Wingless Devil

di CreAttiva
(/viewuser.php?uid=498545)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Compleanno ***
Capitolo 2: *** In vita ***



Capitolo 1
*** Compleanno ***


2 - Un nuovo amico

Compleanno

Questa è un'opera di fantasia. Nomi,

personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi

sono frutto dell'immaginazione dell'autore

e non sono da considerarsi reali.

Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari,

organizzazioni o persone,

viventi o defunte, vere o immaginarie,

è del tutto casuale.



Un mare di lava bollente ribolle sotto i suoi piedi. Una coltre di nubi nere più spesse del carbone lo sovrasta. L’aria è pesante e putrida e il calore soffocante. Gli occhi lacrimano per il bruciore, la gola è riarsa, le labbra secche. I capelli canuti sono appiccicati al volto pallido e sudato. Le mani scarne sono aggrappate alla roccia ruvida che spicca dalla lava e infilza il cielo come una lancia. L’intero suo corpo è vincolato a quell’unica isola di salvezza.

Il vecchio si guarda attorno spaurito: dove si trova e come ci è arrivato? Un lieve rantolo esce dalla sua bocca e un tremore gli sconquassa le membra. La lava è troppo vicina. Se solo riuscisse a salire più in alto e a raggiungere la cima della roccia... il vecchio fa leva sui piedi nudi e ossuti, si arrampica con tenacia, facendo appello a tutte le sue forze. Le unghie si spezzano, le dita si scorticano, ma lui non si arrende. Ce l’ha quasi fatta, gli manca poco. Improvvisamente avverte l’appoggio dei piedi franare e il vecchio cade. In un ultimo, disperato e inutile tentativo si avvinghia con ostinazione alla roccia, ferendosi, sbucciandosi. Il tonfo del suo corpo non emette rumore. La pelle del vecchio brucia, si disgrega. Lui grida, ma non gli esce alcun suono. La lava entra in circolo e lo corrode da dentro. Il vecchio si scioglie fra atroci dolori; il tutto dura un solo istante.

Passano i minuti. Misteriosamente le ossa sono ancora lì, intatte. Lo scheletro rimane ammollo a lungo, affondando nel mare di fuoco, come un involucro vuoto. Poi, animato da una forza ignota, risale in superficie, senza un lamento. Si aggrappa alla roccia e vi risale senza fatica. Appoggia gli arti e il cranio su di essa e si ferma. Molto lentamente le ossa secernono piccole gocce gelatinose, che si mescolano l’una con l’altra formando un sottile strato di carne. Su quello ne sorge un altro e poi un altro ancora. La carne prende consistenza: si creano muscoli e pelle, nervi e peli.

Gli occhi vitrei riprendono coscienza e il vecchio si desta con un sussulto. Dove si trova e come ci è arrivato? Non riesce a ricordare ma è convinto di una cosa: deve raggiungere la cima di quella roccia.



Il demone guardava il vecchio con indifferenza: un uomo come altri, uno dei tanti dannati che popolavano quel luogo oscuro di morte. Si passò una mano fra i lucidi capelli corvini e chiuse le palpebre sugli occhi color miele. Dilatò i sensi. Le grida di dolore e di disperazione arrivarono alle sue orecchie a punta come un canto melodico e sul volto dai lineamenti dolci si disegnò un ghigno malefico di puro piacere. Assaporò ogni lamento con un’eccitazione quasi febbrile, si inumidì le labbra con la lingua. Un vociare concitato lo infastidì: un gruppo di demonietti rideva maligno in disparte, osservando le pene umane. Erano esseri inferiori, sottoposti dal tipico aspetto animalesco: il corpo era piccolo e tozzo, di colore violaceo, con muscoli magri e deboli; i piedi e le mani terminavano con tre lunghe dita aguzze; dalla schiena si spiegavano due ali da pipistrello e la viscida coda era a punta, come una freccia; la testa non era altro che un cranio ricoperto dalla membrana viola della pelle, da cui sporgevano gli occhi gialli, le orecchie acuminate e le terribili zanne.

Agahareth si allontanò con sdegno dal Pozzo, irritato dai loro acuti sghignazzamenti. Discese la rupe con agilità e si avviò verso la città. Sugli enormi torrioni i minotauri spinsero i torchi e le Porte dell’Inferno si aprirono. Il silenzio funereo della città lo accolse tenebroso. Agahareth si mosse silenzioso sul sentiero circondato dalle file di terreno, strisce aguzze di roccia che si aprivano tra le fiamme. Su di esse i prigionieri subivano le pene più disparate.

I superbi erano immersi nel fango fino al collo; sulle loro teste i demonietti ballavano prendendoli in giro, infilzandogli il capo con le unghie e strappandogli la pelle a morsi.

Gli invidiosi avevano gli occhi bendati; vi vedevano attraverso, ma con una particolarità: ovunque posassero lo sguardo c’era sempre qualcuno che aveva più di loro. Ovviamente era solo un’illusione; ma l’astio li portava a combattersi a vicenda. Sangue e carne erano sparpagliati ai loro piedi.

Gli iracondi, legati in fondo a una buca con delle pesanti catene, si dimenavano, scalciavano e strepitavano contro un’immagine fittizia del loro odiato nemico. Posseduti dalla rabbia ceca, si provocavano lesioni nel tentativo di raggiungerlo.

Gli accidiosi correvano senza sosta in una pista circolare, inseguiti dai demonietti che li forzavano a proseguire la marcia. Qualcuno cadeva, veniva calpestato, poi era costretto a rialzarsi.

Gli avari vedevano pian piano bruciare tutto ciò che avevano ritenuto importante in vita, sino a che non veniva il turno di un loro braccio, gamba, orecchio... ardevano nel fuoco e rinascevano dalle ceneri, come i loro patrimoni.

I golosi erano condannati a mangiare la terra arenosa, sebbene il loro stomaco fosse sempre saturo, le pance flaccide gonfiate sino al limite. Ogni tanto qualcuno scoppiava, seminando brandelli di carne e schizzi di sangue addosso ai vicini; si ricomponevano lentamente, continuando a scontare la propria pena.

