The A Team

di Eynieth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** White lips, pale face ***
Capitolo 2: *** Long nights, strange men ***
Capitolo 3: *** And she don’t want to go outside tonight ***
Capitolo 4: *** For angels to fly. Angels to fly ***
Capitolo 5: *** Stuck in her daydream ***
Capitolo 6: *** Light’s gone, day’s end ***
Capitolo 7: *** And hoping for a better life ***



Capitolo 1
*** White lips, pale face ***


Mi guardo nuovamente allo specchio. Ormai è un'abitudine. Lo faccio ogni sera prima di uscire. Non che mi piaccia quello che vedo, non mi è mai piaciuto, e mai mi piacerà. Ma è come se fosse una sicurezza. Io, nonostante tutto quello che succede, sono lì, sempre la stessa. Sono l’ancora malferma della mia vita.
-Mi chiamo Kate.- dico allo specchio. L'immagine riflette la mia figura che parla, ma dalle sue labbra non esce alcun suono. Eppure, io ho bisogno solo di questo. Del mio nome. Dopo tutto, è l'unica certezza che ho. L’unica cosa che conosco. Il mio nome. Il resto mi è sconosciuto. Non conosco neanche la mia data di nascita. Così, potrei dire di avere all'incirca ventuno anni, ma non so quando sono nata. E per un po' potrebbe sembrare triste. Il momento in cui una persona nasce, è importante. Da segnare sul calendario. Ma io non conosco nessuno che mi farà mai gli auguri, o che mi rivolgerà un sorriso. Nessuno lo ha mai fatto. O se lo ha fatto, non lo ricordo. Avrò consumato così tanto quel ricordo,a forza di riviverlo, che non ne è rimasto niente, ma forse è meglio così. Così sono sola e conosco la strada che devo percorrere. Mi obbligo a percorrere quella strada. O almeno, vado avanti per inerzia. Vado avanti perchè non ho nient'altro. Vado avanti perchè se no, non saprei cosa fare. Guardando lo specchio, vedo la stessa immagine di ieri sera. E di quella prima, e di quella prima ancora. Il viso magro, gli zigomi alti, le labbra carnose, il piccolo naso dritto e gli occhi coperti da troppo trucco. Come se quello potesse nascondermi. E io so che non mi nasconde, ma forse agli altri basta, come scusa. Agli altri basta chiudere gli occhi. A me no. Io voglio vedere, capire. Far capire. Ma nessuno vuole ascoltarmi. I lunghi capelli ramati incorniciano arruffatamente il viso, creando un gioco di ombre sulla pelle chiara. Indosso una maglia di una taglia in più, nera, con dei piccoli buchi sulla schiena e sulla pancia e una gonna corta, sempre nera, aderente ma non troppo. Ai piedi porto delle decolleté nere con un cinturino stretto alla caviglia. Tutto quel nero esalta la mia pelle chiara, potrei quasi risplendere nella notte. Sembro uno spettro. E forse lo sono. Non faccio niente per me, faccio tutto per Meredith e anche contro voglia. E proprio lei mi chiama dal piccolo soggiorno. Scendo lentamente le scale. So camminare sui tacchi, ma preferisco non fare mosse azzardate, non vorrei rotolare giù dalle scale e rompermi qualcosa. Meredith mi aspetta seduta sulla poltrona scolorita. Lei lavora solo di giorno, in una pasticceria, quindi lascia il lavoro sporco a me. È cominciato tutto quando… meglio non ricordare. Meglio lasciare i ricordi del passato lì dove sono. Meredith, che ha corti capelli neri e occhi verdi e grandi, è magra, ma non troppo e minuta, sembra quasi un elfo. Peccato che non lo sia, visto che mi ricorda che devo guadagnarmi la pagnotta e mi manda fuori di casa. Fortunatamente è ancora settembre e non fa poi così freddo e, anche se l’aria fresca della sera mi sfiora con i suoi tentacoli freddi, è quasi piacevole, mi tiene sveglia. È venerdì sera, e potrei benissimo essere una qualsiasi ragazza ventunenne che va a una festa, o in discoteca, o al pub. Potrei essere una ragazza che sta aspettando delle amiche, o il suo ragazzo. Solo chi sa cosa cercare mi noterà e mi si avvicinerà. Solo chi sa cosa vuole. E io sorriderò maliziosa e lo porterò in quel vicolo, illuminato da quell’unico lampione solitario. E lui prenderà quello per cui è venuto e io riceverò il mio compenso. E poi tornerò sulla strada, ad aspettare qualcun’altro. Sono stata con uomini, ragazzi, padri di famiglia, ragazzi alla loro prima volta, con uomini che volevano solo dimenticare, con uomini che mi hanno chiamato con altri nomi, con uomini violenti e dolci. E oggi non è molto diverso dal solito, ci sono facce già viste e facce nuove. È tutto uguale al solito, quasi monotono. E come al solito, mi faccio scivolare tutto addosso, ormai sono diventata brava in questo. Sono già le dieci passate e, anche se manca ancora un bel po’ di tempo prima di andare a casa, sono stanca morta. Sto quasi per tornarmene a casa, fregandomene di Meredith e di quello che mi dirà e dei pochi soldi che ho guadagnato. Mi giro e faccio per tornare sulla via di casa, quando una mano mi stringe forte il braccio, mandandomi a sbattere contro il muro di un palazzo. Mi manca il respiro per un attimo e vedo tutte le lucine bianche davanti agli occhi. L’uomo, che non avrà più di trentacinque anni, mi tiene ferma facendomi male e si prende quello che vuole con urgenza, senza troppi complimenti. Grugnisce qualcosa, ma non riesco a capire cosa. Però sento il suo alito, puzza di alcol. Cerco di allontanarmi, ma l’uomo mi blocca stringendomi e mordendomi il collo. Non dovrei spaventarmi. È il mio lavoro, dovrei essere abituata. Ma mi prende il panico, vorrei piangere, sento già le lacrime agli angoli degli occhi. Non so cosa fare, sento il cuore battere all’impazzata. Intanto l’uomo, che non si cura minimamente di me, continua a toccarmi facendomi male, mi alza la maglietta e la gonna. Sento che sto per piangere, quando qualcosa mi stacca l’uomo di dosso, lui mi graffia, cercando di trattenermi, ma l’altro uomo, che adesso posso vedere, illuminato dal lampione, è più forte. Io cado a terra, scoppiando a piangere silenziosamente, il sangue che mi martella nelle orecchie. Mi rintano in un angolo buio e guardo i due uomini picchiarsi, vedo le loro ombre che si confondono nel buio, fino a diventare una sola figura mostruosa. Ad un certo punto, uno stramazza per terra pesantemente e l’altro si avvicina a me. Non riesco a vederlo accecata come sono dalle lacrime, ma mi alzo, per avere almeno una possibilità per scappare. Quando l’uomo arriva sotto al lampione, posso vederlo e, sollevata, scopro che non è quello ubriaco. È un uomo alto, con i capelli neri, degli occhi colgo solo un piccolo baluginio, e potrebbero essere benissimo o blu o verdi. E ha un labbro spaccato. È vestito in maniera più o meno elegante, anche se i vestiti si sono stropicciati per la rissa, e sulla camicia candida c’è qualche traccia di sangue, anche se non potrei dire se suo, caduto dal labbro, o dell’altro uomo. Mi appoggio al muro, cercando sostegno, senza sapere bene cosa fare. È un cliente? Solo un passante? E adesso cosa farà? Chiamerà la polizia e mi farà arrestare? Ma non faccio in tempo a dire o fare niente, perché in lontananza sento le sirene della polizia. Lo sconosciuto si guarda alle spalle e io non approfitto per scappare nel vicolo buio. Sono spaventata, stanca, le ginocchia mi tremano, barcollo sui tacchi alti e vado a sbattere contro i muri, disorientata, non riesco a pensare a niente. Anche il mio nome sembra scomparso nei meandri della mia mente, posso solo pensare di mettere un piede davanti a un altro, concentrarmi su questo e niente altro. Un passo alla volta. Ma per quanto mi concentri su questo semplice pensiero, questo semplice compito, posso sentire la macchina della polizia che si ferma all’inizio del vicolo e gli occhi dello sconosciuto che mi guardano magnetici. Posso sentirli fissi sulla schiena. E non resisto, mi giro barcollando, reggendomi al muro, i capelli che spinti dal vento si impigliano davanti agli occhi, e ho la certezza che lo sconosciuto mi stia guardando. Ancora e ancora. Fino a quando un poliziotto non lo fa entrare nella macchina. Rimango così, ferma a guardare le luci bianche, rosse e blu fino a quando non scompaiono nella notte, fino a quando non sento più niente se non il tranquillo traffico di New York. Scivolo contro il muro e piango. Ormai, non so neanche per cosa sto piangendo, ma adesso che le lacrime hanno trovato la loro strada, non accennano a fermarsi. Non so quanto rimango così, ferma, seduta in un vicolo di New York, ma quando mi alzo si sta facendo chiaro, forse mi sono anche addormentata per un po’. Torno barcollando a casa. Meredith non mi dice niente, non mi guarda nemmeno, così mi chiudo in bagno e faccio una doccia. Apro l’acqua calda e aspetto che diventi bollente, e poi sciacquo via tutto. Tutto lo sporco che mi sento addosso, il sangue, le fatiche, i disastri, le colpe. Gli occhi magnetici dello sconosciuto. Tutto scivola velocemente giù nel tubo di scarico lasciandomi, per quanto possibile, pulita. Mi stringo un asciugamano addosso e mi avvolgo nelle coperte. Mi giro e rigiro nel letto, cercando di addormentarmi, ma ogni volta che chiudo gli occhi mi rivedo davanti lo sconosciuto che mi aggredisce, che mi tiene ferma contro il muro, e ogni volta che rivedo quei ricordi, i graffi sul petto e sul collo pulsano. Alla fine, riesco ad addormentarmi solo quando la luce del mattino entra dalla finestra. Mi addormento con un raggio di luce che mi colpisce il viso, come se quella piccola luminosità potesse proteggermi da tutto il buio che mi avvolge, tutto il buio con cui ho imparato a convivere. Il buio che è diventato la mia vita. Ma intanto, quel piccolo raggio di luce mi rassicura, e prima di cadere nel sonno mi appaiono gli occhi dello sconosciuto.

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Capitolo 2
*** Long nights, strange men ***


