Andrà tutto bene

di ManuFury
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte Prima ***
Capitolo 2: *** Parte Seconda ***
Capitolo 3: *** Parte Terza ***
Capitolo 4: *** Parte Quarta ***



Capitolo 1
*** Parte Prima ***


[Questa storia ha vinto il Premio Speciale: "Petali di lacrime" al Contest omonimo indetto da DarkElf13, per la storia più commovente]

[Il Professor Emil Radislav Timofeev ha vinto l'Oscar come MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONSITA al Contest: "Oscars EFPiani 2015" indetto da Frandra & Co] 

[Questa storia si è classificata Settima al Contest: "Shock Me Now!" indetto da LoLLy_DeAdGirL e ha vinto il Premio Speciale "Shock", per la storia più shocccante]

[Questa storia si è classificata Quarta al Contest: "Cento giorni di introspezione, fantasia e romanticismo" indetto da WhatHadHappened e ha vinto il Premio Speciale: "Miglior storia Introspettiva"]  
 



PARTE PRIMA: Vivo in una gabbia di palazzi, di quelli senza fiori sui terrazzi
 
 
Tiro un forte calcio a un vecchio barattolo di fagioli con l’etichetta ormai tutta strappata; me lo trascino dietro da un po’, ma almeno così sto in compagnia. Il barattolo schizza in avanti, colpendo con forza il duro marciapiede, che lo deforma rendendolo più simile a un pezzo di mollica masticato e sputato piuttosto che a una latta.
Lo guardo, abbandonato contro il freddo cemento, accartocciato su se stesso come un foglio di carta.
Sospiro, mi somiglia così tanto…
Mi avvicino e lo tasto con la punta della scarpa slacciata, combattuto se portarlo fino a casa o lasciarlo lì. Dopo pochi secondi decido di abbandonarlo al suo destino come un cucciolo divenuto troppo grande e troppo impegnativo.
Lo supero con una vena di tristezza, ma ricordo che l’ultima volta che ho portato a casa qualcosa di rumoroso per giocare nel cortile, era una nacchera mezza rotta trovata nella spazzatura; avevo iniziato a giocare da nemmeno dieci minuti che la signora Larissa, che abita di fronte a noi, è uscita come una furia di casa, sbattendo la porta e mi ha sgridato per il troppo chiasso. Poi mi ha guardato, con gli occhi verdi che le si facevano grandi e le rughe sul viso che si distendevano lentamente; mi ha chiesto scusa per i suoi modi bruschi ed è tornata a chiudersi in casa.
Forse dovrei tornarci anch’io, a casa.
Alzo gli occhi al cielo sereno e azzurro chiaro, è ancora presto, mamma sicuramente lavora.
M’infilo le mani in tasca e con le dita trovo subito un piccolo buco all’interno di una di esse.
Mi avvio, sperando di avere fortuna e scoprire che mamma ha già finito, così potrebbe prepararmi la merenda come faceva un tempo e magari potremmo sederci assieme al tavolino della cucina, a parlare del più e del meno… come una volta.
Sorrido amaramente a questo pensiero che mi sembra tanto una favola di quelle che lei mi raccontava quando ero piccolo. Abbasso il viso a nascondere le lacrime che mi fanno brillare gli occhi come stelle. Non sono certo di sapere esattamente il significato della parola “amaramente”, ma l’ho sentita pronunciare diverse volte e sempre con quel pizzico di malinconia che mi fa pensare che sia una parola “triste”. Al contrario della parola “puttana”, sento pronunciare spesso anche quella, ma tutti la dicono ridendo quando parlano con mamma, quindi penso che sia una bella parola.
Chissà se anche papà la usava con lei quando stavano ancora assieme.
Sento una lacrima scendere da un occhio senza che possa fare niente per trattenerla. Me la pulisco con la manica della maglietta, in un gesto rabbioso mentre svolto l’angolo.
I bambini come me non devono piangere… mai.
 
