elysium

di seeyouthen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** hollywood, hollywood ***
Capitolo 3: *** falling's just like flying ***
Capitolo 4: *** this is the story of amelia pond ***
Capitolo 5: *** back in black ***
Capitolo 6: *** o' death ***



Capitolo 1
*** prologo ***


elysium



prologo

 

 

 

 

 

 

Castiel cadde.
Non fu come cadere dal Paradiso; fu ancora peggio. Sentì il freddo entrare nelle ossa mentre lui era incapace di abbandonare il suo tramite. Il battito del suo cuore era veloce solo come quello di una persona in preda alla paura sapeva essere.
Si sentiva in gabbia.
Non riuscì nemmeno a volare. Era senza alcun potere.
Durante la caduta pensò di essere diventato cieco.
Si diede dello stupido, però, perché si rese conto di vedere. Intorno a lui regnava la totale assenza di colore, ma vedeva. E sapeva di essere immerso nel vuoto.
Il bianco non lo aveva mai spaventato: era il colore dell'anima, del paradiso, della luce, del suo stesso reale corpo; in quel momento invece ne era terrorizzato.
Chiuse gli occhi ma provò ancora più paura. Il suo stomaco si ribaltò e sentì un senso di vuoto profondo. Riaprì gli occhi e guardò in alto. Pregò.
Sembrò passare un'infinità di tempo ma alla fine sentì che la sua caduta era quasi finita. Poteva percepirlo sulla pelle, su quella pelle umana che era stata colpita, lacerata, ricucita, ma anche sfiorata tante volte dal giorno in cui il suo tramite l'aveva accettato dentro di sé. Era una pelle che ormai sentiva sua.
Si ricordò dei giorni che aveva vissuto, dei sorrisi, delle risate, ma anche del dolore e delle lacrime e prego un'altra volta.
Mancava poco, lo sapeva.
Presto sarebbe finito tutto.
E prima di morire, Castiel pensò a Dean Winchester.













NdA: hello everyone! finalmente mi sono decisa a scrivere questa superwholock. perché sì, ci sto pensando da mesi e sì, lo hiatus ha avuto pessime conseguenze sulla mia sanità mentale. 
vorrei solo ringraziare danae98, la mia cara beta, e tutti coloro che stanno leggendo questo, perché se siete qui vuol dire che almeno un pochino sono riuscita ad incuriosirvi. spero di esserci riuscita abbastanza da farvi aspettare il primo, vero capitolo, dove arriveranno i winchester e il dottore. e si sa che dove vanno loro, vanno anche i disastri apocalittici. 
bye all xxx

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Capitolo 2
*** hollywood, hollywood ***


capitolo uno
hollywood, hollywood
 
 
 
 
 
Era un pigro pomeriggio di metà settimana a Londra e Clara dormiva pesantemente sulla poltrona blu del salotto, la tazza di tè ormai freddo ancora posata sul tavolino di legno di fronte a lei.
Si era addormentata mezz'ora prima, mentre guardava distrattamente la tv.
Aveva viaggiato con il Dottore un'altra volta, solo un'altra volta dopo aver salvato Gallifrey dalla distruzione totale. Era passata una settimana – Clara non ne era sicura, forse contando il tempo passato nel TARDIS erano due – e lei sognava quelle immagini in maniera così nitida che durante il sonno ancora le capitava di trattenere il fiato, o di risvegliarsi con il respiro affannoso.
Quel pomeriggio stava sognando il fuoco che divampava nella città, alto e spaventoso, i bambini che gridavano, i Dalek che uccidevano il popolo.
Udì il suono del TARDIS, ormai familiare e piacevole quanto la voce di un caro amico, ma con gli occhi non trovava la cabina tra la devastazione di Arcadia.
«Clara. Clara, sono io», mormorò la voce del Dottore. Una mano si posò sui suoi capelli. Clara spalancò gli occhi e il potente blu del TARDIS la fece trasalire. Il Dottore, che si era seduto sul bracciolo della poltrona, sorseggiava il suo tè.
«Cosa succede?», gli domandò sfregandosi gli occhi assonnata.
«Niente, sono solo venuto a trovarti», rispose lui con un sorriso. Clara lo osservò sottecchi, non troppo convinta, e ridacchiò.
«Allora, dove vuoi andare?», chiese il Dottore ignorando le sue occhiate. Si alzò e le tese una mano, per aiutarla ad alzarsi. Clara la afferrò e si lasciò tirare su, ancora intontita dal sonno.
«In un posto tranquillo», biascicò lei.
«Bene, cosa ne dici di, uhm...». Il Dottore ci pensò su, ma sembrò non riuscire a trovare nulla di adatto. Non conosceva posti tranquilli, Clara lo sapeva.
«Voglio andare in America», gli disse allora aprendo le porte del TARDIS.
«America?», domandò il Dottore con disapprovazione, «Hai tutto il tempo e lo spazio a disposizione e scegli l'America?».
Lei entrò nella cabina, facendo finta di nulla. «Allora, perché sei venuto ora?».
Il Dottore la seguì, portandosi dietro la tazza di tè. «Te l'ho detto, è una visita di cortesia».
Clara, che prima era di spalle, si voltò di scatto piantando i suoi occhi castani in quelli di lui. «Per quanto tempo sei stato via, Dottore?».
«Ho solo fatto una visita su Marte...», mormorò lui, la voce che si spegneva pian piano, «Okay, hai vinto, mi mancavi. È passato qualche mese, qui dentro».
Clara si avvicinò e gli stampò un rapido bacio sulla guancia. Dal giorno in cui i tre Dottori si erano incontrati il Dottore aveva un unico pensiero fisso: Gallifrey. Lei capiva come tutta quella situazione lo avesse sconvolto, tuttavia vederlo in quelle condizioni – sempre alla disperata ricerca di casa, confuso, in preda agli affanni – la rendeva triste.
«America, allora? Magari Hollywood. Possiamo essere due star, per oggi, e semplicemente divertirci un po'», esclamò appoggiandosi alla consolle del TARDIS.
Il Dottore annuì e le sorrise, iniziando ad impostare le coordinate.
Clara osservò i propri vestiti e sbuffò. «Dovrò cambiarmi, non posso andare a Hollywood con i pantaloni del pigiama», commentò avviandosi verso il guardaroba.
Indossò un abitino casual, rosso, trovato in un angolo sperduto della stanza.
Era felice. Felice che il Dottore fosse tornato e che lei gli fosse mancata.
Canticchiava tra sé allegramente quando il Dottore gridò dalla sala comandi. La voce dell'uomo arrivò lontanissima alle sue orecchie.
«CLARA! NON MUOVERTI DA QUELLA STANZA, QUALSIASI COSA ACCADA!».
La ragazza trattenne il fiato, in attesa di altri rumori. Non udì più nulla, se non le porte del TARDIS chiudersi per lasciare spazio al silenziò più pensante che avesse mai udito. Era così denso che poteva quasi sentirlo tra le dita. Il cuore le batteva all'impazzata nel petto.
Incanalò tutta l'aria che poteva nei polmoni cercando di calmarsi.
Il più silenziosamente possibile, camminò fino alla sala comandi, dove la consolle brillava della solita luce, senza emettere alcun suono.
Osservò lo schermo che mostrava l'esterno, ma era tutto nero. Non si azzardò a toccare alcun tasto, ma si avvicinò alle porte. Non seguì l'ordine del Dottore, naturalmente.
Con calma, sospirando, aprì la porta. Lo spettacolo che le si stagliò davanti agli occhi era terrificante.
Si trovava in un grosso magazzino in disuso, scuro, dalle pareti alte e imponenti. Era macabro, là dentro. La figura di un uomo si intravedeva in un angolo. Non era molto alto – sicuramente più di lei, ma questo accadeva con pressoché qualsiasi essere dell'universo – e sembrava stare sussurrando da solo. Clara avanzò esitando.
«Hello, Clara», disse la figura ad alta voce.
Sobbalzò, spaventata. Sapeva il suo nome. Lui conosceva lei ma lei non conosceva lui. Un ingrediente fondamentale e inquietante di una brutta avventura.
«Chi sei?», domandò la ragazza cercando con tutte le sue forze di controllare il tono di voce. Quando era agitata diventava sempre troppo acuto e le parole si susseguivano troppo velocemente una con l'altra.
«Crowley, re degli incroci, demone», le rispose l'uomo voltandosi verso di lei con un sorriso. Sembrava quasi amichevole. In maniera terrificante, ma amichevole. Forse non era un punto a favore per salire di grado nella scala di persone amichevoli essersi appena definito demone come se fosse la cosa più naturale del mondo, ma Clara non aveva recepito la parola, quindi il pensiero non la sfiorò nemmeno.
«Come?», si lasciò sfuggire, interdetta.
«Oh, non dirmi che hai viaggiato nello spazio e nel tempo e non hai mai visto un demone», domandò l'uomo con strafottenza. «No? Mai?», aggiunse vedendo lo sguardo perso di Clara. Fece un passo avanti e la flebile luce di una lampadina gli illuminò chiaramente il viso arrogante. Ora che poteva vederlo bene in faccia, Clara notò gli occhi attenti, guizzanti, e la piega delle labbra sempre ironica, quel completo nero che voleva farlo sembrare importante.
Sospirò, prendendo coraggio. Quell'uomo non poteva davvero essere un demone. Era solo un qualche idiota di turno, doveva essere così. O almeno doveva far finta di crederci, per affrontarlo.
«Dov'è il Dottore?».
Crowley sorrise, sfilando le mani dalle tasche dei pantaloni.
«Proprio qui», annunciò spostandosi di lato e indicando una sedia alla quale il Dottore era stato legato. Teneva la testa bassa, ma Clara sapeva che era stato imbavagliato, altrimenti in quel momento avrebbe parlato a dismisura, tirando fuori entrambi da quello sporco magazzino. Non voleva nemmeno prendere in considerazione l'idea che potesse essere svenuto o morto.
Clara fece per corrergli incontro, ma Crowley la bloccò, afferrandola per le spalle, e la trattenne. Il suo viso era troppo vicino a quello della ragazza, che rabbrividì.
«Non puoi andare da lui, è contro le regole del gioco», mormorò alzando le sopracciglia scure.
«E quali sono le regole, allora?», sputò allora lei tra i denti, trattenendo l'urlo che cercava di nascere con prepotenza dal fondo della sua gola.
«Tu ancora non credi che io sia un demone, vero?», domandò Crowley allontanando il viso dal suo e mollando la presa su di lei. Sembrava divertito.
Clara portò le mani alla bocca quando gli occhi dell'uomo diventarono due pozze profonde di sangue, completamente rossi. Sentì la forza prosciugarsi in ogni muscolo del suo corpo, ma si costrinse di stare ferma.
«Sei così adorabile», commentò Crowley quando i suoi occhi furono tornati castani, «Capisco perché il Dottore ti porta in giro con lui. Diventi tutta occhi1 quando vedi qualcosa di nuovo. Sei divertente».
«Come, scusa?», esclamò la ragazza, l'orgoglio che si arrampicava su per la cassa toracica e la trachea, dominandola come sempre.
Crowley rise.
«Ora basta, tigre, è ora di iniziare a lavorare seriamente». Clara tese tutti i muscoli del suo corpo cercando di ribellarsi quando le mani del demone si strinsero con forza su di lei, trascinandola su una sedia a fianco del Dottore.
Ogni tentativo di liberarsi fu inutile e venne imprigionata.
Crowley, nei minuti successivi, si perse in un teatrale discorso nel quale voleva spiegare per quale motivo lei e il Dottore fossero lì. In sostanza, non disse nulla. Passeggiava avanti e indietro per la stanza, a volte sfiorando un tavolino che Clara prima non aveva notato sul quale erano posati oggetti di dubbia provenienza dall'aria spaventosa.
La farsa andò avanti per troppo tempo, fino a quando il Dottore non parlò.
«Hai parlato abbastanza, Fergus. Sai bene che non rivelerò nulla».
Crowley sorrise maligno. «Dottore, io non voglio farti del male, ma capisci che non posso tornare dal capo a mani vuote. Se voglio informazioni, io le ottengo. Sai per cosa sono famoso, ai piani bassi, oltre che per le mie eccezionali capacità organizzatrici degne del migliore dei re? Per la tortura. È il mio secondo hobby, oltre a stringere patti con idioti umani. Di solito mi dedico alla tortura il venerdì sera, ma per questa settimana potrei fare un'eccezione e spostarlo al mercoledì pomeriggio».
Il Dottore non fece una piega, sembrava una statua. Clara, in tutte le sue vite, non l'aveva mai visto così inespressivo. Tuttavia riusciva a cogliere sotto quella maschera di pietra una forte impronta di rabbia.
«Io non dirò nulla a Lucifero».
Clara sentì la sua mascella staccarsi dal resto del viso per finire a terra, mentre il cuore iniziava a pompare a velocità tripla il sangue nelle vene.
«A chi-?», domandò con voce rotta, che moriva in gola mentre deglutiva a fatica.
«Maledizione, Dottore, la tua ragazza è un po' stupida. Sei sicuro che sia quella giusta?», commentò aspramente il demone prima di rivolgersi a Clara, «Sai chi c'è a capo dell'Inferno, tigre? Il Diavolo. Che sorpresa, eh?».
«E cosa vorrebbe il Diavolo da noi?», chiese la ragazza, che pian piano cercava di riprendere il controllo di sé.
«Alt, alt, da lui, non da te», la corresse Crowley. «Hai presente quelle grosse crepe luminose che si porta in giro per l'universo da qualche anno? Ecco, stanno creando un po' di casini, qua in giro. Sembra che da quando la sua ex dai capelli rossi è morta due universi paralleli si stiano fondendo. Lucifero vuole sapere come far funzionare questa altalena tra i due mondi, fine della storia».
«Io non dirò nulla a Lucifero», ripeté il Dottore, gelidamente.
Crowley rise ancora.
La mezz'ora successiva fu la peggiore dell'intera vita di Clara. Non era mai stata torturata e non aveva mai visto il Dottore subire tutti quei colpi, uno dietro l'altro, senza reagire, senza sorridere e cavare tutti fuori dalla situazione.
Era così che finiva allora? Sarebbero davvero morti in un vecchio magazzino, lentamente, per mano di un demone degli incroci che prendeva ordini da Lucifero?
Il TARDIS, blu, sfavillante in quello spettacolo di desolazione, sembrava piangere insieme a lei. Sì, Clara piangeva. Non per il dolore, non per la consapevolezza di stare per morire. Piangeva perché l'uomo migliore che avesse mai conosciuto, quello per cui aveva dato la vita così tante volte da non sapere nemmeno lei quante, stesse morendo a un soffio da lei, senza che potesse farci nulla. Era disperata.
«Basta», disse con voce ferma a Crowley, raccogliendo le forze rimaste, «basta».
«Clara, cosa sta-» iniziò il Dottore, spalancando gli occhi, il primo barlume di emozione nei suoi occhi che faceva capolino. Crowley lo zittì con prepotenza, uno schiaffo in pieno viso che lasciò il segno.
«Continua, tigre, ti ascolto».
«Lascialo andare e ti dirò tutto». Era l'unica soluzione, o sarebbero morti entrambi. Era sempre stato così, in fondo. Era sempre morta per dare al Dottore una speranza, l'avrebbe fatto anche quella volta.
«Tutto cosa? Credi di essere preziosa quanto lui?».
«Ho viaggiato nel tempo. Mi sono gettata nella sua linea temporale, ho vissuto migliaia di vite accanto a lui. Ho visto anche io cosa accade là fuori». Non stava pianamente dicendo la verità, ma era l'unica possibilità che aveva. Non ricordava tutto ciò che aveva visto, ma quello che sapeva sarebbe stato abbastanza per fermare tutto, forse.
«Allora, ragazza, cosa mi dici della crepa? Come funziona?».
«La crepa non funziona. La crepa esiste perché due parti dello spazio e del tempo che non dovrebbero mai incontrarsi si stanno avvicinando sempre di più. Se salti nella crepa, vieni spazzato via dall'universo. Sarà come se non fossi mai esistito».
«Clara...», soffiò il Dottore, con tanta tristezza nella voce che una parte di Clara morì per averlo deluso.
«Devo sapere altro. Perché i mondi si mischiano?».
«Io- io non lo so. Dev'esserci qualcosa di più grosso, sotto. Dev'esserci un portale per il Vuoto, da qualche parte».
«Il Vuoto?», la incalzò il demone. Si era proteso verso di lei, immagazzinando ogni parola dentro di lui.
«Lo spazio tra i mondi paralleli è il Vuoto. Il nulla. Il portale è in un luogo dove c'è una grande concentrazione di energia», spiegò la ragazza.
Crowley sorrise e le accarezzò il viso. Clara si impose di non rabbrividire e chiuse gli occhi, mentre un'ultima lacrima le bagnò la guancia.
«Sei stata brava. Aspettatemi qui».
Il re degli incroci sparì con uno schiocco di dita.
 
