Happily ever after - Seattle edition di Chara (/viewuser.php?uid=54167)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La foglia di fico ***
Capitolo 2: *** Il pannolino assassino ***
Capitolo 3: *** Il gran premio del tosaerba ***
Capitolo 4: *** La maglietta del delitto ***
Capitolo 5: *** Il giorno più importante ***
Capitolo 6: *** L'ardua scelta ***
Capitolo 7: *** Il servizio fotografico ***
Capitolo 8: *** L'amanuense ***
Capitolo 9: *** La storia della buonanotte (prima parte) ***
Capitolo 10: *** La storia della buonanotte (seconda parte) ***
Capitolo 1 *** La foglia di fico ***
Disclaimer
La meravigliosa famiglia McKagan non mi
appartiene; con questa raccolta di idiozie non intendo offendere o dare
rappresentazione veritiera del carattere della mia famiglia preferita. Vorrei
solo guardarli in ogni momento di ansia, ma probabilmente non mi sarà mai
possibile.
La foglia di
fico
Le sopracciglia di Susan Holmes McKagan erano un tutt’uno
con l’attaccatura dei capelli, e di certo non si poteva dire che non avesse la
fronte alta. Il motivo di tale perplessità era l’uomo che aveva accettato di
sposare, probabilmente in preda ai fumi di qualche potentissima droga dispersa
nell’etere. Dopotutto, lo stesso Duff si era sposato una volta senza
praticamente ricordarselo, quindi non sarebbe stata una novità così eclatante.
Suo marito indossava una fascia per capelli – la sua, per
la precisione, quella rosa con i pois neri – per tenere lontane le ciocche
bionde dagli occhi e, con espressione profondamente corrucciata, cercava di far
saltare le omelette in padella, mandando schizzi di uova per tutto il piano di
cottura. Era così concentrato da mantenere in tensione anche lei, estranea
spettatrice di quel tormento.
Considerando poi che ciò che Duff stava cercando di fare
andava cotto da un lato solo, stava decisamente sbagliando tattica.
L’occhio le cadde sul grembiule a scacchi che indossava:
era quello che usava Grace quando voleva aiutarla a impastare qualche torta, e
a lui stava decisamente piccolo; i lacci erano annodati nei passanti della
cintura e, se fosse stato verde anziché rosa, sarebbe potuto tranquillamente
passare per la foglia di fico di Adamo nell’Eden.
Improvvisamente un rivoletto di fumo grigiastro si alzò
dalla pentola, condito con qualche colorita imprecazione del musicista, che
estrasse un cucchiaio di legno dal taschino del grembiule – fortunatamente,
pensò Susan, perché si trovava davvero in una posizione spiacevole – e cercò di
rivoltare la sua opera senza agire come un consumato chef.
Tuttavia, un inquietante odore di bruciato si diffuse per
la cucina e Susan decise che era giunto il momento di intervenire. Le
dispiacque non essere corsa a prendere la videocamera per filmare il marito, ma
quello scempio doveva finire prima che desse fuoco a tutta Seattle.
«Duff!» lo richiamò all’ordine, facendolo sobbalzare per lo
spavento. Incredibilmente, il risultato fu il giusto movimento di polso che
portò l’omelette a ribaltarsi su se stessa, avviando l’irreversibile cammino
che l’avrebbe presto portata a essere una frittata.
«Dio, Sue, mi hai fatto prendere un colpo» si lagnò il
biondo, puntandole contro il mestolo con fare di sdegno. Lo ripose poi
immediatamente nella taschina, incassando il capo nelle spalle in seguito
all’occhiata di fuoco di sua moglie, che proprio non aveva gradito che avesse
macchiato di uova anche il pavimento.
Susan non rispose, limitandosi a squadrarlo con espressione
torva per qualche minuto: la fascetta rosa lanciava all’indietro i capelli
umidi di Duff, e uno dei pois neri era stranamente – ma non inspiegabilmente –
divenuto giallo; il mestolo non era affatto stato infilato nel taschino, ma
sotto, tra il grembiule e la cintura, con il risultato di impiastrare anche i
pantaloni.
Ci fu una sola cosa da fare, dopo quel disastro: scoppiare
a ridere.
«Che hai da sghignazzare?» le chiese mettendo il broncio, mostrando
la guancia su cui spiccava un elegante baffo color tuorlo. «Non sono mica una
donna io.»
«Nulla, guardavo il tuo mestolo sotto la foglia di fico.»
*
Salve. Torno nel mio amato fandom
nonostante avessi più o meno dichiarato che non l’avrei fatto, ma da un po’ ho
iniziato a scrivere e, siccome ieri era l’anniversario di Duff e Susan, ho
pensato che fosse il momento giusto anche per pubblicare.
Questa cosa è una raccolta di flashfic
sulla famiglia più bella del mondo: i McKagan, appunto. Conterà nove momenti,
di cui uno (l’ultimo) diviso in due, e ha come obiettivo quello di strappare un
sorriso e un po’ di tenerezza. Quindi niente angst a palate come faccio di
solito.