~°°~
 
Spingo il vecchio portone a fatica, quello cigola piano mentre si apre, mi ricorda tanto il borbottare di un anziano. Davanti a me scorgo un misero cortile quadrato, dove l’erba cresce in ciuffi stentati e giallastri, tra la ghiaia grossa che ricopre il terreno. A destra, chiuso da un recinto, c’è un minuscolo orto, quello della signora Larissa. Un paio di volte ho tentato di intrufolarmi per scoprire cosa aveva piantato, ma l’anziana mi ha sgridato con voce così acuta e rabbiosa che non ho mai più tentato. A sinistra, buttati l’uno sopra l’altro, alcuni vecchi secchi di metallo, sopra i quali, pigro come un grosso serpente giallo, si arrotola una gomma d’acqua che l’anziana usa per bagnare il suo orticello.
Avanzo fino a trovarmi al centro del cortile, mi guardo attorno, piroettando sul posto: solo mura di palazzi, di quelli alti e con poche finestre e senza colori, se non il grigio del cemento e il giallo dell’erba malata. Questo posto, alle volte, mi sembra tanto una prigione.
La porta di casa è a pochi passi da me, proprio di fronte al portone ancora socchiuso, penso che siano fatti entrambi con lo stesso legno, questo perché tutti e due sono in condizioni pessime, rovinati dal troppo uso e dal clima. Ho proposto alla mamma di comprarmi delle tempere così che potessi colorare la porta, ma lei si dimentica di prendermele tutte le volte oppure svia il discorso dicendo che abbiamo pochi soldi. Ma se avessi quelle tempere, colorerei la porta di blu e ci disegnerei sopra tante stelle. Le stelle mi piacciono tanto.
Ci sono cinque scalini di pietra a separarmi dalla soglia di casa, faccio scorrere come sempre la mano lungo il corrimano mangiato dal tempo e salgo. Ricordo ancora ogni caduta da questi scalini alti e storti, quando avevo cinque anni, mi sono quasi rotto il naso; ma adesso che ne ho quasi dieci ormai li faccio a occhi chiusi.
Non arrivo al terzo scalino che la porta si spalanca, andando a sbattere con fragore contro al muro. Un uomo corpulento esce, tiene un sigaro consumato tra le labbra in parte nascoste dalla folta barba, se fosse bianca, potrei quasi scambiarlo per Babbo Natale. Scende le scale borbottando e quando mi vede, il suo sguardo scuro s’incendia.
“Via di mezzo, figlio di puttana!” Sbotta senza motivo, dandomi uno spintone così forte che la schiena urta contro il corrimano, un basso lamento di dolore mi lascia le labbra. L’uomo mi sorpassa, lasciandosi alle spalle un cattivo odore che mi fa arricciare il naso in una smorfia di disgusto, mi ricorda l’odore della medicina della mamma.
Lo guardo allontanarsi con sollievo ed entro in casa massaggiandomi una spalla, ma sorridendo, se quell’uomo sta uscendo di casa sicuramente mamma ha finito di lavorare.
Fortuna che sono abituato alle delusioni, altrimenti ancora ci resterei male a trovarla abbracciata a una persona, entrambi sdraiati sul divano del salotto, vestiti suoi e dell’uomo sono sparsi un po’ ovunque come isolati fiori colorati. Lui mi pare vecchio, abbastanza vecchio, quasi completamente calvo e con il respiro grosso come se avesse corso fino ad adesso.
Resto lì, in piedi, con gli occhi sbarrati e incollati sui loro corpi nudi e sudati, mentre si scambiano baci e carezze, mentre si muovono in gesti pigri.
Forse non dovrei guardare, so che ad alcuni degli amici di mamma non piace; uno di loro, una volta mi ha perfino tirato uno schiaffo dicendo di “farmi i cazzi miei”.
Quest’uomo, però, non l’ho mai visto a casa nostra, magari è una brava persona, anzi, il suo viso, per quel poco che riesco a intravedere, mi trasmette in qualche modo una certa simpatia.
Li vedo muoversi, gesti lenti, i corpi che si sfregano e le labbra di mia madre che si spalancano in un lamento basso e di gola, simile a quello che mi sono lasciato sfuggire io prima. Le sta facendo male, come hanno fatto male a me, devo fare qualcosa!
“Mamma?” La chiamo piano, per assicurarmi che stia bene.
L’uomo alza di scatto la testa e si volta verso di me, guardandomi sconvolto come se avesse visto uno strano animale; non riesco a vedergli gli occhi, indossa degli occhiali molto spessi e ha il viso sudato. Mamma, al contrario, resta sdraiata sul divano, stirando le braccia e passandosi le dita tra i boccoli rossi come il suo viso, questo mi fa preoccupare, forse ha la febbre.
“Tesoro.” Sussurra con voce strana e con il fiatone.
“Non mi avevi detto di avere un figlio!” Sbotta l’uomo, voltandosi verso di lei arrabbiato, ho paura che voglia picchiarla, come ogni tanto succede.
Mi fiondo in avanti e lo afferro per un braccio con entrambe le mani.
“No! Non farle male, per favore!” Imploro con gli occhi lucidi, non sempre funziona, ma non è questo il caso: l’uomo mi sorride dolce e rassicurante come non mi è mai capitato, mi scompiglia dolcemente i capelli con una mano, liberandosi dalla mia debole presa.
“Tranquillo, non le faccio niente, promesso.” Mormora.
“Andrà tutto bene, tesoro. Ora, esci, che mamma deve finire di lavorare.” Sorride a sua volta mamma, ha gli occhi scuri lucidi come la pelle, noto anche che ha una polverina bianca attorno alle narici che sembra borotalco e un liquido biancastro e quasi trasparente che le scende da un lato della bocca, mi sembra latte.
Guardo lei, guardo lui. Poi, lentamente, mi allontano.
Prima regola: mai disturbare mamma quando lavora…
 