* * *
 
Dean Winchester sfrecciava tra le strade di una piccola cittadina sconosciuta a bordo della sua Chevrolet Impala del '67 mentre fuori il cielo iniziava a scurirsi. Sam, suo fratello, guardava nervosamente fuori dal finestrino.
Avevano perso le tracce di Pestilenza, uno dei quattro Cavalieri dell'Apocalisse, da giorni ormai, ma avevano trovato quelle di Crowley grazie a Bobby. Quell'uomo trovava qualsiasi fottuto ago in qualsiasi pagliaio. Dean se ne rendeva conto sempre di più in quel periodo.
E così i Winchester erano partiti alla volta di un magazzino abbandonato, per dare una lezione a quel figlio di puttana che li aveva illusi raccontando tutta la favola sul fatto che la Colt avrebbe ucciso Lucifero. Come no. Dean si era ritrovato mezzo morto ai piedi di un albero e se non fosse stato per Castiel sia lui che suo fratello sarebbero ormai un mucchietto di cenere disperso nell'aria.
«Ecco, è in quel magazzino», annunciò Dean, indicando un punto distante. Sam annuì.
«Conviene parcheggiare a distanza, sarà pieno di demoni».
«No, in realtà no», rivelò la voce di Castiel, appena apparso sul sedile posteriore con quel familiare battito d'ali che Dean ormai sentiva dappertutto.
«Cas, cazzo!», gridò Dean inchiodando, «Sai, inizio a credere che morirò qui, in questa macchina, per colpa di una tua apparizione inquietante stile Harry Potter. Altro che morire in battaglia».
Castiel piegò la testa di lato, confuso.
«Di cosa stai parlando, Dean? Non voglio che tu muoia. E chi è Har-».
«Cas, è tutto okay, davvero», tagliò corto Sam, alzando gli occhi al cielo esasperato.
Dean ghignò nel buio e parcheggiò la macchina. «Cosa dicevi dei demoni?», domandò poi a Castiel.
«L'edificio è protetto solamente da due demoni e da alcuni simboli per non far entrare gli angeli, ma con qualcuna di queste», spiegò l'angelo tirando fuori dal trench con aria soddisfatta due bombolette spray, «dovreste riuscire a eliminarne l'effetto».
Dean annuì, afferrando una bomboletta. Sorrise guardando l'aria compiaciuta di Castiel, che a quanto pare era riuscito ad entrare in un negozio per prendere delle bombolette spray di sua spontanea volontà. Aveva inserito oggetti umani nel suo piano, senza suggerimenti. Davvero da 10+.
In pochi minuti, lui e Sam modificarono tutti i sigilli enochiani lasciando libero accesso a Castiel nel magazzino.
Il primo pensiero di Dean entrando in quel luogo fu che era davvero disgustoso. Buio, sporco e disgustoso. Peggio delle solite location scelte da Crowley.
«Non è qui», lo informò Castiel, posando una mano sulla sua spalla, che Dean osservò di sbieco per un attimo prima di ricominciare a guardarsi intorno. Non era il momento di giocare ai migliori amici.
«Dov'è, il bastardo?», mormorò fra i denti.
Il magazzino era immerso nel silenzio assoluto. Forse era solo una trappola o una stramaledetta presa per il culo. Dean propendeva di più per la seconda, ed era molto irritante.
«Dean! Cas!», esclamò la voce di Sam, scomparso nel buio pesto una manciata di minuti prima, «Venite qui».
Sam, nella desolazione di quel magazzino, aveva trovato due ostaggi. Uno dei due era il soggetto più strano che Dean avesse mai visto – dopo Cas, ovviamente. Indossava una camicia bianca, una giacca di tweed e un orribile farfallino rosso. In più, era praticamente senza sopracciglia e i suoi capelli erano la versione più corta e piastrata di quelli di suo fratello. La ragazza, invece, era una tipa minuta, dal viso pieno incorniciato da lunghi capelli castani nel quale splendevano un paio d'occhi grandi.
Entrambi erano coperti di sangue. Le labbra dell'uomo erano rotte, la sua guancia destra percorsa da un sottile e lungo taglio, il naso probabilmente rotto. Era molto vicino allo svenimento. La ragazza sembrava in migliori condizioni, ma non doveva cavarsela troppo bene nemmeno lei.
Sam la sollevò, prendendola in braccio, nonostante le sue numerose proteste, mentre Dean e Cas si occuparono dell'uomo.
«Il TARDIS, dobbiamo tornare nel TARDIS», mormorava quello come una litania.
«Cosa?», domandò Castiel.
«La cabina blu, dobbiamo tornare lì dentro... è più grande all'interno».
«Sta tornando... Crowley sta tornando», soffiò la mora.
Aveva ragione. Crowley apparve in un attimo, da solo. Dean non esitò e sfoderò il coltello di Ruby, pronto all'attacco, lasciando l'uomo nelle mani di Castiel.
«Hello, boys», salutò il demone con tranquillità, «Avete portato anche faccino d'angelo, oggi».
«Oh, sta' zitto, Crowley. Abbiamo cose più importanti da fare che stare ai tuoi giochetti», ringhiò il cacciatore. La rabbia montava dentro come una belva, dal petto fino alla gola.
«Afferrato, calmati. Non ho intenzione di combattere. Verrò con voi. Sono ufficialmente un vostro prigioniero, squirrel», disse velocemente Crowley alzando le mani in segno di resa. Sam alzò un sopracciglio, non troppo convinto. Dean non abbassò l'arma.
«Moose, dai, non fare quella faccia. Su, ragazzi, non siate melodrammatici, mi sto arrendendo. Visto?». Con un movimento della testa accennò alle mani alzate e sorrise.
«Dammi un buon motivo per non ucciderti, Crowley, davvero», ringhiò Dean stringendo la presa intorno all'impugnatura del coltello, fino ad avere le dita bianche e doloranti.
«Senti, se avessi voluto farvi eliminare dai miei demoni ne avrei piazzati due in più un po' più svegli e sareste morti. Invece vi ho lasciato l'ingresso libero. In più ho appena parlato con il vostro angelo caduto preferito e quindi potreste avere bisogno di informazioni. Ma sto solo ipotizzando».
Dean sbuffò.
«Bravo ragazzo, sai che da morto sono molto meno utile», esclamò il demone.
Il cacciatore, seccato, si voltò verso Castiel e vide che non stava più sorreggendo l'uomo con il farfallino. Quello, infatti, stava camminando a passi incerti verso una cabina blu della polizia che prima di allora nessuno aveva notato. Era del blu più blu sulla faccia della terra, aka lo stesso colore degli occhi di Cas.
L'uomo tirò fuori una chiave dalla tasca della sua giacca e aprì le porte.
«Hey, dove credi di andare?», lo chiamò il Winchester raggiungendolo con un paio di falcate.
«Nel mio TARDIS. Portate dentro Clara, devo assicurarmi che non sia ferita gravemente», annunciò prima di entrare in quel buco di cabina. Dean lo afferrò per la giacca, credendo che fosse solamente un pazzo, con qualche problema causato dalle torture del caro re degli incroci.
«Senti, amico...».
«Sono il Dottore», lo corresse l'uomo quando ormai erano entrambi dentro il TARDIS.
Dapprima Dean vide solo di sfuggita l'interno della cabina e credette di avere le allucinazioni. Poi, dopo aver mollato la giacca di tweed del Dottore – poi, Dottore chi? - si guardò intorno esitando, con più attenzione, e ciò che vide fu lo spettacolo più bello della sua vita.
Si trovava in un'enorme astronave. Proprio come nei film. Continuò ad andare dentro e fuori con la testa, passando una mano sul legno blu della cabina, senza coglierne tuttavia il profondo mistero.
«Cazzo, Sam, è più grande all'interno».



 
1Semi-citazione di Twelve in Listen.




NdA: hello, boys! okay, forse non è il caso di fare il crowley della situazione.
eccoci al primo capitolo, dove la situazione inizia a farsi abbastanza complicata. si accettano scommesse su cosa succederà in seguito, hehe. 
grazie a tutti quelli che hanno aggiunto le storie nelle seguite, nelle preferite e a coloro che hanno recensito. sono commossa, aw. e non dimentichiamoci la mia fantastica beta danae98, che legge tutti questi scleri, sempre, e mi sopporta ogni giorno. 
ci si rivede tra qualche giorno, bye xxx

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Capitolo 3
*** falling's just like flying ***


capitolo due
falling's just like flying
 
 
 
 
 
Dean stava osservando il Paradiso. Anzi, quel posto era migliore del Paradiso, visto che l'ultima volta in cui vi era stato – era passato davvero poco da quel giorno – aveva seriamente rischiato la morte. Quel TARDIS era bellissimo e sicuro. Gli sembrava davvero di essere in un film. Si sentiva come il Capitano Kirk sull'Enterprise, più o meno.
Si sarebbe sentito sicuramente ancora meglio se non fosse stato in compagnia di due moribondi, dei quali uno era il proprietario dell'astronave, e di un demone che sorseggiava tè con Lucifero nel tempo libero.
Crowley era stato accuratamente incatenato alla ringhiera della sala comandi dal Dottore stesso, che evitava di guardarlo negli occhi, probabilmente, ipotizzò Dean, per trattenersi dal picchiarlo. Clara si era addormentata sulle scale, usando la giacca di Sam come cuscino.
«Dottore...? Cosa sta succedendo?», domandò il minore dei Winchester con incertezza. Quell'uomo con in farfallino sembrava sul punto di scoppiare, e Dean sentiva nella voce del fratello il timore di essere la goccia che fa traboccare il vaso.
«Qualcosa di sbagliato sta accadendo nello spazio-tempo. Due realtà si stanno mescolando e Lucifero vuole la chiave per sfruttare tutto a suo vantaggio. Qualunque cosa ci sia dall'altra parte, dev'essere qualcosa di grosso. Io... io devo indagare, e voi non dovreste stare qui», spiegò brevemente il Dottore, intento a premere tasti e a tirare leve sulla consolle della macchina.
«Noi siamo dentro quanto te. Se Crowley fa cazzate, è anche affar nostro. Lucifero è affar nostro. L'Apocalisse è affar nostro», lo interruppe Dean.
Castiel posò una mano sulla spalla di Dean proprio come aveva fatto all'entrata del magazzino, guardandolo come una mamma paziente fa con il figlio che ha appena disobbedito. «Dean, quest'uomo è appena stato torturato, dovresti essere più gentile».
Dean sbuffò. «Ma che hai tu, oggi? La bastardaggine angelica è magicamente scomparsa?».
Per qualche minuto, il silenzio calò nell'astronave.
Dean passò camminando dietro il Dottore, che osservava un display con concentrazione. Vide una sua fotografia, insieme a quella di suo fratello, di Cas, di Crowley. Il Dottore doveva possedere uno schedario, dove erano tutti catalogati. Oltre ad avere un'astronave, adesso aveva anche libero accesso agli affari loro?
Dean lesse velocemente la sua scheda e il sangue si gelò nelle vene.
 
NAME: Dean Winchester
BORN: 24-01-1979, Lawrence, Kansas, USA, Earth.
STATUS (2010): Resurrected
DEATH: 15-05-2009 and 20-05-2014
PROFESSION: Hunter, Soldier of Heaven, True Vessel of Michael, Knight of Hell
SPECIES: Human (originally), Demon (2014), Horseman (temporarily)
 
Demone. Cavaliere dell'Inferno. Non era possibile. Il suo cuore si fermò per un attimo, sobbalzando. Il respiro si fece difficile. Ogni volta che ispirava aria sembrava che milioni di spilli torturassero i suoi polmoni.
«Che cos'è questo, Dottore?», chiese Dean.
L'uomo sussultò, poi si voltò ad osservarlo con sguardo duro. «Non avresti dovuto vederlo».
«Beh, ormai l'ho fatto. Cos'è questo, il mio futuro o che diavolo?».
«Sì», rispose quello. «Il TARDIS può viaggiare anche nel tempo. Conosce il futuro, ha visto ogni angolo di tempo e di spazio esistente».
Dean rimase in silenzio.
«Non hai niente da dire? Non sei nemmeno un po' stupito?», domandò il Dottore alzando le sopracciglia.
«Dottore, ho visto e fatto troppe cose assurde per stupirmi, e tra quelle c'era anche il viaggio nel tempo. Anche se di solito sono quei bastardi degli angeli a fare casino...», ammise lanciando un'occhiata a Cas. Il Dottore seguì il suo sguardo e un angolo della sua bocca si alzò.
«Lui non è come gli altri, vero?».
«Per niente. Almeno, non lo è più», disse Dean con un sorriso che aveva in sé qualcosa di amaro. Cas era così fragile, così puro e ferito allo stesso tempo rispetto al giorno in cui si erano incontrati. Si schiarì la voce. «Comunque, dì al tuo TARDIS che non ho intenzione di finire così. Già una volta hanno cercato di impormi il mio destino e ho scatenato l'Apocalisse con mio fratello. Cambierò il futuro».
Sam, che si era appena avvicinato e aveva afferrato solo quelle ultime parole, fece per chiedere spiegazioni, ma Clara si svegliò e attirò l'attenzione di tutti. Cercò di mettersi a sedere, ma si prese la testa tra le mani appoggiandosi nuovamente agli scalini. Il Dottore fece per avvicinarsi a lei, ma Castiel lo precedette, le due dita tese e pronte al piccolo miracolo che stava per compiere. La ragazza, dapprima intimorita, arretrò di qualche centimetro, ma Castiel sorrise e la guarì.
Il viso di Clara si aprì in un grande e luminoso sorriso riconoscente. Ringraziò mille volte, con le parole che si accartocciavano le une sulle altre per la velocità assurda con cui le pronunciava. Poi dedicò la sua attenzione al Dottore, e i suoi occhi acquistarono vita e calore. Saltò in piedi e lo abbracciò con forza, sorridendo.
Il Dottore, per la prima volta in quel giorno, sorrise. I segni della tortura svanirono dal suo viso.
A distruggere quel quadretto di breve felicità, giunse il suono di un telefono – un'astronave davvero poteva avere un telefono?
Il Dottore corrugò le sopracciglia, sorpreso e quasi impaurito, la mano che si torturava i capelli. Clara gli posò una mano sul braccio, desiderosa di sapere cosa stesse accadendo, così come tutti i presenti. Il Dottore premette un tasto blu e la voce di una bambina - ipnotica, inquietante - inondò la stanza.
 
