glasgow2
Glasgow, epilogo.
La mattina seguente, stiamo
ancora lavorando nella pseudo-biblioteca dei French. L’uomo-tricheco non si è
dimostrato del tutto privo di gusto e ha scelto un bel giallo ocra per le
pareti: mentre mio padre mischia i colori per ottenere la tonalità giusta, io
preparo i pennelli.
Quando iniziamo a dipingere, è già metà mattina e sono quasi le tre
quando terminiamo. Mi chiedo come mai non abbia ancora visto Emilie e ogni
tanto, do uno sguardo rapido in corridoio sperando di scorgerla e di poterla
salutare.
Mi sto chiedendo come mai mi
senta così dispiaciuto di non averla ancora vista, quando una manata di mio
padre mi colpisce in pieno sulla spalla, risvegliandomi dai miei pensieri “Bene
ragazzo, ottimo lavoro oggi. Allora, adesso tu pulisci i pennelli e carichi
tutto sul furgone mentre io vado a farmi un cicchetto al pub qua vicino,
d’accordo?” mi strizza l’occhio e poi si dilegua ad una velocità sorprendente.
Pulisco i pennelli, carico la roba in macchina, tolgo lo scotch di
carta dalle pareti e raccolgo tutti i fogli di giornale dal pavimento. Bene,
ora non mi resta che aspettare mio padre per potermene tornare a casa.
Mi stravacco sul sedile del
passeggero del nostro furgone e mentre mi fumo una sigaretta, alla radio danno
una canzone che mi piace: alzo il volume al massimo quando inizia il ritornello
e inizio a cantare a squarcia gola.
One down, one to
go
Just another bullet in the chamber
Sometimes love's a loaded gun
Red lights, stop and go
Whatcha gonna do when yo play with danger
Sometimes love's a loaded gun
And it shoots to kill
Sto ancora finendo di cantare e intanto scuoto la sigaretta
fuori dal finestrino, per fare cadere la cenere... ed è a questo punto che
rischio l’infarto.
“Ciao!” Emilie è praticamente comparsa dal nulla e ora mi
fissa sorridente, i suoi occhi grandi mi ricordano tanto le luminarie il giorno
di Natale... o qualcosa di simile, insomma.
“Hei.” Rispondo indifferente, prendendo un altro tiro dalla sigaretta
e cercando di non far notare la mia sorpresa. Lei fa il giro dell’auto ed entra
in macchina, sedendosi al posto del guidatore.
“Come stai?” cerca di incrociare il mio sguardo, ma io fisso
ostinatamente il cruscotto.
“Non c’è male, tu?”
Prima di rispondermi, abbassa il volume della radio al
minimo. “Tutto ok. Come è andata la tua giornata?”
“Hei! Echecazzo, io la stavo ascoltando la radio!” era
appena cominciata un’altra canzone che mi piace. Credo che sia la prima
imprecazione che mi sente pronunciare, quindi adesso si offenderà e non mi
rivolgerà mai più la parola... aspetta un attimo: a me che cazzo me ne frega se
questa ragazzina viziata non mi rivolge più la parola? Assolutamente nulla!
“Si ma stavamo anche parlando e non mi va di dover urlare. E
poi la musica la senti anche se è ad un volume più umano, non sei mica sordo!”
mi risponde a tono e non sembra per niente intenzionata a scappare. Decido di
rimediare in qualche modo.
“Tutto ok, abbiamo finito di dipingere la biblioteca. Domani
tu e tuo padre potrete iniziare a montare le librerie.” Mentre pronuncio quelle
parole, cerco di immaginarmi l’uomo-tricheco e la giovane e mingherlina Emilie,
che cercano di montare una libreria decente e mi scappa da ridere: quei due è
già tanto se sanno usare un martello.
“Tuo padre non ti ha ancora detto nulla?”
Mi risveglio dai miei sogni ad occhi aperti e mi decido a
voltarmi verso di lei “Non mi ha ancora detto cosa?”
