Mrs and Mr Everedeen.

di finnicksahero
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dust and Shadows ***
Capitolo 2: *** Always. ***
Capitolo 3: *** Verrai, verrai. ***
Capitolo 4: *** Il cielo sta tramontando. ***
Capitolo 5: *** Un grido nella notte. ***
Capitolo 6: *** Daisy. ***
Capitolo 7: *** Addio amica mia. ***
Capitolo 8: *** Stelle. ***
Capitolo 9: *** Oh Haymitch... ***
Capitolo 10: *** The Hunger Games. ***
Capitolo 11: *** La mia piccola margherita. ***
Capitolo 12: *** Come una stella. ***
Capitolo 13: *** Autunno ***
Capitolo 14: *** The house of rising the sun. ***
Capitolo 15: *** Niente.(John) ***
Capitolo 16: *** Big Bang ***
Capitolo 17: *** Sweet Home. ***
Capitolo 18: *** Fire ***
Capitolo 19: *** La casa delle gemelle pt1 ***
Capitolo 20: *** La casa delle gemelle pt2 ***
Capitolo 21: *** In to the Woods (John) ***
Capitolo 22: *** Back. ***
Capitolo 23: *** Lullaby (Haymitch) ***
Capitolo 24: *** Prime volte. (Parte 1) ***
Capitolo 25: *** Prime volte (Parte 2) ***
Capitolo 26: *** Proposte. ***
Capitolo 27: *** La mia bambina ***
Capitolo 28: *** Nulla ***
Capitolo 29: *** Mietitura. ***
Capitolo 30: *** L'edizione della Memoria (Pt 1) ***
Capitolo 31: *** L'edizione della Memoria (Pt 29 ***
Capitolo 32: *** Bombardamenti. ***
Capitolo 33: *** Prim. ***
Capitolo 34: *** Buonanotte, Mrs Everdeen. ***



Capitolo 1
*** Dust and Shadows ***


Capitolo uno.

 

Strinsi gli occhi azzurri prima di riaprirli un poco. Un raggio di sole era riuscito ad entrare dalla malmessa e sottile finestra dei Donner,ed ad atterrare suoi miei occhi, uno spruzzo di aria calda e gentile entro dal foro della finestra rotta accarezzandomi il viso, mi girai e mi ritrovai il nasco aquilino schiacciato contro la schiena della mia amica Maysilee, sorrisi fissando il nero della sua camicia da notte, i capelli biondi della mia amica mi solleticavano il naso e mi entravano negli occhi e in bocca.

Mi tirai su notai che era ancora addormentata, abbracciata alla sorella gemella Page, avevano un'aria pacifica con le bocche piene rosa semichiuse, le palpebre pallide che si muovevano appena per via dell'occhio, le ciglia bionde si sfioravano e i loro nasi erano attaccati l'uno a quello dell'altra. I loro capelli biondi erano sparsi per il cuscino, costruendo così una aureola intorno alle loro testoline. I loro visi carichi di lentiggini erano sinceramente felici.

Mi guardai attorno, nella stanza c'erano abiti sparsi ovunque, la porta era socchiusa, di un legno povero, l'armadio con le ante rotte era di un legno costoso ma purtroppo col tempo si era rovinato, dentro c'erano gli abiti per la mietitura, lo si capiva dalla qualità delle stoffe presenti, mi alzai lisciandomi la maglietta, stiracchiandomi sbadigliai silenziosamente e mi sistemai i capelli biondi, lisciandoli con le mani per poi legarli in una coda alta.

Mi tolsi la maglia e raccolsi lo zaino dove tenevo principalmente i medicinali per il distretto, e ci frugai dentro, trovando dei pantaloni e una maglietta, di un nero fumo, le strinsi al petto e uscii in punta di piedi dalla loro stanza. Conoscevo talmente bene la casa dei Donner da saper benissimo dov'erano tutte le stanze. La cucina, che era sempre un disastro perché la madre delle gemelle, una donna con il sorriso gentile i capelli biondi striati di grigio, il viso costantemente rosso per via del calore dei fornelli, che stava ora a cucinare per i minatori, in cambio barattava stoffe e cose del genere. Andai fino al bagno, infondo a sinistra.

Mi lavai velocemente con l'acqua fredda e mi rivestii, gli abiti erano grandi e informi. Alzai lo sguardo dagli stivali marroni da caccia che avevo rubato a mia madre, da giovane scappava nei boschi e stava ore a fare niente la, a me stavano larghi ma erano comodi quando andavo tutto il giorno per curare i bambini del giacimento, mia madre non lo sapeva. E io non glielo dicevo, per lei era una perdita di tempo. Non potevano pagarci, ma secondo me vedere quei bimbi con le convulsioni per via della febbre alta dovevano essere aiutati e poi quando ti sorridevano guariti per strada, era la migliore paga.

Cercai di non passare molto tempo in quel bagnetto piccolino, con una tinozza nera da usare come vasca, degli asciugami appesi a dei vecchi chiodi arrugginiti dietro la spessa porta di legno. Una finestra con le tende chiuse dava sui boschi e quando il vento soffiava riuscivi a sentirne il profumo. Pino mischiato alla libertà. Respirai a pieni polmoni e sorrisi, aprii gli occhi solo per guardarmi allo specchio. Ero decisamente diversa dalle mie due amiche, loro erano tutte curve, con le labbra piene e quei modi aggraziati e seducenti, io invece avevo le curve solo perché era giusto che le avessi, le mie labbra erano piccole e la pelle pallidissima e gli occhi grandissimi, da cerbiatto. Distolsi lo sguardo e uscii di corsa dal bagno.

Quando tornai nella camera delle gemelle, scoppiai a ridere, Page stava schiacciando Maysilee che cercava di liberarsi, mi guardò con gli occhi azzurri imploranti -Anse, aiutami- implorò, scossi la testa e mi appoggiai allo stipite -Oh no- replicai, lei strisciò sotto la gemella che l'aveva bloccata, trattenni le risate solo per non svegliare l'altra gemella, mi concentrai sui lineamenti di entrambe, così armoniosi e perfetti -Se non l'avessi notato, questo bradipo di sorella che mi ritrovo mi sta schiacciando. AIUTAMI- gridò, Page che si era svegliata mi sorrise maliziosamente. Mi avvinai e la scossi, come per cullarla.

-Tesoro ti prego potresti non uccidere tua sorella? Sai, è l'unica che hai- le ricordai, lei si tirò giù fissandomi sorridente. Maysilee si mise seduta a gambe incrociate, aveva il cuscino stretto al petto e ci appoggiava sopra la testolina -Vai già a casa?- mi chiese, annui, dovevo andare a fare il giro di ricognizione, il fratellino minore di Alius Mellark, il mio migliore amico, stava male, volevo vedere come stava. Le gemelle iniziarono a parlare fra loro, le fissai a disagio. Il mio unico fratello aveva dieci anni. Non potevamo fare grandi discussioni insieme. -Sei ufficialmente invitata a fare colazione da noi- dissero insieme, le fissai, un sorriso mi baciò le labbra -Lo sapete quanto siete inquietanti voi due, quando parlate insieme?- chiesi, loro mi lanciarono delle occhiatacce e sospirai, quando un Donner ti offriva da mangiare, non c'erano scuse. Dovevi mangiare.

Tamburellai con il dito sul tavolo della cucina mentre le aspettavo, ero già in ritardo erano le otto, avrei dovuto essere la, in piazza per le otto e quarto, non ce l'avrei mai fatta. Guardai le iniziali incise sul tavolo. Una P e una M e li vicino una A, mi avevo fatto incidere la mia iniziale perché ero parte della famiglia. Volevo bene a tutti in quella casa. -Ragazze vi prego, MUOVETEVI- gridai e subito comparve Page, che sfoggiava un abito cucito da lei, bianco, che le arrivava a metà cosce, i capelli biondi legati in due trecce, corse ai fornelli e iniziò a cucinare. Guardò il pane stantio e sospirò, scuotendo la testa.

Maysilee arrivò e attirò l'attenzione di tutte e due, anche se avevo appena chiesto a Page come stava andando con quel Undersee, se era una cosa seria o no, e lei arrossendo aveva appena iniziato a parlare quando sua sorella era entrata. Aveva i lunghi capelli biondi sciolti, gli occhi azzurri brillanti, il corpo rinchiuso in un paio di pantaloni leggeri neri e indossava una canottiera marrone scuro. Ai piedi gli stivali da lavoro. Era decisamente bellissima. Da togliere il fiato.

-Undersee eh?- chiese, sorridente, Page sorrise e arrossii, alzando le spalle -Si- disse, solamente, mi schioccò un'occhiatina e andò dalla sorella, le cinse la vita con le mani e le sussurrò qualcosa all'orecchio, l'altra scosse solo la testa ma quel mezzo sorriso sulla bocca la tradiva. E di tanto. Maysilee batte la mani deliziata -ANSE- disse, appoggiandosi con tutto il corpo alla sedia. Gli occhi erano incredibilmente vivi -Stanno insieme- alzò le mani in aria e rise, io feci dei versi approvazione scuotendo la testa subito dopo. Mangiai di gusto, era poca roba, pane stantio un sugo preparato con due pomodori e della mente vecchia e tutta rugosa, ma nessuno sapeva cucinare come loro. Mi abbracciarono entrambe quando le salutai. Maysilee mi strinse il braccio e si morse un labbro -Stasera passo da te- disse, sembrava agitata, annui e lei mi baciò la guancia, sorrisi e mi chiusi la porta alle spalle.

Le strade del giacimento erano deserte, si sentivano i canti dei bambini e qualche rumore di stoviglia, ma per il resto il silenzio era assordante, neanche gli uccellini cantavano, il cielo da azzurro era diventato nuvoloso. Rendendo l'ambiente ancora più grigio, i miei stivali alzavano la cenere argentea per aria, creando delle piccole nuvole che stancamente si riposava a terra. Era così folle alzarla, dargli della speranza, facendogli credere di poter volare, quando in realtà si sarebbe schiantata al suo suolo da li a poco. Mi ritrovai a pensare che prima o poi tutti diventavamo polvere.

Polvere alla polvere.

Cenere alla cenere.

Non c'era speranza per noi, eravamo nati per morire. Morire in modo o bruto o violento, o per la fame oppure per solo Dio sa cos'altro. Gli Hunger Games e le rivolte passate ci avevano ridotto allo schifo. Ridotti ad uccidere il vicino di casa per una singola briciola di pane. Vendendosi per un po' d'acqua. Non andava bene a nessuno, ma nessuno faceva niente.

Venivamo sollevati come la cenere, convinti di poter volare, ma poi fatti precipitare, e così era all'infinito.

Voltai l'angolo, dovevo tornare in piazza, alla panetteria, per controllare Ector, anche se ero sicura che non avrei potuto curare quello che aveva lui. Non senza l'aiuto dei medici della capitale. Asciugai una lacrima. Sarebbe morto, non oggi, e nemmeno domani. Ma da li a poco, lo sospettava. Non era febbre normale. Era qualcosa di ancora più profondo.

Guardai ancora una volta la cenere e una lacrima ci cadde sopra, sprofondando fra la spessa polvere, trassi un respiro profondo e mi grattai via le ultime lacrime.

Quando voltai l'angolo andai a sbattere contro qualcuno. Qualcuno di forte e muscolo. Alzai lo sguardo e rimasi senza fiato. Stavo guardando i due più belli occhi color cenere.

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Capitolo 2
*** Always. ***


Capitolo due.


 

Caddi a terra, alzando un gran polverone. L'argento della cenere si alzò, verso il cielo, sovrastandomi, vedevo la sagoma di quel ragazzone e, per tutta quella cenere mi sembrava una fenice, che stava rinascendo da se stessa. Il polverone mi fece tossire, e fare delle smorfie, odiavo quando mi andava nel naso. Mi solleticava e mi faceva starnutire per giorni.

Quando la folla di cenere iniziò a cadere, lentamente come la neve a terra la sagoma del ragazzo si fece sempre più chiara, da poter notare i muscoli delle braccia, del petto, il viso squadrato i capelli lunghi, aveva anche una sacca, a tracolla dietro la schiena, sembrava vuota.

Tossii ancora un poco, mentre tutto tornava come prima. Alzai lo sguardo su di lui, che sorrideva a mo di scuse, mostrando la dentatura perfetta, le labbra erano scure, bellissime, inumidii le mie, perché erano secchie, lo fissai ma non mi mossi. Analizzai in quel silenzio perfetto il suo volto, con le sopracciglia spesse, il naso un po' grosso che sul suo volto stava da dio, le labbra strette in un sorriso. Tutti i denti, uno più dritto dell'altro, e di un bianco brillante. Il viso era un po' squadrato, la mascella un po' pronunciata.

Nel complesso un gran bel ragazzo. Ma la cosa che mi tolse il fiato erano gli occhi. Grigi, e brillanti, vicino alla pupilla diventavano più scuri, ma nella parte esterna toccavano l'azzurro. Non riuscivo ad identificare altri colori, da quella distanza.

Indossava un maglione con più toppe che altro, dei pantaloni da caccia e delle scarpe, che avevano visto giorni migliori -Scusa- mormorai, lui scosse la testa -Oh no, scusami tu- disse, lo guardai con una smorfia -No. Ti ho detto di scusare me- ripetei, lui sorrise, veramente per la prima volta, -Okay, allora non ti scuso- disse, si sfregò le mani per poi incrociare le braccia al petto, rimasi confusa e a terra, non mi scusava, ma che tipetto avevo incontrato! -O almeno- iniziò, vedendo la mia espressione turbata -finché non mi perdoni prima tu- fini con un sorriso divertito.

Non potei fare a meno di ridere, buttai la testa all'indietro e la scossi, ancora ridendo, -Oddio, sei pazzo- conclusi, poi sospirai -Senti, facciamo così, tu mi aiuti ad alzarmi e io ti perdono, e tu perdoni me, aiutandomi. Ti va?- chiesi, ci pensò un attimo, con una smorfia sul viso, notai che aveva una fossetta sul mento, carina. -Va bene- disse allungando una mano scura e callosa, l'afferrai e sentii la ruvidezza della sua pelle, la maniera in cui la mia piccola manina entrava dentro la sua enorme.

Il contatto con la sua pelle rovinata dal lavoro mi provocò uno strana reazione dentro la pancia. Mi si seccò la bocca e d'un tratto mi sentii scema. Come se non sapessi che fare e che dire, in sua presenza, nessuno mi aveva mai fatto stare così. Nessuno. -Grazie- dissi, e nel silenzio imbarazzante raccolsi la borsa e la spazzolai con una mano, per poi pulirmi i pantaloni e la maglia, togliendo almeno un po' di cenere.

Lo guardai negli occhi, e gli sorrisi, per poi superarlo e andare per la mia strada. Non sapevo che ore erano, ma sicuramente ero in ritardo, camminai velocemente superando case devastate e vicoli con ancora persone sdraiate, forse erano vivi. Forse no. Tenni lo sguardo basso fino al quartiere che separava il giacimento dalla città, li non c'erano i benestanti come me e Alus. Li ci stavano delle persone che non faticavano ad avere almeno un pranzo al giorno, tutto il contrario del giacimento, dopo pochissimi mangiavano tutti i giorni.

-Heyy, fermati- urlò una voce profonda, mi girai di scatto, essendo l'unica in tutta la strada, vidi il ragazzo di prima, venirmi incontro con un sorriso, mi raggiunse facilmente con le sue lunghe gambe, mi resi conto che mi sovrastava di almeno venti centimetri, trattenni il fiato quando mi trovai faccia-a-torace. Come un robot, alzai il naso verso di lui e feci un passo indietro, sembrava fierissimo della sua altezza, in quel momento -Si?- chiesi, lui si grattò le mani, cosa che mi fece sorridere, tutti i ragazzi di sedici anni si grattavano le mani? -Volevo sapere il nome di colei che è rimbalzata sul mio possente petto- disse, una risata gorgogliò fuori dalla mia gola, mi coprii la bocca con le mani, e iniziai a guardarmi i piedi, cercando di rimanere seria -Sono Anse- risposi, lui sembrò aspettarsi altro -Anse Preter- aggiunsi, lui annui e fece per andarsene -Oh no caro- esclamai, lui si fermò, con il riso sulle labbra -Io ora sono curiosa di conoscere il nome di colui che mi ha fatto cadere nella cenere- decisi, mettendo le mani sui fianchi, cercai di rimanere seria, ma il sorriso che baciò le mie labbra mi tradii -Io sono John Everdeen- disse, fece un mezzo inchino, alzai gli occhi al cielo.

Rimanemmo in silenzio imbarazzati per un po' -Senti John, io sono in ritardo- dissi, lui mi prese per il polso, che nella sua enorme mano ci entrava alla perfezione -Dove vai?- chiese, sinceramente curioso, strattonai il polso e lo liberai, non lo teneva così stretto, -Devo andare a casa dei Mellark- dissi, lui sembrò deluso -Hey, domani possiamo vederci? Vieni al prato, verso le quattro, okay?- chiese, dubbiosa lo guardai -Ci saranno le sorelle Donner, Abernathy e un mio amico con la sua ragazza- promise, mettendo apposta la sacca che gli stava scivolando dalla schiena. Rimasi un attimo perplessa e dubbiosa ma alla fine mi ritrovai ad annuire -Certo, verrò- decisi, alzai lo sguardo e annui. I nostri occhi si incontrano per la seconda volta.

-Alus, lo so, non ripetermi che sono stata una sciocca- dissi, ero seduta a gambe incrociate in camera di Alus, suo fratello aveva ancora la febbre alta, e non potevo curarlo, quella malattia per noi era mortale. A loro però, non avevo detto niente -Ma lo sei stata- ribatte il mio amico, che era sdraiato sul letto, e stava giocherellando con una palla fatta di pezzi di stoffa, era ipnotica quella cosa che andava in aria e poi tornava giù, alle sue mani. Gli tirai una sua camicia, e lui rise.

Si mise seduto e sospirò, passandosi una mano sul viso mi guardò, era preoccupato -Anse, Ector che ha di preciso?- chiese, inizia a guardarmi le mani, giocherellai con un filo che usciva dalla mia maglietta e scrollai le spalle -I sintomi non li capisco, sono troppo vari e...- cercai di sembrare visibilmente ignorante su quello che aveva. Ma non era così, io sapevo che aveva. Ma non l'avrei curato. Ne ora ne mai. -Anse, Ector che ha di preciso?- chiese nuovamente, gli occhi azzurri glaciali e infuocati allo stesso tempo, mi passa la lingua sulle labbra prima di morderle, abbassai lo sguardo per poi rialzarlo -Sta morendo- sussurrai. Il poco colore che aveva sul volto sparii, chiuse gli occhi e una autentica espressione di dolore gli attraversò il viso -C'è un modo per...- iniziò, lo bloccai subito -No, no mi dispiace- dissi, la mia voce era incerta.

Lui riaprii gli occhi e annui, si morse le labbra, guardando me ma allo stesso tempo non guardandomi -I miei lo sanno?- chiese, scossi pian piano la testa -Voglio che abbiano ancora un po' di speranza. E poi forse, chissà, ho sbagliato diagnosi- dissi, alzando una spalla e con un sopracciglio sollevato. Sapevamo entrambi che era una bugia. Io non sbagliavo mai una diagnosi. Mai. -Anse- sussurrò, mi alzai e andai ad abbracciarlo, insieme ci sdraiammo nel letto.

Gli accarezzai le braccia nude e lo tenni stretto a me, si voltò così da poter essere naso a naso, i suoi ricci castani mi solleticavano la fronte, gli occhi azzurri erano allacciati ai miei -Soffrirà tanto?- chiese, la sua voce era rotta, scossi la testa e feci un sorriso rassicurante -No, sarà come addormentarsi- sussurrai, lui mi strinse al suo petto e ricambia, con tanta dolcezza quanta ne avevo in corpo.

-Promettimi che rimarrai con me- disse piano al mio orecchio, annui sul suo petto. Avevo gli occhi chiusi, ma riuscivo lo stesso a vedere tutto il mondo -Rimarrò con te- promisi, mi staccò da lui, gli occhi erano lucidi, si passò la lingua sulle labbra -Sempre?- chiese, annui per poi tornare ad abbracciarlo -Sempre.

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Capitolo 3
*** Verrai, verrai. ***


Capitolo tre.


 

Il sole era alto nel cielo e molto caldo quel giorno. Era passata una settimana dall'appuntamento nel prato. Una settimana da quando Maysilee e Haymitch si erano messi insieme, e da quando avevo incontrato altri ragazzi del giacimento. Ma sopratutto erano passati sette giorni dal momento in cui avevo ascoltato John cantare.

Mi aveva portato nei boschi, io mi ero messa subito a raccogliere le erbe per i medicinali e lui parlava, ad un certo punto tutto era silenzioso, mi ero girata lentamente, spaventata aspettandomi due pacificatori, e ai loro piedi il cadavere del mio nuovo amico, e invece era in piedi, su una roccia, gli stivali da caccia, la maglietta a maniche corte che faceva capire quanti muscoli possedesse, i capelli lunghi legati in un codino dietro la testa, il sole lo abbracciava e sembrava un angelo. Lo fissai accigliata, feci per chiedergli cosa stesse facendo quando aveva aperto bocca.

Prima la voce gli era uscita incerta. Poi sempre più decisa, era una canzone d'amore ma molto triste, all'inizio mi sembravano parole vuote, senza senso, ma poi mi resi conto che non erano così. Per niente. Tutto intorno a noi taceva, perfino l'aria sembrava non voler portare con se nessun rumore mentre lui cantava. E solo un piccolo e timido pubblico composto da denti di leone, violette, e altri fiori selvatici, lo fissavano mentre lui intonava:


 

'Verrai, verrai,

all'albero berrai,

da cui hanno appeso un uomo che tre ne uccise, o pare?

Strani eventi qui si son verificati

e nessuno mai verrebbe a curiosare

se a mezzanotte ci incontrassimo

all'albero degli impiccati.'


 

Quando ebbe finito la prima strofa, la calma era davvero surreale, riuscivo a quasi a toccarlo, quel silenzio perfetto e poi a poco a poco, dei timidi cinguettii ricrearono la sua canzone. Stonando delle parti, ma che messi insieme veniva un gran bel concerto.

Rimasi stupida, dal vederlo sorridere, come se non si aspettasse quella reazione, ma anche se infondo sapeva che sarebbe successa, mise le mani sui fianchi e chiuse gli occhi, aprii la bocca per prendere fiato e quando gli uccellini smisero, lui ricominciò.

Mi piacque il modo in cui muoveva le mani, come un pittore le muove sulla tela, la passione che metteva in ogni singola parola, in ogni accordo, sembrava così a suo agio da far paura. Non riuscivo a preoccuparmi che ci sentissero in città. Perché in quel momento non esisteva altro che lui e la musica, in quel momento.

Rimasi in ascolto. La seconda strofa terminò e lui rimase zitto, ad ascoltare gli uccelli che cantavano per lui, la sua canzone. Mi sedetti a terra, posando tutto come andava andava. Chiusi gli occhi e riuscii a vedere quell'albero. Come una cosa in bianco e nero, una figura sottile, stilizzata si avvicinava a passi di danza verso quella corda che volava con un vento leggero, se la passò sulla mano e ci ballò intorno. Era un valzer, e non aveva una compagna. Ma poi eccola spuntare.

