Our love is a mistake, now, forever. For them.

di Angelo_Stella
(/viewuser.php?uid=722298)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


§  L'Angelo racconta  §
 
Salve a tutti e benvenuti/ bentornati a una storia scritta a quattro mani dalla sottoscritta (che sta volta ha i capitoli dispari) e dalla magnifica Stella_2000, che ringrazio, perchè l'idea è stata sua! xD
Ti adoro Stellina! <3 Grazie ancora!
Dunque, il contesto è un po' diverso, sta volta e visto che il primo chappy è toccato a me, non vi dico nulla, voglio vedere cosa deducete da quelle info che vi abbiamo dato nell'introduzione ... Tutto, c'è scritto tutto, ma fa niente, son dettagli! xP
Spero vi piaccia questo primo capitolo e che ci benedirete entrambe con una recensioncina piccina picciò ;)
Grazie a chiunque leggerà :)
Un inchino e un bacio, Angelo




Our love is a mistake,
now, forever.
For them.

 



Capitolo 1
 

COLLABORAZIONE CON Stella_2000

Splendeva il sole, su Berlino.
Le donne dalle trecce bionde iniziavano in quel momento a spalancare le finestre per assaporare l'aria pura del mattino. Scrollavano gli abiti dalle terrazze, dando anche una sistemata alle bandiere, mostranti fiere una svastica nera. Preparavano la colazione per i figli, i mariti e le figlie, tutti luminosi d'oro nei capelli e pieni di lapislazzuli negli occhi.
Benedicevano tutti insieme il Fuhrer per il suo governo, a volte si sentiva un padre di famiglia, dalla finestra aperta, con un vocione tonante, quasi ubriaco, strillare: "Deutschland, uber alles!".
C'erano certe faccette innocenti che guardavano fuori e davano il benvenuto al sole. Erano bimbetti, la maggior parte delle volte, così insensibili a certi "discorsi da adulti". Altre volte erano giovani signorine, che salutavano con una mano e sguardo sognante i soldati per le strade, che credevano al fatto che un cielo pulito da nuvole fosse il segno dalla loro fortuna.
Ogni mattina aveva il privilegio di godere dello spettacolo della capitale tedesca nel suo risveglio pieno di luce, parole dai suoni barbari, capelli biondi ed occhi turchesi, giovincelli che si rincorrevano per le strade, facendo la gara a chi arrivava primo a scuola, magari squadrando di tanto in tanto uno che non aveva la fortuna d'esser fatto d'oro e acquamarina, ma aveva i capelli e gli occhi di pece e una Stella d'Israele sul braccio.
Al suo posto, chiunque avrebbe esultato: aveva ai suoi piedi la città e non ne faceva parte. Non era tedesco, ma non c'era motivo d'emarginazione. Eppure, non gliene fregava nulla: era dalla parte di quei poveretti guardati male, quelli dai capelli color cenere.
Lui aveva i capelli color cenere. Aveva gli occhi verdi, la pelle pallida e ogni mattina, prima ancora che si spalancassero le finestre, era già accampato sotto un tettuccio, che lo riparava dalla polvere che di lì a poco sarebbe venuta giù, da lui. Quasi ne facesse parte: aveva la città, ma per la città non era che polvere, cenere, come i suoi capelli.
Solo una chitarra con cui suonare, una magra consolazione e piccola compagnia. Solo poche e minuscole monete di rame ai piedi, che si confondevano con la strada, solo un rifugio poco in periferia, in cui tornare, mentre "i dorati", come li chiamava lui, se ne stavano in casa a bere birra e mangiare delizie.
Lo sapeva: avrebbero potuto dargli qualcosa in più, non se ne sarebbero nemmeno accorti, con tutti i tesori che sapeva esser nascosti nelle loro ville.
I suoi unici amici, erano quelli un po' simili a lui, quelli con gli occhi scuri scuri, che ogni tanto gli portavano qualcosa. Strano: quelli che avevano meno, davano di più. Forse, lo capivano meglio.
Faceva nulla, comunque, si beffava di loro più e più volte, parevan dei pazzi: lo sentivano ogni volta suonare, anche solo poche note e cantare in quella lingua strana ed incomprensibile, così dolce. Non aveva nessun suono duro e non graffiava, era la melodia stessa, si fondeva con la musica. Ma nessuno capiva fosse lui a suonare e si guardavano intorno, come ammattiti. E quei pochi che capivano, ridevano, facendo i loro commenti sulla sua musica "strana", convinti non li capisse.
Trent, capiva eccome! Era intelligente, aveva imparato la lingua tedesca da solo, quasi e solamente, sentendo e risentendo quei suoni e le parole, guardando i gesti ed associandoli ai termini. Se avesse voluto, avrebbe certamente saputo parlare la loro lingua.
Invece, loro non avrebbero saputo parlare la sua, ne era certo: non facevano mai caso ai dettagli, non si fermavano mai a pensare e tutto nella vita di ognuno andava avanti con una routine perfetta e pressoché meccanica. Si chiedeva come facessero a distinguere un giorno dal successivo.
Si domandava se dessero mai un'occhiata ai figli, per vedere che crescevano o se un giorno, tutt'a un tratto e chissà come, li guardassero negli occhi e vedessero un uomo o una donna ormai grandi, pronti per passare la soglia di casa.
Si chiese quante volte in un anno si guardassero allo specchio, vedendo le rughe e i capelli d'oro perdere valore, diventare argento, il metallo per chi arriva secondo. Per chi non è arrivato mai primo, perché già si credeva incoronato.
Pensò che molto probabilmente, nessuno aveva mai visto la splendida alba che Berlino mostrava: quei colori del cielo così limpidi e incantati, sfocati. Rosso, rosa, giallo e violetto. Se avessero mai sentito il tepore del sole a quelle prime ore del mattino. Non l'avrebbero sentito mai. Il caldo del mezzogiorno e la sera bruna e limpida. La notte di stelle, non la vedevano mai.
E allora, anche quel mattino, pensandoci, Trent provò pena per loro, forse troppo abituati ad avere tutte quelle meraviglie semplicemente accanto, per guardarle davvero. Anche solo per un attimo.
Ancora una volta smise di invidiare le ragazze dalle trecce bionde e gli occhi turchini, i bambini lucenti che saltavano per le strade, correvano per andare a scuola, le donne che s'incontravano sulle soglie e facevano i lavori di casa, i soldati che passavano per le strade.
Che se lo ricordasse un po' meglio, l'indomani mattina: non aveva nulla da invidiare, a Berlino. Nessun gioiello, non tutto l'oro dei capelli e le pietruzze luccicanti negli occhi. Non la routine così estenuante, non i canti, le bandiere e le svastiche, che manco sapeva cosa fossero.
Che ci pensasse prima, il giorno dopo: muovevano la polvere che erano, i tedeschi. La polvere di un popolo tutto uguale, senza idee, senza iniziativa.
Ceco ubbidiente al Fuhrer, così lo chiamavano. Il Capo, l'inventore di quel simbolo, della svastica. Il governo, il potere, la legge. Adolf Hitler.
Amavano il suo nome. Amavano il loro Paese. Amavano la loro lingua.
E allora "Detschland, uber alles!", ogni giorno, ogni mattino fuori dalle finestre e ogni sera nei bar, uomini ubriachi, persino nell'ebbrezza, la loro indiscussa lealtà verso la Germania e verso il Fuhrer.
E Trent, allora, certo che non lo potessero capire, cantava ciò che vedeva nella sua lingua, quella lingua così dolce e che tanto pareva complessa, nella sua armonia. In una poesia che in realtà bloccava le strade, provocava sussurri ed ammirazione per una chissà quale meraviglia, soprattutto nelle donne, che cercavano un semplice cantastorie. Uno che non cantava di chissà che tragedia od autore, ma che solo per la lingua, anche se non lo sapeva, riceveva molteplici sguardi fugaci.
Ma erano storie semplici, le loro storie!
 
Duncan maledì il sole che entrava per l'ennesima volta dalla finestra della sua stanza e l'inondava di luce, come inondava quelle strade di Berlino piene di teste bionde. Odiava la luce, forse perché illuminava come corone i capi dei tedeschi.
Deutschland, uber alles. La Germania sopra tutti. Sempre.
Lui non aveva i capelli biondi, era moro e lo detestava: i mori erano gli ebrei. I mori erano gli inferiori. I mori non erano tedeschi! Nei mori, qualcosa non andava.
Eppure, la sua famiglia era una delle più ricche ed illustri delle città, lui era un amico strettissimo del Fuhrer, era ammirato da tutti i giovani tedeschi che avrebbero tutti voluto essere al suo posto: ricco, amico del Fuhrer! L'aveva conosciuto! Nazista perfetto!
"La Germania sopra tutti!" mormorò, davanti allo specchio, appena vestito, come sempre faceva al mattino, prima di uscire.
Sbatté la porta della camera e si mise a scendere le scale, a volte voltando la testa sugli specchi messi al muro: gli occhi. Era rinomato per quello sguardo ghiacciato, il più azzurro di tutta Berlino. Forse era per questo che nessuno faceva caso al suo colore di capelli.
"Buongiorno, Signore!"
La servetta s'inchinò, alla fine delle scale, vedendolo arrivare ed alzando solamente un poco gli occhietti imbarazzati da cerbiatta e il musino spruzzato di pepe.
"Buongiorno Courtney. E' già in tavola, la colazione?" rispose lui, quanto mai indifferente, fermandosi dinnanzi alle porte della sala da pranzo.
"Sì, Signore." rispose con rispetto la giovane, ricevendo una smorfia disgustata dal padrone, per la Stella che la ragazzetta portava al braccio.
"Ottimo!" fece, ignorando il suo ultimo inchino ed entrando in sala. "Buongiorno, madre!" esclamò a gran voce, appena varcata la soglia in maniera teatrale, com'era solito fare.
"Buongiorno!" gli fu risposto dalla donna, ancora molto giovane, seduta a sinistra.
"Duncan!"
Quell'altra voce di fanciulla lo fece leggermente sobbalzare e i suoi occhi si spostarono repentinamente sulla destra, dove una giovinetta anch'ella dai capelli neri (e anche d'occhi), se ne stava in piedi, ritta da quand'era entrato e sorrideva docilmente, nel rivederlo, finalmente. Con quei capelli scuri e gli occhi più azzurri di Berlino, famosi in tutta la capitale.
"Gwendolyn!" esclamò a sua volta il giovane Ruschtmann, facendosi più appresso alla ragazza, sorpreso di vederla ormai come una donna, bellissima e formata. Nessuna traccia della coda che teneva da bimba o di quell'aria da mocciosetta ribelle che aveva da piccola, l'ultima volta che l'aveva vista. "Sei … cambiata!"
"Anche tu!" fece lei, con un'alzata di spalle, per poi sedersi, al suo invito. "Lo sapevo che un giorno quegl'occhi avrebbero uguagliato il cielo di Berlino!" Sorrise.
"Sei così cresciuta! Che bello rivederti! Ma dimmi, ti prego: quando sei arrivata? Rimarrai per molto?" l'interpellò il ragazzo, mentre entrambi riprendevano a mangiare e bere, serviti ed invidiati dalla serva.
La madre del giovane se ne accorse e la portò via, uscendo anche lei di scena e lasciando soli quei due ragazzi che non si vedevano da tanti anni: si conoscevano fin da piccoli, ma lei, un giorno, se ne andò, per via del lavoro di suo padre, così aveva detto. Andarono a stare in Svizzera e da allora, non si erano più rivisti. Nonostante ciò, niente e nessuno aveva impedito a Duncan Ruschtmann e Gwendolyn Geschnieren di riconoscersi con uno sguardo.
"In realtà, sono solo di passaggio." spiegò la giovinetta. "Accompagno mio padre nei suoi viaggi e per raggiungere il Regno Unito, dovevamo far tappa qui. Me ne andrò domani stesso!"
"Mi spiace tanto, sei appena arrivata!" rispose con tristezza Duncan, mordendosi il labbro.
"Sì, lo so. Ma non pensarci adesso." replicò Gwen, con il suo solito tono scherzoso, flettendo la mano. "Piuttosto … Non mi porteresti a vedere Berlino?" Lo chiese con due occhi talmente dolci e profondi, che Duncan rimpianse d'averli azzurri.
 
"Ma è stupenda!" esclamò, vedendo la città dorata brulicante di persone, voci, bimbi che saltavano la corda o facevano a gara, donne che parlottavano tra loro sulle soglie, ufficiali che cordialmente la salutavano e che poi se ne andavano velocemente, alla vista del suo accompagnatore. "E' meravigliosa, Duncan! Ti spiace, se …" Indicò un negozietto, curiosa, ma il ragazzo assunse un'espressione più seria.
"Non … Non fa per noi, Gwen!" le sorrise invano, stupendola: era l'unico giorno che avrebbero potuto passare insieme! E dopo tanto tempo, non poteva entrare in un negozio?
"Ma perché, andiamo!" rispose lei, giocosa, correndo e fiondandosi dentro il piccolo edificio, senza aspettarlo. Anche perché non entrò.
Non gliene fece una colpa, Gwen non viveva più in Germania da tempo, ormai ed era certo non sapesse le leggi in vigore. Sicuramente non sapeva che quei parassiti inquinavano la purezza del sangue ariano, ogni giorno. Accoppiandosi con le loro bellissime donne, facendo bambini. Rendendo impura la loro lingua e le loro strade, con quei capelli e gli occhi color della pece.
A tal proposito, quel suono. Sempre quella chitarra a torturare le sue orecchie, sempre quella voce, la melodia troppo dolce, troppo diversa, così straniera. Quelle parole troppo armoniose, troppo lente.
Non si era mai domandato da dove venisse quel fastidioso ronzio d'api che i berlinesi erano costretti ogni giorno a sopportare. Non gli interessava: probabilmente era uno di loro, un brandello di polvere in mezzo ad altra polvere. Uno come la sua serva e come quel bimbetto che giocava con una donna altrettanto impura, al di là della strada.
Se l'avesse visto, probabilmente avrebbe fatto capire a Gwen cosa vigeva ormai a Berlino: persone come lui, che storpiavano la lingua ariana con altre dolci di miele, con parole sconosciute, quasi certamente offensive. Avrebbe sputato addosso a quella creatura, ordinando di riflettere, prima d'andare ad impolverare irrimediabilmente le strade della loro città e sarebbe stato acclamato da chiunque l'avesse sentito. Uomo, donna o bambino che avesse creduto nel Fuhrer; uomo, donna o bambino che avesse indossato quella corona d'oro che li distingueva da quelli come lui!
Forse per esaudirlo, perché anche quel dì la Fortuna sorrideva felice alla Germania, eccolo: seduto sotto il tettuccio di una delle loro case, gli occhi abbassati, certamente scuri e i capelli neri. Lo strumento imbracciato e suonato con docili dita, le labbra che si muovevano quasi impercettibilmente per seguire la musica e che spargevano nell'aria un canto gradevole in una lingua incomprensibile.
S'avvicinò a lui a grandi falcate, già digrignando i denti, pronto a calciargli in faccia terra e polvere bruciata, quale era lui, quando Gwen lo raggiunse e s'aggrappò al suo braccio, sorridente come mai, la voce squillante e gli occhi meravigliosi, luminosi.
Fu al suono della sua voce, che il giovane cantastorie alzò lo sguardo: non aveva mai sentito quella sfumatura che sapeva di lontano, quel tono d'incanto anche nella lingua di quei barbari tedeschi, pareva canto di sirena. E nonostante la suddetta mirabile creatura fosse davvero una bellissima ragazza, gli smeraldi del suo volto guardarono istintivamente il ragazzo accanto a lei, quello che tanto strattonava e a che s'era messo a prestar attenzione a lei.
Solo per un secondo, aveva visto quello sguardo, quello del ragazzo: occhi blu come nessun'altro ariano li aveva avuti mai, come non aveva mai visto nel cielo della più bella città della Germania. Gli occhi più azzurri di Berlino.
Era certo l'avesse guardato, prima di rivolgersi alla compagna. Era certo d'averlo sentito, quei passi fuori dal normale erano certamente suoi. Arrabbiati, erano venuti verso di lui quasi avesse avuto qualche colpa. Poi uno sguardo quanto mai veloce ed infine la ragazza.
Trent ammise che era davvero bella ed era era certo fosse una bambolina tedesca, ma non portava la corona né i bottoni azzurri agli occhi e nonostante la sua stranezza d'essere, i bottoni azzurri del suo accompagnatore l'avevano attratto in un secondo più di quanto avesse fatto il corpo tutto di lei in quei minuti ch'era ancora lì davanti.
Quasi se ne spaventò, chiuse i suoi e tentò di non pensarci, mentre i due s'allontanavano, a braccetto, lui continuando a voltarsi: doveva aver avuto un'allucinazione, s'era detto.
Come aveva fatto quel ragazzo a rubare due smeraldi come quelli che si ritrovava incastonati in viso? E da chi era andato a prenderli, dove?
La sua mente non realizzava seriamente queste domande, le rifiutava, terrorizzata, perché la bellezza con cui inizialmente aveva visto Gwen andava scemando e nella sua mente comparivano due occhi verdi. Allo specchio in casa sua, un giovane dai capelli neri. La sua musica e la lingua nel cervello. Lui seduto ovunque: in sala da pranzo, sulle scale. Nelle sue stanze!
E Trent, che aveva sentito di quegli zaffiri strani, in grado di prendere le donne con una sola occhiata, si morse il labbro, per poi muovere un accordo e cantare ancora, senza musica, da solo, una vecchia leggenda che gli avevano raccontato da bambino.
"Ciò di cui sappiam sognare, è il cielo.
Di volare, chi non l'ha fatto mai? O di vedere il mare?
Sognare il blu, quel blu che non si vede mai …"
Quella volta, dai passanti, vinti, arrivò addirittura qualche moneta d'argento.
 
"Arrivederci e grazie, Duncan!"
"Gwen, arrivederci! Torna a trovarmi, se puoi!" le sorrise Duncan, per poi lasciarla andare e salutarla ancora con una mano. Gli sarebbe mancata molto! Si mise a rincorrerla e fece giusto in tempo a vedere che lasciava cadere una moneta, prima di sparire, salutando qualcuno sul ciglio della via.
Forse, il ragazzo fece un cenno educato e si fermò un secondo, sta di fatto che dopo che la ragazza sparì, riprese a cantare e Duncan lo riconobbe: il suo incubo peggiore. Lo odiò più di prima, vedendolo strimpellare una melodia nuova, ma sempre così terribilmente malinconica.
Eppure, Duncan doveva ammettere che era bravo: le sue mani parevano talmente leggere da essere soffi d'aria lieve, le dita lunghissime e sporche, eppure così aggraziate, quasi femminee, che pizzicavano ogni corda con attenzione maniacale. Quasi certamente l'unica chitarra che aveva.
Gli passò davanti, infine, senza dargli un minimo d'attenzione: polvere e nient'altro, su una strada che poteva esserci, se no? Non era che polvere, un mucchietto di ossa e pelle che come tanti altri se ne stavano sulle loro strade a chiedere misere monete, anche loro color della terra. E soprattutto, lo ignorò, come se non l'avesse mai visto.
L'altro, invece, lo seguì con lo sguardo per tutta la sua camminata e allora, per il ragazzo fu come esser rallentato: tremante nelle gambe, aveva quanto mai voglia di sputargli in faccia, prenderlo a pugni. Non c'era nessuno! Magari avrebbe anche azzardato ad ucciderlo, non gli avrebbe dato più problemi.
E invece si subiva i suoi occhi addosso, chiedendosi perché mendicava, se aveva due smeraldi al posto delle comuni iridi? Perché domandava monete di rame, quando era più ricco d'ogni tedesco che portasse la sua corona dorata?
Trent, invece, si domandava il perché lo fissasse … e basta. Cos'avesse di così diverso dal resto del mondo, da quelli come lui, da meritarsi la vista di non uno, ma ben due cieli più belli di quelli di Berlino; cos'avesse mai fatto perché lo guardasse come lui lo guardava.
Lui era abituato a guardare, lo faceva normalmente. Ma i germani non rispondevano mai! Perché lui sì?
 
La terza volta non fu volontaria: nuovamente si ritrovò addosso due occhi verdi, appena svoltata la strada e una voce nelle orecchie dolcissima, un suono di chitarra ricco d'armonia e una lingua dai suoni gentili.
Si guardarono ancora, chiedendosi nuovamente come mai, ma Duncan passò oltre, come la volta precedente, quasi senza accorgersene, senza quel desiderio tempestoso di farlo a pezzi, mentre Trent cercava di convincersi che fossero solo coincidenze: lui passava, era la sua città, Berlino e pareva anche molto famoso! Un re senza corona!
La quarta, invece, Duncan lo stava quasi cercando, guardandosi intorno per tutte le vie, ascoltando bene ogni singolo suono avesse potuto udire, cercando quel suono, quella lingua, quella musica. E sembrava non esistere, solo perché lui la cercava.
In effetti, fu quando smise, che finalmente lo vide, seduto come al solito al bordo, sotto un tettuccio, al riparo dal caldo che produceva il sole a quell'ora: un po' suonava, un po' guardava la strada, sussurrando qualche parola, alcune tedesche e alcune no, come veniva. A volte giocando con la polvere.
In essa, il ragazzo lasciò cadere una moneta d'argento, ch'entrò nel campo visivo del chitarrista, così come i suoi piedi, facendogli alzare la testa. Lo guardò per un attimo negli occhi. Fece un cenno di ringraziamento. Riprese a suonare
"Parli tedesco?" fece con tono superiore il germanico.
"Sì, parlo tedesco!" rispose l'altro, appunto in quella lingua, smettendo di nuovo di suonare la chitarra e fissandolo ancora.
"E non sai come si ringrazia?" lo sfidò successivamente Duncan, seppur con voce tremante per il suo sguardo perfettamente calmo.
"Danke!" ringraziò allora Trent, abbassando un'altra volta il capo.
"Tu parli cantando?"
"Spesso."
"Conosci canzoni tedesche?"
"Poche. Più che altro, sento sempre e solo un cantato 'Deutschland, uber alles!'." rispose, con poco interesse, imitando la stridente voce di un ariano ubriaco.
Esibì un ringhio e lo prese per i capelli, facendo sì che lo guardasse in viso. Vicini. "Lo neghi?" sibilò a denti stretti, scandendo bene le parole.
"No."
Il giovane nazista lo lasciò andare, infuriato dalla sua tranquillità estenuante, sbattendogli la testa contro la casa che aveva dietro e facendolo crollare a terra, per poi ghignare. "Interessante! Io mi chiamo Duncan."
Lo guardò negli occhi, il sole riflesso in loro. La lingua tedesca non gli pareva più così barbara. "Io mi chiamo Trent."


WRITTEN BY Angelo Nero
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Our love is a mistakes

CAPITOLO 2

COLLABORAZIONE CON Angelo_Nero

 

Duncan parve estasiato.

Poté sentire nella voce del ragazzo una nota melodiosa, dolce quanto il miele dei biscotti che sua madre soleva dargli da bambino. Il suo nome era... bellissimo. Si spinse un po’più in avanti, come per incitarlo a dirlo di nuovo, ma bloccato goffamente dal suo contegno nazista. Gli occhi che sfidavano l’azzurro del cielo Berlinese stavano quasi per abbassarsi, contro i campi verdi chiaro e calmi del ragazzo che aveva difronte, poi se ne rese conto: stava quasi per abbassare il suo muro formato da pregiudizi e irragionevoli certezze di falsa superiorità. Solo che quello sguardo così... buon Dio, stava perdendo la ragione –Non ho capito- disse solamente, parlando fermamente per abitudine, senza tremare o simili. Perso completamente nell’osservare il movimento delle sue labbra nel ripetere la risposta –Trent, mi chiamo Trent- lo ripeté per ben due volte. Colpito e affondato. L’angelico ragazzo, per pronunciare la “n”, aveva schiacciato la lingua tra i denti, inumidendosi appena appena le labbra sottili. Lì Duncan sollevò ancora di più il mento, stringendo i pugni lungo il busto e puntando i piedi a terra. Voleva prendersi a schiaffi e lo avrebbe fatto (giusto per rinsavire), prima o poi, ora voleva solamente andarsene. Si sentiva a disagio, sotto quella tranquillità disarmante del ragazzo che l’aveva colto di sorpresa. Di solito era lui a lasciare senza parole quei poveracci, non avveniva il contrario. Li picchiava, fino allo sfinimento, degno di essere chiamato nazista. In quel momento invidiò al ragazzo quegli occhi, così diversi dai suoi. Chiari erano chiari, ma apparivano dolci più del cioccolato fuso, disarmanti, sibillini e… fantastici. Reggevano il confronto con i suoi, erano molto più belli e umani, ma avevano visto tanto. Forse cose raccapriccianti, forse cose che un nazista come lui avrebbe voluto fargli vedere. Provò per un secondo un senso di vergogna infinito: quegli occhi sarebbero dovuti essere nascosti alle bruttezze di quel mondo così rude. Erano così belli che Duncan li avrebbe chiusi al buio, celandoli egoisticamente alla visione del resto del popolo. La strana sensazione che fossero più puri dei suoi, meno marcati da oscenità crudeli continuava a persistere nella sua mente. Avrebbe ripetuto il suo nome come uno stupido, ma non lo fece.

