Glasgow

di Rusty 93
(/viewuser.php?uid=540671)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Glasgow ***
Capitolo 2: *** parte seconda ***
Capitolo 3: *** epilogo ***



Capitolo 1
*** Glasgow ***


glasgow

Caratteristiche: AU/crossover molto intricata e delirante [Robelie/Rumbelle] ambientata nel mondo moderno, senza magia.

Personaggi: Un giovane Robert Carlyle interpetra Robert Gold; Emilie De Ravin interpetra Emilie Belle French; Il padre di Robert è logicamente, Stephen Lord (Non Robbie Kay! xD); Il padre di Emilie è quello che fa re Maurice (non so come si chiami l’attore e non mi interessa).

Note d’autore: Dopo aver visto diversi film con Carlyle, dopo aver sbirciato un po’ la sua biografia e dopo aver scoperto dell’esistenza dei Robelie... In sostanza ho messo tutto in un grosso calderone e ne ho fatto un minestrone-fiction(Lol ). Buona lettura.

 

 Glasgow

Amore e abbandono sono due esperienze così fortemente collegate da essere quasi indistinguibili: non puoi sentire la forza dell’abbandono se non sai cosa sia l’amore.

Nel mio caso, sembra che mi sia stata insegnata la forza dell’amore solo per farmi sperimentare l’attimo seguente, l’esperienza dell’abbandono. Questa è la prima cosa che dovete sapere di me: ho 20 anni ma ho già visto abbastanza della vita da bastarmi per il resto della mia fottuta esistenza.

A proposito, mi presento: mi chiamo Robert Gold, ho 20 anni, faccio un lavoro che odio e sono nato a Glasgow, in Scozia, una trappola per topi dalla quale credo che non riuscirò mai a scappare.

Al momento vivo ancora con mio padre che fa l’imbianchino e mi ha preso con sé a lavorare. Certe volte penso che non ho ancora mandato tutto a puttane solo perché se lo facessi, gli darei un dispiacere troppo grande. Ma a parte mio padre, odio tutto: odio questa schifosa città, inquinata e in rovina, odio la Scozia e gli Scozzesi ...e lo scotch mi fa schifo. Odio il mio corpo troppo, magro e basso, la mia faccia troppo comune, la mia miseria e le cose che sono costretto a fare per sopravvivere alla miseria... tipo aiutare mio padre a dipingere le case della Glasgow -Bene.

E poi odio l’amore e chi si concede all’amore convinto che sia la sola cosa per cui valga la pena vivere: questa è solo una gran cazzata per romantici. L’amore è solo il preludio scintillante di sofferenza ed abbandono e fidatevi di ciò che dico: io sono figlio dell’abbandono, mia madre mi ha abbandonato quando avevo 4 anni.

“Robert! Svegliati e alzati dal quel cazzo di letto, prima che venga a tirarti giù a calci.” Questo è mio padre.

Per l’ennesima volta, non ho sentito la sveglia. Guardo l’orologio: sono le 6 e 10. Dio, quanto la odio questa fottuta vita. Do un calcio alle coperte e mi trascino fuori dal letto con una lentezza impressionante perfino per me.

Guardo fuori dalla finestra: è nuvoloso e sembra che stia per piovere... ma questa è solo Glasgow, amici: asfalto e cielo grigio sono inclusi nel prezzo.

Appena arrivo in cucina, mio padre inizia a darmi ordini: “Muoviti ragazzo, siamo già in ritardo! Cambiati e mangia qualcosa, mentre io carico il camion.”

Mangio una merendina e bevo un po’ di caffè, mentre mi do un occhiata allo specchio: l’unica cosa positiva del fare l’imbianchino è che ho messo su un po’ di muscoli negli ultimi mesi. Gonfio i bicipiti e provo a darmi un’aria da duro... Niente da fare, il risultato complessivo è ancora misero.

Mi cambio con gli abiti da lavoro e poi esco: mio padre mi sta già aspettando e scalda il motore della macchina, mentre si fuma la prima sigaretta della giornata.

“Hallelujah! Cristo, un giorno di questi mi farai perdere qualche lavoro, con i tuoi fottuti ritardi.”

“Siamo dei cazzo di imbianchini ‘pà... nessuno se ne accorge se arriviamo dieci minuti in ritardo.” Rispondo sbuffando.

“E invece no, ragazzo! Quegli stronzi spilorci della Glasgow-Bene non aspettano altro se non pagarmi un lavoro la metà di quello che dovrebbero... e ti assicuro che gli basta una qualunque scusa. Quindi vedi di rimetterti in riga, o la prossima volta che ti svegli tardi, ti riduco la paga.”

Io a mala pena lo ascolto, sono molto più interessato a osservare le strade deserte dal finestrino. Insomma, interessato è una parola grossa, ma tutto è meglio che sentire mio padre che mi ripete le stesse cose per l’ennesima volta. Lui si incazza ancora di più, accende la radio e fino alla fine del viaggio, nessuno dei due parla.

Sono quasi le 7 e mezza quando arriviamo a destinazione: una tranquilla cittadina sulla costa alla periferia di Glasgow. Qui il cielo sembra meno triste e plumbeo, ma probabilmente è solo una mia impressione. Il cliente di oggi abita nel classico villino bianco con annesso prato ...così curato e perfetto, che sembra una fottuta moquette verde.

“Apri il bagagliaio e porta dentro i campioni di vernice, i giornali e il nastro adesivo... intanto io parlo col cliente.”  Mi dice mentre scendiamo dall’auto.

Io annuisco e mentre apro il portabagagli, tiro fuori una sigaretta e me la infilo in bocca. Inizio a portare la prima cassa di cose ed entro nella tana del lupo.

