Tekken: Dead World di morrigan89 (/viewuser.php?uid=36862)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Dead Heart ***
Capitolo 3: *** Claustrofobia ***
Capitolo 4: *** Il Segno della Rivoluzione ***
Capitolo 5: *** Warmachine ***
Capitolo 6: *** Addiction ***
Capitolo 1 *** Risveglio ***
cronologi
Tekken: Dead
World
Cronologia.
Anno 2149. La popolazione mondiale ammonta
a 13 miliardi.
L’intero mondo è in ansia a causa del contrasto
fra le grandi potenze nucleari.
In tutto il pianeta comincia la corsa per la costruzione di giganteschi
bunker
antiatomici in grado di ospitare milioni di persone e i dati genetici
di
migliaia di esseri viventi.
Anno 2150. L’equilibrio fra le
potenze militari si infrange:
scoppia la Guerra Nucleare che colpisce gran parte del mondo. Una parte
della
popolazione riesce a rifugiarsi nei bunker sotterranei.
Anno 2151. Fine della Guerra. Coloro che,
rimasti in
superficie, sono miracolosamente sopravvissuti alle esplosioni
raggiungono i
rifugiati nei bunker. In seguito molti muoiono per le radiazioni
assorbite. La
popolazione mondiale è ridotta a 1 miliardo di persone. Nubi
di polveri
radioattive ricoprono il cielo impedendo ai raggi solari di passare:
è l’inizio
dell’inverno nucleare.
Anno 2152. Fine dell’inverno: il
sole torna a illuminare il
pianeta ridotto a un deserto di macerie radioattive. Le escursioni
termiche e i
residui radioattivi impediscono la ricrescita della vegetazione. I
superstiti,
guidati da un team dei migliori scienziati, iniziano ad organizzarsi.
Comincia
la costruzione di sei grandi megalopoli sulle rovine di quelle che
prima erano
le città maggiori: nascono Nuova Edo, New York II, La
Ciudad, New London,
Al-Qahirah 2 e Bombay II.
Anno 2155. La costruzione delle
città è velocemente completata
al 100% grazie all’uso delle moderne tecnologie. Comincia
l’esodo dal
sottosuolo: coloro che erano rimasti nei rifugi, divisi in gruppi in
base a
etnia e provenienza, vanno ad occupare le megalopoli a loro assegnate.
Anno 2156. Dopo un breve periodo di
anarchia viene stabilita
una data per le elezioni governative, che avvengono lo stesso giorno in
tutto
il mondo. Nelle città di New York II, New London, Al-Qahirah
2 e Bombay II nascono
governi di tipo repubblicano o
monarchico-moderato. La
Ciudad e New Edo
subiscono un colpo di stato che porta alla nascita di dittature. I
rapporti fra
le i governi democratici e le dittature si incrinano: i primi
compongono un
decreto di alleanza mentre La Ciudad e New Edo vengono lasciate a se
stesse.
Anno 2191. Quarant’anni dopo
lo scoppio della Guerra Nucleare il
pianeta Terra è ancora un deserto radioattivo. La
popolazione superstite si è
adattata a vivere al riparo delle immense cupole delle
città. La vita sul
pianeta dipende più che mai dalla tecnologia.
To see the
last survivor fall
To
see their bastards sons against the wall
To
see the emptiness as we decay
I
see the world is dead, I am betrayed.
Dead
heart in a dead world
Nevermore
– Dead Heart in a Dead World
1.
Risveglio
5
Marzo 2191
Ore
8:00 am
Macchie
bianche su fondo grigio volteggiavano davanti ai suoi occhi. La testa
le girava
come quando, da bambina, giocava a girare su se stessa
finché non cadeva a
terra, ridendo per la buffa sensazione mentre la stanza ondeggiava
attorno a
lei. Ad un tratto nella sua mente confusa si fece strada un pensiero:
doveva
essere su una nave! Ma no, ci rifletté, era impossibile:
aveva sentito parlare
di navi solo nei racconti del nonno, che gli aveva parlato di quei
tempi
lontani in cui il mondo non era ancora un arido deserto. Non sapeva
come doveva
essere viaggiare su una nave.
Mosse
la testa a fatica. Non era su una nave ma nel suo minuscolo
appartamento, eppure
non riusciva a capire perché diavolo la testa le girasse
così tanto. Si accorse
di avere qualcosa di freddo nella mano destra, lo portò
vicino agli occhi per
osservarlo e quando finalmente riuscì a metterlo a fuoco si
rese conto che si
trattava di un flacone di pillole. Si alzò lentamente a
sedere, nauseata e con
la vista un po’ annebbiata, e scaraventò il
flacone contro il muro. La boccetta
non si ruppe, ma in compenso cadde un altro largo pezzo
d’intonaco.
Un
senso di oppressione e disgusto la assalì. Quelle maledette
pillole erano
l’unica cosa in grado di restituirle quel senso di
tranquillità che la vita le
aveva sottratto, ma allo stesso tempo le stavano togliendo giorno per
giorno la
forza di reagire. Ogni mattina si alzava ed era un po’
più esausta e un po’ più
vuota.
“Devo
smetterla” pensò “ Solo
perché questo mondo fa schifo non è un buon
motivo per
andarsene all’altro…”.
Guardò
fuori dalla piccola finestra e vide un occhio enorme: era
l’immagine raffigurata
su un pannello elettronico gigante appeso sulla facciata del palazzo di
fronte;
uno dei tanti ritratti di Heihachi Mishima che si trovavano in ogni
angolo
della città.
“Buongiorno
vecchio decrepito” è quel che disse alla
gigantografia che la scrutava dalla finestra.
Lasciò
cadere il braccio appesantito accanto a sé,
afferrò la maschera da volpe e se
la posizionò sul volto.
Un
altro duro giorno era iniziato, un altro giorno nel caos, un altro
giorno a
Nuova Edo.
*
La
campanella di inizio lezioni cominciò a trillare, e subito
una folla di
studenti schiamazzanti si riversò nel portone di vetro e
acciaio
dell’Università di N.E., facoltà di
Scienze. Nel folto gruppo di persone
avanzavano due ragazze: una si chiamava Ling Xiaoyu, indossava un
vestito blu
con simboli cinesi e portava i capelli neri legati in due codine,
l’altra si
chiamava Miharu Hirano, portava un vestito alla marinara e aveva i
capelli
castani scalati.
-Hai
studiato i capitoli sugli innesti meccanici?- chiese Miharu.
-Sì,
ma non ho capito un granché. La prossima volta che andremo
alla Biotech mi farò
spiegare meglio dalla dottoressa Julia- rispose Ling.
Ling
rimase un attimo impalata guardando davanti a sé, poi
balzò dietro la schiena
di Miharu esclamando -Guarda! Guarda lì!
C’è Takeshi Kawamura!
Nascondimi!-.
L’amica sghignazzò, notando che una ventina di
metri di fronte
a loro camminava un ragazzo alto e muscoloso, con i capelli neri
sparati all’indietro
dal gel e lo sguardo serio. Takeshi Kawamura era il nome con cui tutti
lo
chiamavano, era il nome che si trovava sulla sua carta
d'identità e negli
archivi della scuola, dei negozi in cui faceva acquisti e nella
cartella
clinica dell’ospedale; e, cosa più importante di
tutte, era il nome scritto
molte volte sul diario segreto di Ling Xiaoyu. Ma il suo vero nome non
era
questo: il suo vero nome era Jin Kazama.
Sembrerebbe
un’impresa impossibile andare in giro con una falsa
identità in una città sotto
dittatura, ma per ora ci era sempre riuscito senza farsi scoprire.
L’identità
di Takeshi Kawamura gliel’aveva data, insieme a una certa
quantità di soldi e a
una sistemazione sicura, sua madre Jun prima di morire in circostanze
misteriose.
Jin/Takeshi
non sembrava altro che un normale ragazzo che studiava alla scuola di
Biotecnologia e che era stato cresciuto da una benestante famiglia
adottiva,
quando in verità era il nipote del Leader Supremo Heihachi
Mishima. Ma questo
non era a conoscenza di nessuno, nemmeno di Jin.
*
Dati
e numeri scorrevano sul computer, davanti ai suoi occhi, mentre
digitava
velocemente sulla tastiera: stava archiviando i vecchi progetti dei
Laboratori Biotech, un lavoro noioso e di routine che quel
giorno era toccato a lei.
La
dottoressa Julia Chang alzò gli occhi dal monitor e se li
strofinò,
sbadigliando stancamente.
-Lavoro
noioso, vero?-.
Julia
si girò: a parlare era stato un anziano minuto, un
po’ curvo, con pochi capelli
sulla testa, gli occhiali, e un volto amichevole.
-Oh,
scusi dottor Boskonovitch…- esclamò Julia
-Riprendo subito a
lavorare-.
-Faccia
presto dottoressa Chang- disse il dottore, sorridendo -Ho bisogno della
sua assistenza per quest’ultimo esperimento sulla
riforestazione…-.
-Non
si preoccupi- sorrise Julia in rimando -Finirò in un lampo-.
*
Appartamento
1560, 30° piano, Edificio Abitativo 27, Blocco 6, Quarto B,
Zona Rossa.
Il
ragazzo coi capelli arancioni, immerso in una nuvola di fumo, spense un
mozzicone di sigaretta nel portacenere a terra. Solo poche persone
conoscevano
il suo vero nome, gli altri lo chiamavano solamente Hwoarang, uno
pseudonimo ricavato dall’arte marziale che aveva appreso: il
Tae-kwon-do.
Guardò
l’orologio a muro con aria schifata e insieme rassegnata;
mancava un minuto
alle 8 e fra poco la televisione si sarebbe accesa automaticamente per
trasmettere il notiziario di N.E. Television.
Si
girò sul divano sfondato su cui stava sdraiato
scompostamente e diresse gli
occhi sulla tv che si era appena accesa. “Chissà
che cazzate inventeranno oggi”
pensò.
La
sigla del telegiornale, una musichetta che Hwoarang aveva imparato ad
odiare,
iniziò e poi comparve un mezzobusto di colore con in mano
dei fogli. Sulla sua
scrivania c’era una targhetta con sopra scritto il suo nome:
Bruce Irvin,
speaker.
-Benvenuti
all’edizione delle 8 di Information, il notiziario di NE
Television. Iniziamo
subito con una notizia scottante-.
“Voglio
proprio vedere. Parlerà dell’esplosioni che sono
avvenute stanotte nel centro
della città?” pensò Hwoarang.
-Proprio
così! È in cantiere un nuovo film della
grandissima star Christie Monteiro!
L’attrice ha rilasciato ieri un’intervista in cui
ci svela alcuni segreti sul
suo prossimo film. Vediamo!-.
Sullo
schermo apparve una donna seduta in poltrona con le lunghe gambe
accavallate,
avvolta in una pelliccia bianca e con indosso un vestito corto e
argentato. Si
passò una ciocca di capelli castani dietro
l’orecchio e sorrise civettuolamente
alla telecamera prima di iniziare a parlare del suo film.
Hwoarang
restò un momento a guardare la bella attrice, poi volse lo
sguardo verso il
soffitto, scoraggiato.
“Che
schifo” pensò il ragazzo corrugando il volto in
una smorfia “Quando succede
qualcosa che potrebbe turbare l’ordine della città
non si fanno nessun problema
ad ignorarlo. Tutto ciò che non va viene cancellato come se
non fosse
mai accaduto. Stanotte deve esserci certamente stato qualcosa di
grosso… e
questo giornalista del cazzo ha il coraggio di parlare del nuovo film
di una
pupattola!”. Si portò le mani sulla faccia e poi,
pieno d’ira, si afferrò i
capelli. Restò qualche attimo immobile, con uno sguardo che
avrebbe perforato
l’acciaio, poi afferrò il telefono e
digitò un numero.
-Pronto?-.
La
donna con la maschera di volpe, Kunimitsu, si spaventò della
voce rauca e afona
uscita dalla sua bocca.
-Kunimitsu?
Ma sei
te?-.
-Sì,
Hwoarang. Sono io…-. Kunimitsu si sdraiò
stancamente sul letto.
-Ma
che hai? Ti senti
male?-
chiese la voce di Hwoarang, al di là della cornetta.
-Lascia
perdere… Piuttosto come mai mi hai chiamato a quest'ora? Ci
sono novità?-.
-Beh,
più o meno- il tono era profondamente
ironico -I giornalisti di Information
non hanno nemmeno accennato ai fatti di stanotte-.
-Ai
fatti di stanotte?- la ragazza si rialzò di scatto -Che cosa
è
successo?-
-Come,
non ne hai saputo niente?!
Pare che stanotte ci siano state delle esplosioni nell’Inner
Core della
città!-.
-Chi
te l’ha detto?-
-È
stato il vecchio
Marshall, ma non so da chi l’abbia saputo lui. Gira voce che
siano stati
colpiti alcuni degli Edifici Amministrativi principali, ma non si sa se
sia
stato un incidente o meno. Io spero che siano stati dei ribelli e che
non si
facciano beccare, altrimenti…-. La frase di Hwoarang si perse nel
vuoto di parole
di chi aveva sentito già troppe brutte notizie.
-…altrimenti
la Mishima li farà sparire come ha fatto con gli altri-.
-Sì…-.
Kunimitsu
rimane un secondo in silenzio, pervasa da una profonda amarezza, poi
aggiunse -Altre notizie?-.
-No,
ma ho bisogno che
questo pomeriggio alle 3 tu passi dal White Crow a vedere se il mio
socio ha
portato la roba-.
-Ti
ho detto mille volte che non ho nessuna intenzione di entrare nel tuo
merdoso
giro!-.
-Kuni,
ti prego… è
importante! Se non la vendo non posso fare soldi, e in questo momento
ne ho
davvero bisogno. In fondo si tratta solo di un semplice lavoretto,
niente di
rischioso!-.
-Ma
Hwo… non mi reggo in piedi! E poi sono affari tuoi,
perché non ci vai tu?-.
-Non
posso spiegartelo
adesso. Ho avuto qualche contrattempo e perciò per oggi
è meglio che io rimanga a casa.
Io… davvero, non ho tempo di passare dal White Crow-.
Kunimitsu
corrugò la fronte, preoccupata. Da quando si erano
conosciuti molti anni prima
il suo amico si era già messo migliaia di volte nei guai,
nascondendo ogni
volta le sue disavventure dietro eufemismi del tipo "qualche
contrattempo". Ma stavolta il tono della sua voce la preoccupava. -Hwo,
si può sapere che cosa è successo?-.
-Ti
giuro che te lo
spiegherò più tardi, non appena questa faccenda
sarà risolta. Adesso devo
andare. Pensi di potermi fare il favore che ti ho chiesto?-.
-Uff…
e va bene: andrò io, ma spera di non avermi sulla
coscienza!-.
-Non
ti succederà niente,
Kunimitsu. Te lo prometto-.
*
Lei
Wulong sedeva alla scrivania nel suo ufficio privato. La sua attenzione
era
rivolta a vari fogli su cui si posava a strisce la luce che filtrava
dalle
tapparelle. Sul computer c’era una pianta della Zona Rossa su
cui si muovevano
un sacco di piccoli puntini blu: le volanti della polizia in pattuglia.
Quel
giorno, a causa degli eventi della notte, tutta la CyberPolizia era in
completo
subbuglio e la sorveglianza sulla ZR, che era sempre strettissima, era
stata
triplicata; non per niente la Zona Rossa era sede di lavoratori, ma
soprattutto
culla della peggior feccia di NE: assassini, ladri, spacciatori,
banditi,
drogati, prostitute e altra gentaglia di quella risma. Non era dunque
illogico
pensare che se i responsabili degli attentati notturni fossero nascosti
da
qualche parte, quell'inferno sarebbe stato il rifugio più
ovvio.
Lei
Wulong detestava la malavita e la criminalità sin da quando
era un bambino,
motivo per cui era entrato nella CyberPolizia: in centrale era
probabilmente
quello più sveglio, più intelligente,
più diligente, più impegnato di tutti;
doti che in breve tempo l’avevano portato alla carica di
detective. Aveva
risolto brillantemente casi difficilissimi e incastrato assassini e
mafiosi.
Ora si stava dedicando da tempo al traffico di droga nella Zona
Rossa…
praticamente una missione impossibile! Il narcotraffico in quella zona
era come
un vasto meccanismo di cui non se ne vedeva un motore, ma solo gli
elementi
piccoli dell’ingranaggio: viti, ultime ruote del carro che se
anche venivano
arrestate, subito erano sostituite da altre.
Nessuno
era mai riuscito a capire quale fosse il nucleo di questo meccanismo,
nemmeno
Lei Wulong, ma si era promesso che un giorno sarebbe riuscito a
scoprirlo.
La
concentrazione di Lei fu interrotta quando la mappa della ZR scomparve
dal
monitor lasciando spazio a un volto arcigno.
-Detective
Wulong-
disse la voce proveniente
dal computer.
-Mi
dica, comandante- rispose prontamente il detective.
-Wulong,
ho deciso che
dirigerai la squadra
investigativa che
si occupa delle esplosioni di stanotte.
Si pensa che sia un attentato. Lascia da parte le indagini sul traffico
di droga, questo è più importante-.
Lei
si morse la lingua. Dopo tutto il tempo che aveva speso per questa
indagine ora
doveva mollare ogni cosa e passare l’incarico ad un'altra
persona, rischiando
di rendere inutili tutti i progressi che aveva fatto in questo periodo.
Sospirò.
-Certo,
comandante-.
-Bene.
L’agente Hinagawa
ti illustrerà la situazione-.
Il
volto del comandante venne sostituito da quello di un giovane
poliziotto.
-Le
bombe hanno colpito
gli Edifici Amministrativi 3, 4 e 7 mentre un numero non precisato di
persone
facevano irruzione nel caveau della Banca Centrale di NE. Tutti i
sistemi di
sicurezza, telecamere comprese, sono stati disattivati per la durata di
10
minuti perciò non abbiamo nessuna informazione sui
terroristi. L’unica immagine
che siamo riusciti a trovare proviene dalla postazione di un rilevatore di smog che
scatta foto ogni 15
minuti. La faccio comparire sul monitor-.
L’agente Wulong
si avvicinò allo schermo strizzando gli occhi per osservare
l’immagine di
pessima qualità. Per un momento non vide altro che una
grande massa di fumo
bianco, probabilmente causato da un fumogeno, poi riuscì a
stento a distinguere
alcune figure umane che correvano nascoste dalla nebbia. Solo una
figura
risaltava un po’ meno indistintamente, ma non abbastanza da
permettergli di
capire se si trattasse di un uomo o di una donna. Riuscì a
vedere chiaramente
solo una cosa: una maschera giapponese.
*
In
effetti un po' d'aria pulita non poteva farle male, pensò
Kunimitsu mentre
usciva dal portone cadente dell'Edificio Abitativo 2 del Blocco 5,
anche se a
dire il vero chiamarla pulita era un po' azzardato: l'aria che si
respirava
nella città, infatti, era sempre la stessa che da anni
veniva filtrata e
rifiltrata e arricchita di ossigeno.
Kunimitsu
si sentiva ancora la testa pesante e lo stomaco di pietra, ma non ci
fece caso.
Alzò lo sguardo verso l'immensa cupola di vetro che
proteggeva la città dagli
sbalzi di temperatura, dalle nubi radioattive e dai raggi
ultravioletti. Tutto ciò
le dava un po' la sensazione di essere un pupazzo in una boccetta con
la neve
finta, roba che ormai si vedeva solo negli antiquari.
Si
guardò attorno e non vide poliziotti, ma solo dei bambini
che giocavano sul
marciapiede con dei rottami, due ceffi in un vicolo e qualche cumulo di
immondizia. Nient’altro che il solito, misero squallore della
Zona Rossa.
Il
White Crow si trovava nello stesso Blocco in cui era lei ma doveva
sbrigarsi
perché non voleva rischiare di incontrare dei poliziotti,
quindi si incamminò.
Non
si accorse che qualcuno la stava seguendo.
*
A
prima vista poteva apparire lo studio di un affarista molto ricco, ma
quel
luogo irraggiungibile situato all'ultimo piano di un immenso
grattacielo era
più che un semplice ufficio, era una roccaforte, era la sede
del comando, era
il cuore di tutto l'ingranaggio: l'ufficio del Leader Supremo Heihachi
Mishima.
Heihachi
era lì, separato dal mondo dai 10 centimetri di vetro
antiproiettile
dell'immensa finestra, e come un'aquila sulla cima della montagna
dominava su
tutta NE e una buona fetta di mondo.
Un
tempo lui era stato davvero un semplice affarista, ma la sua totale
mancanza di
scrupoli gli aveva permesso di approfittare di tutte le situazioni a
lui
favorevoli e di acquistare ricchezza, influenza e un potere che col
tempo e col
sacrificio di moltissime persone era diventato assoluto.
Molto
anni prima, in un mondo che andava a rotoli per il surriscaldamento
climatico e
per la guerra nucleare, Heihachi aveva trovato un terreno fertile per
le sue
speculazioni: prima aveva fomentato la guerra con la sua industria
bellica,
l'ARES Industries, che era diventata l'unica fornitrice di armi delle
grandi
potenze militari e in seguito, dopo lo scoppio della guerra, il suo
immenso
capitale gli aveva permesso di inglobare quasi tutte le aziende che
erano
sopravvissute alle catastrofi e di diventare uno degli uomini
più potenti sulla
faccia della terra. Dopodichè era stato davvero un gioco da
ragazzi
impadronirsi con la forza di NE, la più grande e ricca delle
6 megalopoli
rimaste sul pianeta.
Ormai
rivestiva la carica di Supremo da quasi 40 anni e sembrava che solo la
morte
avrebbe potuto mettere fine al suo potere… ma anche su
questo punto si stava
organizzando grazie a certi studi segreti del dottor Abel che nel
migliore dei
casi avrebbero portato a un cospicuo allungamento della sua vita.
Certo, un
giorno sarebbe morto sul serio, ma anche quando ciò sarebbe
successo il potere
sarebbe passato nelle mani del figlio adottivo, Lee Chaolan, che a sua
volta
avrebbe tramandato il comando di generazione in generazione. Per
Heihachi
sarebbe stato come non morire mai.
-E
il suo regno non
avrà fine…-
*
Davanti
alla porta dell’ufficio di Heihachi, Lee Chaolan camminava
nervosamente avanti
e indietro sotto gli sguardi immobili delle guardie di sicurezza. Da
quando il
padre lo aveva nominato direttore dell’ARES Industries si era
più volte trovato
a sbrigare affari delicati, ma questo era sicuramente il caso
più difficile che
gli fosse mai capitato: tre bombe e un furto colossale nel bel mezzo
dell’Inner
Core, a poche centinaia di metri dal Mishima Palace. Come se non
bastasse i
ribelli erano riusciti ad infiltrarsi nel laboratorio segreto dove
avevano
messo le mani sul Numero 9, un esperimento così top-secret
che nemmeno Lee
sapeva esattamente di cosa si trattasse.
Nessuno
era mai arrivato a tanto in 35 anni di dittatura, ogni oppositore della
Mishima
Zaibatsu era stato ucciso senza fatica e senza lasciare una
benché minima
traccia.
Certo,
Lee non sarebbe stato costretto a sporcarsi personalmente le mani in
questa
faccenda ma il padre gli aveva comunque affidato il compito di
risolverla,
motivo per cui non poteva fare a meno di essere nervoso: un fallimento
poteva
costargli caro, Heihachi avrebbe addirittura potuto estrometterlo
dall’eredità.
Del resto non perdeva mai occasione di ricordagli che in fondo non era
lui il
suo vero figlio, cosa che Lee riusciva a stento a sopportare.
Fece
un respiro profondo nel tentativo di calmare il nervosismo,
riacquistando
l’aria gelida e sicura di sé che gli aveva
procurato il soprannome di “Diavolo
dai capelli d’argento”, dopodichè
spalancò la porta.
-Eccomi,
Padre- disse rispettosamente Lee avanzando sul lungo tappeto rosso.
Heihachi,
che stava in piedi scrutando il panorama attraverso la finestra, non si
voltò.
-Finalmente
Lee, ti stavo aspettando-. Una voce piatta, priva di
familiarità. -Hai
risolto qualcosa in tutto questo tempo?-.
L’uomo
dai capelli argentati si fermò davanti la scrivania,
ostentando tutta la sua
fierezza.
-La
Cyberpolizia se ne sta occupando. Ho fatto in modo che le indagini
vengano
affidate al più valido degli investigatori,
l’agente Wulong-.
-Sei
sicuro che questo agente sarà in grado di trovare i
responsabili? E soprattutto
sei sicuro che sia una persona fedele alla Mishima?-.
-Ho
controllato personalmente la sua scheda, Padre. È il
migliore nella
Cyberpolizia ed è una persona ossequiosa delle leggi e degli
ordini, perciò non
dovrebbe causare alcun proble…-
-”Dovrebbe”,
Lee?- lo interruppe Heihachi -Pensi che un
“dovrebbe” mi basti come
rassicurazione?-.
L’angolo
della bocca di Lee ebbe un tremito, l’unico segno
d’ira che poteva permettersi.
-Sapevo
che l’avresti detto, Padre. Per questo motivo ho
già avvertito un membro
speciale del Tekken Force perché controlli le azioni
dell’agente Wulong e lo
elimini nel caso che cominci a mostrare segni di ribellione. Inoltre ci
avvertirà quando scoprirà i colpevoli in modo che
potremo ucciderli senza
scomodare ulteriormente la polizia-.
-Stai
parlando dell’Agente W, vero?-.
-Sì,
Padre-.
Il
volto di Heihachi fu attraversato da un sorriso compiaciuto. -Perfetto-.
*
Oscurità.
Silenzio.
Caricamento
dati in corso…
Una
serie di impulsi elettrici che attraversano il sistema nervoso.
Caricamento
effettuato.
Inizio analisi…
Ricordi?
Avanzi di una vita passata?
Così
dolorosi che sembrano balenare nel buio.
Frammenti
di un’esistenza disintegrata, taglienti come vetro.
Controllo
funzioni
vitali................................................................................................STATO:OK
Chi
sono io?
Che
cosa mi è successo?
Analisi
dell’ambiente
circostante.............................................................................COMPLETATA
Dove
mi trovo, adesso?
Quantificazione
del livello
di radioattività
ambientale...................................................STATO:OK
Non
riesco a sentire il mio corpo.
Quantificazione
del livello
di radioattività
corporea.............................................STATO:CRITICO
Avverto
solo una cosa…
-ATTENZIONE: PERICOLO. LIVELLO DI
RADIOATTIVITA' IN AUMENTO. INIZIARE LE PROCEDURE DI CONTENIMENTO-
Rabbia.
Nota: il passaggio in html ha cancellato una frase nel dialogo fra Kunimitsu e Hwoarang. Ora l'ho inserita di nuovo
|
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Capitolo 2 *** Dead Heart ***
2.
Dead heart
Il
White Crow era un pub, uno dei pochi della Zona Rossa che non era stato
ancora
fatto chiudere. Era un edificio piccolo e cadente, la sua facciata era
fatta di
acciaio e cemento armato e c'era un'insegna su cui, appunto, era
disegnato un
corvo bianco. Un uomo alto due metri, un buttafuori dalla carnagione
scura e la
corporatura massiccia, stava in piedi di fronte alla porta quando vide
avvicinarsi una donna coi capelli rossi lunghi e una maschera da volpe
sul
volto.
–Salve
Craig– gli disse.
–Ciao–
rispose Marduk, il buttafuori.
Il
gigante si spostò dalla porta e Kunimitsu entrò.
Appena
ebbe fatto un passo dentro il locale fu avvolta da una spessa nube di
fumo di
sigaretta. Il locale era un po' buio e aveva odore di vecchio e di
chiuso,
c'erano tavoli e sedie di metallo incassate nelle rientranze ovali del
muro, un
bancone con degli sgabelli, un palco vuoto e delle porte sul fondo; era
già
molto affollato sebbene fosse ancora primo pomeriggio perché
evidentemente molti
erano subito accorsi a cercare informazioni sull’attacco
notturno. Un paio di
persone si girarono verso di lei sentendola entrare, altri erano seduti
ai
tavoli intenti a discutere, a bere o semplicemente da soli, altri
ancora
stavano appollaiati sugli sgabelli del bancone, fumando o bevendo.
Ricordando
quello che le aveva detto Hwoarang si diresse verso il bancone e si
sedette su
uno sgabello, cercando di capire quale fosse il socio dell'amico.
La
porta di ingresso si aprì con uno scampanellio e Kunimitsu
si voltò. Sulla
soglia c'era una persona dall'aria piuttosto strana avvolta in una
lunga giacca
nera: aveva sul volto una specie di respiratore camuffato da maschera
del
teatro Noh e una chioma leonina dal colore rosso acceso, che
evidentemente
faceva parte della maschera. La particolare figura si guardò
attorno e poi, con
una camminata da ubriaco, si diresse verso un tavolo nascosto in un
angolo.
Kunimitsu, piuttosto sorpresa, seguì con lo sguardo i suoi
movimenti.
"Strano" pensò "credevo di essere l'unica pazza ad andare in
giro con una maschera Noh”.
–Ciao
Kuni–. La kunoichi si voltò appena in tempo per
vedere una donna dai capelli
rossi a caschetto e con indosso un vestito rosso piuttosto succinto
sbucare da
sotto il bancone. Il suo nome era Anna Williams ed era
l'intrattenitrice del
bar. –Cosa ti servo?– chiese.
–Niente
grazie: sto cercando un amico di "Pel di carota"– Kunimitsu
sorrise sotto la maschera a causa dell'appellativo di Hwoarang.
Anna,
capendo il senso sottinteso della frase, sorrise, rispose
–Dev'essere nei
paraggi– e si allontanò a servire un'altra
persona.
Un
uomo seduto alla sinistra di Kunimitsu, con i lati del volto coperti
dal bavero
di una giacca, diede due colpi di tosse. "È lui"
pensò.
–Scusa,
hai una sigaretta?– chiese lei.
–Come
no– disse l'uomo. Sfilò una sigaretta dal
pacchetto e gliela offrì mentre allo
stesso tempo le passava un piccolo involucro sotto il bancone.
Kunimitsu
infilò lestamente il pacchetto in tasca, sollevò
di poco la maschera e si mise
la sigaretta in bocca. –Grazie…–
–Prego–
rispose l'uomo dal volto mezzo nascosto dalla giacca.
–Cosa
posso darti in cambio?– chiese mentre si accendeva la
sigaretta,
incrementando la nuvola maleodorante di fumo del bar.
–Niente.
Salutami Pel di Carota e digli che ci vediamo tra qualche
tempo– ghignò il
tipo, evidentemente divertito dal soprannome.
–Bene–.
–Fermi
tutti! Polizia!–.
La
porta d'acciaio del pub si spalancò lasciando entrare 9
uomini vestiti di
elmetto e armatura e con un mitragliatore laser appeso alla cintura.
Il
vociare della clientela si congelò, venti sigarette si
tuffarono nei portacenere,
una decina di bicchieri si posò sui tavoli con un rumore
secco, Anna si voltò
verso il retro del locale e gridò un nome:
–Marshall!–.
Un
cinese con dei baffi sottili uscì dal retro con
l’aria piuttosto scocciata: –Che cosa sta
succedendo?–.
Uno
dei cyberpoliziotti, evidentemente il capitano, si fece avanti mentre
gli altri
rimasero davanti alla porta, tenendo d'occhio i presenti.
–Perquisizione–.
–Perquisizione?–
pronunciò il cinese con una smorfia –Avete il
mandato?–.
–Ovviamente–
il poliziotto gli sventolò un foglio davanti al viso e
Marshall Law lo prese.
–Posso
sapere il perché?– chiese Law controllando il
mandato.
–Controllo
anti-droga. Avanti, muovetevi!– il capo fece un cenno agli
altri poliziotti:
due rimasero davanti alla porta mentre gli altri si sparpagliarono per
il
locale, controllando i clienti con i rilevatori di droga.
–Che cosa
c'è là dietro?– chiese il
capitano al proprietario del pub, indicando una porta sul fondo del
locale.
–I
privet, il cortile, il magazzino– rispose Law, serio.
–E
là?– il poliziotto indicò una porta al
di là del bancone.
–Il
mio ufficio–.
–Voi
due– esclamò il capitano rivolgendosi a due agenti
–Andate a controllare
lì–.
Kunimitsu
rimase inchiodata al bancone. In condizioni normali non avrebbe
probabilmente rischiato
nulla, anche se sapeva che spesso la cyberpolizia usava le
perquisizioni
anti-droga come pretesto per fare arresti, e, dopo i fatti della notte,
la cosa
che più volevano era mettere sotto torchio quanta
più gente possibile per
ricavare qualche informazione.
Ma
questa volta non si trovava in condizioni normali. Questa volta un
piccolo
pacchetto dall'aria innocente, ma che avrebbe potuto farle passare dei
guai
terribili, si trovava nella sua tasca destra.
–Ti
prego riprenditelo! Nascondilo!– sussurrò al
fornitore di Hwoarang, mentre
osservava i cyberpoliziotti in armatura che camminavano per il locale.
–Fossi
matto! Adesso sono fatti tuoi– sussurrò l'uomo,
allontanandosi di un posto
da quello della ragazza.
"Anna…"
pensò, ma incontrò il suo sguardo smarrito e
terrorizzato… non avrebbe potuto
fare niente per aiutarla.
Il
panico cominciava a insinuarsi nel suo cervello e nelle ramificazioni
nervose…
che cosa avrebbe dovuto fare? Aveva poco tempo ormai, fra poco
avrebbero
perquisito anche lei e in quel momento la sua vita sarebbe finita.
Tentò
di calmarsi e di analizzare la situazione: due agenti si trovavano
nell'ufficio
di Law, due erano sulla porta, tre controllavano il magazzino e i
privet, il
capitano e un altro perquisivano gli avventori nella sala. Loro avevano
un
mitragliatore laser, lei poteva contare solo sul suo kunai, un affilato
coltello giapponese nascosto nel suo stivale, e nella sua
agilità, che aveva
acquisito dopo anni di sforzi e allenamenti. Lo scontro non sarebbe
stato
decisamente pari.
