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Molto
probabilmente il racconto di questa storia, da buona storia che si svolse tanto
tempo fa in un paese lontano lontano, dovrebbe essere
iniziato con le classiche paroline di rito: “c’era una volta”. Tuttavia, in
quanto questa storia ha ben poco di classico e tradizionale a parte le premesse,
credo che soltanto per stavolta cominceremo in maniera un po’ diversa: dicendo
che a Castlecross il contorno tra realtà e leggenda era labile e sfumato.
Questo
solitario paesino, che contava una popolazione di poco più di duecento anime, e
che a ogni inverno se ne vedeva sottratte diverse, sorgeva nell’entroterra Inglese,
al centro di un’ampia vallata abbracciata da morbide colline. Un bosco di pini
e querce circondava Castlecross, fitto e impenetrabile, tanto labirintico da
scoraggiare anche i più coraggiosi dal pensiero di avventurarvisi: solo i
cacciatori di frodo e i taglialegna vi si recavano ad intervalli regolari,
molte volte ritornando con le braccia cariche di ricchi bottini, troppe
diventando solo un ricordo sbiadito nelle menti di chi riusciva a fare ritorno.
Le abitazioni, poi, si snodavano ad anello attorno ad un ampio terreno
paludoso, dal quale nei giorni più umidi si sollevava una nebbia fitta e
vagamente verdastra che serpeggiava per le strade lastricate di pietra creando
un’atmosfera a dir poco spettrale. È perfettamente normale che, con tali premesse,
nella popolazione di Castlecross fosse cresciuta nel tempo una forte
predisposizione per ogni tipo di superstizione.
Non
era insolito infatti vedere gli abitanti aggirarsi per la città con pesanti
croci di legno o argento appuntate al petto -Begum il macellaio era addirittura
solito portare intorno al collo una lunga treccia d’aglio, per ogni evenienza-
o, ancora, che persone particolarmente stravaganti finissero per essere isolate
dal resto della popolazione, tacciate di stregoneria o di essere state toccate dal Demonio. La leggenda più
amata, quella che veniva mormorata di notte dai genitori per ammansire i figli
ribelli e che suscitava i palpiti di molti cuori coraggiosi, era fra tutte
quella inerente al vecchio e lugubre castello che sorgeva proprio al centro del
terreno paludoso, e a cui la città doveva il suo nome.
Non
restava memoria a Castlecross di chi mai l’avesse edificato, né del fatto che
fosse mai stato abitato da alcun essere umano: l’unica cosa di cui i cittadini
erano certi era che il castello senza nome fosse infestato da niente meno che
un demone, pronto a soddisfare ogni bramosia e a risolvere ogni dilemma in
cambio di anime fresche.
È
proprio questo l’argomento con cui Mrs. Turner aveva deciso di intrattenere i
suoi nuovi affittuari in quel pallido e nevoso pomeriggio di metà febbraio. Aveva
fatto accomodare il giovane medico, che si era presentato come John Hamish
Watson (arrivato in città per sostituire il povero Dottor Wood dipartito un
mese prima), nel salottino buono della sua casa, assieme alla sorella Harriet.
“Vi
dico che il castello è infestato!” sosteneva tra un sorso di tè e un
pasticcino, apparentemente ignara degli sguardi di divertita sufficienza delle
due teste fulve sedute davanti a lei, “Due anni fa la giovane figlia degli Hooper -Molly, ragazza adorabile, il suo banchetto ha i
merletti più belli di tutto il mercato!- ci si è recata per una pozione che le
permettesse di ottenere il cuore del suo amato. Quando è tornata dalla sua
bocca non usciva più neanche un suono, povera creatura!”
Un
lungo istante di silenzio seguì a quell’affermazione, silenzio che venne
interrotto dalle risate soffocate di Harriet e dai discreti colpi di tosse con
cui lo stesso Dottor Watson cercava di mantenere un certo contegno. Sotto lo
sguardo carico di disappunto di Mrs. Turner, l’uomo scosse la testa e sorrise,
passandosi distrattamente una mano fra i capelli.
“Mi
dispiace, Mrs. Turner. Ma, vedete, io e Harry siamo persone di scienza. Questo
tipo di superstizioni non fa per noi.” Pigolò sollevando le spalle, “Sono
altresì sicuro che la fantasia di una fanciulla non debba essere repressa, né
debba essere oggetto di alcuno scherno.”
Mrs.
Turner prese fiato, per poi serrare le labbra in maniera minacciosa. L’aria
adulatoria che aveva indossato come un guanto fino a poco prima le scivolò via
di dosso in un battito di ciglia, mentre con un gesto deciso sbatteva la sua
tazza da thé sul tavolo, rovesciandone il bollente contenuto:
“Mio
caro Dottore…” disse, gli occhi che guizzavano a ripetizione tra i suoi due
ospiti, “…vi consiglio, per amicizia, di non liquidare tutte queste storie come
mere fantasie. Potrebbe far sentire chi vi crede con tutto l’animo in maniera
poco piacevole. Inoltre…” sibilò, abbassando il tono di voce a un sussurro, “…
innumerevoli persone che si troveranno loro malgrado a essere vostri pazienti
hanno perso qualcosa o qualcuno oltre il cancello nero di quel luogo. Quindi, per rispetto se non per il vostro bene, vi
consiglierei di tacere.”
John
abbassò la testa, domandandosi se fossero state le parole stesse o il tono con cui
erano state pronunciate a farlo sentire tanto in imbarazzo. Cercò con gli occhi
sua sorella, che nel momento in cui incontrò i suoi iniziò a parlare:
“Non
intendevamo essere offensivi, o mancare in qualche modo di rispetto. Ci dispiace
avervi dato questa impressione, Mrs. Turner.” Harriet si alzò dalla poltrona
che aveva occupato fino a quel momento, passando al fratello il bastone da
passeggio e sostenendolo mentre si tirava su a volta. “È meglio andare, adesso.
Dobbiamo ancora sistemare le nostre cose nell’appartamento, preparare le stanze
per la nostra famiglia, e predisporre l’ambulatorio per domattina. Quindi…beh…a
presto?”
Mrs.
Turner annuì, l’ostilità mostrata fino a pochi istanti prima evaporata in una
nuvola di sorrisi, nonostante fosse ben chiaro che se non fosse stata bloccata
dall’intervento di Harriet avrebbe avuto molte altre cose da dire. Quella donna
era incostante come un cielo estivo, pensò il Dottore osservandola mentre, stirandosi
con la mano le pieghe che si erano formate nella lunga gonna marrone che
indossava, annunciava che sarebbe salita un momento al piano di sopra per
prendere le chiavi del loro nuovo appartamento.
Quando
li ebbe lasciati soli, John e Harriet tirarono un sospiro di sollievo. “Che donna
insolita! Sembra la classica vecchia capace di non uscire di casa di Venerdì o
Martedì o di impallidire quando sente un cane ululare!” esclamò Harriet,
ridendo e asciugandosi teatralmente una lacrima con la punta delle dita.
John
le sorrise di rimando, facendole però segno di abbassare il tono di voce per
non farsi sentire dalla loro anziana padrona di casa.
“Castlecross
è un paesino piccolo, e come in tutti i paesini piccoli la gente è irretita
dalla superstizione.” disse sospirando, “Dovremo soltanto farci l’abitudine.”
Vedendo
gli occhi di sua sorella tingersi di preoccupazione, John le prese la mano. Lei
lo guardò negli occhi, e con voce incerta chiese:
“Credi
che, oltre che superstiziosa, la gente di qui sia anche…come dire…”
“Bigotta
e ipocrita?” terminò John, storcendo la bocca nello stesso modo in cui lo fece
sua sorella. Capiva perfettamente la preoccupazione Harriet: con sommo
dispiacere dei loro genitori -che, povere anime, avevano devoluto alla sua
redenzione anche il loro ultimo respiro- lei non conduceva la classica vita di
una donna della loro epoca. Anzi, per meglio dire, niente di ciò che la donna
faceva, indossava, pensava o diceva remava molto a favore della sua
‘ordinarietà’. Anche quel giorno i pantaloni di velluto a coste che sfoggiava
aveva attirato non pochi sguardi.
Con
fare protettivo John passò un braccio attorno alle spalle di sua sorella,
avvicinandola perché sentisse solo lei ciò che stava per dire:
“Se
è per Clara che ti preoccupi, non devi farlo. Quando domani arriverà, sono
sicura che la gente di qui se ne innamorerà subito. E anche se così non fosse, non
ce ne interesseremo. In fondo le tue scelte sono tue e di nessun altro, no?”
Harriet
poggiò la testa contro quella di suo fratello, emettendo un sospiro rassegnato, e in quel momento Mrs. Turner fece
ritorno nella stanza stringendo trionfalmente due chiavi dall’aspetto antico
tra le mani.
“Ecco
qua!” disse, porgendo la prima delle due chiavi a John, “Questa è per
l’ambulatorio. Giorni fa ho dato una spolverata, quindi dovreste far presto a
sistemare. E questa…” continuò, consegnandogli la seconda chiave, “… è per
l’appartamento. Mi è stato lasciato da una mia cara amica scomparsa, quindi… per
favore, prendetevene cura.”
“Certo,
Mrs. Turner. Potete contarci.”
John
fece scivolare le due pesanti chiavi nel taschino della giacca, sentendosi
rassicurato dalla sensazione di pesantezza che ne derivava. Con un ultimo,
cortese saluto, lui ed Harriet lasciarono l’abitazione della loro affittuaria immettendosi
nella strada principale del paese. Era febbraio, faceva freddo, e la spalla di
John lanciava dolorosissime fitte a causa dell’aria umida, e il bastone
scivolava sulla strada ghiacciata ma niente di tutto questo contava per lui: da
quel giorno la sua vita ricominciava, dopo tutto il male che aveva sofferto la
sua vita ricominciava, e lui non poteva che sentirsi euforico.
***
Il
ciocco di legno si spezzò, ricadendo nel camino con un tonfo sordo e provocando
un turbinio di scintille incandescenti. Seduto nella sua poltrona in silenzio,
con le lunghe gambe accavallate e le dita delle mani giunte davanti alle labbra
come in preghiera, l’uomo fissava intensamente la danza sinuosa delle fiamme. Aggrottò
le sopracciglia: il fuoco sussultò, crepitò, per un secondo perse vigore per
poi ingigantirsi in un’esplosione bluastra. Immagini cominciarono a formarsi
laddove le vampe erano più brillanti: stralci confusi di strade e palazzi,
sequenze di volti e folle, che si susseguivano in un flusso quasi
indistinguibile.
Cupi
pensieri invasero la mente dell’uomo. Quel giorno non stava accadendo nulla di
interessante in paese. Tutto era così terribilmente noioso. Sempre la solita gente, che faceva sempre le solite cose
nello stesso identico modo. Come gli esseri umani potessero tollerare di
trascinarsi a quel modo nelle loro misere vite rimaneva un mistero per lui.
All’improvviso,
in un fotogramma, scorse qualcosa che stuzzicò la sua curiosità. Tese una mano
in avanti con gesto imperioso, ripensando con nostalgia ai tempi in cui con un
solo movimento degli occhi avrebbe potuto imporre sul fuoco la propria volontà:
sotto il suo comando il flusso di immagini si arrestò.
“Bene bene… cosa abbiamo qui?”
pensò, un sorriso malizioso a
incurvargli le labbra e un leggero velo di sudore sulla fronte. Analizzò
attentamente l’immagine che aveva davanti (e se i suoi occhi si fecero pesanti
per la spossatezza di quello che una volta non sarebbe stato uno sforzo, lui di
certo non se ne sarebbe lamentato): un uomo, all’incirca sulla trentina, che
arrancava zoppicando per strada sostenendosi a un elegante bastone e al braccio
della minuta figura femminile che gli camminava accanto. Non impiegò molto per
comprendere che non erano abitanti di Castlecross -per quasi due secoli aveva monitorato
i cittadini del paese, dalla loro nascita alla loro morte e, no, quei due non
erano fra di essi- e che avevano un’aura di stranezza ad appesantire le loro
spalle. L’uomo, in particolare, aveva qualcosa che lo incuriosiva…
“Ancora
non ti sei stufato di osservare la gentaglia umana, esiasch[1]?”
“Maledizione…”
La
mano che aveva teso in avanti si strinse in un pugno, e il fuoco morì
all’istante, gettando la stanza in un buio quasi palpabile. Attese che i suoi
occhi si adattassero, e iniziassero a fendere il buio con la stessa precisione
della vista di un falco; poi, cercando di imporsi un autocontrollo che non
possedeva, si alzò dalla poltrona. Poggiò l’antico violino che fino a quel
momento aveva tenuto in grembo sul cuscino di pelle, e con occhi illuminati da
luce rossastra e denti scoperti in un ringhio muto si voltò a fronteggiare
colui che l’aveva interrotto:
“Mycroft.
Che immenso piacere è averti qui.
Vorrei dirti che ti vedo bene, ma mentirei: la dieta non ha ottenuto i
risultati sperati, vero?”
“AH!
Molto divertente Sherlock, davvero.”
Mycroft
non aveva reagito alle sue stilettate nel modo in cui avrebbe voluto, tuttavia
Sherlock -quale nome migliore per un essere tanto bizzarro?- poteva dirsi ben
soddisfatto. Pur avendogli risposto a tono, infatti, il suo imponente fratello
aveva irrigidito la sua postura, con il chiaro scopo di far notare il meno
possibile i chili di troppo che lo appesantivano. Sherlock ghignò, stupendosi
nuovamente di quanto loro due fossero diversi: da una parte lui, alto,
slanciato, scuro di capelli; dall’altra suo fratello, sì alto, ma anche
massiccio e con capelli radi e tendenti al rossiccio. Quando entrambi erano
nella loro forma umana, solo il colore degli occhi li accomunava.
Scuotendo
la testa, Sherlock avanzò di un passo verso il fratello: “Tagliamo corto. Cosa
ti porta qui?” esclamò, ogni parola stillante veleno mentre il mondo attorno a
lui appariva sfocato per la fatica,
“Non
potrebbe essere la semplice voglia di vedere il mio dolce fratellino?”
“Preferiresti
fare abluzioni nell’acqua benedetta Mycroft. E sappiamo entrambi quanto le
ustioni non ti donino.”
Una
risata lugubre si levò dal petto dell’uomo, e per un istante la sua forma umana
vacillò: un barlume di ali nere e corna ricurve si intravide prima che
riprendesse il controllo di sé.
“Ah,
mi farai morire!”
“Magari
ne fossi capace! Dimmi subito che cosa vuoi Mycroft. Sei venuto solamente per
farti due risate, allora puoi anche andartene subito. Sono molto occupato.”
Con
un brusco gesto della mano Sherlock indicò al fratello la porta della stanza,
scivolando al contempo verso il camino e afferrando nuovamente il suo violino
dalla poltrona. Assestò lo strumento sotto il mento, saggiando le corde assestandovi
con l’archetto dei colpi decisi, che produssero suoni striduli e sgraziati.
Chiuse gli occhi, aggrottando le sopracciglia per la concentrazione, ma proprio
quando stava per cominciare a suonare, Mycroft gli strappò l’archetto dalle
mani.
“Il
tuo potere si sta indebolendo.”
Sherlock
rabbrividì, ma non aprì gli occhi. Non era una domanda quella che gli stava
rivolgendo suo fratello, era solo una lapidaria costatazione. Si morse le
labbra.
“Non
so di cosa tu stia parlando…”
“Certo
che lo sai. Non c’è modo in cui tu possa non essertene accorto. Prima potevo
percepire la tua aura da chilometri di distanza… estendendo la mia coscienza
potevo percepirti addirittura dagli Inferi.”
“Con
percepirmi intendi forse spiarmi?” sbottò Sherlock,
schiaffeggiando via la mano del fratello. Avrebbe voluto abbandonare la sua
maschera e assumere la sua forma demoniaca, ma in quel momento, odiava
ammetterlo, un tale sforzo lo avrebbe portato a un certo svenimento -e se c’era
al mondo un essere di fronte al quale non poteva permettersi di mostrarsi
debole, quello era Mycroft. Lo sfidò dunque con gli occhi, sperando che l’odio
che vi avrebbe potuto leggere fosse sufficiente.
Così
non fu, e Mycroft sospirò stizzito: “Non cambiare argomento, Sherlock. Sono
preoccupato per te.”
L’unica
risposta che l’uomo ricevette fu un’incredula quanto amara risata, che spazzò
via ogni briciolo di pazienza che Mycroft conservava nel suo cuore: e ne aveva
tanta, lui, di pazienza. Ci fu un sonoro schiocco, seguito da un rombo che
scosse le pareti: fumi neri e verdognoli si sprigionarono dalla figura
dell’uomo, inquinando l’aria e indebolendo Sherlock ulteriormente,
costringendolo al silenzio.
“Guardati…
guarda come ti sei ridotto.” disse con voce disgustata, passandosi una mano sul
volto, “E per che cosa, poi? Per il tuo gioco perverso e malato? Non ti
capisco, fratello. Proprio non ti capisco.”
Lanciò
a Sherlock uno sguardo pietoso, addolorandosi di fronte alla misera condizione
in cui si trovava il sangue del suo stesso sangue. Mai avrebbe immaginato di
vedere un erede della stirpe degli Holmes ridotto a un pallido e tremante
mucchio di ossa. Con un nuovo sospiro dissolse l’aura nera con cui teneva Sherlock
immobilizzato, osservandolo cadere in ginocchio e portarsi una mano alla gola, il
suo prezioso strumento abbandonato a terra. Non mosse un passo verso di lui,
solo, continuò a parlare.
“Quanto
tempo è trascorso Sherlock? Da quanto tempo vivi nel mondo degli umani?”
Per
un attimo la stanza piombò nel silenzio, attimo durante il quale Sherlock si
erse nuovamente in piedi a fatica. Guardò il fratello con occhi di fiamma,
mormorando in maniera quasi impercettibile:
“Duecentonovant’otto
anni.”
Mycroft
emise un ringhio sommesso, un misto di rabbia e incredulità. “Tutto questo tempo sulla terra senza essere
stato evocato…”
Stava
correndo un rischio troppo grande perché Mycroft potesse permetterglielo. Il
tempo dei giochi era finito: se fino a quel momento aveva assecondato ogni suo
capriccio, sperando che l’esperienza istillasse un po’ di buon senso in lui,
adesso avrebbe preso la situazione fra le mani.
“Ti
darò due inverni di tempo fratello. Quando la primavera sarà tornata per la
seconda volta, tornerò qui. Ti ricondurrò negli Inferi con me, volente o
nolente. Metterò fine a questa follia, visto che tu non ne sembri minimamente
intenzionato a farlo.” Ringhiò, provando dolore al modo in cui ogni parola
sembrasse assestare a Sherlock un colpo mortale.
Con
un lampo, Mycroft assunse la sua forma demoniaca, voltandosi per lasciare
quella dimora e quel mondo una volta per tutte, lasciando Sherlock solo nella
sua ira. Senza dire una parola, Sherlock si gettò di peso sulla poltrona, che
per un istante vacillò. Vi si raggomitolò più che poté, cercando nel suo stesso
abbraccio protezione dal senso di sconfitta che sentiva.
Due
anni. Poco più che un battito d’ala di colibrì nella vita di un Demone. Due
anni… non sarebbero mai stati sufficienti. Aveva così tante cose da vedere, così tanti esperimenti da
condurre. Non era pronto per tornare nel mondo dei Demoni, no, non ancora. A
meno che…
“A meno che non sottoscriva un
contratto con un essere umano. Un’anima per la mia permanenza: prezzo più che
equo.”
Quando
la consapevolezza lo colpì, si ritrovò a ridere amaramente. Se non aveva
vagliato quell’opzione in tutti quegli anni un motivo c’era. Scuotendo la testa
mosse la mano nell’aria, e con un poof il fuoco tornò nuovamente a illuminare la stanza
dall’incavo del camino.
“Mrs.
Hudson! Tè, subito.” Tuonò a gran voce, attendendo che il calore raggiungesse
la sua pelle congelata. Dei passi echeggiarono frettolosi in lontananza, e il
fuoco crepitò: Sherlock cominciò a chiedersi come sarebbe stato riaccolto nel
suo mondo dopo tanti anni. Mordendosi le labbra fino a sentire il sapore del
suo stesso sangue si rese conto che non era poi così ansioso di scoprirlo.
Note dell’autrice:
Questa è una storia nata
un po’ per sfida, un po’ per capriccio: da una parte volevo mettere alla prova
la mia capacità di cimentarmi in una long-fic,
dall’altra ho cercato di trovare un modo per espellere dal mio sistema nervoso
la mia ossessione per Sherlock il più possibile. Per quanto riguarda la seconda
finalità… ho miseramente fallito (e la cosa peggiore è che non me ne faccio un
problema xD). Non mi resta che vedere se sarò in
grado di mettere insieme una fanfiction degna di
questo nome. Fatemi sapere che ve ne pare, io ce la metterò tutta ;)
PS: cercherò di
pubblicare i miei capitoli a distanza di massimo due settimane l’uno
dall’altro. È una WIP… ci sto lavorando ;)
“Applicate
l’unguento tre volte al giorno, con movimenti circolari. Dovrebbe alleviare il
prurito, così questo piccolo soldatino potrà recuperare un po’ di ore di
sonno.”
Sorridendo
calorosamente alla vista dell’espressione sollevata della donna poggiata alla
parete di fronte a lui, John scompigliò i capelli del suo giovane paziente,
sentendo il cuore leggero quando questi lo ripagò con una squillante risata.
“È
incredibile come Anson sia calmo con voi dottore!” tubò la donna, avvolgendo suo figlio con un
pesante scialle di lana e sollevandolo dal lettino su cui John lo aveva
sistemato per la visita, “Quando lo portavo dal Dottor Wood -che riposi in
pace!- era sempre un gran piangere!”
“Non
saprei che dire…” rispose John, sentendosi arrossire leggermente, “Sarà perché ci
so fare, con i bambini…”
“Oh
questo è piuttosto evidente, Dottore!”
In effetti, le numerose zollette di zucchero
che aveva tanto allegramente concesso al bambino mentre lo auscultava, o tutte
le moine che gli aveva rivolto -e che gli sarebbero certamente valsi epiteti
poco simpatici se Harry, Dio non volesse, lo fosse venuto a sapere- lasciavano
poco spazio a dubbi.
Congedando
la donna con un sorriso, John cercò con gli occhi la superficie di legno della
sua scrivania, sulla quale due cornici gemelle, che erano sistemate in modo
tale da mostrare le foto che gelosamente contenevano soltanto agli occhi di chi
si fosse seduto nella morbida poltrona di pelle verde muschio. I suoi pensieri corsero
subito a Hamish: ai suoi occhi luccicanti, al modo unico in cui lo accoglieva
quando tornava dal suo studio, alla sua risata…ah! Non c’era niente, NIENTE che
potesse eguagliare l’allegria sprigionata dalla risata di suo figlio.
Chissà
come si stava comportando in quel momento. Il viaggio da Londra a Castlecross
era incredibilmente lungo, soprattutto se vissuto da un bambino di otto anni
che non era capace di stare fermo neppure quando dormiva, e Clara era
certamente una zia amorevole, ma tutt’altro che paziente. Forse in quel momento
stava chiedendole per la centesima volta di fermare la carrozza e scendere due
minuti. O più probabilmente stava facendo impazzire il cocchiere ripetendo fino
allo sfinimento ‘Siamo arrivati?’. Si ritrovò a ridacchiare come un’idiota,
anche se la sua risata era più amara di quanto avrebbe voluto ammettere. Perché
i suoi pensieri si stavano incanalando in un flusso doloroso, fluendo dal
piccolo Watson alla donna che lo aveva messo al mondo, e in quel momento lui
non voleva…
“Buon
pomeriggio, Dottore.”
…e
a quanto pareva, non poteva neppure. Si armò del suo migliore sorriso da niente paura, c’è un medico in sala e si
voltò verso la porta del suo studio. Un secondo dopo, il sorriso era stato
sostituito dall’espressione più inebetita in cui il suo viso poteva esibirsi e
la sua mascella minacciava di andare a prendere posto sul pavimento. La sua
nuova paziente -che lo squadrava soddisfatta, ogni piega del suo sorriso piena
della consapevolezza di aver fatto un certo effetto sul timido Dottore- era a
dir poco una donna appariscente: strizzata in un corsetto nero di almeno due
taglie più piccolo, aveva labbra rosse come il sangue, gioielli vistosi, occhi
svegli e maliziosi e soprattutto un frustino di pelle stretto tra le mani
guantate.
“Vi
consiglio di prendere fiato, Dottore. Ho bisogno di tutte le vostre cellule
vive e attive. Se avessi voluto parlare con un decerebrato, beh, avrei parlato
con uno qualsiasi dei miei clienti.” Gli disse con voce vellutata, e John
dovette scuotere con vigore la testa per scuotersi dal torpore della sorpresa.
Da
Castlecross si era aspettato di tutto… meno che trovare una donna come quella.
Dieci sterline che fosse l’argomento preferito dei pettegolezzi che venivano
scambiate di Domenica, nella piazza della Chiesa. E avrebbe giocato al ribasso.
Deglutì.
“Perdonatemi, Mrs...?”
“Miss,
prego. Miss Irene Adler. Ma gli amici mi chiamano semplicemente ‘La Donna’. E
con amici intendo…”
Disagio.
Disagio tremendo. E certo il fatto che John non riuscisse a smettere di fissare
Miss Adler non era d’aiuto. Proprio per niente. Cercò di riprendere il
controllo di sé (“Andiamo, Watson! Sei
stato in guerra, non puoi lasciarti sbigottire da una donna! Riprenditi, per
Dio!”), e portando gli occhi sul pavimento (vecchio pavimento, innocuo
pavimento, pavimento che non era armato di frustino) si schiarì la voce.
“Prego
accomodatevi Miss Adler…” disse, indicandole la direzione generale del lettino,
“…e ditemi: cosa posso fare per voi?”
Il
rumore di tacchi a spillo sul pavimento gli ferì le orecchie. Solo quando John
fu sicuro che si fosse sistemata comodamente si azzardò ad alzare gli occhi,
attendendo pazientemente che la donna parlasse.
“Non
temete, Dottore. Non è per un motivo che concerne la mia salute che sono venuta
a parlavi.” Si sentì uno schiocco nell’aria, come se la donna avesse voluto
tacitare ogni possibile intervento di John con un colpo secco del suo frustino,
“Vedete, io ho una piccola attività, qui in paese. Lavoro abbondante,
collaboratrici piacevoli e vivaci… ma, ahimè, umane. E come tali, soggette ai
malanni del mondo, pur necessitando -in virtù del loro impiego- di una dose
supplementare di discrezione. ”
John
non capì immediatamente di che cosa la donna stesse parlando riferendosi alla
sua attività, né poté fare a meno di chiedersi per quale motivo si fosse recata
in ambulatorio così presto al mattino se non aveva immediato bisogno di cure.
Poi, qualcosa fece click nella sua
mente, e finalmente gli abiti della donna, il suo modo di fare, il suo discorso
sulla discrezione cozzarono insieme. Se stavolta la mascella di John non cadde,
fu solo per mera casualità.
Miss
Adler si portò una mano alla bocca per nascondere il sorriso che lo stupore di
John aveva causato. Era interessante, quel piccolo Dottore. Se le voci erano
vere, aveva vissuto in una grande città per gran parte della sua vita, aveva
barattato la monotonia di tutti i giorni per la sabbia del deserto e l’orrore
della guerra ed era tornato ferito e rotto -eppure, riusciva ancora a stupirsi
genuinamente di trovarsi davanti una donna di mal affare. Se non fosse stato così
ordinario, lo avrebbe definito quasi carino.
“Perché
siete qui, Miss Adler?” le chiese John, un caldo sorriso sul volto nonostante
il suo evidente disagio,
“Solo
per sondare il terreno in vista di una futura, piacevole collaborazione.” Se la
voce di Miss Adler somigliò vagamente ad un miagolio, nessuno dei due ne fece
parola.
“Collaborazione?”
“Ma
certo, Dottore! Le ragazze hanno bisogno, io vi faccio un fischio, e voi correte.
Con discrezione, ovviamente: non vorremo far pensare alla buona gente di Castlecross
che il loro buon Dottore sia soggetto ai bisogni della carne come un uomo
comune!”
Per
un attimo John ebbe la tentazione di puntare i piedi, e dire alla donna di
prendere la sua arroganza e uscire da quella porta. Non era un genio, non lo
era per niente, ma non serviva un intelletto superiore per capire che c’era
qualcosa di sbagliato in Miss Adler: dietro alla facciata di bellezza e
maliziosità -che certamente i suoi clienti apprezzavano largamente- John
riusciva a scorgere un’oscurità ben più intrinseca del lavoro che praticava. Il
suo istinto gridava a gran voce di stare alla larga da quella donna il più
possibile, e lui aveva imparato anni addietro a dare ascolto al suo istinto.
Ma…
Perché
c’era un ‘ma’: come poteva in sua coscienza rifiutare un aiuto a chi aveva
bisogno? Se vivere a Londra gli aveva insegnato qualcosa, e gli aveva insegnato
molto, era che le malattie più pericolose e infide si annidavano proprio tra i
velluti e l’aria pregna di profumi a buon mercato delle case di tolleranza.
“Se c’è un posto in cui ci sarà reale bisogno
di un medico, sarà certamente da Miss Adler e dalle sue affiliate…”
Sospirò,
poggiando tutto il suo peso sul bastone. “Il Dottor Wood come si comportava in
merito?”
“Sareste
sorpreso sapendo con quanto zelo, entusiasmo e sollecitudine il buon vecchio Francis
era solito rispondere alle nostra chiamate. Fino all’ultimo, oserei dire, si
tratteneva da noi ben più a lungo di quanto richiedessero i suoi doveri.”
L’insinuazione
celata nella voce della donna fece venire a John la pelle d’oca, e fu costretto
a stringere i pugni fino ad avere le nocche bianche per non sbottare. La sua
tensione non sfuggì alla Adler, e la sua lingua fu pronta a sputare ulteriore
veleno.
“Suvvia!
Non dovete stupirvi! È una cosa perfettamente normale!” esclamò, alzando le
mani in un falso segno di resa, “In fondo, il metodo di pagamento che Francis
aveva scelto passava proprio attraverso le mie ragazze. Letteralmente.”
Dovette
leggere il puro disgusto che trasudava da tutta la figura di John, perché
subito -anche se con il gusto di chi ama sondare i limiti delle persone con cui
ha a che fare- si affrettò ad aggiungere che, nel caso in cui John si trovasse
a disagio, si sarebbero potuti accordare su un metodo alternativo per
ricompensarlo dei suoi servigi.
“Non
chiederò né più né meno di quello che chiedo di solito ai miei pazienti, Miss
Adler.” Fu la pronta risposta dell’uomo, “Anche se dovrò chiedervi di andare,
adesso. Sono certo che ci siano altri pazienti in attesa di farsi visitare, con
bisogni che richiedono la mia attenzione immediata.”
“Ma
certo, certo!”
La
donna si alzò e con una strizzata d’occhio e un sorriso che aveva un certo che
di serpentino lasciò languidamente lo studio. Dietro di lei si lasciò una vaga
traccia di profumo soffocante e decadente, e John si rese conto di aver
trattenuto il fiato soltanto quando Harriet fece irruzione poco dopo nella
stanza, chiudendo la porta e appoggiandovi le spalle.
“Oh.
Mio. Dio.” Sospirò, guardando suo fratello con occhi quasi spiritati e un
soffuso rossore sulle guance, “L’hai vista?”
“Miss
Adler intendi? Come non vederla.”
A
John non piaceva lo sguardo di sua sorella, non gli piaceva per niente. Anche
un cieco avrebbe visto che Harriet era rimasta piuttosto scossa dall’incontro
con la bella meretrice, quindi, se le parole uscirono dalla sua gola in maniera
quasi minacciosa, doveva essere scusato.
“Oh,
andiamo! Non fare quella faccia! Volevo solo dire che non si incontrano tutti i
giorni donne così belle.”
“Sono
sicuro che Clara avrebbe qualcosa da dire al riguardo.”
Se
gli sguardi avessero potuto uccidere, John sarebbe perito sotto l’ira che
sprizzava dalle pupille della sorella. Ghignò nella sua direzione: sapeva di
aver giocato sporco, ma non gli importava affatto.
Harriet
praticamente sibilò: “Clara non è qui adesso.”
“Ma
sarà qui prima di sera.”
“E
tu naturalmente farai il soldatino diligente e le dirai che ho posato gli occhi
su un’altra donna. Andiamo, John. Sappiamo tutti e due che guardare non
equivale a tradire.”
Touché.
Ma anche se Harriet aveva ragione, questo non impedì a John di lanciarle una
delle sue occhiate di biasimo. Se soltanto cose del genere avessero avuto
ancora effetto su di lei…
“Cambiamo
discorso, che è meglio. Quanti pazienti sono in fila fuori?”
“Non
molti. Solo una vecchietta con il raffreddore e un paio di uomini che portano i
segni di una notte brava.”
John
prese un bel respiro, riflettendo sull’evenienza di far passare avanti i due
uomini confidando sulla pazienza della vecchietta, quando si rese conto che non
solo Harriet si era accesa una sigaretta -tralasciando esplicitamente il fatto
che John semplicemente non potesse sopportare il fumo- ma si stava rigirando
tra le mani quello che aveva tutta l’aria di essere un biglietto da visita. Di
nuovo, fare due più due non fu poi così arduo.
“Dimmi
che non hai accettato il biglietto da visita di Miss Adler.”
“Va
bene. Non ho accettato il biglietto da visita di Miss Adler.”
In
un altro momento l’ironia di Harriet lo avrebbe fatto ridere. In. Un. Altro.
Momento.
“Devo
elencarti le dieci ragioni per cui hai sbagliato o riesci a trovarle da sola?”
Harriet
ignorò il tono supplichevole della sua voce, impegnata com’era a leggere a voce
alta il contenuto del bigliettino.
“Calico Club. Mh. Non sono sicura che sia
un nome appropriato per una casa di piacere.”
“Harry…”
“Oh,
guarda! Non è neppure troppo lontano da qui.”
“Harriet…”
“Sai
quasi quasi potrei farci un salto. Solo per controllare che le… ehm… ragazze
siano tutte sane e felici.”
“HARRIET
CATHERINE WATSON! Mi auguro che il tuo comportamento sia dovuto al tuo insano
desiderio di vedermi impazzire, e non a una tua reale e sfrontata follia!”
Il
grido fu talmente forte che, nella stanza accanto, le tre persone che avrebbero
voluto farsi visitare si scambiarono occhiate basite. Alla vecchia Mrs. Miller
sfuggì anche un rapido segno della croce, solo per buona norma. Comunque,
furono soltanto loro ad essere toccate da quella rumorosa sfuriata: Harry Watson
infatti danzò serena e tranquilla fuori dallo studio del fratello, facendo
cenno a uno degli omaccioni -quello con un’evidente frattura al naso- di farsi
avanti ed entrare.
John,
dal canto suo, si sentiva a dir poco sfibrato. Sperava soltanto che le sei
arrivassero in fretta, e che potesse annegare i suoi pensieri nei ricci del suo
bambino prima di impazzire sul serio.
***
Il
viaggio era noioso. NO-IO-SO.
Zia
Clara non aveva fatto altro che dormire per tutto il tempo, e dopo la terza
volta -okay, forse era più la ventesima volta- che lui aveva provato a chiedere
al cocchiere quanto mancasse per arrivare a Castlecross, l’uomo lo aveva
minacciato di fermare la carrozza e fare dietro-front per Londra se avesse
sentito anche un solo fiato da lui.
Se
non fosse stato per Gladstone, a quell’ora sarebbe morto di noia. Anche se il bulldog
poteva far poco, a parte sbavare sul vestito nuovo di zia Clara e continuare a
dargli la zampa (nonostante lui gli stesse ordinando di fare il morto), per
intrattenerlo.
In
poche parole, Hamish Watson era a dieci minuti di distanza da un capriccio di
dimensioni epiche. Non avrebbe ottenuto niente -di certo non aveva l’illusione
che un suo pianto, per quanto rumoroso e ben ricco di lacrimoni fasulli e
lamenti strappacuore, potesse in qualche modo accorciare il tragitto fino a
quel posto perso in mezzo al nulla che sarebbe stata casa sua- ma lo avrebbe
aiutato a passare un po’ di tempo.
Sospirò,
guardando fuori dal finestrino i fiocchi di neve che turbinavano nell’aria. Quando
diceva perso in mezzo al nulla, Hamish non scherzava. Castlecross era talmente
piccino che non si trovava neppure nelle cartine: quando aveva detto al suo
insegnante che si sarebbe ben presto trasferito in quel posto, lui lo aveva
addirittura accusato di essersi inventato tutto; se non fosse stato per il
pronto intervento di zia Harry, Mr. Jones sarebbe stato ancora lì a sindacare
sulla sua, testuali parole, ‘fantasia sovra-stimolata’. Per non parlare delle
facce sorprese di Louis e Carl, i suoi due migliori amici…
Fu
in quel momento, tra il rammarico per gli amici che si era lasciato alle spalle
e l’impazienza di rivedere suo padre, che la monotonia del viaggio venne
spazzata via.
Cominciò
tutto proprio con Gladstone. Suo padre gli aveva regalato il cagnolone ormai
tre anni prima, per il suo compleanno, e in tutto quel tempo Hamish non l’aveva
mai sentito abbaiare, nemmeno una volta -tanto che si era più volte chiesto se
il bulldog fosse troppo buono o troppo stupido per comportarsi da cane normale.
Comunque, quel giorno il cucciolone decise non solo di abbaiare… ma anche di
mettersi a ringhiare. Ferocemente, pure, con tutto il corpo scosso dall’ira e i
denti scoperti. Già questo sarebbe stato più che sufficiente a spaventare
Hamish a morte: il brusco arrestarsi della carrozza e il filo di panico negli
occhi neri di zia Clara quando si svegliò servirono soltanto da contorno -la
classica ciliegina sulla torta.
“Zia…che
succede?”
“Non
lo so tesoro. Mr. Hook? C’è qualcosa che non va?”
Il
cocchiere non rispose: il ringhio di Gladstone si fece più cupo, e di lì a poco
vi si unì il raschiare delle sue unghie contro la porta della carrozza.
Clara
deglutì, cercando di sorridere a suo nipote nel modo più rassicurante
possibile. In entrambe le loro menti riecheggiava a ripetizione l’avvertimento
che suo padre aveva dato loro prima di partire, il giorno precedente: non
scendete dalla carrozza per nessun motivo, perché la foresta è pericolosa.
Molto probabilmente avrebbero avuto un piccolo assaggino di quel ‘pericolosa’.
“Mr.
Hook?”
Hamish
cominciò a pensare che il cuore gli sarebbe esploso nel petto, tanto forte
batteva. Cacciò indietro le lacrime che minacciavano di straripare dai suoi
occhi, e in un gesto quasi istintivo si voltò verso sua zia per affondare il
viso nel suo scialle e isolarsi così da quel terrore.
E
fu così che, mentre si voltava verso Clara disperatamente, che la vide fuori
dal finestrino: una donna, magra da far spavento, con capelli ricci e selvaggi
e pelle scura; si muoveva nel bosco, tra la neve, vicino alla loro carrozza, ma
non in maniera naturale… sembrava sul punto di cadere ad ogni passo, come se
l’aria fosse diventata improvvisamente troppo pesante per lei. Ad Hamish mancò
all’improvviso il respiro. Avrebbe voluto tanto poter distogliere lo sguardo, o
per lo meno avvertire zia Clara, dirle di guardare fuori, ma non poteva,
semplicemente non poteva, perché quella figura stava girando il viso nella loro
direzione, e lui sapeva, ancor prima di vedere sapeva che non avrebbe avuto occhi. Finalmente, dopo quella che
sembrò a tutti gli effetti un’eternità, mentre il vuoto di quelle due cavità
mostruose gli scavava la pelle, le palpebre di Hamish riuscirono a serrarsi.
Quando le riaprì, Gladstone russava tranquillamente ai suoi piedi, mentre zia
Clara scambiava facezie con il cocchiere.
La
carrozza si muoveva tranquillamente, come se niente fosse successo. Della
donna, neppure a dirlo, non c’era traccia.
Hamish
Watson credette di aver sognato.
***
“Oh,
Sherlock! Questa volta hai proprio esagerato!”
Un
gesto della mano: per scacciare Mrs. Hudson dalla stanza non servì altro. Certe
volte la donna rimaneva cocciutamente al suo posto, mani sui fianchi e volto
tempestoso, e Sherlock era costretto a ricorrere a un pizzico dei suoi poteri
illusori per terrorizzarla e farla uscire dalla sala strillando che ne aveva
abbastanza e se ne sarebbe andata -non che lo facesse mai… Sherlock poteva fare
letteralmente di tutto, da spargere frattaglie sulle pareti di tutto il
castello a fare esplodere le cucine, e lei non se ne andava mai.
Quel
giorno però, evidentemente, vederlo trastullarsi con gli occhi che aveva appena
acquisito era stato già troppo per lei. Poco male. Non poteva perdere tempo con
Mrs. Hudson, aveva da fare: Aggie Donovan aveva pagato il prezzo che le era
stato richiesto, ora toccava a Sherlock mantenere la parola data.
Si
alzò con fatica dalla poltrona, barcollando da una parte all’altra quando un
ormai dolorosamente familiare senso di vertigine lo assalì. Rimase immobile,
mentre il mondo intorno a lui ruotava impietosamente, un alone nero che si
addensava ai lati di ciò che vedeva, un vago ma persistente senso di nausea ad
attanagliargli la bocca dello stomaco.
Se
Sherlock fosse stato un Demone dotato di ironia, in quel momento avrebbe riso
pensando a come si era ridotto. Sfortunatamente, l’autoironia non era fra le
sue doti più affermate. Lo era la cocciutaggine, però. E non avrebbe permesso a
quel corpo che altro non era che un mero trasporto di limitare le sue azioni.
Incespicò
fino alla scrivania, lasciandosi sfuggire un “Laat[1]!”
accorato quando per poco non cadde, e le sue mani non persero la presa sul suo
preziosissimo bottino. Sarebbe stato… inconveniente: chissà quanto tempo
sarebbe passato prima che qualcun altro gli offrisse i suoi occhi su un piatto
d’argento -e lui, di tempo, non ne aveva più.
Alzando
gli occhi al cielo, Sherlock si voltò nella direzione da cui proveniva quella
voce gracchiante. Le orbite vuote di un teschio lo osservavano con interesse
dalla mensola del caminetto.
“Ti
ho detto un centinaio di volte di non usare la lingua antica in questo modo,
Yorick.” Ringhiò, lanciando al suo interlocutore uno sguardo di disapprovazione
a cui il teschio rispose facendo schioccare i denti.
“Se
non qui, dove? Non credo che torneremo presto negli Inferi. E se non mi esercito
chissà, potrei perderne la memoria.”
“I
teschi non hanno memoria.”
“Al
contrario! Non c’è memoria più forte di quella conservata nelle ossa. E
comunque, non hai risposto alla mia domanda. Di chi sono quegli occhi?”
Sconfitto,
Sherlock sospirò. “Aggie Donovan. La figlia di Ford Donovan.”
“L’ubriacone?
Hanno deciso di liberarsi di lui? Poco male: sarà un buon pasto per te.”
Ignorando
quell’ultima esclamazione, Sherlock spostò l’attenzione sulla scrivania davanti
a sé.
Per
fortuna, Mrs. Hudson aveva preparato il barattolo di formaldeide come lui aveva
richiesto. Lo infastidiva oltre ogni dire dover rinunciare alla sperimentazione
su un tessuto appena rimosso dal corpo umano, ma aveva seri dubbi che nel suo
stato presente avrebbe potuto portare a termine il suo esperimento senza commettere
una qualche disattenzione e mandare tutto a rotoli. Avrebbe dovuto rimandare… e
il fatto che avesse un rito da portare a termine spingeva decisamente in favore
di quell’opzione.
Osservò
per un istante i bulbi oculari fissarlo lugubremente attraverso il liquido e il
vetro del barattolo, per poi prendere un respiro e gettarsi nella generale
direzione del suo studio, sordo al richiamo di Yorick che gli suggeriva di
portarlo con sé.
Era
nello studio che portava a termine tutti i suoi lavori. Nessuno lo disturbava
mai in quel luogo.
Aveva
fatto solo pochi passi nella stanza quando una nuova ondata di nausea lo
aggredì, e Sherlock si ritrovò inginocchiato a terra, con una mano sulla bocca
per impedirsi di gridare. Il suo corpo lo stava implorando: sentiva il richiamo
degli Inferi scivolare su di lui con le sue note maledette e seducenti.
Ma
Sherlock rimase sordo anche a questo richiamo. Si alzò in piedi, sibilando
maledizioni su maledizioni, e con mano tremante raggiunse un piccolo pugnale e
si incise la punta delle dita.
Molti
Demoni non avevano bisogno di utilizzare quelli che gli sciocchi e ignoranti
esseri umani definivano ‘Cerchi Alchemici’ per estendere la loro coscienza e
interagire attraverso di essa con il malcapitato verso cui era stato diretto il
suo intervento. Era loro sufficiente incanalare la loro energia nelle venature
che scorrono nell’universo, raggiungere il loro obiettivo, e beh… fare la loro
‘magia’.
Fino
a un secolo prima, Sherlock era fieramente fra di essi. Era potente, sicuro di
sé, e con un semplice schiocco di dita avrebbe potuto ridurre un essere umano
in cenere a un continente di distanza. Bei tempi, quelli.
Il
disegno fu tracciato sul pavimento con gesto sicuro, il sangue che bruciava sul
legno lasciando segni neri e arrabbiati. Sherlock optò per un cerchio semplice,
che gli avrebbe permesso di portare a termine il suo compito e insieme
succhiare un po’ di energia dalla rete del creato. Si piazzò al centro di esso,
esattamente nel nodo del cerchio, e chiuse gli occhi: quando le fiamme bianche
e nere cominciarono a vorticare intorno a lui, l’immagine della sua vittima si
formò nella sua mente.
Ford
stava bevendo, proprio come aveva preannunciato Aggie.
Chino
sul bancone, quella patetica scusa di un essere umano continuava a farsi
riempire il bicchiere, annegando nell’alcool il senso di colpa per quell’anima
nera che si ritrovava.
Avrebbe
potuto essere vero boccone prelibato, quell’anima, Yorick aveva ragione. Anni e
anni di violenze e abusi ne avevano sfumato i contorni, le avevano strappato
deliziosamente ogni oncia di innocenza e l’avevano condannata alle fiamme.
“Biah[3].”