Mio padre e il padrone di casa(un uomo stempiato, di altezza media ma grasso come un tricheco), stanno parlando in corridoio. Mi sentono e si voltano verso di me.

“D-ve li mett-, sign-re?” Ho ancora la sigaretta spenta fra le labbra e il cliente sembra non capire quello che dico, ma mio padre indica qualcosa alle sue spalle: “Nella biblioteca ragazzo, è la prima porta a sinistra. Appoggia tutto e poi portami il catalogo dei colori.”

Entro nella stanza indicata, un posto che sembra tutto meno che una biblioteca: è una stanza semiovale vuota e con le pareti ingiallite. Sulla destra noto una poltrona coperta con un vecchio lenzuolo, e quattro grossi scatoloni. Appoggio la cassa e afferro il catalogo.

Mio padre lo prende dalle mie mani senza neanche degnarmi di uno sguardo: è sempre così quando è occupato a lisciarsi per bene i clienti con tutte le sue balle. Mio padre è uno stronzo, manipolatore e disonesto... ma non mi lamento finché questo gli permette di guadagnare qualche sterlina in più.

Torno alla macchina e prendo la scala pieghevole portandola sotto braccio. E’ molto lunga, quindi devo fare un po’ di manovre per essere sicuro di arrivare a destinazione senza sbattere contro i muri del corridoio.

Sono quasi arrivato nella biblioteca, quando senza alcun preavviso, sento sbattere forte qualcosa contro la scala. Il fracasso che ne segue è da pazzi: sento un tonfo, un rumore di vetri infranti e un “Ahia!” di una voce femminile. Il tutto avviene alle mie spalle, quindi non ho una sola dannata idea di cosa stia succedendo, anche se direi che qualcuno è decisamente andato a sbattere contro la mia scala... Oh, cazzo! Sta a vedere che ho ucciso il cliente con la scala... papà questa volta mi ammazza di sicuro.

Appoggio la scala al muro del corridoio e mi volto: una ragazza dai lunghi capelli bruni si sta rialzando in mezzo ad una marea di vetri rotti.

“Ti sei fatta male?” Mentre le pongo la domanda, non posso fare a meno di dare una sbirciata alle belle gambe snelle e non troppo lunghe, che si scorgono da sotto la gonna... porta una divisa blu scuro di un college che non conosco.

Lei alza lo sguardo verso di me “Io sto bene, ma il vaso...” Guarda mesta verso i vetri rotti e io noto che per terra ci sono anche dell’acqua ed un paio di rose.

Lei fa per rialzarsi ma nel farlo, poggia una mano a terra e si taglia con un vetro “Ahi!”

Bene allora, ricapitolando, non sono neanche le otto di mattina e mio padre avrà già di che incolparmi per un mese: sono un ritardatario, ho rotto il vaso(speriamo che non fosse prezioso) di un cliente e la figlia bella e un po’ incapace dello  stesso cliente, si è appena tagliata una mano per colpa mia... O meglio, in realtà non è colpa mia, ma papà dirà comunque così.

“Aspetta, ti aiuto.” Le porgo una mano e l’aiuto a rialzarsi.

“Grazie! Tu sei l’imbianchino?”

“Sono il suo aiutante...”

“Ah ecco, mi sembravi un po’ troppo giovane!” mi sorride.

Io non so cosa rispondere, non sono molto abituato alle conversazioni educate e ho un po’ paura che mi scappi qualche parolaccia, se apro bocca più del necessario. Mi limito a fissarla come un ebete ed intanto, noto che hai dei grandi e stupendi occhi blu, con delle scaglie azzurre verso il centro dell’occhio. “Hem, io sono Emilie, ti stringerei la mano ma ecco, non vorrei sporcarti...” dice guardandosi la mano insanguinata.

Sembra imbarazzata, ma non so se è per il mio silenzio ostinato o per l’incidente di poco fa.

Miracolosamente, riesco a formulare una frase di senso compiuto “Non fa niente.”

Lei mi osserva perplessa, senza capire “Per cosa?”

“Per... per la stretta di mano. Nessuno me la stringe mai, quindi non è un problema.”

In quel momento arrivano il cliente e mio padre.

“Emilie! Che accidenti hai combinato questa volta?” L’uomo-tricheco guarda i vetri rotti e poi vede la mano insanguinata della ragazza “Ti sei fatta male?”

“Non è nulla di grave papà, sono solo caduta.”

Mentre quello stupendo quadretto famigliare continua come in una pubblicità dei fottuti cerotti per bambini (o qualcosa del genere, comunque), mio padre mi guarda male.

“Che accidenti ai combinato ragazzo? E perché la scala è qui, in mezzo al corridoio?”

“Stavo aiutando Emilie...”

“Si certo, come no... Lo so io cosa stavi facendo. Ora prendi la scala e mettiti al lavoro mentre io mischio i colori.”

Entriamo in biblioteca e lui mi scruta torvo “Ricordi cosa ti ho detto l’ultima volta? Non azzardarti filtrare con le figlie dei clienti se prima non hai finito di lavorare, intesi?”

Già, certo, papà... peccato che io non stessi per niente filtrando, ma è lei che mi è venuta praticamente addosso. “Intesi...” Mugugno cupo mentre sistemo la scala.

 *

*

*

Note d’autore sulla storia: allora, l’ho scritta un po’ in fretta quindi spero veramente si capisca tutto.
Visto che è un vero minestrone di cose, volevo chiarire con voi cos’è fantasia e quali sono le informazioni documentate... Biografia di Robert Carlyle: 1. È nato a Glasgow; 2. La madre se ne è andata di casa quando lui aveva 4 anni; 3. Il padre faceva l’imbianchino o una cosa simile; 4. Robert ha lavorato con suo padre fino all’età di 21 anni, quando poi si è iscritto a scuola di recitazione.

