Bella e senza cuore

di Alaire94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 (Parte I) ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 (Parte 2) ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Bella e senza cuore

Prologo

"Molto bella, quanto crudele", dicevano di lei i francesi.

La pelle bianca come il latte, la bocca rossa come una rosa appena sbocciata. Aveva i capelli color mogano sistemati nelle acconciature più raffinate, gli abiti più costosi e sfavillanti accarezzavano il suo corpo perfetto e la sua voce angelica avrebbe aperto anche gli animi più chiusi.

Eppure il suo aspetto non era altro che una maschera che nascondeva qualcosa di più oscuro, un lato di lei che veniva svelato solo quando ormai era troppo tardi.

Molti uomini caddero nella trappola di Marfisa D'Este, nobildonna ferrarese del XVI secolo. Si innamoravano perdutamente di lei, attirati da quella voce incantevole, dai suoi modi raffinati e dal suo portamento elegante. Li colpiva al cuore e li trascinava tra le lenzuola di seta della sua stanza, li riempiva di illusioni e di sospiri di piacere, gli ultimi prima di strappare loro ogni soffio di vita.

Li guardava accasciarsi sul letto, il volto segnato dalla morte, mentre un ghigno di soddisfazione si faceva strada su quel viso ingannevolmente bello.

Nessuno trovò mai le sue lenzuola candide sporche di sangue né poté svelare le macchie della sua coscienza.

Tutto ciò che si sa è che qualcuno ancora oggi sostiene di veder vagare il suo spirito tra le mura della palazzina dove compì i suoi delitti, o per le antiche strade di Ferrara, alla guida di un cocchio trainato da cavalli bianchi e seguito dalla lunga schiera delle sue vittime. 

***

Angolo autrice: 
questa storia nasce dalla leggenda di cui avete appena letto. Ne sono rimasta immediatamente affascinata tanto da volerci costruire una storia ricca di mistero dove potessi esprimere il mio amore per la mia città, forse poco conosciuta ma che a mio parere è ricca di magia. Detto questo, spero che la possiate apprezzare! Buona lettura! 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


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Capitolo 1 



Era la classica mattina invernale. La nebbia aleggiava per le strade del centro storico, tutto era grigio e avvolto come in una nuvola di fumo. Le torri del castello Estense erano sagome scure e squadrate appena visibili nella foschia.

L'autobus numero 9 era gremito di ragazzini con lo zaino in spalla pronti per andare a scuola, che ascoltavano musica e ridacchiavano fra loro producendo un gran baccano. Mi sono sempre chiesta come facessero ad essere così vivaci di prima mattina, quando io a malapena riuscivo a tenere gli occhi aperti.

Tuttavia, per quanto potesse sembrarlo, in realtà quella mattina non era come tutte le altre: era il mio primo giorno di lavoro, il mio primo incarico dopo la laurea in Beni Culturali. Sebbene io non sia mai stata una persona emotiva, quel giorno ero stranamente agitata; tanti dubbi mi perseguitavano, vagavano nella mia mente senza trovare risposta né scomparire, rimanevano lì, ad aleggiare come la nebbia mattutina. Che aspetto avrebbe potuto avere il mio capo? Quali sarebbero state le mie mansioni?

Ma più di tutto, ciò che mi preoccupava era se sarei stata all'altezza dei miei compiti. Mi ripetevo di possedere sufficiente competenza, di avere una buona formazione alle spalle, ma tutto ciò non serviva a tranquillizzarmi.

Scesi dall'autobus con il viso in fiamme, tanto che non avvertii nemmeno il freddo pungente del mattino. Mi limitai a camminare a passo spedito verso Palazzina Marfisa D'Este tenendo stretta la borsa al fianco. Non fu difficile individuarla - d'altronde mi ero ben informata prima di presentare domanda di lavoro- .

Era un edificio in mattoni a vista piuttosto basso e dalla facciata pulita in stile rinascimentale. Il portone non era particolarmente imponente, incorniciato da due colonne ioniche e da un architrave in stile classico il cui bianco candido contrastava sul rosso dei mattoni.

Entrai e venni subito accolta dalla biglietteria e, più a destra, dal banco informazioni. Quest'ultimo non sembrava in utilizzo a giudicare dalla sedia vuota e dalla scrivania ricoperta di gadget e volantini di ogni tipo; che fossi io a dover ricoprire quel ruolo?

La donna alla biglietteria, invece, perfettamente truccata, pettinata e ben vestita, se ne stava seduta alla scrivania di fronte al computer con aria piuttosto annoiata.

«Buongiorno», salutai, capendo che non si era accorta di me.

Si girò e non appena mi vide, il suo viso parve illuminarsi: probabilmente trovava più interessante stampare qualche biglietto ai visitatori che dedicarsi alle sue mansioni più tecnologiche.

«Buongiorno, vuole visitare il museo?», domandò, con aria gentile.

Mi avvicinai di qualche passo.«No, ecco... ho un appuntamento per firmare il contratto di lavoro», spiegai, con la bocca impastata dall'agitazione, mentre con mani tremanti estraevo dalla borsa la cartellina con i miei documenti.

La signora si illuminò ancor di più.«Ah, certo! La stavamo aspettando! Ora la accompagno subito in ufficio», affermò, facendomi segno di seguirla dietro la scrivania, dove si trovava una porta bianca.

«E' arrivata la signorina per il nuovo posto di lavoro», comunicò, aprendo la porta quel tanto che bastava perché chi c'era dall'altra parte la vedesse.

Udii solo dei leggeri borbottii, dopo i quali, la signora spalancò la porta e mi lasciò entrare.

Era una stanza né troppo stretta, né troppo spaziosa. Era grande abbastanza per contenere quattro lunghe scrivanie sommerse di carte, tre fotocopiatrici negli angoli, già in funzione nonostante fosse mattina presto, qualche libreria piena di cartelle colorate e due o tre piante ornamentali che soffrivano per l'incuria.

Sulla destra si trovava un'altra porta, oltre la quale poteva intravedere alti scaffali pieni delle carte ingiallite di un archivio.

«Buongiorno», mi salutò l'unica persona presente nella stanza, alzandosi in piedi. Era una donna sulla trentina, alta, magra e ben vestita, con lunghi capelli biondi tinti che le incorniciavano il viso e un sorriso fin troppo raggiante. Mi porse la mano, che afferrai cercando di infondere sicurezza nonostante l'agitazione.«Io sono Veronica, la vicedirettrice del museo... accomodati pure», disse, indicandomi la sedia dall'altra parte della scrivania.

Prese tra le mani un plico di fogli, che mi porse insieme a una penna.«Questo è il contratto: vi sono scritte tutte le condizioni che erano già state accordate, ma se vuoi leggerlo ti lascio qualche minuto».

Si voltò verso la fotocopiatrice alle sue spalle per prendere un altro plico di fogli freschi di stampa. Mi porse anche quello. «E questo è il regolamento».

Annuii e, nonostante l'ansia mi intorpidisse il pensiero, cercai di leggere velocemente i fogli e di comprenderne il contenuto. Cominciai dal contratto, che mi sembrò la cosa più importante e, dopo aver apposto la mia firma in fondo ai fogli, lessi anche il regolamento dove erano indicate le norme di comportamento e le mie mansioni.«Quindi il mio compito sarà stare al banco delle informazioni?», chiesi porgendo anche l'ultimo plico, già corredato della mia firma.

La vicedirettrice staccò gli occhi dallo schermo del computer che aveva davanti e la guardò.«Certo, ma siccome l'afflusso di visitatori non sarà sempre regolare, ti spetteranno come a tutti noi compiti di archiviazione e burocratici», spiegò, sistemando i fogli che avevo firmato in una cartellina gialla.«Ad ogni modo, sarà Roberta, che hai incontrato prima alla biglietteria, ad affiancarti nel tuo periodo di prova e a rispondere alle tue domande», concluse, alzandosi di nuovo in piedi e accompagnandomi alla porta.

«Grazie mille di tutto», ringraziai porgendo la mano.

Veronica la afferrò.«Di niente, ti do ufficialmente il benvenuto fra noi e buon lavoro!».

«Anche a lei!», risposi, prima che ritornasse ai suoi lavori.

Non appena Roberta mi vide, mi rivolse un altro dei suoi luminosi sorrisi. Si alzò dalla scrivania e mi si avvicinò, porgendomi la mano.«Prima non ci siamo presentate: sono Roberta».

Afferrai la mano che mi porgeva.«Sabrina, piacere».

«Non so se Veronica te ne ha già parlato, ma ti aiuterò in questi giorni, spiegandoti un po' quello che devi fare».

Annuii.«Sì, me l'ha detto».

Roberta si guardò un attimo attorno, come se stesse pensando a dove cominciare. Nel frattempo io potei osservarla meglio, cercando di immaginare che tipo di persona potesse essere. Dimostrava più o meno quarant'anni, ma chi poteva dirlo? Forse ne aveva qualcuno di più, nascosto sotto il trucco. Aveva i capelli neri raccolti in una crocchia sulla nuca, con qualche ciocca che le ricadeva ai lati del viso, le labbra sottili messe in risalto da un rossetto rosa, il naso piccolo e grazioso. Soltanto qualche ruga attorno agli occhi e i rotolini suoi fianchi che si intravedevano sotto la camicia mi facevano capire che, nonostante portasse bene l'età, non poteva essere giovane. Tuttavia, fino a quel momento mi aveva dato l'impressione di essere disponibile e piuttosto gentile, cosa che non sempre accadeva nei luoghi di lavoro.

«Beh, innanzitutto, questa sarà la tua postazione», cominciò, indicando la sedia vuota di fianco alla sua scrivania.«Dopo provvederemo a spostare tutte queste carte, ma prima...», frugò tra alcuni fogli di fianco al computer,«questi sono i tuoi orari, si differenziano dai miei solo per il martedì, il giovedì e il venerdì in cui dovrai soffermarti una mezzora in più per il controllo delle sale e per chiudere gli uffici. Gli altri giorni sarò io a farlo», mi spiegò, porgendomi un foglietto.

Gli diedi un'occhiata veloce, promettendo a me stessa che l'avrei esaminato più attentamente quella sera una volta arrivata a casa.

«Ora vieni, ti faccio fare un giro delle sale», disse Roberta, già incamminandosi con un ticchettio verso l'inizio del percorso espositivo.

Notai che aveva il passo svelto e non era facile per me che, data la mia bassa statura, non riuscivo a fare passi tanto lunghi.

«Questa è la Sala delle Imprese», annunciò Roberta, indicando attorno a sé.

Mi guardai attorno piuttosto incuriosita, provando la consueta sensazione di ammirazione nell'entrare in contatto con un ambiente che aveva alla spalle cinquecento anni di storia.

Il soffitto era riccamente decorato, con un intrico di immagini di fiori, divinità e, come sapevo da ciò che avevo studiato, delle imprese di Francesco d'Este, padre di Marfisa d'Este, a cui era stata dedicata la Palazzina.

Alle pareti erano appoggiati mobili scuri e antichi, scheggiati qua e là o bucati dai tarli laddove il restauro non era stato sufficiente, e strette sedie di legno dall'imbottitura annerita e rovinata dal tempo.

Ciò, però, che mi colpì fu il dipinto appena a sinistra dell'entrata. Raffigurava chiaramente Marfisa d'Este, in un abito scuro del tempo, a maniche lunghe e dal colletto bianco che svettava sullo sfondo nero, così come il suo viso, bianco come il latte e grazioso, gentile, con le labbra rosee a cuoricino e la fossetta sul mento. Sembrava guardarmi intensamente e con un che di affascinante che non riuscivo a spiegarmi.

«Era bella, non è vero?».

La voce di Roberta mi fece sobbalzare, ma mi ripresi quasi subito. «Sì, a quel tempo doveva esserlo... sembra gentile».

«Sembra, infatti», commentò con una leggera risata acuta.

Mi voltai a guardarla; dovevo avere un'espressione interrogativa dipinta sul viso. «Che vuol dire?».

