Don't play Jesus

di GuessWhat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Workaholic ***
Capitolo 2: *** Quit that shit ***
Capitolo 3: *** Because, you see ***
Capitolo 4: *** I really want you ***
Capitolo 5: *** And I can't believe this is for real ***
Capitolo 6: *** So stay with me tonight ***
Capitolo 7: *** And please me, oh, please me ***
Capitolo 8: *** We need soothing ***
Capitolo 9: *** And I need to see you ***
Capitolo 10: *** Now, listen to me ***
Capitolo 11: *** Before you fall into my arms ***
Capitolo 12: *** It's a new start ***
Capitolo 13: *** It's alive with the beating of young hearts ***
Capitolo 14: *** And she can sing like my shore ***
Capitolo 15: *** Of all the lives I've touched ***
Capitolo 16: *** You are the one living within me ***
Capitolo 17: *** Get a move, baby ***



Capitolo 1
*** Workaholic ***


Avevo un gran bisogno di AU, una in particolare con contenuti angstosi (?) stemperati qua e là da un po' di momenti pseudo-comici. Purtroppo non sono un asso nelle introduzioni, quindi vogliate scusarmi. 
Vi avviso: tematiche forti e delicate in ogni capitolo. Più l'aggiunta di linguaggio scurrile, essendo narrata dal punto di vista di Levi.


 



Sono sempre stato un fottutissimo pezzo di pigro e quella sera davvero non facevo eccezione, visto che me stavo bello spalmato sul divano come una merda di cane spiaccicata sul marciapiede. E infatti mi sentivo abbastanza di merda, e capitava spesso, ma sembrava essere una specie di conseguenza del mio essere al mondo fin da quando misi fuori la testa dalla vagina lurida di mia madre: incazzato con tutto e tutti, a volte troppo stufo di tutto e tutti, e quindi schifosamente pigro.
I momenti di pigrizia mi prendevano sempre la sera quando me ne tornavo a casa da quella scuola puzzolente in cui lavavo i cessi sporchi di piscio di adolescenti e i pavimenti ricoperti dello schifo delle loro suole infangate, perché evidentemente insegnare ai propri figli che sfregare i piedi sullo zerbino era buona educazione era troppo faticoso per questi genitori moderni, ma che bisogno c’era d’altronde? Qualcuno sottopagato per lavare il culo e lo sporco di quei mocciosi ci sarebbe sempre stato, e guarda caso, quello ero io. Avevo una gran voglia di vomitare quando passavo lo spazzolone, ma alla fine della giornata ero soddisfatto perché avevo pulito (e occasionalmente spaventato qualche ragazzino che rimaneva a scuola a fare il pomeriggio. Dio, la soddisfazione che mi davano le loro faccette pustolose ed impaurite). Ah, non nego che a qualcuno avrei tirato una bella mazzata di spazzolone in testa (specialmente a un certo Jaeger o al suo amico Kirtchcoso, quando litigavano per la mezza cinesina), o una spruzzata di anticalcare negli occhi (e quella ci stava tutta in mezzo agli occhi del preside Pixis, quando lasciava la sua scrivania appiccicaticcia per via del rum. Sì, lasciamo perdere), ma via – non ero così sadico, e ‘sti giovanotti davvero non avevano alcuna colpa dei miei problemi esistenziali.
Mi rotolai un poco sul fianco e grugnii. Una tastiera elettronica e qualche colpo di batteria risuonò dalla cucina e fu presto seguito dalla voce stridula di Jake Shears che mi causava tremiti lungo la spina dorsale come tante unghie grattate sulla lavagna. Avevo impostato quella suoneria, I Don’t Feel Like Dancin’, per qualcuno in particolare a cui non si addiceva per nulla, e avreste dovuto vedere la sua faccia quando una volta non riuscivo a trovare il cellulare e gli chiesi di comporre il numero per riuscire a ritrovarlo ad orecchio. I suoi occhi azzurri si erano allargati in una maniera che non avrei mai ritenuto possibile e la sua bocca si era ridotta ad una fessura basita.
Lasciai che Shearsh continuasse a cantare per un po’, poi tutto tacque ed io distesi le gambe, soddisfatto di nuovo. Ero consapevole che avrebbe richiamato presto, forse nel giro di due minuti o forse di una mezz’ora, ma l’avrebbe fatto. La cosa divertente era che questo giochetto lo facevo davvero tutte le volte che chiamava, e anche se ogni volta avevo una stupidissima scusa diversa per non rispondere, ad ogni fottutissima occasione lui ci cascava. O faceva finta di cascarci? Nah, alla fine credo che facesse finta di credermi, d’altronde nel suo mestiere o lasci correre le stranezze dei tuoi ‘clienti’, o ti fai venire un fegato grosso così, per non parlare dei coglioni. Mi piaceva avere controllo sugli altri, ‘sta mania proprio non mi abbandonava, non che io facessi molto per ‘guarire’ dal momento che adoravo lasciare gli altri a pendere dalle mie labbra.
Stavo per appisolarmi ma ecco di nuovo Shearsh che richiamava la mia attenzione. Con una pigrizia oscena, mi misi a sedere e trascinai i miei passi stufi fino alla cucina pulita e spoglia. Presi il telefono. “Hm?”
“Ah, buonasera, Levi” quella sua voce calma era tipo miele al telefono, figurarsi dal vivo. Mi accomodai a sedere sul tavolo e dondolai i piedi con fare annoiato.
“Che vuoi?” non ero scocciato e lo sapeva, era solo il mio modo.
“Mi trovo in quartiere, sto facendo un paio di controlli su alcune famiglie della zona. Ti trovo a casa?”
L’idea che fosse vicino mi elettrizzava, in un certo senso. Giocavo col coperchio di carta di un astuccio di sigarette mentre gli parlavo. “Hmm, ma non dovevi visitarmi la settimana prossima?”
Lui rispose prontamente – che odio, non si scomponeva mai. Mai. “Certo, ma sono in zona; mi sembra giusto approfittare. Implicito che, se sei impegnato, rispetterò il mio solito programma.”
Lanciai un’occhiata all’orologio appeso al muro vicino alla finestra. Erano le otto e mezza di sera, e per quel che ne sapevo lui attaccava a lavorare alle nove del mattino, straordinari non pagati essendo un dipendente pubblico, uno di quelli della più bassa categoria: l’assistente sociale. “Hai già cenato?”
“No, a dire il vero ho saltato anche il pranz-“
Non lo lasciai terminare la frase. “Ti va bene della pizza surgelata?”
Ah, stavolta non rispose subito. Lo avevo messo a tacere, splendido; mi piacque così tanto quella sensazione che arrotolai le dita di un piede e mi concessi un sorrisino, tanto non poteva vedermi.
“Non so se è il caso…”era calmo di nuovo, però quella piccola nota di insicurezza non mi sfuggì, povero piccolo il mio assistente sociale. Non si fraternizza coi ‘clienti’, non è vero?
“Ti va bene o no?”
Lo udii sospirare. “Sì, va bene.”
“Hm. Allora ti aspetto” e buttai giù la conversazione, per precipitarmi dal freezer e tirare fuori il blocco marmoreo della pizza ghiacciata. Ora, dovete sapere che non mangiavo quasi mai a tavola. Di solito mi prendevo un piatto di plastica, ci schiaffavo sopra del tonno, o qualcosa del genere e mi sedevo sul divano a mangiare così. Chi li aveva i soldi per pagarsi l’acqua per lavare i piatti? Io no di certo, con la miseria che guadagnavo. Preferivo conservare l’acqua per lavare me e i pavimenti. Era stato Erwin, l’assistente sociale, che aveva combattuto una strenua battaglia legale per fare in modo che la misera casa in cui vivevo fosse pagata con sussidi statali; avevamo vinto, ma io non mi ero mostrato molto grato. Alla fine avevo sempre pensato che mi fosse tutto dovuto. Ero nato sfigato: che il mondo si prendesse cura di me per quel che può, che io non c’ho i mezzi, mi dicevo. Il resto non m’importava.
 Misi la pizza nel microonde e aspettai, mentre – incredibilmente - apparecchiavo con veri piatti, bicchieri e posate. Non mi chiesi perché, lo feci e basta. Le persone che si facevano troppe domande mi avevano sempre urtato, visto che io avevo la tendenza a seguire i miei istinti. Avevo voglia di apparecchiare per l’assistente sociale? Avrei apparecchiato per l’assistente sociale. Avevo voglia di scaccolarmi il naso? No, mai, perché mi fa schifo.
Erwin non ci mise molto a muovere il suo bel culo per arrivare a casa mia, quando suonarono il campanello sapevo che era lui (al massimo potevano essere Auruo e gli altri, ma non mi venivano a trovare quasi mai  a casa. Specie Auruo, che quando parlava e camminava per casa aveva il brutto vizio di mordersi la lingua a sangue, ed io odiavo pulire il sangue altrui). Però aspettai ancora una volta. Dovevo farlo aspettare. E presi il mio tempo per tirare fuori la pizza calda dal microonde, tagliarla e impiattarla. Solo quando finii tutto ciò, Erwin suonò di nuovo e riuscii davvero ad immaginarmelo nell’atrio del condominio squallido, con la sua faccia imperturbabile mentre premeva di nuovo il bottone, per nulla impressionato.
Gli aprii la porta e mi sedetti a tavola, iniziando a tagliare il mio trancio. Io ci provavo a dargli fastidio, a causargli qualche reazione, ma non ottenevo niente; doveva essere sempre così lui, perfetto e compassato, imperturbabile e metodico. Un po’ mi stava sul cazzo quando faceva così. Cioè sempre.
Dal mio posto in cucina lo vidi comparire nell’ingresso sciogliendosi in un quieto “Permesso…”. Pure con undici ore di lavoro sul groppone, quel maledetto sembrava solido come una roccia, bello come una star di Hollywood, ma più umano visto che teneva le spalle appena curve per la fatica della giornata ed i suoi denti, anche se puliti, non erano candeggiati. E sì, mi dava anche fastidio che se ne stesse lì nell’ingresso di casa mia come una specie di apparizione mentre si toglieva la giacca grigia, a volte quell’uomo non mi sembrava reale. Era attraente e da una parte me ne compiacevo, dall’altra mi irritava terribilmente. Sapete cosa? Lo avrei sbattuto a calci sul mio divano cigolante e mi sarei davvero goduto ogni singolo cigolio mentre lo cavalcavo. Mi ci ero masturbato spesso su quest’immagine. E non fate quelle facce. È tardi per fare i benpensanti lagnosi e bigotti; pure adesso che era stanco, con le ascelle pezzate (che schifo) e la cravatta storta me lo sarei fatto senza pensarci due volte. Spargeva testosterone come un fiore in primavera elargiva polline, eppure era sempre tutto riservato e dignitoso come uno scolaretto (ma perché gli studenti della scuola non potevano essere come lui, Cristo? E non parlo dell’aspetto, visto che a venticinque anni suonati non voglio considerarmi un deviato). Non sapevo niente di quanto scopasse, di come lo facesse, e volevo saperlo; soprattutto volevo sapere se aveva altre donne o altri uomini: nella mia fantasia, Erwin aveva una fidanzata e io davo della troia a quella donna senza volto. Sì, non avrei dovuto, e non è politically correct – ma me ne sbatto del politically correct, sinceramente. E poi l’immagine di lui che faceva sesso con me al posto della sua fidanzata mi eccitava da morire.
Comunque fosse non mi ero mai azzardato a tentare un approccio con ‘sto benedetto uomo, era una di quelle persone che stanno bene solo nella sfera delle tue fantasie ormonali e basta. Anche perché non aveva senso, considerato che… Bah, per lui fraternizzare con i suoi ‘utenti del servizio sociale’ era tipo una roba demoniaca, si vedeva dal modo in cui si stava avvicinando al tavolo con quell’aria vagamente pentita e a disagio; poi, detta come va detta, mi sembrava una di quelle persone noiose tutte romanticismo e cenette al ristorante, corteggiamento e parole gentili. A me non poteva fregar di meno di tutte ‘ste cazzate, dal momento che non facevano per me e lui mi attraeva solo dal pube in giù.
“Ti sei messo a cagare per strada?” gli chiesi, roteando la forchetta prima di addentare il boccone.
Lui sorrise, un sorriso un po’ stanco, e si sedette. “Sì, cioé – no, scusa per il ritardo. Mi sono dovuto fermare dagli Yorke.”
“Quelli con la figlia mulatta? La lesbicona?” ancora una volta, era ancora il mio modo di parlare. Quel che uno faceva a letto non era affar mio, dal momento che io stesso avevo una gran voglia di sbattermi l’uomo di fronte a me.
Comunque ricevetti un’occhiata vagamente accusatoria da Erwin, che corrucciò la fronte mentre tagliava il suo trancio, rigorosamente coi gomiti oltre il bordo del tavolo. Si sa mai che si rilassasse un po’ e come me mangiasse con i gomiti sul piano. “Levi…”
“Hm?”
“Comunque, sì. Sono dovuto passare dagli Yorke dato che c’è stata un’emergenza con Ymir” teneva gli occhi bassi sul suo piatto mentre mi parlava e si vedeva che aveva la testa ancora là.
Bevvi un sorso di Coca. “Tipo?”
“Ha picchiato la madre” disse. Sentii come quelle cose ormai non gli facevano più alcun effetto, almeno in superficie. “E spaccato svariati oggetti in casa, poi è scappata.”
“Oh.”
“Già.”
“Non accetta d’essere stata adottata, eh? Mocciosa irriconoscente, poteva rimanere a marcire in un orfanotrofio del cazzo o in casa della madre tossica, e manco t’ha ringraziato” dissi, ma neanche io l’avevo fatto quando si era fatto un culo così per far sì che lo Stato pagasse il mio affitto.
Lui fece spallucce e continuò a mangiare. “Sta attraversando un’età difficile” bevve un sorso d’acqua prima di continuare, “E a scuola non se la passa tanto meglio.”
“Ho sentito dire che gliene stanno facendo passare di ogni perché è lesbica e mulatta.”
“Precisamente.”
“Peccato che non faccio il turno di mattina, altrimenti avrei già perso il conto di quanti spazzoloni avrei ficcato su per il culo di tutti quei cretini” anch’io continuai a mangiare, dispiacendomi sinceramente di non fare il turno di giorno. Certi bastardi avevano solo bisogno di un paio di botte, era così che si cresceva, coi pugni in bocca che ti ricacciavano la merda su per lo sfintere, che in certi individui corrispondeva alla bocca.
Erwin non diceva niente, continuava a mangiare in silenzio con gli occhi bassi. Quindi cercai di pizzicarlo un po’. “Senti, ma perché me le dici ‘ste cose? Non sono informazioni riservate, o roba di ‘sto tipo?”
Allora mi guardò ed accennò un sorriso. “Domani lo saprà tutta la scuola, quindi almeno hai delle informazioni attendibili e di prima scelta.”
“Ahhhh, giusto. Non stai facendo una confidenza.”
Lui scosse il capo. “Assolutamente no” e mangiò l’ultimo boccone. Lo scrutai un momento mentre ripuliva il piatto da un paio di olive solitarie e mi accorsi di un dettaglio interessante; era circa da un mesetto che Erwin non veniva a controllare casa mia (a seconda del periodo, potevano passare settimane come pochi giorni, tutto dipendeva dai protocolli d’ufficio) e certe cose in un mese si notano. Bene, aveva i capelli più sottili del solito. Me li ricordavo belli sani, lustri e pettinati; a vederlo da più vicino e con più attenzione, mi accorsi che erano opachi, secchi e fragili.
“Che hai fatto con lo shampoo? Ti lavi col piscio?”
“Eh?” Lui sollevò il capo e dalla sua faccia mi accorsi che non sapeva di che stessi parlando. Si toccò la nuca e fece come per guardarsi alle spalle. “Ho i capelli sporchi?”
“No, sono sciupati come se li avessi lavati con acqua, sale e aceto” mi alzai e presi il suo piatto, per mettere tutto nel lavandino.
“In effetti… Sai, non me n’ero accorto.”
“Con quanto lavori, non mi stupirei se un giorno non ti si alzasse più e non te ne accorgessi nemmeno” era una battuta, ma Erwin avvampò, sembrava un ridicolo semaforo con un’espressione imbarazzata di puro contegno.
“C’è bisogno di me a lavoro, ecco tutto” aveva sempre la risposta pronta e gli avrei riempito la lingua di schiaffi ad ogni frase fatta che trovava per liquidare le situazioni; mi dava al cazzo, visto che non si accorgeva di essere umano e di avere bisogno di starsene a letto a dormire come tutti. Non avevo idea di che diamine facesse la sera, ma davvero non avrei fatto ‘ohhh non me lo sarei aspettato’ a sapere che passava la notte a compilare carte su carte, a rivedere fascicoli su fascicoli.
Chissà se il mio lo guardava, ogni tanto.
“Vabbé, lo vuoi il caffè?”
“Sì, grazie, volentieri” mi disse, ma il suo cellulare squillò. Una suoneria di quelle da vecchi, la ‘Nostalgic’, quella col telefono anni ’50 che suona come un pirla. Lo guardai prima di alzare un dito per prendere la macchinetta, Dio, se era il lavoro, mi sarei incazzato a bestia. Lo scatto della sua mano mi fece credere che lui voleva che lo fosse. Era troppo preoccupato per quella ragazza, io la conoscevo, e vedevo che era una tosta, che invece di prenderle le dava, e che non si sarebbe fatta infinocchiare facilmente. Ma lui, beh, lui doveva fare il Nazzareno della situazione, andare a raccogliere la gente dalle strade ed aiutarla tendendo le mani guaritrici sopra le loro teste. Ero sicuro che ogni vita che non riusciva a rimettere insieme era presa da lui come un fallimento personale. Mi faceva pena, ma boh, lo ammiravo allo stesso tempo.
“E’ la Polizia… Scusa” mi disse e si alzò di scatto, “Ma devo andare. Ho chiesto loro di chiamarmi se avessero trovato Ymir. Devo correre-“ fece una pausa e mi sorprese, perché si sporse verso di me, allungando appena la mano per toccarmi, poi la ritirò e finse di fare un ampio movimento per sistemarsi la manica della camicia. “Ci vediamo” fece, trafelato, e corse a prendere la giacca nell’ingresso.
“Seh, vabbé.” Nemmeno lo salutai, da tanto ero scocciato.
Mi rivolse un’occhiata, un’occhiata da cane bastonato, mi chiese scusa con lo sguardo (e io non avrei accettato le sue scuse) mentre rispondeva al telefono. “Pronto? Sì, sì” aprì la porta di casa mia con l’indice mentre si infilava goffamente la giacca col braccio libero, “Sono l’assistente sociale Smith, sì, senta, per Ymir…” poi la sua voce sfumò sulle scale, e più si allontanava, più io mi incazzavo.
Se avessi saputo che si sarebbe fermato così poco, non avrei tirato fuori quei cazzo di piatti di ceramica.

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Capitolo 2
*** Quit that shit ***


Ringrazio tantissimo chi segue e recensisce questa storia per il supporto e l'entusiasmo *_*
 




La scuola in cui lavoravo era, indovinate un po’, un fottutissimo liceo artistico.
Già. Applausi per me che ho mandato il curriculum là, sì.
No, devo essere onesto e parlare col cuore in mano, non era così terribile.
Era anche peggio.
I muri erano ricoperti di graffiti schifosi, le aule sporchissime, i laboratori –per carità di Dio, pitturate quanto vi pare ma almeno abbiate la decenza di non schizzare l’acrilico sui muri, che quella merda è sintetica e non si riesce lavare via- mi facevano venire voglia di piangere sangue e gocciolare urina dal naso. Sul serio, l’edificio era una vergogna, ma vogliamo parlare delle cartacce in giro? Dei residui di mine, gomme, pennarelli, pennelli buttati da tutte le parti? Di solito, in una scuola normale, gli studenti sono composti e perfettini quando sono dei primini, e dei delinquenti casinari all’ultimo. All’artistico funzionava tutto alla cazzo di cane ed erano delinquenti sempre. Sembrava che la maggior parte di loro fosse posseduta dal demonio quando metteva piede nella scuola: li vedevi proprio, vedevi il cambiamento nelle loro faccette, tutte candide e angeliche, mentre si trasformavano in tanti piccoli ritratti di Belzebù.
Beh, qualche anima si era salvata dalla perdizione, ma che c’è da fare, erano solo quelle eccezioni sante che confermavano la diabolica regola.
Sembrava che si arrogassero i diritti più idioti, ‘sti ragazzini, perché loro erano ‘artisti’. Eh, sì, avete capito. Loro erano artisti quindi potevano fare che cazzo volevano, dal graffitare i muri con piselli stilizzati, al lasciare frasi poetiche di Jim Morrison che sapevano di ho-scoperto-l’acqua-calda in indelebile sui banchi, per non dimenticare le scritte a gessetto sulle lavagne stile ACAB e merdate di ‘sto tipo. Devo dirlo? Devo dirlo. Mi stavano tutti sul cazzo, dal primo all’ultimo.
Erano tutti (o quasi, Tomas, Mina, Franz e pochi altri si salvavano) dei mocciosi problematici, ma più di tutti, lo erano quelli dell’aula 10, reparto 4, che non solo erano nella zona più merdosa della scuola (la piccionaia, praticamente) ma erano solo in seconda e Dio, il casino che non facevano.
Erano dei veri e propri casi umani. Non so nemmeno da dove iniziare a descriverli, forse dal quindicenne ormonalmente disturbato incapace di controllare le sue emozioni, tale Eren Jaeger. Che piovesse, facesse vento o splendesse il sole era sempre così: corrucciato come se ci fosse un serpente a mordergli i maroni. Fatto strano, era incazzato di rado, e in quei pochi casi lo era col ragazzo che sedeva dalla parte opposta dell’aula, Jean Kirtschqualcosa. Faccia di cavallo era il suo soprannome, e anche la sua intelligenza non è che spiccasse chissà quanto: alla prima occasione, lui e Jaeger si tiravano calci e pugni. Di solito perché Jean voleva pucciare il biscotto nella mezza cinesina ed era convintissimo che Jaeger volesse fare lo stesso. Due bestie che un paio di scopettate avrebbero raddrizzato.
C’era un tizio belga sempre al fianco di Jean, tale Marco Bodt: i compagni lo chiamavano Gesù Lentigginoso e avevo capito perché. Era un santone, nel senso che dovunque andasse spandeva ‘st’aura calmante che era una cosa, quasi avere bevuto tre tazze di valeriana.
Con me non funzionava ovviamente. Ma almeno non avevo voglia di ficcargli il Mocio fradicio in bocca.
Tornando a noi, c’erano ‘sti due che erano culo e camicia, Connie e Sasha: non so dire chi dei due fosse più pessimo. Ma forse era Sasha, perché in fondo Connie aveva solo la testa rapata e il modo di fare di un rapper sfigato americano, mentre la sua amica (o ragazza? Ancora adesso non ho capito e non m’interessa) aveva una fissa malsana col cibo – specialmente le patate. Ho visto degli assalti al banco della mensa quando servivano le patate arrosto, che davvero non volete sentirvi raccontare.
Tornando alla mia palla di rabbia preferita, Jaeger, era costantemente seguito dalle sue ombre: Mikasa, la mezza cinesina, e Armin. Che sembrava praticamente He-Man a quindici anni, ma va bene lo stesso. Mikasa, comunque, era una graziosissima fanciulla, ma picchiava così forte che nessuno osava farla arrabbiare –e guai a toccare Eren, suo fratello adottivo. Armin, invece, era sempre così tranquillo, sempre coi libri appresso, ma devo ammetterlo, un paio di volte l’ho sentito tirare fuori le palle, ed erano cubiche. Questo trio di strampalati amici d’infanzia si contendeva il titolo di ‘Tre dell’Apocalisse’ con Bertholdt (Bertoldo), Reiner e Annie.
E di questi tre, che dire? Erano silenziosi. Soprattutto Annie. Se ne stavano nel loro angolino, facevano le loro cose, ma non che non socializzassero, solo stavano sulle loro, si occupavano, insomma, dell’arte dei beneamati cazzi propri. Annie picchiava peggio di Mikasa, Reiner se ne usciva con delle battute sparate completamente a culo (e dal culo, aveva una fissa col culo), mentre Bertoldo sembrava avere l’innato talento di sudare come un maiale e puntualmente impestare l’aula. Giuro, non avevo bisogno di essere professore e guardare nel registro per sapere se era stato assente, mi bastava annusare. Presumo che, dopo due anni, i suoi compagni si fossero abituati al suo puzzo.
Per ultima c’era la ragazzina che era stata soggetto di discussione non molte sere prima con Erwin, Ymir: padre algerino e mamma norvegese, ignoravo come si fosse ritrovata orfana di padre ma sapevo fin troppo bene di cosa soffriva la madre, dato che… No, ma questo un’altra volta, adesso non c’entrano i cazzi miei con ‘sto discorso. Comunque, la madre era una gran tossica; Erwin aveva preso a carico le sorti della bambina e l’aveva affidata ad una famiglia quando lei era ancora piccola, appena sette anni, e lui appena all’inizio della sua carriera di assistente sociale. Il fatto che la nuova famiglia fosse amorevole non sembrò essere un deterrente e da allora quella ragazza ne inventa ogni giorno una nuova per dare gatte da pelare ad Erwin. Come se non ne avesse già abbastanza.
Da una parte, pensai mentre mettevo piede dentro la scuola semivuota quel pomeriggio, mi faceva un po’ pena quella povera bestia, ma la pena delle cose che fanno schifo. Niente mi toglieva dalla testa che Ymir fosse un’irriconoscente del cazzo, ma avrei davvero tirato delle secchiate di candeggina in testa a tutti quelli che pensavano che sfotterla perché era lesbica e mulatta fosse divertente.
Comunque, come per Jean, Ymir aveva il suo angelo personale ed era una bambolina alta così, piccina e graziosa coi capelli biondi e di seta, una piccola dea. Si chiamava Christa ed era angelica da farmi impressione. Avevo scommesso una stecca di sigarette con il professore di ginnastica, Keith, il folle dall’insulto facile e il metodo militare che pareva uscito da Full Metal Jacket, che quelle due si sarebbero messe insieme prima della fine della seconda.
A proposito di sigarette, me ne accesi una mentre iniziavo a sistemare una delle aule al pianterreno. Avevo sviluppato tutta una tecnica particolare per fumare e non sporcare, invidiata da tutto il corpo insegnanti che avrebbe voluto non farsi beccare a fumare una volta che gli studenti se n’erano tornati a casa. Ah, sì, puntualmente mi divertivo a terrorizzare anche loro. Fumare dentro la scuola era illegale e comportava sanzioni fino a blabablabla, ma nessuno aveva più provato a dirmi qualcosa dal mio primo giorno di lavoro lì, cinque anni prima.
“Giorno” biascicai un saluto passando davanti all’aula del corpo insegnanti, ed udii che parlavano di Ymir. Vidi un paio di teste girarsi; non era un segreto che io e la ragazzina condividessimo lo stesso assistente sociale. Risposi a quelle occhiate curiose sbattendomene altamente e mettendomi le cuffie  dell’mp3 nelle orecchie, anzi, proprio calcandole dentro i buchi auricolari. Non avrei risposto a nessuna domanda, in via del tutto ufficiale io non sapevo né più né meno di loro. E non ero lo stronzo adatto a spifferare.
L’assistente sociale Smith aveva quel cazzo di protocollo rigido, guai a fare confidenza con gli utenti. Sia mai che gli cascasse il pisello.
Sparai i Jethro Tull a tutto volume e continuai a pulire con il mio ritmo serrato. Mi accompagnai qua e là con una salutare sigaretta, toccasana per i polmoni.
Entrai nell’aula 10 del reparto 4, e col cazzo che avevo usato le scale con tutta la roba che dovevo portare, mi gettai nell’ascensore. Procedendo ad ampi passi in corridoio non sentii puzza di sudore, meno male. Bertoldo oggi non era venuto a scuola. Questa faccenda mi risollevò un poco il morale da sotto le suole, poi metteteci pure quella scarica di puro sesso nelle orecchie che era Locomotive Breath e avevate un uomo felice, quasi a posto col lavoro di oggi.
E invece?
E invece no, perché Ymir era seduta in classe, una gamba sul banco (aveva le scarpe infangate! Le avrei staccato i piedi a morsi e glieli avrei fatti mangiare) e il braccio a sorreggere la testa, guardava fuori con l’aria più annoiata e strafottente del mondo.
Mi tolsi le cuffie, reprimendo l’istinto di avventarmi su di lei e spedirla fuori dall’aula a calci. “Yorke, fuori.”
Lei mi guardò come si guarda la merda del cane di qualcun altro. “No.”
“Fuori.”
“Voglio stare qui. Non rompere il cazzo.”
“Fuori o chiamo Pixis” non avrei voluto farlo, ma fui costretto. Avrei preferito prenderla e buttarla giù dalla finestra, infatti.
“Sa’ che me frega” e la stronza rise, agitando il piede infangato sul banco.
“Che ne so” dissi, accendendomi l’ennesima sigaretta e andando ad aprire le finestre. Intanto che aspettavo che lei si levasse dalle palle, avevo bisogno di portarmi avanti col lavoro. “Non sono io quello che va nei casini se mi intralci.”
Ymir fece spallucce nella felpa di pile grigio tutta sformata. La sua famiglia adottiva era tutt’altro che povera ma lei voleva attirare l’attenzione e fare vedere a tutti come fosse difficile la vita di una povera orfana. Da che mi risultava, non era l’unica orfana nella classe. “Senti, ma i tuoi compagni ti menano mai?”
La presi in contropiede, perché non mi rispose. “E dire che un paio di botte te le meriteresti tutte” vacca, volli dire, ma me lo tenni per me.
“Sta’ zitto, cazzo…”
“Che ci fai qui a quest’ora, eh, Yorke?” incalzai, prendendo un’ampia boccata dalla mia sigaretta. Se si innervosiva avevo più probabilità di forzarla da sé fuori dalla mia cazzo di aula.
E ancora non rispose. Ed io, per ripicca, continuai ad incalzarla mentre, calmissimo, spostavo i banchi da una parte. “Canti qualche canzone? Leggi qualche libro?” Succhi qualche cazzo? Ma anche questa la tenni per me.
“Fatti i cazzi tuoi…”
“Farmi i cazzi miei corrisponde a pulire quest’aula fetida per uno stipendio che non basta a pagarmi il mangiare, perciò levati dai piedi” sciccai nel mio portacenere improvvisato e la guardai fisso.
“Non capisci una sega” mi rispose lei, soffiando tra i denti. I suoi occhi affilati cercarono di ferirmi, ma fu come lanciare un salame in un corridoio.
Decisi di prenderla da un altro punto di vista. “Tipo?”
“Non sai cosa si prova ad essere me.”
“Ahhh, interessante” me ne sbatteva zero, indovinato. Presi la scopa e iniziai a pulire la parte destra dell’aula.
“Non sfottermi.”
“Sia mai!”
“Stronzo, ti ho detto di non sfottermi!”
“Sia mai” ripetei. Cominciava ad essere noioso quando non potevi insultarla come si sarebbe meritata, visto che il mestiere ti lasciava con le mani legate. Una vera seccatura.
“Piantala!”
“Mi scusi, signorina” continuai a prenderla in giro, mentre mi avventuravo quasi sotto ad un armadietto per raccogliere alcuni pezzi di mina rotolati lì sotto.
“Lo sai che mi hanno fatto oggi?” voleva mettermi a tacere, ma aveva trovato un osso duro. Se lei era tosta, non aveva idea di che pasta erano fatti quelli come me.
“Nah.”
“Mi hanno chiesto chi è l’uomo nella coppia tra me e Christa.”
Annusai profumo di una bella stecca di sigarette gratis. Tutta per me. Prendi questo, Keith. “E?”
“E? E, cosa? Sempre saputo che eri ritardato, ma non fino a questo punto.”
Non le risposi, volli lasciarla parlare. Ero troppo concentrato a sbavare mentalmente per la mia stecca di sigarette per dare retta ai problemi di ‘sta mocciosa. Problemi, poi. Se questo era il massimo che le facevano, poteva benissimo cavarsela da sola.
Forse vide che iniziavo a pulire la lavagna dalla scritta IL SILENZIO CALERA’ QUANDO LA DOMANDA SARA’ POSTA (sì, tipico di ogni lezione di matematica o storia) e non le davo corda, perché senza il mio permesso, continuò la sua confessione. “E mi fa incazzare, ecco cosa. Mi fa incazzare dovere sempre spiegare tutto a quei pezzi di merda, che mi chiedono come funziona il sesso tra donne, e puttanate del genere. Mi viene solo da menarli.”
“Che è giusto” le dissi, liberando la cattedra dagli articoli di cancelleria, “Ma tipo, fottitene un po’.”
“Come?”
“Senti, Yorke, non so se sei nata ieri, ma ‘ste cose da una che mena pesante come te sinceramente, non me le aspetterei. Fa’ un po’ quel che ti pare, tiragli un pugno un bocca, un calcio nello stomaco o nelle palle, ma non venire a rompere l’anima a me coi tuoi problemi da quattro soldi.”
“E tu, che problemi avresti?”
“Allora sei  sorda” volli dirle che anche lei era ritardata. Me lo dovetti tenere per me. “La vita non è rosa e fiori, e tu devi fare una scelta. Puoi scegliere di tirare fuori la testa o di seppellirla nella merda e piangere merda lamentandoti che stai sprofondando nello sterco” ero molto serio mentre parlavo così. Sì, ‘sta ragazzina ripetente mi dava urto come quasi tutti gli altri minorenni della scuola, ma la odiavo? No, certo che no. Vedere altri che non fossero me mentre affondavano nello loro stesso schifo, mi faceva venire un prurito pazzesco alle mani, volevo prenderli per i capelli e farli riemergere. C’era solo una cosa che mi bloccava, anzi due; la prima era l’orgoglio (io ci ero riuscito da solo), e la seconda era il libero arbitrio (io non ho alcun diritto di salvarli se non vogliono essere salvati).
Ymir aprì la bocca, stava per rispondermi, ma fummo entrambi bloccati da un ansimare pesante proveniente dal corridoio. Cacciai fuori la testa dalla porta per guardare e per poco non feci un frontale con un petto incamiciato ed incravattato, profumato di Allure Homme Sport.
Balzai indietro, così da riuscire a vedere l’assistente sociale in tutta la sua figura. Indossava la stessa giacca grigia di un paio di settimane prima, quando mi era venuto a trovare; aveva gli stessi capelli secchi e opachi (avrei seriamente voluto consigliarli uno shampoo migliore) e la stessa faccia stanca. Aveva il fiatone, e anche se non era sudato, lo salutai con la mia finezza: “Che cazzo hai fatto, Erwin? La Parigi-Dakar a piedi?”
Lui gesticolò appena con la mano destra, continuando ad ansimare. “Ciao, Levi. No, ho solo salito le scale” sul punto di fare un riferimento caustico alla vecchiaia, Erwin mi parlò sopra. “Ciao, Ymir.”
“Mia madre mi cerca, eh?”
“Sì, Ymir.”
“Be’, dille che può andare a farsi fottere.”
“Andiamo, Ymir. C’è Christa a casa con tua madre. Sta cercando di consolarla. È preoccupatissima.”
Christa era un buon incentivo per Ymir, che si mise subito in piedi e raggiunse l’assistente sociale. “Levati” gli disse, dandogli una spallata e procedendo ad ampi passi fuori dalla classe, ora vuota a parte me e la roba per pulire. Erwin continuò a guardarla mentre spariva oltre la rampa di scale.
“Bah.. Grazie” brontolai, prendendo a spostare i banchi della parte opposta, ora che Ymir se n’era andata.
Lui mi rispose dopo un momento. Udii il tacco della scarpa contro il pavimento e mi chiesi se per caso se ne stesse andando senza nemmeno uno stracazzo di ‘ciao’.
“Per cosa?”
“Non riuscivo a scollarla da ‘sti benedetti banchi” gli risposi, iniziando a spazzare e maledicendo le scarpe infangate di Ymir che avevano riempito di polvere e pezzi di fango secco tutta l’aula.
Erwin sospirò. “Sta passando un periodo difficile…”
“Me l’hai già detto” mi accesi un’altra sigaretta.
“Ah. Giusto. Scusa.”
“Erwin” mi voltai di scatto. Era sempre stato molto educato, ma il suo comportamento aveva qualcosa di strano ultimamente. E poi, me lo ricordavo bello prestante. Mi diceva che andava a correre tutte le mattine. Quel fiatone non si addiceva ad un uomo del genere. “Stai bene?”
Tirò un sorriso e scosse una mano. “Sto bene, non serve che ti preoccupi.”
“Ansimi come un cavallo, mi fai schifo.”
“Ho solo fatto le scale…”
“Vabbé, farò che ti credo” dissi, in un linguaggio storpiato mentre imprimevo il Mocio nell’acqua, “Vedi di riguardarti, imbecille.”
“Ah, sì, sì. Lo sto già facendo.”
“Senti, non vai appresso a quella ragazzina?” cominciai a passare lo spazzolone bagnato sul pavimento e godetti all’odore di limone, fresco e pulito, misto a quello un po’ stantio del tabacco nella mia bocca. Era un contrasto stupendo, armonico per me – ed io uso di rado ‘sti paroloni da vocabolario. “Mi pare sulla buona strada per farsi mettere sotto da una macchina.”
“No, non serve. Christa è l’incentivo migliore.”
“Ah! Me ne sono accorto. E allora, che cazzo stai a fare qui?” appollaiando il mento sull’estremità dello spazzolone, con la mano libera gli feci ‘sciò sciò’.
Lui lo trovò divertente, davvero, e sorrise in un’alzata di spalle. “Al prossimo controllo verrà Zakarius.”
Zakarius… Ah, sì, capii chi fosse. Era praticamente il tizio che all’inizio avevo scambiato per il fratello di Erwin: anche lui era biondo, ma più tendente al topo, era più alto di Erwin ma più dinoccolato, e portava un bel paio di grassi baffoni e un grasso pizzetto. Si chiamava Mike e dovunque andasse c’era questa cortina di fumo che lo avvolgeva. Avevamo condiviso una sigaretta o forse due in un paio di occasioni. Un tipo a posto. E dal culo meno stretto di Erwin.
“Mike?”
“Sì.”
“Ah, bene. Impegnato?”
Non mi voleva rispondere, lo stronzo, e lo capii perché fece per andarsene. “Molto. Ci vediamo, Levi. Se hai bisogno di qualcosa, telefona in ufficio.”
“Ciao.”
“Arrivederci.”
Lo guardai sparire, lo vidi esitare un attimo di fronte all’ascensore e poi scendere le scale poco per volta come un vecchio. Mi chiesi che cazzo gli fosse successo. Mi sembrava uno spinello bagnato: la prospettiva era attraente, ma di fatto era fottutamente inservibile. Credetemi – lo avevo visto col naso spaccato, con un occhio gonfio, con un braccio rotto, ma era sempre lì, in piedi nella sua bastardissima perfezione  rivoltante (non era perfetto, niente lo era ai miei occhi, lui era solo la cosa che più si avvicinava al mio concetto di perfezione. Qualcosa che non crolla mai) a dare a tutti un consiglio disinteressato dall’alto della sua visione complessiva delle cose. Non portava rancori, o almeno non sembrava portarne e mi fece impressione, onestamente, vederlo così, sciupato, coi capelli opachi e il fiato corto.
Pensai e continuai a pensare a cosa avesse per tutto il giorno, coi Jethro Tull che andavano furiosi nelle mie orecchie, e non smisi di rimuginare nemmeno quando, alla sera, mi buttai a letto con tre birre in corpo (tanto domani è domenica, mi dissi. Che belle le feste del sabato sera dei single squattrinati e solitari, tutte alcool e seghe).
Con un rutto di malto, scivolai nel sonno. Alla fine, dopo ore ed ore di rimugino – non avevo molto da fare - giunsi solo ad una conclusione.
Il lavoro lo stava sfiancando.

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Capitolo 3
*** Because, you see ***


Come sempre tante tante grazie a chi segue, recensisce o anche solo legge questa storia!
Ho anche disegnato una scenetta tratta dalla fine del capitolo, gustatevela uwu!



Stavo ciondolando come un barbone ubriaco mentre andavo verso casa, il cappuccio della felpa verde scuro tutto tirato sulla testa, il capo raccolto nelle spalle come una specie di airone e una sigaretta in bocca, le mani nelle tasche, ostinate. Ero così ubriaco che non mi andava nemmeno di sciccare… Davo proprio l’idea di un accattone, con la sola differenza che avevo un tetto sopra la mia testa di cazzo sotto al quale rifugiarmi, e ci stavo tornando proprio in quel momento. Piano piano eh, senza fretta.
Ero stato a casa di Erd quella sera, c’erano anche Petra, Gunter e Auruo a fare presenza. Eravamo noi cinque amici della vecchia guardia, noi cinque che il tempo aveva mischiato in modo idiota e che aveva tenuto insieme con una specie di collante magico nonostante i casini che erano capitati a tutti noi durante e dopo le superiori. Di noi cinque, Erd era quello che aveva avuto meno problemi: aveva la madre anziana e malata, la assisteva con tanto amore filiale e dava buona parte del suo stipendio nelle cure che servivano a mantenere dignitosi gli ultimi anni della sua vita. Petra, povera anima, si era ritrovata a diciannove anni sola con due fratelli di quattro e sette anni, ma se la cavava alla grande, da quello che vedevo. Gunter aveva tentato fortuna all’estero, ma aveva perso tutto ed era rimasto in prigione fuori confine per un po’ per cazzi e mazzi economici. Da ultimo, Auruo mi aveva tenuto compagnia per anni in un brutto posto.
Ma eccoci qua – ci vedevamo ancora, ci ritrovavamo, e scherzavamo come ragazzini. O meglio, loro scherzavano; io me ne restavo a bere e a guardarli, ma mi divertivo, e mi sentivo leggero (forse anche grazie ad un tiro di spinello consumato in gruppo e alla birra): stavo così bene a sapere che erano tutti vivi. Che eravamo tutti vivi e che saremmo morti a stento. Eravamo tutti troppo duri, troppo pieni di croste e cicatrici per far sì che qualcosa potesse farci davvero male, noi ce ne stavamo lì, cinque sassi deficienti in mezzo alla tempesta della vita e ce la raccontavamo.
Comunque, io lo sapevo qual era il collante di noi cinque, quella sostanza che ci teneva appiccicati l’uno all’altro come cozze disperate al loro scoglio: l’assistente sociale Smith.
Smith, che aveva premuto affinché l’ospedale privato adeguasse le tasse ai guadagni miseri di Erd, panettiere; Smith, che aveva aiutato Petra a trovare sostegno quando non riusciva a badare ai fratellini; Smith, che aveva mosso mari e monti per sovvenzionare la nuova attività di Gunter; Smith, che ci aveva tirati fuori da quel brutto posto, da quel brutto vizio, a me ed Auruo.
Erd rise forte e tornò in cucina con un grande foglio a quadri e due grossi tomi: sospirai, scocciatissimo, mentre gli altri si agitavano come dei bambini. Cosa c’era di meglio di una sbronza tra amici e un’improvvisata partita a Dungeons&Dragons? Erd improvvisò per davvero una trama completamente alla cazzo, dove io (che non volevo giocare) ero il signore oscuro di un mondo asettico e pulito e gli altri, gli eroi della storia, erano dei luridi bifolchi il cui compito era riportare la sporcizia al suo antico, rugginoso splendore. Provenivano da un regno il cui centro del potere era una torre di merda e per poco non sputai la birra: la descrizione di Erd era così accurata (ed io ero così ubriaco) che riuscivo quasi a sentirne l’odore rivoltante. Che schifo, Erd!
I ragazzi tiravano i dadi nei modi più idioti. Quando un d20 (il dado con le venti facce per verificare la validità di un’azione) cadeva per terra e rotolava, tre voci urlavano “JUMANJI!!” a significare che quel tiro doveva essere valido anche se era caduto per terra. Non sempre Erd consentiva il ‘Jumanji’, ma eravamo lessi ed ubriachi come spugne, stavano combattendo contro una torre di merda o quello che era, e a nessuno fregò un cazzo. Io, però, per poco non mi strozzai con un d6 (il classico dado cubico) che era finito nel mio boccale senza che nessuno se ne accorgesse. Sputai tutta la birra sul tavolo di gioco, e mi lamentai a gran voce, mentre invece gli altri ridevano. Che fortuna che Erd abitasse in un villino in mezza campagna nella periferia dove risiedevamo. Nessuno si sarebbe lagnato che ‘non li facevamo dormire’, di sabato!
Alla fine sbaraccammo tutto. Alle due di notte, fatto strano ma non troppo, cominciò a venirci un languorino. Ci rinchiudemmo in cucina a fare la pizza, o meglio: loro cucinavano, ed io pulivo dove sporcavano. Era più forte di me, non scherzo nel dire che lo sporco mi causava (e causa) delle serie turbe. Non ne vado fiero. È una malattia. Ma quei quattro coglioni ci scherzavano, e facevano bene; li ringraziavo nel silenzio della mia testa per non farmi pesare niente del mio disturbo.
Mi ringhiava lo stomaco quando ci sedemmo a tavola ad azzannare una bella, grassa, alta, grande pizza fatta in casa. Avevo così fame. Sono sicuro che anche se non lo dicevano, quei quattro si preoccupavano per me, per i pochi soldi che mi guadagnavo e su cui risparmiavo per la mia malsana ossessione per la pulizia. Non rischiavo di morire di fame. Ma non seguivo una dieta regolare. Mi diedero la fetta più grande e mi lasciarono i loro avanzi e le loro croste. Spazzolai tutto. Petra mi lasciò metà della sua pizza, ma alla fine ero pieno. E sapete che fece? Me la arrotolò nella carta stagnola e me la diede da portare a casa. Era un angelo.
Mi buttai sulla sedia sdraio nella terrazza di Erd massaggiandomi la pancia piena. Nonostante la pizza, eravamo ancora tutti brilli… Eppure volevo lavare i piatti, e dondolai fino alla cucina per iniziare a sistemare. Fu Auruo a spingermi sulla terrazza con Petra. Ci chiusero letteralmente fuori, dopo averci dato due birre, una a testa: allo scatto della serratura, ebbi un brivido e volli scappare. Lanciai uno sguardo a Petra; mai stato esperto di cretinerie amorose, ma non ero stupido, e capivo. Semplicemente, capivo. Non serve spiegare.
Lei prese la birra dalle mie mani: le toccò nel farlo, ed io sudai freddo. La guardai negli occhi castani, mi sorrideva, mi sorrideva mentre apriva la birra col cavatappi, con quelle sue dita piccine e delicate, e per un attimo volli che si facesse male così che aprissero la porta e ci lasciassero entrare; ma non accadde e lei mi porse la birra, che presi con un gesto di sgarbo. Incollai le labbra all’orlo e voltai la testa di lato, fissai il cielo scuro sopra le nostre teste, sentendo i suoi occhi che mi fissavano.
 Sapete cosa voglio dire con ‘volevo scappare’? Era tutto ciò che provavo al momento. Lei parlava piano, mi diceva delle cose gentili e tristi, ma io non la sentivo. Mi stavo sforzando di non sentirla, perché Petra era un’anima buona, fragile, ed io ero uno stronzo senza peli sulla lingua ed ubriaco, che le avrebbe solo tirato parole sotto forma di sassi in quel momento. E io le volevo bene, e non la volevo ferire.
Quando lei disse qualcosa sulla linea di, “Mi sento sola coi bambini, vorrei tanto un uomo accanto” fu fatta, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Picchiai sulla porta per rientrare, urlando che dovevo pisciare. Non la guardai, non ne ebbi il coraggio. Scappai in casa, buttai la bottiglia vuota, presi i miei tranci di pizza nella stagnola e scappai come uno schifosissimo codardo biascicando buonanotte alle mie spalle.
Ed eccomi qua, con le mani nella sacca ventrale della felpa riscaldate dalla pizza tiepida e la sigaretta, con i passi dei pensieri che mi seguivano subito dietro. Petra. Petra non mi aveva mai capito. Solo che nemmeno io ero stato molto chiaro con lei. Eravamo sedicenni, o diciassettenni quando limonavamo nel parchetto e quando ci scappava un po’ la mano tra le mutande, e avevamo fatto sesso solo una volta, quando eravamo entrambi ubriachi ad una festa a casa di Auruo, sul letto nodoso di sua madre che puzzava di naftalina e lavanda. Non sapevo che cazzo avesse visto in me, reietto e disadattato. Boh, forse era il suo spirito di angelo del focolare. Non ne avevo idea.
Quei passi non smettevano di seguirmi e cominciai a capire poco alla volta, ancora brillo, che non erano i miei fantomatici pensieri. Mi fermai di scatto e mi voltai. Per poco non mi pisciai addosso.
Gli occhi erano due sfere buie e gli zigomi pronunciati erano sparati in fuori sulle guance magre, la luce del lampione evidenziava la brutta attaccatura alta dei suoi capelli neri e quei tre peli osceni che aveva in faccia e lui chiamava ‘baffi’. Nile Dawk era brutto come il fantasma delle tasse, vestito nella sua pesta uniforme da poliziotto che gli cadeva in maniera irregolare sul corpo.
“Sera” gli borbottai. Girai sui tacchi e ripresi a camminare come se non l’avessi visto.  Ma lui mi raggiunse presto e mi affiancò.
“Sono le tre di notte. Che ci fai in giro? Domani non dovresti lavorare?” che tono accusatorio del cazzo, come minimo lui era appena stato con una puttana, a giudicare dal rigonfiamento ridicolo nei pantaloni.
“Domani.. Oggi… è domenica.”
Non bastò il mio tentativo di essere realista a zittire il poliziotto. “Ti controllo, sappilo.”
“Controlla che cazzo ti pare.”
“Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.”
“Infatti, si vede.”
Ancora una volta non bastò ricordargli che aveva la pessima abitudine di pedinarmi. A volte mi dava l’idea che lo facesse per fissarmi il culo ed aspettare la buona occasione per palparmi una chiappa. “Ti stai offrendo da solo, allora.”
“Vaffanculo, Nile.”
“Potrei sbatterti dentro per oltraggio a pubblico ufficiale.”
“E allora fallo.”
“Preferisco beccarti a fare qualcosa di peggio, per dimostrare a quello stronzo che avevo ragione, anni fa” e ridacchiò con una voce secca.
Penso l’abbiate capito, ma comunque. Lo stronzo in questione era Smith. Per non dargli un pugno, accesi un’altra sigaretta con le mani tremanti. “Campa cavallo, che l’erba cresce.”
“Sì, sì, fai un po’ il bel fico – tanto c’è Smith che ti copre il culetto” e il fatto che avesse detto ‘culetto’ anziché ‘culo’ mi fece rabbrividire, “Ma un giorno Smith non ci sarà più, e quando ricadrai, io sarò lì ad accoglierti a manette aperte” rise. Divertentissimo, Nile. Divertentissimo.
Ma quanto mancava a casa mia? La strada con questo verme si stava rivelando più lunga del previsto, o forse ero solo stanco e maledettamente sbronzo. “Perché non fai come me?” gli chiesi, fermandomi al semaforo rosso per i pedoni. Pure di notte, e senza nessuno che girava, in quella zona avevano dimenticato di mettere la funzione di lampeggio ai semafori. Normalmente sarei passato. Ma c’era Nile.
“Cioè?”
“I cazzi tuoi.”
L’avevo fatto incazzare. E di brutto, anche.
Tutto si svolse in una manciata di secondi che per me, imbevuto di birra fino alle ossa, parvero ore dilatate.  Nile bestemmiò e mi tirò giù il cappuccio a forza fissandomi dritto dritto nelle pupille.
“Non ci credo!” non fu contento, e con una mano mi bloccò il braccio, mentre con l’altra si prodigò per tirarmi su la manica della felpa.
Come un gatto braccato, non pensai più a niente e reagii d’istinto per liberarmi da quel viscido, da Nile. Gli premetti la cicca bollente sulla mano; non fa male, non è grave, ma posso garantire che quel pezzo di merda urlò forte, e mi lasciò andare. Io scappai. Corsi come se non ci fosse stato un domani. Mi cadde il pacchetto di sigarette, ma non avevo la forza di bestemmiare o imprecare; volevo solo scappare, lontano da Nile, lontano da tutto e da tutti. Via, via, via, via.
Corsi come un pazzo fino a casa e corsi anche su per le scale, ‘fanculo se erano le tre di notte e qualcuno poteva svegliarsi ai miei passi pesanti, ogni posto era più sicuro della strada adesso, ma non mi sarei sentito sicuro del tutto finché non avessi varcato la porta e chiusa a chiave, doppia mandata.
Sbattei la porta con violenza e chiusi tutto, chiavistello e doppio giro di chiavi. Buttai il mazzo in un angolo e caddi in ginocchio con la schiena contro alla porta.
Mi sentivo violato. Quasi come se Nile mi avesse stuprato. Spogliato della dignità che avevo mi ero ricostruito in cinque anni sputando sudore e sangue, prendendo a gomitate il mondo nello stomaco per dire che c’ero anch’io, che adesso ero una brava persona, che ero cambiato, che volevo cambiare ed essere utile. Che ero sfigato, ma pronto a rimettermi, se non in autostrada, almeno su una stradina sterrata che portasse da qualche parte. E c’ero riuscito. Erwin mi ci aveva portato. Era stato paziente, si era preso le mie botte, i miei calci, un paio di sigarette spente sulle mani. Ma non aveva mollato. Lo sapeva, lo sentiva nel sangue che c’era del buono in me, che c’era del potenziale. Contro ogni mia aspettativa aveva creduto in me – e così mi aveva legato a lui, perché il suo credo era genuino, era vero, mi faceva schifo come le cose sporche ma ne avevo bisogno allo stesso modo per poterle spazzare via. E come con Petra, non avevo avuto la codardia di deluderlo.
Mi premetti le mani sulle orecchie.