Un'altra creaturina stilizzata, che corse su per la collina, fino a quell'albero, no guardò nemmeno la sua corda, ma corse dal suo amore e iniziò a ballare. Volteggiarono intorno a quelle corde, accarezzandole. Quando gli uccellini smisero di cantare, la voce profonda di John riprese la narrazione. Tenni gli occhi chiusi per tutta la strofa.


 

'Verrai, verrai,

all'albero verrai,

ove ti dissi “ Corri, se ci vuoi liberare “?

Strani eventi qui si son verificati

e nessuno mai verrebbe a curiosare

se a mezzanotte ci incontrassimo

all'albero degli impiccati.'


 

Ed eccolo li, l'atto finale, lui si inchinò a lei, nero sullo sfondo bianco che stava diventando seppia, e lei fece un riverenza, si misero le loro collane al collo e si presero per mano. Sembravano due uccellini e come tali spiccarono il volo. Lo sfondo diventò sempre più scuro, mentre il vento muoveva i cadaveri dei due giovani. Quelle fastidiose vocine smisero di cantare e lui ripartii con la prima strofa che doveva essere un ritornello.

Riaprii gli occhi quando disse l'ultima parola, le lacrime mi avevano bagnato il viso, mentre lui continuava a sorridere, ma un poì più tristemente, aveva chiusi gli occhi e spalancato le braccia, accogliendo tutte quelle mille voci che intonavano la sua triste canzone.

Dopo mi disse il nome del suo pubblico. Ghiandaie Imitatrici. Mi chiese perché avevo pianto e io avevo risposto come una bambina piccola -Perché non ho mai udito niente di più bello- ed era vero. Nessuno mi aveva rapito come lui. Ma proprio nessuno, mi fece promettere di non parlare a nessuno di quello che aveva fatto. Io annui, mi sorrise e insieme ci incamminammo verso la città.

-Alus, dovevi esserci- gli dissi, era almeno la centesima volta che gli raccontavo come cantava John -No, io ero occupato a parlare con quella Donna Saimur. Che ci ha provato spudoratamente con me- disse, stavo controllando suo fratello, e lui mi assisteva, più per volere che per altro -Senti, è bella, è formosa, è moolto disponibile. Non sarei gay?- chiesi, lui strabuzzò gli occhi e scosse solennemente la testa -Chiedevo solo- mormorai, tolsi il termometro da sotto l'ascella di Ector e sospirai -La febbre gli si è abbassata. Gli sto per dare la morfina, per favore sterilizza l'ago, ci manca solo un'infezione!- esclamai, lui fece come richiesto.

Preparai la morfina, mettendola dentro la siringa, con i guanti ci infilai l'ago e diedi un paio di schicchiricotti al vetro, e annui -Tienilo- ordinai, gli misi il calmante in corpo e mi sedetti, dovevo rimanere li con il paziente almeno altri minuti, dopo averlo drogato, -Rivedrai John?- chiese, sembrava intensamente occupato a guardare fuori dalla finestra, osservai la posizione delle spalle e la tensione nella mascella, vedendo anche una strana luce nei suoi occhi, non aveva fatto la domanda così, per parlare. Era stranamente preoccupato -Forse se riesco a fare tutti i giri domani torniamo nei boschi, devo finire di prendere le erbe- dissi, lui si voltò verso di me, sembrava furioso, fece per ribattere, mi accigliai e presi il polso di Ector, iniziando a controllarlo, guardando l'orologio. Dopo un po' tirai un sospiro di sollievo -Anche stavolta tutto bene- dissi, lui si scurii in volto.

-Okay, stavo pensando, è giunto il momento di dirlo ai tuoi. Sono in casa?- chiesi, Alus annui, sembrava ancora arrabbiato. Non ne capii il motivo, ma non glielo chiesi, forse era preoccupato per il suo fratellino. Sicuramente era così. -Si, sono di sotto- disse, lo presi per il braccio e accarezzai la testina calda di suo fratello -Allora, su andiamo.

Scendemmo le scale, di corsa.

Li feci sedere, tutti e tre davanti a me, e mi preparai al peggio, che arrivò, mi urlarono contro, suo padre quasi mi picchiò. Sua madre mi implorò di trovare una cura. Alla fine mi abbracciarono entrambi, dicendomi che mi volevano bene.

Stringendoli forte, mi resi conto che avrei potuto fare di più. Ma che non potevo realmente farlo.

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Capitolo 4
*** Il cielo sta tramontando. ***


Capitolo quattro.


 

-Ector- sussurrai, il bambino stava seduto sullo sdraio, a volte in venti maglioni diversi. Si girò verso di me e sorrise debolmente, era magrissimo, il viso da folletto era scavato, sembrava più piccolo dei suoi otto anni. Allungai una mano e gliela accarezzai, sentii le ossa piccoline della sua piccola e delicata manina. Sua madre e suo padre stavano cucinando all'aperto e io avevo proposto di farlo uscire, guardava il tramonto come se non avesse mai visto niente di così bello. E aveva ragione.

Alus accanto a me lo stava guardando, sorridente, avevamo fatto pace, quel pomeriggio, lui mi aveva detto che aveva capito cosa gli stava succedendo, e mi aveva invitato da lui, ora li mi sorrideva e mi prese la mano. Un atteggiamento strano, non mi aveva mai preso la mano davanti ai suoi genitori. Lo fissai con un sorriso e uno sguardo interrogativo.

Si alzò in piedi e io con lui, nessuno sembrava notare che ce ne stessimo andando. Nessuno tranne Ector, ci fissò sorridente per un po', poi si girò di nuovo, a fissare il tramonto.

Andammo davanti alla panetteria e ci sedemmo sulle scale, allungai le braccia per rubare al cielo i suoi ultimi raggi. Erano come abbracci caldi dati al momento giusto. Le strade erano deserte. C'eravamo solo noi, io e lui. Vedevo la farmacia, e la mia camera con la luce accesa, e altri edifici tutti quanti molto mal ridotti. Mi prese la mano e poi iniziò ad accarezzarmi il braccio, lo tolsi dalla sua presa rossa dall'imbarazzo -Ma che fai?- chiesi, lui fissò a terra, sembrava sul punto di vomitare -Senti che hai?- domandai, con Ector che stava così, non so cosa avesse, sperai in niente di grave -Niente però vorrei parlarti di una cosa- disse, si girò verso di me e fece per aprire bocca quando la richiuse -Semmai dopo, ormai sarà pronto no?- chiese si alzò, gli tremavano le mani, mi alzai. Questa volta non provò nemmeno a toccarla. La mia mano.

Mangiammo in giardino, con il sole che pian piano scendeva giù, facendo salire le stelle in cielo. Come una coperta stavano sputando. Tutto stava andando bene. Ma poi successe.

Ector iniziò a tossire, lo presi in braccio e sentii anche attraverso diversi strati quanto fosse magro. Sua madre iniziò a preoccuparsi, pianse e suo marito la tenne, sul suo volto c'erano delle emozioni troppo forti. Non era la tosse a preoccuparli, ma il fatto che ci fossero degli schizzi di sangue. Gli feci allungare la gambe e lo tenni mentre tossiva, continuava a scivolarmi, gli sussurrai delle parole di conforto e di incoraggiamento. Quando smise era affannato.

Si appoggiò allo schienale e proprio in quel momento un ultimo raggio di sole scomparve. Lo vidi sorridere, mi prese la mano. In quel momento non sembrava un bambino di otto anni. Ma molto più vecchio, mi guardò con i suoi occhioni castani e sorrise, aveva del sangue scarlatto che gli baciava tutte le labbra da bimbo. Quella vocina così acuta era strana, ma era bellissima. Gli sorrisi. Indicò con mano tremante il cielo. E disse -Il cielo sta tramontando.

Lo disse, e poi si accasciò sulla sdraio, la bocca era semi aperta e riuscii a vedere l'esatto momento in cui la vita abbandonava il suo corpo. Rimasi immobile. L'oscurità stava calando. Anche l'ora blu stava scemando. Rimanemmo tutti fermi e zitti. Per un attimo regnò solo il silenzio, con qualche grillo e niente di più. Una lacrima mi scivolò giù dalla guancia.

E poi un'altra. Caddero tutte sopra il mio abito azzurro, creando delle pozzanghere blu scuro. Le sue ultime parole.

Mi aveva detto le sue ultime parole, stava parlando con me 'Il cielo sta tramontando' aveva detto.

Dopo aver visto anche l'ultimo raggio di sole andarsene, aveva detto quella frase.

Avevo ancora la sua mano nella mia, ci chinai sopra la fronte e piansi. Silenziosamente, nessuno fiatava. E io piangevo. Non riuscivo a smettere.

Anche lui se n'era andato come un raggio di sole. Ecco perché quella frase! Era un raggio di sole, rimasto troppo a lungo sulla terra.

Quando mi tirai su, aveva la faccia sconvolta dalle lacrime. Sentii un grido. Mi voltai e vidi la madre di Ector, inginocchiata a terra, le lacrime gli rigavano il viso e gridava. Suo padre era fermo immobile, non una sola lacrima gli bagnava gli occhi, rimaneva li, a fissare il corpicino minuto di Ector, che aveva ancora una risata sulle labbra troppo rosse.

Mi guardai attorno e non vidi Alus, mi alzai prima che sua madre mi travolgesse, abbracciando il corpo freddo di suo figlio. Cercai il mio amico e lo trovai, stava piangendo contro il muro, battevo il pugno con cattiveria, tanto da farsi male, piangeva gridando, mi avvinai e gli misi una mano sulla spalla. Stavo piangendo pure io. Sentii che urlava delle parole -E' colpa mia- -Avrei dovuto fare di più- -Oddio, perché non sono morto io?- ecco cosa urlava. Farneticava. Il dolore ti fa fare anche questo. Ti fa delirare. Ti fa commettere delle pazzie.

A volte ti fa fare delle cose che vorresti fare, ma che non hai il coraggio di fare. Perché sei troppo occupato a non provare altro. 'Bella merda, il dolore' pensai, mentre lui si girava e mi guardava, con tante emozioni negli occhi 'Più fa male, più cazzate ti fa fare' mi abbracciò e poi mi appoggiò contro il muro. Avevo la schiena incollata alla calda facciata della panetteria. Lo stringevo forte -Non è colpa tua- gli sussurrai, lui scosse la testa sul mio collo, sentivo le sue lacrime bagnarmi il collo. Le sue mani stringevano la stoffa leggera del vestito e in un punto lo strapparono, ma non mi importava. Sentivo la sua mano caldo contro la mia schiena.

In quel momento non c'era nessun altro. Solo io e lui. Io e lui più un piccolo angelo. Lo strinsi forte, le grida di sua madre ci facevano da sottofondo. Si scostò un po' da me e lo guardai negli occhi azzurri.

Era completamente impazzito, le pupille erano enormi. Guardò la mia bocca e ci si avventò. 'Strano' pensai, in quel momento non capivo quali lacrime avevo sulle labbra, se le sue o le mie. Avevo la faccia bagnata, dalle sue e dalle mi lacrime 'Il mio primo bacio sa di lacrime. Non d'amore' vedevo i suoi occhi che si erano chiusi pian piano.

Anche i miei si chiusero piano piano 'Il cielo sta tramontando' pensai, assaporando il sapore delle lacrime sulla sua lingua, che si mischiava alla mia.

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Capitolo 5
*** Un grido nella notte. ***


Capitolo cinque.


 

Il bacio mi aveva annientato.

Non potevo fare a meno di rispondere, sentivo di doverlo fare. Volevo farlo.

Sentivo le sue mani ruvide e forti che mi tenevano stretta, il suo corpo caldo che mi teneva schiacciata contro la casa, il suo corpo che era proprio impazzito. Mi accarezzava tutta la schiena, fermandosi dove l'abito era strappato, sentendo la mia pelle bollente. Che ad ogni tocco mi faceva stare male.

Quando si staccava un impulso più forte di me, mi mandava alla ricerca di quelle labbra morbide e ancora salate, le lacrime si erano fermate, credo. Le urla smorzate come se fossimo dentro una bolla.

La scena doveva essere patetica, ne ero certa, ma in quel momento non me ne fregava niente, il dolore si stava nascondendo, dando spazio ad un nuovo sentimento, qualcosa di più primitivo. Qualcosa che ti faceva girare la testa e ti implorava di continuare, ancora e ancora.

Quando la sua bocca scese sul mio collo una vocina dentro di me si stava allarmando, ma si zittii sentendo il calore della sua lingua sul mio collo accaldato. Ansimai e gli misi le mani dei capelli.

Ci baciammo nuovamente. Era strano. Non avevo mai pensato come fosse baciarlo. Non avrei mai immaginato che sentirmi schiacciata dal suo corpo fosse così piacevole.

Avevo immaginato milioni di volte il mio primo bacio. Ma questo andava fuori da ogni mia immaginazione, il modo in cui le sue mani mi toccava. Il sentimento che ci metteva mi dava i brividi, sentivo il desiderio, l'amore e il dolore dentro ogni singolo respiro. Lo capivo dal modo in cui mi baciava.

In quel momento non riuscivo a capire se mi aveva baciato come distrazione o altro. Ma sapevo che era meraviglioso, tutto quanto, in quell'istante era davvero bellissimo.

Aveva iniziato a piovere, lo capii non tanto dal fatto che avessi la faccia bagnata, oppure i capelli. Ma dalla sua camicia, era attaccata alla sua schiena magra e riuscivo a tracciarla con un dito, tutta quanto. L'avevo fatto un milione di volte, ma questa volta aveva un significato diverso.

La pioggia cadeva forte, mi attaccava l'abito al corpo piccolino, sembrava che non lo disturbasse anzi.

I nostri baci avevano un altro sapore, ora era freschi, dolorosi e pieni di emozioni contrastanti.

Sentivo le sue mani addosso e in quel momento quella bella sensazione scemò, lo allontanai e lo fissai, con i capelli sparsi sul viso, li tolsi, l'acqua grondava dal viso come in una fontana, Alus sembrava disorientato, il viso era arrossatissimo e ansimava senza controllo, anche la sua zazzera di capelli era incollata alla nuca e al collo.

-Basta- sussurrai debolmente, avevo la voce incerta e ansimavo pure io, fece per avvicinarsi, allungò una mano ma io scossi la testa. Cosa avevamo fatto? Perché avevo risposto al bacio? Il dolore. Quel bastardo del dolore mi aveva fatto perdere il controllo. 'Ma sei proprio sicura di non provare niente?' mi domandava la parte interiore di me, e la cosa brutta era che non potevo rispondere con chiarezza.

L'avevo sempre considerato bello. Un gran bel ragazzo, con il viso tondeggiante, gli occhi azzurri come il ghiaccio e i capelli ricci e castani. Trovavo bello come muoveva le labbra quando parlava, ma non avevo mai immaginato che le sentissi sulle mie. Mi diedi della stupida, naturalmente l'aveva fatto perché era fuori di se. Lo capivo da come si guardava le mani, dal modo in cui si passava la lingua sulle labbra. -Anse io- iniziò, scossi la testa, non sarei riuscita a sopportare le parole 'E' stato un'errore'. Qualcosa provavo, sentivo delle emozioni contrastanti.

Mi portai una mano sulle labbra, tremava. E corsi via, non andai nemmeno a raccogliere lo zaino, corsi via.

Non avevo una meta, potevo andare ovunque. Ripensai a tutto quanto.

Alle parole non dette 'Voleva dirmi qualcosa' pensai mentre correvo. Pensai alle sue mani sulla mia schiena, come mi avevano accarezzato il viso, tremanti ma decise, come se non aspettasse altro, come se immaginasse il modo di toccarmi da tempo ormai, quel suo modo di baciarmi, pronto e deciso, caldo, mi aveva arreso ma sopratutto quello strano bacio sul collo, che mi aveva mandato fuori fase. Potevo respingerlo, lo sapevo.

Ma ero confusa, cosa provavo, io per lui? Cosa provava lui per me? Era solo un bacio di pazzia o qualcosa di più?

Una parte di me voleva tornare indietro e baciarlo di nuovo, ma c'era anche quella parte di me che mi spingeva ad allontanarmi da lui. Dovevo capire cosa provavo. Dovevo capire cosa provava.

Alla fine trovai una meta, andai alla porta e diedi dei colpi decisi, sentii dei borbottii e delle parole sussurrate.

Tenni lo sguardo basso e quando le porte si aprirono alzai il viso. Guardai il viso scioccato di Maysilee, cercai di sorridere ma non riuscii -Anse ma cosa?- chiese visibilmente confusa, scossi la testa -Ho baciato Anse- dissi. Lei rimase attaccata alla porta si spostò e mi fece entrare.

-Abbiamo molto di cui parlare- mormorò.

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Capitolo 6
*** Daisy. ***


Capitolo sei.


 

Tenni lo sguardo basso, i capelli mi stavano coprendo il viso, una leggera brezza li muoveva, sentivo le ciocche sulla fronte, sul naso, e perfino sulla bocca.

Alzai lo sguardo e vidi gli alberi. Gli alberi tutti intorno a me, mi abbracciai le ginocchia mentre osservavo tutto l'ambiente circostante. Gli alberi altissimi e verdi, con le fronde in movimento per via del venticello che si era alzato, il sole era sopra di me, e mi guardava curioso. Mi piaceva stare nel prato, con i fiori che mi accarezzavano la pelle e che si muovevano lasciando che il loro profumo riempisse l'aria carica di fuliggine.

Raccolsi una margherita e la misi sul palmo della mano, era bellina, con i petali bianchi sfumati di rosa, la parte centrale di un giallo coloratissimo e accesissimo, la guardai e sorrisi, Maysilee accanto a me stava guardando il giacimento, sembrava terribilmente in ansia -Heyy- sussurrai, lei si voltò verso di me, gli occhi erano terrorizzati, gli sorrisi dolcemente -Sei preoccupata per domani?- mormorai, Maysilee annui e fece una smorfia -Si, non voglio essere estratta- iniziò e si portò distrattamente una mano sulla pancia -E non voglio che neppure Haymitch venga estratto. Ma a qualcuno toccherà. Quest'anno sono il doppio Anse, se succedesse qualcosa a te o a Page- la voce gli si incrinò e massaggiò la pancia delicatamente. Un gesto strano. Non l'aveva mai fatto.

Mi avvinai in avanti, chinandomi su di lei e gli misi la margherita fra i capelli, lei mi fissò con un'espressione divertita, risi -Non farò domande- decise alzando entrambe le mani, annui soddisfatta -Ora immagino che tutti i miei problemi siano risolti- mormorò, mi avvicinai a lei e l'abbracciai, lei appoggiò la sua testa sulla mia spalla con un sorriso sulle labbra carnose, appoggiai il capo sul suo e sospirai.

-Anse?- chiese -Si?- domandai -Con Alus tutto bene?- indagò, sorrisi e sospirai -Non mi vuole vedere, capisco il dolore per la perdita di Ector possa averlo segnato. Lo capisco sul serio, manca anche a me e poi le sue ultime parole- le lacrime mi salirono agli occhi -E' stato brutto, ma domani è il giorno della mietitura e volevo capire bene tutto quanto- dissi, lei annui e sospirò -Ma te, hai capito che provi per lui?- chiese, annui e mi arrossarono le gote -Si, e l'ho baciato perché non capivo un cazzo in quel momento. Non mi piace, non in quel modo, spero che non mi odi. Pensavo che potesse piacermi ma da un po' tutto è diverso- ammisi, la sentii ridacchiare -Centra per caso un cacciatore?- domandò, gli diedi una spinta giocosa e ridemmo entrambe.

L'abbracciai stretta e poi sorrisi -Ma con Haymitch?- domandai, lei si tirò su di scatto e un sorriso gli arricciò le labbrone, la fissai accigliata -Beeene- disse e allungò le braccia sul tappeto di margherite, aveva un che di malizioso il suo modo di agire -May non vorrai dirmi che...?- chiesi, la vidi sorridere con le gote rosse. Scoppiai a ridere e lei tenne lo sguardo basso -Buon per voi!- esclamai, sorrise e alzò le spalle.

Sentimmo delle voci e ci girammo, verso il giacimento, vedemmo arrivare due ragazzi che ridacchiavano fra di loro, lei saltò in piedi e corse da uno, alzai gli occhi al cielo. Haymitch la sollevò da terra e la fece girare baciandola, li guardai sorridendo. Erano così innamorati.

John salii fin sul prato con me e mi salutò con una mano -Ciao- dissi, lui annui -Sono stanco- disse, lo fissai -Questo- dissi -Non m'interessa- sentenziai, lui rise e scosse la testa -Volevo portarti in un posto, però non è ancora pronto. Scusa era una sorpresa- mormorò, arrossii e alzai le spalle -Non importa, grazie- sussurrai, alzai lo sguardo dalla verde erba e lo fissai, aveva il viso rivolto verso il basso, accarezzava il terreno in imbarazzo, sul volto quel solito sorriso, metà bocca sollevata e metà no, come se trovasse tutto tragico e divertente allo stesso tempo.

Sollevò lo sguardo e sorrise del tutto, arrossii -Non ci raggiungeranno mai quei due- disse scuotendo la testa, risi e annui -Mi sa- aggiunsi io, le nostre mani erano vicini, sentivo il calore della sua pelle vicino alla mia -Preoccupato per domani?- chiesi, lui fece una smorfia -Si, non voglio essere estratto. Ho paura per le gemelle, per i miei amici- disse, posò la sua mano sulla mia e trattenni il respiro -E ho paura di perdere te- aggiunse. Non riuscii a guardarlo negli occhi, sentivo le guance in fiamme e allungai gli sguardi sugli alberi -Anche io ho paura- sussurrai, e poi con molto coraggio mi voltai a guardarlo negli occhi -Anche io ho paura di perdere te.

Trattenne il fiato e fece per avvicinarsi, capii cosa stava per succedere ma non potevo. Non l'avrei sopportato. Sentivo che era un addio. E non volevo un bacio d'addio. Volevo un bacio da 'sempre'. Che duri per sempre. Girai la testa e la scossi -No- sussurrai, lui imprecò -E' per il panettiere?- domandò John, scossi la testa -No. Non voglio che significhi addio- dissi a bassa voce.

Sussurravamo perché in quel momento eravamo troppo esposti, in mezzo a persone invisibili, ad angeli che erano caduti dalla volta celeste per scoprire i segreti di due mortali. Spiavano le nostre mani che si toccavano, i nostri visi vicini. I nostri cuori impuri, secondo la loro moralità. Provavamo sentimenti che per loro era impuri, orripilanti. Riuscivo a scorgere le ali di quei mostri stupendi che fissavano il nostro sentimento, con divertimento e ci deridevano.

-E allora non facciamolo diventare tale- sussurrò lui, passandosi la lingua sulle labbra, il suo volto scuro si avvicinò al mio. Questa volta non lo fermai. Lasciai che le sue labbra toccassero le mie, sentendo prima il soffice respiro che fuoriusciva dal suo naso sulle mie labbra piccole, poi il contatto delicato con la sua bocca screpolata e la mia e i miei occhi si abbassarono lentamente. Riuscii a scorgere i suoi che facevano lo stesso. Era completamente diverso questo bacio, con l'altro. Questo era calmo ma estremamente giusto.