Lo fissò per bene, mettendo su la sua personale espressione da tedesco superiore. Quel pezzente non aveva nulla in comune con lui. La sua semplice camicia bianca e quel pantalone strappato, sporco come la sua pelle, coperta da polvere e fuliggine, non poteva affatto competere con la sua giacca di lusso e i suoi mocassini lucidi, che la sua ebrea personale doveva rendere splendenti se voleva risparmiare frustate e umiliazioni quotidiane. Sentirsi in quel modo a causa di quella presenza che doveva inchinarsi alla sua, era solo una stupidaggine. Un errore madornale. Avanzò due passi verso di lui, che intanto si era rialzato da terra ed era indietreggiato, improvvisamente spaventato dalla sua espressione. Il tedesco aveva contratto i muscoli del viso, facendo rimontare in lui la rabbia e il profondo razzismo che nutriva nei confronti degli estranei che sporcavano le strade della sua amata città. La mano di Duncan si alzò e in un gesto intriso di odio e insopportazione segnò la guancia del giovane, facendolo sbattere con violenza a terra. La schiena del chitarrista atterrò sul cemento di quel marciapiede, mentre il piede del germanico puntò dritto ai suoi fianchi, che calciò con ripetizione, facendolo tossire, quasi pregare con quello sguardo che cercava di flettere e umiliare. Non sopportava essere disarmato così facilmente e occhi verdi gli aveva privato la soddisfazione di poter ridurre al nulla sia psicologicamente che fisicamente una persona, un essere vivente come lui, senza rimorsi. Sul suo viso, comparve comunque un ghigno soddisfatto e più Trent sputava sangue contro la strada, più si rannicchiava su se stesso e più gemeva dal dolore, più Duncan si sentiva felice, come se stesse compiendo il suo lavoro, e tanto, quello stava facendo. L’ultima pedata arrivò contro il suo bacino. Il nazista si allontanò, annuendo fiero alla gente del posto, che quasi applaudiva per quello spettacolo. Persone che, Trent giurò di riconoscerle, avevano lasciato qualche moneta per lui. Non si sentì mai così umiliato in vita sua. Sottoposto a una violenza che non meritava, perché non aveva fatto davvero nulla! Giurò di sentirsi morire quando Duncan sputò su di lui, insultandolo e ricavando l’apprezzamento della gente.

Poi se ne andò, sussurrando disprezzo in tedesco e minacciandolo, così anche la folla di curiosi sciamò come delle mosche. La vittima del pestaggio si alzò, mantenendosi i fianchi per il dolore e chiedendosi interiormente il perché.

“Perché quella bellezza dei suoi occhi deve essere paragonata alla crudeltà presente in essi?

Perché ha alzato le mani su di me, dopo avermi dato una moneta?

Perché passa di qua tutti i giorni, facendomi contare le ore?

Perché cerca di non fissarmi, di far finta che non esisto?

Perché mi sento così giù, adesso?”

Ma Trent non poteva sapere che quella notte, il giovane nazista non chiuse occhio. Tormentato per le sue azioni più giuste che mai, secondo il suo parere. E si rigirava nel letto, quasi con frenesia. Comprimeva la testa sul cuscino, si metteva prono, sprofondando nel materasso. Aveva pure sbattuto con la fronte contro il legno. Che cosa poteva farci? Occhi verdi. Speranza. Smeraldi. Prati infiniti.

In quelle ore insonni il nazista poté pensare solo a due parole brevi e coincise, che quasi ripetette ad alta voce, come una nenia asfissiante –Lo odio- sì, lo odiava, perché: -Nessuno può essere così dolce, bello e perfetto- E anche perché: -Chiamerei quello stupido nome fino allo sfinimento- Scoprirne la motivazione era impossibile, sapeva solo che si sentiva male. Quelle sue mani l’avevano toccato, e non era certo per gentilezza, ma per violenza. Così, tutto d’un tratto, si soffermò a pensare a quanto una perfezione del genere dovesse essere tenuta al sicuro, e non gettata in mezzo la polvere. Doveva ricordarsi però, che Trent era quella polvere. Allora perché sentiva un impulso intrattenibile di correre e andargli a supplicare perdono? Cosa stava accadendo nel suo stomaco? C’era qualcosa di amaro, aveva tentato a mandarlo giù diverse volte, ingoiando a vuoto la saliva, bevendo diversi sorsi d’acqua dal bicchiere non più colmo posto sul comò al fianco del suo lussuoso letto. Ma non si dissolveva.

Più in là, avrebbe capito che quel macigno che gli impediva il sonno era il senso di colpa.

E il disprezzo, per la prima volta contro se stesso.

E forse anche un pizzico d’attrazione verso ciò che doveva essere –soprattutto, rimanere- polvere insignificante.

 

***

 

Non poteva reggerlo.

Passare difronte a lui, come ogni giorno, come se non fosse successo nulla. Come se il suo sguardo non gli gravasse sulle spalle.

Quel giorno, uno come tanti altri –se si voleva essere fiscali, il giorno dopo in cui Duncan aveva alzato le mani su Mister Angelo-, il giovane nazista si era alzato più stanco che mai, con due borse violacee a gravargli sotto gli occhi. La testa era altrove e gli occhi fissavano languidi un punto qualsiasi del corridoio, che ora percorreva svogliatamente. Si chiedeva se la sua insulsa servetta le avrebbe preparato la sua colazione, quella che le aveva comandato il giorno prima. Perché se no, l’avrebbe punita, e a essere schietti, quel giorno doveva svagarsi un po’. Morale? Avrebbe cercato in chiunque una possibile valvola di sfogo, si sarebbe aggrappato a ogni pretesto pur di scaricare quel nervosismo accumulato tutto nelle ore notturne

-Buongiorno, signore- così fu accolto, una volta che scese le scale della sua villa lussuosa, trovandosi al piano terra, difronte il suo grande tavolo rettangolare, imbandito perfettamente. Courtney, l’ebrea, la sua personale ebrea. Era disgustosa, così differente dalla sua perfezione ariana. Gli occhi scuri, i capelli lunghi e bruni raccolti in una treccia scomposta, vestita sempre di quella divisa e quando se ne andava, le rare volte che la vedeva, portava semplici abiti lunghi, da vera poveraccia. Era ebrea, ma bellissima, su questo non si poteva discutere. Ma Duncan non aveva mai neppure provato una minima attrazione nei suoi confronti, che certamente sarebbe stata fisica, nient’altro di più. Si era sempre spiegato la situazione con un -È una sporca ebrea-, adesso però non ci credeva tanto e si paralizzò quasi, a guardarla. Il viso dai lineamenti dolci, le labbra piene e un dolce nasino all’in su, tempestato da tante piccole lentiggini color della cenere. Due gambe niente male, lunghe e formose, così come i fianchi. Duncan cercò in se… qualcosa. Un brivido, una scossa, un semplice apprezzamento. Invece? Niente.

Il ragazzo, se ci pensava bene, nei venti anni della sua vita non era mai stato davvero innamorato di una ragazza, né attratta da essa in modo sproporzionato, come un vero uomo dovrebbe essere. Persino la sua migliore amica, Gwendoline, non riusciva a scuoterlo. Quando, da sedicenne segretamente cotta di lui, sperimentava scollature, vestiti lussuosi e tacchi alti, che per nulla le si addicevano.

Era stato con molte donne, ma di nessuna ricordava il nome.

Aveva parlato per una sola volta con un Angelo e la sua voce melodiosa, dolce e soave, non faceva altro che riempirgli la mente, come il suo nome: “Trent”

-Emh… signore, c’è qualcosa di cui ha bisogno?- mormorò Courtney, facendo due passi indietro e pregando che quell’uomo per il quale nutriva un profondo disprezzo, la congedasse. La giovane donna non si era mai azzardata a parlare davvero al nazista, ma ora il suo sguardo aveva qualcosa di diverso. Forse era meno ghiacciato, magari si stava davvero concedendo alla bellezza di un cielo privo di nuvole. Per un attimo, nella sua mente balenò il pensiero che fosse fragile come ogni essere vivente, e alzò una mano per posargliela sulla spalla, mettendo in mostra la ragazza acida –ma allo stesso tempo gentile- che era. Però non lo fece, deviando il suo movimento per porre una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Duncan non le rispose proprio, sorpassandola con noncuranza e andando a sedersi alla tavola. Infondo non era come lui, era impura, e sapeva benissimo che fine avrebbe fatto. Silenziosamente, la bella ebrea sbottò, andando ai piani superiori per sistemare le camere e i letti

-Buongiorno, padre- esordì facendo un cenno con la testa all’uomo più ansiano, accomodato come capo tavola –Madre- nominò anche la donna, seduta accanto al marito, per poi mettersi difronte a lei –Duncan, tutto bene? Ti vedo leggermente sciupato!- notò la donna preoccupata, facendo sorridere l’altro –Margaret, tuo figlio sta benissimo. Ha proprio l’atteggiamento da puro ariano, e noi siamo sempre più soddisfatti di lui- Margaret annuì, spezzando un pezzo di pane e ricoprendolo con una buona marmellata fatta dalla stessa serva –Sì, John, so benissimo quanto nostro figlio sia perfetto, ma qualcosa mi priva di preoccuparmi per lui?- sbatté le lunghe ciglia truccate, facendo scuotere il capo all’altro –Figliolo, sappiamo bene che sei molto preso con il lavoro, ma per questa sera non devi dimenticarti della grande festa che si terrà a casa Voeller. Scott compie ufficialmente ventun anni, e che compleanno è se non lo si passa con il proprio migliore amico? E poi, sarà una ragione in più per rendere omaggio al Fuhrer, sai quanto questa famiglia sia rinomata. Per questo ci tengo molto a fare bella figura- finì il suo discorso l’uomo di casa, alzandosi dal tavolo e pulendosi i lunghi pantaloni neri dalle briciole prodotte dalle fette di pane tostato –Certo, padre- rispose fermamente Duncan, annuendo deciso e mantenendo il suo sguardo, che, non c’era storia, era meno azzurro del suo.

Aspettò che i due genitori si dileguassero, lasciando la casa libera, per perdersi nuovamente in se stesso.

Scott era davvero il suo migliore amico. Se avesse dovuto scegliere un nazista di dovuto rispetto, dopo di lui, sarebbe stato di certo quel ragazzino con il quale giocava alla lotta quando aveva appena nove anni. Condividevano lo stesso pensiero, le stesse certezze e lo stesso ideale di superiorità. Scott, differentemente da Duncan, non aveva due mari limpidi al posto delle iridi, bensì due cieli cupi e plumbei. E i capelli, rosso fuoco scoppiettante, come la fede per la propria patria. Però la fierezza non era il suo forte, perché Scott, tutto era tranne che composto come l’amico, dal quale avrebbe dovuto imparare molto, se sarebbe voluto essere degno di portare la divisa che Duncan, già indossava.

Ticchettò con le unghie sulla tavola ancora imbandita, infine sospirò, alzando il mento dal palmo della mano –che intanto si era addormentata- e trovandosi difronte Courtney, con le mani incrociate dietro la schiena e gli occhi bassi, a fissare l’eleganza della giacca del suo padrone. Lo sorprese per un attimo con le iridi vacue, che ritornarono subito alla loro fierezza naturale. Duncan scattò dalla sedia, senza staccarle gli occhi da dosso, per poi pronunciarsi, con quel suo solito tono duro e pretensioso –Pulisci tutto, immediatamente- ordinò, leggermente tremante sulle ultime tre lettere.

La domanda adesso era: voglio davvero essere paragonato a un fiero nazista.

La risposta da darsi era: certo.

La risposta che sentiva più giusta era: no.

***

 

Quella sera, raramente, pioveva.

Sì, pioveva talmente forte da graffiargli il viso dai lineamenti spigolosi. Pioveva così tanto da riempirgli le scarpe di cuoio d’acqua. Faceva caldo, però. C’era un’afa insopportabile, e il sudore era spazzato via dallo scroscio continuo delle gocce di pioggia, che stavano riempiendo le strade della città. Neppure i numerosi tombini riuscivano a raccoglierle tutte.

Ma Duncan tremava. Di nervosismo, di preoccupazione, di agitazione, ma tremava. Forse non c’era un motivo specifico per cui il suo corpo veniva attraversato da quelle scosse di freddo, sapeva solo che non poteva bloccarsi per l’ennesima volta sotto la tettoia di qualche negozio, quindi sarebbe corso a casa sua, per ora vuota perché i suoi genitori si erano precipitati già all’abitazione Voelmer. Si sarebbe cambiato, indossando l’abito delle “grandi occasioni” e poi, sicuramente avrebbe spiovuto e si sarebbe potuto dirigere da Scott in più fretta possibile, con la sua amata macchina, lasciata –stupidamente- sotto la villa.

L’unica cosa che non voleva fare era incontrare quel ragazzo, Angelo, per lui, ma più comunemente chiamato Trent. Sì, perché Duncan non aveva fatto altro che pensare a lui, tutta la giornata, dietro alla sua antica scrivania di mogano rifinito. Aveva pensato a lui all’ora di pranzo, nella quale non aveva toccato nessuna cibaria. Aveva pensato a lui una volta uscito dal suo ufficio, che affacciava direttamente sulla caserma militare. Aveva pensato a lui ogni singola ora, minuto, secondo di quella stupidissima giornata.

Oh, e stava pensando a lui anche adesso sotto la pioggia. Domandandosi “Dove sarà con questo tempaccio?”, mordendosi l’interno della guancia per ingoiare qualche smorfia preoccupata, e anche per punirsi, perché: -Deutschland, uber alles!- e non poteva permettere che la sua mente fosse ingombrata dall’immagine paradisiaca di quel debole ragazzetto. Al quale non aveva fatto altro che infliggere la punizione che si meritava.

Quando lo vide, però, seduto a terra, contro il muro di una casa, con la testa poggiata sulle ginocchia, mandò il suo orgoglio tedesco nelle viscere più nascoste del suo corpo, facendo subentrare un’umanità che non aveva mai creduto di avere.

Lentamente gli si avvicinò, ma lui, parve non sentirlo. Sembrava dormire, con quegli occhi che facevano a gara di bellezza con i suoi e soprattutto quel viso, dalle linee dolci e morbide, così diverso dal suo. Poi si abbassò, piano, tenendo una mano sull’asfalto per paura che in un gesto goffo o troppo azzardato fosse potuto crollare in una pozzanghera. Inclinò il viso, guardando meglio quello del suo angelo e trovandoci una macchia violacea sullo zigomo destro. Lì poté giurare di sentirsi morire dentro. Non disse nulla se un –Dio, gli ho fatto così male?- avvicinò istintivamente la mano che non usava per sorreggersi, scostandogli i capelli neri e guardandolo, poi meglio, notando che oltre quel livido aveva anche un labbro spaccato.

Colpito e affondato: si sentiva uno schifo.

Gli occhi azzurri indugiavano su ogni centimetro della pelle del giovane ragazzo che quella stessa mattina aveva colpito senza rimorso alcuno. E la visione di quel volto immerso in un sonno profondo, contratto leggermente, non fece altro che mettergli disagio e fretta. Sì, fretta, voleva andarsene. Ma non poteva lasciarlo così

-Trent…- lo chiamò per nome, mordendosi il labbro inferiore –Ehi!- lo scosse per una spalla, alzando il tono della voce e sospirando di soddisfazione quando vide il moro sollevare il capo e passarsi il palmo della mano sulla fronte bagnata dalla pioggia –Stai bene?- quello mugolò e Duncan non poté far altro che sentirsi strano. Lui non era così! Non lo era mai stato. Si disinteressava delle persone povere, non dava aiuto ai bisognosi e Trent, corrispondeva alla sua idea di “pezzente”. E per un fiero nazista, aiutare uno come lui, non era contemplato. Allora perché gli stava passando una mano sotto le ascelle, incoraggiandolo ad alzarsi in quella posizione che aveva assunto per ripararsi il più possibile dalla pioggia? Perché il Ragazzo-Angelo l’aveva scansato, con tanto di smorfia a piegargli le labbra? –Mi fai male- mormorò solamente occhi verdi, facendo assalire il petto di Duncan da numerose fitte –Scusami, non volevo- a quel punto, Trent alzò un sopracciglio, sorridendo mestamente e abbassando lo sguardo, senza dimenticarsi con chi stava parlando –Certamente. Sono sicuro che oggi sei solo inciampato su di me, può capitare- era ironico? Ah beh, quel sorrisetto appena accennato la diceva tutta e l’orgoglio del nazista risalì prorompente nel suo animo. Lo spinse contro il muro della casa, anche se con pochissima forza –Non rivolgerti così a me, in questo modo, poi! Ricordati che ti sono superiore, e sempre lo sarò- l’angelo annuì, sibilando cercando d’alzarsi. Quando fu in piedi, difronte al corpo muscoloso dell’altro, si sentì terribilmente in soggezione. La pioggia, intanto, pareva sentirsi ignorata e aveva cominciato a battere ancora più forte sull’asfalto. Li stava bagnando tutti e Duncan, preoccupato per la salute visibilmente cagionevole di Trent, sfilò la sua giacca dalla valigetta nella quale l’aveva ficcata per non farla bagnare, ponendogliela sulle spalle. Quel gesto fu apprezzato dal cantautore, che si sentì avvolto dall’odore di qualche profumo pregiato che di sicuro usava il nazista –Rischi di prenderti un malanno- sussurrò solamente, dopo avergli messo il capo firmato sulle spalle, soffermandosi a fissare i capelli bagnati sulla sua nuca –Danke…- lo prese quasi in giro, voltandosi verso di lui e abbozzandogli un sorriso timido –Vieni con me, non posso lasciarti qui-

-E perché no? Non è questo il mio posto? Tra la polvere e la pioggia?- in quel momento, il Ragazzo-Angelo disarmò di parole il nazista, sempre sicuro di se, che sentì quel muro di falsità sgretolarsi ai suoi piedi. Non controbatté, girandosi solamente e camminando verso la sua villa –Fa come vuoi- gli concesse, quasi deluso, con una totale inespressività a segnargli la frase. E quando sentì dei passi rimbombare dietro di lui, sorrise.

 

 

La casa di Duncan era grandissima, bellissima e lussuosissima.

Tuttavia, a occhi verdi appariva squallida, perché si sentiva la freddezza delle persone che ci vivevano. L’ordine era quasi maniacale e l’oro tappezzava qualunque cosa. Quella casa, in passato –e ne era certo- apparteneva a qualche ebreo. Come potessero viverci senza essere assaliti dagli incubi ogni singola notte, proprio non lo capiva. I candelabri d’oro, i lampadari di cristallo, i mobili di legno pregiato… era un lusso che Trent aveva solo potuto immaginare, ma non sognare. A lui tutti quei soldi non importavano. Stava bene così, convinto che la ricchezza portasse solo scompiglio nell’animo umano. Com’era l’animo di quel nazista? Oscuro, certo. Ma anche così a… soqquadro. Si vedeva che non gli interessava affatto dei pavimenti che se solo si guardavano rischiavano di graffiarsi, in quel momento Duncan era concentrato su… di lui… eh sì, non gli levava gli occhi da dosso. Ma la cosa pareva non dispiacergli, perché i suoi occhi davvero eguagliavano l’azzurro del cielo berlinese.

Il nazista gli si avvicinò, levandogli la giacca ormai zuppa e spingendolo in malo modo su una delle sue poltrone di pelle –Resta qua. Arrivo subito-

-Dove dovrei andare?- fu ignorato e pochi minuti dopo Duncan era seduto sul bracciolo del divano, con dell’ovatta in mano a medicargli il labbro spaccato. Era un controsenso vivente e in quei pochi frangenti Trent avrebbe solo voluto riempirlo di domande, tuttavia scelse il silenzio, la sua arma migliore.

Il tocco del nazista era delicato, molto. Gli sfiorava appena la pelle, tamponando più forte lì dove ce ne fosse stato bisogno e si vedeva che si stava sforzando tanto per non procurargli altro male fisico, non era naturale tutta quella delicatezza e l’Angelo dagli occhi smeraldo, apprezzava. Si sentì più sollevato quando il tedesco gli porse una borsa con del ghiaccio –Va meglio, ora?-

-Sì, ti ringrazio-

Ricevette un sorriso.

La festa di Scott? L’aveva completamente dimenticata.

Adesso, Duncan non si muoveva dal bracciolo del divano, scostando di tanto in tanto i capelli di Trent e asciugandogli dal viso l’acqua fredda prodotta dal ghiaccio. Avvicinò il pollice a una gocciolina che stava scivolando contro la sua guancia, la scacciò via, accarezzandogli appena lo zigomo.

I loro visi, così vicini, pericolosi, quasi.

La calma del silenzio che vigeva in casa.

Le ore dimenticate di quella giornata.

Avevano bisogno solo di respirare adesso, il nazista più di tutti. Aveva paura che liberando i suoi polmoni d’aria avrebbe potuto rompere il ragazzo fragile che gli si poneva difronte.

Trent pensava solo che i suoi occhi fossero così blu e che in quel silenzio avrebbe tanto voluto sentirlo parlare.

E il nazista, non sapeva ciò che stava accadendo.

Avvertiva una forte attrazione nei confronti del giovane cantautore, un’attrazione che non aveva sentito mai per nessuna donna.

Si sporse più avanti, come per cercare il senso di quel sorriso accennato sul viso livido del più piccolo, ritrovandosi a sfiorare con le fronti.

Voleva allontanarsi, ma non gli era concesso.

Voleva correre lontano da quel magnetismo lo stava attraendo come una calamita.

Ma perse, contro di lui.

La sua voce non gli era mai sembrata così dolce e fastidiosa allo stesso tempo. 

Writen By Stella_2000    

NDA

Un grazie infinito alla mia BFF di EFP per aver accettato di collaborare con me, non ti ringrazio mai abbastanza, dear ;) {Ricordate di venerare Angelo Nero}

🔝💕💛💙💞💝💘

p.s Sì, Dunky e Trent sono le nostre vittime preferite. E sono gay. Molto gay. Sia chiaro per tutti.

Bye

 


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


§ L'Angelo racconta §
 
Buon giorno, bellissima gente
Capitolo numero tre ;)
E visto che l'ho promesso, lo scrivo, approssimativamente! u.u
* Si schiarisce la voce *
"Questo capitolo,
è dedicato a Stella_2000, perché lei è la più graaaaaaaaaaande amante dello Yaoi di tutto il pianeta, anzi no: è la più graaaaaaaaaaaande amante dello Yaoi di tutto l'Universo, tanto che nemmeno un marziano può eguagliarla! U.U"
Ecco fatto, più o meno era così xD
Non ho molto altro da aggiungere: per chi voleva il concreto, eccolo qui ;)
Grazie a chi ci segue ;)
 
Buona lettura, Angelo

 