Le notti di New York mi sono sempre piaciute, sicuramente sono più tranquille del giorno, le macchine sono di meno e mi sento decisamente meno osservato. Nel buio non ho bisogno di occhiali da sole, nel buio non ho bisogno di travestimenti, sono invisibile. E l'invisibilità è una cosa, un dettaglio della mia vita che mi manca particolarmente. La notorietà, dopo tutto, è snervante. Non dico che non è bella, direi una bugia, d'altronde sono un essere umano anche io, essere riconosciuto per strada, fare autografi e foto, mi piace terribilmente. Ma non ci sono solo questi effetti, con la fama sei obbligato a prendere tutto il pacchetto e questo vuol dire rinunciare completamente alla privacy. Zero riservatezza. E, proprio perchè sono umano, questo non mi piace. Ho bisogno dei miei segreti e della mia riservatezza. Ma, accettando la notorietà, ho dovuto rinunciato a tutto e a nessuno importa se sono d'accordo oppure no. Ed è per questo che le notti mi piacciono così tanto. Non solo quelle di New York, ma anche quelle di Londra, Berlino, Parigi, Mosca, Roma... tutte. Tutte hanno qualcosa di speciale e unico. Ma oggi sono a New York e me la godo. Dopo la cena con il mio agente, in cui abbiamo discusso del mio futuro e dei miei prossimi progetti, l'ho abbandonato e sono andato a fare un giro. Ho lasciato le strade del centro, ho preso la metro, che era praticamente vuota, e sono uscito dalla City. I luoghi di periferia mi sono sempre piaciuti di più rispetto ai centri delle città, sono più veri, nessuno ostenta quello che possiede. Si vive e basta. E tutto è così tranquillo... Non so molto bene che ore sono, ma decido di tornare a casa, domani devo alzarmi presto e ho bisogno di dormire. Ma all'improvviso sento dei rumori. Forse non sono affari miei, ma sono curioso. Beh, facciamo pure che il mio sesto senso si è svegliato e mi dice che sta succedendo qualcosa e io non sono proprio il tipo che lascia perdere. Giro l'angolo e vedo una ragazza che si dimena sotto a un uomo che la tiene ferma. Senza pensarci prendo l'uomo per la camicia e lo tolgo di peso dalla ragazza. Sembrerò pure gracilino, ma ho appena finito le riprese di "Thor" in cui mi hanno allenato a varie discipline e un po' di muscoli sono usciti anche a me. E poi, l'uomo è praticamente ubriaco marcio, quindi non faccio fatica a matterlo al tappeto, anche se un suo pugno va in assegno e sento il labbro rompersi. George, il mio agente, non sarà per niente contento. Assegno all'uomo un pugno in faccia e quello cade a terra. Mi giro lentamente per non spaventare la ragaza che si è rannicchiata in un angolo, ma sembra che non abbia fatto un buon lavoro perchè si tira su spaventata. Alla luce del lampione non posso vederla bene e non posso capire chi ho salvato. Posso intravedere solo uno scintillio di azzurro e il pallore della sua pelle accentuato dal buio e dai vestiti scuri. Mi avvicino ancora un po'. Vorrei rassicurarla. Dirle che io non voglio farle male. Chissà che spavento ha preso, sarà traumatizzata. Magari portarla anche da un medico. Ma non faccio in tempo ad avvicinarmi che sento le sirene della polizia. Negli occhi della ragazza noto una scintilla di paura prima di vederla scappare via, malferma sulle gambe. E non posso non chiedermi cosa farà. Dove andrà. La macchina della polizia si ferma davanti a me. Cerco di non girarmi, per far capire che c'è qualcun'altro, ma non ci riesco. Mi giro un'ultima volta e i miei occhi incontrano quelli della ragazza. Per un secondo. Poi si gira e scappa. E io rimango a fissare il buio. Un agente mi si avvicina e mi fa entrare nella macchina. Non fiato. Non ascolto le parole dei poliziotti. Posso solo immaginare i titoli sui giornali. "Tom Hiddleston arrestato!" e non posso fare a meno di pensare di nuovo a George. Non sarà per niente contento. Quando arriviamo alla centrale mi fanno fare una chiamata e chiamo George. Non lo saluto neanche, esordisco con un semplice: "Vieni a prendermi alla stazione di polizia." E riattacco. Mi portano in una cella e aspetto il mio agente. Ad un certo punto devono avermi fatto fare anche una deposizione. Non che ricordi molto. Ma almeno so mentire bene. O meglio, fingere bene. Non ho accennato minimamente alla ragazza. Non so perchè, ma voglio proteggerla, lasciarla fuori da tutta questa storia. Chissà come sarà traumatizzata di per sè, e trovarsi la polizia a casa.... sarebbe un'altra mazzata. E se posso, voglio risparmiagliela. Quando George arriva, non mi chiede niente. E posso dire di adorarlo per questo. Sa che quando, e soprattutto se, sarò pronto, parlerò. Ma adesso proprio non me la sento. Voglio solo dormire. George mi accompagna in hotel e prima di andarsene mi dice che ha annullato tutto quello che avevo programmato per il giorno dopo. Lo ringrazio e mi chiudo in camera. Prima di mettermi a letto mi faccio una doccia. E chi pensava che una semplice passeggiata si sarebbe trasformata in tutto questo casino? Mi infilo sotto le coperte con addosso solo dei pantaloni di una tuta e mi addormendo. Eppure, neanche in sogno la ragazza mi abbandona. La vedo rannicchiata nella via buia e non riesco a trattenermi dall'andarle vicino. Ed è come se la mia mente avesse memorizzato dettagli che non ero riuscito a vedere. Non so se sono solo frutto della mia fantasia oppure sono veri, ma vedo dei grandi occhi verde acqua, un viso scavato ricoperto da lentiggini troppo magro, i capelli ramati che le incorniciano il viso chiaro. E sembra così giovane e bella. Perchè lo è, ma non è la classica bellezza perfetta, è una bellezza che ti rimane impressa. Una bellezza fragile, fredda, quasi tenera. Perchè è quello che ispira la ragazza. Sembra quasi invitarmi ad abbracciarla, proteggerla. Ed è quello che vorrei fare. Proteggerla dal mondo. Almeno, è quello che penso prima di svegliarmi, prima di perdere il ricordo del sogno nei meandri della memoria. Prima che il suo viso venga sgretolato dalla realtà. Mi sveglio molto tardi, ma rimango nel letto a contemplare il soffitto, come se ci fosse scritto chissà cosa, chissà quale segreto, mentre invece è solo un soffitto azzurro. Mi alzo svogliatamente dal letto e mi passo una mano tra i capelli. Fortunatamente George mi ha prenotato una suite, così non devo dipendere da nessuno, men che meno dall'hotel. Vado al frigo e prendo un cartone del latte e ne bevo a canna, prendo una brioches e la mangio in due bocconi. Forse l'idea di George di eliminare tutti i miei impegni, non è stata una buona idea. Almeno avrei avuto qualcosa da fare, invece così sono tutto il tempo da solo, e ho un'infinità di tempo per pensare. E questo non mi entusiasma per niente. Avrò un giorno per pensare. E pensare. E pensare. Mi butto sul letto e prendo un libro, sperando che almeno quello mi distragga. Eppure quegli occhi lucidi e azzurri mi assillano, mi tornano in mente, brillano nella luce della notte come due piccoli diamanti. Oh... dei! Tom! Cosa mi succede? È una sconosciuta! Non è nessuno. L'hai salvata, lei è scappata e tu sei andato in gatta buia. Punto. Basta così, non c'è altro da aggiungere. Faccio un respiro profondo e chiudo gli occhi. Non devo più pensarci. Basta ragazza da proteggere. Basta tutto. Sospiro e butto via il libro. Mi alzo e prendo una camicia e dei pantaloni, li indosso ed esco dalla suite. Prendo gli occhiali dalla giacca e li indosso, esco dall'hotel e mi confondo con la folla di New York. Cammino per un po' per strada, ho tutto il giorno libero e dovrò pure usare il tempo in qualche modo, camminare per la città mi sembra l'unica idea accettabile. Giro per un po' fino a quando non arrivo a Central Park. Mi siedo su una panchina e rimango a osservare l'erba verde e le piante e i fiori colorati. Chiudo gli occhi. E forse mi addormento un attimo. Quando mi sveglio il sole è a mezzogiorno sbuffo e mi alzo passandomi una mano nei capelli. Alzo gli occhiali sopra la testa e mi stropiccio gli occhi, quando apro gli occhi vedo una figura sfuocata con dei pantaloncini neri, dei lunghi capelli mossi e ramati. La pelle scoperta dei pantaloncini è chiarissima. Senza pensarci le corro dietro. Deve essere la ragazza di ieri sera. Deve essere lei. Se è uscita vuol dire che sta bene. Le corro in contro e le poggio una mano sulla spalla. La ragazza si gira e le sorrido. Ma il sorriso svanisce subito quando vedo due occhi neri, degli occhiali e delle labbra sottili. No, decisamente non è lei. Mi scuso con la ragazza imbarazzato e me ne vado. Ritorno in strada e quando mi giro vedo un'altra ragazza dai capelli ramati. E un'altra. E un'altra ancora. Dio... sto impazzendo. Ho bevuto del latte avariato? Torno all'hotel di corsa, evitando di guardare le persone che ho attorno. Mi chiudo nella suite e mi faccio una doccia. Mentre sono sotto il getto dell'acqua penso che.. non sia il latte avariato. Sono preoccupato per quella ragazza. Dannazione. Sono fatto così. Mi preoccupo sempre troppo degli altri. È il mio punto debole. Non so neanche dove andare a cercarla. Non so neanche dove ero, non so la strada, niente. Esco dalla doccia e mi stringo un asciugamano in vita. Non me la sento di uscire ancora. Sono appena tornato. E poi con il buio non devo indossare gli occhiali da sole, non devo mascherarmi, nascondermi. Mi butto sul letto e chiudo gli occhi. Quando li riapro sta tramontando il sole. Prendo il telefono e trovo dieci chiamate perse di George e un suo messaggio. Mi chiede solo come sto. Lo liquido con un 'bene' e indosso un paio di jeans con una t-shirt nera e un giubbino di pelle. Esco dall'hotel quando comincia a fare buio. Prendo la metro e scendo alla stessa fermata di ieri. E comincio a camminare. Riesco a ricordare qualche strada ma è tutto un po' confuso. Alla fine riconosco un'insegna. Giro l'angolo che ho girato la sera prima e mi ritrovo nel vicolo di ieri. E lì, in un angolo, appoggiata al muro, c'è la ragazza di ieri. Un vestitino cortissimo nero, con le spalline sottili, con le mani si sfrega le braccia e le spalle. Ha degli stivali neri al ginocchio ed è truccata pesantemente. I capelli ramati, che oggi ho visto su tante ragazze, le cadono a onde sulle spalle. Mi avvicino alla ragazza e le poso una mano sulla spalla sorridendole. La ragazza si gira e mi sorride e posa la sua mano sulla mia e l'altra sul mio petto. Inverte le posizioni e mi ritrovo con la schiena sul muro. Mi accarezza il petto e alza piano il viso. Anche con i tacchi è parecchi centimetri più bassa di me. Quando mi guarda negli occhi il sorriso le scompare e si allontana da me tremando. Non so bene cosa sia successo. O meglio, l'ho capito, ma non voglio ammetterlo. La ragazza é una prostituta. Non so come ho fatto a non capirlo. Sto per dire qualcosa, qualcosa che non so neanche, quando la ragazza scappa. Ci impiego un attimo a connettere tutti i neuroni. Poi le corro dietro. Fortunatamente ha i tacchi e io sono più veloce di lei. La prendo per un braccio e la tiro delicatamente verso di me. La ragazza si dimena appena e cerca di tirarmi un pugno sul petto. A un certo punto si ferma e sospira appena. -Ok. B-basta che non mi fai male... io... faccio tutto quello che vuoi...- dice senza guardarmi negli occhi. La guardo e rimango a bocca aperta. -No. No! Guarda che io non voglio niente.- dico guardandola negli occhi. La ragazza abbassa di nuovo lo sguardo confusa. -E... e allora cosa vuoi? Perchè ieri mi hai salvato? Perchè sei tornato?- chiede guardandomi appena negli occhi. -Io volevo solo vedere come stai. Ero preoccupato.- La ragazza si libera da me e si allontana e scoppia a ridere tristemente. -Certo. Perchè uno va da una prostituta per chiederle come sta!- esclama ridendo. -Io... io non lo sapevo!- esclamo passandomi una mano tra i capelli. -Certo... perchè se lo avessi saputo non ti sarebbe interessato.- esclamò passandosi le mani sulle spalle. Capisco troppo tardi l'errore che ho fatto. Sono stato così stupido. -No! Lo avrei fatto comunque!- esclamo. Sospiro e mi tolgo la giacca e la poso sulle spalle della ragazza. Lei si allontana di colpo. -Non voglio la tua pietà.- dice ridandomi la giacca. -Io... non so neanche il tuo nome... ma ti assicuro che non lo faccio per pietà. Tienila la giacca, davvero. E volevo davvero vedere come stavi.- dico allontanando la giacca. La ragazza mi guarda e si stringe nella mia giacca troppo grande per il suo corpo gracile. -Kate. Mi chiamo Kate.- dice dopo un lungo silenzio. Sorrido. -Ciao Kate. Io sono Tom.- La ragazza sorride. E quando vedo quel sorriso penso che sia il sorriso più bello del mondo. Oddio. Non so cosa mi sta succedendo. Sorrido anche io. -Allora Kate... io... sembra stupido ma... non voglio lasciarti qui...- dico passandomi le mani tra i capelli imbarazzato. Kate mi guarda sorridendo dolcemente. -Tom... sei davvero... gentile ma no. Io devo lavorare ed è presto. E... sto perdendo tempo con te... scusa...- sussurra ridandomi la giacca e allontanandosi. La guardo allontanarsi. No. Non posso. Non sono capace. Non riesco a guardare Kate che va a... prostituirsi. Non posso. È... impensabile. Mi avvicino di nuovo a Kate e allontano l'uomo che le si é avvicinato. -Kate... andiamo. Non ti lascio assolutamente qui.- La prendo per un braccio e la porto via. L'uomo mi si avvicina. -Ehi... è mia! Aspetta il tuo turno.- dice alitandomi in faccia. Lo spingo contro il muro. -Lascia Kate. Non farà niente con te.- -E chi è Kate?- chiede spaesato. Alzo gli occhi al cielo e porto via la ragazza. Facciamo tutta la strada senza parlare. Non so a cosa pensa Kate. E non sono sicuro neanche di volerlo sapere. Quando arriviamo sotto all'hotel Kate si ferma. Torno in dietro e la guardo. -Io... non posso Tom. Davvero. Torno... indietro...- sussurra allontanandosi di nuovo. Mi passo una mano tra i capelli. -Kate... io voglio solo aiutarti... ti prego, fatti aiutare. Non guardare questo.. stupido hotel.- le sorrido e la prendo per mano. So che ci stanno guardando tutti. Kate di certo non passa inosservata. Stivali alti, vestito cortissimo. No, non passava inosservata. Ma decido bellamente di ignorare tutti e stringo la mano di Kate. Saliamo nella suite. -Allora.. facciamo che se vuoi puoi fare una doccia e ti lascio la camera da letto.- dico indicandole la porta del bagno. Le sorrido. -Vado a prendere il pigiama e ti lascio la camera.- dico prendendo i pantaloni della tuta e una maglia. Quando vedo che Kate si chiude in bagno mi cambio e mi stravacco sul divano. Sono ancora così confuso. Cosa sto facendo? Certo, la situazione di Kate è.. brutta, ma di sicuro non è l'unica ragazza che per sopravvivere si prostituisce. Se al calare del sole andassi, in una qualsiasi delle città che tanto mi piacciono, nei luoghi di periferia, ne troverei a centinaia. Non le ho mai cercate. Eppure lei è capitata sulla mia strada, ma come sto aiutando lei, perchè non posso aiutare anche tutte le altre? Chi sono io per aiutarne solo una? Tante ragazze, donne, condividono la stessa vita, vorrei solo poterle aiutare... penso chiudendo gli occhi.

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Capitolo 3
*** And she don’t want to go outside tonight ***


Mi sono svegliata tardi e quando sono scesa in cucina, Meredith era già uscita. Mi siedo alla penisola e mangio una tazza di cereali, ma lo stomaco è proprio chiuso e non accetta il nutrimento di cui ha bisogno.
Mi fa male tutto, e il ricordo di ieri mi martella in testa, basta che chiudo gli occhi e rivedo tutto. E mi chiedo, chi era quell’uomo? Perché mi ha aiutato? Quando la notte sto ferma nel vicolo, sotto al mio lampione, alcuni passanti mi guardano. Alcuni si fermano anche e indugiano davanti a me, indecisi su cosa fare. Aiutarmi o lasciarmi al mio destino? Quasi tutti decidono di andarsene. Se decidessero di fermarsi anche un attimo solo e mi rivolgessero anche solo una parola gentile, ne sarei estremamente felice. Ma non si ferma mai nessuno. Nessuno vuole ascoltarmi, parlarmi, consolarmi. Dirmi che tutto quello che sto facendo, tutta la mia vita, prima o poi finirà. Nessuno lo dice. E forse è un bene, perché sarebbe solo un fantasia, un’utopia. La mia vita è questa. Una parola o un sorriso non la smuoveranno. La mia casa diventa ogni notte il mio lampione, la sua luce la fine di una giornata e l’inizio della notte. Le navi al buio si perdono, senza la luce del faro, vanno a infrangersi sugli scogli. Ma la mia ancora è ben ferma sotto la luce. Come se quello potesse bastare per donare la lucentezza alla mia vita che è tanto buia. Ma in realtà la luce del lampione fa solo risaltare tutti i difetti, le sbavature e le lacrime che mi porto dietro.
Sospiro e poso la ciotola nel lavandino , rimetto a posto i cereali nella dispensa e salgo in camera mia, chiudendo la porta a chiave. Mi spoglio e apro l’anta dell’armadio dove c’è uno specchio a figura intera. Mi guardo. Ho dei segni rossi sul collo e dei lividi sulle braccia che sulla pelle chiara risaltano ancora di più.
La casa, così vuota, mi mette ansia. Mi rannicchio sotto le coperte e accendo le luci, la televisione e la radio. Con tutta questa cacofonia di suoni, mi sento meno sola, più al sicuro. Più viva.
Oggi non voglio uscire. Fa freddo.
Non ne posso più. Vorrei andarmene, lasciare tutto. Ma poi, come farei? Che lavoro potrei fare? A scuola sono andata poco o niente. Le case costano, mantenermi costa. E non conosco nessuno, nessuno mi aiuterebbe. Sono così sola… ci penso davvero per la prima volta. Sono sola. Non ho una famiglia, degli amici, nessuno che mi voglia bene veramente. Qualcuno che mi ami… oh, quanto mi piacerebbe. Mi piacerebbe riscaldarmi con il solo tepore di quella parola. Amore. Chissà quanto caldo tiene. Come una bella coperta di pile. Vorrei farmi avvolgere, come in un abbraccio infinito, come… come delle braccia dolci e morbide. Come qualcosa che dà e non pretende. Amore. Quanto vorrei provare quel calore. Ma è la più grande fantasia mai pensata. La più grande illusione. Chi amerebbe mai una prostituta? Chi mai amerebbe qualcosa di già violato e usato e maltrattato?
Ripenso all’uomo che mi ha salvato. Perché? E questo interrogativo continua a rimbalzarmi in testa. Perché. Perché. Perché. Perché. Perché?
Cosa vuole? D’altronde tutti vogliono sempre qualcosa. Qual è il suo prezzo? E poi è arrivata la polizia. No. Questa notte non posso uscire. Mi avrà denunciato. Gli avrà detto dove mi trovavo. No, non posso tornare. Non stanotte. Aspetterò un po’ e poi tornerò. Giusto il tempo per calmare le acque. Giusto il tempo per placare i ricordi. Giusto il tempo per lasciare che i lividi guariscano e poi tornerò. Voglio solo un po’ di tempo… non chiedo tanto. Tempo. La vita è fatta di tempo. E io ho una vita davanti. Ho davanti così tante notti… cosa possono essere un paio di vite, un paio di notti, a casa, al caldo tra le coperte? Quelle coperte che non saranno mai amore, ma che tengono caldo, a loro modo.
Cullata dalla musica e dalla voce di un qualche presentatore televisivo mi addormento.
Quelle poche volte che sogno, sogno sempre la stessa cosa. E forse, più che un sogno è un ricordo. Un ricordo che vorrei cancellare, ma che non posso, così mi ostino a rinchiuderlo in un angolo della mia mente, chiuso in una scatolina ricoperto di polvere. Finchè sono sveglia riesco a tenere tutto sotto controllo, i ricordi, il mio piccolo mondo è al sicuro. Ma appena chiudo gli occhi, perdo il controllo. La scatola comincia ad agitarsi e a tremare, il fragile lucchetto con cui è chiusa si spacca ed esplode.
 
