccio da solo, ok?» Chiuse il quaderno di Emma e lo spinse verso di lei, come un goffo gesto di pace.

Emma sentiva le guance bruciare e non riuscì più a sostenere lo sguardo dell’amico. Si mise le mani sotto le cosce e si fissò le ginocchia che spuntavano sotto il lunghissimo orlo della gonna, poi scosse la testa. «No… non è colpa tua.»

«È per tua mamma allora? Se vuoi non ci devi più tornare a casa. Resta qui. Ti cedo il mio letto, dormo per terra!» Emma esitò. Allontanarsi da sua madre forse era uno dei motivi, era inutile fingere che non fosse così. Ma non era quello più importante. Iniziò a dondolare i piedi, a disagio. «Non è nemmeno per lei… non solo.»

«E allora perché?» Emma lo guardò di sottecchi, sapendo che l’avrebbe considerata completamente matta. Pensò agli strani sogni che faceva, soprattutto in primavera, in cui sentiva il vento sulla pelle e l’aria pulita riempirle i polmoni. Non c’era mai vento nella città. Le mura lo fermavano.

«Voglio solo… imparare di più. Su quello che c’è fuori.»

 

Ormai era quasi maggio ed Emma, invece di essere in camera sua a studiare e a recuperare la montagna di compiti che si era lasciata dietro, era sdraiata sul pavimento del secondo piano della biblioteca, i piedi appoggiati su uno scaffale e l’atlante aperto a metà sullo stomaco. Sussurrava, contando sulle dita, le diverse etnie che aveva scoperto che abitavano sull’isola. Gli Yubo, pastori nomadi e stregoni, che veneravano la terra. Gli Ama delle coste, che si tuffavano nudi nel mare per raccogliere molluschi e perle. I Suijin del lungo fiume, che vivevano di pesca e di commercio e abitavano in palafitte per difendersi dalle alluvioni… poi gli stranieri del sud che hanno costruito Khot… e poi…

Si sforzò di ricordare, ma le notte insonni passate a rimuginare su quello che stava leggendo si fecero sentire. Le palpebre si abbassarono mentre le guglie, i campanili e i tetti rossi di Khot le balenavano davanti agli occhi, con il loro aspetto nuovo e splendente. Era così diversa dalla Città… L’autore diceva che era pieno di aiuole fiorite, rampicanti e viali alberati sotto cui le persone andavano a passeggio.

I suoi piedi calpestavano la strada lastricata con un leggerissimo scalpiccio mentre avanzava fra le due file di ficus giganteschi. Le radici di quegli enormi alberi avevano sollevato le pietre in più punti, liberando la terra che secoli prima gli uomini avevano inutilmente tentato di imbrigliare. Accanto a un palazzo senza più il tetto sorgeva quello più grande di tutti. Un vero e proprio colosso, con radici più alte di lei e alcuni fittoni che scendevano dalla chioma, facili da scalare. «Qui è perfetto, non mi troveranno mai!»

«Mah, non saprei signorina Creuza. Se un vecchio professore venisse qui a cercare dei documenti potrebbe scorgerla così com’è… Emh… Sdraiata sul pavimento.» Emma spalancò gli occhi e si sedette di scatto tossendo, convinta che avrebbe sputato il cuore ai piedi del professor Astropher da un momento all’altro. «Pro… prof… mi scusi.» Balbettò riguadagnando una posizione più o meno dignitosa. Guardò quell’omino canuto di sottecchi e vide che sorrideva divertito, agitando una mano. «Non si preoccupi. Fa molto caldo in questi giorni, non trova? Io stesso amo schiacciare un pisolino sotto la scrivania, nelle ore più calde. Il pavimento è piacevolmente fresco.»

Emma sorrise imbarazzata, alzandosi a fatica, con il corpo intorpidito per essere rimasta a lungo sdraiata sul pavimento duro. «Piuttosto, signorina… trovo il suo elaborato finale un po’ più scialbo del solito. Di solito i suoi compiti sono una lettura gradevole, ma questa volta… emh… ha consegnato tre sole pagine. Una delle quali contiene in effetti… Ecco… Compiti di scienze matematiche.» 

Sentì l’improvvisa voglia di rannicchiarsi su sé stessa, fino a raggiungere le dimensioni di un secchiello. Un secchiello colmo fino all’orlo di vergogna. Il professor Astropher rise, probabilmente divertito dalla sua espressione da penitente. «Non c’è bisogno che si senta così mortificata, signorina. Lei è una studentessa irreprensibile. Sono sicuro che è stata solo… emh… distratta da terzi. Ho notato che riceve… come dire… attenzioni indesiderate.»

«Oh, no, non è quello il problema professore!» Esclamò prima di potersi fermare. Astropher la guardò incuriosito.

«Bene, bene! Sapevo che non è il genere di studentessa che si lascia distrarre da queste… ecco… faccende. Qual è il problema, dunque?»

Dì quello che vuoi. Inventa una balla. Basta che non guardi l’atlante. Quell’atlante che sta lì, sul pavimento. Quello che hai dimenticato di chiudere e nascondere prima di addormentarti. Quello per cui potrebbero impiccarti sulla pubblica piazza, hai presente? Ecco, se ne sta lì buono, non l’ha notato, basta che non giri gli occhi…

Era stato più forte di lei. Quando il professore le aveva fatto quella domanda i suoi occhi erano corsi a guardare l’atlante aperto sul pavimento. Dalla pagina di sinistra tre bambini Suijin salutavano allegri nei loro strani abiti larghi dei colori della foresta.

Basta. Io me ne vado. Tanto non mi ascolti mai.

Il professor Astropher impallidì visibilmente, seguendo il suo sguardo. Emma aveva la sensazione che il pavimento fosse scomparso da sotto i suoi piedi, sostituito da un terreno molle e instabile come gelatina. Voleva implorare il professore, giurare che il libro non lo stava leggendo lei, ma sembrava che non ci fosse aria sufficiente nei suoi polmoni per dire qualcosa di intellegibile.

Astropher si limitò a sospirare e a scuotere la testa con aria stanca. «Non si allarmi, signorina Creuza. Non sarò certo io a tradirla.»

Alzò lo sguardo, senza osare prendere fiato, e arretrò di un paio di passi per appoggiarsi allo scaffale. Aveva l’impressione che non sarebbe riuscita a reggersi in piedi ancora a lungo. «Venga nel mio studio, questa sera alle otto. E sia più prudente, con quell’arnese.»

Detto questo il professore le voltò le spalle esili e si allontanò, senza aggiungere altro.

 

Yuri sgranò gli occhi, mentre Emma le raccontava di quello che era successo in biblioteca. Poi, visibilmente pallida, alzò gli occhi al cielo e sbuffò, rimproverandola. «Cavolo Emma! Vuoi farti uccidere? Perché se è così conosco modi più semplici e indolori!»

Non ne dubito. Commentò la vocina nella sua testa, mentre lei sedeva sul letto con le mani sotto alle cosce, fissandosi una macchiolina sulla punta di una scarpa. Se il suo cuore non avesse rallentato i battiti probabilmente avrebbe avuto un infarto da un momento all’altro. Yuri si sedette accanto a lei, abbastanza vicino perché i suoi capelli lunghi le sfiorassero il braccio, facendole il solletico. «Astropher è a posto. Sono sicura che è vero che non ti denuncerà. Gli è bastata un’occhiata per riconoscere il libro, quindi l’ha letto anche lui, no?» Aveva senso. Certo, doveva essere così. Emma si sentì subito un po’ rincuorata. Certo che Astropher non l’avrebbe denunciata, anzi, forse le avrebbe dato addirittura delle risposte!

Yuri le tirò un lieve scappellotto, che le strappò un grido di sorpresa. «Non ti rilassare così solo perché questa volta ti è andata bene! Sta più attenta, scemotta!» Emma sorrise imbarazzata, massaggiandosi la nuca.

«Hai ragione, scusa.»

«Vuoi che ti accompagni dal professore?» Valutò un attimo l’offerta. Le piaceva l’idea di non affrontarlo da sola, ma se Yuri fosse andata con lei Astropher avrebbe saputo che era coinvolta. Scosse la testa, a malincuore.

«Meglio di no.»

 

Nonostante tutta la logica di Yuri, quando bussò alla porta del professore si sentiva di nuovo ansiosa e scombussolata. Il cuore le rimbombava così forte nelle orecchie che sentì appena la voce esitante del professore invitarla ad entrare, tanto che pensò quasi di essersela immaginata.

Indugiò un attimo, poi aprì la porta piano, con estrema cautela. «Venga, signorina Creuza. Come può vedere non ci sono guardie. Soltanto noi due.»

Aprì l’uscio quanto bastava per passare e strisciò nello studio. Era una stanza angusta, stracolma di libri e di strumenti per calcolare il moto delle stelle. La scrivania in legno scuro occupava gran parte della stanza e si intravedeva a stento sotto tutti gli strani oggetti in ottone e le carte che la ricoprivano. Le gambe sottili erano così tappezzate di incisioni che sembrava un miracolo che reggessero ancora il peso del ripiano e dei libri senza spezzarsi: secondo una leggenda, se uno studente dell’ultimo anno riesce a entrare nello studio dalla finestra e a incidere il suo nome nella scrivania, ha la promozione assicurata agli esami finali. Il professor Astropher non aveva mai dato segno di interessarsi alla condizione della scrivania, anzi, continuava a lasciare la finestra aperta durante gli ultimi mesi dell’anno. «Se rompessero il vetro per entrare nello studio potrebbero farsi male.» Spiegava a chiunque gli consigliasse di chiuderla.

Emma era stata molte volte in quello studio e, senza bisogno che il professore la invitasse ad accomodarsi, liberò la solita sedia da un mucchio di libri e si sedette nervosamente sull’orlo, senza osare alzare lo sguardo.

«Dunque anche lei ha avuto modo di leggere quel libro, eh? Non sono molto sorpreso.» Osservò con voce pensosa. «Avanti, signorina. Lei è curiosa come un gatto. Sicuramente avrà domande da farmi.»

Emma esitò un secondo. Pensava di essere lì perché il professore voleva farle delle domande, una lavata di capo, assegnarle una punizione… non si aspettava che l’avrebbe invitata a chiederle quello che voleva.

«Professore lei… ha letto il libro?»

Astropher annuì piano. «Mmh. L’ho letto prima ancora di frequentare l’accademia. Fu scritto da un mio antenato, sai? Ne abbiamo una copia in casa.»

Emma lo guardò semplicemente a bocca aperta, come se i baffi canuti dell’anziano docente fossero improvvisamente diventati azzurri. Il professore la liquidò con un gesto della mano. «Oh, non faccia quella faccia. Molti qui mi considerano bizzarro, non è così sorprendente che abbia antenati… emh… particolari.»

«Quindi è lei a mettere il libro sugli scaffali?»

«Per mettere in pericolo la vita di studenti imprudenti e ingenui che non hanno idea di cosa stanno leggendo? Certo che no!» Emma storse la bocca in una smorfia leggermente offesa, che si affrettò a nascondere. Il professore aveva il volto infiammato e la voce molto più ferma del solito. Se non fosse stato Astropher, l’insegnante mite che conosceva da anni, avrebbe pensato quasi che fosse arrabbiato.

«Allora chi l’ha messo?»

«Questo non lo posso dire. Se finirà di leggerlo, loro la contatteranno. Cosa che da un lato… emh… mi sento di sconsigliarle.»

Proprio lui, che rischiava ogni anno il posto e la libertà perché si ostinava a insegnare cose che non avrebbero dovuto sapere, adesso le stava consigliando di non proseguire nella lettura? Non era una cosa un po’ ipocrita e contraddittoria?