Capitolo 3


COLLABORAZIONE CON Stella_2000
 
"Da quanto non ti lavi?" gli chiese infine, allontanandosi repentinamente da lui e guardandolo dall'alto in basso, trattenendo l'impulso di un chissà cosa allo stomaco.
Trent ancora seduto, lui in piedi. Eppure, non si sentiva superiore. Non voleva esserlo. Non voleva che lui si sentisse sottomesso, ma l'aveva portato a casa sua. Gli aveva fatto vedere quell'oro, quei pavimenti e quegli oggetti. Senza curarsene, viveva tra seta e pietre preziose, senza interessarsene, senza guardare addosso alle sue serve, provando disgusto. Per loro e per lui. Prima.
"Quanto pensi che possa lavarsi, la polvere?" ebbe in risposta, in quel suo angelico tedesco: si sentiva l'accento straniero melodioso anche in quelle barbare sillabe che erano tipiche della lingua ariana. "Vola e basta. Quando c'è la pioggia, mi lavo." Parlava come un poeta, con frasi caratteristiche di chi vive di musica e armonia.
Venne spontaneo parlare così, anche dopo tutte le gentilezze ricevute. Era un tedesco e lui non era nulla. Lui gliel'aveva detto, lui gliel'aveva dimostrato, davanti a tutti, conscio fosse giusto. Lui seguiva cecamente il Fuhrer. Lui aveva in casa più oro di quanto tutti i tedeschi messi insieme ne portassero nei capelli.
"Vai a lavarti!"
Eppure, in quella sua frase fredda ci sentiva una dispiaciuta amarezza. Quasi fosse offeso o si stesse vergognando. Di quello che aveva fatto. Della corona che portava.
Ed effettivamente, s'era girato e guardava ovunque, in quel momento. Il soffitto, il pavimento, i candelabri e i lampadari. Domandandosi, chiedendosi perché ed odiandosi chissà per quale motivo, come mai prima di allora, solo perché in casa sua c'era tutto quello e non risplendeva comunque, affatto. Perché vedeva splendore negli occhi di quella che avrebbe dovuto essere polvere di strada? Perché chi non aveva niente, con uno sguardo di smeraldo splendeva come il Sole? Il Sole di Berlino, del suo cielo, nei suoi occhi!
"Grazie, ma … non mi serve."
In realtà, voleva solo non vederlo, Duncan. Perché lo aveva accolto. Perché lo aveva curato. Per averlo portato a casa sua. Perché la sua voce gli piaceva, come i suoi occhi, il suo accento e la sua musica. E perché non riusciva a capire: sbatterlo fuori, un gesto. Veloce, facile. Gli aveva fatto di peggio! Eppure, no! No allora, né il giorno dopo o quello più tardi ancora. Mai!
"E tu … hai sicuramente da fare! Hai perso tempo con uno come me! Es tut mir leid!"
Mi dispiace? Gli dispiaceva! Ancora una volta gli fece comprendere quanto fosse orribile il sentirsi odiato, totalmente. Disprezzato. Preso a calci per una lingua diversa, bella, tra l'altro.
"Come si dice, nella tua lingua?" chiese allora, curioso, stupendo l'ospite.
Glielo disse. Era davvero molto più bello che nella loro! Aveva un'armonia particolare, molto strana per un madrelingua di un linguaggio basato interamente sulla logica.
Domandò altro ed altro ancora, estasiato dall'intonazione, dai suoni e anche dai gesti con cui li accompagnava, presenziavano quasi ad ogni parola. Ripeteva, ad occhi aperti, a volte facendolo ridere, per la pronuncia sbagliata o goffa. Chiedeva le prime parole che gli venissero in mente, senza pensare troppo a quali fossero, anche molto discordanti tra di loro.
"E come dici 'acqua'? E 'musica'? E 'occhi'? E 'smeraldo'? E …?" continuava, senza troppa estasi.
Non se ne accorgeva: lui era il tema. Il suo Angelo, nei meandri della sua mente, avrebbe voluto descriverlo nella sua lingua, ecco perché domandava quelle parole! Il tedesco, non gli rendeva giustizia, non era bello per niente!
A Trent, invece, tutto pareva semplicemente assurdo. La lingua ariana, non era forse la più pura, la più importante, la più matematica e perfettamente logica? Cosa poteva interessargli di un linguaggio come il suo?
Ciononostante, rispondeva. Non gli costava niente.
"E 'Kuss'?"
Batté le palpebre. "Kuss?" ripeté meravigliosamente: sapeva il corrispondente nella sua lingua, ma tra tutte quelle richieste, quell'ultima gli pareva la più strana. Perché improvvisamente si rese conto di quanto vicini fossero nel parlarsi, di quanto non smettesse di fissarlo. Da quanto lo fissasse anche lui.
"Oh!" esclamò dopo un po' Duncan, alzando una mano pericolosamente. "Il tuo labbro, sanguina di nuovo!"
Lo sfiorò e non poté far a meno d'abbassare gli occhi subito dopo, così come fece anche il ragazzo, immaginandosi come sarebbe stata una sua carezza, anziché uno schiaffo, anziché un pugno o un calcio. Se quelli l'avevano fatto bruciare …
I suoi occhi su di lui lo inquietavano. Le sue dita non si erano ancora mosse. Aveva della mani grandi, diverse dalle sue, forse per semplice genetica. Premevano sulla ferita, un calore piacevole. Si spostavano sul volto livido, lasciando come una scia di sale di mare. Il suo mare, quello che solo lui poteva vantare. Quello di quei luminosi quanto inguardabili occhi. L'alba della sua pelle bianca e la notte dei suoi capelli scuri.
Lui e basta. Da lui voleva essere toccato e basta. Che lo picchiasse, se voleva! Meglio che lasciarlo sulla strada di Berlino, senza guardarlo neanche, fingendo che non esistesse. Che provasse pure disgusto, se desiderava! Ma che lo guardasse! Che lo considerasse, che sapesse che fosse in vita, là e per lui, per lui e basta!
Per questo gli si avvicinò, stringendolo per un braccio e non dandogli il tempo di replicare. Guardandogli gli occhi solo un momento, per poi chiuderli, non sopportando di vedere il probabile stupore e il cupo colore che avrebbero assunto. Lo schifo di avere le labbra di uno come lui contro le sue. Le sue mani addosso. Il suo corpo più vicino ancora.
Sapendo cosa sarebbe successo, Trent gli diede un bacio, senza pensarci troppo e senza guardare. Senza rimanere troppo attaccato a lui, ma prolungando psicologicamente quel contatto, imprimendolo bene nella sua testa e sulle sue labbra: Duncan Ruschtmann era stato lì. Anche se solo per poco, al prezzo di pagarla, l'aveva avuto. Quei pugni gli sarebbero serviti, per averlo anche solo un po'. Sentì stringersi lo stomaco, quando si allontanò. Si allontanò un attimo, un secondo e basta, nemmeno il tempo d'aprire gli occhi ancora e poi di nuovo, un bacio, un bacio suo.
Voleva ucciderlo, ne era certo, Trent. Ucciderlo nella maniera più crudele possibile: quanto veleno può stare in un bacio? Non riusciva a respirare. In un abbraccio? Lo teneva troppo stretto. In una carezza? Scottavano, le sue mani. Ucciderlo, con l'illusione d'essere stato amato.
Non era importante. Gli aveva risposto, gli rispose, sentendosi interiormente già morto, per quando quell'amabile tortura che non meritava sarebbe finita. Allora, si sarebbe ucciso da solo.
E si preparò, quindi, ai lividi, ai pugni, ai calci, allo sbattimento e al sangue, al dolore, al freddo della pioggia che sempre batteva sui vetri delle finestre, incurante di loro. Serrò gli occhi, sentendosi inferiore, in quel momento. Sapendo che avrebbe avuto un pretesto per farlo ammazzare, nel caso non l'avesse finito prima lui.
Non poteva sapere, certamente. Lo stupore iniziale, per Duncan c'era stato. La tentazione di ammazzarlo anche. Di picchiarlo, umiliarlo nuovamente. I suoi occhi erano rimasti aperti per quel secondo in cui si erano toccati. Ma poi, l'aveva preso lui, ancora  l'aveva stretto. Gli aveva dato un bacio, più lungo, l'aveva abbracciato, passandogli le mani sul volto e tra i capelli. I desideri riguardo la sua morte erano scemati.
"Mio!" sentiva di voler urlare. "Mio e basta! La gente non lo deve fissare. Resta qui, chiuditi in una stanza e basta! Non voglio che ti guardino e che ascoltino la tua voce. Mio! Mio! MIO!" Come una voce nel cervello, che lo disturbava e mentre Trent strizzava gli occhi, lui si prese la testa tra le mani: che non ci pensasse più. Fuori da casa sua doveva andare, subito! E invece no. Non lo cacciava, non lo picchiava.
Non lo picchiava! Trent si era messo a guardarlo, che stringeva sempre di più le tempie tra le mani, certo che si stesse facendo male, gli occhi chiusi, strizzati. La paura si rivelava in quei gesti privi di pudore, quasi non fosse là. Tremando, gli prese le mani tra le proprie e facendo una leggera pressione, le allontanò dalla testa, divenuta rossa per lo sforzo.
Duncan lo guardò negli occhi, dimenandosi dalla sua presa con falsa cattiveria, le pupille dilatate e in seguito i pugni stretti troppo, di nuovo, le unghie curate ad incidere la pelle. D'improvviso, poi, si rilassò, tornò serio, lo guardò negli occhi. Non era neanche rosso in viso. "Kuss. Come lo dici tu?"
L'angelico ragazzo non sorrise, ma glielo disse. "Bacio."
"Und Liebe?"
"Amore."
"A- mo- re." ripeté Duncan. "Questo non è amore!" imprecò poi, in tedesco.
L'altro abbassò lo sguardo per l'ennesima volta. "Perché no?" domandò poi in un sussurro timido, facendogli emettere un verso di stupore. "Intendo, perché non potrebbe esserlo? Cosa ci sarebbe di sbagliato?"
Non che ne sapesse granché: la sua vita non gli permetteva di pensarci. Le donne che aveva attorno erano in gran parte tedesche, mentre quelle ebree o erano sposate, o erano giovani. E comunque, spesso non lo guardavano di striscio. Inoltre, si era sempre domandato il perché di quella fissazione tipicamente ariana dell'amore obbligatorio tra uomo e donna. E se non fosse stato così? Cosa, esattamente, impediva al cuore di un uomo d'innamorarsi di un altro uomo? Niente, almeno per lui. Ed era un problema? Non per lui.
"Perché … Perché noi siamo due uomini!" rispose il tedesco, quasi imbarazzato. Come se fosse ovvio.
"E allora, cosa ci sarebbe di sbagliato?" chiese un'altra volta lo straniero, sempre a voce bassa, quasi la paura di ricevere un schiaffo alzandola un poco.
Si guardarono.
"Che ne sappiamo noi di che cosa sia o cosa debba essere l'amore? Solo perché il matrimonio è tra uomo e donna diamo per scontato sia così sempre?" osò ancora Trent, continuando a guardarlo: non sapeva che dire. "O è perché ci hanno abituato? Perché siamo ancora giovani per capire o perché semplicemente il pensiero … ci fa schifo?" Tremò, nel dire quelle ultime parole: nonostante non ci fosse per lui nulla di peggio dell'indifferenza, non voleva che Duncan provasse solo schifo per lui. "Terribilmente giudici." gli venne da dire infine, nella sua lingua natale e quando guardò il volto stranito del ragazzo, ripeté in ariano.
"Io … Insomma … E' così che va avanti il mondo, o no? Con l'amore di un uomo e una donna." cercò di ribattere il tedesco, senza esserne affatto convinto.
Seppe ribattere facilmente e senza vergogna: disse che quello che mandava avanti il mondo, lui lo chiamava "sesso" e che il mondo di cui lui parlava tanto, era andato avanti così per secoli. Lo sapevano tutti e due. "E poi," s'azzardò nuovamente, dopo. "mi hai … b- baciato anche tu!"
Il ragazzo spalancò gli occhi, guardandolo appena, mentre le voci si facevano nuovamente nella sua testa e facendogli dolere il cervello, sbattendoci contro, la ragione contro il sentimento che lottavano a morte in lui.
L'aveva baciato, era vero. Non l'aveva costretto Trent! Trent, era bellissimo. Aveva degli occhi fantastici, sapeva due lingue e possedeva degli ideali che, anche se a lui erano quasi del tutto sconosciuti, non poteva che considerar magnifici.
"Ti prego, vai a fare una doccia!" disse di nuovo Duncan. "Prenditi dei vestiti nuovi!"
Doveva stare solo.
Doveva lasciarlo, questo capì Trent. Non lo voleva intorno, che l'avesse baciato non importava, che l'amasse nemmeno. Semplicemente, era un tedesco. E lui era nulla, ma se l'avesse fatto felice, lasciandolo andare, l'avrebbe fatto. Lui l'amava e lo sapeva, non gli serviva altro.
Ringraziò, allora e s'avviò dove prima era andato lui, per poi spogliarsi ed infilarsi sotto la doccia: come la pioggia, ma più calda. Trent piangeva quando pioveva, così nessuno lo avrebbe potuto vedere. Durante i giorni di pioggia non c'era mai nessuno, una passeggiata senza ombrello e la tristezza se ne andava con quell'acqua. Qualche lacrima gli rigò il volto, ma non l'avrebbe saputo comunque nessuno.
Nel frattempo, Duncan si metteva le mani tra i capelli, tirava i pugni ai cuscini e al divano, a volte al muro. Si faceva male, voleva farsi male! Che lo svegliassero. Piangeva alcune lacrime disperate, in un primo momento: i mori hanno sempre qualcosa che non va!
Ma i biondi non hanno gli occhi di smeraldo, non sanno due lingue, non cantano come angeli del paradiso. Non sono angeli del paradiso! Non possiedono una giusta ed istintiva mentalità. Non hanno labbra morbide, né pelle luminosa com'era la sua, che splendeva, simile a quella polvere d'oro sulle strade della città.
Guardarlo era straziante, troppo celestiale per occhi umani. Troppo puro, eppure così sbagliato.
Perché? Sbagliato perché lo amava. Sbagliato, perché non tedesco e nonostante ciò, quelle labbra se le sentiva ancora addosso, irrimediabilmente impresse nella memoria. Un bacio senza ritorno e uno senza perdono, un abbraccio impuro, fatto di carezze sporche. Uno sguardo che aveva visto tanto, ma mai tanto quanto allora.
E lui? Aveva accettato. Ci sarà stato un motivo, o no?! Quant'era grande il subconscio, quante cose ci può far fare e con chi; quante pensare, odiare e amare?! Di che genere, poi?!
Forse e semplicemente, i nostri desideri più oscuri sono là, quelli che ci rincorrono la notte nei nostri incubi più inconfessabili, sotto le palpebre, ad aspettarci. Quelli di cui nemmeno ci rendiamo conto. O se ce ne rendiamo conto, li odiamo profondamente, perché immorali. Sbagliati.
Batteva sul muro, quindi. E continuava, continuava, più forte che poteva, ogni volta con più energia, fino ad accasciarcisi contro, passandosi una mano sulla fronte, per poi abbandonare la testa all'indietro. Semplicemente sfinito.
Si guardò le mani: anche lui le aveva livide, in quel momento, le nocche arrossate e le dita piene di tagli, dolenti anche se fatti rapidamente. Pensava di star capendo cosa significasse "dolore", in quel momento.
Lo schiocco della porta lo riportò alla realtà e quando alzò lo sguardo si ritrovò davanti ad un ragazzo che avrebbe potuto esser suo fratello: così pulito e vestito meglio, Trent poteva benissimo esser scambiato per uno della sua famiglia, con i capelli del padre e gli occhi di sua madre, tedesco dalla nascita, anche perché l'accento acquisito in tale lingua era impeccabile. Inutile dirlo, inoltre era ancora più bello e in quella che era diventata una stanza buia ed inquietante, lui era l'Angelo mandato a salvarlo.
"Duncan!"
La sua voce gli dava nuovamente alla testa, lo stordiva, lo infastidiva. La amava con odio.
"Ma stai male?"
"Zitto! Stai zitto!"
Un passo rimbombò nel salone. Poi un altro e un altro ancora, tutte pugnalate al cervello del tedesco.
"Stai lontano da me!"
"Duncan!" Il tono sempre più dolce, dispiaciuto, preoccupato.
Ormai era vicino. Quasi i suoi movimenti fossero fisici, sentiva lo spostarsi dell'aria con la sua mano. E poi il suo tocco, sul braccio, come prima.
Le iridi azzurre del ragazzo si dilatarono, per poi alzarsi su di lui. Si mise in piedi e si divincolò, incerto. "Non è successo niente!" Cercò di non fargli vedere le mani.
"Sei sicuro, perché io …"
"Niente, ti dico!"
Quella sua gentilezza non era possibile né tollerabile. Neanche lontanamente immaginabile, a dire il vero. In quella sala, ogni parola dell'ospite sembrava donare colore e portare compagnia e un po' d'affetto. Duncan non l'aveva avuto mai.
"Come vuoi." sentenziò allora lo straniero, per poi dirigersi verso il camino dove scoppiettava sempre uno scherzoso fuoco: pareva prenderli in giro. "Posso bruciare i miei abiti?"
"Certo."
Il padrone di casa si sedette sul divano, non smettendo però di guardarlo, mentre le fiamme gli donavano quelle tonalità tipiche di un ragazzo del suo Paese, di tanto in tanto, per poi rivelare nuovamente i suoi capelli neri.
Fu allora che si rese conto: fosse stato tedesco, non l'avrebbe mai guardato, non gli sarebbe mai interessato. I capelli biondi erano troppo frequenti, ne vedeva così tanti, a Berlino! I tedeschi erano terribilmente monotoni, così uguali da far paura, tutte le donne e tutti gli uomini non erano altro che copie e copie di chi era venuto prima di loro. Le loro parole? Sempre le stesse, ogni mattina, pomeriggio e sera, tutto il giorno!
Grazie a Dio, c'è sempre un'eccezione, per confermare la regola. Trent era l'eccezione, in quella Berlino spaventosa, fatta di fantasmi dorati messi là solo per "conservare la purezza del sangue ariano".
Trovò che nessuno fosse più puro di Trent, in quel momento. Puro perché buono e giusto, diverso, con le sue idee, che sapeva pensare da solo, senza che con una manciata di parole gli venisse iniettato quell'odio di cui erano intrise le vene delle persone tedesche.
Detschland, uber alles! Ma per favore! La Germania era solo ricca di persone tutte uguali. In altre parole, povera più di tutti.
Lasciò che il ragazzo finisse di bruciare i suoi vestiti, gli diede appena il tempo di rialzarsi, per mettersi anche lui in piedi ed infine gli fu nuovamente vicino, in un bacio imperdonabile, fortemente voluto. In un abbraccio desiderato troppo a lungo, ricambiato pienamente.
Gli aveva già perdonato tutto, Trent, anche quell'incertezza che c'era stata inizialmente. La trovava totalmente comprensibile, assolutamente normale, per uno della sua mentalità.
Non si fece problemi a stringerlo, certo ormai che non l'avrebbe fatto ammazzare, né che volesse ucciderlo: le mani gentili gli carezzavano la schiena, all'inizio ancora un po' tremanti, le sue labbra non lo lasciavano più e gli occhi lo guardavano, ogni tanto, quando si fermavano per riprendere fiato. E poi ancora, la sua lingua cercava sempre più libertà all'interno della sua bocca, s'intrecciava con la sua e la lasciava andare controvoglia.
Si erano seduti, stanchi, i corpi ancora si toccavano ed entrambi sentivano di starsi trattenendo davvero, mentre si guardavano negli occhi, sorridendo; mentre Duncan gli chiedeva ancora di tradurre qualcosa nella sua lingua.
"Cosa?" chiedeva Trent.
"Qualsiasi cosa." gli rispondeva. "E' una lingua splendida."
Dopo un po', mentre lo stringeva, godendosi semplicemente il suo abbraccio, gli chiese, con un leggero imbarazzo: "Non andartene!"
"Scusa?" rispose lui, stranito e guardandolo mordersi il labbro e tenere gli occhi bassi.
"Resta qui. Non voglio che gli altri ti vedano, che guardino i tuoi occhi o ascoltino la tua musica! Scegli una stanza e chiuditi dentro, ma resta!" gli intimò a voce appena udibile.
"Non mi guarderanno e non mi sentiranno!" lo rassicurò Trent. Gli strizzò l'occhio, prendendolo in giro. "Voi tedeschi avete una vita frenetica. Non guardate e non ascoltate mai!"
Lo lasciò andare, allora, senza voglia, mentre ancora pioveva e Trent, proprio come sempre faceva con la pioggia, si lasciò andare in qualche lacrima allegra, felice, quasi divertita, che spariva con il resto dell'acqua, cadente dal cupo cielo nero. Urlò, quando un fulmine squarciò il paesaggio, in direzione della volta celeste, certo che Duncan lo sentisse. Strillò nella sua lingua. Non capì nessuno.
Intanto, il tedesco, a casa sua, non faceva che guardare quel fuoco luminoso, quasi avesse saputo qualcosa o come se gli ricordasse una cosa del tutto dimenticata ed infine, si mise a salire le scale, per ritirarsi in camera sua. Nel corridoio al piano superiore, gli venne incontro una lucetta e successivamente Courtney che, svegliata dai rumori e allarmata, era accorsa a vedere, ancora in camicia da notte.
"Tutto bene, Signore?" chiese, tenendo quella misera candela affianco al volto.
"Tutto benissimo, Courtney, grazie!" la rassicurò, per la prima volta con un sorriso sereno. "Buona notte!"
La congedò con un cenno e la superò, per ritirarsi, finalmente, sotto gli occhi increduli della ragazza: mai visto così gentile e tranquillo!
Il giovane si gettò sul letto, subito dopo essersi spogliato e appena chiusi gli occhi, s'addormentò profondamente, così come Trent, steso sotto un balcone.
Nessun incubo, quella notte. Solo bei sogni.
 
"Buongiorno, Courtney, dormito bene?" domandò alla serva, mentre questa l'accompagnava in sala da pranzo, per la colazione.
Lei arrossì lievemente e rispose, timida: "Benissimo, Signore, la ringrazio! E lei?"
"Divinamente, grazie!" Le sorrise di nuovo, velocizzando il passo, fino alla sala.
La ragazza azzardò un mezzo inchino, per poi andarsene.
Duncan spalancò le porte. "Buongiorno padre! Madre!" Fece un cenno in direzione di entrambi e una volta spostata la testa dall'altro lato, si bloccò: rosso il fuoco e rossi i suoi capelli. "S- Scott!"
"Grazie per aver presenziato alla festa del mio compleanno, caro amico!" si beffò di lui il tedesco, con l'ira in viso.
"Sono davvero dispiaciuto, credimi!" rispose Duncan, avvicinandosi e cercando di scusarsi, ma l'ospite era irremovibile ed anche i genitori del ragazzo mostrarono sdegno, uscendo dalla sala.
Solo allora, la volpe, com'era soprannominato il giovane, gli strizzò l'occhio e sorrise maligno. "Non preoccuparti, non ti biasimo! E' stata una noia! Buon per te se hai trovato passatempi più … interessanti." Ghignò.
Il moro gli rispose: "Ero solo stanco."
Uscirono insieme, dopo una sceneggiata davanti ai Ruschtmann, più contenti di vedere il figlio scusarsi e offrire una birra all'amico e appunto, si diressero ad una locanda dove poter bere.
Passando per la strada, nell'aria già si sentiva una musica dolce e una voce ancor più melodiosa serpeggiare per le strade, prendendo le orecchie dei berlinesi ma senza farli fermare.
Duncan lo vide, seduto sulla sinistra, a strimpellare, con quegl'occhi verdi rivolti a lui e gli sorrise.
Scott, invece, non se ne accorse nemmeno.


WRITTEN BY Angelo Nero

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 Our Love is a  mistake

CAPITOLO 4

COLLABORAZIONE CON Angelo_Nero

 

Quattro mesi.

Quattro mesi erano passati da quando Duncan aveva accolto Trent in casa sua per la prima volta.

Erano passati quattro mesi da quando si erano baciati.

Quattro mesi in cui il nazista stava mettendo in dubbio le sue certezze.

Quattro mesi in cui il chitarrista straniero lo osservava da lontano.

Un’eternità da quando non si toccavano.

Trent era sempre in quell’angolo di strada, con la sua chitarra –migliore amica di viaggi- tra le mani e la sua voce melodiosa, dolce e calda.

Duncan tal volta si fermava, sempre lontano, per fissarlo pensando che lui non se ne accorgesse. Ebbene era solo un povero illuso. Il suo Angelo era particolarmente attento allo svolgersi frenetico della vita di tutti i tedeschi e cosa gli privava di riservare più attenzione a un uomo in particolare? Se quell’uomo poi si bloccava in lontananza, vergognandosi quasi di ciò che era diventato, dell’attenzione quasi morbosa che riservava nei suoi confronti, spiccava ancora di più. Alle volte Duncan abbassava lo sguardo e arrossiva, cosa per nulla da lui. Ma quando si è innamorati si cambia totalmente. Più guardava Trent e più si convinceva che il suo posto non fosse tra la polvere e le indifferenze delle persone. Più lo contemplava e più capiva che fosse troppo celestiale per non splendere al posto del sole. E invece lui rappresentava proprio le ingiustizie della vita. Così perfetto all’apparenza, ma non ariano.

Duncan dentro di se sapeva che tutto quello non era giusto. Provare amore per un uomo? Giammai! Era scritto su carta, nero su bianco: nessun uomo poteva essere coinvolto in situazioni amorose con una persona del suo stesso sesso. Il nazista era a conoscenza della pena che entrambi avrebbero dovuto scontare. Lui conosceva l’esistenza dei campi di concentramento e soprattutto ciò che si svolgeva all’interno. Adesso questa consapevolezza lo stava divorando e Trent invece era ancora ignorante di tutto e così doveva essere. Infondo chi mai avrebbe sospettato che lui, figlio di nobile famiglia, perfetto ariano, potesse condurre una relazione con un uomo? Beh, purtroppo chiamare quel bacio “inizio di una relazione” era troppo. Poteva anche essere classificato come “momento di assurda follia”. A Duncan sarebbe bastata una sola parola, qualche firma forse, per far finire Trent in uno di quegli inferni dimenticati da Dio.

Il nazista avrebbe voluto dimenticare il ragazzo angelico e dagli occhi splendenti di raggi di sole, ma questo, si poteva dire che fosse crudelmente dolce.

Crudele perché stava lì, imperterrito, a ricordargli quanto fosse meraviglioso.

Dolce perché quest’aggettivo faceva sempre parte di lui, del suo sorriso di fossette e denti bianchi e dei suoi capelli lisci e morbidi al tatto.

Il germanico non ce la faceva più a sopportarlo e, dopo quattro lunghissimi –eterni- mesi, retti su sguardi teneri e su parole svelte, ebbe di nuovo occasione di potarlo con se, lontano da tutti e da tutto.

Finalmente i suoi genitori avevano ricevuto un ennesimo invito a una festa e avevano accettato. Per fortuna lui non era stato contemplato! Era un ricevimento importante, al quale partecipavano solo persone di una certa età, con le loro rispettive signore e lui non era ancora da classificare un uomo! Era un ragazzo, giovane, ancora troppo immaturo e per opera di quel Dio in cui tanto credeva, fu lasciato a casa.

Ma lui, l’intenzione di stare lì fermo non ce l’aveva proprio. Finalmente lontano dagli occhi dei suoi familiari sarebbe potuto uscire e riappropriarsi di Trent per una sera. Ah, non gli importava. Si sarebbe bellamente sputtanato, per dirla con i suoi modi volgari, bastava che il signor Angelo-dagli-occhi-verdi ritornasse da lui. Per questo un paio d’ore dopo che suo padre gli disse –Buona notte!- aveva preso il suo cappotto ed era uscito, incurante di tutto, diretto lì, tra la polvere di uno specifico angolo di strada. Avrebbe raccolto i granelli che più gli interessavano. Quelli verde smeraldo, quelli ammucchiati da tempo, quelli più soffici ma insidiosi.

Per questo, sotto le finestre della stessa casa che era diventata il posto in cui rivolgeva i suoi sguardi attenti e vigili, per vedere se lui era ancora lì, lo abbracciò. Non gli disse proprio nulla. Aveva camminato per quel poco che serviva, ringraziando il cielo che la fonte della sua gioia si trovasse pochi passi più in là di casa sua, poi lo aveva visto. Seduto, con la testa appoggiata al muro e le palpebre leggermente gonfie abbassate, le guance bagnate, le labbra contratte, il respiro irregolare… stava piangendo? Il suo angelo aveva pianto? Quale essere vile avrebbe potuto recare sconforto a un tale dono della natura? Non gli diede molto da pensare, quando il ragazzo lo strinse dolcemente, passando un braccio dietro la sua schiena e facendolo stupire per la stretta ferrea.

