Salisbury

di Marguerite Tyreen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Sweet's the rain new fall ***
Capitolo 2: *** 1. And now a thousand years between ***
Capitolo 3: *** 2. Whispering on broken mandolin ***
Capitolo 4: *** 3. West is Susie ***
Capitolo 5: *** Epilogo. Can you imagine us? ***



Capitolo 1
*** Prologo. Sweet's the rain new fall ***


Salve, popolo di EFP!
Eccoci qui con una nuova storia: dovrebbe essere una oneshot particolarmente lunga ma che, per comodità, ho pensato di dividere in cinque capitoli piuttosto brevi (forse è più corretto definirla mini-long, a questo punto?). E' già tutto scritto, quindi gli aggiornamenti dovrebbero mantenersi regolari, visto che si tratta per lo più di revisionare e trascrivere il materiale ^^ Per il resto, posso dire che l'idea centrale (di cui non spoilero nulla) mi girava in testa da un sacco di tempo, così come la possibilità di fare una sorta di omaggio al buon vecchio rock. Poi le protagoniste sono venute letteralmente da me e, dopo parecchi mesi, siamo qui.
Quindi se volete mettervi comode e seguire questa avventura con me, ne sarò felice; se vorrete divertirvi a spulciare citazioni e riferimenti, ne sarò ancora più felice. Ad ogni modo, un grazie di cuore a tutte quante, che siate solo passate o che vi siate fermate o che abbiate voluto lasciarmi una parola!
Bisous ♥
Marguerite.



 

 
















 


 

 

Prologo.
Sweet the rain's new fall


 

Somewhere in your eyes
That very special glow
Something drawing me
To where I do not know

 

Vicenza, maggio 2014.

- Ehi, serve aiuto?
Un paio di occhi verdissimi, da sotto un ciuffo di riccioli biondi, la scrutò con lieve diffidenza a quelle parole, nel baluginare della luce del telefonino.
- Scusami, sono una vera ficcanaso. Ma ti ho vista prendertela con quell'aggeggio e così... - adesso l'imbarazzo era tale che, quasi, Linda si pentì della propria istintiva cordialità.
Ma il sospetto dell'altra era già svanito, nel gesto di cacciarsi il cellulare nella tasca dei jeans, in favore di un contatto diretto: - La tecnologia è il male. - sbottò – Credo che qui dentro non ci sia campo.
- Già, concordo: ti lascia sempre a piedi quando hai bisogno.
- Quando hai bisogno di un taxi, soprattutto.
- Vuoi il mio? Non di taxi, naturalmente.
Le aveva strappato un sorriso, anche se – poteva dedurlo da quella sua grazia ciarliera mal trattenuta – doveva essere il tipo di persona facile a farselo rubare: probabilmente avrebbe sorriso anche davanti al suo obbiettivo. Sarebbe stata un soggetto interessante, con quel viso espressivo, tondo e luminoso. Linda non si era mai piaciuta, nemmeno negli scatti accurati di Lorenzo: la pesante miopia le conferiva uno sguardo eccessivamente penetrante, quasi intimidatorio.
- Provo ad uscire un attimo per chiamare. Ciao!
Tenendo in equilibrio i vinili sul braccio, Linda le rivolse un cenno della mano.
Il foyer del teatro cominciava a vuotarsi, eccetto per i pochi affezionati che, in piedi davanti alle porte, attendevano per un autografo da parte del pianista. Fuori la pioggia aveva ripreso a cadere fitta, per tornare a soffocare la città nella consueta cappa umida del nord-est. Premuta tra la piccola folla e la parete, Linda si asciugò con la punta delle dita le gote sotto gli occhiali. Una mano le sfiorò la spalla.
- Ehi, già di ritorno?
La sconosciuta aveva l'aria appena più inquieta di come la ricordava, ammesso che poi la ricordasse: - Non era questione di campo, è che proprio i taxi non si trovano. Non ho la minima idea del perché. Secondo te sto facendo il numero giusto?
- Guarda, non saprei proprio, sono di Bologna. - si giustificò. Non c'era ragione di provare anche un moto di simpatia dopo pochi minuti, la solidarietà sarebbe stata sufficiente, ma si affrettò ad aggiungere: - Dove dovevi andare?
- In stazione, a cercare un treno per Padova, altrimenti non saprei davvero come rientrare a casa.
- Senti, se ti va, in stazione ti ci posso accompagnare io. Cioè, ti accompagnerei anche a casa, essendo di strada, ma non guido di notte. Mi fermo fino a domani.
L'altra si fissò i piedi senza smettere di sorridere, rasserenata: - Non sono nella posizione per protestare. E nemmeno per rifiutare, ma lasciami fare un'ultima prova.
- Davvero, non mi costa nulla.
- Sei un angelo, non sai che sollievo! - sembrò rilassarsi del tutto – A proposito, piacere, Beatrice. Beatrice Fortini. Ma ho un nome terribile, mi faccio sempre chiamare Bea.
- E' carino, invece. Io sono Linda Pesaro. - armeggiò ancora con i vinili – Accidenti a quanto ingombrano queste cose!
- Ma perché te le sei portata appresso?
- Per l'autografo. - la guardò da sopra la montatura dorata degli occhiali.
- Ah, giusto, non ci avevo pensato. Non sono una grande appassionata di musica.
- Aspetta: a che ora hai il treno?
- Tra due ore e mezza, più o meno.
- Ok. - sospirò – Allora non ti secca se aspettiamo Wakeman, vero? Almeno il disco delle Six wives of Henry VIII ci tenevo a farmelo firmare. Non penso ci vorrà molto.
- Ma figurati. - concluse e rimase in silenzio a lungo, studiandola con discrezione.
Forse erano entrambe fuori luogo, lei nelle sue scarpe basse di vernice e in quel vestito blu eccessivamente bon ton e Beatrice che dichiarava, col suo aspetto scompigliato, di essersi infagottata nei primi panni che aveva trovato.
- Te la posso fare una domanda, Bea?
- Sicuro!
- Ma se non sei appassionata di musica, come ti è venuto in mente di sobbarcarti tre ore di concerto per solo pianoforte?
- Dici che sia roba da intenditori? - rise, scrollando le spalle, un poco evasiva – Ero curiosa, ma è stato gradevole. E' davvero molto bravo, questo Wakeman.
- Già, nessuno ha saputo sostituirlo negli Yes. - cercò di tenere a freno lo sguardo sognante, rimproverandosi di non avere più quindici anni.
- Gli Yes?
- Sì, il gruppo in cui suonava.
- Erano in gamba? Come si scrive?
- Come in inglese. Meritano un ascolto, se ti piace il progressive: insomma, se hai apprezzato buona parte di quello che hai sentito stasera, puoi cominciare da lì. - finì per ingarbugliarsi con le parole, come al solito – Cioè, sempre che tu voglia approfondire... non era un'imposizione.
- Tranquilla: sono estremamente curiosa, pur non sapendo dove mettere le mani. La mia vera ossessione è il cinema.
- Io sono per la musica anni '70.
- Non hai l'aria da hippie.
- Mai avuta. - le strizzò l'occhio, mentre si scarmigliava un curatissimo caschetto castano chiaro – Sono rock inside: mai giudicare un libro dalla sua copertina.
- Giusto, giusto. Eppoi? Dammi qualche altra dritta, sennò non imparo.
- Dammela tu una dritta, nemmeno ti conosco. Che film ti piacciono?
- Sono una patita di fantascienza. Non fantasy, eh: niente hobbit, elfi e bestiole varie. - precisò con minuziosa attenzione, attirandosi lo sguardo interessato di Linda – I miei ragazzi dicono che sono un po' nerd. - e qui fece una smorfia, perplessa da quel lessico giovanile.
Linda non volle approfondire ulteriormente circa l'accenno ai “ragazzi” anche se, nella sua immaginazione che tendeva a galoppare sempre troppo liberamente, non riusciva a figurarsela come madre. Chissà poi perché. Nemmeno lei lo era, in fin dei conti e quella faccenda non la riguardava. Si affrettò a frugare nella memoria e a fare un nome: - I Rush. Sì, penso proprio che dovrebbero piacerti: c'è un bel po' di fantascienza nei testi, tanti riferimenti alle anti-utopie.
- Soltanto dopo l'arrivo di Neil Peart, però. - era intervenuta una ragazza mora che faceva la fila davanti a loro assieme a quella che avrebbe potuto essere sua sorella o un'amica.
Quest'ultima e Linda si sorrisero a lungo, per quel silenzioso sodalizio facile ad instaurarsi tra le donne insicure del loro aspetto. Entrambe si spianarono meccanicamente le gonne dei vestiti, rifugiandosi quanto più possibile dietro gli occhiali.
- Già, - si riscosse – ma a me non dispiacevano nemmeno prima.
- Ma no! Prima copiavano solo dai Led Zeppelin! - si fece largo l'amica, in un'affermazione coperta quasi subito dalla protesta dell'altra.
- Non dire niente, ché tu ascolti gli Uriah Heep!
Quasi incurante dei vinili, Linda batté le mani, esaltata come quando era ragazzina: - Anche tu? Ma sono il mio gruppo preferito!
Le venne in mente il cipiglio severo di Lorenzo nel sentirle stilare classifiche come se, con gli anni, avesse perduto il diritto alle preferenze.
- Anche il mio!
- Li ho visti due volte a Londra, l'anno scorso e quello prima.
- Lei è stata a Londra?
Linda cercò istintivamente Beatrice, che l'osservava spaesata, nonostante quel perenne bagliore divertito negli occhi, che sembrava non abbandonarla nemmeno un secondo.
- Ecco, Bea, ascoltati anche Salisbury.
- Come?
- Salisbury. E' un album, è stupendo.
- Voi tre sembrate uscite da un film d'epoca. - Beatrice agitò le mani – E' un complimento: significa che avreste dovuto vivere in quegli anni.
Le ragazze erano tornate a parlare fitto tra di loro.
- Io non sono poi così giovane: i prossimi sono quarantadue. Tu?
- Ventisette.
- Mamma mia. - Linda si coprì le gote con i palmi – Come sono vecchia!
- Non l'avrei mai detto, dai. Te ne avrei dati al massimo trentacinque. - ma, pur continuando a discuterne, Beatrice non sembrava granché interessata alle frivolezze del passare del tempo, non quanto non lo fosse a qualcosa di meno evidente.
- Perché sono il tuo gruppo preferito?
Glielo chiese all'improvviso, spiazzandola. Era una domanda banale, dopotutto, ma una corda in Linda tremò, vibrò inspiegabilmente. Forse era stata l'insolita fermezza nella sua voce, lo sguardo che continuava a farsi spazio dentro di lei, incuneandosi senza che Linda l'avesse voluto o sperato. Forse era stato quel suo chiedere perché: nessuno lo aveva mai fatto. Al massimo si era sentita rivolgere i quale delle conversazioni superficiali, eppoi neanche troppi.
- Quando avevo sei o sette anni, mio padre mi portò a un loro concerto, in un teatro come questo. Lui era un aspirante chitarrista. - il tono si intenerì, senza che intendesse evitarlo – Oddio, no, in realtà i miei avevano una farmacia, ma è sempre stato un mezzo artista autodidatta. Aveva anche un gruppo, ma non ha mai sfondato. - rise – Quindi puoi immaginare come per me fosse la prima volta in cui vedevo quella gente tutta insieme, in cui sentivo rimbombare forte quella musica che mio padre era solito provare in cantina. Non mi sembrava neanche di essere a Bologna, ero inebriata, tutto si agitava attorno a me come in un sogno. Poi è comparso sul palco questo ragazzo con lunghissimi capelli neri... beh, è una lunga storia.
- Secondo la quale ti sei presa la tua prima cotta per uno sconosciuto musicista inglese. - le strizzò l'occhio.
- Ma va là! Per il suo strumento, semmai. Ero alta così, nemmeno sapevo cosa volesse dire prendersi una cotta. Per me era uno stregone che faceva magie con la tastiera e...
Un silenzio improvviso era calato sul foyer, seguito da uno scroscio di applausi. L'imponente fisicità di Rick Wakeman aveva, da sola, riempito il locale assieme al brusio che era tornato a farsi vivo in un lento crescendo. Il pianista sorrideva, senza paternalismo, ai fan che gli porgevano libretti e copertine di vecchi vinili. Firmava tutto con sereno, britannico distacco, anche i cimeli di un passato che, forse, soltanto il pubblico rimpiangeva.
Quella calma era arrivata a ricordare a Linda quanto per lei fosse impossibile, quanto la memoria avesse la stessa punta aguzza di uno spillo, dimenticato sotto i comodi cuscini del presente, ma pronto a ferirla di nuovo.
E lui le ammiccò cordialmente, persino, quando gli augurò la buonanotte.