«Non conosci la leggenda?», domandò, sollevando le sopracciglia in segno di sorpresa.

Scossi la testa. «No, ho studiato la storia della Palazzina, di Marfisa e della famiglia, ma non mi è capitato di incontrare una leggenda», mi giustificai.

«Si dice che avesse molti amanti e che li uccidesse uno ad uno. Secondo la leggenda ancora oggi il fantasma dovrebbe aggirarsi in questo palazzo e per le strade del centro su un carro d'oro seguito dagli spiriti degli uomini che ha ucciso».

A quelle parole, riportai lo sguardo al quadro, cercando qualcosa nel suo sguardo, nel suo volto che potesse riportare a quella leggenda, ma non lo trovai: quell'aria innocente mi suggeriva tutt'altro.

«Ovviamente non c'è nulla di vero: è da anni che lavoro qui e non ho mai visto niente, a parte qualche gatto della polvere di tanto in tanto», scherzò, per poi farmi segno di raggiungerla nell'altra sala.

Salendo un piccolo gradino mi ritrovai nella stanza successiva. Un loggiato a tre archi, che anticamente si apriva sul giardino, era stato chiuso da pesanti porte di legno, mentre il soffitto era decorato anch'esso con affreschi di divinità propiziatorie. Ciò, però, che attirò di più la mia attenzione fu il ritratto sopra la porta d'uscita; era di dimensioni ridotte e non riuscivo a scorgere ogni particolare, in parte per la lontananza e in parte perché sbiadito dal tempo, ma mi suggeriva una sensazione di mistero e di vaghezza.

«E' Marfisa?», domandai, sicura, mentre staccavo gli occhi dal ritratto per spostarli su Roberta. La mia non era altro che una richiesta di conferma, più per cercare di fare una buona impressione per le mie conoscenze artistiche che per altro. D'altronde, quello era il mio primo giorno di lavoro e, ora che l'agitazione era scomparsa, volevo dimostrare di essere all'altezza del mio compito e iniziare in positivo la mia giornata lavorativa.

«In realtà quella è la sorella, se guardi bene, sotto il ritratto è scritto il suo nome, Bradamante»

La risposta che Roberta mi diede fece cadere il muro di sicurezza che avevo costruito. Era un presagio? Quella giornata sarebbe stata un inferno anziché entusiasmante come l'avevo immaginata?

Volevo dimostrare la mia competenza e invece non avevo fatto altro che dare la prova di essere una pessima osservatrice, qualità indispensabile per chi doveva avere tutti i giorni a che fare con l'arte. Rimasi in silenzio qualche istante, giusto per maledirmi per la mia sbadataggine.

Poco dopo mi ripresi, accorgendomi che Roberta stava sorridendo. «Tranquilla», disse vedendo la mia espressione preoccupata, «è mattina per tutti». Fece una pausa, fermandosi a guardare anche lei il ritratto , stupendomi che ne fosse così incantata nonostante lo vedesse tutti i giorni. «Comunque, questa è la Loggetta dei Ritratti, e quella è Marfisa», si voltò per indicarmi la mezzaluna di parete al di sopra della porta da cui eravamo entrate, «le due sorelle sono state ritratte una opposta all'altra». Si portò una mano alla guancia, «sai... l'ho sempre trovata curiosa questa cosa, non ti pare? Perché devono essere opposte? Gli opposti di solito sono in lotta fra loro, come il bene e il male».

Inclinai la testa da un lato mentre osservavo il ritratto di Marfisa, anch'esso sbiadito dal tempo. Il viso ormai si era confuso con il muro dietro di esso, solo gli occhi parevano risaltare. Rispetto al dipinto della sala precedente mi parevano taglienti e il suo vestito, rosso cangiante, quasi mi feriva gli occhi. Mi provocava una strana inquietudine.

«Forse stanno semplicemente una di fronte all'altra, si guardano negli occhi in segno di affetto».

Appena finii di parlare, una musica cominciò a risuonare da lontano. Era lenta, grave, inquietante come un esercito in arrivo per razziare e saccheggiare.

«Tranquilla, è il video nello Studiolo, la guardasala deve averlo appena acceso», spiegò vedendo che mi guardavo attorno senza riuscire a capire da dove provenisse il suono. «Ad ogni modo, la tua interpretazione delle due sorelle opposte mi sembra interessante».

Roberta mi appoggiò una mano sulla schiena e mi invitò ad andare avanti. «Non per metterti fretta, ma abbiamo ancora altre stanze da vedere e se la direttrice scopre che stiamo perdendo tempo, rischiamo un rimprovero!».

Alle sue parole mi affrettai a seguirla. Ancora non avevo iniziato a lavorare e già rischiavo il primo rimprovero; dopo la gaffe di poco prima non si può dire che ne fossi entusiasta.

«Hai ragione, scusami, ero rimasta affascinata dai ritratti», mi giustificai cercando di mantenere un comportamento amichevole con Roberta.

«Non ti preoccupare, è il tuo primo giorno e io sono qui per darti le giuste informazioni per iniziare bene», il viso di Roberta si allargò con un sorriso, che mi aiutò a rilassarmi e a scacciare i pensieri negativi che si stavano formando in quei primi istanti.

Mi mostrò velocemente anche le altre sale del percorso e dovetti confessare che fu davvero interessante vedere dal vero ciò che avevo studiato per ottenere il posto. La Sala di Fetonte, con quell'affresco sul soffitto che mostrava dal basso il Carro del Sole guidato dal mitico Fetonte, la Sala dei Banchetti, lo Studiolo, la Sala Grande... non mi era difficile immaginare gli abitanti del tempo, le donne coi loro abiti pomposi e le acconciature raffinate e gli uomini impettiti nei loro abiti scuri, ballare nella Sala Grande o mangiare attorno a lunghe tavolate nella Sala dei Banchetti mentre musiche allegre sovrastavano le grida festose.

Quando ritornammo alla biglietteria, dopo aver fatto il giro completo, spostò qualche altra carta dalla scrivania e ci posizionò una cartellina con dei fogli.«Sono moduli da compilare, utilizzando questi dati», mi spiegò allungandomi un altro foglio dove erano indicati i dati che riguardavano il museo.«Sai, non sempre ci sono visitatori che chiedono informazioni, perciò nel tempo libero ti puoi occupare delle faccende burocratiche e quando c'è fila qui da me puoi fare qualche biglietto anche tu».

Annuii, sebbene rimasi molto perplessa dalle sue parole: mi aspettavo che avrei avuto mansioni ben precise, invece mi stupiva che non ci fosse un'organizzazione così ferrea e sembrava che io, in un certo senso, riempissi i buchi lasciati dagli altri. Non era esattamente ciò che mi aspettavo.

«Non fare quella faccia... Sabrina, giusto?», domandò, fermandosi dalla lettura di un opuscolo del museo e io annuii.

«Poteva andarti peggio: gli ultimi arrivati di solito li mettono a fare i guardasala... tutto il giorno in silenzio a guardare il vai e vieni di visitatori», osservò, forse nel tentativo di consolarmi, ma io in realtà cominciavo a sentirmi addosso una sorta di frustrazione. D'altronde cosa dovevo aspettarmi? Come diceva Roberta, ero l'ultima arrivata.

A quel punto, con un sospiro mi immersi nel lavoro.

Verso le dieci di mattina cominciarono ad arrivare i visitatori, a cui Roberta vendeva i biglietti e a cui io davo i piccoli opuscoli sul museo, dicendo giusto due parole su cosa avrebbero visto, perché al resto ci avrebbe pensato la guida. Poi una volta finito il giro, mostravo loro qualche souvenir o libro specializzato che, come mi accorsi via via che il tempo passava, non sarebbero andati venduti.

Per il resto non era altro che compilare moduli su moduli e riordinare fogli in ordine alfabetico o di data, fare fotocopie e altri noiosissimi compiti.

«Questo non è il nostro numero di telefono!», mi fece notare Roberta verso le quattro del pomeriggio, quando ormai non pensavo ad altro che ad andare a casa e stendermi sul divano.

«Come?»

«Hai sbagliato a copiare il numero», insistette, indicandomi uno dei moduli che avevo appena compilato e che lei stava ricontrollando.

Presi in mano il foglio dei dati campione e lo confrontai. Con orrore notai che avevo confuso due cifre.«Accidenti, scusami tanto».

«Devi stare attenta, certi errori possono causare problemi», disse con una nota di rimprovero.

«Va bene, la prossima volta farò più attenzione».

Dentro di me vi era un misto di frustrazione e insofferenza che mi faceva sentire a disagio ogni secondo di più. Prima la gaffe che avevo fatto alla Loggetta dei Ritratti e ora questo: cominciavo ad aver paura che non sarei riuscita a superare il periodo di prova. E poi? Che avrei fatto? Sarei finita sotto un ponte, senza un lavoro: se non ce la facevo lì, non ce l'avrei fatta da nessun'altra parte.

Dopo circa mezzora potei finalmente andare a casa, non prima che Roberta mi mostrasse come dovevo effettuare la chiusura del museo, visto che il giorno dopo avrei dovuto farla da sola come stabilito nell'orario di lavoro.

***

Angolo autrice: 
ecco qui il primo capitolo con presentazione della nostra protagonista e della Palazzina. Forse per il momento ancora nulla di eccezionale ... ma dal prossimo capitolo inizia a farsi interessante quindi abbiate pazienza! Vi aspetto alla prossima! 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 (Parte I) ***


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Capitolo 2


Parte I




La serratura malandata dell'appartamento scattò dopo due tentativi e un paio di imprecazioni. Fui fagocitata dal buio al di là della porta. A tentoni cercai l'interruttore, mentre con un piede chiudevo la porta dietro di me. La luce del lampadario sfarfallò qualche secondo per poi illuminare il tavolo della cucina dove appoggiai le chiavi di casa. Proprio affianco le chiavi trovai un biglietto firmato da Greta, la mia coinquilina.

Sono uscita, torno tardi, recitava.

La cosa non mi stupiva: probabilmente era una delle solite feste sesso, droga e rock n'roll a cui era abituata.

Un leggero sorriso mi increspò le labbra: proprio quella mattina mi aveva detto che il giorno seguente avrebbe avuto una lezione importante.

Le avevo detto mille volte che avrebbe dovuto rinunciare alla vita mondana se voleva laurearsi, ma lei non mi dava mai ascolto. Infatti i suoi risultati non erano sempre eccellenti, ma finché c'era suo padre a mantenerla...

Speravo di rilassami un po' buttandomi direttamente sul divano, ma appena mi accorsi dei vestiti da lavare

accatastati ovunque e della pila di piatti sporchi nel lavello, capii che avrei dovuto rimandare. Nella mia testa maledissi cento volte Greta per essersene andata, lasciandomi tutte quelle incombenze.

Ero immersa fino ai gomiti nell'acqua sporca del lavandino, quando il cellulare squillò. Mentre asciugavo le mani nello strofinaccio, gettai un occhio allo schermo dove un nome si illuminava ad intermittenza. Era mio padre.

Per qualche secondo ponderai se rispondere o lasciarlo suonare fino a far partire la segreteria, poi lo presi in mano e pigiai il tasto verde.

«Ciao bambina mia», mi salutò.

Cercai di trattenermi dal controbattere: sapeva che odiavo quando mi chiamava così, mi faceva sentire piccola. E poi mi ricordava la mia infanzia, quando mi spingeva sull'altalena e andavamo d'amore e d'accordo. Ormai non era più così e ricordarlo era alquanto triste. «Ciao papà», risposi in tono neutro.

«Allora? Come è andata la prima giornata di lavoro?»

«E' andata», mi limitai a dire, buttandomi sul divano: in quel momento ero troppo stanca per fare due cose in una volta sola.

«Come è andata? Cos'è successo?».

Sospirai, cercando di trovare la forza per raccontare quella giornata.«Ho fatto qualche gaffe», dissi infine, accorgendomi di non avere molta voglia di raccontare cose che in fondo avrei desiderato dimenticare.

