Pistole come sguardi e cuori come proiettili di Itsakira (/viewuser.php?uid=299102)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1
Fissai l’allarme dell’istituto sogghignando. Camminai nell’area circostante per un pezzo, poi mi girai, guardai la telecamera fissa nell’angolo del soffitto e feci un gran sorriso, agitando la mano in segno di saluto. Considerando che questo non bastò, rivolsi all’oggetto il mio dito medio. Non successe nulla. Mi ero già comportata in questo modo, ed ero sempre finita nei guai.
Lux si avvicinò sgranando gli occhi. << Allora è vero! >> commentò. << C’è una falla nel sistema di controllo: una delle telecamere è fuori uso. >>
Sul mio viso splendeva un sorriso di sfida, e ben presto anche quello della mia amica s’illuminò di una espressione complice. Con un cenno, già lei sapeva cosa fare.
Si allontanò di qualche metro e si mise a fare la guardia ai corridoi, finchè non furono deserti. Non ci volle molto, bastarono meno di tre minuti. Girò la testa e appena mi diede il via libera, mi precipitai verso la teca di vetro incastonata nel muro. Sferrai contro di essa un pugno più forte del necessario e il vetro si sfracellò in mille pezzi; poi con scatto fulmineo azionai il pulsante d’allarme mentre Lux teneva un accendino acceso vicino ai sensori del fumo e del calore. Raccolsi i pezzi di vetro sporchi del sangue delle mie nocche e corremmo verro il corridoio opposto, trattenendo a stento le risate. In un istante, l’edificio piombò nel caos: le persone si riversarono nei corridoi, urlando, e dal soffitto cominciò a cadere una pioggerellina fitta, segno degli irrigatori volti a spegnere eventuali incendi. Guardavo la folla contorcersi senza sapere cosa fare. E’ assurdo come non vi era un minimo di organizzazione in quel tipo di eventi: tutti erano tranquilli perché i controlli erano fitti e le regole severe e un incendio sarebbe stato spento in massimo mezz’ora, se ci fosse davvero il fuoco, pensai. I responsabili si precipitarono verso l’allarme e a cercare la famosa fiamma. Per poco non mi scappò la ridarella, pensando a quanto avrebbero cercato inutilmente.
Era da così tanto tempo che volevo farlo.
Saltammo fuori dalla finestra e corremmo via verso l’uscita, fradici ma felici. I capelli biondi di Lux, acconciati in una coda, ondeggiavano nell’aria; i miei, invece, scuri e mossi – o almeno così li definivo, perché di fatto non avevano una vera e propria forma – mi si appiccicavano al collo e alla maglietta e la bagnavano ancora di più.
Il cancello, verde e spesso, era vicino; toccai le sbarre, appoggiai un piede, mi alzai e mi preparai a scalarlo per scavalcare quando un urlo ci fece sobbalzare.
<< Miranda Scarlett e Lux Scarlett McClair, nel mio ufficio! >> gridò la preside Patricia Natalee, e due uomini della sicurezza ciascuno ci costrinsero a scendere dal cancello. Fissavo la Natalee e mi veniva da ridere. Sembrava avesse fatto un tuffo in piscina.
Ci aveva chiamato con i nostri nomi antenati, perciò era sicuramente molto, molto arrabbiata. Tutti i membri della famiglia prendono questo nome dalla madre accanto al cognome, preso dal padre. Indica il nostro antenato comune più importante. E’ come se fosse il nome di una dinastia. Onestamente, non ne avevo mai capito veramente la funzione.
Finimmo subito in quella stanza piena di angoli e tutta argentata. Persino i libri avevano la copertina grigia. Amavo il design moderno, ma non quando lo si esagerava.
Patricia si sedette sulla sedia in ferro e noi facemmo altrettanto.
<< Voi due cugine Scarlett avete un sangue che non va bene, mie care! >> cominciò.
Ahia, attacca col sangue. Questa è pesante. Voglio un avvocato.
