Un soldato non va in paradiso

di SignoraKing
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Verde smeraldo ***
Capitolo 2: *** Ricordi ***
Capitolo 3: *** Il villaggio brucia, la vecchia si pettina. ***
Capitolo 4: *** Innocenza ***
Capitolo 5: *** Morte ***



Capitolo 1
*** Verde smeraldo ***


 
Paradiso è tutto ciò che è perfetto, bianco ed etereo.
Paradiso è quel luogo dove ogni fatica viene ricompensata,
dove ogni cosa è pura e candida.
Paradiso equivale a dire pace,
ogni persona al mondo cerca il paradiso personale,
dove poter essere in pace con gli altri e con sé stessi.
Ma esiste veramente il paradiso,
o è solo un’invenzione degli uomini per riuscire ad andare
avanti attutendo la paura della morte?
Perché il paradiso è ciò che viene dopo,
quel luogo celestiale dove finisci se sei stato buono
e dove rimani per sempre dopo essere morto.
Se il paradiso esiste, non è sulla terra.


Un uomo si sveglia tra decine di corpi straziati, tra i suoi compagni.
Sangue e terra, mischiati, macchiano la divisa del giovane militare.
Si alza, fa qualche passo e poi cade in ginocchio accanto ad un ragazzo che deve avere la sua stessa età, gli occhi si riempiono di lacrime quando lo guarda, ma le ricaccia indietro. Cerca di mostrarsi forte davanti a lui, non ricorda nulla, a parte il suo volto e sa che quello era una persona speciale, nonostante nella sua mente ci sia la nebbia quei due occhi verdi gli fanno provare emozioni contrastanti e confuse. Nonostante lui non conservi alcun ricordo sente che quell’uomo non era solo un compagno d’armi ma anche un amico, o più di questo.
Passa le dita sulle palpebre del cadavere, chiudendole, sperando che non vedendo più quegli occhi di smeraldo il dolore possa scemare un po’, ma non è così.
Afferra le piastrine metalliche sul petto e legge il nome inciso sopra.
Sava.
Ora i ricordi incominciano a tornare, tornano le risate e le chiacchierate, le nottate passate svegli a parlare o a fare un turno, in silenzio, sempre insieme.
Non ricorda ancora il proprio nome, non vuole guardare la piastra di metallo che gli pende dal collo e che sente muoversi tintinnando, sente che così può essere solo un fantasma e non un uomo reale con dolori reali. Pensa a dove può essere finito Sava, con i suoi grandi occhi vivaci e il sorriso contagioso. In paradiso? No, un soldato non va in paradiso. All’inferno? Perché? In fondo loro lo facevano per una causa, buona o cattiva che fosse era quella del loro paese, era un’imposizione e non potevano di sicuro decidere di non uccidere.
Desiderò di poter morire in quel momento, sdraiato accanto al suo amico, desiderò di addormentarsi lì, nel sangue dei suoi compagni morti, tra la polvere e l’odore di morte, o di aspettare che le forze lo abbandonassero piano piano, ripensando ai momenti felici che sembravano così lontani da quell’inferno.
Ma prima di cedere alla fatica e al dolore prese dalla tasca dell’amico qualcosa.
Qualche giorno prima Sava gli aveva chiesto, con tono greve, se poteva portarla a suo figlio nel caso fosse morto. Sembrava che sapesse già che sarebbe successo presto.
Lui aveva accettato, ma gli aveva anche promesso che non sarebbero morti, non in quel momento, non in quel posto.
Si rigirò l’oggetto tra le dita.
Era una moneta d’argento, bucata al centro da qualche tipo di proiettile.
Gli aveva raccontato che era appartenuta a suo padre, morto per un colpo d’arma da fuoco, in un vicolo della sua città, XXX. Lui, ancora bambino, l’aveva estratta dal taschino della camicia e l’aveva conservata come ricordo della morte del suo unico eroe, morto per salvare i figli e la moglie. 
Gliela raccontava spesso quella storia, di solito quando era ubriaco, e ogni volta, quando finiva di parlare, si perdeva nei ricordi della sua infanzia che, nonostante fosse stata difficile, era sempre meglio dell’inferno che stava passando.