Ho poco più di cinque anni, i miei grandi occhi verde-azzurri risplendono raccogliendo la luce del lampione. Sono scappata. Ho corso. E piove. E ho freddo. I piedini scalzi affondano nelle pozzanghere, la leggera camicia da notte si è appiccicata al corpicino fragile e magro e i capelli incorniciano il viso infantile rigato di lacrime.
Sono scappata. Ho corso. Piove. E ho freddo.
Ma da dove sono scappata faceva caldo. Tutto era rosso e bruciava. E lo so che bruciava. Lo testimoniano le mie mani rosse e ustionate. Io avevo solo provato ad aprire la porta. Ma la maniglia scottava. Scottava tanto. Mi sono messa a piangere. Ma ho subito smesso. Se papà, Tom, mi avesse sentita, mi avrebbe picchiata. O peggio. Il peggio non so cos’è, ma non voglio scoprirlo. Non voglio che mi si avvicini ancora. Quando mi accarezza le sue mani sono ruvide e dure e cattive. Ma io non posso piangere o frignare o lamentarmi. Non posso neanche andare dalla mamma, se no papà, Tom, mi picchia e dopo picchia anche lei. E io piangerei e non voglio piangere.
Non so cosa è successo. So solo che stavo dormendo con Toby, il mio orsacchiotto, quando ho sentito caldo. Mi sono alzata ed era tutto rosso. Mi sono morsa forte il labbro per non piangere. Non sapevo cosa fare. Ad un certo punto è uscita la mamma piangeva ed era tutta rossa anche lei. Si guardava intorno spaventata e mi urlava di scappare. Mi ha spinto già per la scala. Io sono caduta. Mi sono fatta male. Mi sono bruciata. Le ginocchia hanno cominciato a sanguinare, ma la mamma continua a dirmi di scappare. Ma io non voglio. Non posso lasciarla sola. Sola con papà, Tom.
Mi giro un attimo verso la porta e quando torno a riguardare la mamma lei non c’è più. Adesso c’è papà, Tom, tutto rosso. La faccia è orribile, deformata, come quella di un mostro. Ho paura. Cerco di aprire la porta ma mi scotto. Ci riprovo un’altra volta e, anche se mi faccio male, anche se la mano brucia, apro la porta. Non voglio vedere papà, Tom, arrabbiato.
Appena sono fuori sento qualcosa rompersi e cadere e sopra di me, sopra la mia casa rossa, si alza un urlo. E poi più niente.
Sento qualcosa di bagnato sulla faccia e poi ancora qualcosa e qualcosa ancora. Non so se sono lacrime o pioggia. Spero che sia pioggia. Non voglio più vedere papà, Tom, così arrabbiato. Non voglio più sentirlo urlare.
Poi scappo. Corro. Piove. E ho freddo. Ma le mani bruciano. Ma io corro. Me lo ha detto la mamma…
 
Mi alzo urlando. Ho il fiatone grosso. Mi porto le ginocchia al petto e piango.
Non so quanto rimango rannicchiata su me stessa a piangere, a cercare di rimettere a posto i pezzi del lucchetto della scatola. Quella scatola che doveva rimanere chiusa. Raccolgo pezzo per pezzo e richiudo tutto. E mi calmo. Spengo tutto. Adesso tutto questo rumore mi dà fastidio, è insopportabile.
Mi faccio una doccia e assieme al sudore, sento scivolare via anche tutto il resto. La paura, il dolore, i ricordi.
Dopo un po’ sento Meredith tornare a casa. Non scendo, non la saluto. Rimango rannicchiata sul letto. Non scendo a mangiare. Vorrei dormire ma non ci riesco, ho paura che anche questa volta il lucchetto non tenga e che tutto salti fuori urlando e bruciando.
Guardo la sveglia posata sul comodino. Le nove. Dovrei prepararmi per uscire. Dovrei. Ma ormai ho deciso. Oggi non esco.
Rimango sdraiata nel letto e osservo i minuti che passano, le lancette che girano. E poi sento dei passi sulle scale. Meredith entra in camera.
-Perché non sei ancora pronta?- mi chiede accendendo le luci. Alzo un braccio e mi proteggo gli occhi dalla luce improvvisa.
-Oggi non voglio uscire. Non mi sento bene…- sussurro.
Meredith mi guarda. –Kate, non dire cazzate. Alzati da quel letto e vestiti.-
-No. Non voglio.- dico stringendomi le coperte al petto. Non ho mai disubbidito a Meredith. Mai. Ho sempre fatto quelle che voleva. Ma oggi no. Oggi non voglio.
Meredith si avvicina al letto e mi toglie le coperte. Mi tira per le braccia e, forse senza volerlo, mi tocca i lividi, e faccio una smorfia di dolore. –Alzati.- mi intima. –Alzati!- mi urla in faccia vedendo che non mi muovo. Mi tira su di peso, come se fossi una bambola.  E come se fossi una bambola, mi veste e mi trucca. Io non ho mai avuto una bambola. Ho sempre e solo avuto il mio Toby. Toby… chissà dove sei… mi manchi così tanto. Vorrei poterti stringere come facevo da piccola. Vorrei solo un po’ di affetto. Vorrei solo un po’ di amore.
Ma Meredith non è disposta a darmelo. E non vuole neanche darmi del tempo. Il poco tempo che mi serve. Mi spinge giù dalle scale e per poco non cado.
-Guai a te se fai ancora delle scenate del genere!- mi urla prima di chiudermi la porta in faccia.
Trattengo le lacrime. Non devo piangere. Assolutamente. Il trucco si sbaverebbe. Rido un po’, prima piano, poi sempre più forte. Una risata isterica. Chi è che lo diceva? Ridere per non piangere. Direi che mi calza a pennello.
Sono uscita di casa in ritardo, alcuni dei clienti abituali saranno andati in cerca di qualcun’altra. Ma tanto, ho tutta la notte, tutta la vita, per aspettare. Mi avvicino al mio lampione e aspetto. Oggi fa più freddo del solito e Meredith mi ha messo solo un vestitino praticamente estivo. Mi sfrego le braccia ma non basta a scaldarmi. Pochi minuti dopo vedo avvicinarsi un uomo. Non lo guardo troppo, gli sorrido e appena mi sfiora la spalla inverto le posizioni e lo spingo contro il muro. Continuo a sorridergli sfiorandogli il petto e le spalle, ma non riesco a guardarlo negli occhi. Alzo appena il viso e vedo gli occhi. Quegli occhi. Quei dannati occhi che mi hanno tormentato. E lo riconosco. Lo sapevo. Non dovevo uscire! Maledizione. Mi allontano tremando e appena vedo che si distrae un attimo scappo. All’inizio non sento i suoi passi dietro di me e traggo un sospiro di sollievo. Che dura pochissimo, perché in poche falcate mi è di nuovo addosso e mi stringe al petto, quasi dolcemente. Mi divincolo e cerco di fargli male. Ma alla fine ci rinuncio. È troppo forte e io troppo debole. Sospiro rassegnata. -Ok. B-basta che non mi fai male... io... faccio tutto quello che vuoi...- sussurro senza guardarlo negli occhi. Basta violenza. Basta dolore. Ho provato a scappare dalla mia vita, ma a quanto pare non è destino.
L’uomo mi guarda spaesato e mi assicura che non voleva niente. Certo. Perché io sembro così stupida. Pensa che così facendo gli farò uno sconto? Beh, si sbaglia. Meredith ha bisogno di quei soldi. E anche io. Potrei cominciare a metterne un po’ da parte. E dopo scapperei. Sì, potrei farlo. Ma tanto non lo farò. Non ne sono capace. Gli chiedo cosa vuole e lui risponde che è preoccupato! Certo. Tutti si preoccupano per le prostitute, infatti nel vicolo ho la fila di persone preoccupate, invece di clienti. E infatti glielo dico. E lui dice che non lo sapeva. Ovvio. Se no non sarebbe venuto. Mi avrebbe lasciata qui, a marcire. Ovvio. Cerca di rimediare, ma ormai ciò che è fatto è fatto.
Mi allontano un po’. Voglio andarmene via. Anzi. Devo tornare al mio lampione. Ma l’uomo sospira e si toglie la giacca e me la posa sulle spalle. O almeno cerca di posarmela sulle spalle, perché mi scanso di colpo. –Non voglio la tua pietà.- dico allontanando la giacca. Mi chiede il nome e mi allunga di nuovo il suo giubbino. Nessuno mi ha mai chiesto il nome. A nessuno è mai importato. Glielo devo dire? Sarebbe come condividere la mia ancora con qualcun altro. Ma me lo ha chiesto… in un sussurro rivelo il mio unico appiglio nella vita. Kate. E lui dice il suo nome. Tom. Che ironia. Dice che non vuole lasciarmi qui. E sorrido. Stesso nome eppure due personalità così diverse. Adesso l’ho capito. Tom ha detto la verità. Voleva solo vedere come stavo. Non voleva usarmi. Lo guardo. No. Un uomo così non potrebbe mai prendere una prostituta. Le donne gli cadranno ai piedi a centinaia. Non ne ha proprio bisogno. E lui forse non ha bisogno delle donne. Ma io ho bisogno degli uomini. O almeno dei loro soldi.
Lo ringrazio, mi tolgo la giacca, gliela ridò e torno al mio posto. Ho trovato la mia prima persona gentile. È una data da segnare sul calendario.
Appena mi appoggio al muro mi si avvicina un uomo. Sorrido e lui mi stringe subito. Sento gli occhi di Tom addosso e mi sento molto imbarazzata. Non è mai successo, ma adesso lo sono. Avrà cambiato idea su di me, chissà che idea aveva prima, ma adesso proverà solo un pesante disgusto per me e per quello che faccio. Deve essere così. Qualsiasi persona sana di mente lo proverebbe. Anche io lo provo. Ma Tom si avvicina, di nuovo, e mi toglie l’uomo di dosso, di nuovo. Mi prende per un braccio e mi porta via. Via dal vicolo. Via dal lampione. Via dal mio faro.
Tom mi guida per le strade di New York, strade che non ho quasi mai visto. E si ferma sotto uno degli hotel più belli della City. Ovvio. Oltre che essere bello è anche ricco. Mi fermo in mezzo alla strada. Tutti ci stanno guardando. Guardano prima me e poi Tom. Come in una partita a tennis. Devo tornare in dietro. Non so neanche perché l’ho seguito fino a qui. Dovevo rimanere a lavorare nel mio vicolo. Mi sono solo fatta guidare dalla rabbia verso Meredith e dalla mia voglia di una nuova vita. Ma la mia vita non cambierà. Sto solo rovinando quella di Tom, e non se lo merita. Faccio per tornare indietro, ma lui mi ferma ancora una volta, come nel vicolo.  -Kate... io voglio solo aiutarti... ti prego, fatti aiutare. Non guardare questo.. stupido hotel.- dice sorridendomi. E… non riesco a non seguirlo. Cedo sotto le sue parole dolci, la sua premura. Quella premura che non ha mai avuto nessuno nei miei confronti. Cedo. Per una notte. Mi concedo una notte lontana da tutto e tutti e lo seguo nell’hotel e poi nella suite.  Mi dice di farmi una doccia e mi lascia la sua stanza. Perché fa questo?
Entro nel bagno, che è il più grande che ho mai visto, e mi spoglio. Entro nella doccia e aspetto che entri anche Tom, mi preparo psicologicamente. Perché, nonostante la sua gentilezza, non può aver fatto questo solo per bontà. Deve esserci ancora qualcosa. Deve volere qualcosa. E così lo aspetto. E aspetto. Ma non entra. Mi sento una stupida. È così pieno di soldi. Lo ha fatto solo per pietà. Come può pensare di andare con una prostituta di strada. Se vuole qualcuna gli basterà alzare il telefono.
Esco dalla doccia e mi stringo un asciugamano addosso. Poi vado nella sua stanza. È la classica stanza di hotel, impersonale. Non mi dice niente di Tom e delle sue passioni. Apro un cassetto e prendo una sua maglietta. La indosso senza pensarci. Ha il suo profumo, ed è un profumo buonissimo. Mi lego i capelli bagnati in una coda e mi appoggio allo stipite della porta. Riesco a vederlo sdraiato sul divano e finalmente posso guardarlo bene. È alto e magro, ma sotto la maglietta sono delineati i muscoli di chi pratica palestra. Gli occhi, anche se sono chiusi, so benissimo come sono. Sono del colore del cielo, del mare, azzurri, di un azzurro mai visto.
Senza pensarci mi avvicino silenziosamente al divano. Mi inginocchio e lo guardo. Gli sfioro piano il viso, delicatamente. È così bello. Gli sfioro delicatamente le labbra sottili e sorrido appena. E Tom apre gli occhi. Salto indietro arrossendo e cado per terra. Dio.. cosa ho fatto? Mi copro il viso con le mani. Stupida, stupida, stupida. Non potevo stare ferma in camera? Perché, perché, perché?!
-S-scusa…- sussurro alzandomi e correndo in camera. Mi chiudo la porta alle spalle e mi rannicchio sotto le coperte. Perché l’ho fatto? Non lo so neanche io. È stato.. istintivo. Tom era lì.. sdraiato sul divano, come potevo non accarezzarlo? Io.. vorrei solo dimostragli quanto gli sono grata per questi piccoli gesti di gentilezza, ma non conosco altri modi se non quelli… a cui lui non è interessato. Mi stringo le gambe al petto. E adesso lui cosa penserà? Probabilmente domani mattina mi chiederà di andarmene. Lo avrei fatto comunque però… ho rovinato tutto. Sono un disastro.
Mi addormento con le lacrime agli occhi, ma almeno il lucchetto regge, per questa notte.
Mi sveglio con il profumo di french toast. Mi alzo piano e arrivo alla porta. Sbircio verso la cucina e vedo Tom in piedi davanti ai fornelli. Non so bene cosa fare. Mi avvicino? Gioco titubante con l’orlo della maglietta, e decido di tornare dentro, cambiarmi e andare via prima che me lo chieda Tom, giusto per evitare discorsi inutili e imbarazzanti. Sto per tornare dentro quando Tom mi saluta e mi sorride. A questo punto non posso più tornare in dietro. Lo saluto a mia volta e mi siedo sul bancone della cucina. –I-io… scusa per ieri sera, non so proprio cosa mi sia successo. Io… scusa…- sussurrò torturando la maglietta. Poi mi ricordo che è la sua e smetto di colpo.
Tom mi sorride. –Tranquilla.. non è successo niente..- dice. Ma vedo che anche lui è imbarazzato, lo sento dalla voce. –Avanti, mangia. Sei troppo magra..- dice passandomi un piatto con i toast e dei mirtilli. Scendo dal bancone e mi siedo al tavolo, Tom mi raggiunge poco dopo con il suo piatto e dei bicchieri con del succo. Ne prendo uno e ne bevo un sorso, lo sbircio da sopra il bicchiere, cerco di capire a cosa pensa, ma trovo solo un dolce sorriso a solcare il suo viso.
-Grazie mille Tom.- dico quando ho finito di mangiare. Non avevo molta fame, però mi dispiaceva lasciare tutto nel piatto, così ho fatto uno sforzo e ho mangiato tutto. E, averlo fatto, mi ha regalato un meraviglioso sorriso di Tom. –Ma.. adesso devo proprio andare. Grazie ancora…- dico alzandomi. Vorrei abbracciarlo, ma è meglio di no.
-No Kate. Aspetta. Rimani qui, ti prego. Voglio aiutarti. Io… adesso devo andare a lavoro, ma per pranzo sarò qui. Ti prego… non andartene, aspettami… andiamo fuori a mangiare e dopo… si vedrà. Ma rimani, per favore…- dice tenendomi ferma per un braccio. Come faccio a dire di no? È stato gentile. Inoltre Meredith sarà a lavorare, non si accorgerà della mia assenza. Solo fino a pranzo… non saranno un paio di ore in più a fare la differenza… mi mordo il labbro e annuisco. Tom sorride e mi tira delicatamente a sé. –Grazie…- sussurra lasciandomi andare subito. Mi saluta ed esce dalla suite. Io rimango ferma in mezzo alla cucina. Cosa mi sta succedendo?
 

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Capitolo 4
*** For angels to fly. Angels to fly ***


