Vento dell’Ovest di Halley Silver Comet (/viewuser.php?uid=90221)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo - Arrivo del Vento ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo - Vento di Scoperte ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo - Vento di Intrecci ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto - Vento di Sospiri ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto - Vento di Incertezze ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto - Vento di Rivelazioni ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo - Vento di Pensieri ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo - Vento di Dubbi ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono - Vento di Turbamenti ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo - Vento di Verità ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo - Vento di Attesa ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodicesimo - Vento di Tensioni ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredicesimo - Vento di Quiete ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordicesimo - Vento di Sospetti ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindicesimo - Vento di Prove ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedicesimo - Vento di Avversità ***
Capitolo 17: *** Capitolo Diciottesimo - Vento di Decisioni ***
Capitolo 18: *** Capitolo Diciassettesimo - Vento di Reazioni ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciannovesimo - Vento di Passaggio ***
Capitolo 20: *** Capitolo Ventesimo - Vento di Cambiamenti ***
Capitolo 21: *** Capitolo Ventunesimo - Vento di Bugie ***
Capitolo 22: *** Capitolo Ventiduesimo - Vento di Malintesi ***
Capitolo 23: *** Capitolo Ventitreesimo - Vento di Misteri ***
Capitolo 24: *** Capitolo Ventiquattresimo - Vento di Azione ***
Capitolo 25: *** Capitolo Venticinquesimo - Vento di Confronti ***
Capitolo 26: *** Capitolo Ventiseiesimo - Addio del Vento ***
Capitolo 1 *** Capitolo Primo - Arrivo del Vento ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 1
-
Capitolo Primo -
Arrivo del Vento
Tra
tutti i venti, quello dell’Ovest, detto anche Vento di
Ponente, è
senza
dubbio il
più chiacchierino e il più bravo a raccontare
storie. Infatti, i suoi fratelli venti e le sue
sorelle brezze non aspettano altro che il suo ritorno da qualche
lungo viaggio, sperando sempre che abbia in serbo per loro una qualche
bella storia che possa intrattenerli.
In particolare, quella che vi sta per narrare è una delle
sue preferite,
forse
quella che ama di più in assoluto, poiché sembra
che, nella vicenda, abbia
avuto un
ruolo quasi da protagonista.
Perciò, mettetevi comodi, perché ai venti piace
essere molto
dettagliati quando raccontano e odiano che si metta loro
fretta...
Era un tiepido giorno sul finire di settembre del 1986 e il Vento di
Ponente
soffiava pigramente tra le mura degli edifici della Capitale,
quando decise di lasciare il centro per muoversi
tra i giardini del quartiere pinciano. Si ritrovò, quindi,
a soffiare nell’immenso
parco di
una villa d’epoca
ben tenuta, con pini altissimi, fiori e arbusti che si
stavano ormai preparando al sonno invernale.
Mentre era impegnato a solleticare le bacche non ancora mature di una
rosa canina, la sua attenzione fu catturata da una ragazza dal volto delicato e con lunghi
ricci scuri che le arrivavano poco oltre le spalle,
appoggiata alla balaustra della
veranda canticchiando un motivetto allegro: «What a
feeling, bein’s believin’, I can have it all, now
I’m dancing for my life...1»
«Vittoria, se non te ne fossi accorta, stiamo cercando di
finire di lavorare» intervenne, a quel punto, un giovane
dalla chioma ribelle biondo dorata seduto ad un tavolo lì accanto, senza alzare gli
occhi dagli incartamenti che stava leggendo.
«Sono quasi le sette, non dovreste smettere?»
gli fece, però, notare quella, accigliata, smettendo di dondolare la testa a ritmo. «La festa è alle
sette e mezza!»
«Se tu la piantassi di distrarci, forse riusciremmo a
finire!»
la rimbeccò l’altro, seccato. «E,
comunque, ti ricordo che sei l’unica di noi tre che
smania per andare alla festa di compleanno di Maria Luisa».
Indispettita, la ragazza si alzò in piedi e
riservò al suo interlocutore un’occhiata di
rimprovero.
«So perfettamente che non ci vuoi andare,
Marcellino» affermò, mentre si avvicinava al
tavolo cosparso di fogli dove, oltre all’amico, era seduto anche
un altro giovane. «Sappi, però, che non presentandoti
deluderesti tutte le
tue ammiratrici, a cominciare proprio dalla festeggiata».
«Sai, Vittoria, non credo sia questo il modo giusto per
convincerlo» si intromise, allora, il ragazzo dai capelli castani,
ridacchiando
sommessamente.
«Be’, Gerardo, Marcello deve sapere della scia di
cuori infranti che lascerà se non andiamo da Maria
Luisa!» commentò la ragazza, mettendo su un
cipiglio ostinato.
In risposta, il diretto interessato alzò gli occhi al cielo,
poiché, in realtà, era fin troppo a conoscenza di
ciò che pensavano e dicevano di lui Maria Luisa Foscari e la
sua banda di amiche starnazzanti: infatti, lo
adocchiavano ormai da troppo tempo, reputandolo un ottimo
partito, senza curarsi del fatto che a lui non interessava
nessuna di loro.
Reprimendo un brivido, Marcello si riscosse da quei pensieri
raccapriccianti e decise, invece, di rivolgersi a Gerardo.
«Potresti ricordarmi qual è stata
l’ultima mossa di Lord Carter?» gli chiese,
cercando di ignorare le proteste di Vittoria.
«Così, forse, riusciremo a mettere il
punto a questa faccenda».
«Niente di importante» rispose l’altro,
sfogliando distrattamente il plico che aveva in mano.
«Qualche piccola contrattazione nello Yemen del Nord, per
ottenere
più petrolio».
«Chissà perché ha preso in
considerazione noi, come possibili partner finanziatori dei suoi
grandiosi progetti...» si domandò a voce alta Marcello,
prendendo in mano un bicchiere colmo di succo e appoggiandosi
con la schiena alla poltroncina di vimini.
«Non ne ho la più pallida idea. Magari, lo
scopriremo tra qualche settimana, quando lo incontreremo»
osservò cautamente Gerardo, sfregandosi nervosamente il
collo.
Trascorse qualche istante di assoluto silenzio, poi, però,
Vittoria cominciò di nuovo a sbuffare e ripartì
alla carica: «Adesso avete finito? Non voglio arrivare in
ritardo!»
Subito, i due si voltarono verso di lei e la osservarono attentamente,
sbattendo le palpebre.
«Lo sai che sei davvero irritante?» le fece notare, allora, Marcello, che davvero non aveva voglia di
andare da nessuna parte. Purtroppo, però, dopo che la sua
amica lo aveva sfiancato con continue e pressanti richieste, aveva
ceduto ed ora si trovava obbligato ad accompagnarla. Non gli erano mai
piaciute le feste di compleanno, specie quelle dove c’era
un’alta probabilità di ritrovare vecchie
conoscenze, ma, ad essere sinceri, non amava in generale le occasioni dove c’era
troppa gente chiusa nello stesso posto.
Sapeva di non essere una persona molto socievole che preferiva
tenersi lontano da ogni forma di agglomerato sociale.
«Dai, Marcellino, lo sai che le feste sono sempre
un’ottima occasione per conoscere gente nuova!»
insistette Vittoria, lasciando che sulle sue labbra affiorasse un
sorriso
malandrino. «Magari, questa potrebbe essere la volta buona che
conosci una ragazza adatta ai tuoi gusti difficili... e farai
felice la tua mammina».
«Io non cerco nessuna ragazza e, soprattutto, non voglio fare
felice nessuno!» borbottò in risposta quello,
ritrovandosi a chiedere per l’ennesima volta in
vent’anni come avesse
fatto a diventare amico stretto di quel terremoto vivente che era Vittoria
Farnese.
«Dai, lascialo stare» la rimproverò con
dolcezza Gerardo, lanciando all’altro un’occhiata
solidale. «Abbiamo promesso che ti accompagneremo e
così faremo».
«Ecco,
tu sì che sei gentile, Gerardo. Mica come
lui...» replicò la ragazza, indirizzando un
sorriso riconoscente al giovane e mostrando, invece, la lingua a
Marcello.
Esasperato, quello decise di porre fine alla questione e si
alzò in piedi.
«Ho capito, ho capito, andiamo» sospirò, arreso. Poi, si rivolse a Gerardo: «Noi continueremo
domani».
«Certamente» acconsentì quello, annuendo
e alzandosi a sua volta.
Allora, con un’espressione trionfante dipinta sul volto,
Vittoria fece schioccare la lingua contro il palato; stava per
aggiungere qualcosa, quando una presenza
disturbante si materializzò accanto ai tre e la
giovane fu costretta a tacere. Infatti, ostentando la sua espressione
più
impassibile, era appena sopraggiunta la madre di Marcello, bionda come
il figlio, ma
con occhi scuri e penetranti dai quali traspariva tutto il disprezzo
che provava per gli amici del ragazzo.
«Buonasera,
signora Claudia» la
salutò gentilmente Gerardo, un po’ teso.
«Salve,
signora. Noi stavamo per andare via»
si
affrettò ad aggiungere Vittoria, indietreggiando di qualche
passo per allontanarsi da lei, mentre quella li fissava entrambi
arricciando appena le labbra. Di
fronte ad un simile atteggiamento, Marcello digrignò i denti
poiché, anche se aveva ormai smesso da diversi anni di
sperare
che sua madre potesse prendere in simpatia Vittoria e Gerardo, quella
avrebbe almeno potuto mostrare un minimo di educazione nei loro
confronti. Soprattutto perché che si vantava di essere una donna raffinata.
«Sì,
infatti mi pare una buona idea»
rispose la Matrona, come veniva chiamata dalle cameriere della villa, perseverando
nella sua ostilità. «Passate decisamente troppo
tempo qui.
Potrebbe quasi sembrare che non abbiate nulla di meglio da fare...
soprattutto tu, Gerardo. Poi, non lamentarti se in giro si dice che
è Marcello a sbrigare tutti gli oneri».
«Mamma!» la
richiamò il figlio, indignato. «Gerardo
ed io siamo soci allo stesso livello e ci dividiamo equamente il lavoro!»
Tuttavia,
la
donna non rispose a quell’obiezione, limitandosi ad
assumere un’espressione così dura che il suo volto
perse istantaneamente tutta la sua bellezza, mentre Marcello offriva un’occhiata
mortificata di scuse all’altro. In risposta, quello scosse la testa, accennando un sorriso.
«Ti
aspettiamo fuori dal cancello»
disse in fretta Vittoria, intromettendosi e tirando Gerardo per un
lembo della giacca,
prima che la signora Claudia potesse dare un giudizio negativo anche su
di
lei.
«Arrivederci,
signora!» la
salutò in fretta il ragazzo, sparendo con l’amica
oltre la porta-finestra.
Rimasti
soli, il ragazzo si voltò verso la madre, squadrandola con
fare
ostile e, non riuscendo più a trattenere il suo
risentimento, le
sbottò contro: «Devi smetterla di trattare male Gerardo e Vittoria!»
«Sono
solo due approfittatori che sfruttano la tua
popolarità. Se tu non le avessi presentato lo scultore
Bartolomeo Davoli, la Farnese sarebbe ancora una zitella con la lingua
troppo lunga e quel Marini non sarebbe nessuno se tu non gli avessi
chiesto di diventare tuo socio»
gli
rispose lei, con una smorfia di disgusto. «Avresti dovuto prendere in considerazione Ascanio Colonna, invece,
perché, da
quello che sento dire in giro, sembra molto in gamba».
«Mi
sarei tagliato la lingua, piuttosto che chiedergli una cosa
simile»
ribatté, però, Marcello, con un sibilo
irritato. Sua
madre non aveva il diritto né di mettere bocca nelle sue
scelte professionali, né tantomeno di insultare i suoi amici
solo
perché
non li considerava al loro livello, visto che, per lui, i
due ragazzi erano come fratelli. Nemmeno per Tiberio, suo
fratello di sangue, ma così
simile alla genitrice da risultargli insopportabile, provava
un attaccamento simile.
«Comunque,
a parte gettare fango su chi non è nelle tue grazie, devi
dirmi
qualcosa di importante?»
aggiunse poco dopo, vedendo che la donna
non sembrava avere intenzione di voler andar via.
Per qualche secondo, la signora Claudia si soffermò a
studiarlo, giocherellando con la collana di perle che portava al collo,
per poi cominciare a parlare, molto lentamente: «So che stai andando alla festa di compleanno di Maria Luisa».
Inarcando appena un sopracciglio, curioso di sapere dove intendesse
andare a parare la genitrice, il giovane ricambiò
l’occhiata e rimase in attesa che l’altra
continuasse.
«L’altro giorno, Serena mi ha detto che
tu piaci molto alla figlia, pertanto volevo invitarti a prenderla in
considerazione come
tua possibile fidanzata» spiegò subito dopo,
infatti, la donna, aggrottando la fronte e spostando lo sguardo verso
l’alto, come se stesse valutando sul serio
l’eventualità che quella ragazza potesse entrare a
fare parte della sua famiglia.
«Che cosa?!» scattò subito Marcello,
impallidendo al solo pensiero. «Mi auguro seriamente che
tu stia scherzando, mamma».
«Affatto» ribatté, però, la
donna, con estrema convinzione. «La conosco e so che
è una ragazza remissiva e ben educata, davvero adatta a te».
Sconcertato, il figlio la guardò come se fosse uscita di
senno, cosa che accadeva abbastanza spesso quando
si ritrovava a parlare con sua madre. Evidentemente, si era messa in
testa che anche con lui avrebbe potuto portare avanti le sue
macchinazioni, come aveva fatto con Tiberio quando lo aveva
spinto tra le braccia dell’insulsa ed instabile
Ortensia Torlonia, meritevole solo di avere un padre ricco ed essere
una discendente di ex marchesi. Qualità che
solo una donna retrograda ed arrivista come la Matrona avrebbe potuto
trovare allettanti.
«Io non sono come Tiberio e non accetterò mai un
tuo consiglio» replicò, allora, il giovane, non
celando il disprezzo che riservava verso di lei e verso il fratello,
talmente desideroso di compiacere la madre da aver accettato subito la sua insana proposta. Purtroppo, la signora Claudia
considerava i suoi
due figli come se fossero sue appendici, a tal punto da sentirsi in
dovere di
instradarli ad essere a sua immagine e somiglianza, cercando matrimoni
vantaggiosi per non perdere il prestigio sociale che lei, da ragazza
provinciale della campagna viterbese, aveva
guadagnato sposando il padre di Marcello.
«Vuoi forse rimanere scapolo a vita?» gli chiese a
quel punto la madre, assottigliando pericolosamente lo sguardo.
«Hai già rifiutato tutte le figlie delle mie
amiche, facendo addirittura piangere la povera Costanza!»
«Mamma, quella non è una ragazza, è una piovra
gigante!» rispose l’altro, rabbrividendo al solo
ricordo di quel pomeriggio passato a scappare per tutta la casa,
sperando
di scrollarsi di dosso quella tipa appiccicosa, nonostante la milza
dolente e l’ordine del medico di restare a letto. «E poi,
le avevo
solo detto di non avvicinarsi perché non ero ancora del tutto
guarito dalla mononucleosi... In fondo, mi stavo preoccupando per
lei» aggiunse, non riuscendo a soffocare una nota ironica.
«Come
ti è saltato in mente di andare a fare il buon samaritano al
Bambino Gesù2
con quella sciocca della Farnese!»
gli inveì contro l’altra, sbraitando come una di
quelle popolane che tanto disprezzava. «Sai benissimo che i
bambini sono un ricettacolo delle
peggiori malattie!»
A quel punto, il ragazzo si portò una mano alle tempie e
contò fino a dieci per non essere costretto a risponderle
per le rime.
«Invece, è stata una bellissima iniziativa andare
a visitare i bambini ricoverati in ospedale» le
fece notare, dopo qualche secondo che servì a tenere a bada
la rabbia che sentiva crescere dentro di lui. «E, comunque,
guarda
il lato positivo, mamma: non ne verrò più
contagiato. Questo significa che, per evitare Costanza, la prossima
volta dovrò andare a cercare qualcuno con la
varicella».
Poi, Marcello si avvicinò al tavolo per mettere a
posto tutti i fogli, impilandoli l’uno sull’altro e
strappando quelli inutili. Improvvisamente,
però, la
signora Claudia, arrabbiata per i suoi commenti, gli si avvicinò come una furia e, preso
tutto
quello che era sul ripiano, lo scaraventò a terra.
«Sei impazzita?! Sono documenti di
lavoro!» esclamò il giovane, guardandola
sbigottito.
Tuttavia, quella non sembrò per niente dispiaciuta, anzi,
cominciò anche a gridargli contro, gesticolando furiosamente:
«Sei solo uno stupido! Tutti
i figli maschi delle mie amiche sono sposati e tuo
fratello ha perfino una bambina! Sei
ormai prossimo ai venticinque anni... davvero credi che riuscirai mai una donna di buona famiglia con
sarcasmo e
maleducazione?»
Di fronte a quella sfuriata, il ragazzo esaurì anche
l’ultimo residuo di pazienza: aveva mantenuto la calma
più
a lungo che aveva potuto, ma a tutto c’era un limite.
«Te lo dirò ora e poi non lo ripeterò
più: a me non interessa sposarmi, soprattutto con una
ragazza scelta da te, quindi mettiti l’anima in
pace!» esplose.
Ciò,
però, non scalfì minimamente la madre che, dopo
aver
lanciato un’ultima occhiata angustiata al figlio, gli
sibilò, minacciosa: «Pensala come vuoi, ma stai
pur certo
che troverò il modo di farti cambiare idea!»
Quindi, si voltò con uno scatto e si avviò, impettita,
verso la porta-finestra.
Per qualche istante, Marcello rimase a fissare con astio il punto in
cui era sparita la genitrice, per poi riportare
l’attenzione sul disastro che aveva combinato e,
richiamando a sé la poca calma rimasta, iniziare a radunare tutti i fogli sparsi. Con
suo
grande sollievo, notò che, fortunatamente, nessun documento importante si era rovinato.
«Bella
serata, non è vero?»
gli chiese, all’improvviso, una voce dolce.
«Per essere fine settembre, fa ancora parecchio
caldo».
«Davvero
magnifica, papà» rispose
sarcasticamente il giovane, senza alzare la testa, ammucchiando da una
parte i resti dei fogli strappati e dall’altro quelli ancora
sani.
Incurvando le labbra, quello si
chinò
a sua volta per dargli una mano: era un uomo dalla figura
elegante, i capelli scuri e gli occhi verde chiaro uguali a
quelli
di Marcello. Se
non avesse avuto almeno un genitore dalla sua parte, avrebbe
probabilmente avuto una vita molto più difficile in quella
casa, ma, per
sua fortuna, lui e suo padre avevano un ottimo
rapporto basato sul rispetto e sulla comprensione reciproca.
«Tua
madre a volte esagera»
commentò pacatamente il padre, mentre gli passava una
cartellina rosso spento.
«No,
non a volte, lo fa sempre»
precisò il giovane, secco. «Con lei non ho mai
terminato
nessuna conversazione in modo civile. Nemmeno quando ero
bambino».
«In effetti, secondo lei sei sempre stato il figlio
ribelle» ridacchiò il signor Giancarlo, mentre si
tirava
su e gli passava la risma di fogli che aveva
raccolto. «È davvero così
terribile questa
Maria
Luisa?» domandò, poco dopo, dimostrando di essere già
al
corrente di ogni dettaglio.
«Non ha nulla di attraente per me» spiegò in poche parole
il figlio, rimettendosi in piedi a sua volta. «Ed io
le interesso solo per il mio successo professionale, nulla di
più».
«E, scommetto, anche perché sei un bel
ragazzo» tirò ad indovinare l’uomo,
tradendo un sorriso
divertito, recuperando tutta la carta straccia per buttarla in uno dei secchi che avevano sulla veranda.
A quell’osservazione, il giovane si accigliò e rispose:
«Veramente, non penso sia un vanto. La bellezza, prima o poi,
sfiorisce... e poi cosa rimane?»
«Be’, tu hai anche tante altre qualità,
Marcello» gli fece pazientemente notare il padre.
«Qualità che non interessano ad una come Maria
Luisa, che aspira solo a fare la mantenuta»
ribatté, però, lui, tra lo sprezzante e il
demoralizzato. «E
preferisco restare solo che accollarmi una così!»
A
quel punto, il signor Giancarlo gli rivolse un sorriso malinconico e occupò una delle sedie intorno al tavolo.
«Marcello,
nessuno vuole davvero restare solo. Sei troppo giovane per essere
così disilluso all’idea
dell’amore»
considerò, con una punta di severità.
«Vedrai che, prima o poi, troverai una ragazza che ti
piacerà» aggiunse qualche istante più
tardi, questa volta incoraggiante.
In
risposta, Marcello increspò le labbra, ma non disse nulla,
limitandosi solo a rivolgergli un’occhiata
scettica, poiché, pensando all’impossibile donna che
quello aveva
sposato, le sue parole gli suonarono decisamente troppo
ottimistiche.
«Comunque, spero tu voglia andare lo stesso a questa
festa» concluse l’uomo, dopo qualche minuto di
assoluto
silenzio, mentre si alzava per andare a studiare da vicino il melograno
carico di frutti, la cui cima sfiorava appena la balaustra della
veranda.
«Ad
essere onesto, se
questa sera non ci fossero stati con me Gerardo e Vittoria, avrei preferito
restare a casa a
leggere» gli rispose Marcello, cupo, seguendolo con lo
sguardo.
«Sai, ho appena iniziato un libro molto
interessante che mi ha prestato Gerardo. Parla di Bilbo Baggins, un
Hobbit, cioè un mezzuomo, che parte in compagnia di un stregone e tredici nani alla
ricerca di un tesoro perduto e...»
«Forse,
per questa sera puoi mettere da parte la tua amata lettura e divertirti
un
po’» lo interruppe, però,
l’uomo, lanciandogli
un’occhiata eloquente. «D’altra parte,
non è
detto che una
festa che si preannuncia noiosa, non possa riservarti qualche
piacevole sorpresa...»
Non del tutto convinto, Marcello inarcò un sopracciglio.
«Oh,
sì, certo. Come no!» commentò, ironico,
voltandosi
verso il tavolo per raccogliere tutti i fogli, così da
portarli
dentro. «L’unica cosa che potrebbe sorprendermi
è
se gli invitati dovessero cominciare ad ubriacarsi dopo le dieci, ma
conoscendoli, direi che...»
Tuttavia,
non riuscì a completare la frase, poiché, quando
si girò nuovamente verso il genitore, quello era scomparso in
un
battito di ciglia,
esattamente come era arrivato.
Allora, corrugando appena la fronte, il giovane emise un sospiro e,
infine, si avventurò in casa
per cambiarsi in fretta, non volendo far aspettare Gerardo e Vittoria più del dovuto.
***
«Bartolomeo non vuole mai accompagnarmi a queste feste, ma io le trovo perfette per svagarsi!»
osservò
una saltellante Vittoria, di ritorno da uno scatenato Gioca
jouer3. «Per fortuna, posso contare su di voi!»
«Io ancora mi domando come tu riesca sempre ad estorcerci un
sì» borbottò, in risposta, Marcello, scrutando dubbioso la calca
di gente che si dimenava nel salotto dei Foscari, tramutato per
l’occasione in un’improvvisata discoteca, con tanto di
sfera specchiata che scendeva dal soffitto.
«Sai,
Marcellino, non credo che quell’espressione
da misantropo sia sufficiente a tenere alla larga le tue ammiratrici. In
realtà, il bel tenebroso è un tipo che piace molto»
gli rivelò allora l’altra, con una punta di malizia. Quando,
però, notò che l’amico aveva alzato gli
occhi al cielo, scoppiò a ridere così fragorosamente da
superare perfino la musica che risuonava a tutto volume per tutta la
stanza.
«Vittoria, non esagerare» la rimproverò
blandamente Gerardo, scuotendo la testa e facendola calmare un
po’.
«No,
no che parli pure! Anzi, perché non fai ridere anche noi e ci
racconti che cosa ci trovi di tanto divertente?»
l’apostrofò invece Marcello, stizzito, spostandosi con un gesto
nervoso
la frangia ribelle dalla
fronte, mentre osservava un manipolo di chioccianti ragazze ammassarsi davanti alla console del disc jockey. Il fatto che
Maria Luisa
potesse permettersi di assumere un dj famoso per animare la sua festa di
compleanno aveva fatto sì che fossero presenti non solo quasi
tutti gli invitati, ma anche una buona quantità di imbucati.
Altrimenti, Marcello non avrebbe potuto spiegarsi il numero
spropositato di ragazzi che in quel momento affollava la sala.
«È divertente la tua insofferenza per il fatto di essere
il ragazzo
più ammirato della festa!» gli spiegò
l’amica, alzando la voce per farsi sentire e riscuotendolo da
suoi pensieri. Fu proprio allora che, con suo grande disappunto, lui
notò che parecchie giovani, molte delle quali note solo di vista
o addirittura perfette sconosciute, lo stavano guardando avidamente.
«Secondo me, aspettano solo che ne inviti una a ballare»
commentò Vittoria con un sorriso birichino, mentre prendeva da
un vassoio appoggiato sul tavolo dietro di lei un cocktail fruttato,
decorato con una fetta di arancia.
«Per me possono aspettare e sperare» decretò
Marcello, caustico, scrutando con un sopracciglio alzato il folto
gruppo
che, sotto le luci psichedeliche dei faretti, si era radunato al centro
del salotto per storpiare la coreografia di Thriller4. «Io odio tutto questo».
«Non sei l’unico» gli fece eco Gerardo,
solidale, prendendo
una tartina
con salsa rosa, insalata e gamberetti da un piatto poggiato sul
mobile vicino,
ispezionandola accuratamente prima di mangiarla.
Di
fronte a quelle due facce sconsolate, Vittoria scosse la testa con un sorriso e si
avvicinò a Marcello, proponendogli scherzosamente: «Se
non ti piace questa musica, potresti invitare una delle tue ammiratrici
a ballare come ha fatto Alexandre Sterling con Sophie
Marceau».
«Siamo
un po’ grandicelli per imitare Il tempo delle mele5,
non trovi?» grugnì lui in risposta, senza quasi farla finire prima di parlare.
Infatti, non si era dimenticato di quando l’amica aveva letteralmente
trascinato lui
e Gerardo al cinema per vedere quella pellicola che, per giunta, non
gli era piaciuta per
niente, costringendolo a quasi due ore di lotta incessante contro la
noia ed il sonno. Già tollerava a stento i film francesi,
figuriamoci quelli
sui primi amori e le volubilità dell’adolescenza,
argomenti troppo distanti da lui per poterlo interessare.
A
quel punto, non avendo ancora ricevuto soddisfazione,
Vittoria si voltò verso l’altro ragazzo e, dopo averlo
squadrato con attenzione, lo incalzò: «Su,
Gerardo, perché non inviti anche tu una ragazza a ballare?»
Immediatamente, quello trasalì e la fissò a bocca aperta.
«Vitto’, lo
sai che sono del tutto incapace nel ballo» farfugliò, intimidito. «E
poi, non ho lo stesso fascino di Marcello, perciò dubito che
qualcuna accetterebbe».
«Secondo me, invece, qualcuna lo farebbe. E al
volo!» replicò invece lei, con sorprendente
rapidità, indirizzandogli attraverso il bicchiere ormai quasi
vuoto un’occhiata così ambigua che stupì non poco
Marcello.
Purtroppo,
in quel frangente, sopraggiunse tra di loro la festeggiata.
«Ciao,
Vittoria! Ciao, Marcello!»
li salutò Maria Luisa, gaia, agitando freneticamente la mano
come se i due fossero lontani almeno una ventina di metri e non soltanto due
passi da lei. Nel
complesso, era una ragazza dai lineamenti graziosi, con i capelli
castani cotonati e un abitino a palloncino giallo limone con degli
inserti neri che, però, secondo Marcello, la faceva assomigliare ad
un’ape in formato gigante. Inoltre, aveva le guance parecchio
rosse e gli occhi lucidi, anche se il giovane non sapeva se era per il ballo oppure per qualche bicchiere di sangria di troppo,
poiché, in quel caso, non sarebbe certo stata la prima volta che
eccedeva con gli alcolici.
«Ciao, Maria Luisa. Come stai?» si intromise Gerardo, con
un tono tra il risentito e l’amareggiato per essere stato
completamente ignorato. Subito, l’altra si voltò verso di
lui e sbatté un paio di volte gli occhi, guardandolo trasecolata.
«Oh, ciao, Gerardo. Ci sei anche tu?» domandò, atteggiando le labbra ad una smorfia stupita.
«Be’, sì, mi hai invitato...» tentò di
spiegarle debolmente il giovane, ma poi si zittì, deglutendo un
paio di volte a vuoto.
Indignato per il suo comportamento, Marcello stava quasi per dire alla ragazza che era solo merito dell’altro se, alla
fine, aveva deciso di accompagnare Vittoria e partecipare a quella stupida festa, quando
intercettò uno sguardo ironico dell’amica a Gerardo, poco prima
che prendesse lei le redini del discorso.
«Carissima, hai
trascorso bene le vacanze a Montecarlo?»
chiese, infatti, subito dopo, stiracchiando le labbra in un sorriso che aveva qualcosa di artefatto.
«Mais oui!» rispose
prontamente Maria Luisa,
contenta che qualcuno le chiedesse del suo recente
viaggio. «Sono
stata ospite di Adèle, una mia lontana cugina. Sapete, quella
che ha sposato l’imprenditore veneziano Antonio Della
Valle...»
Interdetto dallo strano comportamento di Vittoria e dispiaciuto per
l’espressione afflitta di Gerardo, Marcello smise di ascoltare il
martellante e vanesio cicaleccio della festeggiata e squadrò
entrambi i suoi migliori amici con la fronte appena aggrottata,
desideroso di trovarsi quanto prima a tu per tu con loro per
capire cosa stesse succedendo.
«...hanno appena avuto il loro secondo bambino e dovreste
proprio vedere che amore è il piccolo Andrea... Per non parlare
poi del primogenito! Adriano è davvero un enfant prodige,
a soli tre anni riesce già a fare trucchi con le carte come un
vero prestigiatore!» stava continuando a dire quella, senza
accorgersi che i tre erano immersi nei propri pensieri. Quando se ne rese
conto, assunse
immediatamente un’espressione indispettita e si rivolse
direttamente a Marcello: «Perché non mi stai
ascoltando? Sei molto carino, ma in questo momento ti stai comportando
un po’ da maleducato».
Riscosso da quelle parole brusche, il ragazzo
spostò subito la sua attenzione sulla giovane e, dopo aver notato il suo
broncio da bambina capricciosa e le guance ancora più rosse, non
ebbe più alcun dubbio che fosse un po’ brilla.
«Mi dispiace, temo di essere un po’ stanco» si
scusò sbrigativamente, sperando che fosse sufficiente a
liberarsi di lei. Tuttavia, fu tutto vano, perché Maria
Luisa si avvicinò rapidamente a lui e lo prese per il braccio.
«Visto che è il mio compleanno, per farti perdonare,
dovrai passare un po’ di tempo con me!» decise, animata da
un febbrile entusiasmo.
Poi, senza che l’altro avesse avuto il tempo di replicare o di
capire cosa stesse succedendo, sotto lo sguardo stupefatto dei suoi amici,
venne trascinato via dalla giovane con una forza sorprendente.
E, mentre la canzone in sala passava da The Final
Countdown a I
want to brek free6, Marcello
si voltò verso i due per chiedere loro silenziosamente di
aspettarlo finché non si fosse liberato, ma ciò non fu
possibile, poiché l’ultima cosa che vide prima di essere
catapultato sulla terrazza lo lasciò sgomento: Gerardo e Vittoria
avevano cominciato a discutere.
***
Nonostante la compagnia non fosse delle migliori,
Marcello si ritrovò a ringraziare per il cambio di scenario: anche se la terrazza era discretamente affollata,
dopo tutto quel tempo passato nell’atmosfera soffocante della sala, con la musica ad
altissimo volume, trovò estremamente piacevole respirare l’aria
della sera autunnale, così fresca e aromatica.
«Credo che ci vorrà un po’ per cercare un posticino
tranquillo per noi» ridacchiò Maria Luisa, senza lasciare
la presa sul suo braccio, facendo cenno alle numerose persone intorno a loro. A
quell’affermazione, il giovane aggrottò appena la fronte,
preoccupato per le intenzioni della ragazza, visto
che lui non aveva alcuna voglia di restare solo con lei, anzi, desiderava
solo tornare dai suoi amici il prima possibile. Infatti, voleva
assolutamente capire cosa fosse successo tra Gerardo
e Vittoria, poiché, se da una parte era vero che, in passato,
era già capitato che litigassero, avendo caratteri
diametralmente opposti, dall’altra, quella volta gli
erano piuttosto oscure le dinamiche con le quali era iniziato il tutto.
Poco dopo i due
ragazzi raggiunsero l’angolo più buio della terrazza,
illuminato solo dalla tenue luce dei lampioni del giardino sottostante.
Distrattamente, Marcello buttò uno sguardo oltre il parapetto,
ma quando scorse tra i cespugli il suo storico rivale
Ascanio Colonna, molto indaffarato a palpeggiare una
procace biondina, si pentì amaramente di
averlo fatto e, disturbato da quella visione, si ritrasse immediatamente.
«Che cosa te ne pare? Non è meraviglioso qui...?» languì Maria Luisa, richiamando la sua attenzione.
Subito, il giovane si voltò verso di lei e notò che gli stava rivolgendo un’occhiata incantata.
«Mmh, sì» bofonchiò, laconico, pensando a quale potesse essere il modo più rapido
per defilarsi da quella scomoda situazione.
La
ragazza, però, non sembrò curarsi della sua scarsa
partecipazione e continuò a parlargli come se niente fosse: «Ho saputo che partecipi ad
incontri amatoriali di
pugilato, vincendo spesso. Posso venire a vederti? Mi piacerebbe tanto
fare il tifo per te!»
Sbattendo le palpebre, l’altro notò che, parola dopo parola, quella si era fatta davvero
troppo vicina per i suoi gusti e che, per sua sfortuna, da ubriaca era
ancora più loquace del solito.
«A dire il vero, ultimamente non sto partecipando
più. E, comunque, sono sempre incontri a porte chiuse, mi
spiace» le spiegò, indietreggiando appena, sperando che quella
smettesse di protendersi verso di lui, invadendo il suo spazio
personale. Non aveva davvero nulla contro di lei. Semplicemente, non era il suo tipo.
«Oh, che peccato...» mugugnò la ragazza, guardandolo imbronciata.
«Eh, già» borbottò
lui in risposta, trattenendosi a stento dallo scuotere la testa davanti
a quel comportamento così infantile, consapevole che non fosse del tutto dovuto all’alcool.
Per qualche istante, nessuno dei due disse nulla, lasciando che in
sottofondo si sentissero solo le risatine della biondina, provenienti dal rododendro che si trovava esattamente sotto di loro.
«Che cosa ne dici, rientriamo?» propose allora Marcello,
irrequieto, discostandosi di qualche passo dal parapetto.
«Rientrare? Ma siamo appena arrivati!» protestò
lei, lamentosa, quasi arrivando a battere i piedi per terra.
«Se proprio vuoi rientrare, devi prima invitarmi a ballare! E
poi, secondo me, Marcello, tu non sai goderti le gioie della vita e
lavori troppo, sai? Ascanio fa il tuo stesso lavoro,
ma è sempre in giro».
A quell’ultimo commento, il giovane la guardò con ironia,
astenendosi dal dire ciò che pensava sul rivale solo
perché sapeva che sarebbe stato del tutto
inutile, visto che il giorno dopo la ragazza non avrebbe ricordato un
bel niente della loro conversazione. Anche se, conoscendo il
soggetto, non sarebbe comunque cambiato nulla se l’avesse fatto.
«Grazie per il
regalo di compleanno. Ancora non l’ho scartato, ma sono certa
sarà bellissimo» mormorò poi la ragazza, tutto a un
tratto di nuovo sorridente, cambiando repentinamente argomento e
ricominciando ad avvicinarsi.
«Ah, per quello devi ringraziare Vittoria, l’ha scelto lei».
«Davvero?» domandò, così sorpresa che il
giovane si chiese se l’altra ricordasse di chi stesse parlando.
«Be’, se le cose stanno così... penso proprio che tu
dovresti farmi un altro regalo più... personale» aggiunse, fissando le labbra di lui con inopportuna insistenza.
Avvertendo un brivido gelido corrergli lungo la schiena, Marcello
arretrò di qualche passo per
sottrarsi a quel bacio non richiesto e, soprattutto, non voluto,
addossandosi alla balaustra e bloccandosi ogni via di fuga. Per
sua fortuna, Maria Luisa smise improvvisamente di avvicinarsi, scrutandolo
accigliata.
«Ti vedo teso,
forse hai bisogno anche tu di un cocktail per scioglierti un
po’!» gli propose, di punto in bianco, un sorriso ad
illuminarle il volto. «Aspettami qui, non ti allontanare! Ti
porterò la
specialità della serata, un delizioso mix tropicale a base di
Curaçao che ho preparato io
stessa... cioè, in realtà l’ha creato il barman,
ma sono stata io a suggerirgli gli ingredienti!» aggiunse, in un
fiume straripante di parole, mentre si affrettava a tornare dentro
senza perderlo di vista, per assicurarsi che non si muovesse.
Tuttavia, non appena fu sparita dalla sua visuale, il
giovane si lanciò in direzione del salotto, ringraziando la sua
buona stella, o chi per lei, per avergli servito su un piatto
d’argento l’occasione di scappare a gambe levate da
quell’incontro troppo ravvicinato.
Una volta tornato dentro, Marcello prese la direzione opposta a quella
di Maria Luisa, dirigendosi a passo sostenuto verso il salotto in cui aveva lasciato Gerardo
e Vittoria, con la seria intenzione di esortarli ad andare via
immediatamente. Di tanto in tanto, si guardava furtivamente alle spalle
per
essere sicuro che la festeggiata, dopo aver recuperato il tanto
decantato cocktail, non lo avesse intercettato e fosse decisa a venire
a riprenderselo, per obbligarlo a
tracannare qualcosa con un tasso alcolico pericolosamente alto.
Immerso nei suoi pensieri, Marcello
non si rese nemmeno conto di essere sulla strada di un altro fuggitivo,
finendo per scontrarsi con il nuovo arrivato e, per l’urto,
ritrovarsi a terra dolorante, con il
suo compagno di sventure tra le braccia.
«Ma che cos...»
bofonchiò, interrompendosi nello stesso momento in cui
venne avvolto da un fresco profumo di lavanda ed incrociò due
incantevoli iridi color
zaffiro.
«Oh,
mi scusi
davvero, non l’avevo
proprio vista!»
esalò, mortificata, la ragazza. Sembrava piuttosto accaldata, i
capelli di un intenso rosso-rame raccolti nei resti di una coda alta
ormai sfatta e la scollatura del suo abitino violaceo che aveva ceduto in più punti, come se fosse stata
tirata con violenza. Anche una manichetta le ricadeva sbrindellata su una
spalla, mostrando la pelle chiara e liscia.
Marcello, prima di riacquistare l’uso
della parola, deglutì a vuoto un paio di volte.
«Stai... stai bene?» le chiese alla fine, osservandola attentamente: dall’aspetto, non doveva arrivare nemmeno
ai vent’anni. Chissà come era finita tra gli invitati, di qualche anno più vecchi.
«Io... io credo... di sì» gli
rispose quella, scrutandolo a sua volta e arrossendo leggermente.
Trascorse qualche secondo in cui nessuno dei due parlò,
poi, all’improvviso, come se si fosse resa conto di essere ancora tra le braccia di lui, la fanciulla sobbalzò, esclamando: «Oh,
mi scusi, mi sposto subito!»
A quel punto, fece per rimettersi in piedi, ma il ragazzo scosse la testa: «Aspetta, ti aiuto io».
Quindi, si alzò per primo per poi tenderle una mano per agevolarla nel fare altrettanto.
«Mi deve credere, non l’ho fatto apposta...» riprese l’altra, scusandosi ancora, mentre lanciava un’occhiata
nervosa dietro di sé, come se temesse anche lei di essere inseguita.
«Non
importa»
affermò Marcello, scrollando le spalle, incuriosito,
però, da quell’atteggiamento che sentiva affine al
suo. «Ciò
che conta è che non ti sia fatta male».
«No, affatto. Lei, piuttosto?»
domandò, allora, la sua interlocutrice, tornando a guardarlo.
In
risposta, il giovane ricambiò l’occhiata ed
inarcò un sopracciglio, chiedendosi come dovesse apparire agli
occhi di quella ragazzina, vista l’insistenza con cui gli stava
dando del lei. Vittoria, infatti, gli ripeteva in continuazione che il suo
mantenersi continuamente sulle sue, soprattutto nei confronti degli
sconosciuti, lo faceva sembrare troppo austero.
«Non
ti preoccupare, va tutto bene» le disse, lentamente, mettendo da
parte per un attimo le considerazioni della sua amica. «E,
comunque, anche se sono più grande di te, non sono così
vecchio... dammi pure del tu».
Quella proposta dovette piacerle molto, poiché l’altra
piegò le labbra in un piccolo sorriso e fece per aggiungere
qualcosa, quando fu interrotta da una voce cavernosa e così possente
che sembrò riscuotere perfino le pareti.
«Beatrice,
ecco dov’eri finita! Torna subito qui!»
«Oh,
no!» gemette la giovane, portandosi una mano alla
bocca, inorridita. Poi, si voltò e, non appena vide chi si
stava
avvicinando, sbiancò all’istante.
Sorpreso
dalla sua reazione, Marcello spostò a sua volta lo sguardo in
quella direzione e rimase ancor più stupito quando si accorse l’uomo
che la stava chiamando a gran voce era una sua vecchia conoscenza, un
delinquente che aveva sperato di raggirare lui e Gerardo per ottenere un
finanziamento per quella che si era rivelata una spedizione illegale di
armi in Unione Sovietica.
Se, in un’occasione simile, la presenza di quella ragazza era
alquanto bizzarra, la comparsa di quel trafficante d’armi era
semplicemente assurda.
Conrado de Navarra era un omone alto e massiccio sulla quarantina, provvisto di una folta barba scura, occhietti
porcini profondamente incavati e, a giudicare dal volto fortemente
segnato da rughe di espressione,
in quel momento doveva essere molto adirato.
Con andatura barcollante, infatti, lo vide avanzare in direzione della giovane e piantarsi davanti a lei, per poi afferrarle con violenza un polso.
«Ti
avevo detto di non allontanarti troppo!»
sbraitò, strattonandola, senza rendersi minimamente conto della presenza Marcello, il quale, avvertendo il forte e fetido tanfo d’alcool che emanava, ricacciò indietro un conato di vomito. Possibile che a quella festa fossero tutti ubriachi?
Nel
frattempo, la ragazza stava cercando con tutte le sue forze di
opporre resistenza ai tentativi dell’uomo di portarla via.
«Tu
non po’ comandarmi. Non hai
alcun
diritto su di me!»
esclamò, cercando di divincolarsi.
«Ufficialmente ancora no, ma di fatto sei
già mia. Perciò adesso smettila di fare i
capricci e vieni con me, dulzura!»
«Ho
detto che
non voglio!»
Non sopportando i soprusi e disgustato dagli atteggiamenti
indecenti e cavernicoli di quell’essere,
Marcello, a quel punto, si sentì in dovere di intervenire.
«Sei
tornato in città per portare guai, Navarra?» gli chiese,
beffardo, augurandosi che, dopo aver saputo che lo spagnolo era
di nuovo in circolazione, la Polizia trovasse finalmente qualche motivo
per arrestarlo. Purtroppo, finora quel maledetto era sempre riuscito a cavarsela.
Frastornato, quello
si voltò verso di lui, lanciandogli uno sguardo offuscato da
tutti gli alcolici che gli stavano circolando in corpo. Quando poi,
infine, lo riconobbe, sul suo volto comparve un’espressione
beota, presto sostituita da un sogghigno ferino.
«Sono tornato per finire ciò che avevo lasciato in sospeso, Tornatore. E, questa volta, non mi metterai i bastoni tra le ruote».
«Stasera non hai nessuno dei tuoi loschi affari da portare a
termine?» ribatté, però, il giovane, per nulla intimidito dalle sue minacce. «Oppure sei andato in
bianco e cerchi di rifarti allungando le mani sulle ragazzine?»
Inaspettatamente, Navarra scoppiò a ridere in un modo così orribile da far venire la pelle d’oca.
«Hai messo anche tu gli occhi su questa
bellezza? Spiacente, arrivi tardi, è già
impegnata con
me».
Udendo quelle parole, la fanciulla sgranò gli occhi e sul suo viso comparve un’autentica
smorfia d’orrore.
«Sul serio? E lei lo sa?» replicò Marcello, con un sorrisetto di scherno. In quel momento, gli parve di rivivere una delle scene di Ritorno al futuro7,
un film decisamente più interessante di quelli che lo obbligava
a vedere Vittoria. Solo che non si trovavano nel parcheggio della
scuola per il ballo di fine anno e Navarra non stava tentando di
abusare della ragazza. Anche se non ci mancava molto, in effetti.
«Fatti
gli affari tuoi! Questa è roba mia!» gli
latrò
addosso lo spagnolo, digrignando i denti. Poi, tirando la sua vittima per un polso, le urlò: «Ora basta,
Beatrice, tu verrai con me!»
«Lei, con te, non va proprio da nessuna parte!» si oppose
ancora una volta il ragazzo, piantandosi con spavalderia davanti a lui.
Inferocito, l’uomo prese lo slancio per attaccarlo, ma, invece, cadde come
un sacco di patate, giacché non si era accorto che nel frattempo Marcello gli
aveva fatto
lo sgambetto. Fortunatamente, prima aveva lasciato andare
Beatrice, che subito si mise
da
parte, per non finire schiacciata dalla mole ingente di
quel troglodita.
A quel punto, quello
si rialzò a fatica, sbuffando come un toro e riservando a Marcello un’occhiata infuriata.
«Tornatore,
hai appena firmato la tua condanna a morte!»
ululò Conrado, facendo per tirargli un pugno, ma l’altro,
che al contrario del suo avversario aveva alle spalle ore e ore di
allenamenti in palestra, mandò il colpo a vuoto. Con i riflessi intontiti dall’alcool, l’energumeno inciampò nei suoi stessi piedi, perse l’equilibrio e cadde a terra con un tonfo; da lì in poi, non si mosse più.
Per qualche secondo, il giovane contemplò la carcassa dello spagnolo e scosse la testa.
«La forza bruta è inutile, se non c’è nessuna
tecnica» commentò, citando il signor Nardone, l’ex
pugile che si occupava della sua preparazione atletica. Poi, si
rivolse alla fanciulla, la quale era rimasta
letteralmente a bocca aperta di fronte a ciò cui aveva
appena assistito, chiedendole: «Ti chiami Beatrice, giusto?»
«S-Sì»
balbettò lei, timidamente. «E tu sei...?»
«Marcello
Tornatore»
rispose il ragazzo, senza tante cerimonie.
«Grazie
per l’avermi liberata dal mio... corteggiatore
troppo
insistente. Sembra che
non voglia capire
che non
provo alcun
interesse per lui» rispose lei, lasciandosi andare ad un sospiro liberatorio.
«Figurati.
Anche perché, a dire il vero, non ho fatto molto» si
schermì lui, consapevole di essere stato agevolato dal fatto che
l’altro fosse decisamente alticcio. «Non penso si
risveglierà tanto presto, ma comunque penso sia meglio se
andiamo via, che cosa ne dici?» le propose, quindi, indicandole
con un braccio il corridoio che portava al salone principale.
Sorridendo, Beatrice annuì, mentre lui le faceva strada.
«Come sei finita tra le grinfie di Navarra?»
le
chiese poco dopo Marcello, ancora schifato da ciò che era successo. Infatti, nonostante il giovane sapesse che quello
era dedito ai peggiori vizi - vino, gioco d’azzardo e,
soprattutto, donne - non avrebbe mai creduto che potesse spingersi ad importunare una ragazzina che doveva avere meno della
metà dei suoi anni. Era qualcosa di rivoltante anche solo a pensarlo.
«Diciamo che... conosce i’ mi’ fratello»
rispose lei, improvvisamente incupita.
«C’è anche lui stasera?»
«Sì, la stupida idea di imbucarsi qui l’è stata sua. E non le sopporto le feste con così tanta gente»
borbottò Beatrice, sconsolata, scuotendo la testa e assumendo
un’espressione così buffa che Marcello non riuscì a
trattenersi dallo scoppiare a ridere.
«Cos’ho detto di tanto strano?» gli domandò subito la ragazza, osservandolo stupita.
«Niente. È solo che non sei l’unica a cui non
piacciono» le spiegò, allora, lui, sentendosi non
più tanto
solo e accorgendosi, per la prima
volta da quando aveva lasciato Villa Aurelia, di aver ritrovato un
po’ di buonumore. «Dai,
andiamo, ti aiuto a ritrovare tuo fratello» aggiunse poi,
invitandola a continuare a seguirlo.
«Tuo
fratello è... Guido Tolomei?»
chiese
Marcello,
incredulo, non appena ebbero varcato la soglia del salotto più
piccolo. «Quello
che, dopo quarant’anni di
Repubblica, si vanta ancora di essere un conte solo per
rimorchiare?» insistette, faticando ad accettare che il giovane impegnato in una conversazione decisamente non verbale con una disinvolta moretta fosse il fratello di Beatrice. Anche fisicamente, sembravano diversi come il giorno e la notte.
«Purtroppo
sì» commentò lei, con un misto di imbarazzo e
rassegnazione, indirizzando un’occhiata risentita ai due, strettamente avvinghiati su uno dei divani. «Lo conosci, per caso?»
«Per sentito dire» replicò il ragazzo, tagliando
corto, risoluto a non rivelarle i commenti decisamente poco
lusinghieri che aveva fatto su di lui Vittoria, l’unica di loro
tre ad essere aggiornata su tutto ciò che riguardava la vita
mondana.
«Son proprio stata una sciocca a credergli!» sbottò Beatrice, furente. «E dire che m’aveva promesso che lasciando Firenze avrebbe lasciato lì anche le cattive abitudini».
«Sei fiorentina?» le domandò, allora, il giovane,
facendole segno di spostarsi in una delle nicchie presenti nella stanza per
poter continuare a parlare senza essere di intralcio alle persone che
entravano e uscivano.
«Sì. Non te n’eri già accorto?»
«Avevo capito solo che sei toscana. Purtroppo, non
sono
così esperto da saper distinguere i vari accenti» le confessò, inclinando appena la testa da una parte.
Allora, lei gli concesse un piccolo sorriso, prima di tornare a
guardare in direzione del fratello, facendosi di nuovo triste. Nel
vederla così abbattuta, con indosso quegli abiti stracciati che
lei, nei limiti del possibile, si era risistemata addosso con grande
dignità prima di rientrare, Marcello si intenerì non poco. In fondo, come
lui, anche Beatrice si era ritrovata a prendere parte a quella festa
suo malgrado, senza contare che lei era stata anche vittima di Navarra
e del menefreghismo di quell’idiota di Guido.
«Vuoi tornare a casa?» le chiese, di punto in bianco, con una punta di dolcezza nella voce.
A quella richiesta, alzò immediatamente la testa
verso di lui, un mesto scintillio ad illuminare i suoi occhi blu.
«Sinceramente? Sì».
«Abiti qui vicino?»
«Abbastanza. Purtroppo, ancora non conosco bene Roma, ma non ci si è messo molto a venire» gli spiegò Beatrice, tirandosi nervosamente una ciocca di capelli. «La mia zia abita in Via Merulana, son sua
ospite».
Increspando appena le labbra, Marcello visualizzò il percorso
che avrebbe dovuto fare per raggiungere quell’indirizzo,
convenendo che, effettivamente, non ci avrebbero impiegato più di un quarto d’ora. Il vantaggio
dell’usare i mezzi o andare a piedi risiedeva soprattutto nel
conoscere viuzze e scorciatoie che, alla necessità, potevano
rivelarsi molto comode; tuttavia, sapeva che, prima o poi, avrebbe
dovuto comprare anche lui un’auto e smettere così di
chiedere in prestito quella di suo padre o di approfittare dei passaggi
di Gerardo. Persino Vittoria, anche lei fedelissima al
servizio pubblico, era arrivata alla sua stessa conclusione e
aveva cominciato a fare il giro delle concessionarie.
«Se ti va, posso accompagnarti» le propose con naturalezza, ridestandosi
dai suoi pensieri. «Prima che ci... incontrassimo, avevo già una mezza idea di andare via».
«Lo faresti davvero?» le domandò lei, meravigliata.
Annuendo, il giovane si sentì in dovere di precisare: «Solo... ti avviso che siamo a
piedi, poiché sono venuto con due miei amici».
«Non fa niente, a me piacciono le passeggiate»
ribatté la ragazza, scuotendo la testa e facendo ondeggiare le
sue ciocche ramate. «Ma tu come farai a tornare a casa
tua?»
«Non è troppo tardi, la Metro A è ancora aperta, posso prenderla a San
Giovanni e scendere a Flaminio» le rispose Marcello, con
semplicità. «Da lì troverò un bus notturno.
L’ho fatto spesso, sono abituato».
Tradendo una certa sorpresa, Beatrice gli scoccò
un’occhiata di curiosità ed interesse:
«Se’ sempre così organizzato?» s’informò.
«Più o meno» considerò il giovane, con una
rapida scrollata di spalle, mentre pensava che non sarebbe stato
educato presentarsi da Gerardo e chiedergli di dare un passaggio ad una
giovane appena conosciuta.
«Prima di andare, però, devo informare i miei amici».
«Certamente» rispose lei, annuendo con un rapido cenno del capo. «A dire il vero, anch’io devo avvisare quello sconsiderato... sempre che riesca a capire quello che gli dirò...» aggiunse, affranta.
A metà tra l’intenerito e il dispiaciuto per la sua
situazione, Marcello si soffermò a guardarla per un istante,
prima di preoccuparsi di ricordarle: «Prendi anche la tua
giacca, così poi potremmo andare via subito».
Non appena lui ebbe finito di pronunciare quelle parole, lei corrugò la fronte.
«Ah, be’, ecco, a dire il vero... non ce
l’ho» balbettò, mentre le sue guance si colorivano di
un
lieve rossore. «Temo che sarò costretta ad andare in giro
così» concluse, indicandosi. Quindi, abbassò lo
sguardo sul suo vestito e, rabbrividendo per lo stato
pietoso in cui si trovava, osservò: «Per fortuna, l’è buio».
Davanti alla sua stoica accettazione, Marcello si trovò inconsapevolmente a sorridere e la rassicurò: «Non ce ne è bisogno. Ti presterò la mia».
Procedendo con cautela, sempre attento a verificare prima di ogni passo
che Maria Luisa non fosse nei paraggi per riacciuffarlo, il
ragazzo riuscì finalmente a tornare nel salotto, ma ciò
che trovò ad accoglierlo cancellò un po’ della
serenità che aveva ritrovato grazie a Beatrice. Infatti,
afflosciato su uno dei divani e concentrato nel fare a pezzi con
inquietante minuzia un ombrellino per cocktail, completamente isolato dalla confusione intorno a lui, c’era Gerardo, terribilmente scuro in volto. Di Vittoria, invece, non sembrava esserci traccia.
«Dove...?» cominciò Marcello, interdetto, senza però riuscire a finire la frase.
«È andata via con Marta e Paolo» gli annunciò
l’altro, con una punta di irritazione, gettando in aria i resti
della carta e dello stuzzicadenti.
«E perché...?» domandò, allora, il ragazzo,
sempre più incredulo. Sapeva bene che Vittoria era una ragazza
permalosa, ma non avrebbe mai creduto che sarebbe mai stata capace di
lasciare una festa, dopo che aveva tanto insistito per andarci.
«Abbiamo... discusso in maniera abbastanza accesa, dopo che tu
sei andato via con Maria Luisa» fece Gerardo, sbrigativo, alzandosi. C’era qualcosa nella sua espressione
risentita che, per un secondo, fece credere a Marcello che quello potesse
avercela con lui.
«Per quale ragione?» si arrischiò a chiedere, stentando a riconoscere il suo amico.
«Ad essere sincero, per una scemenza. Niente che valga la pena
raccontare» minimizzò lui, sollevando un braccio con uno
scatto nervoso che tradiva, invece, che le cose non stavano proprio
così. «Allora, andiamo via?» chiese poi, con tono
improvvisamente neutro.
Spiazzato da quell’atteggiamento, che l’altro assumeva solo
sul lavoro quando qualcuno cercava di imbrogliarli, Marcello
esitò prima di rivelargli: «Ecco, a dire il vero, ero
proprio venuto per dirvi che mi sono offerto per riaccompagnare a casa
una ragazza e...»
«Ah!» esclamò Gerardo, stupito, per poi aggiungere, acido: «Però,
è proprio vero che alle sorprese non c’è mai
fine!»
Domandandosi cosa si fossero detti di così terribile i due amici in sua assenza, da spingere Vittoria ad andarsene con
altri e Gerardo a diventare così pungente, il ragazzo
scrutò questi con una punta di scetticismo, non riconoscendo
come sua quella vena caustica che gli aveva appena mostrato. Doveva anche riconoscere, però, che, negli
ultimi tempi, quei due avevano cominciato a discutere troppo spesso e,
forse, era stata una grave mancanza da parte sua non interessarsi al vero motivo
di quegli screzi, etichettandoli come mero frutto della differenza
caratteriale fra i due. Tuttavia, non riusciva proprio a
capire cosa stesse cambiando tra di loro, dopo averne passate insieme
di tutti i colori.
«Gerardo, ti dispiace se...» iniziò il giovane, incerto.
«No, no, tranquillo» lo fermò
l’altro, scuotendo la testa. «In fondo, non posso certo
dare la colpa a te per i miei problemi».
Quelle parole, che sembravano estrapolate da un discorso molto
più ampio, colpirono molto Marcello, che si sentì ferito
da quella mancanza di fiducia. Dopo più di vent’anni di
solida amicizia, non credeva che si sarebbe mai trovato ad
affrontare un discorso simile con lui.
«Gerardo, se c’è qualcosa di cui vuoi
parlare...» riprovò. Inutilmente, visto che venne
stroncato per una seconda volta.
«No, no, sto bene, davvero» tagliò corto l’amico.
«Cioè, mi passerà. Come sempre».
Poi, senza nemmeno concedergli il tempo o il modo di riflettere
sul vero significato di ciò che gli aveva appena detto, Gerardo lo
salutò con un cenno del capo: «Allora, buonanotte,
Marcello. Ci vediamo lunedì».
L’espressione di pura tristezza che, però, comparve sul
suo volto mentre si avviava in direzione dell’ingresso, fu la
cosa che più rimase impressa a Marcello, il quale rimase
da solo in piedi in mezzo al salotto, la testa piena di dubbi.
***
Vista l’ora tarda, per strada Marcello e Beatrice non incontrarono
anima viva, eccezion fatta per un paio di Alfa 75 che viaggiavano pigre
per il centro cittadino.
Mentre camminavano fianco a fianco sul marciapiede, i due giovani
scambiarono ancora più di qualche parola ed il ragazzo
trovò molte conferme alla prima impressione che aveva avuto su
di lei:
nonostante
fosse di qualche anno più piccola di lui, avendone compiuti
diciotto appena quattro mesi prima, era indubbiamente molto
matura.
Gli aveva anche raccontato brevemente del suo recente trasferimento
nella
Capitale, lasciando trasparire una nostalgia di casa che contrastava
con la sua apparente sicurezza. In realtà, che
fosse orgogliosa l’aveva già intuito dal modo in cui aveva
affrontato Navarra, ma quel particolare servì a rafforzare
l’idea che se ne era fatto.
Era molto diversa dalle ragazze che aveva conosciuto fino ad allora,
questo doveva riconoscerglielo. Inoltre, parlare con lei fu una
piacevole distrazione dalle preoccupazioni per i suoi migliori
amici: per venire a capo del loro strano comportamento avrebbe fatto
meglio a parlare con loro separatamente, ma non sapeva se ciò
sarebbe stato sufficiente a convincerli a dirgli la verità,
poiché aveva il presentimento, o forse il timore, che gli
nascondessero entrambi qualcosa che non avevano nessuna intenzione di rivelare.
Quando arrivarono all’incirca a metà di Via Merulana, ad un incrocio tra questa ed una stradina
privata,
Marcello scorse una villetta fatiscente che si sviluppava su tre piani,
circondata da alti palazzi eleganti. La ragazza non
disse nulla e lui evitò qualsiasi commento, anche se si
augurò, per la sua stessa incolumità, che quella
catapecchia non crollasse da un momento all’altro come spesso
accadeva a vecchi edifici mai messi in sicurezza.
«Grazie d’avermi accompagnata»
sussurrò Beatrice, una volta che furono davanti al cancello
cadente e male illuminato da un lampione, facendo per
togliersi la giacca e
restituirgliela. Tuttavia, Marcello la fermò,
scuotendo vigorosamente la testa.
«No, tienila. Fa freddo» le consigliò, fermo.
«E quando potrò ridartela?» gli domandò, allora, l’altra, guardandolo perplessa.
Messo davanti a quella giustissima obiezione, il ragazzo la osservò
a sua volta, mentre prendeva coscienza del fatto che non
gli sarebbe affatto dispiaciuto rivederla.
«Be’, suppongo che potremmo metterci d’accordo per uno dei prossimi giorni» affermò, pratico.
Allora, Beatrice strinse le labbra con atteggiamento pensieroso, come se stesse valutando attentamente che risposta dargli.
«Ecco, Marcello, i’ mi’ insegnante privato è ammalato,
pare che
abbia un brutto raffreddore che
lo costringe
a stare a letto» esordì poi, incerta.
«Martedì prossimo saremmo dovuti andare a vedere
la basilica
di sant’Agostino, dov’è custodita la
Madonna dei Pellegrini di Caravaggio
e...»
«Ti piace il Merisi?»
«Conosci il vero nome di Caravaggio...?» fece lei, sinceramente meravigliata.
In risposta, Marcello annuì senza troppa enfasi, forse dando per
scontato qualcosa che, stando agli occhi scintillanti di Beatrice,
tanto ovvio non era.
Dopo quella breve interruzione, però, l’altra riprese,
dimostrando un certo entusiasmo: «Sai, mi stavo chiedendo se ti
piacerebbe accompagnarmi tu, dato che conosci molto bene
Roma. Ovviamente, solo se vuoi e non hai altri impegni per la giornata. Così,
potrò anche ridarti la giacca».
Gli aveva detto tutto senza quasi prendere fiato, continuando a guardarlo con attenzione, forse temendo di ricevere
una risposta negativa. Invece, a lui quella proposta piacque
subito, poiché, pensava
che, accompagnandola a visitare qualcosa che le
interessava, forse avrebbe sentito meno la mancanza di ciò che
aveva lasciato a Firenze.
«Hai detto martedì?» le chiese, ripassando a mente
tutti i suoi impegni e cercando di ricordare se quel giorno fosse
libero oppure no.
«Sì, martedì pomeriggio».
«Mmh, si potrebbe fare. Devo solo accordarmi con il mio socio per
organizzarci con il lavoro» commentò Marcello,
meditabondo. «Va bene per te se ci incontriamo direttamente
lì
fuori?»
Aprendosi in un gran sorriso riconoscente, la ragazza annuì, arrossendo appena.
«Certamente,
nessun problema. Cosa
ne dici
delle quattro e mezza?»
«D’accordo» le confermò lui, soddisfatto.
A quel punto, Beatrice tirò fuori le chiavi dalla micro-borsa
che portava a tracolla e, dopo qualche tentativo, riuscì a far scattare la serratura del cancello, che si
spalancò con un cigolio da perfetto film dell’orrore,
mostrando un giardino incolto e disseminato di rottami di ogni tipo. A
quella visione, il giovane alzò un sopracciglio e fu certo che
se Dario Argento si fosse trovato a passare da quelle parti, avrebbe potuto trarne qualche spunto interessante per i suoi film.
La ragazza, però, ignorando tutto il degrado che la circondava,
si voltò verso di lui un’ultima volta per chiudere il
battente che pendeva pericolosamente tutto da una parte e, con un dolce
sorriso, lo salutò: «Grazie ancora, Marcello. A presto, allora e buonanotte».
«Buonanotte, Beatrice» rispose lui, restando a guardarla
finché non risalì i pochi gradini che conducevano al
portone e venne inghiottita dal buio della casa.
Una volta rimasto solo, il giovane si avviò con tutta calma
verso la fermata della metro, assaporando la tranquillità
notturna e concedendosi del tempo di metabolizzare tutti gli
avvenimenti di quella bizzarra serata, dallo stravagante atteggiamento
di Vittoria e Gerardo, fino all’amarezza malcelata di lui, allo scontro con Navarra e l’incontro con
Beatrice. Se sua madre avesse saputo come era fuggito da
Maria Luisa per poi accompagnare a casa una
ragazzina sconosciuta, non sarebbe stata affatto contenta
di lui. D’altra parte, però, da quando lui aveva
memoria, la signora Claudia aveva sempre avuto da ridire su qualsiasi
sua decisione, pertanto, mentre scendeva i gradini della stazione di
San Giovanni, Marcello concordò con se stesso che, in fondo, il
problema non esisteva.
***
Per la revisione di questo
capitolo ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione e
disponibilità.
Come sempre la grafica del titolo non sarà
granché ma è opera mia.
Ringrazio anche Anto,
che ha letto molto di questo in anteprima e mi ha dato un parere.
***
[N.d.A]
1. What a... life:
sono versi tratti dalla canzone What
a feeling, facente parte della colonna sonora del film
“Flashdance” (1983);
2. Bambino
Gesù: è l’ospedale
pediatrico di Roma, disposto sotto la direzione e amministrazione della
Santa Sede;
3. Gioca jouer: ballo di gruppo portato al successo dal dj Claudio Cecchetto (1981);
3. Thriller:
singolo del 1983 di Micheal Jackson;
5. Alexandre
Sterling... Il tempo delle mele:
film francese del 1980 che narra una storia d’amore
tra due adolescenti. Vittoria e Marcello si riferiscono in particolare alla scena della
festa dove la
protagonista, interpretata da Sophie Marceau, incontra il suo primo
amore, interpretato da Alexandre Sterling, il quale le mette a sua
insaputa delle cuffie con la nota canzone
“Reality”, riuscendo
così a ballare con lei un lento, mentre gli altri invitati
si
scatenano intorno a loro;
6. The Final
Countdown... I want to break free:
la prima è un singolo degli Europe (febbraio 1986), la
seconda appartiene all’album “The
Works” (1984) dei Queen;
7. come... Ritorno
al futuro:
in effetti, nel film del 1985 (uscito in Italia il 18 Ottobre di
quell’anno), considerato un’icona degli Anni ‘80,
è
presente una scena con dinamiche simili tra il padre del protagonista da giovane, la
futura moglie e il bullo di turno. Originariamente, la citazione non
era voluta, tuttavia, quando mi sono resa conto della similitudine,
l’ho inserita nella riscrittura, poiché, essendo
il film degli anni in cui è ambientata la mia storia, mi
è sembrata molto adatta.
***
Ho
sentito l’esigenza di riscrivere i primi due capitoli
perché, essendo
scritti molto prima rispetto al resto, avevano uno
stile diverso e molte pecche a livello
di trama, sembrando l’incipit di una storia esclusivamente romantica.
Ribadisco, però, alcune premesse della versione originale,
per
chiunque si approcci per la prima volta a questo racconto: le lettere in corsivo nelle
battute di Beatrice stanno ad indicare l’accento
toscano (non parla propriamente il dialetto stretto, vedetela
più come una sorta di inflessione con la presenza, talvolta,
di
qualche intercalare dialettale) e sono
consapevole di aver messo più di un
cliché, ma è tutto voluto, visto che la trama segue lo stampo fiabesco.
Inoltre, se davvero pensate che in tempi
moderni (che
siano gli Anni ‘80 o i giorni nostri) non ci siano
più pressioni sociali/familiari riguardo il
fidanzamento/matrimonio, lasciatevi dire che non è sempre
così, purtroppo.
Grazie a tutti quelli che passeranno di qui, vecchi e nuovi lettori.
Halley
S.C.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo Secondo - Vento di Scoperte ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 2
-
Capitolo Secondo -
Vento
di Scoperte
Come
ogni mattina, dopo essersi vestita e aver preparato la colazione per
sé e per gli altri abitanti della casa, Beatrice si mise
davanti
al minuscolo specchio della sua stanzetta, per concedersi cinque minuti
solo per lei, dedicandosi ad un piccolo ma irrinunciabile rituale, che
le ricordava uno
dei rari momenti di
felicità
che aveva condiviso con sua madre Elena
finché era stata viva: spazzolarsi con cura i lunghi,
fulvi e ondulati capelli.
Negli ultimi tempi, però, aveva avuto sempre meno tempo a
disposizione per farlo, poiché, ogni giorno che passava, la
zia Assunta e la cugina Anna
Laura le assegnavano sempre più faccende
da sbrigare, con la scusa che lei e suo fratello erano ospiti a casa
loro e per questo andavano ripagate per la loro incredibile
generosità.
Per quanto potesse essere considerato generoso aver
relegato la ragazza
in una stanzetta che, fino a qualche mese prima, era stata una
stireria: piccola e angusta, fornita solo di un lettuccio, un
armadio fatiscente ed un tavolino tarlato posto
sotto ad una finestrella che dava ad ovest, garantendo un po’ di
luce solo nelle prime ore del pomeriggio.
L’unico
lusso concesso alla ragazza era stato il permesso di tenere con
sé
un paravento in seta persiana appartenuto alla bisnonna, ora chiuso e
addossato alla parete, e la
macchina per
cucire di sua madre, uno degli ultimi acquisti fatti prima che la
famiglia finisse in bancarotta e
fosse costretta a
chiedere asilo a parenti poco disposti ad offrirglielo.
Infatti, nonostante conoscesse bene l’indole meschina di sua
sorella Assunta, Lapo Tolomei aveva messo da parte l’orgoglio
e
l’aveva supplicata di accogliere in casa i suoi figli,
almeno finché non fosse riuscito a vendere tutte le
proprietà e ricavare il denaro necessario a
saldare i
debiti di gioco di Guido. La donna, vedova da lunga data, aveva
acconsentito malvolentieri, non tollerando né la condotta
dissoluta del nipote, né che Beatrice eclissasse la cugina
con
la
sua bellezza fresca e genuina.
Per diverso tempo, la ragazza aveva sperato che il babbo tornasse e li
riportasse a Firenze, nella loro bella casa nei pressi della chiesa di
Santa Maria del Fiore,
ma le cose non erano andate come avrebbe desiderato: il dispiacere d’aver
venduto la villetta all’Argentario e
la casa fiorentina, nella quale si era spenta sua moglie, avevano
dilaniato e consumato Lapo, tanto da portarlo alla morte senza nemmeno
avere occasione di vedere i suoi figli per l’ultima volta. E
così, nel giro di un mese, Beatrice si era ritrovata sola,
con un fratello
maggiore
pressoché assente ed una zia e una cugina che la odiavano e
la
rimproveravano per qualsiasi cosa.
Come se ciò non bastasse, avendo passato da un pezzo
l’età
dell’istruzione obbligatoria, le parenti le avevano
impedito persino di
andare a scuola, insistendo che
avrebbe potuto investire meglio il suo tempo nelle faccende domestiche.
Per fortuna della
giovane,
era però intervenuto il professor Rossiglione, amico di
vecchia data di suo padre, che si era offerto di
farle da insegnante
senza percepire nessun compenso, contando di portarla alla
maturità da privatista.
Improvvisamente, gli schiamazzi di Anna Laura che litigava con sua
madre - quel giorno, per sua sfortuna, si erano svegliate prima del
solito - provenienti
dal piano inferiore, riscossero Beatrice dai suoi pensieri,
ricordandole i suoi doveri di sguattera. Così,
dopo aver raccolto i suoi capelli in una treccia, si vestì e
si
affrettò
a
riordinare la sua stanza, lasciando che la brezza mattutina
rinfrescasse l’aria
di quel piccolo cubicolo. Fu indecisa se scendere o meno a preparare la
colazione a Guido, anche se poi decise di no: l’aveva
sentito distintamente rientrare intorno alle quattro del mattino,
ubriaco fradicio, che cantava una canzonaccia, pertanto fu certa che
quello stesse ancora dormendo come un sasso.