Quell’abbraccio sapeva di “non mi lasciare”.

Trent si staccò appena, guardandolo negli occhi azzurri.

Duncan notò le sue lacrime e senza conoscerne la motivazione, come un vero fidanzato, le asciugò in una carezza che trasmetteva un semplice “Non lo farò”. Poi un respiro quasi affranto da parte dell’angelo e un bacio lieve, approfondito più in là.

Aveva il gusto di “Non ti scordar di me”.

Erano un continuo sapore da saggiare. Duncan in bocca aveva l’amaro delle giornate passate a rimuginare, la dolcezza dell’unico bacio che gli aveva dato, il profumo del tabacco. La saliva andò a unirsi pian piano a quella del giovane cantautore. Lui sapeva di fragilità e insicurezze, di pane stantio e di polvere.

Non si salutarono neppure con qualche stupido “Ciao” messo lì, per rendere più formali le cose.

Il nazista era uscito solo per quello; per baciarlo, per toccarlo, per accarezzarlo, per vedere i propri occhi riflettersi nei suoi.

Non gli interessava il fatto che fosse sbagliato, che andasse contro a tutte le regole che si era imposto per quei duri anni di rigidezza e fedeltà a Hitler.

Oh, che lo stato si andasse a far fottere, che le regole si sciogliessero e che Trent lo baciasse così, per sempre.

Stretti l’un l’altro, intenti a farsi piacere. Duncan era un po’aggressivo: gli mordeva le labbra per indurlo ad aprire la bocca, gli stringeva il busto verso il suo fino a fargli male e gli premeva le mani sui fianchi, lì dove forse, il giorno dopo sarebbero comparsi dei grandi lividi violacei. Ma al chitarrista non importava, apprezzava quel suo affetto comunicato in malo modo, quindi lo lasciava fare, rassegnandosi alla sua forza e cercando solo di imprimere di più nella mente quel momento. Nella sua bocca c’era la lingua di un tedesco e non poté far a meno di sorridere per ciò che gli era concesso dal trasporto dell’altro. Un nazista! Stava baciando un nazista! Che gli piacessero gli uomini per Trent non era più un segreto, ma spingersi così in là… ma che cosa voleva? Infondo non era stato lui ad andare a bussare alla sua porta. Però lui aveva dato inizio a tutto, con un bacio timido e incerto. Quando il più piccolo gemette per il dolore provocato da una nuova stretta più violenta, Duncan si allontanò, pulendosi le labbra con il dorso della mano e sospirando, forse felice, forse triste… e chi poteva saperlo? Chi poteva decifrare quel mare di emozioni contrastanti che affogavano nelle sue iridi cerule? Nessuno e Trent era quel nessuno.

Gli passò una mano sul viso, abbassando gli occhi verdi e calciando un sassolino vicino alle sue scarpe –Mi dispiace, non volevo accoglierti con le lacrime, ma non posso far a meno di piangere. La sera mi viene una grande tristezza e non so, francamente, il perché- disse tutto con una tale naturalezza che il nazista non pensò a nulla se non a quella frase, dimenticandosi delle sue scelleratezze. Trent era un bravo ammaliatore, dopotutto –No, insomma… non preoccuparti, va bene così... anche io non sono molto allegro in questi giorni. Praticamente sono quattro mesi che ho la vitalità di un tapiro assopito- mormorò passandosi una mano dietro la nuca e accennando un sorriso –Ah ah, non mi pareva- cantilenò l’altro, riferendosi in modo allusivo al bacio che gli aveva impresso sul viso –Dai!- giocò con la voce Duncan, assottigliando gli occhi e spingendolo verso il muro –Vuoi picchiarmi di nuovo?- Duncan scosse la testa convinto, senza cogliere l’ironia nella voce del cantautore –No, non lo farò più-

-Ah, bene… quindi posso permettermi questo?- gli premette le mani sul torace, gettandolo indietro e facendolo cadere con la schiena per terra, sulla strada sudicia di una delle vie di Berlino. Di quella Berlino di cui il nazista non ne poteva più. Poi anche l’autore dello scherzo fu buttato giù dalle mani dell’altro, che lo afferrarono per la caviglia –Tu non ti arrendi mai?- scherzò spingendolo in là

-Chi? Io? Ti sembro il tipo che si lascia battere da uno come te?- Trent mise su un’adorabile espressione imbronciata. Sembravano amici da secoli, una tale complicità quegli occhi azzurri non l’avevano trovata mai neppure in Scott –E scusa, perché no? Sono quattro mesi che vinco sempre io!- BAM. Colpito e affondato. Duncan spalancò la bocca –Che cosa? Lo facevi a posta a guardarmi così? Sai che mi hai fatto perdere la testa? Che cosa… oh, ma vai! Idiota- sentenziò incrociando le braccia. No, Trent non avrebbe mai avuto la finezza per una simile strategia, ma fece comunque finta –Scusa, ma ognuno ha i suoi mezzi, non trovi? A te la forza e a me la bellezza- alzò un sopracciglio –Ora ti faccio male, ma sul serio!-

Magicamente Duncan riacquistò l’allegria che un comune ventenne poteva avere. Quella naturalezza della quale non aveva potuto usufruire stava fuoriuscendo come un fiume in piena, Trent aveva forse rotto le dighe. Si alzò prendendolo per la maglia e sollevandolo, senza trovare ostacoli nel suo peso inferiore –Quindi, adesso giochiamo a qualche cosa da bambini perché il signor Ruschtmann ne ha voglia?-

-Oh, poca confidenza, ricordati chi sono- di tutta risposta una linguaccia e un sorriso dolce, come solo lui sapeva essere

-Dai, sul serio, sei venuto fin qua solo per baciarmi e poi andartene? Guarda che sono troppo irresistibile!- Duncan si sporse, soffocandolo con la giacca che si era tolto. Dopo aver finito il suo lavoro, Trent annaspava e lo guardava malissimo ma era contento del fatto di aver potuto annusare il suo odore ancora per un po’. Se ne sarebbe andato davvero? –Mettitela che prendi freddo- non faceva freddo, che stupidaggini! Ma accettò lo stesso, riconoscendo lo strano senso di protezione che il nazista covava per lui –Allooora…- dopo aver eseguito l’ordine dell’uomo, Trent incrociò le mani dietro la schiena, alzandosi sulle punte e dondolandosi avanti e indietro –Duncan Ruschtmann, ha voglia di andare in giro? Con me?- chiese poi, puntandosi in modo infantile il dito indice sul petto e mettendo in fuori il labbro inferiore –Devo ancora decidere se ti amo o se ti odio- era sincero. Insomma, come poteva amarlo se l’aveva messo difronte a una realtà tristissima? Come poteva provare un sentimento simile per colui che aveva scoperto ciò che era veramente e che, inoltre, gli stava facendo odiare i principi per i quali si era battuto ciecamente. E poi, come poteva detestarlo? Come si poteva allontanare una creatura così perfetta, dolce e allegra? Era come dire di chiudersi per sempre in casa per non far assorbire mai alla propria pelle un po’di sole. Trent era il caldo delle coperte al mattino. Accogliente e caloroso. E, diamine, suo. Suo, solo suo, per sempre suo e di nessun altro.

Se ne fregava altamente del fatto che lo conoscesse da così poco. Come si dice? Amore a prima vista. E così sarebbe stato.

Il cantautore gli baciò una guancia, appoggiando il mento sulla sua spalla e beandosi del suo profumo –Va bene, se la metti così, può darsi e ripeto, può darsi, che io provi qualcosina-ina per te. Ma proprio “ina”- e mise l’indice e il pollice della stessa mano a qualche millimetro di distanza –Io invece ti amo. Non ci sono Santi, Duncan Ruschtmann, ti ho amato dalla prima volta in cui ti ho visto. Solo che non lo sapevo- la repentina dichiarazione di Trent fece sobbalzare il nazista, che arcuò le sopracciglia e sentì il mondo girare così forte da sballare completamente la visuale delle cose. Strizzò gli occhi e –D-Dunc…- non voleva carezze da lui, gli facevano male, lo deviavano –No, è tutto a posto. Comunque se la tua proposta di andare in giro è ancora valida, io un pensierino ce lo farei…- compiaciuto Trent batté le mani tra loro –Ah! Ma tu non eri il signor “Non-passo-il-mio-tempo-con-un-poveraccio-come-te”?- lo riprese un’occhiataccia e allora rise, prendendogli la mano e ammiccandogli.

Inutile descrivere: i fuochi d’artificio, le esplosioni, i colpi di cannone i serpenti, le urla, i brividi, e la sensazione di completezza le mille ballerine che ballarono il Can Can quando sentì le sue dita intrecciate a quelle del gran, bel ragazzo difronte a se –Dove andiamo?- sussurrò –Che ne so? Sei tu quello che conosce bene le strade di Berlino! Dove vuoi che ti porti, uno come me?-

-Ma non hai sempre detto di essere attento a ogni particolare, quelli che i tedeschi si perdono? Senti, Trent…-

-Dai, okay! Basta che non ti alteri, se no non andiamo né avanti e né indietro-

 

***

Oh, seguirlo era stata una delle sue più grandi pazzie.

Stupida stradina.

Stupidi sassolini.

Stupido buio.

Stupidi alberi.

Stupide scarpe inadatte.

Stupido Trent.

Il ragazzo Angelo l’aveva condotto in un posto ancora sconosciuto per lui che poteva giurare di conoscere la sua Berlino dentro e fuori, meglio delle sue tasche! Eppure adesso, appoggiato precariamente alle spalle di “occhi da favola”, si trovava difronte a un immenso prato spoglio da qualunque cosa, se non fosse stato per un esile alberello da melo, parecchio sciupato e triste. Duncan si asciugò la fronte dal sudore. Chissà come doveva stare Trent, in quella sua giacca enorme! Per un momento gli venne in mente di levargliela, ma lui non era una “mamma chioccia”, quindi accantonò l’idea e gli chiese solo –Dove mi hai portato?- in un sussurro, perché quel posto era talmente immerso nella pace che si sentiva in colpa a spezzare il silenzio fitto e rilassante, degno di un monastero –In un posto che i germani non notano mai- rispose criptico, però con il suo solito tono di voce. Forse, lui si poteva permettere di essere naturale, visto che il suo timbro era così soave. Il continuo rumore delle cicale non faceva altro che assordarlo e avrebbe voluto prendere il suo fucile per spararle a una a una, tuttavia, il comportamento rilassato di Trent gli trasmetteva buon umore e dopo un po’sciolse i suoi muscoli testi. Socchiuse gli occhi e sospirò vinto –Ora?-

-Vieni con me!-

Era speciale, di una specialità unica. Quella sua purezza mischiata a una semplicità che non faceva altro che ingarbugliare i suoi pensieri. Riusciva a trasmettergli la sua tranquillità –Fidati di me-gli soffiò all’orecchio per poi allungare gli angoli della bocca in un sorriso tenero. Il nazista annuì irritato e tornò a guardare il paesaggio, sforzandosi di scorgere l’orizzonte segnato da una linea scura. La luna calante che sembrava affogare in un canale lontanissimo e le stelle splendenti, pronte ad abbellire la volta celeste con il tipico luccichio. Poi Trent, l’elemento che spiccava di più con quella sua armonia naturale. Gli occhi color del prato dove poggiava i piedi, fresco, bagnato dalla rugiada mattutina, tagliato dal vento e colorato da mille pagliuzze dorate. Le labbra sottili e rosa, come il petalo di qualche rosa appena sbocciata. La pelle pallida, andava quasi sul diafano, come la luna piena ed enorme, degna di ogni film romantico.

Era improvvisamente diventato tutto: la terra sulla quale camminava, il cielo che fissava in cerca di qualche risposta, la pioggia rassicuratrice, che lavava via ogni pensiero, il vento rinfrescante, la bufera inaspettata. Trent era il suo elemento. Poteva girarsi da tutte le parti ma le sue iridi riflettevano solo l’immagine dell’angelo dagli occhi smeraldini, furbi, vispi e coperti da una leggera malinconia

-Ti piaccio?- domandò così, a bruciapelo, raccogliendo a due mani tutto il coraggio che aveva. Oh! Ma come poteva chiederglielo in quel modo? Duncan non poteva rispondergli, certo che no! Si era mai chiesto quanto fosse bello? Nell’animo del nazista vi era un disagio profondo, nascosto bene dietro una parete agitata di emozioni forti, inconcludenti e false. Cinismo che copriva il suo amore istantaneo e Trent non doveva far altro che indurlo ad abbracciare la vita. Cosa sarebbero diventati? Ma certo, due spiriti di menzogne inconfessabili! Avrebbero smesso di vivere e allora? Il chitarrista lo voleva fortemente. Eppure Duncan ci teneva troppo, sapeva che tutto quello andava contro alla fermezza del rigido governo. Cosa fare? Provarci, sapere di fallire dall’inizio o per paura rinunciarci? Abbandonare tutto. Non poteva, non lui che era così fedele! Si strinse le tempie con una mano e ancora –Ti piaccio?- dannato, perché doveva parlare così tanto?

Va bene, voleva davvero lasciarlo? Correre via? Urlargli contro di sparire dalla sua vita e di non riapparire come un fantasma? Sì, avrebbe potuto farlo.

Ma avrebbe potuto anche girarsi, prendergli la maglietta in un pugno e baciarlo fino allo sfinimento.

Non ci poté fare nulla, l’ultima opzione era davvero quella più accattivante.

Quindi sì, lo baciò. Lasciò che le sue labbra si muovessero da sole (tanto ormai il cervello si era bellamente andato a farsi un viaggio senza ritorno per la città dei pazzi) su quelle del cantautore, che apprezzò la dolcezza che tentava d’ostentare, seppur non ne aveva mai donato un briciolo. Forse ci voleva qualcuno che facesse uscire il suo lato buono, quello stipato con gelosia. Duncan segnò il contorno delle due mezze lune di Trent con la lingua, arrivando al quello inferiore  per morderlo lentamente, senza fargli male, per poi lasciarlo. Le sue mani avevano già pensato a posizionarsi sulla vita sottile che tanto gli ricordava quella di una ragazza. Solo che era centomila volte meglio di una donna! Fece scendere il palmo destro su una delle sue natiche, stringendo appena e facendolo sorridere. Unì le loro fronti e lasciò ansimare in pace il più piccolo, che intanto aveva messo le braccia sulle sue spalle e si lasciava accarezzare lascivamente la schiena lunga –Ti amo- spalancò gli occhi; glielo aveva detto davvero? –A-anche io… sì, D-Duncan… i-io… t-ti p-prego… non voglio separarmi da te… ti prego… non ancora… per favore…- parlava senza connettere la bocca al cervello, ma che faceva infondo? –Shhh, zitto un po’…-

Gli ghignò difronte agli occhi mettendo una mano nei suoi capelli corvini e tirandoli all’indietro così da mettere in vista il Pomo D’Adamo che marcò con la lingua –Sono un ragazzo- fece ovvio –Ma dai?- non voleva pensarci, basta.

“È un ragazzo.

Non sei un frocio.

Perché non puoi comportarti come Dio comanda?

Non farlo.

Non desiderarlo.

Finiscila.

Perché non sei normale?

Perché proprio a te?

Sei sbagliato, tutto questo è sbagliato. Non farlo, te ne pentirai!”

Oh, sì, il punto era che Duncan se ne voleva pentire eccome

-Non t’importa?-

-Certo. Ma nessuno è perfetto-

-Per me lo sei-

“Allora zitto, smettila di parlare”

Gli lasciò dei segni umidi sul collo, schioccando tal volta con la lingua e rendendolo inerme nelle sue mani. Lo spinse all’indietro, quasi con la violenza che usò il giorno in cui lo picchiò, poi gli lasciò realizzare la cosa e si mise letteralmente seduto su di lui. Trent gemette: gli pesava troppo sullo stomaco! Allora il nazista si mise in ginocchio, accarezzandogli una guancia e buttandosi in avanti per toccare con la fronte il suo petto che intanto si muoveva su e giù, su e giù, con un’agitazione mai vista, che nessun essere umano poteva avere! Si guardò e notò che quell’agitazione ce l’aveva anche lui ma non solo il petto cominciava a muoversi.

Trent aveva risvegliato tutti i suoi sensi che per molto tempo con le donne erano rimasti assopiti e abbandonata la sua purezza dopo tante indecisioni portò istintivamente la mano sul cavallo dei pantaloni, stringendo appena per poi cercare alla ceca il bottone che nascondeva la zip –Aspetta- il nazista gli prese il polso –Cosa?- rivolse uno sguardo disperato alla luna, sbuffando –Io non ho mai… con un uomo…- il corvino gli sorrise complice –Ti guiderò io, non preoccuparti-

Cosa? Essere… dominati da un ragazzo così dolce e tenero? Non ebbe neppure il tempo di pensarci che tra un morso e l’altro la personalità aggressiva di Trent era fuoriuscita e adesso nei suoi occhi si leggeva non solo amore, ma anche una lussuriosa passione –Sì, va bene-

 

Il chitarrista gli sorrise, bacandogli l’orecchio per poi infilarci dentro la lingua e far sobbalzare Duncan. Davvero, non lo immaginava così… abile… -Levati i pantaloni- ordinò il più giovane, cominciando a slacciarsi la cintura con estrema naturalezza, senza ripensamenti alcuni. Purtroppo il nazista non collaborava. Si teneva sollevato per i gomiti, piegando il busto in avanti e rifiutandosi di togliere gli occhi da Trent che si era già calato i pantaloni e lo guardava, aspettando con pazienza –Ehi, amore…- A-amore? Ma cosa…

Non lo seppe neppure lui come successe, sta di fatto che il cantautore gli finì sopra, ad accarezzargli i fianchi con tenerezza lasciva e a sbottonargli la camicia bianca, per poi seguire con piccoli baci -che nulla avevano a che fare con l’erotismo- i suoi pettorali –Va tutto bene- continuò con il suo tono mieloso, mordicchiandogli una spalla ora nuda –Ah, certamente. Mi dispiace Trent, io ti amo, ma non posso lasciarti fare-

Trent ridacchiò, ammettendo la sconfitta quando Duncan si levò da dosso la camicia, prendendogli i polsi e legandoli tra loro –Guarda che non c’è bisogno che fai così. Ho capito-

-Bravo-

Ghignò, ridiventando il solito, vecchio Duncan. Il nazista bastardo. Ormai il cantautore aveva perso l’uso delle mani, immobilizzate dalla stoffa pregiata che apparteneva al suo “amico” e la cosa, doveva ammettere che sotto sotto lo faceva impazzire. Lo tenne stretto ancora per un po’, decidendo che alla fine voleva una notte d’amore con chi più amava, e la voleva pura, lontano dai suoi giochi di malizia.

Quindi lo slegò, facendolo ridere di gusto –Cosa c’è?-

-È che non hai la minima idea di cosa fare… non è così?-

-Io… NO! Cioè… sì… Insomma!-

-Duncan, lascia che ti guidi io per questa prima volta, perché ce ne saranno altre, vero?- e neppure se ne accorse! Trent gli aveva tirato giù i boxer e allora –Pessima idea quella di slegarti-

-Concordo- risero in modo cristallino e il cantautore fece fuori anche la giacca e la sua, di camicia –Girati adesso- (…)

 

E – Ti amo- mormorò poi, nell’estasi del momento.

 

La notte Trent si addormentò sul petto di Duncan, ancora incredulo di aver partecipato passivamente a un rapporto ma cosciente del fatto che in futuro lui avrebbe guidato l’amore della sua vita che tanto gli stava insegnando.

Ancora –Ti amo- mormorò, senza farsi sentire, secondo lui.

Ma come diceva sempre il cantautore: i tedeschi erano sempre troppo presi dalle loro convinzioni. Perché quelle paroline sincere gli arrivarono chiare e tonde, facendolo sorridere piacevolmente.

Allora la luna, il vento, la pioggia e l’erba erano diventate più belle per il nazista, che aveva qualcuno con cui condividerle.

 

Writen By Stella_2000

 

 

 

#Chepoiavetevistoladedica?

Eh sì, lo scorso capitolo era tuuuutto dedicato a me, quindi soffritemi, gente. Skerzo, dai sono contenta che ci siano persone che stanno aggiungendo la nostra storia tra le ricordate\\preferite e soprattutto seguite, siete un amore *-* (e oggi sono dolce, perché qualcuno ieri mi ha detto che ho una voce tenera) Ma dico io, non avete ancora visto niente :3 Cioè, non che i miei capitoli siano spettacolari (?) ma quelli di Angelo (potete dire che sì, le ho attaccato un pochino-ino di crudeltà.)! Insomma, dai… yeeeee, tanto Yaoi. Sono incoerente con i miei angoli, quindi boh, che dire? Lasciate una recensione se vi va, se non vi va morirà un cucciolo di cane non fa nulla, grazie per aver letto salva un cucciolo di cane, con una recensione puoi.

Vi mando un bacio e ricordate il cucciolo di cane XD , Bye

P.s avete notato le (...) ebbene, ciò che c'era dentro è top secret, Angelo si è divertita, prutroppo voi no (e ditelo al rating, gente)    

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


§ L'Angelo racconta §
 
* Corre nel sito e si ferma a respirare, con un sacco d'occhi addosso. Hanno tutti torcia e forconi. *
FERMI! FERMI!
Non mi ero dimenticata! Non. Mi. Ero. Dimenticata. Lo giuro!
Ho solo una … tedesca in casa! ^_^" Lo so, com'è strana, la vita! Ed eravamo a Milano, per questo non ho messo il capitolo prima ^_^
Comunque, per questo chappy, Stella mi ha quasi uccisa, non fatelo anche voi ;) Grazie!
E grazie anche a White Tiger per aver recensito lo scorso capitolo :) Spero ti piaccia anche questo ;) La storia è già mezza scritta e se ci sono ripetizioni che non ti piacciono, mi scuso. E' solo ... stile, credo ^_^
 