Mi sono addormentato. Non so come ho fatto, è tutto il giorno che dormo, praticamente. Eppure, ho chiuso gli occhi e sono sprofondato nel mondo dei sogni. Almeno fino a quando delle delicate dita hanno cominciato a sfiorarmi il viso. Erano così morbide che mi parevano piume, dolci piume di angelo che mi sfioravano il viso. Apro lentamente gli occhi. Voglio vederlo questo angelo. E davanti a me appare l’angelo più bello di tutti. Non ha lunghi capelli dorati, ma dorati e l’azzurro dei suoi occhi è mescolato al verde dei laghi di montagna, cristallino. È un angelo che combatte i suoi demoni. Demoni che neanche io posso immaginare. Men che meno io. Non posso capire cosa prova, posso provare, ma il mio pensiero arriverebbe lontano anni luce da quello che veramente prova lei. Sorriso e allungo una mano verso di lei. Voglio ricambiare quelle carezze, quelle dolci piume. Ma Kate si allontana da me e si copre il viso. Sussurra uno ‘’scusa’’ imbarazzato e scappa via. Il braccio ricade lungo il fianco e il sorriso scompare. Mi sdraio di nuovo sul divano. Dovevo reagire prima? Dirle subito qualcosa? Tranquillizzarla? Non lo so. Mi passo la mano sui capelli. Sto impazzendo. Non mi era mai successo di non sapere cosa fare. Insomma… di solito… o riesco a fingere bene o seguo l’istinto. Ma adesso… adesso proprio non lo so. Non so come prendere Kate, come parlarle, come ascoltarla o anche solo come comportarmi. Non voglio che pensi che sia solo uno dei tanti uomini che l’hanno usata, voglio dimostrarle che non ci sono solo gli uomini che ha conosciuto alla luce del lampione o nel buio della notte. Esistono anche uomini dolci, rispettosi, generosi. Uomini che ti accarezzano e ti amano, uomini che amano, amano veramente. Esistono anche quelli. E Kate probabilmente non li ha mai incontrati. Non dico che sarò io quell’uomo, in questo momento sono così confuso che non saprei dire cosa sto provando. So che voglio aiutarla, so che è una bella ragazza che probabilmente ha del potenziale ancora grezzo che nessuno ha mai provato a pulire, sistemare, lucidare, portare allo splendore. E Kate si merita qualcuno così. E voglio aiutarla in questa ricerca, magari renderà un uomo migliore anche me. E dopo potrò passare ad aiutare qualcun altro, anche adesso potrei farlo.
Sospiro e chiudo gli occhi. Ci penserò domani, domani assieme a George. Forse lui non ne sarà contento, ma lo convincerò. Penso prima di chiudere gli occhi.
Quando mi sveglio, l’orologio segna solo le tre del mattino. Devo dire che fortunatamente, non ho più sonno! Praticamente ho passato tutto il giorno nel letto a dormire, e se non dormivo sul letto dormivo sulle panchine di Central Park. Solo che adesso non so cosa fare. Preparare da mangiare a quest’ora della mattina mi sembra un po’ assurdo. Mi metto a sedere e accendo la televisione, tenendo il volume basso per non svegliare Kate, ma alle tre del mattino posso dire che non c’è proprio niente di interessante. Mi alzo e mi affaccio nella camera. Kate sta dormendo rannicchiata sul letto. Quasi involontariamente sorrido. È davvero un angelo. Un bellissimo angelo. Mi avvicino senza fare rumore e mi accovaccio davanti al letto. Indossa la mia maglietta, e questo non può fare altro se non farmi sorridere ancora di più, le va così grande… sembra un piccolo scricciolo. Le scosto piano i capelli dal viso e lei si muove appena, sorrido e mi allontano, non voglio disturbarla.
Prendo una maglia e dei pantaloni di una tuta puliti e mi chiudo in bagno. Mi faccio una doccia veloce e mi cambio. Esco silenziosamente dal bagno e dalla camera e mi chiudo la porta alle spalle. Guardo di nuovo l’ora. Bene, sono le quattro. E adesso cosa faccio per altre due ore? Due ore come minimo! Mi butto di nuovo sul divano. Non so proprio cosa inventarmi per far passare il tempo, a quest’ora staranno dormendo tutti, e che io sappia, George non soffre di insonnia, un vero peccato. Dal tavolino prendo un libro che avevo cominciato chissà quando in un giorno di noia, quindi direi che è perfetto. Leggo le parole velocemente, capendo poco del significato, senza volerlo capire, giusto per perdere un po’ di tempo, giusto per aspettare l’alba e il sole che coloreranno i cieli e le vetrate di New York.
Ad un certo punto, esasperato, butto il libro sul tavolino. Mi alzo e mi stiracchio. Devo ricordare a George di non annullare mai più tutti i miei impegni, non potrei sopportare un’altra giornata, o nottata, come questa. È più sfiancante stare a casa che andare a lavorare. Mi siedo per terra e appoggio la schiena al divano. Devo pensare a cosa fare con Kate. Non posso permettere che torni a casa, se ha una casa, ma più di tutti, non posso permettere che torni in quel vicolo, devo fare qualcosa per lei. Devo, devo, devo, devo. Ma cosa posso fare concretamente per lei? Posso chiederle di rimanere qui, ma non so se accetterà, non posso obbligarla con la forza. Potrei… non so.. farla conoscere a qualcuno, ma chi? Magari dovrei portarla da uno psicologo. Ma dopo cosa penserebbe? Che la penso pazza? Dio… non so proprio cosa fare, non mi sono mai trovato in una situazione simile. Sicuramente ha bisogno di vedere qualcuno, ma magari non deve per forza essere uno strizzacervelli… non avrà dalle amiche? Oppure potrei ascoltarla anche io, sono bravo ad ascoltare. Ma si aprirà con me? Forse prima devo… guadagnare la sua fiducia? Sto impazzendo. Mi passo le mani tra i capelli e sulla faccia. Una cosa per volta, Tom. Una cosa per volta. Intanto, cerchiamo di convincerla a rimanere, il resto si vedrà. Torno sulla porta della camera e la guardo. Penso di capire il gesto di Kate. Vedere qualcuno dormire è bellissimo, fa venire voglia di toccarlo, stringerlo, accarezzarlo. Il viso si distende e sembra che tutte le preoccupazioni del giorno si perdano, anche solo per poche ore, svaniscono nell’oblio del buio o nella luce di un bel sogno, ma per un po’ non sei più nessuno. Non sei più l’attore che ha conquistato la fama mondiale, né la prostituta che vende il suo corpo per arrivare a fine mese. Sei un essere astratto in pace con te stesso. Per quelle poche ore non esisti. I tuoi sbagli si cancellano dalla faccia della terra e puoi fingere di essere qualcuno che in realtà non sei. Una ragazza normale, un uomo senza rimorsi.
Sospiro. È meglio non pensarci, ho già fin troppe cose per la testa, se ci si mettono pure quelle, siamo a posto. Socchiudo la porta e finalmente mi dirigo verso la cucina. Adesso è un’ora abbastanza accettabile per cominciare a cucinare. Prendo le padelle e apro il frigo. Non è che ho molta scelta, a quanto pare ho dimenticato di fare la spesa. Opto per dei french toast, non so se a Kate piacciono, spero di sì, ma soprattutto hanno una bella botta di calorie e ne ha bisogno, dovrebbe mettere qualcosa su quelle ossa, praticamente non ha niente. Imburro una padella e la lascio a fuoco medio, intanto in una ciotola mescolo uova, sale, latte e altre spezie, e poi inzuppo per bene le fette di pane. Prendo il pane e lo faccio cuocere nella pentola.
Ritorno al frigo e guardo cosa ho. Non molto. Prendo un po’ di frutta e faccio una bella macedonia colorata. Prendo i vestiti di ieri, che avevo lasciato su una poltrona in soggiorno e mi cambio. Poco dopo sento la porta aprirsi e con la coda dell’occhio posso vedere Kate che mi sbircia, ma prima che possa tornare in camera la saluto sorridendole. La ragazza mi si avvicina timidamente, si siede sul bancone della cucina e sussurra delle nuove scuse. Mi giro per guardarla e vedo che indossa una mia maglietta, sorrido dolcemente prima di vedere che le arriva a malapena a metà coscia, e seduta così le si è alzata di più. Arrossisco e distolgo lo sguardo. Per posare lo sguardo su qualcosa che non sia lei, prendo un piatto e glielo passo e le dico anche che è troppo magra, il che non è una bugia. Scommetto che le si vedono tutte le costole… penso arrossendo appena senza farglielo notare.
Mi siedo davanti a lei e mangiamo in silenzio. Vedo che mi sbircia da sopra il bicchiere del succo, ma non dico niente, non glielo do a notare. Appena finisce Kate si alza e mi ringrazia allontanandosi dal tavolo. Mi alzo veloce e le prendo delicatamente un braccio, attento a non farle male. E le chiedo di rimanere, almeno per pranzo. E intanto penso già dove portarla a mangiare. Chissà cosa le piace. Cinese? Italiano? Francese? Ci devo pensare. Non valuto neppure un “no” come risposta. Non può dirmi di no. Appena Kate annuisce sorrido felice. Senza pensarci la tiro dolcemente a me e la abbraccio velocemente, poi la saluto frettolosamente e esco dalla suite. Ho un sorriso a trentadue denti. Ha detto sì! Scendo di corsa le scale. Niente ascensore, ho bisogno di scaricare la felicità. Che poi, questa felicità, non so bene da dove salta fuori. Ha soltanto detto che si fermerà fino a pranzo. Ma se si fermerà fino a pranzo, chi dice che non rimarrà di più? Ma poi… io sono felice che rimanga qui, solo perché così saprò dov’è. Saprò che non sarà nel vicolo. Sono felice solo per questo. Mi dico. Insomma, usiamo la testa, per cos’altro potrei essere felice?
Appena fuori dall’hotel chiamo George mi risponde mezzo addormentato, ma, è crudele da dire, in questo momento non mi interessa più di tanto. Ci diamo appuntamento in un bar del centro. Decido di andare a piedi, ho quarantacinque minuti da buttare via e arrivare in anticipo per poi girarmi i pollici, sarebbe noioso. Prendo gli occhiali da sole e mi incammino per le vie della City. Mentre cammino, vedo di sfuggita un giornale in un’edicola. Mi avvicino tranquillamente. In prima pagina ci sono io, prima dentro una macchina della polizia, poi con Kate, davanti all’hotel. Guardo le altre riviste esposte e vedo che più o meno ci sono le stesse foto. I titoli non sto neanche a leggerli, le immagini dicono tutto. Mi stropiccio gli occhi. Non me ne frega niente di quello che pensano gli altri, non me ne frega niente se questo danneggerà la mia immagine e se George ne sarà infuriato. Non mi interessa. Io so cosa ho fatto, e ne vado fiero. Ho difeso una ragazza che stava per essere violentata e ho cercato di salvare una prostituta dalla strada. Non ci vedo assolutamente niente di male, ed è questo che importa. Non faccio caso ai passanti che mi hanno riconosciuto e mi indicano,metto le mani in tasca e affretto il passo. Arrivo in orario alla caffetteria e George mi sta aspettando con in mano una delle tante copie dei giornali che ho visto poco fa. E, dall’espressione, si può intuire che non ne è per niente felice.
Mi stravacco sulla sedia davanti a lui. –Buon giorno.-
-Buon giorno? Ti sembra un buon giorno questo? La tua faccia è stampata su centinaia di riviste e tu pensi ancora che sia un buon giorno?- chiede sventolandomi sotto al naso la rivista.
-Penso che sia un bellissimo buon giorno.- dico strappandogli la rivista dalle mani e poggiandola a faccia in giù sul tavolo. –George… dobbiamo parlare…-
-Certo che dobbiamo parlare! Ma cosa ti succede? Hai lasciato qualche rotella nella cella della centrale? Adesso vai a prostitute? Non dico che non lo devi fare, non posso vietartelo, ma dio! Con tutte le donne che ti girano attorno?! E se proprio vuoi farlo, fallo almeno di nascosto! Chiedo forse tanto?- bisbiglia a bassa voce interrompendomi.
Sbuffo muovendo la mano. –Kate lasciala stare. Non abbiamo fatto niente. Non che siano affari tuoi.-
George ride. –Certo! Ti porti una prostituta in camera, e poi non ci fai niente! Senti, me lo puoi dire, tanto ormai la frittata è fatta.-
-Ma te l’ho detto. Non è successo niente. Anzi, ascoltami. Voglio aiutarla. Lei e tutte le altre ragazze.- dico sorridendo. George mi guarda. –Sai.. forse qualche altra notte al fresco di una cella non ti farebbe male…-
-Ascoltami, per una buona volta. Perché non dovrei aiutarla? Tutti fanno qualcosa nell’ambito sociale, tutte le persone famose fondano qualche ente, o che so io, per aiutare il prossimo. Perché non posso farlo anche io? Aiuterei centinaia di ragazze in difficoltà!- esclamo felice-
-Tom, lasciatelo dire, sei pazzo. Prima di tutto, è una causa persa. Ci saranno migliaia di ragazze come la tua.. Kate.. non puoi aiutarle tutte, perderai solo tempo e denaro. Una formica da sola non può salvare il mondo.-
-Ma almeno può provarci! E ci proverò! Te l’ho detto solo perché ne avevo voglia, lo faccio comunque.- dico strizzandogli l’occhio. –Bene, adesso puoi parlarmi delle tue cose importanti…- dico accavallando le gambe. George sospira e comincia a parlare. Io mi sono perso già al primo sospiro. Sto pensando a quello che potrei fare. Potrei costruire una struttura dove ospitare tutte le ragazze che hanno questo tipo di… problema, non so se posso definirlo così. Potrei fare in modo di trovargli un lavoro e procurerei anche uno psicologo che le segua. Sì… mi piace come idea.
Dopo un po’ che George parla a vuoto, si interrompe capendo che non ha la mia attenzione. Sbuffa e dice che mi manderà una mail con tutto quello che mi ha detto e se ne va. E io lo seguo poco dopo. Sono solo le dieci, così faccio tutto con calma e torno in hotel a piedi. Passeggiando, guardo le vetrine, a caso, giusto per perdere un po’ di tempo. Quando in vetrina vedo un vestito blu scuro, con la gonna a vita alta e larga, lo scollo rotondo con il bordo bianco e le maniche lunghe. Non so perché, ma penso che a Kate starebbe benissimo. E poi, non può venire a pranzo con il vestito che aveva ieri sera e neanche con la mia maglietta scolorita. Così entro nel negozio e le prendo il vestito e anche un paio di scarpe con il tacco, chiuse. Esco tutto contento. Spero che le piacciano.
Quando arrivo sotto all’hotel è quasi l’ora di pranzo. Faccio le scale velocemente, troppo entusiasta per aspettare l’ascensore. Quando arrivo davanti alla mia porta, non so bene cosa fare. Devo bussare? O posso entrare tranquillamente? Lo so che è camera mia, però… non so. Alla fine mi trovo a bussare timidamente alla porta,ma non aspetto nessuna risposta ed entro. Nascondo il vestito dietro la schiena e chiamo la ragazza per nome. Kate esce dalla camera e mi sorride. Intanto mi guardo intorno. Ha pulito tutto. Le sorrido, non mi aspettavo di certo che sistemasse il mio disordine. –Grazie Kate, non dovevi. Comunque ti ho portato un pensierino.. spero che ti piaccia..- dico passandole il vestito. Kate guarda prima il vestito e poi me. –Tom… grazie ma… non dovevi…- sussurra riconsegnandomi il vestito arrossendo appena.
-Kate… tienilo, l’ho preso per te. Ti sembrerà strano, ma penso che a me non starebbe bene…- dico sorridendo. Kate ridacchia e sfiora il vestito.
-Potresti darlo alla tua fidanzata…- sussurra giocando con una ciocca di capelli distogliendo lo sguardo.
La guardo e faccio finta di pensarci. –Se l’avessi potrei anche farglielo indossare. Dai Kate… dobbiamo andare a pranzo e ti ho fatto un piccolo regalo, avanti, vai a cambiarti, così usciamo…- dico sorridendo e mettendole il vestito e le scarpe tra le braccia, poi la spingo gentilmente verso la camera. Kate entra in camera e si chiude la porta alle spalle titubante.
Io mi sdraio sul divano e sorrido. La risata di Kate è.. bellissima. Ripenso alle sue carezze di ieri sera. Kate è un vero angelo. Dalla sua risata, ai suoi sorrisi, alle sue carezze, tutto di lei ricorda un angelo tormentato. Un angelo caduto sulla Terra e disperso e spaesato nella sua immensità.

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Capitolo 5
*** Stuck in her daydream ***