Mentre cercava di dare un aspetto dignitoso al suo letto sconquassato,
la ragazza sospirò: aveva sempre perdonato a suo fratello
qualunque guaio combinato, ma chiederle di scusarlo per aver
autorizzato quel viscido essere di Conrado de
Navarra a provarci con lei, per giunta in quel modo rozzo, era
decisamente troppo. Quando Guido le aveva ordinato di
essere carina con quel troglodita, Beatrice aveva pensato che
scherzasse, per poi ricredersi nello stesso momento in cui quello
aveva casualmente infilato le
sue
manacce nella scollatura e sotto la gonna. Al solo ricordo, le
salì un misto di rabbia e nausea che si accentuò
quando
lo sguardo le cadde sull’abito
lilla, adagiato sulla poltroncina e ormai era
completamente rovinato. E dire che ci aveva messo due mesi
per confezionarlo, non avendo così nemmeno il tempo per
cercare un modello per il cappotto nuovo, ed ora era da buttare!
Sbuffando, stava per uscire dalla stanza già preparandosi
mentalmente all’arringa che le avrebbe rivolto Anna Laura per
il
suo ritardo, quando
intravide il soprabito nero che sbucava dall’anta semiaperta
dell’armadio. Magari, se si fosse organizzata, avrebbe potuto
portarlo in lavanderia, così da restituirlo a Marcello
lavato e
stirato a dovere: era davvero il minimo dopo che lui era stato
così gentile con lei. Mentre imboccava le scale, al ricordo
del
misterioso, affascinante giovane che l’aveva aiutata e alla
prospettiva di un pomeriggio da passare insieme, un
sorriso le affiorò sulle labbra e
il suo malumore fu presto mitigato, dandole la forza necessaria ad
affrontare i due cerberi che l’aspettavano di sotto.
Non
appena Beatrice varcò la soglia della cucina, si
trovò
davanti Anna Laura che sorseggiava una mistura dall’odore
nauseabondo, sfogliando l’ultimo numero di una delle sue
riviste
scandalistiche preferite e segnando con una crocetta le foto di attori
e cantanti che avrebbe ritagliato in un secondo momento.
«Buongiorno
Anna Laura» la salutò, sforzandosi di non tapparsi
il naso
e chiedendosi chissà quale altro intruglio miracoloso avesse
comprato la cugina, che aveva una particolare tendenza ad abboccare a
qualsiasi televendita che promuoveva bizzarri prodotti che assicuravano
un fisico da top model. Non che fosse in carne, ma i promotori erano
così convincenti da essere certa che il suo corpo avrebbe
comunque ottenuto qualche beneficio. Fossero anche solo capelli
più splendenti e voluminosi, invece del suo ordinario
caschetto
opaco e floscio.
«Alla buon ora!» esordì quella, acida,
agitando
pericolosamente la mano che reggeva la tazza e aspergendo ancor di
più il tanfo in aria. «La contessina ha riposato
abbastanza?»
Beatrice si morse la lingua inghiottendo tutti gli improperi che stava
elaborando, visto che non aveva alcuna intenzione di farsi perforare i
timpani dagli strilli acuti della cugina, che, invece, si divertiva a
provocarla di proposito, tirando in ballo le sue lontane origini
nobiliari da parte di madre e contrapponendole alla condizione di
semi-schiavitù in cui era ridotta. Come se non fosse ovvio
che,
sotto sotto, Anna Laura avrebbe tanto voluto lei essere la figlia di
una qualche contessa. In fondo, anche se i titoli nobiliari non avevano
più alcun valore, avrebbe potuto comunque vantarsi e
sentirsi
superiore rispetto a tutte le sue amiche.
«Dov’è la zia?» chiese,
invece, la ragazza,
rendendosi conto solo in quel momento che non si era aggiunta nessuna
seconda voce ostile.
Dopo averle riservato un’occhiata di sufficienza,
l’altra
non si lasciò certo sfuggire l’occasione per darle
addosso
e le spiegò, perfida: «Aveva delle commissioni
urgenti da
fare ed è uscita. Quando torna dovrai sorbirti i suoi
rimproveri
per non averle fatto trovare la colazione pronta!»
«Ma un
vi siete alzate un po’ prestino, stamani? Poltrite sempre
fin’ alle dieci!»
borbottò Beatrice, non troppo forte perché la
sentisse,
ma abbastanza da concedersi un piccolo sfogo. Ripetere quelle parole
soltanto nella sua testa non le avrebbe dato la stessa soddisfazione.
Con la coda dell’occhio si assicurò che Anna Laura
avesse
ricominciato a leggere, smettendo quindi di infastidirla, e
cominciò a darsi da fare per preparare la spremuta per lei e
il
latte e cereali per sé. Tuttavia, la quiete durò
solo una
manciata di minuti, prima che la cugina riprendesse a punzecchiarla:
«Come è stata la festa di quell’oca di
Maria Luisa?
Non molto divertente, se sei tornata prima di tuo fratello... Credo di
aver fatto proprio bene a non voler venire».
«Guido
mi ci ha
trascinata. Lo sai che
non l’era
possibile dirgli di no» rispose Beatrice, dopo lunghi attimi
di silenzio, decisa a tagliare corto.
Anna Laura,
però, voleva sicuramente saperne di più,
poiché insistette: «È
stato quel maniaco di Navarra a strapparti il vestito?»
Stizzita, la ragazza smise di tagliare in due le arance e si
voltò quel tanto che bastava a lanciarle
un’occhiataccia,
certa che, al suo ritorno a casa, la cugina l’avesse spiata
prima
dalla finestra e poi dal corridoio, come faceva ogni volta.
«Secondo
te?»
le chiese, imprimendo in quelle due parole tutta la collera che
avvertì in quel momento e chiedendosi come si potesse essere
così perfidi da compiacersi delle disgrazie che da un anno
continuavano a caderle addosso, una dopo l’altra. Da brava
pettegola e abile spiona, anche Anna Laura era al corrente della corte,
autorizzata da Guido, che Navarra stava facendo a Beatrice. Sempre che
si potessero considerare tali le sconce e rozze attenzioni che lo
spagnolo le rivolgeva.
«Ho
solo tirato ad indovinare»
commentò l’altra,
con una pigra alzata di spalle e un ghigno che sottolineava tutto il
suo divertimento. «Però,
in qualche modo devei essertene liberata, visto che sei tornata con un
altro. Magari, è stato proprio lui ad aiutati con
Navarra».
Quell’osservazione così precisa lasciò
Beatrice
interdetta e le fece sospettare che, in realtà, alla festa
fosse
stato presente un qualche informatore fidato della cugina, ma le
bastò ascoltare ciò che quella aggiunse dopo per
dissipare ogni dubbio:
«Povera Bea, sei passata da quel cinghiale spagnolo ad un
pivellino sfigato...
dalla padella alla brace!»
Confusa,
la ragazza rimase a fissare a bocca aperta la cugina, che ricambiava
malignamente lo sguardo, non capendo dove volesse andare a parare.
Almeno finché il ricordo di Marcello non si
materializzò
nitidamente nella sua memoria.
«Veramente...» cominciò a dire, incerta,
prima di
venire zittita bruscamente da un gesto dall’altra.
«Solo
uno sfigato
non ha un’auto
per riaccompagnare a casa una ragazza» sentenziò
con sicurezza Anna
Laura, mostrandosi piuttosto compiaciuta di quella sua
personale convinzione. «Vi ho visto dalla finestra della
mia camera, siete tornati a piedi».
Tremando da capo a piedi per la rabbia e l’indignazione,
Beatrice
mise definitivamente da parte le arance si preparò ad
intimare
alla cugina di farsi gli affari suo, ma quella non glielo permise,
perché riattaccò con tono fastidiosamente
cantilenante: «Scommetto
che era pure acneico! Ah,
povera Bea che non ha mai fortuna con gli uomini, devi essere
davvero disperata per essergli corsa dietro. Speravi forse in un bacio
della buonanotte?»
«A
me non l’è
sembrato uno sfigato»
puntualizzò la ragazza, con uno scatto nervoso della testa. «È
stato molto gentile
ed educato. E poi, non
l’è
affatto acneico!»
L’altra, però, dovette trovare molto divertente la
sua
reazione, poiché scoppiò in una risata
così
fragorosa da scuoterla tutta.
«Ah, ah, ah! Sei davvero patetica!» la
schernì,
tamponandosi le lacrime con il dorso della mano. «Come puoi
credere che...»
«Non
son una bugiarda!»
la zittì Beatrice, il volto arrossato e le orecchie che le
ronzavano per la rabbia. «Marcello l’è
un gentiluomo
e anche un
bel giovane!
Lui l’è...
sul tu’ giornale?!»
Quella rivelazione stupì entrambe al punto che un verso
strozzato pose fine alla risata di Anna Laura e nella cucina
calò un silenzio di piombo.
«Che
cosa hai detto?» gracidò quest’ultima,
pallida e
sconvolta, spostando di continuo lo sguardo dalla cugina alla pagina
completamente crocettata. Tuttavia, Beatrice ammutolì,
troppo
turbata dalle foto del ragazzo che aveva notato solo allora: non
leggeva mai le riviste che circolavano in casa, pertanto ignorava sia
che
Marcello fosse così famoso. Per giunta, non avrebbe mai
creduto
che godesse di una tale popolarità da essere immortalato tra
gli
scatti di certi giornali. Chi era davvero, allora? Un attore di
fotoromanzi o
forse un cantante di una band emergente?
«Che stupidaggini ti stai inventando, piccola
stupida?»
Quell’insulto immeritato la riscosse immediatamente,
costringendola ad abbandonare le sue riflessioni per difendersi.
«Un
mi sto inventando nulla, l’è
tutto vero!»
«Smettila!» strillò Anna Laura,
zittendola
all’istante, gli occhi fuori dalle orbite e le guance, sempre
mortalmente pallide, tinte di una orribile sfumatura
violacea. «Sul serio speri che io creda che Marcello
Gentilini ti abbia riaccompagnata a casa?!»
«Sì,
perché
l’era
Marcello!» ribatté Beatrice, con tono ancor
più rabbioso. «Ieri ssera m’ha
detto lui stesso come
si chiamava!»
A quel punto, tacquero entrambe, squadrandosi in cagnesco.
«Tu vaneggi!»
decretò, infine, la cugina, alzandosi dalla sedia e
cominciando
a camminare su e giù per la stanza. Percorse
l’intero
perimetro almeno un paio di volte, gli occhi fissi sul pavimento
mormorando tra sé parole incomprensibili, per poi lanciarsi
in
un appassionato monologo: «Non è assolutamente
possibile che Gentilini si sia interessato ad una sciacquetta come te!
Tu non lo sai, ma è
uno dei più giovani e più scaltri imprenditori
della città,
schifosamente ricco e maledettamente bello. Forse si tratta dello
scapolo
più ambito di tutta Roma, quasi impossibile
da avvicinare, figurati parlargli!»
Fece una breve pausa per riprendere fiato e concluse con un misto di
abbattimento e irritazione: «Peccato che sia un gran misogino
e
guardi dall’alto in basso le donne come se fossero
spazzatura!
Frequenta solo quella gatta morta di Vittoria Farnese e davvero non so
cosa ci trovi in lei di tanto speciale...»
Da tutto quel fiume di parole che l’aveva investita, Beatrice
aveva capito due cose importanti: Marcello non era un personaggio dello
spettacolo, ma comunque un uomo di successo, e sua cugina Anna Laura
aveva un evidente debole per lui. Inoltre, il ritratto che aveva appena
sentito non coincideva affatto con l’impressione che le aveva
dato il ragazzo la sera precedente. Ciononostante, si guardò
bene dall’insistere, o peggio rivelare che aveva un
appuntamento
con lui in settimana.
«Be’,
direi che abbiamo chiarito la questione» commentò
improvvisamente Anna Laura, richiudendo le riviste e stringendosele al
petto. «Quando avrai finito, portami tutto di sopra, ho
deciso
che voglio fare colazione in camera!» annunciò
poi, con
uno sdegnoso cenno del capo.
In risposta, Beatrice si chiuse in un determinato mutismo e strinse
appena i pugni, ben consapevole che quel capriccio era la sua punizione
per aver detto una verità che la cugina non voleva
riconoscere.
Eppure, si ritrovò a riflettere qualche istante
più
tardi, forse era meglio non essere stata creduta, almeno nessuno le
avrebbe impedito di uscire quel martedì pomeriggio.
Improvvisamente, sentì crescere in lei una gran
curiosità
di capire davvero chi fosse Marcello, se il giovane buono e disponibile
che l’aveva aiutata o il freddo e distaccato uomo
d’affari
che aveva dipinto Anna Laura.
Mentre
tornava ad
occuparsi delle arance, recuperando il coltello che aveva lasciato
incuneato in una di esse, la ragazza rivolse distrattamente lo sguardo
oltre la porta della cucina, in direzione delle scale, dove
notò
una scena a metà tra l’esilarante e il grottesco:
sua
cugina intenta a sbaciucchiarsi avidamente un ritaglio di giornale.
Scuotendo la testa, Beatrice si rimese al lavoro, chiedendosi con un
sorrisetto chi tra le due fosse davvero la
più patetica.
***
Quando
Marcello richiuse le pagine del quotidiano, subito si
sollevò
l’odore familiare e pungente dell’inchiostro, che
costrinse
il giovane ad
arricciare le labbra in una smorfia di disgusto. Deluso
dall’assenza di una qualche notizia che annunciasse
l’arresto di Navarra, gettò il giornale sul
divano, il più lontano possibile da lui, per poi accomodarsi
sulla poltrona, con l’intenzione di dedicare due o tre ore al
libro che aveva lasciato in sospeso, circondato da file e file di
volumi che riempivano il rilassante silenzio della biblioteca. In
quel momento, dalla finestra appena
socchiusa, proveniva il melodioso cinguettio degli uccellini
appollaiati sugli alberi limitrofi e, di tanto in tanto, un piacevole
soffio del vento di inizio autunno.
Decisamente, era il suo nascondiglio preferito, una delle
poche
stanze in cui Tiberio, quando veniva a trovare i genitori, non riteneva
degna di essere ispezionata. Non appena il giovane aveva visto la
macchina del fratello parcheggiata nel piazzale, aveva deciso che
avrebbe trascorso il resto del pomeriggio lì dentro,
chiedendo
alla governante di non far entrare nessuno.
Tuttavia, Marcello ben presto dovette
cambiare i suoi programmi, poiché aveva appena appoggiato il
segnalibro sul tavolino, quando Vittoria e la sua esuberanza irruppero
nella stanza.
«Ciao, Marcellino!» esclamò, gaia,
facendo capolino dalla porta.
Non aspettandosi una sua visita così improvvisa, il ragazzo
sobbalzò e la fissò qualche secondo, prima di
borbottare:
«Meno male che avevo detto ad Ottavia di non voler essere
disturbato!»
«Sì, me l’ha detto»
lo rassicurò
lei, veleggiando verso di lui con un sorrisetto sornione, «ma
io
sono tua amica e per me certe regole non valgono, lo sai».
Istintivamente, Marcello alzò gli occhi al cielo, facendo
subito
scoppiare a ridere l’altra che, senza indugiare, si
accomodò sulla poltrona accanto. A quel punto, avendo
capito che i suoi programmi di lettura dovevano essere rinviati, il
ragazzo mise via il libro ed accavallò le gambe.
«Come mai sei venuta? C’è qualcosa che
non va, per
caso?» le chiese, non senza averla prima scrutata
attentamente.
Infatti, conosceva Vittoria da troppo tempo per non sospettare che,
dietro il suo avviso improvviso, si nascondesse qualcosa: fin da
bambina, non aveva mai esitato a correre da lui quando aveva un
problema.
«Be’, ecco...» iniziò lei,
incerta, diventando
improvvisamente triste. «A dire il vero, volevo scusarmi
con te per essere andata via dalla festa di Maria Luisa senza preavviso
e, soprattutto, senza averti salutato».
Perplesso, Marcello corrugò la fronte, stupito da
quell’aria fin troppo dimessa per una come Vittoria. In quel
momento, gli
tornò alla mente la breve discussione avuta con Gerardo e si
chiese se l’altra avesse già parlato con lui per
fare
pace.
«Non preoccuparti, non me la sono presa. Invece, credo che
Gerardo ci sia rimasto abbastanza male» commentò,
sondando
il terreno. Ogni volta che quei due discutevano, si trovava sempre
nella scomoda posizione dell’intermediario che doveva stare
molto
attento a ciò che diceva dell’uno
all’altra.
Mettendo su un cipiglio abbastanza allarmante, l’amica
posò lo sguardo su di lui e si sfregò le
labbra.
«Ti ha detto che abbiamo litigato, vero?»
domandò, tradendo una certa apprensione.
«Sì, sabato sera stesso» le
riferì Marcello,
lieto di non dover ricorrere a chissà che giri di parole per
farle capire che era a conoscenza dei retroscena. «Ieri
mattina
mi ha
telefonato per dirmi che si sarebbe preso un paio di giorni di ferie.
Sembrava ancora piuttosto provato».
«Non è venuto al lavoro..?»
In risposta, il ragazzo si limitò a scuotere brevemente la
testa e Vittoria si incupì ancora di più.
«Per caso, ti ha detto anche perché abbiamo
litigato?» si informò quest’ultima, con
fare
circospetto.
«No. Gliel’ho chiesto, ma non mi ha
risposto».
Immediatamente,
sugli occhi della giovane passò un’ombra di
tristezzacosì
intensa che Marcello temette fosse successo qualcosa di
irreparabile. Stava quasi per chiederle se andasse tutto bene, quando
quella attaccò, con una vena di incertezza nella voce:
«Be’, ecco... è cominciato tutto per
colpa
mia».
Si fermò un attimo, per attendere un cenno ad andare avanti
da
parte del suo interlocutore e, dopo che lo ebbe ottenuto,
proseguì: «Vedi, a Gerardo piace Maria
Luisa e... No, non fare quella faccia! Davvero non te ne sei mai
accorto?»
«Ad essere sincero, no» ammise il giovane,
perplesso e
sorpreso dalla rivelazione. Si ritrovò allora a considerare
che,
a conti fatti, non era la prima volta che ignorava una qualche trama
amorosa che si intrecciava sotto i suoi occhi. Solo, lo
stupì
che, in quel caso, si trattasse dell’amico che conosceva da
praticamente una vita; tuttavia, era anche vero che Gerardo non gli
aveva mai confidato nulla riguardo i suoi innamoramenti, mentre, al
contrario, Vittoria gli parlava dei suoi ancor prima che se ne rendesse
conto lei stessa.
«Sei sempre il solito» sbuffò la
ragazza, tradendo
però un sorriso, riportandolo a concentrarsi sulla
conversazione. «Comunque, stavo dicendo: a lui piace lei, ma
a
lei,
come ben sai, interessi tu, quindi gli ho solo consigliato di lasciar
perdere quella vacca
che non lo merita».
Nell’udire quella definizione, Marcello aggrottò
le sopracciglia, stupito.
«Gli hai detto proprio così?»
«Le parole non erano queste, ma il senso
sì»
tagliò corto l’altra, togliendosi i capelli dal
viso con
un gesto seccato.
«Vittoria, non è da te usare insulti...
sessisti»
osservò il ragazzo, ponderando bene le parole.
C’era
qualcosa in tutto quel discorso che non quadrava, come se
l’amica
gli stesse nascondendo qualcosa di importante, e Marcello lo percepiva
non tanto dalle sue parole, quanto più dai piccoli scatti
nervosi del corpo o dalle eccessive pause che stava mettendo nel
racconto.
«Sì, hai ragione, ma in questo caso sono costretta
ad andare contro i miei stessi principi» puntualizzò
Vittoria, lapidaria. «Gerardo non ha tutti i torti ad
essersela
presa, però, vedi, io
volevo solo fargli capire che sbaglia a sottovalutarsi. Non
può
sottomettersi ad una che lo tratterebbe come uno zerbino».
«Su questo mi trovi pienamente concorde. Gerardo è
davvero
troppo modesto» approvò il giovane, ben
consapevole della
scarsa autostima dell’amico, quando, invece, era davvero una
persona eccezionale.
«E dovrebbe cercarsi una ragazza che possa
apprezzare
davvero
tutte le sue innumerevoli qualità»
rincarò con
decisione la ragazza, incrociando le braccia sul petto e abbandonandosi
contro lo schienale della poltrona. «Se solo si
girasse un po’ intorno...» aggiunse dopo qualche
secondo,
sottovoce, forse diretta più a se stessa che a lui.
Quella
reticenza, però, non sfuggì a Marcello, anzi, lo
illuminò perfino sulla possibilità che Vittoria
stesse
alludendo ad una qualche sua amica interessata a Gerardo. Tuttavia,
c’era da dire che lei non sembrava molto contenta e questo
gli
parve piuttosto strano.
«Comunque, credo che stasera andrò da lui e gli
chiederò di fare pace» concluse improvvisamente la
giovane, dopo l’ennesima pausa, accompagnando le parole con
un
gran sospiro. A quel punto, il giovane arrivò alla
conclusione
che fosse semplicemente preoccupata che il loro amico potesse avercela
ancora con lei, pertanto si sentì in dovere di confortarla.
«Mi sembra un’ottima idea» la
incoraggiò,
sorridendole. Poi, si alzò e le chiese: «Sto
andando in
cucina per una tazza di tè, ne preparo una anche per
te?»
Subito,
le labbra di Vittoria si incurvarono all’insù e un
po’ di luce tornò a brillare nei suoi occhi.
«Oh,
sì. Molto volentieri» rispose, con la sua solita
allegria.
«Sai che non dico mai di no ad una tazza di tè.
Vuoi una
mano?»
«No, non preoccuparti, faccio subito» la
rassicurò il ragazzo, già quasi arrivato alla
porta.
Marcello gettò nella teiera due filtri di tè e
rimase ad
osservare l’acqua bollente che si tingeva di un
tenue colore
rossastro, assumendo tonalià più scure man mano
che
passava il tempo. Intanto, Vittoria si era protesa verso il vassoio,
annusando l’aroma che si espandeva nell’aria, come
faceva
fin da quando era piccola.
«Leandro non mi manda mai abbastanza Earl Grey, lo finisco
sempre
prima che mi spedisca il pacco successivo» disse, lasciando
che
le si increspasse appena la fronte.
«Probabilmente, tuo fratello è d’accordo
con me e
pensa che tu sia abbastanza vivace, anche senza un abuso di
teina».
Indispettita, la giovane riaprì di scatto gli occhi e
indirizzò all’amico un’occhiataccia che,
però, venne ignorata.
«Due
cucchiaini di zucchero e mezza fettina di limone.
Giusto?» le chiese Marcello, versando cautamente il liquido
fumante in due tazze di porcellana pregiatamente cesellata.
«Tu
sì che mi conosci. Bartolomeo, invece, si
ostina ad offrirmi il caffè!»
sospirò Vittoria, tornando compostamente seduta sulla
poltrona.
«Be’,
sono
vent’anni che ti sopporto. In fondo, Bartolomeo
l’hai
incontrato solo
l’anno scorso» le fece notare il ragazzo, tra il
serio e il divertito,
guadagnandosi un’altra occhiata obliqua, mentre le porgeva la
tazza.
«A proposito, dove si trova in questo momento?»
Prima di rispondere, l’amica si perse ad ammirare gli sbuffi
di
vapore che stava esalando la sua bevanda, giocherellando pigramente con
la fetta dell’agrume.
«Nelle Filippine. Ha detto che sta trovando molti soggetti
interessanti per le opere da presentare alla sua prossima
mostra»
spiegò, con una piccola smorfia. Quel pomeriggio, sembrava
essere turbata da gran parte degli argomenti che affrontavano
quotidianamente, anche quando con loro c’era Gerardo.
Infatti, si
affrettò a cambiare discorso: «Che cosa stavi
facendo
prima che ti interrompessi?»
Marcello masticò lentamente il pasticcino di frolla al cacao
e
scaglie di cocco che si era appena ficcato in bocca, concedendosi un
lungo istante per assaporarlo al meglio. Era tra i migliori che avesse
mai mangiato e, più tardi, avrebbe sicuramente fatto i
complimenti ad Annetta.
«Volevo concedermi un paio d’ore di lettura, prima
di
rimettermi a studiare in vista dell’imminente incontro con
Lord
Carter» le disse, tuffando di nuovo la mano nel piatto dei
biscotti. «Sono
un po’ indietro. Io e Gerardo ci siamo divisi il materiale da
passare in rassegna, così io mi sto occupando delle Sette Sorelle».
«Le
Sette Sorelle?
Ma non sono le compagnie petrolifere accusate
dell’omicidio di
Enrico Mattei? E Lord Carter non è il magnate che gestisce
la
maggior parte degli impianti idrocarburici del Mare del Nord?»
domandò Vittoria, all’improvviso spaventata.
«Già,
sono proprio loro e mi chiedo se mai si scoprirà cosa
è
successo davvero all’aereo di Mattei» fece
Marcello, con
una sconsolata alzata di spalle. «Per quanto riguarda Carter,
hai
ragione anche su di lui. Per ora, tutto ciò che sappiamo
è che sta facendo la corte alla British Petroleum,
partecipando
per loro conto alla negoziazione per comprare la Britoil, ma non ci
è chiaro che cosa voglia sul serio».
Impallidendo, la ragazza serrò le labbra e si
appoggiò in grembo le mani, ancora strette intorno alla
tazza.
«Sì, ho capito, ma cosa c’entrate voi
con Lord
Carter e le compagnie petrolifere? State pensando di comprare azioni o
roba simile?»
A quel punto, il giovane prese la teiera e le fece segno
all’amica se volesse dell’altro tè, ma
quella mosse
appena il capo, troppo concentrata su di lui; così Marcello
riempì di nuovo solo la propria tazza.
«No, a dire il vero, è stato proprio Carter a
contattarci,
chiedendoci se volessimo partecipare ad un investimento per la
costruzione di una nuova piattaforma per l’estrazione del
petrolio» le illustrò, cercando di spiegare la
faccenda
con parole semplici. «Notevoli interessi assicurati, a suo
parere».
Vittoria, invece, non sembrò dello stesso avviso,
perché,
non appena lui ebbe finito di parlare, subito scattò:
«Marcello, so che questo non è il mio ambito e che
non
capisco nulla di borsa, petrolio o tassi di interesse, ma... se dicessi
a te e Gerardo di lasciar perdere, c’è qualche
speranza
che mi ascoltereste?»
Vedendo che la ragazza sembrava davvero preoccupata per entrambi,
Marcello pensò bene di rassicurarla.
«Tranquilla, non abbiamo ancora firmato niente» le
disse,
appoggiando una mano sulle sue, talmente serrate intorno alla
porcellana che avrebbe potuto frantumarla da un momento
all’altro. «Inoltre, stando alle nostre ricerche,
Carter
non ci sembra molto... onesto».
Dopo che le ebbe riferito ciò, il giovane avvertì
la
tensione di Vittoria ridursi di molto e ne fu sollevato, nonostante si
sentì un po’ in colpa per averla fatta inquietare,
quando,
invece, avrebbe dovuto distrarla dai brutti pensieri che aveva e che,
purtroppo, solo in parte aveva condiviso con lui. Ne era certo: come
aveva già fatto Gerardo sabato scorso, anche lei gli stava
nascondendo qualcosa, tuttavia sentiva che non aveva senso insistere,
perciò pensò di passare a parlare di altro.
Gli venne in mente allora l’idea di chiedere
all’amica
qualche consiglio su cosa portare il martedì pomeriggio a
Beatrice, non avendo intenzione di presentarsi a mani vuote. Sapeva che
sarebbe stato rischioso mettere al corrente Vittoria della ragazza che
aveva conosciuto alla festa, ma, si disse per convincersi, prima o poi
lo sarebbe comunque venuto a sapere.
Quindi, preparandosi mentalmente all’interrogatorio che
avrebbe
subito di lì a breve, esordì: «Vedi,
Vittoria,
avrei bisogno di un consiglio, diciamo, per... una specie di
appuntamento con una ragazza».
L’effetto di quelle parole fu immediato: l’amica
drizzò la schiena e spalancò gli occhi, pieni di
una
curiosità che aspettava solo di essere soddisfatta.
«Chi è, la conosco? Come vi siete conosciuti?
Quando
sarebbe l’appuntamento?» chiese, senza prendere
fiato tra
una domanda e l’altra. Travolto da tutta quella esuberanza,
Marcello sbatté le palpebre, sbilanciandosi leggermente
all’indietro
e addossandosi allo schienale della poltrona. Proprio in
quell’istante, gli sembrò di aver sentito un
rumore
provenire dal giardino e si voltò istintivamente verso la
finestra. Rimase in attesa, ma quello non si ripeté.
«Non credo tu la conosca, almeno non di persona»
considerò, pensieroso, tornando a rivolgersi
all’amica,
che non sembrava aver notato nulla. «È la sorella
di Guido
Tolomei».
Non appena ebbe pronunciato quel nome, la giovane contrasse le labbra
in una smorfia di disappunto.
«Davvero ha una sorella? Spero non sia come lui».
«Per niente! Anzi, non vedeva l’ora di andaresene
da quella
bolgia» rimarcò Marcello, secco, quasi
offendendosi
lui al posto di Beatrice. «Ci siamo scontrati mentre io
scappavo
da Maria Luisa e lei da Conrado de Navarra».
Per la seconda volta, Vittoria assunse un’espressione
disgustata
e, agitandosi sulla poltrona, esclamò: «Navarra?!
Che cosa
ci faceva alle festa di Maria Luisa? E perché ce
l’aveva
con questa ragazza?» Poi, si fermò un attimo, come
se
stesse riflettendo su un particolare fondamentale del quale non era
ancora venuta a conoscenza e aggiunse: «A
proposito, lei
come si chiama?»
«Potresti farmi domande delle quali so la risposta, per
favore?» sbottò il giovane, esasperato,
sollevandosi con
uno scatto nervoso, anche se, alla fine, si rimise seduto. Avrebbe
davvero voluto sottrarsi a quell’interrogatorio
così
accanito, ma poi si ricordò che ancora non aveva ricevuto
alcun
consiglio, quindi decise di restare dov’era.
«Quanto sei noioso, non sai mai niente di
interessante» si
lamentò l’altra, per nulla scomposta.
«Almeno
conosci il nome della tua nuova amica?»
«Si chiama Beatrice».
«Beatrice»
ripeté Vittoria sottovoce, concentrata, come se potesse
suggerirle qualcosa in più sulla ragazza. «Un
bel nome. Sai, io credo che potresti banalmente portarle dei fiori,
visto che non passano mai di moda».
«Fiori?» le fece eco
il ragazzo, stupito di non averci pensato da solo.
«Be’,
se le piace cucinare, potresti anche optare per un mazzo di cime di
rapa»
lo punzecchiò l’amica, ridacchiando e prendendo un
biscotto con la frutta candita, il primo in tutto il pomeriggio. «Possono
tornare utili per un buon
minestrone».
Subito, Marcello avvertì le guance avvampare per la stizza,
ma
non replicò, poiché aveva appena avuto la
dimostrazione
che Vittoria si era rasserenata al punto tale da esserle tornato
l’appetito.
«Comunque, non è un appuntamento amoroso,
andremo solo a vedere le opere di Caravaggio nella basilica di
Sant’Agostino» ci tenne a precisare lui,
rilassandosi a sua
volta. «Mentre la riaccompagnavo a casa, mi ha raccontato che
le
manca molto Firenze, così ho pensato che fosse un gesto
carino
accompagnarla a visitare qualcosa che le interessa».
«Oh, ma io ho sempre saputo che, da qualche parte sotto
quella
scorza dura, si nascondeva un lato da tenerone»
ribatté
istantaneamente Vittoria, un sorriso sornione che andava da una parte
all’altra del volto, servendosi un altro dolcetto.
Tra la chiome dei pini filtrava una calda luce aranciata che conferiva
a tutto il giardino un particolare alone dorato, facendolo sembrare
quasi un bosco degli elfi. Continuando a parlare, Marcello e Vittoria
percorsero il viale acciottolato che attraversava una fitta e
lussureggiante distesa d’erba fino ai cancelli della villa.
«Posso strapparti la promessa che mi racconterai tutto
ciò
che succederà con Beatrice?» chiese lei,
speranzosa,
quando passarono accanto ad una grande fontana circolare di marmo,
decorata da graziose ninfee rosa.
«Come no» ribatté il giovane,
sarcastico. «Ci
sono già i giornalisti che, spesso e volentieri, se ne
escono
con domande inopportune sulla mia vita privata».
«Per questo hai deciso di rilasciare interviste solo a Il Sole 24 ORE e
simili?».
«Esatto».
«Ma io non sono una giornalista, sono la tua migliore amica,
quindi...»
Vittoria, però, non riuscì a terminare
ciò che
stava dicendo, perché venne stroncata dalla Matrona, che si
era
materializzata dal nulla, sbarrando loro la strada.
«Non avrai proprio un bel niente da raccontare,
perché non
andrai da nessuna parte!» sbraitò,
all’indirizzo del
figlio, senza degnare la ragazza nemmeno di una rapida occhiata.
Inaspettatamente, da dietro di lei sbucò un sogghignante
Tiberio, le gli occhi che brillavano di soddisfazione. Nonstante
fossero fratelli, lui e Marcello avevano solo una vaga somiglianza
fisica che sarebbe stata riscontrata solo da un osservatore molto
attento. Tiberio, infatti, aveva ereditato la media statura,
l’atteggiamento prevaricatore e le iridi color caramello
della
madre; invece, dal padre, solo i capelli castano scuro.
Quando se li trovò davanti sul sentiero, quasi come una
bislacca parodia delle fiere dantesche, Marcello impiegò
il tempo di un battito di ciglia per superare la sorpresa iniziale e
ricambiare l’occhiata ostile. Incrociò
le braccia sul petto e, in tono di sfida, ribatté:
«E con
quale autorità credi di impedirmelo, mamma? Sai, ho
passato i cinque anni da un pezzo, ormai».
«Taci, figlio ingrato!» lo zittì la
signora Claudia,
puntandogli contro un dito accusatorio. «Tiberio ha sentito
cosa
stai progettando di fare e mi ha raccontato tutto!»
«Che cos...?» cominciò il giovane, per
poi bloccarsi
subito. Pian piano, nella sua mente cominciò a farsi strada
il
sospetto che il rumore proveniente dal giardino che aveva sentito in
biblioteca non fosse stato solo frutto della sua immaginazione; la
conferma, però, arrivò quando notò il
ghigno sulla
faccia del fratello che si allargava a vista d’occhio.
«Come hai potuto mettere gli occhi sulla nipote di Assunta
Tolomei!» sbraitò la Matrona, richiamando
l’attenzione di Marcello e distogliendolo
dall’istinto di
avventarsi su quel traditore. «La loro è una
famiglia
disgraziata e, dopo tutto quelo che ho fatto per te, non puoi ripagarmi
in questa maniera!»
Dunque, notò con disgusto Marcello, sua madre conosceva
talmente
bene gli appartenenti alla Roma bene, o sedicenti tali, da non
risparmiare nemmeno la zia di Beatrice, chiunque lei fosse. In
considerazione di ciò e seccato da quel tono querulo, infimo
espediente che usava sempre sua madre quando voleva farlo sentire in
colpa, il giovane decise di troncare quella inutile conversazione e di
impiegare il suo tempo in maniera più proficua.
«Veramente,
ho solo riaccompagnato a casa quella ragazza, non ci ho amoreggiato. E
questo è tutto».
La signora Claudia, però, non doveva essere dello stesso
parere.
Infatti, contrasse il volto in una maschera di collera e, agitando i
pugni all’aria, perseverò a portare avanti le sue
argomentazioni.
«Tu
non hai idea di quello che ho passato, prima di arrivare qui,»
gridò, agitando le braccia freneticamente le braccia,
indicando
tutto ciò che la circondava, tanto che il figlio si chiese
se
quell’avverbio si riferisse nello specifico a Villa Aurelia
oppure alla posizione sociale che essa simboleggiava,
«perché quando sei nato hai trovato la strada per
il
successo già spianata... da me! Io non ti
permetterò di
mandare all’aria i miei sacrifici!»
Contando fino a dieci per non espoldere, Marcello si voltò
verso
Vittoria che, nonostante non fosse certo la prima volta che assisteva
alle terribili sceneggiate della Matrona, sembrava piuttosto in
difficoltà per essersi trovata in mezzo a quella diatriba
familiare. Senza contare, che sia Claudia, sia Tiberio avevano
tranquillamente fatto finta di non vederla: anche insultarla, in quella
circostanza, era di secondaria importanza.
«Mamma,
mi sembra davvero che tu stia esagerando» tagliò
corto il
giovane, prendendo l’amica per un polso. «Ora,
scusami, ma
devo accompagnare Vittoria, che ha tutto il diritto di poter
tornare a casa!»
Detto questo, la condusse via, superando la madre e sostando accanto al
fratello il tempo per sussurrargli, a denti stretti: «Con te
facciamo i conti dopo».
«A dire il vero, stavo tornando a casa da mia moglie e mie
figlia. Se non ti spiace, possiamo fare un’altra volta, che
ne
dici?» lo sbeffeggiò quello, di rimando, alzando
il mento
con fare tronfio. In risposta, Marcello assottigliò lo
sguardo e
passò oltre, prima che il suo autocontrollo andasse a farsi
benedire e cedesse alla voglia di tirare un pugno ben assestato a
quella faccia da schiaffi.
Talmente
era tanta la rabbia che aveva in corpo, che Marcello marciò
fino
al cancello senza dire una parola con le orecchie che fischiavano
così intensamente da coprire quasi qualunque suono
provenisse
dall’esterno.
«Scusami per il penoso spettacolo di prima, ma questa casa
assomiglia sempre di più ad un circo» disse infine
a
Vittoria, quando fu certo che i suoi parenti non potessero
più
sentirlo. Lei, però, scosse la testa.
«Non preoccuparti, tu non c’entri» lo
rassicurò, facendo dondolare la borsetta che aveva tra le
mani.
«Sono anni che li conosco».
In quel momento, calò un silenzio teso, interrotto solo dai
rombi e dai clacson delle automobili che trafficavano per la strada
poco lontana. Era ormai arrivato il crepuscolo e con esso
l’ora
di punta.
«Mia madre non accetta che io ascolti i suoi consigli e che
non
faccia niente per compiacerla» sospirò il giovane,
di
punto in bianco, lo sguardo che vagava sul prugno ormai ingiallito
oltre la spalla della ragazza. «Ma io ho già
scelto il
genitore da compiacere e non è lei».
Una delle bellezze di un’amicizia longeva e sincera come era
quella che lo univa a Gerardo e Vittoria era la possibilità
di
parlare con loro liberamente, senza dover per forza mettere in piedi
assurde giustificazioni al comportamento inopportuno di sua madre o di
suo fratello. Poteva confidarsi con loro e ascoltare le loro opinioni,
a volte molto illuminanti, come fu proprio quella che espresse la
giovane poco dopo.
«Se mi permetti, secondo me, lei ti vede come il figlio davvero
vincente, quindi si sente frustrata nel saperti così
distaccato.
Ecco perché si accanisce contro di te» gli disse,
con
dolcezza.
«Probabile che sia così, ma non può
decidere al
posto mio» replicò lui, risoluto. Era
inammissibile che la
Matrona, ad un passo dai venticinque anni, decidesse chi dovesse
frequentare il figlio. Non gli dispiaceva rivedere Beatrice e di certo
non si sarebbe lasciato fermare dalle paturnie di sua madre.
«Ci sentiamo domani?» gli domandò la
ragazza,
toccandogli appena una mano per richiamare la sua attenzione.
Ridestato, spostò lo sguardo su di lei ed annuì.
«Be’, allora... buona fortuna con Gerardo. Sono
certo che
non ti chiuderà la porta in faccia, è troppo
buono per
farlo» le disse, incoraggiante, ricordandosi dei suoi piani
per
la serata. Rincuorata da quelle parole, mentre attraversava il
cancello, Vittoria gli regalò un sorriso riconoscente.
***
Il pomeriggio del martedì successivo, Marcello si
avviò di
buon’ora verso la basilica di Sant’Agostino, tra le
mani un piccolo
omaggio floreale per Beatrice: un
discreto ed
elegante
mazzetto di gerbere bianche. Anche se non le aveva dato soddisfazione,
doveva riconoscere che Vittoria gli aveva
comunque dato un ottimo suggerimento.
Ovviamente, quando era uscito di casa, non aveva detto a nessuno dove
stava andando, anche se, a giudicare dall’occhiata in
cagnesco
che gli aveva lanciato la madre quando le era passato davanti al naso,
molto probabilmente lo aveva capito. Ciononostante, non aveva detto
mezza parola, lasciando alla sua espressione indignata il compito di
esprimere tutto il suo disappunto.
L’idea di passare qualche ora con Beatrice gli aveva infuso
una
insolita serenità, poiché ricordava quanto era
stato
piacevole parlare con lei, seppur temeva avrebbe fatto qualche gaffe,
dato che era la prima volta che usciva con una ragazza che non fosse
Vittoria. Non aveva mai avuto molte occasioni di interloquire con le
donne giovani, non perché non volesse scambiare opinioni con
loro o perché le reputasse esseri inferiori, come qualche
lingua
malevola vociferava alle sue spalle, bensì perché
non gli
era mai capitato di conoscerne di veramente interessanti.
Nell’ambito lavorativo, infatti, aveva a che fare quasi
eslcusivamente con altri uomini; la cerchia di persone che si trovava a
frequentare alle feste o nel corso di un evento mondano, invece, era
sempre piuttosto limitata e popolata per la maggior parte da soggetti
come Ascanio Colonna o Maria Luisa Foscari. Non era un tipo molto
socievole, questo lo riconosceva, per questo si era sempre fatto
bastare Gerardo e Vittoria, qualche vecchio collega
dell’università con cui era rimasto in contatto e
alcuni
dei ragazzi che frequentavano la palestra del signor Nardone.
Perso nelle sue riflessioni, Marcello svoltò meccanicamente
l’angolo e si ritrovò in piazza
Sant’Agostino,
dove la bianca
facciata dell’omonima chiesa, prendeva quasi tutta la
visuale e, lì sotto, seduta su uno scalino, con lo sguardo
rivolto verso il basso, scorse subito
Beatrice. Indossava un leggero vestito blu notte e sulle spalle aveva
poggiato un maglioncino sottile dello stesso colore; i capelli fulvi,
particolare che lo aveva aiutato ad individuarla a colpo
d’occhio, le
ricadevano lunghi e sciolti ai lati del volto. Senza nemmeno
accorgersene, il giovane sorrise e si avviò verso di lei.
«Buon
pomeriggio, Beatrice» la salutò, quando le fu
abbastanza vicino, domandandosi se fosse stato troppo formale.
Presa alla sprovvista, la ragazza alzò di scatto la testa,
ma, quando lo riconobbe, gli sorrise a sua volta.
«Ciao
Marcello.
Son contenta
che tu sia
venuto».
All’improvviso a corto di parole, non sapendo bene che cosa
dire, il ragazzo decise di trarsi
d’impaccio con una domanda neutra: «Sono in
ritardo, per caso?»
«No,
no.
Sono io che
son venuta prima, visto che non m’andava di restare ancora in casa con la mia cugina»
chiosò Beatrice, infastidita, arricciando il naso.
«Non andate d’accordo...?» le
domandò lui,
cercando di mantenersi sul vago. Sapeva davvero poco della sua famiglia
e si augurò che ne avesse una migliore della sua, anche se
bastava pensare a Guido per convincersi subito del contrario.
«Be’, l’è
un po’... invadente, per uscire ho dovuto rifilarle una scusa»
gli riferì la ragazza, lasciando intendere che il resto del
parentando non era poi tanto migliore del fratello. «A proposito, mi spiace di non aver
potuto portarti indietro il
soprabito, ma m’ha tenuto d’occhio finché non
son
uscita».
Sembrava
davvero dispiaciuta; tuttavia Marcello, che comprendeva bene la
situazione, vivendone una simile in prima persona, la
tranquillizzò: «Non
importa, me lo ridarai un’altra volta. Intanto, posso usarne
un altro».
In risposta, Beatrice accennò un sorriso di ringraziamento e
si
alzò dagli scalini, spolverandosi accuratamente la gonna
dell’abito.
Mentre la osservava, il giovane avvertì la sensazione di
avere qualcosa in mano e si ricordò del mazzetto di
genziane.
«Mh,
ecco... questi sono per te» le disse,
offrendoglieli con un gesto un po’ impacciato.
Sorpresa, lei sollevò il capo e
guardò prima i
fiori, poi lui, le guance che si tinsero di un discreto rossore.
«Oh,
grazie... Non avresti dovuto disturbarti!» si
affrettò a dire. «Son
bellissime, le gerbere
son tra i mie’ fiori preferiti».
«Mi fa piacere» commentò lui, sollevato
dalla
notizia. Le aveva scelte perché gli erano sembrati dei fiori
adatti ad una ragazza molto giovane, ma non avrebbe mai sperato che
potessero piacerle fino a tal punto.
Per qualche istante, i due giovani rimasero in silenzio, poi, Marcello
pensò che fosse carino fare la prima mossa ed invitarla ad
entrare nella chiesa. D’altra parte, nonostante non fosse un
veterano in ambito di
appuntamenti con le ragazze, poteva sempre affidarsi al buon senso, di
cui, per sua fortuna, non era sprovvisto.
«Allora,
vogliamo
entrare?» le domandò gentilmente, mostrandole la
via con un cenno del braccio. «Prego,
dopo di te».
«Oh,
certo»
rispose la ragazza, stringendo i fiori tra le dita e
precedendolo.
Marcello
la seguì, accorgendosi che stava sorridendo ancora una volta.
Gli interni, sfarzosi ma piuttosto cupi della basilica, così
incontrasto con il pomeriggio assolato che si erano lasciati alle
spalle, costrinsero i loro occhi ad impiegare un po’ di tempo
prima di abituarsi alla penombra; tuttavia, quando si trovarono davanti
alla Cappella Cavalletti, Marcello ammise a se stesso che, se non fosse
passato per quella momentanea cecità, non avrebbe potuto
capire
fino in fondo la meraviglia di quel quadro.
Custodito tra due colonne di marmo, il capolavoro di Caravaggio
destò subito l’interesse di Beatrice, che
osservava il dipinto con reverenziale ammirazione. Ciò non
sfuggì al giovane, il quale
istintivamente tornò a rivolgere lo sguardo verso la tela ed
ebbe la fugace, ma intensa sensazione che le
figure avessero preso a muoversi: la Madonna teneva in braccio
Gesù Bambino rivolto verso i
pellegrini, scalcinati e stanchi, con i piedi visibilmente sporchi e
gonfi, particolare che, all’epoca, aveva destato molto
scandalo
tra gli ecclesiastici. Erano così realisitici da sembrare
vivi.
Nonostante Marcello non fosse un grande cultore della storia
dell’arte, non avrebbe mai potuto negare
l’atmosfera aulica che si respirava lì davanti.
«L’è
qualcosa di
meraviglioso»
sussurrò Beatrice,
persa nella
contemplazione delle ombre sciolte dalla pennellata di luce
caravaggesca. «Un’atmosfera
unica. Lo
sai come faceva il Merisi a
dare
quest’effetto?»
Interrompendo la contemplazione del quadro, il giovane si
voltò verso di lei e
poi scosse con umiltà la
testa: «No,
in storia dell’arte sono un autentico ignorante, lo
ammetto».
«Dipingeva
con
pennellate nere ed intense, per poi segnare con il manico del pennello
i
punti dove avrebbe disegnato i volti e i massimi punti di luce.
Obbligava perfino i suo’
assistenti a tenere le fiaccole
accese in
determinate posizioni per avere il giusto
effetto luminoso. Per lui, la luce
era
tutto» spiegò lei, con un sospiro ammirato, le
iridi blu incollate al dipinto.
«In
poche parole, era uno schiavista» commentò
Marcello, alzando appena un sopracciglio.
«No»
rise Beatrice, scuotendo la testa e serrando i fiori contro il petto,
«solo un grande artista».
«Ti
piace molto Caravaggio?»
«È
il mi’
artista preferito. Una personalità affascinante,
con tante luci ed ombre, esattamente come i suoi
quadri».
Il giovane si concesse
un’altra occhiata alla tela, prima di notare: «Ne
parli davvero con tanto trasporto».
«Oh,
sì. Un altro artista che amo, anche se non
quanto il
Merisi, è l’altro Michelangelo, il
Buonarroti.
Un’altra personalità burrascosa e controversa»
gli spiegò la ragazza, facendo spallucce.
«Dunque,
ti
piacciono le persone difficili» replicò lui,
accigliandosi.
Beatrice,
però, si lascò sfuggire un piccolo sorriso e
cominciò a camminare lungo la navata, le dita che
accarezzavano
i petali delle gerbere.
«Be’,
mettiamola così»
iniziò, dopo che ebbero percorso un bel tratto.
«Penso d’avere
un debole per i bei tenebrosi».
«Non sono persone con cui è facile avere a che
fare»
ribatté, però, lui, fermandosi
all’improvviso, una
sottile nota di rimpianto nella voce. Si sentiva parte integrante della
categoria, non tanto per il “bello”, quanto
più per
il “tenebroso”, consapevole di avere un carattere
fatto
più di ombre, che di luci, esattamente come un quadro di
Caravaggio.
Senza smettere di solleticare i fiori, la ragazza si arrestò
a
sua volta, rivolgendogli un’intensa occhiata indagatrice.
«A volte, però, vale la pena provare, non credi?»
gli domandò, con una punta di dolcezza.
«Be’,
sì, però... » le rispose, non del tutto
sicuro. In
quel frangente, una piccola comitiva di turisti francese si frappose
tra di loro, interrompendo il contatto visivo. Quando anche
l’ultimo fu passato, scusandosi con Marcello in uno stentato
italiano, il giovane si rese conto che Beatrice, passando da un quadro
all’altro, era quasi giunta all’abside. In
confronto alla
maestosa architettura, la figura di lei sembrava ancora più
piccola, ma i capelli rossi e i fiori arancioni che teneva in mano le
permettevano di risaltare sullo sfondo e non fondersi nemmeno con la
massa scomposta dei turisti, come se appartenesse ad una dimesnsione a
sé. Fu allora che il ragazzo decise che voleva provare.
Animato da un nuovo proposito, la raggiunse in appena una manciata di
secondi e, quando le fu accanto, le chiese: «Beatrice...
ti piacerebbe visitare la Cappella
Sistina?»
Meravigliata dalla proposta, la ragazza si voltò verso di
lui e lo fissò a lungo, la bocca semi-aperta.
«La Cappella Sistina?
Quella Cappella
Sistina?»
«Sì,
direi che è proprio quella»
le confermò, sorridendo di fronte a quel genuino stupore.
«Hai detto che ti piace anche Buonarroti, credo sarebbe
bello, per te, vedere i suoi affreschi lì conservati. Che
cosa
ne
dici?»
Bastarono
quelle poche parole per renderla assolutamente raggiante, da sembrare
quasi rischiarare le penombra che li circondava.
«Oh,
ma certo!»
esclamò. «Però,
che io
sappia, non l’è
facile riuscire a vederla».
«In
realtà non è così impossibile. Basta
prenotarsi per tempo» osservò
Marcello.
«Se chiamo subito, dovrebbero darci
l’opportunità
di visitarla sotto Natale. Saresti d’accordo?»
L’espressione di pura gioia che si leggeva sul volto di
Beatrice rispose per lei.
Nonostante le ripetute opposizioni di Beatrice, che temeva di
disturbarlo, il giovane
insistette per accompagnarla a casa. Infatti, non avrebbe mai
lasciato una ragazza da sola per strada, per giunta
all’imbrunire, senza contare che non gli dispiaceva
trascorrere
un altro po’ di tempo in sua compagnia.
Il clima mite offrì loro una piacevole passeggiata, durante
la
quale Marcello poté studiare meglio Beatrice e
l’entusiasmo che l’animava quando parlava di opere
e
artisti: sembrava immergersi in un mondo tutto suo, dove
l’arte
diventava specchio e memoria di tutti i comportamenti umani, positivi o
negativi che fossero. Lui l’ascoltava con interesse, colpito
dalla sua preparazione e scoprendosi desideroso di sapere di
più
su quell’universo a cui, chissà per quale ragione,
non
aveva mai dedicato l’attenzione che meritava.
«Ti
dispiace
se ci salutiamo qui?» chiese la ragazza, quando ad un
centinaio di passi dalla
villa, lanciando un’occhiata sospettosa in direzione delle
finestre del secondo piano.
«C’è
forse qualche problema?» domandò il giovane,
vagamente sorpreso.
«Non vorrei che la mia cugina ci
vedesse: ha
la brutta abitudine di spiarmi» rispose lei, diventando cupa.
«Potrebbe farmi domande scomode».
Quel
comportamento gli ricordò immediatamente quello che aveva
spesso
Tiberio con lui, pertanto il ragazzo si limitò a farle un
solidale cenno d’assenso.
«Ehm...
per la Sistina...
ti fai sentire tu?» gli
chiese poi Beatrice, quasi sottovoce, torcendosi una ciocca ramata,
senza smettere di gettare alla villa sguardi circospetti. Forse,
rifletté Marcello, quella ragazza viveva in una condizione
perfino peggiore della sua.
«Ovviamente.
Non appena saprò qualcosa, te lo farò
sapere» le disse, con dolcezza. «Mi
lasci il tuo numero o anche il telefono è sotto
sorveglianza?» le chiese poi, con una punta di
curiosità.
Il giovane voleva cercare di capire quanta libertà avesse,
poiché, da ciò che aveva visto e sentito fino a
quel
momento, non gli sembrava che Beatrice vivesse in una famiglia molto
permissiva. Il profondo sospiro al quale lei si abbandonò
subito
dopo gli confermò quell’intuizione.
«Se chiami di mercoledì
mattina, ti risponderò io con
certezza.
Non c’è nessuno in quel momento, sono
sola» gli rispose, stringendo le spalle.
Marcello, allora, prese dalla tasca interna della giacca la
sua agendina e si frugò in quelle laterali per trovare una
penna, per poi porgere entrambe alla giovane.
Dopo
che lei gliele ebbe restituite, il ragazzo fece per
rimettere tutto a posto, perciò non si accorse di quanto
Beatrice gli si
fosse avvicinata. Fulminea, quella si alzò in punta di piedi
e gli
diede un leggerissimo bacio sulla guancia, lasciandolo un po’
disorientato.
«Grazie, Marcello. Per il
pomeriggio, per le gerbere...
per tutto» gli sussurrò, arrossendo appena sulle
guance,
prima di correre via, i lunghi capelli ramati che danzavano
nell’aria.
Per qualche istante, Marcello rimase immobile, portandosi
inconsciamente le dita nel punto che Beatrice gli aveva sfiorato con le
labbra.
Poteva quasi di sentirne ancora il calore.
***
Piena d’entusiasmo per il pomeriggio appena trascorso,
Beatrice
entrò in casa canticchiando, certa che se Anna Laura avesse
saputo con chi era uscita, certamente sarebbe
morta d’invidia.
Aveva appena cominciato a salire le scale con passo quasi saltellante,
quando
incrociò Guido che, tutto contento, scendeva di corsa.
Fisicamente non aveva molto in comune con lei: né bello,
né brutto, era scuro di capelli,
con gli occhi grigi e il viso affilato che non suscitava nemmeno un
minimo
della dolcezza che, invece, trapelava da quello della sorella. Il suo
fascino, poi, era abbastanza discutibile; ciononostante, per un motivo
o per un altro, era sempre attorniato da belle ragazze.
«Ciao,
Cicci. Come
mai sei così
felice?»
tubò, rivolto a Beatrice.
«Niente
di che. Ho
solo trovato queste belle gerbere
e dei bottoni perfetti per il mi’
vestito nuovo»
gli rispose Beatrice, sbrigativa, superandolo.
«Ah,
ragazza spensierata! Pensi ai ffiori
e ai tuo’
vestiti nuovi! Meno male che
ci son io a
lavorare per te».
Sorpresa da quell’affermazione, la ragazza si
bloccò a metà della rampa, voltandosi verso di
lui.
«Per
me?» ripeté, corrugando la fronte. «E cosa mai avrai
fatto di così
eccezionale, Guido?»
«Cicci,
ho messo a posto tutto e ho rimediato al tuo pasticcio
dell’altra
sera!»
esordì il giovane, sottolineando
l’eccezionalità dell’evento con un ampio
gesto del braccio. «Adesso l’è
sufficiente solo che
tu dica una
data!
Possibilmente entro i prossimi tre mesi. Sai, prima ti decidi e meglio
sarà. Magari, potrei spillargli ancora
qualche
altra lira...»
«Scusa, Guido, una
data per cosa?»
«Ma come per cosa! Ragazza
sbadata, ma è ovvio, per le tu’ nozze
con Conrado de
Navarra!»
***
La revisione di questo capitolo
non è stata editata.
La grafica del tititolo è opera mia.
Un grazie speciale va anche alla mia Anto che collabora
sempre con entusiasmo.
***
Anche questo capitolo
è stato riscritto, per renderlo più fluido e
concorde con i successivi.
Halley
S. C.
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Capitolo 3 *** Capitolo Terzo - Vento di Intrecci ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 3
- Capitolo Terzo -
Vento di Intrecci
Secondo
Marcello, il chiacchiericcio dei turisti e gli schiamazzi felici dei
bambini, in
quella mattina di ottobre inoltrato,
rendevano
Via della
Conciliazione
fin troppo caotica e chiassosa. A dire
il vero, non è che ci fosse poi chissà che folla;
molto
probabilmente, era solo il ragazzo ad essere insofferente, per via
dell’incontro che avrebbe avuto con Lord Carter, pertanto si
sentiva disturbato anche da ciò che, in un’altra
situazione,
l’avrebbe lasciato indifferente.
«Scommetto
che nemmeno durante il recente incontro tra Gorbačëv e
Reagan
c’è stata tutta questa tensione»
esordì Gerardo, con un sorrisetto tirato, mentre svoltavano
verso destra, in direzione di Via
di Porta Angelica.
«Carter
può essere pericoloso quanto la Guerra Fredda, almeno
rimanendo in termini di affari»
commentò Marcello, tetro.
Prima di proseguire, gettò un’occhiata
all’imponente facciata della
Basilica: San Pietro
dominava la scena e la sua cupola, rifulgente di luce bianca, si
stagliava contro un cielo azzurro pastello.
I due ragazzi giunsero poco dopo al Caffè del Borgo1,
chiesero ad un cameriere se Lord Carter fosse, per un puro caso,
già dentro ad attenderli e, avendo ricevuto risposta
negativa,
decisero di rimanere fuori.
«Arriverà
con mezz’ora buona di ritardo»
affermò Marcello, guardando le lancette del suo orologio,
puntate sulle dieci e cinque.
«Come minimo»
rispose Gerardo. «Ho
sentito dire che, talvolta, si è presentato anche diverse
ore dopo l’orario stabilito».
«Non
credo convenga aspettarsi molto rispetto, da uno come Edward
Carter» sentenziò il biondo accomodandosi sul
massiccio
bordo di una fioriera vuota. L’amico lo imitò e
lì
attesero entrambi, pazientemente.
Le campane di San Pietro
stavano battendo le undici e mezza, quando il
miliardario britannico ed il suo segretario fecero la loro comparsa, a
bordo di una
berlina nera tirata a lustro.
«In perfetto
ritardo»
borbottò Tornatore, suscitando
l’ilarità
dell’altro, il
quale ben camuffò la risatina con un colpo di tosse.
Carter, accompagnato da un giovane uomo, scese dall’auto,
dirigendosi
subito verso
i ragazzi. Non era stato difficile per loro individuare chi dei due
fosse il
magnate,
giacché era l’unico nella coppia ad aver superato
abbondantemente la
cinquantina: un uomo dai capelli neri striati di bianco, ordinatamente
pettinati all’indietro, un paio di baffetti sottili e piccole
rughe
intorno agli occhi. Marcello trovò che fosse una
plausibilissima
versione più matura di Clark Gable in Via col Vento.
«Good Morning» salutò
l’imprenditore, stringendo la mano ai due giovani.
«Scusate l’inconveniente ritardo, ma sono insorti
dei disguidi... Io e il mio assistente siamo stati finora a discutere
di affari».
“Perché,
con noi devi parlare del tempo?”
pensò il ragazzo, infastidito dall’approccio,
facendo dell’ironia sulla proverbiale mania degli inglesi di
discutere delle condizioni atmosferiche.
«Sì,
eravamo impegnati con affari molto, molto importanti»
replicò l’uomo che accompagnava Carter. «A
proposito, John Miller, piacere».
I due giovani strinsero la mano anche a lui, poi tornarono a guardare
il magnate, che sembrava irritato da qualcosa.
«Fa
veramente troppo caldo qui. Siamo ad ottobre e ancora ci sono queste
temperature. E poi, hanno il coraggio di dire che l’Italia ha
un clima invidiabile!»
Il biondo increspò le labbra e rimase a fissare Carter in
tralice; ogni secondo che passava quell’uomo gli stava sempre
più antipatico. Aveva un modo di dire ciò che
pensava fin troppo gretto e rozzo, per essere un pezzo grosso
dell’economia britannica; stando a quello che aveva detto
Vittoria, aveva anche ricevuto l’onorificenza di Sir dalla Regina in
persona, in virtù dell’ottimo lavoro svolto nel
campo degli investimenti della nuova industria.
Entrarono nel locale, dove un signore sulla sessantina, probabilmente
il proprietario, dopo aver profusamente salutato Carter, li fece
accomodare in una sala situata al piano di sopra. A giudicare dal
comportamento di entrambi, sembrava si
conoscessero molto bene.
L’interno era abbastanza luminoso, sebbene la stanzetta fosse
davvero
piccola: l’arredamento era elegante, ma assomigliava
più ad
un ufficio che ad una sala da tè. Anzi, la libreria, il
tavolo da biliardo e il tavolino quadrato la rendevano molto
simile ad una bisca.
Marcello si chiese se non fosse una specie di ufficio che Carter era
solito usare, allorquando si trovasse a Roma, per gestire i suoi
affari.
Legali ed illegali.
Si accomodarono al tavolo ed immediatamente Miller
consegnò ai due giovani un plico di fogli, in attesa che il
miliardario cominciasse a parlare. Cosa che non tardò ad
avvenire.
«Come potrete leggere dalla brochure informativa che vi ha
dato John, il progetto per il quale stiamo cercando dei partner
finanziatori riguarda qualcosa che guarda al futuro. Vale a dire,
una
piattaforma per l’estrazione del petrolio, da costruire nel
Mare del Nord»
snocciolò Lord Carter, fiero di ciò che stava
proponendo.
«Un
progetto ambizioso» commentò Marcello, in perfetto
inglese, alzando
appena lo sguardo dai fogli. «Ma
perché non prendere in considerazione il Medio Oriente?
Anche lei è contro il
selvaggio sfruttamento delle risorse dei paesi meno
industrializzati?»
In realtà, il ragazzo aveva già un sospetto sulla
risposta che avrebbe ricevuto, ma doveva mostrarsi un po’
ingenuo se
voleva davvero sapere fin dove voleva spingersi il magnate.
«Niente
affatto.
Ci sarebbe piaciuto aprire un’altro impianto di nostra
proprietà in Kuwait... ma già la costruzione del
primo ci
ha dato qualche problema con l’Unione Sovietica e con gli
Stati
Uniti, senza contare che entreremmo in conflitto con la British
Petroleum2.
Così, abbiamo deciso di rivolgerci altrove, anche per
offrire all’industria petrolifera uno sbocco in Europa»
spiegò l’imprenditore, con un sorriso sottile.
«Senza dover elemosinare l’odioso aiuto di
altri».
Gerardo lanciò uno sguardo di sbieco al suo amico:
evidentemente anche lui stava cominciando a capire che razza
di persona
fosse l’uomo che avevano davanti.
«Si vocifera che la British
Petroleum voglia acquistare la Britoil»
disse Marcello, incrociando le braccia sul petto.
«Ovvio
che non voglia altri concorrenti, nel momento in cui si sta espandendo.
Però, Lord Carter, non capisco una cosa: il Mare del Nord,
per
quanto ricco di petrolio, non può assolutamente reggere il
confronto con i giacimenti del Caucaso e dei Paesi Arabi. Siete sicuri
che costruire lì sia un buon investimento?»
«Abbiamo
fatto delle ricerche. I nostri periti hanno stabilito che la zona
è più che adatta al nostro progetto»
intervenne
Miller, alzandosi in piedi, adirato, come se fosse stato toccato un
argomento delicato. «Nelle ultime
pagine del dossier ci sono i
resoconti delle perizie...»
«Non ho una laurea in ingegneria chimica e nemmeno in
geologia,
non credo di avere le competenze necessarie per capire ciò
che
c’è scritto. Mi sembra inutile farmelo leggere,
non trova?»
L’assistente prese nuovamente posto, senza staccare mai gli
occhi
dal
ragazzo. Marcello fu sicuro che se avesse potuto l’avrebbe
incenerito seduta stante, tuttavia, poiché il suo astio
era pienamente ricambiato, forse Miller non avrebbe avuto la meglio.
Entrò, proprio in quel momento, il cameriere di prima, con
in
mano un vassoio con quattro bicchieri e una bottiglia di vino.
«Oh! Wrotham Pinot,
l’unico vino autoctono inglese!» esclamò Carter.
Il biondo questa volta poté osservare meglio
l’inserviente e si
sorprese della cicatrice sotto l’occhio che non aveva avuto
modo
di notare prima, accorgendosi che ogni nuovo particolare che scopriva
gli faceva passare
sempre di più la voglia di concludere un affare con quei
tipi.
Una volta che i calici furono pieni, il signore andò via e
Gerardo prese la parola: «Immagino che non saremo i soli a
competere per la partnership, vero?»
«No,
infatti» rispose Miller, pronto.
«Già altre società ci hanno fatto
diverse proposte.
Di solito noi facciamo scrivere e firmare le offerte, quindi le apriamo
tutte insieme alla presenza di un notaio e contattiamo il vincitore,
ossia chi ha fatto l’offerta più vantaggiosa, con
meno
interessi».
«Sembra
quasi una gara d’appalto» commentò il
ragazzo.
«Infatti
lo è. Lo Stato Britannico collabora per una buona
percentuale
nel progetto, pertanto ha disposto che sia fatto tutto secondo la
legge» ci tenne a precisare l’assistente.
Gerardo e Marcello si scambiarono l’ennesima occhiata e,
capendosi al volo, non posero altre domande.
Durante l’ultimo quarto d’ora
dell’incontro, John
Miller si affannò a spiegare a Gerardo quando e come loro
avrebbero dovuto fare l’offerta per finanziare parte della
costruzione della piattaforma (ignorò deliberatamente
Marcello
perché, probabilmente, l’aveva preso in
antipatia), mentre
Lord Carter, sorseggiando il suo vino, lanciò alcune
occhiate
inquisitorie ai due giovani, anche se non proferì
più
verbo.
Intorno all’una e mezza, i due inglesi salutarono i giovani
e,
sostenendo di avere altri importanti questioni da sbrigare, entrarono
nella berlina e l’autista partì a tutto gas.
«Cosa
ne pensi?» chiese Gerardo, non appena l’auto, con a
bordo il miliardario e il suo assistente, sparì alla loro
vista.
«Che
non mi piace» commentò Marcello,
lapidario. «Abbiamo fatto
bene ad accertarci di persona di
come stanno realmente le cose. Tuttavia, dobbiamo ammettere che,
questa volta, le dicerie sul suo conto erano tutte vere: a
quell’uomo interessa solo raggiungere i suoi scopi, non
importa
come».
«Vuoi
dire che dobbiamo guardarci anche dai suoi intrallazzi?»
chiese
Gerardo, lanciando all’amico uno sguardo di
complicità.
«Esatto.
Ci sono contraddizioni in ciò che hanno detto lui e quel
Miller, non me la contano giusta. Deve esserci sotto qualcosa
di molto losco ed è meglio tenersene fuori»
affermò con sicurezza il giovane. «Inoltre,
credo che sarà lui stesso a sollevarci
dall’incomodo di
dirgli di no: non vinceremo mai l’appalto».
«Be’,
in effetti, non
penso proprio che voglia concederci la possibilità di
entrare in affari con lui. Non si è mostrato molto ben
disposto verso di noi».
«Oh,
ci strapperemo tutti i capelli, per il dolore che ci
provocherà questo
rifiuto» osservò il biondo, con una buona dose di
sarcasmo.
Il
moro ridacchiò.
«Se
ci fosse stata anche Vittoria, ti avrebbe dato man forte. Nemmeno lei
ha una buona opinione su Carter» considerò, mentre
si avviavano tutti e due sulla via di casa.
«A
proposito di Vittoria, ho
saputo che è venuta da te perché pensava avessimo
litigato».
«Ah
sì, è vero» rispose Gerardo, cambiando
repentinamente espressione e rabbuiandosi.
«Cosa
c’è?»
«Niente».
«Senti,
Gerardo...»
cominciò Marcello, come se si stesse preparando a sostenere
un estenuante seduta per contrattare qualche affare. «Non
facciamo inutili giri di parole. Se è per Maria Luisa sai
benissimo che...»
«Maria
Luisa non c’entra. O meglio, lo sai, mi piace come ragazza,
ma la questione è
più complicata di quello che è».
«Che vuoi dire?»
chiese, fissando interdetto l’altro, il quale, dopo aver
ricambiato l’occhiata, si preparò a replicare.
«Be,
è vero che l’altra sera sono stato un
po’ invidioso di te perché te ne sei andato
sottobraccio a lei, tuttavia...»
Il biondo, esasperato,
alzò gli occhi al cielo e sbottò: «Ma
se ti ho detto poco fa che non mi interessa! Gerardo, non essere
ridicolo. Non possiamo mandare a rotoli anni e anni di sincera amicizia
per via di una gallina come Maria Luisa!»
L’amico lo
guardò e si abbandonò ad un sospiro di stanchezza.
«In realtà, lo so che non ti interessa, ti ho
visto
andare via con quella ragazza dai capelli rossi... ma
il punto è che tu puoi scegliere con chi stare, io no.
Perfino Vittoria, che ci conosce entrambi da tempo immemore, preferisce
te a me».
«Vittoria?
Ma se ti adora! Ha sempre una buona parola per te! Pensa che si
preoccupava che potessi finire sotto il giogo della Foscari!»
Adesso, a Marcello non importava più di insultare quella
cornacchia davanti a Gerardo: lo considerava più fratello di
Tiberio, pertanto non poteva permettere che finisse
sposato con quella lagna ambulante!
«Eh, già.
Intanto si è fidanzata con quel carciofone dello scultore,
la cara Vittoria!»
commentò l’altro, con un misto di amarezza e
disgusto.
«Gerardo,
non mi piace il discorso che stai facendo»
replicò a viva voce il biondo. «Ho
capito dove vuoi andare a parare: che devi accontentarti di chi sia
disposta a sposarti. Ti sembra un ragionamento logico?»
«Forse
non lo è, ma tu non puoi capire, Marcello. Io non ho le tue
qualità, sei tu quello che eccelleva in matematica a scuola,
il
primo nelle gare sportive, il più bravo del nostro corso all’università,
il più acclamato dalle ragazze. Io, invece, non posso
aspirare ad una
moglie piena di doti».
«Pensi
davvero che bastino quelle cose ad affermarsi come persona?»
domandò il giovane, incredulo.
Gerardo scosse la testa: «No,
ma non puoi negare che avere una buona immagine aiuta. Credevo che,
dopo essere stata rifiutata da te, con Maria Luisa avessi
almeno un’opportunità».
Marcello sgranò gli occhi, dubitando per un attimo di aver
davvero sentito bene.
«Non riesco a
credere alle mie orecchie! Stai
parlando come mia madre! Non dirmi che anche tu credi che uno si debba
accasare
a tutti i costi, anche se non ama la persona che sta sposando?»
«Non
è proprio così»
ribatté l’altro, insistendo sulla sua posizione. «Io
vorrei sistemarmi anche perché,
così facendo, forse, finirei di pensare alla donna che amo e
che
non posso
avere, dato che è già impegnata».
«Aspetta
un attimo. E chi sarebbe?» domandò
Tornatore, sempre più confuso.
«Non importa il
nome. Importa solo che io per lei sarò sempre invisibile»
rispose Gerardo, sorridendo malinconicamente.
«Scusami,
ma continuo a non capirti. Hai provato almeno a dire alla Ragazza del
Mistero quello che provi per lei?»
«Sarebbe
inutile, lascia stare. Anzi, lasciamo stare l’intera
faccenda».
Marcello aggrottò marcatamente le sopracciglia, tanto che
comparvero rughe profonde sulla fronte. Non riusciva davvero a
credere che il suo migliore amico, una persona tanto buona e pacata,
fosse arrivata a simili orribili conclusioni, riguardo al prender
moglie.