~°°~
 
Siedo sugli scalini di casa, il viso abbassato e gli occhi fissi sulla punta delle scarpe consumate: un tempo erano verdi, il mio colore preferito, ma ora sembrano quasi grigie; sono sporche di terriccio, dovrei pulirle visto che sono le uniche scarpe che ho, ma in questo momento non ne ho voglia.
La porta alle mie spalle si apre e poi si richiude. Sento dei passi, poi, inaspettatamente, qualcuno si siede vicino a me: è l’uomo che prima stava con mamma, quello gentile che non ci ha picchiato.
Mi sorride.
“Ehi giovanotto. – Fa una pausa, guardandosi le mani. – Ascolta, mi… mi dispiace per quello che è successo… prima.” Balbetta, mi ricorda la mamma quando beve la sua medicina, “vodka” mi pare che si chiami così.
“E per cosa?” Chiedo ingenuamente, non capisco quale sia il suo problema.
“Beh… per prima.” Ripete in imbarazzo, vedo le sue guance colorarsi per un attimo di rosso.
“Non credo di capire. Non hai picchiato né me né la mamma e non hai rubato in casa come qualche volta succede. Non c’è niente per cui tu debba chiedere scusa, no?” Questa volta sono io a sorridergli per rassicurarlo. L’ho detto che era una brava persona. Mamma dice che ho sempre avuto il dono di capire le persone così a pelle: riesco a distinguere le persone buone da quelle cattive.
Lui anche sorride, forse veramente sollevato dalle mie parole.
“Com’è che ti chiami, campione? Io sono Emil. Professor Emil R. Timofeev.” Mi tende la mano: è grossa ma liscia, non la mano di un lavoratore piena di calli. Con quel gesto noto anche che non porta nessun anello al dito.
“Tesoro.” Rispondo solo, alzando le spalle, non dovrei dargli confidenza, mamma me lo dice sempre di non parlare con gli uomini che frequentano casa, però… lui mi pare così diverso. E intendo un “diverso” in senso positivo.
“Tesoro? Ma non è un nome vero.” Alza un sopracciglio in un’espressione buffa che mi fa quasi ridere.
“Beh, è così che mamma mi chiama. Sempre. Da quando ho memoria. – Lo guardo un attimo, il suo viso, la sua mano senza anello. – Sei una persona molto sola, vero?” Cerco di usare un certo tatto nel porre quella domanda, non a tutti piace parlarne.
Emil alza di nuovo un sopracciglio, in quell’espressione divertente.
“Perché me lo chiedi?”
“Tutti gli uomini che vengono da mamma sono persone sole, che non hanno nessuno che li aspetta a casa. Mamma fa loro compagnia.” Sorrido. Lui scrolla le spalle e si tormenta le mani, mi sembra indeciso come un bimbo che non sa scegliere con quale giocattolo divertirsi, io non ho di questi problemi, ne ho solo cinque e li adoro tutti.
“In effetti, non ho famiglia. Ho solo il mio lavoro. – Confessa dopo qualche istante, sorridendo amaramente e solo ora, a vederlo, credo di comprendere bene il significato di questa parola. – E tu, invece? Hai qualche amico?”
Scuoto la testa.
“Io ho solo la mamma e nessun altro, papà se n’è andato quando non ero ancora nato. C’è la signora Larissa che abita qui di fronte. – Indico la finestra dalla quale sbircia ogni tanto. – Ma di solito non ci parliamo, si limita a sgridarmi per qualsiasi cosa. Ogni tanto viene una collega di mamma a casa, ha un figlio anche lei, però è molto più piccolo di me. Che lavoro fai?” La curiosità è un mio grande difetto o almeno così dice sempre la mamma.
“Astronomo. – La mia espressione si fa stupita. Astroche? Lui pare accorgersene, sorride. – Studio le stelle. Ho passato la mia vita a osservarle, a cercare di capirle, a catalogarle e non ho mai pensato di farmi una famiglia.”
“A me piacciono le stelle.” Confesso a mia volta, sorridendogli. Lui mi guarda e mi sorride, con quel suo sorriso caldo che non mi hanno quasi mai rivolto. Adesso che è vicino riesco a vedere i suoi occhi oltre le lenti spesse degli occhiali: sono azzurri, proprio come i miei.
“Guarda. – Alza un dito, oltre la gabbia di palazzi che ci circonda e lo punta verso lo spicchio di cielo che possiamo scorgere. L’azzurro si è scurito fino a diventare un blu ancora sbiadito, sul quale, però, brillano come tanti diamanti un sacco di stelle. Mi piacciono, ma non ho mai alzato il naso per guardarle, mi hanno sempre detto di restare con i piedi a terra. – Vuoi che ti parli di loro, campione?” Mi propone Emil, come se non aspettasse altro che potermi chiedere quella cosa.
“Oh, sì, sì, sì, sì!” Lo prego, con gli occhi già grandi e pieni di meraviglia.
Emil ridacchia di gusto e inizia a parlare. Mi racconta storie fantastiche, miti e leggende, mi spiega come riconoscere una stella da un’altra, come trovare il nord. E mi confessa che ci sono tante stelle non ancora scoperte, che non hanno un nome vero. Questa rivelazione mi fa pensare: se anche le stelle non hanno un nome, sono un po’ come me, solitarie e lontane, che brillano come i miei occhi quando piango.
Lo dice anche lui, sostiene che quelle sono stelle speciali che proteggono come guardiane i bambini soli, impedendo che accada loro qualcosa di male. Sono affascinato da questa scoperta e scruto il cielo alla ricerca di una stella solitaria, la mia stella solitaria. Ce ne sono talmente tante che non sono certo di saperla riconoscere, ma sono certo che è quella che brilla più di tutte.
Il tempo vola così come la mia fantasia, inseguendo le storie fantastiche che Emil mi racconta e per un attimo mi sembra quasi di vivere in uno di questi racconti e non vorrei uscirne mai; ma come ogni favola anche questa ha una fine.
L’uomo si alza, dicendomi che è tardi e che deve andare. Mi scompiglia di nuovo affettuosamente i capelli e si avvia.
Lo guardo allontanarsi e già mi sento perso: non ho mai conosciuto nessuno come lui, la maggior parte degli uomini che vengono a casa non mi calcolano, i più mi spintonano via, lui è stato uno dei pochi che mi ha rivolto la parola, che ha scherzato con me, che mi ha tenuto compagnia, come mamma fa con quei signori.
È stato l’unico che mi ha raccontato delle stelle.
Mi alzo di scatto e porto le mani a coppa attorno alla bocca, per amplificare la voce visto che Emil è già quasi al portone.
“Emil! – Lo chiamo e lui si volta verso di me. – Tornerai a trovarmi?”
“Certo!” Mi risponde, portandosi a sua volta le mani alla bocca e sorridendomi.
Sorrido anch’io e aspetto di vederlo sparire oltre al portone prima di entrare in casa.
Fortuna che sono abituato alle delusioni…
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Sono sbarcata anche sul Genere Drammatico, perché mi sembrava il più adatto per la storia che ho deciso di trattare, in caso contrario, fatemelo sapere, mi raccomando. ^^’’
Beh, che posso dire?
È stato un parto creare questa Mini – Long, eppure sono fiera di averlo fatto; secondo me tratta di argomenti che non vengono sufficientemente conosciuti dalla masse, ma che restano nel dimenticatoio.
Il bambino qui descritto compare, da adulto, in altre mie storie. Lo stile può sembrare un po' noioso e ripetitivo per il semplice fatto che un bambino di nemmeno dieci anni non ha un vocabolario vasto come il nostro e quindi per lui può risultare normale dire sempre le stesse parole, ripetere sempre gli stessi termini.
I titoletti delle parti sono presi dalla canzone: “Fino in Fondo” degli Articolo 31, che vi consiglio caldamente di ascoltare perché è S-T-U-P-E-N-D-A!
Oltre a questo, la storia partecipa a diversi Contest e Challenge, giusto per non farsi mancare niente! XD
  • Partecipa al Contest: “Petali di lacrime!” indetto da DarkElf13 (3° Classificata)
  • Partecipa al Contest: “Why are you telling me lies” indetto da Xxthe recklessxX e giudicato poi da gufetta1989 (1° CLASSIFICATA!)
  • Partecipa al Contest: “Lacrime.” indetto da Syria_ e giudicato poi da _juliet (8° Classificata a pari merito con Starem) 
  • Partecipa al Contest: "My beloved one" indetto originarialmente da DallasEfp e poi autogestito da noi partecipanti
  • Partecipa al Contest: "Child!characters Contest" indetto da gnarly (4° Classificata)
  • E per ultimo, ma non meno importante… Partecipa alla Challenge: “La sfida dei duecento prompt” indetta da msp17 con il prompt 126) Stelle.
 
Fatto, ho detto tutto e ringraziato tutti, se avete tempo e voglia, donate l’8% del vostro tempo per commentare, mi fareste felice! ^_^
Grazie mille e ci vediamo tra qualche giorno, per il prossimo capitolo! ;)
A presto,
ByeBye
 
ManuFury! ^_^

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Capitolo 2
*** Parte Seconda ***







PARTE SECONDA: Vivo in una favola tragica, dove Papà è un orco.
 