“Che lui e mio padre si sono messi d’accordo... Lui ci ha
detto che tu mi avresti aiutato a montare le librerie.”
Non ci posso
credere. Quel vecchio bastardo sarebbe stato capace di buttarmi giù dal letto
il sabato mattina e dirmi solo in quel momento che dovevo lavorare... e poi,
che cazzo, perché non ci viene lui qui a lavorare di sabato, se ci tiene tanto?
Io domani ho da fare... no d’accordo, non è vero, a meno che dormire tutto i
giorno e mangiare schifezze possano essere considerati come impegni. Ma cazzo,
è comunque sabato, un fottutissimo e sacrosanto giorno di riposo!
Che rabbia, mi prudono le mani ed ho voglia di prendere a
pugni qualcosa... per tenere occupate le dita, mi accendo un’altra sigaretta e
il sapore del fumo in bocca mi calma leggermente. “Ottimo.” È tutto ciò che
riesco a pronunciare fra i denti.
“Sai, di solito era mia madre quella che faceva i lavori più
pesanti in casa... mio padre al massimo, è capace di cambiare le lampadine. Io
me la cavo, ho dovuto imparare a fare un po’ di tutto nell’ultimo anno, ma non
penso che sarò mai abbastanza forte per montare una libreria tutta da sola.” Lo
dice sorridendo, quasi come se le cose che sta sottintendendo non fossero
importanti, ma io vedo il dolore riflesso nei suoi occhi chiari.
“Cosa è successo a tua madre?”
“Tumore al
cervello. E’ morta tre mesi fa, ma era già da un po’ che non ce la faceva più.”
Tutta la sua ingenuità mi sembra svanita adesso, quasi come se si fosse tolta
una maschera. Un’onda di delusione mi travolge e non so perché. Forse perché in
fondo speravo che lei fosse veramente così: ingenua, dolce e gentile, non ancora
scossa dalla realtà della vita e dalla sua brutalità... si, forse è proprio
perché speravo che fosse ciò che io non sono mai stato. Allo stesso tempo però,
inizio a considerare la piccola Emilie in modo diverso... adesso, è come se
qualcosa ci legasse, qualcosa di molto triste ed oscuro certo, ma è anche
qualcosa di forte ed indissolubile. Mi rendo conto che probabilmente, quel
qualcosa c’era fin dall’inizio e io semplicemente, ero troppo cieco per
vederlo.
Dio, tutti questi pensieri filosofici mi sconvolgono la
testa: non sono per niente da me. Ciononostante, non riesco nemmeno a
trattenere la mia lingua dallo sciogliersi senza alcun preavviso:
“Mia madre se ne è andata quando avevo poco meno di quattro
anni. Ha piantato in asso me e mio padre per andare a fare la vita da benestante
con un investitore di borsa, un londinese del cazzo. Ha divorziato il più in
fretta possibile da mio padre e si è risposata con l’altro... e come darle
torto? Mio padre è un stronzo, anche se gli voglio bene perché è l’unica
famiglia che mi è rimasta ...ma non potrò mai perdonarle di avere abbandonato
me, il suo unico figlio.”
Lei non dice nulla e io continuo
a guardare avanti. Inizia a fare buio, quindi non mi volto neanche per cercare di
guardarla in faccia: non riuscirei a vederla comunque. Dopo qualche minuto,
inizio a dubitare che sia ancora viva... penso che magari è uscita dalla
macchina e io non l’ho neanche sentita andarsene. Una tremenda ma famigliare
sensazione di abbandono inizia ad avvolgermi.
“Ti prego, dì qualcosa.” Lei non
risponde, ma in compenso, mi getta le braccia al collo e mi abbraccia,
appoggiando la sua testa sulla mia spalla: sento i suoi capelli ondulati e
morbidi che mi sfiorano il collo, le sue mani che mi stringono forte le spalle
e poi sento il suo profumo... non so se sia giusto, ma lo identifico come odore
di shampoo e di Emilie. Libero delicatamente un braccio dalla sua presa e le
avvolgo le spalle e in quel momento, le scappa un breve singhiozzo: sta
piangendo.