I lussuriosi erano riuniti a coppie. Le donne si strusciavano sulle schiene degli uomini, sospirando goduriose; questi, eccitati, tentavano disperatamente di voltarsi, legati come le consorti per le mani. Impossibilitati nei movimenti, venivano oltremodo torturati dai demonietti sghignazzanti.

I ladri e i bugiardi erano obbligati a confessare la verità, che gli usciva spontanea dalla bocca, ai piedi di un agognato cumulo di tesori per loro irraggiungibile. Ad ogni parola una lancia gli trapassava il petto, una gamba o altro. Al termine della confessione bruciavano nel fuoco per poi ricomporsi, in un ciclo infinito di tormento.

Gli assassini venivano continuamente mutilati, uccisi e resuscitati dai suicidi, costretti contro la propria volontà a tormentare il prossimo al posto di se stessi.

I traditori, in piedi o inginocchiati, si mordevano la lingua fino a mozzarsela, ma quella si ostinava a ricrescere; quindi si graffiavano e scorticavano sulla roccia.

Il vecchio al Pozzo era uno dei tanti folli che avevano venduto la propria anima in cambio di favori.

Agahareth si fermò innanzi al cancello del palazzo per ammirarne la magnificenza. L’edificio era completamente di cristallo rosso: un prodotto ottenuto dalla fusione del minerale col sangue umano. Gli alti tetti a punta si conficcavano come lance nell’atmosfera plumbea; le guglie e gli spuntoni delle balconate squarciavano il cielo come un’enorme bestia scarlatta che dilania pezzo per pezzo ciò che la circonda. Il palazzo irrompeva sul paesaggio, segno della forza oscura e minacciosa che vi albergava.

Due guardie si misero sull’attenti al suo passaggio ma Agahareth non le degnò di uno sguardo. Superò l’Ingresso, un ambiente a cinque navate separate da statue mostruose che sorreggevano i capitelli corinzi delle colonne e il ballatoio; la struttura longitudinale era attraversata da due transetti tripartiti ed era illuminata da tagli violenti di luce provenienti dagli oculi; in fondo, un’imponente statua alta quasi quindici metri di un uomo dai capelli mossi e con enormi ali piumate ripiegate, stringeva nella mano la Terra, tesa verso gli astanti. Imboccò una corsia a lato e si inoltrò nel dedalo di corridoi labirintici, ignorando i consueti bassorilievi scolpiti sulle pareti. Entrò nella Sala del Trono spalancando le porte, che un demonietto si apprestò a chiudere alle sue spalle. Il gruppo di demoni immersi in una conversazione ammutolì.

«Mio caro Agahareth, hai deciso di degnarci della tua presenza?»

La frase era indubbiamente ironica, eppure il tono era piatto, privo di spessore. Quella voce leggera e melodica apparteneva a un essere di straordinaria bellezza, seduto su uno scranno di cristallo rosso posto in alto in fondo alla sala. Il volto pallido e lungo incorniciato dalle onde ramate dei capelli non esprimeva alcuna emozione; le braccia possenti erano posate in grembo, il corpo vigoroso vestiva una tunica grigia finemente ricamata con un motivo di cerchi concentrici. La sua regalità era resa esplicita dalla corona nera dal disegno intricato, impreziosita da rubini dal taglio complesso. Agahareth fissò i suoi occhi neri come il carbone, quei pozzi di tenebre che sembravano scrutarti nell’animo e risucchiarti in un baratro senza fine. E la calma ieratica che spirava da quella figura, qualsiasi situazione si presentasse, lo innervosiva. Avvertì l’immenso potere di Satana attraversarlo come una scarica elettrica e un brivido gli percosse le membra.

«Ti ho mandato a chiamare più di un’ora fa!» esclamò sdegnato Lucifugo. Agahareth si riscosse «Avevo da fare.»

«Come osi?! Non ci sono scuse per una tale condotta! Non ho ragione, mio Signore?» Satana non rispose. Si vedeva quanto poco gli interessasse il parere di quel leccapiedi del Primo Ministro infernale.

«Sinceramente...» intervenne Satanchia, che come Agahareth possedeva il grado di generale «Vorrei proprio sapere perché sono stato interrotto nel bel mezzo della mia orgia.»

«Ti ricordo che il nostro Signore ha il diritto di comandarci in qualsivoglia momento.» replicò Lucifugo scuotendo la testa stizzito. I lunghi capelli neri dal riflesso verde scuro, raccolti in una coda di cavallo, ne seguirono il movimento.

«La curiosità uccide il gatto.» disse Sargatanas, la brigadiere, con un sorriso malizioso e giocherellando con le dita con i riccioli corvini. Satanchia non raccolse la provocazione: il gatto, simbolo di lussuria, era l’animale a lui sacro. Agahareth prese posto attorno al lungo tavolo. Tutti i presenti si volsero al loro padrone, in attesa che parlasse. La voce di Satana risuonò come sempre dolce, seppure ferma e sicura.

«Fra poche ore verrà il nuovo giorno.» prese una pausa, poi si aprì in un sorriso sornione «Signori: sapete dirmi che giorno sarà?»

«Il 29 febbraio.» rispose prontamente Lucifugo.

«Esatto. Forse ora qualcuno di voi saprà anche dirmi perché è tanto importante.» Tutti tacquero. Lucifugo si tormentò spasmodicamente le mani affusolate, smanioso di dare una risposta che non conosceva. Agahareth spostò leggermente la sedia, richiamando l’attenzione.

«E’ il giorno in cui nascesti e sono passati altri dieci miliardi di anni.» Sargatanas piegò la testa da un lato, incuriosita:«“Altri dieci miliardi”?»

«Dall’ultima volta in cui i suoi poteri scemarono.» rispose il generale. Il volto del Primo Ministro si contrasse in una smorfia orribile e Satanchia esclamò:«E’ uno scherzo...!»

«No.» affermò Nebiros, il maniscalco, parlando per la prima volta «Agahareth dice il vero. Non è il tipo da scherzare.»