L'altro agitato ma completamente errato.

Le sue labbra prima inattive chiesero in maniera gentile il permesso di poter esplorare la mia bocca. Acconsentii, e la sua mano, tremante e imbarazzata mi sfiorò la guancia. Mi diede una leggera carezza, prima di ritrarre la mano. Ma era una promessa la sua. Quella di toccarmi così sempre e per sempre.

Di toccarmi come se fossi delicata, talmente delicata da potermi rompere se provava a toccarmi in maniera più aggressiva. Mi aveva accarezzato, promettendomi di baciarmi e accarezzarmi ancora, in eterno. Dentro questo c'era un sentimento puro, da farmi sentire in pace col mondo. Da farmi provare calore in tutto il corpo. Il sentimento più bello e spaventoso che qualcuno potesse provare per me.

Ci staccammo e entrambi sembrammo disorientati, si passò la lingua sulle labbra, e notai il suo rossore, gli occhi che brillavano, distolsi lo sguardo e lo posai sul prato. Le margherite, il nostro pubblico si muovevano per la brezza che si muoveva. Ma non avevo più freddo, feci per aprire bocca, ma sentii dei singhiozzi.

Mi girai e vidi Maysilee, con le lacrime agli occhi, stava venendo verso di me, con l'abito mosso dalla brezza i capelli raccolti in una treccia un po' sfatta su una spalla. Sembrava sconvolta, fissai John e poi mi alzai.

Corsi da lei e l'abbracciai, lei sembrò rifugiarsi fra le mie braccia, lo strinsi forte e poi la scansai -May! May, tesoro che hai? Che è successo, oh May parlami- sussurrai, le asciugai le lacrime e poi mi guardò negli occhi. Non riuscivo a capire cosa c'era dentro, che tipo di sentimento. Ma sapevo già cosa stava per dirmi, e quasi non svenni quando pronunciò quella frase.

-Sono incinta.

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Capitolo 7
*** Addio amica mia. ***


Capitolo sette.


 

Portai una mano sulla fronte per poter vedere il palco, il sole picchiava incredibilmente quel giorno.

L'altra mano era stretta in una morsa micidiale. Maysilee stava tenendo sia la mano di Page, che sapeva il suo segreto e che cercava di non piangere, ma riuscivo comunque a distinguere quelle lacrime, stupide e maledette, scenderli lungo la guancia sinistra, se le asciugò un paio di volte. Ma tornavano sempre.

Maysilee era pallidissima, le labbra avevano sbiadito il loro colore così brillante. Sul suo volto c'era solo del bianco e dell'argento. L'accompagnatrice arrivò, mi voltai verso i ragazzi e vidi Haymitch, teneva una mano sulla spalla di John. Il viso era una maschera di tristezza e angoscia. Anche lui sapeva. Mi salii un groppo in gola. Ma non potevo piangere, mi voltai svelta verso il palco.

Iniziò il solito discorso, mi avvicinai all'orecchio di Maysilee -Felici Hunger Games- sussurrai in contemporanea con la nostra accompagnatrice e Page dall'altra parte, aspettava solo il momento giusto -E che la buona sorte sia sempre a vostro favore- mormorò lei, con perfetto accento da capitolina. Riuscimmo a far nascere un microscopico sorriso sul volto depresso della nostra amica.

Avevamo un solo vincitori. Un uomo vecchio, con le spalle gobbe, il viso rugoso e triste, i capelli grigi sporchi e gli occhi neri come l'inferno, si alzò in piedi e mosse una mano. Si risedette. Si chiamava Giacobbe. E stava per morire, secondo nostra madre gli rimanevano solo si e no, due mesi. Ma lui continuava a fare quello che faceva sempre. Come tutti noi.

Il sindaco ci fece vedere il solito film, per farci capire da dove venivano le rivolte e stronzate simili. Non ascoltai una parola, la mietitura stava per portare via qualcuno di noi. Guardai con la goda dell'occhio la mia migliore amica. Era bianca e stava tremando.

Gli strinsi più forte la mano e lei singhiozzò.

La nostra accompagnatrice andò verso la bolla delle ragazze. Si potevano sentire i respiri mozzarsi e le anima svanire lentamente, avrebbero estratto quattro tributi. Quattro. Due ragazze, e due ragazzi. Nessuno si sarebbe offerto volontario. Io si, per Maysilee si, e anche per Page. Ma avevamo fatto un patto. Uno stupido patto che avrei voluto bruciare. Ma mi avrebbero odiato per sempre se avessi alzato quella mano, quando il loro nome fosse saltato fuori dal vetro di quella boccia.

-Prima le signore!- squittii la donna dalle labbra di un color giallo limone, infilò la sua mano all'interno della boccia e mi sentii mancare -Selma Youg- Urlò, una diciottenne tutta ossi uscii dalla fila e andò verso il palco, purtroppo svenne a metà passerella e dei pacificatori l'accompagnarono sul palco, la tennero fra le braccia e lei respirava a fatica. Non riusciva a tenere gli occhi aperti.

La donna squadrò quella ragazzina e tornò alla boccia. In quel momento lo sentivo.

Sentivo che non avrei mai più rivisto Maysilee.

Sentivo che avrei perso una parte di me.

Sentivo che tutto il mondo avrebbe perso dei colori.

E che non sarei stata l'unica a perdere l'arcobaleno. Dopo la pioggia.

In quel momento accadde. Troppo velocemente. Troppo brutalmente. -Maysilee Donner- nel tono della voce di quella donna c'era un che di cattivo.

Mi venne voglia di gridare. Ma non potevo.

Mi venne voglia di uccidere chiunque ci fosse su quel palco. Ma non potevo.

Potevo solo stare li ferma, abbracciare Page e osservare la mia amica, montare sul palco, con aria spaventata, con una mano che si sfiorava senza rendersene conto, la pancia. Con le spalle tremanti e la paura negli occhi. Chinai la testa e respirai bruscamente. Strinsi gli occhi e mi costrinsi a calmarmi. Non ascoltai il primo tributo maschio. Ma per il secondo anche se non volevo, l'ascoltai lo stesso.

Haymitch Abernathy. Mi voltai verso di loro, e vidi John sbiancare, teneva stretta la spalla del suo amico. E lui respirava come se gli avessero dato un pugno nello stomaco. Tutti gli fecero spazio e lui camminò come uno zombie per tutta la piazza. Riuscivo a vedere due lacrime. Una per guancia.

Tutti si strinsero la mano. Mietitura finita.

Corsi al palazzo di Giustizia, ma fecero entrare prima Page, io rimasi in attesa, piangendo e gridando attaccata alla porta. Alzai lo sguardo e vidi un John che stava lottando contro i pacificatori. Urlandogli che il tempo non era scaduto. Che doveva dirgli addio.

Stava gridando e piangendo, e loro lo tenevano fermo. Uno di loro aveva uno sguardo davvero triste e di dispiacere l'altro no. Godeva nel vederlo pregare. John scalciò. Gridò. E perfino provò a picchiarli. Ma fu tutto inutile, lo buttarono fuori.

Page venne trascinati via. Piangeva e gridava, non avevo mai visto una scena del genere. Mai. Entrai di corsa e l'abbracciai stretta. Lei si asciugò le lacrime, e mi baciò le guance -Addio amica mia- mi sussurrò all'orecchio, mi passò una mano sulla guancia.

Tutto divenne nero, mentre cadevo fra le braccia dei due pacificatori.

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Capitolo 8
*** Stelle. ***


Capitolo otto.

John


 


 

La vidi stringere fra le mani la tazza calda, il vento estivo le baciava la pelle, e i vestiti pesanti avrebbero dovuto scaldarla. Ma non era così. Lei indossava la mia giacca, due maglioni e una coperta, eppure aveva freddo, tremava. Come una foglia mossa dal vento, le sue piccole spalle si muovevano a scatti, ma non singhiozzava. no. Erano giorni che non versava più una lacrima, solo il primo giorno, dopo fissava il vuoto e si mordeva un labbro. Tremando.

Fissava il vuoto.

Era così brutto. Il pianto sai come farlo passare, la rabbia pure. Ma il niente no. Non puoi farlo passare, devi solo aspettare, anche una minima reazione.

Osservai il suo profilo, stava guardando le stelle, la bocca semi aperta, aveva le pupille completamente dilatate a causa dell'oscurità, rendendo così l'azzurro intenso dei suoi occhi ad una piccolissima coroncina al bordo dei suoi grandissimi occhioni.

Mi sistemai e presi un filo d'erba, il distretto era tutto illuminato, era bello da vedere come scenario. Maledii quel panettiere di Alus, lui avrebbe potuto ricreare quello scenario, e avrebbe dato ad Anse un bellissimo cerchio di luce intorno a lei. Poi gli avrebbe regalato la tela con un sorriso timido e arrossito e lei l'avrebbe abbracciato.

Ma non sarebbe successo. Lei non era andata a chiamare lui, ma me. Ero io quello che voleva affianco in quel momento di vuoto. Non sapevo se era un bene. Ma mi piaceva. Sapere che lei aveva scelto me, almeno per oggi. Almeno per stasera.

Mi schiarii la voce e lei non si mosse, mi appoggiai ai gomiti e guardai le stelle. Era tardi, lo sapevo, il mio pubblico stava dormendo, ma non m'importava, per una volta non cantavo per me, oppure per dare un senso al mondo. No. Volevo cantare per lei, per fargli capire che io ero li. E lei non sarebbe scivolata nel vuoto, non così facilmente.

Mi preparai, guardai le stelle, ognuno più brillante dell'altra, guardai quella tela nera, e quelle lucine lontanissime da noi.

Brillavano quasi, avrei potuto toccare con un dito tutto quanto, se solo avessi allungato una mano. La luna era coperta da un albero, ma sapevo benissimo che era piena.

Avevo aspettato tanto tempo la luna piena. Era perfetta, così tondeggiante, quando bevevo mi ci arrabbiavo, gli gridavo contro degli insulti, dicendogli che era stronza, che non doveva farci sperare, che quella luna e quella vita che i poeti avevano cantato un tempo era falsa. Che lei ci rendeva euforici e felici. Era veramente stronza quella luna lunatica.

Chiusi gli occhi e riportai a me il testo della canzone, e presi un respiro profondo.

-John?- chiamò la sua vocina, aprii di botto gli occhi e mi tirai su, lei aveva appoggiato la testa sulle ginocchia e la teneva rivolta verso di me. Aveva un viso tristissimo, anche in quell'oscurità -Ciao- sussurrai, non potei trattenere un sorriso nel vederla parlare -John- chiamò di nuovo, la voce gli si stava incrinando, mi avvicinai a lei, e gli misi un braccio intorno alle spalle -Sono qui- dissi, non sapevo perché lo dissi, ma lo dissi. Lei annui, appoggiò la sua testolina a me.

E rimanemmo così in silenzio, iniziai ad accarezzarle la spalla, con delicatezza, scendevo giù fino al polso, lei si accoccolava sempre di più a me, le spalle gli si mossero e pensai che stesse di nuovo tremando. Ma non era così. I cristalli nel cielo si erano staccati ed erano andati a posarsi sulle sue guance.

Sentii le lacrime bagnarmi la maglietta, ma lasciai perdere. Lei pianse, singhiozzando, e scuotendo la testa. Stava scappando dal niente. Stava tornando da noi. Tirai un sospiro di sollievo e la tenni ancora stretta.

Quando si calmò e smise di piangere, dopo quasi venti minuti appoggiai la mia testa sulla sua, guardavamo il distretto. Che pian piano si spegneva. Riuscivamo a vedere la casa dei Donner. Che era completamente illuminata, come se qualche candela in più potesse prendere il posto della loro figlia.

Guardai la casa di Haymitch, era completamente scura. Nessuna luce. Nessuna speranza. Solo oscurità. Mi venne un magone alla gola ma lo lasciai perdere.

Rimanemmo in silenzio ancora un po', alla fine lei si scostò da me e mi guardò, credo, negli occhi -John, potresti cantare?- chiese, aveva la vocina timida, sorrisi delicatamente, gli accarezzai la guancia e annui, ma mi resi conto che non poteva vedermi e mi passai la lingua sulle labbra -Si, canterò- le dissi, fissai l'oscurità e chiusi gli occhi.


 

Là in fondo al prato, all'ombra del pino

c'è un letto d'erba, un soffice cuscino

il capo tuo posa e chiudi gli occhi stanchi

quando li riaprirai, il sole avrai davanti.


 

Dissi queste parole e lei si inginocchiò, sorrideva ma si copriva la bocca con le mani, le spalle erano di nuovo mosse da dei singhiozzi, sperai vivamente che fossero delle lacrime di gioia quelle che uscivano dai suoi occhi.


 

Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio,

qui le margherite ti proteggon dal cruccio,

qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare

qui è il luogo in cui ti voglio amare.


 

Mi voltai verso di lei, per vedere che reazione avevano avuto quelle parole, quella canzoncina per bambini, ma non appena voltai il capo, le sue labbra erano sulle mie, calde e umide.

Chiusi gli occhi e assaggiai il suo sapore. Sentii la sua lingua calda, i suoi denti affondarmi nel labbro. La sentivo.

Sorrisi sulle sue labbra, con il cuore a mille, quando ci staccammo, lei si portò una mano alle labbra e tenne lo sguardo basso.

L'abbracciai forte, stringendola a me 'Ti porterò via di qui' pensai, mentre respiravo la notte dai suoi capelli 'Fosse anche l'ultima cosa che faccio'.

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Capitolo 9
*** Oh Haymitch... ***


Capitolo nove.

Maysilee.


 

Mi guardai allo specchio.

Con addosso solo la camicia da notte mi guardai attentamente allo specchio. Avevo un normalissimo corpo. Un normalissimo viso, con i soliti occhi azzurri, i capelli biondi come spaghetti lungo le spalle, e sulla faccia come una tendina scompigliata.

Mi tolsi dal viso la frangia e guardi dentro i miei occhi. Ci trovai la paura. La rabbia. E un altro sentimento, mi morsi il labbro mentre gli occhi mi si inumidivano.

Portai la mano tremante e ancora smaltata di nero sul ventre e lo accarezzai, lentamente.

Il mio bambino.

Cercai di tirare fuori un sorriso, perché ero felice, mi sentivo felice. Avevo mille emozioni contrastanti nel petto, che esplodevano. Che combattevano. Tutto per quell'esserino, così piccolo e fragile.

Mi inginocchiai lentamente e appoggiai la fronte allo specchio. Il mio naso era vicino al vetro infatti sulla superficie si formavano gli aloni del mio respiro. Una mano era ancora sul ventre, mentre l'altra era appoggiata allo specchio, cercava di aggrapparsi, come facevo io. Ma come me, la superficie dove voleva aggrapparsi era liscia, e molto ripida, la caduta veloce.

Troppo veloce.

Mi sfuggii un singhiozzo, ricacciai indietro tutte quelle lacrime, ma stavano fuoriuscendo troppo velocemente, non volevo piangere. Ma fra nove ore potrei essere morta, al diavolo l'essere forti. Avevo paura. Ma una paura fottuta. Mi bloccava le gambe, la testa si confondeva e il respiro si mozzava.

Mi asciugai una lacrima velocemente, con la mano che tremava sempre di più, la chiusi a pugno e colpii lo specchio. Quello non si ruppe ma io mi feci male -Fanculo- sussurrai a me stessa, sentii un sospiro, ma non tirai su la testa, che pensino quello che vogliano quei maledetti senzavoce.

Purtroppo sollevai un poco la testa e pensai a quanto ridicola dovessi essere, con la camicia da notte lunga fino alle cosce, con i capelli in disordine come un rido di rondine, con le lacrime agli occhi e una mano sulla pancia. Doveva essere esilarante, per loro, vedere la mia disperazione. In quel momento li odiai tutti quanti. Senzavoce, capitolini, perfino gli altri tributi. Odiavo tutti.

-Non è bene che una ragazza tanto graziosa usi quel linguaggio- sussurrò una voce fin troppo famigliare, malgrado tutto sorrisi, girai la testa e sulla porta, con la luce che baciava la sua figura muscolosa c'era il mio ragazzo, il padre di mio figlio -Haymitch- dissi a bassa voce, lui venne verso di me, camminando in maniera delicata per quanto possibile, si inginocchiò accanto a me e guardò la nostra immagine nello specchio. Entrambi con le occhiaie, entrambi distrutti. Entrambi a conoscenza di un segreto che ci aveva reso inseparabile, durante gli allenamenti.

Posò la sua mano sulla mia, e guardò il mio ventre, gli occhi grigi gli si riempirono di lacrime, ma sorrise. Stava realmente sorridendo? Lo guardai incuriosita, vederlo così felice, in quella situazione ai miei occhi lo faceva diventare ancor più tenero -Perché sorridi?- chiesi, lui scosse la testa, guardando ancora il mio grembo, ricco di vita -Non lo so. È questo affarino che mi rende felice- disse, alzò lo sguardo e mi guardò -Anche tu lo fai- aggiunse, sorrisi abbassando lo sguardo -Hay, io ho paura- dissi, il sorriso sparii dal suo volto, tornò a fissare davanti a se, con uno sguardo vuoto e triste.

-Pensi che io non abbia paura?- sussurrò, posai una mano sulla sua spalla si voltò verso di me. Entrambi avevamo le lacrime. Sentivo crescermi dentro altre emozioni, alla fine esplosi, diedi un pugno allo specchio, che si ruppe, mi feci del male e gridai, lui mi tappò la bocca allarmato. Io mi dimenai fra le sue braccia mentre piangevo, avevo perso il controllo di me stessa -TI ODIO HAYMITCH. MI HAI FATTO TU QUESTO- urlai, non era vero, ma non sapevo a che fare.

Ero spacciata.

Lui mi abbracciò forte e mi fece piangere. Gli inzuppai la camicia di lacrime, amare e argentee. La sua camicia viola scuro era umida. La mia testa ricoperta dai suoi baci. In quel momento non potevo non amarlo. Ma non potevo nemmeno non odiarlo. -Haymitch- sussurrai, quando mi fui calmata, lui si staccò da me e mi guardò dritto negli occhi, sapevamo entrambi cosa stavo per dire.

Sapevamo che uno dei due sarebbe uscito di li.

Sapevo anche che lui voleva far uscire me e il piccolo.

Ma sapevo che non avrei retto il ritmo dei giochi.

-Non possiamo essere fidanzati nei giochi- mormorai, lui mi baciò il capo e scosse la testa -Io ti proteggerò okay? Se voi due cessate di esistere... la mia vita sarà inutile- mi baciò le labbra bagnate di lacrime salate -quindi io ti farò uscire da li. A costo della vita-

Lo disse convinto. Ma io sapevo che non era vero. Sentivo dentro qualcosa di strano.

Sentivo la consapevolezza che la mia morte sarebbe arrivata il prima possibile.

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Capitolo 10
*** The Hunger Games. ***


Capitolo dieci.


 


 

La strinsi forte fra le braccia, le sue lacrime perlacee mi bagnavano il maglione, lasciando profondi solchi, come buche per l'inferno, la sua voce era acuta e dava fastidio, i gridi erano sempre più disperati, sempre più profondi.

Una rabbia animalesca cresceva dentro di lei, lo vedevo dal modo in cui si piegava in avanti, quelle labbra piene che tremavano, screpolate e rotte, le guance più bagnate di un fiume in piena, il naso gli colava. Era un disastro. Le mani conficcate nelle mie braccia erano strettissime, facevano male.

Le spalle fragile mosse da singhiozzi disperati, che nessuno poteva fermare.

Tutto era iniziato, prima di vedere l'inizio dei giochi. Casa Donner, più illuminata di quanto l'avessi mai vista. Candele ovunque, le luci tutte accese, nell'aria il profumo di cannella.

Sua madre preparava solo torte alla cannella, e piangeva molto, suo padre faceva come se non avesse mai visto Maysilee, quando Page parlava di lei, al zittiva, dicendole che erano sciocchezze. La mia amica non poteva parlare con nessuno di sua sorella. Non poteva parlare di quanto le mancasse, di come si sentisse, perché quando perdi un fratello, perdi la vita. Tutto diventa freddo. Il sole non ti riscalda, gli abbracci non ti sembrano amorevoli, i baci perdono il loro sapore.

La vita perde il suo senso.

Per i genitori era anche peggio. Sua madre non faceva altro che cucinare e parlava di come sua figlia avrebbe vinta, di come sarebbe tornata, bella e sorridente, come era sempre. Con quel viso d'angelo, con la bocca piena, gli occhi azzurri di un brillante quasi doloroso, il corpo formoso, sempre in movimento. Sua madre la immaginava così, sorridente, felice. Così sarebbe tornata. Ne aveva la certezza.

Suo padre, al contrario, non parlava mai di Maysilee, sembrava non avesse più due figlie, ma solo Page. E non sopportava che in casa se ne parlasse. Picchiava Page e urlava a sua madre, se pronunciavano il suo nome, se vedeva qualcosa che apparteneva a sua figlia, partiva di testa.

Page era sola. Non aveva nessuno con cui parlare del presente. I suoi erano immersi, uno nel passato, l'altro nel futuro. Ed entrambi, non riuscivano a parlare con Page. Era sola.

E ora aveva me, aveva il conforto caldo delle mie braccia. Ma non bastava, aveva bisogno di altro.

Di qualcuno, che potesse dargli di più.

La tenni stretta, e appena il gong smise, dando via ai giochi, lei smise di piangere, si tirò su. Dritta con la schiena, entrambi i genitori iniziarono a tremare, vidi che sua madre, si era mangiate le unghie fino al sangue. Il padre, bianco come un cencio, stava pregando, qualsiasi cosa ci sia in cielo.

La inquadrarono, e Page squittii. Si buttò in mezzo al bagno di sangue 'Che fai?' pensai, angosciata. Si buttò a terra, quando un ragazzo, forse del distretto due, cercò di mozzargli la testa.

Si rialzò, con i pantaloni neri tutti infangati e sporchi. E corse verso il grande cerchio con le armi. I capelli biondi svolazzavano da una parte all'altra. Non notai che forma avesse l'arena, come fosse. Solo lei, la sua canottiera nera, aderente, i capelli sciolti se non per un'unica treccina alla tempia, le mani tremanti, ma decise.

Le unghie, erano ancora smaltate di nero. Nero come il carbone. La nostra sostanza.

Afferrò un'arma, non riuscii a capire cosa fosse, sorrise soddisfatta, ma per pochi secondi, perché come un lampo si ricordò dov'era, e cosa stava facendo. Si portò una mano sulla pancia, involontariamente e corse via.

Il cuore mi si strinse, vedendo la sua bella figura appena appena ingrassata scappare via. Doveva riposarsi, avrebbe fatto male al bambino, ma in quel momento, non poteva permettersi una pausa. Neanche per quella creaturina.

Page stava piangendo, lacrime di gioia. Era viva! Stava bene! Era sempre bellissima.

Le sorrisi, e lei si nascose il viso tra le mani, i capelli lunghi le caddero sul viso, formando una tenda per tenere lontano da lei, le cose brutte del mondo.