Wake up in the morning with a head like, “What you’ve done?”
This used to be the life but I don’t need another one.
Good luck cuttin’ nothin’, carrying on, you wear them gowns
So how come I feel lonely when you’re up getting do-


“Vaffanculo, stronzo!” urlai tutta la mia rabbia nei confronti del telefono nella mia tasca, ma ce l’avevo con Shearsh e la sua voce stridula, e con le mie mani tremanti d’ira che non riuscivano a catturare il telefono nelle pieghe dei miei pantaloni.
Il tipo continuò a cantare per qualche altro secondo ed io mi misi a pregare dentro la testa che Erwin non riagganciasse, non stavolta, no, non volevo farlo aspettare quella sera. Ringhiai quasi nel prendere il telefono e mi schiacciai l’apparecchio contro l’orecchio, esclamando, “Erwin!”
Nessuna SPA del cazzo potrà mai competere con l’effetto calmante della sua voce. “Levi.”
“Che cazzo, che cazzo-“ ero troppo confuso, mi girava la testa, ed ero incazzato nero; non capivo, non vedevo, non sentivo, ma avevo bisogno di lui e –bestemmia- ero così sollevato che mi avesse chiamato. Ignoravo il motivo e non m’importava, ma l’aveva fatto proprio quando ne avevo più bisogno.
“Prendi un bel respiro e calmati.”
Feci come mi diceva. Mi concentrai solo sul suono della sua voce, che mi accorsi essere piena di sonno.
“Bravo, Levi.”
Non dicemmo niente per un po’.. Forse un minuto o due. Lui aspettò che mi calmassi, e parlò di nuovo. Volli gemere quando udii la sua voce ancora una volta, di una strana soddisfazione che non sapevo spiegare e che non veniva dalle parti basse. “Mi ha telefonato Nile… Ho saputo. Mi ha chiesto di tenerti d’occhio per stanotte. Se ti senti a posto adesso, però, non c’è prob-”
“Alza il culo e muoviti a venire qui.”
Non sto a descrivervi come passai l’attesa. Perché per me fu infinita, anche se di fatto non sarà durata più di un quarto d’ora. Erwin era meglio del 118, efficiente e tempestivo… C’è anche da dire che non avevo la più pallida idea di dove abitasse.
Quando suonò, gli aprii subito. E lo guardai bene quando finalmente arrivò sulla porta di casa mia. Ansimava ancora ma cercava di nasconderlo. Era chiaramente stato buttato giù dal letto, i capelli biondi e sciupati erano pettinati alla buona, e si era messo una tuta sportiva sopra il pigiama. Ero ancora ubriaco abbastanza da arrivare a pensare che i suoi occhi erano azzurri, azzurri come il mare anche se circondati dalle occhiaie violacee. Lo feci entrare.
“Tutto a posto?” mi chiese, togliendosi la felpa della tuta per restare in una comoda canottiera della salute. Quelle belle braccia possenti ma non troppo, mi ci volevo buttare in mezzo.
“Sto meglio di prima” grugnii. Avanzai in cucina e smollai sul tavolo i due tranci di pizza avvolti nella stagnola. “Accendi la tv e serviti, se hai fame” avevo sempre ‘sta fissa che Erwin avesse sempre fame, come se riflettessi su di lui i miei bisogni. “Io vado a farmi una doccia.”
Strisciai in bagno e lo lasciai a se stesso. Era in casa mia, quindi andava bene. Per quel che mi riguardava, poteva fare praticamente tutto quel che gli pareva a patto che non sporcasse. O forse anche quello.
Mi spogliai evitando accuratamente di guardarmi allo specchio e mi lanciai in doccia. Accesi l’acqua, la volli bollente, quell’acqua che brucia e manda via tutto: germi, impurità, sporco, tutte le cose sbagliate di questo mondo. Tenendo le braccia ben lontane dalla vista dei miei occhi, poggiai la fronte alle piastrelle e lasciai che l’acqua mi scorresse addosso, sulle spalle, sul petto, sulla schiena, tra i capelli, lungo le gambe, negli occhi. Dovunque. L’acqua doveva arrivare ovunque, anche se quelle mie braccia, e lavare via ogni cosa. Ogni segno. Ogni ricordo. Tutto.
Mi tremarono le ginocchia ma non crollai.
Mi bruciò la gola ma non lo chiamai.
Chiusi gli occhi e finsi che l’acqua sul collo fosse il tocco delle sue labbra, mi immaginai Erwin che entrava in bagno, che si spogliava e mi raggiungeva, che mi abbracciava da dietro. Ero così microscopico comparato a quel gigante di Erwin Smith. Sentivo le sue mani sulle spalle, sulle braccia. Non mi tesi a quel pensiero, nemmeno quando lo figurai toccarmi l’incavo tra braccio ed avambraccio. Nella mia fantasia, lo lasciai fare.
Lasciai che coprisse tutte le dosi che mi ero fatto sulle braccia. Quell’ammasso orrendo di tessuto cicatriziale nella piega del gomito, e tutti gli altri segni sporadici, quando la carne e le vene erano diventate troppo stronze per lasciarsi bucare ancora, ancora e ancora. Tutto quanto spariva sotto alle sue dita, sotto ai suoi palmi grandi, e io non avevo il coraggio di spaccare la mia muraglia ed urlargli, gridargli, buttargli in faccia anche solo un cazzo di grazie.
Uscii dalla doccia, grondante e un po’ più sobrio, quando l’acqua divenne ghiacciata. Brutto segno, la bolletta sarebbe schizzata alle stelle, ma stavo un po’ meglio ora che ero rimasto solo con l’acqua, il sapone e la mia fantasia. Innocente, per una volta. Evitai lo specchio, ma stavolta fu solo a causa della stanchezza; non lo feci di proposito. Intravidi il mio riflesso e non ci diedi peso. Perché ora mi sentivo quasi bene.
Mi vestii col pigiama (canottiera e calzoncini, tutto rigorosamente nero) che avevo lasciato in bagno. Lasciai i capelli bagnati; la testa fredda mi aiutava a ritornare sobrio, e a mantenere dei morsi di lucidità. Sciabattando, mi misi a cercare Erwin per casa. Fui guidato da un suono raspante e da un soffio che si ripeteva a cadenza regolare e lo trovai sul divano, con la testa all’indietro sullo schienale, la bocca aperta e le mani abbandonate sulle cosce.
Quando lo scossi per svegliarlo, avevo già preso la mia decisione. “Erwin” ricevetti un grugnito in risposta. Afferrai il suo dito medio come fanno i bambini quando tirano i genitori e lo spinsi un po’ verso di me. “Vieni a dormire.”
Lui aprì gli occhi e se li sfregò con la mano, sbadigliando e trattenendo un respiro mozzo. Nel rialzarsi, mi toccò l’incavo del gomito del braccio destro.
Fu così bello. Potevo vomitare da quanto lo stomaco si stava rotolando.
“Sono riuscito a fare ragionare Nile” disse, mentre si alzava in piedi, tenendo le dita appena premute sul blocco di tessuto cicatriziale, “Non sarà così clemente la prossima volta. Mantieni la calma, Levi.”
Gli presi la mano, ma gentilmente, per allontanarla e notai una delle due cicatrici da sigaretta che gli avevo lasciato. “Vabbé” dissi, solo perché non volevo verbalizzare che aveva fottutamente ragione. Che dovevo stare calmo. E capire. Sopportare. Fare qualche sacrificio. Mi sembrava tutto più sopportabile con lui a mezzo metro.
Andammo in camera mia. Ci coricammo sopra le coperte, ma dopo un po’ io mi arrotolai sotto le lenzuola, ed Erwin (che era educato e non faceva ciò che il padrone di casa non sembrava concedere) mi raggiunse dopo poco. Nonostante il letto matrimoniale ed il fatto che dormissimo su due piazze separate, con nessuno dei nostri arti che invadesse lo spazio altrui, Erwin era fottutamente caldo; mi chiesi se era normale e se dovessi preoccuparmi per la sua salute. Nel silenzio dell’appisolamento, Erwin piegò in due il suo cuscino sotto la testa. “Aspetta” sussurrai, “Tieni il mio” era il cuscino su cui dormivo sempre. Lo guardai mentre con un bisbigliato “Grazie” se lo sistemava sotto il capo ed il mio stomaco ebbe un altro fottutissimo, ridicolo balzo; come un cretino, mi stavo esaltando all’idea che avrebbe dormito col mio odore nel naso. Nel mio letto. Anche se non ci toccavamo.
Steso sul fianco, rivolto verso di lui, ero così eccitato, e non parlo del mio pisello, che non riuscii a dormire finché non mi accorsi che Erwin stesso si era addormentato. Lo ascoltai un po’, e stavolta con un cuscino doppio sotto la testa non aveva problemi a respirare. Non ero capace di dirgli grazie, ma potevo fare qualcosa.
Non ero vergine e avevo scopato diverse volte con diverse persone di diverse nazionalità, colore, sesso e religione. Quel letto l’avevo condiviso con più di una persona, ci avevo fumato più di una sigaretta post-sesso, eppure in quel momento, in quel preciso momento mentre Erwin grugniva nel sonno, fui scosso da un’altra capriola del mio cazzo di stomaco che mi diceva, mi sussurrava nell’orecchio come un piccolo Satana cornuto, che non avrei voluto nessun altro in quel letto con me. Da lì a finché sarei campato.
Non avevo mai fatto qualcosa di così tanto intimo. Fu così che mi addormentai, quasi di colpo.

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Capitolo 4
*** I really want you ***


Grazie a tutti quelli che seguono e recensiscono!! Vi avviso che in questo capitolo c'è una scena a rating rosso, ma non ho deciso di flaggare la fic con questo rating perché si tratta dell'unica scena di quel tipo nella storia. 
L'ho segnata con asterischi in caso la vogliate saltare.
Buona lettura e scusate il linguaggio, ma è Levi, che volete farci!




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Fui svegliato da qualcosa di molto piacevole e caldo nell’inguine. Mi ricordo che grugnii e che piano piano uscii dal mio stato di torpore, anche se non seppi quanto ci misi, ma quando lo feci, vidi la testa di Erwin seppellita tra le mie cosce e nel momento in cui lui ricambiò il mio sguardo, con quei suoi occhi azzurri, vivaci, capii che era da un po’ che cercava di svegliarmi succhiandomelo da sopra i calzoncini.
Ridacchiai e lo lasciai fare, mettendomi a giocare coi suoi capelli lisci e morbidi mentre lui mi abbassava le mutande e iniziava a prendersi cura di me con quelle sue belle labbra carnose e quella sua svelta lingua calda. All’inizio erano solo baci e leccatine accompagnate da un po’ di moto di mano, sì, bello, carino, una provocazione decente, ma volevo di più. Gli strinsi i capelli e gli spinsi la testa giù. “Muoviti” lo incalzai e lui ridacchiò prima di seguire il mio consiglio.
Buttai la testa all’indietro: succhiava davvero bene. Anche meglio di come avessi immaginato. Mi piaceva la sensazione umida della sua bocca e soprattutto del modo in cui pompava; imprecai forte quando mi prese tutto in gola, e il bastardo lo fece ancora e ancora, rischiando di farmi venire troppo in fretta. Ma in fondo non mi sarebbe dispiaciuto sborrargli dentro, mi dava una bellissima sensazione di controllo. Infatti gli tenevo la bionda testa giù,  con forza, lo costringevo, praticamente, a sopportarmi tutto. Una delle sue mani si arrampicò sotto alla mia canottiera ed Erwin mi strinse un capezzolo, provocandomi un gemito che mi fece allentare la presa.
Allora si tirò su con rivoli di saliva spessa che connettevano la sua bocca a me, le guance rosse e una faccia furba, da vero porco, a rinvigorirgli gli occhi. Si mise in ginocchio di fronte a me leccandosi via la saliva dalle labbra, ed io mi ritrovai con la sua erezione sotto le mutande ad un palmo dal naso mentre mi sollevava da sotto le ascelle e mi metteva seduto, alzandomi i polsi sopra il capo e bloccandomeli contro la testiera del letto. Cominciavo ad avere l’acquolina in bocca al pensiero di cosa stava per fare; mi sentivo la sua troia e mi piaceva tantissimo. Lui se ne accorse perché con la mano libera avvicinò il pollice alle mie labbra ed io, ovviamente, glielo succhiai nella maniera più eloquente che potevo, guardandolo dal basso, e poi rivolgendo l’attenzione davanti a me. “Bravo” mi disse, carezzandomi i capelli. Un attimo dopo, si abbassò le mutande e mi ritrovai con la sua erezione imponente e pulsante a pochi centimetri dalla faccia.
Erwin fece qualcosa che non mi piacque subito dopo questa presentazione di tutto rispetto: guidandosi con la mano, iniziò a passarmi il suo glande coperto di liquido pre-eccitatorio su tutta la faccia. Mi faceva schifo, ma allo stesso tempo mi invogliava, specialmente quando me lo passava vicino alle labbra; scocciato dal suo tergiversare idiota, voltai il capo di scatto e lo presi quasi tutto in bocca. Lo sentii gemere e fu stupendo. Mi concesse libertà per un po’, ed io mi gustavo pure troppo il fargli un pompino, specialmente perché non aveva un sapore cattivo, anzi. All’improvviso mi prese per i capelli e mi spinse indietro, poi con la stessa mano mi allargò la bocca da una parte, spingendo il pollice dentro la guancia. “Apri bene la bocca” sussurrò, ed io lo feci, “E sta’ fermo”.
Non riesco nemmeno a spiegare quanto fossi fottutamente arrapato. Lo ero talmente tanto che lo lasciai fare tutto da solo, lasciai che si spingesse dentro la mia bocca e la mia gola quanto voleva, col ritmo che pareva a lui, che fosse rude, o che fosse lento. Ma non mi causò mai il bisogno di vomitare, per fortuna, mi rese solo più allupato che mai. “Bravo, così. Gemi per me” non me ne ero reso conto, ma stavo gemendo mentre lui si divertiva in questo modo. Non stavo godendo fisicamente. Mi piaceva solo essere trattato come la sua puttana.
Rimasi deluso quando, dopo due ultime spinte profondissime, si fece indietro. Poteva venirmi in bocca, se voleva. Non mi dava l’idea di una cosa sporca dal momento che lo avevo assaggiato ed avevo appurato che era in tutto e per tutto pulito.
Mi tolse i calzoncini e mi afferrò le cosce, lasciandomi finalmente liberi i polsi. Mi girò sul fianco, ed io lo lasciai fare ancora una volta; morivo dalla voglia che mi usasse. Tenendomi giù la gamba contro al materasso, Erwin sollevò l’altra e si sedette, poggiandosi il mio polpaccio sulla spalla. Oh, sì. Questa posizione mi piaceva da morire. Lo guardai leccarsi le dita per bene e gli regalai un altro gemito quando iniziò a muoverle nel mio culo. Non avevo bisogno di abituarmi alle sue dita spesse, ero già pronto per prendere, da un’altra parte, la sua erezione. “Muoviti e scopami” gli dissi, dando un pugno al materasso.
“Sei una gran troia” mi rispose in tono soddisfatto, e si spinse dentro di me nella maniera più brutale possibile. Arricciai le dita dei piedi godendo come un lurido maiale e lo pregai di andare più forte, di farmi male, di usarmi, di distruggermi col suo cazzo. Mi scopava come un animale, con furia, esattamente come gli chiedevo, mandando la mia testa a sbattere contro la testiera, e la testiera contro al muro. Il letto cigolava sotto alla forza delle sue spinte e ed io sfiatavo come un cavallo imbizzarrito, afferrandomi un gluteo con una mano per offrirgli una visuale migliore. “Sei così stretto per essere una troia” e queste parole segnarono la mia condanna, visto che divenne veramente brutale, brutale da farmi male di piacere: continuò a scoparmi con un ritmo barbaro, finché non venni urlando il suo nome, schizzando in una maniera indegna da tutte le parti.

 

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Poi riaprii gli occhi e mi accorsi di essere da solo, di pomeriggio, nel letto vuoto.
E voi ci siete cascati tutti.
Seriamente, se ci siete cascati, vi mancano una marea di nozioni su come funziona il sesso gay. Quello vero, non quello che leggete nelle storielle porno nei libri o su internet. La saliva come lubrificante, ma voi siete pazzi. Senza contare che, cosa più importante, vi mancano un paio di nozioni su Erwin Smith. Davvero avete creduto che un uomo come lui potesse sul serio insultarmi durante il sesso? Avete visto un film.
Non che si sarebbe manco azzardato a toccarmi in quel senso; mi pare d’avervi già spiegato che no, non avrebbe mai e poi mai osato, aveva un protocollo da seguire, regole rigide a cui applicarsi, tra le quali figurava l’imperioso e tronfio ‘non fraternizzare con gli utenti del servizio sociale’. Certo, certo, capivo che doveva mantenere una sua figura professionale e tutto quanto. Ma vabbé. Lasciarsi andare gli avrebbe fatto solo bene.
Tastai alla cieca sul comodino in cerca del cellulare e non lo trovai, eppure mi ricordavo chiaramente di averlo appoggiato lì. Mi misi seduto con la testa che pulsava ancora dalla sbronza di ieri sera e udii dei suoni di stoviglie provenire dalla cucina. Chi cazzo er-
Una pentola cadde sul pavimento, e una voce le fece eco, “Per la miseria!”
 Ah, già, che ritardato. Erwin, ovviamente. E chi se lo aspettava ancora a casa? Certo non io. Il protocollo vigeva autoritario sopra la sua testa, ma comunque ero sicuro che avesse un motivo professionale per essere rimasto qui. Figurarsi se l’aveva fatto per questioni personali, tsk.
“Non spaccarmi niente o ti distruggo i coglioni.” Gli feci sapere che ero sveglio con la voce più piatta di ‘sto mondo, senza bisogno di urlare, dopotutto casa mia era piuttosto piccola.
“Scusa, Levi!”
Grugnii in risposta e rotolai (non letteralmente) verso il bagno. Il sogno bagnato della notte passata era stato bagnato sul serio; non volete sapere che casino avessi nelle mutande. Morivo dalla voglia di gettarle nel secchio della biancheria sporca e prenderne un paio pulite. Me ne sbattei della bolletta per stavolta e mi feci una doccia ugualmente. Uscii dal bagno nudo come un verme, tanto Erwin stava ancora a spignattare non so cosa in cucina. A questo punto non serve specificare che se mi avesse visto in quello stato non mi sarebbe dispiaciuto, magari sarebbe stato un buon incentivo a prendermi per una buona volta e scoparmi come si doveva.
False speranze erotiche comunque, visto che lo conoscevo. Mi vestii con una maglietta ed un paio di calzoncini della tuta, impresentabile al massimo (non me ne fregava un cazzo), e lo raggiunsi in cucina.
Ecco, improvvisamente mi sentii l’essere più schifoso dell’universo ad essermi fatto tutte quelle seghe e sogni erotici su di lui sotto forma di porno divo.
Perché Erwin Smith se ne stava lì nel mezzo della cucina di casa mia con il mio grembiule azzurro e una paletta nella mano mentre aggiustava alcune bistecche di pollo sulla griglia. Anche se erano sciupati, i capelli biondi gli ricadevano ai lati del viso: imprecai mentalmente contro un santo a caso. Sembrava di cent’anni più giovane coi capelli così.
Forse era il grembiule che addosso a lui stava giusto e a me cadeva appena largo o forse erano quei capelli disordinati (per i suoi standard), fatto stava che aveva l’aria più rilassata che gli avessi mai visto su quella sua faccia di merda mentre grigliava del petto di pollo. Si voltò verso di me e mi sorrise chiudendo gli occhi; ‘fanculo, il mio stomaco si era messo a fare le capriole di nuovo, ma io non ricambiai il suo gesto gentile, limitandomi a guardare altrove e strisciare verso il tavolo. Dove mi attendeva una tazza di the caldo. Senza zucchero. Come piaceva a me.
“Dove hai preso quella carne?” gli chiesi, afferrando la tazza in modo non convenzionale, dall’orlo invece che dal manico.
“L’ho comprata dal macellaio.”
“Scherzi.”
“No.”
“E chi cazzo ti ha dato il permesso?”
Erwin si diede un colpetto sul gluteo sinistro. Lo ammetto. Mi chiesi se ci stesse provando. Poi capii che in realtà si stava tastando il portafoglio – meno male, cominciavo a sentirmi in colpa sul serio, perché, boh, era così innocente, e buono, candido, onesto, semplice come una persona di campagna. Come avevo fatto anche solo a pensare di volermelo trombare come un animale?
Visto che non gli rispondevo, Erwin mi parlò sopra, continuando a girare la carne. “Mentre dormivi, ha telefonato Petra.”
Improvvisamente interessato, tesi l’orecchio. Sudai freddo, ma meno di ieri sera; la ragazza era lontana, e,  non so, era come se il resto del mondo avesse perso d’importanza ora che Erwin era a casa mia.
“E’ molto preoccupata per te, Levi.  Era molto sollevata di sapere che hai passato la notte al sicuro, comunque, considerando come te ne sei andato da Erd ieri sera. Temeva che ti facessi male lungo la strada o incontrassi qualcuno…”
“Infatti” borbottai, poi bevvi un sorso del mio the, “Ho incontrato Nile.”
“Gliel’ho riferito” Erwin tolse il pollo grigliato dal fuoco e lo mise a raffreddare mentre tagliava e puliva un caspo d’insalata. “Ci ha tenuto a farmi sapere che non segui una buona dieta.”
Non disse nulla su come Petra aveva preso la notizia di Nile. Supposi che avrei dovuto chiederlo a lei. Mi guardai intorno e mi accorsi che il cellulare era lì, nell’altra tasca dei suoi pantaloni della tuta. “E tu hai preso lemie chiavi e sei andato a comprare da mangiare per me.”
“Ti ho riempito il frigo con formaggi freschi, verdura, latte e uova. Nelle credenze troverai diversi pacchi di pasta, riso ed orzo, un po’ di pane in cassetta, crackers, poi in freezer ti ho messo pesce surgelato e vari tagli di carne.”
“E tu hai fatto tutto questo per me mosso da uno spirito puramente professionale” tenni gli occhi fissi sulla sua nuca rasata mentre metteva l’insalata tagliata e pulita dentro una ciotola, seguita da altre leccornie che  vedevo col binocolo: olive nere, mais, pomodorini.
Mi aspettavo una delle sue odiose risposte pronte, ma –sorpresa sorpresa- tardò ad arrivare. Oh, Erwin, che fai, esiti? Sollevò appena il capo, poi lo riabbassò e si mise a tagliare il pollo già meno bollente a striscioline.  “Certo.”
Sbuffai infastidito e finii di bere il mio the. Quella brodaglia mi stava facendo bene al cervello e allo spirito. “Dammi il cellulare, va’.”
“Sì, scusa.”
Nel momento esatto in cui si voltò per restituirmi il telefono (dato che non volevo toccargli il culo. Cioè, sì, ma no. Non ci avrebbe detto proprio un cazzo con la situazione), mi chiesi: e se avesse sbirciato nei miei messaggi? Guardai il suo musetto onesto e pulito come il culo di un bambino, quegli occhi azzurri e trasparenti anche se un po’ stanchi. Erwin Smith non c’aveva proprio l’aria da bugiardo. Ma meglio non fidarsi. Forse due o tre sere prima mi sarei seriamente ingrifato di brutto all’idea che lui avesse letto i messaggi che mandavo soprattutto ad Auruo – ogni tanto me ne uscivo con delle osservazioni fottutamente sporche sull’assistente sociale. Alla fine ad Auruo si divertiva e tra di noi, tra noi quattro (Petra esclusa, infatti) c’era sempre stata quella goliardia sessuale e ci lasciavamo andare alle peggio confessioni senza tanti problemi.
Mandai subito un sms a Petra. Le dissi che poteva stare tranquilla e che stavo bene. Lei mi rispose in un attimo, chiedendo se poteva chiamarmi.
Guardai Erwin che mescolava la maionese all’insalata di pollo e le scrissi “No, magari più tardi.”; un secondo dopo aggiunsi, “Di’ ai ragazzi che sto bene”.
Erwin aveva già apparecchiato per due, e non ce la feci ad incazzarmi per la scelta di posate di metallo e piatti in ceramica; davvero, ci provai mentre mi metteva una porzione abbondante d’insalata di pollo nel piatto, ci provai ad odiarlo per essersi preso tutti quei diritti su di me quella giornata. Mi faceva incazzare, come sempre, perché era troppo perfetto nel suo essere, ai miei occhi, un ammasso informe e troppo alto di difetti messi insieme. Perché, volete dirmi che comportarsi così, da padrone di casa, non era un difetto? Avevo un territorio definito e mi sarei dovuto incazzare con lui per averlo invaso; ma forse, solo forse, non avrei dovuto incazzarmi con qualcun altro? Me, per esempio? Con me, io che mi lamentavo di questo e di quello e poi alla fine ci godevo come un bambino ad essere coccolato in questo modo dall’assistente sociale? Chissenefrega se lo faceva per i suoi fini professionali o se era sincero.
In bilico tra il credere alla sua sincerità umana e alla sua devozione al lavoro, cacciai tutti questi pensieri cretini giù nelle profondità dello stomaco con un avido boccone della mia insalata squisita. Stavo esitando e stavo ponderando, ed io, che agivo d’istinto, non potevo accettarlo.
“Ti piace?” mi chiese.
“Commestibile. Questo basta” mi piaceva un casino.
Rise con delicatezza, versandosi un bicchiere d’acqua. “Giusto, questo basta. Levi, posso chiederti una cosa?”
Alzai gli occhi dal mio piatto e mi pulii l’angolo delle labbra sporco di maionese con la lingua. C’era il tovagliolo, ma quello era pur sempre cibo. “Seh.”
“Avrei comprato uno spazzolino mentre ero fuori, dato che non gradisco stare dopo i pasti senza essermi lavato i denti. Specialmente nei tuoi paraggi. Ti spiace se uso il tuo dentifricio e il tuo asciugamano?”
Cosa, cazzo? Si era comprato uno spazzolino solo per lavarsi i denti mentre era a casa mia? Sì, calmati Levi, calmati. Lo fa perché sa della tua malattia, mi dicevo, non c’era nessun altro motivo che quello. Erwin Smith sapeva come trattare con le persone sia per mestiere che – pensai - per dote naturale, era più che logico che avesse deciso di trattarmi con riguardo anche in quel senso. Certo. Logico.
Fui davvero un idiota, realizzai solo in quel momento che Erwin non puzzava di sudore, e che quindi doveva essersi lavato nella mia doccia, con il mio sapone e si era asciugato tutto il corpo con il mio asciugamano. Il fatto che si fosse rimesso i vestiti della notte passata non m’importava; erano ancora puliti, altrimenti me ne sarei accorto.
Iniziai a sentirmi iperattivo dalle ginocchia in giù e mi accigliai, cercando d’imbrigliare il casino che avevo in testa e che una domanda così semplice e stupida mi aveva causato. “Fai pure” gli risposi soltanto e tornai ad attaccare il mio piatto.
“Ti ringrazio” mi disse tranquillo e anche lui riprese a mangiare.
Ero troppo nervoso per stare zitto.
“Oi, Erwin.”
“Hm?”
“Senti, respiri come un cane morto tutte le notti?”
“..Eh?”
Lo guardai fisso, e male, per un attimo. “Sarà da due o tre settimane che invece di respirare, rantoli.”
“Ah!” mi sorrise, un sorriso così tirato e falso. Che cazzo mi stava nascondendo, il bastardo? “Sarà l’aria pesante di questa città.”
Chiamai a raccolta tutte le mie forze per non prendere il piatto e lanciarglielo in faccia. Avrei fatto un bel quadro con le foglie d’insalata, le olive, il mais e il pollo. E la maionese, soprattutto la maionese.
Continuai a mangiare senza dire una parola; ero quasi offeso da questo suo essere misterioso nei confronti di un piccolo malanno, perché, beh, poteva tranquillamente smetterla di fare il Superman della situazione, sempre in giro a salvare il culo di mezzo mondo. Nessuno gli avrebbe puntato il dito contro se si fosse preso una cazzo di pausa, nessuno. Tantomeno io.
Indovinate un po’? Neanche lui disse una parola. Si era barricato in quella sua calma di merda.
Per il nervoso, ne approfittai mentre sparecchiavo e mi allungai a prendere un pacchetto dalla stecca di sigarette che mi aveva dato Keith per la scommessa su Ymir e Christa. Nonostante volessi riempirlo di botte, come sempre, porsi il pacchetto ad Erwin, senza dire niente.
Lui piegò le labbra in un sorriso e sollevò la mano, frapponendola tra sé e il pacchetto. “No, grazie.”
“Oi?” sollevai un sopracciglio; questa era nuova. “Ma tu non fumavi?” bofonchiai mentre mi accendevo la sigaretta.
“Non più.”
“Hm-mh” feci in assenso, mettendo via il pacchetto e prendendo un primo, grasso tiro. “Come mai hai smesso?” mi buttai senza grazia sulla sedia, tenendo le braccia incrociate e le gambe accavallate.
Al contrario di me, lui sedeva con gli avambracci sul tavolo e le mani intrecciate, le gambe leggermente divaricate. Interessante come le nostre posizioni fossero opposte – la mia comunicava chiusura, la sua apertura – ma alla fine, in fondo, eravamo l’esatto contrario di quello che sembravamo comunicare. C’ero io, che parlavo col cuore in mano e senza censure e poi c’era lui, con i suoi modi gentili, e le sue omissioni del cazzo.
“Perché tu continui?” capii che non mi stava dicendo di smettere, stava solo arginando l’argomento.
“Perché preferisco fumare invece che impanare cotolette” gli risposi, tirando una boccata senza sciogliere le braccia, accigliandomi ancora di più, “Secondo te perché, idiota?”
Ridacchiò Erwin, e scacciò la nuvola di fumo che gli buttai in faccia continuando a sorridere. “Immagino perché ti piaccia. E immagino che ti piaccia perché ti rilassa.”
Bestemmiai e non ottenni nessuna reazione. “Bravo il mio coglione” imitai un applauso sbuffando altro fumo, “E adesso che hai indovinato, cosa vuoi, un bacio?” le parole mi uscirono così. Perché io sono fatto così. Nessun ripensamento, nessuna domanda; o almeno era così che volevo essere. Infatti, non me ne pentii. Nel peggiore dei casi lo avrei fatto scappare di casa, era pur sempre una reazione.
Non si fece aspettare il mio piccolo carino assistente sociale; Erwin sorrise di nuovo, facendo spallucce senza mostrarsi minimamente imbarazzato. “Può darsi.”
Lo conoscevo il bastardo, e non mi fidai di lui. Sulle grandi cose, beh. Mi sarei lanciato nelle sue mani, gli avrei affidato la vita, ciecamente, non importava come e con quali mezzi l’avrebbe salvata, purché lo facesse; sapevo che l’avrebbe fatto. Ma per le piccole cose, i discorsi, quei dettagli insignificanti che si ostinava come uno stronzo cornuto a tenere per sé, col cazzo che mi sarei fidato. Per cui gli risposi serissimo, finendo la mia sigaretta e schiacciandola nel piatto. “Lavati i denti, prima” tanto sapevo che non mi avrebbe preso sul serio.
Infatti non mi rispose. Tipico.
Mi presi su e me ne andai dritto filato in bagno. Dopo il pranzo e la sigaretta avevo bisogno di lavarmi i denti; Erwin mi seguì, senza dire niente. Mi stava prendendo per il culo, per caso? Aveva trovato scarso materiale per i suoi giochetti imbecilli.
Presi il mio spazzolino e lui mi raggiunse, mettendosi di fianco a me col il suo personale spazzolino nuovo di supermercato, un orribile coso bianco e blu con gli inserti in gomma e la testina sagomata e tante altre porcate per un igiene orale costosa. ‘Fanculo, se doveva usare il mio lavandino, avrebbe rispettato i miei ritmi. Misi il dentifricio sulla testina e non mi degnai manco per il cazzo di passarlo a lui, ma Erwin, che era testardo come un mulo, non si fece scoraggiare e lo prese indietro, iniziando a spazzolarsi i denti subito dopo di me.
Era una situazione strana che mi rendeva nervoso, perché lui si lavava le zanne in tutta calma, mentre io lo fissavo nel riflesso dello specchio e soprattutto fissavo la schiuma, sperando tipo che gli si sbrodolasse sulla canottiera come ad un moccioso. Nei tre minuti che impiegai a lavarmi i denti non successe assolutamente niente di niente, niente schiuma, niente sbavature, niente. Mi sciacquai la bocca e subito dopo lo fece lui; gli rubai l’asciugamano da sotto gli occhi e mi asciugai bene fissandolo con sfida negli occhi. Bastardo. Non avrebbe mai avuto il coraggio di fare quel che aveva detto, perché lo conoscevo e me lo sentivo nel fegato che lui era uno stronzo, e che avrebbe sempre seguito la sua procedura di merda. Mi girai per mettere via lo spazzolino e il dentifricio.
Poi sentii il palmo di una mano sulla nuca, delle dita forti che mi afferravano la testa e la giravano; poi due labbra premute sulle mie.
Descritto così sembra una cosa dolce, ma non lo era per niente, perché Erwin mi girò di scatto e in modo piuttosto grezzo; e Dio, mi fulminassero se dico che me lo sarei mai aspettato. Infatti reagii d’istinto tirandogli una ginocchiata nelle palle (la differenza d’altezza giocò a mio favore), pure se non uno dei miei migliori calci, anzi; al che lui reagì con un mugugno di dolore, piegandosi in avanti e pressando ancora di più le labbra sulle mie, sbilanciandosi di peso e mandandomi schiena al muro, lui chino su di me.
La sensazione di essere in trappola svanì praticamente subito e non capii più un cazzo… C’era solo il suo respiro contro la guancia, le sue mani sulle spalle, e le sue labbra sulle mie. Come altro posso descriverlo? Era solo questo, per me. Chiusi gli occhi, mi rilassai. Dischiusi la bocca e gli chiesi, così, di fare quello che voleva, ovvero, baciarmi. E lo fece.
Il suo alito era fresco, e caldo insieme; vivo, in un certo senso. Mi baciò con calma, senza imbarazzo – mi chiesi se anche questo era un sogno erotico, ma no, non poteva esserlo perché gli accarezzai  i capelli ed erano secchi. E nei miei sogni erotici non ci baciavamo mai.
I nostri denti si scontrarono solo una volta, e lo fecero ridere mentre si staccava dalle mie labbra con uno schiocco; il suono sommesso della sua risatina era un miliardo di volte più sexy di quanto che avevo sognato quella notte. Mi strappò un sorriso, mi augurai che non l’avesse visto. Comunque lo coprii subito dopo, tornando a baciarmi, questa volta con foga, stringendo la canottiera in una mano ed i capelli nell’altra. Disperato. Quel baciò mi sembrò fottutamente disperato. Carico di una passione selvaggia e moderata – l’avevo sempre sospettato che lui fosse quel genere di amante. No, sto mentendo, credevo che fosse uno tutto romanticherie e porcherie varie. Volevo vedere se eravate attenti.
Non mi azzardai a stringergli i capelli a mia volta; li sentivo troppo fragili. Gli avvolsi una mano alla nuca e l’altro braccio attorno alle spalle piuttosto, ricambiando nello stesso identico modo. Mi staccai prendendo un respiro che suonava come un sibilo. “Alla buon’ora, bastardo” ringhiai e gli morsi appena il labbro inferiore, tirandolo coi denti.
Gli piacque e lo sentii perché si lasciò andare, finalmente, ad un basso sospiro, seguito da un lieve ansimare. Dio, Erwin, calmati – pensai. Non eravamo ancora in camera da letto, e già ansimava. Lo presi come una cosa positiva, finalmente, un segno che mi voleva. Occristo, finalmente, finalmente. C’era una festa nel mio apparato digerente, in quel momento…
Quando le sue mani mi afferrarono da sotto le cosce ed Erwin mi caricò in braccio, non ci potevo credere. Reagiva. Reagiva.. Morivo dalla voglia di gemergli nell’orecchio quanto mi aveva frustrato per anni con la sua bella presenza, la sua gentilezza e le sue maniere educate. Avevo dei flash, veloci, caldi, della camera da letto. Del tutto diversi dalle schifezze che avevo sognato. Roba di tutto un altro livello.
Vedevo le sue mani che mi carezzavano le cosce e la pancia, vedevo lui che mi provocava stendendosi sopra di me e sfregando la sua erezione con la mia, lo vedevo ricoprirmi di baci, di morsi. Avevo la chiara immagine di lui che mi baciava con foga mentre mi penetrava per la prima volta.
Erwin mi baciò ancora ed io gli strinsi le braccia attorno al collo costringendo il bacio a diventare più profondo, quasi bloccandogli il respiro. Fu una pessima scelta la mia. Accadde tutto in un attimo: lo sentii emettere un suono strozzato, le sue braccia divennero dei budini molli e mi lasciò scendere di colpo, ma sempre facendo attenzione che non mi facessi male, il caro piccolo assistente sociale; poi, all’improvviso, si piegò sul lavandino e tossì.
Ecco; questo mi fece abbastanza schifo, ma, pensai, si poteva risolvere con un’altra lavata di denti. Roteai gli occhi e gli diedi qualche colpetto sul torace per aiutarlo a tossire, a quanto pareva c’era qualcosa di grosso che gli bloccava le vie respiratorie, ma comunque… Certo non sarebbe stata quella merda lì ad impedirmi di avere il mio uomo. Oh, sì. Il mio uomo. Bastava che si sbrigasse. Erwin continuava a tossire senza molti risultati.
Sospirai, scocciato con il catarro che non sembrava voler smettere. Che schifo. Il mio povero lavandino. Non sarei riuscito a tuffarmi in camera con lui prima di ripulire quel casino. Semplicemente, non avrei avuto l’anima in pace. “Oi, Erwin…” lo avvisai a modo mio, prima di dargli una pacca piuttosto forte. Almeno con quella si sarebbe liberato definitivamente di quello schifo, no?
Erwin emise un altro suono strozzato e tossì quasi vomitasse.
Rimanemmo pietrificati a guardare il lavandino. Per diversi secondi. “Erwin…”  se qualcuno mi avesse buttato una cassa di ghiaccio addosso mi sarei sentito meglio. “Quella roba è sangue…”

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Capitolo 5
*** And I can't believe this is for real ***


Grazie mille a tutti coloro che recensiscono la fic!! Mi scuso davvero se non rispondo alle vostre recensioni ma sappiate che le adoro tutte e mi spingete davvero a continuare a scrivere con più entusiasmo *_____*
Avviso che in questo capitolo tratto una malattia molto delicata: mi sono debitamente informata, ma non ho nessun parente e/o conoscente che ne soffre quindi se dovessi urtare la sensibilità di qualcuno, mi scuso preventivamente! 
Ah, una nota importante: non aggiornerò per un bel po', ovvero dal 20 di Agosto al 15 di Settembre. Ma poi tornerò carichissima quindi non perdetevi per strada! uwu Vi mando tanti baci :*




Sbattei lo spazzolone per terra e mi misi a passarlo avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro su una macchia di acrilico sul pavimento. Se di solito fumavo come una ciminiera, quel giorno mi stavo facendo una sigaretta dopo l’altra come un maledetto polo industriale. Cercavo di smettere per bene del mio lavoro ma non c’era minimamente verso.
Non serve specificare quanto il mio cervello fosse saturo di pensieri, direi. Se fosse stato possibile aprire una qualche anticamera, tanta merda fumante sarebbe scivolata giù dalle profondità del mio cranio; poi chissà, mi sarei sentito liberato.
Non era così. Non si potevano aprire anticamere e non si poteva fare uscire proprio un cazzo dalla mia testa. Non mi restava che fumare, fumare, fumare, fumare. Al diavolo l’invecchiamento della pelle e le bronchiti, potevo smettere quando volevo. Quante volte avevo ripetuto ‘sta maledetta frase in passato.
Finii l’aula e trascinai la mia roba fuori. Mi tolsi i guanti e li gettai vicino al secchio; con le mani che puzzavano di lattice, mi diressi verso le macchinette in cerca di un leggero sollievo sotto forma di caffè.
Era passata suppergiù una settimana da quando Erwin aveva avuto quello spiacevole incidente a casa mia: mi aveva rassicurato che non era niente, che si era morso la lingua, al che io gli avevo aperto la bocca e gli avevo tirato fuori la suddetta con le dita, ispezionandola bene per poi tirargli un pugno alla spalla subito dopo. Non c’era alcun morso, né sulla lingua né nelle guance, gli soffiai contro per sapere cos’avesse. E lui mi aveva solo detto “Niente”, mi aveva aiutato a ripulire il macello nel lavandino. Aveva preso la sua giacca della tuta, mi aveva salutato e se n’era andato. Per accomiatarsi mi aveva dato un bacio all’angolo della bocca; era rimasto lì ad aspettare che ricambiassi. Ma col cazzo che lo feci. Incrociai le braccia e gli indicai la porta con il mento. Se voleva andarsene, che si levasse dalle palle in fretta e mi lasciasse da solo a bruciare di rabbia e frustrazione. Mi beccai una delle sue occhiate deluse, rassegnate e allo stesso tempo piene di accettazione dei fatti poi Erwin sparì giù per le scale.
Quel bacio non aveva cambiato assolutamente niente tra di noi, o almeno così credevo.
Per i giorni seguenti non lo cercai, sebbene ci fosse una vaga spinta a farlo nel mio petto; la soppressi col fastidio di sentirmi secondo ed inutile, e, udite udite, usato. Avevo sempre sognato che Erwin mi usasse per i suoi piaceri sessuali, ed adesso che mi veniva il dubbio che forse lo stava facendo davvero, ne ero davvero urtato nel profondo. Per quale altro motivo mi avrebbe dovuto baciare e poi se ne sarebbe dovuto andare così, senza manco dirmi che cazzo avesse? Una bronchite, che so io? Non sapevo dire cosa mi creasse più frustrazione, se l’essere tenuto all’oscuro, l’idea di essere usato o, intrecciandomi al secondo motivo, il fatto che non era andato fino in fondo. Se doveva trattarmi come un sex toy, che almeno lo facesse con criterio, cazzo.
Ma ero fottutamente in ansia e tutti quegli sbuffi ‘gne gne mi ha usato e non mi ha scopato’ servivano solo a patinare di zucchero la superficie della montagna di sterco che avevo in testa.
Poi mi chiesi se per caso non si fosse pentito, in fondo, di quello che aveva fatto. Magari aveva davvero una fidanzata? O un fidanzato, visto che mi era parso piuttosto rilassato quando ci eravamo baciati. Lo avevo guardato bene, sapeva come muovere gli utensili da cucina – poteva significare che viveva da solo? O che forse era solo un buon fidanzato e si dava da fare a sua volta per il partner. Mi ridussi a fare speculazioni senza senso da tanto ero in ansia. Dopo qualche giorno avevo tentato di chiamare Erwin. E indovinate un po’? Telefono spento o non raggiungibile, poi l’invito a lasciare un messaggio in segreteria telefonica. Questa simpatica situazione si ripresentò in più di un’occasione. Con un’orchite da fare invidia, chiamai in ufficio per sbottargli in faccia un “Allora?” ma mi aveva risposto la segretaria (o il segretario? Era una persona tanto androgina che sembrava maleducato chiederlo. Sì, pareva maleducato persino a me) Nanaba, dicendo che Erwin non era disponibile. Volevo parlare con Mike, e mi disse che non era disponibile, di nuovo. Chiesi il numero privato di Mike, ma Nanaba rifiutò.
Giuro, quello fu il momento in cui scoprii che apparentemente non era prassi comune nel loro distretto fornire il numero privato dell’assistente sociale ai suoi utenti. Forse questo piccolo dettaglio mi fece stare un po’ meglio…
Tornando al presente, pigiai il dito contro il bottone della macchinetta e fui servito molto presto col mio caffè. Avevo terminato parte del mio lavoro per quella giornata; più tardi sarebbe venuto Zakarius ad effettuare un controllo sull’utente del servizio sociale (conosciuto come me medesimo), così come Erwin mi aveva detto un paio di settimane prima, perciò avevo chiesto che per quel giorno il turno fosse spostato alle ultime due ore del mattino e alle prime due del pomeriggio. Fino alle quattro era abbastanza facile trovare studenti in giro per la scuola. Una rottura di palle, vi giuro. In genere mi capitava d’incontrarli solo un paio d’ore al giorno, capite un po’ come stavo.
C’era qualcosa che dovevo fare, comunque, una curiosità che mi faceva male sulla punta delle dita. Strisciai fino all’aula computer, passando col mio caffè sotto al cartello VIETATO MANGIARE E BERE NELL’AULA INFORMATICA. Che due coglioni. L’aula era praticamente piena per non so quale tipo di progetto pomeridiano sull’arte digitale (bene, l’istituto aveva i soldi per pagare fior fiore di tablet ma neanche un quattrino per pulire quei fottutissimi graffiti e riparare le perdite d’acqua nei bagni). Per mia sfortuna era riempita da quei mocciosi dell’aula 10 del reparto 4. Non c’era manco mezzo computer libero, non che fosse un problema. Alcuni ragazzini avevano le cuffie alle orecchie per stimolare la creatività ascoltando musica, altri scrivevano, forse, la relazione del loro lavoretto. In genere parevano tutti parecchio impegnati. Specialmente Reiner che disegnava un bellissimo culo con sopra la faccia di Nicholas Cage.
… Artisti.
Ora, il trucco stava nell’individuare il nullafacente di turno, minacciarlo di riferire tutto al professore e accomodare le chiappe sulla sedia riscaldata dal culo altrui. Un giochetto da ragazzi per me, temuto da tutto il corpo studenti e silenzioso come un gatto; fortuna mia, il professore che doveva essere lì a controllare non c’era (di sicuro si trovava fuori a fare fotocopie o una roba del genere) quindi potevo minacciare la mia palla di rabbia preferita, Jaeger, senza danno. Ebbene sì, l’avevo già tanato da lontano, il coglioncino: nemmeno si degnava di nascondere che stava cazzeggiando in allegria, girava su uno di quei siti da mocciosi, tumblr,  scrollando in cerca di non so che. Vedevo persone umane con gli occhi giganti e i capelli a filetti, manga o anime o come cazzo si chiamavano quelle schifezze.
Mi avvicinai al ragazzino intento a ridursi il cervello in pappa con quelle stronzate; la sua sorella adottiva era due file più in là, tutta presa a disegnare con foga, mentre Armin non mi notò, probabilmente perché scriveva di getto. Solo Jaeger se ne stava lì a mandare su e giù la rotellina del mouse come un povero ritardato.
Giunsi alle sue spalle e lì mi fermai qualche secondo ad osservare ciò che faceva; fui disgustato quando cliccò su un cuoricino e quello s’ingigantì e svolazzò nello schermo fino a scomparire verso l’alto. Che merda era mai quella?
Mi chinai in avanti molto lentamente giungendo ad un soffio dall’orecchio di Jaeger. I suoi capelli puzzavano di sudore e sporcizia per la lezione di educazione fisica del mattino: a stento trattenni un conato. “Guardi ancora i cartoni animati alla tua età, eh… Jaeger.”
Parlai con una calma assurda ma il moccioso saltò sulla sedia e si girò di scatto, quasi ribaltandosi e facendo un gran casino; Connie rise, qualche banco più indietro, mentre Jean si lanciò in una risata che suonava come un nitrito e Reiner ridacchiava disegnando il suo amato culo al computer. Con la coda dell’occhio, vidi Mikasa fulminarmi. Me ne sbattei.
“Signore!” squillò Jaeger, e qui aprirei una parentesi per dire che la sua voce aveva la tipica tonalità salterina degli adolescenti, da orco delle caverne passava a chierichetto di chiesa di campagna, “Non è come pensa lei, signore!”
“Levati dalle palle, va’, Jaeger” con un cenno del mento, gli feci capire di spostarsi, “Mi serve ‘sta macchina” conclusi, standogli praticamente addosso – una delle poche occasioni in cui mi sentivo più alto degli altri. Chissà cosa provava Erwin a parlare con la gente da quella prospettiva… Vedete l’effetto che mi facevano quei mocciosetti?  Erano tremendi, ma nel loro essere così pessimi, mi parevano un pasticcino rispetto ai miei casini.
“M-ma, signore, veramente stavo lavorando per la scuola…”
“Jaeger. Mi prendi per il culo?”
“N-no, signor-“
“Pensi di farmi fesso? Ti sembra che sia nato ieri?”
“No, no, signore..”
“Allora alza il culo, mi serve il computer.”
L’intera classe aveva fermato l’attività per godersi lo spettacolino ed io mi sedetti non appena il giovanotto si degnò di lasciarmi il posto. “Grazie” borbottai, dato che non ero poi troppo il genere di merda ingrata. Tranne che con Erwin. Ma nel suo caso si trattava di qualcosa di un bel po’ diverso di alzarsi e cedere il posto. D’altronde, non ci godevo a traumatizzare avita quei ragazzi, per cui.
Eren mi rispose con un bisbigliato e sorpreso “Prego” prima di rifugiarsi al banco con la sorella adottiva. Scrocchiai le dita e mi misi a smanettare con quell’affare. A casa avevo un computer, ma non disponevo di connessione ad Internet. Lo usavo per ascoltare la musica dei miei CD, per giocare a qualche videogame e vedere qualche film preso a nolo se proprio mi tirava, per il resto giaceva inutilizzato in camera mia. Internet era una spesa che non m’interessava sobbarcarmi; se mi serviva, facevo un salto all’Internet café di Gunter.
Aprii Google e mi misi a digitare alcune parole chiave. ‘secchezza dei capelli’, ‘stanchezza’, ‘difficoltà a respirare’, ‘tosse con sangue’ e premetti invio aspettandomi il peggio.
Scorsi i vari risultati. Patologie autoimmuni… Sarcoidosi… Polmonite… Ipertensione arteriosa… Sclerosi multipla… Vari rimedi omeopatici… Autodiagnosi… Allergie… Continuai a scorrere facendomi passare davanti agli occhi i risultati. Ce n’era uno in particolare che non faceva che comparire ad ogni pagina più di una volta e mi faceva sudare le mani sul mouse mentre mi reggevo la faccia con una mano e la massaggiavo con le dita.
“Ehilààà!”
Mi accigliai e mi voltai lentamente solo per incontrare quella quattrocchi della professoressa di scienze, Hanji Zoe, donna che si faceva notare per il suo naso aquilino ma soprattutto la tendenza a parlare a voce alta, con entusiasmo, quasi di tutto.
“Cosa stai cercando, Levi?” ah, dimenticavo. Aveva anche la tendenza a dare troppa confidenza. Mi mise le mani sulle spalle e avvicinò la testa alla mia con (me lo sentivo) un sorriso idiota per guardare il pc.  “Oh! Ma che brutte cose! Sei ammalato?”
Mi strinsi nelle spalle cercando di fare capire alla professoressa di lasciarmi stare. “No.”
“Ah! Meno male sai, ma non mi stupirei se avessi tutti questi sintomi, sai?” ridacchiò e si sedette al banco. Prese il mio caffè e ne bevve un sorso sotto ai miei occhi sgranati. Il mio caffè! Brutta stronza! “Fumi tantissimo! Non ti fa bene ai polmoni, sai, caro?”
Al contrario di lei, che trillava nel parlare, io tenevo un tono basso, quasi un mormorio. “Quello era il mio caffè.”
Lei guardò il bicchiere di plastica toccandosi il viso con una mano ed assumendo un’espressione costernata. “Oh, Levi, sono spiacente! Vieni, te ne offro un altro!”
Vabbé. A quanto pare non potevo fare altrimenti. Solo che.. “Scusi, ma questi marmocchi?”
“Sanno badare a se stessi! Non è vero, ragazzi?” le rispose un coro entusiasta di ‘sì’ esclamato da giovani teste calde che non volevano insegnanti intorno.
“Guardi che se macchiano di sangue il pavimento, io non pulisco…” mugugnai seguendo la donna fuori dall’aula informatica. Lei ancora sorseggiava il mio caffè.
“Ma come sei funereo, Levi!”
“Sono onesto, professoressa.”
Lei rise. Un po’ mi diede fastidio e un po’ no. “Dai! Non chiamarmi ‘professoressa’, ti sembro così vecchia? Non insegno da neanche due anni!”
“Come dovrei chiamarla?”
“Prima di tutto, piantala con quel tono formale. Avremo la stessa età, più o meno! Secondo, chiamami Hanji.”
“Professoressa Hanji.”
“No!” scosse la testa e buttò giù l’ultimo sorso di caffè, poi gettò il bicchiere vuoto nel cestino della plastica vicino alle macchinette. C’era una nota positiva nel suo modo di fare caciarone, era una persona ordinata. Dio sa quanto questa caratteristica negli esseri umani intorno a me riesca a ben dispormi nei confronti del mondo. Non troppo, però. “Solo Hanji!”
“Hanji.”
La donna si voltò e mi diede un buffetto sulla guancia, facendomi raggelare sul posto mentre ordinava dell’altro caffè dalla macchinetta. “Bravo! Così si fa!”
“Non toccarmi.”
In risposta, lei mi diede un altro lungo buffetto (una serie di buffetti a dire il vero) prima di premiarmi con un bicchierino di caffè fumante.
“Scusami, Levi, sei un adorabile omino irritabile.”
“Omino.”
“Sei così basso.”
“Han-“
“Comunque, chi è che sta male?” la donna cambiò bruscamente discorso, chinandosi a prendere la bottiglietta d’acqua che aveva appena selezionato da un’altra macchinetta.
“Cosa ti importa… Hanji?”
“Oh, via. Vedo il bidello pomeridiano della scuola che cerca informazioni sulla tosse con sangue, difficoltà respiratorie, stanchezza e secchezza dei capelli… Che potrei mai pensare?”
“Niente, magari” dissi, soffiando sul mio caffè.
“O tutto.”
“Ma perché t’interessa tanto?”
Lei sospirò ed aprì la sua bottiglietta. Sembrò improvvisamente triste e sotto sotto mi dispiacque vedere quella donna passionale con quella faccina triste. “Un mio amico è molto malato”.
“Mi dispiace molto” dissi, poi bevvi un sorso. Non ero stato del tutto sincero. Alla fine non conoscevo quella persona direttamente, avevo ben poco materiale per cui essere spiacente. Non giudicatemi freddo. Alla fine, quasi tutti gli esseri umani sono così. Non m’importava molto, ma nemmeno gioivo.
“Non dirlo a me” fece lei, riavvitando la bottiglia dopo avere bevuto un poco. “Gli hanno trovato un cancro di sette centimetri nel polmone sinistro.”
Figurai mentalmente sette centimetri comparandoli alla lunghezza della mia mano, che guardavo mentre sorseggiavo il caffè. “Però. È una bella sberla di schifo nei polmoni.”
“Già! Ma guarda, è stato un bene che l’abbiano preso a quello stadio.”
“Ah, sì?” non sapevo niente di tumori. La mia conoscenza in materia si fermava a qualche film che avevo visto dove uno dei personaggi principali perdeva tutti i capelli e stava sempre in ospedale.
“Sì! Ed è stato un caso. Il mio amico era andato a fare una visita dal medico sportivo perché voleva partecipare alla maratona di due mesi fa…”
Mi ricordai che anche Erwin voleva partecipare e se non mi ricordavo male, l’aveva fatto. Dubitavo che un uomo con un tumore di sette centimetri nel polmone volesse partecipare ad una maratona; mi sentii un po’ sollevato. “E?”
“E niente – il medico aveva notato che respirava a fatica mentre correva sul tapis-roulant. Fatto strano, perché non l’aveva mai fatto.”
“Sportivo abituale?”
“Che io sappia, sì! Sempre in forma e scattante. Gli hanno consigliato di fare una TAC per vedere se si trattava di un problema di natura cardiologica o meno” Hanji guardò in alto, aggrottando le sopracciglia. “Magari fosse stato così!”
“Già, magari. Ma come sta, adesso?” non sapevo perché stessi facendo tutte quelle domande, sul momento; in realtà, stavo solo cercando delle rassicurazioni.
“Sta facendo la chemioterapia” mi spiegò, annuendo, “Un ciclo di chemio ogni ventun giorni. Per fortuna il tumore non ha raggiunto nodi linfatici. I medici stanno tentando di ridurre la quantità di tessuto canceroso prima di procedere con l’asportazione del lobo polmonare” mi disse; improvvisamente annusai l’odore ferroso del sangue, delle siringhe, degli attrezzi medici e mi strinsi nelle spalle mentre gettavo il caffè nel bidone della plastica. Brutta roba.
“Sembra abbastanza confortante..?” mi azzardai a chiedere, cauto, mentre mi avvicinavo al mio carrello con gli attrezzi per pulire e mi mettevo i guanti di lattice. Farlo mentre si parlava di questioni mediche mi metteva una sottile angoscia nei confronti del corpo umano e della sua sporcizia.
“Credo di sì. Continua a lavorare e a vivere la sua vita. Giusto oggi è in ospedale a fare un altro ciclo di chemio… C’è una possibilità del 70%, circa, che riesca a sopravvivere.”
“Allora è grasso che cola” cercai di rincuorarla a modo mio, cioè male, mentre affogavo lo spazzolone nel secchio.
Se l’avevo ferita, lei non lo diede a vedere. Si grattò la nuca e fece spallucce, sospirando. “Sai cosa, è quel 30% che mi preoccupa.”
Se ne andò prima che potessi dire qualcosa. Poveretta. Un po’ mi dispiaceva per lei. Perdere un amico in quel modo non doveva essere bello, per niente. Ne sapevamo qualcosa io ed Auruo. Se fossi stato un galantuomo tutto leccato, probabilmente l’avrei chiamata indietro e avrei cercato di consolarla in qualche modo. Ma ero la persona meno adatta, la mia spalla era la più scomoda e stretta su cui piangere.
Non vedevo l’ora di tornare a casa e saltai sulla mia bicicletta sentendomi insieme leggero e pesante, quando giunse il tempo di staccare. Lungo la strada fumai ancora e senza vergogna. Ne avevo un bisogno indicibile. Cercavo di scacciare e allo stesso tempo di accogliere dentro di me il discorso con Hanji; parte di esso mi metteva a mio agio. Cercai di seguire la filosofia di Petra e mi concentrai sulla sensazione di leggerezza, di scampato pericolo.
Comunque fosse, Mike sarebbe arrivato da lì a poco: l’incontro era fissato per una mezz’ora più tardi. Ma con mia sorpresa, l’uomo suonò al campanello con largo anticipo. Ed io aprii subito. Perché? Il giochetto dell’aspettare era una cosa che facevo solo ad Erwin; con Mike non c’era né il giusto grado di conoscenza, né io me la sentivo di dargli tutta questa confidenza (Erwin l’aveva guadagnata con fatica e con qualche botta) sebbene vedessi che era un omaccione come si doveva, uno che sapeva il fatto suo né più né meno di Erwin. Forse era un po’ più permissivo sotto certi punti di vista: come ho già detto, aveva il culo meno stretto di Erwin. Mi dava l’idea di essere il suo fratello maggiore perennemente rilassato. Ah, e ce lo vedevo bene a vagare completamente fatto e felice in un campo di marijuana.
“Buonasera!” Mike aveva un sorriso stampato sulla faccia come entrò in casa mia, sniffando l’aria. Capiva se una casa era ben tenuta e abitata da persone per bene solo annusando. Si tolse la giacca e si guardò intorno. “Dove posso poggiarla?”
Lo salutai con un cenno del capo e gli indicai l’attaccapanni. Mi faceva un po’ ansia la sua presenza; non mi riferisco al fatto che Mike fosse una torre di Babele ambulante e mi facesse sentire fottutamente microscopico (anche Erwin vicino a lui sembrava basso). Non sapevo bene come comportarmi intorno a Mike. Era un po’ strano averlo in casa… Lo avevo visto più che altro in ufficio, al centro di riabilitazione e qualche volta, sì, era venuto a casa mia ma era sempre accompagnato da Erwin.
Portava con sé una cartella di stoffa nera. “Ti spiace se mi siedo al tavolo della cucina, Levi? Grazie” ricevuto il mio permesso, si sedette. Lo trovai ridicolo con le sue braccia e le sue gambe ridicolmente lunghe mentre si prodigava ad aprire la cartella e tirava fuori il mio fascicolo. Durante tutta l’operazione, io rimasi fermo a fissarlo. Mi mossi dal mio stato catatonico non appena Mike si degnò di consultare i fogli, per prendere un pacchetto di sigarette e il posacenere. Lo misi nel mezzo del tavolo e mi sedetti dalla parte opposta rispetto a Mike, osservandolo mentre metteva da parte alcune carte con fare composto e professionale. Me lo ricordavo tutto scherzi e battute ben mirate dietro il suo muso calmo: dove cazzo era finito tutto questo?
“Mike.”
“Hm?”
Attirata la sua attenzione, gli porsi il pacchetto. Le poche volte che ci eravamo visti avevamo fumato insieme come due turchi. Lui guardò l’involucro di carta come fosse una cosa aliena, mai vista prima, di un altro pianeta, proprio: sembrò quasi disgustato mentre arricciava le labbra (e i baffi).
“Ho smesso” mi rispose, un po’ sulle sue. Che cazzo..? Immediatamente dopo, ‘st’uomo si mise a spargere un po’ di carte sul tavolo. Ed io cominciai ad innervosirmi e a volerlo sbattere fuori da casa mia a calci. Che merda era presa a tutti, Cristo? Erwin aveva sparso il suo virus da ho-una-scopa-su-per-il-culo a tutti?
“Anche tu.”
“Anche io?” Mike aveva preso in mano un fascicolo con un bilancio economico e le bollette dell’ultimo mese: volli sogghignare visto che l’argomento sembrava interessarlo più di quelle merdate da assistente sociale.
“Anche Erwin mi ha detto che ha smesso.”
“Ah. Allora, Levi, da quel che vedo questo mese te la sei cavata piuttosto bene…”
“Mike. Non ignorarmi.”
Mi guardò fisso per un momento. Aveva lo sguardo stanco e vagamente scocciato. “Come, Levi?”
“Ti ho parlato di Erwin e hai improvvisamente cambiato strada” fumai con una boccata vigorosa e nervosa.
“Levi, non è il caso. Sono qua per conto suo, ma non sono lui.”
Battei il piede sul pavimento. “Cazzo, lo so che non sei lui” mi tremava la voce di rabbia. Mi ricomposi. Non amavo fare vedere così tanto a coloro che non erano Erwin. “Ma mi evitate come delle fottutissime lepri cagasotto quando nomino Erwin. È da una settimana che cerco di chiamarlo e non mi risponde. Chiamo in ufficio e che mi sento dire? Che non è disponibile.”
“Perché ti preoccupi tanto, Levi?” Mike interruppe la sua serietà per ridacchiare un momento, ai miei occhi anni luce distante dallo charme che aveva Erwin quando lo faceva, “So fare benissimo il mio lavoro.”
“Ma chi se ne fotte del tuo lavoro, Mike” sciccai con troppa foga e scappellai la sigaretta. Mi toccò riaccenderla. Bestemmiai, grattandomi il ponte del naso. “Erwin è stato a casa mia la settimana scorsa e si è messo a tossire sangue. Hai capito? Ha tossito fottutissimo sangue. Che cazzo ha?” cominciavo ad agitarmi sottilmente. Non ne potevo più. Volevo esplodere in faccia a tutti, volevo vedere Erwin, toccarlo, sapere che stava bene, che respirava bene, che era pronto a fare l’amore con me. Porca puttana. Non volevo più fare sesso con lui. Non volevo più scopare. Mi ero messo a farmi degli stupidissimi flash mielosi, era troppo tardi per tornare indietro e fingere che non ci fosse niente – ero lontano dall’ammettere qualsiasi cosa, ma ero allo stesso tempo molto vicino a capire cosa fosse e a non reprimerlo. L’ho detto. Non mi faccio domande. Io vado. Seguo il corso delle cose – ma il corso delle cose sembrava che volesse portarmi via Erwin. “Mike!” mi alzai e mi sporsi verso l’uomo che ora mi fissava con aria distante e assente. Gli risposi in una nuvola di fumo, guardandolo dritto negli occhi con uno sguardo fermo. “Guardami negli occhi e dimmi che sta bene. Dimmi che Erwin Smith, che il tuo collega e amico Erwin Smith sta fottutamente bene e dillo guardandomi negli occhi.”
“Erwin ha il cancro.”
Fine.
Tutto lì.
A pezzi.
Distrutto.
Il flusso degli eventi stava davvero cercando di portarmi via Erwin. Qualcuno, un giorno, pensò bene di donarmi quest’uomo buono come il pane dai metodi machiavellici: mi ero quasi convinto che fosse un bellissimo regalo, da tenere tutto per me e conservare con cura, quando ecco che lo stronzo che me l’aveva dato se lo riprendeva, scuotendo la testa e dicendo che era solo un prestito. Vaffanculo. Vaffanculo alla vita. Quella bella troia vestita con merletti e truccata di fresco che ti apriva le gambe mostrandoti la sua bella vagina pulita e depilata, poi appena ti avvicinavi per darle un’annusata chiudeva le gambe frantumandoti la testa nel mezzo.
Una merda. Un vero schifo.
È proprio vero che realizzi quanto qualcuno conti per te quando sei ad un pelo dal perderlo.
E dire che mi sarei dovuto abituare ormai. Perché ne avevo visti tanti morire per un motivo o per un altro. Auruo ed io ci eravamo salvati – lui aveva portato con sé una faccia piena di rughe, io gli occhi a palla – ma che ve lo dico a fare, eravamo casi rari. La morte era diventata una specie di amica, una cosa che sai che c’è e che prima o poi ti tocca. Toccava a me, toccava ad Auruo, toccava al panettiere, al preside, alla madre di Ymir, a Mike, a Petra… Ma non mi sarebbe mai venuto in mente che potesse toccare ad Erwin.
Fissai Mike con una faccia da pesce lesso per molto tempo prima di sedermi di nuovo… Non chiedetemi quanto. Non lo so. Non avevo la faccia incollata all’orologio per saperlo, porco Giuda. Mi accorsi che era teso. Aveva visto come guardavo il posacenere mentre spegnevo la sigaretta pestandola, e sì, cazzo, avrei voluto romperlo a suon di pestate, a suon di colpi della mia mano. Avrei voluto vedere il sangue scorrere a fiumi per sentire qualcosa. Perché, giuro, non riuscivo a sentire assolutamente niente. Era come se mi avessero svuotato. Totalmente. Avevo in testa solo una cosa: volevo vedere Erwin.
Mike lasciò che mi calmassi in silenzio. Non riuscivo ad essergli grato, anche se razionalmente lo ero; non provavo nemmeno quello, al momento. Fissai il tavolo per un po’, studiando i motivi irregolari nel legno di compensato. Mi ci persi. È probabile che rimasi lì un bel po’; rimanemmo lì, in due, circondati dal silenzio. Perché? Perché ogni commento è fottutamente inutile in queste situazioni.
Si commentano da sole.
Vorrei dire che finalmente presi coraggio e parlai a Mike, ma non è così… Feci tutto in automatico. Rialzai il capo, lo fissai, e la mia gola parlò da sola. “Voglio vedere Erwin.” Tutto iniziava a tornare nel mio cervello: il fatto che sia Erwin che Mike avessero smesso di fumare, la chemioterapia di cui mi aveva parlato Hanji, Erwin che nonostante la malattia non stava smettendo di lavorare.
“Oggi non è possibile. È in ospedale a fare il trattamento.”
“Voglio vederlo.”
Mike sospirò e mi toccò la mano. Non lo fece come mi toccava Erwin; era un gesto totalmente privò di intimità. Però capii ugualmente perché Erwin si fidava tanto di Mike: era così confortante. Sarei potuto scoppiare a piangere da un momento all’altro. “Ascolta, Levi. Ci occupiamo di queste faccende burocratiche e poi ti do una mano ad incontrarlo” i suoi occhi azzurri erano sinceri. Forse più di quelli di Erwin, ma erano distanti. Si era fortificato, come Erwin, per tenersi insieme.
Annuii.
Dalla mia bocca uscì solo “Grazie”.