«Vede, signorina Creuza… io certo vi parlo un po’ del mondo esterno. Di come era in passato, di come è stato esplorato, un tempo. Purtroppo è più forte di me. Ma non vi do dettagli concreti, non come quel libro. Le cose che legge lì sopra non faranno altro che farle venire il desiderio di uscire dalle mura e verificare con i suoi occhi. E quel desiderio è destinato a rimanere frustrato. Conosco molte persone che saprebbero… emh… incanalare la sua frustrazione per i loro scopi. Ecco perché fanno trovare il libro a studenti giovani e… ecco… malleabili.»

«Io voglio solo sapere.» Biascicò Emma strusciando i piedi sul pavimento. Sapeva che non sarebbe mai uscita dalla città, ma sapere che c’era qualcosa al di là delle mura per qualche motivo l’avrebbe fatta sentire meglio.

«Il sapere può essere difficile da gestire, signorina. Se lei si sente in grado, allora… lo legga pure. Ma si ricordi di quello che le ho detto e soprattutto stia attenta a… emh… non farsi beccare.»

Emma annuì, perplessa. La sua mente stava cercando di seguire così tanti pensieri nello stesso momento che le sembrava di avere uno sciame di mosche nella testa, che volavano in giro rimbalzando da una parte all’altra con un gran ronzio e senza logica apparente.

«È bene che tenga presente che, qualsiasi cosa dica il libro, fuori dalle mura non è più possibile vivere. Tutto quello che sta leggendo e che le fa perdere il sonno, non esiste più.» Annuì di nuovo, lentamente, guardando di sfuggita gli occhi seri del professore.

Le fece un cenno con la mano, segnalandole che l’udienza era finita, ma quando Emma aveva già la mano sulla maniglia la richiamò indietro. «Prima di avere contatti con queste persone… particolari, in ogni caso, le consiglio di chiedere a sua madre qual era il suo vero nome, se non vuole che usino la sua stessa storia contro di lei.» Emma sbatté le palpebre, chiedendosi se il professore non fosse stato colpito da demenza senile. «Mi scusi, non capisco cosa intende dire.»

Astropher incrociò la studiò da sopra le mani intrecciate. «Dovrebbe semplicemente andare da sua madre e farsi spiegare la storia della sua famiglia.»

«Io non parlo molto con mia madre.» Confessò Emma, spiazzata. Il professore annuì.

«Ne ero al corrente.»

Iniziò a sentirsi irritata, cosa che pensava non le sarebbe mai successa nei confronti di un uomo così mite, ma la sensazione di essere deliberatamente tenuta all’oscuro di informazioni importanti la innervosiva.

«Non potrebbe semplicemente dirmelo lei, visto che sembra sapere tutto?» Si morse le labbra, le guance accese di rabbia, in parte pentita di aver parlato così acidamente, in parte convinta che parlare in modo sibillino avrebbe dovuto essere punibile per legge. Ma il professore sembrò non farci caso, si limitò a scuotere la testa con un sorriso enigmatico. «Non mi permetterei mai. Sarebbe troppo indiscreto.»  

«Ma…»

«Buona notte, signorina Creuza. E sia più prudente.»

Emma ingoiò le proteste e uscì sbattendo la porta più forte di quanto avrebbe voluto.

 

Percorse il corridoio a passo marziale, infuriata con il professore. Era una bassezza incredibile dire delle cose così ambigue e rifiutarsi di spiegarle. L’aveva invitata a fare delle domande e poi non aveva risposto a niente! Che cos’era, una tecnica per farle venire l’insonnia, così avrebbe avuto più tempo da dedicare ai suoi stupidi compiti?

Girò l’angolo senza guardare e quasi andò a sbattere contro Alì. Lo fulminò con lo sguardo e si morse la lingua per non scaricare su di lui tutte le parole astiose che avrebbe voluto rivolgere al professore, poi girò attorno alla mole considerevole del ragazzo di Berhan per riprendere la sua marcia rabbiosa. «Oh, Emma, aspettami! Sto andando anche io al dormitorio!»

«Io no.» Mentì subito Emma. «Sto andando nella sala studio.»

«Bene, ti accompagno.»

Emma lo squadrò sospettosa, aspettandosi un tiro mancino da un momento all’altro. «Perché dovresti?»

Alì esitò, la pelle bruna del volto arrossì leggermente. «È perché ho visto che gli altri studenti ti mettono un po’ in difficoltà ultimamente. Forse se non fossi sola ti lascerebbero in pace.»

«Sei gentile ma non c’è bisogno.»

«Lo faccio lo stesso.» Emma valutò per un attimo l’idea di tirargli un pugno e scappare, ma probabilmente non avrebbe sortito nessun effetto visto che Alì aveva la taglia di un armadio a due ante. Decise quindi di ignorarlo e procedere per la sua strada come se non esistesse.

«Eri dal professor Astropher? È il tuo relatore vero?» Emma annuì secca. «Che ti ha detto?»

Che ti importa?

«Niente! Non mi ha detto proprio niente! È questo il problema! Prima mi dice di chiedergli quello che voglio, poi mi dice che non può rispondere e che sarebbe indiscreto!» Sbottò prima di potersi controllare. Poi si girò per affrontare il ragazzo, che la fissava perplesso e forse anche un po’ spaventato. Emma era sempre stata, agli occhi di tutti, una ragazzina timida, minuta e silenziosa, e ora gli stava facendo una sfuriata in mezzo al corridoio per chissà quale motivo.

«Senti, sei più o meno gentile a preoccuparti, ma proprio non mi piace avere qualcuno che mi segue. Tantomeno se vuoi fare conversazione!»

«Umh… ok.»

Senza aggiungere un'altra parola Emma scostò un arazzo e imboccò la scala di servizio che era nascosta lì dietro. Alì non la seguì.

Heyyyy! E' una vita che non aggiorno, chiedo venia e faccio penitenza. 

Purtroppo impegni universitari e sociali mi hanno tenuto alla larga dal computer. Anche questo weekend ho dovuto schivare una serie di apericena e tango argentini per poter scrivere. Vita dura. Farò del mio meglio per aggiornare ogni due settimane comunque!

Non so se anche a voi chi vi accenna qualcosa e poi non vi dice nulla perché è un segreto fa arrabbiare come fa arrabbiare me ed Emma. In tal caso chiedo venia! Prima o poi comunque tutte le domande troveranno risposta.  Prima o poi. <3

A presto spero! 羽毛

Oh, e se vi interessa vedere una cartina della città disegnata in modo orripilante con paint, fatemelo sapere che la metto su facebook. Ma quando dico orripilante intendo seriamente orripilante. Livello terza elementare.

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Capitolo 8
*** L'archivio ***


L'archivio

L'archivio

Ormai aveva imparato a capire quando sua madre stava per avere un attacco di rabbia. Iniziava dalle mani, che si contraevano a un ritmo sempre più frenetico. Poi le sedie rovesciate, gli oggetti lanciati, e infine le urla.

Di solito cercava di abbandonare la casa prima che lei iniziasse a lanciarle qualsiasi oggetto contundente le venisse a tiro, ma quella sera non era stata abbastanza svelta, così dovette schivare una serie di oggetti volanti mentre prendeva i libri di scuola e guadagnava l’uscita.

Non la guardò nemmeno in faccia. Non lo faceva da anni. Per lei sua madre era solo una specie di figura indistinta, magra, sciupata e dai capelli biondo-grigiastro. Non ricordava di aver mai ricevuto un gesto d’affetto da lei, né di averla mai vista sorridere. Non le aveva mai nemmeno rivolto la parola, se non per urlarle le solite cose. Quelle che stava urlando anche in quel momento, mentre si chiudeva la porta di legno alle spalle e ci si appoggiava sospirando e ricacciando le lacrime.

«Tu non sei mia figlia.»

Era quasi estate, quindi anche se l’ora di cena era passata c’era una luce crepuscolare grigia e piatta, che rendeva le case dei canali ancora più decadenti del solito.

Anton la aspettava seduto sulle scale, con il quaderno di scuola aperto sulle ginocchia e l’aria di chi era lì per caso. «Hey, li hai già fatti i compiti per domani? Mi fai copiare?» Emma sbuffò nascondendo un sorriso e si finse spazientita.

«Non sei capace di farteli da solo, scemo?» Anton scrollò le spalle, ed Emma si rassegnò con altezzosità simulata. «Va bene dai. Per questa volta.»

In realtà era una recita, una specie di rituale tutto loro. Emma sapeva benissimo che Anton si teneva sempre i compiti per l’ultimo minuto, così nel caso lei avesse avuto bisogno di una via di fuga, lui poteva offrirgliene una senza essere invadente.

Lei faceva finta di prendersela tutte le volte, come per dimostrare di essere completamente ignara della strategia di Anton, però portava sempre con sé la borsa dei libri. Lui finge di non sapere, io fingo di non sapere che lui sa, lui finge di non sapere che io so che lui sa. Pensava attorcigliandosi oziosamente la mente attorno a queste strane dinamiche, nello stesso modo in si attorcigliano i capelli attorno alle dita quando si è pensierosi.

Il loro posto preferito era un ponte di pietra, di quelli senza parapetto che facevano venire gli incubi a tutte le madri dei rioni. Si inarcava sopra a un canale stretto e con pochissima acqua, trascurato e pieno di foglie marce, in mezzo alle quali si aggiravano pigre un paio di carpe dall’aria malaticcia.

Era al secondo livello, non a quello dei bassifondi, quindi il canale era quattro o cinque metri sotto di loro. Comunque ancora troppo in basso per i gusti di Agnes, che se li avesse saputi lì avrebbe staccato loro le orecchie: i livelli che i ragazzini per bene potevano frequentare erano dal terzo in su.

Come se non bastasse, nessuno passava di lì, perché era quasi al confine con la zona interdetta. Le case erano disabitate da molti anni e cadevano a pezzi, con le imposte mezze staccate e il sole che filtrava dai buchi nel tetto.

Emma lanciò sassi e pezzetti di muschio in acqua, osservando le carpe affannarsi attorno al punto dove erano caduti sperando di trovare del cibo, mentre Anton copiava diligentemente le risposte alle domande sui patroni che stavano studiando in quei giorni. «… e il centotrentaduesimo patrono Ericsen IV nella sua munificenza decise che i primogeniti avrebbero potuto ereditare il mestiere dei padri, i secondi avrebbero servito le mura… mancano i terzi! I terzi servono la terra!»

«È solo un modo di dire scemo! Perché si dice che i terzi diventano criminali, ma non è una legge. È una stupida superstizione. Non c’è nessuna regola per i terzi.»

«Ah.» Sembrava ancora perplesso.

«Copia e basta, che è giusto.»

«Ma anche tutti questi paroloni? Che cavolo vuol dire munificenza, almeno lo sai?» Emma si sentì offesa. «Certo che lo so, è inutile che provochi solo per fartelo spiegare. Vuol dire che è stato magnanimo.» Anton sollevò un sopracciglio. «Buono e generoso!» Semplificò Emma scocciata.

Anton sbuffò divertito. «Magnanimo come sto cazzo.» Emma gli tirò uno scappellotto, un po’ divertita un po’ spaventata.

«Non farti sentire mentre dici queste cose!»

«Cosa, sto cazzo?»

«Lo sai benissimo cosa.» Anton sbuffò e finì di copiare scrupolosamente ogni risposta. Sapeva benissimo che erano giuste, Emma prendeva sempre appunti in classe, parola per parola.

«Ma tu almeno ci credi a tutte ste boiate?» Le chiese corrucciato. «Perché a me fanno venire i brividi.»

«Vuoi stare zitto o hai il desiderio segreto di farti strappare la lingua? Non c’entra se ci credo o no. Sono compiti e basta.»

«No che non lo sono. È indottrinamento.» Emma lo guardò con gli occhi sgranati.

«Non conosci la parola “magnanimo” e conosci “indottrinamento”? Dove l’hai sentita?» Anton diventò rosso e non rispose.

«Vorrei almeno che non facessi il test per quella stupida scuola da fregnette.» Emma sospirò.