Mi voltai verso i suoi genitori, si stavano abbracciando, piangendo, con due sorrisi, da far paura -Era così...- iniziò sua madre, guardandomi, ma la voce gli si spense, per le lacrime in arrivo, annui, sorridendo. Una lacrima scese lungo la mia guancia, la lasciai scorrere -Si, signora, era bellissima- risposi, affondò il viso nel petto gracile del marito, e lui affondò il viso nei suoi capelli biondi argentei.

Sorrisi guardando il pavimento, mi salii dentro un moto di tristezza, guardai lo schermo. La inquadrarono mentre correva veloce, con le gambe alte e il seno che si abbassava e si alzava, in maniera veloce.

Un pensiero mi attraversò la mente. Non avevo pensato minimamente a lui, nemmeno due minuti. Solo a May. Ma lui, sarà vivo? E se fosse morto. Abbassai lo sguardo e strinsi gli occhi. Il suo nome mi lampeggiò nella mente. Come una stella cadente, in una notte scura.

'Haymitch'.

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Capitolo 11
*** La mia piccola margherita. ***


Capitolo undici.


 

Haymitch.


 


 

L'urlo interruppe i miei pensieri.

Ero sull'orlo del precipizio, avevo appena trovato '''un'arma''' che nessuno conosceva. Il campo magnetico alla fine dell'arena. Un'arma, dentro l'arma.

E poi eccola.

L'agghiacciante consapevolezza che la scintilla dei propri occhi stava per spegnersi.


 

Erano giorni che camminavamo insieme, io e Maysilee, in quei giorni l'avevo protetta, avevo fatto di tutto per non stancarla, ma comunque aveva detto che il bambino era strano, che lei era strana.

Arrivati sul precipizio, avevamo litigato, perché per lei non c'era niente, e voleva andare via. Mancavano cinque concorrenti, e sapevamo entrambi cosa stava per succedere, e non era bello. L'avevo lasciata andare, via, dove non potevo proteggerla.

E ora era distante, non potevo proteggerla. Avrei dovuto fermarla. Ma non l'avevo fatto.


 

Ora correvo, avrei dovuto fermare le gambe e placare il mio cuore. Ma quando sentii quell'urlo. Quell'unico urlo, il mio cervello calcolatore si spense. Ero diventato cieco, non vedevo la strada, non sentivo sulle braccia e sul viso i rami che mi schiaffeggiavano. Tutto era nero, solo il suo urlo mi guidava.

Era come il Nirvana, la luce contro l'oscurità .

Più ero stanco e più correvo, lei aveva bisogno di me, dovevo salvarla, ma una voce mi disse che non l'avrei salvata, che era troppo tardi. Ma la azzittii, e corsi più forte che mai, era vicina. Sentivo il suo profumo nell'aria, quell'aroma di cannella, dolciastro. Che mi rendeva felice.

Odiavo la cannella, il suo odore. Ma mi ricordava lei, respirai a pieni polmoni tutto quel profumo. Mi ricordava lei, mi ricordava quanto mi mancasse e quanto io l'amassi.

A quel punto successe qualcosa di strano una cosa strana, come se la fredda ombra della morte mi abbracciasse, stringendomi forte nel suo mantello fatto di anime perdute, urlanti e piangenti. Tutto smise di essere colorato, il mondo era diventato di colpo freddo, come se il sole si stesse spegnendo. E tutto diventava pian piano più scuro, nero.

Mi bloccai sotto le fronde di un albero, che con le sue ombre larghe e le sue mani di luce, mi accarezzavano ogni parte del corpo, dai capelli, alle braccia, che erano ricoperte di mini taglietti e pezzi arrossati fino ai piedi. La pelle era stata baciata da piccoli cerchietti di luce, che si muovevano, per una brezza inesistente.

L'urlo cessò.

Sbiancai, e scossi la testa, gli occhi si sciolsero e come stelle cadenti mi scesero delle lacrime argentee lungo le guance, erano veloci, e dentro erano nascosti diversi desideri, muti e speranzosi.

-No- sussurrai, e ripartii. Più veloce di prima, con dei fiumi lungo le guance, che venivano spinti dal vento. Dovevo correre, sempre più veloci, sentivo il freddo arrivarmi, come se la morte corresse dietro di me, attaccata alla schiena.

Ma quella vecchia signora non mi avrebbe raggiunto, e non avrebbe preso nemmeno lei. Lei avrebbe vinto contro di lei. Io avrei corso più veloce, si, era così, lo sapevo. Un briciolo di speranza entrò nel mio petto, e iniziò a farsi largo, spazzando via la paura. Spazzando via tutto il nero.

I polmoni mi bruciavano come se avessero preso fuoco. Volevo gridare, volevo piangere, fermarmi per respirare, ma più sentivo iol bruciore sulla schiena, più andavo veloce. Sarei arrivato da lei.

Niente aveva importanza. Niente. Avrei fatto tutto per lei.

Arrivai in una radura, sudato e stanco, vidi in cielo dei maledettissimi uccelli rosa volare liberi in quel blu come dipinto, sembravano formare un sorriso contorto, ai miei occhi stanchi e pieni di lacrime.

Perlustrai il campo e la vidi, sdraiata con il corpo che si muoveva a spasmi, le corsi incontro e mi inginocchiai accanto a lei che mi prese subito la mano. Trattenni altre lacrime, avevo immaginato questa scena diverse volte, ma lei non stava morendo, dando via alla morte. No. Stava creando della vita.

Guardai la sua mano, stretta alla mia, con le unghie rovinate, ma con ancora dello smalto, osservai tutto il braccio, macchiato di sangue, fino al viso, che era spaventato. Ma nemmeno una lacrima scendeva dai suoi occhi azzurri, che si sbiadivano pian piano, la bocca era rossissima e usciva del sangue, un rivolo sottile, aveva i denti macchiati di rosso. I capelli biondi sparsi ovunque, erano un'aureola per il mio angelo.

Cercò di parlare, ma scossi la testa e feci 'Shh' lei scosse la testa e altro sangue le uscii dalla bocca. Mi salirono le lacrime, le strinsi la mano forte come a dire, io ci sono.

Mosse le labbra e porse i suoi occhi nei miei. Una lacrima solitaria le scese lungo la guancia sinistra, e le tremò la bocca -Il bambino- disse, e vidi che la mano stringeva la canottiera, in maniera stretta, si stava agitando -Haymitch- mormorò, la voce bassa e roca, era rotta, stanca, iniziai a tremare, un poco -Il bambino...- sussurrò, la testa le scivolò e fissò il cielo, quell'azzurro così vivo, si spense del tutto.

Lasciando il vuoto. La mano cadde a terra, con un tonfo, fissai davanti a me. Tremavo tutti e piansi. Piansi, in silenzio mentre le immagini della mia Maysilee mi passarono davanti, come un film a colori, che non volevo finisse mai.

La vidi sdraiata nel prato, con le caviglie accavallate, le mani stese, con i palmi verso il basso, il sorriso sulle labbra carnose, i capelli su una spalla, gli occhi che guardavano le nuvole, come se fossero cose nuove, da scoprire, alzò una mano e la scena svanii lasciando posto a lei che rideva, con gli occhi socchiusi, in maniera argentina. Poi il suo viso quando mi disse di aspettare un bambino, quelle lacrime amare scese per la paura, il suo sorriso, quando vide la mia reazione, la sua paura che scivolava via grazie alle mia braccia.

E infine il suo corpo contro il mio, che mi accarezzava i capelli con le mani piccole e tremanti, che mi graffiava la schiena.

Ricordai tutto di lei, fino al più piccolo dettaglio, come la screziatura castana che aveva nell'occhio dentro, piccola, vicino alla pupilla.

Quando riaprii gli occhi, riabbassai lo sguardo su di lei e vidi che la sua unica lacrima stava ancora scendendo, la sua lunga discesa stava per finire, cadendo a terra. Come tutte le mie lacrime. La raccolsi prima che toccasse quel suolo macchiato del suo sangue. Asciugandola, come avevo sempre fatto. Consolandola.

Mi tremavano troppo le mani -Scusa, scusa. Dio scusami, scusami tanto- mormorai, mi chinai su di lei, e appoggiai la fronte alla sua pancia -Scusami- dissi, piangendo forte. Non potevo trattenermi. Diedi un piccolissimo bacio al nostro bambino e mi scesero ancora più forte le lacrime. Volevo urlare, farmi uccidere.

Non aveva più senso niente.

-Perdonami, oh amore mio, perdonami. Amore perdonami- sussurrai, muovendo solo le labbra. Tirai su la testa, e notai una piccola margherita, fioritissima con i petali bianchi, sfumati di rosa, la parte centrale di un giallo intenso, la raccolsi e gliela misi fra i capelli.

Lei amava le margherite.

Era la mia margherita.

Mi alzai, le gambe instabili, feci per pulirmi il viso, ma notai che avevo le braccia macchiate del suo sangue, pesi un pezzo di stoffa e lo strappai dalla maglia, mostrando gli addominali ai capitoli, e me lo passai sulla faccia.

Mi voltai indietro, guardavo davanti a me il nero, andavo avanti, nel passato, con il sottofondo di un Hovercraft. In mente avevo solo un pensiero.

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Capitolo 12
*** Come una stella. ***


Capitolo dodici.


Tenni fra le braccia un corpo. Un corpo troppo scosso per poter reggersi in piedi. Un corpo che preferirebbe essere morto. Singhiozzava forte, nel fango, il tempo grigio stava piangendo lacrime piovane, che lavavano le nostre lacrime salate dalle nostre guance. La strinsi forte, sentivo le sue spalla muoversi disperate. I gemiti di dolore gli uscivano come versi di un'animale selvatico, aveva il viso contratto in una smorfia di dolore, per quel
grido che era risalito fino alla gola, ma mai uscito.

Page, la mia amica Page, stava piangendo disperata fra le mie braccia, la piazza prima ghermita di gente era deserta, la pioggia aveva fatto scappare tutti i curiosi nelle loro abitazioni, tutti egoisticamente felici perché i loro figli erano con loro, nelle loro case, al calduccio. Mi facevano schifo, ma li capivo, anche io ero felice per il piccolo Mike, mio fratello, lui era vivo, speravo che non venisse mai estratto. Nella piazza sotto la pioggia erano rimaste solo quattro persone. I genitori di Maysilee, sua  che stava inginocchio con le mani strette intorno ad una piccola coperta, sopra incise le lettere MD, suo padre, bianco come un cencio fissava il televisore, fermo e immobile, come se non ci credesse. Come se non credesse a quello che aveva appena visto.

Ma invece doveva crederci. May era morta, e con lei suo figlio e una parte di Haymitch, che in quel momento, stava correndo, con le mani sporche di sangue e le lacrime agli occhi. Stava anche peggio di me. Lui l'aveva vista morire fra le proprie braccia, aveva stretto la sua mano, quando nessuno c'era. Non l'aveva fatta morire da sola. Lui aveva capito, capito che tutti noi non dovremmo morire da soli. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci stringe la mano, o che semplicemente ci guardi, prima di morire.

E lui l'aveva fatto. Aveva onorato il suo essere, lasciando quella margherita, quel fiore bianco e piccolo, sul ventre appena appena gonfio della mia amica.

Le lacrime scesero veloci lungo le mie guance, fino a cadere sui capelli biondi e zuppi di Page. Avevo appena perso la mia migliore amica, avevo appena perso il fiore più bello, strappato dalla mano invisibile di un dio troppo crudele per permettere ad un essere così bello di poter vivere.

Alzai lo sguardo, dal terreno fangoso dove l'acqua cadeva a ritmo continuo, creando dei bei disegni nel fango liquido. Strinsi più forte Page, cercando di rimettere insieme i suoi pezzi, che ormai erano sparsi ovunque, mentre cercavo di tenere i miei insieme. Ma era difficile, avevo intorno persone spaccate. Che stavano cadendo giù, giù nell'abisso nero e profondo, atterrando con uno schianto, senza più la forza di tornare su.

Ma lo sanno tutti, quando vedi una persona che sta cadendo, cerchi di afferrarla, per tenerla su. Ma non riesci, e lei ti trascina giù, giù, giù fino a farti perdere la speranza, e così, cadi con lui, e nessuno dei due, riesce poi, a tornare su, e aspettate soltanto la fine, senza mai più riuscire a vedere la luce del sole.

Ma era diverso, per me doveva essere diverso. Io sarei riuscita a tenere su Page, senza farmi trascinare giù, lei era spaccata.

Vuota.

Persa.

La pioggia cessò, ma le nuvole rimasero, e tirai ad indovinare, non se ne sarebbero mai andate. Il sole cercò di far capolinea, da dietro a quelle grosse persone che sorridevano in maniera cattiva a noi mortali. Vidi Page alzare lo sguardo, sembrava implorare il cielo di altra pioggia, di altra tristezza. Ma lui, cattivo, aveva deciso di negargliela. Guardò intensamente quell'unico raggio di sole, sapevo cosa stava pensando. Come osava, quel calore arrivare a noi, comuni mortali, quando il freddo non era solo esterno, il freddo ci era entrato dentro, nel cuore, non potevamo farlo uscire.

Come osava, il sole, cercare di asciugare quel posto fatto di lacrime, sperava  forse che con una sua carezza, un semplice bacio colorato,  potesse asciugare tutto? No, non poteva sperarlo.

Forse però, quel raggio di sole, era una lacrima dorata, di qualche strano essere che  voleva farci capire, che non eravamo sole. Che anche il cielo, come il sole, piangeva con noi. Per la perdita di qualcuno, nel loro caso, una stella spenta, che non brillerà più nel cielo.

Ecco cos'era lei, una stella, che spegnendosi ci aveva privato del suo calore, del suo essere così luminoso. Perché non è vero che quando una stella muore, nessuno lo sente e non fa male. Si sente, e fa male, fa più male di qualsiasi altra cosa.

Page guardò il mio viso, e strinse gli occhi, le labbra che stavano tornando del loro normale rosso, si mossero appena, mi sporsi verso di lei, per afferrare le parole, dette in un sussurro -Anse, ma May è morta?- chiese, sembrava una bambina, ma dai suoi occhi capii voleva sentirsi dire il contrario, la strinsi al petto, mentre cercai di controllare la voce.

-Si, si è spenta come una stella.

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Capitolo 13
*** Autunno ***


Capitolo tredici.
 
 

Il cielo limpido vegliava su di noi, spiandoci con il suo grande occhio di cristallo, aspettavo che lo strato sottile di nuvole arrivasse. Ma non arrivava, ci lasciava lì, soli, con le nostre anime distrutte e tristi.

Affondai una mano nelle mia tasca dei pantaloni da lavoro, mi sistemai la treccia dietro la schiena e mi avvinai a passo tremante lungo quel sentiero disseminato di foglie scricchiolanti e coloratissime, gli alberi che formavano un bellissimo spettacolo avevano pochissime foglie verdi. Tutte erano coloratissime. Strinsi il maglione sul mio corpo e tenni lo sguardo fisso sulle mie vecchie scarpe per tutto il sentiero.

L’autunno era arrivato,  in ritardo, rispetto all’anno prima. Ma pur sempre pungente. Anche se il sole portava ancora con se quel sapore di estate, con il caldo e i fiori di campo per addobbare i propri capelli e i propri abiti tutti strappati. I fiori erano ancora in fioritura, anche se non sembravano così belli. Sembravano più spenti. Le margherite bianche venivano coperte dal colore delle foglie cadute, che rendeva tutto magicamente bello. Il cielo grigio, gli alberi con le foglie che cadono, un leggero vento che muove alcuni rami spogli, le anime come foglie, volavano via in quel periodo.
Anche io rischiavo di volare via, quel giorno.

Guardai quei tristissimi fiori che avevo in mano, quel mazzolin di margherite che più andavo avanti, più mi metteva tristezza aprendomi il petto, togliendomi il respiro e facendomi salire dei cristalli agli occhi.

Sollevai la mano libera e asciugai quella lacrima solitaria che scendeva con fierezza lungo la mia guancia, tenni il viso basso e nascosto, non volevo che nessuno di quegli alberi, che avevano più occhi della capitale mi vedessero piangere.

Incrociai un’altra persona sul sentiero, alzai di scatto lo sguardo e mi si inumidirono velocemente entrambi gli occhi.
Alus. Il mio migliore amico. L’altra mia metà del cielo. Si era lasciato crescere i capelli, ora ricadevano biondi e lisci sulla sua fronte, aveva le labbra spaccate, gli zigomi arrossati. E gli occhi, i suoi occhi, erano distrutti, vuoti.

Erano mesi che non parlavamo, non ci scambiavamo nemmeno un ciao. E ora, l’uno davanti all’altro, non potevamo che fissarci, e guardarci negli occhi, aspettando ogni movimento, come si faceva con un’animale pericoloso.

Il mio autocontrollo non riuscii a bloccarmi, gli corsi incontro e lo abbracciai, lui ricambio e tutto quello che era successo nei mesi passati uscii fuori.
Non ci furono bisogno di parole, le mie lacrime e i suoi singhiozzi disperati ci fecero capire.

Avevamo bisogno gli uni degli altri. In quei momenti, quando mi staccai, stavo ancora singhiozzando, lui mi accarezzo le guance e scosse la testa –Mi sei mancata- sussurrò, io provai a sorridere, ma non ci riuscii –Anche tu, non te ne andare- in quel momento lui sorrise davvero.

Non ricordavo quel suo sorriso, quello timido e giocoso, lo fissai attentamente  -Sempre- rispose, e allora ricordai, ricordai la nostra promessa e piansi ancora. Quel giorno piangere era diventato un obbligo –Sempre- gli risposi.

Quell’incontro mi diede la forza per continuare il sentiero. Arrivai alla sua tomba, era la più pulita, la più bella. Con tantissimi fiori. Tutte margherite.
C’erano delle foglie sul terreno, ma formavano un disegno. Asul doveva essere passato di qui. Doveva averlo fatto perché stimava lo spirito libero di May. Tutti noi lo stimavamo.

Mi inginocchiai, piegai la testa, come per salutarla e sorrisi, guardai la foto incastrata nella roccia, era lei, sorrideva, piena di vita, mi piaceva ricordarla così.
Mi misi una ciocca dietro i capelli e iniziai a parlarle, raccontai tutto quello che sapevo.

Su tutti.

Volevo che lei sapesse che per me era viva, mi comportavo come se lei fosse ancora viva.

Ero sciocca, impazzita, o più semplicemente non mi stavo rendendo conto, ma quell’ora. Per quella singola ora era come riaverla con me.

Asciugai due lacrime fuggite dai miei occhi e mi baciai la mano che portai fino alla sua foto.

-Buon compleanno, amica mia.

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Capitolo 14
*** The house of rising the sun. ***


~~Capitolo quattordici.

 

La sua mano stringeva la mia, ma era tremante e calda. Sentivo i calli dovuti all’arco e la ruvidezza della sua pelle. Era sudata, in modo tenero. Anche la mia era sudata,  e tremava, mi piaceva quel tocco delicato. Riuscivo a sentire la sua insicurezza.

Guardai il suo profilo, il cielo era di quel grigio così bello. Era un grigio che faceva risaltare gli occhi, in quel momento infatti erano così belli i suoi. Di un colore meraviglioso, avrei potuto guardarlo per ore. Osservai il suo codino, stretto dietro la nuca. Non l’avevo mai visto con i capelli slegati. Avrei voluto allungare una mano sfarglielo e passare una mano fra i suoi lunghi e fluenti capelli castani.

Lasciai perdere quella tentazione e mi soffermai sulla mascella, stava sorridendo, come un bambino davanti ad una torta. Era adorabile.

-Dove mi porti?- chiesi, lui scosse la testa e si voltò verso di me. I suoi occhi grigi come il cielo incontrarono i miei –E’ una sorpresa, ora zitta e lasciati guidare- disse, alzai gli occhi verso gli angeli e scossi pian piano il capo.

Camminammo molto, senza sosta. Il giacimento era intorno a noi, passavamo davanti a quelle case senza vederle. La loro disperazione non ci toccava. Eravamo intoccabili, nessuno di noi due poteva smettere di sorridere. Come se tutta la felicità nel mondo si fosse chiusa nei nostri sorrisi e nei nostri gesti.
Arrivammo al prato e lui tirò fuori dalla tasca una benda, mi sorrise in maniera assai divertita, mi accigliai, guardando quel lembo di stoffa che stava floscio fra le sue enormi mani. –Cosa?- chiesi lui alzò un sopracciglio, facendo una faccia buffissima, sorrisi e mi morsi un labbro –Anse, ti fidi di me?- chiese, io sospirai e poi chiusi gli occhi –Si. Si mi fido.

L’oscurità era stranamente bella. Amavo sentire il rumore delle ghiandaie imitatrici che ripetevano il suono meraviglioso della sua voce. Lui non sembrava accorgersi di me quando cantava. Non sembrava accorgersi di niente. Come se il mondo sparisse, gli bastava canticchiare, cantava qualsiasi cosa. E amavo la sua voce.

Si fermò, sentivo il fruscio del vento che accarezzava dolcemente la chioma degli alberi. Quel dolce suono di pace, il profumo che c’era nell’aria era qualcosa di meraviglioso, gli alberi avevano un odore magnifico, riuscivo a percepire le foglie appena appena bagnate, respirai a pieni polmoni, poi la luce tornò.

Rimasi senza fiato. Tutto era così bello, il lago che scintillava sotto la luce fioca nascosta dalle nuvole grigie, le piantine che spuntavano vicino alla riva del laghetto. Mi guardai attorno. Uccelli in volo ovunque. Cantavano canzoni a me conosciute. Vidi una piccola capanna. Mi coprii la bocca con la mano e mi voltai verso John.
Sorrideva, soddisfatto, ammirava la capanna di legno come un opera d’arte. Lasciai la sua mano e camminai incerta verso quel paradiso in terra.

Mi avvicinai a quella piccola casetta, toccai timidamente il legno, era ruvido, trovi la porta e la aprii. Era tutto arredato, come una vera casa. Scossi la testa, sorridendo come una bambina. Quel posto era meraviglioso, sarebbe piaciuto a… mi bloccai sentendo le lacrime pungermi gli occhi.

Non volevo pensare a lei, ma il pensiero sarebbe sempre tornato a lei. Sempre. Sentii dei passi e mi irrigidii, mi volti sulla soglia c’er John, il sorriso era triste, accarezzò la porta e  fissò il camino, con aria assente –L’avevo progettata per loro. Per il loro bambino. Avremmo finto un incidente, magari qualcosa che va a fuoco. Loro sarebbero scappati e io avrei mentito, dicendo che erano morti nell’incendio. Avrebbero vissuto qua. Vicino a noi. Hay sapeva cacciare, May cucinava benissimo, avrebbero passato bene la loro vita. Soprattutto il loro bambino- non mi guardava, stava parlando con me, ma non mi guardava. Rimasi immobile, aspettando che continuasse. Vidi i suoi occhi diventare lucidi –Ma tutto è andato a puttane- urlò, le vene nel collo gli si  gonfiarono, strinse lo stipite con forza –Tutto quanto. Lei è stata estratta, è morta, Haymitch è morto, in un modo diverso, certo, ma è pur sempre morto- si voltò verso di me, i suoi occhi erano intrisi di lacrime e rabbia.

-Odio tutto questo, lo sai vero?- chiese, la voce diventò un sussurro, ma capivo che era ancora arrabbiato. Il petto si alzava e si abbassava, lentamente, non sapevo cosa fare. Le parole non servivano. Niente di niente serviva.