 
È sbagliato pensare che ai militari piaccia la guerra,
spesso sono obbligati a combatterla, come Sava
e come il suo migliore amico. A volte i militari non ce la fanno,
non è raro infatti che siano tormentati dai fantasmi delle persone
che hanno ucciso, che siano militari nemici o civili uccisi per sbaglio.
Il secondo caso è ancora più doloroso, perché: se per un militare
qualunque può essere brutto, per un tiratore scelto uccidere per
sbaglio un innocente è una grave colpa. Non sono tanto gli altri
ad accusarti, ma sei tu stesso a pensare che si poteva evitare.
Sei tu che rimugini per giorni, mesi e anni su quell’unica
persona che hai sbagliato ad uccidere.

Lontano da quel luogo di morte delle bombe scoppiavano e distruggevano, strappavano vite a innocenti e militari, lontano da lì la guerra continuava, incurante di quell’uomo solo e vivo, in ginocchio vicino a quello che capì essere stato il suo unico amore.
In quel momento, dove ogni cosa nell’arco di chilometri era morta, dove sembrava che l’amore non potesse fare parte di quel mondo, in quel momento l’unica persona viva si rese conto di quanto fosse importante la vita e di quanto amasse Sava, e soprattutto di quanto gli sarebbe mancato.
Allora si sollevò, guardò il cielo, la luna piena e le stelle che, incuranti della campo di guerra che si distendeva sotto di loro, continuavano a brillare e decise che non sarebbe morto, avrebbe portato quella moneta al figlio del suo amico e avrebbe continuato a respirare e a camminare per sé e per lui, perché la vigliaccheria non gli si addiceva e sapeva che Sava avrebbe fatto la stessa cosa.
Decise di vivere nonostante la consapevolezza del dolore e dei rimpianti che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.
In quel momento non era sicuro dell’esistenza del paradiso, ma sapeva che esisteva l'inferno. 

Un elicottero atterrò poco lontano dai corpi che piano piano iniziavano a decomporsi. 
Dei militari controllavano tutti, alcuni pensavano solo a verificare se erano morti mentre altri pensavano a quanto fossero giovani e a quante bare sarebbero state riempite.
Dopo un po' scoprirono quell'unico uomo vivo e lo aiutarono ad alzarsi. 
Sembrava che non volesse né bere né mangiare né tanto meno dire qualcosa. 
Lo portarono via, lontano da Sava, il ragazzo con gli occhi di smeraldo, il suo unico amore. 

 

Angolo della scrittrice
Ehi :)
Sono tornata dopo mesi (?) di inattività con una storia scritta per il contest
This is war di ManuFury.
Questo è il primo capitolo di cinque.

Ho inventanto un conflitto con i serbi perché mi serviva una scusa.
E quell'espediente per mandare i ragazzi a morire non credo che sia possibile,
ma se pensiamo ad una guerra che va avanti da tanto possiamo contemplarla.
Ora sto lavorando ad una cosa che riguarda sempre loro,
spero che conclusa la storia vorrete leggere anche questo piccolo extra.

Alla prossima,
SK

 
 

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Capitolo 2
*** Ricordi ***


 

La strana somiglianza tra una stanza d'ospedale e la concezione di paradiso è impressionante, ma non bisogna farsi ingannare. In ospedale si soffre e si muore, mentre in paradiso si sta sempre bene.

L'uomo spalancò gli occhi, si guardò attorno spaesato.
La testa gli pulsava e ad ogni respiro fitte dolorose gli percorrevano il torace.
Si sollevò leggermente, ma le fitte aumentarono di intensità e gli attraversarono tutto il corpo e subito ricadde sui cuscini emettendo un debole gemito.
Non riusciva a capire cosa gli fosse successo, i ricordi erano deboli bagliori nella sua mente, solo una cosa era fresca e nitida: due occhi verde smeraldo vuoti, morti, ma ancora pieni di uno strano bagliore, che riflettevano la notte e le sue stelle.
«Signor Cassian,  si è svegliato.» Un grosso uomo era entrato nella stanza e Iancu, preso com’era a cercare una posizione che non gli facesse male, non si era reso conto del suo arrivo.
Il nuovo arrivato era un energumeno scuro  che indossava una divisa militare che sembrava essere stata ritagliata da un tendone da quanto era grossa. Nonostante stesse sorridendo, incuteva un timore reverenziale che il ragazzo non aveva mai provato.
«Bene, ora inizierà una terapia per risvegliare i ricordi. Abbiamo bisogno di ogni informazione riguardo a quello che è successo  in quel campo.» Detto questo se ne andò, non lo salutò, ma Iancu non ci fece caso. Stava pensando a quelle parole.
“Ma se fra cinque minuti avrò già dimenticato il mio nome, come posso recuperare ricordi lontani?”