«Tre anni. Ci sono ancora tre anni di scuola rionale prima che possa fare il test. Intendi fare lo stesso discorso ogni giorno fino ad allora?» Anton scosse la testa rassegnato.

«Che facciamo cretina, torniamo a casa?» Emma lanciò un altro sasso nel canale. Non intendeva affrontare la rabbia di sua madre prima del tempo.

«No. Andiamo al pozzo.»

 

«Tu sai qualcosa che non mi vuoi dire!» Dopo una notte passata ad arrovellarsi su quello che il professor Astropher si era lasciato sfuggire, aveva improvvisamente realizzato di avere a portata di mano una persona a cui estorcere informazioni.

Stavano lavando i vetri del corridoio del terzo piano e Yuri stava passando lo straccio sullo stesso punto da quasi dieci minuti, con lo sguardo perso nel vuoto.

Emma la osservò corrucciata. Era evidente che non l’aveva nemmeno sentita. Forse era morta nel corso della notte e nessuno gliel’aveva detto, per questo Yuri non poteva né vederla né sentirla e aveva un’aria così funerea.

O più probabilmente la stava bellamente ignorando.

Spazientita sventolò lo staccio a un palmo dal suo naso, spruzzandole acqua insaponata sul viso. Con la massima lentezza l’attenzione di Yuri si focalizzò finalmente su Emma, che era a un passo dal mettersi a saltellare in preda al nervosismo.

«Cosa c’è?» Chiese con voce trasognata.

«Dimmi cosa succede quado finisci di leggere il libro!» Yuri riprese a passare lo straccio, meditabonda.

«Mmh… di solito quando finisco di leggere un libro ne inizio un altro. Cos’è, un indovinello?»

Questo straccio è bello lungo e resistente. Sembra fatto apposta per strangolare le persone… non può volerci più di un minuto, poi la spingi di sotto e dici a tutti che è stato un incidente.

Emma scacciò quella voce molesta stringendo i denti e scuotendo la testa.  Ormai lo sapeva, Yuri si comportava così apposta per irritare le persone. Se avesse reagito arrabbiandosi non le avrebbe cavato una parola di più. Però se faceva una faccia abbastanza afflitta…

«Dai, per favore… lo sai cosa voglio dire!» La voce le uscì patetica come il miagolio di un gatto affamato, e Yuri dovette nascondere un sorriso.

«Non vorrai mica conoscere il finale. Se conosci il finale di un libro leggerlo tutto diventa noioso…»

«Ma è un atlante, non un romanzo di avventure! Io voglio sapere se dopo ti ha contattato…» Si interruppe all’improvviso, notando lo strano sguardo negli occhi di Yuri. Sembrava quasi spaventata.

«Qualsiasi cosa ti abbia detto il professore, non parlarne con nessuno. Nemmeno con me.» Emma la fissò confusa, stupita dalla nota di rabbia nella sua voce.

«Non…»

«Shush! Silenzio! Non dire nulla.»

«Ma lui non…» Yuri le mise una mano sulla bocca, impedendole di parlare ed Emma la scostò con rabbia, reprimendo l’istinto di morderla.

«Non dirmi nemmeno cosa non ti ha detto, ok? Tutto quello che devi sapere è che… finisci il libro solo se te la senti di affrontare le conseguenze.»

«Quali conseguenze?»

«Non importa quali. Qualunque conseguenza.»

Emma mandò al diavolo il suo proposito di non arrabbiarsi e gettò con violenza lo straccio nel secchio, spruzzando acqua su tutto il pavimento. «DIMMELO!»

Yuri sospirò, ricominciando a lavare il vetro. «Non te lo posso dire.»

«E che succederebbe se me lo dicessi?»

«Non posso dire nemmeno questo.»

Emma gemette, frustrata, raccolse sdegnosamente lo straccio e iniziò a infierire sulla povera finestra, che non aveva più nessun bisogno di essere pulita e rischiava solo di andare in frantumi.

«Stai cercando di rompere il vetro?» Chiese Yuri con tono preoccupato. Emma la fulminò con lo sguardo, pensando di imprecarle contro nel modo più volgare possibile, poi scrollò le spalle. «Non lo posso dire.» Annunciò scimmiottando il tono di Yuri.

«Non sei così arrabbiata se hai voglia di scherzare.» Decise Yuri seraficamente.

«Sì che sono arrabbiata! È che ho un modo infantile di dimostrarlo, va bene?» Lanciò di nuovo lo straccio nel secchio e se ne andò, infuriata, lasciando che fosse Yuri a portare le cose in magazzino.

 

Emma si era ritrovata di nuovo nell’archivio, sdraiata sul pavimento fresco, e fissava il punto in cui aveva nascosto l’atlante qualche giorno prima. Si era presa un po’ di tempo per riflettere su quello che le aveva detto il professore, sull’allusione di Yuri al fatto che doveva essere preparata a qualsiasi conseguenza.

Erano giorni che teneva il muso alla sua compagna di stanza. Una cosa stupida, faticosa e inutile. Quella mattina era cominciata la settimana dorata, in cui ogni gilda e ogni rione organizzava una festa per celebrare il culmine della primavera, e Yuri, come tanti altri studenti, era tornata a casa. Aveva dovuto fare uno sforzo per salutarla con freddezza. Era una cosa senza senso e decisamente troppo infantile, persino per lei. Decise che quando sarebbe tornata, alla fine della settimana, le avrebbe chiesto scusa per essersela presa così tanto.

Nel frattempo aveva un altro problema da risolvere: l’atlante. L’avrebbe finito o l’avrebbe rimesso sul suo scaffale?

Se fosse stata saggia l’avrebbe messo via, avrebbe fatto finta di nulla. Si sarebbe diplomata, avrebbe trovato un lavoro tranquillo in biblioteca…

Ma lei voleva sapere. Astropher con le sue allusioni, Yuri con i suoi “non lo posso dire”, non avevano fatto altro che soffiare sul fuoco che da sempre le bruciava dentro ogni volta che c’era qualcosa da imparare o da scoprire. Non era nemmeno una vera scelta: lei aveva bisogno di sapere.

Senza più esitare prese il libro e si immerse nella lettura. Un mondo sconosciuto le si spalancò davanti agli occhi, dove la magia era una realtà tangibile, gli spiriti si aggiravano fra gli umani, carovane di mercanti viaggiavano lungo pendii spazzati dal vento e alla fine di ogni autunno la neve copriva le montagne come una cuffia di lana candida. La poca neve che cadeva in citta dopo poche ore era solo una poltiglia marrone, e dopo meno di un giorno di solito era sciolta. Doveva essere strano vedere il mondo coperto da una coltre bianca per mesi e mesi di fila.

Arrivò all’ultima pagina con il cuore e la mente in subbuglio. Si era aspettata di leggere di una guerra o di qualche evento catastrofico che avessero cambiato la fisionomia dell’isola, ma l’autore si limitava a descrivere tutto quello che aveva visto, suggerendo di mandare un piccolo gruppo di coloni per costruire una nuova città.

Trovo adeguato inviare una delegazione di uomini e donne, che possano costruire da principio una comunità in cui i nostri compatrioti possano vivere nella pace e nella prosperità di queste terre.

Si guardò attorno nervosa. Sarebbe successo qualcosa adesso? Girò nervosamente un paio di pagine bianche, e sul retro della copertina vide un lungo elenco di nomi e date. I primi risalivano a una cinquantina di anni prima, l’inchiostro ormai era sbiadito. L’ultimo risaliva all’inverno di quello stesso anno. Doveva essere Yuri, per forza, anche se si era firmata con un nome falso: Gatta D’Agosto.

Le venne quasi da ridere. Solo Yuri poteva uscirsene con un nome tanto strano e stupido. Gli altri nomi, con poche eccezioni (circa sei anni prima c’era un certo “Signor Scoreggia Stantia”) erano seri, quasi pomposi. Lei come avrebbe potuto firmarsi? Visto come si era comportata con Yuri in quei giorni, forse “Zitella Dodicenne” sarebbe stato lo pseudonimo più adatto a lei, ma non ci teneva ad essere ricordata dalle generazioni future in quel modo.

Ci rifletté un attimo, poi, preso un pennino dalla borsa, fece un semplice disegno di due carpe che nuotavano in cerchio. Scrisse accanto la data e decise che sarebbe stato sufficiente come segno del suo passaggio. Perché poi avrebbe dovuto firmare? Chi glielo imponeva?

Chiuse l’atlante sospirando, col cuore pesante e un leggero senso di delusione. Non che si aspettasse che qualcuno sarebbe saltato fuori dalle pagine del libro, o che per qualche magia si trovasse trasportata nello scenario di cui parlava… ma qualcosa del genere. O almeno la rivelazione del segreto delle mura. Invece di quelle non parlava per niente.

Se tutti vivevano in pace su quella terra perché erano state costruite delle mura per difendersi? E perché adesso non potevano abbandonarle senza perdere quanto meno il senno? Erano umani i nemici misteriosi di cui non si poteva parlare?

Piena di domande rimise il libro a posto e tornò in camera sua.

 

Erano passati due giorni da quando aveva finito di leggere l’atlante, e ancora non era successo nulla. Erano ancora nel bel mezzo della settimana dorata e lei era alla scrivania, cercando disperatamente di dedicarsi allo studio. Se non avesse recuperato tutti i compiti che aveva lasciato indietro sarebbe stata bocciata, e lei non aveva nessuna intenzione di andare a vivere nei rioni.

Eppure non riusciva a concentrarsi, era particolarmente consapevole del battito ansioso del suo cuore e del fatto di avere uno stomaco. L’aria calda, umida e stagnante alimentava la sensazione di angoscia e non era certo d’aiuto. Avrebbe voluto almeno mollare i libri e andare a immergersi nella vasca dell’acqua fredda, per togliersi di dosso quella sensazione di calore appiccicoso.

Fallo, che t’importa? Comunque è molto probabile che morirai prima degli esami. Non c’è bisogno di impegnarsi tanto.

La voce della sua coscienza prediceva sempre più frequentemente la sua morte, e anche questo non era d’aiuto. Doveva comportarsi normalmente, non destare sospetti, impegnarsi nello studio, e tutto sarebbe andato bene. Aveva controllato in biblioteca e l’Atlante era sparito, quindi presto una di quelle persone misteriose di cui le aveva parlato il professore si sarebbe messa in contatto con lei e finalmente ci avrebbe capito qualcosa. Fino ad allora doveva solo resistere alla tensione nervosa senza mettersi a correre nuda per i corridoi della scuola urlando e strappandosi i capelli.

Avrebbe tanto voluto confidarsi con Yuri in quel momento, ma non sarebbe tornata prima di tre giorni.

Qualcuno bussò piano alla porta e per la sua mente passò subito l’immagine di soldati in divisa che la trascinavano via urlante e scalciante. Sentì il cuore pulsare nei denti e nelle orecchie, mentre stringeva le mascelle.

Te l’avevo detto, avresti dovuto andare a farti un bagno. Hai sprecato l’ultimo pomeriggio della tua vita a studiare.

Però se fossero andati per farla sparire probabilmente non avrebbero bussato in quel modo esitante. Sì, avrebbero semplicemente buttato giù la porta. Cercò di tranquillizzarsi facendo un paio di respiri profondi e andò ad aprire incuriosita e preoccupata. Non le era mai successo di ricevere visite, non una volta in tre anni. Forse era un altro scherzo di Rebecca?

Era un ragazzo del primo anno, la pelle chiara lentigginosa e le spalle larghe. Veniva dal rione dei carpentieri.

«Posta.» Disse asciutto allungandole una lettera. Emma la prese titubante, ringraziandolo con un cenno del capo. Era una busta rossa con un sigillo ufficiale di Sianel.

Il suo cuore si fece pesante, ogni pulsazione era come un pugno contro il diaframma. Busta rossa di solito voleva dire brutte notizie. Era successo qualcosa a qualcuno.