Feci una cosa stupida.

Mi lanciai in avanti, e lo baciai, sentii un accenno di barba sul suo viso, pungeva il mio viso, sentivo la tensione nelle sue braccia, che scemava mentre rispondeva al bacio, mi circondo con le sue braccia, e mi strinse a se.

Mi baciò a lungo, e tanto, sentivo il suo bisogno disperato di certezze. E in quel momento ero la sua unica certezza.

Quando si staccò, i suoi occhi erano ancora lucidi. –Lo odio anche io, lo sai?- chiesi, accarezzando la sua mascella, lui appoggiò la sua fronte alla mia e chiuse gli occhi, che tremavano leggermente da sotto le palpebre.
 

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Capitolo 15
*** Niente.(John) ***


Capitolo quindici.
John.

 
È così bella, lì, sdraiata nel prato, con il petto che si alzava e si abbassava lentamente, ad un ritmo costante, i capelli sparsi ovunque, che si mischiavano con i fiori di campo che pian piano stavano morendo. Il biondo acceso dei suoi bei capelli faceva risaltare i loro colori vivaci, rendendo quel piccolo posto un paradiso per gli occhi.

Guardai il suo dolce viso tranquillo e sereno, senza pensieri, come se il  mondo non potesse ferirla, non più. La bocca semi aperta era come dipinta sul suo volto diafano, aveva quel sorriso felice. Amavo guardarla dormire. Amavo il modo in cui mugolava senza rendersene conto. Avrebbe potuto anche parlare e dire tutto, la verità pure e semplice su tutto e su tutti.

Sorrisi, inconsapevolmente. Mi voltai a guardare il lago, delle libellule volavano tranquille sulla superficie, increspando quello specchio d’acqua stagnante, il vento muoveva tutto, dalle chiome possenti degli alberi, le ali nere e lucenti delle ghiandaie, perfino l’acqua si muoveva al tocco del vento delicato che la svegliava.

Una folata di vento mi arrivò addosso e portò con se il profumo del carbone, della cenere, e della schiavitù, sospira. Sapevo il mio destino, perché era già segnato. I bambini nascevano, e diventavano minatori, se gli andava bene diventavano ricchi grazie agli Hunger Games. Ma io dico, a che scopo? L’arena cambia la tua vita. Essere estratti cambia il tuo io interiore, la fiducia che hai nel mondo. Ti rende vuoto.

Tu sei vuoto e tutto è morto intorno a te.

Il mondo perde la sua bellezza, i colori la loro lucentezza, il sole perde la sua luce. E tu perdi la tua.

Pensai ad Haymitch, il mio migliore amico. Aveva perso la sua luce, la sua amatissima stella. Si era spenta fra le sue braccia, guardandolo negli occhi.

Queste cose ti cambiano. Ti devastano. Ti fanno perdere il contatto col mondo. Non vuoi vedere nessuno, perché tutti assomigliano a lei, con un gesto, con una parola. Tutto diventa lei. E tu puoi solo che cedere a questa cosa, perché non hai più le forze di andare avanti.

Sospirai e abbassai lo sguardo sull’erba schiacciata sotto di me. Era verde come la speranza.

Dentro di me risi amaramente, come se noi qui avessimo speranza, come se per noi ci potesse essere qualcosa di diverso. Tutto rimarrà uguale. Oggi, domani, fra dieci anni.

Alzai lo sguardo al cielo e vidi le nuvole muoversi, lentamente, con calma, passandoci sopra come se non potessero vederci. Ma loro potevano, e ridevano delle nostre disgrazie. Le sentivo, quelle fetide, libere, nuvole. Con il loro colore così puro pensavano di mascherare la loro anima dannata e cattiva.

Tutte le vuole portavano tempesta, anche la nuvola più bianca nascondeva al suo interno il temporale più feroce.

Scossi la testa, togliendomi dalla mente queste idee proibite.

Ma una rimase, dovevo fare qualcosa, dovevo essere la nuvola più bianca del cielo. Dovevo portare più scompiglio possibile, e Dio l’avrei fatto. Non avrei mai permesso che quell’angelo caduto sdraiato e addormentato accanto a me soffrisse.

Avrei cambiato le cose. Lo giuravo. Lo pensavo. Lo sapevo.

Mi voltai a guardarla e sorrisi, quasi tristemente, con un sospiro allungai una mano per toglierli i capelli dal viso, lei in quel momento aprii gli occhi, e le sue labbra sorrisero davvero.

Guardò i miei occhi, e anche da semi addormentata si accorse che qualcosa dentro di me non andava, mi sdraiai accanto a lei, e la sa mano subito andò alla mia fronte, togliendomi i capelli lunghi dal viso.

I suoi occhi azzurri volevano sapere, ma il resto del corpo no. –A che pensi?- chiese, le presi la manina piccola e dedicata e la baciai, assaporando il suo sapore, così bello, così puro e delicato, sapeva di lavanda –A niente- dissi –Non penso a niente.

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Capitolo 16
*** Big Bang ***


Capitolo sedici.


 
Il soffitto della camera da letto del mio migliore amico era semplicemente un’identica riproduzione del cielo notturno, con tutte le costellazioni, quei piccoli puntini bianchi; qui non troppo lontani per essere toccati.

Guardai in un angolo, c’era un stellina, fatta in maniera infantile, con cinque punte. Sorrisi, mi tirai su con i gomiti e lo guardai. Aveva le mani sporche di colore così come i vestiti e il viso. Perfino i capelli avevano delle ciocche azzurre. Stava facendo il ritratto del tramonto. Lui sapeva quanto amassi l’arancione del tramonto. Con le sue sfumature rosse, e le venature di colore che lasciava il sole con i suoi raggi.

Mi appoggiai al fianco. E sorrisi, guardai il viso del mio amico, che veniva accarezzato con dolcezza dalle luci del tramonto, aveva la lingua fra i denti, e un’espressione attenta sul volto, un cipiglio gli incrostava la fronte.

Adoravo guardarlo disegnare, era come John con il canto. Si estraniavano completamente dal mondo, come se così potessero essere felici. Forse da bambini avevano anche sperato in questo, che le loro canzoni, che i loro disegni diventassero realtà, che li salvassero dalla fame e dalla fatica.

E ancora forse in fondo al loro cuore d’oro ci credevano, come quei bambini che ogni anno aspettano la neve, sapendo che non porterà niente di buono, ma loro l’aspettano, perché è la cosa più bella che abbiano mai visto e che mai vedranno.

Mi alzai dal letto e gli andai vicino, sorrisi vedendo l’opera che stava per essere finita, e rimasi senza fiato, appoggiai la mia testa sulla sua spalla piegandola di lato –E’ una meraviglia- sussurrai, lui fece una mezza risatina –Eo, è una mia opera- disse, sorrisi e scossi la testa.

Per un momento tutto fu perfetto, fuori il vento soffiava leggero, la gente rideva, e noi eravamo solo due ragazzi e un quadro.

Ma poi la terra tremò.

Fu un delicatissimo tremolio del terreno, come se avessimo avuto un capogiro. Per un attimo sperai fosse solo la mia immaginazione, un calo di zucchero o qualcosa del genere. Guardai Alus negli occhi, con una speranza che andava morendo.

Mi morsi un labbro e lui annui, lo fissai impotente, non sapevo che fare, avevo il cuore che batteva a mille. Continuai a fissare Alus. Respirai affannosamente –Anse, tesoro, sai cos’è stato vero?- chiese, mi uscii un gemito di  frustrazione.

La terra tremò di nuovo.

Questa volta scattai subito verso la porta. Tutto ancora tremava, ma non aveva importanza. A breve sarebbe arrivata l’esplosione. E io dovevo essere là. Per i feriti, e anche per le persone in lutto.

Dovevo aiutare.

Scesi le scale due gradini alla volta, Alus mi seguiva, lui non aveva le mani da guaritore, non sapeva come toccare le persone. Ma in quelle situazioni ogni aiuto era necessario, anche semplicemente per abbracciare chi aveva i perso tutto in quell’esplosione.

Corremmo alla farmacia, mio fratello stava  preparando i tavoli e i medicinali più comuni, gli accarezzai velocemente i capelli e lui mi sorrise. Aveva il classico sorrido da bimbo, sincero e puro. Come se neanche il male più cattivo potesse toccarlo.

-Mamma e papà?- chiesi, raccogliendo tutti i medicinali possibili per poi metterli nella borsa. Alus stava facendo lo stesso –Sono partiti poco prima di te- disse, annui chiudendo la porta, presi il camice da infermiera. Almeno mi avrebbero lasciato passare.

Corremmo entrambi, le mani si sfioravano, i miei capelli si muovevano a ritmo del mio passo, il mio seno benché piccolo rimbalzava e faceva male. I polmoni bruciavano. La cenere era alta. Ogni passo la rendeva dannatamente bella, la luce la colpiva e scintillava in aria, come se fosse la protagonista di qualche gioco di ombre.

All’orizzonte solo le stelle che stavano prendendo il posto del caldo cielo azzurro. Non c’era traccia dell’esplosione. Iniziai a mettermi il camice, tenendo la borsa con una mano.

Per le strade nessuno, solo noi due. Due ragazzini che correvano a perdifiato verso una vecchia miniera, le nostre ombre danzavano sul terreno, mentre la fuliggine creava un sottofondo perfetto.

Eravamo le ombre cinesi che servivano per far divertire un pubblico che non poteva essere eguagliato da nessuno.

Il terreno tremò di nuovo. Sempre più forte, Alus accanto a me mi prese il gomito, mi voltai verso di lui, aveva il viso preoccupato. Lo vedevo nella penombra, poi si illuminò; feci appena in tempo a girarmi che il cielo si tinse di rosso.

Urlai, caddi in ginocchio e urlai.

Tutti si riversarono nelle strade e si coprirono le bocche. Quella non era una normale esplosione.

Era qualcosa di peggio.

Illuminò tutti i nostri volti.

Urlai e piansi, non sapevo che fare, non potevo aiutare tutte quelle persone. Delle mani mi tirano su, erano sporche di colore –Dobbiamo correre- mimò con le labbra, annui, frastornata. Non capivo molto. Ero troppo confusa.

Quando arrivammo alla miniera mi dovetti reggere io al gomito del mio amico. Tutto era in fiamme, le persone correvano fuori dalla miniera urlanti. L’allarme era fortissimo, mia madre stava cercando di salvare un uomo cercava di far smettere di urlare una donna con il corpo completamente ustionato.
Era un caos.


I rumori erano assordanti.

L’odore era soffocante.

Chiusi gli occhi e sentii la folla arrivare, con i  loro sussurri e le loro grida.

Riaprii gli occhi e corsi davanti alla miniera, volevo portare in salvo più gente possibile.

Feci appena in tempo ad arrivare a metà distanza che un’altra esplosione arrivò, fu talmente forte da buttarmi a terra. Qualcosa, non riuscivo a identificare il sesso, venne fuori urlando, stava bruciando vivo, mi svenne vicino. Era morto.

Inizia a tremare. Dovevo aiutare. Ma non riuscivo a capire più niente.

Gli urli erano troppo acuti, i singhiozzi troppo disperati, mi guardai attorno ansimando.

E fu quando lo  vidi che capii che non potevo crollare. John era in mezzo alla folla. Immobile fra gli spintoni della gente.

Fissava le fiamme come io fissavo le persone. In modo vuoto e vacuo.

Mi alzai in piedi di corsa, andai da Alus e gli diedi metà delle bende, lui fece un passo indietro.

-Alus- dissi determinata, guardandolo negli occhi –Prendile- lui tremante le prese.

Chiusi gli occhi.

Quella sarebbe stata una lunghissima notte.

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Capitolo 17
*** Sweet Home. ***


Capitolo diciassette.



 
La notte sembrava non finire mai.

Ogni volta che finivo di curare qualcuno, altro sangue si mischiava a quello che avevo già sulle mani e sulle braccia.

I miei capelli erano intrisi di sangue e fuliggine, avevo visto la vita scivolarmi via dalle braccia troppe volte quel giorno. Stavo malissimo. Iniziavano a tremarmi le mani, ogni volta che qualcuno veniva trasportato da me volevo solo urlare e mandarlo via, dicendogli che non potevo aiutarlo.

Ma non lo facevo, vedere i loro occhi grigi imploranti mi faceva solo tendere le braccia verso di loro, cercando di non piangere.

Alcuni sapevano di essere spacciati, semplicemente cercavano qualcuno che li abbracciasse e che li cullasse.

E io facevo quello.

Come con un ragazzo, appena diciottenne, aveva ustioni su novanta percento del corpo. Lo portarono da me, quelli che credo fossero i suoi amici, erano tutti preoccupati. I suoi occhi erano castani, gli passai una mano fra i capelli e trattenni le lacrime. Guardai i suoi amici –Come si chiama?- chiesi, loro erano visibilmente scioccati –Jonathan, si chiama Jonathan- disse uno, aveva la voce roca e il viso nero per il fumo, doveva essere corso a prenderlo. Chissà cosa aveva visto quel ragazzo, dentro quell’inferno di carbone.

Passai delicatamente una mano sopra la guancia di quel ragazzo, lui aveva capito che non c’era niente da fare, stava perdendo la vita, riuscivo a capirlo. Gli sorrisi –Ciao Jonathan, non parlare, no- dissi, lui cercò di annuire, gli presi la mano e guardai i suoi amici –Andate- dissi con voce tremante, non volevo che i loro occhi vedessero morire il loro amico.

-Sai vero cosa sta per succedere?- gli sussurrai guardandolo negli occhi, lui annui e tossì, il sangue scarlatto mi arrivò sul viso, mi prese gli occhi, tremai leggermente, prima di guardarlo di nuovo negli occhi, lui si appoggiò a me stancamente, gli tremavano le labbra.

Gli occhi castani erano stanchi e spaventati, si reggeva a me, stringendomi il braccio con la sua mano rossa e piena di croste sanguinolente. Non urlava per il dolore. Lo controllava. Ma sapevo quanto doveva costargli.

Gli sorrisi e lui si inarcò sulla schiena gemendo –Aiutami- implorò, scossi la testa.

Lo cullai finché i suoi occhi non diventarono vacui. Ennesima persona che mi era morta fra le braccia.

La notte passò così, il fumo alto nel cielo copriva le stelle.

Molte persone morirono quella notte, altre stelle in cielo.

I genitori di John morirono, i loro corpi erano andati in pezzi. Non avevo potuto aiutarli.

Il sole salì nel cielo, rosso e splendente su quel disastro, ero ancora inginocchiata in quel bagno di sangue. Tutta incrostata di liquido rosso, si stava seccando, fissavo il terreno, cercando di non piangere. Tirai su col naso e inizia a tremare, avevo freddo.

Non sulla pelle.

Ma nel cuore.

Dentro di me, la mia anima aveva bisogno di essere scaldata.

Intorno a me solo persone troppo scosse, mi guardai a torno e mi abbracciai da sola.

Rimasi piegata in avanti tremante con i brividi che mi scuotevano le spalle.

Qualcuno mi sollevò da terra. Era Alus, non aveva sangue addosso, doveva aver fatto il minimo indispensabile, per le sue abilità.

Mi strinsi al suo petto e scossi la testa –Non ho potuto aiutarli tutti- sussurrai, con voce da bambina, lui mi baciò i capelli sporchi –Hai fatto tutto il possibile- mormorò di rimando, scossi la testa e piansi –Non ho salvato tutti quei ragazzi, Alus- iniziai a piangere, ma proprio a dirotto.

Affondai il viso nel suo largo torace e fra un singhiozzo e quell’altro trovai il modo di far uscire la voce –Dove andiamo ora, amico mio?- domandai, lui guardò l’orizzonte, osservando l’alba di un nuovo giorno.

L’alba di un giorno di lacrime.

L’alba del giorno in cui tutti piangono i loro morti.

L’alba che doveva portare via la tristezza dai cuori.

-A casa, andiamo a casa Anse- mi rispose senza nemmeno guardarmi.

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Capitolo 18
*** Fire ***


Capitolo diciotto.


John aveva acceso il camino, e nella stanza non si sentiva altro che il crepitio del legno avvolto dalle fiamme. Lo guardai meravigliata, le ombre danzavano sul mio volto e gli occhi del ragazzo accanto me  guardavano il mio volto con le labbra screpolate semi aperte.

Sorrisi, con la coda dell’occhio notai che mi guardava tutto il viso, ogni centimetro, allungò una mano per sistemarmi i capelli, mi voltai verso di lui, non potevo fare a meno di sorridere, quel giorno era stato bellissimo, fin dalle prime luci dell’alba.

Ma smisi presto di sorridere, notando quelle occhiaie che circondavano i suoi occhi grigi, lo guardai bene e feci per aprire bocca, ma lui si voltò e fissò tristemente le fiamme. No. Non le fissava in maniera triste, le fissava senza emozioni. Neanche rabbia contro il fuoco che gli aveva strappato amici e famigliari.

Gattonai verso di lui e appoggiai le labbra sulla sua guancia, socchiusi gli occhi, ma riuscii a notare un piccolissimo sorriso increspargli la bocca –Dobbiamo parlare di quella notte- mormorai, lui fece un verso di disapprovazione, mi staccai da lui e con due dita girai il suo volto verso di me.

-Sono seria, non puoi continuare a scappare. Prima o poi ti raggiungerà e lo sai che sarà troppo tardi- sussurrai, lui butto un legnetto nel legno e non rispose, ormai aveva fissato i suoi occhi grigi nei miei. Pian piano la sua attenzione scese verso le labbra, si passò la lingua lentamente sulle sue per poi baciarmi.

Feci per non rispondere. Non volevo che scappasse, dovevamo parlare. Dovevamo parlare del fatto che si fosse nascosto da Haymitch. Dovevamo parlare del fatto che sua madre, la quale aveva perso il marito e un figlio, era venuta da noi piangendo perché non riusciva più a trovare lui.

E a casa avevano fame, suo fratello piccolo stava male.

Ma John era sparito.

Buttando tutto a puttane.

Lui mi aprii a forza le labbra. Capii subito che era un bacio diverso, aveva dei sentimenti troppo profondi e primitivi. Ma lo baciai. Perché prima di chiudere gli occhi notai una singola lacrime scendere lungo la guancia sinistra.

Il bacio mi stava togliendo il fiato, avevo il cuore a mille.

La mia mano arrivò al suo ginocchio, inconsapevolmente, non riuscivo a controllare il mio corpo, sembrava che il mio cervello fosse partito. Ero in balia di qualche forza superiore, che comandava me stessa, facendogli fare anche quello che non volevo fare.

Lui mi toccava ovunque, le sua mani erano tremanti ma sapevano cosa fare, mi accarezzava dolcemente il viso con quei suoi calli, poi arrivò al collo, per scendere verso il mio seno. Non sapevo cosa fare, lasciai che la sua mano toccasse il mio piccolo petto. Nessuno mi aveva mai toccato così prima, ero a disagio, e una parte di me voleva che smettesse, ma non lo fermai, lo lasciai fare, perché anche se non volevo, era bellissimo, il modo delicato con cui mi toccava accarezzandomi il mio corpo.

Continuò a baciarmi, i nostri respiri diventarono affannati, il mio cuore continuò a battere, sempre più veloce, avevo caldo dappertutto, il ventre mi tremava, qualcosa dentro di me iniziò a scavarmi il petto.

Le mie gambe erano intrecciate alle sue, in quel pavimento riscaldato dal camino. Fuori era nuvoloso. Intorno a noi, il bosco taceva, si sentivano solo i pianti di chi aveva perso tutto e tutti, ma stavo diventando sorda, non esisteva altro che il suo respiro e il suo calore. 

Bacio dopo bacio lui si staccò da me, iniziò a baciarmi il collo, piccoli bacini, delicati, poi iniziò a mordermi quella carne che mai nessuno aveva toccato. Aprii gli occhi ansimando, la sua mano mi stava accarezzando il ventre, con un unico obbiettivo.

Succhiò la carne sul mio collo, ansimai ancora, il cuore mi batteva all’impazzata, e il respirò si mozzò. Chiusi di nuovo gli occhi, non avevo mai provato nulla di simile, era una cosa che mi faceva venire i brividi. E non di freddo.

Scese ancora, fino ad arrivare alle scapole, mi baciò ancora muovendo quella sua lingua da cantante sulla mia pelle ormai bollente.
La sua mano era arrivata quasi a destinazione.

Il mio buon senso riprese il sopravvento, presi la mano di John e la spostai brutalmente.

La paura aveva avuto la meglio sul piacere.

-John- sussurrai, lui grugnii e cercò di portare la mano dove era prima, il cuore mi batteva all’impazzata. Stavolta per la paura però. Ormai mi teneva ferma, la sua mano era posato dove voleva arrivare.

Lo spinsi via, con la paura in gola –John!- urlai, forse mi stavano venendo le lacrime, ma avevo paura.

Lui sembrava stordito, poi si guardò, vide la sua camicia sbottonata, i pantaloni con la patta abbassata, scosse la testa. Fissò me e notò che ero nelle sue stesse condizioni. L’ambiente circostante era in disordine, il tappeto spiegazzato, rigirato in alcuni angoli.

-John- mormorai, facendo per alzarmi, lui fece un passo indietro. I suoi occhi si riempierono di lacrime, si posò una mano sulla bocca e mi guardò dritto negli occhi –Anse io…- mormorò, abbassò la testa e scappò via.

Lasciandomi lì. 

Da sola.

Con il camino che crepitava.

E i sussurri della libertà che piangeva per lui.

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Capitolo 19
*** La casa delle gemelle pt1 ***


Capitolo diciannove.
 


Bussai alla porta con forza, tenni lo sguardo basso sui miei stivali; non volevo vedere subito chi avrebbe aperto la porta.

Volevo vivere ancora un po’ nell’illusione.

Quando sentii scricchiolio alzai lo sguardo, vidi la mamma di Page e un tempo di May, aveva gli occhi circondati da profonde occhiaie, sempre di quel nocciola caldo che io amavo, la fronte era corrugata e tutto il viso era rosso come lo ricordavo. Sembrava un giorno come tutti gli altri; mi aspettavo che May sbucasse dietro sua madre e mi trascinasse in camera sua per parla di Haymitch, avremmo parlato di quanto gli piacesse, fino al momento dell’arrivo di Page per poi andare in città o chissà dove.

Ma naturalmente non era un giorno come tutti gli altri, May non sarebbe spuntata, non avremmo riso e parlato di Haymitch,  il quale voleva vedere solo John e non voleva farsi vedere per il distretto; Page non sarebbe arrivata, non usciva più di casa, il suo ragazzo la vedeva di rado ed era sempre preoccupato per lei.

Niente era come prima.

Feci un piccolo sorriso alla madre della mia defunta migliore amica, lei cercò di ricambiare, ma gli occhi gli si riempirono di lacrime. Feci un passo avanti e l’abbracciai, non l’avevo fatto al funerale. E nemmeno quando ogni tanto parlavamo al forno.

Ma in quel momento ne avevo bisogno e sentivo che anche lei ne aveva bisogno. 

-Ciao tesoro- mi sussurrò all’orecchio, la voce incrinata, io la strinsi più forte, trattenendo le lacrime e cercando di non cadere in pezzi fra le braccia di colei che era più spezzata di me.