 
Mangio lentamente un biscotto mezzo bruciato leggendo la pagina di un giornale dimenticato su una panchina, l’ho trovato mentre facevo una passeggiata al parco e ho deciso di portarlo fino a casa.
Non so leggere benissimo, ma ho le conoscenze di base per sapere comprendere il cirillico, mamma mi ha insegnato qualcosa, ma nemmeno lei ha mai frequentato la scuola per imparare davvero a leggere e scrivere.
In testa alla pagina, in grande e in grassetto c’è scritto: “Necrologi”.
Da piccolo chiesi alla mamma che significava e scoprii che i necrologi servivano per presentare una persona che ormai era volata in cielo, una sorta di lettera di presentazione così che, anche chi non lo conoscesse, potesse capire che genere di uomo o donna fosse. Penso che sia una cosa bella conoscere qualcuno, anche se questa persona non c’è più. È un bel modo per ricordarla.
Ci sono molti anziani su questa pagina e anche un bambino della mia età: “incidente d’auto” recita una parte della sua lettera di presentazione, mi spiace molto che sia volato in cielo, ma magari lassù sarà lo stesso felice, forse è circondato dalle stelle che mi piacciono tanto.
Passo in rassegna le altre persone, masticando lentamente il mio biscotto: il sapore di bruciato si fa sentire e rovina il gusto di cioccolato, mi fa deglutire abbastanza spesso, ma cerco di apprezzare lo stesso, la mamma si è impegnata tanto per sfornare questi biscotti e voglio dimostrarle che li ho apprezzati.
Sento il portone in fondo al cortile aprirsi e poi chiudersi con un tonfo. Dei passi sulla ghiaia poi un’ombra si proietta su di me, facendomi alzare il viso: davanti a me c’è un uomo, abbastanza alto e anche un po’ grasso, ha una pancia abbondante, non come le foto di mamma quando mi aspettava, però è abbastanza grosso anche lui. Indossa vestiti leggeri e ha i capelli unti e scuri, tutti tirati da un lato, sono così lucidi che sembra che un cane gli abbia leccato la testa.
Mi sorride, con un sorriso che mi fa gelare il sangue senza motivo e mi fa stringere le mani attorno ai fogli di giornale appoggiati alle mie ginocchia. C’è qualcosa di brutto anche nel suo sguardo, il modo in cui mi guarda che mi fa paura: ha gli occhi piccoli e lucenti, sembrano quelli di uno scarafaggio, anche se non sono certo che gli scarafaggi abbiano gli occhi visto che fuggono sempre quando accendo la luce della cucina e non si fanno catturare mai.
Mi alzo lentamente, per farlo passare e lui procede senza una parola, ma guardandomi ancora attentamente.
Con i brividi lungo la schiena mi risiedo sulle scale, aprendo di nuovo il giornale e cercando di buttare giù il boccone che mi è rimasto bloccato in gola, me la sento così asciutta che provo il disperato bisogno di bere, ma se qualcuno è entrato in casa, io devo stare assolutamente fuori.
Deglutisco a fatica dopo qualche istante e porto gli occhi alle lettere delle persone morte. Uno in particolare attira la mia attenzione: c’è una foto in bianco e nero di un signore con gli occhiali e la testa ormai quasi calva, sorride, ma il suo sorriso è vuoto. Sotto la fotografia sono riportate poche parole: “Professor Emil Radislav Timofeev, 45 anni. Noto astrologo, ha dedicato la sua vita alle stelle, autore di molti saggi e di libri universitari; è stato stroncando da un infarto nel suo osservatorio alla periferia di Mosca.
Infarto
È una parola nuova. Ho sentito qualche volta anche quella, ma non sono certo di sapere che significhi, dopo chiederò alla mamma; ora mi limito a guardare la foto di quest’uomo che è stato gentile con me, che mi raccontava delle stelle e che non verrà mai più a trovarmi.
Peccato, avrei voluto sentire altre belle storie sulle stelle.
 