Ordinò Sherlock imperioso, tremando appena quando la sua energia fuoriuscì
da lui.
Rispondendo
al suo comando, l’umano si alzò. Barcollava grandemente, la mente annebbiata,
la bocca spalancata e penzolante. Sherlock ghignò: gli sarebbe bastata una
semplice spintarella, niente di troppo faticoso, perché l’uomo incontrasse il
suo destino. Attese con la pazienza di un felino che gioca con la sua preda che
i passi caracollanti dell’uomo echeggiassero sul ponticello di legno che univa
i due anelli della città, poi fece la sua mossa.
Si
udì un tonfo, poi un rumoroso CRACK quando
il corpo appesantito dell’uomo infranse la superficie ghiacciata dell’acqua e
sprofondò nel suo turbinio. Pochi minuti, solo pochi minuti, e Sherlock sentì
quell’anima deliziosamente inquinata fuoriuscire dalla sua sede. Sarebbe stato
così facile per lui consumarla e saziarsene; da troppi secoli il suo corpo non
veniva sostentato da un’anima umana, e la tentazione era forte…
No.
Si sarebbe limitato a prelevarne un po’ di energia, sufficiente a sostenerlo
fino al prossimo incarico, niente di più. Aprì la mente, sospirando quando
l’energia fluì in lui, quasi singhiozzando quando l’anima di Ford sparì nel
terreno. Dopo tanto, respirare non gli provocò alcun capogiro; la nausea
rimase, però, nutrita dal disgusto che provava per sé stesso.
Le
fiamme si esaurirono, e l’immagine dell’uomo svanì dalla sua mente. Era certo
che la sua morte non sarebbe stata pianta da nessuno: non dalla moglie che
tradiva, non dai figli che picchiava, non dai compaesani che provavano per lui
solo fastidio. Mentre dodici tuonanti rintocchi echeggiavano in lontananza,
Sherlock, che non si era accorto di essere scivolato via dalla sua pelle umana,
recuperò il barattolo con la formaldeide ed iniziò il suo esperimento.
Note dell’autrice:
Eccoci con il secondo
capitolo, un po’ in anticipo rispetto al previsto, ma da domani non avrò
internet che nei weekend e volevo istaurare una certa cadenza negli aggiornamenti
:)
Vi ringrazio per la
calorosità con cui avete accolto questa storia: i commenti dei lettori non solo
fanno sempre molto piacere, ma sono davvero utili per capire come proseguire
nel racconto ^_^
Pioveva
quando la carrozza finalmente fermò la sua corsa di fronte alla loro casa. Una
pioggia sottile e gelida, come tanti piccoli aghi che penetravano attraverso i
vestiti e trasmettevano a John delicate scosse di brividi. Il cielo era così grigio
e la temperatura così bassa che John si chiedeva se avrebbe nevicato di nuovo,
o se l’acqua avrebbe spazzato via la neve che si era ammucchiata per strada.
Sperò vivamente che quello non fosse il caso: Hamish amava la neve, soprattutto
la parte in cui poteva raccoglierla in tante palle e lanciarla a sua zia,
mandandola su tutte le furie. Ripensandoci, anche John amava la neve.
“Eccoli!
Eccoli!”
John
guardò Harry rimbalzare da un piede all’altro, incapace di contenere
l’entusiasmo. Tremava leggermente per il freddo - nessuno dei due aveva avuto
la decenza di afferrare un cappotto prima di uscire, figurarsi un ombrello - e
indicava una figura nera che si avvicinava rapidamente in lontananza.
John
si congelò sul posto; prima che riprendesse il controllo di sé, aveva le
braccia piene di Hamish ed era circondato da due donne che urlavano come
ossesse, tanto erano felici di rivedersi.
“Papà!”
Dal
modo in cui il piccolo si ancorò a lui appena lo vide, tremando leggermente e
rischiando di farli cadere entrambi per lo slancio con cui lo raggiunse, John
capì che qualcosa durante il viaggio doveva averlo scosso, ma quando interrogò
il bambino lui gli rispose che non era successo niente. Questo, insieme alle
rassicurazioni di Clara, la quale affermava che il viaggio era stato tranquillo
se non noioso, gli fece accantonare momentaneamente la questione in favore
della necessità di scaricare i bagagli e sistemare gli ultimi dettagli
nell’appartamento…. anche se John non riusciva a togliersi dalla mente la
strana luce che era apparsa negli occhi di Hamish quando gli aveva domandato:
“Successo niente di interessante durante il viaggio?”.
Prima
che tutto fosse sistemato, erano ormai le dieci di sera. Avevano cenato
rapidamente con pollo freddo e verdure, preparati di gran fretta da Clara e
consumati ancor più velocemente tra un quadro da appendere (“E secondo il tuo
genio come dovrei fare a attaccare quella cosa? Ho un bastone, vedi? E se lo
lascio per prendere in mano la cornice il mio equilibrio ne sarà di certo
compromesso!”) e un tappeto da buttare (“Ci sono talmente tante tarme in quel
coso che è un mistero non stia camminando da solo, John!”), e nel momento
stesso in cui l’ultimo vestito era stato piazzato nell’armadio Clara e Harry
erano evase dall’appartamento per ‘esplorare il paese’, frase che, John era più
che sicuro visto l’entusiasmo con cui sua sorella l’aveva pronunciata, poteva
essere tradotta con ‘cercherò la bettola più economica di tutto Castlecross e
non me ne andrò fino a che Clara non mi trascinerà a casa per i capelli’.
A
quel punto, esclusa quella palla di pelo grigio di Gladstone che russava
beatamente davanti al camino sognando di masticare una bistecca, la casa era
tutta per John e Hamish.
Il
piccolo era, ovviamente, praticamente barricato nella sua stanza, stanco morto
per il viaggio ma decisamente troppo eccitato per decidersi a dormire. John lo
raggiunse con due tazze di thé fumanti e un piatto pieno di biscotti al
cioccolato (regalo di Mrs. Turner, consegnato con l’ordine di portare Hamish a
conoscerla al più presto), e si mise a sedere accanto a lui sul letto. Per la
prima volta da quando era arrivato, afferrando un biscotto, Hamish sorrise.
“Alloooora…”
iniziò John, riempiendosi la bocca di quel liquido bollente (latte, niente zucchero,
semplicemente perfetto) “…ti piace la tua nuova stanza?”
Masticando
golosamente l’ultimo boccone del biscotto, Hamish si guardò intorno, sporgendo
un po’ le labbra in avanti con aria pensosa, e John cercò guardare la stanza
attraverso i suoi occhi. Era piccola, più piccola di quella che suo figlio
occupava a Londra, ma d’altronde tutto l’appartamento lo era (e anche
l’affitto, tante grazie!). Poi con quella carta da parati a metà tra il grigio
e l’azzurro e quei mobili a misura di bambino, gli sembrava più che adatta ad
Hamish. Oh, e scavata nella parete c’era una nicchia abbastanza spaziosa da
poterci giocare: John ci avrebbe montato davanti una tenda, e Hamish avrebbe
potuto utilizzarla come fortino. Quando lui era piccolo, avrebbe dato chissà
cosa per avere una stanza come quella.
“Di
chi era questa stanza?”
L’innocente
domanda di Hamish lo scosse più di quanto avrebbe dovuto, perso com’era nelle
sue riflessioni.
Si
schiarì la voce. “Beh, probabilmente, visto che prima le pareti erano rosa,
della bambina della proprietaria. Mrs. Turner non ci ha detto granché.”
“La
proprietaria ha una figlia? Più grande o più piccola di me? E ora dov’è? Credi
che potremo giocare insieme?” L’entusiasmo di Hamish era palpabile. Sperava di
farsi dei nuovi amici al più presto, e John avrebbe davvero voluto aiutarlo, ma
non aveva realmente idea di che cosa rispondergli.
“Non
lo so, te l’ho detto. Ho solo parlato con la nostra affittuaria, non con la
padrona vera e propria.”
Hamish
lo guardò, un pizzico di delusione negli occhi. John sospirò. “Domani chiederò
a Mrs. Turner, promesso…”
“Grazie!”
Hamish
gli si gettò addosso, sorridendo felice. Un attimo dopo, due tazze da tè erano
a terra, un piatto relativamente nuovo era in frantumi e la moquette beige
mostrava due vistose macchie marroni nonché un sentiero di biscotti. Padre e
figlio rimasero basiti per un minuto buono, sul viso identiche espressioni di
stupore, le mani aperte per afferrare quello che a tutti gli effetti era già
caduto; quando riuscirono a muoversi di nuovo si guardarono negli occhi, blu
nel blu… e scoppiarono a ridere senza ritegno, fino a perdere il fiato. John
scompigliò i capelli di suo figlio con affetto, stringendolo in un abbraccio
soffocante mentre ancora erano entrambi scossi dalle risa.
Gli
era mancato.
Quanto
gli era mancato.
***
Avrebbe
dovuto presagire un risvolto così poco piacevole nella sua vita. Come sempre,
quando tutto sembra andare per il meglio e non si vedono nuvoloni
all’orizzonte, c’è un temporale che si sta preparando in sordina, pronto a
scuotere le fondamenta del tuo essere. Purtroppo per lui, John Watson confidò
in una fase positiva della sua sorte: i drammi che l’aspettavano non li vide
neppure arrivare.
Nell’arco
di un mese dal loro arrivo, gli Watson si erano assestati perfettamente nella
placida routine di Castlecross: era come se fossero appartenuti alla città da
sempre.
Hamish
si era affezionato immediatamente alla sua insegnate, Mrs. Ella Thompson, tanto
più quando essa gli aveva proposto di portare i suoi due figli (Carl e Conrad,
otto e dieci anni) a giocare con lui durante i fine settimana. In quanto a
John, presto la sua vita era piombata in quella confortante e deprimente
routine tipica di un medico di paese: giornate intere trascorse allo studio,
destreggiandosi tra nasi colanti, infezioni e ferite di vario genere (nulla di
grave, quell’inverno era stato misericordioso), serate spese a sonnecchiare in
poltrona cercando al contempo di prestare attenzione a Hamish, Gladstone e
tutta la baracca. Ciliegina sulla torta: domeniche mattina impegnate ad
ascoltare gli interminabili sermoni di Padre Stamford strizzato su una delle
panche di legno della Chiesa. Harriet e Clara litigavano spesso, e sua sorella
lo aiutava sempre meno alla clinica, ma nel compendio generale dei pro e dei
contro quella era una minuzia trascurabile.
Tuttavia,
ogni tanto, guardando fuori da finestra la nebbia che si alzava, mentre si
massaggiava la gamba intorpidita e lanciava quiete maledizioni all’umidità, John
si chiedeva se tutto il resto della sua vita sarebbe stato a quel modo. Se la
dose a lui assegnata di adrenalina e avventura si fosse esaurita, e fosse ora
condannato alla monotonia.
“Non mi succede mai niente…” rifletteva,
interrogandosi sulla natura del nodo in gola che nasceva insieme a quel
pensiero.
Dio,
se solo avesse saputo.
Cominciò
tutto il primo giorno di Primavera, quando una folla di paesani spaventati lo
tirò giù dal letto alle sei del mattino gridando alla tragedia. Fu Harriet in
realtà ad irrompere nella sua stanza, scuotendolo per le spalle e dicendogli
che c’era un emergenza.
Forse
per il panico nella voce di sua sorella, forse per il passaggio improvviso dal
sonno alla veglia, ma per pochi, terribili secondi John ebbe l’impressione di essere
di nuovo a Passo Maiwand. Non importava quanto il suo
cervello gli ripetesse che non era così, che era a miglia e miglia di distanza,
al sicuro nel suo letto: John poteva sentire distintamente il tonfo degli
stivali nella polvere, il sapore di sudore e sangue nella bocca, il crepitio
dei mortai, le grida… prima che riuscisse a mettere a fuoco la stanza intorno a
lui e a sentire sua sorella ripetere il suo nome per fargli riprendere il
contatto con la realtà, un morso di panico minacciò di serrargli la gola.
Cercò
di respirare.
“Harry?
C-che cosa c’è?”
“Ci
sono delle persone giù, Johnny. È successo qualcosa di grave, devi venire a
vedere, c’è bisogno di te.”
Boccheggiando,
John si catapultò fuori dalle coperte, afferrando al volo una vestaglia e
seguendo Harry fuori dalla stanza e giù, fino alla porta dello studio. Se
quello che vedeva era un minimo indicatore della gravità di quello che era successo,
erano veramente guai grossi: di fronte alla porta dello studio si era radunato
infatti quello che aveva l’aria di essere mezzo paese, una processione di facce
tirate e sconvolte che lo guardavano come se fosse l’unica soluzione a tutti i
loro problemi.
“Cosa
succede?” domandò a nessuno in particolare, iniziando a tirarsi su le maniche
penzolanti della vestaglia.
Ci
fu un rapido e doloroso scambio di sguardi, un brivido collettivo, il tutto nel
più completo silenzio. Poi, una figura si fece strada nella calca, prendendo
posto davanti a lui, ed esclamò con voce cantilenante:
“Credo
che sia meglio che lo vediate con i vostri occhi, Dottore.”
Se
John avesse dovuto descrivere in una parola l’uomo che aveva parlato,
probabilmente avrebbe scelto la parola serpente.
Fece un passo indietro, inclinando la testa e osservando lo sconosciuto con
sguardo caustico: era un uomo non troppo alto, eppure sembrava torreggiare
sugli altri cittadini con un’imponenza propria di un’epoca passata; se i suoi
occhi grandi, scuri e lucidi potevano creare un’illusione di innocenza e
infantilità (sempre se fosse stata ignorata la luce sinistra che li
illuminava), il modo in cui scopriva i denti nel sorridere aveva un che di
pericoloso… sembrava, appunto, un serpente pronto a scattare in avanti e
mordere la sua preda.
John
si rese conto di digrignare i denti. “Sarà meglio che vada allora.” Sibilò allo
sconosciuto, facendo un deciso passo in avanti con Harry alle calcagna. Ma
mentre le altre persone sgombrarono loro il passaggio immediatamente, l’uomo
dagli occhi scuri rimase immobile, davanti alla porta… fissando John in un modo
che gli fece venire i brividi.
“Non
credo di aver avuto il piacere di presentarmi.” Esclamò, inclinando la testa di
lato in maniera quasi innaturale e tendendo verso John una mano piena di
aspettative, “Il mio nome è James, James Moriarty.”
John
avrebbe imparato fin troppo presto a conoscere Moriarty, attraverso le
chiacchiere interminabili di Mrs. Turner nei pomeriggi in cui avrebbe deciso
che nella loro cucina i dolci le venivano più buoni (pallida scusa per poter
viziare Hamish ancora un po’) così come attraverso la sua propria esperienza. Avrebbe
scoperto che era una personalità molto influente in paese, che nelle sue vene
scorreva una quantità non meglio definita di sangue nobiliare e che niente
succedeva a Castlecross senza che lui lo venisse a sapere. Comunque, in quel
momento per John quel viso e quella figura appartenevano a un perfetto
sconosciuto, e il nome James Moriarty non aveva ancora trovato spazio nella
breve lista delle persone che scatenavano il peggio di lui.
“Piacere.”
Disse John tendendo la mano a sua volta, e ghignando quando l’altro la strinse.
Anche se avesse incontrato quell’uomo in un altro momento, in momento in cui la
sua mente non fosse stata annebbiata da sonno e paura, in cui non fosse dovuto
accorrere al capezzale di qualcuno che necessitava delle sue abilità mediche,
in cui tutto quanto fosse stato favorevole a un nuovo incontro, era sicuro che
quella parola che aveva sputato più che pronunciato non avrebbe rispecchiato la
realtà.
Dovete sapere che, fin dalla più tenera età,
John non era mai stato capace di impedire che le sue emozioni traspirassero sul
suo volto: era bravo a tenere la lingua fra i denti, a non dare voce a collera,
tristezza e disappunto quando non era il caso; comunque, qualsiasi cosa
transitasse anche temporaneamente nei suoi pensieri poteva essere letta lì,
nell’arco delle sue sopracciglia, nel modo in cui arricciava inconsapevolmente
il naso o in cui le sue pupille si dilatavano e le sue labbra si serravano.
Moriarty non identificò - o, se lo fece, non lo
diede a vedere affatto - le palesi tracce di ostilità nei lineamenti di John, e
apparentemente soddisfatto si decise a farsi da parte e lasciar passare lui e
Harriet.
La scena che i due si trovarono davanti appena
varcata la soglia dello studio avrebbe perfettamente potuto popolare un incubo.
C’erano
quattro persone nella stanza, escludendo John e Harriet. Una sola candela, la
cui fiammella tremolante minacciava di spegnersi da un momento all’altro, le
illuminava di una luce quasi innaturale, dando loro l’apparenza di ombre, più
che di persone - e se non le avesse sentite respirare e piangere, John si
sarebbe convinto che di ombre effettivamente si trattava.
Nell’angolo
più buio della stanza, Berenice Donovan - la fornaia del paese - sedeva sul
pavimento, dondolando avanti e indietro e stringendo al petto una delle sue figlie
-difficile stabilire quale delle due, Sally e Aggie erano gemelle. Chiunque
fosse, comunque, aveva la sua controparte distesa sulla scrivania di John, tra due
cornice -LE cornici- divelte e
diversi fogli sparpagliati, tremante e avvolta in abiti laceri e sporchi di
sangue. L’altro occupante della stanza, gettato malamente sul lettino, non si
muoveva né sembrava respirare.
John
sentì Harriet emettere un lieve singulto dietro di lui, e seppe per certo che
l’assurda familiarità dell’immagine che si proponeva davanti ai loro occhi,
viva e remota insieme come un dipinto ad olio, doveva averli colpiti entrambi
con la medesima forza. Si sforzò di resistere alla tentazione di chiudere gli
occhi, sapendo che dietro le sue palpebre chiuse lo avrebbero atteso i volti di
Mary e dell’Altro; invece, si impose di mantenere il sangue freddo. Strinse i
pugni, e respirò a pieni polmoni: l’istinto di uomo di medicina e armi calciò
dentro di lui, e nel medesimo istante in cui la sua schiena si irrigidiva e i
suoi muscoli si distendevano la calma lo avvolse come un manto.
“Harriet,
occupati di Mrs. e Miss Donovan.” La sua voce era ferma, i suoi muscoli in
tumulto. Coprì la distanza tra lui e il piccolo lavabo in tre passi. Il modo in
cui si preparava per i suoi pazienti era meticoloso e preciso, mai frettoloso e
impaziente, neppure nelle situazioni in cui la pressione era palpabile. Non
appena si ritenne sufficientemente sterile, si affrettò al capezzale della giovane
Donovan.
Registrò
in fretta le ferite che poteva scorgere attraverso i logori stracci che la
ricoprivano (“Tagli parzialmente
cicatrizzati a piedi, caviglie e polpacci. Non sembrano profondi, ma sono
sporchi e rossi: infetti. Tagli anche su braccia e mani: sembrano provocati
dalla medesima cosa. Macchie di erba e terra: probabilmente si è tagliata
camminando nella foresta.”). Con delicatezza, ripetendo cose senza senso
per calmare la ragazza, le tastò collo e testa, alla ricerca di traumi. Non
trovandone, si concentrò su ciò che, della ragazza, lo preoccupava di più: le
enormi macchie di sangue rappreso che le circondavano gli occhi, serrati e
incavati in una maniera sospetta.
“Non dovrebbero essere così…” pensava
John, “Non così vuoti. Dovrei poter
vedere la rotondità del bulbo oculare… dovrei poterne distinguere i movimenti
involontari dietro la palpebra.”
Zittì
con una carezza il soffocato grido di aiuto della ragazza (il primo, da quando
aveva messo piede nella stanza), mentre un nero sospetto si infiltrava nella
sua mente. Esitò un istante: quando forzò gli occhi della ragazza ad aprirsi,
si trovò a fissare solamente le due cavità che li avrebbero dovuti ospitare. Trattenne un
grido.
“Harriet…”
Deglutì: stavolta, la voce l’aveva tradito. “Harriet. Metti a bollire
dell’acqua. Sterilizza uno degli aghi, uno qualunque. Fai in fretta.”
Ed
esplosero le urla. Strazianti, acute grida di Banshee che scossero le mura e
non lasciarono in John neppure una goccia di sangue. Le due donne ancora nella stanza:
come aveva potuto scordarsi di loro?
“AGGIE!
NO!”
John
si voltò con una lentezza snervante, una mano stretta intorno al braccio della
sua paziente, i denti piantati nella carne soffice delle sue guance, lo stesso
atteggiamento di chi ha a che fare con un animale selvaggio e imprevedibile.
Cercò di non tremare, quando Miss Donovan (“Sally… è Sally…”) gli si gettò tra
le braccia in preda a una crisi isterica.
“Aggie!
Aggie!”
“Calmatevi
Miss Donovan… state calma, va tutto bene.”
“I
suoi occhi…”
“Lo
so, lo so. Ci penso io. HARRIET!” Sua sorella lo guardò, inerme: stava tenendo
stretta Mrs. Donovan, che in quel momento aveva deciso di seguire la figlia in
una crisi isterica. Aveva gli occhi lucidi e disperati. John sospirò, e afferrò
Sally per le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi.
“Miss
Donovan, dovete ascoltarmi.” La sua voce era calma, rassicurante. Gli occhi
della ragazza, prima annebbiati dal lutto, si focalizzarono su di lui. “È
importante adesso che io mi prenda cura di vostra sorella….”
“Aggie…”
“…ed
è importante che voi vi facciate forza. Vostra sorella sta molto male, ha
bisogno di voi, e sentirvi urlare non le sarà di alcun giovamento…”
Sally
lo guardò per un lungo istante. Lacrime bollenti le solcavano le guance, e
tremava come una foglia tra le sue braccia. Dopo un momento in cui sembrò
soppesare le parole di John, annuì debolmente.
“Bene.”
Esclamò John, sollevato, “Harriet porterà voi e vostra madre in salotto. Un tè
caldo vi calmerà un poco.”
Come
se l’avesse invocata, Harriet apparve al suo fianco. Con una dolcezza che,
davvero, non le apparteneva, sottrasse la ragazza alla stretta del fratello, cingendole
le spalle con un braccio e sostenendola quando le sue ginocchia cedettero sotto
il peso degli eventi di quella maledetta notte. John le osservò avviarsi verso
il portone insieme, non rendendosi conto che un elemento mancava all’equazione
fino a quando esso non comparve alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
“Il
mio Ford non era un buon uomo, Dottore. Ma non si meritava una fine tanto
crudele.”
Si
ritrovò a fissare gli occhi rossi e gonfi di pianto di Mrs. Donovan, e fece
istintivamente un passo indietro. Quando aveva perso traccia della donna?
L’ultima volta che l’aveva catturata con lo sguardo, era in ginocchio, in
lacrime. Deglutì, registrando le parole della donna: a quanto pareva, il corpo
che stava diventando progressivamente più freddo sul lettino dall’altra parte
della stanza aveva finalmente un nome. Non che la cosa fosse a John di alcun
conforto: sapere che la povera donna aveva dovuto affrontare due eventi così
tragici in così poco tempo non poteva far altro che addolorarlo profondamente.
“Ne
sono certo.” Disse alla donna, che intanto gli aveva afferrato una mano.
Mrs.
Donovan sospirò. “Vi prego, non lasciate che anche la mia Aggie se ne vada…”
“Farò
tutto il possibile.” la rassicurò, stringendo la sua mano per rafforzare la sua
affermazione, “E se non sarà abbastanza,
cercherà di fare anche di più.” tralasciò di dirle.
Alle
sue parole, il volto di Mrs. Donovan si illuminò lievemente. Ogni ruga del suo
volto scuro gridava tanto a gran voce il suo amore e il suo dolore che John
ebbe difficoltà a sostenerne la vista. Con un rapido gesto del capo fece cenno
a Harry, che lo guardava basita, di portare anche la povera Mrs. Donovan con
sé, quando la donna lo sorprese con un gesto improvviso: sfruttando la presa
che aveva sulla sua mano, lo strattono verso di sé, fino a sfiorare il suo
orecchio con le sue labbra.
“Mia
figlia ha giocato con qualcosa di pericoloso, Dottore. Vi auguro di non
sperimentare quest’oscurità in tutta la vostra vita. Salvatela. Non lasciatela
morire. Perché non sono sicura che per lei ci sia ancora qualcosa da attendere
quando il suo cuore avrà smesso di battere.”
John
non ebbe neppure il tempo di reagire a quel gesto che la donna si era già
allontanata, raggiungendo Harriet e sua figlia e sparendo dietro la spessa
porta di legno che le avrebbe condotte nel caldo e accogliente salotto. A lungo
i suoi occhi rimasero immobilizzati su quella stessa porta, mentre la sua mente
si crogiolava nella spiacevole sensazione di essersi lasciato in qualche modo
sfuggire qualcosa di grave e di estremamenteimportante; non necessariamente durante quella conversazione… ma in
qualche momento cruciale della sua vita. Riuscì a riscuotersi soltanto quando
si rese conto di aver qualcosa stretto nella mano, qualcosa che (ne fu sicuro
non appena vi posò gli occhi sopra) non possedeva prima del suo incontro con
ciò che restava della famiglia Donovan:
“Un…
rosario…” sussurrò, rigirandosi fra le dita la catenella argentata da cui una
croce pendeva pigramente.
Perché
un rosario? Di nuovo, quella sensazione di aver smarrito un pezzo basilare di
quell’enigma che era l’esistenza umana. Con un mugolio irritato, John si infilò
distrattamente in tasca quel dono inaspettato, per poi affrettarsi verso il
mobiletto in cui conservava tutti i suoi medicamenti e afferrare una boccetta
semivuota e trasparente.
Il
vetro era leggermente ingiallito, e l’etichetta aveva un’aria assai consunta.
Su di essa, scritta con un inchiostro di una stranissima tonalità di verde,
campeggiava la scritta ‘Morphin’.
Lì accanto, avvolta in un panno di lino bianco, c’era una siringa.
John
la impugnò come un’arma, scuotendo le spalle irrigidite dalla tensione, e si
affrettò nuovamente al capezzale delle giovane, agonizzante Aggie Donovan. Non
gettò neppure uno sguardo sul pover’uomo che, dietro di lui, fissava il
soffitto con occhi ciechi, ignaro di ciò che lo circondava, irrigidito dalla
morte. A parte costatare la sua dipartita, non c’era niente che avrebbe potuto
fare per lui, mentre per Aggie… beh… per lo meno sarebbe stato in grado di
salvarle la vita. Forse.
Si
mise al lavoro immediatamente, lasciando che il surreale silenzio piombato
sulla stanza non appena l’ago della siringa fu penetrato nella pelle della
giovane lo cullasse.
Era
ignaro che, lontano, nel fitto della palude, qualcuno stava osservando con
interesse ogni sua mossa: non poteva sentire i suoi commenti riguardo il bastone
che giaceva dimenticato nella sua camera da letto, o il modo in cui ripeteva
che, sì, ciò che aveva detto sulla condizione della ragazza era esatto, ma si
era limitato a vedere senza osservare realmente.
Non
fu mai a conoscenza della risata di disgusto che sfuggì dalle labbra del suo
osservatore quando la vedova di Ford Donovan aveva fatto scivolare
quell’inutile pezzo di metallo tra le dita, né del modo in cui roteò gli occhi
quando la questione ‘anima’ entrò nel discorso.
Eppure,
per tutta la notte quegli occhi più pallidi di un cielo invernale rimasero con
lui, mentre medicava i tagli e i graffi sugli arti di Aggie, mentre cuciva le
sue palpebre per evitare future infezioni, mentre infine consegnava il corpo
del defunto Mr. Donovan alle autorità del paese.
Gli
ingranaggi del destino si erano messi in moto. E correvano, rapidi.
Note dell’autrice:
Wow. Quante recensioni
meravigliose… non so come ringraziare tutti quanti voi!
Questo capitolo è
totalmente scritto dal punto di vista del nostro Johnny boy… sì, amo far
soffrire i personaggi di cui scrivo e no, non mi pento di nulla xD
Ps: presto farà la sua comparsa
il fedelissimo teschietto che fa da soprammobile per
il nostro Sherlock… anche se qui avrà un ruolo più “attivo” :) Ho bisogno di
una dritta: in molte storie gli appioppano il nome Billy… ehm… io non sono molto
amante di quel nome. Pensavo a qualcosa di più artistico ;) cosa ne dite? Vada
per Billy o posso sfogare il mio estro?
“Stavolta
hai fatto i conti senza l’oste Sherlock.”
Sherlock
chiuse gli occhi, sospirando amaramente. Non si voltò per accogliere la sua
ospite: sapeva perfettamente che il primo e più importante obiettivo nella vita
di Irene Adler era attirare tutta l’attenzione possibile su di sé. Non
l’avrebbe assecondata.
Quindi,
mentre la donna attraversava la stanza con lunghe ed eleganti falcate e il
suono dei suoi tacchi lo faceva trasalire ad ogni passo, Sherlock decise che l’avrebbe
ignorata fino a quando non avesse capito che la sua presenza non era né gradita
né tantomeno richiesta. Ostinato, mantenne il suo sguardo fisso sulle lingue di
fuoco che scoppiettavano nel caminetto (e se con un gesto fece sparire
l’immagine che vi era riflessa in favore di qualcosa di meno compromettente,
beh, lui certo non lo avrebbe detto a nessuno).
“Sherlock?”
La
voce vellutata di Irene, insieme al suo fiato caldo che carezzò la sua guancia
quando (troppo vicina al viso del Demone per i suoi gusti) parlò, gli fece
digrignare i denti. Affondò le unghie nei braccioli della poltrona, il cui
legno cedette al suo tocco come se fosse stato burro, e si sforzò di
concentrarsi sulle immagini che si muovevano davanti a lui.
Irene
lo osservò per un po’, combattuta tra l’idea di buttarsi addosso a Sherlock di
peso costringendolo a dar credito alla sua presenza e quella di attendere che la
continua invasione del suo spazio personale facesse il lavoro al posto suo. Piegò
la bocca in un sorriso affilato come la lama di un coltello, voltando la testa
con fluida lentezza verso il teschio che, dal camino, non aveva smesso un
attimo di osservarla.
“Da
quanto è in quello stato, Yorick?” chiese, accennando con il capo nella
direzione di Sherlock.
“Da
ieri notte più o meno. Non ha fatto che fissare le fiamme e struggersi per quel
Dott-”
Il
teschio fu interrotto da un ringhio cupo e minaccioso, un non osare terminare quella frase che non aveva bisogno di parole
per essere espresso. Irene sogghignò: a quanto pareva Sherlock non era poi così
in catalessi come dava a vedere. Lanciò a Yorick uno sguardo d’intesa, e
fingendo di osservarsi le unghie con nonchalance chiese:
“Dott-
sta per…?”
“Dottore.”
fu la svelta risposta del sadico, bianco soprammobile. Sherlock ringhiò più
forte.
“Oh,
non parlerai del Dottor Watson, vero? Un tipo tanto ordinario, capace di
detenere la sua attenzione per tanto tempo? Com’è possibile? È assurdo.”
La
donna non fece niente per nascondere la derisione nella sua voce, e Sherlock alzò
gli occhi al cielo. Com’è possibile?
aveva chiesto. Beh, Sherlock avrebbe dato di tutto per poter dare una risposta
logica - di quelle piene di cavilli che piacevano tanto al Demone - a quella
domanda. Non poteva. E il motivo, davvero, era semplice: non ne aveva la più pallida
idea neppure lui.
Se
c’era qualcosa di cui era sempre stato più che certo, e mai nei suoi
cinquecento anni di vita aveva incontrato qualcos’altro che potesse far
vacillare questa sua sicurezza, era che gli esseri umani fossero creature
sostanzialmente noiose. Non necessariamente per costituzione (non bisognava
certo essere Dio per vedere quanto contorte erano talvolta le loro menti), ma
per scelta: come branchi di pecore prive di volontà si lasciavano guidare da
chiunque impugnasse il bastone del comando, senza personalità, senza spina
dorsale. Se qualcuno di loro osava alzare la testa e tentare di opporsi a
quell’ingiusta oligarchia, veniva additato e trattato da reietto… e a quel
punto le cose si facevano interessanti.
Perché
nelle sciocche menti degli umani, diverso e spaventoso sono equivalenti, e la
paura ha dei risultati decisamente piacevoli (per chi le osserva, per lo meno).
Per non parlare poi dei danni che la continua repressione dei propri istinti
causava sulle deboli menti di chi si trovava ad essere dalla parte sbagliata
dei pulpiti: i gesti che nascevano dal dolore di un sicuro rifiuto erano
qualcosa di straordinario.
Sherlock
aveva lasciato il Mondo dei Demoni proprio per quella ragione: per
l’imprevedibilità delle menti umane sconvolte dal terrore, o dalla follia. I
crimini più efferati, i gesti più oscuri, erano l’unico sostentamento che
richiedeva. Ripercorrere i passi di chi li aveva commessi, ricostruire pezzo a
pezzo le loro mosse e comprendere il come e il perché era il suo unico scopo,
il suo Lavoro.
Tutto
il resto del tempo era una lotta continua contro la noia.
E
allora perché? Perché quella notte non si era dedicato ad un esperimento come
al suo solito? Perché, pur essendo rimasto seduto da ORE nella solita posizione,
senza che la musica del suo violino lo distraesse o che il prospetto di un
nuovo rompicapo da risolvere lo dilettasse, la noia non aveva artigliato i suoi
sensi costringendolo a fare qualcosa per non impazzire?
Di
solito quando non stava dimostrando l’azione di una sostanza acida su un
tessuto umano o non si stava dedicando al Lavoro, i suoi sensi (liberi di
cogliere e registrare ogni minima cosa che lo circondasse) venivano sovra-stimolati
e lui finiva per dare di matto. Niente di tutto ciò era accaduto durante quella
particolare notte.
No,
era stato troppo impegnato a osservare quell’uomo che si chiamava John Watson,
a commentare ogni sua mossa e bere ogni suo gesto, per sentire i morsi della
noia. Un uomo ordinario in ogni senso possibile aveva detenuto il giogo della
sua mente per un’intera notte, e lo aveva lasciato con il desiderio di sapere
di più, di andare oltre ai dati che quelle immagini piatte e falsate e quei
suoni ovattati e interrotti dal crepitio del focolare o dagli schiocchi del
legno in fiamme potevano fornirgli.
Voleva
vedere con i propri occhi, voleva annusare, voleva toccare. Se non poteva farlo, a cosa gli servivano i suoi sensi
amplificati di Demone?
Sherlock
inclinò la testa di lato, sbuffando per la frustrazione. Stava impazzendo,
molto probabilmente.
“Vuota
il sacco. Perché sei qui?” quasi gridò, afferrando la mano che Irene stava
passando pigramente fra i suoi capelli.
“Ah
bene! Hai finito di ignorarmi, caro?”
“Perché.
Sei. Qui.” Il non chiamarmi caro era
chiaro ma sottointeso.
Irene
sospirò teatralmente, lasciandosi ricadere in maniera drammatica sul divano
posizionato alle spalle del Demone. Si tolse i guanti con lentezza, come se il
procedimento di sfilare ogni dito dalla sua veste di pizzo richiedesse fatica e
concentrazione, il tutto solo per irritare Sherlock un altro po’. Com’è ovvio,
ci riuscì alla perfezione: il Demone scattò in piedi, i capelli ritti sulla
nuca, minacciandola di riprendersi il dono che le aveva concesso se non avesse
parlato immediatamente.
Irene
lo guardò, per niente impressionata. “Sbaglio o il suo umore è peggiorato?”
domandò, rivolgendosi a Yorick.
Se
un teschio avesse potuto alzare le spalle Yorick lo avrebbe fatto. Purtroppo,
dovette accontentarsi di esalare un sospiro di pura rassegnazione, che aveva
tutta l’aria di voler dire Lascia
perdere, IO devo sopportarlo ventiquattro ore al giorno da duecento anni a
questa parte.
“Irene…”
ringhiò Sherlock. Quando la donna non parlò, Sherlock mosse un dito: il colore
scomparve dai capelli di Irene, che si ritrovò con una nube di riccioli candidi
a scenderle sulle spalle; profonde rughe apparvero sul suo volto, cicatrici di
una vita vissuta e mai raccontata. Di Irene Adler, ‘La Donna’, non rimase che
la pallida ombra di uno splendore che fu.
“Dannazione,
Sherlock!”
“Ti
avevo avvertita.”
“Non
c’era alcun bisogno di-”
“Ti
consiglio di parlare. Il tempo corre, e tu non stai certo ringiovanendo.”
Irene
sbuffò, storcendo la bocca in una ragnatela di rughe che gridavano rabbia. Si
rialzò dal divano, un concerto di scricchiolii di ossa fragili e vecchie, e si
portò davanti a Sherlock.
“La
tua ultima cliente è tornata al villaggio stanotte.” Gli disse con voce roca e
polverosa,
“Ovviamen-”
“E
anche il suo adorabile paparino è tornato a galla.”
“Lo
so!”
E
lo sapeva, aveva visto tutto, perché Irene lo scocciava con delle notizie
inutili e ridondanti?
“Allora
saprai anche che l’Ispettore Lestrade ha interrogato il Dottore.”
“Certo
che lo so, per chi mi hai preso?”
Irene
guardò Sherlock negli occhi, leggendo la sua espressione di sfida. Se avesse
dato retta al suo istinto gli avrebbe stampato uno schiaffo sul viso: per
fortuna aveva smesso di ascoltare la vocina che le suggeriva di picchiare il
Demone anni e anni fa.
“Bene.
E sai che Lestrade gli ha chiesto di dichiarare che la morte di Ford è stata
accidentale, e che gli occhi di sua figlia sono stati rimossi con una procedura
medica a causa di un’infezione?”
Sherlock
grugnì. Non era in possesso di tali informazioni, ma sarebbe potuto arrivarci
per logica: tutte le volte che accadeva a Castlecross qualcosa riconducibile al
suo operato di Demone la polizia glissava il problema riducendo tutto a inspiegabili
malattie o incidenti vari. Lestrade era ottimo in questo, come lo erano stati
suo padre e suo nonno prima di lui. Per questo erano ancora vivi, in fondo.
Un
sospiro ci stava a pennello. “Senti, se questo è tutto quello che hai da dirmi
allora…”
“Il
Dottore si è rifiutato.”
Un
silenzio di tomba, interrotto solo dall’esclamazione di sorpresa di Yorick,
piombò nella stanza. Anche il tempo sembrò trattenere il fiato mentre Sherlock
metabolizzava la notizia: d’un tratto, aveva trovato un nuovo motivo per
interessarsi del Dottore… uno che implicava un pizzico di attenzione in più,
però.
Guardò
Irene negli occhi. “Vorranno aprire un’indagine.”
Non
era una domanda, ma Irene rispose lo stesso: “Mmmh.
In ogni caso sono già a conoscenza del tuo coinvolgimento. Tutto il paese è in
fibrillazione e grida ‘Al Demone!’”
Sherlock
rise. “E cosa possono fare? Ingaggiare un’esorcista?” si alzò dalla poltrona,
che scricchiolò per la mancanza del peso che l’aveva occupata ininterrottamente
per ore, “Anche se mi cercassero e mi trovassero -cosa che non faranno, lo so
io e lo sai tu- non c’è assolutamente NIENTE che possano farmi.”
“A
parte condurre Moriarty da te.”
Probabilmente
non è cosa conosciuta dai più, ma è d’obbligo a questo punto sapere che nelle
vene dei Demoni (di quelli superiori, almeno) scorre sì sangue, ma ad una
temperatura così elevata da ricordare il bollente magma che scorre nelle parti
più interne della Terra. Anche le loro lacrime, per quanto raramente si possano
trovare cronache di Demoni che ne abbiano versate, condividono questa
particolare proprietà. Ci sono varie teorie, sostenute da teologi i cui nomi
vengono sussurrati con rispetto nei circoli più segreti, riguardo al motivo di
tutto ciò: c’è chi sostiene che sia conseguenza dell’ambiente in cui vivono, e
chi invece è più che certo che sia un’altra delle caratteristiche conferite
loro durante la Caduta per renderli ancor più incompatibili con gli altri
esseri del Creato. Ma non è questa la cosa importante: ciò che conta è sapere
che a Sherlock, quando il nome di Moriarty riecheggiò nella stanza, il sangue
si gelò nelle vene.
Prima
che riuscisse a indossare la sua maschera di apatia, sul suo volto scivolarono
emozioni di rabbia, vergogna e paura, per nascondere le quali il Demone turbinò
fuori dalla stanza, per andare a rinchiudersi nello studio sbattendosi la porta
alle spalle. Ignorò con ostinazione Mrs. Hudson, che dalla cucina gli domandava
se fosse tutto a posto; ignorò anche Irene, che si lamentava del fatto che non
le avesse restituito la sua giovinezza (tanto, in una trentina di minuti quella
sarebbe ritornata comunque): tremante come una foglia si lasciò ricadere contro
quella stessa porta, le mani tuffate nei capelli, il fiato bloccato in gola.
Moriarty.
Il più grande errore della sua vita.
Il
suo nemico, il suo incubo.
Il
simbolo vivente della sua vanità e debolezza.
Se
il Negromante lo avesse trovato, sarebbe stata sicuramente la sua fine. Non che
per Sherlock la morte avesse un gran significato -essere sempiterni ha questo
effetto certe volte- ma aveva la vaga sensazione di preferire senz’altro essere
vivo piuttosto che il contrario. Non ci sarebbe stato alcun oltretomba per lui,
solo buio e oblio: vi immaginate la tediosità?
Scosse
con decisione la testa, alzandosi e iniziando a preparare l’unica bevanda che
avrebbe scacciato i brutti ricordi e i cupi pensieri dalla sua mente. In molti
preparavano l’assenzio diluendolo con acqua ghiacciata e addolcendolo con una
zolletta di zucchero. Sherlock preferiva il laudano, puro e semplice.
“Moriarty non mi troverà. Abramgparm[1].”
pensò mentre versava il liquido scuro dentro il bicchiere. Osservò con un mezzo
sorriso la nube che esso formò nel verde brillante dell’assenzio, confortandosi
del fatto che soltanto chi si fosse mosso verso il Castello senza avere
intenzioni negative nei confronti dei suoi abitanti avrebbe potuto
raggiungerlo. Un’indagine della polizia non sarebbe stato che un misero
prurito, fastidioso e niente di più. In quanto al Dottor Watson, beh… Sherlock
sperava che con il tempo avrebbe appreso dai cittadini di Castlecross che
c’erano cose che era meglio far finta di non vedere. Gli sarebbe dispiaciuto
doverlo allontanare… anche se non lo avrebbe mai ammesso, e con mai intendeva
MAI.
***
“Io
giuro che se non mi rimette subito a posto lo strozzo!”
“Miss
Adler…”
“Ma
ti pare, ridurre una povera donna in questo stato? Non si dice che ambasciator
non porta pena?”
“Miss.”
“Oh
mio Dio! Ho un intero pollaio sulla faccia! Un. Pollaio! Ah ma così non va, eh!
Abbiamo un accordo io e lui!”
“Miss
ADLER.”
Irene
si congelò sul posto, interrompendo la marcia di guerra che rischiava di
mietere una vittima innocente: il tappeto persiano che Martha Hudson aveva
sistemato nel salotto quella mattina, e che adesso si pentiva di aver tirato
fuori dalla soffitta.
Guardò
Martha con occhi spiritati, oltraggiata dal fatto che qualcuno avesse osato
interrompere il suo sfogo di nervi prima delle dovute imprecazioni (sareste
sorpresi di conoscere gli improperi che si possono apprendere tra le mura di
una casa del piacere di alto bordo). Normalmente un’impudenza del genere
avrebbe comportato una reazione poco piacevole da parte della donna, reazione
che molte delle ragazze che lavoravano con lei avevano sperimentato, sofferto e
imparato a temere. Ma non aveva davanti una delle sue prostitute, aveva davanti
Mrs. Hudson, e anche se Irene non avesse voluto tener conto delle innumerevoli
volte in cui la donna si era schierata dalla sua parte contro i capricci di
Sherlock avrebbe dovuto comunque considerare la regola d’oro per avere a che
fare con il Demone: MAI alzare la voce con Mrs. Hudson.
Prese
un bel respiro. “Chiamami Irene, Martha. Eravamo migliori amiche una volta.”
L’anziana
donna si bilanciò sulle gambe, stringendosi nelle spalle. Le sorrise
amabilmente, nonostante il disagio.
“Me
lo ricordo. Sembra passata una vita.”
“È
passata una vita. Posso leggerlo nelle rughe della tua faccia.”
Gli
occhi di Martha scintillarono di divertimento, mentre con una mano si copriva
la bocca per trattenere una risata:
“Beh
mia cara, anche le tue rughe sono piuttosto eloquenti.”
Irene
non era una donna altrettanto discreta. La sua risata fu rumorosa e sguaiata,
scosse il suo fragile corpo di anziana dalla testa ai pedi, e provocò un
brontolio infastidito dalla stanza in cui Sherlock si era barricato. Riprese
fiato a fatica, scostandosi un ricciolo candido dalla fronte:
“Touché.
Ma se non fosse per quel lunatico di un Demone avrei la pelle liscia come
quella di un neonato.”
“NON
SONO UN LUNATICO! SONO UN DEMONE MALVAGIO CHE SA DOVE ABITI!” Contribuì
Sherlock dall’altra stanza, provocando nelle due donne un altro scroscio di
risa.
“Se
ai tempi in cui lavoravamo insieme mi avessero detto che le nostre vite
sarebbero state legate a quella di un Demone grande, grosso, pazzo e infantile…
come minimo gli avrei riso in faccia!” esclamò Martha quando fu riuscita a
sedare le risa, asciugando con il palmo della mano una lacrima sfuggitale dagli
occhi, senza far nulla per nascondere l’affetto con cui descriveva Sherlock (nonostante
le parole che avesse scelto fossero tutt’altro che lusinghiere),
“Io
avrei sputato in un occhio a chiunque mi avesse anche solo detto che i Demoni non
erano una sciocca fantasia!”
Martha
scosse la testa, divertita. Irene pensò che, quando rideva, si poteva ancora vedere
nella donna l’ombra della ragazza solare e vivace che era stata un tempo. Prima
di Frank Hudson, prima di Alison e Sherlock. Quando il suo più grande problema
era stato quello di arrivare a fine serata senza che qualche mano-lunga le
assestasse un pizzicotto sul sedere.
Erano
stati bei tempi quelli.
“Come
sta tua figlia?” domandò, prima di potersi frenare.
Il
volto di Martha Hudson si contorse in una serie così rapida di emozioni che
cercare di distinguerne una soltanto sarebbe stato impossibile. Non amava
parlare di Alison. Era come spargere sale su una ferita aperta.