I giorni passavano e Iancu lavorava con dottori e psicologi per riacquistare la memoria. Procedeva lentamente, ma non per veri e propri problemi: era lui stesso ad essere spaventato all’idea di ricordare tutto, aveva paura di ricordare a chi appartenevano quegli occhi verdi. Eppure non poteva rifiutarsi, da lui dipendeva tutto, a quanto aveva capito.

«Signor Cassian, mi hanno riferito che ha recuperato la memoria. Mi dica perché si trovava in quel posto insieme agli altri tiratori scelti.»
E così, con calma, Iancu raccontò tutta la storia. Parola dopo parola, pensiero dopo pensiero, il racconto prese forma e nonostante potesse sembrare inventato era vero dall’inizio alla fine, ed era quello a renderlo ancora più angoscioso.

«Io e Sava eravamo su uno degli edifici della periferia di Oradea, dove dovevamo essere. Controllavamo i movimenti di alcuni Serbi. Si pensava che volessero attentare alla sicurezza della città per poi entrare nel nostro Quartier Generale, e con ragione, aggiungerei. Però era tutto silenzioso, non c’era nessuno in giro. Dopo un’ora passata a controllare il nulla ci hanno chiamati. Hanno detto che l’esercito Serbo ci aveva attaccati e che eravamo nei guai. Quasi tutti i soldati di terra* erano stati uccisi e noi dovevamo andare a dare una mano. Ci era sembrato strano, ma gli ordini sono ordini capo. Siamo arrivati con gli altri tiratori, erano scesi tutti dalle loro postazioni. La cosa mi ha reso ansioso, pensare che tutte le risorse erano lì e che nessuno controllava la città mi preoccupava, ma sono un soldato fedele agli ordini e ho combattuto per la mia città. I serbi erano molti di più, noi servivamo solo a prendere tempo. Quando ci avevano chiamato ci avevano riferito qualcosa riguardo alla tattica che stavano utilizzando, ma ora non lo ricordo.
Ricordo solo che uno dopo l’altro siamo stati feriti tutti, mi ricordo la mia gamba che sanguinava e che non riuscivo più a muovermi. Poi credo di essere svenuto, il resto lo sapete.»
Iancu aveva tralasciato le emozioni, non erano cose che si addicevano ad un militare, però aveva pensato a tutto, lo aveva rivissuto per la centesima volta e anche questa volta gli occhi gli si annebbiarono dalle lacrime ripensando ai suoi compagni. Desiderò di essere stato colpito al cuore invece che alla gamba e alla spalla. Si strofinò gli occhi con il lenzuolo e così facendo scoprì la gamba amputata, visione che lo fece stare ancora peggio.
L’uomo, vedendo lo stato del ragazzo, decise di aspettare fuori dalla stanza. Non voleva riferirgli subito quello che era successo ad Oradea in quegli ultimi giorni.


Angolo della scrittrice

Ciao a tutti.

So che è ancora peggio del primo capitolo, ma non uccidetemi.

Lasciate una recenzioncina, anche con critiche, così posso migliorare <3

Alla prossima,

SK


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Capitolo 3
*** Il villaggio brucia, la vecchia si pettina. ***


Oradea era silenziosa, i palazzi erano stati evacuati da tempo e le strade deserte sembravano far parte di un sogno. Il sole stava tramontando e tingeva la città di arancione e rosso, rendendo tutto più irreale.