Dopo che Tom esce dalla suite, non so bene cosa fare. Non so quanto starà fuori. A dire il vero, non so neanche che lavoro fa, Tom. Non conosco neanche il suo nome. Non che questo cambi qualcosa, ma mi rendo conto di quanto poco lo conosco. So solo il suo nome. Il che, sicuramente è una cosa importante, almeno, per me lo è, è la mia ancora. Scivolo lentamente a terra. Non so niente di Tom, eppure mi sta ribaltando come… come un calzino! Non capisco più niente. Perché fa tutto questo? Cosa sono io per lui? Cosa prova lui per me? E io? Io cosa provo per lui? Proprio non lo so. Non è qualcosa di negativo. Non sono i soliti sentimenti bui che ho sempre provato. È qualcosa di… beh, se non è buio deve essere luminoso. Però non è accecante. È qualcosa di caldo e soffuso, ma non so cosa sia. E poi, che stupida. Come posso pensare di provare qualcosa per una persona che non conosco neanche? La conosco da due giorni e conosco solo il suo nome. Io per lui non sono niente e lui per me non è niente. Solo che so che non è così. Dio, mi sto contraddicendo, vero? Si, lo sto facendo, ma non so cosa pensare. Cosa è giusto? Cosa è sbagliato? Proprio non lo so. E poi, la concezione di giusto e sbagliato è molto soggettiva, come la percezione del bello. Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.
Scivolo lentamente per terra e mi stringo le ginocchia al petto. Per permettersi una suite in uno degli hotel più importanti di New York, Tom deve essere molto ricco. O magari… non saprei, mi viene in mente solo quello. Molto ricco. Quindi c’è da chiedersi, cosa spinge un uomo molto ricco, che quindi dovrebbe essere appagato da tutte le cose della vita, soldi, donne, e probabilmente fama, a prendere una prostituta di strada e “trarla in salvo”. Trauma infantile? Veniva picchiato dal padre? Gli manca una figura materna? Oppure è solo… gentilezza? Sarebbe così strano da pesare? Un po’ sì. Almeno per me. Almeno per come ho vissuto tutta la mia vita. Ho visto così poche volte gesti di gentilezza che forse mi sono chiesta se tutto non fosse solo una bella favola della buona notte. Una favola bruciata insieme alla mia mamma. La mia mamma di cui non ricordo neanche il viso. E la voce è sprofondata nel crepitio del fuoco, il viso bruciato dalle scintille di fiamma. Cosa mi è rimasto? Niente. Solo una scatola da buttare, ma che ogni volta torna, torna da me insistente.
Mi alzo dal pavimento e raccolgo una maglia di Tom. Non sembra essere molto ordinato… sorrido appena. Chissà se a casa sua, ha una ragazza che lo aspetta. Sicuramente sì, che domande. Un ragazzo come lui non può essere solo. Scuoto appena la testa, quanti pensieri stupidi.
Senza pensarci troppo comincio a raccogliere i vestiti per terra e sistemo tutta la suite, tanto è quello che faccio anche a “casa”, ci sono abituata. Che poi, la casa è dove sta il cuore. E il mio cuore… non c’è più, l’ho perso. Non so molto bene quando, non so in quale inverno gelido, non so sotto quale lampione, non so con quale uomo. Non so se sotto la cenere. Ma l’ho perso. E di certo quella non è la mia casa. Chissà se mai ne avrò una. Mi piacerebbe avere una casa tutta mia. Vorrei un camino. Un bel camino, così da potermi scaldare alla luce del suo fuoco, farmi coccolare dai suoi giochi di luce, farmi ammaliare dalla voce dei suoi scoppietti. Un caminetto. Tutto il resto non mi interessa.
Sorrido all’idea della mia casa, del mio caminetto. Della mia oasi felice. Sarebbe tutto solo luce. Niente buio.
Dopo un paio di ore ho finito di sistemare tutto, un paio di ore perché ho fatto tutto con molta calma. E adesso, non so cosa fare. Non so come contattare Tom, non so quando torna. E mi sto annoiando. Non posso neanche provare a cucinare qualcosa perché ha detto che vuole portarmi fuori a pranzo. Perché mi vuole portare fuori a pranzo? Non gli sono bastati tutti quei fotografi ieri notte? A me sì. Non voglio più. Mi danno fastidio. Scrutano nelle tenebre e ti colgono di sorpresa, guardano quello che non dovrebbero e poi pubblicano tutto. E tu non hai più segreti. Non che prima ne avessi. Sono un libro aperto. Sono un libro aperto per chi ha voglia di leggere. E barare. Passare subito a leggere la fine saltando tutto quello prima, dando per scontato che sia noioso, e forse è così. D’altronde, a chi interessa il passato? Tutti vogliono il presente e vogliono saziarsi del mio corpo, il resto non conta.
Sospiro e torno in camera. Sarà una scelta di Tom. Io non sono conosciuta, cadranno tutte su di lui le ripercussioni. Qualsiasi sia il suo lavoro, farsi trovare con una prostituta di strada, non penso che sia il massimo per la pubblicità di chiunque. Torno in camera sua. Ho appoggiato il vestitino che avevo ieri sera su una sedia. Lo guardo e lo riguardo, ma non riesco proprio a trovarci niente di adatto a un pranzo. Ma me lo farò andare bene, non ho molta scelta. Magari potrei “rubare” qualcosa di Tom. Magari una sua camicia, mi andrebbe enorme e potrei usarla come vestito, in qualche maniera, almeno. Ma a lui andrebbe bene? Mi siedo sull’orlo del letto. Non lo so. Non so proprio niente. Tanto vale aspettarlo e vedere cosa ne pensa. Chiudo gli occhi e mi lascio cadere sul letto. Poco dopo sento la porta aprirsi. Mi alzo di scatto. E mi affaccio alla porta. Tom sorride in modo quasi stupido, è così entusiasta. Chissà cosa è successo. Magari è andato bene un affare o qualcosa del genere. Poi mi ringrazia per aver sistemato. Abbasso appena lo sguardo e faccio un gesto con la mano per minimizzare. Mi sorride ancora e mi porge un vestito rosso. Sgrano gli occhi stupita. Lo guardo e poi guardo il vestito. E rifiuto. È un gesto dolcissimo, è la prima persona che mi regala qualcosa, ma non posso accettare, e poi vedo il cartellino con il nome di una marca che avevo solo visto sulle riviste di moda. Chissà quanto sarà costato! Non posso assolutamente accettare. Non me lo merito e non capisco proprio perché abbia preso un vestito così, mi sarei arrangiata in qualche modo, non ho bisogno di vestiti alla moda o… di regali. Sono vizi e privilegi che non ho mai avuto e tempo che… mi mancherebbero troppo appena allontanata da Tom. Già… dopo pranzo mi mancheranno molte cose. Il letto morbido della suite, il bagno grande e luminoso, la premura e la generosità di Tom. Il suo farmi ridere e non pensare. Mi mancherebbe Tom e basta. Dopo pranzo tornerà tutto come prima. Ma forse è meglio così. Tom sta perdendo il suo tempo con una come me. Chi mai mi vorrebbe? Io non sono nessuno. Usa e getta. Tutti si stancano di me, o mi sopportano solo per poco tempo.
Tom fa una battuta sul vestito e rido. Provo anche a immaginarlo con il vestitino addosso. No, forse non sarebbe una delle combinazioni più azzeccate. Poi, prima che possa mordermi la lingua, scappa quel pensiero che mi tormentava prima. A casa c’è qualcuno che aspetta Tom? Una bella ragazza dal sorriso aperto e gli occhi luminosi che lo ama? Lui ci pensa. Ecco, ha una ragazza, lo avevo detto io. Un ragazzo come lui come può non averla? Quando mi risponde lo guardo sorridendo appena, ma nascondo il sorriso dietro a una ciocca di capelli. Non ce là… non so cosa mi prende, ma alla fine prendo i vestiti e li stringo al petto, Tom mi sospinge gentilmente verso la camera e chiudo gli occhi. Le sue mai sono delicate. È bello. Mi chiudo la porta alle spalle e mi cambio velocemente. Sfuggo lo sguardo dallo specchio. Non voglio vedermi, non voglio vedere come un vestito bello come quello cade sul mio corpo, rovinerei tutto. Mi stropiccio gli occhi, non ho niente per truccarmi, un po’ di trucco non avrebbe fatto male, avrei potuto coprire quelle occhiaie scure che mi circondano gli occhi. Passo una mano tra i capelli e decido di farmi una semplice treccia. Mi sistemo le pieghe invisibili del vestito e esco titubate dalla camera. Tom è sdraiato sul divano e osserva il soffitto come se dovesse svelargli chissà quale arcano mistero. Appena sente il rumore dei tacchi sul pavimento si gira a pancia in giù sul divano e mi sorride. –Sei bellissima…- sussurra guardandomi. Io arrossisco e gioco con la punta della treccia. Forse avrebbe bisogno di una visita dall’oculista. Non sono per niente bella. Ma non ribatto. Dopo tutto, sono contenta che gli piaccia il vestito. Certo, addosso al manichino avrà avuto tutto un altro effetto. Oppure è cieco come una talpa e quindi gli va bene comunque.
Tom si alza e mi prende per mano. Lo guardo stupefatta. Lui se ne accorge e me la lascia. –Scusa. Non ho pensato che potesse darti fastidio…-
Gli riprendo la mano e la stringo sorridendogli appena. Da dove mi esce tutta questa iniziativa? Non lo so, però sentire la sua mano grande e calda che stringe la mia mi piace da morire. Anche se solo per un attimo, mi sembra di sentire una scintilla in fondo alla pancia, una scintilla sicura, calda. Un’altra ancora. È un attimo, ma mi basta.
Tom sorride a sua volta e mi conduce fuori dall’hotel. Ha un’andatura veloce che ieri sera non avevo notato e faccio fatica a stargli dietro, soprattutto con i tacchi, ma lui se ne accorge e mi aspetta, poi chiama un taxi e mi fa salire. Si siede vicino a me e dice un indirizzo all’autista. Il viaggio sarebbe stato anche breve, se non fosse per il traffico newyorkese. Quando arriviamo Tom paga e scende tenendomi la portiera aperta. Non siamo più nel centro di New York, ci siamo allontanati e tutto è calmo. Tom mi prende la mano e mi guida in un piccolo ristorantino. Sorrido. In effetti mi aspettavo che mi portasse in chissà quale ristorante, ma così è molto meglio. Mi sento a mio agio. Discosta appena la sedia e mi fa sedere. Un vero gentil man. Mi passa il menu e inizio a giocare con l’orlo plastificato. –Scegli tu per me.- dico sovrappensiero. Tom sorride e chiama la cameriera. –Due piatti di pasta alla carbonara e due insalate, grazie.- dice porgendo alla donna di mezza età i menù.
Appoggio i gomiti sul tavolo e il viso tra le mani e mi perdo a guardarlo. –Questa mattina pensavo che non so praticamente niente di te…- dico in un sussurro. Non vorrei metterlo in imbarazzo. Infatti si passa le mani tra i capelli e non sa bene da che parte guardare. –Ma se non ti va di parlare fa niente…- dico affrettandomi a concludere. Se non vuole parlare fa niente. Chi meglio di me sa che non è per niente bello parlare del proprio lavoro? di certo non mi aspetto che Tom mi confessi di essere un gigolò, però… magari non gli piace parlarne.
-Sono un attore.- dice tutto d’un fiato. Sorrido.
-Teatro o cinema?-
-Entrambi… cinema da poco, a dire il vero.-
Sorrido ma non faccio in tempo a dire nulla perché arriva la cameriera con i nostri piatti, ci sorride e si allontana. Io guardo la marea di pasta che c’è nel mio piatto e faccio appena una smorfia, non riuscirò mai a finirla tutta! –Tom… vuoi un po’…-
-Assolutamente no! Zitta e mangia!- dice sorridendomi gentilmente. –Devi assolutamente mettere peso, sei troppo magra…- mi dice guardandomi. Io mi guardo a mia volta le braccia. Certo, non sono grossa, e forse non sono neanche nel mio peso ideale, sono più magra del necessario, ma non troppo.
Sorrido e comincio a mangiare lentamente. –Tom… perché sei così gentile con me?- chiedo di punto in bianco senza guardarlo negli occhi. Tom posa lentamente la forchetta e mi guarda. –Non lo so molto bene. Non… non mi piace l’idea che per andare avanti tu debba vendere il tuo corpo. È qualcosa che non posso accettare, soprattutto se io posso aiutarti.-
Inizio a giocare con la pasta nel piatto. –Sai che è stata tutta una coincidenza, vero? Se quell’uomo non mi avesse… aggredita, tu non avresti visto niente e io… non ti avrei mai conosciuto…-
Tom mi guarda sorridendo furbo. –Le coincidenze non esistono. Sono sicuro che… ti dovevo incontrare.- dice riprendendo a mangiare. Lo guardo. Io non ci credo.
-Sono.. sono tanto distante da casa?- chiedo giocando con la forchetta. Tom mi guarda in modo triste. –Perché?- chiede guardandomi.
–Prima o poi dovrò tornarci Tom…- sussurro arrossendo appena.
-No, potresti rimanere da me. Ho posto, hai visto anche tu.-
-Tom, non posso. Meredith mi aspetta. Non dico che sia preoccupata, ma devo tornare.- tornare a casa e tornare al mio lampione. Alla mia vita.
Non dice niente e riprende a mangiare. Quando abbiamo finito, quando Tom ha finito, il mio piatto è rimasto mezzo pieno, la cameriera prende i piatti e porta l’insalata. Mangio un po’ anche di quella, ma lascio quasi tutto nel piatto. E mi dispiace da impazzire, sapere che sto facendo sprecare soldi e tempo a Tom mi… rende triste, mi fa sentire in colpa. Tom si alza e paga. –Ti accompagno a casa.- dice in un sussurro chiamando un taxi.
Mi viene quasi da piangere. Ho rovinato tutto, non so più chi sono.
Mi chiamo Kate. Mi chiamo Kate. Mi chiamo Kate. Mi chiamo Kate. Mi chiamo Kate. Mi chiamo Kate.
Mi ripeto chiudendo gli occhi. La mia ancora. Il mio nome. Lo ripeto fino a quando il taxi non si ferma. Apro appena gli occhi e guardo Tom. –Grazie…- sussurro dandogli un leggero bacio sulla guancia, poi scappo fuori dalla macchina e mi nascondo nei vicoli che tanto conosco.
Appena arrivo a casa, mi tolgo le scarpe, non voglio fare rumore, non voglio che Meredith mi veda vestita così. Chissà cosa penserebbe, o meglio, chissà quante domande mi farebbe. E non voglio risponderle. Anche perché non saprei cosa dirle. Lascio i soldi nel salvadanaio e salgo di corsa le scale. Mi tolgo in fretta il vestito, lo ripiego con cura e lo nascondo in fondo all’armadio, assieme alle scarpe, poi mi faccio una doccia, così che assieme alla stanchezza e al sudore, scenda nello scarico tutto quello che mi è successo negli ultimi giorni. Devo dimenticare tutto. Tom. Tom è il tutto e devo dimenticare lui.
Mi infilo nel letto senza niente e chiudo gli occhi. Questo letto è così diverso da quello di Tom… ma la cosa che mi dà più fastidio è che non ha il suo profumo… un profumo così buono… dolce, ma forte, come lui. Sorrido con gli occhi chiusi. Quanti sogni. Quanti sogni stupidi. Tanto non lo rivedrò mai più. Forse proprio perché non lo rivedrò mai più dovrei cullarmi nei ricordi e avvolgermeli addosso come belle coperte o come un bel caminetto scoppiettante.
Dopo un po’ qualcuno bussa alla porta. Non può che essere Meredith. Entra senza che le dica niente. –Da quanto sei tornata?- mi chiede corrugando le sopracciglia.
-Da un po’… avevo bisogno di fare una doccia e dormire…- sussurro nascondendo il viso sotto le coperte e girandomi di spalle.
-Come mai hai fatto così tardi?-
-Io… mi sono fermata da… un cliente…- sussurro. Non sono per niente brava a mentire. Spero che Meredith non se ne accorga, spero che non indaghi oltre, spero che si chiuda la porta alle spalle e che se ne vada per sempre. Lo spero, lo spero, lo spero.
Meredith alza le spalle e sbuffa appena. –Devi prepararti.- annuisco appena e esce dalla stanza. Appena sento i suoi passi sulle scale, mi alzo e butto lontano le coperte. Dall’armadio prendo una minigonna nera e un top sempre nero e sopra decido di metterci una giacchetta di jeans. Sciolgo i capelli dalla treccia. Non voglio avere niente che mi ricordi Tom, non adesso, non adesso che divento la prostituta di strada. Sospiro e comincio a truccarmi. Quando ho finito mi butto di nuovo sul letto. Forse dovrei davvero scappare… sto per pensarci davvero quando Meredith bussa di nuovo alla porta. No, non sarebbe possibile. Quel toc, toc, toc, mi ricorda che sono ancorata qui. Metto le scarpe e scendo senza neanche salutarla. Lei non capisce. Vorrei che per un giorno facessimo cambio! Un solo giorno! Come si sentirebbe? Violentata? Usata? Sfruttata? Odierebbe il suo corpo come io odio il mio? Si sentirebbe sporca come mi sento io?
La notte, in inverno arriva prima, e prima si accendono i lampioni. Il mio lampione è già acceso, ma il freddo tiene lontane le lucciole, il freddo tiene lontane le api dal miele. Alla mia luce non si ferma nessuno, al mio dolce miele non arriva nessuno.
Mi appoggio meglio al muro e per un attimo chiudo gli occhi. Solo un attimo, per riposarmi. Per dimenticare tutto. Ma qualcosa oscura la mia luce. Apro gli occhi e ci impiego un attimo per visualizzare la figura che si trova davanti a me. Una cosa mi colpisce in particolare. I suoi occhi di diamante. Ma appena lo vedo mi copro il viso. No… non doveva vedermi così… non di nuovo…
Tom mi si avvicina e mi toglie lentamente le mani dal viso. Io tengo ostinata gli occhi chiusi. Non voglio vederlo. Non voglio che mi veda così. Anche lui dovrebbe chiudere gli occhi. Chiudere gli occhi e tornare in dietro, nel suo mondo, al suo cinema. Alla sua vita. Dovrebbe lasciarmi qui. Ma Tom mi accarezza dolcemente il viso come ho fatto io solo il giorno prima e le sue mani sono così dolci, così gentili. Solo accarezzandomi il viso mi sembra che guarisca tutte le mie crepe, le mie imperfezioni. Vorrei che guarisse tutto. Apro lentamente gli occhi e lui è ancora lì. Mi guarda e sorride. Mi posa una mano sulla guancia. Si toglie la giacca e me la sistema sulle spalle, dolcemente.
-Tornerò tutte le volte che sarà necessario…-  dice stringendomi la mano e mi porta via. Di nuovo mi porta via dalla mia ancora, dalla mia luce, ma in fondo, ne vedo brillare un’altra.
 
Come ieri arriviamo all’hotel e Tom mi stringe più forte la mano. Io abbasso lo sguardo e ignoro i flash che mi accecano, accelero il passo per allontanarmi da quelle luci, da tutte quelle domande e voci. Tom ignora tutti e mi porta nella sua suite. Ancora una volta penso a quanta cattiva pubblicità dovrà riportare alla sua immagine tutto questo casino. Per una cosa del genere si potrebbe rovinare una carriera? Se rovinassi la carriera a Tom non me lo perdonerei mai.
-Tom…- sussurro abbassando lo sguardo.
-Non mi interessa cosa comparirà domani sui giornali.- dice lui come leggendomi nel pensiero e mi sorride. Mi accarezza di nuovo la guancia. –Vai a dormire Kate…- sussurra sfiorandomi appena le labbra con il pollice, poi si gira e si sdraia sul divano. Io sospiro appena. –Tom…- dico fermandomi sulla porta.
-Dormo benissimo sul divano Kate, non ti devi preoccupare.- dice facendomi l’occhiolino. Sorrido appena. Sono così prevedibile? Come fa a sapere sempre cosa penso?
Non mi chiudo la porta alle spalle, mi siedo sul letto e indosso la maglietta di Tom. Quanto mi è mancato il suo profumo. Mi abbraccio forte, come se facendo così, potessi abbracciare anche lui. Poi mi sdraio e chiudo gli occhi.
 