Ringrazio infinitamente GioTanner per il banner che vedete lassù.
Cliccando su di esso, vi si aprirà la sua pagina Facebook, a cui vi invito a
mettere mi piace perché se lo merita davvero.
Quindi… niente, spero di avere ancora
qualche seguace da queste parti, anche se giungo un po’ in punta di piedi
perché sono diventata timida in quella che una volta era la mia casa.
A presto!
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Capitolo 2 *** Il pannolino assassino ***
Il pannolino
assassino
Susan era appena rientrata dopo una giornata di shopping
sfiancante, con l’incubo di comprare abiti di tre taglie più grandi e sua madre
che non faceva altro che parlare del peso da non perdere subito dopo la
gravidanza, per evitare che la piccola Grace si nutrisse con del latte che lei
chiamava “dietetico”.
Come se non fosse stato abbastanza, fu accolta sulla porta
di casa da un pianto disperato e dovette correre in cucina per placare le urla
di sua figlia.
«Cosa ci fa il fasciatoio qui?»
«Volevo stare largo: nella cameretta continuavo a sbattere
la testa» le spiegò il biondo con un mugugno concentratissimo e poco
distinguibile, a causa del tubetto di crema che stringeva tra i denti. Stava
tentando, senza successo, di cambiare il pannolino a Grace.
«Credo che la testa tu l’abbia sbattuta da piccolo, razza
di…» sbottò Susan, fermandosi giusto in tempo.
«Ma Sue…» si lamentò mettendo il broncio, mentre posava il
tubetto aperto sul grembo della piccola per farla smettere di piangere.
Incredibilmente sembrò funzionare, così poté tornare alla sua occupazione con
un cruccio in meno.
«E quel bicchierino lì in mezzo alle gambe di Grace?»
chiese di nuovo la bionda, togliendolo con tono offeso e un’occhiataccia a
Duff.
«Volevo evitare che spruzzasse la pipì» le spiegò con
orgoglio, mostrando la sua trovata geniale come fa un pavone con le piume. Non
ebbe però lo stesso effetto, perché si beccò uno scappellotto ben assestato che
fece anche ridere sua figlia. Le sorrise di rimando, per poi venire spento
dall’ennesimo rimprovero di Susan.
«Duff, sono i maschi quelli che spruzzano
cose nei momenti meno opportuni.»
«Se ti riferisci al fatto che ti ho messa incinta, puoi
sfogare i tuoi chili di troppo sul mio sacco da boxe perché questa bambina è mille
volte più bella di te» sbottò offeso, rischiando una guerra nucleare per
quell’affermazione che avrebbe potuto mettere in crisi il non ancora celebrato
matrimonio.
Prima che lei potesse replicare, però, Grace decise di
schiacciare il tubetto di crema, inondando la faccia del papà e scoppiando a
ridere, contagiando tutti.
«Non avresti dovuto mandare via la tata» lo rimproverò poi
con il tono rassegnato di chi sta per ammettere di aver esagerato, dandogli poi
una spallata ben assestata per spostarlo dal fasciatoio. Aveva ancora la borsa
in spalla e ci mise il tempo cronometrato di tre secondi e mezzo per sistemare
il pannolino a Grace, sotto lo sguardo attonito e umiliato del suo fidanzato.
«Volevo solo fare il papà» si giustificò Duff con voce
avvilita.
Le sembrò che i suoi occhi si stessero inumidendo, così,
per evitare futuri sensi di colpa, gli prese le mani grandi e impacciate e le
guidò ad allacciare tutti gli adesivi del pannolino. Quando
ebbero finito, lo guardò di sottecchi per controllare il suo umore e si rese
conto di una cosa. Indossava ancora quella maledetta fascia rosa
con i pois neri e un sospetto la colse, improvviso e nefasto come la
scarlattina per Grace: aveva fatto fuggire la tata.
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Capitolo 3 *** Il gran premio del tosaerba ***
A smarties89,
che con il suo
“Scusa, Sue”
mi ha aperto un
mondo.
Il gran premio
del tosaerba
Il sole di maggio splendeva su Seattle, rendendo tutto più
luminoso in casa McKagan… sì, anche il broncio che Susan cercava faticosamente
di mantenere dopo che suo marito aveva bruciato le salsicce e anche la parte
sinistra del barbecue. Se non altro, si era fatto perdonare offrendosi di
giocare con Grace per lasciarle prendere il sole in vista di un servizio
fotografico.
In quella particolare giornata, il gioco consisteva in una
spericolata corsa sul tosaerba. Le urla della piccola si diffondevano nell’aria
e, mentre Mae dormiva ignara nella sua cameretta, padre e figlia maggiore si
davano alla pazza gioia tagliando il prato come nemmeno un giardiniere ubriaco
avrebbe mai fatto.