Verrà il giorno in cui
la Tempesta arriverà,
il Vento soffierà
e l'Anima combatterà di nuovo.
 
Rileggerai un capitolo,
ne salterai uno
e riscriverai il terzo.
 
Perché la Tempesta arriverà,
il Vento soffierà
e l'Anima combatterà di nuovo.
 
Il Guerriero comincerà a credere,
l'Arciere si rifiuterà
e il Cavaliere dispererà nel futuro.
 
Quando la Tempesta arriverà,
il Vento soffierà
e l'Anima combatterà di nuovo.
 
Perdonato sarà l'angelo che tradì,
imprigionato il fratello
e il Caduto vedrà con occhi diversi.
 
Se la Tempesta arriverà,
il Vento soffierà
e l'Anima combatterà di nuovo.
 
L'Alfiere Nero raggiungerà la vetta,
un Pedone sarà distrutto
ma la Regina Bianca muoverà scacco al Re.
 
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«Sono coordinate», commentò Sam. «Hai intenzione di seguirle?».
Il Dottore si lasciò scappare un breve sorriso. Sembrava che tutta la paura fosse semplicemente svanita. «Ovviamente».
Clara rise e il Dottore guardò i Winchester in attesa. Dean colse la domanda che nessuno dei due aveva pronunciato, ma che aleggiava nell'aria. Lanciò un'occhiata al fratello e a Cas e annuì. I due nuovi amici usciti da Ritorno al Futuro sorrisero.
Erano appena diventati una maledettissima e male assemblata squadra che stava per lanciarsi nello spazio e nel tempo e, strano a dirsi, l'umore generale era decisamente migliorato.
Dean si domandò cosa avesse fatto di male nella vita per ritrovarsi in mezzo a un gruppo di amanti del pericolo e riconoscere di essere uno di quelli, perché, dopo aver preso in considerazione tutte le opzioni possibili, giunse alla conclusione che solo il karma poteva punirlo in quel modo.
 
* * *
 
Il Dottore schiacciò mille tasti e tirò ancora più leve, mentre la consolle del TARDIS iniziava a rumoreggiare in un modo abbastanza spaventoso anche secondo gli standard di Dean. E i suoi standard non erano bassi, anzi, decisamente al di sopra della media.
In realtà, tutto stava prendendo una stranissima piega e se nemmeno Cas – il quale si guardava in giro sconvolto – riusciva a capirci qualcosa voleva dire solamente che stavano affrontando un problema davvero grande. Non che questo scalfisse la sua determinazione, ma forse aveva bisogno di qualche risposta, come capire davvero il motivo per il quale era entrato in una dannatissima cabina telefonica blu trovandoci all'interno un laboratorio da film fantascientifico. Sinceramente non lo trovava. Forse era troppo ubriaco. Forse sapere di essere destinato a diventare un demone lo stava uccidendo dall'interno, rallentando le sue facoltà cerebrali.
I suoi pensieri furono presto interrotti da uno strano suono metallico e persistente che stava inondando tutto quello che, a detta di Clara, era solo l'atrio della nave spaziale.
«Che diavolo è?», si lasciò scappare Sam mettendosi le mani sulle orecchie. Clara gli lanciò un'occhiataccia tale che abbassò le mani in una frazione di secondo. Dean si lasciò scappare una risatina divertita.
«È il TARDIS che decolla» spiegò la ragazza mentre il Dottore continuava a osservare un display dopo l'altro sulla consolle con le sopracciglia corrugate.
«Dottore, c'è qualche problema?» chiese Dean, ma prima che riuscisse a finire la frase il TARDIS iniziò – su questo il cacciatore non aveva dubbi – a ringhiare.
«TENETEVI!» gridò il Dottore un attimo prima che la cabina fu scossa come da un fortissimo terremoto, buttando quasi tutti a terra.
Clara gridò qualcosa al Dottore e lui le rispose, ma Dean non riuscì a capire nemmeno una parola. A poca distanza da lui c'era Sam, che gli urlava a sua volta una frase riguardo alle porte.
«Non ti sento!» sbraitò in risposta. «Questo maledetto aggeggio fa troppo rumore!».
Se prima Dean aveva ritenuto gli scossoni seriamente forti, poi dovette ricredersi: riuscì a fatica a rimanere attaccato alla ringhiera vicino alla porta quando nuove scosse iniziarono a colpire il TARDIS e vedeva Sam, dal lato opposto e qualche metro più avanti, fare tanta fatica a tenersi quanto lui. Il Dottore teneva stretta la mano di Clara ed entrambi erano attaccati alla consolle. Crowley era bloccato dalle manette, ma stabile. L'unico che Dean non riusciva a vedere era Castiel.
«CAS!» gridò, ma non udì nessuna risposta. La preoccupazione salì fino alla gola, impedendogli di parlare nuovamente. Doveva essersi addentrato in qualche stanza dell'astronave.
Vide gli occhi del Dottore, puntati su uno schermo, riempirsi di paura mentre i suoi si guardavano intorno senza freno alla ricerca dell'angelo.
Dannazione, Castiel, dove sei?, pensò stringendo sempre di più le mani sul metallo freddo del TARDIS.
In quel momento ci fu un'ultima, violenta, scossa e le porte della cambia si spalancarono. Dean capì cosa gli aveva detto Sam e cosa aveva gridato Clara. Le porte non sono chiuse. Era così vicino all'apertura da poter vedere alla perfezione lo sconfinato spazio esterno spezzato da un enorme crepa luminosa. Era bella quanto agghiacciante, Dean non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Le urla di tutti i viaggiatori si riversarono nella stanza mentre il TARDIS si inclinava di lato e Dean perdeva la presa. All'ultimo momento riuscì a spostarsi a sinistra, gettandosi contro al muro. Il pavimento ormai era quasi verticale.
Fu in quell'attimo che rivide Castiel. L'angelo rotolava a terra cercando affannosamente qualcosa a cui appigliarsi e avvicinandosi sempre di più alle porte aperte della nave. Dean allungò una mano e per qualche idilliaco secondo riuscì a stringere le sue dita intorno al polso gelido di Castiel, mentre quelle dell'angelo facevano lo stesso con il suo. Erano per metà nel Vuoto e per metà sul TARDIS, in bilico tra la vita e la morte.
«Non mollare» gridò Dean mentre Cas cercava con il fiato spezzato di cingere il suo braccio anche con l'altra mano, «Non ti lascerò cadere».
Sembrò che il TARDIS stesse ricevendo colpi a raffica sulle pareti laterali e il contatto tra i due si spezzò.
Negli occhi chiari di Cas la speranza fu sostituita all'istante da puro terrore, mentre le dita si muovevano ancora cercando di ritornare a toccare la pelle di Dean. Il tempo rallentò.
Dean vide Castiel cadere dal TARDIS senza staccare gli occhi dai suoi e subito gli si gettò dietro. Non sarebbe riuscito a salvarlo ma almeno avrebbe affrontato la morte con lui. Allungò le braccia e lo stesso fece Cas, sulle labbra di uno il nome dell'altro, ma Sam lo bloccò stringendogli la mano intorno al braccio e impedendogli di compiere quell'ultimo passo che lo separava dal vuoto. Non aveva nemmeno sentito il fratello arrivare.
Dean udì il Dottore e Sam gridare forse il suo nome o forse altro, ma le loro voci arrivarono lontanissime alle sue orecchie, mentre gli sembrava di udire alla perfezione perfino il rumore dell'aria che si spostava durante la caduta di Castiel.
Guardò gli occhi dell'angelo un'ultima volta prima che questo venisse inghiottito dalla crepa luminosa e che il TARDIS fosse spazzato via nel tempo e nello spazio troppo lontano da lui.
All'atterraggio nessuno parlò ma nella cabina blu aleggiavano mille parole non dette, proprio come nel cuore di Dean. Si era buttato sul gradino con il viso scomposto in una smorfia di dolore, un dolore forte come se gli avessero appena squarciato a metà il petto. Sam fece per dire qualcosa, ma si zittì non appena Dean si alzò asciugandosi una lacrima e camminando verso le porte che durante il volo si erano richiuse.
«Dean» disse il Dottore con voce spezzata posandogli una mano sulla spalla e bloccandolo. «Mi dispiace».
Dean non rispose. Non gli interessava più nulla, voleva solo tornare a casa e dimenticare tutto. Niente aveva importanza. Cas era perduto.
Senza pensarci passò una mano sul braccio, proprio dov'era impressa l'impronta della mano di Castiel.
Poi dimenticò.
 
* * *
 
Erano stati prelevati.
Il Dottore si risentì di nuovo come il giorno in cui aveva (forse, quella breve parola lo tormentava) salvato Gallifrey, il giorno in cui, a Londra, Kate Lethbridge-Stewart l'aveva fatto brutalmente rapire dalla UNIT.
E, come la volta precedente, anche quel giorno era a Londra, nonostante l'aria fosse diversa. Sì, c'era qualcosa di strano, di aspro, nell'aria. L'aveva sentito nei polmoni e l'aveva percepito sulle papille gustative quando si era affacciato e aveva visto i tetti della città sotto di sé.
Nel TARDIS, tutti si domandavano dove stessero andando. Clara rideva per la faccia terrorizzata di Dean, che aveva sbirciato dalla finestrella il panorama insieme al fratello.
«Cazzo, già mi ha sempre fatto schifo volare, poi dopo aver rischiato la morte nello spazio.. perché tocca sempre a me rischiare di morire o morire e basta?», si sfogò con Sam.
«Non so, forse perché ritorni indietro tutte le sante volte?», ironizzò il fratello. «Beh, alla fine siamo sopravvissuti tutti anche questa volta, quindi non lamentarti».
Il Dottore sentì una fitta al cuore. Si erano dimenticati di Castiel proprio come Amelia Pond, anni prima, si era dimenticata della sua famiglia e di Rory Williams prima e di lui dopo. Lei, alla fine, era sempre riuscita a ricordare. Quella volta, il Dottore non sapeva cosa sarebbe successo, invece. Non sapeva se quel due ragazzi sarebbero riusciti a richiamare dal Vuoto il loro amico come Amy aveva fatto con lui e non sapeva nemmeno se fosse possibile, in quella situazione.
«Dottore», si sentì chiamare. La voce apparteneva a Crowley, che per tutto il viaggio era rimasto in silenzio, facendo finta di non esistere.
Quando il Dottore si voltò verso di lui e vide i suoi occhi, capì che ricordava. Insieme a lui stesso, era l'unico a ricordarsi di Castiel.
«Lo so. So cos'è successo. Perché non a me, però?».
«Perché sei un demone, credo. Non lo so. E non mi piace non sapere1».
«Okay, comunque... starò zitto. Penso di doverti un favore, visto ciò che ti ho fatto», tagliò corto Crowley.
Il Dottore sorrise. Un sorriso breve, incerto, prima di concentrarsi sul display del TARDIS. Vi si leggeva a chiare lettere: London, Earth.
«Grazie, Sexy, ma cosa mi sai dire riguardo all'Universo? L'aria è strana», commentò facendo schioccare la lingua.
Prima che Clara potesse fare qualsiasi domanda – l'aveva vista, con la bocca semi aperta e le sopracciglia aggrottate in quell'espressione esilarante – la porta del TARDIS si aprì.
Un uomo li osservava in cagnesco. Dietro di lui, almeno un dozzina di uomini armati li teneva sotto tiro.
«Sono Mycroft Holmes e vi ordino di lasciare la cabina con le mani in vista per ordine del governo britannico», disse con voce piatta.
 
* * *
 
Tutto il gruppo fu chiuso in una stanza spoglia, che il Dottore riconobbe come una delle stanze di Buckingham Palace. Era vuota, senza via d'uscita. Dieci uomini armati erano dentro con loro, due erano fuori a controllare la porta.
Dovevano essere considerati molto pericolosi, perché tutti e dieci gli uomini non facevano altro che lanciare occhiate spaventate al gruppo, soprattutto ai Winchester. Per non parlare dell'effetto che faceva il TARDIS. Al Dottore veniva solamente da ridere, come a Clara del resto. Si erano seduti entrambi su un tavolino, facendo dondolare le gambe, mentre Crowley si guardava intorno annoiato. Aveva ancora addosso le manette, non più legate al TARDIS ma alla gamba del tavolo.
«Dov'è andato Mr. Felicità?», domandò Dean a un soldato, che s'impose di non sussultare. Dean sapeva essere davvero scortese, osservò il Dottore. E molto sarcastico.
«Mh, non saprei, ma l'ho trovato un tantino arrogante ed egocentrico», commentò Clara storcendo il naso. «Perché devo sempre essere circondata da persone egocentriche?».
«Io non sono egocentrico!», esclamò il Dottore seccato.
«Oh, sì, lo sei», lo rimbeccò Clara. Il suo tono non ammetteva repliche. Il Dottore udì Sam, Dean e Crowley ridacchiare.
«Voi dovreste stare dalla mia parte», si lamentò.
«E per quale motivo?», chiese Clara alzando un sopracciglio.
«Uhm – sinceramente non lo so, non posso sapere tutto, Clara, è difficile tenere tutte queste cose nella testa e poi dover rispondere anche alle tue domande».
«Vedi? Egocentrico e arrogante», concluse lei trionfante. Il Dottore sbuffò, anche se in fondo si stava divertendo, e Clara gli tirò una leggera gomitata.
Sam si schiarì la gola, per richiamare la loro attenzione.
«Sta tornando qualcuno».
Il Dottore tese l'orecchio e udì un rumore di passi.
«Sono in tre. Due uomini e una donna. Uno dei due uomini è basso, sicuramente molto basso – mai quanto te, Clara, non agitarti – mentre gli altri due sono alti».
«Amico, sei sinceramente molto strano. Tra il farfallino e questo...», commentò Dean, ma il Dottore gli fece segno di stare zitto.
«Sono quattro, quattro!, mi ero sbagliato», andò avanti come se il cacciatore non avesse parlato, «e conosco quel modo di camminare».
Rifletté, cercando di ricordare a chi potessero appartenere quei passi, ma fu interrotto dalla porta che si apriva.
Nella stanza entrò Mycroft insieme a due uomini: uno era molto alto, dai capelli ricci e neri e gli occhi brillanti illuminati da un'intelligenza fuori dal comune; l'altro molto basso, con una zazzera di capelli biondicci e gli occhi blu e gentili.
Quello con i capelli neri voltò leggermente la testa per parlare con la donna – doveva essere una donna, i passi erano chiari – dietro di lui, finendo di raccontarle qualcosa di divertente, stando alla piega soddisfatta della sua bocca e all'espressione seccata dell'amico di fianco a lui.
«...e questa è la storia di come ho rovinato la proposta di matrimonio di John».
«Quindi per te è questo che basta dire? Versione breve: non sono morto?», rise la donna.
Il Dottore smise di respirare. Conosceva quella voce, quasi come la propria. L'aveva udita in ogni sua sfaccettatura, per anni, l'aveva sentita esclamare il suo nome con affetto e pronunciare le parole che gli avevano spezzato il cuore.
«Non è possibile», sussurrò, incapace di dire altro.
Quando la donna posò i suoi occhi sul TARDIS, la sua reazione sembrò essere uguale a quella del Dottore. Fece scorrere gli occhi rapidamente, in sua ricerca.
E poi i loro sguardi s'incontrarono. Il Dottore percepì le emozioni che scaturivano da quegli occhi castano chiaro quando si tuffarono nei suoi.
Alla fine si erano ritrovati.
Era impossibile ma in quel momento non importava. Poteva essere anche un'allucinazione, un sogno, qualsiasi cosa, ma era tutto polvere al vento in confronto alla persona che gli sorrideva.
Perché davanti a lui c'era Amelia Pond, ed era troppo, troppo tempo che non la stringeva tra le sue braccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1Citazione di pressoché ogni show della BBC in cui Steven Moffat ha un minimo di potere decisionale. Okay, seriamente, questa frase è stata ripetuta spesso sia dal Dottore (Eleven e Twelve) che da Sherlock Holmes.





