«Dai,
non starci troppo a pensare. Siamo amici come prima?» fece il
ragazzo bruno, con il chiaro intento di sdrammatizzare, dopo aver
osservato il cipiglio dell’amico.
«Ovvio...
però... anche tu hai tante qualità. Vorrei che
non lo dimenticassi» aggiunse Marcello, preoccupato per
ciò che aveva udito.
«Certo,
certo» rispose l’altro, facendo spallucce. «Allora
ci riaggiorniamo domani, così da decidere come muoverci con
Carter. Buona giornata, Marcello».
Il
biondo ricambiò il salutò e rimase a guardarlo
mentre si
allontanava. Non avrebbe mai creduto che il suo migliore amico potesse
essere
geloso di lui e
Vittoria, come se entrambi l’avessero escluso, come se fosse
lo scarto del gruppetto. Gli sembrava quasi... risentito. Il solo fatto
che Gerardo avesse potuto pensare cose simili, fece capire a Marcello
quanto l’amico
soffrisse ad essere costantemente eclissato da lui. Cosa, per altro,
assolutamente non voluta.
Erano cresciuti praticamente insieme, ma mai avrebbe sospettato
che ci fossero questi celati dissapori. Gli dispiaceva vedere la
persona che considerava al pari di un fratello
così affranta e, in certo senso, rassegnata. Sicuro che
anche Vittoria fosse del suo stesso avviso, il giovane si ripromise che
ne avrebbe discusso anche con lei; magari insieme avrebbero trovato il
modo di dissuadere il loro amico dal compromettersi per sempre,
sposando Maria Luisa Foscari e le sue perpetue svenevoli lagne. Magari,
in futuro, Gerardo avrebbe avuto modo di incontrare una fanciulla dolce
e che sapesse apprezzarlo veramente.
Appuntandosi mentalmente il proposito, il ragazzo seguì il
corso di Via della
Conciliazione, così da prendere la metro e
tornare a casa, quando, in una vetrina di una libreria, notò
qualcosa che attirò la sua attenzione: un libro sulla vita e
l’arte di Caravaggio ed il pensiero di Beatrice si
materializzò istantaneamente nella sua mente.
In effetti, si trovava a pochi passi dalla Cappella Sistina e
dagli uffici dei Musei
Vaticani. Perché non provare a vedere se si
potesse prenotare direttamente da lì?
Animato da quell’idea, decise che si sarebbe recato di
persona a chiedere informazioni, ma prima voleva assolutamente
acquistare quel libro: era certo che Beatrice avrebbe apprezzato il
regalo almeno quanto i fiori e, con buone probabilità,
persino Vittoria si sarebbe dimostrata soddisfatta della sua iniziativa.
Entrato nel negozio, il ragazzo si diresse immediatamente allo scaffale
dove erano riposti i libri d’arte; e fu particolarmente
fortunato, perché il volume che cercava era sistemato in una
grande pila, segno che il negozio ne aveva copie in abbondanza. Ne
prese una, ma, una
volta alla cassa per pagare, notò che la cassiera era
impegnata
in tutt’altre faccende, infatti, stava gaiamente
civettando con un giovane, mollemente appoggiato al bancone.
«Ma è
veramente oro?» chiese la ragazza,
ammirando il bracciale che aveva al polso.
«Oro.
Vero oro, vero come il mio amore per te, ma non abbastanza bello da
eguagliare la tua bellezza» languì il
ragazzo.
La ragazza emise una serie di snervanti risolini, mentre Marcello
avvertì i denti che gli facevano male, certamente per la
dose
eccessiva di stucchevolezza racchiusa in quelle parole.
«Signorina, mi scusi, io avrei una certa fretta.
Perché
non invita il suo corteggiatore a tornare quando non ci sono clienti?»
proruppe il giovane, senza celare il suo disappunto.
La ragazza trasalì e si fece paonazza, mentre
l’altro si girava verso il biondo.
«Tornatore,
i fatti tuoi non riesci mai a farteli, vero?»
«No,
Colonna. Traggo un particolare piacere dal romperti le uova nel
paniere» rispose Marcello, avendo
immediatamente riconosciuto nel suo interlocutore una delle persone che
meno gradiva al mondo.
Ascanio Colonna sogghignò in maniera cattiva e
sibilò:
«Verrà il giorno in cui scenderai dal piedistallo
che ti
sei costruito. Oh, se scenderai...
ed io sarò lì, in prima fila, pronto a
deriderti».
«Allora
ricordati di prenotare. Quei posti vanno via subito, non vorrei che poi
fossi costretto a rimanere in piedi».
Sul volto del giovanotto il sorriso appassì.
«Prima
o poi ti passerà anche tutto questa voglia di scherzare,
vedrai»
sussurrò, sfidando il nemico con lo sguardo.
Poi si voltò verso la commessa, dicendo: «Ci si vede,
bambola!»
Girò sui tacchi ed uscì dal negozio. Marcello lo
guardò allontanarsi, pensando che, anche se il futuro per
lui
avesse avuto in riserva dei brutti momenti, di certo non sarebbe caduto
mai
nelle bassezze di cui era capace Colonna.
«Un
po’ di gentilezza non fa mai male, sa?» lo
rimbrottò
la ragazza, indispettita per la dipartita del suo corteggiatore.
«Ha
pienamente ragione, ma solo con chi merita»
replicò
il ragazzo, asciutto. Pagò in fretta ed uscì
dalla
libreria, lasciando la cassiera particolarmente imbronciata. E si
ritrovò a sorridere, pensando a come l’avrebbe
presa
quella ragazza, se avesse saputo che Colonna si intratteneva
abitualmente
con almeno altre dieci.
***
Quando Beatrice vide per la prima volta Campo de’ Fiori,
subito ne rimase entusiasta. La statua di Giordano Bruno, posta
lì in memoria del suo ingiusto rogo, sembrava un
po’ fuori
luogo tra i banchi dei mercanti, che cercavano di procacciarsi i
clienti, declamando a gran voce la bellezza della propria merce.
I colori ed i profumi, però, conquistarono immediatamente la
fanciulla, che prese a guardarsi intorno con grande
curiosità.
«Stammi dietro e non ti perdere»
la richiamò scortesemente Anna Laura, precedendola di
qualche
passo. «Non ho intenzione di venirti a cercare, non ho tempo
e tantomeno voglia!»
La ragazza si affrettò a seguire la cugina, evitando di
ribattere: era talmente contenta di esser potuta uscire a fare acquisti
(anche se, in realtà, le compere non erano per lei), che
lasciò correre anche i borbottii della parente. Uscire con
quest’ultima, però, non era semplice, dato che,
per trovare il prezzo migliore, la donna aveva
l’insana mania di fare il giro di tutte le bancarelle
svariate
volte, fermandosi ad ognuna per parecchi minuti, neanche fossero le
stazioni della Via
Crucis.
«Qui
sembrano avere buoni prezzi» mormorò Anna
Laura, sbirciando il cartellino dei geranei.
Beatrice gironzolò attorno alla bancarella, incuriosita
dalle buganvillee
dai colori sgargianti: le sarebbe piaciuto avere una di quelle piante
sulla veranda, magari da lasciar crescere lungo il reticolato, accanto
al
gelsomino, ma, dopo aver visto il prezzo, cambiò idea.
Forse sarebbe stato più saggio scegliere una piccola pianta
da
tenere in camera, una di quelle piccole piante grasse in vaso...
«Anna Laura!»
La fanciulla si voltò, attirata da qualcuno che chiamava a
gran
voce la cugina. Fece scorrere lo sguardo lungo il corridoio che si
era creato tra i banchi di fiori, cercando di capire chi
fosse, e
vide una ragazza in bicicletta che agitava una mano: stava venendo
verso di loro. Non capì, d’impatto, di chi si
trattasse,
ma la ragazza era certa che non fosse un viso sconosciuto.
«Oh,
no! Quella poco di buono della Farnese!»
gracchiò Anna Laura, come se avesse una spina in gola.
Vittoria fermò la bicicletta e scese con grazia,
sistemandosi la
gonna dell’abito azzurro e il cappello di paglia
dall’ampia
falda.
Beatrice osservò la nuova venuta e non poté fare
a meno
di pensare che fosse una ragazza davvero bella e non si sarebbe
meravigliata se avesse scoperto che era una modella.
«Anche tu a far
compere?»
chiese la giovane, mentre posizionava il cavalletto, così da
non far cadere il suo velocipede.
«Sì,
stavamo dando un’occhiata, ma non c’è
mai niente
di bello da queste parti, sicuramente andrò da
Mastelli, quello sì che è un vivaio».
«Mastelli?
Ma se ha chiuso per rinnovo del negozio!» notò Vittoria,
perplessa.
Anna Laura assunse un cipiglio stizzito: «Vorrà
dire che il nostro giardino aspetterà. Solo i migliori
possono
metterci mano. E tu, Vittoria, come mai sei qui?»
«Cercavo
qualcosa per colorare il salotto e ho trovato questo mazzo di tulipani
rossi e arancioni, sono arrivati freschi dall’Olanda, guarda
che belli!»
«A me
sembrano un po’ kitch»
rispose l’altra, squadrando i fiori come se fossero erbacce
infestanti.
«Io
invece trovo che
siano adorabili» si intromise Beatrice,
ingenuamente.
«Nessuno ha chiesto il tuo parere, sciocca ragazzina».
Vittoria guardò
la giovane, accorgendosi della sua presenza.
«Chi
è questa ragazza, Anna Laura?»
«Lei è mia cugina Bea... Scusala, manca di
educazione».
«Educazione? Solo per aver detto la sua su un mazzo di fiori?»
chiese l’altra
interlocutrice, stupita. Poi si rivolse direttamente alla fanciulla.
«Bea,
da Beatrice, immagino. Come la donna amata dal Sommo Poeta».
«Sì,
infatti preferisco
esser chiamata
con il mio
nome intero» precisò la
ragazza, lanciando un’occhiata risentita alla cugina, la
quale ignorò l’osservazione.
«Trovo
che sia un bel nome...» commentò Vittoria,
lasciando la frase in sospeso. Rimase a fissare per qualche secondo
Beatrice e poi, come se avesse fatto un collegamento,
esclamò:
«Ora capisco
perché hai un viso familiare: sei la ragazza che
è
andata via con Marcello l’altra sera!»
Anna Laura stritolò tra le mani il portafoglio, mentre
la fanciulla spalancò le sue iridi blu.
«Lei
conosce Marcello?»
«Oh, cara, non darmi del lei, chiamami solo Vittoria. E
sì, conosco molto bene Marcello, siamo amici
dall’infanzia!»
rispose la donna,
sorridendo.
Beatrice rimase a dir poco sorpresa, come se quella rivelazione avesse
un che di fastidioso e deludente. Improvvisamente si sentì
molto
triste.
«Anna, devi portare anche tua cugina alla mostra di
Bartolomeo, assolutamente!»
esclamò Vittoria, avvicinandosi alla sua biclicletta.
«Manderò l’invito ad entrambe. Ora
scusate se vi
lascio, ma devo correre a sbrigare delle importanti commissioni».
«Ma certo, chi
vuole... voglio dire, figurati, non ti tratteniamo oltre».
La ragazza guardò Anna Laura con un leggero cipiglio, come
se
avesse afferrato l’ironia, tuttavia non ci diede peso.
Salutò le cugine e ripartì in velocità.
«Oca starnazzante, che bisogno c’era di invitare
anche te?»
brontolò la più grande delle due ragazze.
«Solo
perché hai avuto la fortuna sfacciata di aver conosciuto
Marcello!
E, comunque, Bea, imparerai che Vittoria Farnese non fa mai nulla per
caso:
sicuramente ti farà andare per dimostrarti che solo lei
può vantare diritti su Tornatore!»
Beatrice guardò l’altra parecchio confusa.
«Cosa
stai dicendo?»
«Quel
Bartolomeo che ha nominato è il suo fidanzato. Ma lo sanno
tutti
che è una copertura, e che lo terrà solo
finché non
avrà trovato il modo di far cadere Marcello ai suoi piedi.
Maledetta arpia, come se non le bastassero le schiere di uomini che le
sbavano dietro! »
«In realtà... vorrebbe Marcello?»
«Ma non è ovvio? Ah, sei solo una sciocca
ragazzina che ancora non sa come va il mondo!»
sbraitò la donna. «E la Farnese non
è altro che una bagascia lussuoriosa. Perfino Ascanio
Colonna,
un altro importante imprenditore, si è messo a
farle il
filo. Eh, ma Tornatore sarà mio. Lei e la Foscari devono
stargli
lontane! Vedremo chi la spunterà, dopo questa
mostra!»
Beatrice
seguì la cugina in silenzio. Sinceramente, a lei Vittoria
aveva
fatto una buona impressione e non credeva affatto alle maldicenze che
erano uscite dalla boccaccia di Anna Laura. Ciononostante, doveva
ammettere che una cosa era vera: Vittoria Farnese era amica molto
stretta di Marcello Tornatore, e lo stesso ragazzo l’aveva
accennato in più di un’occasione. Quindi la
possibilità che tra di loro vi fosse del tenero non era poi
così recondita.
La fanciulla sospirò forte e si strinse nel giaccone,
avvertendo
un freddo non avente nulla a che fare con il vento che aveva iniziato
in quel momento a
spirare.
***
«La nebbia a gl’irti
colli/piovigginando sale,/e sotto il maestrale/urla e biancheggia il mar;» declamò a gran
voce il signor Rossiglione. «Continua tu, Beatrice. Ricordi
la lirica di Carducci San
Martino, vero?»
Ma la ragazza aveva la testa altrove. Erano trascorse circa due
settimane dall’ultimo incontro che aveva avuto con Marcello:
era
già passata la metà di ottobre e non aveva
ricevuto
alcuna chiamata da parte del giovane. Magari aveva ragione Anna Laura,
e aveva davvero aveva una relazione segreta con Vittoria, oppure si
era dimostrato gentile con lei solo perché sarebbe stato
sconveniente dirle in faccia che era solo una ragazzina petulante. Ma
allora perché accettare il suo invito? Perché
uscire con
lei? Che l’avesse fatto sempre per cortesia e non
perché
provava un minimo di interesse nei suoi confronti?
«Beatrice?
Ci sei?»
la richiamò il
suo precettore, sventolandole una mano davanti agli occhi.
«Uh? Cosa?»
rispose la giovane, palesemente soprappensiero.
«Sono cinque minuti che cerco di attirare la tua attenzione.
Oggi hai la testa tra le nuvole più del solito».
Beatrice fissò il suo insegnante e sospirò:
«Mi scusi. Non sono
molto presente».
«Non credo stamattina abbia molto senso proseguire, direi di
riprendere domani.
Però cerca di rivederti Carducci, nel pomeriggio. Ricordati
che
affronterai l’esame di Stato come privatista, saranno molto
severi con te» le disse, cominciando a riordinare i libri.
La ragazza era molto affezionata a quell’uomo paffuto e dai
modi
cortesi perché era stato uno dei pochi veri amici di Lapo
Tolomei e, in
quanto tale, si era preso la responsabilità di provvedere
all’istruzione di Beatrice. Le dispiaceva non potergli
confidare
il perché delle sue distrazioni, dato che era
l’unica
figura che potesse somigliare abbastanza a quella di un padre, ma non
voleva fare la figura dell’illusa.
Perché era questo, che in quel momento, Beatrice si sentiva
di
essere: semplicemente una bambinetta stupida, che si era lasciata
abbindolare dal pensiero di poter piacere ad un ragazzo come Marcello.
«Sì, lo so, me l’ha già
fatto questo discorso. E
cerco
di
metterci tutto l’impegno possibile»
rispose la fanciulla, infastidita dalle considerazioni che aveva appena
tratto.
«Si
vede che ti impegni, Beatrice. Ho promesso a tuo padre che ti avrei
aiutato a prendere il diploma e così sarà».
Rossiglione mise i libri e le penne nella borsa di cuoio consunto, la
chiuse e se la mise in spalla.
«Ora
riposati e cerca di sgomberare la mente dai pensieri molesti»
le raccomandò, rivolgendole un sorriso tra il serio ed il
divertito. Beatrice si chiese se l’uomo non avesse intuito
tutto
quanto; d’altra parte aveva più di
cinquant’anni, ma un tempo era
stato anche lui giovane e aveva perfino due figli, quindi
certamente sapeva come fosse complessa la gioventù.
Lo accompagnò fino al cancello e lo salutò,
augurandogli
buon proseguimento di giornata. Fu solo quando rimase sola che Beatrice
si concesse di tornare a torturarsi con i propri cupi pensieri, il suo
animo era inquieto e le insinuazioni di Anna Laura, condite dai propri
timori, scaturenti dal silenzio di Marcello, non facevano che
peggiorare la situazione. Ciononostante, poiché la fanciulla
era
un tipino risoluto, arrivò alla conclusione che non servisse
a
nulla stare a rimuginare dentro di sé: doveva accertarsi di
persona di come stessero le cose e, per fare questo, avrebbe potuto
fare solo una cosa, ossia recarsi di persona da lui.
Rientrando in casa, lanciò un’occhiata nervosa
all’orologio a pendolo del corridoio: era l’ora di
pranzo,
se si fosse messa in marcia subito forse sarebbe potuta arrivare a casa
dei Tornatore per il primo pomeriggio.
Sarebbe stata la mossa giusta? Sarebbe stato educato? O sarebbe passata
per una sfrontata? Be’, come diceva il detto, sempre meglio
un
rimorso che un rimpianto. D’altra parte era tutta questione
di
faccia tosta, no?
Ora che ci pensava, in realtà, aveva anche un
plausibilissima
scusa per cercare di rivedere Marcello: il soprabito che non gli aveva
più restituito.
Corse di sopra, aprì l’armadio, trovò
facilmente
il capo d’abbigliamento del giovane e lo piegò,
così da metterlo nella sua borsa di panno beige, poi si
ravviò i capelli e scese di corsa le scale, sperando di
uscire
prima che rincasasse qualcun altro e la vedesse.
Se non ricordava male, Anna Laura le aveva detto che Marcello viveva in
una casa nei pressi del quartiere pinciano e la fanciulla era certa che
chiunque, fra gli abitanti del quartiere, avrebbe saputo indicargli la
famosa villa. Senza indugiare oltre, aprì il
cancello e
si mise in strada, convinta che l’unico modo di mettere a
tacere
le dicerie fosse accertarsene con i propri occhi e le proprie orecchie.
***
Nel rincasare, dopo aver pranzato con alcuni suoi collaboratori,
Marcello venne investito da urla acute provenienti dal giardino.
Scocciato e affatto preoccupato (poteva, infatti, avere una chiara idea
di cosa stesse succedendo, dato che si ripeteva ogni settimana lo
stesso copione), decise di andare a dare un’occhiata.
La scena che gli si presentò davanti era tristemente
familiare:
Ortensia
svenuta sul prato, una cameriera che le faceva aria con dei ventagli,
un’altra che reggeva tra le braccia la piccola Claudia,
Tiberio, inginocchiato al fianco della moglie, che le teneva
una
mano e la Matrona che
batteva a terra, nervosamente, la punta della scarpa. Con suo sommo
sollievo, però, non vide traccia di suo padre.
La commedia popolare, decisamente, non doveva rientrare tra i suoi
gusti.
«Insomma, Ortensia, non
puoi farti prendere sempre da queste crisi di nervi!»
«Mamma,
lo sai che non può sentirti» replicò
seccatamente
Tiberio.
«Ma
è mai possibile che questo psicologo ancora non abbia capito
come aiutarla?»
«Non
sono cose semplici, ci vuole del tempo».
Madama Claudia si aggiustò la gonna con un gesto di stizza,
come
a dire che, secondo lei, la questione dello psicologo era tutta una
gran pagliacciata.
«Cosa è successo?» chiese il signor
Giancarlo, sbucando da dietro un cespuglio di rododendri.
«Ah, eccoti! Si può sapere dov’eri?» lo rimbrottò
la moglie, inviperita.
«Ad innaffiare la siepe. I giardinieri non hanno finito» si difese placidamente
l’uomo. «Oh, Marcello, ben tornato!»
«Buon
pomeriggio a tutti»
salutò il
giovane, avvicinandosi alla scena del crimine. «Stavolta
chi è l’assassino?»
Il padre scoppiò in una sana risata, mentre Madama Claudia e
Tiberio gli rivolsero sguardi taglienti.
«Saresti
dovuto essere qui un’ora fa!» gli sbraitò
contro la madre. «Che
fine avevi fatto?»
«Sono
tornato a casa il prima possibile».
La donna stava per aggiungere qualcos’altro ma, proprio
allora,
la bambina cominciò a piangere e Ortensia riprese i sensi.
«Era
ora!»
sbottò Madama Claudia, scansando prepotentemente la
cameriera
che stava sventolando la nuora. «Be’, cosa
fai
ancora qui? Torna alle tue mansioni, non servi più!»
La ragazza, paonazza, balbettò qualcosa, fece una maldestra
riverenza e si eclissò alla velocità della luce.
«Ortensia,
come stai?»
chiese Tiberio, aiutando
la moglie a rialzarsi.
«Oh, tramortita... Mi sento tramortita...» annunciò, con
tono teatralmente piagnucoloso. «Ti prego, ho bisogno del
dottor van der Meer, portamici subito!»
L’uomo guardò perplesso la moglie, ma
annuì.
«Mamma,
noi...»
«Ho capito, ho
capito, andate! Anzi, sparite dalla mia vista, prima che venga a me una
crisi di nervi!»
Marcello guardò andare via la cognata che, appoggiata al
braccio
del marito, aveva un’espressione fin troppo contrita. Il
giovane
increspò le labbra: non l’avrebbe mai ammesso, ma
aveva i
suoi sospetti sul perché Ortensia svenisse, puntualmente,
quando
veniva a trovare la suocera. Guarda caso, quando andava a trovare sua
madre,
non accadeva niente di tutto questo.
«Che
smidollata!» commentò Madama Claudia. «E che madre
snaturata! Ha lasciato, ancora una volta, qui sua figlia!»
In quel momento, nonna e nipote sembrava stessero facendo a gara a chi
potesse urlare
più forte: emettevano strilli talmente acuti, che presto
sarebbero stati captati dai ricevitori degli ultrasuoni.
La Matrona, allora, si avvicinò alla cameriera che teneva la
piccola,
gliela strappò di mano e la congedò.
«Ortensia
sta poco bene, ha lasciato qui la figlia perché sa che con
la
nonna non le può capitare nulla di male»
osservò il
signor Giancarlo.
A quest’osservazione, qualsiasi nonna sarebbe stata contenta,
anche se Madama Claudia era tutto fuorché una
nonna propriamente detta. Si girò verso il marito e gli
inveì contro: «Io?
Io sono scossa almeno quanto Ortensia! Non sono in grado di provvedere
ad alcuno! Piuttosto, tu e tuo figlio che avete fatto? Niente! Adesso
è giusto che vi diate da fare anche voi!»
La donna appioppò
malamente la bambina al figlio minore, ammonendolo: «Prenditi
cura tu di Claudia finché non tornano! Io ho bisogno di
andare a riposare la testa. Credo che andrò al tea party di
Clelia».
Si sistemò i capelli con fare impettito e uscì di
scena.
La pargoletta, improvvisamente, smise di piangere: era come se gradisse
particolarmente essere tra le braccia dello zio. Marcello
guardò
la nipotina e poi il padre, infine sospirò: «Almeno
si è calmata».
«Sembra
proprio in procinto di addormentarsi»
commentò
il signor Giancarlo, con fare rassicurante. «Se continua
così, puoi anche tenerla con te sotto al gazebo, nella sua
culletta. Così puoi sbrigare la corrispondenza,
mentre io finisco di innaffiare la siepe».
«Mi
sembra un’ottima idea»
assentì
il giovane. Chiese ad una cameriera di portargli alcuni fascicoli e,
poi, scese le scale, per sistemarsi sotto al gazebo. Poggiò
delicatamente Claudia nella
culla e la coprì con la copertina, dopo di che si
posizionò in modo da riparare la bambina da eventuali
spifferi
di vento, perché, nonostante fosse una bella giornata, era
pur sempre ottobre.
Una volta che gli furono portati i documenti che aveva
chiesto, si
accomodò sulla poltrona
di vimini, accavallando una gamba sull’altra
e immergendosi
nella lettura, mentre si estraniava dal resto del mondo.
***
Nel vedere il nero ed imponente cancello di Villa Aurelia, Beatrice si
accorse che la sua idea non era poi così brillante. Ogni
passo
che
l’avvicinava alla residenza dei Tornatore le faceva venire
in
mente almeno dieci buoni motivi per i quali avrebbe dovuto fare
dietro-front e tornare nella sua squallida stanzetta. Aveva appena
deciso di allontanarsi il prima possibile, quando si sentì
chiamare: «Buonasera, signorina, possiamo fare qualcosa per
lei?»
Beatrice si voltò, notando che il cancelletto pedonale era
stato aperto da un uomo che ora la fissava bonariamente.
«L’ho vista titubante. Stava cercando noi?» proseguì con
estrema tranquillità il signore.
La fanciulla si guardò intorno: non c’era nessun
altro nei
paraggi, di conseguenza non potevano esserci fraintendimenti sul fatto
che quelle parole fossero indirizzate proprio a lei.
«Buonasera» rispose lei con una
vocina flebile. «Io... E
vorrei solo parlare un attimino con Marcello».
«Oh,
bene, appena rincasato! È fortunata ad essere arrivata
ora».
«Sì,
ecco, devo restituirgli una cosa
che m’ha prestato, un paio di settimane fa».
«Allora venga, signorina, la condurrò io da
Marcello.
Come si chiama?»
Nell’osservare l’uomo, la fanciulla si rese conto
che aveva gli stessi, rassicuranti, occhi verdi del giovane.
Probabilmente
doveva essere suo padre.
«Beatrice».
«Che
bel nome, come la Beatrice di Dante!»
esclamò il signor Giancarlo, entusiasta. «Venga,
signorina, per di qua».
La fanciulla venne condotta in quello che, a suo parere, era uno
splendido giardino, perfettamente curato. Passò davanti alle
fontane di pietra, gorgoglianti d’acqua, ai viali di ciottoli
e ghiaia,
alle aiuole profumate: le sembrava un’oasi di pace, dove
avrebbe potuto
trascorrere dei momenti di pura tranquillità.
“Con Marcello” aggiunse il suo inconscio, facendola
lievemente arrossire. In fondo, quella era casa del giovane, era il suo
giardino, non era mica così strano, immaginarsi a
passeggiare
lì con lui.
Il signor Giancarlo si fermò all’improvviso,
indicandole un gazebo posto sotto ad un tasso.
«Siamo quasi arrivati, come vedi, Marcello è
lì».
Beatrice seguì con lo sguardo la direzione indicatale e,
finalmente, lo vide: il ragazzo era così preso dalla lettura
di
alcuni fogli, che non si era reso conto di essere osservato da ben due
persone. Leggeva e sottolineava, girava i fogli, come se fosse in cerca
di qualche nozione in particolare, annuiva o aggrottava la fronte.
La giovane sorrise e, seguendo l’uomo, si avvicinò.
***
Marcello
sbuffò sonoramente, seccato dal resoconto sconclusionato che
si
era ritrovato tra le mani: di sicuro, chi l’aveva scritto, o
era dalla
parte di Carter (e quindi ci teneva a non far capire cosa stesse
facendo esattamente il magnate, rendendo il testo incomprensibile),
oppure era, semplicemente, analfabeta; dopo qualche minuto, il biondo
pensò che
forse
erano vere entrambe le ipotesi.
Stava giusto per strappare tutto quell’insieme di
insulsaggini, quando suo padre lo chiamò.
«Guarda chi è venuta a trovarti!»
Alzò lo sguardo e si trovò quasi faccia a faccia
con la fanciulla.
«Beatrice!» esclamò,
sbigottito. «Come...
Cosa ci fai qui?»
«Non
è un modo molto carino di accogliere la nostra
ospite!»
lo riprese bonariamente il signor Giancarlo. «Falla
accomodare
accanto a te. Manderò Ottavia o Annetta per portarvi qualcosa».
Il giovane, che era rimasto come pietrificato, annuì
distrattamente e poi si rivolse alla ragazza: «Sì...
ecco... ehm, volevo dire, accomodati».
Lei sorrise e, senza
farselo ripetere due volte, si accomodò sulla poltroncina di
vimini accanto a lui.
«Magnifico»
commentò l’uomo, compiaciuto. «Vado
ad informare la governante. Con permesso, ragazzi miei».
Marcello osservò il padre che si allontanava, quindi si
accomodò a sua volta.
«Il vostro giardino
è meraviglioso» esordì
Beatrice, con ammirazione.
«Mio padre vi dedica molto tempo ed energie. È lui
stesso che dirige i giardinieri» spiegò il
giovane.
Seguirono alcuni istanti di imbarazzato silenzio, durante i quali si
sentì solo il cinguettare degli uccelli.
«Non l’è
stato difficile trovarti» cominciò la ragazza,
incerta. «Sembra che qui
intorno tutti sappiano dove abiti».
«Sì,
è un quartiere di pettegoli»
commentò
Marcello, sprezzante.
«Credo di doverli
ringraziare, però. Son venuta per ridarti questo».
La fanciulla aprì la sua borsa e ne cacciò fuori
il soprabito.
«Ah,
il mio cappotto. Grazie»
rispose il giovane, prendendo l’indumento. «Sarei
dovuto passare
io ma, conoscendo la situazione che c’è a casa di
tua
zia, non
sapevo quando fosse il momento giusto per farlo».
«Se
m’avessi telefonato, te l’avrei detto».
«Hai
ragione, mi ero ripromesso di farlo questo mercoledì.
Purtroppo,
Gerardo ed io abbiamo avuto molto da fare la settimana dopo che ci
siamo visti».
«E
quella dopo?»
«Quella dopo? Che intendi?»
Beatrice non rispose, limitandosi a corrugare un poco la
fronte.
«Vuoi
dire che sono passate due
settimane da quando ci siamo visti l’ultima volta?»
domandò Marcello, rendendosi conto della sua scarsa
cognizione del tempo.
«Eh, già.
Ma lo hai detto tu, hai avuto da ffare.
Magari non hai sentito il bisogno di farti sentire»
commentò la giovane, con un tono che aveva un’eco
più triste che arrabbiata.
Il biondo avvertì le guance diventare più calde,
consapevole della gaffe appena fatta. Aveva pensato molto spesso a lei
nelle settimane passate, eppure si era lasciato lo stesso
assorbire completamente dal lavoro.
Si rimproverò, per la scarsa capacità di
gestire
anche gli aspetti della sua vita che non fossero affari,
consapevole del fatto che, prima d’ora, non aveva mai avuto
modo di
interagire in maniera così diretta con una ragazza. A parte
Vittoria, ovviamente.
«Io... mi...»
iniziò lui, senza sapere bene come continuare.
«E
lei chi è?»
domandò all’improvviso Beatrice, indicando la culla
dietro a Marcello.
«Ah... Sì. Lei è mia nipote Claudia, la
figlia di mio fratello».
La ragazza si alzò, avvicinandosi alla bambina.
«Oh, com’è
carina
questa piccina! Biondina
come te, ti somiglia!» disse, accarezzandole una
guancina con l’indice. «Quanto
ha?»
«Più
che assomigliare a me, è la copia in miniatura della nonna.
Ha cinque mesi».
«Guarda
come l’è
tranquilla».
«Mentre
dorme, sì. Quando è sveglia, un po’
meno»
commentò il ragazzo, incrociando le braccia contro al petto.
«Come mai
l’han lasciata
sotto la tu’
custodia?»
«Mia
cognata ha avuto una crisi di nervi, o qualcosa di simile».
Beatrice tornò
a guardare Claudia, la quale, nel sonno, le prese il dito con la manina
e lo strinse.
«Oh!»
esclamò la ragazza, intenerita.
«Quando son
piccini sono così
adorabili. Spero di averne anch’io
uno, un giorno».
In quello che aveva detto la fanciulla, non c’era nulla di
male,
soprattutto se detto con la sua innocenza, ciononostante, Marcello si
ritrovò inspiegabilmente ad avvampare, colto da
un’improvvisa
inquietudine.
Per fortuna, alle loro spalle, giunse Ottavia, la bruna e massiccia
governante, con un vassoio carico di dolci, e questo
richiamò
l’attenzione dei due giovani. Congedata la donna, il ragazzo
fece
riaccomodare Beatrice e la invitò a servirsi, mentre
anche lui
prendeva posto, sperando che lei non si fosse resa conto del suo
repentino, quanto ingiustificato, imbarazzo.
«Hanno
un aspetto magnifico!»
disse la fanciulla,
servendosi un bignè al cioccolato.
«Sì, è vero. Li fa tutti Ottavia»
affermò il giovane, distrattamente. In quel momento, stava
pensando alla pessima figura che aveva fatto e stava cercando un modo
per porvi rimedio; alla fine, capì che, forse,
l’unico possibile era dire la
verità.
«Beatrice,
mi dispiace di non averti chiamato, non l’ho fatto apposta»
iniziò, titubante. «Pensa
che
ho perfino prenotato la visita alla Cappella Sistina e
mi sono
dimenticato di dirtelo» ammise il biondo, con una punta di
imbarazzo.
«Oh,
Marcello,
sei incredibile!»
sospirò Beatrice, ma, in realtà, era divertita. «Dai,
ti perdono perché
c’hai messo
la buona volontà. Quando dovremmo andare?»
«Il ventuno dicembre prossimo».
«Ah. È lontano come giorno».
«Vabbè,
mica dobbiamo aspettare allora per rivederci» disse il
giovane, senza pensarci troppo.
Gli occhi di Beatrice si
illuminarono.
«Ah,
a dire il vero, anch’io
mi stavo dimenticando
di dirti una cosa:
ho
incontrato la
Vittoria!».
«Vittoria?»
«Al
mercato.
M’ha invitata ad una mostra, assieme a mia cugina, anche se
l’avrei
preferito che
non ci fosse»
disse la ragazza,
sbuffando. «Tu ci sarai?»
«Ovvio, Vittoria è la mia più cara amica»
rispose Marcello, risoluto.
Beatrice lo fissò attentamente, come se volesse essere
sicura che fosse sincero con lei, poi disse: «Ed
è anche una bellissima donna. Ho saputo che ha molti corteggiatori».
«Che li abbia
è innegabile,» convenne Tornatore, «tuttavia, io non credo di
poterla giudicare sotto quel profilo».
«Come mai?»
«Perché,
per me, è come una sorella».
Lei parve sorpresa dalla risposta e anche un po’
sollevata:
se prima aveva irrigidito la schiena, ora si stava rilassando,
appoggiandosi allo schienale della poltroncina; e, addirittura, si
servì un altro pasticcino. Marcello inarcò un
sopracciglio: chissà perché si era inquietata
così
tanto nel parlare della sua amica. Se Beatrice avesse saputo che, se si
era ricordato di portarle dei fiori quando si erano visti, lo doveva
solo ai consigli di Vittoria...
Improvvisamente, gli tornò alla mente il libro acquistato in
Via della Conciliazione.
«Accidenti, mi stavo dimenticando pure... Ascolta, ho una
cosa per te. Se mi aspetti un attimo, vado a prenderla.
Potresti dare un’occhiata a Claudia, nel frattempo?»
La ragazza, rimase un po’ perplessa ma annuì e
lui, preso il cappotto, si diresse velocemente verso la villa.
Fu di ritorno poco dopo, con in mano un pacchetto avvolto in
carta azzurra.
«Questo
è per te» disse, porgendolo a Beatrice.
«Cos’è?»
«Aprilo e vedrai».
Una volta che lo ebbe in mano, cominciò a scartarlo
pian piano, finché non le fu rivelato il contenuto.
«Un
libro su Caravaggio!
Io... Io...».
La ragazza lo guardò quasi commossa, poi si alzò
e gli diede un rapido, ma
intenso, abbraccio. Nel distaccarsi da lui, aggiunse: «Non
so come ringraziarti, Marcello».
«Non serve,
l’importante è che ti sia piaciuto»
rispose lui, sorprendendosi a crogiolare per quel sorriso spontaneo.
Non gli era mai successo di sentirsi così al cospetto di una
ragazza, forse, perché non si era mai sprecato a sentire
cosa avessero da dirgli le sue ammiratrici. O, forse, perché
nessuna di loro aveva dimostrato di possedere l’aura
serafica di Beatrice.
Un vento leggero cominciò a spirare, come a volergli dire
qualcosa che, per il momento, non riusciva a capire; sembrava che ne
avesse afferrato il senso, per poi dimenticarlo subito dopo. Per quanto
spirasse più forte, sempre il significato del suo soffio
gli
sfuggiva.
Ma il Vento dell’Ovest non era un tipo da arrendersi subito
e,
se
voi l’aveste sentito, avreste facilmente intuito queste
ultime
parole: se ora non hai
compreso, tranquillo, tornerò per ribadirlo quando potrai
capire di più.
***
Era
da poco sopraggiunto il crepuscolo e già, dalle taverne dei
rioni trasteverini, proveniva il confuso vociare di uomini sfaccendati,
decisamente brilli. Guido Tolomei imboccò una viuzza e,
giunto
davanti
alla taverna dall’aspetto peggiore, si guardò
intorno con
fare
circospetto. Dopo essersi convinto di non essere stato seguito,
entrò all’interno, ritrovandosi in un ambiente
cupo e opprimente, saturo dell’odore del fumo e del vino.
L’oste, un uomo corpulento con un folto paio di baffoni,
smise di
lucidare un bicchiere con uno straccio lercio e gli fece cenno con la
testa,
indicando il tavolo posto più in fondo al locale. Il giovane
ricambiò il cenno e si avviò, facendo attenzione
a non
urtare nessuno degli ubriaconi che ridevano sguaiatamente, agitandosi
sulle sedie: l’ultima cosa che voleva, era gettarsi in
una
rissa
tra brutti ceffi.
«Tolomei, sei in ritardo» lo apostrofò
Navarra, mandando giù un generoso sorso di vino.
«Ho
fatto quel che si
è potuto. Ho avuto molto daffare»
dichiarò in un sussurro il giovane, accomodandosi su una
sedia sgangherata.
«La
prossima volta, di’ alla tua biondina che la porterai a fare
un giro dopo
che avrai discusso con me».
Guido deglutì.
«Come fai a
sapere...»
«Che
era bionda? Che l’hai portata al Caffè Greco,
anche se non te lo puoi
permettere? Io so tutto di te. Ci tengo ai miei debitori, non voglio
che accada loro nulla, non prima che abbiano saldato con me i loro
debiti, ovviamente...»
L’oste si avvicinò, portando un bicchiere e
un’altra
brocca. Il ragazzo, augurandosi che non fosse lo stesso bicchiere che
stava pulendo prima,
si versò un po’ di vino: aveva bisogno di
bere, perché si sentiva
la bocca
incredibilmente arida.
«Sono
stato a trovare tua
sorella, nel pomeriggio. Tua zia mi ha detto che non c’era.
O,
magari, si è rifiutata di vedermi, ancora una
volta»
insinuò l’energumeno, scrutando Guido oltre il
bordo del proprio bicchiere.
«La
zia non ha alcun
interesse ad assecondare
la Beatrice: se
ti ha detto che la
mi’ sorella non era in casa, non era in
casa» si difese il giovane. «Tu sa’
benissimo che
non vede l’ora che
lasciamo entrambi la
villa».
Navarra alzò una mano per zittirlo.
«Io
sono paziente, Tolomei, molto paziente. Non vorrei essere
messo a dura prova: Beatrice è molto bella, ma non
è
l’unica ragazza degna delle mie attenzioni».
«La Beatrice ha quel
caratterino
indipendente...»
«Ha un carattere
focoso: è anche per questo che ho scelto lei, come
moglie. Tuttavia, se non fai qualcosa per velocizzare queste nozze, due
terzi dei tuoi debiti non verranno mai saldati».
Qualcuno seduto poco distante rise forte, forse aveva vinto
qualcosa giocando con i dadi, e fu quello stimolo sonoro a ridestare
completamente Guido, aiutandolo a comprendere ciò che aveva
appena udito.
«Solo
due terzi? Si era detto
che non ti
avrei dovuto più una lira!»
«Se
tua sorella fosse più gentile con me, potrei anche darti di
più» spiegò Navarra, con una calma
quasi
inquietante.
«C’è
anche la villa dell’Isola d’Elba, l’è
intestata alla
Beatrice»
affermò il ragazzo, sentendosi improvvisamente perso.
«Dopo
che
sarà la
tu’ moglie, potrai disporne come
vorrai».
«Ah,
già c’è anche la vostra villa
in Toscana. Mi sono
giunte voci che gli uliveti non producono più come prima».
«In
effetti è così.
Tuttavia, io credo
che sia perché
non c’è
più un padrone che
segue il lavoro dei contadini;
que’ bifolchi,
senza
ordini, si stanno lasciando troppo andare alla nullafacenza».
Conrado de Navarra si sbracò sulla sedia, congiunse le punte
delle
dita e un ghigno mefistofelico sì delineò
istantaneamente
sul suo volto rubicondo.
«Andrò
a valutare di persona, Tolomei, vedremo se quella baracca vale davvero
quanto dici. Nel frattempo, vedi di convincere Beatrice ad uscire con
me, come lo farai, però, non mi interessa. Altrimenti,
dovrai
escogitare un modo per trovare tutti i soldi che mi devi. E alla
svelta».
Guido, mandando giù la brodaglia disgustosa che gli
era
stata servita, osservò il suo interlocutore e
avvertì il
sudore
imperlargli la fronte: la situazione stava prendendo una piega
inaspettata, si era creduto furbo, ma Navarra lo era stato
più
di lui. Lentamente, si rese conto dell’effettivo guaio nel
quale
si era cacciato e del fatto che avesse trascinato nel fango anche sua
sorella, condannandola ad una vita infelice. Fu quello il momento in
cui prese coscienza di un’altra verità: se
Beatrice non
l’avesse perdonato, non sarebbe stato
capace di
biasimarla.
***
[N.d.A]
1. Caffè del
Borgo: è un luogo puramente inventato, nessun
riferimento ad attività realmente esistenti.
2. British Petroleum:
una
delle maggiori aziende energetiche mondiali, oggi conosciuta come BP;
i riferimenti agli eventi narrati sono solo fini alla trama, seppur
è vero che la British Petroleoum acquistò davvero
la
Britoil nel 1987.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la
sua gentile collaborazione e disponibilità.
Ringazio anche la mia Anto
per aver letto, ancora una volta, in anteprima.
Come sempre, la grafica del titolo è opera mia.
***
Salve a tutti!
Come
prima cosa, mi sembra giusto scusarmi con tutti voi, lettori, per
essere tornata a scrivere questo racconto dopo così tanto
tempo. In
quest’ultimo anno mi è successo davvero di tutto e
di
più, tuttavia ora posso affermare con una certa sicurezza
che
gli aggionamenti riprenderanno con ritmo abbastanza costante
(dovrebbe esserci una nuova pubblicazione all’incirca ogni venti
giorni. So che non è molto, ma è quanto mi
è
concesso dai miei tempi da studentessa; inoltre, scrivendo capitoli
abbastanza lunghi mi sembra un buon compromesso, no?).
A dimostrazione della mia buona volontà, vi lascio il link
al mio blog
dove
troverete uno spoiler del capitolo quarto e un sondaggio (chiedo quale
orario vi risulta più comodo per i nuovi aggiornamenti; se
vi va di partecipare, non dovete fare altro che cliccare sull’opzione che sceglierete).
Ringrazio chi legge, chi ha messo la storia in uno dei suoi elenchi,
chi commenta, chi mi darà il suo
parere in
seguito e chi ha avuto tanta, tanta pazienza nell’attendere
che
questo racconto procedesse.
Ringrazio anche i nuovi lettori, che si sono lasciati incuriosire ed
hanno scoperto la storia solo ora, in occasione della sua ripresa.
Spero che mi farete sapere cosa ne pensate, anche poche parole
posso
essere un utile e prezioso feedback all’autore.
Vi do appuntamento alla prossima (questa volta non dovrete aspettare il
disgelo post era delle glaciazioni, ve lo prometto)!
Saluti,
Halley
S. C.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo Quarto - Vento di Sospiri ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 4
- Capitolo Quarto -
Vento
di Sospiri
Dopo
aver rimesso la tovaglia al suo posto, Anna Laura
sbatté
con forza il cassetto della cucina. Non solo la giornata era
stata
pessima, si era anche dovuta preparare il pranzo da sola!
Dov’era quella
buona a nulla di Beatrice? Perché non le aveva fatto trovare
l’insalata di arance? Per colpa di quella sciagurata aveva
dovuto
ingurgitare un panino intero, ossia mangiare carboidrati. E al diavolo
la sua dieta!
Sbuffando e brontolando contro la cugina, la ragazza si
avviò verso il
salotto, con tutta l’intenzione di buttarsi sul divano a
leggere uno
dei suoi fotoromanzi preferiti, così da dimenticare
l’orribile
mattinata trascorsa; in realtà, avrebbe dovuto intraprendere
una sessione di
shopping sfrenato con Ramona, invece quell’idiota della
sua amica
si era rotta il tarso facendo finta di giocare a tennis, mentre cercava
di attirare l’attenzione del suo istruttore.
Per giunta, poiché
tutte le
altre ragazze erano impegnate con i preparativi per la festa
dell’indomani, Anna Laura era tornata a casa prima del tempo
e senza lo
straccio di un vestito nuovo.
Come avrebbe fatto a far colpo sul dj? Se quella scellerata di Beatrice
avesse avuto un po’ di sale in zucca, come minimo, avrebbe
dovuto
cucire per lei, tutta la notte, un abito all’ultima moda. Che
mettesse a frutto
la passione che aveva per ago e filo!
Un vociare indistinto catturò l’attenzione della
ragazza. Si
fermò in mezzo al corridoio che portava alla sala ed
invertì il senso di marcia: sembrava proprio che ci fosse
qualcuno vicino al loro cancello, forse i soliti adolescenti cretini
che venivano a fare gli scherzi.
Arrivata alla finestra che dava sul giardino, Anna Laura
scostò
un po’ le tende, così da sbirciare senza essere
vista dalla
strada, e ciò che vide la lasciò di sasso: sua
cugina
stava parlando e ridendo con Marcello Tornatore.
Proprio così, parlando
e ridendo con quell’Adone sceso in terra.
La prima cosa che le venne in mente fu di uscire e mettersi a gridare
al ragazzo di smettere di perdere tempo con quell’insulsa di
Beatrice,
in quanto avrebbe potuto dedicare le proprie attenzioni a donne molto
più meritevoli (per esempio a lei). Ciò che la
spinse a
fermarsi, e a comportarsi con più raziocinio,
però, fu il pensiero
che
le venne in mente subito dopo: avrebbe potuto vendicarsi della parente
in
maniera molto più lenta e subdola, se solo avesse agito
d’astuzia.
Innanzi tutto, avrebbe avvertito il cugino Guido delle scappatelle che
faceva quella svergognata, sicura che, per via della storia aperta con
Navarra, lui avrebbe messo subito la sorella agli arresti domiciliari;
in seconda battuta, ne avrebbe parlato con sua madre, convincendola a
caricare Beatrice anche di quei lavori domestici che, comunemente,
erano considerati piuttosto pesanti.
Anna Laura rise malignamente, mentre si figurava la cugina intenta a
portare in casa cataste di legna da ardere, magari mentre fuori
infuriava una tempesta.
Stando attenta a non farsi vedere, si ritirò nella penombra
del
salotto, pregustandosi il momento in cui Beatrice avrebbe rimesso piede
dentro casa, ma non senza prima aver lanciato uno sguardo adorante, con
tanto di sospiro, a
Marcello.
«Sei
sicura che non ci sia nessuno in casa?»
domandò il ragazzo, mentre scrutava le pessime condizioni
della
facciata di Villa dei Salici.
«Guido dovrebbe tornare stasera tardi. La zia Assunta aveva
delle
commissioni
da sbrigare, ha addirittura detto che
non sarebbe rientrata
per cena, e l’Anna Laura dovrebbe essere
in qualche
boutique, a scialacquare
gli
ultimi risparmi»
affermò Beatrice, con tono pratico.
«Ah,
be’, meno male» commentò Marcello,
sollevato.
«Il giorno giusto per chiamare è sempre il
mercoledì?»
«Sì,
sempre quello. Se l’impegnatissimo messere riesce a trovare
un
po’ di tempo» lo punzecchiò la giovane,
sorridendogli divertita.
Lui inarcò un
sopracciglio, increspando le labbra.
«Il fatto che l’abbia dimenticato una volta, non ne
fa una regola. Chiamerò: è una promessa».
Per esserne certa, Beatrice prese la mano sinistra del ragazzo
e vi intrecciò il mignolo con il proprio.
«Adesso
l’hai giurato, quindi devi ricordartene a tutti
i
costi»
esclamò, pentendosene un attimo dopo. Era stata decisamente
una
mossa infantile e non si sarebbe meravigliata se Marcello non si fosse
più fatto sentire: si era comportata proprio come una
sciocchina.
Invece, oltre ogni aspettativa, il biondo strinse il dito di rimando,
incurvando dolcemente le labbra.
«Sì,
l’ho giurato».
La fanciulla avvampò e si ritrovò a pensare che
fosse un
vero peccato che quel giovane non sorridesse più spesso
poiché, quando lo faceva, la sua espressione acquistava una
grande soavità, senza contare che diventava ancora
più
bello. Le dispiacque non poco sentirlo allentare la presa.
«D’accordo. Io
vado, prima che tornino tutti: non vorrei essere costretto a dare
spiegazioni sulla mia uscita» disse lui, alzandosi il bavero
della giacca.
«Buona
serata, Beatrice. A presto».
La
giovane agitò la mano in risposta, un po’ delusa:
aveva sperato che Marcello le concedesse un saluto più
affettuoso, ma dovette accontentarsi. Magari, si sarebbe sciolto con il
tempo e, allora, avrebbe assunto con lei un atteggiamento
più
confidenziale.
Sorridendo, la ragazza salì i gradini ed aprì il
portone di ingresso.
«Ciao,
Bea» l’accolse, dall’interno, una voce
venata di perfidia.
Beatrice si voltò di scatto, sobbalzando allertata.
«Anna
Laura! Mi hai spaventata!»
esclamò, portandosi una mano al petto. «Cosa
ti è saltato in mente? Non è uno scherzo di buon
gusto!»
«Oh, non volevo urtare la tua sensibilità»
rispose l’altra, con una finta vocina addolorata. «Ti
è piaciuta la passeggiata?»
«Quale
passeggiata?
Sono solo andata a...»
«Non
mentire!»
gridò la donna, pestando i piedi in terra. «Ti
ho vista, baldracca! Sei tornata a casa con Marcello!»
La fanciulla sbiancò: lo sapeva, era inutile continuare a
mentire, sua cugina sapeva tutto. Alla sua reazione, Anna Laura si
quietò e ghignò soddisfatta.
«Oh-ho,
siamo nei guai, cara la mia cuginetta. Vedrai, domani, quando lo
saprà mamma!»
***
Allo scoccare delle cinque del pomeriggio, Gerardo guardò
con
apprensione l’orologio appeso alla parete di fronte. Essendo
l’ultimo
giovedì di ottobre, fuori avanzava già il
crepuscolo,
rendendo l’atmosfera ancora più cupa.
«Carter è di nuovo in ritardo»
affermò, sbuffando d’impazienza.
Marcello smise di mettere a posto, per l’ennesima volta, i
resoconti
che aveva portato e disse: «Ti meravigli? Abbiamo capito
già da tempo che
alla
primadonna piace far attendere».
«Non
si tratta così la gente!»
«Stai
tranquillo che non fa aspettare le persone che gli servono
veramente».
«Quindi,
sei sempre dell’idea che siamo fuori a priori?»
domandò l’amico, accavallando le gambe ed
incrociando le braccia.
«Vuoi
la mia sincera risposta? Sì. Scommetto che ha già
deciso
da chi accettare il prestito e, se continua a fare questa farsa della
gara d’appalto, è solo perché
c’è di
mezzo lo stato britannico» affermò il biondo,
sicuro come non mai di ciò che stava dicendo.
«E non credi che questo possa far sperare in almeno un
briciolo di legalità?»
avanzò l’altro, forse sperando di trovare un
barlume di
onestà anche in Edward Carter. Era una delle migliori
qualità di Gerardo, sperare che in tutti vi fosse del buono,
anche se quest’attitudine, in passato, l’aveva
esposto a
molteplici derisioni. Non che fosse un sempliciotto, ma aveva
un’eccessiva propensione a fidarsi del prossimo.
«No, affatto.
Tipi come quell’avanzo di galera sanno sempre come aggirare
la legge»
rispose Marcello, seguendo con il dito una venatura del tavolo
particolarmente contorta. «Sempre».
Gerardo
si alzò e cominciò a misurare a grandi passi la
stanzetta
dove li aveva fatti accomodare il cameriere, un giovanotto che non
avevano visto la volta precedente, dicendo loro che il magnate sarebbe
arrivato molto presto.
Erano già passate quasi due ore.
I ragazzi stavano quasi per alzarsi ed andarsene, quando John Miller
entrò nello studio, salutandoli con un sorriso falso come
una
banconota da trentamila lire.
«Perdonate
il ritardo, eravamo in trattativa con un cliente»
esordì, tappezzando il tavolo con i suoi stupidi documenti.
«Gli affari necessitano di tempo e pazienza»
considerò Carter, sedendosi al tavolo. Prima che si potesse
cominciare qualsiasi discussione, entrarono due camerieri che
apparecchiarono un tavolino accessorio lì vicino, servendo
vino e tartine con caviale e paté de foie gras.
«Oggi
abbiamo saltato il pranzo, per tanto abbiamo disposto che venisse
servito un piccolo rinfresco»
addusse il magnate a mo’ di giustificazione, mentre si
riempiva il piatto. «Servitevi pure».
«Grazie
della gentilezza, stiamo a posto così» si affrettò a
dire Gerardo, scrutando quelle tartine come se fossero veleno.
Marcello non poté che essere d’accordo: non era un
accanito animalista e ad una buon piatto di carne non diceva mai di no,
tuttavia non riuscì a non provare pietà per oche
e anatre, ingozzate a forza per produrre quell’orribile
poltiglia. Inoltre, si meravigliò anche del fatto che un
sostenitore di prodotti originari dell’Inghilterra come
Carter (la volta scorsa aveva vantato l’unico vino autoctono
inglese) consumasse cibo di provenienza chiaramente francese.
Stranezze da miliardari.
Miller cercò di convincere Gerardo a prendere almeno un
po’ di vino, invece ignorò del tutto il biondo,
dimostrando di voler seguire la stessa linea che aveva adottato durante
il loro precedente incontro. Per fortuna, a Marcello non importava un
fico secco né di Carter né del suo pomposo
assistente, per tanto decise che sarebbe stato al suo gioco: avrebbe
interagito solo con l’imprenditore e solo se
l’avesse ritenuto necessario.
Dopo che i due si furono rimpinzati a sazietà, John Miller
si dilungò nell’aggiornare i presenti, o meglio
chi tra i
presenti era meritevole del suo tempo, circa i nuovi sviluppi in merito
alla costruzione della piattaforma, sostenendo che i lavori sarebbero
iniziati non appena si fosse giunti alla stipulazione del contratto.
«Una
volta stabilita la società che ci darà il minor
tasso d’interesse sul prestito, si potrà dare il
via
ufficiale al progetto» spiegò l’uomo,
gonfiandosi
come se l’idea fosse stata tutta sua.
«Esattamente,
quante società concorrono per questo... appalto»
chiese Gerardo, indugiando sull’ultima parola, come se non
fosse
completamente convinto che fosse la più giusta da usare.
«Undici»
rispose pronto Miller. «Cinque
inglesi, una araba, tre olandesi, voi ed un’altra di
Roma».
«Ah,
credevamo di essere gli unici italiani» notò il
giovane, senza riuscire a reprimere il proprio stupore.
«La piattaforma sarà un simbolo di progresso
energetico, una proiezione verso il futuro»
illustrò l’assistente. «Anche
il vostro paese vuole evolversi verso nuove frontiere, il carbone
appartiene al passato. Senza contare che non avete giacimenti
attivi».
«Il
settore energetico è molto redditizio, bisogna solo avere
l’audacia di investire. Nelle vecchie fonti energetiche, ma,
soprattutto, nelle nuove...»
aggiunse il magnate, lisciandosi i baffetti alla Rhett Butler. «Ed
anche in questo caso, peccate molto: avete tre centrali attive ed una
in costruzione, pochine, considerando il fabbisogno medio».
«Intende
centrali nucleari2,
Lord Carter?» intervenne Marcello, non
riuscendo a trattenere la domanda.
«Esatto. La sicurezza del futuro comincia da lì».
«O, forse, dai detriti di Chernobyl»
commentò il giovane, alludendo al recente disastro
ambientale che aveva coinvolto tutta l’Europa.
Il
magnate ed il suo assistente (questa volta Miller non poté
far finta che non ci fosse) gli lanciarono uno sguardo penetrante: non
aveva detto nulla di esplicito, ma la sua affermazione si
sarebbe potuta prestare a diverse interpretazioni. Quella reale
supponeva che il giovane non avesse affatto fiducia nella coscienza di
Carter e, molto probabilmente, i due l’avevano intuito.
Tuttavia
Marcello non aggiunse altro, volendo avvalersi del beneficio del dubbio.
Al momento di scrivere l’offerta, fu consegnata a Gerardo una
cartellina di pelle nera, contenente un foglio bianco e una
bustina. Lui estrasse dal taschino interno una penna e scrisse
ciò che doveva; quando ebbe finito, firmò la
proposta e la mise nella busta di carta,
sigillandola per bene, quindi la consegnò a Miller, il quale
la intascò prontamente.
«Domani
riceveremo l’ultima offerta, perciò, tra non
più di una
settimana
saranno resi pubblici gli scrutini»
disse l’uomo, sorridendo giovialmente al ragazzo e facendo
finta che accanto a lui ci fosse solo aria.
Il momento dei saluti fu piuttosto rapido, con due veloci strette di
mano ai ragazzi da parte di Carter ed una sola da parte del suo
assistente.
«Quando hai nominato Chernobyl, ho pensato che volessero
farti fuori».
«Sì, con una spada da cavaliere Jedi.
Andiamo, quei due sono troppo impegnati a fare progetti con il
finanziatore che hanno già scelto, per pensare seriamente a
noi» commentò
Marcello, radunando i suoi documenti.
«Secondo
me, credono solo che io sia uno sbruffone, arrogante e presuntuoso, che
non arriverà tanto lontano e che ti trascinerà
con me nel
declino».
«Declino?»
chiese l’altro, sorpreso, mentre lo aiutava a sistemare tutto.
«Be’,
anche sui giornali di finanza dicono che non reggeremo a lungo la
concorrenza. Lo strano
caso degli imprenditori neolaureati da contratti milionari:
è così che ci etichettano»
spiegò il biondo, con una smorfia di disappunto.
«E
allora dobbiamo impegnarci per smentire queste voci e rimanere a galla
il più a lungo possibile! Senza venir mai meno alla
coscienza,
ovvio» ribatté Gerardo, determinato, battendo un
pugno sul palmo aperto.
«Alla faccia di Carter e di chi non crede in noi».
«Ed è
esattamente quello che faremo!»
confermò il biondo, con un sorriso sottile.
Quando uscirono dal locale, era già calato il buio e
l’umidità stava rapidamente aumentando,
costringendoli a imbacuccarsi bene nei loro cappotti di panno. Il
freddo invernale non avrebbe tardato ad arrivare, l’odore di
legna bruciata ed i comignoli fumanti erano segni del fatto che
già molte persone
avevano acceso i caminetti per scaldarsi.
«Vieni
da Vittoria, dopodomani?»
chiese Marcello a bruciapelo, voltandosi verso l’amico.
«Da Vittoria?»
«Sì,
ha chiesto di passare da lei il prima possibile, ed effettivamente
è un po’ che non la vediamo. Vorrei proprio sapere
come se
la sta cavando con i preparativi per la mostra».
Tutto d’un tratto, Gerardo si adombrò:
«A me non ha
detto nulla. Che tu sappia, c’è ancora il
carciofone che
transita per casa sua?»
«Credo
proprio di sì, mi pare che adesso sia qui in
città».
Il ragazzo non rispose, chiudendosi in un silenzio cupo. Marcello non
aggiunse altro, tuttavia rimase abbastanza turbato dal comportamento
dell’amico: perché aveva cambiato
così
repentinamente umore a sentir parlare di Vittoria e della mostra?
Continuarono a camminare, senza aggiungere altro e, al momento di
salutarsi, all’incrocio con Via della Conciliazione,
il biondo notò che il suo amico era davvero molto pensieroso
e
distratto. Un atteggiamento così strano, secondo Marcello,
non
aveva spiegazioni, a meno che Gerardo non gli avesse tenuto nascosti
dei particolari. E se... All’improvviso, ebbe come
l’impressione di essere arrivato a comprenderne la causa, per
poi
sfuggirgli di mente subito dopo, come se fosse stata talmente assurda
da non meritare nemmeno d’esser presa in considerazione.
Scrollando la testa, si avviò verso la via di casa.
***
L’oscillazione del pendolo scandiva ogni secondo che passava
e
Beatrice odiava quel rumore, perché le metteva ansia. Fin da
bambina, non
aveva mai amato particolarmente sostare nell’ufficio della
zia
Assunta, pervaso dall’odore della polvere e arredato con
tappeti
tarlati dalle tarme. Ogni dettaglio conferiva a
quell’ambiente
un’aria d’abbandono, profondamente diversa
dall’immagine che aveva il salotto di casa sua, sempre pulito
e
ben curato.
Alla contessa Elena, infatti, piaceva lustrare e profumare la casa,
anche se da
tempo non si poteva più permettere una donna che
l’aiutasse con le pulizie, e non mancavano mai fiori freschi
a
decorare la tavola, un ricordo che strideva tremendamente con il
pout-pourri secco e svanito che, in quel momento, aveva davanti la
giovane.
La signora Assunta, una tarchiata donna sulla
sessantina, sbuffò sonoramente, scuotendo la testa.
«Sei
sempre stata una piaga»
commentò, scrutandola con i suoi occhiacci neri.
«Io
non ho fatto alcun
male, zia» rispose Beatrice, spostando la
sua attenzione dai fiori secchi alla parente.
«L’Anna
Laura non ha diritto a...»
«Taci!»
esclamò la donna, alzando una mano, provvista di unghie
lunghe, ricoperte di smalto scheggiato. «Tua
cugina è stata fin troppo magnanima! Sicuramente non mi ha
raccontato tutto, pur di proteggerti!»
«Proteggermi?»
insorse la giovane, sentendosi oltraggiata. «Ma se ha
ingigantito
il tutto!»
«Smettila
di dire bugie, scostumata! Grazie a mia figlia abbiamo evitato il
peggio! Se quel Navarra sapesse che ti diverti con altri ragazzi, non
ti vorrebbe più e rimarresti sul mio groppone a vita!»
«Io non mi stavo
divertendo con
nessuno!»
«Ancora
parli? Zitta, bagascia! Sei una donnaccia, esattamente come tua
madre!»
Dopo questo insulto, Beatrice tacque: che sua zia si divertisse ad
insultare lei, poco le importava, considerata la scarsa stima che aveva
nei suoi confronti. Ma non doveva permettersi di infangare la memoria
di sua madre, specie se non aveva ragione per insultarla: Elena,
infatti, era infinitamente più bella della cognata e,
sebbene avesse avuto un fior fiore di corteggiatori, aveva sposato il
padre di Beatrice solo per amore.
Assunta si
passò una mano tra i capelli grigi ed unti.
«Devo trovare il modo di farti stare al tuo posto... Adesso
vedrai! Bettina!»
Dopo un rumore di passi affettati, una donna di
mezz’età
comparve sulla soglia, mostrando sul volto i segni dell’ansia.
«Mi ha chiamata, signora?»
«Da
domani dovrai lasciare il servizio presso di noi»
pronunciò freddamente la padrona di casa, come se si
trattasse
di una sentenza di morte. E alla povera Bettina tale dovette sembrare,
perché trattenne il fiato e spalancò gli occhi.
«Ma... ma signora, perché... Ha forse qualche
motivo per lamentarsi del mio lavoro?»
«No, no. Ma non possiamo più permetterci una
domestica.
D’ora in poi ci penserà mia nipote Beatrice a fare
le
pulizie».
La
ragazza aprì la bocca per parlare, ma ogni suono le
morì
in gola: già si occupava della pulizia della casa!
Ciò
significava che doveva sobbarcarsi, da sola, l’intera
manutenzione della villa!
La cameriera continuò, dando voce ai pensieri della
fanciulla:
«Signora, la casa è grande, a stento io e la
signorina
Beatrice riusciamo a mettere in ordine tutto.... E poi lo
sa, con tre figli e lo stipendio misero di mio marito non ce la
facciamo ad arrivare a fine mese. Io ho bisogno di questo
lavoro...»
«Non
sono affari miei»
tagliò
corto la signora Assunta e, con un gesto sbrigativo, la
congedò.
«Prego, puoi andare. Ricordati di portare via con te
tutti i tuoi effetti personali».
La donna rimase impalata, lì sulla soglia, con le mani
strette intorno al piumino che stava adoperando per spolverare.
«Ti
ho detto di andare!» le tuonò la
padrona di casa, facendo tremare la vetrinetta con tutti i ninnoli
esposti.
Bettina balbettò qualcosa di confuso, quindi fece una
maldestra
riverenza e richiuse la porta. Beatrice fu certa di aver udito
distintamente un singhiozzo, prima che la domestica si allontanasse.
«Da
domattina, prenderai il posto della cameriera. Ricordati che la mia
colazione deve essere servita qui, alle sei e mezza.
Non un minuto più tardi. Per quanto riguarda le abitudini di
Anna Laura, ne parlerai direttamente con lei».
Come se non stesse aspettando altro che quel momento, la ragazza fece
il suo ingresso, quasi saltellando dalla gioia.
La
fanciulla la scrutò, aggrottando la fronte, e trattenendosi
a
stento dall’alzare gli occhi al cielo, esasperata da tanta
cattiveria e stupidità.
«Eccomi qui, mamma! Allora, Bea, apri bene le orecchie:
voglio
che mi sia servita a letto, alle otto in punto. Il caffè
deve
essere tiepido. ma non troppo, con mezza pastiglia di dolcificante; lo
yogurt, invece, deve essere quello magro, guarnito con un po’
di
frutta di
stagione a pezzetti.
Infine, il succo di pompelmo deve essere bello ghiacciato, servito in
un bicchiere alto. Capito?»
Beatrice la fissò come avrebbe guardato una psicopatica e,
molto
probabilmente, era quello che effettivamente era Anna Laura.
«Tuo
fratello, invece, si arrangerà da solo, perché
appena noi
saremo uscite dovrai pulire da cima a fondo tutta la casa. E se trovo
un solo granello di polvere, dovrai ricominciare da capo!»
decretò Assunta, incrociando le possenti braccia come un
gendarme. Al suo fianco, la figlia sembrava una bambina che aveva
appena vinto il più bello dei giocattoli.
La giovane avrebbe tanto voluto dire che, per far tornare a splendere
quella topaia, si sarebbe fatto prima a raderla al suolo e poi
ricostruirla, ma lasciò perdere per evitare di aggravare
maggiormente la sua situazione.
«Prova
a ribellarti o a risponderci male e ti garantisco che mi
impegnerò io stessa, affinché Navarra ti sposi
entro il
prossimo Natale!»
la minacciò la zia, come se avesse intuito i suoi
pensieri.
Infuriata
per come la stavano trattando, Beatrice si morse l’interno
della
guancia fino a farsi uscire il sangue: quelle due arpie
l’avevano
messa nel sacco e, almeno per ora, stavano avendo la meglio.
***
Novembre
avanzava tranquillamente, portando con sé i primi freddi e
le
prime piogge, ingrigendo il cielo che sovrastava la Capitale e rendendo
l’aria più malinconica.
Udendo un tuono in lontananza, Marcello percorse, correndo,
l’ultimo tratto che lo separava da casa di Vittoria, facendo
scricchiolare le foglie marroni e arancioni degli ippocastani sotto le
proprie suole.
Aveva promesso all’amica che sarebbe passato nel pomeriggio a
trovarla, per sapere come stessero procedendo i preparativi della
mostra, mentre Gerardo era stato irremovibile: essendoci alte
probabilità di trovare Bartolomeo in circolazione, aveva
preferito dare direttamente forfait.
Il biondo suonò il campanello ed immediatamente venne ad
accoglierlo Agnese, l’anziana domestica. La casa di
Vittoria sorgeva nella zona dell’Eur, a pochi passi da Via
Cristoforo Colombo, ed era comoda perché poteva
arrivarci tranquillamente con la metro, senza dover prendere
l’auto. Nonostante
potesse permettersi automobili costose, ancora non si era deciso a
prendersene una personale, avvalendosi, alla necessità, di
quella di suo
padre e rinviava sempre la scelta, dato che
amava prendere i mezzi pubblici per spostarsi: gli
piaceva
stare in mezzo alla gente, immergendosi nel via vai continuo e caotico
di Roma. Osservare le persone, condividere con loro anche solo quei
pochi
istanti di viaggio, lo faceva sentire davvero parte integrante
dell’umanità. Era un concetto che aveva sempre
cercato di
comprendere pienamente da quando lo aveva sentito durante le lezioni di
filosofia, nei quali si parlava dei grandi dell’Antica Roma,
come Tacito,
Seneca,
Cicerone, si erano affannati nello spiegare la complessità
dell’Umanitas,
ovvero di ciò che rende l’uomo simile ad un altro
uomo.
Mentre percorreva i corridoi della villa, Marcello si
ritrovò a
passare accanto a copie d’autore di grandi quadri, come L’Ultima Cena
di Leonardo, Le Nozze
di Cana del Veronese oppure La Madonna Sistina
di Raffaello, tutti capolavori che ben testimoniavano a quali livelli
si potesse elevare l’espressività umana.
Agnese lo lasciò davanti alla porta della camera di
Vittoria,
quindi tornò alle sue occupazioni. Il ragazzo, invece,
bussò
energicamente, attendendo che l’amica gli venisse ad aprire.
«Sei una persona senza cuore!»
le sentì gridare dall’altra parte.
Accigliato, bussò ancora e, questa volta, la giovane fece la
sua comparsa al di là del battente.
«Oh, Marcello! Ti stavo aspettando»
gli disse, sorridendogli.
«Con
chi ce l’avevi?»
chiese, però, lui, sospettoso, poiché era rimasto
talmente sconcertato dalle sue urla furibonde da passare
direttamente al dunque, senza nemmeno salutarla.
In risposta, l’altra inclinò da un lato la testa
e,
perplessa, domandò: «Per
cosa?»
«Chi
sarebbe la persona senza cuore?»
A quel punto, Vittoria
agitò
una mano, come a voler sminuire con quel gesto
l’entità della cosa e spiegò:
«Ah,
con nessuno d’importante... era solo Leandro».
La ragazza non nominava spesso il fratello, più grande di
lei di
diversi anni, che aveva lasciato ormai da parecchio tempo
l’Italia, avviando così una brillante
carriera da diplomatico. Le sue visite a casa era
sempre rare e molto brevi, pertanto Marcello non aveva avuto molte
occasioni di conoscerlo di persona, così da capire che tipo
fosse, anche
se, attraverso i racconti della giovane, non aveva avuto una buona
impressione su di lui.
«Cosa voleva?»
le chiese il giovane, a bruciapelo.
«Ha
appena ottenuto un importante incarico come consigliere di legazione1
a
Dublino, perciò dice di non riuscire a tornare per febbraio,
in tempo per la
mostra. Ma so bene che, in realtà, è
perché non gli interessa» rispose la ragazza,
infastidita, invitando l’amico a seguirla.
«Magari
davvero non può» azzardò
l’altro, più per tranquillizzare l’amica
che per difendere il suo fratello.
Tuttavia, l’altra scosse tristemente la testa e si
abbandonò ad un mesto sospiro: «No,
lo conosco bene. Per lui, questo evento è solo una perdita
di
tempo, come il novanta percento delle cose che riguardano sua
sorella».
Notando l’espressione avvilita sul volto della sua amica,
Marcello decise di affrettarsi a proseguire nella conversazione.
«E
così, Leandro è finito in Irlanda?»
«Sì,
dallo scorso agosto, perché la Polonia non gli piaceva.
Mirava alla Germania
dell’Ovest,
ma il posto vacante non era lì»
raccontò Vittoria,
mentre apriva la porta di uno dei salottini.