 

 

***
 


Credits:

Per la citazione – Uriah Heep, Salisbury
Per le ispirazioni musicali – Rick Wakeman, Catherine Howard / Cat Stevens, Morning has broken

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Capitolo 2
*** 1. And now a thousand years between ***


 

1.
And now a thousand years between


 

I never really thought
That I would lose myself
But now I'm going faster
Than anybody else

 

- Non vuole proprio smettere di piovere. - sospirò Linda, seguendo sconsolata l'andirivieni dei tergicristalli – Odio la pioggia.
- Non lamentarti, avrebbe potuto andare peggio. Avresti potuto non riuscire a farti autografare i tuoi dischi.
- Già.
L'anticamera del commiato sembrava aver tolto ogni energia a qualsiasi tipo di conversazione; forse avrebbero dovuto approfittarne, ma nessuna delle due riteneva opportuno aprire un nuovo argomento senza avere a disposizione il tempo per concluderlo. I pensieri di Linda si adeguavano allo stesso ritmo irregolare dell'acquazzone, gli occhi di Bea alle curve della strada.
Le sarebbe mancata. Non aveva senso, ma sapeva che era così. Il silenzio la spaventava sempre, al punto da doverlo riempire continuamente con la musica ma, ancora di più, la spaventava il confortevole silenzio condiviso con una persona che non avrebbe più rivisto. Avrebbe dovuto andarci più cauta con le sensazioni di benessere.
Le mancava già, mentre disse: - Stazione. - in tono piano.
- Oh, grazie! - Beatrice le tese la mano – Per tutto quanto. Senti, hai Facebook, magari? Così posso aggiungerti.
- No, però c'è la pagina dello studio. Se cerchi “Bianciardi e Pesaro – fotografia” mi trovi.
- Fantastico! Allora in bocca al lupo per... per quello che vuoi.
- Crepi il lupo. - rimise in moto la macchina, ma soltanto per riuscire ad accendere la luce sopra il cruscotto – Buon ritorno.
Beatrice sparì nella pioggia, nell'ingresso anonimo della stazione, lasciandola seduta tra i suoi dischi e i suoi rimproveri, come d'abitudine.
Che stupida: è solo un'estranea.
Passò un dito lungo la copertina di uno dei vinili, poi ridisegnò la forma sinuosa e ingarbugliata della firma del pianista.
E questa è solo musica. Quegli anni sono finiti anche per me. Soprattutto per me.
Il suono del cellulare la strappò ai pensieri. Niente di importante, non era che una notifica, ma accettò comunque di visualizzarla, cercando di riporre sul sedile posteriore la malinconia, assieme agli LP.
“Trovata! :-)”
Digitò qualcosa in risposta al messaggio di Bea, prima di soffermarsi a ingrandire la fotografia che usava come icona e constatare che, nonostante l'esposizione fosse nettamente sbagliata, quell'immagine la rappresentava. Sorrideva con spontaneità in una giornata di sole, i capelli mossi da un vento di certo gradevole.
Per quanto ne dicesse Lorenzo - che non smetteva mai di ragionare da professionista – erano quelli gli scatti migliori, dal lato umano. Sicuramente una luce morbida e diretta, alle volte, oppure la penombra o qualche oggetto caratterizzante sottolineavano una particolare personalità; ma era necessario instaurare un rapporto con il soggetto, prima, o essere dotati di qualche profonda e penetrante dote di empatia per la quale Linda non si sentiva portata, non si sentiva sufficientemente artista. Quindi, talvolta, lasciata l'attrezzatura a suo marito e armata di una dozzinale macchina compatta, sorprendeva gli invitati e gli sposi in un'espressione assorta, in una posa autentica. Poteva accadere che la coppia in questione restasse estasiata dalla sorpresa ma, più spesso, preferiva non affiancarla al servizio tradizionale che sarebbe stato rilegato e stampato con tutti i crismi.
Avrebbe potuto rivelarsi interessante sottoporre Beatrice a entrambi gli esperimenti, sarebbe stato bello vederla ridere a quel modo in sua presenza.
Assurdo.
Un altro messaggio: “Hanno cancellato il treno. Che sfiga!”
“E ora che fai?”
“Tiro mattina. Il prossimo è alle cinque e venti.”
“Ma non se ne parla. Salta su!”
Qualche minuto di esitazione dall'altra parte: “Su cosa devo saltare?!”
“Sulla mia auto. Sono ancora qui fuori.”
Il rumore dei passi era stato coperto dal ticchettio incessante delle gocce che battevano sul parabrezza, ma i due colpi al finestrino la fecero sussultare. Bea entrò, scrollandosi i capelli che, così ricci, non sembravano averne risentito.
- Cosa ci fai ancora qui?
- Scrivevo a te, no? Mica posso usare il telefono mentre sto guidando.
- Benedetta la tua prudenza, Linda! E ora che si fa? Non vorrai stare qui con me fino alle cinque sotto il diluvio?
- Nemmeno se mi dai dei soldi. - scherzò – Senti, mia zia ha una casa appena fuori Vicenza. O meglio, l'aveva, perché è morta.
- Oh, mi spiace.
- Beh, sono quasi dodici anni.
- Ok. No, aspetta un attimo: credo di avere un po' perso il filo.
- Già, anch'io. Dai, stavo dicendo che noi nipoti non abbiamo mai avuto il coraggio di rivenderla, quella casa. Non vengo più così spesso ad aprire le finestre, ma questa volta mi è tornata utile. Se ti accontenti di una coperta e un divano, volentieri, altrimenti è un po' spartana.
Beatrice alzò le mani in segno di resa: - L'alternativa è la sala d'aspetto.
- Potrei essere un maniaco. - insinuò, fintamente seria.
- O potrei esserlo io.
- Giusto, il rischio è al cinquanta per cento.
- Ti va un whisky?
- Che cosa? - sperò dapprima di non avere capito bene. Poi, immediatamente dopo, si sorprese a sperare il contrario.
- Whisky e coca-cola, magari. Offro io, naturalmente: in qualche modo dovrò pure sdebitarmi.
- Le persone normali offrono un tè, a queste ore.
- Non ho mai detto di essere una persona normale!
- Vero anche questo.
- Poi, insomma, siamo due donne sole, all'avventura, appena uscite da un concerto... cerchiamo di concludere degnamente una serata à la Thelma e Louise.
-
Tu solitamente concludi le tue serate così?
- In tempi più felici sì.
- Scusami.
- Oh, sono sciocchezze. E tu? Non dirmi che sei una da tè e biscottini per davvero.
- Io? Non vedo mai molta gente, a essere onesta. - non riuscì a non adombrarsi.
- Ehi, – le sussurrò Beatrice, prendendole la destra abbandonata sul volante – per stasera hai me.
Sorrise o, almeno, si sforzò di farlo: - Hai ragione.
- Allora andiamo?
Il vecchio motore diesel impiegò un poco a scaldarsi: - Andiamo. Fermami, quando un posto ti ispira.


