Three may keep a secret, if two of them are dead.

di Harleen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Olaf ***
Capitolo 2: *** Anna ***



Capitolo 1
*** Olaf ***


Titolo: Three may keep a secret, if two of them are dead.
Beta: Will
Disclaimer: Alas, non sono il signor Disney e queste sono tutte menzogne.
Pairing(s)/Personaggi: Olaf, Elsa, Surprise!StalliereMalwagio, Surprise!Anna
Sommario: Il primo ad accorgersene, per la gran sorpresa di tutti, è Olaf.
Parole: 1385 (Word)
Warnings: Fluff! Oh quanto! Also Elsa e Hans se la intendono. Also also, fireverse!Hans perché fa sempre bene alla salute.
Note: Capita che mi annoi. E capita che incidentalmente il cassetto dei calzini sia in ordine, pertanto occupo il mio tempo sparando boiate seduta al pc.
Credits per il titolo della fic a Benjamin Franklin e a google per avermi permesso di arrivarci dopo che, in vena di titoli pregni di significato, ho googlato “quotes about secrets”. Grazie, Google.
Non è necessariamente obbligatorio aver letto Come on, put your hands into the fire (Explain, as I turn and meet the power) – Gesoo che titoli lunghi che scelgo per le mie ff aiuto – per capire cosa stia accadendo. Ma aiuterebbe, ecco.
(Ma capisco che non tutti possano aver voglia di sorbirsi quasi 3k di gente che ciurla nel manico e si ammazza di seghe mentali, pertanto.)
Hans vive al castello perché i suoi dodici fratelli pazzi l’avrebbero decapitato e avrebbero appeso il suo cadavere per gli alluci alla torre più alta delle IsoleDelSud ed Elsa nel suo buon cuore ha deciso di accoglierlo come servo/stalliere/ultimodeglistronzi. Poi un giorno ha scoperto che aveva il potere del fuoco e sono accadute ~cose~ pertanto ora si infrattano ogni tanto e nessuno ne sa niente. Circa.
Enjoy! :D


Il primo ad accorgersene, per la gran sorpresa di tutti, è Olaf.

E non è che da parte sua ci sia una grande opera investigativa: è che diventa difficile ignorare due persone che, nascoste nell’ombra a farsi il solletico a vicenda, stanno congelando e sciogliendo a cadenze alterne pezzi di muro.
Ne è sicuro al terzo squittio acuto che sente, qualcuno sta facendo il solletico a qualcun altro! E non hanno avuto nemmeno il buon cuore di invitarlo! Oh, di sicuro deve essere stata un’idea di quello zotico di Sven. Non lo Sven con le corna, no; quello Sven fa le feste al suo nasino ogni volta che lo vede. Parla dello Sven che puzza e che di quando in quando fa il solletico ad Anna e se ne va senza una parola ogni volta che viene scoperto, ovviamente.

Ma non è lui, questa volta.

Il muro viene percorso da linee candide, frattali di ghiaccio e neve che si materializzano con una velocità e una precisione sorprendente e che, allo stesso modo, scompaiono lasciando le pietre dapprima umide e subito dopo asciutte. Olaf osserva lo spettacolo per diversi minuti, e potrebbe giurare di vedere di quando in quando l’aria accanto alla parete deformarsi dal caldo. E allo stesso modo, potrebbe giurare di sentire uno sfrigolio sottile ogni volta che nuove ondate di gelo tracciano altri disegni astratti.

È Elsa!

Olaf trilla la propria gioia all’idea di andare a salutare Elsa e scodinzola verso l’angolino buio e.

“Tu non sei Elsa.”

Davanti a lui c’è uno stalliere molto, molto arruffato che lo guarda con due occhi molto, molto spiritati. Una pozzanghera d’acqua ai suoi piedi si asciuga nell’arco di tre secondi, e può vedere a terra, accanto a dove fino a poco prima stava l’acqua, un paio di guanti.

“Tu sei lo stalliere cattivo!” Realizza con uno squittio felice Olaf. Oh, adora conoscere nuove persone.

Lo stalliere cattivo lo guarda con la stessa aria spiritata di prima e annuisce, il torace ben voltato verso di lui quasi fosse uno scudo per non lasciargli sbirciare cosa ci sia dietro.