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Capitolo 6
*** So stay with me tonight ***


Ciao a tutti ed eccomi tornata col sesto capitolo dopo la pausa estiva!
Spero che tutti i lettori se la siano passata bene. Ringrazio i nuovi lettori/lettrici e le recenti new entry tra le commentatrici (di rado rispondo ai commenti ma li leggo tutti e apprezzo che apprezziate -xD- la storia)!
Avrei anche inserito un'immagine esemplificativa complessiva dei tatuaggi di Levi ma purtroppo, trattandosi di nudo, EFP vieta questo tipo d'immagini. Quindi se siete interessati mandatemi un PM, ve la manderò privatamente.
Buona lettura!


Balzai giù dal sellino della bici di fronte ad un basso cancello che percorreva per il lungo il viale di condomini costruiti in serie che parevano quasi usciti dalla fabbrica della Lego, tanto erano a modo e tutti uguali. Sarò breve: quella via era una gabbia dorata per gli abbienti medio borghesi, il quartiere perfetto in cui crescere una famiglia perfetta. Lontano dagli scarichi della zona industriale e dagli squallidi giardinetti seminati di siringhe, i bambini potevano venire su allegri e liberi come galline in batteria. Una vera merda.
Gran parte della gente che abitava in quegli appartamenti mi stava sul cazzo. Non vi stupirete quindi di sapere che quel coglione di Erwin Smith risiedeva proprio lì.
Ditelo: ce lo vedevate ad uscire da quel portone di vetro tirato a lucido e, alla luce delle otto del mattino, passare di fronte al dorato campanello, eventualmente specchiandovisi quasi per caso, cogliendo il fuggire del suo riflesso. Riuscivo ad immaginarmelo passeggiare sul sentierino lastricato aggiustandosi i polsini della giacca, aprire il cancello con un tocco leggero della mano, frugare con discrezione nelle tasche dei pantaloni in cerca delle chiavi della macchina e poi scomparire sul retro del condominio, dove di sicuro c’erano frotte di garage che io non potevo vedere, non dalla mia posizione.
Smanettai un momento con il cellulare, fermo come un beota di fronte al basso cancellino, in attesa di un segno divino. Ciondolai ancora qualche istante, con la colonna sonora di un uccellino nascosto tra i rami di una pianta nel fazzoletto di terra del condominio a farmi compagnia, prima che il cancello avesse una specie di spasmo e si aprisse da solo. Entrai, posai la bici insieme a quelle degli altri condomini e, a differenza di loro, mi guardai bene dal lasciarla incustodita. Assicurai per bene il mio pezzo di ferro a due ruote con un giro di catenaccio, prima di voltarmi e procedere verso il portone aperto; ero talmente tanto irato con Erwin che quel giorno ero schifosamente calmo. Non mi tremavano le mani, non mi stavo pisciando o cagando sotto: camminavo a passo spedito verso la mia meta, lo sguardo fisso, la mascella serrata.
Non riuscii nemmeno a provare invidia per Erwin: porca puttana. Le scale del suo condominio brillavano. Avrei potuto farmici la barba. Tutto, tutto, tutto profumava di pulito. Era fottutamente bello. Le porte di tutte le case erano discrete, ma eleganti; piante finte o vere decoravano i pianerottoli, e a mano a mano che salivo i gradini, iniziai a pentirmi di non avere preso l’ascensore – ma in fondo mi piaceva quel viaggio nel pulito. Cristo benedetto. Odiavo quel posto. Lo odiavo quanto un ciccione a dieta odiava la sua pizza alle olive.
Mi batteva forte il cuore. Mi faceva male. Solo quando intravidi una porta aperta dallo spazio tra le scale le gambe mi minacciarono di cedere: mi ero precipitato da Erwin con la foga di un pazzo, pensate un po’ che spettacolo ridicolo sarei stato se fossi ruzzolato giù.
Bene, ora… La casa di Erwin. Avevo cercato d’immaginarmela così tante volte che avevo perso il conto. Era grande? Ben arredata? Dozzinale? Molto decorata? E soprattutto, era pulita? Erwin mi pareva il tipo di uomo che tiene in casa tante foto incorniciate, il calendario della salumeria, la fruttiera bene a vista, le stampe di merdosa arte moderna in salotto. E l’ultimo libro di Nicholas Sparks sul comodino vicino al letto. Erwin Smith, nella mia mente, era solo questo, alla fine: un collage raffazzonato di immagini, fantasie, sensazioni e profumi. L’insieme di elementi che componevano la mia idea di Erwin era impalpabile quanto lui stesso; sebbene ne provassi di ogni, non riuscivo ad afferrare ciò che era sull’altra faccia della Luna. Nel mentre, mi accontentavo di un profumo nuovo che sentivo dai suoi vestiti, o studiavo con interesse le macchie d’inchiostro blu sulle dita. Capivo se al mattino aveva avuto il tempo di idratarsi a dovere dal modo in cui era pettinato e dalla profondità delle sue rughe di espressione.. E se aveva bevuto abbastanza caffè per svegliarsi, gli occhi azzurri brillavano. Se invece aveva fatto colazione come si doveva, con caffè, cornetto e tutto il resto, Erwin riusciva persino a scucire un sorriso o una fastidiosa, confidenziale pacca sulla spalla. Queste mie osservazioni erano parecchio discrete… Ma Smith, nonostante tutto, non era stupido, né tantomeno cieco. Capitava che se ne accorgesse, allora alzava le sopracciglia e mi guardava con sguardo indecifrabile, mentre si grattava una guancia con ben dissimulato imbarazzo.
Presi un profondo respiro, in piedi di fronte alla porta d’ingresso semichiusa. Sfregai le suole degli anfibi sullo zerbino, poi diedi due colpetti sulla porta ed entrai.
Un fresco profumo di detergente al the verde mi accolse insieme alle note ovattate di un CD dei Cranberries che risuonava da qualche parte in casa; il mio riflesso mi salutò subito appena entrato. E, porca puttana, che effetto di merda che facevo in quel maledetto ingresso ordinato e ben arredato. Con la felpa rossa con cappuccio e sacca ventrale, i jeans neri attillati, gli anfibi, i capelli scompigliati dalla corsa in bicicletta, gli occhi gonfi come sempre sembravo un ladro entrato di soppiatto in casa di Erwin. Non avevo un aspetto rassicurante. Tantomeno affascinante. Chi se ne fregava, comunque.
“Ah, Mike, accomodati pure, arrivo subito!”
Strinsi le gambe nell’udire la sua voce dopo tanto tempo. A malapena due settimane, ma a me erano parse anni. Mi ero sentito invecchiare di colpo; ora, la sua voce era una specie di tonico e realizzai con un lieve sospiro muto che non ero mai stato così tremendamente grato a Erwin per qualcosa come nel preciso istante in cui aveva parlato, facendomi sapere che esisteva ancora.
Chiusi la porta alle mie spalle, tenendo la bocca serrata; Erwin era ancora convinto che a visitarlo fosse stato Mike. Quell’uomo aveva avuto un piano, a suo dire l’unico che avrebbe funzionato per farmi incontrare Erwin: quest’ultimo era solito aprirgli le porte del suo appartamento con un semplice messaggio. Così, quando scrissi a Mike che ero sotto casa di Erwin, il mio complice doveva avergli mandato un sms sulle righe del ‘Sono arrivato, aprimi’.
Per un momento rimasi fermo nell’ingresso a bighellonare in silenzio, guardandomi intorno, tirandomi giù i capelli all’aria con le dita, cercando di avere un aspetto un minimo accettabile. Dall’ingresso vedevo la cucina ariosa, essenziale, pulita, disseminata di barattoli qua e là… Pasta, pareva, e qualcos’altro. Caffè, di sicuro. E zucchero. Alla mia sinistra si apriva l’ampio e confortevole salotto, ma riuscivo a scorgere molto poco di quella stanza: le tende erano quasi completamente tirate, e dunque i mobili erano racchiusi nella penombra.
Mossi qualche passo verso il salotto. Non era come me lo sarei aspettato, ma d’altronde, che aspettative avevo per la casa di Erwin? I mobili, dal tavolo al lampadario, sembravano essere parecchio vecchi, ma ad una prima occhiata non c’erano segni di tarme ed altre porcherie. Non c’erano le schifose stampe d’arte moderna e il livello di polvere era tutto sommato accettabile per un uomo malato. Le fotografie incorniciate poste sui centrini stagionati non mancavano, però. Touché. Almeno in questo ci avevo preso, considerai con un vago sorriso tra me e me mentre strizzavo gli occhi per vedere al meglio le persone nelle foto. La laurea di Erwin era incorniciata tra le foto di due persone, un uomo ed una donna: come previsto, lo stronzo era uscito dall’Università con il massimo dei voti. Ma senza lode. Che sorpresa, signor Erwin Smith.
Il canto fatato di Dolores O’Riordan copriva il suono di qualunque cosa Erwin stesse facendo oltre l’oscuro vano che portava al corridoio, e che sinceramente non me la sentivo di invadere. Non sarei arrivato a quel punto – fargli una sorpresa, vedere una reazione su quella faccia stoica sarebbe stato molto meglio. Appoggiando il culo al tavolo, dando le spalle alla porta del corridoio, stirai la schiena e le braccia, scrocchiando le dita sopra la testa buttata all’indietro.
“Ouff…” sentii il suono di carne sbattuta contro il legno, poi un lamento. Il mignolo e gli spigoli, che gran bella coppia. Scivolai via dal tavolo, nascondendomi di fianco al mobile con le fotografie, proprio di lato alla porta del corridoio. I suoi passi si facevano più vicini, la mia calma si faceva più stretta.
Giunse prima la sua malattia del resto, con i suoi artigli schifosi che gli stavano distruggendo il viso fresco. Nella penombra del salotto lo vidi apparire dal passaggio per il corridoio, vestito di bianco e di grigio, di stanchezza e fatica, e mi parve un fantasma. Erwin era il primo malato di cancro che conoscevo, prendetemi in parola se dico che non ci tengo a conoscerne altri. Quando lo avevo visto non molti giorni prima sembrava essere abbastanza in forma; reduce da poco da una sessione di chemio, il suo corpo era ancora in pezzi e in procinto di riprendersi. Ma quel corpo a me pareva riuscisse solo a boccheggiare. Fu uno spettacolo talmente penoso che mi spezzò il fiato, ma non abbastanza da rompere gli argini delle lacrime, e gli tirai la manica della polo bianca (la fottuta polo bianca. Erwin, che cazzo ti diceva il cervello?). Dalla reazione che ottenni, sembrava che gli avessi tirato il pisello piuttosto che la maglietta.
Erwin si girò di scatto, sussultò, e mi guardò quasi schifato – o forse la sua era ira, non saprei dire. “Levi!” voleva chiedermi che ci facessi lì, ne fui certo; non gli lasciai il tempo di farmi una domanda tanto idiota, limitandomi ad alzarmi in punta di piedi e ad appendere un braccio alle sue spalle rigide.
“Erwin.”
“Io non..”
“Taci, taci, per favore. Siediti.”
Mi guardava, fisso e imbambolato, stanco e sperduto; la maschera sulla sua faccia si stava crepando, e ad ogni briciola che cadeva, un lato di lui emergeva. Troppo combattuto tra il trattenermi di riempirlo di pugni e fare tesoro dell’intimità che mi stava concedendo, lo spinsi sul divano, e lui lì atterrò come un giocattolo di pezza. Con lo stesso abbandono. Che schifo. Che vomito. Riuscivo persino a muoverlo da una parte e dall’altra come un fuscello, adesso.
Mi sedetti al suo fianco, nascosi le mani al caldo tra le mie gambe e posai la testa sulla sua spalla. Poi sul suo petto. Dove il rimbombo del suo cuore mi carezzò l’orecchio ed io strinsi le mani al tessuto dei jeans, senza accorgermene in un primo momento. Eravamo vivi. Magari non proprio sani, ma vivi, e tutti rattoppati.
Erwin profumava di bagnoschiuma al muschio bianco e dopobarba. Solo un uomo come lui era in grado di mischiare due fragranze tanto diverse con tale disinvoltura.. Sinceramente, a me pareva una terribile accozzaglia, ma era l’accozzaglia di Erwin. Questo bastava a farmela piacere. O meglio, a farmela sopportare – un simile miscuglio di odori su un’altra persona mi avrebbe tenuto parecchio lontano. E mi avrebbe fatto sorgere molte domande sul senso olfattivo di costui.
Ascoltando il suo cuore, respirando l’odore del suo corpo, mi si annebbiò la mente. Mi rifiutai di capire qualsiasi altra cosa che non fosse Erwin – l’immobile Erwin, lo stanco Erwin – così vicino a me. Fottesega se non si degnava di alzare un dito, di stringermi, o che cazzo so io. Volevo bestemmiare così tanto, e verso così tanti santi diversi, che il calendario nella cucina di Erwin sarebbe venuto giù se solo avessi aperto bocca. Così mi morsi le labbra, con le mani che tremavano, nascoste tra le cosce tenute strette come quelle di una verginella alla sua prima volta. Tutte le schifezze che volevo dirgli, Cristo santo… Da dove si cominciava a parlare con una persona malata di cancro, dopotutto? Dovevo dirgli che mi dispiaceva? Chiedergli notizie sulla malattia, o augurargli una pronta guarigione? Tutte quelle cose che si dicevano di norma in situazioni come la nostra erano solo una montagna di stronzate inutili. Non c’era una sola delle domande che ‘sta bene’ chiedere che volessi davvero fare. Perché mai avrei dovuto? Cazzo, era logico che mi dispiacesse. Era ovvio che volevo che guarisse presto. E, porca puttana, ero un animale – ma non ero così indelicato da schiumare apertamente per i dettagli del suo malore.
L’istinto mi suggeriva di pestarlo a sangue, ma anche di stargli accanto, come si dice in gergo, ‘coccolarlo’: perciò mi sentivo calmo. Perché ero fermo in un limbo, e stavo ancora decidendo cosa fare, cosa fosse meglio dire.
“Sai, Mike me ne ha tirati di scherzi. Ma questo non me lo sarei mai aspettato.”
Erwin suonò piatto, privato di ogni sorpresa. Sollevai il capo e lo guardai, solo per accorgermi che lui non ricambiava il mio sguardo, ma anzi teneva gli occhi fissi al televisore spento di fronte a sé. Mi scostai da lui quel tanto che bastava per non toccarlo ma per sentire ancora il suo calore, mentre accavallavo le gambe ed incrociavo le braccia sul petto. “Ti sembra uno scherzo?”
Erwin si grattò il ponte del naso, poi si massaggiò le narici tra indice e pollice strizzando gli occhi. “Neanche una sorpresa.”
“Come vorresti chiamarla, allora?”
Si degnò di scoccarmi un’occhiata seria. “Intrusione.”
Sospirai, sollevando le sopracciglia e abbassando le palpebre, rilassando la schiena contro il divano. “Chiama la Polizia, se proprio vuoi. Farai felice qualcuno.”
“Chi?”
Lo sfottei dandogli la risposta ovvia. “Nile.”
La sua espressione seria vacillò mentre lui esclamava un, “Ahh” quasi si fosse reso conto da sé di quanto era stato idiota a non ricordarlo. “Non ti ho dato il permesso di entrare.”
“Né mi hai dato l’ordine di uscire, Erwin.”
Preso in contropiede. Accadeva così tanto spesso ultimamente che, forse, mi stava venendo a noia. Erwin scosse il capo; ebbi l’impressione che mi vedesse come un fastidioso moccioso, più che come una persona. Beh. Come altezza c’eravamo. Non è vero, Erwin? Sospirò e si alzò in piedi con calma. “Vuoi un the?” mi chiese, suonando infastidito e rassegnato, mentre camminava verso la cucina.
Lo seguii come un’ombra. “Sì”. Che strano. Non sapevo da che parte prenderlo. Ero completamente ignaro di come l’umore di Erwin potesse essere in grado di mutare durante l’arco della giornata come quello di qualsiasi altro essere umano normale – ciò si spiega perché non ero mai stato in grado di vedere Erwin, sempre imperturbabile, calmo, talvolta gentile e sorridente, dedito al lavoro fino all’ultima goccia di sudore, come un mortale qualunque. Era di più. Erwin andava oltre l’umano.
Vederlo coltivare reazioni che chiunque avrebbe avuto a vedersi la casa invasa mi stupì molto. Sul momento, non seppi dire se in positivo o in negativo; che Erwin avesse bisogno di sciogliersi non c’era alcun dubbio… Mi chiesi seriamente per la prima volta se l’aspetto che aveva sotto la calma professionale mi sarebbe piaciuto o meno. Temevo che tornasse ad essere solo lo scopabile involucro di carne che, nella mia visione delle cose, era stato per tanti anni.
Mi sedetti al tavolo della cucina e frugai nella sacca ventrale mentre Erwin si dava da fare per preparare il the. Fui in procinto di sfilare sigarette ed accendino. Imprecai in silenzio.
No, non in casa sua. Potevo resistere per il bene di Erwin? A dire il vero, potevo. Ma a volte mi comportavo da viziato, e anche da sciocco, se vogliamo; carezzai ancora per un poco il pacchetto di sigarette dentro la tascona cercando in esso una risposta, una specie di conforto che non giunse. Rimasi a bocca asciutta, con la dolceamara consapevolezza che avevo fatto, nel mio piccolo e nel mio mutismo, qualcosa di buono per Erwin.
L’uomo mi mostrò il barattolo di vetro dello zucchero, ed io gli risposi con due dita sollevate. Parlavamo sempre così poco, noi due. C’erano troppe cose da dirsi.
Rimanevo zitto, guardando ora Erwin, ora le tazze, ora lo zucchero, ora il ripiano, ora il culo di Erwin. Non che fossi indeciso sul da farsi… Mi ero incantato, come un pc quando decide che vuole bloccarsi lì, su quella finestra del browser, proprio mentre state guardando un porno e il vostro collega entra in ufficio senza bussare. Aspettavo qualcosa, qualsiasi cosa, che mi desse l’opportunità di svuotarmi come si doveva.
“A te” disse Erwin, sedendosi di fronte a me e porgendomi la tazza di the. Di solito non lo bevevo con lo zucchero. Ma già che ero a casa sua, e sembravo causargli urto, tanto valeva fare un po’ il suo parassita.
Mescolai il mio the. “Com’è che non me l’hai detto prima?” A darmi il via bastò la voce di Erwin ed il lieve tocco del mio piede contro il suo polpaccio, sotto al tavolo.
Dal modo in cui Erwin reagì, compresi che si era preparato la risposta da tempo. Quel pezzo di merda era furbo, o forse era meglio dire, consapevole della realtà. Sapeva che presto o tardi sarebbe stato impossibile nascondere una malattia come quella in eterno e le richieste di spiegazioni sarebbero piovute da tutte le parti.
"Non serviva preoccuparsi."
Rimasi calmo nell'udire ciò, bevvi addirittura un sorso di the sotto gli occhi di Erwin. Stavolta, forse, era lui che si sarebbe aspettato una qualche reazione. Ma non ci fu. Non riuscii a dargli neanche un briciolo di emozione, non dopo quello che mi aveva appena detto. Non so, né sapevo cosa si aspettasse quando mi parlò così, se credeva che gli sarei cascato in ginocchio piangendo e strappandomi i capelli asserendo che invece sì, che serviva preoccuparsi, perché era malato di un brutto male che avrebbe potuto strapparlo alla vita senza scusarsi. Soprattutto sarebbe potuto essere sradicato dalla mia vita.
Che senso aveva la mia presenza in casa sua, adesso? Erwin stava facendo il possibile per costringermi ad andarmene. Molto bene. Avrei messo radici in casa sua per quella sera. Avrebbe dovuto prendermi per i capelli e lottare per buttarmi fuori dalla porta.
Bevemmo in silenzio senza guardarci per un bel po'. Avevo quasi finito il mio the quando Erwin aprì di nuovo la bocca per parlare.
"Non serve preoccuparsi neanche adesso."
Alzai gli occhi su di lui e inclinai il capo. "Ma davvero?"
Erwin non mi rispose subito. Bevve un ultimo sorso di the, si pulì la bocca col tovagliolo e posò la tazza ordinatamente vicino al cucchiaino. Con comodo, Erwin, con comodo. Tanto avevo tutto il tempo del mondo. "Sto bene."
"Fai schifo."
"Sì. So bene di avere un aspetto sfiorito" ah, con 'sti termini, Erwin.. "Ma sto bene."
"Come mai non sei andato a lavorare, oggi?" mi alzai e presi le tazze per sciacquarle. La domanda era del tutto disinteressata, per lo meno nel tono di voce.
"Perché stavo mal.. Mmh."
"Come? Non ho sentito" dissi, sempre col mio tono piatto, mentre lavavo le tazze nel lavello. Credeva che fossi nato ieri? Che fossi un ragazzino che poteva prendere per il culo così all'acqua di rose?
"Non sono andato a lavorare perché sto male."
Non riuscii a sentirmi in colpa per l'ammissione che gli avevo strappato. Anzi, per il mio punto di vista era un vero e proprio traguardo: comunque fosse, Erwin era libero e padrone di negare la sua condizione quanto gli pareva, ma i fatti parlavano chiari. Sembrava davvero un fantasma e non sto scherzando. Non c'è niente di divertente.
"Chissà come sarà incazzato Mike" lo presi per il culo a mia volta, compostamente, mentre riponevo le tazze e i cucchiai nello scolapiatti. Erwin mi lasciava fare tutto ciò, curioso. Fino a poco fa avrebbe voluto sbattermi fuori di casa, chiamare la Polizia, dire che c'era stata un'intrusione... Ma che andasse a cagare, Erwin aveva bisogno di riposare. E di guarire. Io non potevo guarirlo, non ero un medico, in medicina ero un ignorante bestiale (tolte alcune cose essenziali), ma due mani e due gambe per supportarlo le possedevo. S'intende che avevo intenzione di usarle, almeno per il tempo che mi sarei trovato in quella casa, fosse stato per tutta la notte o per poche ore.
"Mike è spesso arrabbiato con me, ultimamente."
Rimasi zitto mentre mi sedevo ancora al tavolo, stavolta di fianco a lui piuttosto che di fronte. Erwin giocherellava con il picciolo di una mela nella fruttiera di vetro blu.
"E' arrabbiato perché non mi riposo abbastanza."
"Almeno qualcuno con un po' di sale in zucca che te lo dice..."
Erwin voltò la faccia dalla parte opposta. Mi faceva venire mal di testa. Non riuscivo a rompere il rompicapo che c'era dentro al suo cranio, porca puttana.
"Lascia perdere, Levi."
"Come vuoi. Non sono io quello malato di cancro."
Si decise a girarsi quasi completamente, solo per guardarmi con una faccia che non gli avevo mai visto. Gli occhi gonfi, lucidi, il labbro sceso, la mascella contratta e tremante, non avevo mai, mai visto né immaginato Erwin Smith sull'orlo delle lacrime. Mi spezzò quel briciolo di cuore rinsecchito che mi era rimasto e rimasi a fissarlo come un coglione, incapace di dire qualcosa, e anche di pentirmi di quel che gli avevo detto. Perché avrei dovuto, dopotutto? Era malato, malato in modo grave, e continuava ad ostinarsi ad andare avanti, a sostenere che andava tutto bene, a comportarsi come niente fosse. Non dico che meritasse una malattia più grave. Ma lo pensai.
"Sono stanco" mi disse soltanto. Sussurrava.
"Lo so" gli risposi, "Già che lo hai ammesso, è un enorme passo avanti, Erwin."
"Non ne posso più, e sono solo all'inizio..."
Era davvero troppo, troppe cose tutte insieme in un pomeriggio. Erwin nascose il viso, gli occhi gonfi di pianto, con le grandi mani a malapena tremanti: le avevo viste decise e tese, le vene azzurre sotto la pelle bianca, mentre mi tirava un pugno, anni fa. Mi aveva fatto male, ma non tanto quanto vederle sbiancate e deboli mentre si copriva dalla stanchezza e dalla vergogna.
Sono emotivamente stitico. O forse sono solo incapace di esprimermi e di consolare, soprattutto di consolare - nessuno c'è stato quando ne avevo più bisogno, non ho idea di come si faccia. Che diamine poteva consolare Erwin, dopotutto? Presi a guardarmi intorno, con un tifone dentro ed una calma tibetana di fuori.
Mi distruggeva più di quanto averlo già visto malato non lo facesse. Era a pezzi, a pezzetti piccoli piccoli che si stavano disperdendo poco alla volta ed io ero solo uno dei suoi utenti del servizio sociale, uno di loro che casualmente aveva baciato e che era a casa sua, adesso, incapace di rimettere quei cocci insieme. Mi mancava la colla per riaggiustarlo. Ero inutile. Ero un inutile parassita nella sua vita. "Erwin, se vuoi, vado via.."
Tolto il fatto che era attutita dalle mani premute sul viso, la voce di Erwin suonò calma e regolare nonostante il pianto. "No, Levi. Resta con me." i suoi occhi emersero a poco a poco dalle dita. Erano arrossati, l'azzurro dell'iride spiccava in maniera un bel po' impressionante. "Stasera. Vuoi?"
Guardai altrove e mi allungai verso la credenza ad afferrare un tovagliolo di carta, che gli porsi. "Che domande del cazzo sono?" sospirai, poggiando la schiena contro la sedia mentre Erwin si soffiava il naso e si asciugava le lacrime, muto come un pesce, non più singhiozzante.
"Ti ringrazio.."
"Eh, grazie al cazzo" gli risposi, prendendo il tovagliolo usato e andandolo a buttare nel cestino. Prima di tornare da lui, mi lavai le mani nel lavello.
Da 'chiamo la Polizia' a 'resta con me stasera'. Posso essere onesto? Sarò onesto. Sapevo che mi avrebbe chiesto di restare insieme quella sera. Dove altro saremmo potuti andare, altrimenti? Eravamo due anime sperdute. Ci eravamo trovati per caso. Non credo che avrei lasciato la presa da lui tanto presto, pensai, mentre Erwin cercava di darsi un aspetto più normale aggiustandosi i capelli biondi all'indietro. "Non so cosa potremmo mangiare per cena".
Dio, avrei voluto tatuarmelo insieme al resto dei miei tatuaggi, se solo fosse stato possibile. Un segno indelebile sulla carne sarebbe stato appropriato, visto che oramai Erwin mi aveva marchiato anche l'anima a sangue. Per quanto mi bruciasse, era un doloroso sollievo.  "Non ho fame" risposi. Se avessi mangiato, avrei di sicuro vomitato; nella mia calma, ero ancora troppo nervoso.
"Nemmeno io."
"Non avevo dubbi..."
Gesticolò appena con la mano, come a volere lasciare perdere la faccenda, e mi sorrise appena. Non ero nella sua testa -grazie al cielo benedetto-, né volevo esserci, ma nonostante ciò riuscii a sentire lo sforzo che aveva fatto per sorridermi. Il gesto non fu ricambiato ed io mi limitai a guardare fuori dalla cucina, appoggiato a braccia conserte allo stipite della porta.
"Voglio farmi un bagno. Dov'è il tuo bagno?"
Erwin non mi chiese un sorriso indietro, forse gli bastava avermene regalato uno per primo. Grazie, Erwin, comunque. Grazie. "In fondo al corridoio dopo il salotto."
"Bene."
Strisciai in bagno attraverso il cimitero del suo salotto ed il corridoio buio come la cripta di un vampiro. Sorprendentemente, il bagno di Erwin era arioso, ben illuminato, e soprattutto -udite udite- pulito. Mia madre avrebbe detto che mi ero trovato un gran bel fidanzato fatto su misura per me, non fosse che niente in questa frase avesse senso.
C'era questa grande vasca in un angolo e una box doccia di fronte. Il gabinetto aveva il copritazza in legno, lo specchio era grande, dietro la porta era appeso un comodo aggeggio in cui Erwin aveva riposto pettini, spazzole, rasoi, fasce, cuffie per la doccia e altre cose di questo genere. Il suo bagno era davvero bello, non abbastanza bello da calmarmi del tutto, ma era un ambiente piacevole in cui stare per un po'. Non riuscivo a smettere di pensare a lui, nient'altro che a lui e alla sua malattia del cazzo; mi ero arreso ormai ad Erwin Smith. Potevo scalciare quanto mi pareva e non sarebbe mai uscito dalla mia testa, non ora. Volevo stringerlo e farmi stringere, eppure sembravo rifiutarmi di fare il primo passo, quasi il bacio che c'era stato non mi avesse sbloccato, e la notizia della malattia mi avesse inasprito ancora di più. Non avrei rifiutato un altro bacio, comunque. Anzi, speravo che Erwin si decidesse.
Riempiendo la vasca, iniziai a spogliarmi poi posai i miei abiti sulla tazza chiusa del gabinetto, ben ripiegati: piccoli rituali del genere mi facevano stare meglio.
Scrutai nei cassetti in cerca di qualche spugna da usare per fare il bagno. Cotone idrofilo, cerotti, disinfettante, profilattici.. Ed eccole, sepolte dietro agli asciugamani puliti, le spugne per il bagno. Ne presi una pulita invece di usare quella nella vasca, non potevo mai sapere se Erwin ci si era sfregato il culo di recente con quella cosa.
Mentre versavo il bagnoschiuma al muschio bianco di Erwin nella vasca, lui bussò alla porta del bagno. Com'era educato. "Levi?"
"Eh?"
"Posso entrare un attimo?"
Me ne stavo in piedi di fronte alla vasca, nudo come un verme a stirare la schiena con le braccia sopra al capo. "Sì."
"Ascolta, volevo dirti che-"
Si bloccò come un pesce lesso sulla porta. Non vedevo la reazione, ma l'avevo ottenuta ed era una conquista, oltre che un raggio di sole tra le nuvole tempestose di quella giornata di merda. Dato che non si degnava di rispondere, mi sporsi a sollevare il cordoncino metallico del tappo della vasca per toglierlo dai piedi, ma questo si sfilò e cadde dentro l'acqua.
"Che il cordino si sfila."
Sospirai, chinandomi in avanti con le ginocchia sul pavimento freddo e frugai dentro l'acqua insaponata finché non ritrovai il cordino metallico. Mi piaceva il silenzio di Erwin, dopotutto; apparentemente poteva non essere granché, ma l'uomo in questione era Erwin Smith. Avere ottenuto il silenzio era già tanto. Alla fine mi girai; faticai a non sorridere di gusto. Era arrossito, anche se di poco, e mi guardava con distaccato interesse; pareva studiarmi, più che mangiarmi con gli occhi e ciò mi piacque parecchio. Non pareva affatto un morto di fame.
 "Dimmelo un po' più tardi la prossima volta" fu la mia risposta piatta mentre mi mettevo a sedere sul bordo della vasca.
"Non avevo mai notato quel tatuaggio. Non sapevo che scendesse lungo tutta la schiena."
Distorsi un po' la faccia per riuscire a vedere il tatuaggio in questione mentre giravo appena la spalla per osservarlo. Si trattava di un disegno in nero di un gruppo di tre rose nere all'altezza dell'incrocio tra le spalle e il collo. Ai lati si aprivano due bracci di rovi simmetrici le cui spine si piantavano nella carne poco sotto alle spalle, e la parte che Erwin non aveva mai visto era un ramo di rovo che scendeva lungo la schiena, conficcato nella pelle, e trattenuto ad altezza dei lombi da un un uncino. Era il mio preferito, e non mi era importato se mi aveva fatto un male cane contro la pelle sottile sopra le vertebre. Quella meraviglia batteva alla grande i tatuaggi d'ispirazione giapponese che avevo sulle spalle e sulle braccia, dicasi un dragone dorato circondato da nuvole azzurre e con un dettaglio di un orologio da taschino a sinistra e un insieme di nuvole azzurre sopra alla bandiera di guerra nipponica, con un teschio al posto del sole, a destra.
 "E' figo" annuii con apatico compiacimento mentre scivolavo dentro la vasca. Erwin rimase lì immobile nello spazio della porta a fissarmi. "Hai un gatto da qualche parte in casa?"
Sembrò rinsavire, ma lo fece con molta classe, il figlio di buona donna. "Sì, ma adesso dorme in veranda. Perché?"
"I tappeti con quei... robi, lì. Quegli affari che sporgono" indicai con un cenno del mento i tappeti del bagno. "Sono completamente distrutti da unghiate ed artigli."
Erwin sorrise ancora. Che piacere vederlo scucirsi un po', alla buon'ora, caro il mio piccolo assistente sociale. Almeno quando si parlava del gatto...
"Lo so. Gli piace, che ci posso fare?"
"Non saprei" feci in un'alzata di spalle mentre prendevo ad insaponarmi con energia, "Magari comprargli un tiragraffi. E smetterla di fissarmi dalla porta mentre mi lavo."
Erwin spalancò gli occhi e chiuse la porta all'improvviso.
Non mi offesi affatto. Anzi. Aveva reagito come davvero avevo sperato, ovvero mostrando l'imbarazzo che aveva cercato di nascondere fino a quel momento. Arrivai a pensare che era quasi adorabile con quella sua aria composta mentre si defilava dalla timidezza, chi mai avrebbe creduto con un uomo dal tale fascino -almeno, per me-, dalla tale padronanza di sé potesse fuggire per un semplice consiglio a capo di svariati minuti passati a fissare dei tatuaggi. Nella mia testa c'era sempre stato un gran caos, ma nella testa di Erwin c'era un vero bordello e nemmeno io riuscivo a venire a capo di un simile garbuglio intricato. Forse era meglio così.
Lasciai cadere la testa all'indietro e mi bagnai i capelli con un sospiro.
Mi piaceva, Erwin Smith. Mi piaceva proprio tanto.

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Capitolo 7
*** And please me, oh, please me ***


Riemersi dall'acqua della vasca prendendo un respiro profondo.
L'apnea era una cosa fantastica. Mi schiarì la mente, riportò il sereno nella mia testa, fu, in poche parole, liberatoria. Mi sentii improvvisamente bene e più libero mentre mi sfregavo la punta del naso con le dita, che bruciava per il sapone che si era infiltrato nelle narici. Sfregai anche il resto della faccia poi, sospirando, mi allungai ad asciugarmi le mani sul telo appeso accanto alla vasca: mancava solo un piccolo dettaglio a completare il mio quadro di ritrovata soddisfazione. Mi sporsi verso il gabinetto per afferrare la mia felpa. Frugai nella tasca e all'inizio mi incazzai un poco, almeno finché non trovai il pacchetto. Mi rilassai contro il bordo della vasca, presi una sigaretta, l'accendino incastrato dentro al pacchetto e l'accesi.
Inspirai un lungo tiro e rimasi lì con un braccio a penzolare fuori dal bordo, la testa abbandonata sulla spalla e lo sguardo perso nel nulla mentre mi gustavo il sapore di un vizio inutile e dannoso. Sempre meno di altri, comunque.
Ne avevo avuto bisogno fin dal primo momento in cui avevo messo piede in casa di Erwin - o meglio, dal primo momento in cui ci eravamo messi a parlare in cucina. Mi sentivo definitivamente meglio, adesso, e pronto ad affrontare il resto della serata con lui, di qualsiasi genere sarebbe stata. Sì: francamente, che ci fossimo seduti sul divano a guardare i programmi di cucina in TV o ci fossimo messi a letto a dormire, non aveva alcuna importanza per me, così come intuivo che non ne aveva neanche per Erwin. Non ne avevo la certezza matematica, ma non mi fermava dal sentire che condividevamo lo stesso viscerale bisogno di stare fisicamente insieme.
Ciononostante, me la presi comoda nella vasca. Mi lavai più volte, e dovetti anche svuotare l'acqua della vasca dopo averci ciccato la sigaretta (sciacquarmi con la cenere che galleggiava attorno non era per niente il mio genere di bagno e non volevo puzzare di fumo) che avevo successivamente buttato nel gabinetto. Mi sfregai bene i capelli con lo shampoo di Erwin, uno shampoo idratante al cocco e all'orchidea (santo cielo, Erwin). Ah, sì, che lusso, profumavo come una signorina. E mi piaceva pure parecchio; era tutto così piacevolmente pulito, odoroso, ah, sì, splendido, giuro. Rimasi col balsamo in testa per diverso tempo, curioso di vedere che splendida chioma morbida e setosa avrei avuto con quei prodotti che non avevo mai pensato di comprare (ma stavo iniziando a riflettere seriamente sull'acquisto).
Quella roba, comunque, sembrava non fare niente ai capelli di Erwin, non da quando gli effetti della chemio avevano iniziato a farsi sentire, apparentemente. Stavano diventando sempre più secchi. Se la vista non m'ingannava, erano diventati pure più radi.
Mi sfregai più forte con la spugna mandando via quello sporco pensiero. Rimanevo ora ammollo come uno straccio, ora seduto a sfregarmi, e l'unico motivo per cui non ero pieno di piaghe da ristagno in acqua sulle dita era il mio alzarmi casuale per fumare una sigaretta sulla finestra del bagno.
L'accappatoio di Erwin era fottutamente enorme. Io e Petra, in quanto a taglia, avremmo potuto ballarci il tango dentro; mi sembrò di avvolgermi in un rassicurante ma ingombrante tendone da circo. Dovetti arrotolare le maniche un casino di volte per farle arrivare ai gomiti. Quando provai ad asciugarmi i capelli, non ci riuscii perché l'accappatoio era davvero troppo grande e mi impicciava in una maniera atroce. Dovetti farlo da nudo, costretto a guardare nello specchio il ridicolo riflesso della mia persona. Che cazzo ci avesse visto in me Erwin, con le mie costole a vista quando alzavo le braccia, la pelle color morto che aderiva a un corpo duro e spigoloso, troppo muscoloso per la sua altezza, era un mistero.
Uscii dal bagno con l'accappatoio di Erwin addosso ed i capelli puliti e morbidi come non lo erano mai stati. Diavolo, quella roba funzionava per davvero. Mi sentivo come uno di quei figaccioni che prendono per le pubblicità, con la sola differenza che ero, come si dice, un cesso a pedali.
Avevo fatto passare almeno un'ora e mezza (forse di più) da quando mi ero chiuso in bagno, dato che era sceso il buio. Trovai Erwin sul divano col gatto, un libro (non di Sparks) ed un'altra tazza di the. Il gatto in questione era un domestico comune nero. Stava tutto arrotolato sopra l'addome di Erwin e nonostante la posizione, si vedeva bene che aveva un bel fisichetto snello ed era ben tolettato, ma nonostante sembrasse adulto, era di taglia piuttosto piccola. Quando mi vide arrivare, l'animale alzò la testa e mi guardò con curiosità negli occhi gialli, poi la rimise giù quando Erwin prese a fargli delicati grattini dietro le orecchie ed il gatto si perse ad impastare la pancia dell'uomo.
"Fatto tutto?"
"Mi manca la ceretta" scherzai in tono piatto, rimanendo in piedi di fronte a lui e al suo gatto, "Dove sono i pigiami, Erwin?"
Lui non batté ciglio alla mia implicita richiesta d'indossare i suoi vestiti.
"In camera da letto, nella cassettiera. Nel primo cassetto ci sono i pigiami, nel secondo mutande e canottiere e nel terzo, calzini. La camera è subito di fianco al bagno, a sinistra."
Con un cenno del capo mi dileguai. Non ne potevo più di stare nel suo accappatoio, mi sentivo uscito da Biancaneve e i sette nani.
La camera di Erwin era bellissima. Almeno, lo era perché la mia sembrava più che altro un misto tra una stanza dell'ospedale psichiatrico e un dormitorio di una caserma militare, così vuota, spartana e disadorna. In camera sua, invece, c'erano mobili di legno di buona fattura, due grandi quadri con un paesaggio montano ed uno marittimo, originali e sicuramente dipinti da qualche pittore da mercatino dell'usato (ciò non toglieva che, ai miei occhi d'ignorante, erano molto più belli della merdosa arte moderna), un letto matrimoniale che pareva la cosa più morbida su cui mai avrei potuto appoggiare il culo e l'accesso alla veranda chiusa, che scorgevo e che era piena di piante e, con mia sorpresa, un leggio.
Chissà che diamine suonava Erwin. Forse lo stronzofono a bocca, visto che ne sparava in quantità orchestrale.
Indossai un paio di boxer neri di Erwin, che mi stavano larghi come calzoncini un po' corti e la prima canottiera che trovai, bianca. Sembravo un povero bambino dell'Africa, quelli malmessi che mostrano in televisione al fine di commuovere e strappare qualche spicciolo che poi chissà dove andava a finire, per il modo in cui la canottiera mi cascava sulle spalle.
Mentre andavo a posare l'accappatoio e recuperavo un paio a caso d'infradito troppo larghe, pianificavo di tornare da lui in salotto ma mi ritrovai Erwin sulla porta della camera, subito accanto al bagno. Il gatto gli stava placidamente in braccio, una zampina posata sul suo petto (pareva un tentativo molto inutile di avvertire Erwin di non avvicinarsi a me) e mi fissava.
"Erwin, vai a dormire?"
"Ho voglia di riposare un po'."
"Quindi, dormi?"
Chiuse gli occhi, sorrise, scosse il capo. "No, voglio solo stendermi." Erwin fece per entrare in camera, ma si fermò e mi guardò. Ero calmo, come sempre. Solo che aspettavo muovesse qualche passo. Non avevo intenzione di fare sempre tutto da solo - sebbene fosse un pensiero assurdo e ipocrita, visto chi era stato a baciarmi per primo e a chiedermi di stare con lui quella notte. "Vieni?" mi chiese, con tranquillità, quasi con dolcezza.
Annuii. Non dissi niente e lo seguii.
Mi mossi con cautela attorno al letto di Erwin. Lui mise giù il gatto, il quale saltò sul letto e si acciambellò nel mezzo, continuando a fissarmi mentre m'infilavo sotto le fresche coperte. Erwin si sporse verso di me per accendere la luce sul comodino. Faceva ancora un buon odore. Il profumo del bagnoschiuma era svanito, ma era rimasto l'odore forte, deciso del dopobarba che, misto alla presenza del suo corpo appena appoggiato al mio, mi fece roteare lo stomaco come già era successo svariati giorni prima.
"Dormi con la polo, Erwin?" gli chiesi, guardandolo dal basso della mia posizione mentre aggiustava la lampada, troppo vicina al bordo.
"Giusta osservazione" mi disse, mentre usciva dal letto. Già mi mancò la sua vicinanza.
Il gatto prese a studiare la forma dei miei piedi da sotto le lenzuola, ma non me lo considerai, per quanto mi piacessero i gatti, dato che al momento la mia priorità era un'altra. Osservavo Erwin che si cambiava. E mi piaceva. La malattia non aveva ancora inciso troppo pesantemente sul suo fisico, nel complesso; nel togliersi la polo, vidi una bella schiena definita, e nel riflesso dello specchio sopra la cassettiera, un busto altrettanto tonico. Una volta scoperte, le gambe parlavano di una persona che correva, o era stata solita correre fino a pochi mesi fa. Ed il suo culo pure. Ma vabbé, quello lo si notava anche senza che Erwin si mettesse in mutande, visto che sgomitava per farsi notare.
C'era un'altra cosa che notai di lui mentre si cambiava ed io lo guardavo nel silenzio della stanza, rotto solo dal gatto che si strusciava sul mio piede, ed era la sua pelle. Non era peloso come temevo che fosse. Biondo come lo stereotipo di un tedesco, aveva anche scarsa peluria, e chiara, concentrata giusto sugli avambracci, sotto le ascelle e sui polpacci. Tirai un mentale sospiro di sollievo: il pelo, se non era pubico, mi aveva sempre fatto ribrezzo e fui lieto di notare che Erwin ne aveva pochissimi, e chiari.
Lo attesi mentre si metteva un paio di calzoncini bianchi e una canottiera blu, stiracchiandomi sul fianco come il gatto stava facendo contro la mia schiena, e quando tornò nel letto, mi avvicinai. Non scherzo. Mi era davvero mancato, ed ora che avevo visto la sua pelle, provavo il desiderio di toccarla. Chissà com'era calda...
Erwin, però, mi precedette. Ci eravamo guardati in silenzio, io dal letto, lui dal riflesso dello specchio, ci eravamo parlati senza pronunciare una parola - io non volevo sentirlo parlare, volevo solo averlo accanto. Mi bastava. Era una conferma sufficiente per me.
Mi sfiorò i capelli, mi toccò la nuca ed io lentamente aprii le mani che avevo tenuto raccolte vicino al petto per posarle sul suo. Non riuscivo a smettere di fissarlo, e distoglievo lo sguardo solo per osservare la curva del pettorale sotto alla mia mano o la forma del suo braccio, la linea dalla spalla al collo.
Ci baciammo. Senza chiedere il permesso, senza premesse, senza parole. Io mi sporsi verso di lui, lui si sporse verso di me, le nostre bocche s'incontrarono ed avvenne così, semplicemente, con la stessa naturalezza e ovvietà con cui si respira. Mentre lo baciavo, ero ancora più incazzato con lui, per ogni cosa. Prima di tutto, per non avermi detto una sega sulla malattia, secondo, per come mi stavo abbandonando a lui. Mi ero letteralmente lasciato andare tra le sue braccia, sfiorandogli il viso, lasciandomi stringere e avvolgere dal suo calore.
Tornai a baciarlo, dopo una breve pausa, con rabbia. Mi accigliai e lo costrinsi a ricambiare, e lui non scappò affatto; mi restituì tutto quello che gli davo, stringendo le dita al tessuto della mia canottiera mentre io tiravo la sua e ci ritrovavamo quasi l'uno sopra all'altro, le gambe intrecciate, la tensione nel mio stomaco.  
Gli accarezzai la schiena mentre Erwin continuava a baciarmi, al suo ritmo, stavolta. Non dovevo esagerare, non ora. Le nostre mani corsero sotto i nostri vestiti: mentre mi arrampicavo da sotto la canottiera lungo tutta la sua schiena forte, il suo palmo grande e caldo mi toccò la pancia, risalendo verso il petto. Erwin si staccò da me, ed io già mi sentivo parecchio scollegato dal resto del mondo: Dio, com'era difficile controllare l'eccitazione in quel momento, tenerla a bada per il suo bene.
Erwin si stese sul fianco e posò ancora le labbra sulle mie. Gli avvolsi un braccio sotto al collo e abbandonai l'altro sul cuscino. Mi sentivo un budino; ero emozionato, e purtroppo, stava crescendo anche l'eccitazione sotto al tocco della sua mano. Non mi era mai capitato di essere così tanto ricettivo ad un semplice tocco, ma, cazzo, quello non era un palmo di uno scopamico di una scopamica: era la fottutissima mano di Erwin che mi accarezzava con quello scorrere lento e sensuale, ora solo in punta di dita e ora con una pressione più forte.
Perché, perché tutto questo? Perché correva così (per i suoi standard)? In cuor mio sapevo la risposta, ma non riuscivo a non chiedermelo; me ne dimenticai presto, quando la sua mano s'intrufolò sotto ai suoi boxer, da me indossati come calzoncini. Sussultai e gli morsi il labbro, poi sospirai appena, stirandomi completamente e roteando gli occhi.
"Sì, ti prego" volevo dirgli, ma non lo feci, limitandomi a guardarlo nei grandi occhioni azzurri cerchiati di sottili zampe di gallina, "Ti prego, Erwin", sognavo di dirgli. Avrei rotto il momento e sarebbe stato merdosamente ridicolo.
Com'era scritto nelle nostre tacite regole, evitai di parlare.
Deglutii, muto, ed allargai appena le gambe per mettermi appena più comodo mentre lui iniziava a toccarmi in modo più intimo, col pugno serrato attorno alla mia (ancora un po' addormentata) erezione. Mi respirava sul collo mentre io gli accarezzavo i capelli, la sua testa sulla mia spalla. Nel suo essere niente di che, banale per giunta, tutto ciò mi piaceva.
E mi piacque di più nel giro di un minuto, quando ormai era fatta ed il mio cervello era andato totalmente a puttane. Il gatto salto giù dal letto al mio primo, basso gemito sulle labbra di Erwin, che si era risollevato per baciarmi. Cominciai a sentire caldo.
"Le coperte..." e non volevo sporcare, soprattutto. "Spostale" gli sussurrai, ad occhi chiusi e il capo sul cuscino.
Subito dopo mi sentii fresco, con la canottiera sollevata fin sopra il petto, i boxer calati, la mano di Erwin che si muoveva come unica fonte di calore insieme alla sua gamba, il polpaccio intrecciato al mio.
Mi baciava e mi mordeva delicatamente il collo, e la sua mano si muoveva nel modo giusto, con la giusta stretta, il giusto ritmo intervallato da momenti in cui mi stuzzicava in altri modi, con un tocco leggero, o più in punta. Non avevo dubbi che ci sapesse fare - santo cielo, fino a prova contraria, ce l'aveva anche lui un pisello.
Gli strinsi la mano alla nuca e continuai a gemere sottovoce, muovendo il capo ora da una parte e ora dall'altra. Era tutto così languido, intimo e -arrivai addirittura a pensare- segreto. Nostro. Come sempre, Erwin non sembrava volermi chiedere niente, e anzi, faceva sì di regalarmi piacere. Gemevo anche per lui, ed il suo respiro nel mio orecchio somigliava più ad un lieve ansimare.
Iniziava ad andare più veloce e deciso ed io iniziavo a sentirmi meno tranquillo. Ma molto più suo. Baciava, mordeva, succhiava la mia pelle del collo e delle spalle, mi respirava vicino, mi dava baci sulle labbra, arrivava persino a leccarmi il petto, a mordicchiarmi un capezzolo. In tutto questo, non sapevo cosa fare se non sospirare, ansare, mugugnare ed avvicinarmi sempre di più all'orgasmo, stringendogli la nuca, mordendomi la mano libera, facendola morire sul cuscino, senza forze.
"Più veloce" mi limitai a mormorare, guardando in basso ed eccitandomi di più all'immagine del suo pugno stretto attorno al mio membro. E lui eseguì, strappandomi un concitato, roco "Dài" che mi sfuggì all'improvviso.
Presi a muovere i fianchi nella sua mano, il calore mi avvolse completamente e poi si concentrò tra le gambe. Strinsi gli occhi, tesi i piedi e contrassi la mascella e l'addome, reclinando il capo all'indietro. Mi abbandonai del tutto a lui, alla sua volontà mentre mi facevo scuotere dall'orgasmo. Un bellissimo, soddisfacente orgasmo.
Lì rimasi sul letto accanto a lui che respirava così piano nel mio orecchio, così piano... Fui teso per qualche secondo, poi mi lasciai andare, ritrovando il rilassamento che credevo di avere conosciuto fino a quel momento, ma non era niente comparato a quella sensazione così completa di appagamento. Erwin, Erwin, Erwin, solo questo riuscivo a pensare, così rincoglionito da non schifarmi. Né per il pensiero fisso, né per lo sporco del mio seme addosso.
Era stato merito suo. Solo merito suo.
Sbattei lentamente le palpebre e mi girai a guardarlo. Era stanco come prima, ma, sapete? Sembrava anche più riposato. Nei suoi occhi azzurri leggevo la soddisfazione che si specchiava dai miei nei suoi, e mi pizzicarono le labbra, sentii qualcosa tirarle - un sorriso? Alzai gli angoli, esibendomi nel penoso spettacolo di un sorriso di goduria, di piacere, di completezza.
Erwin avvolse la mano alla mia vita -sentii la carne piegarsi sotto alla sua stretta salda, e per poco non gemetti ancora- e mi sollevò verso di sé. Desideravo un altro bacio come avevo bisogno d'aria e cercai con estenuata disperazione.
Ci baciammo per l'ultima volta: mi esplose qualcosa di caldissimo e pungente nel petto e sollevai una gamba per ancorarmi al suo fianco. Impazzivo per il suo fiato, per le sue labbra carnose, per tutto quello che componeva quel pezzo di merda di Erwin Smith.
Mi mise giù sul materasso e rabbrividii. No, non voglio sapere che faccia avessi, ma ricordo con chiarezza di avere pensato "Ancora, ancora. Facciamolo ancora. Andiamo avanti così per tutta la notte" e di avere desiderato di ricambiare il gesto. Non appena fui messo a stendere, realizzai d'un colpo quanto il letto fosse morbido e quanto ancora io fossi sporco in maniera inaccettabile. Soprattutto, vidi bene la sua faccia spossata, pure se compiaciuta, nel pulirmi con un fazzolettino di carta. Tremai appena.
Mi aveva visto in ogni modo.
Mi aveva visto urlare, ringhiare, impazzire, trovare la calma, circondarmi di freddo, piangere, prendere a pugni; mi aveva visto, ormai, anche perdere la testa per lui.
Mi ero aperto tanto, forse, troppo; gli avevo rivelato ogni lato possibile di me, lati che nemmeno io sapevo di possedere. Avevo sorriso (sempre se quell'accenno di stitichezza si potesse considerare sorriso), avevo sacrificato tutte le sigarette di un pomeriggio per non impestargli l'aria. Il tempo di giocare a nascondino con Erwin era finito da un pezzo, solo che non me ne ero reso conto fino a quel momento, avendo sempre preferito chiudermi a cozza - ma era come nascondersi dietro ad un segnale stradale. Erwin mi avrebbe visto lo stesso.
In un ultimo, stupido tentativo, nascosi gli occhi con l'avambraccio. Le sue dita lo presero e lo scostarono con una gentilezza sincera. Mi aiutò a rivestirmi, sistemandomi per bene, e ricostituì le coperte. Mi abbracciò, mi accarezzò ancora i capelli.
Crollai insieme a tutte le mie difese, artigliando i polpastrelli alla sua schiena, tenendolo stretto a me. Trattenni i brividi solo grazie al suo calore, scacciando con l'odore dei suoi capelli puliti il terrore che potesse svanire così, con la stessa facilità con cui dal nulla era entrato nella mia vita. Sfiorò la mia schiena, come sempre non disse nulla, se non un lieve "Buonanotte, Levi" sul mio petto.
"'Notte" mugugnai di rimando, stringendolo più forte con un sospiro.
Attesi.
Rimasi fermo ad attendere che andasse a dormire con le galline (erano appena le nove di sera, cazzo), immobile come una statua, prima di sciogliermi e sistemarmi meglio al suo fianco.
Soprattutto, mi degnai di sciogliere le catene in testa, con un sollievo incidibile, circa lo stesso che si dovrebbe provare a togliersi un tappo dal culo. Il fatto era che temevo la stronzata più immane, ovvero che se fosse stato sveglio avrebbe potuto udire i miei pensieri e quindi, leggerli.
Non volevo che sapesse che ero fottutamente innamorato di lui.