Dato
che la sigaretta aveva cominciato a tremarle in bocca la
posò nel posacenere e
si risistemò la maschera sul viso.
–Capitano,
qui non c'è niente– dissero i due poliziotti che
uscivano dall'ufficio di
Law. Kunimitsu si girò verso di loro, e in quel breve lampo
in cui la porta si
richiuse vide uno spiraglio di luce: una finestra.
–Ehi
tu!–. Quella voce si rivolgeva a lei e, insieme, ricevette
uno strattone che
la fece ruotare sul posto. Davanti a lei, piantato nella solida
armatura
d'assalto, ora c'era il capitano.
–Non
lo sai che è vietato girare con il volto coperto? Togliti
quella cazzo di
maschera!– ringhiò il poliziotto, di cui Kunimitsu
vedeva solo le labbra
contratte in una smorfia d'ira. Tutto attorno regnava il silenzio.
–Non
posso– rispose lei, d'un fiato.
–Oh…
non posso…– cantilenò il comandante
–Togliti quella cazzo di maschera o
ti sbatto in galera!!–.
–Ho
detto che non posso– affermò lei, stavolta con un
tono di aperta sfida –A
meno che non vogliate contemplare l’effetto delle radiazioni
su un volto
umano–. Ovviamente non era vero, ma la bugia era venuta fuori
da sola.
"Fanculo" pensò "non potevo tirare fuori niente di
più
macabro!".
–Agente–
ordinò il capitano al poliziotto che imbracciava il
rilevatore di droga –Perquisiscila–.
Fu
un lampo, e improvvisamente avvenne. Era uno di quei momenti che aveva
già
tolto d'impaccio Kunimitsu molte volte in passato, uno di quei momenti
in cui la
ragione lasciava spazio all’istinto, le sue azioni
diventavano meccaniche ed il
primordiale desiderio di vivere la guidava e le impediva di sbagliare.
Tutto
le apparve come al rallentatore, la scena passò sotto i suoi
occhi come vista
da una terza persona: sentì l'allarme del rilevatore, vide
il poliziotto che
cadeva all'indietro sotto i suoi calci e investiva il comandante nella
caduta,
vide se stessa che saltava dietro il bancone, Anna che si buttava per
terra per
ripararsi dai laser, le bottiglie d'alcool che si infrangevano per gli
spari,
il pavimento ricoperto di cocci, vide la propria mano che spalancava la
porta
dell'ufficio, vide lo squallido stanzino, vide la finestra e i
frammenti di
vetro che schizzavano come saette mentre lei ci passava attraverso.
E
veloce come era arrivato, il momento finì e tutto
tornò alla sua normale
velocità. La kunoichi si ritrovò per strada, il
corpo coperto di graffi, e come
il vento prese a correre lontano dal caos che regnava nel White Crow.
"Accidenti
Hwoarang, in che casini mi hai messo".
*
Jin
Kazama staccò lo sguardo dallo schermo del computer pieno di
cifre e schemi e si
avvicinò alla finestra della sua camera. Davanti ai suoi
occhi si apriva la
vista del piccolo giardino di casa dove sua madre adottiva stava
piantando dei
garofani, una delle poche specie di piante salvate dalla distruzione.
Guardandola, Jin non poté fare a meno di pensare a cosa
avrebbe detto Jun se
fosse stata ancora viva.
Lo sai, Jin, quante specie
di piante da fiore esistevano prima della guerra nucleare? Migliaia.
Adesso ne
saranno rimaste solo qualche centinaio… Non trovi che sia
triste?
A
Jin sembrò quasi di poterle rispondere.
“Sì, mamma, è triste, ma è
ancora più
triste che tu non ci sia più. Anche se forse nessuno
vorrebbe davvero vivere in
un mondo morto come questo.”
Non dire così Jin. Voi
siete
vivi perché il miracolo della vostra sopravvivenza
è troppo grande perché lo si
possa barattare con la morte. Avete una strada difficile di fronte a
voi ma è
necessario che voi la percorriate, avete un mondo da ricostruire.
“No
mamma, noi continuiamo a vivere solo per gratitudine alla sorte che non
ci ha
spazzato via dalla faccia della terra. Quando quarant’anni fa
si permise lo
scoppio della guerra penso che la razza umana avrebbe davvero meritato
di
estinguersi. E invece siamo ancora qui, come se niente fosse successo,
e
continuiamo a vaneggiare e a inseguire le stupide soddisfazioni di
sempre.
Forse quando la radioattività decadrà
sarà possibile migliorare le condizioni
del nostro pianeta, ma non è la Terra che dobbiamo curare:
siamo noi stessi.
Pensa alla condizione della nostra città, una
città in cui le sparizioni sono
all’ordine del giorno, governata da un dittatore senza
scrupoli, abitata da
persone che pensano solo al denaro e alle proprie ambizioni mentre
più di metà
degli abitanti marcisce segregata nella Zona Rossa, una
città il cui vero aspetto
è nascosto da una facciata di patinato benessere.”
Jin, sembra quasi che io non
ti abbia insegnato niente… Le tue parole sono vere, questo
non lo nego, e
capisco benissimo il tuo scoraggiamento perché è
la stessa cosa che ho provato
io da bambina quando l’inverno nucleare finì e noi
sopravvissuti uscimmo dai
bunker sotterranei. Ma sono cresciuta e ho lottato in un pianeta
morente, Jin,
e quando tu sei nato io ero doppiamente felice perché sapevo
di aver fatto
qualcosa per migliorare il mondo in cui tu saresti vissuto. E so che
anche tu
lo farai perché nonostante i tuoi pensieri negativi dentro
di te ami questo
posto almeno quanto l’ho amato io.
“Non ti
preoccupare, so che cosa devo fare e
lo sto già facendo. Forse i miei studi di Biologia saranno
un contributo minimo
alla scienza, ma sarò felice se anche un solo filo
d’erba potesse crescere in
mezzo al deserto che ci circonda, come sognavi tu. Tutto quello che
faccio lo
faccio per te, mamma”
Le
dita di Jin si posarono sul vetro della finestra e per un breve istante
gli
parve quasi di scorgere nel riflesso il volto sorridente della madre,
ma un
attimo dopo la sensazione era sparita, ed era di nuovo solo.
Solo.
Il
sorriso sul suo volto si mutò in un sorriso amaro.
Ultimamente aveva indugiato
troppo spesso in questa sorta di ricordi e, come sempre, il breve
attimo di
felicità era svanito lasciando spazio a una serie infinita
di interrogativi
senza risposta.
Jin
diede le spalle alla finestra e il suo sguardo vagò per la
camera ordinata fino
a posarsi sull’unica foto di Jun che possedeva e nonostante
il buio riuscì a
scorgerne distintamente i grandi occhi neri.
“Sai
mamma, ancora non mi capacito che tu sia sparita lasciandomi in
compagnia di
tanti segreti. Sono passati dieci anni e non ho ancora scoperto niente.
Chi era
mio padre? Perché hai insistito che assumessi una falsa
identità? Perché
esclusa quella foto non rimane altro segno della tua esistenza? E
soprattutto…
chi è stato a ucciderti?”.
Ma
questa volta non arrivò nessuna risposta.
Improvvisamente
il completo silenzio della camera venne rotto dal suono di una sveglia;
Jin
guardò l’orologio – erano le 3 e mezza
– ricordandosi che doveva seguire un
seminario scientifico alla sede della Biotech, quindi raccolse il
portatile e
corse giù per le scale.
Una
volta in strada Jin assaporò l’aria fresca che si
respirava in quel tranquillo
quartiere residenziale della Zona B, dove piccole villette a schiera si
alternavano ai giardini. Guardando verso nord-ovest poteva vedere
l’altissimo
Mishima Palace stagliarsi nel centro di Nuova Edo, simile a una lama
nera
conficcata nella carne, mentre a ovest scorgeva l’irregolare
skyline degli
eleganti palazzi della Zona A, simbolo della ricchezza e del fulgido
progresso
della città; se avesse orientato lo sguardo verso nord
avrebbe intravisto le
moli enorme e sgraziate dei palazzi-dormitorio della ZR, simboli di
povertà e
squallore attentamente occultati dagli alberi del parco. Ma la Zona
Rossa era
sostanzialmente un mondo estraneo a Jin poiché aveva avuto
la fortuna di essere
cresciuto da una famiglia benestante, e raramente guardava in quella
direzione
se non quando si sentiva in colpa per la sua sorte invidiabile.
La
sede della Biotech si trovava nella Zona A a poche centinaia di metri
dal
confine che delimitava il centro burocratico ed economico di Nuova Edo:
l’Inner
Core, sede dei palazzi governativi, delle banche e delle grandi
società, nonché
del laboratorio di ricerche personale della Mishima. Con la
metropolitana che
avrebbe preso a pochi passi da casa sua avrebbe impiegato solo 10
minuti ad
arrivare a destinazione, ma, nonostante fosse largamente in anticipo,
qualcosa
gli fece decidere che fosse meglio affrettarsi. Quella strana
sensazione che si
era risvegliata in lui pochi mesi prima e che aveva cercato in tutti i
modi di reprimere
e di archiviare come un malessere passeggero, forse dovuto allo stress,
aveva
tutto ad un tratto cominciato ad insinuarsi dentro di lui. Un lieve
tremito
iniziò a scuotere le sue membra e il suo campo visivo fu
attraversato da una
sorta di lampo nero; contemporaneamente il cuore cominciò a
battere più forte,
e non sapeva se fosse un sintomo o solo la paura.
Jin
scosse la testa cercando di scacciare la spiacevole sensazione. "Non
è
nulla. Mi sa che sto solo diventando ipocondriaco". Le porte del treno
a
pochi passi da lui ondeggiavano al suo sguardo. Quando si sedette su
uno dei
sedili la sua pelle stava già cominciando a bruciare come
fuoco e in quel
momento Jin dovette accettare che ciò che temeva sarebbe
successo ancora una
volta.
*
–Qui
volante ZR402, stiamo entrando in pattuglia nel Blocco 5, Sezione B,
Zona
Rossa–.
L'agente
al volante, un uomo panciuto con la divisa sporca di fritto,
posò il microfono
della radiotrasmittente al suo posto. Non aveva mai amato essere di
pattuglia
nella Zona Rossa: troppe gatte da pelare.
Il
collega seduto accanto, un biondino ossuto dallo sguardo vigile,
esclamò ad un
tratto: –Guarda laggiù!–.
–Che
cosa?– rispose il conducente, con aria annoiata.
–Ho
visto una persona sparire nel vicolo non appena siamo arrivati
noi!–.
–Sì,
ho notato… e allora?–
–E
allora dovremmo andare a vedere cosa succede!– rispose
l'altro,
professionalmente.
–Di’,
ma come ti vengono in testa certe idee? Guarda che chiunque fosse ormai
non lo
ripeschiamo e in ogni caso per noi è una pessima idea
infilarci in un vicolo:
c'è gente qui che non aspetta altro che gli capiti a tiro un
novellino come
te!–.
–Ma
quella persona è stata aggredita!–.
–Un
aggressione dici? Lascia perdere ti dico: queste cose qui sono
all'ordine del
giorno… noi abbiamo altro da fare. E poi non ci penso
nemmeno a scendere dal
veivolo in un postaccio come questo!–.
"Ma…"
pensò il giovane voltandosi a guardare apprensivamente il
vicolo appena
sorpassato.
–Ma
che…–
–Ssst!–
I
due, immobili per terra, guardarono il veivolo della polizia che
scivolava
dolcemente nell'aria a pochi metri da loro e passava oltre il vicolo.
–Hai
fegato ad andartene in giro così dopo quello che hai
combinato nel pub–. Era
una voce raschiante, metallica.
Kunimitsu
poté finalmente girarsi per vedere chi era stato a
trascinarla in quel vicolo
buio e con somma sorpresa si trovò davanti quel tipo strano
che aveva visto nel
bar, quello con la maschera giapponese.
–Chi
cavolo sei?–.
–Non
ha importanza. Passavo di qui per caso–.
"Come
ha fatto ad arrivare qui prima di me?" si chiese Kunimitsu, dubbiosa.
I
due si alzarono spolverandosi i vestiti.
–Non
c'era bisogno che tu mi scaraventassi a terra… mi sarei
nascosta da sola dalla
polizia–.
–Ok–
rispose serafico –Allora sarai anche abbastanza in gamba da
renderti conto
che oggi ti sei messa nei guai, guai neri. La polizia non ti
darà pace dopo
quello che hai fatto. Vediamo un po’: volto nascosto,
detenzione di droga,
oltraggio a pubblico ufficiale, resistenza all'arresto!–.
Mentre enumerava
le effrazioni di Kunimitsu sulla punta delle dita sembrava assai
divertito e
compiaciuto, poi il tono della sua voce si rabbuiò:
– In questo posto è roba
da non farti vedere mai più la luce del sole. Non so se mi
spiego…–
Kunimitsu
si morse la lingua. Quel tizio e la sua mancanza di tatto cominciavano
a darle
sui nervi. –Questi sono fatti miei.–
sbottò.
L'uomo
riprese a ridere, e la sua risata divertita riecheggiò nel
respiratore. –Bene bene, pare proprio che tu non abbia
bisogno del mio aiuto!–
–Del
tuo aiuto? Io non ho affatto bisogno
del tuo aiuto!–. Kunimitsu si sentì punta
sull’orgoglio. Se c’era una cosa
che non sopportava era che qualcuno insinuasse che fosse debole e
indifesa,
cosa che del resto non era vera.
–Ne
sono contento. Ma se per caso tu dovessi averne bisogno in
futuro… beh, fai un
salto qui– le tese un foglietto piegato.
–Può darsi che per caso io mi
trovi da quelle parti–.
–Fai
un po' troppe cose "per caso"…– osservò
lei con tono inquisitorio.
–Ho
solo la fortuna di trovarmi spesso nel posto giusto al momento
giusto…–
sogghignò il tipo –Fammi il piacere di distruggere
quel biglietto dopo
averlo letto, ok? Ora, se permetti, vado a passare per caso da qualche
altra
parte–. Lo sconosciuto le voltò le spalle e fece
per andare verso l'uscita
del vicolo.
–Aspetta!–
Esclamò Kunimitsu.
Lo
sconosciuto si voltò senza dire niente.
–Non
so chi tu sia, ma… grazie–.
Lo
sconosciuto le rivolse un cenno di saluto, poi si allontanò.
Una
volta rimasta sola la kunoichi aprì il biglietto e si
trovò sotto gli occhi un
messaggio piuttosto strano:
Blocco 4, ZI, al confine con la ZR.
Vai sul retro della Domestik s.P.a., cerca un
tombino dietro un
container.
Attenta ai ratti!
Kunimitsu
inarcò un sopracciglio. –Fantastico, salvata da un
pazzo furioso–.
*
Perdersi
nella folla: era tutto ciò che desiderava Ling Xiaoyu in
quel grigio pomeriggio
di marzo, mentre camminava in mezzo alle vetrine scintillanti, ai
grattacieli
vertiginosi, alla fiumana di persone sciamanti attraverso il nuovo
quartiere di
Shinjuku nella Zona A.
Ling
stava cercando quel momento in cui ogni pensiero si perde in mezzo alla
folla,
i problemi si allontanano con la corrente, il battito del proprio cuore
si
unisce ai cuori pulsanti delle persone che ci camminano accanto,
l’individuo
diventa parte di qualcosa di più grande e indistinto. E lei
voleva smettere di pensare,
voleva essere per un po’ quello che gli altri credevano che
fosse: una persona
felice, una ragazzina ridente e spensierata, forse anche un
po’ stupida.
Nessuno la conosceva abbastanza bene da capire che non era quello che
sembrava,
che in realtà il suo perenne sorriso era una maschera
rassicurante creata per
nascondere la propria paura.
E
così vagava senza meta, guardandosi attorno, incurante delle
spinte che
riceveva, soffermandosi su ogni sguardo, ogni sorriso, ogni smorfia,
lasciando
che ogni frammento di vita altrui entrasse a far parte della propria.
Mentre
era nel cuore della città, lei era tutto ed era niente.
E
poi l’incanto si ruppe, disturbato dallo squillo di un
cellulare. Gli ci volle
qualche attimo per ritrovare se stessa nel caos di Shinjuku,
dopodichè si portò
il telefono all’orecchio.
–Pronto!–
esclamò Ling, con la voce allegra di sempre.
–Ciao Xiaoyu, sono Julia! Non so perché
ma ho
come l’impressione che tu ti sia completamente dimenticata
del seminario di
oggi, quello obbligatorio per completare l’anno accademico.
Ti prego, dimmi che
mi sbaglio!–.
Ling
si fermò mentre attraversava la strada, suscitando una lunga
serie di
imprecazioni e clacsonate.
–Oh.
Oh mio Dio. Non dirmelo–.
–Dovrebbe iniziare fra dieci minuti. Adesso
sono le 4. Pensi di farcela?–.
Ma
Julia non ricevette nessuna risposta perché quando aveva
cominciato la frase
Xiaoyu stava già correndo come un fulmine.
*
Lei
Wulong avanzava spedito verso l’Edificio 3
dell’Inner Core, attorniato da una
folta schiera di assistenti e poliziotti addetti a varie mansioni,
quando vide
l’agente Hinagawa che gli veniva incontro sbracciandosi.
–Detective
Wulong!– esclamò l’agente affiancandosi
al suo superiore
–Buongiorno
Hinagawa. Ci sono novità?–.
–Alcune.
Gli artificieri hanno già analizzato le cause delle
esplosioni e sono ormai
sicuri che si sia trattato di bombe. Resta solo da scoprirne il
prototipo–.
–Di
quanta entità sono i danni?–.
–Ehm,
forse è meglio che guardi lei stesso…–
rispose Hinagawa mentre il gruppo
di poliziotti svoltava l’angolo di un palazzo, ritrovandosi
di fronte alla loro
meta.
Il
Detective Wulong non poté che lasciarsi scappare un fischio
di disapprovazione
alla vista dell’Edificio 3 che come sempre si stagliava nei
suoi 50 piani
d’altezza ma che stavolta aveva un lato completamente
sventrato.
“Nell’Edificio
3 sono archiviati i dati di tutta la popolazione di Nuova
Edo” rifletté Lei “Mi
sembra un ottimo obbiettivo per un gruppo di terroristi”.
–Mmm…
vedo. La Banca Dati Elettronica è stata violata?–
chiese Wulong.
–I
tecnici hanno detto di no, però nei piani compresi fra il
20° e il 25° erano
ancora conservati i documenti cartacei stilati subito dopo la
costruzione della
città e che non erano ancora stati convertiti in files
elettronici–.
–Ma
dato che questi piani sono stati devastati dalle fiamme non
è possibile
sapere con certezza se qualche cosa sia stata sottratta o
meno– concluse
Lei.
Hinagawa
annuì.
–L’Edificio
4 è la sede della Televisione e il 7 è sede dei
Laboratori di Ricerca Mishima.
Che cosa è successo lì?–.
–Nell’Edificio
4 l’esplosione ha distrutto gli studi di registrazione e
anche in questo caso
non sappiamo se sia stato rubato qualcosa–.
“Il
loro obbiettivo sarà stato quello di interrompere le
trasmissioni” rifletté Lei
“ma stamattina il notiziario e gli altri programmi sono stati
trasmessi
regolarmente. Probabilmente NE Television ha mandato in onda programmi
pre-registrati e non ha accennato all’attentato di stanotte
per non allarmare
la popolazione...”.
–E
l’Edificio 7?–
–Stesso
modus operandi. In questo caso però è stata la
Direzione stessa del laboratorio
a non rilasciarci informazioni sui danni o eventuali furti–.
–Certo,
i Laboratori sono coperti dal Segreto di Stato– rispose
Wulong –E
per quanto riguarda la Banca Centrale?–.
–In
questo caso non c’è stata nessuna bomba: le pareti
sono state sciolte con
l’acido. La scientifica lo sta analizzando. Sono stati
sottratti milioni di Yen
sottoforma di lingotti, banconote e denaro virtuale–.
–Ottimo
lavoro Agente Hinagawa– disse Lei affibbiandogli
un'amichevole pacca sulla spalla –ora procurami gli indirizzi
di tutti i negozi di antiquariato di
Nuova Edo. Voglio visitarli personalmente–.
L'agente
ebbe un attimo di esitazione. –Ehm… certamente
Detective–
“Antiquariato?”
si chiese perplesso Hinagawa mentre il Detective Wulong si dirigeva
verso il
furgone della Scientifica seguito dal folto gruppo di poliziotti.
*
La
dottoressa Julia fissava il telefono che le era stato appena
riattaccato in
faccia con uno sguardo che esprimeva un misto di
perplessità, preoccupazione e
divertimento. "Povera Ling" pensò "in questo periodo ha
davvero
la testa fra le nuvole. Ma non me ne stupisco vista la sbandata che si
è presa
per quel Takeshi Kawamura". Non che Ling glielo avesse apertamente
confessato, ma dato che entrambi i ragazzi le erano stati affidati
dall'Università perché li aiutasse nel loro
programma di studi scientifici, era
inevitabile che Julia si trovasse talvolta a nominare Takeshi davanti a
Ling,
ed era anche impossibile che, da scienziata qual era, non notasse
l'espressione
che Xiaoyu assumeva in quei casi.
Julia
sospirò. Era passato qualche anno da quando anche lei aveva
provato sensazioni
simili e aveva dovuto accantonarle per non togliere spazio a
ciò che costituiva
l'obbiettivo più importante di tutta la sua vita, per lei
degno di ogni
sacrificio e di tutta la sua abnegazione: il progetto di esperimenti
sulla
riforestazione.
Fin
da quando era bambina si era sempre rifugiata nel mondo evocato dai
ricordi di
Michelle, sua madre, che le raccontava sempre di come un tempo lontano,
prima
che l'uomo iniziasse a rovinarlo e la guerra lo devastasse
completamente, il
pianeta fosse stato un'oasi di verde, popolato da miriadi di piante e
animali,
dove gli alberi spandevano la loro ombra sui fiori e gli oceani erano
solcati
da maestosi cetacei. Anche quando Julia era cresciuta e Michelle aveva
smesso
di raccontarle il passato, quelle immagini continuavano ad
affascinarla, non
mutate nemmeno dal disincanto della maturità che le aveva
mostrato la realtà in
tutta la sua desolazione. Per Julia, riportare il pianeta allo stato in
cui era
prima della guerra nucleare era diventata man mano una tacita promessa.
Aveva
studiato biologia e aveva iniziato a lavorare alla Biotech, dove si era
dedicata anima e corpo alla sua causa. E finché avesse avuto
i mezzi e le
opportunità, non avrebbe mai abbandonato la sua ricerca.
Certo,
l'impresa era difficile. Il mondo intero era un deserto secco,
costellato da
gigantesche pozze di acqua salmastra, unici resti degli oceani, e
abitato
solo da animali primitivi come topi e scorpioni.
I primi tentativi di
impiantare i semi delle specie vegetali salvate dalla distruzione erano
stati
infruttuosi: i residui radioattivi impedivano la crescita della pianta
nonostante l'acqua e il nutrimento che le venivano costantemente
erogati.
Eppure, se solo si fosse riuscito a far crescere alberi in numero
sufficiente e
a nutrirli artificialmente, questi avrebbero contribuito a drenare il
suolo
liberandolo dalla radioattività, e l'ossigeno da essi
emesso, insieme al vapore
acqueo scaturito dai vulcani, avrebbe contribuito a ripristinare
l'equilibrio
idrico e atmosferico.
Forse ci sarebbero voluti centinaia di anni, ma la Terra
avrebbe potuto ristabilirsi: questa almeno era la teoria che la
dottoressa Chang sostenteva da anni, scontrandosi contro la
realtà; nonostante gli sforzi della Byotech e degli
altri scienziati sparsi per il mondo, niente era ancora cresciuto.
La
cosa che più abbatteva Julia non erano tanto gli insuccessi
quanto il fatto che
i laboratori di ricerca della Mishima, pur essendo plausibilmente
dotati di
strumenti sofisticatissimi oltre che di fondi praticamente infiniti,
non aveva
mai mosso un dito per questo scopo e, come se non bastasse, cercavano
da sempre
di allungare le sue mani sulla Byotech per impadronirsene. Ricevevano
costantemente visite da impiegati dei laboratori Mishima che mostravano
loro
l'autorizzazione a essere informati dettagliatamente su tutti gli studi
che si
conducevano nella Byotech e sul personale che vi lavorava, mentre gli
esperimenti
della Mishima erano protetti dal segreto di stato. Nessuno sapeva che
tipo di
studi si conducessero al loro interno, ed erano in molti a pensare che
si
trattasse di qualcosa di illecito, ma finché la Mishima era
al governo e i suoi
laboratori facevano capo ai loro, nessuno avrebbe mai potuto
lamentarsi. Del
resto era già un miracolo che la Byotech, sotto la guida del
dottor
Boskonovitch, fosse sopravvissuta alla guerra e avesse contribuito alla
costruzione delle megalopoli in cui abitavano. Forse solo la gran fama
di cui
godeva aveva impedito a Heihachi e al dottor Abel di cancellarla del
tutto dopo averne già fatto, se non alle apparenze almeno in
pratica, una
succursale della Mishima.
Julia
Chang, essendo l'assistente personale del dottor Boskonovitch, sapeva
molto di
queste faccende, ma aveva l'impressione che ben più di
qualche mistero
sfuggisse alla sua conoscenza. Lo stesso Boskonovitch era un'incognita
per lei
e c'erano molte domande che avrebbe voluto rivolgergli se solo non
avesse avuto
paura di essere indiscreta: che rapporti aveva avuto con il presente
rivale, il
dottor Abel, ai tempi del riassetto mondiale? Perché a volte
si rendeva
irraggiungibile per giorni interi? Chi è che gli spediva
così tante lettere -
mezzo assai antiquato - che poi lui bruciava sempre (lo aveva visto di
nascosto)? Perché solo lui poteva accedere ai magazzini?
Benché
le domande fossero tante e il dottore non si confidasse con lei, Julia
si
fidava di lui e quindi non dava molto peso a questa sorta di misteri.
"Del
resto tutti noi abbiamo dei segreti" diceva a se stessa.
Julia
spense il cellulare, lo mise nella tasca del camice e uscì
dal suo studio per
andare ad assistere al seminario tenuto dal dottore. Mentre camminava
nel
corridoio si vide venire incontro un Jin Kazama molto trafelato.
–Oh,
ciao Takeshi! Visto che sei in anticipo perché non vai a
prendere un posto in
sala per te e per l'altra mia allieva?– disse lei pensando
che dopo
questo Ling Xiaoyu l'avrebbe ringraziata o maledetta per tutta la vita.
Ma con
sua somma sorpresa Jin le passò accanto quasi correndo,
senza rispondere e
senza nemmeno guardarla.
"Strano
ragazzo" pensò Julia sistemandosi gli occhiali.
*
Jin
non si era accorto che la dottoressa Chang gli aveva rivolto la parola,
non si
era nemmeno reso conto di essere passato accanto a qualcuno. Riusciva
ad
avanzare nei corridoi della Byotech solo perché ci era stato
così tante volte
da conoscerli quasi a memoria, perché in quel momento i suoi
occhi infuocati
non vedevano altro che lampi scuri.
"Non
di nuovo… non di nuovo" mormorava Jin mentre andava
disperatamente alla
ricerca di un posto dove nessuno avrebbe potuto vederlo, tastando i
muri in
cerca di qualche porta, piegato in due dai dolori lancinanti che si
facevano
strada nel suo corpo: la testa gli pulsava, la pelle gli bruciava come
se da un
momento all'altro avesse potuto staccarglisi, il midollo spinale era
scosso da
scariche nervose, ogni singolo filamento muscolare sembrava aver preso
fuoco.
Jin
cadde in ginocchio, incapace di muoversi ulteriormente. Ormai avrebbe
dovuto
affrontare lì la crisi, con la speranza di essersi
allontanato dalla sala
convegni quanto bastava per non incontrare qualche ricercatore o
qualche
studente, che ormai avrebbero dovuto essere tutti seduti ad attendere
l'inizio del seminario.
La sola
idea che qualcuno avesse potuto vederlo nello stato in cui si sarebbe
ridotto
di lì a poco lo riempiva di terrore. "Non voglio…
non voglio diventare un
mostro!".
Ma
il caso volle che uno studente ritardatario e ancora poco pratico della
Byotech
si trovasse a passare proprio in quel momento in quel corridoio.
Ling
Xiaoyu era immobile in mezzo al corridoio e respirava affannosamente
per via
della corsa appena fatta. Si era fermata di colpo quando aveva visto
Takeshi
Kawamura accasciato al suolo in preda agli spasmi a pochi metri da
lei.
Titubante,
si avvicinò di pochi passi verso di lui, mentre il suo cuore
batteva
all'impazzata un po' per la fatica un po' per la paura.
–Ka…Kawamura?– sussurrò lei
senza ottenere altra risposta che un
gemito di dolore. Allora Ling decise che doveva farsi coraggio e,
trattenendo
il fiato, allungò lentamente una mano a toccare la spalla
del ragazzo. Nello
stesso istante Jin si sollevò di scatto, urlando per il
dolore che il semplice
contatto gli aveva provocato, e in quel momento Ling restò
pietrificata dal
terrore alla vista di qualcosa che non si sarebbe mai potuta
immaginare: quegli
occhi, che la fissavano con un'espressione mista di spavento e odio,
non
avevano più niente di umano.
Xiaoyu
inciampò indietreggiando maldestramente e si
ritrovò seduta per terra, incapace di distogliere
il suo sguardo da quello di Jin Kazama. I suoi occhi, iride e sclera
comprese,
erano completamente neri, e le sue pupille, ridotte a fessure
verticali,
rilucevano di riflessi sanguigni.
I
due restarono a fissarsi con reciproco orrore per un tempo che parve
un'infinità, l'una pietrificata dallo spavento e dalla
sorpresa, l'uno
immobilizzato dalla vergogna e dal dolore che continuava a farsi
più acuto. E
c'era poi quella rabbia inspiegabile, un odio immotivato e inumano che
inondava
l'anima di Jin Kazama come un fiume in piena. Ora che i suoi occhi
erano
cambiati e la sua vista era tornata, la visione di quella ragazza che
lo
guardava con orrore gli faceva venire il mostruoso desiderio di
ucciderla, di
vederla in un lago di sangue. Ma Jin era ancora abbastanza in
sé da rendersi
conto di ciò che stava provando.
–Vattene!–
urlò rabbiosamente alla ragazza.
Ling
Xiaoyu continuava a guardarlo mentre le lacrime le salivano agli occhi.
–Kawamura…–.
–Vattene
stupida ragazzina!–.
La
ragazza scosse la testa, piangendo.
–Morirai
se non te ne vai! Non capisci?– gridò
selvaggiamente mentre sentiva che
la ragione lo abbandonava lentamente per dare il posto a un furore
disumano.
–Che…
che cosa ti sta succedendo?– chiese lei singhiozzando mentre
la pelle di
Jin si ricopriva di strani segni scuri e si dilatava, come se qualcosa
stesse crescendo sotto di essa. La sua massa muscolare pareva aumentare
a vista
d'occhio.
Jin
digrignò i denti, avvertendo qualcosa che si muoveva dentro
di lui, all'altezza
delle spalle. –Vai… via…–.
–No!–
urlò Xiaoyu gettandosi al collo di Jin, abbracciandolo,
senza nemmeno pensare a cosa stesse facendo, che cosa stesse
rischiando. Sapeva solo che quel ragazzo aveva bisogno di aiuto.
Fu
allora che avvenne qualcosa di inspiegabile.
A
quel contatto umano Jin
sentì il suo cervello frantumarsi in mille pezzi, centinaia
di voci riempirono
le sue orecchie, la sua vista si oscurò di nuovo e ogni
percezione della realtà
si infranse.
Uccidila, uccidila! Disse una voce grottesca dentro la sua
testa, una voce così terribilmente simile alla propria.
"No…
non posso!" rispose.
Non vuoi assaggiare il suo
sangue?
"Non
sono io che lo desidero!"
Ma sei tu che lo stai pensando,
sei tu che ti stai trasformando in un mostro.
"Sei
tu il mostro, non io".
Ma io sono te, non vedi?
"Bugiardo!
Tutto ciò non può essere vero!".
Per quanto ancora pensi che
riuscirai ad ingannarti? Non frenare il tuo corpo, lascia che la
metamorfosi
abbia termine. Non vuoi vedere cosa diventerai? Non vuoi liberare il
tuo potere
nascosto? Puoi abbandonare ogni dolore, se solo lo desideri.
"Non
posso permettere che tu mi faccia uccidere qualcuno!".
Potresti perfino vendicare
tua madre.
"Lasciami
stare!"
Per questa volta ti
accontento. Ma sappi che non ti libererai mai di me, perché
io e te siamo la
stessa cosa, io sono sempre stato dentro di te anche se te ne sei
accorto solo da poco. È solo questione di tempo…
"Non
importa…" rispose con l'ultima forza di volontà
rimastagli "ora lasciami in pace".
Spalancò
gli occhi. Davanti a lui il corridoio della Byotech splendeva di un
bianco
accecante.
Le fitte del dolore abbandonavano il suo corpo come la bassa marea
lasciando il campo ad un tremendo senso di spossatezza.
–Mio
Dio. Che cosa…–. Solo in quel momento si rese
conto che qualcuno lo
stava abbracciando.
–Kawamura!–.
Ling allentò di colpo la presa e si ritrovò a
pochi centimetri dal viso di Jin, i cui
occhi erano tornati normali. Entrambi indietreggiarono bruscamente
arrossendo
per la sorpresa e per l'imbarazzo.
–Stai
bene adesso?– chiese la ragazza azzardando un sorriso
nonostante le
lacrime che continuavano a scendere lungo le sue guance.
Jin
annuì. Tremava ancora e respirava a fatica, per cui aveva
difficoltà a parlare.
Squadrò la ragazza, chiedendosi se si trattasse di una
persona affidabile. Vedendola aveva sempre avuto l'impressione che
fosse infantile e superficiale, ma il coraggio che aveva dimostrato
nel restare con lui lo aveva sorpreso.