-Ciao- la salutai, mi staccai e mi accarezzò la guancia con la sua mano paffuta, tremava leggermente, mi accostai al suo calore, come faceva sempre May e le lacrime scesero sul volto di quella donna, mi morsi un labbro.

-Mi dispiace non essere passata prima- sussurrai, lei si asciugò velocemente le lacrime e scosse la testa, cercando di tirare fuori un sorriso per me. Il risultato fu qualcosa di patetico e davvero deprimente.

-Non preoccuparti, capisco che sia stato un duro colpo anche per te- disse lei togliendo la sua mano dalla mia guancia, se la mise in grembo e mi fece cenno di entrare. Non esitai due minuti.

Tracciai con la mano le iniziali sul tavolo della cucina. Le tre iniziali, sua madre stava cucinando, come sempre, io la fissavo da seduta come facevamo di solito quando eravamo tutte e tre insieme.

Ma ora ero sola.

Rimanemmo in silenzio, nessuna delle due sapeva cosa dire. Non c’erano più le voci delle gemelle che bisticciavano che riempivano l’aria. Non c’era più la nostra risata da ragazzine che echeggiava per tutta la casa e non solo. C’era solo l’opprimente silenzio e la terribile verità che incombeva su di noi come la falce della morte. Glaciale e spettrale.

-Tu le assomigli molto- sussurrò sua madre, alzai lo sguardo e vidi che mi fissava sorridendo, si stava asciugando le mani ad un panno vecchio e logoro, la fissai confusa, ma pur sempre sorridendo.

-A chi scusi?- domandai sinceramente curiosa, lei si sedette davanti a me, afferrandomi la mano che avevo appoggiato sul tavolo di legno rovinato. Al contatto la sua mano era molto meno callosa di come sembrava alla vista, era morbida e bagnata, non era completamente asciutta evidentemente, emanava un calore singolare. Avrei voluto sentire quella mano sulla mia per sempre.

-Alle mie bimbe- mormorò lei sorridendo. Sorrideva come una mamma sorride ad una figlia. Sorrideva ma aveva la lacrime; la guardai negli occhi e non riuscii a non farlo. Delle calde lacrime scesero lentamente lungo le mie guance, erano bollenti e salate, mi arrivarono fino sulle labbra screpolate e mi entrarono in bocca.

Sentivo il sapore del sale sulla mia lingua, anche un altro gusto, nascosto che non riuscii a identificare.

La madre delle mie amiche si alzò, lasciandomi la mano e liberandomi dal quel dolce calore che mi faceva sentire a casa. Cercai di rassicurarla dicendogli che stavo bene, che era un complimento troppo bello.

Ma lei mi abbracciava e il suo calore mi faceva venire sempre più lacrime. Era troppo bello sentire il calore di una mamma che ti amava incondizionatamente.

-Mi manca così tanto- lo dissi quasi gridando, ma dovevo dirlo. Erano mesi che mi tenevo dentro questa cosa. Avevo perso la mia amica.

Non mi confidavo con nessuno e ora lei mi mancava, mi mancava tantissimo. Mi mancava il nostro parlare e scherzare.

Era una cosa infantile ma lo rivolevo, avevo solo sedici anni, avevo bisogno di questo e mi era stato strappato via. Non era giusto.

-Manca anche a noi- sussurrò sua mamma, mente mi stritolava, affondai il viso nel suo grande petto e piansi a lungo.

Facendo uscire quello che non ero riuscita a esternare.

Iniziai a parlare, non  mi ricordai quando o quanto dissi, ma gli parlai di quanto mi mancasse May e che sentivo la mancanza pure di Page, di quanto avessi bisogno di Alus e dei suoi disegni, gli raccontai di quello che dicevano di Haymitch.

E soprattutto di quello che provavo per John, quello che era successo nel bosco.

Lei pazientemente mi ascoltava, accarezzandomi i capelli senza fiatare.

Alla fine mi calmai e in imbarazzo fissai quel tavolo che sapeva troppe cose, che parlava di lei. Ma che non poteva dire nulla.

Non riuscivo a guardarla negli occhi o semplicemente in volto, chissà cosa pensava di me. Sicuramente mi avrebbe cacciato e mormorato che ero una viziata stupida e infantile.

Ma non lo fece, mi passò una mano tremante sulla schiena e poi sentii il calore della sua guancia sul mio collo e il suo respiro vicino alla nuca, la sua bocca era a pochi centimetri dal mio orecchio; il quale ebbe un fremito sentendo quel calore nuovo.

-Vai da Page.

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Capitolo 20
*** La casa delle gemelle pt2 ***


Capitolo venti.
 
 
La guardai.


Guardai le sue spalle fragili, che tremavano senza motivo, coperte da un lenzuolo, un tempo bianco immacolato ma che col tempo era diventato giallognolo, teneva le mani strette in grembo, le nocche sbiancavano dalla forza in cui le teneva chiuse.


Le ginocchia si muovevano in maniera convulsa, erano baciate dal sole caldo, in quel raggio di sole che riusciva a perforare il vetro sottile notai piccole anime di polvere danzare libere, le fissai. Erano buffe, ballavano ad un ritmo tutto loro, e volteggiavano come se la gravità non le toccasse. In quel momento avrei voluto essere come loro: libera.


Andai verso il letto, non avevo il coraggio di guardarle il volto. Non ancora. Mike era sceso da dieci minuti, lasciandoci sole. E il silenzio era sovrano, quel chiassoso frastuono del mondo che andava avanti, lasciandoci ferme, non facendoci vivere.


Mi schiarii la voce appena mi sedetti accanto a lei. Page alzò lo sguardo e lo piantò al muro, osservai attentamente il suo profilo: il naso a patatina pieno di lentiggini bionde, alcune ciocche che ricadevano dalla crocchia spettinata le si adagiavano sulla guancia paffuta, non li spostava nemmeno, non le stavano male, le davano un aria più infantile, mi venne da sorridere. I suoi occhi azzurri erano colpiti dalla luce, era un’immagine spettrale di un lago del paradiso. Una lacrima solitaria come un torrente silenzioso scendeva giù per la guancia che fungeva da collina.


Le labbra screpolate ogni dieci secondi venivano inumidite dalla sua lingua, e i suoi bellissimi denti le mordevano, fino a farle sanguinare;  e quando usciva quella puntina di sangue lei subito ci passava la lingua, sembrava bramare il sapore del sangue in bocca, quel gusto di rame un po’ amaro.


Provai a prenderle la mano, lei nemmeno si mosse. La strinsi, volevo che lei si rendesse conto della mia presenza, che iniziasse a parlare perché il silenzio ormai era assordante. Il mio cuore batteva alla impazzata, come un tamburo nel petto, che mi ricordava ad ogni battito che poteva essere l’ultimo. Sentivo il sangue nelle vene che ribolliva


La gola mi si seccò. Avevo voglia sola di urlare –Anse- disse lei interrompendo quel silenzio che viveva sovrano nella stretta camera da letto che profumava di May, abbassai lo sguardo sulle mie mani, stringevano la stoffa dei pantaloni con eccessiva forza. Li lasciai liberi dalla mia morsa micidiale –Hey- sussurrai di rimando. Lei si voltò verso di me, con eccessiva calma riuscivo a scorgere la polvere che agitavano i suoi capelli, i movimenti aggraziati, quel suo profilo perfetto dava spazio a quel maledetto viso con una bellezza assurda circondato da un’aurea di tristezza troppo profonda e primitiva.


-Sei qui?- chiese, una sua mano con le unghie lunghe e sporche arrivò alla mia faccia. Non osavo guardarla negli occhi, non avrei retto il suo dolore, mi accarezzo la guancia, toccandomi la bocca on il pollice, sembrava che le sue labbra fossero sul punto di aprirsi in un sorriso celestiale, ma invece le piegò in una smorfia e lasciò ricadere l’estremità del suo arto destro. Cadde sul letto morbido con un tonfo. Alzò davvero tantissima polvere.


Il silenzio stava  calando su di noi, mi affrettai a prenderle la mano –Page, hey, sono qui- le dissi sorridendo, stranamente non era forzato era qualcosa di naturale che mi veniva dal cuore –No. Non è vero, sei un allucinazione, molto vivida certo, ma sei un allucinazione- disse convinta, allontanò la mano a malincuore, si prese la testa fra le mani e si accigliò –Ma cosa dici? Sono io! Sono Anse, non mi riconosci?- domandai, la mia voce era troppo mielosa anche per le mie orecchie, figuriamoci per le sue –Sei come May, siete delle allucinazioni. Non siete qui davvero. Mi avete lasciato sola. VAI VIA- urlò e si strinse la mani alle tempie, si stava mettendo in posizione fetale.


Rimasi immobile, provai a toccarla e lei urlò più forte, le lacrime copiose le allagavano il viso del muco stava uscendo dal suo naso. Il suo colorito era diventato rosso.


La porta si spalancò, mi apparve Mike, in tutto il suo splendore, dietro di lui la madre di Page, aveva il viso stravolto. Distolsi lo sguardo, il cuore mi batteva fortissimo, il mio respiro stava diventando corto. Avevo già provato una sensazione simile, ma al posto del disagio prevaleva la paura e l’impotenza.


Mike si buttò in ginocchio davanti a lei, le tolse le mani dalle orecchie e iniziò a sussurrarle delle parole nelle orecchie. Come tremava e piangeva! Come rinnegava il suo amore, picchiandolo.


E lui; lui come l’amava, un amore impossibile da descrivere, i suoi occhi sembravano non scorgere altro che lei. Come se fosse la luce e noi l’oscurità crescente, come se, quel viso da sirena l’avesse stregato fino a farlo imbambolare e impazzire per lei.


Ma doveva stare attento, le sirene incantavano con la loro bellezza, ma non sempre tutto è come sembra.


Quel viso d’angelo avrebbe potuto ucciderlo e nemmeno lo sapeva.


-Page, amore, ascoltami, va tutto bene. Siamo tutti reali qui. Io, la mamma e anche Anse- sussurrò, le toccava il braccio. Non riuscii a capire chi tremava di più. Lei sorrise e annui con aria confusa, si voltò verso di me, sua madre era sulla porta, teneva in mano un bicchiere d’acqua e due compresse familiari.


Mi passò davanti e il ragazzo della mia amica venne vicino a me, mi posò una mano sulla spalla e io appoggiai l’estremità del mio arto sulla sua –Ciao Anse- sussurrò, voltandomi verso di lui notai due enormi borse sotto gli occhi azzurri, il viso scavato sulle guance come se fosse deperito velocemente e nel suo sguardo tanto amore quanto dolore.


Quanta forza ci vuole per amare chi soffre con la consapevolezza che non poteva aiutarla?


-Mamma no, ti prego, non le voglio. Mi fanno dormire. Mamma no- gemette Page, era inerte come una bambina piccola, mi fece tenerezza. Fissai le capsule. Erano quelle che preparavo nel laboratorio con mio fratello. Erano tutti ingredienti chimici, mandati dalla capitale e costavano tantissimo.


-Il padre di Anse ha detto che devi prenderle quando hai una crisi- disse sua madre, accarezzandole la testa, Page la scosse con forza e si voltò verso di me –Sei reale?- mi sussurrò, io annui sorridendole. La vidi valutare la situazione, si girò verso sua madre e mandò giù le due capsule con l’acqua. La bevve tutta, alla goccia.


Un rivolo le scese candido giù per la giugulare e le ricadde sul seno candido, la guardai chiudere gli occhi e sospirare, si lasciò cadere, per poi mettere la testa sul cuscino, mi fissò, mentre i suoi occhi diventavano vacui –Dormi con me? Ci svegliamo insieme, come ai vecchi tempi- mormorò con voce impastata. Le sorrisi e mi misi giù con lei, e l’abbracciai –Certo- le risposi, baciandole i capelli color del grano.


E rimanemmo così, senza badare di chi avevamo incontro. Abbracciate nel letto di May, circondate dal suo profumo e per un attimo, uno  solo, mi sentii nuovamente come prima, quando May era viva, quando Page stava bene e io non ero cambiata.


Per un attimo mi resi conto di essere felice.

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Capitolo 21
*** In to the Woods (John) ***


Capitolo ventuno.

John.
 


Tesi l’arco, sentendo il legno sulla guancia, socchiusi un occhio e mi appiattii contro l’albero, respirai a pieni polmoni l’aria carica di ballate malinconiche che alcuni temerari cantavano nelle miniere, un brivido percorrermi la schiena: avevo diciassette anni, mancava poco al mio compleanno e quindi alla mia imminente schiavitù. Abbassai pian piano l’arco, e chiusi gli occhi, le labbra mi tremavano, i capelli si erano sciolti dal codino e ora mi accarezzavano il collo come per calmarmi.

Non volevo andare in miniera, non volevo entrare con ancora le stelle in cielo e uscire quando di sole non era già andato a dormire. Odiavo sentirmi incatenato. Mi passai la mano ricoperta dal guanto sui miei occhi e sospirai, cercando di non fare rumore. Dovevo godermi ogni giorno fino alla mietitura. Dovevo vivere.
Tesi nuovamente l’arco, e raccolsi da terra lentamente una pietra, la lanciai contro un albero e dei cinguettii familiari si alzarono verso il cielo grigio di cenere, presi subito la freccia e senza nemmeno prendere la mira tirai.

Il tempo di abbassare l’arco e subito qualcosa nel cielo precipitò giù verso la terra. Sorrisi. Per oggi il pranzo era fatto e forse sarei riuscito a racimolare dei soldi al mercato nero.

Mi legai di nuovo i capelli, avrei dovuto tagliarli, ma non volevo, mi piacevano così lunghi.

Feci per infilarmi l’arco in spalla quando sentii dei rumori.

Mi voltai di scatto, già con la freccia pronta per essere scoccata, alzai lo sguardo verso l’alto e incrociai i miei occhi con un altro paio nocciola.

-John- disse lui a mo’ di saluto, io mi alzai in piedi, sovrastandolo di mezza spanna e lo fissai dalla testa ai piedi. Era vestito con la divisa da panettiere, sulle mani aveva schizzi di tutti i colori.

-Sei stato fortunato ragazzo del pane, se non avessi guardato ti saresti ritrovato una freccia nel cuore- gli dissi, lui incrociò le braccia al petto magrolino facendo un sorrisetto che quasi mi coinvolse, quasi.

-Smettila di vantarti non c’è lei con me- disse, era divertito e mio malgrado arrossii violentemente, mi grattai dietro al collo e lo fissa con una domanda negli occhi, perché lui non era mai venuto da solo nei boschi e già quando Anse l’avevo portato, non era stato molto contento.

E ora era venuto, da solo, nel posto che odiava di più al mondo.

-Dimmi mio caro panettiere, chi ci fai qua?- chiesi, lui scosse la testa e i suoi ricci castani formarono una piccola valanga sul suo capo, sospirò e  mi fissò.

-Perché voglio parlare con te- mormorò, scoppiai a ridere di gusto.

-Mi dispiace, ma se non lo sai io me la faccio con la tua donna- dissi in modo deciso, lui sventolò una mano davanti alla sua faccia con un espressione assai buffa, lo fissai molto divertito, sembrava a suo agio in quel posto così ostile per lui, era come se appartenesse ai boschi, la sua minutezza, anche se minima, lo mimetizzava meglio con l’ambiente, se fosse stato vestito con abiti più scuri l’avrei scambiato per un cacciatore e non per la fatina dei boschi a cui lo paragonavo spesso con Haymitch.

-John potresti sgonfiare quel tuo enorme ego e ascoltarmi per favore?­- chiese spazientito, incrociai le braccia al petto e lo fissai, con un sorrisetto arrogante sulle labbra. Lui mi fissò, si stava per caso arrabbiando? Non volevo vedere il garzone del pane arrabbiato, Anse mi aveva raccontato degli episodi in cui la sua rabbia era uscita fuori e quando quel suo sentimento arcaico l’avevo portato a baciarla. Dopo quel ricordo il pensiero di trafiggerlo con una freccia si era fatto molto allettante.

-Da  quanto non la vedi? Da quanto non le parli? John, sono preoccupata per lei, sta male, ora che ha trovato il coraggio di andare da Page la vedo diversa, un pochino più in salute. Ma sono preoccupato, non cura più i pazienti con la grinta di prima, non mi racconta più nulla. È come se fosse un soprammobile che ogni tanto prende vita. A volte piange fra le mie braccia, prima lo faceva spesso, ma ora sembra che il mondo gli abbia strappato i sentimenti. John, da quanto non vi vedete?- chiese, era serissimo, nei suoi occhi leggevo la preoccupazione, era palpabile, e notai anche un po’ di gelosia, quel ragazzo avrebbe amato per sempre, la piccola e dolce Anse.

-E’ più di un mese- ammisi e in quel momento mi resi conto, con sorpresa, che per me quel tempo era trascorso talmente velocemente da non ricordare Anse. Mi sentii malissimo, sentivo che mi mancava, anche tanto, ma era come se fossi bloccato.

Poi ricordai.

Chiusi gli occhi e imprecai, Alus sembrava molto curioso.

-E perché è così tanto tempo?- chiese, scossi la testa e mi maledii sia ad alta voce, sia mentalmente.

-E’ colpa mia, è da quando ho perso il controllo con lei. Ma i suoi baci mi avevano acceso un fuoco nuovo e poi era successo qualcosa ero perso, mi sentivo male e lei era lì a consolarmi. Non riuscivo nemmeno a pensare da quanta tristezza mi affliggeva. Ora mi rende conto. Sono un’idiota- ammisi, mi sedetti per terra con un tonfo, alcuni uccellaci maledetti gracchiarono nel cielo che secondo me diventava ogni minuto più scuro. Il vento si stava alzando, l’odore della foresta si fece intenso, mi ricordai dell’albero e del prato, in quel momento avrei voluto sdraiarmi e diventare quel prato e respirare per sempre quell’odore così familiare e così perfetto.

-Lo sappiamo tutti che sei un’idiota amico, non fartene un crucio- ci scherzò sopra lui, poi si inginocchiò davanti a me e posò una mano sulla sua mia spalla, i suoi pantaloni si stavano sporcando di verde sul ginocchio, non glielo dissi.

-Parlale, è quello che lei vuole- mi suggerii e si alzò.

Si incamminò incerto per quel sentiero inesistente, sorrisi anche se non avevo niente da sorridere, mi ero sbagliato, Alus non era altro che un panettiere, i boschi non facevano per lui.

A pensarci meglio, i boschi erano fatti solo per una persona; una persona dagli occhi azzurri e i capelli biondi molto lunghi.

La mia  piccola Anse.

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Capitolo 22
*** Back. ***


Capitolo ventidue.
 
 
Mi osservai allo specchio del bagno, mi ero chiusa dentro da più di mezz’ora e mio fratello gridava disperato, potevo capirlo poverino, era l’unico sanitario della casa.
Presi le forbici e le avvicinai alle mie ciocche bionde, mi tremava la mano, ci avevo provato, più di una volta, ma tutte le volte avevo rinunciato.

Questa volta non potevo, i capelli lunghi erano il passato, tutto ciò che avevo perso, tutto ciò che non mi sarebbe mai stato ridato indietro, li odiavo moltissimo, presi la prima ciocca, e la tagliai di netto sotto l’orecchio, con le lacrime che intanto mi rigavano il viso, le occhiaie viola risaltavano nel mio pallore, la rabbia ribolliva come un calderone sul fuoco dentro di me.

-Anse! Apri questa porta ti prego!- implorò quell’anima immacolata di mio fratello, aveva appena compiuto nove anni e il mondo per lui era ancora felice e sorridente, non volevo che mostrasse a lui quanto poteva essere cattivo e crudele.

-Stai zitto!- gridai in risposta, la voce più salda di quello che immaginavo, con le lacrime che mi rigavo il viso continuavo a tagliare la mia criniera, pian piano iniziai a sorridere, più capelli cadevano più ero felice, scoppiai a ridere quando ebbi finito, mi  sciacquai la testa nel lavandino, togliendomi i rimasugli che iniziavano a solleticarmi il collo.

Avvolsi la testa in un asciugamano e aprii la porta, mio fratello corse dentro, chiudendo la porta dietro di se, nemmeno notò cosa c’era a terra.

Mia madre salii le scale e mi fissò, mi vide sorridere, con gli occhi vagamente illuminati e si sorprese, feci scivolare l’asciugamano dalla mia testa e risi vedendo i suoi occhi azzurri contornati da delle zampe di gallina allarmarsi, sembrava sorpresa e abbastanza nervosa.

-Tesoro c’è John alla porta e dice che non se ne andrà finché non avrete parlato.-

 
Mi passai una mano nei capelli che mi ero fatta, ero sparati ovunque e mi piacevano, ero seduta sul gradino sotto quello di John, lui osservava la parte posteriore della mia casa incuriosito, io osservavo lui, il suo principio di barba, la mascella pronunciata e la labbra calde che ogni secondo inumidiva, i capelli erano legati nella sua solita cipolla dietro la nuca, i vestiti tiravano sui suoi muscoli scolpiti, rimasi a fissarlo, senza che lui se ne rendesse conto per un po’, alla fine ruppe quel silenzio che stava diventando sopportabile solo grazie al vociferare della piazza.

-Non sono molto bravo con le parole- iniziò, guardandomi sul serio per la prima volta, i suoi occhi grigi nei miei azzurri, lasciandomi senza fiato, io feci spallucce, non mi importava un cavolo delle belle parole, volevo solo che lui parlasse e mi spiegasse il motivo per cui mi aveva lasciato da sola nel  momento più difficile nella mia vita e escludendomi dalla sua.

-John, dimmi soltanto cosa vuoi. Io non ne posso più, se non mi hai cercato vuol dire che non mi vuoi con te, me ne farò una ragione, basta che me lo dici perché io non voglio andare avanti così, sto imparando di nuovo a vivere, tutto è diverso, lo sappiamo entrambi, ma io sto cercando di tornare alla vita e ho bisogno di sapere se tu ci sarei o no- dissi tutto d’un fiato, per poi rendermi conto di aver parlato, tappandomi la bocca con le mani e arrossendo fino alla punta dei capelli, non avevo mai avuto tanto coraggio nella mia vita e la cosa mi sorprese, feci per nascondermi dietro la mia chioma di grano, ma poi mi resi conto che l’avevo appena tagliata, imprecai nella mia testa.

Lui rimase a fissarmi, con la bocca semi aperta e un sopracciglio sollevato, nei suoi occhi c’era stupore e ammirazione, ero riuscita a parlare quando lui non ci riusciva, intravedevo pure della vergogna, perché io avevo preso in mano quella situazione al contrario suo.

-Anse, sto cercando anche io di sollevarmi, lo sai? I miei genitori, il mio migliore amico che non è né vivo né morto, che beve tutti i giorni e che non riesce a dire altro che è colpa sua; è successo tutto troppo velocemente, ho avuto bisogno di tempo per elaborare e poi c’è stato quel  momento..- a quelle parole diventò paonazzo e fece un mezzo sorriso che si trasformò in una smorfia, mi guardò con gli occhi piedi di lacrime, mi venne l’istinto di accarezzargli il viso e stringerlo a me, cercando di prendere la sua tristezza e portargliela via, -Insomma, io voglio esserci nella tua vita, sennò oggi non sarei venuto, avrei ignorato il tuo amico e ti avrei fatto iniziare una nuova vita con qualcun altro, la vera domanda è: Tu mi vuoi nella tua nuova vita?- mi chiese, la voce tremò sull’ultima parola e lo vidi chiudere gli occhi come se si maledisse di essersi fregato da solo, con la sua emotività.