«A differenza di qualcun altro.» disse lui di rimando.

«Felice di irritare il prossimo.» rispose Sargatanas alla sua occhiataccia. La demone aveva cominciato ad acquisire interesse sul suo pallido volto annoiato.

«Non può essere...» balbettò Lucifugo smarrito «Ogni dieci miliardi di anni, nel giorno della propria nascita, un angelo perde i suoi poteri sino all’alba successiva, diventando un facile bersaglio per gli avversari. Ma è solo una leggenda, non è mai accaduto...»

«Oh, certo.» riprese Satana «Perché sinora Dio non necessitava di intervenire nel mio operato; tuttavia in più occasioni sono stato vicino a venire cancellato. Solo per la sua filosofia del libero arbitrio sono ancora qui. Temo – anzi sento – che stavolta sarà diverso. Forse non mi facevi così vecchio?» Lucifugo posò gli occhi celesti e vitrei sui lineamenti del diavolo: il volto senza età, troppo giovane per appartenere a un uomo e al contempo troppo maturo per essere di un ragazzo, era una maschera di indifferenza. Come faceva a mantenersi tanto calmo? Il filo dei suoi pensieri fu interrotto da una ventata gelida che lo raggiunse alla schiena. Si voltò: Flueretty, il tenente generale, stringeva con le mani i bordi del tavolo: la presa delle dita era talmente serrata da fargli sbiancare le nocche. Il corpo possente e muscoloso era percosso da sussulti irregolari e sul viso dalla mascella larga e squadrata si disegnò un’espressione feroce. Attorno a lui, come ad avvolgerlo, un turbine di gelo volteggiava nell’aria.

«No, non... può farlo...» le sue parole sembravano trattenute. Satanchia, che gli sedeva a fianco, gli posò una mano sulla spalla «Calmati.» Flueretty se la scrollò di dosso con un gesto fulmineo ed esplose: «NO! NON LO ACCETTO! SE QUELL’ASSURDO DIO OSA TOCCARE IL NOSTRO SIGNORE, IO...» Tirò un pugno al tavolo, lasciando una concavità nel cristallo.

«Flueretty, non agitarti.» disse Satana. Il demone si placò all’istante. Il re degli Inferi continuò:«Non ho idea di cosa accadrà tra due ore: potrei anche scomparire.» La rivelazione cadde come un manto pesante sulla sala.

«Qualunque sia il mio destino voi dovete perpetuare il mio operato. Lucifugo si occuperà del controllo della città e della sua amministrazione, seguendo rigorosamente le leggi; Satanchia guiderà i demoni inferiori nella conquista delle anime con l’aiuto di Flueretty e Sargatanas; Nebiros eseguirà come sempre i vostri ordini e, se sopravviverò, avrà il compito di cercarmi o perlomeno di informarsi sulla mia fine; Agahareth...» Aveva pronunciato il suo nome per ultimo e non a caso. Agahareth rimase impietrito, in attesa...

«Occuperà il mio posto in qualità di nuovo Signore dell’Inferno.» Lucifugo indirizzò ad Agahareth uno sguardo carico d’odio, ma durò appena un secondo: ricompose subito il suo sorriso mieloso. Satanchia e Flueretty si congratularono e Sargatanas batté le mani. Nebiros rimase impassibile. Agahareth si alzò, si avvicinò all’altissimo scranno e si inginocchiò ai suoi piedi. Ce l’aveva fatta. Secoli di macchinazioni senza esito e ora, finalmente, ciò che agognava da tanto tempo gli veniva offerto su un piatto d’argento. Trattenne il sorriso trionfante che pian piano gli saliva alle labbra e assunse un’aria solenne.

«Sarà un onore.»



Satana fissava l’alto soffitto che si intrecciava in ampie volte a crociera. Non indossava più la sua corona, ceduta assieme alla propria carica. Seguì con gli occhi gli archi a sesto acuto e le venature del cristallo rosso, scendendo fino al pavimento: al di sotto della lastra di cristallo i corpi degli umani si divincolavano galleggianti in un mare di sangue. I vigliacchi premevano sul pavimento della sala, raschiando con le unghie, nel tentativo di fuggire da quella prigione. Alcuni avevano completamente perso il senno e mordevano la carne del vicino; oppure sbattevano la testa contro le pareti fino a rompersi il cranio. Condannati a vivere quell’agonia per l’eternità. Satana contemplò a lungo quelle figure perdute, pensando con rammarico che non avrebbe più goduto di un simile spettacolo: ora toccava ad Agahareth.

Già, Agahareth! Ricordò l’espressione con cui l’aveva congedato.


I demoni escono tutti, Lucifugo lo guarda negli occhi un'ultima volta. Satana vi legge tutta la sua devozione e per un attimo si pente della propria scelta. All’Inferno serve una guida, non un cane bastonato. Lo lascia andare. Agahareth lo segue, ma prima che possa varcare la soglia Satana lo trattiene per un braccio.

«Mio Signore?» domanda perplesso.

«Ah! Fai il servizievole adesso?» Agahareth indurisce lo sguardo «Cosa vuoi?» Satana tace, tenendolo apposta sulle spine.

«Se hai qualcosa da dire...!»

«Io lo so quello che pensi.» Il ghigno di Satana è pieno di cattiveria «Pensi di essere finalmente riuscito a sbarazzarti di me, non è vero?» Il respiro di Agahareth si ferma per un attimo. La sua espressione è così palese per Satana che gli sembra di sentire i suoi pensieri ad alta voce:“come fa a saperlo?”

«Credevi forse di farla franca? Quante volte ho sgominato i tuoi ridicoli tentativi di spodestarmi? Se ti cedo la mia carica è perché l’ho deciso io, non perché sono costretto.»

«Ne sono lieto.» sibila il demone.

«Non metterti troppo comodo. Tornerò.» Agahareth impallidisce: rabbia e paura si mescolano sulla smorfia della bocca e gli occhi spalancati sono due palle dorate. Satana lascia la presa del braccio e, con un passo lungo e lento, Agahareth arretra, sparendo dietro le porte.


