Né tempesta né pioggia

di Marlene Ludovikovna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***





Nota al titolo

Né tempesta né pioggia fa parte di un verso della poesia di Goethe Canto del viandante nella tempesta ed è una poesia a cui sono molto affezionata, come sono affezionata anche all'autore. 
Cito il verso che ha ispirato il titolo: 
Chi tu non abbandoni, Genio, 
né tempesta né pioggia 
lo faranno tremare. 
Chi tu non abbandoni, Genio, 
La nube tempestosa 
e la bufera della grandine
affronterà cantando 
come l'allodola, 
o tu lassù! 

Ciò nel contesto in cui l'ho inserito si riferisce alla forza degli amanti nel ritrovarsi e nell'amarsi ancora. Ciò si svilupperà dalla seconda parte del racconto in poi. 


 
 Parte prima 



Capitolo primo.




C'è sempre un po' di perplessità negli arrivi. 
 I viaggiatori si ritrovarono davanti agli occhi l'imminente paesaggio di Tangeri, che sembrava venir loro incontro, mano a mano che la nave si avvicinava. 
Thomas Bartley si tolse gli occhiali e notò che il cielo era come denso, sembrava talmente compatto che avresti potuto toccarlo con la mano. 
Dorothy... disse lui spostando la mano nell'aria, a chiamare una donna bionda, interamente vestita di bianco. 
L'atmosfera qui non sembra più densa? Chiese lui. 
Maxwell Fane, occupato a guardare il paesaggio con il cannocchiale, non lo sentì neanche. 
Dorothy Haddleton Fane, che era impegnata a scimmiottare i movimenti del marito, si girò subito. 
Be', caro, credo sia... Il caldo. Rispose la donna, altezzosa e composta, con il suo accento che era più britannico anche del tè al bergamotto, portandosi il bianco scialle dall'altra parte con un gesto fluido. 
Mh, ma è un caldo strano... Sembra come se ci sia una specie di pulviscolo, come... La sabbia. Vedi, è come se tutto sia ricoperto da un sottile strato di sabbia. Disse Tom, gli occhi fissi verso il cielo con una mano a coprirsi dal sole. 
Thomas provò a parlare con Maxwell, che diceva di aver letto parecchi libri sull'argomento, ma quest'ultimo era troppo preso dal suo cannocchiale. 
Oh, non ti ascolterà mai. Cristoforo Colombo è troppo occupato a guardare dal suo cannocchiale... Oh, guarda, sembra aver avvistato terra! Che bravo! No, aspetta non è che poi si è sbagliato e siamo finiti in Germania? Perché con questo caldo non mi sembra abbastanza evidente... E poi non la timona nemmeno lui la nave. Povero scemo...
Mentre sbeffeggiava il marito, Dorothy aveva sempre quel sorriso glaciale che mostrava i denti bianchissimi – in modo quasi innaturale – e in quel sorriso le si innalzavano gli zigomi e le curatissime sopracciglia, mettendo in risalto gli occhi di un azzurro chiarissimo e dalla forma perfettamente rotonda senza essere troppo grandi. 
Dorothy era una di quelle donne che aveva ancor più grazia nell'atto derisorio. 
La sua bellezza matura, ironica, arguta e quel viso così inglese s'addicevano alla perfezione alle beffe. 
E così stava ferma lì, mentre guardava il marito con un'espressione tra il divertito e il disgustato. 
Thomas aveva già assistito a più o meno cinquanta battibecchi da quando erano partiti dall'Italia insieme e da quel momento in poi aveva intenzione di tenere il conto. Per quanto i due fossero persone gradevoli, Dorothy fosse una delle persone più  argute che Tom avesse mai conosciuto e Maxwell fosse una persona gentile e di buona compagnia, spesso sentiva il bisogno di liberarsi dei due per un po'. 
Ora però non era uno di quei momenti. 
Era un momento perfetto, in cui erano a metà tra il raggiungimento della meta e il viaggio, e le menti dei viaggiatori erano piene dell'euforia tipica degli arrivi tanto attesi. 
Dora, poi l'hai ritrovata la tua collana? Le domandò Tom. 
Oh, sì, sì era nella borsa.
Finirono velocemente di fare colazione, con la brezza mattutina a rinfrescarli. 
Dorothy era diventata golosa di delle brioche al lampone che servivano sulla nave, mentre Thomas si beveva un tè, con le gambe accavallate, mentre guardava il panorama avvicinarsi a lui. 
Mi chiedo cosa abbia da vedere con quel cannocchiale... Continuava a commentare Dorothy tra un morso e l'altro.
Poi fu annunciato l'arrivo e i tre furono aiutati a portare giù i bagagli.
Dorothy si muoveva in un turbine di stoffe bianche seguita da Maxwell e, infine, da Thomas. 
Thomas e Dorothy erano cugini ed erano andati insieme ad Oxford, avendo deciso di studiare Storia.  Tom aveva inventato per Dorothy tantissimi soprannomi come Dorey, Dottie, Dott, Dora, Doris, Rothy, Dore, Dorry e Dodò, mentre lei aveva creato un cocktail a base di rum, té al bergamotto e gin che aveva nominato in suo onore: Bartley. 
Dott Haddleton era stata costretta a sposare un amico di famiglia degli Haddleton che aveva ereditato una fabbrica tessile in India. 
Maxwell era abbastanza disinteressato a Dorothy, ma aveva due grandi passatempi: i cannocchiali e l'architettura. 
Maxwell Fane era il tipo di persona che era simpatica a tutti e che era sempre benvoluto, tranne che da Dorothy. Forse era proprio quello che lei odiava di lui. Stava di fatto che stavano insieme pur non sopportandosi. 
A Tom, Max era sempre stato indifferente. Era il tipo di persona talmente stupida in modo ingenuo che se per alcuni faceva tenerezza, a Tom faceva solamente venire voglia di buttarlo giù dalla nave in mare aperto. Nonostante ciò, averlo vicino non era un supplizio così grande e, anzi, ogni tanto era abbastanza piacevole. 

Quando scesero dalla nave a Dott venne quasi da svenire, mentre Tom restò fermo, stordito dal paesaggio che si trovava davanti. 
Era la cosa più diversa dall'Inghilterra che avesse mai visto. 
E non era che lui viaggiasse poco, ma che quei paesaggi pieni d'arancione in tutte le sue sfumature, e che sembravano racchiudere in sé l'estate più profonda ed eterna, erano solo dell'Africa. 
Due camerieri dell'albergo in cui avrebbero alloggiato furono mandati a prendere le valige e poi i tre vennero accompagnati all'albergo. 
Durante il tragitto Tom si mantenne silente. 
Era un suo tipico atteggiamento quello di estraniarsi, quando vedeva un posto nuovo. Restava fermo, zitto, guardava ogni cosa senza perdersi nemmeno un particolare. 
Una scarpa abbandonata per strada, una sigaretta, le porte, che sembrava non ne esistesse nemmeno una uguale all'altra e di cui ogni serratura aveva intarsi diversi. 
E poi quando ti addentravi nelle strade più strette ed interne sentivi quell'odore acido di arance in decomposizione riempirti le narici. Ciò non era affatto piacevole, ma dopo un po' ci si abituava.
Il loro albergo, il Grand Hotel du Savoy, era sul lungo mare, ed era una struttura in stile imperialista francese, con un portiere vestito di stoffe coloratissime ad accoglierli. 
Tom sorrideva a tutti, affabile, e Max continuava a guardarsi in giro con aria ebete mentre Dott passava tra il guardare lui con un'espressione contrariata e l'osservazione del nuovo posto.
Thomas chiese subito la sua stanza e gli venne data la numero 35, mentre a Dorothy e Max vennero date la 30 e la 28. 
Se c'era una cosa che era apprezzabile di Maxwell era che non s'impuntava per niente con Dot e le lasciava tutta la libertà che voleva entro certi limiti. 
Tom però era certo che sotto quelle sferzanti battute, Dot ci soffrisse un po'. Si era ritrovata sposata ad un omosessuale, costretta dalle due famiglie, con cui prima o poi avrebbe dovuto fare un figlio. Avrebbe preferito tutt'altra vita, ma spesso tra sé e sé fantasticava di essere Anna Karenina. 
Questo a Tom non importava granché – era sempre stato bravo a rimanere piuttosto indifferente davanti ai problemi degli altri -, ma trovava irritante che una persona intelligente come lei dovesse esser vittima dei meccanismi dei benpensanti borghesi. E c'era un'altra cosa a proposito di Dot: lei reincarnava perfettamente la benpensante borghese e nonostante ciò era cinica quasi quanto Tom e c'era una parte remota di loro in cui si sarebbero sempre amati, solo in un modo strano e diverso da come si amano due amanti. 
 I corridoi dell'albergo erano abbastanza ampi, ma soprattutto erano luminosi. 
Davanti ai tre viaggiatori  scorrevano i numeri delle stanze del secondo piano. 
Dorothy... iniziò Max.
Cosa c'è, caro? gli rispose Dorey con il suo solito tono algido. 
Potremmo dare tipo l'impressione di essere una coppia e non due sconosciuti, ogni tanto? Io ho un nome di famiglia da proteggere, sul serio, Dottie-Dot... 
Dorothy si scostò dal supplicante Max che usò il soprannome che Tom le aveva dato quand'erano bambini e andavano d'estate nel Dorset. 
Che schifo. Commentò, mentre Tom pensava: E siamo ad uno. 
Quando Dorothy raggiunse la sua stanza, senza ascoltarlo lo salutò con: “Addio” e chiuse la porta, lasciando Max davanti ad essa con uno sguardo ebete. 
Quando Maxwell provò a cercare l'appoggio di Tom, quest'ultimo scrollò le spalle.
Poi Thomas poté camminare ancora un po' da solo, con passo ciondolante, fino ad arrivare alla sua camera, godendosi quel tanto atteso momento di solitudine. 
Si fece lasciare lì le valige, poi si sedette sul letto e si lascio cadere pesantemente sul materasso. 
Se fuori non ci fosse stata una città che non aveva mai visto, Thomas sarebbe restato a dormire tutto il giorno, ma dopo una dormita di un'ora si destò. 
Per la prima volta osservò la stanza. 
Era sobria, dalle pareti bianche e con un bel letto a baldacchino dalle coperte color pesca, sopra al quale erano stati sparsi dei petali di rosa che Thomas senza essersene accorto aveva brutalmente schiacciato. 
Il bagno era bellissimo, semplice, ma con quel tocco europeo che rendeva tutto ancora più particolare. 
Gli asciugamani erano ricamati sul fondo, dello tesso color pesca del copriletto.
Tom si distese di nuovo e guardò il soffitto bianco. 
Poi si decise ad uscire. 

 Il profumo del lungo mare lo accolse riempiendogli le narici. 
Seguì il lungo mare, guardando la moltitudine di gente che si susseguiva: turisti europei, ragazzini che vendevano limonata con un carretto, gente che portava a spasso degli asini, donne completamente coperte e uomini vestiti tutti colorati. 
I gabbiani si spostavano al suo passaggio e sentiva accrescersi il lui la voglia di tuffarsi nell'acqua. 
Quel posto era... Bellissimo.
Non si poteva rimanere indifferenti a tanta bellezza. 
Thomas vagò tra le vie interne e il lungo mare finché un bell'edificio dalle vetrate ampie con le rifiniture in legno, tipico degli anni '20, che aveva il nome di Grand Cafè de la Poste, aveva un che di talmente bello che Tom fu praticamente costretto ad entrarvici. 
Da quelle vetrate s'intravedevano già i bei tavolini, le kenze – quelle  piante da interno, verdi, con grandi foglie come quelle di palme -, i camerieri che servivano composti. 
Thomas prese un tavolo da cui si vedeva fuori e ordinò una omelette e del caffè. 
La posizione del suo tavolo era perfetta. Vedeva tutto quello che accadeva dentro e allo stesso tempo aveva un'ampia visione di ciò che accadeva fuori. 
Catturò la sua attenzione una famiglia poco distante da lui. 
Quello che doveva essere il padre e il marito era un signore sulla sessantina con baffi bianchi alla Otto Bismarck e un pizzetto stranissimo, la madre una donna sui cinquanta dall'aria altezzosa, che gli ricordava un po' Dorothy, solo un po' più anziana e la ragazzina... 
La ragazzina. 
Thomas Bartley si sentì mancare il respiro con una fitta leggera allo stomaco. 
Quella che doveva essere la figlia di quei due e che si guardava in giro con occhi felini e aria distratta sembrava  più una bambina che una ragazza, nella sua camicetta bianca e la sua gonna verde, con le calze bianche che arrivavano quasi fino al ginocchio. Ai piedi aveva delle ballerine nere in vernice con il cinturino ed era completamente appoggiata allo schienale della sedia: l'espressione sognante, le labbra leggermente contratte e gli occhiali appoggiati sulla testa a tenere indietro alcuni ciuffi che erano usciti dalla complicata acconciatura di trecce, che teneva uniti i suoi capelli rosso rame che sembravano catturare i raggi di sole che entravano dalle finestre. 
Aveva un libro accanto e tra un sorso di tè alla menta e l'altro – quando non guardava nel vuoto – leggeva. 
La stanza era piena del tintinnare delle conversazioni – che per Tom avevano natura superflua e inutile - e di The man with the big sombrero di June Avoc.
Tra le due Thomas preferiva di gran lunga la seconda. 
Restò per un po', perso nella visione di quella bellissima creatura, come imbambolato. Inaspettatamente, lo sguardo di lei venne unito a quello di Tom in un occhiata timida e incuriosita. Thomas accennò un sorriso e lei tornò subito al suo libro, mentre i genitori parlottavano tra loro. 
Ad un certo punto Thomas vide entrare Max e Dott che erano presi da una delle loro discussioni. In quel caso era qualcosa riguardo alle razze e tutti quegli argomenti che andavano  tanto di moda di quei tempi. Dott diceva che tutte quelle cose sulle razze erano delle sciocchezze e Max diceva che però bisognava tenere a freno quelle che chiamava le razze inferiori. 
Si, be', allora dimmi perché diamine hai tanto insistito per venire in Marocco, se la sua popolazione ti fa così schifo?
Non è quello il discorso, Dorothy...
Ah, no perché stiamo parlando di scarpe infatti. 
Eh?
Senti, tu puoi pensare quello che vuoi mai io credo che tu sia un ipocrita e... Ah, guarda! C'è Tom!
Alzò il braccio con leggiadria per salutarlo, mentre gli sorrideva mostrando la sua dentatura perfetta. 
Tom si ridestò subito, con gran fastidio. 
E due, pensò. 
I Fane si sedettero al tavolo con lui e ordinarono da bere. 
Poi entrambi si fermarono a guardarlo. 
Allora, Tom, secondo te non è un'atteggiamento ipocrita andare in vacanza in Marocco se considera tutti gli africani inferiori agli europei e dice che gli fanno schifo? Iniziò Dott. 
Tom non fece neanche in tempo ad aprir bocca che Max arrivò a controbattere: Non sto dicendo questo, per la miseria!
E i due ritornarono a parlare tra di loro. 
Thomas colse l'occasione per alzarsi e svignarsela: prese il libro, il taccuino, la penna e il portafogli. Lasciò i soldi sul tavolo e se ne andò. 
Prima di uscire però lanciò un ultimo sguardo alla ragazzina. 
Pensò che fosse bellissima, con quel viso etereo quella spruzzatina di lentiggini. Quel viso da bambina e il corpo quasi da ragazza. 
Infine uscì, ancora incantato da quella piccola ninfa, lasciandosi avvolgere dal tepore dell'aria marocchina. 

 
Angolo Autrice.
 
Dopo tantissimo tempo senza pubblicare e diversi cambi di nome – Marlene Ginger, Mademoiselle Bovary e adesso diventerò Marlene Ludovikovna se mi cambia il nome prima della prossima era glaciale e della morte di Putin - ... Eccomi qui, pronta ad iniziare una nuova storia. 
Durante l'estate avrò tempo per arrivare a buon punto con gli aggiornamenti, per poi lasciarmi gli altri capitoli gia scritti da aggiornare a settembre.
In questa storia ho intenzione di mettere molto di me.
Inanzitutto le ambientazioni sono in tre dei paesi che mi sono più cari: Marocco, Inghilterra e Austria e i personaggi sono personaggi pieni di difetti, ma a cui già mi sono affezionata tantissimo, proprio per quello.
Per quanto riguarda le ispirazioni sono state: Tenera è la notte di Fitzgerald, Il té nel deserto di Bertolucci, Lolita di Nabokov, Espiazione di Ian McEwan, Tutto ciò che sono di Anna Funder, Il paziente inglese di Minghella,  An education di Lone Scherfig,  Marie Antoinette di Sofia Coppola e tante altre robe che non sto qui ad elencare per non arrivare a domani mattina ed essere ancora qui. :')

Quindi in questo nuovo inizio ringrazio - in ordine random - Amors per il banner, Altraprospettiva, Claudine Delacroix, Aspasia, Ned, Risa Prongs, tanti altri e quel lato di me che sarà sempre Kitty Pfenning.