La stanza era molto areata e luminosa, ammobiliata con una semplice
libreria bianca colma di volumi antichi, un tavolinetto con il ripiano
in vetro ed un paio di divani dalla tappezzeria azzurro pastello.
«Ho
detto a Agnese che, quando sareste arrivati, avrebbe subito dovuto
mettere a scaldare l’acqua per il tè e preparare
la cioccolata
per Gerardo. Ma lui non è venuto, a quanto vedo»
notò con una punta di delusione lei, accomodandosi su uno
dei
sofà.
«L’ho
sentito stamane, ha detto di non sentirsi troppo bene».
Vittoria irrigidì la schiena, si mise a braccia conserte e
sibilò:
«Marcello Tornatore, non sperare che io mi beva una fandonia
come
questa! Davvero mi ritieni così stupida?»
«Non
lo sto coprendo, se è questo che stai insinuando. Ti sto
solo riferendo quello che mi ha detto».
La ragazza abbandonò tutta la sua rigidità e si
accasciò contro i cuscini del divano.
«Lo so che non vuole venire più qui. Da quando
Bartolomeo
transita in questa casa per allestire la sua mostra, Gerardo non si
è fatto più vedere».
«Non è un mistero che non lo trovi simpatico»
notò Marcello, senza andare tanto per il sottile.
«So
benissimo che tra quei due non corre buon sangue. Comunque, oggi
Bartolomeo non è venuto, perché doveva rifinire
delle cose con la sua fantastica
assistente. Perciò, il signorino Preziosino sarebbe potuto
venire benissimo,
almeno mi avrebbe aiutato anche lui. Non è giusto che ci sia
solo tu».
Con una certa sorpresa, il giovane notò un certo astio di
Vittoria nei confronti del
suo
fidanzato, tuttavia verso il loro amico le sembrò quanto mai
indispettita, così decise di sondare ulteriormente il
terreno,
chiedendo: «Io
non ti basto?»
Accigliandosi, l’altra lo guardò, rispondendo solo
dopo una breve pausa:
«Be’,
con Gerardo saremmo stati in tre, avremmo ragionato meglio. Tu non sai
quante cose ancora devo fare per questa mostra! Gli inviti, provvedere
al servizio di catering, catalogare le opere, decidere quali sale
mettere
a disposizione...»
Marcello, nell’osservare la sua amica, fece una smorfia
divertita: si
vedeva che era agitata e che sentiva la mancanza del terzo componente
del gruppo; in effetti, nemmeno secondo il biondo, Gerardo
si stava comportando bene verso la ragazza, giacché
aveva chiesto aiuto e loro, in qualità di migliori amici,
erano
tenuti a darglielo, a prescindere dagli attriti personali verso
chicchessia.
«Vittoria,
tu credi che Agnese abbia già messo su l’acqua
per il tè?» chiese poi il ragazzo, pensieroso.
«Posso chiamarla
e chiederle a che punto è. Perché?»
«Vedi»
esordì lentamente lui, lisciandosi il mento,
«penso
che sia meglio se andiamo a farci una passeggiata e, magari, prendere
qualcosa fuori. Tu hai bisogno di distrarti».
A quelle parole, la giovane sorrise, sinceramente riconoscente.
«Sapevo
che avresti capito al volo di cosa ho bisogno davvero»
ammise, con dolcezza.
Non volendosi allontanare di molto, Marcello e Vittoria trovarono
rifugio, dal vento gelido che sferzava fuori, in un piccolo bar lontano
dalla strada. Essendo praticamente vuoto, riuscirono a
sedersi subito ed attirare l’attenzione di una
cameriera
piuttosto rotondetta e dall’aspetto simpatico per ordinare
due
té
con un
vassoio di pasticcini.
«Dovresti rallentare i tuoi ritmi, ti vedo molto pallida»
commentò il ragazzo, mettendo di lato la carta delle
ordinazioni.
«Oh,
è che ci sono così tante cose da fare ed io sono
sola!» spiegò la sua
interlocutrice, giocherellando con i nastrini della sua maglia di lana.
«Gerardo
ed io siamo sempre pronti per aiutarti, lo sai» ci tenne a
precisare
il biondo, ma,
vedendo l’espressione di disappunto comparsa sul volto di
lei, si
corresse. «D’accordo,
Gerardo ultimamente è stato un po’ latitante, ma
sono sicuro che
non riuscirà a starti lontano ancora per molto».
Meravigliata, Vittoria trasalì e spalancò gli
occhi nocciola.
«Perché,
cosa sai? Cosa ti ha detto?»
chiese, concitata.
Interdetto da quella reazione, Marcello la fissò per qualche
istante, prima di rispondere: «Non
ha detto niente, ma sai benissimo che entrambi ti siamo sempre stati
vicini, soprattutto nei momenti difficili, perciò
sicuramente anche lui vorrà darti una
mano».
Tuttavia, di fronte a tale spiegazione, la giovane parve delusa.
«Ah,
in questo senso? Certo, certo, ovviamente»
mormorò, scrollando la testa come a scacciare un pensiero
indesiderato.
Sempre più perplesso, il giovane stava quasi per chiederle
altre
spiegazioni, quando la paffuta cameriera servì loro le
bevande
che avevano
ordinato, accompagnandole con un vassoio contenente una grande
varietà di piccole dolcezze: una gioia per gli occhi e,
sicuramente, anche per il palato.
«Non
mi hai detto come è andata con Carter»
constatò di
punto in bianco Vittoria, cambiando argomento e allo stesso tempo
facendo rapidamente sparire una crostatina
con crema pasticcera e frutti di bosco. «Chiedo a te
perché, sai, non posso parlare con gli assenti».
Anche se ora appariva
più distaccata, il
ragazzo avvertì che, in realtà, l’amica
non aveva affatto
mandato del tutto
giù l’assenza di Gerardo; il modo risentito con il
quale
continuava a citarlo ne era un indizio e, forse, sarebbe stato prudente
parlarne il prima possibile con il diretto interessato, così
da evitare un
litigio
tra i suoi due migliori amici.
«Non
c’è molto da dire»
rispose Marcello, servendo prima il tè all’amica e
poi a se stesso.
«Più che affari, quel tipo sembra che concluda
traffici illegali».
«Ne
avete le prove?»
«No,
ma non mi è piaciuto come si è comportato, si
è visto che non è interessato ad averci come soci.
Voleva semplicemente studiarci e capire se fossimo allocchi raggirabili
o meschini come lui».
Dopo una simile
affermazione, Vittoria
arricciò il naso, come se avesse percepito fisicamente odore
di imbroglio: «Quindi
le voci sul suo conto sono vere. Da come ne parli, sembra proprio
l’essere
viscido che tutti descrivono».
«E
dovresti vedere il suo assistente, è più viscido
del suo
principale» commentò il biondo, ripensando con
disgusto a
quel John Miller, ai suoi toni melliflui e falsamente condiscendenti.
«Grazie,
non ci tengo, ne ho già abbastanza, di esseri viscidi. Sai
che Ascanio mi ha
mandato un mazzo di rose rosse?»
Il
biondo aggrottò la fronte, convinto di aver esaurito le
parole
per descrivere in maniera opportuna Colonna. Non si era mai fatto
scrupoli a corteggiare donne impegnate e, per giunta, Bartolomeo Davoli
non era esattamente il prototipo di fidanzato geloso, ciononostante
quell’imbecille aveva decisamente toccato il fondo. Non gli
bastava fare il cascamorto con le contesse, ai ricevimenti, e con le
commesse nei negozi?
«Mi
auguro tu le abbia buttate dritte dritte
nell’inceneritore»
commentò, pescando un diplomatico al caffè dal
vassoio.
La giovane sorrise, per la prima volta in quel pomeriggio.
«Le
ho donate al centro anziani, almeno hanno reso felici le
amabili vecchiette alle quali faccio volontariato».
«Avresti
dovuto rifilarle alla cassiera della libreria di Via della
Conciliazione, piuttosto!»
«Ah, vero! Vabbè, non è
l’unica alla quale Colonna fa il filo. A
proposito di quell’episodio, non mi avevi detto di
aver preso un libro per Beatrice? Vi siete rivisti? Glielo hai
portato?»
E fu così che venne fuori il nome della fanciulla,
un’occasione per fare a Marcello il terzo grado che Vittoria
non si lasciò certo sfuggire.
«Sai
benissimo che ci siamo rivisti» notò
il biondo, sbuffando. «Ti
ho già riferito che mi ha detto del vostro incontro e del
tuo invito alla
mostra, dimentichi?».
«Sì,
hai ragione, ma l’altra volta avevo poco tempo e non mi sono
soffermata!»
esclamò Vittoria, riprendendo un po’ di colore sul
suo volto smunto. «Ora,
invece, abbiamo tutto il pomeriggio davanti e voglio sapere tutto! Sono
anni che sogno di vederti frequentare una ragazza, fuori i
particolari!»
Il giovane alzò gli occhi al cielo, rassegnato. Suppose che
quelle fossero le condizioni per aver ridato a Vittoria il buon umore.
«È
venuta lei a cercarmi a casa, per riportarmi il soprabito, otto giorni
fa» le riferì, dopo aver inghiottito un altro
pasticcino. Poi fu costretto ad
ammettere:
«Mi sono dimenticato di chiamarla al telefono, seppur
gliel’avessi promesso...»
«Ti sei dimenticato di chiamarla?»
chiese l’altra, incredula, interrompendosi mentre portava,
cautamente, la tazza fumante alle labbra. «Sei incredibile! Beatrice
deve essere molto paziente. Ed anche coraggiosa: lo sa che ha rischiato
di
trovarsi faccia a faccia con quella megera di tua madre?»
«No,
per fortuna lei era uscita in quel momento. Comunque, non
l’ho
fatto apposta» si giustificò lui, un
po’ in
difficoltà, «la
vicenda di Carter mi ha assorbito parecchio. Non volevo mancarle di
rispetto».
Vittoria sorrise, scuotendo la testa.
«Devi
piacerle molto per essersi spinta a tanto. Di solito, le
ragazze aspettano che sia l’uomo a farsi avanti.
Però
è
anche vero che, con un pezzo di legno come te, ci vuole
inventiva».
«Pezzo
di legno?» esclamò il
biondo, risentito, rimanendo con la bustina di zucchero tra le dita.
«Mi
sono scusato con lei e, a dirla tutta...»
«Dai,
non te la prendere, era
una presa in giro bonaria!» si schermì la ragazza,
ridendo.
La conversazione, però, gli aveva fatto improvvisamente
tornare in
mente il fatto che Beatrice, quella mattina, non gli aveva
risposto. Eppure gli aveva garantito che il mercoledì
era il
giorno giusto per telefonarle.
«Marcellino,
stavo scherzando! Non c’è bisogno di mettermi il
muso per
così poco!»
esclamò Vittoria, avendo probabilmente notato il suo cambio
d’espressione.
«No,
non è per quello. È solo che questa mattina non
mi ha
risposto, nonostante mi abbia esplicitamente detto di chiamarla il
mercoledì» spiegò Marcello, rendendola
partecipe
dei propri pensieri.
«Magari
ha avuto un imprevisto ed è dovuta uscire,
riprova».
«Già. Volevo
proporle di vederci anche la settimana prossima» mormorò il
ragazzo, sovrappensiero.
«Secondo te, aspettare un mese non è eccessivo,
prima di poter rivedere una persona che vuoi conoscere meglio?»
«Se
io avessi l’opportunità di uscire con il mio uomo, lo
vorrei vedere tutti i momenti» commentò la
giovane,
malinconica. La particolare enfasi, che aveva impresso alla parola mio, diede al
biondo la fugace impressione che lei non stesse alludendo a Bartolomeo. Tuttavia, Vittoria
tornò presto alla solita allegria, tanto è vero
che insinuò, sorridendo sorniona: «La tua rossa
fiorentina deve essere davvero speciale se le riservi tutte queste
attenzioni;
sarebbe un peccato farla aspettare, non credi?»
Marcello non replicò, limitandosi a fissarla e a sorseggiare
il suo té.
***
Guido, seduto al tavolo della cucina, sfogliava annoiato il giornale,
rimpinzandosi di patatine al formaggio e sbuffando di tanto in tanto:
secondo gli ordini impartiti dalla signora Assunta, avrebbe dovuto
sorvegliare la sorella finché non avesse ultimato le
faccende e
solo allora sarebbe potuto uscire.
Poco più lontano, Beatrice, livida dalla rabbia, stava
lavando i
piatti, stando attenta a sbatterli con quanta più forza
possibile e sperando che si sbeccassero tutti: non poteva sopportare di
essere stata schiavizzata ancora di più di quanto non fosse
già,
senza aver fatto nulla per meritarlo.
La ragazza si scansò, con l’avambraccio, una
ciocca di
capelli dalla fronte e, approfittando del momento di pausa,
lanciò un’occhiata velenosa al fratello.
Questi dovette notarlo, poiché disse: «Avanti,
Cicci, non
mi guardare così».
Beatrice
gettò la spugna nel lavabo dove stava lavando le stoviglie,
facendo schizzare schiuma tutt’intorno, quindi si mise a
braccia
conserte e, così facendo, si asciugò le mani
bagnate sulle maniche: infatti, la cugina non aveva ritenuto
necessario farle indossare dei guanti.
Si avvicinò pericolosamente al tavolo e si rivolse al
fratello, stizzita: «E
come dovrei
guardarti? Mi stai vietando di mettere piede anche in
giardino,
stai assecondando
i lavori forzati che mi comanda
l’Anna Laura
e hai organizzato un appuntamento con
Navarra, senza avere il mio
consenso!»
«Cicci,
sai bene che
dopo quello che
hai combinato era il minimo che
potesse
accaderti»
rispose il giovane, continuando a mangiare patatine.
«Quello
che ho combinato? E cosa avrei fatto di
così
grave, per meritare tutto questo?»
«Ti
sei vista di nascosto con
un ragazzo, uno che
non è il tu’
fidanzato. Per fortuna, Navarra è in Spagna a sistemare
delle
cose, così non
saprà niente di questa storia...»
Beatrice tornò al lavabo e prese una padella insaponata,
agitandola pericolosamente sotto il naso di Guido.
«E, da quando, di grazia, quello schifoso sarebbe il mi’
fidanzato?»
Il ragazzo si decise a guardarla in faccia e sbatté le
palpebre, rimanendo in silenzio.
«Non
rispondi, vero?»
incalzò la ragazza, sbattendo la padella sul ripiano della
cucina.
«Da quando gl’hai
promesso che
sarei stata sua in cambio
di
soldi! Così
da poter estinguere il debito che
hai con lui!»
«Bea, lo sai che
non ho alternative. Vedrai che
Conrado
sarà un buon marito»
le rispose il fratello, piegando con cura il giornale e sistemandolo
sul tavolo.
La fanciulla scoppiò in una risata isterica.
«Buon
marito? Certo,
quando non mi piccherà, violenterà o mi
concederà
ai su’
luridi amici, potrebbe anch’essere
un buon
marito. Perfino ottimo, nel momento in cui sparirà per
concludere
qualcuno
dei su’
sporchi
affari. In fondo, anche
Saddam
Hussein, quando non è impegnato a bombardare
l’Iran,
l’è
una personcina adorabile».
«Beatrice...»
«Come diavolo hai
potuto!»
Guido perse la pazienza e si alzò in piedi, gridando:
«Beatrice, finiscila!
Basta!»
L’altra non si ritrasse, anzi rimase a scrutarlo, furibonda;
l’unico
sentimento che sentiva ora verso il fratello, infatti, era un misto di
pietà e disprezzo.
Il giovane dovette
percepirlo, infatti abbassò lo sguardo e
biascicò: «Io...
Scusa... Non
volevo alzare la voce
con
te...»
«Non
importa, Guido. Hai
ragione,
per stasera basta così»
disse la ragazza, rimettendosi a sciacquare le pentole. Guido
fece per aggiungere qualcosa, ma rimase con la mano alzata a
mezz’aria e la bocca aperta. La richiuse poco dopo,
abbassando
anche il braccio e allontanandosi mestamente, a capo chino.
«Ricordati solo una cosa» aggiunse Beatrice, senza
voltarsi, «la
prossima volta, per sanare i tuoi debiti, impegna solo la tu’
vita e
non quella degli altri».
Il giovane si arrestò quel poco tempo necessario ad
incassare
quelle parole taglienti, poi uscì definitivamente dalla
cucina.
La fanciulla fissò il suo riflesso pallido e triste nel
vetro
della
finestra posta sopra al lavandino: si sentiva debole e sola, come se
fosse esposta alle peggiori intemperie, senza avere un riparo.
Udì la porta d’ingresso che si apriva e si
chiudeva subito
dopo: sicuramente era Guido che usciva per ritrovarsi con i suoi
balordi amici. Suo fratello combinava i guai, a lei toccava rimediare
e lui si prendeva anche la ricompensa: era sempre stato
così.
Ma questa volta non si trattava di marachelle di bambini,
c’era
in gioco la sua felicità e la sua vita.
Beatrice sospirò, sentendosi improvvisamente vuota.
Finì di mettere a posto le stoviglie, quasi meccanicamente,
poi
cominciò a salire i gradini, con tutta
l’intenzione di
mettersi a letto il prima possibile, un po’ per riposarsi dal
duro lavoro, un po’ per porre termine a quella
giornata infernale.
Mentre si spogliava per mettersi il pigiama, si sentì come
spiata, anche se convenne che doveva essere tutto frutto della sua
immaginazione, violentemente scossa dall’ingombrante e
minacciosa presenza di
Navarra nel suo futuro.
Quell’essere le faceva ribrezzo e non avrebbe mai potuto
rassegnarsi all’idea di diventare sua moglie, soprattutto non
dopo aver conosciuto Marcello, per il quale ormai era certa
di
provare più che una semplice simpatia.
Si mise a letto e tirò fuori, da sotto al cuscino, il libro
che
le aveva regalato il giovane: meno male che aveva nascosto quel regalo
in borsa, prima che lo potesse vedere sua cugina, altrimenti Anna Laura
se ne sarebbe appropriata senza fare tanti complimenti.
Sfogliando le pagine, emananti quel buon odore di carta nuova stampata,
Beatrice si perse ad ammirare i contrasti di luce e di ombra, tipici
della pennellata caravaggesca: contrasti che erano sempre presenti
anche nella sua vita, anche se ora, a dirla tutta, sembrava proprio che
stesse prevalendo l’oscurità. Si fermò,
così
da lasciare lo sguardo libero di vagare sulla parete bianca di fronte a
lei e
divenne improvvisamente molto triste, come se avvertisse di non poter
essere più felice.
Aveva una gran voglia di piangere, eppure era troppo stanca anche per
quello, per tanto lasciò che fosse la spossatezza a prendere
il
sopravvento, guidandola nel mondo dei sogni, unico luogo in cui, al
momento, poteva sperare di essere più libera.
***
Per la revisione, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
che si rivela, ogni volta, un’ottima consulente.
***
[N.d.A]
1. consigliere di
legazione: è il secondo grado della carriera
diplomatica italiana;
2. centrali nucleari:
le
centrali nucleari italiane sono state in realtà cinque. Di
queste, quella di Montalto di Castro non ha mai funzionato,
poiché la sua costruizione non era ancora terminata quando
ci fu
il Referendum del 1987.
Quella di Sessa Aurunca ha smesso di lavorare nel 1982, in seguito ad
un guasto. Le altre tre sono Latina, Trino e Caorso, le quali hanno
smesso di lavorare tutte in seguito al già citato Referendum.
***
Salve a tutti!
Come promesso, questa volta ho aggiornato secondo i tempi previsti! E,
per me, è una conquista, considerando che sono riuscita a
far
passare anche un anno prima di riprendere questa storia.
La buona notizia è che ho già scritto buona parte
dei prossimi capitoli e, spero, aggiornerò con costanza.
Scrivendo, mi auguro di non aver preso sfondoni storici: ricordo che
questa vicenda
è ambientata negli anni ’80, pertanto i riferimenti ai
fatti storici citati li ho inseriti per renderla più
veritiera, tuttavia mi sto basando su racconti fatte da altre persone,
che erano presenti, o resoconti letti qua e là,
poiché all’epoca dei fatti non c’ero ancora.
Se voi doveste notare qualcosa di poco preciso, non esitate a farmelo
presente.
Ringrazio chi legge,
chi segue in silenzio,
chi trova tempo e forza
di volontà per farmi sapere la sua, chi ha messo questo racconto in
uno dei suoi elenchi, chi
mi farà sapere la propria opinione in seguito.
So bene che è una storia da “tè delle
cinque”, tuttavia sto cercando di metterci impegno: a mio
parere,
la semplicità non è una scusante ad un modo di
scrivere
grossolano.
Il prossimo appuntamento sarà i primi di Novembre;
intanto, vi lascio il link al mio blog,
dove troverete uno spoiler tratto dal quinto capitolo.
Saluti,
Halley
S. C.
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Capitolo 5 *** Capitolo Quinto - Vento di Incertezze ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 5
- Capitolo Quinto -
Vento di Incertezze
Affacciato
alla finestra dell’ufficio, posizionato in un rispettoso
stabile di Via del
Gambero,
un malinconico Gerardo osservava i passanti, affaccendati nel via vai
delle spese prenatalizie. Nonostante avesse un carattere molto pacato,
in quel momento non poteva fare altro che invidiare tutte le coppie che
vedeva passare, cariche di pacchetti.
Ammise a se stesso che gli sarebbe piaciuto molto godersi il centro
addobbato a festa, facendo una passeggiata con lei.
Non aveva potuto rivelare a Marcello chi fosse la donna di cui era
innamorato, poiché non sapeva come l’avrebbe
presa; aveva
preferito, perciò, che l’amico lo rimproverasse
energicamente per la
scelta che
aveva preso, piuttosto che dire la verità. Comunque non
avrebbe
cambiato idea: aveva deciso davvero di dichiararsi a Maria Luisa, non
appena ne avrebbe avuta l’occasione.
Improvvisamente, si alzò un vento tagliente che gli
sferzò le guance, costringendolo a ritirarsi dentro e a
chiudere
la finestra.
Per un istante, pensò scioccamente che quella folata fosse
stata
una sorta di punizione per i pensieri poco onesti verso se stesso,
avuti qualche momento prima. Si stropicciò gli occhi,
concedendosi un secondo per pensare; in effetti, sapeva benissimo a
chi apparteneva di diritto il suo cuore, ma doveva ripiegare
sull’erede dei Foscari, dato che l’unica donna che
aveva mai amato
nella sua vita era impegnata. Forse con un
bifolco, ma impegnata. E quindi doveva dimenticarla.
Sospirò, colto da un attimo di sconforto, poi si
avvicinò
alla sua scrivania e prese il telefono, con tutta
l’intenzione di
chiamare il bar di fronte ed ordinare un caffè.
Mentre componeva il numero, notò una busta aperta, poggiata
accanto alla lampada da tavolo, e si ricordò della lettera.
Le lanciò un’occhiata guardinga, come se fosse
stata una bestia
feroce, in grado di assalirlo da un momento all’altro:
Carter, infatti, aveva mandato la sua risposta, una risposta che aveva
lasciato
decisamente perplesso il povero Gerardo. E a dirla tutta,
l’aveva anche
leggermente inquietato, tanto che non vedeva l’ora di
parlarne con il suo amico.
«Marilena,
buongiorno, sono Gerardo... Sì, esatto. Il solito,
ovviamente...» disse, senza distogliere
lo sguardo da quei fogli. «Ricordati
solo di mandarmi anche molto, molto zucchero».
Quando Marcello entrò nell’ufficio, la prima
cosa che notò fu il freddo che aleggiava nella stanza; la
seconda il colorito terreo del suo socio.
«Buongiorno,
Gerardo. Come mai hai quella faccia?»
chiese, appoggiando una bottiglietta d’acqua sulla sua
scrivania, posta di fronte a quella dell’amico.
Gerardo
rispose con
una specie di lamento e, alzandosi dalla propria sedia, gli porse
alcuni fogli. Con un’espressione interrogativa, il biondo li
prese e lesse l’intestazione.
«La
raccomandata con la risposta di Carter! Sono stati rapidi».
«È
un resoconto molto dettagliato» spiegò
l’altro ragazzo, con un tono adatto ad un funerale. «Leggila tutta,
per favore. È importante».
Marcello lo fissò incuriosito e, in risposta, Gerardo
lo invitò a proseguire nella lettura con un
gesto della mano.
Quando il giovane fu arrivato quasi in fondo all’ultimo
foglio, finalmente capì
perché il suo socio era tanto agitato.
Ecco, infatti, ciò che trovò scritto:
“Tasso
interesse offerta:
5,00%
Tasso interesse
selezionato: 4,999%”
Nel vedere quei numeri così stranamente simili,
Marcello inarcò marcatamente un sopracciglio.
«Cosa
significa quel quattro virgola novecentonovantanove?»
chiese, altero.
«Me
lo chiedo anche io»
chiese Gerardo, non meno irritato. «Lo
scarto tra la nostra proposta e quella che ha
vinto è solo dello zero virgola zero, zero,
uno. Che accada
casualmente è molto
improbabile».
«È
come se avessero saputo in anticipo quanto avremmo
offerto» convenne il biondo, alzando gli occhi dal resoconto.
«Ma
non è possibile!» esclamò
l’altro. «Avevamo
scelto l’interesse insieme e solo noi due ne eravamo al
corrente. Sono
io che ho firmato la proposta e Miller l’ha chiusa e
sigillata
in una
busta davanti ai nostri occhi!»
«Le altre
società hanno offerto dal sette al nove percento. Solo
l’ultima meno di noi»
notò Marcello. Poi lesse il
nome del vincitore: Stigliano
s.r.l.
«Stigliano.
Mh, il nome mi dice qualcosa, anche se ora non mi viene in mente niente
di preciso» mormorò
soprappensiero.
«Tu
la conosci?»
«No, deve essere una società di nuova costituzione»
ipotizzò Gerardo, serrando le braccia contro il petto.
«Be’,
magari non ne abbiamo le prove, ma qui mi sembrano molto chiare due
cose: la prima è che Carter sapeva perfettamente quanto
avevamo intenzione di offrire. La seconda è che ci vuole
provocare» continuò Marcello, alzandosi dalla
poltrona.
Sapeva perfettamente che l’industriale britannico non li
aveva mai presi realmente in
considerazione, come partners finanziatori, ma non si aspettava una
presa in giro tanto plateale.
«Secondo
te, ha riferito a chi di dovere quanto avevamo offerto? Così
che
il responsabile di questa “Stigliano” potesse
regolarsi di
conseguenza?» avanzò il suo socio.
«Quel
margine irrisorio di differenza è una dichiarazione aperta:
ci
hanno preso per i fondelli e vogliono farcelo capire».
Gerardo assunse un’espressione indignata: «Che
giochetto sadico».
Il biondo si alzò e si diresse verso la finestra, tenendo le
mani dietro la schiena, come era solito fare quando voleva riflettere
su enigmi particolarmente difficili.
«Marcello,
non te la prendere, poco importa. Tanto avevamo detto che non volevamo
avere niente a che fare con Carter e soci».
«Infatti
non me ne frega
un accidente di aver perso, voglio solo capire come diavolo hanno
fatto!»
L’amico
alzò le spalle, scuotendo la testa, come a dire che non ne
aveva la più pallida idea.
«Non c’erano specchi nella sala, non possono aver
visto di
riflesso ciò che stavi scrivendo, e Miller ha chiuso e
sigillato
l’offerta davanti a noi;»
considerò il biondo, mentre riordinava i pensieri, «non
è una vera e propria gara d’appalto, non
è un’opera
pubblica, ma, per la miseria, era presente un notaio! Avrebbe notato
una manomissione delle offerte...»
«Sempre che non fosse corrotto»
suggerì Gerardo.
«C’è
di mezzo lo Stato Britannico... No, sono certo che il notaio fosse
integerrimo»
disse Marcello, tornando verso il suo amico, mentre si stropicciava il
mento, nervoso.
«Allora
non so proprio come possano aver fatto».
«La
soluzione deve essere molto più semplice di quel che
pensiamo.
Fosse l’ultima cosa che faccio, devo capire come quel
maledetto Carter è riuscito a prenderci per i
fondelli!»
Nonostante l’avesse cucinata di persona, Beatrice
trovò che quella pappa
al pomodoro non avesse alcun sapore o, forse, era semplicemente troppo
stanca per riuscire a coglierne il gusto.
Erano solo le due di pomeriggio e doveva ancora ripulire tutto il piano
superiore, balconi compresi. Le stanze non erano adoperate tutte, ma la
zia aveva deciso che “ogni tanto, le pulizie di
primavera vanno
fatte in tutta casa”.
Già, di primavera: peccato fosse appena iniziato
dicembre!
Spezzettò il pane raffermo come meglio poté e lo
mise
all’interno della ciotolina, affinché si
ammollasse un po’ grazie
alla zuppa, anche se, oramai, era quasi completamente fredda.
La ragazza strinse le dita intorno al cucchiaio: adesso doveva mangiare
sola in cucina, dopo che tutti gli altri avevano finito, come
l’ultima
delle sguattere. C’è, però, da dire che
questo non le
dispiaceva più di tanto, visto che significava desinare
senza avere davanti la brutta faccia
della zia e della cugina; inoltre, non le importava nemmeno di Guido,
in quanto rimaneva fuori sia a pranzo che a cena, portando le sue amiche nei migliori
ristoranti.
Tanto, debito più, debito meno, la cosa era irrilevante,
dato
che poteva disporre della sorella come pegno per saldare il tutto.
Quell’ultima considerazione,
però, nauseò talmente tanto Beatrice che
allontanò da sé la scodella: aveva perso tutto
l’appetito. Mise da parte
l’avanzo di cibo e, dopo aver lavato il pentolame, si
preparò a salire di sopra, così da proseguire
nelle
pulizie di Pasqua, quando Guido fece il suo ingresso in cucina.
«Ciao,
Cicci, cosa hai fatto di
bello oggi?»
disse il ragazzo, dirigendosi immediatamente verso il tavolo, dove era
posata un’incustodita e succulenta torta al cioccolato.
La fanciulla fece finta di non sentirlo, continuando ad asciugare le
posate.
«Non
rispondi, Bea? Se rimani così
imbronciata, farai presto le rughe!»
sghignazzò Guido, esilarato dalla propria battuta.
Irritata da tanta facezia
a buon mercato, la fanciulla decise di interrompere il suo ostinato
silenzio: «Perché
non sposi tu una ricca
ereditiera, così
da poter pagare
tutti i debiti che
l’hai
con il Navarra?»
«Perché
una zita1
dà più problemi d’un ragazzo
scapolo»
concluse Guido, servendosi un’enorme fetta di torta.
Beatrice trovò la risposta molto maleducata ed
incompleta, con una forte dose di retaggio maschilista; le ricordava
una frase che aveva letto su un libro di storia a proposito dei costumi
dell’Antica Grecia: un
figlio lo si cresce anche se si è poveri, una figlia la si
espone anche se si è ricchi2.
«Sembra
buona, Cicci. Cosa
ci hai messo?»
La fanciulla attese che il fratello
addentasse un grosso pezzo di dolce e rispose, candidamente: «L’ingrediente
principale
è la
stricnina».
Preso in contropiede, il ragazzo sputò il boccone, tossendo
in preda ai rantoli e tenendosi il collo con entrambe le mani.
«Mi stai avvelenando!»
piagnucolò.
Beatrice lo guardò con fredda compassione, mettendosi le
mani sui fianchi.
«Oh,
sì, così
l’uscirei
da questa prigione
per andarne
in
un’altra. Anche
se non credo
che la galera
possa essere
peggio»
commentò, severa.
«Pulisci tu questo schifo,
adesso,
io sono stata tre ore a lustrare
la
cucina, ho
ancora
tutto il piano superiore da mettere a posto».
«Ma come fo! Non so nemmeno
la differenza tra il cencio e il detersivo!»
protestò Guido.
«Arrangiati.
E, se non lo fai, convinco
Navarra a
raddoppiarti i debiti, anziché
toglierteli».
Il
ragazzo divenne bianco cadaverico.
«Non puoi farlo!»
La ragazza mise su un cipiglio austero e scandì, muovendo
appena le labbra: «Oh, sì, invece. Sei tu che mi
stai obbligando
a
frequentarlo e sposarlo, non ricordi?»
Una volta giunta al piano di sopra, Beatrice poggiò il
secchio e
lo straccio sul pianerottolo, cercando di riprendere fiato. Tuttavia,
venne prontamente richiamata da Anna Laura: «Sbrigati,
sfaticata!
La mia camera aspetta da stamattina di essere rifatta!»
La fanciulla lanciò un’occhiata tagliente alla
cugina, la
quale rispose con altri insulti: «Prova a guardarmi ancora
così e lo dirò a mamma! Allora finirai a
pulire anche il
camino, diventando lurida e puzzolente di fuliggine: Cenerentola, al
tuo
confronto, sembrerà niente!»
La ragazza fu
sinceramente tentata di far ruzzolare la parente giù per le
scale,
ma poi pensò che non valeva la pena di sporcarsi le mani
così stupidamente. Si costrinse a non rispondere e
varcò
la soglia della stanza di Anna Laura che, ovviamente, era
l’esatto opposto della stanzetta che avevano dato a lei.
Tanto per cominciare, aveva un’ampia finestra, un grande
armadio,
un letto spazioso e soffice e una quantità industriale di
abiti,
scarpe e altri inutili fronzoli pacchiani per adornarsi in stile albero
di Natale ambulante.
Beatrice si legò sommariamente i capelli in una coda alta e
lanciò una veloce occhiata qua e là,
al fine di
stimare il tempo che avrebbe impiegato per mettere a posto. Ad occhio e
croce, contando quell’immenso disordine, ci avrebbe trascorso
gran parte del pomeriggio.
Cominciò a riordinare tutti i vestiti che la cugina aveva
lasciato sparsi sul pavimento, mettendo in un mucchio quelli che doveva
lavare e ripiegando, invece, quelli che dovevano essere rimessi
nell’armadio.
«Oggi deve essere
proprio la tua giornata fortunata» esordì Anna
Laura, che
era rimasta impalata sulla porta, senza fare niente, per puro gusto di
veder sgobbare Beatrice al posto suo.
«Davvero? Non ho fatto caso all’oroscopo,
stamani» rispose lei, continuando nell’ingrato
compito che
le era stato assegnato. Li avesse almeno rivoltati nel verso corretto,
visto che erano tutti al rovescio!
«Avevo
deciso che non ti avrei portata con me alla mostra del Davoli,
però poi ho cambiato idea» continuò la
donna, cantilenando con malignità.
«Oh,
come sei
altruista»
rispose la fanciulla, con malcelato sarcasmo.
«Non
lo faccio mica per te!» fece, pronta,
l’altra. «Sarà
molto divertente portarti ad assistere al mio trionfo:
userò, infatti,
tutte le mie tecniche di seduzione e
Marcello sarà finalmente mio!»
Beatrice trovava che in quel piano ci fosse più di una
falla, a cominciare dal fatto che la cugina non padroneggiava la
benché minima “tecnica di seduzione”
(non che lei ne
fosse esperta, ma almeno non millantava talenti che non
aveva), tuttavia si guardò bene dal dirlo.
«Non ti
interessa, Bea?»
«Cosa?»
«Vuoi
fare l’innocentina con me? Sai bene che mi sto riferendo a
Marcello!»
«No,
non m’interessa, infatti. Hai ragione tu, figurati se uno come lui guarderebbe mai
una ragazzina
come
me!»
La donna manifestò tutto il suo compiacimento ad una
risposta simile: «Finalmente
l’hai capito! Lui non ha bisogno di mocciose ai quali fare il
baby-sitter, vuole una donna vera!»
Anna
Laura andò avanti diverso tempo nel declamare tutte le
qualità con i quali avrebbe, letteralmente, impressionato Marcello. Mentalmente, la fanciulla si permise di aggiungere dalla paura! e
fece uno sforzo impressionante per non scoppiare a ridere.
Molte inutili chiacchiere più avanti, la cugina disse che
doveva
uscire con delle amiche e, con enorme sollievo della nostra Beatrice,
si tolse dai piedi.
Senza l’opprimente presenza della parente, la giovane
andò
più spedita e finì le pulizie in un battibaleno.
Stava
giusto per finire di sistemare i cuscini decorativi sul letto, quando,
casualmente, l’occhio
le andò sul calendario e
notò
che, al ventisette dicembre, Anna Laura aveva appuntato qualcosa con un
orribile pennarello rosa, contornandolo di cuoricini rossi.
Approfittando della sua assenza, si
avvicinò e
lesse.
Nel rendersi conto di cosa c’era
scritto, ebbe un giramento di
testa: era il compleanno di Marcello!
Tralasciando il dubbio modo con cui la cugina aveva segnato
l’evento, doveva appurare se corrispondeva al vero.
Considerando il basso quoziente intellettivo della donna, e sapendo
che le
sue letture giornalistiche più evolute si fermavano a Cioè,
Beatrice si chiese come fosse riuscita a scoprire una cosa tanto
importante. Avevano
intervistato Marcello in qualche radio locale? Proprio Anna Laura gli
aveva fatto capire che il giovane era abbastanza famoso nel mondo della
finanza... In quell’istante le venne in mente il
famoso
ritaglio di giornale, quello che la parente aveva sbaciucchiato.
Forse c’era scritto qualcosa lì sopra?
La fanciulla sapeva perfettamente che il prezioso
ritaglio era conservato in un raccoglitore sulla mensola sopra al
letto. Forse
avrebbe potuto approfittare del fatto che fosse sola per dare una
sbirciatina, così, per curiosità; ovviamente,
alla fine, avrebbe rimesso
tutto a
posto e nessuno avrebbe sospettato nulla.
Con somma cautela, si arrampicò sul letto, stando attenta a
non
sgualcire le lenzuola (sia per non lasciare tracce, sia per rispetto
al proprio lavoro), e prese il raccoglitore, sempre con
l’orecchio teso, pronta a
cogliere anche il più piccolo rumore.
Tutto tranquillo.
Lentamente, prese a sfogliare le varie bustine trasparenti e comprese
che quello era una specie di dossier su Marcello. Chissà
cosa ne
avrebbe pensato il diretto interessato! Trattenendo una risata di cuore
alle spalle della cugina, Beatrice avanzò nella sua ricerca,
finché non trovò quello che cercava. Fu
così che
cominciò a leggere:
“...il
proficuo incontro avuto con
Johnatan Mitchell e soci, avvenuto lo scorso mese a Villa Adriana, ha
confermato Marcello Tornatore e Gerardo Marini come le attuali stelle
della finanza locale. I due giovanissimi imprenditori (giovani per
davvero, Gerardo è nato il 4 aprile 1961 e
Marcello il 27 dicembre dello stesso anno) hanno affermato di voler
seguire una propria scala di obiettivi, senza voler strafare. Per ora,
i ragazzi hanno di certo cominciato con il piede giusto e sembra
proprio che Roma debba aspettarsi molto da loro...”
Dunque era vero!
La fanciulla si mordicchiò il labbro, pensierosa. Marcello
aveva
quasi sette anni più di lei, quindi ciò che aveva
detto
ad Anna Laura non era poi molto lontano dalla realtà: la
possibilità che quel giovane la vedesse solo come una
ragazzina invadente non era troppo remota.
Eppure,
era
stato davvero
gentile con lei e le aveva regalato un prezioso
libro senza motivo, per non parlare dei fiori che le aveva portato la
prima volta che erano usciti insieme... E, anche se per lui era solo
una
ragazzina, doveva ricambiare le sue cortesie. La fanciulla rimise tutto
come l’aveva trovato e uscì velocemente dalla
stanza.
Sorrise, felice, perché aveva trovato il pensiero che le
avrebbe
fatto compagnia, in quel pomeriggio dedicato alle pulizie: avrebbe
confezionato un pensierino a Marcello, cogliendo l’occasione
del
suo compleanno e del Natale, ormai prossimo.
Beatrice sospirò. Sempre che fosse riuscita ad evadere da
Alcatraz e vederlo per quella data.
Quel pomeriggio, Marcello
rientrò a casa con un diavolo per capello, come accadeva
sempre quando qualche affare non veniva concluso nel modo sperato.
In realtà, in questo caso, il giovane era molto contento di
essersi liberato di Lord Carter e della sua prosopopea, ma non aveva
gradito il modo in cui l’industriale li aveva trattati, come
se avesse
voluto sottolineare che erano soltanto dei sempliciotti.
Mentre rimuginava sul ricordo del pomeriggio in cui avevano firmato
l’offerta, tentando di richiamare alla mente particolari
importanti
per
smascherare il magnate, Madama Claudia lo vide passare davanti al
salotto e, immediatamente, lo seguì, chiamandolo: «Marcello,
per parlarti devo prendere anche io un appuntamento? Sono giorni
che ti intravedo, a malapena, per questi corridoi: corri come un
fuggiasco!»
Il
ragazzo si fermò, prendendo un sospiro di incoraggiamento
per affrontare la madre.
«Non
è un bel periodo, d’accordo? Stiamo avendo dei
problemi».
«Vuoi
dire che non avete concluso nulla con quel famoso milionario?»
«No,
mamma. Non abbiamo concluso, anzi la faccenda è abbastanza
complicata».
«Ah!
Scommetto che la colpa è tutta di
quell’incompetente di
Marini! Se tu avessi scelto con più attenzione il tuo
socio...»
«Gerardo
non c’entra niente!» insorse Marcello, irritato dal
commento
della genitrice sul suo amico. «Il problema sta
a monte, ovvero siamo noi che non vogliamo avere nulla a che fare con
gli sporchi affari di Carter!»
«Ma
sarebbe stato vantaggioso chiudere un contratto con lui! Sai quanto ne
avreste guadagnato in visibilità?»
«Come gestisco i
miei affari è cosa mia. E su certe cose non
scendo a compromessi, lo sai benissimo!»
La Matrona lo
guardò, sorridendo beffarda.
«La tua... lealtà»
disse, pronunciando l’ultima parola con tono
ironico, «non
ti porterà a niente. Guardati: nonostante i miei saggi
consigli, sei ancora senza una moglie! A proposito, in
biblioteca c’è quella buona a nulla della Farnese,
deve parlarti
di quell’orribile mostra. Invece di togliere sempre dai guai
quella sciacquetta,
cerca di far fruttare l’occasione!
Per esempio, perché non prendi in considerazione
l’idea di
invitare
Maria Luisa...»
Marcello guardò la madre con tanto disgusto che la donna,
nonostante fosse molto sicura di sé, tacque.
«Mamma,
basta. Basta, hai capito? Basta. Non voglio sentire una sola parola in
più! La devi piantare di dare sempre giudizi gratuiti su
quello che faccio e su chi frequento!»
«Ti
sembra questo il modo di rivolgerti a tua madre, figlio
ingrato?»
«Oggi ho cose
più serie alle quali pensare,
quindi lasciami stare!»
Il biondo non ebbe modo di sentire quello che continuò a
gridargli sua madre dal corridoio poiché, per conservare la
propria
salute
mentale, aveva intenzione di non ascoltare ancora ignobili improperi;
entrò in biblioteca e chiuse la porta a chiave,
così da
evitare spiacevoli irruzioni da parte di parenti molesti.
Fin
da quando era piccola, Vittoria aveva sviluppato una particolare
predilezione per le poltrone adiacenti alla vetrata sul
giardino
e fu lì, infatti, che la trovò Marcello,
acciambellata
a leggere un tomo particolarmente datato, come si poteva vedere dai
segni sulla pelle del frontespizio.
«Buon
pomeriggio, Vittoria» la salutò, accompagnando le
parole con un cenno del capo.
«Eccoti
qui! Credevo non saresti venuto!»
lo accolse la ragazza, calorosa, mettendo da parte Il giro del mondo in ottanta
giorni.
«Abbiamo affrontato con Gerardo una questione spinosa»
spiegò il biondo, accomodandosi di fronte a lei.
«Sei ancora nella fase di riscoperta di Verne?»
«Certi libri non
ti stancano mai»
ammise l’amica, accarezzando con lo sguardo la copertina
consunta del libro.
«Come mai hai fatto così tardi?»
«Carter»
rispose il giovane, asciutto.
«Ma ora non ho voglia di parlarne, ho schiumato abbastanza
per oggi, a causa sua».
«Me
lo racconterai un’altra volta, allora, anche se ti vedo
particolarmente
provato» dovette ammettere Vittoria, guardandolo preoccupata.
Il ragazzo fece un gesto
con la mano, come a voler allontanare simbolicamente la discussione da
sé.
«Mia
madre non ti ha offerto niente?»
«Credo
sia già tanto che mi abbia fatta entrare, inoltre ho sentito
che stava urlando. Ce l’aveva con te?»
«Come
sempre. Abbiamo divergenze
di opinioni praticamente su tutto» sbuffò lui,
rilassandosi sulla poltrona. Si allentò il nodo della
cravatta e
se la sfilò.
Vittoria tese la mano per farsela dare e la piegò
accuratamente, mentre esprimeva il proprio punto di vista: «La
signora Claudia dice così, ma, sotto sotto, ama il fatto che
suo
figlio
sappia tenerle testa e che abbia una personalità
così spiccata. Ti rende un ottimo leader. E nel lavoro che
fai, questa è una qualità importante».
«Tu
avresti dovuto fare la psicologa su larga scala, sai? Ciò
che fai
al volontariato è limitato» commentò il
giovane, inclinando il capo da un lato.
«Non
è proprio così, perché sono proprie
quelle le persone che hanno
più bisogno»
spiegò l’altra, dando prova di grande
maturità. «E poi la mia
laurea non è sempre d’aiuto. Per esempio, proprio
non
capisco perché Gerardo continui ad evitarmi! Non lo vedo da
settimane... Se mandassero ancora in onda Portobello, potrei
chiamare durante Dove
sei3 per
avere notizie!»
Nello stesso momento in cui Vittoria tirò
fuori il nome del loro amico,
Marcello si stava proprio chiedendo quando l’avrebbe fatto, giacché, quando
era
stato lui stesso a nominarlo poco prima, aveva visto la sua interlocutrice
divenire piuttosto irrequieta.
«Si
farà sentire, prima o poi. Almeno spero».
Lei assunse un’espressione stizzita, a sottolineare il fatto che
non
credeva a quanto udito, e, dentro di sé, il biondo fu
costretto
a darle ragione, in quanto Gerardo stava davvero tirando troppo la
corda. Andava bene non andare a casa di Vittoria per i dissapori con lo
scultore, ma avrebbe almeno potuto chiamarla!
«Però
non mi hai ancora detto perché sei qui»
proseguì il giovane, nel tentativo di cambiare repentinamente argomento.
La ragazza prese una busta di plastica e ne cacciò fuori una
pila
di
fogli di carta: «Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse ad
preparare gli inviti per la mostra. Guarda, ho anche fatto la lista con
i nomi da spuntare, man mano che li imbustiamo».
Marcello la guardò come se fosse folle.
«Sciroccata che
non sei altro, se pensi che io mi presti a questo lavoraccio
oggi pomeriggio, hai capito proprio male. Torna domani e potremmo riparlarne» scattò, brusco. A conti fatti, dopo
quello che
aveva passato in mattinata, il suo desiderio di riposare non era tanto da biasimare.
«Su,
su, che un po’ di sano lavoro manuale ti aiuterà a
distrarti dalle
diatribe lavorative!» esclamò vivacemente
Vittoria,
battendo le mani a ritmo.
Non vedendo altra scelta, Marcello, rassegnato, si fece consegnare la
sua parte di inviti, augurandosi di non dover passare la notte in
bianco: essendoci di mezzo Vittoria, ogni cosa era possibile.
Si misero a lavorare di buona lena e, poiché
l’amica era
molto precisa e meticolosa in tutto quello che faceva, il biondo
scoprì, con sommo piacere, che il lavoro era stato davvero
ben
organizzato. Inoltre, dovette convenire che eseguire gesti
meccanici aiutava a distendere i nervi e a far rilassare il cervello.
Fu così che gli venne in mente che Beatrice non gli aveva
ancora
risposto e, approfittando di avere di fronte la sua più cara
amica, decise di consultarsi nuovamente con lei sul da farsi.
«Anche
questa settimana Beatrice non mi ha risposto»
esordì Marcello, spuntando un nome dalla lista. «Sinceramente,
sto cominciando a preoccuparmi: che le sia successo qualcosa? A
meno che non voglia più parlarmi, ovviamente».
Vittoria smise di imbustare gli inviti e lo guardò: «Togliti
dalla testa che non voglia più parlarti: una ragazza che
arriva a cercare un uomo a casa sua è molto
interessata. Se
davvero sei preoccupato, vai a casa sua, e accertati che tutto sia a
posto».
«Sì,
non c’è altra soluzione»
convenne il giovane, chiudendo a sua volta un altro invito.
«Magari,
evita di farti vedere dalla cugina; sai, ho come
l’impressione che non aspetti altro che un pretesto per
saltarti
addosso» insinuò l’altra, con aria di
chi la sa
lunga.
«Ma
si può sapere chi è la cugina di Beatrice? Tu e
lei la nominate in continuazione, io, invece, ricordo il nome, ma non
riesco a
collegarla a nessun viso».
«Hai
presente quella ragazza che ha voluto conoscerti a tutti i costi,
all’inaugurazione del ristorante di Michele?»
«Sì,
forse ricordo...» disse Marcello, dapprima socchiudendo gli
occhi nello sforzo di richiamare alla mente riferimenti utili, poi
spalancandoli per l’orrore. «Santo Cielo,
ora sì che ho capito!»
Vittoria, a quella reazione, scoppiò in una fragorosa
risata, tanto che dovette cacciare fuori dalla tasca il fazzoletto e
cominciare a
tamponare le lacrime.
Il
giovane cacciò fuori la lingua, esibendo
un’infantile
espressione di disgusto: «Non
ho mai conosciuto una tipa più appiccicosa di quella... Ti
divertono tanto le mie disavventure, Vittoria?»
La ragazza, richiamata all’ordine, cercò di
calmarsi e di
ridarsi un tono.
«Non
è colpa mia» si difese.
«Purtroppo, capitano tutte a te. Hai quasi più fan
tu di Simon Le Bon!»
«Peccato
che io non sappia cantare» obiettò lui, con
disappunto.
«Magari con un po’ di esercizio potresti
migliorare.
Perché, di aspetto, ci siamo: se ti metto un pizzico di
matita nera, ti
cotono un po’ i capelli e ti metti vestiti di pelle, potresti
essere tranquillamente il
sesto Duran Duran!»
«Proprio in stile Wild
Boys4, insomma»
commentò il giovane, increspando le labbra.
Vittoria si rimise ad
imbustare gli inviti, continuando a sorridere. Passarono solo alcuni
secondi e alzò nuovamente lo sguardo verso
l’amico,
sogghignando malandrina: «Comunque,
non
ti avevo mai visto così preso da una ragazza. Anzi, mi
correggo, non ti ho proprio
mai visto preso da una ragazza: per la tua rossa fiorentina hai davvero
preso una scuffia
coi fiocchi!»
Marcello rimase in silenzio, ma il tenue rossore che gli aveva colorato
le guance rappresentava una risposta più che
affermativa, mentre l’altra
scoppiava di
nuovo a ridere.
«Non c’è niente da arrossire. Magari,
avessi
trovato anche io un uomo che si preoccupi un po’ per me».
A quella malinconica affermazione, il biondo rimase interdetto. Aveva
intuito che tra
la sua amica e lo scultore non era più tutto rose e fiori da
un
pezzo, ma non credeva che la situazione fosse precipitata
così tanto.
Pertanto decise di informarsi, seppur con discrezione, chiedendole:
«Vittoria, so che non dovrebbero essere affari miei, ma... con Bartolomeo va tutto bene?»
La ragazza
scrollò il capo, in segno d’incertezza, e si
intristì di colpo: «Non
proprio. A dirla tutta... non so nemmeno perché mi stia
impegnando tanto per questa mostra, mi sento come una bambina che
aspetta un premio se si comporta bene. Sai che il pezzo forte di tutta
l’esposizione sarà una statua?»
«No, non me l’avevi detto».
«Una statua,
scolpita nel ghiaccio, che dovrebbe rappresentare me.
Non
me l’ha detto espressamente, ma ho sentito ciò che
andava
ciancicando: l’ha descritta, infatti, ad uno dei suoi lavoranti, come il ritratto della sua musa
ispiratrice».
«E non ne sei contenta?»
Vittoria alzò le spalle.
«Sono
talmente tante le cose che non vanno più bene tra di noi,
che non lo so. Io ci sto mettendo molto di mio per salvare questa
storia, però credo che ormai non ci sia più molto da
fare».
Marcello
temporeggiò qualche secondo, in modo da scegliere accuratamente le
parole da dire.
«Se non ti trovi più bene con lui,
perché non lo lasci? Vittoria, sarò sincero con
te come lo sono sempre stato: ultimamente, ti ho vista molto
più assorbita dalla mostra che da lui».
«Ma è così! Quando l’ho
conosciuto,
credevo fosse una persona diversa, anche se devo ammettere che non
è mai stato il mio tipo ideale. Tuttavia, non pensavo che
potesse rivelarsi così dannoso...»
«Vittoria, cosa
intendi per dannoso?»
«Oh,
sai, per esempio, l’altro giorno... » la ragazza si interruppe,
esitando.
«Prima, però, promettimi che non lo racconterai a Gerardo».
Quella richiesta sorprese non poco Marcello: tra loro tre non
c’erano
mai stati segreti e il fatto che Vittoria gli stesse chiedendo di non
dire nulla al loro amico era alquanto bizzarro.
«Per
la miseria, così mi metti in agitazione! Si può
sapere cosa è successo?»
«Prima
prometti!»
insistette la sua interlocutrice, alzando il tono di voce.
«Prometto, prometto, ma parla adesso!»
La giovane sospirò: «Era nervoso per
via di alcune sculture che non riescono a spedirgli da Leningrado5, così
ho cercato di risollevargli il morale, ma...»
«Ma?»
incalzò il giovane, assottigliando lo sguardo con aria
inquisitoria.
«Mi ha... tirato uno schiaffo»
ammise l’amica, a bassissima voce, come se si vergognasse.
Marcello poté giurare di averla vista tremare.
«Che cosa?! E ancora non l’hai lasciato?»
Vittoria non rispose, stringendo le braccia contro di sé, come a ripararsi da un freddo insistente, chinando la testa.
«Dovevi troncare subito tutti i rapporti! Un uomo che alza le
mani su una donna è una bestia!»
berciò Marcello, scattando in piedi.
«L’aveva già fatto altre volte?»
Lei non si mosse, né rispose ed il biondo capì
che c’erano stati dei precedenti.
«Maledetto
porco schifoso... non avrei dovuto fartelo conoscere! E Gerardo
deve saperlo, è una cosa troppo grave per non
riferirgliela!»
«Aspettiamo. Una volta terminata la mostra, ti prometto che
lascerò
Bartolomeo» disse la giovane, alzandosi a sua volta dalla
sedia, inquieta.
«Secondo
me dovresti dirglielo subito, altrochè! E avresti dovuto lasciare quel
verme molto prima: Vittoria, sei una ragazza così
intelligente,
che cosa te lo ha impedito?»
«Non
lo so... Forse, credevo che con l’affetto sarebbe cambiato, invece...» pigolò
Vittoria, mentre le lacrime cominciavano a rotolarle giù
dalle
guance. Marcello, intenerito, le si avvicinò, cingendole la
vita
con un braccio, e la ragazza gli si strinse contro, continuando a
singhiozzare.
«Se
uno è marcio dentro, non cambia»
sussurrò lui, accarezzandole la testa. «Sei una ragazza
fantastica, meriti di meglio».
La risposta dell’amica arrivò soffocata dalla
stoffa della camicia di lui: «Chi
piace a me non mi vuole, guarda solo le altre».
«Questo
tipo non deve essere uno tanto sano di mente, se non riesce a vedere
quanto sei in gamba».
Vittoria non disse nulla, continuando il suo pianto
liberatorio.
La ragazza si trattenne a Villa Aurelia ancora una mezz’ora,
poi
se ne andò a casa, dicendo che doveva mettersi a riposare
per
placare il terribile mal di testa che le era scoppiato.
Marcello l’accompagnò fino al cancello e, al
momento dei
saluti, si risparmiò ulteriori raccomandazioni,
dato
che sapeva che la battaglia era persa in partenza: Vittoria aveva una
personalità molto ostinata e, nonostante avesse una spiccata
intelligenza, a volte preferiva fare l’ottusa.
Nel rientrare in casa, diretto in camera sua, il biondo si
augurò solamente che fino alla mostra non succedesse nulla
di
grave, così da avere almeno il tempo di convincere la
giovane
a riferire tutto anche a Gerardo, dato che era l’unico del
terzetto a non sapere nulla della vicenda, nonostante avesse il diritto di sapere.
L’obiettivo, che dovevano raggiungere al più
presto, infatti, era
far sì che Bartolomeo scomparisse dalla vita di Vittoria.
Amareggiato dalle recenti scoperte, il giovane pensò a
Beatrice
e si chiese se anche a lei fosse capitato qualcosa di brutto e, purtroppo,
non lo poteva escludere: se perfino la sua migliore amica era rimasta
invischiata in una così brutta faccenda, a maggior ragione
sarebbe potuto capitare alla fanciulla, dato che viveva di per
sé in una condizione tremenda.
Improvvisamente si ritrovò a temere per la sorte di quella
dolce
ragazza dai capelli rossi e, non riuscendo a reprimere il brutto
presentimento che si era affacciato nel suo cuore, afferrò
d’istinto il cappotto e si diresse a casa di lei.
Appena mise piede fuori casa, Beatrice respirò
l’aria a
pieni polmoni: quasi non riusciva a credere di aver lasciato quelle
quattro mura, anche se per poco. Infatti, aveva miracolosamente
ottenuto dalla zia il permesso di uscire per recarsi in merceria, al
fine di acquistare alcune matassine per il puntocroce.
«Cicci, perché
ti sei fermata?»
«Perché
non mi ricordavo più che
odore avesse l’aria libera»
rispose la ragazza, tenendo gli occhi chiusi. Sarebbe rimasta
così ancora per molto, ma, con suo enorme disappunto, suo
fratello le mise fretta.
Purtroppo, non poteva assolutamente uscire da sola e ogni volta che
lasciava Villa dei Salici doveva essere scortata da qualcuno, a scelta
tra Guido e Anna Laura. Uno meglio dell’altro, insomma.
Ciononostante, a Beatrice mancava talmente tanto avere un contatto con
l’esterno che aveva imparato ad apprezzare anche quella
misera
ora d’aria, pur di riuscire a mettere il naso fuori.
Si avvicinò al grande cancello e lo aprì a mano,
poiché la chiusura automatica era rotta e non
c’erano i soldi per far venire un elettricista; era talmente
contenta di poter finalmente poggiare il piede in strada, che non si
accorse subito di lui.
Dovette guardare due o tre volte, prima di rendersi conto che non era
un miraggio; quando realizzò che non stava sognando, il suo
cuore mancò un battito: dall’altra parte della
strada,
c’era Marcello.
«Bea,
perché
ti se’ fermata di nuovo?» domandò Guido, evitando
per un pelo di sbatterle contro.
«Il portafoglio!»
esclamò Beatrice con voce stridula.
«Me ne son dimenticata,
l’ho lasciato
di sopra... Perché
non lo vai a prender tu?»
Il ragazzo sbuffò sonoramente.
«Hai sempre la testa tra le nuvole! Va bene, ci vado, ma tu
non ti muovere, sai che
la zia Assunta non vuole che
tu te ne vada a giro da sola».
«Suvvia,
dove vuo’ che vada, senza una
lira in tasca?»
fece la fanciulla, pronta. Dopo che si fu accertata che lui fosse
rientrato in casa, si voltò nuovamente verso la strada, in
direzione di Marcello.
Che sofferenza non potergli correre incontro! Il biondo la guardava con
aria interrogativa, restando fermo al suo posto. Forse era davvero un
miracolo che Anna Laura e
la zia non fossero in casa, altrimenti avrebbero già scorto
il
giovane da una delle finestre: non era un mistero, infatti, che fossero delle
gran pettegole, sempre a ficcanasare su tutto quello che accadeva nel
quartiere.
Beatrice scosse lentamente il capo, senza staccare gli occhi dal
ragazzo, sperando che capisse che non si doveva avvicinare.
In risposta, Marcello affermò, con aria condiscendente, e
fece
un paio di passi indietro, ritirandosi nella penombra degli ippocastani.
La giovane sentì gli occhi che si stavano riempiendo di
lacrime:
perché il destino con lei si stava rivelando tanto crudele,
accanendosi contro di lei? In fondo, chiedeva solamente
l’occasione di passare un
po’ di
tempo con il ragazzo che le piaceva, come una sua qualsiasi coetanea.
La voce di Guido le arrivò lontana: «Cicci, non
c’è nessun portafoglio nella tu’ camera. Sei sicura di non averlo con te?»
«Oh»
fece Beatrice, riavendosi dai brutti pensieri,
«sì, hai ragione. Non avevo guardato bene nella
borsa, è qui».
«Non
per offenderti, Bea, ma ultimamente se’ un po’
svampita» commentò l’altro.
«Su,
andiamo, che
si fa tardi!»
Con
un enorme sforzo, la giovane seguì il fratello ma, prima di
voltare, forse per sempre, le spalle a Marcello, gli
lanciò un
ultimo sguardo carico di dolore e di tristezza.
Quando si rese conto che le vetrine cominciavano ad essere addobbate a
festa, la giovane realizzò che Natale non doveva essere
molto
lontano. Amava quella festività, sebbene non
l’avesse
più celebrata con il dovuto riguardo, da quando era morto
suo
padre; quell’anno, però, si era davvero illusa di poter tornare a
considerare il periodo natalizio con gioia e aveva appena cominciato a
crederci sul serio, quando le sue aspettative erano state prontamente
dissipate, come fumo al vento.
«Ti aspetto qui fuori, Cicci.
Mi raccomando,
non metterci
troppo, stasera devo uscire con
una ragazza,
non si può fare tardi».
«Che
novità!»
commentò Beatrice, furibonda, giacché non
riusciva a togliersi dalla
testa l’immagine di Marcello, che la guardava andare via.
Probabilmente aveva cercato di chiamarla al telefono e, non ricevendo
risposta, si
era preoccupato.
Che sciocca era stata a fantasticare su uno scambio di regali natalizi
con lui!
Stringendosi nel cappottino di panno, che aveva terminato di cucire con
tanta fatica, si avviò per una traversa di Via della Mercede,
alla volta della merceria dove si riforniva sempre.
La stizza, che scaturì nel notare che anche la vetrina di
quel
negozio era addobbata a festa, fu talmente grande che la ragazza fu
seriamente tentata di tornare indietro senza aver acquistato nulla. Per
fortuna, cambiò idea a breve, lasciando che prevalesse la
voglia
di finire il suo vestito nuovo, anche se, molto probabilmente, non
avrebbe avuto occasione di indossarlo.
Non era una ragazza vezzosa, tuttavia non poteva negare che amava dare
sfogo alla sua creatività, realizzando nuovi abiti.
Seduti sulla soglia della merceria, c’erano due bambini, un
maschietto ed una femminuccia, che stavano mangiando un gelato quasi
più grande di loro. Si somigliavano molto, sebbene
l’uno fosse moro e l’altra più castana.
«Ma
non avete freddo?»
chiese la fanciulla, guardandoli sorpresa.
«No»
rispose il bambino,
«io mangerei sempre gelato al cioccolato.
È buono!»
«In
effetti, le cose
buone son sempre buone» gli disse Beatrice, accorgendosi che aveva ragione.
«Devi
entrare?» le chiese la bambina,
alzandosi per lasciarla passare.
«Oh,
sì. Grazie».
«La nostra mamma ha tutto, vende cose molto belle, sai? Troverai
sicuramente quello che cerchi»
aggiunse la piccolina, dando un’altra leccata al suo cono
alla crema.
La ragazza le sorrise ed entrò.
L’interno del locale era stracolmo di ogni tipo di stoffa,
rotoli
e tavole, fili e gomitoli di lana, un tripudio di colori e di materiali
diversi. Facendosi largo tra gli articoli che vendeva, la proprietaria
del negozio venne ad accogliere Beatrice con un gran sorriso:
«Buonasera,
cara, in cosa posso esserti utile?»
Era una donna che doveva aver già superato la trentina,
molto
elegante con il suo tailleur rosa antico e i capelli legati in un
raffinato chignon.
«Buonasera, signora Sofia»
rispose con garbo la fanciulla.
«Avrei bisogno di altre due matassine di cotone per il punto
croce».
«Colore?»
«Il settecentoquarantasette»
disse, dopo averci pensato un po’ su.
Immediatamente, la donna sparì nel retrobottega. Rimasta
sola,
Beatrice si guardò intorno, gioendo nel vedere tante stoffe
colorate; chissà, se la sua vita fosse stata diversa, forse,
sarebbe
potuta diventare una stilista o un’arredatrice. Senza dubbio,
avrebbe coniugato la sua passione per il disegno e per l’arte
con
quella per i filati.
I due bambini rientrarono in quel mentre, facendo tintinnare il
campanellino che avvisava dell’entrata di un cliente. Fu
proprio
in quel frangente che lei notò un cartello arancione,
appeso
alla porta, con su scritto Cercasi
personale. Ci volle solo qualche istante, perché la reazione
della giovane fu immediata.
Infatti, quando la venditrice riemerse qualche minuto dopo, tenendo in
mano quello che le era stato chiesto, Beatrice le chiese: «Mi scusi, sul serio cercate personale?»
«Esattamente. Cercavo una ragazza che potesse affiancarmi
nelle
vendite. Mio marito ci ha provato ma, essendo un uomo, non conosce
benissimo le differenze che ci sono tra i vari articoli che vendiamo. E
non è nemmeno in grado di dare consigli sul cucito, povero
caro.
Le clienti devono sempre attendere che mi liberi io, per essere servite
al meglio»
spiegò la signora Sofia.
«Che
genere di
requisiti dovrebbe avere la nuova commessa?»
«In realtà, nulla di speciale. Un’ottima
conoscenza dei filati, delle
stoffe, dei bottoni... Se magari fosse anche esperta di ricamo e cucito
e se la cavasse nei lavori di sartoria, sarebbe meglio. Ogni tanto
collaboriamo con le compagnie teatrali ospitate dal Teatro Argentina,
sai, per
accomodare i costumi...»
La fanciulla sorrise: che forse avesse avuto, finalmente, un segno
divino?
«Potrei
andar bene io?»
La donna, che le stava facendo il conto, posò la matita sul
bancone e la guardò da sopra gli occhiali.
«Cara,
quanti anni hai? Non sei troppo giovane?»
«Ho
compiuto
diciotto anni lo scorso maggio, son maggiorenne»
affermò la ragazza, sicura di sé.
Picchiettando leggermente le dita sul legno del banco di vendita, come
se stesse pensando, la donna continuò con le domande:
«Come
te la cavi con il cucito?»
«Questo»
disse Beatrice, volteggiando lentamente su sè stessa,
«è un abito che ho cucito interamente
da me».
«Anche
il modello?»
chiese esterrefatta la sarta, avendo certamente notato la pregiata
rifinitura dell’abito
di cotone verde.
«Certo, l’ho disegnato io. Potrebbe mettermi in
prova, se non dovessi soddisfare le su’
aspettative può sempre rimandarmi a casa».
Il tono risoluto della ragazza sembrò convincere la signora
Sofia.
«D’accordo.
Allora comincerai domani pomeriggio e lavorerai ogni giorno, domenica
esclusa, dalle sedici alle venti. Ti terrò in prova due
settimane, dopo di che deciderò se assumerti
regolarmente».
«Davvero
l’hai fatto tu?»
La ragazza si voltò e notò che la bambina la
stava guardando, interessata.
«Sì,
ti piace?»
«Moltissimo. Se verrai a lavorare qui, me ne farai uno uguale?»
«Molto volentieri»
rispose dolcemente la fanciulla.
La piccola sorrise: «Come ti chiami?
Io sono Valentina».
«Piacere, Valentina, io
sono Beatrice».
«Io
mi chiamo Alessio!»
si intromise il bambino, vedendo che stava rimanendo fuori dalla
discussione. «Sono suo fratello».
«Piacere,
Alessio».
La signora Sofia si
avvicinò: «A
quanto pare, hai già conosciuto il resto della squadra!»
Uscita dal negozio, Beatrice si sentiva molto più contenta
di
quando vi era entrata. Non riusciva a credere che, per una volta,
qualcosa fosse andato bene: del resto, era anche ora, dopo tutto quello che aveva
subito.
Trovò Guido che l’attendeva appoggiato
all’auto;
certamente anche il fratello dovette notare la sua contentezza,
poiché le domandò: «Hai trovato i
super sconti,
Bea? Sembra che
tu abbia vinto alla lotteria».
«Oh, ho fatto molto di più!»
rispose la giovane, salendo in macchina.
«Che
intendi dire?»
Beatrice attese che il ragazzo mettesse in moto, così da
creare un po’ di suspense: «Ho trovato un lavoro in
merceria. Farò la commessa».
Guido aggrottò la fronte.
«Credi che
la zia te lo lascerà fare?»
«Non potrà dire di no a ciò che le
proporrò:
le cederò due terzi del mi’ stipendio.
Però dovrà
riassumere la
Bettina, perché
lavorando non avrò più tempo a sufficienza per
riordinare tutta la casa»
spiegò la fanciulla, sospirando. Non era giusto che si
privasse,
a causa delle parenti malvagie che si ritrovava, dei soldi che avrebbe
guadagnato,
eppure sapeva benissimo che non ci sarebbe stato altro modo per
convincerle. Non aveva altra scelta e, tra i due mali, avrebbe dovuto
scegliere il minore.
«Stando
così le cose,
potrebbe anche ascoltarti»
concordò il fratello, dimostrandosi, una volta tanto,
assennato nel dare un parere.
«La Bettina
è stata licenziata
ingiustamente ed ha bisogno di quel
lavoro.
Come ho bisogno della mi’ libertà, non
potete tenermi
segregata
in casa!»
rincarò Beatrice, volendo far valere i propri diritti. Guido
non
rispose, lasciando la sorella libera di interpretare il suo silenzio
come meglio credeva, ovvero che era consapevole che fosse anche colpa
sua, se lei era costretta a subire tutti quei soprusi da parte di Anna
Laura e della zia Assunta.
Senza calcolare la
riprovevole corte che le faceva Navarra.
Beatrice ora riusciva a vedere uno spiraglio di luce nella sua vita: se
si fosse giocata bene le sue carte, avrebbe presto ripreso a respirare aria
pura.
***
[N.d.A]
1. zita:
in toscano, zitella.
2. Un figlio... ricchi:
la
frase è estrapolata da un libro che ho letto il primo anno
di
liceo, tuttavia non ricordo né autori né titolo,
se
qualcuno dovesse conoscerlo, me lo faccia sapere così da
dare i
giusti credits. La citazione fa riferimento alla pratica
dell’esposizione, molto usata nell’Antica Grecia,
che prevedeva
l’abbandono, sulla soglia di casa, dei figli che non si
potevano
tenere, lasciandoli così esposti alle intemperie, agli
animali e
ai passanti. Il destino di questi bambini era quindi di morire o, nel
migliore dei casi, di essere adottati da altre famiglie.
3. Dove sei:
era una rubrica, all’interno del programma tv Portobello, che
trattava casi di persone scomparse. Nient’altro che un prototipo
dell’attuale Chi
l’ha visto?
La trasmissione venne sospesa nel 1983 e ripresa, solo per poco, il 20
febbraio 1987, ovvero alcuni mesi dopo gli eventi qui narrati.
4. Wild Boys: qui Marcello sta giocando sul nome di un brano dei Duran Duran, inciso nel 1984. Ovviamente, il citato Simon Le Bon è il cantante della band britannica, molto famosa negli Anni ’80.
5. Leningrado:
l’attuale San Pietroburgo. Ha conservato il precedente nome
fino al 1991.
***
Per la revisione, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie alla mia Anto,
per aver letto ancora una volta in anteprima.
***
Salve a tutti!
Che ci crediate o meno, la prima ad essere sorpresa di questi
aggiornamenti costanti sono io. Anzi, per essere onesta, considerando
il sadico ritmo di studio che mi si prospetta fino a Dicembre, devo
ritenermi fortunata ad aver pensato di mettere da parte qualche
capitolo già scritto, perché, altrimenti, questo racconto
sarebbe andato nuovamente in
stand-by.
Essendo - miracolosamente! - arrivati al quinto
capitolo, posso dire che la storia ormai abbia preso una piega definita, sebbene ancora non sia stato detto tutto
(alcune cose si sapranno solo alla fine, altrimenti leggere questa
storia diventerebbe più scontato e noioso di quello che,
probabilmente, è).