Satana si compiacque della sua perfidia. Assaporò soddisfatto quell’appagante senso di superiorità fino in fondo, gustando con piacere il ricordo. Un tonfo ovattato lo riportò al presente. Chinò il capo: una donna premeva contro la lastra di cristallo, tentando di uscire, la bocca spalancata in un grido muto perso nel lago rosso. Satana si rimboccò una manica della tunica e avvicinò la mano al pavimento. Il cristallo si deformò attorno al suo braccio, aprendo un varco; prese la mano della donna e con un rapido movimento la tirò fuori. Il cristallo si richiuse all’istante sotto i suoi piedi, impedendo agli altri dannati di fuggire. La donna tremava, incerta sulle gambe, i capelli scuri incollati al viso. Gli occhi blu spiccavano sotto al sangue vischioso che le ricopriva tutto il corpo e che gocciolava sul pavimento. Satana le prese delicatamente una mano e le succhiò le dita: il sapore salato e pungente del sangue gli bagnò il palato e corse giù, lungo la gola, inebriandolo. Si avvicinò al viso della donna, inerte fra le sue braccia. Aprì la bocca e cominciò a leccarle il sangue sulla guancia. Salì sulla fronte, stringendo i capelli della donna tra le dita, poi seguì il contorno delle labbra, inspirando il suo alito caldo. Scese lungo il collo, lambì le spalle; quando arrivò ai seni morbidi la donna gemette. Un fremito di lussuria si scatenò nel diavolo: si sfilò la tunica e costrinse a terra il suo giocattolo. Le sfiorò le gambe con la lingua e risollevò il capo, i pozzi tenebrosi piantati negli occhi languidi di lei. Introdusse la lingua nella sua bocca; il bacio gli venne restituito con foga, in attesa di un solo, desiderato momento...

...che venne. Satana sospinse il bacino su quello della donna, facendola sua. Le grida voluttuose di lei echeggiarono nella sala, salendo di tono ogni volta che il suo corpo veniva premuto contro il pavimento. Infine Satana si fermò. La donna rimase immobile per un momento, poi cercò con una mano il basso ventre del diavolo e mormorò con voce eccitata:«Ancora! Vi prego... ancora! Ah, sì! Ancora!» Satana non le prestò ascolto. La sua fiamma passionale si era consumata e spenta altrettanto velocemente quanto si era accesa. Si rialzò. Mentre si voltava per rivestirsi, il cristallo si aprì sotto la donna, tornando a sprofondarla nel sangue, e si richiuse sopra di lei. Posò una mano sul petto. Il palmo si illuminò un poco e ogni traccia di sangue sparì sia dal suo corpo sia dalla tunica. Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e chiuse gli occhi. Due ali enormi gli uscirono dalla schiena e si spalancarono. Qualche piuma nera cadde soffice al suolo.

Era pronto. Qualunque sorpresa gli riservasse il destino, l’avrebbe affrontata senza timore. Dopotutto, la paura non lo aveva mai sfiorato, sebbene facesse parte della sua esistenza. Terrorizzare il prossimo era stato per secoli il suo compito; la violenza fisica o mentale in lui non sortiva più alcun effetto. C’era solo una cosa che lo aveva tormentato nel primo millennio della sua nuova vita: la possibilità che il suo animo si ridestasse dal sonno profondo cui l’aveva costretto, ritrasformandolo nell’angelo che era stato un tempo. Oramai neanche questa preoccupazione urtava i suoi pensieri: era certo di essersi reso indifferente a tutto e che avrebbe mantenuto quella condizione per sempre. Persino ora, vicino alla sua probabile fine, rimaneva imperturbabile. Neppure Dio sarebbe mai riuscito a riempire la sua vuota esistenza. L’angelo che era in lui era morto dal momento in cui era stato cacciato dal Paradiso. Potevano sottrargli i poteri, il corpo, l’intelletto, o cancellarlo dal mondo: Satana sarebbe sempre stato il re dell’Inferno.

Una luce penetrò dall’alto e inondò la sua figura. Satana alzò la testa e aprì le braccia in un gesto cordiale.

Schiuse le labbra e sussurrò a se stesso:«Buon compleanno.».




(S)parla con l’autrice

Dia dhaoibh, lettori!

Grazie di cuore per esservi interessati alla mia storia.

Cosa ne pensate di questo primo capitolo? C'è qualcosa che vi ha sorpreso o che non vi è piaciuto? L'aspetto fisico di ciascun angelo caduto è una mia visione personale, e ci tengo a sottolineare che non ho intenzione di offendere né mancare di rispetto ad alcuna religione.


Fate un salto anche sulla mia pagina facebook: Parole Cozzate – CreAttiva

Al prossimo capitolo! Slán libh!


CreAttiva

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** In vita ***


In vita

Questa è un'opera di fantasia. Nomi,

personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi

sono frutto dell'immaginazione dell'autore

e non sono da considerarsi reali.

Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari,

organizzazioni o persone,

viventi o defunte, vere o immaginarie,

è del tutto casuale.



Bianco ovunque, abbagliante. Un fischio sordo nelle orecchie, una morsa pressante attorno alla testa. Giusto: aveva una testa; e quindi anche un corpo, da qualche parte. Provò a muovere qualcosa. Seppe di esserci riuscito quando una confusa macchia rosea invase il suo campo visivo. Cercò di metterla a fuoco, non senza una certa difficoltà. Si sforzò il più possibile, aumentando quel senso di vertigine che aveva avvertito in precedenza. Una mano tesa sopra di lui. Gli ci volle un po’ per concludere che era la sua. Sbatté le palpebre e la testa si fece via via più leggera, svuotata. Ma un dolore improvviso gli confermò di avere davvero un corpo. Serrò la mascella, tentando di combattere contro il bruciore che gli attanagliava i muscoli: gambe, braccia, torace, collo, schiena. Una stilettata al bacino gli provocò un movimento convulso, che lo fece sbattere con un capitombolo sul finto parquet del pavimento. In un attimo il dolore svanì e Satana tornò presente a se stesso.