–Promettimi… che non dirai a
nessuno… ciò che hai visto–.
–Lo
prometto– giurò lei, pur essendo ancora scossa da
ciò a cui aveva
assistito.
–Adesso
andiamo al seminario– disse lui sforzandosi di riguadagnare
un po' di autocontrollo –O ci
butteranno fuori dall'università–.
*
–Questo
è l'ultimo– disse l'agente Hinagawa.
Lei
Wulong e il suo assistente, entrambi in borghese, si trovavano di
fronte a un piccolo e cadente
edificio a due piani ai margini della Zona A, a poche centinaia di
metri dagli sbarramenti che la divideva no dalla Zona Industriale.
Dalla vetrina del
negozio al piano terra, piuttosto buio e angusto, si affacciava una
variopinta
moltitudine di cianfrusaglie, mascheroni africani, statuette
rococò, ceramiche
Ming e Buddha sorridenti; una marea di oggetti che qualcuno aveva
salvato dalle
esplosioni e che per qualche ragione erano finiti tutti là,
per essere
acquistati da qualche nostalgico dei tempi andati.
Lei
aprì la porta con uno scampanellio e i due entrarono nella
penombra polverosa
dell'antiquario. Dopo qualche istante un vecchietto cinese si fece
strada verso
di loro passando tra uno Shiva danzante e un jukebox del 1960.
–Buonasera,
sono Wang Jinrei. Cosa posso fare per voi?– chiese il
negoziante
sorridendo lievemente.
–Buonasera,
signore. Siamo agenti della Polizia– disse Lei mostrando il
distintivo –Se non le dispiace vorrei farle alcune domande su
un oggetto–.
Alla
vista del distintivo il vecchio smise di sorridere e si fece serio
–Mi
dica–.
Wulong
gli mostrò una fotografia che raffigurava il terrorista
mascherato immerso nel
fumo. –Riconosce questa maschera?–.
Il
vecchietto portò la fotografia sotto la luce di una lampada
e inforcò un paio
di spessi occhiali. Dopo che la ebbe studiata per qualche secondo
annuì. –Impossibile per me non riconoscerla.
È una maschera demoniaca del
teatro Noh risalente al 1200, un oggetto unico e prezioso. Io la
possedevo
insieme ad altre maschere fabbricate dallo stesso artigiano, ma le ho
vendute
tutte in blocco un bel po' di anni fa–.
–Sapreste
dirmi il nome di chi le ha acquistate?–.
L'anziano
con i suoi profondi occhi scrutò il poliziotto con sospetto.
–Perché
volete saperlo? Chi è la persona nella foto?–.
–Mi
dispiace ma non sono tenuto a dare queste informazioni. Mi auguro che
sarà così
gentile da non ostacolare le indagini– rispose Lei con
professionalità, tentando di dimostrarsi cortese. Non aveva
mai amato le dimostrazioni di potere compiute dagli altri poliziotti.
L'antiquario
se ne andò senza dire niente nel retro del negozio. Pochi
minuti dopo ritornò
con due giganteschi cataloghi, che appoggiò su una scrivania
sollevando una
nuvola di polvere. Lei prese a starnutire violentemente e
tentò di allontanare la
polvere sventolando le mani.
–Sono
allergico– si scusò sorridendo
–Questo
è il registro delle vendite degli ultimi anni e quest'altro
è il registro delle
opere d'arte.– disse il vecchio con freddezza mentre apriva i
cataloghi. –L'acquirente si chiama Sunichiro Kunikata e ha
comprato queste maschere
il 27 settembre del 2163. Qui ci sono le polaroid che ho scattato per
l'inventario–.
I
due poliziotti si chinarono a osservare le fotografie raffiguranti nove
eleganti maschere di legno, tutte smaltate di bianco, una delle quali
conoscevano bene.
–È
proprio lei– mormorò Wulong ponendo l'indice sulla
foto del demone Hannya.
Un'ora
più tardi il detective Wulong sedeva alla sua scrivania con
le mani intrecciate
dietro la testa, assorto nella riflessione. Le ricerche che aveva
svolto negli
archivi elettronici dell'anagrafe avevano avuto qualche risultato.
Sunichiro
Kunikata, morto nel 2183 all'età di 85 anni, era stato
proprietario di un dojo
prima dello scoppio della guerra e, scampato alla morte, aveva
continuato ad
esercitare la sua professione fino all'età di 64 anni,
quando la sua palestra
era fallita per mancanza di fondi; suo figlio e sua moglie erano morti
parecchi
anni prima in un incidente, lasciando a lui il compito di occuparsi
della
nipote ancora bambina. Nonno e nipote avevano vissuto insieme in un
piccolo
appartamento nella parte più povera della Zona B, dove pare
che il vecchio si
fosse dato all'artigianato e in particolare alla forgiatura di spade e
altri
oggetti metallici, che poi rivendeva agli antiquari ricavandoci da
vivere.
Questo fino al 2183 quando era morto di vecchiaia. Da quel momento in
poi la
nipote allora sedicenne, Motoko Kunikata, era scomparsa senza lasciare
traccia,
forse perché era morta o forse perché si era data
alla clandestinità, cosa che
non era affatto difficile in una città popolosa e caotica
come Nuova Edo. Considerando le varie ipotesi Lei
Wulong era più propenso a credere che fosse ancora viva e
che abitasse nella
Zona Rossa insieme ad altre migliaia di senza nome; e, sebbene non
potesse
ancora definirsi sicuro al 100%, pareva che ne avesse avuto una prova.
Controllando
le denunce sporte quel giorno dagli altri poliziotti, si era ritrovato
davanti
ad un identikit che, pur non avendo all'apparenza niente di speciale,
gli aveva
fatto venire un colpo: –Donna bianca, età
sconosciuta, corporatura
media, altezza 1.70 circa. Ricercata per: detenzione di droga,
aggressione a
pubblico ufficiale, resistenza all'arresto, volto non identificabile.
Ultimo
avvistamento: White Crow Pub, Blocco 5, Zona Rossa–.
Quello
che lo aveva fatto saltare sulla sedia non erano tanto i reati commessi
quanto
il disegno che la raffigurava: una donna dai capelli rossi che
indossava una
maschera bianca. A quel punto Lei Wulong aveva febbrilmente frugato fra
le foto
delle maschere acquistate da Sunichiro Kunikata e ne aveva tirato fuori
una per
confrontarla col disegno.
–"Kitsune"–
aveva sussurrato mentre la osservava –La maschera della
volpe–.
Un
attimo dopo aveva inviato alcuni agenti ad interrogare i proprietari
del pub
sull'identità di quella donna, il cui nome era probabilmente
Motoko Kunikata e
che, ancora più plausibilmente, era una dei terroristi che
stava cercando.
Nota: la maschera del demone
Hannya è questa qui. Vi
dice nulla? :P
Appendice
Nuova Edo (NE)
Scheda
della città.
Abitanti: 170
milioni circa.
Etnia
principale:
asiatica.
Lingue
ufficiali:
Giapponese, Cinese, Inglese.
La
città di Nuova Edo ha pianta circolare e si divide in
quattro quarti (A, B, C, D) più una zona concentrica situata
nel cuore della città, l'Inner Core.
Zona
A
(sud-ovest): Centro città.
Non
è il centro geometrico della città ma
è il luogo in cui si concentra la vita di Nuova Edo: vi si
trovano tutti gli uffici, le scuole, i negozi, i punti d'incontro e
tutte le altre attività che non siano sotto il controllo
diretto della Mishima. All'interno di questa parte della
città esistono anche alcune zone residenziali ma
è possibile abitarvi solo se si è in grado di
pagare cifre astronomiche.
Zona
B
(sud-est): Zona residenziale
Frazione
della città completamente adibita a contenere abitazioni per
individui e famiglie di classe alta e media. Il costo dell'abitazioni
diminuisce man mano che ci si avvicina al confine con la zona
residenziale C, rendendosi accessibile anche a individui di classe
medio-bassa.
Zona
C
(nord-est): Zona Rossa.
Zona-dormitorio
per le classi sociali meno abbienti di Nuova Edo, per cui sono stati
costruiti giganteschi palazzi denominati Edifici Abitativi. L'alta
densità abitativa e le cattive condizioni di vita hanno
portato ad un alto sviluppo della criminalità. Per favorire
l'ordine e i controlli da parte della polizia, questa zona ha subito
una divisione geometrica più severa rispetto a quella
adottata nelle altre frazioni. La Zona rossa è divisa in 4
parti, ognuna dei quali è divisa in 10 blocchi che
comprendono un numero variabile di edifici abitativi.
Zona D (nord-ovest):
Zona Industriale.
In
questa parte della città sono situate tutte le fabbriche e
le industrie di NE, insieme alle coltivazioni in serra e agli
allevamenti. Ogni fabbrica è munita di filtri per l'aria per
evitare che lo smog si diffonda in tutta la città. Gli
scarichi e lo smog non filtrati sono incanalati in tubi che li portano
fuori dal confine di Nuova Edo.
Inner Core.
E'
il centro della città, separata dal resto da un parco a
forma di anello e da una spessa muraglia presieduta da militari. E' la
sede del Mishima Palace e di tutti gli organi a cui essa fa capo, come
il palazzo del governo, i laboratori mishima, l'archivio di stato,
l'anagrafe, la banca centrale di NE, NE Television, la sede della
Cyberpolizia e molti altri. Alcuni di questi edifici sono stati
denominati unicamente con un numero per mantenere il segreto sulle
mansioni che vi si svolgono. Per accedere all'Inner Core e agli edifici
che ne fanno parte è necessario possedere un pass speciale.
Questa è la prima volta che pubblico una fanfiction in
internet ed è quindi con grande emozione che
inauguro il mio primo "angolo dell'autore" (cosa che dà
un'aria molto profescional,
sisi).
Grazie ad Angel Texas Ranger, Valy_Chan, Elilly, AleTokio, Miss Trent e
DarkTranquillity per aver recensito positivamente il primo capitolo,
rigenerando il mio ego! Questo è lungo il doppio del
precedente ed è anche doppiamente incasinato, ma spero che
non vi abbia dispiaciuto.
Valy Chan:
Anche io come puoi ben vedere ho amato "1984". Mi è rimasto
impresso così tanto da diventare di fonte di ispirazione per
questa fiction, non solo per quanto riguarda l'atmosfera generale ma
anche per certe caratteristiche: i manifesti del dittatore sparsi per
tutta la città, le persone continuamente bombardate dai
media, la mancanza di informazione e memoria storica ecc ecc. La mia
paura era che questa fiction risultasse un po' troppo "pretenziosa"
visto gli argomenti trattati, ma spero di essere riuscita a evitarlo
(spero <_<)
Dark Tranquillity:
evvai un altro fan dei Nevermore! :D Sarei molto curiosa di sapere su
cosa era basato il tuo racconto. Io stessa ero lì per
lì per dare a questa fiction il titolo della canzone ma poi
l'ho tagliato
Miss Trent:
Grazie per i complimenti! La mia intenzione è proprio quella
descrivere ogni scena in modo che possa facilmente essere immaginata.
Per quanto riguarda lo scrivere un paragrafo per personaggio devo
ammettere che lo faccio più che altro per
comodità, perché così invece di andare
in ordine cronologico posso scrivere prima le parti per cui ho
ispirazione e lasciare per dopo quelle che non mi riescono (tanto poi
riordino tutto una volta che ho finito il capitolo xD). Insomma, se in
futuro dovesti notare delle incongruenze ora sai perché.
Angel Texas
Ranger: A dire il vero non ho fatto molto caso
all'età... Comunque direi che valgono quelle che i
personaggi hanno fra tekken 4 e 5 (anche perché non so quale
sia l'anno mondiale che ha usato la Namco <_<)
Al prossimo capitolo (che sicuramente non arriverà
veloce come questo)!
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Capitolo 3 *** Claustrofobia ***
3.
Claustrofobia
Il
sole era già tramontato quando Kunimitsu aveva deciso che
sarebbe stato sicuro
fare ritorno a casa sua dopo un intero pomeriggio passato a nascondersi
dalla
polizia; ed era con un vago senso di stanca soddisfazione che la donna
avanzava
cautamente nel vicolo buio, alla cui fine scorgeva l’ingresso
fiocamente
illuminato dell’Edificio Abitativo 2.
–Kunimitsu?–.
Quel sussurro inaspettato,
proveniente dal buio di fronte a lei, la raggelò.
Kunimitsu
si fermò, cercando di distinguere l’altra persona.
–…Anna! Sei tu? Non
si vede niente–.
–Sst–.
La sagoma della barista del
White Crow si scostò dalla parete, stagliandosi nella
penombra. –Grazie
al cielo sei arrivata! È da ore che ti sto
aspettando!–.
–Certo
che sono arrivata!– esclamò la kunoichi, sorpresa.
–Perché mi
stavi aspettando?–.
–Sono
venuta ad avvertirti, Kuni…– Anna parlava con
concitazione –La
polizia ha fatto irruzione in casa tua due ore fa! Io non so cosa
volessero ma
erano Agenti Speciali! Sanno chi sei, hanno diramato il tuo identikit a
tutte
le stazioni–.
Il
cuore che salta un battito.
Cos’è
questa sensazione, Kunimitsu? È forse quella del topo caduto
nella trappola? È
forse paura?
–No.
Non è possibile– cercò di ragionare
–Ho abbandonato la mia vera
identità anni fa, nessuno conosce il mio volto e il
monolocale non è registrato
a nome mio. Non possono essere risaliti a me!–.
Anna
non rispose, il silenzio avvolse le due donne.
–A
meno che…– la voce di Kunimitsu si fece ad un
tratto più dura –A
meno che qualcuno non abbia fatto la spia. È
così, Anna?–.
Nessuna
risposta, solo il rumore di un respiro trattenuto.
–È
così, Anna?–.
Kunimitsu
la sentì scoppiare in lacrime. –Mi… mi
dispiace tanto! Hanno detto che
avrebbero portato via me e Marshall se non… se non gli
avessimo detto dove
trovarti! E così… e così Marshall ha
parlato. Tu sai cosa significa essere
“portati via”, vero?–.
Per
un attimo fu presa dall'impulso di prenderla a pugni. –Temo
che per
colpa vostra potrei scoprirlo molto presto–
osservò gelidamente.
Anna
afferrò il braccio dell’amica. –Kuni ti
prego, non fare così! Lasciami
spiegare!–.
–Non
fare scenate Anna– disse l’altra, allontanando il
braccio dalla presa
della donna –Non c’è niente da spiegare:
volevate vivere. È umano. Del
resto sono stata io a mettervi in questa situazione. Però
non riesco a capire
per quale motivo la polizia ce l’abbia così con
me... Agenti Speciali
addirittura! In genere non mandano mai agenti della Squadra Speciale a
stanare
gli abitanti di questa zona per reati minori come detenzione di droga e
clandestinità. Cazzo, qui tutti detengono droga e usano
identità
false!–.
–Anche
a me sembra strano... Io e Marshall pensiamo che potrebbero averti
scambiato per
un'altra persona.– disse Anna, che sembrava aver riacquistato
un po’
della sua compostezza –Senti, c’è
un'altra cosa che devo dirti–.
–Cioè?–.
–Marshall
mi ha pregato di dirti che vista la situazione dovresti accettare
l’aiuto che
ti è stato offerto–.
–Quale
maledettissimo aiuto?!– esclamò. Poi ebbe un
fugace flash di un uomo con
la voce metallica e la maschera da teatro Noh.
–Non
ne ho idea. Marshall è stato poco chiaro su questo punto, ma
ha detto che tu
avresti capito–.
Kunimitsu
indugiò sotto il peso della sorpresa. Dunque Marshall
conosceva quel pazzoide?
E voleva che lei andasse a cercarlo lì dove le era stato
detto? Cercò di
riportare alla mente il contenuto del biglietto: Zona Industriale,
dietro la
fabbrica di elettrodomestici. Certamente un luogo poco invitante.
–Credo
di aver capito infatti, anche se la cosa mi sembra assurda–.
–Allora
sei al sicuro?– la voce di Anna era sollevata –Mi
sento molto
meglio!–.
–Ora
come ora la parola “sicuro” mi sembra
un’esagerazione ma forse ho un posto dove
andare. Però prima ho bisogno che tu mi faccia un
favore–.
–Qualsiasi
cosa, Kunimitsu. Mi sento così in colpa per quello che
è successo…–.
–Quando
vedi Hwoarang digli che mi dispiace di aver combinato questo casino e
che mi
farò viva quando la situazione si sarà fatta
più tranquilla. Puoi
farlo?–.
–Certo,
glielo dirò, non ti preoccupare–. Anna si mise la
mano sul cuore come per
dare più forza al suo giuramento, pur sapendo che
l’altra poteva a stento
vederla.
–Bene,
allora… vado–.
E
così Kunimitsu tornò da dove era venuta,
lasciando alle spalle la sua casa, e
mentre affondava nuovamente nell’oscurità
più cupa dei vicoli interni ebbe la
spiacevole sensazione di stare per abbandonare tutto ciò che
era stata.
*
Lee
Chaolan stava sdraiato su una chaise-longue nel suo elegante salotto in
stile
minimalista, immerso nel silenzio e in una rilassante penombra,
lasciando che
gli occhi si riposassero dopo quella stressante giornata. Al di
là delle
finestre la rigogliosa vegetazione del giardino era immota, scossa
soltanto dal lieve muoversi di qualche insetto. L’unica fonte
di luce erano i
globi luminosi delle lampade da esterno, il cui fioco bagliore filtrava
attraverso le piante posandosi gentilmente sulla mobilia.
Improvvisamente
il silenzio fu rotto da una voce di donna: –Sai, penso che
dovresti
migliorare il sistema di sicurezza della tua villa–.
Lee
aprì gli occhi e sorrise. Ora una sagoma conosciuta sedeva
sulla finestra aperta.
–Fortunatamente
non ci sono persone più pericolose di te da cui dovrei
difendermi, Nina–
osservò lui con calma.
–E
non pensi di doverti difendere da me?–.
“Insinuante, Nina. Come sempre”
pensò Lee.
–Che
motivo avresti di farmi del male? In questa città non ci
sono persone più
potenti di me per cui lavorare, eccetto mio padre–.
–Lee,
mi tratti sempre come se fossi uno schifoso mercenario!–
rispose Nina,
con tono ironicamente dispiaciuto. Touché.
–Non
è forse quello che sei, Agente W?– chiese lui con
un pizzico di
cattiveria.
–Può
darsi– disse lei con una smorfia simile a un sorriso.
–Per
farmi cambiare idea, per esempio, potresti cominciare a passare dalla
porta
invece che infiltrarti furtivamente dalla finestra, che ne
dici?–.
–Non
mi va– sbottò lei, stiracchiandosi le braccia
–Per entrare qui
bisogna superare tanti di quegli sbarramenti di sicurezza…
è solo una perdita
di tempo!–.
Lee
decise che era meglio tagliare corto. –Parliamo di cose serie
adesso:
che mi dici delle indagini dell’agente Wulong?–.
–L’ho
seguito per tutto il giorno e l’unica informazione ricavabile
è che le indagini
proseguono molto a rilento. L’unica informazione che hanno
è che uno di loro
possiede una maschera Noh comprata da un antiquario, ma non
è stato ancora
rintracciato–.
–Pensi
che sia un individuo affidabile?–.
–Oh,
sì, è proprio una brava persona: diligente,
scrupoloso, amante della legalità…
Poverino, mi fa quasi pena. Non credo che possa rappresentare una
minaccia per
la Mishima, ma continuerò a tenerlo d’occhio in
attesa che scopra qualcosa–.
–Ottimo,
e per quanto riguarda quella faccenda del laboratorio? Il dottor Abel
ha
ritrovato l'Esperimento Numero 9?–.
Nina scosse la testa.
–Basta
parlare di lavoro per ora…– disse lei
perentoriamente, saltando giù
dalla finestra, per poi muoversi con passo felino verso
l’uomo. Lee la vide
armeggiare con la lampo e un secondo dopo la sua tuta da spia era
scivolata a
terra e la luce tremula dei globi luminosi si rifletteva sulla pelle
nuda. “Sei proprio un
uomo fortunato, Lee
Chaolan” si ritrovò a pensare lui.
–Divertiamoci–.
*
Due
occhi completamente neri, da bestia assassina, privi di ogni sentimento
umano.
Ling
Xiaoyu si svegliò di soprassalto e si guardò
attorno nel disperato tentativo di
riconoscere qualche oggetto familiare nell'oscurità della
sua camera. Lo
schermo luminoso della sveglia segnava le 3.42 a.m.
Si
rannicchiò ancora di più nelle coperte, cercando
di scacciare quell'immagine
dalla sua mente, ma era difficile considerando che da quel pomeriggio
non
riusciva a pensare ad altro. Chi avrebbe mai immaginato che la sua
storia
d'amore si sarebbe trasformato in un horror?
Era
difficile accettare che Kawamura, un ragazzo tranquillo e posato, anche
se dal
carattere ombroso e distaccato, potesse trasformarsi in qualcosa del
genere.
Già, ma che cosa,
esattamente? Ciò
che aveva visto quel pomeriggio sfuggiva da ogni classificazione, non
aveva per
niente l'aria di essere una malattia. Ma che cosa poteva essere allora?
Dopo
che quel strano attacco era finito, Takeshi era tornato quello di
sempre, se
possibile più gentile di quanto era abituato ad essere.
Forse aveva paura che lei avesse potuto
svelare il suo segreto a qualcuno, e chi poteva biasimarlo? Ling non
riusciva a
immaginare in che modo si potesse convivere con qualcosa del genere. In
ogni
caso non doveva assolutamente preoccuparsi di lei, perché
aveva giurato di non
dirlo a nessuno.
Certo,
probabilmente Kawamura non si sarebbe immaginato che Xiaoyu si sarebbe
buttata
da un palazzo di cento piani se lui glielo avesse chiesto! E nonostante
la
paura che ora cominciava ad ispirarle, lei era ancora pronta a fare
qualsiasi
cosa per lui, a dimostrazione che una cotta portentosa a volte
può produrre più
cambiamenti di un tornado.
Ling
non dubitava che dopo questo episodio Takeshi si sarebbe fatto vedere
di nuovo:
appena il seminario del dottor Boskonovitch era finito, l'aveva
guardata con
uno sguardo indecifrabile e poi se ne era andato fingendo di essere la
persona
più tranquilla del mondo, come se non fosse successo niente.
Ma lei sapeva che
non era così.
Qualsiasi
ragazza normale sarebbe fuggita di fronte a una situazione del genere,
ma lei
non poteva assolutamente, nemmeno volendo. Non poteva lasciare che i
sogni che
covava da anni, per quanto fossero infantili, morissero
così, sotto quello
sguardo gelido e inumano. Qualunque fosse stato il suo problema, lei
l'avrebbe aiutato a risolverlo.
"Trema
Kawamura! Mi occuperò io di te" pensò con un gran
sorriso, incurante del
fatto che forse quella che avrebbe dovuto tremare era lei.
*
"Ma
che cazzo sto facendo?" pensava Kunimitsu mentre camminava con cautela
avvolta nel buio della Zona Industriale, evitando la luce dei pochi
lampioni
solitari che rischiaravano la notte. Quel luogo lugubre le dava la
spiacevole
sensazione di essere l'ultima abitante di una città fantasma.
"Forse
mi sto cacciando in un guaio ancora peggiore. Chi mi dice che quel tipo
mascherato sia una persona affidabile? Penso che farei meglio a
rifugiarmi da
qualche altra parte". Ma ormai aveva già svoltato l'angolo e
si era
trovata di fronte l'insegna della Domestik s.P.a. Visto che ci aveva
messo ore
e ore per attraversare la città e arrivare là,
tanto valeva tentare.
Kunimitsu
si infilò nella stradina che costeggiava la fabbrica e
raggiunse il retro,
scarsamente illuminato da qualche lampione al neon ormai intermittente;
dopo
essersi guardata attorno scavalcò la rete che lo delimitava
e si trovò in un
largo piazzale occupato da un mucchio di containers e una massa di
rottami.
Avanzò esitando in quel cimitero di carcasse metalliche. "E
adesso come
faccio a sapere qual è il container giusto?" si chiese
seccata.
Un
suono acuto e sgradevole la fece scattare sull'attenti. Piccole figure
zampettanti, spaventate dal suo arrivo, attraversarono una zona d'ombra
e
sparirono dietro un container con un sonoro squittio.
–Topi...–
mormorò disgustata –Beh, almeno ho trovato
l'ingresso–.
Seguì
i roditori e si trovò di fronte ad un tombino leggermente
socchiuso da cui
esalava un odore di marcio. Kunimitsu esitò. Chi avrebbe mai
potuto nascondersi
in un posto simile? Forse quel tizio le aveva giocato un brutto tiro.
Stava
quasi per andarsene quando un balenio di luci in movimento la
raggelò,
costringendola ad appiattirsi contro la parete metallica del container.
Il
balenio continuava a non molti metri da lei. Impossibile non
riconoscere
delle torce elettriche.
"Cazzo.
Chi sono questi?". A quel punto le fogne le sembrarono stranamente
invitanti e così, abbassatasi, iniziò a spingere
il coperchio del tombino con
estrema cautela; se quelle persone erano poliziotti il minimo rumore
poteva
costarle caro.
Ormai
cominciava a distinguere le loro voci, anche se non riusciva a capire
cosa
dicessero.
Il coperchio, dopo uno sforzo che le parve durare ere geologiche, si
aprì su una scala a pioli che sprofondava in una nera
voragine. Kunimitsu si
affrettò ad entrare e a chiudersi il cerchio metallico sul
capo, poi rimase lì
ad attendere col fiato sospeso, illuminata solamente dai fili di luce
che
passavano attraverso la grata.
Per
poco non perse la presa quando due piedi si posarono sul coperchio
metallico.
–L'abbiamo
persa– disse una voce in superficie, stranamente
fredda e impersonale.
–Sei
sicuro che sia entrata nel retro?– chiese una
seconda voce.
–Certo,
l'ho vista con i miei occhi–.
–Io
non ho visto niente. L'abbiamo persa prima di raggiungere il retro
della
fabbrica– disse una terza persona.
–Tu
l'hai persa. Io sono sicuro che sia passata di qui–.
–Forse
si nasconde tra i container. Continuiamo a cercare!–
–Andiamo–.
Ancora rumore
di passi e i suoi inseguitori si erano allontanati.
Kunimitsu
prese a scendere le scalette mentre il cuore le batteva a mille. Ormai
non aveva dubbi che quelli fossero poliziotti, forse della Squadra
Speciale. Ma quando avevano cominciato a seguirla? Lei non si
era
accorta di nulla e ora avrebbe voluto prendersi a schiaffi.
“Dannazione, forse
erano rimasti ad aspettare vicino a casa mia. Certo, è
così, razza di idiota
che non sei altro! Ti sei fatta inseguire!”.
Dopo
una lunga discesa toccò finalmente il suolo; era
all'asciutto ma non vedeva
assolutamente nulla. Una ventata di aria calda e fetida la raggiunse,
provocandole un brivido di disgusto. Dalla stessa parte sembrava che
provenisse
una debole luminescenza verdognola.
Tese l'orecchio ma udì
solo un lontano zampettare di ratti.
Tirò
fuori un accendino e lo accese, scoprendo così di trovarsi
in un cunicolo
abbastanza alto da far passare una persona in piedi; vide che il cunicolo si estendeva
dritto e pianeggiante per poi venire inghiottito nel buio
ristagnante come nella gola di un mostro e così, fatto un
respiro
profondo, decise di imboccarlo.
Dopo
un tempo che le parve un'eternità ma che poteva essere solo
una manciata di minuti
stava ancora proseguendo nel buio, nella speranza che la fogna la
conducesse da
qualche parte. Usava l'accendino solo ogni tanto per evitare che si
esaurisse troppo in
fretta.
Ad
un certo punto si fermò, sentendosi incredibilmente idiota.
"Ma che sto facendo? Qui non c'è nessuno oltre a me! Visto
che lassù mi
cercano per stanotte mi fermerò qui, ma è inutile
andare avanti. Rischio solo
di perdermi". E così si sedette in mezzo al corridoio, dove
l'aria si era
fatta nel frattempo più respirabile, e attese, nemmeno lei
sapeva cosa.
Il tempo passò
con incredibile lentezza, finché un rumore la fece scuotere.
Passi.
Passi
nel cunicolo. Non sapeva dire di quante persone fossero
perché l'eco ne
amplificava e moltiplicava il rumore.
Kunimitsu
saltò in piedi estraendo il kunai nello stesso tempo, decisa
a far fuori almeno qualcuno dei suoi inseguitori prima di essere
arrestata e rinchiusa in qualche luogo remoto.
I
passi si avvicinarono velocemente, poi si fermarono. Kunimitsu era
perfettamente immobile e silenziosa come una volpe in agguato. Qualcuno
si era
fermato a pochi passi da lei e indugiava ad andare avanti. Poteva
sentirlo
respirare di uno strano respiro soffocato.
La
kunoichi si stava preparando ad attaccare quando una luce abbagliante
si accese dal nulla
rivelandole ciò che aveva davanti: un viso mostruoso e
sfigurato, bianco come
un cadavere putrefatto, con occhi gialli e sporgenti.
Kunimitsu urlò. L'essere
orrendo urlò e la luce si spense. Un attimo dopo si riaccese.
Kunimitsu
passò di colpo da uno stato di terrore a uno di allibita
stupefazione. –TU!– gridò furibonda.
Quello
non era un viso sfigurato, ma la maschera corrugata del demone Hannya e
davanti
a lei, con tanto di palandrana nera e criniera rossa, stava il
misterioso
individuo che poche ore prima le aveva offerto il suo aiuto.
–Oh,
ma che piacevole sorpresa!– esclamò con la sua
voce metallica non appena
si fu ripreso dallo spavento.
–Si
puoi sapere perché hai urlato!?– lo
rimbrottò lei rinfoderando il
pugnale ancora in preda allo shock.
–Mi
hai spaventato! E tu perché hai urlato?–.
–Anche
tu mi hai spaventato– ammise –Pensavo che fossi un
mostro–.
L'uomo
decise di sorvolare sulla frase poco complimentosa e le disse:
–Non mi
aspettavo di trovarti qui oggi. Come mai sei venuta?–.
Kunimitsu
indugiò un po' a rispondere, ora che si trattava di
confessare il motivo per cui era arrivata fin là.
–Ho bisogno di aiuto, la polizia ha scoperto
dove abito e non so dove andare–.
–Ah,
e io che speravo che tu fossi venuta perché avevi voglia di
vedermi!–
esclamò lui con tono dispiaciuto.
–Non
mi pare il momento di scherzare– replicò lei.
–Mi
spieghi dove ci troviamo? Non mi dirai che vivi qui!–.
–No,
infatti. È un rifugio in cui vengo quando non so dove
nascondermi e se
proseguiamo per questa parte vedrai che
arriveremo…–. Improvvisamente si
zittì e si voltò.
Di nuovo passi, questa
volta chiaramente
di un gruppo di persone, risuonavano in fondo al cunicolo mentre fasci
di luce
fendevano il buio.
–Non
mi avevi detto di aver portato ospiti– osservò.
–Maledizione!–
esclamò costernata –Credevo che se ne fossero
andati!–.
–Non
importa, al buio faremo perdere le nostre tracce– disse lui
spegnendo la
torcia –Dammi la mano, ti guiderò io–.
I
passi accelerarono di colpo: dovevano essersi accorti della loro
presenza.
Kunimitsu prese la mano dello sconosciuto senza esitare e sì
lanciò a correre
nell'oscurità. Ormai non poteva far altro che affidarsi a
lui.
–Dove
stiamo andando?– chiese con apprensione.
–Fuori
di qua. Ai condotti d'areazione–.
*
Jin
Kazama fissava la sagoma della finestra che i lampioni proiettavano sul
soffitto della sua camera. Quella notte si era imposto di non dormire
e,
nonostante la stanchezza che gli intorpidiva le membra, fino ad ora
c'era
riuscito benissimo. Non aveva nessuna intenzione di addormentarsi e
ripiombare
nei sogni notturni, ora che la sua stessa vita diurna si era
trasformata in un
incubo.
Quello
che aveva avuto quel pomeriggio era stato il decimo attacco in 5 mesi,
ed era
stato il peggiore: quella voce gli aveva già parlato prima
d'ora, ma le scorse
volte non si era mai ritrovato in un tale stato di schizofrenia, non
gli era
mai successo di parlare con se stesso; perché ora sapeva che
quella voce
bestiale era sua e non poteva rifiutarsi di accettarlo. Era stato lui
stesso a
dire di uccidere Ling Xiaoyu, sebbene fosse un lui diverso.
"Beh,
sto impazzendo, non c'è niente da fare"; ma la pazzia poteva
spiegare solo
quello che accadeva nella sua mente, non quello che capitava al suo
corpo.
Stavolta
i cambiamenti nella sua morfologia erano stati più dolorosi
del solito e,
benché non si fosse visto allo specchio, sapeva che erano
stati più evidenti
delle altre volte. Aveva sentito le sue membra espandersi, i muscoli
gonfiarsi
fra la pelle e le ossa. E poi c'era stata quella sensazione orribile,
come se
qualcosa avesse voluto schizzare fuori dalla sua schiena.
Una
malattia avrebbe potuto spiegare quei sintomi e lo stato di alterazione
mentale? Non ne era sicuro; e se non era sicuro nemmeno di se stesso di
che altro
avrebbe potuto esserlo?
Come
se non bastasse si era aggiunto un altro problema: Ling Xiaoyu. Lei
sapeva e
avrebbe potuto dirlo a qualcuno, cosa che non poteva assolutamente
permettersi.
Da
quando la guerra nucleare era finita il governo aveva cominciato a
raccogliere
in istituti speciali tutte le persone che avevano subito malformazioni
o
malattie sconosciute. Jin lo sapeva solo perché lo aveva
visto accadere ai suoi
vicini di casa: un giorno alcune persone in giacca scura erano venute a
prendere il loro figlio nato da poco, dicendo che per via della sua
malattia
avrebbe dovuto vivere per qualche tempo in un istituto speciale, dove
fior fior di medici
avrebbero salvaguardato la sua salute; ma erano passati anni, il figlio
non era
più tornato e l’uniche notizie che ricevessero
erano lettere sempre uguali che
dicevano “vostro figlio sta bene e fa progressi”,
finché i due dovettero
autoconvincersi che fosse la verità.