(Olaf non vorrebbe mai contraddire Anna, che è la prima e più accanita sostenitrice della teoria ‘lo stalliere è cattivo’, ma così cattivo non gli è mai sembrato; non quando dà le carote a Sven e ammonticchia il foraggio per gli animali, almeno. E nemmeno quando ogni tanto, solo ogni tanto, con l’inverno implacabile che si infila da ogni fessura dei muri e i cavalli che diventano una macchia indistinta di nero marrone bianco, da quanto stanno vicini per conservare il calore, si sfila i guanti e accarezza le pareti della stalla prima di chiudersi la porta alle spalle, e tutti gli animali sembrano tirare un sospiro di sollievo collettivo. Olaf se lo ricorda quel tepore bellissimo che sente quando succede: lo prende dai piedi e gli si inerpica lungo il corpo e una volta o due si è dovuto rotolare nella neve per potersi riattaccare le braccia senza il rischio di seminarle in giro per i corridoi del palazzo, ed è stato splendido.)

“Proprio io.” Conferma in un mormorio che vorrebbe suonare minaccioso e invece risulta affannato, quasi spaventato. “Lo stalliere molto, molto cattivo.”

Olaf lo guarda negli occhi per lunghissimi istanti. Poi spalanca le braccine ramose e urlacchia. “Io sono Olaf, e amo i caldi abbracci!”

Alle spalle dello stalliere cattivo, qualcuno scoppia a ridere. Dapprima è un suono incerto, quasi isterico, poi la risata si fa argentina, fresca come acqua di sorgente e altrettanto cristallina. Olaf sente di amare quella risata e chiunque ne sia l’origine, e quando finalmente lo stalliere si scansa ne ha la certezza.

“Elsa!” La saluta con un sorrisone che va da orecchio a orecchio – se ne avesse un paio a disposizione, ovvio – mentre le sculetta incontro come una papera particolarmente grassoccia e goffa. Elsa si appoggia meglio al muro e prova a rassettarsi i capelli con movimenti veloci e distratti, e tutto nei suoi gesti e nel suo sguardo fa fare le capriole allo stomaco di Olaf. Non che abbia uno stomaco, ma- ecco, il senso è quello.

Ancora non ci crede, Olaf. Si guarda attorno ogni giorno ed è tutto bellissimo, ma niente è come Elsa; e non è solo perché l’ha creato e tiene viva la sua nuvoletta. È che ci sono giorni in cui Olaf vede da dove viene: segue lo sguardo di Elsa e si rende conto, sente che tra i due chi amerebbe di più un abbraccio non è lui. Sono giorni in cui trova le sue ginocchia a occhi chiusi e le stringe più forte che le sue braccia nodose gli consentano, e quando la regina – che non è la regina, davanti a lui, è una bambina di sette anni con gli occhi celesti grandi come il mondo e brillanti come due perle – gli chiede perché l’abbia fatto Olaf si stringe nelle spalle e le spiega che è Olaf, e ama i caldi abbracci. Elsa si inginocchia e lo stringe fortissimo, e le sue lacrime non lo sciolgono: vengono dalla neve tutti e due. Ma Olaf ha la leggerezza del nevischio che scende dolce durante i primi freddi di dicembre, ed Elsa ne conserva dentro tutto il peso di quando si accumula, e il dolore di quando diventa ghiaccio.

“Cos’è successo al vestito?” Si informa con l’aria divertita di chi già pregusta chissà che esilaranti aneddoti.

Alle sue spalle, lo stalliere che si finge cattivo inizia a tossire come se gli fosse andato di traverso un polmone intero. Elsa diventa di una graziosa sfumatura a metà tra il rosa pesca e il viola lavanda, segno che un qualsiasi altro essere umano sarebbe già morto per un aneurisma cerebrale dal troppo imbarazzo, e si affretta a ricostruire il proprio vestito, a buchi come se fosse passato sotto le mani di un branco di tarme particolarmente affamate. “Niente, Olaf.” Dice con un sorriso dolce, e subito dopo fa una mezza piroetta per mostrargli ogni dettaglio tornato al proprio posto. “Vedi? Come nuovo.”

“Ma prima era a buchi. Perché era a buchi?” E poi l’illuminazione: sgrana gli occhi enormi e la mandibola gli cede mentre finalmente realizza che… “Stavate facendo un gioco?”

Elsa esala un rantolo che sa di sconfitta e sollievo al tempo stesso e annuisce. “Sì. Un gioco.” Conferma. Si punta con le mani sulle ginocchia e si sporge verso di lui con aria da cospiratrice. “Olaf,” lo richiama quindi col tono delle missioni importanti, e Olaf si sente pronto a scalare la montagna del nord tutto da solo. Magari in un paio di mesi ce la potrebbe fare. E magari Sven potrebbe accompagnarlo, tanto per essere sicuri che il mostrone di neve sia definitivamente scomparso. “Sai mantenere un segreto?”