Buona lettura, Angelo




Capitolo 5

COLLABORAZIONE CON Stella_2000
 
Ogni tanto sentiva ancora dolore alle spalle, Trent. Non mancava di controllarsele, tutti i giorni, ogni due o tre ore, scostando un poco il collo della maglia larga. E questo solo per ricordarsi d'avere sulla schiena, dieci lividi.
Nelle ore in cui circolava poca gente, alzava anche l'indumento all'altezza dei fianchi, scoprendo altri segni, più chiari e più allungati, in cui si potevano identificare lunghe dita e mani possessive.
Ripensando, poi, aveva continui brividi: non lo scandalizzava affatto, stare con un uomo. Non l'aveva mai scandalizzato vedere due uomini baciarsi, né s'era mai porto il problema che l'amare o meno una persona del suo stesso sesso fesse giusto o sbagliato.
Non era quello il punto! Il punto, era lui, Duncan. Aveva cambiato radicalmente la sua vita, per poter stare con lui, le sue abitudini, le sue idee, i suoi ideali. Nonostante il nazista l'avesse negato, l'aveva sentito, quel giorno a casa sua, mentre era sotto la doccia: pugni al muro, calci, a volte certi brutti urli … L'uragano che aveva; la paura, anche, forse. Fragile.
Fragile allora e fragile in seguito, fragile quando l'aveva picchiato. Quando l'aveva portato alla periferia di Berlino, l'aveva disorientato, poi, perso negli occhi e nei gesti. Non era stato più lui per un po', gli era sembrato un altro, totalmente diverso. A volte l'angoscia in viso.
Le sue mani lasciavano lividi, sì, ma i suoi occhi imprimevano nella memoria del ragazzo ben altre cose che non avrebbe mai voluto vedere, in lui più di tutti, ma anche negli altri: era una persona buonissima, Trent, non aveva mai veramente giudicato i tedeschi per il loro modo di pensare e di fare, per la loro lingua o perché si credessero i re del mondo. Non giudicava, no e non voleva il male, per nessuno!
Non lo pensava più come un ragazzo tanto forte. Veniva da una famiglia forte e aveva degli amici forti, come quel ragazzo che tanto invidiava. Quello coi capelli rossi che vedeva sempre con lui per le strade, anch'egli molto ammirato dalle donne ariane, quello che aveva la possibilità di godere della compagnia del suo amante.
Non che Duncan desse molta importanza a Scott, quando erano insieme. Quasi non lo guardava; gli rispondeva poiché, forse, qualche sua parola ancora ancora gli arrivava all'orecchio anche se distrattamente, quel tanto che bastava per comprendere e replicare.
Specialmente da quando avevano fatto l'amore (perché entrambi lo sapevano: quello avevano fatto!), il tedesco era veramente diverso, a casa e per strada e con chiunque, effettivamente quasi più sereno, e, chi non l'avesse notato, sarebbe stato seriamente cieco.
Il cantante ci ripensava quando una qualsiasi immagine in strada prendeva il suo sguardo, facendolo vagare in un posto lontano, in qualunque altro posto, in mare aperto, solo loro due, quasi fantasmi, pressoché inesistenti per il mondo, su una nave, vivendo di baci e viaggi e paesaggi di mille città diverse, di montagne e di boschi.
Poi riapriva gli occhi e quella falsa Eldorado dove viveva l'accecava, col suo oro delle vie e delle case, delle teste e del sole, a volte persino riflesso nello sguardo delle persone.
Se pensava che in mezzo a tutto quello splendore mitologico, ci fosse uno come lui, quasi gli veniva da ridere. Non tanto per essere una macchia d'inchiostro nel perfetto manoscritto che era Berlino, quanto per il fatto d'essere una macchia d'inchiostro viva, con braccia, gambe, pelle e di sentirsi inchiostro dorato, per il semplice fatto d'aver accanto Duncan.
"Accanto", per modo di dire. A volte accanto sul serio, seduti uno vicino all'altro, spesso nella pioggia, quando la gente non c'era. A volte era tra le sue braccia, beandosi semplicemente di quell'abbraccio e di quel calore ormai familiare sempre ben accetto. Alle volte addirittura cercato. C'erano giorni in cui non lo salutava nemmeno, si gettava sulle sue labbra e basta, sempre stringendogli i fianchi. Forse ogni volta un poco di più. E giorni in cui anche quel preliminare non esisteva: preso per il polso e portato via, a volte nello stesso posto della prima volta, altre in un edificio abbandonato, sempre poco fuori la città.
Si faceva più audace, man mano che il tempo passava, aveva sempre più lussuria negli occhi e sempre meno vergogna. Lo notavano entrambi e al tedesco non pareva dispiacere, anzi: non era mai stato più contento. Lui era quello che doveva dirigere i giochi, lui quello che decideva. Lui e basta, sempre lui.
Era certo che nessuno se ne fosse accorto. Aveva detto a tutti che la sua tranquillità era dovuta ad un pensiero molto profondo e personale, riguardante il fare parte di una nazione così gloriosa e di un popolo così puro. "Non è colpa degli ebrei se sono nati tali!" Questo era ciò che diceva quando gli chiedevano del suo comportamento gentile con Courtney.
Inutile dire che la madre ne fu lietissima e quasi commossa. Quasi avesse un'immane bontà che, disse un giorno, mancava a moltissimi tedeschi.
Inutile dire che Scott si mise a prenderlo in giro fino alla morte. Anzi, sarebbe meglio dire che quasi lo disprezzava: secondo lui se la voleva scopare, quella servetta impura e senza valore, giusto per divertirsi con chi non era alla sua altezza. Ma la conversazione che partiva scherzosamente, finiva coi rimproveri.
"Non è saggio né normale, Ruschtmann!" lo ammonì anche quella volta, serissimo. "Puoi avere tutte le donne che ti pare, ma ariane, Duncan, mi capisci? Pensa se la mettessi incinta!"
Il punto era, che se avessero voluto star a guardar capello, Duncan non stava violando nessuna legge in vigore: non avrebbe mai potuto mettere incinta un uomo, né un uomo avrebbe mai potuto farlo con lui. E l'uomo con cui stava, non era ebreo, assolutamente. Non erano quelli i problemi! Era il fatto che Trent fosse un uomo, il problema!
"Non ti capisco!" continuò allora il rosso, lasciando cadere una mano sul tavolo. "Quella tua amica d'infanzia, Gwendolyn. E' bellissima ed è tedesca. Avessi avuto io una donna come lei, a quest'ora sarebbe madre dei miei figli e mia moglie. Non mi spiego il motivo per cui tu non voglia una donna come lei!"
Avesse saputo, avrebbe detto "Non mi spiego il motivo per cui tu non voglia una donna". Punto.
Non avrebbe mai voluto una donna ed ormai lo sapeva. Gwen era bellissima, era vero, ma non era colpa sua se Duncan era attratto dagli uomini.
Non sentiva più un brivido, nel pensarlo o nel dirselo, anzi, il pensiero di Trent lo faceva sempre sorridere: si era dimostrato più spudorato di lui, in effetti. Era certo non fosse stata la prima volta per lui, ma il fatto che ne sapesse di più in materia, forse lo irritava leggermente.
Forse. Perché forse un giorno di quelli avrebbe ammesso di non essersi mai trovato meglio. Non con Scott, non con Gwen, non con i suoi genitori. Con nessuno. Nessuno gli aveva mai fatto provare certe emozioni, né certi desideri.
Uscirono senza che Duncan rispondesse per poi incamminarsi per le strade, sorridendo cordiali a giovani ragazze bionde, salutandole con cenni di testa e facendo emettere loro risolini divertiti, le piccole mani davanti alle labbra.
Usò quei cenni come scusa, lo faceva sempre: fingere di salutare una delle tante bellissime fanciulle ed invece incrociare quegli occhi smeraldini, azzardare un sorriso più eloquente, ricco di sottosintesi, malizioso. Strizzare l'occhio e far appena in tempo a vedere che il giovane ricambiava ogni volta, ogni cosa. Poi rigare dritto, insieme al rosso.
Erano quelle espressioni fatte in un attimo eterno, per sempre impresso nella mente dei due, che facevano perdere sempre di più a Trent l'invidia e a Duncan la vergogna, poiché né l'uno né l'altro mancavano di osservare quegli occhi vogliosi e quei sorrisi.
Era in quei momenti che decidevano d'incontrarsi quella stessa sera, così, senza una parola e giusto per evitare sorprese al chitarrista.
Ed era allora che Trent cantava più forte, cosicché i berlinesi si giravano sempre di più a guardarlo, non potendo ignorare la sua voce. Erano momenti in cui Scott azzardava un commentino, facendo ridere Duncan. Momenti in cui lui accettava ogni persona, ogni mentalità presente in quella strada, perché in fondo, li ascoltava con orecchie sorde. Davvero, solo lui.
 
Si spostava continuamente per la città e per di più sempre in compagnia di quel suo amico dai capelli rossi: passeggiavano veloci per le strade, sfoggiando i loro migliori sorrisi davanti alle donne e alle giovani. Le facevano ridere, ne intrattenevano alcune per una manciata di minuti, certe volte persino si fermavano a parlare con molte di loro che portavano i bambini per mano. Li accarezzavano sulla testa, raccomandandogli di fare i bravi con la mamma e il papà. Auguravano a lei un futuro brillante per il piccolo e lo stesso bimbo alzava le braccia al cielo e gridava "Deutschland, uber alles!", con la sua piccola voce. Spesso capitava che si offrissero di riaccompagnare a casa le più giovani, che parlassero di politica con il loro padre nei loro salotti, che ricevessero complimenti per il loro servizio al Paese.
Ogni uomo che li incontrava era lieto di vederli, entrambi, ma col giovane moro erano sempre leggermente più lecchini. Parlavano tranquillamente con i soldati, sempre passeggiando per Berlino, e questi elogiavano le loro famiglie. Tutti insieme prendevano una birra (o più di una) nel bar più rinomato della città, fumavano una sigaretta e a volte, anche se erano sempre costantemente sobri, lodavano la Germania come mai in vita loro, facendo sentire a tutti la contentezza di essere ariani.
Sapeva ch'erano stati entrambi e più volte al cospetto di Hitler, sempre lieto di vederli, erano tra i suoi amici più intimi. A volte passavano giornate nella sua residenza, giorni a discutere con lui di strategia, a consigliarlo.
Molti applaudivano, durante certi discorsi fatti in pubblico dai giovani tedeschi: c'era sempre una piccola folla che s'accostava a loro e partecipava, ognuno dicendo la sua e complimentandosi per quelle idee "giuste" che a loro non erano venute in mente.
"I giovani sono sempre più intelligenti dei loro padri!" aveva detto loro una volta un anziano signore, battendo una mano sulla spalla di ognuno. "Deutschland, uber alles!"
E la folla gli aveva dato ragione, in un urlo d'approvazione, con cenni di testa da parte di tutti.
Quel giovane uomo gli pareva assolutamente normale, senza nulla che non andasse, anzi: era un esempio, i bambini tedeschi lo copiavano e l'avrebbero copiato, volevano essere come lui, da grandi. Imitavano la sua gentilezza con le bambine della loro età.
E, nonostante ciò, gli avevano detto di tenerlo d'occhio. Questo perché si diceva tra i pettegolezzi fondati, che fosse buonissimo anche con la sua serva ebrea. Non era visto di buon occhio, come comportamento, ma lui trovava che Duncan Ruschtmann disprezzasse quella razza, con ogni fibra del suo corpo.
Un giorno l'aveva visto pestare a sangue un giovane e povero cantante che se ne stava semplicemente per le strade, ad "allietare" la giornata con la sua musica a Berlino!
Quel giorno era quasi stanco di seguirlo: sempre con quello Scott Voeller, erano stati in un bar, avevano bevuto una birra e poi erano usciti ed avevano salutato donne e bambini, rallegrato il dì delle tedesche con un sorriso. Tutto normale. O quasi.
Era un osservatore, dopotutto; uno di quei pochi ariani in grado di esserlo. Il suo lavoro era quello, una spia: non si lasciava perdere un'occhiata o un sopraciglio alzato, o una parola. Per questo vide lo sguardo, il cenno, il sorriso ghignante un secondo, rivolto ad un giovane uomo, seduto lungo la strada. Che ricambiò. Poi suonò ancora e cantò, più forte.
E il ghigno fu il suo, mentre si faceva largo tra la folla, con buone nuove per il Capo. Sempre contento di vederlo, ma quel giorno, ne era certo, lo sarebbe stato di più!
"Il problema non sono gli ebrei!" gli disse, facendogli alzare un sopraciglio, scetticamente. Rispose con un sogghigno, leccandosi le labbra. Scelse bene le parole. "Il problema è un giovane cantante. Quei loro sorrisi … eloquenti, sono un problema. Quegli sguardi e quei suoi occhi di smeraldo."
 
"Buon giorno, Courtney!" la salutò quel mattino, sorridente, ricordandosi ancora della sera precedente.
"Buon giorno, Signore!" rispose lei, con un inchino rilassato ed un sorriso, per poi accompagnarlo giù per le scale. "Dormito bene, Mio Signore?"
"Benissimo, ti ringrazio."
Fece un sorriso verso di lei ed un cenno di congedo, per poi entrare con la sua solita platealità nella sala da pranzo, salutando con calma i genitori, sorridendo ad entrambi e facendo brillare gli occhi chiari per il sole che entrava dalla finestra.
Mangiò velocemente, scusandosi per l'eventuale maleducazione, informando i genitori che avrebbe avuto da fare per tutta il giorno, di non aspettarlo per il pranzo, né, casomai, per la cena. Poi uscì.
Sarebbe stato con Trent tutta la giornata, aveva deciso: le sere che passava in sua compagnia erano fatte di ore troppo veloci, troppo brevi. I baci che gli dava non gli bastavano più, ogni volta che lo lasciava, lo faceva sempre più controvoglia, ogni volta desiderando di poterlo tenere con sé, desiderandolo ancora, bramando di poterlo toccare di nuovo.
La fretta con cui lasciò la sala fece assottigliare gli occhi di suo padre, che lo seguirono con lo sguardo senza che il figlio se ne accorgesse: quei suoi comportamenti non gli piacevano affatto e nonostante la città intera lo adorasse, lui iniziava ad avere dei dubbi. Che nascondesse qualcosa? E cosa? E perché?
Courtney non gli era mai piaciuta, gli ebrei li aveva sempre odiati, mai aveva provato compassione per loro. Amava il suo Paese quasi di più che suo padre e sua madre, quasi più di quella fantastica ragazza ch'era Gwendolyn. Non capiva perché non l'avesse trattenuta a Berlino per sposarla! E perché non pensava minimamente a prendere moglie?
"Miei Signori!" interruppe i suoi pensieri la serva, facendo sbucare il visino dalla parta.
"Cosa?" fece il padrone di casa, irritato, passandosi una mano sulla fronte: la sua vocina gli dava alla testa!
"Chiedo perdono, ma c'è il Signor Alejandro Gaschieher che vorrebbe parlare con lei!" rispose la giovane, stando chinata in avanti, per timore di ricevere un solito schiaffo dal Signor Ruschtmann, che usava darle sberle anche semplicemente per il fatto di essere di cattivo umore.
A quel nome, però, l'uomo scattò repentinamente in piedi, dilatando le pupille, facendo stridere la sedia contro il pavimento. La tovaglia stretta in pugni incerti e il volto terrorizzato: quel nome! Volendo essere leggermente sacrileghi, il secondo uomo più importante di Germania, dopo il Fuhrer.
"Che entri!" mormorò allora, quasi senza farsi sentire dalla sguattera e risedendosi per un attimo. "CHE ENTRI, STUPIDA!" le urlò poi, rialzandosi e facendole un segno con il braccio di andare ad accoglierlo nel migliore dei modi.
La ragazza si strinse le mani al petto e corse fuori, spaventata, accogliendo l'ospite come conveniva, prendendogli il cappello e guidandolo, ringraziandolo mille e mille volte per la sua visita graditissima. Tremava comunque, e, appena l'ebbe lasciato in sala da pranzo, scappò nella camera di Duncan per rimetterla in ordine, non prima di essersi inchinata.
"A cosa devo la graditissima visita, Signor Gaschieher?" chiese l'uomo, in piedi, invitando lui ad entrare e la moglie ad uscire.
Era un giovane bellissimo, baciato dal sole di Berlino, neanche ne fosse l'amante, con meravigliosi occhi verdi, un fisico a dir poco desiderabile. Era al servizio del Governo tedesco. Era la Spia, ma solo in pochi lo sapevano. Duncan non lo sapeva, ma suo padre sì e sotto il suo ghigno divertito, iniziò a tremare.
"Signor Ruschtmann, ogni volta che entro in una casa tedesca ho l'impressione che questa abbia qualcosa da nascondere!" fece il ragazzo, sedendosi dinnanzi al padrone di casa e facendogli cenno d'accomodarsi.
"Signor …"
"Alejandro, la prego!" lo fermò calmissimo con una mano, mettendosi ad ascoltarlo con le mani a coprirgli le labbra, i gomiti puntati sul tavolo, gli occhi scintillanti.
"Alejandro," riprese il padre di Duncan. "sono a conoscenza dell'eccellente servizio che lei svolge per lo Stato." spiegò, come se fosse ovvio.
"Quindi, secondo lei io non potrei far una visita di piacere ad un vecchio collega? Lei mi ha insegnato i trucchi del mestiere, non è vero?" replicò il giovane con tono innocente, quasi offeso.
L'uomo annuì, quasi rimpiangendo quei tempi in cui andavano in giro insieme, senza farsi notare e lui gli insegnava come guardare ogni singolo particolare della città. Poi si era ritirato ed in quel momento, Alejandro l'aveva addirittura superato.
"Ma non è così!" azzardò Ruschtmann.
L'altro alzò le sopraciglia.
"E' così?" chiese allora il Signore, stupito, ma quasi tirando un sospiro di sollievo.
Gaschieher scoppiò a ridere. "Ma l'hai detto tu: non è mai così! Che fosse per quello, io non l'ho detto!"
 
Le sue mani ora sui fianchi, ora sulla schiena, le sue labbra sulle sue e la sua lingua che toccava la propria. Quelle carezze sempre più impure, azzardate da parte sua. Era diventato tutto assolutamente normale per Duncan, normale sentirlo così vicino, normali i lividi che anche lui aveva iniziato a lasciargli impressi, come tatuaggi, per ricordargli che fosse stato lì. Normalissimi i brividi, perché nonostante imparasse velocemente, ogni volta Trent gli mostrava qualcosa di nuovo, lasciandolo indietro.
D'altro canto, il musicista doveva ammettere che sempre più difficile era sorprenderlo, ma in un modo o nell'altro, ci riusciva comunque. E allora ghignava ogni volta, più che soddisfatto, sentendo i suoi gemiti.
Ciononostante, era naturale che volesse comandarlo e quasi ogni volta era così. Anche se era uno stronzo come pochi altri che aveva conosciuto, non si sottraeva mai, nemmeno quella prima volta, quando, mentre ancora gli accarezzava la schiena, gli aveva sussurrato "Ti amo" all'orecchio, facendolo perdere quel poco che bastava per entrargli dentro velocemente. Aveva urlato, stritolandogli una mano e facendolo ridere. In seguito, l'aveva insultato fino alla morte.
In quel momento, era ancora "gentile", con lui. Si beava dei suoi baci, a volte strappandogli un lamento leggero, mordendogli le labbra ed esplorando la sua bocca sempre di più con la lingua, togliendogli il fiato. Artigliando i capelli neri e guardando ogni tanto i suoi occhi verdi, mordendogli il collo e le spalle, senza lasciarlo andare, cercando alla cieca i bottoni della sua camicia e quello dei suoi pantaloni, accompagnando la mano con delle carezze sul suo corpo.
Quando finalmente lo lasciò libero un secondo, dopo un ultimo bacio, ormai senza camicia né pantaloni, Trent prese a spogliarlo, facendo pressione, in modo da farlo cadere, restando sopra, per poi baciare e leccare il suo petto nudo, a volte succhiando anche.
"Impari in fretta!" gli rivelò in un orecchio, per poi baciarne il lobo.
"Già!" Lo ribaltò. "E tu le cose me le rendi molto semplici." mormorò poi, ad un centimetro dalle sue labbra. Gli diede un bacio, per poi lasciare che lo spogliasse, comunque chiarendo che voleva comandare lui.
Trent annuì: per una volta, poteva lasciarlo fare. Glielo disse.
"Una volta, due volte … Sempre!" ghignò il tedesco, per poi passargli un dito in mezzo alla schiena, godendo nel vederlo rabbrividire, gettare la testa all'indietro ed abbandonarsi a lui.
Lo sapeva che l'avrebbe lasciato fare tutte le volte che voleva. E anche tutte quelle che non voleva. Che non era poi così spudorato, dopotutto, anche senza avere addosso quella vergogna che magari aveva avuto il suo compagno, inizialmente.
Non ce n'era più traccia: dopo due mesi era in grado di fargli di tutto e di più senza abbassare lo sguardo una volta. Mentre lo baciava, lo guardava sempre negli occhi, perché "gli occhi generano l'amore".
Forse era stato così anche per loro, infondo. Trent amava i suoi occhi, non più di quanto amasse lui, ma erano comunque quelli che lo rapivano, facendolo volare in quei cieli di cui sperava a volte e vagare nei mari che immaginava vedere, quelli senza orizzonte.
Per Duncan, invece, gli occhi del ragazzo in un certo senso lo disorientavano, spesso lo fermavano completamente. Ma erano così sognanti di luce, che alla fin fine lo "perdonava" e dopo due mesi, ormai, un bacio non glielo toglieva nessuno, dopo uno di quegli sguardi.
 
Non fu difficile trovarli: Alejandro li aveva già seguiti, restando fuori dalla casetta ed annotando minuziosamente ciò che vedeva e ciò che sentiva, molto distintamente.
Li disprezzava per quello che erano e fu più che felice di schiaffare in faccia la verità al Signor Ruschtmann, sbattendo sul tavolo quelle annotazioni, dallo sguardo più innocente, al rumore più osceno, all'immagine più rivoltante, al bacio più volgare …
Quando li trovarono, dove Alejandro aveva detto, dormivano svestiti, abbracciati e molti uomini, disgustati, erano usciti, non riuscendo a sopportare la vista. Lui, invece, si era avvicinato, munito di manganello e aveva dato un colpo ad entrambi nella schiena, facendoli cadere a terra.
Spalancarono gli occhi: solo il tempo di guardare il terrore scuotere il corpo dell'altro. Non si toccarono nemmeno. Neppure poterono guardare lui. Preferirono chiudere gli occhi, mentre sui loro corpi bianchi apparivano altri lividi scuri.
Ma senza amore dentro.
 
WRITTEN BY Angelo Nero

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Our love is a mistakes

CAPITOLO 6

Collaborazione con Angelo_Nero

 

-Andrà tutto bene-

-Bugiardo. Sei un fottuto bugiardo-

 

Duncan non l’avrebbe mai voluto.

Essere scoperto fu così tremendo… sulla sua pelle sentì un’umiliazione cocente sotto forma di schiaffi, pugni e legnate. Gli era scappata una carezza sul fianco di Trent, che lo fissò preoccupato. Poi fu tutto confuso, sapeva solo che voleva urlare per il dolore.

Dietro la sua schiena pallida andarono ad aggiungersi lividi su lividi. Sta volta non erano i marchi del suo amante, oh, no. Sta volta era odio, disprezzo, cattiveria, schifo… un misto di emozioni nate proprio per far male a lui e a tutta la sua razza deviata. Sentì una mano scorrere dalla nuca in su, aggrapparsi ai capelli corvini e sbattergli la testa contro la terra. Tante volte. Tante quante ne dovette subire il chitarrista.

La tempia prese a sanguinargli e un rivolo di sangue scivolò lungo la guancia spigolosa e tinse il labbro di rosso. Schiuse gli occhi azzurri, che oramai di quel colore non erano più.

C’era una tempesta, momentaneamente: il grigio delle nuvole, il liquido trasparente delle gocce di pioggia e l’azzurro di un cielo poco limpido.

Le urla e le implorazioni del diciottenne gli arrivavano alle orecchie ovattate. Sentiva sul suo corpo seminudo la saliva dei tedeschi che lo stavano attaccando. Era troppo per lui… Ruschtmann… Duncan Ruschtmann. Uno dei più grandi uomini affermatisi in tutta la Germania, fidato seguace di Hitler e del suo regime. Ora non lo era più: sarebbe diventato un numero e un triangolo rosa.

Altri calci: sui fianchi, allo stomaco, al petto, alle costole, al viso… non c’avrebbe fatto assuefazione tanto presto. Pensava intanto: agli spasmi allucinanti che stava sopportando e inoltre a che cosa sarebbe successo se avesse ammazzato di botte Trent, quel giorno. In questo momento non sarebbe stato un uomo felice, di sicuro.

Ma il giovane nazista (anche se non meritava più quel nome) sapeva tutto ciò che avrebbe atteso i loro corpi martoriati e le loro anime svuotate. Non sapeva se il chitarrista ci fosse arrivato, attento com’era, sentendo parlare gli altri germanici tra loro. Era sempre tutto poco chiaro e di sicuro non sarebbero finiti in luoghi ricreativi come avevano spiegato una volta ad altri suoi compagni. Duncan era potente e sapeva tutto, anche se avrebbe preferito restarne all’oscuro.

Tuttavia, un po’sentiva di meritarsele quelle botte: lui amava un uomo! Era qualcosa di disgustoso e sì, ci aveva riflettuto su così tante volte. Però quell’amore, appunto, batteva tutto. I suoi pregiudizi e le sue credenze stupide, infondate. Trent gli aveva aperto gli occhi: quella cieca fedeltà per cosa, poi? Essere limitati, impacciati nei loro rapporti?

Perché tanto il più piccolo lo sapeva davvero bene: non gli sarebbe mai stato lontano. E la cosa gli faceva piacere a differenza degli altri uomini che aveva avuto. Lo bramava e la cosa era reciproca. Duncan era così attratto da lui. Dal suo corpo, dai suoi atteggiamenti… tutto! Avrebbero fatto l’amore altre milioni di volte se non fosse stato per quell’imprevisto. Una volta sarebbe stato lui a comandare, un’altra quel tedesco dalle idee confuse. Quindi basta, l’avevano fatto.

In amore tutto è concesso. Peccato che lo sia anche in guerra. Forse erano davvero troppo giovani per capire, o era vero che tutto quello non aveva senso. Perché soffrire le pene dell’inferno se solo si ama qualcuno?

Ecco che Trent, sotto i colpi di una frusta tirata fuori da chissà dove, se lo domandava. Non era tanto forte come ragazzo, era sensibile, fin troppo facile da spezzare e stava già avendo un crollo. Piangeva con isteria, rannicchiandosi e pregando, ma quelli lo rialzavano, colpendolo più e più volte. Ormai gli altri uomini non ebbero più disgusto e il loro amore per le giuste regole stava riemergendo dopo quel lieve secondo di debolezza.

La violenza era troppa e insopportabile per quel corpo ancora adolescente di Trent e Duncan, facendo appello alla sua più totale pazzia e approfittando di quell’attimo d pace fisica che gli era stata concessa, si trascinò davanti al suo amante, proteggendolo e subendo per lui gli altri colpi di frusta.

***

Trent non aveva mai avuto paura del buio, neppure quando, da bambino di strada che era, si riparava sotto i cartoni trovati a fortuna. L’aveva sempre amata l’oscurità, gli dava la pace mentale, ma quella era tutt’atra cosa.