Susan aprì gli occhi e vide suo marito con la sua solita
fascia rosa a pois neri, che chissà perché riusciva sempre a scovare anche nei
nascondigli più reconditi, e un paio di occhiali da sole a forma di cuore, che
appartenevano invece a Grace. Inutile specificare come gli andassero stretti.
Già si immaginava i pianti di sua figlia perché il papà le aveva rotto un
gioco, ma decise di lasciar perdere perché non era un problema suo: la piccola
stava crescendo, doveva imparare a dividere con lei la croce dei disastri
dell’uomo di casa.
Duff volse il capo verso di lei, scoprendola a osservarli
con occhio critico, e le sorrise, mandandole un bacio volante con la faccia
tosta di chi sa che stavolta non ci sarebbe potuto essere niente a scatenare le
sue urla da banshee. Dopotutto, aveva anche messo il caschetto e le ginocchiere
a Grace, come se dovesse andare a pattinare, e non ci sarebbero stati disastri…
forse.
Si lanciò quindi in una curva che terminò fingendo una
sgommata, tra le urla di approvazione della bambina che si lanciò poi al collo
del papà.
«Abbiamo vinto!» urlava entusiasta. «Mamma, siamo i
migliori!»
«La coppia McKagan taglia il traguardo! Record mondiale!
Insuperabili! Battimi un cinque, Grace… no, non così, altrimenti rischi di
cadere. Grandissima, sei tutta il tuo papà!»
Continuarono a volteggiare per il giardino, esultando come
veri campioni, fino a che un’ombra minacciosa non oscurò la loro gioia e i
festeggiamenti per la vittoria.
«No, Michael» disse la cupa e inquietante voce di Susan,
che li fissava con una mano sul fianco e l’altra puntata verso di loro insieme
allo spruzzino del latte solare. «La coppia McKagan ha appena tagliato i fiori
che mi ha regalato mia madre per il compleanno… gli unici sopravvissuti
alle vostre maratone sul tosaerba di due settimane fa.»
«Ma… mamma!» esclamò la piccola Grace, scuotendo i codini
con disappunto con il risultato di far piovere decine di fili d’erba dalle sue
spalle esili. «Non è una maratona, è un gran premio!»
Duff annuì con energia, fiero che sua figlia avesse
ereditato anche la sua passione per ogni tipo di sport e non solo per la moda.
Fece per replicare, ma, quando Susan sparò un fiotto di crema abbronzante
dritta nella sua bocca, dovette sputacchiare rapidamente e bofonchiare come al
solito: «Scusa, Sue.»
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Capitolo 4 *** La maglietta del delitto ***
La maglietta
del delitto
«McKagan!»
La voce di Susan si diffuse per la casa, facendo tremare i
lampadari e le gambe di Duff, già terrorizzato senza nemmeno aver visto
l’espressione della moglie: quando lo chiamava per cognome, o con il suo nome
di battesimo, c’erano sempre guai in vista.
«Piano, Sue, ho appena fatto addormentare Mae» le rispose
conciliante, chiudendosi alle spalle la porta della cameretta. Grace era a fare
i compiti da un’amica, per cui ci era voluto un po’ per convincere la piccina
ad andare a coricarsi.
«Cosa vuol dire appena?» gli chiese Susan già
sul piede di guerra, mentre stringeva tra le mani uno straccio nero che agitava
con il suo concitato gesticolare. «È da un’ora che ti ho detto di metterla a
dormire.»
«Beh, non sono mica bravo come te.»
Forse adularla non sarebbe servito a niente, ma Duff aveva
imparato che in amore e in guerra tutto era lecito, e, mentre cercava di capire
in quale delle due circostanze si trovassero in quel momento, sfruttava ogni
possibilità per calmare le acque. C’era da dire che non funzionava mai.
«No, infatti» gli disse imbufalita, facendolo rimanere così
di sasso che si ritrovò a piegare in giù gli angoli della bocca, con la stessa
espressione di Mae quando si vedeva negare le caramelle. «Altrimenti avresti
già buttato via questa maglietta!»
Sventolò in aria lo straccio che teneva in mano, prima di
stendere la stoffa davanti all’espressione basita di Duff e mostrargli la
scritta “SLUT” che campeggiava proprio sul petto, a caratteri cubitali
fosforescenti.
«Ma che problema c’è?» le chiese lentamente, temendo di
innescare quella solita miccia che metteva in pericolo la vita di tutti. «È un
ricordo.»
Vedendola così furibonda e pronta a sputare fuoco, realizzò
perché l’assicurazione sugli incendi fosse stata la prima cosa che Susan aveva
richiesto quando avevano comprato casa qualche anno prima.
«Michael, Grace sta imparando a leggere!» gli fece presente
puntandogli un dito contro il petto.
«Non andrà a esercitarsi con le scritte sui vestiti, no?»
si lagnò supplicandola, sbattendo gli occhi ripetutamente nel vano tentativo di
addolcire la sua amabile consorte.
«Se non la butti, ti faccio indossare questo affare e ti
spedisco sui marciapiedi a fare questo lavoro.»