NdA: eccoci qui di nuovo! finalmente sherlock e john sono arrivati, per gioia di tutti. e anche una certa redhead è tornata tra noi. sto esultando anch'io perché amy mi manca troppo, mannaggialabbc.
come sempre, la prima a venire ringraziata nella lista è la mia beta e compagna di scleri, danae98, che possiede anche il copyright sulla meravigliosa poesia che abbiamo in questo capitolo. ha pazientemente ascoltato tutto ciò che mi sarebbe piaciuto metterci dentro e ha creato questa fighissima opera. un applauso a lei *batte le mani allo sfinimento*. 
grazie anche a tutti quelli che hanno recensito, aggiunto tra le seguite e tra i preferiti, come sempre, e anche a tutti coloro che hanno semplicemente letto. 

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Capitolo 4
*** this is the story of amelia pond ***


capitolo tre
this is the story of amelia pond
 
 
 
 
 
Un anno prima, 2009
 
Amy si risvegliò su un marciapiede, nel centro di Londra.
«Rory», fu ciò che uscì dalle sue labbra, come un soffio, non appena riuscì a recuperare le facoltà di parola. Un uomo, di fronte a lei, le tastava la testa con tocco gentile. Tutto, intorno a lei, appariva sfocato, perfino il viso del suo soccorritore, che si limitava ad essere un ammasso indistinto di ombre e colori.
«No, sono John, sono un dottore», le disse pacato l'uomo aiutandola a mettersi a sedere. Intorno a loro si era creato un piccolo gruppetto di spettatori, che quel John cercava di mandare via senza farsi notare da lei.
«Dottore?», chiamò Amy portandosi una mano alla fronte.
«Tranquilla, è tutto okay», le rispose John gentilmente. «Non ti agitare».
«Dov'è Rory?», domandò lei, impaurita. Cercava di trovarlo in mezzo a tutto quel caos, ma non riusciva a mettere a fuoco nemmeno l'asfalto sul quale era seduta.
«Shh, calma. Respira, tra poco andrà meglio».
«Non ne sono così certa», ribatté lei storcendo le labbra dolorante.
«Fidati di me, sono un dottore», ripeté John.
Amy sospirò e attese. La sua vista migliorò davvero, insieme al dolore alla testa, che tuttavia continuava a presentarsi a piccole fitte, fastidioso e pungente. Se per un attimo Amy si era illusa di essere nelle mani del Dottore, si ritrovò delusa. Davanti a lei, inginocchiato con aria apprensiva e cordiale, vi era un uomo sulla quarantina, un medico londinese del tutto ordinario. Intorno a loro le persone iniziavano ad andarsene, annoiate dai risvolti banali che aveva preso la situazione.
«Grazie», gli disse Amy, cercando di rimettersi in piedi a fatica. John la aiutò ad alzarsi.
«Di niente, è un dovere. Non voglio allarmarti, ma credo che tu abbia appena avuto un calo di zuccheri. È un fenomeno comunissimo, quindi non c'è nulla di cui preoccuparsi, ma per evitare che accada di nuovo vorrei essere sicuro che tu beva un tè, almeno», spiegò rapidamente il medico con un sorriso.
Amy alzò un sopracciglio.
«Stai cercando di abbordarmi?», domandò tagliente posando le mani sui fianchi.
«Santo cielo, no! Sono sposato!», esclamò l'altro, visibilmente sconvolto. Poi risero entrambi.
Amy era grata della preoccupazione che quell'uomo le stava riservando. «Allora accetto volentieri».
 
* * *
 
Il bar in cui John la accompagnò era piccolo e accogliente. Le pareti erano color crema, l'arredamento in legno, i piattini e le tazzine disegnati finemente.
Amy si sedette ad un tavolo e tirò fuori il cellulare dalla tasca del parka. «Scusa, devo chiamare una persona», disse a John.
Lui annuì sorridendo e andò al bancone ad ordinare due tè.
Amy cliccò il tasto di chiamata rapida e attese la riposta di Rory. Tuttavia il telefono non iniziò nemmeno a squillare. Il numero era inesistente, ma Amy non volle nemmeno pensare alla possibilità che fosse morto: aveva visto la data sulla sua tomba e sapeva che Rory aveva avuto una vita lunga.
Chiamò allora il TARDIS, ma ebbe la stessa sorte.
Gli occhi si riempirono di lacrime non appena si rese conto di aver perso le due persone più importanti della sua vita.
Una sorta di senso di colpa, di responsabilità le schiacciò il petto, impedendole di respirare regolarmente. Rory era rimasto solo, senza che lei potesse raggiungerlo, intrappolato in un tempo non suo. Forse avrebbe trovato qualcun altro con cui condividere i suoi giorni, qualcuno disposto ad amarlo e a prendersi cura di lui, ad amarlo. Forse avrebbe avuto un figlio, un'altra moglie, una vita felice. Ma sarebbe sempre stato lontano da lei, pensando che sua moglie fosse rimasta con il Dottore pronta a continuare la sua vita senza di lui. Ma la vita di Amy era finita nell'istante in cui aveva smesso di guardare quell'angelo, cercando di venire trasportata nella stessa epoca di Rory. Ricordò gli occhi disperati del Dottore, i suoi singhiozzi, le sue preghiere, e il cuore si sbriciolò nel suo petto. Tutta quella sofferenza non era servita a nulla.
«Il dottore è tornato», sorrise John tornando a sedersi. Amy sollevò gli occhi su di lui e vide il viso dell'uomo scurirsi all'istante. «Cos'è successo?».
Amy si asciugò gli occhi velocemente e cercò di sorridere. «Affari di famiglia».
John non rispose, probabilmente sia per non essere invadente che per non dover avere a che fare con una ragazza in lacrime e ad Amy andava bene così. Non avrebbe saputo cosa dire, altrimenti. Non poteva certo raccontare di aver perso il marito mentre causava paradossi temporali con sua figlia e il suo migliore amico alieno.
Si allacciò ad una linea wi-fi libera e mise in pratica tutto ciò che i viaggi con il Dottore le avevano insegnato. Si infiltrò nei registri e scoprì che nessun Rory Williams era mai nato a Leadworth. Scoprì che nemmeno Leadworth era mai esistito e che la UNIT non aveva mai incontrato il Dottore.
Infine cercò se stessa. Amelia Jessica Pond. Nessuno al mondo portava quei tre nomi. Semplicemente, lei non era nessuno. Doveva essere finita in un universo sbagliato, ma non capiva in che modo. Aveva semplicemente smesso di guardare l'angelo.
Sorseggiò lentamente il suo tè, cercando di calmarsi, mentre John si guardava intorno leggermente imbarazzato. Improvvisamente sentì alcuni passi rapidi avvicinarsi al suo tavolo. John sobbalzò.
«Sherlock, che diavolo ci fai qui?», domandò sconcertato. L'uomo, ormai vicino, gli lanciò uno sguardo penetrante per alcuni istanti prima di sedersi tra lui ed Amy, senza togliersi il lungo cappotto nero.
«Ho trovato un nuovo caso, John, e tu non rispondevi al telefono. Così ho cercato il tuo telefono con il GPS e sono venuto qui».
«Non puoi controllarmi con il GPS!», sbottò l'altro offeso. Sherlock alzò le spalle e ignorò l'ultima frase dell'amico. Osservò Amy, studiandola con due occhi azzurro ghiaccio che sembravano leggerle l'anima.
«Chi è lei, John?».
Amy rimase impassibile, mentre John rispondeva di non saperlo. Una parte di lei stava cercando di costruire una barriera per impedire a tutte quelle emozioni – disperazione, smarrimento, dolore – che la realtà dei fatti le aveva causato di straripare in un oceano di lacrime, mentre l'altra si domandava se davvero stesse bevendo il tè con l'investigatore più famoso al mondo che viveva fuori dal suo tempo.
Allungò una mano verso l'uomo, meccanicamente. «Sono Amelia Pond», si presentò.
«Sherlock Holmes», rispose quello. L'aveva detto davvero. Sherlock Holmes. «Allora, Amelia Pond, come hai conosciuto John?».
Amy tacque un istante, voltando lentamente il viso verso il suo soccorritore, che doveva essere il dottor John Watson. Era stata salvata da John Watson. Il dottore alzò gli occhi al cielo, come se fare domande inquisitorie alle nuove conoscenze fosse un rito del suo migliore amico.
«Sono svenuta e quando mi sono svegliata era di fianco a me», spiegò la ragazza.
«Dimmi tutta la verità», la incalzò Sherlock avvicinandosi a lei, un riccio nero che gli cadeva in modo disordinato sulla fronte.
«Questo è ciò che è accaduto, perché dovrei mentire?».
John storse il naso. «Santo cielo, Sherlock, ha avuto un calo di zuccheri, lasciala in pace».
«Ora gli zuccheri sono tutti al loro posto e lei sta mentendo. Cosa ti è successo, Amelia? Da dove vieni?», domandò il detective con voce dura.
Amy fu colta alla sprovvista. Non poteva dire Leadworth, o l'avrebbe scoperta. «Dalla Scozia».
«Questo era chiaro, ma da quale città?».
«Inverness».
«Hai vissuto sempre ad Inverness?». Sherlock tirò fuori per un attimo il suo cellulare, digitando qualche tasto prima di poggiarlo sul tavolo, esattamente di fianco a quello di Amy, con un sorriso soddisfatto.
«No, anche a Londra e New York», inventò Amy, ricordando alcuni tra gli ultimi luoghi in cui era stata con il Dottore e Rory. Scacciò il pensiero del marito e del migliore amico. Era ancora troppo presto per ripensare a loro.
«E dove siamo, allora?».
Amy lanciò uno sguardo rapido all'angolo della strada, ma da quel punto del locale non riusciva a vedere il nome della strada. Si morse un labbro, colta in flagrante. Quindi sfoderò l'unica arma che le era ancora rimasta: la fuga. Si alzò, infilando in tasca il telefono rapidamente. «Senti, Sherlock Holmes, non puoi fare tutti i tuoi giochetti da investigatore privato con me, non ne hai il diritto. Quindi sai cosa ti dico? Fatti gli affari tuoi, io me ne vado. Grazie per avermi aiutata, John».
Fece per andarsene, ma il telefono di Sherlock suonò e lui la trattenne per una manica del parka, mentre leggeva rapidamente un messaggio.
«Amelia Pond, sei in arresto».
 
* * *
 
Amelia Pond di Inverness non esisteva. Sherlock l'aveva sospettato fin dal primo istante. Quella ragazza dai disordinati capelli rossi non era una turista né una residente, e aveva un segreto che cercava disperatamente di nascondere. Peccato che nulla potesse rimanere celato per Sherlock Holmes. Un semplice messaggio e Mycroft aveva confermato ciò che lui aveva già dedotto.
Il consulting detective intrecciò le dita e appoggiò le mani unite sul tavolo. La donna sedeva di fianco a lui con gli occhi vuoti, fissi su un punto fuori dalla finestra. Si schiarì la voce prima di iniziare a parlare.
«Allora, Amelia. Puoi scegliere se parlare con me e confessarmi la tua reale identità, o se vedertela con la polizia».
Un sospiro si liberò dalla bocca della donna, facendosi spazio tra le labbra piene, truccate con un rossetto scuro che stava pian piano perdendo colore.
«Ti racconterò tutto, ma non voglio essere interrotta», esordì, la voce priva di emozioni. Teneva ancora gli occhi fissi verso l'esterno, senza nemmeno battere le palpebre.
«Fa' pure», la incitò Sherlock, sentendo John trattenere per un attimo il fiato accanto a lui. John, sempre gentile, sempre fiducioso nei confronti delle persone. Il più grande conduttore di luce di tutto il mondo.
«Mi chiamo Amelia Pond. Sono nata nel 1989 in Scozia. Sono sposata con Rory Williams dal 2010».. John la guardò come fosse impazzita, ma Sherlock la lasciò andare avanti, cercando di dedurre ciò che tuttavia ai suoi occhi restava celato. «Quando ero piccola avevo un amico immaginario – non interrompermi, John, ti prego. Si faceva chiamare il Dottore. Una volta cresciuta, è tornato a prendermi con la sua cabina blu che viaggia nello spazio e nel tempo e abbiamo vissuto meravigliose avventure. Oggi ci siamo detti addio. Esistono questi esseri nell'Universo, chiamati Angeli Piangenti. Sembrano normali statue di angeli, all'apparenza, ma sono in grado di uccidere o di mandare indietro nel tempo qualsiasi essere vivente, allo scopo di nutrirsi della loro energia temporale. Li abbiamo combattuti insieme a New York, ma un reduce ha preso mio marito e io mi sono lasciata prendere per stare con lui. Invece sono finita qui. So che non mi credi, Sherlock Holmes, ma gli Angeli sono reali. Sono più veloci di quanto tu possa immaginare, ma si possono muovere solamente se nessuno li sta guardando». Sherlock trattenne il fiato. «Hai capito, vero? È qui per me. Lo vedi anche tu». Sherlock seguì lo sguardo della ragazza, fisso su una statua decorativa di un angelo in cima ad un palazzo. Quella statua non era mai stata lì, ne era certo. Quando il consulting detective si voltò di nuovo verso la ragazza, lei batté le palpebre lentamente e l'angelo si spostò. «Non battere le palpebre, Sherlock Holmes. Gli angeli stanno arrivando».
 