Spero che questa storia riuscirà ad appassionarvi e a regalarvi tante più emozioni possibili, come ne ha date a me.
Un bacio e alla prossima;


Marlene C. Ludovikovna

 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***




Parte prima

Capitolo secondo. 

 

Quella notte tiepida avvolgeva Thomas Bartley come una morbida e leggera coperta delle più confortevoli, mentre, con i piedi appoggiati al tavolino basso fumava una pipa guardando il cielo in cui non sembrava brillare nemmeno una stella.

Solo la notte.

Il fumo rilasciato dalla pipa andava ad annullarsi nell'aria, mentre Tom sentiva le nuvolette di fumo formarsi e morire.

E quella coperta si posava su di lui, dandogli il sonno, la pace.

Dio benedica i francesi che ci hanno dato la possibilità di stare in questo paradiso terrestre... Pensò Thomas che, o per stanchezza o per cinismo, ignorò la condizione a cui era ridotta la popolazione locale. Non per idologia, però. Quello non l'avrebbe mai potuto fare.

Thomas Bartley non era propriamente un uomo di quei tempi. Viveva nel passato, nonostante fosse pronto all'innovazione.

La natura di Tom era quella di uno studioso, ma anche quella di una persona che desiderava avere la situazione in mano.

Thomas Bartley era il tipo di persona che tutti si fermavano ad ascoltare, guidati dalla sua voce dal tono grave e pacato, morbido e sinuoso, s'addentrava nelle menti dei suoi ascoltatori, ammaliandoli.

E nello stesso modo lui era ora ammaliato dalla quella notte buia e piena.

Cadde nel sonno come si cade nell'illusione amorosa e non poté accorgersi di questo fatto che era già rapito dalle trame sottintese del suo inconscio, avvolto dal buio che gli dava quella confortevole ed inquietante sensazione che non esistesse nulla oltre a quel vuoto. Solo la notte.

 

 

Kitty Pfenning era abituata a dormire fino a tardi e nonostante si svegliasse alle undici, sentiva sempre un residuo di stanchezza.

Un accenno di emicrania glielo faceva capire, insinuandosi maligno nelle sue tempie, la bestia fugace.

Quel giorno però non fu così.

Kitty si svegliò alle otto di mattina e subito la sua mano corse al libro che era vicino al suo comodino, piena di un'euforia insolita.

Fu felice di assaporare un momento di energia nonostante fosse solo mattina.

Si vestì di fretta, mise un cerchietto a tenere a bada i capelli, e infilò le ballerine.

Corse giù dove c'era la sala per la colazione, e quando sentì lo stomaco contorcesi capì perché si era alzata così presto.

Si fece portare la colazione su in terrazza, dove era certa di poter leggere indisturbata.

Salì i gradini che portavano alla bianca terrazza velocemente.

Non vedeva l'ora di trovarsi in quel posto: lì si sentiva straordinariamente tranquilla.

Niente caos viennese, niente caos marocchino.

Solo lei, la vista e i suoi libri.

E certo era vero che quando vedi le cose da lontano sono molto più belle.

Tangeri per esempio – ma anche qualsiasi altra città – vista dall'alto, senza focalizzarsi su nessun particolare, era molto, molto più bella per Kitty Pfenning.

Non che non lo fosse anche concentrandosi sui dettagli, ma era meglio vedere tutto dall'esterno a volte. Contemplare.

Probabilmente era solo una fase della sua crescita, ma Kitty provava un grande divertimento nell'osservare le cose senza farne del tutto parte, a volte.

Spesso le piaceva parecchio essere una regina del dramma e in quei rari momenti poteva inserire nella sua vita tutta quella parte di sé che era piena di egocentrismo wagneriano.

Eppure nulla era bello come una città vista da lontano o di un dramma familiare visto senza esserne emotivamente sfiorati.

E quell'angelo cinico, sognante e delizioso era Marie Katharina Pfenning.

Figlia dello psichiatra viennese Albert Pfenning e di sua moglie, la tedesca Charlotte Luiz, discendente della famiglia che aveva esercitato la professione di boia a Stoccarda per diversi anni. E ora reincarnavano perfettamente la media borghesia viennese, che aspirava a diventare alta e sempre più alta.

Ma se per suo padre, Marie Katharina era Kaethe e per sua madre era Marie, per tutti era Kitty e a Kitty non importava assolutamente nulla della società che la circondava.

Quando il volto di Kitty Pfenning fu accarezzato dal sole mattiniero di Tangeri e la ragazza si ritrovò nella terrazza non notò che c'era qualcun altro.

Poi avanzando scoprì con delusione che un'altra presenza condivideva con lei la terrazza.

Costui, u uomo che vedeva solo di spalle, era fermo su una sdraio con sopra un ombrellone nel lato da dove la vista era più bella.

Kitty sentì l'entusiasmo, che prima faceva capolino da dentro di lei, afferrare una pistola per poi farla arrivare all'interno della bocca spalancata ad accoglierne lo sparo.

Malgrado ciò si appostò su una sdraio vicina ad un ombrellone e iniziò a leggere.

Agatha Christie aveva un potere magnetico per Kitty. Il crimine esercitava un certo fascino su di lei che si era segnata su un taccuino modi diversi per uccidere le persone presi da romanzi gialli e che conosceva tantissimi veleni diversi il loro uso, in quanto tempo facevano effetto, come si potevano ricavare... Un giorno desiderava riuscire ad estrarre il cianuro dai noccioli di pesca.

Nonostante avesse tutte le competenze per compiere un omicidio, Kitty Pfenning preferiva leggerne e scriverne e il suo futuro nei suoi sogni si prospettava come quello di una scrittrice di romanzi gialli.

Oltre a questo Kitty Pfenning parlava piuttosto bene il francese, l'inglese e l'italiano, infatti il malloppo di libri che si era portata erano in francese, in inglese e in tedesco.

Agatha Christie la stava leggendo in inglese e le parole ormai scorrevano fluide nella sua mente senza che dovesse fare un grande sforzo di traduzione.

Arrivò però poi ad una descrizione e ad una parola che non conosceva: capricious.

Kitty provò una grande irritazione: avrebbe voluto aver preso il dizionario, cosa che però non aveva fatto.

Provò a dedurre la parola dal contesto, ma non riuscì ad individuarne il senso del tutto.

Nel frattempo Thomas Bartley continuava a guardare fuori in tranquillità, mentre la sua pipa segnava nuvolette di fumo.

Poi come una bufera improvvisa entrò Dorothy.

“Caro, caro!”

Thomas Bartley si girò.

Kitty, che osservava tutto con gli occhiali da sole leggermente abbassati, ricordò di aver visto i due nel caffè.

Parlarono tra loro in inglese e poi la donna se ne andò composta lasciando Tom da solo, che nel frattempo aveva notato chi c'era oltre a lui in quella terrazza.

L'idea si fece timidamente strada nella mente di Kitty: avrebbe potuto chiedergli di spiegargli il significato di quella parola.

Marie Katharina non voleva essere invadente... Però doveva sapere cosa significasse quella parola per poter continuare tranquillamente la lettura senza il continuo desiderio di saperlo e poi c'era un altro motivo.

Quell'uomo aveva un fascino magnetico, una curiosità che Kitty voleva assolutamente soddisfare.

Si alzò e andò cautamente verso l'inglese, che era interamente vestito di bianco e da cui si vedevano le calze dalla fantasia blu e rossa a quadri che andavano tanto di moda in quel periodo e fasciavao le sue caviglie incrociate e le classiche scarpe Oxford ai piedi.

Kitty aveva iniziato ad intuire chi fosse, ma questo non le interessava e poi conoscere gente anche da altre parti del mondo era uno dei suoi più grandi desideri.

“Mi scusi...” Iniziò e all'improvviso si sentì molto insicura del suo inglese.

Lui si girò con un movimento fluido, non di scatto, lentamente, con un ritmo vacanziero ed ondeggiante.

Le sue sottili labbra erano incurvate in un sorriso.

, darling?” Le orecchie di Kitty si aprirono a quella voce profonda.

Arrossì e poi, sorrise, come se avesse incanalato in sé un raggio di sole.

Tom chiamava tesoro praticamente tutti. Usava vezzeggiativi, cortesie... E lo fece anche con lei.

Darling - Schatz in tedesco – acquistò un suono del tutto nuovo per Kitty e anche una nuova melodia e una piacevole connotazione alle sue orecchie.

Kitty prese un bel respiro, sentendosi alquanto patetica.

“Scusi se la disturbo, ma volevo chiederle se mi potrebbe dare una mano con una traduzione. Non riesco a capire il significato di una parola...”
“Puoi chiedermi qualsiasi cosa” rispose lui, il volto pacifico, bellissimo – in un modo per niente ovvio -, illuminato da un sorriso.

“Di dove sei? Forse posso aiutarti traducendo direttamente dalla tua lingua.”

“Sono austriaca.” Rispose Kitty.

“Che bello, di dove? Ah, vuoi sederti?”

Kitty si sedette davanti a lui, sull'altra sdraio, mentre sporta in avanti lo scrutava con le palbebre socchiuse per la luce.

“Sono di Vienna.”

“Ci sono stato a Vienna, è...” si fermò. Guardò Kitty e lei guardò lui.

Finì poi la frase, con un sussurro strozzato, sommesso: “... Incantevole”.

Kitty incurvò le sue labbra in un sorriso e posò il suo sguardo in basso, verso i suoi piedi appoggiati a terra, uniti.

“Comunque si dà il caso che io sappia il tedesco, quindi posso aiutarti con piacere.”

Kitty sorrise di nuovo. C'era qualcosa in lui che le infondeva una certa energia. Era l'essere umano più simile al sole che Kitty avesse mai visto.

Non il sole fastidioso delle due di pomeriggio, ma quello meraviglioso delle otto di sera in estate. Quello che non riesci a smettere di guardare e della cui immagine rimane un eco tra le palpebre chiuse.

“Dimmi la parola che ti serve, darling.

Darling, darling. Quella parola risuonava trillante nella mente di Kitty.

“La parola che non riesco a capire è capricious.” Disse Kitty, con voce ninfica e infantile.

“Oh, in tedesco l'equivalente sarebbe... Launisch. Capriccioso.”

“Ah!” Capì Kitty, finalmente contenta.

“Grazie mille, signor...”

“Thomas Bartley, ma puoi chiamarmi semplicemente Thomas, perché se mi chiamassi signor Bartley mi sentirei incredibilmente vecchio.”

“Non sei vecchio.” Rise Kitty.

Lui era come luminoso e lei ancora di più in quella bella mattina di giugno.

“Il tuo nome invece?”

“Kitty Pfenning.” Disse per poi aggiungere che: “In realtà sarebbe Marie-Katharina, ma dato che con il tempo in cui lo pronunci fa in tempo ad arrivare un'altra era glaciale e a scongelarsi, mi chiamano tutti Kitty.”

Il sorriso di Marie-Katharina splendeva nella luce mattutina, tutto denti bianchissimi e fossette.

Lei era inarcata un po' in avanti e anche lui era protratto verso di lei e parlavano così.

“Sei inglese giusto?” Chiese Kitty.

“Sì, si nota così tanto?” Rise Tom.

“Mh... Sì. Ma è una cosa positiva.” Sorrise Kitty. Di nuovo risaltarono quelle adorabili fossette.

“Di dove di preciso?” Domandò Kitty, di nuovo.

“Londra... Tu invece sei di... Vienna”

“Esatto.” Nel dirlo Kitty allungò un po' quella e.

“Anche se mia madre è di Stoccarda” aggiunse.

Kitty ad un certo punto si accorse dello sguardo perso in lei che le rivolgeva Tom.

Rise.

“Ehm...” Provò a parlare, ma fu interrotta dalle sue stesse risa.

Thomas Bartley restava fermo a guardarla, la testa appoggiata al gomito, appoggiato sulla sdraio.

“Mi chiedevo come mai tu abbia i capelli rossi se sei austriaca...” disse lui infine.

“Oh, non lo so. Chiedi a Gregor Mendel.” Rispose Kitty sorridente con quella voce lirica, volteggiante.

Per la seconda volta Tom ne notò la prontezza di risposta che aveva quella... Sedicenne? Di sicuro non aveva meno di sedici anni eppure sembrava così piccola.

Avrebbe voluto prenderla tra le braccia e baciare quelle deliziose fossette due volte, tre volte, mille volte.

Tom volle sapere che libro stava leggendo e Kitty gli rispose.

Scoprì che Tom aveva conosciuto diversi scrittori e partecipava a quei salotti, a Londra. Ciò lo rese ancora più interessante agli occhi di Kitty Pfenning.

Poi sua madre venne a chiamarla per andare a vedere il souk e si alzò per raggiungerla.

“Ah, grazie mille per l'aiuto!” Disse Kitty salutandolo, con quel sorriso luminoso.

“Di nulla, chiedi quando vuoi!” Le rispose Tom con un sorriso che lei ricambiò, per poi correre dietro alla madre.

 

Angolo Autrice. 

E finalmente riesco ad aggiornare! :') 
Questi primi capitoli si concentreranno molto su i singoli avvenimenti, perché voglio approfondire bene ogni dettaglio dell'incontro, analizzando i personaggi, le loro sfumature.
Rendere precisa questa parte servirà a far apprezzare di più la seconda e la terza a voi lettori, a parer mio
Un'altra cosa che volevo dire è che io la conversazione tra Tom e Kitty me l'ero immaginata tutta in inglese specialmente le voci di Kitty e Tom nella mia mente sono quelle in inglese - Kitty squillante che dice: "I don't know, ask Gregor Mendel" nella mia mente è l'amore -  solo che penso sia meglio - essendo questo un racconto in italiano - scrivere sempre i dialoghi in italiano, a parte qualche parola che suona e deve suonare così, vedi darling.
Quindi... Spero di non aver annoiato nessuno e che questo secondo capitolo vi sia piaciuto!
Un bacio e alla prossima,

Marlene Ludovikovna

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***





 

  Parte prima

 


Capitolo terzo.

 

Helene Pfenning volle due guardie francesi ad accompagnare lei e la figlia per il souk.

Kitty stava sempre un passo in avanti alla combriccola, persa nella città, nelle sue vie, nei suoi sapori. Sapeva dov'era, ma era persa. Perché era lì e al tempo stesso era ovunque: era quello il modo in cui le piaceva viaggiare. Le piaceva sentirsi nel mondo.

Le bancarelle del souk erano un alternarsi di scarpe colorate, borse, incensi...

Quel mercato era il cuore della città e quando ti fermavi un secondo in silenzio, tra il chiasso e gli schiamazzi, quasi lo sentivi pulsare.

Le vie di mercati e venditori erano coperte e quando entravi ti sembrava di essere giunta in un altro affascinante mondo ombreggiato.

La cosa che colpì Kitty del Marocco era che le città non sembravano insediamenti. Sembravano direttamente connessi con la terra che abitavano.

In Europa l'uomo si era imposto, con i suoi grandi palazzi memori di gloria di re e regine, mentre lì no.

Kitty era condotta da una tenue melodia attraverso le vie ombreggiate, piene di commercianti pronti a tutto pur di vendere qualcosa.

L'odore di cuoio lavorato le riempiva le narici e, passando all'angolo tra una strada e l'altra, c'erano dei lavoratori di tessuti che lavoravano in strada con un movimento che connetteva mani e piedi, aiutandosi con entrambi nell'avvolgimento di quegli strani telai.

La ragazzina si chiedeva come dovesse essere vivere così, alla giornata. Se guadagni mangi se no sei costretto ad addormentarti con i crampi della fame che ti divorano lo stomaco, come a vendicarsi.

E il corpo quasi ti diventava un estraneo, il parassita della tua anima, un pigro gatto che non ti dà nulla in cambio, ma resta seduto nel tuo salotto e reclama di essere nutrito, se in cambio non vuoi essere graffiato.

Così il corpo si reclamava prigione pretenziosa, estraneo malevolo.

Kitty era contenta di essere quello che era. Di avere soldi, di poter mangiare fino a scoppiare. Di ordinare macarons dalla Francia spendendo dieci marchi e questo non sarebbe mai importato a nessuno perché aveva tantissimi soldi.

Pensandoci preferiva stare protetta nella stretta rassicurante della borghesia che, come un velo di pizzo, si stringeva sempre di più attorno a lei, soffocandola.