«Ma Sue…»
«E niente più arrosto di coniglio!»
«No!» la supplicò buttandosi letteralmente ai suoi piedi e
abbracciandole le gambe.
Proprio in quel momento la porta di casa si spalancò, ed
entrò Grace con la cartella in spalla e un’adorabile fessura tra i denti.
«Papà, che ci fai lì per terra? Non dirmi che hai fatto
ancora arrabbiare la mamma!» esclamò con la sua parlantina rapida.
Dall’ingresso lasciato aperto, s’intravedeva la sua amica salutarla attraverso
il finestrino dell’auto, con la stessa finestrella nel sorriso «Slo… slu…t? Che
vuol dire?»
A quella domanda innocente, gli occhi di Susan si
spalancarono e Duff si accartocciò su se stesso ai piedi della moglie.
«…scusa, Sue.»
«Per una settimana in bianco, McKagan» berciò, per poi
avvicinarsi all’orecchio e ucciderlo definitivamente con un bisbiglio velenoso.
«E non solo il cibo.»
*
La maglietta, in caso non l’abbiate
presente, è questa. Semplice ma efficace!
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Capitolo 5 *** Il giorno più importante ***
Il giorno più
importante
Duff era molto preoccupato: sua moglie gli
lanciava sguardi al vetriolo da ore. Ripercorrendo la giornata precedente – con
Grace e Mae al mare coi nonni – decise di non aver fatto nulla di male; anzi
era andato tutto bene, soprattutto tra le lenzuola, dato che vi avevano passato
il pomeriggio. Lui era convinto di essere stato fantastico, e
sorrise sornione a quel pensiero.
«Che hai da ridere?» gli chiese Susan con fare velenoso,
mentre si limava le unghie con precisione e anche un po’ di cattiveria. Quella
lama affilata sembrava la katana del suo maestro e ammise tra sé di esserne
piuttosto intimorito.
Si allontanò dalla stanza con una scusa e si rinchiuse nel
piccolo studio di registrazione nel seminterrato. Accordò il basso e alzò gli
amplificatori a un volume decente perché Susan non sentisse, dopodiché inserì
un demo a caso e scivolò all’esterno per telefonare.
«Duff, amico!» gli disse gioviale la voce di Marc
Canter.
«Ehi Marc!» rispose allegramente, per poi rabbuiarsi. «Volevo
chiamare Slash, ma non credo che lui saprebbe aiutarmi.»
«Dimmi tutto.»
«Susan mi odia e volevo…»
«Non dirmi che ti sei dimenticato il regalo per il
vostro anniversario!»
Duff sbiancò, sentendosi mancare la terra da sotto i piedi. Porca
di quella…
«Sono un idiota» asserì con una nota di disperazione nella
voce.
«Ti sei dimenticato l’anniversario?»
«…»
«Se avessi saputo della tua sbadataggine, te l’avrei
ricordato.»
«Mi chiederà il divorzio. Ma com’è che te lo ricordi?»
chiese, un po’ geloso per la genialità del suo amico. Perché lui non ricordava
nemmeno dove metteva la chitarra prima di andare a dormire?
«È anche il compleanno di mia moglie, hai presente?»
gli disse Marc con una risata. «Ma suppongo di no, dato che non ricordi
nemmeno il tuo anniversario di matrimonio.»
«Scusa, amico, grazie per avermi salvato il culo. Fa’ gli
auguri alla tua donna e dille che ho chiamato per questo, non perché sono un
idiota.»
Marc rise ancora e riattaccò. Duff rimase a fissare il
cordless come se fosse stato un mostro e un’idea gli sfrecciò per la mente,
tanto veloce quanto pericolosa. Prese delle forbici e mozzò tutte le rose che
contornavano la casa, disegnando con i petali un cuore proprio al centro dello
studio. Frugò poi nella lista dei demo e ne raccattò uno inizialmente scritto
per Grace. Dopo aver riletto il testo ed essersi assicurato che potesse andare
bene anche per Susan, la chiamò a gran voce e si nascose dietro la porta,
mentre con il telecomando faceva partire la musica.
«Che vuoi…?» la voce della donna s’interruppe, notando il
cuoricino sgangherato ai suoi piedi mentre la voce del marito si diffondeva
nell’aria piena di amore.
Proprio in quel momento Duff sbucò dalla porta e si fece
abbracciare e baciare con tale impeto da finire in giardino. Fu un attimo per
Susan rendersi conto che tutte le rose erano state decapitate.
«Tu, farabutto!» tuonò rivolta al marito,
riempiendogli la faccia di pizzicotti. «Ti sei dimenticato il nostro
anniversario e hai anche distrutto le aiuole!»
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Capitolo 6 *** L'ardua scelta ***
L’ardua scelta
«Riunione della famiglia McKagan!» dichiarò Duff,
sbatacchiando una campanella dal disegno smangiucchiato – fortunatamente,
perché quando Slash gliel’aveva regalata campeggiava in rosso, su di essa, la
scritta “Ring to sex”. Se Susan l’avesse saputo, probabilmente avrebbe fatto la
stessa fine di quella maglietta con la scritta arancione.