<< Non vi è bastata la punizione per aver scarabocchiato le pareti della mensa? Volevate combinarla più grossa? >>
Lux mi guardò, soffocava un sorriso. Immagino che anch’io avessi quell’espressione sulla faccia, perché la Natalee diventò paonazza, e pensai che probabilmente le sembrava che la stessimo prendendo in giro. E non aveva tutti i torti.
Dopo un nostro imbarazzante silenzio, Patricia parlò.
<< Questo è l’ultimo avvertimento, poi vi denuncerò allo stato. Pomeriggio verrete a pulire l’intera scuola. E se non lo farete, potrete dire addio alla vostra insignificante carriera scolastica. >> sentenziò, poi si alzò e abbandonò la stanza. La imitammo, facendole il verso.
La denuncia allo stato era la peggior cosa che potesse accaderci. Tutto, a Rubin, era controllato in maniera ossessiva, in particolare le nostre menti. Ogni due mesi, a partire dalla nascita di ognuno di noi cittadini, venivamo sottoposti obbligatoriamente a un analisi approfondita di tutto ciò che eravamo attraverso degli immensi macchinari e dei laser colorati che ci entravano negli occhi, accecandoci per qualche minuto. Se la macchina verificava anche un solo segno di squilibrio mentale, una piccolissima voglia di trasgressione o ribellione o rabbia o perversione, si veniva automaticamente arrestati e rinchiusi in prigione. In alcuni casi, se questi segni - le cosiddette "macchie negli occhi" - erano particolarmente pronunciati, il condannato doveva scontare la pena di morte. In questo modo, a Rubin non esisteva nessuna forma di pazzia o criminalità. L’unica preoccupazione era la possibilità che spiacevoli situazioni del passato come terrorismo, mafia e qualsiasi piccola illegalità potevano ripetersi. O almeno quello che lo stato definisce come ‘ingiusto’.
Io, per le macchine di quell'analisi, sarei stata la perfetta mente criminale. Sarei stata condannata a morte all’istante, perché dentro di me avevo il desiderio di fottere il sistema e fare a modo mio, di creare il caos e ribellarmi alla normalità. Sarei stata arrestata subito, se solo i laser avessero trovato qualcosa nel mio iride. Invece risultavo normale, a ogni seduta.
E io, uscita da lì, mi sentivo invincibile. Perché io non ero affatto ordinaria. E li avrei fottuti tutti, prima o poi.
A Lux avevano trovato due segni di squilibrio lievi, ma analizzandoli meglio sono risultate piccole lacune in fondo al suo ragionamento, come quelle minuscole macchie negli occhi. Non era criminale, solo meno furba della sottoscritta.
D’altra parte, però, ogni analisi per me era un rischio. E se mi avessero scoperta?
Sì, mi aspettava una lunga giornata.
Dopo l’ultima campanella io e la mia amica restammo nell’istituto, andammo a prendere stracci, scope e secchi ed entrammo nella prima aula del primo corridoio. Dicevano che questo tipo di punizioni esistevano già da moltissimi anni, quando la tecnologia non era avanzata come adesso. In effetti, pulire tutta la scuola è sempre una scocciatura.
Arrivate alla seconda aula tra il morso di un panino e un altro per appagare la fame, incontrammo un ragazzo, forse di un anno più piccolo, pulire tutto solo. Lux s’avvicinò.
<< Ehi, ciao >> lo salutò Lux. << Come ti chiami? >>
Il ragazzo alzò lo sguardo: era alto quanto lei, capelli castano scuro e labbra molto sottili. << Cody >> rispose.
<< Io Lux. Che hai combinato per finire in punizione? >>
Cody fece spallucce con aria preoccupata. << Ho risposto male ad un professore. Vogliono denunciarmi. >>
Lo fissai. << Non lo faranno, tranquillo. Hanno minacciato anche noi parecchie volte. >> gli dissi.