 

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Capitolo 8
*** We need soothing ***


Ciao bei balocchi *w* Era da un po' che non aggiornavo, sono una persona cattiva, ma eccomi qui a farvi il bollettino della salute di Erwin. Buona lettura (e grazie tantissimo delle recensioni, dei favoriti e dell'avere messo la storia nelle seguite! Non ho mai tempo per ringraziarvi tutti o parole per farlo, ma sono davvero grata di avere tutto questo seguito!)

 
Quando mi svegliai, ci misi un po’ a connettere. Ero totalmente inebetito, ma in fondo all’anima provavo uno strano senso di pace e sicurezza. 
La prima cosa che feci fu cercare Erwin: avevo gli occhi cisposi e ancora annebbiati dal sonno, per cui di mettere a fuoco non se ne parlava proprio. Mi lasciai guidare dal tatto… Tastai le coperte e il materasso finché non sentii una massa solida e robusta proprio a mezzo braccio da me. Ad occhi chiusi mi riaccostai a lui: era così caldo, e ormai era quasi metà Aprile, ma non avevo cuore di togliere le coperte di mezzo. Era la prima volta che sperimentavo così bene il suo tepore; era come avessi paura che potesse anche essere l’ultima. Il fatto che non riuscissi a distinguere se fosse una paura irrazionale o meno, caricava solo la sensazione.
Me ne dimenticai per un po’ quando gli sfiorai il viso e mi accorsi che la barba pungeva appena. Mi dava fastidio, ma non troppo. Ero sul punto di aprire bocca e biascicare che doveva radersi, quando la mano di lui prese delicatamente la mia ed il mio cuore saltò un battito. Ancora una volta. 
Cazzo.
A questo punto, non potevo più tornare indietro.
Le sue mani erano bollenti, quasi quanto la faccia: mi preoccupava questa faccenda, ma non più del tumore - in qualche modo, immaginavo che tutto ciò fosse dovuto alla chemioterapia. Alla quale Erwin sembrava avere reagito fin troppo bene, fin oltre la media di una persona sotto quel genere di trattamento.
La sua mano mi carezzò lungo il braccio e mi strinse la spalla mentre lui si metteva sul fianco. Allora aprii gli occhi e lo guardai.
Erwin aveva ancora gli occhi chiusi ma era sveglio. Le tapparelle erano calate per metà ed entravano fasci di luce bianca del mattino: colpivano i nostri visi, ed io faticavo a tenere gli le palpebre aperte. Alla luce del sole, vidi bene quello che la penombra e l’abat-jour avevano nascosto ieri sera.
Era chiaro che era malato, si vedeva eccome. La sua pelle era bianca, e le labbra, dopo una notte di sonno, erano secchissime. Da vicino le sopracciglia erano meno folte del solito, si distingueva il segno verdastro delle vene qua e là. Così, naso a naso, scorsi chiaramente che i capelli erano più radi. 
Che belle considerazioni di prima mattina. Già mi sentivo male. E dire che mi ero svegliato così bene, così felice di essere al mondo, per una volta… Merda…
“Erwin, devi farti la barba..” biascicai, “E metterti il burrocacao.”
Quelle labbra secchie mi sorrisero e lui si accoccolò di più al cuscino, facendosi più vicino a me. “Sì, hai ragione. Dopo lo faccio”. Anche se la sua voce era leggermente roca, stanca e distorta dalle ore di sonno, per me era semplicemente bellissima, il tutto sebbene mi rendessi conto che, beh, non era proprio la voce limpida che aveva durante la giornata.
“Che ore sono?” gli chiesi, avvicinandomi a mia volta finché non riuscii finalmente a toccare le sue gambe con le mie. Che bella sensazione di casa che mi dava tutto questo, attenuava, seppur leggermente, tutto il casino che mi si aggrovigliava dentro. Di fatto non era niente di che, però era un buon inizio.
Improvvisamente ci fu un gran casino, come del vento e una sorta di motore che andava in loop e che diventava sempre più forte: sobbalzai e ricordo chiaramente di avere bestemmiato a mezza voce mentre Erwin ridacchiava appena sotto i baffi.
“Che cazzo è?” gli chiesi, con quel suono che andava avanti a ripetizione.
“Le nove e mezza…” mi rispose lui quieto mentre si girava per bloccare la sveglia sul cellulare.
Dio, quanto diavolo avevo dormito. Infatti mi sentivo la testa pesante ed effettivamente ero in uno stato di rincoglionimento penoso. E comunque, anche lui, con i suoi allarmi del cazzo: la suoneria col telefono da vecchi ammuffiti e la sveglia con quel robo rumoroso che pareva vento attraverso il motore di un’auto. Evitai di commentare sulle ore di sonno ed insistei per sapere che diamine fosse quella roba. “Bene, ma che cazzo era?”
“Il T.A.R.D.I.S.”
“Il che?” 
“Il T.A.R.D.I.S….” Erwin si voltò di nuovo verso di me e di lì a poco mi ritrovai avvolto dalle sue grandi braccia calde. Faticai a non tremare. 
“Ne so come prima, guarda.”
“Oh?” Erwin mi guardò incredulo. “Non segui Doctor Who?”
Il nome mi diceva qualcosa, ma non che ne sapessi molto, visto che la tv era praticamente un soprammobile del mio salotto piuttosto che un oggetto utile. “No.”
“T.A.R.D.I.S. è l’acronimo di Time and relative dimensions in space. E’ una macchina del tempo che viaggia anche nello spazio.”
“E fa sempre quel casino?”
Mi accarezzò la schiena ed io ricambiai la tenerezza. Per me poteva parlare anche di omelette al formaggio ed io sarei rimasto ad ascoltarlo interessato, anche se con la mia solita faccia da cazzo di chi si sta rompendo i coglioni in maniera colossale. “Quando atterra, sì. Ma è perché il Dottore è un po’ una ciofeca” ritrassi appena le labbra; Erwin che diceva certe cose era l’immagine più idiota e buffa che mi si potesse parare d avanti, “Ed è un tipo solitario, o meglio, è solo, visto che i Signori del Tempo sono stati decimati da lui stesso durante la Guerra del Tempo, ed i loro T.A.R.D.I.S. sono progettati per essere guidati da sei persone.”
Ricordo di averlo fissato e di avere aggrottato la fronte: mi si era già ingarbugliato il cervello. Beh, comunque, quella merda sembrava proprio il genere di roba che poteva piacere ad Erwin, su questo non ci pioveva. “Ohh, Erwin, rallenta. Mi sono appena svegliato. Non ho ancora fumato, preso il caffé e cagato.”
Mi baciò appena sulle labbra con quella sua bocca screpolata; ebbi un brivido, nonostante la sua pelle rovinata. Quando si allontanò da me dopo quel breve bacio a stampo, rilasciai uno sbuffo leggero, una sorta di sospiro sconsolato. 
“Ti chiedo scusa” era tanto per sprecare fiato e lo sapevo, dato che non c’era davvero qualcosa di cui doversi scusare, infatti gli risposi annuendo. Mi sorrise debolmente per via delle labbra distrutte e continuò a parlare. “Vai a fare quel che devi, io vado a darmi una ripulita.”
A quel punto, il mio stomaco ruggì. Guardammo entrambi in basso: tra una cosa e l’altra non mangiavo da moltissime ore, praticamente da pranzo del giorno prima visto che avevamo bellamente saltato la cena preferendo consumare qualcos’altro a letto.
“Ah, capisco…” Erwin ridacchiò dolcemente e tornò a guardarmi. Avevo una fame manco da lupi, da orsi, tuttavia non osavo manco pensare di sgraffignare del cibo dalla sua dispensa senza permesso. In quel momento esatto il suo gatto saltò sul letto, miagolando esigente e mi camminò sopra, incurante della mia espressione vagamente contrariata. “Ti va di dargli da mangiare mentre ti prepari qualcosa?” mi chiese lui, prendendo il micio in braccio e posandoselo sul petto. Il gatto continuava a miagolare affamato e gli impastava il petto. 
Dio, che bella visione.
“Uh.. Certo. Che mangia?”
“Nella dispensa in cucina c’è una confezione di crocche… Riempigli la ciotola, poi a mangiare ci pensa lui.”
“Sicuro che non s’ingozza?”
“No, Bobbo mangia solo quando ha fame” fece una pausa e mi rivolse un sorriso gentile e vagamente ammiccante. “Un po’ come te.”
Avrei potuto reagire alla sua provocazione riferita alle mie pessime abitudini alimentari, ma no. “…Bobbo?”
“Bobbo” confermò, baciando la testa del gatto che ora giaceva a pancia in su e si strusciava amorevolmente sul suo umano prima di piantare le unghie nelle coperte e strappare ad Erwin un debole ‘ouch’.
“Certo che, tra te e il gatto…”
“Hm?” puntò gli occhi su di mentre il gatto scendeva dal letto e si fermava a miagolare sulla porta.
“Non so chi abbia il nome più merdoso.”
Erwin si passò una mano sulla fronte mentre rideva di gusto, ma sempre con una certa calma. Aveva una risata che era quasi morbida, come una sorta di carezza; mi piaceva davvero tanto quel suono. Sebbene lo stessi fissando con (scommetto) la mia tipica espressione, in più l’aggravante del sonno, sentii qualcosa di piacevole avvolgermi. Non mi sentivo così da anni.
A dire il vero, probabilmente non mi ci ero mai sentito.
Sospirai e scesi dal letto, riflettendo su una cosa importante mentre passeggiavo sul pavimento freddo e incitavo il gatto a seguirmi con uno schiocco di dita e di labbra. In un’altra casa, con un’altra persona al posto di Erwin, con un altro animale invece di Bobbo, sarei corso come un pazzo a lavarmi appena sveglio. Non avrei concesso al mio compagno di letto di baciarmi, né tantomeno di toccarmi la sera prima, non senza assicurarmi che si fosse lavato le mani.
Ma Erwin era così pulito. Non sapevo ogni cosa di lui, ma sapevo che era pulito. Nonostante incontrasse le persone più sporche, più contaminate da alcool, droghe, e pure peggio, lui era pulito perché lui stesso le ripuliva. Accanto a lui, in quella casa con un po’ di polvere in giro (mica potevo incolpare un malato grave di quelle piccole mancanze) stavo bene malgrado ogni cosa –malgrado il mio lavoro, malgrado il mio risparmiare sul cibo per riuscire a permettermi acqua, sapone, spray, panni elettrostatici e qualsiasi altra cosa.
Da quando avevo smesso di farmi, la mia vita era migliorata sotto certi aspetti e peggiorata sotto altri. Ci erano voluti anni perché riuscissi a recarmi a lavorare senza provare il bisogno di scappare a casa e farmi una doccia, senza menzionare il fatto di sentirmi costantemente coperto di germi, sporcizia, schifezze che provenivano dagli altri e da tutte le persone che avevano toccato.
Senza Erwin, non sarei mai riuscito ad uscire da quel baratro. Mi aveva aiutato così tanto.
Aprendo le crocche per Bobbo e versandole nella ciotola che trovai in cucina vicino al frigo, ebbi lo stupido pensiero che non mi sarebbe affatto dispiaciuto farlo tutte le mattine: alzarmi, mettermi le ciabatte (che non avevo al momento, e infatti mi si stavano congelando le piante dei piedi), andare in cucina e mettere da mangiare a quel bel gatto nero tanto esigente e rompicoglioni che adesso si strusciava contro le mie caviglie, facendomi finalmente le fusa.
Il mio stomaco aveva delle esigenze a sua volta e me lo fece capire con una fitta di dolore accompagnata da un ruggito affamato. Frugai nella dispensa e nel frigo, decidendo, per una volta, di farmi una colazione come si doveva, come non ne facevo da anni. Di farci, anzi, per me e per lui.
Iniziai a fare sciogliere il burro nella padellina e fui preso da un altro sciocco pensiero. Ma lo scacciai. Per ora lo scacciai, mentre sbattevo le uova e guardavo la pancetta friggere: forse non era la colazione adatta per una persona che si stava sottoponendo a chemioterapia, pensai.
Volevo fare le cose bene, almeno per lui che non mi aveva mai chiesto niente se non di stare bene con me stesso. Chissà se un giorno sarei riuscito a dirgli “grazie”, chissà: nel frattempo, gli avrei fatto da mangiare ogni mattina e avrei riempito la pancia del suo gatto, se solo me lo avesse chiesto. Cazzo, lo stomaco e le sue capriole di merda. Sbuffai infastidito, perché a nulla era servito fingere di non pensarci, visto che mi immaginai di nuovo a preparargli la colazione tutte le mattine mentre lui si annodava la cravatta davanti allo specchio dell’ingresso.
Dovevo piantarla, mi dissi. Quella non era casa mia. Ma non riuscii a dare una fine a quel pensiero: le sue braccia mi avvolsero le spalle, l’odore di crema per il viso e sapone per le mani mi abbracciarono e non riuscii a fare altro che abbandonare la testa contro al suo petto caldo e a sospirare.
Erwin mi baciò il capo e prese delicatamente la paletta dalle mie mani per girare la pancetta. Si dondolò appena sul posto, cullandomi tra le sue braccia: Dio, pensai, se devi uccidermi fallo ora. Non avrei avuto proprio niente da obiettare, sarei morto al massimo della soddisfazione e della felicità, così profonda da non sfogarsi in gioia improvvisa, ma da diffondersi in tutto il mio corpo sotto forma di serenità…
Probabilmente sospirai. Non ne sono molto sicuro.
“Levi” la sua voce, Cristo santissimo, la sua voce nell’orecchio, il mio nome.
“Mh?”
“Io prendo solo latte e biscotti.”
“Non lo vuoi il caffè?”
“No, grazie.”
“Dov’è la macchinetta?”
“No, no. Lascia stare” Erwin spense il fuoco sotto alle uova e alla pancetta, “Rilassati, per ora.”
“Sei sicuro?”
“Sicurissimo.” Mi baciò la guancia ed io ancorai la mano al suo braccio. Girai il capo, chiedendogli un bacio con gli occhi.
Ci baciammo ancora, e adesso aveva le labbra morbide di burrocacao. Aveva un sapore strano: non sapevo dire se sapesse di fragola, di vaniglia, o di menta. Forse tutte e tre le cose messe insieme, mischiate con il dentifricio: cazzo, persino l’accortezza di lavarsi i denti prima di colazione solo per baciarmi. Mi stavo perdutamente innamorando di lui, ma mi fulminassero se solo gliel’avessi detto a parole… Visto che penso che avvolgergli un braccio attorno a collo e stringergli le dita alla canottiera fosse un modo abbastanza efficace per comunicarglielo. Si era anche rasato. Buon Dio, Erwin Smith.
Ci staccammo dopo un po’, ma lui mi lasciò un ultimo bacio a stampo prima di mollare la presa.
“Io però il caffè lo voglio” gli dissi, pressando le mani sul suo petto.
“E caffè sia” mi rispose, scivolando via per prepararlo. A malincuore imitai il suo gesto e mi servii la colazione, mettendomi bello comodo al tavolo della cucina. Il gatto era ancora lì che sgranocchiava. Se la prendeva comoda come il suo umano.
Tutto ciò era molto… Molto bello. Sembravamo quasi una coppia che viveva insieme da tanti anni, non è che magarsi, forse, fosse davvero così? Con la sola differenza della componente fisica che si era aggiunta da poco, scavando qui e là cominciavo ad arrivare alla conclusione che non eravamo molto diversi da una coppia sposata che ne aveva passate di ogni prima di trovare un po’ di pace. Che peso nel cuore, nel realizzare che il calvario non era ancora finito.
Avevo ancora molte domande da fargli: decisi di non tenerle per me. Anche perché ero abbastanza soddisfatto del mio operato con uova e pancetta, e cazzo, non ditemi che quando siete soddisfatti non siete anche più ben disposti nei confronti degli altri.
“Erwin?”
“Mh?” il signore in questione era fermo accanto al fornello, una mano sul fianco e l’altra appoggiata al ripiano mentre aspettava che il caffè venisse su. Già il suo aroma si fondeva con l’odore squisito della colazione, semplicemente delizioso.
“Non starai sorpassando troppo i confini tra professionale e privato, Erwin?”
Rise ancora, ed io ebbi un altro brivido.
Porca di quella puttana.
“Lo dici come fosse una faccenda sbagliata.”
Restai a guardarlo con l’uovo in bocca e parlai a bocca piena, sbattendomene abbastanza della compostezza. “Beh. Non mi hai mai dato modo di pensarla diversamente in questi anni.”
Mi guardò da sopra la spalla. Sorrideva serenamente. “Riconosco di avere posto molti paletti.”
“Problema è” tornai ad ingozzarmi con la pancetta, “Che li mettevi e li superavi.”
Ridacchiò versando il caffè, non seppi dire se per imbarazzo o qualcosa del genere. “Non ho avuto un comportamento professionale, lo ammetto.”
“Infatti” ingoiai uova e pancetta tutto in una volta sentendo l’esofago soffrire per la quantità di cibo, troppa per le sue dimensioni, “Più ne mettevi, più ne superavi.”
Si servi latte e biscotti, dandomi le spalle: mi dispiacque non poterlo vedere, avrei voluto sapere che espressione aveva stampata su quella sua faccia da cazzo. “Ti dispiace?” mi chiese tranquillissimo, mettendosi a sedere e porgendomi il caffè.
La sera prima Erwin era teso e sofferente: vederlo così rilassato mi fece bene all’anima, mi fece sentire, in qualche modo, utile al genere umano. “No” gli risposi e buttai giù un sorso di caffè, fottesega se era amaro coma la peste.
“Bene” mi sorrise ancora, annuendo e inzuppando un biscotto nel latte fresco, “Speravo non ti desse fastidio.”
Per poco non mi strozzai col caffè.
Abbassai la tazzina e rimasi a fissarlo con gli occhi sgranati: mi stava prendendo per il culo? Aveva tentato di avvicinarsi a me sul piano personale e mi stava pure chiedendo se mi aveva dato fastidio? No, ma, con comodo, Erwin Smith. Lasciami pure languire per anni in innumerevoli fantasie sessuali su di te, con le pippe come unica soddisfazione. Ricordo che mi incupii appena e che gli strappai un sorriso divertito e saccente mentre inzuppava un altro biscotto al cioccolato.
Decisi di essere diretto a riguardo.
“Mi sono fatto seghe su di te per anni”.
Stavolta fu lui a strabuzzare gli occhi e a rimanere col biscotto inzuppato a mezz’aria. Arrossì.
Cazzo, Dio, Dio, Dio, com’era carino con i suoi occhi azzurri spalancati, le guance arrossate, le sopracciglia sollevate e la bocca a culo di gallina mentre il pezzo di biscotto zuppo di latte cadeva nella tazza con un ‘plop’. Feci un sorrisetto e finii il mio caffè.
A quel suono recuperò un po’ di contegno: era lusingato, il figlio di puttana. “Questa sì che è una notizia.”
“Ne avevi di prosciutto sugli occhi, Erwin.”
Qualcosa nel suo sguardo mi fece capire che forse, ma solo forse, ero stato un po’ anche io il problema. Con i miei modi bruschi, con il mio spingere la gente via da me, sicuramente non dovevo essergli sembrato la persona più accomodante del mondo.
E infatti non lo ero né lo sono.
“Vabbé” sospirai e mi alzai a mettere la mia roba nel lavello, per spezzare un po’ il momento imbarazzante, prima che anche le mie orecchie andassero in fiamme. Non arrossivo come gran parte degli esseri umani: in faccia rimanevo di un patetico bianco cadavere mentre le orecchie lampeggiavano come due semafori. Il fatto di averle un po’ a sventola non mi aiutava affatto. “La malattia, piuttosto?” ecco l’argomento clou.
Incredibilmente, mi rispose senza pause. Forse stavamo cominciando ad affrontare le nostre paure insieme. “Procede.”
“Procede come, esattamente? Niente misteri e sotterfugi de cazzo, Erwin” aggiunsi, tanto per precisare mentre poggiavo il culo sul tavolo, giusto di fianco a lui. Ah, sì, ora mi sentivo più alto.
Non evitò il mio sguardo, anzi, sembrò assicurarsi che lo stessi guardando. “Mi devono operare tra un mese” ah, il sollievo della possibile guarigione e lo schifo del sangue e degli attrezzi da sala operatoria.
“E come cazzo fanno? Ti aprono come un cadavere in autopsia?” scacciai violentemente l’immagine di lui aperto come un guanto o avrei potuto letteralmente vomitare l’anima, “Sette centimetri e mezzo, o quel che è, di tumore è una bella sberla di merda nel petto.”
Piegò la testa di lato, Erwin, e mi guardò confuso.
“Sette centimetri e mezzo? Chi te l’ha detto?”
“Hanji.”
Con un grugnito divertito, Erwin rovesciò il capo all’indietro e lo scosse. “Quindi l’hai conosciuta… No, non sono sette centimetri e mezzo. C’era il rischio che potesse espandersi e diventare grande a quel punto, certo” oh. Oh. Ohh, il sollievo, Gesù Cristo sia lodato, ma solo stavolta, che ne avrei avute di cose da ridire a quel simpatico signor risorto, “Credo che Hanji abbia focalizzato le sue preoccupazioni su quella faccenda, ma è acqua passata. Purtroppo, la conosco bene: tende ad ingigantire i racconti, è una sua caratteristica. È una donna fantastica, ma un tantino passionale..”
“Erwin, la malattia.”
“Sì, giusto. Al momento della scoperta, era di quattro centimetri. Una misura considerevole. L’oncologo ha ritenuto che fosse un tumore troppo grande per operare bene in endoscopia, dunque mi sono sottoposto a chemioterapia per fermare il processo di espansione della massa cancerosa e adesso si è considerevolmente ridotta”.
Mi tesi verso di lui. “Quanto?”
“Più di un centimetro e mezzo”.
Rilassai le spalle, per poco non caddi dal tavolo. Rimasi impassibile mentre mi lasciavo invadere da una sensazione incredibilmente forte di sollievo.
“Endoscopia?”
“Si tratta di un intervento chirurgico poco invasivo”.
“Quindi non ti apriranno in due come un pollo?”
“Assolutamente no”.
Sospirai e guardai il soffitto. Per assurdo, volevo bestemmiare da quanto mi sentivo fottutamente bene nel sentire quelle novità. Cambiavano completamente tutto, o quasi: avevo ancora una paura tremenda di perderlo, ma era come se invece di andare in Ferrari decappottabile senza cinture, Erwin stesse guidando un’utilitaria solida e resistente ben saldo al sedile con doppia cintura e imbracatura. C’era sempre il rischio di qualche incidente, ma era un po’ meglio, ecco.
Continuò a spiegarmi la faccenda, carezzandomi la gamba e sorridendomi: capiva.
“Faranno solo tre piccole incisioni sotto la cassa toracica e da lì procederanno a rimuovere il tumore con l’utilizzo del laser. Continuerò la terapia per altri sei mesi, per evitare che si riformino altri tumori, poi sarò…” fece una pausa. “Guarito”.
Capii al volo quanto questa parola contasse per lui. Posai la mano sulla sua senza dire una parola: ci ero passato anch’io.
“Dovrò comprarti un parrucchino, allora.”
“Per la chemio?”
“Beh…”
“Ho chiesto la stessa cosa al medico” più parlava, più vedevo che era rilassato; intuii che probabilmente aspettava da tanto di parlarmene, e lo stesso valeva per me che attendevo di ascoltare la sua campana. “Praticamente, gli effetti della chemio non sono gli stessi per tutti. Io ho perso pochissimi capelli. Guarda” abbassò il capo e si appiattì i capelli verso la fronte: non ci avevo mai fatto caso visto che quella zona della sua testa era sempre coperta e comunque rasata, ma c’era una zona sopra la nuca che era scoperta. Aveva perso qualche altro capello vicino alle tempie. “Più che altro” si rimise dritto, lasciando i capelli cadere in ciocche scomposte, “Mi dà molti problemi di secchezza alla pelle e ai capelli. Ho spesso le labbra screpolate, mi sento parecchio disidratato e spesso quel che mangio lo vomito. Molte volte mi sento la febbre e sono diventato piuttosto inappetente…”
“Non mi sembra tu abbia perso molto peso.”
“Non ho molta massa grassa. Ma i miei muscoli hanno perso tonicità.”
“Ieri sera.. Non mi sembrava.”
“Fidati” mi disse, piegando il capo di lato con un sospiro, “Non sono in forma come prima.”
“Su questo non c’è dubbio…” lasciai vagare gli occhi in giro per la cucina. Tra una cosa e l’altra, si erano fatte le undici: schizzai in piedi.
“Qualcosa non va?”
“Devo correre a lavorare” gli dissi, trafelato, e scappai in bagno. Mi faceva male il petto a doverlo lasciare, però non potevo fare altrimenti, nemmeno se mi impuntavo come un moccioso di merda. Non avevo neanche un cambio di vestiti, cazzo, me ne resi conto mentre mi lavavo come una scheggia: avrei preso quelli di Erwin, amen se mi stavano grandi, di andare a lavoro con la felpa che sapeva di chiuso era fuori discussione. Mi lavai persino i denti col suo spazzolino. Non che fosse una gran novità – non gli avrei permesso di baciarmi altrimenti.
“Ti serve qualcosa?” udii la voce di Erwin dietro la porta della camera dopo che mi ci ero tuffato per vestirmi.
“No!” Presi un paio di slip, quelli che mi sembravano più simili alla mia taglia (cercai di non pensare al fatto che, tra il mio culo e il mio pisello, ci stavo davvero ballando il tango dentro) e una sua camicia. Ah, beh, c’era anche una certa soddisfazione ad indossare la sua roba, non tanto perché mi stesse grande ma perché era sua, aveva la fragranza dell’ammorbidente e del profuma armadio che aveva scelto lui personalmente e boh, non so. Mi piaceva, punto e basta.
Mi infilai i miei pantaloni (in condizioni accettabili) e gli anfibi poi corsi fuori a prendere le chiavi, il cellulare, le sigarette e l’accendino dalla sacca ventrale della felpa. Lo incontrai nel corridoio: c’era rimasto di stronzo, poveraccio. “Devo correre” soffiai, “Ma tornerò” aggiunsi. Anche perché avevo lasciato lì le mie mutande e la felpa.
Non volevo andare, non volevo proprio lasciarlo. Mi sentivo, a dirla tutta, parecchio in ansia all’idea che stavo per varcare la soglia di casa sua e buttarmi in una mandria di ragazzini puzzolenti, maleducati e chiassosi. Maledetto turno che mi ero fatto spostare.
“Buona giornata” mi disse, senza commentare sul fatto che gli avessi rubato la camicia (non lo sapeva, ma anche le calze e gli slip) e si chinò a darmi un veloce bacio a stampo sulle labbra. Lottai contro il desiderio di limonarmelo senza pietà, stringendo le chiavi nel pugno.
“Ciao” gli risposi, lanciandogli un’ultima occhiata prima di scappare fuori dalla porta. Una frana di sensazioni spiacevoli mi travolse nello scendere le scale: corsi come un pazzo per evitarle e per riuscire ad arrivare al lavoro in orario, soprattutto.
Me ne andai di fretta, con appena il tempo di dirgli “ciao”. L’aria fresca del mattino di Aprile, però, non riuscì a cancellare il marchio tiepido del suo bacio d’arrivederci.
Quasi me lo sentivo ancora sulle labbra quando arrivai a scuola.

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Capitolo 9
*** And I need to see you ***


Capitolo un po' cortino oggi! Grazie mille dei preferiti, recensioni e tutto il supporto :*

 
Dopo essermi lasciato Erwin alle spalle, la mia giornata di lavoro iniziò bene.
 Anzi, siamo onesti: pure troppo bene. Quasi mi stavano simpatici tutti quei mocciosi, quando li incrociavo nei corridoi - e per "quasi simpatici" intendo che non avevo ancora l'istinto di ficcare loro lo spazzolone su per il culo.
Ero sereno. Rilassato. Ah, non avevo ancora fumato (però dovevo ancora cagare, solo che non l'avrei mai fatto in quel buco di scuola, parola mia; piuttosto avrei stretto le chiappe fino all'ora di tornare a casa), eppure la sensazione di serenità non mi lasciava. Non dico che fosse a causa di Erwin, sarebbe semplicistico e pure stupido, più che altro era un insieme di fattori che sì, passavano attraverso di lui, ma non erano dovuti esclusivamente a causa sua.
Cominciavo a sentire veramente di avere controllo della mia vita, di quello che volevo fare; ero pieno di positività, per quanto io potessi esserlo. Mi guardavo intorno e iniziavo a capire che la mia esistenza cominciava ad avere un senso vero, uno scopo, un'utilità; non ero soltanto un bidello che faceva bene il suo mestiere, né un utente random del servizio sociale.
Avevo l'impressione di potermi finalmente aprire onestamente con qualcuno senza paura di un giudizio che mi pesasse sulla testa. Mi fidavo dei miei amici, ma era un altro tipo di fiducia che non passava per il cuore.
Mi sarei ficcato due dita in gola per averlo pensato, ma comunque. Fintanto che rimaneva nel mio cervello andava tutto bene, no?
Persino passare lo spazzolone nell'aula di disegno dal vero mi pesava meno del solito. Era l'aula che più odiavo, quella lì: disseminata qua e là da modelli in gesso che perdevano costantemente pezzetti e polvere, il pavimento era ricoperto di residui di gomme da cancellare, mine, gessetti, carboncini calpestati e macchie di tempera o acquerello. Ogni giorno era la stessa storia, dato che puntualmente quell'aula veniva usata almeno da quattro o cinque classi ma vabbé, prima pulivo quel macello e prima mi sarei sentito meglio.
Fui quasi sul punto di canticchiare; Dio Cristo, forse ero un po' troppo di buonumore. Eh, avevo ricevuto belle notizie, e avevo quasi la sensazione di essermi "sistemato" con qualcuno. Di scopamici o semplici compagni di letto per una notte ne avevo avuti svariati, a volte era meglio avere qualcuno con cui scopare che farsi una sega e sinceramente, i legami affettivi erano l'ultimo dei miei problemi.
Ero quasi allergico a quella roba, credo. Forse per questo mi ero sempre figurato Erwin come mio amante per tutti quegli anni, e niente di più. Però, boh, c'era sempre 'sta sensazione che premeva dal fondo del mio petto e del mio stomaco ogni volta che lo vedevo o che mi toccava per sbaglio o intenzionalmente, anche solo per sfiorarmi la spalla, per darmi conforto.
Mi dava sempre i brividi, fottutissimo figlio di puttana... E ora c'ero dentro, riflettevo mentre spazzavo l'aula lercia, c'ero dentro fino al collo. Avevo già avuto quel pensiero, ma era per roba distruttiva. Speravo davvero che Erwin non mi avrebbe distrutto nello stesso modo, anche se ormai... Ormai, beh, c'era ben poco da fare per ignorare tutto. Mi chiesi se avessi focalizzato un'altra dipendenza su di lui. Una sorta di senso di colpa del sopravvissuto, o cazzate del genere?
 Forse.
Sapevo e sentivo fortemente che volevo vederlo di nuovo, o solamente sentirlo, ricevere un suo messaggio; avevo un bisogno fisico di addormentarmi tra le sue braccia, o di stringerlo a me, di farlo riposare sul mio corpo e di carezzargli la schiena mentre lui stesso si lasciava andare al sonno.
Ovviamente volevo anche farci l'amore, ma era una cosa un po' diversa. Per assurdo, non avevo fretta di farmi trapanare da lui come qualche mese prima; l'intimità che avevamo condiviso la sera precedente mi aveva riempito le vene in una maniera atroce e ogni volta che mi capitava di ripensare ai suoi baci, alle sue mani che mi toccavano, mi fermavo come un totale rincoglionito a fissare il vuoto con un sorriso da mongolo sulle labbra.
Poi mi scuotevo e tornavo a lavorare con uno sbuffo; bestemmiavo a mezza voce contro me stesso, ma ancora sorridevo nel farlo.
Tuttavia il mio umore era troppo bello per durare. Dopo avere passato lo straccio per terra in un angolo dell'aula, mi allungai ad aprire la finestra. Quei mocciosi credevano di essere ben nascosti e invece dal punto in cui mi trovavo erano fin troppo visibili.
Eren, Marco, Jean e Connie erano seminascosti sotto a un albero, intenti a passarsi una canna. Li fissai per diversi secondi, speravo di sbagliarmi, ma no, le conoscevo bene quelle robe - era proprio una canna.
Guardai il gruppetto in silenzio per un po': ridevano come i poveri cretini quali erano, sparando stronzate che non ho alcuna intenzione di ripetere ma che mi fecero venire voglia di vomitare. Come la facevano facile, quei pezzi di merda. Esattamente come la facevo facile io anni fa.
Non riuscivo ad osservare quello scempio senza provare qualcosa di davvero rivoltante. Se fossero stati intenti a prendersi a botte, li avrei lasciati fare fintanto che non avessi visto sangue, così come se li avessi beccati a insultarsi a vicenda, a sputarsi addosso o a litigare per qualsiasi cazzata. Me ne sarei sbattuto - dovevano crescere un giorno o l'altro, ed ero dell'idea che prima imparavano da soli a difendersi, meglio era. Non ci sarebbe stato alcun professore a dividerli prendendoli per i capelli, in futuro.
Ma vederli così – mi faceva schifo, senza mezzi termini, al punto da essere angosciante. Mi rivedevo in quei quattro e mi terrorizzava. Non posso dire che temessi per la loro salute, questo sarebbe davvero troppo; mi stavano solo riportando a galla vecchi ricordi, i miei giorni di liceo in cui anch’io passavo le ore di pausa in cortile a farmi canne con gli amici.
C’è chi si ferma alla cannetta occasionale, o chi prova una volta giusto per farsi due risate e poi smette, e c’era chi, come me, non ne aveva abbastanza. Quando tutto il tuo mondo cade a pezzi e non ha senso, e tu che ci vivi dentro sei debole, senza nessuno, senza umiltà, con troppo orgoglio e per giunta testa di cazzo, quella mezz’ora di leggerezza non ti basta più.
Ti serve altro. Ed ecco che da ‘E’ solo una canna, ti pare che io possa diventare un tossico di merda?’, diventi esattamente ciò che più disprezzavi. Magari poteva passare un po’ di tempo senza che mi bucassi, settimane in cui conducevo una sorta di vita normale, ma poi arrivava quel punto di rottura in cui mi trasformavo come un licantropo alla luna piena, solo che io ero una specie di schifoso topo di fogna che faceva qualsiasi cosa per racimolare quattrini più sporchi che puliti. Un  rifiuto umano, sia per gli altri che per me stesso, soprattutto.
Guardai quelle facce, non sapendo un cazzo delle loro storie famigliari o personali, non avendo la più pallida idea di chi avrebbe potuto fermarsi al cannone una volta ogni tanto o chi sarebbe potuto andare avanti e friggersi il cervello come me. Avevo conosciuto le persone più insospettabili che ci erano cadute – per cui il fatto che Jean fosse (stando a quanto avevo sentito dire) figlio di gente ricca poteva significare tutto come poteva significare niente. Il fatto stesso di essere agiato poteva essere la causa di qualche male.
Direte: parli tu, che ti sei fatto una canna a casa di Erd, la sera della partita improvvisata a D&D. E vi dirò; avete ragione. C’era la differenza sostanziale che io conosco il mio limite, dato che l’ho raggiunto da un pezzo.
Comunque fosse, non avevo intenzione d’indagare; avevo visto abbastanza, meglio strappare l’erba marcia prima che infesti il prato.
Presi il secchio pieno d’acqua sporca e sapone e mi sporsi fuori dalla finestra. Adocchiai brevemente Annie, Bertholdt e Reiner che, seduti su una panchina poco lontana, si erano voltati a guardarmi. Godetevi lo spettacolo, pensai, mentre facevo scrosciare quella schifezza a caso sulle teste di quei quattro. Centrai benissimo Eren, che urlò qualcosa d’incomprensibile insieme ai cretini degli amici suoi.
Mi appoggiai con il secchio sul parapetto e restai a fissarli con aria trionfante, ma che non nascondeva disprezzo. Ricordate quello che vi avevo detto su Erwin che, tempo addietro, mi era sembrato come una canna bagnata? Esattamente. Prospettiva invitante ma di fatto totalmente inservibile.
“Perché lo ha fatto, signore?” sbottò il piccolo Eren, togliendosi la schiuma dagli occhi.
 “Brucia!” si lagnava Jean, che aveva afferrato la maglia di Marco e si sfregava gli occhi con il tessuto. Anche Connie si lamentava, ma meno degli altri. Era stato relativamente risparmiato.
“Meglio la schiuma negli occhi” chiesi al giovincello, aggiustando il piede sul parapetto e le braccia incrociate sul ginocchio, “O una visita all’ufficio del preside?”
“Ma non stavamo facendo niente di male!” Marco tremava e sorrideva, sembrava lievemente isterico e nervoso. Oh, come dargli torto.
“Niente di male!” gli fece eco Connie.
“Sì? E quella che hai in mano, Jaeger, cos’è?”
La canna era spenta ma era comunque una canna. Se l’avessi portata al preside, e se ci fossero stati dei dubbi sulla natura di quell’affare, Pixis ci avrebbe messo un attimo a spedirla al laboratorio chimico più vicino.
Jaeger sbiancò e guardò la prova del suo reato, che teneva ancora in mano. Mi rivolse un’occhiata terrorizzata e in un certo senso di mi sentii potente, nonostante non fosse granché come sensazione, specialmente nei confronti di un moccioso. Ma era un cretino, ed io ero venuto su peggio delle bestie: tra l’altro, non mi sarei mai aspettato da lui, ingenuo per la sua età, di fumarsi della marijuana. In un certo senso, Eren mi aveva deluso.
“Posso spiegare!”
“Non è nostra!” si affrettò ad aggiungere quel codardo di Jean. Bah. Un punto a favore di Eren, che almeno aveva cercato di spiegarsi.
“Fammi parlare, imbecille!” gli ruggì in faccia Eren, e Marco si avvicinò a Jean per tenerlo fermo dal braccio. Meno male che le canne hanno effetto calmante (solitamente), figuratevi come potevano essere questi due senza un po’ di maria in corpo.
“Bastardo idiota!” l’estrazione sociale di Jean si poteva sentire in tutta la sua raffinatezza, “E’ colpa tua se ci siamo fatti scoprire!”
“Hai avuto tu l’idea di comprare la maria da..!” ma Connie gli si lanciò addosso da dietro e gli tappò la bocca, allarmato. Con la coda dell’occhio, il pugno chiuso di Reiner e il suo scatto improvviso nel mettersi in piedi non mi sfuggirono affatto. Né potei ignorare un preoccupato Bertholdt che lo rimetteva a sedere e una Annie che, in apparenza, faceva finta di nulla.
Da… Chi?
Non mi sporsi di più solo perché altrimenti sarei potuto cadere di sotto, e non aggiunsi un commento. Il momento non era quello adatto, ma la situazione stava prendendo davvero una piega orrenda.
Immaginavo che nessuno di quei quattro fosse un coltivatore di marijuana, senz’offesa ma.. Non erano dei tipi svegli. Soprattutto Eren.
Tuttavia, ora che ci pensavo, quel trio che se ne stava sempre sulle sue… No, questa storia stava davvero prendendo una pessima piega.
“Ohi” riuscii a riottenere la loro attenzione, certo che quel trio di spacciatori (e non sto neanche ad aggiungere ‘presunti tali’, considerando Reiner e la sua incapacità di controllare le emozioni e tenere nascosti i loro piccoli segreti) non stesse pensando che potessi già essere arrivato al nocciolo della faccenda, “Fotte un cazzo a me come mai ce l’avevate. Non voglio droga nella mia scuola” conclusi, lapidario.
Tutti e quattro si guardarono e deglutirono. Li stavo facendo cagare in mano di brutto.
“Venite qua che c’è del gran macello da pulire. Muovetevi.” Non avrei detto nulla, non per stavolta. Con quel patto implicito –pulite per me e io tengo la bocca chiusa- avevo legato quei ragazzini a me.
Schizzarono subito su e nel mentre che li aspettavo, mi prodigai di mettere sottosopra l’aula ancora una volta, così, per sfregio alla loro idiozia, rovesciando gessetti, scostando calchi e camminando a piene suole dove avevo appena passato lo straccio così da lasciare l’impronta delle mie All Star.
Dovevo fare qualcosa, riflettei mentre li guardavo sistemare l’aula con il terrore di una denuncia al preside che alitava sul loro collo, seduto sul tavolo a gambe incrociate (e sì, lo feci apposta per vedere se poi si sarebbero ricordati di pulire. Cazzo, non si sale sui tavoli coi piedi).
Contattare la Polizia? Ma per favore. Col cazzo che si sarebbero mossi per il sospetto di un bidello. Ex tossico, tra le altre cose. No, meglio lasciare perdere; ci sarebbero andati di mezzo Eren, Jean, Marco e Connie e, in una ipotesi non troppo lontana, anche io. Conoscevo quanto facilmente si alzavano le accuse contro quelli della mia razza.
Riflettendo, mi accesi una sigaretta anche se non si poteva fumare all’interno delle stanze del plesso scolastico e presi a ciccare sul pavimento, gustandomi la visione di Eren che correva ad afferrare scopa e paletta. Non avrei detto niente al preside a prescindere, per cui era divertente vederli credere a tutta quella farsa.
Informare il preside.. No. Era prematuro. Inoltre, non volevo che quei quattro, colpevoli solo di essere ragazzini scemi in vena di provare roba nuova, finissero in mezzo; Pixis era un uomo gioviale ma non stupido, certamente mi avrebbe chiesto come ero arrivato a sospettare di studenti così tranquilli come Reiner, Bertholdt e Annie.
Ah… Beh. L’ultima spiaggia sembrava essere Erwin, a cui avrei potuto almeno chiedere qualche consiglio. E poi lui aveva sicuramente molti più agganci in tutta questa faccenda, sicuramente sapeva cosa avrei potuto fare. Il fatto che morissi dalla voglia di vederlo non c’entrava eh, ovviamente… No…
Acchiappai il cellulare dalla tasca e digitai velocemente un sms.
 [Oi. Ti devo parlare. È urgente. Stasera da te?]
“Signore, ho finito col pavimento, posso andare?”
“No” borbottai tenendo la sigaretta tra le labbra e componendo, “Ci sono da pulire le mensole. E dovete risistemare i materiali negli armadi, guardate che cazzo di casino che c’è lì dentro… Ancora mi chiedo come diavolo facciate a lavorare in quel caos… Sempre io me le devo sorbire le lamentele della vostra prof, sempre io. E guarda che disordine qua, e che disordine là.”
Il ragazzino mi lasciò stare all’inizio del mio discorso – ma per una volta il mio essere logorroico mi aiutava a tenermi le presenze altrui lontane.
Non molti minuti dopo avere mandato l’sms, Erwin mi rispose. Sobbalzai, o forse era il mio cuore, boh.
[Sabato sera da me?]
Woah, che gran giro di parole, mister assistente sociale. Vabbé, non erano cazzi miei cosa faceva fino a sabato, l’importante per me era vederlo. In un modo o nell’altro avrei tenuto d’occhio quei tre strambi tizi.  [Va bene] gli inviai solamente e rimisi il telefono in tasca.
Trenta secondi più tardi mi aveva già risposto.
[Ti aspetto :-) ]
Sbuffai e mi rialzai per andare a controllare quello che facevano i quattro dell'Apocalisse.
Porca puttana, Erwin. Tu, le tue faccine del cazzo e il fatto che morivo dalla voglia di vederti anche se avevi messo uno smile che più da ritardati proprio non potevi.

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Capitolo 10
*** Now, listen to me ***


Quest'oggiiiiiii a grande richiestaaaaaaaaaaaaa (?) il capitolo 10 presenta il POV di Erwin!
Ci saranno forse un altro paio di capitoli col suo POV, anche in vista di una sorta di spin-off che voglio scrivere sulla sua vita prima di diventare assistente sociale.
Buona lettura!!


 
Avevo trentatré anni quando mi diagnosticarono il cancro ai polmoni.
“Perché ridi, Erwin?” fu ciò che mi chiese l’oncologo, anche mio medico di base, nel vedermi ridere dopo avermi comunicato l’esito degli esami.
Sospirai nel calmarmi, sorridendogli amaramente. “Ho gli anni di Gesù” gli dissi.
Sorpreso, o meglio, sconvolto, il mio medico scosse a malapena il capo per ciò che avevo detto. Prima di lanciarsi in dettagli riguardanti la mia malattia, ci tenne a comunicarmi che nessuno dei suoi pazienti aveva mai preso in maniera così ironica e insieme cinica la notizia di una malattia tanto grave.
Avevo trentatré anni e fu un colpo estremamente duro nella mia vita. Da diverso tempo avevo fondato la mia esistenza sulla stabilità economica e sulla sicurezza: una casa, un lavoro, uno sport che svolgevo regolarmente. Mi ritenevo un uomo mediamente soddisfatto, nonostante alcune lacune presenti qua e là, piccoli e grandi difetti che avevo sempre ignorato o sminuito con saggezza.
L’arrivo improvviso del tumore sconvolse ogni cosa. I cambiamenti apportati dalla malattia furono piuttosto subdoli: in apparenza, se la faccenda veniva analizzata dall’esterno, la mia vita continuava il suo percorso, il mio lavoro rimaneva stabile e le mie relazioni non erano state modificate. Per ovvi motivi dovetti smettere di fumare e anche correre tutte le mattine, principalmente poiché non avevo più fiato per farlo, ma a parte ciò non vi furono grandi stravolgimenti in superficie.
Tutto cominciò con un giro di telefonate che non avrei mai, mai voluto fare. Mi accorsi subito che nella voce delle persone all’altro capo del telefono qualcosa si spezzò dopo il fatidico, “C’è qualcosa che devo dirti”. Le persone più vicine a me conoscevano perfettamente la mia situazione economica e famigliare: ero single da anni, avevo un lavoro sfiancante ma che riusciva in qualche modo a mantenermi, un rapporto tutto sommato decente con la mia famiglia e un conto in banca sicuro.
Cos’altro poteva costituire un problema, se non la salute?
Le telefonate furono difficili ma si trattarono soltanto del preludio degli incontri successivi.
Mia madre, donna di granito e poco emotiva, pianse quando le comunicai della mia malattia; Mike e Nanaba mi strinsero forte. Hanji sembrò quasi dare di matto, ma solo nel privato, come mi venne riferito più tardi da terzi; i miei utenti ebbero reazioni diverse: chi scoppiò a piangere, chi mi abbracciò, chi mi strinse la spalla e chi mi diede una pacca sulla schiena.
Ero un uomo ben voluto da molte persone e non ne faccio mistero. In realtà avevo la netta impressione che ogni cosa per cui avevo lottato si stesse piano piano sgretolando tra le mie mani. Andavo a letto ogni sera facendo il conto delle persone a cui dovevo ancora comunicare della mia malattia, e per distrarmi mi chiedevo che genere di segno lasciava in loro, piuttosto che in me, la notizia.
Mi ritrovavo a riflettere sull’importanza effettiva che avevo nella vita di quelle persone. Talvolta l’improvvisa realizzazione della responsabilità che pesava sulla mia schiena mi lasciava senza fiato e sentivo quasi gli effetti di un attacco di panico. Un peso enorme nel petto che m’impediva di respirare, confusione, terrore, angoscia.
Nelle fasi iniziali della malattia non sapevo se dovessi disperarmi oppure mettermi fiducioso nelle mani dei medici. La seconda opzione, tuttavia, nonostante fosse la più sensata e me ne rendessi perfettamente conto, ad un livello strettamente personale sembrava piuttosto improbabile a causa dei miei trascorsi – ma adesso non è il momento adatto per questa parte della storia.
Vi fu una piccola rosa di persone alle quali serbai il segreto del mio tumore: Ymir, Petra, Erd, Gunther, Auruo ed infine, Levi. Perché una scelta di persone così eterogenea? Feci un ragionamento che a me parve il più logico e plausibile.
Ymir era una delle mie utenti più problematiche all’epoca; credo sia molto importante sottolineare che lei non era affatto una ‘cattiva ragazza’ sebbene si sforzasse  di apparire tale. Costruire un rapporto di crescita e fiducia insieme era davvero complesso e mi ci erano voluti diversi anni per conquistarmi una minuscola parte della sua stima: non avevo mai detto una parola negativa sulla sua sessualità – io stesso sono omosessuale – e ciò era stato tenuto in gran conto da lei. L’ideale che aveva di me poteva spezzarsi facilmente. Decisi di tacere, temendo che faticasse a vedermi di nuovo come una figura forte e stabile.
Petra, Gunter, Auruo, Erd: sebbene pensassi davvero che avessero il diritto di sapere, non potevo rischiare. Erano amici di Levi.
Non volevo che Levi venisse a conoscenza del mio tumore. Tentai di comunicarglielo, ed  è assai buffo ricordarlo, perché provai le stesse sensazioni che si hanno quando si è in procinto di dichiarare il proprio amore faccia a faccia.
A dire il vero, non temevo il rifiuto di Levi, o la sua derisione (mi aveva deriso con ogni pretesto, dai pantaloni ai capelli, dal mio atteggiamento alla mia voce) o qualsiasi altra cosa legata ad una confessione. La sensazione era simile, tuttavia: il fiato corto, le parole sulla punta della lingua, l’esitazione nel respiro prima di pronunciare la fatidica frase e il battito accelerato.
Sapete già il resto della storia. Anche quando la malattia cominciava a farsi più evidente, io continuai a tenerglielo nascosto e Levi lo venne a sapere tramite Mike.
Quando me lo ritrovai in casa, quella sera, capii cosa significa quel detto, ‘Tutti i nodi vengono al pettine’: così era stato. Non posso dire che avessi davvero creduto al fatto che Levi sarebbe rimasto ignaro della faccenda per sempre, ma mi stavo sforzando con tutto me stesso di trovare il coraggio per rivelarglielo.
Ma non era semplice. Per niente. Dio solo sa quanto volessi dirglielo e quanto al tempo stesso, a dispetto di tutti i miei sforzi, non riuscissi a trovare alcun modo per farlo.
Il modo in cui mi guardava quando finalmente lo rividi… Mi sentii in colpa come non mai in vita mia. Dubito che fosse consapevole di tutto il dolore che lasciava trasparire sul viso, quanto fosse evidente che l’avevo ferito mentre cercavo di salvarlo dalla notizia.
La verità era che non volevo assolutamente immaginare l’effetto che avrebbe avuto su di lui. Ero una persona importante per tutti i miei utenti ma per lui lo ero molto che per gli altri. Sarei stato un folle a non rendermene conto. Davvero un folle.
“Quando ti deciderai, Erwin?” mi chiese Mike, un pomeriggio del terzo mese di terapia, posando un grosso fascicolo sulla mia scrivania. Il fascicolo di Levi.
Io scossi appena il capo e non smisi di scrivere al computer. “Glielo dirò quando sarà il momento”.
Lui si sedette di fronte a me, incrociò le mani sotto al mento e mi guardò senza dire una parola finché non mi voltai a ricambiare lo sguardo.
“Ovvero quando sarai calvo?”
La sua espressione era strana, indecifrabile. Non riuscivo a comprendere se mi stesse giudicando o spronando. Probabilmente entrambe le cose insieme, il che sarebbe stato anche normale, considerando come eravamo stati vicini durante il periodo dell’Università.
Guardai il fascicolo di Levi. Avevo la testa atrove… A volte quasi mi scordavo di ciò che era accaduto tra di noi. Voglio dire, tra me e Mike.
Ricordo che sospirai ma ritornai a scrivere. “Conto di farlo ben prima di allora.”
Tra di noi calò di nuovo un silenzio che pareva un muro e si sentiva solo Mike che respirava rumorosamente per via del raffreddore e il mio ticchettare sulla tastiera. Mike poteva chiedermi di tutto, parlarmi di ogni cosa tranne che di quello. Mi chiudevo a riccio, incapace di affrontare la situazione faccia a faccia persino con lui.
Volevo proteggere Levi da se stesso. Temevo per lui se avesse saputo.
Un respiro lungo e quasi scocciato accompagnò Mike mentre lasciava il mio ufficio. Non mi disse nulla. Se ne andò e basta.
Ad essere franco, non ne fui affatto sorpreso… Ero stato deludente sotto molti aspetti, e per assurdo avevo sempre deluso i più vicini a me. Mio padre, Mike, Levi. Hanji era ancora salva. Sperai di non tradire le sue aspettative su di me come persona.
Mi era stato detto che ero eccessivamente drammatico, che la delusione di un momento non è la delusione di una vita; è vero, ma a mio parere, c’è caso e caso. Il caso di mio padre rientrava appieno in ‘delusione di una vita’. Non era stata colpa mia, non lo sarebbe mai stata; col lavoro, col corso degli anni e degli studi, incontrando persone e realtà diverse, imparai a capire e soprattutto ad accettare me stesso. Non sforzarmi di compiacerlo e chiudere le orecchie a ciò che cercava di inculcarmi fu il passo più difficile.
Anche se è bene sottolineare che non avevo alcuna colpa della sua ottusità ed ignoranza, fui una tale delusione come figlio che il mio timore più grande fu essere una delusione come uomo, come marito, come lavoratore. Come adulto, in parole povere.
Mi trovavo costantemente in bilico tra la ricerca dell’essere accettato da chi mi circondava e il proseguire sulla mia strada. Ne veniva fuori un atteggiamento rilassato e contenuto, poiché non desideravo né che si vedesse che cercavo l’approvazione altrui, né accettavo che mi riducessi solo a quello.
Rianalizzavo spesso il mio percorso di vita nei miei momenti di silenzioso sconforto, giungendo alla conclusione che non avevo proprio nulla di cui essere deluso. Mi ero laureato con ottimi voti (ma senza lode…), svolgevo una buona vita, avevo dei buoni amici, un lavoro, anche se non proprio ben pagato per gli sforzi che facevo (volentieri!).
Non c’era nulla di cui mi potessi lamentare.
Ma avevo iniziato a sentirmi molto solo. Dannatamente (!) solo.
Nell’ultimo anno qualcosa era cambiato. Qualcosa che da diverso tempo strisciava sotto la superficie iniziava a mettere la testa fuori dalla tana e non sapevo se mi piaceva. Era sbagliato; non avrei dovuto. Professionalmente ed eticamente, avrei dovuto fermarmi e riflettere. Che sciocco. Non esiste modo per fermare un sentimento, tutto ciò che potevo fare da un punto di vista concreto era fingere che non esistesse ed evitare che influenzasse il mio lavoro.
Levi mi piaceva così tanto. Mi piaceva quel suo carattere grezzo. Era fiero, era onesto, era crudo, era diretto, era libero e fuori da ogni schema. Non l’avevo visto mai adattarsi al volere di qualcun altro per il fine puro e semplice di accontentare. Ammetto anche che mi piaceva, forse anche più di quanto fosse concepibile per un uomo del mio mestiere, l’idea di stringere quel corpo piccolo tra le mie braccia. Levi era ciò che io non ero. Lo conoscevo bene e ogni volta che visitavo la sua casa, mi sentivo triste quando dovevo andarmene, come i bambini che piangono, “Di già?” ai genitori venuti a prenderli ad una festa.
Avevo preso a rubare qualche secondo in più lanciandogli un’ultima occhiata dalla porta, salutandolo dal cortile se lo vedevo sbirciare di sotto. Ci vedevamo solo una volta al mese e parlavamo della sua situazione economica e psicologica… Ma erano ore così preziose per me. Dio solo sapeva quanto volessi chiamarlo ed invitarlo fuori a prendere un caffè. Ma quanto sarebbe stato indecente da parte mia, lavoratore del sociale, fare quel genere di preferenze.
Ripetermi che Levi era solo un mio utente era facile, metterlo in pratica, anche. Ma non nego che avere le mani legate mi facesse male al cuore. Mi sforzavo di guardare altri uomini e ragazzi, colleghi e non, con lo stesso interesse. Avevo avuto qualche flirt, o meglio – qualche simpatia, di brevissima durata.
Il tempo di una passeggiata per un caffè e la magia era finita. L’uomo o il ragazzo che avevano attirato la mia attenzione si rivelavano sempre come me: individui grigi, senza nulla da offrire ad un’altra persona senza colori: non uno stimolo, una domanda a bruciapelo o battutina piccante – e non parlo di sesso, sia ben chiaro.
Invece, all’avvicinarsi della visita mensile a casa di Levi, mi sentivo stranamente bene. Leggero e pronto a liberarmi di ogni peso e processo mentale ripetitivo e meticoloso. Quando mettevo piede nella sua casa grigia, il mio mondo diventava dorato ma irregolare. Diventava interessante.
 Tuttavia, il processo che mi aveva portato ad affezionarmi a lui fu così lento e graduale che mi resi conto di quanto fosse diventato un problema serio solo poche settimane prima che mi diagnosticassero il tumore.
Fui in grado d’ignorare tutto e di comportarmi in modo professionale finché non ebbi tra le mani i risultati degli esami.
Allora fui preso dallo sconforto, fui inondato da domande che non avrei dovuto farmi. E se la chemioterapia non fosse riuscita a fermare l’espansione del cancro? E se quest’ultimo avesse intaccato i linfonodi, mandandoli in metastasi? Non era una probabilità così scontata, purtroppo.
Messo di fronte alla morte, mi chiesi se fosse il caso di andarmene senza averlo mai stretto, senza mai averlo baciato in vita mia. Allo stesso tempo, faticai a trovare un compromesso con me stesso, dicendomi che sarei potuto andare incontro ad un rifiuto. Levi non mi aveva mai parlato della sua vita privata da quando aveva smesso di drogarsi; sapevo solo che aveva avuto rapporti sessuali occasionali con Petra da adolescenti e nulla più. Il modo in cui parlava di Ymir, chiamandola ‘lesbicona’ mi dava bruttissime sensazioni.
Oltre al timore del rifiuto, si aggiungeva un altro pensiero ricorrente. Se mi avesse accettato, e se la malattia fosse peggiorata in maniera irrimediabile, sarei stato solo un terrificante egoista per avere cercato contatto con lui.
Mi trovavo in un limbo.
Ero pietrificato tra troppe decisioni da prendere: nella mia vita avevo sempre ponderato bene ogni percorso, scelto sempre la strada migliore –mi si poteva rimproverare solo il fumo- mentre allora non sapevo proprio cosa fare.
A differenza di Mike, che era riuscito a capire ciò che provavo per Levi. E continuava ad insistere perché gli dicessi della malattia.
Poi quella chiamata di Nile in piena notte, la sua minaccia di sfondare la porta di casa di Levi e arrestarlo per oltraggio a pubblico ufficiale. L’occasione di una vita mi si presentava davanti, ignorai persino che razza di persona viscida fosse Nile (lo era stato fin dai tempi dei miei studi universitari, ma questa è un’altra storia) per ricattarmi in quel modo vergognoso, soprattutto per un uomo adulto. Misi una tuta sopra al pigiama e mi lanciai in macchinamentre ero al telefono con Levi, agitato come di rado lo avevo sentito.
Mi buttai in strada con l’acceleratore a tavoletta e a malapena mi ricordai  di accendere i fari. Dio, volevo vederlo. Cadevo a pezzi, ero stanco, avevo vomitato poco prima di mettermi a letto, non mi ero nemmeno lavato e sì e no che mi ero degnato di prendere il portafogli coi documenti con me. Avevo solo una cosa in mente, in quella folle corsa nella notte, ed era vedere Levi.
Non è professionale, continuavo a ripetermi mentre guidavo, non si fa così, Erwin Smith. Che genere di assistente sociale si spreca così tanto per un utente? Ridimensiona la faccenda. Non dovresti, non dovresti proprio. Chi ti credi di essere? Un buon samaritano? Un santo?, mi chiedevo, Credi di essere Gesù?

