Noi non siamo un cliché

di MyLandOfDreams
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Azzurro Tanto Intenso da Sembrare Irreale ***
Capitolo 3: *** Marco e Claudio? ***
Capitolo 4: *** Incubo ***
Capitolo 5: *** Forse era meglio così ***
Capitolo 6: *** Andare avanti ***
Capitolo 7: *** Ricominciare a vivere ***
Capitolo 8: *** Sogno o realtà? ***
Capitolo 9: *** Capitolo speciale ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

NB: Capitolo modificato il 29/10/13


Prologo
 

  Lucia, amore, devi venire con noi in salone. Dobbiamo parlarvi…».
  Da brava ragazzina qual ero, obbedii e seguii silenziosamente  la mamma in salotto, dove trovai gli altri: Mike, Belle, Marco, papà e Kathlyn, la mamma di Mike e Belle.
  Senza proferir parola andai a sedermi accanto al mio migliore amico. Era taciturno e, avvertendo la mia presenza accanto a sé, abbassò lo sguardo per tentare di nascondermi gli occhi gonfi dal pianto.
  Non era passata neanche una settimana dalla morte di Anthony, suo padre, ed era più che comprensibile che versasse delle lacrime al suo ricordo, eppure si ostinava a non mostrarsi debole. 
  Più volte avevo provato a fargli capire che piangere non significava essere deboli, ma mi ero rassegnata alla sua testardaggine.
  In quel momento mi limitai semplicemente a intrecciare le dita alle sue, tanto per fargli comprendere che io sarei sempre stata al suo fianco.
  Kathlyn, con umore tetro e gli occhi rossi e gonfi, si alzò, spezzando quell'attimo di tensione e silenzio che si stava creando. Si rivolse con aria afflitta a me, Marco, Mike e Belle: «Ragazzi, so che per noi tutti è un momento difficile questo, ma dovete capire che dobbiamo andare avanti. Noi però non siamo gli unici che hanno sofferto per la morte di Anthony», le scappò un singhiozzo e compresi che stava per scoppiare a piangere «i nonni paterni di Mike e Belle vivono in Inghilterra e ci hanno chiesto di restare da loro per qualche tempo. Non abbiamo mai avuto un buon rapporto con loro, ma vogliono riprovarci. Era ciò che mio marito desiderava che accadesse un giorno».
  Quest’annuncio fu come una pugnalata al cuore: non potevamo separarci…! Mike era il mio migliore amico, così come lo era Belle!  
  Le lacrime mi riempirono gli occhi, iniziai a singhiozzare e a stringere la mano di Mike così forte da fargli male. Anche lui strinse la sua mano attorno alla mia, come se ciò potesse impedire la nostra separazione. Le reazioni di noi quattro giovani erano state quasi le stesse e, per quanto fosse possibile, Kathlyn cercava di rassicurarci affermando che non fosse un trasferimento definitivo, ma solo temporaneo.

  Quella sera Mike ed io, come ogni volta che uno dei due era triste,ci ritrovammo stretti in un abbraccio sotto le coperte del nostro lettone matrimoniale. Dormivamo sempre insieme.
  Avevo paura di perderlo. Paura che una volta tornato non sarebbe più stato il mio migliore amico. Paura che si sarebbe dimenticato di me.
  «Mike, promettimi che non passerà neanche un giorno senza avere tue notizie. Ti prego, promettimelo! Giura che quando tornerai,tra noi non cambierà niente».
  Stentavo a trattenere le lacrime, ma mi sforzai di non piangere. Volevo continuare a osservare Mike per non dimenticarmi niente di lui, per imprimermi ogni dettaglio del suo viso. Gli occhi di un azzurro così intenso da sembrare quasi irreale, pieni di voglia di vivere anche nei momenti tristi e disperati come quello, occhi che non mi sarei mai stancata di osservare e che mi facevano sognare; le labbra piene e rosee e quei capelli biondo cenere che non stavano mai al loro posto. Non era mai riuscito a reggere il mio sguardo velato da lacrime di tristezza e, come al solito, per cercare di tranquillizzarmi, mi prese il viso tra le mani e poggiò la sua fronte sulla mia. Sarei potuta rimanere così all’infinito.
  «Te lo prometto. Ti prometto che tornerò, che non ti dimenticherò mai, che non smetterò di pensarti ogni secondo, ogni minuto, ogni ora, ogni giorno. Ma anche tu devi giurarmi una cosa…».
  Un brivido mi percorse la schiena. Mai avevo visto quello sguardo. L’intensità dell’espressione del suo viso mi fece girare la testa. Non capivo che emozioni stesse provando lui in quel momento. Era felice? No di certo. Aveva paura? Forse un po’. Era in ansia? Non avrei saputo dirlo. Era serio, di questo ero certa, riflessivo come non l’avevo mai visto in dodici anni. Solo qualche minuto dopo, potei capire quali fossero i suoi reali sentimenti.
  «C-certo» mi tremò la voce quando entrai nuovamente in contatto con quello sguardo tanto intenso «cosa vuoi che ti prometta?».
  «Dammi la tua parola che non mi dimenticherai. Giurami che quando tornerò, staremo insieme».
  Non capii questa sua richiesta. Noi stavamo sempre insieme, non ci separavamo mai. Io gli avevo chiesto di promettermi che nulla sarebbe cambiato e lui aveva accettato. Allora perché voleva che gli garantissi che, al suo ritorno, saremmo stati insieme?
  «Mike, che intendi? Noi siamo sempre insieme e ti ho chiesto di darmi la tua parola che nulla cambierà quando tornerai, quindi perché mi domandi questo? Non capisco».
  Lentamente staccò la fronte dalla mia e, con un sorriso sbilenco, mi distese con la punta delle dita la fronte che mi si era corrugata dalla confusione, per poi unire nuovamente i nostri visi nella stessa posizione di qualche secondo prima.
«Quello che sto cercando di dirti è che…» si bloccò. Era in imbarazzo? Lui non era mai in imbarazzo. 
  «Sì insomma» riprese a parlare «quello che intendo è che…» serrando la mascella, prese coraggio e mi guardò negli occhi «sono innamorato di te».
  Quindi era l’amore a rendere così intenso quel suo sguardo. Era per paura di essere respinto che sembrava imbarazzato? Cosa avrei dovuto rispondergli? Avevamo entrambi dodici anni, non avevo mai pensato di parlare di amore a quell’età, men che meno ritrovarmi ad ascoltare la mia prima dichiarazione. Mike continuava a tenermi tra le sue braccia, a fissarmi, ad accarezzarmi la schiena, donandomi brividi che non avevo mai provato fino a quel momento. Entrai nel panico. Non avevo idea di cosa fare. Semplicemente non sapevo che dire, così affondai il viso nel suo petto. Era da poco iniziato Settembre e faceva ancora molto caldo, eppure tra le braccia di Mike e sotto il lenzuolo azzurro, non lo avvertivo. Stavo benissimo. Sarei potuta rimanere così per tutta la vita.
  Presto, però, Mike sarebbe partito, lasciandomi sola. Per un momento avevo dimenticato l’imminente separazione, perché troppo sorpresa dalla dichiarazione d’amore del mio amico. Adesso tutto era ancora più difficile. Mike mi aveva dato un motivo in più per desiderare che tutti loro restassero qui con noi: capire se i suoi sentimenti fossero corrisposti. Al pensiero di ritrovarmi sola, in quella grande camera che avevamo sempre condiviso, scoppiai a piangere.
  «Mike, non voglio che tu te ne vada. Non ce la farò a stare qui senza di te. Ho bisogno di te».
  Un sospiro di sollievo misto a rassegnazione scappò dalle sue labbra. Delicatamente mi prese il viso tra le mani, mi guardò con tutta la dolcezza di cui era capace e mi asciugò le lacrime con la punta delle dita. Poi baciò i sentieri umidi che quelle gocce avevano percorso.
  «Non hai nulla di cui preoccuparti. Hai sentito mia madre. Torneremo presto. Ti prometto che entro il nostro tredicesimo compleanno saremo di nuovo insieme. Ok?».
Era così sicuro di ciò che diceva che mi sforzai di credergli, anche se una parte di me era convinta che non sarebbe più tornato, che non avrebbe mantenuto la promessa che mi aveva appena fatto. Adesso, però, Mike era con me e mi teneva tra le sue braccia, facendomi sentire al sicuro da qualsiasi minaccia, così scacciai velocemente quel pensiero.  
  «Il nostro compleanno è il mese prossimo…».
  Un sorriso beffardo apparve sul suo viso. «Credi che non lo sappia? Ti ricordo che siamo nati lo stesso giorno».
  Dicendo così, mi strappò una leggera risatina. Il suo sorriso tornò quello dolce di sempre e mi posò un lieve bacio sulla fronte. «Ti amo».
  Sapevo che non si aspettava che glielo dicessi anch’io e infatti non lo feci, ma era già la seconda volta che affermava di amarmi e non potevo semplicemente abbracciarlo ancora. Forse un po’ troppo bruscamente mi allontanai da lui, lasciandolo confuso e, probabilmente, anche un po’ deluso. Cercò di riprendermi, ma ero troppo veloce per lui, lo ero sempre stata. In punta di piedi raggiunsi la cassettiera di mogano, aprii il primo cassetto e presi il mio anello. Lo osservai con attenzione. Era semplice bigiotteria, ma era stato il mio primo gioiello. Me l’aveva regalato mio fratello in occasione del mio ottavo compleanno, era la cosa cui tenevo più. Insieme a questo presi la catenina più lunga che avevo e la infilai nell’anello. Mike, che nel frattempo mi aveva raggiunta, mi guardò incuriosito e ancora più confuso. Sorridendo, mi girai verso di lui e gli mostrai la composizione appena fatta.
  «Voglio che tu tenga questa, come ricordo».
  «Lu, che stai dicendo? Tieni troppo a quell’anello, ho paura di perderlo. Non posso accettare».
  Era combattuto. Allungò una mano verso la catenina, ma poi la ritrasse abbandonandola lungo il fianco. Non riuscendo ad aspettare oltre, mi misi alle sue spalle e gli allacciai la catenina al collo.
  «Sì che puoi. Non m’importa se la perdi. Tengo più a te che all’anello. Voglio solo che tu abbia qualcosa di mio, mentre starai via».
  Senza aspettare la sua risposta mi buttai tra le sue braccia, affondando il viso tra il suo collo e la spalla. Cogliendomi alla sprovvista Mike mi sollevò e mi portò a letto. Sapevo di essere magra e leggera, ma non credevo che potesse riuscire a prendermi in braccio, dopotutto aveva solo dodici anni. Delicatamente mi posò sul lato destro del letto e mi diede un leggero bacio sul naso. Pochi secondi dopo si sdraiò accanto a me e mi abbracciò nuovamente.
  «Ora dormiamo. Non pensarci più. Ti amo piccola mia». Detto ciò posò la guancia sui miei capelli. Avrei voluto che quel momento non finisse mai. Era rilassante stare tra le sue braccia e mi abbandonai a quella dolce sensazione.
  Tentai di dargli la buonanotte ma prima che potessi parlare, mi alzò il mento e poggiò le labbra sulle mie. Benché fosse un contatto molto lieve, quel bacio, il mio primo bacio, mi lasciò senza fiato. Era la sensazione più bella che avessi provato in tutta la serata. Ci addormentammo così, uno tra le braccia dell’altro, le labbra unite in un lieve bacio, con la convinzione che nulla avrebbe mai potuto rovinare quella felicità. Pensavo che sarebbe durata per sempre.
 
  Mike partiva senza avvisarmi. Preparava le valige mentre dormivo per poi lasciarmi sola in quella grande camera che da sempre era stata di entrambi. Mi salutava con un bacio sulla fronte. 
 
  Mi agitai nel sonno, ma fu un momento: ero entrata nel dormi-veglia e, involontariamente, ripensai a ciò che avevo appena finito di sognare. Lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere, non dopo aver confessato di amarmi. Quando mi svegliai, però, non era più accanto a me. Mi si gelò il sangue nelle vene.
  No, era solo una coincidenza, magari era in bagno o in cucina.
  Impaurita dall’eventualità che quell’incubo fosse invece la dura realtà, mi diressi prima verso il bagno e poi verso la cucina. Non c’era. Un rumore in salone mi diede un’ultima speranza. Quasi correndo mi diressi a controllare e ci trovai Marco, mio fratello.
  «Ehi, Lu. Sei sveglia…». 
  Mi sorrise tristemente. Il terrore m’invase.
  La voce mi tremò: «Marco, dove sono Mike e Belle?».
  Le lacrime, quasi conoscessero già la risposta, iniziarono a rigarmi il viso.
  «Se ne sono andati stanotte».

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Capitolo 2
*** Azzurro Tanto Intenso da Sembrare Irreale ***





Capitolo 1

 

  Dicono che il tempo guarisca tutte le ferite. Dicono anche che il dolore renda più forti. Io non ci credo.
  Il tempo può guarire solo quelle ferite superficiali, quelle che non dovrebbero neanche essere definite tali. Ma il tempo non può guarire le ferite vere, quelle profonde, anzi, a volte non può far altro che peggiorare la situazione.
  Il dolore non rende forti. Il dolore porta a fare cavolate, alla disperazione, a rinunciare a tutto ciò che si ha e che si desidera.
  Quando ci si taglia profondamente con un coltello arrugginito, se si lascia la ferita guarire da sola, questa col tempo si potrà cicatrizzare, ma si verrà a creare un'infezione che ci renderà deboli, che potrebbe benissimo portarci alla morte. Per evitare tutto ciò si ricorre ai medicinali.
  Questi medicinali, nel caso delle ferite al cuore, non sono altro che quelle persone tanto importanti da fare passare il dolore, i problemi e quant'altro, in secondo piano. Sono quelle persone che ti stanno accanto nei momenti felici e, soprattutto, in quelli bui. Quelle persone per cui vale la pena lottare con tutte le proprie forze.
 