Cody riprese a pulire il pavimento, mentre parlava. << Non lo so, ho paura che possano farlo. Ultimamente ci sono sparizioni misteriose in paese e i controlli si stanno intensificando, così come i sospetti. Arriverà il momento in cui diventeranno ossessionati dalle macchie negli occhi. >>
Io e Lux non osavamo guardarci. Mi si era gelato il sangue. Per quanto mi sarebbe piaciuto dare un’occhiata alle prigioni di Rubin e organizzare una bella festa con i detenuti, non volevo essere una di loro. Significava non poter uscire da una piccolissima cella a vita. No, decisamente dovevo comportarmi bene. E avevo iniziato male. Avevamo. Io e mia cugina.
Lux ed io afferrammo tutti gli strumenti e ricominciammo a pulire in silenzio, meticolosamente. Doveva brillare tutto. Ero in bilico tra la paura e l’adrenalina. “Non ti denunceranno” mi ripetevo, e me ne convinsi.
A metà giornata, Cody s’avvicinò a noi. << Lux e … >>
<< … Mirie >> mi presentai.
<< Lux e Mirie, dovete perdonarmi, ma devo proprio andare a Grey Side adesso. Continuate voi. >>
Granai gli occhi. Era uno dei posti vietati dallo stato. O Cody era un criminale, o era solo ribelle come me e la mia amica. Ma sembrava preoccupato, e nervoso. Grey Side era una parte antica di Rubin dimenticata e disabitata, nonché protetta da un recinto. Comunque, la zona era circondata da telecamere. Nessuno sa perché sia vietato, ma nessuno se lo chiede mai. Meglio stare alle regole, alcune volte.
<< Perché? >> chiesi.
Cody guardò l’ora sul suo cellulare, poi rispose. << Non lo so, mi è arrivato un messaggio firmato dal presidente Kennard in persona. Devo essere lì tra cinque minuti, e sono a piedi. >> Storse il naso. << Sono già in ritardo. >>
Lux era più stupita di me. << Il presidente? E cosa vuole da te? Non ti avranno mica denunciato sul serio! >>
Cody la guardò preoccupata. << O magari vuole reclutarmi nel nuovo esercito. Spero sia per questo, vado. Ciao! >> e scomparve dietro l’angolo.
Io e Lux eravamo pietrificate, ma continuammo i lavori dopo qualche minuto di sconcerto.
Mi svegliai d’assalto disturbata dalla tv ad alto volume. Dissi qualcosa, che però la nonna non sentì, e mi avviai verso la cucina e trovai la zia Bee a guardare il notiziario con il telecomando in una mano e l’altra sulla bocca, a trattenere lo stupore.
<< Zia …? >> la chiamai, ma lei non rispose.
Vivevo con i nonni, mia zia e sua figlia, nonché Lux. I miei genitori erano morti poco tempo dopo la mia nascita, mio fratello dopo qualche anno – lo ricordavo ancora - ; il padre di Lux se n’era andato abbandonando moglie e figlia.
Trovai la mia cugina-amica dietro di me.
<< Mirie, che succede? >> mi domandò. Entrambe pensavamo la stessa cosa, e la tv ce lo confermava. Non avevo il coraggio di guardare Lux. Fissai solo Bee.
<< Oggi niente scuola, tesoro >> mormorò a sua figlia e a me.
La mattina passò lenta. Io e Lux la trascorremmo a fare zapping in tv, cercando di capirci qualcosa, di mettere in ordine le cose che sapevamo. Sembrava mancare un tassello fondamentale. Era frustrante non sapere dov’era questo pezzo mancate.
Per far passare il tempo, nel primo pomeriggio mi sdraiai sul letto con l’intento di dormire, e Lux fece lo stesso dopo essersi messa sul sacco a pelo dei pigiama party nella mia stanza.
<< Credi che gli sia successo qualcosa di grave? >> domandò.
Guardai nel vuoto, e non riposi. Sentivo di dover fare qualcosa, qualsiasi cosa, e che stare chiusi in casa era sbagliato, anche se la nonna e il nonno e la zia volevano così.
<< Penso che dovremmo andare proprio lì >> mormorai.
Lux mi tirò un cuscino. << Tu sei pazza! >> disse. << Vuoi farci arrestare? >>
Al diavolo il dormire. Non ci sarei mai riuscita con quel pensiero in testa. Saltai giù dal letto.