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Capitolo 11
*** Before you fall into my arms ***


CAPITOLO LUNGHISSIMO, o almeno LUNGHISSIMO per i miei standard. Ho paura di essermi dilungata troppo ma avevo anche l'impressione che accorciando si perdesse l'importanza dei fatti.
Non so dire se è a rating rosso o no, per me rimane sull'arancione, vedete vobis.
BUONA LETTURAH! ♥



“E questo è quanto” spiaccicai lo spazzolone sul pavimento con uno spiacevole ‘splotch’. Mentre aspettavo una risposta da Erwin, mi misi d’impegno per pulire quel lerciume che era diventato il suo bagno. Mi aveva assicurato che prima di ammalarsi non era così e gli avevo creduto: Erwin era sempre stato molto pulito, non avevo motivo di credere altrimenti.
Ma comunque, malattia o non malattia, il suo bagno faceva veramente schifo; sono consapevole che probabilmente ero solo io ad avere qualche problema, visto che la madre era venuta ad aiutarlo a pulire casa solo due giorni prima.
Il mio cervello, però, non stava zitto e ripeteva: non è abbastanza pulito! Guarda che merda! E questo sua madre lo chiama pulire? È lercio, fa schifo! Sporco!
Passando con energia lo straccio sul pavimento, ebbi in testa l’immagine di una donna anziana che faceva quello che stavo facendo io. Mi diede una sorta di nervoso sparso per tutto il corpo.
La madre gli aveva dato una mano eppure ciò non mi piaceva, avevo quasi l’idea che qualcun altro (di legittimo per giunta, trattandosi della donna che l’aveva messo a questo schifoso mondo) avesse preso il mio posto. Mi morsi la lingua più e più volte di seguito per ricacciare negli anfratti della mente quel pensiero cretino – a venticinque anni non potevo lagnarmi come un bimbo di cinque o offendere sua madre. Anzi. Probabile che la stessi già offendendo ‘ripassando’ quel che aveva fatto.
Mi tirai in piedi per strizzare lo straccio nel secchio e lanciargli un’occhiata. Se si era sentito offeso, lo nascondeva molto bene, là, appoggiato allo stipite della porta con le braccia conserte sul petto. Stava meglio rispetto a qualche giorno prima: l’incarnato aveva un colorito migliore, teneva la schiena più dritta e anche i segni della stanchezza sotto agli occhi sembravano essersi attenuati.
“La situazione è più complicata di quanto appaia” mi disse, grattandosi la guancia liscia con un accenno di perplessità sul viso.
Sospirai e scrollai le spalle, alzando gli occhi al cielo. Che cazzo, ovvio che lo era, se no non avrei chiesto il suo parere.
“Non posso restare a guardare” borbottai mentre riprendevo a passare lo straccio sul pavimento.
“Non devi restare a guardare” rispose con quella determinazione che mi piaceva tanto. E che mi fece sentire un po’ meno cretino a preoccuparmi dei problemi di droga e spaccio di quindicenni-diciassettenni in piena crisi esistenziale. Brutto periodo, eh? Guardate come ne sono uscito…
 “Dimmi che cazzo devo fare”.
“Hmm..” potevo immaginarlo mentre si massaggiava il mento, accigliandosi con quell’espressione seria che aveva sempre quando pensava a qualcosa di complesso. Il fatto che ci stesse mettendo così tanto a trovare una soluzione non mi aiutava affatto. Poteva davvero essere una faccenda così complessa che nemmeno quel testone di Erwin Smith riusciva a venirne a capo? Sarei potuto scoppiare a ridere dall’assurdità della cosa.
“Beh?”
“Parlarne con Pixis è fuori discussione.”
“Esattamente” sbuffai nel mettermi in ginocchio per sfregare bene nello spazio tra il bidet e il muro. Lo schifo che poteva annidarsi lì, buon Dio.
Ci fu un’altra pausa ed ammetto che per un momento mi chiesi se Erwin non mi stesse fissando il culo, visto che mi ero, come si dice, appecorato per bene. Non ero più nemmeno sicuro del fatto che stesse solo rimuginando sul problema – voglio dire. La prova che non era un santo l’avevo avuta. Poi non avevo idea se si era trattato di un momento o fosse un desiderio che covava da quando mi aveva visto in piedi proprio lì in quello stesso bagno, nudo come un verme.
Sto divagando. Come mio solito.
“Eviterei di contattare la Polizia”.
“Nile?” non visto, ammiccai.
“Non solo” fu la risposta concisa. Come immaginavo; Nile era solo la punta dell’iceberg, e che brutta punta. “L’hai detto tu stesso: c’è il rischio che tu possa essere incriminato o indagato quando apriranno il fascicolo.”
“Grazie, preferirei evitare” grugnii e mi rimisi in piedi. Riafferrai lo straccio e ripresi a passarlo per tutta la superficie del pavimento; un’ultima sciacquata e avevo fatto.
“Ci mancherebbe…!”
“Dunque, che mi consigli di fare?”
Erwin si schiarì la voce ed iniziò a spiegare in tono piuttosto serio. “Per ora tienili sotto controllo. So che puoi farlo. Cerca di non intrometterti troppo nei loro affari, restane fuori finché puoi ma tieni le orecchie aperte e ascolta gli altri studenti. Ottieni qualche informazione sui loro spostamenti, su dove tengono la merce di spaccio, soprattutto se la conservano da qualche parte all’interno del plesso- Levi.”
Tutto terminò con una risatina vagamente imbarazzata. Camminando all’indietro, piegato in avanti mentre passavo lo straccio, ero andato letteralmente a sbattere contro di lui. Culo contro inguine, giuro, e non fu affatto voluto. Non che ci fossi andato a sbattere sul serio, come una specie d’incidente d’auto; fu più un gentile ‘bomp’ del mio sedere sul suo basso ventre.
Mi girai verso di lui e lo guardai, fisso e immobile in quella stessa posizione: vecchio pervertito, pensai. Eppure la faccia che mi si era parata di fronte non era di un vecchio pervertito. Erwin teneva le mani sollevate e sorrideva con quel fare tranquillo che nascondeva un certo imbarazzo.
Incapace di resistere alla tentazione, tornai al mio straccio e mi ostinai a strofinarlo su quell’angolo di pavimento vicino alla porta, lasciando che il mio corpo facesse il resto, sfregamenti sul suo inguine compresi e non. E non si spostava, il caro piccolo assistente sociale – sentivo che aveva ancora le mani a mezz’aria e cercava di trovare qualcosa da dire. In un certo senso, tutto ciò mi uccideva; non chiedetemi che intenzioni avessi, perché a dire il vero non lo sapevo proprio. Stavo facendo esattamente ciò che sentivo di volere o dovere fare: una provocazione ci stava.
Non volevo pensare al fatto che era malato, non ero sicuro di volere continuare il discorso. D’altronde per me era già chiuso anche se non ci avevo messo l’ultima parola. La sua spiegazione esaustiva era stata più che sufficiente, non avevo niente d’aggiungere ed ero d’accordo con lui. Ero solito affidarmi alle sue decisioni, se per la mia testa bacata rotolavano solo salsole.
Mi tolsi i guanti di lattice che sistemai sul bordo del secchio e raddrizzai la schiena, stiracchiandomi senza pudore nei confronti del pover’uomo alle mie spalle. Mi appoggiai con la testa al suo petto e guardai in su verso di lui. Sbattei piano le palpebre, gli occhi fissi nei suoi. Dal suo sguardo limpido compresi che bruciava di curiosità quanto me - e di sicuro il fatto che mi stessi comportando in modo così docile e disponibile non lo stava aiutando.
"Ricevuto, Erwin" alzai le braccia e allacciai le dita dietro alla sua nuca. "Farò del mio meglio."
Avrei tanto voluto sapere a cosa stava pensando in quel momento, se mi voleva quanto io volevo lui, o se esitava per via della sua malattia. Ignoravo se un uomo malato di cancro poteva fare sesso: come ho già detto, la mia conoscenza in merito era tutta basata su una manciata di film che fornivano una visione piuttosto stereotipata del malato di tumore.
"Molto bene, Levi" disse e mi posò le mani sui fianchi. A quel gesto, fui percorso da un fremito in tutto il corpo e chiusi gli occhi con un flebile sospiro, in attesa di un bacio.
Temevo che l’idiota non avrebbe colto il senso, e invece pochi secondi dopo le sue labbra erano sulle mie e l’attimo successivo le mani sui fianchi mi forzarono a girarmi verso di lui.
Mettendomi in punta di piedi gli avvolsi le braccia attorno al collo ed entrambi ci sciogliemmo nel bacio. Restavo sempre sorpreso da come Erwin baciava splendidamente; di sicuro era più bravo a baciare che a parlare.
Mi strinse a sé e la sensazione del suo busto ampio contro di me fu fantastica. Morivo dalla voglia di toccarlo ovunque, di esplorarlo, di baciarlo, morderlo e graffiarlo. E ovviamente fremevo perché lui facesse lo stesso.
Ci dividemmo con uno schiocco e ci ritrovammo a fissarci negli occhi sulla soglia del bagno che profumava di pulito, immobili e vagamente arrapati.
Erwin inspirò e mi sorprese baciandomi ancora, prendendomi il viso tra le mani. Io strinsi le dita alla maglia sul suo petto e la tirai quasi a volerla strappare. Mi baciò con più passione, con più trasporto: ricambiai nello stesso modo, fregandomene di restare tranquillo, di viverlo come un bacio e basta dal momento che le sue mani percorrevano la mia schiena in lungo e in largo. Da sotto la maglietta.
Smisi di baciarlo con un sospiro, mordendogli il labbro inferiore. Erwin mi strinse i fianchi nudi con le mani grandi e calde ed io lo spinsi indietro, fissandolo negli occhi. “In camera, muoviti” soffiai tra i denti, graffiandogli il petto da sopra la  maglia.
"Hm-mh" annuì, carezzandomi la schiena mentre si faceva spingere per qualche passo. All’improvviso mi prese per mano e con un cenno del capo mi indicò la camera.
Non chiedetemi come lo stessi guardando; probabilmente avevo una gran faccia da cretino, e forse sembravo più ingrifato di quanto volessi dimostrare. Nel vedere il suo sorriso incoraggiante mentre apriva la porta, mi dimenticai subito di tutte quelle pippe mentali e anzi, fui contento.
Mi sentii invaso da una sensazione molto forte e mi succhiai il labbro, lo sguardo che saettava dal letto a lui, da lui al letto. Ribollivo. La pazienza non era mai stata una mia virtù, ma, porca puttana, pensai spingendolo sul letto con quanta forza avevo in corpo, mi ero rotto le palle di aspettare.
Erwin strabuzzò gli occhi quando lo buttai sul letto e mi sedetti su di lui, per sorridermi subito dopo, eccitato. Cercammo un bacio insieme, e ammetto che fu abbastanza imbranato, quasi sciatto, fatto di schiocchi, di denti che andavano a cozzare e che facevano ridacchiare Erwin. La sua maledetta risatina da baritono che era una carezza per l’udito.
Ci spogliammo in fretta. Sembravamo due ragazzini alla loro prima volta, gli stomaci contratti, il fiato pesante e le mani che afferravano, stringevano, tiravano. Nella mia testa non c’era alcun desiderio particolare, a parte un’immensa voglia di Erwin, e non m’importava nemmeno la posizione che avremmo preso, o il ruolo. Sussultai al tocco della sua mano tra le mie gambe: volli bestemmiare, dato che mi faceva letteralmente l’effetto erezione istantanea.
"Vaffanculo" sibilai piano tra i denti, facendomi indietro con la schiena per osservare sia la sua espressione che il palmo che mi massaggiava da sopra le mutande. Deglutii sonoramente: forse iniziavo a sapere che cosa volevo, dopotutto. L’aggiungersi dell’altra mano che mi stringeva un gluteo mi diede la conferma. Sospirai chiudendo gli occhi, infastidito ed accaldato, mentre muovevo i fianchi in avanti per contrastare il movimento della sua mano.
Riaprire le palpebre fu come riprendere fiato respirando aria bollente: Erwin era sotto di me, mezzo nudo e in tutto e per tutto devoto a me. Mi chinai su lui accarezzandogli il petto e lo baciai piano, al ritmo del suo massaggio che mi strappava un sospiro seccato dietro l’altro. Forse aveva ragione a dire che i suoi muscoli avevano perso tonicità, alla vista parevano solidi come rocce ma al tocco erano più morbidi. Sia chiaro, non che mi dispiacesse. Il semplice fatto di poterlo sfiorare pelle contro pelle era assurdamente magnifico per me.
Non molto dopo, le mie mutande si aggiunsero alla pila dei nostri vestiti. Mancavano solo le sue - ero sul punto di vederlo completamente nudo e la cosa mi infervorava abbastanza. Gli mordicchiai il labbro mentre lui mi carezzava la schiena e gliele sfilai. Mi rimisi subito seduto.
Fischiai forte, a mo’ di presa in giro e anche di apprezzamento. “Però..!” Erwin era dotato di dimensioni ragguardevoli. Sebbene non fosse del tutto sveglio, era parecchio chiaro. “Non ne avevo mai visto uno così grosso” scherzai, ma Erwin arrossì di botto e si coprì il viso con una mano, facendomi capire che ero stato eccessivo. Ma era vero. Non volevo che pensasse che fosse una sorta di prodigio da porno divo - la prima cosa che pensai nel vederlo nudo fu che era di dimensioni considerevoli, tutto qui. Era un modo anche parecchio deficiente di cercare di costruire una qualche complicità. Inoltre… Era abbastanza lontano dall’immagine del pisellone terrificante dei miei sogni erotici.
Tornai su di lui, gettandomi alle spalle il momento imbarazzante. Erwin si copriva ancora il viso. Gli baciai il collo mentre davo una strizzata decisa al suo membro: riuscii nell’impresa di strappargli un sospiro e di scoprirgli il volto. Quella stessa mano che lo aveva nascosto ora vagava tra i miei capelli.
Andammo avanti così ancora per qualche minuto. Io toccavo lui e lui toccava me. Erwin aveva una fissa per i miei capelli e la mia vita: la mano libera era sempre impegnata a scompigliarmi le ciocche o a stringermi la carne. E l’espressione di rilassamento sul suo viso era bella, ma non abbastanza. Volevo di più. Volevo che il viso si contraesse e si contorcesse e che Erwin ansimasse e gemesse dalla fatica.
Fermai la sua mano. C’era una piccola cosa che desideravo fare.
Scivolando sul suo corpo, mi sollevai e lentamente, in un turbinio di gambe, mi  misi seduto di nuovo su di lui dandogli la schiena. I miei tatuaggi sulle spalle e lungo la spina dorsale gli erano piaciuti molto, apparentemente. Mi divertii a stuzzicarlo muovendo i fianchi contro al suo inguine, sentivo la sua erezione contro al mio sedere.
"Levi?" la sua voce suonava roca e distorta.
"Hmm?" voltai il capo e lo vidi paonazzo e appena accigliato.
“Non darmi la schiena…”
“I miei tatuaggi ti piacevano” in tutta risposta, mi sfregai su di lui con più decisione, strappandogli un lieve gemito.
“Voglio vederti in viso” sussurrò. Mi colpì quasi mi avesse dato uno schiaffo sul culo. “Almeno per stavolta. Per la prima volta.”
D’un tratto mi sentii confuso, con quella fottutissima sensazione di sbrodolamento nello stomaco che mi spaventò; mi si spense totalmente il cervello, e pure l’istinto di fuggire, o di fuggire rivestendomi, sembrò scomparire con la sua carezza sui miei fianchi.
A fanculo tutto. A fanculo i sentimenti. A fanculo quello che implicavano, a fanculo la sua malattia, a fanculo il sesso, a fanculo me stesso – tutto a fanculo, tranne lui.
Tornai su di lui velocemente a gambe spalancate, piantando le mani nel cuscino ai lati della sua testa. “Sei sempre così melenso da far schifo?” gli chiesi serio, mascherando per come potevo tutto ciò che provavo. E fu fottutamente difficile, dato che sussultai con un ansito: le mani di Erwin si erano strette all’improvviso attorno ai miei glutei. Sì, va bene. Addio mondo.
“Voglio solo vederti” mi disse mentre mi fissava. Che begli occhioni azzurri, Erwin Smith. Che bella bocca carnosa tutta da baciare e che bei capelli, che bella mascella e che bel pomo d’Adamo, e che belle mani strette attorno al mio cu-
“Sei un vecchio babbeo del cazzo” sussurrai e mi misi seduto, “Sai almeno come si fa questa roba?” mi tolsi i capelli dagli occhi.
Annuì accarezzandomi le cosce. “Lubrificante e profilattici sono nel cassetto.”
Piegai la bocca in una smorfia e lo guardai di traverso mentre mi allungavo a frugare nel cassetto del comodino. “Ti eri preparato tutto. Schifoso.”
“Levi, sono gay” lo disse con una tale naturalezza, come qualsiasi cosa poi potesse uscire da quella bocca, sarebbe suonata ovvia e avrebbe forzato chiunque a chiedersi, ‘come ho fatto a non pensarci?’. Con mia vergogna rimasi sorpreso e anche un poco deluso da me stesso per averlo messo nella categoria degli ‘insospettabili’.
Tenni per me ogni commento su quella faccenda mentre aprivo la bustina del profilattico coi denti e gli passavo il lubrificante. “Divertiti” gli dissi dopo averlo vestito per l’occasione ed essermi rimesso seduto su di lui.
Sul momento non me ne accorsi, ma ora so perfettamente che mi stavo comportando da duro per nascondere quanto fossi eccitato e soprattutto emozionato. Sì, emozionato. Levi, l’ex-tossico dalla lingua soave come quella di uno scaricatore di porto, emozionato come un ragazzino alla sua prima volta, con tutte le paure fuorché quella idiota del ‘farà male?’. Se c’era una cosa che non faceva affatto male, erano le sue dita dentro di me. Anzi.
Mi chiusi a cozza su di lui sospirando appena e addirittura accompagnai il suo gesto quando mi sentii più pronto. Ah, per inciso, non ci volle molto, semmai il contrario. Persino Erwin parve accorgersene, la sua bocca si dischiuse in un ‘oh’ di appagata sorpresa e non posso dargli torto. Serve spiegare perché, maledizione?
Ringhiai e strinsi il cuscino nei pugni, fissandolo negli occhi. Non volevo commenti sul modo in cui il mio corpo e la mia mente si stavano offrendo con tanta facilità. Ora come ora mi rendo conto che si trattava di un atteggiamento idiota. Me ne resi conto anche lì, in quella stanza, quando ritirò la mano e mi baciò: inghiottii il mio orgoglio con un mezzo gemito mentre, fremente ma sicuro, guidavo Erwin dentro di me.
Non posso dire che fu facile all’inizio. Ma fu schifosamente piacevole. Seduto su di lui, lasciai cadere il capo sul petto mentre inspiravo forte.
Fui sordo per un po’, rimasi fermo per qualche secondo, muovendo solo i fianchi e sentendo quella sensazione splendida di essere non solo pieno come un uovo, ma anche un tutt’uno con lui. Mi sentivo troppo in fiamme per pensare a quanto zuccherosa fosse quella stronzata. E presi a trottare su di lui nel tentativo di scacciare quell’idea che andava formandosi, non facendo altro che impiantarla sempre di più, sempre di più, ad ogni mio movimento.
E ad ogni suo sospiro. Erwin che aveva abbandonato la testa contro al cuscino, che teneva gli occhi chiusi e la labbra appena aperte, con quel rossore sulle guance… Ah, non era abbastanza.
Deglutii e strinsi i denti, aumentando il ritmo. Poco a poco sentivo il fastidio iniziale svanire – sia chiaro, non era affatto dolore; ma non nego che era da diverso tempo che non facevo sesso in quel modo – e un piacere profondo prendere il sopravvento. Iniziai a gemere forte senza accorgermene, ad occhi chiusi e con le mani piantate sul suo petto.
Andava tutto bene, forse pure troppo bene, volevo urlare e bestemmiare per il modo in cui i nostri corpi sembravano incastrarsi perfettamente l’uno nell’altro. Credo che stessi diventando scemo, bombardato da emozioni diverse da ogni angolo.
Mi buttai su di lui, senza smettere di ansare e gemere. Gli presi il viso tra le mani, e lui ancora una volta mi strinse il culo; ricordo bene che non riuscii a non ridacchiargli in faccia. Probabilmente gli mormorai qualcosa come, “Maiale” sulle labbra, prima che lui mi aggredisse con un bacio.
Dato che era malato, non mi aspettavo granché da lui, ma andava bene comunque: che mi afferrasse il sedere se gli piaceva, o che mi accarezzasse solo la schiena in una maniera romantica e amorevole, tutto funzionava per me.
Mi chiusi sul suo viso con le braccia ai lati della sua testa, le dita affondate tra i suoi capelli senza tirare o stringere, consapevole di quanto fossero delicati. Di quando in quando mi capitava di sussultare, o di interrompere i gemiti con un ansito. Stavo facendo il possibile per stare zitto ed ascoltarlo, aveva una voce bella e intrigante quando mugugnava e gemeva, ma non ce la facevo. Dio, proprio non ce la facevo.
La punta del mio naso andava a sbattere spesso contro quella pinna di squalo che aveva al posto del naso, e lo udivo ridacchiare tra i sospiri. I suoi occhi azzurri splendevano, mi sentii bene come mai in vita mia – con le sue braccia strette attorno a me, l’aria piena dei nostri gemiti, ed il suo sguardo fisso su di me.
Mi misi seduto di nuovo ed Erwin mi seguì. Gli buttai le braccia al collo, stanco ma non ancora appagato. Ci ero molto vicino, però.
Erwin mi strinse la vita e mi spinse giù: gemetti più forte, non aspettandomi né l’affondo, né tantomeno quel gesto deciso. Piantai le unghie nelle sue spalle e lo fissai, mimando con la bocca ‘sto per venire’. Non avevo fiato per parlare e mi sentivo la gola secca.
Con un sorriso, Erwin si morse il labbro ed io lessi la fatica nella sua espressione. Era evidente che non ero il solo sul punto di esplodere. Presi un profondo respiro e non appena Erwin smise di forzarmi giù, ricominciai a muovermi su di lui. Mi faceva quasi male il petto da quando veloce mi batteva il cuore.
Ero arrivato a quel punto in cui stringevo i denti, soffiavo e in cui i gemiti si facevano acuti in maniera imbarazzante. Penso che quella fosse la prima volta che, da sobrio e consapevole di come la mia voce cambiasse in prossimità dell’orgasmo, mi concedevo tutti quei vocalizzi.
Erwin premette il viso sulla mia spalla stringendomi a sé, muovendosi con me: io feci lo stesso, nascosi il viso tra la spalla ed il suo petto, prendendo ad artigliate la carne della sua schiena, incapace di controllarmi mentre sigillavo le cosce attorno a lui. Tremai, mi contrassi, conficcai le unghie nella sua pelle e mi sfuggì un versaccio; credevo di stare bruciando da dentro il bacino, visto che da lì partì una scossa di piacere che aspettavo da parecchio di sfogare.
Alzai lo sguardo su di lui, ansimando. Mi girava la testa, ma Erwin mi sorrideva. Crollai sul suo petto e mugugnai, “Dài” accarezzandolo. Pigiai la guancia sulla sua pelle appena sudata, senza sentire alcuna traccia di schifo, ma solo una piacevole sensazione di calma euforia post-sesso.
Lui mi afferrò la vita e mi spinse giù di nuovo, mi tenne fermo ed io, capendo che era lo sprint finale, lasciai che facesse quello che voleva di me in quegli ultimi secondi: si diede una, due, tre spinte o forse più, non tenni il conto, mentre rilasciava un lungo, soddisfattissimo gemito nel mio orecchio.
Maledii il fatto di avere voluto il preservativo.
Rimanemmo seduti sul materasso l’uno tra le braccia dell’altro, i nostri corpi ancora uniti ed il respiro ansante. Erwin si stese quasi subito portandomi giù con sé ed io ne approfittai per togliermi la sua ingombrante incombenza dal sedere. Mi stesi su di lui, accoccolandomi al suo petto.
Restammo vicini per un po’, non so per quanto, so solo che iniziai ad avere  sonno: forse ero stanco, o forse ero solo molto appagato. Tuttavia passò poco tempo, visto che quando Erwin mi riscosse eravamo ancora appena sudati e lui aveva ancora il preservativo.
Biascicai qualcosa riaprendo gli occhi e sfregando la guancia sulla sua spalla. “Che c’è?”
“Non vuoi fare la doccia?”
Scossi il capo. “No, non mi va. Voglio dormire.”
Lo udii sospirare, sentii le sue dita sfiorarmi la nuca dandomi tanti brividi.
“Mi sciacquo velocemente” dissi piano, “Poi lo fai anche tu e poi..” sbadigliai e mi rannicchiai di più, “Poi torniamo a letto.”
Mi misi in piedi a fatica, assonnato. Non mi era mai successo di provare così tanta stanchezza dopo il sesso, che stessi diventando vecchio? No, pensai guardando le coperte spiegazzate solo da una parte, era solo una questione d’impegno. Nell’uscire dalla stanza, intravidi Erwin che si puliva con una salviettina umidificata. Una questione d’impegno.
In bagno, dopo avere svuotato il secchio nel water, feci ciò che avevo detto. Anche se mezzo addormentato, già desideroso di rannicchiarmi sotto le coperte al caldo delle braccia di Erwin, mi diedi una lavata veloce tra bidet e lavandino. Presi lo spazzolino di Erwin per lavarmi i denti, incapace di provare repulsione per un gesto del genere – lo avevo baciato? Sì. A posto.
Tornai a letto e mi abbandonai stanco sotto le coperte. “Va’ pure” masticai e mi accomodai sul cuscino. Mi appisolai come un bimbo per la seconda volta nel giro di nemmeno mezz’ora.
Fui svegliato dalle braccia di Erwin pulito e profumato. “Hmm..” feci, parecchio soddisfatto e contento, spiaccicando il viso contro al suo petto caldo. Immediatamente dopo, mi accigliai. “Erwin, cos’è ‘sta merda…”
“Elvis” sussurrò, baciandomi la testa.
Posai le mani sul suo petto, ma non aprii gli occhi, tenendo fisso il mio broncio. Elvis, ma no. Che schifo, Erwin. “Ma che merda ascolti…” borbottai, più di là che di qua. “Robaccia sdolcinata…”
Ridacchiò dolcemente, quasi con lo stesso ritmo della canzone. “Non ti piace?”
Mi strinsi nelle spalle. “Non mi piace molto…” sbadigliai, “Elvis” mentii.
Conoscevo la canzone, I Can’t Help Falling In Love With You. Non faceva schifo, ma la detestavo a partire dal titolo.
Era il grilletto di troppe domande… Chissà quando avrei smesso di scappare. Chissà se gliel’avrei mai detto, se non avessi cambiato idea. Forse la prospettiva di qualcosa di serio ancora mi faceva orrore e repulsione.. O forse Erwin si sarebbe rivelato l’uomo sbagliato. Quante cazzate, quante inutili cazzate.  
Troppo assonnato per chiedermi se fosse un caso che Erwin avesse deciso di impostare quello specifico CD con quella specifica traccia nello stereo per conciliare il sonno o per un secondo fine, caddi a pezzi tra le sue braccia. Ero ancora semicosciente quando Erwin intrecciò le nostre gambe insieme. Mi addormentai in un melting pot di emozioni, in bilico tra confusione, felicità e timore.
Ma dormii benissimo lo stesso.

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Capitolo 12
*** It's a new start ***


CAPITOLO LUNGHERRIMO DOPO ATTESA INFINITA PER CHIEDERE TANTE SCUSSSSSE. VI VVOGLIO BBEENEBENEBENEBNEBENENE.
 

Mi accorsi molto presto che in casa di Erwin c’era musica. Costantemente. No, dico davvero. Ad ogni momento della giornata, c’era sempre della musica – un CD che andava in sottofondo, la radio.
Il che era buffo perché, ad essere onesto, me ne accorgevo a malapena. I suoni, i rumori, gli scricchiolii: mi dava fastidio tutto, tutto quando ero in casa mia. Volevo il silenzio più totale, tranne quando mi sparavo qualcosa nelle cuffie, o accomodavo finalmente il culo sul letto a fine giornata e allora mi ascoltavo un po’ di musica. Niente radio mentre mangiavo sul divano, niente CD mentre spazzavo e spolveravo. Volevo solo il mio beneamato silenzio.
Viene da sé pensare che i posti in cui la musica era una costante mi davano quasi sempre fastidio. Come i centri commerciali e le grandi catene di vestiti. No. Non fatemi entrare da H&M, potrei vomitare l’anima, e non solo per le accozzaglie di colori schifose di quei due, ma anche e soprattutto per la musica. Quella cazzo di musica da discoteca scadente, non roba elettronica d’un certo livello, tipo i Daft Punk, ma solo merda digitale. Le uniche volte in cui ci avevo messo piede, accompagnando Petra o Auruo a fare quattro passi o due spese, ebbi solo una gran voglia di scappare.
Eppure eccomi lì, sul divano a doppia L di Erwin, steso per il lato più corto col gatto sulla pancia e la testa di Erwin posata vicino al mio fianco. Col sottofondo di Virgin Radio, il leggero russare del gatto, il respiro tranquillo di Erwin, l’odore del caffè nel naso, la luce del primo pomeriggio attraverso le persiane del salotto…
E nonostante lo speaker parlasse a manetta della carriera musicale di Bowie, nonostante il pulviscolo fluttuasse nei raggi di luce che tagliavano a metà la penombra della stanza, e nonostante avessi la vescica gonfia di piscio…
Mi sentivo bene da scoppiare. Mi sentivo bene da farmi schifo da solo.
Accarezzavo la schiena di Bobbo con una mano, i capelli di Erwin con l’altra, con la stessa identica delicatezza. Sospeso, ecco: era un attimo sospeso tra un caffè, un rutto post-pranzo e un abbraccio che non avevo il coraggio di chiedere o di prendermi.
Ma andava bene così.
Erwin si rigirò sul divano e posò la mano sulla mia coscia. Pisolava beato come un bebè, e lo sarebbe sembrato. Eh, peccato che il naso a pinna di squalo e quegli zigomi, e quei sopracciglioni e quel mascellone traessero in inganno, Erwin. Ma proprio appena appena.
Ridacchiai sottovoce e reclinai il capo contro al morbido schienale. Trovavo tutto ciò incredibilmente assurdo. Il modo in cui eravamo passati da quasi estranei a… Cosa?
Lo osservai sbadigliare ad occhi chiusi, le rughe di espressione intorno alla bocca e agli occhi che poi tornavano a distendersi, chiedendomi cosa – chi – fossimo esattamente. Arrotolai una ciocca dei suoi capelli biondi intorno al mio indice, così come stavo arrotolandomi questa domanda nel cervello da un po’ di tempo. Dalla sera di quel bacio e di quel fottutissimo sputo di sangue nel mio lavandino, ad essere onesto.
Cos’era lui per me? Il mio fidanzato? No, dai. Troppo presto.
Mi morsi il labbro – troppo presto? Stavo diventando matto? Ma quando ero mai stato un normale essere umano del cazzo? Sempre con la testa ovunque e da nessuna parte, le mani nervose, sempre ferme e sempre in movimento, quegli occhi grigi che mi avevano detto ‘da folle’, ‘da uno che è scappato dal manicomio’.
Come mi sentivo inutile. Ecco che la mia felicità tornava a sgretolarsi sotto a dei dubbi di merda. Inutile, inutile, inutile… Ci avete fatto caso che sono logorroico, che ripeto le cose mille volte, che faccio liste lunghe, che inizio discorsi che poi non finisco? Ecco: sentivo che era proprio questo il giogo della mia inutilità. Ah, e guarda un po’: iniziavo pure ad usare i termini che avrebbe usato lui, Erwin. Giogo. Giogo…
Mi dondolai appena con le spalle, guardandolo fisso. Erwin strusciò appena la guancia sul cuscino, forse gli faceva prurito. Forse. Quanti forse. Quanto era bruciato il mio cervello per concentrarsi su dettagli così insignificanti, Cristo.
Quell’uomo steso verso di me, cos’era per me, cos’ero io per lui? Il suo ragazzo, il suo scopamico, la sua cotta, un utente del servizio sociale, o Levi e basta?
Presi un respiro profondo, smisi di guardare Erwin, tornai a fissare il gatto nero. Nero come la palla che mi stavo figurando in testa: immaginavo di creare un gomitolo con un filo nero di brutti pensieri, mi vidi appallottolarlo e lanciarlo con rabbia fuori dalla finestra.
Tirai un sospiro di sollievo. Non avevo risolto i miei problemi, le mie stupide seghe mentali, ma stavo un po’ meglio. Pensai che il troppo silenzio tra di noi, e non in casa, fosse pesante. Ah – sia chiaro – non lo era affatto, in fin dei conti. Ero solo io ed il ronzio senza fine nel mio cranio. Magari se avessi avuto chiarezza… Ma non capivo, non potevo capire, non io che il rapporto umano più profondo lo avevo avuto con lo scopettone per pulire per terra e che di relazioni oltre l’amicizia sapevo ben poco. E pure su quella avevo dei dubbi.
“Che fai” esordii sottovoce, “Dormi prima del caffè?”
Lui rispose ridendo appena. “Ah, no. Hai ragione.”
Erwin si mise seduto e si stiracchiò. “Attento, cazzo” borbottai, “Per poco mi cavi un occhio con quelle dita enormi che c’hai.”
Si scusò con lo sguardo e poi si osservò le mani mentre io giravo lo zucchero nelle tazzine. Per poco non gli tirai il cucchiaino in mezzo alla fronte quando disse, in un tono così calmo e soave da farmi torcere persino le ossa, “Ieri sera non sembravano darti fastidio.”
Lo fissai duramente porgendogli il caffè. Avevo le orecchie rosse come pomodori e lo sapevo. Inutile dire che mi dava un fastidio atroce, quasi bruciante. “Bevi ‘sta brodaglia. Spero ti vada a fuoco la lingua”.
In tutta risposta, sorrise e si appoggiò a me mentre soffiavo sul caffè bollente. Non lo scansai. Un po’ di calore non si rifiuta mai. Specie suo… Oh- Dio- no, cervello, taci. Taci, cazzo.
“Levi, la prossima volta basta anche solo mezzo cucchiaino di zucchero. Di solito bevo caffè amaro.”
“C’e’ un girone all’Inferno per quelli come te che bevono il caffè senza zucchero.”
“Ce n’è anche uno per quelli come te che bevono the senza zucchero?”
Gli morsi delicatamente la spalla. “Spiritoso.”
“Incoerente.”
“Bevi o si fredda.”
“Anche tu.”
Ci mancava solo la linguaccia e poi eravamo a posto. Due bellissimi bambini di quattro anni. No, aspetta, forse i bambini di quattro anni erano un po’ più intelligenti di noi.
Dondolai i piedi, fissando il gatto che ancora non si era mosso. “Quanto dorme ‘sta bestia…”
“Gli piaci” mi disse. Il suo braccio entrò nel mio campo visivo, ebbi un sussulto allo stomaco, ma lui si limitò a sfiorare Bobbo tra gli occhi chiusi con il polpastrello. “Non da così tanta confidenza a chiunque.”
“È colpa tua” dissi. Distesi la mano verso Bobbo ed imitai il gesto di Erwin. Le nostre dita si toccarono per un momento. “Ti porti sempre il mio odore addosso.”
“Sempre..?” c’era un che di divertito nella sua voce mentre, senza esitazione o vergogna, faceva scivolare il suo indice verso il mio, lentamente, la testa di nuovo appoggiata alla mia spalla. Un gesto così stupido come quello della sua mano sul dorso della mia mandò il mio petto su tutte le furie. La bestemmia sulla punta della lingua, per Dio.
“Strusciati di meno” grugnii, sfregando la mia guancia sui suoi capelli. Avevano un buon profumo, se li era lavati in mattinata. O meglio, glieli avevo lavati personalmente, mentre lui si faceva un bagno caldo ed io, in mutande alle sue spalle, mi ero prodigato nel lavargli i capelli. Ci avevo messo… Cura e attenzione, credo. Non avevo sfregato troppo, avevo cercato di massaggiargli il cuoio capelluto e mi ero sentito orribile se per sbaglio gli staccavo un capello. La sua rilassatezza mi aveva fatto capire che stavo andando bene. E, boh. Non aveva fatto altro che contribuire al fatto che volevo entrare nella sua vita…
Speravo solo di non doverlo fare a gomitate.
“No” mi rispose, avvolgendo le sue braccia attorno alla mia vita. Ciò mi fece rabbrividire, ma soprattutto svegliò Bobbo: il gatto guardò Erwin agitando la codina nera.
Li guardai a fissarsi per quei brevi istanti e alla fine Bobbo, spodestato dal dibattito silenzioso, rinunciò a riposare sulla mia pancia. Dopotutto, i miei piedi erano molto più comodi, vero, Bobbo? Bestia strana, quel Bobbo. Comunque fosse, chi ero io per giudicare dove si voleva appoggiare – specie se il suo corpino sodo mi teneva al caldo le fette.
Poco alla volta, Erwin si stese di nuovo e mi ritrovai la sua faccia sulla mia pancia. Con un braccio ancora attorno alla mia vita, mi guardava dritto negli occhi senza sorridere. “Che cazzo vuoi?” gli chiesi, con tono indisponente. Era come se non riuscissi a non trattarlo male a parole.
A quel punto, il sorriso si sciolse sul suo viso. “Niente.”
“Smettila di fissarmi” ribattei, “Mi fai ansia” in tutto questo ero pienamente consapevole di averlo fissato a mia volta in infinite occasioni.
“Davvero?”
“Davvero..” risposi, sollevando la mano per posarla sulla sua fronte. Era calda, non calda in modo preoccupante come la prima sera che avevo dormito da lui. Gli passai le dita tra i capelli, pianissimo. Mi sentivo male alla sola idea di strappargli un capello, per la seconda volta in una giornata. “So un cazzo io di che ci trovi di bello da guardare.”
“Non è per quello che ti guardo, Levi.”
Non chiedetemi niente, sì, lo so, è idiota; è da bambinetti delle superiori. Però me lo domandai, come un fulmine a ciel sereno, se per caso mi trovasse brutto: qualcosa di freddo stava per depositarsi in fondo al mio stomaco, ma feci il possibile per evitarlo, parlandogli sopra. “Per cosa, allora?”
“Non ti avevo mai guardato bene, prima” fu la sua sola risposta mentre si metteva seduto di fronte a me, il braccio appoggiato allo schienale del divano a sorreggere il capo. Era rilassatissimo, con una gamba penzoloni e l’altra sotto al culo, l’altra mano, inutile specificarlo, sulla mia gamba.
Mi morsi la lingua, forzandomi al silenzio perché sì, in fondo era assolutamente vero – non potevo dire di averlo mai osservato prima di quest’ultimo periodo. Se ripensavo a come lo avevo sempre percepito, come quel quadro sfocato fatto di tanti dettagli dissonanti ma che si incastravano bene tra di loro, ora Erwin mi appariva più chiaro.
Eppure c’erano così tante cose di lui che non sapevo, e le dita dei piedi si arricciarono a quel pensiero, o era forse perché Erwin si era fatto più vicino e riuscivo a sentire il suo fiato sul mio viso? Basta con le cazzate, ovvio che era la seconda faccenda. Mi si era spento completamente il cervello, ci avevo proprio pigiato su il dito su quel maledetto tasto OFF. Avevo una fame assurda dei baci che mi aveva negato per anni, che io stesso non avevo reclamato per troppo di quel tempo. Cazzo.
Gli buttai le braccia al collo, lo sentii sussultare e poi rilassarsi mentre lo tiravo sopra di me. Udii il gatto miagolare infastidito e il leggero scampanellio che annunciava la sua dipartita. Con tutto l’amore del mondo, Bobbo, vaffanculo.
Sospirai, un bel sospiro carico stavolta. Ah, il peso di Erwin addosso. Almeno ottanta chilogrammi di uomo su di me: mi stiracchiai mentre ci baciavamo, le mie braccia avvolte al suo collo ma completamente molli e le sue mani sulle mie guance. Sì, dai. Poteva piacermi.
Strano a dirsi, non volevo del sesso. Sebbene lo stessi baciando avidamente, l’idea di scopare non mi passava neanche per la testa: tant’era che la pensai proprio così, come uno scopare, nemmeno come un fare sesso. Fare l’amore era ancora troppo, almeno da ammettere. Che poi l’avessimo fatto, io non lo sapevo, forse nemmeno lo capivo.
Erwin sapeva di pasta al tonno e insalata mischiati al caffè. In un qualche vicolo della mia mente mi fece abbastanza schifo, ma sui viali principali, più o meno tutti erano furiosi su un clacson assordante collettivo che suonava come ‘Erwin, Erwin, Erwin’.
Sapevo che qualcuno avrebbe detto che tutto ciò era malsano, che Erwin sarebbe diventata la mia nuova droga: non qualcuno di mia conoscenza, era un qualcuno molto generico, una testa di cazzo random che mi figuravo ogni tanto, forse una specie di coscienza che cercava di proteggermi dalla realtà –insomma, Erwin era in via di guarigione ma ancora malato, e se lo avessi perso? Beh, era una coscienza di merda, supposi. Feci morire le mani sulla sua schiena, mandando a fanculo pure quella.
Erwin si staccò da me. Interrompere il bacio fu un’impresa titanica per tutti e due. Mi tremava il fiato, mi batteva forte il cuore. Dall’espressione nei suoi occhi, giurai che era lo stesso per lui.
“Che irruenza..!” disse in un soffio.
“Ma chi se ne frega” ribattei io, le mani attorno alla sua nuca che lo tiravano giù per un secondo bacio affamato.
Erwin mitigò la mia foga tirandosi indietro quel che bastava per lasciarmi a bocca asciutta, ma tornò poco dopo su di me. Passandomi una mano dietro la nuca, mi sollevò appena, guidandomi verso le sue labbra. Fui ad un passo dal sospirare. Mi faceva impazzire la sensazione dei miei capelli cortissimi che venivano smossi appena dalla sua mano, come una sorta di manto erboso nero su cui soffiava un vento gentile.
Oddio, il vomito di quando me ne esco con queste cazzate…
Il bacio più calmo non fu così schifoso, però. Anzi. Fu come realizzare all’improvviso che il suo peso era tutto su di me: tutto il suo calore mi ricopriva e mi proteggeva, quasi, pensiero cretino ma inevitabile in quel momento.
Per Dio, l’ho già detto che Erwin baciava bene? Non era per come muoveva la lingua, non era una faccenda di tecnica. Riusciva a farmi sentire qualcosa. Riusciva a darmi davvero qualcosa.  Gli accarezzai la schiena, le spalle e il collo, desiderando che non smettesse mai di baciarmi.
Finché il cazzo di cellulare del signor Smith non squillò. Ricordate la suoneria di cui vi avevo parlato all’inizio della nostra storia? Quel ‘ring ring’ da vecchi babbei? Quella merda lì.
L’incazzatura, buon Dio. Specie quando Erwin fece per alzarsi: lo fermai con le unghie nelle spalle. “No” sibilai e lo tirai di nuovo su di me.
“Potrebbe essere importante-“
“Richiameranno” e con quest’ultimo sibilo, sigillai di nuovo la mia bocca alla sua, in un atto egoista, come se niente fosse più importante di me per lui, in quel momento, nell’intero Universo.
Il gesto sembrò funzionare: sulle prime, Erwin non sembrava convinto, esitava; non appena il telefono finì di squillare, il mio caro assistente sociale si decise a smetterla di tenere il culo stretto e si lasciò andare su di me. Mi rilassai a mia volta con uno sbuffo appagato, che subito dopo si trasformò in una bestemmia.
Il telefono suonava ancora.
Ci guardammo, lui si scusava, io ero a dir poco scocciato. Ma vabbé, gliel’avevo promesso: se era importante, avrebbero richiamato, e così era stato.
Erwin si alzò e andò a recuperare il telefono dal tavolino, ed io sentii subito freddo. Mi strinsi le braccia al petto, di sicuro apparivo imbronciato quando in realtà mi mancava solo il suo calore su di me.
Osservai la sua reazione al nome sul display. Sorrise in una maniera molto morbida che non gli avevo mai visto fare neanche nei miei confronti. Ed eccola quella schifezza della gelosia. No, Levi, no. Mi sarei impuntato fino al domani, ma mi sarei rifiutato di ammetterlo apertamente.
Anche perché quella gelosia si sgretolò in una figura a dir poco di merda.
“Ciao, mamma”.
Mi feci di colpo estremamente attento. Non sapevo davvero niente della vita di Erwin… La vita famigliare, intendo.
Nel frattempo, il gatto era tornato ad accomodarsi sulla mia pancia, mentre il mio bisogno di fumare stava tornando a farsi sentire.
Erwin rilassò la schiena sul divano, la testa appoggiata vicino al mio fianco. “Hm-mh. Hm-mh” e poi rise pianissimo, stiracchiando un braccio.  “No, non so dove l’ha messa.”
Per quanto stessi attento, non riuscivo proprio a captare una singola parola del discorso della donna. Dondolai un piede, comunque, assorto a guardare Erwin che parlava con sua madre. Aveva un che di meraviglioso nelle pause di silenzio tra una risposta e l’altra.
Parlarono per un po’ qualcosa che aveva nascosto un certo Hans, credo fosse il fratello di Erwin, qualcosa che piaceva molto a una certa Ester – forse sua nipote? Il discorso si spostò sulla malattia, su Erwin che oggi non si sentiva poi tanto male, anzi, forse era stato pure troppo coccolato nel weekend. A quel punto, il mio interesse si acuì e mi irrigidii.
Ma era scemo, parlava di certe cose con sua madre?!
“Coccolato, nel senso… Non ti preoccupare” mi guardò, corrucciando gli occhi come a dire ‘non preoccuparti neanche tu’. Sarà, pensai, ma mi hai fatto cagare in mano, Erwin. Lo odiai moltissimo per questo, come per tutto il resto. “Sto bene. Ma come da chi? Mamma, ficcanaso come sempre. Suvvia, dài, prova a indovinare. No. Non è Mike!” …Che cazzo c’entrava Mike? Mike Zakarius, per caso? “Mike è fidanzato, mamma – non te l’ho presentata Nanaba?” Nanaba? Fidanzata? Mike? Oh, beh, va bene, Erwin, grazie del gossip. E della chiarezza su Nanaba; nessuna offesa, ma non mi sembrava educato chiederglielo in modo diretto. Non la volevo offendere senza motivo. “Può darsi. Secondo, me, l’anno prossimo, l’abito bianco…” Bene, lati di Erwin che non conoscevo. Un po’ pettegolo, il signore. “No, ti giuro che non è Mike. Mamma!” si mise a sedere a quel punto, con tono divertito.
Va beh, ‘sti discorsi mi avevano un po’ rotto le palle. Gesticolai verso di lui che andavo a fumare e me ne andai, seguito a ruota da un Bobbo fusante arrotolato ai miei polpacci.
Mi portai in cucina, dove il gatto miagolava a gran voce che aveva fame. Mi accesi la sigaretta agitando appena la ciotola piena e Bobbo si fiondò a fare la pappa. Misteri della psicologia felina – che mai potevano eguagliare quelli della psicologia Ervina, comunque.
Le braccia incrociate, il fianco appoggiato allo stipite della porta-finestra, riuscivo ad ascoltare il vocione profondo di Erwin fin dalla cucina: tra lui e la madre andava ancora avanti quel giochino del cazzo su Mike e sì, iniziava a darmi sui nervi. Ma pure troppo. Fumai e fumai, cercando di comportarmi da adulto ragionevole e lasciar perdere.  Non mi piaceva ‘sta cosa di Mike.
“Ahh, finalmente” giunse dal salotto, “Sì, mamma, è lui”.
Il cuore in gola e il battito a mille. Iniziai a sentirmi lievemente agitato, per la prima volta in vita mia provai del vero, autentico imbarazzo. Logico che la madre sapesse chi fossi, più che logico. Erwin le aveva sicuramente parlato di me. E dal modo in cui chiacchieravano, pareva che io fossi stato nominato spesso nei loro discorsi. E in toni positivi. O semplicemente nominato di frequente.
Oh, Dio buono e non troppo buono, Erwin Smith, che dovevo fare con te? Perché non ti eri fatto avanti anni prima, cazzo? Perché no?
Come un bimbo di sei anni, sarei voluto andare in salotto e strappargli il telefono di mano, e poi, come un adolescente di sedici, gli avrei tirato uno schiaffo seguito da un bacio.
Comunque, io, adulto di venticinque anni, mi limitai a starmene lì buono buono a finire la mia sigaretta e ad iniziarne un’altra con Bobbo vicino, le orecchie in fiamme mentre madre e figlio parlavano.
“Credo sia un po’ presto adesso” diceva Erwin, “Vedremo. Forse riuscirò a convincerlo, ma ora no. Ma no! Ma ti pare! Certo che non fai paura, non dire sciocchezze. Hm? Sì, sì, si potrebbe fare. Potremmo cucinare qualcosa.” Potremmo.. io e.. lui? Deglutii a fatica prendendo il gatto in braccio una volta finito di fumare, tornando in salotto con aria indecifrabile e gli occhi fissi su Erwin. “Ah, va bene, su, non ti trattengo oltre. Ok, allora a domani. Ciao, ciao” e riagganciò soddisfatto.
“Io non la voglio vedere tua madre” sentenziai cupo dal mio angolo del divano. Mi ci ero rannicchiato con le ginocchia quasi al petto, lo spazio sufficiente a tenere Bobbo tra le mie braccia.
Erwin tornò a stendersi vicino a me passandomi un braccio dietro alla schiena. “Immaginavo.”
“Tua madre lo sa?”
Lui sorrise un po’ criptico. “Ci è arrivata da un po’.”
“…Come?”
“Le madri ci arrivano sempre” mi rispose laconico ed io mi sentii un po’ vuoto, perché non avevo assolutamente idea di cosa stesse parlando. “Levi” continuò, prima che potessi dire o fare qualcosa, “Posso chiederti una cosa?”
“Già l’hai fatto.”
“Ahah, giusto. Non mi ricordo se ti ho detto quando mi dovranno operare.”
Hmm, no, non dirlo Erwin, ti prego. Mandai giù il rospo e scossi il capo.
“Il 28 del mese” era meno di due settimane! “Ma sicuramente sarò in ospedale dal 27 e vi rimarrò per qualche giorno” che notizia di merda, “Ti farebbe piacerebbe tenere Bobbo con te per qualche giorno, diciamo una settimana? Il tempo che si abitui alla casa nuova, non starò in ospedale così tanto. Se è un impegno gravoso, o se non lo ritieni pulito, io-“
“Sì” gli dissi soltanto, fissandolo negli occhioni blu colti di sorpresa.
“..Sì?”
“Sei sordo? Ho detto sì. Va bene. Terrò il tuo gatto piscione” accarezzai Bobbo sulla schiena e poi lo sollevai da sotto le ascelle per portarmi il suo musetto a livello del mio viso.
Era un bell’animale. C’era del feeling tra noi, era pulito, dentro e fuori; rompeva discretamente le palle e ad un esame complessivo, era sicuramente meglio di qualsiasi essere umano medio. L’idea di averlo in casa per qualche giorno non mi dispiaceva anche se a dire il vero, avevo accettato d’istinto. Non avevo la più pallida idea di come si tenesse un gatto, anche se avevo imparato qualche cosa nei due-tre giorni in cui avevo soggiornato dal biondino.
La verità ormai la sanno anche i muri, quindi ammettiamola senza tante pippe.
L’idea di stare lontano da Erwin qualche giorno mi terrorizzava. L’idea che stesse sotto i ferri mi agitava in una maniera che non riesco neanche a descrivere ma tutto ciò sembrava attenuarsi, se solo immaginavo la mia convivenza di una settimana o suppergiù con il suo gatto Bobbo. Probabilmente mi avrebbe anche aiutato a non piantare la tenda in ospedale. Letteralmente.
La domanda che mi chiedevo fissando gli occhietti belli di Bobbo ora era solo una: saremmo usciti vivi da quella settimana?