Sentiva troppo dolore, era allucinante e voleva solo smettere di soffrire, in un modo o nell’altro. Le braccia di Duncan sembravano avergli donato un’alternativa più allettante: si sentiva meglio quando stava stretto a lui, quando lo cingeva con le braccia e si lasciava abbracciare in uno scambio d’affetto poco virile. Adesso voleva solo sentire il suo profumo, anche se mischiato al mal odore che vigeva in quel vagone di treno. Paglia sporca per farli appoggiare, appartenente a degli animali. Erano al chiuso, ma non solo loro due. Schiacciati da corpi mezzi morti o svenuti, terrorizzati, che si ammassavano come sardine tra di loro. Duncan e Trent erano all’angolo e alzando la testa potevano vedere le rotaie che scorrevano sotto i binari opposti, sforzandosi perché da quelle sbarre rosse ma consumate dal tempo si faceva davvero fatica a scorgere qualcosa. Il più giovane aveva appoggiato la testa sulla spalla dell’ex nazista che, senza preoccuparsi delle sue condizioni, continuava ad accarezzargli la schiena, come per donargli una sicurezza che in quel momento non esisteva più –Ci uccideranno?-

Lo chiese così, indolore, senza pensare neppure alle sue parole. Era una domanda lecita da fare a un germanico, macchina di sterminio, anche se Duncan oramai non funzionava poi così tanto bene. Abbassò gli occhi azzurri sui capelli sporchi di terra dell’altro, arricciandone le punte attorno alle dita. Non rispose e quindi si abbandonò totalmente, rannicchiandosi di più –per quanto gli fosse possibile- e affondando la testa nel petto del compagno –Però promettimela una cosa- disse in un soffio, accennando un sorriso sofferto quando si sentì più stretto –Amami. Amami ora come non mai, perché non potremo più farlo. Amami sempre, dovunque andremo a finire. Amami e giurami che tutto ciò che ti faranno non ti ridurranno a un vegetale, incapace di pensare e ricordare. Perché non dovrai mai dimenticarti di me, sei la cosa più bella che mi sia mai accaduta- lui era un poeta ma Duncan non parlava più, voleva solamente dimenticarsi della sua voce, di tutto ciò che era stato. Ma sarebbe stato impossibile, quindi –Prometto- acconsentì solo alla fine, con una voce leggermente distaccata, punta da un pizzico di veleno. Trent si sollevò, urtando qualche corpo, andandosi a mettere sulle gambe dell’altro e unendosi con il suo petto, quasi a volergli entrare nella cassa toracica. Fece scorrere le braccia dietro la sua schiena e poi lo attirò a se, abbracciandolo –Grazie di esistere- mormorò baciandolo e accoccolandosi di più, cercando di isolarsi da quelle cento persone. Chissà come, s’addormento e Duncan, una volta sicuro che le sue parole non potessero giungergli alle orecchie gli rispose

-Grazie a te, amore-

E per una seconda volta era stato ancora troppo superficiale. Trent sentiva tutto. Sempre.

***

Aveva baciato il collo di Trent, mormorandogli di svegliarsi perché non aveva voglia di vederlo bastonato nuovamente da quei mostri con i quali aveva tanto in comune. Cominciava a odiare il sangue che gli scorreva nelle vene. Pura razza ariana, prese a detestarsi. Quello si era stropicciato gli occhi e per un attimo credette che fosse stato solo un incubo. Fu tremendamente brutto riprendere conoscenza e sentire le fitte di dolore propagarsi istantaneamente per tutto il suo corpo –Ce la fai?- chiese premuroso, alzandosi e venendo quasi spazzato via dal flusso delle persone che sciamavano lentamente dal vagone –Mi fa… male… tutto…- sbuffò infastidito. Poteva anche collaborare e smetterla di fare il bambino, no? Gli prese il polso e tentò d’alzarlo, ma si bloccò a un suo gemito di dolore. Si abbassò e lo prese direttamente in braccio, facendo si che si bloccasse con le braccia dietro la sua nuca, poi lo mise in piedi –Grazie- disse, baciandolo su una tempia –Smettila- lo scansò più in là, guardandolo freddo –Smettila. Oramai è tutto finito-

-No. Non è così- l’ex nazista alzò un sopracciglio e fece un verso incomprensibile –Me l’hai giurato il nostro amore. Al diavolo tutto- sorrise cristallinamente

-Tu non sai…- e si morse le labbra, scuotendo la testa e scendendo definitivamente dal vagone. Eppure Trent capiva, sapeva, non ci voleva un genio. Non ci volle neppure quando i suoi occhi, appena sceso dal treno, incontrarono tutta la disperazione che s’allargava a macchia d’olio. Restò intontito per un po’, mentre guardava nazisti crudeli separare famiglie e famiglie, senza distinzioni. Con una freddezza tale che caratterizzava ancora Duncan, perché infondo quella era la sua razza. Non gliene faceva una colpa. Era cresciuto così.

Trent con quegli occhi sarebbe stato capace di far innamorare il più rude uomo tedesco, persino quello più convinto della sua eterosessualità. Trent aveva capacità che Duncan aveva testato sulla sua pelle.

Il tedesco sobbalzò quando i suoi occhi incontrarono la scena di un bambino, strappato via dalle mani di una donna urlante, piangente e disperata, che pregando venne bastonata alla schiena e trascinata in un gruppo formato da sole donne.

Le ragazze da una parte, gli uomini dall’altra, i bambini in un gruppo. Certi provavano a ribellarsi, volevano spiegazioni, altri che avevano già compreso, come lui, si lasciavano piegare come canne di bambù.

Trent non poteva sopportare quella visione e abbassò gli occhi. Era ingiusto, tutto troppo ingiusto. Le persone, trattate come oggetti, senza sentimenti. Strattonate di qua e di là, imbottite d’insulti e botte. Recriminati, perché ebrei, perché gay… perché troppo diversi e sbagliati. Imperfetti.

E Trent era sempre stato imperfetto, da quando era un bambino. Era sempre stato attratto dalle bambole delle bambine ricche che vedeva passare difronte al suo “scatolo occasionale” che usava come letto. Sognava d averne una, dai capelli mori e gli occhi azzurri e l’aveva avuta, quando una ragazzina prese a fare i capricci perché quel suo giocattolo era troppo vecchio e brutto, gettandolo all’aria, in una pozzanghera e scappando, mentre la madre la rincorreva preoccupata, promettendole tutte le bambole che avrebbe desiderato. Mentre lui, strisciando quasi, la raggiunse, prendendola tra le mani e contemplandola. In quel momento non gli importava più della fame che era costretto a subire, della sete che gli inaridiva la gola e della poca forza nelle mani. Al gioco mancava un occhio, arrangiato con un bottone. I capelli erano tagliati e il sorriso cucito con ago e filo. Era sporco di fango e aveva numerose toppe. Ma a lui piaceva, forse anche più di tutti quegli inutili soldatini che era riuscito a racimolare nel tempo. Con quelle sue dita magre e sottili accarezzò una guancia della bambina di stoffa, sorridendo e accucciandosi al suo solito angolo di strada, che aveva ambiato così tante volte nel giro di una vita.

Si lasciò scappare un singhiozzo quando un uomo in divisa lo afferrò per un braccio, strattonandolo e rimproverandolo, dicendo che quello non era il suo gruppo, che aveva sbagliato. Parlavano in un tedesco molto stretto e lui faticava a comprendere, per questo quando fu vicino a Duncan, abbassò la testa sul suo petto, chiedendo di farsi stringere di nuovo e di spiegargli cosa stessero dicendo, ma occhi azzurri non reagiva più di tanto. Accarezzò una spalla di Trent, socchiudendo gli occhi e osservando tutto il caos che vigeva, angosciandoli ulteriormente. Sibilò qualcosa di incomprensibile, poi abbassò lo sguardo e sospirò. Infine diede un’ultima occhiata al suo amante, terrorizzato a morte.

Lo amava e in quel preciso istante giurò che sarebbero stati insieme per sempre. Qualunque cosa fosse successa.

 ***

Quando furono scortati in quei campi, Duncan si sentì morire. Le aveva viste certe foto, ma quello era ancora più straziante.

Lì si concentrava la follia del genere umano. Un sadismo ingiustificato. La crudeltà, l’incredibile cinismo verso la sofferenza dei propri simili. Perché infondo, tra Ebrei e Tedeschi non c’era questo abisso di differenze. Un Dio, forse? Un modo di pensare?

L’aria era pregna di urla mai emesse, di parole stroncate, di fatica e soprattutto di domande. Troppe domande, quesiti irrisolvibili.

I prigionieri camminavano quasi in punta di piedi, impauriti da quel gelo e dai passi ben cadenzati dei soldati che ogni volta incutevano più timore. Duncan però gli occhi non li abbassava. Era l’unico ad avere quelle iridi glaciali e l’unico a conservare ancora le sue credenze, seppur più fioche e lente: era pur sempre un germanico, questo voleva dire che l’avrebbero potuto umiliare fino all’estremo, ma restava superiore.

Sentiva freddo, invece, Trent. Scosse e brividi gli trapassavano il corpo e voleva solo andare via, scappare, ovunque si trovasse in quel momento.

Aushwitz. Era lì che era stato segregato.

Poi li rinchiusero in un edificio e lo stupore fu generale: c’era chi urlava, chi invece guardava tutti con gli occhi sbarrati. Erano uomini ai quali, da lì a poco, avrebbero strappato la dignità. Duncan lo sapeva e se ne rammaricava. Sarebbe voluto salire su una di quelle panche di legno che si trovavano nello stanzone in cui lo avevano chiuso, per poi rizzarsi e urlare con tutti il fiato che aveva in gola, fino a quando le corde vocali non gli si fossero consumate: “qui si muore”. Non fece a tempo. Aveva Trent vicino e pensava solo a dedicargli delle carezze dietro la schiena livida e quello lo ringraziava con gli occhi. Aveva capito che il suo angelo avrebbe avuto un po’più di bisogno di lui. Non avrebbe retto psicologicamente e lo comprese quando, all’aprirsi di una porta di ferro, sobbalzò, nascondendosi tra la sua camicia sporca.

Da essa uscirono parecchi uomini in divisa, tutti ghignanti e felici di potersi imporre nuovamente con la loro forza. Duncan li riconobbe quasi tutti, da bravo nazista li conosceva, sia i loro nomi che i loro cognomi. Erano persone con le quali aveva discusso, trovandole deliziose, all’epoca, ma mettendole sempre in soggezione con il suo tono impetuoso. Invece adesso sembravano contenti perché si sarebbero fatti valere anche su di lui, su Ruschtmann.  Su quell’uomo tanto temuto.

Fu incredibile vedere lui, in prima fila. Fu come un pugno in pieno viso.

Giurò che, se mai ne avesse avuto opportunità, l’avrebbe ucciso a quel bastardo.

A quel suo fratello, quello al quale raccontava la sua vita, i suoi dubbi. Quello con il quale passava le sere dei loro compleanni, augurandosi vita lunga e felice. Lo stesso ragazzo con cui scherzava e giocava.

Scott.

Quello Scott che quando aveva un dubbio, gli scompigliava i capelli e lo invitava a sfogarsi.

Quello che gli aveva giurato fedeltà eterna, persino più amore che aveva per il regime nazista.

Eppure era lì, in prima linea, a guardarlo con schifo.

Possibile che essere omosessuale fosse una così grande malattia? Possibile che provocasse così tanto sdegno? Cosa c’era di sbagliato nell’amare? Perché quella folle guerra era più importante di qualunque cosa? Cosa permetteva ad un uomo di giudicare un altro uomo?

Aveva voglia di gridargli contro che era tutto svanito. I loro anni d’amicizia, non erano mai esistiti.

Perché era lì, con quel mezzo sorrisetto, quei capelli rossi sempre ribelli e la sua divisa, leggermente sbottonata. Le lentiggini che facevano risaltare la sua aria sbarazzina, forse ancora un po’bambinesca e in contrasto i denti bianchi che brillavano in un ghigno. Duncan era indeciso se separarsi dal gruppo e pestarlo a sangue, o se seguire la logica e restare vicino a Trent, aspettando del dolore che sarebbe arrivato immediatamente.

Un po’fu per paura, un po’per logica, un po’per l’angelo che aveva tra le braccia… ma non si mosse. Restò bloccato a rimpiangere il passato e a immaginarlo come sarebbe stato se dentro di esso ci fosse stato il suo amante.

E fu ciò che successe. Non badarono più a nulla, ogni tedesco, si scelse la sua cavia personale, quella che avrebbe ridotto al nulla, sia fisicamente che psicologicamente.

Mentre Scott prendeva Trent per un braccio, spingendolo contro una parete e calciandogli lo stomaco, Duncan poté giurare di averlo visto abbassare gli occhi ceruli. Magari gli era andato qualcosa dentro, o era solo la vergogna e la consapevolezza che stava sbagliando tutto. Comunque l’ex nazista non lo scorse più. Fu afferrato dalle spalle da una stretta più insicura, che quasi lo fece sorridere: cos’era? Un soldatino nuovo? Quando si voltò per un secondo notò difronte a sé due occhi azzurri, forse meno particolari dei suoi, un po’sciolti in quelle che erano le titubanze dei soldati alle prime armi. Ogni suo muscolo era teso e vedere quel ragazzo che conosceva bene per fama, lo fece traballare. Goeff, così si chiamava il biondo ariano, che si era ritrovato a scagliare un pugno sul naso di Duncan, continuando poi con colpi sempre più assestati, scaraventandolo a terra e facendolo gemere di dolore. Aspettava una qualche reazione, però il giovane tedesco era troppo intelligente per ribellarsi. Chiuse semplicemente gli occhi, patendo in silenzio tutto quello.

Nelle sue orecchie le sentiva le persone. Perché quelli erano: esseri viventi e non sbagli della natura da eliminare con sadismo. Aveva le orecchie sporche del suo stesso sangue, che era colato da una tempia, assordandolo per un po’. Fu meglio così, comunque; non voleva sentire le urla straziate degli altri. La violenza era arrivata al culmine. Cominciarono a sbattere i loro corpi contro i muri e il pavimento, si accanivano in più persone su un solo corpo e provavano vero piacere. Aveva visto persino uomini ai quali erano state strappate le unghie, per far arrivare al massimo i loro livelli di sofferenza. Ma cosa c’è di più brutto che essere considerati un errore umano?

Trent, invece, sotto i colpi di Scott era inerme. Il ragazzo lo guardava con soddisfazione crudele, imprimendo sulla sua pelle fragile segni di riconoscimento.  Amari, più aspri di quelli di Duncan, l’amore della sua vita. Alle volte riapriva gli occhi, ma solo per guardare il suo carnefice, perché lo trovava estremamente bello. Rude, ma bello. Aveva due occhi azzurri, ma molto molto più scuri di quelli di Duncan, come se fossero stati due pezzi di cielo coperti da grandi nuvoloni. Era così amico del suo amante. Come poteva fargli del male?

Magari l’ex nazista non la sentì, il cantautore lo fece invece. Tese l’orecchio dopo che i colpi di frusta che gli erano stati inflitti cessarono, ascoltò il rumore di una zip che si abbassava e di altre che in tempi diversi seguivano lo stesso suono.

C’era paura, terrore, voglia di mantenere la propria dignità.

Ma svanirono quando Scott, quel diavolo infernale, sbatté il suo corpo magro di qua e di là, premendolo poi contro un asse di legno e facendo nascere nuovi lividi sulla sua schiena con tremende gomitate.

Non sentì l’urlo di Duncan in tutta quella gente che piangeva e pregava disperata. Difatti l’ex nazista non gridò mai, neppure quando quel ragazzo più giovane di lui gli abbassò con titubanza i pantaloni, violandolo. Non avrebbe mai pianto per darla vinta a quella iena che era il suo migliore amico, un tempo, la quale aveva denudato Trent, facendolo piangere quasi con isteria. Il diciottenne si era aggrappato all’asse di legno, conficcando le unghia in esso e costringendolo ad abbassare la testa: lo stava violentando.  Essere trattato così lo ridusse al nulla. Come se tutto in quel momento non esistesse più; c’erano solo loro due: Scott con la sua violenza e Trent con la sua ingenuità. Gli intimò d’alzarsi una volta finito, ma il più piccolo crollò ai suoi piedi, che si alzarono, riempiendogli il volto di calci.

Duncan invece eseguì l’ordine, avvertendo lungo la spina dorsale il dolore della violazione ricevuta. Fissò il ragazzo in faccia e quello abbassò lo sguardo, pentito. Pentito di tutto. Perché lui non credeva in ciò che un buon nazista doveva amare.

Quando i tedeschi sparirono nuovamente, Trent cercò d’alzarsi, ma non ce la fece. Fortuna volle che Duncan riuscì a scansare tutti e a raggiungerlo per asciugargli le lacrime, seppur freddamente.

Un’altra cosa fece Ruschtmann, che inquietò l’amante: alzò gli occhi di ghiaccio, di mare e di cielo e li rivolse alla nebbia del migliore amico, trasmettendogli tutto il disprezzo.

E la iena aveva recepito, ma non voleva neppure pensarci. Oramai, Duncan e il suo amichetto erano spacciati. Di certo non avrebbe potuto fare nulla se non rendere la loro vita un vero inferno.

Trent si fece più piccolo tra le braccia forti dell’altro, stringendolo e piangendo più forte, chiedendosi in tutta la sua ingenuità mischiata a una profonda consapevolezza, se Duncan avrebbe davvero continuato ad amarlo.

Writen_By_Stella

Angolino me!

Devo essere breve perché ho un colpo d'ispirazione e DEVO apporfittarne. Sinceramente il capitolo non mi piace un granchè... cioè, non so neppure se è possibile il fatto di Scott (ma anche se l'avessi saputo ce l'avrei messo lo stesso, Scott è il mio amore segreto). Inoltre so che i soldati tedeschi hanno stuprato parecchie volte i prigionieri, cioè, ho letto la testimonianza di un uomo, ecco. Ma seriamente, non mi convince, ho canellato la parte della violenza e sarebbe venuto un po'più.... realistico, ecco tutto. Non lo so, ragazzi, non lo so... -.-" Baci

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


§ L'Angelo racconta §
 
Ehi! Ma ciao! ^_^"
Non dite niente, so già tutto: sono in ritardo di un giorno, mi dispiace molto, davvero!
Ma ora vi metto subito il capitolo! ;)
 
Con questo si apre una questione nuova, che però può essere vista come più o meno importante, a seconda dei punti di vista.
Spero vi piaccia! :D
 
White Tiger, giuro che appena posso, metto a posto quegli errori. Ti chiedo ancora scusa se ne troverai in questo chappy e ti ringrazio, per avermeli fatti notare <3
 
Buona lettura, un bacio <3
 
Angelo





Capitolo 7
 


COLLABORAZIONE CON Stella_2000

Impararono presto come stare vivi, perlomeno, poiché stare "bene", era assolutamente impossibile: ogni giorno s'alzavano all'alba (se erano stati così fortunati da dormire), con l'apertura dell'enorme portone del capannone in cui stavano. Da lì entrava gelida aria e voci crudeli in quella lingua barbara. Ancora più crude, solo per quello.
I più intelligenti, scattavano in piedi, consapevoli fosse la cosa più saggia da fare, nonostante il dolore in tutto il corpo, il freddo pungente come uno sciame di vespe, sotto la veste leggera. La debolezza la vincevano ogni giorno con semplice paura malcelata nello sguardo e nel volto ormai pallido e magro. Le gambe li sostenevano sempre.
Altri, forse perché più giovani, ancora scioccati per i trattamenti ricevuti, se ne stavano accovacciati in un angolo, stringendo le ginocchia al petto, coi vicini che cercavano di tirarli su, sussurrando che avrebbero ricevuto altri colpi, se non si fossero alzati. E così scatenavano ancora più terrore in loro, che serravano di più la stretta. Allora venivano scossi per le braccia, lasciando lividi a volte.
Poteva anche essere non li capissero, c'erano mille lingue diverse.
Quei poveracci guardavano arrivare i tedeschi con terrore e poi continuavano a scuotere i piccoli corpi a terra, a volte implorando, piangendo, perché gli ariani arrivavano, con le fruste e i manganelli! Dicevano che gli avrebbero fatto ancora del male, se non si alzavano!
Ma quelli se ne stavano in una muto silenzio, nonostante si vedesse sempre il movimento delle labbra, in quel viso con gli occhi chiusi. Le orecchie sentivano benissimo i gemiti di alcuni, picchiati già, là in quel capanno e sentivano le lingue e le parole dette da voci imploranti ed impaurite di fianco a loro.
Infine, quando gli ariani erano a meno di due metri, si rinunciava: chi aveva il coraggio si tirava in piedi, iniziando a deglutire e tremare, piangendo ancora qualche lacrima, perché accanto a sé, c'era uno che non si era alzato. E perché lui aveva tentato di alzarlo.
Tra i tedeschi, al mattino, c'era sempre quello dai capelli rossi, il più crudele, che non mancava mai di guardarli ognuno negli occhi, rivolgergli una smorfia di disprezzo, per poi sputare su coloro che vedeva più terrificati. Dare botte ai più giovani, intralciare la camminata ad altri, mentre si dirigevano fuori e farlo cadere. Quelli non si vedevano per tutto il giorno, poi.
Quella mattina, Scott s'era alzato di cattivo umore, anche se il perché non lo sapeva o meglio, lo rifiutava categoricamente, per cui, appena vide i soliti vermi terra, scaricò su di loro tutta la sua ira, gli altri costretti a guardare ed ascoltare.
Sia per Duncan che per Trent, dal primo giorno, era difficile dormire: negli occhi rimanevano immagini orrende e rumori ancora più strazianti, per cui spesso stavano svegli, schiena contro schiena. Mormoravano un poco, sempre le solite domande e risposte.
"Stai bene?"
"Sì e tu?"
Risatina sarcastica. "Ormai è routine!"
"Beato te che la pensi così."
E poi lasciavano cadere le palpebre per un po', senza addormentarsi, però essendo consapevoli del respiro dell'altro e dei mille respiri intorno a loro.
Si alzavano sempre in piedi, al mattino, non appena il primo schiaffo di vento sferzava loro le guance, molto spesso prima di tutti gli altri.
Gli "altri". Era un concetto che portava conforto, in un certo senso: la consapevolezza di non essere soli.
Subito dopo averlo pensato, però, ad entrambi saliva un brivido di ribrezzo lungo la schiena: altri erano nella loro situazione. E loro non avrebbero mai augurato a nessuno di esserlo! Nemmeno alla più odiosa delle creature!
Se poi c'era una cosa che avevano notato, questa era che Scott non andava da loro quasi più: al mattino sparpagliava le sue truppe, di solito quattro uomini, ognuna ad ogni angolo del capanno e da loro mandava sempre qualcun altro. Il più crudele di tutti, sì, ma non lui! Lui se lo ritrovavano solo dietro, quando erano in fila per uscire. Ma a nessuno dei due aveva mai picchiato le gambe.
Giorno dopo giorno, eseguivano ordini, mangiavano miseramente, a volte venivano separati e allora stavano entrambi male. Venivano picchiati e frustati, soprattutto prima d'andare a dormire, così passavano molte notti a guardarsi i lividi.
Più tempo passava, più avevano entrambi fame. E anche gli altri: li vedevano azzuffarsi tra di loro per avere qualcosa di più, prendersi per le vesti, la gola e le gambe, mettendosi a lottare sotto gli occhi degli ariani, che ridevano, indicandoli.
Stavano lontani dalla gente così, sempre. Preferivano tenersi la fame.
Una volta ogni tanto arrivava un tedesco, uno qualsiasi, che diceva che potevano lavarsi e quasi veniva travolto da quella massa di animali, che correvano verso le latrine per un semplice getto d'acqua fredda, che poi andava ad asciugarsi nell'aria gelata, perché loro ordinavano di correre svestiti finché non dicevano di fermarsi. Quando volevano, arrivava un colpo di frusta ai polpacci. Poi urlavano di alzarsi e se non lo facevano, altro colpo. Quando ci si doveva fermare, non erano completamente asciutti e i brutti vestiti s'inzuppavano, facendoli tremare.  
Ognuno parlava sempre meno, per risparmiare fiato e con loro anche Duncan e Trent divenivano sempre più taciturni, gli occhi persi in chissà dove.
Quella notte, però, Trent piangeva, rannicchiato contro il muro. Non lo faceva spesso, anche se avrebbe voluto. In quel momento, tuttavia, non era riuscito a trattenersi.
Fu uno di quei rari momenti in cui Duncan parlò. Gli si accostò di più, fino a far sfiorare le loro braccia.
"Trent, perché piangi?" gli chiese dolcemente, accarezzandogli lievemente il volto con due dita.
"Perché non lo faccio da troppo tempo. Perché ne ho bisogno!" rispose lui, guardandolo un attimo negli occhi, per poi richiuderli e far scorrere le lacrime sulle gote. Scavarono due righe nel viso sporco.
Gli altri dormivano, non l'avrebbe sentito nessuno.
"Trent … Ti prego!" fece Duncan, mettendosi davanti a lui e facendo toccare le loro fronti.
"Di cosa, mi preghi?" gli rispose, con tono sorprendentemente dolce.
"Di non fare il loro gioco, amore!" Lo fece sedere sulle sue gambe e lo abbracciò.
"Amore." disse ironico il ragazzo, con un risolino. "In un posto come questo riusciamo a ricordare che cos'è? Ancora per poco, credimi!" Si guardarono negli occhi e lui scosse la testa. "Non è il posto, questo! Non c'è il tempo, qui! Non c'è modo! E tu …"
"Non dirlo!" lo bloccò, dilatando le pupille, impedendogli d'infierire. "Non dirlo, non accadrà, mai! Te l'ho promesso!" Lo disse prendendogli il volto tra le mani e guardandolo negli occhi.
Trent annuì, per poi accoccolarsi contro di lui. "Non è neanche il luogo delle promesse!" pensò. Non lo disse.
 