Olaf si illumina. “Sì!” Trilla quindi.

“Lo terrai solo per te, senza dirlo a nessuno?”

“Sì!” Prosegue. Alle sue spalle, lo stalliere-non-tanto-cattivo si schiarisce la voce e finalmente smette di tossire, per la gran gioia collettiva. Olaf lo guarda per un breve istante. “Lui che ci fa qua?”

Elsa sorride, più divertita che mai, e annuisce. “È come te, sai?”

Olaf ci mette qualche istante in cui si volta e lo analizza minuziosamente, passando per i capelli rossi e gli occhi verdi e le spalle larghe e le mani grandi, ormai solcate da numerosi calli, e annuisce. “Sì, vedo la somiglianza.” Risponde con aria assorta.

Elsa ride. “Deve mantenere un segreto anche lui.” Spiega con tono dolce, e lo sguardo saetta su di lui per un istante – quanto bassa perché qualcosa le si accenda nel fondo degli occhi, una fiamma di pura gioia che potrebbe oscurare il cielo – e torna su Olaf senza che il sorriso si scalfisca minimamente. “Allora, puoi tenere un segreto per me?” Gli chiede di nuovo, gli occhi due zaffiri che brillanobrillanobrillano.

Olaf annuisce, perché se dipendesse da lui le regalerebbe l’universo intero, e viene congedato con un gentile ed elegante cenno della mano. Quando volta l’angolo saluta Anna con un trillo estasiato, e subito dopo torna a guardarsi attorno con aria da cospiratore.

“Olaf,” lo richiama quindi Anna, più divertita che perplessa, “cosa fai?”

“Elsa mi ha chiesto di mantenere un segreto. Sta facendosi il solletico con lo stalliere cattivo, ma poi me lo dirà e io lo conserverò a costo della vita.”

…Quindi, la seconda a scoprirli è Anna.
Fin

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Capitolo 2
*** Anna ***


Beta: Akinera, F7 di Word :°D
Disclaimer: Mammagari ci guadagnassi qualcosa.
Pairing(s)/Personaggi: Anna, Elsa, Surprise!Hans
Sommario: Anna urla. […] “È un mostro.” Le dice quindi, con qualcosa di strano che le brilla negli occhi.
Parole: 3721 (Word)
Warnings: Fluff e follia e possibile OOC generico.
Note iniziali (omg sì, questo giro ce ne sono anche in fondo): Moar boiate! Moar psicodramma!
Meno Olaf, ma ce ne facciamo tutti una ragione.
Also Hans è il mio fiocco di neve speciale e un giorno scriverò settordici mila parole semplicemente di lui che dà fuoco alle cose, MA NON È QUESTO IL GIORNO.
Enjoy! :D


Anna urla.

Elsa si porta una mano alla fronte, il gomito poggiato sul bracciolo della poltrona, e in un impeto di follia si trova a rimpiangere il proprio dono del ghiaccio; perché, perché evocare gelo e mostroni di neve – e Olaf, va bene – quando da qualche parte nel mondo potrebbe esistere qualche anonimo fortunato in grado di rendere mute le persone con un elegante gesto della mano?

(Sono anni ormai che sa di non essere l’unico fiocco di neve speciale con qualche potere folle: al piano di sotto, Hans ne è la prova lampante. E lei al momento non può fare a meno di invidiare quel fortunato bastardo disperso in qualche angolo della terra che potrebbe risolvere i suoi problemi in uno schiocco di dita.)

Anna continua a urlare, ed Elsa scivola col bacino in avanti sul cuscino, la mano un artiglio dietro cui nascondersi e schermarsi un poco dall’ira funesta di sua sorella.

“Anna…” La richiama con un versetto sofferente, il tono di voce più dolce che le riesce. “Anna, dai…”

“Anna un corno!” Strilla più forte che mai.

(Una spedizione, ecco cosa. Dovrebbe organizzare una spedizione per trovarlo.)

“Annaaaa…” Si lagna mentre, ai suoi piedi, il pavimento inizia a diventare un po’ più lucido, un po’ più scivoloso. Entrambe abbassano lo sguardo, e qualche stalagmite piccola e tozza inizia a sollevarsi tra le pantofole della regina.

Anna si punta le mani sui fianchi e subito dopo le brandisce sotto al naso un indice con espressione a dir poco mortifera. “Non provare nemmeno a pensare di giocare la carta della povera vittima con i poteri fuori controllo, sai!”

Le stalagmiti spariscono all’istante, Elsa sbuffa e raccoglie le ginocchia al petto. Nel complesso, tra capelli candidi e abito celeste, sembra una palla di neve molto contrariata. “Anna, ti prego…” Riprova, conciliante e timorosa di ulteriori scoppi di urla.