La scelta era caduta su un piccolo locale corredato da un patio e illuminato da una mezza dozzina di lampioncini giallastri, abbastanza insolito da piacere a Linda e sufficientemente alla mano da non far storcere troppo il naso a Beatrice.
Chiaramente, per via del clima, il portico era deserto ma nemmeno l'interno era molto più affollato; in ogni caso, poi, i paravento in legno che dividevano i tavoli in gruppi di tre toglievano l'esatta percezione del numero dei presenti.
La trasgressione del whisky e coca-cola si era ridotta ad una coca-cola senza whisky anche se, in fondo, per Linda il senso di trasgressione era rimasto. Ne rideva misteriosamente, accarezzando l'orlo del bicchiere con la punta dell'indice.
- Che c'è? - anche Beatrice non riusciva a smettere di ridere, non comprendendo che non si trattava di buon umore. Non in senso stretto, almeno.
- Niente. E' solo tutto molto strano. Carino qui, però.
- Strano? Fa più strano a me. Sai, così a colpo d'occhio, avrei definito te come la donna di mondo, tra noi due. Insomma, quella che se ne può andare a Londra quando le pare.
- Ma sì, ho viaggiato molto, se per questo. Ma sempre da sola. E' curioso che ci sia qualcuno a tenermi compagnia, questa volta.
- Non hai nessuno che lo faccia? - sgranò gli occhi, sorpresa – Possibile? Nemmeno un'amica, una sorella, un fidanzato?

- A mio marito non piace molto spostarsi da casa.
- Sei sposata? - istintivamente, Bea posò gli occhi sulle sue mani, alla ricerca della fede, per trovarvi solo un anellino con una pietra blu.
- Con Lorenzo Bianciardi, sì.
- Pensavo fosse solo il tuo socio.
- Invece sono quasi vent'anni che siamo insieme anche nella vita.
- Cavoli! E' un fotografo e non ama viaggiare?
- Beh, non è sicuramente il tipo da National Geographic, per intenderci. La gente ha un'idea troppo romantica di questo mestiere. Per carità, si sposta: dalle chiese ai ristoranti dove si tengono i pranzi di nozze. Fa fotografie bene a fuoco, incassa le parcelle e ci permette di vivere più che decorosamente, ecco. Ma non vale la pena tirarselo dietro per sentirlo sbuffare per tutto il tempo.
- E le tue amiche?
- Chissà che fine avranno fatto: si saranno sposate, avranno dei figli. Va così, è normale. Io viaggio spesso e vado ai concerti. Lorenzo me lo ha sempre permesso e, me l'avesse anche impedito, non mi sarebbe importato.
- Mi piace questo tuo atteggiamento... un po' da artista.
- No, no, non lo sono.
- Ma fai fotografie.
- E' qui che ti sbagli: io scatto fotografie.

- Mi sa che non colgo la differenza.
- Se fai fotografie è perché hai scelto tu di comunicare qualcosa attraverso un'immagine, di dare forza ad un messaggio o di fissare un'emozione che stai provando. Ma scattare fotografie è solo un'azione, un atto meccanico: non devi discostarti troppo dal gusto del cliente, dalla moda del momento. Devi fornire un'immagine che strappi un oh di meraviglia a chi passerà dal tuo studio, convincendolo a commissionarti il prossimo lavoro. Sono solo un fotografo di matrimoni, anzi, un aiuto-fotografo: Lorenzo non mi ha mai passata di grado.
La coppia che sedeva nel tavolo davanti al loro scivolò via in silenzio.
- Ti piace quello che fai? Cioè, ti piacerebbe, se potessi farlo a modo tuo?
Linda scrollò la testa, senza entusiasmo: - Direi di no. E' un caso che ci sia finita in mezzo. Lorenzo aveva uno studio ben avviato e io ero in uno di quei momenti in cui non sai bene che fare con la tua esistenza.
- Perché? Scusami, mi sto facendo gli affari tuoi. - Bea tese la mano sul tavolo, fino ad incontrare la sua per la seconda volta e, di nuovo, Linda non la ritrasse.
- Perché mi ero persa; perché mi hanno costretta a perdermi. A te non è mai successo?
- No. - e lo ammise stringendosi nelle spalle, come se la serenità fosse stata una colpa – Non credo, ho sempre avuto obiettivi molto semplici e nemmeno troppa smania di portarli a termine. E mi interessava ancora meno di quello che si diceva di me in giro.
- Anche a me piace il tuo modo di vedere le cose. Forse mi servirebbe per star meglio.
- E' una libertà che alla fine sconti comunque. Ma stavamo palando di te: cosa avresti voluto fare, se non ti fossi smarrita?
Una lunga pausa. Una pausa che durava da anni era il filo invisibile che teneva il passato incastrato da qualche parte nella gola di Linda. Invisibile, anche se perpetuamente presente: un tentativo fallito di dimenticare, una condanna messa in atto proprio da quello stesso silenzio.
Ma forse aveva teso il filo per un tempo così lungo che, quando si spezzò, lo fece nella maniera più modesta possibile, nella banalità di quelle tre parole: - Suonavo le tastiere.
- Cos'è successo, dopo?
- Nulla. - si torturò le mani.
- Non insisto: le persone hanno diritto ai loro segreti.
- Grazie.
- Linda? Va tutto bene?
- Sì.
- Linda, stai piangendo. Senti, se hai bisogno di raccontare...
- Ricordi quando ti ho parlato del mio primo concerto? Non so cosa sia accaduto, ma ho sentito la musica trarmi a sé. E ricordi di quello stregone che faceva magie con l'organo? Si chiamava Hensley e mi rimase talmente impresso nella mente che, appena ho avuto occasione, ho fatto correre anch'io le dita sui tasti. Ma è stato davvero molto tempo fa, quasi non mi sembra che quei ricordi mi appartengano.
- Eri brava?
- Abbastanza, dicono. In realtà avevo incontrato una persona che mi spronava, che mi faceva sentire invincibile: era la mia ispirazione, il mio amore, il senso per tutto il futuro. Poi è...
- Morta? - strinse più forte la presa, quando le unghie di Linda quasi si conficcarono nel suo palmo.
- In un certo senso. O forse sono morta io. Ho smesso di suonare: non avevo più motivo per farlo. Non avevo più motivo per volerlo fare, soprattutto. Continuo a cercare uno scopo nella musica, continuo a cercare quello che avevamo e che ci è stato negato. Quello che avevo, quello che ero. Ne sono quasi ossessionata.
- E riesci a trovarlo?