 «Lucia, vuoi muovere il culo per piacere? Non so te, ma io non ci tengo poi molto ad arrivare in ritardo sin dal primo giorno di scuola».
  Adoravo mio fratello. Era sempre stata la mia ancora di salvezza durante le tempeste, il mio porto sicuro. Più volte aveva rinunciato alla sua tranquillità pur di risollevare il mio umore nero. Era sempre stato pronto a sorridermi, anche quando era lui ad aver bisogno di essere confortato. Mi era sempre stato accanto in quei quattro lunghi e difficili anni. Eppure c'erano momenti come quello, in cui tutto ciò che desideravo, era prenderlo e sbattergli violentemente la testa al muro per ore ed ore.
  «Magari, se invece di specchiarti in bagno per tre quarti d'ora, l'avessi fatto in camera tua dove c'è uno specchio che è il doppio di me, a quest'ora saremmo già fuori casa, non credi? Perché sì caro, so perfettamente che stai tutto il tempo a specchiarti e basta».
  Senza davvero ascoltare il suo discorso sul perché fosse più comodo usare lo specchio del bagno, indossai i jeans e la prima maglietta che mi capitò a tiro senza neanche guardarla.
  Osservai per pochi secondi il mio riflesso allo specchio. Non vedevo nulla di speciale, nulla degno di nota.
  Ero una semplice ragazza dai capelli castani leggermente mossi e gli occhi verdi screziati di sfumature di grigio.
  Istintivamente mi voltai verso il cassettone di mogano sul quale giaceva una foto raffigurante quattro bambini di cui due maschietti e due femminucce. I due bambini di sette anni tenevano in braccio i due di cinque.
  Erano tutti dei bambini semplicemente stupendi, eppure, tra loro, spiccava il maschietto più piccolo.
  Aveva degli occhi quasi ipnotici a causa di quell'azzurro tanto intenso da sembrare irreale. Chiunque sarebbe potuto rimanere a fissare quegli occhi stupendi senza mai stancarsi.
  «Lucia, allora? Che fine hai fatto?». La voce di mio fratello mi riscosse dai miei pensieri. Mi accorsi solo allora di avere una guancia umida a causa della solita lacrima silenziosa che mi era sfuggita. Velocemente la asciugai per poi mettere nella tasca anteriore dello zaino cellulare, chiavi di casa e portafoglio.
  Una volta uscita dalla camera mi ritrovai Marco appoggiato al muro, mani in tasca, lo sguardo annoiato e impaziente, e lo zaino abbandonato ai suoi piedi.
  Dovevo ammettere che era un vero figo con quei capelli biondi ramati così simili ai suoi, il viso squadrato, gli occhi dal colore indefinito che cambiavano secondo della luce e, sembrano assurdo dirlo, in base al suo umore. Inoltre aveva un fisico degno di una statua, merito di due anni di palestra.
  Senza proferire parola ci avviammo verso l'ingresso di casa, dove per poco non persi l'equilibrio a causa di una testolina bruna che sbucò dal nulla afferrandomi per una gamba.
  «Lucy! Ucy! Non mi dai il bacio?». Istintivamente mi aprii in un sorriso. Margaret era la copia di me da piccola: stessi occhi, stessi capelli, stesso carattere.
  Senza pensarci neanche mi chinai per posarle un leggero, ma non per questo breve, bacio sulla fronte. Una volta ricevuto il mio, se lo fece dare anche da Marco il quale s'inginocchiò per posarle le labbra sulla guancia.
  «Non fare impazzire la mamma piccola pulce». Si raccomandò Marco.
  Prima di uscire, Marco ed io, all'unisono, augurammo buona giornata ai nostri genitori.
  Velocemente ci allacciammo i caschi per poi montare in sella alla moto di cui non ho mai saputo il modello. Non riuscivo a capire l'ossessione che avevano i ragazzi per le moto che li portavano a scegliere un modello piuttosto che un altro. In compenso amavo la sensazione del vento che mi scompigliava i capelli e che s'infrangeva sul mio viso.
  Era una sensazione bellissima, rilassante. Marco mise in moto e, in pochi secondi, ci ritrovammo a sfrecciare lungo le strade della città infilandoci tra le macchine bloccate nel traffico mattutino.
  Come sempre la mia mente si liberò da qualsiasi pensiero. Le corse in moto avevano sempre questo effetto su di me: il piacere che mi procurava era tanto immenso da farmi dimenticare perfino il mio nome.
  La moto era la medicina alla mia tristezza.
  Ogni volta che mi ritrovavo a deprimermi, non dovevo far altro che bussare alla porta accanto alla mia per non dover più pensare ad altro.
  Mi dispiaceva disturbare Marco, ma con uno sguardo capiva sempre se qualcosa in me non andava, e, se provavo a spiegargli che non lo avevo voluto disturbare, semplicemente mi urlava contro dicendo che non dovevo tenermi per me tristezza o depressione che fosse.
  Pochi minuti dopo avvertii il vento cessare, segno che eravamo giunti a destinazione.
  Senza neanche salutare mio fratello mi avviai all'interno della scuola.
  Mi trovavo ancora una volta tra le mura di quell'edificio chiamato comunemente liceo. I muri dal colore indefinito a causa dello sporco, il portone principale in stile castello medievale, le sbarre alle finestre. Sì, la mia scuola aveva le sbarre alle finestre.
  Secondo alcune voci di corridoio, prima di essere un liceo, quell'edificio fosse stato un manicomio, secondo altre addirittura un carcere minorile. Comunque sia, che fosse stato un manicomio, o un carcere, l'atmosfera che vi si respirava all'interno era sempre la stessa, anche una volta diventato un liceo.
  Trovai facilmente la mia classe e una volta arrivataci notai che circa la metà dei miei compagni erano già arrivati occupando principalmente quelli in fondo alla classe.
  Salutai tutti con un buongiorno generale e mi accomodai al mio solito banco accanto alla finestra.
  Fortunatamente, nonostante il “contrattempo” di quella mattina, eravamo arrivati cinque minuti prima del suono della campanella per cui nessun professore era ancora giunto in classe. Senza curarmi di ciò che mi capitava attorno, iniziai a vagare con la mente.
  A scuola non avevo degli amici, erano semplicemente dei conoscenti per me. Certo, c'era chi mi stava più simpatico di altri, ma non sono mai riuscita a farmi un solo amico per via del mio carattere. Tendevo a essere un po' fredda verso coloro che mi si avvicinavano, non li volevo come amici.
  Il mio unico amico rimasto era mio fratello.
  Belle e Mike erano scomparsi.
  Erano stati loro i miei veri amici.
  Non avrei permesso a nessuno di occupare il loro posto nella mia vita e nel mio cuore.
  Ancora non riuscivo a capacitarmi del fatto che Mike una sera mi avesse confessato i suoi sentimenti per poi partire senza avvertire la notte stessa e quindi non farsi sentire per quattro lunghi anni.
  In quel periodo avevo continuato a riflettere su ciò che mi aveva rivelato. Avevo pian piano compreso che quella che inizialmente provavo, e che definivo amore, non era altro che una cotta, cotta che si avvicinava sempre più all'amore. Eppure non potevo dire di amarlo. Io amavo il Mike dolce, sensibile, sempre pronto a sostenermi, pronto a farmi sorridere sempre.
  Una parte di me continuava a sperare che dietro a quel silenzio si celasse un motivo più che valido, un motivo che avrebbe reso il mio perdono più raggiungibile una volta che sarebbe tornato. E speravo che non fosse cambiato, che fosse ancora innamorato di me. Dopotutto io gli avevo fatto una promessa, e non importa se lui non aveva mantenuto la sua: io la volevo mantenere a tutti i costi.
  L'altra parte di me però, quella razionale, era convinta che lui fosse cambiato, così come fossero cambiati i suoi sentimenti per me, che fosse perché si era stancato di me che non si era fatto più sentire, che non aveva mantenuto la promessa.
  Le mie riflessioni furono interrotte dallo stridere della sedia accanto a me.
  Fino a quel momento non avevo mai avuto alcun compagno di banco.
  Ero proprio curiosa di sapere chi fosse colui o colei che voleva sedermi accanto quest'anno.
  Volendo una risposta a quel mio quesito interiore, sollevai lo sguardo e i miei occhi si persero in un azzurro tanto intenso da sembrare irreale.
  Il cuore perse un battito, e per poco non caddi dalla sedia.
  Quelli erano i suoi occhi. Quegli occhi che tanto amavo, occhi che rispecchiavano la sua gioia di vivere, gli occhi che fissavo ogni sera, prima di andare a dormire, per ore e ore, per poi ritrovarmi la mattina ad abbracciare la cornice con la sua fotografia.
  Eppure non era lui. I capelli non erano biondi ma color pece. Gli zigomi erano più sporgenti.
  Ero così concentrata sul suo aspetto che non sentii la domanda chi mi rivolse.
  Mi sventolò una mano davanti agli occhi facendomi tornare in me «Allora?».
  «Oh scusa, cosa stavi dicendo?». Non capii il perché, ma abbassai lo sguardo e arrossii. Non ero in me! Io non arrossivo. Io ero la ragazza di ghiaccio che non lasciava nessuno avvicinarsi a sé.
  «Ti ho chiesto se questo posto è libero, sai tutti gli altri sono occupati.» mi rivolse un sorriso a trentadue denti. Non era un sorriso beffardo, era dolce, quasi come quello che una bimba rivolge alla sua bambola preferita.
  Mi accertai delle sue parole volgendo lo sguardo verso il resto della classe costatando che aveva ragione. «Siediti pure».
  Accennai un lieve sorriso. Se con sorriso si potesse intendere un sollevamento degli angoli della bocca leggermente increspata. A me sembrava più una smorfia.
  Continuando a sorridere si sedette alla mia destra e mi tese la mano. «Piacere, io sono Claudio, il nuovo studente proveniente dall'Inghilterra».
  Nonostante non avessi un gran rapporto con i miei compagni di classe, mi era giunta voce che avremmo avuto un nuovo compagno, ma non avevo dato peso a questa notizia.
  Fui colpita dalla sua rivelazione: veniva dall'Inghilterra.
  Inghilterra.
  Mike.
  Senza dar a vedere la mia sorpresa gli rivolsi uno sguardo interrogativo «Però parli bene l'italiano»
  Da qui iniziò a raccontarmi di sé. Era nato in Italia ma, all'età di otto anni, si trasferì in Inghilterra per una promozione che aveva ricevuto il padre. Una volta che i genitori divorziarono, ovvero quell’estate appena trascorsa, tornò al paese natale con la madre.
  Era strano come lo ascoltassi rapita. Non davo mai confidenza a nessuno, eppure lui aveva in qualche modo abbattuto le mie barriere lasciandomi indifesa, in balia dei suoi modi gentili e dolci.
  Sentivo lo sguardo di quasi tutta la classe addosso e non potevo di certo biasimarli: stavo sorridendo e parlando allegramente con un compagno, per di più uno sconosciuto.
  Ben presto però il nostro discorso fu interrotto dall'arrivo della professoressa di matematica: era appena iniziato quell'inferno comunemente chiamato anno scolastico.
 

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Capitolo 3
*** Marco e Claudio? ***




Capitolo 2
 

  Claudio.
  Per le prime due ore non seguii per niente la lezione. Non risposi all’appello e neanche mi accorsi dell’arrivo del professore di filosofia. Non notai neanche che quella di matematica se ne fosse andata. Il mio pensiero era rimasto fisso su di lui. Mi aveva colpita.
  Ovviamente la causa principale erano i suoi occhi, troppo simili ai suoi se non anche uguali, non tanto per il colore, ma per ciò che vi si leggeva all’interno. Non erano solo quelle due pozze azzurre ad avermi atterrita però. Anche la sua storia aveva un notevole peso.
  Aveva trascorso, su per giù, la metà della sua vita in Inghilterra, il paese che mi aveva portato via Mike.
  Era piuttosto stupido dare la colpa di un allontanamento a un paese, ne ero consapevole, ma per me era così. Se non fosse esistita l’Inghilterra i bisnonni di Mike e Belle non vi ci sarebbero trasferiti rimanendo così in Italia. Così facendo il nonno paterno dei miei due migliori amici sarebbe nato qui in Italia dove avrebbe comunque incontrato la moglie, dunque Anthony sarebbe nato qui e Mike e Belle non se ne sarebbero andati via.
  Sì era colpa dell’Inghilterra.
  Continuavo a pensare che forse in quei quattro anni si sarebbero potuti incontrare. Non sapevo da che città provenisse Claudio, ma quell’ipotesi rimaneva viva in me. Se così fosse stato, forse avrei avuto l’opportunità di avere sue notizie.
  Ero tanto immersa nei miei pensieri da non accorgermi del suono della campanella che annunciava l’inizio della ricreazione.
  A riscuotermi da quello stato di trance fu proprio il mio compagno di banco poggiandomi una mano sulla spalla facendomi girare verso di lui.
  «Ehi. Sei rimasta per queste due ore con lo sguardo perso nel vuoto. Tutto bene?» Aveva un’aria quasi preoccupata per me.
  Da quanto tempo qualcuno, che non fossero i miei parenti, non si preoccupava più per me?
  Accennai a un sorriso con l’intento di tranquillizzarlo «Si si, tranquillo. Stavo solo riflettendo su un paio di cose».
  «Su quanto tu sia tanto maleducata da aver praticamente ignorato questo povero ragazzo che ha avuto la sfortuna di sedersi con te?».
  Giulia Alessi.
  Oca giuliva della classe e quell’appellativo che fa rima con sottana.
  Agli occhi di tutti i professori era una ragazza d’oro, con la testa sulle spalle, giudiziosa, saggia, leale. Non riuscivano a capire che fosse tutta una farsa.
  Ogni qualvolta in classe nasceva una discussione sul rendimento scolastico o sulla condotta della classe, lei era sempre pronta a mettere in ridicolo i compagni pur di dare ragione ai professori. Ovviamente non lo faceva perché concordava davvero con loro. Semplicemente faceva la ruffiana pur di ottenere una buona considerazione, cosa che effettivamente riusciva a fare.
  Quando invece, l’anno precedente un ragazzo si era ritirato da scuola per “atti di bullismo”, lei si era schierata dalla parte del ragazzo pronunciando discorsi sull’unità della classe, il rispetto, l’amicizia, ovviamente in presenza degli adulti.
  Tanto per precisare, lei contribuiva a tali “atti di bullismo”.
  Era arrivata anche a puntare il dito pur di salvare la sua reputazione.
  Trattava tutti noi compagni di classe come fossimo tanti zerbini. Non si faceva scrupoli nel criticare, anche pesantemente, chiunque le stesse attorno. Però si alterava pesantemente se qualcuno osava criticare lei.
  Inoltre aveva una voce da costringerti a tappare le orecchie per quanto fosse stridula. A molti, se non anche tutti, non sarebbe certo dispiaciuto se si fosse per caso ritrovata senza voce.
  Non riuscivo ancora a capire come mai nessuno nella classe l’avesse ancora strangolata. Ed era assurdo come fosse tra le persone più conosciute e rispettate dell’intero istituto.
  Per di più aveva un ragazzo. Doveva essere un santo per sopportarla.
  Eppure lei continuava a fare la gatta morta con qualsiasi essere maschile le passasse davanti.
  Ero pronta a ribattere alle parole di quella stupida ma, con mia grande sorpresa, intervenne Claudio rispondendole a tono.
  «Non è maleducata, semplicemente ha qualche problema a socializzare. E se non ti dispiace nessuno ti ha interpellata. Perché non vai a fare gli occhi dolci a quel povero ragazzo che ti è capitato accanto?» Tutto il discorso fu accompagnato da un sorriso sincero inizialmente, con lo sguardo rivolto a me, e beffardo dopo, indirizzato all’oca.
  Spiazzata dalla risposta ricevuta si voltò verso l’uscita facendo muovere altezzosa la chioma bionda borbottando un «Cafone» rivolto ovviamente al nuovo compagno.
  La osservammo entrambi uscire dalla classe stizzita dal comportamento di Claudio e ovviamente incavolata nera con me. Ma lei ce l’aveva sempre con me.
  Una volta persa di vista, io e Claudio ci guardammo per poi scoppiare in una fragorosa risata.
  Sembravano passati secoli dall’ultima volta che avevo riso così di cuore.
  Solo in quel momento mi ricordai di non essermi ancora presentata «Comunque io sono Lucia. Scusa per non essermi presentata prima».
  «Figurati. Non fa niente. Senti, non vorrei disturbarti ma potresti mostrarmi la scuola? Sì insomma, farmi da guida “turistica”». Claudio rispose sorridendo mimando le virgolette alla parola turistica. Ma aveva forse una paralisi facciale quel ragazzo?
  Non seppi perché lo feci ma acconsentii annuendo sorridente. Cosa mi stava accadendo?
  Claudio non era certo il primo nuovo ragazzo in quei tre anni di liceo, e puntualmente i nuovi arrivati chiedevano a me da far loro da guida. Ovviamente avevo rifiutato ogni santa volta. Cosa mi aveva spinta ad accettare la richiesta di questo nuovo ragazzo?
  Silenziosamente ci avviammo fuori dalla classe. Gli mostrai palestra, aula magna, bar, infermeria, segreteria, sale ricevimento, laboratori vari, presidenza. Sapevo benissimo che nonostante gli avessi fatto da guida non si sarebbe ricordato niente.
  Non facemmo conversazione, forse aveva capito che non ero un tipo molto socievole. In compenso continuò a fissarmi per tutto il tempo. Perché mi osservava?
  Poco prima di arrivare in classe, una volta finito il giro, ci imbattemmo in Marco.
  Era nella stessa posizione in cui l’avevo trovato quella mattina di fronte alla mia camera. Aveva lo sguardo cupo, perplesso, sorpreso, malinconico.
  Poteva uno sguardo esprimere così tante cose?
  «Lucia come mai sei in giro?»
  «Marco ti presento Claudio, il mio nuovo compagno di banco. Gli stavo facendo da guida per la scuola»
  L’occhiata che mio fratello rivolse al nuovo arrivato non era propriamente amichevole. Se gli sguardi potessero uccidere, Claudio si sarebbe trasformato in un mucchietto di cenere.
  Ok, mio fratello era sempre stato molto protettivo nei miei confronti, soprattutto da quando Mike e Belle se n’erano andati.
  Certo, era il primo ragazzo, anzi essere umano, con cui mi vedeva da quattro anni a quella parte, ma stava esagerando.
  Nonostante tutto, Claudio non si faceva intimidire dallo sguardo assassino che gli veniva rivolto, anzi lo ricambiò con altrettanta intensità.
  Col trascorrere dei secondi aumentava la tensione. Avevo il fiato sospeso.
  Avevo quasi paura dell’eventualità che arrivassero a  scannarsi a vicenda. Non sapevo come intervenire.
  Fortunatamente mi aiutò la campanella. Avrei potuto innalzare un monumento in onore della bidella che, pur non sapendolo, mi aveva sempre salvata dai momenti critici come quello.
  «Beh Marco, scusa ma dobbiamo rientrare e anche tu dovresti. Ci vediamo dopo al portone principale.»
  Senza aspettare oltre trascinai in classe Claudio.
  «Quello chi è?» Mi chiese con gli occhi socchiusi e le mani strette a pugni. Che quei due si conoscessero? Altrimenti come spiegare tanta tensione?
  «È mio fratello. Ma cosa stava succedendo prima?»
  «Nulla. Semplicemente ci siamo incontrati tempo fa, ma non è finita molto bene.» Mi rispose distogliendo lo sguardo. Cosa mi nascondevano? Quando si sarebbero incontrati se Claudio all’età di otto anni si era trasferito in Inghilterra? Perché avevano reagito in quel modo? Perché avevo la sensazione che Mike fosse coinvolto?
  «Ma come…quando…cosa.. perché?» Avrei voluto porgli tutte quelle domande, tutte in una volta. Volevo delle risposte.
  Purtroppo avevo già ricevuto la mia dose quotidiana di fortuna pochi minuti prima, per cui il nostro discorso fu interrotto dall’arrivo della professoressa.
 
