Storie di ebrei: il deportato e il soldato

di lapoetastra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il deportato: una tragica esperienza ***
Capitolo 2: *** Il soldato: una tragica scoperta ***
Capitolo 3: *** Il deportato e il soldato: un lieto fine ***



Capitolo 1
*** Il deportato: una tragica esperienza ***


Mi chiamo Herbert Steindler.
Sono ebreo.
E sono un deportato.
Ho il cuore infranto.
Sono qui, con i miei compagni.
Stiamo stipati come animali da macello.
Perchè, in fondo, è quello che siamo, per i nazisti.
Ne più, nè meno.
Mi ricordo bene il giorno in cui sono arrivato, anche se non so quanto tempo sia passato da allora.
All'inizio credevo che i soldati tedeschi mi avessero portato in un ricovero per indigenti.
Uno di quei luoghi dove aiutano e curano coloro che, con la guerra, non riescono a procurarsi neanche un pezzo di pane duro da mettere sotto i denti.
Come me.
Mi sono ben presto accorto che mi sbagliavo.
Quando ho visto il campo, ho pensato di aver commesso qualche delitto.
Di avere qualche colpa, per cui era necessario punirmi, rinchiudendomi in questo posto invivibile.
E infatti è così.
Io sono colpevole.
Colpevole di essere ebreo.
Che per i nazisti è molto peggio che essere un omicida, o uno stupratore.
Ma io non posso cambiare ciò che sono.
A dir la verità, non lo voglio neanche.
Ho molti amici, qui.
Amici come possono esserlo le persone unite dal dolore e dalla sofferenza.
Anche loro sono tutti colpevoli.
Di essere omosessuali, zingari, ebrei come me.
A volte alcuni di loro scompaiono nel nulla.
A giorni alterni, i soldati tedeschi arrivano e ci dividono in due gruppi.
Portano uno di essi alle docce.
Non vedo più tornare quelli che fanno parte di quel gruppo.
Mi piacerebbe pensare che li puliscono per bene e poi li liberano, ma qualcosa nel profondo del cuore mi dice che non va affatto così.
So che verrà il giorno in cui anche il mio gruppo dovrà andare alle docce.
D'altronde, pure noi dobbiamo essere lavati, prima o poi.
Non so bene perchè, ma io sento che preferisco rimanere sporco.

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Capitolo 2
*** Il soldato: una tragica scoperta ***