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Capitolo 13
*** It's alive with the beating of young hearts ***


E LA STORIA CONTINUA anche se un po' a rilento perché sono un po' oberata di cose da fare. Come sempre, vi ringrazio e spero di non stancarvi ♥♥


Erwin venne a trovarmi a casa qualche giorno prima dell’operazione. Era un sabato pomeriggio e pioveva a dirotto. Mi ricordò che suonò ed io –novità delle novità- mi alzai dal divano come se il Diavolo mi avesse punzecchiato il culo col forcone: corsi ad aprire col cuore in gola.
In quei giorni, dopo quella domenica passata insieme, non ci eravamo più visti. Il cellulare era stato il nostro mezzo di contatto; io non avevo molti soldi, né alcun tipo di promozione del cavolo tipo ‘500 messaggi gratis verso numeri del tuo operatore’. Saltavo come un grillo allo squillo dei messaggi, saltavo come un pazzo quando la voce atrocemente fastidiosa di Shearsh mi perforava i timpani. Oh, Erwin, le sue chiamate.
Ci sentivamo la sera, dopo che lui aveva finito di lavorare. Stavamo al telefono per un po’… Una mezz’ora, a volte anche un’ora. Se devo dire la verità, non è che parlassimo di chissà che cosa: mi faceva strano conversare attraverso il cellulare, le mie chiamate erano sempre brevi e concise, avevo bisogno di averlo lì, davanti a me. Riattaccando mi sentivo incompleto.
Erwin mi diceva che stava maluccio, ma che l’operazione avrebbe migliorato le sue condizioni; che già riusciva a salire le scale senza troppo fiatone e soprattutto mi chiedeva come e quanto avessi mangiato quel giorno. Faticavo a mentirgli perché non sono un grande esperto di cucina, la mia creatività sta sotto le scarpe. Sapevo che non apprezzava la mia dieta triste a base di cibi precotti e alimenti in scatola. Il fatto che qui e là ci facessi scivolare una carota o un’insalata troppo condita non sembrava andare molto bene.
Comunque –viva la mia logorrea-, quando Erwin mi venne a trovare, pioveva a dirotto ed io ero nervoso da morire. Non veniva a casa mia da una vita ormai (a me pareva passato un casino di tempo), non che l’avrebbe trovata diversa, s’intende. Era pulita come prima, forse anche più di prima. Ero talmente nervoso e in ansia per l’operazione che pulivo come una furia, persino negli angoletti, persino sopra ai lampadari e in cima ai mobili. Credetemi, sembravo un folle, specie quando arrivavo a sera con le mani seccate dai guanti.
Vi ricordate che lo facevo sempre aspettare dal portone, il mio piccolo assistente sociale? Era la seconda volta di fila che gli aprivo sorvolando su quel mio giochetto sciocco del doppio campanello. Non me ne fregava un cazzo – come la volta scorsa, morivo dalla voglia di vederlo, con la differenza che ero del tutto sobrio e per nulla traumatizzato. Quella era stata proprio una nottata di merda… Anche se devo ammettere che aveva dato i suoi frutti.
Non vi state dimenticando come mai ero anche così impaziente, vero? Eh, esatto. Insieme a Erwin, stava arrivando una palla di pelo nero di nome Bobbo.
Erwin si presentò sulla porta di casa mia con un borsone alla mano, il trasportino nell’altra e vestiti casual addosso, bagnati qua e là da gocce di pioggia che lo avevano preso in pieno nel tragitto dalla macchina al portone. Mi fece piacere vedere che aveva lasciato i capelli per così dire ‘sciolti’: attenuavano, pure se non molto, la faccia stanca e malata.
Sfregò bene le scarpe sullo zerbino mentre diceva “Piove!” unito ad una risatina flebile come un respiro, poggiando il trasportino e il borsone nell’ingresso di casa.
“Eh! Buongiorno.”
Volevo saltargli addosso buttandogli le braccia al collo tanto quanto mi sentivo ridicolo al solo pensiero di farlo. Mi inginocchiai dunque sul pavimento di fronte al trasportino. Guardavo la valigetta per gatti e poi Erwin, prima l’una poi l’altro, incapace di decidere chi e cosa valesse di più la mia attenzione. A giudicare dal sorriso che Erwin mi rivolse dopo essersi tolto la giacca, ci scommetto che stava pensando qualcosa come “Toh, guarda, un altro gatto”. L’idea mi piacque molto. Non vedevo l’ora che Erwin guarisse anche per farmi viziare come un gatto. Oh, sì. Sarei stato volentieri il suo gatto—
Scacciai quell’immagine: non era il momento, cazzo.
“Come stai?” mi chiese, inginocchiandosi accanto a me.
Ne approfittai per sfiorargli lo scollo della maglia grigia e sporgermi per un bacio a fior di labbra. Succo d’arancia. Aveva bevuto succo d’arancia prima di uscire. “Non male.”
Erwin posò una mano sulla mia. “Bene. Sei pronto per..?”
Inspirai, la tentazione di appoggiarmi a lui si era fatta forte. Annuii e guardai il trasportino. Riuscivo a vedere gli occhietti di Bobbo brillare. “Tira fuori ‘sta belva.”
Senza altri commenti, Erwin aprì il trasportino. “Dài, Bobbo, vieni fuori” il tono di voce di Erwin era calmo e incoraggiante, “Non ti ho portato dal veterinario, tranquillo”.
Bobbo, quasi capisse il linguaggio umano, mise fuori il musetto nero, piano piano. Si guardò intorno con gli occhi dilatati e le orecchie dritte, cauto: gli feci ‘ciao’ con la mano. Era così buffo, per Dio, con quell’espressione contrita sul visetto peloso.
“Lasciamolo esplorare un po’…” Erwin chiuse il trasportino non appena Bobbo fu completamente fuori e si mise in piedi.
“Spero che non mi caghi sul divano” brontolai, imitando il suo gesto. Bobbo ci rivolse un’ultima occhiata confusa prima di mettersi ad annusare in giro per l’ingresso.
Erwin ridacchiò appena, le mani sui fianchi. “No, al massimo lo farà nel tuo letto.”
“Erwin, ma che schifo.”
Lui fece spallucce con un sorrisetto: pochi cazzi, Erwin, quel che avevi detto faceva davvero schifo. Volevo bene a quella bestiaccia, ma l’avrei chiuso sul balcone se mi avesse cagato nel letto.
“Ci sono alcune cose che devo dirti su Bobbo” Erwin se ne restava nell’ingresso come se fosse sul punto di andarsene da un momento all’altro; ma perché aveva sempre quella fretta di fuggire quand’era a casa mia, Cristo?
“Sì, va bene” mi avvicinai a lui e lo tirai per la manica della maglia, “Me le spieghi in cucina davanti a un the.”
Ci rimase abbastanza di merda, ve lo dico io; lo sapevo che avrebbe preferito spiegarmi tutto, prendere su la sua giacca e andarsene. Penso che credesse che accorciare il tempo trascorso insieme mi avrebbe fatto stare meglio. Ma cazzo, no; al solo pensiero che non ci saremmo visti per un’altra settimana, mi veniva voglia di vomitare. Andarlo a trovare in ospedale era fuori discussione.
Detestavo gli ospedali.
Messo alle strette, Erwin si arrese alla mia volontà. “Come vuoi.”
Non lasciai andare la sua manica finché non si mise seduto comodo su una sedia in cucina, quasi volessi la certezza che non mi tirasse un tiro mancino e scappasse fuori dalla finestra del balcone.
“Che the vuoi? C’è nero, verde oppure l’infuso ai frutti rossi.”
“Verde, grazie.”
“Comunque” esordii, tornando da lui, mettendomi bellamente seduto sulle sue cosce, le braccia attorno al suo collo, “Che mi dovevi dire del gatto?”
La sua faccia fu impagabile, non so dire se fosse più sconvolto o contento. Fatto sta che il signor Culostretto Smith avvolse le sue braccia attorno alla mia vita, rendendomi molto felice sotto gli strati della mia faccia stanca. “Immagino che tu non abbia mai avuto un animale domestico.”
“Infatti no.”
“Non ti spaventa che ti sporchi in giro?”
“Il gatto mica esce di casa.”
“Bravo.”
“Non sfottermi, Erwin.”
“Giammai.”
Gli morsi la punta della pinna di squalo (naso). “Falla finita e spiegami.”
In tutta risposta, Erwin mi strinse a sé, strappandomi un versetto di approvazione a mezza voce. Dubito che l’avesse sentito, ma chi se ne frega.
Erwin prese a spiegarmi tutto quello che dovevo fare col gatto: cosa dargli da mangiare e quanto, ogni quanto spesso pulirgli la lettiera, dove metterla visto che in balcone non poteva stare, dato che i gatti tendono a scappare di casa se li si fa ‘traslocare’.. E un mucchio di altre –utili- stronzate che non sto qui a ripetervi, alla fine come tenere Bobbo era un problema mio e non vostro.
E comunque, stare seduto su di lui come un bimbetto mi riempiva di gioia; mentre spiegava guardava me, il borsone, lanciava un’occhiata nell’ingresso per vedere se Bobbo sbucava da dietro lo stipite della porta. Mi sorrideva quando si accorgeva che lo stavo guardando fisso, e abbassava lo sguardo, non so dire perché lo facesse, ma di sicuro non si trattava di imbarazzo. Stavo imparando a riconoscerne i sintomi sul suo viso e quello non era decisamente imbarazzo: a dire il vero, mi pareva sottilmente nervoso, quasi teso sotto di me.
Credevo di sapere perché, così lo fermai dopo avergli chiesto se aveva finito la sua spiegazione. “Ti vuoi calmare, Erwin? E non guardarmi come se non sapessi di che ti sto parlando.”
“Sono calmo” mi rispose, carezzandomi la schiena. Non sarebbe bastato a tenermi buono. Gli presi il viso tra le mani e mi inclinai verso il suo volto, fino a poggiare la fronte sulla sua.
“Te ne vuoi andare, vero?”
Avevo gli occhi chiusi, ma sentii lo stesso la breve incertezza nel suo respiro.
“Ho tante cose da fare a casa…”
“Non puoi restare neanche un’ora?”
Lui mi accarezzò i capelli, facendosi passare le ciocche più lunghe tra le dita, sfiorando l’attaccatura dei capelli e la sfumatura. Rimase muto per alcuni istanti nei quali io non tentai di spingerlo a parlare. Il pentolino tremolava sul fornello, segno che era ora di levarlo da lì, ma non avevo alcuna intenzione di staccarmi da lui –anche se mi sarebbe bastato sporgermi all’indietro col braccio teso.
“Va bene.”
“Un’ora?”
“Vediamo…”
Mi alzai bruscamente, sentendomi pesante e triste per via della sua vaghezza. Ero frustrato, non capivo a cos’era dovuto il suo comportamento. Versai il the nelle tazze senza curarmi di rompere il silenzio, che a momenti neanche percepivo da quanto mi giravano i coglioni.
Come potevo io, essere umano socialmente incapace, capire che Erwin aveva davvero da fare? O che semplicemente stava cercando di proteggermi, in qualche modo? Non gli avevo detto che avevo la fobia degli ospedali, che mi veniva da vomitare al solo pensiero di andare dal medico; ero convinto che lo avesse capito, oramai. Mi ritenevo offeso. Per una frazione di secondo, arrivai addirittura a pensare che io fossi solo uno dei tanti nella lista dei suoi cazzo di utenti, e come un ragazzino egoista, scosso dalla rabbia, fui convinto che i miei problemi, per lui, non contassero poi chissà quanto.
Me ne stavo lì con la mascella contratta e le narici dilatate, di spalle a Erwin, a strizzare le bustine e a mettere lo zucchero, col cucchiaino contro la ceramica della tazza e il gatto che frugava nel borsone come uniche fonti di rumore. Giravo il the zuccherato più del dovuto e pensavo ancora che i miei problemi non avessero valore per Erwin, che fossero secondari, uno dei tanti casi da impilare nella montagna di gente di merda a cui stava dietro.
Mi sarei tirato un coltello nello stomaco. Mi girai e lo vidi seduto, lo vidi stanco, stremato. Erwin Smith era solo un uomo più grande di me di soli otto anni eppure eccolo lì a lottare contro il cancro – con una buona possibilità di salvarsi, e questo era stupendo, ma sempre e comunque si trattava di cancro. Io non sapevo niente della sua vita privata, e a ben pensarci, non sapevo niente della sua famiglia, e di cosa avesse passato per il suo essere gay. Ignoravo se a sera, dopo avere visto il disagio della città, si mettesse a letto tranquillo. Non avevo la più pallida idea di come avesse affrontato la notizia della malattia e neppure quanto si sentisse combattuto a… non dico avere una relazione, ma essere così vicino ad una persona con cui avrebbe dovuto tenere un atteggiamento imparziale e distaccato.
Per questo, appena poggiate le tazze sul tavolo e dopo essermi seduto di nuovo su di lui, affondai il viso nella piega della sua spalla e strinsi le braccia al suo collo. Erwin non disse niente, a parte un “Bobbo…” perché evidentemente il gatto stava facendo qualcosa che non doveva, e mi abbracciò.
“Il the si fredda” borbottai, annusando il suo profumo, il solito Allure Homme Sport.
L’abbraccio si sciolse a fatica, sia da parte mia che da parte sua.
Mi restavano così tante domande che avrei voluto fargli… Volevo vederci chiaro, ma non facevo che girarmi i pollici nel buco nero del nulla, incapace di formulare domande come un essere umano normale o addirittura capire come funzionassero le relazioni. Da dove cominciare a chiedere per capire? Guardare film romantici o coppiette mano nella mano mi aveva sempre dato sensazioni spiacevoli che andavano dalla noia all’insofferenza, è facile capire perché non avessi mai cercato di approfondire la faccenda. Fotteva un cazzo, proprio. Era la prima volta in vita mia che mi sentivo nudo di fronte a qualcuno e ancora non capivo se mi piaceva oppure no. Spesso, in procinto di addormentarmi, mi balenava in testa il pensiero che stessi affrettando le cose.
Quando, in effetti, non avevo proprio fatto un cazzo. Non gli avevo chiesto un “appuntamento”, non eravamo andati in un ristorante galante, né Erwin mi aveva portato al cinema o al parco. La nostra relazione, se così si poteva chiamare, non era iniziata dopo una serata a passeggio, dopo un bacio al chiaro di Luna, e non c’era stata alcuna dichiarazione romantica da fare battere il cuore. Anzi, siamo onesti, il nostro primo bacio era stato piuttosto grezzo, praticamente una limonata più o meno selvaggia nel bagno di casa mia con un finale che aveva un retrogusto drammatico. E non riuscivo veramente a capire cosa fossimo o come dovessi definire Erwin, se era un amico, uno scopamico, un fidanzato, il mio ragazzo, il mio compagno.
Io sapevo solo che lo amavo come un pazzo. Purtroppo.
Bevemmo il nostro the in silenzio, con la mia testa appoggiata al suo petto. Fu piacevole rispetto a pochi attimi prima, per nulla imbarazzante. Io dondolavo stancamente una gamba mentre lui mi accarezzava la testa ed io tenevo il braccio libero ancorato al suo collo.
“Sai, Levi” esordì Erwin, posando la tazza vuota sul tavolo, “Penso che forse hai ragione, forse dovrei restare per un’ora, magari anche di più. In fondo, avrai bisogno di una mano a gestire il gatto per stasera” parlava calmo e affettato, quasi io non avessi capito che si stava nascondendo dietro a un dito, “Spero non ti dia fastidio, non mi voglio autoinvita-“
Non seppi mai come Erwin volesse concludere il suo discorso del cazzo e manco mi interessa. Lo misi a tacere premendo le mie labbra sulle sue per qualche secondo. Lui mi strinse più forte e poi mi guardò come se non avesse aspettato altro.
“Ti ci voglio vedere stasera a metterti il mio pigiama” sussurrai serissimo.
Erwin ridacchiò, rilassato, dandomi una leggera pacca sul fianco. Io rabbrividii al suono fresco della sua risata e gli diedi un altro bacio, godendomi il momento irripetibile dell’allegria che ero riuscito a strappargli.
 
***

Morale della favola, Erwin passò la notte da me.
Come venni a scoprire al momento della doccia, il mio caro piccolo assistente sociale aveva portato con sé “casualmente” un pigiama nel borsone delle cose di Bobbo ed io, per ripicca, lo presi per il culo tutta la sera dicendogli che puzzava di cibo per gatti.
Fu una bella serata, e non mi riferisco al sesso che non ci fu. Guardammo in frigo per fare qualcosa da mangiare e anche se non c’era granché, preparammo un minestrone di verdure. Avrei voluto ordinare la pizza per ‘festeggiare’ ma era meglio evitare – non volevo che Erwin vomitasse. Facemmo anche la doccia insieme, anche se Erwin all’inizio sembrava riluttante, lo trascinai in bagno minacciandolo di buttarlo sotto al getto vestito com’era, se non si decideva a lavarsi con me. Ogni tanto, Erwin aveva solo bisogno di una spinta.
Mi piacque moltissimo toccarlo al di fuori dall’atto sessuale. Era un modo alternativo di conoscere il suo corpo e poi, boh, mi sentivo bene, quasi potente, a prendermi cura di lui sotto quell’aspetto, ad alzarmi in punta di piedi per lavargli i capelli con delicatezza finché lui non si degnava di ingobbirsi verso di me, e dopo, sul letto, a passargli sulla pelle una crema per il corpo che gli avevano prescritto da quando aveva iniziato la terapia. Lo aiutai ad asciugarsi i capelli, gli tamponai pianissimo il capo. Avevo notato un’altra piccola chiazza sulla sommità della testa, ma forse ero solo io ad essere paranoico, non lo so.
Sistemammo tutte le cose di Bobbo in giro per casa, Erwin mi indicava cosa era meglio evitare e cosa no, e tutte queste faccende qua. Il gatto era strano, così diceva il suo umano, di sicuro sentiva che qualcosa non andava.
Ricordo di avergli fatto una mezza linguaccia dal materasso, sotto le coperte, mezzo arrotolato ad Erwin e di avergli detto, “Pussa via, Bobbo, lui è il mio uomo.”
Erwin rise quando Bobbo saltò sul letto piazzandosi in mezzo a noi. Serve dire che ogni tentativo di scollarlo da lì fu del tutto inutile? Crollammo addormentati vicini, col gatto in mezzo, e ci svegliammo ai suoi miagolii incessanti.
Il mattino non fu piacevole. Cioè, non complessivamente, ma ero consapevole che Erwin doveva andare a casa e preparare le ultime cose per andare in ospedale. Ah, tra l’altro, mi aveva informato che sarebbe rimasto lì almeno venti giorni, forse trenta. Rimasi calmo, anche se dentro mi agitavo come un bambino e volevo quasi piangere; cazzo, ma possibile, tutto quel tempo? Vedevo che neanche lui era felice, sebbene mi spiegasse col suo fare razionale che era la prassi, e che tra esami, drenaggi e svariate altre cose ci sarebbero voluti diversi giorni.
Un mese senza di lui, volevo morire. Ma ci avrei fatto il callo, dopotutto, e avrei atteso trepidante, evitando magari di chiamarlo troppo spesso. Gli dissi in breve che detestavo gli ospedali e lui capì. Capì fin troppo bene, perché prima di andarsene mi baciò a lungo sulla porta di casa, mentre io tenevo il gatto sottobraccio per evitare che scappasse fuori. Fu il bacio più bello che mi avesse mai dato fino a quel momento; porca puttana, perché il primo non era stato così?
Parlando di cose più felici, ci godemmo molto la mattina a dispetto di tutto. Non ci fu il tempo di pranzare insieme, ma cambiammo l’acqua e mettemmo il cibo al gatto e preparammo la colazione l’uno per l’altro, io uova fritte e caffè, lui cappuccino e un biscotto. Era divertente e allo stesso tempo tristissimo vedere il suo gatto che miagolava confuso, e che gironzolava per casa agitato.
Il micio scoppiò a piangere non appena la porta si chiuse e si divincolò dalle mie braccia; Bobbo zompò fin sul davanzale della finestra della sala, cercando con lo sguardo la macchina di Erwin che se ne andava. Sul momento, classificai il suo comportamento più da cane che da gatto, finché non realizzai che anche io ero andato alla finestra e avevo guardato la macchina sparire in fondo alla via col magone sul punto di sfogarsi.
 
***
 
Bobbo ed io iniziammo ad abituarci alla presenza reciproca praticamente subito. Il gatto non si ribellava a me, né cercava di graffiarmi; come a casa di Erwin, era una bestia tranquilla, che cacava e pisciava nella lettiera, si faceva le unghie dove doveva e mangiava solo quando aveva fame. Quindi non avevo niente di cui lamentarmi – a parte che imparai dalla prima sera che se voleva giocare, o se voleva essere considerato, non c’era niente che potesse fermarlo. Stavo smanettando con Skyrim sul computer, quando lui saltò sulla tastiera rischiando di farmi uscire dal programma senza avere salvato i progressi. Gli bestemmiai dietro. Fui un fallimento, comunque: alle fusa e alla pancia esposta, cedetti.
Il giorno dopo telefonai ad Erwin per fare due chiacchiere e sapere quando sarebbe stato operato. Mi disse che l’operazione era prevista per mercoledì. Avrei vissuto nell’ansia fino a giovedì. O venerdì. O non lo so.
Mi sforzai con tutto me stesso di accettare la situazione, strinsi i denti ogni mattina e ogni sera, sapendo che sarei riuscito a superarla. Dovevo farlo per il suo bene e anche per il mio. Mi ripetevo che ne avevo passate di peggiori, facevo finta, per quanto possibile, che fossimo tornati all’inizio della nostra conoscenza. Ma non era per niente facile fingere che l’uomo che amavo (o che credevo di amare, non ero del tutto sicuro, sentivo una grande pulsione verso di lui) fosse solo uno dei tanti assistenti sociali.
Concentrai le mie energie sul lavoro e sul resto della mia vita, considerai perfino di farmi aumentare le ore da quattro a otto: non avrei guadagnato tantissimo, certo, ma con un full-time sarei riuscito a pagarmi da solo l’affitto e le bollette. Volevo smetterla di dipendere dallo Stato. Forse era ora di piantarla di comportarmi da parassita solo per dispetto e pigrizia. Ero adulto e autosufficiente… Sapevo che potevo farlo e poi… Erwin la menava così tanto spesso con quella vecchia storia del cazzo dell’assistente e dell’utente: chissà se recidendo quel genere di rapporto, se dimostrando che non avevo più bisogno dell’assistenza sociale, si sarebbe sentito meglio.
Arrivai a pensare ciò il mercoledì, pomeriggio dell’operazione, mentre badavo a quattro teste di cazzo nell’aula di ‘detenzione’. Eren Jaeger, Jean Kirschqualcosa, Connie Springer e Reiner MiPiaccionoICuliGrossi Braun avevano combinato un casino coi tubi del bagno dei maschi; a dire il vero, non m’importava se erano stati loro o meno, ma li avevo beccati sul luogo del delitto, il pavimento sudicio di schifezza e acqua. Il preside aveva deciso di assegnare loro due ore di ‘provvedimenti disciplinari’ (punizione) nel pomeriggio e, poiché nessun professore era disponibile a stare dietro a quei quattro imbecilli e l’unica figura di adulto responsabile che si era fatta avanti ero io, mi arroccai sulla cattedra con un fascicolo dell’enigmistica.
Alle loro preghiere di non dire nulla al preside, avevo fermamente rifiutato (“Porca puttana, ma ‘ste cose le fate a casa vostra?!” “Eren, appena lo sa tua sorella, voglio ridere!” “Non me ne frega un cazzo se per te Mikasa non è come una sorella, la cretinata che hai fatto rimane.” “Jean, taci, che da uno che si chiama Jean non mi faccio dire che devo fare.”) sebbene li ritenessi sì dei coglioni, ma simpatici nel loro essere tali. Per un momento, mi sentii un po’ come Erwin, forse: avrei potuto chiudere un occhio, credere al fatto che non erano stati loro e che avevano trovato tutto così, ma la mia ‘figura professionale’ mi consentiva davvero di farlo?
Risposta?
Col cazzo che sì!
Inoltre, ricordavo la mia ‘missione’ per conto del biondino Smith, ovvero tenere d’occhio quel gruppetto che me la raccontava poco chiara. Eren, Jean, Connie e Marco sembravano puliti, dubitavo che fossero loro a gestire il giro di spaccio nella scuola. Non ricordo se l’ho già detto, ma ce li vedete quei quattro deficienti (facciamo tre, Marco era un ragazzo sveglio) ad avere tra le mani della maria? A momenti neanche la sapevano rollare e da che parte andasse fumata, Cristo santo. No, loro erano troppo stupidi.
Il trio di Annie, Reiner e Bertholdt era la fonte dei miei sospetti. Anche se vorrei esserlo, io non sono Dio e va da sé che non sono onnisciente, per cui capite la mia rabbia se vi dico che nell’ultimo periodo trovavo canne non completamente fumate o mozziconi in giro per il grande cortile della scuola. Non riuscivo a controllare il fenomeno che si stava spandendo a macchia d’olio. Preferivo evitare di parlarne col preside o gli altri insegnanti, era meglio se i miei tre babbei ne restavano fuori. Colpe non ne avevano, a parte essere adolescenti come lo ero stato anch’io.
 Così eccoci qui, cinque idioti sotto lo stesso tetto, chiusi in aula dalle due alle quattro del pomeriggio. Io entrai e mi sedetti con pesantezza, le gambe accavallate, senza dire una parola. Stavano parlottando mentre mi aspettavano ma si zittirono tutti al mio ingresso.
Rimasero zitti e muti mentre io succhiavo il tappo della mia penna (guai se era quella di un altro) e mi concentravo sulle parole crociate. Alzavo lo sguardo di tanto in tanto per osservarli. Reiner si era messo in un banco scostato dal gruppo, attaccato alla finestra. Ogni tanto guardava fuori, ogni tanto disegnava. Sembrava tranquillo. Quei tre, invece, si erano accorpati su tre banchi vicini, con Eren in mezzo che se ne stava tutto gobbo e stretto nelle spalle, Jean che aveva scambiato il banco per un letto e Connie che frugava nella cartella come una scimmia thailandese.
Era una situazione molto divertente, almeno per me. Non avevo espresso alcun divieto di parlare tra di loro. Rischiai quasi di sorridere alla loro imbecillità, finché non mi ruppi i coglioni del silenzio e dell’odore acre che si levava dai loro corpi di ragazzini, ed esordii, “Verticale, sette lettere, ‘buco nel muro’.”
“Breccia” rispose Reiner dal suo banco, senza degnarmi di uno sguardo.
“Ci sta. Orizzontale, sei lettere, ‘Alte figure della mitologia norrena’.”
“Giganti!” disse Connie. Finalmente aveva smesso di frugare in quella cazzo di cartella.
“Idiota, non sono sei lettere!” gli sibilò dietro Jean, svegliatosi dalla sua trance mistica fatta di pony salterini e, credo, Mikase nude.
“Titani, signore?” si intromise Eren, con cautela.
“Titani.. Sì. Bravo. Ci sta.”
“..Signore?”
Abbassai il fascicolo. “Hm?”
“Possiamo chiacchierare a bassa voce?”
Finsi di pensarci. Poi rialzai il fascicolo. “Fate pure.”
Come facevano dei ragazzini a sapere dei titani della mitologia norrena? Forse mi stavo dimenticando di storia dell’arte e soprattutto dei fumetti Marvel. Ma non aveva importanza, visto che ero soddisfatto, sia per essere riuscito a buttare giù quelle due parole, sia per il fatto che Eren mi aveva chiesto il permesso di parlare.
Li lasciai perdere a metà; fingevo di concentrarmi sui rebus che in realtà non capivo, intento ad ascoltare i loro discorsi a mezza voce. Parlavano di compiti, verifiche, interrogazioni, progetti scolastici, e tutte ‘ste stronzate per le quali io ero troppo vecchio. Reiner, ovviamente, non si era unito al discorso. Continuava a disegnare per i fatti suoi.
Per essere ragazzini, erano più pettegoli di una vecchia comare; il primato però andava a Jean. Il giovanotto metteva sempre in mezzo e quello, e il compagno, e la prof figa, e il professore di disegno dal vero, Moblit Baner, che secondo me c’ha una cotta per la prof Zoe, e Mikasa è una stratopassera, vorrei essere nei tuoi panni, Eren, per vederla che si spoglia per fare la doccia, ah, che tette da sogno, e Connie quand’è che te la limoni Sasha... Eren, e stavolta devo spezzare una lancia a suo favore, faceva di tutto per metterlo a tacere o almeno cambiare argomento, ma Jean sembrava essere un caso perso – aveva un pettegolezzo, o ancora peggio, una cattiva parola nei confronti di tutti. Personalmente non me lo cagavo in modo attivo, mi divertivo ad ascoltare le bisticciate prima sottovoce, e poi a volume normale, di quei tre.
Il discorso non era di grande interesse, finché Jean non disse qualcosa che fece risuonare un campanello nel mio cervello.
“Beh, comunque, io pensavo che Armin facesse un po’ schifo per come ti stava sempre appiccicato. Invece è uno affidabile. Mi ha aiutato durante la verifica di storia dell’arte.”
“In che senso pensavi che facesse schifo?” fu la domanda, giustamente confusa, di Eren. Certo, Armin aveva dei capelli di merda, ma era un ragazzino intelligente per la sua età. Pure troppo, mi avevano detto.
“Eren, ma sei scemo o mangi i sassi?”
“Me lo vuoi spiegare o ti devo tirare un orecchio?”
“Palle. Cioè, niente, pensavo solo che magari era un po’ frocio.”
A quel punto, abbassai il fascicolo, intrecciai le dita e mi misi a guardare fisso il nostro amico dalla faccia lunga.
“…Eh?” stavolta fu Connie quello confuso. “Io pensavo che gli piaceva Annie.”
“Ma boh, io dico solo che mi sembrava un po’ strano. Dai, Eren, non dirmi che non ti sei accorto che ti sta sempre vicino, e che ti abbraccia spesso, e che ti tocca il braccio, e te lo passa intorno alle spalle..”
“Jean” riuscivo a sentire come Eren si stesse gradualmente alterando, “Siamo amici da quando avevamo tre anni. Non possiamo neanche abbracciarci?”
“No, non dico questo, solo, io non lo vorrei mai come amico. Non Armin, ma uno gay. Una lesbica va bene. Basta che non sia Ymir, ma Christa va bene.”
Connie si grattò la zucca, mentre Eren cercava un modo per rispondere a Jean che, immagino, non consistesse nel prendergli la testa e sbattergliela con violenza sul banco. Credo che stare in punizione il giorno prima dell’interrogazione di fisica fosse abbastanza per lui. “Non capisco, che problema ti farebbe? Anche se fosse…”
Jean si strinse nelle spalle roteando gli occhi dietro le palpebre chiuse. Anche Reiner si era messo a guardare la scenetta. “E se poi ci prova con me? Io non vorrei che un maschio ci provasse con me. Mi farebbe schifo. E se poi prova a baciarmi? E se un ragazzo mi chiede di uscire o andare al cinema insieme? E se poi mi tocca? Io-“
Jean si fermò quando Eren gli indicò discretamente la cattedra. Incrociando il mio sguardo fisso e privo di emozioni, il ragazzo sbiancò e trasalì.
“Kirstscoso” dissi, “Ti credi davvero così figo?”
“..Come, signore?”
“Ti credi davvero così figo da pensare che qualunque gay sulla faccia della Terra vorrebbe provarci con te?”
Boccheggiava, il deficiente, incapace di dire qualcosa di sensato. Eren si voltò verso Connie, e i due si sorrisero complici, mentre Reiner tornò a disegnare, anche lui sorridendo.
“Non intendevo quello..”
“Bene, perché sinceramente non sei il mio tipo” avrei voluto andarci giù pesante, dirgli che mi faceva schifo, di guardarsi allo specchio perché i vestiti larghi e i pantaloni calati non erano attraenti, che doveva scoppiarsi un brufolo maturo sulla guancia, che doveva iniziare a radersi e soprattutto, che doveva imparare a crescere e a farsi un carattere migliore. Non potevo. Avevo le mani legate. Ma in nome di Erwin, quante gliene avrei dette a quel cretino. “Senti un po’ qui intorno, se sei il tipo di qualcuno di loro.”
“Con tutto il rispetto eh, Jean, ma non sei neanche il mio tipo” fu la risposta di Connie, con le mani alzate come a pararsi dalle responsabilità.
“Manco il mio” grugnì divertito Reiner dal suo angolo.
L’ultima risposta, la più tarda ad arrivare, fu quella di Eren. Il ragazzino squadrava l’altro, non capivo se per prenderlo per il culo o se lo stesse analizzando sul serio, ma la faccia di Jean –quasi speranzosa di ottenere finalmente un responso positivo- era da Oscar.
“Hmm… Jean, non è che sei brutto” disse Eren, e Jean alzò le sopracciglia sorpreso. La mia palla di rabbia preferita gli diede un colpetto sulla spalla. “Sei solo una grandissima testa di cazzo.”
Connie e Reiner risero, ma mentre il primo si coprì la bocca e mi guardò come a chiedermi scusa, il secondo rovesciò addirittura la testa all’indietro. Dal canto mio, non sorrisi, ma trovai tutto ciò davvero divertente.
A quel punto, mi chiamai fuori dal discorso. Mi sentivo bene e speravo di avere aperto un po’ gli occhi a Jean. Avevo fatto il mio dovere di educatore, anche se non ero un professore: sono in grado di fare qualcosa di buono nel mondo, hai visto, Erwin? pensai, consapevole di riferirmi a me stesso, in verità. Sospirai e mi stiracchiai sulla sedia, mentre il cellulare mi vibrava contro la coscia e i due ragazzetti, Jean e Eren, battibeccavano a mezza voce sull’essere o meno testa di cazzo.
Era Erwin? Dio, fa’ che sia Erwin. Pensiero stupido in effetti, considerando che erano le tre del pomeriggio e stava andando sotto i ferri in quel preciso momento. Ma magari aveva avuto tempo per scrivermi.. Magari mi voleva dire che lo operavano più tardi, o che andava tutto bene.
Nuovo messaggio da: Petra.
… Oh. Petra. Aprii subito il suo sms, il senso di colpa per essermi quasi scordato dei miei amici che mi assaliva.
[Ehi, scorfano brontolone!! Se sei ancora tra noi, ti va di unirti stasera al Lobo Loco per una birra tutti insieme? Se vieni, ti passo a prendere in macchina alle dieci. Fammi sapere… Ma non all’ultimo momento, ahahah!!]
 Le risposi subito senza pensarci due volte. Mi mancavano le serate coi ragazzi, ma mi potesse passare sopra un tir se mai l’avessi ammesso. Non era solo una faccenda di distrazione e di birra, di cui pure avevo bisogno – volevo parlare con loro, sfogarmi a modo mio, parlare con loro della malattia di Erwin, sentire come stavano. Passare una serata tutti insieme mi avrebbe fatto bene, ne ero più che sicuro.
 E poi, sentivo di dovere qualcosa a Petra. 

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Capitolo 14
*** And she can sing like my shore ***


ECCOCI QUA DOPO UN SACCO DI TEMPO vi chiedo davvero scusa, sono stata impegnatissima con un corso e uno stage. Arrivavo a casa senza avere voglia di fare nulla a parte disegnare e parlare con mia moglie al telefono :(
Voglio ringraziare tutti quanti per le recensioni molto positive ricevute in questo periodo, in particolare Lord_Trancy che mi ha commossa con la sua analisi della storia *cries*
Spero che il capitolo vi piaccia e vi avviso che se non ci si mette di mezzo il diluvio universale, dovrei tornare ad essere più regolare con gli aggiornamenti, circa uno alla settimana. Alla fine 'sta storia, che era nata come una 12 capitoli, si sta tranquillamente trascinando verso i 30  e ho in mente anche altri spin off, oltre a quello di Erwin.
Chissà. Magari tra qualche anno finisce sugli scaffali di una libreria, come 30 sfumature di roba ahahahahah




Petra arrivò sotto casa mia con un certo ritardo, diciamo di almeno venti minuti. Dato che non mi aveva fatto sapere niente, né un messaggio né una chiamata, detti per scontato che aveva avuto qualche problema coi fratellini. Non sarebbe stata la prima volta che faceva tardi per quel motivo.
Saltai in macchina rivolgendole un cenno di saluto col mento; venni accolto dal profumo di lavanda che permeava l'abitacolo e da una vocina dolce e carina che proveniva dallo stereo. Non il mio genere, ma era molto rilassante.
"Ti piace Sol Seppy?" mi chiese, dopo i saluti, "Se no posso cambiare."
"Lascia, lascia".
Ormai l'avete capito che ero per tutt'altro genere, sebbene ciò non m'impedisse di lasciare agli altri modo di ascoltare l'accidenti che preferivano. E poi, come ho detto, quella roba era rilassante: inutile dire quanto avessi vergognosamente bisogno di qualcosa di leggero per tirarmi su.
Petra guidava in silenzio e io non avevo la più pallida idea di cosa dire. Credo che il ricordo dell'ultima sera in cui ci eravamo visti le bruciasse ancora molto. Non mi ero ancora perdonato l'atteggiamento da cane che avevo avuto, da ragazzino, anzi; i cani sono molto meglio di me.
Petra aveva freinteso sempre tante cose dove io ero convinto di averle messe in chiaro - ero affezionato a lei, senza sentire lo stesso trasporto che provavo per Erwin. O per Bobbo.
La osservavo quando le luci della strada riuscivano ad illuminarla: si era truccata molto poco, aveva raccolto i capelli rossi in una coda alta, lasciando delle ciocche a scendere morbire sul viso, come una cornice. Indossava un paio di ballerine nere un vestito nero a piccoli pois bianchi, stretto in vita da una cintura di pelle con un grosso fiocco sul fianco, e si era coperta le braccia con un coprispalle nero.
Messi a confronto, stridevamo: i miei capelli erano solamente pettinati, avevo una maglia di cotone grigia a maniche lunghe con uno scollo a v, dei jeans, delle scarpe da ginnastica nere ancora 'buone' che usavo per 'le occasioni speciali', ovvero quelle rare volte che ci tenevo ad apparire come un adulto con uno stipendio.
Il silenzio era tale che non potevo non ascoltare la canzone che andava e andava. E mi sentii un poco morire, realizzando quanto parlasse di lei e della sua vita - mi chiesi se lo sapesse.

She had disappeared long ago
Waiting for Arthur to come through her window - Here I am, my love
But nobody came and the mist fell down
Her friends transformed into cane toads
Sitting in a room knowing all's a gas
And Arthur was replaced by a spacecraft
You want the kiss of life
Open up your heart
Then step inside and you'll be alright
You want the kiss of life
Open up your heart
And step inside and you'll be alright
But she can sing like my shore
It calls her name it's pure and true
And she runs toward this unbelievable love
The love she's dreaming of..



Mi torsi le dita tenendo la bocca sigillata, sommerso da un improvviso senso di colpa che cresceva insieme alle parole della signorina canterina. Quanto dovevo averle fatto male in quegli anni, forse apposta, o forse no. E quanto poco se n'era meritato di quel male, Petra - dura come una roccia, come il suo nome.
Affondai la testa nel sedile, sperando che non mancasse molto: povero illuso, il Lobo Loco era abbastanza fuori città. Ci attendeva almeno un'altra buona mezz'ora di silenzio in macchina. Mi misi a fissare fuori dal finestrino con l'insistenza di un pollo che vuole scappare dalla sua batteria.
"Levi" mi chiamò lei, soavemente, "Tutto bene?"
Petra mi stava guardando, approfittando del semaforo rosso. Annuii.
"Sembri preoccupato.." disse piano, facendo ripartire l'auto. Ridacchiò tra sé e sé, facendo spallucce. "Sta' pur tranquillo, so fare a guidare!"
"Pfh" sbuffai, non ero sicuro se suonasse divertito o scocciato. Ma a giudicare dalla sua espressione, l'aveva presa bene.
"Comunque" continuò, decisa a rompere il ghiaccio, "Che hai fatto in questo periodo? Sei quasi sparito..."
Ah, che avevo fatto? Il mondo avevo fatto, Petra. Mi ero praticamente innamorato, così credevo, mi ero attaccato furiosamente a qualcuno che conoscevamo entrambi, mi ero portato un gatto a casa, avevo fatto l'amore in un modo che mi aveva aperto gli occhi.
Capirete perché tenevo la bocca sigillata e avessi qualche remora nel dirglielo. Allo stesso tempo, iniziavo a chiedermi se fosse giusto lasciarla languire così nella speranza di un sentimento ricambiato. Conoscevo fin troppo bene il sapore di bile che ti accarezza la lingua in questi casi, lo sentivo sempre più spesso nelle ultime settimane; mi faceva quasi venire il vomito.
Era il caso di parlarne. Glielo dovevo. Senza alcuna scusa.
Il più era, da dove cominciare?
"Secondo te cosa ho fatto?" cazzo, stavo cominciando ad esprimermi come Erwin? Con quelle domande da ti-rigiro-la-frittata?
Petra fece una piccola pausa, un sospiro che riuscii a cogliere anche da sotto la musica della nuova canzone. "Non lo so. Dimmelo tu."
Quando ci eravamo conosciuti, Petra era un fiorellino delicato, remissivo, docile, obbediente. Era cresciuta tutta in un botto sul finire delle superiori, quando io avevo iniziato le mie infelici avventure e lei si era scossa, ma non abbastanza, non come negli ultimi anni. La Petra che avevo conosciuto a quattordici anni non avrebbe mai cercato di fare sentire così bene la sua voce.
Adesso mi faccio schifo a pensare che mi era piaciuta proprio per quelle sue caratteristiche di ragazzina-zerbino. Anche se non mi ero mai approfittato di lei, non le avevo mai chiesto soldi, o presa con la forza, o convinta a fare sesso, né le avevo mai chiesto di drogarsi con me, mi secca ammettere che i suoi modi sottomessi me lo avevano fatto diventare parecchio duro quando avevo sedici, diciassette anni - e guardandola ora, avevo l'impressione di essere stato un idiota. Ero certo di fare parte delle cause della sua crescita.
Non mi piaceva affatto l'idea di averla sballottolata da una parte e dall'altra come una bambola di pezza, di avere preso la sua verginità. Sì, è un costrutto sociale, bla bla bla, ma a me non interessa. Non meritavo quella ragazza e in cuor mio sapevo di non averla mai meritata. Le ci voleva qualcun altro, qualcun altro che al mattino riuscisse a guardarla in faccia senza i sensi di colpa che gli strappavano lo stomaco coi denti. Una persona che si svegliasse sobria accanto a lei, non con i postumi della sbornia e con le mani che tremavano per lo stare a rota.
Ma soprattutto, le ci voleva qualcuno che sapesse amarla. Io non l'avevo mai amata.
Le avevo voluto bene e avevo sempre visto il sesso con lei come un gioco da fare insieme, non diverso dal costruire castelli di sabbia sulla spiaggia o lanciarsi le palle di neve. Ma Petra si aggrappava a me così forte dopo averlo fatto, mi baciava sempre con una tale dolcezza e accettava ogni cosa, ogni fottutissima cosa. Non le era importato fare sesso sul letto schifoso della mamma (o era la nonna?) di Auruo, o nel fondo del parco; le era andato bene fare l'amore per la prima volta con un ragazzo ad un passo dall'Inferno, nella macchina dei suoi.
Quando, quella sera a casa di Erd dopo la partita di D&D, lei mi si era avvicinata e mi aveva detto che aveva bisogno di un uomo, avevo capito d'improvviso che lei mi aveva aspettato per tutti quegli anni. Cazzo. E mi stava ancora aspettando, stava ancora sperando di prendermi per mano per diventare la mia fottutissima fidanzata: che casino avevo combinato? Che cazzo le avevo detto mentre ero fatto o ubriaco, o entrambi insieme, tanto per gradire?
Petra aveva aspettato troppo a lungo, e soprattutto aveva aspettato me troppo a lungo. Il più insulso verme del pianeta.
"Un po' di cose."
"Cosa?"
E voleva davvero sapere, senza se e senza ma. Nulla da ridire. Petra ne aveva tutti i diritti.
Sospirai, sfregandomi il viso con le mani, fingendo di trattenere uno sbadiglio. Vedi, Petra, Erwin ha il cancro e il suo gatto adesso sta a casa mia per un po'. Ah, dimenticavo, siamo stati a letto insieme ed è stato fantastico, una roba da, non so, canti angelici.
Erano tanti i motivi per cui ero certo che non avrebbe preso bene la notizia - conoscendola, sapendo quello che avevamo passato, riuscivo a sentire la domanda implicita: perché hai preferito me a lui?
Petra.. Se solo avesse potuto capire cosa provavo quando Erwin, una figura esterna, veniva da me per informarsi di come mi sentissi. Una persona che non conoscevo e che aveva davvero a cuore come mi sentissi! Fuori dal mondo, davvero fuori dal mondo. Una persona che non mi diceva solo "vedrai, tutto si aggiusterà" perché schiacciata da una situazione che non sapeva gestire, ma che con calma e pazienza, dimentico della mia resistenza, mi prendeva metaforicamente per mano e mi diceva "insieme ce la faremo".
A volte la "scintilla" di cui tanto si parla non scatta, non importa quanto ti sforzi e ti strappi i capelli.
"E' una lunga storia" stirai le gambe, prendendo tempo, "Sicura di volere ascoltare?"
Credo fosse sul punto di rispondermi, ma visto che non lo fece e notai che la macchina stava lentamente rallentando, mi voltai a guardarla mentre colpiva il volante e pestava il pedale dell'acceleratore. "No, no, no!! Lo sapevo che dovevo cambiare la batteria!!" E con queste ultime parole, con un ultimo rantolo di dolore, i fari si spensero e la sua auto ci abbandonò ai lati della strada provinciale, quasi in aperta campagna. Per ironia della sorte, ci trovavamo ad un centinaio di metri dal luogo in cui avevamo fatto sesso per la prima volta. Riconobbi in lontananza il casolare ricoperto di graffiti dietro al quale avevo nascosto la macchina.
Il fatto che la macchina ci avesse abbandonati significava che potevamo dire addio alla serata, ma se devo dirvi la verità, era l'ultimo dei miei problemi, e allo stesso tempo esattamente il primo. Ah, cazzo, adesso non c'era più modo di sviare il discorso fino all'arrivo - non ci sarebbe stato nessun ritrovo dell'allegra combriccola. Merda.
"Non disperare" dissi, piatto, mentre mettevo la testa fuori dalla portiera, "Intanto, spostiamo quest'affare prima che ci facciano fare un volo fino all'altro capo del mondo."
Petra era imbronciata, ma mi stava ascoltando. Buono: avevo guadagnato qualche secondo utile. Le lasciai il tempo di prendere il triangolo segnaletico da dentro il bagagliaio e, una volta arrotolate le maniche della maglia, mi misi d'impegno per spingere l'auto fuori dalla strada, sul ciglio di un campo. Ero sempre stato un ragazzo estremamente forte per la mia taglia - piccolo ma letale, lo scago di tutti i ragazzini quando andavo a scuola. E non solo.
"Aspetta!"
Petra mi raggiunse e spinse la macchina con me. Davvero sperava di darmi una mano..? So che mi sarei dovuto emozionare, perché era sicuramente robusta considerato che stava dietro a dei bambini tutta da sola;ma non provai nulla se non, lo ammetto, un briciolo di pena. Le piacevo in una maniera imbarazzante. Magari ero io a leggere il gesto nella maniera sbagliata? Non ci capivo più nulla.
Trascorsero alcuni minuti in cui io parlavo molto poco e lei cercava su Internet il numero di un carro attrezzi disponibile a portare via la macchina nottetempo. Tuttavia, le chiesi se per favore poteva fare parlare me; era agitata e quando mi ricordai che lei con quell'auto ci portava a scuola i fratelli, ci faceva la spesa e tutto il resto, compresi come mai lo fosse così tanto. Non c'era niente che potessi fare, a parte aspettare con lei vicino al lampione, seduti nel bagagliaio dell'auto abbastanza grande da contenere due gnomi come noi.
"Mi dispiace" farfugliò, dopo avere chiuso anche la conversazione con Auruo, che si era offerto di venirci a prendere. "Ma.."
"No. Non serve che ti spieghi."
Mi sorrise debolmente. Era stanca quasi quanto me, anche se per un motivo totalmente diverso. "Grazie."
"Sono cose che capitano."
"Immagino di sì."
Cadde di nuovo il silenzio. In lontananza, si sentiva qualche uccello notturno che faceva casino e qualche auto che sfrecciava, come noi prima, nelle strade di provincia. Chissà che pensava la gente passandoci davanti, questi due bassettini con i piedi che neanche toccavano a terra, una deliziosa gnomina rossa e un cupo nanetto scuro.
"Comunque, scusami davvero. Non volevo insistere."
"Su cosa?"
Petra si puntellò con i palmi sul bordo del bagagliaio. "Su quello che hai fatto in queste settimane."
"Sono successe molte cose" ammisi, incrociando le braccia e appoggiando la schiena ad una catasta di bottiglie d'acqua dietro di me.
"Non serve che me le racconti".
"Erwin ha il cancro" nel dire ciò, sentii la mia voce lontana, distante, come se non provenisse dal mio corpo. "Lo sapevi?"
"Erwin?" si girò verso di me, i grandi occhioni nocciola spalancati. "Erwin.. L'assistente sociale?"
Evitai di chiederle 'sì, quanti cazzo di Erwin conosci?' e annuii.
Petra si mise una mano sulla bocca e la vidi piegarsi appena su se stessa, l'altro braccio sullo stomaco. Dal canto mio, continuai a fissarla zitto, visto che non c'era proprio un cazzo da dire.
"Non me l'aveva detto" fece, in un soffio, mentre si portava la mano alla guancia. "Come l'hai saputo?"
Poggiai di nuovo la testa alle bottiglie e guardai verso la luce del lampione, smorzata dal vetro un po' sporco. "Me l'ha detto Mike".
"Oh, santo cielo..." Petra si alzò e fece due passi davanti alla macchina, le braccia incrociate sul seno. "Quanto è grave?" mi chiese, fermandosi di fronte a me.
"Non molto, sembrerebbe. E' al polmone. Lo operavano oggi pomeriggio."
"Oggi pomeriggio..." tornò a sedersi e la vidi guardare verso il campo buio con sguardo determinato. "Voglio andarlo a trovare, la settimana prossima."
"Non so dove sia ricoverato" dissi, senza emozione nella voce. Persino lei era più convinta di me nel volerlo andare a visitare in ospedale e quel pensiero mi fece molto male. Mi sentii più verme che mai.
"Hai chiesto a Mike, giusto?"
Annuii.
"Ho capito. Beh" Petra si stava facendo forza da sola. "E' un uomo forte!" trillò, forse con una nota di falsa convinzione. Non potei biasimarla. "Ce la farà di sicuro."
"Già."
"Levi?"
"Hm?"
"Su, hai detto anche tu che non è grave."
Distolsi lo sguardo. Ancora una volta, era come se la ragazza mi stesse mettendo spalle al muro ed io non avessi la più pallida idea di come reagire. Le mani mi andavano a fuoco, mentre rivedevo tante scene di noi, una sopra all'altra: i suoi sorrisi, le sue gonne corte, le sue mutandine carine, i suoi occhi pieni di lacrime mentre mi diceva di smetterla, mentre squittiva che non ne poteva più, che a causa mia anche Auruo c'era finito dentro, nel tentativo di imitarmi. Petra, Petra, quanto cazzo ti avevo fatto male nel corso degli anni, e il tutto senza volerlo. Ero un disastro. Un totale disastro, e tu ti eri innamorata di me troppo presto e senza giudizio.
Il punto era che non sapevo nemmeno da dove partire a spiegarle cosa ci fosse esattamente tra me e quel biondino; porca puttana, neanche io lo sapevo. Il mantra delle domande su Erwin - il mio ragazzo? Lo scopamico? Il fidanzato? Il compagno? - tornò a galla mentre io riuscii solo a vomitare fuori, guardandola in faccia, senza alcun controllo sulle parole, "Erwin ed io stiamo insieme."
Ci fu un piccolo scatto da parte sua, un lieve ritrarsi delle mani e un'esitazione nei suoi occhi. I pezzi del puzzle che aveva cercato di mettere insieme per tanti anni le si erano frantumati tra le dita, ed ero stato io a spaccarglieli tutti in una volta con un grosso martello. Senza pietà ma anche senza cattiveria. Allo stesso modo in cui mi sentii libero di un peso, di un filo in meno stretto attorno al petto, vedere la sua faccia mi bruciò abbastanza. Tuttavia, sapevo che mi sarebbe passata: non potevo affogare nei sensi di colpa in eterno, né ero così stronzo da tenerla legata a una speranza per tutta la sua vita.
Era tempo che si staccasse anche lei e migrasse verso altri lidi... E qualche nome per lei, io l'avevo già in mente.
"..Da quanto state insieme?"
"Non lo so" mi ritrovai ad ammettere. Dalla sera del bacio nel mio bagno? Presumo di sì.
"Da molto?"
"Un mese. Forse due."
Respiravo l'imbarazzo della situazione e mi prudevano le gambe dalla voglia di scappare nei campi, nella notte, piuttosto che stare lì con lei in quello stretto bagagliaio ad aspettare il carro attrezzi.
Petra sforzò un sorriso e prese a tormentarsi nervosamente una cuticola intorno ad un'unghia smaltata di beige. "Mi fa piacere per voi."
"Dovevi saperlo" non riuscivo a dare emozione alla mia voce e a conti fatti, nemmeno volevo.
"Sì" sospirò. Gli occhi le stavano diventando lucidi. Oh cazzo, no, no. "Capisco".
Frugai nella tasca dei jeans e ne cavai quel che restava di un pacchettino di fazzoletti. Glielo porsi. "Non piangere che ti cola il trucco."
Petra ridacchiò debolemente, prendendo i fazzoletti. "E' trucco waterproof!" la sentii dire mentre si asciugava le lacrime che avevano preso a cadere grosse come sorci sul suo visetto, "Non cola, visto?"
"..Visto."
Tirò su col naso e si mise a guardare anche lei nel campo buio. Se eravamo sulla stessa linea di pensiero in quel momento, allora non ero il solo a voler scappare.
"Comunque, davvero. Mi fa piacere" e si soffiò il naso, "Che tu abbia trovato qualcuno." se solo quel qualcuno fossi stata io, mi parve di sentire nella mia testa, con la sua voce.
"Eh... Che bella fortuna, per Erwin."
Petra mi colpì sulla spalla, facendomi sobbalzare. Mi fissava con aria appena incazzata. "Zitto." Non era la prima volta che la vedevo essere così manesca, ma di solito se la prendeva con Auruo. Avevo perso il conto delle gomitate che il poveraccio aveva incassato.
Stavolta fu il sottoscritto a ricevere il colpo e non avere alcun modo con cui replicare, se non stringermi nelle spalle e abbassare appena il capo. L'avevo fatta incazzare, o forse era incazzata con se stessa. Non capivo.
"Non ce l'ho con te" bisbigliò, tornando al suo posto, "Sono stata una stupida. Tu non c'entri."
"Siamo" sottolineai, "Stati stupidi. Non è che ti sei fatta tutte quelle cose da sola." Stirai i piedi e mi alzai. Stavo soffocando in quel cazzo di bagagliaio.
Stiracchiai le braccia, muovendo qualche passo davanti alla macchina, finché non decisi di lasciarmi andare giù tra l'erba alta - quando mi balenò in testa la domanda 'e se adesso atterro su una merda?' ero già a metà strada verso il suolo.
"L'hai già dimenticato?"
"No."
"Sono stato io a cominciare."
"Non fa niente."
Un tonfo, e Petra fu nell'erba alta vicino a me. Eravamo distanti circa una spanna e non ci toccavamo, ma mi sentivo emozionato e non sapevo perché. Mi ricordavo di tante notti passate con lei ed i ragazzi. Quando forse ancora credevo che avrei potuto, un giorno, crescere e diventare l'uomo per lei, in caso non fossi riuscito a scaricarla.
Il tempo era passato e aveva cambiato molto. Non ero diventato l'uomo per lei e lei non era mai stata la donna per me.
"A volte le cose non vanno semplicemente come te le aspetti."
"E' vero" aveva smesso di piangere ma ancora udivo quell'eco triste. Ci scommetto che i suoi pensieri erano tutti per i genitori. E infatti. "Volevo andare all'università, diventare medico. Oppure mi sarebbe piaciuto unirmi all'esercito. Volevo fare qualcosa di utile per le persone" si mise seduta, sorretta sui gomiti.
"Lo stai già facendo" dissi io, le braccia dietro la testa, gli occhi persi a guardare in su, in cerca delle stelle che vedevo a malapena per colpa del lampione. Strano, pensai, come in un gesto così cretino riuscissi quasi a riassumere la mia intera esistenza fino ad allora. "C'è qualcuno a casa che non saprebbe cosa fare senza di te".
Non mi rispose, si rimise giù nell'erba alta. Poco alla volta, la sentii farsi vicina a me, più vicina della spanna di sicurezza. "Grazie" mi disse e mi avvolse le braccia al collo.
Mi feci rigido sul momento, solo per sciogliermi qualche secondo dopo, realizzando che non aveva bisogno di nient'altro se non del tepore di un abbraccio. Come me.
Avvolsi le braccia attorno a lei e la strinsi nella maniera più sincera che avessi mai fatto, lasciando che si stendesse sopra di me come una bambina: mi lasciai andare all'affetto, senza sbottonarmi troppo. Petra era un po' meno leggera rispetto ad anni fa, ma aveva lo stesso profumo di gelsomino e pepe rosa.
Pensai ancora una volta che volevo vedere Erwin come non mai; mi chiesi perché cazzo mi fosse venuto in mente proprio in quel momento: non era il caso, eppure era capitato. Come se qualcosa fosse sbocciato all'improvviso, mi si erano aperti gli occhi su me stesso. Avrei avuto il coraggio di trattare male qualcun altro, ancora una volta, solo per la mia totale incapacità a comportarmi con gli altri esseri umani? Potevo crescere un altro po'?
"Eh, grazie al cazzo."
Petra ridacchiò vicino al mio orecchio, e il suono della sua risata si fuse insieme al rombo cigolante del motore di un carro attrezzi in avvicinamento.