<< Ci vado solo io. A dopo. >> e la lasciai lì, e lei non protestò.
E io saltai dalla finestra e gli adulti, fissati sui telegiornali in attesa di notizie, non badarono a me. Un ragazzo di Rubin era scomparso. Sapevo chi era.
Arrivai a piedi a Grey Side. Mi guardai intorno, poi mi venne un’idea e salutai le telecamere. Dopo gli feci il dito medio, e non successe nulla. Anche queste disattivate. C’era una falla, nel sistema. C’erano falle ovunque. Come ho fatto a non pensarci prima?
Presi la rincorsa e con un balzo superai il recinto. Camminai nelle vie della Rubin antica. Le case erano fatiscenti, con le finestre rotte e i portoni scheggiati o distrutti, la vegetazione le inghiottiva e invadeva le strade. L’asfalto era costellato di buche. Era quasi inquietante provare e guardare all’interno degli edifici dov’era possibile, perché regnava il buio nelle stanze e io credevo nei fantasmi. Camminai attraversando tutta la strada principale, fino ad arrivare a quella che doveva essere una piazza, al centro della quale vi era una fontana, ingrigita così come i tre delfini raffigurati, con gli occhi di rubino incastonati nelle orbite scolpite. L’acqua, ovviamente, non scorreva, ve n’era solo un po’ alla base della scultura, stagnante e verdognola.
Mi guardai intorno e il vento mi scompigliò i capelli. Le case erano distribuite a cerchio attorno alla piazza. Mi chiesi perché gli abitanti avessero abbandonato questa parte così bella del paese, e non seppi trovare una risposta.
Raccolsi tutta l’aria possibile nei polmoni. << CODY?! DOVE SEI? >> urlai a squarciagola, ma la mia voce fece l’eco e nessuno rispose.
<< CODY! >> urlai ancora, ma non ottenni risposta.
Avventurarsi nel posto dove Cody era scomparso e sul quale le tv facevano dei servizi preoccupanti, in effetti, non era stata una buona idea. Nessuno veniva mai a Grey Side. Nessuno che non volesse guai.
A questo punto un brivido di freddo mi fece venire la pelle d’oca e decisi di tornare indietro. Feci un paio di passi, poi la mia vista si sconvolse.
Mi ritrovai a terra, sdraiata sulla pancia, sbattendo le braccia sulle pietre della piazza, messe in avanti per attutire il colpo alla testa. La caduta mi provocò un dolore lancinante alla schiena. O forse era stato il calcio ricevuto alla spina dorsale a causarlo?
Gemetti e girai il viso velocemente, per guardare in faccia il mio aggressore.
Era un ragazzo poco più grande di me, capelli neri corvino, sguardo assassino che mi fulminò in un istante, labbra piene e tese in un’espressione dura. Non aveva passamontagna o qualcos’altro che coprisse il viso, solo una felpa nera con un simbolo sul davanti.
Il ragazzo mi sferrò un altro calcio sul fianco, così forte da farmi rotolare. Di nuovo distesa sulla pancia, sentivo il suo piede spingere forte contro la mia schiena.
Iniziai a dimenarmi. << Lasciami! >> urlavo.
<< Risparmiatelo. Non ti può sentire nessuno. >> disse e riuscì ad afferrarmi le mani e a congiungerle dietro le spalle. Mi sentivo intrappolata e inerme. Questa sensazione aumentò nel momento in cui avvertii qualcosa di freddo sulla tempia.
Con la coda dell’occhio, vidi una pistola.
<< Non hai ultimi desideri. >> disse e non era una domanda. Era un ordine, un imposizione.
Ma io non feci in tempo a pensare altro, perché chiusi forte gli occhi e sentii lo sparo.
Buio.
ANGOLO DELL'AUTRICE
Per creare una trama così complessa come quella di questo romanzo ci ho messo un'estate intera. Sì, ci sono moltissimi elementi che ancora non conoscete che sono stati studiati nei minimi dettagli. Tengo tanto a 'Pistole come sguardi e cuori come proiettili' proprio per questo. Ho sempre scritto Introspettivo e Fantasy, e stavolta mi sono dilettata in qualcosa di diverso e un genere che ultimamente sta prendendo piede, cioè quello che parla di società distopiche.