Note d’autore personali: si, sono ancora viva. Si, ho cancellato tutte le mie storie precedenti.
Sono tornata per il semplice motivo che è impossibile smettere con una dipendenza da internet da un giorno all’altro e stavo in parole povere, dando di matto. Però ricomincio da zero, tabula rasa: nuove storie, nuovo atteggiamento e riduzione graduale (e obbligatoria) delle ore che passo davanti al pc. Posso farcela. Sconfiggerò questo mostro, continuando intanto a fare quello che amo... cioè continuando a scrivere. Lo so probabilmente non vi interessava sapere queste cose, ma almeno così fugo ogni dubbio, facendovi capire chiaramente che sono pazza. ^_^"

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** parte seconda ***


glasgow2

Glasgow, parte seconda.

Sono le due e mezza e ho da poco terminato la mia pausa pranzo. Io e mio padre abbiamo quasi finito di togliere i vecchi strati di vernice ingiallita dalle pareti: ora sono più spoglie e tristi di prima, ma almeno la puzza di fumo si è ridotta.

Dio, il vecchio proprietario di questa cazzo di villa doveva essere l’equivalente di una ciminiera... e a giudicare da una macchia di liquore che ho dovuto scrostare dal muro, probabilmente era anche matto da legare. Riesco quasi a immaginarmi la scena: il tipico scozzese ubriacone di mezza età che, dopo aver perso l’ennesima partita a poker o a biliardo, scaglia il suo bicchiere di brandy attraverso la stanza e lo manda in frantumi sul muro.

La casa è stata silenziosa per quasi tutta la mattina: il padrone di casa è uscito verso le nove per andare al lavoro e visto che è giovedì, immagino che la sua bella ed imbranata figlia sia andata a scuola.

“Robert, tu prendi il rullo e inizia a dare una prima mano di bianco alle pareti, io intanto vado fuori a fumarmi una sigaretta... Vedi di sbrigarti, che quando torno ti do una mano a fare il soffitto.” Detto questo, sparisce con la sua solita velocità: se lo conosco (e cazzo, certo che lo conosco) ci metterà molto più di cinque minuti per fumarsi una sigaretta... probabilmente farà anche un salto al pub più vicino per bere qualcosa. Certo, non potrebbe farlo in orario di lavoro, ma se l’uomo-tricheco è abbastanza stupido da lasciarci da soli in casa sua, allora vuol dire che può permettersi di pagarci qualche sterlina in più.

Inizio col sistemare la carta di giornale sul pavimento, per evitare di macchiarlo troppo, poi apro il secchio di vernice e ci intingo il rullo e comincio il mio lavoro... Dopo poco più di cinque minuti sento dei passi in corridoio: come cazzo ha fatto mio padre a tornare così presto? Forse non ha trovato bar decenti nei paraggi... se è così, probabilmente sarà incazzato come una biscia. Non mi volto e non interrompo il mio lavoro, neanche quando sento i passi fermarsi davanti alla porta, ma intanto mi preparo ad una valanga di insulti gratuiti ed immotivati.

“Hei, ciao!” La voce che sento, decisamente non è quella che mi aspettavo. Mi volto di scatto e un po’ di vernice bianca mi schizza sui capelli, ma non ci faccio troppo caso, ci sono abituato.

La figlia del padrone di casa invece, sembra piuttosto divertita: è seduta sulla poltrona e mi guarda sorridendo.

“Hei...” E’ tutto ciò che riesco a dire ...dopodiché per evitare di stare ancora fermo a fissarla come un idiota, mi volto verso la parete e continuo a lavorare.

Dopo trenta secondi di silenzio, sento di nuovo la sua voce e decisamente, le parole che pronuncia mi spiazzano. “Posso darti una mano?”

Non può aver detto veramente una cosa del genere. Appoggio il rullo e la guardo “Cosa scusa?”

“Ti serve aiuto? Posso darti una mano a verniciare se mi insegni...” Giuro su Dio, non ci sta provando con me, non è una frase detta con malizia... vuole semplicemente... essermi d’aiuto, come se io fossi lì per farle un favore e non perché sono costretto.

Non posso ancora credere di aver capito bene “Vuoi... Aiutarmi a fare una cosa per la quale sono pagato?”

Annuisce “Si.”

“Perché?” Almeno ci deve essere una ragione, vuole qualcosa in cambio: e se non è sesso(mi sembra fin troppo ingenua per quello), allora è per forza qualcos’altro.

Lei è stupita dalla mia domanda, sembra quasi che per lei la risposta sia ovvia “Voglio imparare come si fa.”

Questo è da non credere, veramente: una ragazzina della Glasgow-Bene che vuole imparare a fare un lavoro da operaio? E’ una storia da tramandare ai propri figli, una di quelle a cui non crede mai nessuno.

“Come hai detto che ti chiami?” Intanto mi rivolto verso la parete e riprendo in mano il rullo.

“Te l’ho già detto stamattina.” Sembra un po’ offesa dalla mia mancanza di considerazione. “Non te lo ricordi?”

“Secondo te ti chiedo le cose che già so?” La mia voce è tagliente: non capisco perché è qui e la cosa mi mette a disagio.

Lei tace per qualche secondo “Tu invece, non mi hai mai detto il tuo nome.”

Prendo un respiro profondo e conto fino a dieci. Calma Robert, continua a comportarti gentilmente. E’ la figlia del capo e la devi trattare bene. Quando sono certo che non mi scapperanno parolacce fra una frase e l’altra, rispondo. “Mi chiamo Robert. Robert Gold.”

La sento alzasi dalla poltrona e un attimo dopo, è di fianco a me: mi guarda in faccia, ma io non ho intenzione di distogliere lo sguardo dalla parete e dal movimento del rullo.