Sono scappata. Ho corso. E piove. E ho freddo. I piedini scalzi affondano nelle pozzanghere, la leggera camicia da notte si è appiccicata al corpicino fragile e magro e i capelli incorniciano il viso infantile rigato di lacrime.
Sono scappata. Ho corso. Piove. E ho freddo.
Ma da dove sono scappata faceva caldo. Tutto era rosso e bruciava. E lo so che bruciava. Lo testimoniano le mie mani rosse e ustionate. Io avevo solo provato ad aprire la porta. Ma la maniglia scottava. Scottava tanto. Mi sono messa a piangere. Ma ho subito smesso. Se papà, Tom, mi avesse sentita, mi avrebbe picchiata. O peggio. Il peggio non so cos’è, ma non voglio scoprirlo. Non voglio che mi si avvicini ancora. Quando mi accarezza le sue mani sono ruvide e dure e cattive. Ma io non posso piangere o frignare o lamentarmi. Non posso neanche andare dalla mamma, se no papà, Tom, mi picchia e dopo picchia anche lei. E io piangerei e non voglio piangere.
Sono caduta. Mi sono fatta male. Mi sono bruciata. Le ginocchia hanno cominciato a sanguinare, ma la mamma continua a dirmi di scappare. Ma io non voglio. Non posso lasciarla sola. Sola con papà, Tom.
Appena sono fuori sento qualcosa rompersi e cadere e sopra di me, sopra la mia casa rossa, si alza un urlo. E poi più niente.
Sento qualcosa di bagnato sulla faccia e poi ancora qualcosa e qualcosa ancora. Non so se sono lacrime o pioggia. Spero che sia pioggia. Non voglio più vedere papà, Tom, così arrabbiato. Non voglio più sentirlo urlare.
Poi scappo. Corro. Piove. E ho freddo. Ma le mani bruciano. Ma io corro. Me lo ha detto la mamma.

Devo scappare dall’inferno, da tutto quel caldo. Ma quando passa il caldo fa freddo. E tremo. Cosa è peggio? Caldo o freddo?
Mi rannicchio in un angolo e nascondo il viso tra le ginocchia. Toby non c’è più. È scomparso anche lui tra le fiamme. Tra il rosso. Sono sola. Voglio la mamma! Voglio anche papà-Tom! Voglio qualcuno! Ho freddo… sono sola.
 
Sento qualcuno che mi scuote. Apro gli occhi urlando. Mi tiro le ginocchia al petto e comincio a piangere. Ho perso di nuovo il controllo. Lo perderò sempre. Il lucchetto si romperà sempre. Io sarò sempre sola. Inizio a dondolarmi lentamente avanti e indietro, riprendo fiato. È già successo cento, mille, volte. Devo solo calmarmi. Ma adesso c’è qualcosa di diverso, qualcosa di cui prima non mi ero accorta. Adesso qualcuno mi sta stringendo e cullando contro il suo petto. E riconosco quel profumo. Apro appena gli occhi. Tom è qui, vicino a me, e mi stringe. E mi culla.
-Scusa…- sussurro appoggiando appena la testa sul suo petto.
-Ssh… tranquilla…- sussurra allontanandosi appena per asciugarmi le lacrime. Mi sorride rassicurante. Rimane così, stretto a me per un po’. Quando vede che mi sono tranquillizzata si alza. Ci impiego un attimo, ma gli prendo le mano, o meglio, gli sfioro le dita. –Per favore… rimani qui… solo per questa notte…- sussurro abbassando lo sguardo. Tom non dice niente, ma si infila sotto le coperte e mi stringe dolcemente cullandomi. Chiudo gli occhi stretta nel suo abbraccio e il lucchetto non si rompe.

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Capitolo 6
*** Light’s gone, day’s end ***



Quando ho visto Kate uscire con il vestito addosso mi è sembrata una visione. Troppo bella per essere vera. Forse un po’ troppo magra, ma a quello si può sempre rimediare. E le uniche due parole che riesco a dire sono le più scontate: sei bellissima. E so che non mi ha creduto neanche un secondo. Ma io come posso fare per farglielo capire? Come posso fare per farle provare un po’ più di sicurezza in sé stessa? Un po’ di stima.  Prima di tutto dovrei tenerla lontana da quel vicolo e da quell’aria gelida che di notte le congela il cuore. Potrei farcela. Mi alzo e mi avvicino a lei. Senza pensarci troppo le prendo la mano, ma vedo che si irrigidisce e la lascio subito scusandomi. Chissà cosa sta pensando. Magari le ha fatto affiorare brutti ricordi. Che stupido che sono stato, dovevo aspettare che lo facesse lei, così sarebbe stata pronta. E poi non so neanche da dove mi esce tutta questa iniziativa. Perché le ho preso la mano?
Ma Kate mi sorprende e mi riprende la mano. Sorrido felice e gliela stringo. Non so perché, ma voglio proteggerla, a qualsiasi costo. Non si merita una vita così, potrebbe avere molto di più e voglio aiutarla, mi sento in dovere di aiutarla. Voglio salvarla dall’oscurità che la pervade, raccoglierla dal baratro dove è caduta e aiutarla a scalare il monte della vita.
La conduco sorridente fuori dall’hotel. Sono sicuro che i giornalisti appostati qui fuori non la riconosceranno neanche, magari la prendono per una modella. Non che mi dia fastidio sapere quello che è, quello che alla fine è costretta a fare, ma mi fa ridere vedere quanto è facile ingannare gli umani, in questo caso i giornalisti. Basta cambiarsi i vestiti e pettinarsi in un certo modo e si passa da prostituta di strada a modella. Certe volte siamo proprio stupidi.
Senza pensarci ho aumentato il passo e mi accorgo che Kate non riesce a starmi dietro, così mi fermo e la raggiungo, poi aspetto un taxi, la faccio salire e do all’autista un indirizzo. È un piccolo ristorante italiano, l’ho scelto soprattutto perché mi piace tantissimo la cucina italiana e perché è un po’ fuori mano e i proprietari già mi conoscono. Mi sistemo meglio vicino a Kate, tanto so che il viaggio sarà lungo, appena partiti rimaniamo imbottigliati nel traffico. Dannata City. Proprio non lo sopporto, quasi quasi era meglio prendere la metro, avremmo fatto prima.
Quando arriviamo sono un po’ scocciato, perdere tempo in macchina non mi piace per niente, ma mi basta guardare Kate e praticamente tutto passa. Non voglio farmi vedere da lei arrabbiato o con il broncio. Io sono il meno indicato per farmi vedere così. Lei dovrebbe essere triste, abbattuta, invece sorride e non l’ho mai vista abbattuta. Così la prendo per mano e la conduco dentro al ristorante. Appena entriamo Kate guarda distrattamente il menu e poi mi dice di ordinare anche per lei. Arriva la cameriera che mi saluta gentile e le do le ordinazioni.
Quando la cameriera ci lascia soli Kate appoggia i gomiti sul tavolo e mi guarda. E dice la cosa più ovvia di tutte. Che praticamente non sa niente di me. Mi passo una mano tra i capelli. Ha ragione, però non so come potrebbe prenderla. Sicuramente ha capito che sono una persona relativamente famosa, i paparazzi di solito non inseguono normali… commercialisti o ragionieri. Ma, averne la conferma cambierà il suo modo di comportarsi? Però non è neanche giusto che praticamente non sappia nulla di me. Così glielo dico, tutto d’un fiato, che poi non era neanche così difficile. E Kate la prende anche bene, non sembra scandalizzata o chissà cosa, mi fa un paio di domande e poi riprende a mangiare. Più o meno. Praticamente non mangia niente, giusto un po’ di insalata e qualche forchettata di pasta. E mi dispiace, ma non posso farci niente. Del resto so che chi non è abituato a mangiare fa fatica a mangiare qualcosa in più del solito, quindi non insisto più di tanto.
Kate sta fingendo di mangiare e con lo sguardo basso mi chiede quanto è distante da casa. La guardo. Lo sapevo. Sapevo che me lo avrebbe chiesto. Sapevo che non sarebbe rimasta con me. Tutto quello che ho fatto è inutile. L’ho fatta allontanare per poco dalla sua vita e speravo che colta l’occasione l’avrebbe abbandonata per sempre. Mi sbagliavo. E in più c’è qualcun altro. Meredith. Chi può essere? Che sia la figlia? Possibile che Kate sia già madre? Però… no, se fosse davvero mamma, non avrebbe mai lasciato la figlia a casa da sola, non penso che sarebbe da lei. Ma poi, in fondo, io cosa so di lei? Non dico che non mi fido, ma di lei non so proprio niente. E mi dispiace. Vorrei conoscerla meglio. Mi dà l’idea di una persona davvero bella. Ma non posso neanche legarla e obbligarmi a seguirmi. Finisco di mangiare, facendo il più lentamente possibile, così da poterla osservare e imprimermi nella memoria il suo viso. Poi mi alzo, pago e chiamo un taxi.
Il viaggio non è poi così lungo, ma Kate rimane tutto il tempo a osservare il vuoto. Appena la macchina si ferma la ragazza spalanca la portiera e scende. –Tornerò a prenderti..- sussurro alla sua figura che ogni secondo si fa più lontana e piccola. Chiudo gli occhi e mi lascio andare sul sedile, sussurro l’indirizzo dell’hotel e a quanto pare il taxista lo sente perché mette in moto e poco dopo si ferma sotto all’hotel. Apro il portafoglio, prendo una banconota e scendo prima che possa darmi il resto. Sbatto la portiera e salgo nella suite. Butto il cellulare sul divano e subito dopo si mette a squillare. Mi butto sul divano prendendo il telefono, sperando che sia Kate. Solo dopo mi ricordo che la ragazza non ha il mio numero di telefono e che quindi non può essere lei. Infatti è George. Sbuffo e lascio squillare il cellulare. Mi chiudo in bagno e mi faccio una doccia bollente. Quando esco sul bagno c’è una pesante cappa di vapore e lo specchio è appannato, riesco solo a vedere la mia figura sfuocata. Sbuffo e mi butto sul letto. Sul cuscino sento il profumo di Kate. Chiudo gli occhi. Cosa mi è successo? Perché sto facendo così? Sì, insomma, è strano ma mi sono affezionato a Kate, so che è passato poco più di un giorno, ma mi ci sono affezionato. Tutto qui. E voglio aiutarla. Ultimamente… non so, non mi piacciono gli eventi mondani e mi sento bene solo sul set di qualche film, ma non posso starci in eterno, e in più in questi giorni non ho niente. Mi sento vuoto. Possibile che, in mezzo ai tanti personaggi che interpreto, ho perso il vero Tom? Possibile che  dietro Loki, Francis, al Capitano James Nicholls e tanti altri si sia nascosto Thomas Hiddleston e che non voglia più uscire? Però quando c’è Kate non mi sento né Loki né Francis né il  Capitano James Nicholls né nessun altro. Con lei mi sento il vecchio Tom.
È per questo che voglio aiutarla? Mi chiedo passandomi le mani tra i capelli. Non lo so. Ormai non so più niente.
Sento il cellulare che continua a squillare, ma ammettiamolo, non voglio rispondere per niente a George e non ho neanche voglia di alzarmi dal letto. È già un sforzo sovraumano allungare il braccio e prendere il telecomando sul comodino. Ho intenzione di tornare da Kate, non la lascerò lì fuori, al freddo, da sola, con sconosciuti che vogliono solo il suo corpo, con sconosciuti che non sanno neppure il suo nome.
Il tempo passa lentamente, ma passa. Quando vedo il tramonto colorare il cielo di New York, mi alzo e mi vesto. Controllo un attimo il cellulare. Dieci chiamate e cinque messaggi. George ha smesso da un po’ di chiamarmi, probabilmente ha capito che non volevo rispondergli. Decido di lasciare il cellulare sul divano, tanto non mi serve. Scendo lentamente le scale e esco dall’hotel. Vedo un gruppo di turisti e mi ci infilo dentro, confondendomi e per un po’ mi allontano da loro, così che i paparazzi appostati fuori dall’albergo non mi vedano, e poi, appena posso, mi dirigo a una fermata della metro. Ormai il percorso lo so a memoria e, quando scendo, percorro le strade senza pensarci. E a un certo punto… eccola. La luce del lampione la illumina, gli occhi chiusi, le mani sulle spalle. Si sta mordendo delicatamente il labbro. Sorrido senza neanche accorgermene. Mi avvicino e quando le sono vicino apre gli occhi e sorride per un secondo, poi li richiude, si stringe in sé stessa e si porta le mani al viso. La guardo un attimo senza capire. Perché questa reazione? Le tolgo gentilmente le mani e la guardo. È così bella.. delicata… i lineamenti quasi infantili. Non ha ancora aperto gli occhi e io non ci riesco, non resisto, le accarezzo dolcemente il viso con la punta delle dita, titubante, insicuro della sua reazione. Ma lei apre gli occhi e sono belli come il primo giorno. Appoggio una mano sulla sua guancia e le sorrido. Poi mi tolgo la giacca e gliela appoggio sulle spalle premuroso. Tornerò tutte le volte che sarà necessario… dico stringendola forte.
 
Quando arriviamo all’hotel veniamo accecati dai flash, sento Kate irrigidirsi, so che è a disagio, le stringo la mano per infonderle un po’ di.. coraggio?, non so se è quello di cui ha bisogno. Forse ne ho bisogno io. La porto via da tutte quelle luci . Quando arriviamo nella suite la rassicuro. Non mi interessa niente dei giornali. Certo, un po’ mi dà fastidio, non posso neanche uscire con chi voglio io e compaio sulle riviste di gossip. Non è giusto, questo.
Sorrido a Kate, sembra quasi che le legga nella mente e questa intesa mi piace. Mi sdraio sul divano e dalla porta aperta intravedo Kate che indossa la mia maglietta e sorrido, non la vedo molto bene, ma penso che stia ancora meglio che con il vestito che le ho regalato.
E con la sua immagine impressa sugli occhi, mi addormento.
 
Mi sveglio di soprassalto sentendo delle urla. La mia mente si perde ancora mezza addormentata, mi alzo e cerco di capire da dove arrivano le urla. Poi riesco a individuarne la fonte. Kate. Kate sta urlando. Mi precipito nella camera. Kate si sta muovendo, urla, ed è tutta sudata, trema. E io non so cosa fare. Mi inginocchio davanti al letto e la scuoto piano chiamandola per nome, ma non  funziona. Mi siedo sul letto e mi porto Kate sulle gambe e la stringo e la cullo. Kate apre gli occhi e li richiude subito e ricomincia a piangere ancora più forte. Non so cosa fare, continuo a cullarla stringendola. Cosa ha sognato? Era solo un incubo? O un ricordo? E se era un ricordo, un ricordo di cosa? Di altri uomini che la sfruttavano, che… non riesco neanche a pensarci. Nessuno dovrebbe svegliarsi urlando e piangendo. Nessuno. E chissà quante volte si è dovuta svegliare così Kate. Non deve. Mai più. Non posso permettere, pensare, che si svegli ancor così. Devo fare qualcosa.
A un certo punto Kate apre gli occhi e sembra vedermi per la prima volta. E mi chiede scusa. Perché mi chiede sempre scusa? Mi allontano un attimo e le asciugo gli occhi e le sorrido rassicurante, poi la stringo e la cullo. Quando vedo che si è calmata mi alzo e faccio per tornare in soggiorno. Non so come l’abbia presa, magari adesso che si è calmata vuole stare da sola, preferisce non avermi per i piedi. Ma Kate mi sfiora le dita della mano e mi chiede di restare. E io ne sono immensamente felice, insomma, vuol dire che… mi vuole vicino a lei, che mi si sta avvicinando, che magari si farà aiutare. Che magari si allontanerà per sempre dal suo lampione.
Mi infilo sotto le coperte e la stringo cullandola piano fino a quando non sento il suo respiro regolare e capisco che si è addormentata. La guardo ancora per un po’ e poi mi addormento anche io, stringendola.
 