~°°~
 
Entro timidamente nella mia camera, guardandomi attorno confuso e un po’ spaventato. Mamma non mi fa mai entrare in casa quando ci sono degli uomini, dice che è meglio per me se sto fuori, perché loro devono parlare di “cose da grandi”.
Eppure, questa volta, è stata lei a chiamarmi, sorridendomi con gli occhi lucidi e quella polverina biancastra attorno alle narici. Mi ha preso per un braccio, invitandomi a entrare in casa, portandomi poi in cucina per mettermi a posto i capelli scompigliati e la maglietta.
“Vai in camera tua, tesoro.” Mi ha detto subito dopo, sorridendomi a tal punto da scoprire tutti i denti, mi ha fatto paura, mamma non aveva mai sorriso in quel modo.
Seguito a breve distanza da lei, mi sono avviato in camera, aprendo la porta socchiusa con una mano: questo è sempre stato un ambiente solido e famigliare per me, riconosco il profilo dei miei pochi mobili scheggiati recuperati in qualche mercatino di oggetti usati, il mio letto con le coperte sfatte, i miei pochi giochi appoggiati lì sopra, le pareti solide e nude. Nonostante tutte queste figure famigliari, questa stanza, adesso, mi trasmette una sorta di disagio; anche perché quando sono uscito nel pomeriggio, le tende erano aperte.
Avanzo di qualche passo e sento un brivido gelido scorrermi lungo la schiena. Con gli occhi frugo nel buio come faccio di solito nel mio baule, alla ricerca di un gioco o di una vecchia fotografia.
E in quel momento lo vedo.
È lo stesso uomo con gli occhi come quelli di uno scarafaggio e il sorriso marcio, non perché abbia i denti guasti, ma semplicemente perché sento che è marcio dentro.
Il cuore si ferma e gli occhi si spalancano alla sua vista: perché è nella mia camera? Cosa vuole? Perché non è sdraiato sul letto o sul divano con mamma?
Provo a indietreggiare di un passo, ma la schiena si appoggia al corpo di mia madre, lei mi blocca, impedendomi ogni possibile fuga.
“Mamma.” La chiamo in un lamento sottile, alzando gli occhi impauriti su di lei.
Mamma mi guarda, con quell’espressione un po’ assente che ha sempre dopo aver preso le sue medicine. Si china verso di me e mi posa le mani sulle spalle, da questa distanza, sento l’odore del suo alito: talmente dolciastro e forte da farmi arricciare il naso.
“Shh. Tesoro, stai tranquillo. Lui è Papà.” Inizia. Con la coda nell’occhio guardo l’uomo: non mi ricordo com’era mio padre, ma non sono certo che questo signore sia lui.
“Ma non mi avevi sempre detto che papà era biondo e con gli occhi azzurri come me?” Questa volta singhiozzo per questa paura forte e potente che sento sprigionarsi nel petto, facendomi battere forte forte il cuore.
Una lacrima mi scende lenta da un occhio. È una lacrima di paura, le so riconoscere perché sono sempre più calde di quelle di tristezza o dolore.
Mamma la pulisce con il pollice, ridacchiando appena.
“No, tesoro, non hai capito. Il nome di questo signore è Papà ed è così che devi chiamarlo, intesi? So perfettamente che il tuo di papà era come te. Con gli occhi azzurri azzurri e questi bei capelli biondi. – Mentre lo dice, me li accarezza, risistemandoli. – Sai, lui mi ha dato tanti soldi per passare qualche ora da solo con te.”
Un sussulto fa tremare il mio petto nello stesso momento in cui un singhiozzo lascia di nuovo le mie labbra. Serro i pugni lungo i fianchi, irrigidendo le spalle e mordendomi poi il labbro inferiore. Più lacrime lasciano i miei occhi lucidi.
“Ma io non voglio… mi fa paura.” Sussurro così piano che stento a sentire le mie stesse parole, adesso il corpo intero trema e il terrore più puro si fa largo da angoli nascosti del mio io. L’indice della mamma si posa delicato sulla mia bocca, a zittirmi dolcemente, esattamente come faceva quando ero più piccolo e facevo domande; anche allora mi metteva un dito sulle labbra e mi diceva: “No, sono cose da grandi queste e tu sei troppo piccolo.
“Shhh… tesoro, non fare così. Mi ha dato davvero tanti tanti tanti soldi, così poi posso comprarti tutto quello che vuoi, no?” Sorride, come se il suo ragionamento fosse inattaccabile.
Scuoto la testa, preferisco mille volte non avere niente che dover vedere un’altra volta quest’uomo che mi spaventa. Provo a superare il corpo della mamma, ma questo mi blocca la strada, appoggia di nuovo le mani sulle mie spalle tremanti e mi fa fare un mezzo giro, mi ritrovo così faccia a faccia con quell’uomo dal sorriso marcio. Tremo a vederlo.
Quando ero piccolo, avevo paura del buio e dell’Uomo Nero, avevo il terrore che potesse emergere dalle tenebre, afferrarmi per un braccio e portarmi chissà dove. Mamma mi aveva consolato dicendomi che l’Uomo Nero non esisteva, che era frutto della mia fantasia.
Mentiva… perché la persona che ho davanti è l’Uomo Nero.
Con una spintarella alla schiena, vengo obbligato a fare un paio di passi avanti, verso Papà.
“Andrà tutto bene, tesoro.” Sento le parole di mamma all’orecchio, poi il suo viso si allontana e la porta si chiude.
Mi volto di scatto e corro alla porta, afferrando la maniglia disperatamente, cercando di abbassarla, ma senza successo. Avverto il rumore che fa la serratura quando scatta e capisco che la porta è stata chiusa a chiave.
Inizio a prenderla a pugni, con il cuore in gola e le lacrime che mi bagnano le guance.
“Mamma! Ti prego, apri! Apri! Non lasciarmi qui! Ti prego!” Imploro contro la porta, la voce rotta dal pianto che si sta facendo sempre più forte e disperato. Martello la porta di pugni, la colpisco persino con un calcio pur di aprirla, ma questa non cede.
È un attimo, sento le mani dell’uomo posarsi sulle mie spalle, sono enormi, tanto che le sue dita mi arrivano al petto, prendendo ad accarezzarlo in movimenti lenti e circolari. Tremo, singhiozzando.
Il suo respiro mi sfiora il collo, le sue labbra un orecchio.
“Andrà tutto bene.” Mi dice.
No, non è vero…
 
 
***
 
HOLISSIMA! ^_^
 
Visto che una volta tanto sono stata puntuale? Sono o non sono brava? XD
Bando alla ciance e passiamo a cose serie… tipo chiedervi se vi è piaciuto questo capitolo, ammetto che qui il rating
Arancione si tinge leggermente di Rosso, ma spero che non me ne vogliate, in fondo non sono scesa nei dettagli, anche se penso che abbiate tutti intuito…
Lo so che è una cosa tragica, ma le “
Tematiche Delicate” non sono messe lì a caso. u_u
Poi… che altro volevo dire?
Beh, avete ascoltato la canzone che ti ho dato nel primo capitolo, vero? è_______é
E poi… niente, quello che ho scritto prima vale anche per questo capitolo, la partecipazione ai Contest e tutto il resto.
Cambia solo la Challenge: “La sfida dei duecento prompt” indetta da msp17 visto che, questa volta, il prompt è 132) Terrore.
Che altro devo dire?
Basta direi… semplicemente mi farebbe piacere sapere che ne pensate e sappiate che siete quasi alla fine, ancora due capitoletti! ;)
A presto e ricordate di donarmi l’8% del vostro tempo, mi fareste felice! XD
Alla prossima,
ByeBye
 
ManuFury! ^_^

 

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Capitolo 3
*** Parte Terza ***



 
PARTE TERZA: Lividi che lasciano furia e umiliazione, i vicini sentono, ma alzano il volume della televisione.
 