Amo il personaggio di Miranda e spero che anche a voi piaccia leggere di persone un po' folli e ribelli e alla ricerca dell'adrenalina e del pericolo, e amo il coraggio che dimostrerà. Spero tanto che seguirete la storia con la stessa passione con cui la scrivo. Ci metto tutta l'anima.
Spero anche che mi darete i vostri pareri con le recensioni, ci tengo.
Bye :)
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
Freddo. Freddo sui
palmi delle mani, una
sensazione che associai al ferro del bancone su cui ero sdraiata.
Lentamente
ripresi sensibilità e solo dopo ricominciai a sentire cosa succedeva
attorno a
me.
- Fallo, prima che si
svegli! – una voce
di donna esortava qualcun altro con tono severo. Fare cosa?, mi
chiedevo, senza
muovere un dito e mantenendo gli occhi chiusi.
- Ha ragione, Darrin.
Mi chiedo perché cavolo
hai aspettato così tanto. – disse qualcun altro, stavolta un ragazzo.
Erano in
tre, sembravano in confidenza dal loro tono.
- E’ che ho paura di
sbagliare … -
mormorò un altro, che intuii fosse questo Darrin.
Sentii dei rumori che
interpretai come
una spinta brusca e qualcos’altro.
- Ehi! – esclamò
Darrin.
- Lascia fare a me,
l’ho fatto tante
volte e sono abituato! – disse quello che sembrò avere la voce più
adulta.
- No, Savannah ha
detto che stavolta
tocca a me! – sbottò Darrin.
I quattro ragazzi
erano alla mia
sinistra, così strinsi forte il pugno destro per assicurarmi di potermi
muovere, sperando che non vedessero quel movimento. Sentivo delle
stringhe alle
braccia, alle gambe e alla vita: mi avevano legata a quel tavolo. Il
mio cuore
accelerò e qualcuno notò il cambiamento, perché sentii un respiro
vicino al
viso. Io, quindi, trattenni il fiato in attesa che si allontanasse e
sperai che
il mio cuore rallentasse e che il mio viso non fosse arrossato per
l’apporto di
sangue. Dovevo stare calma. Avevo sempre desiderato di vivere
un’esperienza
fuori dagli schemi, come i polizieschi, i thriller e i film di
criminalità che
io e Lux avevamo trovato in una scatola impolverata della soffitta.
Questo tipo
di film era illegale (perché istigava alla ribellione e alla
trasgressione), e
non so perché la mia famiglia ne avesse una scatola piena, forse era un
ricordo
di qualche antenato che i controlli annuali sulle abitazioni non aveva
mai
scovato. Mi chiedevo perché. Comunque, guardandoli, avevo capito che,
affinché
tutto andasse bene, avrei dovuto restare tranquilla e ferma. Stare al
gioco per
un po’. Solo per un po’.
Ripresi a respirare
lentamente quando
sentii i ragazzi allontanarsi.
- State indietro –
disse poi l’unico
ragazzo di cui conoscevo il nome, e probabilmente gli altri obbedirono
perché avvertii
solo una persona vicino al mio corpo.
Trattenni il respiro
ancora una volta.
Quando l’uomo si piegò in avanti, verso il mio viso, sentii il suo
respiro
pesante e qualcosa di freddo e pungente pungermi l’incavo del collo.
Proprio in
quell’istante, veloce e
decisa, aprii gli occhi assumendo un’espressione arrabbiata e allo
stesso tempo
di sfida, colpendo quelli di Darrin.
Il ragazzo, che aveva
due grandi occhi
blu scuro, indietreggiò pericolosamente con una siringa in mano con
all’interno
un liquido trasparente strillando e guardandomi spaventato. A quel
punto,
sorrisi. Mi sembrava di avere il mondo in mano.