«Ti devi impegnare! E' il momento che cominci a camminare con le tue gambe!», esclamò papà dall'altro capo del telefono con una nota di rimprovero nella voce che mi urtò i nervi.

«Io e la mamma non abbiamo più soldi per mantenerti fuori casa», continuò.

Ancora prima che pronunciasse quelle parole sapevo già dove voleva arrivare. Quando avevo cominciato l'università avevo deciso di studiare fuori sede, pesando sulle loro tasche. Nonostante fossero passati cinque anni, papà tutte le sante volte non faceva che rivangare la mia decisione che non gli era mai andata a genio. Dopo la laurea sperava che ritornassi a casa, ma ormai ero troppo abituata a vivere per conto mio e tornare a vivere coi miei mi sarebbe stato stretto. Così avevo deciso di attingere dai miei risparmi per trovare un appartamento a Ferrara dove vivere con qualche coinquilina e tre mesi prima avevo preso in affitto una camera vicino alla stazione; era così che avevo conosciuto Greta.

«Lo sai, vi ho promesso che non chiederò più soldi da voi», replicai, facendo trasudare l'irritazione che mi aveva suscitato.

Mi aspettavo sempre che papà mi tirasse su di morale quando ero triste o frustrata, invece non imparavo mai che lui non faceva altro che buttarmi ancora più giù. Aveva lo strano potere di farmi sentire un'incapace.

«E tu sai invece che è a casa che dovresti stare, non ancora in giro visto che non ce n'è più necessità»

«tu stesso hai detto pochi secondi fa che devo cominciare a camminare con le mie gambe, come posso farlo se rimango ancora a casa con voi?».

Con soddisfazione per qualche secondo non ricevetti risposta: forse finalmente avrebbe ammesso che avevo ragione.

«Ad ogni modo, ti devi impegnare o ti cacceranno via!».

Avrei voluto ribattere in mille modi, ma invece tenni per me ciò che pensavo, lasciando ribollire per conto suo il sangue nelle vene: era inutile discutere con lui, sarebbe solo stato nocivo per il mio umore già fin troppo compromesso.

«Va bene, papà, non te ne devi preoccupare e comunque adesso ti saluto perché ho un mucchio di cose da fare prima di andare a dormire», dissi, non vedendo l'ora di chiudere al più presto quella chiamata: avevo i nervi tesi quanto una corda di violino e volevo evitare che scattassero.

«Ok, buonanotte bambina mia, ci sentia...». Chiusi la chiamata senza nemmeno sentire la fine del saluto.

Ero piena di irritazione e frustrazione, ma costringendomi a non pensarci riuscii a mantenere il controllo e a terminare di sistemare l'appartamento.

Guardai l'orologio appeso alla parete e mi accorsi che non era troppo tardi. Nonostante la giornata intensa pensai che una passeggiata per il centro, appena dopo cena, mi avrebbe distratto un po'.

 

Camminavo lungo una via del centro. La strada era stretta,fiancheggiata su un lato da un antico portico e sotto di esso scorrevano i negozi di abbigliamento, con le loro luci al neon che illuminavano il buio di quella sera d'inverno. Vi erano anche alcuni piccoli bar, quelli dove i ragazzi universitari erano soliti ritrovarsi la sera e che, a differenza dei negozi, che ormai avevano abbassato le serrande, stavano aprendo proprio in quel momento. Tuttavia la piazza non era affollata: erano appena le nove di giovedì sera e di solito gli studenti si ritrovavano al mercoledì e non prima delle undici. Soltanto qualche coppietta se ne stava abbracciata sui gradini degli edifici antichi, a scambiare baci e carezze. Eppure, svoltato un angolo, non potei fare a meno di notare che uno di quei bar era già in piena attività, forse per seguire la moda degli aperitivi, e alcuni ragazzi ridevano e scherzavano con bottiglie di birra in mano e urlando come fossero allo stadio.

«Ciao bella, ti va di bere qualcosa insieme a noi?», fece uno di questi non appena vi passai davanti. Era un tipo smilzo, alto, coi capelli tagliati a spazzola e un accenno di barba sulle guance che mi fece pensare che fosse almeno di due anni più piccolo di me. A giudicare dal suo tono strascicato doveva essere già alticcio.

Li bruciai con un'occhiata indifferente e continuai a camminare, mentre dentro di me pensavo che gli uomini erano tutti uguali: pensano solo a divertirsi con qualche birra e a fare baccano in strada. O almeno io, nella mia poca esperienza, li avevo conosciuti tutti così, con la tendenza a ubriacarsi e a fare i cascamorti.

Prima che potessi impedirlo, il mio pensiero volò alla mia ultima storia, finita poco meno di tre mesi prima. L'avevo conosciuto in palestra, bello, muscoloso e, strano a dirsi, perfino con una buona dose di sale in zucca. Anche lui ovviamente amante delle partite di calcio, dei locali affollati e dall'alcol, mi aveva travolta come un uragano per quella sua aria sicura e per il suo spiccato senso dell'umorismo. Poi, dopo sette mesi, mi aveva lasciata di punto in bianco e dopo poco mi era stato riferito che aveva già una nuova fidanzata, più bella di me chiaramente. Non che io sia brutta, anzi, devo ammettere di avere un bel fisico e i miei occhi verdi di solito riscuotono successo, ma niente in confronto a un bel seno prosperoso o a un bel fondoschiena.

Mentre mi arrovellavo con pensieri malinconici, raggiunsi la piazza principale, dove il Duomo svettava in tutta la sua maestosità.

Da esperta quale ero, ero sempre stata colpita dalla sua struttura così ricca di storia, dalle logge e dalle decorazioni gotiche che caratterizzavano la parte alta della facciata, che con le luci della sera si riempivano di ombre in risalto sulla pietra bianca.

D'improvviso fui attratta da qualcos'altro. Era una figura - un uomo, a giudicare dalle spalle larghe - con un cappello a borsalino calato sulla fronte e il colletto alto del cappotto scuro a coprirgli parte del viso. Gironzolava di qua e di là con quello che apparentemente sembrava essere un orologio da taschino. Lo muoveva attorno a sé, in basso, in alto, a destra e a manca come se quello fosse un cellulare e stesse cercando una connessione.

Per qualche secondo lo guardai, chiedendomi chi fosse e che cosa stesse facendo quel tipo strano e forse con qualche rotella fuori posto.

Mi avvicinai discretamente con la speranza di riuscire a vedere meglio il volto, visto che l'ombra del cappello e il colletto del cappotto lo nascondevano, quando sentii una voce familiare che mi chiamava.

Mi voltai per capire da dove provenisse quella voce. E mi pietrificai sul posto, come se una qualche strega malvagia mi avesse lanciato un sortilegio. Eccolo, il famoso uomo incontrato in palestra, davanti ai miei occhi, come se fosse stato sufficiente rievocarlo nei miei ricordi per farlo comparire in carne e ossa.

Proprio come lo ricordavo fra l'altro: stessi capelli bruni tagliati corti, nascosti sotto il solito cappellino blu con la visiera che portava sia d'estate che d'inverno, stessa nota di sicurezza negli occhi scuri e stesso pizzetto sul mento. «Allora sei tu», affermai stupidamente non appena mi fui ripresa dallo stupore. D'altronde quello fu il massimo che riuscii a dire considerando che mi sentivo una stretta al petto, come se la cassa toracica dovesse esplodermi da un momento all'altro, più o meno la stessa sensazione che avevo provato per molto tempo dopo che mi aveva lasciata.

«Sì, sono io». Seguì qualche secondo di imbarazzante silenzio in cui ci guardammo senza sapere cosa dire. «Ciao, Sabry, è un piacere vederti».

Cercai di mandare giù il groppo acido che avevo in gola, ma con poco successo; le parole mi uscirono dalla bocca strozzate: «anche per me, Fede». Mentre altri secondi di silenzio seguirono il mio saluto, pensai che avrei preferito che fosse passato oltre, che non mi avesse chiamata, così che io potessi continuare la mia vita e non vederlo mai più.

«Allora? Cosa mi racconti? Qualche novità?», chiese, curioso.

Avrei voluto liquidarlo con una scusa, senza rispondere, ma poi pensai che mi avrebbe dato una sorta di sollievo raccontargli che la mia vita era andata a gonfie vele senza di lui. «Tutto bene, ho iniziato a lavorare in un museo qui in città... per ora ne sono entusiasta!», esclamai sfoggiando un sorriso forzato.

«Mi fa piacere! E di che museo si tratta?», mi domandò, cercando di ricambiare il mio sorriso.

«Palazzina Marfisa D'Este, non so se hai presente...». Dalla sua espressione capii immediatamente che non ne aveva idea; d'altronde non ne era un gran frequentatore. «E' qua vicino, in Corso Giovecca».

Lui annuii. «Sai, anche per me è un buon periodo: io e la mia ragazza stiamo cercando casa, abbiamo già trovato qualcosa di carino», disse, quasi come per difendersi.

Quell'affermazione fu come ricevere una stilettata in un fianco, ma mi costrinsi a non mostrare alcuna reazione. «Sono molto contenta per voi». Feci finta di dare uno sguardo all'orologio: era arrivato il momento di tagliare la corda. «Oh, scusa, s'è fatto un po' tardi, devo proprio scappare».

«Sì, anche io...». Esitò qualche attimo ancora, sistemandosi meglio il cappellino sulla testa. «Beh, allora ci si vede, Sabry».

Ci salutammo brevemente con un cenno della mano e poi corsi via più veloce del vento. Ci mancava soltanto lui a peggiorare la mia giornata!

***

Angolo autrice
Grazie a chi ha letto il prologo e il primo capitolo! Ho deciso di dividere il capitolo 2 in due parti perché era piuttosto lungo per una lettura su schermo e quindi così non vi sareste trovati un immenso testo da leggere! A parte ciò, la storia è ancora all'inizio... queste non sono altro che le premesse indispensabili per dare il via agli eventi... 
Spero di avervi incuriosito almeno un po'! Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 (Parte 2) ***


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Capitolo 2 



Parte 2 



Quando mi alzai la mattina seguente, trovai Greta già sveglia, seduta al tavolo della cucina con le occhiaie sotto agli occhi e una tazza di tè fumante tra le mani. Fissava la bevanda come ci dovesse leggere il futuro.

«Ehi, buongiorno», la salutai.

Mi rispose con un grugnito indistinto e soltanto dopo qualche minuto notai che aveva ancora addosso il vestito da sera. «Ma sei appena tornata?». Per quanto la conoscessi già abbastanza bene, non finivo mai di stupirmi.

«Cavolo, Sabry, sono distrutta. E' stato uno sballo questa festa», affermò, con un filo di voce.

«Non ne dubito», dissi sarcasticamente mentre mi dirigevo verso il piano cucina dove già c'era una tazza di tè pronta per me.

«Dovevi esserci! C'erano un sacco di ragazzi carini»

«lasciamo perdere gli uomini, per favore», replicai con una nota amara nella voce, mentre dentro di me rivivevo le immagini sgradevoli del giorno prima.

«Immagino che tu abbia qualcosa da raccontarmi», commentò alla mia risposa piccata.

«Sì, ma ne riparleremo stasera, ora non voglio pensarci».

Greta annuì e finimmo di fare colazione. Andò a buttarsi a letto dicendo: "dicono che il sonno porti consiglio, magari passo l'esame" e io mi preparai in fretta e furia per andare al lavoro.

Una volta uscita di casa, avvolta nel mio cappotto marrone e nella sciarpa di lana che aveva cucito mia nonna a maglia, mi accorsi che quella mattina la nebbia si era un po' diradata; in compenso faceva molto freddo e il respiro mi usciva dalla bocca condensato in piccole nuvolette.

L'autobus era pieno come al solito, tanto che dovetti trascorrere quasi tutto il tragitto schiacciata contro le porte e muovendomi insieme a loro quando si aprivano e si chiudevano ad ogni fermata. Quando finalmente arrivai alla Palazzina il mio umore era già piuttosto basso: quel freddo che si insinuava nelle ossa mi indisponeva e le calche ancor di più, senza contare che la giornata precedente con tutta la sua carica di ansia e frustrazione mi pesava ancora sulla schiena come un masso da cinquanta chili.