  L’orsa maggiore.
  L’orsa minore.
  La costellazione del cigno.
  Costellazione di Orione.
  Mi ritrovavo sul letto supina a trovare le costellazioni sul soffitto della mia camera. Mio padre e Anthony avevano impiegato quasi un mese per riempire tutto il soffitto di stelle fosforescenti nelle giuste posizioni.
  Per anni quelle stelle avevano accompagnato le varie notti insonni, avevano aiutato nelle varie riflessioni, avevano aiutato a farmi prendere sonno.
  Per le ore successive alla ricreazione Claudio non aveva fatto altro che evitare il discorso sul come conoscesse mio fratello e, alla fine della giornata, era fuggito via di corsa.
  Stessa cosa dicasi per Marco. All’uscita da scuola aveva evitato ogni mia domanda. Una volta arrivati a casa era nuovamente uscito pur di non rispondermi.
  Avevo ormai trascorso 4 ore a guardare le stelle come se contenessero le risposte alle mie domande.
  Ma non avevo fatto altro che peggiorare la situazione.
  Le domande aumentavano affollando la mia mente, privandola della tranquillità.
  Improvvisamente sentii la porta di casa chiudersi.
  Doveva essere mio fratello.
  Mio padre sarebbe rientrato la sera tardi e mia madre e la piccola Meredith erano uscite qualche minuto prima per andare a fare la spesa.
  Con un balzo mi alzai dal letto per uscire dalla mia camera ed entrare in quella di mio fratello per ottenere le risposte che solo lui e Claudio potevano darmi.
  Spalancai la porta di Marco, ma mai mi sarei aspettata ciò che vidi.
  Mio fratello aveva il viso sfigurato dai tagli che partivano dall’attaccatura dei capelli per finire al collo.
  Rimasi paralizzata a tale vista. In quel momento c’era solo mio fratello che aveva bisogno di cure. Lasciai da parte Claudio, le domande, i dubbi, Mike.
  Senza dir nulla mi diressi in bagno per prendere la cassetta del pronto soccorso.
  Tornata in camera di mio fratello lo trovai steso sul letto a petto nudo. Ai piedi del letto giaceva la maglietta, me ne accorsi in quel momento, completamente rovinata a causa dei vari tagli.
  «Lucia ti prego. Non chiedermi di Claudio». Una lacrima silenziosa solcò il viso del mio fratellone.
  In quei quattro anni non lo avevo mai visto versare una sola lacrima. Decisi quindi di lasciare correre per il momento.
  Ma sapevamo entrambi che non avrei lasciato in sospeso la questione per molto.
  Cercai di alleggerire l’atmosfera «Almeno dimmi a chi devo stringere la mano per averti fatto finalmente cadere dal motorino»
  Riuscii a farlo sorridere. «Un cavolo di cane! Ma ti rendi conto? Ero fermo al semaforo e partendo ho preso in pieno i suoi escrementi, fatti poco prima, proprio davanti ai miei occhi e io non me ne sono nemmeno accorto!».
  Nel sentire il suo racconto alzai un sopracciglio scettica. Per pochi secondi ci perdemmo uno nello sguardo dell’altro per poi scoppiare a ride.

Mio Angolino Personale:
chiedo perdono per la schifezza che mi è venuta fuori. Non ho avuto molto temo per scriverla bene.
Apparte questo ringrazio le sei meravigliose ragazze che hanno recensito, le due che hanno inserito la storia nelle preferite, le tredici che l'hanno inserita nelle seguite e le due nelle ricordate. GRAZIE

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Capitolo 4
*** Incubo ***



 

 

Prima di passare al capitolo volevo dirvi che non ho avuto tempo per farlo revisionare, per cui, se doveste notare degli errori fatemeli notare e provvederò.
 

Capitolo 3
 
  «Sei una stupida! Davvero credevi che la mia “dichiarazione d’amore” fosse vera? Ma cresci un po’! Sei solo una bambina che crede ancora nelle favole e nel principe azzurro!» Un sorriso quasi sadico gli comparve sul volto.
  Avevo le lacrime agli occhi. Non poteva rivolgermi parole simili.
  Non lui.
  Non il mio Mike.
  Ma d'altronde il mio Mike era il ragazzino di dodici anni sempre dolce con tutti, con il sorriso sempre stampato sul volto, sorriso che si espandeva agli occhi.
Il mio Mike non era quello che mi stava di fronte. Arrogante, dal sorriso sadico, lo sguardo freddo.
  «Non sei altro che un’illusa! Davvero continui a sperare che io torni da te e inizi a mantenere quell’insulsa promessa? Ma fammi il piacere. Non ne vale la pena. E, parlando per assurdo, perché dovrei mantenerla se tu stessa non l’hai mantenuta?».
Non riuscivo più a distinguere il suo viso a causa degli occhi che straripavano di lacrime.
  Nonostante ciò lo vidi voltarsi per andare via. Lontano da me.
  Questa volta per sempre.
  «Mike. Non lasciarmi» avrei voluto urlarlo, ma mi era uscito nient’altro che un sussurro.
  Non intravedevo più la sua sagoma, segno che ormai fosse troppo lontano e, consapevole del fatto che non l’avrei più rivisto, corsi verso il punto in cui era scomparso esplodendo in un urlo a pieni polmoni.

 
  Ansante e con ancora le lacrime che mi inondavano il viso, mi ritrovai seduta sul mio letto sommersa dalle lenzuola e dai cuscini umidi del mio sudore e delle mie lacrime.
  Rimasi ferma a cercare di riprendere fiato per pochi secondi, il tempo necessario per sentire la porta spalancarsi improvvisamente, mostrando le facce segnate dalla preoccupazione di Margaret e Marco.
  Le mie urla li avevano svegliati.
  La piccola Margaret fu la prima a correre da me arrampicandosi sul letto per poi aggrapparsi al mio collo.
  Non potei far altro che affondare il mio viso tra i suoi capelli. Dopo un incubo un suo abbraccio era sempre stato il rimedio perfetto.
   «Hai avuto un incubo vero Ucy?» Nonostante fosse notte fonda quel piccolo angioletto si preoccupava per me che ero la sorella maggiore.
  «Si piccola». Non riuscii neanche a guardarla in faccia.
  Più volte mia aveva detto di voler diventare come me da grande. Ero il suo modello da imitare.
  Non volevo che mi vedesse in quello stato, con le lacrime ad inondarmi il viso.
  «Ora ci sono io. Non ti devi preoccupare». Una lieve risata unita ad un singhiozzo uscì dalle mie labbra. Sembrava quasi che fosse lei l'adulta della situazione.
  Poco dopo ci raggiuse Marco che avvolse entrambe tra le sue braccia muscolose. Avevo chiuso gli occhi per godermi appieno quella situazione. Percepii chiaramente le labbra di Marco posarsi sul mio capo.
  «Hai fatto lo stesso incubo vero?». Non aveva bisogno di specificare nulla. Avevo capito perfettamente cosa intendesse.
  Era da un anno che venivo tormentata dallo stesso incubo.
  Mike tornava in Italia. Tornava a casa. E non appena gli correvo incontro mi allontanava bruscamente per poi scoppiare a ridere e iniziare a deridermi per le mie stupide illusioni.
  Ma questa volta l’incubo era diverso. In questo incubo c’era Claudio.
«Non proprio… Per favore, non voglio parlarne per ora» sussurrai. Non avevo le forze necessarie né per parlare a voce normale né tantomeno per spiegargli il mio incubo così simile a quelli precedenti seppur differente.
  Senza dire altro Marco si staccò da me per farmi distendere con ancora la piccola tra le mie braccia, per poi mettersi accanto a noi.
  Controllai l’ora dalla sveglia digitale sul comodino: erano le 4 di notte.
  Mi lasciai cullare dai dolci sussurri di mio fratello e dalle carezze e dai baci di mia sorella senza però riuscire a prendere sonno.
  Sentirsi amati è davvero l’unico modo per riprendersi da un incubo. Ci si sente protetti, al sicuro, in un luogo dove gli incubi non hanno alcun potere.
  Poco dopo sentii chiaramente i respiri dei miei fratelli farsi regolari segno che si erano addormentai e che presto le immagini dell’incubo avrebbe invaso nuovamente la mia mente impedendomi così di prendere sonno.
  Nel mio incubo mi trovavo con Claudio.
  Stavamo ridendo e scherzando quando, a un tratto, si avvicinò un po’ troppo a me, alle mie labbra, per poi coprirle con le sue.
  Io ero immobile, con gli occhi sbarrati, intenta ad osservare atterrita quei due occhi azzurri che tanto amavo.
  Poco dopo Claudio si era allontanato, ma una volta che fu abbastanza lontano da distinguere i tratti del viso, mi prese quasi un infarto.
  Non era più Claudio. Era Mike.
  Il resto dell’incubo era rimasto invariato rispetto alle altre volte, tranne per una frase.
  «Parlando per assurdo, perché dovrei mantenerla se tu stessa non l’hai mantenuta?».
  Si riferiva al bacio con Claudio.
  Come previsto non riuscii più ad addormentarmi.
  Trascorsi quelle poche ore che mancavano al risveglio di tutta la casa a rivivere il mio incubo.
  Non lo facevo intenzionalmente. Mi bastava chiudere gli occhi o fissare il vuoto perché le immagini di quell’incubo tornassero ad invadermi la mente.
  Dovevo assolutamente tenermi occupata. Cosa non facile a quell’ora.
  Era troppo presto per farmi la doccia e avrei finito con lo svegliare tutti per la grazia da elefante che possedevo di prima mattina.
  Non potevo preparare la colazione perché la macchinetta del caffè avrebbe fatto troppo rumore.
  Non potevo alzarmi e sistemare la mia camera perché avrei dovuto necessariamente accendere la luce svegliando nuovamente i miei fratelli.
  Non potevo far altro che starmene a contare le stelle fosforescenti che si erano ormai spente dopo tutto quel tempo, rendendo il mio “passatempo” impraticabile, lasciandomi in balia dei miei pensieri.
  Varie volte da piccola mi era capitato di fare dei sogni premonitori o rivelatori.
  Non volevo però credere che lo fosse anche quello. Se l’avessi creduto non sarei riuscita a trovare la forza per continuare a vivere.
  Era la speranza del suo ritorno a farmi sopportare le fatiche e torture quotidiane. Se questo incubo si fosse avverato dove avrei potuto trovare le forze per andare avanti?
 