“È
al sicuro, a Londra. Sherlock dice che è sposata e ha una bambina… che ha
chiamato Martha.” La sua voce vacillò un istante, e i suoi occhi si fecero
lucidi. “È felice. Questo è ciò che conta.”
Irene
desiderò posare una mano sulla spalla dell’amica, in un gesto di conforto. Si
bloccò prima che fosse troppo tardi.
“Non
desideri mai vederla? Dirle che sei viva, che non è sola?”
“Ogni
istante di ogni giorno.”
Ma
non poteva, Irene sapeva che non poteva. Era una clausola del suo accordo con
Sherlock, che non potesse lasciare il Castello per niente al mondo. E scrivere
ad Alison senza poi poterla riabbracciare… inaccettabile.
Per
un istante Irene pensò che Martha avesse dovuto pagare un prezzo troppo alto
perquello che aveva ottenuto in cambio.
Poi si ricordò di Frank, e si convinse che anche lei avrebbe pagato qualsiasi
prezzo per togliersi di torno quel mostro.
In
quel momento, cominciò a sentire un lieve pizzicore accendere le estremità dei
suoi arti. Guardò, rapita, mentre il sortilegio di Sherlock stendeva la sua
pelle, eliminando ogni traccia degli anni che Irene aveva trascorso su questa
Terra. Il conforto che provò passandosi una mano fra i capelli e sentendoli
folti, toccandosi il viso e sentendo seta sotto i polpastrelli, difficilmente
potrebbe essere descritto a parole. In fondo, ne era profondamente convinta,
anche lei aveva pagato un prezzo più che giusto per ottenere tutto quello che
Sherlock le garantiva.
“Il
bambinone deve aver esaurito il suo capriccio.” Esclamò Irene, sorridendo a
Martha in maniera complice. La donna la guardò, la testa leggermente piegata di
lato, un’ombra triste negli occhi. Il senso di comunione di pochi istanti prima
spazzato via dalla differenza abissale tra chi aveva sacrificato ogni cosa per
amore, e chi lo aveva fatto per egoismo. “Credo che me ne andrò, adesso. Il
messaggio è arrivato al suo destinatario, io ho un sacco di lavoro da fare.”
“Spero
di rivedervi presto Miss Adler.”
Irene
si avvolse strettamente nella stola di pelliccia, avventurandosi nella neve per
raggiungere la carrozza che l’attendeva ai cancelli della tenuta. E se ebbe la
sensazione che un po’ di quel freddo che avvolgeva nella sua morsa Castlecross
le fosse penetrato nel cuore, certo lei non lo avrebbe confessato ad anima
viva.
***
L’aria
della bottega era pregna dell’odore di pino appena tagliato e pesante per la
sottile polvere di segatura che vorticava tutt’intorno, visibile soltanto nel
raggio di luce che penetrava dall’angolo strappato della tenda. L’imponente
bara, già rivestita di stoffa rossa e pronta per accogliere il suo futuro
occupante, se ne stava appoggiata in un angolo. Quando lo sguardo di John vi si
posò, l’uomo ebbe l’impressione di trovarsi davanti a una bocca che gli
sorrideva in maniera maligna.
“Buonasera
Dottor Watson. Come posso esservi utile?”
John
si riscosse da quei pensieri, forzandosi a sorridere nel modo più cortese
possibile all’anziano signore che era emerso in quel momento da una porticina
celata da un pesante drappo di velluto nero, consunto dal tempo e dall’aria
polverosa. L’uomo - Mr. FinnHooper,
il proprietario della bottega di onoranze funebri in cui John si trovava -
ricambiò il suo sorriso, sfilandosi gli occhiali e pulendoli pazientemente con
un fazzoletto mentre ascoltava la risposta del Dottore.
“Buona
sera. Sono qui per… ehm… Mr. Donovan. L’ispettore Lestrade ha detto che avrei
potuto trovarlo qui.”
“Oh,
sì. È sul retro, Miss Donovan e mia figlia lo stanno preparando per il
funerale.”
Un
flash di occhi neri gonfi di pianto e spalle sottili scosse dai tremiti strinse
un nodo di inquietudine nella gola di John. L’ultima volta in cui aveva visto
Sally Donovan, due giorni prima, era stato quando era venuta per portare via
dall’ambulatorio sua sorella. Non si era ancora ripreso.
Mr.
Hooper gli lanciò uno sguardo comprensivo,
indicandogli con la mano la porta da cui era uscito lui stesso poco prima. John
annuì debolmente, e appoggiandosi pesantemente sul bastone barcollò fino alla
stanza successiva.
Il
negozio gestito da Mr. Hooper era minuscolo,
incastrato all’angolo tra Durward Street e Hanbury
Lane. Si sviluppava su due piani, di cui uno adibito a residenza per la
famiglia e l’altro, suddiviso in tre stanze, adibito a negozio vero e proprio.
John era diretto nella stanza più interna, quella che era dedicata alla
preparazione dei cadaveri per l’inumazione. A quanto pareva, la tale pratica
quel giorno era stata affidata a Molly, unica figlia di Mr. Hooper,
che dava una mano al padre quando non era impegnata con il suo banchetto di
pizzi. Furono gli occhi di lei, grandi e scuri, la prima cosa che John vide non
appena mise piede nella stanza.
A
differenza del padre, un omaccione alto e ben piazzato, Molly Hooper era una cosina piccola e minuta, dai capelli
castano-rossicci e il viso leggermente appuntito, ma dolce. In ogni caso, la
sua figura sembrava letteralmente sparire se comparata a quella di Sally
Donovan, che vicino a lei vorticava intorno all’immobile figura del padre. Non
appena si accorse di lui, gli occhi della ragazza sembrarono sgranarsi
all’inverosimile, le sue guance prendere fuoco. Poggiò in fretta una mano sulla
spalla di Miss Donovan, indicando la sua direzione quando ebbe l’attenzione
della ragazza.
“Miss
Donovan. Miss Hooper.” Salutò John immediatamente,
notando come il vederlo avesse acceso gli occhi della giovane Donovan di
ostilità.
Miss
Hooper sollevò prontamente una mano, salutandolo
calorosamente senza emettere alcun suono. Miss Donovan, dal canto suo, incrociò
le braccia al petto senza staccare gli occhi da lui.
Il
tono con cui gli si rivolse fu acido puro. “Perché siete qui?”
“Dovevo
parlarvi riguardo vostro padre. Ho provato a rivolgermi a vostra madre… ma ha
detto che dovevo parlare con voi.”
Miss
Donovan sembrò soppesare le sue parole. John si chiese quando di preciso il
dolore che aveva minacciato di spezzarla in due si era tramutato nella rabbia
che sembrava infiammarla.
“Parlate.”
“È
una questione piuttosto delicata…” disse John, guizzando lo sguardo su Miss Hooper,
“Delicata?”
“Decisamente.
Mi sentirei più a mio agio a parlarvene a quattr’occhi.”
Cogliendo
la sua battuta d’uscita, Miss Hooper sorrise
un’ultima volta all’amica, per poi uscire dalla stanza a testa bassa. John si
avvicinò al tavolo su cui era adagiato Mr. Donovan.
Per
quanti cadaveri avesse visto nella sua carriera di medico e soldato, non poté
reprimere il brivido che la vista di quel viso gonfiato dall’acqua fangosa del
fiume.
“Allora?”
lo incalzò Miss Donovan, frapponendosi fra lui e il cadavere del padre,
“La
farò breve. Vorrei praticare un esame autoptico su vostro padre.”
Miss Donovan spalancò gli occhi. “Un… che?”
“Un
esame autoptico. Vorrei… aprirlo…” si schiarì la voce, “… per stabilire cosa
abbia provocato la sua morte.”
John
si aspettava che la ragazza si mettesse ad urlare da un momento all’altro.
Praticare autopsie non era per niente ben accetto, per quanto fosse molto utile
nello stabilire la naturalità di una morte. Sir Thomas Bond, il mentore che gli
aveva insegnato tutto ciò che sapeva riguardo l’arte medica, era stato guardato
con sospetto per tutta la sua vita per le strade di Londra, nonostante la
dedizione con cui avesse lavorato per Scotland Yard. E se a Londra, che era
molto ‘moderna’ se confrontata con altre città, praticare anatomia patologica
era pericolosamente vicino a scendere a patti con il Demonio, John tremava al
solo pensiero di cosa ciò rappresentasse per un paesino come Castlecross.
Tanto
più che stava chiedendo il permesso a niente meno che la figlia del povero
Diavolo che aveva tutta l’intenzione di eviscerare. “Ma il sospetto… il sospetto è troppo grande.”
Per
riconoscerle tutti i suoi meriti, Miss Donovan non gridò, né gli diede del
pazzo. Il primo stupore che aveva provato lasciò ben presto spazio allo
scetticismo, e con una risata di scherno la giovane si fece da parte,
pungolando in maniera eloquente il ventre rigonfio del padre.
“Mio
padre è annegato. Se vi serve ‘aprirlo’ per arrivare a questa conclusione, beh,
siete un medico peggiore di quanto già non sospettassi.”
John
assorbì il colpo, optando per un approccio diplomatico.
“Il
fatto che sia stato ritrovato in acqua non significa che l’acqua sia stata la
causa della sua morte.” Fece un passo avanti, portandosi di fronte alla
ragazza, “Le circostanze in cui è stato trovato, insieme a quello che è
successo a vostra sorella proprio quella stessa notte, sono sospette.
L’Ispettore non sembra pensarla allo stesso modo, ma io non riesco a togliermi
il sospetto che i due eventi siano in qualche modo collegati. Devo… sapere.”
Un’ombra
passò sul volto della giovane Donovan, che si allontanò da lui come da una
presenza ostile e gli voltò le spalle. John poté osservare le sue spalle
incurvarsi, il suo corpo tremare. Fece per raggiungerla e confortarla, quando
la ragazza si girò nuovamente verso di lui, fronteggiandolo con aria di sfida.
“Una
ragazza adorabile, Molly Hooper. Non trovate,
Dottore?”
“Molly
Hoop- come prego?”
John
si era aspettato veramente tutto, fatta eccezione per un tanto repentino cambio
di argomento. Miss Donovan gli lasciò a mala pena il tempo di riprendere il
filo del discorso, prima di incalzarlo nuovamente:
“Miss
Hooper. La ragazza che è appena uscita da quella
porta. Adorabile, non trovate?”
“Sì
ma non vedo come-”
“La
conosco da una vita. Siamo cresciute insieme, io lei e mia sorella.
Inseparabili.”
“Ne
sono certo…”
“E
che voce, che voce! I passanti si fermavano ad ascoltarla quando si metteva a cantare
in giardino. Un usignolo, ve lo assicuro.”
A
questo punto John rinunciò a capire dove la donna volesse andare a parare.
Annuì per cortesia, non proferendo parola.
“Vi
siete chiesto perché non vi abbia rivolto la parola? Perché non abbia emesso un
singolo suono?”
In
realtà no, non se l’era chiesto. Il giorno in cui si era trasferito Mrs. Turner
gli aveva accennato qualcosa riguardo al mutismo della giovane. Certo, lo aveva
attribuito a una storia alquanto assurda, ma John lo aveva accettato come dato
di fatto.
“Sono
a conoscenza del mutismo che affligge la vostra amica, Miss Donovan.”
“Mutismo?
Voi credete che sia… muta?”
John
deglutì, rendendosi conto solo allora di avere la gola tremendamente secca, e
annuì debolmente. Miss Donovan roteò gli occhi, iniziando a parlare quasi con
rabbia:
“È
successo uno- no, due anni fa. Per giorni Molly non fece altro che raccontarmi
di quanto si fosse innamorata di quest’uomo misterioso, di cui non poteva rivelare
nome né provenienza per un qualche vincolo di confidenza. Spariva per ore ogni
giorno, e nessuno di noi sapeva mai dove si recasse. Alla fine, una delle sue
assenze si prolungò per giorni. Poi per settimane. La cercarono ovunque.
Tememmo di vedere suo padre impazzire… poi, quasi un mese dopo, come se nulla fosse
ricomparve. Mr. Hooper era così felice di rivederla
che ci mise dieci minuti buoni per rendersi conto che non era tutta intera.”
Al
Dottore si formò un nodo in gola. “Cosa intendete dire?”
“La
sua lingua. Le avevano tagliato la lingua.”
A
John non venne un capogiro, no. Sentì però la bile risalirgli lungo la gola,
diffondendo un sapore amaro di morte nella sua bocca. “Oh mio Dio… quale mostro
potrebbe mai aver fatto una cosa del genere?”
“Lo
stesso che ha preso gli occhi di mia sorella.”
John
si trovò improvvisamente ancorato al terreno da una forza che sembrava
decisamente intenzionata a schiantarlo a terra. Lo shock fu tanto forte che per
un momento perse la capacità di respirare: fu solo per pura forza di volontà
che riuscì a parlare.
“Se
sapete chi è, Miss Donovan, dobbiamo andare subito a parlare con l’Ispettore
Lestrade. Hanno intenzione di non aprire alcuna indagine, lo sapete?”
“Certo
che so chi è stato. Tutti in paese lo sanno…” Miss Donovan gli lanciò uno
sguardo disgustato, “… a parte voi, ovviamente.”
“E
allora perché nessuno fa niente? Perché le strade non sono invase dai
poliziotti?”
Le
sue domande vennero risposte senza che dovesse neppure esprimerle:
“Non
guardatemi a quel modo. Non c’è niente che qualcuno di noi possa fare in
merito. Stiamo parlando di una creatura non umana, del Demone che infesta il
Castello nella palude!”
Miss
Donovan assestò un pugno poderoso contro il tavolo che sosteneva le spoglie di
Mr. Donovan, che traballò pericolosamente, minacciando di lasciar ricadere il
suo misero fardello sul pavimento.
La
surrealità della situazione stava raggiungendo livelli vorticosi, e John
ringraziò mentalmente di potersi sorreggere sul suo bastone, perché non era
sicuro che le sue gambe avrebbero retto, altrimenti. Guardò la ragazza di
fronte a sé negli occhi, con il misto di timore e pena che si riserva a un
folle: avrebbe tanto voluto imputare quei deliri su Demoni e Castelli infestati
alla mente distrutta dal dolore di una giovane donna che aveva perso il padre,
ma c’era un qualcosa nella convinzione che la infiammava che lo faceva
vacillare.
“Ci crede con tutto il cuore…”
All’improvviso
l’aria della stanza divenne soffocante. L’istinto di John prese il sopravvento
su di lui: irrigidì la spina dorsale, guadagnando nella postura quei due o tre
centimetri che non possedeva naturalmente; la sua mano corse in fretta al suo
fianco, dove il vuoto lasciato dalla sua pistola si palesò con una violenta
scarica di adrenalina. Senza rendersene contò, schioccò la lingua in maniera
minacciosa.
Seguì
una risata esagerata e falsa, piena di veleno.
“Volete
aprire mio padre? Fate pure! Non troverete nulla, LUI non lavora così.” Esclamò
Miss Donovan, avvicinandosi a lui per uscire dalla stanza. Prima di andarsene,
però, lanciò un ultimo, sdegnoso sguardo al corpo del padre, per poi mormorare:
“È incredibile, non credete? Nessuno sa di preciso come trovare quel posto
maledetto, e ci sono riuscite due delle persone più importanti della mia vita.”
La nostalgia che tingeva la sua voce fu abbandonata un istante dopo, quando
sputando veleno ruggì: “Mia sorella è sempre stata una smidollata dal carattere
debole. Avremmo potuto trovare un altro modo per liberarci di lui.”
John
vide nero.
Note dell’autrice:
Eccoci al quarto capitolo…. mi scuso un
milione di volte per la sua lunghezza spropositata, ma dovevo far succedere un
po’ di cose molto in fretta… insomma, molto presto Sherlock e John si
incontreranno, e ci sono alcune cosette che dovevano essere dette prima :)
Se vi chiedete chi sia Thomas Bond e se
sia realmente esistito, fu il medico che praticò gli esami autoptici sulle
vittime di Jack Lo Squartatore… e sì, non fu molto ben visto nella comunità da
quel momento in avanti.
Bene, basta con le mie chiacchiere senza
senso! xD
Vi ringrazio ancora con tutto il cuore
per le vostre parole gentilissime, per i vostri consigli e anche per il fatto
di continuare a leggere questa storia :) Le parole non possono esprimere quanto
io vi sia grata <3
Alla prossima!!
PS:
consigli su come rendere idea della parlata di un ubriaco? Non vorrei ricadere
in un cliché…. xD
Sabbia bianca tutt’intorno. Un
cielo infinito sopra di lui.
Avrebbe potuto passare per un
vero paradiso. Poi cominciarono gli spari. E le urla. Cielo e terra si fusero
in un caos che sapeva di metallo.
“McCarthy è a terra! McCarthy
è a terra! Watson dove sei?”
Avevano bisogno di lui.
Cercò i suoi commilitoni:
erano lontani, troppo lontani. Doveva correre. Doveva fare in fretta. Un passo.
Un altro passo. I suoi piedi cominciarono a sprofondare nella sabbia.
Affannando, guardò in basso: la sabbia era sparita, al suo posto acqua.
Acqua. Perché acqua? Nel
deserto non c’è acqua, solo sabbia e sassi…
John non capiva, ma si trovò
ad affondare comunque: per quanto lottasse per rimanere a galla, la pesantezza
del fucile lo trascinava in basso, sempre più in basso.
“Watson! WATSON!”
Di chi era la voce che lo
chiamava? Non di Blackwood, non di Phillips. Ma allora chi?
“John Watson? Dobbiamo darvi
una notizia… riguarda vostra moglie…”
I polmoni cominciarono a
dolergli per la mancanza d’aria. Scalciò, ma era tutto inutile. Le voci si
fecero più forti.
E l’acqua si tramutò in
sangue. Il suo sangue.
“NO!”
Aprire
gli occhi fu doloroso, per John. Quasi quanto la fitta che gli attraversava la
spalla sinistra, o lo spasimo che gli faceva tremare la gamba.
Sbatté
le palpebre una, due volte. Ricordò al suo corpo che i polmoni erano lì per un
motivo, e tentò un lungo respiro. Pian piano, mentre i suoi polmoni sembravano
ricoperti da affilatissimi aghi, riprese contatto con la realtà: prese nota
delle pulsazioni accelerate del suo cuore (che sembrava deciso a balzargli
fuori dal petto a ogni costo), dei rigoli di sudore sulla sua fronte.
La
consapevolezza spaziale di dove si trovava giunse due minuti e trentatré
secondi dopo.
“Sono
a casa… a casa. Al sicuro...” si ripeté, massaggiandosi la gamba, pregando che
nessuno lo avesse sentito urlare. Non avrebbe sopportato la vista della pietà
negli occhi di sua sorella, non di nuovo.
Con
un sospiro scosso, John si passò una mano sul volto. Quando si ritrovò a
fissare il suo palmo bagnato, lo attribuì al sudore. Solo quando piccole
goccioline si fecero strada fino alla trapunta, lasciandovi tracce scure, si
rese conto che stava piangendo.
***
Hamish
avrebbe potuto riconoscere i passi di sua zia Harry anche nel mezzo di una
strada affollata. Beh… tutti e tre i suoi tipi di passo.
Perché
c’era il modo in cui camminava al mattino, o al ritorno dal lavoro. Quei passi rapidissimi,
quasi come se avesse fretta di iniziare o terminare la giornata, come se avesse
un milione di cose da fare e non un minuto di tempo da perdere.
Poi
c’era l’andatura che dedicava ai giorni in cui era particolarmente euforica
(cosa che solitamente coinvolgeva qualcosa che zia Clara avesse detto, o
fatto). Sembrava che ballasse, in quei giorni: passi leggeri e fluidi,
alternati con passetti più veloci ma non più pesanti.
Infine,
c’era la camminata dei giorni ‘no’… la più comune da quando si erano trasferiti
a Castlecross, quella che Hamish aveva imparato ad associare al whiskey e al
profumo soffocante che rimaneva attaccato ai vestiti della zia quando
rientrava.
In
sostanza, quella che Hamish poteva sentire quel giorno.
Tump, Tump, Tump sulle scale. “Come se stesse schiacciando dei ragni.”
Slam della porta che si lamentava di essere stata
chiusa con troppa foga.
“Sciono
a caaaaaasa…” parole strascicate, che sapevano di eccessi.
Il
bambino si scambiò uno sguardo d’intesa con Gladstone, che per tutta risposta
reclinò la testa di lato e sbavò un po’ di più sul tappeto. Probabilmente la
scelta più saggia sarebbe stata uscire di casa prima che Uragano Clara si
scatenasse in tutta la sua furia.
“HARRIET CATHERINE
WATSON!”
Uh-oh. Troppo tardi. Con una scrollata di spalle
Hamish si alzò in piedi, facendo qualche passo verso la libreria. Mentre al
piano di sotto le voci si facevano sempre meno ovattate e lui riusciva
tristemente a distinguere sempre più parole, afferrò il pupazzetto preferito di
Gladstone e lo sventolò davanti agli occhi del cagnolone, che subito cominciò a
mandare la coda a velocità massima e a grugnire di felicità. Hamish ridacchiò,
incamminandosi verso il corridoio seguito a ruota dal cucciolone: se non aveva
fatto in tempo a uscire prima che le sue zie iniziassero a litigare avrebbe pur
sempre potuto dileguarsi prima che le cose si facessero… infuocate. Aprì la
porta della sua stanza piano piano, strizzando gli occhi e facendo una smorfia
quando i cardini cigolarono (la parola ‘discrezione’ non si associava granché
bene a una casa vecchia come quella): quando le voci al piano di sotto non si
interruppero, sgattaiolò fuori dalla stanza, Gladstone al seguito.
Ma
non arrivò neppure vicino alla scala, quando iniziarono le grida vere e
proprie.
“Sei
tornata in quel posto vero?”
“Non
scio di cosa tu shtia parlando…”
“Puzzi
come una distilleria! E quel rossetto? Io non indosso quelle schifezze!”
Gladstone
mugolò, spingendo Hamish con la testa come se volesse dirgli di muoversi.
Hamish rimase al suo posto, inginocchiato vicino alla ringhiera, la testa
sporta leggermente verso l’esterno.
“Shmettila
di urlare e lasciami in pace, Fanny!”
Se
anche Hamish non avesse compreso che era appena accaduto qualcosa di grave, il
silenzio che piombò nella casa a quel punto sarebbe stato sufficiente per farlo
rabbrividire. Per quelli che avrebbero potuto essere pochi istanti o
un’eternità, tutto quello che il bambino riuscì a sentire fu il respiro rasposo
del botolo vicino a lui, e i battiti del suo stesso cuore. Poi l’attesa finì.
“Fanny?”
“Clara
mi… dispiace…”
“Fanny.
Quindi è lei la donna con cui passi tutto questo tempo?”
“Clara…”
“E
dimmi Harry… la ami? Credi che lei ti ami?”
“…per
favore…”
“Perché
non ti ama sai? È una prostituta! Si vende per denaro!”
“Tu…
non la conosci…”
“E
poi chi potrebbe amare un disastro come te?”
“…”
“Un’ubriacona
che non fa altro che ferire chi ama, una-”
Si
sentì il rumore secco di uno schiaffo. Hamish si portò una mano alla bocca per
trattenere un singhiozzo.
“Sciarà
anche una… puttana. Ma almeno Fanny non mi giudica. Non sci vergogna di farsi
vedere in giro con me, non ha problemi a esscere incontrata mano nella mano con
un’altra donna!”
“Harriet…
lo sai a quante cose ho dovuto rinunciare per te?” Zia Clara stava piangendo?
Sembrava stesse piangendo. “Ho lasciato la mia famiglia… mio padre mi ha
disconosciuta, mia madre non mi rivolge più la parola da anni. Cos’altro vuoi
da me?”
“Niente.
Non voglio niente… anzi non ti voglio più. Fai un favore a entr… entra… a tutte
e due e shparisci.”
Hamish
allungò un braccio, cercando con la mano il muso di Gladstone. Il cagnolone gli
leccò le dita, per poi accoccolarsi vicino a lui. Sembrava che sentisse il nodo
di tristezza che si stava stringendo nella gola del bambino e volesse
consolarlo a modo suo. Quando la prima lacrima rigò la guancia di Hamish, i
capelli rossi di zia Clara comparvero in fondo alle scale. La donna salì in
fretta, rilasciando un singhiozzo ad ogni passo, asciugandosi gli occhi con
gesti quasi furiosi. Passò accanto ad Hamish con una foga tale che non lo notò
neppure, rischiando per altro di investire Gladstone nel processo.
Prima
che Hamish fosse scattato in piedi zia Clara si era già rintanata nella sua
stanza da letto, chiudendo a chiave la porta alle sue spalle. Al piano di sotto
un tonfo gemello comunicò al bambino che zia Harriet era uscita - di nuovo.
Hamish
poggiò l’orecchio alla porta della stanza di zia Clara: dall’altra parte una
cacofonia di tonfi, strascichii e colpi.
“Zia
Clara?” tentò timidamente Hamish, bussando delicatamente alla porta. I rumori
non si fermarono, e sua zia non gli rispose. Dietro di lui Gladstone iniziò a
guaire.
“Zia?”
chiamò ancora, una, due, tre, quattro volte, in ognuna delle quali la voce uscì
dalla sua gola con sempre più fatica. Alla fine, quando non ottenne alcuna
risposta, appoggiò la fronte contro il legno della porta e attese.
Quando
dopo venti minuti zia Clara spalancò la porta e lui (che non si era accorto di
esservisi abbandonato con tutto il peso) cadde in avanti, le braccia forti
della donna erano lì ad accoglierlo e stringerlo forte.
“Zia!”
“Shhh…
shhh… va tutto bene.”
Clara
gli carezzò il viso, raccogliendo le lacrime con i polpastrelli delle dita.
Passò le mani tra i suoi capelli, memorizzandone la morbidezza; sul naso, quel
naso a bottoncino che gli dava un’aria così tenera; sulle guance, che tante
volte aveva tenuto tra le mani per riscaldarlo nei giorni più freddi. Ciascuno
di quei tocchi aveva la dolcezza e il rimpianto di un addio. La donna posò un
bacio sulla fronte di Hamish, poi lo allontanò da sé. Solo allora il bambino
vide il borsone verde che la donna aveva alle spalle.
“Te
ne vai?” chiese Hamish, gli occhi sgranati per la paura.
Clara
non ebbe la forza di rispondergli, non che Hamish ne avesse bisogno. Aveva già
letto la sua risposta nel gonfiore dei suoi occhi, nel tremore del suo labbro
inferiore. Nel modo in cui continuava ad accarezzargli il viso.
La
donna chiuse gli occhi, esalando un sospiro singhiozzante. Strinse il piccolo a
sé, di nuovo, iniziando a dondolare avanti e indietro. La memoria corporea di
Hamish reagì a quello stimolo, e il bambino si ritrovò a cercare di farsi più
piccolo possibile, in modo da poter essere contenuto interamente dalle braccia
di quella donna che lo aveva praticamente cresciuto.
“Ti
voglio bene, scricciolo. Lo sai vero? Più di quanto il sole ne vuole alla luna.
Più di tutto e tutti.”
“E
allora perché mi lasci?”
“Perché
mi sta uccidendo.”
L’alcolismo
di zia Harry, i suoi ripetuti tradimenti, il modo in cui la gente la scansava
per strada o si rifiutava di scambiare con lei il segno della pace in Chiesa. Non
era importante specificare.
Hamish
non capiva, certo che non capiva. Aveva otto anni, per lui il mondo iniziava e
finiva nelle persone che amava: lo terrorizzava dormire per conto suo,
figurarsi dover salutare qualcuno con cui aveva trascorso gli ultimi sei anni
della sua vita. Per lui era un imperdonabile atto di egoismo quando gli era
negato un giocattolo, o una passeggiata nel parco, figurarsi la propria costante
e amorevole presenza. Quindi avrebbe voluto essere arrabbiato, anzi no, furioso
con sua zia per quell’ammutinamento. Ma non aveva tempo per questo. Negli
ultimi momenti in cui Clara lo strinse, prima di andarsene all’Old Bell Tavern dove una carrozza
sarebbe venuta a prenderla per riportarla a Londra, fece esattamente ciò che la
donna aveva fatto poco prima: cercò di imprimersi nella mente più cose
possibili di lei.
***
Era
tardi. Suo padre ancora non era rientrato da lavoro… ultimamente, senza più zia
Harriet a dargli una mano, rientrava sempre molto tardi. Tanto c’era zia Clara
a fare compagnia ad Hamish. Zia Clara. Da quanto tempo se ne era andata,
un’ora? Due? Non ne era troppo sicuro.
Con
la fronte appoggiata contro il vetro della finestra, guardò il cielo riversarsi
sulle strade di Castlecross. Avendo vissuto a Londra ne aveva vista, in vita
sua, di pioggia. Eppure, il modo in cui pioveva a Castlecross non aveva niente
lontanamente a che spartire neppure con i più violenti temporali Londinesi.
Sembrava che il cielo fosse infuriato: sembrava che l’acqua fosse lanciata dai
nuvoloni a secchiate, con rabbia. La strada davanti casa sua era praticamente
un fiume, e i tuoni erano così rumorosi da sembrare ogni volta piccole scosse
di terremoto. Poi c’era la nebbia. Tanto fitta da poter essere tagliata con un
coltello.
“Forse
dovrei scendere… dire a papà quello che è successo…” disse a nessuno in
particolare, solo per farsi compagnia con il tono della sua stessa voce.
Gladstone, nascosto sotto il tavolo e terrorizzato a morte dal temporale,
abbaiò debolmente in approvazione.
Sì,
forse quello era ciò che Hamish avrebbe dovuto fare. Ma poi che sarebbe
successo? Gli sarebbe piaciuto pensare che suo padre avrebbe recuperato zia
Harry, riportato a casa zia Clara, e che tutto sarebbe stato esattamente come
se quel giorno non ci fosse mai stato… ma chi voleva prendere in giro? Suo
padre, come diceva sempre la zia, aveva il complesso
del fratello maggiore. Non appena fosse stato messo al corrente di quello
che era successo avrebbe reso la redenzione della sorella ribelle la missione
della sua esistenza. Non senza averle fatto prima una testa così sulla sua
immaturità e stupidità, però. E questo avrebbe portato ad altre urla, ad altri
litigi e ad altre porte sbattute.
No.
Dire a suo padre quello che aveva combinato la zia era fuori questione. Hamish
aveva sentito abbastanza litigi da bastargli per tutta la vita.
Un
lampo fendette il cielo scuro. Hamish ebbe un’illuminazione.
“Gladstone,
vieni qui bello.”
Ci
avrebbe pensato lui a risolvere la situazione. Avrebbe raggiunto zia Clara e
l’avrebbe convinta a tornare a casa; poi, insieme, avrebbero fatto ragionare
zia Harry. Quando suo padre fosse rientrato alla sera tutto sarebbe stato come
prima.
Mise
il guinzaglio al cane (dopo averlo convinto a forza di biscotti che uscire da
sotto il tavolo non sarebbe stata un’idea così pessima) e si infilò giacca e
cappello. Scese le scale silenziosamente: la porta dello studio di suo padre
era chiusa, e i pazienti assiepati in sala d’aspetto facevano abbastanza
baccano da aver coperto il disastro che si era consumato al piano di sopra;
comunque, meglio non rischiare. Gli ombrelli li tenevano all’ingresso: afferrò
il suo uscendo, notando fra l’altro che entrambe le sue zie erano uscite senza
i loro. “Quelle due senza di me sono
rovinate…”
Una
cosa di cui non si era reso conto guardando l’esterno dal calduccio del salotto
era che tirava un forte vento: dettaglio che non poté fare a meno di notare
quando una folata particolarmente forte gli strappò l’ombrello dalle mani,
trascinandolo a vari metri di distanza lungo la strada.
“Oh
mio…” esclamò Hamish, riparandosi la testa con le mani al meglio che poteva e
iniziando a correre dietro all’ombrello fuggitivo, Gladstone che gli
caracollava al seguito. Tempo trenta secondi e sia lui che il cane erano
fradici; il vento, intanto, trascinava il suo povero ombrello sempre più
lontano.
Gladstone
era un cane dalle gambe corte e dalla pigrizia monumentale. Accettò di essere
trascinato in quella corsa giusto per i due minuti, poi decise che ne aveva
avuto abbastanza e si sedette in una pozzanghera con un tonfo, bloccando Hamish
a metà di un passo particolarmente lungo e facendolo cadere lungo disteso per
terra.
“Stupido botolo…” pensò il bambino,
guardando il cielo scuro come se gli avesse fatto un torto personale. Quando
due uomini comparvero sopra di lui, impedendogli di continuare a lanciare
sguardi infuocati alle nuvole, provò un pizzico di irritazione.
“Guarda guarda chi
c’è Sebastian. Il piccolo Watson.” Disse quello dei due che stava alla sua
destra, con voce cantilenante,
“Piccolo? AH! È quasi altro quanto il Dottorucolo.” Rimbeccò l’altro, accompagnando le sue parole
con un’esagerata alzata di spalle.
Riparandosi
gli occhi con le mani per proteggerli dalla pioggia (e con Gladstone che, utile
come al solito, si stava impegnando a scorticargli la faccia a suon di
leccate), Hamish indugiò con lo sguardo sui due sconosciuti: quello che aveva
parlato per primo era vestito elegantemente, ma aveva negli occhi (che, fra
l’altro, erano paurosamente scuri) una luce folle che al bambino non piaceva
per niente; il fatto che giocherellasse facendo ruotare l’ombrello sopra la sua
spalla invece gli faceva venir voglia di pestargli un piede, così, per
capriccio. L’altro faceva così paura che anche la pioggia sembrava evitarlo,
rendendo inutile il logoro ombrello che stringeva pigramente in mano: aveva i
capelli biondi, la pelle del volto abbronzata e segnata da profonde cicatrici,
e gli occhi color ghiaccio.
Fu
così che, quando i due uomini gli tesero simultaneamente le mani per aiutarlo
ad alzarsi, in un gesto così preciso da sembrare quasi coreografato, Hamish
scelse di afferrare quella dell’uomo dagli occhi neri.
Di
quel giorno, così come dei tre successivi, avrebbe in seguito ricordato soltanto
quegli occhi di onice nera e quella stretta ferrea e fredda come la morte.
***
“Mi
auguro sappiate cosa state facendo, capo.”
Moriarty
prese un respiro. Contò fino a dieci. Quando il controllo della rabbia non
sortì gli effetti desiderati (non che lo facesse mai, comunque), sprigionò
tanta energia quanto sarebbe stata sufficiente per dare a Sebastian una bella
scossa e senza voltarsi la rilasciò contro di lui.
“AUCH!
FA MALE!”
“Quante
volte devo ripeterti che odio quando mi chiami ‘capo’? Fa tanto nouveauriche…”
“Riformulo.
Spero sappiate cosa state facendo, ‘Re Moriarty’.”
Un
sorriso predatore contorse il viso del Negromante, diffondendosi ai suoi occhi,
che balenarono di una minacciosa tonalità di giallo. Oh, come adorava sentirsi chiamare a quel modo.
Improvvisamente si ricordò il motivo per cui accettava che un misero essere
umano come Sebastian Moran gli stesse intorno.
Inarcòla schiena come un gatto, roteando su sé
stesso e accompagnando il gesto con una fluttuazione dell’ombrello. Come si era
aspettato, trovò negli occhi assassini di Sebastian quello sguardo. Lo
sguardo di una falena disperatamente attirata dalle fiamme di un falò,
consapevole che ad ogni battito d’ali si sta avvicinando alla morte in maniera
sempre più irrimediabile, ma ammaliata a tal punto da non preoccuparsene.
Ancora una volta sentì la certezza che, quando il tempo fosse venuto, Sebastian
sarebbe diventato un’Ombra perfetta.
Gli
occhi del Negromante caddero dal volto del suo più fido servitore ai due
fardelli abbandonati ai suoi piedi. Il piccolo, inutile essere se la dormiva
come se non ci fosse domani… e anche il cane sembrava non aver la minima intenzione
di riprendere conoscenza. “So perfettamente quello che sto facendo, puoi starne
certo.” Sibilò, senza alzare gli occhi sul suo biondo interlocutore.
Moran
rimbalzò a disagio sulle piante dei piedi, emettendo un ringhio sommesso. “Non
sarebbe più facile attaccare il parassita al Dottorucolo
e lasciar perdere il marmocchio?”
Povero
Sebastian. Non riusciva ancora a ficcarsi in quella sua testaccia
semivuota che sindacare le decisioni di Moriarty non era un’opzione vagliabile.
Il Negromante sospirò: sarebbe stato paziente, quella volta.
“No.
Te l’ho spiegato. Queste creaturine si nutrono di innocenza. Se ne legassi una
ad un adulto, per quanto irreprensibile, la poverina non sopravvivrebbe neppure
un’ora.”
Con
un movimento liquido Moriarty si inginocchiò vicino al corpo immobile del
piccolo Watson. Gli sollevò la testa, storcendo il naso quando la sua mano
entrò in contatto con la pelle del bambino, madida di pioggia.
“E
come possiamo essere sicuri che andrà tutto come hai pianificato?”
Moriarty
rilasciò di scatto la testa del bambino, che sbatté con un tonfo contro il
pavimento di legno del ponticello. Il tuono che scosse l’aria coprì il verso
strozzato che sfuggì dalle labbra di Sebastian quando Moriarty gli afferrò la
gola:
“Come
puoi essere così ottuso?!” ringhiò il Negromante, sfoderando i denti, “IO SONO
IL PIÙ GRANDE STREGONE DAI TEMPI DI SODOMA E GOMORRA! Pensi davvero che ci sia
un minimo di dubbio in ciò che faccio? Che tutte le battaglie che ingaggio non
siano calcolate minuziosamente in ogni dettaglio?” (“Che non abbia sbirciato nel futuro per vedere i possibili sviluppi di
ogni azione che avevo programmato?” pensò, ma non disse.)
La
carnagione naturalmente bronzea di Sebastian stava diventando sempre più
bluastra per la mancanza di ossigeno. Sarebbe stato un vero peccato perdere un
cane così ben addestrato a questo punto, quindi Moriarty lo lasciò andare.
“Ora
taci e lasciami lavorare.”
Il
Negromante si chinò di nuovo, ignorando i fastidiosi rantoli del suo compare.
Rigirò il piccolo Watson in modo che gli desse la schiena, ghignando
leggermente alla vista della macchia di sangue che dalla ferita che la botta di
prima gli aveva provocato alla testa si stava espandendo sui suoi capelli color
grano. Gli scoprì il collo, cercando con le dita il punto esatto in cui
tracciare il suo simbolo: quando i polpastrelli del suo indice incapparono
nella rientranza tra l’ultima vertebra cervicale e la prima dorsale, con
l’unghia incise nella pelle del bambino un piccolo cerchio tagliato da una
linea - il simbolo dello spirito.
“Urian[1], che il
tuo Grande Sapere permei dalle profondità degli Inferi e giunga fino alle mie
orecchie, acuendo il mio ingegno.” Sussurrò poi, gli occhi di Sebastian che
bevevano ogni suo minimo movimento, “Metztli[2],
concedimi uno dei tuoi figli, in modo che possa prendermi ciò che è mio di
diritto.” Continuò, chiudendo gli occhi quando il flusso di potere nero
raggiunse le sue dita.
C’era
un che di sadico nell’attingere al potere dei Demoni per portare avanti una
caccia contro uno di essi. Moriarty ne traeva un piacere infinito, quasi
superiore a quello che aveva provato guardando gli occhi di Lui quando si era reso conto delle sue
vere intenzioni.
Mentre
un sorriso nasceva sul suo viso, una figura nebbiosa iniziò a prendere forma
tra le dita del Negromante. I Nega erano creaturine adorabili, simili a
minuscoli serpentelli a più teste che si nutrivano dell’energia vitale delle
anime pure. Questo, in particolare, aveva tre boccucce spalancate, ognuna
ansiosa di legarsi ai tre nodi spirituali del bambino. Era davvero adorabile. E
utile: i Nega erano tra le poche creature che potevano essere contenitori di
altre anime.
Moriarty
utilizzò un incantesimo per legare una parte di sé a quella viscida creaturina
- ovunque essa si fosse trovata, chiunque avesse visto, il Negromante sarebbe
stato presente a sua volta - per poi poggiarla sul collo del giovane figlio del
Dottor Watson e osservare i suoi aguzzi dentini affondare nella carne del
piccolo. In pochi secondi, sia il Nega che il simbolo che Moriarty aveva inciso
scomparvero.
“Bene.
La mia parte del lavoro è terminata.” Esclamò alla fine, alzandosi in piedi e
asciugandosi teatralmente la fronte, “Ora è il tuo turno. Mi raccomando, non
ucciderlo. Se lo farai… ti troverò e ti scuoierò.”
Scomparve
con uno schiocco di dita, e la cupola ronzante di energia che il Negromante
aveva eretto (e che fino a quel momento
aveva riparato i presenti - coscienti e non - dall’infuriare del temporale)
evaporò in una foschia nerastra. Sebastian si trovò di nuovo da solo, di nuovo
incaricato di rifinire i dettagli più noiosi del piano del suo capo… di nuovo
alle prese con dei vestiti gocciolante e la sua coscienza sporca.
Il
biondo sospirò, assestando un calcio ben piazzato verso il botolo pulcioso che
ancora ronfava beatamente ai suoi piedi tanto per scaricare un po’ di tensione.
Borbottando maledizione su maledizione, attraversò il ponticello per
raccogliere un grosso sasso dal lato del fiumiciattolo. I sassi erano umidi e
melmosi, gli scivolavano tra le mani, e quello che selezionò gli sfuggì dalle
dita per ben due volte prima che riuscisse ad averlo saldo tra le mani -
generando un’intensa sessione di insulti verso il tempo, Moriarty e anche sé
stesso. Quando tornò indietro, di fronte al corpo esanime del bambino… il senso
di colpa lo morse a tradimento.
Il
piccolo somigliava in maniera spaventosa al suo Banner. Solo che non gli
somigliava affatto: Banner aveva i capelli rossi di Isabella, non biondi; aveva
quattro anni quando il tifo glielo aveva portato via, e il bambino davanti a
lui era molto più grande. Eppure, Sebastian vedeva Banner. Dovette quasi
prendersi a cazzotti per impedirsi di cadere in ginocchio e stringere quel
corpicino tutt’ossa tra le braccia: perché quello non era suo figlio, non lo
era.
Banner
non c’era più, l’aveva perso, e nessuno glielo avrebbe restituito.
“A meno che.” Già. A meno che.
E
perché quell’a meno che si
realizzasse era necessario che adesso Sebastian non avesse troppi grilli per la
testa e facesse quello che doveva essere fatto. Quello che Moriarty voleva che
lui facesse.
“Ti
assicuro che non c’è niente di personale, ragazzo.” Sussurrò, più a sé stesso
che al bambino, sollevando la pietra sopra la sua testa con entrambe le mani, “E
che farà più male a me che a te.”
Lasciò
cadere la pietra. Al rumore della pioggia e dei tuoni si unì per un istante
quello di ossa incrinate.
***
In
seguito, ripetendo la scena nella sua mente ancora e ancora, per giorni, fino
alla nausea, John avrebbe potuto identificare con esattezza il momento in cui
il suo cuore si era frantumato in mille pezzi. Il momento in cui aveva capito
con la violenza di uno schiaffo che a volte la realtà può essere più spaventosa
delle più cupe e disperate fantasie.
Non
fu quando a tarda sera tornò a casa solo per essere accolto da un appartamento
vuoto, in cui l’assenza delle persone che lo animavano gli sembrò per qualche
strano motivo più dolorosa di una scottatura. Non fu neppure quando, uscendo
alla ricerca della sua famiglia, incontrò sua sorella per strada, completamente
distrutta da alcol e chissà cos’altro, appesa miseramente al collo di una delle
donne di Miss Adler come uno straccio vecchio, sulle labbra uno sproloquio da
cui John poté dedurre che Clara se ne era andata per non tornare mai più.
Accadde
esattamente quando, alla fine di quella stessa strada, riconobbe le spalle incurvate
e i capelli grigi dell’Ispettore Lestrade, con un cane - il suo cane - che gli trotterellava
zoppicando ai piedi e un disordinato fagotto stretto fra le braccia. Perché, in
cuor suo, seppe che quello era il suo Hamish ancora prima di notare la
zazzera di capelli biondi che spuntavano dall’involto di stoffa che lo
proteggeva dal freddo, incrostati di una sostanza marrone-rossastra che, Dio,
non poteva essere sangue vero?
Quello
di cui non serbò memoria fu il modo in cui le sue gambe cedettero sotto il suo
peso, facendolo piombare in ginocchio; il modo in cui il suo cuore si fermò, il
respiro gli si bloccò in gola, le mani gli scattarono fra i capelli.
Mantenne
una vaga memoria, però, del grido che squarciò l’aria notturna, svegliando gli
abitanti delle case circostanti e spingendoli ad affacciarsi alle finestre per
vedere cosa stesse avvenendo. Anche se, ad onor del
vero, avrebbe avuto per sempre il dubbio che un urlo così disumano potesse
essere uscito dalla sua gola di uomo distrutto.
Note dell’autrice:
*Si nasconde per non essere presa a sassate*
Lo so. Sono crudele e orribile. Fare del male ad
Hamish non è stato per niente carino. MA, perché c’è un ma, avevo una buona
ragione.
*Scappa prima di essere interrogata riguardo al
fantomatico motivo della sua cattiveria*
Bene, basta scherzare ;) Ci siamo, questo è l’ultimo
capitolo prima che Shelock e John si vedano faccia a
faccia. Emozionati? Io da morire ;)
Non avete idea di quanto materiale io stia scaricando
per rendere questa storia il più verosimile possibile (beh, per quanto
verosimile possa essere una storia concentrata sulla figura di un demone xD). Avrò salvato almeno 27 pagine di internet, in minimo quattro
lingue diverse :P Oh, e sì, mi sono messa a scaricare un dizionario di parole
in lingua “demoniaca” o qualcosa di simile… in poche parole, sto impazzendo xD
Comunque, finito il mio sproloquio da “scrittrice”
esaurita, voglio dirvi grazie per aver letto fino a questo punto. Vi
abbraccerei uno ad uno, ma un crudele monitor ci divide (e probabilmente anche
chilometri di distanza… uffa!)
Bene, detto questo vi saluto! Alla prossima, un
bacio!!