Oltrepassai il cancello che portava al giardino del museo. Doveva essere magnifico durante l'estate, con la fontanella in azione e le aiuole fiorite, ma in quel periodo dell'anno mi dava quasi l'idea di qualcosa di abbandonato, di lasciato in sospeso: la statua del bambino al centro della fontanella aveva la bocca aperta, ma non ne usciva alcun rivolo d'acqua, le aiuole non erano altro che ramoscelli rinsecchiti.

Senza soffermarmi oltre, entrai nella Palazzina. Roberta doveva essere arrivata da poco: stava appendendo il suo giubbotto all'attaccapanni di fianco alla sua postazione e, vedendomi entrare, si girò a salutarmi. «Tutto bene questa mattina?», mi domandò non appena mi avvicinai per appendere il cappotto di fianco al suo.

«Diciamo di sì...c'è solo molto freddo», risposi, sebbene non fosse solamente il brutto tempo a mettermi di cattivo umore.

«Purtroppo l'inverno è così, se vivessimo su un'isola tropicale non avremmo di questi problemi», osservò Roberta sedendosi con un sospiro alla sua postazione.

Mi sedetti di fianco a lei. «Chissà, magari avremmo il problema opposto... soffriremmo per il troppo caldo».

Mentre pronunciavo quelle parole, il mio sguardo cadde sulla pila di fogli che avevo lasciato il giorno prima e il mio umore parve precipitare ancora più in basso.

«Sempre meglio di questo freddo», commentò Roberta, per poi prestare attenzione alla sua pila di fogli, mettendo così fine alla conversazione.

Per le seguenti due ore mi buttai a capofitto nei documenti, costretta a non dover pensare ad altro che a compilare moduli con i dati del museo che ormai cominciavo a conoscere a memoria, ma perlomeno tutto ciò mi impediva di pensare all'incontro inaspettato della sera prima, o a quanto mi aveva fatta innervosire papà con quella telefonata. Dopodiché cominciò ad arrivare qualche visitatore, a cui consegnai gli opuscoli informativi con un sorriso e qualche parola di circostanza. L'evento più significativo fu l'arrivo di una coppia di turisti tedeschi con cui dovetti sfoderare le mie discrete conoscenze di inglese e, con non poco stupore da parte mia, mi accorsi di essermela cavata piuttosto bene. «D'ora in poi so da chi mandare i turisti stranieri», si complimentò Roberta con un sorriso. «Il mio inglese è piuttosto maccheronico».

Stavo per replicare che neanche il mio era così perfetto quando Veronica spuntò dalla porta alle nostre spalle con uno scatolone tra le braccia e mi fece segno di seguirla. «Fai tu per un po' il lavoro di Sabrina nel caso arrivino visitatori», disse velocemente a Roberta, senza nemmeno aspettare una sua risposta.

Ritornò all'interno del suo ufficio e poi oltrepassò la porta sulla destra. Camminava veloce, coi tacchi che ticchettavano sul pavimento e io feci fatica a seguirla prima in un corto corridoio affiancato da scaffali e poi su per delle strette scalette che portavano al piano superiore, accessibile solo dal personale.

Qui vi era un altro corridoio, costeggiato da diverse porte chiuse. Veronica aprì la seconda a sinistra. Spinse un interruttore e dopo un breve sfarfallio le luci al neon illuminarono una stanza piena zeppa di scaffali ricolmi di carte ingiallite.

Con un gemito appoggiò lo scatolone su un vecchio tavolino a destra dell'entrata e lo aprì con pochi movimenti sicuri. Dal giorno prima quando mi aveva fatto firmare i documenti mi era sembrata una donna gentile, ma notai soltanto in quel momento quanto quel suo modo di fare rivelasse invece una personalità piuttosto grintosa, probabilmente quella di una donna nata per fare la leader.

«Questi sono documenti molto importanti» disse Veronica, guardandomi dritta negli occhi come per avvisarmi di stare molto attenta, «avrei bisogno che li tirassi fuori e li riordinassi».

Notai come avesse un atteggiamento autoritario, sintomo probabilmente di una buona esperienza, ma allo stesso tempo non troppo duro. Mi spiegò cosa fare: ordinare e fare l'inventario del materiale che mi aveva mostrato.

Passai un paio d'ore ad annotare i documenti che mi passavano sotto mano, mettendoci il massimo impegno e la massima attenzione come mi era stato richiesto.

Nonostante fosse un lavoro d'ufficio, notai quanto fosse faticoso e impegnativo mantenere la concentrazione per così tanto tempo, mi sentivo parecchio provata e non vedevo l'ora di finire per poter tornare a fare qualcosa di meno stressante.

Quasi come se avesse avuto un sensore radar, sentii arrivare Veronica alle mie spalle. «Allora Sabrina, a che punto sei?».

«Ho finito proprio adesso, devo solo rimettere i documenti nello scatolone», risposi sorridendo, mostrandomi soddisfatta per il lavoro concluso.

«Lascia pure finire a me, non preoccuparti, torna pure alla tua postazione al banco informazioni», disse prendendomi i documenti dalle mani.

La giornata stava trascorrendo velocemente; non mi aspettavo di riuscire a svolgere così tante mansioni al secondo giorno di lavoro e forse, dopotutto, avevo solo bisogno di un po' di tempo per adattarmi.

Scesi le scale con passo leggero e veloce; mi sembrava di essere già abituata all'ambiente. Eppure mi bloccai di colpo appena prima di arrivare alla reception, dove vidi Roberta che stava parlando con un ragazzo alquanto familiare.

«Ciao Sabry, mi avevi detto che lavoravi qui, ma non ero così sicuro di trovarti».

Tutto ad un tratto sentii come una scarica di ira percorrermi la schiena, facendomi stringere le spalle e chiudendo con forza i pugni.

Respirai profondamente. «Ciao Fede, sei venuto a visitare il museo?», domandai, fulminandolo con uno sguardo.

«Beh... ecco... in realtà speravo di poter parlare con te, quando hai un attimo di tempo?», rispose, sistemandosi il capellino con la visiera sulla testa; come avevo imparato dai mesi passati insieme era un gesto che compiva per scaricare la tensione.

Stavo per rispondere che dovevo continuare a lavorare, quando Roberta mi precedette:«Sabrina stava proprio per andare in pausa pranzo».

Voltò la testa verso di me e mi strizzò l'occhio, pensando evidentemente di farmi un enorme favore a darmi la possibilità di parlare con lui. Ovviamente aveva immaginato che fosse il mio fidanzato, o comunque un ragazzo con cui uscivo, non poteva sapere che non avevo la minima intenzione di parlargli; era stato un trauma sufficiente la sera precedente.

«Oh, perfetto allora...», commentò raggiante, rivolgendomi un sorriso così aperto che tempo prima mi avrebbe fatta sciogliere come un gelato.

Sospirai, cercando in me la forza per affrontarlo ancora.«Vieni, facciamo una passeggiata in giardino», dissi, facendogli segno di seguirmi. Avrei potuto invitarlo a pranzo, ma i pranzi solitamente si protraggono troppo a lungo mentre io preferivo qualcosa di rapido e indolore, senza considerare che bastava la sua presenza per farmi serrare lo stomaco.

Lui mi seguì in giardino. Camminammo per qualche secondo in silenzio verso la fontanella, poi finalmente lui si decise a parlare:«mi ha fatto piacere vederti ieri sera».

«Anche a me ha fatto piacere», dissi, più per gentilezza che per altro. «Beh, era solo questo che volevi dirmi?», domandai; volevo arrivare subito al sodo.

«Come al solito non perdi tempo, eh?!», scherzò, lasciandosi andare a una leggera risata.

Alzai le spalle.«Mi conosci, sai che voglio vederci chiaro».

«Vero. Allora, visto che preferisci saltare i convenevoli, arrivo subito al dunque». Prese un profondo respiro.«Ieri, quando ti ho rivista, ho provato qualcosa... e poi, quando sono tornato a casa, ho iniziato a pensare a te, a quando stavamo insieme e a quanto stavamo bene. Sei una ragazza fantastica e io sono stato stupido a lasciarti andare».

A quelle parole mi sentii mancare l'aria, come se fossi appena caduta in una piscina d'acqua gelata: le avevo sognate per tanto tempo nel profondo. Tutte le volte che avevo pianto per lui, insultandolo tra me e me per avermi lasciata per un'altra, in realtà sognavo questo momento più di ogni altra cosa. Ma ora... ora davvero sentivo una grande rabbia salire dentro di me.

«E quindi?», lo incalzai, sperando che la risposta non fosse proprio quella che pensavo.

«Quindi... tu non hai sentito niente?». Fissò lo sguardo su di me, uno sguardo bellissimo e implorante, un gioiello che stava proprio di fronte a me e a cui dovevo resistere.

«Sì, ho sentito qualcosa, ma... non capisco dove vuoi arrivare».

«Ti volevo chiedere se ti va di ricominciare ad uscire, di rivederci ancora», rispose e da come abbassò le spalle, capii che doveva essersi appena tolto un peso.

Io provai a trattenermi, a cercare di calmarmi ed eliminare la rabbia dentro di me, ma quelle parole, che mi risuonavano nella mente come un'eco, non facevano che fomentarla. Me ne ricordavano delle altre che aveva pronunciato soltanto la sera prima: io e la mia ragazza stiamo cercando casa.

E così scoppiai: «mi stai prendendo in giro?!».

Fede spalancò gli occhi, come fosse spaventato dalla mia reazione. D'altronde quando stavamo insieme non aveva incontrato quel lato di me.«No, perché dici questo?».

«Perché dico questo?!», urlai, fermandomi d'improvviso di camminare. Sentivo le guance avvampare e avevo la netta sensazione di non avere un bell'aspetto.«Vuoi farmi fessa, tu? Io non sono come pensi!».

«Sabry, io...», tentò di difendersi, ma lo fermai prima che potesse parlare.«Non c'è bisogno che ti dica perché sono arrabbiata, sono sicura che lo sai benissimo... e la tua ragazza dovrebbe solo ringraziarmi!».

«Se è lei che ti preoccupa, puoi stare tranquilla: so essere discreto, nessuno verrà mai a saperlo e poi...», mi lanciò uno sguardo intenso,«si tratta solo di qualche uscita insieme».

Non fu difficile carpire dal modo in cui mi guardava che non si sarebbe trattato solo di qualche uscita innocente. Forse, provava davvero qualcosa per me, ma non era sicuramente amore né amicizia; desiderava qualcosa che io non avevo nessuna intenzione di dargli perché per me sarebbe stato solamente squallido e autolesionistico.

Sentivo la rabbia pulsarmi nelle vene e annebbiarmi il cervello.«Sei proprio uno stronzo! Ora ho capito che cosa vuoi da me e ti dico una cosa: non avrai proprio nulla, né ora né mai, ficcatelo bene in quella testa di cavolo che ti ritrovi!». Le parole mi erano uscite dalla bocca come un fiume in piena, senza filtri e, senza nemmeno che me ne accorgessi, gli avevo sputato in faccia tutto il dolore e la rabbia che mi aveva fatto provare da quando c'eravamo lasciati.

Senza aggiungere altro, corsi via, dandogli una spallata e lasciandolo da solo con le aiuole incolte e la statua al centro della fontana.

Rientrai al museo e mi sedetti alla mia postazione buttandomi sulla sedia come un sacco di patate. Roberta mi guardò sorpresa, mentre io, senza una parola, avevo appena preso in mano dei fogli per ricominciare a lavorare.

«Beh, non sei in pausa pranzo?», mi domandò piuttosto perplessa.

«No, mi è passata la fame», replicai e, per quanto avessi cercato di nasconderlo, la rabbia che provavo trasparì nella mia voce.

«Problemi d'amore, eh?!», commentò Roberta, cercando di buttarla sullo scherzo, ma io non avevo nessuna voglia di scherzare.«Al diavolo l'amore», replicai piuttosto acida.