Ringrazio chi legge questi capitoli chilometrici, chi ha messo la
storia in uno dei propri elenchi, chi mi dedica un po’ del
suo
prezioso tempo lasciandomi un parere, chi verrà allo scoperto più avanti.
Come sempre, se volete leggere un estratto del sesto capitolo (la cui
pubblicazione è prevista per il 25 di questo mese), vi lascio il
link al mio blog.
Alla prossima!
Halley S. C.
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Capitolo 6 *** Capitolo Sesto - Vento di Rivelazioni ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 6
- Capitolo Sesto -
Vento
di Rivelazioni
Immerso
nei propri pensieri, Marcello era appoggiato con noncuranza al
parapetto che dava sul laghetto dell’EUR, impegnato ad osservare le
nuvole
che si riflettevano sull’acqua, increspata dal vento. Se
ciò che aveva dedotto era corretto, Beatrice era sorvegliata
a
vista e, di conseguenza, ogni tentativo di avvicinarla si sarebbe
rivelato inutile.
Chiedere consiglio a Vittoria sarebbe stata una buona mossa, se la
ragazza avesse avuto la serenità mentale adatta:
ciò che
gli aveva confidato il pomeriggio precedente, però, gli aveva fatto capire
che l’amica era la prima ad avere bisogno di sostegno
psicologico.
D’altra parte, era sempre stata così, abile a
nascondere i
suoi problemi dietro ad un bel sorriso e a un eloquio vivace.
Il giovane sospirò: doveva trovare un modo per convincere
Vittoria, prima di tutto, a lasciare quello zotico violento del suo
fidanzato e
poi a rivelare ogni cosa anche a Gerardo; tra loro tre non
c’erano mai stati segreti, ed iniziare dopo
vent’anni di
solida amicizia era insensato e stupido.
Improvvisamente, però, qualcuno gli scosse il braccio per richiamare la sua
attenzione.
«Buongiorno,
disturbo le tue meditazioni filosofiche?» chiese
l’amico,
appena arrivato. Per essere giunto tanto presto, doveva aver preso,
necessariamente, la Linea B della metropolitana ed esser sceso alla fermata EUR Marconi1.
«Buongiorno
a te. No, stavo riflettendo su alcune cose» rispose il
biondo, distaccandosi dalla ringhiera.
«Non
devono essere piacevoli, hai una faccia...»
considerò Gerardo, accigliandosi. «Qualcosa, a
casa, non va bene?»
«Mia
madre ha fatto del rendermi la vita impossibile il suo passatempo e si
è risentita che non abbiamo concluso l’affare con
Carter».
«Scommetto
che avrà pensato che la colpa è mia»
commentò l’altro, amaramente. Purtroppo, conosceva
molto
bene la scarsa stima
che nutriva Madama Claudia nei suoi confronti, dato che la donna non si
era mai privata di denigrarlo, anche in sua presenza.
«Lascia stare quello che dice mia madre, avrebbe stretto un
patto pure con la Banda
della Magliana2, se le fosse servito ad arrivare dove
voleva!»
commentò duramente Marcello, deplorando la morale della genitrice. «Comunque, non
è per quello che sono preoccupato. Ieri pomeriggio, infatti, sono
andato a trovare Beatrice e
mi sono reso conto che controllano i suoi spostamenti».
«La
sua famiglia la tiene rinchiusa?»
«Più
o meno. Stava uscendo con il fratello e mi ha fatto segno di non
avvicinarmi».
L’altro assunse
un’espressione sconcertata: «Da
quel che mi avevi detto, avevo capito che quella povera ragazza non
viveva una bella situazione, ma arrivare a questo... È
crudeltà bella e buona!»
Marcello chiuse gli occhi e, sbuffando, si arruffò i
capelli:
«Già. Vorrei fare qualcosa per lei, ma ancora non
so cosa».
Gerardo sorrise e scosse la testa.
«È
bello vederti così coinvolto da Beatrice: finalmente anche tu hai
dimostrato di non essere immune al fascino delle ragazze».
«Non ho mai
sostenuto il contrario»
affermò il biondo, aggrottando la fronte. «Semplicemente, le altre non mi
interessavano, lei, invece, è diversa e perciò mi piacerebbe conoscerla
meglio».
«Comunque, se
vuoi, possiamo
pensare insieme ad un modo per parlarle. Credo che anche
Vittoria sarebbe contenta di dire la sua».
«In questo
momento, è la nostra amica comune ad avere bisogno del
nostro sostegno e non il contrario»
fece il ragazzo, deciso, cominciando a muoversi in direzione della casa
della ragazza.
«Perché,
il carciofone non l’aiuta?»
chiese Gerardo, con un tono dall’eco falsamente casuale.
«Vittoria ha espresso varie volte il desiderio che anche tu
l’aiutassi; parlava di te,
il carciofone non c’entra. Sei o non sei suo amico?»
«Sì,
che lo sono, ma...» provò a controbattere, prima
che la sua obiezione venisse troncata sul nascere.
Infatti, Marcello si bloccò senza preavviso e, voltandosi
verso
il suo amico, lo freddò con un’intensa occhiata: «Niente ma, Gerardo. Lei ha
bisogno anche di te, ti garantisco che si vedeva quanto le
mancavi».
«Anch’io
ho sentito la sua mancanza» ammise l’altro, con
voce quasi
impercettibile, ma non per il biondo, il quale replicò
immediatamente: «E meno male,
altrimenti quando avresti deciso di tornare a vederla? Tra due secoli?»
L’amico apparve vagamente imbarazzato da quel più
che
giustificato rimprovero. Avevano appena ripreso a camminare quando
chiese: «Lei lo sa che,
stamattina, verrò anch’io?»
«No, le ho detto
solo che sarei passato a trovarla, per sapere come stava, dato che
ieri aveva mal di testa»
spiegò il ragazzo, non accennando a rallentare.
Gerardo,
invece, sembrava procedere più piano ad ogni passo:
«Spero
che prenda bene il mio... ehm... ritorno, sai, Vittoria è un
po’ vendicativa.
Pensi sia il caso di rimandare la visita?»
«Zitto
e cammina!»
La
madre di Vittoria, una donna dai capelli scuri e
l’espressione gioviale, indirizzò immediatamente
Marcello
e Gerardo al piano di sopra, sicura che la figlia non fosse scesa
nemmeno per fare colazione.
E aveva visto giusto: i due giovani trovarono, infatti, la loro amica accoccolata
sul divano della sala lettura, arrotolata intorno ad un caldo pile,
mentre sorseggiava un tè dal profumo fruttato.
Un imponente ficus
benjamina
la nascondeva parzialmente alla vista, ciononostante si capiva
benissimo che era intenta a guardare fuori dalla finestra, in
silenziosa contemplazione del cielo grigio carico di pioggia.
Si avvicinarono entrambi, ma fu solo il biondo ad avanzare fino a
pararsi davanti a lei. Gerardo, probabilmente, stava ancora
rimuginando su una probabile vendetta.
«Buongiorno,
Vittoria».
«Buongiorno»
rispose lei, nient’affatto sorpresa dalla comparsa
dell’amico. «Mi stavo
proprio chiedendo dove fossi finito».
Si raggomitolò su se stessa, facendogli spazio e
consentendogli di sedersi accanto a lei.
«Come
ti senti oggi?»
«Un
po’ meglio di ieri, ma questo tempo uggioso non mi piace, mi
toglie tutte le energie» sospirò la
ragazza, spostandosi i riccioli castani dal viso. «Immaginavo
che lui
non si sarebbe fatto vedere nemmeno stavolta... Deve essere impegnato a
fare la corte a quell’oca giuliva di Maria Luisa».
Con una smorfia di disprezzo, Vittoria appoggiò la
tazza sul pavimento; proprio in quell’istante, però, Gerardo decise di farsi avanti.
«Guarda che sono venuto anch’io!»
esclamò, facendo capolino da dietro il ficus.
Immediatamente, la giovane spalancò le iridi nocciola, girandosi di scatto:
lì per lì, rimase a fissare l’amico,
interdetta, ma
poi si riprese subito. Spostò la coperta con gesto brusco e
si
alzò in piedi, mettendo su un cipiglio severo ed incrociando
le
braccia contro al petto.
«Oh,
ma guarda chi si vede! Hai trovato un po’ di tempo da
dedicarmi,
nonostante i tuoi numerosi ed improcrastinabili impegni?»
chiese, sarcastica, gli occhi che lampeggiavano pericolosamente.
«Non
prenderla così, in fondo, eccomi qua, no?» rispose il
ragazzo, facendo spallucce.
«Non credere che ti
perdonerò tanto facilmente. Hai disertato per parecchio
tempo, come se non ti importasse nulla di me!»
Nel vedere la giovane tanto risentita, Marcello temette il peggio per
il suo amico, tuttavia decise di non intervenire, ben sapendo che era
una faccenda tra loro due. Anzi, se avesse potuto avrebbe volentieri
tolto il disturbo, poiché non amava assistere a discussioni
private, anche se si trattava di diatribe tra due persone a lui molto
vicine.
«Ho
avuto i miei motivi. Credi che, se davvero non m’importasse
di
te, oggi sarei venuto?» si difese Gerardo,
avvicinandosi
ancor di più a lei.
«Una
telefonata non ti costa un braccio, avresti anche potuto chiamarmi,
sai?» continuò la ragazza, inviperita. «Oppure la linea
è sempre occupata perché devi tubare con quella gatta morta?»
«Ti
pare che io mi metta a chiamare Maria Luisa? A dire il vero, pensavo ti avrebbe dato
fastidio una misera telefonata di circostanza...» avanzò lui, tentennando appena.
«Be’,
sempre meglio quella che il silenzio più totale!»
«Silenzio? Anche tu sei rimasta in silenzio! Mi avevi chiesto
di
accompagnarti a vedere il calendario del Teatro dell’Opera
e poi... più nulla! Ci sei andata col
carc... con Bartolomeo!»
«Ovvio!
Ho aspettato che mi dicessi quando avresti potuto prenderti un giorno
libero... ma non ti sei mai deciso a farlo!» replicò
Vittoria, stizzita.
Nell’osservare i suoi amici, impegnati a rimproverarsi e a
punzecchiarsi,
Marcello finalmente capì. Per un instante, fu come se si
trovasse di fronte ad una complicatissima equazione, una di quelle
piene di parentesi, di elevazioni a potenza, di radici quadrate ed
incognite al denominatore che, però, avevano come risultato
un
semplicissimo uno: Gerardo e Vittoria erano innamorati
l’uno dell’altra.
Si domandò come avesse fatto a non arrivarci prima, avendo
avuto, proprio
sotto il naso, numerosi indizi a sostegno del fatto che i suoi due amici fossero vicendevolmente cotti a
puntino, senza saperlo.
«Che
ne dite di smetterla?» si intromise lui, improvvisamente, trattenendosi dallo svelare la conclusione alla quale era arrivato.
«Adesso
siamo tutti qui. Basta discutere e passiamo ai fatti. Vittoria,
possiamo fare qualcosa per te?»
In risposta, la ragazza si lisciò nervosamente la gonna e disse: «Lo
sai, ci sono gli inviti da finire di imbustare».
«Perché, allora, non li vai a prendere? Noi ti aspettiamo qui, in
tre faremo prima» le consigliò,
pacatamente.
Annunedo, lei si diresse verso la tazza per raccoglierla, mentre annunciava con tono sostenuto e
senza guardare Gerardo: «Torno
subito, voi accomodatevi pure dove volete».
Non
appena fu uscita dalla stanza, Marcello si rivolse al suo amico:
«Se avessi aspettato qualche giorno di più, ti
sarebbe
andata molto peggio».
«Lo
so» ammise quello, accomodandosi su
una delle sedie imbottite. «Qualche
giorno in più sarebbe stato troppo anche per me».
Ci fu qualche istante di
silenzio assoluto, poi aggiunse: «Non
trovi che, oggi, Vittoria sia più bella del
solito?»
«Sinceramente,
non noto nulla di diverso in lei» rispose l’altro,
scrutandolo di sottecchi. «Ma, forse,
dipende dal fatto che
io non la sto
guardando con l’aria da pesce lesso come te».
Gerardo arrossì
vistosamente: «Che cosa vorresti dire?»
«Che
finalmente ho capito: sei innamorato di Vittoria! E non solo, stando a
come segui tutti i suoi movimenti, direi che sei in fase di cottura
avanzata!»
Il giovane non rispose, ma il colorito vermiglio che aveva assunto
parlava per lui.
«Adesso
capisco perché non ti facevi vedere... Non volevi incontrare
il
carciofone perché sei geloso!» continuò Marcello,
che aveva tacitamente adottato il soprannome coniato per Bartolomeo.
L’amico, che ora sembrava un pomodoro maturo, gracchiò: «Sì,
è così... ma non glielo dire!»
«Ovvio
che no, dovresti farlo tu».
«Non
posso, lo sai che è impegnata».
«Se
fossi in te, me ne sbatterei
altamente e glielo direi lo stesso» fu la secca replica di
Marcello.
Vittoria rientrò in quel mentre, portando con entrambe le
braccia
una scatola di cartone piuttosto grande, e Gerardo, muovendosi con una
celerità cavalleresca, le andò subito incontro per
toglierle delicatamente il
pacco
dalle mani. Nonostante avesse tradito una certa sorpresa, la ragazza
inarcò un
sopracciglio e rimase in silenzio, prendendo posto al tavolo con fare
sostenuto: ancora non era decisa a
dimostrarsi pronta a perdonarlo, anche se si capiva benissimo che
l’aveva già fatto da un pezzo.
Quando si furono sistemati tutti e tre, ognuno prese alcuni inviti con le relative buste ed incominciarono a
prepararli per spedirli. Nel silenzio del lavoro, il biondo
osservò attentamente i suoi due amici, notando - e qui si
chiese,
ancora una volta, come aveva potuto non farci caso prima - che si
scambiavano reciproche occhiate, distogliendo lo sguardo quando erano
sul punto di cogliersi sul fatto.
Purtroppo, aveva promesso a Vittoria che non avrebbe detto nulla a
Gerardo, riguardo quel troglodita psicotico di Davoli. Ma, se le cose
fossero precipitate, avrebbe dovuto ignorare la promessa ed
intervenire: non poteva permettere che i suoi due migliori amici si
rovinassero la vita con le loro stesse mani, soprattutto perché il
ragazzo aveva già espresso la folle intenzione di voler
sposare
Maria Luisa. E tutto perché pensava che Bartolomeo fosse
l’uomo
giusto per la donna che amava!
Quanto erano idioti a non parlarsi... Marcello era convinto che non
avrebbe trovato altri due così imbranati, nemmeno a mettere
un
annuncio specifico sui giornali. C’era davvero da uscire
fuori di
testa, per quanto si stavano complicando la vita, per giunta senza
motivo.
«Restate qui,
per pranzo?»
domandò la giovane, volendo sembrare casuale. «Non credo
finiremo prima dell’una».
«Ehm... che cosa ne dici, Marcello?» domandò Gerardo,
guardandolo supplice.
Il biondo sospirò, perché conosceva bene il suo amico: se avesse
rifiutato, se ne sarebbe andato anche lui, giacché, dopo la
lite
che aveva avuto con la ragazza, sarebbe stato molto imbarazzante
rimanere solo con lei.
«Va
bene, ma io non posso trattenermi a lungo, nel pomeriggio devo fare
alcune importanti chiamate» rispose, neutro. In
realtà,
non aveva niente di urgente da fare, ma solo voglia di concedersi
una delle sue lunghe passeggiate distensive. «Sentivate la
mancanza dei nostri pranzi di gruppo?»
In risposta, sia
Gerardo che Vittoria sorrisero compiaciuti.
***
Mentre lucidava la vetrina del negozio, Beatrice pensò che
quel lavoro era almeno mille volte preferibile ai lavori forzati che
eseguiva in casa, non solo perché ora era retribuita, ma
anche perché non aveva Assunta e Anna Laura che la
comandavano a bacchetta.
Facendo leva sull’avarizia della parente, la ragazza era
riuscita a
convincere la zia a riassumere Bettina e poco le importava che dovesse
rinunciare a quasi tutto il suo stipendio, perché, come un saggio
detto suggeriva, la libertà non aveva prezzo.
«Sta
venendo proprio pulita bene» approvò la signora
Sofia, avvicinandosi e ammirando il lavoro della ragazza.
«La
ringrazio» rispose lei, mettendo via gli stracci ed il
detergente apposito.
«Se
sei così precisa anche nel cucito, il Teatro Argentina
non avrà di che lamentarsi».
La fanciulla sorrise: se, da una parte, il nuovo lavoro le consentiva
di sbizzarrirsi nella sua creatività, consigliando le
clienti
sull’acquisto di questa o quella stoffa,
dall’altra, le
dava l’occasione di cimentarsi anche in piccoli lavori di
sartoria, dandole l’occasione di imparare cose nuove.
«Sì,
mi aveva già detto che collabora con quel teatro».
«Sono
già diverse stagioni che mi chiedono aiuto e ho
già
lavorato con i sarti di diverse compagnie teatrali. Prossimamente
dovrebbero chiamarci,
perché stanno
cominciando ad allestire il prossimo spettacolo e servono alcune
modifiche ai costumi»
spiegò la sarta, aggiustando un abito rosso, esposto su un
manichino.
«Quando
l’andrà in scena
questo spettacolo?»
domandò la giovane, con sincera curiosità. Il
mondo
teatrale sapeva essere molto affascinante: curare la messa a punto dei
vestiti di scena, per lei, sarebbe stata un’esperienza
alquanto
entusiasmante.
«Mi hanno detto
a metà circa del prossimo febbraio3»
disse la donna, tornando dietro il bancone della merceria.
«Non c’è moltissimo tempo, allora»
osservò la fanciulla, seguendola.
«Considerando
che gli attori investono molto tempo per provare la parte e poco per
provare i costumi... non escludo che dovremmo lavorare di notte, cara.
E mi stavo chiedendo se per te non fosse troppo e come farai con la
scuola».
«Per superare
l’esame di Stato, mi sto preparando da privatista, signora» le spiegò
Beatrice. «Devo solo avvisare il mi’
insegnante ed
organizzarmi, non ci sono problemi».
«A casa non ti
faranno storie?»
si informò la sarta, manifestando una certa apprensione.
«Oh, no. Loro
sanno quanto l’è
importante per me questo lavoro»
mentì la ragazza, preferendo tacere che l’unica
cosa che
importava davvero alle sue parenti era che riportasse uno stipendio e
si togliesse dai piedi per buona parte della giornata. Se non altro, alla
giovane faceva piacere star fuori casa, lontano dalle loro occhiate
maligne.
Il tintinnio del campanello annunciò che Valentina e Alessio
erano arrivati: ogni giorno, infatti, il padre li andava a prendere a
scuola, li faceva pranzare e li portava al negozio, prima che iniziasse
il suo turno di lavoro in fabbrica.
«Ecco
i miei angioletti!» trillò la signora Sofia, alla
vista dei figli. «Come
è andata oggi a scuola?»
«Io ho preso
otto in aritmetica!»
esclamò la bambina, contenta.
«Io, invece,
cinque in italiano»
mugugnò Alessio, cupo. «La
maestra dice che i miei temi sono troppo brevi».
La
madre sospirò, senza tuttavia essere arrabbiata, e,
guardando il
bambino, disse: «Sei frettoloso. Quando scrivi devi
concentrarti
di più».
«Non mi piace
scrivere!»
protestò lui, imbronciandosi.
«Invece
dovresti impegnarti. Hai sentito che ha detto papà? Vuoi che
Babbo Natale ti porti i regali, sì o no?»
intervenne la sorella, incrociando le braccia e provocandosi
un’occhiata indispettita dal fratello.
Per fortuna, prima che i due si mettessero a litigare, la signora Sofia
cambiò argomento.
«Ora
basta, va bene così. Su, ora andate a
giocare».
Dopo aver sentito questo, i bambini, contenti, si rimisero i cappellini
in testa e Alessio corse ad aprire la porta.
«Ricordatevi di
non allontanarvi troppo e di rimanete a giocare nei dintorni. E poi
voglio che torniate presto, dovete fare i compiti!»
li ammonì la madre.
«Sì,
mamma, non ti preoccupare. Andiamo
a giocare all’oratorio di San Lorenzo4»
rispose Valentina, chiudendosi il cappottino.
«Prima,
però, chiamiamo anche Margherita e Filippo» aggiunse il
fratello, correndo già in strada.
«Si fida a mandare i piccini da ssoli?»
si azzardò a domandare Beatrice, che finora non si era
intromessa per non sembrare invadente.
«La
chiesa non è lontana. E i loro amichetti abitano vicino a Via del Gambero,
che è sempre nei paraggi» la rassicurò
la sarta.
«Via del Gambero? Che nome
buffo».
«Qui
intorno, molte vie prendono nomi da animali. Sai che lì
c’è l’ufficio di Marini e Tornatore?
Sono due
giovani imprenditori, al momento famosissimi. Roma non fa che parlare
di loro... Li hai mai sentiti nominare?»
Il cuore di Beatrice perse un paio di battiti: se avesse mai sentito
parlare di Marcello Tornatore? La prima volta che l’aveva incontrato gli era
caduta addosso, finendogli in braccio!
«Mmm, sì. Diciamo
di sì»
borbottò, intristita. Se solo la signora Sofia avesse saputo
la
sofferenza che provava, nel non poter più vedere quel
ragazzo,
forse avrebbe avuto il buon senso di non nominarlo.
La
ragazza aveva già ripreso a svolgere le proprie mansioni,
con la
testa ormai impegnata a rimuginare sull’orrenda condanna che
le
avevano inflitto i suoi parenti, quando realizzò
una cosa
importante: finché avrebbe lavorato nella merceria, non
sarebbe
più stata sorvegliata a vista, almeno durante
l’orario di
lavoro.
Perciò, pian piano un’idea, dapprima informe, poi sempre
più
concreta, prese forma nella sua mente. Si voltò verso la
sarta e
le chiese: «Posso uscire per un minuto?»
«Hai
ragione, cara, in questo retrobottega non passa un filo d’aria,
con
tutte queste stoffe. Vai pure» le accordò la donna.
«Grazie,
tornerò tra pochissimo» rispose la fanciulla,
grata.
Senza nemmeno indossare la mantella, uscì di corsa in
strada,
vedendo in lontananza i bambini. Per fortuna, riuscì a
raggiungerli in un battibaleno.
«Cosa
c’è, Beatrice? La mamma ha bisogno di
qualcosa?» chiese Valentina,
incuriosita.
«Oh, no, la mamma non c’entra... Son io che devo
chiedervi una cosa: me lo fareste un favore, piccini?
È molto importante».
I due si guardarono per un secondo, sorrisero e annuirono.
«Conta pure su
di noi!»
rispose per entrambi Alessio, battendosi un pugno sul petto.
***
Uno
spiffero freddo lo costrinse ad alzare il bavero del cappotto di panno
nero. Il sole era ormai solo un lontano ricordo quel pomeriggio di
inizio dicembre e l’umidità della sera aveva
cominciato a
strisciare addosso ai passanti, insinuandosi dove riusciva. A Marcello,
l’inverno non era mai piaciuto: preferiva di gran lunga
l’autunno, a parer suo la migliore stagione per chi amava,
come
lui, le lunghe passeggiate.
Infatti, di solito, quando voleva riflettere, andava in lungo ed in largo,
immergendosi nel via vai di gente che caratterizzava la maggior parte
dei rioni romani. Turisti, cittadini, abitanti dei paesi limitrofi erano una
grande, unica fiumana di gente che affollava le strade e che lo
invitava a cercare di capire da dove venissero quelle persone: per lui
era una specie di passatempo, in verità molto curioso, ma
che
gli ricordava quanto Roma fosse, dopo quasi duemila anni, ancora un
importante crocevia di culture.
Tuttavia, quel pomeriggio, non aveva la tranquillità
d’animo predisponente a tutto questo: la sua mente, infatti, era
affastellata da brutti presagi e perfino la
vicenda di Carter, che gli aveva fatto arrovellare parecchio il
cervello, gli sembrava lontana anni luce, adesso che era
preoccupato per Beatrice.
Senza dimenticare che era in pensiero anche per i suoi due amici, dato
che, per colpa delle loro
schermaglie amorose, si stavano ingarbugliando l’esistenza.
A Vittoria, infatti, aveva promesso che non avrebbe detto nulla a Gerardo
riguardo il suo manesco “fidanzato”; a Gerardo, invece,
aveva
promesso che non avrebbe detto nulla a Vittoria circa i sentimenti che
lui provava per lei.
In quel momento, pensò che era infinitamente più
semplice
concludere un affare economico, piuttosto che cercare di sistemare gli
affari di cuore di quei due citrulli.
Mentre ragionava in questi termini, però, si rese conto di essere finito nei
pressi del suo ufficio. Ormai compiva quella strada in maniera
talmente automatica, che doveva averla imboccata senza pensarci.
Poco male, avrebbe avuto l’occasione di salire un attimo e
prendere dei documenti che aveva lasciato sulla scrivania,
così
da evitare di recarvisi il giorno dopo: non avendo nulla
d’urgente da sbrigare e avendo lavorato anche durante i
pomeriggi
delle recenti domeniche, si sarebbe concesso un giorno libero. E male
non gli avrebbe fatto, considerando il punto di saturazione al
quale era arrivato.
Svoltò a sinistra, già con le chiavi in mano,
quasi
pronto per aprire il portone, quando si trovò davanti due
bambini che confabulavano. Parlottavano tra di loro, stazionando
proprio davanti allo stabile che ospitava il suo ufficio.
Gettando loro un’occhiata incuriosita, Marcello
aprì il
portone ed entrò; quando fu sul punto di richiudere il
battente, però,
il maschietto lo fermò: «No!»
Sorpreso, il biondo si riaffacciò: «Ce
l’avete con me?»
«Sì!»
esclamò la bambina. «Per favore,
prima che chiudi la porta, possiamo mettere questo nella cassetta della
posta?»
«Questo
cosa?»
«Questo
biglietto!» fece, agitando il foglietto di carta ripiegata
che aveva in mano.
«Per
chi sarebbe?» domandò il
giovane. Poi rifletté meglio ed aggiunse: «Aspettate
un momento, voi non dovreste dare tanta confidenza agli
sconosciuti!»
«Ma dobbiamo
fare un favore ad una nostra amica! Ci ha chiesto di consegnare questo
biglietto a Marcello»
spiegò il bambino, dandosi importanza, come se gli avessero
affidato una missione per salvare il pianeta.
«A Marcello?»
chiese il ragazzo, adesso decisamente colpito. Possibile che cercassero
lui?
«Marcello
Tornatore»
scandì la ragazzina, con tono saccente. «Tu lo conosci?»
Il
biondo aggrottò la fronte: be’, ora non
c’erano
più dubbi che fosse lui il destinatario di quel biglietto.
«Sì,
lo conosco molto bene» rispose, meditabondo. «Voglio
dire, sì, sono io».
«Davvero? Oh,
che bello, Beatrice sarà contenta!»
esclamò la bambina, battendo le mani.
Nell’udire quel nome, Marcello parve destarsi completamente:
«Beatrice? Conoscete
Beatrice? Ma... si
può sapere chi siete?»
«Come facciamo a
dirtelo, se prima ci hai detto di non dare confidenza agli sconosciuti?»
notò il maschietto, inarcando le sopracciglia ed assumendo
una buffa espressione indagatrice.
«Alessio,
dai, sono sicura che è lui» cercò di
convincerlo la sorella.
«Saputella,
potrebbe anche essere un imbroglione, uno degli uomini in nero che
rapiscono i bambini. Dobbiamo essere sicuri»
fece, con aria di superiorità. Quindi si rivolse a Marcello,
con fare inquisitorio: «Com’è
Beatrice?»
«Com’è
Beatrice?» ripeté il biondo, incredulo.
Di tutte le cose stravaganti che aveva vissuto nella sua vita,
quell’interrogatorio, fatto da un bambino sospettoso, era di
sicuro la più bizzarra.
«Se
è la stessa che conosco io, è una ragazza
giovane, dai capelli rossi e...»
«E
molto bella?» suggerì Valentina, romanticamente
ispirata.
«Be’,
sì...»
confermò lui, in palese difficoltà per la domanda inaspettata.
I due ragazzini si guardarono e parlottarono di nuovo tra di loro,
senza farsi sentire da Marcello. Quando arrivarono ad una conclusione
si girarono di nuovo verso di lui.
«Adesso sappiamo che conosci veramente Beatrice. E ti
possiamo
rispondere: io sono Alessio e lei è Valentina, mia sorella».
«Piacere»
disse il ragazzo, ancora incapace di capire come fosse finito in una
tale situazione.
«Ecco
il biglietto!» annunciò la bambina, mettendogli in
mano il pezzo di carta.
A quel punto, guardò prima quel foglio, tutto spiegazzato, poi loro.
Erano stati carini a voler fare da postini e avevano portato a termine
il loro compito, pertanto gli sembrò opportuno
ricompensarli:
«Vorrei
ringraziarvi per il vostro aiuto. Conoscete
la pasticceria giù all’angolo?»
«Eccome,
è la mia preferita!» esclamò Alessio,
con gli occhi che gli brillavano.
«Allora,
domani, andate da Marilena e ordinate quello che volete... a patto che
non vi facciate venire mal di pancia, per la troppa crema e
cioccolata, d’accordo?» precisò il giovane. «Dite che vi
mando io».
«Possiamo dire che siamo tuoi amici?»
domandò timidamente Valentina.
«Ovviamente».
«Che
bello, grazie!» intonarono all’unisono, sprizzando
entusiasmo da tutti i pori.
Dopo
averlo salutato con un cenno della manina, i due bambini si avviarono
per la loro strada, a tratti correndo, a tratti saltellando. Marcello
rimase a guardarli finché non scomparvero alla sua vista,
sospirando.
Non era una persona che credeva all’oroscopo, ma sarebbe
stato
curioso di verificare se, per il Capricorno, in quel mese erano
previste situazioni che rasentassero la follia. Perché,
decisamente, ne stava vedendo troppe.
Finalmente, scrollando la testa, si decise ad aprire il biglietto che
gli aveva mandato Beatrice. Si appoggiò contro il muro del
palazzo ed iniziò a leggere:
“Caro Marcello,
scusami se l’altro giorno non ti ho potuto dire nulla, ma,
come
hai visto, la mia famiglia mi tiene sotto stretto controllo. Ho trovato
un lavoro come commessa, al numero 38 di Via della Mercede. Sono
lì tutti i giorni dalle sedici alle venti, le uniche ore
della
giornata in cui riesco a respirare.
Se ti va di passare, mi trovi lì.
Beatrice”
Il giovane rilesse quelle poche righe almeno tre volte: i suoi sospetti
erano stati confermati, quella povera ragazza non stava realmente
passando un bel momento. Avvicinò il biglietto al viso,
accorgendosi che la
carta era rimasta impregnata del profumo di lei, una sinfonia di
mughetto e lavanda. Sorrise impercettibilmente, ripiegando con cura il
foglietto e mettendoselo nella tasca interna della giacca: adesso
sapeva dove andare.
***
«Beatrice, per
favore, puoi andare tu di là? Mi è sembrato di
sentire la porta»
chiese gentilmente la sarta, mentre finiva l’orlo di alcuni
tovaglioli.
«Sì,
signora, vado subito» rispose la fanciulla, lasciando da
parte la tovaglia che stava imbastendo. Superò
agevolmente la montagna di asciugamani, che attendevano di essere
ricamati, ed uscì dal retrobottega.
In effetti, qualcuno era entrato nel negozio ma, poiché le
dava
le spalle, non poté vederlo in viso. Sembrava un ragazzo e
stava osservando incuriosito tutta la merce esposta.
«Buonasera,
posso fare qualcosa
per lei?»
avanzò, cercando di essere cordiale, così da fare
una
buona impressione: era ancora in prova e aveva tutte le intenzioni di
tenersi stretto quel lavoro, dato che ne valeva la sua stessa
sopravvivenza.
Nello stesso momento in cui il nuovo arrivato si voltò,
Beatrice smise per un istante di respirare.
«Marcello!» esclamò,
sorpresa. «Ma come...»
«Buonasera,
Beatrice»
la salutò il giovane, all’apparenza sembrava contento di rivederla. «Ho
appena ricevuto il tuo biglietto».
«Di già?»
si meravigliò la ragazza, non aspettandosi di incontrarlo
tanto
presto. Aveva creduto che il biondo avrebbe letto quel foglio solo il
mattino successivo, quando si sarebbe recato al lavoro ma,
evidentemente, le cose non erano andate così.
«Sono
tornato per caso in ufficio, oggi pomeriggio, ed ho trovato Alessio e
Valentina sotto al portone, che si chiedevano come fare a recapitarmi
il messaggio» cominciò
a raccontare Marcello, il quale sembrava leggermente scioccato al
ricordo. Si fermò un attimo e parve riflettere: «Si
chiamano Alessio e Valentina, vero?»
La fanciulla annuì, incapace di articolare una frase di
senso
compiuto: la sorpresa era stata talmente grande che sentì
chiaramente il
proprio cuore battere velocemente.
«Tutto
bene, Beatrice?» domandò la signora Sofia,
sbucando da
dietro il paravento che divideva l’area di vendita del
negozio dal
retro. Poi, notando il giovane,
aggiunse: «Buonasera».
«Buonasera a lei» rispose lui.
Per qualche attimo, ci fu completo silenzio,
bruscamente interrotto dall’esclamazione della sarta:
«Ma
tu sei Marcello! Sei come, anzi, meglio delle fotografie sui
giornali!»
«Pensavo che
andassero di moda le riviste che parlano di gruppi pop stranieri»
notò il biondo, vagamente accigliato.
«Sui
giornali locali stanno seguendo tutti la tua impresa...»
disse la donna, come se lo conoscesse da una vita. Improvvisamente si
bloccò, come se si fosse resa conto di aver commesso un
errore:
«Oh, mi scusi, volevo dire, la
sua impresa. Sa, è così giovane che non viene
spontaneo...»
«Non
si preoccupi, mi dia pure del tu» la interruppe
garbatamente Marcello, guadagnandosi un sorriso da parte della
signora. «E
non è solo la mia impresa, siamo in due ad aver iniziato
questa scommessa».
«Certamente,
si parla molto anche del tuo socio. Possiamo fare qualcosa per
te?»
«In
realtà, stavo cercando Beatrice» avanzò
il giovane, guardando nella direzione di lei. «Avrei
bisogno di parlarle qualche minuto».
«Non
so se...» esitò la fanciulla, cercando con lo
sguardo l’approvazione della sua datrice di lavoro.
Lei le sorrise, materna, e fece, in tono incoraggiante: «Be’,
vai no?»
«E lei come
farà da ssola?»
«Come ho sempre
fatto, cara. Un’oretta di pausa puoi prenderla, oggi sei
venuta ad aiutarmi anche di mattina. Sarebbe un peccato
rifiutare un invito di un ragazzo così gentile, per di
più veramente bello, non credi?»
A quel commento, Beatrice distolse immediatamente lo sguardo da
Marcello, ma la signora Sofia continuò a ciarlare, allegra: «Devo
proprio dirtelo: molte malelingue ti dipingono come un arrogante
presuntuoso. Invece sei un ragazzo davvero educato. Certa gente
è davvero pettegola: tutta invidia».
La risposta di Marcello fu, però, rapida e concisa: «Bisogna pur
passare il tempo, non crede?»
Una volta usciti dalla
merceria, Beatrice cominciò a scusarsi per il disturbo che
aveva creato al giovane: «Non
volevo che
ti precipitassi appena letto il biglietto... Insomma... pensavo che lo avresti letto domani
e...»
Ma Marcello scosse la
testa con convinzione, interrompendola.
«Non ti preoccupare, ero in pensiero per te e sono stato
contento
di ricevere tue notizie. Dopo aver visto come ti scortava tuo fratello,
avevo capito che ti tenevano quasi prigioniera».
La fanciulla, che si era imbambolata nell’udire
quell’ero in
pensiero per te, si riebbe maldestramente e
balbettò un: «Sì,
a casa... Be’, non mi trattano benissimo...»
«Ho
visto. Ma non capisco il perché di tanto
accanimento» fece il giovane, guardandola perplesso. «Cosa
mai puoi aver fatto?»
«Io
non ho fatto niente! Son la
mia zia e la
mia cugina che
mio odiano! L’Anna Laura è
solo invidiosa di noi due e, se
sapessi che
mi ha combinato quell’idiota del mi’ fratello...» cominciò a
raccontare, concitata, finché, tutto d’un
tratto, si sentì molto debole e fu sul punto di
svenire; per fortuna il ragazzo se ne accorse prima che cadesse,
sostenendola.
«Beatrice,
cos’hai?» le domandò, preoccupato.
«Niente... l’è
solo
un giramento
di testa».
«Sei
molto pallida» disse, sfiorandole la fronte per accertarsi
che non avesse la febbre.
«Sto
già
meglio»
lo rassicurò lei, arrossendo: non gli era mai stata
così
vicina a lungo e a quella distanza, pressoché inesistente, la
giovane
avvertì il un buonissimo profumo che indossava Marcello, una
calda fragranza dai sentori arborei, dove prevaleva l’aroma
del
patchouli; l’aveva riconosciuto con precisione
perché
adorava
tutte le essenze naturali.
«Almeno
ti fanno mangiare? Ti vedo molto sciupata dall’ultima volta
che ci
siamo visti» constatò il biondo, scrutandola con
attenzione, mentre le accarezzava la guancia.
«Sì,
il cibo non manca, non mi fanno morire di fame: son proprio io che non
ho appetito»
spiegò la ragazza, abbassando lo sguardo, piacevolmente
imbarazzata da quel contatto. «Mi fanno
mangiare in solitudine, in cucina. Sai, quando se’ solo e triste, ti si
chiude lo stomaco».
Aveva aggiunto quest’ultima cosa con un certa reticenza,
poiché
temeva che ora sarebbe passata per una depressa in fase cronica. In sua
difesa, c’era però da dire che la vita che
conduceva era
deprimente sul serio.
«Ma devi
mangiare, non puoi perdere le forze così!»
la riprese lui, severo.
«A
volte non mi va proprio, ho quasi la nausea» si difese
timidamente la fanciulla.
«Lo
credo, quei bifolchi farebbero passare la voglia di vivere a
chiunque!» commentò Marcello, ragionando ad alta
voce, più rivolto a se stesso che a lei. Poi la guardò
e le propose, con grande naturalezza: «Ci verresti a prendere
qualcosa con me? Hai un po’ di tempo?»
La
ragazza quasi non
credette a ciò che le aveva appena detto: l’aveva
appena
invitata ad uscire con lui, ancora una volta. Allora, forse, non si era
stancato di lei.
«Così, magari, mi racconti per bene tutto»
aggiunse il ragazzo, sospirando.
Beatrice
strinse le spalle e sorrise.
Guardando meglio le
vetrine del centro, la ragazza si ritrovò a pensare
che le decorazioni natalizie, sparse qua e là, non erano poi
così male. Il buio era sceso da poco, ma le luci colorate
sfavillavano in lungo ed in largo, facendo intuire che le
festività natalizie erano ormai dietro l’angolo.
Tanta era la contentezza, che avrebbe preso molto volentieri
sottobraccio Marcello, ma si trattenne, non volendo passare per
sfacciata: si era esposta già troppo e non voleva dargli
l’impressione di essere una di quelle ragazze appiccicose ed
esasperanti. Una alla Anna Laura, per esempio.
Il biondo la portò all’interno di un
caffè molto elegante ma riservato, in Via di Propaganda,
così da restare abbastanza vicini alla merceria.
Appena
entrata nel locale, Beatrice fu investita da un caldo tepore che la
rinfrancò notevolmente: a casa sua, i riscaldamenti venivano
accesi di rado, al fine di risparmiare e, al negozio, essendoci via vai
di persone, con annessa apertura-chiusura della porta, non si riusciva
sempre a mantenere una temperatura ottimale.
Marcello si fece assegnare un tavolo e la fece accomodare, prendendo
posto solo dopo essersi accertato che fosse comoda.
«Scegli pure
quello che vuoi»
le disse, adagiandosi allo schienale della sedia rivestita ed
incrociando le braccia.
La ragazza diede una
rapida scorsa alla carta e chiese: «Posso
ordinare
un toast? So che è tardo pomeriggio, ma...»
Il
biondo esibì uno di suoi sorrisi sottili, sinceramente
divertiti
e quasi inconsapevoli, uno di quelli che mostrava raramente e che
avevano il potere di incantarla.
«Be’,
mi pare di averti appena detto di scegliere quello che vuoi: devi
ordinare
quello che ti va. Forse, c’è la
possibilità che, stasera, tu riesca a mangiare».
Beatrice annuì timidamente: tutte quelle premure che le
stava riservando il giovane, la stavano
facendo arrossire non poco e, oramai, il suo colorito doveva essere simile a
quello dei suoi capelli, se non addirittura più intenso.
La verità, però, era che non era abituata ad un atteggiamento tanto
cortese, nel vero senso
della parola, dato che Marcello le stava manifestando un rispetto che
credeva esistesse solo nei libri di letteratura antica. Si sentiva una
sciocca che non aveva mai visto niente, anche se, in fondo, non era molto lontano
dalla verità, considerando come la trattavano in famiglia.
Inoltre, non aveva molta esperienza nemmeno in fatto di uomini e, per
giunta, quel poco che aveva si riduceva a qualche complimento, elargitole
con la speranza - non esaudita - di ricevere un bacio, e alle oscene
avances di Navarra.
Un cameriere venne a
prendere le ordinazioni, rivolgendosi per primo alla fanciulla.
«Cosa
le porto, signorina?»
La
ragazza, che si era persa nei suoi pensieri, ricordò per
fortuna
in tempo cosa avrebbe dovuto dire: era incredibile come, con Marcello seduto
lì di fronte,
anche dire due parole si stesse rivelando
un’impresa titanica.
«Un toast»
fece, con voce ferma.
«E da bere?»
«Un
succo di frutta» rispose nuovamente, con una certa sicurezza.
Almeno per
questa volta, ce l’aveva fatta a non fare strafalcioni.
«A quale gusto?»
Come non detto.
«Gusto? Perché
esistono più
gusti?» chiese, sorpresa. Non ci
aveva fatto caso o non c’era scritto.
«Sì, dipende da quelli che hanno»
le spiegò il biondo, dolcemente. «Cosa offrite?»
«Pera,
arancia, pesca, albicocca» snocciolò il ragazzo,
picchiettando la penna a ritmo sul blocchetto.
«Mh.
All’arancia».
«E
per lei, signore?»
«Un cappuccino,
grazie»
rispose l’interessato,
consegnandogli il menù.
Beatrice si sentì morire di vergogna: per lei il succo di
frutta
era solo quello alla pesca. In quel momento, più che da Firenze, si
sentì
come se venisse dalla landa più desolata
dell’Antartide, dove al
massimo c’erano pinguini e trichechi che offrivano acqua di
mare e ghiaccio.
Non
riuscendo a guardare il ragazzo, si concentrò sulla stoffa
della
sua gonna e solo allora realizzò di aver indossato uno dei
suoi
completi più insulsi, che aveva scelto solo
perché
era serio e le sembrava adatto al primo giorno di lavoro.
Si spostò i capelli dal viso, nervosa, pensando di
avere un
aspetto orribile; d’altra parte, quando era uscita quella
mattina,
non
sapeva che avrebbe incontrato Marcello. Tutto d’un tratto,
avvertì che la sua autostima stava perdendo punti: in fondo,
era
solo una ragazzina, ed anche abbastanza
mediocre.
«Come ti senti,
ora?»
domandò il giovane.
«Oh, bene, grazie»
mentì spudoratamente, tralasciando le considerazioni che
aveva
appena tratto. Prima gli aveva già dato modo di pensare che
fosse depressa, adesso non voleva fornirgli altri spunti per completare
l’angosciante quadretto che doveva aver fatto di
lei.
«È molto carino qui»
continuò Beatrice, in un misero tentativo di tenere viva la
conversazione.
«Sì,
non è male» commentò Marcello, neutrale.
“Brava,
Beatrice, che bella figura da sciocca”
pensò la ragazza, prendendosela con se stessa e con la sua
incapacità.
«Cosa
intendevi prima, quando hai detto che tua cugina è invidiosa
di noi due?»
Beatrice
arrossì all’istante: nella foga di raccontare quanto
facesse
pena la sua famiglia, si era lasciata scappare troppo.
«Oh,
ecco... Ci ha visti tornare insieme, qualche settimana fa. È
colpa sua se sono rinchiusa, perché l’è gelosa del fatto che tu,
diciamo, parli
con me. Lei ti adora, per esser qui al mio posto, credo
che potrebbe impegnare tutto quello che ha. Sai, ogni sera, prima di
dormire, sbaciucchia un ritaglio di giornale con la tua foto»
raccontò la ragazza, prendendosi una piccola rivincita sulla
perfida e patetica cugina.
«Sbaciucchia...
cosa?»
Marcello ebbe un brivido di disgusto e la fanciulla pensò
con grande soddisfazione che, oramai, la reputazione di Anna Laura, agli occhi del giovane, era bella che andata a farsi friggere.
Inoltre, notò con piacere, era riuscita a tenere un
discorso
decente con il suo interlocutore e la sua autostima si rialzò
di
qualche tacca.
Nel frattempo arrivò il cameriere con i loro ordini,
lasciando le vivande sul tavolo con tutto il vassoio.
«Self-service?»
commentò il biondo, pungente,
all’indirizzo del ragazzo.
«E ma io devo andare a fare
l’ordine di là»
balbettò lui, in uno sgrammaticato tentativo di
discolparsi, indicando un altro tavolo.
«Vai, vai di là»
lo imitò.
«Voja de lavora’
saltame addosso».
Quello si volatilizzò all’istante, scarlatto,
mentre Beatrice si lasciò sfuggire una risata.
«Poverino.
Capisco il
tuo punto di vista, ma lo devo ammettere: a volte incuti proprio
timore».
«Sì, timore. I
tavoli sono tutti vuoti, non c’è tutto questo gran
lavoro».
Le servì il succo ed il toast e trattenne il cappuccino per
sé.
«Comunque
non capisco una cosa: come è riuscita tua cugina a metterti
tutti contro?» proseguì Marcello, dosando un
cucchiaino
scarso di zucchero.
«La mia
zia è già
contro di
me. Mi reputa un peso, perché, da quando
è morto il babbo siamo venuti a vivere da lei... E non vede
l’ora che
me ne vada. Per questo teme che,
se Navarra dovesse
scoprire che
tu ed io ci siam visti, non mi vorrà più» gli
spiegò la ragazza, con una punta di amarezza.
«Navarra? Quello
schifoso ancora ti importuna?»
chiese il giovane, inorridendo al solo pensiero.
Beatrice fece un respiro profondo e si decise a raccontare il resto:
era giusto che quel giovane sapesse tutta la verità.
L’unica cosa che si augurò fu che, alla fine, non
provasse
compassione per lei, perché non l’avrebbe
sopportato.
La compassione si riserva solo a coloro cui non si può dare altro.
«Il mi’
fratello ama scommettere, ma ha accumulato
molti debiti e non riesce
a pagarli. Per
questo, mi ha promessa a Navarra,
come pagamento».
«Ti vuole
vendere a Navarra... per pagare i suoi debiti di gioco?»
domandò Marcello, sconcertato.
Lei annuì ed
alzò lievemente le spalle, vergognandosi
al posto di suo fratello.
«Che bastardi!»
insorse il ragazzo. «Quel Guido non
può farti una cosa del genere! Devi avere il diritto di
sposare solo l’uomo che amerai».
«Non
so se cambierà idea».
«Sarebbe
il caso, che qualcuno desse una bella lezione a tuo fratello».
«Ah,
Guido non cambierà mai. L’unica cosa è
che spero si ravveda, ultimamente sembra un po’ pentito»
fece la ragazza, pensierosa.
«Me
lo auguro per lui. Altrimenti non mi farò problemi a
venire a
dirgliene quattro» replicò invece il ragazzo,
alterato,
facendola sussultare.
«Davvero
lo faresti?»
«Non
puoi finire in mano a Navarra. È una cosa abominevole solo a
pensarla».
La fanciulla avvertì le guance farsi più calde:
se solo
Guido avesse avuto metà del giudizio di quel ragazzo, a
quell’ora avrebbe potuto sperare davvero in un futuro
più roseo,
sgombro dalle arpie che si ritrovava per parenti, da quel cavernicolo
di Navarra, e da qualsiasi problema matrimoniale.
Chissà, magari, con il tempo, Marcello avrebbe potuto
persino innamorarsi di lei...
«Mi
sarebbe piaciuto davvero visitare con
te la Cappella Sistina»
sussurrò, sorseggiando il suo succo d’arancia.
«Chi
ha detto che non ci andremo più?»
esclamò il
biondo, stranito, come se non avesse mai preso in considerazione
l’ipotesi di disdire quell’appuntamento.
«E
come si potrebbe fare? Sono monitorata a vista!» gli fece
notare lei, spezzando in due il suo toast, non più bollente.
«Un
modo lo troveremo. Non sono tipo da arrendermi alla prima
difficoltà» fece il ragazzo, incoraggiante. «Anche
perché, in caso contrario, con mia madre avrei avuto vita
breve: se fosse stato per lei, infatti, avrei già dovuto sposare una delle stranazzanti figlie delle sue amiche».
«E tu non
l’hai ascoltata?» domandò, allora, la giovane, avvertendo una piccola fitta allo stomaco.
«Non
è mia abitudine cedere ai ricatti» spiegò
Marcello,
determinato, facendo oscillare con eleganza il rimasuglio di cappuccino nella tazza, per poi portarla alle labbra.
Che quel ragazzo un po’ ribelle le fosse piaciuto fin dal primo
istante, ormai l’avevano capito
anche i sassi, ma, in quel momento, Beatrice prese
consapevolezza di essersi inequivocabilmente - e irrimediabilmente -
innamorata di lui.
***
Marcello riaccompagnò Beatrice alla merceria intorno alle
diciannove, giusto una decina di minuti prima che venisse a riprenderla il
fratello.
Davanti alla porta del
negozio, la ragazza lo ringraziò: «Grazie
per il bel pomeriggio. Era davvero troppo tempo che non mi sentivo così
serena» lo ringraziò lei, stringendosi nella sua
mantella color avorio.
«Anche per me
è stato molto piacevole»
confermò il giovane.
All’improvviso, però, le lacrime cominciarono a
rigare le guance di lei.
«Beatrice,
cosa...»
le chiese, confuso ed allarmato, ottenendo un singhiozzo come risposta.
Stava per chiederle se si sentisse ancora poco bene, ma non ne ebbe il
modo, poiché la fanciulla gli si buttò tra le
braccia,
piangendo più forte.
Preso alla sprovvista, il giovane rimase per un paio di secondi incerto
sul da farsi, per poi assecondare il suo istinto e ricambiare
l’abbraccio: non avrebbe mai pensato che sentir piangere
qualcuno
potesse smuoverlo tanto.
Senza esagerare, la strinse più forte e, rendendosene appena
conto, cominciò a carezzarle la schiena e quel tocco dovette
trasmetterle
un senso di protezione, perché, nel giro di poco,
la
ragazza si calmò.
Beatrice si discostò appena e, ancora con le lacrime agli
occhi,
cercò di mormorare delle scuse, ma Marcello scosse appena la
testa. Sfiorandole una guancia, prese una ciocca di capelli ramati e la
sfregò delicatamente tra le dita, come per studiarla.
Quando l’avvicinò al proprio viso, riconoscendo
subito il
profumo che aveva trovato sul biglietto, vide la ragazza sussultare
appena.
«Andrà
tutto bene» la rassicurò, parlandole
dolcemente.
«Io... non
riesco più a credere che andrà tutto bene...»
mormorò lei, colma di tristezza.
Il
biondo non faticò a capire perché la fanciulla
avesse
tutte quelle riserve, a sperare che la sua vita sarebbe cambiata in
meglio, visto che tutti i suoi parenti l’avevano trattata in
maniera
scandalosa, instaurandole delle paure non indifferenti.
E dire che la famiglia dovrebbe essere il primo rifugio per tutti: la
storia di Beatrice, però, testimoniava che non sempre era così.
«Ti
fidi di me?» le chiese, guardandola negli occhi, serio.
Dopo qualche secondo di
silenzio, la ragazza disse a bassa voce, ma chiaramente: «Sì».
«Allora
non temere» disse Marcello, allontanandosi lentamente e, in
ultimo, aprendo le dita per liberare la ciocca.
Rimasero a fissarsi, ognuno in attesa di una mossa
dell’altro. Con una certa esitazione, Beatrice
si alzò in punta di piedi, protendendosi verso di lui,
quando la
porta della merceria si aprì di scatto.
Entrambi sobbalzarono, ritrovandosi attorniati dai due bambini.
«Beatrice, sei
tornata!»
gridò Alessio, irrompendo in strada.
«E
c’è anche Marcello!» aggiunse Valentina.
«Bambini,
non uscite senza cappotto, fa freddo!» li richiamò
la madre, seguendoli fuori. «Ah,
eccoti!» esclamò poi, all’indirizzo
della ragazza.
«Ehm,
sì»
fece lei, incerta.
Il
biondo sospirò: per fortuna era già sera e presto
quella
pazza giornata sarebbe terminata. Certamente, dopo gli ultimi
avvenimenti, avrebbe dato un’occhiata all’oroscopo appena tornato a casa.
«È
vero che sembra un principe, mamma?» domandò la
bambina, guardando ammirata Marcello.
«Sì,
è vero» confermò la signora Sofia,
sorridendo alla figlia.
«Beatrice è la tua principessa?»
gli chiese Alessio, guardando prima lui e poi la ragazza ed entrambi
arrossirono lievemente.
«Ecco...»
rispose il biondo, con una punta di imbarazzo per la domanda
inaspettata.
«Altrimenti,
puoi aspettare me che cresco. Anche io sono una principessa, il mio
papà me lo ripete sempre»
aggiunse la sorella, sognante.
«Ora
basta con le domande, andate dentro» intervenne, però, la
sarta,
indicando con un gesto la porta del negozio. In un primo momento, i
bambini tentatono qualche protesta, ma, alla fine, salutarono i due
ragazzi ed ubbidirono.
«Ti
prego di scusarla, legge troppe favole» fece la donna,
rivolgendosi al giovane.
«Si figuri»
rispose lui, scrollando le spalle.
Allora, annunedo e con un dolce sorriso sulle labbra, anche la signora rientrò all’interno,
lasciando finalmente Marcello e Beatrice di nuovo soli.
«Ancora grazie, di
tutto. Se vuoi... Insomma, sai dove trovarmi» disse lei,
sorridendogli.
«Adesso sì».
Al ragazzo sembrò che lei stesse per dire altro, invece,
scosse
la testa e, con un ultimo saluto, rientrò nella merceria.
Rimase
fermo qualche secondo, poi si voltò e si
incamminò verso la fermata di Piazza di Spagna.
Sarebbe stato difficile esprimere a parole la contentezza che
provò nell’aver rivisto Beatrice, sebbene non si
potesse
dire che stesse bene, visto che l’aveva trovata provata e sbattuta.
Se in un primo momento aveva pensato che il fratello di lei fosse un
emerito poltrone incapace, adesso doveva rettificare il proprio
giudizio: Guido Tolomei era una sanguisuga approfittatrice e senza
l’ombra di una morale e avrebbe meritato i lavori forzati a
vita.
La pena di morte, come diceva Beccaria infatti, era inutile: i delinquenti - che
a volte si mimetizzavano tra la gente altolocata - andavano educati con
metodi duri, che sarebbero stati da monito anche a chiunque avesse
fatto un pensierino, sull’eventualità di
abbracciare
un’esistenza da reietti.
Quella povera ragazza non meritava di finire tra le braccia di Navarra;
al sol pensiero, Marcello si sentì ribollire il sangue e, con sua
sorpresa, si ritrovò a scoprire che non era solo il suo
senso
innato di giustizia a parlare. Possibile che fosse geloso?
In effetti, la prospettiva che quel porco toccasse Beatrice gli faceva
attorcigliare i visceri, scatenandogli un gran tumulto interiore; un
depravato di quel calibro, infatti, non doveva permettersi nemmeno di
sfiorarla.
Preso
dai suoi pensieri, si accorse appena di star percorrendo Via Frattina,
e dovette ringraziare le appariscenti decorazioni di una vetrina, se
riuscì a notare un bellissimo soprabito di un delicato
lilla, con una piccola spilla a forma di fiore appuntata
all’occhiello. Lo immaginò indosso alla fanciulla
e,
immediatamente, convenne che le sarebbe stato benissimo.
Senza starci a pensare troppo, aprì la porta della boutique
ed entrò: era ora di cominciare a comprare i regali di
Natale.
***
Per la revisione,
ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per tutti i consigli, i pareri e lo scambio di opinioni durante la
scrittura.
***
[N.d.A.]
1. EUR Marconi:
la fermata alla quale mi riferisco è l’attuale EUR Palasport,
prima denominata EUR
Marconi. Cambiò nome nel 1990, in seguito
all’inaugurazione di un’altra stazione, chiamata
appunto Marconi,
sempre
appartenente alla Linea B.
2. Banda della Magliana: nota
e potente organizzazione criminale, attiva negli anni Settanta e
operativa in tutta Roma e dintorni, coinvolta in numerose
attività delinquenziali. Venne chiamata così dalla stampa
dell’epoca, in riferimento al luogo dove risiedevano molti dei suoi
componenti, ovvero il quartiere Magliana.
3. prossimo febbraio:
lo spettacolo menzionato è Pulcinella,
rappresentato per la prima volta al Teatro Argentina il
15 febbraio 1987. Ovviamente la collaborazione è inventata,
serve solo all’economia del racconto.
4. San Lorenzo:
si tratta della chiesa di San
Lorenzo in Lucinia.
***
Salve gente!
Ed eccoci al sesto capitolo. Forse, non è il più cruciale
della storia, ma, senza dubbio, è uno dei più
movimentati. Voi che ne dite? Secondo voi i guai per i nostri
protagonisti sono finiti o capiterà qualche altra cosa?
Il prossimo aggiornamento (previsto per il 15 Dicembre, in pieno clima natalizio) vi darà qualche altro indizio.
Ringrazio come sempre chi legge, chi mi dedica del tempo commentando, chi ha inserito questa storia in uno dei propri elenchi, chi, un giorno, troverà tempo/voglia/coraggio di lasciarmi un parere.
Se volete avere un piccolo spoiler del settimo capitolo, sappiate che è disponibile sia sul mio blog, sia sulla mia pagina facebook, riesumata per chi preferisce le notizie-lampo.
Spero di riuscire presto a finire dei disegni su questo racconto, i
quali saranno pubblicati sul mio profilo su DeviantArt. Magari, secondo
qualcuno, è una scelta un po’ infantile, ma non mi sento
di usare dei prestavolto per i miei personaggi. Anche perché
sono talmente complicata, che non troverei ciò che cerco.
Comunque, conto di riuscirci nelle prossime vacanze, quando mi auguro di avere un po’ di tempo libero.
Detto questo, vi lascio - finalmente! - andare.
Alla prossima!
Halley S. C.
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Capitolo 7 *** Capitolo Settimo - Vento di Pensieri ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 7
- Capitolo Settimo -
Vento
di Pensieri
La
mattina dell’otto dicembre, l’intera
famiglia Tornatore si recò alla
Basilica di San
Giovanni
in Laterano, così da assistere alla funzione dell’Immacolata.
Mentre la Matrona gelava con lo sguardo chiunque si avvicinasse ai
primi banchi (e quindi al posto d’onore che si era assegnata
da sola),
seguita a ruota da Tiberio, Ortensia e la piccola
Claudia, suo marito si sistemò a
metà
navata, facendo notare che, al banco che aveva adocchiato sua moglie,
non
c’erano
abbastanza posti. Invece, Marcello rimase
direttamente
nelle retrovie, aspettando Gerardo e
Vittoria, con l’intenzione
di essere associato il meno
possibile alla dispotica genitrice.
Quando la liturgia terminò, più di
un’ora e mezza dopo,
una moltitudine di gente si riversò nello slargo
prospiciente
la
basilica, disponendosi intorno al grande albero di Natale,
addobbato per l’occasione, e formando tanti piccoli
capannelli, mentre i bambini della parrocchia venivano richiamati dai
catechisti vicino al presepe. Anche Vittoria si mosse in quella
direzione e, per superare quel gran vociare, fu costretta urlare ai
suoi amici
che
doveva andare a dare una mano, così da velocizzare la
distribuzione dei rametti di
agrifoglio ai bimbi.
Il sole brillava, ma, in quella fredda mattinata, non riusciva a
scaldare molto, pertanto Marcello si abbottonò il cappotto
fino
al mento, cacciando le mani nelle tasche ed esponendosi quanto
più possibile al tepore solare. Poco distante da lui,
c’era
Madama Claudia che stava conversando animatamente con alcune sue
conoscenze, probabilmente vantandosi di essere stata invitata al
concerto augurale di Capodanno dall’assessore
Tinelli in persona; il signor Giancarlo, invece, con una scusa, era
riuscito ad
evitare quel ridicolo mercato di ciarle ipocrite. Tiberio stava dicendo
qualcosa alla moglie, cullando lentamente la bambina tra le braccia, la
quale, per essere onesti, si era comportata molto bene durante la
celebrazione, continuando a dormire perfino durante
l’esecuzione dei
canti.
«Tua
cognata oggi non ha una bella cera»
commentò Gerardo, anche lui al sole,
squadrando da lontano una pallida Ortensia.
«Al momento non
ha più la scusa delle sue crisi per potersi svincolare da
mia madre. A quanto ho capito, non ha più uno psicologo che
la segua: il dottor van der Meer adesso coltiva ed esporta tulipani»
rispose sbrigativamente Marcello.
Questa rivelazione lasciò l’altro parecchio
perplesso.
«Ortensia
lo avrà esasperato» commentò, lanciando
una triste occhiata alla donna.
«Stando
a quello che ha detto Tiberio, è stato esasperato da
più
di una donna» precisò il giovane, provando
solidarietà per l’ex psicologo. «Tanto
è vero che è tornato a casa sua nella campagna
olandese».
«Ora capisco
perché Vittoria non ha voluto aprire uno
studio tutto suo e si limita a collaborare con le volontarie
dell’Umberto I...»
commentò Gerardo, pensieroso. Tuttavia, non aveva fatto
nemmeno in tempo a finire di nominarla, che la
ragazza apparve nuovamente vicino a loro.
«Ragazzi,
scusate, non possiamo ancora andare: oltre all’agrifoglio,
bisogna distribuire anche queste pergamene»
disse, mostrando loro dei foglietti di carta, simili a delle
piccole pergamene. «Sarà
davvero bello quest’anno l’albero di Natale,
decorato anche con i pensierini dei bambini!»
«Non
è già abbastanza addobbato
così?»
domandò Marcello, lanciando un’occhiata di sbieco
all’abete,
carico di palline e angioletti di plastica.
«Marcellino,
come sei polemico!
Non trovi che sia bello che tutti i bambini possano esprimere i loro
desideri
per questo Natale?» gli rispose lei, stizzita; poi si rivolse
all’altro: «Gerardo,
mi riaccompagni tu a casa? Tanto dobbiamo fare un pezzo di strada in
comune».
«Oh,
sì, molto volentieri»
assentì il ragazzo, arrossendo appena. «Nemmeno oggi il car...o
scultore è venuto?»
«No, ha detto
che sarebbe stato tutto il giorno con Paula, a definire meglio la lista
delle opere da presentare»
sbuffò la ragazza, abbattuta. Tuttavia, un secondo
più
tardi, era di nuovo allegra e annunciò, sventolando la mano:
«Datemi
dieci minuti per finire e sarò da voi! Patti chiari e
amicizia
lunga, bei giovani: non azzardatevi ad andarvene senza di me!»
Marcello e Gerardo rimasero ad osservare Vittoria che si allontanava
nuovamente, entrambi perplessi per quel cambiamento d’umore
repentino.
Infatti, solo chi la conosceva bene sapeva che lei odiava attirarsi la
compassione altrui, preferendo farsi vedere sempre con il sorriso sulle
labbra, anche se il suo cuore era tutt’altro che sereno.
In particolare, il biondo, poiché era a conoscenza di cosa
stava
affrontando in quel momento la sua amica, si trovò a
sospirare, affranto, giacché non poteva dire
all’altro come
stavano realmente le cose: sicuramente, anche lui doveva aver
notato, forse influenzato dai pregiudizi che aveva sullo scultore,
che
Bartolomeo la stava trascurando, ma non avrebbe mai potuto immaginare
che quello zotico era arrivato a picchiarla.
Marcello stava quasi per suggerire all’amico
di approfondire con
Vittoria il discorso sul carciofone, quando fu
richiamato da
un urlo stridulo: «Buongiorno,
Marcello!»
Sia
lui che l’altro si voltarono ed
intravidero Maria Luisa farsi largo tra
la gente a suon di gomitate a destra e manca. Il ragazzo si
ricordò di essere davanti ad una chiesa e si trattenne
dall’imprecare sottovoce.
«È
tanto che non ti vedo! Dove eri finito?»
esordì la nuova venuta, mostrando un sorriso smagliante.
Evidentemente, grazie ai postumi dell’ubriacatura aveva
dimenticato ciò che era successo alla sua festa di
compleanno,
quando era stata piantata in asso da Marcello. Oppure, magari, non
volendo rinunciare a lui, era disposta a far finta di niente.
«Non ho molto
tempo per la vita mondana»
la liquidò quello, spiccio.
«Che peccato!
Speravo che venissi l’altra sera,
al
compleanno di Edoardo... Hai ricevuto il suo invito?»
insistette,
però, lei, riservandogli un’occhiata speranzosa.
«Non mi pare.
Ma, forse, l’ho gettato accidentalmente
nel cestino della carta straccia».
Di
fronte ad un’affermazione del genere, la giovane
aprì la
bocca e rimase a fissare Marcello con aria sconcertata, quando Gerardo
si intromise, salutandola affabilmente: «Buongiorno,
Maria Luisa».
«Oh,
ciao, Gerardo. Ci sei anche tu? Non ti avevo proprio visto!»
esclamò la giovane, falsamente sorpresa, voltadosi appena
per poi tornare
immediatamente a rivolgersi all’altro ragazzo: «Io, Teresa e
Domenico stiamo organizzando, per il quindici, una cena di beneficenza in
favore dell’associazione di cui siamo membri. Ti va di
venire?»
«Mi dispiace, ma
non possiamo, perché
saremo a Monaco di Baviera in quei giorni per concludere un affare»
replicò lui, secco.
«Almeno
posso passare a casa tua, nei giorni seguenti, per raccogliere la
donazione?» proseguì Maria Luisa, sbattendo
svenevolmente
le
ciglia e dando prova di non voler mollare l’osso.
Per fortuna, Marcello aveva un buon controllo della mimica facciale,
altrimenti non sarebbe riuscito a celare il suo sempre
più crescente ribrezzo.
«Abbiamo
già deciso che devolveremo la donazione di Natale
all’associazione di Vittoria, dato che opera
sul territorio
regionale. Non abbiamo nulla contro le associazioni internazionali,
come quella che sostieni tu, sia chiaro» spiegò
Gerardo, intromettendosi nel
discorso, «ma preferiamo aiutare chi ci sta vicino.
L’incentivo a creare una rete efficiente di servizi locali
parte dalle piccole cose».
Maria Luisa lo guardò stralunata, come se non avesse capito
una
singola parola di ciò che aveva detto e, molto
probabilmente,
doveva essere proprio così; infatti, dopo un paio di
secondi, si
rivolse nuovamente al biondo, facendo la domanda che doveva
essere il vero motivo per cui lo aveva cercato: «Insomma,
Marcello, non mi dire che non ci sarai nemmeno alla festa di Capodanno
che sto organizzando, personalmente, ad Ostia!»
«Temo
di no» rispose il ragazzo, algido, guardandola torvo. «Gerardo ed io abbiamo
già preso un impegno importante»
proseguì, scandendo molto bene il plurale e non tollerando
la totale
indifferenza della ragazza verso il suo amico; d’altra parte,
era una
questione di educazione a rivolgersi ad entrambi, considerando che il
suo lui la stava gentilmente considerando.
La risposta fu talmente raggelante, che la ragazza rimase a guardarlo
inebetita per qualche secondo, prima di salutarlo, dimenticandosi
ancora una volta dell’altro giovane. Quindi, si
congedò da lui, farfugliando che
doveva raggiungere alcune sue amiche.
«Come rinunciare
ad un Capodanno sulla spiaggia di Ostia a tracannare Bacardi?»
chiese retoricamente Marcello, sprezzante. «Meglio starsene
a letto con l’influenza come ho fatto l’anno
scorso, anche se avevo la febbre a quaranta».
«Addirittura?»
domandò Gerardo, che era palesemente offeso per la
maleducazione che Maria Luisa aveva avuto verso di lui.
«Tu preferiresti
festeggiare con gente che brinda con te,
augurandosi, in realtà, che tu possa fallire quanto prima?»
L’altro, non
sapendo come controbattere, data la veridicità della
considerazione, tacque.
«Mi meraviglio
sul serio di come tu possa volerti dichiarare a
quella lì»
disse il biondo,
indicando con un cenno del capo Maria Luisa, che stava parlando
concitatamente con le sue amiche, forse sfogandosi per il due di picche
che aveva appena ricevuto. «Per
giunta, perdonami la schiettezza, non ti si fila
proprio».
«Lo so. Be’, io...»
cominciò il suo amico, tentennante.
«Comunque,
è vero anche che dici sempre che vuoi dichiararti,
però non lo fai mai».
«Non è il momento adatto per affrontare questa
discussione...»
«È
il momento migliore, invece! Guarda cosa ti stai perdendo!»
esclamò Marcello, costringendo l’altro a voltarsi
per vedere
Vittoria che interloquiva con i bimbi, ammaliandoli con
la sua spontanea vivacità.
«Non mi tentare,
non è corretto che io ronzi intorno ad una ragazza impegnata»
disse Gerardo, che non riusciva, però, a staccare gli occhi
da lei.
«Invece, permettere che
stia con
quel menefreghista del carciofone è correttissimo»
sbottò il biondo, ferocemente sarcastico. Purtroppo, aveva
promesso all’amica di non rivelare
tutta la verità, tuttavia, poteva ribadire
ciò che, poco prima, aveva comunicato
l’espressione della stessa Vittoria.
«Marcello, ti prego...»
gemette l’altro, supplicandolo. «Mi rendi solo
le cose più difficili».
Il
giovane stava per rincarare la dose, quando tornò Vittoria,
questa
volta definitivamente.
«Eccomi
qui! Visto che ho fatto presto?»
fece notare, sorridendo radiosa.
«Di
che
cosa state parlando voi due?»
«Noi... ecco...
vedi...
sai...» balbettò Gerardo, preso alla sprovvista.
«Del
fatto che la temperatura di oggi sia sopra la media
stagionale»
rispose Marcello, guardando il suo amico e assottigliando lo sguardo.
La ragazza
guardò prima l’uno, poi l’altro; infine,
scosse la testa, decidendo di lasciar perdere.
Il giovane alzò le spalle, come a volersi scusare con il suo
amico per la propria défaillance
e Marcello gli rispose alzando gli occhi al cielo.
«Insomma,
si può sapere che avete voi due? Posso saperlo anche io o
è un segreto di Stato?» sbottò la
giovane, che
cominciava ad averne abbastanza di quel muto teatrino.
«La
verità è che... Vittoria, hai
una foglia di agrifoglio tra i capelli!»
esclamò Gerardo, prendendo spunto da quel particolare appena
notato, per portare la conversazione su altro. Alzò la
mano per togliergliela, ma dovette ripensarci subito dopo, dato che
dissimulò
il movimento, limitandosi ad indicarla, come se si fosse
vergognato al solo pensiero di instaurare un contatto con
lei.
«Non
avreste potuto dirlo prima, senza fare tanti misteri?»
domandò, allora, Vittoria, passandosi delicatamente una mano
tra i
ricci
e recuperando l’oggetto
estraneo. La
lasciò cadere in terra e
gli scoccò uno sguardo di apprezzamento.
«Sempre
il solito esagerato! Comunque, grazie per avermelo
fatto notare» gli disse,
dandogli un leggero bacio sulla guancia, per enfatizzare quanto gli
aveva appena detto.
«Grazie. No, scusa... volevo dire... prego...»
farfugliò lui, diventando rosso come un gambero al vapore.