I suoi timpani, i suoi poveri timpani. Va bene che lei era sempre chiusa in camera, ma da quando Anna ha quei polmoni?

…Oh, giusto. Lei era sempre chiusa in camera, e sua sorella deve essercisi finita la voce, a furia di provare a chiamarla e a stanarla da là. Con una morsa al petto, Elsa realizza che alla fine tutti i suoi problemi si riducono sempre allo stesso: troppa distanza. Prima era la distanza dal mondo, ora – sempre, è sempre stata – la distanza da Anna. E dove lei distruggeva qualsiasi ponte venisse costruito per raggiungerla, sua sorella imparava che per colmare la distanza forse, forse alzare la voce avrebbe aiutato.

Anna è questo, d’altronde. È il rumore che si infila da sotto la porta e malgrado tutto ti arriva alle orecchie, è la luce che filtra dalle tende scure, è passare il tempo insieme e parlare, parlare, parlare. Elsa fa un sorriso tremulo, mentre il senso di colpa si mescola alla tenerezza che quasi le mozza il respiro, e abbandona la formazione a testuggine per sedersi un po’ meglio sulla poltrona. E subito dopo scivola col sedere a terra e afferra sua sorella per un lembo della gonna e la tira giù. “Vieni qua.” La invita. “Parliamo a bassa voce, ti prego.”

“Non voglio parlare a bassa voce!” Strepita Anna, le guance paonazze e i pugni stretti lungo i fianchi.

Elsa guaisce e si butta di peso all’indietro, allargata a stella marina sul pavimento.

“Sono troppo arrabbiata per parlare a bassa voce! Sono la principessa di Arandelle, ho il diritto di urlare quanto mi pare e piace!”

Elsa piega la testa di lato, affascinata da dove quella corrente di pensiero potrebbe portarle. “Ma io sono la regina. E io non urlo mai.” Precisa con una stretta di spalle, convinta di aver detto chissà quale battuta risolutiva.

Anna gonfia le guance e le punta contro un dito e oh, oh, il fatto che tra le due non sia lei a poter mandare le persone in ipotermia è un chiaro segno dell’esistenza di una benevola entità celeste che non li vuole tutti morti. “Tu hai congelato tutta Arandelle, e sono dovuta venirti a stanare da quel maledetto palazzo personalmente! E già che siamo in argomento, quel cane del piano di sotto con cui stavi facendoti il solletico mi ha quasi ammazzata! Ci ha quasi ammazzate!” Tuona a pieni polmoni, l’aria resa elettrica dalla violenza con cui le sputa addosso l’ultima frase. Elsa rimane a fissarla e sa, dentro lo sente, che quelle parole dovrebbero farle più male di quanto non facciano.

“Anna” la richiama con un tono dolce che le ricorda troppo sua madre – troppi rimorsi, troppi rimpianti, troppo dolore in un nome così corto –, e Anna incassa la testa nelle spalle e rimane ferma anche quando sua sorella si alza e le prende una mano tra le proprie, le dita gelide e il tocco delicato di un soffio di vento che le sfiora la pelle. “Anna.” Ripete, e questa volta la supplica nella sua voce è evidente. “Sono anni che Hans vive al castello, ormai. Hai smesso di insultarlo tanto tempo fa, pensavo…” Si morde le labbra, perché per una persona che ha passato la maggior parte della sua vita in silenzio, cercare e trovare le parole giuste è un’impresa che ha del titanico. “Pensavo ti fossi abituata a lui.” Ed è vero, e Anna odia che abbia ragione. Odia che la fiamma del suo odio si sia ridotta a un cumulo di cenere e carbone che malgrado tutto non riesce a riprendere a bruciare, odia Hans, odia. “Qual è il problema?”

“È un approfittatore! Un traditore, un bugiardo, un–”

“Il problema vero.

Anna china lo sguardo per sfuggire a quello di Elsa e si riprende la mano con un gesto di pura stizza. “È un traditore.” Le ripete con tono svogliato. “E ti sta prendendo in giro come ha preso in giro me.”

C’è tanto di quel non detto, nell’aria, che Elsa ne sente il peso sulle spalle. Scuote la testa e non trova il cuore di infierire, anche se entrambe stanno pensando le stesse cose – non me, Anna. Non me. Io non ho accettato di sposarlo dopo dodici ore che lo conoscevo. Io non sono così ingenua e sciocca e infantile e – “Non ha motivo per farlo.” Mormora invece.