Si ritrovò davanti le sue donne, una più seccata
dell’altra: non avevano mai apprezzato quel suo modo di richiamare
l’attenzione. E cosa poteva essere la sua bellissima presenza
a confronto con smalti e fiocchetti? Niente, evidentemente.
«Credo, ragazze...» esordì con tono squillante, ignorando
il decollo del sopracciglio di Susan. «Che sia giunta l’ora di ampliare la
famiglia.»
Anche l’altro sopracciglio di sua moglie si librò in volo,
ma stavolta più per incredulità che per diffidenza. Andava già meglio.
«Non sono incinta» precisò poi perplessa.
«Meno male, perché noi non dividiamo i nostri giochi»
precisarono le figlie.
«Neanche con un adorabile cagnolino?» azzardò, intimorito
dalla risposta. «Siamo quasi a Natale!»
«Un cane!» esclamarono le piccole, mettendosi a saltellare
per il salotto.
Duff estrasse da dietro la schiena un libro che aveva
comprato quella mattina dopo essere tornato dal jogging, su cui campeggiavano
vari segnalibri per altrettante razze di cani – come se avesse avuto voce in
capitolo.
Passarono minuti – ore – a discutere su quale potesse
piacere a tutti e quattro, ma sembrava che l’opinione più importante fosse solo
quella femminile. Allora si decise a proporre qualcosa a sua volta.
«Golden Retriever?»
«No, papà, non voglio un cavallo!»
«Ma che cavallo?» si sconvolse. «Labrador?»
«Duff, basta Labrador.»
«Terranova?»
«Michael.»
Ecco il segnale: il suo nome di battesimo. Duff decise di
incassare il capo nelle spalle e di far appropriare le sue figlie del libro,
che in pochi minuti ebbe già una pagina penzolante.
«Ecco, mamma, questo!»
Ah, era diventata Susan la referente del cane? E meno male
che l’idea era stata sua.
«Cos’è, Grace? Fammi vedere! Mamma, come si chiama?»
«Cavalier King Charles Spaniel, tesoro.»
«No!»
«Duff?»
«Papà?»
Spacciato.
«Almeno che sia maschio» si arrese piagnucolando,
maledicendosi per quell’idea del cane. Le sue ragazze volevano prendere un topo a
pelo lungo: un mocho.
Si ritrovò puntati contro tre sguardi allungati, diabolici,
pieni di minacce inespresse. Sì, anche quelli della piccola Mae. Stava
diventando anche lei tutta sua madre. Non avrebbe mai avuto pace.
«È che mi sento in minoranza» si giustificò quindi con aria
un po’ imbarazzata, come se avere il supporto morale di un cane fosse una
vergogna. «Voi siete in tre e io sono da solo.»
«Ma non ti vergogni, papà? Vuoi fare squadra con un cane?»
chiese Grace con la sua lingua biforcuta.
Appunto. Tutta
sua madre.
«Voi parlate con le bambole!» si risentì, lanciando una
muta richiesta di aiuto a Susan. Inutilmente, peraltro. E dire che, dopo anni,
avrebbe dovuto sapere che ledi non gli avrebbe mai teso la mano.
«E maschio sia, Duff» sospirò Susan, per poi spegnere il
suo principio di esultanza con un piccolo sorrisetto sagace. «Ma ricorda che
sarete sempre e comunque in minoranza.»
Sembrava proprio una minaccia.
*
Chiedo scusa per il ritardo (e per non
aver ancora risposto alle recensioni), ma il concerto di Slash ha creato un
vortice di immense pippe mentali in me e non mi sono ancora ristabilita.
Mando un abbraccio alla mia amata
smarties89, che di persona è ancora più coccolosa, e tutti voi che ancora siete
qui appresso a questa raccolta. A presto!
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Capitolo 7 *** Il servizio fotografico ***
Il servizio
fotografico
Per essere novembre, il tempo non era affatto male, così
Susan aveva deciso di portare Grace e Mae a fare una passeggiata. Duff era
rimasto a casa con Buckley e le sue occhiatine indiscrete. Non aveva mai amato
i cani di piccola taglia e quel coso sembrava fissarlo tutto il tempo, come se
si aspettasse qualcosa. Ogni tanto lo accarezzava, ma in quel momento non aveva
tempo né voglia, preso com’era dal postino maledetto che aveva portato come al
solito cattive notizie.
Nello specifico, era arrivato un pacco per sua moglie da
New York e lui, curioso come un gatto, non aveva saputo resistere e lo aveva
aperto: Susan si stagliava in tutta la sua infinita e svestita bellezza su uno
sfondo color salmone. Le sue tette grandi catalizzavano decisamente
l’attenzione.
Inutile specificare che la cosa non gli piaceva, non gli
piaceva affatto.