***

Al mattino fui svegliato dalla mia nuova sveglia a quattro zampe, che mi leccava la faccia e miagolava insistentemente. Oh, Bobbo, che cazzo! Dammi un po' di tregua.
Mi misi seduto massaggiandomi la faccia e sbadigliando forte. "Ho capito, ho capito. Ma che cazzo la metto a fare la sveglia, io" borbottai, grattandogli la schiena e poi la pancia (Dio, Bobbo, che puttanella!) "E soprattutto che cazzo la metto un'ora prima, se poi tu mi svegli in anticipo?" ficcai i piedi nelle ciabatte e scesi dal letto. "Devi imparare a prenderti il cibo da solo" continuai a parlare col gatto mentre sciabattavo in cucina come un vecchio pensionato scorbutico, "E che cazzo, mi hai scambiato per tua madre? Credi di potere fare la poppata?"
Acchiappai il gatto nell'andare in cucina e premetti il suo muso contro al mio petto, mentre con l'altra mano prendevo la busta di croccantini. "Toh. Poppa bene!"
Da come si è capito, la mattina era iniziata bene. Preferivo di gran lunga essere svegliato dal gatto che dalla mia sveglia. Bobbo era così pulito e così profumato, un gioiellino di gatto in salute e discretamente rompicoglioni.
La sera prima, una volta tornato a casa in taxi, mi ero buttato a letto non sentendo assolutamente niente nel cervello se non un cupo e continuo ronzio. Si era chiuso un capitolo della mia vita: faccende irrisolte erano venute a galla e avevo fatto sì di metterci una croce sopra. Ora toccava a Petra guardare avanti, trovarsi qualcun altro (se proprio era così convinta di non riuscire a stare da sola), superarlo. Avevo notato il leggero sorriso che aveva rivolto al telefono, vedendo che Auruo la chiamava -per la terza volta in una sera-. Aveva smadonnato tra sé e sé, imprecando che era un rompicazzo, ma aveva sorriso. Petra, c'era qualcuno che ti meritava più di me. Dovevi solo avere gli occhi aperti per vederlo.
Avevo fatto qualcosa di buono, passeggiando fuori dal suo cuore: come Erwin con me, le avevo dato gli strumenti per iniziare una nuova vita. Ora dipendeva tutto da lei.
Io, invece, mi ero buttato a letto consapevole di cosa dovevo fare la mattina seguente. Il ronzio dei miei pensieri non mi aveva lasciato in pace neanche durante il sonno e nemmeno al risveglio, nemmeno mentre davo da mangiare al gatto o pisciavo. Da dentro lo stomaco avevo la certezza che nulla mi avrebbe fermato. Neanche il senso di vomito che mi provocano gli ospedali.




 

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Capitolo 15
*** Of all the lives I've touched ***


CIAO BIMBI SONO DI NUOVO QUI
Io ci ho provato a fare l'aggiornamento settimanale ma ho fallito miseramente XD Chiedo scudo *cit Giurato*.
Cerco di essere come Isayama, un capitolo al mese... Che però è una specie di montagna russa di feels e tante altre belle cose, lalalà. E intanto il numero degli spin off che scriverò aumenta vertiginosamente. *soffre*
Spero vi piaccia e grazie mille per le vostre belle recensioni ** ♥ Fatemi sapere se ci sono sviste o errori di battitura che non ho notato!



Gli ospedali sono l’Inferno in Terra.
No, non me ne fotte niente se lì la gente entra rotta ed esce aggiustata: per me sono e resteranno l’Inferno in Terra. Sia ben chiaro; li ho sempre odiati. La disintossicazione forzata non c’entra obiettivamente un cazzo con il mio odio nei confronti degli ospedali – anche perché, se ci penso, se provo a focalizzare e dare un corpo al mio odio per quelle strutture, non ne ricavo niente se non un gomitolo denso di schifo.
Forse era il pensiero stesso che esistesse un posto del genere dove malati di tutte le specie si radunavano per farsi curare, che mi metteva ribrezzo; o l’immagine di un grande, immacolato mattatoio. Non esisteva privacy, lì, tutti sembravano sapere gli affari di tutti, e non c’era rispetto o riservatezza, chiunque voi foste, messi a morire o a guarire sotto gli occhi di chicchessia. Non è necessariamente vero, ma d’altronde non tutto ciò che crediamo è vero –ah, Gesù, Gesù.
Pensatela come vi pare sugli ospedali: se non avessi voluto restare vivo a lamentarmene, col cazzo che ci avrei messo piede per ripulirmi, svariati anni prima.
Ci si rivede, pensai, alla vista della struttura bianca, mattone e grigia che mi sovrastava. Ah, non che ci volesse molto per farlo.
La mia spavalderia era evaporata nel momento esatto in cui avevo poggiato i piedi sul cemento. E adesso? Non ero ancora entrato e già volevo andarmene.
Mi guardai intorno, cercando di dare un ordine al caos che avevo nel cervello. Per prima cosa, una rastrelliera per la bici. Fatto. Ecco, bravo, ora chiudi la bici. Fatto. E ora, controlla l’ora sul cellulare e… Ah, giusto, magari spegnilo, che dicono che in ospedale sia meglio così. Però… No, sei in orario.
Mi specchiai un’ultima volta nello schermo nero del cellulare prima di ficcarlo nell’angolo più dimenticato delle mie tasche. Deglutii, guardai su, verso le finestre, chiedendomi dove fosse nascosto Erwin. Per un momento mi sentii meno ansioso, ma fu esattamente come quello sputo di sole che sbuca da dietro le nuvole in una giornata nera.
Non era servito poi a molto.
Mike mi aveva detto come arrivare alla camera di Erwin: mi aveva risposto al cellulare con la voce impastata di sonno e in sottofondo un dolce ‘Chi è, tesoro?’. A quanto pare lo avevo disturbato nel suo giorno libero e quand’era pure in dolce compagnia di Nanaba. Fu troppo paziente con me, spiegandomi per filo e per segno come arrivarci senza metterci trent’anni della mia vita. Pure se poggiava le fondamenta in una delle cittadine limitrofe attorno alla città, l’ospedale serviva tutte le anime della metropoli ed era estremamente grande. Sinceramente, non volevo correre il rischio di perdermici.
Presi un profondo respiro e mi avviai verso l’ingresso, dopo avere passato qualche minuto a fare avanti e indietro davanti alle porte a scorrimento. Una guardia in divisa si era messa verso l’ingresso a scrutarmi e non appena entrai, mi chiese circospetto se avessi bisogno di qualcosa. Scossi il capo trattenendo il respiro quasi stessi facendo apnea, non lo guardai nemmeno in faccia e tirai dritto verso la fine dell’ampio ingresso luminoso.
Con la coda dell’occhio, non mi sembrò affatto diverso dall’ultima volta in cui ci avevo messo piede. La stanza grande con le poltrone in ecopelle color crema, le piante in ogni dove, le riviste, una macchinetta del caffè. Le solite cazzate.
Dunque, dunque, dovevo andare a sinistra, superare ginecologia, e poi prendere l’ascensore fino al sesto piano e andare dritto… Superare l’ultima porta a vetri e poi l’ultima stanza in fondo a destra, vicino al balconcino. Sì, si poteva fare.
Mi stavo concentrando su quel percorso in modo ossessivo. In testa, me lo ripetevo di continuo, da capo a coda, mentre camminavo spedito con le mani nelle tasche: respiravo a malapena e tenevo gli occhi ridotti a due fessure, fissi sulla strada di fronte a me. Evitavo il contatto visivo con chiunque, specialmente con tutti quelli che indossavano un camice.
Mi stava quasi venendo un piccolo attacco di cuore. Non stavo per niente bene. Mi sentivo circondato da germi, da cose sporche, da gente lurida, malata, orribile… Per assurdo, non erano i ‘ricordi’ a tormentarmi, ma la sensazione di un posto come quello mi disturbava. Non pensai alle giornate trascorse a letto, imbottito di farmaci e con la vescica sempre gonfia, quelle giornate in cui più di ogni altra cosa avrei preferito morire piuttosto che andare avanti. Mi sembrava semplicemente troppo faticoso allora.
Me ne stavo a spalle strette e più camminavo, più mi accorgevo di come stessi facendo il possibile per evitare il contatto fisico. Mi scendevano brividi di disgusto lungo la schiena se pensavo che uno dei pazienti o dei visitatori avrebbe potuto sfiorarmi. Orrore.
Giunsi di fronte all’ascensore mentre torturavo una pellicina al lato di un’unghia, le mani ancora affondate nelle tasche. Rilassai un poco le spalle perché mi accorsi che l’ascensore era già in discesa e non avrei dovuto premere il tasto.. Chissà quanti lo avevano toccato.
All’aprirsi delle porte, l’ascensore era vuoto, se si escludevano due medici e una signora bionda, di mezza età, snella e alta con i capelli raccolti in una crocchia.
La donna mi guardò con una strana espressione; pareva avesse visto qualcuno di conosciuto. Infatti non uscì dall’ascensore, e non appena io vi misi piede, mi chiese con un leggero accento tedesco: “A che piano sale?”
“Sesto.”
Lei non mi sorrise e premette il bottone. Pensai che era stata molto gentile a farlo da parte mia. Mi aveva risparmiato di toccare qualcosa di vomitevole.
Le mani sulla sua bella borsa color cipria, vestita di bianco e avio, la signora mi scrutava coi suoi occhi azzurri senza dire una parola. Doveva essere stata davvero una bella donna da giovane, pensai. Il modo in cui restava dritta con la schiena e la sua posa in generale avevano un che di familiare. Non riuscii a capire.
L’intenzione di chiederle se avessi qualcosa in faccia, tipo non so, un pisello disegnato con l’indelebile, era molto forte ma allo stesso tempo, la donna mi incuteva una sorta di timore reverenziale non molto diverso da quello che provavo nei confronti di Erwin, in certi casi.
Al piccolo ‘dling’ in arrivo al sesto piano, sobbalzai leggermente. Alla matrona si incresparono le labbra in un sorriso. “Arrivederci a presto” mi disse, ed io, rimasto al saluto, le risposi con “Arrivederci”.
Fuori dall’ascensore, mi guardai indietro ma le porte si erano già chiuse. ‘A presto’? Che cazzo voleva dire quell’’A presto’? Dio, di matti ce ne sono a ‘sto mondo, mi dissi tra me e me mentre mi lasciavo lo strano incontro alle spalle. Qualsiasi cosa fosse, non aveva senso. Magari era solo una signora mezza scema che non vedeva nessuno e ne approfittava per essere gentile ogni tanto con gli sconosciuti. Bah. Che tipa.
Dovetti rendere conto alla signora che, dopotutto, mi aveva fatto scordare dello sporco dell’ospedale per un po’. Il pensiero rimase lì in sottofondo mentre mi avviavo verso dove dovevo, una specie di ronzio lontano, attivamente troppo occupato a chiedermi che accidenti avesse significato tutto ciò.
Mi fermai di fronte alla porta a vetri su cui era affisso l’orario delle visite. Le memorizzai, in caso… Anche se dubitavo sarei tornato. No, sul serio, non mi sentivo affatto bene. Se non avessi avuto Erwin, lì… Non ci avrei mai messo piede. Mai. Piuttosto sarei crepato o avrei pagato soldoni per farmi ricoverare in clinica privata.
È difficile descrivere come mi sentissi in quel momento, perché… Era davvero un casino. Da fuori, sapevo di apparire calmo, misurato, a tratti pure freddo, ma dentro mi sembrava che tutte le mie emozioni fossero state prese e arrotolate e buttate dentro una centrifuga settata al massimo. Mi batteva forte il cuore, questo era certo. Ero un esperto nel sorprendere Erwin con entrate improvvise ed inaspettate.
Mi sudavano molto le mani, un po’ per l’agitazione e un po’ per averle tenute a lungo nelle tasche. In quel lungo corridoio mi sentii leggermente meglio. Mi dava l’idea di un posto più riparato e tranquillo: dal balconcino con la tapparella abbassata per metà entrava una gradevole luce soffusa, sembrava quasi di stare a casa, una di quelle domeniche mattine in cui non si ha voglia di fare un emerito cazzo e si sta così bene, ma così bene di fianco a qualcuno.
Bussai.
“Oh? Avanti.”
Dalla voce, avrei detto che Erwin era ripreso alla grande. Mi sforzai a mandare giù il disgusto all’idea di toccare la manopola e spinsi quel che bastava per sbirciare all’interno.
Aprii completamente la porta respirando un profumo di fiori freschi. La stanza era per due persone, abbastanza spaziosa e luminosa e divisa in due da un separé. Il letto di Erwin era proprio di fronte alla porta, di lato alla finestra. Sul comodino, qualcuno gli aveva lasciato un grosso vaso con tanti fiori, il giornale e un sacchetto di plastica che sembrava contenere della frutta. Levi, che idiota! Potevi portargli anche tu qualcosa, deficiente, stupido, cretino!
Ma venendo alle cose veramente importanti, Erwin era steso a letto e da quel che vedevo portava il pigiama con la vestaglia. Non era pettinato di tutto punto e portava gli occhiali da presbite mentre leggeva un libro, che per il momento aveva abbassato sulle cosce… Dico per il momento, dato che nel vedermi gli si illuminò talmente tanto il viso, prima di sorpresa e poi con un sorriso, da mandarmi in brodo di giuggiole.
Non lo avevo mai visto così contento. Per poco non sorrisi anche io.
Gli andai incontro dopo essermi chiuso la porta alle spalle e senza staccare gli occhi da suoi. “Ciao” feci, calmo, mentre mi fermavo al suo capezzale.
Lui si tolse gli occhiali, ancora senza fiato, e posò il libro sul comodino. “Ciao…” Anche la sua voce aveva un tono insolitamente tenero. “Avanti, siediti. Mettiti comodo” mi disse, facendomi cenno col braccio della sedia all’altro lato del letto.
Io annuii come un automa, avendo la sensazione che gran parte delle mie ansie derivate dall’ospedale si fossero ridotte ai minimi termini. Non udivo più quello snervante ronzio; i miei occhi, i miei pensieri erano pieni di Erwin fino a scoppiare. Avrei davvero voluto aprire la finestra e cantare qualcosa di gioioso e vecchio stile tipo Volare, non fossi la persona che sono.
“Non mi aspettavo che saresti venuto” mi disse mentre io mi sedevo.
“Neanche io” ammisi, in tono piatto, incrociando le gambe e mettendo un braccio dietro allo schienale della sedia. In un’altra situazione, Erwin mi avrebbe probabilmente fatto capire che ero seduto come un villano, magari roteando appena gli occhi nella mia direzione.
…Ah, no, come non detto. Lo fece per davvero, ma con il sorriso stampato sulle labbra era tutta un’altra cosa. Erwin, Erwin, non cambiavi mai. Coglione.
Per farlo ancora più contento, mi sedetti più storto. “Siamo soli..?”
“Sì, sì. Come stai?” mi chiese. Notai che la mano vicina al bordo del letto aveva scivolato un po’ verso di me, sulle coperte. Smisi di stare seduto come uno zotico e posai le dita sul dorso della sua mano.
“Come starai tu” gli feci notare, carezzando la pelle intorno alle nocche, per niente secca  come nella maggior parte degli uomini. Che gran cosa, il fatto che Erwin non disconoscesse la cura del corpo, che gran cosa…!
“Vivo e vegeto” mi rispose, allungandosi un po’ sul cuscino verso di me. Ebbi l’impressione che volesse mettersi sul fianco ma per qualche motivo non potesse farlo.
“E…?”
“L’operazione è-“ sbadigliò, coprendosi la bocca con la mano solo all’ultimo, “Andata molto bene.”
Restai a guardarlo. Cosa dovevo chiedergli? A me sarebbe piaciuto sapere quando lo avrebbero rilasciato, perché non avevo idea di quanto avrei retto lì dentro. Non pensavo che sarei riuscito a reggere tutto quello stress dal recarmi spesso in ospedale. Per un attimo, ebbi l’impressione di non volergli abbastanza bene, a quell’uomo sul lettino… Di solito chi è innamorato fa dei sacrifici, no? Avevo l’impressione che il concetto di ‘amore’ fosse una cosa troppo astratta da capire, per me.
Fortunamente, Erwin tornò a parlarmi, giusto il tempo di sbadigliare e stiracchiarsi. “È andato tutto come previsto, non c’è voluto molto. Adesso inizia il periodo di osservazione…”
“Quanto pensi che durerà?” gli chiesi. Mi sporsi un poco in avanti, trascinando la sedia con me. Eravamo soli nella stessa stanza, dopo un periodo breve, ma che a me era parso non finire mai e la sua malattia, per giunta, sembrava dargli finalmente la giusta tregua. Morivo dalla voglia di toccarlo, di stargli vicino… Di sentire, di tastare che Erwin fosse vero.  
Appoggiai le braccia incrociate sulle sue gambe e la guancia sulle braccia. Anche attraverso le coperte, potevo percepire il calore del suo corpo.
A quel punto, Erwin prese ad accarezzarmi il capo con calma e dolcezza, mentre mi rispondeva: “Il minimo sono due settimane…”
Due settimane… Cazzo. Fu una brutta notizia, ma la carezza contribuì a mandare giù quella schifosa pillola amara. Potevo stringere i denti e sopportare. Avrei aspettato tutto il tempo del mondo affinché avessi la certezza che Erwin stesse bene, che una fottuta malattia non si azzardasse a strapparmelo via.
Chiusi gli occhi, sospirando rilassato. Mi piaceva tanto quell’inaspettata coccola da parte sua. “È tanto tempo…” borbottai a bassa voce, “Vedi di guarire presto dalla tua boo-boo.”
Lo udii ridacchiare sommessamente. Prese a carezzarmi il capo in senso antiorario, strappandomi un altro sospiro lieve. “Sì, Levi. Lo farò.”
Strinsi le coperte e, credo, anche i suoi pantaloni del pigiama. Ti prego, Erwin, non te ne andare, almeno tu. In quel preciso momento della mia vita, sebbene non stessi facendo piani per il futuro con lui, mi bastava la certezza che lui fosse vivo e sano; iniziavo a sentire distintamente che lui avrebbe potuto anche non ricambiare i miei sentimenti, ma io sarei passato oltre, ci avrei letteralmente camminato sopra, mandato giù il rospo e tutto quel che volete perché tutto ciò che m’importava e ruotava intorno a lui era il desiderio che stesse bene.
Ogni cosa si fermò in quell’istante, in quella camera d’ospedale dove me ne stavo mezzo accucciato sulle gambe di una persona così importante per me che non esisteva paragone in grado di descrivere quel che sentissi. Gli carezzai piano la coscia, per ricambiare le sue mielose attenzioni. Prese addirittura a farmi i grattini sulla nuca e sulla rasata: Cristo, Erwin.
Quell’uomo era lontano dall’essere perfetto, perché aveva dei modi criptici, delle strane abitudini, uno strano senso estetico, una pettinatura di merda e delle sopracciglia troppo spesse… Ma per me era Erwin.
Aprii gli occhi per guardarlo: Erwin aveva reclinato la testa sul cuscino e si sarebbe detto che stesse sonnecchiando. Sapevo per certo che non era così, dato che mi stava accarezzando, ma ciò non mi fermò dall’importunarlo. Gli pizzicai la polpa della coscia. “Aoh. Svegliati.”
Lui grugnì e roteò gli occhi. “Non sto dormendo.”
“Sì.”
“No..”
“Stavi russando.”
“No, Levi, non è vero..”
“Sì” a quel punto, Erwin non mi rispose più: mi pizzicò l’orecchio, di cui io mi lagnai. “Non vale.”
“Non c’erano regole..!”
“Hmm-hm” feci spallucce e tornai giù comodo sulle sue gambe. C’era qualcos’altro che volevo chiedergli. “Senti, ma dove sono i fili, le flebo e il resto..?”
Erwin mi guardò con evidente sorpresa sul suo faccione, poi scosse piano il capo. “Se fossi in pericolo di vita o non fossi in grado di nutrirmi da solo, me li metterebbero…” Lo sapevo che ero fin troppo paranoico. E che non avevo idea di come funzionassero queste cose. D’altronde, non era un’operazione così grave, no?
“A proposito… Che ti hanno dato da mangiare ieri sera?”
“Pasta in bianco.”
“E stamattina?”
“Biscotti secchi e caffè.”
Storsi la bocca. “Schifo.”
“Palato fino..” mi disse con un po’ di scherno. Smise di carezzarmi i capelli per darmi un piccolo pizzicotto sul naso, a cui io risposi afferrandogli la mano e facendo finta di mordergliela. Lui rise piano, forse per non disturbare gli altri pazienti nelle stanze accanto, e la scosse. “Credevo di avere lasciato il gatto a casa tua. A proposito… Come sta Bobbo?”
“Bene” grugnii. Mi stiracchiai un attimo, puntellandomi con le braccia al materasso, poi mi rilassai e mi rimisi giù sulle sue cosce. “Gli manchi.”
“Come lo sai..?” Erwin mi guardava dritto negli occhi. Sì, era vero. A Bobbo mancava Erwin, ma non era il solo… Ed Erwin Smith lo aveva capito, c’era che da aspettarselo da lui. A volte gli ero grato per quel suo essere così spaventosamente intuitivo, non dovevo sempre spiegargli tutto per filo e segno, e poi… Mi dava una bella sensazione d’intimità. Di essere capito. Non so se mi spiego.
“Gliel’ho chiesto..”
“Allora digli” Erwin posò entrambe le mani ai lati del mio viso, “Che mi manca anche lui.”
Io annuii. Ricordate il ronzio di cui vi parlavo? Completamente sparito.
Mi feci avanti e lui si sporse verso di me. Lo baciai piano, mi ero completamente dimenticato dell’esistenza di una cosa chiamata ‘fretta’. Gli carezzai il viso che pizzicava di barba non fatta, mi dava un po’ fastidio, lo ammetto… Tuttavia, la voglia di baciarlo riusciva a superare tutto. Quando mi staccai dalle sue labbra tenni gli occhi chiusi, sfregai il naso con il suo. Iniziavo ad accorgermi che lo facevo davvero molto spesso, quando ci trovavamo  fiato nel fiato.
“Levi..”
“Hm?”
Erwin fece scorrere le mani dietro alla mia nuca e mi invitò a premere la fronte contro la sua. “Ti fidi di me?”
In verità, Erwin mi aveva fatto quella domanda tantissime volte nel corso degli anni: riuscivo quasi a riportare alla memoria ogni singola occasione. Più di tutte, mi era rimasta impressa la prima volta in cui me lo chiese, all’inizio della terapia e del percorso che mi avrebbe portato ad uscire da quel buco in cui ero.
Eravamo soli io e lui in una stanza quasi spoglia, con una pianta triste quanto me, una cartella davanti a lui e la luce delle persiane di plastica che tagliava in due la stanza, rivelando il pulviscolo che danzava nella luce del tardo pomeriggio. Io avevo ancora la rasata alta e quella striscia di capelli al centro del capo, e soprattutto gli occhi gonfi e stanchi. Avevo voglia di fumare. C’era ancora quel vago retrogusto in fondo alla bocca, un istinto senza corpo che dentro di me cercava di spingermi a cercare dell’altro. Avevo liberato il mio corpo da quelle sostanze, però il cervello… Il cervello era terra bruciata. 
Ma c’era ancora speranza. Erwin Smith sembrava essere convinto che fintanto che si era vivi, ci fosse speranza. All’epoca non gli credevo affatto. In più occasioni gli avevo dato dell’ottimista del cazzo, che mi doveva dire cosa c’era da lottare, che doveva andare a dire quelle cose alla gente senza un braccio o una gamba, che lo doveva dire ai genitori di Farlan e Isabel che la vita era tanto bella e c’erano tanti motivi per cui sorridere! Certo, il sole e il mare e gli uccellini erano proprio belli, quando tuo figlio è steso freddo in una cazzo di bara!
So di non averne parlato fino ad adesso. Di Isabel e Farlan, voglio dire. Il punto è che non mi piace ricordarli.. Mi sento responsabile, anzi, sono sicuro fin dentro le ossa di esserlo stato. Mi ricordo fin troppo bene quella sera: i Red Hot Chili Peppers in sottofondo (era Californication..? Era proprio Californication), la luce a incandescenza, il lavandino pieno d’acqua, la roba sistemata in ordine sul tavolo, Auruo che preparava le siringhe, Isabel dai capelli fucsia raccolti in due codini e Farlan l’ossigenato che aveva ancora la cartella con sé. L’aveva lasciata in un angolo dell’ingresso, c’erano ancora tutti i libri di scuola dentro. Isabel aveva portato con sé una bella borsetta di Gucci, tarocca come l’anima di Giuda. Avevo spento il cellulare perché Erwin, il nuovo assistente sociale a cui ero stato assegnato dato che il vecchio di merda di prima era andato in pensione, mi cercava. Noi quattro idioti avevamo deciso che saremmo andati tutti insieme in ospedale per la riabilitazione, saremmo diventati puliti: ci attendeva una nuova vita, non facevamo che ripeterci, disillusi come porci sulla soglia del mattatoio. Eravamo davvero intenzionati a chiudere con il passato. Avevamo deciso che quella sarebbe stata l’ultimo sparo in vena.
Per Farlan e Isabel lo fu davvero.
Fu la botta più pesante della mia vita, non ricordo decisamente un cazzo di quella sera, solo il risveglio sgradevole accanto a Farlan, freddo, e non perché si era addormentato sul pavimento. C’era caos per terra, qualche lattina vuota, la borsa rovesciata e qualcosa di viscido, di orrendo sulla strada verso il bagno: vomito. Isabel aveva arrancato in bagno vomitando ed era morta abbracciata alla tavoletta del cesso.
Il pianto disperato di Auruo mi aveva richiamato in salotto. Piangeva e smoccolava . Avrei avuto tutti i motivi per comportarmi a quel modo, ma non trovavo la forza di farlo. Riuscii soltanto ad abbandonarmi sul divano, schifoso straccio senza vita e senza scopo.
Il pensiero che sarebbe stata aperta un’inchiesta per tutto quel caos, e che sarei stato incriminato, e che due miei amici erano morti e che io, fino a quel momento incensurato, mi ero bruciato tutto, il cervello e il futuro, non sembrava sfiorarmi. Se ci ripenso ancora adesso, provo solo un gran senso di… Vuoto. Anche se ricordo i paramedici portare via rispettosamente Farlan e Isabel, no, non sento niente. Non voglio sentire niente.
Provai un odio fortissimo per Erwin, tanto che avrei voluto ucciderlo. Gli proiettai colpe che non aveva… Pensavo sempre che avrebbe potuto salvare tutti noi quattro, ma non ce l’aveva fatta con due di noi. Io gli avevo chiuso la porta in faccia: mi ci volle un’eternità per accettare che era stata solo colpa mia. Non so se mi basterà tutta la vita per essere in pace con me stesso, comunque.
Il periodo seguente a quello che era successo a Farlan e Isabel fu un vero e proprio caos, tanto che mi è difficile mettere in ordine tutte le memorie e i posti che ho visto, ospedale, stazione di Polizia e ospedale a parte. Fui costretto a vedermi spesso con medici e psichiatri; lo richiesi io stesso, non appena annusai nell’aria che dimostrare che avevo qualche problema era la soluzione migliore per non passare il resto della mia gioventù in galera. Sputai il nome della mia spacciatrice: se non potevo prendere a pugni il mondo, che almeno la giustizia si riprendesse tra le sue braccia una fogna di essere umano. In quelle settimane e in quei giorni, mi tornava in mente il corpo freddo di Farlan con la bava alla bocca e Isabel morta nel suo vomito, era tutto così sporco – non avevo mai provato una simile repulsione per la sporcizia prima di allora. Ve ne accorgete anche voi che non sono capace di tenere un filo logico e che questa spiegazione è un casino dall’inizio alla fine.
Alla fine venne il giorno che cambiò tutto.
Il processo c’era stato, fu spaventosamente breve – d’altronde, chiunque avrebbe voluto togliersi di torno due zecche come me e Auruo. Ma ecco che l’avvocato e Erwin avanzavano una proposta.
Eravamo solo io e lui, io ed Erwin, in quella stanza scura – sì, sono tornato sui miei passi. Mi guardava, gli occhi fissi nei miei, c’era qualcosa sul tavolo… Carte, o qualche altra cazzata, documenti. Non me ne sbatteva una mazza; feci solo caso al suo completo grigio scuro con la cravatta color perla che faceva davvero schifo e molto matrimonio cattolico, al suo pomo d’Adamo che sobbalzava troppo e allo sguardo che non smetteva di essere fisso.
“Levi, possiamo fare un patto.”
Avevo le braccia incrociate sul petto smagrito. “Hm?”
“L’affidamento ai servizi sociali e la mutazione della pena in servizio civile.”
Accettai. Non ero stato messo a spalle al muro, ora lo so bene, ma allora fu molto diverso. Era come se anche lui, che in linea del tutto teorica era lì per assistermi, si fosse rivoltato contro di me: cazzo, non mi ero fidato di lui fin dal primo giorno che l’avevo visto. Accettai per sfinimento e alla fine, sono qua: mutata la pena. Sia per me che per Auruo, finito a fare assistenza in un centro anziani, dove veniva scambiato per uno dei vecchi baccucchi.
Ci rivedemmo presto, io e Erwin, nel suo ufficio: aveva tutto pianificato. Sedute con gli psichiatri, terapie di farmaci, un lavoro assegnato, una casa popolare il cui affitto sarebbe stato per metà pagato dallo Stato. Che culo essere orfani, a volte. E soprattutto la sicurezza della sua assistenza giorno e notte (“Ma cerca di non chiamarmi troppo spesso dopo le due, capito? Ahah!”).
Mi chiese se mi fidassi di lui. Gli dissi di no. Mi aspettai delusione, e invece lui continuò a guardarmi negli occhi, dicendomi una cosa che ancora ricordo: “Ci lavoreremo insieme.”
Tornando a noi, nella stanza d’ospedale, sospirai sulle sue labbra. Sentivo che la sommità della salita era vicina, dopo tutti quegli anni in cui, sì, avevamo lavorato insieme e in cui c’era stato un piccolo, enorme incidente di percorso tra di noi.
Risposi a bruciapelo, non ci pensai nemmeno. La risposta era nero su bianco, nel mio cuore.
“Sì, Erwin.”
 
***
 
E così, passò qualche giorno. Giornate un po’ pigre in verità, scandite dal lavoro e da qualche telefonata a Erwin la sera… Mi dicevo che avrei potuto riprovare a tornare in ospedale, ma la sola idea mi teneva inchiodato al divano. Avevo fatto il pieno di ospedali per il prossimo mese!
Mi metteva un po’ a disagio in verità, non mi piaceva che Erwin pensasse che non lo volessi vedere o non m’interessasse sapere come stava. Al contrario. Mi svegliavo ogni mattina col gatto sulla pancia, chiedendomi come stesse il mio biondino e come avrebbe passato la giornata. Gli avrebbero fatto un drenaggio o una lastra (ma poi, chissà se le facevano le lastre ai malati di cancro)? Avrebbe mangiato di merda anche oggi? Si sarà portato il lavoro in ospedale? Lo lasceranno un po’ in pace almeno adesso che sta male?
Capirete che la telefonata serale era una festa, per me, anche se a volte non ci dicevamo granché. Mi bastava solo sentire la sua voce attraverso il cellulare. Mi piaceva pensare che fosse lo stesso per lui.
Erwin mi domandava come stesse Bobbo, se avesse cagato, pisciato e mangiato bene; e mi chiedeva come stessi io. Io, soprattutto: avevo mangiato bene? Lo sapeva che ingurgitavo davvero male, ma stavo facendo il possibile per rieducarmi a nutrirmi in maniera.. Umana? Stavo imparando l’esistenza della pasta all’olio, formaggio e pepe. Era un buon inizio, per uno che si riscaldava le cose in microonde o mangiava direttamente dalla scatoletta.
 L’unica cosa che non mi chiedeva mai era come procedessero le mie ‘indagini’ che, per inciso, non avevo abbandonato. Purtroppo non avevo trovato nessuna prova concreta che dimostrasse una colpevolezza di quei tre ragazzini inquietanti; avevo sospetti, ma non li avevo mai visti spacciare e non avevo idea di dove  nascondessero la loro roba, e soprattutto se la tenessero a scuola.
Ad ogni modo l’anno scolastico stava per finire, il che significava meno occasioni di stare col naso nel culo di quei tre: speravo che la situazione si sarebbe chiusa in fretta, a dire il vero. Ne avevo già abbastanza quel giorno al pensiero dell’Open Day, giornata in cui la scuola restava aperta al pubblico e in cui i ragazzi avevano il diritto all’autogestione per qualche ora. Si erano organizzati bene, per carità, con un piccolo concertino di tutte le micro-band di studenti stile guardate-come-siamo-fichi-un-giorno-saremo-famosi nel grande ingresso, tavolo del rinfresco, ragazzini che tenevano lezioni su cose che piacevano a loro nelle varie aule. No perché, era veramente interessante ascoltare una marmocchia abbardata che spiegava le bellezze del rock giapponese. Mi pareva inutile farci una lezione sopra, così come su tante altre cose, ma non erano affari miei – in un modo o nell’altro, avrei dovuto pulirle io quelle cazzo di aule. Era sufficiente che non ci facessero il porcile.
Erwin mi aveva sorpreso: la sera prima dell’Open Day, mi disse, testuali parole, “Levi, tieni d’occhio Eren, per favore.”
Avrei quasi annuito senza pensarci due volte, ma… “Eren?”
“Giusto. Non ti ho mai accennato che conosco suo padre. È il mio medico di base da.. parecchi anni.”
Sgranai gli occhi, fissando il gatto sul pavimento che saltava dietro ad una mosca. “Ah beh, buono a sapersi.”
“Conosco un po’ anche il figlio da quando era bambino.. Non vorrei che gli succedesse qualcosa di strano.”
Provai un brivido di disgusto. “Mi stai dicendo che devo stargli appresso e pulirgli la bavetta?”
Erwin rise dall’altra parte del telefono. “Tienilo d’occhio per me. Puoi farlo?”
Mi sciolsi sul divano sbuffando in silenzio, guardando verso il soffitto. Odiavo quel ragazzino. Ma non per qualcosa, per il semplice fatto che era un ragazzino e la mia stima non si riversa sui minori di anni venti. “Sì, lo farò..”
Una promessa fatta ad Erwin era una promessa da tenere in considerazione, per quanto mi scocciasse. Logicamente, non ero stato con il bavaglio appresso al guancino di Eren per pulirlo; mi sarei fatto orrore da solo. Mi limitavo ad osservarlo quando appariva ai lati del mio campo visivo: era sempre circondato dalla sua cricca di amichetti, a cui avevo notato essersi aggiunto Jean il cavallino omofobino. Non riuscivo a decifrare il suo comportamento (obiettivamente: non m’interessava) ma a naso, devo dire che oscillava tra il molesto e il lumacone.
Jean il cavallino omofobino aveva anche una band, tanto per la cronaca, e quel giorno si sarebbe esibito davanti agli occhi di tutta la scuola. Osservavo i ragazzi salire sul palco provando imbarazzo di seconda mano, forse per il loro aspetto generale o… non saprei, il nome? Possiamo prendere sul serio una band chiamata “I Budini Molli”?
E l’assortimento, poi. Sasha, Connie, Reiner, Marco e Jean. I ragazzi erano tutti vestiti in modi più o meno stravaganti, cercavano di fare i punkettoni ma non ci riuscivano: con Marco, quel Gesù lentigginoso della scuola, come cantante, poi… Jean, alla chitarra, si era fatto un ridicolo crestino e aveva messo qualche piercing finto, una canottiera e dei jeans strappati con delle scarpe da ginnastica giallo fluo. Quel toro di Reiner con un vecchio chiodo scolorito dava un minimo di credibilità all’aspetto generale, non fosse stato per i pantaloni rossi, nascosti (grazie a Dio) dietro a una batteria che a momenti non riusciva a contenere quell’armadio di ragazzino. Sasha, la seconda voce e basso, era salita sul palco masticando qualcosa –cominciamo bene- e Connie sembrava si fosse strafatto di acidi. Saltava da una parte all’altra come una scimmia.
Misi un ginocchio sopra alla cattedra vicino all’ingresso per sollevarmi e guardare meglio le teste dei presenti. Intravidi la chiomina marroncina di Eren di fianco a una capoccia bionda e una nera. Il mio bambino era al sicuro, contento, Erwin?
Mi rimisi giù girandomi i pollici in attesa. L’imbarazzo di seconda mano imperversava.
“Omino!”
…E se poi ci si aggiungeva quella folle dell’insegnante di scienze, seguita a ruota dal professore di disegno dal vero, era davvero una gran festa.
Le feci un cenno di saluto col capo, nella speranza che bastasse a farle intendere che avevo intenzione di ascoltare il “concerto” e zero voglia di parlare di Erwin con una sua amica. Per mia fortuna, anche lei si mise a sedere senza disturbare, dopo avermi dato una pacca leggera sulla spalla. Immaginai che sapesse qualcosa.
“Ciao a tutti, ragazzi!” era Marco a parlare nel microfono, con la stessa presenza scenica di un micetto appena partorito. “Quanti siete, oggi! Be’! Benvenuti al nostro concerto, è la nostra prima volta qui, noi siamo quelli della classe in piccionaia! Marco, il sottoscritto, Sasha, Connie, Reiner e Je-“
Jean rubò l’asta del microfono dalle mani di un incredulo cantante, mentre Connie si esibiva nelle prime note di un riff che faceva l’occhiolino a Smoke On The Water. “Taglia corto!” fece, ridendo carismatico, “E diamoci dentro!”
Il cavallino era una testa di cazzo, ma non c’era dubbio sul fatto che sapesse essere un leader – almeno, come frontman non sembrava cavarsela male. Affatto. Per farla breve, suonarono bene, cantarono bene. In effetti, come band di esordienti e pure scolaretti che facevano cover… Tanto di cappello, anche se avrei consigliato a Reiner di pestare un po’ meno su quella batteria. Era un tamburo, non un punching ball.
Mi costrinsi a perdere interesse per il concerto quando I Budini Molli scesero dal palco e vidi Eren andarsene via dall’ingresso, dietro ad un poco nervoso e circospetto Jean. L’idea di quei due da soli non mi piaceva per niente, soprattutto perché stavolta non avevo niente di schifoso da rovesciare sulle loro teste se li avessi beccati a farsi uno spinello. Per amore di Erwin e della promessa che gli avevo fatto, mi alzai e li seguii a distanza, portandomi appresso il carrello degli attrezzi per pulire.
Non volendo dare troppo nell’occhio, presi il mio scopettone e ci diedi di forza nel corridoio vuoto verso il quale li avevo visti scomparire. Da lì in poi c’erano solo aule, aule su aule, e lo sgabuzzino delle scope. Ignoravo dove si fossero nascosti, quei maledetti ragazzini. Aprii ogni aula lungo il tragitto ma di quei due cretini, nessuna traccia, solo stanze vuote (e da pulire, ugh).
Alla fine del corridoio restava solo lo sgabuzzino. Trascinai il carrello con me, un passo alla volta dato che quelle fottute ruotine cigolavano come il trono di Satana, e mi fermai di fronte alla porta.
Annusai l’aria e non sentii niente, ma probabilmente sarebbe scattato prima il sistema antincendio delle mie narici umane. Anche ascoltando non riuscivo a captare niente, non una parola o qualche oggetto spostato. Ma che minchia stavano a fare, lì dentro?
Ancora con lo scopettone in mano, aprii la porta e vi giuro sul Dio in cui non credo, su quanto è vero che Erwin Smith ha un bel culo, che avrei voluto letteralmente scomparire.
Sinceramente, avrei preferito vederli rollare cannoni e preparare bustine di maria, piuttosto che avere una visione in primo piano delle loro lingue adolescenti attorcigliate e spinte in fondo alla gola e le mani strette ad ogni superficie afferrabile dalla vita in su e in generale, tutto questo in uno sgabuzzino semibuio e sporco.
Restai a fissarli senza un’espressione, li fissai e basta per quel nanosecondo che precedeva il loro staccarsi l’uno dall’altro come due criminali. Mi guardarono. Si guardarono. Il secondo dopo, Jean sbatteva Eren da una parte senza curarsi di lui e mi sorpassava rosso in faccia come un pomodoro maturo, correndo via. Non mi sprecai neanche a dirgli che il pavimento era bagnato e poteva scivolare. Si spezzasse pure l’osso del collo.
A quel punto restavamo solo io ed Eren a fissarci con estremo imbarazzo da parte sua, schifo e desolazione totale da parte mia. Il ragazzino si sistemò nervosamente i vestiti e i capelli, rosso come l’amico (?), con gli occhi lucidi e incazzati mentre farfugliava scuse. “Mi scusi, signore… non sono stato io a portarlo qui, è stato l’idiota,  voleva parlarmi di qualcosa… e poi mi è saltato addosso” Eren guardava dritto verso di me, con un’espressione a metà tra l’arrabbiato e il confuso.
 Non avevo bisogno di una telecamera per immaginare che Eren stesse dicendo il vero; quella faccina d’angelo ingenua poteva mai inventarsi una balla assurda come quella? Mi sembrava che passato lo sconvolgimento iniziale fosse riuscito comunque a godersi l’attimo, comunque.
“Esci, va’” feci cenno al ragazzino di spostarsi con lo scopettone, “Ho delle cose da mettere via”.
Eren obbedì e rimase fermo sulla porta intanto che io trascinavo il carrello nel punto in cui si trovavano prima loro due. “Che macello…” borbottai dietro al mucchio di secchi, panni e altre cose che Eren, spinto da Jean, aveva rovesciato.
“Scusi, signore.. Vuole una mano?”
Dal buio del mio angoletto, gli feci gesto di lasciare perdere. “Lascia stare. Solo una cosa” cacciai la testa fuori dallo sgabuzzino. Ew, ebbi di nuovo un flash di quelle due anguille spinte in due bocche diverse – mi sentii un pedofilo ad avere assistito a quella scena carica di ormoni e tensione sessuale.  “La prossima volta che dovete limonare, andate a farlo nella soffitta di disegno dal vero, che è abbandonata e non ci va mai nessuno. A parte i topi.”
Eren annuì, ancora arrabbiato e confuso, pensai più perché non avesse idea di cosa dire che altro. Il giovanotto stava per andarsene ed io tornare alle mie cose, quando mi sorprese dicendo poche ma semplici parole.
“Mi dispiace per il signor Erwin…” disse a mezza voce, appena incerto, “Spero che si rimetta presto.”
Sì, devo ammettere che l’idea che quel marmocchio sapesse le mie faccende private mi dava prepotentemente al cazzo. Avrei potuto telefonare a Erwin e dirgli di non spifferare gli affari miei in giro, se fossi stato uno stronzo fino all’ultimo goccio di midollo. Ma d’altronde.. Cosa mi cambiava? Che Eren fosse a conoscenza di me e Erwin come ‘coppia’ non rendeva le cose diverse.
E devo ammettere che non mi diede poi così fastidio, passata la botta iniziale. Era stato sincero, persino educato e gentile: da quanti ci si poteva aspettare un gesto così genuino, in questo mondo di bastardi a due gambe?
Rilassai appena le spalle. “Grazie.” Mai mi sarei sognato di dirlo alla mia palla di rabbia preferita, eppure eccomi qui, a trovare un angolo di conforto dove meno me lo sarei aspettato. Potevo immaginare che prima o poi la professoressa Hanji l’avrebbe saputo, ma il fatto che Eren avesse una vaga idea, o la sensibilità giusta di dire qualcosa… Mi lasciò onestamente sbalordito.
Eren tirò le labbra in un sorriso e se ne andò, soddisfatto.
“Non da quella parte, è bagnato!” gli urlai dietro.
Il ragazzino passò davanti alla porta aperta del ripostiglio grattandosi la nuca. “Ha proprio ragione! Mi scusi.”
Che spettacolo ‘sti bimbetti…
Roteai gli occhi e finii di sistemare il ripostiglio sotto sopra. Ora c’era solo da sperare che non li beccassi a limonare selvaggiamente, il cavallino e Eren, nella soffitta abbandonata; sempre che quello non fosse stato un gesto dettato da chissà quale impulsività e non fosse finito lì. A me fregava un cazzo, ma se li avessi visti un’altra volta mi sarei cavato le palle degli occhi con un cucchiaio. Contenti loro a baciarsi in quell’antro polveroso e dimenticato…
Alzai la testa di scatto nel chiudere la porta, colpito da un’illuminazione improvvisa, no, che dico, una scottatura.
Quella maledetta soffitta. Come cazzo avevo fatto a non pensarci prima?
 
 

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Capitolo 16
*** You are the one living within me ***


Updaaaaate!
Sempre più lunga questa storia, sempre meno il tempo per scriverla. Ma io non mi arrendo e la continuo: vi chiedo solo scusa se non rispondo spesso alle recensioni molto lunghe. Sono così ben scritte che mi sembra di screditarle con i miei lapidari 'grazie'. Quindi ne approfitto per ringraziare le lettrici e lunghe-resentrici (?) di fiducia che ormai sono ABITUè, Lord_Trancy, _Alexis_ e Nexys, oltre che la mia morosa che ruola scenette di DPJ con me, così non perdo idee e ispirazione ♥


Non so descrivere quanto fosse orribilmente lercia quella cazzo di soffitta. Dico davvero, era puro putridume. Un ambiente dimenticato da Dio, Gesù, la Madonna, tutti i santi cristiani e le altre divinità di tutte le religioni, che languiva nella polvere, nelle ragnatele, in generale nel più totale sudiciume.
In tutta franchezza, non mi sprecavo neanche a metterci piede: era un ambiente del tutto inutilizzato, di cui solo io possedevo le chiavi, e che non serviva davvero a niente, non da quanto i professori di disegno dal vero avevano preferito spostare gran parte delle statue e degli oggetti al piano terra, così da non doversi sbattere per fare le scale e andare a prendere, che so, il piede del David (tutte balle: tolto il prof. Baner, Moblit per intenderci, ci mandavano sempre me o qualche povera anziana collega). A ben pensarci, avevo detto una cazzata, quando avevo consigliato a Eren di andare lì a sbaciucchiarsi con il cavallino.
Come avrebbe potuto fare, dato che la porta era chiusa?
Già, lui probabilmente era troppo stupido (e timorato) per provare a forzare la serratura, ma non potevo escludere che il trio dubbioso avesse operato in questo senso. Non sono proprio nuovo a questo genere di cose, sebbene io non abbia mai spacciato: so fin troppo bene che è meglio nascondere la roba in un posto, piuttosto che portarsela sempre appresso in cartella. Sapete, una ‘casuale’ dimostrazione di cani antidroga della Cinofila, così, a scopo ‘dimostrativo’…  È o non è il sistema migliore per beccare baby-spacciatori?
Il fatto che avessimo già avuto di queste “dimostrazioni” nel corso dell’anno scolastico avrebbe dovuto depistarmi, forse, o farmi riconsiderare i miei sospetti. Ma volevo vederci chiaro. Forse non ero bravo a decifrare i messaggi amorosi, forse non capivo che cazzo Erwin provasse per me, se mi gradisse solo come scaldaletto o meno, ma non mi facevo prendere per il culo da tre ragazzini, di cui due bocciati già due volte –non che influisca, ma suona bene. Proprio no. Non esisteva.
Aspettai il giorno seguente per andare a ficcanasare.  Durante l’open day c’era un po’ troppa gente al pascolo per i miei gusti. Come sempre quando uscivano tutti, mi isolai dal mondo con le cuffie nelle orecchie, il mio spazzolone, e mi misi debitamente a pulire, o a fingere di farlo, mentre ciondolavo ogni tanto la testa insieme a Janis Joplin e Brody Dalle, e arretravo poco a poco verso la mia meta.
Volevo essere abbastanza sicuro di non essere né osservato, né spiato. Temo che visto da fuori sarei risultato estremamente paranoico.
Salendo le scale verso la soffitta, con Janis nelle orecchie che pregava il Signore di comprarle una Mercedes Benz e una TV a colori, mi tolsi le cuffie mettendola a tacere –scusa, Janis- e frugai nelle tasche in cerca delle chiavi. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno.
Bestemmiai talmente forte che il mio improperio rimbombò per tutte le scale, tanto potente che non riuscii a pentirmi di averlo fatto.
La porta era accostata, ma la maniglia era fracassata e pure lo stipite all’altezza della serratura non era messo meglio. Mi chinai per studiare da vicino il lavoro che era stato fatto, e rimasi sbalordito nel constatare che da quel che restava, non sembrava essere stato usato alcun attrezzo, neanche un cacciavite. Non c’erano segni di graffi né niente. Dava l’idea di qualcuno che, con la sola forza del proprio corpo, avesse preso la rincorsa per aprire la porta con una spallata: il legno era leggermente concavo nel punto in cui era stata applicata la forza bruta.
 A chi stavo pensando?
Non so, per esempio a qualcuno che giocava a rugby, che era largo come un armadio a due ante e aveva una feroce determinazione e testardaggine.  Reiner, col suo fisicaccio e il suo presente da rugbista, non me la raccontava giusta.
Non mi restava che controllare l’interno, adesso. Certo, credetemi se dico che mi dovetti fare il segno della croce prima di entrare. Avrei preferito scendere le scale correndo all’incontrario che mettere piede in un posto tanto sporco e polveroso, ma tant’era. Questa faccenda stava diventando la mia missione, la mia promessa.
Presi coraggio a due mani ed entrai.
La porta non cigolò, ma anzi urlò di dolore quando la scostai. Neanche la poderosa spallata era servita a ridare vita ai cardini.
Mi accolse un posto orribile e polveroso in accordo con ogni mio pronostico, perfetto come scenario per un film horror, sinceramente.
 La soffitta era piuttosto estesa, dato che ricopriva l’area di almeno sei classi. Ad adornare il dimenticatoio, statue in gesso una volta nude, ora vestite di polvere, teste di animali in gesso, parti umane, solidi, frutta finta, cestini di vimini, aggeggi campagnoli, teli, cavalletti. Ci mancavano solo le librerie stracolme di vecchi archivi e libri antiquati, smollati lì dopo l’aggiornamento della biblioteca, e quegli armadietti dalle ante vetrate sul fondo della stanza a rendere il tutto più magico e favoloso. Oh, sì, magico e favoloso come un pugno nelle palle.
Non avevo idea di dove cominciare a guardare se non dal pavimento, abbastanza polveroso da lasciare tracce di oggetti trascinati o appoggiati. Con le mani dietro la schiena, mi misi a scrutare per terra in cerca di un segno, qualcosa. La stanza era talmente grande ed io talmente a disagio in quell’ambiente malsano che non avevo intenzione di ficcare le mani in ogni dove, alla ricerca di qualcosa che, effettivamente, non sapevo nemmeno se esistesse.
La mia ricerca durò meno del previsto. Supposi che qualsiasi cosa avessero potuto nascondere in soffitta, di certo non l’avrebbero posta dietro a un mezzobusto o sotto a un telo. Gli armadietti erano tutti chiusi a chiave ma ricordavo bene, da cinque anni prima quando avevamo fatto l’aggiornamento dei materiali, che uno di quegli armadietti si poteva aprire intrigando qualcosa sotto l’anta destra, come ad esempio un righello, sollevando l’oggetto piatto verso l’alto nella propria direzione.
E cos’era quell’oggetto che sbucava dall’anta del mobile? A parte un disgustoso righello della Peppa Pig, s’intende, era nient’altro che la chiave di accesso al suddetto armadietto.
Nessuno era in vista, così io mi concessi un sorrisino soddisfatto, pregustando la mia vittoria su quei mocciosi: brutti cretini, pensavate di avermi gabbato. Mi scrocchiai le nocche, soddisfatto come un Erwin Smith bello satollo, e mi misi in ginocchio… Non senza un certo ribrezzo. La polvere, ahhh.
Aprire l’armadietto fu un gioco da ragazzi. Presi a frugare al pari di un procione nel bidone dell’immondizia e non mi arresi finché le mie dita non si strinsero attorno un sacchetto di plastica dalla consistenza soffice e ‘vuota’. Guardare dentro al sacchetto era del tutto inutile, dato che avevo riconosciuto da subito l’odore familiare simile al fetore rilasciato dalle puzzole, solo meno pungente. Ci misi comunque il naso dentro e rimasi sbalordito: era molta meno di quella che io pensassi. Avevano venduto bene, nel corso dell’anno!
Il sacchetto vuoto significava solamente una cosa, ovvero che sarebbero venuti di sicuro a rimpolpare la scorta molto presto; e comunque, dato che la fine dell’anno era alle porte, ci sarebbero comunque tornati a prenderla, la loro roba. Bene, bene, bene. Io non avevo alcuna intenzione di lasciarglielo fare.
La domanda ora era: come comportarsi?
Io, se devo essere onesto, avevo un’idea ben chiara di come reagire. Ovvero avrei infilato un mattone dentro al sacchetto e l’avrei tirato dritto dietro al trio. Ma diciamoci la verità, non sarebbe servito a granché – a parte ad assicurarmi qualche mesetto di prigione per aggressione a danni di minori-, e per il momento preferivo evitare altri casini con la legge: mi bastava pensare alla faccia caprina di Nile per dissuadermi da ogni proposito violento.
Bene, allora scartiamo la violenza e la reazione da pan per focaccia. Non era una scelta saggia.
Mi rimisi in piedi e mi diressi verso l’uscita con il sacchetto in mano. Prova a pensare come Erwin, mi dissi. Mi domandai cosa avrebbe fatto lui al mio posto: allora raddrizzai la schiena, spinsi avanti il mento per credere di avere una mascella alla Ridge Forrester, mi diedi un tono con le spalle, nella speranza che potesse servire a qualcosa.
Atteggiamento cretino a parte, mi misi d’impegno e mi chiesi cosa avrebbe fatto lui al mio posto. Con una simile prova, di sicuro sarebbe subito corso dall’autorità –il preside-. Allo stesso tempo, sarebbe stato consapevole di non avere alcuna intenzione di mettere in mezzo ragazzi che probabilmente avevano solo una mezza idea di ciò che stavano facendo. Dunque, che fare?
Cancellare le prove, logico.
Non sono mai stato né un grande pensatore, né tantomeno un ottimo stratega, ma di buono potevo e posso dire di avere un ottimo istinto. Dal momento in cui decisi cosa fare, sapevo già dove ficcare quella schifezza: c’era un solo luogo dove avevo la sicurezza di farla sparire in modo pulito, e che ci crediate o no, era il cesso.
Sì. Il cesso. Dicono che il modo migliore di nascondere un cadavere sia di affidarlo al fiume o ai cinghiali, ma io non avevo nessuno dei tre –fiume, cinghiali e soprattutto cadavere- quindi mi sarei accontentato della versione ridotta. Un pacco di marja e un cesso.
Rimisi tutto a posto; assicurai l’anta all’armadietto, infilai sotto di essa il righello della Peppa Pig  e finalmente me ne uscii dalla stanza lercia col sacchetto sottobraccio. Per mia fortuna su quello stesso piano c’era un bagno, quello dei disabili di fianco all’aula in cui erano soliti portarli gli insegnanti di sostegno.
Cinque minuti più tardi mi stavo accuratamente lavando le mani nel lavandino immacolato, la sinfonia dello sciacquone in sottofondo. Non c’era lo specchio per ragioni di sicurezza, ma so bene di avere avuto un’espressione compiaciuta. Mi sentivo quasi completo e felice dopo avere fatto il mio dovere, avevo la sensazione netta della mano di Erwin sulla spalla, mentre lui con un paio di pacche mi diceva ‘Ben fatto, Levi! Sono orgoglioso di te’.
La sua approvazione e i suoi consigli contavano per me più di quanto volessi ammettere.
Avevo svuotato i sacchetti nel water perché sapevo che era la cosa giusta da fare, ma riflettendoci bene, non lo era solo perché me lo aveva detto Erwin Smith (tra l’altro, manco me lo aveva detto); date le circostanze, era stata la scelta migliore, a mio parere. Certo, quei ragazzini erano teste di cazzo. Ma c’era da dire che io non conoscevo le loro storie personali a menadito, e comunque fosse – non credo esista  ragazzino che spacci così grosse quantità di marja senza qualcuno di più influente alle sue spalle. Ad ogni modo, avevo vagamente presente chi fosse il padre di Reiner, o meglio: il nome ‘Braun’ non mi era affatto nuovo, ma per qualche motivo, il collegamento ad esso era sepolto da qualche parte nella merda dei miei ricordi. Forse non era importante.  Forse mi ricordava solo qualche marca di rasoi e minipilmer e attrezzi da cucina?  Possibile.
Tornai alle mie faccende senza che nessuna delle mie colleghe si accorgesse della mia ‘sparizione’, sparandomi ancora una volta le cuffie nelle orecchie. C’erano i Garbage a farmi compagnia adesso e, per assurdo, non mi sentivo minimamente spazzatura in quel momento.
Qualcun altro al mio posto sarebbe corso dal preside, avrebbe cercato d’informarlo il prima possibile su tutto quello che aveva visto, dalla porta sfondata alla prova più schiacciante, e forse avrebbe anche rivelato un paio di nomi. Un cittadino modello, un cittadino tutto legge e niente paura, si sarebbe comportato a quel modo!
 L’idea di seguire quel metodo mi disgustava. Non ce l’avrei mai e poi mai fatta. Ne avevo abbastanza di uomini in divisa, di processi, di testimonianze e gente che faceva domande. Ed è schifosamente egoista da ammettere, ma non volevo finirci in mezzo: andiamo, sarei un idiota se facessi finta d’ignorare i miei precedenti. O no? Quanti mi avrebbero creduto? Quanti avvocati mi sarebbero andati addosso? La mia vita era stata abbastanza incasinata e stava riprendendo una piega decente dopo cinque anni di nulla, in cui avevo continuato a fare la spola dalla scuola a casa, da casa al pub. Non avevo intenzione di rompere quel piccolo briciolo di serenità –solo una promessa di felicità, niente di più- per una parola di troppo. Avevo una gran paura che tutto potesse finire nel giro di un battito di ciglia.
Ero estremamente confortato che non fossi solo in questo, che c’era stato Erwin a supportarmi nella decisione di agire ‘sottobanco’. Ancora non sapevo se avrebbe apprezzato il mio gesto repentino –prendi tutto e butta nel water- ma chi se ne frega, qualunque fosse stata la sua opinione; in cuor mio sapevo fin troppo bene di avere fatto la scelta giusta.
C’è una buona probabilità che io la stia facendo più tragica del previsto, lo ammetto. Sarà la cazzo di influenza Erwin Smith. Sarà proprio così.
 