Kitty Pfenning era bella.

Era bella nel modo puro e capriccioso in cui poteva essere bella una ricca sedicenne. Era il tipo di persona che più la guardavi e più ogni singola parte di lei diventava ancora più interessante e inebriante ne era la scoperta.

Era il tipo di persona di cui l'immagine persisteva nella mente del vedente anche dopo aver distolto lo sguardo e dei gesti, dei piccoli minimi gesti, restava un eco.

La sua aria sognante, persa. Le sue scarpette rosse, i suoi calzini bianchi.

Era una bellezza fatta di bellissimi dettagli e un meraviglioso insieme e così si affermava, senza saperlo, una piccola Venere.

Dopo aver fatto qualche compera nel souk, Kitty e sua madre si fermarono in un caffè interno, non sul lungo mare.

Kitty poté continuare a leggere Poirot a Styles Court la cui autrice già da tempo adorava.

Il primo libro di Agatha Christie che aveva letto era Fermate il boia e anche lì i suoi ben delineati personaggi le erano entrati dentro, così come adorava letteralmente Poirot.

La persona che più aveva amato, però, era Sherlock Holmes.

Amava le sue deduzioni, ne amava il suo modo saccente e il fatto che la sua superiorità fosse giustificata perché lui era superiore. Kitty si era sempre chiesta come sarebbe stato un romanzo narrato da Holmes.

Probabilmente sarebbe stato tutto molto oggettivo e certe menti complesse devono essere introdotte da una persona che ne è esterna e che al tempo stesso le conosce bene.

Così nasce il personaggio di John Watson, con il nome e cognome tra i più banali tra gli inglesi, è una persona leggermente mediocre e nonostante questo la sua normalità suscita la simpatia del lettore.

Ciò che più Kitty adorava era però il rapporto tra John e Sherlock, un rapporto d'amicizia, di sostegno e in un certo senso di bisogno reciproco.

Kitty e Helene Pfenning passarono due ore nel caffè. La madre leggeva dei libri suoi e Kitty finì Poirot a Styles Court.

Il modo in cui era avvenuto l'omicidio era geniale. A Kitty Pfenning sarebbe piaciuto tantissimo applicarlo, in casa sua però le uniche persone su cui avrebbe potuto erano la madre e la servitù e non le odiava così tanto.

Il cianuro sarebbe arrivato a lei con la crema che metteva tutti i giorni uccidendola lentamente. Però Kitty amava sua madre, a modo suo.




 

Mentre Kitty Pfenning si godeva i suoi omicidi, Thomas Bartley aveva appena deciso di spostarsi dalla terrazza.

Chiese in prestito una bici alla reception, dicendo che l'avrebbe portata entro sera.

I tessuti di lino – beige i pantaloni, bianca la camicia – facevano traspirare l'aria, ma nonostante questo Tom la sentiva incredibilmente pesante, in ogni suo movimento. Si stava abituando, ma restava pur sempre la cosa più diversa all'Inghilterra che avesse mai visto.

Oltre alla bici chiese anche un percorso interessante da fare, lo aiutò un turista americano che si muoveva spesso in quella zona con la bici.

Lo ringraziò, uscì, salì sulla bici.

Man mano che si allontanava dalla città il mondo diventava sempre più arancione, più caldo, più deserticamente vivo.

Pedalava su una lunga strada, dove oltre a sé vide passare un uomo seduto su un carretto trainato da un asino e poi nessuno per tutta la sua uscita. 

Una lunga distesa di quel colore sabbioso e rossiccio.

Le sue gambe si muovevano fluide, dando la spinta sui pedali per un po', per poi fermarsi con i pedali a mezz'aria per riposarsi.

Sentiva il vento scompigliargli i capelli biondo cenere, sfiorargli la pelle.

Dinanzi a lui solamente il continuo di quella strada, l'arancione, la sabbia.

Alla sinistra di Tom il terreno finiva, per diventare un burrone, che finiva solamente con le onde marine che si abbattevano funeste sugli scogli.

Thomas sentiva l'energia sprizzargli dalle gambe che la riversavano prontamente nella spinta.

Era da molto tempo che non sentiva una felicità intensa come quella di allora.

Si sentiva parte di tutto, si sentiva una persona.

Sentiva l'oblio così vicino e quella solitudine non lo faceva sentire potete, ma desolato, e al tempo stesso così felice.

Era la felicità più bella, quella così intensa, e allo stesso tempo era così sofferente. Il cuore fu come avvolto in una corona di spine e una lieve fitta salì fino ad arrivare alla gola e alle lacrime.

Non erano vere lacrime: erano la premessa di esse, ricordando la loro esistenza con quell'impeto a solleticarti il naso, gli occhi.

La palpebra si annebbiò, con quel desiderio di essere travolto da tutto quello, e al tempo stesso la certezza che sarebbe dovuto ancora arrivare.

In quel momento Tom seppe che un giorno avrebbe pianto, ancora e ancora.

E quella, era la dolorosa felicità delle cose così belle.

Si fermò giunto alla fine della strada, seduto, a guardare l'orizzonte, il cappello che gli proteggeva la fronte.

Sopra di lui, perpetuo, quel cielo coprente.

Guardava avanti a sé con le ginocchia incrociate e in mano il suo taccuino.

Tentò di scrivere qualcosa, ma poi si accorse che non voleva trovare le parole adatte per descrivere tutto quello; certe cose meritano di restare un immagine priva di macchie d'inchiostro.

Tom si sdraiò su quella sabbia rossa, che gli ricordava quella dei campi da tennis, sporcandosi tutti i vestiti.

Restò fermo lì, con una mano a ripararsi dal sole.

Sentì le palpebre pizzicargli, le lacrime imploravano di poter uscire, contrasse il labbro, il mento si incurvò all'insù.

Restò un po' così, fermando il respiro.

Infine inspirò fortemente, per girarsi ponendo il peso sul fianco destro.

Sarebbe potuto restare lì per sempre a godere di quella adorabile sofferenza.

L'acqua scorreva sulla pelle di Tom, ormai tornato all'albergo.

Uscì con l'asciugamano intorno alla vita e si stese sul letto.

Poi si vestì e percorse la strada per andare in terrazza.

C'era un desiderio inconscio mentre si muoveva frettolosamente e saliva i gradini che portavano alla terrazza.

La luce tenue e calda del tramonto avvolgeva la splendida figura adolescenziale di Kitty Pfenning, dandole le sfumature rosa e arancioni, accarezzandone le curve accennate come se fossero i polpastrelli di un amante premuroso. 

Indossava un vestitino rosa con un nastrino bianco, che si concludeva con un bel fiocco, attorno alla vita. Adagiata sulla sdraio, il peso sulla spalla destra, dondolava la caviglia appoggiata sopra l'altra mentre scriveva su un taccuino con grande lentezza.

I suoi capelli erano acconciati in un'elaborato intrigo di trecce.

Dalla scollatura a barchetta, rifinita in un adorabile pizzo bianco, s'intravedevano i seni della ragazzina.

Aveva le curve che avrebbero potuto essere di una donna, ma c'era qualcosa di evolutivo in quel corpo, che le impediva di sembrare del tutto una ragazza, ma di avere ancora quella candida aurea puerile che di solito le ragazze perdevano verso i tredici anni, quando iniziavano ad interessarsi all'altro sesso.

Tom era stato con diverse donne, ma non c'era nulla che lo attraesse fatalmente - portandolo in quel paradiso vizioso - quanto una ragazza dalle sembianze di bambina. 

Infatti Kitty Pfenning, che avrebbe compiuto i suoi diciassette anni da poco, era a tutti gli effetti una giovane donna. Eppure quell'accarezzabile eco d'infanzia impregnava anche i tessuti che indossava, perpetuo, dolce... Ninfico.

Lo si notava dal modo in cui dondolava le caviglie – sempre nelle scarpe Oxford nere e bianche – in quel movimento spensierato, dal modo in cui sorrideva e quelle fossette andavano a riempire le sue guance, dal modo in cui si mangiava le unghie, sporcandole di rossetto, che raramente metteva. 

Perfino la sua voce sembrava contenere in sé quell'eco di giochi lontani, scampagnate tra amici, schiamazzi.

Nel momento in cui apriva la sua rosea bocca, come allo schiudersi di un petalo, Tom sentiva il suono della campana di domenica, dei giochi.

Kitty Pfenning era un eterno ed infausto paradiso che coloro che camminavano attraverso il limbo potevano intravedere, desiderare, potevano darvi un'occhiata, con la promessa e la delusione di non poterci entrare. 

Tom si fermò un secondo e strizzò le palpebre.

Kitty sembrava avvolta da una luce divina quando alzò lo sguardo verso di lui.

“Oh”, le sue labbra s'incresparono in un tenero sorriso, “Mister Bartley.”

Disse, con quella sua voce che quella volta a Tom ricordò anche quella delle dive del cinema. Quelle voci belle, dal suono piacevole, che tintinnavano nei timpani dell'ascoltatore facendoli vibrare di un piacere carico di cose irripetibili – e inestimabili! - e che allo stesso tempo sussurravano la promessa di un ritorno.

“Miss Kitty” disse Tom con un accenno di saluto.

Kitty rise sommessamente e lanciò un'occhiata in basso, verso il quadernino.

Poi fu quasi tentata di alzare lo sguardo verso Mister Bartley e la tentazione era così irresistibile che dovette mordersi la lingua, rischiando quasi di scoppiare a ridere per quella stretta allo stomaco che le causava una frenetica – quasi isterica – felicità che giungeva a lei così improvvisa in quella morsa.

Sentiva su di sé lo sguardo di Mister Bartley e lo voleva sentire. E pensò che sentirlo così era mille volte meglio che immaginarselo; mille volte meglio che immaginare Mister Darcy, Sherlock Holmes e tutti i suoi amanti immaginari a guardarla in quel modo... Oh, forse se l'era immaginato e lui non la guardava. Ma lei voleva sperare che quegli occhi azzurri, coperti di una patina di ghiaccio, fossero sul suo corpo, sulle curve delle sue coscie, delle sue spalle, delle sue braccia.

Thomas Bartley usciva da un fantastico mondo in cui le ragazze ottengono sempre il loro principe azzurro. Ma Kitty non voleva quello. Kitty voleva qualcosa di più complesso ed intricato ed ecco che, poco distante da lei, si sedeva Thomas Bartley.

Era bella la sua figura maschile, che era la cosa più vicina ad un vero uomo che Kitty avesse mai visto. Non perché Kitty fosse sempre stata segregata in casa, ma perché Tom sembrava così vero, mentre la luce ne coccolava la figura maestosa ed elegante. E lui era fatto di pregi e di difetti, come quel qualcosa di serpentino che aveva, oppure... Oppure il fatto che avesse tra i venti e i trent'anni. Ma questo era proprio quello che Kitty voleva.

Poi lui si alzò, le si avvicinò, lentamente, le sue gambe longilinee si muovevano verso di lei.

Kitty rialzò lo sguardo lentamente.

Appoggiato a terra aveva Cime tempestose di Emily Bronte, sempre in un'edizione inglese.

Tom le sorrise. In quel sorriso magnetico, luminoso.

“Ah, alla fine l'hai finito il libro” commentò indicando vagamente quello appoggiato a terra.

Kitty era volta su di lui con il viso appoggiato al gomito in un'espressione vagamente sognante.

“Mh, mh.” Disse Kitty arricciando le labbra.

Poi si alzò, non trovando una posizione comoda in cui conversare da sdraiata.

Mentre si alzava Tom notò una vaga smorfia sul suo bel volto. Sorrise.

Kitty si sedette sporta verso di lui con le caviglie incrociate e dondolanti.

Si guardarono, si parlarono. Kitty gli disse che Catherine era così egoista e che le piaceva proprio per quello, e Tom disse che alla fine forse i protagonisti più apprezzabili sono quelli che non ci piacciono e che non vorremmo mai avere come compagni di conversazione. 
Le loro parole lievi scandivano il tempo, mentre il tramonto si dissipava, lasciando sempre di più lo spazio al viola, all'azzurrino, alla sera. 

Eppure nella memoria di Kitty l'unica cosa che rimase di quella sua conversazione era lo sguardo pieno d'azzurro che le rivolgeva Tom, il suo viso avvolto nel tramonto.

 

 

Thomas l'aveva invitata a cenare con lui e i suoi compagni di viaggio e sorprendentemente frau Pfenning acconsentì a mandarla.

Kitty si presentò con un vestito color carne e i capelli portati all'indietro da un morbido chignon, il viso incorniciato dalle ciocche d'oro e rame ondulate. Al collo aveva una collanina con un ciondolo a forma di cuore con un diamantino al centro. 

C'era una parte di lei che aveva una gran paura. Temeva di scordarsi, ad un certo punto, di ogni sua conoscenza della lingua inglese, di non capire cosa dicevano e aveva anche paura di perdere la concentrazione mentre gli amici di Mister Bartley parlavano per poi dover domandare di ripetere. Questo le capitava spesso quando non era interessata a qualcosa: la sua mente si spegneva per focalizzarsi in dettagli più interessanti. Come le cravatte. A Kitty piacevano tantissimo e le collezionava rubandole al padre. Non sapeva nemmeno perché dato che non le servivano, ma le piaceva, prima di andare a dormire, aprire il suo cassetto segreto e accarezzare la morbida seta, i tessuti diversi, dai diversi intarsi e colori. 

 Quando entrò nella sala del ristorante, l'orchestra stava suonando Stompin' at the Savoy di Benny Goodman. Era una delle sue canzoni preferite dal suo clarinettista preferito.

Era impossibile non ondeggiare – to swing – ascoltandola.

Si ricordava quando aveva ascoltato quel brano, di nascosto rispetto ai genitori che pensavano stessero studiando il francese, insieme a sua cugina Henny.

Swing it Kit, Swing it!” Aveva urlato lei saltando dal letto mentre accennava un movimento scalciato.

Swing it, Schatzi!”

 Quando vide Tom da lontano, tra la folla, a sorseggiare un bicchiere dal contenuto ambrato, s'illuminò. Lui le sorrise, alzando il bicchiere.

Lo appoggiò al bancone.

“Oh, Kitty! Carissima!” Le venne incontro e la baciò su entrambe le guance sfiorandole la spalla.

Kitty rabbrividì: il loro contatto fisico prima di allora non era stato superiore ad una stretta di mano.

“Vieni, ti presento Dott – fece una pausa per lasciar susseguire le presentazioni e le strette di mano – e Max!”

La sua voce pacata e suadente le prometteva tantissime belle cose per quella sera.

Kitty stringeva la borsa nervosamente e Tom le sorrise rassicurante, notando la sua timidezza.

“Dott, Max, questa è Kitty!” Quell'allegro carisma riempì la sua voce anche solo per una presentazione, illuminando gli sguardi di tutti della sua luce.

“Oh, oh, no aspettate. Devo essere ubriaco: non ho fatto una presentazione come si deve. Rifacciamolo da capo!”

Gli altri tre risero.
Si rivolse a Dott: “Dorothy Fane – e quando si accorse del suo sguardo glaciale aggiunse “Haddleton Fane” -, Marie Katharina Pfenning.”

Si rivolse poi a Kitty: “Marie Katharina Pfenning, Dorothy Fane.”

La ragazzina tratteneva una risata in un sorriso di cui le fossette erano un gradevole annuncio.

Tom, con un'aria soddisfatta si rivolse a Max: “Maxwell Fane, Marie Katharina Pfenning.”

Per poi rivolgersi di nuovo a Kitty: “Marie Katharina Pfenning (hai un nome dannatamente lungo, tesoro!), Maxwell Fane.”

Il tutto si concluse con una risata da parte di tutti quanti.

Tom ordinò da bere, dicendo che offriva per tutti, seguito da varie proteste concluse che lui ordinava sporgendosi elegantemente verso il bancone, allungando un po' il collo, sorridendo al barista.

“Cosa prendi, Kitty?” Le domandò, voltandosi verso di lei.

“Un... Uno Spritz.” Sparò la prima cosa a caso che vide sugli scaffali pieni di alcolici.

Tom rise. “Quanti anni hai?”

“Quarantacinque!” Scoppiò in una risata Kitty mentre i loro sguardi erano inevitabilmente attratti. Era quello scegliersi che determinò qualcosa: con tutte le cose che avrebbe potuto guardare in quel posto, c'era un riflesso spontaneo in Kitty, il cui sguardo correva a Tom, che si nutriva di voluttuosi dettagli. Le sue mani unite di Kitty, la sua borsetta nera di Gucci, i piedi uniti, il peso sulla gamba destra e poi sulla sinistra. Avrebbe voluto baciare quel ginocchio bellissimo - afferrandolo con entrambe le mani -, che di tanto in tanto intravedeva dalla gonna.