Dicevano
che era per il loro bene, ma questo non era un dato di fatto; il dato
di fatto
era che persone come quel bambino svanivano nel nulla e Jin non
dubitava che avrebbe fatto la stessa fine se le autorità
avessero scoperto
quello che gli stava succedendo; perciò aveva preso la
risoluzione di parlare
con quella ragazza per decidere se avrebbe potuto fidarsi di lei.
*
L'uomo
mascherato si accasciò al suolo lasciandole la mano.
Kunimitsu frenò di colpo,
allarmata.
–Che
hai!?– chiese con apprensione.
–Niente,
ho solo bisogno di riprendere fiato… Non sono più
un ragazzino, eh eh–
ridacchiò lui mentre il respiratore emetteva degli sbuffi
affannosi. –Ormai… dovremmo averli
seminati–.
Kunimitsu
si voltò a fissare il buio, augurandosi che i loro
inseguitori si fossero persi
nel labirinto delle fognature. Non aveva idea di come la sua guida
fosse
riuscita ad orientarsi in quell'intricato groviglio di canali, al buio
per di più.
Lo
sconosciuto si rimise lentamente in piedi e accese la sua torcia
elettrica
illuminando una scaletta di ferro che pendeva sopra le loro teste.
–Saliamo–.
I
due salirono e uscirono da un tombino del tutto simile a quello da cui
erano
entrati.
Kunimitsu
si guardò attorno, ora che i cunicoli erano illuminati da
piccole lampadine, e
vide che lo scenario era cambiato: non si sentiva più alcun
fetore e i vicoli
di pietra si erano allargati trasformandosi in spaziosi corridoi di
cemento.
Alzò la testa: il soffitto era percorso da una dozzina di
tubi simili a
serpenti d'alluminio.
L'uomo
mascherato richiuse il tombino e ci spostò sopra un bidone
metallico già pronto
in un angolo. Evidentemente non era la prima volta che passava di
là.
–E
così ci siamo liberati dei nostri sgraditi ospiti–
disse lui
spolverandosi le mani.
–Dove
ci troviamo?– chiese la kunoichi.
–Alle
porte della città, per così dire. Oltre queste
mura ci sono i macchinari che
prendono l'aria dall'esterno quando il vento allontana le nubi
tossiche. Poi la filtrano e la mettono in circolazione dentro
la cupola– spiegò.
–Non
ero mai stata così lontana dal centro di questa
città-prigione– disse
lei con aria sollevata –Mi sembra di essere a un passo dalla
libertà–.
–Non
c'è libertà oltre questi cancelli–
disse lui con un tono di voce che si
era fatto improvvisamente tetro –Solo desolazione–.
Kunimitsu
lo guardò stupita per quel repentino cambio di umore e per
la prima volta che si trovava con lui sentì un brivido
attraversarle la schiena. Chi era questa persona? Ora che si trovava
fuori
pericolo e aveva più tempo per pensare, si era resa conto di
non sapere
assolutamente niente di lui, nemmeno il suo nome.
–Vogliamo
andare?– chiese lui ritornando allegro. Lei annuì,
un po' interdetta.
E
così i due ripresero a camminare con passo sostenuto nei
grigi corridoi, che
alla luce fredda delle lampade prendevano un
aspetto tetro, di catacomba. "Persino il buio delle fognature era
più
invitante" pensò lei, ma forse era solo una sensazione
dovuta al fatto di
trovarsi ai confini della civiltà con un perfetto
sconosciuto. E se fosse stata
una trappola?
Mentre
le camminava davanti con la sua massa di capelli rosso fuoco lei lo
osservò
attentamente, studiandolo. Era ovvio che fra loro due ci fosse una
certa somiglianza, e questo l'aveva stupita già la prima
volta che si erano incontrati, ma c'era qualcos'altro che le dava da
pensare. "Ha un'aria così familiare…"
rifletté, "Ok,
questo non mi tranquillizza per niente!".
Procedevano
in completo silenzio da alcuni minuti quando la voce di Kunimitsu
interruppe la
quiete.
–Questo
pomeriggio mi stavi seguendo, vero?–. La rivelazione le aveva
fatto
capolino nella mente, chiara come l'evidenza.
L'uomo
mascherato non si scompose. –Sì–.
Quella
conferma così distaccata la mise sulle spine, dicendole che
probabilmente si trovava sulla via per scoprire l'identità
di quel misterioso personaggio. –E
perché?–.
–Marshall
Law mi ha parlato di te un po' di tempo fa–.
Il
nome dell'amico barista la tranquillizzò. Allora era davvero
a questo strano
tipo che si riferiva il messaggio riferitole da Anna. –E
così conosci
Marshall–.
–Beh,
un po' tutti conoscono Marshall– ammise lui.
–Io
però non ti ho mai visto al White Crow, eppure ci passo
tutti i giorni– osservò lei, stando attenta alle
sue reazioni.
–È
vero, non vengo mai al White Crow… Troppi impegni da
sbrigare, sai com'è! Si
può dire che oggi abbia fatto un'eccezione apposta per
te– ridacchiò. –E a giudicare da come
hai messo k.o. quel poliziotto penso di aver
fatto bene–.
Kunimitsu
si fermò di botto. La lampadina che illuminava quel tratto
di corridoio si spense e si riaccese sfrigolando. –Ok, la
chiacchierata è
finita!– esclamò lei minacciosamente
–Dimmi chi cazzo sei e che
cazzo vuoi da me–.
Lo
sconosciuto si voltò lentamente, mostrandole il feroce e
sardonico sogghigno
del demone Hannya. –Non conosco il mio vero nome ma tutti mi
chiamano
Yoshimitsu e ci ho messo un sacco di tempo a trovarti, Kunimitsu. O
forse
dovrei dire… Motoko–.
Trasalì.
Era da anni che non sentiva quel nome, nessuno che fosse ancora vivo
l'aveva
mai chiamata così. L'unico modo che uno avrebbe avuto per
risalire al suo nome
era consultare la Banca Dati Elettronica di Nuova Edo, e quella era
accessibile
solo a quelli del governo e ai cyberpoliziotti. E agli agenti della
Squadra
Speciale.
La
donna dai capelli rossi cominciò ad indietreggiare senza
rendersene conto. –Motoko è morta anni fa. Io sono
Kunimitsu, la volpe–. Quasi
meccanicamente estrasse il suo kunai.
Yoshimitsu
fissò la lama lucente che rifletteva il bagliore elettrico
della lampadina
rotta. Ridacchiò, per poi replicare con tono insinuante:
–E pensare che un
tempo eri una bambina così gentile, Motoko. Questa Kunimitsu
invece mi pare che
abbia un caratteraccio…–.
–Ti
sbagli, io non ti conosco!– esclamò lei brandendo
il pugnale nella
direzione dell'uomo –Mi ricorderei di un tipo strano come
te–.
Yoshimitsu
sospirò, ignorando anche quest'altra frase poco
complimentosa. –Effettivamente all'epoca tu eri troppo
piccola e io ero un po' diverso
da ora… Sai, non portavo ancora la maschera e nemmeno tu la
portavi, del resto.
E nessuno dei due aveva ancora i capelli rossi– disse lui
passandosi una
mano nella folta criniera. –La mia purtroppo è
solo una parruca, eh
sì–.
–Smettila
di fare il cretino– sbottò lei –Sei un
Agente Speciale in
borghese, è così? Hai fatto tutta questa messa in
scena per arrestarmi e
probabilmente hai ingannato anche Marshall! Forse speravi che ti avrei
dato informazioni
su altri ricercati, è perciò che mi
cercate?–.
L'uomo
si mise una mano sul petto, offeso. –Io? Agente Speciale? Se
io fossi
uno di loro tu a quest'ora saresti già morta–
tuonò, poi prese ad
avanzare verso di lei. –Finiamola con questa farsa,
Kunimitsu. Rinfodera
il kunai– disse lui protendendo il braccio sinistro verso di
lei.
–Non
ti avvicinare!–.
Un
breve lampo e Yoshimitsu fu costretto a ritirarsi. La manica
dell'impermeabile
presentava ora un largo squarcio all'altezza dell'avambraccio.
–Scusami,
hai ragione. Capisco la tua diffidenza– si
affrettò a spiegare lui
mostrandole i palmi delle mani in segno di pace –Ma non
c'è bisogno di distruggere
ulteriormente la mia giacca nuova, ok? Ti spiegherò tutto
dopo–
Anche
Kunimitsu si era ritratta, stupita. Quando il suo kunai era entrato in
contacco
col braccio del suo avversario aveva udito un rumore metallico. Nessuna
traccia
di sangue sporcava la lama.
La
kunoichi si rimise in posizione di guardia, studiando l'avversario.
–Un braccio meccanico?–.
Yoshimitsu
annuì. –Più o meno–.
Kunimitsu
continuava a puntargli la lama contro e a squadrarlo con diffidenza,
soppesando
le sue intenzioni. –Devo ammetterlo, non hai l'aria di essere
un Agente
Speciale. Ma allora come fai a conoscere quel nome... "Motoko"? E non
dirmi "ti spiegherò tutto dopo". Voglio saperlo ora–.
Yoshimitsu annuì
e poi cominciò a raccontare: –Ho conosciuto tuo
nonno, Sunichiro, durante l'inverno nucleare. Siamo diventati amici,
più o
meno. Mi insegnò alcune delle sue tecniche di combattimento
e poi mi disse che,
se un giorno ne avessi avuto bisogno, avrebbe forgiato una spada per
me.
"Il bushido è inutile quando i tempi si fanno troppo duri,
ma una spada
vale sempre" diceva–.
A
quelle parole Kunimitsu sentì che le lacrime stavano per
salirgli agli occhi.
Suo nonno ripeteva spesso questa frase anche a lei.
L'uomo
continuava a parlare: –Alcuni anni dopo, quando il suo dojo
era già
fallito andai a visitarlo per dirgli che avevo bisogno di una katana.
Lui
accettò e mi presentò la sua nipote di sei anni
dicendomi che presto avrebbe
cominciato a insegnarle il ninjutsu. E così ha fatto,
evidentemente–.
Yoshimitsu sorrise al di sotto della sua maschera.
La
ninja lasciò la posizione di guardia e rinfoderò
il pugnale, ritrovandosi a sorridere per la nostalgia. –"Il
samurai decide le sorti della battaglia, il ninja decide le sorti della
guerra". Mio nonno amava i vecchi proverbi. Ti credo–.
–Ne
sono felice, la mia giacca nuova non avrebbe resistito ad altri
attacchi!– disse lui sollevato –Ora però
è meglio che ci
sbrighiamo: se stiamo ancora a chiacchierare rischiamo di imbatterci
nei
tecnici del turno mattutino–.
–Sì–.
I
due avevano camminato per un'altra mezzora finché non si
erano ritrovati di
fronte a una porta d'acciaio su cui era posto il cartello "Ingresso del
personale addetto alla manutenzione" sormontato da uno di
"attenzione, cautela".
–Ci
siamo quasi– disse Yoshimitsu mentre si sforzava di far
girare la ruota
che la chiudeva. Entrarono in un buio androne che aveva l'aria di un
magazzino,
lungo almeno un centinaio di metri e dal soffitto altissimo.
Gigantesche pale
arrugginite, simili a quelle di un ventilatore, erano allineate in
perfetto
ordine accanto ai muri, ognuna sorretta da un sostegno metallico. Il
centro
dell'enorme area era occupato da un gigantesco portellone d'acciaio
mentre sul
fondo vi erano dei macchinari simili a gru, coperti di ragnatele.
Dall'altra
parte una porta anch'essa altissima permetteva l'ingresso nella sala ai
macchinari. Ogni cosa sembrava essere stata abbandonata lì
da qualche anno:
evidentemente quei condotti non erano in funzione così
spesso da aver bisogno
di molta manutenzione. –Wow– mormorò
Kunimitsu osservando tutto
questo.
Yoshimitsu
si era chinato di fronte a una cassa arrugginita vicina alla porta e ne
aveva
tirato fuori un involucro bianco.
–Maledizione– imprecò –Ne
è rimasta soltanto una... Beh, non mi aspettavo di avere
visite stasera e non
immaginavo che tu ti trovassi in tali condizioni di pericolo,
altrimenti ti
avrei cercato una via di fuga diversa. Ma ormai sembra che tu non possa
fare
altro che venire con me–
–Che
cos'è quella roba?– chiese Kunimitsu vedendo
l'altro che la srotolava.
–Una
tuta per evitare di farsi friggere dalle radiazioni. Tienila tu, io
ormai posso
farne anche a meno– rispose lui tendendogli il pesante
indumento, a metà
tra una camicia di forza e una tuta da astronauta.
Kunimitsu
la prese. –Una tuta antiradiazioni? A che mi
serve?–.
–La
usano i tecnici per la manutenzione dei condotti d'areazione. Noi la
useremo
per uscire di là– disse Yoshimitsu e
indicò un portellone più piccolo incastonato
nel pavimento a pochi passi da loro.
Kunimitsu
rabbrividì. Uscire… di là? Nel
condotto d'areazione? –Nel bel mezzo
delle radiazioni? Tu sei pazzo!– gridò
completamente sconvolta –Questo aggeggio non può
funzionare! Moriremo entrambi, prima tu e poi
io!–.
Yoshimitsu
respirò profondamente, sembrava un po' teso. –Non
ti preoccupare, non è pericoloso se
usi quella tuta e non ti esponi alle radiazioni per più di
cinque
minuti–.
–Ma
si può sapere perché dovremmo uscire all'aperto?
Che cosa c'è là
fuori?–.
–C'è
un veivolo schermato nascosto dietro una collina. Ci porterà
lontano da questa
città. È l'unico posto in cui tu possa essere al
sicuro dagli Agenti Speciali,
se questi ti stanno dando la caccia–.
Kunimitsu
lo guardò a bocca aperta. Abbandonare la città?
Non aveva ancora avuto il tempo
di realizzare che forse avrebbe dovuto fare una cosa del genere.
Pensò a casa
sua messa a soqquadro dagli Agenti Speciali e a quelli che l'avevano
pedinata
fin dentro le fogne della Zona Industriale. Non sapeva
perché fosse ricercata
così senza posa dalla polizia, ma era evidente che se fosse
rimasta lì
l'avrebbero stanata nel giro di qualche ora.
–Beh,
immagino di non avere altra scelta per stavolta. Ma tu come farai senza
tuta?–.
Yoshimitsu
fece spallucce. –A me non serve, sono schermato a
sufficienza–.
–Di'
un po', sei sicuro che riuscirò a raggiungere il tuo
velivolo in cinque
minuti?– chiese con sospetto.
–Per
niente, ma tanto vale tentare, no?– disse lui con aria
serafica.
Kunimitsu
lo fissò con orrore.
*
Hwoarang,
piegato in due con la testa poggiata sull'asfalto di un vicolo, sputava
sangue sotto lo sguardo ostile di tre uomini ben piazzati e armati di
pistola.
Il Taekwondo non serviva a molto in questi casi.
–Hai
fatto bene a farti vedere in giro stamattina, piccolo
bastardo– ringhiò
uno dei tre, vestito di nero e con lo sguardo coperto da occhiali da
sole –O non avremmo potuto renderti la lezione che ti
meritavi–.
–Il
nostro capo non tollera che i suoi spacciatori spariscano senza
restituire i
soldi– intervenne minacciosamente un altro, quasi gemello del
primo.
–Il
vostro capo mi sembra ragionevole, vorrei stringergli la
mano– disse
Hwoarang col fiato spezzato a causa delle botte ricevute.
–Maledizione,
smettila di fare lo spaccone!– inveì il primo
preparandosi a dare un
calcio.
Il
terzo, che fino ad ora era stato a controllare l'uscita del vicolo, si
voltò: –Arriva–.
–Ritieniti
onorato– continuò il secondo gorilla –Il
nostro capo si sporca
raramente le mani con dei topi di fogna come te–.
Un
quarto uomo, se possibile ancora più nerboruto dei tre,
avanzò nel vicolo.
Quando fu vicino, Hwoarang, che si trovava ancora carponi, lo
squadrò con la
coda dell'occhio guardandolo dal basso verso l'alto: scarpe costose,
completo
rosso scuro cucito su misura, anelli d'oro alle dita, capelli lunghi
fino alle
spalle, basette spesse e sopracciglia selvagge.
"Cazzo"
pensò il giovane dai capelli arancioni "Feng Wei. Sono
morto".
–L'avete
conciato piuttosto male– disse il capo con assoluta
nonchalance alla
vista del ragazzo sanguinante che si trascinava a fatica verso un muro.
–Continuava
a fare l'ironico– spiegò il primo scagnozzo.
–Capisco...–
disse Feng Wei –L'ironia è un'ottima dote ma
può risultare pericolosa
per chi si comporta slealmente con me, ragazzo–.
–Me
ne sono accorto– disse Hwoarang mentre si metteva a sedere
contro la
parete.
"Visto?"
parve dire il primo scagnozzo che stava per lanciarsi a picchiarlo di
nuovo
quando il boss lo bloccò con un cenno della mano.
Dopodiché si mise a passeggiare
su e giù davanti allo sguardo pesto del ragazzo.
–Quante
scene che fate voi mafiosi– mormorò il ragazzo dai
capelli arancioni
mentre si massaggiava lo stomaco dolorante..
–Mi
risulta– cominciò Feng senza dar segno di averlo
sentito –che da
un mese intero non ci fai più avere tutti i soldi che ricavi
dalla vendita
della droga che ti passiamo. Io concedo ai miei spacciatori di
trattenere una
percentuale dal ricavato, ma tu hai preferito fare l'ingordo e ti sei
tenuto
più di quanto avresti dovuto. Pensavi davvero di farla
franca?–.
Hwoarang
scosse lentamente la testa. –Giuro che restituirò
tutto... Ero solo un
po' a corto di soldi. Appena avrò venduto il pacco di ieri
restituirò tutto
quello che devo–.
–Il
punto non è questo.– lo raggelò Feng
–Il punto è che hai commesso
un errore imperdonabile. E gli errori si pagano–.
Il
ragazzo rimase zitto. In fondo il boss aveva ragione sul suo conto.
Tanto
valeva che lo uccidessero subito e gli risparmiassero quel teatrino da
film di
serie B.
–Però–
continuò –visto che sei ancora un novellino per
questa volta chiuderò un
occhio. Non ti ucciderò a patto che tu restituisca tutto
prima della mezzanotte
di sabato prossimo. Mancano sette giorni, pensi di avere abbastanza
voglia di
vivere?–.
–Sì.
Sette giorni. Non c'è nessun problema–.
–Ottimo.
Andiamocene adesso, ho perso fin troppo tempo–.
E
così Fei gli voltò le spalle e se ne
andò seguito dai tre scagnozzi, dopo che
tutti e tre ebbero sputato addosso al giovane spacciatore.
Hwoarang
restò solo nel vicolo, completamente inerte.
"Il
problema" pensò "è che il pacco di ieri non
è ancora arrivato. Devo
cercare Kuni".
Craig
Marduk se ne stava sconsolatamente seduto sull'ingresso del White Crow
quando
vide un ragazzo dai capelli arancioni e dal volto tumefatto che
barcollava
verso di lui. Il volto solitamente inespressivo si contrasse in una
smorfia di
sconcerto.
–Ehi
piccoletto, chi ti ha ridotto così?– chiese al
ragazzo quando gli fu
davanti.
–Lasciamo
perdere…– rispose Hwoarang mentre, piegatosi a
sostenere il peso della
schiena puntando le braccia contro le ginocchia, riprendeva fiato. Solo
quando
si sollevò notò che sotto la finestra
dell'ufficio c'era una grande quantità di
cocci di vetro.
–Che
è successo qui? Marshall ha buttato un altro esattore dalla
finestra?–.
Marduk
scosse la testa, facendo un'espressione indecifrabile.
–È meglio che ne
parli con lui–.
Quando
Hwoarang aprì la porta si trovò di fronte a uno
spettacolo che non avrebbe mai
immaginato. Il locale, solitamente gremito fin dal mattino, era
completamente
vuoto, il bancone di legno era del tutto carbonizzato e pieno di fori e
le
innumerevoli bottiglie di alcol che gli stavano dietro erano tutte
infrante.
Marshall
Law e Anna Williams, seduti attorno a un tavolo circolare nel centro
della
sala, si voltarono verso di lui e poi si scambiarono un'occhiata,
allarmati.
Hwoarang
li guardò a bocca aperta. –Chi ha combinato questo
casino?–.
Marshall,
dopo un attimo di esitazione, decise di prendere in pugno la situazione
e di
sobbarcarsi l'onere di raccontare tutto. Sapeva che l'avrebbe presa
malissimo, forse
avrebbe sfasciato il locale più di quanto già non
fosse.
–Vieni
Hwoarang, siediti– disse indicando una sedia al loro tavolo.
Il
ragazzo avanzò barcollando e si sedette, osservando prima
Marshall e poi Anna,
che se ne stava a capo chino senza guardarlo. Il barista cinese, senza
dire una parola, gli porse un
fazzoletto con cui iniziò a tamponarsi il sangue. Non era
raro vederselo arrivare in quello stato.
–Allora?– chiese il ragazzo.
–Ecco…–
esordì con nervosismo il proprietario del White Crow,
guardando il coreano
negli occhi –Ieri pomeriggio Kunimitsu è stata
qui–.
Hwoarang
ne fu sorpreso e allarmato. Cosa c'entrava la sua amica con tutto
quello
sfacelo?
Law
continuò a parlare con circospezione. –A quanto mi
ha detto Anna era
venuta qui a ritirare un pacco di droga…–.
–Sì,
sì– sbottò Hwoarang con impazienza
–Era venuta per conto mio. Ma
che c'entra?–.
Il
cinese abbassò lo sguardo.–Mentre era ancora qui
sono arrivati degli
agenti della polizia per una perquisizione antidroga, e l'hanno
scoperta…–.
Hwoarang
scattò in piedi. –Che cosa!?–.
–Ma
è riuscita a scappare!– esclamò Law
prima che l'altro cominciasse a fare
una scenata –è scappata dalla finestra. Non
l'hanno presa Hwo, non ti
preoccupare! Corre troppo veloce per quella gente–.
Hwoarang
prese a camminare su e giù nervosamente, tentando di
calmarsi. –E dopo
cosa è successo?–.
–I
poliziotti sono andati a cercarla ma non l'hanno trovata. Poi non ne
abbiamo
saputo più niente per qualche ora–.
Sospirò. Ora arrivava la parte
dolente.
–Due
ore dopo sono arrivati degli agenti della Squadra Speciale. Non so
perché.
Hanno cominciato a farci domande sul suo conto. Volevano sapere quale
fosse il
suo nome e volevano che descrivessimo il suo viso. Ma noi ovviamente
non lo
sapevamo, e loro ci hanno creduto, a quanto pare–.
–Certo,
sì, capisco–.
–Poi
ci hanno chiesto dove abitava. Hanno detto che ci avrebbero portato nel
carcere
di massima sicurezza nell'Isola speciale fuori città. Quella
da cui non torna
più nessuno–.
L'Isola.
Una gigantesca prigione dotata di schermo antiradiazioni, costruita a
venti
chilometri da N.E. Il terrore di ogni abitante della Zona Rossa.
Hwoarang
spalancò gli occhi. –E voi?–.
–Gliel'abbiamo
detto, Hwoarang– ammise Marshall –Non avevamo
scelta–.
Il
ragazzo rimase a fissarlo, ammutolito, mentre le mani cominciavano a
tremargli.
Il
cinese si affrettò a continuare. –Dopo che se ne
sono andati Anna è
corsa ad aspettare Kunimitsu sotto il suo edificio mentre i poliziotti
perquisivano casa sua. Poco dopo il tramonto Kuni è arrivata
e Anna le ha
raccontato tutto. Non ti preoccupare, sai bene che se l'è
sempre cavata... So
per certo che un mio conoscente le ha offerto aiuto e sono convinto che
adesso
si trovi al sicuro–.
Il
ragazzo dai capelli arancioni abbassò la testa e strinse i
pugni, in silenzio.
Anna e Marshall lo osservarono con la speranza che si fosse
tranquillizzato
abbastanza.
Un
attimo dopo Hwoarang scaraventò con un calcio il tavolo a
cui stavano seduti,
facendoli sussultare terribilmente. Anna si coprì la bocca
con le mani.
–Come
avete potuto!?– gridò furiosamente perforando i
due amici con lo sguardo –Traditori! Non vi rendete nemmeno
conto di cosa avete fatto!–.
Marshall
scattò in piedi e tentò di afferrarlo per le
spalle –Cerca di calmarti, Hwoarang!
Kunimitsu sta bene! Non è questo che conta?–.
Hwoarang
lo respinse mentre lacrime d'ira gli salivano agli occhi.
–Vigliacchi…
siete dei vigliacchi…–.
Anna,
anche lei sul punto di piangere, scattò in piedi.
–Hwoarang, non ti devi
preoccupare perché…–.
Ma
il ragazzo corse in strada senza nemmeno darle l'occasione di finire la
frase.
Hwoarang
correva come un lampo per le sudicie strade della Zona Rossa, incurante
dei
dolori che lo afferravano come una morsa a ogni passo. Per quanto lo
riguardava
sarebbe anche potuto morire in quel momento, ormai non gli importava.
Non gli
importava più niente.
Che
cosa avrebbe fatto se Kunimitsu fosse morta per causa sua?
Perché sì, la colpa
era sua e non di Marshall ed Anna. Era stato lui che le aveva chiesto
di
ritirare la droga per conto suo, solo perché aveva paura che
gli scagnozzi di
Wei lo avrebbero ammazzato di botte se si fosse fatto vedere in giro.
Non
riusciva a pensare ad altro.
"Che
cosa ho fatto… è tutta colpa mia… sono
io il vigliacco!".
Non
credeva assolutamente a quello che gli aveva detto Law. Se gli Agenti
Speciali
ti cercano, non sei al sicuro da nessuna parte. Nessun fantomatico
"conoscente" di Marshall avrebbe potuto nasconderla a lungo da loro.
Era finita. Non l'avrebbe rivista mai più. E pensare che
ieri le aveva promesso
che non le sarebbe successo niente!
Hwoarang
imboccò l'ingresso dell'edificio in cui abitava Kunimitsu.
Venti rampe di scale
per arrivare al suo cubicolo, nessun ascensore. Quando
arrivò davanti alla
porta scardinata del suo appartamento, sentì il cuore
scoppiargli, non sapeva
se per la fatica o per il panico.
Entrò
e si guardò intorno con orrore crescente. La scarsa mobilia
era rovesciata, il
materasso era stato squartato, ogni oggetto che aveva costituito la
vita di
Kunimitsu era scomparso. In breve qualche senzatetto sarebbe venuto ad
occupare
quello spazio e di lei non sarebbe rimasto più niente.
Hwoarang
cadde in ginocchio mentre le lacrime finora trattenute cominciavano a
rigargli
il viso, mescolandosi al sangue che ancora lo sporcava.
–Perdonami…–.
E allora... ecco che anche questo capitolo
è finito! Finalmente abbiamo scoperto chi era il misterioso
individuo mascherato anche se pare che Yoshimitsu sia restio a dire
tutta la verità a Kunimitsu. Chi è? Dove la
starà portando? Credo che lei cominci a non vedere l'ora di
prenderlo a calci e non posso darle torto.
Come abbiamo visto Lei Wulong aveva ragione, Kunimitsu era davvero
Motoko Kunikata, la nipote del forgiatore di spade (i nomi li ho
inventati, ma nella storia di Tekken Kuni è davvero nipote
di un forgiatore di spade), ma il detective ha ancora parecchio da
indagare.
Mi sto rendendo conto di bistrattare selvaggiamente Jin e Hwoarang...
ma non dubito che anche loro si faranno valere prima o poi.
Miss Trent:
Grazie grazie... hai addirittura paragonato la scena del White Crow a
Matrix... Troppo onore! Kunimitsu, come si sarà capito,
è il mio personaggio preferito. Come vedi avevi ragione:
Nina è apparsa e credo proprio che la rivedremo ancora.
Spero che per ora non sia risultata troppo OOC.
DarkTranquillity:
grazie per la recensione. Mmm... non sapevo che questo stile si potesse
chiamare "Point of view". Beh, grazie a te ho scoperto qualcosa di
nuovo! Per quanto riguarda "V per vendetta" l'ho visto quando avevo
già cominciato a scrivere la storia e devo dire che mi ha
colpito molto, per cui immagino che l'atmosfera mi abbia involontariamente contagiato nel
proseguire il racconto (quando l'ho visto mi sono detta "Caspita, ma V
è uguale a [spoiler]"). Mi dispiace che Jin e Ling non ti
stiano piacendo... spero che riuscirò a farti cambiare idea!
Grazie anche a Elilly
e AngelTexasRanger.
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Capitolo 4 *** Il Segno della Rivoluzione ***
4. Il segno della rivoluzione.
“Se
la Squadra Speciale ti cerca, non c’è posto a
Nuova Edo in cui tu possa essere
al sicuro”. È questo che avevano sempre insegnato
a Hwoarang, ed era per questo
motivo che era così preoccupato per la sua amica con la
maschera da volpe. Ma
Hwoarang non sapeva che all’alba di quello stesso giorno
Kunimitsu aveva
lasciato la città.
6 marzo 2191
Ore 6:05 am
Un
sole pallido e velato faceva capolino nell’immenso tunnel
circolare del
condotto d’areazione e la sua luce rosata veniva scomposta
dal movimento di
gigantesche pale metalliche.
Kunimitsu,
nonostante la situazione, non poté che fermarsi anche per un
solo istante ad
ammirare quello spettacolo che la mole dei palazzi le aveva sempre
nascosto. La
prima alba della sua vita.
–Sarà
anche l’ultima se non ti sbrighi!– urlò
Yoshimitsu mentre le correva davanti,
diritto a una piccola porta aperta nell’impalcatura metallica
dell’areatore.
Kunimitsu
si riscosse e cominciò a correre con la massima
velocità che l’ingombrante tuta
antiradiazioni le permetteva. Non pensò più a
niente. Niente dubbi, niente
rabbia, niente paura, niente sospetti, niente nostalgia, niente
“e adesso che
cazzo gli dico a Hwoarang”. Solo un conto alla rovescia,
scandito dal suo
battito cardiaco.
“5
minuti, 5 minuti, 5 minuti. Ti prego, fai che questa tuta
funzioni”.
Yoshimitsu
scomparve oltre il margine del tunnel, si aggrappò a una
lunga scaletta di
metallo e scivolò giù per una trentina di metri,
finché il suolo polveroso
arrestò la sua discesa.
–Fai
attenzione!– gridò alla piccola sagoma bianca che lo stava già
imitando e che un secondo dopo
era già accanto a lui.
I
due ripresero a correre, lui davanti e lei dietro, attraversando
l’immensa spianata
che circondava la città verso un mucchio disconnesso di
rocce e colline che si
stagliavano in lontananza. Kunimitsu non avrebbe saputo dire a che
distanza
fossero, ma ciò che era certo è che erano
lontante, troppo lontane.
Un
giorno le avevano detto che se c’è una perdita di
radiazioni in un reattore
nucleare, basta starci vicino per una manciata di secondi per essere
condannati. Bastò questo ricordo a ricacciare nella sua
mente la paura. “Quante
radiazioni ci saranno adesso, dopo tutti questi anni? In quanto tempo
decade
l’uranio? Tempo… quanto tempo ho
ancora?
4 minuti?”.
Quella
figura che le correva davanti con la chioma rossa al vento e la giacca
svolazzante divenne il suo unico punto di riferimento.
Focalizzò la sua
attenzione su di lui, perché lui l’avrebbe tirata
fuori da quella situazione
orribile, no?
Ormai
non poteva più impedire a se stessa di abbandonarsi a
pensieri sconnessi. “Cazzo,
se muoio per colpa sua lo perseguiterò anche
nell’aldilà. 3 minuti, 3 minuti, 3
minuti”.
Le
sagome rocciose erano ormai vicine e davanti a loro si aprì
quello che sembrava
essere un piccolo canyon. Ci corsero dentro alla velocità
della luce mentre le spesse
mura di pietra grigia e cemento diventavano via via più alte
e incombenti.
“Se
muoio chi si prenderà cura di quel teppistello scansafatiche
di Hwoarang? Chi
lo prenderà a calci nel culo? Maledizione, solo 2
minuti”.
Yoshimitsu
fece uno scarto è scatto a destra, cominciando a inerpicarsi
con agilità
sconcertante saltando da una roccia all’altra. Kunimitsu lo
seguì come meglio
poteva, impedita com’era dalla tuta ingombrante.
–Ci
siamo!– urlò lui una volta che ebbero scavalcato
la scarpata. Davanti a loro,
riparato da uno sperone roccioso, era parcheggiato un veivolo alato,
una via di
mezzo fra un overcraft e una di quelle astronavi che si vedevano nei
vecchi
film di fantascienza.
Kunimitsu
rimase a fissare per interminabili secondi l’uomo intento a
trafficare con le
tasche della sua giacca. Fra poco le radiazioni avrebbero corroso la
barriera
protettiva della tuta e si sarebbero fatte strada al suo interno.
–1
minuto!– urlò lei, allo stesso tempo spaventata,
esasperata e arrabbiata.
Finalmente l’uomo estrasse un telecomando e il portellone del
velivolo si aprì.
Kunimitsu
senza quasi rendersene conto si ritrovò scaraventata per
terra all’interno di
una cabina di vetro, senza sapere più quale fosse il sotto e
quale il sopra. Si
rialzò in piedi con l’aiuto dello strano tipo e in
quel momento sentì il salvifico
suono di un liquido che scrosciava dall’alto sulla superficie
della sua tuta: il
fluido antiradiazioni. Fortunatamente il veivolo era dotato di cabina
di
contenimento.
Uno
Yoshimitsu completamente inzuppato l’afferrò per
le spalle e cominciò a
scuoterla. –Ce l’abbiamo fatta! Ahaha, ce
l’abbiamo fatta!– esultò.