A quel punto Roberta capì che non era il caso di insistere.«Beh, visto che tu non vai in pausa, ci andrò io... ci vediamo dopo!», disse alzandosi dalla sua postazione e mettendosi il cappotto per uscire.

«Va bene, a dopo!», la salutai mentre mi immergevo completamente nel lavoro per soffocare i pensieri.

 

Fuori era buio; ormai erano solo le luci al neon a illuminare l'ingresso del museo, dove io, seduta al mio solito posto, continuavo a lavorare imperterrita. Ero rimasta da sola: Roberta e Veronica erano andate via, ma io dovevo rimanere perché quel giorno toccava a me chiudere il museo. Tutte quelle scritte, quei numeri e quelle date avevano cominciato da lungo tempo a stancarmi, ma mi costringevo a concentrarmi perché non volevo pensare a niente altro che alla mia mansione. Ma dopo otto ore di lavoro, la palpebra cominciava a calarmi e sapevo di non poter più resistere, così alzai lo sguardo dai fogli che avevo davanti e mi guardai attorno.

Mi sentivo inspiegabilmente vuota e senza energie, come se il lavoro e la rabbia insieme mi avessero prosciugata. Mi lasciai andare sulla sedia, ascoltando solo la musica grave proveniente dallo studiolo. Ora che ero rimasta sola mi pareva una colonna sonora alquanto lamentosa e un pochino inquietante. Con un sospiro voltai lo sguardo alla mia sinistra dove, sulla parete bianca era appeso un orologio che segnava le sette e mezza, proprio l'orario di fine lavoro.

Mi alzai dalla sedia con un altro sospiro, sentendo le gambe indolenzite dopo così tante ore a sedere e decisi di cominciare a fare il giro delle stanze per ordinare e chiudere tutto, ma soprattutto per spegnere quella musica che stava cominciando ad urtarmi i nervi.

Entrai nella Sala delle Imprese e ancora prima che potessi concentrarmi su qualcos'altro, il pensiero andò subito a quello che era successo con Fede. La rabbia cominciò nuovamente a farmi ribollire il sangue nelle vene; quelle erano state giornate lunghe e pesanti, in cui avevo dovuto abituarmi al nuovo ritmo, al nuovo ambiente, poi, a rovinare tutto ci si erano messi loro, gli uomini. Prima mio padre che invece di confortarmi e di incoraggiarmi non aveva fatto altro che farmi pressioni e rimproverarmi e infine Fede che, dopo quell'incontro del tutto inaspettato e indesiderato, si era ripresentato per farmi niente altro che una proposta indecente. Cominciavo a chiedermi se ci fosse un uomo in grado di amarmi.

Poi, mentre controllavo che nella sala fosse tutto in ordine, mi ritrovai davanti al quadro di Marfisa D'Este. I suoi occhi luminosi sembravano guardarmi con conforto e compassione come fosse partecipe al mio dolore. Forse avrei dovuto fare come lei: strappare agli uomini il cuore dal petto.«Tu sì che sapevi dare agli uomini quello che meritano!», esclamai rivolta al dipinto, ricordando la leggenda che mi aveva raccontato Roberta. Mi sentivo un po' cattiva a dire certe cose, ma se non altro mi era servito per sfogarmi.

Con un ultimo sguardo al quadro, procedetti verso le altre stanze finché non arrivai allo Studiolo, dove la musica del video acceso riempiva la stanza. Presi il telecomando, appoggiato sopra un'antica credenza, e spensi la televisione dallo schermo piatto. D'improvviso calò un silenzio tombale. Un silenzio completo, rotto solo dal lontano rumore delle auto che passavano su Corso Giovecca e dagli scricchiolii dei mobili. Era uno di quei silenzi che ti fanno sentire sola, che trasformano anche l'oggetto più banale in qualcosa di potenzialmente pauroso. Eppure era anche il silenzio più rumoroso che esista, quello che solo le antiche dimore hanno; quando il rumore del giorno, della vita del nostro presente se ne va, rimane quello del passato. Ogni oggetto sembra parlare, raccontare la sua storia, di tutte le persone che l'hanno toccato, che l'hanno usato. Che storia avrebbero raccontato le mura di quel palazzo? Di grandi balli e di amori, ma anche di tradimenti e cospirazioni, pettegolezzi. Sicuramente avevano custodito segreti, sconosciuti a tutti coloro che non avevano saputo ascoltare il loro silenzio.

Rimasi qualche minuto lì, a contemplare gli antichi mobili, gli affreschi e sentendo quel silenzio pesarmi sempre di più sulla schiena. Ogni secondo diventava sempre più opprimente; mi sentivo piccola, come se mi trovassi nella pancia di un mostro, in balia del suo appetito. Sentii il cuore aumentare il suo battito.

Arrivai fino all'ultima stanza, la Saletta degli Armadi, e poi tornai indietro, per chiudere le porte tra le diverse sale.

Poi, quando ritornai alla Sala delle Imprese, buttai un'ultima volta l'occhio verso il dipinto di Marfisa. Rimasi pietrificata.

All'inizio pensai di aver visto male, ma poi tornai a guardare e non ebbi più dubbi: aveva cambiato espressione. C'era un ghigno sul suo viso grazioso. Gli occhi erano più lucenti, più furbi; non c'era più gentilezza.

Non era possibile. Dovevo essermi sbagliata prima, quando l'avevo guardata e la volta prima ancora, quando Roberta mi aveva portata a fare il giro del museo. Un dipinto non poteva cambiare nel giro di così poco tempo. Eppure il suo ghigno era lì, davanti ai miei occhi e quel dato di fatto mi faceva battere il cuore all'impazzata.

Non feci in tempo a rifletterci ulteriormente che un rumore proveniente dalle mie spalle mi fece rizzare i capelli in testa. Un ticchettio, come di passi sul pavimento liscio. Mi voltai di scatto, ma non c'era nessuno né in quella stanza né in quella precedente. Eppure mi era sembrato vicino, fin troppo vicino.«Chi è là? C'è qualcuno?», urlai , con la paura che traspariva nella mia voce, ma non mi rispose altro che il rimbombo delle mie parole.

Quando voltai di nuovo lo sguardo verso il dipinto, l'espressione di Marfisa era tornata normale, gentile come sempre, come se il ghigno fosse stato qualcosa di fugace.

Decisi di non pensare più o il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto. Chiusi le ultime porte, attivai l'allarme, presi la mia roba e corsi via alla velocità della luce.

Soltanto quando fui in autobus per tornare a casa, con le membra che tremavano dopo la tensione che avevo provato, cominciai a pensare a quello che era successo e mi convinsi che era stato tutto frutto della mia immaginazione. Doveva esserlo. 

***
Angolo autrice: 
Eccomi qui con la seconda parte del capitolo 2... e finalmente cominciamo ad entrare nel vivo! L'immagine che ho inserito è proprio il quadro di cui parlo nella storia che si trova nella Palazzina! Sembra molto bella, non trovate? 
A parte ciò, ringrazio tutti quelli che hanno letto e recensito per scambio recensioni e non e spero che continuerete a seguire perché da qui in poi comincia a farsi interessante, o almeno lo spero! 

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Capitolo 5
*** Capitolo 3 ***


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Capitolo 3



Quando entrai in casa Greta era sdraiata sul divano del salotto a guardare la televisione con l'aria di un vegetale. Girò a malapena la testa e assunse un'aria perplessa. «Che cosa hai fatto? Sei pallida come uno straccio».

Per qualche secondo ponderai l'idea di raccontarle cos'era successo nella Sala delle Imprese, ma poi pensai che mi avrebbe data della pazza e mi avrebbe consigliato un buon psichiatra. Così decisi di raccontarle solo la prima parte degli eventi di quella giornata, ovvero quella in cui avevo incontrato Fede.

«Ah e così l'hai insultato per bene, eh?», commentò alla fine del racconto con un sorrisetto compiaciuto. «Non pensavo che ci saresti riuscita dopo la tragedia greca che hai fatto quando vi siete lasciati».

«E' passato del tempo», osservai mentre tiravo fuori dal mobiletto sopra il fornello della cucina qualche tegame per preparare la cena.

«Sì, ma ti piace ancora, lo vedo dall'espressione che fai quando parli di lui», affermò, affiancandomi per aiutarmi in cucina.

Le diedi un paio di carote da grattugiare. «Che espressione faccio?».

Estrasse la grattugia dal cassetto sotto il ripiano della cucina e cominciò a dedicarsi alle carote. «Il tuo sguardo diventa cupo, come se avessi una nuvola nera sopra la testa».

«Beh, ad ogni modo sicuramente ora non ce l'avrò più: mi ha proprio rotto», commentai mentre affettavo con rabbia un pomodoro.

Greta mi assestò una gomitata e mi lanciò uno sguardo malizioso. «Di' la verità: sotto sotto ti sarebbe piaciuto andare ancora a letto con Fede».

Io scoppiai a ridere. «Non hai idea di cosa stai dicendo: si vantava tanto, ma quella carota che hai in mano è più grande di quello che ha in mezzo alle gambe!».

Greta scoppiò a ridere e per cinque minuti buoni non facemmo altro che ridere a crepapelle, inventandoci battute divertenti e decisamente vietate ai minori. Durante la cena mi raccontò della sua giornata, di come nell'esame fosse riuscita ad ottenere un discreto risultato grazie a una compagna studiosa e disponibile a darle una mano e alle domande riguardo gli unici argomenti che aveva studiato.

«Sei la persona più sfacciatamente fortunata che io conosca!», commentai, scuotendo la testa.

Lei si limitò a rivolgermi un sorriso a trentadue denti. «La fortuna mi sorride sempre».

«Ricorda che non lo farà per sempre», la avvertii, ma Greta si limitò a scrollare le spalle.

Mi faceva uno strano effetto essere il suo grillo parlante, proprio io che non ero per niente adatta a dare consigli a nessuno, ma quando si trattava di Greta... lei era un caso a parte. Era uno strano misto di maturità e immaturità; era un'adulta che giocava a fare la bambina, ma quello che non sapeva era che non avrebbe potuto giocare per sempre e che prima o poi avrebbe dovuto mettere tutti e due i piedi nel mondo degli adulti.

Prima di andare a dormire ci sdraiammo insieme sul divano a guardare una serie televisiva che io non riuscii a vedere fino alla fine.

 

Era una bella giornata di sole, di quelle che ti mettono di buon umore soltanto con uno sguardo fuori dalla finestra. Gli uccellini cinguettavano, le farfalle si spostavano di fiore in fiore, il cielo era di un azzurro intenso, tempestato solo da qualche nuvola bianca. E poi c'erano gli alberi fitti di un boschetto che gettavano sull'erba ombre rassicuranti quanto un abbraccio materno.

Proprio lì, dietro un cespuglio, c'erano due giovani. Lei aveva i capelli castani, raccolti in quella che doveva essere stata una complicata acconciatura, la pelle bianca e una bocca dalle labbra sottili e rosse che risaltavano sul suo viso . Il suo vestito era verde, lungo, pomposo e creava una sorta di nuvola attorno a lei, si confondeva con l'erba.

Lui aveva i capelli ambrati che gli ricadevano in morbide onde sulle tempie, occhi scuri e profondi, spalle larghe e braccia robuste. A differenza della ragazza, era vestito in modo più semplice: una camicia bianca e larga, dei pantaloni rattoppati, eppure nessuno dei due sembrava farci caso. Anzi, se ne stavano vicini, mano nella mano, e si guardavano con quello sguardo inconfondibile, quello del vero amore.

«Vi amo», le sussurrò lui con un tono suadente, elegante.

Lei gli prese il viso fra le mani, delicatamente, e appoggiò le sue labbra rosse sulle sue, lo baciò con impeto. «Anche io ti amo, non potrò mai amare nessun altro come amo te», rispose lei, guardandolo dritto negli occhi. C'era qualcosa nel suo sguardo che faceva pensare che non l'avesse mai detto prima, che fosse la cosa più vera e sentita che avesse mai detto.