- No.
- Cosa trovi, Linda?
- Non sento più nulla. A parte l'amore per la musica, tutto quello che trovo è dolore.
- Dovresti reagire, per il tuo bene.
- Non puoi capire.
- Linda, le relazioni finiscono, è normale. Ma non si può vivere in funzione di...
- Di un “come sarebbe andata”? Sì che si può, quando finisce com'è finita per noi. Se tu l'avessi amata con la stessa intensità con cui l'ho amata io! La persona, intendo.
- No, ho afferrato il concetto. - sorrise, rassicurante – Anche io e Silvia, la mia ragazza... non ti preoccupare. Non voglio sapere altro, se non ti va. Non ho capito granché, ma ho capito che ti fa male: direi che è sufficiente.
- Perché vi siete lasciate, tu e Silvia?
Beatrice alzò un sopracciglio: - L'ho detto?
- No, ma quel discorso sulle storie che finiscono...
- Mi fai paura, tu. Avevamo caratteri troppo diversi. - allargò appena le mani, lasciando quelle di Linda, che si sentì improvvisamente più sola.
Con un sospiro, la fotografa tornò a bere la sua bibita, non osando ricercare quel contatto.
- Silvia diceva che sono noiosa. Ed in effetti non le do torto: spesso mi rintano nel mio studio a correggere compiti, a guardare film, a gestire il mio blog di cinema. Non so, ho bisogno di silenzio. Lei era più il tipo da pubbliche relazioni, grandi compagnie, vernissage di arte contemporanea, teatro, aperitivi nel casino. Non ci siamo mai dette “ti amo” in sei anni: io troppo scontrosa e lei troppo snob. Avevamo questi biglietti per stasera, mi aveva convinta ad accompagnarla: poi ha fatto le valigie e mi sono pure rimasti sul groppone. Almeno uno ho pensato bene di adoperarlo. - si accorse che Linda la scrutava, scettica – Hai ragione, non sono così cinica. E' che Silvia mi mancava, speravo di trovarla, venendo qui.
- Quindi insegni? - aveva totalmente cambiato argomento, messa a disagio dalla sofferenza.
- Sì, matematica, alle medie. Ma non sono di ruolo.
- Matematica? No, allora non sei proprio il mio tipo. - scherzò.
- Stronza!
Linda si ricordò di essere in debito per quel discorso lasciato cadere: - Anch'io e Lorenzo siamo molto diversi.

- Ehi, Linda, non l'avrai sposato per ripiego? Scusami, ti ho offesa.
- No, figurati. Ho sempre voluto molto bene a Lorenzo. Lui invece era innamorato pazzo, chissà perché: sospetto volesse qualcuno capace di dipendere completamente da lui, dalla sua età matura, dalla sua carriera. Ma mi è stato molto vicino, pur non conoscendo l'origine del mio malessere. Mi aveva promesso che avrei trovato il mio equilibrio, io sentivo che era arrivato il momento di “mettere la testa a posto”, il che significava impedirmi una volta per tutte di cercare di sostituirla. Ma ho scoperto, con gli anni, che la stabilità che mi offriva non era davvero stabilità: era stasi e quella non mi fa bene.
- Se non sei felice, perché non lo lasci?
- Non è così semplice: gli spezzerei il cuore, dopo che lui ha salvato me, quando era il mio ad essere spezzato.
- L'hai detto tu che non sai nemmeno se l'abbia fatto per generosità. Io non sono che un'estranea, ma a volte sono proprio gli osservatori esterni a vedere meglio le cose. Guarda come stai. Perché non lo lasci e non riprendi a suonare? Devi tutto anche alla musica.
- Forse più che a Lorenzo, ma quel tempo è passato.
Erano uscite in fretta, sollecitate da Beatrice che, in piedi davanti alla macchina, se l'era stretta addosso talmente forte che Linda aveva potuto sentirne il profumo di vaniglia.
- Sei a disagio?
- No, Bea, non credo. Non è vero che non trovo mai nulla, questa volta ho trovato te.
Scendendo delicatamente con il palmo fino alla sua gota, Beatrice le accarezzò il viso e i capelli. Tutto in quel gesto chiamava un bacio che Linda, infierendo sulle proprie labbra con la punta dei denti, continuava a negare.
- Ti prego, sei così smarrita. Siamo così smarrite.
- Lo eravamo, Bea. - sussurrò, accostando la bocca alla sua – Lo eravamo.



***


 

Credits:

Per la citazione – Uriah Heep, Salisbury
Per le ispirazioni musicali – Yes, Turn of the Century / Led Zeppelin, Tangerine

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Capitolo 3
*** 2. Whispering on broken mandolin ***


Mi scuso per la brevità di questo capitolo, ma è – possiamo dire – il “perno” tra i primi e gli ultimi due più lunghi e decisivi per capire la vicenda di Linda ^^” Per il resto volevo ringraziare di cuore tutte voi che mi state seguendo, anche silenziosamente, perché vedo dai numeri che ci siete e ne sono molto felice *-*
Bisous <3
Marguerite.

 

 

2.
Whispering on broken mandolin

 

You move without a sound
And touch me with your hand
Just like the rain that fondles
Every grain of sand

 

 

Le parole di Salisbury le rimbombavano nella mente, assieme alle note della parte più sontuosa della suite. Qualcosa, nei loro gesti, aveva un accento di solennità o, forse, nella frenesia del momento tutto sembrava solo star accadendo troppo lentamente. Linda sentiva nei muscoli la tensione di prolungare quell'istante all'infinito; lo aveva protratto dall'attimo in cui aveva cercato di imboccare la porta della camera da letto senza smettere di baciare Beatrice, allontanandosi solo quel tanto che bastava per recuperare un paio di candele da uno dei cassetti di quella casa senza luce.
Allo stesso tempo, Beatrice continuava ad accarezzarla con trasporto, senza dire una parola, le mani che raggiungevano ogni centimetro della sua persona, anche oltre la pelle, riscaldandola nel profondo. E continuò ad accarezzarla a lungo, anche dopo averla distesa sul letto, alternando le mani alle labbra, alternando baci veloci ad altri più lenti e dolci, che le facevano dimenticare a poco a poco il suo autocontrollo. Con la gola offerta alla sua bocca, avvertiva gli ultimi lampi di razionalità perdere il loro appiglio e venire soffiati via dal respiro sempre più tiepido di Beatrice. Possessivamente, Linda la rovesciò sotto di sé, pelle contro pelle – dacché degli abiti se ne erano già liberate – trattenendole il viso nei palmi e baciandola con desiderio. Quando l'altra le strappò un basso gemito nel torturarle i seni, infierì finché non la vide agitarsi contro la propria gamba.
Non avrebbe avuto il diritto di domandarglielo, eppure lo fece, forse per sincerarsi che lei stessa, a sua volta, non stesse commettendo lo stesso errore: - Dimmi che non stai pensando a Silvia.
Beatrice le affondò le unghie nei fianchi: - Se tu non stai pensando a lei.
- No, no, è te che voglio.
- Linda. - le sue dita scorrevano voluttuosamente lungo l'interno delle cosce – Linda, allora prendimi.


Non che fosse pratica di avventure occasionali, ma qualcosa le diceva che non fossero solite andare nello stesso modo in cui si era svolta la loro. Cercare di liquidare tutto dietro l'alibi della solitudine, persino cercare di ignorare la dolcezza dell'espressione di Beatrice, che aveva visto dopo aver inforcato gli occhiali, non avrebbe prodotto risultati. Non sarebbe servito a contraddire un calore riscoperto dopo anni di lento, lunghissimo gelo e una vicinanza di sensi e di spirito nella quale aveva smesso di credere per autodifesa, per non rischiare di venire sfiorata ancora una volta dalla potenza dei sentimenti, per non avere Susanna costantemente davanti agli occhi e – in un certo senso – per non dimenticarla. E non sarebbe nemmeno servito a negare l'attenzione con cui le labbra si erano chiamate, quella notte e la passione finalmente libera con cui le dita erano scivolate sui corpi.
Si passò una mano tra i capelli, ravviandoseli.
Dalle imposte sconnesse filtravano le prime luci dell'alba e i raggi di un sole che aveva trovato il coraggio di farsi largo tra le nubi della sera precedente. Il chiarore penetrava in ogni angolo, carezzando ciascuna suppellettile, ciascun mobile lasciato alla mercé del tempo e della polvere; spandendosi tra le lenzuola sgualcite, sul suo corpo disteso con inquietudine sotto le coperte e su quello di Beatrice, ancora serenamente addormentata e stretta in un gomitolo al suo fianco. E portava con sé la percezione della realtà – rimasta lontana e impalpabile per alcune ore soltanto – che adesso tornava a farsi viva, tanto più dolorosa quanto più Linda aveva ricevuto sollievo da quella sospensione dal vero.
Il cellulare, recuperato alla cieca sul comodino segnava le sette meno dieci: era tempo di andare.
Scivolò fuori dal letto, ritrovandosi ad armeggiare nella cucina con una moka che, forse, non le avrebbe neppure permesso di preparare il caffè. Caffè che, per altro, non ricordava da quanto venisse conservato nella credenza. L'aroma pareva gradevole, mentre bolliva, e Linda rise con indulgenza di sé e di quelle premure non richieste, non previste, nell'accomodare sul tavolo due tazzine spaiate.
Beatrice ricomparve in un groviglio di boccoli biondi: - Ah, eccoti, non ti trovavo più.
- No, non sono sparita. Sono solo venuta a fare il caffè. Ne vuoi?
- Perché no?
- Bea, senti, non è facile dirtelo...
- Che devo andare via?
- Già. Sì, insomma, sono qui che preparo la colazione per indorarci la pillola e sentirmi meno in colpa, ma magari farei meglio a essere diretta e a mettere fine quanto prima a … - si lasciò cadere su una delle sedie.
- Linda, va tutto bene. Sapevo che non sarebbe potuta andare in altro modo, che a casa c'è Lorenzo ad aspettarti, ma – le cinse le spalle con le braccia, da dietro, facendole posare la testa sul suo seno – sono felice che questa notte ci sia stata. Se ci fossimo incontrate in altre circostanze, se tu fossi libera, Linda, se io potessi permettermi il lusso di desiderare di restare con te, lo farei senza pensarci due volte. Forse lo desidero già.