  «Buongiorno Lucia»
  Sollevai lo sguardo dalle mani che mi stavo torturando da dieci minuti a quella parte. Claudio, con un sorriso a trentadue denti da un orecchio all'altro, mi sovrastava con il suo metro e ottanta.
  Ci trovavamo difronte al cancello della scuola, insieme a tutti gli altri alunni, in attesa del suono della campanella.
  Quella mattina avrei preferito che Claudio se ne stesse a casa.
  Perché mi si era avvicinato il giorno precedente?
  Perché cercava di essermi amico anche dopo aver compreso che non avevo alcun tipo di rapporto con gli altri compagni di classe?
  Perché mi aveva difeso con Giulia l'oca quando quest'ultima, alla fine, aveva ragione?
  Perché mi ero lasciata coinvolgere dai suoi discorsi?
  Perché, nonostante quegli occhi ipnotici uguali ai suoi, in sua compagnia non mi salivano le lacrime agli occhi al ricordo di Mike?
  Ma le domande principali erano altre.
  Come conosceva Marco? Che rapporto c'era tra i due? Perché sembrava quasi collegato a Mike?
  Le uniche domande che avrei potuto porgli erano le ultime, ma avevo promesso a mio fratello che non avrei indagato. Per il momento.
  Mi dispiaceva per come l'avevo trattato quella mattina.
  Non appena si era svegliato lo avevo spinto molto poco gentilmente facendolo cadere a terra di faccia. Questo perché dovevo entrare in bagno a farmi la doccia.
  Avevo atteso tutta la notte il momento in cui avrei potuto lasciare scorrere l'acqua sul mio corpo illudendomi che potesse portare con sé, via da me, tutti i pensieri che da ore mi tormentavano.
  Non gli avevo neanche chiesto scusa poverino.
  Dopo aver osservato per qualche secondo Claudio ancora tutto sorridente distolsi lo sguardo fissandolo sulle macchine che sfrecciavano lungo la strada.
  Come poteva salutarmi con quel sorriso dopo che il giorno prima era fuggito da me perché gli avevo chiesto come conoscesse mio fratello?
  La paralisi facciale era l’unica spiegazione plausibile.
  Sentii Claudio posarmi una mano sulla spalla per poi girarmi verso di sé. «Ehi, cos’hai stamattina? Ho fatto qualcosa?»
  Mostrai un espressione indifferente, ma dentro di me stavo scoppiando. Avrei voluto dirgli di mettersi un paio di lentine colorate in modo da non mostrarmi quegli occhi, di smettere di sorridere, di smettere di cercare di diventarmi amico.
  Avrei voluto urlargli di non osare mai baciarmi.
  «Niente». Questa fu la mia risposta, ma presto fu coperta dal suono della campanella.
  Senza aspettare oltre corsi all’interno della scuola.
  Ovviamente non ero tanto stupida da andare in classe dove me lo sarei ritrovato inevitabilmente accanto.
  Corsi quindi verso il bagno delle ragazze del piano superiore.
  Lo sentivo seguirmi e, non appena raggiunsi il bagno aprii di scatto la portafinestra da cui partivano le scale antincendio per poi nascondermi nella cabina con la tazza non funzionante.
  Come previsto, una volta entrato nel bagno, aveva notato l’uscita d’emergenza aperta. Percepii i suoi passi farsi più veloci lungo le scale di metallo.
  Una volta sicura che fosse ormai lontano feci per uscire, ma dei gemiti provenienti dalla cabina accanto mi fecero bloccare.
  Non so perché lo feci, ma mi arrampicai silenziosamente sul bordo del water per poter scorgere oltre il muro che separava, non completamente, le cabine.
  Per poco gli occhi non schizzarono fuori dalle orbite.
  Giulia Alessi stava limonando con il migliore amico del suo ragazzo.
  Sapevo che fosse una poco di buono, ma non pensavo che arrivasse a tanto. Di solito si limitava a fare la gatta morta.
  Ma mettersi a limonare con il migliore amico del suo ragazzo!
  Sin dal primo anno di liceo ero stata il suo bersaglio preferito, e la situazione era troppo alettante, tanto che presi dalla tasca posteriore dei jeans il cellulare e, una volta messo il silenzioso scattai un paio di foto a quella scena che mi si parava davanti.
  Ero così soddisfatta di quella scoperta da non chiedermi come facessero ad essere lì in quanto non avevo sentito nessun altro dopo che Claudio se n’era andato.
  Facendo il più silenzio possibile, uscii in corridoio per poi dirigermi velocemente in classe.
  Quelle foto mi sarebbero state utili, ne ero sicura. Per due interi anni aveva fatto di tutto pur di rendermi la vita impossibile, più di quanto già non fosse, ed era tempo di renderle pan per focaccia.
  Entrai in classe con un sorriso appagato sulle labbra. La professoressa di matematica era già in classe permettendomi quindi di evitare altre discussioni con Claudio. Anche se, effettivamente, non le si potevano definire tali in quanto era lui che parlava, mentre io accennavo a poche parole (che spesso venivano coperte da altri suoni).
  Dopo aver salutato la professoressa ed essermi scusata per il ritardo, andai a sedermi al mio posto.
  «Bene ragazzi, direi che possiamo cominciare» la professoressa si alzò tenendo in mano una pila alquanto minacciosa di fogli.
  «Come già vi avevo accennato ieri, da oggi cominceranno i test d’ingresso di tutte le materie» Intanto, nel parlare, stava distribuendo a ognuno i vari fogli.
  Una volta finito di distribuire le fotocopie a tutti, ci augurò buon lavoro raccomandando di fare tutto da soli in quanto i risultati non avrebbero influito sui nostri futuri voti, ma avrebbero aiutato i professori a valutare il livello di preparazione.
  Feci per iniziare, ma fui interrotta dal cigolio della porta che si apriva, e chi poteva essere se non Giulia Alessi?
  Non osai immaginare cos’altro avesse combinato in bagno per tutto quel tempo. Aveva tutti i capelli fuori posto, gli occhiali da vista storti, il rossetto sbavato, alcuni lembi della maglietta dentro i pantaloni e, per finire, la cerniera di quest’ultimi aperta.
  Questi dettagli non passarono di certo inosservati da tutti i presenti, ma nessuno osava fare commenti. Non davanti alla professoressa che in quel momento era alquanto scossa dalla vista della sua diligentissima e coscienziosissima alunna in quello stato.
  Nessuno tranne, ovviamente, il nuovo arrivato.
  «Cos’hai fatto? Vieni direttamente dal letto dove ti sei preparata? O sei stata forse investita da una mandria di animali?» Fece finta di rifletterci un secondo su portando la mano destra sul mento e alzando gli occhi al cielo.
  «Direi la seconda, ma al posto della mandria direi che l’animale fosse uno solo» Quelle parole mi erano sfuggite. Era stato istintivo. Ma non me ne pentii.
  Non dopo aver visto la faccia dell’oca.
  Aveva gli occhi e la bocca spalancata avendo capito che sapevo cosa avesse fatto, dove e con chi.
  Quell’espressione la rendeva ancora più ridicola di quanto non fosse prima, facendo così scoppiare tutta la classe in una fragorosa risata, compresa la professoressa.
  Dopo alcuni istanti però quest’ultima riportò la tranquillità intimandoci di continuare con i test.
  Pochi minuti dopo la classe era in un silenzio quasi pauroso. Tutti erano intenti a rispondere al meglio ai quesiti.
  Tutti tranne colui che si era alzato per consegnare i fogli alla professoressa.
  Erano passati si e no 5 minuti. Claudio non poteva aver finito.
  «Cosa vorrebbe dire questo?» La professoressa aveva osservato i fogli con un sopracciglio alzato.
  «Mi dispiace professoressa, ma so rispondere solo a quelle domande.» Possibile che sorridesse anche in una situazione come quella? Ok, non era il solito sorriso tranquillo e felice, ma era un sorriso dispiaciuto.
  Ma era comunque un sorriso!
  Come può una persona stare sempre, perennemente, col sorriso sulle labbra?
  «D’accordo, questo vuol dire che dovrai farti aiutare da qualcuno. Vediamo un po’ chi potrebbe aiutarti»
La professoressa ,intanto, aveva tirato fuori l’agenda personale dell’anno precedente per stabilire il fortunato.
  Ormai nessuno prestava attenzione alle fotocopie davanti a sé. Osservavano tutti la scena che si stava svolgendo alla cattedra. 
  Da una parte c’erano i ragazzi curiosi. Dall’altra c’erano le ragazze speranzose di essere scelte. E poi c’ero io che pregavo di non essere così tanto sfortunata.
  «Direi che Lucia Valenti sia perfetta per tale compito». Quell’arpia concluse il tutto guardandomi con un sorriso dolce.
  «Ma professoressa, quest’anno iniziamo anche la filosofia. Non so se sarò capace» Tentai di giustificarmi.
  «Non preoccuparti parlerò io con il professore dicendogli che potrebbe dare a voi due un po’ di tempo in più per farvi preparare» Cercò di tranquillizzarmi, ma non capiva che, l’unico modo per farmi mettere l’anima in pace, era affidare quel compito a qualcun altro.
  Utilizzai l’ultima carta a mia disposizione «Beh, magari potrebbe affidare questo compito a Giulia, dopotutto lei è la prima della classe». Cercai di sorridere, sperando che quell’incurvamento all’insù di labbra potesse convincerla.
  Ovviamente, però, le mie parole non servirono a molto. «Secondo me tu sei perfetta. Inoltre siete compagni di banco. E questa discussione finisce qui».
  Rassegnata abbassai lo sguardo sul mio test.
 
  «Direi che possiamo cominciare oggi no?» Sollevai lo sguardo verso Claudio. Aveva quel solito sorriso dipinto sulle labbra.
  Tornai a fissare il pino che si vedeva dalla finestra. «D’accordo. Alle 3 a casa tua. Scrivimi sul diario l’indirizzo»
  Non volevo che mettesse piede nella casa dove io e Mike eravamo cresciuti insieme. Non lui che, con quei suoi sorrisi sempre presenti, mi ricordava sempre più Mike.
  Ma non sapevo che una volta entrata in casa sua tutto sarebbe cambiato.


Mio angolino personale:
Per chi è arrivato fin qui senza volermi tirare addosso dei pomodori marci volevo dire grazie. Grazie per aver letto questi capitoli a tratti orribili che mi sono venuti fuori.
Volevo inotre ringraziare chi recensisce, preferisce, segue e ricorda la storia. Grazie davvero e cosa importante RECENSITE

 

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Capitolo 5
*** Forse era meglio così ***



 


Salve a tutte. Prima di passare al capitolo vorrei chiedere perdono per il ritardo. Più volte ho cercato di scrivere questo capitolo (orribile secondo me), ma c'era sempre un qualcosa che mi impediva di proseguire, dall'arrivo improvviso di ospiti al computer che si bloccava a ogni lettera che scrivevo. Inoltre ho pubblicato senza neanche rileggerlo per cui ci saranno numerosi errori/orrori. Volevo anche informarvi di aver creato un gruppo su facebook per spoiler, comunicazioni e quant'altro.
Vi lascio al capitolo, e, per coloro che ci arriveranno, ci vediamo giù.

 

Capitolo 4

 
  «Mi vuoi spiegare perché cavolo hai scelto di iscriverti ad uno scientifico? Cos’avevi nel cervello quando hai preso questa scelta?» Chiesi ironicamente «La scimmia che fa sbattere i piatti o il criceto che gira nella ruota?».
  Erano trascorse ormai tre ore dal mio arrivo in casa di Claudio.
  Solo dopo aver fissato luogo e ora d’incontro per le ripetizioni mi ricordai di non sapere dove vivesse. Dovetti per cui correre a perdifiato per raggiungerlo prima che salisse sul bus.
  In quelle tre ore, col passare dei secondi, il mio nervosismo non aveva fatto altro che crescere a dismisura fino a farmi scoppiare.
  «Lucia ti prego» Mi supplicò con le mani congiunte «ho bisogno di una pausa! Non ne posso più, sono al limite. Sono tre ore che non faccio altro che ripetere definizioni e proprietà»
  Si stava lamentando di stare ripetendo definizioni e proprietà di monomi, binomi e polinomi! Era programma di primo superiore, e noi eravamo in terzo!
  «Ciò che è al limite, in questo momento, è solo la mia pazienza. E io dovrei farti recuperare il programma di un anno e mezzo? Col cavolo»
  Visti i nostri toni, metà quartiere ci aveva sicuramente sentiti.
  Stremata da quella discussione che andava avanti da più di venti minuti mi accasciai sulla sedia, non molto stabile visto lo scricchiolio che emise, su cui ero rimasta seduta per tutto il tempo cercando di fare entrare quante più nozioni possibili di quella materia nella testa di Claudio.
  Avevo ormai preso la mia decisione: il giorno dopo sarei andata dalla professoressa dicendole che avrei preferito farmi interrogare ogni giorno per tutto l’anno scolastico nella sua materia pur di non dover dare ripetizioni a quell’essere sprovvisto di cervello.
  Ormai non lo definivo neanche più una persona: le persone si contraddistinguono dagli animali per l’intelletto.
  L’essere difronte a me non pensava. Non ragionava. Sì, insomma, non aveva cervello.
  In quelle tre ore avevo cercato, con tutte le mie forze, di fargli imparare almeno le basi per le equazioni di primo grado. Ma niente. Eravamo ancora al punto di partenza.
  «Io penso invece che tu non voglia avere niente a che fare con me indipendentemente da queste “disastrose ripetizioni”» Mi urlò contro mimando con le dita le virgolette alle parole disastrose ripetizioni. «Mi vuoi spiegare perché ce l’hai con me? Cosa ho fatto di male?»
  Non avevo abbastanza forze per alzarmi e fronteggiarlo guardandolo negli occhi.
  Come potevo dirgli che il mio atteggiamento freddo e distaccato di quel pomeriggio era dovuto al suo tentativo di diventarmi amico, ai suoi occhi che tanto amavo che avevano il potere di farmi sentire tremendamente felice e al tempo stesso quasi depressa?
  Come potevo dirgli che non volevo stargli intorno per mantenere la promessa fatta a mio fratello di non indagare oltre sul suo rapporto con l’essere in mia presenza?
  Semplice. Non potevo. «Esisti».
  Avevo risposto senza riflettere alle conseguenze. Era stata l’unica risposta che, in un certo senso, racchiudeva le risposte vere.
  Avevo pronunciato quella breve parola con tutto il disprezzo possibile. In quell’istante volevo solo ferirlo, fare in modo che non volesse più avvicinarsi a me.
  Ma non appena vidi il suo viso incupirsi e il suo sguardo farsi sempre più sofferente me ne pentii.
  Non avevo alcun diritto di rinfacciargli la sua stessa nascita. Nessuno aveva un tale diritto su un’alta persona. Non lo avevano i genitori sui figli, figurarsi degli sconosciuti.
  «Claudio, mi dispiace, non vo…» Cercai di scusarmi ma mi interruppi quando vidi Claudio voltare la testa con un movimento secco per non guardarmi. L’avevo ferito, più di quanto desiderassi fare.
  Purtroppo per me la macchina del tempo non era stata ancora inventata, per cui, anche volendo, non sarei potuta tornare indietro e cancellare quella maledetta risposta.
  «Per favore vattene» Era stato un sussurro. Quelle tre parole furono pronunciate con la voce spezzata dalle imminenti lacrime.
  Conoscevo bene l’orgoglio maschile. Avevo trascorso buona parte della mia vita circondata da Mike e Marco, e li avevo visti piangere una sola volta. I ragazzi tendono a tenere per sé le lacrime. Piangere è, secondo molti, segno di debolezza. E poi ci sono quei ragazzi che non vogliono piangere di fronte a una ragazza perché si suppone che siano le ragazze quelle da dover essere consolate, e i ragazzi coloro che consolano.
  Percepivo nell’aria il suo dolore. Avrei voluto rimanere, scusarmi, consolarlo, conoscere la sua storia. Avevo capito che la mia risposta gli aveva riportato alla mente un qualche episodio che lo aveva segnato. Glie lo potevo leggere negli occhi.
  Ma non ero nessuno per lui. Avevo già fatto abbastanza.
  Senza dire nulla raccolsi in fretta le mie cose e uscii da quella casa. Sulla soglia della porta d’ingresso sentii inevitabilmente Claudio scoppiare a piangere.
  Avevo sicuramente esagerato. Ma forse, pensai, era meglio così.
 