Marcello
seppellì, disperato, il viso nel palmo di una mano, pensando
che, più che correggere i complessi esistenziali del suo
amico, avrebbe
fatto prima a raddrizzare la Torre di Pisa.
***
Beatrice, ogni tanto, alzava la testa dal suo tema su Pascoli, al fine
di controllare
l’enorme orologio del soggiorno, il quale segnava che mancava
un quarto
alle undici. Avrebbe dovuto sbrigarsi, se non voleva fare troppo
tardi, poiché, l’indomani, avrebbe trovato ad
attenderla
una lunga giornata di lavoro.
Erano arrivati in negozio alcuni drappeggi scenografici che
necessitavano di modifiche, mentre i costumi sarebbero stati consegnati
in un
secondo
momento, essendo richiesta, in quel caso, la
collaborazione degli attori: una cosa che, al momento, nessuno di loro
poteva garantire, in quanto erano tutti immersi nelle prove.
La ragazza rilesse l’ultimo paragrafo e, trovandolo
scorrevole, mise un bel punto, chiudendo la biro:
Rossiglioni avrebbe dovuto darle come minimo un bell’otto, se
non
addirittura un nove.
Si alzò e cominciò a raccogliere i suoi libri,
pronta per
andare a letto: esausta com’era, non vedeva l’ora
di
scivolare in un buon sonno ristoratore. Da quando aveva cominciato a
lavorare, aveva molto meno tempo per
studiare, così aveva imparato ad organizzarsi, non
riuscendo,
tuttavia, a finire tutti i compiti prima di una certa ora.
Seguendo questi ritmi, non aveva nemmeno potuto pensare, con la dovuta
accortezza, a come trovare il modo
di andare a vedere la Cappella Sistina con Marcello,
senza farlo sapere a Guido, alla zia Assunta e, soprattutto, a
quella brutta pettegola invidiosa di Anna Laura.
Trovare un alibi, una scusa convincente per poter restare fuori casa,
anche
di sera, sembrava impossibile: suo fratello la veniva a prendere sempre
puntuale, anzi, talvolta persino in anticipo, mettendole fretta per non
arrivare in ritardo a qualche appuntamento galante.
«Cicci, ma sei
sempre a studiare?»
domandò Guido, entrando in quel mentre nel salotto.
Beatrice,
che aveva distinto un’ombra nel corridoio che si avvicinava,
non
diede segni di sorpresa.
«Non
voglio mica
rimanere ignorante come
te, che ti
se’ comprato
il diploma di
geometra»
gli rispose, velenosa.
«Come
vedi, non sto facendo
quel lavoro, quindi non nuocio
a
nessuno» ribatté il giovane.
La ragazza avrebbe voluto
seriamente obiettare ma, prima che
potesse aprire bocca, vide il fratello
avvicinarsi
all’armadietto dei liquori, aprire l’anta
di ciliegio
istoriata e tirare fuori due bicchieri e una bottiglia di vetro opaco,
contenente forse sambuca.
Non era raro che, a sera tarda, il fratello mandasse giù un
sorso di qualche alcolico, quando non usciva ad ubriacarsi con i suoi
rozzi
amici, ma la cosa che insospettì Beatrice furono i due
bicchieri, anziché uno solo. Si stava proprio chiedendo il
perché, quando Guido l’anticipò,
annunciando: «Sta
venendo qui Navarra, ha espressamente chiesto di vederti».
Alla
fanciulla sembrò che il pavimento si fosse messo a tremare,
o
forse erano solo le sue gambe ad essere diventate, improvvisamente,
così malferme. Per non cadere, si aggrappò al
tavolo,
riuscendo a malapena ad esalare un: «Cosa? Ma non
l’era
in Spagna, a sistemare i su’ affari?»
«Ha sbrogliato il grosso delle magagne ed ha lasciato a Cordova un
su’ uomo di fiducia.
Inoltre, ha
detto che non resiste troppo tempo senza vederti»
spiegò
tranquillamente il fratello, richiudendo l’anta e mettendo
bicchieri e bottiglia su un vassoio d’argento.
Lei socchiuse gli occhi, stizzita. Se quel bifolco di Navarra pensava
di conquistarla con quel suo romanticismo da quattro soldi, aveva
proprio fatto male i conti. E se Guido era della stessa
opinione, be’... tanto peggio per lui.
«Io devo andare
a dormire, domani devo aiutare la
Bettina e andare a lavorare»
obiettò Beatrice, lottando contro se stessa per non
agitarsi,
cosa che in quel momento si rivelò particolarmente difficile.
«Oh,
ma non si tratterrà qui per molto tempo. Suvvia, Bea, scommetto che non
è così
male, dovresti seriamente iniziare a prenderci
confidenza»
commentò lui, serafico, come se stessero per ricevere un
caro e premuroso amico di vecchia data.
«Se ne prende
fin troppa, visto che
non
perde mai tempo per mettermi le su’
luride mani addosso!» esclamò
Beatrice, mandando all’aria i suoi propositi di mantenere la
calma.
«Cerca
di esser gentile
con
lui».
«Lo
sarò, se lui farà il gentiluomo con me!»
«Ti prego, Cicci. Così
oltre ad estinguere il debito, magari
riesco
anche ad entrare in affari con
lui».
A Beatrice per poco non caddero le braccia: non contento di quello che
aveva combinato, si voleva anche rovinare definitivamente? Entrare in
affari
con Navarra era un autentico suicidio!
Si
sentiva un po’ come la Signorina Else1,
costretta a cedere alle turpi richieste del signor Dorsday per evitare
la bancarotta della famiglia e salvare il padre dalla depressione; solo
che non trovava giusto drogarsi di benzodiazepine fino a morirne, per
far valere i propri
diritti.
Dopo aver provato la gentilezza ed il rispetto che le dimostrava
Marcello, Conrado, ai suoi occhi, era diventato ancor più
sordido ed immorale.
«Oh,
ma che tu
sta’ scherzando?
Entrare in affari con
il Navarra? Allora è anche
per questo che
hai deciso di vendermi a que’
lestofante?»
Il fratello la guardò stralunato e aprì la bocca
per
ribattere, ma non ce ne fu il tempo, giacché qualcuno - con
molta
maleducazione, considerata l’ora - suonò
insistentemente il
campanello.
«Accidenti,
sveglierà la zia Assunta!» esclamò il
ragazzo, correndo ad aprire.
Beatrice avrebbe voluto scappare lontano, pur di non trovarsi faccia a
faccia con Navarra, ma le gambe le erano diventate di piombo e non
riuscì neanche a compiere un solo, misero passo. Quando
udì la
voce del mostro, arrivato ormai nel salotto, trattenne a stento un
grido.
«Ciao dulzura2, è un
po’ che non ci si vede»
fece lui, non appena entrò nella stanza, sorridendole
languido.
La
fanciulla lo guardò atterrita, stringendo più
forte il
bordo del tavolo. Perché Guido le stava facendo questo? Che
cosa
aveva mai fatto di male per meritare quell’orrenda punizione?
«A
quanto vedo, la niña
è rimasta senza parole. Devo averle fatto proprio una bella
sorpresa!» commentò Navarra, abbandonandosi ad una
risata
cavernosa.
«La Beatrice
è emozionata per il tu’
ritorno improvviso. Ti credevamo in Spagna, non si pensava saresti
tornato così
presto»
spiegò Guido, invitando l’omone ad accomodarsi.
Conrado accettò l’invito, stravaccandosi sul
divano tarlato e osservando Beatrice
con occhi avidi, mentre si lisciava compiaciuto la folta barba nera.
«Ho risolto
tutto in fretta, volevo tornare da te al più presto».
Lei, sentendo quello sguardo lussurioso su di sè, non
rispose,
limitandosi a deglutire, incapace di far scendere il groppo che aveva
in gola: non voleva che quell’animale la guardasse in quel
modo,
non voleva essere oggetto delle sue fantasie perverse. Avrebbe tanto
voluto trovarsi in un altro luogo, quanto più possibile
lontano
da Navarra, mentre a Guido non sembrava minimanente importare il suo
stato d’animo: infatti, stava facendo tutti gli onori di
casa,
adoperandosi per servire al suo ospite il liquore, mentre conversava
animatamente, informandosi su come erano andati gli affari in Spagna.
«Tolomei, vai a
prendermi del ghiaccio».
L’ordine giunse talmente imperioso che il
ragazzo ammutolì immediatamente, fissando
l’energumeno come se
gli avesse chiesto di dissolversi all’istante. Percependo in
quelle parole una possibilità di abbandonare la sala,
Beatrice
mosse qualche passo in direzione della porta.
«No,
non tu, dulzura,
dicevo a lui» aggiunse Conrado, indicando Guido con la mano
in cui teneva il bicchiere. «Non
potrei mai chiamarti per cognome, luz
de mis ojos».
«Vuoi il ghiaccio...
anche se fa freddo?»
obiettò il ragazzo, meravigliato.
«La
sambuca va gustata gelata. Sia d’inverno che
d’estate» fu la boriosa risposta di Navarra.
Borbottando
qualcosa, il giovane si allontanò, lasciando Beatrice con l’uomo, che si
alzò dal divano e cominciò ad
avvicinarsi a lei. Fu allora che il suo sospetto si
concretizzò
in
realtà: a quel troglodita non importava nulla del ghiaccio,
era
solo un vile pretesto per allontanare suo fratello e rimanere solo con
lei.
«Sei
una vera bellezza» le disse, troppo vicino per i suoi gusti,
squadrandola con bramosia.
Lei si ostinò
a tacere, riservandogli uno sguardo di puro disprezzo.
«Non
mi rispondi, fai la timida? Eppure lo so che sotto questa apparenza da
ragazzina, si nasconde una giovenca ribelle da domare».
Se prima Beatrice riteneva che, per la sua amoralità,
Navarra
dovesse marcire in una cella ammuffita e piena di topi, fino alla fine
dei suoi giorni, dopo quel rozzo
apprezzamento, avrebbe solo voluto vederlo sul patibolo del
boia.
«Tu meriti
molto più di questo letamaio, dulzura»
continuò Conrado, perseverando nel suo monologo. «Quando sarai
mia, vivrai come una regina, ma
dovresti anche collaborare un po’, che ne dici?»
La ragazza strinse le labbra talmente forte, che immaginò
fossero sbiancate: avrebbe preferito vivere di stenti tutta la vita,
facendo la sguattera o la mendicante, piuttosto che diventare moglie di
quel buzzurro.
Resosi
probabilmente conto che non voleva cedere, Navarra
scattò in avanti, artigliandola in una presa
d’acciaio.
«Tu stai giocando con me, niña»
le disse, serrandole il viso tra il pollice ed il resto delle dita.
«Lasciami
subito!» esclamò la ragazza, divincolandosi. Fece
per
allontanarsi, ma l’energumeno si parò davanti alla
porta,
sbarrandole il passaggio.
«Ah,
ora parli?»
«No,
perché non ho niente da dirti! Ed ora lasciami
andare!»
La giovane gli voltò le spalle, furibonda, ma lui le
afferrò i capelli, che aveva legato in una coda alta, e li
strattonò, costringendola ad avvicinarsi a lui; lei gemette
per il dolore, ma il nerboruto tirò più forte.
«A me
piace giocare con te,» le
sussurrò in un orecchio, minaccioso, «ma
non devi mai scordare chi è che comanda».
Senza preoccuparsi del fatto che le stava facendo male, Navarra la
inchiodò al muro, bloccandola con la mole del proprio corpo,
mentre con una mano le teneva la bocca chiusa.
«Che tu lo
voglia o no, un giorno sarai mia»
le sibilò, ghignando compiaciuto.
Beatrice chiuse gli occhi, come faceva da piccola quando aveva paura
che qualche mostro saltasse fuori da sotto il letto. Ma, purtroppo,
quello non era un incubo infantile: era la cruda realtà.
L’uomo le si avvicinò ancora di più,
immergendo dapprima
il volto nei capelli di lei, poi strofinandolo sul suo collo. Con sommo
raccapriccio, la fanciulla avvertì la mano libera del suo
aguzzino che si adoperava per sollevarle la gonna.
Navarra, ridendo, non si risparmiò nel percorrerle con
insistenza la
coscia e nemmeno nel palpeggiarla ovunque.
Solo la rabbia, il disprezzo, il disgusto che provava verso
quell’essere
rivoltante le impedirono di farle piangere tutte le lacrime che
avrebbe voluto.
«Cosa
stai facendo?»
domandò Guido, sbalordito, con in mano il contenitore del
ghiaccio, dal quale stava colando acqua sul tappeto.
Conrado si allontanò dalla giovane, consentendole di
sfuggire alla sua presa.
«Nada. Stavamo solo
giocando un po’, a Beatrice è piaciuto
molto» rispose il troglodita, ghignando sardonico.
Umiliata,
la fanciulla corse via dal salotto, con l’intenzione di
mettere più distanza possibile tra lei e Navarra:
l’aveva
sbeffeggiata, trattata come una bambola con cui sollazzarsi, insultata
e fatta passare per sua complice nelle sue porcherie.
Si fermò ai piedi della rampa delle scale, non
più in
grado di trattenere i singhiozzi. Avvertendo una presenza dietro di
lei, si voltò di scatto.
«Cicci,
cosa ti ha
fatto? Stai bene?»
le domandò il fratello incupito, sfiorandole un braccio.
Ma Beatrice si sottrasse rapidamente a quel contatto.
«Non mi toccare! Nemmeno tu
devi toccarmi!»
strillò, come in preda ad una crisi isterica.
Guido sobbalzò, basito da
una simile reazione.
«Ma
Bea...»
«L-Lascia... mi in p-pace!»
singhiozzò la fanciulla, scappando su per le scale.
Una volta che ebbe chiuso la porta del suo piccolo cubicolo, si
buttò sul piccolo letto sgangherato e diede sfogo a
tutta la
sua tristezza, pensando alle dolci parole che le aveva detto il suo
Marcello, a quanto era stato gentile con lei, a quanto fosse ingiusto
che non potesse sperare di avere un ragazzo così tutto per
sé.
Lui era lontano ed ignaro di tutto, mentre lei era sola: sconsolata,
pianse ogni singola lacrima che aveva, finché, stremata, non
crollò, abbandonandosi al sonno.
Il
pomeriggio seguente, la ragazza si presentò al negozio
pallida e
con profonde occhiaie, tanto che la signora Sofia si sentì
in
dovere di chiederle più volte se avesse bisogno di un giorno
di
ferie, così da rimettersi, ma, nonostante Beatrice ne avesse
davvero necessità, rifiutò: passare
un lungo pomeriggio alla mercé di Anna Laura non
corrispondeva
esattamente alla sua idea di riposo.
Inoltre, trascorrendo qualche ora nella merceria, avrebbe avuto anche
l’occasione di distrarsi, evitando di ripensare a
quanto successo con Navarra la sera prima.
Il solo accenno le faceva venire il voltastomaco.
Pregò che Marcello non passasse a vederla proprio quel
pomeriggio, perché, anche se le avrebbe fatto indubbiamente
bene
passare del tempo con lui, non voleva che la vedesse in quello stato
pietoso.
Perfino Alessio e Valentina le chiesero, preoccupati, se stesse bene,
intenerendola non poco. Li rassicurò, cercando di nascondere
quanto fosse effettivamente scossa, invitandoli a proseguire nella
decorazione della vetrina con l’ovatta e i fiocchetti di raso
rossi e
verdi.
Scrollando la testa, come a far uscire di prepotenza quei brutti
ricordi, così tristemente recenti, la fanciulla
cominciò a lavorare, adoperandosi per sistemare tutte le
tavole delle stoffe che vi erano state poggiate, così da
fare un po’ di ordine sul bancone, dopodiché
rimpinguò le scatole dei bottoni, sistemando con cura quelle
nuove, arrivate quella mattina.
«Cara,
metti in evidenza la scatola con le novità, in particolare
quella con i bottoni dorati,» la istruì
gentilmente la sarta, «ne
venderemo molti, sotto Natale. Ah, a proposito di merce in arrivo,
hai visto che
è arrivato il cachemire che avevi
ordinato?»
«Il
cachemire? L’è
arrivato?»
«Sì,
cara».
Che magnifica notizia!
Finalmente, avevano consegnato il materiale che le sarebbe servito per
confezionare un’elegante sciarpa da uomo, ovvero il regalo di
Natale
per Marcello.
Rianimata da quel pensiero, ringraziò la signora Sofia e si
scusò per la sua sbadataggine, correndo subito a vedere se
il colore era
uguale a quello della fotografia del catalogo.
Con mano tremante, aprì lo scatolone di cartone,
scorgendo una busta di plastica, contenente una ventina di
gomitoli di lana grigia mélange. Fu così che
ritrovò davvero un po’ di buon umore, convenendo
che il colore era anche
meglio del previsto.
A quel punto, l’unico problema rimaneva come fare a vederlo e
a
visitare la Cappella Sistina con lui, senza che a casa ne sapessero
niente: ci stava pensando dal pomeriggio precedente, ma lo shock che
aveva provato la sera prima,
nel venir molestata e volgarmente palpeggiata da quello schifoso di
Navarra, l’aveva talmente stordita da farle quasi
dimenticare
l’urgenza di trovare una soluzione al problema.
«Oh,
che bella! Deve essere anche molto morbida e calda».
«Sì,
lo credo anch’io».
«Il tuo
affascinante imprenditore gradirà sicuramente».
«Come fa a
sapere che il regalo è per Marcello?»
«Intuito»
rispose la donna, colpendosi ripetutamente il naso con
l’indice. «Sai,
l’espressione che avevi mentre sceglievi il tipo di lana sul
catalogo,
era così bella che mi hai fatto ricordare di quando io
stessa ho confezionato il primo regalo di Natale per il mio
Renato».
Beatrice sorrise, notando la partecipazione emotiva della signora
Sofia al solo nominare il marito, rievocando aneddoti di
gioventù. Tornò a
guardare la lana ed estrasse dalla confezione un gomitolo, passandoselo
tra le mani,
ma avendo l’accortezza di non rovinare la lana: era davvero
molto morbido
e caldo, l’unica cosa che doveva augurarsi
è
che il suo pensiero piacesse davvero al ragazzo.
«Secondo
me, verrà un regalo da principe!» disse Valentina,
avvicinandosi a Beatrice. «A me
hai fatto un vestito da principessa!» esclamò,
volteggiando su se stessa e gonfiando la gonna dell’abitino
di velluto.
«Marcello
dovrà accettarlo per forza, l’hai fatto per
lui!»
intervenne Alessio, sollevando una nuvola di batuffoli di
ovatta.
«Lo spero»
rispose la ragazza, mettendo via la busta. Ora doveva solo trovare i
ferri adatti.
«Cara,
anche io oggi non ho molta testa: non ti ho detto che dal teatro hanno
mandato i primi abiti! Per ora si tratta solo di rammendi e piccoli
accorgimenti, però ne avremo per diverse ore. Saranno anche
costumi di scena, ma ne hanno davvero una pessima cura!» fece
la
sarta, indignata. «Purtroppo,
nel fine settimana, dovremmo lavorare ben oltre l’orario di
chiusura,
almeno fino alle ventiquattro, per non parlare delle prossime due
domeniche!»
«Non
è un problema, m’aveva già
anticipato questa
eventualità».
«Contando
le ferie natalizie, non abbiamo moltissimi giorni a dicembre. Per
evitare che tutto si accumuli a gennaio, dobbiamo
organizzarci» spiegò la signora Sofia, contando i
giorni sul calendario con l’aiuto di una matita.
«Sì,
son d’accordo»
concordò Beatrice.
Il fatto che avrebbe lavorato fino a tardi un po’ la
preoccupò, poiché avrebbe significato ancora meno
tempo
per studiare; tuttavia, non poté negare che le faceva
piacere
essere costretta a passare dentro casa il minimo tempo necessario e
sotto questo punto di vista, la sua vita era nettamente migliorata.
Peccato che non avesse ancora trovato un modo per riuscire ad uscire
con Marcello, senza che tutta la sua famiglia ne venisse al corrente...
Tutto ad un tratto, la ragazza realizzò che la soluzione era
proprio sotto al suo naso.
«Signora,
potrei chiederle
un favore?»
«Dimmi,
cara» le rispose la sarta, lasciando la conta dei giorni di
lavoro che sarebbero toccati loro.
«Potrei
avere libera la serata del ventuno? La prego, farò
qualsiasi
cosa; se
vuole, posso anche
venire a far la mi’ parte di lavoro dalle
cinque della mattina».
«Hai
un appuntamento con quel bel giovane?»
«Sì...»
rispose Beatrice, affatto sorpresa che la donna avesse indovinato al
primo colpo. Piuttosto, era incerta se raccontare alla signora
Sofia tutta la verità, dato che Guido sarebbe
senz’altro
venuto a chiedere spiegazioni, quando avrebbe saputo che alla sorella
era stato prolungato l’orario di lavoro. Ovviamente, non
perché si
preoccupasse per lei, temendo che si stancasse, ma
perché così non sarebbe più potuto
rincasare alle quattro di mattina, dovendo venirla a riprendere al
negozio a mezzanotte. Sapeva che la sua datrice di lavoro non
l’avrebbe
tradita, ma era sempre meglio andare sul sicuro.
«La mi’ zia non
vuole che
lo veda, quindi abbiamo pochissime
occasioni
per farlo» spiegò lentamente, cercando di
delineare
la questione il più semplicemente possibile.
«Non vuole che
frequenti quel ragazzo così compito?»
domandò la signora, sbalordita.
«No, e
nemmeno il mi’
fratello, se è per questo»
precisò la fanciulla, «ma l’è
una lunga storia».
«Tuo fratello ha proprio un bel coraggio! Tra i due,
perdonami,
ad avere un’aria
poco raccomandabile è lui, non
Marcello» commentò la donna, forse ricordando
l’unica volta che aveva avuto modo di parlare con Guido,
quando
la sorella aveva cominciato a lavorare e lui l’aveva
voluta incontrare per accertarsi che avrebbe
percepito uno stipendio. Certamente, non doveva averle fatto una buona
impressione.
Beatrice si limitò a sospirare.
«Va
bene. Non c’è bisogno che tu venga a lavorare
dalle cinque
di mattina, sarà sufficiente che cominci alle tre, per
staccare alle sette. Io arriverò verso le sei e mezza... Ti
lascerò le chiavi per aprire il negozio».
La fanciulla le sorrise,
riconoscente: non solo la sarta la stava aiutando, ma le
stava anche dimostrando una grandissima fiducia, lasciandole in mano la
sua merceria.
«La ringrazio,
signora».
«E di che, te lo
sei meritato. Finora hai svolto un lavoro eccellente e, anche se non
è molto che lavori per me, ho imparato a conoscerti. Mi
sembri una ragazza responsabile e credo di poter dire lo stesso di quel
giovanotto»
le rispose la donna, con tono materno.
Decisamente rinfrancata, la fanciulla ora aveva bene in mente
quello che avrebbe dovuto fare e, per prima cosa, chiamò i
due bambini.
«Valentina,
Alessio, mi fareste il solito favore?»
«Dobbiamo
portare un altro biglietto a Marcello?» chiese la ragazzina.
«Sì,
piccini».
«Lo
consegneremo in un baleno!» esclamò il fratello.
«Un
attimo che
lo scrivo» disse loro la ragazza, dirigendosi
verso il bancone.
Recuperò velocemente una penna e un foglio e scrisse questo
messaggio per il biondo:
“Carissimo Marcello,
ho trovato il modo per
venire a
visitare la Sistina, senza destare sospetti: la signora Sofia ha
bisogno di me oltre l’orario di chiusura, anche nei giorni
festivi, per svolgere alcuni
lavori di sartoria. Dirò a Guido che, fino alle ferie
natalizie, dovrà
venirmi a prendere poco dopo la mezzanotte. Che ne pensi? Credi che
potremmo tornare al negozio per quell’ora?
Aspetto tue notizie,
Beatrice”.
Appena ebbe finito, lo piegò, e lo consegnò ai
due
bambini
e li
accompagnò in strada, stringendosi le proprie braccia contro
e guardandoli, fiduciosa, mentre correvano
via.
Quando il campanello del
portone suonò, Marcello alzò sorpreso la testa
dalla copia del contratto che avrebbero dovuto firmare durante l’imminente trasferta a
Monaco di Baviera, scambiando un’occhiata
interrogativa
con Gerardo, a sua volta abbastanza meravigliato.
«Aspetti
qualcuno?» gli domandò il biondo, aggrottando la
fronte.
«Io? No, credevo
fosse per te. Non abbiamo appuntamenti per oggi ed il postino
è già passato»
gli rispose l’altro, alzandosi dalla propria postazione.
«Sarà
Carter che si è inventato qualcosa per farci
arrestare» scherzò Marcello, sfruttando
l’attimo di
pausa per stropicciarsi gli occhi affaticati.
«Che
fine orribile che faremmo, se fosse così!»
esclamò l’amico, uscendo in corridoio per andare
ad aprire la porta. «Vado
a vedere, sperando che non siano visite sgradevoli».
Il ragazzo scosse la testa, augurandosi davvero che non fosse nessuno
che avesse a che fare, anche alla lontana, con Lord Edward Carter;
inolte, erano settimane che si arrovellava inutilmente il cervello
sperando di
svelare il mistero dell’offerta.
Eppure, nonostante i suoi numerosi sforzi, Marcello ancora non era
riuscito a farsi una precisa idea di come avesse fatto
l’industriale a
gabbarli così facilmente.
«Ciao
Marcello!» lo salutarono, in coro, due voci di bambini.
Riconoscendole all’istante, il giovane girò di
scatto la testa e
si ritrovò, a poca distanza, due ragazzini che lo guardavano
sorridenti.
«Valentina,
Alessio! Come avete fatto ad entrare nel palazzo?»
domandò loro, stupito.
«Il
portone era aperto e abbiamo chiesto ad una signora
che scendeva le scale, se poteva dirci dove eri»
spiegò la bambina, dando prova di essere molto sveglia. «Avevamo
fretta di vederti!»
«Allora
è vero che li conosci» commentò
Gerardo, lanciando un’occhiata indagatrice al suo amico.
«Sì,
sono loro che mi hanno aiutato a parlare con
Beatrice» gli rivelò, allora, Marcello, con un
piccolo sorriso.
L’amico
assunse un’espressione colpita, poi tornò ad
osservare i
piccoli ospiti, i quali erano rimasti fermi ed infagottati nei loro
cappotti.
«Stamattina
mi avevi accennato ad alcuni piccoli
amici e ammetto che non avevo capito, ma ora mi è tutto
decisamente più chiaro».
Marcello annuì e passò velocemente alle
presentazioni, dopodiché propose: «Bambini,
che ne dite di spostarci di là, in salotto? Staremo
più comodi».
«Sì,
chiedo a Marilena di portarci qualche bignè alla
panna,
che ne pensi?»
suggerì Gerardo, incontrando
subito l’approvazione dei due fratelli.
«Ottima
idea. Alessio, Valentina, venite con me»
disse il biondo, rivolto ai due bambini, conducendoli in salotto: era
una stanza rettangolare con due divani di pelle avorio, disposti uno di
fronte all’altro, e un lungo tavolino di vetro in mezzo. Le
pareti erano coperte da due librerie
massicce, contenenti alcuni faldoni rilegati, mentre le pesanti tende
erano calate, coprendo una probabile finestra; nei due angoli della
parete esterna, c’erano delle piante di mangiafumo, non
perché i
ragazzi fumassero o permettessero ai loro clienti di farlo, ma,
semplicemente, perchè rendevano l’atmosfera
più accogliente
e necessitavano di pochissima cura.
Nel complesso, il salotto era una stanza indubbiamente più
accogliente dell’ufficio vero e proprio.
Marcello,
dopo aver preso i loro cappotti ed averli sistemati
sull’appendiabiti,
sollevò, a turno, Alessio e Valentina, aiutandoli a prendere
comodamente posto sul divano, troppo alto per loro; quindi, si sedette
su quello di fronte e chiese: «Come
mai avevate fretta di vedermi?»
«Abbiamo
un altro biglietto di Beatrice per te!» esclamò la
ragazzina, estraendo il foglietto ripiegato dalla tasca del maglioncino.
«Oh,
vi ringrazio. Siete stati attenti nel venire qui, vero?»
domandò il giovane, avvicinandosi a loro per prenderlo.
«Ovvio!
Mi guardo sempre indietro, gli uomini in nero3
non riusciranno a
prenderci facilmente!» rispose Alessio, pavoneggiandosi.
«Ah,
be’» fece Marcello, riaccomodandosi, mentre
guardava
il biglietto,
cercando di indovinare cosa c’era scritto. Beatrice doveva
avere
qualcosa di urgente da comunicargli, poiché, se da una parte
aveva trovato un canale di comunicazione diretto con lui, al sicuro da
qualsiasi intercettazione non gradita - come sarebbe potuta esserci,
per
esempio, da parte dei parenti di lei - dall’altra, si stava
dimostrando
molto parsimoniosa nell’usarlo, sicuramente per non togliere
troppo
tempo al gioco dei bambini e per non esporli a troppi rischi.
«Che fai, non lo leggi?»
domandò Valentina, sporgendosi un po’ dal divano
ed osservandolo con curiosità.
Il ragazzo voltò la testa verso di loro e li
fissò entrambi, ricordandosi di non essere solo.
«Se
devi rispondere a Beatrice, lo portiamo noi il tuo biglietto. Stai
tranquillo, non sbirciamo!»
Stava appunto per rispondere che era ciò che stava per fare,
quando Gerardo apparve con un vassoio pieno di bignè alla
panna
ed una caraffa di cioccolata fumante.
«La merenda per i nostri piccoli ospiti»
annunciò, poggiando il tutto sul tavolino di vetro. «Marcello, dove
abbiamo le tazze ed i tovaglioli?»
«Nell’armadio
del ripostiglio, la donna delle pulizie sistema tutto là
dentro» rispose distrattamente l’altro, aprendo il
foglio.
Riconobbe immediatamente la grafia della ragazza e lesse attentamente
il messaggio che gli aveva mandato: a quanto pareva, aveva trovato un
modo efficiente per poter visitare insieme la Cappella Sistina.
Di certo, non si poteva dire che quella giovane fosse priva di intuito
e logica.
«Bambini,
in effetti anche io avrei un messaggio per Beatrice... Potreste
consegnarle la mia risposta? Siccome si è fatto buio, vi
accompagneremo fino ad un certo punto, però
poi entrerete nel negozio da soli, va
bene?»
disse il biondo, pensando che, a quell’ora, Guido sarebbe
stato certamente nei paraggi.
«Va
bene!» esclamarono in coro i due fratelli.
«Perfetto»
assentì Marcello e, approfittando del fatto che il suo amico
aveva
trovato le tazze e si era messo a servire Alessio e Valentina, si
diresse nuovamente nello studio, così da recuperare un
foglio, prese
la penna dal taschino e compose velocemente una risposta da far
recapitare alla fanciulla:
“Cara Beatrice,
penso che possa andare
bene. La visita alla Cappella è alle 19,30: per mezzanotte,
dovremmo essere di ritorno.
Spero tu stia bene,
Marcello
P.S. In questi giorni
devo andare
fuori Roma per impegni di lavoro, non credo di riuscire a vederti prima
di domenica 21. Passerò a prenderti io, verso le 18,30”.
Rilesse
attentamente il messaggio e, reputandolo più che
soddisfacente,
lo piegò in quattro. Quindi, tornò nel salotto,
dove i bambini stavano facendo
amicizia con Gerardo.
«Anche
tu hai una principessa, come Marcello?» domandò la
ragazzina, curiosa.
Il ragazzo parve sorpreso
per la domanda, fatta così a bruciapelo: «Ehm,
ancora no».
«Sì
che ce l’ha, solo che è troppo timido per dirle
che le
vuole bene»
rivelò il biondo, mentre si avvicinava a loro.
L’altro
arrossì lievemente.
«I
principi devono essere coraggiosi!» notò la
bambina, scandalizzata.
«Sì!
Devono prendere le loro armi e combattere contro i banditi!»
le fece eco Alessio.
«Io sono un
principe ranocchio»
commentò Gerardo, malinconico. «Sono
un po’ rammollito».
«E allora devi
chiedere alla tua principessa di darti un bacio!»
commentò Valentina, battendo le mani. «Solo
così potrai diventare un vero principe».
Il
ragazzo, se prima era leggermente avvampato, ora stava andando a fuoco.
Evidentemente, doveva essere fuori dalla sua portata
d’immaginazione
figurarsi Vittoria che lo sbaciucchiava a dovere.
«Prima,
però, devi occuparti dei furfanti» notò
il ragazzino.
«Oppure
dei carciofoni. Questi
bambini sono più saggi di te» commentò
Marcello,
approvando il ragionamento di quelle due simpatiche pesti.
«Oh...
non ti ci mettere anche tu!» sbuffò Gerardo, che
non sapeva più come nascondere il suo rossore.
Nel vedere il suo impacciatissimo amico che
veniva smascherato da due bambini delle elementari, il ragazzo rise di
cuore.
«Valentina,
Alessio, noi andiamo un attimo di là a prendere delle cose
da
portare a casa. Voi finite di mangiare con calma, così poi
vi
riaccompagniamo
noi, intesi?»
fece poi, all’indirizzo degli ospiti.
«Fa feve» rispose per entrambi
Alessio, con la bocca piena.
I giovani si recarono nel loro studio per raccogliere i plichi che
avrebbero dovuto portarsi dietro e spegnere le luci, così
da
cominciare ad organizzarsi per la chiusura serale.
In realtà, quell’oggi stavano uscendo dallo studio
un
po’ prima, ma la cosa non era particolarmente grave, dato
che, la
settimana successiva, avrebbero dovuto portare avanti
un’estenuante trattativa: tanto valeva risparmiare le
energie,
per quanto possibile.
Marcello stava proprio pensando a questo, quando
un’esclamazione
di allerta di Gerardo richiamò la sua attenzione: «Oh, no,
c’era della carta copiativa sotto a questi documenti... Ho
imbrattato anche i fogli puliti!»
Il ragazzo si avvicinò all’amico, verificando come
stava realmente la situazione; per
fortuna, però, non erano stati rovinati fogli di grandissima
importanza, né, tantomeno, contratti firmati da terzi.
«Può
capitare, non è nulla di grave»
lo blandì Marcello, sicuro che l’amico si sarebbe
mortificato
oltre il dovuto, per quella disattenzione che sarebbe potuta capitare a
chiunque; infatti, lui chinò subito la testa, in evidente
difficoltà.
Il
biondo stava per aggiungere qualcosa, con tutta l’intenzione
di
risollevare il morale all’amico, quando ebbe
un’improvvisa
illuminazione.
«Gerardo, sei un
genio!»
esclamò, al limite dell’euforia, riflettendo sul fatto che
è proprio nei momenti in cui si pensa a
tutt’altro, che vengono in mente le soluzioni più
brillanti ai problemi
più macchinosi.
«Perché?»
domandò il giovane, sorpreso.
«Mi
hai appena suggerito come ha fatto Carter a sapere quanto avessimo
offerto: la soluzione è la carta copiativa! Sapevo che la
spiegazione sarebbe stata tremendamente stupida!»
Gerardo lo
guardò, non poco perplesso: «Marcello,
ti dispiacerebbe spiegare anche a me?»
«Miller
deve aver messo della carta copiativa sotto la cartellina,»
cominciò a spiegare il ragazzo, «così,
quando ci hai scritto sopra l’offerta, hai permesso che si
trascrivesse
su un foglio sottostante. Poco importava che il foglio originale fosse
stato già sigillato in una busta... Loro potevano sapere
esattamente l’importo scritto, semplicemente rimuovendo il
cartone del
fondo!»
A quella rivelazione, l’altro lo
guardò sgomento.
«Questo
vuol dire che sono stati loro stessi ad informare i responsabili della
Stigliano!»
«Esattamente.
E quelli hanno offerto quella cifra ridicola, solo per farci capire che
sapevano tutto».
«Ora,
però, mi piacerebbe sapere chi c’è
dietro questa
Stigliano. Molto probabilmente qualcuno che
conosciamo» avanzò Gerardo, forse avendo
già una
vaga idea di chi poteva trattarsi.
«Lo
credo anche io» concordò Marcello, pensando che,
purtroppo, la loro formidabile scalata aveva dato fastidio a molti
concorrenti che contavano sul monopolio del settore.
Ormai, il cerchio stava per chiudersi e, quando sarebbe successo, il
giovane aveva il vago presentimento che il risultato non lo avrebbe
lasciato affatto stupito.
***
Per la revisione,
ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
(nuova)
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per
aver letto e dato un parere in corso d’opera.
***
[N.d.A]
1. (La) Signorina Else:
è una novella di Arthur Schnitzler, scritta nel 1924. Parla
di
una giovane diciannovenne che, per salvare la sua famiglia dalla
bancarotta e dallo scandalo, si impegna a compiacere un ricco amico di
famiglia senza morale. L’epilogo della vicenda è
molto triste
(Else si suicida ingerendo il valium [una benzodiazepina], piuttosto
che assecondare totalmente il signor von
Dorsday). Ammetto di non aver mai letto l’opera, ma ho
assistito ad uno
spettacolo teatrale che ne è stato tratto, apprezzando,
oltre
alle tematiche, anche l’uso che Schnitzler fa del monologo interiore.
2. dulzura:
dolcezza, in senso vezzeggiativo, in spagnolo.
3. gli uomini in nero:
Alessio
nomina spesso gli uomini in nero, indicando (in maniera inconscia,
essendo un bambino) malfattori senza una definizione precisa. Ricordo
che, negli Anni ’80, era ancora vivo, nella popolazione della
Capitale,
il ricordo delle malefatte della già citata Banda della Magliana.
Inoltre, in quegli anni, molti giovani sono scomparsi in circostanze
misteriose. Basta citare, una per tutti, la sparizione di Emanuela
Orlandi, avvenuta nel 1983. Quindi, non c’è da
meravigliarsi che
i bambini rielaborassero, a proprio modo, le informazioni di cronaca
apprese qua e là.
***
Ed eccoci qui, sempre sugli
stessi schermi, ma con una grafica un po’ rinnovata. Che ne dite,
è meglio?
Per ora il glicine non ha un ruolo specifico nella storia, ma tutto vi
sarà più chiaro più avanti.
Tornando a noi, come avete avuto modo di leggere, questo è
stato
un capitolo abbastanza movimentato, ma, d’altra parte,
essendo
l’ultimo per
quest’anno, bisognava fare un po’ di
fuochi
d’artificio in stile Capodanno, o no? Tuttavia, le parti
migliori
(o
peggiori, dipende dal punto di vista) devono ancora venire, me le
riservo per l’anno nuovo.
A tal proposito, vi dico che il prossimo aggiornamento è
previsto per il 5 Gennaio, pertanto
vi auguro di passare buon Natale e buone feste in generale.
Ringrazio dal più profondo del cuore chi legge, anche
silenziosamente, chi mi
dedica una parte del suo tempo commentando, chi ha messo la storia in
uno
dei suoi elenchi, chi
vorrà unirsi ai commentatori e deciderà di
lasciarmi una recensione sotto l’albero.
Anche se questa è una storia semplice, spero di essere
riuscita a trasmettere tutta la cura e l’attenzione che sto mettendo
nello scriverla.
Come sempre, vi lascio il link al mio blog
e alla pagina
facebook: troverete
su entrambi, nei prossimi giorni, una piccola
anticipazione del capitolo ottavo.
Ancora tanti auguri!
Halley
S. C.
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Capitolo 8 *** Capitolo Ottavo - Vento di Dubbi ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 8
- Capitolo Ottavo -
Vento
di Dubbi
Vittoria
batteva in terra i piedi per il freddo, scrutando accigliata il treno
notte che aveva di fronte e borbottando qualcosa tra sé e
sé.
«Non
capisco cos’hai da lamentarti tanto, nemmeno dovessi partire
tu al
posto nostro» commentò Marcello, spazientito da
quel
continuo brontolio,
lanciando una rapida occhiata verso la zona commerciale, in attesa di
riuscire a scorgere il suo amico che tornava. A quell’ora di
sera, la
Stazione di Roma Termini era quasi vuota, non sarebbe stato difficile
individuarlo, anche a grande distanza.
«E tu spiegami ancora una volta perché avete
deciso di
intraprendere questo viaggio della speranza a Monaco»
ribatté lei, guardandolo bieca ed incrociando le braccia
contro al petto.
«Lo
sai che Gerardo ha paura
dell’aereo» le
rispose
il ragazzo, spiccio, sfregandosi le braccia con le mani per scaldarsi
un po’.
«Che
assurdità! Avreste fatto prima e meglio, così
domattina sarete in
condizioni pietose. Mi chiedo come farete ad affrontare Herr Berger ed
Herr Müller»
continuò la giovane, gesticolando con fare irritato.
«L’incontro
sarà solo dopodomani» precisò
Marcello, mantenendo invece un tono
calmo, «abbiamo tempo. Considerando
che la prima fermata è a Vienna, verso l’ora di
pranzo dovremmo essere a
Monaco».
Vittoria fece una smorfia dubbiosa, come se tutto quello che aveva
sentito non la convincesse nemmeno un po’.
«Comunque, dopo
aver affrontato Edward Carter, fare affari con Ludwig Berger sarà
una passeggiata» concluse il ragazzo, abbastanza sicuro di
ciò che stava dicendo. D’altra parte, bisognava
riconoscere che sarebbe stato davvero difficile trovare un altro
individuo dotato della sottile malvagità di quel britannico.
La ragazza lo guardò per un secondo, poi sospirò
rumorosamente.
«L’unica
nota positiva è che non dovreste avere particolari problemi
alla dogana».
«Sicuramente.
Se avessimo intrapreso la trattativa con Herr Kohl di Lipsia, ci
sarebbero stati dei problemi per ottenere il visto per la
Germania dell’Est» confermò il biondo,
scorgendo in quel mentre Gerardo che si avvicinava.
«Sembra che la
neve non darà problemi. A quanto mi hanno riferito i
macchinisti, pare che il passaggio del Tarvisio sia libero»
esordì, trionfante. «Il
treno partirà!»
«Questa
è un’ottima notizia»
affermò Marcello, mentre Vittoria sbuffava più
forte.
«Nient’affatto!
Piuttosto, sarebbe stata un’ottima scusa per prendere
l’aereo».
«Veramente, se c’è una bufera di
neve non fanno partire nemmeno i voli di linea»
la corresse Gerardo.
La ragazza scosse la testa ma, alla fine, dovette arrendersi
all’evidenza che i suoi amici sarebbero andati in Germania
con il treno.
I due giovani, quindi si adoperarono per portare le proprie valigie nel
vagone
letto che avevano prenotato; nel giro di poco, però, erano
già di nuovo sulla banchina, pronti per salutare Vittoria
prima della partenza.
«Ricordatevi
di portarmi un bel regalo! Sarei
venuta con voi molto volentieri, ma ho i dettagli della mostra da
definire».
«Quattro
giorni di pausa non ti avrebbero fatto male» le fece notare
Gerardo. «Magari ti
sarebbero serviti per rilassarti un po’».
Vittoria gli si
avvicinò e gli aggiustò per bene la sciarpa ed i
capelli, che si erano spettinati nel continuo salire e scendere dal
treno.
«Sentirai
la mia mancanza, Gerardo?»
«S-Sì,
ce... certo»
balbettò lui, evidentemente a disagio. Il biondo alzò
gli occhi al cielo, ormai saturo di quelle continue scenette,
domandandosi per la milionesima volta
perché il suo amico non si sbrigava a dire alla ragazza
tutto quello che provava per lei, così da risolvere tutte le
questioni aperte nel migliore dei modi: il carciofone sarebbe stato
liquidato per sempre e Gerardo e Vittoria sarebbero stati finalmente
felici.
«Anche tu
sentirai la mia mancanza, vero, Marcellino?»
gli chiese la giovane, volgendo lo sguardo verso di lui, ma senza
staccare la presa che aveva sui vestiti di Gerardo, il quale doveva
avere una tachicardia con i fiocchi.
«Come
no? La sento già» fece il ragazzo, ironico.
«Come sei
acidulo!»
lo redarguì in maniera scherzosa, facendogli la linguaccia.
In quel mentre, il capotreno passò accanto a loro,
avvisandoli: «I
passeggeri sono invitati a salire sul treno, stiamo per
partire».
«Oh.
È arrivato davvero il momento di salutarci»
mormorò la
ragazza, abbandonando le risate e diventando di colpo triste.
«Come farò senza di voi?»
«Torneremo
prima che tu te ne accorga» commentò Marcello.
«G-Già»
gli fece eco l’altro con un filo di voce.
Le persone che erano lì accanto cominciarono a salutarsi,
anche loro pronti a prendere posto nei vari vagoni. In particolar modo
una coppietta, che stava dando grande spettacolo di
effusioni
amorose, come se il giovane stesse per partire per il fronte.
Nella sua rigidità, il biondo stava per
commentare negativamente, quando Vittoria, dopo aver notato Gerardo che
osservava imbarazzato la scena, gli chiese: «Stai prendendo
l’ispirazione per salutarmi?
Sono sicura che tu potresti essere molto più
elegante».
Il ragazzo si colorì all’istante delle
più
svariate sfumature del rosso, per poi balbettare qualcosa di sconnesso e
scappare di
corsa sul vagone, lasciando l’amica non poco sbigottita.
«Ma cosa mai avrò detto per farlo reagire
così?»
domandò incredula, sbattendo le palpebre.
Marcello inarcò un sopracciglio, facendo una smorfia di
disappunto. Erano entrambi così tonti che non
meritavano
il suo aiuto ed era davvero propenso a lasciarla cuocere nel suo brodo,
quando decise che fosse meglio lasciarle una specie di compito da
portare avanti
nel corso della loro assenza: chissà, magari al loro rientro
la
situazione si sarebbe sbloccata.
«Vittoria?»
«Sì?»
rispose lei, pensierosa.
«Nei prossimi
giorni rifletti bene».
«Su cosa?»
«Sull’eventualità
di lasciare Bartolomeo prima della mostra. Sai, quando ti diverti a
stuzzicare il povero Gerardo...»
spiegò il ragazzo, con una voluta reticenza, «la
tua espressione dice come stanno veramente le cose».
In quel momento il capotreno fischiò, Marcello
salì rapidamente sul
treno e le porte si richiusero dietro di lui. Allora si
voltò
verso
la banchina e, attraverso il vetro, fu certo di riconoscere una
Vittoria dalle guance scarlatte che lo guardava attonita, poco prima
che lei e la stazione cominciassero a scivolare via dalla sua visuale.
***
Approfittando
dell’assenza di zia e cugina, Beatrice si sistemò
sul divano
tarlato del soggiorno, aprendo lo schema esecutivo della sciarpa che
avrebbe voluto confezionare per Marcello e adagiandolo davanti a lei.
Liberò con cautela un gomitolo dalla propria fascetta e,
dopo
aver cercato il capo del filo, lo assicurò ai
ferri.
Una volta tanto, avrebbe tanto voluto concedersi un pomeriggio di
relax, da dedicare a qualcosa che la faceva stare bene e che le
impegnava piacevolmente la mente.
Per
un bel po’ si udì solo il ticchettio dei ferri da
lana che
sbatacchiavano tra di loro mentre il filo veniva intrecciato e la
fanciulla si perse completamente a seguire quel ritmo sempre uguale a
se stesso; quando fu troppo buio, segno che la sera era giunta, si
interruppe un attimo per accendere la luce e per ammirare il lavoro che
aveva fatto fino a quel momento: stava venendo davvero bene, a Marcello
sarebbe piaciuta sicuramente.
Un rumore improvviso dal tinello, però, la fece sobbalzare e
la mise in
allarme, giacché se si fosse trattato di Anna Laura che era
rientrata in anticipo, sarebbe stato un bel guaio se avesse visto a
cosa
stava lavorando: conoscendo la maligna curiosità della
cugina,
non se la sarebbe cavata con poco.
Quando, invece, fu Guido a fare capolino oltre la porta, la fanciulla
tirò
un enorme sospiro di sollievo.
«Ah, sei solo tu».
«Solo
io?» ripeté lui, offeso. Entrò nel
salotto e si buttò a peso morto sul divano, sedendosi
accanto alla sorella. «Che stai facendo, Cicci? È
per me quella sciarpa?»
«Affatto»
rispose la ragazza, riprendendo a lavorare.
«Per
il Navarra?» tentò nuovamente il giovane.
«L’unica cosa
che
vorrei vedere intorno al su’
collo
è un cappio»
sibilò Beatrice, senza pensarci. Subito dopo si rese conto
di
essere stata abbastanza sanguinolenta, ma non riuscì a
sentirsi
in colpa più di tanto, almeno non dopo quello che le aveva
fatto
quel depravato.
Guido si accigliò, grattandosi la nuca.
«E
allora per chi
è?»
«Una
commissione
che mi
verrà ben pagata»
spiegò la
ragazza
con grande naturalezza, sorprendendosi da sola per
l’abilità
che
aveva sviluppato nel mentire. Be’, come si dice in questi
casi, di
necessità, virtù.
«Te
l’hanno affidata alla merceria?
Meno male che,
dopo aver sposato Navarra, potrai
smettere di lavorare».
La fanciulla posò i ferri in grembo e
gettò un’occhiata di fuoco al fratello.
«Io non lo
sposerò mai, chiaro?»
Il giovane scosse nervosamente la testa, giocherellando con un pezzo
dell’imbottitura del divano, fuoriuscita da
un
buco nei cuscini.
«Non sai quello che dici. Mi lasceresti davvero
in mezzo ai guai?»
«Te
li sei meritati! Quale medico
ti ha prescritto di giocarti tutto ciò che rimaneva del
patrimonio?»
Guido si alzò in piedi con uno scatto, mettendosi le mani
nei capelli
corvini e cominciando a fare su e giù per la stanza.
«Oh,
tra l’altro nemmeno s’accontenta solo di
sposare te...
Saremo
costretti a dargli anche la villa all’Isola
d’Elba!» piagnucolò, perdendo ogni
briciolo di dignità.
A quella rivelazione, il cuore di Beatrice perse un battito.
«La
casa della
mamma?» sussurrò, sgomenta.
«Ecco,
vedi, Bea... Ho promesso a Navarra che,
dopo che
diventerai la su’ moglie,
potrà disporre di quella proprietà come megl...»
cominciò a difendersi Guido, ma Beatrice non gli diede il
tempo di finire.
«Tu
sei pazzo!» gli gridò contro, mettendo da parte la
sciarpa e alzandosi in piedi. «Non
permetterò mai, e dico
mai, che
Navarra metta le su’
zampacce
sulla casa
della mamma!»
continuò, puntando minacciosamente un dito contro il
fratello.
Come osava quell’idiota distribuire l’ultimo
ricordo che
avevano dei bei momenti passati come famiglia, quando ancora facevano
entrambi parte di una vera famiglia?
«Ma,
Beatrice,
l’è
un rudere che
porta più magagne che
vantaggi, pensaci bene» si difese debolmente il ragazzo,
guardandola piuttosto spaurito.
La fanciulla lo guardò e, all’improvviso, tutta la
collera
che provava nei suoi confronti scemò: suo fratello non era
mai
stato in grado di fare niente di buono e, probabilmente, sarebbe
rimasto così per tutto il resto della sua vita.
«Io davvero non
so come
fai ad esser così
insensibile e
privo di logica».
Prese
con sé la lana ed i ferri e corse
fuori, in giardino, sedendosi sugli scalini sotto al vecchio glicine.
In inverno sembrava un ammasso rachitico di rami, ma, in primavera,
tornava a fiorire florido e splendido, ravvivando il giardino con il
colore dei suoi fiori. Le piaceva quella pianta, le ricordava quella
che avevano proprio a Villa Paolina, la casa dell’Isola
d’Elba che sua madre le aveva lasciato, la stessa casa che
suo
fratello voleva svendere a quell’animale di Navarra.
Perché Guido era arrivato a
tanto? Perché voleva insudiciare il luogo dei ricordi della
loro
infanzia? La casa di Firenze era stata la prima ad essere
venduta e dopo di essa erano andate via, una ad una, tutte le altre
proprietà. Perfino i mobili erano stati venduti
all’asta
per pochi soldi, perdendo miseramente tutto il loro grande valore
affettivo.
Beatrice chiuse le braccia intorno alle gambe e poggiò il
mento
sulle ginocchia: ormai non aveva più lacrime per piangere la
felicità perduta.
Dopo un po’, però, si mise
in una posizione più comoda e riprese la sciarpa
lasciata a metà; forse, faceva ancora in tempo a costruirsi
una propria felicità, una che
né Guido,
né tantomeno Navarra avrebbero potuto distruggere. E
pensò a Marcello e a tutti i bei sentimenti che riusciva ad
ispirarle, così da poter allontanare la grande tristezza che
sentiva dentro di sé e, quindi, riprendere a lavorare alla
luce dei lampioni.
***
Essendo ormai prossimo il Natale, Marcello e Gerardo non si
meravigliarono di trovare il Weihnachtsmarkt1
allestito di tutto punto,
proprio sotto
l’orologio astronomico di Marienplatz: anche
a Monaco, infatti, si respirava già una bella aria natalizia
che mise
i due ragazzi di buonumore.
Per giunta, seppur durante la notte la neve fosse caduta in grossi
fiocchi, quella mattina era uscito un pallido sole a cercare di
riscaldare la fredda atmosfera.
Si erano svegliati entrambi molto presto, ancora provati dalla nottata
trascorsa in treno, così,
avendo
ancora diverso tempo prima dell’incontro con Berger e
Müller,
avevano deciso di andare a fare colazione in uno dei caffè
della
famosa piazza monacense, trovandovi dell’ottimo tè
e
una
succulenta torta bavarese al cioccolato.
Quando il grande orologio batté le dieci, però,
decisero
di prendere un taxi, per recarsi nella lussuosa Maximilianstraße,
dove si trovava l’ufficio dei due imprenditori tedeschi;
avrebbero tanto voluto vedere lo spettacolo del carillon della torre,
ma, poiché il meccanismo si attivava solo alle dodici e alle
diciassette, si ripromisero di tornare nel pomeriggio.
In compenso, durante il
percorso in auto, poterono ammirare le particolarità
dell’architettura nordica dei palazzi che fiancheggiavano le
strade del centro, dal forte taglio
mitteleuropeo, e Marcello si ritrovò inconsciamente a
pensare che Beatrice avrebbe saputo certamente spiegargli quali
erano le caratteristiche salienti di quelle costruzioni.
Il tassista, probabilmente conoscendo molto bene il posto,
lasciò i due giovani proprio davanti al numero trentacinque
di Maximilianstraße,
che corrispondeva ad un alto edificio con un bel portico e tantissime
finestre. Rintracciarono subito la targa d’ottone che
indicava che Berger e Müller
lavoravano proprio lì e, dopo aver suonato, oltrepassarono
il grande portone nero,
pronti ad incontrare i due pezzi grossi dell’industria
automobilistica tedesca.
La prima cosa che notò Marcello, dopo che la biondissima
segretaria li ebbe fatti accomodare in un ordinato salotto, fu che
quell’ufficio era profondamente diverso da
quello suo e di Gerardo: il parquet chiaro, la prevalenza del bianco
nel mobilio, le alte finestre che lasciavano passare molta luce e la
varietà spropositata di piante grasse messe in bella mostra
lo rendevano molto simile ad un’area d’esposizione,
piuttosto che ad un locale ad uso lavorativo.
Si voltò allora verso il suo amico e notò che si
guardava intorno, meravigliato, come se avesse notato le
stesse cose.
Tuttavia, non ebbero modo di commentare, almeno non in quel frangente,
poiché due uomini, proprio in quell’istante, fecero il loro
ingresso nella stanza; fisicamente, erano diversissimi tra loro, tanto
è
vero che il biondo li paragonò inconsciamente a Bud Spencer
e Terence Hill.
«Guten Morgen!»
li salutò affabilmente il tipo più alto e grosso,
con capelli corti e scuri ed un’espressione
simpatica. Per
fortuna, per proseguire il suo discorso adottò
l’inglese, giacché né Marcello,
né Gerardo sapevano il tedesco. «Io
sono Ludwig Berger, è un vero piacere conoscervi di persona,
finalmente!»
Marcello gli porse la mano.
«Il
piacere è nostro, Herr Berger».
L’uomo gliela strinse con calore, il che sorprese non poco
Marcello, che credeva che i tedeschi fossero tutti freddi ed
inospitali. Mai pregiudizio si rivelò più falso.
L’imprenditore
strinse la mano anche a Gerardo, quindi si voltò e
presentò il suo socio, un uomo più giovane e
più asciutto, dai folti capelli biondi e dalla barba rada.
«Lui, invece,
è il mio socio, Matthäus
Müller».
«Piacere,
Herr Müller»
dissero entrambi i giovani, stringendo la mano anche a lui, che
ricambiò con energia.
I
ragazzi vennero, quindi, condotti in una grande stanza rettangolare con
un lungo
tavolo di legno nero e le pareti coperte da maestose librerie da design
squadrato. Sull’unico muro libero, che era quello
prospiciente la
porta d’ingresso, erano appese delle foto in bianco e nero
che
ritraevano alcuni edifici di Monaco distrutti dai bombardamenti del
1945.
«Quelle
ferite non si sono ancora rimarginate del tutto» disse
Berger,
avendo probabilmente notato che Marcello era stato incuriosito da
quelle gigantografie. «La
nostra divisione interna è la ferita più
grande».
Il
biondo aveva sentito diverse versioni sulla faccenda e voleva scoprire
come stessero sul serio le cose, avendo l’occasione di
interloquire con una fonte coinvolta in prima persona. Tuttavia,
cercò di mantenere una certa delicatezza nel porre le
domande.
«Alla
frontiera non lasciano passare proprio nessuno?»
«Ci
vogliono permessi speciali e ottenerli è molto, molto
difficile» spiegò l’industriale.
«La Deutsche
Demokratische Republik2
è molto ferrea nei controlli»
intervenne Müller. «Mio
fratello abita a Berlino Est e non
lo vedo da venticinque anni».
«Deve essere atroce...» commentò Gerardo, con tono
sommesso.
Calò un breve e triste silenzio, interrotto subito dai due
tedeschi che invitarono i due giovani a ad accomodarsi al tavolo: il
biondo ebbe il vago sospetto che non volessero alcuna compassione e
rispettò la loro fierezza.
Quando ognuno si fu sistemato, cominciarono a parlare
dell’affare
che avrebbero dovuto concludere. Marcello e Gerardo, infatti, erano
intenzionati ad
acquistare delle azioni dell’azienda di Berger e
Müller e si
erano recati sul posto proprio per definire i dettagli della
compravendita ed, eventualmente, per firmare il contratto.
La trattativa di per sé non fu particolarmente pesante;
Marcello aveva avuto la sensazione che sia lui che il suo amico fossero
risultati in qualche misura simpatici ai due imprenditori, cosa che non
era accaduta, per esempio, quando avevano fatto la conoscenza di quei
farabutti dei due petrolieri.
«Fare
affari con voi è stato molto, come si dice... ehrlich».
«Onesto»
spiegò l’altro, venendo in soccorso del suo
collega.
«Ultimamente
ce la siamo vista brutta con quel Carter. Voi lo conoscete?»
chiese l’imprenditore tedesco.
«Purtroppo
sì» ammise Gerardo
«Herr
Berger, quindi anche lei ed il suo socio siete stati contattati da Lord
Carter?» si informò Marcello.
«Ja» rispose l’uomo
nella sua
lingua, per poi riprendere in inglese, «lui
e un certo Miller volevano
coinvolgerci in un affare da diversi milioni di marchi, decisamente
poco chiaro. Non è vero,
Matthäus?»
«Infatti. Abbiamo rifiutato quando abbiamo notato
diverse incongruenze in
ciò che ci ha detto»
rispose Müller,
tamburellando le dita sul plico di fogli che aveva davanti.
A quella rivelazione, dopo aver sollevato entrambi le sopracciglia,
Marcello e Gerardo si lanciarono un’occhiata di intesa.
«Senza
contare» proseguì l’uomo, «che
voleva convincerci a cedergli delle azioni della nostra
società, dicendo che non valgono molto, quando le
statistiche lasciano presagire che, tra qualche anno, potrebbe
esserci una forte accelerazione dei tassi di crescita3».
«Inoltre
sappiamo che ha cercato anche di mettere mani sulle aziende
che operano nel bacino della Ruhr che, come saprete,
è il cuore della metallurgia europea»
aggiunse Berger, adombrandosi repentinamente.
Marcello
assottigliò lo sguardo: Lord Carter sembrava davvero avere
le mani in pasta negli affari di mezza Europa e quindi
c’era davvero da sospettare che facesse parte di qualche
complotto economico internazionale.
«Anche
noi non abbiamo avuto una buona impressione di lui»
ammise, avendo ormai capito di essere entrato con quei due uomini in un
clima abbastanza confidenziale.
«Esatto»
confermò Gerardo, dandogli manforte.
Müller
scosse nervosamente la testa: «Lui
e Miller sembrano tipi pericolosi».
Marcello richiuse la sua stilografica con uno scatto secco del tappo.
Se anche altre persone avevano avuto la stessa impressione su quel
magnate britannico e sul suo viscido assistente, molto
probabilmente l’opinione che si erano fatti non era tanto
sbagliata.
Quando uscirono dall’ufficio di Berger e Müller, si
resero
conto che si era fatta l’ora di pranzo e, ricordandosi di un
locale
tipico che avevano già notato la sera prima, si fermarono a prendere qualcosa
nell’alberata Leopoldstraße.
All’interno, la birreria era abbastanza cupa, un
po’ per via delle
finestre opache e strette, un po’ perché,
nell’arredamento,
prevaleva ovunque il legno; tuttavia, furono accolti dal saluto di due
cameriere
brune e altissime, delle quali l’una era intenta a spillare
la
birra in grandi boccali di vetro e l’altra si stava occupando
di
eliminare l’eccesso di schiuma in superficie con l’apposita spatola.
Sopraggiunse allora una terza ragazza dai capelli rossicci, la quale
fece loro
segno di seguirli e, districandosi abilmente tra tavoli e panche
già occupati da altri commensali, li condusse al piano di
sopra, dove li fece accomodare davanti ad una finestrella e
consegnò loro il menù.
«Cosa
ne pensi dei nostri nuovi clienti tedeschi?» chiese Gerardo,
mentre sfogliava la carta, assorto.
«Mi
sembrano brave persone. Se hanno avuto il coraggio di dire no a Carter,
devono essere davvero onesti» commentò Marcello,
piacevolmente colpito dalla moralità dei due imprenditori.
«Sono
d’accordo. A proposito, hai visto? Quel delinquente ha
cercato di
espandere il suo dominio anche qui!»
«La cosa non mi
meraviglia affatto, abbiamo visto di cosa sono capaci lui
e Miller» fece il giovane, tetro, mentre l’amico,
ricordando il loro incontro con il magnate del
petrolio, non riuscì a trattenere un brivido.
«Non voglio nemmeno pensare a cosa ci sarebbe successo, se
fossimo entrati in collaborazione con lui»
commentò.
La cameriera che li aveva accolti giunse a prendere le ordinazioni,
riservando un sorriso languido a Gerardo e un’occhiata
sospettosa
a Marcello, segnando accuratamente tutto e,
nel giro di poco, i giovani si ritrovarono davanti due enormi boccali
di Löwenbräu,
una delle birre tipiche di Monaco.
Anche i loro stomaci furono grati della celerità del
servizio, infatti
non passò nemmeno un quarto d’ora che la ragazza
servì ciò che avevano ordinato, facendo l’occhiolino a
Gerardo
che, però, non sembrò farci caso.
Tuttavia, fu difficile non notare, invece, la grande differenza nella
quantità di cibo dei due piatti: quello destinato al moro
traboccava letteralmente, mentre l’altro aveva
solo un
pezzettino di Schweinshaxe
e un misero cucchiaio di Kartoffelsalat4.
«Due
sono le alternative: o ti ha visto deperito»
commentò il biondo,
sbalordito, «oppure hai
fatto colpo sulla cameriera».
«Ma no, che dici»
balbettò l’altro, rosso fino alla punta delle
orecchie,
agitandosi nervosamente sulla
sedia.
«Dico
che, secondo me, piaci alle tedesche».
«Che
sciocchezze vai dicendo... Io non piaccio a nessuna
donna».
«Non sembrerebbe»
insistette Marcello, afflitto, osservando la miseria che aveva
davanti.
«E
poi, ti ho già detto che non devi gettarti fango addosso in
questa maniera».
«Be’, lo sai che sei tu quello che le ragazze
guardano sempre, non io»
notò con semplicità l’amico. «Comunque,
per me è troppo tutto questo, passami il piatto,
così facciamo a metà».
Il ragazzo fece come gli aveva detto, ringraziandolo e l’amico gli rispose alzando
le spalle, come a dire che non stava facendo niente di che.
«A me
basterebbe piacere solo ad una» sussurrò,
diventando improvvisamente malinconico.
«Se
continui a girare intorno a Vittoria senza prendere una decisione, la
perderai» rispose il biondo.
«L’unica
cosa che non voglio perdere è la sua amicizia. E se lei non
mi
volesse? Preferisco continuare a starle vicino soffocando i sentimenti
nei suoi confronti, piuttosto che rischiare di non vederla
più».
«Ma non puoi continuare così!» esclamò il
ragazzo, sconcertato dall’ottusa ostinazione dell’amico.
«Soprattutto, non potete continuare a discutere perché
permettete sempre ad un Bartolomeo o una Maria Luisa di intereferire
con le vostre vite. Di questo passo, sarà proprio la vostra
amicizia ad essere compromessa».
Gerardo, però, sembrò sordo a tale osservazione, perseverando nel fissare il suo piatto senza dire nulla.
«Se
non vuoi rischiare, forse non la vuoi abbastanza»
commentò, a quel punto, Marcello, stizzito da
quell’atteggiamento. Tuttavia, non aveva nemmeno finito di
pronunciare l’ultima parola, che l’altro scattò su
e, incollerito, sbottò: «Tu non puoi nemmeno immaginare quanto io desideri
ardentemente
Vittoria!»
Non era da lui rispondere in
tale maniera e la sua reazione
lasciò il giovane letteralmente a bocca aperta.
Quando, però, Gerardo si rese conto di ciò che
aveva appena detto,
le guance gli si imporporarono come mai in vita sua, si
affrettò a dividere la sua porzione, spostando
l’eccesso
nel piatto dell’amico, e cominciò a mangiare
seppellendo se
stesso ed il suo imbarazzo dietro il proprio boccale.
***
Con
le festività alle porte, la merceria fu letteralmente presa d’assalto dalle signore, le
quali cercavano disperatamente idee regalo
per familiari, amici, conoscenti e vicini di casa.
Beatrice adorava dare consigli e suggerire gli accostamenti migliori di
stoffe e passamanerie, al fine di aiutare le clienti
nell’ardua
scelta della combinazione perfetta
per la realizzazione di tovaglie e tovaglioli, poi esibiti durante i
vari pranzi e cenoni del periodo natalizio; si
sentiva utile e aveva la possibilità di mettere a frutto la
sua
passione per i giochi con i filati ed i colori.
La
signora Sofia la lasciava fare, contenta di avere un’aiutante
così entusiasta e di spirito, anzi, spesso le faceva seguire
di proposito le clienti più esigenti.
Esattamente come fece quella mattina.
«Beatrice, puoi venire qui un attimo? Alla signorina serve
una mano».
«Arrivo!»
rispose lei, con voce squillante per dare un cenno di aver sentito, in
mezzo a tutta quella confusione. Spostò i vari imballaggi
della
nuova merce e, con qualche difficoltà, riuscì a
farsi
strada verso la parte opposta del bancone.
«Buongiorno,
cosa posso
fare per lei?» chiese, mettendo da parte
l’ultima scatola che le ingombrava il passaggio.
La fanciulla rimase per qualche istante a guardare la ragazza che aveva
davanti, concentrata nello scegliere una tra le tante
varietà di pizzo, avendo la forte impressione di averla
già vista da qualche parte e le bastò solo
qualche istante
di riflessione per capire chi fosse.
«Io
ti conosco... Tu
se’ la
Vittoria, l’amica
di Marcello!»
esclamò.
La diretta interessata alzò lo sguardo sopra di lei e
assunse, a sua volta, un’espressione di autentico stupore.
«Oh,
Beatrice, non sapevo lavorassi qui!»
«L’è
già
più di un mese che
lavoro per la signora Sofia» spiegò lei.
L’altra scosse la testa: «Ah, ecco. Quel lazzarone
non me l’ha detto, anche se lo sa, vero?»
«Be’,
sì» rispose lentamente Beatrice, certa che si
stessa riferendo proprio a lui.
Era rimasta molto colpita dall’epiteto con cui quella ragazza
lo
aveva chiamato: si percepiva che erano in grande confidenza e questa
consapevolezza le causò una fitta interna.
Sebbene avesse avuto le sue conferme, riguardo il fatto che tra
Vittoria e Marcello non c’era
nulla di più di una solida
amicizia, la fanciulla non poté impedirsi di provare una
certa
gelosia nei confronti della sua interlocutrice; d’altra
parte,
già il solo fatto che potesse vedere il ragazzo ogni volta
che
voleva, senza doversi nascondere, la metteva in una posizione di
vantaggio rispetto a lei.
«Ogni
tanto viene a salutare» aggiunse, incerta. Le risultava
particolarmente difficile non considerare Vittoria come una rivale,
poiché le sue paure inconsce stavano avendo la meglio sui
fatti:
quella ragazza era talmente bella e spigliata che qualunque uomo
l’avrebbe preferita a lei, che era solo un’insulsa
ragazzina.
Le parole che aveva detto Anna Laura, quel giorno a Campo de’
Fiori, le tornarono in mente, ferendola con lame affilate, temendo che potessero essere la triste verità.
Improvvisamente, la giovane donna
schioccò la lingua in senso di grande disapprovazione,
richiamando l’attenzione della fanciulla.
«Quando tornerà, gliela farò pagare»
affermò, battagliera.
«Dove
è andato? M’ha detto che sarebbe stato
fuori città, ma non ha aggiunto altro»
le chiese Beatrice, trovando il coraggio di fare quella domanda, spinta
dalla curiosità di sapere dove si trovasse di preciso il
giovane.
«In
Baviera, a Monaco. Doveva concludere una trattativa in questi giorni.
Sono partiti tre giorni fa».
«Partiti?»
Vittoria annuì:
«Sì,
Marcello è andato con il suo socio, Gerardo Marini. Lo
conosci?»
«No,
non ne ho ancora
avuto modo. Però mi piacerebbe,
Marcello ne
parla sempre molto bene».
«È
un ragazzo davvero adorabile» fece l’altra,
sorridendo con evidente trasporto. Si fermò per qualche
istante,
come se si fosse persa nei propri pensieri, e poi riprese: «Bene,
bene. Vorrà dire che passerò di qui per portarti
l’invito della mostra. Se dovessi darli entrambi a tua
cugina,
potresti non riceverlo».
Beatrice
stava per dire che, se fosse stato per la parente, non avrebbe mai
dovuto mettere piede fuori di casa, ma lasciò perdere,
perché odiava andarsi a lamentare della sua famiglia con
persone
che non conosceva bene. Pertanto, disse solamente: «In
effetti, l’Anna
Laura è un po’... inaffidabile».
La
ragazza sollevò le sopracciglia, forse pensando che
c’era
tanto altro da dire su quella donna così irritante, ma
nemmeno
lei si dilungò in altri commenti.
«Comunque, cosa posso fare per
te?» fece la fanciulla, cambiando argomento e preferendo dedicarsi ad altro.
Vittoria sollevò il pizzo e glielo fece vedere.
«Mi servirebbero due metri di questo e
poi avevo anche intenzione di comprare dello chiffon per rifinire il
mio vestito di Natale... Che colore mi consigli?»
***
Il pomeriggio del ventuno dicembre, Marcello uscì di casa
poco dopo le quattro, così da non arrivare tardi
all’appuntamento che aveva con Beatrice.
Le ombre si andavano affievolendo, man mano che il crepuscolo avanzava;
nella luce del sole morente, che striava di rossastro il tufo grigio e
poroso dei monumenti d’altri tempi, il giovane avanzava, in
armonia con le
sfumature sullo sfondo: era come se la storia si fosse imbevuta di luce.
In una mano, teneva il pacchetto che avrebbe consegnato alla fanciulla,
sperando che lei potesse apprezzare il suo contenuto. Infatti,
nonostante quello non fosse il primo regalo che le faceva, si
ritrovò a nutrire, in merito a ciò,
più dubbi di quanti avrebbe dovuto.