Rimasi a fissarlo, mi aveva chiesto una cosa che io volevo, ma c’era qualcosa che mi bloccava, una domanda che vagava per la mia mente ‘E se lo facce un’altra volta?’, lo guardavo, cercando la risposta nei suoi gesti, ma si era chiuso in se stesso, nessuno poteva penetrare quel muro, quando lo ergeva, solo una persona, ma non poteva più nemmeno lui perché adesso lui aveva costruito un muro, che nessuno avrebbe più potuto abbattere, feci per voltarmi a fissare i camici appesi quando notai il tremolio del suo occhio e il fatto che poi li strinse, le mani non erano del tutto ferme, immaginavo stesse tremando.

Guardai quei piccoli movimenti e un attimo dopo avevo appoggiato le mie labbra alle sue, lui sobbalzò e ricambiò il bacio. Sorrise sulle mie labbra.

E io sorrisi sulle sue, tutto sembrava perfetto, un sentimento che pensavo di aver perso o sotterrato tornò a bussare e lo feci entrare, il cuore prese a battere più forte.
In quel momento, mentre con gli occhi chiusi e con le fronti appoggiate ci sorridevamo in un idilliaco istante mi resi conto che tutto finalmente sarebbe andato per il meglio.

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Capitolo 23
*** Lullaby (Haymitch) ***


Capitolo ventitré.

Haymitch.
 
Ecco lì nelle mie mani, la certezza di essere solo. Di non avere più nessuno tranne John.

Quel mostro mi aveva strappato prima la donna da me amata  e poi la mia famiglia. Gli Hunger Games erano finiti eppure lui continuava a giocare con me, come se fossi solo una pedina da maneggiare come meglio credeva, un numero che poteva cancellare secondo un suo capriccio.

Pensava di piegarmi, di farmi del male. Ma non sapeva che ormai ero vuoto. Dopo aver visto morire tutte quelle persone tra cui la mia May e il mio bambino, non provavo più nulla.

Eppure iniziai a piangere,  come un bambino a cui avevano appena portato via il giocattolo preferito. Appoggiai la testa al tavolo della cucina e gridai il nome di mia sorella e piansi, piansi a lungo mentre una dopo l’altra le bottiglie di liquore sparivano.

Un sorso in più era una lacrima in meno. Un brutto gioco che stava pericolosamente diventando un vizio, ma certe volte non riuscivo ad alzarmi dal letto ed affrontare la giornata senza liquore. Dormire senza era impossibile.

Avevo sempre troppe bottiglie in camera mia, mia madre le buttava via urlandomi contro di reagire. A volte segretamente e internamente la ringraziavo anche se le urlavo di non potercela fare. Lei mi spronava ad andare avanti a vivere quella vita che mi avevano donato e che mi era stata risparmiata, a vivere anche per May e per mio figlio.

Ma adesso non c’era più lei, ero solo in quella grande e fredda casa, nessuno sapeva esattamente cosa mi stava succedendo e nemmeno io lo capivo, ma sapevo di sbagliare.

Buttai giù l’ultimo sorso dell’ultima bottiglia e la lanciai contro al muro, frantumandola mentre il mondo girava e sentivo il vomito salirmi in gola, sentivo il bruciore dei succhi gastrici e poi l’odore che stava per uscire allo scoperto. Puzzava di liquore e uova marce.

Iniziai a vomitare, tenendomi al tavolo per non cadere nel mio stesso schifo, imbrattai tutti i vestiti e il pavimento di quella sostanza giallognola e dalla consistenza non capibile e alquanto schifosa, caddi accanto ad essa, come un peso morto, respiravo a fatica e continuavo a piangere silenziosamente, fissando quell’orribile colore e facendo entrare nel mio naso quel fetido odore che mi lasciava schifato da me stesso.

Singhiozzai, e chiusi gli occhi facendo degli enormi respiri dalla bocca, sporca e con ancora un orrendo sapore sulla lingua. Feci per addormentarmi quando aprirono la porta pian piano, con una timidezza timida solo di una persona.

Alzai leggermente la testa e aprii gli occhi, tremavo dalla testa ai piedi e dovevo essere ridotto talmente male che la persona sulla porta si coprii la bocca con le mani e i suoi occhi fissi su di me e sulla pozza maleodorante accanto a me. Non trovava le parole, lasciò cadere a terra il pane e la selvaggina e mi guardò.
John aveva gli occhi grigi pieni di lacrime, venne da me e mi abbracciò, parlava ma non capivo, ero stanco nonostante non avessi fatto niente, ero stanco di tutto volevo solo dormire e svegliarmi da quell’orribile incubo che stava durando un po’ troppo.

Riconobbi solo qualche parola dalle sue labbra e riuscii ad indicargli quel maledetto foglio bianco macchiato dalle mie lacrime sul tavolo. Lo lesse velocemente mentre mi abbracciava, e riuscii a percepire la sua rabbia dal modo in cui mi teneva. Per la prima volta non cacciai via qualcuno che volesse toccarmi, lo abbracciai più forte e piansi sulla sua spalla, lui mi tenne stretto e mormorava una ninna nanna, la stessa che tutte le mamme del giacimento ci cantano per farci addormentare. Anche mia madre la sapeva, era bello sentirla da lui, da un amico che voleva il mio bene.

Mi addormentai sulla sua spalla, prima di dormire riuscii a fare due cose: la prima fu dirgli di non lasciarmi da solo mai più e di aiutarmi, non capii la risposta ma si sedette a terra e appoggiò la testa alla sedia, quindi immaginai che stesse con me per quella giornata e forse per sempre. La seconda fu riuscire a sentire una frase che mi fece venire i brividi e sorridere incosciamente.

-La pagherà cara amico  mio-
 

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Capitolo 24
*** Prime volte. (Parte 1) ***


*Contenuti forti.


Capitolo ventiquattro.


 
Tenni per mano il mio migliore amico durante tutto il funerale. John era in piedi accanto ad Haymitch, aveva una mano sulla sua spalla e teneva lo sguardo lontano mentre il suo migliore amico guardava la lapide della madre, con occhi vuoti ma pieni di lacrime.


Alus teneva lo sguardo basso, sentivo il suo respiro pesante nel mio orecchio, io tremavo leggermente. Erano passati mesi e mesi da quando eravamo spensierati e senza brutti ricordi, e in quei mesi ci eravamo affezionati gli uni agli altri. Page era riuscita ad uscire di casa con Mike e a stare con me al prato, tutti stavamo tornando alla normalità, volendoci bene a vicende, perfino Alus e John erano diventati amici. C’erano giorni in cui Haymitch si univa a noi e tutto sembrava tornato come prima ed era bellissimo. Ma quando capitava il giorno sbagliato il peso di quello che era successo si aggravava sulle nostre spalle.

Feci scivolare una lacrima lungo il mio viso mantenendolo alto verso il mio ragazzo e il mio amico. Li vidi per gli uomini che erano, due forze che non potevano essere represse, uomini dall’animo libero e dalla vita in schiavitù. Riuscivo a percepire la rabbia di John da lontano, sapevo di doverlo portare via appena entrambi avremmo buttato la terra sopra la cassa della madre di Haymitch. Ci mettemmo in fila quando il sindaco finii di parlare, raccogliemmo il terreno polveroso e tutte le persone più intime per Hay si avvicinarono alla fossa.

Il primo fu il mio amico lasciò andare la terra e si mise al posto del sindaco osservando quel pezzo di legno freddo con una rabbia e una tristezza impossibili da non percepire. Davanti a me a Page scappò un singhiozzo e  quando fece il rituale corse ad abbracciare Haymitch stringendolo a se come avrebbe fatto May se solo fosse stata qui. Mi asciugai le lacrime e lasciai andare la terra andai dall’uomo distrutto e lo bacia sulla guancia e poi corsi  verso la recensione, dove sapevo di trovare John pieno di rabbia e di strane idee in testa.

Corsi attraverso il distretto, mia madre dalla porta della farmacia mi aspettava per consolarmi, mi chiamò quando gli passai davanti, ignorandola continuai ad andare sempre più veloce, anche con i polmoni che bruciavano. Dovevo raggiungerlo. Sentivo che aveva bisogno di me.

Quando lo raggiunsi era seduto a terra, il viso affondato fra le ginocchia e col corpo tremante, mi sedetti accanto a lui e appoggiai la mia mano sulla sua schiena, lui si tirò su di scatto e vidi il suo viso olivastro ricoperto da solchi di argentee lacrime, gli occhi grigi sembravano due stelle in un cielo in fiamme. Spostai la mano sulla sua guancia calda e umida e continui a guardarlo, con le labbra che mi tremavano e si sforzavano di sorridergli. Senza risultato ovviamente; lasciò che il suo viso si appoggiasse a me e chiuse gli occhi tirando per poi tirare su con il naso, avvicinai le mie labbra alla sua fronte e gliela baciai lentamente.

Rimanemmo così per un po’, le mie labbra sulla sua fronte e lui appoggiato alla mia mano come se fosse l’unica cosa sicura di questo mondo, l’unica cosa certa.

Quando riaprii pian piano gli occhi fece un debole sorriso, lo ricambiai e quando aprii bocca seppi esattamente cosa stava per chiedermi.

-Andiamo nel bosco?-  e io senza esitazioni risposi di si, lo baciai teneramente sulle labbra e ci alzammo insieme e per mano corremmo nel bosco, nel nostro piccolo segreto.

Quando entrammo era tutto come qualche mese fa, quando avevamo quasi… Mi sentii arrossire e abbassai lo sguardo, lasciai che il mio caschetto mi coprisse di poco il volto, quando alzai lo sguardo vidi un mezzo sorriso nel viso arruffato di lacrime del mio ragazzo, pensava anche lui a quello evidentemente.

-Non ci sei più tornato?- sussurrai come se ci potessero sentire, lui annuii ed entrò, accese velocemente il fuoco e si sedette sulla coperta osservando le piccole fiamme crescere e aumentare.

-No, non avevo il coraggio- ammise voltandosi verso di me, mi avvicinai piano e lasciai che la mia gonna si alzasse mentre mi sedetti accanto a lui e guardai il fuoco lasciando che mi scaldasse il viso, chiusi per un attimo gli occhi e sospirai.

-Ne hai parlato con qualcuno?- chiesi mormorando voltandomi verso di lui, scosse la testa continuando a fissare il fuoco con occhi tristi, si voltò verso di me e fece un mezzo sorriso –Stavo pensando a come potremmo andarcene da un momento ad un altro e che i momenti migliori non durano mai- disse tutto d’un fiato e poi chiuse gli occhi –Ci sono così poche cose per essere felici in giorni come questi-

Mi avvicinai a lui, per appoggiargli una mano sulla spalla –Però ci sono- sussurrai  con voce sommersa dalle emozioni; mi passarono davanti agli occhi diverse cose, il sorriso di mio fratello, i miei genitori addormentati sul letto insieme, i disegni di Alus e il modo in cui li faceva, i pomeriggi con gli amici e poi come ultima cosa ma molto più nitide delle altre c’era John e tutto quello che facevamo insieme e i suoi gesti quotidiani. Sorrisi senza rendermene conto.
-Che c’è?- chiese il mio ragazzo guardandomi curioso –Ho visto tutte le cose felici che ho nella mia vita- risposi guardandolo dritto negli occhi e poi osservandogli le labbra continuai –Dovresti farlo anche tu- mormorai, mi prese il mento con la mano e fece in modo che ci guardassimo negli occhi –Lo faccio ogni volta che ti vedo Anse- disse con una serietà che in lui avevo visto poche volte.

Le farfalle nello stomaco iniziarono a volare guardando quel grigio immenso e quei capelli che aveva sciolto e che gli ricadevano intorno al viso come una criniera, mi morsi un labbro e feci per baciarlo ma lui mi fermò –Ti amo- mi disse, sorrisi e non feci in tempo a rispondergli che mi baciò.
Era la stessa intensità dell’ultima volta che eravamo stati qui, ma stavolta era diverso, ero sicura, lo amavo e lo volevo, quando iniziò a toccare il mio corpo con le sue enormi mani callose non mi tirai indietro, lo aiutai a togliermi gli indumenti di troppo accarezzando il suo corpo. Quando arrivò al reggiseno si fermò e mi guardò negli occhi, entrambi eravamo quasi del tutto spogliati, ci mancava solo l’intimo per essere nudi. Quando notai il suo  viso notai che mi stava chiedendo il permesso, respirando affannosamente annui e gli sorrisi –Ti amo anche- dissi come risposta  riportandogli la mano sul gancetto del penultimo indumento che mi era rimasto addosso.

Ci baciammo nuovamente e quando lui fece per togliermi l’ultimo strato di biancheria non lo scansia, al contrario mi avvicinai ancor di più al suo corpo quasi saltandogli addosso. Con un mugolio lui mi spogliò e successo quello che doveva succedere.

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Capitolo 25
*** Prime volte (Parte 2) ***


Capitolo venticinque.
John.
 
Lasciai che il mio sguardo si fermasse sulla ragazza sdraiata accanto a me, guardava quello che una volta era un fuoco e si torturava una ciocca di capelli, sul suo viso un sorriso appariva e scompariva, una strana luce ardeva nei suoi occhi e la luce del tramonto la rendeva più bella che mai. Mi venne voglia di baciarla e far capitare nuovamente ciò che era appena successo.

Sorrisi e scossi la testa, Anse accanto a me mi guardò, incuriosita. Fece per dire qualcosa ma alzai un dito per dirle di tacere e la baciai teneramente chiudendo gli occhi, assaporando quel momento e le sue labbra che mai mi erano sembrate più belle, morbide e buone.

-Ti amo- sussurrai ad un millimetro dalle sue labbra, percepii il suo sorriso senza vederlo feci per baciarla di nuovo ma mi fermò, aprii gli occhi e la guardai bene in faccia. I capelli corti le incorniciavano il viso, gli occhi azzurri erano scompari e la sua pupilla era enorme e dilatata e la bocca leggermente aperta. Mi stava studiando. L’amavo da impazzire in quel momento e capii che non l’avrei amata fino al mio ultimo respiro.

-Non era la tua prima volta- constatò allontanandosi da me e guardandomi dritto negli occhi, io abbassai lo sguardo e annui, era successo diverse volte, con altre ragazze; non ne andavo fiero ma a volte si cede alla carne nonostante il cuore non o voglia.

-No e lo sai bene- feci per baciarla ma lei si scansò e mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mi tornò in mente come me li aveva tirati poco prima, feci un respiro profondo e tornai serio, guardandola dritta in faccia, cercando di capire come si sentisse, ma era stranamente distratta, sapevo che era la sua prima volta e avevo cercato di essere il più delicato possibile. Mi balenò in mente di averle fatto male o che non le fosse piaciuto. Forse avevo sbagliato qualcosa. Lei come leggendomi nella mente fece un sorrisetto e scosse la testa.

-È stato bellissimo- mi rassicurò, si passò una mano fra i capelli e tornò a guardarmi riaprendo bocca –Non sono solo una delle tante vero?- chiese con un filo di voce, quella frase mi piombò addosso come uno schiaffo, sentivo ancora il suo eco mentre la fissavo con gli occhi fuori dalle orbite.

-Ma sei matta?- le chiesi e sorrisi, la mia Anse, la mia ragazza. L’amore della mia vita si considerava una delle tante. Lasciai che una risata fuoriuscisse dalla mia bocca e poi la baciai, sentendo ancora il suo corpo nudo contro il mio. Non volevo fare di nuovo l’amore. Volevo solo baciarla.

-Ti amo- ripetei e la baciai di nuovo, lei ricambiò sorridendo.

-Ti amo anche io- rispose e sorrise.

Rimanemmo lì, finché il sole non tramontò e l’ultimo fuoco venne spento all’interno del nostro camino. La riaccompagnai a casa suo padre mi fulminò con lo sguardo. Ma non mi importava. Quella giornata era sicuramente la peggiore e la migliore della mia vita. Con questa felicità mi spinsi verso la casa del mio migliore amico, adesso potevo aiutarlo.
 

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Capitolo 26
*** Proposte. ***


Capitolo ventisei.


Passarono giorni, mesi e anni, fino ad arrivare all’alba dei miei vent’anni con la loro leggerezza e pesantezza, con i loro dubbi e le loro certezze. 

La vita continuava per tutti, mietitura dopo mietitura, perdite dopo perdite. Anche io persi mio padre quell’anno, tutti gli amici vecchi e nuovi mi stettero vicini, io e mia madre gestivamo la farmacia e mio fratello sembrava essere portato per portare avanti il lavoro della mia famiglia.

Il giorno stesso del mio compleanno tutti erano euforici a casa mia, la mia amica Page sembrava esplodere dalla gioia, erano anni che non era così radiosa, si sarebbe sposata dopo una settimana e avrebbe cominciato la sua vita da benestante con il suo grande amore.  Alus sembrava invecchiato di dieci anni in poco tempo, il lavoro lo sfiancava ma trovava sempre il tempo di dipingere i fiori e i tramonti; poi c’era John.

Lui lavorava in miniera, e quando poteva mi portava nei boschi e li facevamo l’amore e parlavamo dei nostri grandi sogni, sempre più distanti e sempre più irreali, era sempre bello, sempre forte, anche se con le spalle più curve e con l carbone che gli rimaneva incastrato sotto le unghie.

Mi vestii di tutto punto quel giorno, era come se sapessi che era una giornata speciale, la mattina lavorai e il pomeriggio andai con l’amore della mia vita nei boschi, il sole emanava un caldo quasi estivo anche se ormai era quasi tempo che le foglie si staccassero dagli alberi. 

Mi portò in riva al lago e chiacchierammo a lungo, come non avevamo mai fatto prima, la stanchezza gli incorniciava il volto ma il sorriso, il suo sorriso, era più forte di qualsiasi cosa e lo rendeva raggiante quasi fosse lui il sole; ad un certo punto mi disse di dover andare un attimo nel bosco e mi lasciò sola e la mia mente iniziò a vagare, fra sogni e certezze, da un lato era ancora una bambina che immaginava la vita perfetta, dall’altra era adulta e sapevo quali fossero i miei doveri e che certe cose potevo lasciarle solo alla mia fantasia.

Tornò dopo un bel po’, quando lo vidi tornare sembrava nervoso, quel particolare mi fece sorridere. Quando su vicino a me mi schioccò un bacio sulla fronte che mi fece scappare una risatina e poi si inginocchiò dinanzi a me. Lo fissai confusa con il cuore a mille.
-Anse- iniziò con voce tremante –Mi vuoi sposare?- chiese infine. Mi tappai la bocca con le mani e quasi urlai dalla gioia, gli saltai al collo e lo bacio tante volte, per tanto tempo, che neanche mi resi conto che tutte le persone che mi volevano bene erano arrivate lì con me, per condividere quel momento così gioioso.
-Si, si si e ancora si!- esclamai squittendo e baciandolo ancora. In quel momento partì un applauso e vari versi di incoraggiamento.

Il regalo più bello fu questo.

L’amore eterno fra me e lui.

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Capitolo 27
*** La mia bambina ***


Capitolo ventisette.
 
-Spingi! Spingi!- sentii urlare da voci ormai indistinte, tenevo gli occhi chiusi come se potessero alleggerire questo strazio. Piangevo, urlavo e il dolore era inimmaginabile.
 
-Ci siamo quasi- aprii gli occhi e cercai con lo sguardo John, lui era accanto a me, bianco come un cencio gli diedi la mano e la strinsi forte così tanto da farlo piegare dal dolore, feci un ultimo urlo e il dolore cessò.
 
Mi accasciai sul letto, e sentii il cuore rallentare, ricominciai a respirare in maniera normale e mi venne da piangere e lo feci piansi tutto quello che avevo in corpo, per il dolore appena subito per la felicità e anche per la tristezza. Sentii piangere e le lacrime smisero come d’incanto, m’importava solo del mio bambino, dovevo vederlo, odorarlo, sentirlo vicino a me. Dove avrei voluto che stesse per sempre.
 
-È sano?- chiesi quasi gridando, le infermiere sorrisero e mi passarono un piccolo fagotto, con qualche ciuffetto scuro sulla testa ‘John’ pensai.
 
-È una femmina- mi sussurrarono,  io la iniziai a cullare e mi persi nei suoi occhi grigi, uguali a quelli di suo padre, tornai alla realtà quando mi sentii chiamare più volte. Mi voltai verso tutti con aria confusa e un sorriso sulle labbra e una domanda inespressa negli occhi.
 
-Signora Everdeen, come si chiama sua figlia?- mi chiesero sorridendo.
 
-Katniss. Katniss Everdeen- dissi con voce fiera.
 
La mia bambina! La mia bellissima bambina era nata, sana bella e forte. Non potevo immaginare niente di più perfetto. Al mondo non c’era bambina più bella, ne ero sicura. Mi ricordò un po’ la mia amica May, la sua bellezza era coinvolgente. Quegli occhi grigi luminosi. Quando la presero per portarla via mi vennero le lacrime. La mia bambina.
 
John la prese in braccio per la prima volta e si commosse, l’avevo visto vulnerabile, ma mai così.
 
-Tu, Katniss sei destinata a grande cose, te lo dice tuo padre- gli sussurrò con un filo di voce come a cullarla verso il mondo dei sogni. Sorrisi.
 
Quando la portarono via, John si avvicinò a me e mi baciò, nonostante io fossi sudata e orrenda .
 
-Ti amo- dissi sottovoce, lui mi guardò con occhi pieni di amore e sorrise.
 
-Ti amo anche io- rispose quasi piangendo.
 
Guardammo portare via la nostra bambina e sospirai.
 
La mia bambina.

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Capitolo 28
*** Nulla ***


Capitolo ventotto.
 
L’urlo non uscii mai dalla mia bocca. Rimase in gola strozzandomi.
 
Quella mattina era partito tutto regolarmente, avevo riscaldato il pane raffermo e l’avevo dato alle bambine, che erano pronte per la scuola. Le mie due creature indifese in questo mondo così agghiacciante.
 
John era a confabulare con il nostro vicino il signor Hawthorne, sapevo che giocavano col fuoco, ma mio marito era disposto a fare di tutto pur di salvarci dalla fame e dai giochi.
 
Katniss aveva appena otto anni, ma già sapeva cosa fossero, quando ne parlavamo vedevo i suoi occhietti grigi già spaventati. Io le sorridevo e le stringevo la mano rassicurandola. Ma avevo paura anche io.
La piccola Primrose non capiva ancora e forse era meglio così.
 
Si affacciarono alla finestra i figli del vicino. Gale e con in braccio Rory. Gale di anni ne aveva 10 ed era il migliore amico di Catnip. Li salutai mandando loro un bacio. Mi ricordo che ridacchiarono, uscirono dal piano di sopra John e Joy. Mi baciò e arruffo i capelli alle bimbe.
 
-Ci vediamo a cena- mi disse con il suo solito sorriso, il suo bellissimo sorriso. Quella era l’ultima immagine che ebbi di lui.
 