Però non posso fare a meno di guardarla con la coda dell’occhio: mi sembra che stia sorridendo. “Piacere di conoscerti Robert, io mi chiamo Emilie. Emilie Belle French.”

Mi scappa uno sbuffo dalle labbra. Sempre con la coda dell’occhio, vedo che mi osserva attentamente:

“Per cosa ridi?” Non sembra offesa, solo curiosa. Ma comunque è meglio non rischiare.

“Per nulla.”

“Puoi dirmelo.” Cazzo, ma questa ragazzina non molla la presa neanche per un secondo?

“E’ un nome molto... prezioso, ecco.” Non so se è la parola giusta per dire quello che penso, ma al momento è l’unica che mi viene in mente.

Scorgo le sue sopracciglia sottili sollevarsi scettiche “Prezioso?”

Mi volto esasperato verso di lei. Questa Emilie è insopportabile “Appena mi viene in mente un altro aggettivo più colto e adatto, vengo a dirtelo ok? Adesso però devo lavorare, perciò ti sarei grato se mi lasciassi in pace.” Sono quasi fiero di me, per essermi perfino espresso senza imprecazioni ...anche se le sento fremere sulla punta della lingua. Trattieniti Robert, puoi farcela.

Lei arrossisce e io non posso fare a meno di sentirmi un po’ in colpa per averla trattata male. “Scusa, mi dispiace, non volevo... Prezioso va benissimo, è appropriato perché mi hai fatto capire quello che intendevi.” Mi dice quasi sussurrando, mentre si guarda la punta delle scarpe.

Adesso che la sto guardando, non posso fare a meno di notare la sua mano fasciata. “È uscito tanto sangue?”

“Oh... nono, ma mio padre è un tipo iperprotettivo e ha voluto che la fasciassi bene per evitare che si infettasse... È stato parecchio difficile oggi, scrivere con la mano fasciata.”

Non dovrei conversare con lei mentre sto lavorando, se papà torna e ci scopre stasera mi becco uno di quei cazziatoni che continuano fino alla mattina del giorno dopo... uno di quelli della serie Ci farai finire entrambi in banca rotta, con le tue cazzate. Quindi non dovrei proprio continuare a parlare. Non dovrei, ma lo faccio comunque.

“Che classe fai?” Intanto riprendo a passare il rullo, almeno se papà mi dovrà urlare contro, non potrà dire che stavo trascurando i miei compiti.

“Sono in quinta superiore.”

La prima cosa che mi viene in mente è ‘18 anni!’e l’immagine che segue a quel pensiero è il ricordo delle gambe snelle di Emilie. No, basta così Robert. Ma l’hai guardata? Avrà anche 18 anni ma è decisamente molto ingenua, pura... e poi vuoi davvero rischiare di essere linciato dal’uomo-tricheco per aver compromesso la sua giovane figlia? No, meglio di no.

“A cosa pensi?” Mi rendo conto che mentre io stavo sorridendo durante tutti i miei ragionamenti, lei non aveva smesso un attimo di guardarmi. Merda, ora cosa le rispondo?

“Oh, a nulla di importante... una cosa divertente.”

“Non hai voglia di raccontarla anche a me?” Dio, ma perché questa ragazzina è così maledettamente insistente? Giuro che adesso do di matto... e ora che le racconto? Forza, Robert, fatti venire un’idea, una qualsiasi.

“Ecco... c’è quest’uomo che entra in un caffè...” Non ci credo, le sto davvero raccontando una barzelletta. “e...SPLASH!”

Lei ride sinceramente e sul serio, io non riesco a capire cosa ci trovi di così divertente. Però allo stesso tempo, mi viene da sorridere, perché Emilie ha un sorriso contagioso... Dio, ma che ho in testa oggi? Prima mi vengono pensieri da pedofilo e poi inizio a fare lo stucchevole per una che conosco da mezza giornata?

In un modo o nell’altro, sono arrivato alla fine della parete. Appoggio il rullo e do uno sguardo soddisfatto al mio lavoro: ora manca solo il soffitto e decido di cominciarlo senza mio padre. Tanto meno lavoro ha da fare, più è contento. Afferro la scala e la posiziono, poi comincio a versare ancora un po’ di bianco nella ciotola.

“Non hai intenzione di insegnarmi allora?” Mi accorgo che Emilie mi ha fissato per praticamente tutto il tempo e adesso, ha la faccia di una bambina a cui hanno appena rubato una merendina.

“Senti, mi dispiace ma è il mio lavoro... e se mio padre scopre che te l’ho fatto fare al posto mio, mia ammazza.”

Lei annuisce “Quindi il tuo capo è anche tuo padre?”

“Già.” Rispondo atono.

“Deve essere bello lavorare a stretto contatto con i propri genitori.”

Non può essere seria. E invece si: l’ha detto sul serio. Ok, non mi aspettavo molto di più da una ragazzina che vive in un villino bianco con un giardino perfetto, e un padre adorante e iperprotettivo... ma questo no. Emilie non è solo ingenua: praticamente vive su una nuvola di zucchero filato. “Mio padre gestisce un’azienda che importa tulipani e altri fiori dalla Francia, ed ogni tanto lo aiuto con la contabilità, ma non è la stessa cosa: di solito lui sta in un ufficio ed io in un altro.”

E chi te l’ha chiesto? È la prima cosa che penso. Poi però vedo il suo sorriso e i suoi occhi luminosi e pieni di vita, e mi ritrovo a desiderare di sentirla parlare ancora di sé, solo per poter vedere ancora quello sguardo nei suoi occhi.

Le chiedo la prima cosa che mi passa per la testa “Ti piacciono i fiori?”

“Oh, si! Mi piacciono tutti i tipi di fiori, ma i miei preferiti sono i cactus e le rose rosse!”