Darrin inciampò
all’indietro e non cadde
solo perché gli altri ragazzi lo sostennero. Tra questi, il mio
rapitore. Girai
la testa e li fissai tutti, uno ad uno. I ragazzi mi guardavano
sconcertati, la
ragazza, solo lei, con un’espressione dura. Mollò Darrin, fece il giro
del
tavolo sopra il quale ero distesa e cominciò a frugare tra gli scaffali
grigi
appesi al muro. Vi erano barattoli, provette e molte altre cose che non
riconobbi. La cosa divertente è che non cercavo di scendere dal bancone
o
dimenarmi, ma ero calma. L’unica cosa che mi spaventava era la mia
assoluta
tranquillità. Queste persone, vestite con abiti neri e pieni di tasche
e borse
e dall’aria professionale mi affascinavano.
- Cosa cerchi? –
domandai.
La ragazza strinse i
denti. –
Maledizione! – gridò, poi si girò verso gli altri. – Dov’è
l’anestetico? Io l’ho
esaurito e anche voi! Dove l’hanno messo?!
- Non ne ho idea! –
esclamò il secondo
ragazzo che avevo sentito parlare.
- Non era mai
successo prima … - disse
quello dalla voce adulta.
Darrin si avvicinò
alla ragazza e le
prese un braccio. – Ascolta, Rachel, facciamo l’iniezione lo stesso.
Non lo
saprà nessuno che si è svegliata!
Rachel guardò Darrin
furiosa. – Ma è
contro le regole!
- Ehi ehi, calmatevi
ragazzi! –
ridacchiai. – Avete tutto il tempo del mondo per farmi quest’iniezione.
Sembrate psicopatici! State sereni un pochetto, su. Un caffè e il
nervosismo va
via.
Tutte le persone in
quella stanza mi
guardarono sbigottiti per un lungo, interminabile istante. Sul mio viso
aleggiava un sorriso idiota. Probabilmente la psicopatica ero io.
Li guardai divertita.
– Suvvia, ragazzi,
nessuno vi ha informati? Nessuno fotte Miranda McClair!
A quel punto fissai i
miei occhi su
quelli del più grande di tutti, e successe. Era qualcosa che non
riuscivo bene
a controllare, qualcosa a cui non sapevo dare un nome e che riuscivo a
fare fin
da piccola. Rovistai tra i filamenti dell’iride del ragazzo come fanno
i laser
delle macchine dello Stato, vidi nei suoi occhi le macchie che
caratterizzano
una mente criminale, poi andai più a fondo, lì dove niente riusciva ad
arrivare. Visualizzai i suoi desideri più grandi, vidi una ragazza,
strinsi gli
occhi: Rachel, la bionda Rachel in vestito bianco andare con lui verso
l’altare.
Con le unghie strappai quest’immagine come fosse tela soffice e ne
costruii un’altra,
veloce e precisa. Al suo posto, ora, c’ero io, libera dalle stringe che
mi
tenevano legata al bancone, in piedi davanti a lui, con la stessa loro
divisa.
I suoi desideri, da quel momento, sarebbero stati quelli di vedermi
libera e
parte di quello che facevano parte tutti, non importa quanto sarebbe
durata
questa voglia: in quel momento era forte e decisa.
Il ragazzo spostò lo
sguardo non appena
la mia mente uscì dalla sua iride castana. Si guardò intorno confuso,
poi
parlò, con voce autoritaria.
- Lasciatela andare.
– sentenziò.
Rachel, Darrin e
l’altro dissero un ‘Cosa?!’
quasi urlato, poi parlarono uno sull’altro, fino a che la voce di
Rachel
sovrastò le altre.
- Vuoi mandare a
monte tutti i piani?! –
gridò lei.
Il ragazzo la guardò
gelido. – Lei ci
serve viva. – mormorò.
Ammetto che questa
frase mi fece
rabbrividire. Non pensavo che volessero uccidermi, al massimo usarmi
come cavia
di qualche esperimento, ma non uccidermi. Avvertii un moto di paura, ma
cercai
di mantenere un’espressione calma.
Tutti tacquero, anche
Rachel, che
guardava il ragazzo avvicinarsi a me con gli occhi spalancati.
- Ellis?! – lo
chiamò, sconvolta.