[1]Urian: Demone della stregoneria e della negromanzia
Non
accettò che nessun’altro si prendesse cura di lui: non appena fu riuscito a
rimettersi in piedi sulle sue gambe, ed ebbe strappato il corpicino privo di
sensi di Hamish dalle braccia forti dell’Ispettore Lestrade (sordo alle
insistenze dell’uomo perché si lasciasse dare una mano, visti i tremori che
sembravano scuoterlo fin nell’anima), John si barricò quasi letteralmente nella
stanza da letto del piccolo, lasciando Gladstone alle cure di chi avesse cuore
di occuparsene… chiudendo fuori quel mondo che, crudele, aveva assistitoal consumarsi di quel fatto orribile senza
dire né fare niente.
Perché
qualcuno doveva aver visto. Non c’era alcuna possibilità che nessuno si fosse
accorto di un bambino che camminava da solo per strada con un cane al seguito,
non quando alcune anziane comari di Castlecross erano a conoscenza persino di
ciò che i compaesani mangiavano a colazione. E ammettendo quella come verità
insindacabile, John non poteva che sentire l’ira più nera arderlo dal profondo
del cuore al pensiero che qualcuno avesse visto e non fosse intervenuto: perché
quella ferita, che spaccava in due la fronte pallida e inumidita dai sudori
freddi di suo figlio, non era conseguenza di una caduta.
John
non aveva sufficienti dita nelle mani e nei piedi per contare tutte le ferite
che si era trovato a dover suturare durante il periodo in cui aveva prestato
servizio militare per la Corona: a occhi chiusi avrebbe saputo riconoscere una ferita
inferta da mano ostile da quella causata da uno sciocco incidente. E non aveva
dubbi, non dopo tutte le volte in cui aveva rappezzato le carni tumefatte e
lacere di chi aveva peccato contro i dettami del Corano sotto il sole cocente
dell’Afghanistan, non dopo che aveva sentito sotto i polpastrelli le schegge di
ossa, non dopo che le sue narici si erano riempite dell’odore di sangue marcio:
suo figlio era stato colpito alla testa con una pietra.
“Chi? CHI?” strillava la mente di John,
mentre con mano incredibilmente ferma visto il nodo di dolore e angoscia che
rischiava di soffocarlo da un momento all’altro puliva la ferita del piccolo,
fasciandola con delicatezza perché le ossa ammaccate non subissero danni
ulteriori.
Si
prese cura di lui al meglio, rilegando in un angolino buio della sua mente
l’esigenza di rotolare a terra e lasciarsi morire per dopo, per quando suo
figlio si fosse svegliato. Solo quando fu certo di aver fatto tutto quello che
era in suo potere per non perdere Hamish lasciò che il vuoto inghiottisse i
pensieri che lo avevano infestato, e piombò in uno stato di catatonia
interrotto soltanto quando bagnava con piccole gocce di acqua e zucchero le
labbra riarse di suo figlio.
Rimase
così, seduto su una sedia rigida, a fianco del letto su cui Hamish era disteso,
con le mani affondate nelle tasche e gli occhi persi nel vuoto, sotto il
costante sforzo di non pensare a
niente, assolutamente a niente.
Se
i suoi occhi fossero caduti sulla benda bianca che cingeva la fronte del
piccolo, lo sapeva, sarebbe impazzito. Sei suoi pensieri si fossero focalizzati su quello che sarebbe potuto
succedere se Lestrade non avesse ritrovato Hamish in tempo… su quello che
ancora, in ogni momento, poteva succedere, sarebbe morto. Se avesse rilasciato
le sue mani dalla loro prigione di stoffa, infine, era certo che le avrebbe
usate per ribaltare il mobilio, strappare le tende, demolire le pareti di
quella stanza, il cui blu era tanto simile a quello degli occhi di suo figlio -
occhi come i suoi, occhi che temeva di non rivedere mai più - da essere quasi
crudele.
Non
prestò attenzione alla presenza di Harry, quando la donna, dopo un primo giorno
in cui la sua mente era stata annebbiata dall’alcol a tal punto da non consentirle
neppure di sollevare il capo dal guanciale, gli crollò praticamente sulle
spalle. Gli occhi sconvolti di sua sorella e il suo volto sporco di lacrime e
muco non raggiunsero i suoi occhi; le sue orecchie rimasero sorde alle sue
mille richieste di un perdono che non sarebbe mai giunto.
Mrs.
Turner, l’Ispettore Lestrade, ogni singola persona di Castlecross con cui aveva
avuto a che fare in quei mesi, di cui aveva alleviato le sofferenze, di cui
aveva salvato una persona amata, entrò in quella casa con il desiderio di
recare conforto e ne uscì con il cuore pesante: perché, era evidente, c’era
poco che il Dottor Watson potesse fare per salvare suo figlio, in mano ora a
forze su cui gli umani non hanno potere… e questo lo stava uccidendo.
Tutto
quanto fu intrappolato in questa logorante condizione di stasi fino alla tarda
mattinata del quarto giorno, quando le narici di John percepirono un aleggiante
profumo di fiori appassiti e il suo sguardo si sollevò per essere catturato dal
viso preoccupato di Miss Adler. Per la prima volta da quando aveva visto
Lestrade in fondo a quella strada si concesse di esternare la sua rabbia.
“Andatevene.
Ora.” Sibilò, sorprendendosi per un momento del carattere estraneo che la sua
voce aveva al suo stesso udito,
“Sono
solo venuta per portarvi parole di vicinanza e conforto, Dottore.” E il tono
addolorato con cui Miss Adler pronunciò quella frase fece rabbrividire John,
perché sembrava così sincera, e non
era possibile che lo fosse, no, perché quella donna neppure conosceva suo
figlio, non aveva la più pallida idea di quanto amasse gli aquiloni, né del
fatto che non riuscisse a pronunciare la parola ‘procrastinare’, o che fargli
bere il suo latte fosse una vera e propria battaglia contro i mulini a vento.
Perché, in sostanza, non era LEI che rischiava di perdere tutto quello che le
permetteva di alzarsi al mattino.
“Andatevene!
Non ho bisogno del vostro conforto. Andatevene!”
E
poi, con quale faccia quella donna si era presentata alla sua porta? Non era
anche colpa sua in fondo se quella tragedia si stava consumando? Se non fosse
stato per le donnacce del suo bordello, quelle disgraziate di Harry e Clara non
avrebbero discusso, e non avrebbero lasciato solo il suo piccolo (noncuranza
per la quale avrebbe tanto desiderato non biasimarle, ma non ci riusciva).
Cercò
di spiegarlo alla donna, che aspettò che sputasse tutto il suo veleno con la
pazienza con cui un adulto ascolta il capriccio di un bambino. Quando John,
senza fiato e sull’orlo delle lacrime, si zittì, si permise di intervenire:
“Posso
comprendere il vostro bisogno di incolpare qualcuno dell’accaduto, anche se
vorrei porvi un quesito: possiamo forse incolpare i venditori di alcolici per
chi si ubriaca? Quelli di tabacco per chi fuma? Le mie ragazze lavorano, niente
di più. Non costringono nessuno a beneficiare delle loro grazie, ma non è
neppure nel loro interesse rifiutare un cliente pagante.”
L’uomo
si alzò di scatto, ribaltando la sedia all’indietro, i lineamenti deformati in
un ghigno. Avrebbe voluto odiare Miss Adler per la verità dietro le parole che
aveva detto, ma non poteva. Ciò che poteva fare era chiederle di nuovo di
andarsene, così lo fece.
Miss
Adler sospirò. “Credevo che vi avrebbe fatto piacere sapere che un modo per
salvare vostro figlio esiste…” disse, girando i tacchi e incamminandosi verso
la porta. Un sorriso sul volto appena sentì quell’incertezza nel respiro del
Dottore che tradiva il suo interesse,
“Volete
forse prendervi gioco di me? Sono un medico! Ho fatto tutto quello che è
umanamente possibile, per Dio!” gridò John, rosso in viso, “Se ci fosse un
modo, credete che non l’avrei già trovato?” e quelle ultime parole gli uscirono
in un tono più rassegnato di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere.
Miss
Adler si voltò nuovamente, fronteggiandolo . “Lo avete detto da solo, avete
fatto tutto ciò che è umanamente
possibile. Il modo di cui sto parlando io di umano ha ben poco, credetemi.”
John
sbuffò una risatina isterica. “Se mi state dicendo che devo pregare
intensamente, arrivate tardi. Ci ha già pensato Mrs. Turner.” Disse, tirando su
la sedia dal pavimento e crollandovi sopra sconsolatamente.
“Vi
assicuro che le preghiere non c’entrano. Io mi riferisco a qualcosa di più
efficace. E di meno metafisico. Beh… diciamo leggermente meno metafisico.”
John
deglutì, passando delicatamente una mano sulla fronte di Hamish. Freddo: la
febbre era scesa. Guardò Miss Adler con la coda dell’occhio, cercando di capire
se stesse parlando sul serio e al contempo di ricacciare indietro a colpi di
realismo la vaga sensazione di speranza che si era insinuata in lui con
quell’ultima affermazione della donna. La speranza è una delle cose più
pericolose che esistano: può farti rinascere alla vita e distruggerti, il tutto
in pochi istanti. Non a caso era contenuta nel Vaso di Pandora insieme agli altri mali del mondo.
“Di
che cosa si tratta, allora?” domandò lentamente, imponendo il massimo controllo
sul suo tono di voce.
Miss
Adler sorrise. Lo aveva in pugno. “La vera domanda è: cosa sareste disposto a
fare per salvare il bambino?”
Prevedibilmente,
la pausa tra la domanda di Miss Adler e la risposta di John fu dell’ordine di
pochi istanti:
“Qualunque
cosa.”
***
“Mrs.
Hudson?”
“Cosa
c’è, caro?”
“Preparate
del tè. Presto avremo ospiti.”
***
Viaggiarono
praticamente in silenzio, John e Miss Adler. L’uomo si sentiva un padre
degenere a trovarsi in quella carrozza e non a casa, al capezzale del figlio,
dove qualunque genitore con un pizzico di criterio sarebbe stato. A ogni curva,
a ogni lieve sbandamento o cigolio delle ruote, sentiva insorgere il desiderio
di gridare “Fermate tutto e torniamo indietro, Hamish ha bisogno di me!”
Ma,
in fede, qual è quel padre che non tenterebbe il tutto per tutto se in gioco ci
fosse la vita del figlio? Non c’era assolutamente nulla che John avrebbe potuto fare per Hamish, per quanto fosse
terrificante e doloroso ammetterlo. Se c’era una minima possibilità che l’amico di cui aveva parlato Miss Adler
avesse invece una soluzione… beh, John l’avrebbe inseguita. Anche a costo di
ritrovarsi a stringere della polvere.
Man
mano che penetravano più a fondo nella palude - e che uomo sano di mente
potrebbe vivere in una palude? - John si sentiva sempre più in ansia,
condizione alimentata dal fatto che la carrozza si muovesse in quello che era a
tutti gli effetti un labirinto di vegetazione fittissima: le intricate radici delle mangrovie avevano
invaso in molti punti estese porzioni di terreno adibito altrimenti a strada
vagamente percorribile; i tassodi, invece, sollevavano al cielo i loro rami
spogli e scheletrici, che come tante braccia intrecciate formavano una cupola naturale
contro la luce del sole - lasciando però penetrare la pioggia che alimentava le
putride pozze marroni diffuse ovunque.
“Dovreste vedere com’è in estate, quando in
giro ci sono libellule grandi come topi e cose striscianti ovunque…” esclamò ad
un certo punto Miss Adler, per la quale il silenzio stava diventando troppo
opprimente,
“Posso immaginare.” Tagliò corto John, “Ma
ora ditemi di più riguardo l’amico a cui avete parlato di me e Hamish.”
“Pazienza! Pazienza! A breve vedrete per
conto vostro. Non vorrei… rovinarvi la sorpresa.”
A coronamento delle sue parole la carrozza si
arrestò bruscamente, e con velocità impressionante Miss Adler ne discese
lasciandosi alle spalle un John molto sorpreso. Che fossero già arrivati? Il
Dottore scese a sua volta, inciampando nel bastone e atterrando in maniera poco
elegante sul terreno melmoso. Per lo meno, però, era atterrato ben saldo sui
piedi e non faccia a terra.
Alzò gli occhi, aspettandosi di trovarsi
davanti un’abitazione di qualche genere. “Magari
una casetta di marzapane…” suggerì in maniera molto utile la sua
immaginazione sovra-stimolata dalla mancanza di sonno. Comunque, sia la sua
mente razionale che quella più estrosa rimasero grandemente deluse: davanti a
lui si apriva soltanto un altro tratto di decadente vegetazione.
John sbatté le palpebre una, due volte. Quando
lo scenario non cambiò, subentrò la rabbia.
“Cos’è, una specie di scherzo questo?” quasi
urlò, digrignando i denti, “Vi sembra una cosa divertente forse?” aggiunse,
mentre la disperazione iniziava a divorare quel lieve barlume di speranza che
gli era nato nel cuore con i suoi denti di metallo.
“Ricordatevi Dottore: non tutto è come
appare.” Lo tranquillizzò la sua compagna di viaggio, allungando una mano verso
di lui.
John osservò quella pelle d’alabastro per lunghi
istanti, mentre la carrozza dietro di loro riprendeva la sua corsa per tornare
a Castlecross. La sensazione che quello fosse soltanto uno scherzo perverso di
quella donna senza morale era forte... prese lo stesso la sua mano. Non aveva
nulla da perdere, in fondo.
Miss Adler gli sorrise in maniera
incoraggiante, e proprio quando John stava per chiederle il perché di quel
contatto fisico, il suo mondo cominciò a girare. Era una sensazione strana,
difficilmente descrivibile, di volo e caduta al contempo, e i sensi di John ne
erano avviluppati in una vertigine senza fine. Boccheggiava, i polmoni trafitti
da mille aghi, e riusciva a fatica a tenere aperti gli occhi. Unica ancora che
gli rimaneva al mondo concreto quella mano bianca che per poco non aveva disdegnato.
“Diventa più facile con il tempo.” Avrebbe
giurato di aver sentito dire a Miss Adler, che totalmente imperturbata lo
guardava con un misto di pietà e sufficienza, ma le orecchie gli fischiavano
così intensamente che non poteva esserne sicuro.
Poi, all’improvviso così come era giunta,
quella sensazione sparì… e John riaprì gli occhi in quello che era uno scenario
che avrebbe potuto perfettamente appartenere ad un incubo. Sebbene il Dottore fosse
più che certo, infatti, di essersi lasciato alle spalle il portone di casa sua non
più tardi di mezzodì, intorno a lui tutto quanto era immerso nel buio. Il cielo
era un’immacolata coltre di velluto nero, su cui l’impuro biancore di un astro
troppo grande per essere la luna disegnava un viso ghignante. La vegetazione
palustre era scomparsa, sostituita da un terreno scuro e marciscente, spoglio
se non per qualche sparuzzato alberello di amamelide e qualche cespuglio in cui
i fiori sanguigni dell’adonide aprivano bocche insanguinate. Al centro di un
piazzale composto da sconnesse pietre grigie, si stagliava un edificio dall’aria maestosa e inquietante, sulla cui
facciata scura si alternavano archi appuntiti e finestre alte e sottili e il
cui tetto era coronato da guglie affilate: un Castello, di quelli in cui sono
ambientate le fiabe più oscure.
“Che posto è mai questo?” domandò John in un
sussurro, chiedendosi se tutto ciò che vedeva fosse reale o un parto della sua
mente.
Miss Adler si compiacque nel vedere gli occhi
sgranati e la bocca aperta del Dottore, lieta di aver provocato una crepa nella
maschera di cauta incredulità che quell’autodefinitosi ‘uomo di scienza’ si
portava sempre appresso.
“È IL Castello. Quello delle leggende. Non
posso credere che quella pettegola di Mrs. Turner non ve ne abbia parlato.” Gli
rispose sibillina, mordicchiandosi un’unghia con fare noncurante,
“Prima non c’era…” le disse John, ignorando
accuratamente la parte relativa alle chiacchiere di Mrs. Turner, e Miss Adler
fu sicura che qualcuno all’interno dell’edificio stesse gridando ‘Non essere
noioso!’. Ridacchiò, muovendosi verso il Dottore con passi sinuosi.
“È sempre stato qui in realtà, solo che non
riuscivate a vederlo.”
“Com’è possibile?”
“Un incantesimo lo protegge. Questo posto…”
disse la donna, indicando con un fluido movimento delle braccia tutto ciò che
li circondava, “…non può essere trovato da qualsivoglia signor nessuno che
passeggi bel bello nella palude - cosa sconsigliabile, non ne sono sicura ma
c’è chi sostiene che ci siano parecchie bestiacce. Comunque, per trovare il
Castello è necessario avere un profondo desiderio di incontrare chi lo abita -
oltre al fatto di non avere intenti nocivi, badi bene. In alternativa, bisogna
esservi accompagnati… da me. È parte del contratto tra me e il mio amico.”
“Strana scelta, quella di aver parlato di un
contratto.” Formulò la mente di John, mentre l’uomo, momentaneamente
dimentico dello scopo per cui aveva raggiunto quel posto, guardava con aria
rapita gli orridi gargoyle che si affacciavano dai cornicioni dell’immensa
magione, “Non si dovrebbe parlare di
accordo, in caso di amicizia? Contratto ha un non so che di impersonale. Di
vincolante. Di…”
“Demoniaco?” terminò
Miss Adler, come se avesse letto nei suoi pensieri. John la guardò basito,
mentre un vento freddo cominciava a soffiare da ovest portando con sé un
penetrante odore dolciastro di frutti in decomposizione. La bella meretrice
sfilò di manoil bastone del buon
Dottore, sostituendolo con il suo stesso avambraccio, senza mai staccare gli
occhi da lui. “Sono a conoscenza del fatto che sosteniate di avere una mente
troppo scientifica per credere che ci sia qualcos’altro, al di là del mondo
fisico in cui viviamo. Anche io ero come voi, ma mi sono dovuta ricredere.
Perché la persona che vi sto portando a conoscere… non è affatto una persona.”
John fu certo
in quel momento che il suo cuore avrebbe abbandonato la sua sede naturale. Che
sarebbe strisciato su, attraverso la sua gola, per uscirsene fuori dalla sua
bocca. Cercò di liberarsi dalla stretta della donna accanto a sé, di porre più
distanza possibile fra i loro corpi, di allontanarsi perché la follia di Miss
Adler non contagiasse anche la sua mente… ma il suo corpo era debole, terribilmente
debole.
Si trovava ad
un bivio, il nostro caro Dottore. Doveva scegliere tra rimanere ancorato alle
certezze di un’inesistente divinità che lo avevano sostenuto fino a quel
momento, e fidarsi delle parole di quella meretrice che voleva introdurlo in un
mondo di occulto e incantesimi.
John Watson,
in quel gelido giorno di primavera, scelse per la prima volta in vita sua di credere.
Quindi avrebbe
incontrato un Demone… che fosse. Non stava a lui decidere che cosa esistesse e
che cosa no: non aveva potere in quel senso, come non aveva avuto alcun potere
sugli eventi che lo avevano portato a trovarsi lì in prima istanza. Se quella
era follia, l’avrebbe accolta a braccia aperte.
John rilassò i
muscoli, sentendo la presa della donna perdere fermezza in risposta alla sua
apparente rassegnazione. La guardò dritta negli occhi, le narici dilatate, le
labbra ridotte a una linea sottile e tesa, ed annuì gravemente.
Miss Adler
sorrise. “Ora, mio caro, vi consiglio di starmi vicino, tenere la lingua a
freno, e soprattutto pensare molto attentamente a quello che sareste disposto
realmente a cedere in cambio della vita di vostro figlio.”
John annuì, di
nuovo, incapace di proferire parola.
Sostenuto e al
contempo incoraggiato ad avanzare da Miss Adler, John caracollò attraverso il
piazzale, su, su verso le scale malridotte che portavano al portone. Come tutto
quanto in quel luogo, la lucida vernice che lo ricopriva era di colore nero. Su
di essa spiccava un battente di bronzo, a forma di leone, che sembrava scrutare
con occhio vigile le due figure che si stavano avvicinando - e che, forse, lo
stava facendo davvero. Miss Adler estrasse un fazzoletto di pizzo dalla
scollatura, utilizzandolo per afferrare il battente senza che il metallo di cui
era composto e la sua pelle entrassero in contatto.
“Non si sa mai
quali esperimenti stia intrugliando quel folle.” Disse a John, a mo’ di
spiegazione, emettendo un risolino nervoso che non le raggiungeva gli occhi e
che non toccò il cuore del Dottore.
Il battente
produsse un suono sordo, sul legno della porta… come se stesse collidendo
contro qualcosa di materialmente denso e molto spesso. O forse erano le
orecchie di John a non sentire propriamente, come esserne sicuri? Comunque, non
appena il terzo colpo raggiunse la porta, si udì un rumore graffiante di
catenacci e serrature che scattavano. Pochi istanti dopo, una testa grigio-biondastra
fece capolino.
John non si
era fornito di una particolare immagine mentale da associare agli ipotetici
abitanti di quel lugubre luogo (da piccolo sua madre gli aveva letto
dell’Inferno e delle creature che lo abitavano, ma non vedeva molte
similitudini con il posto in cui si trovava), dunque non aveva alcunché con cui
confrontare la minuta figura che faceva saettare i suoi occhi nocciola da lui a
Miss Adler. Certo è che, però, trovarsi davanti un’adorabile signora dal viso
dolce e dall’aria fragile non era ciò che si sarebbe aspettato. Eppure, eccola
lì.
“Miss Adler?”
chiese la donna, sospetto e paura evidenti nel modo in cui la sua voce si alzò
di un’ottava sull’ultima sillaba,
“Ti presento il
Dottor John Watson, Martha cara. È qui per vedere Sherlock.”
Sherlock.
Quindi era così che il presunto Demone si chiamava? Se il pallore sul viso
dell’anziana era di qualche indizio, sì, a quanto pareva. John scosse la testa
lievemente.
“Lo hai
accompagnato tu?” chiese la donna a Miss Adler, ogni formalismo mostrato poco
prima nei confronti della meretrice sparito per lasciare posto a un’irata
familiarità, “Nonostante tu sappia quello che potrebbe succedergli, lo hai
condotto qui?” aggiunse, facendo un passo avanti e bloccando la porta con il
suo corpo minuto. John sentì il respiro bloccarglisi in gola.
Miss Adler
alzò gli occhi al cielo, lasciando il braccio del Dottore in favore di
estendere la sua mano verso l’altra donna. “È per suo figlio. Non c’era altra
scelta.”
“Oh cielo…
quindi era di voi che Sherlock parlava…”
Un’ombra scura
passò negli occhi chiari della signora; guardava John con un misto di rabbia e
pena, come se comprendesse il motivo per cui aveva bussato a quella porta e al
contempo desiderasse schiaffeggiarlo per averlo fatto. John era sempre più
confuso.
“Possiamo
entrare o no? È umido qui fuori!” sbottò all’improvviso Miss Adler, spazientita
da tutte quelle chiacchiere, facendo sobbalzare John che per poco non perse
l’equilibrio,
“Immagino che
non ci sia altra scelta…” mormorò in risposta l’altra donna, abbozzando un
sorriso - che voleva essere rassicurante senza purtroppo riuscirci - nella
direzione del Dottore.
Si fece
finalmente da parte, lasciando libero accesso al corridoio che, alle sue spalle,
sembrava immerso in un’oscurità quasi palpabile. Miss Adler precedette John
all’interno, superando la soglia a passo di carica in un fruscio di gonne e picchiettio
di tacchi, e sparendo un istante dopo nel buio. L’anziana signora seguì subito
dopo, con un ultimo sguardo rammaricato e un mezzo sorriso lanciato al Dottore
da sopra la spalla.
Lasciato solo
nel freddo di quella notte innaturale, John si rese conto di aver trattenuto il
respiro durante tutto quello scambio di battute. Gli dolevano le tempie, e la
sua testa non la smetteva di girare; come se non fosse stato abbastanza, gli
acidi del suo stomaco sembravano aver preso la decisione di risalirgli la gola,
lasciandosi terra bruciata alle spalle e riempiendogli la bocca dell’amaro
sapore della bile.
Alzò gli occhi
al cielo, a quel pallido disco bianco che sembrava volersi far beffa di lui
dall’alto del suo sipario di velluto nero. Si aspettava di svegliarsi da un
momento all’altro. Attendeva il momento in cui Hamish sarebbe piombato nel suo
letto con la grazia di un bue, scuotendolo e dicendogli che andava tutto bene,
che non era successo niente… che era soltanto un altro dei suoi incubi. Quel
momento non arrivò mai.
John varcò la
soglia del Castello.
***
La stanza era
immersa nel buio. La preferiva a quel modo, quando aveva bisogno di rifugiarsi
nel suo Palazzo Mentale: nell’oscurità gli era semplice placare le orde di
informazioni inutili trasmessagli quasi per spregio da quello che lo
circondava, e concentrarsi su ciò che era davvero importante.
In quel caso, trovare
spazio nel suo Palazzo Mentale per un certo Dottor John Watson che proprio in
quel momento stava zoppicando nel corridoio, e lo avrebbe raggiunto in pochi
minuti.
Si stiracchiò
pigramente, sentendo schioccare ossa e muscoli ad ogni piccolo movimento.
Sapeva di essere rimasto immobile nella solita posizione per troppo tempo, ma
mantenere stabili e nitide le immagini impresse nelle lingue di fuoco lo aveva
drenato di gran parte della sua energia. Sì, perché durante tutte le
interminabili notte in cui John Watson aveva vegliato il figlio morente, LUI
era rimasto ad osservarlo.
E Sherlock lo
aveva visto, aveva visto il momento esatto in cui la grandezza di quello che
era successo aveva schiacciato il Dottore sotto tutto il suo peso, il momento
in cui l’afflizione aveva raggiunto il suo culmine più nero e aveva reso la sua
mente terreno fertile per un incontro con lui.
Gli aveva
inviato Irene subito dopo.
Sherlock si
tirò a sedere, mugolando per il fastidio della sua circolazione che si
riattivava. Si passò una mano sul viso, sorprendendosi come ogni volta di
quanto la sua pelle risultasse più fredda ogni giorno che passava. Mycroft - e
neppure sotto tortura lo avrebbe ammesso con qualcuno che non fosse una
proiezione della sua stessa mente - non aveva torto, si stava indebolendo
sempre di più.
Sbuffò,
alzandosi in piedi e barcollando leggermente quando la stanza intorno a lui
cominciò a girare. Tenendo una mano appoggiata al bracciolo del sofà per
sostegno, usò l’altra per disegnare nell’aria una complicata runa. Quando il
gesto fu completato, la mente di Sherlock si distaccò dal suo corpo per
avventurarsi nel luogo in cui il Demone custodiva gelosamente secoli di
memorie.
Tre erano le
stanze in cui era suddivisa quella costruzione mentale, che di Palazzo aveva
soltanto il nome. Per struttura era infatti più simile a uno dei tanti
appartamenti che si potevano trovare al tempo nelle più popolose strade della
Londra suburbana, piccoli ma funzionali, brulicanti di vita. Dei tre piani in
cui il Demone aveva suddiviso quello spazio, soltanto uno era da lui utilizzato
con frequenza, quello centrale. Vi entrò a passo di carica, rimanendo per un
istante accecato dalla luce bianchissima che penetrava con irruenza dalle
finestre. Le sue pupille ne rimasero impressionate, e a lungo, anche quando i
suoi occhi si adattarono all’aggressività dell’illuminazione, fantasmi
cangianti continuarono a danzarvi.
Sherlock si
guardò intorno, serrando le labbra di fronte al caos di oggetti raffazzonati a
caso che dominava nella stanza principale.
Si chiedeva
dove avrebbe trovato il posto necessario per archiviare le informazioni che
avrebbe raccolto da quel momento in poi su John Watson in tutto quel
sovraffollamento. Certo, il suo bastone da passeggio e la sua valigetta da
chirurgo erano già poggiate accanto al caminetto (allegoria mentale per i 243
tipi diversi di ceneri di tabacco), ma non c’era speranza che potesse entrarvi
tutto quello che Sherlock desiderava sapere sull’uomo.
Aveva bisogno
di spazio, e spazio era quello che avrebbe avuto. Afferrò il bastone e la
valigetta, e si diresse a passo di marcia verso le scale, quelle che portavano
al piano superiore. Quando fu il momento di salirle, però, ebbe un attimo di
esitazione. Erano decenni che non entrava in quell’anfratto della sua mente, in
cui aveva relegato la parte più emotiva del suo essere. Prese un bel respiro,
raddrizzò la schiena e salì gli scalini a due a due.
Come
d’altronde Sherlock sapeva perfettamente, la stanza al piano di sopra era
vuota… a parte una piccola, fastidiosa presenza che non mancò di palesarglisi
di soppiatto alle spalle, facendogli quasi perdere la presa sugli oggetti che
stringeva in mano.
Sherlock si
voltò sospirando, e con uno scatto del collo puntò gli occhi verso il basso. Di
fronte a lui, ad osservarlo con i suoi stessi occhi, c’era la versione bambina
di sé… o, per lo meno, il suo fantasma etereo e sbiadito.
“Era tanto
tempo che non venivi in questa stanza.” Gli disse il sé bambino con la sua
vocina sottile -ci avrebbe messo secoli a sviluppare quel suono profondo che
rombava adesso dalla sua gola- compiendo un piccolo passo verso di lui. Nel
farlo, la sua immagine tremolò appena.
“Non ne ho
avuto bisogno.” Rispose la versione adulta del Demone, attraversando la stanza
a lunghe falcate,
“E adesso
cos’è cambiato?”
“Mi serve
spazio.”
La risata
negli occhi del piccolo Sherlock sarebbe stata evidente anche a distanza. “Per
il Dottore?” domandò con voce insinuante, guardando in maniera allusiva il
bastone che Sherlock teneva in mano in maniera convulsa.
Il Demone
sbuffò, nascondendo le sue mani e il loro contenuto dietro la schiena. Si
sentiva posto sotto una lente d’ingrandimento da sé stesso, e c’era dell’ironia
in ciò.
“E anche se
fosse?” ringhiò, mettendosi subito sulla difensiva.
Il piccolo
alzò le mani, in segno di resa. “Non sto insinuando niente, se te la stai
prendendo per questo. Mi è solo parso strano che fra tutte le stanze del
Palazzo tu abbia scelto proprio questa per il Dottor Watson.”
La frecciatina
non sfuggì alle orecchie dello Sherlock adulto. Scelse però di glissarla,
esclamando la prima cosa che gli passò per la mente.
“John. Ho
deciso che lo chiamerò semplicemente John.”
“Sembra che tu
stia parlando di un animale da compagnia.”
“È un essere
umano, qual è la differenza?”
L’immagine del
piccolo prese vigore, mentre una risata fuggitiva rimbalzava sulle pareti in
sprazzi di blu e verde. Raggiunse la versione adulta di sé, afferrandogli una
mano:
“Non serve che
tu finga con me. Sono te, ricordi?” gli disse sorridendo,
“No. Sei una parte di me. Una parte che non mi
serve. Per questo sei qui.” Sottolineò con cipiglio acido la versione adulta di
Sherlock, osservando con una certa soddisfazione la luce lasciare gli occhi del
piccoletto.
“Tutti hanno
bisogno di provare emozioni, anche i Demoni.”
“L’emotività è
una debolezza…”
Il piccolo lo
guardò coi suoi occhi penetranti, alzando le spalle. La sua immagine cominciò a
svanire.
“Come vuoi.
Non sarò certo io a contraddirti…”
Il Demone
osservò quella proiezione del suo essere scomparire, un nodo in gola che gli
rendeva difficile deglutire. Scosse la testa, i ricci che gli rimbalzavano
sulla fronte.
Mise il
bastone di John vicino alla porta, pronto per essere afferrato prima di
uscirne. Per la valigetta fece comparire una scrivania, intarsiata con scene
che evocavano deserti, battaglie e vittorie.
Per riempire
il resto, beh, avrebbe avuto tutto il tempo.
***
Sherlock aprì
gli occhi, sbattendo le palpebre alcune volte per riprendere più in fretta
contatto con il mondo fisico. Ultimamente accedere e andarsene dal suo Palazzo
Mentale era diventato estenuante. Sherlock soffocò uno sbuffo di irritazione.
Rimase
immobile ancora qualche secondo, senza disgiungere le mani che non si era
neppure accorto di aver portato sotto il mento. Era perfettamente consapevole
di non essere solo: la presenza dei tre umani che erano entrati nella stanza gli
punzecchiava la mente con insistenza, rendendogli impossibile ignorarla.
Eppure, decise di assaporare ancora un istante quel momento, in cui poteva
sentire gli occhi di John sulla pelle e il suo respiro bloccato in gola dallo
stupore. Parlò soltanto quando Irene cominciò a schiarirsi la voce
ripetutamente, con impazienza, e lo fece con il preciso intento di stupire.
“Sigillo.”
Esclamò, lanciandosi lontano dal divano all’improvviso: azione che risultò in
un’esclamazione di stupore da parte di tutti gli altri occupanti della stanza.
Trattenendosi
dal sorridere, e scegliendo di mostrare la sua più efficace maschera di sereno
distacco, Sherlock si passò le mani sulle costole e sul ventre, sistemando la
camicia bianchissima che si era sollevata appena durante il balzo. Raddrizzando
la schiena per risultare il più imponente possibile, fece scorrere con rapidità
lo sguardo su Mrs. Hudson ed Irene, senza osservare realmente le due donne.
Quando i suoi occhi arrivarono a posarsi su John, invece, bevve letteralmente
la sua immagine.
Ancora non
poteva crederci.
Il Dottore era
lì, davanti a lui. In carne, ossa e deliziosamente sofferente anima.
Smontare John
pezzo per pezzo, e poi rimetterlo insieme, solo perché poteva.
Incatenò gli
occhi straordinariamente blu di John ai suoi: fuori dalla finestra, il nero
liquido del cielo scivolò via, sostituito da una tonalità di cobalto
sospettosamente simile a quella in cui in quel momento il grigio tagliente
delle iridi di Sherlock si stava riflettendo.
“Cosa volevi
dire con ‘sigillo’? Sempre che tu non sia troppo occupato a cibarti del Dottor
Watson con gli occhi.”
Se lo sguardo
di Sherlock avesse avuto ancora il potere di ridurre in cenere, di Irene a quel
punto non sarebbe rimasto che un mucchietto di polvere fumante da aggiungere
alla lista delle ceneri che aveva già categorizzato. Ahimè, i tempi in cui aveva
posseduto una tale capacità se li era lasciati alle spalle da tempo. Dovette
limitarsi a ringhiarle conto, sfoderando i denti appuntiti.
“A tener
nascosto il Castello è un sigillo. Un sigillo complicato, che attinge
direttamente al nucleo di energia della Terra, la cui sola elaborazione ha
richiesto anni di fatiche… non un patetico incantesimo. Ma non mi sorprendo più
della tua abissale ignoranza in qualcosa che non riguardi l’applicazione di
intrugli a base di piombo e arsenico sul viso per spianarti le rughe.” Sputò
con astio, guadagnandosi un’occhiataccia da parte della donna, che morse
indietro:
“Come osi! Io
non faccio niente di tutto-”
“Ragazzi!
Calmatevi! Il Dottor Watson è qui perché ha bisogno di aiuto. Vi sarebbe tanto
difficile comportarvi da persone adulte per il tempo necessario ad ascoltare la
sua richiesta?”
Al richiamo di
Mrs. Hudson, Irene e Sherlock abbassarono la testa sincronicamente. Incredibile
quanta autorità fosse racchiusa in quel fragile corpicino mortale. Dopo alcuni
istanti di silenzio, Sherlock esalò un lungo, sofferto sospiro. A quanto pareva
i temporeggiamenti erano finiti. Reclinò la testa all’indietro, fissando il
soffitto per un secondo.
L’istante dopo
aveva affondato le dita nelle spalle di John (“Oh… riesco a sentire il tessuto cicatriziale…”) e stava fissando
intensamente i suoi occhi sgranati:
….quella cosa voleva essere la musichina tesa dei
film, avete presente? xD *ride imbarazzata per l’idiozia in cui si è appena
esibita*
Bene. Ci siamo. Sherlock e John hanno fatto il loro
incontro. Finalmente, direte voi!
Lo so, lo so. Dopo aver trascinato la cosa per sei
capitoli, avrei anche potuto ampliare un po’ la scena finale… però fa suspense, tagliata così ;) o almeno
spero…
Ancora tante grazie per tutto quanto. Vi prometto che
il prossimo capitolo sarà più incentrato sul loro incontro vero e proprio ;)
A presto, un bacio.
[1]Battaglia di Deh Koja: battaglia della
seconda guerra anglo-afghana, combattuta nel 1880.
[2]Battaglia di Maiwand: sanguinaria
battaglia della seconda guerra anglo-afghana (1880) che vide molti caduti
nell’esercito britannico.
Quando John posò il suo sguardo su Sherlock per
la prima volta, ogni residuo del dubbio che aveva nutrito riguardo l’esistenza
di alcunché oltre l’umano venne spazzato via, come una foglia secca da una
folata di vento gelato.
La stanza in cui fu introdotto da Miss Adler e
Mrs. Hudson - nome con cui la donna si era infine presentata dopo averlo
accompagnato per buona parte del percorso - era molto buia, a differenza dei
tortuosi corridoi che a passo svelto avevano attraversato per giungervi. Dalle
anguste finestre incassate nella parete, infatti, non si poteva scorgere che il
nero inchiostro del cielo: nessun raggio di quell’inquietante luna faceva
capolino dai vetri colorati.
Mentre le due donne che lo affiancavano
sembravano in grado di muoversi in quell’oscurità con la facilità di un gatto
di casa, i suoi occhi faticarono non poco ad abituarsi a quel nero
impenetrabile. Passarono vari istanti prima che le sue pupille si dilatassero a
sufficienza da poter cogliere le sagome del caminetto freddo e spento, o del
resto del mobilio che affollava la stanza. Poi Mrs. Hudson accese la fiamma di
una candela, e John lo vide. Immobile, al centro della stanza. Come una colonna
di alabastro.
Gli occhi di John furono attirati verso di lui,
irrimediabilmente, senza che potesse - o desiderasse - fare niente per
impedirlo. Perché era come se tutta la vaga luminescenza emessa dal lume che
Mrs. Hudson stava sistemando in un candelabro fosse concentrata sulla pelle di latte
dell’uomo davanti a lui, conferendole la stessa proprietà incandescente della
neve fresca illuminata dai raggi del primo sole e lasciando il resto della
stanza nel buio.
Guardarlo in viso era come osservare una di
quelle statue scolpite con mano sapiente in tempi antichi, quando ancora si
credeva che nel cuore di ogni cosa riposasse una divinità: le sue labbra rosee,
che formavano un perfetto arco di cupido, erano aperte quel tanto che bastava
ad accentuare la loro forma a cuore; i suoi occhi erano chiusi, ma la loro
forma leggermente orientale era comunque evidente; infine, c’era la cascata di
riccioli indomabili che incorniciavano quel viso dai tratti tanto spigolosi da
dare l’impressione di essere in grado di ferire se toccati sbadatamente, nei
quali il colore dell’ebano sfumava in tratti qua più chiari, là più scuri, in
sufficienti sfumature da detenere per ore - se non per giorni - l’attenzione di
chi avesse voluto coglierle tutte.
Dei tratti come quelli, non poté fare a meno di
pensare John, erano tanto peculiari che riuniti in un unico individuo non
avrebbero dovuto sortire quell’effetto, avrebbero dovuto sfociare nel grottesco,
strappare una risata a chi li avesse visti. Il Dottore avrebbe imparato fin
troppo presto che Sherlock non poteva essere ricondotto a parametri di ordinarietà
di alcun tipo: anche in quel caso, il fatto che l’insieme di tutte quelle caratteristiche
fin troppo teatrali per essere vere si armonizzasse in lui come le note di una
sinfonia aveva un che di straordinario.
Improvvisamente, cogliendo John completamente
di sorpresa, Sherlock si mosse, allontanandosi dalla posizione che aveva
occupato e esclamando qualcosa che lui, però, non fu in grado di cogliere.
Era troppo occupato a constatare la particolare
tonalità della sua voce per ascoltare le parole.
E ad osservare quello che, più di tutto, lo
separava dal mondo dei mortali: il colore dei suoi occhi. Le parole esatte con
cui John avrebbe tentato di descriverli, molto tempo dopo gli eventi di quel
giorno, quando il primo incontro con quell’essere che avrebbe cambiato per
sempre la sua concezione di sé stesso e del mondo non fosse stata che un
ricordo lontano, furono “Due fuochi fatui, eterei eppure mortali. Avevo la
sensazione che mi stesse guardando diritto nell’anima.”
Ma anche vivendo mille anni e poi mille altri
ancora, non avrebbe mai acquisito un vocabolario abbastanza ampio o una mente
abbastanza chimerica per riuscire a descriverli come avrebbe voluto. Basti
soltanto sapere che non si accorse del battibecco che scoppiò fra Sherlock e
Miss Adler, né del fatto che ad un certo punto Mrs. Hudson avesse fatto il suo
nome.
Un secondo prima stava fissando quell’essere
che di umano aveva ben poco… il secondo dopo la distanza tra lui e Sherlock si
era azzerata, e l’uomo - Demone… era un Demone- gli aveva afferrato le spalle,
paralizzandolo sul posto.
“Battaglia di
Deh Koja o di Maiwand?”
E con quelle parole, la realtà tornò a farsi
strada nella sua mente, accompagnata da un rumore di cocci rotti.
John si schiarì la gola, rendendosi conto
all’improvviso di quanto la sua bocca fosse secca. “Scu…scusate?”
domandò a fatica, la voce rasposa e graffiata.
Sherlock inclinò la testa di lato - come un
felino curioso. L’angolo sinistro della sua bocca scattò verso l’alto, in un
sorriso allusivo che causò una scarica di brividi lungo la spina dorsale del
Dottore.
“La ferita alla spalla…” spiegò, rafforzando la
presa sulla spalla sinistra di John, affondando ancora di più le punte delle
dita nel cedevole tessuto cicatriziale, “…Deh Koja o Maiwand?”
John sgranò gli occhi, basito. Spostò lo
sguardo oltre l’uomo davanti a lui, cercando negli occhi di Mrs. Hudson e Miss
Adler la risposta alla domanda che gli stava rimbalzando nella mente: com’era
possibile che Sherlock sapesse del suo passato militare?
Il timore che la sensazione di essere stato
letto nell’anima non fosse stata soltanto una sensazione si fece vivido e
prepotente.
La donna più anziana sorrise alla muta
richiesta d’aiuto che era evidente negli occhi di John, e scosse appena la
testa - a che cosa stesse dicendo di no, John non lo seppe mai; anche Miss
Adler rispose al suo sguardo smarrito con un’alzata di spalle, e l’uomo capì
che, se avesse voluto avere una risposta, avrebbe dovuto chiedere al diretto
interessato. E lo avrebbe fatto probabilmente: più tardi, se alla fine di
quella giornata avesse posseduto ancora una lingua con cui articolare i suoni.
“Mio figlio sta male, signore. Vi prego,
salvategli la vita.”
John detestò la cadenza supplichevole che
ebbero quelle parole quando uscirono dalla sua gola, e odiò ancora di più l’umidità
che gli velò gli occhi non appena le ebbe pronunciate. Non avrebbe pianto,
anche se ne aveva un disperato bisogno: piangere avrebbe voluto dire essersi
arreso, e lui non aveva la minima intenzione di gettare la spugna.
Anche gli occhi di Sherlock si velarono allo
stesso modo, ma non per dolore o sconforto. Era deluso. Deluso che John, in
fondo, fosse come tutti gli altri. Che volesse soltanto ottenere qualcosa, e
non fosse minimamente interessato al processo che glielo avrebbe fatto
ottenere.
Avrebbe dovuto chiedergli come sapesse della
sua ferita, e come avesse ristretto i luoghi dove probabilmente gli era stata
inflitta a due soltanto.
E lui gli avrebbe risposto, oh se gli avrebbe
risposto! Gli avrebbe spiegato di come aveva dedotto il suo passato militare
dal modo in cui portava i capelli o dal suo portamento; gli avrebbe raccontato
di come leggeva di sabbia, sole e sangue nella tonalità quasi
impercettibilmente dorata della sua pelle, di come aveva dedotto tutte quelle
informazioni solamente osservandolo, senza sfruttare le sue capacità di Demone.
Un ringhio sommesso gorgogliò nella gola di
Sherlock. Il Demone abbassò le braccia, lasciandole cadere parallele al suo
corpo. I suoi occhi, persa la lucentezza sovrannaturale che avevano acquistato
alla vista del Dottore, si posarono su di lui con espressione cinica.
“È questa la tua richiesta?” fu la sua domanda,
caustica e velenosa. Dietro di lui si poterono quasi sentire gli occhi di Mrs.
Hudson e Miss Adler roteare all’unisono.
John deglutì, abbassando lo sguardo. “Sì, signore…”
“E se la esaudissi? Cosa me ne verrebbe?”
L’uomo si era aspettato un momento del genere.
Miss Adler lo aveva ben preparato, e… beh, quando aveva finalmente accettato il
fatto di star per chiedere una concessione a una creatura che veniva diritta diritta dall’Averno (grazie tante a sua madre Clarice per
le lunghe e indesiderate lezioni di catechismo che, a quanto pareva, non aveva
scordato neppure avendoci provato con tutte le sue forze) aveva anche interiorizzato
la consapevolezza che avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa in suo possesso.
Ed era pronto a farlo, non gli importava,
nessun prezzo sarebbe stato troppo alto per la vita del suo Hamish.
Solo, cosa avrebbe potuto offrire a Sherlock? I
suoi occhi, forse, come aveva fatto la giovane Donovan? Le sue mani sapienti di
chirurgo? Il suo cuore? Oppure…
“La mia anima. Potete prendervi la mia anima.”
I Demoni lo facevano, giusto? Si nutrivano
delle anime degli esseri umani… o così gli pareva di ricordare. John teneva lo
sguardo basso, puntato sulla morbida moquette bordeaux damascata che rivestiva
il pavimento: non vide gli occhi di Sherlock accendersi perigliosamente
di una pericolosa luce nera; non si accorse del modo in cui Miss Adler e Mrs.
Hudson trascolorarono, né degli sguardi allarmati che le due donne si
scambiarono. Era riuscito a trovare la cosa più sbagliata da dire in presenza
del Demone, e non se ne rese neppure conto. Non fino a quando Sherlock non
cominciò a ringhiare sul serio, almeno.
“AH! La tua anima?” gridò il Demone, il volto contorto in un ghigno di sdegno e
affronto, “E cosa dovrei farmene, secondo te?”