Mi chiamo Joseph Liebstair.
Sono ebreo.
E sono un soldato dell'esercito americano.
Sono felice.
La guerra sta per finire.
Non vedo l'ora di tornare a casa a guidare il mio taxi.
Sono qui con la mia compagnia, la Easy.
Parliamo e scherziamo.
Ridiamo.
Ci godiamo la vita, insomma.
Ad un certo punto vedo arrivare John Webb, di corsa.
Mi spavento.
Il suo gruppo era di pattuglia.
Magari siamo in pericolo.
Ma John non sembra preoccupato.
Piu che altro... confuso, titubante.
Come se non riuscisse a capire e a darsi una spiegazione logica.
Lo sento parlare con il Maggiore Taylor.
Dice che hanno trovato qualcosa, lui e i suoi compagni.
Ma non sa bene cosa.
E allora partiamo.
Andiamo a vedere di cosa si tratta.
Arriviamo.
Mi guardo intorno.
Sembra... un campo, con alcune baracche sparse qua e là.
Penso sia uno di quei centri per gli indigenti.
Per coloro che, con la guerra, hanno perso anche il poco che avevano.
Ma poi li vedo.
Dieci, venti.
Trenta.
Di più, forse.
Non posso dirlo con certezza.
Avanzano verso di noi.
Alcuni si trascinano.
Altri urlano e piangono.
Sono uomini.
Magri, scheletrici.
Malati, in fin di vita, forse.
Ma pur sempre uomini, come noi.
Tutti vestiti con una specie di pigiama a righe bianche e grigie.
Alcuni indossano un cappello dello stesso motivo.
Il loro sguardo mi spaventa.
Mi terrorizza.
Sono occhi di chi non ha visto nient'altro che tenebre ed oscurità, di chi non ha provato nulla di diverso da sofferenze atroci, per molto tempo.
E improvvisamente ho paura di loro.
Più di quanta ne abbia mai avuta sul campo di battaglia, in mezzo a centinaia di crucchi pronti ad uccidermi.
Ma è una paura diversa.
Perchè ora non temo per la mia vita, come quando combatto.
Adesso temo per il mio cuore.
E per la mia anima.
Ho paura di non poter più chiudere gli occhi senza vedere i loro volti scavati, distrutti.
Ho paura di non poter più sentire nulla che non siano i loro lamenti strozzati, strazianti.
"Ma che cosa potrà mai essere successo a tutte queste persone"?, mi domando.
Non riesco a darmi una risposta.
Uno di loro si avvicina a noi.
E' alto.
E magro, terribilmente magro, come tutti gli altri.
Ed è sporco, anche.
Ha un cattivo odore.
Ma non ci faccio caso.
Sono impegnato a far sì che il mio cuore non si sbricioli dal dolore che leggo nei suoi occhi e che so è riflesso anche nei miei.
Il Maggiore Taylor mi ordina di domandargli cosa sia capitato.
Sa che io, pur essendo americano, parlo perfettamente tedesco.
Glielo chiedo.
L'uomo mi guarda e inizia a parlare.
Le sue parole, piene di disperazione, mi fanno sprofondare.
Dice che le guardie sono andate via da poco.
Prima hanno bruciato alcune baracche.
Con dentro i prigionieri.
Vivi.
Alcuni di loro hanno tentato di fermarli.
Sono stati uccisi.
Poi i tedeschi hanno lasciato il campo.
Hanno chiuso i cancelli e si sono diretti verso sud.
L'uomo mi dice che questo è un campo di lavoro per...
Non riesco a capire l'ultima parola.
Indesiderati, sgraditi.
Criminali?
No.
Dottori, musicisti, scrittori, sarti ed intellettuali.
Persone normali.
Ebrei.
Polacchi e zingari.
Sento uno strappo.
E' la mia anima che si è lacerata.
E il mio cuore si è spezzato.
Definitivamente, inesorabilmente.
Sono ferite che non si potranno mai più rimarginare.
Avrei voluto che John non avesse mai avvistato questo campo.
Che non avesse mai fatto questa tragica scoperta.
A quest'ora io e i miei compagni saremmo stati in qualche bella città a ridere, contenti dell'imminente fine della guerra.
Spensierati.
Lontani da tutto quest'orrore.
Torno in me.
E mi vorrei schiaffeggiare per aver pensato, desiderato anche solo un momento una cosa del genere.
Se non fossimo arrivati ora, tutta questa brava gente sarebbe morta, uccisa per la semplice colpa di non essere ariana.
Ma adesso possiamo liberarla, liberare gli uomini che sono stati abbastanza forti, dentro e fuori, da non perdere la speranza e rimanere aggrappati alla vita, anche se solo con le unghie.
Possiamo salvarli.
E questo non ha prezzo.
"Come ti chiami?", domando all'uomo a cui ho chiesto informazioni sul campo, e che per tutto il tempo è rimasto accanto a me, in silenzio, con la testa china.
Come se avesse capito che anche io sono ebreo.
Che tutte le sofferenze che hanno fatto passare a loro è come se le avessi vissute anche io, sulla mia pelle.
"Herbert Steindler", mi risponde lui.
Non resisto più.
Lo abbraccio.
Lo stringo forte.
Lo sento sciogliersi contro di me.
Lo sento tremare e singhiozzare.
Sta piangendo, mentre mi stringe più forte che può con le braccia magre.
Sto piangendo, mentre penso a quanto sia orribile ciò che gli hanno fatto.
 