Mi sveglio quando un raggio di luce entra dalla finestra. E questo è strano, mi sembrava che le tende fossero tirate, come fa la luce del sole a entrare? Apro gli occhi e mi ritrovo vicino il viso di Kate. Sorrido. È così bella. Le tracce del brutto sogno della notte scorsa sono completamente scomparse dal suo viso. Poi sento qualcuno schiarirsi la voce. Non qualcuno, George. Mi tiro a sedere e mi stiracchio. –Perché diavolo sei qui?- chiedo sbadigliando.
George mi guarda alzando un sopracciglio e mi butta addosso delle riviste patinate dove, in prima pagina, ci sono delle foto di me e Kate sotto all’hotel, una anche sotto al suo lampione. Una di me nella macchina della polizia. Sbuffo. –Buttale via ‘ste riviste.- dico buttandole sotto al letto, appena in tempo, visto che Kate sbadiglia e apre gli occhi, mi sorride, ma smette subito appena vede George, non si copre. Perché alla fine indossa la mia maglia e non ha niente di cui vergognarsi, ma mi guarda interrogativa.
-E quindi è lei?- chiede George alzando un sopracciglio e guardando Kate minuziosamente.
-George, lei è Kate, Kate, lui è George, il mio… agente…- dico alzandomi dal letto. –Non so neanche come ha fatto a entrare…- dico mettendomi una maglietta a caso. –Ho chiesto la chiave alla reception.- interviene George. –Certo… la chiave. Ma un po’ di privacy non esiste?-
-Non mi rispondevi! Ti ho chiamato quante? Cinquanta volte? E ti ho lasciato altrettanti messaggi. Ero.. preoccupato…- dice guardando male Kate, come se la causa della sua preoccupazione fosse proprio lei.
-Beh.. cosa devo dire? Non avevo niente da dire. E adesso che hai visto che sto bene puoi anche andartene.- dico sdraiandomi nuovamente sul letto.
-Come vuoi. Ma… ti servono contanti per caso?- chiede guardando appena Kate. Io non colgo subito, ma lei a quanto pare sì, perché abbassa lo sguardo e gioca nervosamente con il lenzuolo.
Mi alzo infuriato. –Vattene George. Subito.- dico spingendolo via dalla camera e poi fuori dalla suite. Dannazione! Se ha rovinato tutti i miei passi avanti con Kate.. giuro… giuro che lo licenzio! Penso passandomi una mano tra i capelli.
Torno in camera e Kate è già in piedi che prende i suoi vestiti. Ecco. Lo sapevo. Ha anche gli occhi lucidi. Le vado in contro e le tolgo i vestiti di mano. –Kate… ti prego… George è un deficiente. Non devi stare ad ascoltarlo. Ti prego, dimentica quello che ha detto e… andiamo a fare colazione e poi anche a fare un giro. Per favore…-  dico sistemandole una ciocca di capelli dietro all’orecchio.
Kate si allontana appena da me. –Tom.. no, George ha ragione. Io… dovrei lasciarti stare. Ho già visto cosa ha comportato alla tua immagine.- dice indicando una rivista che ha recuperato da sotto il letto.
-Kate, non me ne frega assolutamente di quelle stupide riviste. Io voglio aiutarti!-
-Allora lasciami tornare alla mia vita.- dice in un sussurro prendendomi i vestiti dalle mani. –E… e se vuoi approfittare della mia presenza…qui e adesso… va bene…- sussurra togliendosi la mia maglia e rimanendo in slip e reggiseno.
Io la guardo senza vederla. Quello che ha detto.. quello che ha detto mi ferisce profondamente. Non ho mai voluto approfittare di lei, non ho mai fatto niente per far anche solo pensare di voler approfittare di lei. Mai. Niente.
–E’… è questo quello che vuoi? È questo quello che pensi che io voglia?- chiedo prendendole il viso e guardandola negli occhi. –Dimmi che è questo quello che vuoi, e lo farò...ma io non ho fatto tutto questo solo per portarti a letto. L’ho fatto perché volevo offrirti qualcos’altro. Volevo solo darti la possibilità di avere un’altra vita. Ma dimmi che tutto quello che vuoi è questo…- sussurro passandole una mano sulla schiena avvicinandola a me. –e ti lascerò in pace…-
Kate non mi guarda negli occhi, sfugge dal mio sguardo, si morde il labbro. –Dimmelo…- sussurro vicino al suo orecchio.  –Dimmelo…-
Kate cade in ginocchio e scoppia a piangere. –No, no, no, no. No!- sussurra tra un singhiozzo e l’altro. Io sospiro appena senza farmi vedere e mi inginocchio accanto a lei. Prendo una coperta e la avvolgo e la stringo. –Kate…rimani qui con me. Ti aiuterò. Non dovrai mai più vivere per strada, guadagnarti da vivere tra cento uomini, da sola, al buoi e al freddo. Rimani qui e ti aiuterò. Non ti chiedo altro se non di lasciarti aiutare. Per favore…- sussurro asciugandole le lacrime. Lei mi guarda e si morde un labbro. –Scusa per quello che ho detto. S-so che tu non hai mai voluto…-
-Kate, fa niente.- sussurro sorridendole appena. No, non è niente, ma almeno adesso ho capito che lo ha fatto solo per cercare di convincermi a farla andare via. E sapere che sa che non ho voluto mai approfittare di lei, mi fa stare molto meglio.
La faccio alzare gentilmente. –Vestiti, va bene? Io ti preparo qualcosa.- dico sorridendole. Vado in cucina e preparo due cioccolate calde. Quando sono pronte insieme alle tazze prendo anche un pacchetto di biscotti e torno in camera. Kate è seduta sul letto e indossa di nuovo la mia maglietta. Quando mi vede si porta le ginocchia al petto e distoglie appena lo sguardo. È ancora imbarazzata.
Mi siedo anche io sul letto attento a non rovesciare né i biscotti né la cioccolata, poi passo una tazza a Kate. Lei comincia a berne a piccoli sorsi, io non resisto e la bevo in pochissimo tempo ustionandomi la gola. Cosa ci posso fare, sono goloso. Mi sdraio sul letto e chiudo gli occhi aspettando che Kate finisca o che dica qualcosa. Ma anche il silenzio va bene, perché non è il solito silenzio di quando sono da solo. Kate non è andata via, non ancora, è rimasta e sta bevendo la cioccolata e mangiando qualche biscotto. Lei è qui. E se è qui non è per strada. E se è qui è al sicuro, dagli uomini, dal freddo, dagli incubi, dal dolore, dai flash. Sento che Kate appoggia la tazza sul comodino e si sdraia dall’altra parte del letto. Socchiudo appena un occhio per guardarla.
-Sì.- sussurra a un certo punto. Ed è un sussurro così basso che penso di non averlo sentito, che sia solo frutto della mia immaginazione.
-Cosa?- chiedo tirandomi su a sedere.
Kate distoglie lo sguardo, si mette a osservare qualcosa di lontano e invisibile fuori dalla finestra. –Sì.- risponde appena più forte, ma comunque più decisa.
Sorrido e allungo una mano per sfiorarle il viso. –Grazie.- lei appoggia il viso sulla mia mano, ma non si gira. –Tom… sono io che devo ringraziare te, non il contrario. Sono io che ti devo ringraziare per non avermi mandato a quel paese dopo quello che ti ho detto prima. Io che ti devo ringraziare per avermi salvato l’altra notte. Io che ti devo ringraziare per avermi allontanato da…tutto quello che era prima. Io ti devo ringraziare.- sussurra girandosi appena. –Grazie.- dice con le lacrime agli occhi. –Ma io non potrò mai ricambiare tutto quello che stai facendo per me, lo sai? Io…non avrò mai soldi a sufficienza per ridarti tutto quello che mi stai dando, ne parole, ne gesti. Niente.-
-Non fa niente. Un tuo sorriso vale più di tutti i soldi o le parole. Voglio solo vederti felice. Non voglio più vederti piangere.- dico accarezzandole la guancia.
Kate mi guarda e cerca di sorridere. E anche se forse non è il sorriso più autentico di tutti, anche se lo fa solo perché gliel’ho chiesto, anche se ha le lacrime agli angoli degli occhi, è il sorriso più bello che ho mai visto. È il sorriso di chi ha appena cominciato a lottare per lasciarsi il passato alle spalle. Ed è un sorriso bellissimo.
Sorrido anche io e mi ributto sul letto. –Allora…prima di tutto dobbiamo andare a casa tua a prendere le tue cose e poi andiamo a fare shopping.- dico guardandola.
Kate si morde il labbro e ci pensa un attimo, poi sorride e annuisce. Si alza, prende le sue cose e si veste. Mi alzo anche io, prendo dei vestiti a caso dall’armadio e mi vesto. Guardando l’armadio per vedere se ci staranno anche i suoi vestiti, mi rendo conto che non ho tenuto conto di una cosa. Siamo in una stanza di albergo. Questa non è la mia casa. La mia casa è a Londra, non a New York. E presto dovrò tornare lì. E Kate? Non ho nessun problema a ospitarla a casa mia, ma lei vorrà venire. Dopo tutto, New York è sempre la sua casa, vorrà abbandonarla per un perfetto sconosciuto? Mi passo le mani tra i capelli. Glielo dovrei dire. Ma quando? Adesso? No. Adesso è meglio di no. Mi ha appena detto che vuole rimanere, se glielo dicessi probabilmente cambierebbe idea. Aspetterò qualche giorno. E dopo la convincerò a venire con me a Londra. Non posso lasciarla. Non adesso che si è decisa a farsi aiutare.
Sento la sua mano posarsi sulla spalla e sobbalzo. Non mi ero accorta che si fosse avvicinata –Tutto ok?- chiede aggrottando le sopracciglia. Io sorrido e annuisco. Le prendo la mano. –Andiamo.- dico prendendo il cellulare e chiamo un taxi. Aspetto qualche minuto e, quando penso che il taxi sia giù di sotto ad aspettarci, esco tirandomi dietro Kate. Appena le porte dell’hotel ci si chiudono alle spalle veniamo abbagliati dai flash. Faccio salire Kate e mi siedo accanto a lei. Kate dice l’indirizzo all’autista e partiamo.
Poco dopo arriviamo a una casetta su due piani, malandata, con il giardino incolto e giallo. Kate si guarda attentamente intorno e poi corre su per le scale. Io chiedo all’autista di aspettarci e la seguo guardandomi attorno. Dentro la casa è confortevole, non bellissima, ma accogliente. Mi torna in mente il nome che mi ha detto ieri Kate. Meredith. Chi sarà? Guardo una foto appesa al muro. Ritrae Kate con una donna più grande di lei, bassa, il viso da elfo, i capelli corti. Che sia questa Meredith? Ma allora cos’è, sua madre? E se è così, come può una madre permettere che sua figlia faccia quel lavoro. Che lo faccia anche lei?
Non riesco a elaborare altre teorie perché Kate mi chiama. Quando la raggiungo è in una cameretta piccolissima, il letto è in un angolo, tutto è in ordine. C’è un piccolo armadio, una scarpiera e un tavolino. Niente di più. E Kate sta già sistemando sul letto quello da portare via, e non è tanto. Vedo anche il vestito che le ho regalato e lo indico. –Mettilo, stai benissimo con quello.- dico sorridendole. Kate arrossisce e prende il vestito accuratamente piegato sul letto. Si toglie quello nero e lo indossa, io distolgo lo sguardo e mi guardo in giro. Quando mi chiama di nuovo ha indossato il vestito che le sta benissimo e mi chiede se posso aiutarla a prendere i pochi vestiti che ha deciso di portarsi. Mettiamo tutto in una borsa e usciamo dalla casa. Quando ci chiudiamo la porta alle spalle, mi sembra che Kate sia più leggera. Ha portato con sé solo un paio di vestiti non troppo succinti, qualche paio di scarpe e i trucchi, e tutto il resto lo ha lasciato nel passato. E di questo ne sono felice. Si sta lasciando tutto alle spalle. Si sta preparando per cominciare una nuova vita. E sono felice di farne parte e di aiutarla.

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Capitolo 7
*** And hoping for a better life ***


Mi sveglio sapendo di non essere più a quella che ho sempre chiamato casa. E mi sveglio sapendo che accanto a me c'è qualcuno, ma non ricordo chi. Sento il tepore accogliente del letto e mi rigiro tra le coperte, ma non c'è più nessuno. Eppure ero convinta di non essere da sola. Con chi ho dormito? Poi ricordo. Tom. Tom e il sogno. Riuscirò mai a controllarmi? Oppure la scatola continuerà ad aprirsi? Spero di no. Magari dovrei andare in terapia. Appena mi troverò un lavoro giusto e guadagnerò un po' di soldi, ne comincerò una, magari potrà aiutarmi. Ma mentre sono presa da tutti i miei pensieri, sento due voci di uomo. Due? Non ricordo di essere andata a dormire con due uomini. Quindi c'è un uomo di troppo. Chi sarà mai? La voce non l'ho mai sentita. Forse dovrei aprire gli occhi e vedere chi è. Magari è tutto solo un sogno e Tom non esiste. Magari mi sono portata qualche cliente a casa e mi sono sognata tutto. Se è così me ne andrò. Devo andare, non posso continuare così. Quando apro gli occhi, però, mi ritrovo nella suite. Non era un sogno. Sospiro sollevata. Sento che Tom lancia qualcosa sotto al letto e mi appunto mentalmente di andare a vedere cosa. Poi mi guardo in giro e vedo un uomo sulla trentina, biondo, occhi azzurri, alto e pallido, niente di che, ma a quanto pare lui mi trova interessante perchè continua a guardarmi minuziosamente. Mi sento una formica al microscopio, però non abbasso lo sguardo. Non ho niente di cui vergognarmi. Non ho fatto niente. O meglio, ho fatto molte cose, ma non ho nessun motivo per vergognarmene. Non sono state mie scelte e sono state dettate solo dallo spirito di sopravvivenza.

Scopro che l'uomo misterioso si chiama George ed è l'agente di Tom. Ecco scoperto il perchè dell'attenta analisi. Chissà cosa pensa che sia. Magari una specie di “Pretty Woman” mancata, oppure una sottospecie di vedova nera. Forse anche lei al posto di George, l'avrebbe guardata allo stesso modo. E infatti, poco dopo chiede a Tom se ha bisogno di contanti. Lui non coglie subito, ma io sì. Abbasso lo sguardo imbarazzata e gioco con l'orlo della maglietta. Alla fine si riduce tutto a questo. Al sesso e hai soldi. Sarebbe così assurdo pensare che quell'attore, quell'uomo, volesse solo aiutarmi? Così.. fuori di testa? E perchè? Perchè non lo ha mai fatto nessuno? Forse. Ma se io non ho mai incontrato nessuno così, non è detto che non esistano persone del genere. Sarebbe così assurdo che proprio io, Kate, abbia trovato una persona così? O sono destinata a essere sempre e solo usata? Forse, se esiste un dio, ha voluto solo questo per me. Non trovare mai la pace e donare piacere agli altri senza mai riceverne. Forse è così. Sarebbe così facile, limpido, forse anche giusto. Sì, sarebbe giusto. Intanto anche Tom ha capito l'allusione e spinge fuori George inferocito. Io ne approfitto per prendere quello che aveva messo sotto il letto e scopro che sono delle riviste di gossip. Sono diverse. Su una c'è Tom che sale su una macchina della polizia e accanto un titolo a caratteri cubitali: “Tom Hiddleston arrestato!” su un un'altra ancora ci siamo noi due fermi davanti all'hotel, io con il mio vestito corto e nero, il trucco sbavato e i capelli al vento. “La nuova compagnia di Tom arriva dai quartieri poveri di New York!” e altri titoli così. Alcune riviste avevano specificato anche la sua “professione” e si chiedevano cosa fosse successo alla più grande stella nascente del cinema. Scossi la testa e presi i miei vestiti dalla sedia. Sto rovinando completamente l'immagine della persona che ha provato a salvarmi. Non posso farglielo. Chissà quanto ci ha impiegato ad arrivare al punto dove è adesso, e chissà cosa gli riserva ancora il destino. Migliore stella nascente. Già, doveva essere proprio bravo. Mi piacerebbe vedere come recita. Magari la prima cosa che faccio con i soldi che guadagnerò sarà affittare un dvd con Tom Hiddleston. Chissà che film ha girato. Mi piacerebbe saperlo. Lo scoprirò. Magari guarderò su Wikipedia, insomma, mi inventerò qualcosa, ma adesso devo andare via il prima possibile. Forse un po' mi mancherà. Penso con gli occhi appena lucidi. Insomma, è la prima persona che è stata rispettosa e gentile e dolce nei miei confronti, la prima persona che mi ha aiutato. Ma non voglio rovinargli la vita. Non se lo merita.

Appena Tom entra mi toglie i vestiti dalle mani e cerca di convincermi a rimanere. Cosa che non farò. Anche se ho passato poco tempo con lui, Tom mi ha aiutato profondamente. Probabilmente senza di lui sarei ancora al lampione ad aspettare qualcuno. Quindi, per salvarlo devo andarmene. Gli indico anche le riviste per convincerlo. Devo andarmene, non c'è altro modo.