Gettò le braccia al cielo, piroettando su sé
stesso e allontanandosi da John con ampie falcate. Intorno lui l’aria iniziò a
vibrare. La sua anima. John gli aveva appena offerto la sua anima. Con la
leggerezza con cui si offre una zolletta di zucchero al cavallo preferito.
A favore di John, è un dovere sottolineare che
la disinformazione riguardo il legame fra Demoni e anime umane è molto radicata
nella stirpe di Adamo. La concezione più diffusa è che il soffio vitale che si
sviluppa nel centro esatto del cuore umano quando si contrae per produrre il
suo primo battito sia per le creature Infernali l’equivalente dell’ambrosia per
le divinità venerate ai tempi di Omero: idea esatta nella sua sfumatura più
generale, in quanto non si può negare che le anime siano necessario
sostentamento per coloro che un tempo furono Angeli. Certo è, però, che il
concetto sia stato fin troppo generalizzato.
Quando si tratta di Demoni, infatti, non c’è
cosa più errata che parlare di anime al plurale.
Non possono mietere un’anima dietro l’altra, gozzovigliando
senza ritegno o controllo, crogiolandosi nel potere che ciò comporta. Perché
una volta che hanno scelto un’anima a cui legarsi, la prima cosa che devono
fare è sottoscrivere un Contratto di esclusività (non si dica mai che i Demoni
ignorino la burocrazia), un legame ad vitam tra i due contraenti. È una procedura pericolosa,
perché comporta che il Demone annulli per un momento tutte le sue difese, e
lasci permeare l’anima prescelta all’interno di sé. Soprattutto, è una
procedura che può essere portata a termine una volta soltanto.
Sherlock pensava a Mycroft, a come il Contratto
con quella donna umana l’avesse rafforzato e indebolito al contempo, alla
co-dipendenza che si era sviluppata, ed era certo di non desiderare per sé
niente del genere.
Poi pensava a Moriarty, al modo in cui lo aveva
spinto a fidarsi di lui, per poi…
No. Non avrebbe mai accettato un’anima in
pegno, MAI.
Raggiunse il lato opposto della stanza a grandi
passi, afferrando in maniera brusca il violino dalla poltrona su cui l’aveva
poggiato. Yorick gli lanciò uno sguardo di disapprovazione dall’alto della sua
mensola, senza azzardarsi però a esprimere a voce quanto lo ritenesse immaturo
e cocciuto: l’ultima volta in cui aveva parlato in presenza di un cliente era
stato con la piccola Molly… aveva una crepa nell’osso occipitale a ricordargli
quanto avesse sbagliato.
Sherlock impugnò l’archetto, sistemando lo
strumento sotto il mento e pizzicando le corde, traendone alcuni suoni
sperimentali.
Irene, capendo che il Demone era sull’orlo di
uno dei suoi capricci, si lasciò cadere pesantemente sul divano, sollevando i
piedi sul tavolo con la grazia di un bisonte. Mrs. Hudson invece uscì dalla
stanza mormorando qualcosa inerente a tè e calmanti a base di erbe.
E John… John fu praticamente lasciato a sé
stesso, solo in una stanza piena di gente, consapevole di aver fatto qualcosa
di estremamente sbagliato ma incapace di vedere come e quando ciò fosse
accaduto. All’improvviso, il timore che Sherlock non avrebbe più esaudito la sua
richiesta a causa della sua mal-destrezza gli provocò un destabilizzante senso
di vertigine. Barcollò leggermente, rischiando di inciampare nel suo stesso
bastone (abbandonato con malagrazia sul pavimento da Miss Adler).
Serrò le mascelle, e il rumore stridente di
dente contro dente gli invase le orecchie. “Se non la mia anima, allora,
compite voi la vostra scelta.” Disse, sorpreso lui stesso dal tono vagamente
meccanico della sua voce, mentre adrenalina e determinazione gli scuotevano le
membra, “Non c’è niente che non darei, niente che non sia disposto ad
offrirvi.”
Spalancò le braccia, e i muscoli irrigiditi
dalla tensione quasi scricchiolarono. Sherlock si voltò, con lentezza
drammatica, e percorse la sua figura dalla testa ai piedi con occhi in apparenza
glaciali e indifferenti.
“Ednasdsinonca? Olcrpunigacocasaheermelasa…[1]”
glidisse, in una lingua che John non capì, ma che ebbe alle sue orecchie il
suono di unghie sul muro, di un taglio nel vetro… di pura e semplice
disperazione. Stava per chiedere al Demone, e neanche troppo gentilmente, di
ripetere in maniera comprensibile ciò che aveva appena detto, quando sorprendendolo
di nuovo con i suoi movimenti fulminei Sherlock si portò di fronte a lui, il
violino brandito come una spada e puntato al petto del Dottore. Il suo volto,
acceso dall’entusiasmo, era qualcosa di difficile da guardare.
“Se è a me che concedi il piacere di scegliere,
allora so cosa voglio!” punzecchiò il Dottore sopra il cuore con il violino,
una, due, tre volte, “Voglio TE!”
Mrs. Hudson, che era tornata in quel momento
con quattro tazze colme di tè bollente in equilibrio su di un vassoio dall’aria
molto antica, lasciò cadere tutto quanto sul pavimento con un tonfo, esclamando
sconvolta “Giusto Cielo!”. Se Miss Adler non si ribaltò dal divano, poi, fu
solo questione di mera buona sorte.
“C-Come prego?” balbettò John, sicuro di non
aver sentito bene, guardandosi intorno in allarme,
“Te. John
Watson. Voglio te.”
Lo sguardo attonito con cui John accolse quelle
parole contribuì in maniera sostanziale al mal di testa che già aveva iniziato
ad affliggere Sherlock da prima, dall’incontro con che aveva avuto con sé
stesso nel suo Palazzo Mentale.
“Non fare quella faccia da mentecatto! Intendo
in qualità di mio nuovo servitore!”
E se alla sua affermazione seguì un corale
sospiro di sollievo, Sherlock certo non ne avrebbe fatto parola. Sbuffò,
esasperato, e dopo aver imprecato sommessamente verso divinità sconosciute tese
le sue fusiformi e aggraziate dita verso John.
“Il Patto sarà questo: tu mi servirai per
dodici cicli lunari. Non potrai lasciare il Castello, né allontanarti dalla mia
persona più di quanto io stesso non sia disposto a concederti. Risponderai ai
miei ordini, miei e di nessun altro. E soprattutto… mai potrai fare parola
riguardo a me, al Castello o a qualunque cosa ad esso connessa con anima viva.
Intesi?”
Un anno. Avrebbe legato John a sé per un anno.
Era un periodo di tempo breve, oh, così breve! Eppure quei dodici, insulsi mesi
che sarebbero scivolati via tra le sue dita in tanto velocemente da lasciarlo
senza fiato erano tutto quello che gli restava.
Prima di Mycroft, prima di lottare per non
tornare negli Inferi. Prima di un inevitabile, cocente fallimento.
Guardò John negli occhi. In quel blu riusciva a
leggere un cuore in tempesta, in bilico tra il gettarsi senza guardare indietro
in una proposta che sapeva di inganno e il riprendere controllo della propria
mente. Sperò che accettasse… non si sarebbe dato pace se non fosse riuscito a
comprendere come mai la sua attenzione fosse stata catturata da lui a quel
modo, quei trecentosessantacinque giorni erano la sua unica possibilità. Non
sarebbe riuscito a tollerare di non riuscir
“Accetta…
sarà solo per poco. Quando l’ultima neve d’inverno si sarà sciolta, sarai
libero. E di me non ti resterà che il ricordo.”
John alzò lo sguardo su di lui, e per un
istante Sherlock ebbe la sensazione che il mondo fosse andato sotto-sopra.
Dov’erano l’insicurezza, il dolore, la rabbia che aveva trovato in quelle iridi
marine fino ad un istante prima? Dov’era lo sguardo dolce ai lati di un dottore
amorevole, per cui i pazienti venivano prima di tutto?
Spazzato via, tutto quanto, da quel turbine che
Sherlock poteva vedere formarsi pian piano negli occhi di John, freddo come la
bora, risoluto come un monsone. Ciò che restava, era lo sguardo indurito e
calloso di un soldato, che aveva visto e sperimentato cose che avrebbero
piegato in due qualsiasi altro uomo.
E che ancora le rimpiangeva.
Il modo con cui si aggrappò alla mano di
Sherlock ricordò al demone la stretta poderosa di un mastino. Non poté fare
niente, per nascondere il vago ghigno che storse la sua bocca quando lo udì
esclamare:
“Così sia. Avete il vostro patto.”
E Sherlock rise, rise di gusto, di una risata
che aveva lo stesso suono amaro di un pianto di vedova. Rise così forte che
Mrs. Hudson abbandonò l’intento di raccattare i cocci sparsi sul pavimento e
sparì nelle sue stanze, tanto sguaiatamente che Irene decise di tornare in
paese senza aver assistito al rito che avrebbe salvato il figlio del Dottore.
E ghignava ancora, quando disegnò il primo
simbolo sull’avambraccio del Dottore, là dove sarebbe rimasto per tutta la
durata del loro patto. Non aveva ancora terminato quando mormorò “Salbrox[2]!”, né quando John perse i sensi davanti
a lui.
Il suo giubilo era così totalizzante che non
fece caso all’aura nera e pestilenziale che pareva essere emanata dal piccolo
Watson. Non si accorse del sigillo che, per un momento soltanto, si palesò sulla
pelle intonsa del collo del bambino. Debole e sfinito, si lasciò semplicemente
crollare a terra.
***
La prima cosa di sé che Hamish riuscì a
percepire di nuovo, dopo tutti quei giorni di obliosa oscurità, fu un
fastidioso dolore alla testa. Mugolò il suo disappunto, corrucciando il volto e
strizzando gli occhi, rifiutandosi di cedere all’esigenza di svegliarsi per
ancora qualche istante. Sentì una voce femminile sussurrare qualcosa al suo
orecchio, qualcosa di dolce… ma non riuscì a cogliere le parole.
Decidendosi ad abbandonare il mondo dei sogni,
Hamish allungò appena le gambe, iniziando a stiracchiarsi, e il suo piede urtò
contro qualcosa di caldo e morbido che grugnì non appena percepì quel contatto.
“Gladstone…”
pensò il bambino, sorridendo fra sé e sé e assaporando la sensazione di
familiarità che la presenza del cagnolone ai piedi del suo letto gli
trasmetteva.
Poi, all’improvviso, nella sua mente
cominciarono a formarsi immagini strane.
Dapprima, pioggia. Torrenziale e ghiacciata,
che gli schiacciava i capelli sulla fronte e gli rendeva difficile vedere. Un
cielo grigio, di seguito, e la sensazione di essere in qualche modo caduto su
qualcosa di bagnato. Infine, vennero gli occhi: neri, freddi… mostruosi.
Hamish gridò. “Papà! PAPÀ!”
Spalancò gli occhi, prendendo fiato con respiri
corti e inefficaci che rendevano la sua vista appannata. Avrebbe voluto tirarsi
a sedere, certo come solo un bambino può essere che se fosse rimasto disteso
ancora per una sola frazione di secondo quegli occhi lo avrebbero raggiunto:
mani delicate ma ferme si posarono però sulle sue spalle, impedendogli di
alzarsi, facendolo affondare di nuovo in quel cuscino troppo, troppo morbido.
“Oh, no no no. Non alzarti tesoro. Stai giù.” Si
sentì esortare, dalla stessa voce dolce di poco prima.
Cercò la figura da cui la voce proveniva con lo
sguardo, ma i suoi occhi ancora non riuscivano a mettere a fuoco bene. Di una
cosa però era certo: quella non era la voce di suo padre, né di una delle sue
zie. Prima che potesse interrogare la donna che era con lui in quel momento,
sentì una mano sollevargli delicatamente la testa. Un secondo dopo il bordo
freddo di un bicchiere gli fu poggiato sulle labbra, e l’odore dolce di acqua
zuccherata gli raggiunse le narici.
Si accorse di avere molta, molta sete. Diede un
primo sorso al liquido, la cui stucchevolezza sciacquò via il leggero sapore
amarognolo che gli anestetizzava la lingua. Avrebbe voluto bere ancora, ma allo
stesso tempo si sentiva nauseato da quel sapore così eccessivamente dolce.
“Dov’è mio padre?” optò per chiedere,
allontanando il bicchiere dal viso con il dorso della mano.
Sentì un’esclamazione di sorpresa, ma per un
istante non ci fu risposta da parte della sua sconosciuta interlocutrice.
Hamish tentò di incalzarla, ma a quanto pareva Gladstone aveva scelto
quell’esatto istante per smettere di russare e correre a leccargli il viso -
travolgendolo con tutto il suo peso nel processo.
Hamish rise, accarezzando il muso del suo migliore
amico. I suoi occhi cominciarono a mettere a fuoco qualcosa, ma non fu comunque
in grado di distinguere il viso della donna quando gli disse:
“Hai avuto un brutto incidente. Hai battuto la
testa, e sei stato molto, molto male.”
Questo spiegava il dolore che gli martellava la
fronte, ma non rispondeva alla sua domanda.
“Mio padre. Dov’è?” chiese ancora, con più
forza.
Non era possibile che lo avesse lasciato solo,
soprattutto se si era fatto male come diceva quella signora.
“Lui… avrebbe fatto di tutto per curarti.”
Forse fu la strana inflessione calante data alle
‘e’ di ogni parola, forse solo il fatto che la sua vista si fosse schiarita
quanto bastava, ma Hamish riconobbe in quella massa ombrosa e sfocata che
parlava e piangeva la figura di Mrs. Turner. E con tale cognizione, per nessun
motivo apparente, arrivò anche una scossa di terrore.
Hamish sentì le lacrime scaldargli gli occhi.
“Cosa significa? Dov’è papà? Dov’è? Ditemelo!”
Mrs. Turner scosse testa. Il cuore di Hamish
affondò nel suo petto. Per la seconda volta in pochi minuti si ritrovò a
gridare.
***
Il cubetto di ghiaccio si spezzò, battendo con
un lieve clang contro le pareti del
bicchiere. Alcune gocce di whisky, disturbate da quel brusco movimento,
spillarono fuori dai bordi del loro strapieno contenitore, finendo diritte
sulla mano che lo stringeva.
Fu con gesto quasi pigro che Moriarty si portò
il bicchiere alle labbra, sorseggiando il bruciante liquido ambrato per poi rimuovere
quello che era finito sulla sua mano con la punta della lingua. Era consapevole
degli avidi occhi di Sebastian sulla sua figura, del modo in cui deglutiva
all’unisono con lui pur non bevendo niente, e se normalmenteavrebbe interrotto quegli sguardi con un
commento mordace, quel giorno il suo umore era troppo raggiante per una tale
manifestazione di scortesia.
Pochi minuti prima aveva sentito quella strana
contrazione del suo spirito, quel brivido interiore che poteva voler dire una
cosa soltanto: il piccolo Watson si era svegliato.
E questo, pensò il Negromante fra sé e sé,
poteva significare solamente che Sherlock e il Dottore si erano finalmente
incontrati.
“Seb, prendi un bicchiere.” Cantilenò, facendo
scattare verso l’alto la testa bionda del suo compare, “Dobbiamo fare un
brindisi.”
“A che cosa?” domandò Sebastian dubbioso, senza
mancare però di fare ciò che gli era stato ordinato.
Moriarty, nel rispondergli, ghignò: “Alla mia imminente
vittoria.”
Note dell’autrice:
Ooooooh ora va meglio! Ora sì che si sono
davvero incontrati!
Questo capitolo è stato difficile: alternare i punti
di vista di John e Sherlock mi ha fatto quasi girare la testa. Il motivo è
semplice: nella mia mente non potrebbero esistere due personalità più diverse
delle loro. Secondo me è questo il motivo per cui si completano tanto bene a
vicenda, e volevo cercare di renderlo al meglio. Risultato? Dopo le prime dieci
righe avevo un mal di testa atroce. Poi mi sono abituata ;)
Mi scuso in anticipo, perché ho avuto una settimana di
fuoco e non ho potuto rileggere il capitolo per scovare errori… se ne trovate,
fatemelo sapere e sarò più che felice di disintegrarli ;)
Rinnovo a tutti voi i miei più sentiti ringraziamenti.
Vi adoro, davvero! A presto ;)
[1]Ednasdsinonca?
Olcrpunigacocasaheermelasa: Cosa potrei mai chiederti? Ho solo bisogno di tempo
insieme a te.
Sherlock spalancò gli occhi di colpo. Sondò la
stanza con rapidi movimenti delle pupille, il respiro lievemente pesante, i
muscoli contratti e pronti a scattare. Dettagli, questi, che avrebbero dato ad
un osservatore esterno l’impressione che temesse la presenza di qualche intruso
nella stanza.
E in un certo senso era così: perché
nell’incoscienza generata da quel violento drenaggio delle sue energie,
Sherlock aveva avuto la strana sensazione di essere stato toccato da una
presenza ostile.
In realtà, rifletté Sherlock grugnendo
infastidito, era molto più probabile che quella percezione fosse riconducibile
ad un evento avvenuto prima del suo svenimento: se avesse dovuto pensare
razionalmente, era plausibile che il contatto che l’aveva suscitata fosse
avvenuto quando aveva esteso la sua coscienza al di fuori dei confini del suo
corpo, per raggiungere e sanare il figlio di John.
L’euforia del momento gli aveva forse impedito
di identificare il pericolo sul momento, ma la sensazione di essere stato sfiorato
da qualcosa o qualcuno a lui avverso era stata registrata dalla sua mente per
essergli riproposta quando i livelli di adrenalina nel suo sangue fossero scesi
a livelli più accettabili - ovvero, quando le forze lo avevano abbandonato ed
era scivolato a terra.
“Laat…[1]” mormorò
incollerito, scuotendo la testa per scacciare dal suo organismo la sfuggente
traccia di panico che vi aleggiava.
Non c’era motivo di crucciarsene, adesso. Qualsiasi
rischio avesse corso, ormai era storia vecchia.
Il Demone sbuffò. Tentò di sollevarsi appena da
terra, facendo leva sul braccio destro con tutte le sue forze - il sinistro,
rimasto intrappolato sotto di lui durante tutto il tempo in cui non era stato
cosciente, era praticamente assimilabile ad un pezzo di carne morta. L’unico
risultato che riuscì a conseguire, dopo uno sforzo che gli scosse i muscoli del
braccio fino a farlo tremare, fu quello di ricadere miseramente sul pavimento
con un tonfo.
Sherlock mugolò, affondando il viso nell’incavo
dell’avambraccio ed esalando un sospiro irritato.
Si sentì una risata roca e beffarda. “Brgdaul[2]?” gracchiò
Yorick, squadrandolo con derisione dall’alto del suo palchetto. Aveva atteso in
gloria il momento in cui avrebbe potuto rivalersi con Sherlock del silenzio che
gli aveva imposto, e ora che ne aveva l’occasione l’avrebbe sfruttata al meglio.
Il Demone lo guardò di sottecchi, mugolando una
non meglio definibile maledizione verso quell’ingrato mucchio d’ossa e maledicendo
anche sé stesso per non averlo ridotto a polvere con cui concimare il giardino
alla prima ribellione.
“Taci…” gli sibilò contro, cercando di alzarsi
una seconda volta. Stavolta andò meglio: con uno sforzo titanico riuscì a
sollevarsi sui gomiti, posizione che gli consentì di avere una migliore visione
sulla stanza. Poter osservare la figura di John Watson, abbandonata sul pavimento
come un mucchio di panni logori a pochi passi da lui, fu come un balsamo per il
suo animo scosso. Scacciò via le ultime propaggini dell’inquietudine che aveva
provato al risveglio, facendolo sospirare di sollievo.
Il conforto che provò fu evidente nel modo
discreto in cui le sue labbra si piegarono delicatamente verso l’alto, in un
sorriso che gli increspò gli angoli degli occhi e gli accese le iridi di una
luminosità calda e ambrata. Yorick osservò con occhio critico quei cambiamenti
avvenire sul volto del Demone, grugnendo tutta la sua disapprovazione.
“Sembri un cucciolo di fronte al suo nuovo
giocattolo.” Disse bellicoso a Sherlock, accertandosi di far trasparire dalla
sua voce tutto il disgusto che provava, “Manca soltanto che tu ti metta a
scodinzolare. Patetico.”
Sherlock lo ignorò puntualmente, facendosi un
piccolo appunto mentale di metterlo a mollo nell’acido cloridrico quando ne avesse
avuto il tempo e la voglia. Si trascinò verso John, strisciando sul pavimento -
azione che provocò una nuova serie di brontolii di quell’inutile suppellettile
biancastro. Si portò a incombere sulla figura supina del Dottore, che sembrava
immerso in un sonno privo di ogni coscienza o pensiero.
Le sue pupille si dilatarono, il suo respiro si
coordinò con quello dell’uomo sotto di lui: guardò cautamente il modo in cui le
labbra di John si arricciavano, per poi socchiudersi e rilasciare il suo caldo
respiro in piccoli, timidi sbuffi che solleticavano il volto del Demone; si
lasciò rapire dalla delicata trama di solchi che, sul suo volto, raccontavano
di una vita fatta in egual misura di gioie travolgenti e ombrosi dolori; solo,
si astenne dal toccare, nonostante la pelle delle sue mani fremesse dal desiderio
di quel contatto, timoroso che il tocco della sua carne bollente risvegliasse
l’uomo da quel sonno di esaustione che gli permetteva, finalmente, di
osservarlo per quanto tempo desiderasse.
“Sei un vero rompicapo…” sussurrò, ridendo fra sè. Ed era suo, tutto suo da risolvere per i seguenti
dodici mesi.
“Un
rompicapo? Quel penoso normolap[3]? Ma se è l’essere più banale che abbia
mai messo piede in questo Castello!” sghignazzò Yorick alle sue spalle, facendo
drizzare i capelli sulla nuca del Demone con il tono canzonatorio della sua
voce.
Se Sherlock avesse avuto a portata di mano un
oggetto da lanciare a Yorick, a quel punto il teschio si sarebbe già ritrovato
ad essere ridotto in frammenti disordinati sul pavimento. Non c’era niente di
utile a tale proposito nelle vicinanze, purtroppo, e il Demone era ancora
troppo infiacchito per far orbitare nel suo palmo quella splendida lampada ad
olio che gli ammiccava dall’ultima mensola della libreria, e sembrava pregarlo
di essere lanciata; avrebbe dovuto ancora una volta ricorrere soltanto alla sua
superiore capacità di formulare insulti.
“Oh, non preoccuparti. Il tuo primato non è
affatto messo a rischio da lui. Sei e resterai sempre la cosa più noiosa e scontata
su cui abbia mai posato gli occhi.” Esclamò, condendo le sue parole con giusto
un pizzico di veleno,
“Anche più di Mycroft?” ribatté Yorick impenitente,
provocando nel Demone una leggera risata.
A quel suono cavernoso e profondo, il corpo di
John fu scosso da un intenso tremore. Lo sguardo di Sherlock scattò su di lui,
e il Demone si trovò a trattenere il fiato, piantando i canini nell’interno
morbido del suo labbro inferiore nell’attesa che quei due globi color del mare
si aprissero su di lui.
Non avvenne. Invece, il tremore fu seguito da
un lungo, luttuoso lamento, che sfuggì dalle labbra di John in singhiozzi
spezzati e sofferti. Sherlock, stupefatto, osservò la calma dell’uomo
frantumarsi in innumerevoli schegge di terrore e panico, il suo respiro
accelerare e farsi difficoltoso, i suoi muscoli contrarsi, i suoi occhi
muoversi in maniera convulsa dietro le palpebre sottili.
Se chiudeva gli occhi, poteva immaginare i
surreni di John lavorare febbrilmente per produrre e rilasciare massicce dosi
di adrenalina nel sangue, che pompato dal cuore in tutto il corpo con ritmo
sempre più incalzante preparava il suo fisico a combattere un qualche nemico invisibile,
ma non per questo meno reale.
“Cosa Diavolo gli prende?” domandò Yorick,
abbandonando tutta la sua ironia in cambio di un tono fortemente preoccupato.
Sherlock alzò le spalle, sfiorando con i
polpastrelli una gocciolina di sudore che si era formata sul sopracciglio del
Dottore. “Non ne sono certo… credo che stia sognando…”
John boccheggiò, inarcando la schiena. Sherlock
perì alla curiosità di sapere cosa stesse accadendo nella mente dell’uomo. Si
inginocchiò, sciogliendo i muscoli delle braccia per riattivare definitivamente
la circolazione in quello sinistro e conferirgli un più acuto senso del tatto.
Cautamente raggiunse le tempie striate di fili argentei di John con i palmi
delle mani, giungendo alla distanza di un solo capello dalle tempie dell’uomo.
“Uran-tiaananael[4]”
esclamò, attendendo che propaggini lattiginose di coscienza fluissero dalle sue
dita e carezzassero la pelle del Dottore. Poi, fece collidere con un gesto
risoluto le sue mani con la testa dell’uomo.
E perse la capacità di raziocinio.
Non appena le loro pelli si sfiorarono, infatti,
il mondo di Sherlock si dissolse in un turbine travolgente di colori vivi e
sconvolgenti sensazioni. Fu come se un sole fosse stato improvvisamente acceso
in una stanza immersa per secoli nel buio. Come se sopra e sotto, bianco e
nero, giusto e sbagliato avessero perso qualsiasi significato.
E la ragione di tutto ciò era che, dai punti in
cui i loro corpi erano congiunti, un quantitativo spropositato di energia aveva
iniziato a scorrere prepotentemente da John a Sherlock, con forza bruciante e
quasi violenta. Il Demone ne fu sopraffatto, tutti i suoi sensi portati al
sovraccarico. Poteva percepire ogni singola cellula del suo corpo pervadersi di
nuovo vigore, il suo spirito brillare di luce nera ed espandersi oltre i
confini costrittivi di quel corpo dall’aspetto umano. Il piacere era così
intenso, così obnubilante, che Sherlock non poté fare a meno di rovesciare la
testa all’indietro e gridare con quanto fiato aveva nei polmoni.
Con la sua mente impossibilitata ad andare
oltre il basico percepire, e il suo
corpo concentrato nello sfruttare tutti i suoi sensi per godere di quella
sensazione estatica, l’essere di Sherlock regredì ai suoi istinti più
primordiali. Sordo ai continui richiami di Yorick, che confuso non riusciva a
comprendere cosa stesse succedendo davanti ai suoi occhi, abbandonò la sua
forma umana in favore di quella Demoniaca, più congeniale ad un così
straordinario quantitativo di forza vitale.
Era stato così difficile per lui ultimamente
assumere e mantenere quella forma, che quando liberò le sue ali dalla loro
prigione di carne fu quasi come nascere per una seconda volta. Le sentiva tutte, le piume che
le componevano, dalle scapolari alle remiganti, con una chiarezza che negli
ultimi quarantaquattro anni aveva solo sognato. Le mosse sperimentalmente,
gridando ancora e ancora, mentre l’osso frontale del suo cranio si deformava
per dare vita a due corna ricurve e affilate come rasoi. E in quel momento,
dopo tanto, troppo tempo, Sherlock sentì di essere di nuovo realmente sé
stesso, e non una pallida ombra di ciò che era stato.
Quando, con la stessa estemporaneità con cui
era iniziata, quella corrente di energia venne meno, e la mente di Sherlock poté
nuovamente formulare un flusso coerente di pensieri, il Demone prese un lungo
respiro. Le sue mani ancora appoggiate alle tempie di John, la vista che
sfavillava di mille spettri cangianti, comprese infine cosa di preciso fosse
accaduto… e la caratteristica che rendeva il biondo Dottore davanti a lui
diverso da tutti gli altri esseri umani.
Sorrise.
“Oh, avevo ragione a quanto pare.” Sussurrò,
passandosi viziosamente la lingua sugli affilati canini che facevano capolino
dalla sua bocca. Si alzò in piedi, e per una volta nel farlo non si sentì venir
meno.
“Se solo
Mycroft potesse vedermi adesso… dovrebbe rimangiarsi tutte quelle sciocchezze
sulla sua preoccupazione per il mio benessere. Glielo farei vedere io chi di
noi due è quello debole.”
Sospirando tutto il suo sollievo, Sherlock distese
le sue ali in tutta la loro maestosità, sobbalzando appena ai lievi schiocchi
che facevano quelle ossa ormai disabituate ad avere tanta possibilità di
movimento. Si sentiva bene come non si era sentito da decenni.
Yorick si schiarì la voce, e Sherlock lo guardò
da sopra una spalla, le sopracciglia inarcate in due parentesi arroganti.
“Cosa è successo? Per un attimo ho avuto quasi
l’impressione che ti stessero uccidendo, da quanto strillavi.” Gli chiese il
teschio, con voce tremolante come la fiamma di una candela.
Sherlock gesticolò vagamente con le mani nella
sua direzione, per poi inginocchiarsi di nuovo a fianco di John. Il malessere
che aveva segnato il suo viso e il suo corpo fino a pochi istanti prima era completamente
sfumato in un’espressione placida e tranquilla: solo alcune sparute goccioline
di sudore, che costellavano umide la sua fronte distesa, restavano a memento di
quello che era avvenuto. Non più timoroso di turbare la sua pace, Sherlock
passò la sua mano sulla fronte dell’uomo, che rabbrividì lievemente quando il
suo corpo registrò il calore che il Demone irradiava.
Sherlock lo vide socchiudere appena gli occhi,
e osservarlo con quelle gemme iridescenti da sotto palpebre appesantite dal
sonno.
“Shhhh. Va tutto bene, DarilapaEl[5].
Riposa. Domani sarà un giorno frenetico… perché ho finalmente trovato qualcosa
in cui potrai essermi utile.” Gli ordinò soavemente, chiudendogli gli occhi con
una delicata carezza dei polpastrelli.
John, che non aveva mai ripreso realmente
conoscenza, obbedì prontamente, ricadendo in un sonno profondo e, questa volta,
senza sogni. Gli occhi di Sherlock si illuminarono di una luce pericolosa, il
suo viso si deformò in una maschera maliziosa e tagliente. Raccolse John da
terra con un gesto elegante, la facilità con cui riuscì a reggere con le
braccia tutto il suo peso equiparabile a quella con cui una madre stringe al
petto il figlio lattante; c’era una spettrale dolcezza, nel modo in cui lo
teneva stretto a sé, unita a un qualcosa di molto più macabro e innominabile che
avrebbe fatto rizzare i capelli sulla testa di Yorick, se solo ne avesse avuti.
Perché il teschio poteva vederla chiaramente,
negli occhi pallidi del Demone, la fiamma gelida che preannunciava il suo
gettarsi in una nuova, folle e pericolosa impresa. Quel fuoco che non
preannunciava mai niente di buono, che aveva già visto negli occhi di Sherlock
quando, ormai quasi duecentonovantanove anni prima,
aveva deciso di punto in bianco di lasciare gli Inferi per non farvi più
ritorno.
“Sai Yorick, quest’oggi mi hai dimostrato che
neppure tu sfuggi alla mia valutazione sulla generale idiozia di chi non sia me.”
Gli disse Sherlock, sorprendendolo con il tono vizioso della sua voce,
“Ah sì? E perché, di grazia?” si costrinse a
rispondere lui, ordinando alle sue parole di non tremare.
Sherlock lo guardò per una frazione di secondo,
per poi riportare i suoi occhi, che subito persero l’affilatezza riservata a
Yorick, sulla misera forma del Dottore. L’uomo, che rispondendo al tocco delle
braccia del Demone aveva affondato la testa nell’incavo del suo collo,ghermì con una mano la stoffa della camicia
di Sherlock, in un gesto istintivo che per gli esseri umani rappresentava da
due milioni di anni l’esigenza di sentirsi al sicuro. Il Demone utilizzò le sue
maestosi ali per avvolgerlo, celandolo allo sguardo del mondo.
“Perché, amico mio, questo essere umano in
particolare è l’essere più interessante con cui abbia avuto a che fare in tutta
la mia centenaria esistenza.” Sospirò, ghignando nella direzione di Yorick per
mostrargli tutta la sua soddisfazione.
Il pallido essere deglutì, per poi schiarirsi
la voce. “E cos’ha di tanto speciale?”
Il modo in cui Sherlock sogghignò nel
rispondergli lo fece trasalire di orrore. “Semplice. La mente di quest’uomo è
in grado di partorire Sogni Neri.”
Non appena terminò di parlare, prima che Yorick
potesse anche solo formulare l’abbozzo di una risposta, la figura di Sherlock
venne avvolta da un’incandescente fiamma nera, che proiettò bagliori accecanti
in tutta la stanza, donandole ombre dai contorni funerei. Sparì un istante
dopo, inghiottito dalla cortina di fumo che essa generò, portando con sé John e
lasciando Yorick da solo a riflettere su ciò che gli era appena stato rivelato.
Sogni Neri. Nati soltanto dalle menti degli
uomini che avevano respirato il putrido fiato della Morte, ed erano
sopravvissuti per poterlo raccontare, erano per le creature concepite dalle
fiamme dell’Averno il corrispettivo di un sorso d’acqua fresca per un
viaggiatore del deserto. Trovare chi era in grado di sognarli e sopravvivere
era cosa rara, e i Demoni che ci erano riusciti si contavano sulle punte delle
dita di una mano (non che Yorick avesse possibilità di farlo, ovviamente…);
ancora più esiguo era il numero di coloro che, poi, non avessero finito per
abusare di una tale, inesauribile fonte di energia vitale e fossero stati
condotti alla rovina.
“Spero che tu sappia quello che stai facendo
ragazzo…” mormorò Yorick alla stanza vuota.
L’unica consolazione che aveva era
rappresentata dal pensiero che, se le cose fossero scivolate dalle mani del suo
idiota preferito, il Fratellone sarebbe intervenuto e avrebbe posto fine a
quella follia.
O, per lo meno, così si augurava.
***
Per John Watson, la notte in cui sigillò il suo
patto con il Demone che infestava il Castello della palude fu segnata da un
altalenarsi continuo di sonno e veglia. I contorni tra i due stati erano così
labili, e il suo fisico così provato dagli avvenimenti di quel giorno e dei tre
precedenti, che l’uomo non fu però mai capace di distinguere con sicurezza quando
stesse sognando da quando i suoi occhi fossero effettivamente aperti su quel
luogo surreale e misterioso che era il posto dove si trovava.
Ad un certo punto, ad esempio, ebbe
l’impressione di trovarsi davanti un bellissimo angelo dalle maestose ali nere,
ammantato in una calda luce che, accecante, impediva a John di vederlo in
volto. Quella creatura gli aveva parlato, allungando verso il suo viso una mano
il cui tocco era come fuoco vivo sulla sua pelle, ma John non aveva compreso le
sue parole: solo, si era sentito avvolgere da una dolce sensazione di
protezione, che aveva sedato le sue angustie e gli aveva fatto pensare che, sì,
tutto sarebbe andato per il meglio, che Hamish sarebbe stato bene e lui al
sicuro.
Per molto tempo, fu certo di aver sognato. Ma
quella sensazione intrinseca di sicurezza non lo avrebbe abbandonato per tutto
il resto della sua vita.
***
“Dottor Watson? Caro? È sveglio?”
John mugolò infastidito. Strizzò gli occhi,
rifiutandosi categoricamente anche solo di prendere in considerazione l’idea di
aprirli, e si rigirò nelle calde coperte che lo avvolgevano, dando le spalle a
chi era lì per svegliarlo.
“Altri cinque minuti…” tentò di mugugnare,
anche se quello che effettivamente uscì dalle sue labbra non risultò affatto
simile ad alcun tipo di parola umana.
In risposta alla sua richiesta, l’uomo sentì
qualcuno sospirare divertito, poi un rumore di passi che si allontanavano.
Dovette essersi assopito nuovamente, perché dopo quelli che sembrarono soltanto
pochi istanti le sue narici furono solleticate da un mieloso profumo di tè.
John inspirò profondamente, riempiendosi i polmoni di quell’odore che tanto
sapeva di casa, e che aveva quasi la sensazione di poter assaporare sulle
labbra. Sorrise, socchiudendo un occhio sperimentalmente: poggiato
aggraziatamente sul comodino che costeggiava il letto in cui era disteso, c’era
un vassoio di vetro su cui svettava una tazza di ceramica. Il motivo floreale
che l’abbelliva aveva una delicatezza che parlava di altri tempi; il fuggevole
filo di vapore che si sollevava dal liquido dorato che conteneva fece venire a
John l’acquolina in bocca.
Sospirando soddisfatto, l’uomo si lasciò
cullare da quell’atmosfera familiare, pensando che in pochi minuti si sarebbe
alzato e avrebbe svegliato Hamish, avvertendolo che Mrs. Thompson sarebbe
arrivata da lì a poco per la sua lezione di Francese.
Non si rese conto da subito che c’era qualcosa
di estremamente fuori posto, in quella mattina. Il suo cervello ci mise un po’
a masticare i dettagli stonati, a restituirgli i ricordi del giorno precedente,
a metterlo in allarme sul fatto che qualcosa di fatidico era avvenuto e niente
sarebbe stato mai più come prima. Quando lo fece, lo sconvolgimento fu tale che
a John mancò il fiato.
Tutti i muscoli del suo corpo si contorsero
all’unisono, facendo scattare il suo corpo con la repentinità di una molla e
sbalzandolo fuori dal morbido letto in cui era affondato. Il Dottore finì sul
pavimento, tirandosi dietro le coperte in cui si era crogiolato fino a poco
prima e atterrando malamente sulla sua gamba destra, che protestò lanciandogli
una scossa di dolore.
La mano di John scattò verso il focolaio di quel
male accecante… e fu allora che l’uomo vide il marchio impresso nella pelle del
suo avambraccio. Faceva capolino dai brandelli semi-carbonizzati della manica
della sua camicia: una serie di cerchi concentrici, triangoli sovrapposti e
simboli che l’uomo non riusciva a interpretare.
Lo osservò a lungo, in gola un nodo sempre più
stretto che gli rendeva difficile respirare e gli faceva lacrimare gli occhi. Non
era disegnato in linee nere e spesse, né formato da rosse cicatrici di pelle
marchiata a fuoco: sembrava affiorare dalla morbida pelle del suo avambraccio
in maniera quasi spontanea, come i nei che lo circondavano e la voglia di
nascita che gli segnava il fianco destro; anche il suo colore era più simile a
quello di una macchia della pelle che ad altro.
Come se fosse stato da sempre parte di lui.
Come se non gli fosse stato imposto da quel Demone con gli occhi
caleidoscopici.
Ai ricordo di quelle gemme ardenti il cuore di
John perse un battito. Era reale. Era tutto reale. Aveva stretto un patto con
un Demone. Era in trappola.
Proprio mentre un singhiozzo disperato gli
sfuggiva dalle labbra, il suono lontano di un violino proruppe nella stanza, e
la testa di John scattò verso l’alto. Le note struggenti di una melodia che l’uomo
non aveva mai sentito danzavano nell’aria, suadenti e maliziose a tratti, poi
allegre e gaudenti, poi maliziose ancora, in un crescendo spiraleggiante che lo
teneva con il fiato sospeso e gli faceva dimenticare delle grida che premevano
per uscire dalla sua gola.
Era come se gli parlasse, quella musica
sublime, raccontandogli di avventure ancora da vivere, posti nuovi da visitare,
situazioni pericolose da affrontare con coraggio e astuzia. Gli parlava di sé:
John non poté impedirsi di seguirla.
Si divincolò dalla soffocante stretta delle
coperte, alzandosi in piedi facendo leva su comodino e materasso con le
braccia. Il suo braccio sinistro era in preda ai tremori, la sua gamba era
interessata da spasmi continui, e John non avrebbe permesso a niente di tutto
questo di impedirgli di raggiungere la fonte di quella musica che sembrava risuonare
nel nucleo stesso del suo essere.
Zoppicò sgraziatamente fino alla porta,
ringraziando mentalmente chiunque si fosse peritato di portare il suo bastone
nella stanza che gli era stata riservata e sistemarlo in bella vista, in modo
che potesse afferrarlo al volo. Uscì dalla stanza senza riservare più di un
secondo sguardo ai vestiti nuovi e puliti che, su una sedia vicina,gli erano stati lasciati da Mrs. Hudson
perché si cambiasse.
Il tè aromatizzato alla cannella che la donna
gli aveva portato a mo’ di buon giorno rimase a raffreddare su quel comodino
fino a raggiungere la temperatura di una lastra di ghiaccio.
***
John percorse i corridoi di quella sterminata
magione come un fantasma. Niente pareva aver senso, in quel luogo: porte,
scalinate, ampi androni sembravano succedersi senza alcuna logica, come in un
labirinto; John percepiva il loro mutare dopo ogni suo passo, tanto che mai si
guardò indietro nel suo percorso, sicuro che i suoi occhi non avrebbero
ritrovato l’apertura nella quale si era appena immesso, o la gradinata che
tanto l’aveva fatto penare per essere salita. Talvolta ebbe l’assurda
sensazione che il Castello fosse una creatura vivente, le cui interiora
reagivano alla sua intrusione intricandosi convulsamente, pronte a stritolarlo;
in altri frangenti, invece, fu certo che quei mutamenti fossero accuratamente
orchestrati dal Demone che di quel luogo aveva fatto la sua dimora.
Se il suo destino non fu quello di perdersi per
sempre in quel dedalo ingarbugliato di pareti, condannato a vagare in eterno
alla vana ricerca di una via di uscita, fu solamente grazie a quella sublime
musica che lo guidava.
“Vieni da
me.
Vieni da
me.
Non avere
paura.
Potrebbe
essere rischioso.” gli
sussurravano ammaliatrici le lunghe, struggenti brevi che si susseguivano con
ritmo quasi stantio,
“Ma il
tuo cuore di acciaio brama il pericolo,
ne ha
bisogno per continuare a battere.
Con me
avrai il pericolo
Con me
avrai l’avventura.” gli
assicuravano quei ghirigori infiniti di crome che nessuna mano umana sarebbe
stata in grado di riprodurre,
“Vieni con
me.
Non ti
pentirai di non esserti mai voltato indietro.”
La musica cessò all’improvviso, abbandonando
John proprio davanti alla porta che aveva varcato il giorno prima quando,
accompagnato da Mrs. Hudson e Miss Adler, aveva fatto la conoscenza di Sherlock.
Con il fiato corto per quel percorso interminabile, e nelle orecchie ancora
l’eco di quella melodia angelica, John poggiò lentamente la mano sulla maniglia
di gelido ottone, abbassandola e spingendo verso l’esterno.
La stanza che si aprì davanti a lui, familiare
nella sua estraneità, era immersa in un’oscurità quasi totale. Solo una debole
e morente fiammella, che si lamentava nel focolare mordicchiando un unico
ciocco di legno, segnava i contorni delle figure che le erano più vicine. Prima
fra tutti, quella di Sherlock.
Era affondato in una consunta poltrona che,
anche nel buio, sembrava aver visto giorni migliori. I suoi occhi erano chiusi,
i suoi capelli selvaggi. Il violino ancora poggiato armoniosamente sotto il suo
mento, inclinato verso il basso quel tanto che permettesse al legno lucido di
riflettere i barlumi di quella macilenta fiammella e proiettarli sul volto del
Demone.
John trattenne il fiato. Per uno come lui,
pasciuto a suon di nozioni scientifiche, trovarsi davanti a quanto di meno
scientifico potesse esistere aveva un che di terrificante. Un che di
terribilmente affascinante.
Come se non bastasse, lui a quella creatura che
se ne stava immobile davanti al camino, le gambe distese e i piedi poggiati
oziosamente su un minuscolo sgabello, silenziosa e incurante del mondo, doveva
ogni cosa. Un debito di sangue che avrebbe dovuto ripagare, prima o poi.
“Ci hai messo un po’ a svegliarti.” Sherlock
proruppe all’improvviso, e la sua voce baritonale rimbombò diretta nel petto di
John.
L’uomo trasalì lievemente, spiazzato. Non
credeva che il Demone si fosse accorto della sua presenza, in fondo si era
mosso per il Castello in maniera sufficientemente silenziosa. Fece alcuni passi
nella stanza, incerto su come e se rispondere a quel rimprovero neppure tanto
velato che il Demone gli aveva lanciato contro.
“Mi dispiace. Non sapevo che aveste bisogno di
me.” Mugolò alla fine, sperando che un atteggiamento remissivo sarebbe stato
per lui la scelta vincente.
“Abbandona quell’atteggiamento da cane
bastonato, non ti si addice per niente.”
No, a quanto pareva. John si martoriò con i
denti l’interno delle guance, fino a quando un caldo fiotto di sangue dal
sapore metallico non gli invase la bocca. Alzò gli occhi, che fino a quel
momento aveva tenuto incollati sul pavimento. Davanti a lui, Sherlock (che
aveva abbandonato il suo violino sulla poltrona per fronteggiare John in tutta
la sua maestosità) lo squadrava dall’alto in basso, la bocca ridotta a una
linea sottile di disappunto.
“Vedo
che non hai beneficiato degli abiti che ti ho fatto portare da Mrs. Hudson. La
poverina ha lavorato tutta la notte, per riadattare quelle cose alle tue
misure.” Gli disse, inarcando le sopracciglia in maniera quasi innaturale.
La mano di John si strinse istintivamente
contro l’impugnatura del bastone. Annuì gravemente, ripetendosi ancora e ancora
che non sarebbe stata una buona idea inimicarsi niente meno che un Demone.
Sherlock prese atto della sua condiscendenza.
Se non avesse saputo che aveva davanti un uomo che era sopravvissuto ad
un’atroce guerra, avrebbe giurato di essere al cospetto di un noioso paesanotto mite e terrorizzato. Avrebbe dovuto trovare il
modo di far capire a John che quell’atteggiamento non solo non gli era gradito,
ma gli era decisamente indigesto. Ma ci sarebbe stato tempo, per quello: adesso
Londra li stava aspettando.
Esalò un lungo, rassegnato respiro. “Pazienza.
Ora però vai a prepararti. Ci sono così tante cose che dobbiamo fare,
quest’oggi!” esclamò, afferrando John per le spalle e girandolo verso la porta
da cui era entrato.
L’uomo oppose decisa resistenza, spostando il
suo peso all’indietro per contrastare la spinta del Demone. “C-cosa?” balbettò,
cercando gli occhi di Sherlock coi suoi,
“Il Lavoro, John! Oggi ci dedicheremo al
Lavoro.” Ribatté il Demone irritatamente, spingendolo più forte.
John non aveva la più pallida idea di cosa
intendesse Sherlock con il termine “Lavoro”, e non era neppure certo di volerlo
realmente sapere. Le immagini apocalittiche che gli affollavano la mente al
pensiero di quale fosse il mestiere di un Demone, poi, non andava molto
d’accordo con il suo riflesso gastro-esofageo.