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Capitolo 3
*** Il deportato e il soldato: un lieto fine ***


Mi chiamo Herbert Steindler.
Sono ebreo.
Ed ero un deportato.
Sono felice.
Mai più avrei creduto di poter tornare libero.
Ma è successo.
E' come se fossi rinato, uscendo da quel campo.
Il Sole mi scalda la pelle.
Sento l'aria accarezzarmi il volto come le mani delicate di un'amante.
Sono libero.
Neanche il buio mi fa paura, ora.
Chiudo gli occhi, e non vedo più i volti distrutti dei miei compagni.
Immagino soltanto cosa mi riserverà il futuro.
Forse sarò medico, è il mio sogno.
Lo spero tanto.
Ma c'è sempre tempo per diventare.
Oggi voglio soltanto essere.
E sono fiero di essere ebreo.
E non c'è giorno che io non pensi a Joseph Liebstair, ed al dolore che ho sentito in lui mentre mi abbracciava.



Mi chiamo Joseph Liebstair.
Sono ebreo.
Ed ero un soldato nell'esercito americano.
Abbiamo vinto la guerra.
Ma io sono a pezzi.
Quello che ho visto in quel lager...
Non lo potrò mai dimenticare.
Mi ha scavato una ferita profonda nel cuore.
La sento sanguinare, ogni giorno, ogni momento.
E qualunque cosa faccia, qualunque cosa pensi, essa non si rimargina.
E anche se dovesse farlo, in futuro, so che mi lascerà una cicatrice.
Un segno, che mi ricorderà in ogni momento della vita l'orrore e l'ingiustizia di cui sono stato testimone.
Faccio fatica a dormire, la notte.
Mi sveglio all'improvviso, e urlo.
Sogno continuamente i volti distrutti dei deportati.
Certe volte riesco ancora a sentire i loro pianti.
Sono tornato a guidare il mio taxi.
Mi piace il mio lavoro, anche se non è come prima.
Prima della guerra.
Prima di...tutto.
E non c'è giorno in cui io non pensi ad Herbert Steindler, ed alla speranza che ho sentito in lui mentre mi abbracciava.





Herbert Steindler controllò di aver preso tutto.
Gli armadi erano vuoti, la valigia piena.
Quel giorno sarebbe partito.
Via dalla Germania.
Per cambiare vita.
Definitivamente.
Sarebbe andato in America, nel New Jersey.
Ancora non riusciva a spiegarsi perchè avesse scelto proprio quel luogo.
Era come se qualcosa gli avesse detto che era lì che doveva andare.
Prese la giacca e la valigia, ed uscì, diretto all'aeroporto di Berlino.

Il viaggio filò liscio.
Arrivato a destinazione, nel New Jersey, chiamò un taxi.
L'auto gialla arrivò dopo pochi attimi.
Herbert vi salì.
< Buongiorno signore, dove la... >, l'autista smise di colpo di parlare ed emise un gemito strozzato, come se lo avessero colpito con un pugno allo stomaco.
< Che le succede? >,domandò Herbert, curioso ed insieme preoccupato.
Poi si accorse chi aveva davanti, chi era il tassista.
E il cuore sembrò scoppiargli nel petto.
< Joseph Liebstair... >, sussurrò commosso.
L'altro si limitò a sorridere ed annuire, con le lacrime agli occhi.

Da allora, i due uomini, i due ebrei, rimasero sempre insieme, in ogni momento.
Uniti da un legame che va al di là della semplice amicizia.
Ed oltre al dolore ed ai brutti ricordi, condivisero altro.
Condivisero la vita.
Cercando di andare avanti, di dimenticare, di farsene una ragione, dopo tutto.
Si spensero insieme, abbracciati, una ventina d'anni dopo.
Anche nella morte non si lasciarono mai e le loro tombe, vicine, affiancate, ricordano a tutti l'incredibile storia del soldato e del deportato, che sopravvissero alla guerra ed al razzismo.

Una tragica esperienza,
una tragica scoperta,
un lieto fine.

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