Ok, non devo ridere, potrebbe prenderla come un’offesa... Cazzo Robert, controllati. Cazzo, non ce la posso fare, questo è veramente troppo. La mia risata è fragorosa, lei mi guarda un po’ stupita e spaventata dalla mia esplosione, ma non m’importa. Cerco di controllarmi e mi asciugo le lacrime: “Ahah... ok, scusa... non volevo, adesso la smetto. Solo non capisco... cosa centrano in cactus con le rose?”

“Beh, tutti e due hanno le spine, no?” La sua risposta è di un ovvietà talmente disarmante, che mi fa sentire un perfetto idiota. Eppure non posso fare a meno di vederci un doppio senso... sono incuriosito da questa ragazza: mi avvicino di un passo, per guardarla attentamente in faccia.

“Ti piacciono le cose che provocano dolore, Emilie?”

Lei scuote la testa e cerca di spiegarsi meglio “Non è solo per le spine, infatti non mi piacciono i cactus che hanno solo le spine, ma quelli che ogni tanto fioriscono anche ...e questi quasi sempre fanno dei fiori dai colori vivaci. Allo stesso modo, le rose sembrano pericolose perché hanno le spine, ma poi in realtà fanno dei fiori stupendi, delicatissimi e profumati. A me piacciono le cose che non sono mai come sembrano.”

Cosa dovrei rispondere ad una cosa del genere? Questa ragazzina sarà anche un po’ ingenua, ma perfino io sono in grado di capire che è dannatamente intelligente: non mi sento in grado di sostenere una conversazione a questi livelli. Afferrò il pennello con la vernice e salgo sulla scala.

“Tu hai un fiore preferito?” mi chiede spostandosi più vicina alla scala.

“No... non lo so, non ci ho mai pensato.” Come accidenti fa a mettermi così in difficoltà con una semplice domanda? Sto per dare di matto.

In quel momento, arriva mio padre. Hallelujah.

“Oh, bene ragazzo, hai già cominciato senza di me! Ora scendi e riposati un po’, qui continuo io.” Sta facendo il carino perché c’è anche Emilie, ne sono certo ...ma va benissimo così, qualunque cosa pur di prendermi dieci minuti di pausa. Papà si volta verso Emilie sorpreso, come se l’avesse appena notata: “Oh, salve signorina French! Non dovrebbe stare qui, rischia di sporcarsi la divisa di vernice!”

“Salve! Volevo solo sapere se fosse possibile per lei insegnarmi a dipingere, poi se la disturbo me ne vado...” Accidenti, è davvero cocciuta la ragazza.

Perfino mio padre che è nato dissimulatore, fatica a nascondere lo stupore per la sua richiesta “Nessunissimo disturbo signorina, io lo dicevo per lei... ma purtroppo, temo non sia possibile, lei non è ...assicurata e se le succedesse qualcosa, dovrei risponderne io.”

Ma quale cazzo di assicurazione, papà? Non so se esiste un’assicurazione per gli imbianchini, ma di sicuro, noi non ne abbiamo mai avuta una: è già tanto se facciamo la fattura ai clienti!

Mentre scendo dalla scala e passo il pennello a mio padre, osservo attentamente Emilie: è ovvio che sta facendo solo finta di crederci, ma non insiste.

“ ‘Pà, allora io esco a fumarmi una sigaretta.” Approfitto della disponibilità di mio padre, mentre Emilie è ancora qui.

Lui annuisce “Vai pure, ragazzo mio.”

Esco in fretta e intanto tiro fuori le sigarette e l’accendino. Dietro di me sento Emilie che saluta educatamente mio padre ed esce dalla stanza. Evidentemente, perfino lei ha capito subito quanto sia viscido e poco raccomandabile Robert Senior Gold.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** epilogo ***


glasgow2

Glasgow, epilogo.

La mattina seguente, stiamo ancora lavorando nella pseudo-biblioteca dei French. L’uomo-tricheco non si è dimostrato del tutto privo di gusto e ha scelto un bel giallo ocra per le pareti: mentre mio padre mischia i colori per ottenere la tonalità giusta, io preparo i pennelli.

Quando iniziamo a dipingere, è già metà mattina e sono quasi le tre quando terminiamo. Mi chiedo come mai non abbia ancora visto Emilie e ogni tanto, do uno sguardo rapido in corridoio sperando di scorgerla e di poterla salutare.

Mi sto chiedendo come mai mi senta così dispiaciuto di non averla ancora vista, quando una manata di mio padre mi colpisce in pieno sulla spalla, risvegliandomi dai miei pensieri “Bene ragazzo, ottimo lavoro oggi. Allora, adesso tu pulisci i pennelli e carichi tutto sul furgone mentre io vado a farmi un cicchetto al pub qua vicino, d’accordo?” mi strizza l’occhio e poi si dilegua ad una velocità sorprendente.

Pulisco i pennelli, carico la roba in macchina, tolgo lo scotch di carta dalle pareti e raccolgo tutti i fogli di giornale dal pavimento. Bene, ora non mi resta che aspettare mio padre per potermene tornare a casa.

Mi stravacco sul sedile del passeggero del nostro furgone e mentre mi fumo una sigaretta, alla radio danno una canzone che mi piace: alzo il volume al massimo quando inizia il ritornello e inizio a cantare a squarcia gola.

One down, one to go 
Just another bullet in the chamber 
Sometimes love's a loaded gun 
Red lights, stop and go 
Whatcha gonna do when yo play with danger 
Sometimes love's a loaded gun 
And it shoots to kill 

Sto ancora finendo di cantare e intanto scuoto la sigaretta fuori dal finestrino, per fare cadere la cenere... ed è a questo punto che rischio l’infarto.