“Hamish non
avrebbe reagito così. Lo avrebbe sfiancato a furia di domande.”
Hamish. Il pomeriggio precedente John era
collassato prima di potersi accertare che Sherlock avesse portato a termine la
sua parte dell’accordo. Prima di essere certo che suo figlio stesse bene. Che
razza di padre avrebbe tollerato una cosa del genere? Puntò i piedi a terra,
rigirandosi nella presa di Sherlock fino a che i loro visi non furono che a
meri centimetri di distanza.
“Prima, se permettete, avrei una richiesta per
voi.”
C’era acciaio nella sua voce, e polvere da
sparo. Ascoltando attentamente vi si sarebbero potute rintracciare le vestigia
del Capitan John Watson, del Quinto Reggimento dei Fucilieri Northumberland, solitamente sepolte sotto sorrisi bonari e
maglioni informi. A Sherlock la cosa non sfuggì, e le sue labbra si
arricciarono in un sorriso sornione.
“Ah sì? E cosa ti fa pensare di essere nella
posizione di potermi fare richieste di alcun tipo?”
Il tono provocatorio che pervadeva la risposta
che Sherlock aveva formulato incendiò le iridi del Dottore. L’uomo scattò
all’indietro, allontanandosi da Sherlock. Le sue pupille, ridotte dall’ira allo
spessore di una capocchia di spillo, lo osservavano velenose. Il sorriso di
Sherlock raggiunse i suoi occhi, conferendogli una sfumatura dispettosa.
“Tranquillo, Dottore. Se la richiesta riguarda
la condizione di tuo figlio, sappi che noi Demoni siamo vincolati in maniera
imprescindibile alle clausole dei Patti che stringiamo.” Esclamò, tendendo la
mano verso il caminetto.
Subitamente, la consunta fiammella che lo
abitava prese vigore, tingendosi di una disarmante tonalità di blu in un coro
di crepitii e schiocchi. John osservò rapito le lingue di fuoco danzare in
maniera sempre più convulsa, fino a quando nei bagliori più intensi non
cominciò a distinguere il succedersi di confuse immagini.
Quando il volto di Hamish comparve fra le
fiamme, per poco le sue gambe non cedettero.
Era sveglio. Stava bene. I suoi occhi erano
stanchi e tristi, le sue guance scavate da giorni di febbre e alimentazione
stentata, ma era indiscutibilmente, meravigliosamente vivo.
John non combatté le lacrime che gli salirono
agli occhi: le lasciò scorrere, e ad ognuna di esse fu come se un’oncia del
peso che gli costringeva il petto si sollevasse. Sherlock lo guardò in
silenzio, e anche se i suoi occhi gravavano sulla pelle di John come macigni,
l’uomo si sentì grato del fatto che il Demone avesse deciso di non parlare.
Solo quando fu certo che John si fosse
rassicurato a sufficienza, Sherlock fece scomparire l’immagine del bambino dal
focolare. Tese una mano verso John, poggiandola delicatamente sul suo
avambraccio.
“Ora, va a prepararti. Londra ci attende.”
John abbassò la testa in un muto, rassegnato
assenso. Mentre si allontanava rifletté che, evidentemente, la clausola che gli
impediva di lasciare il Castello, se per espresso ordine di Sherlock, non era
così vincolante.
***
Nel cupo vuoto della sua dimora infernale,
Mycroft osservava nella superficie chiara di un antico specchio lo snodarsi di
una scena che non aveva precedenti nella sua memoria. Arricciò il naso,
scontento di ciò che vedeva, e per un secondo fu quasi tentato di frantumare l’oggetto
che si era fatto ambasciatore di notizie tanto sconcertanti.
Se quello che vedeva rispecchiava il vero,
avrebbe dovuto recarsi nel mondo degli uomini al più presto, per arginare la
situazione prima che provocasse danni irreparabili. Sperò vivamente che
quell’essere umano noto come John Watson non rappresentasse una minaccia per
suo fratello: in caso contrario, beh… all’Inferno c’era sempre spazio per una
nuova anima da torturare.
Note dell’autrice:
Già… Sogni Neri.
Devo aver mangiato
particolarmente pesante, prima di scrivere questo capitolo xD
Comunque, la cosa che più
mi preoccupa da qua in avanti è il problema rating. Lo avevo programmato giallo
per tutto il corso della storia… temo che le cose mi stiano appena appena
sfuggendo di mano :P Che posso dire… questi due si attirano a vicenda come
calamite xD
Bene, fine dei miei
vaneggiamenti ;) Al prossimo capitolo, grazie ancora a tutti voi per il
sostegno che mi date! Sono così felice che mi metterei a girare in giardino
come un orsetto ;D
Baci :*
PS: ha inizio la mia
nuova, maestosa impresa… come scrivere della risoluzione di un crimine senza
scrivere della risoluzione di un crimine? :P Mi voglio proprio bene….
La Londra del diciannovesimo secolo non era
molto lontana dalla città che, quasi cent’anni prima, aveva descritto William
Blake nella sua famosissima poesia.
Nonostante la straordinaria opera
ingegneristica di Bazalgette, che fornì la città di
più di duemila chilometri di tubature, il sovraffollamento portato dal continuo
sorgere e fiorire di nuove industrie metteva a dura prova il sistema fognario
del luogo: le acque nere filtravano a più riprese attraverso la pavimentazione
cittadina, riversandosi nelle strade e insozzando le acque già imputridite dai
resti delle fabbriche del Tamigi. Il cielo era grigio per i fumi che
fuoriuscivano costantemente dalle ciminiere, le persone viaggiavano a testa
bassa per non leggere negli occhi dei passanti la stessa disperazione che
albergava nei loro cuori, la povertà delle classi lavoratrici strideva in
maniera sempre più evidente con l’opulenza delle classi più elevate.
Il cambiamento era nell’aria: Darwin stava
aprendo gli occhi al mondo sull’origine dell’uomo con la sua opera; Dickens denunciava
i mali dell’epoca. Il tasso di crimini violenti giunse picchi mai neppure
immaginati, sfruttamento minorile e prostituzione appestavano la città… e Sherlock
non avrebbe desiderato trovarsi in un posto diverso per niente al mondo.
Fu in uno dei vicoli più malfamati e corrotti
della città che il Demone orbitò sé stesso e John quel giorno: un budello
maleodorante incastrato tra due edifici alti, i cui mattoni erano neri e
untuosi a causa delle esalazioni delle fabbriche vicine. Lo aveva selezionato
accuratamente, sicuro in virtù delle sue proprietà che non sarebbe stato
affollato da passanti tendenti a terrorizzarsi se posti davanti allo spettacolo
di due uomini che comparivano dal nulla.
Sherlock e John si materializzarono insieme, il
secondo ancorato al braccio del primo come se ne andasse della sua stessa vita.
Lo aveva avvertito, il Demone, mentre disegnava con le dita gli strani simboli
che avrebbero permesso loro di orbitare, che smaterializzare il proprio corpo
poteva provocare un forte senso di nausea… oltre ad avere la fastidiosa
controindicazione di arti che non si ri-materializzavano
dove avrebbero dovuto. Quella volta John fu fortunato, e all’atterraggio
ritrovò al suo posto tutto ciò che gli apparteneva. Per quanto riguardava la
nausea, invece…
“Mentre tu finisci… quello…” gli disse Sherlock,
gesticolando selvaggiamente nella vaga direzione in cui John, in ginocchio,
stava svuotando il contenuto del suo stomaco nello sporco accumulato nel
vicolo, “…io mi procurerò qualcosa che ci sarà utile. Non muoverti da qui.”
Un conato particolarmente forte impedì a John
di sputar fuori un ‘E come dovrei fare a muovermi secondo voi?’. Il suono umido
di cibo semi-digerito vide Sherlock portarsi una mano al volto, per proteggersi
dal fetore acidulo che riempì l’aria. Il Demone si aggiustò la sciarpa attorno
al collo, sollevando il colletto dello scenografico cappotto nero che aveva
scelto di indossare per l’occasione. Sparì nelle strade di Londra, lasciando
John solo nella sua miseria.
“John
Watson, sei sopravvissuto ad anni di studio disperato…” rifletteva
amaramente, mentre gli spasmi del suo stomaco lo piegavano in due, “…sei sopravvissuto all’Afghanistan. Ma
questo… questo è troppo anche per te.”
Espulse un’ultima, bruciante boccata di bile,
prendendo un lungo respiro che gli fece cigolare i polmoni. Tastò con la mano
destra le tasche di pantaloni e giacca, alla disperata ricerca di un fazzoletto
con cui pulirsi la bocca: ne portava sempre uno con sé, non poteva mai sapere
quando lui o Hamish ne avrebbero avuto bisogno.
Il problema in quel frangente era che quelli che
aveva indosso decisamente non erano i suoi vestiti. Appartenevano a qualcun
altro, a qualcuno con un fisico molto diverso dal suo: era chiaro dal modo in
cui i pantaloni stringevano i suoi fianchi, o le maniche di giacca e camicia
gli pendevano sulle mani senza speranza. Mrs. Hudson aveva certo fatto del suo
meglio… ma, se come John pensava, quei vestiti erano una proprietà di Sherlock,
ci sarebbe voluto un miracolo per farli calzare alla perfezione su di lui.
Traditore, un intenso rossore si fece strada
sulle sue guance: John si rifiutò di attribuirlo all’idea di aver indosso gli
indumenti del Demone, convincendosi invece che fosse una reazione del suo corpo
al malessere di poco prima.
Proprio mentre si rassegnava all’idea di
detergersi la bocca con il dorso della mano, un fazzoletto rosa bordato in
pizzo invase la sua visione periferica. Un’ondata di gratitudine sommerse il
cuore dell’uomo, che allungò la mano verso il prezioso pezzo di stoffa,
sollevando al contempo gli occhi per vedere in faccia il suo angelo custode
personale. Il suo sguardo fu catturato dal volto impassibile di una splendida,
giovane donna dagli occhi verdi.
“Avete bisogno di una mano, signore?”
La voce della giovane era melodiosa, resa
esotica da un accento che John trovò impossibile collocare geograficamente; i
suoi capelli ricadevano in morbide onde castane sulle sue spalle sottili… e
John la stava decisamente fissando. Molto, molto male.
Si trovò a dover formulare una risposta
all’innocente domanda della bella sconosciuta al più presto, per evitare che si
accorgesse della tangente che avevano imboccato i suoi pensieri.
Purtroppo per lui, tutto quello che riuscì a
trapassare la barriera delle sue labbra fu un alquanto atono “Ahafahmmm.”
Si sarebbe preso volentieri a schiaffi da solo.
Il suo penoso exploit sembrò non turbare la
giovane più di tanto. Rispose all’evidente imbarazzo di John con un sorrisino
che in tanti avrebbero definito affilato, e che a lui sembrò soltanto adorabile;
con un grazioso movimento sventolò il fazzoletto davanti a John, che stavolta
lo afferrò senza esitazioni e se lo passò sulle labbra. Un delicato profumo di
zenzero gli attaccò le narici.
Sorrise riconoscente alla donna. “Non so come
ringraziarvi.” le disse, piegando il fazzoletto in quattro e stringendolo tra
le mani, “Mi dispiace soltanto di aver sciupato un così bel pezzo di stoffa…”
“Non temete, John Watson. Ne ho a bizzeffe, e di
egualmente graziosi.”
Sentendo quel nome sulle labbra di una donna
che non aveva mai incontrato in vita sua, John si congelò sul posto. Il suo
istinto scalciò con furore dentro di lui gridando ‘pericolo’, e un flusso
prepotente di adrenalina gli fece pulsare le tempie. Quando guardò di nuovo la
sconosciuta, lo fece in veste di soldato forgiato su campi di battaglia
sanguinosi.
“Come sapete il mio nome?” domandò autoritario,
le sue labbra ridotte a una severa fessura alla vista della lieve piega
divertita che presero gli occhi della sconosciuta alle sue parole.
La donna non gli rispose, ovviamente. Scosse
semplicemente la testa, estraendo un foglietto di carta dalla scollatura
dell’abito dal taglio severo che indossava. Lo porse a John, e per un attimo
l’uomo ebbe la tentazione di non prenderlo. La granitica impassibilità che
aveva assunto il volto della giovane che aveva di fronte lo informò che quella
non era un’opzione vagliabile.
Il foglietto di carta risultò essere un
biglietto a lui intestato, scritto in una calligrafia sì chiara, ma anche
alquanto antiquata. Faceva pensare a John agli antichi tomi copiati a mano da
un monaco amanuense, ai tempi in cui la parola scritta aveva ancora il valore
di un gioiello.
“Dottor Watson.
Mi trovo nella fastidiosa posizione di aver necessità di incontrarvi in prima
persona, e al più presto. La donna che vi ha consegnato questa nota vi
accompagnerà nel luogo previsto per tale, spiacevole incombenza. Confido in
quel minimo di intelletto che la vostra professione mi fa sperare che abbiate
affinché non opponiate resistenza e facciate come vi viene richiesto. Potrei
minacciarvi, ma sono certo che la situazione vi sia sufficientemente chiara.
M.H.” recitava, e nel
leggerlo John sentì la crescente pulsione di esplodere in un’amara risata. Chi
era questa persona che aveva bisogno di incontrarlo? Come sapeva che proprio
quel giorno John sarebbe stato in quell’esatto, nauseabondo vicolo di Londra? E
soprattutto… riteneva forse che sarebbero bastate quattro parole minacciose su
uno stupido pezzo di carta per intimidirlo?
Se sì, evidentemente non aveva la minima idea
di con chi avesse a che fare. Si alzò da terra con fare sprezzante, impugnando
il bastone a mo’ di spada. Quello che vide nel viso della giovane che fino a
qualche minuto fa aveva considerato attraente gli fece pensare, però, che
quelle intimidazioni non fossero poi così vuote.
Perché nessun essere umano, il Dottore ne era
certo, aveva occhi di quella minacciosa tonalità di carminio; perché le labbra
ritirate della donna mostravano una fila di denti aguzzi come rasoi.
“Un
Demone, anche lei…” concluse subito
John, non abbandonando la posizione difensiva che aveva assunto, “…e ora, che faccio?”
Per quanto ne sapeva, seguire quella
sconosciuta verso l’ignoto sarebbe potuto equivalere a marciare verso la
propria morte. Non si interrogò più di tanto riguardo il significato
dell’accelerazione che i battiti del suo cuore subirono al solo pensiero. Il Dottore
soppesò le sue opzioni per una decina di minuti… finché non si rese conto che
di opzioni, realmente, non ne aveva.
“Fate strada, dunque.” Esclamò distaccatamente,
accartocciando il biglietto e infilandolo nella tasca del panciotto.
La donna annuì gravemente, rinfoderando le
zanne e incamminandosi nel vicolo con andatura eterea. John si ricordò che Sherlock
gli aveva ordinato di non muoversi da quel luogo per nessuna ragione al mondo.
Sperò che non se la prendesse troppo per quella
sua disubbidienza.
***
Il luogo in cui la donna lo condusse aveva
tutto l’aspetto di un magazzino industriale abbandonato da tempo immemore. La
costruzione, costituita da un ammasso decadente di travi metalliche e mattoni
che sembrava stare in piedi per miracolo, era collocata al centro di un
quartiere periferico in cui John, nei suoi lunghi anni di vita Londinese, non
aveva mai avuto il dispiacere di mettere piede. Tutto, dalle bancarelle che
presentavano ai frettolosi passanti i loro unti cartocci di cibo fino ai
cenciosi capannelli di mendicanti che imploravano per qualche sterlina ai lati
della strada, trasmetteva un senso di disperazione che faceva torcere le
budella al giovane medico.
A preoccuparlo più di ogni altra cosa era il
fatto che nonostante quel particolare luogo fosse attraversato da un flusso
continuo di persone, e la stessa natura deteriorata dell’edificio rendesse
impossibile non posarvi sopra lo sguardo, nessuno sembrava percepirne la
maestosa presenza.
Gli occhi di nessuna di loro indugiavano su
quello che restava delle sue pareti scure. Nessuno dei loro passi valicò
l’invisibile barriera che sembrava ergersi tra quella costruzione e il resto
del mondo.
L’interno, quando John vi fu condotto dalla sua
granitica guida, risultò se possibile ancor più fatiscente dell’esterno.
Constatava di una sola, immensa stanza, il cui pavimento ligneo era ricoperto
da uno strato di polvere così spesso che, ogni volta che i piedi della donna che
camminava davanti a lui vi si posavano, una leggera nuvoletta di quella
lanuggine si sollevava per posarsi strategicamente sul naso del Dottore, causando
una serie di starnuti. Ognuno di essi, così come ogni strascicato passo
dell’uomo sul pavimento irregolare, erano seguite dai grugniti infastiditi
della sconosciuta: quando lei si congedò, ordinandogli di attendere al centro
esatto della sala l’arrivo del fantomatico M. H. che lo aveva convocato, John
provò un incommensurabile sollievo…
“Dottor Watson.”
…destinato ahimè ad avere vita breve. John
irrigidì la schiena, puntò i piedi e serrò la mascella; per l’ennesima volta in
soli due giorni, le sue mani scattarono al suo fianco per poi stringersi a
pugno attorno all’assenza della sua rivoltella. Trattenendo il fiato, osservò
l’imponente uomo che, facendo dondolare con nonchalance uno scuro ombrello
dall’impugnatura a forma di teschio dorato, stava camminando verso di lui. E
che, a quanto pareva, conosceva il suo nome.
“Molto scenografico, tutto questo.” Non si poté
impedire di esclamare John, tagliente come il vetro, mentre percorreva con gli
occhi lo smisurato perimetro della sala, “Anche se non ho idea di quale motivo
vi abbia spinto a farmi venire fin qua.”
Lo sconosciuto si fermò a pochi passi da lui, e
John fu costretto ad alzare il mento per poterlo guardare negli occhi. C’era un
che di familiare, in quell’insolita tonalità di grigio, ma non abbastanza
familiare da far suonare un campanello nella mente del Dottore. John registrò i
tratti somatici dell’individuo, dal naso adunco all’incipiente stempiatura, e
decise che indipendentemente dal modo in cui si erano incontrati non avrebbe
mai potuto provare per lui e per l’altezzosità che emanava che antipatia e
fastidio.
Quando poi lo sguardo dell’uomo si posò sulla
gamba di John, e gli angoli della sua bocca scattarono appena verso l’alto, il
Dottore sentì la rabbia ribollire dentro di lui.
“La gamba deve farvi male.” lo sentì esclamare,
stringendosi nelle spalle al suono lievemente nasale della sua voce, “Sedetevi.”
L’uomo agitò elegantemente una mano, e proprio di
fronte a John si materializzò un imponente seggio di legno nero, sulla cui
superficie lucidi volti contorti in espressioni di angoscia e terrore si
alternavano a mani tese in una muta richiesta di soccorso congelata nel tempo.
Il Dottore lo osservò per trenta secondi buoni, incapace di staccare lo sguardo
da un oggetto che - a meno che improvvisamente John non avesse sviluppato problemi
di vista, e così non era - quando era arrivato non era in quel luogo.
Sospirò, passandosi una mano sulla faccia: una
vita intera passata a negare l’esistenza del sovrannaturale, e in due soli
giorni aveva incontrato più Demoni di quanti ne avesse descritti Dante
Alighieri nella sua opera. Nessuno avrebbe potuto convincerlo che qualcuno in
grado di far comparire una sedia dal nulla fosse un essere umano.
John rafforzò la stretta sull’impugnatura del
bastone. “Non voglio sedermi.” Affermò, sperando che la sua voce risuonasse
risoluta come lo era il suo spirito.
Il Demone sconosciuto inclinò appena la testa,
guardandolo con curiosità.
“Non sembrate molto spaventato.” osservò, e
John fu certo di sentire una punta di stupore nella sua voce,
“Non sembrate molto spaventoso.” ribatté
allora, gonfiando il petto per risultare minaccioso.
Non ottenne il risultato sperato: il suo
interlocutore infatti rovesciò la testa all’indietro, in una risata roca e
stentorea. Quando lo guardò di nuovo, nei suoi occhi bruciava una scintilla
beffarda.
“Non so se definirvi più coraggioso, o stupido.
Anche se francamente credo che il contorno tra le due cose sia tanto labile da
essere inesistente.” dichiarò, facendo scomparire la sedia in uno sbuffo di
fumo rosso.
John si morse la lingua, pronto a ribattere, ma
lo sconosciuto fu più rapido di lui nell’esclamare:
“Dovete stare il più lontano possibile da
Sherlock. Intesi?”
Per un attimo tutto ciò che fu possibile udire
fu il neppure troppo remoto brusio di strada che penetrava dai vetri rotti
delle finestre. Poi, John emerse dal suo stato di stupore e riuscì a
balbettare:
“Come, prego?”
“Lontano. Da lui, dal Castello, da Castlecross.
Se foste d’accordo a emigrare in un altro Stato non mi opporrei di certo.”
John deglutì, sicuro di non aver compreso bene.
Fece rapidamente mente locale, il tutto con l’intento di pianificare al meglio
le sue prossime parole, la certezza di avere a che fare con un individuo che
non solo conosceva Sherlock, ma in qualche modo era anche a conoscenza del fatto
che lui e il Demone fossero in qualche modo legati che si faceva strada nella
sua coscienza.
“Perché?” fu la prima cosa che gli venne in
mente di chiedere, e anche lui in tutta sincerità era consapevole che non
avrebbe dovuto essere così; c’erano mille domande che avrebbero dovuto
balenargli in mente prima di quella, ma al momento la necessità di un suo
allontanamento era la questione che gli premeva di più.
L’espressione infastidita che sbocciò sul volto
del Demone di fronte a lui quando rispose - e che faceva sembrare che avesse
assaporato qualcosa di terribilmente aspro - fu impagabile.
“Sherlock tende ad affezionarsi ai suoi
giocattoli…” gli disse, accennando nella direzione di John con gli occhi e
provocando nell’uomo una scintilla di furia, “…e si inquieta sempre, quando
alla fine si rompono.”
Probabilmente non fu il contenuto di quel
discorso a far scattare John, quanto il tono pregno di supponenza e disgusto
con cui furono pronunciate quelle parole. Fatto sta che l’uomo coprì in pochi,
affrettati passi la distanza che lo separava dal Demone che incombeva su di
lui, per poi afferrare quel ridicolo fazzoletto di seta rossa che gli cingeva
il collo.
“Non sono un oggetto con cui giocare, e non mi
rompo così facilmente!” ringhiò, scoprendo i denti con fare minaccioso.
Non poté purtroppo assaporare troppo a lungo
l’espressione di amareggiato stupore che attraversò il volto del suo
oppositore, perché in un istante la donna che lo aveva accompagnato in quel
luogo si era parata davanti a lui, colpendolo al petto con forza tale da
spedirlo diversi metri indietro.
John si riparò con le mani, boccheggiando tutta
la sua sorpresa. Della bellezza che aveva ammirato la prima volta che aveva
posato gli occhi sulla sconosciuta, non restava che una pallida ombra celata
dietro una maschera fatta di zanne grondanti veleno e artigli affilati come
rasoi.
“Non fare un altro passo.” gli sibilò contro la
donna, mortale, e il Dottore era sicuro che lo avrebbe azzannato se non fosse
stato per la pallida mano che, prontamente, si era posata sulla sua spalla
sottile.
“Anthea. Calmati. Sono sicuro che il Dottor
Watson non aveva cattive intenzioni.” esclamò mellifluamente il Demone, la cui
calma strideva in maniera insopportabile con il caos che era appena scoppiato,
“Voleva intimidirti…” rispose la donna - Anthea
- debolmente, struggendosi nel tocco di quella mano con un miagolio,
“E sappiamo entrambi che oltre a tentare,
avrebbe potuto fare ben poco. Vero, en aziazor[1]?”
La donna annuì, lanciando a John un ultimo
sguardo di fuoco. Rinfoderò i canini, nascose le mani dietro la schiena, e con
fluidità si portò al fianco del possente Demone… il quale, intanto, indossava
un’espressione tanto soddisfatta da nauseare. John, dal canto suo, non poteva
fare altro che posare lo sguardo alternativamente su uno o sull’altra, pensando
che forse la situazione non era propriamente sotto il suo controllo.
“Ho un’offerta da farvi, Dottor Watson. E voi
l’ascolterete.”
Il tono di voce con cui il Demone parlò non
ammetteva repliche, né obiezioni. John si trovò suo malgrado ad annuire.
“So che Sherlock vi ha legato a lui in qualche
modo. Bene, questa è la mia offerta: qualunque cosa vi abbia concesso, io vi
offro lo stesso; solo, da parte mia non vi sarà alcun vincolo alla vostra
libertà, alcuna imposizione sulla vostra vita. Desidero semplicemente che ve ne
andiate da Castlecross e non vi facciate vedere mai più. Non è necessario che
Sherlock lo sappia, anzi, vi sconsiglio vivamente di incontrarlo di nuovo.”
Ad ogni sua parola, fu come se una scheggia
ghiacciata si conficcasse direttamente nel petto di John. Era il suo istinto,
che scalpitava dentro di lui con la foga di un cavallo imbizzarrito
avvertendolo di diffidare di chi gli offriva una pentola d’oro senza che
dovesse neppure fare lo sforzo di dissotterrarla per conto suo. E chi era, lui,
per fare orecchie da mercante allo stesso istinto che tante volte gli aveva
salvato la pelle in Afghanistan?
“Chi siete? Qual è il vostro rapporto con
Sherlock?” domandò debolmente, sentendo per la seconda volta in quel giorno la
nausea attanagliargli lo stomaco.
Il suo interlocutore sembrò riflettere a lungo,
prima di dargli una risposta. Come se non sapesse decidere se valesse la pena prendersi
il disturbo di fornire informazioni non necessarie a un essere che avrebbe
potuto tranquillamente schiacciare come una formica. Sentendosi particolarmente
generoso, decise che un piccolo indizio non avrebbe potuto fare troppi danni.
“Qualcuno che si preoccupa per lui.
Costantemente.” disse dunque a John, enfatizzando la sua esclamazione con una
roteazione vistosa dell’ombrello.
Il Dottore deglutì. Le parole che il Demone di
fronte a lui aveva pronunciato sembravano implicare che John rappresentasse per
Sherlock una qualche sorta di pericolo. Il che, per il Dottore, era un’assurdità
bella e buona. Che pericolo avrebbe mai potuto presentare a un Demone
onnipotente un misero Dottore, fra l’altro veterano di una guerra che lo aveva
segnato nel corpo e nell’anima?
Non che l’offerta dello sconosciuto non fosse,
nella sua essenza, estremamente allettante: potersene andare da quel luogo e
tornarsene a casa da Hamish, fingendo che niente fosse accaduto, gli sembrava
quasi troppo bello per essere vero. Nonostante il sospetto che quell’offerta
nascondesse dei cavilli che lo avrebbero portato a rimpiangere amaramente
d’averla accettata, la tentazione era così forte…
All’improvviso, e senza motivo apparente, un
paio di occhi selvaggi come un uragano si materializzarono nella sua mente.
Mordendosi le labbra fino a farle sanguinare, John prese la sua decisione:
“No.” esclamò, usando per parlare un filo di
voce appena sufficiente a farsi udire, “No!” ripeté, più forte, assaporando il
modo in cui quella parola si amplificò nel vuoto della stanza. Se lo avesse
detto rivolgendosi a sé stesso, o al Demone che lo osservava con sufficienza,
nessuno lo seppe mai.
“No?” gli fece eco quest’ultimo, scurendosi in
volto,
“Già. No. Ho un debito immenso nei confronti di
Mr. Sherlock. Il minimo che possa fare è ripagarlo alle sue condizioni.”
Fece per voltarsi, ripensando alla strada che
lui e Miss Anthea avevano seguito per giungere in quel luogo e chiedendosi
quanto Sherlock fosse adirato con lui per avergli disubbidito. Rapida, una mano
si posò sulla sua spalla malata, gelandolo sul posto.
“Ci sono altre cose che potrei offrirvi,
sapete? Non c’è niente che sia impossibile a uno del mio rango. Ciò che il
vostro cuore brama più di ogni altra cosa? Chiedete, e vi sarà concesso.”
C’era una minacciosità malamente celata, dietro
alle parole che il Demone pronunciò con solennità. Un ‘non costringetemi a chiedervelo di nuovo’ che fece sorridere John
amaramente. L’uomo sospirò, afferrando il polsino del Demone fra pollice e
indice dalla mano destra e facendo così
venir meno la sua presa:
“Non mi interessa. Spiacente.”
E senza dire altro, né guardarsi una sola volta
indietro, il giovane medico lasciò quel luogo decadente, deciso a tornare
indipendentemente da tutto dove, sperava, Sherlock lo stava già attendendo.
Alle sue spalle, un decisamente stupito Mycroft
tentava in tutti i modi di afferrare quando e come avesse perso le sue innate
capacità persuasive.
“Lo lascerai andar via così?” gli chiese
Anthea, solleticandogli l’udito con quella sua voce di seta e facendo
dissolvere immediatamente gli amari pensieri che si stavano affollando nella
sua mente.
Mycroft sospirò,
sfiorando con le labbra il morbido palmo che la donna gli tendeva. “Sì. Almeno
per adesso.” disse, sorridendo lievemente all’espressione interrogativa che
attraversò il volto della sua compagna mentre le stringeva la mano.
“E perché mai?”
“Perché purtroppo anche io, come mio fratello,
sono sensibile ai misteri. E un essere umano capace di essere tanto leale in
così poco tempo è una chicca che non vorrei proprio perdermi.”
La donna rise di gusto, scuotendo la testa
bonariamente. “Quindi farai anche tu di lui uno dei tuoi piccoli esperimenti?”
“No… mi limiterò ad osservarlo. E ad
assicurarmi che non rappresenti una minaccia per quel testone di Sherlock.”
Anthea annuì, allontanandosi e mordendosi uno
dei polpastrelli per farne spillare il sangue con cui abbozzare i simboli
runici del portale che avrebbe ricondotto lei e Mycroft negli Inferi. Mycroft
la osservò, lasciando che sul suo volto, adesso che non era osservato,
trapassasse tutta la preoccupazione che gli faceva ribollire le viscere. Perché
il vero timore che nutriva, e che lo aveva spinto a recarsi in quel luogo, non
era che l’ex soldato ferisse Sherlock in qualche modo… era che quel John Watson
- per il quale suo fratello sembrava nutrire un qualche insano interesse che
solo in parte lui era in grado di giustificare - finisse per rappresentare per
Sherlock un’ancora a quel mondo che lo stava uccidendo e da cui lui stava
cercava di salvarlo.
Ma di questo, il Demone non avrebbe mai fatto
parola con anima viva.
***
“Mi sembrava di averti detto di aspettarmi
qui.” esclamò Sherlock, fronteggiando John con il mento alto e le braccia
strette minacciosamente al petto.
Era arrabbiato. Anzi, arrabbiato non cominciava
neppure a coprire quello che il Demone provava in quel momento: era furioso, sì,
perché il Dottore aveva disubbidito a un suo ordine espresso, venendo per
giunta meno a una delle clausole del loro Patto… ma quello non era tutto. Era
anche deluso, perché stoltamente aveva pensato che John gli avrebbe dato ascolto,
perché si era illuso di non aver bisogno di controllarlo per mezzo del timore,
e come gli accadeva fin troppo spesso quando si trattava di relazionarsi con un
altro essere vivente che non consistesse solo in un teschio legato ad un’anima
si era sbagliato. Soprattutto, era irritato a tal punto da avere i capelli
ritti sulla testa, perché John aveva di nuovo quell’espressione da cane
bastonato che Sherlock tanto detestava.
Schioccò la lingua, facendo sobbalzare l’uomo
davanti a lui, che stringendo i denti mormorò un “Mi dispiace…” non troppo
credibile.
In quel momento, con il buon umore che lo aveva
alimentato quel giorno spazzato via a causa di uno stupido imprevisto, pensò
che forse prendere a pugni il bel faccino che John si ritrovava non sarebbe stata
poi un’idea così pessima: se non altro, avrebbe risvegliato l’orgoglio sopito
che faceva tante volte gonfiare il petto al Dottore, spingendolo a una
qualsiasi reazione che non consistesse in occhi bassi e pugni serrati.
Comunque, John non gli lasciò il tempo di
crogiolarsi a sufficienza in quel pensiero. Si guardò rapidamente alle spalle,
come se temesse di essere stato seguito da qualcuno: gesto, quello, che
trascinò Sherlock fuori dal suo burbero bozzolo di collera e lo spinse ad
osservare meglio l’uomo di fronte a lui. Che sembrava trafelato, come se avesse
corso, con guance lievemente arrossate, fiato corto e tutto il resto (e come
aveva potuto Sherlock non accorgersene prima?). Che si guardava attorno,
spaventato - no, non spaventato, ma a in guardia, come un soldato che attende
un attacco nemico da un momento all’altro, ed è pronto a combattere con le
unghie e con i denti. Sherlock si diede uno schiaffo mentale, per aver lasciato
che il suo cervello fosse offuscato dalla frustrazione e non aver usato
propriamente le sue capacità di deduzione.
Emise un sibilo insoddisfatto, che fece
scattare verso l’alto la testa di John.
Sherlock si piegò appena in avanti, fino a che
il suo naso non fu a pochi millimetri da quello dell’uomo davanti a lui. Per un
secondo, il ritmo accelerato del respiro di John, che gli solleticava il viso
portando con sé il profumo dolce del tè che aveva bevuto quella mattina, lo
distrasse dal suo scopo; scosse la testa più volte, schiarendosi la voce.
“Hai incontrato qualcuno, prima. Parla.”
John deglutì, chiudendo gli occhi. Non si
chiese come fosse possibile che Sherlock sapesse del suo incontro con i due
Demoni che parevano conoscerlo - nonostante avesse speso con lui poco tempo, aveva
già accettato come verità insindacabile il fatto che ai suoi occhi pallidi non
sfuggisse niente; scelse invece con molta cura il modo con cui descrivergli lo
strano incontro che aveva avuto, per non provocare un’ulteriore picco d’ira in
quel Demone emotivamente instabile (sì, anche in questo caso non gli ci era
voluto molto per cogliere quella sfumatura del carattere del bel moro). Optando
per l’approccio più diretto, si frugò nelle tasche, estraendone l’accartocciato
bigliettino che gli aveva consegnato Miss Anthea e stendendone meticolosamente
le pieghe. Sherlock lo osservò nel processo, curioso e ansioso insieme; quando John
gli sembrò sufficientemente soddisfatto di aver ripristinato l’integrità
originaria di quell’insulso pezzettino di carta, senza attendere che l’uomo
glielo porgesse se ne appropriò con un rapido gesto delle dita.
Mentre lo leggeva, iniziò a ringhiare.
“Mycroft…” sibilò, arricciando le labbra
intorno a quella parola come se avesse un sapore particolarmente amaro. Il suo
tono di voce era caustico, la rombante promessa di una tempesta che sarebbe
scoppiata di lì a poco, travolgendo nella sua furia imperdonabile chiunque si
fosse permesso di contrariarlo… e risuonava nel corpo di John, facendolo
vibrare dalla testa ai piedi. Sherlock non si accorse dell’effetto che la sua
voce ebbe sul Dottore, no. Era troppo preso a controllare che quel ficcanaso di
suo fratello non avesse posato neppure un dito su John per curarsi di altro: a
sue spese aveva sperimentato le doti persuasive di Mycroft, e benché alla fine
fosse sempre riuscito a fare ciò che voleva ne portava ancora segni ben
visibili.
“Che ti ha fatto? Ti ha ferito? Maledetto?” chiese
concitatamente, gettandosi il biglietto alle spalle e percorrendo con il palmo
delle mani il torso e le braccia di John alla ricerca di qualcosa che fosse fuori
posto,
“No… davvero non mi ha fatto nulla, signore.” gli
rispose l’altro, cercando di allontanare quelle mani indiscrete da sé e al
contempo di non prendere fuoco spontaneamente per l’imbarazzo.
Sherlock lo guardò in faccia, sollevando un
sopracciglio con fare poco convinto. Non c’era proprio modo che suo fratello
avesse convocato John per una chiacchiera amichevole di fronte a un tè caldo,
non senza avergli staccato un paio di dita per usarle come cucchiaini. A meno
che…
“Ti ha fatto un qualche tipo di richiesta, non
è così?” chiese a John, non attendendo neppure la sua risposta prima di gettare
le braccia al cielo e iniziare a percorrere il vicolo ad ampie falcate,
gesticolando furiosamente. “Quel pomposo trippone non ha proprio potuto fare a
meno di ficcare quel suo nasone nei miei affari, eh? Mi lascia in pace per
duecento anni e ora tutto d’un tratto non può astenersi dallo starmi
costantemente tra i piedi! Cosa voleva da te? Sentiamo!”
John, che intanto aveva fatto diversi passi
indietro per non rischiare di trovarsi nel mezzo di quella sfuriata, lo osservò
basito. Si inumidì le labbra con la punta della lingua: “Che rompessi il Patto
con voi, e me ne andassi per sempre.” disse, trovandosi suo malgrado ad
abbassare gli occhi a terra.
Sherlock, a quelle parole, si congelò sul
posto, mentre una strana inquietudine strisciava dentro le sue vene.
Contrastando in maniera quasi dolorosa con il focolaio di attività che lo aveva
animato poco prima, quell’immobilità per qualche motivo fece stringere la gola di
John, che tossicchiò goffamente nella speranza di allentare quell’invisibile
presa.
“La tua risposta?” domandò Sherlock, detestando
la nota quasi supplichevole che aveva assunto la sua voce.
Non lo capiva, perché gli importasse tanto.
Anzi, non comprendeva proprio perché gli importasse anche solo un poco. Fatto
sta che così era, e Sherlock odiava la situazione con tutto il cuore.
John percepì un cambiamento nella figura del
Demone, ma anche lui non fu in grado di capire a che cosa fosse dovuto. Solo,
percepì l’urgenza di rispondere a quella sua domanda in maniera tale da
sollevare la cappa di desolazione che la staticità di Sherlock aveva fatto
piombare sul vicolo:
“Gli ho detto che non ero interessato.”
Occhi di fuoco freddo si posarono
improvvisamente nei suoi, cogliendolo di sorpresa a causa della rapidità con
cui il loro possessore si era mosso per fronteggiarlo.
“Gli hai detto no?” gli chiese il Demone, le sopracciglia aggrottate in un moto di
stupore.
John annuì. “Esattamente.”
“Hai detto no
a Mycroft.”
“Sarebbe il suo nome? Non si è esattamente
presentato. Ciò nondimeno, sì, ho rifiutato le sue offerte.”
E nel volto del Demone si palesò qualcosa di
nuovo, qualcosa a cui i suoi lineamenti reagirono contraendosi, come a
sottolinearne tutta l’alienità: era come se Sherlock, al cui occhio mai niente
sfuggiva… si stesse sforzando di capire.
“Perché.” Sussurrò, dopo lunghi istanti di
contemplazione. E non era neppure una vera domanda, quella; non una domanda
rivolta a John, per lo meno: era più come se il Demone stesse indagando sé
stesso, alla ricercadella spiegazione
più probabile a un tale comportamento da parte del Dottore.
Nonostante fosse consapevole di ciò, John
rispose:
“Perché sono un uomo di parola. E poi, mi ha
suscitato subito una grande antipatia.”
Il Dottore non poté fare a meno di sorridere,
ricordando l’espressione sconvolta del Demone chiamato Mycroft quando gli aveva
risposto con un secco ‘no’. E il suo sorriso dovette essere particolarmente
contagioso, perché di lì a poco uno di eguale ampiezza sbocciò sul viso di
Sherlock, illuminando i suoi occhi. Il Demone annuì, unico riconoscimento che
John avrebbe avuto di aver compiuto la scelta giusta…
“Bene. Ma se avesti chiesto del denaro, o
qualcosa di interessante, avremmo potuto dividercelo.”
…o forse no. John osservò Sherlock balzare
indietro, battendo le mani con espressione soddisfatta, per poi sollevare
teatralmente il colletto del suo cappotto, che doveva essersi afflosciato
mentre si sbracciava per mostrare tutta la sua irritazione. Il Demone estrasse
da una tasca interna del cappotto un involto di stoffa nera, lanciandolo a John
- che solo per un pelo non lo lasciò cadere a terra, mollando invece la presa
sul suo bastone che ricadde sulla pavimentazione sudicia del vicolo con un
suono umido.
“Aprilo. Ci servirà per il caso.”
John annuì, cominciando a scartare
quell’insolito regalo. “Caso?” domandò, rimuovendo il primo strato di stoffa,
“Sì. Indagheremo su una serie di omicidi che
sono avvenuti qui a Londra anni fa, e che non sono mai stati risolti. O meglio,
io indagherò… tu mi farai da spalla.”
John si lasciò sfuggire una risata, spostando
per un istante gli occhi su Sherlock, che intanto si stava infilando con meticolosa
attenzione un rigido paio di guanti di pelle.
“E di che omicidi si tratterebbe, signore?”
domandò, estraendo dalla stoffa nera un cofanetto di legno dall’aria logora. Osservò
per lunghi istanti gli intarsi che lo rivestivano, rappresentando varie scene
di caccia minuziosamente riprodotte in tutti i loro dettagli. Aveva un aspetto
molto antico - e costoso- e John si chiese cosa mai potesse contenere. Prima che
potesse anche solo scalzare la serratura di quello scrigno, per dare uno
sguardo a ciò che celava, Sherlock glielo tolse dalle mani senza troppe
cerimonie.
“Primo, smettila con questa storia del signore, e con l’uso del plurale
maiestatis.” Gli disse a denti stretti, scandendo ogni sillaba perché il suo
messaggio fosse ben chiaro, “Detesto etichetta e formalismi, non li rispetto e
non desidero che siano utilizzati rivolgendosi a me. Mi chiamo Sherlock, e tu
mi chiamerai solo Sherlock. Intesi?”
Il Dottore, sentendo un lieve rossore tingergli
le guance, annuì. “Intesi... Sherlock.”
Il Demone lo ripagò con un sorriso storto,
aprendo con un sonoro CLICK il cofanetto.
“Per quanto riguarda la tua domanda… mai
sentito parlare del serial killer noto come Jack lo Squartatore?”
Certo che ne aveva sentito parlare. Si sarebbe
dovuti esseri ciechi e sordi per aver vissuto a Londra negli anni in cui quel
killer sanguinario aveva scatenato la sua furia e non aver mai sentito
mormorare il suo nome con paura. Anzi, John aveva il vantaggio di aver fatto il
suo apprendistato sotto la sapiente ala del medico che più di tutti aveva contribuito
alla definizione del probabile profilo di quello sfuggente assassino, il suo
caro amico e collega, il Dottor Bond - il quale, su sua esplicita richiesta, lo
aveva tenuto aggiornato sui più importanti risvolti del caso fino al suo
esaurirsi. Era così che era venuto a sapere, qualche anno addietro, che il
famigerato killer era improvvisamente sparito senza lasciare nessuna traccia,
probabilmente perché morto o arrestato per qualche crimine minore. Avrebbe
voluto dire a Sherlock tutto questo - aggiungendo magari un quesito su come lui sapesse di Jack lo Squartatore - ma
non fece in tempo: qualcosa di pesante e freddo gli atterrò sul naso,
facendogli perdere parzialmente l’equilibrio e cancellando tutti i pensieri che
aveva formato in quel momento.
Con un’esclamazione di sorpresa e dolore,
afferrò l’oggetto al volo, ritrovandosi tra le mani niente meno che una Colt Army .45, antica ma in perfette condizioni, con un manico
in avorio che era una vera e propria opera d’arte e un grilletto che pregava di
essere premuto. Incapace di formulare pensieri razionali, John si rigirò la
splendida pistola tra le mani, gustando la familiarità del suo peso, e il modo
perfetto con cui l’impugnatura si adattava alla sua presa.
“Dove l’avete… voglio dire, dove l’hai presa?”
chiese trasognato, senza staccare gli occhi dal lucido metallo dell’arma.
Così distratto, non poté vedere il modo in cui,
fiero di sé, Sherlock sorrideva. “Non conta dove o come l’abbia ottenuta, conta
solo che adesso ti appartenga. Non possiamo inseguire per Londra un assassino
completamente disarmati, no?”
John mormorò in assenso, facendo scattare il
grilletto e rabbrividendo di piacere al suono nuovo eppure familiare che
quell’azione produsse.
“Jack lo Squartatore non uccide più da almeno
due anni, lo sai vero?” riuscì infine a dire, non senza arricciare il naso alla
stranezza di rivolgersi in maniera confidenziale a una persona incontrata solo
il giorno prima,
“Il fatto che abbia smesso di uccidere non
significa che stia marcendo in una cella, né tantomeno che non ucciderà di
nuovo in futuro.” gli rispose Sherlock, sbuffando impazientemente per poi
voltarsi di scatto e incamminarsi verso l’uscita del vicolo a passo svelto, il
cappotto che svolazzava dietro di lui come una scia di piume nere.
“Allora, vieni o no? Potrebbe essere
pericoloso!” gridò, senza smettere di camminare, gettando solo un’occhiata a
John da sopra la spalla. E John, da bravo soldato che il pericolo non lo teme,
ma segretamente lo brama, non poté fare altro che seguirlo verso l’ignoto…
lasciandosi alle spalle il bastone che gli era di solito tanto indispensabile.
***
“Quindi… Mycroft.”
“Già…”
“Nome particolare.”
“Mhh.”
“Mi pare che nel biglietto si fosse firmato con
una H… che starebbe per…?”
“Holmes. Il nome del nostro clan.”
“…Aspetta un istante. Nostro?”
“Oh, sì. Mycroft è mio fratello.”
“Ah…”
“Già. Immagina cos’erano le riunioni di
famiglia.”
“…Beh, in effetti un po’ vi assomigliate.”
“Dì ancora un’idiozia del genere… e vedi che
succede.”
Due risate cristalline si alzarono, gemelle,
nel plumbeo cielo Londinese.
Note dell’autrice:
Questo capitolo è il
preludio di quella che sarà, per me, una delle imprese più complesse nella
stesura di questa storia. D’altronde, però, non potevo scrivere di Sherlock
senza fargli risolvere un crimine, no? (Anche se, devo ammetterlo, non so
proprio da che parte cominciare -_- )
Se vi state chiedendo
perché proprio il caso di Jack lo Squartatore, recentemente mi è capitato sotto
le mani un libro molto interessante che avanza ipotesi sull’identità di questo
assassino… diciamo che non ho potuto resistere, che ho dovuto inserire
l’ipotesi che più mi ha colpito in questa storia. Siamo a Londra, gli anni sono
quelli… già, non potevo fare altrimenti ;)
A proposito, la prossima settimana probabilmente non
ci sarà alcun aggiornamento. Sarò via praticamente ogni giorno per motivi di
famiglia, e non avrò tempo da dedicare alla stesura del capitolo :(
Mi dispiace, ma la domenica successiva gli
aggiornamenti riprenderanno come da programma :) promesso! Mandatemi le vostre
vibrazioni positive, se potete ;) Ne avrò un gran bisogno.