«Duff» lo chiamò proprio Susan, tornando a casa in quel
momento. «Che ci fai lì seduto sul pavimento?»
Duff alzò lo sguardo truce sulla moglie, passando in
rassegna le lunghe gambe fasciate in un paio di collant che in quel momento gli
sembravano fin troppo trasparenti.
«Non dovresti stare più coperta tu? È novembre, e non siamo
a Los Angeles!» berciò offeso, mentre da lontano gli giungeva la voce delle sue
figlie che parlavano con Buckley.
«Ma si può sapere che ti prende?» sbuffò Susan, cominciando
a perdere la pazienza.
«Queste!» si lamentò a gran voce, sventolando i provini del
servizio fotografico all’altezza dell’ombelico di sua moglie. Per quanto avesse
le braccia lunghe, era sempre seduto per terra e Susan aveva fatto colpo su di
lui anche grazie all’altezza.
«Oh, è arrivato il mio pacco?» s’interessò lei, per poi
farsi truce in un battito di ciglia. «Perché ti fai i fatti miei, McKagan? Hai
paura che abbia un altro?»
«Non voglio che i fotografi ti guardino le tette!»
«Ma se mi sfoggi sui red carpet come se fossi un
gioiellino» gli rinfacciò acida, tralasciando il fatto che il lavoro di una
modella fosse proprio quello di essere sfoggiata come un gioiellino.
«Perché lo sei!» s’infervorò, arrossendo poi come un
adolescente sotto lo sguardo tagliente della bionda, e continuò in un
borbottio. «Però sei il mio, mica di tutti.»
«Il fotografo era una donna» gli rispose freddamente,
voltandogli le spalle per nascondere un sorriso compiaciuto: aveva sposato un
idiota, ma era un idiota adorabile.
«Non mi interessa!»
Duff incrociò le braccia, mentre Buckley tornava in cucina
e abbaiava in un apparente sostegno morale. Il biondo annuì con soddisfazione,
salvo inarcare un sopracciglio quando il batuffolo peloso si mise ad annusare
una delle foto sparse sul pavimento.
«Anche tu, maledetto coso!» esclamò infuriato, mentre Susan
sospirava e scuoteva il capo con infinita pazienza. «Smettila di guardare le
tette di mia moglie!»
Buckley fuggì in salotto e a Duff giunse solo l’eco delle
lamentele di Grace e Mae, che non capivano perché il loro papà si lamentasse
sempre.
Da quel che aveva capito, non l’aveva combinata giusta
nemmeno quella volta.
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Capitolo 8 *** L'amanuense ***
L’amanuense
Occhiali sul naso – storto – e penna alla mano, Duff stava
scartabellando come al solito per i suoi esami dell’università. Aveva scoperto
quanto gli piacesse studiare e le sue figlie spesso lo guardavano terrorizzate
dall’idea che un giorno potesse capitare anche a loro di trovarsi imprigionate
sui libri. Grace era fortunata, perché alle elementari i compiti duravano fin
troppo poco per una bambina intelligente come lei, ma Mae aveva quel disgusto
negli occhi che ricordava a Duff quello di sua moglie quando lo beccava a fare
certi errori di punteggiatura.
«Susan?» chiamò a tal proposito, mordicchiando il tappo
della biro con fare pensieroso.
«Dimmi, tesoro.»
Fantastico, lo aveva
chiamato “tesoro”. Dedusse che il suo buonumore l’avrebbe portata a essere più
gentile nei confronti dell’ultimo saggio che stava tentando – non senza
difficoltà lessicali – di scrivere, e che non lo avrebbe preso a pugni a ogni
minima svista.
Dopotutto, aveva piantato la scuola abbastanza presto da
avere il diritto di essere ignorante. E per scrivere canzoni non serviva una
laurea: lui sapeva leggere la propria lingua.
«Mi aiuteresti con questa fr…?»
«Michael» ruggì sua moglie con disgusto, puntando il
foglio con un dito.
«Ma che cosa ho fatto?» si lagnò in risposta, infossando il
capo nelle spalle e mettendo il broncio.
«Fammi il piacere, McKagan, di ricordarmi che non ho
sposato una gallina» sbraitò Susan.
Gli sfilò gli occhiali dal naso, indossandoli, e fece una
smorfia a causa dell’effetto delle lenti. Sembrava volesse assicurarsi che
funzionassero. Li guardò come se potessero capirla, e non era difficile leggere
la sua espressione in quel momento: diceva “perché diavolo non fate vedere a
mio marito che scrive con i piedi?”
«Al massimo sono un gallo» replicò sornione, beccandosi uno
scappellotto.
«Io non lo leggo questo affare» chiarì la bionda, girando
sui tacchi per tornare da dove era venuta. «Non ho nessuna intenzione di
imparare la tua nuova frontiera del geroglifico.»
Lo lasciò lì, bofonchiando qualcosa a proposito di galli e
di tacchini, o forse ancora di capponi. Duff sperò di aver capito male, anche
perché se fosse stato un cappone avrebbe dovuto cominciare a chiedersi da dove
venissero le sue figlie – che apparvero in soggiorno proprio in quel momento.