Ellis mi slacciò le
stringe in un modo
che non vidi perché non potevo alzare la schiena e presto fui libera di
mettermi seduta, ma non sorridevo più. L’atmosfera era tesa. Quella
stanza
bianca e grigia mi incuteva paura all’improvviso.
- Ha un buon
potenziale, non avete
notato? Potrebbe servirci nelle missioni più difficili. – disse Ellis.
Rachel era ancora più
furiosa. – Stai scherzando,
spero! Lei è una delle sospettate!
Okay, la situazione
si stava facendo
alquanto bizzarra. Sospettata di cosa?
Ellis prese un altro
tipo di stringhe e
mi legò i polsi, unendoli come delle manette; poi mi trascinò fuori
dalla
stanza seguita dagli altri e da una stordita Rachel. Mi portò in quella
che
intuì essere una cella simile a quella dei carceri, munita di sbarre, e
mi
rinchiuse dentro a chiave. Ellis tirò fuori la sua pistola, osservò di
cosa era
carica, poi mormorò: - Io ho ancora un po’ di anestetico – prima di
puntarmela
alla tempia e sparare.
Di nuovo, buio.
La sensibilità tornò
anche stavolta
lentamente. Stavolta ero distesa a terra, in una posizione strana,
sicuramente
data dal fatto che ero caduta sul pavimento priva di sensi.
Mi misi in ascolto:
un uomo e una donna
che prima non c’erano parlavano animatamente con Ellis, ma con tono
molto
basso, fino a che l’uomo esclamò: - Smettila, Ellis! Non possiamo
accoglierla
senza un motivo ben valido!
- Ma il mio è un
motivo valido! –
insistette Ellis. A quanto pare, avevo fatto un buon lavoro nella sua
testa.
Anche stavolta, però,
avrei dovuto
giocarmi l’elemento sorpresa, pazzia e iride.
Girai la testa verso
le sbarre, poi mi
alzai di scatto e mi schiacciai sulle sbarre, gridando e gemendo come
una pazza,
sbattendo il ferro per far rumore.
- Lasciatemi,
lasciatemi! – urlavo,
assieme ad altre cose incomprensibili. L’uomo, sulla mezza età, e la
donna, sui
quarant’anni ma particolarmente bella, mi fissarono senza dire nulla.
Poi
ricominciarono a guardare e a parlare con Ellis ignorandoli.
A quel punto mi
calmai, dando fine alla recita
e guardandoli con il mio sorriso complice. – Sto scherzando, solo so
fare la
parte della vittima ma non voglio. Per me sarebbe un onore lavorare per
voi.
Ottenuta la loro
attenzione completa,
entrai nell’iride della donna. Anche stavolta, strappai i suoi desideri
di
maternità e dipinsi quelli di vedermi libera e parte di loro.
Due volte in un
giorno. Non mi succedeva
mai, di fare quella cosa per più di
una volta ogni due giorni, figuriamoci due in un pomeriggio.
- Savannah? – la
chiamò l’uomo mentre
questa si avvicinava alla cella con le chiavi prese dalle mani di Ellis.
- Ellis non ha tutti
i torti – disse mentre
mi apriva.
A quel punto, decisi
che, essendo che vedermi
assieme a loro era il desiderio più grande della donna che aveva
sicuramente un’importanza
fondamentale in quella situazione, loro non mi avrebbero avuta subito:
si vuole
di più sempre quello che non si ha. Perciò, appena Ellis mi liberò
dalle
stringhe, sfrecciai nel lungo corridoio accanto a me, scivolando sul
pavimento
liscio, mentre i tre mi chiamavano ed Ellis cercava di raggiungermi
inutilmente.
Girai un paio di
volte per i corridoi,
fino a che, fortunatamente, trovai la porta. Pressai tutti i bottoni
sulla
parete finchè la porta non si aprì e io corsi fuori senza preoccuparmi
di
richiuderla, sperando di trovare la strada di casa.
Mi sentivo folle, e
fottutamente bene.
Correndo, vidi
qualcosa che in cuor mio speravo
di scorgere. |
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