Vi ringrazio tanto per
tutto il sostegno che mi date, e per le belle parole che tanto mi fanno
sorridere. Grazie, un milione di volte grazie :*
Il sole stava tramontando, a Londra, tingendo
di rosso, arancio e viola le turbinose acque del Tamigi. Lontano, il Big Ben
innalzava al cielo la sua peculiare melodia, che ancora non mancava di far
sorgere uno spontaneo sorriso sui volti delle persone che, nonostante l’ora si
stesse facendo tarda, gremivano ancora i viali della città che non dorme mai.
I venditori ambulanti cominciavano a ritirare
di gran fretta le loro merci, lanciando sguardi preoccupati ai nuvoloni neri
che si stavano ammucchiando nel cielo, minacciando di riversarsi sui passanti
da un’istante all’altro, e mentre i lampionai mogiamente si incamminavano per
le strade con le loro scale in spalla, pronti a svolgere il loro uffizio, la
folla che occupava la popolosa città durante le ore diurne veniva pian piano
sostituita da quella, più colorata e rumorosa, che la animava quando il sole
lasciava spazio alla sua sorella più pallida.
In un simile viavai nessuno fece caso alle due
figure che cercavano, come tante altre, di farsi strada nella fiumana di gente
che percorreva disordinatamente Victoria Street. A un occhio non allenato
sarebbero potuti sembrare due comuni giovani gentiluomini di ritorno da qualche
impegno pubblico, oppure appena evasi dalle loro abitazioni in cerca di qualche
divertimento notturno. Eppure, se qualcuno si fosse peritato anche solo di
lanciar loro un secondo sguardo, si sarebbe accorto che la loro andatura era
appena troppo frizzante per poter aderire ad un tale, preciso quadro sociale;
camminavano spalla a spalla, con le maniche dei cappotti che si sfioravano appena
senza mai entrare veramente in contatto, e sui loro volti leggermente arrossati
erano stampati due sorrisi euforici che non volevano proprio saperne di
andarsene; se ne stavano troppo vicini per essere sconosciuti o amici, le loro
teste erano inclinate in maniera complice e i loro corpi gravitavano l’uno
intorno all’altro come un roccioso satellite attorno a un pianeta.
Se, insomma, i passanti si fossero sforzati di vedere per davvero - come un certo
Demone di nostra conoscenza non smetteva mai di sbraitare - avrebbero certamente
letto nei volti di John e Sherlock ogni risvolto dell’avventura che avevano
appena vissuto.
Sherlock - e John non avrebbe mai smesso di
dire quanto tutto questo lo aveva stupito - si era infatti dimostrato corretto
nelle sue supposizioni: Jack lo Squartatore non era sparito perché la sua vita
aveva avuto fine, o per essere stato arrestato per qualche motivo non connesso
agli efferati omicidi con cui aveva macchiato le strade di Londra. Aveva smesso
di uccidere, sì, ma per ben altro motivo:
“Il tocco supremo dell’artista - sapere quando
fermarsi.” per esprimerla nelle parole di Sherlock.
Il Dottore alzò la testa, azzardando uno sguardo
nella direzione del Demone; anche Sherlock si era voltato verso di lui, nello
stesso momento, come se i due avessero risposto all’unisono a un qualche arcano
richiamo che poteva essere udito solo dalle loro orecchie.
I loro occhi si incontrarono - il grigio-verde
inclemente e luminoso di una bufera di neve dentro il più caldo blu del mare
dei tropici - e per un attimo, l’aria che li separava sembrò sfrigolare.
Nessuno avrebbe potuto determinare mai di preciso chi dei due avesse iniziato,
e in fondo il tutto fu così spontaneo che quel dettaglio non aveva poi tanto
importanza. Fatto sta che, all’improvviso, per entrambi non fu più possibile
mantenere la maschera di relativa compostezza che avevano indossato
allontanandosi da Middlesex Street: iniziarono a
sghignazzare, senza ritengo o controllo, i loro occhi luccicanti di
divertimento, la loro sguaiatezza fonte di molte occhiate sbieche da parte dei
passanti.
Sembrava non esserci possibilità, per loro, di
riacquistare un minimo di controllo in tempi accettabili, perché quando anche
le risa di uno sembravano minacciare di estinguersi, era sufficiente una fugace
occhiata al volto dell’altro perché riprendesse da capo, e con intensità
maggiore.
“Questa…
questa…” cercò di dire John, tra un tentativo di respirare e l’altro,
asciugandosi l’umidita che il riso aveva fatto accumulare nei suoi occhi con i
palmi delle mani, “…questa è… è…”
“La cosa più ridicola che tu abbia mai fatto?”
concluse Sherlock per lui, riuscendo ad articolare un discorso coerente
nonostante fosse in preda all’euforia.
John annuì veementemente, portandosi una mano
sullo stomaco che cominciava a dolere per il troppo ridere. “E… e… ho invaso
l’Afghanistan!”
Sherlock rovesciò la testa indietro, ammettendo
l’assurdità della situazione con un accorato suono baritonale, a metà tra una
risata vera e propria e un grido; nel farlo, espose all’aria umida un barlume
del suo pallido, elegante collo da cigno. I timidi raggi del sole morente
danzavano flebili su quella distesa d’avorio, allo stesso modo in cui la luce
delle fiamme lo avevano fatto nel muffoso bugigattolo in cui avevano atteso che
l’assassino delle sventurate di Londra si palesasse. John si dimenticò per un
istante di respirare, mentre i ricordi di quell’assurda giornata gli invasero
la mente, uniti al senso di ebrezza che non aveva fatto che crescere da quando
il Demone li aveva trasportati fino in città.
Era
cominciato tutto in maniera molto semplice, davvero. Sherlock aveva detto a
John che gli sarebbe stato necessario avere accesso ai referti delle autopsie
sulle vittime dello Squartatore, per sopperire alla mancata possibilità di
effettuare un’indagine sul campo e nella speranza che qualche incapace non
avesse fatto macello sulle scene del crimine - anche se, ovviamente, quella era
più una disperata illusione che una speranza vera e propria, a detta del Demone
brontolone - e lui, ingenuamente, aveva osservato che probabilmente tali
informazioni, e altre, erano conservate da qualche parte negli archivi di
Scotland Yard. Non aveva neppure finito di parlare, che si era ritrovato con le
mani di Sherlock a circondargli il viso e il naso del Demone a pochi millimetri
dal suo.
“Fantastico!”
aveva esclamato il moro, lasciando giusto il tempo alle guance di John di
avvampare per poi mettersi a correre a perdifiato borbottando qualcosa riguardo
un ‘conduttore di luce’ che il Dottore non aveva pienamente afferrato.
Entrare a
Scotland Yard da civili e sperare di passare inosservati all’attento controllo
dei poliziotti era un’impresa disperata. Per farlo a fianco di una pertica
d’uomo che non la smetteva un attimo di brontolare ci sarebbe voluto un
miracolo. O una specie di maleficio, ovviamente.
“Li
addormenterò solamente per pochi minuti. Non sentiranno alcun dolore, e non
ricorderanno alcunché quando si risveglieranno.” gli aveva garantito Sherlock, leccandosi
le labbra in maniera sospetta e ignorando con decisione lo sguardo scettico che
John gli riservava. Non perché non lo ritenesse in grado di fare ciò che
prometteva, temeva solamente, e a ragione, che qualcuno potesse farsi male
nello svenire. Era bastato un movimento della mano da parte del Demone, a
seguito del quale le guardie che, impettite, presidiavano la strada erano
piombate a terra con tonfi strascicati, per dargli ragione. Non che le sue vive
proteste avessero contato qualcosa per Sherlock.
Il Demone
aveva semplicemente ignorato gli arti piegati in maniera innaturale sotto i
pesanti corpi dei loro proprietari, il suono pieno di crani che urtavano
selciato, i caschi che rotolavano tristemente lontano dai loro padroni; aveva
continuato a camminare, impettito, spalancando le porte che separavano lui e
John dal suo obiettivo senza neppure sfiorarle con le dita, muovendosi nei
corridoi con aggraziata sicurezza e quasi sorridendo ogni qualvolta uno degli
agenti cadeva privo di sensi al suo passaggio, come una tessera di domino sotto
l’azione di un bambino giocoso. Questo, almeno, fino a quando il Demone
praticamente non era inciampato su di un uomo dai capelli untuosi che aveva
avuto la sfortuna di crollare proprio di fronte ai suoi piedi.
Il
poveretto aveva grugnito, rannicchiandosi su sé stesso istintivamente in
reazione al dolore, e il Demone gli aveva riservato uno sguardo tanto
infastidito da sembrare quasi grottesco, come se lo avesse ritenuto
responsabile per il colpo basso che aveva assestato alla sua immagine lo
sgraziato saltello che aveva dovuto compiere per non rovinare a terra. Non si
sarebbe minimamente soffermato su di lui se John, non potendo più resistere al
richiamo che il Giuramento di Ippocrate gli lanciava dai meandri della sua
mente, non si fosse inginocchiato accanto al pover’uomo controllando che la
botta non gli avesse incrinato qualche costola.
Sherlock
aveva continuato a camminare indisturbato per un po’, fino a quando non si era
accorto dell’assenza dell’eco dei passi di John in risposta ai suoi. Sì era
voltato, allora, e lo aveva visto vicino a quell’uomo insignificante, e quando
il Dottore aveva percepito il peso del suo sguardo e aveva alzato gli occhi su
di lui, la freddezza che aveva letto nelle iridi pallide di Sherlock lo aveva
fatto trasalire.
“Devi
proprio farlo?” lo aveva rimproverato il Demone, e John aveva dovuto fare uno
sforzo immane per non tremare, per rimanere fermo nella sua posizione e
completare il suo lavoro.
“Devo
proprio farlo.” gli aveva risposto, con un tono di voce che non lasciava spazio
a repliche, tastando il petto dell’uomo che giaceva supino (‘H. Lowsley’, secondo la targhetta che aveva appuntata al
petto) con attenzione alla ricerca di gonfiori o incongruenze.
Il Demone non
lo aveva perso di vista neppure un secondo, un broncio serio a torcere i suoi
lineamenti delicati di bambola, i suoi occhi puntati sul corpo incosciente
dello sconosciuto in uno sguardo che avrebbe tranquillamente potuto uccidere.
Non aveva la minima idea di chi fosse quell’uomo, né aveva il minimo interesse
a scoprirlo. Istintivamente, però, aveva immediatamente provato nei suoi confronti
un forte sentimento di ostilità. Tutto di lui, dal muso da roditore che si
ritrovava alle macchie di inchiostro nero sui polsini della camicia sgualcita e
macchiata di giallo (“Guai con la moglie. Come biasimarla.”), sembrava esistere
al solo scopo di farlo annegare in una spirale d’ira. Soprattutto, a irritarlo
erano i sottili, arrabbiati taglietti che gli ricamavano le dita delle mani,
alcuni semi-cicatrizzati, altri completamente guariti, altri ancora che
parevano sul punto di mettersi nuovamente a sanguinare da un momento all’altro.
In fondo, se
proprio avesse dovuto ammetterlo, erano stati proprio quei tagli che avevano
fatto scattare in lui la scintilla della deduzione (non che John lo avesse
compreso in prima persona, ovviamente; quel dettaglio, così come i ragionamenti
riguardanti il povero Mr. Lowsley gli erano stati ampiamente
illustrati in seguito dal Demone), facendogli comprendere che, quell’individuo
in particolare probabilmente aveva un incarico non sul campo, ma nell’archivio
dello Yard.
Con
l’eccitazione cui il medico aveva fatto da spettatore soltanto assistendo i
suoi pazienti più giovani, capaci di tenere il broncio fino a quando non avesse
finito di visitarli per poi emozionarsi di fronte a una caramella regalata loro
come offerta di pace, Sherlock si era proiettato al fianco di John,
afferrandogli le mani e allontanandole di fretta dalle costole dell’uomo
svenuto.
“Cosa-” aveva
tentato di protestare John, ma Sherlock, ben lungi dall’avere intenzione di
lasciarsi distogliere dal suo intento, aveva liquidato le proteste del Dottore
con un gesto della mano.
“Quest’uomo.
Lavora nell’archivio.” gli aveva annunciato, sondando al contempo le tasche
dell’uomo alla ricerca di lui solo sapeva cosa,
“Come
prego?” aveva domandato John, sobbalzando lievemente al modo privo di alcuna
delicatezza con cui Sherlock, a un certo punto, aveva afferrato il povero Mr. Lowsley per una caviglia e, alzandosi in piedi, aveva
cominciato a scuoterlo avanti e indietro, come se fosse stato una bambola di
pezza,
“Odio ripetermi.
Questo. Tizio. Lavora. Regolarmente. Nell’archivio. Della. Stazione. Di. Polizia.”
aveva affermato il Demone, accompagnando ogni parola con un nuovo, più forte
scrollone.
E se John
aveva sentito un fiotto di arsenico nel modo sdegnoso in cui il Demone gli
aveva praticamente vomitato addosso quelle parole, di certo non se ne sarebbe
fatto un cruccio. Non con una pistola carica premuta contro il suo fianco e il
forte desiderio di sentire di nuovo l’odore bruciato e assuefacente della
polvere da sparo nelle narici.
Aveva
sospirato, invece, e contato mentalmente fino a dieci, strizzando gli occhi
simpateticamente ogni volta che il cranio dell’uomo sfiorava il pavimento,
mordendosi la lingua per non ridere al modo in cui Sherlock spingeva leggermente
in fuori le labbra in maniera pensosa, come se non si capacitasse del fatto che
facendo altalenare l’uomo non fosse ancora accaduto ciò che si aspettava.
Erano
arrivate a quel punto, le deduzioni riguardo le mani di Mr. Lowsley
riguardo le macchie di inchiostro e il resto che avevano fatto pensare al
Demone che l’uomo fosse un archivista. E ciò che aveva stupito John più di
tutto non era stata la semplice genialità di prendere quelle informazioni di
per sé insignificanti e riuscire a metterle insieme in un dato a dir poco
utile; no, era stato il modo in cui
Sherlock lo aveva reso partecipe delle sue deduzioni, con leggerezza, come se
si fosse cimentato nella più elementare delle imprese e non nella cosa più
sbalorditiva a cui lui - da buon uomo di mondo che di cose, negli anni in cui aveva
vissuto, ne aveva viste a sufficienza per bastargli una vita - avesse mai
assistito.
E non si
era trattenuto, questa volta, quando sulle labbra gli era fiorito uno spontaneo
“Fantastico!”
Il suo
entusiasmo era stato ripagato con la visione di due occhi spalancati quasi
oltre i loro limiti fisici, e due labbra rosate socchiuse in una delicata, quasi
oltraggiata espressione di stupore. Con un “Davvero?” così incredulo da essere
quasi commovente, e un sorriso raggiante al suo deciso annuire.
John venne strappato da quei suoi
vagheggiamenti mentali in maniera brusca, quasi violenta, quando a causa della
distrazione generata da quel suo sognare ad occhi aperti finì per collidere con
una donna che si trovava a passare di lì per caso.
“Scusatemi…” tentò subito di dire, scuotendo la
testa per schiarirsi i pensieri, ma la donna non gli diede neppure tempo di
finire le sue scuse, aggredendolo con una rabbia che chiunque avrebbe ritenuto eccessiva.
“Ma vi pare! Urtare così forte contro una
povera donna indifesa!” aveva iniziato, e John aveva riflettuto che, con quegli
occhi spiritati e i capelli biondi sollevati sulla testa come quelli di una
menade inferocita, sembrava tutto meno che indifesa, “E se fossi caduta? Eh? Se
mi fossi fatta male alla caviglia, o peggio, avessi lacerato i miei abiti? Questo
è autentico pizzo di bruges! Vale quanto tutto quello
che indossate, e anche di più! Come avreste fatto a ripagarmi, poi?”
La donna gesticolava furiosamente, sventolando
le braccia come bandiere in una bufera di vento. John, che non era conosciuto
per essere un uomo particolarmente tollerante o paziente, cominciò a sentire le
prime, amare punture della collera fargli rodere i palmi delle mani. Si guardò
attorno, digrignando i denti di fronte alla gente che si voltava nella
direzione del putiferio che quell’indiscreta sconosciuta stava causando con i
suoi sproloqui senza senso. Se avesse avuto meno senso del pudore,
probabilmente avrebbe tacitato la donna davanti a lui con una mordace risposta
a tono - era stato un militare, di parole e insulti coloriti ne conosceva più
di uno scaricatore di porto - ma, per fortuna, c’era Sherlock a farlo al posto
suo.
Sherlock, che si era erto immobile di fianco a
lui, ascoltando i vaneggiamenti di quella sconosciuta con gli occhi ridotti a
lame sottili e taglienti e la bocca impostata in un’espressione di cerea
impassibilità; che aveva iniziato a ringhiare sempre meno sommessamente man
mano che il tono di voce stridulo della donna acquistava vigore, stringendo i
pugni senza farsi notare; che, alla fine, quando la sprovveduta non aveva più
potuto resistere e aveva pungolato il petto di John con una delle sue dita
ossute, si era frapposto fra di loro in tutta la sua imponenza, gettando
un’ombra scura di timore negli occhi castani che prima brillavano di tanta,
ferale fierezza.
“Vi suggerirei di non fare baccano, per non
rischiare di attirare troppo l’attenzione. Ma temo che questo sia esattamente
ciò che volete. Non è così, signora?”le
disse, la sua voce una maschera di minacciosa indifferenza che fece arretrare
la donna di un passo, e John di due. Se non avesse saputo meglio, John avrebbe
giurato che Sherlock avesse soffiato alla sconosciuta, come un felino
inferocito.
“Non capisco che cosa vogliate dire…” fu la
mezza difesa della signora, che intanto si guardava intorno con aria spaesata.
Sherlock ghignò. “No. Voi non capite e basta. Perché se capiste, sapreste che
il signore a cui avete tanto bellamente gridato contro non crede minimamente
alla vostra sceneggiata.”
Afferrò tra la punta dell’indice e quella del
pollice il bordo di uno dei vezzosi merletti che pendevano dalla giacchina che
la donna indossava, storcendo il naso in un’espressione di disgusto.
“Questo sarebbe pizzo di bruges?”
le domandò con scherno, e John ridacchiò all’espressione oltraggiata della
donna, che subito schiaffeggiò la mano del demone e si ritrasse, “No, direi di
no. La sua fattura è di bassa qualità, il filo utilizzato non sarà costato più
di un penny. Alcuni punti sono stati saltati. Qui e… qui. Macchie di tè
sbiadite, filo usurato sui bordi. Fatto da una mano inesperta, distratta, e
diversi anni fa per giunta. O forse no… forse erano gli occhi il problema. Una
vista non tanto buona come un tempo, mmh? Vostra
madre sa che utilizzate il pizzo che vi ha regalato per adescare uomini
disposti a pagare per del tempo con voi?”
Gli occhi della sconosciuta crebbero per lo stupore,
la sua bocca si aprì miseramente per un istante. Il tempo che fu necessario
perché un intenso rossore si impadronisse delle sue guance, fu lo stesso che
servì a lei perché si rendesse pienamente conto di essere appena stata
insultata. Chiuse e aprì la bocca di nuovo, prendendo fiato, pronta a dire
qualcosa, qualunque cosa in sua difesa. Poi, d’un tratto, sembrò ripensarci.
Abbassò gli occhi, cingendosi più strettamente nelle spalle e lanciando uno
sguardo sbieco alla gente che, ancora, li osservava.
“Con permesso.” borbottò. Un attimo dopo, era
sparita, inghiottita dal flusso vociante di senza volto che l’aveva partorita
poco prima, e che ricominciò a vociare come se quella piccola parentesi non si
fosse mai verificata.
“Le avete dato della prostituta.” costatò John,
incapace di fare altro se non fissare le severe spalle di Sherlock, che si
alzavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro leggero,
Il Demone fece spallucce. "Hai, non avete. Comunque, pare che l’abbia fatto.”
“L’hai… l’hai insultata.”
“Se ciò che viene detto rispecchia la realtà di
una persona, si tratta di una descrizione, John. Non di un insulto.”
E John avrebbe anche ricominciato a ridere, di
fronte a quello sfacciato sfoggio di sicurezza, se non fosse stato per il tono
lapidario e freddo che il Demone aveva utilizzato per dare voce ai suoi
pensieri. Anche potendo vedere solo la sua schiena John poteva immaginare la
sua espressione in quel momento: fredda, distante, granitica… spaventosa.
“Sono convinto che se quella donna avesse
saputo che hai fermato Jack lo Squartatore, come minimo si sarebbe prostrata ai
tuoi piedi.” esclamò senza pensarci troppo, bisognoso per qualche strana
ragione di sollevare la cappa di cattivo umore che sembrava opprimere il
Demone.
Una battuta misera, lo ammetteva anche lui.
Così triste che avrebbe avuto le stesse probabilità di strappare a Sherlock una
risata come una lacrima. John si ritenne un uomo fortunato quando il Demone lo
guardò da sopra la spalla con un sorriso sornione a piegargli la bocca.
“Abbiamo scoperto il suo nome. Perché
continuare ad usare quello sciocco pseudonimo?” lo rimproverò Sherlock,
divertito.
In quel momento una folata di vento, improvvisa
e gelata nonostante la bella stagione, investì entrambi in pieno petto portando
con sé l’odore limaccioso dell’acqua del Tamigi insieme a quello, più lontano,
delle affollate cucine delle locande. Penetrò sotto i vestiti troppo leggeri di
John con agilità, mordendo la sua pelle con denti affilati e facendolo
rabbrividire; come dita di una mano incorporea si infilò tra i riccioli di
Sherlock, inselvatichendoli e trasformandoli in un alone scuro e scompigliato
intorno alla sua testa.
John, che del freddo non riusciva proprio a
curarsi, abbassò lo sguardo.
“Sì, hai ragione.”
James Maybrick[1].
Così si chiamava l’uomo che aveva annegato nel sangue le notti Londinesi.
Un
individuo dall’apparenza mite e bonaria, ben educato e colto; nato in una
famiglia di incisori originari di Londra, aveva trascorso la sua infanzia a
Church Street, a poche miglia dal famoso quartiere nel quale in età adulta
avrebbe dato sfogo alla sua follia omicida; si era fatto da solo, diventando un
importante mercante di cotone e fondando nel 1871 una propria compagnia che era
riuscito a tenere in piedi con tenacia e sotterfugi in un’Inghilterra la cui
economia cresceva senza lasciare spazio a chi non fosse stato in grado di
reggere il passo. Un uomo come tanti… una vera e propria serpe in seno alla
società.
John non si
era stupito del fatto che nessuno, prima di Sherlock, avesse puntato il dito
contro di lui. Non molti avrebbero accusato un uomo apparentemente così pacato
e normale di essere capace di tali efferatezze. Sherlock, di certo, non era
assimilabile a quei ‘molti’, e ancora John non riusciva a capacitarsi di come
il Demone fosse stato capace di ricavare l’identità di Maybrick
dai brandelli di indizi disseminati in maniera confusa in quella miriade di
rapporti, lettere e fotografie che costituiva la sezione dell’archivio dello
Yard - al quale avevano avuto accesso grazie alla chiave appesa al collo di Mr.
Lowsley - dedicata a Jack lo Squartatore. Si era
disposto in ginocchio al centro di tutto quel materiale, il Demone, sfiorandolo
con le mani in maniera quasi reverenziale, osservandolo con i suoi occhi acuminati
come se stesse attendendo di vederli prendere vita e riversare su di lui tutto
ciò che fosse stato importante al fine di catturare quel temibile assassino.
C’era stato silenzio: per dieci, interminabili minuti tutto ciò che John aveva
potuto udire era stato il proprio respiro e il quieto fruscio della carta. Poi,
il corpo di Sherlock era stato attraversato da un forte tremore; il Demone
aveva afferrato una manciata apparentemente casuale di carte, si era alzato in
piedi di scatto, e in maniera febbrile aveva iniziato a condividere con John
tutto quello che la sua mente geniale aveva assorbito in quei lunghi istanti di
contemplazione.
“Guarda
queste foto, John. Leggi i reperti delle autopsie. C’è ferocia in queste
ferite, una terribile ferocia. Ma non c’è la precisione o la maestria di cui i
medici che hanno eseguito i primi esami sulle vittime parlano. Tu sei un
medico: ti pare che queste ferite abbiano qualcosa di preciso? Prendi la prima
vittima, ad esempio: le ferite sull’addome di PollyNichols sono irregolari, procurate con foga. E il modo in
cui ha tranciato l’utero di Annie Chapman è così
dannatamente trasandato… per non parlare poi del disastro che ha fatto con Mary
Kelly… no, escludo categoricamente che il nostro Squartatore possa essere un
Dottore. L’altra ipotesi è che sia un macellaio… escluderei pure questa.
Ciascuna delle cinque vittime presenta un taglio molto profondo sul collo,
tanto profondo da essere arrivato alle vertebre. È chiaro come l’acqua, che
l’obiettivo del nostro Jack fosse stato quello di rimuovere le teste, come ha
fatto con alcuni organi delle vittime. Un macellaio avrebbe saputo
perfettamente come fare. Né medico, né macellaio: il nostro Jack ha un
occupazione molto più umile. Prima di parlare di questo, però, dai un’occhiata
alle scene del crimine.”
Aveva
passato a John cinque foto ingiallite e sbiadite per il tocco di molteplici
dita. Foto crude, che nonostante la tenuità dei grigi che le coloravano avevano
avuto il potere di provocare un nodo nella gola del Dottore - e per un momento,
di sostituire nella sua mente allo sconnesso acciottolato le strade di terra
battuta di Kandahar.
“Ho visto.”
aveva detto a Sherlock, passandogli indietro le foto e sfuggendo il suo sguardo
scettico,
“Sul
serio?”
“Sì, ho
visto.”
Il Demone
aveva sbuffato amaramente. “Bene. Notato nulla di strano?”
John aveva
scosso la testa. Nelle fotografie, aveva potuto osservare soltanto corpi lividi
e martoriati e tanto, tanto sangue: esattamente quello che si era aspettato di
vedere ricordando il modo in cui il Dottor Bond gli aveva descritto, per
lettera, quello che delle vittime aveva potuto vedere sul suo tavolo
operatorio. Che un uomo fosse stato capace di ridurre a quel modo delle
appartenenti al gentil sesso… e non nelle sterminate piane di Kabul, dove gli
era stato insegnato ad aspettarsi ogni genere di nefandezza, così lontane ed
esotiche da essere assimilabili a terre di favola e incubo, ma nella bella,
dolce, cara e vecchia Inghilterra, dove lui e tutte le persone che amava
respiravano, si muovevano, vivevano… il solo pensiero lo faceva star
male.
Sherlock
gli aveva improvvisamente posato una mano sulla spalla, costringendolo a
spostare l’attenzione dal senso di crescente indignazione che provava all’ombra
decisa dei suoi occhi. “Se non hai notato nulla che ti abbia lasciato anche la
sensazione che qualcosa sembrasse fuori posto, allora non hai osservato come si
deve.” aveva decretato, risoluto, riprendendosi le fotografie e iniziando a
camminare in lungo e in largo per la disordinata stanza.
“I medici
che hanno analizzato i corpi delle cinque donne hanno dichiarato che la morte è
stata provocata dalla ferita al collo. Non dico che tale ipotesi non sia
perfettamente applicabile alle ultime tre vittime: la quantità di sangue
riversata nel luogo del delitto, soprattutto nel caso della Kelly, spinge
fortemente in questa direzione. C’è un gigantesco ma: nel caso della Chapman e di Elizabeth Stride, nel vicolo c’era ad occhio e croce meno
di un quarto di gallone di sangue. Non ti servo io per dirti che non possono essere
morte per dissanguamento. La mia ipotesi è che il nostro assassino preferisca
stordire le sue vittime stringendole al collo con entrambe le mani e
soffocandole. Nella Chapman e nella Stride, questo
spiegherebbe la scarsa perdita ematica - nelle altre donne, l’assenza più che
evidente di segni di difesa. Un’altra cosa: i referti autoptici affermano che
il nostro assassino sia mancino. Non ne sono pienamente convinto.”
Sherlock a
quel punto aveva lasciato cadere a terra le fotografie, che avevano preso
disordinatamente posto insieme agli altri fogli sparsi sul pavimento. Si era
portato con un movimento liquido alle spalle di John, e aveva afferrato
saldamente il suo mento con la mano destra. Anni di addestramento avevano a
quel punto preso il sopravvento sull’ex soldato, e se Sherlock non si fosse
affrettato a parlare, spiegandogli il motivo di quel gesto apparentemente privo
di ogni motivazione, John si sarebbe liberato da quella presa e probabilmente avrebbe
assestato al Demone un pugno sulla trachea - tutto con molta delicatezza,
ovviamente.
“La teoria
più quotata è che lo Squartatore abbia afferrato le sue vittime in questo modo,
ed abbia utilizzato il coltello con la mano sinistra per recidere loro la gola
da parte a parte.” aveva affermato Sherlock, mimando il gesto che descriveva
percorrendo la gola di John con il pollice della mano sinistra (e se aveva
notato il modo in cui il Dottore era rabbrividito al suo tocco, non ne aveva
fatto parola). Cogliendolo poi completamente di sorpresa, lo aveva lasciato
andare, spostandosi in maniera tale da fronteggiarlo.
“Io penso
invece che l’assassino abbia afferrato le sue vittime da davanti, per il collo,
in modo da zittirle e soffocarle fino a far perdere loro i sensi…” aveva
spiegato, utilizzando nuovamente John come manichino per simulare la sua
teoria. Lo aveva preso delicatamente per la gola, guardandolo fisso negli
occhi, come se avesse voluto rassicurarlo che dietro a quel gesto non c’era
alcun reale intento di ferirlo. “…poi, sono certo che le abbia distese a terra,
tenendo loro la testa voltata verso sinistra e tagliando loro la gola portando
il coltello -impugnato con la mano destra, ovviamente- verso il suo corpo. In
tal modo, avrebbe anche avuto il vantaggio di indirizzare il fiotto di sangue
scaturito dalla ferita in modo tale da non esserne imbrattato completamente -un
vantaggio importante, visto che sarebbe dovuto sparire nella notte pochi minuti
dopo.” aveva concluso il Demone, guardando John negli occhi con aria
soddisfatta.
Il Dottore
in questione, però, non aveva ascoltato una sola parola di quello che Sherlock
aveva detto. La presenza fisica del corpo solido del Demone a tenere ancorato
il suo a terra, i riccioli scuri che gli solleticavano la punta del naso,
nonché l’allarmante vicinanza dei loro volti gli avevano impedito non solo di
prestare attenzione a ciò che Sherlock aveva detto, ma anche di formulare un
qualsiasi tipo di pensiero che non ripetesse in maniera convulsa ‘Vicino.
Vicino. Troppo vicino.’.
Sherlock si
era accorto dopo pochi istanti del travaglio mostrato dagli occhi del Dottore;
lo aveva guardato, le sopracciglia aggrottate e la bocca ridotta a una linea
sottile. Qualunque cosa i suoi occhi scrutatori avessero cercato sul viso
dell’uomo, lo aveva trovato dopo meno di un minuto. Con un movimento elegante,
si era sollevato dal corpo di John -gesto che lo aveva portato a gravare per un
istante con il suo peso sul bacino del Dottore, che per poco non si era ridotto
a una torcia di carne e sangue- e aveva teso una mano verso di lui, muovendo le
dita per invitarlo ad afferrarla. John si era schiarito la gola, abbozzando un
sorrisino apologetico; aveva scosso la testa, rimettendosi in piedi senza
l’aiuto del Demone, che spingendo in fuori le labbra aveva stretto quella
stessa mano che aveva offerto a John in un pugno da far ricadere al suo fianco.
“Bene. Ora
che abbiamo definito il modus operandi dello Squartatore, passiamo ad
analizzare le lettere che ha inviato ai giornali e alla Polizia.” aveva mugugnato,
chinandosi per raccogliere un involto di lettere macchiate da quello che John
si augurava fosse inchiostro rosso, “Ce ne sono centinaia, ma non tutte sono
autentiche. Molte sono state scritte da emulatori, o da poveri degenerati che
volevano un pizzico dell’attenzione riservata al nostro assassino per loro.
Basandomi sulla calligrafia, sulla qualità della carta da lettere e sui
contenuti, sono certo però che queste tre[2]
siano state scritte dal pugno di Jack in persona. Allora, la calligrafia ci
dice che stiamo cercando un uomo abbastanza colto, ma non troppo sicuro di sé. Ha
utilizzato molte forme colloquiali, ed ha sparso errori di vario genere in diverse
parti delle lettere. Chi ha una personalità non molto forte e disturbata, tende
ad assumere nella parola scritta l’alter-ego di una persona di ceto sociale più
basso. Poi, l’inchiostro rosso è solitamente molto costoso: probabilmente il
nostro assassino ha le tasche piene di pecunia, o non sprecherebbe denaro
investendolo in lettere scritte per farsi beffe di Scotland Yard. Altro dato da
sottolineare: l’utilizzo di molti americanismi. Il nostro uomo ha probabilmente
contatti con gli Stati Uniti, o non si servirebbe di tante parole gergali riconducibili
a quel Paese. Ora, guarda: ci sono alcune macchie, sulle buste di tutte e tre
le missive. Nonostante il tempo trascorso e la discolorazione che ciò comporta,
le sono di un bel marrone intenso: sono macchie d’alcol, non diluito e di buona
qualità. Bourbon, molto probabilmente. L’odore però non mi convince… posso sentire
un vago sentore di aglio, con un che di chimico. È probabile che il liquore sia
stato mescolato con una qualche sostanza chimica, che reagendo con l’alcol
abbia provocato questo odore. Conosco una sola sostanza facilmente reperibile
con questo tipo di reazione: l’arsenico.”
“Un momento… vuoi forse dire che Jack lo
Squartatore potrebbe fare uso di arsenico?”
John era a
conoscenza del fatto che l’arsenico fosse una sostanza molto utilizzata, in
quel periodo. Dai cosmetici che rendevano tanto attraenti le sofisticate
gentildonne Londinesi, a numerosi tonici e farmaci, non c’era famiglia che non
avesse nei cassetti della sua casa una dose più o meno concentrata di quella
sostanza. Lui personalmente non aveva mai prescritto quella pericolosa sostanza
-uno solo grano della quale era sufficiente a falciare un omone ben piazzato-
ad alcuno dei suoi pazienti, ben conscio delle terribili controindicazioni che
aveva -comunque, molti dei suoi colleghi non erano della sua stessa opinione.
Sherlock lo
aveva guardato, un’espressione indecifrabile sul viso, e John aveva temuto di
aver parlato a sproposito. Quando il Demone aveva annuito entusiasticamente,
aveva dovuto fare uno sforzo non indifferente per non mettersi a saltare per il
sollievo.
“Esatto, John. Ma non c’è alcun ‘potrebbe’.
Sono certo che faccia uso di arsenico… per motivi di salute o per semplice
assuefazione, non è di mio interesse saperlo. Fatto certo è il suo uso di tale
sostanza. Come lo so? Semplice: dalle pillole rinvenute nelle tasche della Chapman.”
Ora, quello
era stato un balzo logico decisamente inaspettato, che aveva reso John
momentaneamente incapace di controllare i muscoli della mascella. Il suo
sconcerto era stato tanto evidente, che Sherlock aveva roteato gli occhi come
se il Dottore gli avesse causato un fastidio inconsolabile. Un piccolo
sacchetto con dentro gli effetti personali della donna fu sollevato dal
pavimento, e lanciato tra le mani pronte ad accoglierlo di John.
“Dall’autopsia
della donna risulta che fosse gravemente malata ai polmoni, e che la sua fine
non fosse molto lontana. È probabile che portasse con sé dei medicamenti per
combattere i sintomi più evidenti della sua malattia, ma per una donna
costretta a vendersi per qualche penny sicuramente quelle pastiglie in particolare sarebbero un po’ troppo costose. Controllale.”
John,
ancora basito, aveva estratto le due, bianche pastiglie dal loro contenitore di
carta. Le avrebbe riconosciute ad occhi chiusi, anche senza saggiare la polvere
che le ricopriva: erano pastiglie di stricnina, farmaco costoso che veniva
molto spesso prescritto per alleviare i disturbi all’apparato digerente
provocati dall’abuso di arsenico.
“Incredibile…”
aveva sospirato, spostando lo sguardo dalle pasticche a Sherlock con tutta
l’ammirazione che i suoi occhi avrebbero potuto contenere. Il Demone gli aveva
sorriso, di uno di quei mezzi sorrisi che da lì a pochi mesi lo avrebbero
letteralmente fatto impazzire, e schiarendosi la voce aveva ripreso le sue
riflessioni.
“In
sostanza, Jack ha lasciato sulla seconda delle sue vittime un importante
indizio che avrebbe potuto portare alla sua cattura. E non è il solo. I
conoscenti di Elizabeth Stride sostengono che il fumo
non rientrasse affatto fra i molti vizi della defunta. Preferiva spendere i
pochi spiccioli che riusciva a guadagnare in whiskey. Eppure, vicino al suo
corpo sono state ritrovate delle pasticche per l’alito disposte in maniera
molto ordinata. Deve averle lasciate l’assassino; allo stesso modo in cui ha
lasciato un costoso astuccio porta sigarette in argento nascosto sotto le gonne
di CatharineEddowes. Infine…
il brandello di cotone nel borsellino della Nichols. Piccole
briciole per guidare la Polizia verso di lui. Solo, i poliziotti in questione
erano troppo stupidi per seguirle.”
“Quindi…
Jack voleva essere preso?”
“Oh no, no
no! Affatto! Era tanto sicuro di non essere sospettato dalla polizia da
sentirsi in vena di prendersi gioco di chi lo inseguiva fornendogli indizi che
non avrebbe saputo decifrare. Stava giocando con Scotland Yard. Evidentemente
non si aspettava che qualcuno come me avrebbe mai messo le mani su queste
tracce.”
John era
rimasto in silenzio, troppo basito per poter proferire parola. In fondo,
neppure volendo sarebbe riuscito a trasmettere in una serie di sillabe
pronunciate ad alta voce tutto lo stupore e l’ammirazione che sentiva in quel
momento. Fortunatamente per lui, Sherlock lo aveva tolto d’impiccio. Con un
sorriso malizioso a incurvargli le labbra, aveva poggiato una mano sulla spalla
del Dottore, facendolo voltare verso la porta dell’archivio.
“Bene. Non
c’è nient’altro che mi serva in questo posto. Ho bisogno di indagare un po’ sul
campo… direi che Whitechapel sarebbe un ottimo posto da cui iniziare.”
“Sono
passati anni, non c’è più niente che riguardi lo Squartatore lì!”
Sherlock
aveva bloccato John a metà di un passo, voltandolo verso di lui come una
marionetta nelle mani di un folle burattinaio.
“Non c’è
niente per qualcuno come te, ma ci saranno sicuramente un miliardo di indizi
pronti ad essere colti da una mente come la mia! Non c’è tempo da perdere,
andiamo!”
Le porte a
vetri dell’archivio avevano vibrato al tocco di quelle pallide dita senza fine.
***
Erano al
principio di Commercial Street, quando Sherlock aveva fermato improvvisamente i
suoi passi, e solo per miracolo John non aveva finito per travolgerlo.
“Non ho mai
fatto una cosa del genere.” aveva dichiarato, lanciando al Dottore occhiate
nervose da sopra la spalla e dondolando sulle piante dei piedi,
“Non hai
mai fatto… che cosa?” gli aveva risposto John, pacato. Di certo non poteva
riferirsi alla parte dello sgattaiolare per Londra: sembrava essere nato compiendo
quell’azione.
“Parlare…” aveva detto il Demone,
arricciando le labbra intorno alla parola come se fosse stata particolarmente
offensiva per le sue corde vocali, “…ragionare a voce alta. Raccontare a
qualcuno quello che sto vedendo -quello che sto sentendo. Non l’ho mai
fatto.”
“Oh.”
Già. Oh.
Ottima sintesi delle capacità cognitive di John di fronte a tale rivelazione.
Il Demone
non aveva ancora finito. “Non so perché lo abbia fatto. Parlare, intendo.”
Era
sembrato così terribilmente insicuro. Così assurdamente umano.
“È stato
straordinario. Davvero straordinario.”
Sherlock,
senza pronunciare una sola, ulteriore parola, aveva ripreso a camminare.
Note dell’autrice:
Eccomi di nuovo, dopo una
lunga settimana di silenzio in cui sono sopravvissuta a un tour de force pazzesco e alla lettura accurata del libro di cui vi
parlavo nello scorso aggiornamento.
Mi scuso di nuovo per il
ritardo… spero che non debba accadere di nuovo a breve :P
Comunque, ecco il nuovo
capitolo. È stato difficile da scrivere, e non nego di avere una grande paura
che il risultato non sia affatto quello che speravo di ottenere. Anche se, devo
confessare che non mi dispiace… però si sa, le madri sono sempre molto
indulgenti con i loro figli ;)
Fatemi sapere cosa ne
pensate ;)
Come sempre, non posso
che dirvi grazie mille per il vostro sostegno! :) siete il Mike Stamford del
mio John Watson ;) Vi adoro!
A presto, un bacio :*
[1] James Maybrick: mercante di cotone che trascorse la sua vita fra
Norfolk, Londra e Liverpool; sposato con una donna molto più giovane di lui,
soffriva di ipocondria e di una menomante dipendenza da arsenico. In un diario
rinvenuto a Liverpool da Mike Barret nel 1990, egli
stesso si firma come Jack The Ripper, rivelando nelle pagine dettagli degli omicidi
di Whitechapel noti ai tempi soltanto alla polizia;
[2] La “Dear Boss”, inviata al Daily News il 25 settembre del 1888, la “Saucy
Jacky”, cartolina ricevuta dalla polizia il primo ottobre dello stesso anno, e
la “From Hell” del 15 ottobre;
“La
tua mente sarà come i tuoi stessi pensieri, perché l'anima si colora con il
colore dei suoi pensieri.”
Marco Aurelio
XI.Pitch black
Whitechapel non era sempre stato il luogo malfamato
e chiacchierato che era in quei particolari anni del regno della beneamata
Regina Vittoria. John ricordava chiaramente, come se non fosse trascorso più di
qualche giorno, i tempi in cui era vissuto in Fleet Street con i suoi genitori
e sua sorella: suo padre era un artigiano, possedeva una piccola bottega di
chincaglierie in quella strada (che non aveva mai reso più di quanto fosse
necessario per riempire quattro bocche costantemente affamate), mentre sua
madre era sempre stata afflitta da una salute tanto cagionevole da non
permetterle di dedicarsi ad alcun mestiere. In sostanza, avevano sempre vissuto
alla giornata, e se John e Harry non erano stati costretti a lavorare per
qualche industriale senza scrupoli -o, peggio, a diventare spazzacamini- era
stato solamente perché Aengus Jonathan Watson si era sempre fatto in quattro
per impedirlo. Erano stati tempi duri, in cui avevano avuto bisogno di tutto,
ma John ricordava ancora con dolce nostalgia le domeniche pomeriggio di
primavera, durante le quali si era recato con tutta la sua famiglia a
Whitechapel per il mercato settimanale.
Lui e Harry avrebbero ricevuto in regalo un
cartoccio di lupini a testa, che avrebbero mangiucchiato mentre la loro madre
esaminava con occhio critico le merci esposte nei vari banchi rumorosi, o
guardando mano nella mano uno dei tanti spettacolini offerti dagli artisti di
strada. Chiudendo gli occhi, gli sembrava di poter ancora sentire l’odore della
frutta matura che faceva capolino dalle casse di legno, o le sguaiate risate di
sua sorella. Se si concentrava, anche la sensazione della mano grande di suo
padre sulla sua non gli sfuggiva.
Detestava la decadenza che regnava
correntemente in quel quartiere che conservava tanti dei suoi ricordi più cari…
ed era sicuro che se si fosse avvicinato ad uno degli ammassi di legno e chiodi
che veniva spacciato per un banchetto che vendeva lupini, il sapore d’infanzia
che quelle piccole gocce di sole avevano nella sua mente sarebbe stato annegato
dal gusto amaro della corruzione.
***
Il primo
passo che John aveva compiuto in Whitechapel Street si era concluso su di un
viscido mucchietto di sostanza indefinibile, dal vago odore di carne
marciscente. Il Dottore - che di chiedersi di cosa si trattasse non aveva avuto
la minima intenzione- aveva avuto la sensazione che quello fosse stato il
benvenuto personale del quartiere nel suo fetido grembo.
“Che genere
di persona stiamo cercando, di preciso?” aveva domandato, osservando il
pasticcio che quella poltiglia aveva lasciato sulla sua scarpa con occhio
disgustato e rassegnato insieme.
Non era
stata la prima domanda che aveva posto al Demone, dalla piccola parentesi in
Commercial Street. Neppure una di esse era stata risposta fino a quel punto.
Era come se il Demone avesse voluto rifarsi di tutte le parole che aveva
pronunciato a Scotland Yard -senza intenzione alcuna, come aveva tenuto a
sottolineare- chiudendosi in un silenzio tombale. Questo aveva lasciato
ovviamente a John tutto il tempo e lo spazio mentale possibile per rosolare ben
bene nell’angoscia riguardante la sua attuale situazione di detenuto in un
Castello infestato (Dio… sembrava tutto così irreale…), sentimento che era
stato relegato a impercettibile ronzio solo grazie al suo coinvolgimento in
quella promessa di avventura che era l’indagine che Sherlock stava portando
avanti.
Forse era
stato quello il motivo per cui aveva sentito il bisogno di riempire quel
silenzio con una serie infinita di domande prive di qualsiasi senso. A
posteriori, era quasi certo che proprio l’insensatezza dei suoi quesiti fosse
stata la ragione del mutismo del Demone -in fondo, alla sua ultima domanda
aveva pur risposto.
“Un uomo di
mezza età, sulla cinquantina direi. Capelli chiari. Baffi. Un mercante di
cotone con una moglie giovane e infedele e rapporti continuativi con una o più
persone di origine americana. In sostanza, un insospettabile.”