* * *
 
Il giorno dopo
 
Amelia si svegliò con un sonoro sbadiglio alle nove e trenta del mattino. La luce s'insinuava solo attraverso un piccolo spiraglio tra le pesanti tende rosse della vecchia camera di John, offerta dal dottore con gentilezza quando Amy si era ritrovata con un'esigua quantità di dollari e sterline in tasca.
La camera era piccola ma accogliente: le pareti color crema erano calde e l'abat-jour sul comodino sapeva di piccoli momenti di quieta e solitaria lettura.
Amy si stiracchiò e si vestì rapidamente, indossando una t-shirt e un paio di pantaloni decisamente non nel suo stile. Si domandò da dove Sherlock avesse tirato fuori abiti da donna con così tanta velocità e facilità: mentalmente sì appuntò di domandarglielo in un momento di pausa tra le mille domande che l'uomo continuava a porle.
Amy aveva scoperto con stupore di aver incontrato un uomo che oltre ad essere una macchina deduttiva sapeva essere anche brillantemente ironico e sarcastico, due caratteristiche che lei apprezzava e che non a caso appartenevano anche alla sua personalità. Di John invece apprezzava i modi pacati, gentili, l'affetto puro e incondizionato che provava per Sherlock, la preoccupazione che nutriva per lei nonostante si fossero appena incontrati. Aveva scoperto che John si era sposato da poche settimane con Mary Morstan, in attesa di un bambino. Non si era sorpresa, avendo letto ogni romanzo di Doyle a sedici anni e conoscendo già a grandi linee le vite dei suoi nuovi amici.
Le possibilità che i fatti cambiassero, tuttavia, erano molteplici: Amy sapeva già che era possibile cambiare il passato, figuriamoci una vita fuori dal proprio tempo in un universo parallelo. Sperò con tutta se stessa che Mary Morstan non morisse. John non si meritava una simile disgrazia nella sua vita.
Stava ancora pensando al futuro di John Hamish Watson mentre, scesa al piano inferiore ed entrata in salotto, vide una piccola e anziana signora sistemare due tazzine di tè su un vassoio.
«Oh, buongiorno cara», la salutò con un sorriso gioviale la donna, «Sherlock mi ha detto che eri di sopra a dormire nella vecchia stanza di John e non sono passata a spolverare per non disturbarti. Vuoi un tè con dei biscotti?».
Amy sorrise alla donna che etichettò come Mrs. Hudson, la padrona di casa di Holmes, e annuì. «Sarebbe fantastico, non mangio da un po'».
«Vieni giù, così non devo fare di nuovo le scale. Sto invecchiando e queste gambe iniziano a darmi fastidio. Ma non ti ho ancora chiesto il tuo nome! Come ti chiami? Nemmeno Sherlock me l'ha detto, ma quel ragazzo non mi racconta mai nulla e mi tratta come la sua domestica...», si lamentò affettuosamente.
«Mi chiamo Amelia», disse la ragazza scendendo verso l'appartamento di Mrs. Hudson. Amelia Pond... come un nome delle favole. Era sempre troppo presto per ripensare a quella voce. «Amy, mi chiamano tutti Amy in realtà».
«Cosa ti è successo, Amy?», domandò la donna con curiosità mentre l'acqua bolliva, «Devi essere molto speciale per avere un posto in casa di Sherlock. Solo John l'ha colpito così tanto al primo incontro».
«Diciamo che come John anche io ho avuto un passato avventuroso», sorrise Amy gentilmente, cercando di far capire che l'argomento era delicato.
«Quando è arrivato John qualche anno fa pensavo che fosse il primo amore di Sherlock e ne sono ancora convinta», continuò Mrs. Hudson, «Poi però Sherlock se n'è andato per due anni e John ha trovato Mary. Magari sei la nuova Mary di Sherlock, visto che lui si è ritrovato solo».
«Oh, no, sono sposata», disse Amy in fretta, la lingua più veloce del cervello come sempre.
«Santo cielo, e dov'è tuo marito?».
Amy tacque. Non riusciva a dirlo. Non riusciva a dire che Rory era morto. Morto. Mrs. Hudson comprese e sospirò, posando il tè e i biscotti sul tavolo di fronte a lei.
«Sherlock e John sono usciti di buon'ora. Mi hanno chiesto di lasciarti un indirizzo. Ti aspettano lì per pranzo».
«Dove devo andare? Conosco abbastanza bene Londra, ci sono stata spesso con... un mio amico».
Mrs. Hudson sorrise alzando le sopracciglia. «St. Bart's Hospital».
«Perfetto, sarò lì a mezzogiorno», annunciò Amy afferrando il giornale del giorno dalla sedia vuota accanto alla sua. 30 Settembre 2009. “Perfetto, sono anche tornata indietro di tre maledettissimi anni”.
 
* * *
 
Amy si chiuse in bagno e pianse. Pianse per il Dottore, pianse per Rory, pianse per Melody. Tutta la sua vita si era semplicemente sgretolata.
Non avrebbe più avuto un marito o una figlia, né il suo migliore amico. In quel mondo non era nessuno e non aveva nulla. La consapevolezza di quella situazione la fece crollare.
Pianse come accade sempre quando si è disperati, con singhiozzi che tolgono il fiato, senza fare rumore. Le lacrime scorrevano veloci sulle sue guance, inondandole, e Amy le lasciava semplicemente andare, decisa a buttare tutto quel dolore fuori; come se piangere potesse sistemare le cose.
Ora che l'adrenalina del cambiamento e l'eccitazione per tutte le novità che aveva trovato in quell'universo si sentiva perduta.
Si guardò allo specchio e non si riconobbe. Come Sherlock Holmes aveva dovuto ammettere, lei non era nessuno.
Era stata una giornalista, una viaggiatrice del tempo, avrebbe voluto fare la scrittrice... ma era senza un'identità.
Pensò di restare da Sherlock, ma poi ricordò il carattere dell'uomo e si rese conto che in pochi giorni lui l'avrebbe mandata via. Il suo caso sarebbe stato risolto e nemmeno la gentilezza di John l'avrebbe salvata.
Si gettò dell'acqua gelida sul viso, cercando di inspirare quanta più aria possibile nelle pause tra un singhiozzo e l'altro.
Dopo qualche minuto riuscì a calmarsi, ma i suoi occhi erano ancora cerchiati di rosso, il suo viso distorto dalla tristezza. Non riusciva a trovare la forza di resistere. Ma avrebbe dovuto farcela, non aveva forse imparato questo dai suoi viaggi nello spazio?
 
* * *
 
Amy entrò al St. Bart's a mezzogiorno in punto e domandò alla reception dove poteva trovare il laboratorio di Molly Hooper, che a detta di Mrs. Hudson era un'amica di Sherlock e John.
Prese l'ascensore e andò nel seminterrato, incurante degli sguardi che la gente le rivolgeva. Doveva sembrare davvero disperata.
Entrò a passò svelto nel laboratorio e vide ciò che non si aspettava. John era seduto su uno sgabello, guardandosi intorno senza trovare nulla di meglio da fare, mentre Sherlock e quella che suppose fosse Molly analizzavano campioni in silenzio, uno di fianco all'altro.
«Ciao, Amy», la salutò John con un ampio sorriso.
«John», rispose lei cercando di sembrare il più felice possibile, senza tuttavia grandi risultati. «Come mai sono stata “convocata”?».
«Vuole metterti alla prova», spiegò il medico arricciando il naso. Evidentemente non gli andava a genio questo “test per la nuova arrivata”, così come ad Amy. Non le piaceva essere giudicata, non le era mai piaciuto. Tuttavia si sentiva sufficientemente pronta per affrontare tutto. Era riuscita a sconfiggere il Silenzio; un caso di Holmes non poteva essere più complesso o pericoloso.
Molly Hooper, una bassa e sottile dottoressa dallo sguardo simpatico, si avvicinò a lei sfilandosi in maniera impacciata un guanto.
«Sono Molly, un'amica di Sherlock», si presentò. Pronunciò la parola “amica” con esitazione, come se fosse una descrizione sbagliata o fin troppo audace.
«Amy», rispose la rossa stringendole la mano.
Sherlock non aveva nemmeno alzato gli occhi dal tavolo da lavoro.
«La prossima volta che mi dici di venire da qualche parte, sei pregato anche di calcolarmi», lo punzecchiò allora Amy, incrociando le braccia.
«Vieni qui, allora. Vorrei la tua opinione», replicò Sherlock senza nemmeno salutarla. Amy alzò gli occhi al cielo, mentre John e Molly la osservavano stupiti.
«Spiegami».
«Io e Molly abbiamo appena finito di analizzare questo campione di tessuto, l'unica traccia rimasta di un uomo scomparso in un parcheggio. Oltre alla composizione della stoffa e al DNA dell'uomo abbiamo trovato tracce di pietra. Per terra c'erano solo sono le chiavi della macchina. Qualche idea?». Sherlock la trapassò con un'occhiata penetrante. Amy si sentiva messa alle spalle da quegli occhi color del ghiaccio.
«Gli Angeli Piangenti», disse in fretta. Sherlock annuì.
«Amelia Pond, ti sto offrendo un posto nel team. Sei l'unica che conosce questa nuova minaccia e l'unica che sa come combatterla. Loro sono dei paradossi, viventi solo quando nessuno può vederli, e anche tu sei un paradosso, proprio come loro.».
Così, quel giorno di settembre del 2009, Amelia Pond diventò parte integrante del team di investigazione del più famoso e brillante uomo di Londra, nonché unico consulting detective del mondo. Occupò ufficialmente la vecchia camera di John al 221B di Baker Street, rimase una donna senza identità e iniziò anche a svolgere lavori di spionaggio per il fratello di Sherlock, Mycroft Holmes. In ventiquattro ore la sua vita era cambiata radicalmente, ma era riuscita a non crollare al suolo.









NdA: ehilà! eccoci al terzo capitolo, un po' di passaggio. dovevo spiegare tutta questa lunghissima faccenda, no? e ovviamente c'è ancora qualcosa sotto. vorrei fare solo un piccolo chiarimento perché non penso che qualcuno di voi abbia davvero capito il tempo degli avvenimenti: allora, nella serie tv amy è stata presa dall'angelo il 29 settembre 2012, ma ho deciso di anticipare il resto della long nel tempo di supernatural. L'apocalisse, quindi, si svolge nel 2010. amy è stata quindi trasportata dall'angelo in un universo indietro di tre anni rispetto al suo e il dottore, durante il viaggio con clara nel primo capitolo, ha viaggiato sia nello spazio che nel tempo, arrivando appunto nel 2010. per questo motivo tutti gli avvenimenti di sherlock vengono anticipiati di qualche anno, come avrete capito. spero che sia tutto chiaro, ma purtroppo intersecando queste tre serie tv il problema "tempo" è inevitabile. 
grazie, come sempre a chi legge, a chi recensisce, a tutti insomma. 
xxx
 

 

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Capitolo 5
*** back in black ***


capitolo quattro
back in black
 
 


Amelia pianse di gioia per la prima volta dopo molto tempo. Pianse di gioia tra le braccia del Dottore - il suo Dottore stropicciato, il suo pazzo uomo che viaggiava con la sua inseparabile cabina blu, il suo amico immaginario impertinente, arrogante, infantile, assolutamente irritante e geniale. Inspirò profondamente, la testa affondata nella giacca di tweed del Dottore, e sentì profumo di casa.
L'uomo la strinse così tanto da farla sentire nuovamente protetta, al sicuro. Era okay, nell'abbraccio del re dell'okay. Rise ricordandosi quel momento dei loro giorni passati insieme. La sensazione di essere di nuovo al fianco del Dottore era meravigliosa.
Amy si sentì mancare la terra sotto i piedi e rise più forte quando il Dottore la sollevò da terra.
«Pond!», esclamò felice dandole un bacio sulla guancia prima di posarla a terra. Amy sorrise tra i singhiozzi mentre il Dottore le posava le mani sulle spalle, divorando ogni centimetro di lei con gli occhi che brillavano. «Oh, la mia Amelia Pond».
«Dottore», disse lei coprendosi la bocca con una mano mentre rideva ancora, emozionata. Semplicemente non riusciva a fermare il riso, era più forte di lei. «Sei tornato».
«Io torno sempre», le rispose il Dottore strizzando un occhio.
«Lui... lui è il Dottore? Quel Dottore?», domandò John da dietro di lei. Amy annuì, senza tuttavia degnarlo di uno sguardo. I suoi occhi erano concentrati interamente sul Dottore e su nessun altro, come attratti da una calamita. L'unica cosa che la portò a interrompere il contatto visivo fu la voce profonda di un uomo, che parlò con tono alto e chiaro.
«Uhm, e questi chi sarebbero?».
Amy fece scattare lo sguardo verso di lui: era un ragazzo sulla trentina, alto, dai capelli biondi e gli occhi di un verde brillante che si guardavano in giro con aria interrogativa. A prima vista dava l'idea di uno dei classici arroganti che si incontrano nei bar, uomini dai modi bruschi e sempre pronti con una battuta pungente.
«Non credo proprio che tu sia nella posizione di fare domande, sai, Winchester?», commentò acidamente Mycroft con una smorfia.
«Ah no? Scusa se ho urtato i tuoi nervi, Mr. Simpatia», ribatté l'altro alzando il mento con aria di sfida.
Amy si sentì libera di confermare tutte le sue supposizioni su quel tizio. Era decisamente molto, molto arrogante e non avrebbe di certo considerato i suoi modi gentili.
«Dottore, da quando viaggi con gente di questo genere? Era così difficile trovare un sostituto decente?», si mise in mezzo posando le mani sui fianchi. Il Dottore balbettò per qualche secondo prima di riuscire a rispondere.
«Lui... cioè, loro», fece indicando altri due uomini, uno dei quali era ammanettato al tavolo, «loro non sono miei compagni di viaggio. È stato un incontro puramente casuale, in un certo senso».
Una ragazza si fece avanti, schiarendosi la voce. «Sono io la sua compagna di viaggio», disse sorridendo.
Amy deglutì e la squadrò da cima a fondo. Aveva uno sguardo intelligente e furbo, decisamente in armonia con il corpicino che sembrava sprizzare energia da tutti i pori. Possedeva decisamente la stoffa per essere una buona viaggiatrice del tempo e dello spazio, anche se ad Amy procurava un certo fastidio nel fondo dello stomaco ammetterlo. Era gelosia? Probabilmente sì, ma l'aveva previsto. Sarebbe stata sempre gelosa del suo uomo stropicciato, che da amico immaginario era diventato parte fondamentale della sua famiglia.
«Oh, sì... Amy, lei è Clara Oswald», fece il Dottore con imbarazzo, le guance leggermente purpuree. Clara strinse la mano della rossa, poi si girò verso il Dottore.
«Lei è quella ragazza che ho visto sul TARDIS, la donna fatta di gambe», bisbigliò con voce - volutamente, Amelia ne era certa - non propriamente bassa all'uomo, che annuì sorridendo. «E tu sei il Dalek del manicomio».
«Cosa?», fece Amy strabuzzando gli occhi.
«Lunga storia, abbiamo fatto qualche casino con lo spazio e con il tempo», spiegò il Dottore sventolando una mano con fare casuale.
«Dottore, è la tua... ex?», domandò un ragazzo - gigante di quasi due metri - che stava di fianco ad Arroganza Winchester.
«Non esattamente, ma quasi», rispose l'uomo sistemandosi il farfallino.
Amy quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Un'ex? Del Dottore? Si ricordò l'unico momento della loro amicizia nella quale lei aveva provato a... be', alla fine non era andata molto bene. Sebbene Amy nutrisse un profondo sentimento per il Dottore che andava al di là dell'amicizia era assolutamente certa di non essere mai stata la sua fidanzata. Non avrebbe funzionato. Senza contare che lei era sposata con Rory e il Dottore con nientemeno che sua figlia. Rimase stupita e senza parole di fronte allo sguardo incuriosito – e geloso? – di Clara, e sentì puntati su di sé gli occhi di tutti i presenti. Tutta quella situazione era abbastanza imbarazzante per lei, mentre il Dottore sembrava solamente divertirsi. Ad Amy sembrò di cogliere, tuttavia, anche una nota di tristezza nella bocca del Dottore, tesa in un piccolo sorriso.
«Bene, adesso che abbiamo fatto ricongiungere gli innamorati sventurati del Distretto 12 possiamo andarcene da questa stanza? Senza le pistole puntate addosso e ancora vivi, intendo», fece il biondo aspramente.
«Senti, tu...», iniziò Amy, ma quello la interruppe con un sorriso strafottente.
«Sono Dean Winchester, cacciatore», si presentò.
«E io sono Amy Pond, nel tempo libero ricamo», lo prese in giro la rossa posando le mani sui fianchi.
«Dean, potresti evitare di farti uccidere?», chiese il ragazzo alto con un'espressione che trasudava esasperazione. «Scusalo. Non abbiamo la più pallida idea di che posto sia questo o di cosa -».
«Siete a Buckingham Palace», s'intromise Sherlock, parlando per la prima volta, «e siete prigionieri della corona. Non che questo faccia alcuna differenza, per me. John, abbiamo dei nuovi clienti».
«Clienti? Clienti di chi, prima di tutto?», disse Dean alzando le sopracciglia. Amy ghignò, in attesa di vedere le reazioni di tutti, compresa quella del Dottore.
«Sherlock Holmes, consulting detective», si presentò Sherlock con noncuranza.
«E io sono John Watson, il suo -».
«Amico», continuò Sherlock per lui.
Persino quella faccia tosta di Dean Winchester non seppe più cosa dire. Il Dottore continuava a muovere la bocca come per dire qualcosa, ma dalle sue labbra non uscì nemmeno l'accenno di un suono. L'unico in grado di parlare fu il prigioniero ammanettato. Si rivolse a Sherlock con voce roca e con uno spiccato accento Britannico, così diverso dai due fratelli americani.
«Sherlock Holmes, eh? Vuoi avere un Caso con la c maiuscola?».
 