La sua nuova coscienza lo informò dell’accaduto: era appena rinato.

L’antico Satana si guardò attorno: era in una stanza quadrata dalle pareti di un arancione pallido, illuminata dalla luce fioca che filtrava da dietro le tende marroncine di una finestra. Una scrivania con pc portatile incastrata in un angolo, sovrastata da tre mensole cariche di libri, e dal lato opposto il letto da cui era caduto. Si alzò in piedi e barcollò fino alle ante specchiate dell’armadio accanto alla porta. Il suo riflesso lo colpì. Non erano avvenuti cambiamenti nel suo aspetto, a parte le orecchie tonde e il pigiama blu con pesci ricamati che aveva indosso. Ciondolò verso la finestra, aprì le tende, e la spalancò. Una strada caotica e trafficata lo accolse con il suo frastuono assordante. Calcolò la distanza dal suolo. Quarto piano, l’ultimo (a constatare dal tetto sopra di lui) di un appartamento modesto. Davanti e a sinistra altri palazzi. A destra.. Satana rimase impietrito, le mani strette al davanzale, la testa inclinata da un lato.

Alla sua destra era visibile a un occhio non umano una parte di ciò che Satana ricostruì con la memoria. Giganteggiava possente sullo sfondo del cielo la cupola michelangiolesca, la cui tinta grigio-azzurra sfumava raccordandosi alla volta celeste. Nascosti e inglobati nella città, bracci semicircolari di colonne collegavano la piazza ellittica alla basilica. Preceduta da una scalinata a tre ripiani, la facciata bianca rifletteva la luce e la sacralità dell’edificio. La monumentalità del complesso sembrava accogliere con un abbraccio universale tutta l’umanità.

San Pietro, Roma. Satana digrignò i denti. Qualcosa in lui lo spingeva a odiare quella città e il dio che l’aveva rilegato in quella condizione ripugnante; ma l’indifferenza che avvolgeva il suo cuore lo portò a rilassarsi. Si voltò chiudendo la finestra e cercò un mezzo per capire cosa dovesse fare. Frugò nella giacca appesa all’appendiabiti e vi trovò un documento.


Carta d’identità: Luciano Ferro.

Altezza: 1, 84 m.

Capelli: rossi.

Occhi: neri.

Segni particolari: cicatrice sulla schiena.


Si toccò le scapole, dove fino a un attimo prima c’erano state le sue ali. Quello era il suo destino: una vita mortale, privata quasi per intero dei suoi poteri. Dio aveva detto che non glie li avrebbe sottratti tutti: quali gli erano rimasti?

Chiuse gli occhi e interrogò il proprio corpo. Aveva appena compreso l’impossibilità di volare. Si concentrò.

Magia elementare: il palmo della sua mano rimase freddo. Uno in meno.

Magia mentale: non recepì alcun pensiero degli umani sulla strada, né rammentò le loro identità. Due in meno.

Magia evocativa: nessun demonietto servitore apparve nella stanza. Tre in meno.

Forza fisica: il pugno chiuso gli restituì un messaggio positivo. Sorrise e riaprì gli occhi. Li trovò riflessi nello specchio. Capacità seduttiva, come sempre, al cento per cento. Conclusione: non aveva perso le sue armi migliori.

Decise di approfondire la ricerca di informazioni: sapeva troppo poco del luogo in cui si trovava. Uscì lentamente dalla stanza, visualizzando ogni indizio che si presentava. Lo accolse un corridoio buio con delle porte chiuse. Scelse di aprire quella che supponeva lo avrebbe condotto al bagno. Le piastrelle azzurrine gli suggerirono che aveva indovinato. Rimandò l’indagine a quando avesse riavuto un aspetto dignitoso, senza quell’imbarazzante tenuta da notte. Si lavò frettolosamente, rientrò in camera e aprì l’armadio. Rimase sorpreso di trovarlo vuoto. Gli sarebbe piaciuto vestire qualcosa di elegante ed eccentrico… ed ecco comparire dal nulla un completo verde bottiglia. Oh, doveva trattarsi di un piccolo regalo di Sua Altezza Celeste.

Ammirò per un attimo il prodotto della propria vanità, ma ebbe un ripensamento. A giudicare dalla quantità di libri nella stanza, era previsto che fosse uno studente, perciò era più opportuno indossarne i panni. Si tolse il pigiama e desiderò una maglietta bianca a maniche corte, una felpa grigia e un paio di jeans scuri attillati. Si mise le scarpe da ginnastica nere e un braccialetto d’acciaio. Meglio di una boutique.

Una morsa allo stomaco e la gola asciutta lo colsero alla sprovvista: non aveva mai provato una sensazione simile. Prima di uscire dalla camera fece materializzare una giacca e la agganciò all’appendino, preparandosi ad ogni evenienza. Era confuso e pieno di domande. Stavolta dalla fessura di una porta si intravedeva uno spiraglio di luce. C’era qualcun altro?

Aprì con cautela, pronto a qualsiasi...

«...sorpresa!» Una cascata di ricci rossi lo assalì con un abbraccio. Il diavolo rimase inebetito per una frazione di secondo, poi tuonò minaccioso:«Lasciami, donna!»

«Tanti auguri, figliolo!» ruggì un uomo alto e pienotto dai capelli ingrigiti.

«Che vai blaterando, vecchio?»

«Oh, cielo!» esclamò la signora, sbattendo le ciglia infoltite dal mascara «Non ti sarai dimenticato che oggi è il tuo compleanno?!»

Satana squadrò gli umani da capo a piedi. Lei era una donna in vestaglia beige sulla quarantina passata, gracile e minuta, il viso dolce e gentile; lui un omaccione in pigiama a righe, che sfiorava la cinquantina, un po’ stempiato, con un cipiglio vagamente severo. La sincerità dei loro sguardi, la semplicità delle loro parole, la naturalezza dei loro gesti: non poteva più leggere nel pensiero, ma era sicuro che quei due lo considerassero davvero suo figlio. Non avevano reagito all’asprezza delle sue parole: sembrava normale routine. Decise di assecondarli; cos’altro poteva fare?