Kunimitsu,
trascinata dall’adrenalina, non sapeva se mettersi a ridere o
a piangere e se
abbracciare quel tizio o prenderlo a pugni. Alla fine optò
per una risata
euforica intervallata da imprecazioni.
–Sì!
Ahah, hai visto che roba? Eravamo due scheggie, cazzo, mai corso
così! Pensavo
che mi avresti ucciso, maledetto schizoide imparrucatto!–.
Yoshimitsu
decise di ignorare anche quest’alta frase poco complimentosa,
la terza in poche
ore., e si limitò a rispondere con una pacca sulla spalla.
Ripresasi
dall’attacco di ilarità, la kunoichi
cominciò a togliersi la tuta affinché il
benefico effetto del fluido potesse eliminare eventuali tracce di
radiazioni
che avessero raggiunto il suo corpo. Finalmente poteva tirare un
sospiro di
sollievo.
*
Era
circa l’una di notte e in quella strada al confine fra il
centro della città e
la zona residenziale l’unica anima viva che si scorgeva era
una coppietta, un
uomo e una donna, che se ne andavano tranquillamente a braccetto, e
qualche
gatto randagio. Quella notte sembrava che al mondo non esistesse nessun
altro
oltre a loro due e perfino i palazzi, quasi tutti bui e silenziosi per
via dell’ora,
sembravano disabitati.
Le
uniche finestre illuminate erano quelle dei Laboratori Biotech che
occhieggiavano di sbieco fra un edificio e l’altro. Si
lavorava sempre fino a
tardi lì.
–Uffa–
sospirò la donna –mi fanno malissimo i
tacchi… meno male che siamo quasi a
casa!–.
L’uomo
sorrise e prese a sbeffeggiarla bonariamente –Te
l’avevo detto di metterti le
scarpe basse, tesoro–.
–L’hai
detto ma io so bene che in verità mi preferisci coi tacchi
alti!– disse la
donna con tono da finta offesa.
–Ops,
mi hai scoperto!– se la rise lui.
I
due continuarono a camminare in silenzio per un po’
finché, passando davanti ad
una stradina a fondo chiuso, l’uomo sentì un
brivido inspiegabile percorrere la
propria schiena e avvertì il bisogno di fermarsi.
–Hai
sentito?– chiese l’uomo.
–No,
che cosa?– chiese lei.
–Quello
strano verso…–mormorò lui guardando
verso il vicolo cieco privo di
illuminazione.
La
donna si sporse a osservare nella stessa direzione del suo compagno.
–Sarà
stato un gatto–
L’uomo
scosse la testa, un po’ preoccupato
–Non
credo, sembrava più il lamento di una
persona…–. Fece per andare verso la
strada chiusa ma la sua compagna lo tirò per il braccio.
–Non
vorrai mica infilarti in quel vicolo, vero? Dai, andiamo a
casa…è tardi– si
lamentò lei.
L’uomo
appoggiò una mano sulla spalla della donna e disse:
–Tu aspetta qui, io vado a
vedere. Farò in un attimo–.
La
donna trattenne a stento uno sbuffo mentre stava a guardare il suo
compagno che
si infilava inesorabilmente in quella zona buia, dove tutti i lampioni
sembravano stranamente fuori uso: “Uffa, proprio un medico
con la vocazione mi
dovevo sposare!”. Era sicura che nel giro di un minuto
sarebbe tornato indietro
facendo spallucce e dicendole che aveva ragione, che in quella strada
non c’era
nessuno se non qualche gatto o magari un uomo ubriaco; era la cosa
più
probabile.
Non
si immaginava che nel giro di qualche minuto avrebbe sentito quel suono
orribile che, se mai avesse potuto sentire qualcosa del genere, avrebbe
paragonato al verso emesso da un vitello quando viene sgozzato dal
macellaio.
Il
cuore le saltò nel petto, facendole morire in gola le
parole. –…Ken? Va tutto
bene?– chiese. Per alcuni secondi rimase paralizzata dalla
paura in attesa di
una risposta che non venne. –Forse si è
già allontanato troppo– disse fra sé e
sé, cercando di trovare una risposta razionale a quel
silenzio. –Lo raggiungo–.
Inutile
pensare a quel rumore strano, probabilmente non era niente.
E
così anche lei imboccò la stradina buia in cerca
del marito. Provò a chiamarlo
di nuovo, ma l’unico suono che si sentiva era quello dei suoi
tacchi
sull’asfalto.
Aveva
fatto una decina di metri quando vide davanti a sé la sagoma
in controluce di
un uomo chino su un’altra sagoma, questa stesa a terra nel
bel mezzo di una
piccola pozza traslucida.
A
quella vista la donna si preoccupò e, indicando la persona
stesa al suolo,
chiese al marito: –Oh Dio! Che cos’ha?–.
L’uomo
si alzò lentamente in piedi senza darle risposta e alla
donna sembrò
stranamente gigantesco. Molto più alto di suo marito.
Improvvisamente
capì come stava la situazione, capì che, fra le
due, la sagoma di suo marito
era quella stesa a terra e che il liquido che luccicava
sull’asfalto non era
certo acqua.
–La pagherete…– disse
la voce rauca e
impersonale del gigante, mentre questo si avvicinava alla donna con
passi
pesanti e strascicati, tanto lenti quanto inesorabili.
Dopo
alcuni minuti l’unico suono a riecheggiare nella strada, non
udito da nessuno,
era quello di una lugubre e tonante risata.
*
Yoshimitsu
scosse la parrucca ancora zuppa di fluido antiradiazioni e
digitò velocemente
alcuni comandi sull’ampio pannello di controllo. Il veivolo
si alzò dolcemente
in aria, fluttuando come se fosse privo di peso, e iniziò a
scivolare fuori
dall’incavatura rocciosa.
Kunimitsu,
seduta sulla seconda poltrona di comando, osservava le manovre
dell’uomo
mascherato, esterrefatta per il semplice fatto che fosse ancora vivo
dopo
essere stato 5 minuti esposto ai residui.
–Beh,
penso che sia arrivato il momento delle spiegazioni –
osservò, squadrandolo
–Tanto per cominciare spiegami cosa sei. Un essere umano non
potrebbe resistere
là fuori senza protezioni–.
Yoshimitsu
ridacchiò mentre faceva scavalcare al veivolo una piccola
collinetta. – Chissà,
forse non sono umano–.
–Ah
no, eh? Allora cosa sei? Un androide?– lo prese in giro lei.
Accidenti quanto
la irritavano le frasi a effetto di quello svitato!
–Beh,
spero di essere un tantino più intelligente di un
androide…– rispose lui con
assoluta serietà.
Kunimitsu
spalancò gli occhi. –Cosa vorresti dire? Che sei
un cyborg?–. Lei non ne aveva
mai visto nessuno ma in fondo non erano poi così rari.
Sapeva che spesso
venivano impiegati come medici per via della loro assoluta precisione o
come
soldati per via della loro inclinazione a non ribellarsi ai propri
creatori. Sarebbe
stato abbastanza plausibile.
L’uomo
mascherato scosse la testa –No, nemmeno. Ma è un
argomento che non vorrei affrontare
adesso. Ne parliamo quando siamo arrivati, ok? –.
La
ragazza dai capelli rossi annuì con un sospiro di
rassegnazione, immaginando
che non avrebbe potuto cavargli di bocca niente che lui non avesse
voluto dire
spontaneamente, e così ritornò a guardare fuori.
Fu
solo allora che si rese conto che quelle sagome indistinte intraviste
durante
la sua folle corsa non erano semplici formazioni rocciose, ma ammassi
di
cemento e metallo dalle forme geometriche, ricoperti da uno strato di
terra e
detriti. Kunimitsu vide con orrore quelle lugubri costruzioni
scheletriche
scorrere davanti ai suoi occhi nel debole chiarore dell’alba,
vide i palazzi
sventrati dalle esplosioni di quarant’anni prima e crollati
su se stessi a
formare disegni grotteschi, unica reliquia della città
popolosa che un tempo si
estendeva al posto di Nuova Edo. Quella vista era fin troppo orribile
anche per
lei.
–Oh
mio Dio…– disse in un soffio.
Yoshimitsu
assunse un’espressione interrogativa, sorpreso
dall’uscita inaspettata di
quella ragazza che fino ad ora aveva solo sentito imprecare
rumorosamente. –Oh,
quello…– disse accennando al paesaggio desolato
–Beh, immagino che faccia
sempre questo effetto a chi non l’ha mai visto. Ma ci si
abitua in fretta, purtroppo.
O per fortuna–.
Kunimitsu
non disse niente, provò solo l’istinto codardo di
raggomitolarsi sulla comoda
poltrona e distogliere lo sguardo mentre la dura realtà le
scivolava
inesorabilmente accanto. Ma non lo fece e continuò a
riempirsi gli occhi di
quell’orrore.
I
due rimasero a lungo in silenzio mentre la navicella fluttuava su
quella
devastazione, accompagnati unicamente dal suono elettronico dei comandi.
Dopo
un po’ di tempo la kunoichi decise che era meglio riprendere
il tentativo di
farsi dare delle spiegazioni.
–Se
proprio ci tieni a fare il misterioso almeno parlami di mio nonno.
Tanto questo
non è un segreto, no?–.
L’uomo
mascherato annuì e si schiarì la voce.
–Dunque, vediamo… Come ti ho già detto
sono stato allievo di tuo nonno durante gli anni passati nei bunker.
Era un
valente maestro di arti marziali e una brava persona. È
stato molto generoso
con me accettando di insegnarmi quello che sapeva senza aspettarsi
nulla in
cambio e forgiando una katana apposta per me–.
–Eppure
lui non mi ha mai parlato di te, come mai?–.
–Immagino
che abbia preferito evitare di parlare alla sua giovane nipote di una
persona
che si era data all’illegalità. Ed è
buffo se si considera che è stato lui a
regalarmi questa maschera per coprire la mia
identità–.
Kunimitsu
saltò quasi sulla sedia a quelle parole. Ora capiva come mai
quella persona le
sembrava così familiare, ed era perché aveva
già visto una volta quella
maschera. L’aveva vista nella vetrina che ospitava la
collezione di maschere
Noh di cui suo nonno andava così fiero, quella stessa
collezione a cui
apparteneva la sua.
Hannya
e Kitsune, dopo tanti anni le due maschere si erano ritrovate.
–Oh
beh, questo ha dell’incredibile!–
osservò colpita dalle rivelazioni che le si
presentavano davanti. Ora riusciva a focalizzare quel posto vuoto sullo
scaffale,
proprio accanto a quella che un giorno sarebbe diventata la sua
maschera.
Yoshimitsu
emise la sua solita risata metallica. –Non poi tanto, visto
che ho iniziato a
cercarti anni fa! Anche se probabilmente non ti avrei mai trovata se
Marshall
non mi avesse parlato di una esperta di ninjutsu che se ne andava in
giro con
la maschera di una Kitsune bianca!–.
–E
qui ritorniamo alla domanda principale: perché diavolo mi
stavi cercando?–
insistette lei, stufa di ripetere la stessa questione.
–Potrei
dirti che avevo voglia di rivedere l’unica parente ancora in
vita del mio
vecchio maestro, ma questa non è l’unica
verità. La verità più importante
è che
sto cercando persone come te, Kunimitsu–.
L’uomo
si fermò per trarre un sospiro, poi riprese a parlare con un
tono insolitamente
solenne per lui. –Persone che abbiano capito in che razza di
ambiente si
trovano a vivere, che si rendono conto che la legge che regna a Nuova
Edo non
corrisponde alla giustizia, che posseggano la volontà di non
lasciarsi
trascinare dalla massa e di non colare a picco insieme a questo
cadavere di
mondo. Ho bisogno di persone che abbiano la forza di lottare contro la
Mishima
Zaibatsu, per rovesciarla con le buone maniere o con la forza. Io penso
che tu
possegga tutte queste cose, Kunimitsu, anche se forse non te ne sei
ancora resa
conto. E tu?–.
Kunimitsu
assistette con grande sorpresa a questo improvviso monologo e
sentì che una
qualche emozione, smossa da quelle parole che le dicevano
ciò che aveva sempre
provato e desiderato, si era improvvisamente staccata dal suo
subconscio e
aveva cominciato a volteggiare dentro di lei, trascinando con
sé una
ragnatela di pensieri.
–Io…
io…– balbettò, confusa. –Non
capisco… Chi sei tu? Cosa mi stai chiedendo?–.
–Io sono il leader del movimento ribelle
Manji – disse lui, e anche se non poteva vederlo,
la ragazza immaginò che
in quel momento stesse sorridendo con convinzione –e quello
che ti sto
chiedendo è, Kunimitsu: vuoi
unirti a noi?–.
Impossibile
dire quali emozioni si risvegliarono in quel momento
nell’animo della donna con
la maschera sul volto. Stupore? Eccitazione? Euforia? Paura?
Agitazione?
Confusione? Rimpianto? Tutto ciò le impedì di
rispondere immediatamente.
Yoshimitsu
continuò a parlare e a dare quelle spiegazioni che aveva
rimandato per ore,
lasciando che la ragazza raccogliesse i propri pensieri.
–L’ideogramma
Manji (卍), come saprai,
per i buddhisti è il simbolo dell’armonia
universale e del circolo della vita
ma per il nostro clan è il segno della rinascita a cui
aspirano quelli come me
e te, se lo vorrai. Non siamo molti, per ora, 300 circa fra
diplomatici, pensatori, guerriglieri, politici e
chiunque altro abbia scelto di dedicarsi alla nostra causa, quella di
portare
la democrazia e la giustizia in questa città. Cosa ne pensi?–.
Kunimitsu
non stava più nella pelle dopo questa rivelazione.
–Io… sapevo che doveva esistere
per forza una resistenza! Le esplosioni di stanotte… erano
opera vostra,
vero?–.
Il
leader del Manji annuì.
–Non
ti preoccupare, avrai tutto il tempo che vuoi per pensarci. Ora guarda,
siamo
arrivati– disse indicando quel che rimaneva di un
grattacielo, steso su un
fianco come il relitto di un naufragio. Stranamente la facciata era
ancora in
buone condizioni ad eccezione di una voragine circolare in cui
andò a infilarsi
il veivolo.
–Ti
piacciono le montagne russe?– chiese Yoshimitsu di punto in
bianco –Beh, spero
di sì…–.
Kunimitsu
non fece nemmeno in tempo a dire “cosa?” che
l’aereonave mise il muso in giù e
iniziò a precipitare in picchiata nel buio delle rovine. La
kunoichi si
aggrappò ai braccioli mentre la forza d’inerzia la
premeva con forza incredibile
sullo schienale della poltrona.
Dopo
pochi secondi di terrore il veivolo si raddrizzò con una
brusca frenata e si
udì il rumore dei sostegni che toccavano terra, seguito dal
fragore metallico
di un portellone che si richiudeva sopra di loro.
–Eccoci
qua– disse il leader del Manji stiracchiando le braccia
–Ancora pochi secondi e
potremmo uscire… giusto il tempo di decontaminare il
veivolo. Ti sei
divertita?–.
Kunimitsu,
ancora tremante per lo shock, si voltò lentamente verso di
lui – Accidenti… a…
te…–.
*
La
dottoressa Chang tirò la leva dell’interruttore
generale e un attimo dopo le
luci dei corridoi della Biotech si accesero una dopo l’altra
con un sonoro
scatto. Benché l’orario di apertura fosse alle 8 e
il sole fosse sorto da poco,
lei era già là accompagnata solamente
dall’eco dei suoi passi.
Julia
era grata che il dottor Boskonovitch le avesse dato il permesso di
accedere al
laboratorio a qualsiasi ora del giorno e della notte, perché
in certi momenti
quello era l’unico posto in cui si sentisse davvero a casa.
Entrò
nel suo luogo di lavoro, la stanza degli esperimenti sulla
riforestazione, e fu
avvolta dalla tranquillizzante penombra in cui la stanza era
perennemente
immersa; l’unica illuminazione proveniva da qualche lampada e
dalle colture biologiche:
cilindri alti circa mezzo metro con dentro un po’ di terra
raccolta fuori della
città e un seme ciascuno illuminato da un fascio di luce.
Quello che si cercava
di far crescere in quella stanza non erano semplici piante, era la
salvezza
futura del pianeta.
Julia,
munita di cartellina, passò in mezzo ai cilindri illuminati
scrutandoli
attentamente in cerca della più piccola foglia.
“Niente da fare, anche questi
non hanno dato risultati. Dovremo procurarci nuovi semi e altra terra
radioattiva”. Aveva posato la cartellina e stava quasi per
andarsene nel suo
studio quando sentì un rumore che sembrava provenire dal
piano inferiore, dove
si trovava il laboratorio di ricerche
sul DNA. Trattene il fiato cercando di capire se per caso
non fosse
stata la sua immaginazione. Il rumore si ripeté.
“Strano”
si disse “non dovrebbe esserci nessuno a quest’ora!
Oh, forse è il dottore.
Vado a parlarci…”.
La
dottoressa scese velocemente al piano di sotto e si fermò
davanti allo spesso
portellone metallico su cui campeggiava la scritta “Ricerche
Genetiche. Responsabile:
Dr G. Boskonovitch”. Armeggiò con qualche pulsante
e il portellone si aprì con
uno sbuffo per poi richiudersi dopo il suo passaggio. Dentro sembrava
non
esserci anima viva, ma la luce era stranamente accesa.
–Dottore?–
disse Julia a voce abbastanza alta poiché il suo superiore
era un po’ duro
d’orecchi. Nessuna risposta. “Strano, molto
strano” pensò addentrandosi nell’ampio
androne gremito di cavi, schermi, macchinari di ogni sorta e scaffali
refrigerati che contenevano campioni di sangue di molte specie animali.
Si
guardò attorno, come sperduta. Possibile che se lo fosse
solamente immaginata?
–C’è
nessuno?–. La domanda si spense nuovamente nel vuoto, ma
stavolta una voce posata
e melliflua le rispose: –Vedo che qui alla Biotech siete
molto mattinieri–.
Julia
trasalì. Quella non era la voce del dottor Boskonovitch.
–Chi…
chi c’è là?–
domandò lei con tono insicuro.
Un
uomo in camice, seguito da altri due uomini in giacca scura, comparve
da dietro
l’alto macchinario a forma di torre in cui erano
immaganizzati migliaia di
mappe genetiche. Julia non lo aveva mai visto prima d’ora ma
riconobbe con un
sussulto quell’uomo anziano e dal volto arcigno che le era
stato descritto
innumerevoli volte.
A
quel punto non poté far altro che tentare di mascherare la
propria tensione
dandosi un’aria fredda, distaccata e professionale.
–Non so come sia entrato ma
lei non può stare qui. Dovrebbe sapere che i laboratori non
si possono visitare
prima dell’apertura, Dottor Abel–.
L’uomo
tirò su l’angolo delle labbra assumendo un sorriso
beffardo: –Questo potrà
valere per le visite scolastiche ma non per il Consigliere Scientifico
della
Mishima Zaibatsu, signorina–.
Julia
si sistemò gli occhiali con nervosismo
–Dottoressa, prego–.
–Bene,
dottoressa…– aguzzò la vista sul
cartellino che pendeva dal camice di Julia – dottoressa
Chang. Visto che lei è qui per farmi rispettare le regole
con la sua solerzia tornerò
un’altra volta, ma spero che prima accetterà di
farmi un favore, vuole?–.
–Mi
dica e io le dirò se sarà possibile–.
Il
dottor Abel giunse le mani in un atto che poteva sembrare quello di una
preghiera ma anche il gesto di chi si sfrega le mani con compiacimento.
–Bene,
la prego di far sapere al Dottore che ho la sensazione che qualcosa di
mio sia
stato sottratto dai miei laboratori e che adesso si trovi da queste
parti. Io
sono favorevole alla collaborazione fra scienziati, ma il furto
è un’altra
cosa… non so se mi spiego. Pensa di poter riferire questo
messaggio?–.
–Senza
dubbio–.
–Perfetto,
andiamo allora–. Il dottore fece un cenno ai due uomini e poi
uscì dalla stanza
passando accanto alla dottoressa.
Julia
rimase perfettamente immobile finché non sentì
rumore di passi sulle scale, poi
si diresse verso una sedia girevole e vi si lasciò cadere
come un corpo morto.
Le
gambe le tremavano terribilmente.
*
I
due avevano appena varcato il portellone a chiusura ermetica del
rifugio quando
Yoshimitsu si sentì arrivare un colpo tra capo e collo che
per poco non lo
mandò disteso per terra.
Kunimitsu
si voltò assumendo istintivamente la posizione da
combattimento e si ritrovò
davanti un uomo alto e muscoloso, coi lunghi capelli biondi legati in
una coda
e il viso dai lineamenti occidentali incorniciato da una barba di
parecchi
giorni.
–Capo!
È questo il modo di comportarsi?–
esclamò il nuovo arrivato sgridando
impietosamente l’uomo mascherato che ancora barcollava per il
colpo inferto –Ci
hai fatto preoccupare–.
–Ahi…
ahi…– si lamentò Yoshimitsu mentre
massaggiava il punto dove si era abbattuta
la manata dell’altro uomo –Che
dolore…–.
–Sono
passate più di 24 ore dal nostro ritorno alla base e non ci
hai mandato nemmeno
un messaggio per dirci cosa stava succedendo in città! Angel
ha delle notizie
per te e ha cercato di contattarti tutto il tempo! Pensavamo che ti
avessero
preso– continuò imperterrito il biondo, squadrando
Yoshimitsu a braccia
conserte.
Poi,
con grande sorpresa della ragazza, i due scoppiarono a ridere.
–Kunimitsu–
disse il mascherato ancora ridendo –Ti presento
Phoenix–.
L’uomo
afferrò la mano di una titubante Kunimitsu e la
stritolò con una poderosa
stretta –Phoenix, come la fenice che rinasce dalla cenere,
è così che mi faccio
chiamare– disse lui ammiccando. “Strano”
pensò lei mentre cercava di
divincolarsi “anche questo tipo ha un’aria
familiare”.
–Piacere–
mormorò la kunoichi ritraendo la mano dolorante
–Kunimitsu, come… beh, come la
spada. E il fiore…–.
Phoenix
diede un’occhiata più approfondita ai due e poi
prese a grattarsi il mento
barbuto, assumendo un’aria pensosa. –Ma
cos’è, una nuova moda? Sembrate due
cloni!–.
–Cosa!?–
esclamò lei, evidentemente poco contenta di essere
paragonata a quello
squinternato, e avrebbe aggiunto altro se Yoshimitsu non si fosse messo
provvidenzialmente
in mezzo.
–Ehm...
Phoenix, potresti accompagnarla nella “stanza degli
ospiti”?–. Poi si rivolse a
Kunimitsu –Sarai chiusa in una stanza personale
finché non deciderai se sarai
dei nostri o meno. Se decidi di unirti a noi potrai accedere al resto
dell’edificio, altrimenti dovrai restare lì
finché la situazione non si sarà
calmata abbastanza da poterti rimandare
a casa senza problemi–.
La
kunoichi lo guardò con stupore –Insomma volete
mettermi in prigione?–.
–È
solo una misura di sicurezza– la rassicurò lui
–Potrai avere tutto ciò di cui
hai bisogno nel frattempo–.
–Mm
ok– tagliò corto lei. Tutto a un tratto si sentiva
stanca, troppo stanca per
discutere. Per il momento un letto le sarebbe stato più che
sufficiente, anche
se fosse stata la branda di una prigione.
–Vedrai,
ti troverai bene– disse Phoenix dandole una pacca sulla
spalla che le fece
quasi schizzare gli occhi fuori dalle orbite
–Seguimi–.
L’uomo
e la ragazza si stavano già allontanado quando la voce di
Yoshimitsu li fece
fermare: –Kunimitsu, dimentichi niente?–.
–Io?–
chiese lei senza capire, poi si portò la mano alla tasca e
quasi le venne un
colpo al cuore. La droga. Dopo tutto ciò che era successo il
pacchetto era
ancora là al suo posto. Kunimitsu si chiese con orrore se
per caso se la fosse
scordata davvero, o se invece avesse sempre saputo che si trovasse
lì nella sua
tasca, sperando che Yoshimitsu non se ne sarebbe ricordato.
–Dammela–
disse lui tendendo la mano meccanica –Bisogna
distruggerla…–.
–Oh…
beh… certo– disse lei con tono titubante, e poi
gliela porse.
Mentre
attraversava il corridoio seguendo la sagoma massiccia di Phoenix non
potè fare
a meno di pensare con preoccupazione che ben presto avrebbe cominciato
a
sentire la necessità di quel pacchetto dall’aria
tanto innocua.
La
stanza di controllo era sempre buia ad eccezione della pallida
luminescenza dei
monitor e quasi sempre vuota ad eccezione di una una ragazza occhialuta
che ora
se ne stava rannicchiata su una poltrona con una tazza di
caffè sintetico
stretta nelle mani. Il suo vero nome era Asuka ma all’interno
del clan era
conosciuta come Angel, perché come un angelo custode
vegliava sui suoi compagni
dalla stanza di controllo.
Quando
Yoshimitsu entrò nella stanza, la poltrona ruotò
di scatto.
–Yoshi!–
esclamò Angel, l’esperta informatica –Che fine avevi
fatto? È da ieri sera che
aspettavamo un tuo messaggio! Sono stata sveglia tutta la
notte!–.
Yoshimitsu
sospirò. Quel giorno lo stavano sgridando e insultando un
po’ tutti. –Mi
dispiace Asuka, dovevo cercare una persona e poi ho avuto dei
contrattempi–.
–Sì,
l’ho vista quando siete entrati– disse la ragazza
facendo cenno ai monitor
collegati alle telecamere di sicurezza –Comunque sia, eravamo
preoccupati. In
più il Dottore ci ha fatto sapere che vuole parlarti il
prima possibile–.
–Come?
Vi ha detto perché?– chiese Yoshimitsu con
apprensione.
La
ragazza scosse la testa. –No, non era un messaggio lungo. Era
solo un codice
morse. Forse ha avuto paura di essere intercettato–.
Yoshimitsu
scosse la testa. Per arrivare a contattarlo nonostante il rischio
intercettazione il Dottore doveva trovarsi in guai seri.
–Andrò
da lui appena possibile. Altre novità?–.
–Guarda
tu stesso– disse Asuka digitando alcuni comandi sulla
tastiera. Sul monitor più
grande apparve un mandato d’arresto con l’identikit
di Kunimitsu.
–Sì,
lo so. E allora?–.
Asuka
sospirò scuotendo la testa. –No. Guarda i motivi
del mandato, aggiornati alle 4
di ieri pomeriggio–.
Il
leader del clan Manji spalancò gli occhi.
–“Sospettata terrorista…”. Ma
cos…–.
–E
guarda qui cosa ci ha mandato il nostro infiltrato della
polizia?– chiese Asuka
con malcelata compiacenza. Nonostante la pericolosità della
situazione non
poteva esimersi dal provare un po’ di orgoglio per aver
svolto così bene il suo
lavoro.
Sul
monitor accanto a quello raffigurante l’identikit apparve una
foto sfocata:
alcune ombre immerse in una nuvola di fumo, e una persona mascherata
che
risaltava leggermente meglio delle altre.
Yoshimitsu
strinse i denti, capendo la portata di quelle notizie e le loro
conseguenze.
Non gli importava nulla di essere stato visto dalla polizia
perché sapeva che
prima o poi gli sarebbe successo. Il problema era un altro.
–Pensano
che lei sia te. Le danno la caccia al posto tuo– disse Angel,
dando voce alle
sue preoccupazioni.
L’uomo
con la maschera da Hannya guardò l’identikit della
donna con la maschera da
Kitsune, scuotendo la testa con rassegnazione. –Quando lo
verrà a sapere mi
ucciderà…–.
*
Come
ogni mattina le due inseparabili amiche e compagne di studi, Ling
Xiaoyu e
Miharu Hirano, percorrevano insieme la strada che conduceva alla
Facoltà di
Scienze. Le due si conoscevano da quando erano bambine e avevano sempre
condiviso tutto con grande amicizia: scuola, amici, giochi, vestiti,
sogni e
tutto ciò che può occupare la mente di una
semplice ragazza dall’asilo nido
all’università. Fra loro non c’erano mai
stati segreti, almeno fino a quel
momento. Con che coraggio, infatti, avrebbe potuto dire alla sua
migliore amica
che il ragazzo dei suoi sogni, quello di cui amava fantasticare insieme
a lei
fin dal liceo, era una specie di mostro?
–Che
ti prende Ling?– chiese Miharu di punto in bianco
–Oggi mi sembri stranamente
seria!–.
Ling
si affrettò a sorridere e a sventolare la mano come per dare
poca importanza
alla faccenda –Oh,
niente niente! Sono
solo un po’ stanca per via dello studio!–.
–Mah…–
rifletté l’altra con poca convinzione –e
da quando saresti diventata una secchiona?–.
La
cinesina si voltò verso di lei e le fece una linguaccia
scherzosa –Smettila di
prendermi in giro! Guarda che fra noi due sei tu la più
somara, o mi sbaglio?–.
Ma
Miharu non rispose alla provocazione perché stava guardando
diritta davanti a
sé con gli occhi spalancati dalla sorpresa. Ling
riportò lo sguardo sulla
strada per vedere quale fosse la causa della sorpresa
dell’amica e in breve
assunse la stessa espressione.
Takeshi
Kawamura, con la sua camminata sicura di sempre, stava andando dritto
dritto
verso di loro guardandole negli occhi; qualcosa di inconcepibile.
–Oh
mio Dio– sussurrò Miharu senza quasi muovere le
labbra –Ti sta guardando, sta
venendo verso di te!–.
–Ma
no, che dici!– rispose Ling cercando di dissimulare il
terrore.
Ma
Xiaoyu non poté convincersi a lungo che il ragazzo stesse
facendo la stessa
strada solo per caso, perché subito dopo si fermò
davanti a loro costringendole
ad arrestare il loro cammino.
Jin/Takeshi,
senza nemmeno salutare e mantenendo la stessa espressione seria che lo
caratterizzava, prolungò un attimo il suo silenzio e poi
chiese con gran
naturalezza: –Ling Xiaoyu, vuoi uscire con me
domani?–. Nessuno notò che la
mascella di Hirano aveva quasi raggiunto il marciapiede.
La
ragazza
con le codine, completamente sconvolta, poté a malapena
annuire.
–Bene–
disse Jin –Allora vediamoci domani sera alle 9
all’ingresso del Luna Park–.
Detto questo voltò loro le spalle e se ne andò da
dove era venuto.
Le
due ragazze si guardarono strabuzzando gli occhi, l’una
sorpresa perché mister
silenzioso aveva rivolto loro la parola, l’altra
perché non si aspettava un
simile comportamento da un ragazzo che il giorno prima aveva visto
trasformarsi
in una specie di chissà–cosa.
–Oh
mio Dio!– esclamò Miharu mettendosi a saltare per
la felicità –Ti ha chiesto un
appuntamento!!! Ti ha chiesto un appuntamento!!!–.
Anche
Xiaoyu prese a saltellare trascinata all’euforia
dall’amica, ma la sua felicità
era più apparente che reale perché in fondo
sapeva che quello non poteva essere
davvero un appuntamento.
*
La porta si aprì
con un cigolio rugginoso e i
due entrarono nella stanza buia. Phoenix accese la luce e Kunimitsu si
ritrovò
davanti a quella che sembrava una fotocopia del luogo in cui aveva
abitato fino
alla sera prima: una stanza quadrata, dai muri grigi senza finestre,
non
piccola ma spoglia, occupata solamente da una brandina e da un comodino
a
cassetti. In fondo c’era una porta che probabilmente si
apriva su un bagno.
–Certo
non è il Ritz…– scherzò
Phoenix –Ma almeno è tutta tua e nessuno
verrà a
scocciarti mentre riposi–.
La
kunoichi si voltò verso di lui con apprensione. –E
dovrai chiudermi a chiave?–.
L’uomo
si grattò la testa, un po’ imbarazzato. Certo,
essere chiusi a chiave in una
stanza non avrebbe fatto piacere a nessuno e lui si sentiva a disagio
nel dover
mettere qualcun altro in quella situazione.
–Ecco…
sì, è così che facciamo sempre.
Finchè non accetti se essere dei nostri o meno
non possiamo permetterci che tu venga a sapere troppe cose sul nostro
rifugio e
sulle persone che ci abitano–.
–Capisco…–disse
lei. In realtà non aveva nessuna intenzione di essere chiusa
lì dentro e quindi
sperava di riuscire a persuadere quell’uomo, che le dava idea
si avere un buon
cuore, a non farlo. Non che avesse intenzione di ficcanasare in giro,
ma, oltre
al fatto che il trovarsi a sostenere degli obblighi la metteva in
agitazione,
aveva bisogno di recuperare il pacchetto di droga.
–Ma
vedi…– continuò Kunimitsu, cercando di
assumere un tono innocente e preoccupato
–Io soffro di claustrofobia… ed è
terribile l’idea di dover essere chiusa qui
senza nemmeno sapere quando potrò uscire!–.
–Mi
dispiace– disse Phoenix con aria contrita –Ma le
regole sono queste…–.
–Non
potresti lasciare la porta aperta? Giuro che me ne starò
chiusa qui buona, ma
il sapere che la porta non è chiusa a chiave
aiuterebbe–.
Phoenix
restò un attimo in silenzio a considerare
l’ipotesi. In fondo se il capo aveva
portato quella donna fin là doveva trattarsi di una persona
affidabile, no? Per
un attimo presere seriamente in considerazione l’idea di
lasciare la porta
aperta, poi il suo senso del dovere ebbe la meglio sulla sua gentilezza.
–Scusa,
volpe. Ma non posso proprio, non oggi almeno–. Phoenix si
scusò con un sorriso
per poi indietreggiare e uscire dalla stanza. –Fra un
po’ qualcuno verrà a
portarti qualcosa da mangiare–.
Kunimitsu
osservò l’uomo mentre tirava fuori un mazzo di
chiavi dalla tasca dei
pantaloni, il tutto come se scorresse al rallentatore.