- Per favore, non rendiamo le cose più difficili, Bea. Se solo potessimo! Se solo io potessi!
- Se solo volessi, Linda.
- No, no, no! - si prese il viso tra le mani – Ma credi sia semplice? Io devo tornare. E come posso farlo, come posso tornare alla mia vita normale, alle mie fotografie insignificanti, alla mia storia con Lorenzo, altrettanto insignificante? Come, dopo aver capito che è ancora possibile tutto questo?
- Puoi pensarci sopra. - si sporse a baciarle la tempia – Puoi tornare, valutare se davvero ne vale la pena, riflettere su quello che ti ho detto e, magari, cercarmi ancora.
- Dovremmo smettere di illuderci, Bea.
- Hai paura che le illusioni diventino realtà, Linda?
- Ho delle responsabilità. - sfuggì dal suo abbraccio – C'è una persona che non mi lascia libera: non ha colpe e pagherebbe un prezzo troppo caro.
- Lorenzo se ne farà una ragione. Ci piangerà un po', poi...
- Magari si trattasse solo di Lorenzo.


 

Magari si trattasse solo di Lorenzo.
Quelle parole la perseguitarono come un crudele mantra per tutto il viaggio di ritorno. E, mentre consumava i chilometri il meno velocemente possibile, di nuovo le nuvole tornarono a divorare, pezzo dopo pezzo, gli ultimi brandelli di blu.



***

 

Credits:

Per la citazione – Uriah Heep, Salisbury
Per le ispirazioni musicali – Jethro Tull, Black Satin Dancer / Rush, Entre Nous

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Capitolo 4
*** 3. West is Susie ***


3.
West is Susie

 

 

As time passed and all too fast
I just knew we couldn't last
And I guessed that the end
Was near at hand

 

 

 

Bologna, giugno 2014

Non aveva fatto che piovere, in quei giorni e il maltempo aveva costretto entrambi a dedicarsi esclusivamente a scatti di interni, soffocanti quanto le pesanti tende amaranto che avvolgevano il salotto. Quello era stato il primo pomeriggio di sole dopo lungo tempo e Bologna l'aveva accolto con il suo solito abbraccio umido, asfissiante.
Al riparo dietro la spessa cortina di cotone che, come un sipario, escludeva la città dalla loro vita, Linda aveva preparato un tè freddo, i resti del quale, ora, lasciavano un'ombra d'acqua sul tavolino che separava la sua poltrona da quella di Lorenzo. Guardò l'impronta espandersi ancora per qualche secondo, prima di sistemarsi gli occhiali sul naso e tornare al suo Fromm.
Lorenzo, abbandonato su uno dei braccioli, era troppo assorto nella lettura di Bassani per accorgersi dell'insofferenza con cui sua moglie sfogliava le pagine del libro senza averle veramente lette e per riuscire a dare a quel comportamento una giustificazione diversa dal caldo o dalla noia.
Lei piegò l'angolo di uno dei fogli e posò il libro chiuso sulle ginocchia, sbirciando il marito da sopra la montatura degli occhiali: - Perché hai ripreso Il Giardino dei Finzi Contini? Non sei ancora stanco di quel romanzo?
- E' affascinante – rispose lui, distrattamente, senza nemmeno rivolgerle lo sguardo – Ogni volta ne noto un aspetto nuovo.
- E non potresti dedicarti direttamente a qualcosa di nuovo?
- La letteratura è morta. E forse anche la psicanalisi.
- Ammesso che sia mai stata viva. - sperò che la sua freddezza mettesse fine a quella che ormai le sembrava un'infinita sequela di luoghi comuni. E anche ammesso che, talvolta, dai loro pigri scambi di battute emergesse un'osservazione originale, quella conversazione ciondolante la interessava talmente poco che non la notava neppure più.
- Sei tu che continui a leggerne.
- Solo perché mi ricorda di quando ero giovane.
- Ah, Linda, Linda, i ricordi! Saranno per sempre la tua maledizione. E la mia, posto che non ne saprò mai il contenuto. Ma è giusto così. Almeno, però, ne traessi ispirazione per scrivere, come lui. - batté con l'indice sul frontespizio del volume, appena sotto il nome dell'autore.
- Già. Ma sei arrivato ad una conclusione? Micol rappresenta l'amore per il passato o il passato stesso che, intravisto il futuro, lo disprezza così tanto da negarlo?
- Che differenza farebbe, Linda? Si finisce comunque per amare qualcosa che è morto, che non torna.
- Alle volte qualche barlume di speranza lo si può trovare anche nel futuro. Certo, non al punto di amarlo o da auspicarne il suo arrivo, ma è meglio di niente.
- Lo è. Ma è strano sentirlo dire da te, che hai sempre affermato di poter amare solo ciò che si è concluso. Eppure ci rifletti, quindi deve essere successo qualcosa che non ti lascia indifferente. Sei strana, Linda, ultimamente, da quando sei tornata da quel viaggio.
- E' probabile.
- Perché fuggi, allora, davanti a quel barlume?
- Perché alcune cose vanno lasciate intatte, Lorenzo.
Le ombre stavano scendendo sulla stanza, impedendo a entrambi di proseguire nella lettura. Lei si alzò, posando una mano sulla spalla di Lorenzo, nel passargli accanto.
- Sei davvero strana, Lin: non vuoi dirmi cosa non va?
- Mi dispiace, non capiresti.
- Non mi hai mai permesso di capirti.
- Non mi hai mai permesso di scegliere di non essere salvata da te. Lascia che certe cose continuino ad appartenere a me sola. - rispose tristemente, evitando di notare come la mano di lui gli tremasse in grembo, nel dubbio se stringere o meno la sua – Se soltanto mi amassi di meno!
- Dimmi una cosa, Linda: sei più felice adesso di quando sei partita?
- No, tutt'altro. Mi sento infinitamente più isolata, credo, ogni giorno che passa. E mi sento un'egoista a venirlo a dire a te.
- Ormai mi sono rassegnato all'idea di non poterti raggiungere, ma mi dispiace per te. Vorrei poterti bastare.
- Non lo vedi? In un modo o nell'altro finisci sempre per bastarmi. Sono qui, sono tua, come hai sempre voluto. Dipendo da te, se non per la mia felicità, quanto meno per la mia sopravvivenza. E sono talmente in debito con te per questo da non rendermi nemmeno conto di quanto tu mi faccia più male che bene. E' quello che avevi pianificato. Non sperare, ora, che mi faccia anche aiutare a beneficio del tuo ego.
- Linda, per favore... - si voltò di scatto e, afferratele le mani, impresse la labbra con forza sull'interno di uno dei polsi, dove biancheggiava trasversalmente una vecchia cicatrice.
Linda si sottrasse al contatto e lo lasciò a riversare quelle carezze sulle tenebre che continuavano ad avanzare.

 

 


Bologna, aprile 1989.

- Mamma! Mamma, Linda è in bagno da ore. Io rischio di far tardi in parrocchia, così: poi chi la sente Teresa, che ci tiene tanto a questa storia degli incontri prematrimoniali? Linda, dai, sbrigati! Sei già bella così, senza che ti lisci i capelli per due secoli e mezzo! Mamma, glielo dici tu?
- Linda! Dai, che serve il bagno anche a Giorgio... Linda, almeno rispondi. Linda? Linda!
- Che si sia sentita male?
- Oh, Cielo! Cosa facciamo adesso? Si è anche chiusa dentro.
- Linda?
La voce di Giorgio le arrivava sempre più ovattata. Ancora qualche minuto e avrebbe smesso di sentirla del tutto. Avrebbe smesso di sentire ogni cosa. Già le forme e le luci avevano cominciato a svanire, trasportandola nel buio di una dimensione irreale, dove riusciva a galleggiare in un'infinita oscurità. Il dolore, anche quello fisico, andava affievolendosi. I colpi, soltanto quelli – una serie di colpi violenti e ripetuti alla porta – la trattenevano, come una zavorra, ancorata alla realtà.