«Che c’è da urlare, papà?» chiese Mae ingenuamente,
mostrando se stessa e il baffo di pennarello viola che le sfregiava la guancia
paffuta. Dietro di lei, Grace aveva un’espressione un po’ scocciata, che
ricordava a Duff la stessa di Susan pochi istanti prima.
«La mamma non è contenta dei miei compiti» spiegò con fare
imbarazzato, grattandosi la nuca mentre la figlia minore gli si avvicinava.
Prese il foglio su cui stava scrivendo il saggio e se lo
rigirò tra le mani, tentando di capirci qualcosa con i suoi rudimenti
dell’inglese: da qualche giorno aveva insistito affinché Grace le insegnasse a
leggere e scrivere prima della scuola.
«Anch’io sto diventando brava, papà!» disse entusiasta, per
poi voltarsi verso la maggiore che aveva già il sopracciglio inarcato, sputata
a Susan. «Hai visto, Grace? Anche papà vuole imparare a scrivere!»
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Capitolo 9 *** La storia della buonanotte (prima parte) ***
La storia della
buonanotte
(prima parte)
«Papà, ci racconti una storia?»
Duff stava per uscire dalla cameretta delle figlie quando
la piccola Mae lo richiamò con quella richiesta. Grace faceva finta di niente,
atteggiandosi a bambina già grande, ma guardava il padre di sottecchi, come se
aspettasse qualcosa.
«Vi ho già raccontato tutte quelle che conosco» rispose il
biondo con tono vago, puntando l’orologio perché a breve sarebbe iniziato un
incontro dei Seattle Seahawks che non voleva decisamente perdersi. Era una
questione di scaramanzia: non guardare una partita portava sempre alla
sconfitta.
«Puoi inventarla, lo fai sempre!» propose Mae speranzosa,
guardando verso la sorella maggiore in attesa di un sostegno.
«Giusto, tu inventi anche le canzoni» annuì anche Grace,
mostrando quel sorrisetto vittorioso identico a quello di sua madre, che
racchiudeva l’essenza della maledizione di Duff. E meno male che gli era
sembrata poco interessata.
Si vide costretto a tornare sui suoi passi. Si sedette sul
letto della figlia maggiore, dove poi li raggiunse anche Mae, e si grattò il
mento in attesa dell’ispirazione.
Beh, effettivamente la sua musa era sempre
stata la stessa, da che la conosceva. Nella buona e nella cattiva sorte.
«C’era una volta una principessa altissima, con i capelli
biondi e le tette grandi…»
«Papà!» si lamentò Grace roteando gli occhi, e al biondo
sembrò di vedere sua moglie. Identica. Gli fece un po’ paura.
«Non preoccuparti, giuro che non la ripeto» le rispose sua
sorella, e Duff le batté il cinque prima di continuare.
«La principessa viveva in un regno bellissimo e si era
innamorata del menestrello…»
«Siete tu e la mamma!» risero le bambine, ma lui si limitò
a un sorriso enigmatico.
«Però il menestrello era un po’ goffo, e allora la principessa
lo trattava sempre male perché non era un maestro delle buone maniere come lei»
disse concitato, ormai nel pieno della storia anche più delle sue figlie. «Un
giorno, il menestrello accompagnò la sua musica con un rutto, pensando che la
principessa potesse rimanerne impressionata, ma lei si arrabbiò moltissimo
senza motivo, pensando che quella fosse un’offesa, e cominciò a sputare fuoco.»
«Davvero?» chiese Mae, mettendosi le mani sulla bocca.
Grace era stranamente silenziosa, con lo sguardo perso nel vuoto oltre la
spalla di Duff. Fu tentato di guardarsi indietro per controllare, ma era
talmente infervorato che non se ne curò. E non fu un bene.
«Sì, e lo prese per un orecchio… ahia!»
«Così, amore?» chiese una voce velenosa con
tono falsamente ingenuo. Un’ombra si stagliò minacciosa contro il muro,
spaventando Duff che si preparò a eventuali vampate di fiamme roventi. Non se
l’era mica inventata quella cosa della principessa sputa fuoco: la sua era
tutta esperienza!
«Sì, tesoro» annuì appena con un mugugno sofferente. Si
voltò, alzando il capo, e sorrise a Susan con tutto lo charme che riuscì a
raccattare, con un orecchio paonazzo e gli occhi pieni di terrore.
La sua espressione battagliera gli fece intendere che da
quel momento la trama sarebbe cambiata drasticamente. Con molta probabilità, il
menestrello sarebbe finito nel pozzo.