«Sono solo un po’ frastornato da questa accoglienza mattutina.» abbozzò. La donna emise un risolino acuto e lo fece accomodare a un tavolo tondo. Davanti a lui c’era una piccola torta di cioccolato ricoperta di panna. I suoi presunti genitori intonarono il “tanti auguri a te”, poi Satana spense venti candeline con un soffio. Il suo falso padre (chiamato dalla donna “Cesare”) tagliò tre fette di torta e le mise nei piattini che la consorte (il suo nome era “Giada”) gli porse. Satana impugnò la forchetta, prese un pezzo di dolce, lo portò alla bocca e lo ingoiò. Il sapore era gradevole, ma non fu quello a sorprenderlo: si accorse invece che lo stomaco aveva allentato leggermente la stretta. Finì la sua fetta in pochi bocconi e si sentì molto meglio. Era dunque fame quella sensazione? E la gola secca? La associò alla sete e ne ebbe conferma provando a bere un sorso di coca-cola. Fece il bis della torta, imitato da quei genitori che gli avevano affibbiato, quindi accettò con precaria gratitudine il loro regalo: un orologio da polso, che si allacciò al braccio sinistro.

«Hai intenzione di uscire oggi?» gli chiese la donna sparecchiando la tavola.

«Penso di sì.»

«Non fare tardi. Domani mattina hai il corso alle otto, vero?

«Sì.» Di cosa stesse parlando non aveva idea.

Cesare intervenne:«Perché non esci con quel tuo compagno... Giorgio?»

«Giovanni!» lo corresse Giada.

«Credo che lo farò. Vado a mettermi la giacca.» Satana si diresse in camera.



Non appena aprì la porta sentì che qualcosa era cambiato. Finse di non accorgersene ed entrò. Tolse la giacca dall’appendino e la mise indosso, dando le spalle all’armadio. Tirata su la lampo, disse senza voltarsi:«Cosa vuoi, Michele?»

«Oh! Ti eri accorto di me?» rispose una voce lieve e vaporosa. Satana girò su se stesso, puntando i suoi occhi neri sul riflesso dello specchio. Come si aspettava, al posto della sua immagine a restituirgli lo sguardo c’era un angelo dai capelli lunghi e biondi, talmente splendenti da sembrare raggi luminosi. I lineamenti erano molto effeminati; eppure la sua bellezza sembrava rifulgere dallo specchio, in particolare dagli occhi blu topazio. Una sottile armatura dorata gli copriva il petto e una spada gli pendeva dalla tunica. Satana gettò uno sguardo a quelle ali bianche ed enormi, le ali di un arcangelo: quelle degli angeli ordinari erano molto più piccole. Inoltre, la maggior parte degli angeli tramuti in diavoli le perdevano; solo Satana e Sargatanas le avevano riacquistate dopo la trasformazione. E ora il sovrano degli Inferi le aveva perdute per sempre.

«Ti ha mandato Lui?»

«Preferisco chiamarla Lei, lo sai.»

«Credevo fosse Gabriele l’uccello del malaugurio!»

Michele lo studiò in silenzio «È curioso vederti in quelle vesti.»

«E allora? Vuoi provocarmi o riferirmi il messaggio?»

«Chiedo venia. Non intendevo essere scortese. Comunque, da questo momento tu sarai Luciano Ferro, un ragazzo di ventidue anni appena compiuti che frequenta il terzo anno di Storia, antropologia e religioni all’università La Sapienza...»

«Che ne è stato dei miei ricordi legati a questo mondo?» lo interruppe il diavolo «Non rammento nulla a proposito delle persone intorno a me, eppure ne ho tentato una buona parte.»

«Si tratta di un inconveniente dovuto alla rinascita: a breve ti tornerà la memoria. Un recupero che metterà in pericolo tutti gli umani con cui verrai a contatto.» Michele contrasse la mascella, contrariato dalle proprie conclusioni «Dicevo: essendo un tipo molto schivo, le tue conoscenze si limitano ai tuoi genitori e al tuo compagno di corso Joe. Questo dovrebbe semplificare la ricerca del tuo cammino.»

«“Joe”?»

«Giovanni Tordo. Non chiamarlo col suo vero nome, lo detesta. Continuerai la vita che tutti credono tu abbia condotto finora, ma la gestirai come preferisci.»

«Tutto qui? Non ti aspetterai che mi comporti come un umano! A che servirebbe? Non sarò mai uno di loro.»

«La Signora ha fiducia in te. Crede che tu possa tornare a essere Lucifero.»

«Ma tu no.» Era uno scenario di pensieri piuttosto chiaro. Satana aveva inquadrato l’angelo fin da subito.

Michele inasprì lo sguardo «No, non penso che tu possa cambiare. Un demone rimane un demone, fino alla morte. Chi ha scelto il male sporcandosi le mani non può lavare via il sangue come se niente fosse.»

«Quindi non credi nel perdono.»

«Soltanto del genere umano: loro non sanno, non hanno le nostre conoscenze. Posso concepire che abbiano comportamenti erronei. Ma noi angeli siamo gli araldi celesti. Abbiamo poteri al di là di ogni creatura vivente e perciò non possiamo permetterci di sbagliare. Non è plausibile.»

«Stai dicendo che siamo esseri superiori?» fece Satana sorridendo.

«Saresti lieto di portarmi al peccato, ma non affermerò mai di considerarmi migliore di qualcuno: non cadrò nella superbia come hai fatto tu. Sto cercando di comunicarti che le nostre doti sono un dono e che dovremmo ritenerci fortunati a possederle. Essere un angelo significa avere delle responsabilità: se la nostra forza non venisse adoperata in modo corretto, le conseguenze sarebbero terribili. Se tutti gli angeli si tramutassero in diavoli, sarebbe il caos. Ma immagino che le mie parole siano inutili. Tu non puoi cambiare.»

«Se è così che la pensi, perché non l’hai detto al tuo Dio?»