Era successo qualcosa a Yuri? L’avevano fatta sparire mentre tornava a casa? Tutto per quello stupido libro, non l’avessero mai letto! Respirare era molto difficile, l’aria si fermava nella trachea rifiutandosi di raggiungere i polmoni affamati d’ossigeno.

Il ragazzino se ne era andato da un pezzo, mentre lei era rimasta paralizzata sulla porta, fissando la busta con orrore, senza il coraggio di aprirla, come se, rifiutandosi di prenderne atto, avesse potuto cancellare qualsiasi cosa orribile fosse successa. Con uno sforzo immane chiuse la porta e si lasciò scivolare a terra. Aprì la busta con le mani tremanti.

 

Ci duole informarla della prematura scomparsa di sua madre.

È pregata, in quanto parente più prossima, di raggiungere quanto prima la sua residenza nel rione di Sianel, per occuparsi delle esequie e ricevere l’eredità.

Yep, sono ancora viva.  <3

Lo so, è un finale di capitolo un po'... insomma... ecco. Ed Emma diventa un po' infantile quando qualcuno si rifiuta di rivelarle un segreto.  

Se vi fa sentire meglio ho già scritto buona parte del capitolo successivo, quindi probabilmente pubblicherò già nel week end! Forse. 40% di possibilità. Anzi, 35. Anzi, diciamo che posso promettere che un giorno pubblicherò! Abbastanza presto però! Pisendlov --- 羽毛

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Capitolo 9
*** Sianel ***


Sianel
Sianel

Il pozzo era un posto dove tutti i ragazzini del rione si riunivano ormai da generazioni. Quando venivi ammesso al pozzo, voleva dire che ormai eri grande. Era un rito di passaggio dal quale nessuno si poteva esimere, una prova di coraggio. Per un ragazzino poche cose sono inquietanti come ciò che il denso buio in fondo a un pozzo nasconde, e l’atmosfera sinistra era alimentata dai racconti strani che i ragazzi si scambiavano seduti lì attorno. Chiunque volesse prendere la parola doveva prima attingere l’acqua guardando nelle buie profondità del pozzo, recitando dei versi di cui nessuno ricordava l’origine:

Cigola la carrucola del pozzo,

L'acqua sale alla luce e vi si fonde.

Trema un ricordo nel ricolmo secchio,

Nel puro cerchio un'immagine ride.1

«Questa sera parlerai anche tu, Emma?» Le bisbigliò Anton provocatorio. Annuì decisa. Quella sera si sentiva temeraria, fino a quel momento, soprattutto per la timidezza, non se l’era sentita di alzarsi e raccontare una storia. In quel momento stava parlando un ragazzino della loro età, Ettore.

«Vi giuro che è una storia vera. Mio padre l’ha sentita da un tipo della gilda dei bottegai, che suo figlio fa il soldato, quindi lui ne sa, no?» Emma storse il naso per il discorso sgrammaticato. In fondo Anton non era così male, rispetto ad altri. Era un assassino di cungiountivi, ma a parte quello se la cavava. «Ha detto che hanno ritrovato questi corpi delle pattuglie esterne, dopo tipo un mese che erano spariti, no? E visto che volevano capire chi li aveva presi, li hanno portati dentro, nella zona interdetta, dove possono andare solo i soldati, e li hanno aperto la pancia per guardare le budella, così.» Mimò il gesto che avrebbe fatto per sventrare un pesce, allegramente. «Solo che dentro non c’era proprio NIENTE!» mise più enfasi che poteva sulla parola niente e sgranò gli occhi, per cercare di coinvolgere il suo pubblico. «Erano completamente vuoti. Perché i mostri che ci sono fuori ti succhiano fuori tutte le interiora dalla bocca e se le mangiano. Poi ci mettono dentro le uova al loro posto, che così stanno al caldo, e quando noi portiamo dentro i corpi BAM!» Picchiò un pungo contro un palmo aperto facendo sobbalzare tutti i presenti. «Si schiudono e succhiano gli organi dei dottori. Hanno trovato le uova che erano ancora chiuse e le hanno date a un tipo perché le buttasse via, solo che dopo un’ora hanno trovato il tipo vuoto come una zucca vuota e le uova scomparse. Sicuramente quei cosi si aggirano ancora qua attorno.» Concluse soddisfatto.

Anton sbuffò divertito. «Sono balle, ti sei inventato tutto! Figurati se portano uova di mostro dentro alle mura! Ve la racconto io una storia!» Attinse l’acqua dal pozzo con deliberata lentezza, guardando il buio sul fondo per tutto il tempo e recitando le parole di rito, poi salì in piedi sul bordo, perché tutti lo vedessero meglio. Probabilmente da qualche parte Agnes stava avendo gli incubi. «Qualche mese fa non riuscivo a dormire, e sono venuto al pozzo per vedere se c’era qualcuno, solo che faceva ancora molto freddo, quindi non c’era nessuno, erano tutti a dormire. Avevo sete e ho deciso di bere dal pozzo, ma visto che non c’era nessuno a guardare ho pensato che non ci fosse bisogno di dire le parole, ma mi sbagliavo.» Fece una pausa e bevve un po’ d’acqua dal secchio, poi lanciò un’altra occhiata in fondo al pozzo, giusto per fare il gradasso. «Ho sentito un rumore strano venire dal fondo, mentre tiravo su il secchio. Allora ho smesso di tirare la fune e ho teso l’orecchio per ascoltare. Forse qualcuno era caduto sul fondo? C’era qualcuno che parlava, con una voce strana.» Si schiarì la voce e iniziò a parlare con un sussurro ultraterreno e inquietante, guardando in basso in modo che il suo volto rimasse in ombra. «Perché… perché… Perché non hai cantato per me?» Urlò l’ultima parte saltando giù dal parapetto del pozzo, facendo urlare alcuni dei ragazzini più giovani e facendo accelerare il cuore di Emma, che senza volerlo indietreggiò vistosamente. «Poi è uscita una mano bianca, argentata, dell’esatto colore del riflesso della luce lunare sulla superfice dell’acqua. Mi ha afferrato per un braccio e ha cercato di trascinarmi sotto, ma io mi sono afferrato al bordo del pozzo. Ho iniziato a dire le parole, e man mano che finivo la poesia la mano bianca diventava sempre più inconsistente e trasparente. Alla fine sembrava un semplice raggio di luce, ed è scivolata di nuovo in fondo al pozzo.»

Forse la storia non era più spaventosa delle altre, ma Anton era un ottimo oratore. Tutti i ragazzi erano visibilmente scossi e si erano allontanati dal pozzo con diffidenza, qualcuno rideva della propria paura infantile, qualcuno semplicemente stava zitto e sperava che nessuno si rendesse conto di quanto fossero spaventati. «Beh, tocca a Emma adesso, no?» Osservò gioviale Anton, ammiccando nella sua direzione. Emma si ripromise che più tardi avrebbe ucciso il suo amico per quel tiro mancino, e andò rassegnata ad attingere l’acqua. La luna disegnava riflessi argentei sul fondo del pozzo, ma Emma si sforzò di non pensare a una mano bianca fatta di luce lunare che la afferrava e la trascinava sul fondo.

 

Sono contenta che non sia Yuri.

Il pensiero la fece sentire subito in colpa, ma era questo tutto quello che era riuscita a provare in quel momento. Come avrebbe potuto essere triste per sua madre? Forse scioccata, quello sì. Era quella la sensazione che la faceva muovere a scatti come il pendolo di un orologio e che le impediva di pensare lucidamente. I pensieri le attraversavano la mente disordinati, lasciando una scia luminosa al loro passaggio e creando un disegno confuso.

Sarebbe tornata fra i canali, realizzò con un brivido. Non andava là da quasi tre anni, con che coraggio avrebbe guardato in faccia i suoi vecchi vicini? E Agnes, che si era presa tanto cura di lei? Aveva capito il motivo per cui non era più tornata, o pensava che si fosse montata la testa?

Osservò la facciata in pietra dell’accademia, strizzando gli occhi per proteggerli dal sole. In qualche modo aveva raccolto poche cose in una borsa ed era uscita, quasi senza rendersene conto, come se qualcun altro avesse mosso il suo corpo come quello di una marionetta mentre lei era persa fra mille pensieri.

Era sulla strada di casa.

 

Passò sotto l’arco che divideva la zona della biblioteca dalla gilda dei tipografi, inspirando l’odore umido di quel passaggio sempre in ombra. Fra le pietre grigie cresceva un muschio folto e soffice, sembrava quasi di camminare su un tappeto. Quella era la zona più ricca della gilda, con alte case signorili, i cui abitanti avevano quasi tutti frequentato l’accademia. Avvicinandosi alla periferia del quartiere, invece, l’atmosfera cambiava. Lungo le strette vie acciottolate si allineavano botteghe straripanti di libri vecchi e consunti, e più in là ancora le tipografie, con il loro forte odore di inchiostro e piombo.

Avvicinandosi al quartiere dei medici e dei farmacisti gradualmente l’odore si mischiava a quello delle erbe medicinali. Era un odore forte e stagnante, che certi giorni si poteva sentire anche da Sianel. Le era sempre piaciuto quel profumo, da bambina amava bazzicare lungo il muro di confine fra il rione e la gilda, cercando di riempirsi il naso con un odore diverso da quello del pesce e dell’umidità salmastra.

Ricordò la prima volta che aveva percorso quella strada: aveva le gambe pesanti per l'angoscia e la tristezza, ma quando era passata accanto alle serre ed era riuscita a sbirciare dentro ai vetri si era sentita pervadere dall’ottimismo. Perché sarebbe stata dura studiare all’accademia, ma anche solo per la possibilità di sbirciare attraverso il vetro della serra sulla strada per andarci, anche solo per avere avuto la possibilità di conoscere un pezzetto di mondo che altrimenti le sarebbe stato precluso, ne sarebbe valsa la pena.

Questa volta non le degnò di un’occhiata, e l’odore le fece storcere il naso.

Attraversò un altro muro, un’altra gilda. Nella gilda dei bottegai si trovava l'unico accesso al rione di Sianel, per cui fu costretta ad attraverse le strette vie di botteghe, piene di casse impilate una sull’altra che smerciavano i generi più disparati, dai vestiti ai generi alimentari agli strumenti agricoli. Arrivò al ponte della Pescheria, dove i pescatori consegnavano il pesce ai bottegai, senza quasi accorgersene.

Aveva camminato cinque ore.

Si immobilizzò, il cuore che batteva in modo aritmico.

Forse sto per avere un infarto. Muoio qui e risolvo tutti i miei problemi. Ma il suo cuore non le fece la cortesia di fermarsi, si limitò a farle sentire una grande ansia e un insopportabile dolore al petto. 

Fece vedere alle guardie i documenti e le due rune tatuate sul braccio. Le guardie la guardarono con sospetto. In fondo non la vedevano da anni, forse avevano anche dimenticato che una ragazzina insignificante di quel rione era entrata all’accademia. Avrebbero pensato che i suoi documenti erano falsi e l’avrebbero rimandata indietro.

Invece decisero che tutto era regolare e le permisero di attraversare il ponte. Per un attimo si guardò attorno, sperando di trovare qualcuno ad aspettarla ma senza osare formulare il pensiero con più precisione. Così anche la sensazione di delusione era più nebulosa e indefinita, quindi meno fastidiosa.

 

Il sole aveva iniziato a calare e si rifletteva sull’acqua dei canali. Le strette barche dei pescatori erano ormeggiate e vuote. Fra un attimo il sole si sarebbe inabissato dietro il muro, che torreggiava su di lei, alto almeno il doppio di qualsiasi casa della città.

Ti odio.

Non sapeva se si stesse riferendo al muro, a sua madre o a qualcos’altro, ma di sicuro era quello che provava adesso. Una vaga sensazione di odio e di rabbia, confusa ma intensa, che le aveva reso le mani fredde come ghiaccio nonostante il clima primaverile.