Perché non cessano? Perché, Giorgio, se mi vuoi così bene non mi lasci andare?

- Ce l'ho quasi fatta: sta cedendo.
Un tonfo sordo si spanse attraverso il legno.
- Giorgio, è in un lago di sangue! La mia bambina, la mia bambina! Linda, cosa hai fatto, amore mio? Rispondimi, rispondi alla mamma.
- Un'ambulanza al 47 di via Byron, per favore. E' urgente: c'è una persona con una gravissima emorragia, c'è sangue dappertutto.
- Linda, amore, perché?
- Stanno arrivando, mamma. - erano le mani di suo fratello ad accarezzarle il viso, adesso, a scostarle le ciocche bagnate. Riusciva a percepirlo, anche se non aveva la forza di aprire gli occhi – Tieni duro, piccolina.

Non voglio, gli disse, ma tutto quello che ne risultò fu un movimento appena percettibile delle labbra.
- Io non mi sposo. Non se Linda sta così. - lo sentì dire, mentre i medici la caricavano sull'ambulanza. Non era del tutto cosciente, ma si accorse di quando Giorgio salì assieme a lei, senza mai smettere di sfiorarle i capelli: - Perché avevi un tormento così grande e non me lo hai detto? Perché non l'ho capito? Cos'è che ti fa tanto male, piccolina mia?


 

 

L'icona dei messaggi si era illuminata di rosso. Linda gettò il telefono sul letto, dopo un'occhiata veloce al testo. La cliente aveva spostato la data del matrimonio a settembre: avrebbe dovuto ricordarsi di avvisare Lorenzo.
E, del resto, cos'altro avrebbe potuto aspettarsi? Beatrice non l'avrebbe certo contattata in un modo tanto imprudente e altri di più discreti non erano in suo possesso; se n'era andata senza lasciarle il suo numero, a intendere di non voler essere cercata: non poteva pretendere – adesso – che Bea la inseguisse. Non poteva pretendere più nulla. Anzi, avrebbe fatto meglio a rassegnarsi all'idea di aver perso la sua occasione, di non avere più speranze per rivederla, se non per qualche assurdo giro della sorte. Eppure, di tanto in tanto, meccanicamente, guardava quell'icona come se avesse potuto cambiare di colore e non per i capricci di una futura sposa.
Era stata onesta nell'ammettere con Lorenzo di essersi di rado sentita tanto sola – per quanto la solitudine fosse una condizione perenne – e, ormai, di mal sopportare gli intellettualismi impersonali di quella sua unica compagnia. In realtà, anche un'altra volta lo era stata e, allora, aveva raccolto in una scatola di legno intagliato tutto ciò che le era rimasto, nel tentativo di sottrarlo al tempo e di renderlo una prova tangibile dell'esistenza di quegli anni. L'aveva sempre conservata in un armadio, sotto una pila di maglioni che adoperava di rado e estratta regolarmente, per scoprire i fogli sempre un po' più ingialliti e le fotografie un po' più sbiadite.
In una, lei sorrideva dietro la tastiera – gli stessi occhiali sul naso, ma i capelli più lunghi. Nell'altra, era sdraiata insieme a Susanna nel parco di Villa Molinari – la casa dei suoi – con l'erba e i fiori ad avvolgerle come una Ofelia moderna e sdoppiata, ma ancora felice. Forse era stato lo stesso avvocato Molinari a scattarla - se ben ricordava - prima che potesse sospettare qualcosa.
L'ultima era un ritratto di qualità professionale di Susanna, circondata dallo sfondo ovattato e artefatto dello studio del fotografo. Era bella, oggettivamente più bella di lei, con i lunghi boccoli color mogano che scendevano in onde morbide attorno a un viso bianchissimo e tondo: nella perfezione delle labbra a cuore e degli occhi verdi, chiari e limpidi, era più elfo che donna. Non guardava l'obiettivo, ma un punto visibile a lei sola; sulla mano, posata sopra al ginocchio, brillava un anellino con la pietra blu, l'unica cosa che le accomunava perché, per il resto, Linda si era sempre sentita fin troppo ordinaria al suo confronto. Sul retro della fotografia campeggiavano poche righe: “Sono sempre con te. Sono sempre tua: ti appartengo, nel corpo e nello spirito. S.”



Bologna, novembre 1987.

- Dai, Linda, dobbiamo lavorare!
- Un altro, l'ultimo! - la trattenne tra le sue braccia e le coprì la bocca di un'ulteriore serie di piccoli baci veloci – No, aspetta. L'ultimissimo!
- Me ne hai già dati tremila. - protestò Susanna, ma senza scostarsi da quella stretta tiepida. Teneva gli occhi chiusi e rispondeva porgendo appena le labbra, con la stessa naturalezza con cui prendeva fiato.

Respiriamo nello stesso respiro, diceva sempre Linda.
- Le canzoni mica si scrivono da sole!
- Sì, ma abbiamo un sacco di tempo, prima che io debba rientrare.
Susanna si rassegnò a quella dolcissima inoperosità, insinuatasi nella sua camera da letto assieme al ticchettio della pioggia e alla luce grigiastra del dopopranzo autunnale. Si raggomitolò più comodamente accanto all'altra, posando la gota sul suo seno e ascoltando il battito regolare del suo cuore, così simile a quello delle gocce d'acqua, mentre le disegnava pigri arabeschi sul maglione con la punta delle unghie.
Linda, di rimando, si inanellava attorno all'indice uno dei suoi lunghi boccoli.
- Lin, non trovi che sarebbe bello se riuscissimo ad esibirci al saggio di fine anno, a giugno?
- Dipende se avremo qualche pezzo pronto.
- Potremmo farne uno vecchio.
- No, è robaccia: serve qualcosa di più potente. Certo che se continuiamo così... - rise.
- Guarda che la colpa è tua: sei tu che sottrai tempo ed energia alla nostra corsa verso la gloria.
- Potremo fare una cover, se proprio, tanto per dimostrare che sappiamo suonare. Che ne dici di
Salisbury?

- Tu sei tutta matta! E' impossibile, Lin! Come facciamo? Serve un'orchestra.
- Gli Heep, in tour, la riarrangiavano per gli strumenti che avevano. Lo faremo anche noi. Dai, Susie! Dai, dai, dai! Ci terrei tanto!
- Vedremo, sei tu il genio, qui. Senti, seriamente, secondo te possiamo farcela? Voglio dire, abbiamo davvero talento anche noi, oltre a te?
- Certo che ne abbiamo, Susie. Siamo grandi, tutti e cinque. E tu ed io in particolare: diventeremo famose.
- E se non fosse così? - la guardò con aria insicura, il labbro inferiore che tremava – Se non fossimo così grandi come dici? Ti arrabbierai? E' così importante il successo, per te?
- No, è importante la musica. E sei importante tu. Ma vorrei avere anche successo per poterti portare via da questa gente che, se sapesse, ci guarderebbe troppo male; per portarti in qualche posto più libero in cui amarti non sia una colpa. E per tenerti con me per sempre.
- Per
sempre-sempre, Lin?

L'argento dei due anelli gemelli cozzò con un tintinnio lieve, quando Linda intrecciò le dita alle sue: - Per sempre, Susie. Non lo vedi? Siamo perfette, insieme. Sarò tua finché vivrò. Troveremo un modo, te lo prometto.
Con la mano salda in quella di Linda, Susanna si calmò, respirando il suo profumo: - Ti amo tanto, Linda. Sto tanto bene con te, sono felice.
- Lo sono anch'io, Susie. Sei il mio amore, sarai il mio unico amore.