Le porte si spalancarono, il vento entrò e schiaffeggiò tutti i loro corpi, mandando brividi freddi lungo le loro gambe e schiene.
Duncan spalancò gli occhi e si rizzò in piedi, giusto in tempo per vedere i tedeschi scortare un giovane, legato per i polsi dietro la schiena e con un secchio in testa, che impediva agli altri di vedere chi fosse in volto.
Sbarrò gli occhi: lui non lo sapeva. Gli ariani si erano stancati di vedere che certa gente aveva ancora il coraggio di stare in ginocchio o seduta, quando loro ordinavano di stare in piedi. Erano loro a dare ordini, ma alla gente non entrava in testa.
"Sempre che abbiano un testa!" aveva detto di loro, una volta, uno di quegli individui, facendo scoppiare gli altri in un'orrenda risata.
Così, ne avevano preso uno completamente a caso ed avevano deciso di mostrare cosa sarebbe successo se avessero osato di nuovo disobbedire. E l'avrebbero fatto sempre, con o senza ordini, ai più giovani come agli adulti. Agli ariani e agli altri.
Un po', Duncan non mancò di pensarlo, volevano solamente divertirsi ancora, semplicemente aggiungere terrore al terrore.
Scott non era con loro e questo, il ragazzo lo notò e gli sembrò quanto mai strano: vedeva i suoi occhi, ogni volta divertiti e sprezzanti, incuranti delle lacrime. Freddi come l'inverno che contenevano e lui era la tempesta, quella incessante che altro non fa, se non sfregiarti di continuo, fino a farti cadere.
Urlarono in tedesco di andare a vedere e sotto l'esempio di uno come lui, che capiva la lingua, gli altri lo seguivano cecamente, fidandosi, anche se non lo conoscevano.
Avessero saputo chi era, come l'avrebbero trattato? Non poteva far a meno di chiederselo, forse l'avrebbero ammazzato loro, di botte, per il semplice fatto d'aver fatto parte di quel popolo. O forse sarebbero stati clementi? Era là con loro, dopotutto!
Alcuni, invece, sempre per la difficoltà nel capire o per la paura, ancora non si muovevano. I vicini non li aiutavano più, gli occhi già fissi su quel poveraccio, in mezzo al capanno, mezzi morti, le bocche serrate. Forse pregavano per lui, forse no. Forse pregavano che non succedesse anche a loro.
E i tedeschi li bastonavano, come sempre, facendoli gemere. Sulla pelle, lividi su lividi, erano sempre gli stessi.
Duncan si chiese se desiderassero la morte. Lui aveva un motivo per cui vivere, una persona da abbracciare ancora, da vedere, con cui parlare durante le notti insonni. Ma cosa poteva sapere, di loro? Cosa avevano perso e chi. Se lo chiedeva e alla tentazione di aiutarli, stava zitto, a volte chiudeva le palpebre e ascoltava.
Andò a vedere, insieme alla maggior parte degli altri, che però dovettero aspettare gli ultimi, quelli che arrivarono a gattoni, poi costretti a tirarsi in piedi. Le gambe tremavano a tutti.
Non dissero più nulla, gli ariani, semplicemente gettarono via i manganelli e presero delle fruste con piccoli ganci di ferro. Fecero un cerchio, intorno a lui e poi, a turno, iniziarono a colpirlo dove preferivano, ogni volta in una parte differente del corpo.
Urlava ogni volta. Si girava sulle proprie gambe. Quando veniva colpito alle caviglie, cadeva a terra sulle ginocchia. Allora le mani venivano colpite. La schiena, lo stomaco e il bassoventre. Uno colpì il secchio, ad un certo punto e il suo rumore dentro rimbombò, facendolo urlare più forte ancora. Le grida sbattevano tra i muri.
Veniva la pelle d'oca.
Si potevano vedere certi punti della veste da cui usciva sangue, perché tagli più profondi di altri. Ma quando gli uncini entravano ed uscivano rapidi, lo strazio era più potente.
A chi era concesso guardare i palmi delle mani e le dita, vedeva semplici graffi rossi, da cui colava una riga di sangue rosso fine. Le gambe parecchio scoperte e i piedi nudi, erano inguardabili, nere e rosse quali erano i colori del loro stemma. Odiata svastica!
Guardarono: dietro ognuno di loro c'era un tedesco, pronto a bastonarli, nel caso non l'avessero fatto. Tremavano e deglutivano; gli ariani ridevano, perché lo facevano. Non pianse nessuno.
Neanche Duncan. Lui non piangeva!
Alla fine gli slegarono le mani e uno di loro gli diede un calcio nella schiena. Lo fece cadere a terra con le mani, che subito cedettero: le braccia erano deboli! L'uomo mantenne il tacco dello stivale lucido su quel graffio che aveva proprio lì, in mezzo, in corrispondenza alla spina dorsale e disse loro di prendere esempio. Che sarebbe successo ad altri, se avessero osato disobbedire di nuovo. Premette leggermente e se ne andò con i compari. Lo lasciarono lì.
Gli altri non lo aiutarono, perché vennero fatti uscire. Doveva aiutarlo lui, uno di quei barbari gliel'aveva imposto. Gli disse di portarlo alle latrine e di lavarlo, anche. Di dargli altri abiti.
Così, Duncan lo fece alzare delicatamente e lui emise un gemito basso e un singhiozzo, per i tagli che aveva sulle mani. Gli tolse il secchio dalla testa. La benda dagli occhi. Lo guardò.
"Trent!" fece in un sussurro appena udibile dal ragazzo dinnanzi a sé.
Lo squadrò da capo a piedi, con le labbra leggermente aperte: si vedeva che aveva pianto, ma non lo faceva più, in quel momento.
Alzò le spalle. "Non fa quasi più male." mormorò. Per quanto gli fosse difficile ammetterlo, il bruciore era meno crudele che il dolore.
Il tedesco scosse la testa, per poi accarezzargli il labbro sanguinante, sbattuto più volte contro il bordo del secchio, probabilmente. Ricordò quando gli aveva riservato lui quel trattamento. Lo abbracciò senza stringerlo troppo. Senza chiedere di ricambiare.
"Vieni, andiamo a lavarti!"
Annuì, mentre s'avviavano, silenziosi. Solo Duncan digrignava i denti: Scott non era venuto, ma sicuramente l'ordine era suo.
Arrivati, gli tolse la maglia a righe e guardò con ancora più sdegno il suo corpo sfregiato con un labirinto di mille tagli, profondi e superficiali, che si sovrapponevano tra loro, a volte. Come fatti con un taglierino.
Non aveva mai avuto pudore con lui, Trent, ma in quel momento, avrebbe voluto coprirsi. Di più gli salì quel desiderio, quando fu completamente svestito. Mentre lo lavava, pianse.
Duncan lo sentì.  
 
Non in molti sapevano che c'era una piccola porta, nascosta bene sia fuori che dentro, per cui non ebbe alcun problema ad usarla senza farsi sentire né far entrare quel vento del mattino che avrebbe svegliato tutto il capanno.
Si mosse naturalmente, con passi felpati, che si sentivano appena e gli si avvicinò, fermandosi a guardarlo, addormentato per davvero: aveva pianto, si vedeva dalla debole luce che entrava dalle finestrelle alte. Il volto rotto. Ghignò.
Poi guardò alla sua sinistra e il suo ghigno compiaciuto scomparve, di fronte al ragazzo dagli occhi di cielo che gli dormiva accanto: quanto lo disprezzava, in quei momenti più che mai! Non riusciva a credere che fosse stato sul serio il suo migliore amico, mesi addietro. Scosse la testa.
Dopodiché, decidendo d'ignorarlo, prese in braccio il più piccolo con delicatezza e lui, forse percependo il suo calore, gli si fece più appresso, lasciando uscire dalle labbra qualche lamento di dolore.
"Sh! Sta buono!" gli mormorò in un orecchio, con un sorriso quasi divertito.
Forse lo sentì, anche se il nome che mormorò, non gli piacque affatto. "Duncan." Il fatto che dopo averlo fatto, parve più sereno, gli fece ancor meno piacere.
Iniziò a camminare, lasciandosi dietro il corpo dormiente di quella creatura, sempre che così si potesse chiamare, curandosi invece e soprattutto di non farsi sentire e che non si svegliasse la creatura che aveva tra le braccia. Si scosse nel gelo notturno, per poi tornare tranquillo quando entrarono negli appartamenti della volpe.
Era leggerissimo, non doveva davvero mangiar molto!
Il ragazzo lo posò su una branda che aveva fatto portare, chiuse la porta con noncuranza e ciò provocò un rumore sordo. Accese le luci, facendolo mugugnare e aprire a tutti gli effetti le palpebre, dopo averle strofinate molte volte, con piagnucolii di disapprovazione.
Nemmeno riposava! Debole, magro e pieno di graffi!
Gli ci volle un minuto per mettere effettivamente in chiaro chi aveva dinnanzi, vide anche sfocato, al principio, ma poi, quando distinse perfettamente i suoi capelli rossi e la sua figura, appoggiata allo stipite della porta, braccia incrociate e sorrisaccio in viso, gli occhi pieni di lussuria, spalancò gli occhi ed iniziò a tremare, senza vergogna di mostrarlo.
Scott scoppiò a ridere. Gli si avvicinò e sedette sul bordo del lettuccio, sorridendogli a poca distanza dal volto. "Rilassati!" mormorò a fior di labbra, con voce falsamente morbida. Quasi dolce. Gli carezzò con un dito il labbro offeso. "Oh!" fece, inclinando il viso da un lato. Ghignò. "Così sei anche meglio!" Alzò un sopraciglio.
Trent si tirò istintivamente indietro, senza il coraggio di parlare ancora e guardandolo con gli occhi fuori dalle orbite, sull'orlo delle lacrime. L'immagine della paura.
"TI HO DETTO DI RILASSARTI, DANNAZIONE!" s'infuriò allora il rosso, avvicinandosi di più e facendolo cadere all'indietro, sotto di sé.
Tremò di più.
La volpe sorrise. "Oh, bé, infondo hai ragione tu! Chi si fiderebbe di uno come me, giusto?" Aspettò un cenno che non venne. "Sappi che io non c'ero, oggi, quando ti hanno offeso, Trent. E non vengo mai a farti del male, al mattino, o no?" Era vicino al suo orecchio.
Impaurito, fece no col capo.
"Questo, perché tu mi piaci, Trent!"
Gli si dilatarono le pupille, mentre gli afferrava un polso e se lo metteva sotto gli occhi, leccando le ferite sul palmo della mano, per poi intrecciare le loro dita. Si mise in ginocchio sulle sue gambe, ma senza toccarlo, per poi calarsi nuovamente su di lui, l'altra mano sul suo petto. Il cuore batteva forte.
Scott chiuse gli occhi e gli diede un bacio. Trent li tenne spalancati.
Si guardarono: il moro stupito ed ancora tremante, non diceva una parola né mai l'avrebbe fatto, si ripromise.
Il rosso ghignava, divertito da quel gioco col suo cuore, con le sue speranze. Sarebbe rimasto vivo più facilmente, sì. Ma sarebbe appartenuto a lui, sempre. Era così convinto d'avere ogni vittoria in tasca, Scott! Ogni premio. Lui era uno dei tanti, ma era anche vero che gli uomini erano le sue bambole preferite.
Il suo giocattolo favorito!
"Mi piaci!", ancora. Un bacio, ancora. E poi altri ed altri.
 
Venne il vento.
Spalancò gli occhi e si guardò intorno. Scattò in piedi, non vedendolo, perché l'ultima volta non aveva visto che mancava ed era finito nudo davanti a lui, il corpo martoriato. Lo cercò con gli occhi per tutto il capanno, sul punto di piangere. Non c'era, non lo vide. Non s'era accorto l'avessero portato via e non sapeva se l'avrebbe rivisto.
Cercò di ricordare l'ultima volta che gli aveva detto che lo amava. Forse l'aveva fatto quella notte? Non lo ricordò. Si sentì uno schifo.
Le urla in tedesco, non le sentiva più, anche se nessuno era più seduto a terra, dopo quel trattamento pubblico che avevano mostrato. Avrebbe solo voluto vederlo.
Lo cercò anche in fila, con lo sguardo. Ma la gente correva, aveva fame, voleva mangiare e di certo non si sarebbe curata se lui fosse finito sotto e loro l'avessero ucciso a furia di calpestarlo. Non se ne sarebbero nemmeno accorti.
Corse anche lui, allora e non lo trovò a mangiare, nemmeno agli altri tavoli.
Non c'era! Non lì e non fuori, non a correre o nelle latrine, non era da nessuna parte e un dubbio terribile s'impadronì del suo stomaco, quasi lo fece vomitare.
Fu in quel momento, che lo vide, che non faceva nulla e passava totalmente inosservato. Stava accucciato a terra, ma era sorprendentemente pulito, anche se gli abiti erano come i suoi.
Quasi gli venne da andargli incontro. Abbracciarlo, baciarlo e proporgli di morire. Sì, di morire insieme ed essere più liberi, nell'aria. Di girare il mondo, come aveva rivelato essere il suo sogno, di girarlo insieme, vagando come fantasmi per sempre. Insieme e sempre, dovunque avessero voluto.
Ma poi vide anche l'altro, che gli si accostò e si sedette tra la polvere con lui, che gli sussurrò qualcosa e rise pianino.
Ricevette un cenno, gli occhi vacui di Trent non guardavano niente. Sussultò solo quando Scott gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Si risvegliò.
E allora, Duncan lasciò perdere: poteva morire, sì. Ma da solo! Lui non era una bambola di carne tra le preferite, Trent sì. Lui avrebbe vissuto sempre. Duncan no.
Scott c'era riuscito: l'inferno iniziava da lì.
Mai insieme e mai per sempre.

WRITTEN BY Angelo Nero

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Our Love is a mistakes

Capitolo 8

Collaborazione con Angelo_Nero

 

Trent emise un singhiozzo. Poi un altro. E un altro ancora.

Pianse. All’inizio erano lacrime solitarie, piccole gocce di tristezza e disgusto, in seguito si trasformarono in una pioggia copiosa che andò a invadergli le gote arrossate per le botte della normale giornata di lavoro.

Sentì la testa spinta contro la parete ruvida del muro e una grande mano premere sulla sua schiena, costringendolo in una dolorosissima posizione. Il ginocchio del suo aguzzino si sollevò, colpendo con la rotula in mezzo le gambe e facendolo cadere direttamente in ginocchio.

La iena rise al suo pianto, sentendosi bene non appena gli artigliò le mani con le unghie, conficcandogliele nella pelle e facendolo ansimare –Oggi non hai notato un trattamento diverso, mh?- gli morse l’orecchio, svestendolo velocemente –Rispondi- l’intimò e il cantautore strizzò gli occhi, piangendo più forte e gettando indietro la testa involontariamente, sentendo subito le labbra di Scott divorargli ogni centimetro di pelle –Ho detto: rispondi- mormorò con il tono un po’alterato, fermandosi per qualche momento e guardandolo serio –Sì…- concesse allora l’altro, ricevendo un piccolo sorrisetto beffardo come risposta. In effetti non aveva ricevuto neppure una bastonata, mentre Duncan, che era solito porsi tra lui e la frusta, era stato sottomesso con forza. Per tutto il tempo in cui erano stati segregati in quel posto, l’ex nazista aveva sviluppato una sorta d’atteggiamento protettivo nei confronti del suo amante e, per quanto fosse in grado di fare, cercava di donargli pace fisica in ogni momento dell’estenuante giornata.  

Ancora una volta, era seminudo, sotto il corpo di Scott e impreparato per subire tutte le umiliazioni che ne sarebbero seguite. Si perse un attimo a guardare il soffitto. Se il tempo si fosse fermato anche solo… per un minuto… sarebbe corso via, il tempo di arrivare tra le braccia di Duncan e piangerci contro. Ce l’avrebbe fatta? Se lo chiedeva ogni santa volta, ogni notte che Scott usava quella violenza distruttrice con il suo corpo, anche se sapeva la risposta: no. Il rosso l’avrebbe tenuto in vita fino a quando avrebbe voluto, e in quel momento lo voleva, eccome! Ucciderlo? Così velocemente, indolore? No, non se ne parlava proprio. Lui si divertiva a umiliarlo, a fargli del male, a ridurlo in una nullità ogni notte, a fargli provare il senso di colpa per aver avuto un rapporto con qualcuno che non fosse stato il suo amante. Fu impossibile non accorgersene: Scott lo voltò per l’ennesima volta, sballottandolo con una serie di calci contro il pavimento e ridendo di gusto. Premette il piede sul suo viso, facendolo scorrere sul collo e spingendo contro il mento. Proseguì a marcargli lo stomaco, spingendo la punta nell’interno per una serie di volte, fino ad arrivare a fargli tossire del sangue e a insultarlo per quello. Non era tanto virile da alzarsi e ribellarsi? Gli chiedeva a ogni insulto corporale. In realtà Trent non era mai stato molto forte e le mani, proprio non le sapeva usare, se non per suonare la sua chitarra o accarezzare il corpo di Duncan. C’era anche da dire che, se l’ex nazista si fosse trovato in quella situazione, per lo stress fisico non avrebbe risposto, ma non avrebbe neppure pianto, singhiozzato e sperato. Sarebbe stato di certo più uomo di lui. E forse per questo che Scott non gli faceva mai del male? Perché era stato suo amico, o perché infondo lo temeva? Temeva il suo sguardo, i suoi giudizi, i suoi sorrisi bastardi… quell’atteggiamento che continuava a caratterizzarlo persino in situazioni simili. Duncan era quello superiore, dentro di se il rosso lo sapeva e provava disagio. Al suo fianco, difronte gli altri, non voleva mai farsi vedere da piccolo. Magari perché Duncan possedeva più freddezza persino all’età giovane, perché non si fermava nelle scuderie ad accarezzare i pony e a sognare di cavalcarli, lui voleva già impugnare una pistola e far saltare la testa a tutti coloro che andavano contro la propria nazione. Era sempre stato più crudele di lui. Senza scrupoli, le lacrime della gente erano la sua acqua, rinfrescanti, ricostituenti, ci viveva. Ora era lui quello da temere. Per tutti, tranne per quel fratello deviato che si ritrovava.

Scott pensò per un attimo agli occhi azzurri di Duncan, alla sua divisa pulita e al suo ghigno intimidatorio e, per un attimo che Trent colse subito, si perse. Il chitarrista scivolò sotto il suo piede, cercando di mettersi dritto e rannicchiandosi contro il muro della sua capanna. Fu questione di un minuto circa, che il più grande restò in piedi a torturarsi le labbra e a guardare il nulla, pensando, chissà come, chissà perché, quando quel suo amico di una vita lo copriva sempre. Dalle sue marachelle bambinesche fino ai suoi danni d’adulto scellerato. Non ebbe comunque pena per Trent, lui l’odiava. Se non fosse stato per i suoi occhi da Angelo –sì, perché persino quel nazista crudele se ne era accorto- non avrebbe mai conquistato né Duncan e, sotto sotto, né lui.

Trent era dannatamente bello, di una bellezza incredibile. Poi delicato, più di una farfalla, più di un petalo di un fiore. Silenzioso come l’aria. Era impossibile non essere attratti da lui nemmeno un po’, né uomini né donne avrebbero potuto resistere a una tale perfezione. Sembrava che il Signore, quello in cui Scott credeva con assoluta devozione, l’avesse creato a posta. Ma come si possono creare a posta degli sbagli? Se lo chiedeva mentre lo guardava severo, con la linea sottile della bocca curvata, i pugni chiusi e l’unghia del pollice a graffiare le nocche. I lineamenti del viso tesi, traditi dallo specchio di incertezza che erano i suoi occhi.

Come poteva quel frocio bastardo porlo in una situazione simile? Era capace di questo e altro, Trent. Sembrava avere dei poteri soprannaturali a i quali nessuno poteva opporsi. Non l’aveva fatto Duncan e in quel momento stava cedendo anche Scott, non con meno titubanze del primo

-Alzati e non fartelo ripetere più di una volta- alludeva a quando, quasi con pazienza, doveva ripetergli i comandi più di due volte per la sua incapacità nel comprendere, stordito dopo ore di botte e violenze. La vittima fece pressione sulle gambe stanche e magre, cadendo sulle ginocchia poco dopo e implorando pietà con gli occhi –A-l-z-a-t-i- si appese alla maniglia dell’armadio a fianco a sé, poi cedette di nuovo, gemendo. Scott si abbassò, gli prese i capelli in un pugno e gli alzò la testa con uno scatto –Non capisci che devi obbedire?- annuì singhiozzando e riabbassando il capo –Non ce la faccio- sussurrò, supplicando dentro di se di non ricevere altri calci.

Se poi Scott non era più in se, era tutto da vedere. Trent dilatò le pupille quando il tedesco lo prese in braccio, intimandogli di stare fermo e stendendolo sulla sua branda mezza rotta. Perché tutti con lui dovevano essere così crudeli all’inizio e così gentili alla fine di tutto? Era troppo da accettare a prima vista? Strano, forse? Gliel’avrebbero dovuto spiegare prima o poi, perché quella sensazione di stupore la stava rivivendo un’altra volta.

Lui con i rimorsi, i suoi “non importa”. Gli sguardi, tanta ovatta, garze, cerotti e sangue… e poi? Poi un bacio, così era successo con Duncan.

Stava avendo un terribile déjà-vu. Strizzò gli occhi, immaginandosi qualche schiaffo, o ancora peggio, invece nulla di tutto quello arrivò. La mano di Scott si mosse verso di lui, sfiorandogli il labbro martoriato dai morsi, per poi sfregarlo con forza e alzare gli occhi nei suoi. Non ci si fiondò dentro, come il suo vecchio amico, li guardò semplicemente. Non provò pena, solo una grande attrazione per quello schifoso essere. Perché attrazione? Era bello, doveva affermare oggettivamente nella sua abituale superficialità, però possedeva un non so che di… strano. A vederlo così, di prima vista, ti lasciava il segno… ma se lo si osservava, con tempo e attenzione, ci si accorgeva che tutto in lui era speciale, stupendo e irripetibile. Sarà stato per la diversità dei tedeschi? I suoi occhi verdi, ma di diverse tonalità, le sue labbra dolci, il suo respiro sempre ben regolato, la voce fioca ma tenera… cos’è che aveva quel ragazzo? Se fosse davvero stato un angelo, proprio come diceva Duncan? Angelo, con la “A” maiuscola, perché unico? In realtà era semplicemente lui. Un semplice essere umano che sapeva scalfire il più duro dei cuori, spodestare la cattiveria con l’amore nell’animo delle persone.

Scott si bloccò con le labbra sulle sue, nel solito bacio derisorio, stringendogli una natica e procurandogli dolore. Quel corpo smunto, pallido e malnutrito era l’incarnazione della perfezione, non c’era nulla da fare.

Il che lo notò anche Duncan.

Quella notte, una delle tante, non aveva dormito. Non per mancanza di stanchezza, anzi, quella c’era sempre ad affliggergli le ossa e la mente, ma solo perché voleva guardare Trent il più possibile. Negli ultimi giorni l’avevano sempre separato da lui e l’occasione di vedersi veniva solo di notte, quando entrambi crollavano per il peso della giornata. Ma l’amore che Duncan covava per Trent, si completava con lo stesso risentimento che stipava per se stesso e quindi si sentiva in obbligo a fissare un Angelo. Un Angelo che avrebbe voluto avere per il resto di quella sua vita squallida e dura. Sapeva anche che ogni notte Trent non c’era più al suo fianco. Non era sveglio e quando apriva gli occhi al mattino lo rivedeva, ma la notte aveva una mancanza, non c’era quel calore a riscaldarlo. Inoltre, sarà stata per quella sintonia, o per quella connessione celebrale fra i due, o per alchimia, ma si sentiva male con lui. Provava dolore, in fondo la petto un grande senso di colpa. Scott l’aveva preso sotto i suoi occhi, obbligato malamente a seguirlo e lui, facendo finta di dormire, non si era fatto notare e in punta di piedi aveva camminato dietro di due, facendo attenzione a non farsi sentire. Quindi era là, nascosto dietro la porta semi aperta –causa del furore di Scott- ad assistere a tutto quello. Poteva morire a ogni singolo calcio, a ogni schiaffo, a ogni mano poggiata sul corpo del suo amante e si sentiva un egoista. Sì, non poteva far a meno di pensare a quanto Scott stesse baciando Trent. Contava i secondi e in quel momento era arrivato precisamente a trentadue, un tempo limite per un bacio, ma le labbra del nazista erano sempre lì, premevano su quelle di Trent, che socchiudeva gli occhi e impossibilitato nell’aprire bocca, respirava in quella del suo carnefice.

Scott girò gli occhi, staccandosi per poco. Lo notò. Duncan lo vide e si nascose, ma sapeva che, tanto, non c’era assolutamente nulla da fare. Ingoiò l’aria fredda che lo circondava e premette i piedi sul terreno e non appena la porta si spalancò cadde con il busto rivolto verso il suolo e le mani a parare la caduta. Difronte ai suoi occhi c’erano due scarpe, pulite, lucide, nere. Alzò gli occhi e lo notò.

Ghignò.

Sì, esattamente, Duncan ghignò. Rivolse un sorrisetto sfacciato al rosso, il suo semi-fratello e si mise in piedi, ansimando leggermente per il dolore che gli picchiettava contro le costole, che cinse con una mano –Sei contento?- domandò solo, facendo contrarre i muscoli del corpo del nazista –Ora ti senti superiore, finalmente?- assottigliarono gli occhi e rivolsero un’occhiata preoccupata all’interno dell’appartamento: Trent stava bene, poté constatare completamente il prigioniero, lasciando il sapore di un sorriso sfuggente sul suo viso. Scott notò il disagio del più piccolo, come poteva sentirsi adeguato? Stava subendo l’ennesimo stupro e per un momento, il fatto che fosse stato lui a infliggergli tanto dolore, gli recò un disagio interiore immenso. Sospirò e allungò la mano, prendendo l’ex nazista dalla maglietta a righe e confinandolo nella stanza, chiudendo la porta a chiave.

Il suo sguardo! Com’era afflitto.