Rimaniamo abbracciati così per
qualche minuto, consolandoci a vicenda. Distrattamente, mi chiedo come sia
possibile che io sia riuscito ad aprirmi di più con questa ragazzina, che
conosco da meno di due giorni, che con chiunque altro durante la mia intera
esistenza.
***
Il giorno seguente, mi apro gli
occhi prima che suoni sveglia e balzo giù dal letto con una velocità
impressionante. Mi faccio una doccia e mi vesto in fretta, carico tutti gli
attrezzi necessari sul furgone e inizio a guidare mentre mangio la mia solita
merendina per colazione.
A dieci alle nove, sono sulla
soglia di casa French. Suono il campanello ed è lei ad aprirmi la porta: prima
che io possa salutarla o dirle qualunque altra cosa, lei mi getta le braccia al
collo e mi stringe forte, quasi come se fossi un orsacchiotto di peluche.
Quando si stacca e mi invita ad
entrare, la guardo in faccia attentamente: non è più triste, sembra tornata
quella di sempre... mio dio, sto parlando come se la conoscessi da anni, quando
in realtà la conosco da soli tre giorni, come è possibile? Mi rifiuto di
credere che io mi stia innamorando, sono sempre dell’idea che l’amore sia una
cosa stupida e da masochisti, però non posso negare di sentirmi come se
conoscessi Emilie da una vita. Si deve essere così: ci somigliamo così tanto
che è come se ci conoscessimo da sempre.
Suo padre è in cucina e legge il
giornale, mentre beve il caffè. Mi saluta con un cenno del capo ed io ricambio.
“Ti va una tazza di caffè
ragazzo, prima di iniziare a lavorare?” il suo tono è cordiale, anche se un po’ assonnato... forse
avevo giudicato l’uomo-tricheco eccessivamente in fretta ...e forse, dovrei
trovargli un nomignolo un po’ più gentile di uomo-tricheco. Mi rendo conto che
nella fretta di uscire, in effetti, non ho ancora bevuto il caffè.
“Si grazie, signor French.”
“Chiamami Moe.” Dice mentre mi
riempie una tazza ed io mi siedo al tavolo appoggiando a terra la cassetta
degli attrezzi. “Ci vuoi del latte o dello zucchero?”
“Latte, grazie.” Dio, mi sento quasi in colpa per averlo chiamato
uomo-tricheco per tutto questo tempo.
Il signor Moe non sembra un gran
chiacchierone, ma forse è anche perché si è svegliato da poco... in compenso,
Emilie sembra perfettamente sveglia: se ne sta seduta a gambe incrociate sulla
sedia di fronte alla mia e inizia a raccontarmi più o meno tutto ciò che le
salta per la testa, mentre mangia biscotti come un tritatutto. Mi sembra
impossibile che si tratti della stessa ragazza che adora i cactus perché non
sono come sembrano, oppure della stessa che ieri aveva negli occhi uno sguardo
tanto triste. Mi rendo conto che con Emilie più che con chiunque altro, niente
è mai come sembra.
Finiamo la colazione e mentre il signor Moe si dedica alle faccende
domestiche, aiuto Emilie a spostare le scatole con i pezzi delle librerie dal
garage alla biblioteca. Intanto, non posso fare a meno di notare il suo
abbigliamento informale: indossa un paio di vecchi jeans che le fasciano le
gambe alla perfezione e una maglietta così larga che potrebbe essere di suo
padre... vorrei solo che le fosse un po’ meno lunga, così da ammirare meglio il
suo fondoschiena. Appena formulo questi pensieri, mi do uno scappellotto
mentale: dio Robert, ricordati che ha ancora
18 anni ed è ancora la stessa ragazza ingenua di ieri.
Ma è proprio questo il punto, no?