«Non ce n’è bisogno. Ella conosce tutto di me. Sa che avrei preferito cancellarti, ma rispetto la Sua scelta: anche se non credo in te, io credo in Lei.» Il volto di Michele si distese e ogni traccia di ostilità scomparve. «Questo è tutto. Ma, Satana... prima di andarmene posso farti una domanda?»

Il diavolo lo assecondò con un sorriso sincero:«Dimmi pure.»

«Perché tu hai smesso di credere?»

«Io non ho mai smesso.» Michele ne rimase colpito, ma si ricompose in fretta. Lo salutò con un cenno del capo e scomparve dallo specchio, lasciando spazio al riflesso di Satana. Era così: considerava ancora Dio suo Padre. Lo stimava e lo teneva in alta considerazione, nonostante fossero nemici. Sospirò, prendendo il mazzo di chiavi e imboccando il corridoio.

«Salutami tanto Gigi!» disse Cesare dalla cucina.

«Giovanni!» strillò Giada.


Satana scese le scale dell’edificio (non c’era un ascensore, e che cavolo!) fino al piano dei garage. Su una delle chiavi era inciso il numero quattro. Cercò il box corrispondente e lo aprì. Vi trovò una Citroen C4 di colore grigio metallizzato (probabilmente del suo falso padre), una bicicletta con la scritta “Giada” sul manubrio e una Kawasaki VN900 Custom nera. Girò attorno alla moto, studiandone la linea elegante e minacciosa al tempo stesso. Un veicolo che gli assomigliava parecchio... Doveva ammettere che anche gli umani sapevano realizzare cose interessanti; anche se lui vi avrebbe aggiunto un “tocco” di stravaganza. Per l’essere umano chiamato Luciano Ferro, però, andava più che bene. Si allacciò il casco e salì sulla moto. Infilò le chiavi nella serratura e diede gas.

Lo accolse il ruggito del motore. Guidò il veicolo sulla strada e subito ebbe dei ripensamenti. Il traffico della città non gli permetteva di sfrecciare sull’asfalto, come gli sarebbe piaciuto. In quel groviglio di macchine, semafori e pedoni incauti gli fu impossibile lasciarsi andare e tralasciare la frustrazione per l’umiliante condizione in cui si trovava. La vergogna in cui Lui l’aveva incastrato. In breve si arrese al ritmo frenetico di Roma e abbandonò la moto al primo parcheggio individuato (o ricavato spingendo qualche macchina). Proseguì a piedi, vagando senza una direzione precisa. L’aria fredda gli penetrava nelle ossa e lo faceva rabbrividire. Si sarebbe mai abituato alle debolezze umane?

Si accorse dell’ora tarda solo quando lo sorprese la fame. Guardò il suo orologio nuovo di zecca: l’una passata. A quel punto poteva tornare a casa. Sembrava la scelta più ragionevole, ma si bloccò alla vibrazione nella tasca della giacca. Cercò la causa della musichetta che riconobbe come “Dance with the devil dei Breaking Benjamin: qualcuno aveva il senso dell’umorismo. Prese il cellulare e rispose alla chiamata.

«Pronto?»

«Ehi, Lu!»

«... Joe?»

«No, sono Tonio Cartonio... certo che sono io, sciocchino! Chi ti aspettavi? È tutta la mattina che non rispondi ai miei messaggi, perciò te lo dico a voce: buon compleanno!»

«Grazie.» C’era qualcosa in quella voce che lo insospettiva.

«Che programmi hai per oggi? Dove vuoi festeggiare? Volevo invitare anche Samuele, ma ha detto che deve studiare...» emise un lungo sospiro. Satana alzò gli occhi al cielo. Ecco cosa aveva di diverso: era omosessuale. Non era una novità per il diavolo che era sempre stato, ma non sapeva come comportarsi da umano. Come avrebbe dovuto rivolgersi a lui? Tentò di sembrare a suo agio in quella conversazione.

«Come va con Sam?» L’abbreviazione del nome funzionò.

«A gonfie vele! Te l’ho detto che l’altro ieri sono stato a cena da lui?»

«Ehm...» Forse sì, nei suoi ricordi distorti, ma non poteva saperlo.

«Eravamo al lume di candela. Era tutto così romantico! Cucina benissimo ed è talmente dolce... mi batteva forte il cuore quando mi ha chiesto...»

«Per favore, Joe, evita i particolari.» lo interruppe Satana irrigidito.

«Ops, scusa. Dimenticavo che sei diverso. Tornando a noi, cosa hai intenzione di fare? Oggi è il tuo giorno!»

«Devo ancora mangiare, per il resto mi va bene tutto.»

«Il solito noioso. Dovresti avere più entusiasmo: oggi sei un anno più affascinante! Neanch’io ho ancora pranzato; dove sei che ti raggiungo? Ho una voglia matta di Mc Donald e visto che a te “va bene tutto”…»

Satana valutò la sua posizione e la distanza che aveva interposto fra sé e la moto:«Preferirei che mi dicessi tu dove vederci.»



Al fast food c’era un viavai continuo di gente. Mentre si avvicinava all’ingresso, Satana cominciò a preoccuparsi: come avrebbe riconosciuto Joe? La risposta arrivò quasi immediata: era impossibile non notare il ragazzo biondo e robusto che si sbracciava verso di lui. Ne osservò il bel viso mascolino e si convinse dell’enorme perdita per il genere femminile. Niente a che vedere con la sua figura, certo. Era impossibile competere con lui. Non appena si era sfilato il casco, dal parcheggio al Mc Donald aveva fatto strage di cuori. E non si era nemmeno impegnato.

«Eccoti qua! Spero che tu non abbia incontrato l’ingorgo che mi sono sorbito io: guidare a Roma è un inferno.»

«Sono stato più fortunato.» Se avesse visto il vero inferno, allora? Scelse di introdurre la conversazione con cortesia:«Ora che ricordo, il mio vecchio ti saluta.»

Joe sorrise. Era più basso di Satana e meno muscoloso, ma aveva un sorriso solare e sincero che in qualche modo lo rendeva attraente. Proprio un peccato per le donne.