“Ciao!” Emilie è praticamente comparsa dal nulla e ora mi fissa sorridente, i suoi occhi grandi mi ricordano tanto le luminarie il giorno di Natale... o qualcosa di simile, insomma.

“Hei.” Rispondo indifferente, prendendo un altro tiro dalla sigaretta e cercando di non far notare la mia sorpresa. Lei fa il giro dell’auto ed entra in macchina, sedendosi al posto del guidatore.

“Come stai?” cerca di incrociare il mio sguardo, ma io fisso ostinatamente il cruscotto.

“Non c’è male, tu?”

Prima di rispondermi, abbassa il volume della radio al minimo. “Tutto ok. Come è andata la tua giornata?”

“Hei! Echecazzo, io la stavo ascoltando la radio!” era appena cominciata un’altra canzone che mi piace. Credo che sia la prima imprecazione che mi sente pronunciare, quindi adesso si offenderà e non mi rivolgerà mai più la parola... aspetta un attimo: a me che cazzo me ne frega se questa ragazzina viziata non mi rivolge più la parola? Assolutamente nulla!

“Si ma stavamo anche parlando e non mi va di dover urlare. E poi la musica la senti anche se è ad un volume più umano, non sei mica sordo!” mi risponde a tono e non sembra per niente intenzionata a scappare. Decido di rimediare in qualche modo.

“Tutto ok, abbiamo finito di dipingere la biblioteca. Domani tu e tuo padre potrete iniziare a montare le librerie.” Mentre pronuncio quelle parole, cerco di immaginarmi l’uomo-tricheco e la giovane e mingherlina Emilie, che cercano di montare una libreria decente e mi scappa da ridere: quei due è già tanto se sanno usare un martello.

“Tuo padre non ti ha ancora detto nulla?”

Mi risveglio dai miei sogni ad occhi aperti e mi decido a voltarmi verso di lei “Non mi ha ancora detto cosa?”

“Che lui e mio padre si sono messi d’accordo... Lui ci ha detto che tu mi avresti aiutato a montare le librerie.”

Non ci posso credere. Quel vecchio bastardo sarebbe stato capace di buttarmi giù dal letto il sabato mattina e dirmi solo in quel momento che dovevo lavorare... e poi, che cazzo, perché non ci viene lui qui a lavorare di sabato, se ci tiene tanto? Io domani ho da fare... no d’accordo, non è vero, a meno che dormire tutto i giorno e mangiare schifezze possano essere considerati come impegni. Ma cazzo, è comunque sabato, un fottutissimo e sacrosanto giorno di riposo!

Che rabbia, mi prudono le mani ed ho voglia di prendere a pugni qualcosa... per tenere occupate le dita, mi accendo un’altra sigaretta e il sapore del fumo in bocca mi calma leggermente. “Ottimo.” È tutto ciò che riesco a pronunciare fra i denti.

“Sai, di solito era mia madre quella che faceva i lavori più pesanti in casa... mio padre al massimo, è capace di cambiare le lampadine. Io me la cavo, ho dovuto imparare a fare un po’ di tutto nell’ultimo anno, ma non penso che sarò mai abbastanza forte per montare una libreria tutta da sola.” Lo dice sorridendo, quasi come se le cose che sta sottintendendo non fossero importanti, ma io vedo il dolore riflesso nei suoi occhi chiari.

“Cosa è successo a tua madre?”

“Tumore al cervello. E’ morta tre mesi fa, ma era già da un po’ che non ce la faceva più.” Tutta la sua ingenuità mi sembra svanita adesso, quasi come se si fosse tolta una maschera. Un’onda di delusione mi travolge e non so perché. Forse perché in fondo speravo che lei fosse veramente così: ingenua, dolce e gentile, non ancora scossa dalla realtà della vita e dalla sua brutalità... si, forse è proprio perché speravo che fosse ciò che io non sono mai stato. Allo stesso tempo però, inizio a considerare la piccola Emilie in modo diverso... adesso, è come se qualcosa ci legasse, qualcosa di molto triste ed oscuro certo, ma è anche qualcosa di forte ed indissolubile. Mi rendo conto che probabilmente, quel qualcosa c’era fin dall’inizio e io semplicemente, ero troppo cieco per vederlo.

Dio, tutti questi pensieri filosofici mi sconvolgono la testa: non sono per niente da me. Ciononostante, non riesco nemmeno a trattenere la mia lingua dallo sciogliersi senza alcun preavviso:

“Mia madre se ne è andata quando avevo poco meno di quattro anni. Ha piantato in asso me e mio padre per andare a fare la vita da benestante con un investitore di borsa, un londinese del cazzo. Ha divorziato il più in fretta possibile da mio padre e si è risposata con l’altro... e come darle torto? Mio padre è un stronzo, anche se gli voglio bene perché è l’unica famiglia che mi è rimasta ...ma non potrò mai perdonarle di avere abbandonato me, il suo unico figlio.”

Lei non dice nulla e io continuo a guardare avanti. Inizia a fare buio, quindi non mi volto neanche per cercare di guardarla in faccia: non riuscirei a vederla comunque. Dopo qualche minuto, inizio a dubitare che sia ancora viva... penso che magari è uscita dalla macchina e io non l’ho neanche sentita andarsene. Una tremenda ma famigliare sensazione di abbandono inizia ad avvolgermi.

“Ti prego, dì qualcosa.” Lei non risponde, ma in compenso, mi getta le braccia al collo e mi abbraccia, appoggiando la sua testa sulla mia spalla: sento i suoi capelli ondulati e morbidi che mi sfiorano il collo, le sue mani che mi stringono forte le spalle e poi sento il suo profumo... non so se sia giusto, ma lo identifico come odore di shampoo e di Emilie. Libero delicatamente un braccio dalla sua presa e le avvolgo le spalle e in quel momento, le scappa un breve singhiozzo: sta piangendo.