Poi l'incanto finì quando Tom notò che il barista era in attesa della sua ordinazione e si risvegliò, tornando il Tom privo d'incanto nei confronti della vita. “Mathieu, uno Spritz per la ragazza!”

Il barista marocchino gli strizzò l'occhio.

Quando Tom tornò a Kitty fu spontaneo domandarlo, sperando per il meglio: “Quanti anni hai veramente?”

Kitty ammiccò. “Sedici, quasi diciassette.”

“Ah, e li compirai qui?”

“Si.”

“Allora dovremo organizzarti una bellissima festa! Che ne dici Dott, non dovremmo organizzarle una bellissima festa?”

Dott venne vicina a Kitty.

“Certo che sì, con un fantastico bar e senza te tra le scatole che se no togli la scena a tutti, super star.”

Kitty rise. Dott era la donna più strana che avesse mai visto. Ne aveva viste di bisbetiche, ma lei era eccezionale. Kitty la adorò fin da subito ed era divertente il modo in cui si prendeva gioco di Tom in modo affettuoso.

Il marito, da subito stanco di non essere preso in considerazione da nessuno, andò a bere da un'altra parte.

“No, aspetta... Max... Max...” Tentò di fermarlo Tom trattenendo a stento le risate: con Dott aveva promesso di non parlargli per tutta la sera, facendolo innervosire.

Quando si misero a tavola Maxwell Fane non si fece vedere.

“Fa sempre così... È l'uomo più noioso del mondo.” Commentò Dorothy, ridendo.

Sembrava Kitty le stesse simpatica, nonostante non fosse molto loquace quella sera: guardava tutti in modo incuriosito e ascoltava le loro conversazioni, che non erano del tutto noiose.

“Che studi frequenti, cara?” Arrivò ad un certo punto a chiederle Tom.

“Faccio il Gymnasium che è... Forse l'equivalente in inglese sarebbe la Grammar School.” Rispose sorridendo lievemente.

Bevve un sorso di Spritz. Non era molto abituata a bere alcol e il sapore non era dei suoi preferiti, ma era decisa a non darlo a vedere.

Thomas fissò il suo sguardo su di lei per qualche secondo. Improvvisamente famelico, felino.

Dott rise.

“L'hai conquistato, ragazza. Ti piace Alfred Gustav?, quello che scrive gli editoriali per il Times e che ha pubblicato quel racconto... com'è che si chiamava...”

Tom arrivò in suo soccorso: “La rosa e l'usignolo.”

“Ah, ecco cos'era... E comunque terrà una conferenza su quel libro, quindi se vuoi ti portiamo con noi – Tom accennò il consenso -... Sai, una di quelle cose un po' Baudelaire, un po' Balzac, non che io sappia molto di letteratura francese... ”

“Dottie Fane fa la modesta.” Rise Tom guardando Kitty: si sporse nella sua direzione scherzosamente, con l'aria di chi dice un segreto.

“Questa bella signora che vedi qui ha un ego più grande di Buckingham Palace.”

“Oh, questo te lo concedo!” Rise Dott.

“Fatti baciare”, continuò poi.

Tom si sporse verso di lei, che gli diede un bacio sulla fronte, spostando nella mano sinistra il bocchino da cui usciva una scia di fumo.

Kitty adorò il modo in cui Tom aveva pronunciato Buckingham Palace.

Nella sua voce pacata, bellissima, vibrante.

E ora i due amici davanti a lei – che avevano l'alchimia che hanno solo gli amici di vecchia data o quelli che si sono conosciuti da pochissimo e sentono che quel poco diventerà molto – splendevano di una luce intensa.

Kitty posò il suo sguardo sulla piccola lampada elaborata, al centro del tavolo. Aveva degli intagli in vetri diversi che sembravano piume i pavone.

La ragazza non poteva fare a meno di sorridere per la situazione in cui era. Giorni prima non l'avrebbe mai immaginato, eppure Tom e Dott sembravano quelle persone interessanti, che conoscono i giri giusti, quelle persone splendenti, carine ed educate e meravigliosamente inglesi.

La sua insoddisfazione cronica, ad un certo punto, si diramò dalla sua giovane anima, ma solo temporaneamente, sostituita da una felicità inebriante e dalla certezza che, al momento, non avrebbe potuto desiderare niente di meglio.

Sedeva accanto a Tom, che quando ordinarono il dolce le lasciò assaggiare un liquore dolce che aveva ordinato.

Kitty rise e tossì leggermente tentando di contenersi.

“È  fortissimo.” 

“Lo è” sorrise lui.

Anche Dott notò come lo sguardo di Tom si addolciva e la sua voce si pacava davanti a quella ragazzina che nella sua mente chiamava Katherine perché non sapeva il tedesco e perché, in cuor suo, odiava i soprannomi.

La scossa però l'avvertì solamente Kitty, quando il ginocchio di Tom sfiorò il suo, alzando un po' il tessuto del vestito; , mentre lui si volgeva a Kitty sorridendole affettuosamente. Lei arrossì e mentre le sue guance prendevano sfumature vermiglie le sue labbra turgide si aprivano in un sorriso carico d'imbarazzo. 

Guardò in basso.

Quel momento le diede un piacere masochistico. Il fastidio che le dava quella sensazione d'imbarazzo lottava con il fatto che si sentisse incredibilmente bene.

Finita la cena Tom, Dott e Kitty si appostarono nella terrazza, dove c'era altra gente che conversava seduta sulle sdraio e sulle poltrone.

Tom intravide il movimento della scapola di Kitty: trattenne un gemito.

Quando lei dovette raggiungere i genitori, Tom si sentì insoddisfatto e, allo stesso tempo, paziente. Avrebbe voluto sentire la presenza di Kitty vicino a sé continuamente.

Di lei restava impresso nelle narici di Thomas quel profumo, che aveva la sensazione di aver già sentito e continuava a rievocargli qualcosa.

Una sala, delle signore che parlavano, tutto era regolare e poi, quel profumo di dolce nella stanza. Quel profumo che aveva la sensazione di sentire solo lui e che lento s'impossessava delle sue narici, coprendo qualsiasi cosa.

Era un fruscio del passato che tornava ora nel presente di Tom: il dolceamaro profumo d'idillio delle ragazze borghesi.

E quel profumo, quel profumo...

Lo cullò, nel suo abisso, nel suo vizio incosciente, quel profumo... 

Quel profumo d'un fiore del male. 


 


 

Angolo Autrice.


Yay, finalmente sono riuscita a scrivere questo terzo capitolo!
Scriverlo è stato parecchio difficile, ma alla fine c'è l'ho fatta e per assicurarmi di aggiornare sempre ho deciso di mettere un giorno fisso in cui pubblicherò la storia.
Ovvero,
aggiornerò ogni martedì.
Inoltre mi scuso per l'infinita lunghezza di questo capitolo, ma non mi sembrava sensato tagliarlo, quindi l'ho lasciato così. :')
Una lettrice ha ben notato che in questa storia c'è anche l'influenza di Casablanca, film che adoro e che mi sono dimenticata di citare, quindi lo faccio ora. *^*
E poi.... E poi basta.
Un bacio e al prossimo martedì,

 

Marlene Ludovikovna

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***





 

Parte prima



Capitolo quarto

 

Kitty Pfenning si sentì incredibilmente inquieta, una volta tornata nella sua stanza.

Aveva la sensazione di essere una di quelle fanciulle nei romanzi dell'Ottocento, costantemente in apprensione per chissà che cosa.

Aveva ragione il cinico signor Bennett a dire che gli affari amorosi rendono più movimentata la vita di una giovane donna e d'altronde ai tempi non c'era poi così tanto da fare per occuparsi le giornate.

Eppure Kitty non si sentiva di considerarlo un fatto d'amore.

Come le era improvvisamente estranea quella parola di cui aveva così tanto letto fino a pensare di conoscerne il vero significato lei stessa, che mai l'amore l'aveva provato.

Vedeva le sue coetanee innamorate di ragazzi che a lei non facevano né caldo né freddo, mentre continuava a perdersi in sogni che sembravano irrealizzabili e fantasticava che il suo Werther prendesse carne e ossa mantenendo il suo fulgido cuore d'inchiostro e che si trovassero. Voleva essere la sua Carlotta.

Sua madre continuava a ricordarle che non era normale non interessarsi all'altro sesso e forse aveva capito il motivo per cui aveva accettato l'invito del signore inglese.

Kitty era però a conoscenza di un suo fantastico potere. Tra i suoi spasimanti c'erano infatti uomini adulti o ragazzi maturi.

Ed era coloro quelli a cui Kitty era interessata ma, nonostante la madre la esortasse a fare conoscenze, Kitty riusciva a trovare un difetto in ognuno di essi.

Le piacevano però i dolci regalati, i fiori, gli inviti.... E nonostante ciò non le importava assolutamente nulla del loro destinatario.

Con Thomas però era diverso: lui era davvero un adulto. Non faceva il ragazzino, per niente. Lui era splendidamente maturo e sembrava il tipo di persona da cui chiunque avrebbe potuto imparare.

E Kitty voleva imparare tantissimo.

Le piacevano i modi aggraziati di lui senza essere effeminati, le piaceva la sua scioltezza, il fatto che probabilmente sarebbe sembrato a suo agio in qualsiasi situazione.

Avrebbe voluto essere così anche lei. Poter padroneggiare la situazione.

Eppure Kitty, senza volerlo, era sempre al centro dell'attenzione di chi la guardava: o per amore, o per disprezzo.

E, volente o nolente, la sua innocenza la spinse a pensare a lui, nel suo letto a baldacchino, con una zanzariera che la preservava dalle punture e il caldo non così tanto soffocante come se l'era immaginato.

Cadde addormentata quando Tom si era appena coricato, ma ci fu un istante in cui le loro linee di pensiero trovarono una congiunzione.

 

Quando Kitty incontro Tom e i Fane a colazione, il giorno dopo, si sentiva intimorita a parlargli e allo stesso tempo era costretta da una forza di magnetica curiosità ad alzare lo sguardo e facendolo notava quanta energia contenesse quell'uomo che, persino a colazione, riusciva a portare l'attenzione di tutti su di lui senza nemmeno prodigarsi troppo. Anzi, lui non faceva niente, eppure irradiava una luce che era pari a quel sole di primo mattino.

Kitty e sua madre erano diventate golose di crepes marocchine, che non erano sottili come crepes normali ma erano dalla forma più consistente e ristretta con una consistenza un po' spugnosa, ma senza risultare stucchevole.

Kitty ci metteva sopra marmellata di mirtilli, con cui di tanto in tanto si sporcava le dita per poi portarle alla bocca, ignorando le lamentele della madre.

Suo padre non prestava minimamente attenzione alla madre e alla figlia, troppo occupato dal suo giornale francese – di cui si era anche lamentato: “possibile che in questo posto, frequentato da gente proveniente da paesi diversi, non ci sia un giornale in tedesco?.

Ecco, queste erano le grandi domande della vita per il dottor Richard Pfenning.

Kitty gli lanciava di tanto in tanto qualche sguardo disinteressato per poi tornare al suo cibo.

“Kitty, tesoro, ingrasserai se continuerai a mangiare così tanto” provò a parlarle la madre.

“La colazione è un pasto importante, mamma” disse.

Deglutì un'altro boccone di crepe.

L'arrivo di Tom era completamente inaspettato quando se lo ritrovò alle spalle.

“Buongiorno” disse con un sorriso che tendeva più dal lato destro del viso.

Baciò la mano a sua madre, strinse quella di suo padre. Con vigore, ma senza risultare fastidioso.

Si appoggiò con entrambe le braccia allo schienale della sedia di Kitty, che s'inclinò leggermente alzando la testa, per vederlo in faccia.

Quel giorno lei aveva due bellissime treccine arrotolate fino a diventare due chignon fermati sulla testa da molte forcine; i suoi capelli ramati sembravano riflettere la luce.

“Signori Pfenning, io e i miei due compagni di viaggio, pensavamo di fare una gita qui intorno. Abbiamo una macchina e un autista francese che ci accompagnerà. Mi chiedevo se Marie Katharina potesse avere piacere nell'aggiungersi a noi.”

Marie Katharina. L'aveva nominata per esteso: suonava buffo, ma al tempo stesso il tono con cui aveva incantato i suoi genitori con un tedesco perfetto, non le sembrava affatto buffo.

Un sorriso affiorò dalle sue labbra spontaneo, quando sentì l'invito provenire alle sue orecchie.

Vide sua madre un po' perplessa e sentì nascere in lei un sentimento di lotta per la conquista della sua felicità giornaliera.

“Ti prego, mamma!” Sorrise lei, già piena d'eccitazione, mentre nelle sue guance si delineavano le sue fossette.

I signori Pfenning concordarono.

Kitty sarebbe andata con Tom.



 

Si ritrovarono nell'atrio dell'albergo verso metà mattina: Kitty aveva una camicetta bianca che finiva in vita con degli intarsi ricamati e culminando con una gonna anch'essa candida e piuttosto ampia, dai tanti strati di pizzo e ai piedi, le calze alla caviglia, e un paio di Oxford bianche e blu.

In testa aveva un cappello con un che di maschile, intrecciato in paglia e con un nastro blu, le restava ampio davanti al viso e alcuni ciuffi rossicci le incorniciavano il viso cereo con le gote rosse di un'impeto di vivacità.

Al collo la sua collanina preferita: un cuore d'argento, di quelli che si aprivano e che al loro interno contenevano una foto dei propri cari, del proprio caro.

Quello di Kitty era vuoto.

Dott era piuttosto affettuosa con Kitty, per quanto fosse troppo impegnata a fare l'organizzatrice della situazione. Maxwell era rimasto in albergo.

Kitty si ritrovò a pensare quanto Dorothy potesse in realtà essere triste nell'essere sposata ad un uomo che non ama. Nonostante ci scherzasse sopra, Kitty era sicura che fosse sempre presente in lei quel velo di tristezza.

La ragazza osservava i bei lineamenti di Tom; gli occhi di quell'azzurro un po' ghiacciato, come quelli di Kitty, solamente che quelli di quest'ultima erano ancora più chiari. Erano frammenti di ghiaccio puro.

E i capelli biondi di Tom, pettinati con la riga di lato, gli davano ciò che per Kitty era e sarebbe sempre stato solo... Thomas Bartley.

I tre salirono su un auto decappottabile bianca e si avviarono verso il deserto.

Tom era seduto davanti, alla destra del guidatore, la guida francese, mentre Kitty e Dorothy stavano dietro.

Tom traduceva qualche nozione datagli dal francese.

L'aria calda accarezzava il viso di Kitty; stava bene.

La lunga strada di terra aranciata si estendeva davanti a loro per chilometri, aspettando solo di essere percorsa.

Stavano andando verso Tarifa e iniziavano ad intravedere il mare, dopo un percorso nell'entroterra.

“Potremmo farne altre di gite simili, non trovate? In fondo voi fanciulle siete di ottima compagnia!” Si affacciò Thomas verso di loro.

Dorey rise, accompagnata dal sorriso di Kitty.

Tom notò come Dott avesse assimilato quei modi di fare: le veniva spontaneo accentuare elegantemente la risata, mentre Kitty si limitava ad un sorriso, senza enfatizzare niente, a meno che non stesse veramente ridendo. E ciò significava che il suo interlocutore doveva aver fatto una battuta molto divertente.

Quando scesero dalla macchina, arrivati a Tarifa, Kitty era tutta contenta e un po' stordita. Durante il viaggio in macchina aveva parlato pochissimo: non in modo indifferente o sgarbato: era il tipo di persona che non attendeva altro che godersi i viaggi in macchina per veder scorrere il paesaggio davanti a sé, che cercava disperatamente i finestrini in treno, che voleva vedere tutto e non scordarsi niente.

Tarifa era una città molto bianca; davanti a loro si susseguivano una moltitudine di case dall'aria di essere fresche e accoglienti. Da un giardino interno scorsero un albero di fico e Tom ne rubò uno – ne prese solo uno scoprendo che ad entrambe le sue accompagnatrici i fichi non piacevano affatto.

“Tom, caro, non è che stai cadendo in disgrazia e non l'hai detto a nessuno? Ora deve pure rubare la frutta, povero bambino! Povero piccolo fiammiferaio!” Lo sfotteva Dorothy, abbracciandolo e baciandolo.

Kitty trovò adorabile questa forma di affetto. Le sembrava che si amassero talmente tanto e in un modo così forte... Non aveva mai assistito ad un legame d'amore così solido e al tempo stesso così impensabile.