«Che aspettiamo qui impalati? Io non ci vedo più dalla fame!»

Si misero in fila per ordinare il menu; Joe continuava a parlare di Sam, dilungandosi sui suoi infiniti pregi, e Satana dovette ricordargli un paio di volte che preferiva non sapere cosa avessero fatto quando “Sam lo aveva spinto in camera da letto”. A quel punto Joe arrossiva e si scusava asserendo: «Non avrei dovuto dirtelo. Di solito mi vergogno... però da adesso non mi spingerò più tanto avanti!» E invece continuava a farlo... anche se con evidente imbarazzo. A quel ragazzo mancava un amico che non lo giudicasse, qualcuno con cui confidarsi, e stava riponendo fiducia nella persona sbagliata.

Rimediato il pasto (offerto da Satana in occasione del compleanno), si sedettero per consumarlo. Nel frattempo Joe non stava zitto un secondo. Ogni tanto si riavviava una ciocca di capelli dietro l’orecchio o gesticolava animatamente. Satana comprese che a parlare con lui c’era una donna costretta nel corpo di un uomo. La sua tendenza al pettegolezzo, i movimenti aggraziati e la voce alterata ne erano segni evidenti. Ritenne di aver ascoltato a sufficienza Joe, comportandosi da buon amico: era il momento di interrogarlo sfruttando il suo piacere per la chiacchiera.

«La prima volta che ti ho visto non pensavo saremmo diventati amici.»

«Certo che no!» confermò Joe «Quando ti ho chiesto indicazioni per l’aula sei rimasto zitto a fissarmi, come se ti aspettassi qualcosa da me. Ho pensato che fossi uno svitato: con quello sguardo truce mettevi paura! Poi ti ho visto alla prova di verifica della conoscenze e ho capito che dovevi essere solo nervoso. Dopo ti ho offerto una gomma e ti sei scusato per non avermi risposto. Incredibile come da quel momento abbiamo legato.»

Satana si limitò ad annuire, nascondendo la sorpresa per quei ricordi falsi e vividi. Che Luciano Ferro fosse un vero essere umano e lui ne avesse preso il posto?

«Oh, direi che ti ho fatto aspettare abbastanza.» disse Joe porgendogli il pacchetto che teneva appoggiato sullo sgabello accanto a lui.

«Mi stavo giusto chiedendo se il regalo non fosse per qualcun altro.» asserì il diavolo scartandolo.

«Era solo un piccolo scherzo.»

Satana tolse l’involucro ed estrasse un libro dalla copertina sgargiante; era intitolato “Il linguaggio del corpo - Segreti e bugie”. Ringraziò l’amico, che spiegò il motivo della sua scelta:«Ti può essere d’aiuto in quella cosa che fai sempre.»

«Cosa?»

«Osservare le persone. Lo stai facendo anche adesso.»

Questa volta Satana non riuscì a celare il proprio sgomento. Da quando era rinato in quella forma si era impegnato ad analizzare il comportamento umano. Non possedeva più la facoltà di leggere nel pensiero, così era obbligato a studiare le espressioni del volto, il tono di voce, i gesti del corpo. Era un procedimento duro e complicato che richiedeva una particolare concentrazione, specialmente mentre sosteneva una conversazione con il suo amico. L’esperienza millenaria lo agevolava; aveva iniziato quasi a trovarlo divertente.

Si sentì vulnerabile per essere stato scoperto, e comprese di dover adoperare una maggiore cautela in presenza di Joe. Dopotutto lui era immune al magnetismo demoniaco che rendeva Satana desiderabile dal punto di vista fisico e psicologico. Se ne era reso conto da subito, e l’unico motivo poteva essere che era una persona dai sentimenti molto puri. Una rarità per la contemporanea società corrotta. Forse era per quello che Dio l’aveva scelto come suo amico. Provò un lieve rispetto nei suoi confronti… per quanto potesse goderne un essere inferiore come un umano.

Ripresero la chiacchierata, mentre Satana scopriva che il giorno successivo avrebbero frequentato insieme le lezioni. L’università sarebbe stato il prossimo banco di prova per intensificare la sua influenza in quel mondo. Perché la sua sfida aveva avuto inizio prima ancora che si rendesse conto dell’effetto sortito sul genere umano dalla sua figura: anche in quelle condizioni lui, come gli altri angeli decaduti, risvegliava negli uomini i sentimenti più nefasti. Gli erano stati sottratti i poteri, e la sua vita era mortale, ma la punizione inferta lo aveva smosso dalla noia degli ultimi secoli, risvegliando in lui la passione per la battaglia contro il Bene. Ora il Signore delle Tenebre avrebbe condotto personalmente all’inferno gli sventurati che ne incrociavano lo sguardo. Con i suoi occhi neri e profondi li avrebbe risucchiati nelle viscere della Terra e condannati quali esseri inferiori e molesti.

Avrebbe perpetuato la sua guerra contro Dio, allo scopo di cancellare dal mondo gli insetti che lo insozzavano con la loro lordura. Per farlo gli bastava condurre una vita umana, un’idea che lo avrebbe disgustato fino al giorno prima e che adesso si stava dimostrando un’inaspettata occasione.

Nulla avrebbe placato la sete di sangue di Luciano Ferro.




(S)parla con l’autrice

Dia dhaoibh, lettori!

Eccoci al secondo capitolo: che ne pensate? Vi aspettavate la sorte di Satana? E le sue reazioni? Avete domande? Liberate le vostre opinioni!

Il nome umano del diavolo l’ho scelto per assonanza con Lucifero, ma credo ci siate arrivati subito ^_^

Forse vi ha mandato in confusione l’uso dei pronomi nell’incontro fra Michele e Satana, in riferimento a Dio. Non temete: c’è una spiegazione, non si tratta di un errore di battitura.


Fate un salto anche sulla mia pagina facebook: Parole Cozzate – CreAttiva

Al prossimo capitolo! Slán libh!


CreAttiva

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2673541