E non ho nient'altro da offrire a Tom se non il mio corpo. Forse se lo merita ed è tutto quello che posso dargli, anche se forse non gli interesserà. La stella nascente del cinema avrà attrici e modelle che gli muoiono ai piedi, come potrebbe volere una prostituta che nel Bronx viene considerata di serie A? Come potrebbe? O forse sono io che ne ho bisogno? Sono io che mi sono abituata così tanto a svendere il mio corpo, a donarlo ad altri, che mi sembra quasi innaturale non farlo? Oppure sono io che, prima di andare via, desidero avere un ricordo più personale e profondo di Tom?

Lui rimane un attimo in silenzio, quasi ferito. Poi dice delle cose... che per me sono bellissime e devo mordermi il labbro per non scoppiare a piangere. Tom mi posa una mano sulla schiena e mi spinge verso di s, e tutto quello che riesco a pensare, tutto quello che mi viene in mente, è che la sua mano è morbidissima e calda e sembra sciogliermi dal freddo che mi circonda. Non riesco a fare a meno di pensare che quello sia il suo posto. Mi chiede se è quello che voglio e mi dice di dirglielo con una voce talmente dolce, ma rabbiosa e dura allo stesso tempo, e io mi perdo in quelle parole. Cado in ginocchio e scoppio a piangere. No, no, no, no! Non è quello che voglio! Assolutamente no. Ma sì. Da lui lo vorrei, forse. Con lui sarebbe diverso, forse. Ma non è giusto neanche così. Chissà cosa sta pensando Tom, chissà se gli farebbe piacere o gli farebbe schifo. Chissà. Intanto mi avvolge in una coperta calda. Mi chiede di restare e di farmi aiutare. Come posso dirgli di no? So che è la risposta sbagliata, so di essere egoista, so che la risposta giusta sarebbe no. Ma non riesco a dirlo. Gli chiedo scusa per quello che ho detto prima. Però “no” non lo dico. E chi tace acconsente. E io sto acconsentendo a rovinargli la vita e la reputazione e tutto quello che si è costruito faticosamente. Mi dice di vestirmi e esce. Io indosso di nuovo la maglietta e mi siedo sul letto. Quando torna ha due tazze di cioccolata in mano e si siede sul letto. È un po' buffo vedere mentre cerca di non rovesciare ne i biscotti ne le tazze. Me ne passa una e si sdraia sul letto. Io comincio a berne a piccoli sorsi. Era da tanto che non bevevo la cioccolata. Non me la ricordavo così buona. Vorrei impiegarci di meno, ma in un batter d'occhio la tazza diventa vuota, così l'appoggio sul comodino e mi sdraio dalla parte opposta del letto.

So che devo dirlo. Ma non farlo! Stai firmando la condanna a morte della sua reputazione! Non dirlo, non dirlo, non dirlo! -Sì...- sussurro infine. Tom si alza a sedere e mi chiede di ripetere. Io lo ridico con un morso in gola. Sì. Sì, ti sto rovinando. Sì, sono egoista. Sì, sei dolce, gentile e premuroso. Sì, mi dispiace. Sì, resto. Tom sorrise e mi accarezza la guancia e mi ringrazia. Oh, no, Tom Hiddleston, sono io che ti devo ringraziare. Tu mi hai salvato. Tu mi hai difeso. Tu mi hai aiutato. Io non ho fatto proprio niente, io ti sto rovinando la vita.

Mi chiedo come faccia a sorprendermi con le parole ogni volta che apre bocca. Come può un mio sorriso, un sorriso che non vale niente da una persona che non vale niente, ricambiarlo per tutto quello che mi sta facendo? Come può accontentarsi di un brutto, falso, imbarazzato sorriso? Ma un sorriso posso farlo, un sorriso glielo posso donare con tutto il cuore. E lo faccio, o almeno cerco di farlo. Non so quanto bene sia uscito, io non sono un'attrice, non so fingere, ma lui sembra contento, e questo mi riempie il cuore di felicità. Sono riuscita a farlo felice, almeno un po'.

Tom dice che prima di tutto dobbiamo passare da casa e mi viene il magone solo a pensarci. Casa. La abbandonerò per sempre. Mai più Meredith, mai più notti alla luce del lampione. Mi sto lasciando tutto alle spalle. Non tornerò mai più indietro. Questa è la fine di tutto. E l'inizio di qualcos'altro. Chissà cosa potrei fare. Magari potrei andare a scuola. Chissà come sarebbe. Chissà come sarei. Cambierò? O sarò sempre la stessa? Quante domande. Ma è meglio fare una cosa alla volta. Prima di tutto devo chiudere questo capitolo. E per chiuderlo devo andare a casa e scrivere la parola “fine” a tutto quello che era prima. Tutto quello che è il passato. D'ora in avanti sarà tutto diverso. O almeno, cercherò di renderlo diverso. Non voglio mai più ricadere in questo baratro. Perchè, una volta sono stata fortunata, ho incontrato Tom, ma non voglio tentare troppo la fortuna e vedere se ci sarà qualcun altro ad aiutarmi. Prendo i vestiti ed esco a vestirmi. Quando rientro, Tom è fermo che guarda l'armadio. Mi chiedo quale grande mistero nasconda. Mi avvicino a lui e gli poso una mano sulla spalla. Lui sobbalza un attimo ma poi mi sorride. Prende il cellulare e chiama un taxi. Aspettiamo un po' nella suite e poi scendiamo. Appena usciamo dall'hotel i flash ci abbagliano, una decina di persone si buttano su di noi e centinaia di domande ci piovono addosso. Ma fortunatamente il taxi ci aspetta e riusciamo a salire. Dico l'indirizzo all'autista e partiamo. Poco dopo arriviamo. Chiudo gli occhi e prendo un grosso respiro, mi gonfio i polmoni prima di entrare, prima di immergermi in quello che d'ora in poi sarà classificato come “passato”. Tutto questo non ci sarà più, tutto questo non mi riguarderà mai più. Prendo coraggio ed esco dal taxi. Mi catapulto in camera mia, prima che il coraggio e la sicurezza si dissolvano e non rimanga altro che confusione. Rimango ferma per un po' davanti alla porta e la consapevolezza di star abbandonando tutto mi travolge. Non entrerò mai più in quella stanza. Non vedrò mai più Meredith. Mai. Più. E non posso che essere felice, mi tolgo un peso dal cuore. Entro nella stanza sorridendo. Nuova vita, nuovo inizio. Decido di portare solo qualche vestito, qualche paio di scarpe e i trucchi. Chiamo Tom per farmi aiutare e lui mi suggerisce di indossare il vestito che mi ha preso. Io arrossisco ma lo indosso comunque. Mi sento diversa, nuova. Ed è un bene. E mi va bene così. Richiamo Tom e gli do alcune cose, poi, prima di uscire per sempre dalla camera, prendo un pezzo di carta e scrivo “fine” a lettere grandi e lo appendo sulla porta. Addio Meredith. Addio passato. Addio.

Scendo le scale sorridendo e faccio per chiudere la porta. Ma poi cambio idea. Torno indietro, vado al salvadanaio in ingresso e prendo tutti i soldi che mi sono duramente guadagnata. Non si sa mai che possano tornarmi utili.

Salgo sul taxi sorridendo a Tom. Devo tutto a lui e non so come ricambiare. Ma in questo momento non voglio pensarci, in questo momento non è importante. Ho tutta una nuova vita per pensarci, tutte le notti e prima o poi troverò qualcosa. Spero prima che poi, ma ci riuscirò, adesso ho tutto il tempo che voglio.

Tom dice all'autista un indirizzo e mezz'ora dopo siamo imbottigliati nel traffico di New York. Dopo quarantacinque minuti buoni, finalmente ne usciamo,il taxi accosta, ci fa scendere e Tom paga. E mi dispiace tantissimo. Faccio pagare sempre tutto a lui. Non sono tantissimi, ma un po' di soldi li ho anche io. Decido che lo porterò fuori a cena. Magari non sarà un ristorante a cinque stelle, ma cercherò qualcosa di vicino a quello a cui è abituato. Posso farcela. Intanto Tom mi sorrise felice e mi trascina per la strada.

-Se vedi qualcosa che ti piace dimmelo!- dice sorridendomi. Io mi guardo attorno spaesata. Santi numi! Dolce&Gabbana, Coco Chanel, Cavalli, Valentino, Gucci, Boss, Bulgari, Prada, Vuitton, Versace, Moschino! Io questi nomi li ho sempre e solo letti sulle riviste patinate! In più, con i soldi che ho in mano, non potrei comprarmi neanche il tacco di una scarpa! Tiro un attimo la manica di Tom e lui si ferma. -Tom... davvero, grazie, so che devo rifarmi il guardaroba, ma... possiamo andare anche al supermercato, non mi va di farti spendere un capitale per un vestito, davvero.-

-Sai quanto guadagno Kate?- scuoto la testa. -Ecco, fai bene a non saperlo. E sono da solo. E i soldi sono miei quindi li spendo come voglio.-

Incrocio le braccia al petto. -Come vuoi, hai ragione. Però, visto che i soldi sono tuoi, comprami tu i vestiti che ti piacciono.- Tom mi guarda un attimo. -Io di solito non scelgo neanche i miei vestiti, a momenti...- dice passandosi una mano tra i capelli.

Sorrido intenerita. -Bene, allora è il momento di cominciare. La prima volta sei andato bene.- dico facendogli l'occhiolino. Lui sorrise, mi prende per mano e mi trascina in un negozio, mi spinge tra le file e file di vestiti, prendo un cartellino e lo rimetto subito giù. Meglio non vedere quanto potrebbe spendere. È una cifra esorbitante. Vedo che Tom confabula con la commessa e cerco di sentire, ma parlano troppo a voce bassa. Poi comincia a girare e a prendere vestiti quasi a caso. Almeno, penso a caso. Poi si ferma, chiede qualcosa alla ragazza, che lo ascolta con occhi adoranti, e ricomincia. Vedo che tutte le altre donne che ci sono si sono fermate a guardare Tom, per poi passare a me e fare avanti e indietro come se stessero seguendo una partita di tennis. Di certo hanno riconosciuto la “stella nascente del cinema”, probabilmente si chiedono se io sono la prostituta. Cerco di fregarmene e passo una mano tra i vestiti. Quando Tom torna ha le braccia cariche di vestiti e me li passa tutti, e mi mette sopra anche le scarpe e gli accessori. Io lo guardo sgranando gli occhi, anche se non so se mi vede sotto tutta quella montagna di roba. Ma è forse impazzito? E io tutta quella roba quando dovrei metterla? Avanti, non scherziamo! Un vestito di quelli potrebbe durarmi anni e anni, non me ne servono.. cinquanta! -Tom...! Ma quante cose hai preso? Devo provarle tutte?-

-Ah-ah, mi hai lasciato carta bianca. Quindi, adesso, ti adatti. Il camerino è di là.- dice indicando da qualche parte che non riesco a vedere. Probabilmente lo capisce e mi accompagna. Così mi ritrovo in questo camerino enorme con un mucchio di vestiti. Li appoggio cautamente per terra e ne prendo uno a caso. È blu elettrico, ha lo scollo a cuore e si lega dietro al collo, ricorda molto gli scolli anni venti, o giù di lì. La gonna, invece, scende larga. Provo tutto senza guardarmi allo specchio. Però cerco di leggere il prezzo, che però è coperto da un bigliettino. Ecco svelato di cosa Tom parlava alla commessa. Guardo anche gli altri vestiti. Niente, tutti i prezzi sono coperti. Sospiro. Non ci posso fare niente. Esco esitante dal camerino. Tom è seduto su una poltroncina e si guarda attorno, ma appena vede la porta del mio camerino aprirsi, gira la testa di scatto e mi guarda. E sorride soddisfatto. -Sei bellissima!- esclama trionfante. -Dai... gira...- dice alzandosi e facendomi girare. La gonna si gonfia appena e Tom ride facendomi girare più velocemente. E rido anche io e mi sento leggera. Chiudo gli occhi e mi sembra di sognare. -Dai, prova anche queste scarpe!- dice passandomi delle decolete alte su cui barcollo un po'. Poi la commessa gli porta anche una collana corta fatta da grosse maglie e Tom mi mette anche quella. -Sei meravigliosa...- sussurra sorridendo come un bambino. Io abbasso lo sguardo imbarazzata. Nessuno me lo aveva mai detto in quel modo, con quel tono di voce, con quella dolcezza, con quel sentimento. Con quella verità. E non mi guardo allo specchio, ma mi sento la ragazza più bella del mondo. Tom si schiarisce la voce. -Dai, fammi vedere il prossimo.- dice sorridendo.

Entro in camerino, mi tolgo tutto e lo do alla commessa che è entrata. Chiudo gli occhi e pesco un altro vestito. È un semplicissimo tubino nero, corto, molto aderente, con poco scollo. Esco sporgendo appena la testa e lui ride. -Dai...! Esci!-

Esco tintinnante. Tom mi porta delle scarpe a punta, non troppo alte, nere e color pelle, e mi aiuta a metterle. -Si dice che un tubino non può mai mancare nell'armadio di una donna...- dice facendomi fare un giro. -E ti sta benissimo. Dai, dai, il prossimo!- rido e rientro.

Non so quanti abiti, gonne, maglie, pantaloni, scarpe, cappotti, giacche provo, ma sono tantissime. Tom è molto giusto. Quando qualcosa non mi sta bene, me lo dice, e penso che sia una cosa molto giusta. Obiettiva. Dopo che ho provato l'ultimo vestito mi rivesto e quando esco dal camerino ha già pagato tutto, e penso che vada benissimo così. Non voglio sapere quanto ha speso per quel mucchio di roba. Certo, mi sono divertita tantissimo a provarli e vedere Tom ridere e fare lo stupido, dolcemente, ma.. ha comprato quasi tutto e mi dispiace avergli fatto spendere così tanto. Quando arrivo alla cassa mi sorridere. -Portiamo tutto in albergo?- chiede prendendomi la mano. Annuisco e sorrido. Mi troverò un lavoro e gli prenderò qualcosa di bello anche io. È una promessa che mi faccio, glielo devo. Usciamo dal negozio e fermiamo un taxi, l'autista ci aiuta a far entrare tutte le buste in macchina e poi partiamo.

-Tom.. voglio portarti fuori a cena. Ti va?- lui si gira meravigliato, ma dura solo per pochi istanti, poi sorride e annuisce. -Certo che voglio! Così puoi mettere uno dei vestiti che abbiamo comprato!-esclama felice.

Torniamo in hotel felici e non ci curiamo neanche dei paparazzi che, a quanto pare, hanno trasferito la loro casa lì, visto che sono sempre appostati davanti all'ingresso. Quando arriviamo nella suite Tom mi aiuta a sistemare i miei vestiti e poi va in cucina. Ma lo fermo prima che possa fare un passo in più e lo spingo sul letto. -Cucino io oggi!- dico ridendo. Tom ride ma rimane sdraiato sul letto.

Non sono bravissima a cucinare, o meglio, non so cucinare molto, ma voglio provarci. E la riserva di Tom non mi aiuta comunque molto. Ha pochissimo. Altro che vestiti, dovremmo andare a fare la spesa! Scuoto appena la testa e metto su l'acqua per la pasta. Ho deciso che farò la pasta al forno, me l'ha insegnata Meredith, è il suo piatto preferito e io voglio dargli un altro ricordo. Non più il piatto preferito di Meredith, ma il piatto del nuovo inizio grazia a Tom. E poi non è difficile da fare. Intanto che la pasta cuoce preparo la tavola per bene. Metto sulla penisola le tovagliette blu, le posate e i tovaglioli bianchi. Ci sono anche i calici di quello che deve essere cristallo, ma non voglio esagerare, quindi metto in tavola dei semplici bicchieri. Poi mi dedico a preparare la pasta al forno. Alla fine non so come è uscita, ma quando chiamo Tom e si siede a tavola sembra abbastanza contento, quindi vuol dire che non deve essere uscita così male. E ne sono molto contenta. Poi, siccome io ho cucinato, dice che lui deve fare la cucina, ma lo aiuto comunque. Non è di certo un pranzo che lo riparerà di tutto quello che sta facendo a me.

Quando abbiamo finito di sistemare tutto , ci sediamo sul divano e guardiamo un po' di televisione e in un batter d'occhio si fa pomeriggio,. È incredibile come passano le ore quando sto con Tom. Sembra tutto più facile, più vero. Vorrei che il tempo si fermasse. Non ho mai desiderato tanto in vita mia. Vorrei rimanere per sempre su questo divano, vicina a lui, vicino alle sua parole che mi sciolgono il cuore, vicino alla sua protezione. Vicino alla stella del cinema che per me è solo Tom.

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