Accompagnai i bambini a scuola, salutandoli con un bacio per poi andare  a lavoro in farmacia, mio fratello era già operativo. Lo salutai e mi misi il camicie. Non entrò nessuno per ore.
 
Chiacchierammo e pulimmo. Dall’altra parte della strada c’era Alus e sua moglie. La panetteria andava avanti, mi affacciamo alla porta e lo salutai. Lui ricambiò con grande forza. Feci per aprire bocca quando la sirena iniziò a suonare. Sulle mie labbra si palesò il suo nome. John.
 
Guardai tutti correre verso la miniera, mio fratello mi urlava. Ma non lo sentivo. Non sentivo niente. Avevo paura, talmente tanto da essere paralizzata, ogni mio muscolo era contratto e sentivo già le lacrime pungermi gli occhi. Quando Mike mi scosse per le spalle mi svegliai da quella sorta di trans che stavo vivendo. Pensai alle mie bambine, sole, in mezzo a tutti che cercavano me e il loro padre.
 
 -Anse! Anse corri- mi urlò Alus arrivato davanti a me. Mi trascinò fuori dal negozio e poi iniziai a correre.
 
Non mi ricordo come e quando successe, ma corsi fino a lasciare indietro il mio amico, fino a che i polmoni non mi fecero male.  Superai tutti, fra la nebbia delle mie lacrime mi feci avanti fino ad arrivare in prima fila in quel disastro fatto di fumo e fuoco, di urla e di singhiozzi. Cercai le mie figlie.
 
-Katniss! Primrose!- urlai spaventata, non riuscivo a scorgerle. E se fossero state travolte dalla folla? Non potevo immaginare di perdere tutti in un solo giorno.
 
Sentii qualcuno prendermi per mano.  Abbassai lo sguardo e vidi i miei occhi preferiti. Grigi e azzurri e iniziai a piangere e a baciarle. Erano vive. Stavano bene! Le abbracciai.
 
-Andrà tutto bene, ora aspettiamo papà okay?- dissi tremando e accarezzando loro le guancie. Loro annuirono spaventate.
 
I primi minatori iniziarono ad uscire e a correre dalle loro famiglie. Dalle mogli, fidanzate e dai figli.
Scorsi un sacco di visi e dentro di me pensai ‘Sarà nel prossimo carico, ne sono sicura.’ E così per mezz’ora.
Iniziarono ad uscire le prime persone ferite  in fin di vita. C’era chi era morto già mentre tornava alla luce.
 
C’era chi sarebbe morto a breve. Ma John no. Lui stava uscendo. Doveva uscire.
 
‘Sarà il prossimo’ continuai a pensare.
 
Poi la sirena cessò, non sarebbe uscito più nessuno. E lì provai ad urlare. Ma non uscii nulla.
 
Caddi in ginocchio, mentre tutto mi abbandonava, mentre mia figlia di otto anni mi scuoteva. Ma  non sentivo nulla.
 
Il nulla mi aveva abbracciata.

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Capitolo 29
*** Mietitura. ***


Capitolo ventinove.
 
 
Quando sentii il suo nome quasi svenni.
 
La mia bambina, la sua prima mietitura. Doveva andare tutto bene e invece no. L’avevano estratta.
 
Ripeterono il suo nome in quel gelido silenzio che mi dilaniava le orecchie. Primrose Everdeen. La mia paperella dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri come i miei. Non osai immaginare come si sentisse in quel momento, la cercai nella folla quando poi vidi del movimento la notai. Con il bavero della camicia che usciva dalla gonna, la testa china e le due trecce che penzolavano al lento movimento dei suoi passi. Sentivo il ticchettio delle sue scarpe che mi bucava il cervello. Ogni passo era uno strazio, feci per avvinarmi ma qualcuno mi tenne. Mi voltai e riconobbi Alus, era invecchiato  tantissimo, come me dopotutto, i suoi occhi erano circondati da occhiaie, mi si riempirono gli occhi di lacrime e mi tremò il labbro.
 
La mia bellissima bambina.
 
Fu allora che riconobbi un’altra voce. La voce della figlia che avevo sempre odiato per via dei suoi occhi e dei suoi capelli troppo simili al padre. Katniss. Mi tappai la bocca con le mani.
 
-Mi offro volontaria!- urlò –Mi offro volontaria come tributo- disse, sentii Prim urlare e iniziai a correre, guardai Catnip voltarsi verso di noi, confusa e spaventata, volli abbracciarla come non avevo mai fatto. Chiederle scusa del mio non essere stata una brava madre, dell’odio nei suoi confronti a sua insaputa. Piansi mentre Prim si abbracciò a me. La baciai sulla testa e tornammo indietro. Io accanto ad Alus che mi guardava con pietà. Stavo per perdere anche una figlia.
 
Le fecero dire il suo nome e lei sembrò quasi senza fiato, senza vita. Versai altre lacrime come del resto lo fece la sua sorellina.
 
-Peeta Mellark- urlò Effie Trinket. Toccò a me voltarmi verso di lui questa volta, gli presi la mano e lui la strinse. Il suo unico figlio stava andando a morire. Ci guardammo dritti negli occhi e piangemmo silenziosamente. Dicendogli un addio tutto nostro.
 
Arrivammo al municipio di corsa. Vidi Gale dietro, sembrava sconvolto quanto noi. Entrammo prima io e Prim, la quale le disse di vincere e di tornare a casa da lei, da noi. Riconobbi il sentimento che mi stava abbracciando, era il nulla che mi aveva già invaso alla morte di John. Anche Katnisse se ne accorse.
 
-Non puoi abbandonarla mi gridò- e la guardai dritta negli occhi, mi fece male, avrebbe potuto essere l’ultima volta che vedevo quel bellissimo colore. Annui feci per parlare ma ci trascinarono via. Lei rimase impassibile mentre una singola lacrime le scivolò lungo la guancia.

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Capitolo 30
*** L'edizione della Memoria (Pt 1) ***


Capitolo trenta.
 
 
Era già passato un anno dalla vittoria di Katniss agli Hunger Games. E quest’anno ci sarebbe stata l’edizione della memoria. I flashback dell’edizione in cui partecipò Hamitch mi assalirono la notte prima che ci annunciassero come si sarebbero svolti i giochi quell’anno. Ripensai a May, alla mia giovinezza e all’amore della mia vita strappatomi via dal Presidente Snow e dalla capitale.
 
Quando mi svegliai e scesi per fare colazione alle mie figlie sentii le urla di Katniss, ripeteva il nome di Peeta, avevo sentito la conversazione con il presidente, come faceva a non accorgersi che la mia bambina era innamorata. Quasi sorrisi a quel pensiero, Katniss e il suo primo amore, il suo primo bacio. All’ennesimo urlo entrai nella stanza e andai ad abbracciarla.
 
-Non è reale- sussurrai, le sue pupille erano dilatate e sembrava una bambina piccola, la strinsi a me forte e la cullai mentre piangeva –Non è reale- constatò tra un singhiozzo e un altro. La cullai finché non si riaddormentò. Era il primo gesto da madre che avevo nei suoi confronti da tempo. Un senso di colpa mi assalii, scesi in cucina e piansi lacrime amare.
 
Al pomeriggio eravamo tutti riuniti in salotto, Katniss lisciava i capelli alla sorella mentre si sorridevano con una strana intesa.
 
-Che avete voi?- chiesi, loro risero sotto i baffi e scossero la testa, mi sfuggi un sorriso, sembravamo quasi una famiglia normale. Ero così belle entrambe, avrei voluto che John  fosse qui per vedere che donne stavano diventando le nostre figlie.
 
Sentimmo il rumore di Capitol e il riso spari dai nostri volti. La tensione si poteva tagliare con un filo. Ascoltammo tutti la presentazione e la spiegazione di cos’era l’edizione della memoria. Strinsi le mani a pugno infilandomi le unghie nei palmi, mi feci male ma non smisi fino a quando non annunciarono che i tributi di quest’anno sarebbero stati presi tra i vincitori ancora in vita.
 
Silenzio. In casa c’era solo silenzio, era rumoroso per via dei pensieri che andavano a mille delle mie bimbe. Prim fece per afferrare Catnip, ma lei scappò via. Afferrai Prim e lasciai andare mia figlia. Aveva bisogno di stare da sola, lo sapevo, lo sentivo.
 
-Non è giusto- mormorò Prim. Annui e mi asciugai una lacrime.
 
Katniss Everdeen, mia figlia, stava per tornare nell’arena

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Capitolo 31
*** L'edizione della Memoria (Pt 29 ***


Capitolo trentuno.
 
 
Gale ci venne a prendere quasi subito, era insieme a donne e bambini, corremmo verso la recinzione, ma molti rigirarono. Lo sentimmo urlare di non farlo. Di seguirci nei boschi che saremmo stati al sicuro. Solo pochi gli diedero ascolto. Tra di loro c’era Alus, la famiglia di Page e mio fratello. Andai da loro e li pregai di non andare da quella parte, di seguirmi verso la selva. Ci saremmo salvati. Ma era tutto inutile, avevano fatto la loro scelta. La foresta faceva paura a molti, soprattutto di notte.
 
Noi scappammo, ma prima che fossimo abbastanza lontane sentimmo le urla e l’esplosione delle bombe incendiarie. Gridai, come altri insieme a me. La mia famiglia. I miei amici. Erano tutti morti. Mi accasciai a terra e piansi mentre l’odore di carne bruciata mi pizzicava il naso e lacrimare gli occhi. Prim mi strattonò e mi ripresi.
 
Continuammo a camminare finché delle luci non  ci abbaiarono. Capitol pensai subito. Abbracciai Prim e la tenni stretta, se dovevamo morire, era meglio farlo insieme.
 
-Identificatevi- urlò una voce femminile, Gale si fece avanti con incertezza.
 
-Gale Hawthorne, distretto 12, o almeno quello che ne rimane. Capitol ci ha bombardato- disse tutto d’un fiato. Lo vidi tremare e anche per l’uomo che stava diventando. Pensai al suo amore per Katniss non corrisposto. Mi fece tenerezza. Così grande e grosso innamorato di qualcuno che non  poteva avere.
 
-Presidente Alma Coin. Distretto 13, siete i benvenuti- urlò l’altra voce. Tutti ci impietrimmo. Il 13 era stato abbattuto, non esisteva più, ma quella donna non sembrava mentire. Mi feci avanti con le mani in alto. I fari mi accecavano e non riuscivo a vedere ma mi fidavo. Dovevo fidarmi dietro di noi non c’era più nulla.
 
-Anse Preter- dissi ad alta voce –Venite avanti, abbiamo dei bambini e degli anziani, se volete aiutarci iniziate da ora- urlai, e delle persone corsero da noi. Erano tutti vestiti di grigio e andarono subito a chiedere chi stava male e a prendere i bambini.
 
Ci incamminammo con loro verso il distretto 13.
 
Erano passate delle ore, ci avevano assegnato dei dormitori, ma sia io che Prim non riuscivamo a dormire. C’era qualcosa che aleggiava nella stanza. Ma nessuna delle due aveva il coraggio di dirla, lo feci io per prima, per spezzare quel lungo silenzio.
 
-È  viva- sentenziai, Prim annui, sembrava esserne convinta.
 
Qualcuno venne a chiamarci qualche ora dopo, mentre cercavamo di prendere sonno. Era quasi l’alba, a detta dell’orologio, visto che eravamo sotto terra non potevamo saperlo, se non basandoci su quello.
Ci dissero di andare all’ospedale. Corremmo come non avevamo mai fatto prima.
 
Una signora dai capelli neri e la pelle olivastra ci disse che Katniss stava bene ma che era in condizione psichiche abbastanza preoccupanti, potevamo vederla però, forse le avrebbe fatto bene.
 
-Catnip- mormorai accarezzandole i capelli- lei mi guardò dritta negli occhi ma era come se non mi vedesse, poi fissò Prim, lei le sorrise tra le lacrime. Era un pianto misto tra gioia e dolore.
 
-Come stai?- mormorò la mia figlia minore, Katniss le afferrò la mano e con gli occhi pieni di lacrime disse:
 
-Hanno preso Peeta- poi scoppiò in lacrime.

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Capitolo 32
*** Bombardamenti. ***


Capitolo trentadue.
 
 
Io e Prim eravamo in camera a parlare, mi raccontava della sua cotta per Rory e io le intrecciavo i capelli, sorridevo mentre sentivo il sorriso sul suo volto. L’abbracciai e lei ridacchiò come una bambina, aveva quattordici anni ma ai miei occhi era ancora una bimba. Stava crescendo così in fretta.
 
Andammo in sala mensa, cercando di racimolare qualcosa da mangiare per Ranuncolo, il nostro gatto fortunato, sopravvissuto ai bombardamenti e alla fame del dodici. Appena arrivammo vedemmo Peeta in televisione, mi tappai la bocca con la mano, era dimagrito tantissimo e le sue occhiaie toccavano terra.
 
-Mamma, che gli stanno facendo?- mormorò Prim, sembrava terrorizzata e pensierosa –Se Katniss lo vede è la fine- sussurrò e poi piantò i suoi occhi nei miei. L’azzurro nell’azzurro. Annui e mi lasciai uscire un sospiro. La mia Catnip così forte e fragile allo stesso tempo suo padre le aveva detto fin dalla nascita che era destinata a grandi cos. Se solo l’avesse vista adesso scacciai quei pensieri e feci per dire qualcosa quando il mio orecchio si appigliò alle parole di Peeta.
 
-Stanno arrivando Katniss- gridò il ragazzo del pane prima di venire picchiato, Prim lanciò un urlo alla vista del sangue che usciva dalla bocca di Peeta dopo il primo calcio in faccia. Il silenzio regnava sovrano.
 
-Di che parla?- chiese mia figlia, io scossi la testa poi suonò la sirena, ci guardammo e iniziammo a correre, ma purtroppo in corridoio non eravamo le sole ad andare verso il rifugio come ci avevano insegnato. La tenni per mano tutto il tempo ma lei mi lasciò andare.  Urlai il suo nome in mezzo alla folla che mi trascinava sempre più lontano da Prim. Starà andando da Katniss pensai e mi convinsi che era così. Non aveva nessun altro motivo.
 
Aspettai sulla porta, mentre tutti gridavano ed entravano nel rifugio spaventate. Arrivò Katniss, ma con lei non c’era la mia bambina.
 
-Dov’è?- gridammo contemporaneamente ma lei scosse la testa, feci la stessa cosa, pensai ad una cosa e Catnip diede voce ai miei pensieri –Il gatto- urlò per poi scappare fuori.
 
Andai nel dormitorio e iniziai ad urlare il suo nome. Nessuna risposta. Aveva ragione era tornata a prendere quello stupido gatto. Chiusi un attimo gli occhi mentre si riempivano di lacrime. Non potevo perderle entrambe. Tornai alla porta mentre iniziavano a chiuderla.
-Fermi- gridai, ma nessuno mi ascoltava. Sentii la voce di Katniss per le scale che urlava la stessa cosa.
 
Li vidi entrare e corsi ad abbracciare Prim mentre le lacrime mi rigavano il volto.
 
-Non potevo abbandonarlo!- gridò –Non di nuovo- finii stringendo al petto quella palla di pelo. Erano entrambe bagnate come anatroccoli. Le strinsi a me e andammo a sederci al nostro posto.
 
Iniziarono a cadere le bombe. Tutti urlavano e tremavano. Katniss sembrava scossa. Peeta, i bombardamenti. Era stato troppo veloce per la sua mente provata, le strinsi la mano, lei si voltò verso di me e accennò ad un sorriso.
 
-Prim parla di qualcosa- iniziò –di qualsiasi cosa- continuò spaventata guardandosi attorno.
 
-Diventerò medico- mormorò imbarazzata, sorrisi e così fece Katniss.
 
La notte passò insonne per tutti.
 
Sentivamo la paura addosso come non ci stava da tempo.

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Capitolo 33
*** Prim. ***


Capitolo trentatré
 
 
Erano passate giorni da quando sia Katniss che Prim erano partite per la capitale, la prima a partire fu la mia primogenita, a seguire la Coin mandò la mia altra bambina ad aiutare i malati a Capitol City. Ero fiera di entrambe ma ero anche molto spaventata, non volevo sopravvivere alle mie figlie. Non ci sarei riuscita. Sarei impazzita. Sarei stata persa.
 
Qualcuno mi venne a chiamare, Johanna, sembrava febbricitante.
 
-Dicono che sono tornati, non so niente. Venga- mi esortò, la seguii lungo quei corridoio angusti e soffocanti. Mille pensieri negativi mi entrarono in testa, le avevo perse, lo sapevo, me lo sentivo. Non era andata tutto bene. Iniziai a piangere e a lasciarmi andare, sprofondare in quel nulla che conoscevo fin troppo bene, sentivo le sue avide mani abbracciarmi e trascinarmi verso il basso, mi sentii sopraffare e mi fermai.
 
-Non posso- mormorai, tremavo Johanna si girò verso di me e mi scosse, riuscivo a percepire la sua tristezza e la sua paura. L’abbracciai forte e lei ricambiò, da qualche parte dietro una voce gridava ‘FINNICK’. Continuammo questa volta correndo verso l’ospedale.
 
Arrivammo e una infermiera che non poteva avere più dell’età di Prim ci fermò subito.
 
-Nome e cognome e chi cercate- chiese, aveva gli occhi  neri e contornati da occhiaie erano stanchi e tristi, aveva la faccia chi aveva appena visto la morte e non poteva fare niente per fermarla. Feci per aprire bocca ma la ragazza di fianco a me mi anticipò.
-Johanna Mason, cerco Gale Hawthorne.- mormorò incerta, la signorina dai corti capelli ricci e rossi le nascosero per un istante il viso mentre controllava la cartella che teneva fra le piccole mani; sembrò titubante e quasi impaurita di dire quello che stava per dire. Guardai di nascosto Johanna e sembrava sul punto di esplodere, aveva il respiro affannoso e la faccia paonazza, gli occhi nocciola erano pieni di lacrime che rischiavano di fuoriuscire se non avesse parlato subito.
 
-Mi segue per favore- disse quasi con un sospirò la giovane infermiera, lei mi strinse la mano e la seguii.
Mi ritrovai sola, in mezzo a gente che urlava e che piangeva. Ero come una bambina che si era allontanata troppo dai genitori,  abbandonata e impaurita mi feci strada a tentoni come nell’oscurità.
 
-Mamma- gridò qualcuno, mi voltai mentre Katniss mi si attaccò al collo in lacrime, la strinsi a me affondando il naso nei suoi capelli, sapevano di bosco; l’odore della mia bambina, la cosa più bella di questo mondo, rimanemmo così per un po’, con Catnip che singhiozzava e io che la stringevo forte.
 
-Amore mio, che è successo?- ebbi il coraggio di chiederle, lei si staccò e piantò i suoi occhi grigi nei miei azzurri, con il labbro tremante e il moccio che le usciva dal naso sembrava sul punto di sgretolarsi fra le mie mani tanto pareva fragile
 
-Non l’ho protetta mamma, non ci sono riuscita; era davanti a me e poi.. e poi… -momorò, capii di chi parlava. Prim. Prim era morta, la mia paperella non c’era più. Iniziai a piangere, nel vedermi così Katniss scoppiò in una crisi isterica, la stinsi a me.
 
-Nessuno poteva, nessuno. Va tutto bene Catnip- le dissi all’orecchio. Affondai il viso nei suoi capelli e insieme scivolammo a terra, piangemmo a lungo. Sentimmo le grida di qualcuno ma non ci importò.
 
Prim era morta, nessuno poteva riportarmela.
 
Passarono le settimane, ci tenevamo occupate per distrarci e non pensare ma non ci riusciva. Era difficile da non notare quel vuoto che aveva lasciato nelle nostre vite. Katniss partii per il dodici, la salutai promettendole di scriverle. Io andai dove c’era più bisogno di una guaritrice, nel quattro con Annie e la sua pancia che cresceva piano piano con noi venne pure Johanna. Seppi che Peeta avrebbe seguito Katniss. Sorrisi a quella notizia.
 
L’amore trionfava sempre su tutto.

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Capitolo 34
*** Buonanotte, Mrs Everdeen. ***


Capitolo trentaquattro.
 
 
Nel letto della mia casa, mi sentivo stanca e esasperata, avevo sentito il dottore, il male mi aveva invaso il copro: non c’era più niente da fare, Katniss era venuta da me, eravamo entrambe invecchiate tantissimo, la mia bellezza era svanita come un fiore appassito. La mia bambina era invece bellissima, con i capelli che cominciavano ad ingrigirsi, gli occhi grigi circondati da delle rughe d’espressione che la rendevano vera.
 
-Catnip- mormorai, lei si sedette accanto a me e mi prese la mano sorridendo amaramente, sapevo che provava emozioni contrastanti dentro di lei, non ero mai stata una buona madre, forse nemmeno mi vedeva in quel modo. Una lacrime mi scese dagli occhi per cadere sulla camicia da notte.
 
-Mamma, sono qui- rispose lei, gli occhi lucidi sembravano ardere, era bella come John, in quei giorni ci pensavo sempre di più, erano anni che lo vedevo solo in foto, ma riuscivo a ricordare perfettamente, ancora, il suo profumo.
 
-Scusami bimba- sussurrai, come se fosse un segreto, lei scosse la testa e una lacrima solitaria le scese sulla guancia olivastra, -Non sono mai stata una buona mamma per te- continuai, Katniss cominciò a singhiozzare, talmente tanto che tremava. Le strinsi la mano –Ma ti ho sempre bene voluto bene, così tanto da soffrire vedendo i tuoi occhi così simili a quelli di tuo padre- mormorai, ma prima che potessi continuare le lacrime si resero indomabili e Katniss mi si buttò al collo, stringendomi a sé.
 
Rimanemmo in silenzio piangendo per svariati minuti, sentendo i nostri coperti che si incastravano alla perfezione, respirai a pieni polmoni il suo profumo, di boschi e cenere, ma soprattutto di casa.
 
-Mamma- disse Katniss staccandosi da me  ma tenendo sempre le mie mani nelle sue, la guardai negli occhi e non mi fece più male, sorrideva, la mia bambina, come se avesse appena fatto qualcosa di proibito –ti voglio bene, te ne vorrò per sempre e non ti giudico. Scusami- mormorò per poi coprirsi il viso con le mani. Non ebbi il coraggio di replicare ma le sorrisi anche se lei non poteva vederlo.
 
Fu una giornata di lacrime e di sorrisi, arrivò e il tramonto e pensai al fratello di Alus, com’era morto mentre il giorno spariva e dava spazio alla notte. Avevamo lo stesso male, solo che mi aveva permesso di vivere una vita lunga e quasi sempre felice.
 
Feci un respiro profondo e guardai le persone intorno a me, Peeta, i miei nipoti, mia figlia e  quello che rimaneva dei miei amici. Sorrisi, era stata una bella vita, dopotutto, sospirai sorridendo alla mia bambina. Lei ricambiò e si aggrappò a suo marito.
 
Piano piano mi si chiusero gli occhi, sorridevo mentre tutto diventava nero, l’ultima cosa che vidi fu il tramonto di un rosa tenue  che dava spazio all’oscurità, tossii e poi mi abbandonai al buio.
 
Non mi svegliai più e l’ultima cosa che ebbi in testa prima di morire fu:
 
Era stata una bella vita.

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