Sopra alcuni palazzi in periferia si trovavano dei militari intenti a controllare i confini, però niente si muoveva.
Sull’edificio più alto due ragazzi sorridevano lievemente, uno controllava la strada e l’altro gli raccontava barzellette per passare il tempo. Quasi tutti i tiratori cercavano un modo per sentirsi a proprio agio, ma solo loro due ci riuscivano davvero.
«Sai cosa mi diceva sempre mio padre? Prima che morisse intendo.» Sava rise della propria frase, riuscendo però a non fare rumore. L’altro scosse lievemente la testa. «Diceva: “La guerra fa bene finché non sei tu a combattere e finché non sei tu a morire.” Lo ripeteva così tante volte.» Silenzio. Poi un sospiro.
«Ma non si riferiva a questa guerra. No. Lui intendeva quella tra le famiglie. Quella per cui è morto.»
Rimase un po’ in silenzio e poi, come se non avesse detto nulla, parlò di nuovo.
«Qualche giorno prima che morisse mi disse una cosa, una cosa che mi è rimasta impressa. “Il villaggio brucia, la vecchia si pettina.” Mi è rimasta impressa perché non l’avevo capita. L’ho capita solo quando mi sono arruolato. Lo vedi quell’incendio?» Indicò un fuoco dove i serbi poche ore prima avevano buttato le bombe. «Da qualche parte qualcuno lo sa e se ne frega, cerca un modo per uscirne bene e sembrare un eroe. Mentre là qualcun altro muore, perché la vecchia non ha saputo aiutarli. Ogni tanto mi pento di essere qui a combattere, ma non c’è nient’altro che io possa fare per mantenere mia moglie e mio figlio.» Un altro sospiro, tremante, si sentiva ansioso. Sentiva che qualcosa di brutto sarebbe successo. «Ho paura, Iancu.»
Il compagno si voltò di scatto allarmato. «Di cosa?»
«Di non rivederli.»
«Sava, io ti porterò fuori di qui. Tu rivedrai Filip e Ariana. A costo di morire, manterrò la mia parola.» Aveva la voce ferma, ma manteneva un volume basso. Sperò di essere risultato sicuro, perché dentro non lo era.
La radio incominciò a mandare un basso richiamo, Sava la prese e schiacciò un piccolo pulsante, subito una voce metallica attaccò un discorso.
“Gruppo J! I serbi ci hanno attaccati dal vostro lato, dovete subito raggiungere il campo. Siamo in minoranza, abbiamo bisogno di rinforzi. Ci hanno fatto credere che avrebbero fatto un attentato in città, ma stanno bombardando i campi provvisori. Andate subito là.”
La voce si interruppe, ma tutti avevano in testa il messaggio subliminale che c’era nell’ultima frase.
Andate. Lui è al sicuro. Lui è lontano.
Sapevano che stavano andando a morire, ma sapevano anche che poteva essere importante che loro trattenessero i serbi per un po’. Così andarono incontro alla loro morte, consci e sicuri del loro destino.


Angolo della scrittrice

Dato il livello pessimo di questo capitolo non dovrei definirmi tale, ma non importa.

Spero che non vi stiano sanguinando gli occhi e che riusciate a vedere lo schermo per lasciarmi una piccola recensioncina.

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Capitolo 4
*** Innocenza ***