Emilie non è più la stessa ragazzina ingenua di ieri, è diversa da come mi
sembrava all’inizio. Scaccio quei pensieri inopportuni e troppo complessi,
mentre mi concentro sul mio lavoro.
Montare la prima libreria è la
parte più complicata, con Emilie che non la smette mai di chiedermi a cosa
serve un attrezzo o come si usa, oppure mentre tento di insegnarle a non
inchiodarsi le dita. Riusciamo nell’impresa e soddisfatti del nostro lavoro, posizioniamo
la prima libreria contro il muro.
In confronto, tutto il resto è
una passeggiata: Emilie è una che impara in fretta e mi facilita molto il
lavoro.
Alla fine, il risultato non è per
niente male e ci sediamo per terra a riposare e ad ammirare la stanza: la
parete semicircolare è quasi completamente occupata da sei alte librerie e la
luce proveniente dalle due uniche finestre, rimbalza sulla parete giallo ocra
alle nostre spalle conferendo una bella atmosfera al tutto.
Ad un tratto, mi rendo conto di
una cosa “Ma tu hai sul serio così tanti libri?”
Mi sorride “Certo che si!”
“...e li hai letti tutti?”
“Beh, no... la maggior parte erano
di mia madre: anche lei amava molto i libri e mi ha trasmesso questa passione.
Però il mio progetto è quello di leggere tutti i libri di questa biblioteca:
dal primo all’ultimo, dal romanzo al manuale di cucina!” Ancora una volta, non
posso credere che sia seria: eppure me lo dice con uno sguardo talmente
sognante, che mi fa capire che non scherza.
“Pranziamo? Io sto morendo di
fame!” Si alza in fretta da terra e poi mi porge una mano per aiutarmi a
tirarmi su. Io l’accetto e quando sono in piedi, il mio viso è molto vicino,
forse troppo, al suo. Deglutisco a vuoto e mi allontano di un passo. Lei
arrossisce.
Avrei potuto e forse avrei dovuto,
baciarla. Lo voleva anche lei? Se lo aspettava? Dio, sono un vigliacco... anzi,
peggio: in questo momento, mi sento un codardo fatto e finito.
Andiamo in cucina e lei prepara
dei sandwich. Ha smesso di parlare, quindi non posso fare a meno di credere che
ci sia rimasta male. Non so cosa diamine mi prende, ho già avuto altre ragazze
in passato: alcune mi piacevano molto, altre meno, ma non ho mai esitato, sono
sempre stato molto sicuro di me. Perché con Emilie è diverso?
Mangiamo quasi completamente in
silenzio: io sono assalito dai miei pensieri e lei sembra molto presa dai suoi.
“Dov’è tuo padre?”
“Doveva andare per qualche ora in
ufficio oggi.”
“...lavora di sabato?”
“Sai, quando sei responsabile di
un’azienda, non conosci orari... Hei, ti va se usciamo un attimo a fare una
passeggiata?”
Annuisco e la seguo fuori.
Usciamo dal retro ed imbocchiamo un
vicolo deserto che passa dietro la sfilza di villini.
“Sai, io non sono un’ingenua. E
non sono neanche stupida.”
“Non l’ho mai pensato.” Bugiardo.
Ma cosa potevo dirle? Che si, in effetti penso che lei sia molto ingenua e
che è meglio che mia stia alla larga? Io non sono nessuno, sono meno della
spazzatura e lei merita di meglio... chiunque meriterebbe di meglio. Perfino
mia madre meritava di meglio.
E allora cosa ci faccio ancora
qui? Il mio lavoro, quello per cui il signor French ha pagato a mio padre un
extra, è terminato. “Si sta facendo tardi, forse dovrei andare.”
“Oh, d’accordo...” Sembra molto
delusa, ma non posso farci nulla. Mi convinco che è per il suo bene.
Mi accompagna a raccogliere gli
attrezzi e mi guarda mentre carico la cassetta sul furgone.