Era abituata a pensare agli amanti quando pensava all'amore e invece era amore anche quello: quella forte, persistente amicizia.

Tom finì per camminare all'indietro per guardare entrambe le ragazze, tra un giro e l'altro.

“Ma che belle, siete tutte e due vestite di bianco!” Esclamò sorridente, per poi spostarsi al fianco di Kitty.

The white ladies...” continuò, accompagnato dagli sguardi di scherno di Dorothy.

Sounds quite nazi” commentò per poi essere accolta da una leggera insicurezza, guardando Kitty.

“Oh, mi dispiace” disse Dott, leggermente a disagio: condizione rara da trovare nella sua persona.

Tom era più che altro incuriosito.

“E perché?” disse Kitty, la voce limpida, languida.

“Be', mi pare che tua mamma sia tedesca...”

Kitty si mantenne distesa per poi portarsi un ciuffo di capelli dietro all'orecchio; le dava fastidio trovarsi in queste situazioni a causa della sua nazionalità, mentre gli altri le sembravano tutti così lungimiranti e moderni.

“Lo è, ma ciò non significa che sia nazista, cioè diciamo che gli ebrei non le piacciono tanto, ma non è questo il punto... Insomma, non tutti i tedeschi lo sono. E poi la Germania era in una situazione di grande povertà prima di Hitler, lo dicono anche i giornali britannici, no?”
Kitty si ricordava della sua visita a Stoccarda, nel Ventinove. Le era rimasta impressa e in quel momento non aveva detto niente, vedendo sua madre irata contro gli ebrei e che dava piena fiducia in un uomo chiamato Adolf Hitler, considerandolo un Cristo.

Il marito la lasciava fare, non gli importava gran che della politica.

Però Kitty si era convinta fosse meglio che qualcuno risollevasse l'economia di quel paese che aveva visto così ridotto in ginocchio, nonostante proprio non riuscisse a capire cosa questo centrasse con lo sterminio degli ebrei.

“Sì, be', è vero” concordò Tom, “forse qualcosa per la Germania stanno facendo.”

“Però non riesco proprio a capire come questo possa c'entrare qualcosa con gli ebrei: insomma, Hitler dice durante le campagne elettorali che la soluzione per l'economia tedesca è spendere soldi per uccidere gli ebrei che sono distruttivi per la razza ariana – aveva un tono di sbeffeggiamento quando lo diceva.”

“Cioè”, continuò, “promette di risollevare l'economia spendendo soldi per uccidere persone perché queste persone secondo lui impedisco al paese di essere ricco. Spendere soldi per avere più soldi. Cosa sperano di trovare dopo averlo fatto? Un folletto magico? That's uttlerly ridiculous!”

Tom la guardava interessato e Dott annuì soddisfatta entrambi non mancarono però la vena ironica di Kitty, che li fece sorridere.

“Però ne sai molto di politica, Kitty” commentò Dott.

“Ci credo, mia madre mi fa sentire ogni singolo discorso!” Rise la ragazza.

La guida nel frattempo li stava accompagnando verso un posto dove avrebbero mangiato e si sarebbero rinfrescati.

Vollero mangiare il cous cous marocchino con verdure.

Kitty aggiunse anche la carne al suo piatto perché, era super-hungry, come usava dire, con la sua voce lirica e un'impressione accigliata e un po' infantile.

La sua pelle splendeva viva, chiarissima, ma senza essere cerea: una bambola di porcellana dalle guance arrossate.

Mentre Thomas la osservava si rendeva conto di quanto fosse così in bilico tra l'essere una ragazza e l'essere una bambina, così, veniva osservata e apprezzata senza che se ne rendesse conto, in quel meraviglioso limbo dalla più viziosa sensualità.

Dott già programmava di andare alla spiaggia e Kitty era super-excited.

Il modo in cui aggiungeva quei superlativi continuamente era... Super-adorable!

Durante il pranzo Dott raccontò di come Tom si fece lasciare dalla sua fidanzata all'università.

“Si chiamava America, ti rendi conto! Ame-ri-ca! Un nome assai strano da portare in Inghilterra” commentò Tom.

“Be', infatti tutti la chiamavano Amy” rispose Dorothy.

“Amy è un nome carino... Come Amy di Piccole Donne”.

E qui veniamo ad un altro dei fantastici pregi di Kitty: l'abilità nel conversare.

Per quanto non eguagliasse Tom, lui ammetteva che sarebbe potuta diventare molto brava: le riconosceva che se la cavava in discorsi adulti, come l'egoismo di Catherine di Cime Tempestose e quello di Heatcliff che si differenziavano in capriccio e brutalità.

Aveva usato proprio queste due espressioni.

Inoltre era parecchio informata della situazione politica, nonostante ammettesse che non le interessasse granché.

“La politica mi annoia un po'” diceva.

“Be', io scrivo editoriali, di tanto in tanto” disse Tom.

“Ah” fece Kitty, abbassando lo sguardo con aria mortificata e portando alla bocca una forchettata di cous cous, che poi riappoggiò sul piatto.

Alla loro destra, dei musicisti avevano iniziato a suonare.

“Be', dev'essere interessante!” si ravvivò la ragazza con un sorriso.

“Sentire un'opinione personale rende più interessanti i fatti oggettivi”.

Tom annuì impressionato, con un'espressione... Impressionata.

My dear, la politica annoia anche me, spesso. Ma ci sono questioni più interessanti di altre.”

“Come per esempio la situazione con il proibizionismo negli Stati Uniti, la politica in Germania, la censura in Russia, le varie opinioni su Mussolini, la situazione politica in Cina.... Sfortunatamente non capita granché di interessante in Inghilterra” continuò.

Quando parlava e spiegava qualcosa non lo faceva con un'aria da saputello, ma con l'aria di una guida: Kitty trovò entusiasmante il modo in cui parlava.

Dott fingeva di essere annoiata, ma era impossibile non subire l'ascendente di Thomas Bartley.

Dopo mangiato visitarono il paesino che era un susseguirsi di candide case, di strade calde sotto il sole delle due. L'aria pesante li guidava nel loro percorso e il cielo coprente vegliava sui tre viaggiatori.

Non c'era tantissima gente in giro, il che rendeva tutto molto più piacevole.

Tom, Kitty e Dott parlarono del più e del meno finché tutto non si fermò per il momento del moezin.

Kitty trovò bello pensare che, in quel preciso momento, tutto il Marocco si riuniva in preghiera, fermando ogni attività.

Il canto riempiva Tarifa, arrivando ovunque. Il canto riempiva il Marocco, riempiva il mondo.

Se all'inizio Kitty aveva trovato un po' fastidioso svegliarsi nel bel mezzo della notte e sentirlo, ora era certa che le sarebbe mancato.




Si fermarono in spiaggia: il loro accompagnatore fu aiutato da Tom a sistemare dei teli e poi andò via, con l'accordo di tornare qualche ora dopo.

Il mare pieno d'azzurro si estendeva davanti al loro sguardo.

Kitty si tolse le scarpe e infilò dentro i calzini, per avvicinarsi alla riva, seguita da Dorothy.

L'acqua non diventava subito profonda, ma rimaneva bassa a lungo: il mare non era affatto calmo: le onde nascevano per poi morire all'impatto con la sabbia.

Kitty si allontanò un po', tenendo alto il vestito e l'acqua le arrivava quasi al ginocchio.

Guardò indietro, verso Tom che era rimasto seduto sulla spiaggia e, appoggiato su un fianco, teneva in mano un taccuino.

Poco dopo lui si alzò, guidato da un desiderio profondo e inestimabile e raggiunse Dott e Tom.

Thomas sapeva che non era amore e infatti non era niente di tutto questo. Non ancora.

Era solo che era impossibile restare indifferenti davanti a tanta spietata bellezza e lui, Dorothy e Katharina erano uniti da quella comune commozione che aveva attanagliato le viscere di molti prima di loro e non avrebbe mai smesso di farlo.

“Non è bellissimo qui?” Urlò Tom mentre un'onda inaspettata gli bagnò di troppo i pantaloni.

Dott e Kitty concordarono.

Quella donna infinitamente triste e così tanto ironica guardava Kitty con benevolenza.

“Cara, posso chiamarti Katharine? Katharina è veramente difficile e i soprannomi mi disgustano” disse lei, alludendo a Tom che sorrise.

“Oh, povera Dott” disse Tom, scherzosamente malinconico, “condannata ad essere chiamata con soprannomi e soprannomi! E lei li odia!”

Risero.

Nonostante i due fossero molto più adulti di lei, Kitty non si sentiva un pesce fuor d'acqua.

Usava considerarsi un essere umano ed era contenta che ci fossero persone che facessero altrettanto, essendo esseri umani e non numeri o banconote.

“Comunque”, iniziò Tom con impeto e tono proverbiale, “voglio inaugurare il tuo nome, Katherine... Con dello champagne!”

Detto questo corse a prenderlo dov'erano accampati.

Kitty era felice.

Quando Tom tornò con una bottiglia e tre bicchieri li alzarono “a Katherine, Dorothy e Thomas! E... All'umanità!”

Brindarono, risero.

Kitty pensò che non avrebbe potuto essere più felice di così.

Avrebbe voluto abbandonarsi alla limpida acqua, lasciarsi cadere, trasportata dal corso celeste.

In quel momento non provava quella fame spasmodica di eventi, novità.

Le sembrava che tutto fosse meravigliosamente bello così. Tutto lento e poi troppo veloce.

Tom le prese la mano e la baciò.

Non disse nient'altro. Si portò solamente la mano alla bocca e mentre lo faceva la guardava con affetto.

Fu allora che quello che Kitty sentiva, quell'attrazione, cominciò a trasformarsi in sentimento. Ancora non era amore e neanche per Tom, ma la premessa – che per Kitty era certezza – che lo sarebbe diventato le dava un trasporto che non aveva mai provato per niente e per nessuno.

E Tom che l'aveva già provato si limitò a guidare lei e la prese per mano, sapendo che probabilmente nulla avrebbe potuto continuare, ma con sincera speranza e ardente desiderio.

Katharine, Thomas e Dorothy camminarono lungo la riva per ancora un po', il cielo che s'ingrigiva sempre di più.

Poi venne l'ora di tornare a Tangeri. 

 


 

Angolo Autrice.

Ed eccomi ad aggiornare! Sto tipo ballando il charleston dalla felicità per essere riuscita ad aggiornare in tempo. :')
Volevo fare una precisazione riguardo alla madre di Kitty: nella maggior parte di libri/film ambientati in quell'epoca i cittadini tedeschi vengono raffigurati o come dei fanatici impazziti o come dei nascondi-ebrei-nello-scantinato. Ecco, ai tempi c'era anche gente che si faceva i fatti suoi pur vivendo in una dittatura giusto per rovinare l'infanzia ai fan degli stereotipi - senza nulla togliere agli eroi che hanno messo in pericolo la loro vita per salvare quella di altri.
Quindi, sì, la famiglia materna di Kitty non è nazista per stereotipo, ma i motivi si capiranno nei capitoli successivi.
 Di nuovo mi scuso per la lunghezza immensa del capitolo e ho una tremenda paura di avervi annoiato. :-*
Spero che questo quarto capitolo vi sia piaciuto!
Continuerò ad aggiornare ogni martedì.
Un bacio e alla prossima.

 

Marlene Ludovikovna

 

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***



PARTE PRIMA


Capitolo quinto

 

Quando tornarono all'albergo Kitty era profondamente scossa e contenta al tempo stesso. Era una gioia dolorosa e piacevole, quella che Kitty si portava addosso.

Si fece una lunga doccia e poi restò adagiata sul letto a baldacchino con ancora l'asciugamano addosso e i capelli bagnati che come rame fuso s'appoggiavano al materasso, bagnando il copriletto.

Sentiva ancora le labbra di Thomas che le sfioravano la mano: le sentiva e la cosa quasi la faceva piangere; aveva sempre avuto dei problemi con il contatto fisico.

Faceva fatica ad abbracciare o baciare i suoi genitori, a dimostrare il suo affetto alle amiche... Al contatto fisico s'irrigidiva.

Ricordava di una volta, che aveva quattordici anni e uno zio mai visto prima era venuto a trovarli a Vienna dalla Germania, perché lì di passaggio.

Le aveva accarezzato la guancia e Kitty era rimasta scossa e aveva sentito così a lungo la pressione della mano di lui sulla sua guancia.

La sentiva come se quel momento orribile si ripetesse di continuo e il contatto restasse, indelebile sulla sua pelle.

Tom era stato delicato e non voleva dargli nessuna colpa: non avrebbe mai potuto immaginare che quell'azione le avrebbe procurato un tale disagio, eppure sentiva una stretta allo stomaco. E allo stesso tempo questa volta era diversa da un normale momento di fastidio: sentiva il tocco persistente, sulla sua mano calda.

Malgrado questo inconveniente, Kitty era però felice.

Era sempre più appassionata da Cime tempestose e non vedeva l'ora di finirlo per poi incominciare una lettura nella sua lingua madre: La morte a Venezia di Thomas Mann.

Thomas.

Quel pensiero le strappò un sorriso, che la fece sentire ancor più patetica.

Nonostante fosse romantica nel senso letterario del termine aveva un blocco nei confronti di forzature nelle manifestazioni d'affetto che le sembravano fasulle.

Eppure quel nome continuava a risuonarle nella mente: Thomas, Thomas, Thomas.

Lo lesse mentalmente in francese, inglese e tedesco cambiando la pronuncia per ogni lingua.

E ripeté cento e cento volte darling quella parola così dolce, da una voce così raffinata. Ripensò alle parole che le piacevano di più, quando venivano pronunciate dalla bocca di lui.

Pensò ai vezzeggiativi che usava di continuo.

Quando le venne voglia di andare in terrazza a leggere un po', il desiderio fu unito alla paura di trovarlo. Quel fremito che la riempiva, la stordì, pietrificandola: aveva voglia di fare tutto e, al tempo stesso, tutto diventava niente.

Restò ancora un po' sul letto e poi si decise ad alzarsi; la sua inquietudine non riguardava solo Thomas.

Era così contenta per quello che aveva appena vissuto eppure sentiva piombare su di lei, inevitabile, uno di quei momenti di inquietudine e noia.

Non sapeva cosa voleva realmente fare e appena provava a leggere sentiva di aver troppi pensieri per la testa per continuare a farlo.

E allora metteva giù il libro.

E allora si alzava e si sentiva incredibilmente sciocca perché non sapeva cosa voleva.

Tom non era in terrazza, ma ciò non significava che quel posto fosse privo di vita.

Un gruppo di francesi era seduto a conversare animatamente bevendo tè alla menta.

Ne ordinò un bicchiere anche Kitty che era diventata davvero appassionata della bevanda marocchina.

Si sedette su un divano bianco con il libro in grembo, nonostante non riuscisse a leggerlo.

La sua attenzione era focalizzata sui tetti e le terrazze che si estendevano davanti a lei, culminando con il mare: il sapore fresco – e tiepido al tempo stesso - e dolce della menta le riempiva il palato mentre l'aria marina echeggiava di tanto intanto, trasportata dalle calde folate di vento.

Sua madre la raggiunse per il tè, raccomandandole di non berne troppo perché se no non sarebbe riuscita a dormire.

Kitty disse di avere quasi diciassette anni e non cinque.

In fondo però sua madre non era così antipatica, per quanto fosse mentalmente limitata e un po' isterica. Le voleva bene e in fatto di vestiti aveva ottimi gusti.

Quel pomeriggio per esempio era tutta contenta per aver comprato delle scarpe francesi che le piacevano tanto.

“E...” fece una pausa per frugare nella borsa, “Ti ho anche comprato una borsa!”

Kitty sorrise contenta, vedendo il regalo della madre.

Era una borsetta a tracolla in cuoio chiaro, che si chiudeva con una cinghietta e che aveva due tasche sul davanti e due ai lati.

“Anche se è piccola ci stanno tantissime cose” commentò Helene.

A Kitty piacevano le sorprese e i regali inaspettati e ancor più le piaceva quando sua madre se lo ricordava.

Kitty e sua madre chiacchierarono un po', poi Helene andò a prepararsi.

Katharine, che ormai si era svagata abbastanza, prese in mano il suo libro.

Un conoscente di Tom giunse da Marrakech proprio quel pomeriggio. Il suo nome era Scott Kingsley: era un uomo alto, baffuto e dai folti capelli neri.

Tom era stato in classe con lui alle superiori e non si erano sentiti finché lui, appena arrivato al Grand Hotel du Savoy con la moglie Lucy, non l'aveva visto al bancone, mentre sorseggiava dello scotch.

Allora si erano salutati calorosamente.