  La mattina seguente Claudio non si era presentato a scuola.
  Avrei voluto parlargli, chiarire. Scusarmi. Ma Lui non c’era e mi sentivo in qualche modo colpevole della sua assenza.
  Inoltre in quell’istante stava entrando in classe la professoressa di matematica.
  Avevo preso la decisione di parlarle per farle sapere che non ero capace di portare Claudio al livello di preparazione della classe. Ma avrei preferito prima chiarire con Claudio.
  Per un momento avevo pensato di continuare con le ripetizioni, ma avevo paura.
  Continuare le ripetizioni avrebbe significato trascorrere interi pomeriggi con Claudio, andarci d’accordo, stringere un legame d’amicizia.
  Io non volevo diventare amica di nessuno. L’avevo promesso a Mike: nessuno avrebbe preso il suo posto, quindi non potevo avere amici all’infuori di mio fratello.
  Io mantenevo sempre le promesse.
  Così come ero intenzionata a mantenere la promessa fatta a Mike, volevo mantenere anche quella fatta a Marco pochi giorni prima.
  Quando facevo delle promesse le mantenevo, che le avessi fatte a uno sconosciuto o a una persona importante era irrilevante. Nel mantenere le promesse mettevo da parte l’egoismo, che caratterizza ogni essere umano, la curiosità, i limiti alla mia pazienza.
  Ero pronta ad alzarmi per andare alla cattedra e parlare alla professoressa della mia decisione, ma, posata la borsa, chiese il silenzio senza neanche fare l’appello, segno che aveva una comunicazione importante.
  «Ragazzi, devo darvi una comunicazione importante» Attese qualche secondo assicurandosi che tutti le stessero prestando attenzione «Il vostro nuovo compagno si trova in ospedale».
  Mi sentii crollare il mondo addosso. Inevitabilmente mi sentii responsabile.
  Era assurdo pensarlo, lo sapevo bene, ma qualsiasi cosa gli fosse capitata, se non avessimo discusso, avrebbe potuto benissimo evitarla.
  Senza neanche rendermene conto mi si riempirono gli occhi di lacrime.
  La professoressa non aveva finito di parlare «È stato investito da una macchina e ora è in coma»

Mio angolino personale:
so che è un capitolo un po' breve e molto deludente (dopo tutti questi giorni di "ferie" mi viene difficile scrivere come prima), ma dal capitolo successivo inizierà la storia vera. Inoltre vorrei ringraziare chi segue, ricorda, preferisce e soprattutto recensisce questa storia, siete voi che mi date soddisfazione e mi incitate a continuare la storia semplicemente mettendola in una delle tre liste o spendendo parte del vostro tempo scrivendomi anche poche parole.

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Capitolo 6
*** Andare avanti ***


Un grazie alla mia adorata PinkyCCh per il magnifico banner.

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Capitolo 5
«Lucia!». Una mano posata sulla mia spalla intenta a scollarmi mi fece tornare alla realtà.
Mi osservai intorno. L’aula era ormai deserta. L’unico zaino presente era il mio, segno che la giornata scolastica era terminata. Facendo vagare lo sguardo per la classe individuai Marco.
Aveva gli occhi leggermente spalancati, tinti di blu, un blu scuro, cupo, ma allo stesso momento luminoso. Compresi che la campanella dell’ultima ora era suonata da un pezzo e Marco, preoccupato nel non vedermi, era venuto a cercarmi. Potevo leggerlo nel colore dei suoi occhi. C’era preoccupazione, sollievo e una leggera sfumatura di rabbia.
«Mi vuoi spiegare cosa ti prende?!» Esclamò alzando la voce «È da ieri sera che sei strana. Non ha toccato cibo, non hai partecipato ai nostri soliti discorsi a tavola, hai anche ignorato Margaret quando ti ha chiesto di leggerle una favola e ora ti ritrovo qui, in classe, dopo che la campanella è suonata mezz’ora fa!».
Era in collera, ma lo era per la preoccupazione.
«Scusa» era un sussurro quasi inudibile. Involontariamente mi si riempirono gli occhi di lacrime.
Alla vista dei miei occhi velati di lacrime, Marco mi prese tra le braccia facendomi scoppiare in un pianto a dirotto.
«È… tutta… co-colpa… mia» cercavo di parlare, di sfogarmi, ma i singhiozzi mi impedivano di pronunciare una frase senza che balbettassi.
«Shh. Qualsiasi cosa sia accaduta non devi fartene una colpa». Marco cercava di consolarmi con dolci sussurri, ma non poteva fare nulla. Ero convinta che fosse colpa mia. In qualche modo lo sapevo.
«No. Non è vero. Io. Sono stata io… a fare…entrare… Claudio… in coma» Non percepii il corpo di Marco irrigidirsi al suo nome, ero troppo intenta a ricordarmi come si respirasse.
Avevo parlato con troppa foga, e i singhiozzi contribuirono a mozzarmi il fiato. A tutto ciò si aggiunsero una morsa alla parte sinistra del petto, all’altezza del cuore, e le vertigini.
Stavo avendo un attacco di panico. Marco, accortosene, mi prese una mano posandola tra il cuore e la clavicola in modo che potessi percepire i suoi respiri e seguirli, facendomi, così, calmare.
«Ora come va?» Mi chiese in un sussurro.
Ancora non riuscivo a parlare per cui mi limitai ad annuire col capo.
«Andiamo a casa. Hai bisogno di riposarti» Mi disse afferrandomi la stessa mano che avevo posato sul suo petto e prendendo in spalla il mio zaino.
Senza aggiungere altro ci avviammo verso i cortile che fungeva da parcheggio riservato ai mezzi degli studenti.
Durante il tragitto in motorino, contrariamente alle altre volte, la mia mente non riuscì a liberarsi.
Continuavo a rivivere quel pomeriggio. Continuavo a vedere il volto sconvolto, sofferente e anche un po’ deluso di Claudio alla mia breve ma devastante risposta.
Le lacrime continuavano a solcarmi il viso, ma il vento, creatosi per il movimento del motorino, le spazzava via dalle mie guance.
Avrei voluto che la lacrime fossero tutti i sensi di colpa che mi attanagliavano e che, così, una semplice corsa in motorino mi avrebbe liberata da quel peso sul cuore.
Non volevo soffrire. Quale essere umano dotato di un minimo di intelligenza poteva anche solo pensare di voler soffrire? Mi sentivo responsabile di quanto era accaduto a Claudio. Ma non lo volevo, perché ciò avrebbe significato avvicinarmi a lui per farmi perdonare e, ironia della sorte, era lo stesso motivo che mi aveva spinta a rispondergli in quel modo.
Una volta giunta a casa mi precipitai nella mia camera senza salutare nessuno e, con le copiose lacrime che mi inondavano il viso mi abbandonai tra le braccia di Morfeo.

Qualche ora dopo mi risvegliai percependo un paio di piccole manine stringermi il braccio sinistro e un paio di grandi e sicure mani che mi carezzavano i capelli.
Ero circondata. Alla mia sinistra la piccola Margaret dormiva beatamente aggrappata al mio braccio quasi come se fosse un peluche. Alla mia destra Marco, con un lieve sorriso sulle labbra, mi guardava.
«Ti senti meglio?» Mi chiese in un dolce sussurro.
«Sì» risposi «Perché siete nel mio letto?» continuai. Un brivido mi percorse la schiena.
Non che il ritrovarmi a letto con loro fosse strano o mi dispiacesse, ma tutto ciò preannunciava o un regalo, o un interrogatorio.
La prima ipotesi era da scartare in quanto il mio sedicesimo compleanno sarebbe stato l’indomani. L’ipotesi più plausibile era quindi la seconda.
Non avevo alcuna via di fuga.
Sfilando il braccio dalle grinfie di Margaret, l’avrei svegliata facendola scoppiare in un pianto interminabile durante il quale mi si sarebbe attaccata addosso in stile piovra.
Non avrei potuto scavalcare Marco in quanto era il doppio di me sia in altezza che in larghezza. Non che fosse grosso, per carità, ma due ore di palestra al giorno per due anni non ti donavano certo un fisico gracile.
Non sarei neanche potuta fuggire scivolando verso il basso. Marco aveva ben pensato di intrecciare le sue gambe alle mie.
«Volevo capire cosa fosse accaduto. A quanto mi hai fatto capire, il nuovo arrivato c'entra qualcosa». Pronunciò tale risposta dapprima quasi con dolcezza per poi terminare con un pizzico di disprezzo.
Marco avrebbe benissimo potuto risparmiarsi la trappola. Avevo bisogno di sfogarmi e sarei andata comunque a cercare conforto in lui, indipendentemente dall’agguato.
Cominciai quindi a raccontargli tutto. Ogni singolo dettaglio. Gli parlai del primo giorno di scuola, di come Claudio mi avesse difesa da Giulia, di come aveva cercato di essermi amico, e delle sensazioni che mi suscitava semplicemente scrutandomi con quegli occhi che tanto amavo.
Gli raccontai del giorno precedente, di quanto avevo provato a non stargli vicino, delle ripetizioni, della mia risposta crudele e della notizia del suo incidente.
Spiegai a Marco le ragioni di quella risposta, ovvero la promessa fatta a Mike.
Durante il mio monologo aveva assunto un’espressione neutra, quasi indifferente, ma, non appena accennai a Mike e alla promessa che gli avevo fatto vidi il suo volto incupirsi, così come i suoi occhi.
«Lucia ascoltami bene». Mi prese il viso tra le sue grandi mani e mi si avvicinò fino a far coincidere le fronti in modo che potessi guardarlo negli occhi. Inevitabilmente ricordai quando Mike mi aveva tenuta così e, inevitabilmente, delle lacrime vi velarono gli occhi.
«Devi andare avanti. Sono passati quattro anni ormai. Per tutto questo tempo non ha voluto cercarti. Avrà avuto centinaia di occasioni per cercarti, darti sue notizie. Non l’ha fatto».
Le lacrime cominciarono a rigarmi il viso. Sapevo che quelle parole non erano altro che la realtà. L’avevo sempre saputo. Semplicemente, la parte stupida di me, continuava a sperare che tornasse­, che non mi avesse cercata in tutti quegli anni semplicemente perché non aveva potuto.
Ora la realtà mi si presentava davanti e faceva male.
Con i pollici cercò di asciugarmi le lacrime «Non ti mentirò. Claudio mi sta un casino sulle palle e quando l’ho visto accanto a te, l’altro giorno, stavo per tirargli un pugno nello stomaco semplicemente perché ti stava sorridendo» Un sorriso amaro gli si dipinse sul volto. «Ma ti ha fatta sorridere. Ovviamente non sempre, ma è la prima persona, in quattro anni, ad averti strappato un sorriso sincero. Se lui è la tua unica possibilità di andare avanti allora mi sta bene. Dovrò comprarmi un sacco da boxe da appendere in camera su cui sfogarmi ogni qualvolta lo vedrò, ma non importa. Non voglio più vederti triste per Mike»
Abbassai lo sguardo. Le lacrime continuavano il loro percorso lungo il mio viso. Secondo Marco dovevo andare avanti, lasciare che Mike restasse un ricordo. Ma ero pronta a voltare pagina?
«Solo…» Sollevai lo sguardo verso Marco che mi stava parlando «cerca di non scoprire come o perché ci siamo incontrati io e Claudio. Complicherebbe tutto. Me lo prometti?»
Gli sorrisi «Ti prometto che non indagherò»

«Scusi, saprebbe indicarmi il reparto di terapia intensiva?»
Era assurdo come, appena entrata in ospedale, nessuno fosse disposto a darmi delle indicazioni. Dovetti chiedere informazioni a una signora mora dagli occhi castani che si stava prendendo un caffe alle macchinette.
La vidi scrutarmi da capo a piedi con un’espressione tra lo scettico e il fastidio. Per alcuni minuti restammo in un silenzio imbarazzante fi quando decise di rispondermi.
«Sei qui per far visita a Claudio vero?» Sobbalzai sul posto.
Chi era quella donna? Avrà avuto all’incirca una trentina d’anni o poco più. Non poteva essere la madre. Ma non poteva neanche essere la sorella. Non sapevo neanche se ce l’avesse la sorella.
Titubante le risposi «Si. Lei è ..?» chiesi curiosa di dare risposta alle mie domande interiori. Ero tanto intenta a cercare di capire chi fosse quella donna da chiederle come sapesse che stesi cercando giusto Claudio.
«La madre». Sgrani gli occhi. Ero sotto shock.
Intanto perché, facendo qualche calcolo, compresi che fosse diventata madre tra i sedici e i diciannove anni.
Inoltre aveva risposto con disprezzo, quasi disdegnasse di essere sua madre.
«P…pia…piacere di conoscerla» risposi.
«Per rispondere alla tua domanda, ti basta salire al terzo piano e svoltare a destra. Stanza numero 3». Senza aggiungere altro si voltò verso l’uscita.
Non sarebbe salita con me da suo figlio? Avrei voluto chiederglielo ma un’altra domanda aveva maggior bisogno di risposta.
«Scusi! Perché è stato investito?».
Era quella la domanda a cui desideravo ardentemente dare una risposta. La domanda che da ore mi tormentava.
«Ha preso il posto del fratello minore» Aveva risposto con indifferenza. Quasi come se il fatto che il figlio minore stesse per essere investito, o il fatto stesso che Claudio fosse in coma per aver cercato di salvarlo, non la toccassero minimamente.
Un campanello d’allarme risuonò nella mia mente.
Da quel che avevo capito quella donna aveva dato alla luce Claudio più o meno alla mia età.
Dalle risposte che mi aveva dato potevo leggere semplice indifferenza, se non anche disprezzo.
Poi ricordai il volto sofferente di Claudio quando gli avevo detto che la causa del mio comportamento freddo e antipatico fosse la sua esistenza.
Ero rimasta ferma a osservare quella testa mora allontanarsi, mentre il mio cervello elaborava tutti i dati a disposizione.
Giunta a una conclusione, mi diressi a passo spedito verso Claudio.
Dopo alcuni minuti di corsa lungo le scale e i corridoi dell’ospedale giunsi difronte alla stanza numero 3 del reparto di terapia intensiva.
Senza alcuna esitazione entrai in quella stanza, ma rimasi pietrificata alla visione dell’immagine che mi si parava davanti.
Non mi ero preparata mentalmente a vedere Claudio quasi privo di vita, immobile in un letto con diversi macchinari attorno. Era pallido, cadaverico, e sarei scoppiata a piangere convinta che fosse morto se non ci fossero state quelle macchine che dimostravano che fosse ancora vivo.
Lentamente mi avvicinai a lui fino a raggiungere la sedia posta accanto al letto.
«Ehi, ciao». Le lacrime ricominciarono, per l’ennesima volta in quella giornata, a rigarmi il viso.
Mi sentivo una stupida a rivolgergli la parola nel suo stato di coma.
Molti pensano che le persone in coma riescano a sentire ciò che gli capita attorno. Altri pensano che si trovino in una realtà parallela.
Io non sapevo cosa pensare. Sapevo solo che dovevo chiedergli scusa, anche se non poteva sentirmi.
«Claudio. Mi dispiace. Sono stata un’idiota. Non volevo dire ciò che ho detto».
Non notando alcuna reazione cominciai a disperarmi.
Volvevo che si svegliasse.
Volevo vedere quegli occhi.
Volevo vedere quel sorriso.
Volvevo che mi vedesse. Che vedesse quanto in colpa mi sentivo.
«Ti prego svegliati!» urlai singhiozzando.
Non riuscendo più a trattenermi scoppiai a piangere, più di quanto già non stessi facendo, incrociando le braccia accanto al suo fianco e poggiandoci il viso.
E, per l’ennesima volta, mi addormentai in lacrime.
Non sapevo, però, che un paio di occhi mi aveva osservata dalla soglia della porta per tutto il tempo.