Mi volto a guardarla, cercando di
mantenere un paio di passi di distanza. “Beh, allora... ciao.” Lei non risponde
e senza alcun preavviso, mi getta le braccia al collo e mi stringe forte,
nascondendo il viso nell’incavo del mio collo. Io non posso fare a meno di
avvolgerle un braccio intorno alla vita.
Nonostante ci sia ancora il sole,
ci saranno al massimo cinque gradi: è il freddo pungente tipico di Glasgow e fa
contrasto con il suo abbraccio caldo ed accogliente. “Ciao Robert, è stato
bello conoscerti.” Si stacca da me e si allontana, rientrando in casa.
Io mi riscuoto e entrato in auto,
accendo la radio al massimo del volume.
È stata la cosa giusta da fare.
No, non avrei dovuto lasciarla andare.
E invece si!
Forse dovrei suonare al campanello e tornare dentro. Dovrei dirle che
sono un cretino e che mi dispiace...
Non essere ridicolo, queste cose succedono solo nei film di terza
categoria.
La canzone rock che suona alla radio, mi rimbomba forte nelle orecchie
e avvolto nei miei pensieri, non sento neanche la portiera aprirsi e
richiudersi. Mi spavento quando vedo una mano spuntare dal nulla ed abbassare
il volume della radio.
Faccio un balzo di lato sul
sedile e mi volto di scatto verso l’intruso “Cristo, Emilie! Mi farai venire un
colpo.”
Lei è seria e non ribatte. Però inizia a parlare: “Senti, io non posso
essere certa di quello che pensi tu, però ho il sospetto che siano le stesse
cose che penso io: ti conosco da tre giorni, ma mi sembra che tu sia con me da
una vita. Probabilmente ci sei sempre stato, eri quella parte di me che ancora
non conoscevo.
E sono anche abbastanza sicura
che tu sia spaventato a morte quanto lo sono io, solo che non hai il coraggio
di ammetterlo. Onestamente, non so cosa tu stia cercando di fare o da cosa tu
stia cercando di difendermi, ma ti do una grande notizia: io non ho bisogno di
essere difesa da niente e da nessuno, me la cavo benissimo anche da sola. E
cosa più importante, non penso di aver bisogno di essere di essere difesa da
te: sinceramente, credo che tu ti sopravvaluti, perché non sei oscuro neanche
la metà di quello che credi.”
Distrattamente, mi chiedo se si
fosse preparata il discorso o se lo sia inventata sul momento: senza dubbio è
una brava oratrice. No, mi correggo, è fantastica sotto ogni punto di vista, è
riuscita ad esprimere con poche frasi quello che io non riuscivo neanche a
pensare... e poi, è bellissima anche mentre mi guarda arrabbiata e non posso
fare a meno di fissarla inebetito per qualche secondo.
Mi chino verso di lei, le nostre
labbra sono prima ad un centimetro di distanza e l’attimo dopo si toccano. Il
bacio, prima timido ed esitante, si fa sempre più caldo e profondo, la sento
sporgersi verso di me come un uccellino dal nido.
Dio, è fantastico baciarla e stringerla fra le braccia: è come essere
a casa.
Cristo, tre giorni fa odiavo
l’amore, ero nemico dell’amore... Ora invece, non m’importa se legarmi ad Emilie
mi metterà a rischio di venire abbandonato da lei... Non m’importa nulla di
quello che succederà in futuro, se ogni secondo del mio presente sarà bello
anche solo la metà di questo.
*Fine*
N.A: salve dearies, spero che abbiate apprezzato questa breve e
quantomai delirante storia. Volevo mettere l'accento su come la sola
presenza di Emilie/Belle(in teoria è un misto di entrambe)
praticamente basti per provocare una metamorfosi in Robert/Rumple... ma
forse ho esagerato? Non lo so, non sono del tutto convinta di come ho
costruito i personaggi e soprattutto dell'evoluzione di Rumple.
Correzioni: avevo detto che il padre di Robert Carlyle faceva
l'imbianchino... ma sono pirla, perché in realtà faceva
il pittore ^.^"
Sorry.
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