Anna sbuffa una risata che sembra una pernacchietta. “Certo che sì! Sei la regina, e lui vuole essere re!”

Elsa le mette le mani sulle spalle e si piega e si contorce perché, malgrado sua sorella non voglia, punta a farsi guardare negli occhi. È solo quando ha la sua incondizionata attenzione che parla. “Anna, no.” Scandisce con calma. “Non diventerà mai re.”

“Ma se vi sposaste…”

“È più probabile che io acquisisca il suo lignaggio di spalatore di letame che non il contrario.” Le parla sopra con – ora sì, ora si vede – una scintilla di divertimento nello sguardo.

“È uno psicopatico!”

Elsa non risponde. Non subito, prima si stringe nelle spalle e fa una smorfietta che, tradotta nel linguaggio corrente, sarebbe un eloquente ‘beh…’ “In effetti…” Dice con tono conciliante la regina. Al sorriso trionfante di Anna, dà in un’altra scrollatina di spalle. “C’è da dire che non è cresciuto nelle condizioni più- beh, adatte per un bambino.”

“Ma per piacere!” Ciarpa con una smorfia tutt’altro che impressionata. “Tre dei suoi fratelli hanno finto che fosse invisibile per due anni, e allora? Ne aveva altri nove con cui parlare!”

“Tre dei suoi fratelli hanno fatto cosa?

“Oh, giusto.” Si tira una bottarella alla fronte col palmo della mano e scuote la testa, amareggiata come non mai. “Si è inventato anche quello.”

“Anna…”

“Grandioso, davvero.”

“Anna.”

“Ma certo, giochiamo a intenerire la povera idiota. Dovremmo dichiararlo sport nazionale, sai? Farci delle gare almeno qua ad Arandelle. Il tuo stalliere stravincerebbe ogni anno, sono sicura che si divertirebbe da morire. Come se già non avesse riso abbastanza alle mie spalle, lui e i suoi stupidi fratelli e il suo stupido piano per la conquista del trono e ‘oh, Anna, se solo qualcuno ti amasse davve-’”

Anna.

“Cosa!”

Elsa le prende le mani nelle proprie e passa ad accarezzarle una guancia col dorso delle dita, e Anna sospira di sollievo a quel contatto fresco. “Anna, i suoi fratelli lo avrebbero giustiziato.” Le ricorda con tono cauto, pronta a lanciarsi a sua volta nella tanto amata crociata ‘odiamo Hans e odiamo perfino i suoi peli del naso’ in cui – è da tanto, c’è da riconoscerlo – ogni tanto Anna si imbarcava. “Non dubito che tre di loro lo abbiano ignorato per due anni, è che non lo sapevo. Se vuoi dopo glielo andiamo a chiedere per conferma. Posso scrivere dodici lettere ai suoi dodici fratelli chiedendo a ognuno di loro di raccontare la loro versione dei fatti, se serve a rassicurarti. Davvero.” Conferma in poco più di un sussurro.

È un equilibrio delicatissimo, quello tra di loro. Anna scoppia di vita e sentimenti che prova e porta alle loro estreme conseguenze, è un incendio che divampa all’istante e, come spesso accade con i fuochi di paglia, si spegne altrettanto in fretta. Elsa ha le braci, dentro. Un fuoco debole che non si spegne e che potrebbe essere alimentato, potrebbe divampare con un solo alito di vento. Troppe cose sono successe, troppe volte hanno analizzato i se e i forse e troppe volte Anna ha citato quella frase, quella maledetta frase che Hans le aveva sussurrato sulle labbra ormai gelide per spezzarle il cuore e distruggere qualsiasi certezza avesse. Anna odia doverlo ammettere perfino a se stessa, figuriamoci ad alta voce, ma ha smesso di fare male.

(Le faceva male il tradimento, oh quanto. Ma non erano i cocci del suo cuore infranto che si portava dietro, era la rabbia di non aver visto, di non aver capito se non quando era troppo tardi. Era stato fidarsi troppo, troppo in fretta, e sentirsi una stupida per aver quasi mandato il proprio regno in malora con le sue stesse mani pur di sentirsi accettata, pur di ricevere un sorriso gentile e un gesto affettuoso da parte di qualcuno. Ed Elsa si potrebbe finire la voce a ripeterle che non era lei, non è mai stata lei il problema, ma quella vocina malevola non tace mai e stupida, Anna, sei così stupida. È per questo che ti hanno sempre abbandonato tutti, è perché sei troppo stupida.)

“Sono una stupida.” Sussurra alla fine, sguardo basso e guance in fiamme.