* * *
 
Clara, finalmente seduta in una stanza ariosa e luminosa, senza una pistola carica pronta ad ucciderla, osservò Amy, che ascoltava attentamente le parole di Crowley e dei Winchester. Il Dottore era seduto di fianco alla sua vecchia compagna di viaggio e Clara notava fin troppo frequentemente le occhiate piene di puro affetto che lui le rivolgeva, accompagnate da sorrisi felici.
Si sentì crescere la gelosia nelle vene, ma cercò di calmarla; era assolutamente insensata. O forse no. Forse non era del tutto senza senso sentire quel fastidio dato dalla mancanza di attenzioni in quella stanza, seduta da sola, senza nessuno sguardo d'intesa, nessuna mano che stringeva la sua.
«Sta succedendo qualcosa anche qui», annunciò improvvisamente Sherlock con la sua voce profonda, catturando immediatamente l'attenzione di Clara, «Sparizioni, morti, tutto senza senso. E poi c'è il problema più grande: James Moriarty, ovvero l'uomo più pericoloso del mondo, consulting criminal. Si è sparato in testa due anni fa. Da due settimane è tornato in circolazione».
Mycroft gettò due fascicoli con fotografie allegate al centro del tavolo, mentre il fratello continuava il suo discorso.
«Ed ecco anche Sebastian Moran, il suo killer di fiducia, morto poco dopo di lui e tornato in vita durante la stessa giornata».
Dean e Sam presero in mano le fotografie, battendo sul tempo Crowley.
«È successo qualcosa di strano intorno a loro?», domandò Sam scrutando la foto che teneva tra le mani con attenzione, prima di dedicarsi al fascicolo e passare l'immagine a Clara, che gli sorrise con gratitudine.
«Qualcosa di strano?», ripeté John spalancando gli occhi, «Più strano che essere resuscitati? Sherlock era su quel tetto quando Moriarty si è ucciso, si è sparato una maledetta pallottola in testa!».
Dean si strinse nelle spalle. «Non è la prima volta che i morti tornano. Ora che Lucifero ha in mano Morte direi che è ancora più comune».
John era sconvolto, così come qualsiasi individuo nella stanza a parte i cacciatori, Sherlock, impassibile nella sua maschera di freddezza, e Crowley.
«Lucifero non può essere arrivato qui», fece il Dottore scuotendo la testa.
«Che giorno è oggi?» chiese Sam.
«Non funziona così», cercò di spiegare il Dottore, ma Amy indicò il calendario appeso alla parete. Dean si lasciò sfuggire una colorita esclamazione.
«Due settimane e mezzo. Abbiamo perso due settimane e mezzo?», chiese Sam a bocca aperta.
Il Dottore, nonostante avesse bisogno del TARDIS per esserne certo, dovette ammettere che sembrava proprio che i due universi andassero assolutamente di pari passo. Forse la crepa era troppo grossa, forse c'era qualcosa di peggio, nascosto sotto a tutti quei misteri. Parlò anche di spazio-tempo come faceva di solito, cioè ignorando il fatto che nessuno capisse una sola parola, ma Clara colse abbastanza per essere d'accordo con lui. «Ha avuto tutto il tempo per capire come venire di qua».
«La breccia si sta allargando», esclamò il Dottore di nuovo, passandosi una mano tra i capelli, nervoso.
«Quindi Lucifero è venuto qui e ha riportato in vita Moriarty e Moran», ricapitolò Mycroft, «Perché?».
Dean si alzò in piedi. «Dobbiamo trovarli, e in fretta. Se Lucifero è arrivato qui sono vicini anche i demoni e quei bastardi dei Cavalieri. Potremmo morire da un momento all'altro».
Crowley fece sparire le sue manette con uno schiocco di dita, facendo sobbalzare tutti. Clara si chiese da quanto tempo stesse aspettando il momento buono e cosa avesse in mente. Sentì il cuore accelerare, temendo di finire come qualche ora prima, e per la prima volta si chiese come tutte le sue ferite fossero sparite, ma non se lo ricordava.
«Oppure potremmo mandare un infiltrato, no?», suggerì Crowley mentre i suoi occhi diventavano rossi come era accaduto quando aveva rapito Clara.
La ragazza sobbalzò e trattenne il fiato. Sam fece scattare il viso verso di lei e le lanciò un'occhiata preoccupata. Clara cercò di sorridere, ma la visione degli occhi del demone la spaventava lo stesso.
«È un idiota, non preoccuparti», le sussurrò il cacciatore senza farsi sentire dagli altri. Poi si alzò e puntò un coltello con alcuni strani simboli verso il demone, mentre il fratello sfoderava una pistola.
«Normali trattative, non c'è da preoccuparsi», disse Dean sorridendo.
Mycroft alzò gli occhi al cielo. «Ho assunto degli idioti, non disarmano nemmeno i prigionieri!».
 
 
* * *
 
«Quindi, Dottore, come siete finiti qui tu e il tuo gruppetto?», domandò Sherlock.
«Sherlock, gliel'hai già chiesto tre volte», si lamentò Amy gettandosi sul divano. Era passata qualche ora dall'arrivo dei viaggiatori casuali del tempo a Londra; Dean e Sam stavano interrogando Crowley con Mycroft, Clara era andata con John a riposarsi a casa del medico e di Mary (la ragazza aveva protestato, come il Dottore si era aspettato, ma non aveva avuto scelta); Amy e il Dottore erano nel piccolo appartamento che la ragazza condivideva con Sherlock, discutendo sulla situazione.
«Stavamo viaggiando e il TARDIS ha iniziato ad avere alcune scosse e improvvisamente le porte si sono aperte. A quel punto ho visto la crepa, Dean ha rischiato di cadere e poi siamo finiti qui», disse il Dottore di nuovo.
«Come si è salvato Dean?».
Il Dottore sospirò, rivelando forse un'emozione di troppo con quel semplice respiro. «Suo fratello l'ha aiutato».
«Mi stai nascondendo qualcosa», lo mise alle strette Sherlock.
«No, davvero», ribatté il Dottore.
Amy sbuffò. «Sherlock, devi proprio essere così tanto... te?», sbottò Amy, «Ho appena incontrato il Dottore dopo un anno».
«Sì, e mi sembra che il vostro abbraccio si sia protratto sufficientemente a lungo per aver instaurato nuovamente un rapporto di stretta amicizia», la punzecchiò Sherlock, «Io e John abbiamo avuto bisogno solamente di una rissa in un ristorante». Sorrise soddisfatto prima di ritornare a guardare il Dottore. «Come si è salvato, Dottore? Cosa ci nascondi?».
Il Dottore non rispose. Fissò il vuoto, cercando qualcosa da dire, qualcosa di sensato e non una scusa campata in aria, senza capo né coda, come ogni frase che gli veniva in mente. Non era pronto ad inventare una scusa sulla morte di Castiel.
«Vedi? Anche il Dottore mente. Vado da John», annunciò Sherlock prima di sparire oltre la porta d'ingresso.
Il Dottore lanciò un'occhiata ad Amy, tentennante. La ragazza si sedette accanto a lui, sul divano, e intrecciò le sue dita con quelle dell'uomo. Lui le sorrise con affetto, tuttavia con ancora una nota di tristezza.
«Non dirai nemmeno a me ciò che è successo?», gli chiese Amy. «So che è brutto e che... niente, lascia stare», soffiò fuori abbattuta vedendo il Dottore incupirsi ancora.
«C'era un altro ragazzo con noi, un angelo. Si chiamava Castiel. Lui è... caduto in una crepa», spiegò il Dottore con difficoltà. Amy strinse la presa sulla sua mano.
«Hey, possiamo riportarlo indietro, come è successo con Rory o con te. Se lo ricorderanno», cercò di rassicurarlo.
Il Dottore scosse la testa.
«Non so se è possibile, eravamo nel Vuoto e loro due erano così legati che vorrei non pensarci».
«Chi?».
«Lui e Dean. Dean voleva gettarsi con lui per cercare di salvarlo ma suo fratello l'ha preso in tempo. Sapeva che era finita».
«Dottore, se c'è qualcosa che ho imparato con te è che non è mai finita. C'è sempre speranza».
Il Dottore posò la testa sulla spalla sottile di Amy, che sospirò. Si chiese se la mano che stringeva fosse davvero quella di Amelia Pond, se quel momento fosse davvero reale o solo il frutto di un'allucinazione. Aveva letto le parole di addio di Amy, la postfazione alla fine di quel libro, parole di una Amelia Williams invecchiata al fianco di suo marito Rory; quella accanto a lui invece era una donna giovane come la ragazza che aveva pianto un anno prima, quando lei si era lasciata prendere dall'Angelo Piangente.
Non poteva essere una persona diversa, perché si ricordava di lui (ma cosa ricordava?), non poteva nemmeno essere la stessa, perché la sua vita era finita da tempo.
«Dopo... dopo la mia sparizione, cosa è successo?», chiese d'un tratto la ragazza con voce tremante. Non udendo risposta, continuò. «Dopo aver distolto gli occhi dall'Angelo, tu cos'hai fatto?».
Il Dottore trattenne il fiato per un attimo. «Ho viaggiato con River, sono stato solo per un po' di tempo e poi ho trovato Clara».
«Per quanto tempo, Dottore? Non dovresti mai essere solo».
L'uomo sorrise, un caos di emozioni che esplodeva in lui.
Sometimes I do worry about you, though. I think, once we're gone, you won't be coming back here for a while and you might be alone, which you should never be. Don't be alone, Doctor.
Era proprio la sua Amelia.
«Sapevi che ci avrei messo del tempo. Ricordi? Gli altri non sono i Pond».
«E Rory?», domandò allora Amy. Il Dottore sapeva che quella domanda premeva sulle sue labbra da molto tempo. Vedeva l'amore nei suoi occhi come l'aveva visto quel giorno a Manhattan. Vedeva anche la speranza. Una speranza destinata a morire.
«Ha trascorso una vita felice», le disse il Dottore con un sorriso.
Il Dottore guardò Amy negli occhi ed entrambi capirono di non stare dicendo tutta la verità, ma per quel giorno andava bene così.
 
* * *
 
Due settimane prima
 
«James», sussurrò una voce, «sorpreso di vedermi?».
James Moriarty alzò gli occhi verso la fonte della voce e vide il Diavolo. Esattamente Lucifero, l'angelo rinchiuso in una prigione di fiamme dal suo stesso padre solamente perché lo amava troppo. Sì, James capiva Lucifero, lo sosteneva, torturava anime per lui all'Inferno, mentre l'angelo, ormai libero, lottava per prendere ciò che era suo di diritto.
«Sinceramente sì», ammise Jim con un sorriso.
«Ti chiederai come e perché io sia arrivato qui. Voglio proporti un patto.», propose Lucifero, «Ti andrebbe di tornare in vita?».
«Perché mi vuoi di nuovo in vita? Qui per me è fantastico», fece James allargando le braccia, mostrando al suo re la ruota della tortura dove ogni giorno anime venivano mutilate da lui.
«James Moriarty, l'uomo più pericoloso di Londra. Una volta uniti, io e te, saremo gli uomini più pericolosi di tutto l'universo. Paradiso, Inferno, Purgatorio, Terra e tutti gli altri mondi parleranno di noi. Tu, un criminale di una realtà diversa dalla mia – dimensione sottile come un velo di un fazzoletto, che sfiora sempre la mia ma che non la tocca mai davvero – tu sei il tramite. Hai sentito le voci, quelle sui Winchester? Tu sei pari al minore, se non superiore. Sei nato per questo». Il tono dell'angelo era dolce, mellifluo, persuasivo.
«Io sono il tuo tramite?», boccheggiò James, la voce che gli moriva in gola a causa dell'emozione. Essere il tramite di Lucifero era il privilegio più grande e raro che potesse avere. Le sue membra fremettero di orgoglio, gioia, eccitazione.
«Esattamente, sei come la mia metà fatta di carne, l'essere umano che più si avvicina a me», confermò Lucifero con gli occhi che scintillavano.
Il suo attuale tramite, un uomo di nome Nick, molto famoso nell'Inferno e conosciuto da Jim grazie ai sussurri che si riuscivano a cogliere tra le due dimensioni, si stava lentamente disgregando. In pochi mesi sarebbe diventato solo un ammasso di pelle lacerata. La sua anima sarebbe stata un cumulo di sanguinanti stracci e nemmeno il Paradiso avrebbe potuto salvarla. Forse Dio, ma Jim non aveva mai creduto che si interessasse ancora alla Terra. L'Universo era vasto e il pianeta si stava lentamente distruggendo da solo; per lui doveva essere semplicemente un lavoro uscito male, sfuggito dalle sue mani e snaturato in maniera irreparabile.
«La mia anima verrà distrutta?», domandò con cautela James. Era una delle anime più temute dell'Inferno, tuttavia parlare con Lucifero faceva un certo effetto anche a lui.
«No, sei forte. E non credo di prendere il tuo corpo subito. Starai sulla Terra per qualche mese, ucciderai il Winchester che fa da tramite a mio fratello e il Dottore, poi la nostra ascesa avrà inizio».
Era tutto calcolato nei dettagli. Un ragno creduto morto che torna indietro a riprendersi cura della sua tela, un uomo che uccide per lavoro senza essere mai scoperto che lavora per Lucifero.
Uccidere il Winchester e il Dottore non sarebbe stato un lavoro più difficile di altri che aveva svolto, tuttavia James sentiva il bisogno impellente di una persona, senza la quale non sarebbe arrivato a nulla.
«Sebastian Moran», disse solamente, «Sebastian è qui, vero?».
Lucifero rise, sul viso un'espressione divertita.
«Tu hai bisogno di lui, vero? Me lo aspettavo. Quel giovane uomo è molto promettente», commentò pensieroso.
James cercò di non far trasparire la sua impazienza e l'angelo sorrise ancora.
«Ti sta aspettando a casa», gli disse dopo una lunga pausa, «Pronto a tornare tra i vivi?».
 