Si stava pian piano abituando alla presenza costante di quella ragazza
tra i suoi pensieri, consapevole che aveva cominciato a nutrire verso
di lei più che un semplice interesse; infatti, se dapprima
era stato incuriosito e ammaliato da quella giovane, così
profondamente diversa da tutte le altre che aveva avuto modo di
conoscere, ora Marcello era certo di essere stato più che
conquistato dalla sua indole romanticamente5
orgogliosa.
Tuttavia, parallelamente a questo sentimento positivo, nel suo cuore si
era annidato anche un germe di negatività: nonostante la
ragazza avesse dimostrato di essere molto matura per la
sua età, il giovane sapeva di essere troppo grande, troppo
adulto per lei, poiché ai suoi occhi, di fatto, lei
restava poco più che una bambina.
Cosa avrebbe potuto offrirle lui? In realtà, poco o niente,
conscio di avere un carattere molto rigido e severo,
caratteristica che lo faceva sembrare ancor più vecchio dei
suoi ventiquattro, ormai più venticinque, anni.
Mentre si angustiava con questi pensieri, si rese conto di star
già percorrendo Via
della Mercede e, poco dopo, intravide Beatrice,
cordialmente intenta a
discutere con la sua datrice di lavoro.
Sorrideva e Marcello lo interpretò come un buon segno:
evidentemente la signora Sofia doveva essere molto soddisfatta di lei.
Si
fermò, indeciso se continuare ad avvicinarsi ed interrompere
la
conversazione oppure rimanere lì, in disparte, aspettando
che
terminassero di parlare.
Una
lieve venticello arrivò a scompigliargli i capelli e ad
accarezzargli la pelle del viso, come se volesse invitarlo a non
abbandonare quella posizione privilegiata, dalla quale poteva osservare
la ragazza, seguendo i suoi gesti o provando ad immaginare cosa stesse
dicendo, semplicemente cercando di interpretare la sua espressione.
Ma il vento non aveva finito di sussurrargli tutto il suo messaggio, infatti, la cosa
più importante l’aveva lasciata per ultima.
Seguendo l’ispirazione di quel delicato refolo, infatti,
guardò
meglio Beatrice e, tutto d’un tratto, ammise a se stesso il
vero
motivo per cui aveva quei cupi e brutti pensieri in merito alla loro
differenza d’età: si era innamorato di lei.
Sebbene Marcello, in cuor suo, l’avesse già capito
da
qualche tempo, era stato restio a dichiararlo con voce ferma proprio
per tutte le riserve che nutriva nei confronti di una sua possibile
relazione con la fanciulla.
Non perché non la volesse, ovviamente, ma perché
temeva
che lei, un giorno, potesse innamorarsi di un altro, magari di un suo
coetaneo o di un ragazzo più allegro.
Da questo punto di vista, capì meglio il punto di vista di
Gerardo nel suo approccio con Vittoria, anche se continuava a non
approvare la reticenza dell’amico.
In quell’istante, la sarta rientrò nella sua
merceria, lasciando la ragazza in strada.
Resosi conto di ciò, il
giovane si riscosse dalle sue meditazioni e, preso un respiro
d’incoraggiamento, si avvicinò alla ragazza.
«Buonasera
a te, Beatrice» la salutò, quando le fu
più vicino.
«Oh,
ciao Marcello!» fece lei a sua volta,
radiosa. «Come
è andato il viaggio a Monaco?»
«Molto bene...»
le rispose lentamente il giovane, domandandosi come facesse la ragazza
a sapere con tale precisione dove era andato. Era sicuro di non
averlo scritto sul biglietto che le aveva inviato, non
perché
fosse un segreto, ma perché non credeva che fosse un
dettaglio
importante.
Beatrice dovette aver catturato la sua perplessità, infatti
aggiunse: «Me
l’ha detto Vittoria, è passata in
merceria
per caso e
ci siamo incontrate».
Ora
sì che tutto quadrava.
«Sei
arrivato proprio al momento giusto,
comunque, ho appena
finito di
parlare con
la signora Sofia e ora sono ufficialmente
libera!»
continuò lei, concedendogli uno dei suoi sorrisi
più
belli e spontanei.
Marcello
pensò che
fosse molto carina, avvolta nella mantella color carta da zucchero, per
poi
sentirsi in colpa subito dopo: era come se, nel suo animo, si fosse
innescata la convinzione che non ci fosse nulla di più
amorale dell’attrazione che provava per Beatrice.
«Ah,
bene» replicò lui, abbastanza dimesso.
La fanciulla, udendo quel tono, mutò immediatamente
espressione.
«C’è
qualcosa che non va? Hai qualche altro impegno e
non possiamo andare?»
«No, no, va
tutto bene, sono in
pausa dal lavoro, per ora»
si affrettò
a risponderle lui, maledicendosi per aver dato voce ai suoi
pensieri più opprimenti proprio poco prima di incontrarla.
Per risollevare la situazione, decise di consegnare subito il pacchetto
alla fanciulla, cambiando così argomento: «Questo
è per te. So che i regali di Natale non dovrebbero essere
dati in anticipo, ma non penso che avrò un’altra
occasione di vederti, prima del venticinque».
Le iridi blu di Beatrice
si illuminarono.
«Oh, grazie!
Se’
sempre così gentile
con me...
Ti dispiace se lo apro adesso? Ah, no, aspetta un attimo, anch’io ho
qualcosa per te!»
Entrò nel negozio e ne riuscì solo qualche attimo
dopo,
portando tra la braccia un pacchettino avvolto in carta verde e bianca,
con un simpatico fiocco di organza.
«Ecco
il mio regalo per Natale e per il tuo compleanno.
È il
ventisette, vero?» disse la fanciulla, porgendoglielo, con le
guance leggermente arrossate.
Il ragazzo la
fissò, basito: «Sì, ma... Come fai a
saperlo?»
«L’ossessione
dell’Anna Laura nei
tuo’
confronti,
a volte, può tornare estremamente utile»
rispose lei, con una semplicità disarmante.
Nell’udire il nome della cugina di Beatrice, Marcello decise
che era
meglio non indagare oltre, dedicandosi invece a scartare il regalo e
trovandovi, all’interno, una elegante sciarpa grigia.
«L’ho
fatta io. Non sarà perfetta ma... spero che ti piaccia».
Il
biondo la dispiegò e ne ammirò la fattura
impeccabile,
senza fili non intrecciati oppure spanati, scoprendola molto morbida al
tocco.
«In
realtà è più che perfetta»
ammise.
La fanciulla si fece ancora più rossa, ma, stando al sorriso
che
aleggiava sulle sue labbra, doveva essere contenta che lui avesse
apprezzato così tanto il suo lavoro.
«Fammi
vedere se è della lunghezza
giusta».
Marcello l’assecondò, indossando la sciarpa e
permettendo alla
ragazza di sistemargliela per bene. Era molto calda e, avendo una trama
priva di decori o punti particolari, era in linea con il suo stile
sobrio.
Poi venne il momento in cui toccò a Beatrice scartare il suo
pacchetto e, quando si ritrovò tra le mani
l’elegantissimo
soprabito lilla, rimase letteralmente senza parole.
«Oh,
ma è bellissimo... Il lilla è uno dei miei colori
preferiti, perché
sta abbastanza bene anche
con il colore
dei miei capelli»
considerò, soffermandosi a guardare la spilla appuntata
all’occhiello. Lo piegò con cura e lo rimise nella
busta,
spiegando che l’avrebbe messo al sicuro nel retrobottega e
che avrebbe
pensato ad un modo per riportarlo a casa, senza che Anna Laura lo
vedesse e fosse colta dal malsano desiderio di appropriarsene.
Prima di entrare, però, lanciò a Marcello uno sguardo riconoscente.
«Be’,
ora che me
ne hai regalato uno, non dovrai più prestarmi il
tuo».
Una volta entrati nel comprensorio dei Musei Vaticani6,
Beatrice e
Marcello si inerpicarono su per i gradini di varie scalinate,
trovandosi a percorrere un autentico sentiero dell’arte
rinascimentale.
Il ragazzo, che non era mai stato particolarmente esperto di dipinti e
affreschi, si lasciò alle spalle le preoccupazioni che lo
avevano coinvolto poco prima, lasciandosi trasportare
dall’enfasi
con la quale la fanciulla gli stava descrivendo ogni singola opera
d’arte.
Prima di accedere alla Cappella vera e propria, ebbero modo di visitare
la Stanza della
Segnatura, appartenente a papa Giulio II e affrescata da
Raffaello in persona.
Marcello rimase seriamente colpito dall’armonia di colori e
forme che regnava nella celebre Scuola
di Atene,
laddove riconobbe Platone ed Aristotele che si confrontavano sui
principi delle loro filosofie, Il Mondo delle Idee e la Metafisica.
Beatrice gli spiegò che Raffaello, per
quell’opera, aveva
usato numerosi presta volto, scelti tra i suoi colleghi artisti, per
dipingere
i volti dei soggetti, a cominciare da Platone, che aveva preso in
prestito le sembianze del grande Leonardo da Vinci.
Ma tutto ciò non era niente in confronto a quello che
riservò loro la Sistina.
Non erano nemmeno entrati, che già erano con il
naso per aria a fissare il soffitto, poeticamente affrescato
dall’abile mano
di Michelangelo, dove La
Creazione di Adamo sembrava il centro di quel
microuniverso.
La sequela di affreschi, che correvano lungo le pareti
dell’edificio, mostravano quella che era stata la
vera essenza
dell’Umanesimo: l’elevazione
dell’abilità e
dell’ingegno dell’uomo attraverso l’arte
e
l’architettura.
D’altra
parte, non avrebbero potuto non rimanere incantati dinnanzi ad opere
come La consegna delle
chiavi del Perugino o La vocazione dei primi Apostoli
del Ghirlandaio.
Eppure,
il pezzo
forte si mostrò loro solo quando si voltarono verso
la porta da dove erano entrati, la stessa che oltrepassano i cardinali
in occasione del Conclave: infatti, si trovarono davanti il Giudizio
Universale, con le sagome che volteggiavano nella
campitura azzurra,
con Gesù Cristo impegnato a dare un ordine a quel vortice,
mentre,
al
suo fianco, la Madonna era stata dipinta avvolta su se stessa,
l’unica
avvocata7 per le
anime.
Entrambi i giovani restarono senza parole, ammaliati nel profondo da
tanta espressività.
Quei dipinti narravano un qualcosa che andava oltre il significato
religioso che avevano, aprendo un portale di comunicazione tra passato,
presente e futuro; erano un messaggio iconografico, narrante la
straordinaria capacità dell’essere umano di
apprendere e
comprendere, di andare oltre i propri confini.
Marcello si voltò verso Beatrice per chiederle se fosse
soddisfatta, tuttavia, osservando il sorriso che esprimeva tutto il
misto di emozioni che stava provando, decise di tacere, non
volendo rovinare quel momento di contemplazione.
Anche
perché, a farlo, ci pensò qualcun altro: un
signore
che, correndo mentre cercava di riacciuffare il figlioletto che
scappava qua e là, urtò malamente la fanciulla,
facendola
quasi cadere.
«Mi scusi!»
le gridò, senza nemmeno guardarla in faccia,
agguantando il bambino e trascinandolo via.
Il giovane stava quasi per commentare sulla scarsa educazione che aveva
esibito il tizio, quando notò che la fanciulla aveva chiuso
gli
occhi e si era irrigidita, assumendo una posa come di difesa.
Trovandolo
esagerato, nonostante l’entità
dell’impatto,
Marcello le chiese: «Cosa c’è, Beatrice?»
Lentamente, la ragazza
ispirò a fondo e tornò più
rilassata, anche
se non del tutto: «Nulla, mi dà solo fastidio
quando mi
toccano gli estranei».
«Ti ha fatto
male?»
Lei
negò con il capo: «Non
è solo quello. Sai, dopo quello che...».
E si interruppe, come se temesse di aver detto troppo, chinò
rapidamente la testa e tornò contratta come prima.
Insospettito da quello
strano atteggiamento, il biondo insistette: «Dopo
quello,
cosa?»
Beatrice ci mise qualche secondo per rispondere. Dal canto suo,
Marcello attese paziente, non sollecitandola ulteriormente ed ottenendo
così l’effetto contrario, giacché aveva
tutta
l’intenzione di scoprire il perché la ragazza si
stesse
comportando in maniera così strana.
«Ecco» iniziò lei,
tentennante, «poco
più d’una settimana fa, è venuto a
trovarmi
Navarra
e... mi ha... messo le mani addosso».
Le ultime parole sortirono su Marcello un effetto istantaneo:
avvertì montare una collera così forte
che, se
in quel momento avesse avuto davanti quel troglodita,
l’avrebbe macellato
all’istante
come il
maiale che era. Anzi, paragonarlo ad un maiale era un offesa, per
l’animale, ovviamente.
«Che lurido bastardo!»
ringhiò, avvertendo i visceri che si contraevano per la
rabbia.
La sola idea, che quello schifoso avesse allungato le sue zampacce
sulla giovane, doveva avergli fatto schizzare la pressione alle stelle.
«Come
diavolo si è permesso!»
Solitamente, era un ragazzo che cedeva molto di rado alle passioni
dell’animo, privilegiando il raziocinio ai sentimenti,
eppure,
già quando aveva sentito i tormenti di Vittoria, aveva
sentito
di odiare profondamente quegli uomini che trattavano le donne come se
fossero giocattoli; apprendere quale orrore era toccato alla sua Beatrice non
fece altro che amplificare la sua collera.
«Navarra non ha
un codice d’onore, lo sai»
gli disse la ragazza, guardandolo tristemente.
«Scommetto
che quel coglione
di tuo fratello non ti ha protetta» affermò lui,
con rabbia, sicuro di ciò che aveva appena formulato.
«No...».
«Immaginavo».
Colto da un’improvvisa inquietudine, fece qualche passo in
avanti,
tornò indietro e ricominciò un’altra
volta, per poi
tornare nuovamente al punto di partenza.
«Ma
un essere così inetto, come ha fatto durante il servizio di
leva?»
Beatrice assunse un’espressione meravigliata: «Infatti
non
l’ha fatto... È riuscito ad evitarlo,
adducendo la
motivazione
che
’l babbo era in punto di morte e che il capofamiglia era
lui».
Quella
risposta non fece altro che peggiorare la bassa opinione che il giovane
aveva di
Guido Tolomei; se avesse potuto, Marcello l’avrebbe
volentieri
mandato a scavare in miniera, lontano dalla luce del sole e
dall’aria pura.
Forse era giunto il momento di andare a parlare davvero con
quell’inetto: non poteva continuare a costringere la sorella
a
frequentare quel rifiuto umano di Navarra.
Già, gli avrebbe parlato, ma che cosa gli avrebbe detto di
preciso?
Prima di offrirsi lui come probabilme marito, prima avrebbe dovuto chiedere a Beatrice se fosse d’accordo.
Bastarono quei pochi pensieri per far ripiombare di nuovo Marcello
nella sua spirale di dubbi e timori.
A quel punto, la fanciulla, che doveva
aver notato l’ombra che era passata sul suo viso, gli
sussurrò, mortificata: «Scusa,
non volevo deprimerti».
Tuttavia, Marcello scosse la testa,
sospirando.
«No, non è per te, assolutamente. Stavo solo
pensando
che, prima o poi, tuo fratello dovrà pagarla cara per tutto
quello che ti sta facendo».
«Sì,
ma non pensiamoci ora. Ti prego, non roviniamoci la serata»
lo supplicò lei.
Il ragazzo la assecondò e la seguì, ultimando il
tour
degli affreschi, anche se, ormai, nella sua testa e nel suo animo,
infuriava la peggiore delle burrasche.
Usciti
dai Musei Vaticani, Beatrice espresse il desiderio di poter fare
una passeggiata per il centro, dato che, da quando era a Roma, nessuno
aveva avuto il buon cuore di farglielo vedere;
data l’ora e il periodo dell’anno nel quale si
trovavano,
Marcello pensò che sarebbe stato molto suggestivo portarla a
vedere la Fontana di Trevi, circondata dalle luci
colorate degli esercizi commerciali circostanti.
Il monumento di marmo si presentò ai loro occhi maestoso e
con
un’aura quasi titanica, accentuata dai drammatici giochi di
chiaroscuro delle statue, rese enfatiche dalla plasticità
dei
dettagli scolpiti.
Non c’era moltissima gente, a discapito del fatto che fosse
quasi
Natale, pertanto Beatrice riuscì ad avvicinarsi al complesso
senza troppe difficoltà, rimanendo a guardare incantata i
curiosi riflessi che l’acqua creava sulla pietra.
Temendo che ci potesse essere nei paraggi qualcuno con le stesse brutte
intenzioni di Navarra, il biondo la seguì, per non perderla
di
vista nemmeno un attimo, sedendosi sul bordo della vasca.
Se già verso di lei aveva sempre provato una sorta di
istinto di
protezione, alla luce delle nuove dichiarazioni esso si era decisamente
esasperato.
Incurante di tali pensieri, la giovane si sporse per guardare meglio il
tutto ma, evidentemente, non doveva aver calibrato bene la spinta e fu
sul punto di finire dritta in acqua.
Rapido, Marcello la riacciuffò per un soffio, tirandola
verso di sé.
«Attenta! Hai voglia di farti una nuotata serale, per caso?»
la rimproverò.
«Mi
sono lasciata
prendere dalla bellezza del posto» si difese lei, abbozzando
un sorriso imbarazzato. «E
poi, finirti
addosso sta diventando un vizio».
Solo allora il giovane si
rese conto che aveva la ragazza praticamente in braccio.
«Già»
rispose, avvertendo un piacevole stretta allo stomaco e, subito dopo,
un tremendo senso di colpa.
Beatrice, invece, sembrava
perfettamente a suo agio e diede un altro sguardo alla statua di Oceano.
«Se fossi caduta nella
fontana, avrei potuto provare anch’io
l’emozione di recitare Marcello, come here!»
esclamò, ridendo.
«Cosa?»
chiese il giovane che, assorto nello sbrogliamento dei suoi conflitti
interiori, non stava affatto seguendo il filo del discorso.
«Ma
sì! Come
dice l’Anita
Ekberg a Mastroianni ne La
Dolce Vita».
«Ah,
sì, è vero» replicò lui,
distrattamente.
La fanciulla lo guardò accigliata.
«Come sei serio,
la
battuta era carina,
dai. Mi è venuta spontanea, qui
davanti» fece, sorridendogli mentre gli sistemava il bavero
del cappotto.
Era
così vicina a lui che poteva percepire i suoi capelli fargli
il solletico sul viso.
Deglutì a vuoto: quella fu la prima volta in cui comprese
cosa
significasse provare l’ardente desiderio di baciare una
ragazza
e, per un secondo di follia, stava quasi per cadere nella tentazione di
farlo.
Si alzò bruscamente, rischiando di farla cadere per davvero.
«Marcello, ma... mi
dici cos’hai?»
domandò Beatrice, sbigottita e irritata.
«Niente,
è tutto a posto» le rispose il giovane,
distanziandosi di qualche passo e dandole le spalle.
«Non
è vero. Ho capito
subito che
oggi eri turbato!»
«Sto bene»
ribadì lui, secco.
Ne
seguì un attimo di pausa, al termine del quale,
udì la
voce di lei, querula e più lontana di quanto pensasse, che
diceva: «Avresti
potuto dirlo subito, che non ti allettava l’idea di uscire
con me...»
«Non
è vero! Cosa stai...» iniziò il
ragazzo, voltandosi
verso la fanciulla e accorgendosi che non era più accanto a
lui. La
individuò un secondo più tardi, riconoscendola
nella
giovane che, mesta, si stava avviando in Via del Lavatore.
«Beatrice,
aspetta!»
esclamò Marcello, senza ottenere risposta.
Si
sentì
davvero un idiota ad averla allontanata per le sue paranoie, a tal
punto che si sarebbe picchiato da solo. Si rizzò in tutta la
sua
imponente altezza e, con passo fermo, le andò dietro,
raggiungendola nel giro di pochi istanti. Si stava preparando a
chiamarla una seconda volta, quando un monito interiore gli
suggerì che
non era più il momento di parlare, bensì era
arrivato quello di
passare ai
fatti.
Senza strattonarla, le prese una mano
e la fece voltare verso di sé, come se volesse farle
eseguire
un’elegante piroetta danzante, ritrovandosi molto
più
vicino a lei di quanto avrebbe creduto.
Si concesse di ammirarla solo per un attimo, prima di cedere
all’impulso,
catturando le labbra di lei con le proprie. Per una volta, Marcello
decise
di assecondare le sue sensazioni: voleva sentirla più vicina
e,
per questo, le mise entrambe le mani sui fianchi, attirandola ancora di
più verso di sé, mentre assaporava maggiormente
quel
dolce contatto.
Beatrice, dal canto suo, superati i primi attimi di stupore, gli
buttò le braccia al collo,
ricambiando il bacio con intensità e trasporto, mentre
l’acqua continuava a scorrere nella fontana e i passanti
proseguivano nel loro passeggio: il tempo sembrava essersi fermato
solo per loro due.
Si discostarono
leggermente poco dopo, entrambi restii a lasciarsi
andare.
«Non pensavo
fossi così...
focoso»
gli disse piano la fanciulla, piacevolmente sorpresa, dispiegando
lentamente le labbra in un sorriso.
«Scusami,
io...» rispose lui, lievemente imbarazzato: era il primo
bacio
che dava ad una ragazza, forse avrebbe dovuto essere meno impetuoso e
più delicato?
Ma ciò che aggiunse dopo Beatrice gli fece capire che a lei,
in realtà, quell’approccio
non era dispiaciuto affatto.
«Ti prego, non
dire niente»
gli sussurrò
dolcemente, accarezzandogli la guancia perfettamente sbarbata.
«Ho
aspettato fin troppo questo momento».
Marcello sorrise appena, chinandosi nuovamente su di lei: almeno per
quel momento, aveva deciso di mettere a tacere tutti i suoi dubbi.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per aver letto tutto questo in anteprima.
***
[N.d.A]
1.
Weihnachtsmarkt:
il tradizionale mercatino di Natale di Marienplatz.
2. Deutsche
Demokratische Republik: Repubblica Democratica Tedesca,
come veniva identificato lo stato della Germania Est, in
contrapposizione alla Bundesrepublik Deutschland, ossia la Repubblica
Federale Tedesca (o Germania Ovest).
3. accelerazione dei
tassi di crescita: effettivamente, tra il 1988 ed il 1993,
l’economia della Germania ha attraversato un ottimo periodo.
4. Schweinshaxe...
Kartoffelsalat: stinco di maiale e insalata di
patate, piatti tipici della cucina bavarese.
5. romanticamente:
il termine deve essere preso nell’accezione
affine al movimento filosofico-letterario del Romanticismo, in quanto
sottointende che Beatrice è paragonabile ad un’eroina romantica
perché vuole rivendicare la sua posizione, innanzi tutto, di
persona con dei diritti inalienabili.
6. Musei Vaticani:
Marcello e Beatrice sono riusciti ad accedere ai musei nel tardissimo
pomeriggio, poiché hanno usufruito dell’apertura
serale, che cade una volta alla settimana.
7. avvocata:
termine volutamente scelto per ricalcare i versi del Salve, Regina!:
“orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli
occhi tuoi misericordiosi”.
***
Buon anno nuovo a tutti!
Il
caso ha voluto che oggi dovessi aggiornare, proprio in occasione del
mio quinto anniversario di permanenza su questo sito. Ovviamente questo
non interessa a nessuno, quindi vado oltre.
Vorrei aprire una piccola parentesi sul perché ho scelto di
ambientare la trasferta a Monaco di Baviera: punto primo, ci sono stata
in vacanza quest’estate,
pertanto ero abbastanza sicura di poterla descrivere in maniera
veritiera
e concreta; punto secondo, come sapete, la Germania è stata
la nazione che meglio ha impersonato e risentito della Guerra Fredda,
essendo stata divisa a lungo. Siccome ci tengo a dare la
parvenza di anni ’80, mi è sembrato che fosse
emblematico,
ecco.
Ringrazio chi legge,
chi ha messo questa
storia nelle preferite,
ricordate e/o seguite, chi ha commentato lo scorso capitolo.
A questo punto, lascio il
link al mio blog
e alla pagina
facebook, dove (nei prossimi giorni) troverete
uno spoiler del capitolo nono e altre cose.
Saluti e alla prossima, per chi avrà la bontà di
continuare a seguirmi.
Halley
S. C.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo Nono - Vento di Turbamenti ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 9
- Capitolo Nono -
Vento
di Turbamenti
Approfittando
del silenzio e della solitudine che regnavano a Villa dei Salici,
quella
mattina di metà gennaio Beatrice tirò fuori
dall’armadio il regalo che la signora Sofia le aveva fatto
per Natale:
un elegante abito blu notte, rimasto invenduto perché la
capricciosa signora che l’aveva commissionato non
l’aveva
più voluto. Lo mise sulla sedia e si mise a studiarlo con
occhio critico, pensando a come potesse personalizzarlo: certo, non
aveva uno stile propriamente giovanile, ma con l’aiuto di un
po’ di
fantasia e qualche suggerimento preso dalle riviste di moda, che le
aveva
prestato la stessa sarta, sarebbe riuscita a renderlo sobrio e, allo
stesso tempo, adatto ad una ragazza.
Non c’era nessuno in casa e, una
volta tanto,
la fanciulla aveva l’occasione di dedicarsi un po’
a se stessa; per
lei, il 1987 era davvero iniziato sotto una buona stella. Magari
Saturno
aveva deciso di abbandonare l’ostile contrapposizione a
Marte, oppure i
suoi parenti erano talmente presi dalle proprie
faccende
che non avevano il tempo di divertirsi a tormentarla. Il lavoro alla
merceria, infatti, le assicurava parecchie ore alla settimana da
trascorrere
fuori casa, una fonte di guadagno, anche se doveva cederne la maggior
parte alla zia, e la possibilità di scambiare qualche parola
con Marcello, quando lui riusciva a passare di lì per
salutarla.
Il giovane si era fatto ancor più
premuroso nei suoi confronti e andava a trovarla molto più
spesso, anche se non potevano intrattenersi a parlare per
più di una manciata di minuti alla volta.
Beatrice lisciò una piega dell’abito, sorridendo.
Più di
una volta, mentre faceva i compiti o riassettava la casa, era rimasta a
fissare il vuoto con un’espressione trasognata, pensando al
bacio che
le aveva dato il ragazzo davanti alla Fontana di Trevi.
Quello sì che era stato un bacio, altro che le schifosissime
avances di
Navarra!
Non poteva certo dire di avere una relazione stabile con lui, ma il
solo fatto che la cercasse spontaneamente le faceva ben sperare che, da
parte sua, ci fosse del sincero interesse verso di lei.
Marcello, di certo, non era tipo da grandi dichiarazioni, ma Beatrice
aveva avuto modo di vedere quanto fosse serio e
ciò sembrava suggerire che non la stava prendendo in giro.
Un rumore di portone sbattuto con violenza, proveniente dal piano di
sotto, la fece sussultare; piegò alla bell’e
meglio il
vestito e lo seppellì nei meandri dell’armadio,
dopo di che
si affacciò alla porta della sua stanza per vedere chi fosse.
«Ho
solo vecchie pezze di stoffa e nei negozi non c’è
niente di
decente!»
La fanciulla roteò gli occhi, riconoscendo immediatamente la
voce stridula di Anna Laura.
«Sei
un pelandrone, abbiamo ancora i negozi di mezza città da
andare a spulciare!»
«Sono
stanco!» piagnucolò Guido. «T’ho
promesso che s’anderà
nuovamente nel pomeriggio!»
Sì udì rumore di tacchi e poi di nuovo il tono
sgraziato della donna:
«Se
Marcello non mi degnerà di uno sguardo, sarà
tutta colpa tua!»
«Quel pallone gonfiato del Tornatore non ti
guarderà lo stesso. L’ha
troppe passere1
che gl’ stanno attorno!»
Beatrice socchiuse gli
occhi nel sentire il fratello che parlava così del
giovane, tuttavia, prima che potesse formulare qualsiasi altro
pensiero, le giunse distintamente all’orecchio
l’eco di uno schiaffo.
Rabbrividì, immaginando che la cugina avesse appena
colpito la guancia di Guido con una mano piena di anelli, anche se non
riuscì fino in fondo a provare pietà per lui.
«Ahia!»
gemette il malcapitato.
«Non ti permettere mai più di dirmi una cosa del
genere! Provaci
ancora e tu e tua sorella finirete sotto un ponte!»
sbraitò Anna Laura. Si udì nuovamente il rumore
dei
tacchi che battevano sul pavimento, ma questa volta esso si
affievolì
dopo poco, segno che la donna doveva aver cambiato stanza.
La casa ripiombò nel silenzio.
Beatrice tornò di soppiatto in camera sua, chiudendo la
porta
senza produrre il più piccolo rumore; la fretta che aveva
sua
cugina era talmente ovvia che avrebbe potuto scommettere che i suoi
parenti sarebbero usciti nuovamente molto presto.
Al ricordo della conversazione udita, un sorriso sottile si
affacciò
sul suo volto: sua cugina non aveva ancora un abito, suo fratello si
era preso finalmente un bel ceffone e, con molta
probabilità,
sarebbe rimasta nuovamente sola nel giro di pochi minuti.
Forse quella era davvero la sua giornata fortunata.
***
«Spostatelo
qui!» gridò Vittoria, indicando una rientranza
della
parete ai due operai che si stavano occupando di sistemare il tavolo
destinato al buffet.
In quel frangente, Marcello entrò nel salone e lo riconobbe a stento:
c’erano
piedistalli ovunque, piattaforme e panneggi di tutti i colori che
avevano trasformato l’ambiente in un’autentica sala
delle
esposizioni.
Nessuno dei mobili che l’arredavano di solito era rimasto al
suo
posto e sicuramente erano stati spostati in qualche altra
stanza.
«In
quale bolgia mi trovo?» esordì il giovane,
lanciando all’amica uno sguardo bieco.
«Alla
buon’ora, Marcellino!»
lo salutò, facendo finta di essere arrabbiata. «È
un mese che fai il latitante, capisco che sei impegnato con la tua
rossa fiorentina, però...»
«Sono
venuto sempre, quando ho potuto» la interruppe lui, schivando
un operaio che trasportava un enorme specchio rotondo. «Credo che tu ce
l’abbia con me più per il fatto che non ti ho
raccontato nel dettaglio gli affari miei,
piuttosto».
Indispettita da quell’affermazione, la ragazza incrociò le braccia sul petto e mise il broncio.
«Colpita e affondata!»
rise Gerardo, avvicinandosi a loro con in mano un bicchiere di succo,
che protese verso di lei.
«Grazie»
fece Vittoria, prendendolo. «Tu
sì che sei gentile, mica come lui!»
Il giovane fece spallucce, ma sorrise, quindi salutò il
nuovo arrivato.
«Buondì,
Marcello».
Il biondo ricambiò il saluto con un cenno del capo, pensando
che, nell’animo del suo amico, la voglia di stare vicino alla
donna che amava doveva essere più forte dell’astio
che
provava per
Bartolomeo.
«Almeno
mi puoi dire se state insieme?» continuò lei il suo interrogatorio, imperterrita, forse sperando di carpirgli
qualche altra informazione.
A quel punto, consapevole che più avrebbe
tergiversato, meno Vittoria non l’avrebbe
fatto
respirare, il giovane decise di dirle qualcosa per
zittirla.
«Non
ufficialmente»
affermò, evasivo, aggiustandosi la sciarpa grigia di
cachemire. In fondo, ancora non aveva trovato il coraggio
di chiedere a Beatrice di diventare la sua fidanzata, essendo
così tormentato dal problema della differenza di
età;
d’altra
parte, non gli piaceva nemmeno l’idea di continuare a
frequentarla facendo finta che non fosse successo niente tra di loro,
soprattutto, non dopo il bacio appassionato che si erano scambiati.
«E me lo dici
così?»
fece lei, offesa. «Finalmente hai
una ragazza e me lo dici così?»
«Scusa
se non ho chiamato la banda cittadina, ma ho pensato che in questa
baraonda anche una sola persona in più sarebbe risultata di
troppo»
commentò Marcello, riprendendosi e ritrovando il suo
sarcasmo,
mentre spalancava le braccia per indicare la confusione che regnava
sovrana nella stanza.
«Quanto sei
spiritoso, Marcellino»
gli disse la ragazza, mostrandogli la lingua.
«Vitto’,
sono cose personali» notò
timidamente Gerardo, raccogliendo un drappo di stoffa bianca e
ripiegandolo accuratamente.
«Be’, che c’è di male ad
ammettere che ti piace una persona?»
«Niente,
ma...»
«Io penso che sia sbagliato quando non lo si ammette nemmeno a se
stessi» considerò Marcello, squadrandoli entrambi con il sopracciglio alzato. I due
ragazzi lo fissarono interdetti e poi si cercarono inconsapevolmente
con lo sguardo, per poi diventare entrambi scarlatti.
«Porto via il
bicchiere»
annunciò Vittoria con voce quasi stridula, allontanandosi
come se fosse stata inseguita da un’orda
di barbari.
«Quanti teli da
sistemare!»
esclamò Gerardo, facendo il vago ed evitando di guadare l’altro
negli occhi.
«Vero?»
domandò l’altro, inarcando un sopracciglio, non facendosi scappare
l’occasione di manifestare il suo disappunto.
Il ragazzo
smise di trafficare con i panneggi e si abbandonò ad un
sospiro
affranto, forse consapevole che non aveva più alcun senso
mentire e sviare il discorso. Alzò il viso verso il suo
amico e
ammise: «Sento
che sto per impazzire. Non ce la faccio più a saperla di un
altro uomo».
«Babbo Natale ti ha portato un po’ di giudizio, per
caso?»
osservò il biondo, ironico.
«Marcello,
non prendermi in giro! Sai bene quanto mi corroda il fegato sapere
che Vittoria sia fidanzata con un altro» fece Gerardo,
querulo, gettando i drappeggi a terra, con un moto di stizza.
«Gera’, dacci un taglio con queste lamentele» decretò Marcello, secco, «e passa ai fatti, piuttosto».
«Parli
bene, tu. Beatrice non è certo impegnata... Tu come ti sentiresti
a corteggiare una ragazza fidanzata?»
A quell’affermazione, il giovane lo
guardò con un cipiglio talmente severo che l’amico
indietreggiò di qualche passo.
«Non sarà impegnata, ma abbiamo sei anni e mezzo di differenza» ribatté il biondo, con tono
inquietantemente calmo. «Come
ti sentiresti tu a corteggiare una ragazzina, invece? Senza contare tutta la
situazione con la sua famiglia e con quel depravato di
Navarra».
«Scusami,
ti prego, io...» iniziò Gerardo, incerto su come
proseguire. Tentennò qualche secondo, come se volesse
riprendere
il discorso, ma alla fine abbassò lo sguardo, arrossendo.
«Lascia stare,
non importa»
fece Marcello, sospirando. «In fondo, non
posso costringerti a fare quello che, secondo me, dovresti».
«Già».
Un improvviso tramestio proveniente dal corridoio attirò la
loro
attenzione, accantonando, per il momento, il discorso che avevano
intrapreso. Alcune voci, infatti, si stavano aggiungendo ai rumori di
passi che, via via,
si stavano facendo sempre più chiari e distinti.
«Chi
è?» domandò Gerardo, sporgendosi in
direzione della porta.
«Non saprei»
gli rispose l’amico, voltandosi a sua volta verso
l’ingresso
della sala, il quale venne valicato un secondo dopo da tre
uomini
vestiti di nero: uno di mezza età e due ragazzi rasati,
con
quel poco di pelle visibile coperta da strani tatuaggi scuri. I nuovi
arrivati si guardarono intorno finché non individuarono, in
quel
gran caos, i due giovani.
«Buongiorno,
stiamo cercando la signorina Vittoria Farnese» disse il
più anziano.
«Voi chi siete?»
domandò Gerardo, accigliato.
«Gli
addetti al catering» ciancicò uno dei giovani, lasciando intravedere la gomma da masticare che aveva in bocca.
«Catering?»
ripeté, come se gli stessero rifilando una scusa assurda
per giustificare il fatto che si fossero introdotti in casa. Quindi, senza
aggiungere
altro,
si avvicinò a quegli individui e cominciò a
parlare con
loro, gesticolando. Infine, indicò loro la cucina e
tornò dal suo amico.
Dal canto suo, Marcello osservò i tre mentre si muovevano con
difficoltà
nella stanza messa a soqquadro, notando che sembravano davvero
individui di dubbia morale. Non aveva i pregiudizi verso i tatuati, ma
quelli avevano proprio una faccia poco raccomandabile e sembravano
appena usciti da una bisca.
Quello che pensò fosse il capo, inoltre, aveva una sottile
cicatrice
sulla
guancia, particolare che, inconsciamente, lo mise in allarme, giacché aveva l’angosciante sensazione di averlo
già
visto in circostanze spiacevoli.
«Non ti sembra
di averlo già visto da qualche parte?»
domandò, non appena l’altro fu a portata d’orecchio.
«Sì,
sembra anche a me che abbia un’aria familiare»
rispose lui,
lanciando un’occhiata guardinga ai tre, poco prima che
sparissero
oltre la porta secondaria del salotto.
Questo confermò al biondo che neanche Gerardo doveva
apprezzare
particolarmente quei brutti ceffi e pertanto si sentì
inquieto a
saperli con Vittoria. D’accordo, c’erano anche i
genitori
della ragazza con lei (si erano spostati in cucina per imballare
alcuni oggetti preziosi da togliere di mezzo), ma non riusciva davvero
ad essere del tutto tranquillo. E stando a come batteva nervosamente il
piede in
terra il suo amico, doveva pensarla allo stesso modo.
Nessuno dei due fiatò finché, dopo quelli che a
Marcello
parvero anni, i tre uomini più Vittoria riemersero
attraverso la
porta più piccola. La ragazza annuì energicamente
e li
salutò, accompagnandoli nell’ingresso.
Finalmente, rassicurati dal fatto che avessero avuto la prova che quella stesse bene, entrambi tirarono un sospiro di sollievo.
«Vittoria, a
quale locale hai chiesto di fare il servizio catering?»
domandò Gerardo, quando la giovane fu tornata da loro.
«A nessuno. Tre
giorni fa è venuto Ascanio Colonna e si è offerto
di provvedere al rinfresco»
rispose lei, candidamente, alzando le spalle. Poi, spostò un sacchetto, contenente viti e chiodi, dalla
poltrona e ci si
accomodò, stremata.
«Colonna? E
perché?»
insistette Marcello, avvertendo che c’era qualcosa che non
quadrava. Da quando quel lestofante si adoperava per gli altri?
«Ha
parlato con Bartolomeo... L’unica cosa che so è
che deve
fare un annuncio pubblico e voleva sfruttare l’occasione di
questa mostra» spiegò
l’amica. «Si sono trovati
d’accordo, credo che lo considerino entrambi un ottimo modo
per farsi pubblicità».
«Un
annuncio? Di che genere?»
«Non ne ho la
più pallida idea. Vi ho detto tutto quello che so».
Allora, i due amici si scambiarono una profonda occhiata e socchiusero
entrambi
gli occhi, chiedendosi cosa stesse macchinando Colonna, ma,
soprattutto, perché avesse scelto proprio l’evento
a casa
di Vittoria per fare una delle sue dichiarazioni alla stampa. I
giornalisti delle rubriche “arte e cultura” non
sarebbero
mancati e, forse, aveva sparso la voce anche fra quelli di gossip
e simili. Purtroppo, l’unico modo per sapere esattamente cosa
stava bollendo in pentola era attendere il dieci febbraio.
***
Quando
Marcello arrivò alla villa, il pomeriggio della fantomatica mostra, già una torma di
camerieri
stava facendo su e giù dalla cucina, portando sul tavolo del
buffet un’enorme varietà di delizie e leccornie.
Trovò la ragazza che si muoveva nervosa per la sala, dando
disposizioni a tutti, affinché ogni cosa fosse al suo posto
e la
sala pronta per ricevere gli ospiti.
«Se
continui ad essere così agitata, non arriverai nemmeno a
metà serata» notò il biondo, avvicinandosi a lei.
«E come faccio a
non esserlo?»
gli domandò, torcendosi nervosamente le mani. Indossava un
abito
color vinaccia con le scarpe abbinate ed aveva raccolto i capelli sulla
nuca, lasciando, però, che qualche ciocca le ricadesse sul
collo.
«Potresti almeno provarci, sai?» le fece notare lui, con i suoi soliti modi
spartani.
La giovane
s’irritò e fece, ironica: «Come sempre mi sei di grande
aiuto!»
Marcello fece spallucce, non comprendendo davvero il perché
di tanta ansia. In fondo, le attrazioni principali della mostra erano le sculture
del Davoli, ma il
problema di Vittoria era che prendeva tutto come un fatto
personale.
«Dov’è
Gerardo?» domandò lei, guardandosi intorno con aria smarrita.
«Ha
detto che sarebbe venuto intorno alle sei e mezza, dovrebbe essere qui
a momenti».
«Spero
che non mi dia buca...» sussurrò, affranta.
«Non temere,
quando dà la sua parola la mantiene sempre» la rassicurò
il biondo, certo di poter mettere la mano sul fuoco riguardo l’arrivo del suo amico.
Nonostante i suoi dissapori con il carciofone, non
avrebbe mai lasciato la ragazza sola in un simile momento.
Infatti, nel giro di due minuti, il giovane fece il suo ingresso nel
salone addobbato per la mostra, dando ragione alle supposizioni di
Marcello.
«Buonasera,
Vittoria. Come stai?»
La giovane si girò di scatto, sciogliendosi in un sorriso
radioso.
«Gerardo,
sei venuto!» esclamò, correndogli incontro e
buttandogli le braccia al collo.
Sorpreso da tale slancio, il ragazzo ricambiò goffamente
l’abbraccio.
«Non...
non sarei mancato per niente al mondo» esalò,
visibilmente stordito, non aspettandosi
un’accoglienza così calorosa.
Marcello rimase a
guardarli, scuotendo la testa: se solo avessero trovato il coraggio di
essere più onesti l’uno con l’altro e,
prima di tutto, con
se stessi, avrebbero trovato anche la felicità.
In quel momento, però, due ragazze si avvicinarono a
Vittoria, costringendola a
staccarsi da Gerardo, per chiederle dove fossero le liste con gli
invitati. Il giovane si fece da parte, ancora abbastanza stordito,
lasciando che la padrona di casa, adesso visibilmente più
tranquilla, continuasse a dare direttive a tutti i collaboratori.
«Se
non fossi arrivato tu, avrebbe dato di matto»
confidò il biondo all’amico.
«Cosa?»
domandò lui, trasecolato, con lo
sguardo fisso sulla donna.
«Lascia stare»
bofonchiò Marcello, pensando che quei due erano davvero un
caso
senza alcuna speranza.
In quel mentre, quattro
uomini forzuti entrarono, portando a spalla una specie di grande pacco
avvolto da numerosi teli e il biondo pensò che dovesse
trattarsi del pezzo forte della serata, ovvero la statua raffigurante
la musa ispiratrice del Davoli. La conferma gli fu data
dall’arrivo
dello scultore che si avventò sugli operai come una furia,
urlando loro contro ogni genere di raccomandazioni e di improperi,
temendo che potessero farla cadere.
Fu infine depositata su un grande piedistallo, posto al centro
della sala, collegato ad una specie di frigorifero portatile per
mantenere bassa la temperatura e far conservare il ghiaccio.
Dopo tutto il caos che aveva procurato quel carciofone, il biondo si
augurò che quell’opera valesse davvero tutta la
fatica che
aveva investito Vittoria nell’organizzazione
dell’evento, anche se gli era bastata una rapida occhiata alle
altre sculture per rendersi conto che due pezzi di legno e qualche
chiodo non potevano essere propriamente definiti arte.
Il Ready-made2,
a suo tempo, aveva avuto un gran successo, ma il dubbio estro del Davoli non avrebbe interessato nemmeno un rigattiere.
Finalmente, intorno alle diciannove e trenta gli invitati cominciarono ad
arrivare, popolando il salone e riempiendo l’aria con il loro
gran
vociare. Marcello riconobbe numerose
personalità illustri, tra cui molte autorità del
comune e perfino qualche deputato.
Ogni tanto l’amica si avvicinava sia a lui che a Gerardo per
presentare loro qualche ospite di riguardo, prevalentemente critici
d’arte
abbastanza spocchiosi, come ebbero modo di appurare dopo aver fatto la
conoscenza del signor Di Renzo, il quale si profuse in un complesso e
quanto mai insensato elogio dell’operato di Davoli. E, ancor
di più dopo
questa conversazione, Marcello dubitò della sua effettiva
competenza in materia. Non si sarebbe affatto meravigliato se
avesse stentato riconoscere la differenza tra un Canova e un gessetto
per lavagne.
Il biondo si era appena voltato verso il suo amico per dire qualcosa a
proposito di quel pomposo omuncolo, quando lo pizzicò
completamente perso nell’osservare Vittoria. A quanto
sembrava,
quella sera non riusciva a staccarle gli occhi di dosso nemmeno per un
istante.
«Stasera
è proprio incantevole» commentò lui,
rispondendo
alla tacita domanda che Marcello gli aveva fatto alzando un
sopracciglio.
«Non
mi hai mai detto da quanto tempo sei innamorato di lei» gli
fece, scrutandolo attentamente.
«Fin da quando eravamo bambini e lei veniva a giocare al
parco con i fiori nelle trecce»
sospirò Gerardo, ammirandola in un modo così
dolce che
l’altro si sentì come se stesse invadendo la sua
sfera
privata.
Piuttosto, fu qualcun altro a rompere quella perfetta bolla di sapone.
«Marini,
non credevo potessi essere davvero così patetico, la
tua stupidità non si smentisce mai!» esclamò Ascanio Colonna, sogghignando malignamente.
«Hai
deciso di lasciare il tuo porcile per venire ad infestare questa casa, per caso?» fece Marcello, piantandosi davanti
all’intruso e
scrutandolo con un’occhiata velenosa.
Tuttavia, Ascanio continuò a ridere e
passò oltre, ignorandolo e avvicinandosi a
Gerardo.
«Quella
è troppo gnocca
per te, cercati una racchia
del tuo livello»
gli sussurrò con cattiveria, facendolo deglutire. Un paio di
secondi più tardi si distaccò, molto lentamente,
sorridendogli sardonico, e lanciando al biondo un’occhiata di sufficienza.
Dopo di che abbandonò i due amici, lasciandone uno
schiumante dalla rabbia e l’altro depresso fino al midollo.
«Che
gran figlio de mignotta»
sbottò Marcello, sicuro che nel suo organismo, in quel
momento, stesse circolando più bile che sangue.
Tuttavia, Gerardo negò con il capo, malinconico.
«Non c’è bisogno che ti alteri: ha detto
la verità. Le ragazze da dieci e lode
come Vittoria non si mettono con quelli da sei scarso come me».
«Non mi dirai
che hai dato ascolto alle parole di quel cerebroleso!»
si infervorò l’altro, ottenendo in cambio solo una
sterile risposta.
«Io ho bisogno
di una boccata d’aria. Ci vediamo tra poco».
Il
giovane osservò l’amico dirigersi verso il
balcone,
aprire l’anta e sparire al di là della soglia. La
collera
che aveva provato fino in quel momento contro Colonna,
di fronte all’ostinazione di Gerardo a non credere che Vittoria potesse mai provare qualcosa per lui, sfumò,
sostituita da un forte senso di tristezza.
Lanciò, allora, un’occhiata in direzione della
statua
coperta,
scorgendo Bartolomeo che parlottava fitto fitto con la sua assistente.
Era certo che non avesse mai rivolto la parola alla padrona di casa da
quando era iniziato l’evento, nonostante fosse stato solo
merito
della ragazza, se aveva trovato qualcuno disposto ad ospitare lui e le
sue opinabili opere.
Si guardò intorno, disgustato: non era mai stato un
estimatore
dell’arte moderna, ma quelle rozze sculture di legno, senza
forma
né senso, non potevano essere considerate espressione di un
bel
niente. Altro che disagio della società!
Il primo disagiato era proprio lo stesso Davoli. Eppure, Vittoria
era la sua
fidanzata, non di Gerardo.
Marcello afferrò un bicchiere di prosecco dal vassoio di un
cameriere in movimento e stava per mandarlo giù tutto
d’un
fiato quando, anche se si trovava in mezzo ad un chiacchiericcio
insistente, sentì qualcuno pronunciare a gran voce
il suo
nome.
Si girò appena in tempo per scorgere Anna Laura che parlava
con
una ragazza che lui conosceva solo di vista, alla quale stava chiedendo
informazioni proprio sul suo conto, volendo forse sapere se era
già arrivato.
Posò il bicchiere sul vassoio di un altro cameriere e si
nascose
dietro uno dei pannelli che facevano da sfondo a due manici di scopa
sfregiati che avrebbero dovuto rappresentare, a detta del titolo, il
malessere della gioventù moderna.
Il giovane sapeva che da quella postazione poteva vedere perfettamente
la donna, anche se lei non poteva fare altrimenti; rimase,
perciò, appiattito
contro quella finta parete di compensato, in attesa che ci fosse
abbastanza folla tra lui e quell’arpia per
poter
sgattaiolare indisturbato, anche se sembrava che le chiacchiere di
quelle due non avrebbero mai avuto fine.
Per fortuna arrivò Guido a distrarla, facendola voltare
dall’altra parte.
Sebbene quello fosse il momento migliore per darsela a gambe,
il biondo sapeva che se c’erano Tolomei e sua cugina in giro,
Beatrice
non doveva essere molto lontana. Infatti non tardò a
scorgerla
tra la moltitudine di persone, distinguendola grazie alla cascata di
capelli rossi che le scendevano lungo le spalle, avvolta in un abito blu
con la base della gonna cosparsa
di piccolissime pietruzze luccicanti.
Era davvero bella, ma subito la voce
della sua coscienze si animò, perentoria, intimandogli di
smetterla di contemplarla; così, si ritirò, appoggiandosi con le spalle contro il pannello:
sapeva di averle promesso di vederla alla mostra, ma in quel momento
non
era più tanto convinto di volerla incontrare.
Con quel bacio, poi, aveva superato già una volta il confine
di innocente amicizia
e sapeva che quella parte istintiva di lui, la stessa che
metteva così spesso a tacere, l’avrebbe rifatto
senza
esitare, se gli si fosse presentata l’occasione.
Fu allora che decise che si sarebbe allontanato in direzione opposta a
quella della fanciulla, evitando di incrociare i loro sguardi. Forse si
stava comportando da codardo, oppure, semplicemente, non voleva
soffrire,
vedendo Beatrice andare via con un altro, perché sapeva che
sarebbe successo, presto o tardi. Il suo destino era stare solo.
Aveva appena mosso qualche passo in direzione del corridoio che portava
alle stanze superiori, però, quando vide Ascanio che tirava
per un braccio
Maria Luisa: i due stavano discutendo molto animatamente e questo
insospettì Marcello.
Il ragazzo la trascinò all’interno del corridoio
ed il
biondo, senza indugiare oltre, li seguì per scoprire il motivo di tanta agitazione.
Ascanio e Maria Luisa si diressero oltre la quarta porta sulla
sinistra, entrando nella stanza che corrispondeva a quella che Marcello
riconobbe come la lavanderia. Si appostò accanto al
battente,
che per fortuna avevano lasciato aperto, e tese l’orecchio,
aspettando di far luce sul comportamento sospetto dei due.
«Ciao Marcello!»
esclamò qualcuno, squarciando quel silenzio carico di
tensione.
Il giovane sobbalzò, sentendo di essere vicino all’avere
un infarto.
«Shhh!» fece,
voltandosi di scatto per zittire il suo molestatore: chi era quel
rompiscatole che gli stava facendo correre il rischio di essere
scoperto da Colonna? Eppure, quando lo scoprì, le
parole
gli morirono in gola e il cuore fece una capriola.
Forse era destino che quella sera dovesse venirgli un colpo apoplettico.
«Beatrice!»
«Ho
visto che
stavi venendo da questa parte. Non ci siamo ancora visti
e...»
Il
biondo stava per risponderle quando sentì le voci farsi
più forti, segno che i due stavano per uscire dalla stanza.
Elaborando il tutto in una frazione di secondo, prese la fanciulla per
mano e le bisbigliò: «Vieni con me, ti spiego
tutto dopo».
La trascinò con sé dietro una delle pesanti tende
che
coprivano le finestre del corridoio e si preoccupò di
fermare
quanto possibile il movimento della stoffa, così da non far
venire a nessuno la curiosità di scoprire se lì
dietro c’era
qualcuno o no.
«Stai attenta a non fare rumore» raccomandò
severamente alla fanciulla, tirandola vicino a lui. Era pericoloso
mettersi ad origliare quello che stava combinando Colonna, ma non
poteva perdere quell’occasione per fare un po’ di
chiarezza
e, d’altro canto, non voleva essere scoperto, né
far finire Beatrice nei guai per colpa sua.
«Sì»
fece lei, piano, stringendoglisi contro per occupare meno spazio
possibile e non creare correnti d’aria. Uno strano brivido lo
percorse da capo a piedi, ma lo scacciò immediatamente,
riportando la sua concentrazione sui due litiganti, ancora impegnati
nella loro discussione. Aprì un piccolissimo
spiraglio tra due lembi del tendaggio e Colonna e Maria Luisa entrarono
subito nel suo campo visivo.
«Devi
smetterla di bere come una vecchia baldracca ubriacona!»
berciò lui, rimproverando e scuotendo fisicamente la giovane.
«Da quando ti
interessi di quello che faccio?»
gli domandò lei, acida, allontanandolo con un gesto
maldestro;
doveva aver alzato il gomito, perché che stava cominciando
a perdere la coordinazione motoria. Si mise a frugare nella borsetta e,
con grande impaccio, ne estrasse un pacchetto di sigarette,
portandosene
una alla bocca, ma, prima che potesse farlo, Ascanio gliela tolse e la
gettò lontano.
«E
devi smetterla anche di fumare!»
«Non
puoi dirmi... quello che devo fare...»
biascicò lei, mentre pian piano il suo vigore si affievoliva.
«Piantala, non fare la bambina ottusa! Adesso tu tornerai di
là con me e starai buona e ferma, mentre io
annuncerò il
nostro matrimonio.
È chiaro?»
Maria Luisa lo
guardò con occhi vitrei.
«A te
non interessa niente di me».
«Tu
porti in grembo mio figlio ed io mi sono offerto di prendermi le mie
responsabilità. Anche tu devi prenderti le tue, o con i tuoi
comportamenti sconsiderati farai male al bambino!»
«D-Dici co-così solo p-perché ti
s-serve un erede»
singhiozzò la ragazza.
Un muscolo della mascella di Colonna si contrasse.
«E
anche a te serve qualcuno che finanzi tutti i tuoi capricci. Credimi,
Maria Luisa, sposarmi sarà la cosa migliore che potresti
fare
nella tua vita».
«Io
v-volevo s-sposare Ma-Marcello» piagnucolò la
giovane donna, ormai completamente sopraffatta dall’alcool.
Ascanio si spazientì e l’artigliò per
un braccio.
«Tornatore è un perdente! Lui e quel tordo di
Marini non
si sono nemmeno resi conto che sono stato io a soffiargli
l’affare con Carter!»
Lei non disse nulla, continuando a piangere sommessamente.
«Adesso
finiscila di frignare e seguimi. Lascia parlare me e, soprattutto,
ricordati che presto sarai la signora Colonna. Mi aspetto da te un
comportamento degno del nostro nome».
Maria Luisa annuì, tirando su col naso.
«Signore,
siamo pronti, abbiamo già portato la torta»
annunciò in quell’istante
una voce profonda. Marcello si spostò
appena e
riconobbe l’uomo con la cicatrice che era venuto a discutere
con
Vittoria del catering.
In un secondo, tutto gli fu chiaro come il sole: era lo stesso che
aveva accolto lui e Gerardo al Caffè del Borgo!
«Molto
bene» annuì nervosamente Ascanio. Gettò
un’occhiata compassionevole alla sua compagna e aggiunse:
«Portate anche un bicchiere d’acqua alla signorina,
ha
bisogno di riprendersi».
Il cameriere fece un rispettoso inchino e tornò sui suoi
passi.
«Vieni»
sussurrò il ragazzo, con un tono molto più
delicato di
quello che aveva usato fino ad allora. Poggiò una mano sul
fianco di lei e la guidò nuovamente in sala.
Quando Marcello fu certo che il corridoio fosse di nuovo deserto,
uscì allo scoperto e aiutò Beatrice a fare lo
stesso.
«Adesso sì che tutto ha un senso...» valutò, meditabondo, fissando la porta che conduceva in sala, dalla
quale filtravano luce e voci indistinte. «E
devo
subito riferirlo a Gerardo» decise, animato da una febbrile
irrequietezza: aveva appena appreso molte informazioni interessanti
e non vedeva l’ora di ragguagliare il suo amico in merito ai
nuovi
sviluppi.
«Hai
scoperto qualcosa di importante?» gli domandò la
fanciulla, incuriosita.
«Direi
proprio di sì» le rivelò lui, annuendo. «Ho
trovato una spiegazione agli imbrogli di Carter».
Lei lo guardò, pensierosa, come se stesse cercando di
riportare alla mente qualcosa.
«Ricordo
questo nome, me ne hai parlato quando son venuta a casa tua per
restituirti il cappotto» disse infine. «Comunque, se
è vero che quella ragazza aspetta un bambino, lui non
dovrebbe trattarla così».
«Colonna non sa
cosa sia la delicatezza»
sintetizzò il biondo, con una smorfia disgustata.
«Magari,
l’è per questo che quella avrebbe voluto sposare te. Se’
davvero
così
gettonato?»
domandò Beatrice,
guardandolo accigliata ed incrociando le braccia al petto.
«Non ne parliamo. Solo a sentire la voce di tua cugina, prima, mi è venuta
l’orticaria».
A quella risposta, la fanciulla sorrise, divertita, ma il giovane,
consapevole che non era ancora arrivato il momento di rilassarsi, le
disse, guardandola serio: «Dobbiamo tornare
immediatamente di là. Devo sistemare alcune cose».
«Ho capito.
Questa sera non c’è
verso di stare un po’ insieme»
gli fece, però, notare lei, amareggiata.
Marcello
aggrottò la fronte, scrutandola attentamente:
l’espressione
di lei tradiva una certa delusione e lui si sentì molto in
colpa, pensando che, in un modo o nell’altro, riusciva sempre
a trovare
il modo di trascurare Beatrice.
Non era facile per lui gestire quell’aspetto, trovava
estremamente
difficile coordinare la sua vita sentimentale, considerando che non ne
aveva mai avuta una. Ed era quella consapevolezza che, puntualmente,
veniva ad intaccare il suo equilibrio, come un tarlo che scava le sue
gallerie nel legno: Beatrice avrebbe potuto stancarsi di lui prima del previsto.
«Scusami, hai
ragione, ma non sapevo che ci sarebbero stati questi
risvolti» le disse, sinceramente dispiaciuto. Seppur,
inizialmente, fosse stato lui il primo ad evitarla, adesso non poteva
negare di apprezzare molto la compagnia di quella ragazza e il solo
vederla lo rendeva felice.
In risposta, lei si abbandonò ad un sospiro rassegnato.
«Non ti preoccupare, ho capito che si tratta di qualcosa d’importante».
Il giovane sorrise e si protese verso di lei per darle un bacio sulla
fronte, accarezzandole la guancia.
«Grazie».
Allora, Beatrice incurvò appena la labbra e lui la prese
nuovamente per mano, per poi condurla nuovamente verso la sala.
I due ragazzi si
separarono non appena furono di nuovo in mezzo alla confusione:
Beatrice, dirigendosi verso cugina e fratello, per giustificare la
sua improvvisa scomparsa, e Marcello in cerca dell’amico.
Lo aveva appena trovato, quando Bartolomeo richiamò
l’attenzione generale con una serie di fastidiosi fischi.
«Siamo
allo stadio?» commentò Gerardo, contrariato dalla
poca finezza del soggetto.
«Vi ringrazio
per essere venuti a rendere omaggio alla mia arte» esordì,
piazzandosi sotto la statua ancora coperta da un telo
scarlatto. «Ma
anche io devo fare dei ringraziamenti, perché, senza
alcune persone, questa serata non avrebbe avuto senso».
Ci fu uno scroscio di applausi, che lo scultore mise a tacere con un
gesto della mano.
«Devo
dire grazie ai miei collaboratori, Ottone e Ferruccio, per avermi
aiutato nella scelta delle opere da esporre e grazie anche alla mia
Paula,
per essermi stata vicino durante i momenti difficili»
proseguì, indicando due ragazzi che erano rimasti nelle
retrovie
e che risposero all’elogio alzando pigramente il braccio. «E, ovviamente,
grazie al mio
amico Ascanio per aver offerto il rinfresco!»
L’espressione sul viso di Vittoria si era mutata in una
maschera di triste
stupore: dopo tutto quello che aveva fatto per la completa
realizzazione del tutto non meritava nemmeno un misero ringraziamento
pubblico?
Marcello e Gerardo si scambiarono un’occhiata incredula,
mentre Bartolomeo,
incurante di tutto questo, fece qualche passo avanti e si
avvicinò a Colonna, dandogli una poderosa pacca sulla
schiena:
«Avanti, siamo tutti orecchie per il tuo annuncio!»
Ascanio
ghignò sottilmente e si schiarì la voce,
voltandosi verso
il pubblico che, letteralmente, pendeva dalla sue labbra.
«Be’,
in effetti ho colto l’occasione di questo evento per dire che
io e la
mia fidanzata abbiamo deciso che ci sposeremo a maggio!»
Gli
astanti presero a battere le mani in maniera beota, come se fossero
stati tanti bambolotti elettronici attivati all’unisono.
«Fidanzati? E da quando?» chiese Gerardo, allibito,
fissando la coppia che, intanto, stava ricevendo congratulazioni da
quasi tutti i presenti.
Il biondo scosse la testa, preparandosi ad usare un tono elevato per
superare le altre voci: «La cosa è molto
più
complicata di quello che sembra. Prima ho sentito...»
«Anche io devo
fare un grande annuncio,
ispiratomi dalla mia opera» riprese lo scultore, facendo
zittire
tutti all’istante: era arrivato il momento tanto atteso, ossia
lo
svelamento della famosa e misteriosa opera.
Ottone
e Ferruccio, allora, presero il telo uno da una parte ed uno
dall’altra,
aspettando che l’artista desse la sua approvazione per
toglierlo.
Quando finalmente la ricevettero, lo tirarono via e la folla trattenne
il fiato.
Marcello e Gerardo, invece, furono paralizzati dall’orrore:
quella ninfa
seminuda scolpita nel ghiaccio non era affatto la loro amica. Si
voltarono rapidamente verso di lei, giusto in tempo per vederla
impallidire e
accasciarsi al suolo, come se fosse rimasta improvvisamente priva di
forze.
«Vittoria!»
fecero entrambi all’unisono, raggiungendola e sorreggendola.
«Ecco a voi la mia musa ispiratrice, la mia Paula! La vera
essenza della femminilità e della sensualità»
esclamò Davoli, prendendo e baciando devotamente la mano
della sua assistente. «Mi
vuoi sposare?»
Quello fu davvero troppo. Marcello sentì le viscere
contrarsi per la rabbia e
reclamare una sanguigna vendetta per l’umiliazione che era
stata
costretta a subire Vittoria. Tutti sapevano che quello era il suo
fidanzato ed in molti, a quella fedifraga dichiarazione, si erano
voltati verso di lei, lanciandole sguardi pieni di pena e compassione.
Scrutò quell’essere immondo con tutto
l’odio di cui
era capace, sentendo di fremere dall’impazienza di conciarlo
per
le feste: era
parecchio che non tirava più di boxe, ma non era mai troppo
tardi per ricominciare.
Aveva appena deciso di andare a dire a Bartolomeo finalmente cosa
pensasse davvero della
sua arte, ma Gerardo fu più rapido.
Mentre tutti, compreso Ascanio e la sua futura consorte, erano rimasti
senza parole per la proposta di matrimonio inattesa e per il pianto
commosso della giovane assistente polinesiana, Marini si
avvicinò alla statua, apparentemente per
studiarla; subito dopo, però, scoppiò a ridere e
nella
sala calò di nuovo il silenzio. Adesso tutta
l’attenzione
era sul giovane, che, consapevole di questo, si girò verso i
suoi spettatori.
«Devi
correggere la descrizione, perché non coincide con
la statua: c’è scritto Promessa di Paradiso,
invece a me sembra solo Tradimento
di un bastardo».
Il pubblico rimase a bocca aperta, rapito, come se quella reazione
fosse il gradito colpo di scena che mai si sarebbe aspettato.
«Vittoria
ha dato anima e corpo per questa mostra, perché credeva in
te!» gridò Gerardo, indicando la ragazza,
rannicchiata tra
le braccia di Marcello. «Che
bisogno c’era di tutta questa sceneggiata? Non potevi
lasciarla e
basta? Ovviamente no, perché altrimenti non avresti
più
avuto una schiava da comandare a bacchetta!»
Si voltò verso il monolite di ghiaccio e
diede un calcio così ben assestato ad uno dei piedi della
base d’appoggio, che
questo si spezzò. Trovandosi sbilanciata, la statua
oscillò pericolosamente per qualche secondo, poi cadde in
terra
come un birillo, rompendosi in
mille frammenti trasparenti, mentre gli astanti indietreggiavano,
spaventati.
«Nooooo, la mia
arte!»
ululò Bartolomeo, tendendo vanamente le mani verso
ciò che restava del suo lavoro.
«Non
è una gran perdita, tanto faceva schifo»
commentò Gerardo, ammirando soddisfatto quell’ammasso ormai informe di
acqua congelata. Qualcuno perfino applaudì.
Immediatamente, lo scultore si avventò su Gerardo, con la faccia deformata
dalla rabbia, lanciando un urlo disumano, ma il giovane non si mosse,
sfidando il suo antagonista con lo sguardo.
Marcello stava per dirgli di togliersi, ma intervenne prima Paula,
parandosi
davanti a Bartolomeo e dicendogli velocemente qualcosa nel suo idioma.
Lui le rispose nella stessa lingua, usando un tono molto più
aggressivo, tuttavia, alla fine, sembrò spuntarla lei,
perché l’uomo si calmò, limitndosi a
fissare il ragazzo con astio.
«Posso farne altre cento, una migliore dell’altra»
affermò, superbo.
«Ottone, Ferruccio, andiamocene!»
Fu così che, senza sapere bene cosa fosse successo, il biondo
vide Davoli e la sua squadra abbandonare la sala, lasciando tutti
attoniti.
«Fate
bene ad andarvene, tornate nella fogna da dove siete venuti!»
gridò dietro loro Gerardo. Poi si rese conto che tutti lo
fissavano e sbottò: «Be’,
che avete da guardare? La festa è finita, tutti a casa.
Sciò, aria!»
Un gran chiacchiericcio eccitato prese il posto del silenzio di tomba
che aveva regnato fino a quel momento.
Marcello notò vagamente con la coda dell’occhio i
genitori di
Vittoria, anche loro visibilmente scossi, occupati a
congedare gli ospiti. Quando l’amico gli fu vicino gli
lanciò
uno sguardo sorpreso al quale quello rispose con una debole
alzata di spalle.
«Non ti avevo
mai visto tanto furioso».
«Quando
si tratta di lei,
non rispondo delle mie azioni» replicò Gerardo,
osservando tristemente Vittoria. Si chinò sulla
ragazza e la sollevò dal pavimento, prendendola in braccio.
«Dobbiamo
portarla in camera sua»
aggiunse, prendendo in mano la situazione. «Fammi strada,
aprimi le porte».
Marcello, ancora frastornato da quel nuovo lato del suo amico, finora
sempre nascosto, annuì, scendendo dal palchetto e
calpestando i frammenti di ghiaccio.
Mentre
camminava, però, si guardò anche intorno con la
speranza di vedere Beatrice e
riuscire così almeno a salutarla, considerando che la serata
aveva riservato sorprese poco piacevoli che li avevano fortemente
condizionati. Fortunatamente, riuscì ad individuarla mentre
scambiava qualche parola con
Anna Laura e la salutò con un cenno furtivo, al quale lei
rispose con un dolce sorriso, facendo spallucce.
Avvertì una profonda fitta di insoddisfazione per non essere
riuscito a
passare più tempo con lei e la parte di lui che non voleva
saperne di lasciarla andare protestò: incontrarla fuori
dalla merceria non gli bastava
più e non si poteva andare avanti sperando che il caso,
tutt’altro che generoso, desse loro
l’opportunità di
vedersi di nascosto.
Sospirò, mentre le voltava le spalle e lei faceva lo stesso.
Avrebbe dovuto affrontare anche quel dilemma, ma, quella sera, la
povera Vittoria aveva la precedenza.
Gerardo entrò in camera della giovane con passo lento ed
espressione solenne, come se stesse riportando la salma di qualche
valoroso guerriero morto sul campo di battaglia.
Attese che Marcello preparasse il letto e ve
l’adagiò
sopra, coprendola con cura. Infine, si sedette accanto a lei,
accarezzandole appena la testa, mentre il suo amico si occupava di
tirare le tende e di accendere la piccola abat-jour.
«Avrei dovuto spaccargli la faccia» sussurrò il
giovane, senza spostare lo sguardo dall’amica.
«Non avresti risolto niente»
commentò il biondo, accomodandosi sulla poltrona
lì di fronte.
«Mi
sarei sfogato» lo corresse Gerardo, tremando
dall’ira.
L’altro non disse niente, consapevole che ciò che
era
capitato a Vittoria era qualcosa di abominevole: un pubblico tradimento
era qualcosa che avrebbe dato da mangiare ai giornalisti di gossip per
mesi e mesi, mentre la notizia del matrimonio di Colonna sarebbe stata eclissata con sorprendente rapidità.
Sicuramente neanche lui si aspettava un tale risvolto.
Come
se avesse percepito che quel nome era nell’aria, Gerardo si
voltò verso di lui e gli chiese: «Tu cosa dovevi
dirmi, prima? Sembravi piuttosto agitato».
Marcello si sistemò meglio sulla poltrona e si
preparò a raccontare.
«Beatrice
ed io abbiamo scoperto chi è il misterioso socio di
Carter».
«Tu e Beatrice?»
«Sì,
si è trovata per caso anche lei a sentire»
spiegò il biondo, rimanendo sul vago; non era il caso di
caricare il suo amico anche delle sue paranoie in merito a quella
fanciulla, quella sera erano successe fin troppe cose spiacevoli.
Gli riferì nel dettaglio tutta la conversazione che aveva
ascoltato da dietro la tenda, compresa la parte sulla tresca tra
Ascanio e Maria Luisa.
Gerardo
lo ascoltò con attenzione, non interrompendolo nemmeno una
volta;
alla fine del resoconto, non sembrò nemmeno più
di tanto
sorpreso per le novità appena apprese. Spostò lo
sguardo
sul pavimento, come se stesse riflettendo ed infine disse: «Non so
perché, ma è come se l’avessi sempre
sospettato. Piuttosto, cosa c’entra, in tutto questo, l’uomo con la cicatrice?»
«Pensaci un attimo: Colonna offre di occuparsi del catering
ed il capo dei camerieri è l’uomo
con la cicatrice, lo stesso che lavora al Caffè del Borgo,
guarda caso il luogo che Carter usa come base, qui a
Roma».
L’amico si batté una mano sulla coscia, esultando per aver
concluso il ragionamento: «Ma certo! Scommetto che
quel locale è di proprietà del caro Ascanio. Ora
che ci rifletto, mi pare che lo
Stigliano sia un ramo della famiglia Colonna».
Marcello annuì, aggiungendo: «Quel maledetto ha sempre cercato di ostacolarci. Comunque,
se mi
dai un attimo, possiamo controllare. E se non ricordo male nella
biblioteca c’è un libro
sugli alberi genealogici di tutte le famiglie più
illustri dei dintorni».
Si alzò e l’altro stava appunto per imitarlo,
quando la
voce della ragazza si manifestò come un debole lamento.
«Non andate
via... Gerardo, ti prego, resta con me»
li supplicò lei, stringendo tra le dita la stoffa della
camicia del ragazzo.
Lui rimase per un momento come tramortito, sorpreso che la giovane,
nello specifico, avesse fatto proprio il suo nome.
«Sono
qui, resto con te» riuscì a risponderle,
rimettendosi seduto e cingendola con
un braccio.
Vittoria, rinfrancata, si accoccolò sul suo petto e chiuse
gli occhi.
Non sarebbe stato un problema giustificare ai genitori della ragazza il
perché della loro permanenza, li conoscevano fin da bambini
e
sapevano che erano i due migliori amici della figlia; piuttosto,
sarebbe stato
più problematico spiegare al signor Andrea il
perché
avessero bisogno di quel libro, giacché l’uomo era
un
collezionista incallito e meticoloso di volumi d’epoca.