Continua…
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Capitolo 10 *** La storia della buonanotte (seconda parte) ***
La storia della
buonanotte
(seconda parte)
«Volevo sentire anch’io la tua storia. Che ne dici di
continuare, dato che gli Hawks non hanno ancora iniziato?» gli chiese Susan,
sbattendo le lunghe ciglia ricurve. Nessuno, tra i suoi amici, aveva mai creduto
alla faccenda dell’orecchio paonazzo e delle minacce di Susan, e gli sarebbe
proprio piaciuto mettere Mike McCready al suo posto in quel momento, invece di
farsi seviziare ogni volta dalle donne della sua famiglia.
«Ehm…» Duff balbettò incerto, prima di decidere che quella
faccenda andava conclusa prima di rimanere mutilato. Tutta la sua ispirazione
svanì nel nulla, ma non ci sarebbe stato nessuno “Scusa, Sue” quella volta. Eh,
no! Giù le mani dalla creatività!
«Ti ascolto, amore» gli disse sedendosi al suo fianco,
mentre Grace e Mae sgattaiolavano sull’altro lettino in un tripudio di risate
divertite, o forse, molto più probabilmente, timorose di ritrovarsi nel mezzo
di una guerra nucleare. Duff ci avrebbe scommesso dieci sigari: quelle due
bisbetiche bionde erano dalla parte della loro madre, e quell’infame di Buckley
non lo avrebbe mai difeso dalle tre arpie, grazie a tutti i giocattoli che gli
compravano ogni volta. Mai una volta che comprassero a lui una chitarra nuova!
Era geloso del suo cane, roba da non crederci.
«Poi la principessa guardò negli occhi il menestrello»
riprese allora speranzoso, e fu il suo turno di sbattere le ciglia nei
confronti di Susan. «Decise che lo avrebbe perdonato per tutti i rutti e
vissero per sempre felici e contenti.»
«Ma proprio tutti?» incalzò Grace, strappando un piccolo
sogghigno a Susan. Vipere.
«Sì, anche il principe terrorizzato dalla principessa»
insistette, prendendosi uno scappellotto.
«E anche la principessa sfiancata dal principe» ribatté sua
moglie, schioccandogli un casto bacio sul naso.
Duff le lanciò uno sguardo risentito, facendo poi saettare
gli occhi a Grace e Mae, che non smettevano di ridere. E dove diavolo era quel
pigrone di un cane quando aveva bisogno di lui?
«La stavo raccontando io» precisò con una smorfia offesa,
strappando a Susan un’espressione di vago compatimento che gli fece
immediatamente abbassare le ali e cambiare tono, abbandonando la polemica. «Infatti
era un menestrello, non c’era nessun principe.»
«Avrei dovuto saperlo» annuì distratta. «Quella cosa dei
rutti non è mai passata inosservata.»
«E pensare che non mi hai conosciuto ai tempi della birra…»
«Chi parlava di te?» gli rispose con un’espressione ingenua
e stucchevole dipinta sul viso. «Io credevo che stessi raccontando la storia di
un’adorabile principessa…»
«Infatti, infatti.»
Grace, che inizialmente si era atteggiata a bambina troppo
grande per le storie della buonanotte, batté le mani con entusiasmo e piantò un
paio di corna sotto il naso di Duff, mentre anche Mae li raggiungeva sul
lettino.
«Cosa vuol dire che il menestrello ha le corna?» chiese
terrorizzato, lanciando a Susan uno sguardo a metà tra il ferito e
l’arrabbiato, ricevendo in cambio nient’altro che un muto desiderio di
strattonarlo per entrambe le orecchie.
Sua moglie e la primogenita si scambiarono un’occhiata di
rassegnato sostegno, poi la piccola spiegò il gesto.
«No, papà. Rock n’ roll!»
*
Ebbene, sono qui. È passato un anno da
quando ho iniziato a pubblicare questa storia, e come un po’ mi aspettavo –
anche se speravo di no – è passata anche la voglia di pubblicarla. Dopotutto,
accade a chi scrive principalmente per se stesso, no? Non sempre siamo
dell’umore adatto per condividere, anche se la storia è pronta da un anno o
più.
Però, a un certo punto, anche chi segue si
merita di mettere un punto alla cosa, per cui sono arrivata. Queste ultime due
flash sono il delirio: spesso non si capisce niente, ma devo dire che è tutto
abbastanza voluto. Volevo creare l’effetto uragano-Susan con il bonus
Grace-Mae, perché sono convinta che tutto ciò si possa riassumere in un
terrorismo psicologico da parte di queste tre. Spero si capisca, ecco.
Dunque. Stavolta, sebbene a malincuore (vista
la decina di trame che ho nascoste nella chiavetta), penso di poter decretare
la fine di qualsiasi mia cosa a capitoli in questi lidi.
Però, come già ho detto in un altro
“addio” che poi non è stato un addio, è stato davvero bello frequentare questo
posto ai suoi tempi d’oro, che adesso non ci sono più, ma ci sono stati e
saranno esattamente quelli che ricorderò con più affetto.
Mi raccomando, scrivete in italiano e non
siate OOC. Il resto, poi, è di secondaria importanza. Buona continuazione, e
ovviamente grazie di tutto!
Chara
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