La pioggia ticchettava lieve alla finestra, le gocce sembravano tante piccole mani che bussavano e chiedevano di entrare.
Iancu si girò nel letto stanco di sentire quel rumore. Non aveva dormito per tutta la notte; dormiva poco da quella notte ormai lontana nel tempo, ma viva nella sua mente. Era stato dimesso da qualche settimana eppure aveva rimandato l’incontro che lo aspettava ogni volta che arrivava il giorno che si era prefissato; una volta per un dolorino alla spalla, una volta per andare a fare una passeggiata, tutte scuse inventate per non rendere reale la sua situazione. Ma quel giorno era deciso: sarebbe andato da Ariana e le avrebbe parlato, gli avrebbe dato il suo sostegno se lei lo avesse voluto, gli avrebbe dato tutto, solo per restare fedele ai pensieri che aveva avuto nella solitudine di quella lontana notte di plenilunio che lo aveva cambiato - e in parte distrutto.
Mise giù dal letto la gamba sana e prese la protesi (“La vecchia sa preoccuparsi quando gli fa comodo” pensò amaramente.) da vicino al misero letto che aveva raccattato da un vecchio mercatino per due soldi. Si vestì con calma, nervoso al pensiero di ciò che avrebbe detto alla moglie di Sava, a tratti impaurito di fare una cosa così reale che avrebbe reso tutto concreto. Ripensò agli occhi morti dell’amico, alle stelle che si riflettevano nel verde delle iridi e sentì una nuova forza che lo animò e lo rese coraggioso.
Lo avrebbe fatto, a costo di soffrire per tutta la vita pensando alla realtà di quella perdita.
Inconsciamente scelse i vestiti migliori che possedeva, una bella camicia azzurra e dei pantaloni nuovi che non aveva mai indossato. Mise in tasca la moneta d’argento che teneva sempre sul comodino e diede uno sguardo veloce allo specchio.
Vestito così  sembrava un uomo come un altro, serio, quasi un benestante. Il viso era segnato da profonde rughe e occhiaie che disfacevano tutti i pensieri che potevano crearsi con la vista degli abiti. I capelli erano cresciuti, non voleva più vedere il taglio da militare che portava quando era nell’esercito.
Si passò una mano sulla testa e tirò indietro le ciocche che aveva davanti agli occhi. Due iridi nere spiccavano sul viso pallido come pozzi in un paesaggio innevato. Portava dolore in quelle voragini, eppure poteva passare per odio per come lo mascherava bene.
“Come sono cambiato.”

Scese dal pullman e si strinse nel cappotto sotto alla pioggia incessante. La stradina era deserta e i palazzi era illuminati da vecchi lampioni arrugginiti; le finestre erano quasi tutte sprangate e le poche che non avevano assi sopra erano chiuse e buie.
Arrivò all’angolo, davanti all’unico palazzo che sembrava abitato. Lo guardò un attimo, pensieroso, pensò era ancora in tempo per andarsene.
“No, devo farlo.”
Suonò una volta: non rispose nessuno. La seconda volta una voce di donna chiese scontrosa chi fosse.
«Sono Iancu.»
Il cancelletto si aprì senza altre parole dalla donna.
Le scale erano ricoperte di polvere, solo la parte centrale esulava dalla sporcizia. Il corrimano della prima rampa era caduto e giaceva come un cadavere per terra, ricoperto di polvere anch’esso.
La porta al secondo piano era socchiusa, due grandi occhi verdi lo guardavano dallo spiraglio curiosi. Si avvicinò e sorrise nonostante i pensieri tremendi che gli evocavano. Il bambino spalancò la porta e gli corse incontro.
«Zio Acu
«Ha chiesto molto anche di te, sai?» Una giovane donna era comparsa alle spalle del piccolo e lo guardava malinconica. «Pensavo che saresti venuto prima.» Una punta di risentimento spiccava dalle sue parole.
«Ho avuto dei problemi.» La voce del ragazzo era un sussurro pieno di senso di colpa. Prese in braccio Filip ed entrò.
Ariana gli servì del tè in una vecchia tazza e si sedette di fronte a lui, gli occhi castani carichi di aspettative.
«Non ho più zucchero. Di questi tempi di crisi…» Lasciò in sospeso la frase incapace di dargli un continuo che non sembrasse una scusa.
Iancu agitò la mano in un gesto indifferente. «Non importa. Lo bevo amaro.»
Il liquido caldo lo riempì di rinnovato coraggio. Era deciso.
«Sono venuto per dare una cosa a tuo figlio.» Fece per prendere la mano in tasca, ma lei lo fermò.
«No, se lo fai poi te ne andrai. Ho bisogno di qualcuno che mi stia vicino.»