Scott Kingsley era un giocatore di golf, Lucy Waughan una ereditiera e entrambi nella vita non avevano fatto altro che vivere con i soldi dei loro genitori, che invece – nati bassi borghesi – si erano arricchiti con l'imprenditoria e i loro sforzi. Scott Kingsley aveva infatti ereditato una fabbrica di cioccolato e Lucy, non avendo fratelli, un negozio di cappelli, Waughan's, in Oxford Street.

Thomas si mostrò davvero interessato alle vicende dei due in viaggio e c'era da dire che era così bravo a fingere che avrebbe potuto fare l'attore o il politico. Sorrideva così radiosamente che anche Lucy per un istante dovette ammettere che era decisamente più affascinante del suo amato marito – il quale non era proprio il massimo, dal punto di vista dell'estetica, ma che lei amava enormemente e ciò si percepiva talmente tanto che Tom arrivò a pensare alla differenza tra una coppia così e i suoi amatissimi Fane.

Quando finalmente i due se ne furono andati a sistemarsi nelle loro camere, Tom potè sedersi in una bella poltrona rivestita in cuoio e fumare la sua pipa.

Misero su della musica americana degli anni 20.

A Tom sembrò di riconoscere quella melodia... Che tempi belli erano stati quelli prima della crisi in cui gli Alleati avevano appena vinto la guerra e si faceva festa ovunque. Allora studiava letteratura inglese e si preparava ad ereditare una casa editrice, la Bartley and Collins, aveva appena scritto un romanzetto su una storia d'amore tra un'inglese e un cinese e di tanto in tanto scriveva articoli per il giornale di Cambridge.

Non era la celebrità della scuola, ma era di più: era il tipo di persona che la gente si fermava ad ascoltare e non c'era nessuno che non ne fosse stregato, tranne Dorothy Haddleton, una maschietta che non voleva fare altro che leggere, ballare e andare al cinematografo e che viveva la sua vita come un'allegra perditempo.

Dorothy era la studentessa più bella di Cambridge, con i suoi bei boccoli biondi che le incorniciavano il viso luminoso, ma non era di certo la più brava, al contrario di Thomas, che accumulava sempre più successi.

Fu in quel periodo che i due cugini diventarono sempre più legati: passavano pomeriggi nei magazzini di Londra e organizzarono feste.

Dorothy Haddleton e Thomas Bartley erano nomi sulla bocca di tutti, nell'ambiente giovanile di Cambridge, e anche in quello di Londra, quando i due vi facevano visita.

Fu in quel periodo che Dott venne a conoscenza di tutti i punti deboli di Tom cosicché c'era una cosa che sapeva e ammetteva solo lei: Thomas Bartley era un uomo vanitoso.

“Se potessi ti scoperesti da solo” gli aveva detto una volta Dott con un sopracciglio alzato e uno sguardo ironicamente sprezzante, guardandolo scegliere che cravatta indossare. 
Così lui le era venuto sinuosamente vicino e le aveva dato un bacio sul collo, ridendo e le braccia di peso, facendo cadere entrambi sul letto - “Stai ferma che non ti riesco a baciare bene... Ah, per punizione ti darò altri tre baci.” 
Lei aveva riso fragorosamente. 
"Bevi, bimba, bevi" scherzò lui versandole del brandy e lei gli aveva risposto con una smorfia. 
"Ammettilo che ti ami, Tom. Sei un narcisista." 
“Dott, - l'aveva guardata poi lui con un sorrisetto - dimentichi che io non posso essere più giovane di me stesso.”

Quando andava all'università e aveva vent'anni, gli oggetti desiderio di Tom Bartley ne avevano anche quindici: c'era stata un'omonima di Dott, Dorothy Leach, che andava al liceo a Cambridge e che viveva lì e un'altra, di sedici anni, di nome Lily Brunty, la figlia di degli amici di famiglia che vivevano a Edimburgo.

Poi, avendo superato i vent'anni di età, l'età delle sue piccole amanti era sempre stata tra i sedici e i venti. Tra loro c'era però stata un'eccezione e il suo nome era Daisy Lancester, un'affascinante signora sulla cinquantina, che gli aveva dato una buona educazione al sesso.

Dorothy conosceva ogni donna di Tom. Le piaceva, anche se non lo ammetteva, che lui ne parlasse; non avrebbe mai voluto averlo come fidanzato, si amava troppo e sarebbe stato disgustoso, essendo per lei un fratello e un amico, però una volta sposata i suoi racconti si erano fatti sempre più piacevoli alle sue orecchie.

A Dorothy Haddleton Fane mancava di essere una maschietta in ogni momento della sua vita di donna noiosa e sposata, e in ogni momento, lottava disperata per la sua felicità e s'avvinghiava e si dimenava per conquistare quello che per anni le avevano negato per poi toglierglielo non appena ne aveva avuto l'assaggio e il suo buon sapore s'era sparso sul suo palato: un attimo di libera fanciullezza.

Thomas lo sapeva. E il loro rapporto consisteva anche in questo: un avvinghiamento tramite segreti e confidenze. Erano amici pericolosi e ad esserlo si divertivano tremendamente.

Quando Dorothy lo raggiunse Tom si meravigliò di quanto fosse diventata fredda rispetto a poco prima, quando erano a Tarifa; non era la sua dolce superbia o il suo mielato disprezzo ma era vera freddezza.

Appena arrivata si sedette accanto a lui – o meglio si accasciò – e trasse un sospiro. Poi ordino un whisky.

Rimanerono in silenzio per un po': Tom era preso dal libro che stava leggendo, I fratelli Karamazov, mentre Dott restava ferma a fissare il vuoto.

Di tanto in tanto Tom alzava gli occhi dal libro per non trovare quelli di Dorothy, che erano fermi sul tavolino.

“Cosa c'è Dott?” chiese dopo un po'.

“Sono un po' assonnata” rispose lei con freddezza.

“Dov'è Maxwell?”

“Non ne ho la minima idea.”

“Oh, perfetto.”

Dorothy s'irrigidì; spesso Tom usava essere cinico nei suo confronti sminuendo i suoi problemi con Maxwell, nonostante in fondo la comprendesse.

“Thomas, sei un idiota.”

Lui fece una smorfia e bevve un sorso di scotch: di tanto in tanto osservava la stanza attraverso il vetro del bicchiere.

Il bar dell'albergo era davvero bello. Le ampie poltrone erano messe intorno ai tavolini bassi e il bancone era ampio e in legno di mogano.

“Dorothy, non posso essere empatico nei tuoi confronti, se fai la gran dama e non mi dici neanche qual è il tuo problema” ribatté lui, quasi bofonchiando, nonostante le parole arrivassero con estrema chiarezza.

“Dorothy?” disse lei con un sorrisetto carico di rabbia.

“Mi spieghi qual è il motivo della tua rabbia?” chiese lei, ora cinica.

Tom si voltò verso l'amica e sibilò: “Non è rabbia, ma fastidio.”

“E cosa ti reca fastidio, Thomas?”

“Il tuo comportamento.”

“A me dà fastidio essere sposata con una persona che detesto e che tu domandi quale sia il mio problema nonostante lo sappia già!” sbottò lei.

Fu allora che Tom si pentì di ogni parola detta fino a quel momento e si accasciò sulla sedia, con una mano sulle tempie.

“Oggi ho mal di testa” disse sofferente.

Dott si alzò, in un frusciare di scialli bianchi e se ne andò senza dire una parola, il labbro inferiore un po' abbassato in una smorfia altera.

Tom restò per un po' lì seduto. Avrebbe tanto desiderato stare con la sua nuova conoscente, in quel momento, di cui non vedeva l'ora di apprendere passioni e giovanili desideri.

Sperò di trovarla in terrazza e così ci si recò, ma lei era già uscita da almeno un'ora per andare a mangiare fuori con i suoi genitori, così Tom ordinò un altro scotch.

Kitty si addormentò non appena sfiorato il cuscino, quella sera.

La sua giornata era stata splendida e, al contrario di com'era successo a Tom e Dott, non si era guastata con il ritorno a Tangeri, anzi, del bel tempo passato erano rimasti i dolci echi nella mente di Kitty.

La notte cullava Tangeri, pacata e tranquilla, mentre il buio riempiva le vie e la luce delle poche case che la possedevano, si intravedeva da lontano.

Fece sogni strani: immaginò di perdersi nel souk vagando tra stoffe e colori che nel suo sogno assumevano tinte demoniache – e continuava ad inciampare e cadere a terra, per poi essere coperta dal flusso di persone che camminava veloce per le strade - poi, dopo nemmeno un secondo, si trovava con un signore inglese.

Lo vedeva prima da lontano – seduto sulla terrazza, vestito di bianco, con la pipa in mano – e poi da vicino – mano a mano che lei si avvicinava.

Katharine vedeva la scena con la prospettiva di un osservatore morboso e dallos guardo carico di malvagità.

I colori caldi del Marocco si alternavano alle ombre fosche dell'umanità.

E poi lei si trovava sdraiata su un letto canuta, in una stanza dalla quale si vedeva il mare.

C'era anche il signore inglese, il cui viso era sempre oscurato e di cui spesso si intravedevano gli occhi spietati e azzurrini che luccicavano di un insano bagliore.

Lui...

Lui le baciava un ginocchio.

Si chinava accanto a lei, famelico, e prendeva la gamba con entrambe le mani, accarezzandole la pelle.

E Kitty rabbrividiva, e più i brividi si facevano strada attraverso la sua schiena, più il suo cuore sussultava: voleva ancora di più.

Poi l'osservatore si fermò per un istante sul viso di Kitty: in quel sogno era molto più bella di come non si fosse mai vista in tutta la sua vita.

In un'altra dimensione inconscia era una segretaria e continuava a sbagliare ciò che le veniva dettato e ci riprovava e sbagliava e poi sbagliava ancora e di nuovo. Vedeva tutto come se stessa: gli occhi chini sulla macchina da scrivere, il cui sguardo veniva ogni tanto attirato dall'uomo davanti a lei, la cui voce vibrava nella stanza.

Le parole che ricordava dal sogno una volta sveglia erano quelle che era certa di aver già sentito e che a quanto pare l'avevano turbata, secondo l'interpretazione dei sogni di Freud, che le aveva spiegato suo padre in un raro momento d'affetto paterno.

Le parole, aspre, rimbombavano nella stretta stanza.

Vernichtung, Freirheit, Juden.

Sterminio, libertà, ebrei.

Quella prima parola continuava a scivolarle via dalle mani incapaci di battere sui tasti, all'improvviso scivolosi.

A dettare quelle parole non c'era il signore inglese.

Era un'altro uomo, - la divisa inamidata, l'aria impettita - di cui dall'ombra del cappello militare emergevano solamente due labbra rettilinee. Aveva un accento fastidioso che calcava le r rendendole lunghe ed estenuanti alle orecchie degli ascoltatori, che a quanto pare però ascoltavano senza badarvi.

Einigkeit, Recht, Freihreit.

Unione, correttezza, libertà.

Vernichtung.

Le prime tre parole provenivano dall'inno tedesco, la quarta no.

Kitty si confondeva, le sue dita incespicavano sui tasti, fece per alzarsi, stanca.

L'unica parola che avrebbe voluto scrivere era Tod, morte.

Ma ad un certo punto del sogno si rendeva conto che non contava cosa volesse scrivere, ma cosa gli altri volevano che lei scrivesse. E allora la stanza si riempiva di voci che inveivano contro di lei.

Unione, correttezza e libertà.

E poi, di nuovo... Sterminio.

Einigkeit macht stark.

L'unione fa la forza.

Vernichtung. Sterminio.

Nell'inconscio di Kitty Pfenning rimbombò il suono di un singhiozzo strozzato.

Sterminio.

Quando si svegliò, aveva gli occhi lucidi e non il più sbiadito ricordo del sogno, ma nella sua mente venivano pronunciate quelle parole, da una voce maschile, che ruggiva, desiderosa di estirpare quanta più umanità Kitty potesse contenere: sospirò. Erano le undici, eppure si sentiva come se non si fosse mai addormentata. 

 




angolo autrice

Eccomi qui ad aggiornare!
Prima di tutto volevo fare una piccola comunicazione di servizio:
dato che partirò per le vacanze e sarò senza computer probabilmente non potrò aggiornare fino al 20 di agosto, poi gli aggiornamenti riprenderanno ad essere ogni martedì della settimana.
E ora passiamo alla storia! :')
Questo è stato un capitolo molto riflessivo e ho iniziato ad addentrarmi in una parte di Kitty molto ardua: quella che deve affrontare l'avvento del nazismo nel paese della madre - e che poi la toccherà ancor più da vicino con l'Anschluss nel 1938.
Kitty è spesso a contatto con l'ideologia nazionalsocialista e ne rimane turbata, nonostante ciò appaia solamente nel lato più profondo del suo inconscio: nei suoi sogni.
Inoltre ho voluto fare un piccolo focus su Dorothy e spero che lo abbiate gradito.
Chiedo scusa se non c'è molta "tensione sessuale" per ora, ma arriverà. Voglio solamente dare ai protagonsiti tempo per conoscersi, in modo da rendere la vicenda il più realistico possibile.

Questo è tutto.
Un bacio e alla prossima,

Marlene Ludovikovna

 

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


 




PARTE PRIMA



Capitolo sesto


 

Le giornate di Kitty a Tangeri si susseguivano l'una all'altra in una beata lentezza, cullata dal caldo secco del Marocco e di tanto in tanto scosse da un piacevole soffio di brezza marina.

Spesso, verso le quattro del pomeriggio, Kitty andava con i suoi genitori alla spiaggia riservata ai clienti del Grand Hotel du Savoy, dove si sdraiava sotto l'ombrellone e leggeva, per poi alzarsi e nuotare.

I bagni di Kitty erano quasi sempre due al pomeriggio, molto lunghi.

Uno appena arrivata, l'altro dopo la pausa per leggere sotto l'ombrellone.

Kitty a Vienna andava spesso in piscina, ma nuotare in quel mare fantastico – spesso inquietato dalle onde – non era per nulla paragonabile. Tutto era un idillio perfetto, lì: la sabbia bianca, l'acqua che si estendeva non superando l'altezza del suo ginocchio per una grande lunghezza, permettendole di fare lunghe passeggiate mentre l'oceano si estendeva davanti a lei.

Un giorno si chiese se si potesse arrivare a nuoto in Spagna o in Portogallo, dato che erano così vicine. Passò un po' di tempo a pensarci, durante il ritorno al suo ombrellone, incontrò Tom che stava facendo una passeggiata.

Kitty gli rivolse un sorriso bellissimo, tutto bagliori e fossette, mentre era quasi avvolta da un aurea di sole, che splendeva dietro di lei.

Il viso di Tom invece era completamente illuminato dalla luce, che splendeva nella sua direzione.

Lui sentiva come von Aschenbach di La morte a Venezia, con il suo Tadzio.

Guardava Kitty, che ogni giorno alternava costumi diversi, e che vedeva asciugarsi al sole. Ogni tanto andava a salutarlo e si sedeva di fianco alla sua sdraio.

Parlavano un po'; al momento Kitty stava leggendo Emma della Austen e lui I fratelli Karamazov.

Lui commentò che Kitty stava facendo un'estate di letteratura inglese, e lui di letteratura russa.

Si ritrovò a chiedersi se lei facesse sempre quel sorriso bellissimo o se fosse solo suo. Sciochezze, si disse, la gente non ha un sorriso apposta per una persona in particolare.

Spesso però lei alzava gli occhi dal suo libro e lo guardava leggere o camminare avanti e indietro o parlare con Dorothy... Oppure appuntava spesso cose sul suo taccuino nero. Kitty si chiedeva sempre cosa ci fosse scritto.

Che Tom la guardasse però raramente se ne accorgeva. C'era un'affinità elettiva che sapeva di esserci, nella sua coscienza era radicata questa certezza che lei non aveva ancora realizzato.

Ed era Kitty quando si portava l'asciugamano alle spalle perché aveva freddo dopo essere uscita dall'acqua ed esser stata accolta dal vento, era Kitty con gli occhiali da sole, era Kitty che giocherellava con la sabbia, distesa a pancia in giù.

Thomas voleva che fosse la sua Kitty.

Dorothy nel frattempo li osservava tra l'invidia e il disprezzo – nonostante singolarmente le stessero entrambi simpatici detestava l'idea che le persone potessero essere felici mentre lei non lo era -, tra un commento e l'altro.

“Ora le donne stanno ad abbrustolirsi al sole come selvagge! Dove siamo finiti!” diceva.

La cena la facevano spesso insieme. A volte si univa a loro anche un francese di nome de Touillery, e se non si univa era Maxwell a cenare con lui.