Duncan cercò di più nella nebbia di Scott. Era suo fratello, come poteva svanire tutto questo in un campo di tortura dimenticato da Dio? No, rimaneva sempre. Non è lontanamente plausibile che l’affetto venga ripudiato in un tale modo. Ora il rosso se lo chiedeva, la sua piccola mente, come ormai la definiva l’amico, cercava di elaborare dei pensieri giusti, che fino ad allora non aveva mai fatto. Cos’ha lui di sbagliato? Era difficile pensare a Trent, gli dava un certo fastidio per questioni che ancora si rifiutava di apprendere. Ma il suo amico di una vita? Oh, no. Gli aveva giurato eterna fedeltà! E sì, quello era un patto più importante di quello che avevano fatto entrambi a Hitler. La fratellanza.

Scott si passò la lingua sul labbro inferiore, cedendo infine e abbassando gli occhi difronte a quelli che erano sempre stati superiori ai suoi, poi riprese il controllo sbattendo Trent per terra e facendolo cadere ai piedi di Duncan, che si abbassò spaventato per evitargli altro male. Inutile, la pace del piccolo cessò subito quando il rosso prese a picchiarlo con ancora più crudeltà di prima. Tremava, piangeva, guardava l’altro implorante, ma che se ne stava fermo e inerme, non sapendo come Scott avrebbe potuto reagire a una presunta ribellione. Poi non aveva la forza neppure per muovere un muscolo, figuriamoci se avesse potuto abbattere quell’infame.

Duncan immaginava che il suo amante subisse delle violenze che andavano oltre le frustate, ma una parte di lui, quella alla quale piacevano le illusioni, continuava a ripetere di no, che se Trent non parlava voleva dire che le cose erano normali. Per quanto normali possano essere delle giornate in dei campi di concentramento, o di lavoro, come preferivano chiamarli loro due.

Concentramento era una parola troppo brutta, neppure Trent riusciva a renderla più melodiosa.

Sta di fatto che lo vide mezzo nudo, allora capì tutto e fu ancora più triste accettarlo. Gemette quando fu spinto contro il camino di pietra. Le spalle scricchiolarono e sulle gambe si aggiunsero nuovi lividi.

Fu ciò che accadde, infine, difronte ai suoi occhi. Avrebbe voluto smettere di vedere e sentire, non voleva percepire nulla con il suo corpo e in quel momento era obbligato a quella visione terribile del suo amante, ancora peggio di quando lo vide frustato difronte a tutti. Allora non sapeva chi fosse quel malcapitato. Ora invece sì. C’era il corpo di Trent sotto quello di Scott. Non era lui ad amarlo, ma l’altro tedesco. Quello che non aveva ancora imparato la poesia degli occhi dell’ormai diciannovenne, ma desiderava carpirne i significati. Soffrì ancora Duncan, quando piccole carezze –che il cantautore non aveva mai sentito- gli attraversarono le spalle, che per un attimo pensò di stare tra le braccia del vero amato.

Era lui, sicuro! Quel dolore era normale. Duncan lo stava abbracciando, Duncan lo stava accarezzando e Duncan lo stava baciando. Duncan, Duncan e ancora Duncan, nessun altro! Non voleva impiastri nella sua vita. Tutto ciò era solo frutto di un suo sogno. In realtà si era addormentato sul petto del suo nazista preferito, cullato dalle sue carezze. Il viaggio, le umiliazioni, il sangue, lo sbattimento e gli stupri erano solo… incubi. Era solo caduto in un sonno profondo e da lì a poco sarebbe arrivato lui, la sua ragione di vita, a riscuoterlo da tutto.

Scott lo violentò sotto gli occhi di Duncan. Trent era semisvenuto e il suo aguzzino, con un gesto nascosto, gli accarezzò i capelli neri, pentendosene subito dopo. Il germanico non lo notò, naturalmente.

Quando Scott scomparve nella piccola tolette l’ex nazista fece fatica ad alzarsi, ma i gemiti soffocati dell’altra metà del suo cuore straziato lo spinsero a fare forza sulle gambe.

Gli si avvicinò, baciandogli la nuca e coprendolo con il lenzuolo sporco della sostanza di Scott –Scusami- e non sapeva neppure di cosa dovesse scusarlo, sta di fatto che voleva sentire un segnale di vita dalle sue mani, che arrivò. Li stavano distruggendo.

Trent aprì gli occhi appannati dalle lacrime e quello che vide difronte a sé non era un sogno. Troppo realistico, troppo vero. I pizzichi sul braccio magro non servivano più.

Non stava sognando. Non era morto. Quello non era l’inferno. Era sveglissimo. Allora voleva davvero morire, così, nel modo più bello che ci potesse essere: stringendo le labbra del suo amante tra le proprie. Ecco, morire in un sogno era la cosa più bella che gli venisse in mente. 

--------

Piccoli geni del male, questo è il penultimo capitolo. Poi ci sarà quello di Angelo. E forse quello mio alternativo. Un consiglio, godetevi quello di Angelo. Bye e tanta tanta fortuna a voi (?) 🍀

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9
 

COLLABORAZIONE CON Stella_2000

"Rispondi!" gli fu nuovamente urlato contro, mentre si prendeva le bastonate sulla schiena nuda e ormai piena di lividi.
Emetteva sempre e solo piccoli gemiti, Duncan, tappandosi le orecchie per non sentire le parole di quel nazista, che spesso urlava così forte da farsi male alle corde vocali e sentirle stridere nella gola. Sudava sempre, mentre lo prendeva a bastonate e dopo un po' si fermava, affaticato e stordito dalle sue stesse grida, ansimando.
Per Trent, allora, crollava il silenzio nelle orecchie e l'unico rumore era il cuore, che gli martellava nel petto, arrabbiato e terrorizzato insieme e nonostante tutte quelle emozioni, incapace di spiaccicare parola. Strizzava sempre e solo gli occhi spalancati e brucianti, per far scendere quelle poche gocce d'ira che avevano la fortuna d'essere liberate lungo le sue guance.
Duncan, invece, non sapeva più cosa volesse dire la parola "silenzio": nella sua testa, si ricorrevano giorno e notte le grida e la paura di tutti coloro che aveva incontrato, anche certe parole di suo padre e di sua madre. Sentiva la voce di Courtney, forse ormai portata via. La voce di Gwen pareva quella di un angelo lontano ed irraggiungibile, ma forse era meglio così, che non vedesse!
"Rispondi!" strillò Scott.
"A quale domanda?" si chiese Duncan. "A quale delle tante domande che mi vengono fatte? Sono tutte diverse e provenienti da tantissime persone! Non vi seguo tutti!"
Continuavano tutti ad urlare e ad urlare, per lui era insopportabile! Sentiva tutti i rumori, nonostante le orecchie chiuse. Sentiva nitidi i passi di ogni individuo là dentro, di chi correva e di chi camminava; sentiva suoni sorpresi e felici. Sentiva rumori di terrore e poi ancora grida. Ma nessuna botta più!
E non vedeva quasi più niente, se non qualcosa di sfocato, là davanti, ma lontano. Un'ombra nera contro uno sfondo splendente, che forse gli tendeva la mano.
No? No!
Le mani erano su di lui, ma erano buone. Le sentiva stringerlo, come fosse una piccola bambola in braccio ad una bambina che non se ne voleva separare, mentre gli spari si facevano nelle sue orecchie. Si stava abituando a quella stonata armonia e la sentiva ormai così distintamente, che quasi non l'udiva più.
Così chiuse gli occhi, abbandonandosi a quelle dita che lo stringevano dolcemente, ma possessivamente; dita che lo accarezzavano con bontà e che parevano curargli tutte le ferite procurategli in quel tempo.
Forse sorrise persino, addormentandosi.
 
Ad un certo punto, Scott voltò la testa e guardò fuori da quella malandata finestra, rendendosi conto che qualcosa non andava: mai quelle creature avevano corso tanto veloce e mai si erano uditi così pochi urli disperati, in quel campo! Solitamente non avevano nemmeno la forza di rizzarsi sulle proprie gambe e loro li spronavano con le fruste e i manganelli, gridando parole in tedesco che quegli idioti totali non comprendevano, così da farli prendere forte per un braccio, alzare e continuare a camminare, facendoli strillare per aver toccato e fatto sanguinare tagli fatti in precedenza. Loro non avevano scarpe che facessero quel rumore sul terreno! I loro piedi erano sempre nudi, immondi da vedere, sempre sporchi e malati, nessuno mai correva senza emettere lamenti!
Lasciò perdere bellamente Duncan e Trent, sputando, però, nella loro direzione, e si diresse verso la porta, con le sopraciglia aggrottate.
La sbatté, con un insulto pronto ad uscire dalle labbra, quando la vista di quelle divise lo fece rabbrividire da capo a piedi. Le parole gli morirono in gola.
Rientrò nel capanno, per paura di essere visto e si rannicchiò in un angolo, facendo insospettire Trent: cos'aveva avvistato, così all'improvviso? Cos'era successo, chi c'era? Non l'aveva mai visto così terrorizzato, di solito era spavaldo più di chiunque, sicuro di sé e disprezzava chi gli fosse avverso per idee o anche semplicemente per Patria. Non capiva!
Ciononostante, ringraziò in cuor suo ogni persona che lo avesse ridotto in quello stato, per poi avvicinarsi al suo amante e mettergli la testa sulle sue gambe, passandogli carezze sulla schiena e guardandolo, sussurrandogli qualche parola nell'orecchio. Non era in sé!
Non perse mai di vista il rosso, ma a lui pareva non interessare affatto quello che stesse facendo il giovane dagli occhi smeraldini: era immerso nel suo terrore! Era un codardo e se ne rese conto allora: il coraggio non era combattere chi nemmeno sa impugnare un'arma, chi non si regge in piedi. Coraggio, non era essere più forti delle persone a cui tu hai tolto vita, speranza, umanità; non era togliere alla gente la capacità di guardarsi allo specchio, per paura di vedersi in volto.
In quel momento, avrebbe dovuto dimostrare le sue capacità, allora avrebbe dovuto guardare in faccia gli americani e combattere per i suoi ideali, per la sua nazione, per il Fuhrer, per essere l'orgoglio della sua famiglia, come questa aveva sempre detto che lui fosse!
Invece no!
E quando sarebbe tornato a casa, sarebbero stati felici di vederlo. Però, gli avrebbero chiesto quanti ne avesse uccisi, quanti prigionieri sarebbero morti sotto il suo manganello o le sue fruste, e quanti ne aveva portati ai forni. Gli avrebbero domandato chi fosse morto, tentando di proteggerlo, perché si sapeva fosse un onore morire per lui. Lui, Scott Voeller, il nuovo idolo di Berlino!
Cos'avrebbe detto? Bugie, bugie e bugie. Avrebbero creduto ad ogni parola, anche contro chi diceva che non era vero, anche contro chi diceva la verità, loro avrebbero creduto a lui, alle sue menzogne. Ci avrebbe creduto mezza Germania e forse sarebbe passato per un eroe!
Ma che sarebbe successo, quando si sarebbe svegliato urlando, colto dai rimorsi e dagli incubi, in preda alla pazzia di aver mentito alla Patria e alla famiglia, di non aver onorato la pura razza ariana?
No! Non poteva andare così. Lui si conosceva bene e vedeva già il suo futuro morto, se fosse stato lì, sperando di essere lasciato in pace da tutti, di essere risparmiato perché nessuno l'aveva visto!
Per cui, i suoi occhi s'accesero di una debole sete di gloria, mentre s'alzava e recuperava due fucili appesi alla parete, per poi dirigersi verso la porta, senza mai guardare i due prigionieri ancora sulla destra.
L'avesse fatto, avrebbe visto un Duncan ormai svenuto e un Trent più che mai stupito, dato che aveva visto il rosso sempre insicuro, anche quando s'era alzato, prendendo con sé le armi. Come si fosse spento quel fuoco freddo che lo animava quando li bastonava. Nei suoi occhi, le faville senza luce non esistevano più; c'era solo nebbia opaca d'inverno, neanche la tempesta. Vacue iridi grigie, che guardavano avanti senza più vita, quasi resesi conto di non avere più speranza né futuro.
Ed infatti era così: Scott sentiva che non avrebbe più avuto nulla, che tutto finiva lì ed allora. Che il suo futuro sarebbe stato in un luogo lontano, probabilmente sotto terra, pieno di fuoco; un luogo che forse avrebbe scaldato quel cuore di ghiaccio che si ritrovava. Ciò che lo consolava, era che tutti gli altri sarebbero andati con lui. Tutti quanti, perché chiunque cerca il fuoco, va nel fuoco.
Così uscì, affiancando i suoi compatrioti e urlando come un ossesso, sparando davanti a sé con gli occhi chiusi, prendendo molta gente, ma non sapendo chi, finché non venne preso lui, che cadde subito dopo.
Il terreno era freddo e si sentiva infinitamente solo, la sensazione più brutta che avesse mai provato, anche perché stava camminando in un tunnel pieno di luce. Andava verso una porta nera e poi giù, lungo delle scale, fino a non vedere più il cielo. Solo due passi ancora. Due passi dall'inferno.
 
Trent stette a lungo nel capanno, sempre tenendo stretto Duncan a sé, finché non piombò un assordante silenzio, meraviglioso silenzio: non si era mai reso conto della sua bellezza, prima di allora, ma in quel momento gli parve quasi di sentirvi all'interno una divina musica, con solo alcune voci a cantarvi dentro, voci di uomini.
"Trovato nessuno?"
"Sì, qualcuno sì."
"Sono in pochi!"
"Strano, tutti uomini!"
"Chissà, poi, perché quel segno sulle tuniche."
"Sono scheletri!"
"Ma cos'avranno fatto mai?"
E più parlavano, più la loro voce s'incrinava, finché non sfociava in un pianto, un pianto triste!
Quella gente era triste per loro? Perché erano così, perché i tedeschi li avevano maltrattati a quel modo? Nessuno aveva mai pianto per loro! Che dicevano, poi? Era una lingua che Trent non conosceva, non era fredda come il tedesco, ma nemmeno dolce come la sua lingua natale. Aveva suoni fluidi e puliti, tutti uniti e non si distinguevano bene le parole.
C'erano porte aperte e poi suoni sordi e termini in mille lingue, voci di coloro che erano là, espressioni spaventate.
Gli americani tendevano loro la mano, ma non si fidavano! Dovevano vedere un sorriso, prima di afferrare quelle mani tese e quando lo facevano, ci voleva uno sforzo enorme, da parte degli stranieri, per non mollare la presa, per paura di spezzare le loro dita. Spalancavano solamente gli occhi, nel sentire le ossa spigolose nel palmo della mano.
I più forti li guidavano su carri, per portarli via, mentre gli altri stavano immobili per alcuni secondi a guardare quei corpi morti e pallidi in viso, per poi continuare a cercare, smossi dai compagni.
Quando aprirono la porta dove Duncan e Trent stavano, il ragazzo dagli occhi verdi strinse il giovane tedesco di più a sé, facendo aggrottare la fronte a quegli uomini che erano venuti a prenderli.
Il quadro che si piazzava loro davanti era il più inquietante che avessero visto là dentro: quei due giovani avevano più sfregi degli altri e sanguinavano di più. I volti erano fitti di cicatrici e graffi sporchi, i corpi magri si vedevano sotto i larghi abiti e il ragazzo ancora sveglio sembrava la Morte, che abbracciava l'altro con le sue lunghe e sottili dita. Nonostante ciò, era uno dei pochi che pareva emettere calore e affetto per qualcuno. Il ragazzo sulle sue ginocchia sembrava sereno.
Capirono chi stava lì dentro e quando Trent s'accorse che s'erano fatti più vicini, prese il suo amante tra le braccia e fece cenno loro di guidarli. Non erano tedeschi e anche se avevano capito la natura sua e di Duncan, non li disprezzavano, per cui si fidò di loro. Non così tanto da affidargli il suo amore, però!   
Erano liberi e da quel momento non avrebbero più dato ascolto a nessuno, se ne sarebbero andati da quella dannata nazione e mai più avrebbero fatto ritorno. Se avessero potuto, avrebbero viaggiato, ma in caso contrario, sapeva che non sarebbero comunque stati infelici. Mai, purché insieme.
 
Una mano fresca gli carezzava la fronte, facendogli dolere i graffi che portava come ricordo. Passava sulle guance e poi a pulirgli il petto, tremando un po', alla vista di tutti quei tagli e di quelle cicatrici ancora parecchio aperte.
"Ehi! Tutto bene?"
"Sì …" Annuì, distogliendo lo sguardo. "Sì, sì!"
Il ragazzo allungò una mano e prese il panno che aveva la ragazza con un sorriso, per poi mettersi a curare il corpo martoriato del suo amante.
Gwen lo continuava a guardare, incapace di capire come facesse a non impressionarsi ad una tale vista, dopo tutto quello che aveva passato. Pensava non volesse più vedere corpi del genere, mentre non faceva che curarne, da quando era arrivato. S'era concesso solo una doccia breve e poi, stupendo tutti, s'era messo a servire dove c'era bisogno.
Si erano incontrati poiché anche la giovane era tornata, con suo padre, per dare una mano agli alleati. Aiutava anche lei, mentre suo papà assisteva i soldati. Aveva visto ormai tanti corpi sfregiati, ma solitamente doveva solo dar loro da mangiare o fargli compagnia. Era stata una sorpresa trovare Duncan tra loro, in braccio ad un ragazzo. Si ricordava di lui, quello che aveva una voce bellissima, gli aveva lasciato una moneta! E quando l'implorò di aiutarlo, in tedesco, capì anche la "colpa" del suo amico d'infanzia.
Aveva cercato di aiutarlo subito, ma si era bloccata davanti al suo petto, mentre quel ragazzo che aveva scoperto chiamarsi Trent, era andato sul sicuro, quasi l'avesse già fatto.
"E' da molto che è svenuto?" chiese Gwen.
"Da prima che arrivaste voi." rispose il ragazzo, stando però attento a dove andava a toccare Duncan. "Scott stava …"
"Scott Voeller?!" l'interruppe, stupita.
Fece sì con la testa.
"Lui è …" tentò d'informarlo.
"Lo so!" L'aveva visto.
"E quindi, vi amate voi, è così?" chiese poi Gwen, andando su argomenti più leggeri, ma comunque delicati.
Lei sorrise, ma Trent sussultò: non l'aveva mai ammesso davanti ad una ragazza tedesca, ma solo dinnanzi a persone che l'avevano bastonato soltanto per quello, perché amava!
La giovane s'accorse di aver toccato un tasto dolente senza accorgersene, per cui distolse lo sguardo un secondo: non voleva, davvero! Lei trovava che fosse assolutamente normale che due uomini si amassero e questo perché pensava l'amore indipendente dal sesso delle due persone.
Si morse il labbro e pose una mano su quella di Trent. "Non era mia intenzione essere indelicata, perdonami!"
"Nulla!" rispose lui, sorpreso. "Solo ... non ti scandalizza? Non ci vedi come esseri ripugnanti?"
"Gli esseri ripugnanti sono quelli che vi hanno giudicato. E per giunta colpevoli, colpevoli di amarvi!" rispose Gwen, sorridendo amara e scuotendo la testa.
Il giovane ricambiò spontaneamente, per poi rimettersi a curare l'amore della sua vita.
"Verrete a stare da me, quando tutto sarà finito!" decise di punto in bianco la ragazza, facendo fermare Trent, che la guardò con occhi spalancati.
Lei annuì. "Non siete più da soli!"
"Mm ..."
Un mugugno strano fece ridestare lo straniero dallo stupore, per poi guardare al suo amante, che finalmente riapriva gli occhi, lamentandosi.
"Ah! Brucia tutto!" Storse il volto in un'espressione di dolore, che mutò in tranquilla, quando sentì due labbra morbide sulle proprie e carezze gentili sul volto.
"Duncan, finalmente!" sentì dire, ancora mezzo appisolato, dalla voce di Trent. "Sei sveglio!"
Si sentì abbracciare e ricambiò, mentre metteva a fuoco il mondo attorno a sé. Vedendo Gwen, si stupì, ma poi si concentrò sul dolce sorriso di Trent dinnanzi al suo viso. Questo gli diede un altro bacio, mentre la giovane toglieva gli occhi da quella romantica immagine.
"Trent ... Dormo da molto?" chiese, cercando di ignorare l'amica d'infanzia alle sue spalle.
"Un paio d'ore." gli rispose, sempre felice negli occhi.
"Dove siamo?"
"Via. Sono arrivati gli americani, siamo liberi!"
Il cuore del giovane perse un battito. Liberi. Liberi, liberi, liberi! Erano liberi, nessuno li avrebbe maltrattati più! Avrebbero potuto viaggiare, davvero, andare via e non tornare? Lasciarsi dietro ogni cosa e semplicemente andarsene?
"Ti amo!" disse solo, scuotendo la testa, ancora incredulo, per poi baciarlo di nuovo, assaporando il suo sapore dopo tanto tempo e trovandolo il più buono che avesse mai avuto tra le labbra e sulla lingua, nonostante la raffinatezza della gastronomia cui era abituato quando ancora si riteneva ariano. Anche se un po' sapevano ancora entrambi di sangue e polvere.
"Anch'io ti amo!" Lo stese nuovamente a letto, non riuscendo a staccarsi dalla sua bocca, continuando a carezzarlo su una guancia e stando attento a non forzare troppo con le dita sulle ferite.
Fu solo quando sentirono i lievi passi di Gwen, che stava avviandosi fuori, che si voltarono a guardarla e lei portò le mani avanti, sorridendo. "Vi prego, non badate a me!"
"Gwen!" si allargò in un sorriso anche Duncan, contento di vederla. "Cosa ci fai qui?"
"Non é importante, sul serio! Stavo per andarmene!" Continuava a sorridere.
"Non ti scandalizza, Gwen?" domandò Duncan dubbioso, con la fronte aggrottata e lei scosse la testa. "Mai scandalizzarsi nel vedere l'amore!" disse.
"Tu stai bene?" fece poi il tedesco a Trent, che annuì felice. "E tu?"
"L'unica cosa che mi addolora e`che la mia Patria abbia fatto cose così spregevoli!" fece cupa lei, facendo scurire anche gli altri due e Duncan in particolare. "Ma ora, verrete a stare con me in Svizzera!" tornò poi ad assicurare la ragazza, facendo aprire la bocca all'amico. "Davvero?" I due annuirono.
"Ti bacerei!" esultò il giovane.
Lei rise, facendo un cenno verso Trent e mostrando la sua espressione serena. "Bacia e ama lui, lo merita!"
Dopodiché uscì, senza dare altre spiegazioni, lasciando i due amanti a baciarsi ed abbracciarsi. Col passare dei minuti, azzardavano anche qualcosa di più, andando ad ascoltare i loro cuori con una mano. Battevano forte, mentre la mente e le parole rifiutavano il passato, pur ricordandolo sempre. Come si fa per un brutto incubo e solo guardando le cicatrici si ricordavano fosse stata realtà. Ma in quel momento, solo un ricordo.

"Grazie Gwen!" le sorride Duncan, vedendo la camera che la ragazza ha riservato per loro.
E' bella, non lussuosa com'era quella della sua vecchia villa, ma accogliente, grande abbastanza per entrambi e che sa di casa.
Per Trent é un sogno: non aveva mai avuto una camera tanto bella, né un letto così grande, comodo e morbido. D'istinto, abbraccia la ragazza, stupendola. "Grazie mille, Gwen."
Risponde cauta, sorridendo al fidanzato del ragazzo, che annuisce, un po' divertito.
"Ora vado. La cena sarà pronta tra poco e mio marito arriverà più tardi." fa poi lei, avviandosi per uscire.
"Ovviamente, lui sa che ...?" s'assicura Duncan, mordendosi il labbro.
"Non preoccupatevi!" Fa sì con la testa e poi si dilegua, volendo lasciarli soli al più presto.
Appena chiusa la porta, i due si guardano, per poi congiungersi in un bacio, in un abbraccio ed in una carezza sulla pelle che mostra loro ciò che é stato. Si baciano le cicatrici, le toccano e ogni volta sembrano curarle un po', con un semplice sfiorarle. Intrecciano le dita e non mancano di guardarsi negli occhi, per non dimenticarli mai e di sorridersi, per scacciare la malinconia che a volte li prende entrambi. Tra le coperte, Duncan continua ad accarezzarlo leggermente, senza smettere di fissarlo negli occhi, finché non li vede brillare. Guarda dietro sé: la luce é spenta, ma s'intravede un candelabro. Accendono la candela e guardano la fiamma.
"Perdonare, ma non dimenticare!" deglutisce Duncan.
Trent annuisce. "Mai dimenticare!"
No, non vogliono essere malinconici, ma se lo sono ripromessi: loro non moriranno mai! Non li conoscevano, fa nulla! Il calore dell'affetto è ciò che rende umani gli umani.
E è il fuoco a rendere più vivi i ricordi.


WRITTEN BY Angelo Nero
 


§ L'Angelo racconta §
 
E con questo, finiamo :)
 
Buongiorno a tutti!
Questo è il mio finale poiché, come sempre accade con noi, ne facciamo due, in modo da accontentare entrambe ;)
Stella pubblicherà il suo quando l'avrà scritto e … che dire? Aspettatevi qualcosa di diverso, ecco!
 
Visto che è l'ultima volta che ci sentiamo, un immenso grazie a tutti coloro che hanno letto/recensito/preferito/ricordato/seguito/visualizzato (ho dimenticato qualcuno?) questa storia! Grazie mille davvero!
 
E grazie anche a Stella, che ha queste idee fantastiche e che le condivide con me e poi anche con voi che leggete: mi stai contagiando con la tua mentalità e ora sento davvero di essere più aperta, ti ringrazio infinitamente! <3 Un bacio enorme <3 <3 <3 <3
 
Detto ciò, alla prossima, spero.
 
Grazie ancora, un inchino,
Angelo
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2837323