Elsa si sente un po’ morire dentro mentre l’abbraccia più stretta che le riesce. “Sì.” Conferma, ottenendo un versetto infastidito in risposta. “Lo sei, Anna. Sei tanto, tanto stupida quando fai così.” Spiega con un’ulteriore strizzatina alle spalle di sua sorella.

“Sei un mostro.”

Elsa annuisce e le fa comparire un po’ di nevischio sul collo, facendola sobbalzare dal freddo improvviso. “Credo che a Weaselton i bambini guardino sotto il letto per controllare che io non sia là sotto pronta a congelarli.”

“Non intendevo in quel senso.” Specifica con una risata tutto sommato divertita, tutto sommato sollevata.

“Nemmeno io intendevo nel senso che credi tu, quando ti ho dato della stupida.” Commenta con una scrollata di spalle.

Anna la guarda con l’espressione di chi sta venendo costretto a ingoiare vetri rotti e fa un sospiro lagnoso. Come riesca a far suonare lagnoso perfino un sospiro è un mistero al cui interno Elsa sente di non volersi addentrare. “È Hans.” Biascica. “È un traditore.”

“Sì,” le dà ragione Elsa con uno sbuffo divertito, “l’hai già detto quattro o cinque volte. Adesso potresti dirmi qual è il vero problema?”

Ormai è incartata, si vede. Si stringe una mano nell’altra, si massaggia il palmo col pollice e per un secondo annaspa. “È un bugiardo!” Esclama con voce stridula. “E tu…” Si libera dall’abbraccio di Elsa e le dà le spalle e finalmente, finalmente in un sussurro più spezzato di quanto non dovrebbe uscire, parla. “Tu non mi hai detto nulla.”

Per la prima volta dopo tanto tempo, Elsa sente di nuovo montarle dentro il panico.

La guarda, guarda le spalle curve e le trecce ramate che le scivolano lungo le spalle e non l’ha mai vista così piccola. Si sente tornata indietro di anni, tanto che per un istante le sembra quasi di rivedere la striatura candida sui suoi capelli. “Anna.” Sussurra, senza il coraggio di muovere un passo. Anna non le risponde: scuote la testa e trema tutta sul posto, come se volesse convincerla a starle lontano. Come se davvero Elsa avesse bisogno di un simile incoraggiamento. “Anna…” ripete, in un tentativo di ottenere qualcosa, qualsiasi cosa in risposta.

Anna fa un sospiro tremulo e si passa una mano sugli occhi. “Lo hai fatto di nuovo.” Sussurra.

(Stupida, Anna, sei proprio stupida. Come se bastasse una promessa per risolvere anni di silenzi e segreti. Stupida, stupida, stupida.)

Alle sue spalle, Elsa sospira tanto profondamente che le sembra di sentire un alito di vento gelido sfiorarle la gonna.

“Sì.”

Con un crepitio sinistro, le pareti della stanza iniziano a coprirsi di ragnatele di ghiaccio. Anna le guarda e anche se tutto, dentro di lei, le grida di non farlo e di rimanere in silenzio – il silenzio, il silenzio è una punizione adatta per Elsa – fa un paio di passi, fino alla parete, e sfiora in punta di dita un frattale all’altezza della sua testa che poco a poco cresce e palpita come se fosse vivo, fino ad abbracciare una delle travi del soffitto. “L’ho scoperto solo perché Olaf ha fatto la spia.” Rincara la dose in un sussurro, mentre segue con lo sguardo le nuove trame che stanno riempiendo la stanza. Sa che Elsa non lo sta facendo apposta – lo sente, quando i poteri sfuggono al suo controllo. Il freddo è più tagliente e, pur nella solita bellezza che lo contraddistingue, il ghiaccio è lo spettacolo più inquietante che Anna abbia mai visto. I disegni creati sono spigolosi, figure enormi che prendono i muri e le finestre, che incombono su di loro come mostri a un passo dallo schiacciarle. Si gira a guardare Elsa e si sente intrappolata dentro la mente di sua sorella, a viverne le sue paure. “E gli avevi chiesto di non dirmi nulla.”

Elsa china il capo in un cenno affermativo, e di nuovo ai suoi piedi compaiono stalagmiti ghiacciate. Non sono le figure tozze di prima, sono coltelli che le lacerano la stoffa delle pantofole. “Non eri tu.” Confessa in un soffio. “Non doveva scoprirlo nessuno.”

La temperatura sta scendendo a velocità sorprendente. Anna sente uno spasmo alla mandibola, e inizia a battere i denti più silenziosamente che le riesce. “Perché?” Chiede, le spalle più strette, ogni muscolo contratto come se dovesse bastare a conservare un po’ di più il calore.