Lui, però, si incupì. «Dovrete amare qualcun altro».

«Perché dici questo?», chiese lei allontanandosi leggermente da lui.

«Perché non potrete mai sposarmi, mia signora», affermò lui, senza mostrare emozioni, come fosse un semplice dato di fatto su cui non aveva nessun potere.

Lei scosse la testa. «Ti sposerò».

La mascella del ragazzo si contrasse leggermente; stava soffrendo. «Non fate promesse che non potete mantenere».

Lei abbassò gli occhi; probabilmente era costretta ad ammettere a se stessa che lui aveva ragione e che non c'era niente che loro potessero fare per cambiare la realtà.

Lui le mise le dita sotto il mento e la spinse ad alzare la testa. «Te la faccio io una promessa, vera questa volta». Le prese la mano e se la mise sul petto. «Io vi amo, e vi prometto che il mio cuore sarà vostro per sempre come lo è ora».

Sul viso della ragazza apparve un leggero sorriso, ma non proferì parola: non servivano in quel momento. Si chinò in avanti e premette ancora le labbra su quelle di lui, ma questa volta fu il ragazzo a stringerla a sé, ad approfondire quel bacio, a farlo diventare rovente. Era un bacio colmo di un desiderio che chiedeva solo di essere soddisfatto.

Le mani della ragazza si insinuarono sotto la camicia leggera di lui, accarezzandogli il petto e la schiena come se ormai ne conoscessero ogni centimetro. Lui non trovò alcuna resistenza nel sbottonarle il vestito e poi allentarle il corsetto, nell'accarezzarle i seni lentamente e con mano esperta, lasciandole sfuggire un gemito che si disperse nel bosco. E nemmeno ne trovò in seguito, quando le tolse anche la sottoveste e...

 

Aprii gli occhi all'improvviso e mi accorsi nel giro di pochi istanti che la sveglia suonava. Mi sentivo accaldata, come ci fossi stata io al posto della ragazza e quel risveglio era stato fin troppo traumatico, come se avessi attraversato epoche intere.

Mi guardai attorno, alla ricerca del cellulare che stava squillando insistentemente.

La luce del mattino entrava dalla finestra della camera, proiettando una scia di luce proprio sui miei occhi e rendendomi difficile trovare il telefono sul comodino.

Quando finalmente riuscii a spegnere la sveglia, mi alzai per dirigermi in cucina a bere un caffè: la mattina per me era come una linfa vitale e senza di esso non riuscivo proprio a cominciare la giornata. Era ciò che riusciva a ricaricarmi le batterie. Tuttavia, quella mattina lo era più del solito: mi sentivo ancora in stato confusionale perché non capivo come mai avessi fatto certi sogni. Forse dovevo solo smettere di guardare fiction alla televisione insieme a Greta: sono piene di scene di sesso che quasi dovrebbero essere vietate ai minori. Eppure quel sogno mi era sembrato così reale...

Riuscii a smettere di pensarci solamente quando Greta sbucò fuori dalla sua camera. «Buongiorno Sabry, tutto bene?», mi domandò come se sapesse cosa mi turbava.

«Si, direi di si, come mai me lo chiedi?».

«Sembrava che ci fosse qualcuno in camera con te questa notte: sussurri e strani cigolii del letto», insinuò , ammiccando con fare malizioso.

«Non ti fare strane idee: ho solo avuto un sonno piuttosto irrequieto. Probabilmente avrò parlato e avrò fatto la lotta con le coperte mentre dormivo», mi giustificai, cercando di non addentrarmi nei particolari: in fondo quello che avevo sognato non era tanto lontano da quello che Greta pensava che avessi fatto.

«Va bene, se lo dici tu», disse rivolgendomi un altro occhiolino malizioso, «E comunque un po' di divertimento non ti farebbe male sai?».

Guardai Greta fulminandola con lo sguardo, lasciandola sola in cucina mentre mi dirigevo verso la camera per prepararmi alla giornata al museo. A dire il vero Greta non aveva tutti i torti: era da non so quanto tempo che non facevo sesso.

Mentre mi davo una rinfrescata veloce sotto la doccia cercai di richiamare alla mente il mio ultimo amplesso e con tristezza mi ricordai delle scarse prestazioni di Fede; forse al mio cervello avrei dovuto suggerire di aggiungere soddisfacente nell'effettuare la ricerca del mio ultimo rapporto. Con non poca amarezza mi accorsi che quella nuova ricerca non produceva risultati: probabilmente quei dati erano talmente vecchi che erano già stati archiviati chissà dove.

Con un sospiro mi sistemai per bene i capelli raccogliendoli dietro la nuca in una crocchia e mi avviai verso l'uscita.

Prima di aprire la porta, Greta con lo sguardo di qualcuno che sta tramando qualcosa disse: «buona giornata Sabry, e tieniti libera uno di questi giorni».

 

Ecco, la fine della giornata lavorativa stava arrivando senza quasi che me ne accorgessi. Fortunatamente quel giorno c'era stato un buon afflusso di visitatori; erano in gran parte gruppi di turisti stranieri, tedeschi o russi, più una classe di studenti delle scuole medie che mi avevano rotto i timpani a forza di urlare. Mi chiesi come facesse Marfisa D'Este a non rivoltarsi nella tomba udendo tutte quelle grida nella sua dimora. Certo, durante la storia quella palazzina doveva aver sentito qualsiasi rumore, ma immaginavo soprattutto musica celestiale e sagge parole, non schiamazzi caotici.

Tuttavia, questi ragazzini mi diedero piuttosto da fare perché gli insegnanti avevano richiesto l'audio guida per incuriosirli di più, ma loro avevano cominciato a usare gli apparecchi come giocattoli divertenti e alcuni erano stati danneggiati.

Perciò, per quanto la giornata fosse trascorsa in fretta, mi ritrovai alla fine con un malessere fisico che mi permeava le ossa e mentre davo un'occhiata a delle carte, mi si incrociavano gli occhi.

Poi, d'improvviso, il telefono cominciò a suonare, facendomi sobbalzare. In velocità mi infilai il cappotto, uscii in giardino e risposi.

«Ciao pulcina», sentii dire dalla voce squillante di mia madre dall'altro capo del telefono.

Aveva come al solito un tono così allegro che mi faceva sempre sentire di buon umore. «Ciao, mamma, tutto bene?».

«Sì, certo, alla perfezione! Sto cucinando una bella torta per te», dichiarò, mentre in sottofondo udivo il rumore di tegami che sbattevano.

«Per me?!». Dovevo ammettere che ero piuttosto sorpresa: tempo prima mamma era restia a preparare torte perché diceva che i dolci fanno male.

«Sì, per te! Mi manchi tanto, pulcina e ti volevo chiedere di venire a cena da noi stasera».

Ci pensai qualche secondo: in effetti era da tempo che non tornavo a casa, mamma mancava anche a me ed era da una vita che non mangiavo una cena come si deve.

«Va bene! E papà?», domandai; ero piuttosto preoccupata di rivederlo dopo la litigata al telefono.

«Sì, c'è anche lui». Sospirò attraverso il telefono. «Lo sai com'è fatto: non prendertela per la storia dell'altro giorno. Vieni qui e vedrai che sistemate tutto».

Mamma era sempre fin troppo ottimista, ma d'altronde mi faceva solo bene un po' del suo sano ottimismo.

Dopo esserci messe d'accordo sull'orario, chiusi la telefonata con un sospiro, pensando che non avevo nessuna voglia di ritornare al mio ultimo quarto d'ora di lavoro. Proprio quando mi ero convinta a sottostare al mio dovere, notai una musica. Era soave, leggera, sembrava accarezzarti l'anima e allo stesso tempo strappartela dal petto. Per qualche secondo pensai potesse essere il video dello Studiolo, ma poi mi resi conto che non poteva essere perché era totalmente diverso. La colonna sonora del video era grave, inquietante; ricordava i rintocchi di una campana che suonava per un funerale. Quella invece era celestiale; la voce che cantava era celestiale.

Senza che me ne accorgessi già stavo camminando in direzione della melodia, attraverso il giardino, verso la Loggia degli Aranci, un grande ambiente porticato la cui volta era decorata a tralci di vite. Con la notte ormai calata, le luci del giardino tracciavano inquietanti chiaroscuro sulle pareti bianche.

Con il cuore che mi batteva nel petto, camminai sul pavimento della Loggia. I miei passi ticchettavano e sembravano rimbombare in quell'enorme spazio in cui avevo la sensazione di perdermi.

Senza soffermarmi troppo a lungo continuai verso l'origine della musica: la Sala della Grotta, a cui dava accesso la Loggia degli Aranci. Era usata per spettacoli e conferenze, quindi probabilmente vi era una qualche prova in atto.

Eppure, per quanto cercassi di convincermi per fermare il cuore che mi batteva nel petto, avevo la netta impressione che ci fosse qualcosa di immensamente sbagliato. Feci un bel respiro e spinsi la porta della Sala della Grotta.

Il canto risuonava per tutta la stanza, potente e coinvolgente, mentre i brividi cominciavano a corrermi lungo la schiena, incontrollabili. Ora il cuore mi stava letteralmente scoppiando nel petto e niente avrebbe potuto arrestarlo. Nemmeno quel niente che accadeva nella sala: tutto era immobile, statico. Le sedie tutte in fila le une vicine alle altre, il telo del proiettore in fondo alla stanza era bianco. Soltanto un fascio di luce penetrava dalla finestra per colpire quell'unico clavicembalo appoggiato al muro sulla destra che stava suonando da solo: i tasti si alzavano e abbassavano secondo la melodia.

Volevo scappare: non sapevo com'era possibile e in quel momento non volevo nemmeno saperlo sebbene ci fosse sicuramente una motivazione logica. Volevo solo fuggire, ma le mie gambe avevano piantato radici e farle muovere mi provocò quasi un dolore fisico. Quando ci riuscii, chiusi la porta dietro di me e corsi attraverso il prato, incurante dell'orlo dei pantaloni che si bagnava per l'erba umida.

Rientrai nella biglietteria, dirigendomi verso la postazione di lavoro con il battito accelerato e il timore di risentire quei suoni.

Mi rasserenai vedendo Roberta che mi accoglieva con un sorriso. «Che faccia! Era quel ragazzo, vero?», esclamò con fare malizioso, riferendosi molto probabilmente a Fede. Stava cominciando ad innervosirmi il fatto che si impicciasse sempre nei fatti miei, ma se non altro era di buona compagnia.

«No no, era solo mia madre al telefono», risposi, sedendomi sulla sedia e riprendendo il controllo.

«Dalla tua espressione non deve essere stata una conversazione piacevole, ma, sai, fare il genitore non è mai semplice», sospirò, «e te lo dico per esperienza...», aggiunse poi con una nota di amarezza nella voce. Avrei voluto chiederle qual era questa sua esperienza, ma pensai che fosse meglio non impicciarsi.

«In realtà questa espressione è solo il risultato della stanchezza che mi gioca brutti scherzi», dissi, restando sul vago. In effetti, mi accorgevo che raccontare a qualcuno di queste mie allucinazioni avrebbe potuto farmi sembrare pazza. Tuttavia era vero: erano frutto della stanchezza. Forse avevo bisogno solo di un po' di vitamine per abituarmi ai nuovi ritmi.

«Capisco, beh... vai pure a casa a riposarti! Oggi tocca a me restare qui da sola!», mi ricordò Roberta.

Non ti invidio per niente , avrei voluto dirle, ma pensando alla sensazione che avevo avuto l'ultima volta che ero rimasta lì fino a tardi, un brivido mi corse lungo la schiena, sottraendomi la parola. Mi limitai invece a mettermi il cappotto.

«Ci saranno quelle belle scartoffie a farti compagnia», scherzai, indicando i fogli che aveva in mano.

«Una compagnia vivace, non c'è che dire!», replicò con una considerevole dose di sarcasmo.