 
Mi stringo convulsamente su me stesso, come un riccio ferito alla pancia, anche se il dolore che provo non è lì, è più in basso, tra le gambe.
Non sono certo di sapere cosa quell’uomo mi ha fatto, ma so che ha fatto qualcosa di sbagliato e che mi ha fatto male.
Singhiozzo a tratti, con il fiato corto e le lacrime che mi vanno in gola, quasi annegandomi per quante sono. Mi fa male anche quella, visto quando ho urlato, o almeno, visto quanto ho provato a urlare mentre una mano di Papà mi tappava la bocca; fortuna che piango, le lacrime raffreddano il bruciore che sento.
Sento freddo e mi fa male tutto: gli occhi gonfi e rossi di pianto, la gola sforzata troppo, le braccia, la pancia, le gambe.
Tutto!
Ma almeno quell’uomo non è più nella mia stanza, se n’è andato da qualche minuto, ringraziandomi e lanciandomi uno di quei suoi sorrisi marci e disgustosi. E ha aggiunto, prima di uscire dalla mia camera, che sarebbe tornato da me, perché: “sono proprio un bravo bambino.
Mi stringo le gambe al petto a questo pensiero, affondando nelle ginocchia il viso, cercando di nasconderlo il più possibile, soffrendo per quello che mi è stato fatto.
Piango e tremo.
Tremo e piango.
Non riesco a fare altro per diversi minuti.
Poi, con uno sforzo immane, mi costringo ad alzarmi almeno a sedere. Altre fitte, altro dolore lungo la schiena e il corpo, un urlo strozzato mi sale dalla gola, facendola bruciare di nuovo. Mi porto in fretta una mano alle labbra, cercando di trattenere al massimo i miei lamenti, “perché i bravi bambini non si lamentano, stanno buoni e zitti” come dice sempre mamma.
Singhiozzo e sento altre lacrime gelide scorrere sulla pelle.
Riesco ad alzarmi dopo un tempo che mi pare infinito e, appena lo faccio, sento qualcosa di bagnato scivolarmi lungo le gambe, facendomi rabbrividire.
È parte di quell’uomo, lo so.
Questa consapevolezza mi fa contorcere lo stomaco in una morsa dolorosa e non passano una manciata di secondi che sento la misera merenda risalire. Vomito sul tappeto della mia cameretta, scorgendo in quella massa liquida i biscotti bruciati al cioccolato che mamma aveva fatto per me. Qualche schizzo mi raggiunge i piedi nudi.
Non ci bado, tiro su con il naso e, cercando di asciugarmi malamente il viso dalle lacrime, mi avvicino alla finestra, le tende sono ancora tirate e solo un piccolo raggio dorato penetra il buio che mi circonda.
Io le spalanco, permettendo alla luce del sole di illuminare la stanza e il mio corpo nudo. Studio la mia pelle nemmeno la vedessi per la prima volta come, immagino, un serpente si studi dopo una muta: attorno ai polsi vedo dei segni rossi, come dei tatuaggi a colori, che stanno rapidamente scurendosi per andare poi a formare dei lividi; più in su, sulle mani, noto di avere un paio di unghie rotte e coperte di sangue, ho graffiato come una tigre… prima che lui mi distendesse sul letto.
Non mi accorgo di nuove lacrime finché queste, giunte al mento, cadono in grossi goccioloni sulle braccia tese come in una pioggerella primaverile.
Mi guardo ancora le mani, i lividi, sento su ogni parte del mio corpo la sua odiosa presenza.
Ancora lo sento su di me.
Sento le sue mani che mi sfiorano, mi toccano, le sue labbra che mi baciano, il suo corpo che si struscia sul mio… e poi sento dell’altro, qualcosa che non avevo mai sentito prima: qualcosa di caldo scoppietta nel mio petto, espandendosi dentro di me in ondate bollenti che scacciano le fredde azioni di Papà. In un gesto pieno di rabbia mi asciugo le lacrime, perché i bambini come me non piangono mai, poi mi porto le mani al viso, tra i capelli biondi, stringendo forte i pugni.
E urlo.
Urlo con quanto fiato ho in gola, fino a farmi male, ma continuo, continuo e continuo.
Grido per buttare fuori la paura che quell’uomo mi ha messo addosso, urlo per buttare fuori il dolore che stringe come un vestito troppo stretto, sbraito per la rabbia cieca che sento dentro, brucia come lava e mi fa pulsare le tempie come se avessi altri cuori piazzati lì.
Urlo perché tutto sta crollando come sotto un terremoto, il mio mondo si sgretola lentamente e non è vero che le stelle mi avrebbero protetto, come mi aveva detto Emil, queste se ne stanno tranquille in alto, troppo lontane per aiutarmi o per essere toccate o raggiunte.
Mi rendo conto di aver vissuto tutta la vita sul ciglio di un burrone, in equilibrio precario, ma sufficientemente stabile e Papà ha rovinato tutto, spingendomi oltre il bordo, nel nero.
I bravi bambini stanno zitti e guardano, ma io non sono un bravo bambino, non mi aspetto regali da Babbo Natale quest’anno e quindi urlo perché voglio che tutti sentano, anche se alzano il volume della televisione, voglio che mi sentano.
Perché non potranno ignorarmi per sempre…
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Sono sempre io, avete visto che una volta tanto sono stata puntuale con il postare i capitoli? Me lo merito un applauso piccolo piccolo?
*Balle di fieno*
Ok, come non detto. ^^’’
Penso che qui ci sia da dire ancora meno del solito, la scena è molto breve; ma sinceramente non volevo scendere troppo nei dettagli, anche perché, dopo un trauma del genere, dubito che la mente sia così limpida da poter rivivere alla perfezione ogni singolo istante. Se ve lo state chiedendo, sì, la confusione è voluta. u_u
Siamo quasi alla fine, gente… tenete duro, mi raccomando. :P
Come al solito, quello che ho detto nella Parte Prima continua a valere anche per questa parte, con la solita eccezione della Challenge: “La sfida dei duecento prompt” indetta da msp17 … il prompt questa volta è il 122) Freddo… mi sembrava il più adeguato, poi ditemi voi… ^^’’
Ehm, non dovrei avere più niente da dire se non che manca solo più un capitolo e ho finito! ^^
Ci sentiamo presto (o almeno spero, visto che siete passati in 98 a leggere questa Mini Long, ma nessuno ha commentato) … per venerdì sera posterò l’ultima parte, spero di trovarvi lì.
A presto,
ByeBye
 
Come sempre… Vostra ManuFury! ^_^

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Capitolo 4
*** Parte Quarta ***


 
PARTE QUARTA: Non mi parlate ancora, non vi ascolto. Altre promesse false, non le sento.
 