Rimaniamo abbracciati così per qualche minuto, consolandoci a vicenda. Distrattamente, mi chiedo come sia possibile che io sia riuscito ad aprirmi di più con questa ragazzina, che conosco da meno di due giorni, che con chiunque altro durante la mia intera esistenza.

***

Il giorno seguente, mi apro gli occhi prima che suoni sveglia e balzo giù dal letto con una velocità impressionante. Mi faccio una doccia e mi vesto in fretta, carico tutti gli attrezzi necessari sul furgone e inizio a guidare mentre mangio la mia solita merendina per colazione.

A dieci alle nove, sono sulla soglia di casa French. Suono il campanello ed è lei ad aprirmi la porta: prima che io possa salutarla o dirle qualunque altra cosa, lei mi getta le braccia al collo e mi stringe forte, quasi come se fossi un orsacchiotto di peluche.

Quando si stacca e mi invita ad entrare, la guardo in faccia attentamente: non è più triste, sembra tornata quella di sempre... mio dio, sto parlando come se la conoscessi da anni, quando in realtà la conosco da soli tre giorni, come è possibile? Mi rifiuto di credere che io mi stia innamorando, sono sempre dell’idea che l’amore sia una cosa stupida e da masochisti, però non posso negare di sentirmi come se conoscessi Emilie da una vita. Si deve essere così: ci somigliamo così tanto che è come se ci conoscessimo da sempre.

Suo padre è in cucina e legge il giornale, mentre beve il caffè. Mi saluta con un cenno del capo ed io ricambio.

“Ti va una tazza di caffè ragazzo, prima di iniziare a lavorare?” il suo tono è  cordiale, anche se un po’ assonnato... forse avevo giudicato l’uomo-tricheco eccessivamente in fretta ...e forse, dovrei trovargli un nomignolo un po’ più gentile di uomo-tricheco. Mi rendo conto che nella fretta di uscire, in effetti, non ho ancora bevuto il caffè.

“Si grazie, signor French.”

“Chiamami Moe.” Dice mentre mi riempie una tazza ed io mi siedo al tavolo appoggiando a terra la cassetta degli attrezzi. “Ci vuoi del latte o dello zucchero?”

“Latte, grazie.” Dio, mi sento quasi in colpa per averlo chiamato uomo-tricheco per tutto questo tempo.

Il signor Moe non sembra un gran chiacchierone, ma forse è anche perché si è svegliato da poco... in compenso, Emilie sembra perfettamente sveglia: se ne sta seduta a gambe incrociate sulla sedia di fronte alla mia e inizia a raccontarmi più o meno tutto ciò che le salta per la testa, mentre mangia biscotti come un tritatutto. Mi sembra impossibile che si tratti della stessa ragazza che adora i cactus perché non sono come sembrano, oppure della stessa che ieri aveva negli occhi uno sguardo tanto triste. Mi rendo conto che con Emilie più che con chiunque altro, niente è mai come sembra.

Finiamo la colazione e mentre il signor Moe si dedica alle faccende domestiche, aiuto Emilie a spostare le scatole con i pezzi delle librerie dal garage alla biblioteca. Intanto, non posso fare a meno di notare il suo abbigliamento informale: indossa un paio di vecchi jeans che le fasciano le gambe alla perfezione e una maglietta così larga che potrebbe essere di suo padre... vorrei solo che le fosse un po’ meno lunga, così da ammirare meglio il suo fondoschiena. Appena formulo questi pensieri, mi do uno scappellotto mentale: dio Robert, ricordati che ha ancora 18 anni ed è ancora la stessa ragazza ingenua di ieri.

Ma è proprio questo il punto, no? Emilie non è più la stessa ragazzina ingenua di ieri, è diversa da come mi sembrava all’inizio. Scaccio quei pensieri inopportuni e troppo complessi, mentre mi concentro sul mio lavoro.

Montare la prima libreria è la parte più complicata, con Emilie che non la smette mai di chiedermi a cosa serve un attrezzo o come si usa, oppure mentre tento di insegnarle a non inchiodarsi le dita. Riusciamo nell’impresa e soddisfatti del nostro lavoro, posizioniamo la prima libreria contro il muro.

In confronto, tutto il resto è una passeggiata: Emilie è una che impara in fretta e mi facilita molto il lavoro.

Alla fine, il risultato non è per niente male e ci sediamo per terra a riposare e ad ammirare la stanza: la parete semicircolare è quasi completamente occupata da sei alte librerie e la luce proveniente dalle due uniche finestre, rimbalza sulla parete giallo ocra alle nostre spalle conferendo una bella atmosfera al tutto.

Ad un tratto, mi rendo conto di una cosa “Ma tu hai sul serio così tanti libri?”

Mi sorride “Certo che si!”

“...e li hai letti tutti?”

“Beh, no... la maggior parte erano di mia madre: anche lei amava molto i libri e mi ha trasmesso questa passione. Però il mio progetto è quello di leggere tutti i libri di questa biblioteca: dal primo all’ultimo, dal romanzo al manuale di cucina!” Ancora una volta, non posso credere che sia seria: eppure me lo dice con uno sguardo talmente sognante, che mi fa capire che non scherza.

“Pranziamo? Io sto morendo di fame!” Si alza in fretta da terra e poi mi porge una mano per aiutarmi a tirarmi su. Io l’accetto e quando sono in piedi, il mio viso è molto vicino, forse troppo, al suo. Deglutisco a vuoto e mi allontano di un passo. Lei arrossisce.

Avrei potuto e forse avrei dovuto, baciarla. Lo voleva anche lei? Se lo aspettava? Dio, sono un vigliacco... anzi, peggio: in questo momento, mi sento un codardo fatto e finito.