Il colore caldo e arancione della luce del sole morente non si accordava per nulla con il suo stato d’animo. L’unico scenario che si sarebbe intonato comprendeva freddo e cenere che cadeva dal cielo come neve coprendo tutto di grigio.

Dopo qualche minuto il cielo era ancora chiaro ma tutto era in ombra, con una luce crepuscolare che la faceva sentire stranamente staccata dalla realtà. Salì le ripide scale di legno mezzo marcio, che sembravano reggersi per volontà divina, ascoltando il suono attutito dei suoi passi e ricordando le mille e mille volte che aveva salito quelle scale così, in punta di piedi, con il sapore leggermente salmastro dei canali in cui aveva nuotato che alleggiava ancora sulle labbra.

 

Non era cambiato nulla negli anni in cui era stata via. La casa aveva ancora quel cattivo odore di muffa e di buio. Le persiane erano tutte chiuse, il tavolo ingombro di carte e nell’acquaio c’erano dei piatti sporchi e sbeccati. Nella stanza accanto ci sarebbe stata sua madre. Il cadavere. Non riusciva a pensare a sua madre e al suo cadavere come se fossero la stessa cosa.

 

E poi? Era arrivata fin lì, ora cosa ci si aspettava che facesse? Non aveva idea di come funzionassero queste cose, non aveva mai visto organizzare delle esequie. Non potevano portarla nella zona interdetta fra le due mura e non dirle nulla finché non fosse finita, ridotta in cenere?

No. E lei quella notte avrebbe dormito in stanza con un corpo morto.

Che sarà comunque più caldo di quanto lei non sia mai stata da viva.

«Basta.» Bisbigliò a sé stessa. Doveva smetterla con quei pensieri, possibile che in fondo al cuore non riuscisse a trovare neanche un po’ di tristezza per la donna che l’aveva messa al mondo? Era una persona così orribile da non provare dolore per chi l’aveva cresciuta? In un modo o nell’altro l’aveva fatta arrivare viva fino al giorno in cui non era stata in grado di badare a sé stessa. Non tutte le madri ci riuscivano.

No, lei non ha fatto proprio nulla. È sempre stata Agnes a badare a me. «Emma?» Emma urlò e arretrò cercando la maniglia della porta a tentoni, nella folle convinzione che sua madre l’avesse chiamata dall’oltretomba.

Si rese conto che era assurdo un istante troppo tardi, quando una figura quasi familiare uscì dall’ombra dell’altra stanza. «Tutto bene?» Le chiese il ragazzo con voce perplessa, vedendola piegata in due con la mano sul cuore.

A parte il fatto che sto per sporcarmi le mani del tuo sangue?

«Tutto bene. È che … mi aspettavo di essere sola.» Ansimava ancora un po’, ma si sforzò di ricomporsi e di assumere un’aria dignitosa.

Anton era cresciuto. L’ultima volta che l’aveva visto erano alti uguali, lui era un ragazzino basso e mingherlino. Adesso era alto almeno dieci centimetri più di lei, e le spalle erano molto più larghe. Non lo vedeva bene in faccia nella penombra, ma era sicura che fosse lui.

L’avrebbe riconosciuto ovunque, anche se fossero passati dieci o cento anni.

«Mi dispiace per tua madre.» Anche la voce era profonda. Un po' roca, quasi da uomo. In effetti questo rendeva ancora più assurdo il fatto che per un attimo avesse pensato che fosse stata la madre a chiamarla dall’oltretomba. Emma rimase in silenzio, con gli occhi bassi. Per un attimo si vide mentre correva ad abbracciarlo e scoppiava in lacrime.

Ma non poteva: non erano più amichetti di infanzia. «Non è vero. Non ti dispiace. Non dispiace a nessuno.» Disse caustica, per scacciare ogni antico istinto. Anton non seppe cosa dire, palesemente imbarazzato. Almeno non aveva avuto la faccia tosta di negare l’evidenza, questo glielo dovette riconoscere. «Come è successo? La lettera non diceva nulla.»

Anton sembrò ancora più a disagio e distolse lo sguardo. «Che vuoi che ne sappia io? Mia madre mi ha solo chiesto di aspettarti qua.»

Emma si teneva alla porta come se, nel momento in cui l’avesse lasciata, una corrente troppo forte l’avrebbe trascinata via. Anton era a disagio. Qualcosa nella sua voce le suggeriva che c’era qualcosa che non le stava dicendo. Immaginava bene cosa fosse. Sua madre aveva minacciato di farlo tante volte. «Pensava che qualcuno dovesse vegliarla finché non arrivavi.»

«Finché non fossi arrivata.» Lo corresse senza pensarci. Anton fece un sorriso triste e nostalgico, durò appena un istante, poi tornò più serio di prima.

«Se non hai bisogno di nulla, io devo andare.»

Emma si spostò di lato, rigidamente, ed Anton uscì con un cenno di saluto. Gli chiuse la porta dietro e appoggiò la guancia sul legno scheggiato, ascoltando i suoi passi sulle scale per essere sicura che se ne fosse davvero andato portandosi dietro gli ultimi frammenti di infanzia che aveva rievocato.

«Sì, è meglio così.» Commentò con sé stessa. Se avesse ceduto, se avesse chiesto ad Anton di restare con lei a parlare tutta la notte, come quando erano bambini, se ne sarebbe accorto che non provava i sentimenti giusti in quel momento. Avrebbe pensato che lei fosse insensibile, crudele o matta o chissà che altro. Anzi, probabilmente lo pensava già, visto che erano quasi quattro anni che non si vedevano e l’accoglienza era stata così fredda. Anzi, forse se non fosse stato per Agnes, probabilmente non ci sarebbe stata nemmeno quella.

Voleva chiudere quella storia e tornare a scuola. Lì avrebbe… fatto cosa? Aveva sempre avuto massima fiducia nella città, in quello che gli adulti le raccontavano, aveva accettato le cose com’erano perché erano così da sempre e per sempre lo sarebbero state, senza possibili alternative. Ora che tutte le sue convinzioni erano crollate poteva ancora vivere così? Da quando aveva letto l’atlante aveva la sensazione che restare nella città e vivere secondo le regole fosse una cosa priva di senso. No, non era più possibile per lei avere una vita normale. Ma che avrebbe potuto fare? Non c’erano mondi alternativi dove andare. Il mondo colorato e vario descritto dall'atlante non esisteva più. C’erano solo quei pochi chilometri quadrati dentro le mura, stipati di soprusi e ingiustizie.

La sensazione di essere in trappola le strinse il petto in una morsa, impedendole di respirare. Si sedette a terra, con la testa contro la porta e gli occhi chiusi, cercando di recuperare la calma mentre il panico la assaliva senza motivo. Non c’è altra via d’uscita che la morte?

Passarono diversi minuti prima che si calmasse e tornasse a respirare normalmente. Aveva la fronte imperlata di sudore freddo e si sentiva stranamente debole. Se erano quelle le conseguenze per aver letto l’atlante, non c’era da stupirsi per il fatto che Astropher le aveva consigliato di pensarci bene prima di farlo. 

Indugiò un po’ nella cucina. Faceva tre passi avanti verso la porta dell’altra stanza, e poi tornava indietro. Non ce la faceva proprio ad andare a vedere.

Si accovacciò in un angolo, in una posizione deliberatamente scomoda: non voleva addormentarsi, non finché quella cosa era nell'altra stanza. Restò sveglia a pensare, mentre il cielo diventava prima sempre più buio e poi sempre più chiaro.

Avrebbe voluto che qualcuno facesse tutto al suo posto. Forse poteva chiedere ad Agnes. Lei l’aveva sempre aiutata, forse avrebbe potuto bussare alla sua porta, chiederle di occuparsi lei di tutto e andarsene. In fondo che le importava?

No, sei un’adulta, comportati come tale.

Uscire nella grigia luce dell’alba fu una delle cose più difficili che avesse mai fatto. Sentiva il gelo entrare nelle ossa, nonostante il tempo fosse ormai tiepido, e stringendosi nella leggera uniforme scolastica andò a contattare i servizi funebri all’ufficio rionale.

Le avevano fatto un mucchio di domande a cui non aveva saputo cosa rispondere. Aveva finito per dire sì o no un po’ a casaccio, poi era tornata casa con due garzoni al seguito. Qualcuno aveva lasciato qualcosa da mangiare sul tavolino traballante accanto al focolare della cucina, probabilmente la madre di Anton. Non se la sentì nemmeno di controllare cosa fosse, sicura che alla vista del cibo avrebbe vomitato.

Avevano portato via il corpo mentre lei guardava da un’altra parte e le avevano detto qualcosa su una funzione funebre. Emma aveva annuito senza ascoltare ed era andata a vedere la stanza vuota. Era ancora tutto identico a tre anni prima. Anche il suo lettino era ancora lì, in un angolo della stanza. C’erano ancora i segni che aveva fatto sul pavimento, che usava come una meridiana per vedere quando era ora di alzarsi.

Si sedette sul letto e si avvolse nella coperta tarlata e impolverata. Adesso che la casa era vuota potava permettersi di cedere al sonno.

 

Si alzò piano, attenta a non svegliare nessuno, e uscì dalla stanza senza fare rumore, fermandosi solo per prendere un lungo involto di stoffa, alcuni oggetti e una lunga giacca di lana grigia. L’aria della notte era fredda a quelle altezze. Il cielo era puntellato di stelle, le parve di non averne mai viste così bianche e luminose. Si intravedeva anche la via lattea che lo attraversava come una cicatrice. Il prato scendeva verso il bosco in un dolce pendio. Non c’era nemmeno una luce, se non quelle di qualche lucciola, ma era abbastanza per vedere il bersaglio.

Ogni gesto era parte di un preciso rituale. Dall’involto di stoffa estrasse un lungo arco e lo armò, puntandone un’estremità sotto il ramo di un fico contorto che sembrava fatto apposta allo scopo e spingendo l’altra contro il ginocchio, per piegarlo e tendere la corda. Si infilò un guanto di pelle, assicurandolo al polso destro con un lungo nastro, ed estrasse due frecce da una faretra, mettendosi di lato al bersaglio. Tenendone una con mignolo e anulare incocco l’altra. Espirò osservando il bersaglio, e poi tirò su le braccia davanti a se, ispirando a lungo. Sentì i muscoli della schiena che si gonfiavano nello sforzo di tendere l’arco, l’avambraccio destro che torceva la corda, l’arco che gemeva, l’odore di cenere e canapa. Con uno strattone scoccò la freccia. Il rumore le disse che aveva fatto centro. Aveva sperato che il senso di oppressione al petto sarebbe volato via, legato alla coda della freccia, ma non fu così.

 

Emma si svegliò rabbrividendo. Era uno dei sogni più vividi che avesse mai fatto, le facevano addirittura male le braccia e la schiena. Era stato strano provare sensazioni così precise e dettagliate, quando non aveva mai tenuto un arco in mano. Quante ore aveva dormito? Era ancora mattino inoltrato quando si era rannicchiata sul suo vecchio materasso, ma adesso era completamente buio. Si alzò e andò alla finestra. Ricordò con una fitta di dolore che l’aveva fatto quasi tutte le sere l’estate prima di iniziare la scuola, svegliata dalla paura per la nuova vita che avrebbe iniziato di lì a poco, e aveva spiato Anton che tornava a casa da chissà dove nel cuore della notte.

C’era qualcuno in piedi, appena fuori dal cono di luce di una torcia. Cercò di aguzzare la vista per vedere chi fosse: aveva un lungo saio grigio. Nel momento in cui sgranò gli occhi, rendendosi conto con terrore di cosa stava guardando, una mano ruvida le tappò la bocca.



1) Visto che non sono in grado di inventare poesie, ho preso in prestito un estratto di "Cigola la carrucola del pozzo", di Eugenio Montale. Pensavate che fossi una grande poetessa eh? Invece no. Le uniche poesie che so scrivere sono haiku su quanto adoro il cibo =D Beccatevi Montale che forse se la cava meglio.