* * *
 
James girò la chiave nella serratura mentre una scarica di brividi risaliva lungo la schiena.
Sorrise, pregustando l'espressione sorpresa di Sebastian. Chissà come sarebbe stato per lui vedere di non essere il solo a ritornare alla vita. Di non essere solo e basta.
Sì, Sebastian prima di lui aveva vissuto nella solitudine, circondato da persone che si credevano sue amiche ma che non conoscevano nemmeno il lato di lui più in superficie. Poi era arrivato James con il posto di lavoro, con le notti passate insieme dapprima solo per gioco; e insieme a lui era giunta anche la consapevolezza di non essere interamente solo al mondo. L'aveva detto a Jim prima che il consulting criminal si sparasse in testa.
James, dall'Inferno, aveva saputo che il killer si era lasciato uccidere sul campo. Era morto per colpa sua, in un certo senso.
Moriarty entrò in cucina e vide una bottiglia di whiskey sul tavolo, mezza vuota, e il mobiletto dei bicchieri ancora aperto.
Si avviò in salotto e vide la figura di Sebastian, vestita in un elegante completo nero, intenta a leggere un libro con il bicchiere in mano.
«Sebastian», disse per attirare la sua attenzione, fremendo.
Quando l'uomo alzò lo sguardo, tuttavia, fu Jim a restare a bocca aperta.
«Ciao, James», rispose Sebastian Moran, gli occhi completamente neri.





















NdA: chiedo umilmente perdono! il liceo classico mi sta uccidendo (ehm, ehm, il greco mi sta uccidendo). mi dispiace davvero tanto ritardare nella pubblicazione ma il mio tempo al pc è pari a 5 minuti al giorno se va bene. piango çwç
a parte tutto ciò, un grazie gigantesco come sempre a tutti! (che continuate a leggere nonostante non dia mai risposte a tutti questi quesiti spazio-temporali, aw)
alla prossima xxx 

 

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Capitolo 6
*** o' death ***


capitolo cinque
o' death
 
 
 
 
James fece scorrere gli occhi lungo tutto il corpo nudo di Sebastian, indugiando sulla curva profonda dell'inguine, risalendo sul petto per finire su quel collo liscio e bianco, su quelle labbra semi aperte, su quegli occhi chiusi che tremavano leggermente, facendo vibrare le ciglia impercettibilmente.
Si era sempre comportato in modo freddo con Sebastian, come se lui non fosse altro che un giocattolo o un passatempo. Ora, invece, aveva capito che l'uomo era tutto ciò che aveva al mondo. Non era importante la sua rete di spie, né il denaro, né Sherlock Holmes. Sebastian Moran, in quel letto, in quel preciso istante lo era.
Passò una mano tra i capelli biondo scuro dell'uomo, che aprì di colpo gli occhi azzurri. Azzurri. James, per un attimo, aveva temuto di aver perso quello sguardo di ghiaccio nei pozzi profondi e neri che Sebastian gli aveva mostrato il giorno prima; poi, però, con un sorriso malizioso sulle labbra – l'angolo sinistro era sempre sollevato di più rispetto al destro, un particolare al quale Jim era affezionato – aveva fatto tornare i suoi occhi del solito, chiaro colore.
«James», fece Sebastian con voce roca e bassa, che raschiava sulla gola, James lo percepiva, «mi hanno detto che ti sei divertito all'Inferno, senza di me».
«Avevo il mio girone personale», rise quello catturando un'altra volta le labbra di Moran, mordendole piano.
«La città dolente», scherzò Sebastian abbracciandolo e tirandolo più vicino a sé.
James fremette sotto al tocco sicuro dell'uomo. «Zitto, demone».
Gli occhi di Sebastian s'illuminarono. «Dimmi, è una strana sensazione sapere di essere nello stesso letto di un Cavaliere dell'Inferno?».
«Per me lo sei sempre stato». James girò il viso, prima affondato nella spalla di Sebastian, e lo fissò negli occhi. Quella notte era venuto Lucifero a parlargli. «Dobbiamo uccidere Sherlock. Dobbiamo farlo ancora».
«Lui è il tramite di Michele, vero? Dovevo sospettarlo», sospirò con un ghigno, «Beh, non mi spaventa. Non può uccidermi, nemmeno con il coltellino magico dei Winchester. Abbiamo il mondo in mano adesso, James».
 
* * *
 
Sei giorni dopo l'arrivo dei casuali viaggiatori a Londra.
 
La seconda riunione generale del gruppo fu una totale catastrofe.
Era impossibile che tutti fossero d'accordo, ovviamente, ma di certo Amy non aveva programmato un caos del genere. Non facevano altro che battibeccare tutti.
«Se solo il cervellone qui presente riuscisse a far funzionare la sua macchina del tempo...», fece Dean, «magari potremmo avere qualche indizio su questo buco nello spazio-tempo. Tipo perché esiste, come si passa attraverso. Sai, cose normali».
Il Dottore lo fulminò con lo sguardo.
«Il TARDIS ha riscontrato qualche danno per colpa del viaggio, lo sai. Tra poco le funzioni base dovrebbero ripartire, ci sto lavorando. Comunque noi sicuramente abbiamo allargato la breccia. Ogni viaggio tra due dimensioni aumenta la dimensione del varco, è sempre così» constatò il Dottore.
«In più Lucifero è qui e questo vuol dire che il viaggio è sicuro. Dobbiamo trovarlo prima che lui trovi noi e che porti l'Apocalisse anche in questo mondo» continuò Sam.
«Se passa Lucifero passano anche gli altri angeli. Siamo nella merda fino al collo» li lamentò Dean appoggiando la fronte sul legno freddo.
Amy faceva lavorare silenziosamente il cervello, insieme a Sherlock e al Dottore.
«Dovete insegnarci tutto» disse dopo un attimo di silenzio. «Tutto quello che c'è da sapere sul sovrannaturale. Dobbiamo sapere come scacciare i demoni».
Dean strabuzzò gli occhi.
«Sai almeno prendere in mano una pistola?» chiese alzando le sopracciglia.
«Dean, lei è la nostra migliore spia» disse solo John difendendo l'amica.
Amy sorrise soddisfatta ma il Dottore le lanciò un'occhiata sconvolta.
«Tu sei cosa?».
«Dovevo fare qualcosa per mantenermi, qui».
«Fantastico. Tu sei pacifista ma tu?» chiese Dean interrompendola. Con gli occhi saltò il Dottore per passare a Clara. Lei fece di no con la testa.
«Benissimo, da ora hai un personal trainer» ghignò Dean indicando suo fratello, il quale si voltò con aria indignata prima di sorridere imbarazzato alla mora.
«Non dobbiamo per forza combatterli» s'intromise il Dottore con il tono più serio che avesse mai usato negli ultimi giorni.
«Oh, certo, così ci uccidono tutti» esclamò Sherlock alzando gli occhi al cielo.
Amy scoppiò a ridere, consapevole che quei due non avrebbero mai ammesso di starsi simpatici a vicenda, cosa che invece lei sapeva benissimo. Sherlock Holmes e il Dottore, i più intelligenti ragazzi di tutto l'Universo.
«C'è un'altra cosa», s'intromise Mycroft, «sono scomparse tre persone in un bosco poco distante. Non ci sono tracce».
«Domani si indaga», dissero Sherlock e il Dottore all'unisono. Amy rise ancora.
 
* * *
 
Cinque ore dopo
 
«Sherlock...».
La voce di John, al telefono, era un soffio di vento, di un vento che cala e scompare. Era flebile, ma nonostante ciò piena di dolore. Sherlock poteva vedere, seppure a distanza di qualche chilometro, il corpo di John leggermente inclinato in avanti, come se qualcuno gli avesse appena tirato un pugno nello stomaco: era il suo modo per sopportare il dolore. Poteva anche vedere gli occhi spalancati, lucidi, intrisi di sofferenza.
«John, cosa è successo?».
«Sherlock, ti prego... Ti prego, vieni qui», supplicò John prima di inspirare forte.
«Sto arrivando», rispose Sherlock in fretta al telefono. Sentiva la difficoltà di John a mantenere la calma. Doveva tenerlo al telefono, controllare che stesse bene.
Non prese né il cappotto né la sciarpa, non si preoccupò nemmeno di srotolare le maniche della camicia bianca.
Fermò un taxi e gli intimò di muoversi più volte mentre parlava a John e cercava di capire cosa fosse successo. John non avrebbe mai perso la testa in quel modo se non fosse accaduto qualcosa di grave: doveva trattarsi di Mary. Non toccò l'argomento al telefono ma decise di essere presente. Avrebbe avuto in mano la situazione.
Arrivato davanti a casa di John gettò i soldi sul sedile anteriore del taxi senza aspettare il resto e fece irruzione in casa.
John era inginocchiato sul pavimento, di fianco al corpo senza vita di Mary.
I capelli biondi della donna erano scomposti e disordinati sulla fronte, bagnati di sangue come i vestiti chiari. Gli occhi e la bocca erano spalancati in un ultimo urlo disperato. Ma di sconvolgente, in realtà, vi era il ventre: ancora coperto dal cotone della maglietta ma ridotto ad una macchia di sangue.
Sherlock si chinò accanto a John e gli posò una mano sulla spalla, riattaccando la chiamata. John lasciò cadere il telefono a terra e abbracciò l'amico, aggrappandosi disperatamente a lui. Pianse e Sherlock non fece altro che rimanere lì, con lui, a passare con delicatezza la mano sul maglione di John senza dire nulla. Le parole erano inutili.
«Sherlock», disse John dopo quella che al consulting detective parve un'eternità. La sua voce era roca, una voce che faceva fatica ad uscir fuori. «Ho visto cos'è successo».
Sherlock prese il viso dell'amico tra le mani con delicatezza, ma costringendolo a guardarlo negli occhi. «John, dimmelo».
«Quando sono entrato lei era ancora viva... poi è arrivato il fumo nero, proveniva da dentro Mary», mugolò John muovendo le mani senza logica. Sherlock sospirò chiudendo gli occhi per un attimo e poi mise in piedi John.
«Dobbiamo uscire da qui», disse portandolo via. John stringeva il cappotto di Sherlock con tutte le sue forze. Sherlock lo tenne stretto a sé mentre faceva fermare un taxi. In macchina, poi, mentre John cercava di calmarsi fissando fuori dal finestrino, mandò un messaggio a Mycroft: Mary è morta. Demoni. Devono occuparsene unicamente Lestrade e Molly. Spiega la situazione con tatto.
Sherlock sapeva perfettamente che suo fratello era privo di tatto ma sperava che potesse sforzarsi di averlo almeno per spiegare come eventi sovrannaturali avessero ucciso un'amica. Se ne sarebbe occupato lui ma non poteva farlo. John aveva bisogno di lui.
John. John. John.
Ogni suo pensiero era rivolto a lui.
John aveva cambiato la sua vita, l'aveva reso un uomo migliore.
Aveva preso in mano la sua esistenza dal momento stesso in cui si erano incontrati; l'aveva presa e l'aveva cambiata radicalmente. Ora Sherlock non riusciva più a valutare le cose solamente rispetto a se stesso: nei suoi piani, che lo volesse o no, vi era anche John Watson.
Ogni sua attenzione si catalizzò sull'uomo quando questo gracchiò con un filo di voce il suo nome.
«John, mi dispiace», disse Sherlock. «Ti prometto che troverò il colpevole e lo ucciderò».
Il medico raddrizzò la schiena all'istante e inspirò profondamente. «No. Lo farò io».
Il suo tono non ammetteva repliche.
Uccidere l'assassino di Mary era l'unica cosa alla quale John riusciva a pensare dopo aver superato lo shock iniziale, l'unica sicurezza nel suo futuro.
Quando era venuto a mancare Sherlock per lui era stato difficile non crollare al suolo; Mary era stata la sua unica ancora di salvezza. Si era presa cura di lui senza chiedere nulla in cambio, amandolo senza riserve nonostante le cicatrici, nonostante tutto.
John, sebbene avesse visto con i suoi occhi il suicidio di Sherlock, durante i due anni di assenza non aveva mai smesso di sentirne la mancanza, di immaginare inconsciamente che fosse ancora accanto a lui, di rivedere durante la notte quel fatidico istante.
E Mary aveva accettato anche questo.
Aveva accettato come John avesse bisogno dei suoi spazi e dei suoi tempi; conosceva il suo bisogno di andare far visita alla tomba dell'amico, periodicamente, sia da solo che insieme a lei, di passeggiare per Londra ricordando i vecchi tempi, di parlare, qualche volta, delle avventure passate. Accadeva raramente che John si aprisse con Mary, ma ogni volta lei sapeva esattamente cosa dire, cosa fare.
Aveva portato una nuova luce nella vita di John.
Ma quella volta, quando Sherlock si era gettato dal tetto, John aveva potuto provare rabbia solo nei confronti di un uomo morto come Jim Moriarty. Invece ora era diverso. Sapere che l'assassino di sua moglie era ancora in vita era logorante.
John non aveva mai desiderato così tanto di uccidere qualcuno.
Mai.
Ma sapere di voler uccidere un essere vivente, per la prima volta, non lo infastidì e non lo fece impensierire.
L'unico dettaglio che lo disturbava era mostrare il suo lato oscuro a Sherlock Holmes, l'uomo che aveva ucciso solo in nome della sua amicizia.
 