***
 
E a proposito di Erwin Smith, lo chiamai proprio quella sera.
 Posai la busta della spesa con la mia cena –niente se non pomodori e tonno- sul tavolo, scacciai Bobbo che ci stava mettendo il muso dentro e non persi altro tempo. Mi scapicollai a chiamarlo, ora che avevo dei minuti liberi ed ero sicuro che fosse un orario decente per entrambi.
Ogni squillo fu una specie di pizzico sul braccio. Muovevo freneticamente una gamba e mi tormentavo una pellicina intorno al pollice; dài, culone, alza il braccio e prendi su il telefono.
“Ciao, Levi.”
“..’Sera, eh.”
È difficile descrivere quanto fossi eccitato. Mi sentivo come un bambino che era riuscito a fare qualcosa di molto difficile e che sapeva avrebbe reso orgoglioso suo padre; lì per lì, non badai a quanto sbagliato fosse quel pensiero. No anzi, a quanto fosse quasi malato nella mia ottica delle cose di allora.
“Levi, metti giù, ti richiamo io, così non spend-“
“No” lo interruppi con un soffio. No, coglione. Ce l’ho fatta da solo e non voglio che continui a reggermi la bava come se fossi un poppante. “Ascoltami. Ti devo dire solo una cosa.”
Ero talmente su di giri, nonostante la mia voce stanca dalla lunga giornata, che non mi concentrai nemmeno su quanto fossi contento di sentirlo per il semplice fatto di udire la sua voce. Chissà cosa avrebbe detto di me. Chissà se sarebbe stato contento. Lo speravo davvero. Era un gran stracciacazzi e un papale ficcanaso quell’uomo, e nonostante tutto ero fermamente convinto che si meritasse qualche soddisfazione da me, ogni tanto. Piccole forme silenziose di ‘grazie’.
“Va bene, Levi. Dimmi. Ti ascolto” suonò un po’ distaccato, ci scommisi, pure deluso. Non mi dispiacque, tuttavia.
“Ho trovato dove nascondevano la roba. Quei tre, sai, quelli là-“
“Fantastico! E dov’era?”
Che cazzo te ne frega di dov’era, pensai, “In soffitta. Era tutto chiuso a chiave e c’erano i segni di una spallata, hanno forzato la porta con una spallata, capisci. Comunque chi se ne frega di dove stava” alla fine, non riuscii proprio a tenermelo dentro, “Non vuoi sapere che ne ho fatto?”
“Ah- beh, suppongo l’avrai portata a Pixis. È la cosa più logica.”
Ecco qualcosa che non avevo minimamente messo in conto. Il disaccordo.
Mi ritrovai a mordermi il labbro in silenzio, fissando il lavandino di fronte a me. Mi concentrai su quella singola goccia che scendeva, plic plic, regolarmente e mi diedi davvero dello stupido per non avere chiuso bene il rubinetto. Lo sapevo che la guarnizione era un po’ guasta.
In realtà, temevo la sua reazione e il suo giudizio; Erwin era suonato così sicuro di sé mentre mi diceva quelle parole che non avevo potuto fare a meno di prenderlo sul serio. Sembrava non avesse avuto dubbi sul fatto che io avessi fatto la cosa più logica. Cazzo, Erwin, io non sono come te. Io non vado avanti a logica. Non mi nutro di queste stronzate.
“..Hm? Levi?” ed ora era vagamente sospettoso. Ci stavo mettendo troppo a rispondere.
“L’ho…”
“L’hai?”
Non mettermi fretta. Non provare a mettermi fretta. Mi rimase nulla se non ostentare una falsissima calma, sebbene una lieve irritazione mi stesse consumando da dentro. Perché, poi? Che come sempre io mi stessi lasciando travolgere da insulse paranoie? “L’ho buttata tutta nel cesso.”
L’avevo vomitato fuori, ora non mi restava che aspettare. A girarci intorno non avrei ottenuto nulla, mentendogli non mi sarei sentito per niente in pace con me stesso.
Erwin respirò nel ricevitore qualche secondo mentre una forza invisibile e carica di ansia mi stava tirando dalla punta dei capelli a quella dei piedi, allungandomi in modo innaturale. Molto velocemente, come una specie di folata di vento freddo che dura un secondo, mi chiesi se mi facesse bene affidarmi così tanto al suo giudizio. Era normale?
Per uno come me che non aveva mai avuto una simile esperienza, mi faceva sentire impotente nei confronti di me stesso ed arrabbiato. Era molto meglio rispetto a quand’ero più giovane ed iniziavamo a conoscerci, ma non avevo ancora capito che la maggior parte delle persone, in un modo o nell’altro, pende dalle labbra di chi ammira ad un livello non patologico. Ce ne sarebbe voluto di tempo prima d’imparare che il mondo delle relazioni non è solo bianco e grigio!
“Sei serio?”  mi chiese. Ce lo vedevo benissimo a massaggiarsi l’esiguo spazio tra le sopracciglia con espressione corrucciata.
“Certo.”
“Non ci posso credere.”
Mi irrigidii di colpo sulla sedia, con Bobbo che cercava di ammorbidirmi, strusciandosi ai miei piedi, ma con scarsi risultati. “Che vuoi dire?”
La sua voce divenne improvvisamente accomodante, quel tono fastidioso che si usa coi bambini capricciosi duri a comprendonio. “Levi, capirai che non è stata la scelta più saggia.”
Mi trattenni dallo sbottargli in faccia, non era da me. Il sibilo nel telefono gli giunse forte e chiaro. “Di certo non quella più cogliona.”
“Che cosa intendi dire?” le carte si erano improvvisamente rimescolate: sentivo che era lui, ora, ad essere in difficoltà. Ed io non mi sarei certo trattenuto dal parlare.
“Credi che portare quella roba a Pixis sarebbe stata la scelta giusta? Lo sai con chi stai parlando, Erwin- Erwin Smith. Non fare finta che se l’avessi fatto tu, allora sarebbe stato diverso, e con una storia migliore dietro.  Non nasconderti dietro un dito. Ti avrebbero creduto –seh, magari all’inizio ti avrebbero guardato con sospetto, d’accordo, ma io?” cercai di mantenere la voce il più atona possibile, ma mi era difficile. Sono pur sempre fatto di carne e sangue, come tutti. “Già li sentivo, quelli stronzi del comitato insegnanti, a farsi domande sul come e sul perché ne sono venuto in possesso. Quello lì.. Quello lì è un ex tossico, io non lo so mica quanto ci possiamo fidare di lui” ebbi un sobbalzo nello stomaco alla parola ‘fidare’, e deglutii alla fine della frase. Percepii il suo respiro, intuii che voleva parlare, ma lo misi a tacere. “L’ho sentita così tante volte ‘sta battuta del cazzo-“
“Mi dispiace-“
“-Che ormai non mi fa più effetto. Davvero, non me ne frega niente. Tu sei fortunato. Hai una bella casa e un lavoro che ti frantuma le palle” e ti fa ammalare, mi dissi, “Un bel gatto e dei begli amici che ti vogliono bene. Tu hai una famiglia che ti vuole bene.” Mi fermai un secondo per dargli il tempo di riflettere sulla faccenda. Mi succhiai le labbra, guardando in su con gli occhi pesanti. Mi tremava il cuore, mentre il mio discorso stava prendendo una piega che non riuscivo più a gestire. “Se io perdo il lavoro, non ho un cazzo. E la sai un’altra cosa?”
Lì per lì Erwin mi ferì, perché disse solo un piatto “No” che il cellulare rendeva solo più distante di quanto già non suonasse.
“Ho le palle piene di vedere e sentire tutte le volte la stessa storia” mi alzai e sospirai, stringendo un braccio al petto e mordendomi il labbro. Per fortuna non piansi. Lo sapete meglio di me, io non sono un emotivo, né un frignone… Il discorso mi stava toccando nei punti giusti. O meglio, in quelli sbagliati. “Ragazzini idioti che si buttano nella spazzatura come se non valessero un cazzo.”
 Per tutta risposta, Erwin rise. Ridacchiò, anzi, senza alcuna nota di scherno; non saprei dire se il cuore mi si era scaldato di rabbia o patetica commozione mista a sollievo –non che escludessi un mix folle di quei tre sentimenti. “Sei protettivo nei loro confronti.”
No. Sì. Non lo so e non lo sapevo. In verità, non avevo il coraggio di mettermi lì ad analizzare se li volessi proteggere perché sì, perché avevano fatto una scelta sbagliata, o se stessi cercando di riparare a un errore proteggendo una sorta di proiezione astrale futura – ma che cazzo sto dicendo? Erwin mi aveva punzecchiato nella mia parte più molle ed io mi strinsi nelle spalle e sbuffai dal naso. C’è da riconoscergli qualcosa di buono, da questa orrida conversazione: mi aveva fatto passare il grigiume da tristezza. E, sì, mi era arrivato un grosso schiaffo morale realizzando quanto mi mancasse, ma questo non diteglielo mai.
“Tu invece lo saresti stato davvero tanto, portando la roba a Pixis.”
Silenzio.
Tié, stronzetto: te mi pizzichi da una parte, ed io ti pungo nel vivo.
“Sono ancora convinto che sarebbe stata la scelta più logica.”
Ora iniziavo a spazientirmi. Ma mi aveva ascoltato o aveva solo fatto finta? Era rimasto in silenzio ad aspettare che finissi di parlare? Non volevo essere troppo morbido con lui ‘perché poverino ha il cancro’, ritengo che i metodi duri siano sempre i migliori con certe persone cretine come lui. E me. “Se apri bocca con Pixis, ti do una valida ragione per morire che non è il cancro, Erwin.”
Lui rise di nuovo. Avrei voluto che la smettesse tanto quanto che continuasse. “Ma sarai d’accordo con me nell’ammettere che, vedendo la faccenda da una prospettiva di giustizia e in lontananza, è la cosa più logica.”
“No.”
“Come no?”
“No. Non ha senso. Piantala di cercare di rigirare la frittata a tuo favore.”
“Non sto cercando di rigirare la frittata a mio favore.  Ma comunque, Levi – seriamente parlando. Mi fido di te e del tuo giudizio” Erwin non ebbe bisogno di aggiungere il resto, dato che lo capii al volo: intendeva dirmi che non dovevo approfittarmi troppo della situazione.
Ad ogni modo, il fatto che mi avesse ripreso come un ragazzino ancora mi bruciava parecchio. Roteai gli occhi, mentre riempivo la ciotola dell’acqua del gatto. “Sì, papà.”
“Ahah! Non chiamarmi troppo così. Potrebbe piacermi.”
Piccoli lati di Smith che non conoscevo. Fissai il cellulare, a metà tra lo sbalordito e lo sconvolto; ma gli pareva cosa mettersi a parlare di porcherie nel bel mezzo di un discorso come quello?
“…Fai schifo.”
“Sto scherzando.”
“Bene. Comunque, signor Logica, grazie per il supporto.”
“Hm?”
“E’ bello sapere che pensi che ho fatto una cosa buona.”
“Io ti supporto quando me ne dai occasione, Levi.”
Lo trovai irritante come una pustola intorno all’ano di una pornostar  gay. Se fosse stato possibile strozzare i cellulari, lo avrei fatto. Questa chiacchierata stava diventando una montagna russa di emozioni e se vi sentite confusi, provate solo a immaginare come lo ero io in quel momento.
Vacillavo tra la contentezza di sentirlo, la frustrazione di non incontrare il suo appoggio, il senso di malinconia, dato che mi mancava, e la fretta di chiudere una conversazione che rischiava di restare troppo irrisolta, dato che stavo finendo il credito – come annunciato da un sms che fece vibrare il cellulare nella mia mano, vicino al mio orecchio, minacciando di assordarmi. Volevo solo salutarlo, cenare, mettermi a letto e riflettere.
Mi mangiai mentalmente la lingua e inghiottii una di quelle terrificanti frasi fatte, ‘Ti darò tante occasione per supportarmi’. Lo pensai forte, per essermi forzato a non dirlo. “Allora supportami ora.”
“Non credo sia il c-“
“Sto finendo i soldi.”
“Ti richiamo io…”
“No. Lascia stare. Ci sentiamo un’altra volta.”
Era deluso il mio caro Erwin, ben gli stava. “Va bene. Allora… Buonanotte, Levi.”
“..’Notte.”
 
***
 
 Mi buttai a letto con la testa completamente vuota. Era la seconda volta che facevo avanti e indietro dal letto – prima mi ero dimenticato la televisione accesa, e poi anche il rubinetto in cucina mi aveva rotto i coglioni. Ero fuori come un balcone.
Volevo dormire, farmi una sega mentale oppure fisica..? Per il momento, mi limitavo a fissare il soffitto. Ero stanco e confuso. Questa cosa delle relazioni era stancante.
Nella mia vita, le uniche persone da cui avevo cercato ammirazione e supporto erano state in totale forse cinque; mia madre prima che mi lasciasse, mio padre prima che finisse a marcire in galera, un paio di professori e insegnanti, e infine Erwin.
Non era mai andata granché bene. Mia madre se ne andò troppo presto, all’ombra del solito litigo con quell’ubriacone di mio padre. Ne persi due in una volta. E i miei insegnanti… Mi avevano dato molto, ma non era abbastanza. Non era mai abbastanza e dentro il mio cuore avevo la consapevolezza che non lo sarebbe mai stato. Io succhiavo bisogno di appoggio come una cazzo di sanguisuga attaccata alla coscia, ero affamato, ero soffocante.
Crebbi deluso, stanco e amareggiato. Che motivo avevo di migliorarmi, se a nessuno importava che lo facessi…? E se ero così apatico e fuori dal mondo che gli unici per cui contassi qualcosa non fossero altro che semplici esistenze nella mia vita?
Crebbi selvaggio e storto, pieno di risentimento, pieno di dolore. Ero arido peggio del deserto. Mi facevo male, facevo male agli altri, ed era figo, mi sentivo potente per la bellezza di cinque minuti, grande, grosso, tronfio… E poi rieccomi lì, sul fondo del mio stesso bidone, a guardarmi intorno senza avere nessuno.
A volte sei circondato da anime ma nessuna che ti tocchi. Era strano e normale insieme sentirsi solo in mezzo a tanti amici e tanta gente, in mezzo a quelle feste che sapevi quando iniziavano e non quando finivano, in cui ti ritrovavi nudo a coprirti con un cuscino e no, non ti ricordavi neanche come ci fossi finito così; o in mezzo a quelle folle schifose e sudate dentro un capanno dimenticato da Dio e su quel ring improvvisato dove tutti ti temevano perché eri piccolo come un ratto e cattivo uguale, e tiravi quattro pugni per guadagnare due soldi in più. Solo in mezzo a tanta gente uguale a me, forse troppo.
Bobbo mi saltò sulla pancia e per un po’ fermò il flusso dei miei pensieri. Lo tirai vicino al mio viso e gli riempii il musetto di baci, mentre lui si lamentava con brevi miagolii, tanto per rompere il cazzo gratuitamente.
Lasciai che si riaccomodasse vicino a me e gli accarezzai la schiena. C’ero uscito da cinque anni e c’erano tantissime cose che dovevo imparare da capo; non avevo avuto un’infanzia e un’adolescenza, non avevo avuto una vera e propria esistenza perché era stato tutto un caos selvaggio per più di dieci anni. Erwin non era stato il mio buon Gesù salvatore, e Dio, quante volte avrei voluto che la smettesse di sentirsi in dovere di fare del bene per tutti, per me compreso.
Guardavo questi fenomeni da una certa distanza con una dose di meraviglia… Non avevo mai riflettuto prima di allora su quanto io avessi bisogno di accettare il bisogno di un giudizio, tanto quanto il mio biondino necessitasse di prendersi una pausa da se stesso. Che sia chiaro, non che me non me fossi mai accorto prima di allora, anche per quanto riguarda quelle poche anime che potevo definire amici, ma con Erwin era tutto così… Diverso e nuovo.
Dovevo ancora decidere se odiassi o amassi tutto ciò. Mi faceva malissimo il cuore, quella sera, lo sentivo in tanti piccoli pezzi. Avevo deluso tante persone ma mai mi era successo di restarci così male come per Erwin, nella specifica sera di cui vi sto raccontando. Io desideravo ardentemente e appassionatamente che lui provasse orgoglio, pensando a me, pensando a Levi, un uomo che ce l’aveva fatta, che in barba alla vita si era tirato su e ora andava avanti.
L’ultima cosa che volevo era essere messo in esposizione coi suoi colleghi, ‘guardate Levi, è il mio miglior utente’ e anche se non mi sembrava affatto il caso, la sottile angoscia iniziava a fare capolino negli ultimi tempi. Se non mi avesse mai baciato, tutte queste domande del cazzo, l’arrabbiatura di quella sera, le delusioni, il sangue amaro, non si sarebbero impilati alla merda che già regnava nella mia vita.
Non riuscivo a capacitarmi della ragione per cui lanciassi tutti quei sentimenti in un’altra pila, una pila opposta che io tenevo ben separata dal resto. Mi domandai se era a questo che si riferiva a Erwin riguardo al vedere le cose da una certa distanza.
Mi abbracciai al cuscino e mi sforzai di chiudere ogni pensiero fuori, proprio come le mie pile di cacca: i miei pensieri stavano iniziando a diventare un fottuto caos e io avevo un grandissimo bisogno di riposare.
Mi ero appena appisolato quando il cellulare squillò sul comodino. Era la suoneria di un messaggio; era abbastanza tardi, mezzanotte e mezza, e mi chiesi chi potesse essere a quell’ora. Sbadigliai, acchiappando l’apparecchio con uno sbuffo: avrei controllato il cazzo di mittente e mi sarei rimesso a dormire.
Era Erwin.
Controllare il mittente e rimettermi a dormire sembrava l’ultima delle opzioni nella mia lista. Aprii subito il suo sms, troppo stanco per incolparmi di corrergli dietro come un ragazzino alla sua prima cotta.
Strabuzzai gli occhi: il testo dell’sms era fottutamente lungo! Occupava almeno due schermate piene!

[ Mi sei sembrato molto arrabbiato quando ci siamo salutati, prima. Ci ho pensato molto e non credo tu abbia tutti i torti. Vorrei chiederti scusa. Se mi fossi fermato ad ascoltare le tue ragioni, invece che procedere sempre per la mia strada dritta e delineata, sarebbe stata ‘la scelta migliore’. C’è da avere molta pazienza con me, non ti chiedo di averne, non so se non te la senti: parlando di ‘scelte’, la ‘scelta’ è tua. La scelta che hai fatto oggi è stata giusta, nel tuo universo personale, e ora credo di averlo capito. Mi dispiace se ti sei arrabbiato.. Non immaginavo che il mio supporto contasse così tanto. Volevo farti sapere che appoggio la tua scelta qualunque essa sia e sarà, se tu la ritieni giusta, con tutti i tuoi motivi per farlo.  Mi fido davvero molto di te.

Vorrei dirti tante altre cose ma sono tanto stanco e ho sonno. :( Gli esami mi stanno distruggendo. Non vedo l’ora di tornare a casa e rivedervi.
Buonanotte Levi. Un bacio a te e a Bobbo :*]

Subito sotto, Erwin aveva allegato un autoscatto di se stesso. Era steso a letto in ospedale, con i capelli un po’ in disordine, quell’aria stanca e sciupata che gli avevo visto fin troppo spesso: il suo viso era reso non poco spettrale dalla luce sul suo comodino, ma lui sorrideva, sia con gli occhi che con le labbra chiuse.
Mi ricordai di colpo che avevo un cuore che sapeva battere forte.
Mi accorsi troppo tardi che una lacrima mi stava solcando il viso. Lanciai il telefono in un angolo del letto, masticando un “Merda merda merda” mentre le mie braccia andavano alla ricerca del gatto. Non avevo molti soldi, ma volevo rispondergli. Dovrei avere più rapporti sociali appena sveglio o dopo un pisolino, la parte del mio cervello che elabora le pippe mentali non è ancora sveglia.
Fu difficile tenere Bobbo fermo. Scappava da tutte le parti peggio di un’anguilla, ed io volevo solo fare una foto! Lo acchiappai per la pancia, lo tenni vicino a me, e più volte cercò di scappare, sgambettando con le sue zampette scattanti e magre. “Dài, Bobbo! Fallo per il tuo papà Erwin!” lo pregai, grattandogli la pancia, e in quella si calmò: dubito fosse il suono del nome di Erwin a calmarlo. Bestiaccia, gli piacevano quei grattini!
Ci scattammo una foto (o come dicono i giovanotti d’oggi: selfie), labbra contro muso, i miei occhi fissi sull’obiettivo, e la allegammo all’mms per Erwin.  Sì, allegammo, perché in quel momento io e Bobbo eravamo una cosa sola –sebbene lui si scansò da me con uno sculettare deciso e un miagolio di disapprovazione-. Gli scrissi, ovviamente, e il testo recitava così:

[ Guarda come abbiamo ‘scelto’ di stare soli soletti senza di te. Rosica.

Buonanotte Erwin. ]

Tenni stretto il cellulare, incapace di distogliere lo sguardo da quella foto che Erwin mi aveva mandato. Era spaventosamente naturale e reale, con quel sorriso stanco e felice. Conoscevo alcune delle sue espressioni, ma mai l’avevo visto così.. Non so dire come. Aveva la faccia di chi ha capito qualcosa di molto importante e profondo.
La delusione, l’amarezza della nostra conversazione erano passate  quasi  in secondo piano. Il gatto dormiva accanto a me, acciambellato vicino al mio viso, e il letto mi parve di colpo più vuoto che mai.
Proprio quando pensavo che la pila di Erwin fosse solo un puzzolente ammasso di letame, grossi e coloratissimi fiori di campo avevano preso a sbocciare tutt’intorno, coinvolgendo anche l’altro ammasso informe di pensieri putridi. La massa di fiori non cancellò il puzzo di tutto ciò, ma i loro colori erano splendidi e sgargianti  ed io mi sentivo bene, anche se avrei voluto tanto strozzare, tirare le orecchie e mordere per bene quello stronzo lì nella foto che stavo fissando insistentemente.
 E che fissai finché non crollai addormentato.

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Capitolo 17
*** Get a move, baby ***


*Striscia fuori dal suo buco*
Ci sono. Sono viva. E' una vita che non aggiorno e mi sento arruginita per la scrittura; in più i capitoli di transizione non sono il mio forte, affatto. Spero comunque di avere fatto un buon lavoro e che la storia vi catturi ancora ♥
Grazie a chi rimane sintonizzato per gli aggiornamenti, vi voglio letterariamente bene :>

Sabato.
Un’ora prima dell’uscita da scuola ed ecco che suona la campana del secondo intervallo; non una novità, non durante le altre settimane.
Era un sabato particolare. No, non stavo andando dalla professoressa Zoe a chiederle di andare in discoteca e, per una volta, alle mie calcagna non c’era traccia di ragazzini che imploravano pietà per le loro monetine, cadute inesorabilmente nella macchinetta difettosa. Erano mesi che noi del corpo bidelli cercavamo di fare pressione ai piani alti affinché la macchinetta di merda venisse sostituita o riparata, solo per ricevere porte chiuse e alzate di spalle.
Ma comunque. Lasciamo perdere le macchinette delle merendine radioattive e concentriamoci, piuttosto, sul perché ci ho tenuto ad aprire questa finestra dei miei ricordi proprio qui.
Come ho già detto, era un sabato particolare.
Mi sfregai le mani al suono della campanella, mollai baracca e burattini –le coppe vinte dalla scuola, che stavo lucidando con tanto amore- e corsi giù nell’atrio. La mia classe preferita era al piano terra a rompersi l’anima con il frantumapalle professore di discipline plastiche e non c’era sabato in cui tutti quei ragazzi, puntualmente, scappassero via dall’aula almeno per la pausa dell’intervallo breve. Tutti, tranne alcuni; un trio che conosciamo fin troppo bene, direi, e che ci puzza anche parecchio, aggiungerei.
Perché preferissero starsene in un punto fisso tutti i dannati sabati era una faccenda che ignoravo – no, Dio, non sono così cretino, non la ignoravo affatto. Faceva comodo avere l’aula sostanzialmente vuota, con uno sgabuzzino in cui potersi eventualmente ritirare en privé e la fama di essere sempre lì, tutti i sabati. Cazzo, meglio del paninaro fisso all’intervallo di metà mattina!
Mi guardai intorno velocemente, giusto in caso i fantastici tre fossero usciti dal loro nascondiglio, ma di loro, nell’atrio, alcuna traccia: c’erano solo i miei soliti ragazzi, nelle loro faccende affaccendati, chi mangiava qualcosa, chi beveva, chi si lamentava della noia che era discipline plastiche; la solita scena vista di sfuggita più volte, con la sola differenza di Jean – era lì che tendeva il capo verso Eren come un ridicolo struzzo, quasi lo stesse tenendo d’occhio, di sicuro combattuto tra l’andargli a parlare oppure no. Che se la vedessero loro, limonassero, si facessero seghe e quant’altro, a me bastava non si malmenassero per il semplice fatto che non avrei comunque potuto agire di testa mia. Un bello schiaffone in faccia ad entrambi sarebbe stato l’ideale più volte, ma ahimè – non serve che io continui la frase.
Entrai in classe e li trovai in fondo all’aula, ben raccolti vicino al termosifone spento e lontani dalla visuale che si aveva dall’entrata. Lì per lì non sembrarono darmi peso. Annie continuava a leggere in silenzio, con la felpa pure a Maggio, Reiner disegnava (culi, presumibilmente) e Bertholdt, col braccio oblungo a sostegno del capo, lo guardava all’opera. Non dovevo avere attirato la loro attenzione più di una mosca che entra dalla finestra e vola all’altro capo della stanza: era quello un bidello in una scuola, una semplice presenza che aleggiava un po’ qui, un po’ lì; ovunque fosse non destava sospetti, non negli studenti.
 Di sospetti ne destai parecchi però, quando accostai la porta fino a chiuderla. Le tre teste si alzarono all’unisono e dapprima mi guardarono con evidente curiosità, poi le loro facce si diversificarono mano a mano che io mi avvicinavo. Annie storse il naso (..nasone) e si rabbuiò, chiudendo il libro. Bertholdt, al contrario, si tese come una corda di violino, sgranando gli occhi e Reiner, invece, si limitò a fissarmi con aria perplessa mentre io, sotto agli occhi del trio e senza avere detto una parola, prendevo una sedia libera, la giravo e mi sedevo di fronte a loro, le braccia incrociate sullo schienale.
Le loro facce da stronzi erano così ridicole che mi venne quasi voglia di sghignazzare. Sottolineo il quasi.
“..Mbè?” fu Reiner a parlare dopo una manciata di secondi di silenzio, facciamo una trentina.
“Mbè?” gli feci eco io.
Non soddisfatto della risposta, quello che istintivamente mi comunicava essere il portavoce del gruppo (e non il leader, lui era solo quello “io sono grande, io sono grosso”) posò la matita sul foglio e aggrottò i tre peli di sopracciglio che si ritrovava. “Cos’abbiamo fatto, adesso?”
Annie gli lanciò un’occhiataccia fredda, Bertholdt non diceva una parola. Si succhiava le labbra, nervoso.
“Perché” incalzai, “Avete già fatto qualcosa che non dovevate?”
Bertholdt si strinse nelle spalle e scomparve, per quanto possa scomparire un cristiano alto quasi due metri. Annie era distante, glaciale. Madonna, se metteva freddo quella ragazzina.
Reiner esitò, forse preso in contropiede da quanto avevo detto. Appoggiai il mento alle braccia e con un gesto annoiato della mano invitai l’armadio a due ante ad andare avanti. Muoviti pure, culomane, sono tutt’orecchie.
Si guardarono tra di loro e Dio mi fulmini se sapevo ciò che si stavano comunicando in silenzio. Da Annie non traspariva un’emozione che fosse una e Bertholdt doveva decisamente smetterla di agitarsi in silenzio sulla sedia. Reiner, né troppo distaccato né troppo nervoso, era il più equilibrato e più portato a recitare.
Non potei fare a meno di chiedermi cosa stessero provando in quel momento, indubbiamente paura. Ragazzini, bambini o adulti: non ha alcuna importanza, tutti ci caghiamo in mano se facciamo qualcosa di molto sbagliato e veniamo colti con le mani nel sacco. La prima cosa che ci si chiede, istintivamente, è la più patetica di sempre: ‘E adesso?’. Non ero un telepate, ma sulle loro facce si poteva leggere un chiarissimo ‘E adesso?’.
“La campanella suona tra otto minuti. Ti conviene rispondermi, Reiner.”
Reiner mi affrontò con una nuova luce negli occhi. Credeva di spaventarmi solo perché era un fascio di muscoli e nervi? Non sapeva con chi aveva a che fare. Oh, no, proprio non lo sapeva. “Perché le interessa?”
Rimasi buono e calmo, come spesso sono. E’ molto facile farmi incazzare, molto difficile farmi reagire. “Stavo facendo le pulizie in soffitta, qualche giorno fa. Sapete, quella che una volta era l’aula di disegno dal vero, e che ora è un dimenticatoio.”
Non ci sarebbe stato bisogno di continuare con la mia descrizione.
Alla parola soffitta calò un silenzio tombale. Era come se quei tre ragazzi avessero smesso all’unisono di produrre suoni, pure quelli corporei derivati dal battito cardiaco e dalla respirazione. Assurdamente, il mio cervello bruciato se ne uscì con un pensiero sulle linee di, Ecco, il tempo s’è fermato. Non avevo avuto idea di quanto potesse essere importante per loro quella roba fino a quel momento. Cominciai a temere che ci fosse qualcosa di molto più profondo, timore che già avevo – cazzo, quando mai dei ragazzini che vanno al liceo trovano il tempo di coltivare ed essiccare grandi quantità di marijuana indisturbati, senza che i genitori se ne accorgano?
Se la mia supposizione era reale, avevo messo piede in un campo minato. Ora ero io a chiedermi ‘E adesso?’.
Basta Levi, basta pensare come Erwin, mi dissi e continuai a parlare. Non potevo fare molto altro se non dettare le mie ‘condizioni’ per ora, e chiedermi fino a che punto quei ragazzi fossero nei guai. C’era da qualche parte nel mio cranio pure l’intenzione di interrogarmi sulla decisione che avevo preso e le sue conseguenze, ma mi imposi un secco basta. Una scelta è una scelta.
“Vedo che ci siamo già capiti” lasciai che la frase si depositasse per bene nei loro piccoli crani. “Non troverete niente là.”
Il silenzio si ruppe. Era Bertholdt che, portatosi una mano alla bocca, si esibiva in un singhiozzo strozzato, non di pianto. Era puro stress.
“L’uccellino non ha intenzione di cantare” aggiunsi a mo’ di rassicurazione. Il silenzio che ci aveva attanagliati si sciolse un po’ ma la sensazione inquietante permase. Cominciavo a non sentirmi troppo bene lì, ma non erano Annie, Bertholdt né tantomeno Reiner a spaventarmi. Queste situazioni non mi piacciono, non mi piacciono i ricordi che mi rievocano, mi fanno salire quell’impulso di lavare e lavarmi, sfregare, insaponare, insieme ad un saporaccio orribile nella bocca.
Strinsi le labbra e deglutii giù l’amaro più amaro della bile. Mi rifiutai di scappare, puntai i piedi nella mente ben saldi sul terreno e mi piegai all’arrivo dell’ondata di sensi di colpa e di schifo. Non avrei mai potuto cancellare il passato. Quel mai una volta sembrava così enorme nella mia testa che spesso temevo mi sarebbe potuta esplodere, e invece eccomi lì – seduto all’incontrario davanti a tre ragazzini succubi di una realtà che non osavo neanche immaginare, a dare ciò che non mi era mai stato offerto: un ultimatum.
E volli ben sperare per quei tre figli di buona donna che l’avrebbero colto al volo. Da certe situazioni non si torna indietro. Si sa come ci entri – ma non come né se ci esci.
“Ma non ha intenzione di stare zitto per sempre. Non se trova altre uova nel suo nido.”
Reiner strinse e poi rilassò i pugni sul banco. Annie rimase algida e Bertholdt si sfregò la mano sulla faccia. Quest’ultimo cercò lo sguardo di lei e mi fece pena, pareva un disperato, ancor più disperato quando vide il profilo aquilino di Annie ignorarlo bellamente. Evidentemente, lei aveva altro per la testa che consolare lo stangone.
Dovetti riconoscere che Reiner aveva un’ottima gestione della rabbia, sempre se fosse arrabbiato. Sapete che idea mi dava, quel bestione? Mi ricordava alcuni animali che non attaccano mai, dato che la loro stazza o la loro corazza dice agli altri intorno ‘Io fossi in voi non ci proverei, sarò calmo ma sono comunque grosso, o protetto da qualcosa’
“Non era nostra intenzione” mi aspettavo una risposta pronta di Reiner e invece a sorprendermi fu Bertholdt. Il ragazzo aveva il tono di uno che è sull’orlo del pianto da crisi di nervi. “Ci costringono-“ ma s’interruppe. La manona di Reiner gli aveva stretto il polso e gli occhi di lui e di Annie non avevano bisogno di sottotitoli.
Sta’ zitto, Bertholdt.
Ora, non dico di avere provato empatia per quel ragazzo, ma senz’ombra di dubbio mi faceva pena più di prima. A guardarli, non avrei saputo indicare chi fosse più la vittima della situazione e subito dopo mi dissi che non aveva alcuna importanza l’essere più o meno vittime. C’era qualcosa di disgustoso in tutto questo e me ne volevo chiamare fuori.
Egoismo?
Molto probabilmente sì. Ma io preferisco chiamarlo spirito di conservazione.
Il grido d’aiuto di Bertholdt era un grido sordo, dato che lo urlava praticamente contro a un muro. Sul momento non riuscivo a trovare una via di mezzo su come gestire il senso di colpa che mi aveva investito pochi istanti prima: ero fottutamente insensibile. Avevo fatto quel che potevo, credendo fosse stata una buona idea – ma non esiste una scelta senza conseguenze, per me o per gli altri. Il mio timore era avere ulteriori conseguenze per me. 
Avevo la sensazione che un giorno o l’altro sarebbero arrivate. Forse stavo solo diventando molto paranoico. Forse dovevo andare a casa, uscire con Auruo, bere e riflettere a mente fredda dopo una sbronza.
Forse dovevo piantarla di leggere troppo tra le righe e smetterla di vedere tutto così tragico perché, cazzo, possibile che avessero davvero una vita così grama? Possibile che Bertholdt non fosse semplicemente un ragazzino così spaventato dalle conseguenze da fare immediatamente scaricabarile? Non era detto che dietro ogni ‘ci costringono’ ci fosse un genitore che pesta il figlio o un amico del genitore che fa le sue veci. Non era detto.
Più ci pensavo, più il ragionamento non stava affatto in piedi. La verità è che non sapevo cosa fare. Dovevo trovare il giusto equilibro tra l’Erwin Smith e il Levi Ackerman, tra  la necessità di aiutare qualcuno e il bisogno, una volta per tutte, di vivere una vita serena e tranquilla lontana dai casini degli altri. A volte non chiedevo altro.
“Niente uova nel suo nido” disse Reiner lasciando il polso di Bertholdt, che tornò a scomparire sulla sedia. Il nostro discorso era stato breve ma intenso e alla fine aveva pure assunto dei toni ridicoli, con tutte quelle immagini di uccellini, di uova e nidi.
Restai a fissarlo negli occhi, ad assicurarmi che il concetto fosse ben chiaro ad entrambi. Alla fine, vinse il Levi Ackerman –come avevo previsto-, l’uomo che cerca solo una stracazzo di vita tranquilla ed è troppo stanco, troppo vecchio, troppo consumato per promuoversi a paladino della giustizia. “Per quel che mi riguarda, potete continuare a covare in altri nidi. Ma qui non ne voglio sapere. Sono stato chiaro?”
“Come il sole.”
“Molto bene.”
Bertholdt mi guardava fisso, con l’aria di chi spera in qualcosa. Sono spiacente. Non ero io il suo dio salvatore. Seriamente, con tutto il bene del mondo, che potere avevo, a parte la denuncia alle autorità? In un modo o nell’altro, tre ragazzini –forse- plagiati ci sarebbero andati in mezzo. No. Quello era il massimo della giustizia e dell’aiuto che potevo dare e dal basso della mia superbia, quel pensiero mi fece stare meglio con me stesso e con loro. Pure se io, in realtà, con quei tre non avevo niente da spartire.
Mi alzai, rimisi la sedia a posto e me ne andai esattamente com’ero arrivato: senza un saluto, un commento, un cenno. Mi portai dietro l’aria greve e puzzolente dell’aula e non mi riferisco all’odore stagnante dell’argilla. Non appena richiusi la porta alle mie spalle, suonò la campanella: un trillo che a me, stordito, risultò assordante e sgradevole e che mi fece scendere brividi lungo la schiena.
Mi scostai dall’aula per lasciare entrare i ragazzini. A malapena guardai quelle facce conosciute, a malapena loro mi notarono –ad esclusione di Eren, che mi passò di fianco e mi sembrò vagamente preoccupato- e ne fui quasi sollevato.
Mi accorsi che mi batteva forte il cuore e non mi sentivo tanto bene. Mi allontanai da lì e mi sedetti al bancone vicino all’ingresso per un paio di minuti, braccia conserte, ad attendere che la tachicardia si abbassasse. Il passato era, appunto, il passato: parlarne con chi dicevo io non mi disturbava granché. Vedermelo spiattellato davanti agli occhi, invece, mi disturbava un casino.
 
******
 
Il pomeriggio passò come passano tutti i pomeriggi noiosi. Mandai solo un paio di messaggi ad Auruo per chiedergli se gli andava di uscire in serata e mi buttai sul divano a guardare un po’ di televisione. Mi sentivo la lingua impastata e attaccata al palato: avevo un forte bisogno di parlare, anche se lì per lì non riuscivo a comprendere se il disagio fosse dovuto a quello o alla stanchezza. Nel dubbio, lasciai morire il mio cervello; lavorava troppo, mi convinsi, aveva bisogno solo di un’accidenti di pausa.
L’ho detto precedentemente, credo, che il senso di non volere provare più niente mi accompagnava, e accompagna, molto spesso. Chiariamoci, la terapia t’aiuta ad uscire da certe situazioni e l’amore ti può fare sentire meglio, ma non sono affatto le cure per tutti i mali. Non m’illudevo che la mia.. ‘relazione’ con Erwin avrebbe cambiato qualcosa, dato che di fondo mi sentivo sempre lo stesso Levi. Senza dubbio mi ero svuotato da alcune frustrazioni, ma ciò che c’era tra di noi non aveva cancellato altro – soprattutto il passato.
Erwin stesso era il promemoria di quel che era stato.
Deglutii amaramente lasciando che la televisione andasse da sé. Seguivo a malapena ciò che veniva trasmesso, troppo preso dal vortice dei miei pensieri. Quella consapevolezza improvvisa – cioè che Erwin stesso costituiva un ricordo concreto – mi colpì con la violenza di un pugno allo stomaco. Annaspai silenziosamente e scivolai di fianco, poco alla volta, con la netta sensazione di avere fatto un passo indietro. Non c’era lui con me e mi sentivo perso, come codipendente, e la cosa mi disgustava. Allora non riuscii a capire che era solo sana, genuina mancanza della sua presenza e preoccupazione per la malattia.
Maledettissimi, fottutissimi ragazzini e i loro problemi di spaccio. Maledettissimo, fottutissimo me per non essermi voluto fare i cazzi miei.
Avrei potuto lasciare stare ogni cosa e far sì che gli eventi marciassero dove dovessero marciare, ma per tutti i milioni di motivi che già ho spiegato (e perdonatemi, ma stavolta abolirò la logorrea) non avevo voluto farlo. E non era ciò che ho sempre sbanderiato? Le scelte, le conseguenze delle proprie azioni, le responsabilità?
È facile dire che andrà tutto bene e che mi riprenderò, che era solo lo sconforto di un momento –ed infatti lo fu. Nei miei panni non era semplice capirlo, abituato fino a pochi anni prima agli alti e ai bassi più violenti, sempre in bilico tra il desiderio di sparire e il bisogno di ricominciare, istintivo e viscerale.
Mi grattai la guancia pigramente e strinsi gli occhi un paio di volte, a dir poco insensibile al gatto di Erwin che cercava di attirare la mia attenzione con gli artiglietti e i miagolii. Scacciai Bobbo con la mano, molto poco convinto. Meno male che volevo solo spegnere il cervello. Non era andata tanto bene: dovevo sembrare uno zombie steso sul divano.
Ad essere sincero non ricordo né come né quando, ma so per certo che mi addormentai. Alla fine mi spensi, sopraffatto da tutto; forse il mio corpo ritenne che scaricare le batterie fosse la scelta migliore. E devo dire che fu un’ottima decisione.
Mi svegliai ed il televisore era ancora acceso. Avevo una fame dannata, di quelle che ti mangeresti pure tuo nonno. Era qualcosa di talmente fisico che stetti subito meglio a dispetto dei crampi allo stomaco; a giudicare da come il gatto mi miagolava dalla porta, non ero il solo a morire di fame!
Mi alzai dal divano e mi accorsi immediatamente di come fossi già più reattivo, dopo un meritato pisolino. Mi azzardai perfino a pensare che avrei potuto concedermeli più spesso, quei meritati pisolini, mentre guardavo in frigo in cerca di qualcosa da mangiare che non fosse precotto o già pronto: optai per una semplice insalata con varietà di verdure, un piatto che immaginavo avrebbe reso contento il mio caro, piccolo assistente sociale. Sorrisi a quel pensiero.
Auruo, comunque, mi aveva scritto. Mi venne a prendere verso le dieci e mi trovò già sul portone di casa, a fumare una sigaretta mentre aspettavo il mio cavaliere a bordo della sua Punto bianca.
Chiariamoci; Auruo non è la migliore delle compagnie, perché è un tipo un po’ strano e che mi faceva sentire osservato al punto di essere persino.. Boh, oggetto di studio, diciamo. Nonostante ciò, era da un pezzo che non uscivamo solo io e lui, senza contare che avevo la necessità di stare in compagnia (ma guai ad ammetterlo, e fottesega il fatto che siamo animali sociali) e c’erano un paio di cose che volevo dirgli. Sempre se Petra non gliele aveva già spifferate!
Mi accolse con The Passenger, versione originale del signor Iggy Pop, nelle casse dell’auto e mi salutò calorosamente per i suoi standard. Credo che fosse contento di vedermi, il suo sorriso mi fece realizzare che b era reciproco. Lungo la strada che portava al Lobo Loco, solito Irish pub fuori città, parlammo molto poco, occupati a cantare e battere il ritmo delle canzoni nel suo mp3 – i Rolling Stones, The Knack, Social Distortion, Rancid, Clash. Pure un inaspettato Bublé con Home, che Auruo mandò avanti dissimulando malamente l’imbarazzo. Quante pare inutili! A che gli servisse fare il duro, figo uomo che non deve chiedere mai con me, poi.
“T’avevamo quasi dato per morto, Levi!” disse, dietro ad una pinta di Guiness.
Io bevvi piano la schiuma della mia bionda. “Addirittura.”
“A momenti non ti si sentiva più. Non dico che ti si vedesse, l’ultima volta che ci siamo visti tutti insieme, cos’era? Febbraio, Marzo?”
“Giù di lì.”
C’era una bella atmosfera rilassata dentro al Lobo Loco. Era un Irish pub in tutto e per tutto, dal mobilio in legno e l’ambiente accogliente. In sottofondo, musica rock e simili. Si stava bene lì dentro, pure di sabato sera, quando non beccavi troppa caciara o i metallari ubriachi, per nulla molesti ma molto rumorosi. Noi due ce ne stavamo in uno degli ultimi tavolini della saletta più lontana dall’ingresso, ritirati ed appartati.
Auruo guardò prima me e poi la birra, si sfregò una mano sulla faccia e stirò i muscoli del viso in una sorta di sorriso. Era da quando ero salito in macchina che mi era parso particolarmente in imbarazzo, ma lo era ancora per la canzone di Bublé?
“Guarda che a me Bublé piace” esordii dal nulla, con il mio tono che spesso e volentieri può risultare piatto.
Lui sollevò un sopracciglio e storse tutta la bocca. “..Serio?”
“Come cantante è bravo. E fa conoscere ai giovani le canzoni di Sinatra e amici.”
“..Io pensavo che ti facesse cagare.”
Bevvi un altro sorso della mia birra. Bublé aveva una voce piacevole, rilassante e molto morbida, dal mio punto di vista non c’era nulla che facesse cagare. “Non ci vado matto ma non mi fa cagare.”
Auruo giunse le mani davanti al viso e si mise a fissare con ostinazione la sua birra. Credetti di sapere a cosa – o sarebbe meglio dire a chi – stesse pensando l’amico Bossard.
“A Petra piace molto Sol Seppy.”
Lo colsi di sorpresa un’altra volta, ma la reazione che ottenni a ‘sto giro fu molto diversa. Auruo si ritirò sulla sedia con le braccia strette al petto, la faccia tutta scura, e anche nella penombra del Lobo, le guance rosse spiccavano come due semafori nella notte.
“Che c’entra Petra?”
“Petra c’entra sempre.”
“..Che cazzo dici.”
“Sei sordo?” Mandai giù altra birra, pacifico, “Petra c’entra sempre.”
“Non c’entrava col discorso.”
“C’entrava eccome” e bevvi ancora. Se Auruo non si muoveva, avrei attaccato anche la sua birra.
“Non si stava parlando di Petra!”
“Infatti no.”
“E allora, perché la tiri fuori?” Auruo era uno spettacolo insieme buffo e commovente, nel senso che era fin troppo evidente quali fossero i suoi sentimenti per la ragazza. E a suo modo, cercava di convincere noialtri che non erano veri.
“Gusti musicali. T’informavo.”
“Grazie, ma non mi serviva saperlo” fu la risposta secca e molto poco convinta dell’amico Bossard. Afferrò il suo boccale e lo avvicinò alle labbra, ma bevve così velocemente che si fece male alla lingua. Non so come avesse fatto di preciso a farsi male alla lingua bevendo, ma lo fece. Auruo si lagnò un pochino sotto al mio sguardo indifferente e divertito e si tamponò la lingua, graffiata sulla punta, con un fazzolettino di carta.
Ci fu un momento di silenzio interrotto solamente da Ozzy Osbourne che cantava Children of the grave, il parlottare random degli avventori del Lobo e il tintinnare di boccali e bottiglie. Aspettavo con ansia che lui dicesse qualcosa perché sì, era abbastanza chiaro che il discorso non era chiuso. Per la precisione, era spalancato.
“..Quali canzoni le piacciono di Sol Seppy, hai detto?”
Nascosi il sorriso che rischiava di nascermi sulla bocca con il boccale di birra. Stavo bevendo forse un po’ troppo in fretta, è solo che mi piaceva e ne avevo quasi sentito la mancanza. Dell’alcool, dico. “Non ne ho idea” ammisi, dopo un grosso e grasso sorso, “Perché non glielo chiedi tu?” domandai, fissandolo.
Notai che torceva un po’ le mani tra di loro e che non parlava, penso perché schiacciato dall’imbarazzo. Era una situazione inusuale, che non avevo la più pallida idea di come sbloccare; ma al Diavolo, lo sapevo benissimo.
“L’hanno capito anche i muri.”
“Eh?!” scattò subito Auruo.
“Che ti piace.”
“Chi?!”
“Petra.”
Auruo si chiuse nella negazione o almeno così presunsi. Faceva esattamente come me, non molto tempo prima, se pensavo al muso di Erwin Smith – e c’è da dire, non avevo ancora del tutto smesso.
“Lei non mi piace…” sborbottò Auruo, gli occhi fissi sulla birra. La mia nel frattempo era bella che finita. “Non è.. Non è solo questo. Non è che Petra mi piace perché sì, è che io le voglio bene. Vedi anche tu com’è, no? Vorrei aiutarla, tutto qua. Però non voglio che lei pensi che voglio fare il cavaliere, cioè, è chiaro che lei è in grado di cavarsela da sola, ma quando la vedo in difficoltà sento che la devo aiutare. Poi vorrei che ogni tanto staccasse la spina dai fratelli. Per questo qualche volta vado a casa sua, così può uscire da sola o con le sue amiche. Anche se in realtà a me i suoi fratellini stanno abbastanza su. Dicono che sono vecchio! Ti rendi conto? Io vecchio! Le tirate d’orecchie che non gli darei, ma se poi lo dicessero a Petra? Non mi lascerebbe più entrare in casa sua! S’incazzerebbe a morte con me, per questo sopporto. Non voglio che mi odi, solo che mi apprezzi. Poi— Quella è la mia birra!”
Posai il suo boccale che avevo provveduto a svuotare per metà ed incrociai le braccia sul tavolo. Auruo aveva parlato a sufficienza da scoprirsi senza mettersi a nudo e, sì, lo trovavo (sparatemi) tenero. Lo sapete meglio di me che non sono una cima in questioni amorose e sentimentali, ciò non significa che io sia sprovvisto d’istinto: i sentimenti di lui per lei erano genuini, come dei biscotti fatti in casa.
Auruo aveva un atteggiamento molto filosofico della faccenda. Non l’avevo mai visto fare il ‘good guy’, il classico bravo ragazzo solo in apparenza che pensa gli sia tutto dovuto, fica compresa, solo per essersi comportato come un essere umano decente, e al rifiuto di lei, le appioppa un’etichetta di zoccola.
No, Auruo non era così. Si comportava da brav’uomo con Petra e la trattava con affetto perché era così che lui le ‘voleva bene’. Mai una volta che l’avessi sentito lamentarsi del fatto che lei non volesse uscire con lui per una cena insieme o non gliela desse. Mi piaceva molto Auruo, in questo senso.
Ma non mi sentii in colpa, non stavolta, e approcciai il discorso con la testa leggera. Avevo già chiarito questi punti con Petra e ora la strada per lui era spianata, in un certo senso. S’intende, se son rose sbocceranno. “Lei non ti piace. Tu la ami.”
Gretto e diretto, così si fa. E meno male che non capivo niente di sentimenti.
Auruo ridacchiò debolmente e chinò il capo, che sorresse con le mani tra i capelli biondo spento. Lo so, amico, lo so, fa strano quando realizzi che è vero per davvero. Giochi di parole del cazzo.
“Pensa te, uno esce per una birra con un amico e si trova a parlare di ‘ste cose” non c’era rassegnazione nel suo tono, o forse sì, ma a me suonò vagamente divertito – quasi svuotato da un grande peso. Guardò in su verso di me e sorrise amareggiato. “Non capisco perché mi fai ‘sti discorsi. Visto che Petra ama te.”
Minacciai con la mano il suo boccale di birra e, dato che lui non se n’era accorto, bevvi un altro sorso. Iniziai a sentire la lingua più sciolta, merito del mix di birra bionda e rossa e della mia altezza. “Ma io non amo lei” e mi morsi quella maledetta lingua sciolta prima di ammettere, Io amo Erwin.
Auruo ci rimase di sasso. Gli si doveva essere aperto un mondo. “Io credevo..”
Scossi il capo. “Lascia perdere che facevamo sesso e limonavamo. Non amo Petra. Saranno anni che non facciamo più nulla del genere, noi due.”
“Io pensavo..”
“Smettila di pensare, Auruo” gli intimai, in tono fermo. Lui si zittì subito, si tappò la bocca e stette a guardarmi concentrato. Cazzo, non pensavo che fare l’autoritario facesse quell’effetto – forse in un’altra vita ero stato tipo, che so, un capitano di qualche esercito. “E agisci. Mandale un messaggio, o meglio chiamala e chiedile di uscire.”
“..Adesso?”
Io, il Cupido della situazione, riflettei un momento. Forse una chiamata alla soglia della mezzanotte avrebbe un po’ alterato Petra, ma Auruo era un tipo che non insisteva e che sapeva accettare i no. Così annuii.
“Ma qui dentro?”
“Magari riaccompagnami a casa prima, o almeno fammi uscire da qui.”
“..Ok, ok. La smetti di bere la mia birra?”
“Lascia stare, per stavolta pago io” e poi che ci potevo fare se lui non la beveva, scusate.
 
******
 
Con ‘dispiacere’ della mia curiosità, non assistetti alla telefonata galeotta. Auruo non se la sentiva molto in mia presenza – diceva di essere in imbarazzo. Fa niente, mi dissi, capii il suo punto di vista. Per il vero non ero a mia volta il tipo di persona che insiste, non con gli amici. Con Erwin il discorso era un po’ diverso.
…Troppe cose erano un po’ diverse con lui, ma lasciamo stare. Senza bisogno di metterlo sul piedistallo o osannare la nostra relazione come migliore, salvifica e tante altre stronzate, nel nostro rapporto c’erano ritmi diversi dall’amicizia. E grazie al cazzo, direte voi!
Passo dopo passo, capivo. Iniziava a dipanarsi la nube del dubbio su come funzionano le relazioni di un certo tipo e la cosa un po’ mi rincuorava: l’impressione netta era che stessi andando nella direzione giusta, magari incespicando. Fintanto che si trattava del sentiero da seguire, non mi sarei tirato indietro; tirandomi il gatto vicino, sbadigliando rumorosamente ed affondando la testa nel cuscino, chiesi a me stesso se non mi facessi un po’ schifo. A volte avrei voluto strozzare con rabbia quel piccolo me che si divertiva a buttarmi giù di morale: per una volta ero felice anche senza avere rotto i coglioni a Erwin per un po’, era un traguardo dell’autostima. Vaffanculo, me stesso!
In fondo in fondo, però, ero piuttosto consapevole della ragione di tanto volermi buttare giù: alla paura di star male, signori, non si scappa. Baciai il gatto sulla testa e borbottai ad alta voce, “La felicità fa male, Bobbo, fa un male cane”. Frase confermata dal gatto che cercava di scappare via da me, piantandomi i suoi artiglietti nelle braccia.
“Non si può dire neanche ‘cane’ in questa casa, adesso?”
Guardati come ti sei ridotto, Levi. A parlare da solo col gatto dell’assistente sociale e a fare il Cupido della domenica. No, del sabato, ma comunque.
Il pensiero non fu abbastanza intenso da abbattermi. Non lo fu nemmeno la giornata appena trascorsa, con quei tre ragazzini ed il pomeriggio morto e triste. Lasciai che tutto ciò si posasse sul fondo del mio cervello e lo trovai quasi riposante: non era poi così male, quest’immagine di me che parlavo con Bobbo, ad ottima chiusura di un giorno abbastanza nero.
Sussultai di colpo per via della suoneria di un messaggio inaspettato. Erwin! Dev’essere lui. Sperai ardentemente che fosse lui mentre acchiappavo l’apparecchio nella mano, cercando di non farlo cadere perché mi stavo addormentando e i miei riflessi facevano piangere. Non dimentichiamo che avevo anche un po’ bevuto, eh. Diciamoci le cose come stanno.
Auruo.
Sulle prime, a leggere il mittente, rimasi un tantino deluso ma poi mi si riattivò il meccanismo della curiosità da scimmia ed aprii l’sms. In tutta onestà, ignoravo cosa aspettarmi da Petra: la nostra amica non era il tipo di ragazza che si mette con te o spreca il suo tempo in un appuntamento pur di non stare da sola.
Strizzai gli occhi sofferenti alla luce dello schermo e cercai di afferrare le poche righe che Auruo mi aveva mandato.

[ Ha accettato! Usciamo sabato prossimo al Lobo! Vedi di non venire tu e pure gli altri due. È un’uscita tetta-a-tetta. ]

Devo dirvi la verità.
Risi molto forte per quel ‘tetta-a-tetta’.

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