Giuro, giuro e rigiuro che la parte introspettiva è finita. Perché, io che ho la profondità emotiva di un mobile Ikea, mi sono inguaiata nella descrizione di sentimenti così complicati? Perché, io che non sono in grado di stare seria nemmeno durante una lezione di calcolo applicato, mi sono cimentata in due capitoli così depressi? Per fortuna è finita. Un bel cliffhanger alla fine per tirarci su di tono ci voleva =D
Probabilmente non vi avranno inquietato molto le storie sinistre di inizio capitolo. Emma & co. sono più spaventati dall'atmosfera che dalle storie in sè. Avete mai provato a guardare in fondo a un pozzo di notte? Io sì. Mi ha molto inquietato. Cercherò di sbrigarmi con l'aggiornamento! 羽毛

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Capitolo 10
*** Latcho Drom ***


Latcho Drom

Latcho Drom

Emma uscì di casa inseguita dalle urla della madre. Quando per l’ennesima volta trovò le scale vuote non potè non sentirsi arrabbiata. Sapeva che non aveva il diritto di pretendere che Anton la aspettasse come un cane da guardia fuori dalla porta, ma… era suo amico, c’era sempre stato. Non riusciva ad abituarsi all’assenza delle ultime settimane.

Si sedette sulle scale e aspettò qualche minuto, mentre un sentimento cupo le gonfiava sempre di più il petto, rendendo difficile respirare. Scattò in piedi come se si fosse improvvisamente resa conto di essere seduta su delle braci accese e marciò decisa verso la porta della casa di Anton. Aveva deciso, avrebbe bussato. Tanto a quell’ora dove poteva essere? L'avrebbe trovato sicuramente, e si sarebbe fatta spiegare il motivo di tanta freddezza. Sicuramente era un malinteso, avrebbero chiarito tutto in un attimo.

Nonostante nei suoi propositi fosse decisa, bussò esitante, frenata dalla timidezza. Anche se conosceva Agnes da quando era bambina ed era stata sempre buona e affettuosa con lei, tutti gli adulti la facevano sentire impacciata e a disagio. Dovette aspettare qualche minuto prima che la porta si aprisse di uno spiraglio. Agnes la guardò con aria severa e preoccupata. «Emma, cosa fai qui a quest’ora?»

«Volevo parlare con Anton.» Bisbigliò a voce bassissima. Agnes esitò, lanciando occhiate furtive in strada.

«Non c’è tesoro. È uscito con suo padre. Vai a dormire ora.»

Emma ingoiò la delusione e finse di tornare in casa, solo per sedersi di nuovo sul pianerottolo. Il fatto che sua madre la odiava e la trascurava era di dominio pubblico ed Emma sapeva che in tanti la compativano, ma lei era sempre stata bene. Finché c’erano Anton e la sua famiglia non si era mai sentita veramente sola. Mai come in quel momento.

Le stelle si stagliavano nette e luminose nel cielo limpido e freddo di novembre, ma Emma le vedeva sfocate, fondersi fra di loro e tremare, trasformarsi in scie luminose. Avrebbe aspettato lì. Non importa quanto facesse freddo, prima o poi Anton sarebbe tornato. L’avrebbe costretto a dirle dove era stato.

 

«Ma sta dormendo sulle scale? Va a dirle qualcosa.»

«No, non voglio.» I bisbigli concitati si fecero strada nei sogni di Emma, svegliandola lentamente. Le mani e i piedi le dolevano per il freddo.

«Morirà di freddo se resta lì tutta la notte. Non discutere. Vai.» Sentì Anton sbuffare riluttante e salire le scale obbedendo al padre. Senza pensarci fece finta di dormire ancora. Anton esitò accanto a lei due minuti buoni, poi le toccò una spalla con un solo dito, come a voler controllare se fosse reale. Emma aprì gli occhi e fece del suo meglio per sembrare arrabbiata. «Dove sei stato? Ti ho aspettato una vita!»

Anton arrossì così violentemente che anche con la poca luce che c’era Emma potè vederlo chiaramente. «Sono fatti miei! Non sei mica mia madre, che devo dirti tutto. Non aspettarmi più.»

«Perché no? Che ti ho fatto?» Si odiò sentendo la voce lamentosa che, aggirando il suo orgoglio, l’aveva costretta a svelare la verità. Era triste, ferita, confusa. Voleva almeno sapere cosa fosse successo.

«Non è… che…» Anton balbettò qualcosa, preso alla sprovvista. «È che sono un uomo adesso. Non ho tempo di stare dietro a te. Ho cose più importanti da fare, ok? Lasciami in pace.»

Lo guardò scendere di corsa le scale e rifugiarsi in casa, in un modo molto poco adulto.  

 

Per qualche secondo seguì una lotta concitata, in cui Emma cercò di liberarsi senza successo dalla presa ferrea che le impediva di gridare. L’uomo sussurrò nel suo orecchio, facendole rizzare i capelli sulla nuca. «Vieni con me e non opporre resistenza. Non abbiamo intenzione di farti del male.»

Emma urlò una risposta, che però suonò solo come un mugolio soffocato contro il palmo della mano dell’uomo. Non riuscendo a gridare, iniziò a pestare i piedi sul pavimento più forte che potè. Sperando che il rumore avrebbe svegliato Anton o Agnes o Luis… qualcuno sarebbe venuto a vedere cosa stava succedendo. «È inutile. I tuoi vicini non sono in casa.»

Emma smise per un secondo di agitarsi, cercando di pensare a un modo di farsi sentire in strada. Non sarebbe semplicemente sparita nel nulla senza opporre resistenza. «Sappiamo che hai letto l’atlante. Ti conviene calmarti e seguirmi in silenzio.»

Dunque era quello che succedeva una volta finito di leggere? Quei tipi inquietanti uscivano dall’ombra e ti costringevano a seguirli? Proprio non erano riusciti ad escogitare un modo più delicato per mettersi in contatto con lei?

Adesso oltre che spaventata era furiosa, si sentiva come se il suo cuore fosse cresciuto fino a diventare due volte più grande del normale. Yuri avrebbe dovuto avvertirla. Yuri avrebbe decisamente dovuto avvertirla. Visto che aveva smesso di lottare l’uomo allentò la presa ed Emma riuscì a girarsi per guardarlo. Il suo volto era in ombra, coperto da un cappuccio grigio.

«Stronzo.» Sibilò fra i denti prima di massaggiarsi la mascella indolenzita. L’uomo fece un gesto di stizza e le passò un cappuccio.

«Copriti gli occhi, ragazzina, e fai quello che ti dico. Non ti succederà nulla, te lo giuro.»

A beh, se lo giuri tu, allora mi fido.

Tutti i nervi del suo corpo, tesi fino allo spasmo, le sconsigliavano fortemente di rinunciare alla vista e perdere ulteriormente il controllo sulla situazione. Ma non aveva molta scelta.

Fece come le era stato detto e cercò di non scansarsi quando l’uomo le mise una mano sulla spalla per guidarla giù dalle scale e poi in strada.

«È andato tutto bene?» La voce era diversa, meno roca di quella dell’uomo che la stava guidando. Doveva essere il frate grigio che aveva visto per strada. Sembrava essere più giovane.

«Mi ha chiamato stronzo.» Il giovane rise di gusto, irritando Emma. Cercò di memorizzare la voce del secondo frate, promettendosi che se l’avesse incontrato in un’altra occasione gli avrebbe tirato un calcio.

Ad un certo punto l’uomo la sollevò prendendola sotto le ascelle, strappandole un urlo di protesta e di sorpresa. Istintivamente ricominciò a divincolarsi, ma un attimo dopo i suoi piedi appoggiarono di nuovo su una superficie di legno. «Non ti agitare, che ci ribaltiamo.» Erano su una barca.

Dovresti farla rovesciare questa stupida barca. Vorrei proprio vederli a nuotare con quelle vesti, come pipistrelli fradici.

Ma nonostante l’istinto le suggerisse di liberarsi e scappare, la curiosità era più forte. Forse quella era una trappola e stava semplicemente andando al macello, e quella possibilità la faceva sentire come se avesse avuto un gatto vivo nello stomaco, ma forse le avrebbero svelato dei segreti. Segreti importanti sulle mura, sulla città, sul mondo… Era disposta a rischiare la vita per scoprirlo? Nel momento in cui aveva iniziato a leggere l’atlante, aveva già deciso di sì. Deglutì un paio di volte, cercando di liberarsi le orecchie dal ronzio sordo che sembrava precedere un attacco di panico, e concentrò tutta la sua volontà nell’intento di non vomitare.

Di nuovo venne sollevata e depositata su un pavimento di pietra.

«Puoi toglierti il cappuccio ora.»

Digli “preferisco tenerlo per non vedere la tua faccia da culo”.

Ma Emma decise di stare zitta. Anche perché il volto degli uomini era coperto, la battuta sarebbe stata sprecata. L’avrebbe conservata per la prossima volta che fosse stata bendata e rapita. Si sfilò il cappuccio con le mani che tremavano, scompigliandosi i capelli carichi di elettricità. Le sue narici si riempirono dell’odore freddo e umido di una cantina, mischiato con un sentore di salsedine. Erano in un porto sotterraneo, rischiarato solo dalla lanterna portata dall’uomo più giovane. Non c’era nessuna barca, né le sembrava di vedere un’apertura sull’esterno. L’unico sbocco di quella specie di grotta artificiale era un tunnel all’estremità della banchina di pietra, alle spalle dell’uomo più giovane.

«Vieni. Cerca di non fare rumore.» Emma deglutì ancora e seguì obbediente. Il ronzio nelle orecchie era quasi scomparso. Poter vedere quello che la circondava le aveva restituito almeno un po’ di sicurezza.

I loro passi rimbombavano sulle pareti del cunicolo sotterraneo, coprendo quasi ogni altro rumore, eccetto l’insistente gocciolio dell’acqua. Al di fuori del cerchio di luce della lanterna era completamente buio.

Un forte senso di dejà vu la fece sentire stordita e confusa. Si fermò per un istante, ma il più anziano dei frati grigi la spinse avanti appoggiandole delicatamente una mano su una spalla.

Un po’ tardi per essere delicato. Pensò Emma irritata prima di proseguire.

Camminarono in silenzio per una decina di minuti e all’improvviso si fermarono davanti a una porta di legno chiusa da un pesante lucchetto. Il tunnel continuava e spariva nel buio, ma sembrava che quella porta fosse la loro destinazione. L’uomo più anziano aprì faticosamente la serratura con una chiave ossidata. «Bisogna oliare questo lucchetto.» Si lamentò mentre la porta si apriva con un cigolio. Poi si fece da parte per lasciarla passare.

Emma iniziò a salire i gradini di mattoni, titubante. La porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo sordo, lasciandola nel buio totale. I due grigi non l’avevano seguita e uno scatto sinistro preceduto dallo stridore di meccanismi arrugginiti le disse che non poteva fare altro che salire le ripide scale, sperando che portassero da qualche parte. Allargò le braccia, così da toccare con entrambe le mani le pareti umide e scrostate. La scala era larga poco più di un metro, di certo non rischiava di perdersi.

Che cosa avrebbe trovato in cima? Non aveva idea di cosa spettarsi, sapeva solo che probabilmente erano ancora a Sianel: il viaggio non le era sembrato così lungo. Forse era solo un brutto scherzo. Avrebbe trovato Rebecca in cima a quelle scale, che rideva di lei e della sua paura? O forse si sarebbe trovata in prigione. Lasciata al buio, in una cella minuscola, a morire di fame fra i morsi dei topi. Una svolta nella scala la colse di sorpresa, facendola inciampare. Recuperò l’equilibrio e seguì a tentoni l’angolo di novanta gradi, studiando i bordi dei gradini con i piedi. Adesso vedeva un lieve bagliore e iniziava a sentire un mormorio concitato.