 
Mi sistemo meglio la coperta sulle spalle e sprofondo nel calore che mi cede.
Poliziotti e altre persone in divisa fanno avanti e indietro da casa mia, sembrano tante formiche per come si muovono, ma in realtà non li vedo veramente. Lo sguardo è fisso a terra e a malapena sento brandelli dei loro discorsi, parole del tipo: “Droga. Alcool. Prostituzione. Abuso di minore. Violenza. Puttana.
Gli agenti si scambino queste parole con disgusto, senza badare a me, come se fossi invisibile ai loro occhi; vorrei che fosse così, se fossi veramente invisibile, potrei nascondermi al mondo per non dover più sentire le bugie degli adulti: i bambini non possono dirle, ma i grandi sì. Loro possono mentire sul significato di una parola, su un gesto, su un’azione che fanno, i bambini no.
Sì, vorrei essere invisibile come ora: perché non sono mai stato in mezzo a tanta gente, sentendomi però così solo.
Faccio vagare lo sguardo per il cortile, guardando l’erba schiacciata e quella pagina di giornale dove c’è la foto di Emil, che è morto prima di riuscire a mantenere la sua promessa. Penso a lui con una forte nostalgia: è stato con me solo per una sera, eppure ha fatto più di chiunque altro; quando ripenso a lui e ai suoi occhi azzurri come i miei… ho desiderato essere suo figlio, così mi avrebbe portato al suo osservatorio a vedere le stelle e nessuno dei due sarebbe stato così solo.
Gli occhi spaziano, alzandosi lentamente fino al recinto dell’orto della signora Larissa: nel caos generale parte della plastica verde è stata strappata e vedo cosa c’è all’interno, solo erbacce alte e una piccola viola dal colore inteso. Chissà perché l’anziana l’ha sempre tenuta nascosta, avrebbe potuto farla vedere a tutti, coltivarne altre e metterle sui balconi, con un po’ di colore, questi palazzi sarebbero sembrati un po’ meno una prigione.
Alzo ancora lo sguardo, ai tre scalini di pietra che portano a casa sua: la porta è aperta e lei è lì, immobile sulla soglia come una statua, a guardarmi con quei suoi occhi verdi e tristi mentre parla lentamente con un’agente. Credo che sia stata lei a chiamare la polizia quando mi ha sentito urlare di fronte alla finestra, vestito solo dei lividi che Papà mi ha lasciato addosso. Nonostante questo, non mi sento di ringraziarla, poteva chiamare prima che mi accadesse tutto questo, molto prima. Perché lei sapeva cosa succedeva a casa nostra.
Lei sapeva!
Sposto subito lo sguardo, infuriato, deluso, triste e tante altre emozioni assieme che sento premermi al centro del petto, come se volessero sfondarlo per uscire.
Con quel gesto brusco del capo mi accorgo che qualcuno si sta avvicinando. È un poliziotto, lo riconosco dalla divisa, dal distintivo in bella mostra e dalla pistola, che osservo attentamente, sembra quella che mamma teneva nel comodino, quella con cui ho giocato tante volte da piccolo. L’uomo si avvicina con calma e si siede al mio fianco, distante solo una spanna da me e sembra accorgersi del mio interesse per l’arma. Mi sorride rassicurante come faceva Emil.
“La vuoi vedere da vicino?”
Sollevo gli occhi chiari verso i suoi, che sono scuri come il buio. Scuoto la testa, so com’è fatta una pistola senza che me la debba mostrare. Lui ridacchia appena.
“Sì, forse è meglio così, sono brutte cose, le armi. – Fa una breve pausa, prima di porgermi un bicchierino di plastica dal quale, subito, sale un profumo squisito: quello di cioccolata calda appena fatta. – Vuoi? È cioccolato. L’ho preso per te.”
Le mie mani emergono dalla coperta, mostrando i lividi ora violacei che contornano i polsi come braccialetti, ora che guardo meglio, il colore dei lividi è molto simile a quello della viola nell’orto della signora Larissa. Si vedono anche le unghie rotte dalle quali non sono ancora riuscito del tutto a lavare via il sangue benché mi sia fatto due docce e abbia sfregato ogni centimetro dal mio corpo con la spugna ruvida che mamma usa per lavare i piatti, quando si ricorda di lavarli, ovviamente. Stringo avidamente le dita attorno al bicchierino, sentendo il calore e il profumo del cioccolato.
Vedo l’espressione del poliziotto cambiare leggermente a vedere i segni che ho addosso, si stupisce, credo, e si rattrista a quella visione.
Il primo sorso è il migliore: il cioccolato è bollente e sfiora le labbra secche e rotte, cancellando il sapore del sangue che avverto tutte le volte che ci passo sopra la lingua; mi entra poi in bocca e da lì mi scivola in pancia, riscaldandomi tutto il corpo.
Sospiro soddisfatto per aver assaggiato questa delizia.
“È buono?” S’informa gentilmente il poliziotto.
Io solo annuisco e prendo un secondo sorso, pensando che forse, adesso, le cose potrebbero andare un po’ meglio.
Ed è in quel momento, in cui ho ritrovato almeno in parte la calma, che portano fuori di casa la mamma: è scortata da un uomo corpulento in divisa e da una donna dai lunghi capelli scuri, raccolti in una coda di cavallo; ma al confronto con la mamma, mi pare brutta; benché mamma si sia rovinata molto con la sua medicina che, in realtà, non le faceva altro che male. La tengono per le braccia, sorreggendola quando le gambe minacciano di cederle. Mamma non si agita, si guarda attorno con occhi grandi e vuoti, come quelli di un pesce esposto su una bancarella del mercato, sembra che per lei ogni cosa sia nuova, come una bambina che per la prima volta esce di casa e scopre il mondo.
Ci vuole qualche minuto buono prima che i suoi occhi scuri e sorpresi si scontrino con i miei azzurri che trasmettono il freddo e il ghiaccio che provo dentro, per quello che ha permesso che mi facessero solo per denaro.
Mi sorride. Io non le rispondo.
“Andrà tutto bene, tesoro.” Ripete come un disco rotto, scendendo a fatica le scale, con quella sua voce a metà tra il dolce e l’impastato. Sorride ancora, come se quel gesto bastasse a lavare via tutto il male che mi è stato fatto, come se con un colpo di spugna si potresse lavare via una macchia sul pavimento.
Scuoto la testa e la guardo inespressivo.
“No, non è vero. Non parlarmi ancora, tanto non ti ascolto. Non voglio altre promesse false.” Sono le prime parole che pronuncio da parecchio tempo e sono così fredde e secche che alcuni poliziotti si voltano verso di me mentre il sorriso scompare dal viso di mia mamma. Vedo le sue labbra carnose tremare appena e gli occhi farsi di colpo presenti e lucidi, ma non per le sue medicine, sono lucidi di lacrime.
“Tesoro mio…” Sussurra così piano che mi è difficile sentirla, il suo tono è basso, lamentoso e disperato come non l’avevo mai sentito.
Per un attimo ho la sensazione che i ruoli si siano invertiti: che mia madre sia una bambina sperduta ed io un uomo adulto che prova una vena di compassione per quegli occhi grandi e spaventati. Questo pensiero mi fa uno strano effetto che non riesco a identificare come totalmente buono o totalmente cattivo. Forse… è questo il grigio, quello di cui mi ha parlato Emil quella sera, quando cercava di spiegarmi cos’era il mondo dei grandi.
“Addio.” Affermo serio, guardando mia madre per un’ultima volta, prima di girare il viso dalla parte opposta, stringendo il bicchierino con la cioccolata calda così forte da farne fuoriuscire un po’ dai bordi. La bevanda mi scivola tra le dita, bruciandole, ma non m’interessa: sento tanto freddo e tanto vuoto dentro che non avverto cosa succede attorno a me.
Sento a stento mamma che, al mio addio, si agita, si dimena e cade. La sento gridare. Urla come me prima, ma allora era troppo fuori di sé, troppo stordita dalla sua “vodka” per sentirmi.
Ed io voglio fare come ha fatto lei… ignorarla.
Grida promesse: che tutto andrà bene, che ogni cosa tornerà al proprio posto, che noi torneremo assieme, che saremo una vera famiglia; promette di cambiare vita, lavoro, abitudini. Promette di cambiare lei stessa.
Le sue parole non mi sfiorano, sono promesse false, bugie su bugie che non voglio più sentire.
Sento una mano sulla spalla e automaticamente mi ritraggo, schifato da quel contatto che mi ricorda quello di Papà, a fatica trattengo un urlo in gola.
“Calma, ragazzo, calmo. – Mi assicura il poliziotto di prima, quello seduto vicino a me. Ha alzato subito le mani al cielo, in un gesto di resa. – Guarda, non ti tocco, intesi? Non lo farà nessuno, se non vuoi.”
Annuisco piano, guardandolo; adesso credo che dovrei avere gli occhi lucidi, ma li sento stranamente asciutti.
“Molto bene. Sai, sei proprio un ragazzo coraggioso. – Mi sorride ancora, abbassando le mani. – Se te la senti, vorrei parlare con te: di quello che è successo oggi e anche gli altri giorni, starò ad ascoltare tutto quello che vorrai dirmi. Il tuo aiuto ci sarà prezioso per trovare l’uomo che ti ha fatto del male.” Parla con calma per essere certo che io capisca tutto, ma lo fa senza filtri.
Per un attimo le sue parole mi colpiscono come un pugno nello stomaco, perché sento che dovrò raccontare di nuovo tutto quello che mi è successo; avverto lo stomaco fare una piroetta e annodarsi, un conato mi fa tremare per un attimo le spalle. Poi, guardando l’uomo, mi rendo conto che tutto questo è necessario, che la paura non se ne andrà da sola se non sarò io il primo a combatterla.
E allora capisco un’altra cosa: questo poliziotto dai modi gentili non mi sta trattando come un bambino come faceva Emil, mi sta trattando da adulto; mettendomi a conoscenza del fatto che il mondo non è un bel posto, che non vivo in una favola, ma nella cruda realtà. Sento che da questo momento in poi non ci saranno più frasi del tipo: “No, sei troppo piccolo per capire. No, sei solo un bambino.” Più niente di tutto questo.
Adesso sono grande anch’io.
Perché quello che devo confessare, quello che devo raccontare non è una storia adatta a un bambino… non è una favola di quelle con il lieto fine. È una storia, ma di quelle vere.
Però, per qualche secondo, ci ripenso a quel bambino che fino a qualche sera fa si sedeva sugli scalini di casa, con il naso alzato al cielo ad ascoltare storie fantastiche e a far volare la propria fantasia. Ma allo stesso tempo mi figuro la realtà come un grosso cane rabbioso, pronto a mordere e a dilaniare quel piccolo corpo e a macchiarne il viso sorridente con il suo stesso sangue, come è successo a me con Papà; oppure vedo la realtà come un carro armato, che con un colpo solo può sgretolare tutto quello che si ha attorno: le certezze, la sicurezza di una stanza, perfino il cielo.
Penso a quel bambino: quello bravo che sorrideva, quello che si chiudeva in camera sua oppure stava pomeriggi sotto la pioggia, ad aspettare che sua madre finisse di lavorare; penso a lui e non lo trovo nel profondo della mia anima: lì ci sono solo il buio, il freddo e il silenzio.
Soprattutto il buio, reso tale dalle stelle che hanno smesso di splendere per me, che hanno smesso di proteggermi come guardine. Il freddo che avanza come sentivo Papà avanzare verso di me. E il silenzio, quello che avevo in testa mentre gridavo.
Non sono più un bambino, perché solo un uomo può raccontare la mia storia; in poche ore sono cresciuto di così tanti anni… con tutti i privilegi e i difetti che questo comporta.
“Allora, vuoi parlare con me?” Chiede ancora il poliziotto.
Annuisco con convinzione e poso il bicchierino con la cioccolata calda, non è roba da adulti, quella.
“Molto bene. Io sono Martyn e tu?”
Rimango un attimo interdetto. Io non ho un nome vero e proprio, anche se uno mi passa per la testa con forza, quello dell’unica persona che, vedendomi, ha visto un bambino e, forse, un figlio.
“Emil. Emil R. Timofeev.” Mi presento.
I bravi bambini non dicono le bugie; ma io non sono più un bambino, io sono grande e come tale ho il privilegio di poter mentire.
 