Raccolsi la borsa e mi avviai verso la porta. «Buona continuazione!», la salutai, prima di essere avvolta dall'aria fredda della sera.

 

Eravamo tutti e tre a tavola. Mamma aveva apparecchiato la tavola con una tovaglia bianca ricamata e tovaglioli coordinati, aveva messo al centro anche una piccola piantina di decorazione. D'altronde lei era fatta così: le piacevano le cose fatte bene e soprattutto belle. Aveva il culto della bellezza; era sempre elegante senza essere volgare, ci teneva al trucco e all'acconciatura ma senza rinunciare alla naturalezza. Era innegabile: mamma, con i suoi capelli castani ondulati e lunghi fino alle spalle, gli occhi verdi, quelle rughe agli angoli degli occhi che gli davano un'aria di saggezza e conforto e le sue fini camicette bianche, era ancora una bella donna nonostante i suoi cinquant'anni.

Papà invece era tutto l'opposto: aveva lasciato che la calvizie avanzasse senza porvi rimedio, la barba era sempre trascurata da due o più giorni, l'abbigliamento trasandato e fuori moda. Tuttavia papà aveva altre qualità, come il suo spiccato senso dell'umorismo e la sua vasta cultura. Potevano sembrare due rette parallele senza punti in comune, ma forse era proprio questo che li aveva resi affiatati in tanti anni di matrimonio: le loro differenze li avevano spinti a creare dal nulla dei punti d'incontro.

E poi c'ero io che avevo preso il meglio da tutti e due; mamma lo diceva sempre che ero io il suo miglior capolavoro. Ed era vero: avevo i suoi stessi occhi verdi e i suoi stessi capelli ondulati, e avevo preso da papà l'intelligenza e la vivacità.

Purtroppo però quella sera in casa non c'era una bella atmosfera: papà era visibilmente nervoso, probabilmente per la conversazione di qualche giorno prima al telefono e mamma cercava di sopperire al silenzio di papà con discorsi futili e noiosi su come aveva preparato l'arrosto.

«Allora raccontami un po' del tuo nuovo lavoro», disse mamma quando finalmente si decise a cambiare discorso.

«L'inizio è stato piuttosto traumatico, ma adesso mi sto iniziando ad ambientare e... », ripensai a come avevo trascorso le mie ultime giornate lavorative, «tutto sommato mi sta piacendo».

Mamma assunse un'aria soddisfatta. «Sono contenta che finalmente stai diventando indipendente, quand'è che metterai su famiglia?».

Per un attimo restai allibita. «Non pensi sia un po' troppo presto?»

«Non fare come quei ragazzi che si sposano a quarant'anni...», per qualche secondo sembrò riflettere su qualcosa,«e quel ragazzo? Com'è che si chiamava? Federico? Che fine ha fatto?».

Solo sentire quel nome mi fece ribollire il sangue nelle vene facendomi ripensare all'incontro nel giardino.

«Mamma, lascia stare è una storia chiusa e non ho nessuna intenzione di riaprirla... la famiglia dovrà aspettare».

Proprio quando mamma stava per rispondere fu papà a intervenire dopo circa un'ora di silenzio. «E sarà meglio che la famiglia aspetti ancora un po', anzi dovresti ritornare a casa con noi, non mi sembra naturale una ragazza così giovane come te lontano dalla sua famiglia».

Buttai gli occhi al cielo: papà era certo tanto simpatico e spiritoso quando voleva, ma sicuramente non spiccava per le sue vedute moderne. Per lui una ragazza doveva lasciare la casa dell'infanzia solo dopo il matrimonio. «Papà mica vivo nel Far West... sono a cinque minuti di macchina e poi non siamo più nell'Ottocento: non c'è niente di male se vivo con una coinquilina e non a casa con voi», replicai piuttosto seccata.

«Ma se vivessi qui avresti meno problemi, tua madre ti darebbe una mano e saresti più tranquilla», insistette. «Papà, questa stessa identica discussione l'avremmo intrapresa almeno altre trenta volte e non ho intenzione di farla un'altra volta. Tanto io non cambio idea», affermai perentoria.

A quel punto intervenne mamma a salvare la situazione, ancora prima che papà potesse controbattere di nuovo.«Carlo, devi fartene una ragione: Sabrina è diventata grande e ha il diritto di vivere la sua vita. Su, prendete un po' di torta e smettetela di discutere...», disse e sapevamo tutti e tre che quando era mamma a parlare, non si poteva fare altro che darle ascolto.

Concludemmo la cena parlando del più e del meno; anche papà aveva riacquistato la parola e finalmente potemmo avere una conversazione serena senza tensioni, sebbene non fossi del tutto certa che papà avesse davvero ceduto, ma almeno, da quel momento in avanti, sarebbe stata solamente una questione tra lui e mamma. 

***
Angolo autrice: 
ecco a voi il capitolo 3! La storia sta andando avanti e si iniziano a vedere altri episodi, come dire... un po' strani! Grazie ancora a chi ha recensito e recensirà e anche a coloro che si sono limitati a leggere!

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Capitolo 6
*** Capitolo 4 ***


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Capitolo 4



«Allora? Come è andata la cena ieri sera?», mi chiese Greta la mattina seguente, mentre stava facendo colazione con latte e cereali. Io ero seduta accanto a lei con una tazzina di caffè fumante e un muffin al cioccolato.

«Imbarazzante», mi limitai a dire, pensando che fosse l'aggettivo che più si confaceva alla conversazione della sera precedente.

Greta sollevò le sopracciglia, evidentemente sorpresa; non potei evitare di complimentarmi con me stessa, visto quanto fosse difficile sorprenderla.«Imbarazzante? Mi riesce difficile immaginare imbarazzante una cena coi genitori».

Sospirai e bevvi un sorso di caffè. «Fidati, può esserlo quanto tua madre ti chiede quando ti sposi e tuo padre vuole che ritorni a casa con loro».

Greta mi lanciò uno sguardo interrogativo e mise un altro pugno di cereali nel latte.«Sposarti? Ma non hai nemmeno il fidanzato!».

«Già, non farmi pensare agli uomini, per favore», affermai, mordendo con avidità il mio muffin.«Questo muffin è cento volte meglio di qualsiasi fidanzato», commentai, lasciando che l'impasto soffice mi si sciogliesse in bocca.

Greta scosse la testa.«Si vede proprio che è da tempo che non esci con un uomo, secondo me ti sei dimenticata com'è».

«Forse, ma non mi manca per niente! Dopo il mio ultimo incontro ne ho avuto abbastanza... preferisco stare da sola che rischiare di trovare un altro come Fede!».

Mi afferrò la mano e me la strinse, con un sorriso furbo stampato sul viso che non prometteva nulla di buono.«Questa sera ti porto a una festa».

«Non...», cercai di ribattere, ma lei mi interruppe prima che potessi finire la frase.«E non si discute! So che ci saranno anche le tue amiche, Jessica, Maria, ecc... quelle che mi hai fatto conoscere un mese fa. E' una festa in maschera, ci saranno tanti bei ragazzi e sono sicura che ti divertirai».

Sospirai, sapendo benissimo che non potevo rifiutare. In fin dei conti, avevo voglia di divertirmi un po' e le mie amiche, il gruppo che avevo conosciuto anni fa alle superiori e con cui ancora uscivo, non mi avrebbero certo lasciata annoiare.«Va bene, tanto domani è anche il mio giorno libero. L'unico problema è che non ho un costume da mettere».

Greta mi lasciò la mano e sollevò le spalle.«Non è affatto un problema: te lo procuro io entro sera!»

Non potei fare a meno di scoppiare a ridere.«Ovvio! Dimenticavo che per te ogni scusa è buona per non studiare, perfino quella di cercare un vestito per me!».

«Non dovresti preoccuparti tanto del mio studio», osservò, ritornando seria per qualche secondo.

«E tu non dovresti preoccuparti del mio divertimento».

Si alzò dalla tavola con un sospiro.«Su, avanti, poche storie! Stasera tu avrai il tuo splendido vestito e verrai con me alla festa».

Si diresse verso il lavello per depositarvi la tazza che aveva usato per il latte e poi si voltò all'improvviso.«Ah, e comunque, non provare a cedere con tuo padre! Non so come farei senza te qui dentro!», esclamò prima di uscire dalla cucina per andare in camera a vestirsi. Se non altro quella mattina sarebbe andata a lezione e non avevo dubbi che sarebbe riuscita anche a trovare il mio vestito: le vie di Greta erano infinite!

 

Proprio come mi aspettavo, la sera Greta e io ci ritrovammo davanti allo specchio del bagno per sistemarci prima della festa. O meglio, lei era già pronta per uscire e io, che con il lavoro avevo i minuti contati, dovevo ancora infilarmi l'abito pomposo che mi aveva procurato e non avevo la più pallida idea di come riuscire nel mio intento, visti gli innumerevoli strati di gonna e le lunghe file di lacci.

«Dai su, ti do una mano», si offrì Greta, dopo aver nascosto l'ultimo punto nero con il correttore.

«Tu l'hai trovato e tu mi aiuti a metterlo», commentai, facendo suonare le mie parole come una minaccia. D'altronde ero piuttosto seccata: avevamo davvero poco tempo e quel vestito era davvero troppo complicato.

Greta si avvicinò a me e, una volta esaminato velocemente l'abito, cominciò a sollevare la gonna con tutti i suoi strati.«Infilati qui sotto», mi disse, sollevando il vestito sopra la mia testa.

Mi sembrò di entrare in un meandro scuro da cui non sapevo se sarei uscita, ma poi trovai uno spiraglio di luce dove non feci altro che infilarvi le braccia e la testa. Mentre Greta si era messa alle mie spalle per stringere i lacci sulla schiena, io mi guardai allo specchio. Dovevo ammettere che indossato era proprio bello: la scollatura quadrata mi metteva in risalto il seno, le maniche rigonfie avevano un che di aggraziato, ma più di tutto era il tessuto verde e lucente dai ricami dorati che gli conferiva quella sua raffinata bellezza, insieme alla piccola pietra dorata cucita proprio lì dove cominciavano le pieghe della gonna.

«Non mi avevi detto che era una festa in maschera rinascimentale», osservai.

Greta mi fece segno di avvicinarmi allo specchio, mentre tirava fuori dalla sua trousse di trucchi un ombretto dorato.«Non l'ho ritenuto importante», rispose distrattamente, cominciando ad applicarmelo sulla palpebra.

«Mi spieghi come faremo a ballare?».

Estrasse il rossetto e mi fece segno di aprire leggermente la bocca.«Portati un abito normale per il dopo cena: la festa è in una palestra e c'è lo spogliatoio per cambiarsi. Dopo una certa ora sarai troppo ubriaca per poter continuare a portare il costume».

«Non ho intenzione di ubriacarmi».

Greta si fermò qualche secondo, giusto il tempo di lasciarsi andare a una risata.«Ti prego, non dire cose di cui poi ti pentirai».

Pensando in cuor mio che non le avrei dato la soddisfazione di vedermi ubriaca quella sera, decisi di non ribattere e di lasciarle terminare il mio trucco: le avrei dimostrato che avevo ragione con i fatti, non con le parole.

Pochi minuti dopo eravamo intente ad entrare nell'auto di Greta, dirette verso la festa. Durante il tragitto non potei fare a meno di ridere del fatto che sembravamo provenire direttamente dal passato; i nostri vestiti così all'antica erano in netto contrasto con l'auto nuova di zecca e mi domandavo come dovesse essere l'effetto a vederci da fuori.

Prima che potessi darmi una risposta, eravamo nel parcheggio della palestra. Greta spense il motore e uscimmo all'aria umida di quella serata invernale. Lo stabile era piuttosto grigio e triste, isolato dalla città, ma per l'occasione avevano aggiunto qualche palloncino colorato davanti alla porta, giusto per renderlo un po' più festoso.

All'entrata un ragazzo vestito in giacca e cravatta che cercava di sembrare un buttafuori, anche se con scarso successo vista la sua magra corporatura, ci chiese se eravamo in lista. Lasciai che fosse Greta a dare il nominativo, visto che aveva organizzato tutto lei.