La carta ruvida della pergamena, sfregando contro i polpastrelli, la riportò alla realtà. L'aveva conservata con più cura di quanto non meritasse il suo valore intrinseco: in fondo non era che un attestato alla buona, rilasciato dal suo liceo nel giugno di quel 1988 ormai lontano come un sogno. Ma quelle scritte fintamente pregiate ricordavano che, al saggio di fine anno, gli Ancient Rȇverie avevano partecipato con l'arrangiamento di Salisbury. Le ricordavano i pomeriggi spesi a dibattersi tra la musica, le prove e quel cinque in matematica che doveva assolutamente recuperare prima degli scrutini o le serate sommersa tra i radicali del professor Orsatti e i cambi di tempo di Ken Hensley. Le ricordavano Susanna e tanto bastava a rendere quel foglio prezioso e tagliente.
Annodò di nuovo il nastro bordeaux e posò la pergamena arrotolata sul letto, insieme agli altri oggetti già estratti.
Il resto della scatola era occupato da un plettro per chitarra color tartaruga, da un blocco per appunti riempito dei loro testi con due diverse grafie, da un ciondolo a forma di stella e dal singolo in vinile di Refugees. Quello dei Van der Graaf Generator era stato il primo concerto a cui avevano partecipato insieme e Susanna si era innamorata da subito di quella canzone, dove un personaggio portava il suo stesso nome.
E, nel fondo, più cara di tutto il resto, c'era una lettera vergata in una scrittura minuta. Il suo profumo era svanito così come il suono della sua voce con cui, i primi tempi, Linda era solita leggere quelle parole:

« Zurigo, 1989. Marzo.
Amore mio,
saranno mesi che starai aspettando inutilmente mie notizie. Non so se tu abbia smesso di cercarmi o se mi abbiano nascosto le tue lettere, evitando di recapitarmele qui. Ma ormai saprai della mia sorte che, in sé, non sarebbe nemmeno così male, ma che senza di te equivale a una condanna.
E' come se fossi morta, Linda e non so cosa mi abbia tenuta in vita fisicamente per tutto questo tempo, forse la disperazione con cui continuo a gettarmi nello studio. Però non faccio che pensare a te: ho sempre i tuoi occhi davanti, anche quando dovrei vedere soltanto i libri; suono qualche accordo e mi ritrovo a ricordare i nostri baci.
Io non ce la faccio, senza di te e l'idea di vivere i prossimi anni in un collegio che è quasi una prigione, senza vederti, senza accarezzarti, mi sta consumando, giorno dopo giorno. Mi toglie energia ed entusiasmo.
Eri la mia vita.
Sei la mia vita. So che mi aspetteresti, se te lo chiedessi, ma è il qui ed ora che importa. Importa che sono riusciti a dividerci, che ce l'hanno fatta, che hanno vinto. Importa che, quando tornerò, anche se tu mi avessi aspettata, anche se io ti avessi aspettata, tutto resterebbe uguale. I miei non riconosceranno mai che la mia strada possa essere diversa da quella che loro hanno pianificato per me. Frequenterò qui l'università, anche, sarò una brillante economista che non eserciterà mai. Diventerò la rispettabile moglie di Giancarlo Pistelli, quando farò ritorno. Lo ricordi, Giancarlo?
Non ho nemmeno più la forza di oppormi. Anche sperare mi sembra che prolunghi un'agonia.
Non è giusto dire addio ai sogni a nemmeno diciotto anni.
Non è giusto!
Non dimenticarmi. Amami sempre, Lin, mia principessa dei tasti bianchi e neri, come farò io.
Sii felice, te ne prego. Ti amo.
Ti amo! Tua per sempre,
S. »


 

Lorenzo, in salotto, non aveva proseguito nella lettura: il libro continuava a giacere aperto sulle sue ginocchia e lui continuava ad osservare, immobile, i contorni bui della stanza senza vederli, nemmeno quando Linda accese la luce.
Lei, inginocchiata sul tappeto, passò poi in rassegna i suoi vinili, carezzandoli uno ad uno, fino a trovare quello desiderato. La puntina scese con lentezza su un lato B dai solchi ormai consumati e l'aria vibrò nella magniloquenza di un'introduzione eseguita da un'orchestra al completo.
Il fotografo non aveva mai prestato troppa attenzione alla musica: anche se quei dischi lo accompagnavano involontariamente da vent'anni, non avrebbe saputo dire se avesse già sentito quello che, di volta in volta, ruotava sul grammofono.
- Cos'è? - le chiese distrattamente.
- Salisbury. - Linda si morse appena il labbro per fermare le mani che, quasi impercettibilmente, cercavano nell'aria i tasti invisibili di un organo immaginario.
- Puoi toglierlo, per favore? Mi deconcentra, vorrei tornare a leggere.
Lei scostò la puntina, ma lasciò il disco sul piatto: - Vado a preparare la cena.
- Perché non usciamo? Fa bel tempo, stasera.
- Se preferisci. Allora vado a fare una doccia.

 



Bologna, giugno 1989.

- Signorina! Signorina, la prego!
- Sì?
- Dovrebbe unirsi al gruppo per la foto.
- Come?
- La foto degli sposi con le damigelle. Non è una delle damigelle anche lei?
Linda si riscosse, quel tanto che bastava per incontrare gli occhi scurissimi del fotografo, un ragazzo ben vestito, con troppa brillantina a trattenergli all'indietro il ciuffo in una pettinatura fuori moda.
- Certo, certo. - si arrotolò attorno alle dita le maniche del golfino celeste, tenendole ben salde a coprire i polsi e buona parte delle mani, nonostante quella fosse una delle estati più calde che Bologna ricordasse.
Sorrise, soltanto per Giorgio. Non di sicuro per sua volontà né per compiacere il fotografo che, da dietro il cavalletto, mentre aggiustava il grandangolo per inquadrarli tutti, scherzosamente si segnava le guance con gli indici a invitarla a mostrarsi più gioiosa.
Dopo il secondo scatto, le ragazze si dispersero come passeri, in un caleidoscopio sbiadito di colori pastello e in un vociare di chiacchiere frivole. Anche Linda poté approfittarne, ma per allontanarsi in silenzio.
- Ehi, aspetti! - di nuovo quel ragazzo con troppa brillantina.
- Dice a me?
- Sì, mi posso presentare? Lorenzo Bianciardi.
- Linda Pesaro. - quando le strinse la mano, sopportò il dolore in una smorfia appena accennata che lui interpretò come diffidenza.
- Non pensi male... anzi, ci possiamo dare del
tu? Il lei fa così antico e noi siamo così giovani. Sì? Bene. Non pensare male, allora, se mi sono presentato. E' più che altro una faccenda professionale: posso fotografarti?
- E' quello che hai fatto per tutto il giorno.
Lorenzo rise: - Sì, lo so, ma intendevo: posso fotografarti da sola? Ci sono delle piante di glicine, lì; mi piacerebbe ritrarti in mezzo a tutto quel viola.
- Perché?
- Perché sei molto bella.
- Non è vero.
- E' vero. Ma anche perché c'è qualcosa che mi ispira nel tuo sguardo, nella tua espressione.
- Io non so posare. - si schermì, eppure si avvicinò al glicine.
- Non importa. Sii naturale e non badare a me.
Sembrarono passare ore, mentre lui studiava il modo in cui la luce la colpiva. Era strano: non che non si sentisse degna di venire fotografata, semplicemente non vi aveva mai pensato. E nessuno, a parte Susanna, aveva mai osservato la sua persona con tanta cura, seppure per motivi diversi.
- Puoi toglierti la giacca? Vorrei che il vento muovesse il vestito.
- No.
- Peccato, la foto sarebbe venuta meglio.
- Come credi. Ma allora non inquadrarmi le mani. Ho avuto... un incidente.
- Oh, mi spiace. - le disse lui attraverso la macchina. Poi, come se l'obiettivo gli avesse dato il potere di oltrepassare la barriera fisica della carne e quella, ancor più impenetrabile, del silenzio, le diede i brividi con un'altra frase: - Linda, qualsiasi cosa ti sia successa, avresti bisogno di qualcuno che si occupasse di te.
- Come?
- Scusa se mi permetto, - continuava ad armeggiare intanto con la sua attrezzatura, nel pretesto di non riuscire nella messa a fuoco – ma qui tutti si divertono e nemmeno si chiedono dove tu sia.
- E' normale: è il matrimonio di mio fratello, mica il mio.
- Normale, già. E' normale ignorare la sofferenza, fare finta che non esista per illuderci che sia davvero così.
Le lacrime le premevano agli angoli degli occhi: qualcosa nel tono delle sue parole – ancor più delle parole stesse – l'aveva colpita nel profondo, al punto da non riuscire neppure ad indignarsi per quella sua indiscreta sfrontatezza.
- Questa non è una faccenda professionale, però, Lorenzo.
- Forse fin da subito ci sono state altre ragioni se mi sono interessato al tuo sguardo, anche se non potevo saperlo. Chiamalo istinto, chiamalo inconscio. Linda?
- Sì?
- Magari un giorno potrei occuparmi io di te.

 

 

***

 

Credits:

Per la citazione – Uriah Heep, Salisbury

Per le ispirazioni musicali – Simon & Garfunkel, The dangling conversation
Simon & Garfunkel, April come she will

Van der Graaf Generator, Refugees
Peter Hammill, Time Heals
 

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Capitolo 5
*** Epilogo. Can you imagine us? ***


E così siamo arrivati alla fine della storia! é_è
Grazie, davvero, di cuore, a tutte voi che mi avete accompagnata in questa avventura! Tanti bisous <3 <3 <3
Marguerite.





 

Epilogo.
Can you imagine us?

 

There's a line in a rhyme
I was going to send to you
It says: “all that is to be
Will surely be”

 

Padova, luglio 2014.