Mio angolino personale:
Prima di tutto chiedo perdono per il capitolo schifoso che mi è uscito.
Passando al capitolo...
Perchè Marco ha detto che, se Lucia avesse scoperto per quale motivo lui e Claudio si conoscono, tutto si complicherebbe? Cosa nascondono questi due? C'entra per caso Mike? Se si, che rapporto c'è tra il nuovo arrivato e Mike? Perchè la madre di Claudio lo disprezza così tanto? "Solo" perchè le ha rovinato la gioventù?
Perchè Marco sostiene che Mike non abbia voluto cercare Lucia nonostante le occasioni non gli siano mancate?
Ma la domanda fondamentale è: di chi sono quegli occhi che hanno scrutato Lucia?
Hahahahaha non so se dovrei dirlo ma a quest'ultima domanda non so neanche io dare una risposta. Per ora.
Hahahaha ok dopo tutte queste domande mi vorrete uccidere :3

Passiamo ai ringraziamenti. Un grazie a chi recensisce i capitoli, a chi segue, ricorda e preferisce la storia. E un GRAZIE a PinkyCCh che, come ho già detto prima, mi ha creato il banner e che ha messo la mia come sua UNICA storia preferita <3

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Capitolo 7
*** Ricominciare a vivere ***


Un grazie alla mia adorata PinkyCCh per il magnifico banner.

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Aiutiamo questa fantastica pagina a crescere.

Inoltre, per chi volesse, qui c’è il gruppo Facebook della storia

 

Attenzione: per chi non l'avesse notato, ho cancellato il capitolo pubblicato il 21-08-2013. L'ho eliminato in quanto non mi aveva molto soddisfatta per cui eccomi qui, con un capitolo lungo quasi il doppio. E un enorme grazie a Giulia ed Alessandra, senza le quali questo capitolo sarebbe uno schifo. Ci si vede sotto.
 

Capitolo 6

  Poco tempo dopo essermi addormentata sulla sedia accanto a Claudio, fui svegliata dall'infermiera di turno che mi avvertiva dell’imminente fine dell'orario di visita.
   Per qualche secondo rimasi ad osservare il mio quasi amico. Speravo di trovarlo in una posizione diversa da quella in cui l'avevo visto poco prima di sprofondare tra le braccia di Morfeo, di trovarlo finalmente cosciente al mio risveglio.
  Evidentemente speravo sempre nelle cose impossibili. Mi convinsi quindi che quel giorno non si sarebbe svegliato.
  Quasi come un automa mi alzai senza dire nulla, per poi dirigermi verso la porta. Appena giunta sulla soglia di questa mi voltai verso il letto su cui giaceva immobile e pallido, quasi cadaverico.
  Animate di vita propria, le mie gambe mi riportarono accanto a lui e, chissà per quale motivo, posai le mie labbra sulle sue.
  Si trattava di un semplice sfioramento di labbra, privo di amore. Io non ne ero innamorata. Io ero innamorata di Mike.
  Marco, tuttavia, mi aveva spronata ad andare avanti, lasciarmi Mike e tutto ciò che rappresentava alle spalle. Mi aveva incitata ad avvicinarmi a Claudio, avendo visto in lui la mia unica via di fuga da quel labirinto di disperazione, dolore e sofferenze in cui ero rimasta bloccata per quattro interi anni.
  Avevo deciso di seguire il suo consiglio, motivo per cui mi trovavo in quell’ospedale, oltre a quello di voler scusarmi con lui e stargli accanto quando si sarebbe svegliato.
  Col senno di poi quel bacio lo interpretai come un patto con cui mi impegnavo a lasciarmi tutto alle spalle e ricominciare davvero a vivere.
  Il lieve bacio tra me e Mike quattro anni prima, insieme alla sua confessione, era stato l’inizio della mia non vita. Questi ricordi dolorosi, seppur felici, mi erano sempre rimasti impressi nella mente, ed erano stati il motivo principale dei miei momenti di depressione. Mi ricordavano costantemente ciò che in quel momento non potevo avere: il mio migliore amico, l’amore di qualcuno che non fosse un parente, la sensazione di sentirsi finalmente piena e non più un involucro di carne ed organi vuoto.
  Baciando Claudio, seppur impercettibilmente, ponevo simbolicamente fine a quel periodo, ricominciando a vivere.
  Rimasi in quella posizione per pochi secondi. Dopodiché uscii da quella camera senza più voltarmi indietro.
   Decisa a tornare a casa scesi al pian terreno con l’ascensore per poi uscire dall’ingresso principale dell’edificio. Poco prima di varcare la soglia della porta mi voltai verso un’infermiera che sentivo correre nel tentativo di attirare l’attenzione di una “signorina” come la chiamava lei.
  Con mia enorme sorpresa notai che stava chiamando proprio me per cui mi ci avvicinai.
  Affaticata dalla corsa,appena mi raggiunse potendosi fermare,poggiò le mani sulle ginocchia respirando a pieni polmoni.
  «Mi dica» le dissi facendole sollevare il viso. Era la stessa infermiera che mi aveva svegliata.
  «Il ragazzo che è venuta a visitare si è ripreso!»
  Un’espressione di gioia si fece spazio sul mio volto e senza neanche risponderle corsi nuovamente verso il terzo piano. Non mi curavo delle espressioni sbigottite delle persone che mi stavano intorno, m’importava solo di raggiungere Claudio.
  Nonostante tutto avevo capito che a lui, anche solo un po’, ci tenevo. In un modo totalmente anormale era diventato mio amico.
  Giunta sulla soglia della porta aperta mi fermai ad osservare la scena che mi si parava davanti. Claudio, finalmente cosciente, seduto sul letto circondato da infermieri, era intento a parlare con il medico.
  Mi appoggiai allo stipite in attesa di potergli parlare. Un leggero sorriso mi increspò le labbra. Ero felice. Avevo finalmente la possibilità di chiarire con lui ed ammettere di essere stata una stupida insensibile. Potevo finalmente iniziare a vivere.
  Claudio non mi aveva ancora notata, assorto com’era a parlare con il dottore. Appena finì la visita di routine, il medico con la sua equipe si diresse verso l’uscita della camera, lasciandomi finalmente libera di parlare con quel ragazzo dagli occhi color cielo. Nel seguire con lo sguardo quelle persone, si rese finalmente conto della mia presenza.  Nessuno dei due parlava, semplicemente ci fissavamo, lui diffidente, io dispiaciuta. Mi avvicinai prendendo posto sulla sedia.
  «Ciao» Sussurrai.
  «Che ci fai qui?» Freddo e distaccato. Mi diedi dell’idiota. Mi aspettavo che fosse felice di vedermi lì con lui? Ovviamente no, non dopo come era finita la nostra ultima “chiacchierata”.
  «Ho saputo dell’incidente e volevo semplicemente starti accanto» esordii leggermente in imbarazzo.
  «Come se di me t’importasse qualcosa» disse con disprezzo distogliendo lo sguardo
  «Claudio, posso spiegarti. Quella volta non intendevo…»
  «Non intendevi cosa? Ferirmi? Farmi sentire una nullità?» Mi interruppe fissandomi con odio. Mi meritavo tutto quell’odio, quel rancore, ne ero consapevole.
  «Ti ho risposto senza pensare, non volevo dire quello che ho detto» tentai di giustificarmi.
  «Era esattamente quello che volevi dire, proprio perché non ci hai pensato!» urlò lui di rimando.
  «È complicato! Non potevo dirti il vero motivo per cui preferivo stare lontana da te. Ma ora vorrei spiegarti» Le lacrime iniziarono a velarmi gli occhi.
  «Perché ora sì? Cos’è cambiato? No anzi, sai una cosa? Non voglio più saperlo»
  «Ti prego. Claudio per favore perdonami. Tu sei la mia unica possibilità…» e lo era per davvero. Lui era la possibilità di iniziare una nuova vita in un nuovo domani.
  Lo vidi fissarmi con gli occhi sgranati, leggermente preoccupati, per poi sospirare rassegnato.
  «Ti do una sola possibilità per spiegarmi tutto e convincermi a lasciarmi tutto alle spalle. Una sola. Solo… Smettila di piangere per favore». Solo allora, dopo che me lo fece notare, percepii il viso umido di lacrime.
  Velocemente mi passai le mani sulle guance per cancellare il segno del loro passaggio e cominciai a raccontare.
  Gli parlai di quel mio migliore amico che quattro anni prima, in seguito alla morte del padre, dovette trasferirsi in Inghilterra. Quel ragazzino che la notte stessa della partenza mi aveva confessato il suo amore per poi svanire nel nulla. Gli parlai di quanto me lo ricordasse per quegli occhi meravigliosi che si ritrovava, per quel suo sorriso, sempre presente. Gli spiegai che questo era il motivo per cui preferivo stargli lontana, per cui non lo volevo come amico.
  «Marco non riesce più a vedermi star male per lui e mi ha incitata a venire da te. Ha detto che tu sei il primo dopo anni che è riuscito a farmi sorridere, che probabilmente sei anche la mia unica possibilità di ricominciare a vivere davvero» conclusi sospirando pesantemente e rilassandomi contro lo schienale di quella scomoda sedia.
  «Quindi mi stai dicendo che sei qui semplicemente perché ti ha incitata tuo fratello?» aveva alzato entrambe le sopracciglia in un’espressione offesa. Era la prima volta che parlava da quando avevo iniziato a raccontargli tutto.
  «No, aspetta. Io ti ho praticamente raccontato tutta la mia vita e tu ti concentri su quest’ultimo pezzo? E comunque no. Sin da subito mi ero pentita di quella risposta. Ricordi? Ho cercato di scusarmi, ma tu mi hai cacciata via. Uscita da casa tua ho pensato che forse era meglio così. Sì, insomma, non correvo il rischio che tu cercassi ancora in qualche mododi entrare a far parte della mia vita. Ma quando ho saputo che eri entrato in coma, ho iniziato a sentirmi terribilmente in colpa. Continuavo a pensare che se non ti avessi risposto in quel modo non ti sarebbe accaduto nulla» stavo iniziando a parlare a vanvera e molto velocemente.
  «Cioè pensavi che mi fossi di proposito buttato sotto un camion per suicidarmi?» mi interruppe con un sopracciglio alzato e un’espressione alquanto scettica.
  «No… sì… Non lo so!» risposi abbassando lo sguardo.
  Mi aspettavo una qualsiasi sua reazione, ma mai che scoppiasse a ridere.
  Sollevai lo sguardo per osservarlo. Avevo già appurato che fosse un bel ragazzo, ma vederlo ridere tanto di gusto lo rendeva ancora più affascinate.
  Una volta che si fu calmato parlai. «Questo vuol dire che mi perdoni?» chiesi speranzosa.
  «Solo se non cercherai più di allontanarmi» rispose con un sorrisino sincero.
  Senza pensare mi alzai dalla sedia per abbracciarlo. Non poteva ricambiare perché impedito da tutti quei fili che gli avevano collegato, ma non importava. Mi aveva perdonata.
  Un colpo di tosse mi fece allontanare imbarazzata da Claudio. Era sempre la stessa infermiera.
  «Mi scusi signorina, ma ora dovrebbe proprio andare. E non si preoccupi per il suo ragazzo, sta arrivando sua madre a tenergli compagnia».
  Detto ciò sparì alla nostra vista. Ero arrossita. Pensava che io e Claudio fossimo fidanzati. Notando il mio imbarazzo Claudio scoppiò a ridere nuovamente.
  «Dovresti vederti! Sei troppo tenera» Disse continuando a ridere.
  Al pensiero di sua madre, tornai a fissarlo. «Per quanto riguarda tua madre…»
  Mi interruppe prima che potessi finire la frase «Ne riparliamo in un altro momento. Ora devi andare» Un dolce sorriso gli increspò le labbra.
  Nuovamente lo abbracciai. «Ciao» gli sussurrai all’orecchio «Esci presto da qui. Ti aspetto»
  Prendendomi alla sprovvista mi diede un bacio leggero sulla guancia. «Ciao».
  Ormai più rilassata per l’aver messo in chiaro le cose con Claudio uscii da quell’ospedale, lasciando che le gambe mi portassero a casa mentre ripensavo a quanto era appena successo.
  Ripensandoci resta un mistero come sia riuscita a non farmi mettere sotto da qualche macchina.
  Ripensai alla risata di Claudio, ai suoi sorrisi, gli abbracci, il bacio che mi aveva dato sulla guancia, il bacio che gli avevo dato io quando ancora era incosciente. Improvvisamente fui riscossa fai miei pensieri dalla suoneria del cellulare che annunciava una chiamata in arrivo.
  Risposi senza neanche controllare chi fosse, impegnata com’ero ad osservarmi intorno. Ero così presa dai ricordi della giornata che non avevo notato quale strada per tornare a casa avevo percorso.
  Erano esattamente quattro anni che non tornavo in quel parco. Inevitabilmente un ricordo si fece spazio nella mia mente.
 