De Touillery era uno scrittore o artista o disoccupato. Nessuno aveva capito che lavoro facesse, ma secondo Dorothy era un poveraccio. Ad ogni modo, Max godeva della sua compagnia molto spesso. Kitty non capiva come Maxwell potesse essere interessato a passare del tempo con una persona simile. Le sembrava un viscidone.

C'era un sesto senso, in Kitty, che la maggior parte delle volte le permetteva di inquadrare le persone e di formare le sue prime impressioni, azzeccandole sempre. Kitty s'innammorava tantissime volte al giorno e altrettante volte rimaneva indifferente o infastidita.

Il suo amore non era amore, era la speranza che lo potesse diventare. Era affetto improvviso ed interesse.

E inoltre, sapeva perfezionare o ritrattare le sue prime impressioni, come aveva imparatto un anno addietro da Lizzy Bennett.

A volte Tom, Dott e gli Pfenning al completo cenavano insieme.

Tom dedusse in pochissimo tempo quanto fossero una famiglia disastrosa; la madre non faceva altro che parlare bene del figlio maggiore, Ansel Adolph, e il padre dava l'impressione che ogni minuto di normalità familiare fosse per lui un supplizio. Ancor più non sopportava il figlio; quel nazionalista esaltato!, diceva tra sé e sé.

Assai spesso usciva a cena o a pranzo e andava all'Hotel Sacher o al ristorante Ai tre Ussari in Weihburggasse, che in quel periodo andava parecchio di moda, tra la buona società viennese, e portava sempre con sé Kitty - con cui incantava i conoscenti per la bellezza e con cui si divertiva a conversare. Mai Ansel Adolph.

Nonostante ciò i due avevano un rapporto strano; non volevano mai fare esplicite dimostrazioni d'affetto e nel momento in cui era presente la madre, si ghiacciavano.

Cosa ancor più entusiasmante – sia per Tom che per il dottor Pfenning, neurologo e psichiatra – era che Thomas aveva assistito ad un seminario del dottor Pfenning, a Londra, nel '25, sugli effetti post-traumatici dei soldati che avevano partecipato alla guerra in trincea. Come effetti collaterali avevano nevrosi e schizofrenia.

Tom l'aveva trovato illuminante e ancor più aveva trovato agghiaccianti coloro che avevano ribattuto alle teorie di quel dottore baffuto che gli era stato da subito simpatico, nonché padre di Kitty, dicendo che chi mostrava effetti collaterali dalla trincea era solo debole d'animo e di spirito.

Karl Richard Pfenning aveva risposto che potevano avere l'opinione che preferivano, ma almeno dovevano ammettere che stare in trincea per quattro anni non fosse il miglior standard di vita.

Tom stava per alzarsi e applaudire.

Perché questi mentecatti volevano far finta che andare in trincea al freddo o al caldo soffoccante, con i nervi a pezzi e senza potersi cambiare per giorni, fosse una cosa bella? Non lo era!

Thomas si complimentò con il dottor Pfenning.

Kitty era contenta.

 

Una mattina, durante la colazione, a Kitty venne consegnata una busta che aspettava con ansia.

“È di Hans!” disse scartando la busta con ansia di conoscerne il contenuto.

“Hans chi...?” domandò sua madre.

“Hans Simmerl! Quello di teatro!” esclamò Kitty, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

“L'ebreo?” domandò Helene con una smorfia tirata e un'alzata di sopracciglia.

Kitty nel frattempo aveva già iniziato a leggere la lettera, non badando minimamente alle esclamazioni di disapprovazione della madre; nessuno notava mai l'alzata di sopracciglia che faceva Richard Pfenning quando la moglie faceva protesse sul fatto che Kitty frequentasse ebrei o che respirassero. Il conte Andrassy era ebreo. Ed era un uomo sposato quando aveva conosciuto Helene.

Ed Helene era sposata, a Richard. E Andrassy l'aveva abbandonata.

A volte le diceva di non essere sciocca e infantile, riguardo alla “questione ebraica”, ma nessuno sapeva che lui era al corrente della verità e aveva da sempre fatto finta di niente.

Povera sciocca, pensava di Helene. Uno l'aveva abbandonata, allora le erano odiosi tutti.

Tutti tranne la figlia, che però doveva sentire la madre parlare bene dell'ariano Ansel Adolph continuamente.

Ogni tanto la moglie lo infastidiva, altre volte lo impietosiva, ma era un uomo facile al perdono, immune all'ira e in cui il sentimento di pena era facile a sopraggiungere velocemente quanto scompariva.

La lettera recava:

Cara Kitty,

 

A Vienna procede tutto decentemente, se non bene. O almeno per me. Sto preparando il copione per una trasposizione teatrale del Werther e se riuscirò a farmelo approvare tu sei già Carlotta.

Non vedo l'ora di fartelo leggere perché credo, in tutta modestia, che l'adorerai.

Le notizie amare in tutto ciò sono che per strada ci sono sempre più volantini con scritto “Venite ad Hilter” o “Heil Hitler”.

La sua faccia è ovunque, Kitty. Possibile che la gente non si riesca a rendere conto della volgarità e di quest'uomo?

Sarebbe impossibile da prendere sul serio, se non fosse che la gente lo fa!

Pensa che l'altro giorno stavamo uscendo dal teatro con Antoine Kuzel perché stavamo preparando alcune cose, non so se hai presente chi è, e praticamente abbiamo visto venirci incontro questi giovanotti pressapoco della nostra età che avevano delle facce che li avrei presi tutti a schiaffi.

Hanno pestato Antoine, erano in tre, e hanno dato un pugno a me rompendomi il naso. Ora va tutto bene, sono solo molto, molto arrabbiato.

A quanto pare nel nuovo secolo la volgarità paga.

Comprendo coloro che rimpiangono Francesco Giuseppe.

Spero tu stia passando momenti felici, in Marocco.

Un bacio,

Hans

 

Era tipico di Hans dire sempre che andava tutto bene anche quando non era così. Era tipico di Vienna! La vita andava avanti, no?

Ma a Kitty dava spesso fastidio il modo che avevano i viennesi di non curarsi dei fatti. Perché tutto va avanti e tutto continua.

“Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria!” avrebbe voluto urlare Kitty.

Appena finito di leggere si era sentita strana, come se vivesse estraneamente a tutto quello che le era stato raccontato, poi aveva avuto un sordo impeto di rabbia, infine le lacrime avevano iniziato ad offuscarle la vista.

Disse che andava in terrazza e in terrazza c'era Thomas.

Questo non lo disse, ma lo scoprì appena arrivata, quando lo vide; stava leggendo nella sua solita posizione e quando la vide arrivare piangente e arrabbiata le disse di sedersi accanto a lui.

Le strinse la mano tra la sua. Non una stretta forte o fastidiosa, ma solo protettiva. Kitty sentì una scossa percorrerle la spina dorsale.

Perché era sempre così, con Thomas? Avrebbe voluto essere impulsiva e baciarlo, solo per vederne la reazione. Un po' come i bambini piccoli, che sfidano le educatrici per scoprire i propri limiti.

“Cosa succede, tesoro?” chiese lui, reggendole la mano – la piccola mano che di tanto in tanto accarezzava - , sinceramente interessato.

Il loro rapporto si era evoluto ad essere molto più confidenziale in quegli ultimi giorni, ma ogni volta che lui la toccava, arrossiva.

Darling. Quel suono era ancora bello come la prima volta che l'aveva sentito uscire dalla sua bocca. La sua bocca.

Era una bella bocca, pensava Kitty. E anche le mani di lui erano belle; erano lunghe e affusolate.

Kitty non si sarebbe mai aspettata da se stessa di lasciarsi cadere sul petto di Tom e scoppiare in singhiozzi.

Lui le accarezzava la testa e non diceva niente. Kitty non arrossiva più, al suo tocco. Di fianco a loro c'era il tavolino con su la colazione di Tom. Kitty si ricordò di non avere ancora mangiato, ma aveva lo stomaco chiuso.

Pianse ancora un po' inzuppandogli la camicia blu scura. I secondi erano scanditi dai battiti di Tom.

Aveva sentito dire da una baronessa amica di sua madre che gli uomini migliori sono quelli che ti ascoltano piangere, senza dire niente.

Così fece Tom, mentre Kitty all'improvviso si sentiva lontana dal suo mondo, che stava a Vienna, e terribilmente inutile, terribilmente ansiosa e allo stesso tempo irritata perché era stata scossa la sua quiete.

“Ascoltarti piangere?” ricordava di aver domandato. Doveva essere passato almeno un anno; ora capiva e provava un sincero affetto per Tom, senza riuscire a definirlo, quell'affetto.

La gamba destra di Kitty era appoggiata sulle gambe di Tom, mentre la sinistra era distesa.

I capelli di Kitty avevano un buon profumo. Di vaniglia.

Di tanto in tanto Tom le accarezzava i lviso. Le passava il polpastrello sulla guncia e le asciugava le lacrime.

Fremeva. Era empatico nei confronti della povera Kitty, nonostante ancora non sapesse perché piangesse, e al tempo stesso così euforico!

Un metro e sessantatré di puerile splendore tra le sue braccia.

Ma non era solo quello! No! Era la consistenza candida del suo zigomo, le sue labbra! Avrebbe voluto toccarle, ma poteva immaginare come ciò l'avrebbe potuta scandalizzare o essere un'azione prematura. Era così inesperta, ma sentiva così tanta affinità con lei. Ripensandoci, se si fossero conosciuti Kitty e Tom quando aveva la sua età, sarebbero stati parecchio simili.

Kitty si era rasserenata, improvvisamente. Si rendeva conto delle cose solo quando erano già successe e avrebbe avuto tempo per vergognarsi del suo gesto da “bambinetta piagnucolona”, come l'avrebbe definito.

Al momento ogni sua ansia era però quietata; c'era silenzio, interrotto solo dai suoi singhiozzi, che scandivano il passare dei minuti, fino a diventare sempre più sporadici, fino a cessare del tutto.

Tom l'accarezzava ad intervallo regolare. Sentiva i polpastrelli di lui scorrerle sulla guancia e non provava fastidio, anzi.

Si sentiva come se nulla di brutto sarebbe potuto succedere e la vita era di nuovo bellissima.

Non parlarono per quasi venti minuti. Venti minuti erano tanti se li passavi a guardare il vuoto; Kitty fissava la camicia di Tom o alzava lo sguardo verso il mare. Di tanto in tanto chiudeva gli occhi, ma il sole del Marocco era così potente, che si percepiva anche a palpebre chiuse. Kitty e Tom in quel momento provarono qualcosa che non avrebbero mai provato: un'ansia d'infinito, che accarezzava l'area più irrazionale del loro cervello. Entrambi morivano dalla voglia di aprire la bocca e uccidere quel silenzio

Amava quella terrazza perché paradossalmente in quell'oasi di quiete si poteva sentire ancora di più il cuore pulsante del Marocco.

Tom guardava lei e tutto quello che c'era davanti a lui; i capelli di Kitty, le sue orecchie, il mare, le sue gambe nude dal ginocchio in giù, la gonna spiegazzata e il suo viso che poteva solo sentire e non vedere.

Era un dono bellissimo, quella quiete; nessuno veniva mai a fare colazione in terrazza.

Ad un tratto, quando Tom si era quasi ipnotizzato, Kitty si alzò.

Aveva i capelli spettinati, gli occhi arrossati e il viso umido per il pianto.

Lo guardò.

Dopo qualche secondo le sue gote si arrossarono per l'imbarazzo.

Sorrise.

E Tom sorrise a sua volta.

Kitty era bellissima, ma non quel tipo di bellezza banale. No, lei era qualcosa di irripetibile e Tom non riusciva mai a distogliervi lo sguardo perché ogni momento di lei lo era. Irripetibile.

Ogni suo sguardo, ogni sua espressione.

Il sorriso che fece senza mostrare i denti bianchi, tra l'ironico e l'imbronciato.

Thomas pensava che se un romanzetto da due soldi avesse potuto descriverla avrebbe detto di lei che la sua bellezza era una stessa cadente. Capitava poche volte, nell'arco della vita, ed era sempre in forme diverse.

Il sole illuminava il Marocco. Tom l'avrebbe descritta come meravigliosamente umana, eternamente bambina. Il suo volto si era fermato in un'infanzia fulgida e perenne.

La fulgida stella di cui parlava John Keats. Kitty era eterna e allo stesso tempo questione di un secondo. Contrasti. La luce arrivava subito e poi le ombreggiature, disegnate da un pittore esperto – e fu in quel momento che si rese conto di quanto assomigliasse alla Venere di Botticelli. Quello che però era indimenticabile era l'insieme. L'insieme di quei colori tanto diversi, uniti in quel quadro vivido e formidabile.

Il sorriso si fece poi più marcato nel volto di Tom quando Kitty lo guardò esitante.

Silenzio.

Kitty guardò il tavolo.

“Posso avere una crepe e un fazzoletto per soffiarmi il naso, per piacere?”

Tom rise. Bambina. E un sentimento, un Io, così adulto.

Certo che poteva avere una crepe e un fazzoletto! Poteva avere tutto quello che voleva con quella precaria eternità che aleggiava nel suo volto e lo rendeva quello che era. Bellissimo.

Sedici anni. No, quasi diciassette.

Avrebbe voluto averla con sé a Londra e a Buffington e a Marrakech!Non sarebbe partito, pur di stare con lei per sempre.

Oh, fulgida stella!

Poi il suo impeto si arrestò; patetico, disse tra sé e sé.

Quando a Kitty cadde della marmellata su un punto scoperto della coscia, la raccolse con il dito e lo leccò.

Mentre lo faceva non si rendeva conto che la sua azione sarebbe potuta essere considerata attraente. O almeno, lo sapeva, ma non ci pensava. Kitty aveva solo fame. Di vita, di cibo e di felicità, ma in quel momento solo di cibo.

“Posso bere il tuo té?” chiese, con quel sorrisino tutto fossette.

Thomas fece un gesto con la mano come ad indicare “prendi tutto quello che vuoi!” e sorrise.

Kitty bevve un sorso di té e poi, incoraggiata dagli sguardi di Tom raccontò di Hans, che amava l'Austria, e di Antoine, che era stato picchiato perché ebreo. Anche Hans era stato picchiato.

Raccontò dei volantini dei nazisti e del fatto che sua madre non apprezzasse a fatto gli ebrei, anzi, ne era infastidita, ma lo faceva in un modo che i nazisti ritenevano smidollato; Helene si divertiva a parlare male degli ebrei, ma non avrebbe sopportato di vedere veri provvedimenti. Il giorno dell'approvazione delle Leggi di Norimberga era rimasta chocata. Non lo sapeva nessuno tranne Kitty, che l'aveva vista piangere e non aveva capito la ragione della sua sofferenza; di solito sua madre non era così sensibile.

Richard l'avrebbe capito il pianto della donna, il cui più grande errore era stato innamorarsi di un ebreo e farci una figlia.

Kitty raccontò a Tom del teatro. Era tutta animata da un candido e genuino interesse quando parlava o ascoltava. Tom lo definiva romantico.

Kitty passava dalla rabbia all'entusiasmo con velocità e le sue labbra, mentre parlava, erano incurvate nell'accenno di un sorriso, il suo sguardo era vivo e brillante.

“L'ultima opera che abbiamo messo in scena è stata Il mercante di Venezia.

“Chi hai interpretato?” chiese lui, che si quasi impercettibilmete protendeva sempre verso il suo interlocutore, quando parlava.

“Porzia. In realtà ho pregato di ottenere la parte di Shylock, ma non me l'hanno data. L'ha interpretato l'Hans di cui ti ho parlato. Aveva una barba finta e una...” mimò il gesto e disse: “Non so come si dice in Inglese” ridendo imbarazzata.

“Una parrucca?”

“Sì, ecco, quello.”

“Aveva la barba finta e una parrucca grige e con il trucco lo avevano invecchiato di tantissimo!”

Sorrise.

Di tanto in tanto gesticolava in modo pacato allargando le mani o congiungendole.

Abbassava spesso lo sguardo e poi lo rialzava, penetrante e vivido, ma al tempo stesso carico di timidezza. Quando si accorgeva di aver guardato Tom in modo troppo intenso ritraeva subito quello sguardo di quel ghiaccio così caldo.

“Sai, credo che Il mercante di Venezia sia la miglior opera di Shakespeare, per quanto riguarda i testi teatrali. O almeno, è la mia preferita.

Riesce a combinare la tragedia, che lo è a causa dell'elemento della morte, e picchi di umorismo geniale. È con tutta probabilità la prima opera in cui viene inserito l'umorismo nero.”

“Oh, sì, è vero” asserì Kitty.

Si fermarono.

Non era un silenzio imbarazzato, bensì contemplativo.