(Un giorno dovranno parlare di questa tendenza alle crisi mistiche di Elsa sempre e soltanto d’estate, quando la gente normale gira in abiti leggeri, tutt’altro che a prova di gelate improvvise.)

Elsa si stringe nelle spalle a occhi chiusi, e i vetri iniziano a scricchiolare. “Paura.” Confessa in un sussurro. “Non sapevo come avrebbero reagito tutti, non…” Deglutisce rumorosamente. “Non volevo ferirti.” Dietro di lei, la serratura della porta si gela del tutto.

Quel che è peggio, realizza Anna, è che Elsa non se ne sta nemmeno accorgendo.

“Elsa.” La richiama in un sussurro più dolce di quanto non vorrebbe, meno ferito di quanto non si senta davvero, “Elsa, apri gli occhi.” Elsa fa come richiesto e una stalattite scende dal soffitto, sottile e veloce come una coltellata, fino a fermarsi a pochi centimetri dalla sua testa. Anna deglutisce rumorosamente e, con una risatina isterica, prende sua sorella per le spalle e la sposta di peso. “Bene. Scongeliamo tutto, vuoi?” Propone con tono pratico, dirigendosi a grandi passi verso la finestra e facendo forza per aprirla.

Elsa impiega diversi istanti più del normale, ma alla fine riesce a sciogliere il ghiaccio a sufficienza da permettere a sua sorella di spalancare i vetri. I cardini danno in un cigolio sinistro, corrosi anzitempo dal gelo e dalle escursioni termiche cui Elsa li esponeva quando era piccola, e i primi raggi solari entrano timidamente; il caldo inizia a sciogliere porzioni di muro coperte da uno strato più sottile di ghiaccio, mentre il resto viene semplicemente fatto sparire dalla sua creatrice. Anna batte le mani con delicatezza in segno di approvazione, esposta al sole come una lucertola, ed è solo di sfuggita che le si notano le labbra passare da uno spettrale viola a un più confortante rosa. “Anna…” la richiama in un sussurro mortificato sua sorella, senza ancora il coraggio di muoversi e con tuttavia il bisogno di sentirla vicina, viva.

“Vieni qua.” Le mormora con l’ombra di un sorriso, gli occhi socchiusi e le mani protese verso l’esterno, come se anziché di fronte a una finestra spalancata si trovasse davanti a un caminetto acceso. La raggiunge a capo chino, e una volta a tiro Anna le dà un colpetto di fianco tanto delicato che Elsa pensa di esserselo immaginato. Poi l’orlo della gonna di sua sorella le sfiora la gamba, e capisce che sua sorella l’ha davvero colpita col sedere. “Ti avevo detto di non giocare alla povera vittima con i poteri fuori controllo.” Rimbrotta con tono troppo dolce, per una persona che è finita – di nuovo – a un passo dall’ipotermia. E che l’ha colpita col proprio sedere.

Elsa avrebbe tante cose da dirle. ‘Scusa’, e ‘Ti prego, scusa’ o anche ‘Mi dispiace davvero, davvero tanto’ o qualcosa del genere, il campionario di scuse cui attingere è virtualmente illimitato grazie agli anni di clausura in cui ha avuto modo di rivivere l’incidente con Anna ancora, e ancora, e ancora. “Mi hai appena dato un colpo di sedere?” Le chiede invece con aria vagamente perplessa. Sua sorella si stringe nelle spalle e annuisce ok, è impazzita. “Perché mi hai dato un colpo di sedere?”

“Te lo meritavi, mostro.”

Del tutto impazzita.

Il problema alla base è che Elsa non sa scherzare.

Ci prova, si impegna, ma ci sono momenti in cui i suoi occhioni blu sembrano diventare tanto blu, più vitrei che mai, e niente, si inceppa. Anna la scuote per una spalla e le rivolge un sorrisino. “Scherzavo.” Le dice con tono pacato.

“Ti ho quasi congelato. Di nuovo.” Risponde con voce stridula, quasi isterica.

Anna sorride e le prende le mani nelle proprie. “Non l’hai fatto apposta.”

“Non ti ho detto niente di Hans e me.”

“Ti dispiace non averlo fatto.” E qui incassa la testa nelle spalle, e lo sguardo si fa più timido e sfuggente, e di nuovo non trovarle quella ciocca candida tra i capelli è una sorpresa. “Ti dispiace, vero?” È un sussurro incerto, e questa volta sì, Elsa si sente davvero un mostro per averla tenuta fuori dalla sua vita quest’ennesima volta. L’ennesimo segreto – il più inutile, a pensarci bene.