Era arrivata la sera e finalmente la pioggia era cessata.
Avevano passato la giornata sul piccolo divano nella stanza adiacente insieme al piccolo Filip, un po’ dormendo e un po’ consolandosi in silenzio.
«Devo andare Ariana. Se vuoi torno domani.»
«No, domani parto per il campo per le famiglie dei soldati. Mi hanno chiamata dicendo che mi daranno un alloggio e del cibo e ora ho bisogno di questo. Sai, per lui.» Guardò il figlio con gli occhi tristi. «Voglio che viva meglio di quanto non abbiamo vissuto io e Sava.»
Iancu annuì e si avvicinò al bambino.
«Ehi capo, guarda qui.» Gli tese la moneta bucata al centro. «Era di tuo padre, mi ha chiesto di portartela.»
«Perché non me l’ha data lui?» Gli occhi innocenti lo sondarono e gli fecero tremare leggermente la mano.
«È dovuto partire urgentemente per una missione.»
«Per salvare il mondo?»
Il giovane uomo sorrise. «Sì capo, per salvare il mondo.»
Filip prese la moneta, la guardò, la girò e poi la tese di nuovo a Iancu. Aveva notato qualcosa nello sguardo dell’uomo che lo aveva portato a rinunciare a quel regalo.
«No, zio. Io di mio padre posso avere tutto, a partire dagli occhi. Tienila tu.»
Nonostante i suoi 4 anni capiva tante cose e sapeva che era una cosa giusta lasciare la moneta a lui.
Si sorrisero complici, mentre la moneta tornava nel suo posto nella tasca del cappotto.

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Capitolo 5
*** Morte ***


Morte

Iancu, 85 anni ormai passati da mesi, era seduto nel suo letto e guardava il ragazzo che si trovava ai piedi del suo letto.
Aveva gli occhi di suo padre, verde smeraldo, vivi come tizzoni e brillanti come gemme.
«Filip.» Lo chiamò vicino a sé mentre cercava qualcosa nel cassetto del comodino. «Questa volta non potrai rifiutarti di prenderla.» Gli tese una scatolina di vetro, un lato era ricoperto di velluto e al centro c’era la vecchia moneta d’argento bucata. Gli raccontò la storia di quel piccolo frammento di metallo con le lacrime agli occhi.
«È un ricordo importante, racchiude la vita di tuo padre e la mia. Racchiudici anche la tua. E ricordaci come due eroi.»
«Due eroi che sono partiti per salvare il mondo.»
«Io partirò tra poco, ma sì. Due eroi che sono partiti per salvare il mondo. Non voglio morire come un mostro, voglio che qualcuno mi ricordi come una brava persona.» Gli mancava il fiato, la voce gli tremava e si sentiva il corpo pesante.
«Zio, non sei stato mai un mostro. Hai fatto il tuo lavoro.»
L’uomo annuì poco convinto.
Gli venne in mente una frase che tanti anni prima Sava gli aveva detto.
Stavano facendo uno dei loro soliti turni insieme e parlavano della giustezza delle loro azioni, di religione e di inferno.
“I soldati si mettono in ginocchio quando sparano, forse per chiedere perdono dell’assassinio”
Quando gliel’aveva detto aveva riso, prendendolo in giro. Ma sul letto di morte quella frase (“di chi aveva detto che era? Voltaire?” pensò faticando a mettere insieme i pezzi della sua memoria) gli sembra quanto la cosa più vera.
Il suo ultimo pensiero, ad occhi chiusi, nella piccola stanza in cui aveva vissuto i suoi ultimi giorni, fu:
“Spero di avere chiesto perdono abbastanza. Ma non importa, io voglio andare da Sava. Anche se dovessi rinunciare al paradiso per l’inferno.”


Angolo della scrittrice

Ciao a tutti.

Eccomi qui con l'ultimo capitolo.

Mi dispiace di aver castrato così questa storia,

avrei voluto scrivere molto di più e molto meglio,

ma purtroppo ho dovuto scrivere con una scadenza

che era praticamente tra gli esami di riparazione

e l'inizio della scuola e ho avuto vari problemi.

Un giorno mi metterò a scrivere con più calma ogni capitolo

e spero che sia più di vostro gradimento.

Purtroppo ora non funziona tinypic

e non posso fare il codice per l'immagine per il titolo;

appena funzionerà caricherò l'immagine che ho creato.

Spero che nonostante sia stata scritta di fretta vi piaccia l'idea.

Alla prossima,

SK


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