 
***
 
E…
Siamo alla fine! YEEEEEEE! :D
No, beh, ok… con la tristezza che ho infuso in questa storia non c’è proprio niente da rallegrarsi… T^T
Finalmente ho concluso questa mini long da 4 capitoli e spero proprio che qualcuno passi a recensire, mi farebbe veramente felice.
In caso contrario, ringrazio chiunque fosse giunto fino a questo punto e gli do giusto un paio di dritte.
Questo capitolo, oltre che alla canzone che ho citato nel primo capitolo, è parzialmente ispirato alla stupenda canzone cantata da Emis Killa e da Marracash: “Nel Mondo dei Grandi” dove c’è un passaggio stupendo: “Due mondi che dovrebbero stare distanti // quello dei piccoli e quello dei grandi // Mischiarli causa i peggiori danni nei migliori anni // rende piccole vittime, grandi bastardi.” Questo mi ha dato l’incipt per concludere al meglio la storia.
Se poi qualcuno se lo stesso chiedendo, sì… Tesoro, è il Maggiore Emil R. Timofeev presente in un’altra mia storia (“L’Ufficio del Maggiore Timofeev”) dove è cresciuto e si è incattivito per tutto quello che ha dovuto passare prima da bambino e poi da adolescente (ho intenzione di scrivere la storia della sua vita, in un futuro molto prossimo).
Poi… altro da dire… sì, la storia come al solito partecipa alla splendida Challenge: “La sfida dei duecento prompt” indetta da msp17 con il prompt 197) Bugie.
Mi sembrava il più appropriato.
Altro non direi… ringrazio tutti quelli che sono anche solo passati a leggere e le GiudiciE dei rispettivi Contest che mi hanno donato l’ispirazione per scrivere questa storia.
Grazie mille, sul serio!
Alla prossima,
ByeBye
 
ManuFury! ^_^

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