“È così che devono
sentirsi i carcerati” pensò con rassegnazione
lanciando all’uomo uno sguardo
implorante che lui non poteva vedere..
Quando
udì il rumore della chiave che girava nella serratura e i
passi di Phoenix che
si allontanavano per il corridoio lasciandola immersa nel silenzio, un
brivido
di freddo le percorse la schiena.
*
Quella
mattina il Dottor Boskonovitch stava percorrendo la solita strada che
portava
ai laboratori Biotech quando qualcosa attrasse la sua attenzione:
transenne
bianche e arancioni, fosforescenti.
Il
Dottore sgranò gli occhi e avanzò verso di esse
con la massima velocità che le
sue gambe stanche permettevano. Vide che su quelle strisce sospese
all’inizio
di una strada c’era scritto qualcosa in inglese:
“do not trespassing”. Un
agente della cyberpolizia faceva la guardia dall’altra parte.
–Prego
signore, si allontani, non ostacoli il passaggio degli
addetti– disse la
guardia con voce impersonale.
–Che
cosa è successo?– chiese Boskonovitch, un
po’ affannato dalla corsa, cercando
di vedere al di là delle robuste spalle del poliziotto.
–Un
incidente. Ma la prego di allontanarsi, qui non
c’è niente da vedere–.
Ma
il Dottore aveva già visto abbastanza: aveva visto due
lenzuoli stesi a coprire
due corpi in una pozza di sangue.
Un
brivido gli percorse la schiena mentre, meccanicamente, si voltava a
guardare
le finestre della Biotech che occhieggiavano fra i palazzi a veramente
poca
distanza.
“Troppo
poca per essere una coincidenza”.
Quando
entrò alla Biotech la prima cosa che il dottore fece fu
quella di controllare
la casella della posta nel suo ufficio. Probabilmente era uno dei pochi
uomini
a Nuova Edo a mantenere quell’usanza ormai soppiantata dai
messaggi
elettronici.
L’aprì
ed era vuota come l’aveva lasciata. “Ma dove
diavolo si sarà cacciato? “ si
chiese con ansia. “Non è da lui non rispondere
alle richieste di aiuto. Eppure
sono passate molte ore…”.
La
seconda cosa che fece fu quella di dirigersi verso una certa zona dei
magazzini,
quella a lui riservata, ben sapendo però che ormai non
avrebbe trovato più
niente.
“Non
avremmo dovuto immischiarci nei loro piani” pensava con
amarezza e
preoccupazione “Volevamo fare del bene ma stiamo facendo
più male che altro”.
Mentre
era così assorto nei suoi pensieri la Dottoressa Chang lo
intercettò nel
corridoio. Boskonovitch fu stupito nel vedere quello sguardo di
apprensione
negli occhi della sua ricercatrice più determinata.
–Dottore,
devo parlarle…– disse lei tormentandosi un lembo
del camice.
–Sono
un po’ impegnato in questo momento, Dottoressa Chang, ma se
vuole può
raggiungermi nel reparto di ricerche genetiche fra mezzora–
disse lui, cercando
di nascondere il proprio nervosismo sotto l’aria amabile che
lo
contraddistingueva.
Improvvisamente
la dottoressa afferrò l’anziano superiore per una
spalla. Un gesto impulsivo a
cui nessuno dei due si sarebbe aspettato di assistere.
Julia
Chang si guardò attorno per accertarsi che non ci fosse
nessuno e poi parlò a
voce bassa, concitata. –Abel è stato qui.
Stanotte. Ci accusa del furto di
qualcosa… Dottore, che sta succedendo?–. Ora il
suo sguardo era quasi
inquisitorio.
Boskonovitch
si sentì raggelato da questa notizia, ma non lo diede a
vedere. al suo posto
tentò di scacciare la preoccupazione di Julia con una
risata, come se fosse
cosa di poco conto. –Ha detto così? Oh, non si
preoccupi Chang. Si tratta solo
di un malinteso, mi occuperò io della questione. Torni pure
a occuparsi dei
suoi studi–.
Julia
restò interdetta dallo sguardo sorridente del suo superiore.
–Cosa? Ne è sicuro?
–.
–Certamente,
le ripeto di non preoccuparsi. Non è successo
niente–.
Ma
il dottore Boskonovitch sapeva bene che questa non era che una
gigantesca bugia
e la stessa Julia ne avvertì il sospetto una volta rimasta
sola nel corridoio.
_______________________________
Università...
il nemico numero uno delle fanfiction.
Che dire, mi scuso per il ritardo... spero non sarà troppo
difficile riprendere il ritmo del racconto e ricordarsi cosa era
successo nei capitoli precedenti! Ma veniamo a questo capitolo...
Le cose, spero, cominciano a farsi più chiare. Le esplosioni
e i furti avvenuti nel bel mezzo di Nuova Edo sono opera del clan
Manji, che da gruppo di ladri in tekken sono diventati una schiera di
cospiratori politici capitanata da Yoshimitsu, il quale, come ormai
abbiamo capito tutti, è un grande fan di "V per
Vendetta".
Nello stesso tempo però si pongono nuovi interrogativi: che
cosa avrà in mente il nostro Jin? Kunimitsu
entrerà nel clan? chi sarà il misterioso
assassino che si aggira nei pressi della Biotech? E che cosa va
farfugliando il dottor Boskonovitch? Ma soprattutto riuscirà
morrigan89 a diventare puntuale e a smettere di fare domande a
effetto?
Miss Trent:
Grazie come sempre per la tua recensione accurata :) Spero che la
coppia scoppiata Nina-Lee non turberà troppo la tua lettura!
Comunque ti assicuro che Nina non si farà mettere facilmente
i piedi in testa da quel figlio di buona donna
Dark Tranquillity:
Ecco Paul! Capisci ora perché non avevo risposto alla tua
domanda :P Per quanto riguarda King penso che potrebbe fare
qualche apparizione in futuro ma non avrebbe in ogni caso un ruolo
fondamentale visto che ho già inserito un bel po' di
personaggi principali e la storia è già
abbastanza ingarbugliata per conto suo.
Angel Texas Ranger:
ehm, se l'ultimo aggiornamento ti era parso tardivo che cosa dirai di
questo? Chiedo perdono ç_ç
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Capitolo 5 *** Warmachine ***
5. Warmachine
–Maledizione!
Come pretendono di facilitare le indagini se non ci lasciano nemmeno
entrare a
indagare?–.
A
porsi questa domanda era stato uno stizzito Lei Wulong mentre scendeva
a grandi
passi l’interminabile rampa di scale dell’edificio
in cui erano situati i Laboratori
Mishima. Non aveva nemmeno avuto la pazienza di aspettare che
l’ascensore
giungesse al suo piano, tanta era la sua irritazione e il bisogno di
sfogarsi
lontano da orecchie indiscrete.
–Segreti
di Stato… bah, e dire che ho sempre pensato che NOI agenti
facessimo parte
dello Stato! In tanti anni di servizio non mi era mai successo di
vedermi
chiudere la porta in faccia! “Informazioni strettamente
confidenziali”!–
continuò a bofonchiare irosamente tra sé e
sé, quasi dimentico del trafelato
Hinagawa che lo seguiva cercando di stare al suo passo.
–Ehm…–
esordì il giovane collega cercando di non far notare il
fiatone –Forse dovremmo
fare a meno di queste informazioni e concentrarci su ciò che
abbiamo già–.
–Ma
ancora non abbiamo niente. Solo una sospettata terrorista che
però è scomparsa
nel nulla dopo che la Squadra Speciale le ha dato la caccia fin dentro
le fogne
della Zona Industriale–. Già, anche questa era una
bella rogna. Una persona che
non volesse farsi trovare avrebbe potuto cavarsela per anni prima di
venire
inchiodata dai sistemi di controllo; e Wulong ne sapeva qualcosa dopo
che aveva
passato anni a cercare un fantomatico e ancora sconosciuto boss della
droga che
pareva aleggiare sulla città invisibile come un fantsma.
–Però
suppongo che tu abbia ragione, Hinagawa– disse Lei fermandosi
di botto in mezzo
alle scale col rischio di essere investito dall’altro agente.
–Per ora questa
matassa ha un unico capo. Tiriamolo e forse riusciremo a dipanarla.
Andiamo
subito al White Crow!–. E così dicendo riprese a
scendere le scale come un
forsennato.
L'agente
annuì senza fiato e poi riprese a inseguire il suo
instancabile superiore.
*
Sono
di nuovo sveglio.
Vorrei non esserlo.
Caricamento dati in
corso…
Queste
persone che mi guardano con orrore, come se fossi un mostro. Non sanno
che sono
io quello che riesce a malapena a guardarle. Non hanno nemmeno idea di
cosa mi
ha tolto gente come loro. Non sanno. Non sanno niente.
Meritano
di morire.
Caricamento effettuato.
Scanner corporeo attivato. Inizio scansione…
Non
provo niente. Non sento niente. Il mio corpo è insensibile
come se fossi morto.
L'unica scintilla di vita attraversa il cervello come una scarica
elettrica. Ma
è estranea e artificiale come una protesi. Mi mostra cose
che non ho mai
saputo. Trasmette ricordi che non dovrei e non vorrei più
avere.
Scansione effettuata…
Stato:
OK.
Forse
è proprio questa la morte, forse sono davvero morto. Un
morto che cammina.
Scanner cerebrale attivato.
Inizio scansione…
Sono
stato riprogrammato come un computer.
Avevo
un nome che mi è impedito ricordare. Ma non sono riusciti a
cancellare la
consapevolezza di chi ero. Hanno sbagliato. Avrebbero dovuto
cancellarlo.
Dovrei essere consapevole solo di ciò che sono ora, ma i
miei ricordi mi
mostrano crudelmente che non sono sempre stato così.
Scansione effettuata. Stato:
Rilevata anomalia nella Corteccia Peririnale.
Un
mostro. Una macchina da guerra. Loro mi hanno reso così.
Vorrei
morire ma una voce estranea nel mio cervello mi comanda di non farlo,
di non suicidarmi.
Posso
solo uccidere.
E
ucciderò.
*
Il
White Crow era ancora chiuso al pubblico ma ormai buona parte dei segni
della
sparatoria erano stati cancellati. Marshall, Anna e qualche altro
volontario ci
avevano lavorato giorno e notte, interrotti soltanto dalle ripetute
visite della
polizia.
Ci
erano così abituati che quasi non alzarono la testa dalle
loro occupazioni
quando due agenti in borghese varcarono la porta.
–Detective
Lei Wulong, Cyberpolizia– disse il poliziotto mostrando il
distintivo. Alle sue
spalle l'ispettore Hinagawa faceva lo stesso.
Marshall
Law appoggiò a terra gli attrezzi e si fece avanti pulendosi
le mani su un
panno. Il suo viso era innaturalmente inespressivo come quello di una
persona
che cerca di mascherare l'irritazione. –Oh, finalmente due
agenti che mostrano
i loro volti piuttosto che il loro visore elettronico. Buongiorno
Detective–.
Wulong
recepì immediatamente la rabbia repressa del barista e
benché sapesse che
avrebbe avuto il potere di richiamarlo immediatamente all'ordine decise
di non
farci caso. –A quanto pare avete già avuto a che
fare con la Squadra Speciale–
disse mostrandosi amichevole –Ma anche io avrei delle domande
da farle, signor
Law–.
–Bene,
abbiamo già risposto adeguatamente ai suoi colleghi ma siamo
sempre pronti a
renderci utili. Mi segua pure– disse avviandosi verso i
privet.
I
due agenti e il proprietario del pub si sedettero attorno a un tavolo
da poker
illuminato da un riflettore.
Il
Detective studiò attentamente l'uomo per alcuni istanti e
notò che sembrava
perfettamente a loro agio. Prese la parola. –So
già cosa avete detto alla
Squadra Speciale, ho letto i rapporti. So anche che la Squadra Speciale
ha
metodi bruschi e per questo ispira timore. E il timore induce molte
persone a
dire il minimo indispensabile, tralasciando i dettagli che potrebbero
essere
importantissimi per l'indagine–. Gli lanciò
un'occhiata significativa.
Law
appoggiò entrambe le mani sul tavolo verde e
guardò Lei dritto negli occhi,
senza esitazione. –Come ho appena detto abbiamo riferito alla
Squadra Speciale
tutto ciò che sapevamo, Detective–.
–Lo
credo e lo spero bene, signor Law– disse Lei con un sorriso
–Ma io ho metodi
diversi dalla Squadra Speciale e ho bisogno di parlare apertamente con
le
persone che sono implicate nel caso–.
–Capisco,
mi chieda quello che vuole–.
–Riprendi,
Hinagawa–. A quelle parole il giovane agente tirò
fuori una telecamera
tascabile e l'appoggiò sul tavolo.
Lei
Wulong si mise comodo sulla sedia. –Conosceva quella donna,
Kunimitsu?–.
–Superficialmente.
Era una cliente abituale–.
–Cosa
intende per "superficialmente"?–.
–La
vedevo qui spesso. So come si faceva chiamare da tutti. Ma questo non
è un
mistero. Ignoro il suo vero nome e la sua età–.
–Le
ha mai parlato?–.
–Sì,
ma solo chiacchiere da bar che faccio un po' con tutti i
clienti–.
–L'ha
mai vista senza maschera?–.
Law
scosse la testa –La porta da sempre, che io sappia–.
–Ha
amici?–.
–Penso
di sì. Ma non saprei dire chi sono. Non passo mica tutto il
mio tempo a
osservare i clienti, le pare?–
–Lo
immagino. Sa perché è ricercata?–.
–Mi
hanno detto che aveva addosso un bel po' di droga–.
Lei
Wulong intrecciò le dita davanti a sé.
–È proprio questo il punto. Si è mai
chiesto come mai un singolo caso di detenzione di droga, come ce ne
sono a
migliaia in questo covo di delinquenti, abbia richiesto uno spiegamento
di
forze del genere?–.
–Non
è affar mio come la polizia decide di indagare sui propri
casi– sbottò Law.
Il
Detective si sporse in avanti sul tavolo –Probabilmente no.
Ma sono convinto
che lei non sia uno sprovveduto perciò immagino che si
sarà comunque fatto
un'idea del perché–.
Law
assunse un'aria pensierosa come se stesse pensando a quella questione
per la
prima volta. –Sarà invischiata in qualcosa di
più grosso, non posso saperlo–.
Lei
si riappoggiò allo schienale, con un lieve sorriso sulle
labbra. –Che cosa
direbbe se le dicessi che è sospettata di atti di matrice
terroristica?–.
A
guardarlo con stupore non fu solo Law ma anche l'agente Hinagawa.
–Terrorismo?–.
Inarcò le sopracciglia. –Stento a
crederlo–.
–Eppure
è così– disse Lei ignorando
completamente la sorpresa negli occhi del suo
collega. Sapeva benissimo che non era tenuto a divulgare questa
informazione,
ma a volte per ottenere quello che si vuole bisogna abbandonare il
protocollo.
– Si potrebbe sospettare che il suo pub è un luogo
di ritrovo per terroristi
oltre che di spacciatori e ubriachi. Il che mi darebbe
l'autorità di arrestarla
su due piedi, signor Law. Fare terra bruciata, è
così che si dice–.
Il
proprietario del White Crow aggrottò lievemente le
sopracciglia. –Mi sta
minacciando? Mi pareva che avesse detto di non usare i metodi della
Squadra
Speciale–.
–No,
la sto solo avvertendo. Parliamo chiaramente, signor Law.
Finchè non troviamo
questa Kunimitsu lei e tutte le persone collegate a lei sono in
pericolo.
Trovarla è affar mio, ma se non ci riuscirò in
tempo breve il caso mi sarà
tolto e passerà direttamente alla Squadra Speciale e allora
sì che potrebbe
passare dei guai seri–. Lei Wulong strinse i denti. Odiava
quella parte, odiava
la maschera da cattivo, odiava lo strapotere della Squadra Speciale.
Eppure
sapeva che era necessario, che senza questi espedienti sarebbe
impossibile
governare su quella Babilonia di criminali che era la Zona Rossa.
Law
sospirò cercando di non apparire nervoso. –Anche
io parlerò chiaramente,
Detective. Non sono responsabile delle persone che frequentano il mio
locale, e
lei mi sembra una persona abbastanza ragionevole da capirlo.
Finchè pagano le
ordinazioni non ho nessun motivo per impicciarmi dei loro affari. Se la
Squadra
Speciale viene a prendermi non posso farci niente–.
Lanciò al poliziotto
un'occhiata accusatrice, come se si chiedesse con che coraggio potesse
permettere una cosa del genere. –Non posso
aiutarla–.
–E
invece io le darò la possibilità di farlo. So che
i miei colleghi non le hanno
ancora mostrato questo– disse il detective Wulong mentre
faceva scivolare una
fotografia sul tessuto verde del tavolo. Law si chinò a
guardarla. Era una foto
scattata con un modello assurdamente vecchio di fotocamera,
probabilmente
qualche rimasuglio di magazzino ante guerra, roba da due soldi.
Mostrava due persone
in atteggiamenti amichevoli: una ragazza con una maschera di volpe
teneva un
braccio appoggiato sulle spalle di un ragazzo dai capelli di una strana
sfumatura di arancione. Due amici allegri che non avevano alcuna idea
di ciò
che gli sarebbe successo.
–Era
nascosta sotto una mattonella in camera di Kunimitsu. Mi dica chi
è l'altro e
dove posso trovarlo–.
Marshall
Law alzò lentamente lo sguardo. Deglutì.
*
Lei
Wulong sedeva alla sua scrivania riguardando al computer la
registrazione della
sua interrogazione a Marshall Law. Non era per niente contento: le
risposte che
aveva ottenuto non gli avevano detto niente che già non
sapesse e il ragazzo
coi capelli arancioni erano rimasto senza nome. Aveva consultato da
cima a
fondo l'archivio elettronico in cerca di informazioni sul suo conto e
non aveva
trovato nulla. Questo era forse l'unico aspetto positivo per un
abitante della
Zona Rossa: non sei nessuno, ma se non sei nessuno è molto
più difficile
rintracciarti.
Fece
scivolare un dito sul touch screen ritornando così al punto
della registrazione
che gli interessava.
"Non
conosco questo tizio" disse il barista sullo schermo.
Lei
digitò qualche tasto sulla tastiera e l'immagine
zummò immediatamente
sull'occhio color nocciola dell'asiatico. Il volto del detective si
illuminò.
Tornò indietro di qualche secondo.
"Non
conosco questo tizio".
Mentre
l'uomo pronunciava questa frase la pupilla si contrasse leggermente, un
movimento che sarebbe stato invisibile a occhio nudo ma che la
tecnologia
riusciva a registrare nei minimi dettagli.
Non
poteva sbagliarsi. Marshall Law sapeva bene che sarebbe stato scoperto,
eppure aveva
mentito.
*
La
stanza era buia e angusta e umida. Non era il genere di posto in cui
uno
trascorrerebbe il suo tempo se non ci fosse costretto da qualche
necessità,
come la necessità di non essere spiati da nessuno.
L’anziano
era seduto in attesa su una sedia di plastica, unica forma di comfort
concessa
per benevolenza verso la sua età.
Improvvisamente
un lieve soffio d’aria riempì la stanza e
l’uomo capì di non essere più solo.
Un respiratore emetteva il suo rumore soffocato nella
semioscurità.
–Sono
venuto appena ho saputo, Dottore. Perché ha lanciato
l'allarme?– disse la voce
metallica carica di apprensione.
Il
Dottore sospirò e si agitò sulla sedia.
–L'Esperimento Numero 9 è scappato
poche ore dopo che me lo avete portato, nel cuore della notte, e ha
distrutto
tutto quello che ha incontrato. A quanto pare era difettoso altrimenti
non si
sarebbe attivato da solo–.
L'uomo
col respiratore rimase un attimo in silenzio.
–Bryan– osservò e la sua voce metallica
risuonava d'irritazione. –Si chiama Bryan–
Il
Dottore scosse la testa con severità. –Non
è più umano, Yoshimitsu. E tu lo sai.
Non possiamo farci niente–.
Yoshimitsu
prese a passeggiare nervosamente su e giù per la stanza,
mentre la lunga
palandrana nera si riempiva di polvere. –Che cosa
consiglia?– chiese infine,
col tono di uno che preferirebbe non avere una risposta.
–Purtroppo
non abbiamo scelta. È pericoloso. Ci sono state due morti
nei pressi del
Laboratorio e sono quasi certo che siano opera sua. Deve essere
fermato–
rispose con comprensione. Poi aggiunse –Mi dispiace. So bene
che lo conoscevi–.
Yoshimitsu
continuò a camminare e poi si fermò. Se la sua
voce avesse avuto un'inflessione
naturale, probabilmente in quel momento sarebbe stata rotta dal dolore.
–Pensavo che avrei potuto salvarlo–.
Il
Dottore si alzò e mise una mano sulla spalla dell'altro
uomo, benché la raggiungesse
a fatica a causa della sua altezza. –Non darti la colpa, sono
stati loro a fare
questo. In questo momento la cosa più misericordiosa che
possiamo fare è dargli
la morte–.
–Ha
ragione. Ci penserò io– rispose con riacquisita
fermezza.
Il
Dottore emise un sospiro. In tutti quegli anni Yoshimitsu non era
cambiato di
una virgola. –Non puoi salvare tutti–.
–Lo
so fin troppo bene, Dottore. Fin troppo bene…–.
*
Lei
Wulong aveva appena dirimato a tutte le stazioni di polizia l'identikit
del
ragazzo dai capelli arancioni. Non era sicuro che fosse coinvolto nelle
esplosioni notturne ma era sicuro che avrebbe potuto sapere molte cose
sulla
donna volpe; sempre che lo avessero preso, ovviamente, il che era
difficile. Ma
del resto che altro poteva fare? Non aveva altri indizi su cui lavorare
dal
momento che i Laboratori Mishima si erano rifiutati di lasciarlo
entrare a
cercare prove.
Stava
per uscire dal suo ufficio quando il telefono sulla scrivania
squillò. Fu molto
stupito dal vedere che il display non riusciva a rintracciare il numero
da cui
proveniva la chiamata.
Sollevò
la cornetta. –Pronto?–.
–Buonasera, Detective Wulong–.
Lei
trasalì. La voce all'altro capo era così
pesantemente distorta da non
lasciargli nemmeno distinguere se appartenesse a un uomo o a una donna.
–Chi
parla?–.
–Non ha importanza. Voglio solo darle un
consiglio–.
Wulong
rimase in silenzio per lasciar parlare la voce.
–Visiti i Laboratori Biotech. Potrebbe essere
istruttivo–.
Click.
La comunicazione si interruppe lasciando il detective a osservare il
ricevitore, perplesso.
*
L'Agente
W, al secolo Nina Williams, appese la cornetta e si lasciò
cadere con un
sospiro su una poltrona di pelle. Si trovava nella buia stanza dei
computer in
una delle numerosi sedi segrete del Tekken Force, la squadra di agenti
speciali
al diretto servizio di Heihachi Mishima.
Quell'idiota
di un poliziotto stava perdendo tempo. Lee Chaolan le aveva detto che
era il
detective più sveglio di tutta Nuova Edo eppure continuava
ancora a brancolare
nel buio, ben lontano da ciò che davvero interessava alla
Mishima: la Biotech.
Davvero, Nina non riusciva a capire perché non avessero
voluto affidare
direttamente il caso a lei. A quell'ora, da sola o con l'aiuto della
Squadra
Speciale, avrebbe raso al suolo ogni ostacolo al potere della Mishima,
eliminando ogni problema alla radice; invece si trovava a fare da
angelo
custode a un sempliciotto con un distintivo. Un compito ben al di sotto
delle
sue capacità.
–La
tua soffiata non renderà lui sospettoso?– le
chiese un uomo con un profondo
accento straniero, seduto dall'altra parte della stanza e seminascosto
da una
spessa voluta di fumo di sigaro. L'Agente D non parlava molto bene il
giapponese, la lingua ufficiale di Nuova Edo, ma non era importante.
Del resto
per compiere il suo lavoro non aveva bisogno di parole.
–Non
importa, tanto è solo uno strumento senza valore. Quando
avrà finito lo
eliminerò come un cane– disse Nina con ostentata
noncuranza. Ma le sue parole
erano più fredde e affilate di un coltello e indicavano
rabbia.
–Sembra
quasi che tu abbia preso questa storia sul personale– disse
l'Agente D
emettendo qualcosa di simile a una risata. Lui non rideva mai.
–Irritata col
capo?–.
Nina
gli lanciò un'occhiataccia. –Non vedo
perché dovrei esserlo–.
–Non
saprei– disse l'uomo alzandosi e spegnendo il mozzicone di
sigaro in un
portacenere –Forse perché lui non fa a te
abbastanza favori anche se tu fai
abbastanza favori a lui. Se capisci cosa intendo…–.
Nina
affondò le dita nei braccioli della sedia e fissò
il volto pallido e segnato da
cicatrici dell'Agente D come se questo potesse mandarlo in pezzi. I due
rimasero per un po' a fissarsi, occhi di giaccio contro occhi di
ghiaccio.
–Non
scherzare col fuoco, Dragunov. Quello che faccio sono affari
miei– sibilò Nina.
–Ci
sono cose che bruciano più del fuoco, Williams–
disse Dragunov con una smorfia
che qualcuno che non lo conosceva bene avrebbe potuto scambiare per un
abbozzo
di sorriso. Uscì dalla stanza lasciando l'altro agente a
riflettere su quella
frase enigmatica.
Nina
si rilassò e lasciò andare i braccioli della
poltrona. Le velate insinuazioni
del russo erano una gatta da pelare a cui avrebbe preferito non
pensare.
Evidentemente lui sapeva che il suo rapporto con Lee Chaolan, il
rampollo della
Mishima, non era unicamente un rapporto di lavoro.
Si
sentì
spiata e quella sensazione, nuova per lei che spia lo era di
professione, le
era odiosa. Eppure sapeva benissimo che era perfettamente naturale che
venisse
controllata, dato che probabilmente, tra tutti i milioni di persone che
abitavano
Nuova Edo, lei era la più vicina ad avere la
possibilità di uccidere il signor
Chaolan se solo lo avesse voluto. Se Lee fosse morto sarebbe stato un
duro
colpo per la Mishima, anche se non era certo un individuo
indispensabile.
Nessuno
era indispensabile per Heihachi e Nina lo sapeva bene.
In
quella metropoli la lotta per restare a galla era continua; in milleni
di
civiltà, quell'epoca postbellica era probabilmente la
più vicina alla legge
della giungla. Uccidi o vieni ucciso, eccelli o vieni rimpiazzato.
L'Agente W
conosceva questa legge più di qualunque altro: eccelleva
nell'uccidere ed era
diventata fredda e lucida come una macchina. Sembrava essere nata
apposta per
essere un membro del Tekken Force. E finché avesse
continuato a svolgere le sue
missioni alla perfezione nessuno l'avrebbe gettata via come uno
strumento senza
valore.
*
–Perché,
Marshall?–. Anna scosse la testa per scacciare le lacrime
agli occhi. Il suo
volto era contratto da una rabbia venata di paura.
–Perché hai mentito a quel poliziotto?–.
Marshall,
seduto alla sua scrivania, era scuro in volto. Non rispose.
–Ora
daranno la caccia anche a te!– esclamò, come se la
terribile idea non fosse già
evidente a entrambi. Il proprietario del White Crow annuì
senza dire una parola.
–E
la cosa non ti spaventa!?–.
–Che
cosa avrei dovuto fare, Anna? Consegnare anche Hwoarang nelle mani
della
polizia?– disse con tono lugubre. L'aveva già
fatto, a malincuore, aveva
tradito un’amicizia e non aveva il coraggio di rifarlo.
–Non ci sono riuscito–.
–Ma
Kunimitsu…–.
–Per
lei è diverso. Era già sotto la protezione del
clan–.
–E
sentiamo, perché questo fantomatico clan non può
proteggere anche lui?– chiese
Anna, stizzita. Che razza di potere aveva questo clan se non poteva
proteggere
nemmeno un ragazzo?
–Non
arriverebbe mai in tempo. La Squadra Speciale è molto
più veloce. Ho saputo che
anche Kunimitsu è riuscita a scappare per miracolo. Ma di
Hwoarang non sanno
niente, nemmeno dove abita. Riuscirà a non farsi beccare se
tu lo avvertirai in
tempo–.
Anna
scosse la testa, disperata. –E tu?–.
–So
dove nascondermi. Se parto ora non mi troveranno– disse
cercando di mostrarsi
sicuro di sé, benché lui stesso non ne fosse
convinto. Improvvisamente
abbandonare la propria vita era così difficile. Marshall non
era mai stato un
tipo molto interessato all'azione e tutta la sua esistenza era
strettamente
legata a quel pub malandato. Il White Crow era casa sua. Quasi quasi
avrebbe
preferito restare lì a farsi catturare.
Ma
no, aveva dei doveri da cui non poteva sottrarsi e, oltretutto, sapeva
troppe
cose sul clan perché potesse permettersi di cadere in mani
nemiche. Del resto
era lui il tramite fra il Manji e gli abitanti della Zona.
–Naturalmente
mentre sarò via l'amministrazione del pub sarà
compito tuo. I lavori sono già a
buon punto. Forse tra qualche giorno potrai riaprirlo– disse
con un sorriso
rassicurante.
Anna
annuì a malincuore.
–Ho
anche già disposto che tu diverrai la proprietaria, nel caso
che io non dovessi
tornare–.
Lei
lo guardò, furibonda. –Non dirlo neanche per
scherzo. Tu tornerai!–. Poi il suo
volto sì addolci mentre si costringeva a scherzare. In certi
frangenti l'unica
cosa saggia da fare era sdrammatizzare. –Non vorrai mica
costringermi a portare
avanti questa baracca tutta da sola!?–.
*
Era
già pomeriggio quando Lei Wulong varcò da solo le
porte di vetro dei Laboratori
Biotech. Aveva preferito non informare il suo assistente di questa sua
mossa
benché nemmeno lui sapesse dire esattamente
perché. Forse era stata quella
telefonata misteriosa a metterlo a disagio.
–Vorrei
parlare col direttore– disse mostrando il distintivo a una
segretaria seduta
dietro un immenso bancone bianco nel centro della sala.
La
segretaria digitò sulla tastiera. –Il Dottor
Boskonovitch in questo momento sta
lavorando a un esperimento ma posso metterla in contatto con la sua
assistente–
rispose con cortesia.
Il
detective si trovava davanti a una spessa porta metallica. Sopra di
essa una
targhetta di plastica recitava la scritta: Riforestazione.
Responsabile: Dr.sa. J. Chang.
Suonò
il campanello e dopo qualche minuto venne aperto da una donna che le
rivolse
un'occhiata interrogativa. Wulong la osservò attentamente:
portava occhiali
dalle lenti spesse, aveva dei capelli fuori posto che uscivano dalla
sua
treccia e l'aria di una persona che non dorme molto. Sgranò
gli occhi quando
vide il distintivo.
–È
lei la Dottoressa Chang?–.
–S-sì,
in che cosa posso esserle utile?–. Sembrava nervosa. Il
detective si chiese se
lo fosse di natura o se fosse agitata dalla comparsa inaspettata di un
poliziotto.
–Vorrei
farle qualche domanda, se non la disturbo–.
–Prego,
mi segua– disse Julia facendogli strada attraverso una grande
stanza buia
illuminata da cilindri di vetro pieni di terra. Alcuni ricercatori,
sparsi qua
e là fra i tubi luminosi, alzarono lo sguardo con
curiosità prima di ritornare
alle proprie occupazioni.
I
due si sedettero attorno a una scrivania nel piccolo studio della
dottoressa.
–Mi
dica, detective– disse Julia sforzandosi di sorridere come se
fosse
perfettamente a suo agio, benché a occhio esperto era
evidente che non lo
fosse. Allacciò le dita fra loro come per una preghiera
–Come mai si trova ai
laboratori Biotech?–.
In
effetti nemmeno lui sapeva perché si trovasse lì
ed era incerto su che domande
fare. Se voleva cavarci qualcosa doveva mostrarsi sicuro di
sé e forse la
dottoressa avrebbe rivelato spontaneamente qualche particolare
interessante.
Scese un po' sulla sedia, mettendosi comodo, e con nonchalance
aggiustò la
penna appesa al taschino della camicia, attivando una telecamera
nascosta. –Non
saprei. Me lo dica lei–.
La
dottoressa inarcò un sopraciglio.
–Prego?–
–Ha
notato niente di strano ultimamente? Voci di corridoio, qualche
comportamento
insolito…–.
Julia
strinse i denti. Di cose che lei aveva ritenute strane ne aveva viste a
bizzeffe negli ultimi tempi: la visita notturna di Abel, il
comportamento
circospetto del Dottor Boskonovitch il quale d'altra parte si ostinava
a dire
che tutto andava bene, le lettere che riceveva, le sue lunghe soste nei
magazzini… Avrebbe potuto parlare a lungo dei suoi sospetti,
eppure si ritrovò
a chiedersi quale fosse la cosa giusta da fare. Fidarsi del dottore e
andare
contro la legge o rivelare le sue preoccupazioni a quel detective
dall'aria
amichevole?
–Direi
di no– disse infine. La bugia non le costò molto,
dato che dopo l'ultima visita
del dottor Abel la sua fiducia nelle istituzioni era diminuita
notevolmente. –Del
resto passo tutto il
tempo qui dentro e ne esco solo per dormire un po'. È
difficile che noti
qualcosa di strano–. Sorrise, compiaciuta per aver tirato
fuori una menzogna
credibile.
–La
capisco, anche il lavoro del detective spesso e volentieri si consuma
lambiccandosi il cervello seduti a una scrivania–
scherzò Lei. –Ma saprà almeno
se i laboratori hanno iniziato qualche nuovo esperimento, nell'ultimo
mese–.
Julia
scosse la testa. –No, abbiamo già abbastanza studi
per le mani e molti non
hanno ancora avuto risultati–. Come la ricerca sulla
riforestazione. Sospirò.
–Vorrei
che mi parlasse del dottor Boskonovitch. Da quanto lo
conosce?–.