Si ritrovò in un ambiente poco illuminato e odoroso di spezie. Dentro una decina di persone, alcune sedute attorno a un tavolo, altre in piedi accanto a un focolare, bisbigliavano fra loro. Appena entrò tutti ammutolirono. 

Emma studiò le persone lì convenute, guardandole una per una. Appoggiato al muro, con studiata negligenza, c’era Anton. Incrociò il suo sguardo per un attimo, poi lui diventò viola e guardò altrove. Luis fumava la pipa accanto al caminetto, guardando corrucciato nelle fiamme, mentre Agnes le sorrise incoraggiante, senza rivolgerle però la parola. Anche gli altri erano facce note, uomini e donne del rione, persone che aveva sempre considerato tranquille e rispettose della legge. Anche il preside della scuola rionale era fra loro.

Solo una donna le era completamente sconosciuta, una donna distinta di circa quarant’anni, con corti capelli neri e occhi scuri dal taglio esotico.

Le andò incontro tendendole la mano con un sorriso. «Benvenuta, Emma!» Emma non prese la mano, continuò a guardarsi attorno, ammutolita e a disagio. «Ti starai chiedendo perché sei qui vero?»

In realtà si stava chiedendo di più perché erano lì Anton e i suoi genitori, ma non riuscì a formulare la domanda.

«Siediti, siediti. Prendi da bere. Spero che non ti abbiano portato qui con modi troppo bruschi.»

Emma non si mosse. «Sì, in realtà. Sono stati bruschi.» Alcuni dei presenti si mossero a disagio, altri sorrisero timidamente come se avesse appena fatto una battuta che non faceva ridere.

Bene, che si sentano pure a disagio. Pensò quasi trionfante. Di certo non avrebbe fatto nulla per alleggerire l’atmosfera. La donna però non si fece scoraggiare.

«D’accordo allora, saltiamo direttamente alle presentazioni. Di sicuro conosci già tutti loro.» Emma scoccò uno sguardo freddo ad Anton, che sembrava voler sparire nel muro. «Ma non hai mai visto me, dato che non sono di qui.» Mostrò la runa tatuata sul braccio. Era una precisazione inutile: tutto, dal suo accento ai suoi lineamenti, dimostrava che veniva dalla gilda dei medici. «Io sono Cam Huang. Dirigo il presidio di Sianel.»

«Presidio di cosa?»

«Forse hai sentito parlare di noi come “frati grigi”. So che circolano diverse leggende in proposito, ma sono quasi tutte sbagliate. Quelle vesti servono più che altro a non farci riconoscere. Preferiamo chiamare la nostra organizzazione Latcho Drom.»

Emma avrebbe voluto continuare ad essere fredda e imbronciata, ma era troppo curiosa per continuare con il trattamento del silenzio. «Latcho Drom?»

«Sì.»

Aspettò qualche secondo ma Cam non aggiunse altro. «Che cosa vuol dire?»

«È il nome con cui ci si riferisce a un viaggio leggendario. Il primo viaggio compiuto da un popolo nomade, un viaggio che durò millenni.» Emma cercò di immaginare un cammino così lungo da poter essere misurato in generazioni, più che in chilometri. Come poteva essere nascere in cammino e non vedere mai due volte lo stesso luogo per tutta la vita? Le vennero le vertigini e si appoggiò alla parete, sempre rifiutando l’idea di sedersi.

«Ancora non ho capito perché sono qui.»  

«Sei qui perché hai letto l’atlante.»

«No, quello l’avevo immaginato…» Iniziò a rispondere scocciata. Poi venne colta da un’idea semplicemente assurda. «Aspetta un attimo… tutti qui hanno letto l’atlante?» Chiese incredula.

«No, certo che no. Non tutti. Solo io, te, il tuo amico Anton…» Emma lo guardò con gli occhi sgranati, mentre il ragazzo sembrava stesse facendo finta di essere altrove. «Anton in effetti è stato uno dei più giovani ad avere mai letto l'atlante. Quanti anni avevi? Undici?» Mormorò una risposta incomprensibile e il suo volto assunse lo stesso colore dei mattoni alle sue spalle. Le sue abilità di mimetismo sembravano migliorare con il progredire della conversazione. Forse in un altro momento Emma avrebbe riso.

«E come? Io ho fatto fatica. Dopo aver studiato all’accademia! Lui… Lui aveva bisogno del mio aiuto pure per fare i compiti delle elementari!»

«Io l’ho aiutato.» Rispose Cam con la sua pacata compostezza, come se stesse spiegando perché due più due fa quattro.

«E perché?»

«Volevamo che fosse già un membro del gruppo a tutti gli effetti quando il momento di leggere l’atlante fosse arrivato anche per te. Per questo, con il permesso dei suoi genitori, abbiamo iniziato a prepararlo per tempo.» Emma non riuscì a sopprimere una smorfia ridicola, con la fronte corrugata e la bocca mezza aperta in una perfetta espressione di muta perplessità. Le mille domande che avrebbe voluto fare le si incastrarono da qualche parte fra il petto e la gola.

«E… perché?»  

«Al momento ci sono troppe cose che non sai perché tu possa capire questo dettaglio.»

Se in quel momento avesse avuto un’arma l’avrebbe usata senza esitare, e Cam sembrò capirlo dalla sua espressione, perché con un gesto fece cenno agli altri di allontanarsi. Rimasero solo la donna, in piedi dietro al tavolo consumato e incurvato dall’umidità, ed Emma, pallida e appoggiata al muro accanto alle strette scale che si perdevano nel buio.

Cam sospirò e riprese con pazienza il discorso. «Di questo ne parleremo dopo. Quando sapremo se possiamo fidarci di te.» Emma si limitò a scuotere la testa, scioccata.

«Siediti, intanto.» La invitò Cam indicando una sedia con un tono perfettamente ragionevole e sedendosi a sua volta. Obbedì riluttante e strinse fra le mani la tisana che la donna le porse, senza però berla. Aveva un forte odore speziato e le scaldò le mani in modo piacevole.

«Forse dovremmo iniziare dalla storia della tua famiglia. Tua madre te ne ha mai parlato?»

Scosse la testa, senza aver nemmeno bisogno di pensarci. Sua madre sicuramente non le aveva mai parlato di niente.

«Ti ricordi, vero, di essere nata in un altro rione?» Emma rifletté un attimo, finché emersero ricordi vaghi dello stupore infantile che aveva provato di fronte a un ambiente nuovo, di una camminata notturna in un tunnel buio avvenuta più di dieci anni prima. L’aveva sempre saputo in un certo modo, solo che per qualche motivo, tutte le volte che provava a sfiorare quei ricordi, la sua mente fuggiva altrove.

«Non molto…» Scosse la testa incapace di parlare correttamente. Aveva la gola secca e iniziava a sentire freddo. Senza pensare bevve dalla tazza che aveva fra le mani.  Il sapore speziato della bevanda le pizzicò il palato.

«Sei nata nel rione degli agricoltori, Abincil. Sia tua madre che tuo padre sono nati lì, ed entrambi facevano parte della nostra organizzazione.»

«Non può essere.»

«Perché no?»

«Emma Creuza. Nome e cognome tipici di Sianel. Pensavo che almeno mio padre fosse di qui…»

«No, non è così. Quando tu e tua madre vi siete trasferite qua, per aiutarti a integrarti abbiamo cambiato i vostri nomi. È stata un’operazione rischiosa entrare nei registri cittadini, dopo quella volta non è più stato fatto.»

«E allora qual era il mio nome?»

«Non ancora. Un nome è una cosa potente, saperlo al momento sbagliato non ti aiuterebbe.» Emma posò con cautela la tazza, si mise le mani nei capelli e appoggiò i gomiti al tavolo. Non sapeva più cosa pensare.

«Ho conosciuto i tuoi genitori, sai. Hanno sacrificato molto per la nostra causa.» Emma si sentì attraversare da una stilettata di irritazione, infastidita dal tono materno della donna.

«E come? Anzi, prima, voglio che tu mi dica qual è di preciso la vostra causa.» Riempì le parole con tutto il cinismo che riuscì a raccogliere, ma Cam non si lasciò scalfire dal suo astio, trattandola con la condiscendenza con cui gli adulti trattano sempre gli adolescenti arrabbiati.

«Il Latcho Drom ha molti scopi. Di certo non posso elencarteli tutti. Se no che società segreta saremmo?» Emma fissò gli occhi in quelli della donna. Di certo non avrebbe aderito a nessuna folle organizzazione senza prima sapere almeno per cosa si batteva. E a giudicare da quello che avevano detto sul perché avevano fatto leggere l’atlante ad Anton, un minimo di potere contrattuale ce l’aveva, anche se non sapeva perché. Cercò di assumere una posa rilassata e una voce dura ma tranquilla, ma non era mai stata brava a fingere. Le parole le uscirono come lo squittio lamentoso di un bambino che vuole essere reso partecipe di un segreto.

«Molti scopi, ok. Fammi un esempio concreto, altrimenti dovrai lasciarmi andare.»

«Bene, allora. Diciamo che il nostro obbiettivo finale è abbattere le mura, o comunque annullarne il potere.»

«È impossibile.» Dichiarò Emma categorica, convinta che la donna la stesse prendendo in giro. «Non so come erano le cose una volta, se quello che c’è scritto nell’atlante è vero o no, ma so che adesso è impossibile vivere fuori dalle mura. Ho visto come viene ridotto chi c’è stato.»

«Adesso è impossibile.» Emma guardò la donna sempre più scettica, aspettando che continuasse. Dopo pochi secondi di silenzio sembrò decidere di accontentarla. «Non ci sono chiare le ragioni per cui le mura sono state costruite né come funzionano. Tutti i documenti che le riguardano sono spariti. Per questo pensiamo che capirlo potrebbe portarci al punto di farne a meno: se possiamo fare a meno delle mura, possiamo fare a meno della città e della protezione del patrono. Quale altra ragione potrebbe esserci per nascondere così accuratamente la verità?» Emma non era del tutto convinta. Qualcosa le impediva di accettare quell’idea. Per lei senza mura non c’era vita, punto. Che le piacesse o meno. Cam si prese un po’ di tempo per studiare le sue reazioni e poi riprese a parlare.  

«I tuoi genitori pensavano che fosse importante scoprire più cose possibile sulle mura, convinti che, un giorno o l’altro, la razza umana avrebbe riconquistato la libertà. Per questo accettarono di sottoporsi ad un esperimento. Se avesse funzionato la loro prole avrebbe avuto nel sangue una refrattarietà alla magia delle mura.»

«Ma non ha funzionato.» Constatò Emma. Cam annuì, poi non disse più nulla. Evidentemente le stava lasciando il tempo di elaborare le informazioni. Bevve un lungo sorso di tè, cercando di capire come si sentiva per quelle rivelazioni, ma onestamente non ne aveva idea. Era come se la sua capacità di provare emozioni si fosse spenta, come un fuoco soffocato dalla troppa legna.

«Quindi voi pensate che siano le mura a rendere inabitabile il mondo esterno.» Cam sembrò colta alla sprovvista e per un attimo sbarrò gli occhi, ma si ricompose in fretta.

«Delle nostre teorie ti parlerò solo dopo che avrai accettato ufficialmente di collaborare.»

Emma sbatté la tazza sul tavolo, arrabbiata. «Me l’hai praticamente già detto, devi solo elaborare il concetto! Hanno sempre detto che senza mura perderemmo la nostra anima, e tu mi dici volete essere refrattari alla magia delle mura. Questo significa che sono le mura che rendono inabitabile l’esterno? Che se le mura smettessero di funzionare non moriremmo affatto, anzi, saremmo liberi di andare dove vogliamo?» La donna tacque, mentre Emma ingoiò il contenuto della tazza in un sorso, bruciandosi l’esofago. «In questo modo sembra che le mura, più che per proteggerci, siano state costruite per imprigionarci.»