Tutti quei
dettagli da dove erano venuti fuori? John aveva seguito con molta attenzione -e
meraviglia- i voli mentali in cui Sherlock si era esibito nell’archivio di Scotland
Yard, ed effettivamente alcune delle cose che aveva affermato in quel momento
potevano essere ricondotte a conseguenze delle sue deduzioni. Però… capelli
chiari e baffi? Mercante di cotone? Moglie infedele? Come poteva Sherlock
esserne così sicuro? John lo aveva ingenuamente domandato, guadagnandosi uno
sbuffo e un’occhiataccia da parte del Demone.
“Nelle loro
dichiarazioni, i testimoni affermano di aver visto un distinto gentiluomo
abbigliato elegantemente muoversi nelle vicinanza dei luoghi in cui sono stati
rinvenuti i corpi. L’hanno descritto come un uomo dai capelli chiari. I baffi
sono un mio vezzo: sembra che in quest’epoca non sia accettabile per un uomo
che si rispetti non avere quei cosi anti-igienici e ispidi sulla faccia. Mi
ritenni fortunato quando passarono di moda le calzemaglie… invece…” aveva
iniziato, borbottando e imboccando una stradina incastrata tra i grigi edifici
che si stagliavano sulla destra del loro percorso con il Dottore alle calcagna,
“Che sia un mercante di cotone, me l’ha detto lui stesso. No, non
letteralmente, John! Tra gli indizi lasciati dallo Squartatore che ti ho
mostrato prima, c’era uno scampolo di cotone: o stava dando agli investigatori
un consiglio per la tappezzeria delle loro case, oppure - ed è la spiegazione
più plausibile- ha voluto lasciare una piccola indicazione riguardo al modo in
cui si procura il pane. Anche il fatto che il nostro uomo sia intrappolato in
un matrimonio infelice è un dettaglio che mi ha comunicato lui stesso. Non ha
forse strappato gli anelli di ottone che la Chapman portava all’anulare
sinistro? Un simbolo matrimoniale, che probabilmente ha urtato l’orgoglio del
nostro uomo. Quindi, sposato, e infelicemente, o non si sarebbe dato pensiero
di privare la sua vittima di due cerchietti di metallo privi di valore.
L’ipotesi di un tradimento deriva dalla brutalità con cui si è accanito sulle
vittime: vedeva in loro un fantoccio della sua coniuge, su cui sfogare la
rabbia, il dolore e la frustrazione che il suo comportamento gli causava. La sua
ferocia è stata sfogata in tutta la sua furia distruttiva sull’ultima delle sue
vittime, la Kelly, che è stata letteralmente macellata. Guarda caso, Mary Kelly
è la prostituta più giovane ad essere stata uccisa dallo Squartatore: Jack è
sposato con una donna molto più giovane di lui, che lo tradisce regolarmente.
Davvero, sono deduzioni così ovvie che avrebbe potuto farle pure un lattante.”
Sherlock da
lattante, forse. John non era stato in grado di produrle in quel frangente, e
aveva faticato a star dietro al Demone nonostante la sua spiegazione fosse
stata cristallina come acqua di sorgente. La probabilità che il sé bambino
avesse potuto anche soltanto iniziare a grattare la superficie del mistero che
era il funzionamento della mente di Sherlock era inesistente. A quel pensiero,
la sua mente aveva evocato molto utilmente l’immagine di se stesso da piccolo,
con il naso colante e una palla di pezza stretta fra le mani, che ascoltava
Sherlock non comprendendo una sola parola di quello che gli veniva detto. La
risata nervosa che quell’immagine fece gorgogliare nel suo petto era sembrata
dannatamente fuori luogo anche alle sue orecchie.
Un angolo
della bocca di Sherlock, quando quel suono si era alzato al cielo, si era
piegato appena verso l’alto. Aveva scosso la testa, bonariamente, infilando le
sue affusolate mani nelle profonde tasche del cappotto per proteggerle da una
folata di vento particolarmente viziosa, che aveva fatto correre un brivido
lungo la spina dorsale di John. L’uomo aveva aperto la bocca per lamentarsi, ma
d’improvviso la claustrofobica protettività di quel vicolo dalle mura alte era
stata sostituita dal più aperto e caotico affollamento di un vialone immenso e
trasandato, e le parole gli erano scivolate via dalle labbra. Il Dottore aveva
dovuto chiudere gli occhi un istante, per proteggerli dalla variazione di
luminosità.
“Buck’s
Row. Il luogo dove è stata rivenuta Polly Nichols.” aveva annunciato il Demone,
guardandolo dall’alto in basso,
“Sì.
Nell’agosto di due anni fa. Cosa potremo mai trovare ancora qui?”
Sherlock
aveva sbuffato, senza però risultare realmente scocciato alle orecchie di John.
Era più come se fosse stato divertito dalla sua protesta. “Quello che voi
esseri umani non comprendete, è che le vostre azioni lasciano dei segni sui
luoghi che le ospitano. Non parlo di segni fisici -come mobili rotti, o buchi
di proiettile sui muri- ma segni non di meno. E mentre le evidenze fisiche sono
spazzate via dallo scorrere del tempo, le tracce di cui parlo io rimangono
indelebili per tutta l’eternità. A patto, certo, che siano ricercati da
qualcuno con gli occhi giusti.”
Il Demone
aveva ammiccato -e John aveva sobbalzato- per poi sollevare aggraziatamente il
braccio sinistro. Il mondo era stato improvvisamente drenato dei suoi colori.
Se avesse
dovuto descrivere quello che era accaduto a Hamish, o a chiunque non avesse
avuto la fortuna di assistervi in prima persona, John gli avrebbe detto che
mentre la mano di Sherlock fendeva l’aria, il tempo aveva iniziato a
decelerare. I movimenti delle persone che camminavano frettolosamente per
strada avevano rallentato man mano, come se fosse piombato su ogni singolo
passante un maleficio che lo aveva tramutato pian piano in una statua di
ghiaccio. Anche i suoni avevano perso velocità per poi fermarsi del tutto, e un
silenzio surreale aveva avvolto l’intera strada come un invisibile, soffocante
velo. I colori erano spariti subito dopo… o meglio, non erano propriamente
svaniti, quanto si erano disposti sullo scenario in maniera tanto aliena da
generare un senso di vertigine. Sulla strada grigia, sugli edifici ridotti alle
tonalità del bianco e del nero, sulle persone che sembravano appena uscite da
una monocromatica foto di giornale, John aveva potuto notare il formarsi di
disordinate e dolorosamente accese macchie dei colori più disparati, di diversa
dimensione e forma. I suoi occhi erano saettati dagli schizzi di rosa intenso
che stavano infiammando le mani giunte di una giovane coppia al giallo intenso
e accecante che sembrava colorare per intero una bambina con le treccine,
rimasta bloccata nell’atto di raccogliere un torsolo di mela da terra. Aveva
abbassato lo sguardo, chiedendosi se i suoi occhi non avessero avuto qualcosa
di estremamente sbagliato, non riuscendo a guardare le pozze di colore disseminate
sull’interezza della strada -impronte sbaffate di uomini e cavalli, segni di
ruote e oggetti caduti, come impressioni di pittura sulla tavolozza di un
pittore maldestro- senza rabbrividire.
Forse era
finalmente impazzito.
“Sherlock?”
aveva chiamato, cercando il Demone con gli occhi e soffocando nelle sue stesse
parole quando si era reso conto che lui, a differenza di tutto il resto, aveva
mantenuto il suo aspetto comune.
Si era
affrettato a guardarsi le mani, allora, sorprendendosi di nuovo per il fatto
che la sua pelle avesse mantenuto il tono vagamente bronzeo che aveva quel
mattino, e che così avessero fatto anche i suoi abiti. La confusione, a quel
punto, era stata tanto forte che John non aveva potuto fare a meno di guaire.
Il Demone
aveva probabilmente osservato l’intera gamma di emozioni che avevano
attraversato il viso del Dottore trovandole particolarmente esilaranti, perché,
quando John lo aveva guardato (dopo essere riuscito a sollevare gli occhi
dall’incredibile visione delle sue stesse unghie), sulla sua faccia stava
campeggiando un sorriso felino così ampio da fargli comparire delle fossette
nelle guance incavate. “Meraviglioso, non è vero?”
‘Meraviglioso’
non era proprio la parola che John avrebbe selezionato fra tutte quelle che
conosceva per descrivere ciò che aveva visto. ‘Interessante’, magari.
‘Terrificante’, probabilmente. No, di certo non ‘meraviglioso’.
In ogni
caso, per buona educazione, John aveva annuito. “Che cosa sono queste…
macchie?”
“Semplice, sono
le proiezioni delle emozioni che questi esseri umani provano, o hanno provato,
sulle loro stesse anime. L’anima di voi esseri umani è legata in maniera
imbarazzante ai sentimenti…” e il
disgusto era spillato dalla voce di Sherlock come vino da un calice agitato
malamente, “…quindi, quando essi sono particolarmente forti, rilasciano una
traccia colorata che può rimanere impressionata sugli oggetti che la
circondano. Prendi quell’ombra viola sulla porta di quella casa laggiù: ci dice
che in passato qualcuno si è recato in quel luogo ammantato in un forte
sentimento di tristezza. Potrei giurare che non molto tempo fa qualcuno,
proprio in quel luogo, abbia commesso suicidio.”
John aveva
seguito la direzione puntata dal dito guantato del Demone, deglutendo alla
vista della manata violacea stampata sul legno di un portone apparentemente non
diverso da tanti altri. Una giovane donna dai capelli scarmigliati (blu intenso
che si sprigionava dai suoi occhi) era congelata proprio lì vicino, e aveva fra
le braccia un bambino che non poteva avere più di tre anni, vestito certamente
in maniera troppo leggera per la stagione; il piccolo era circondato da un
alone bianco e puro come un manto di neve. Il disarmante contrasto tra quella
immagine e la visione della porta aveva portato il Dottore a digrignare i
denti.
Si era
domandato quale colore stesse mostrando in quel frangente il suo animo, e
subito si era reso conto di non volerlo sapere. Se fosse stato diverso dal nero
più cupo, addolorato e pieno di rimpianto, infatti, non se lo sarebbe mai
perdonato.
“Perché
riesco a vederle?” aveva domandato invece, attraverso denti serrati,
“Perché te
lo sto permettendo io.” gli aveva risposto Sherlock, compiaciuto di quella sua
concessione.
John aveva
abbassato lo sguardo, incapace per qualche strano motivo di sopportare per un
solo, ulteriore istante la vista di quelle iridi impassibili. “Quindi è questo
che cercheremo? Le macchie lasciate dallo Squartatore quando ha ucciso quelle
povere sventurate?”
“In un
certo senso. Anche se le tracce lasciate dalla disperazione e dalla paura delle
sue vittime saranno probabilmente molto più evidenti.”
Sherlock
aveva fatto spallucce, incamminandosi nella direzione che, John aveva
ipotizzato, li avrebbe condotti esattamente nel punto di quella strada in cui
Mrs. Nichols era stata rinvenuta. Punto che, viste le pennellate di nero,
viola, rosso e indaco che lo inondavano disordinatamente, John aveva potuto
scorgere già a metri di distanza. Sherlock si era inginocchiato nel mezzo di
quei colori crudeli come un bambino in un prato di fiori, perso apparentemente
in un mondo che soltanto lui era in grado di vedere; John, dal canto suo, aveva
dovuto lottare contro il fiotto acido che gli aveva invaso la bocca al pensiero
di ciò da cui quelle tonalità così cupe fossero scaturite. Quando il Demone
aveva iniziato a sussurrare, aveva dovuto chiudere gli occhi.
“La vittima
non si è accorta di quelle che erano le intenzioni dell’assassino fino
all’ultimo istante. Riteneva che fosse un cliente come tanti altri, e anche
quando le ha stretto il collo ha pensato -ha sperato- che fosse soltanto
un suo vezzo particolare. Poi la stretta si è fatta troppo forte, e Polly ha
finalmente compreso che non sarebbe sopravvissuta a quella notte. C’è tutto: lo
sconvolgimento della realizzazione, il desiderio di lottare per la sua stessa
vita, la paura, la rassegnazione. Posso quasi sentire il grido che la sua anima
ha emesso quando ha abbandonato il suo corpo…”
Era
rabbrividito, Sherlock, a quel punto, e John si era quasi sentito male. Perché
non era stata un’espressione di paura, o disgusto, quella che aveva letto sul
viso del Demone, ma una di puro ed animalesco desiderio. Per l’anima della
povera sventurata? L’uomo si era rifiutato di domandarselo. Comunque, forse per
la prima volta da quando aveva visto quegli occhi di ghiaccio, la certezza di
trovarsi effettivamente alla presenza di quello che nella Bibbia era descritto
come un parto dell’Inferno più profondo si era fatta strada in lui. Era stato
terribile, e doloroso più di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere.
Inconsapevole
di ciò che era appena avvenuto alle sue spalle, Sherlock era scattato in piedi.
“Dalla massa di colore centrale si espandono delle propaggini più luminose e
brune. Ecco, queste sono le tracce del nostro assalitore.”
Aveva
esteso la mano sopra quegli sbaffi color legno bruciato, dai quali di erano
sollevate delle piccole luci del medesimo colore, che avevano formato un globo
nel palmo del Demone. Sherlock si era portato la mano al viso, lasciando che la
strana luminescenza del globo gettasse riflessi vaghi sulla sua pelle di
alabastro. “Zamram ol Amayo zomdv[1].”
Di nuovo
quella lingua dal suono antico. Di nuovo, John non era riuscito a capire che
cosa Sherlock avesse detto. Aveva potuto farsene un’idea, però, quando la sfera
di luce era letteralmente esplosa, e schegge luminose si erano infrante contro
la parete dell’edificio di fronte a cui lui e Sherlock stavano sostando. Ognuna
di esse aveva formato un alone luminescente, che si era poi animato di vita
propria: come se fosse stato mosso dal pennello sapiente di un artista, aveva
cominciato a danzare su quei mattoni unti, lasciandosi alle spalle scie di
colore disordinate.
In pochi
istanti, sulla parete erano comparse le immagini di un cappello di feltro, di
quelli con le falde usati dai cacciatori, schiacciato su una nuca coronata da
ordinati capelli biondicci; una mano sollevata nell’atto di colpire con un
affilato coltello a lama sottile, poi, e un taglio di occhi chiari e crudeli.
“Queste…
sono…” aveva balbettato John, senza potersi impedire di allungare una mano
verso quei dipinti che, vibranti, sembravano desiderare di balzare via dalla
parete.
Sherlock
aveva sospirato. “Le ultime immagini che gli occhi della vittima hanno
registrato prima di morire. O, meglio, le impressioni che l’anima dello
Squartatore ha lasciato sulla sua un istante prima che il suo cuore si fermasse
per sempre.”
John aveva
ritratto subito la mano, come se le sue carni fossero state lambite da fuoco
vivo. Aveva fissato quelle immagini, incapace di abbassare gli occhi, sentendo
la gola seccarsi al pensiero di ciò che doveva aver provato la povera Mrs.
Nichols negli istanti prima della morte: che fossero state emozioni tanto
diverse da quelle che aveva provato lui stesso, quando il proiettile Jezail era
penetrato nella sua spalla, frantumando l’osso, scalfendo l’arteria succlavia e
incendiando le sue terminazioni nervose?
Quei
pensieri amari non lo avevano abbandonato fino a quando Sherlock non aveva
poggiato una mano sulla sua spalla, schioccando le dita e facendo lentamente
calare un sipario su quello spettacolo di morte e rimpianto.
Nei tre
successivi luoghi che lui e Sherlock avevano visitato, le cose erano andate più
o meno allo stesso modo. Sherlock aveva privato il mondo dei suoi pigmenti
usuali per sostituirli con colori nuovi, aveva fatto comparire le piccole sfere
di luce che avrebbero proiettato frammenti dell’identità dello Squartatore
nello spazio circostante, poi aveva riportato tutto alla sua rumorosa, confusa
normalità. Nessuno dei passanti si era accorto di nulla: solo, ogni volta che
quelle macchie nere e arrabbiate erano comparse di fronte ai suoi occhi, John
aveva sentito il suo petto stringersi un po’ di più.
L’unico
scenario che aveva visto un cambiamento nella procedura di indagine del Demone
era stato il numero 13 di Miller’s Court, vicino a Dorset Street. John sapeva,
dalle lettere del Dottor Bond così come da ciò che aveva letto sui giornali,
che quello era l’indirizzo della stanza in cui era stato ritrovato ciò che
restava del corpo martoriato della povera Miss Mary Jane Kelly… non sapeva però
che, da quando era avvenuto quel terribile omicidio, quel luogo non era stato
più dato in affitto ad anima viva. Anche se, a ben pensare, non molti avrebbero
desiderato abitare in una stanza sulla carta da parati della quale era ancora
possibile vedere l’impressione del sangue che vi era stato riversato.
Quella
volta, quando Sherlock aveva sollevato il braccio e rivelato agli occhi di John
quelle che ormai nella sua mente avevano assunto il nome di ‘macchie di colore’
(per quanto Sherlock avesse insistito che affibbiare a quelli che erano a tutti
gli effetti i veri colori dell’anima umana un nome del genere sarebbe stato
equivalente a chiamare ‘schizzo’ il ‘Viandante sul mare di nebbia’ di
Friedrich), il Dottore aveva dovuto costatare che, più che presentare una
chiazza di colore scuro come i luoghi degli altri ritrovamenti, quella stanza
era letteralmente annegata nel nero più totale. Un nero minaccioso più scuro
della pece, che si estendeva su ogni centimetro di quel luogo, e colava dal
soffitto in grassi, unti goccioloni che producevano un tonfo umido impattando
con il pavimento di tavole marce. Aveva fatto venire in mente a John una
malattia, una di quelle che mangiavano le persone dall’interno fino a che non
era rimasto di loro che un involucro accartocciato e spento.
“Mio Dio…”
aveva sussurrato, senza potersi frenare. Quale inaccettabile, crudele e
insensata barbarie doveva essersi consumata in quel luogo per aver lasciato una
traccia del genere nella rete dell’esistenza?
“Non
temere. Il dolore e la paura sono durati solo un istante. Era morta ancora
prima di rendersi conto di quello che stava accadendo.”
La mano di
Sherlock era risultata calda, sul suo avambraccio; aveva scacciato il
raggelante senso di morte che gli aveva fatto dolere le ossa. Le parole del
Demone, che a un orecchio diverso dal suo sarebbero potute risultare tutto meno
che rassicuranti, avevano allentato il nodo in gola che stava minacciando di
togliergli il fiato.
John aveva
cercato gli occhi del Demone, tentando di sintetizzare in un unico sguardo lo
schiacciante senso di gratitudine che provava. Il Demone, dal canto suo, aveva
atteso che il corpo di John avesse smesso di tremare, prima di allontanarsi da
lui. Si era poi avvicinato al lurido materasso su cui la povera Miss Kelly era
stata seviziata, ed aveva portato a termine il suo luminoso rituale, stagliando
nel nero untuoso immagini di mani guantate, abiti eleganti e lame affilate.
Infine,
quando quei fotogrammi erano spariti, aveva sorpreso il Dottore di nuovo… con
un tuffo di schiena su quel traballante e arrugginito letto sul quale poco
prima aveva proiettato l’immagine di un assassino. Letto che -il Dottore non
aveva potuto fare a meno di notare- era ancora macchiato del sangue della Kelly
e che, in quel momento, pareva essere ricoperto di putredine nera. Non il luogo
ideale per distendersi, proprio no. A John si erano drizzati i capelli sulla
nuca.
“Non posso
dire che visitare le scene del crimine sia stato particolarmente utile…” aveva
affermato Sherlock, le mani giunte di fronte alle labbra e le palpebre
mollemente chiuse, ignaro del fatto che John stesse avendo un piccolo attacco
di cuore per il disgusto, “…ma, mi ha fatto capire delle cose estremamente
interessanti.”
John
-disperando all’idea di doversi muovere in quel luogo tanto macabro- si era
avvicinato a sua volta al materasso, senza la minima intenzione di toccare la
superficie ma pronto ad udire la rivelazione del Demone.
Sherlock si
era schiarito la voce, solennemente. “Il nostro assassino… è un perfetto
idiota.”
E… no.
Quella non era stata decisamente l’illuminante rivelazione che John si era
aspettato.
“P-perché?”
aveva balbettato il Dottore, sperando che i suoi occhi non saltassero fuori
dalle orbite per lo stupore,
“Oh, è così
ovvio. Lasciando da parte il fatto che abbia seminato indizi ovunque, o che si
sia esibito inun poverissimo lavoro di
chirurgia, non ha preso neppure le precauzioni necessarie affinché i vistosi
abiti che indossava -portava un mantello,
ti rendi conto?- non si inzuppassero completamente di sangue. Non dico quando
ha tagliato la gola alle sue vittime, ma quando ha infierito sui loro corpi,
capisci? Ti immagini cosa avrebbero pensato i passanti, se dopo ogni omicidio
avesse preso immediatamente il treno e se ne fosse tornato a Liverpool? Bah!”
John si era
concesso un momento di riflessione, giusto per far digerire al suo cervello
tutte quelle nuove informazioni. Se non avesse sperato meglio, a quel punto
avrebbe ceduto all’idea di essere, se comparato a Sherlock, un bambino non
particolarmente sveglio con un’idea alquanto sommaria e sfocata di quello che
stava accadendo intorno a lui.
“Un treno?”
aveva domandato alla fine, cedendo alla curiosità che sembrava volerlo divorare
dall’interno,
“Già.”
aveva brevemente risposto il Demone.
“Un treno…
per Liverpool.”
“Esatto.”
“Posso
domandare perché?”
Sherlock
aveva sospirato, il travaglio nella voce del Dottore tanto evidente da
provocargli quasi fastidio. “Non è forse quello che hai fatto per tutto il
giorno, chiedermi il perché di ciò che dicevo? Quello, e dirmi quanto le mie
deduzioni fossero straordinarie.”
E se quelle
parole avevano bruciato sulla pelle di John come braci vive, beh, lui di certo
non ne avrebbe mai fatto menzione.
Si era
umettato le labbra, stringendo i pugni. “Non mi sei sembrato dispiaciuto di
sentirmelo dire.”
“Oh, no.
Anzi, puoi continuare quanto vuoi.” aveva ammesso il Demone, dimettendo quella
discussione con un gesto della mano ebalzando in piedi con un rapido, rapace movimento, per poi bloccare i
suoi occhi di ghiaccio in quelli di John, “Dimmi: qual è la prima regola che,
se seguita, fa di un criminale un buon criminale?”
Il Dottore
era rimasto spiazzato per un istante, ma deciso a non farsi prendere di nuovo
in contropiede aveva esclamato: “Non colpire mai due volte nello stesso posto.”
Sherlock
aveva roteato gli occhi, esasperato. “Sbagliato. La prima regola è: mai colpire
sulla soglia della propria casa.”
Dalle
labbra di John era sfuggito un suono indefinibile, a metà tra uno sbuffo e un
grugnito. Per quanto, infatti, Sherlock gli avesse fatto dono per tutto il
giorno di rare perle di genialità, ciò che aveva appena detto era risultato
talmente ovvio da parere quasi grottesco. Insomma, quale criminale sarebbe
stato tanto stupido da compiere un crimine nella sua stessa casa? Non sarebbe
stato forse più probabile ricadere nella lista dei sospettati, a quel modo?
Oh.
John aveva
dovuto mordersi la lingua per non darsi dello stupido da solo, quando la
comprensione aveva alla fine fatto breccia dentro di lui. L’espressione
compiaciuta che era nata sul volto di Sherlock quando aveva scovato nei suoi
occhi le tracce di quella sua improvvisa illuminazione, poi, non aveva aiutato
di certo la sua già lesa autostima.
“Il nostro
Squartatore non vive a Londra, John. Conosce Whitechapel come le sue tasche,
probabilmente perché ha vissuto non lontano dal quartiere per qualche tempo, e
giustifica le sue sortite a Londra in virtù del suo lavoro di mercante. Ma non
abita qui.”
John aveva
scosso la testa, sconfitto ma deciso a lottare ancora per un po’.“Perché
proprio Liverpool? Non potrebbe essere Manchester, o qualche altra città?”
Sherlock
gli aveva poggiato una mano sulla spalla, schioccando la lingua soddisfatto.
“No, sono certo che sia Liverpool. Il perché è davvero semplice. Come ti ho
detto, viste le condizioni in cui doveva ritrovarsi dopo aver commesso i suoi
omicidi, è altamente improbabile che il nostro assassino se ne sia tornato a
casa nell’immediato. Ha avuto bisogno di un posto dove ripulirsi, dove passare
la notte e organizzarsi per il colpo successivo. Ora, la decisione più logica
per una persona nella sua condizione sarebbe stata quella di rivolgersi a un
dormitorio. Quei posti sono così colmi di disperati che nessuno avrebbe notato
le macchie di sangue sui suoi vestiti, e anche se qualcuno avesse storto il
naso, elargendo qualche moneta si sarebbe assicurato un totale silenzio.
Secondo te, il nostro uomo è una persona logica?”
Quella
domanda inaspettata aveva fatto sobbalzare John, che aveva guardato Sherlock
con la bocca spalancata. “Lo chiedi a me?”
aveva risposto, puntandosi l’indice al petto, come se avesse voluto rendere più
chiaro al Demone il fatto che stesse chiedendo un’opinione proprio all’uomo
privo di qualsiasi capacità deduttiva che aveva di fronte,
“Esatto.
Jack lo Squartatore è una persona logica, secondo te?”
John aveva
riflettuto a lungo, ponderando la possibilità che quella domanda celasse un
qualche tipo di trabocchetto. Come si poteva essere certi, avendo a che fare
con un Demone?
“N-no?”
aveva azzardato, infine, strizzando gli occhi nella sicurezza di aver scelto
l’opzione sbagliata. In fondo, non era lui quello che lanciando una moneta non
era mai riuscito a indovinare se sarebbe uscita testa
oppure croce?
“Esattamente!
Non lo sa neppure cosa sia, quell’uomo, la logica!” aveva invece esclamato
Sherlock, battendo le mani come un bambino entusiasta, “Il suo senso di
superiorità non gli avrebbe mai permesso di rivolgersi a tali, infimi lidi! Ha
affittato una stanza, una stanza privata. Tenendo conto della sua
abitudinarietà, oserei affermare che ha scelto sempre la stessa per tutti e
cinque gli omicidi.”
John aveva
fissato. A lungo, e con intensità. Poi, aveva annuito. “Capisco… ma cosa
c’entra questo con Liverpool?”
Il Demone
aveva piroettato su se stesso, sollevando i mesi di polvere che si erano posati
sul pavimento di quella minuscola stanza in una nuvola lanuginosa.
“C’entra
tutto! Sostengo che lo Squartatore non sia una persona logica, non che sia uno
stupido! Voleva una stanza privata, questo è certo, ma non una stanza
qualunque: gli serviva una stanza situata in una strada abbastanza vicina ai
luoghi dove avrebbe colpito, quindi una strada di questo quartiere; inoltre, la
strada prescelta doveva avere proprietà che avvantaggiassero il nostro
assassino nel compimento del suo progetto. Inizialmente, avevo isolato tre
strade che, in Whitechapel, sarebbero state adatte alle sue esigenze. Adesso,
sono sicuro di poter restringere il campo a una sola: Middlesex Street.”
Al Dottore
aveva cominciato a fumare la testa. Troppe informazioni, troppi eventi da
concatenare. Soprattutto, ancora nessun dettaglio che avesse fatto scattare
nella sua mente alcuna scintilla riguardo alla necessaria ubicazione della
dimora dello Squartatore nella città di Liverpool. John aveva lanciato a
Sherlock uno sguardo supplice, guadagnandosi in risposta uno sbuffo scocciato.
“Middlesex
Street rappresenta il confine naturale tra le giurisdizioni della Polizia
Metropolitana e della Polizia della City, John. Questo ha permesso a Jack di
effettuare i suoi omicidi ora da una parte, ora dall’altra della linea di
demarcazione rallentando le indagini a causa delle burocrazia. Quella strada è
finita anche sui giornali per essere stata teatro di agitazioni antisemite
-capisci da solo che il nostro amichetto voleva scaricare la colpa sugli ebrei,
o devo ricordarti il graffito che ha lasciato in Goulston Street[2]?
Non ho finito: Middlesex Street non è molto distante da Cullum Street, centro
importantissimo per il commercio di cotone e stoffe e, udite udite -beh… odi,
odi visto che ci sei solo tu- luogo dove anni fa venne costruita una stazione
da cui partono a tutte le ore treni diretti in una città in particolare. Che
è…?”
Lo stava
forse trattando come un bambino? Perché John aveva avuto la netta sensazione
che Sherlock lo stesse trattando come un bambino. In reazione a
quell’atteggiamento da parte del Demone, aveva incrociato le braccia al petto,
alzandosi gli occhi al cielo in una muta richiesta di pazienza a qualunque
entità fosse stata in ascolto in quel momento. Non era del tutto certo del
motivo, ma aveva a certezza che in quell’anno che avrebbe trascorso al fianco
di Sherlock ne avrebbe avuto un immenso bisogno.
“Liverpool?”
aveva brontolato alla fine, nervoso, senza guardare il Demone negli occhi.
Di fronte
al suo evidente fastidio, Sherlock lo aveva incenerito con lo sguardo. “Sì.
Liverpool. La prossima volta però evita di borbottare. Potrei sempre cambiare
il contratto e strapparti la lingua, sai?”
La minaccia
sarebbe stata evidente in quelle parole anche se, nel pronunciarle, Sherlock
non avesse scoperto i denti in un ghigno. John aveva sentito la sua pelle
accapponarsi, e con gli occhi tristi della giovane Molly Hooper nella mente
aveva serrato le labbra simpateticamente, come se quel gesto avesse potuto
proteggere il delicato pezzo di carne che racchiudevano dalla follia del Demone
che aveva di fronte.
Sherlock
aveva ringhiato. “Fantastico. Adesso che abbiamo messo le cose in chiaro, direi
che una sortita a Middlesex Street sarebbe d’obbligo. Mi auguro che tu non
abbia fame, perché non ho la minima intenzione di perdere tempo per qualcosa di
inutile come il cibo, non quando ho un Caso come questo sotto mano.”
Aveva
lanciato un ultimo, glaciale sguardo a John, per poi tranciare l’aria della
stanza con la sua mano affilata. I colori e i suoni di quella camera e della
strada circostante avevano ripreso il loro posto prepotentemente, troppo in
fretta perché i sensi di John potessero riadattarvisi senza che l’uomo
sperimentasse un istante di spiazzante disorientamento. Non era stato così, le
quattro volte precedenti: Sherlock aveva restituito alla realtà la sua
consistenza naturale con delicata lentezza, gradualmente, come un grammofono il
cui volume fosse stato aumentato pian piano per non ferire le orecchie di chi
lo stesse ascoltando. Probabilmente, John aveva pensato, il Demone doveva aver
esaurito la sua scorta di pazienza.
Come a
voler confermare questa sua supposizione, Sherlock era uscito da quella misera
stanzetta a passo di carica, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo
assordante. Sospirando soffertamente, John aveva forzato i suoi piedi a
muoversi per seguirlo.
***
C’era un
unico locale, in tutta l’interezza di Middlesex Street, che offrisse un
servizio di affitto di stanze a lungo o breve termine. John l’aveva definita
una botta di fortuna -Sherlock, indignato, aveva sostenuto che la fortuna non
avesse alcun ruolo in quello che loro due stavano facendo.
Il pub in
questione, che come molti pub di Londra era situato nell’angolo dell’edificio
che lo ospitava, possedeva a segnalare la sua presenza un’eccessivamente grande
insegna in ferro battuto, arrugginita agli angoli e plasmata per assumere la
forma di un grosso, minaccioso roditore. Il nome del posto, come quell’insegna
comunicava, era ‘The Stinky Rat’… ma avrebbe potuto perfettamente chiamarsi
“Mosquito”, visto il quantitativo di zanzare e altri insetti che affollavano
l’aria muffosa di quel buco. Sherlock e John vi si erano introdotti con passo
sicuro, certi di mescolarsi in quella babilonia di volti e corpi scoloriti che
rappresentavano i clienti di quel locale senza alcuna difficoltà. Per quanto
però questa certezza si fosse rivelata esatta nel caso di John -che grazie alle
appariscenti macchie di fango e sporcizia, che ornavano i calzoni di fine
sartoria che indossava non era apparso poi troppo diverso dai chiassosi rifiuti
di strada che si erano stipati sugli sgangherati sgabelli che circondavano il
bancone- per Sherlock, beh… era stata tutta un’altra storia.
Non c’era
stata una singola testa, infatti, che non si fosse voltata verso di lui quando
il moro aveva fatto il suo trionfale ingresso nella minuscola locanda. John
aveva potuto chiaramente vedere la procace locandiera adocchiare avidamente il
Demone da dietro al bancone che puliva distrattamente con un panno già sporco
(uno sforzo inutile, viste le condizioni in cui lo stato della superficie
versava); anche una delle sguattere non era riuscita a non perdere il suo
sguardo su di lui, e per poco non aveva rovesciato il contenuto dello
stracarico vassoio che portava su una coppia di clienti dall’aria losca. E non
era tutto… il Dottore avrebbe potuto giurare addirittura di aver sorpreso
diversi uomini nascondere dietro ai loro boccali e ai loro ispidi mustacchi dei
sorrisi ambigui e insinuanti -una sensazione amara che ancora stentava ad
abbandonarlo, quella che aveva provato nell’accorgersene.
Ignaro (o
più probabilmente totalmente incurante) del focolaio di attenzione che aveva
attirato su di sé, il Demone aveva compiuto un primo passo verso il bancone:
come se avessero percepito tutta la sua potenza, i clienti di quella bettola gli
avevano sgomberato il passo, creando un corridoio di volti basiti e bocche
spalancate di cui anche John aveva potuto beneficiare per stare dietro alle
lunghe falcate del suo compare. Raggiunto il suo obiettivo, Sherlock vi si era
abbandonato contro lascivamente, attirando con uno sguardo l’attenzione della
rubiconda locandiera; nascondendo il sudicio straccetto che aveva tra le mani
nell’ampia tasca dell’altrettanto sporco grembiule che le stringeva la vita, la
donna si era passata una mano tra i capelli, per poi rivolgersi al Demone con
tono allegro.
“Cosa
desiderate, signore?” aveva domandato, sporgendosi sopra il bancone con lo
spudorato intento di sbattere sotto gli occhi di Sherlock la sua mercanzia -
gesto che aveva fatto risalire un ringhio involontario dalla gola di John, che
si era trovato costretto a simulare un colpo di tosse nel tentativo di
nasconderlo.
Il Demone
gli aveva lanciato uno sguardo malizioso, prima di voltarsi di nuovo verso il
donnone e dire, con voce di burro: “Un brandy per me, e un boccale di birra
ghiacciata per il mio amico.”
Con quali
soldi sarebbero state pagate le loro ordinazioni, John non se l’era neppure
domandato: la sete era stata troppa, per curarsi di quel genere di trivialità.
Si era leccato le labbra, invece, mentre la locandiera riempiva fino all’orlo
un boccale sbeccato di liquido dorato, cercando di non far caso alle occhiate
sdegnose che la donna gli aveva lanciato durante tutto il processo e fallendo
miseramente nell’intento. In ogni caso, l’irritazione che l’irriverenza della
padrona di quell’osteria buia e maleodorante avrebbe potuto suscitare in lui
era stata spazzata via ben presto dal refrigerio che la prima sorsata di birra
gli aveva donato scendendo lungo la sua gola riarsa.
Non era
forse la birra migliore che il Dottore avesse mai bevuto, ma in quel momento
non aveva potuto pensare a bevanda che avrebbe avuto tra le mani più
volentieri.
Mentre lui
si godeva con evidente soddisfazione quello che Sherlock aveva ordinato per
lui, il Demone -facendo roteare il suo brandy dentro il bicchiere con piccoli
scatti del polso- aveva conversato fittamente con l’ostessa, tenendo al
contempo d’occhio il locale intorno a lui.
“Bel posto,
questo. Non deve essere facile gestirlo da sola.” aveva iniziato, mentendo così
spudoratamente che per poco John non si era soffocato con un sorso di birra,
“No, non lo
è per niente, signore. Sebbene io lo faccia più per il piacere di incontrare
gentiluomini come voi, che per ricavarne denaro.” aveva sparato la donna in
risposta, e in quel caso John non aveva potuto proprio farci niente: aveva
riso, spillando il liquido che aveva in bocca sul bancone e mancando di poco la
giacca di Sherlock.
Allo
sguardo caustico del Demone, John aveva subito alzato una mano in segno di
scuse, cercando di soffocare le risa e ricomporsi un minimo. Dopo avergli
lanciato un’ultima occhiata di ammonimento -non priva però di una scintilla di
complicità- Sherlock era tornato a rivolgersi al donnone dallo sguardo languido.
“Dicevamo…ah,
sì! È stato un mio carissimo amico a parlarmi di questo posto, sapete? Ha
alloggiato qui un paio di anni fa, alcune notti a qualche mese di distanza
l’una dall’altra…”
“Ah, sì?
Che cosa stupenda!” aveva gridato la donna, sbattendo con forza le mani sul
bancone -e rischiando di far prendere a John un attacco di cuore.
Sherlock
aveva sospirato, il fastidio per quell’interruzione evidente nel tono livido
che aveva assunto la sua pelle. “Già… mi chiedevo, non è che per caso vi
ricordate di lui? È un uomo piuttosto alto, sempre ben vestito, con occhi
chiari, baffi e capelli biondicci… oh, ed è un commerciante in cotone. Ora, so
che non deve essere facile ricordare le facce di tutti i clienti che abbiano
pernottato qui, dato che devono essere molti…”
Stava forse
scherzando? John, nascondendosi dietro il boccale di birra, aveva spostato lo
sguardo dalla pila di piatti sporchi ammucchiati alle spalle della corpulenta
locandiera -da cui si sollevava un nugolo di mosche dall’aria arrabbiata-
all’uomo ubriaco svenuto nel suo stesso vomito del tavolo all’angolo, per poi
farlo approdare sulle macchie di fango che ricoprivano il pavimento. Aveva
lanciato a Sherlock un’occhiata carica di scetticismo, condendo il tutto con
uno sbuffo divertito. Il Demone, senza guardarlo, gli aveva rifilato una
gomitata nelle costole.
“Oh, a me
la vostra descrizione non dice niente… sapete, la mia memoria non è più quella
di una volta…” era stata la risposta della locandiera, che pareva non aver
fatto caso alla reazione del Dottore, “… ma se c’è qualcuno che può ricordare,
quella è mia… figlia. Sì, mia figlia. Non si scorda mai una faccia, quella
ragazzina.”
E se quello
fosse stato un complimento, oppure una critica, nessuno lo avrebbe potuto
stabilire con certezza. La donna si era voltata verso una stretta porticina,
nascosta da un pesante e stracciato tendaggio che, un tempo, doveva essere
stato blu.
“Peg?
Peggy! Vieni qui, un cliente ha bisogno di te!” aveva urlato, per poi
borbottare fra sé e sé una serie di insulti biascicati e incomprensibili.
A quel
richiamo, una testolina nera e arruffata aveva fatto capolino da dietro lo
stipite della porta, quasi troppo spaventata dal vocione che l’aveva richiamata
per uscirne completamente. ‘Peg’ si era rivelata essere una bimbetta magra in
maniera quasi spaventosa, con profonde mezzelune violacee a segnarle gli occhi
nerissimi e uno sguardo ben più maturo dei dodici anni che, a occhio e croce,
doveva aver trascorso sulla terra. Vedendola, a John si era stretto
dolorosamente il cuore.
“Eccoti
qui! Forza, svelta! Non ti azzardare a far aspettare questo gentile signore,
altrimenti...” aveva sbraitato la donna, afferrando la piccola per un braccio e
stringendo fino ad avere le nocche bianche. In un istante John era stato sicuro
che quella non potesse essere realmente la madre della bambina: non
c’era alcuna possibilità, infatti, che una madre afferrasse la figlia con tale,
immotivata violenza, né che vedendo avvicinare la donna che l’aveva messa al
mondo una bambina si ritraesse come di fronte a un pericolo mortale.
Mascella
serrata fino a far male, i pensieri di John erano corsi ad Hamish -sempre ad
Hamish, solo ad Hamish- e la sua mano si era chiusa in un pugno. Svelte e
silenziose, le dita di Sherlock avevano raggiunto le sue, in un gesto che aveva
voluto essere al contempo mitigante e confortante. Un ‘ti capisco, ma non puoi
permetterti di fare una scenata’ che aveva fatto rallentare i battiti del cuore
di John e aveva scacciato -anche se solo in parte- l’amarezza dal suo umore.
John non aveva allontanato la mano di Sherlock, anzi, era stato ancor più grato
di quel contatto quando la terribile locandiera aveva cominciato a rivolgersi
alla bambina con acido nella voce.
“Il signore
chiede di un uomo coi baffi e i capelli chiari che ha alloggiato qui un paio di
anni fa. Un gentiluomo, ben vestito. Ricordi niente?”
Il viso di
Peg si era contorto per la concentrazione, mostrando i tratti affilati dalla
fame di un viso che ancora avrebbe dovuto essere rotondo e infantile. Aveva
spinto fuori le labbra, forse per il dolore che la ferra presa di colei che si
era presentata come sua madre stava infliggendo al suo braccio; poi, come se
avesse avuto un’illuminazione, aveva esclamato: “Lo ricordo! Ha pernottato
nella stanza cinque per alcune notti.” per aggiungere, con voce flebile come
una brezza estiva “È stato gentile, con me. Mi ha lasciato provare il suo
cappello…”
“Bene. Vai,
ora.” l’aveva quasi subito interrotta sua ‘madre’ con un sibilo,
reindirizzandola verso la porticina da cui era uscita con uno spintone.
John
l’aveva osservata sparire, silenziosa come un gatto, come se avesse avuto paura
di disturbare -il forte furore che aveva provato come un coltello piantato
nelle sue tempie. Si era morso le labbra, supplicando mentalmente che Sherlock
terminasse la sua conversazione con quella donna prima che l’ira che stava
crescendo in lui avesse raggiunto un impeto troppo irruento perché riuscisse a
controllarla. Solo vagamente aveva udito Sherlock domandare se la stanza di cui
Peg aveva parlato fosse stata libera in quel momento. Al sì della locandiera,
il Demone aveva tratto dal nulla un sacchetto di velluto pieno di tintinnanti
sterline, lucide e scintillanti come se fossero state appena portate via dal
conio.
“Allora se
non vi spiace vorremmo darle un’occhiata. Dovremmo trascorrere una notte a
Londra, e quale posto migliore per farlo se non una delle vostre bellissime
stanze?”
La donna
aveva ridacchiato, lusingata, e in un istante il sacchettino di Sherlock era
sparito nei meandri del suo grembiule. “Prego, seguitemi! Prendo la chiave, e
vi porto su immediatamente!” aveva esclamato, voltando le spalle al bancone e
incamminandosi verso la traballante scalinata di legno che si intravedeva
appena nell’angolo più remoto del locale.
Sherlock
aveva abbandonato il suo -ancora pieno- bicchiere di brandy sull’ammaccata
superficie, strappando il boccale dalle mani di John e poggiandovelo vicino.
Vibrante di energia si era incamminato per inseguire la locandiera, ma svelto
John lo aveva afferrato per il braccio:
“La
bambina, Peg!” aveva esclamato sotto voce, avvicinandosi all’orecchio del
Demone perché lui soltanto potesse sentire, “Non è figlia di questa donna.”
Sherlock si
era irrigidito, esalando un flebile sospiro. “Lo so.”
“Avete… hai
visto come la tratta? Non possiamo far niente per aiutarla?”
In un primo
istante, alla richiesta del Dottore aveva risposto solamente il chiassoso
brusio del locale, tanto che John si era domandato se Sherlock lo avesse
sentito. Ogni dubbio era stato fugato quando, con volto privo di qualsiasi
emozione, il Demone lo aveva guardato negli occhi.
“Cosa
vorresti fare? Portarla via? Affidarla ad un istituto? Non sono certo che
questa sia la scelta migliore per lei. Questa donna l’ha raccolta dalla strada
quando era poco più che una neonata, e l’ha cresciuta da allora. È brusca con
lei, ma le offre una casa in cui vivere e cibo di cui sostentarsi: credi che ci
sarebbe grata se la allontanassimo da qui? Credi che sarebbe più felice in un
orfanotrofio?” gli aveva domandato, serio, aspettando che John scuotesse la
testa prima di distogliere lo sguardo da lui.
Deglutendo
a fatica, John aveva allentato la presa sul Demone, che veloce come un alito di
vento era scivolato verso la scala che li avrebbe condotti alla fatidica stanza
che aveva ospitato l’uomo cui stavano dando la caccia. Certo, quello che
Sherlock aveva detto era vero, e John sapeva perfettamente quale fosse
generalmente il destino di un bambino orfano in quella loro epoca -soprattutto
se il bambino in questione fosse stato tanto sventurato da essere nato femmina.
Gli orfanotrofi erano luoghi inospitali e freddi, gestiti da persone senza
scrupoli, che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di lucrare sui poveri
sventurati che erano affidati alle loro cure. Quante volte, durante la sua
carriera di medico, gli era capitato di riportare alla salute orfani ammalatisi
per aver dovuto lavorare fino allo sfinimento? Quanti piccoli corpi, viola per
i lividi e neri per la sporcizia, aveva dovuto rimettere insieme dopo che l’ira
della persona che avrebbe dovuto tutelarli si era abbattuta su di loro?
Eppure,
nonostante quella lapidaria consapevolezza, mentre saliva pian piano le scale
di legno facendo eco con i suoi passi a quelli più rapidi di Sherlock, non era
riuscito a liberarsi dal forte senso di pesantezza che sembrava deciso a
opprimergli il cuore.
Note dell’autrice:
Siamo in dirittura
d’arrivo. Lo prometto, dopo il prossimo capitolo potremo gettarci la storia di
Jack Lo Squartatore alle spalle, e non farne parola mai più. Dovevo terminarla
con questo, ma ho dovuto spezzarlo a metà: avrei rischiato di pubblicare un
capitolo lungo trenta pagine, ma concluso in fretta e furia. Questa mi è
sembrata un’alternativa migliore xD
Grazie per la pazienza
che avete ;) e soprattutto per tutto il vostro sostegno :D mi spingete a
mettercela tutta, sempre, e non potrò mai ringraziarvi abbastanza per questo ;)
Se tutto andrà come deve
andare, a domenica per il prossimo aggiornamento ;)
Un bisou :*
[1] Zamram
ol Amayo zomdv: mostrami il tuo signore, mostrami chi ti genera;
[2] “Gli
ebrei saranno coloro che non verranno incolpati per niente”. Ci sono
trascrizioni diverse del graffito in lingua originale, tutte riconducibili a
una traduzione come questa;