«I was only seventeen, I feel in love with a gipsy queen. She told me: hold on! Her father was the leading man, said: you're not welcome on our land. And then as a foe, he told me to go.»
Dopo anni, lo stregone era sempre là, nella sua selva di tasti. I capelli neri, come un morbido sipario di seta, gli coprivano parzialmente l'espressione estatica di quel volto spigoloso che – assieme alla musica – tanto l'aveva colpita da ragazzina.
Le vibrazioni che le arrivavano erano sempre le stesse, quando l'Hammond tremava sotto i colpi energici delle mani. Se non si fosse trovata nella prima fila e non fosse riuscita a scorgere, con la luce diretta, la trama di rughe che segnava il viso del musicista inglese dietro gli occhiali, Linda avrebbe potuto anche credere che il tempo si fosse fermato. E, forse, intravvedere in una immaginaria sovrapposizione di piani, la bambina che era stata, da qualche parte tra la folla.
«How I want my gipsy queen! Will she still be torn between her father and lover? One day I will go to him, strong enough to fight and win: the kind of a man that he'll understand.»
Hensley afferrò il microfono e sorrise composto al pubblico: - God bless you all! Thank you and good night! - poi sparì dietro al palco, con un'ultima sferzata dei riccioli neri che oscillarono sotto i riflettori.
Linda rimase a guardare la gente disperdersi nel parco e l'organo abbandonato nell'improvviso, irreale silenzio. Istintivamente si assicurò che il vinile che aveva portato con sé fosse ancora al suo posto, nella borsetta e non avesse sofferto troppo nella calca. Magari, se avesse avuto sufficiente pazienza, sarebbe riuscita a scambiare due parole con il pianista.
- Linda? - una mano sulla spalla la fece sussultare.
- Bea?
Lei, con gli occhi sgranati e i capelli arruffati come la prima volta, la fissava senza troppa incredulità: - Allora ce l'ho fatta.
- A fare che? - cercò di rispondere, prima di venire soffocata nel suo abbraccio.
- A trovarti. Ho studiato, non vedi? Salisbury, gli Uriah Heep, Ken Hensley: ed eccoti qua. Ho immaginato che saresti assolutamente venuta, e a venti minuti da casa mia, per giunta!
- No, aspetta: sei venuta al concerto solo perché sentivi che ci sarei stata anch'io?
- E per chi altri? Il signore inglese è bravo, ma...
- Come accidenti hai fatto?
- Intuito. - rise, come se la nostalgia di quei mesi fosse svanita tra le sue braccia, dalle quali non intendeva scostarsi – Nessuno rinuncia a vedere l'idolo della propria adolescenza. E, a quanto pare, nemmeno i suoi ferri del mestiere.
Linda le sfiorò la gota, sistemandole un ricciolo dietro l'orecchio: - O io sono disastrosamente prevedibile, o mi hai capita più tu in una decina di ore che tanta gente in quarant'anni. - cercò di tenere ferma la voce, ma si accorse che le tremava – E se non mi avessi trovata?
- Avrei visto un bel concerto. - le batté la mano sulla spalla per sdrammatizzare, prima di liberarsi di malavoglia dalla stretta.
- Perché, Bea?
- Perché non riesco a smettere di pensarti, Linda. E lo so che potresti dirmi che non ho alcun diritto di farlo, dato che si è trattata di una sola notte. Ma non è una questione di diritti, non c'è nulla di razionale nel fatto che non so dimenticarti. È successo qualcosa di inspiegabile, quella sera, di magico, che non accade spesso. Che non era mai accaduto a me.
- Bea...
- Lasciami finire, per favore: è da due mesi che avrei voluto parlarti in questi termini, ma non sapevo come fare, senza metterti nei guai. Ti sembrerà strano che sia una professoressa di matematica a tirare in ballo le suggestioni con un'artista, ma credo di provare qualcosa per te.
- Mi dispiace, Bea. - le prese una mano e la strinse convulsamente, senza più controllare il pianto, incurante della gente che continuava ad affaccendarsi, a discutere e a bere birra – Non doveva succedere. E no, non voglio dire che lo rimpiango, soltanto che hai messo in discussione tutto il mio mondo.
- E tu il mio. L'hai stravolto, in positivo. Cerchiamo di rimettere insieme i pezzi, allora, di costruire qualcosa di nuovo.
- Mi sono raccontata bugie talmente a lungo, soprattutto sul conto di Lorenzo, che ho finito per crederci, almeno finché tu non hai squarciato il velo.
- Non sono sicura di averti fatto del bene, eppure tu ne hai fatto a me.
- Mi hai mostrato che i sentimenti esistono ancora, anche se ho passato anni a soffocarli. E' stata una benedizione e, allo stesso tempo, una condanna: adesso vivere con Lorenzo sarà quasi impossibile.
- E allora vieni via con me, Linda.
- Non credo sia la scelta giusta. Ho paura di amarti per un riflesso. Non lo meriteresti.
- Chi siamo per giudicare i motivi che stanno dietro all'amore?
- Non posso lasciarlo, Bea.
- Non puoi lasciarlo solo perché il sentimento tiepido che vi lega ti ricorda la differenza con la potenza di ciò che ti univa a lei? Ma come puoi non desiderare un futuro? Forse dovresti voltare pagina, qualsiasi cosa ti sia successa.
- Forse non voglio.
- Scusami.
- Scusami tu. No, vedi, Bea, non c'entri: il meccanismo è troppo sottile e io ci sono troppo dentro. A un certo punto ti tagli i capelli, smetti di suonare le tue canzoni, butti gli spartiti, nascondi le fotografie e provi ad andare avanti con la tua vita facendo finta che lei non ci sia mai stata. Ma prima di andare a dormire, quando abbandoni le tue difese, senti tutto il peso della sua assenza. Ed è così che voglio vivere. Non voglio abituarmi a quel peso, fino a non sentirlo più. E' l'unico modo in cui posso ancora averla, perché ancora l'aspetto.
- Non riesco a capirti fino in fondo, Linda. Magari ti manca solo il coraggio di dirmi che è stata davvero un'avventura e che ora non vuoi complicazioni.
- No! - le unghie quasi le segnarono la pelle – Non pensarlo, per favore.
- Allora è che io sono un asintoto e tu un'asse, Linda, e io posso solo avvicinarmi a te senza sfiorarti.
- Non sono mai stata brava in matematica, ho sempre preferito la musica. - tolse dalla borsa il vinile di Salisbury e glielo porse – Tieni.
- Linda, non...
- Sì, tienilo. Mi ha accompagnata per una vita. Ha molta importanza per me.
- Appunto. E non vorrei che...
Le chiuse le mani sul disco: - Mi piacerebbe che lo conservassi tu, per ricordarti di me, così saprai che non è vero che sono un'asse e che, per una volta, almeno mi hai sfiorata. Anzi, che mi hai raggiunta e che, anche se non resto, mi possiedi, Beatrice. - tacque a lungo eppoi: - Mi accompagni alla macchina, ora?
- E il tuo tastierista?
- Ci sarà un'altra occasione. - concluse, senza amarezza.
- Torni a casa, Linda?
- Non subito; sai che non guido di sera.
- Posso restare con te?
- No, ti prego. Salutiamoci adesso, non prolunghiamo il tormento.
- Posso darti almeno un bacio?
- Quello sì.
Il parcheggio era deserto. Beatrice ne approfittò per premerla contro la portiera chiusa dell'auto e lambirle le labbra con forza, mentre le tratteneva il viso nei palmi. Linda rispose afferrandole i fianchi e stringendola al seno disperatamente, quasi ne fosse andata della loro salvezza se avesse allentato la presa. Nemmeno l'aria passava tra i loro corpi e nulla poté frapporsi in quell'istante, né i muri della mente né le paure.
- Non lasciarmi andare via, Linda. - la supplicò sulla sua bocca.
- Devo, Bea. Abbi cura di te, di ciò che sei.
- Allora vai. Ti voglio bene, Linda. - la baciò di nuovo, questa volta rapidamente, prima di sospingerla con dolcezza – Vai, ora!
Beatrice scomparve, com'era arrivata. Chiusa nell'abitacolo, Linda vide i fari di una macchina rischiarare per un momento lo spiazzo.
Era tutto finito, ormai. E lo sarebbe stato in maniera ancor più definitiva l'indomani mattina, quando sarebbe stata l'ora di rientrare a casa, quando lei sarebbe rimasta con la sua solitudine. Ma già ne sentiva il peso: sentiva l'aria mancare e comprimerla, impietosa quanto il dolore, quanto il nodo alla gola che sciolse con la testa reclinata sul volante.
Cercò di asciugarsi gli occhi.
Anch'io ti voglio bene, Beatrice.


I've never really thought
That I would lose myself
And now I'm going faster
Than anybody else.

 

 



***

Credits:

Per la citazione iniziale e finale: Uriah Heep, Salisbury

Per la citazione nel testo: Uriah Heep, Gipsy

Per le ispirazioni musicali: Rush, Different strings / Van der Graaf Generator, Out of my book / The Moody Blues, Nights in white satin

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