«Accidenti, non pensavo fosse una festa così in grande», commentò, ammirata, non appena entrammo nella sala. Le luci erano soffuse, una musica lenta e tipicamente rinascimentale risuonava nell'ampia sala, piena di persone vestite come noi che chiacchieravano amabilmente con delle vistose maschere a coprire il volto. Lungo i bordi della sala c'era un ricco buffet, con tanto di camerieri vestiti anch'essi in tema.

«Devo ammettere che hai avuto una bella idea a portarmi: non vorrei perdermi una festa del genere per niente al mondo».

«Che ne dici? Ci tuffiamo sul buffet?», mi propose Greta entusiasta almeno quanto me.

Senza nemmeno darle una risposta, la presi per mano e la trascinai in mezzo alla folla. Mentre mangiavo tartine alla salsa tonnata e salatini, non potei fare a meno di notare quanto fossero belle certe maschere: ce n'era una a forma di sole, di un colore dorato ed elegante, un'altra era contornata di finte spighe di grano e grappoli d'uva, forse a simboleggiare una qualche dea della natura.

Mentre eravamo perse a commentare le maschere presenti in sala, qualcuno mi poggiò una mano sulla spalla, facendomi fare un balzo dallo spavento. Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte due visi identici: occhi grandi color verde acqua che mi fissavano, zigomi alti e bocca sottile. Per qualche secondo pensai di vederci doppio, poi mi resi conto che si trattava di Jessica e Maria. Erano gemelle e a primo impatto potevano sembrare uguali, ma poi un occhio attento avrebbe sicuramente notato che Maria aveva il mento più appuntito ed era più alta di Jessica; in seguito la vivacità di Jessica rispetto alla quiete che infondeva Maria, rendeva facile riconoscerle. Soltanto dopo qualche secondo notai che di fianco a loro c'era anche Alma, coi lunghi capelli scuri che le ricadevano sul petto come cascate d'ebano e la pelle ambrata che risaltava col suo vestito color panna.

Tutte e tre erano le amiche di vecchia data di cui Greta mi aveva assicurato la presenza; se non altro non aveva mentito solo per assicurarsi che venissi.

Le abbracciai una per una con entusiasmo, seriamente contenta di incontrarle.«E' da un bel po' di tempo che non ci vediamo!»

«Puoi dirlo forte! E questa sera recupereremo tutto il tempo perduto!», affermò Jessica, strizzandomi l'occhio.

Io le sorrisi.«Ci puoi giurare! Avrete un sacco di cose da raccontarmi».

«Vedrai che tra un po' con un goccio di tequila, la lingua ci si scioglierà e non avremo problemi a raccontare tutto quanto», aggiunse Alma, con quel suo adorabile accento spagnolo: aveva origini colombiane e, nonostante fosse da anni in Italia, ancora non aveva abbandonato il suo accento, probabilmente perché in famiglia parlavano solo spagnolo.

Anche loro si avvicinarono al buffet, Jessica e Alma addentarono solo un paio di tartine per paura che qualcosa in più avrebbe potuto nuocere alla loro linea, Maria, invece, proprio come me, vi si buttò a capofitto, commentando:«come si fa dire di no a tutto questo ben di Dio?». Nel frattempo Greta aveva fatto già amicizia con Alma e insieme stavano ridendo di gusto. Qualche minuto dopo, però, si avvicinò a me; aveva quello sguardo che ormai avevo imparato a conoscere, lo stesso sguardo di una leonessa che è in cerca della sua preda.«Hai visto il cameriere? Quello vestito da fabbro?», mi sussurrò all'orecchio.

Mi guardai in giro e lo individuai subito: portava una camicia larga e un grembiule di cuoio, capelli scuri e ribelli, corporatura massiccia e aria da duro. «Ma dai, Greta! È appena cominciata la festa e già parti all'attacco!»

Voltò un attimo la testa per guardarlo con occhi di fuoco, mordendosi un labbro.«Carpe diem, Sabry, afferra l'attimo! Sì, afferrarlo come io afferrerei quel gran...».

«Per favore, risparmiami i particolari», la fermai prima che mi raccontasse le sue più intime fantasie sessuali. «Io mi prendo qualcos'altro da mangiare», affermai, raggiungendo le altre e lasciandola alla sue strategie di conquista.

Qualche tempo dopo, dopo svariate chiacchiere, il buffet era già stato spazzolato ed era chiaramente arrivato il momento di dare inizio alla festa vera e propria. A turni andammo negli spogliatoi per cambiarci d'abito; io avevo portato un vestito rosa, lungo fino al ginocchio, con spalline strette e scollatura a V e un paio di scarpe bianche tacco dieci. Quando tornammo nella sala, avevano azionato le luci psichedeliche, un turbinio di colori che insieme alla musica dance creavano un mix davvero esplosivo, e al posto del buffet avevano preparato una serie infinita di alcolici, con tanto di barman acrobatico.

«Wow, finalmente si beve un sorso!», esclamò Jessica, accorrendo subito verso i tavoli.

«Io propongo un bel brindisi», disse Maria che, stranamente, sembrava entusiasta almeno quanto la sua gemella.

Senza che se lo facessero ripetere due volte, già erano con il calice in mano. Io, invece, ero un po' più titubante, ma in fondo pensavo che un bicchiere non avrebbe mai ucciso nessuno. «A noi! E che questa serata sia da urlo!», disse Jessica, alzando in alto il suo calice. Facemmo tintinnare i nostri bicchieri gli uni contro gli altri, creando un'armonia quasi piacevole come leggero sottofondo alla musica dance.

Una volta scolato anche l'ultimo sorso di vino, ci dirigemmo subito verso il centro della sala, dove la gente si era già radunata per ballare. Con quelle luci e l'alcol che già spingeva nelle mie vene, ogni emozione mi sembrava più vivida, i freni inibitori si stavano lentamente allentando e, nonostante io sia restia a lasciarmi andare nel ballo, mi buttai in movimenti più marcati e più sensuali rispetto al solito, tanto che mi guadagnai qualche battuta ammirata da parte delle mie amiche. «Oh, finalmente ti sciogli un po'!», esclamò la voce di Alma alle mie spalle, per poi poggiare una mano sulla mia schiena e spuntare nella mia visuale con un bel sorriso raggiante.

Greta era con lei e aveva un bicchiere in mano colmo di un liquido rosa che mi porse. «Ecco, già che ci sei, sciogliti un altro po'».

Io le feci di no con la testa, ma lei mi mise lo stesso il bicchiere in mano. «Bevi la medicina che è buona!», scherzò.

«Bevi anche tu, però!», protestai.

«Lo sai che devo guidare! Ho bevuto giusto un sorso, perciò mi occupo di te questa sera!», commentò, con un bel sorriso furbo.

Forse normalmente mi sarebbe venuta voglia di prenderla a schiaffi, ma in quel momento l'alcol mi stava rendendo più accondiscendente. «Grazie dell'interessamento, ma non serve».

«Serve, serve!», e così dicendo si buttò a ballare con movimenti sensuali. Anche io ballai, muovendo la testa, i fianchi, le braccia. Mi sembrava che fosse una serata stupenda, mi stavo divertendo; i colori mi sembravano più vividi e ridevo per qualsiasi cosa, anche la più stupida e poco divertente. Ogni tanto, tra una danza e l'altra, Greta mi portava un altro cocktail e così presto cominciò a girarmi anche la testa, ma non me ne curavo, perché in quel momento ero talmente ubriaca che non volevo pensare più a niente; non a Fede e al suo maledetto ritorno, non ai miei genitori, non al lavoro. Volevo solo ballare e divertirmi e più passava il tempo, con più il ballo si faceva sfrenato e il divertimento intenso. Perfino i colori in quel momento mi colpivano gli occhi con intensità inaudita; mi sentivo un caleidoscopio.

A un certo punto le mie amiche uscirono dalla pista. «Andiamo un attimo fuori perché Alma vuole fumare», mi comunicò Jessica. La sentii anche parlare con Maria; si dissero che non ero così ubriaca e che potevano lasciarmi sola qualche minuto. A me non interessava: continuavo a ballare e mi interessava solo quello.

Poi un colore, così diverso dagli altri mi colpì gli occhi, quasi me li ferì: era un rosso cangiante. Mi voltai di scatto, smettendo tutto d'un tratto di ballare. Anche se mi girava la testa, vidi benissimo una ragazza zigzagare tra la folla ancora vestita con gli abiti rinascimentali: la sua gonna era una cascata di velluto rosso, liscio e dall'aria preziosa. Vedevo solo la sua schiena sinuosa, i suoi capelli color mogano sistemati in un'acconciatura.

Non so per quale motivo, ma i miei piedi si mossero e cominciai a seguirla tra la gente. Camminava veloce e per seguirla diedi anche gomitate e, barcollando per l'alcol che avevo in corpo, andai addosso a qualcuno, ma non la persi di vista. Quel rosso vivo, dopo avermi ferita, mi attirava; ne ero ipnotizzata.

Ad un certo punto la ragazza si fermò. Si guardò alle spalle, verso di me e finalmente potei vederla in viso. Mi gelai di colpo; come se d'improvviso qualcuno mi avesse lanciato addosso una secchiata d'acqua ghiacciata, sentii ogni muscolo irrigidirsi, il sangue raggelarsi.

Quel viso... la pelle bianchissima, la fossetta sul mento e il sorriso che mi stava rivolgendo - furbo, diabolico - a inclinare quei lineamenti dolci. E lo stava rivolgendo a me, con aria di complicità.

Sentii il desiderio di scappare, ma l'istinto mi spinse a seguirla ancora mentre di nuovo camminava tra la gente, nel suo vestito pomposo d'altri tempi che risaltava così tanto tra quelli di tutti gli altri. Non sapevo perché, ma avevo paura, avrei voluto lasciarla andare, ma qualcosa dentro di me mi spingeva verso di lei, a scoprire dove mi avrebbe portata.

«Ehi, Sabry, dove stai andando?». La voce di Greta irruppe improvvisamente alle mie spalle, entrando prepotentemente nella mia mente. Mi costrinse a girarmi. Sul suo viso c'era un'espressione tra il divertito e il preoccupato. «Volevo vedere dove andava quella ragazza, quella che non si è ancora cambiata, col vestito rosso», risposi con la bocca impastata, indicando davanti a me.

«Quale ragazza?», mi chiese con aria perplessa.

«Lei», dissi, ma voltandomi di nuovo mi accorsi che non c'era più. Eppure, era lì mezzo secondo prima!

«Ti giuro, c'era... non so, deve essere qui da qualche parte», cominciai di nuovo a farmi strada tra la folla, barcollando incontrollabilmente.

Andai negli spogliatoi, fuori dalla sala, ma di lei non c'era più traccia. «Sabry, te la sarai immaginata», concluse Greta, prendendomi un braccio e portandomi di nuovo dentro.

Proprio in quel momento, la folata di vento che avevo preso nello stare all'aperto e la sbronza fecero il suo effetto, costringendomi a correre verso il bagno. Vomitai nella tazza del water tutto il buffet e con più vomitavo, con più acquistavo lucidità.

La ragazza dal vestito rosso occupava i miei pensieri e non facevo che pensare che non era stata un'allucinazione; io l'avevo vista davvero! 

***
Angolo autrice: 
vi presento il quarto capitolo! Piano piano la storia procede e spero che possiate trovarla interessante! Grazie a chi ha letto e recensito, a chi l'ha inserita tra preferite, seguite, ricordate! Come solito, anche in questo capitolo non fatevi scrupoli a lasciare un vostro parere... anche critiche costruttive sono ben accette!
AVVISO IMPORTANTE: dal prossimo capitolo gli aggiornamenti si faranno più lenti, perché fino a qui i capitoli erano già scritti, mentre da questo punto in poi sono ancora alle prese con la stesura, senza contare che dalla prossima settimana ricominciano i miei impegni universitari... perciò vi chiedo di avere un po' di pazienza! 

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