  Avevo solo sette anni. Era un pomeriggio soleggiato d’inizio giugno. La scuola era finita da poco, e il tempo libero, noi due, lo trascorrevamo vagando per il parco accanto casa.
  Ci rincorrevamo, facevamo degli scherzetti innocenti ai passanti, ci schizzavamo a vicenda con l’acqua della fontana, posta esattamente al centro del parco, facevamo amicizia con altri bambini e, una volta esausti, ci sdraiavamo sull’erba, sotto qualche albero, per ripararci dai raggi del sole e sonnecchiare.
  Quel giorno però il nostro abituale riposino fu interrotto dall’incessante abbaiare di un cane.
  Io avevo il terrore dei cani. Non sapevo da cosa derivasse quella paura, ma era così.
  Terrorizzata, mi alzai di scatto urlando, notando che il cane si stava dirigendo esattamente nella mia direzione.
  Era un cane grande.
  Non che i beagle siano grandi,ma per una bambina di sette anni col terrore dei cani, l’animale a quattro zampe che mi si parava contro era enorme.
  Senza dire nulla a Mike, corsi verso un punto imprecisato del parco continuando a strillare.
  Solitamente, quando fuggivo da un qualsiasi cane incontrato per strada, questi non stavano a rincorrermi. Quella volta, invece, il beagle non accennava a fermarsi.
  Poco tempo dopo mi ritrovai in un vicolo cieco. Dalla mia unica via di fuga stava arrivando il cane, seguito da Mike che cercava di non perdere le mie tracce.
  Non avevo altra scelta se non quella di infilarmi in un cespuglio e continuare a correre tra gli alberi. Nonostante ciò continuai a sentirmi seguita.
  Ben presto mi ritrovai su di una distesa circolare verdeggiante, ricoperta da fiori selvatici. Al centro di quella distesa s’innalzava un grande albero su cui qualcuno aveva costruito una casetta di legno, come quelle nei film.
  Senza neanche rifletterci, mi ci avvicinai e iniziai a salire la scala di corda. Solo una volta arrivata in cima mi resi conto dell’enorme stupidaggine commessa.
  Soffrivo di vertigini.
  Pochi secondi dopo vidi il cane fermarsi ai piedi dell’albero, e Mike salire verso di me.
  Una volta che Mike mi raggiunse, mi aggrappai a lui immergendo il viso nell’incavo tra la sua spalla e il suo collo, singhiozzando. Senza esitare mi circondò le spalle con le sue braccia.
  Era a conoscenza delle mie vertigini, e sapeva che la sola vicinanza di una persona cara poteva aiutarmi a tranquillizzarmi.
  «Mike ho paura!» strillai tra i singhiozzi.
  «Tranquilla. Ci sono io qui» mi rassicurò accarezzandomi i capelli con una mano.
  Rimanemmo così per quella che sembrò un’eternità, incuranti di ciò che ci accadeva intorno.
  Una volta che mi tranquillizzai, sciogliemmo l’abbraccio, intrecciando però le mani.
  «Dobbiamo tornare a casa. Si staranno preoccupando non vedendoci tornare» mi disse dolcemente, nel tentativo di convincermi ad affrontare le mie paure, quindi  scendere da quella casetta e imbattermi in quel cane.
  Ripresi subito a singhiozzare. «Ma io non voglio scendere! C’è quel brutto cane lì sotto! Io ho paura»
  «D’accordo» sospirò «Facciamo così: io mando via il cane. Poi tu scendi. Ok?»
  Titubante e con ancora le lacrime agli occhi annuii.
  Osservai Mike avvicinarsi alla porta d’ingresso per poi scendere la scala di corda. Nell’attesa che tornasse a chiamarmi mi guardai attorno.
  Su una parete vi era una piccola finestra coperta da delle tendine ormai logore, di colore indefinito. Sotto di questa vi era un baule, uno di quelli che ricordano i pirati.
  Mossa dalla curiosità mi ci avvicinai e la aprii. Fui però delusa dal notare che era vuota se non per qualche ragnatela.
  «Lucia ora puoi scendere!» urlò Mike.
  Avevo paura di cadere per cui mi misi a gattonare fino alla porta. Una volta giunta in prossimità di questa, mi ci affacciai per guardare il mio amico che con pazienza mi aspettava ai piedi dell’albero.
  «Non ce la faccio. Ho paura» piagnucolai.
  «Lucia! Tu lo sai che ti voglio bene vero?» mi chiese. In risposta annuii leggermente. «E sai anche che non lascerò che niente e nessuno ti faccia del male, si?» continuò.
  Mormorai un lievissimo sì in risposta.
  «Allora devi sapere che se cadi io sono qui pronto a prenderti!»
  Incoraggiata da quelle parole iniziai a scendere la scala. Improvvisamente il piolo su cui avevo poggiato il piede si ruppe facendomi cadere all’indietro.
  In quel momento riuscii solo a immaginarmi stesa su una barella in ospedale con un braccio e una gamba rotta.
  Mi preparai all’impatto che di lì a pochi secondi avrei avvertito, ma questo non arrivò. Percepii invece delle braccia attorno alla mia vita che mi tenevano strette e i miei piedi sul suolo.
  Lentamente mi voltai verso il mio salvatore con le lacrime agli occhi.
  «Te l’avevo detto che ti avrei presa. Ti prenderò sempre»
 
  Quel giorno scoprimmo che, dalla parte opposta da cui eravamo arrivati, c’era casa nostra, o meglio il nostro giardino. Scoprimmo anche che quella casetta era di mio padre quando aveva su per giù la nostra stessa età.
  Da quella volta iniziammo a trascorrere lì i momenti di noia. Solo noi due eravamo a conoscenza della casetta sull’albero. Non ne avevamo voluto fare parola con Marco e Belle. Volevamo che rimanesse un nostro posto.
  «Lucia, la mamma ha quasi finito di preparare la cena. Tu a che punto sei? Passo a prenderti in ospedale?». La voce di Marco proveniente dal cellulare mi fece riemergere dalla terra dei ricordi.
  «Sono vicina non preoccuparti» risposi.
  Senza attendere risposta chiusi la chiamata per poi salire la scala di corda di quella casetta che mi aveva vista crescere, che aveva assistito alle riappacificazioni tra me e Mike.
  Ogni volta che litigavamo, anche per stupidaggini, io salivo sulla casetta a piangere. Ogni volta dimenticavo di soffrire di vertigini per poi ritrovarmi  bloccata lassù fino all’arrivo di Mike che mi chiedeva perdono, anche se talvolta la colpa era mia, e, una volta fattami scendere, mi teneva stretta a sé.
  Come sempre mi accorsi della stupidaggine fatta solo una volta giunta in cima. Prima avevo la consapevolezza che prima o poi Mike si sarebbe fatto vivo infondendomi il coraggio necessario a farmi scendere. In quel momento sapevo, invece, per certo, che Mike non sarebbe arrivato per aiutarmi a scendere. Delle silenziose lacrime mi solcarono il viso. Non ero altro che una piagnucolona.
  Sin da quando Mike era partito avevo accuratamente evitato di salirci nuovamente, ma quella volta mi ero lasciata trasportare dai ricordi.
  Bloccata lassù iniziai a vagare con la mente. Ricordai tutti i momenti trascorsi lì con Mike, fingendo di essere io la moglie, lui il marito e la bambola nostra figlia. Ricordai i dispetti che ci facevamo a vicenda, gli abbracci, le risate.
  E all’improvviso un viso che non aveva nulla a che fare con quel contesto apparve.
  Claudio disteso su quel letto d’ospedale attaccato a vari macchinari. Claudio che rideva. Claudio che mi posava un lieve bacio sulla guancia.
  Al ricordo dell’infermiera che ci aveva scambiati per due fidanzati avvampai, ma al contempo sorrisi.
  Senza neanche rendermene conto, immersa nei ricordi più recenti, avevo sceso le scale e mi stavo incamminando verso casa.
  Non avvertii neanche lo scricchiolio delle foglie o i passi a pochi metri da me.
  In silenzio, facendomi luce con il cellulare attraversai gli alberi che separavano l’albero con la casetta dal giardino. Una volta giunta a destinazione passai per la portafinestra che dava sulla cucina.
  «Sono a casa» dissi non appena misi piede all’interno dell’abitazione.
  «Ok! Si mangia» fu la risposta dei due uomini da casa provocandomi una leggera risata.
  Per la prima volta, dopo tanto tempo, cenammo sereni, felici, ritrovandoci anche a scherzare.
 
  Percepivo una grande mano accarezzarmi i capelli. Non capivo però di chi potesse essere.
  Controvoglia aprii gli occhi per poi ritrovarmi a sbattere le palpebre per abituarmi alla forte luce proveniente dalle finestre. Davanti a me scorsi una figura maschile osservarmi.
  Mi ci volle qualche secondo per comprendere chi avessi difronte a me.
  Un urlo di sorpresa fuoriuscì dalle mie labbra. «Tu che ci fai qui?!»
  Un sorriso beffardo comparve sul suo volto «Buongiorno anche a te piccola. Buon compleanno»


 

Mio angolino personale:
Iniziamo con i ringraziamenti.. Inizio col ringraziare chi è arrivato a leggere fin qui apprezzando il mio lavoro.
Ringrazio anche le tre ragazze che hanno lasciato delle recensioni al capitolo precedente...
in realtà mi sento un po' delusa in quanto mi aspettavo un po' di commenti in più, ma mi rendo conto che la colpa è anche mia e delle mie recenti e prolungate assenze. Tutto ciò che chiedo è un po' più di partecipazione da parte vostra. Non dico che dovete recensire capitolo per capitolo, ma ogni tanto, sentire il parere altrui aiuta e soprattutto incoraggia. Accetto anche, anzi soprattutto, recensioni negative in quanto so di non scrivere perfettamente.
Passando alla storia... in questo capitolo vediamo da una parte Lucia e Claudio, dall'altra Lucia e Mike. Quale coppia preferite? Di chi sono gli occhi che hanno osservato Lucia nel capitolo precedente? Tale persona è la stessa che ha fatto scricchiolare le foglie a pochi passi da lei? Chi è il ragazzo che l'ha svegliata? Sbizzarritevi con le vostre ipotesi.

Tornando ai ringraziamenti...
Grazie a...

akire_21,
canta_storie,
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Capitolo 8
*** Sogno o realtà? ***




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Prima di tutto vorrei chiedere perdono per il ritardo e non posso neanche promettere che la prossima volta sarò puntuale. Che senso ha fare promesse se si sa già dal principio che non le si può mantenere? Tra poco tempo ricomincerà la scuola e non avrò più tutto il tempo che avevo prima da dedicare alla storia per cui vogliate scusarmi se non mi farò sentire per un po' di tempo. Ci si vede giù.
 