* * *
 
Sherlock non sarebbe andato ad indagare. Non si allontanava dal fianco di John e il medico si stava lentamente sgretolando in una polvere di sofferenza.
Nessuno sarebbe voluto andare in quel bosco dopo ciò che era successo, ma era necessario. La morte di Mary ne era la prova, dovevano agire.
I Winchester, Amy e Clara decisero di andare.
Amy aveva voluto bene a Mary. Era stata una delle sue uniche amiche in quel mondo nuovo, una delle poche ad averla aiutata davvero. Per questo si era offerta di andare comunque ad indagare.
Il Dottore stava sistemando il TARDIS ed era troppo vicino alla soluzione per allontanarsene. 
«Sam!» esclamò Clara scendendo a balzi le scale di casa di Sherlock. «Sono pronta».
Il ragazzo la aspettava sulla soglia di casa con il suo borsone pieno di armi.
Erano diventati in fretta amici durante quelle settimane, nonostante i loro caratteri così diversi. Sam era molto più calmo, mentre Clara era decisamente il caos in persona. Lui l'avrebbe descritta come un uragano, perché sebbene fosse solo uno scricciolo alto un metro e cinquantasette – sì, lei l'aveva esclamato con orgoglio un pomeriggio – riusciva a trascinarlo in qualsiasi impresa con il massimo della carica. Non aveva mai incontrato una persona così brillante e piena di energia come Clara Oswald e nemmeno così... quasi innocente, avrebbe detto. Durante la prima serata a casa di John, dove Sam era stato sistemato per una notte insieme al fratello e al Dottore, l'aveva vista addormentarsi sulla spalla dell'alieno con le guance leggermente colorate di rosso e il viso rilassato. Il cuore gli si era stretto in una morsa dalla quale non poteva scappare.
Clara e Sam si scambiavano informazioni durante tutto il giorno: si aiutavano con il computer, a volte anche battibeccando sui metodi più adatti da usare, sfogliavano libri e studiavano insieme. Come tutti gli altri non avevano mai un attimo di pace ma contavano molto l'una sull'altro. Clara inoltre andava molto d'accordo anche con Dean, un punto decisamente a suo favore.
«Bene, andiamo. Ho chiesto a Mycroft una macchina per l'ennesima volta ma non ha voluto, quindi ci tocca andare di nuovo in moto», le disse rassegnato porgendole il casco.
Clara uscì a passo sicuro in giardino. «Dean e Amy sono già lì?».
«Sì, sono partiti dieci minuti fa».
Dopo un breve viaggio anche loro erano nella piccola area boschiva, cercando indizi.
Raccontami degli angeli», chiese Clara camminando.
«Vuoi sapere come sono fatti esteticamente?».
«Un po' di tutto. Dean non ne parla mai, cambia sempre discorso».
«Lo so, non gli vanno molto a genio. Sai, gli angeli non sono buoni, carini e gentili con un bel paio di ali piumate come pensano tutti. Sono degli Empire State di luce accecante con un fischio assordante al posto della voce e quando devono scendere sulla Terra prendono “possesso” del corpo attraverso un tramite, ma questo lo saprai già. È un po' come fanno i demoni, solo che il tramite degli angeli deve essere consenziente, altrimenti non se ne fa nulla» spiegò il ragazzo cercando di non addentrarsi troppo nel discorso. Aveva deciso con il fratello di tralasciare la loro predestinazione a diventare tramiti di Lucifero e Michele.
«Chiunque può diventare un tramite se vuole?» domandò Clara rallentando il passo.
«No, devi essere fedele e destinato ad esserlo, altrimenti ti sgretoli piano piano. Una volta che l'angelo abbandona il tuo corpo non è piacevole, per niente, ed è peggio quando l'angelo è uno dei piani alti» replicò Sam sedendosi accanto a lei.
«Okay, ho afferrato. Un po' inquietante, direi. Quindi Moriarty sarebbe il tramite di Lucifero? Perché qualcuno, anche uno come lui, dovrebbe volerlo dentro di sé?».
«Fa leva sulle paure e debolezze di un uomo. Conosce i tuoi punti deboli, sembra leggerti dentro e prima o poi ti fa cedere. Tuttavia il tramite che ha ora non è esattamente quello predestinato per cui si sta lentamente deteriorando. Ha troppo potere al suo interno».
«Wow, sai un bel po' di cose sull'Apocalisse. Non vorrei mai essere al tuo posto, sembra che Lucifero abbia cercato di convincere anche te» commentò Clara con una risata nervosa.
Lo sguardo di Sam si rabbuiò nonostante lui cercasse invano di nasconderlo e lei capì all'istante.
«È venuto a cercare te? Anche tu sei il suo tramite? E non raccontarmi palle».
«Sì, sono il suo tramite. Sta' tranquilla, non dirò mai quel sì. Non voglio Lucifero in me, sono stato un mostro per troppo tempo» sospirò Sam abbassando lo sguardo. La verità stava venendo a galla e non poteva evitarla. Non riusciva a mentirle, non ancora.
«Di cosa parli?» chiese lei posando una mano sul suo braccio.
«Da piccolo un demone mi ha fatto bere il suo sangue e ha ucciso mia madre. Non l'ha fatto solo a me, voleva un esercito di bambini fuori dal comune e stringeva patti demoniaci con le madri dei bambini per prendersi i figli. Io avevo dentro questo sangue malato e se ne prendevo ancora i miei poteri aumentavano. Credevo di fare del bene, con la mente potevo esorcizzare i demoni senza ferire i corpi posseduti. Ma mi sbagliavo. Quando Lucifero è uscito dalla gabbia è stata colpa mia, perché uccidendo Lilith ho spezzato l'ultimo sigillo. Io e Dean saremmo dovuti morire. Qualcuno però ci ha portati in salvo e io sono tornato una persona normale. Mi hanno dato una nuova possibilità e non voglio sprecarla. Ora voglio mettere fine a tutto questo».
Clara era a bocca aperta, senza sapere cosa dire. Di certo ora vedeva tutto da una diversa prospettiva. Non riusciva a spiegarsi anche il fatto che Sam le avesse mentito. Credeva che ormai fossero diventati amici. Si chiese cosa avrebbe fatto lei al posto suo ma non riusciva a pensare lucidamente. Sapeva solo che di fianco a lei c'era l'uomo che aveva dato il via a tutta quella battaglia e che non sapeva come rimetterla a posto. Nel suo cuore nacque un po' di paura, ma decise di metterla da parte. Si fidava comunque di Sam Winchester, non sapeva il motivo ma era naturale farlo.
«Perché non ce l'hai detto?» mormorò solamente.
«Non ne vado fiero. Nemmeno Dean. Lui è il tramite di Michele». La voce di Sam era spezzata dal senso di colpa. Sapeva di aver sbagliato a non raccontare tutto all'inizio e sapeva che il fratello si sarebbe offeso per aver raccontato di lui ma non poteva farne a meno. Non insieme a Clara.
«Alla fine se accettaste gli angeli dovreste combattere» concluse lei con tristezza.
«Sì. Ed è per questo che fuggiamo dagli angeli».
«Sam, dimmi solo che quello non è l'unico modo per fermare l'Apocalisse».
«No, non è l'unico. Stiamo facendo ricerche, abbiamo degli amici. Ma qui... se la guerra dovesse davvero essere portata qui siamo lontani da ogni aiuto» ammise il ragazzo.
Clara avrebbe voluto consolarlo e dirgli che lui e Dean avrebbero trovato una soluzione perché gli amici c'erano anche in quella dimensione. Lei, il Dottore e tutti gli altri non li avrebbero mai abbandonati.
Aprì la bocca ma un fruscio tra gli alberi la fece sobbalzare. Si guardò intorno in quel bosco buio, freddo, che tuttavia sembrava avvolto da un'aura di magia. I sempreverdi imponenti la facevano sentire debole e piccola.
«Clara, c'è qualcosa qui».
La ragazza prese una torcia dalla borsa di tela che le aveva prestato Dean. Illuminò il punto indicato da Sam e all'istante ogni suo muscolo entrò in tensione. «Sam», soffiò, «continua a fissare la statua». Un Angelo Piangente era appoggiato ad un albero, il viso rivolto verso di loro, una mano protesa.
«Cos'è?», domandò Sam facendosi più vicino alla ragazza. Clara poteva sentire il respiro stabile del ragazzo, segno dell'abitudine ad essere sotto pressione. Le loro braccia si sfioravano.
«Un Angelo Piangente, il Dottore me ne ha parlato una volta. Si possono muovere solo quando non stai guardando e sono veloci, molto più di quanto tu possa immaginare. È meglio non battere le ciglia. Ora sappiamo dove sono finite quelle tre persone».
Sam stette in silenzio qualche attimo. Clara lo immaginò serrare le labbra come gli aveva visto fare qualche volta quando scopriva qualcosa di spiacevole.
«Quindi», disse poi, «siamo praticamente morti».
Clara fece per dirgli che no, avrebbe chiamato il Dottore e ne sarebbero usciti indenni; inoltre Dean ed Amy erano nei paraggi, li avrebbero aiutati. Fu tuttavia interrotta dal suono secco di un ramo che si spezza. La speranza si polverizzò nel cuore di Clara.
«Sì, siete morti», disse una voce maschile con divertimento. «Ciao Sammy, ciao Oswin».
Dal folto degli alberi uscì un ragazzo dai capelli scuri, con il viso sottile, due penetranti occhi blu notte e in mano un coltello affilato. La sua camicia bianca era macchiata di rosso.
«Chi sei?» chiese Sam minaccioso, sfoderando il famoso coltello inciso e mettendosi un passo avanti a Clara. Lei lo bloccò afferrandolo per una mano e rimase appigliata ad essa, come fosse l'ultimo barlume di speranza rimasto.
Fino a una settimana prima al suo posto ci sarebbe stato il Dottore. C'era qualcosa di tragicamente comico in quello, nonostante fosse felice che proprio Sam fosse il suo nuovo compagno di disavventure. La mano di Sam era grande, calda, rassicurante.
«Marbas», rispose il ragazzo facendo girare il coltello tra le dita in maniera esperta.
«Cosa vuoi da noi?», ringhiò Clara con voce sicura. Nei viaggi con il Dottore aveva imparato ad affrontare le difficoltà senza perdersi d'animo.
Il Dottore. Magari li avrebbe salvati.
«Nulla, giusto portarvi i saluti di Lucifero e farvi fuori», sorrise Marbas. Avanzò di un passo, non curandosi dell'Angelo Piangente vicino a lui, che Clara però era certa avesse visto.
«Abbiamo degli amici qui intorno. Ci aiuteranno di sicuro», ribatté la ragazza. Sam si morse un labbro e alzò il coltello.
«Non avvicinarti».
Marbas rise. «Davvero credi di potermi uccidere con quel coltellino, Winchester? Sono un demone un po' più importante della tua amichetta Ruby».
«Chi è Ruby?», domandò Clara.
«La sua ex ragazza demoniaca», ghignò Marbas, «Comunque non verrà nessuno a salvarvi. Attualmente il tuo caro fratellino dalla bella faccia è svenuto e la sua amica rossa sta chiamando il Dottore. Che, purtroppo, non arriverà in tempo per salvarvi».
«Cos'è successo a Dean?».
Marbas sbuffò e si passò una mano tra i disordinati capelli.
«Sempre a pensare a tuo fratello. Sei così noioso. Mi piacevi di più quando facevi il ribelle. Sai, con il sangue di demone e tutto il resto. Giù all'Inferno non facevano altro che parlare del Winchester dai muscoli scolpiti».
Clara era sempre più confusa. Strinse velocemente la mano di Sam un po' più forte, come per spronarlo a reagire, a darle spiegazioni.
«Se Dean dovesse morire... considerati morto anche tu».
Marbas non rispose e si appoggiò all'albero.
«Dai, Clara, qualche parola a Sam prima di morire entrambi? Non gli vuoi dire che ti ricordi di lui?».
Clara e Sam strabuzzarono gli occhi contemporaneamente, senza parole.
«Oh, ragazzi io so tutto ciò che le persone vogliono tenere nascosto», spiegò Marbas avvicinandosi a loro con un balzo. Clara sobbalzò alla vista dell'ampiezza del salto. Ora il demone era ad un passo da loro. Non voleva dire a Sam della sensazione di familiarità, delle immagini sfocate che aveva su di lui.
«Clara, cosa sta succedendo?».
Clara sospirò e si girò a guardarlo.
Gli occhi verdi di lui erano colmi di domande. Lei sapeva leggere bene gli occhi. Gli occhi, gli specchi dell'anima.
Gli occhi di Sam erano giovani, ma avevano già visto cose terribili.
Decise di accontentare il demone.
«Sam, io credo di averti già incontrato».
Prima che il ragazzo potesse rispondere, Marbas batté le mani una volta. «Questo volevo sentirti dire», mormorò prima di infilzare con il coltello lo stomaco di Sam.
Clara gridò e si ritrovò sola.
Non c'erano angeli, non c'era Marbas. Il demone doveva aver calcolato tutto. Voleva solo Sam fin dall'inizio.
Era completamente sola.
Le sembrava ancora di vedere il dolore nello sguardo di Sam Winchester.
 
* * *
 
 
Dean si era perso in una foresta buia e fitta. Non sapeva più dove fosse, la sua unica luce era quella delle stelle e della Luna. Aveva una torcia in mano, ma non funzionava. Non più, almeno.
Sentiva il freddo penetrare nelle ossa e nella carne, fino a raggiungere il cuore.
Era triste, più triste di quanto non fosse mai stato, come se gli avessero calpestato il cuore più e più volte prima di strapparne un pezzo fondamentale. Ecco, Dean si sentiva come se avesse perso qualcosa, o meglio, qualcuno molto, molto importante.
«Dean» mormorò una voce spaventata più nella sua testa che tra le fronde. «Aiutami».
Il ragazzo tese ogni muscolo del suo corpo, guardandosi intorno. Non riusciva a vedere nulla, era troppo buio. Il suo istinto da cacciatore, inoltre, gli assicurava di essere completamente solo. O era solo la consapevolezza di essere nella propria testa?
«Chi c'è? Dove sei?» chiese comunque. Attese qualche secondo nel silenzio, teso. Alcune piccole gocce di sudore iniziarono a colare lungo la sua fronte, nonostante la bassa temperatura. Sudava freddo dall'ansia.
«Dean» chiamò di nuovo la voce, ora disperata. «Non so dove sono. È tutto buio. Dean, aiutami, vieni a prendermi».
«CHI SEI?» gridò Dean agli alberi. L'eco rimbombò forte nella notte silenziosa. Un vento placido scosse piano le foglie più alte degli alberi e un uccello prese il volo verso il cielo.
Dean sapeva di conoscere quella voce, che per qualche motivo lo rendeva ancora più triste. Era familiare, come quella di Sam o di Bobby, tuttavia non riusciva a ricordare a chi appartenesse.
«Dean, ricordati di me» supplicò la voce prima che Dean si risvegliasse di colpo.



























NdA: ciao a tutti! a tutti quelli che mi odiano per ciò che ho scritto!
siamo arrivati al quinto capitolo e le cose si complicano. visto che la scuola mi tiene sempre troppo lontana dal pc non ho fatto in tempo a rileggere adeguatamente tutto il capitolo. se ci sono errori o passi non chiari fatemelo sapere, provvederò subito a rimettere tutto in ordine. 
se può essere di consolazione sappiate che ho sofferto anche io a scrivere ciò. aiuto, non volevo.
un grazie gigantesco a tutti e niente, scappo a studiare. 
xxx
 

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