Andiamo in cucina e lei prepara dei sandwich. Ha smesso di parlare, quindi non posso fare a meno di credere che ci sia rimasta male. Non so cosa diamine mi prende, ho già avuto altre ragazze in passato: alcune mi piacevano molto, altre meno, ma non ho mai esitato, sono sempre stato molto sicuro di me. Perché con Emilie è diverso?

Mangiamo quasi completamente in silenzio: io sono assalito dai miei pensieri e lei sembra molto presa dai suoi.

“Dov’è tuo padre?”

“Doveva andare per qualche ora in ufficio oggi.”

“...lavora di sabato?”

“Sai, quando sei responsabile di un’azienda, non conosci orari... Hei, ti va se usciamo un attimo a fare una passeggiata?”

Annuisco e la seguo fuori. Usciamo dal retro ed imbocchiamo  un vicolo deserto che passa dietro la sfilza di villini.

“Sai, io non sono un’ingenua. E non sono neanche stupida.”

“Non l’ho mai pensato.” Bugiardo. Ma cosa potevo dirle? Che si, in effetti penso che lei sia molto ingenua e che è meglio che mia stia alla larga? Io non sono nessuno, sono meno della spazzatura e lei merita di meglio... chiunque meriterebbe di meglio. Perfino mia madre meritava di meglio.

E allora cosa ci faccio ancora qui? Il mio lavoro, quello per cui il signor French ha pagato a mio padre un extra, è terminato. “Si sta facendo tardi, forse dovrei andare.”

“Oh, d’accordo...” Sembra molto delusa, ma non posso farci nulla. Mi convinco che è per il suo bene.

Mi accompagna a raccogliere gli attrezzi e mi guarda mentre carico la cassetta sul furgone.

Mi volto a guardarla, cercando di mantenere un paio di passi di distanza. “Beh, allora... ciao.” Lei non risponde e senza alcun preavviso, mi getta le braccia al collo e mi stringe forte, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo. Io non posso fare a meno di avvolgerle un braccio intorno alla vita.

Nonostante ci sia ancora il sole, ci saranno al massimo cinque gradi: è il freddo pungente tipico di Glasgow e fa contrasto con il suo abbraccio caldo ed accogliente. “Ciao Robert, è stato bello conoscerti.” Si stacca da me e si allontana, rientrando in casa.

Io mi riscuoto e entrato in auto, accendo la radio al massimo del volume.

È stata la cosa giusta da fare.

No, non avrei dovuto lasciarla andare.

E invece si!

Forse dovrei suonare al campanello e tornare dentro. Dovrei dirle che sono un cretino e che mi dispiace...

Non essere ridicolo, queste cose succedono solo nei film di terza categoria.

La canzone rock che suona alla radio, mi rimbomba forte nelle orecchie e avvolto nei miei pensieri, non sento neanche la portiera aprirsi e richiudersi. Mi spavento quando vedo una mano spuntare dal nulla ed abbassare il volume della radio.

Faccio un balzo di lato sul sedile e mi volto di scatto verso l’intruso “Cristo, Emilie! Mi farai venire un colpo.”

Lei è seria e non ribatte. Però inizia a parlare: “Senti, io non posso essere certa di quello che pensi tu, però ho il sospetto che siano le stesse cose che penso io: ti conosco da tre giorni, ma mi sembra che tu sia con me da una vita. Probabilmente ci sei sempre stato, eri quella parte di me che ancora non conoscevo.

E sono anche abbastanza sicura che tu sia spaventato a morte quanto lo sono io, solo che non hai il coraggio di ammetterlo. Onestamente, non so cosa tu stia cercando di fare o da cosa tu stia cercando di difendermi, ma ti do una grande notizia: io non ho bisogno di essere difesa da niente e da nessuno, me la cavo benissimo anche da sola. E cosa più importante, non penso di aver bisogno di essere di essere difesa da te: sinceramente, credo che tu ti sopravvaluti, perché non sei oscuro neanche la metà di quello che credi.”

Distrattamente, mi chiedo se si fosse preparata il discorso o se lo sia inventata sul momento: senza dubbio è una brava oratrice. No, mi correggo, è fantastica sotto ogni punto di vista, è riuscita ad esprimere con poche frasi quello che io non riuscivo neanche a pensare... e poi, è bellissima anche mentre mi guarda arrabbiata e non posso fare a meno di fissarla inebetito per qualche secondo.

Mi chino verso di lei, le nostre labbra sono prima ad un centimetro di distanza e l’attimo dopo si toccano. Il bacio, prima timido ed esitante, si fa sempre più caldo e profondo, la sento sporgersi verso di me come un uccellino dal nido.

Dio, è fantastico baciarla e stringerla fra le braccia: è come essere a casa.

Cristo, tre giorni fa odiavo l’amore, ero nemico dell’amore... Ora invece, non m’importa se legarmi ad Emilie mi metterà a rischio di venire abbandonato da lei... Non m’importa nulla di quello che succederà in futuro, se ogni secondo del mio presente sarà bello anche solo la metà di questo.

 

*Fine*

 


N.A: salve dearies, spero che abbiate apprezzato questa breve e quantomai delirante storia. Volevo mettere l'accento su come la sola presenza di Emilie/Belle(in teoria è un misto di entrambe) praticamente basti per provocare una metamorfosi in Robert/Rumple... ma forse ho esagerato? Non lo so, non sono del tutto convinta di come ho costruito i personaggi e soprattutto dell'evoluzione di Rumple. Correzioni: avevo detto che il padre di Robert Carlyle faceva l'imbianchino... ma sono pirla, perché in realtà faceva il pittore ^.^" Sorry.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2819168