–Da
alcuni anni. Mi sono laureata con lui–.
–Oggi
avrei voluto parlare con lui, ma in astanteria mi hanno detto che stava
lavorando. Su cosa esattamente? In parole povere, la prego. Non me ne
intendo
di scienza– disse facendo un occhiolino.
Ciò
strappò un sorriso dalle labbra della dottoressa.
–Studia le mutazioni
genetiche nell'uomo. In particolare come contrastare la formazione di
quelle
dannose e favorire lo sviluppo di quelle vantaggiose. Sa, a causa delle
radiazioni sono diventate molto più numerose di quanto lo
fossero nei secoli
precedenti e se ne registrano di nuovi tipi in continuazione–
spiegò con
professionalità. –Si stupirebbe se sapesse quante
persone al giorno d'oggi
hanno mutazioni non evidenti. Alcuni non si accorgono nemmeno di
averle, a meno
che non gli si faccia una mappatura del DNA. Altre si rendono conto di
avere
qualcosa di strano, come capacità che nessun altro ha, e
credono che si tratti
di una malattia o addirittura di un dono soprannaturale. Ma le chiedo
scusa,
sto divagando!– disse con lieve imbarazzo.
–Invece
è stata una spiegazione interessante, Dottoressa. Ci sono
stati sviluppi in
questo studio?–.
–Credo
che la persona più indicata per rispondere sia lo stesso
dottore. Anche se è
stato il mio campo per alcuni anni ora mi occupo di tutt'altra cosa e
lo aiuto
solo di tanto in tanto–.
–Bene,
direi che abbiamo finito– disse Lei alzandosi dalla sedia
–Mi promette di
chiamarmi se nota qualcosa di strano?–. Le porse un biglietto
da visita
elettronico con sopra lo stemma della polizia.
Julia
lo prese e gli diede un'occhiata. Nel giro di qualche secondo
l'immagine
raffigurata cambiò lasciando il posto a una foto del
detective e il numero con
cui rintracciarla. L'aria da cittadino onesto che aveva in fotografia
le sembrò
quasi fatta apposta per ricordarle che aveva appena taciuto delle
verità a un
pubblico ufficiale.
–Certo–
rispose, benché sperasse di non doverlo mai fare.
*
Sdraiata
sulla sua brandina, Kunimitsu fissava il soffito cercando di
costringersi a non
urlare. Solo il tremito del piede indicava il suo nervosismo.
Non
aveva idea di quante ore fossero passate da quando era entrata
lì e le avevano
portato da mangiare. Aveva dormito, forse un paio d'ore, poi si era
svegliata e
da quel momento era rimasta perfettamente immobile mentre ondate di
panico la
sommergevano a intervalli.
Si
tirò sui gomiti e alzò lo sguardo su una
videocamera che la occhieggiava
beffardamente da un angolo. Si ributtò giù con un
gemito di sconforto facendo
cigolare le molle. Nelle ultime ventiquattro ore le erano successe un
sacco di
cose che avrebbero potuto tenerle occupate la mente, eppure riusciva a
pensare
solo a quanto si sentisse in trappola in quel momento.
"Le
mie maledette pillole. Sto per andare in astinenza, cazzo". Poi si rese
conto che se fosse andata avanti focalizzandosi unicamente su questo
pensiero
non avrebbe resistito a lungo.
Pensare,
doveva pensare ad altro. Provò a recitare mentalmente un
mantra di inenarrabili
insulti diretti a Yoshimitsu, colui che l'aveva fatta richiudere in
quella
stanza, e questo parve farla sentire meglio. L'immagine dell'uomo
mascherato
richiamò quasi subito alla sua mente le parole che le aveva
detto. Io sono il leader del movimento
ribelle
Manji e quello che ti sto chiedendo è, Kunimitsu: vuoi
unirti a noi?.
Il
suo cuore aveva sussultato a quelle parole in un modo che non credeva
più
possibile. Per la prima volta da quando suo nonno era morto qualcuno le
aveva
offerto una forma di redenzione da quella patetica vita da disadattati
ai
margini della società. Un tempo era stata piena di rabbia,
quel genere di
rabbia salutare che vorrebbe distruggere ogni cosa per ricominciare
tutto da
capo e raddrizzare ogni cosa storta. Un tempo aveva bruciato per la
fiamma di
quella rabbia, ma poi la vita l'aveva fatta soffocare. Aveva smesso di
combattere contro ciò che la disgustava, aveva cominciato a
trascinarsi nella
sua esistenza come un fantasma, aveva conosciuto la droga e se n'era
fregata di
tutto.
L'unica
cosa di cui le importava ancora era Hwoarang. Lui era come lei, anche
lui aveva
bruciato della stessa rabbia e poi si era spento. Lo conosceva da anni
e aveva
sempre vegliato su di lui come una sorella maggiore. Per lo meno fino
in quel
momento: ora che era lei quella nei guai non l'avrebbe potuto
più proteggere.
Chissà, forse non si sarebbero più rivisti.
Il
pensiero la folgorò, ma prima che anche questa
preoccupazione andasse a
incrementare le ondate di panico, la porta si aprì facendone
entrare
Yoshimitsu.
Kunimitsu
si tirò immediatamente a sedere.
–Oh,
finalmente qualcuno si è degnato di farsi vedere!–
sbottò lei, evidentemente
spazientita. –Che ore sono?–.
–Mi
stavo giusto chiedendo perché mi fischiassero le
orecchie– scherzò Yoshimitsu
sedendosi su una sedia accanto al letto. –È di
nuovo notte. Hai dormito a
lungo–
–Davvero?
Devo aver perso la cognizione del tempo qui dentro–. Era
già passato così tanto
tempo? Non c'era da meravigliarsi che si sentisse scoppiare. Si chiese
quanto
ancora avrebbe potuto resistere senza pillole prima di cominciare a
stare
seriamente male. Si chiese se avebbe dovuto dirlo ma scoprì
che esitava
all'idea.
–Spero
che tu abbia avuto abbastanza tempo per riflettere su quello che ti ho
detto–
esordì l'uomo. –Sentiti libera di scegliere, non
sei obbligata a fare nulla che
tu non voglia. Però…–
–Però?–.
–Però
ricordati che se decidi di non essere dei nostri non potremo rimandarti
indietro finché il compito del clan non sarà
esaurito. Personalmente mi fido di
te ma il clan non può rischiare che tu ci tradisca, magari
senza nemmeno
volerlo–.
Kunimitsu
annuì a malincuore benché l’idea di
starsene chiusa lì un minuti di più le
facesse quasi scoppiare la testa. Aveva sentito numerose storie di
persone che
sotto tortura avevano accusato perfino i propri familiari innocenti.
Chiunque
sotto tortura sarebbe stato costretto a parlare.
–Capisco–.
–Bene.
Allora…–. Yoshimitsu iniziò a parlare
con una solennità così estrema da
contrastare con la sua persona bizzarra –Ti ho esposto i
nostri obbiettivi e ti
ho chiesto se volevi servire la nostra causa, la causa di tutti coloro
che sono
stati schiacciati dal regime. Molti hanno dato la loro vita e molti
ancora sono
disposti a farlo finché il nostro obbiettivo non
sarà stato raggiunto. I rischi
a cui va incontro un membro del clan sono i più orribili che
una persona possa
correre, è bene che tu lo sappia. E di nuovo ti chiedo,
Kunimitsu: vuoi far
parte del Clan Manji?–.
Non
ebbe bisogno di pensarci a lungo. Quelle parole risvegliariono la
fiamma della
rabbia sopita dentro di lei, le dissero che il suo cuore non era ancora
morto.
Kunimitsu si rese conto che aveva sempre saputo la risposta.
–Sì–.
–Bene!–
esclamò Yoshimitsu battendo le mani con gioia e distruggendo
in un secondo la
solennità del momento. –Sono davvero contento
della tua scelta! Ora non ci
resta che metterti alla prova–. Scattò in piedi.
–Prova?
Quale prova!?– chiese una stupita Kunimitsu. Quando c'era di
mezzo quello
squilibrato le sorprese non finivano mai.
–Il
resto del clan ancora non ti conosce e deve giudicare se sei degna di
farne
parte. Ogni vita è preziosa e ogni membro del clan rischia
di perderla in ogni
missione. Perciò per il loro bene non possiamo accettare
persone che
rischierebbero la loro vita inutilmente–.
–Per
esempio?– chiese la kunoichi con un cattivo presentimento.
–Per
esempio persone troppo giovani o che non sono in grado di combattere,
niente
malati, niente invalidi. Nessuno che dipenda da alcol o droghe
sintetiche–.
Kunimitsu
si sentì sbiancare sotto la maschera. Se prima si era
chiesta se avrebbe dovuto
parlare del suo problema con le pillole ora sapeva che non poteva
assolutamente
farlo. Se lo avesse detto sarebbe rimasta lì a marcire come
in una prigione, la
fiamma si sarebbe spenta di nuovo e il suo cuore sarebbe morto di
nuovo. Non
voleva più essere messa da parte. La testa prese a girarle.
–Mi…
mi sembra giusto–.
–Bene,
verrò a trovarti fra qualche ora– disse Yoshimitsu
e fece per andarsene ma si
fermò dopo qualche passo, colpito da un pensiero.
–Oh, già…– mormorò
rabbuiandosi istantaneamente. –C'è una cosa che
dovresti sapere…–.
–Cioè?–.
Il
leader del clan Manji si mantenne a distanza di sicurezza, esitante.
–Beh, temo
che mi ucciderai ma non penso ci sia un modo non traumatico per
dirtelo–.
Inspirò facendosi coraggio –La Cyberpolizia
sospetta che tu sia una
terrorista–.
Kunimitsu
spalancò gli occhi dall'orrore. –Che cosa!?
Com'è possibile? Pensavo mi
cercassero solo per la droga!–.
Yoshimitsu
abbassò lo sguardo. Strano come quella ragazza lo impaurisse
più di un plotone
di poliziotti della Squadra Speciale. –Sono riusciti ad avere
una mia foto e…
beh, ecco… pensano che tu sia me. Ti cercano al posto
mio–.
La
reazione della kunoichi fu proprio quella che si era aspettato.
–Che
cosa?–. Kunimitsu saltò in piedi sul letto come se
fosse stata punta da un
serpente. –CHE COSA?– urlò con furia
omicida. –Vuoi dire che tutte le
fottutissime cose che mi sono capitate sono colpa tua,
perché sei stato così
IDIOTA da farti fotografare dalla polizia!?–.
Yoshimitsu
indietreggiò portando le mani avanti. –Ti prego,
stai calma! Sei al sicuro
finché sei col clan!–.
Kunimitsu
strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. Era così
inverosimile da
essere ridicolo. Avrebbe fatto a pezzi quel dannato parruccone e tutto
il suo
maledettissimo clan. –Io rischio di essere catturata e
uccisa, scopro che è
tutta colpa tua e tu mi dici di STARE CALMA?!–.
Saltò giù dal letto e investì
Yoshimitsu come un fulmine. Non ci vedeva più dalla rabbia.
Ore e ore di
spossante attesa in quella minuscola camera e poi scopriva che era
tutta colpa
sua. Se fosse morta, se fosse rimasta lì a marcire per
sempre, se non avesse
più rivisto Hwoarang sarebbe stata tutta colpa sua.
Desiderava
solo prenderlo a pugni; e lo avrebbe fatto con immenso piacere, se
mentre lo
strattonava non avesse cominciato a tremare violentemente. Lo
lasciò andare e
barcollò indietro, stupita di quello che il suo corpo le
stava facendo così
d’improvviso.
Respirava
velocemente e faticosamente, si rese subito conto di stare
iperventilando.
Panico o astinenza? Non lo sapeva. Forse tutti e due. Le tempie
cominciarono a
dolergli come se qualcuno ci avesse piantato dei chiodi, le labbra
cominciarono
a formicolargli, ogni cosa prese a vacillare sotto il suo sguardo che
lentamente si annebbiava.
Cadde
in ginocchio e l'ultima cosa che vide prima di svenire fu Yoshimitsu
che
l'afferrava per le spalle cercando di fermare i suoi tremiti.
*Spolvera le ragnatele* E rieccomi qua coi miei sporadici aggiornamenti!
Che dire di questo capitolo? Non molto avvincente, temo, visto che
praticamente è tutto un andirivieni del povero Lei che,
ahimé, non ci sta capendo niente, ma tutto ciò
è necessario per il proseguimento della storia.
Ed ecco svelato chi è il misterioso personaggio del
"caricamento dati in corso". Ma forse non era poi così
misterioso, no? Direi che non ho certo un futuro da giallista ma almeno
ci si prova, suvvia.
Krisalia Kinomya. Grazie!
Kunimitsu ha bisogno di più fan, lo dico sempre (in quanto
sostenitrice delle cause perse). Per quanto riguarda Lee...oddio, non
credevo che avrei suscitato l'ira di qualcuno <.<
Comunque non è mia intenzione dipingerlo come viscido e
gigolò, visto che in fondo sembra che sia stata Nina quella
a farsi avanti per prima (e come potrebbe Lee rifiutare?). Certamente
lo vedo come un personaggio un po' ambiguo, assoggettato a un padre
dispotico ma desideroso di rivalsa, ed è proprio per questo
che lo trovo interessante e intendo svilupparlo di più nei
prossimi capitoli.
Angel Texas Ranger. *inchino*
Ma tranquilla che tanto mi sa che appuntamento è una parola
grossa!
Nefari. Grazie,
è bello sapere che i miei lettori non sono ancora morti di
inedia :P
Miss Trent
Basta con questi complimenti, potresti creare un mostro! :P Comunque,
per quanto riguarda Dragunov... Lol, detto fatto xD A dire il vero
quando ho iniziato questa storia non
avevo pensato a inserire anche lui, principalmente perché
non ho
Tekken DR e quindi è un personaggio che conosco poco, ma mi
serviva
qualche altro agente sanguinario da affiancare a Nina, anche se so
già che non sarà mai
all'altezza del tuo Dragunov in "Neve e Sangue"!
sackboy97.
Ai suoi ordini!
|
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Capitolo 6 *** Addiction ***
6.
Addiction
Injustice made it's mark
All the political whores
only come out after dark
If anyone knows the way
Build me a bridge so I
won't fall astray
Inside four walls,
inside four walls my friend
They took away your
freedom
And the pigs still
preach their lies
[Nevermore –
Inside four walls]
7 Marzo 2191
Le porte scorrevoli dell’ufficio di Lee Chaolan, situato al
penultimo piano del grattacielo della Mishima Zaibatsu, si aprirono
senza alcun suono lasciando entrare una donna vestita di nero, dallo
sgauardo serio e l’aria marziale.
–Stavo proprio pensando a te, Nina– disse Lee con
un lieve sorriso mentre alzava lo sguardo dal computer su cui stava
lavorando. –Vedo che almeno qui hai la compiacenza di entrare
dalla porta–.
–Ovviamente, Lee. Siamo al centesimo piano–. Nina
si sedette davanti alla scrivania senza mutare espressione,
indifferente al tentativo di battuta di spirito dell’altro.
–E io non faccio mai niente di inutile e
innecessario–.
–Per questo sei l’Agente numero uno del Tekken
Force– osservò Lee appoggiando la schiena al
morbido schienale della poltrona. –Allora, ci sono
novità? Come se la cava il nostro detective?–.
Nina fece una smorfia e incrociò le braccia.
–Fin’ora ha fatto solo buchi nell’acqua.
Si è perfino lasciato scappare il proprietario del White
Crow. Se solo tu mi avessi dato il permesso di agire a
quest’ora io…–.
–No– la interruppe Lee –Lasciamo che
vadano avanti le pedine sacrificabili. Vedi, è come il gioco
degli scacchi: posso permettermi di perdere un fante, ma non la mia
preziosa Regina…–. Sorrise amabilmente,
guardandola dritta negli occhi.
Nina parve non lasciarsi toccare nemmeno da quello sguardo. Anzi,
assottigliò gli occhi, come una vipera pronta a mordere.
–Non l’hai già persa, la tua preziosa
regina?–.
Il sorriso sul viso dell’uomo si spense di colpo nel sentire
la sferzata nascosta in quelle parole apparentemente calme e innocue.
–Non è lei, la mia Regina. Sei tu–
disse, con un tono di voce e un’espressione assolutamente
seri. Non era il solito Lee galante e dongiovanni in quel momento.
–Davvero romantico…– sbuffò
lei.
–La guerra è alle porte, Nina.–
continuò l’uomo dai capelli argentei, continuando
a guardarla negli occhi. Voleva essere certo che l’altra
capisse pienamente il senso di quello che stava dicendo: parole che non
avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare apertamente davanti a suo
padre, motivo per cui si era personalmente accertato che la stanza
fosse completamente isolata dall’esterno. –Mio
padre è troppo assorto nei suoi sogni di
immortalità per accorgersi pienamente della
gravità della situazione. Ormai è chiaro che
abbiamo dei nemici, nemici di cui sappiamo ben poco, e questo li rende
ancora più pericolosi. E quando loro attaccheranno
avrò bisogno di averti al mio fianco. Non a fianco della
Mishima, non a fianco di mio padre. Al mio–.
–Ci sarò– tagliò corto lei
–Come sempre. È solo per questo che mi hai
chiamata?–.
–No– disse Lee –Voglio che tu vada a
trovare l’ex-Regina–.
Ora era il suo volto ad esibire una smorfia, una smorfia lieve, quasi
impercettibile, ma in cui Nina riconobbe un amaro sarcasmo.
–Offrile una speranza prima che salga sul patibolo–.
*
Palpitazioni, stress, tic nervosi, capogiri, tremori, iperventilazione.
Tutti chiari sintomi della Sindrome di Panico da Pre-appuntamento.
Ling Xiaoyu sedeva insieme a un mucchio di vestiti sul copriletto rosa
confetto nella sua camera, intenta a mangiucchiarsi nervosamente le
unghie, il che probabilmente le avrebbe causato un’ennesima
ondata di panico una volta che si fosse resa conto che poi avrebbe
avuto bisogno anche di una manicure; ma non riusciva a farne a meno,
non a due ore dall'appuntamento col ragazzo che conosceva come Takeshi
Kawamura. Ovviamente sapeva che non era un vero appuntamento, ma questo
rendeva la cosa ancora più preoccupante. Cosa sarebbe
successo? Non ne aveva idea.
Allungò la mano e afferrò il suo unico strumento
di salvezza: il telefono.
–Pronto, Miharu?–.
–Ling!– rispose una voce eccitata almeno quanto lei
–Stavo cominciando a preoccuparmi! Pensavo che mi avresti
chiamata molto prima!–.
–Miharu, sono in preda al panico!–
esclamò Xiaoyu continuando a divorarsi le unghie
–Non so cosa fare! Non so come mi dovrò
comportare! Non so nemmeno come vestirmi!–.
–Non hai ancora scelto?– chiese l'altra, stupita.
–Ma cosa hai fatto fino ad ora?–.
–Oh beh– ridacchiò nervosamente.
–Ho messo a soqquadro tutto il guardaroba cercando qualcosa
di adatto ma non ho la più pallida idea di come
vestirmi–. Tra sé e sé aggiunse
–E fosse solo questo il problema…–.
–Perché non metti uno di quei tuoi vestiti
tradizionali? Quello rosso lungo fino alle ginocchia–.
Xiaoyu si batté una mano sulla fronte. –Ma certo!
Ma certo! Perché non ci ho pensato subito? È
perfetto!– esclamò. E dir che aveva pensato a
tutto tranne che a quello! A volte la sua amica riusciva a tirarla
fuori dai guai con una semplicità sconcertante.
–Bene. E per il resto?–.
–Per il resto sono pronta. Devo solo darmi qualche
ritocco– disse osservandosi le unghie martoriate.
Sospirò. Avrebbe voluto parlare alla sua amica delle sue
vere preoccupazioni, ma sapeva di non poterlo fare. La sua paura non
era solo quella di uscire con la persona che sognava da anni. Avrebbe
dato qualsiasi cosa perché le sue paure fossero davvero
quelle di una ragazza qualsiasi nervosa per il suo primo appuntamento
con un ragazzo qualsiasi, ma non era così.
–Tutto bene?– chiese Miharu, preoccupata dal suo
silenzio –Sei nervosa?–.
–Da morire. Così nervosa che mentre ti parlo sto
rimbalzando sul letto–. Suo malgrado rise perché
in effetti era vero: non riusciva a stare ferma.
–Andrà tutto bene! Del resto è evidente
che gli piaci, sennò non ti avrebbe mai chiesto di uscire
con te, no?–. Benché Miharu cercasse di
confortarla, quelle parole fecero l'effetto contrario; le ricordarono
che Takeshi non era davvero interessato a lei, ma solo al suo silenzio,
probabilmente. Questo pensiero la fece intristire immediatamente.
–Già, hai ragione…–
mormorò, ben poco convinta.
*
Seduto alla scrivania con la testa fra le mani, Lei Wulong si dedicava
a pieno regime all'attività principale di ogni detective:
pensare. E benché sapesse ancora poco su quale fosse la
realtà, di cose a cui pensare ne aveva parecchie. Da una
parte aveva tre persone scomparse nel nulla: Kunimitsu, il ragazzo dai
capelli arancioni, latitante da anni, e adesso persino Marshall Law,
sparito subito dopo aver mentito all'interrogatorio. Da un lato aveva
il problema dei laboratori: una soffiata anonima indirizzava le sue
indagini sulla Biotech, senza che nessuno si fosse preso la briga di
denunciare qualcosa, e, come se non bastasse, non era ancora riuscito a
parlare col dottor Boskonovitch, che dava l'aria di essere la persona
più indaffarata della terra. Probabilmente sarebbe stato
costretto a richiedere che si presentasse al distretto di polizia per
poterlo interrogare e chiarire qualche mistero.
Per esempio: che collegamento c'era fra la Biotech e i terroristi? Non
ne aveva idea. L'unica che avrebbe potuto fare luce sul rapporto tra
gli antagonisti della Mishima e il dottor Boskonovitch era la Mishima
stessa. Ma se i suoi laboratori si rifiutavano addirittura di aprirgli
le porte, come avrebbe potuto scoprire qualcosa? Era strano, era
incredibilmente strano. In molti anni di onorata carriera non gli era
mai capitato di avere le mani così legate e di possedere
così pochi mezzi. Era come giocare a moscacieca. Era come se
qualcuno si stesse divertendo a vederlo brancolare nel buio.
Prese in mano il telefono. –Avete notizie di Marshall
Law?–.
–Gli agenti lo stanno cercando. Hanno portato la sua collega
in centrale per interrogarla ma continua a ripetere di non sapere dove
sia andato. Io stesso sto presiedendo all'interrogatorio–
rispose l'ispettore Hinagawa. –Altri ordini?–.
–Per il momento no. Continuate a tenerla sotto torchio e non
disturbatemi per ora. Io continuerò a sondare l'archivio dal
mio ufficio– disse Lei, poi attaccò la cornetta e
si alzò. Sembrava che non ci fosse nient'altro da fare a
parte aspettare. Ma il detective Wulong non era mai stato il tipo da
starsene a costruire castelli mentali dietro una scrivania: doveva
andare a vedere di persona, toccare con mano, e ora che il mistero si
era infittito per via della telefonata anonima, voleva farlo da solo.
*
Quando riprese i sensi la prima cosa che Kunimitsu vide fu lo sguardo
indemoniato della maschera di Hannya, galleggiante nelle tenebre. Le
parve un cattivo presagio. Si agitò nel letto cercando di
scacciare la fastidiosa immagine che la osservava attraverso il velo
opaco del suo stato di semicoscienza. Ma non c'era niente da fare,
Hannya continuava a guardarla con un'aria che alla kunoichi pareva di
disapprovazione.
“Perché mi guardi così,
demone?”.
Poi, improvvisamente, ricordò: aveva avuto una crisi. Per
quanto tempo? Non ne aveva idea. Non se l'era aspettato, non avrebbe
mai immaginato che l'assenza di quelle pillole avrebbe potuto
provocargli una cosa del genere.
Hannya, o meglio, Yoshimitsu scosse lentamente la testa quando si rese
conto che Kunimitsu si era ripresa.
–Perché non me l'hai detto subito?–. Il
suo tono era calmo e gentile, ma a lei parve vibrare di rimprovero e
delusione.
–Mi dispiace…– mormorò
debolmente Kunimitsu con la voce impastata. Le dispiaceva davvero
essersi ridotta così. Incapace di lottare, inutile per il
clan, inutile per il suo mondo, tutto per colpa della sua debolezza.
Sotto lo sguardo inespressivo della maschera si sentiva sprofondare.
–Mentre eri priva di sensi ci siamo presi la
libertà di farti un'analisi del sangue– disse
Yoshimitsu, con voce piatta, come se fosse un medico intento a dare una
cattiva notizia a un paziente. La differenza qui era che Kunimitsu
sapeva bene cosa avevano scoperto. –Abbiamo trovato
tracce di quella droga in capsule che chiamano H-Sinth. Ma questo
ovviamente tu lo sapevi già. Sai, la gente dice che H stia
per Heaven, anche se io la vedrei meglio come Hell–.
Kunimitsu restò in silenzio e se non fosse per il modo in
cui stringeva i pugni si sarebbe potuto credere che fosse di nuovo
addormentata.
–Suppongo che tu conosca già gli effetti di questa
sostanza, ma quasi nessuno conosce tutti gli effetti collaterali.
È bene che tu ascolti il Dottore– disse alzando lo
sguardo.
La kunoichi trasalì accorgendosi solo in quel momento che
c'era un'altra persona dall'altra parte del letto, un anziano che la
guardava bonariamente. Lo scrutò attentamente e
benché avesse la vista annebbiata lo riconobbe quasi subito.
Era il famoso Dottor Boskonovitch che aveva visto spesso sui giornali,
un pezzo di storia di Nuova Edo, uno degli scienziati che aveva reso
possibile l'uscita dai bunker e la ricolonizzazione del mondo. Uno
degli uomini più importanti di quel nuovo mondo.
–Lei…?– mormorò, stupita.
Il Dottore la guardò negli occhi senza mostrare alcuna
reazione al suo stupore. –L'H-Sinth è in grado di
creare visioni attraverso la stimolazione cerebrale–
spiegò. –Finché l'effetto dura
l'individuo crede che le visioni facciano parte di una
realtà senza tempo, vera e felice. Come un Paradiso
Sintetico, appunto. Ma ha un effetto collaterale gravissimo:
è in grado di debilitare l'organismo a tal punto da non
permettergli di funzionare correttamente una volta che essa venga
sottratta. Per dirlo in parole povere è come se distruggesse
sostanza nutritive necessarie e ne prendesse il loro posto.
Così sì è obbligati a non smettere di
prenderla. E non è nemmeno possibile disintossicarsi da
soli, perché è pericoloso. È
necessaria la presenza di un medico che somministri dei farmaci in
grado di contrastarne gli effetti e reintegrare le sostanze che
l’H-Sinth disgrega–.
Kunimitsu sapeva benissimo che un paradiso sintetico si paga a caro
prezzo, eppure non immaginava che una sostanza così diffusa
tra i vicoli e i locali della Zona Rossa nascondesse un veleno
così potente. Nessuno le aveva mai detto che cosa fosse
davvero in grado di fare. Ecco cos’era in verità
l’H-sinth: non uno spiraglio di libertà ma uno
strumento di controllo, un guinzaglio, una forma di
schiavitù nascosta dietro il paradiso artificiale
dell’evasione della realtà. Nient’altro
che l’ennesimo lavaggio del cervello a cui lei aveva cercato
di sottrarsi per tutta la vita. E invece ci era caduta in pieno.
La brutalità della verità in quelle parole
gentili era insopportabile. Non disse niente, temendo che un tremito
nella voce rivelasse agli altri due il suo turbamento.
–Che cosa vuoi fare adesso?– chiese Yoshimitsu.
–Perché, ho qualche scelta? Così sono
inutile per il clan– rispose lei con amarezza. Probabilmente
l'avrebbero tenuta rinchiusa lì dentro fino alla conclusione
della loro missione, per giorni, mesi o forse anni, a consumarsi nella
commiserazione o nell'astitenza finché non si fosse
disintossicata. Probabilmente non si meritava nient’altro. Si
chiese quanto del suo pessimismo fosse naturale e quanto fosse causato
dalla privazione della droga.
A quel punto Yoshimitsu fece qualcosa che la stupì. Si
sedette sul letto e le afferrò il polso con la stretta della
fredda mano robotica. –Certo che cel'hai, non essere
idiota– disse bruscamente. –Tutti hanno una scelta,
Kunimitsu–. Sempre tenendola per il polso guardò
Boskonovitch. –Non è vero, Dottore?–.
Kunimitsu, che in altre occasioni avrebbe spaccato la testa a chiunque
si fosse permesso di darle dell'idiota, si tirò a sedere sul
letto senza dire niente, sentendo rinascere una debole speranza.
Il Dottore annuì. –Puoi ancora entrare nel clan,
se lo desideri. Devi solo disintossicarti. Qui abbiamo alcuni medici
validi che ti possono aiutare e assistere secondo i procedimenti
tradizionali–.
–Ma ci vorranno settimane, forse mesi perché io
guarisca!– protestò lei –E nel frattempo
cosa dovrei fare?–.
I due uomini si scambiarono un'occhiata.
–Ecco…– cominciò
Boskonovitch, esitante.
–Glielo dica, dottore. È giusto che sappia che
c’è un’altra
possibilità–.
–Ecco… sì, esiste un altro metodo
più veloce, ma è ancora in fase di
sperimentazione. Si tratta di iniettare nel sangue un composto in grado
di eliminare le tossine dal tuo corpo in un paio di giorni. Ma devi
sapere che è estremamente doloroso e anche pericoloso per
chi non si trova in condizioni fisiche ottimali. Non te lo
consiglio–.
Kunimitsu capì dall'espressione grave del dottore che non le
stava mentendo.
–Quanto doloroso?– chiese, trepidante.
–Ben al di là dei normali limiti di
sopportazione– rispose il dottore. Serrò le
labbra. Era ovvio che avrebbe preferito non ricorrere a quel mezzo e
forse sperava che Kunimitsu non accettasse di farlo.
La ragazza si voltò verso Yoshimitsu. Non aveva detto una
parola ma continuava a stringerle il polso, forse non rendendosene
conto a causa dell'insensibilità dell'arto. Avrebbe pagato
qualcosa per sapere con che espressione la stava guardando in quel
momento. Apprensione, curiosità, incoraggiamento? Ma non lo
sapeva. Avrebbe dovuto decidere da sola, come aveva sempre fatto.
Si girò verso il dottore. Sospirò. –Non
importa. Lo farò–.
*
La dottoressa Chang, seduta alla sua scrivania, faceva scattare il
tappo di una penna in attesa che arrivasse l'ora di chiusura dei
laboratori e i ricercatori uscissero. Non era insolito per lei restare
fino a tardi, ma stavolta aveva altri motivi che non riguardavano i
suoi studi sulla riforestazione. Non sapeva bene cosa avrebbe dovuto
fare, ma sapeva che tanto se fosse andata a casa quella sera non
avrebbe dormito comunque: era troppo agitata.
La visita del poliziotto sembrava aver confermato tutte le sue paure:
c'era davvero qualcosa che non andava. Possibile che lei fosse la sola
in tutta la Biotech ad essersene accorta? "Prima la strana visita
notturna del dottor Abel, poi il dottor Boskonovitch che si comporta
come se fosse una cosa normale, poi l'arrivo di un poliziotto che
chiede di parlare proprio con me. E come se non bastasse ora il dottore
è irrintracciabile sul cellulare, sparito subito dopo
essersi occupato del suo esperimento!". Julia non era mai stata una dal
temperamento nervoso, ma quella situazione le faceva saltare i nervi.
"Ricapitoliamo" pensò. "Il dottor Abel crede che sia stato
sottratto qualcosa dai laboratori Mishima e il dottor Boskonovitch dice
di non saperne nulla. Chi dei due mente? Se vogliamo dare ascolto al
detective e qui sta succedendo davvero qualcosa di strano, allora
dovrebbe essere Boskonovitch a mentire. Possibile che mi stia
nascondendo qualcosa? A me, che sono la sua assistente da anni?". Julia
lasciò andare la penna e si massaggiò le tempie.
Non riusciva credere che il dottore fosse dietro a qualcosa di losco,
lo conosceva come una persona irreprensibile, una sorta di benefattore
dell'umanità. Eppure, andando a ripescare nei suoi ricordi
recenti, c'era davvero qualcosa di strano. "Non solo sparisce in
continuazione, il che è comunque scusabile dato che forse, a
differenza di me, dovrà pur avere una vita privata, ma
riceve un sacco di messaggi cartacei anonimi. Possibile che mi stia
nascondendo qualcosa? A me, che sono la sua assistente da anni, che ho
le chiavi di tutte le stanze dei laboratori?". Julia
sussultò a quel pensiero. Non era vero che aveva tutte le
chiavi perché c'era un posto a cui nemmeno lei poteva
accedere: uno degli scomparti del magazzino.
Uscì dal suo laboratorio e si guardò attorno, per
paura che ci fosse qualcun altro che tirava tardi come lei, ma ormai in
giro non c'era anima viva. Anche se non aveva le chiavi voleva comunque
andare a dare un'occhiata di ricognizione con la speranza di scoprire
qualcosa, perciò prese l'ascensore e scese fino ai
sotterranei.
Quando varcò la soglia del buio e immenso magazzino il cuore
prese a batterle più forte. Passò in fretta in
mezzo ai lunghi scaffali polverosi, pieni di ogni sorta di strumenti e
materiali di varia natura in attesa di essere utilizzati.
Ciò che le interessava erano le porte che si aprivano in
fondo allo stanzone e che contenevano gli oggetti più
preziosi. Julia ne superò nove su cui campeggiavano scritte
come "Innesti Biomeccanici" e "Microcircuiti elettronici". L'ultima non
aveva scritte ed era proprio quella di cui nessuno, eccetto il dottore,
aveva la chiave.
Julia restò a guardarla, sospirando. Se davvero era stato
sottratto qualcosa ai laboratori Mishima quello era il posto
più probabile in cui nasconderlo. Sapeva che se voleva
davvero entrarci doveva prima rubare la chiave al dottore e aveva
già qualche idea su come fare. Ma ne avrebbe avuto il
coraggio?