Capitolo 7
 
  Ci sono momenti, nel corso della propria vita, in cui si mette in dubbio la veridicità della realtà circostante.
  Molte volte avevo avuto sogni estremamente vividi, altrettante avevo rivisto scene già vissute.
  Tuttavia mai, questi, mi erano parsi tanto reali quanto la persona che mi stava difronte e che mi aveva svegliata.
  Ciò che avevo davanti, chi avevo davanti, non era certamente reale, eppure lo sembrava, in una maniera tanto assurda da convincermi solo di una cosa.
  «Sono morta vero?» Dissi con voce tremula. Una lacrima mi solcò il viso.
  Era ingiusto che fossi morta il giorno del mio sedicesimo compleanno. Ingiusto che fossi morta dopo aver deciso, per ironia della sorte, di ricominciare a vivere, dopo aver chiarito con Claudio, promettendogli di non allontanarlo più dalla mia vita. Ingiusto che fossi morta senza aver rivisto Mike un'ultima volta, anche solo di sfuggita.
  Quale altra spiegazione poteva esserci, però, al fatto che fossi in presenza di qualcuno che non sarebbe dovuto essere? Non più, perlomeno.
  Era esattamente come lo ricordavo. Uguale all'ultima volta che l'avevo rivisto quattro anni prima. Gli occhi azzurri che tanto amavo, i capelli biondi ancora scompigliati dal sonno.
  Anthony, seduto sul bordo del letto, continuava ad accarezzarmi il capo con una mano. Con l'altra mi asciugava le lacrime che, copiose, mi rigavano il viso. Sul volto troeggiava un sorriso divertito. «No piccola. Sta tranquilla. Sei decisamente viva» Rispose alla mia domanda quasi come se mi stesse dicendo che il sole sorge a est.
  Se da una parte quella risposta mi tranquillizzò, dall'altra mi confuse ancora di più. «Ma allora perché posso vederti? Sei un fantasma?». La voce era divenuta acuta, quasi stridula.
  «Te l'ho ripetuto milioni di volte. A te e a Belle. I fantasmi non esistono». Mi rispose con aria di rimprovero. Avrei voluto dirgli che non era vero. Non me lo aveva mai detto. «Sono semplicemente un, diciamo “riflesso del tuo inconscio"» spiegò scrollando le spalle e mimando le virgolette.
  «Un cosa?» Chiesi incredula.
  «Si dai, hai capito. Sono la parte del tuo cervello contenente pensieri, emozioni, istinti e anche ricordi di cui tu non hai conoscenza e bla bla bla. Vuoi seriamente che ti faccia una lezione di psicologia?». Rispose, inizialmente gesticolando in modo vago, per poi pormi l'ultima domanda con tono scettico e un sopracciglio inarcato.
  «N-no» balbettai leggermente in soggezione «voglio capire che ci fai qui e perché in questa forma» spiegai in un sussurro.
  «Giusto. Hai presente quando, poco fa, ti ho detto che milioni di volte ho detto a te e Belle che non esistono fantasmi?». Senza neanche aspettare una mia risposta, proseguì «Beh quello era un ricordo che tu hai rimosso. Eri così convinta che esistessero, che le mie rassicurazioni, cioè di Anthony, diventavano per te inaccettabili e ne rimuovevi il ricordo. Cioè, in parte, questa è la ragione.» spiegò.
  «Ciò non spiega perché tu sia qui» riflettei ad alta voce.
  «Dovrei farti ricordare certi momenti facendoti capire quanto sia idiota la tua idea di lasciarti Mike alle spalle. Credo, però, che sarà più interessante vedere cosa accadrà senza che io interferisca» un sorriso beffardo gli si dipinse sul volto.
  Era alquanto inquietante vedere quel ghigno caratteristico di Mike comparire sul volto del padre che era, invece, sempre stato dolce e gentile.
  «Che intendi?» Chiesi titubante.
  «Ti dico solo che non è tutto oro ciò che luccica. Nulla è come sembra» rispose enigmatico. Dopo questa frase sibillina, scomparve.
  Avevo ormai capito che fosse tutto nella mia mente, seppur così realistico, ma non m’immaginavo certo che sarebbe sparito così, non dopo avermi messo la pulce nell'orecchio. Un attimo era lì, difronte a me, e l'attimo dopo mi ritrovavo sola.
  Chiunque mi avesse vista, mi avrebbe certamente internata. Quale essere sano di mente viene svegliato dal “riflesso del proprio inconscio” con l'aspetto di un defunto per ritrovarsi, una volta che questo è scomparso, a cercare di invocarlo per continuare la discussione che stavano avendo?
  Giunsi a una sola conclusione: stavo diventando pazza. Altri episodi come questi e mi sarei ritrovata stretta in una di quelle camicie di forza che venivano usate per immobilizzare i malati di mente. Forse stavo esagerando, certo, ma il concetto era quello.
  Consapevole che, se qualcuno fosse entrato in quel momento sentendomi chiamare Anthony avrebbe certamente chiamato l'ospedale psichiatrico, abbandonai ogni tentativo di riportarlo indietro. Mi lasciai quindi cadere sul letto coprendomi gli occhi con il braccio.
  Cercai di rilassarmi, convincermi che non fosse stata altro che un'allucinazione dovuta allo stress o chissà cos'altro. Continuavo, tuttavia, a ripensare a quando aveva nominato Mike. Perché ricompariva ora, dopo che finalmente ero riuscita a voltare pagina? Che intendeva con l’espressione «credo che sarà più divertente vedere cos accadrà senza il mio intervento»? Se era il “riflesso del mio inconscio”, allora perchè non mi aveva spiegato quello che doveva, sostenendo invece che sarebbe stato più divertente vedere ciò che sarebbe accaduto? Ciò significava forse che, nel profondo, ero sadica e masochista?
  Evidentemente quello era il giorno "facciamo morire d'infarto Lucia", poiché un urlo, seguito da un abbraccio, mi fece saltare in aria ridestandomi dalle mie elucubrazioni.
  «Buon compleanno!» Esclamarono in coro i miei familiari.
 Margaret mi si era aggrappata al collo e non dava segno di volerlo lasciare, Marco se ne stava seduto sul letto intento ad osservarmi con un sorriso a trentadue denti. I miei genitori erano, invece, in piedi difronte al letto, tenendo ognuno un vassoio stracolmo di cibo, anche loro col sorriso sulle labbra.
  Era un rito di famiglia quello della colazione a letto. A ogni compleanno ci si recava nella stanza del festeggiato, o festeggiata che fosse, con così tanto cibo da poter sfamare un esercito, e tutti insieme si faceva colazione lì sul letto fregandosene, per una volta, di tenere tutto pulito e in ordine. Ogni colazione finiva, infatti, sempre con una guerra del cibo, che contribuiva a renderci impresentabili per qualunque impegno potessimo avere. In quei giorni, infatti, nessuno andava a lavoro o a scuola ad eccezione di mio padre che, a volte, veniva chiamato d'urgenza dall'ospedale.
  Non feci caso alla sensazione che tutta quella situazione fosse sbagliata: Margaret non aveva mai partecipato a tale rito.
  Un lieve sorriso m’increspò le labbra. «Buongiorno» dissi fingendo una voce leggermente assonnata.
  In risposta vidi i sorrisi dei presenti allargarsi sempre più, e la stretta della piccola Margaret farsi ferrea. «Piccola, potresti lasciarmi? Almeno per farmi alzare» chiesi dolcemente alla testolina bruna che mi ritrovavo addosso.
  Un «no!» Con la 'n' prolungata fu la risposta che ottenni «tu rimani così!» Aggiunse seria, provocando però, le risate di tutti.
  «Dai, ti prometto che rimango abbracciata a te anche da seduta» tentai nuovamente, sapendo che era quello che voleva.
  «Vabbene» rispose controvoglia. Per lei saremmo potute restare in quella posizione per tutta la giornata.
  Senza aspettare oltre mi alzai, facendo leva con un braccio, mentre con l'altro tenevo stretta a me mia sorella. Solo una volta, col busto dritto, notai la presenza di un intruso.
  Claudio, con un sorriso da un orecchio all'altro, se ne stava in disparte, appoggiato alla porta, concentrato nell'osservare quella tradizione familiare che stava avendo luogo sotto i suoi occhi. Aveva un sorriso magnifico, che, però, non si rifletteva sui suoi occhi che erano, invece, cupi come immersi in ricordi dolorosi. Avevo ormai compreso che la sua non era un famiglia felice. Tra la separazione, il divorzio e l'odio di una madre per il figlio, come poteva una famiglia essere felice? «Ma tu non puoi essere qui!» Esclamai rendendomi conto che solo il giorno prima era ancora in coma. «Perché non potrei, scusa?». Rispose con tono offeso, distogliendo lo sguardo con fare snob.
  «Perché dovresti essere in ospedale! E poi come sei finito in casa mia?» Risposi con certezza.
  «Ehm. Io ho lasciato la moka sul fuoco» intervenne mio padre poggiando il vassoio che teneva tra le mani, per poi affrettarsi ad uscire dalla mia camera.
  «Io devo mettere a lavare i camici di tuo padre che sono tutti sporchi» fu invece la scusa di mia madre. Era chiaro come il sole che volevano lasciarci parlare da soli.
  «Io invece» balbettò mio fratello «dovrei… si ecco.». Faceva tenerezza vederlo cercare una qualsiasi scusa per lasciarci soli. «Devo andare in bagno! Sì, devo andare in bagno» esclamò dopo qualche secondo di silenzio. «Margaret vieni con me?» chiese, infine, facendo inarcare un sopracciglio a Claudio.
  «Perché la piccola dovrebbe venire in bagno con te?» chiese scettico. Possibile che non avesse capito che quella non era altro che una scusa per lasciarci soli? Oppure lo faceva apposta? Certo che mio fratello, però, poteva trovarne una migliore se voleva proprio coinvolgere Margaret.
  «No, non intendevo… cioè io…» riprese nuovamente a balbettare, senza neanche guardare il suo interlocutore in faccia.
  Dovetti mordermi le labbra per evitare di scoppiare a ridere. Nonostante ciò, gli andai in aiuto, levandolo, così, da quell’impiccio «Lascia stare. Me la tengo io. Tu vai a fare quello che devi.»
  Felice per il mio intervento, Marco corse fuori lasciando così me e quell’irresponsabile da soli. Il sopracitato, silenziosamente, si avvicinò al letto fino a chinarsi per guardarvi sotto.
  Ero allibita. Perché mai avrebbe dovuto ficcanasare in camera mia?
Improvvisamente si udì un lamento di bambino che fece incuriosire sia me che Margaret, la quale sciolse l’abbraccio per osservare le gambe di Claudio distese sul pavimento in quanto, il resto del corpo, era sotto il letto. Pochi secondi dopo, durante i quali i lamenti si facevano sempre più forti e frequenti, vedemmo Claudio uscire da lì sotto con un bambino uguale a lui.
  I capelli erano gli stessi, così come i tratti del viso. Ciò che variava, erano gli occhi del piccolo, che erano verdi. Era quello il famoso fratellino che Claudio aveva salvato finendo così per essere investito?
  «Ti presento Lucas.» disse sorridendomi.
  Il bambino se ne stava col capo chino, come fosse stato scoperto con le mani nel vasetto della nutella. Effettivamente il paragone non era certo tanto lontano dalla realtà.
  «Ciao piccolo. Io sono Lucia» gli sorrisi dolcemente porgendogli la mano, che afferrò timidamente guardandomi attraverso le ciglia. Le labbra, che prima erano curve verso il basso, pian piano si distesero in un sorriso impacciato.
  Finalmente Margaret si staccò completamente da me per scendere dal letto e abbracciare il bambino. «Ciao! Tu ora sei mio amico!» disse con determinazione facendomi sorridere e provocando la risata di Claudio.
  Mia sorella era una bambina un po’ sfacciata, ma, al tempo stesso, dolce. Ogni qualvolta vedeva un bambino, o bambina che fosse, ci si avvicinava senza alcun indugio, decisa a farci amicizia, perché per lei ogni bambino era suo amico. Avevo in parte contribuito a quel suo modo di pensare.
  Dopo la separazione da Mike e Belle, mi ero ritrovata senza amici e incapace di trovarmene di nuovi, anche se nonriuscivo a farmi degli amici semplicemente perché non volevo farmene. Fatto sta che non volevo che alla piccola Margaret capitasse quel che era capitato a me. Non volevo che avesse solo un amico, ma che ne avesse tanti, in modo tale che, se uno si fosse allontanato da lei, lei non sarebbe rimasta sola come lo ero rimasta io.
  Senza attendere una sua qualsiasi risposta, lo prese per mano portandolo in chissà quale angolo della casa per poterci giocare.
  Rimanemmo così soli in quella camera in cui, per qualche secondo, regnò un silenzio di tomba. «Sai dovresti fare come tua sorella» esordì il moro che si era messo seduto sul bordo del mio letto, nella stessa posizione in cui poco prima era Anthony. «Lei non ha problemi nel farsi nuovi amici. Probabilmente tu c’entri qualcosa con questo suo comportamento, magari tu stessa la aiuti a farsi degli amici. Ma perché non provi ad ascoltare i tuoi stessi consigli?» Com’era possibile che riuscisse a capire il mio ragionamento? Ero così prevedibile?
  «Beh ci sto provando. Tu ne sei la prova» gli risposi.
  «Ok, cambiamo argomento perché so che finiremmo col parlare del tuo amichetto. Rispondo alla domanda che mi hai fatto prima. Ero nel parco qui accanto con Lucas quando ho visto tuo fratello che tornava dalla pasticceria in fondo alla strada. Quando mi ha notato pure lui, per poco non gli veniva un infarto» ridacchiò al ricordo «Mi sa che non gli hai detto che ieri mi sono risvegliato. In ogni caso, una cosa tira l’altra, e mi ha invitato qui. Non che fosse contento di avermi in casa sua, ma evidentemente l’ha fatto per te. Ah, comunque tanti auguri». Aveva parlato così velocemente, da rendermi difficile seguire il suo discorso. Insomma, cavolo! Mi ero appena svegliata. Ma a che ora si alzava lui per essere così pieno di energie a quell’ora del mattino? Che comunque non sapevo neanche che ore fossero, in quanto ,appena sveglia, ero stata troppo impegnata a parlare con Anthony.
  Immersa nei miei pensieri diedi un’occhiata alla sveglia digitale sul comodino che segnava le nove e mezza. Strabuzzai gli occhi. Io non mi svegliavo mai così tardi, neanche durante le vacanze. Decisi di non dare molto peso a quel dettaglio, dopotutto non sarei andata a scuola quel giorno. Riportai, quindi, l’attenzione su Claudio che, improvvisamente, si era fatto più vicino di quanto non ricordassi.
  «Sai, tu mi piaci. Per me non sarai mai un’amica, vorrei che fossi la mia ragazza» sussurrò a pochi centimetri dalle mie labbra.
  Ero terrorizzata, e, al contempo, estremamente confusa. Perché stava dicendo quelle cose? Perché mi era così vicino? Cosa voleva fare? Com’era arrivato a quel discorso?
  Non ebbi il tempo di dire o fare nulla, che sentii le sue labbra sulle mie. Erano labbra familiari, morbide, carnose. Assaporai anche il suo gusto. Nei libri i sapori delle altre persone vengono espressi come miscugli di più elementi, menta e cioccolato, fragola e vaniglia, tabacco e limone, broccoli e cavolfiore. Il sapore che stavo assaggiando in quel momento, però, non era definibile. Non sapeva di alcun frutto, o erba aromatica o quant’altro. Eppure l’avevo già provato prima di allora, solo che non ricordavo né dove né quando.
  Mi ritrovai a ricambiare il bacio convinta che prima o poi l’avrei riconosciuto. Pochi secondi dopo aprii gli occhi di scatto consapevole, finalmente, di che sapore fosse quello.
  «Mike» sussurrai inconsapevolmente dando voce ai miei pensieri.
  E poi tutto divenne buio.
 
  Il rombo di un tono mi fece salare in aria ridestandomi da quello che, compresi solo allora, non era altro ce un assurdo sogno.
  Ma se era solo un sogno, perché percepivo vivido il sapore di Mike sule labbra?
  Perché una margherita era posata sul cucino difronte ai miei occhi?
  Perché la finesta era aperta se non dormivo mai con le fineste aperte nonostante il caldo?

 

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Capitolo 9
*** Capitolo speciale ***



  Prima di tutto volevo scusarmi con tutte voi. Più di un anno è passato dal mio ultimo aggiornamento e per tutto questo tempo non sono riuscita a scrivere nulla. Ad un certo punto ho iniziato a convincermi a cancellare definitivamente la storia, ma poi ho pensato a tutte voi che avete letto la mia storia, voi che l'avete aggiunta tra le preferite, seguite e ricordate, voi che avete speso minuti preziosi per farmi sapere cosa ne pensavate, e ho capito che semplicemente non potevo rinunciare a questa storia pur non trovando più alcuna ispirazione. Ho iniziato questa storia e intendo finirla no matter what.
  Alcune persone hanno addirittura rimosso la mia storia da una delle liste, e non le biasimo per ciò: non mi aspetto che mi perdoniate per questa lunga (lunghissima) pausa, io non lo farei, non subito perlomeno, ma sarei felice se almeno deste una leggera lettura a questo piccolo e un po' "inutile" capitolo. Non intendo promettervi che aggiornerò presto perchè non so in quanto potrei finire il capitolo che ho in mente ma, posso assicurarvi che cercherò di fare del mio meglio per meritarmi il vostro perdono. Buona lettura.


 
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*capitolo speciale*
 
15 Settembre. Giorno del mio tredicesimo compleanno. Giorno del nostro tredicesimo compleanno.
  Erano passate due settimane da quando Mike se n’era andato e da allora non una chiamata, non una lettera, un piccione viaggiatore o un segnale di fumo. Niente.
  Da due settimane continuavo a disperarmi, logorata dall’attesa di una qualche sua notizia. Cercavo tuttavia di essere positiva il più possibile. Magari non si era messo in contatto con me perché impegnato con i nonni e vari parenti che neanche sapeva di avere. Magari non sapeva come contattarmi e in fin dei conti le chiamate all’estero erano carissime. Magari voleva farmi una sorpresa per il compleanno.
  Dopotutto mi aveva promesso che ci sarebbe stato per il nostro compleanno e lui manteneva sempre le sue promesse.
Ero sicura che quel giorno Mike srebbe tornato e, complice l’eccitazione derivata da tale convinzione, non avevo chiuso occhio per tutta la notte.
  Mi ritrovai quindi in cucina a far colazione alle 7 del mattino mentre gli altri dovevano ancora svegliarsi essendo domenica. Ero euforica e tutta la notte non avevo fatto altro che immaginare come sarei stata felice una volta rivisto Mike.
  Avevo deciso di aspettarlo nella casetta sull’albero. Io avevo il terrore delle altezze e senza Mike non sarei stata capace di scendere. Avevo decio di aspettarlo lì perchè ero sicura che sarebbe tornato. Non avrei rischiato di stare lì su per tutta la giornata per una semlice ipotesi. Ero sicura di ciò che stavo facendo. Continuando a fantasticare su Mike, mi avviai verso la casetta e mi arrampicai senza alcun timore.
 
  Ho freddo. Fu questo il mio primo pensiero non appena aprii gli occhi. Avevo un mal di testa allucinante, mi bruciavano gli occhi ed ero tutta tremolante per il gelo che mi ritrovavo nelle ossa. Osservai l’ambiente a me circostante e, rendendomi conto  di essere in camera mia mi chiesi come ci fossi arrivata. Il mio ultimo ricordo era di me che mi sedevo sul materasso logoro della casetta decisa ad aspettare di vedere la testa bionda di Mike sbucare dalla porta.  In quel momento invece, a sbucare dalla porta di camera mia, furono i miei genitori.
  Mia madre si sedette sul letto, affiancandomi, prendendo ad accarezzarmi. Mio padre invece se ne stava il piedi a guardarci.
  «Amore come ti senti?» esordì mia madre con tono preoccupato.
  «Come sono arrivata qui? Io ero sulla casetta sull’albero» Chiesi con voce roca.
  «È venuto tuo padre a prenderti. Non ti abbiamo trovata e ci siamo preoccupati. Ti abbiamo cercata per almeno un’ora, e una volta trovata eri tremante per la febbre.» Mi rispose con una sfumatura di rimprovero nella voce.
  Quindi non era stato Mike a riportarmi a casa, nel mio letto. Mike non era tornato. Mike non aveva mantenuto la sua promessa.
  Le lacrime mi riempirono gli occhi ed inevitabilmente iniziarono a rigarmi il viso. I miei genitori avevano perfettamente capito il motivo del mio pianto: glielo leggevo negli occhi. Senza dire nulla mi abbracciarono cercando di donarmi un po’ di conforto. Conforto che in quel momento poteva donarmi solo colui per il quale stavo così male. Mi mancava così tanto che mi sembrò di sentire il suo odore sui vestiti.
  Col senno di poi, ripensandoci, mi accorsi che la voce di mia madre si era incrinata quando mi aveva detto che era stato mio padre a riportarmi a casa. Forse l’avevo fatta preoccupare scomparendo di prima mattina. O forse nascondeva qualcosa.
 
PS: il capitolo precedente è stato modificato alla fine perché il vecchio finale non avrebbe fatto altro che complicare tutta la storia

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