«Sei una ragazza troppo intelligente per sopravvivere a lungo in questo mondo» Osservò Cam ridendo, mentre Emma rimase mortalmente seria.

Io avrei detto che sei troppo scema per sopravvivere in questo mondo, ma il succo è quello.

«Quindi… l’esperimento non ha funzionato. Perché?»

«Ci fu un contrattempo.»

Grazie al cazzo.

«Cioè quale?» Insistette Emma cercando di evitare il linguaggio brusco che la sua coscienza le suggeriva.

«Beh… era pensato per funzionare su un solo bambino per volta, ma i tuoi ne ebbero due. Tuo padre volle tentare comunque, così un anno dopo la vostra nascita usammo il vostro sangue per creare un antidoto e lo provò su di sé. Se l’esperimento avesse funzionato, almeno avrebbe potuto far fuggire la sua seconda figlia ma…»

«Ma non ha funzionato. Quindi mio padre è morto e, immagino, mia sorella è fra i servi delle mura.» Cam sembrava essere molto a disagio, ed Emma per un attimo si sentì trionfante. Non sapeva come sentirsi nei confronti di un padre e di una sorella che non ricordava per nulla, ma capiva molto chiaramente cosa provava nei confronti della donna che aveva davanti: astio, antipatia e l’irrefrenabile desiderio di farla sentire più a disagio di quanto si sentisse lei.

«Beh… sì, è così. Ma pensiamo che in te sia rimasta una traccia di refrattarietà. Non sufficiente per funzionare, ma abbastanza per non dovere iniziare da capo. »

«Per questo vuoi che entri a far parte del vostro gruppo. Per voi il mio sangue è una risorsa importante.» Constatò ancora. Non sapeva spiegarsi quel bisogno di fare la saputella, né perché le importasse così poco del destino toccato alla famiglia di cui era l’unica superstite. Si sentiva come un blocco di pietra appena scaldato dal sole. Uno strato sottile del suo essere era scaldato dalla rabbia, dall’indignazione. Era ferita per quello che le stavano rivelando, scossa perché adesso capiva in parte perché sua madre l’aveva sempre rifiutata, ma solo in superficie. Dentro di lei tutto era stranamente immobile. Cercò di trasmettere tutta la durezza che provava nello sguardo e continuò. «Mia madre ce l’aveva con voi perché l’esperimento ha causato la morte di mio padre, giusto? Ci siamo trasferite perché non volevate che lei parlasse con qualcuno del vostro gruppo, e qui a Sianel lei non poteva sapere di chi fidarsi e di chi no, perché avete mantenuto la divisione dei rioni. In più la famiglia di Anton aveva il compito di sorvegliarci.»

«No.» La interruppe Cam con uno sguardo pietoso. «Vi abbiamo trasferito perché tua madre aggredì una guardia quando vennero a prendere tua sorella. Riuscimmo a nascondervi a Sianel, ma fu costretta a vivere da latitante, senza poter parlare con nessuno del fatto che era stata trasferita. Ufficialmente risultava morta. Gli Acquafredda avevano il compito di prendersi cura di voi, visto che tua madre non era più in grado di provvedere né a te né a se stessa.»

Emma strinse la tazza ormai fredda fra le mani, rimpiangendo il lieve conforto che le aveva dato il calore pochi minuti prima. Lentamente di alzò e si avvicinò alle braci del focolare, cercando di fermare i brividi che le correvano lungo la schiena. La sua curiosità era ben lontana dall’essere appagata, eppure sentiva che a quel punto sarebbe bastato pochissimo per far crollare quello strano equilibrio immobile che si era creato dentro di lei.

«Immagino che nemmeno adesso tu voglia dirmi il mio vero nome, giusto? O quello di mia sorella.» Cam scosse la testa. «No. Non ancora. Ho bisogno di sapere, Emma, se hai deciso di collaborare con noi oppure no.» Emma non rispose. Non lo sapeva. «Adesso esco. Ti lascio qualche minuto per riflettere. All’alba tornerò e dovrai darmi una risposta.»

Emma non alzò nemmeno la testa mentre la donna se ne andava. Si sedette con la schiena appoggiata alla pietra del focolare. Il lato del suo corpo esposto al calore bruciava, l’altro era gelido.

Con un dito iniziò a tracciare righe sinuose nella cenere calda, cerchi e virgole panciute. Sapeva che avrebbe dovuto riflettere su cosa avrebbe detto a Cam di lì a poche ore, ma proprio non riusciva a concentrarsi. Tutta la sua attenzione era rivolta alla cenere e al rumore delle braci che scoppiettavano sommessamente, spegnendosi.

«Cosa stai facendo?» Emma sobbalzò sollevando una nuvoletta di cenere che le andò in gola facendola tossire. Anton si era avvicinato di soppiatto ed era a pochi centimetri da lei. Incrociò le braccia e lo guardò con astio.

«Cosa sei venuto a fare?»

«Mi hanno mandato a vedere se ti serviva qualcosa…» Anton esitò all’improvviso, notando gli strani disegni che stava tracciando. Emma li cancellò bruscamente con una mano.

«Non mi serve nulla.»

Anton ignorò il suo chiaro rifiuto e dopo aver ravvivato il fuoco mise a scaldare una pentola d’acqua. Poi si sedette di fronte a lei e rimase lì in silenzio per lunghi minuti.

Più quel silenzio durava, più Emma sentiva crescere la rabbia e l’irritazione maturata in quegli anni, come l’acqua che bolliva accanto a lei, la tensione lottava sempre più per liberarsi, venendo in superficie prima con un leggero tremore, poi in grosse bolle roventi. No, non poteva sopportarlo più. Con un urlo afferrò una manciata di cenere e provò a lanciarla all’amico, ottenendo il solo risultato di disperderla nell’aria. «Sei un idiota.» Urlò ancora fra un colpo di tosse e l’altro, alzandosi in piedi e camminando avanti e indietro per la stanza. Anton rimase seduto e scrollò le spalle.

«Per che cosa? Perché ho iniziato ad ignorarti o perché non ti ho detto dell’atlante?» Emma agitò le mani in aria, frustrata. Fra la cenere e la sporcizia delle scale erano completamente nere.

«Sei un idiota e basta.»

Anton sbuffò. «Avevo undici anni Emma. Tu hai letto l’atlante ora che ne hai quasi diciassette, che effetto pensi che possa avermi fatto all’epoca? Ci ho provato, davvero, ma non potevo continuare la vita di prima come se nulla fosse!» Emma boccheggiò qualche secondo, pensando a come replicare.

«Potevi dirmi dell’atlante! Io sono coinvolta in questa storia anche più di te, avevo il diritto di sapere!»

«No che non potevo. Credi che ti avrei raccontato una cosa così pericolosa? Non volevo darti anche questo problema. Speravo che te ne andassi davvero all'accademia e che non venissi coinvolta in tutto questo.»

«Beh, indovina un po’, adesso sono coinvolta, mister Scoreggia Stantia.» Anton divenne rosso e sembrò rimpicciolire, mentre mormorava di nuovo qualcosa che somigliava ad “avevo solo undici anni”.

Rimasero in silenzio altri lunghi minuti, poi Emma sbottò. «Potevi parlarmi comunque. Fare uno sforzo! Inventati una spiegazione! Hai smesso di parlarmi da un giorno all’altro!»

«Ci ho provato, ma se non ricordo male ti sei rifiutata di ascoltarmi. E mi hai spinto nel canale.»

Emma arrossì, ricordando l’episodio. Era successo poco prima che partisse per la scuola. In effetti, lei cosa aveva fatto per capire perché Anton aveva smesso di parlarle? In realtà quasi nulla. Si era limitata ad offendersi e a tenergli il broncio, ferita dal suo primo rifiuto, quella notte di novembre. Forse, se avesse insistito, se quel giorno, prima di partire, l’avesse lasciato parlare…

Ma poi lei era tornata dall’accademia. E aveva provato a parlargli. E lui non l’aveva nemmeno voluta incontrare.

Forse aveva paura che lo spingessi di nuovo nel fiume.

«Ah, basta! Stai solo cercando di rigirare la frittata. La realtà è che sei un idiota.»

Anton alzò gli occhi al cielo, esasperato. «D’accordo, sono un idiota, contenta?»

«No che non sono contenta. Lo dici solo per farmi stare zitta!» Protestò oltraggiata. Non aveva dodici anni. Non si sarebbe fatta trattare ancora con condiscendenza. Anton la guardò con aria di sfida, ancora viola in volto, Emma non riusciva a capire se per la rabbia o l’imbarazzo.

«Dico sul serio, invece. Sono un idiota. Mi dispiace.» Solo Anton poteva dire una frase del genere con un tono orgoglioso e strafottente completamente fuori luogo e sembrare comunque sincero. Ad Emma venne quasi da ridere, ma si trattenne e guardò altrove, ostinata.

Avete torto entrambi. In più lui voleva proteggerti in qualche modo, insomma, fa tenerezza. Accetta la cosa con dignità e chiedigli scusa.

Ma Emma non era capace di mettere da parte l’orgoglio ferito così in fretta. Si sedette di nuovo vicino al caminetto e frugò distrattamente con il dito fra la cenere tiepida. L’acqua bolliva e Anton la tolse dal fuoco. Non guardò quello che stava facendo, ma un forte odore speziato riempì l’aria e un attimo dopo Anton le mise in mano un’altra tazza di tè. Le sue dita lasciarono impronte nere sul legno chiaro.

Guardò un attimo l’amico negli occhi. Erano più seri di quanto ricordava, ma ancora non avevano perso la luce vivace che li animava quando erano bambini. Qualcuno strizzò il suo stomaco come se fosse stato una spugna ed Emma abbassò lo sguardo in fretta, con il naso che pizzicava come se stesse per starnutire.

«Cosa succederà se rifiuterò di collaborare?»

«Ti lasceranno andare, ma… faranno in modo che tu non possa parlarne con nessuno.»

Ad Emma venne da ridere. Come pensavano di ricattarla? Non aveva nulla da perdere. «Ti rendi conto, vero, che se parlerai scopriranno che tua madre era una latitante, e che non potendo pagare lei per i suoi crimini pagherai tu?» Non ci aveva pensato. Non che avesse intenzione di raccontare niente a nessuno. Bastava un decimo delle cose in cui era stata coinvolta quella sera per farla spedire nei campi esterni con un’unica, fluida pedata.

Ancora non le sembrava reale la morte di sua madre, figuriamoci sapere che era latitante, che aveva avuto un’altra figlia, che lei e suo marito facevano parte di una società segreta di ribelli.

«E invece se accetto?»

Anton esitò. «Se accetti non importa cosa succederà, ti starò vicino.»

Emma si sentì bruciare la faccia e quasi le sfuggì la tazza di mano, lo stomaco in gola come se avesse appena saltato dalla finestra del primo piano. Sbuffò sopra la tazza di tè fumante. «Sei un idiota.»

Lo so, sono in ritardo. Sapete com'è, tesi, esami, visti studenteschi... Comunque sono viva. Se volete aggiungermi su facebook, ogni tanto farò sapere a che punto sono (Qui!)

Comunque vi avrò fatto anche aspettare ma il capitolo è un po' più lungo del solito. E si scoprono anche un bel po' di cose!  Anche se da scoprire c'è ancora tanto. Più di quanto immaginate. 

Non sono brava a scrivere scene dove gli amici litigano e fanno pace. Mi mettono in imbarazzo, non so perché! Spero che abbiate apprezzato o che abbiate qualche consiglio utile da darmi per migliorare!

Ancora per qualche settimana la mia vita sarà abbastanza un inferno, poi dovrei aggiornare più regolarmente. Spero. Abbiate pietà di una povera laureanda <3 ---- 羽毛

P.S: Latcho Drom tecnicamente vorrebbe dire "buon viaggio", ma io lo userò come mi pare e piace perché sì.

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