*
Quando il sole tramontava certi quartieri della Zona Rossa calavano nel
buio più totale. Nessun lampione illuminava le vie e le
uniche luci accese erano quelle delle stanze popolate negli Edifici
Abitativi, quelle enormi moli di cemento che si innalzavano contro il
cielo come una gigantesca e sgraziata arca di Noè senza
speranza.
Eppure era proprio dopo il tramonto che le strade si riempivano di
più. Ogni genere di persona abbandonava i propri rifugi per
occuparsi di ogni sorta di affari più o meno leciti, piccoli
capanneli si formavano a ogni angolo per scambiarsi notizie. Fra tutto
questo via vai e il sussurrare concitato sembrava che solo una persona
se ne stesse in disparte, passeggiando senza meta per le strade, in
preda ai pensieri.
–Cazzo– sibilò Hwoarang dando un calcio
a una lattina sfuggita da una busta della spazzatura. Nonostante i
lividi e le ferite ricevute al suo ultimo incontro con gli scagnozzi di
Feng Wei, da allora non si era fermato mai un momento. Aveva racimolato
tutti i suoi risparmi, era persino andato a reclamare i suoi soldi da
quelle poche persone che erano in debito verso di lui, ma quello che
aveva raccolto non era nemmeno la metà della somma che
doveva al capomafia.
"Sono con le spalle al muro" pensò. "Che cosa dovrei fare?
Scappare? Macché. È impossibile uscire da Nuova
Edo a meno che non si abbia abbastanza soldi per pagare alla fottuta
frontiera. Mi costerebbe meno saldare il debito con Feng Wei! E da
quando le altre città ci hanno messo l'embargo non
c'è nemmeno una maledettissima areonave commerciale per
imbarcarmi come clandestino. Sono rovinato, rovinato… Non
saprei nemmeno a chi chiedere un prestito. A Marshall? No, non posso
farlo. Non dopo che gli ho dato del vigliacco, maledizione. Forsei
potrei rapinare una banca… Ehi, ma dove diavolo sto
andando?".
Si fermò, cercando di capire dove fosse andato a finire a
furia di girovagare nel buio. Un sorriso beffardo gli si dipinse sulle
labbra livide quando se ne rese conto. Nonostante tutto era finito a un
tiro di schioppo dal White Crow, come se i suoi passi infingardi
l'avessero portato proprio dove per orgoglio aveva deciso di non andare.
"Sembra che nonostante tutti i miei propositi di uscire da solo da
questa situazione del cazzo io mi ritrovi sempre a sperare nell'aiuto
degli altri. Beh, già che ci sono posso andare a dare
un'occhiata al pub. Se Marshall ha davvero messo al sicuro Kunimitsu
forse potrebbe mettere al sicuro anche me. O almeno potrei chiedergli
scusa…".
L'insegna al neon, raffigurante un corvo bianco dalle ali spiegate, era
già vicina quando qualcuno esclamò
–Ehi, tu!– e gli afferrò con forza la
spalla dolorante.
–Ahia, e che cazzo!– esclamò Hwoarang
voltandosi verso l'uomo che lo aveva fermato così
bruscamente. Si ritrovò di fronte a un cinese che portava i
lunghi capelli neri legati in una coda. Un altro scagnozzo di Feng Wei
venuto a reclamare soldi? Ora sì che stava per perdere la
pazienza.
–Basta! Ne ho abbastanza di voi e dei vostri cazzo di soldi!
– ringhiò Hwoarang, cercando di divincolarsi dalla
presa –Il tuo capo mi ha detto che ho una settimana di tempo,
quindi perché non mi lasciate in pace? Che è, si
è rimangiato la parola?–.
L'altro uomo sgranò gli occhi, senza capire. –Che
cosa?–.
Hwoarang impallidì a vista d'occhio. A causa del buio non
era riuscito a scrutare bene il suo assalitore, ma ora che lo guardava
meglio si rese conto che quell'uomo non aveva per niente l'aria
opulenta del mafioso. Piuttosto aveva l'aria di…
–Oh, merda! Uno sbirro!– esclamò il
ragazzo liberandosi dalla presa grazie all'attimo di smarrimento
dell'altro uomo. Fece uno scatto e corse via più forte che
poteva verso i vicoli da cui era uscito. Non era ridotto bene ma
liberarsi degli inseguitori era sempre stata una delle sue
specialità più ammirate da tutti gli sbandati del
suo Blocco.
–Fermo!– intimò il poliziotto mentre lo
inseguiva. –Detective Wulong, Polizia!–.
–Col cazzo!– gridò Hwoarang mentre
sfrecciava in un vicolo, forse, si trovò a pensare, lo
stesso in cui era passata Kunimitsu per seminare i cyberpoliziotti. Dei
bidoni gli sbarravano la strada; ci saltò sopra e con un
potente calcio li spedì a rotolare alle sue spalle.
Con la coda dell'occhio vide il detective intento a schivarli
goffamente. Esultò mentalmente: nonostante le sue ferite era
ancora in grado di dare del filo da torcere a uno schifoso piedipiatti.
–Fermati! È un ordine!– gridò
ancora il poliziotto unendo il suono della sua voce a quello dei loro
passi veloci. Un momento dopo Hwoarang sentì degli spari
riecheggiare fra i muri di cemento.
–Fanculo, questo mi ammazza!– ansimò il
ragazzo coprendosi le mani con la testa, per reazione istintiva. Si
voltò un solo istante per vedere se il poliziotto mirava a
lui o al cielo, ma ciò gli fu fatale. Inciampò in
un groviglio di cavi di scarto e cadde lungo disteso al suolo.
Il poliziotto fu subito su di lui. –Hai finito di scappare,
terrorista!– esclamò Lei Wulong con il fiato
spezzato dalla corsa mentre gli bloccava le mani dietro la schiena.
–Ti ho riconosciuto subito anche con quella faccia piena di
lividi!–.
–Terrorista!?– esclamò Hwoarang,
sbigottito, mentre cercava di liberarsi dalla presa con tutte le sue
forze, ma in breve sentì la temuta stretta delle manette che
si chiudevano attorno ai suoi polsi. –Ma che dici, sbirro,
sei suonato?–.
–In piedi!– grugnì il detective
afferrando Hwoarang e tirandolo su in malo modo.
–Amico, devi avermi preso per un altro!–
replicò il ragazzo barcollando per la spinta. –Io
non so niente di terroristi!–.
–Ah no?– replicò il detective con uno
sbuffo divertito. –E allora perché sei
scappato?–.
Hwoarang si assestò in piedi e rivolse al poliziotto uno
sguardo di sfida. –Perché, ho anche bisogno di un
motivo per scappare da uno di voi cani rabbiosi? Credi che non sappia
cosa fate a quelli come me?–.
–Bada a come parli, ragazzo– lo ammonì
Lei afferrandolo per un braccio e dandogli una scrollata.
–Su, in marcia!–.
Il detective si avviò tra i cumuli di rifiuti trascinando
con sé uno Hwoarang estremamente recalcitrante.
–Li pestate a sangue, più di quanto quegli altri
bastardi non abbiano già fatto con me–
continuò con uno sguardo carico d'odio. Ma il poliziotto
continuava a camminare senza degnarlo di un'occhiata.
–Se non parlano, passate a maniere ancora più dure
e meno lecite. Finchè il poveraccio non è
costretto ad ammettere anche colpe che non ha commesso e a fare i nomi
di altra gente. Anche gente innocente, tanto per voi è
uguale. No?–.
–Sciocchezze– rispose Wulong guardando dritto
davanti a sé.
–Per voi basta che uno abiti nella Zona Rossa ed è
già un pericolo pubblico. Quanti di noi avete già
portato nell'Isola, eh? Per voi siamo carne da macello!–.
–Ora basta!– esclamò l'altro, punto sul
vivo. Si fermò e lo afferrò per il bavero,
guardandolo dritto negli occhi. Non amava le maniere forti, ma quel
tizio sembrava costringerlo a usarle; non poteva lasciare che
continuasse a infangare il nome della Cyberpolizia con delle false
accuse. –Chi ti ha raccontato queste bugie? La polizia non fa
cose del genere!–.
Hwoarang avrebbe alzato un sopracciglio per manifestare la sua
incredulità, se la sua faccia non fosse stata
così dolorante. –Sbirro, o sei un grandissimo
paraculo o sei la persona più ingenua della
terra–.
Stava per aggiungere altro quando un movimento a poca distanza
attirò la sua attenzione. Un folto gruppo di uomini
dall'aspetto poco rassicurante aveva fatto il loro ingresso a pochi
passi da loro. Hwoarang non li conosceva, ma a giudicare dagli
ideogrammi e dagli stemmi che avevano cuciti sui vestiti di pelle, si
trattava di una banda di motociclisti. Sgranò gli occhi,
incredulo per la sua fortuna.
–Ehi, ragazzi! Guardate qui, uno sbirro!–
urlò con quanto fiato aveva in gola.
Gli uomini girarono alla testa all'unisono e in breve sulla faccia di
molti di loro apparve un ghigno divertito.
–Guarda guarda…– disse un uomo non
più tanto giovane che aveva l'aria di essere il capo.
Portava una maschera antismog sulla parte inferiore del volto e teneva
i capelli ingrigiti legati in una coda. Aveva uno sguardo severo e
penetrante e, a giudicare dal taglio degli occhi, doveva essere anche
lui di origine koreana. –Uno sbirro di merda ha
catturato un ragazzo e a quanto vedo lo ha anche riempito di botte. E
nella nostra zona, per di più! Vi sembrano cose da farsi,
ragazzi?–.
Gli altri teppisti, sghignazzando, fecero segno di no e cominciarono
avvicinarsi lentamente ai due. Alcuni tirarono fuori dei coltelli,
altri dei nunchaku, altri delle mazze da baseball.
Questa volta fu il detective a impallidire. –No, vi
sbagliate! Non l'ho picchiato io!–.
–ADDOSSO!– gridò il capobanda alzando un
braccio contro il cielo. In men che non si dica tutta la schiera di
teppisti fu addosso al malcapitato poliziotto, gridando e roteando le
loro armi come dei guerrieri all'attacco in un campo di battaglia.
Lei Wulong, vedendosi in netta minoranza, fu costretto a scappare a
darsi immediatamente alla fuga. Cercò di trascinarsi dietro
il suo prigioniero ma questi gli faceva una tale resistenza che dopo
pochi passi fu costretto a mollare la presa.
E fu così che Hwoarang cadde rovinosamente al suolo per la
seconda volta nel giro di qualche minuto.
–Cazzo, che botta…–.
Restò a guardare l'asfalto mentre le grida si allontanavano.
Si sentiva stanco, incredibilmente stanco. Quasi quasi se ne sarebbe
rimastò lì disteso ad arrendersi al sonno, ma
qualcuno lo prese per un braccio e lo tirò su. Era il capo
della banda.
–Grazie, amico. Mi avete salvato la vita–
farfugliò.
–Di niente, ragazzo– disse l'uomo dandogli una
vigorosa pacca sulla spalla dolorante. Hwoarang strinse i denti e
strabuzzò gli occhi.
–La mia banda non lascia nessuno in mano a uno sporco sbirro,
quanto è vero che mi chiamo Baek Doo San. Ora vieni con me,
andiamo a raggiungere gli altri. E poi troveremo qualcuno in grado di
aprire queste manette–.
E così i due si avviarono nel buio della Zona Rossa seguendo
le grida in lontananza.
*
Kunimitsu osservava con apprensione il dottor Boskonovitch mentre
questi faceva su e giù per il laboratorio, manovrando fiale
piene di liquidi dai colori strani e strumenti elettronici. Se ne stava
semisdraiata su una comoda poltrona reclinabile, simile a quella di uno
studio dentistico, situata al centro della sala, eppure non riusciva
minimamente a rilassarsi. Di certo le cinghie di cuoio con cui era
stata legata al lettino non erano d’aiuto.
–È solo per evitare che tu ti faccia male.
Sai… nel caso che tu abbia degli spasmi–
spiegò Yoshimitsu, in piedi accanto a lei.
–Se stai cercando di rassicurarmi non ci stai riuscendo per
niente– osservò Kunimitsu con un certo sarcasmo.
–Se non vuoi farlo sei ancora in tempo per tornare indietro,
sai?–.
–No, voglio farlo. Devo farlo–. Era la sua scelta,
solo sua, e non sarebbe tornata indietro. In fondo le sembrava
abbastanza equo passare qualche minuto o qualche ora di sofferenza pur
di redimersi dagli anni di stupidità che aveva vissuto,
sprecando la sua vita con l’H Sinth.
Il dottore si avvicinò. Aveva uno sguardo serio in volto e
teneva una piccola siringa piena di liquido cristallino in mano.
–Siamo pronti?–.
La kunoichi annuì. –Sì–.
–Ti spiego un’altra volta come funziona.
Inietterò questo siero nel tuo braccio.
Impiegherà circa dieci secondi per cominciare a fare
effetto, dopodiché le tossine rilasciate
dall’H-Sinth inizieranno ad abbandonare il sistema
circolatorio e i tessuti. Questa prima fase sarà breve, ma
estremamente dolorosa. Chi l’ha provato ha
detto…–
–…che preferirebbe morire che essere sottoposto di
nuovo a qualcosa del genere– continuò lei,
ripetendo parole che il dottore le aveva già detto
più volte, forse nella speranza di dissuaserla –Ma
non si preoccupi, non ho intenzione di averne bisogno di
nuovo–.
Le venne quasi da ridere. Sembrava così forte e sicura di
sé mentre diceva queste cose, eppure la realtà
era che stava morendo di paura e se non stava tremando era solo
perché le cinghie erano troppo strette per permetterle di
muoversi. Guardò Yoshimitsu, chiedendosi se fosse in grado
di leggere la realtà, se riuscisse a vederla al di
là della sua maschera, ma l’espressione di Hannya
era sempre la solita, inamobivile, e lei non era in grado di sapere di
più.
–Permettimi di sollevarti la maschera un istante–
disse lui ad un certo punto –È meglio se tieni
qualcosa tra i denti, così non rischierai di staccarti la
lingua–.
Kunimitsu sbuffò, non molto contenta di sentirsi parlare di
lingue staccate quando già stava facendo
un’immensa fatica a mantenere il suo autocontrollo.
–Certo che tu sai proprio come mettere una ragazza a proprio
agio, eh? Avanti, muoviti–.
Yoshimitsu non disse una parola a sua discolpa: in effetti era meglio
se la kunoichi se ne stava concentrata a considerarlo la persona
più indelicata sulla faccia della Terra, piuttosto che
pensare a quello che stava per fare. E sì, lui lo sapeva che
stava morendo di paura. Era abbastanza sicuro che in condizioni normali
Kunimitsu non avrebbe permesso a nessuno di sollevare la sua maschera e
che piuttosto gli avrebbe affettato una mano, anche da legata
com’era. Invece non disse niente mentre lui le scopriva la
metà inferiore del viso e le metteva un rettangolino di
gomma fra le labbra rosee. Lei lo strinse fra i denti, contenta di aver
qualcosa a cui aggrapparsi fisicamente, qualcosa su cui concentrarsi.
–Iniziamo– disse il dottore con tono grave e senza
indugiare oltre si avvicinò al fianco della ragazza. Il
sottilissimo ago entrò nella pelle senza
difficoltà e per alcuni momenti l’unica cosa che
la kunoichi potè sentire fu quella lieve puntura e una
curiosa sensazione di freddo che si spandeva lentamente nel suo
braccio, mentre il fluido scorreva nelle sue vene. Le fece venire un
brivido, ma in fondo non era così spiacevole.
Poi, man mano che i secondi passavano, iniziò a capire con
assoluta precisione perché le persone che si erano
disintossicate in quel modo avrebbero preferito la morte piuttosto che
farlo di nuovo.
Era terribile.
Era come se stesse bruciando dentro, come se quel ghiaccio
incandescente nelle sue vene stesse divorando la sua carne e scavando
le sue ossa. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare
indietro, avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto urlare, ma teneva i
denti così stretti attorno a quel pezzo di gomma che non
riuscì a emettere alcun suono. Avrebbe addirittura invocato
la morte, se solo avesse potuto, ma non riusciva a parlare e le cinghie
premevano così tanto sulla sua pelle da impedirle non solo
di abbandonarsi agli spasmi che la scuotevano, ma anche di fare
qualsiasi gesto volontario.
No, non poteva scappare a quel dolore micidiale, poteva solo resistere.
Resistere e sperare che passasse presto.
Per sua fortuna, dopo quello che a lei parve un tempo infinito, ma che
in realtà dovettero essere solo pochi minuti, i suoi sensi
cominciarono ad affievolirsi: si appannò la luce al neon del
laboratorio, si attutirono i suoni e infine si attutì anche
la sua percezione del dolore, finché i sensi non
l’abbandonarono del tutto e non sentì
più nulla. Non sentì nemmeno la mano di
Yoshimitsu posata sul suo braccio ancora scosso da fremiti.
–Sono fiero di te, Kunimitsu…–
*
Seduto su una cassa di lattine davanti a un falò Hwoarang
guardava con riconoscenza i polsi arrossati ma ormai liberi da manette.
Attorno a lui era tutto un rombare di motociclette e uno schiamazzare
di gente riunita attorno a dei bidoni in cui danzavano le fiamme,
rimedio antico contro il buio e il freddo in un angolo della
città in cui anche la tecnologia basilare sembrava non
essere ancora arrivata. I membri della banda avevano messo in fuga il
poliziotto e ora si erano ritirati in uno dei loro luoghi di ritrovo:
un’ampia spianata nel bel mezzo di un cantiere edile
abbandonato ormai da anni.
–Ehi!– tuonò una voce gioviale alle sue
spalle. Hwoarang si girò appena in tempo per vedere il capo
della gang sedersi accanto a lui e porgergli una lattina di birra.
–Tieni, non fare complimenti. Per stasera sei nostro
ospite–.
Il ragazzo prese la lattina mormorando un ringraziamento e rimase a
guardare le fiamme che danzavano di fronte ai suoi occhi, senza dire
una parola. Ora che finalmente era fuori pericolo la stanchezza
accumulata negli ultimi giorni gli era piombata tutta addosso assieme
alla consapevolezza di quanto fosse dura la situazione in cui si
trovava. Non solo la mafia, ma ora come se non bastasse anche la
polizia gli stava alle calcagna e benché non ne sapesse il
motivo aveva la netta sensazione che la scomparsa di Kunimitsu
c’entrasse qualcosa: troppe coincidenze legate al White Crow.
Ma se anche il pub era ormai troppo pericoloso per lui dove poteva
rifugiarsi in una situazione del genere?
Si sorprese a pensare a quanto fino ad ora fosse dipeso
dall’aiuto degli altri: Kunimitsu, Marshall, la gang di
motociclisti. Forse, dopo tutto, la sua indole da ribelle e da
fuorilegge non era altro che spacconaggine, una maschera per mostrarsi
più forte di quanto in realtà fosse.
–Non per farmi i fatti tuoi…– disse
Baek, interrompendo il corso dei suoi tetri pensieri –Ma
com’è che quello sbirro ce l’aveva con
te?–.
Hwoarang fece un’alzata di spalle. –Sembra che mi
abbia scambiato per un terrorista–.
–Terrorista?–. Un guizzo passò negli
occhi dell’uomo, ma il giovane non lo notò,
assorto com’era a fissare il nulla nel fuoco.
–Strano. Non sento mai nominare la parola
“terrorismo” dalla polizia e, credimi, io con
quella merda ci ho avuto a che fare più spesso di quanto
possa piacermi, quindi so come funziona la loro testa. Ai piani alti
non piace che girino voci su gente a cui non piace il governo. Vogliono
che la gente creda di vivere in un fottuto mondo felice.
Perciò se sei nemico dello stato gli sbirri preferiscono
levarti di mezzo senza fiatare–.
Hwoarang annuì distrattamente, gli occhi persi nel fuoco,
meritandosi così un doloroso scappellotto dietro al collo.
–Oh! Per che cos’era quello!?–
gridò, confuso da quella mossa inaspettata.
–Non mi stai ascoltando, ragazzino! Hai capito cosa ti ho
detto?–.
–Sì sì…–
mugugnò Hwoarang, massaggiandosi dietro il collo.
“Ma cosa vuole questo vecchio pazzo? –La polizia
non parla mai di terrorismo, e quindi?–.
–Avrai sentito parlare delle esplosioni nell’Inner
Core, no? O sei uno di quegli sfattoni drogati che stanno tutto il
giorno sdraiati sul marciapiede mentre questo mondo di merda gli vomita
addosso?–.
Hwoarang lo guardò con perplessità. Quel Baek
aveva un’aria gioviale e tranquilla all’inizio, pur
essendo il leader di una banda di malviventi, ma improvvisamente si era
animato di una severità e di una rabbia che non si sarebbe
aspettato nemmeno da uno come lui. Diamine, faceva quasi paura.
–Sì che ne ho sentito parlare, per chi mi hai
preso!? E ho capito cosa vuoi dire. Pensi che il fatto che la polizia
sia in movimento voglia dire che le voci sono vere? Che finalmente
c’è una Resistenza all’opera?–.
–Bene, sei sveglio dopo tutto. Per un momento ho pensato che
tu fossi una di quelle nullità dal cervello
bollito– disse Baek dandogli una pacca sulla spalla.
–Come ti chiami, ragazzo?–.
–Mi chiamano Hwoarang–.
–“Hwoarang”?–. Baek parve
sorpreso. –Il titolo onorifico che si dava ai giovani
guerrieri sotto il regno di Chinhung nel VI secolo Dopo
Cristo?–.
Ora era Hwoarang a essere sorpreso. Da quando gli stati non esistevano
più, spazzati via dalla guerra, quasi ogni forma di cultura
e tradizione locale, compresa la storia nazionale, era scomparsa sotto
l’imperante globalizzazione. Il regime aveva cancellato la
storia dei popoli per far posto al glorioso racconto di come Heihachi
Mishima avesse riportato il benessere, perciò dopo tanti
anni di governo totalitario era una rarità incontrare gente
che avesse una memoria storica che arrivasse a un secolo prima dello
scoppio del conflitto nucleare. Lui stesso non ne sapeva
granché, a dire il vero: aveva solo incontraro il nome
“Hwoarang” in un vecchio trattato d’arti
marziali e lo aveva adottato come suo perché gli era parso
figo. Punto.
–Sì, perché?–.
–Non è che per caso pratichi il
Taekwondo?–. Avrebbe potuto giurare che in quel momento gli
occhi da falco di Baek stavano brillando.
–Sì. O meglio, lo praticavo qualche anno
fa…– rispose, sempre più perplesso.
–Poi il mio maestro si è fatto
arrestare–.
Trasalì letteralmente quando l’uomo
balzò in piedi di colpo, animato da un’energia
straordinario. –Ragazzo, è il tuo giorno
fortunato! Io sono 5° Dan!–.
–…e quindi?–.
–E quindi hai trovato il tuo nuovo maestro!–.
Hwoarang scoppiò in una mezza risata. Sì, certo,
come se con tutto quello che gli era crollato addosso avesse ancora
tempo per dedicarsi alle arti marziali!. –Mi spiace vecchio,
ma non mi interessa. Ho troppi casini per darmi allo sport–.
Un’altra manata gli piombò fra capo e collo,
facendogli quasi strabuzzare gli occhi.
–OOH! La vogliamo finire!?– gridò.
–Punto uno– sibilò Baek, visibilmente
alterato, puntandogli l’indice contro il petto –Il
Tae Kwon Do non è uno sport: è uno stile di vita,
è una filosofia, è ferrea disciplina…
solo un debole abbandona! Tu sei un debole?–.
“Debole”. Quella parola affondò come un
pugnale. –No che non lo sono!–.
–Punto due: lo so che sei nei casini. Cazzo, basta guardarti
come sei ridotto in faccia. Per questo ti sto offrendo una
soluzione– disse, continuando ad affondargli il dito nel
petto.
–E quale sarebbe?–.
–Punto tre…– continuò
l’altro, ignorandolo bellamente –Io non sono
vecchio, ok? Non ho nemmeno 50 anni!–.
–Ma quale sarebbe la soluzione?– chiese ancora
Hwoarang, piuttosto spazientito.
Baek lo guardò dall’alto, il volto fiero e deciso
solcato da un sorriso che era insieme burbero e benevolo.
–Entra nella gang. Ci chiamiamo Sam-Jang,
“Fuoco”. Troverai un maestro e forse anche la fine
dei tuoi problemi–.
Il ragazzo restituì lo sguardo con un’espressione
un po’ sconvolta. Chi era questo vecchio pazzo che sembrava
così deciso a sconvolgergli la vita? –Ma se non ho
nemmeno una cazzo di moto! –.
–Non ti serve una cazzo di moto, cretino–
brontolò l’altro –Ti serve solo
un’occasione per rialzarti, e io te la sto
offrendo–.
*
Quando l’Agente Williams aprì la porta della
stanza degli interrogatori non poté impedire al suo volto
solitamente serio di contrarsi in una smorfia di disgusto. Il pensiero
del colloquio totalmente indesiderato che le toccava fare era quasi
fastidioso quanto la patetica vista che le si profilava davanti.
Una donna stava seduta con i gomiti poggiati sul tavolo e le mani fra i
capelli rossi, esausta per le lunghe ore di interrogatorio.
Sollevò la testa al sentire la porta che si apriva e i suoi
occhi cerchiati si spalancarono dalla sorpresa.
–Cosa ci fai tu qui!?– protestò
riprendendosi istantaneamente dalla sonnolenza –Rischi di far
saltare la copertura!–.
Nina sollevò imperiosamente una mano zittendo
l’altra donna. –Ho un lasciapassare. E comunque la
vera domanda non è cosa ci faccio io qui. La vera domanda
è cosa ci fai tu qui, Anna– replicò
squadrando l’altra donna dall’alto in basso, con
sufficienza. Guardandola si rese conto che in tutto quel tempo sua
sorella non le era mancata per niente. –Non ti sei ancora
chiesta perché la Squadra Speciale ti abbia portato qui pur
sapendo benissimo chi sei? –.
–Certo– sbottò Anna –Nessuno
al di fuori della Squadra Speciale deve sapere chi sono. Se il
detective Wulong e i suoi compagni di squadra venissero a sapere della
nostra esistenza sarebbe un…–.
–Sbagliato– la interruppe nuovamente Nina. Scosse
lentamente la testa abbozzando un sorriso ironico. Ridicola. Le veniva
quasi da ridere. –Anna, Anna, Anna… Possibile che
tu non ci sia arrivata da sola? Pensavi davvero che l’avresti
fatta franca a lungo?–. Si sedette anche lei mentre Anna
ricambiava il suo sguardo con improvviso e crescente orrore.
–C-cosa?– balbettò.
–Del resto non me ne stupisco: il doppio gioco è
sempre stata la tua specialità. È stata la tua
abilità a guadagnarti la fiducia delle persone che ci ha
permesso di arrestare molti oppositori del regime, in passato. Ma
pensavi davvero di ingannare il Tekken Force con le sue stesse
armi?–.
–Io non so di cosa tu stia parlando–
replicò Anna tentando di apparire sicura di sé,
ma le ore di interrogatorio avevano già esaurito i suoi
nervi; un tempo forse avrebbe resistito per giorni interi ma ormai non
era più quella di una volta.
–Ah no? Cominciamo dal principio, allora–. Nina si
rilassò appoggiando la schiena contro la sedia mentre
continuava a gettare il suo sguardo gelido sulla persona che le stava
di fronte. La odiava, l’aveva sempre odiata. Ora si sarebbe
presa tutto il tempo necessario per assistere con compiacimento alla
capitolazione di quella donna che, pur possedendo il suo stesso sangue,
aveva per lei lo stesso valore di una spina nel fianco.
–Due anni fa i Mishima ti hanno scelto per una missione
delicata: infiltrarsi nel White Crow, uno dei principali punti di
ritrovo della Zona Rossa nonché il principale luogo di
riunione degli oppositori del regime. Ci sei riuscita senza molti
problemi e per un anno hai continuato a informarci su ogni possibile
tentativo di rivolta. Poi però le cose sono cambiate. Hai
cominciato a fare rapporto sempre meno frequentemente, a darci
informazioni che si rivelavano sbagliate, a denunciare persone quando
ormai erano già scappate all’estero.
Perché, Anna?–.
–Non è colpa mia!– protestò
accoratamente. –Si sono accorti che qualunque cosa facessero
venivano scoperti e si sono fatti più prudenti. Nemmeno
Marshall mi ha mai detto tutto quello che sa. Io sono un membro del
Tekken Force, il Tekken Force è tutta la mia vita! Come
potete sospettare di me?–.
Nina studiò il suo volto contratto dall’ira, gli
occhi scintillanti di fervore che sembravano sfidarla a provare che
mentisse. Uno sguardo inesperto l’avrebbe giudicata sincera
ma Nina sapeva bene che Anna conosceva i trucchi del mestiere almeno
quanto lei. Un membro del Tekken Force era allenato sia a mentire senza
farsi scoprire che a riconoscere la bugia sui volto altrui. Sul volto
di Anna non lesse offesa per essere sospettata, ma solo paura, una
paura senza fine.
–Se c’è una cosa che ho imparato in
questi anni è che non ci si può fidare di
nessuno. Le parole non valgono, valgono solo i fatti. E tu in quanto a
fatti ti sei dimostrata molto scarsa, ultimamente. –.
–E questo basta a fare di me una traditrice?–
chiese Anna, sprezzante.
–No, questo fa di te una persona inutile. Il che è
anche peggio di essere una traditrice. Un agente del Tekken Force
è un’arma e le armi inutili vengono
buttate–.
–Che sciocchezze, Nina. Io non sono mai stata inutile. Tu
dovresti saperlo bene, no? – disse Anna, sforzandosi di
ridacchiare. Era sempre stata brava a fingere di essere qualcun altro.
Ora poteva anche fingere di non essere terrorizzata –Sono
stata sempre io la preferita di nostro padre e se tu non avessi fatto
la puttana in mia assenza sarei ancora la preferita di Lee–.
Il successivo movimento di Nina fu così fulmineo che nemmeno
Anna se ne accorse finché non si ritrovò la gola
premuta fra le dita della sorella.
Guardò con orrore l’espressione fredda e decisa di
Nina. Conosceva bene quella presa, sapeva che con il giusto movimento e
la giusta pressione avrebbe potuto ucciderla in pochi istanti. Ma dopo
qualche istante l’Agente W abbandonò la presa
lasciandola a emettere dei brevi rantoli soffocati.
–Ti ho sempre ritenuta una sciocca, Anna, ma mai fino a
questo punto. Io non getterei mai la mia vita, la mia
libertà, la mia carriera per un uomo. Tu invece
l’hai fatto– disse Nina, ora in piedi davanti al
tavolo, osservando sua sorella in difficoltà senza alcuna
simpatia. Tutto ciò che provava era disgusto. –Hai
gettato tutto ciò che eri per l’amicizia o
addirittura… l’amore… di quel Law, non
è così? Non sei mai stata altro che una debole e
quindi ti sei lasciata sedurre da degli stupidi sentimenti. E tutto
ciò è patetico. Patetico–.
–No… non è vero…–
ansimò Anna, con una mano contro la gola, mentre gli occhi
le si riempivano di lacrime. E invece era davvero così.
Prima ancora che fosse nata il suo destino e quello della sua sorella
era già stato deciso. Era stata cresciuta come un arma,
priva di cuore, priva di emozioni, sensibile solo agli ordini che le
venivano impartiti dai Mishima. Aveva imparato ad uccidere senza
provare niente, a mentire senza provare senso di colpa, a sedurre senza
innamorarsi, ad agire ad occhi chiusi senza chiedersi mai il
perché. Poi aveva cominciato la sua missione sotto copertura
nella Zona Rossa; e lì aveva capito. Aveva capito che tutta
la sua vita era basata sul puro niente e aveva provato orrore di se
stessa, di tutto ciò che era stata fino ad ora. Aveva visto
il dolore e le speranze nelle altre persone comprendendo quanto di
umano mancava in lei. Era cambiata in una maniera che Nina non poteva
nemmeno sperare di comprendere e aveva tradito il Tekken Force e la
Mishima Zaibatsu, firmando la sua condanna.
–Ti consiglio di dirci spontaneamente tutto quello che ci hai
nascosto sul White Crow e i terroristi– continuò
Nina. –Altrimenti ci toccherà usare i nostri
metodi; e tu sai bene quanto spiacevoli possano essere.
Dopodichè sarai uccisa e il tuo corpo verrà usato
come cavia ai Laboratori Mishima–. Almeno da morta si sarebbe
rivelata utile, pensò. –Se invece decidi di
confessare potrei anche chiedere a Lee di farti risparmiare, in memoria
dei vecchi tempi–.
Detto questo Nina le voltò le spalle e fece per andarsene.
–Oh, dimenticavo– disse mentre apriva la porta e
lanciava un’ultima occhiata carica d’odio alla
sorella. –Ovviamente farò in modo che tutti i
tuoi… amichetti del White Crow sappiano chi sei
veramente–.
La porta si chiuse con un clangore metallico e al sentire quel suono
sinistro Anna Williams capì che la sua vita era finita.
Inside
four walls, inside four walls my friend
They took away your freedom
But they'll never take your mind
[Nevermore – Inside four Walls]
N.d.q.F.d.A (Note di
quella fedifraga dell'autrice)
Non.... non odiatemi, vi prego! D:
So che è passato un anno dall'ultimo aggiornamento, so anche
che i lettori che mi hanno seguito da quando ho cominciato questa
storia (sempre che siano ancora miei lettori xD) probabilmente avranno
rimosso cosa è successo negli ingarbugliatissimi capitoli
precedenti ma... non odiatemi!
*si prostra al suolo*
Comunque, forse vi interesserà sapere che se siete arrivati
fin qua avete già letto più di 80 pagine word!
Pian piano questa storia sta diventando sempre più
voluminosa, quindi spero che non me la tirerete dietro o rischierei un
serio trauma cranico.
Al prossimo capitolo!
*scappa*
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