Poi ripresero a parlare.

Nel frattempo gli Pfenning avevano deciso che la figlia sarebbe tornata quando l'avrebbe ritenuto opportuno.

“Ansel Adolph non sarebbe mai ricaduto in un gesto simile. In questa sciocca, debole impulsività!”

Quella non era la donna che giorni prima aveva comprato a Kitty una borsetta. Era una donna insoddisfatta e che aveva fatto troppi errori. Helene voleva fare pagare a sé stessa ogni giorno la sua ansia di felicità che aveva fatto nascere Kitty. Non capiva che non c'era alcun onore nella privazione. E continuava.

Richard le cinse le spalle con un braccio come usava fare. Significava che era in confidenza con il suo interlocutore – a Kitty di solito questo gesto dava immensamente fastidio.

“Kitty non è Ansel Adolph, mia adorata” disse semplicemente. Poi la lasciò in camera e uscì a fare due passi.

Lei gli disse che l'avrebbe raggiunto.

Il dottor Pfenning fece per appostarsi in terrazza con pipa alla mano e libro sottobraccio. Si arrestò quando vide due giovani - una delle quali aveva capelli di cui veniva riflessa la luce anche ad un chilometro di distanza - conversare animatamente.

Vide Kitty, con la camicetta bianca e la gonna che sfumava verso il rosa cascandole sui fianchi, seduta accanto all'uomo che aveva mentalmente catalogato come l'inglese cordiale della conferenza.

Non vide il volto di lui, ma ne intravide le braccia su cui la testa era appoggiata, le gambe distese nei pantaloni beige e le caviglie incrociate.

Richard dava molta importanza ai dettagli e li notava.

Quel giorno Kitty aveva una cintura di perline di un rosa chiaro molto caldo, che le cingeva la vita per poi scendere in una gonna, come andava nella moda di quegli anni.

Kitty rideva spesso quand'era con quel signore cordiale della conferenza. Sentì anche una risata maschile.

Anche l'inglese rideva.

Arretrò subito e ripercorse le scale. Questa volta nella direzione opposta.

 

angolo autrice 

 

Hola! 
Rieccomi qui dopo le vacanze. 
Ebbbene, vi chiederete - o forse no - perché ho ritardato acnora di più rispetto al ritardo preannunciato! 
Avete presente quelle persone che appena toccano una pianta, la pianta muore? 
Ecco, io faccio lo stesso con i computer. c': 
Cooomunque.
Finalmente siamo arrivati ad un punto in cui Kitty e Tom fanno

altro, oltre a pipponi mentali in cui si elogiano a vicenda!

Quindi sì, spero che questo nuovo capitolo vi sia piaciuto il prossimo aggiornamento sarà già per questo martedì.

Un bacio e alla prossima,

Marlene Ludovikovna 

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***




PARTE PRIMA 


Capitolo settimo

 


Mancava una settimana al compleanno di Kitty, che cadeva il 14 di luglio.

Si era accorta che stava crescendo tre anni prima, quando aveva notato che il suo compleanno era imminente e che non gliene importanva assolutamente niente.

Il suo regalo era quello di partire per Marrakech con Thomas, Maxwell e Dorothy. I genitori l'avrebbero raggiunta dopo.

Era stato Richard ad insistere perché ciò avvenisse; Helene era preoccupata, a aveva da sempre una colpa da espiare con Richard, da quando era nata Kitty. Gli aveva fatto addirittura scegliere il nome per intero senza proferire parola:

Marie-Katharina Charlotte Antoinette Gisela.

La sua colpa però non si sarebbe mai espiata abbastanza e diventava un po' meno consistente con il passare del tempo, milligrammo per milligrammo, ma restava comunque pesante come una montagna.

Quella felicità che Helene non poteva avere, Richard desiderava l'avesse Kitty e lei non vedeva l'ora di passare così tanto tempo con quell'uomo di cui si era innamorata senza nemmeno accorgersene: l'aveva saputo Thomas, prima di lei.

Questo sentimento, che temeva a rivelarsi, la inibiva terribilmente! Avrebbe voluto parlarci tutto il tempo, ma temeva di risultare assillante.

Thomas avrebbe voluto stare sempre con Kitty, ma temeva di affrettare troppo le cose.

Quel pomerggio Kitty lo incrociò mentre si avvicinava alla riva, dopo un lunghissimo bagno.

I capelli, lunghissimi, le si appiccicavano alla schiena facendola pentire di esserseli sciolti.

“Buon pomeriggio, Thomas!”

Kitty gli rivolse quel sorriso timido e allo stesso tempo entusiasta mentre metteva la mano tesa a ripararsi dal sole.

“Buon pomeriggio.”

Lui si destò; l'estasi era la prima, il contegno veniva dopo.

Indossava una camicia bianca in lino mezza aperta e dei pantaloni al ginocchio.

“Sto morendo di caldo” disse lui sorridendole.

“Se vuoi bagnarti ti posso portare all'ombrellone la camicia, così non devi fare avanti e indietro un sacco di volte, tanto stavo uscendo” gli propose lei in tutta spontaneità, con una scrollatina di spalle.

“Oh, no tranquilla. Vuoi fare una passeggiata con me?”

Kitty disse di sì. Ovvio che voleva!

Tom aveva la camicia aperta; Kitty esplorò con lo sguardo la sua pelle nuda pur non volendolo fare, pur arrossendo, pur sperando che lui non l'avrebbe notato.

“Posso chiedertelo io un favore?” chiese Kitty, scostandosi i fastidiosi capelli, che continuavano ad appicicarsi alla schiena.

“Certo” rispose.

“Potresti legarmi i capelli, per favore? Mi danno un sacco fastidio.”

“Va bene, girati, hai un elastico?”

Kitty si girò e gli porse l'elastico che aveva al polso.

Tom squadrò un secondo i capelli di Kitty, scuriti e resi lucidi dall'acqua.

“Come te li devo legare?”

Che bella voce aveva, pensò Kitty. L'avrebbe ascoltata all'infinito.

“As you like it, and as you can” rise lei aggiungendo: “Hai mai legato i capelli ad una ragazza?”

“So che ti può sembrare strano, ma a volte ho fatto la treccia a Dorothy quando era bambina.”

Ecco come si diceva! Pensò Kitty che gliel'avrebbe voluto domandare.

Lui iniziò a intrecciarle le ciocche di capelli provando a non farle troppo male.

Kitty fu scossa da un piacevole brivido; le piaceva un sacco la sensazione di quando qualcuno le pettinava i capelli o glieli legava. Questa volta il brivido non era generato solamente da questo. Erano i polpastrelli di Thomas che accidentalmente le accarezzavano la schiena.

Lei sospirò.

Poi dopo qualche altro intreccio lui le chiese l'elastico e lo porse prontamente.

Tom fece poi un'espressione divertita, distanziandosi come per ammirare il suo operato.

“Ammetto che non sia il massimo, appena torni da tua mamma fattela rifare perché ho paura di aver fatto una cosa orribile. Oh, si, cielo!, è tremenda!”

Kitty prese i capelli tra le mani.

Si unì a lui nella risata.

“Non fa così schifo.”

Va bene, era un po' aggrovigliata, ma Tom era un editore, non un parrucchiere.

Tom sorrise.

Avrebbe voluto baciarle la guancia; sì, l'avrebbe presa e avvicinata a lei e le avrebbe baciato la guancia e poi la bocca.

Trovava particolarmente affascinante il modo in cui Kitty era sincera senza essere sgarbata, la sua spontaneità, che non avrebbe dovuto rendere conto a nessuna etichetta perché era una spontaneità garbata e amorevole.

Ma... Che male c'era nel darle un bacio? Che male ci sarebbe stato?

“Lo sai che sei proprio un tesoro di ragazzina?” Le disse.

Kitty sorrise, in un modo ironicamente infantile e rispose: “Ho quasi diciassette anni e non sono una ragazzina.”

Facevano parte della sua particolare maturità quell'ironia e la consapevolezza dell'essere giovane.

“Sei un tesoro di ragazza, allora, Kitty.”

Ridevano e continuavano a camminare, beati. A lei piaceva come Tom pronunciava il suo nome. La t sembrava quasi una sola.

Lui la cinse con il braccio.

Oh, Dio! Pensò lei. E come si sentiva stupida, ora che provava tutto quello di cui parlavano quelle sciocche delle sue compagne di scuola.

“Se ti do un bacio ti scandalizzi?” rise lui.

“No.”

Lei si stringeva a lui tra un risolino e l'altro; era tipico delle ragazze della sua generazione e di quell'età avere una piena fiducia negli uomini.

Sentiva la stoffa bagnata della camicia contro la sua pelle – non era stata una grande idea bagnarsi con la camicia.

“Oh, benissimo, allora.”

Il contatto delle labbra sulla sua guancia bagnata fu come un qualsiasi altro bacio di cortesia.

Ma il suo braccio le cingeva la vita! La vita stretta nel costume a pois, mentre aveva praticamente tutte le gambe nude!

Rise.

Avrebbe voluto essere baciata sempre, da Thomas.

Quando si staccarono e si guardavano ricambiavano entrambi l'affetto l'uno dell'altro.

“Sai, Kitty, tu mi dai delle emozioni pittoriche.”

“Pittoriche?”

“Sì, se fossi bravo a dipingere ti dipingerei. Il tuo lato germanico sarà perfettamente in grado di sentirsi in linea con il Romanticismo – Kitty rise -, sai... Quelle cose sull'attrazione artistica delle muse. Goethe ha avuto sensazione pittorica e sensoriale nei confronti di Carlotta. E in quel senso, Kitty, sei Carlotta.”

Era il complimento più bello che le avessero mai fatto.

“Io?”

“Esattamente”.

D'altronde neanche Carlotta si rendeva conto del suo fantastico potere.

 

Passeggiarono lungo la spiaggia, nel frattempo erano già le sei e iniziava a farsi meno caldo. Il sole almeno non picchiava più.

Tom si chinava a schizzarsi un po' d'acqua addosso.

“Credo di non voler tornare più in Inghilterra” disse lui, con beatitudine.

Se solo avesse potuto toccarla il mondo sarebbe stato fantastico, ma provò ad accontentarsi delle fantasie.

Se la sposerai sarà tutta tua... Ma chi mi dice che non trovi un Kurt o un Fritz del cazzo e si dimentichi di tutto? Adesso è innamorata, lo so io meglio di lei, capisco quando una ragazza è innamorata, ma... Lo sarà ancora per molto? Che idiota, sono a sottovalutarla. È ovvio che se le piacessero i ragazzetti della sua età non mi guarderebbe in quel modo e poi... Poi dovrò trovarmi dei passatempi finché non tornerà... Potrei immaginare che sia lei, c'è Elsie che se cambiasse faccia potrebbe somigliarle e... Basta, diamine!

“Nemmeno io vorrei tornare in Austria” concordò Kitty guardando tutto ciò che era intorno a loro; che era la spiaggia, la città che s'intravedeva, con le sue casette bianche, il cielo terso. Per un momento s'incupì: in Austria le strade erano piene di volantini con scritto a caratteri germanici “Unitevi al Fuhrer”- ma anche no. Perché la democrazia fa così schifo a tutti? Perché l'Austria non è come l'Inghilterra?

Tom capì dal modo in cui aveva guardato in basso. Per un momento l'immagine dei suoi piedi nell'acqua, della sabbia, si era sovrapposta a quella di lei, in mocassini, mentre tornava da teatro e la strada era piena di volantini.

“Charlie Chaplin ha creato un partito?” chiedeva ridendo ad Hans.

“Chi è?”

Lui si fermava a guardare i volantini.

“Ah, pensa! Me lo diceva giusto ieri mio zio. Era il tizio che era con lui all'esame dell'Accademia delle Belle Arti qui a Vienna. Non è stato preso e si è dato alla politica.”

A Kitty era sembrato un po' un poveraccio, in quel momento. Quando aveva visitato i suoi parenti in Germania si era però quasi convinta e ora provava repulsione e scarso interesse.

Tom la guardava comprensivo. “Ti riferisci a...”

“Sì, davvero, non è tanto per le loro idee. In Germania non sembra stia facendo nemmeno niente di male, ma davvero, possono anche fare i pazzi tra di loro e non venire a disturbarci a teatro. Uno di loro era nella nostra compagnia e mi aveva fatto quasi odiare Goethe, poi mi sono davvero pentita per averlo solo pensato. So che sembrerò pazza, ma è stato il mio primo amore. Comunque questo tale aveva iniziato a rasarsi i capelli come se li fanno loro e quando abbiamo proposto Il mercante di Venezia lui ha detto 'Non ci penso neanche di prendere parte alle vostre tragediuccole da anglofili sporchi ebrei! Se aveste un minimo di rispetto scegliereste un poeta di lingua tedesca...” e poi ha continuato su questo filo.”

Thomas l'ascoltava con le sopracciglia aggrottate.

“Tu che hai fatto? Insomma, come gli avete risposto? L'avrete denunciato immagino, per questo comprotamento sovversivo, vero?”
Kitty sorrise.

“Veramente gli ho riso in faccia.”

Tom sorrise e poi si rasserì.

“Kitty, tesoro, io penso però che non dovreste limitarvi a ridere, insomma, capisco che siano dei buffoni, ma comunque si prendono gioco delle istituzioni e ciò non andrebbe assolutamente permesso.”

Fu la prima volta che Kitty discordò da Tom.

Se io vivessi in Germania l'istituzione sarebbe quella. Cosa dovrei fare? Un'istituzione si è presa gioco dell'istituzione precedente, sì. Ma poi lo è diventata lei stessa. La Germania d'altronde non è mai stata la Repubblica di Weimar. È stata il Secondo Reich, ed era logica successione che ci fosse un Terzo, solo che questa volta il potere non è dettato dal ramo nobiliare ma dal carisma, dal potere sulla popolazione. Se un'istituzione è folle, e lo sono le leggi – ed esse sono effettivamente moralmente sbagliate -, bisogna comunque rispettarla in quanto tale?

La sua mente ragionava velocemente aveva messo insieme quella sentenza in due secondi, ma era rimasta in silenzio; una piccola ruga accanto al sopracciglio destro segnava il suo stato pensoso.

Tom la guardò sogghignando.

“Lo so che vuoi dire qualcosa. Dillo, non sei costretta a condividere qualsiasi cosa pensano gli adulti. Tanto più puoi non avere filtri con me o con Dorothy, puoi dirci qualsiasi cosa. Davvero, potresti essere marxista e ti vorremmo bene lo stesso.”

Kitty sorrise.

Gli disse quello che aveva appena pensato.

Tom si fermò.

“Tu non hai davvero sedici anni.”

Lei sorrise; glielo dicevano spesso.

“Infatti ne ho quasi diciassette” scherzò.

Thomas le disse quanto il suo pensiero fosse accurato e ben espresso, le raccomandò di leggere diversi teorici di idee diverse, una volta arrivata in Austria, e di fargli sapere cosa ne pensava tramite lettera. Le avrebbe stilato una lista in albergo.

Kitty aveva asserito contenta. Il suo volto era terso dall'acqua salina; aveva quella purezza, quella freschezza che dava solo il contatto con l'acqua. Il naso era un po' arrossato dal sole, gli occhi schiariti dal continuo contatto con la luce, le labbra perfettamente rosa. Sulla pelle del suo corpo giacevano leggiadre goccioline d'acqua salata. 
 


 

angolo autrice

 


Ebbene eccomi qui con un grande ritardo ad aggiornare! 
Premetto che questo ritardo non è dato da pigrizia o altro - infatti ho già pronti su carta i capitoli fino al nove -, ma dal fatto che la tecnologia mi odia e il computer non ne vuole sapere di funzionare.
Un'altra cosa che devo dire è che questo capitolo in teoria aveva un'altra parte, ma dato che se no veniva veramente troppo lungo ho dovuto dividerlo.
Scusatemi immensamente per il ritardo, ma non ho potuto fare molto!
Se Dio vuole riuscirò ad aggiornare il prossimo martedì - inizia la scuola aiuto!. 
Un'altra cosa che volevo assolutamente comunicare è questa: se voi avete altre storie di questo genere - romantico/storico/age gap (storie d'amore con differenza d'età) o comunque storie che vi sono piaciute - da consigliarmi - anche vostre! - ve ne sarei molto grata e sarei contenta anche di passare a darvi un parere :)
Capsico cosa voglia dire essere un emergente qui su Efp e credo che il passaparola sia molto importante per far conoscere storie diverse dalle solite famose.
E nisba, ho finito con i miei sproloqui. :')
Spero il capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a seguire la storia. <3
Un bacio e alla prossima, 

Marlene Ludovikovna


 

 

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