“Tanto.” Annuisce e si asciuga gli occhi con il dorso delle mani – ancora tenute sotto sequestro da sua sorella – e sbuffa un sorriso tremulo come non mai.

“Bene.”

Gli abbracci di Anna sono soffocanti come se li ricordava, ed è semplicemente giusto che Elsa non riesca a riemergerne senza un tremendo debito d’ossigeno che la costringe a qualche istante di silenzio in più del solito quando finalmente – a tradimento, come qualsiasi cosa le stia accadendo da diverso tempo a questa parte – sua sorella mette in moto le sue graziose celluline grigie e le chiede perché.

Elsa diventa di quel solito colorino a metà tra il rosa e il celeste che Anna, a costo di pomeriggi di studio, ha catalogato come ‘rosa selvatica’ e si stringe nelle spalle con una risata isterica. “Perché cosa?”

“Perché Hans!” Risponde con una risata fin troppo divertita.

Elsa potrebbe fare tante cose. Potrebbe stringersi nelle spalle e svicolare, e più sente il panico all’idea di cosa potrebbe confessare ad Anna, più l’ipotesi di mentire – un’altra porta, solo una porticina finché non troverà le parole e il tempo e il modo… – le fa rivoltare lo stomaco. “È un mostro, Anna.” Le dice quindi, con qualcosa di strano che le brilla negli occhi. Anna non sarebbe pronta a giurarci – soprattutto visto il soggetto – ma sembrerebbe quasi compiaciuta di quanto appena detto. Apre bocca per parlarle sopra e darle sostanzialmente ragione, ma Elsa è più veloce. Le stringe le spalle tra le dita e tossicchia per nascondere un sorriso. “Un mostro come me.

***


La stanza di Hans non è esattamente la cella più umida e isolata dei sotterranei. E non è nemmeno nella torre più diroccata del castello.

È una stanza in un’ala defilata, più vicina alle stalle che non alle camere della servitù e a metri e metri – e scale e scale – di distanza dagli alloggi padronali. La porta era tenuta d’occhio da una guardia, i primi tempi; ad Hans veniva permesso di uscire solo per lavorare. La serratura è saltata anni fa in circostanze fumose, ormai è costantemente aperta. Perfino l’anta di legno della finestrella usata i primi tempi per comunicare con il prigioniero, penzola inutilizzata.

“Mostraglielo, Hans.”

L’uomo non si muove dal letto, una gamba piegata e l’altra puntata sul ginocchio sollevato, e rivolge uno sguardo veloce e sfuggente a Elsa, come se temesse di ustionarsi gli occhi fissandola con troppa insistenza. Anna, al contrario, è una visione cui ormai si è abituato: la studia con sguardo serio, attento. “Chi me lo ordina?”

“La Regina di Arandelle. La tua sovrana.” Non l’ha mai sentita così autoritaria. Scaccia un sorriso con un colpo di tosse, allo sguardo ammirato che perfino Anna le rivolge a quello sfoggio di regalità.

Si alza a sedere con un sospiro. Fissa le due sorelle in silenzio, i gomiti puntati sulle ginocchia leggermente divaricate e i capelli sparati in ogni direzione. Con le dita intrecciate sotto al mento e la schiena curva, non sembra nemmeno lo spettro del principe che un tempo aveva varcato in pompa magna i cancelli del palazzo. “Sono un esiliato, non ho regina né padrone.”

(Se fosse per Anna, qualcuno gli avrebbe già tirato un corpo contundente sul naso.)

Elsa si avvicina di un passo al letto, si sfiora un’ultima volta la gonna e allunga una mano, quasi a cercare la sua. Il palmo nudo è rivolto verso l’alto, la pelle irradia il vapore opaco di un pezzo di ghiaccio esposto al sole d’agosto. “Te lo chiedo io. Te lo sto chiedendo io.” Ripete in un sussurro morbido.

Hans china il capo e lascia cadere a terra i guanti.


Fin



Note finali: Per chi se lo stesse chiedendo, la rosa selvatica (altresì nota come “rosa canina”) è questa qua.
La Harl ha passato un congruo lasso di tempo a spulciare carte cromatiche per trovare la sfumatura adeguatamente fredda di rosa per le regali guanciotte di Elsa.
Dopo averla finalmente trovata, ha realizzato che l’ora e mezzo trascorsa in ricerche era un’ora e mezzo della sua vita che nessuno le avrebbe mai più restituito, per cui ha pianto un pochino.

Vi vi bì a tutti <3

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