«Ho
capito, vado solo io» disse Marcello, già
con una
mano sul pomello della porta, sperando che il padre di Vittoria fosse
anche lui abbastanza sconvolto da lasciargli prendere ciò
che
voleva dalla biblioteca. Gerardo gli sorrise, riconoscente.
«Sono
proprio un idiota. Ho perso tempo facendo finta di stare appresso a
Maria Luisa, che ora aspetta un figlio da Colonna, e non ho prestato
attenzione a Vittoria, che ne avrebbe avuto bisogno».
Il biondo non aggiunse nulla, ma lo sguardo obliquo che
lanciò all’amico parlava da solo.
Marcello
rientrò poco dopo, brandendo tra le mani un pesantissimo
tomo.
Il caso era stato particolarmente misericordioso con lui,
giacché il signor Farnese era già andato a letto,
colto
da una terribile emicrania, e la moglie, anche lei abbastanza provata,
gli aveva dato il permesso di prendere tutti i libri che voleva,
perciò sarebbe bastato consultarlo rapidamente e andarlo a
rimettere al suo posto prima dell’alba.
Quando entrò nella stanza, trovò Gerardo sdraiato
accanto
a Vittoria, intento a spostarle alcune ciocche di capelli dal viso,
contemplandola con una dolcezza tale che, per la seconda volta nel giro
della stessa serata, si sentì come se avesse invaso lo
spazio
intimo del suo amico. Si schiarì la voce, così da
segnalare la sua presenza.
«Allora?»
fece quello, per niente turbato, come se fosse appena sceso dalla sua
personale nuvoletta. Il biondo si affrettò ad avviare il
discorso, così da poter lasciare quanto prima quella stanza
e
smettere di sentirsi fuori posto.
Con Gerardo e Vittoria si era sempre sentito come tra fratelli, ma ora
che il reciproco interesse tra i due stava uscendo allo scoperto, non
era più la stessa cosa.
«Ricordavi
bene: Stigliano è un ramo della famiglia di quel deficiente,
al
quale
apparteneva il cardinale Ascanio3, suo avo in linea diretta»
esordì, aprendo il libro alla pagina che l’indice
dava
come l’inizio del paragrafo sui Colonna e mettendolo davanti
all’altro ragazzo.
«Quindi
c’è sempre stato dietro lui, sin
dall’inizio!» notò lui, facendo
un’efficace sintesi di tutta quell’oscura faccenda.
«È
così. Il giorno che abbiamo incontrato Carter per la prima
volta, ho incontrato quel truffatore nella libreria di Via
della Conciliazione che faceva il civettone con la commessa. Credevo
fosse solo un caso, invece no, era lì perché
doveva vedersi anche lui con il britannico»
bisbigliò il biondo, temendo di svegliare Vittoria.
Finalmente
aveva il quadro completo della situazione e ogni tessera del mosaico
era andata al suo posto.
«Tutto
torna. Per lo meno, adesso sappiamo come stanno veramente le cose».
«Già»
affermò Marcello,
reprimendo con difficoltà uno sbadiglio. Per quella serata
aveva
dato anche troppo, ora il resto delle domande e delle congetture
avrebbe anche potuto aspettare l’indomani, lasciando al suo
cervello
qualche ora di meritato riposo. Riprese in mano il tomo e
lo chiuse con un colpo secco, sistemandoselo poi sotto il braccio e si
avviandosi per uscire fuori dalla camera.
«Ed ora dove vai?»
fece il suo amico, allarmato.
«A
portare indietro il libro. Non vorrei dare il colpo di grazia al signor
Farnese, poi credo che mi sistemerò nella stanza degli
ospiti» gli
rispose, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
«E mi
lasci così? Nel letto... con Vittoria?»
balbettò l’altro, palesemente a disagio.
«Come se a te
dispiacesse»
fece Marcello, già con un piede fuori dalla stanza. Dal
gemito
di imbarazzo che udì, comprese che Gerardo avrebbe passato
una
lunga notte insonne.
***
Guido uscì dalla porta sul retro, stando attento a non fare
rumore, così da evitare di svegliare zia e cugina,
perché
l’ultima cosa che voleva era una discussione a notte fonda.
Già aveva dovuto sorbirsi i piagnistei di Anna Laura sul
fatto
che, come aveva giustamente preventivato, Marcello Tornatore non
l’aveva degnata
di
uno sguardo. D’altronde, nessun ragazzo l’avrebbe
fatto, non almeno con Vittoria Farnese in circolazione, bella anche
nella totale disfatta che era stata la serata.
Aprì piano il cancelletto ed una sagoma di notevole stazza
varcò la soglia.
«Perché
volevi vedermi?»
domandò il ragazzo al visitatore.
«I piani sono
cambiati, qualcuno mi ha tradito ed ho la polizia alle costole»
grugnì l’uomo, emettendo una fitta nuvoletta di
vapore.
Guido registrò lentamente ciò che gli era stato
detto e
avvertì che un sudore freddo già cominciava a
depositarsi
sulla
schiena. Rabbrividì sotto il gelo di quella notte di
febbraio.
«La polizia?»
sussurrò, lasciando che le sue parole si perdessero
nell’oscurità.
L’energumeno avanzò, allontanandosi dalla siepe e
permettendo che la luce aranciata dei lampioni della strada illuminasse
il suo viso contratto dalla rabbia.
«Tolomei,
sei davvero stupido come sembri: ho gli sbirri alle costole, devo
scappare il prima possibile!»
«E
cosa vuoi che
faccia per te, Navarra?»
«Devi
dire a Beatrice di tenersi pronta. Scapperemo all’estero non
appena i miei collaboratori mi daranno il via libera»
spiegò lentamente l’uomo, come se pensasse che il
ragazzo
avesse difficoltà di comprendonio.
Lui non riuscì a dire nemmeno una parola, tanto quella
rivelazione l’aveva paralizzato: sentì la terra
tremargli
sotto i piedi e fu colto da un quanto mai
spiacevole senso di nausea.
«A proposito,» continuò lo
spagnolo, cominciando a girargli intorno come una belva che ha appena
accerchiato una facile preda, «ho fatto delle ricerche
sulla tua villa in Toscana: non vale
niente e, per giunta, quest’anno il raccolto è a rischio! Credevi che non
me
ne sarei mai accorto?»
«Io... non...» gracidò il giovane, non sapendo cosa dire.
La sua mente era vuota, una perfetta tabula rasa, dove
trovava posto solo la consapevolezza che aveva sbagliato a fidarsi di
un delinquente come quello.
Aveva
avuto l’abilità di scegliersi il peggiore degli
aguzzini,
uno che stava affondando e si stava trascinando dietro tutti coloro che
avevano avuto la sfortuna di stringere un patto con lui.
«Basta
così, le tue chiacchiere mi annoiano. Considerati fortunato,
per il pagamento mi cederai solo tua sorella»
fece Navarra, secco. «Il
tuo debito è estinto. D’ora in poi, dovrai
dimenticati di
avermi conosciuto».
«Tu vuo’
forse dire che
non la vedrò più?»
«No,
perché non ti
appartiene più. Sei diventato sentimentale, per caso? Non
credevo ti
importasse così tanto di lei,
visto che non hai esitato a venderla quando ti sei accorto di essere
nella melma
fino al collo!» esclamò, grufolando come un
maiale. Fu
solo in seconda battuta che Guido si accorse che Navarra stava
ridendo.
Eppure non c’era niente da ridere: stava per perdere Beatrice
per
sempre.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per aver letto tutto questo in anteprima.
***
[N.d.A]
1. passere:
in dialetto toscano, termine colorito per indicare le belle ragazze.
2. Ready-made:
definizione
che, in ambito artistico, indica oggetti di uso comune, modificati o
meno, che vengono utilizzati per fare arte, molto in voga negli
anni ’20.
3. cardinale Ascanio: il ramo Stigliano appartiene davvero alla famiglia Colonna. Il cardinale Ascanio (1560-1608) ne faceva parte.
***
Salve a tutti!
Come avete avuto modo di vedere la trama s’infittisce.
Ribadisco che questa non è solamente una storia romantica,
ha
tante altre sfaccettature che spaziano in molti ambiti,
giacché
mi piace creare racconti quanto più variegati e dettagliati.
Ma
credo che questo si sia abbondantemente capito.
Dal prossimo capitolo sarà presente una nota più
di suspence
(non credo sia questo il termine giusto, magari me ne suggerirete voi
uno più appropriato).
Ringrazio chi ha avuto la gentilezza di
recensirmi lo scorso capitolo, dedicandomi tempo ed energie, chi ha
messo questo racconto nelle preferite/ricordate/seguite, chi legge solamente,
chi viene a dare
un’occhiata, di tanto in tanto, cercando di
capire dove voglio andare a parare, chi sta avendo pazienza e
fiducia in me e nel fatto che, prima o poi, questa storia
avrà una conclusione, chi,
in un futuro anche lontano, mi
farà pervenire un suo parere.
Ho deciso di lasciarvi solo il link alla mia pagina
facebook, in quanto credo che sia più pratico e
veloce, vi troverete diverse cose e, nei prossimi giorni, uno spoiler
del capitolo decimo, previsto per la metà di Febbraio
(studio permettendo).
Volevo precisare che non è una pagina dedicata solamente a
questo racconto o alle mie storie in generale. In realtà,
l’ho
ripresa in mano da poco, quindi ancora non è particolarmente
attiva, anche se conto di farla diventare più funzionale nel
corso del tempo.
Bene, credo di aver chiacchierato abbastanza per oggi.
Alla prossima, per chiunque vorrà continuare a seguirmi.
Halley
S. C.
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Capitolo 10 *** Capitolo Decimo - Vento di Verità ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 10
- Capitolo Decimo -
Vento
di Verità
Dopo
lo sfacelo della mostra, come era prevedibile, Vittoria era entrata in
uno stato di depressione dal quale sembrava non volesse uscire tanto
presto; i suoi due amici andavano a trovarla ogni giorno, ma erano
più le volte in cui li rimandava indietro, che quelle in cui
li
faceva entrare in camera e, quando ciò accadeva, non
diceva
una parola, limitandosi a fissare fuori dalla finestra, sospirando
di tanto in tanto. Per loro, che erano abituati a vederla sempre
allegra, vitale e con la battuta pronta, quella situazione era
davvero surreale.
Purtroppo, non furono risparmiate maldicenze sulla ragazza, sul suo ex fidanzato e
sulla relazione clandestina di lui con la propria assistente.
L’unica nota positiva fu che alle orecchie di Vittoria,
vivendo
così reclusa, arrivarono solo gli ultimi echi, che lei
ignorò, non volendo più nemmeno sentir nominare Davoli;
inoltre, essendo imminenti le nozze di Ascanio Colonna con Maria Luisa,
nel giro di due settimane, l’attenzione degli interessati ai
pettegolezzi si spostò su di loro e l’intera faccenda
della mostra fu presto archiviata.
Tuttavia, il problema di Marcello restava la situazione dei suoi
migliori amici, i quali si trovavano in condizioni uno peggio
dell’altra: se, da una parte, la giovane era diventata
apatica e
indolente, dall’altra Gerardo stava appassendo con lei,
risentendo del suo umore e della sua poca voglia di reagire.
Il biondo riteneva che, ora che Bartolomeo era solo un lontano e
spiacevole ricordo, il suo amico avesse tutte le carte in regola per
farsi avanti con Vittoria, così che entrambi potessero
riprendere a
vivere. Avrebbe tanto voluto fare qualcosa di concreto per aiutarli, ma
non sapeva proprio cosa.
Inoltre, ancora non aveva avuto modo di scusarsi con Beatrice per il
suo comportamento durante la mostra, giacché, anche se era
andato a trovarla diverse volte alla merceria, nessuno dei due aveva
mai menzionato quella sciagurata serata.
Un pomeriggio particolarmente caldo per la stagione, Marcello decise di
uscire prima dall’ufficio, così da avere modo di
riordinare
le idee e scaricare la tensione, avvalendosi dell’infallibile
metodo che gli aveva consigliato il comandante dei Vigili del Fuoco, ai
tempi del servizio di leva1: prendere a
pugni un sacco da boxe.
Ormai febbraio si era tramutato in marzo, dando spazio a giornate
più luminose e a temperature meno rigide, e sugli
ippocastani
del Lungotevere erano già comparse le prime gemme. Il
giovane,
con in spalla un borsone nero, lasciò presto la strada
principale per addentrarsi nelle stradine più interne, fino
ad arrivare
al numero settantanove di Via del Pellegrino, laddove c’era
la
piccola palestra gestita dall’anziano signor Nardone, ex
campione
di pugilato nella classe dei pesi medi.
Era un unico ambiente con due entrate, non particolarmente ricco di
attrezzi e nemmeno troppo frequentato a quell’ora: solitamente,
c’erano solo tre o quattro ragazzi, frequentatori abituali che Marcello
conosceva benissimo e con i quali, talvolta, disputava qualche incontro
per mettersi alla prova.
Essendo
entrambe le porte aperte, già da fuori si sentiva la canzone
che
la radio stava passando in quel momento, If
You Love Somebody Set Them Free di Sting. Il giovane la
riconobbe subito, perché Vittoria gli aveva propinato The
Dream of the Blue Turtles2
fino alla nausea, con la scusa
di dover ripassare i testi delle canzoni prima di andare al concerto
del cantante inglese. Era sempre stata, come la stragrande maggioranza
delle sue coetanee, una fan entusiasta delle band musicali straniere e,
quando riusciva, non si lasciava sfuggire l’occasione per
andarli a vedere dal vivo.
Eppure, in quel frangente, di quella vivace ragazza sembrava che fosse
rimasta solo l’ombra.
Marcello scosse la testa ed entrò, salutando il
proprietario
che, come al solito, era seduto sullo sgabello nell’ingresso.
Era
un uomo molto alto, con due baffoni bianchi, un cappello blu con la visiera e un
fischietto appeso al
collo di cui faceva largo uso per richiamare l’attenzione di chi
stava sbagliando qualcosa nell’eseguire gli esercizi.
«Buongiorno,
Marcello!» ricambiò Nardone con energia. Il
ragazzo gli si avvicinò e notò che aveva
il giornale aperto sulla pagina della cronaca
estera, la quale ricordava la strage, avvenuta tre giorni prima, dei
centonovantatré morti dell’Herald of Free Enterprise3
al largo delle coste del Belgio.
«È
un po’ che non ti si vede in giro, dov’eri
finito?»
«Abbiamo
avuto un po’ di gatte da pelare».
«Lavoro?»
s’informò l’uomo, incrociando le braccia
sul tavolo
e, di conseguenza, sul quotidiano che stava leggendo.
«Già»
fece il giovane con una scrollata di spalle.
Nardone lo
studiò severamente, mentre si accarezzava il mento coperto
da un’ispida barba: «Ragazzo mio, te
l’ho detto tante volte: non puoi pensare solo al
lavoro!»
«Mi occupa
molto tempo, è abbastanza impegnativo»
rispose il biondo, sapendo con anticipo dove volesse andare a parare il
suo interlocutore: non era la prima volta che lo esortava a trovarsi
una fidanzata. Infatti, l’uomo continuò:
«Ho capito, ma dovresti distrarti, ogni tanto.
Perché non
cominci ad uscire con quella ragazza tanto carina e gentile? Quella che
viene ad aspettarti
spesso alla fine di ogni allenamento».
Ovviamente, la ragazza in questione era Vittoria, la quale si era
spesso ritrovata a parlare con l’anziano pugile, considerata
la
sua
spiccata capacità di intavolare una conversazione con
chiunque,
sassi compresi. Al signor Nardone era sempre stata molto simpatica e
aveva
espresso da subito la sua propensione a vedere lei e Marcello come una
bellissima coppia.
Se il giovane non fosse stato più che certo delle buone
intenzioni del suo allenatore, lo avrebbe paragonato senza esitazione
alla sua perfida madre.
«Gliel’ho
già detto che Vittoria è solo un’amica.
Anzi,
è come se fosse mia sorella» rispose il ragazzo,
pazientemente. «E poi
c’è già qualcun altro per lei».
Marcello non se la sentì di aggiungere che, in quel
periodo,
Vittoria era giù di morale proprio a causa del suo ex
fidanzato.
D’altra parte non era importante e poi quella ragazza era
già stata
abbastanza sulla bocca di tutte le pettegole, non c’era
bisogno
di farle altra cattiva pubblicità, anche perché il ragazzo
era certo che lei non volesse la compassione degli estranei.
«Un
bravo ragazzo come te?» chiese l’uomo, dubbioso.
«Anche
meglio di me!» esclamò il giovane, seriamente
convinto che
Gerardo fosse il meglio che la sua amica potesse avere. Dove
l’avrebbe trovato un altro così innamorato di lei?
Il problema era solo convincere quei due testoni a parlarsi, ad
ammettere di essere reciprocamente persi l’uno per
l’altra,
a confessarsi i loro sentimenti, sperando che nessuno dei due si
facesse prendere da qualche stupida paranoia e mandasse quindi tutto
all’aria. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.
Il
signor Nardone brontolò qualcosa e riprese a leggere il
giornale, mentre Marcello, sorridendo, si avviava verso gli
spogliatoi, ricambiando i saluti dei ragazzi che si stavano già allenando.
Mentre indossava fascette e guantoni, rifletté sul fatto che, forse,
non
era la persona giusta per convincerli a dichiararsi, anzi, il fatto che
ancora non fosse riuscito a dire alla sua rossa
fiorentina quanto gli piacesse, la diceva lunga sulle sue
capacità di esperto in relazioni amorose.
Tuttavia, una soluzione andava trovata ed anche alla svelta,
perché non era
assolutamente disposto a vedere i suoi due migliori amici sguazzare
nella depressione fino alla fine dei loro giorni e, a dirla tutta,
voleva almeno giustificare a Beatrice perché, quella
sera,
l’avesse baciata con tanto trasporto. Non era ancora sicuro
che
le cose tra loro potessero funzionare, ma voleva dare a quella ragazza
le attenzioni che meritava e, magari, farsi perdonare per averla
trascurata in occasione della mostra.
Dopo essersi piazzato di fronte all’unico sacco da boxe ancora libero, gli diede una piccola
spinta per farlo oscillare avanti ed indietro, concentrandosi sul suo
movimento.
E se... la soluzione fosse stata proprio sotto il suo naso?
In fondo, Beatrice era una ragazza, quindi
doveva essere più predisposta di lui verso le questioni come i
sentimenti, gli affetti e così via, pertanto avrebbe potuto dargli un buon consiglio. Senza contare che avrebbe
anche
potuto cogliere l’occasione per scusarsi con lei.
Marcello fermò il sacco, deciso, prima di colpire. Forse
aveva
capito cosa fare, sempre che la giovane, dopo tutto, fosse ancora
disposta
ad ascoltarlo.
***
Nonostante l’illuminazione stradale lasciasse molto a
desiderare, il
giovane notò che le facciate dei palazzi che davano su Via
Merulana erano pesantemente annerite dallo smog: da quando era
aumentata la vendita di automobili, il problema
dell’inquinamento si
stava facendo sempre più evidente.
Superò l’imponente facciata della
basilica di Sant’Antonio al Laterano4
e, poco dopo, svoltò per raggiungere la casa dove risiedeva
Beatrice. Quel pomeriggio, in palestra, aveva avuto una così
chiara visione di quello che avrebbe dovuto fare, che non aveva
ritenuto sensato aspettare oltre: era tornato di corsa a casa per farsi
una doccia e cambiarsi, per poi uscire di nuovo, stando ben attento ad
evitare sua madre e l’interrogatorio che sarebbe scaturito da
un
loro accidentale incontro.
In effetti, la fanciulla non sapeva ancora che sarebbe passato a
trovarla e Marcello sperò che accettasse comunque di
parlargli.
Una volta non gli sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del
cervello di andare a trovare una ragazza a casa sua, soprattutto dopo
le dieci di sera, a causa sia della sua apatia cronica nei loro
confronti, sia del suo rigore morale, ma, da quando aveva
conosciuto Beatrice, aveva imparato ad ascoltarsi di più e a
seguire maggiormente il suo intuito.
Presto, si trovò davanti quella catapecchia di Villa dei
Salici e
il giovane decise di appostarsi al cancello mantenendosi però
lontano dall’entrata principale, poiché, anche se sapeva
perfettamente che quel balordo di Guido non rincasava mai prima delle
due, si ritrovò a pensare che la prudenza non era mai troppa.
Ora, l’ultima cosa rimasta da fare era cercare di far uscire
Beatrice, ma come? Suonare il campanello era fuori discussione, per
una serie di ovvi motivi; le stanze da letto, invece, erano tutte al
piano di
sopra, ma non sapeva quale fosse quella di Beatrice, altrimenti avrebbe
potuto adottare il vecchio e caro metodo dei sassolini lanciati contro
la grondaia, così da richiamare l’attenzione della
fanciulla.
Nella smania di andare a parlare con lei aveva dimenticato questo
piccolo, seppur fondamentale, dettaglio.
Evidentemente, però, qualcuno doveva aver a cuore la sua
situazione,
perché non aveva nemmeno cominciato a rimproverarsi per non
essere stato più attento, che la ragazza, come chiamata,
uscì fuori in giardino, con un sacchetto
dell’immondizia
stretto in una mano.
Scese gli scalini e si diresse verso un secchio di plastica, dove
buttò la spazzatura per poi richiuderlo accuratamente,
probabilmente
per evitare che qualche gatto randagio facesse manbassa degli avanzi e
sparpagliasse il resto in giro sul prato e sul mattonato esterno.
Non credendo alla propria fortuna, il biondo la chiamò,
senza pensarci due volte: «Beatrice!»
Lei
si arrestò e si irrigidì di colpo, come
spaventata.
Voltò lentamente la testa verso la direzione da cui le era
parso
di sentire la voce e, dopo averlo riconosciuto, rimase ancor
più
stupita: «Marcello, ma
se’ proprio tu?»
«Buonasera»
la salutò lui, sorridendole con un velo di malinconia: indossava il
pigiama, con sopra una felpa più grande della sua taglia,
i capelli raccolti in una coda alta, e sembrava ancora più
piccola di quello che effettivamente era.
«Cosa
ci fai qui?» gli domandò, talmente vicina che li
divideva solo la cancellata: molto tempo prima doveva essere stata
verde, mentre
ora, invece, era tutta arrugginita.
Marcello non rispose
subito, prendendosi un istante per riordinare le idee.
«Avevo
bisogno
di parlarti, se possibile. Avrei... un consiglio da chiederti e una
cosa da dirti».
Beatrice rimase a fissarlo qualche secondo di troppo. Forse pensava
che fosse impazzito? Be’, effettivamente, era stato un
po’
sconsiderato a non avvisarla prima.
«È successo qualcosa di grave?»
chiese lei, visibilmente preoccupata.
«No, niente, ma
non sapevo quando sarei potuto passare in merceria, quindi ho preferito
venire qui»
la anticipò lui, avendo intuito cosa stava
pensando. «Non volevo disturbarti».
La fanciulla
agitò freneticamente una mano aperta, affrettandosi a
rispondere: «No, no, nessun disturbo! Solo... Ammetto
d’esser sorpresa, non pensavo ti fidassi così
tanto di me da chiedermi
un consiglio
e...»
«Beatrice» la interruppe lui, severo,
«io
mi fido del tuo giudizio. Hai dimostrato tante volte di essere una
ragazza intelligente».
Lei si bloccò e spostò immediatamente lo sguardo
verso il basso, come se quell’affermazione l’avesse
imbarazzata.
Seguì una piccola pausa di silenzio e poi lei riprese,
cambiando
argomento: «Purtroppo non posso
aprirti, Guido ha
sequestrato tutte le chiavi
di questo cancello,
lo crede
una possibile
via di fuga per me».
Marcello
osservò le sbarre fatiscenti: se qualcuno avesse voluto
davvero
scappare, avrebbe potuto benissimo far cadere quel ferro vecchio con un
colpo secco, senza bisogno di alcuna chiave.
«Lo ha fatto perché hai provato a scappare?»
si informò il biondo, osservandola con curiosità.
Beatrice sbuffò, rispondendo:
«No, Guido non brilla per ingegno. Ha un sacco di idee strampalate».
«Pensi che, non vedendoti rientrare, verranno a cercarti?»
chiese, allora, il ragazzo, guardando in cagnesco la porta sul retro.
«Ho
finito tutte le faccende
che m’hanno assegnato. La
zia dorme come
un ghiro. L’Anna
Laura è fuori
con le su’
amiche e i’ mi’
fratello a giro,
al solito».
«Ah».
La ragazza fece una smorfia, come se ritenesse i comportamenti dei
suoi parenti talmente menefreghisti da non poter essere nemmeno
commentati.
«Comunque, cosa
volevi chiedermi?»
Marcello,
seppur a malincuore, decise di lasciar perdere gli insulti che avrebbe
volentieri rivolto a Guido e compagnia, rispondendo alla domanda:
«Riguarda
Gerardo e Vittoria».
Beatrice annuì, facendogli capire che aveva inteso di chi
parlasse e che, quindi, poteva proseguire.
Il
ragazzo pensò di esprimere la situazione a grandi linee, sia
per
essere breve, dato che non sapeva quanto tempo avesse a disposizione
prima che rincasasse qualcuno, sia per rispetto nei confronti dei suoi
amici.
«Dopo quello schifo della mostra, stanno
passando un brutto momento e sono certo che, se si parlassero tra di
loro, starebbero meglio. Solo che ogni volta che Gerardo ed io andiamo
a trovare Vittoria, è sempre peggio, adesso a malapena ci fa
entrare.
Come posso aiutarli?»
Beatrice si fece pensierosa per un attimo, incurvando le labbra in una
buffa espressione riflessiva. Lui, nel vederla così
assorta, si
ritrovò a sorridere, malinconico, prendendo consapevolezza
della
verità: distaccarsi da quella ragazza, per lui, era oramai
diventato davvero difficile.
«E credo che
la risposta sia ovvia: devi lasciarli
un po’
soli».
«Soli?»
ripeté il biondo, riflettendo su quella risposta semplice,
seppur molto giudiziosa.
«Sì,
devono parlarsi e se tu se’ con loro, non credo
che si
sentan liberi.
Se dovessi confidarmi con qualcuno,
non vorrei che
ci fossero altri con
noi, anche se si trattasse d’un amico di vecchia
data» spiegò lei,
facendo spallucce.
Marcello dovette ammettere che non ci sarebbe stato nulla di
più sensato da fare: in effetti, quando Gerardo era andato
a trovare Vittoria, lui era sempre stato presente, costituendo
involontariamente un ostacolo per i due amici.
«Hai ragione. Noi tre abbiamo vissuto talmente tanto in
simbiosi che mi era sfuggita questa cosa così palese»
mormorò, soprappensiero. Poi spostò il
suo sguardo su di lei e le sorrise, riconoscente.
«Grazie».
«Figurati,
non ho fatto niente»
si schermì la ragazza.
«Invece, qual
è l’altra cosa che volevi
dirmi?»
Questa volta, Marcello si prese un po’ di tempo in
più per
organizzare il discorso: non era un semplice consiglio, erano delle
vere e proprie scuse e voleva che Beatrice capisse che erano sincere.
Sapeva di non essere molto bravo in queste cose, ma cercò di
impegnarsi.
Adesso sapeva di tenere molto a quella ragazza e voleva che tra di loro
le cose fossero quanto più limpide possibili.
«Mi
dispiace di essere stato così scortese con te, la sera
della mostra» le disse, con grande fermezza nella voce.
La fanciulla si sciolse in
un dolce sorriso, come se non si aspettasse una simile affermazione.
«Avevi appena
scoperto
una cosa
importante per il tuo lavoro, se’
giustificato».
«No,
non è così. Sarebbe stato più giusto
passare del
tempo con te»
ribadì lui, convinto, non avendo la minima intenzione di
liquidare sbrigativamente la faccenda. Era ora di tirare fuori
nuovamente
l’argomento che aveva evitato fino ad allora,
perché era
arrivato il momento di mettere le cose in chiaro e cominciare a
definire il loro rapporto.
«Beatrice,
quello che è successo tra di noi, davanti alla Fontana di
Trevi,
non è stato solo un capriccio, io non voglio e non ho mai
voluto
una ragazza solo per divertimento».
Avrebbe tanto voluto spiegarle che non era mai stato bravo con le
parole e che
il suo carattere poco espansivo non lo aiutava ad esprimere al meglio
tutto quello che provava per lei, perciò decise di
compensare
con la sincerità l’assenza di una qualche vena
poetica o
sentimentale.
«Se
ti ho baciata, è perché desideravo
farlo».
Non era certo un’appassionata dichiarazione
d’amore, ma
era pur sempre un punto di partenza sul quale avrebbe potuto lavorare
per migliorarsi.
Anche
se era piuttosto buio, Marcello fu quasi certo che Beatrice fosse
arrossita. Di sicuro, doveva essere rimasta abbastanza stupita, come
congelata, stringendosi nella
felpa e qui lui si chiese se avesse esagerato.
Tuttavia, non ebbe tempo di rispondersi, perché la risposta
della fanciulla non arrivò a tardare: un sussurro lieve, ma
deciso nel tono.
«E se
ho risposto al bacio,
è perché
l’ho
voluto anch’io».
Si fissarono per quelli che poterono essere pochi secondi o molte ore,
sotto quella fioca illuminazione, separati da un cancello pericolante,
in strada lui, in mezzo alle erbacce lei.
Non era giusto continuare a vedersi così, strappando
occasioni ad un destino poco condiscendente.
Fu proprio allora che, però, la quiete della notte venne
bruscamente interrotta da versi stonati:
qualcuno stava intonando uno stornello molto volgare e nessuno dei due
ragazzi faticò a capire di chi si trattasse.
«Sarà
meglio rientrare. Anche se ubriaco,
Guido potrebbe venire a ficcanasare
qui» disse la ragazza, infastidita, lanciando
un’occhiata
seccata alla finestra della cucina, adesso illuminata da un alone
lattiginoso.
Il biondo annuì, non troppo convinto di volerla lasciare
andare.
Neanche a lei doveva piacere molto l’idea, giacché
non si
mosse di un millimetro. Però, poi, dopo pochi secondi,
sospirò e gli
disse: «Buonanotte, Marcello».
Lui,
prima che
potesse allontanarsi le prese delicatamente la mano e se la
portò alle labbra, posandovi sul dorso un lieve bacio.
«Buonanotte,
Beatrice.
Grazie di tutto».
La ragazza esitò e solo dopo un lungo, interminabile istante
ritirò lentamente a sé il braccio,
avvicinandoselo al
petto. Gli sorrise timidamente e si voltò per rientrare.
Marcello rimase a guardarla finché non sparì,
inghiottita da
quella casa che per lei era solo luogo di sofferenze. Quando la
porta sul retro fu richiusa con un tonfo,
si
cacciò le mani in tasca e si incamminò verso casa.
Che senso aveva auto-infliggersi la punizione di starle lontano, adesso
che aveva capito cosa provava davvero per lei? E, soprattutto, quanto
poteva essere sbagliata una relazione basata sulla propria
volontà di veder felice l’altra persona?
***
Gerardo stava fissando il
campanello del portone della casa di Vittoria da
almeno dieci minuti, indeciso se suonare o meno.
Sarebbe dovuto esserci anche Marcello con lui, ma l’amico
l’aveva
chiamato verso l’ora di pranzo, dicendo che era insorto un
impegno
imprevisto che l’avrebbe tenuto occupato fino a sera ed era
stato seriamente tentato di evitare di andare a casa
della ragazza, data la particolare situazione,
poiché ritrovarsi da
solo con lei in quello stato lo metteva a disagio, ancor di
più
che se Vittoria fosse stata quella di sempre.
Ma ora, finalmente si era tolto quel carciofone dai piedi e non solo,
alla
luce dei nuovi fatti di cronaca che l’avevano visto
protagonista
qualche giorno prima, le vicende stavano andando di bene in meglio:
Bartolomeo e Paula, infatti, erano stati arrestati per traffico di
stupefacenti.
Appresa la notizia, Gerardo ipotizzò che dovessero
sapere di essere nel mirino della polizia
già da
tempo, poiché questo spiegava perché, la sera
della mostra, lo scultore aveva
deciso di dare ascolto a ciò che aveva detto la sua
assistente e
di non rispondere con le mani all’affronto che gli aveva
fatto.
Come se non fosse stato maggiore quello che quel
delinquente aveva inflitto alla sua
Vittoria.
Avrebbe dovuto essere contento di tutto quello, eppure non ci riusciva,
non con lei in quello stato: lo faceva stare male
vederla costantemente
sofferente per l’umiliazione subita, un’offesa che
non
meritava. Ed era stata proprio il desiderio di accertarsi circa il
suo stato di salute, che l’aveva spinto ad andarla a trovare
quel
pomeriggio.
Alla fine, prima di ripensarci per
l’ennesima volta, decise di suonare.
I dieci secondi che passarono tra il suo gesto e l’apertura
del cancello furono tremendi, giacché il ragazzo
valutò
accuratamente la possibilità di darsela a gambe. In fondo,
poiché nessuno lo aveva visto, avrebbe potuto
defilarsi
senza timori, se non fosse che il caso non doveva essere dalla sua
parte,
quel giorno, dato che fu proprio la signora Irene ad aprirgli.
«Oh,
ciao Gerardo! Che piacere vederti, sei venuto a trovare
Vittoria?» lo salutò allegramente la donna,
venendogli incontro sul vialetto di ciottoli grigi.
«Ehm,
sì...» le rispose il giovane,
esitante. «Come sta oggi?»
La madre della ragazza scosse la testa, con aria affranta. Era quasi un
mese che la figlia non metteva il naso fuori
di
casa.
«Come
al solito, ma vederti le farà bene»
affermò, guardandolo tra il benevolo e lo speranzoso. «A
noi non risponde, spero che con te lo faccia».
Il pettirosso che si era poggiato sul ramo del nespolo di
fronte la guardava con la testolina leggermente inclinata di lato, come
se volesse chiederle il perché della sua tristezza.
Intenerita, Vittoria poggiò una mano sul vetro freddo, quasi
a
voler avvertire quel piccolo animaletto di starle lontana il
più
possibile, onde evitare di venir contagiato dalla sua malinconia.
Non le importava nulla dei pettegolezzi feroci che dovevano aver
allietato numerosi ritrovi dell’alta società nelle
ultime
settimane, perché sapeva perfettamente che le altre ragazze
la
consideravano una poco di buono; non le importava neanche del fatto che
Bartolomeo era stato messo in gattabuia e ci sarebbe rimasto a lungo e
nemmeno di essere venuta a sapere della tresca tra
Ascanio Colonna e Maria Luisa Foscari e delle sue conseguenze.
La partecipazione di nozze che le avevano mandato, infatti, era
rimasta dove
l’aveva posata sua madre: sulla scrivania, sola e abbandonata
a
se stessa, esattamente come si sentiva lei in quel momento.
Era stata una stupida a non aver troncato l’insana
relazione
con Bartolomeo al primo schiaffo che le aveva rifilato, a pensare che
il tempo potesse trasformare in amore quello che
non sarebbe potuto essere nemmeno stima, mentre negava al suo cuore di
star rinunciando all’unico uomo di cui valeva davvero la pena
innamorarsi.
Con i ragazzi aveva avuto successo fin dall’adolescenza,
peccato
che a lei fosse sempre interessato il più schivo e timido
dei
suoi due migliori amici, gli unici uomini con cui si trovava davvero a
suo agio, forse perché non la consideravano una preda,
ma
una persona con cui avere un rapporto d’affetto alla pari.
In Marcello, infatti, aveva sempre visto il fratello che le sarebbe
piaciuto avere e che
nell’ambizioso Leandro, che non si era scomodato nemmeno a
venire
in occasione della mostra, non aveva mai trovato; mentre in Gerardo
aveva trovato quello che sarebbe volentieri corrisposto al prototipo
dell’uomo della sua vita.
Tuttavia, sebbene la faccia tosta non le mancasse, non aveva mai avuto
il coraggio di dirgli che lo amava dal giorno in cui al parco, da
bambini, le aveva goffamente regalato una margherita di campo; allora
si
era
innamorata di quel bambino così timido che arrossiva sempre,
il
quale era diventato l’uomo riservato e rispettoso che era il suo Gerardo.
Purtroppo, aveva
l’impressione che lui la considerasse troppo frivola e chiassosa per i suoi gusti.
Eppure, con Maria Luisa aveva preso un enorme abbaglio, considerandola
una ragazza dolce e posata.
In quel momento, a Vittoria scappò un sottile sorriso di
trionfo, mentre
lanciava
un’occhiata ironica alla partecipazione buttata lì
sulla
scrivania: la ragazza si era dovuta piegare ad un matrimonio riparatore
con Colonna per non farsi svergognare in pubblico, ammettendo di
aspettare un figlio illegittimo.
Sinceramente, poco le importava della sorte di quei due,
visto che l’unica
vera soddisfazione, per lei, era sapere che Gerardo non avrebbe sposato
una sciocca viziata come quella, che avrebbe dilapidato le sue finanze
nel
giro di qualche mese.
Il senso d’oppressione, però, tornò a farsi sentire
quando
realizzò che
il giovane, ormai svincolato da ogni progetto, avrebbe potuto
trovare un’altra donna, magari quella perfetta per lui e quel
pensiero le causò immediatamente una dolorosa fitta alla
pancia che la costrinse a piegarsi in due.
L’avrebbe visto corteggiare un’altra, diventare di
un’altra, sposare un’altra...
Fu allora che qualcuno
bussò energicamente alla porta, facendola quasi cadere
dalla
poltrona e spaventando il
pettirosso, che volò via con un frullo d’ali.
La giovane si mise in piedi con qualche difficoltà: aveva
passato talmente
tanto tempo seduta o rannicchiata, che quasi sembrava aver dimenticato
come si facesse a camminare, pertanto impiegò qualche
secondo
di troppo per arrivare alla porta.
«Mamma, ti ho già detto che non...»
Ma non era sua madre e nemmeno suo padre: era l’ultima
persona che avrebbe immaginato di trovare lì.
«Gerardo!»
esclamò, pensando per un istante
che fosse solo un miraggio.
«Ho
provato a chiamarti, ma il telefono...» le
cominciò a dire
il ragazzo, prima di interrompersi bruscamente. Divenne di colpo
scarlatto e poi, fulmineo, le diede le spalle.
«Adesso
che c’è?» gli chiese, confusa, domandandosi che cosa
avesse potuto fargli
per meritare un simile atteggiamento. Sapeva di non essere al massimo
della forma, ma nemmeno così ripugnante da non meritare nemmeno
di essere guardata
negli
occhi.
«Non
sei... Insomma, la vestaglia... si vede...» balbettò, allora, in risposta l’altro.
Sempre più perplessa, Vittoria mise su un cipiglio severo e fissò la schiena del
suo
amico, aprendo appena la bocca per dirgli che non era nella disposizione d’animo per agghindarsi, quando si decise a guardarsi e comprese il perché di tale comportamento: gli
aveva aperto in vestaglia discinta e biancheria intima.
A sua discolpa, la ragazza poteva dire che non sapeva che lui sarebbe
passato a trovarla, però, era anche consapevole che, se
l’amico avesse voluto avvisarla chiamandola al telefono,
l’avrebbe trovato staccato. Infatti, Vittoria aveva deciso di
isolarsi per non dover essere costretta a rispondere a tutti i
pettegoli che volevano farsi i fatti suoi.
«Oh,
hai ragione, io...»
«T-Tu
fai co-con calma, c-ci vediamo dopo in salotto!» le fece lui,
nervoso, allontanandosi rapidamente.
Stranita
per
quell’inconveniente, la ragazza lo guardò percorrre a
ritroso il corridoio per poi svoltare l’angolo. Certamente, se
fosse stato Marcello a
vederla in quello stato, non ne avrebbe fatto un dramma e al massimo
l’avrebbe guardata con disapprovazione, scuotendo la testa ed
esortandola a riprendersi.
Ma, d’altra parte, fu proprio quella considerazione che la
portò ad elaborare
un’altra teoria e un
sorriso
birichino si affacciò prepotentemente sulle sue labbra: se l’altro aveva
reagito
in maniera così esagerata, forse, non gli era tanto
indifferente.
***
Nella penombra del salotto, Gerardo passeggiava nervosamente davanti al
caminetto acceso, lasciando che le fiamme proiettassero su di lui
drammatici riflessi di luce aranciata, in netto contrasto con le zone
del volto rimaste nell’oscurità. Non
riusciva a sedersi e nemmeno a scacciare dalla sua testa la paradisiaca
visione che aveva avuto poco prima, avvertendo le guance che
ribollivano ancora per il grande imbarazzo: se già in
condizioni
normali trovava difficile stare
accanto alla ragazza e controllare le sue reazioni, ora sentiva che
anche quell’ultimo briciolo di autocontrollo rimasto era
andato
prontamente a
farsi benedire.
Non voleva
sentirsi il pervertito di turno che la guardava famelico, anche se
sapeva che il
suo modo di guardarla, per quanto desideroso, non sarebbe mai sceso
nella volgarità, dato che lei era la donna che amava da
ancor prima
di capire
cosa fosse sul serio l’Amore. Aveva
passato anni interi a scrutare disgustato i ragazzi che si mangiavano
Vittoria con gli occhi, giacché loro si fermavano solo
all’apparenza,
alla bellezza e all’allegria con la quale conquistava tutti;
solo lui, infatti, conosceva l’altro lato della giovane,
quello triste,
malinconico e perfino timoroso. Aveva avuto tempo e modo di studiarla a
fondo, di imparare a riconoscere i primi segni dei suoi malumori e i
suoi silenzi, durante gli interminabili pomeriggi passati con lei e con
Marcello.
All’inizio, l’angoscia che il suo amico,
più
brillante di lui sotto molti aspetti, potesse portargli via la donna
dei suoi sogni, era stata talmente forte da impedirgli di mangiare e
dormire per settimane; poi, però, aveva capito che il biondo
vedeva Vittoria al pari di una sorella e il suo animo, finalmente, si
era quietato.
Già era tremendo essere consapevole che lei stesse con degli
estranei, andasse al cinema con loro, li baciasse e si lasciasse tenere
tra le loro braccia; se poi, al posto di chicchessia, ci fosse stato il
suo
migliore amico, sarebbe stato veramente troppo da digerire.
L’interesse che Marcello nutriva nei confronti di Beatrice
era stata un’ulteriore conferma del fatto che, per lui, Vittoria era solo
un’amica, anche se restava da capire se la cosa era reciproca, poiché non sarebbe stato in grado di sopportare
l’idea che il suo perfetto amico fosse il vero
oggetto del desiderio della donna che amava.
Questi dolorosi pensieri, però,
furono interrotti all’improvviso da un
fastidioso cigolio, che annunciò che qualcuno era
appena entrato
nella
stanza. Gerardo non si voltò subito; prima, infatti, dovette
radunare
dentro di sé tutto il coraggio che possedeva per poterla
guardare ancora in faccia.
«Ho
detto tante volte a papà di oliare i
cardini» esordì la ragazza, sbuffando mentre
richiudeva la porta
dietro di
sé.
«Oh. Ah,
sì»
le rispose il giovane,
trovandosi a fissarla come un baccalà. Si era cambiata ed
ora indossava
dei leggings blu, una
camicia lunga bianca ed un cardigan grigio e ai suoi
occhi parve la perfetta incarnazione della
sensualità. Gerardo
si passò una mano
sul viso, inquieto: ecco, d’ora in poi, davanti a lei,
avrebbe fatto
la figura del broccolo lesso fino alla fine dei suoi giorni.
«Marcello non
è venuto?»
si informò Vittoria, guardandosi intorno con circospezione.
Il ragazzo decise che
sarebbe stato meglio fare finta di nulla, pertanto si ridiede un
contegno e si schiarì la voce.
«No, ha detto che aveva diversi impegni».
Lei lo fissò per qualche secondo, poi sospirò:
«Quindi siamo soli».
«Ehm,
sì» disse lui, piano. Era forse delusa?
Magari, avrebbe voluto che ci fosse
anche l’altro perché si era segretamente
innamorata di lui. Tuttavia, Gerardo scacciò subito quel
pensiero dalla sua mente, poiché non avrebbe potuto sopportare
una rivelazione simile. Infatti, sarebbe stato il colmo se, adesso che
il carciofone era fuori gioco, lei avesse ammesso di
essersi innamorata di Marcello. Decisamente, il giovane non
avrebbe avuto la forza di accettare l’ennesimo fidanzamento
di Vittoria, per giunta con il loro migliore amico.
«Stai
bene, Gerardo?» gli domandò la ragazza,
accigliata.
Probabilmente, a quei pensieri doveva essere sbiancato a tal punto che
anche lei se ne era accorta.
«Oh,
sì»
mentì il giovane, perso nelle sue congetture.
In risposta, Vittoria
alzò un sopracciglio con fare dubbioso, poi si
avviò
lentamente verso il divano coperto da numerosi cuscini di seta color
ottanio.
«Allora, che ne dici di accomodarci?»
propose, allora, prendendo posto.
Incerto, lui la imitò, assicurandosi prima che tra di loro ci fosse
una
distanza adeguata, poiché, in quello stato
d’agitazione
totale in cui
si
trovava, si sentiva come uno straccio sbattuto ed imbevuto di
cherosene, pronto ad infiammarsi alla minima scintilla. E Vittoria
poteva rivelarsi un innesco davvero pericoloso.
Tuttavia, le misure che aveva calcolato non servirono a nulla quando il
delicato profumo di lei, dalle soavi note di mughetto e gelsomino,
stuzzicò
il suo animo già tormentato, suscitandogli bramosie che mai
aveva pensato di poter provare. Immediatamente, scattò in
piedi,
vergognandosi come un ladro per ciò che aveva appena pensato.
«Ed ora perché ti sei alzato?»
gli domandò la giovane, indispettita, seguendolo con lo
sguardo.
«Sto
meglio in piedi» le rispose Gerardo, lapidario, voltandosi
verso il camino.
Solo
lui sapeva quante volte era stato tentato di baciarla ed invece aveva
dovuto sbrigarsi ad erigere un muro tra loro due, per evitare
che si spingesse oltre ciò che gli era concesso e fare
sue
quelle labbra che non riusciva a possedere nemmeno con
l’immaginazione,
tanto si sentiva inferiore al modello di uomo perfetto per lei.
«Tu... stai un
po’ meglio?»
le chiese, per avviare una conversazione, con la speranza di
accantonare per un po’ i propri turbamenti.
«Abbastanza»
disse Vittoria. Seguì una breve pausa di silenzio, poi
riattaccò: «Sai,
in realtà, dovrei essere contenta di essermi liberata di
Bartolomeo».
«Dopo
quello che ti ha fatto, è il minimo che potessi
dire» notò Gerardo, avvicinandosi alla piccola
catasta di
legna e prendendo tra le mani un ciocco particolarmente nodoso.
«Quello
che ha fatto alla mostra è stato solo il gran
finale»
sussurrò la ragazza, stringendosi contro le braccia, come a
volersi riscaldare, nonostante l’ambiente fosse piuttosto
caldo. A quell’affermazione, il giovane alzò di scatto la testa e, fissandola allarmato, le domandò: «Che cosa vorresti
dire?»
A quel punto, lei inspirò a fondo, come se si stesse preparando a
rivelargli un terribile segreto: «C’è
una cosa che non sai. L’ho detta solo a Marcello, ma gli ho
fatto
promettere
che non te l’avrebbe rivelata per nessuna ragione».
Il
giovane spalancò gli occhi, stupito ed in parte ferito,
poiché, nonostante sapesse che Vittoria, quando si trattava
delle sue delusioni amorose, cercava solo Marcello, non riusciva a non
rimanerci male. Si sentiva escluso e tradito.
«Perché
a Marcello sì e a me no?»
chiese, non riuscendo a reprimere il dispiacere e la frustrazione.
«Non sapevo come avresti reagito»
mormorò lei,
guardandolo con sguardo colpevole. «Il fatto è
che... Bartolomeo, mi
ha picchiata. In più di un’occasione».
«Ti
ha picchiata?»
ripeté Gerardo, sgomento. Incamerò
l’informazione con
somma lentezza, per poi reagire d’impeto, avvicinandosi al
fuoco e
scaraventandovi il pezzo di legno che aveva in mano. Si
voltò
verso di lei, ormai in preda alla collera.
«Come
ha osato picchiarti?!»
«L’ultima
volta è successo perché era nervoso per la mostra... ma
ci sono stati diversi motivi, per esempio, perché non ci sono
voluta andare a letto insieme. Sai, mi
sembrava troppo... presto fare un passo del genere, ma non ha accettato
il mio rifiuto» gli spiegò, stringendo con forza il bordo
del cardigan. «Forse credeva che fossi solo desiderosa di
compiacerlo, come la sua assistente».
«Avrei dovuto fracassargli la testa e non soltanto la sua
stupida statua!»
berciò lui, fuori di sé dalla rabbia. Se in quel
momento avesse avuto
davanti
quel maledetto l’avrebbe smontato osso per osso con le sue
stesse mani e quella
sì che sarebbe stata una vera opera d’arte moderna! Collage di un gran bastardo.
Vittoria parve sorpresa.
«Non
dire queste cose, tu sei così tenero...»
«Io non sono
l’amico sempliciotto che pensi!»
insorse lui, stanco di essere sempre additato come lo stupido o il
bonaccione di turno.
Quell’esclamazione, però,
sembrò mortificarla, tanto che aggiunse: «Io non
volevo
dire che sei sempliciotto, non l’ho mai pensato...»
«Vittoria,
tu non puoi capire quanto mi sia distrutto a vederti soffrire per altri
uomini e quanto li abbia invidiati».
Ormai le parole gli stavano uscendo da sole, come un fiume in piena che
stava straripando oltre la diga e che presto l’avrebbe
spaccata,
portando l’alluvione a valle. Aveva tenuto tutto
dentro di
sé troppo a lungo ed ora era stanco di fingere e di
vedere
la donna che amava tra le braccia di uomini non meritevoli di ricevere
tale grazia.
«E sai
perché li ho invidiati? Perché con la loro
intelligenza, la loro bellezza,
il loro ingegno erano meritevoli di starti accanto, mentre io ero solo
il tuo mediocre amico di serie B, anche al di sotto di
Marcello!»
«Gerardo...»
cercò di iniziare la ragazza, ma lui non le diede modo di
aggiungere altro, perché
proseguì nel suo appassionato discorso. Ora che aveva
trovato il
coraggio di tirare fuori tutto, non doveva fermarsi, visto che aveva
aspettato
anni interi di arrivare al quel punto di non ritorno.
«Non
sarò particolarmente bello, intelligente, sveglio,
carismatico o
chissà cosa, però tu, Vittoria, sei sempre stata
il mio
unico amore e non potrei mai tradirti o umiliarti
come hanno fatto quei deficienti. Tu sei importante per me, lo capisci? Dio
solo lo sa quanto ti voglio, ti desidero e...» si interruppe,
come se fosse appena uscito da uno stato di trance, rendendosi conto di
ciò che aveva effettivamente detto e di essere arrivato
proprio
davanti a dove era seduta la fanciulla, la quale lo guardava stupita, a
bocca leggermente aperta.
Tutto questo, però, durò poco,
giacché, nel giro
di qualche secondo, le labbra di Vittoria si incurvarono in un sorriso
malandrino.
Poi, la ragazza si
alzò molto
lentamente dal divano, avvicinandosi senza mai smettere di
sogghignare.
«Allora
è così che stanno le cose» gli
sussurrò, maliziosa, vicinissima al suo viso.
Il giovane deglutì, paralizzato, sentendo il suo cuore
battere talmente forte da avvertire chiaramente ogni pulsazione.
Le orecchie gli ronzavano ed il petto sembrava volesse
scoppiargli.
Lei, però, non sembrava affatto turbata, anzi, a giudicare
da
come lo stava guardando, sembrava addirittura compiaciuta.
«Mi
hai detto delle parole bellissime, ma ci vorrebbe una piccola
dimostrazione che renda loro giustizia, non trovi?» gli
fece, fingendosi imbronciata, e i suoi pochi neuroni superstiti
entrarono immediatamente in sciopero. «Mi
baci tu o ci devo pensare io?»
«Ba.. b-baciarti?»
balbettò lui, convinto che avrebbe perso i sensi da un
momento
all’altro. Certo, era proprio un’idea intelligente
aspettare tutto quel tempo per
dichiararsi
e poi restare fermo come uno stoccafisso proprio nel momento
più
importante!
«Non vuoi? Peccato, perché a me piacerebbe molto».
«N-No... cioè... sì...» trovò la
forza di replicare,
senza riuscire a staccare gli occhi da quelli appena socchiusi di lei, che subito dopo scoppiò a ridere,
riempiendo la stanza con la sua meravigliosa risata
argentina.
«D’accordo, eterno indeciso, ti faccio vedere io come si fa e poi tu lo
ripeterai, va bene?»
Quindi, gli si avvicinò con somma delicatezza e, in un attimo,
colmò la distanza che c’era tra loro due. Gerardo
non aveva mai
osato immaginare cosa si potesse provare nel baciare Vittoria e fu
contento di non averlo mai fatto, perché non avrebbe mai
potuto
figurarsi quella celestiale sensazione. Fu come se fuoco liquido
avesse preso a scorrergli nelle vene, sanando tutte le sue ferite
interiori e bruciando tutte le paure che aveva covato dentro in tutti
quegli anni.
Pian piano, abbandonò la rigidità dovuta
all’incredulità e si fece più sicuro,
alzando una
mano ed
accarezzandole i capelli, fino ad azzardarsi a sfiorarle il collo.
All’improvviso, la giovane si discostò appena e, senza dire nulla, lo prese
per
mano e lo guidò verso il divano, dove si sedettero entrambi.
«Uffa,
sei più alto di me. Non ho aspettato tutto questo tempo per
baciarti in maniera scomoda!» sbuffò. «E poi ora tocca
a te farmi vedere cosa sai fare».
Gerardo, ancora abbastanza stordito, si fece rosso fino alla punta
delle orecchie. Ormai tutti i suoi freni inibitori erano saltati,
pertanto disse: «Ma io non sono
bravo... Non
so baciare...»
Ma lei scosse la testa, zittendolo: «Lascia
che siano i fatti a parlare».
Erano
di nuovo molto vicini. Il profumo di lei, così suadente, lo
faceva sentire ubriaco; ora come ora, non aveva più nulla da
perdere, avendole quasi urlato in faccia tutto quello che provava per
lei. Aveva già affrontato i suoi timori e sapeva che era lui
il
primo a non voler fare altro che baciarla di nuovo, sentirla sua.
Il desiderio che aveva represso così a lungo era finalmente
esploso,
costringendolo ad assecondarlo, così si avvicinò
esitante e posò le proprie labbra su quelle di lei, dapprima
con
un certo impaccio, poi facendosi via via più sicuro,
più
bramoso.
Dal canto suo, Vittoria
cominciò ad accarezzargli la nuca e lo spinse delicatamente
contro lo schienale del sofà,
adagiandosi sopra di lui, mentre Gerardo le posò timidamente
una mano sul
fianco, passandole l’altra dietro la schiena.
Quando, infine,
furono sazi dei baci che si erano scambiati, stettero un po’
in
silenzio, strettamente avvinghiati, con il sottofondo del crepitio
delle
fiamme, uniche spettatrici di tutto ciò che era successo tra
di
loro quel pomeriggio.
«Tutta
la storia con Maria Luisa, allora, era una finzione?» gli
chiese
lei, interrompendo la quiete e volgendo il viso per guardarlo negli
occhi, ma senza alzare il mento dal petto del
giovane.
«Era
uno specchietto per allodole, per cercare di convincermi che non
dovessi pensarti, perché credevo che per te ci volesse un
uomo più dinamico» ammise lui, attorcigliandosi un riccio di lei intorno alle dita. «Tu, piuttosto,
perché stavi ancora con il carciofone, anche se ti trattava
male?»
«Carciofone? In
effetti, gli sta proprio bene come soprannome»
considerò l’altra. «Comunque,
non l’ho lasciato perché ero entrata in una sorta
di apatia.
Pensavo di essere troppo vivace per te e che tu non mi volessi, quindi
qualsiasi uomo mi andava bene».
A quella malinconica
confessione, il
ragazzo sospirò, stringendola di più e concentrandosi
sulla felicità che gli procurava l’avrela finalmente tra
le sue braccia.
«Siamo stati
proprio degli sciocchi».
«Mi
trovi d’accordo» sussurrò Vittoria,
giocherellando con i capelli di lui.
La sera stava calando, ma per loro che, finalmente, si erano ritrovati,
questo
non aveva importanza. Rimasero ancora a lungo a coccolarsi, a
sussurrarsi e a confessarsi cose che avevano tenuto nascoste per un
tempo infinito, mentre il ciocco nel camino ardeva lentamente.
***
Quel
sabato mattina, quando Beatrice aprì le tende della sua
finestrella e buttò l’occhio verso il basso,
rimase a
fissare il giardino, o meglio, il punto dove avrebbe dovuto esserci il
piccolo cortile sul retro, a bocca aperta: un banco di nebbia le
ostruiva la visuale, dandole l’impressione che, durante la
notte,
qualcuno avesse costruito un solido muro bianco proprio davanti Villa
dei Salici. Credeva che la nebbia fosse solo una prerogativa di
città
come Milano o Torino, ma, a quanto pareva, doveva ricredersi.
Preoccupata per l’umidità che l’avrebbe
investita,
una volta in strada, si vestì più pesantemente
del solito
e corse giù in cucina per preparare la colazione a Guido ma,
con
sua somma sorpresa, lo trovò già seduto al
tavolo, anche se, solitamente, nel fine settimana, non si alzava mai
prima di
mezzogiorno.
«Buongiorno».
«’Giorno»
rispose lui, addentando una fetta biscottata cosparsa di marmellata
rosso scuro. Conoscendo i suoi gusti, probabilmente di amarene.
«Com’è
che tu se’ già
sveglio?»
«Non
avevo più sonno» fu la sua sintetica risposta;
sembrava
stanco e preoccupato, come se fosse stato tormentato da una questione
molto
importante.
Beatrice corrugò la fronte, dubbiosa che quello fosse il
vero
motivo della sua levataccia, ma alla fine non disse nulla, adoperandosi
per
preparargli il caffè. Consumarono la colazione in silenzio,
assaporando la pace concessa loro dalla zia
Assunta
e da Anna Laura, che stavano ancora dormendo della grossa.
La ragazza si affrettò a mandar giù il suo
caffellatte,
guardando con apprensione il grande orologio a pendolo del corridoio
che si intravedeva attraverso la porta aperta: segnava le otto meno un
quarto e alle otto sarebbe dovuta essere in merceria.
Rapida, salì di sopra per finire di prepararsi e recuperare
la
sua mantella, quindi riscese e si catapultò fuori dal
portone,
quando la voce di Guido la fermò sul cancello.
«Cicci?»
«Sì?»
domandò lei, voltandosi e scorgendolo appena oltre la nebbia.
«Per
favore, stai attenta».
Quella raccomandazione le suonò strana tanto quanto lo era
stato trovarlo in piedi a quell’ora del mattino, come se avesse qualcosa da nascondere.
«A cosa?»
domandò Beatrice, arrotolandosi i capelli sulla nuca e
facendoli sparire sotto un cappello di lana.
Guido scese le scale e le
si avvicinò, incurante di essere in pigiama.
«Ecco... in generale».
La ragazza annuì, non troppo convinta, poi uscì e
si
richiuse il cancello alle spalle, senza degnare Villa dei Salici di
un’altra occhiata, sicura che Guido fosse rimasto nel
giardino, avvolto dalla fitta coltre biancastra.
L’inquietudine che le aveva messo addosso, però,
non si
placò
nemmeno quando riconobbe i sampietrini di Via della Mercede, gli stessi
che calpestava ogni mattina che si recava alla merceria:
quell’atmosfera spettrale, causata da quella fitta nebbia,
così poco adatta alle viuzze romane, infatti, la opprimeva.
Per
giunta,
sembrava che in strada non ci fosse nessuno.
Di solito, suo fratello non si preoccupava molto di come
stesse, se
facesse attenzione agli sconosciuti o cose di questo tipo,
perché era troppo
impegnato ad organizzar i divertimenti nei quali trascorreva le sue
giornate per stare attento a sua sorella.
Da
quando, invece, era diventato così apprensivo nei suoi
confronti?
Un rumore improvviso la fece sobbalzare. Si voltò di scatto
in
direzione del vicolo dal quale era provenuto, ma vide solo un gatto
nero e spelacchiato che si azzuffava con uno molto più
grande
per un misero pezzo di pesce, rubato nel mercato di
chissà quale rione vicino.
Sollevata, riprese a camminare, quando udì un nuovo rumore:
questa volta era un fruscio, che aveva qualcosa di umano.
Non fece nemmeno in tempo a gridare, che qualcuno le mise un tampone
sulla bocca. Provò a divincolarsi, ma sentì le
forze che
cominciavano a venire meno ed un secondo paio di braccia che la
immobilizzava.
«Entonces tenemos...
chica»
«Vamos... él espera»
Mentre la fanciulla si domandava chi fossero e perché non capisse una singola parola di quello che
stavano dicendo, la testa cominciò a farsi leggera e le sembrò che
il
suo spirito stesse abbandonando il corpo, tanto si era fatto
pesante.
«Beatrice!»
In quel turbinio di suoni, sentì qualcuno pronunciare il suo
nome. Forse era solo l’ultimo scherzo della sua mente che
vagava
ormai verso l’incoscienza, o forse davvero qualcuno
l’aveva
chiamata.
Qualcuno al quale non avrebbe mai risposto.
Valentina e Alessio avevano assistito, atterriti, al rapimento della
ragazza: due energumeni vestiti di scuro, infatti, si erano avventati
su di lei
e, dopo una breve resistenza da parte della fanciulla, uno dei due se
l’era caricata in spalla, raggiungendo un’auto
pronta poco lontano e
gettando il corpo inanimato sul sedile posteriore. Dopo di che,
erano saliti in tutta fretta, per poi partire sgommando.
Avevano deciso di aspettarla all’angolo, per salutarla prima
di
andare a scuola, come facevano ogni mattina, per chiederle magari se
anche lei avesse paura di quella brutta nebbia.
Invece, ora lei non c’era più, portata via da due
criminali
che, nella foga e nella foschia, non avevano notato i due bambini.
«Hai
visto, Valentina? Gli uomini in nero hanno rapito Beatrice!»
esclamò il ragazzino, terrorizzato.
«Dobbiamo
avvisare Marcello!» rispose la sorella, pronta, poggiando la
cartella con i libri vicino al negozio e cominciando a correre lungo la
via.
«Ma
dove vai? Dobbiamo dirlo alla mamma!» le gridò
dietro il
fratello, buttando anche lui lo suo zaino a terra e lanciandosi
all’inseguimento di Valentina.
«Non
c’è tempo!»
strillò lei, arrivata già alla curva.
Alessio
trattenne a stento le lacrime, ripetendo dentro di sé che
ormai
aveva otto anni e piangere era solo per le femminucce. Se non stava
piangendo sua sorella, perché avrebbe dovuto farlo lui?
Non era certo piangendo che avrebbe salvato Beatrice.
Chiuse gli occhi e cominciò a correre più forte,
sperando
che i due brutti orchi non avessero fretta di mangiarsi la principessa.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per aver letto in anteprima.
***
[N.d.A]
1. servizio di leva:
negli Anni ’80, come sapete, era ancora obbligatorio il servizio
di leva. Volendo si poteva anche scegliere di svolgerlo in un
altro corpo di guardia che non fosse l’Esercito. Per motivi
diversi, sia Marcello che Gerardo hanno optato per i Vigili del Fuoco.
2. The Dream of the
Blue Turtles:
album di Sting risalente al 1985. Effettivamente, il cantante ha tenuto
un paio concerti al Palalottomatica di Roma, nel dicembre
’85,
durante del suo primo tour da solista.
3. Herald of Free Enterprise: traghetto protagonista di un
incidente nautico avvenuto il 6 marzo 1987.
4. basilica di
Sant’Antonio al Laterano: nome comune della
basilica di Sant’Antonio da Padova all’Esquilino.
***
Salve a tutti!
Sorpresi dal finale cliffhanger? Credevate che il capitolo fosse
dedicato solo agli intrighi amorosi, vero? Invece non è
così - risata malvagia.
Sarò noiosa, pedante, pesante e tutto quello che volete, ma
non mi stancherò mai di ripeterlo: questa non è
una storia solo romantica. Nella mia insana follia non sono capace di
scrivere tutto in rosa.
Sarei capace anche di farci scappare il morto (e non è da
escludere che non lo faccia).
Finiti i miei deliri, passo a ringraziare chi è che ha avuto la
gentilezza di recensirmi lo scorso capitolo, chi ha messo la storia tra
le
preferite/ricordate/seguite, chi legge in silenzio.
Se siete arrivati fin qui vuol dire solo che avete una grandissima
tenacia e pazienza a sorbirvi questi capitoli
chilometrici.
Vi lascio, come sempre, il link alla mia pagina facebook, dove troverete varie cose e anche lo spoiler sul prossimo capitolo (che verrà pubblicato i primi di Marzo).
Alla prossima, per chiunque vorrà esserci.
Halley S. C.
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Capitolo 11 *** Capitolo Undicesimo - Vento di Attesa ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 11
- Capitolo Undicesimo -
Vento
di Attesa
Il
sabato era, fra tutti, il giorno che Marcello preferiva di più, poiché lo
considerava come un momento per riflettere e fare il bilancio della
settimana appena trascorsa. La domenica, invece, era sacra e andava dedicata al
recupero delle energie, mentre il lunedì era il primo giorno
lavorativo e il venerdì ancora troppo impregnato di
fatica:
decisamente, il sabato era il giorno perfetto per le meditazioni, da
fare rigorosamente mentre si riordinava.
In quel momento, lui e Gerardo stavano raccogliendo diverse scartoffie in faldoni,
così da separare le pratiche concluse da quelle ancora in
corso, accompagnati dal cinguettio degli uccellini appostati
sul
cornicione del palazzo di fronte. Fuori, invece, la nebbia stava cominciando
lentamente a diradarsi, segno che il sole aveva cominciato a scaldare
l’aria.
Si respirava un’atmosfera di pace e tranquillità,
che non
lasciava affatto presagire quello che sarebbe successo di lì
a
poco.
Bum, bum!
L’eco di due colpi fece sussultare il giovane, a tal punto
che
lasciò cadere il foglio che stava reggendo con entrambe le
mani.
«Cosa
è stato?» gli chiese Marini.
«Non sapr...»
I colpi si ripeterono, a cadenza più ravvicinata, seguiti
dal suono del campanello.
«Deve trattarsi di qualcuno che ha molta fretta!»
osservò Gerardo, avviandosi verso il corridoio. Marcello lo
seguì, mentre uno strano presentimento cominciava a farsi
largo
nel suo animo: chi mai poteva essere, a quell’ora di sabato?
L’unica ipotesi che gli veniva in mente era una visita a
sorpresa
della Guardia di Finanza, ma lo escluse a priori, giacché
avevano ricevuto una visita delle Fiamme Gialle meno di un mese prima,
con esito assolutamente positivo, poiché sarebbe stato
davvero
il colmo, per lui e il suo socio, predicare tanto contro
l’evasione fiscale e poi esercitarla in prima persona.
E, comunque, anche se si fosse trattato di un controllo da parte dei
finanzieri, non avrebbero fatto certo tutto quel baccano per farsi aprire.
Gerardo aprì la
porta e, immediatamente, Marcello vide i figli della sarta precipitarsi
dentro.
«Alessio,
Valentina, perché siete qui? Non dovreste essere a
scuola?» domandò loro, sorpreso oltre ogni dire.
«Ci stavamo
andando»
spiegò il
bambino, cercando di riprendersi dalla corsa, «quando
abbiamo visto gli uomini in nero rapire Beatrice!»
«Come sarebbe a dire che gli uomini in nero hanno rapito
Beatrice?» chiese l’altro, attonito.
«È la verità! Vieni con
noi al
negozio della mamma... vedrai che c’è solo
lei!»
rispose con veemenza Alessio, guardandolo tra l’offeso e
l’agitato.
Il biondo si limitò a osservare i due fratelli senza dire una
parola, cercando ancora di afferrare in pieno il significato di
ciò che gli avevano detto: uomini in nero... rapito... Beatrice.
Quelle parole gli rimbombarono in testa, come se tante mine stessero
esplodendo una dietro l’altra, accrescendo la confusione sorta nel momento stesso in cui aveva appreso la notizia.
Vacillò per un instante, quando la voce di Valentina lo
strappò violentemente al baratro buio in cui stava per
cadere:
«Marcello!»
La bambina gli corse incontro e lo abbracciò
all’altezza
della cintura - il massimo che poteva raggiungere, avendo solo sette
anni - piangendo disperatamente.
Lui si abbassò al suo livello e le accarezzò una
guancia bagnata di lacrime.
«Quando è successo?» domandò.
La sua voce gli era
sembrata estranea e lontana, come se non fosse stato
lui a pronunciare quelle parole.
Valentina cercò di trattenersi quanto bastava per
rispondere:
«Poco fa. Noi stavamo andando a scuola, c’era la
nebbia,
loro erano lì e... e l’hanno presa!»
E riprese a piangere, buttando le braccia al collo del ragazzo e
cercando il suo conforto.
Marcello, allora, spostò lo sguardo, prima su Alessio, che sembrava
anche
lui sul punto di scoppiare in lacrime, e poi su Gerardo, il quale si
limitò a ricambiare
l’occhiata con espressione funerea.
«Dobbiamo
riaccompagnarli dalla loro mamma» sentenziò,
atono, rivolto all’amico.
«Non volete andare dalla polizia? Noi
siamo i testimoni!» esclamò il ragazzino, come se
si sentisse oltraggiato nel suo ruolo.
«Siete
dei bambini, è pericoloso. Ma dopo andremo certamente alla polizia e
vedremo. Se dovesse esserci bisogno di voi, verremo a
prendervi, d’accordo?»
spiegò il biondo, non completamente sicuro di ciò
che
aveva appena detto. D’altra parte, ancora non riusciva a
credere
che la sua
Beatrice fosse stata rapita. Gliela avevano portata via e lui non aveva
potuto far niente.
Anzi, a malapena era venuto a saperlo. Non
c’erano ancora indizi, ma Marcello sapeva che dietro tutto
quello
c’era quel depravato di Navarra, perché solo lui avrebbe potuto spingersi a
tanto.
«Vado
io a chiamare la signora Sofia, va bene?» propose Gerardo. «I
bambini sono scossi e tu non hai una bella cera».
«Sto
bene» fece bruscamente il biondo, staccando delicatamente
Valentina da sé e mettendosi in piedi.
Ma l’altro non
si fece incantare e ribadì: «No,
non stai bene. Rimani con loro, io torno subito».
Poi si
adoperò affinché i due fratelli fossero sistemati
sul
divano, al caldo, così da avere modo di cominciare a
riprendersi, dopodiché si diresse nella stanza attigua per prendere il soprabito ed il portafoglio.
Marcello accarezzò subito la testa di Valentina, che si stava
addormentando per lo stress, e diede un buffetto ad
Alessio che teneva per mano la sorella, preoccupato. Il bambino
gli sorrise.
Era molto bello vedere come si prendeva cura della sorellina e come
vegliava sul suo sonno, anche se era provato a sua volta; benché fossero entrambi
ancora molto piccoli, cercava di comportarsi da
coraggioso, nascondendo la preoccupazione.
Quel pensiero innescò in Marcello una serie di
considerazioni a
catena sul concetto di fratellanza, che si conclusero con una
considerazione: Guido doveva essere sicuramente al corrente di tutto.
Lasciò perciò un attimo i ragazzini e si affrettò
a raggiungere il suo amico prima che uscisse, trovandolo già con la porta aperta davanti a lui.
«Scommetto
che quel bastardo
schifoso sa dov’è!»
esordì, al suo indirizzo, sicuro di quanto stava affermando.
«Chi?»
domandò Gerardo, incuriosito.
«Guido Tolomei».
L’altro ci
rifletté su per alcuni secondi. «Potrebbe.
Ma come fai ad esserne certo?»
«Non
ne sono certo, ecco perché andrò da lui e mi
farò
dire cosa sa del rapimento della sorella, con le buone o con le
cattive».
«Marcello,
dovresti calmati, non ti...»
«Calmarmi?!
Tolomei ha venduto Beatrice a Navarra!» fece il biondo, fuori di
sé dalla rabbia. «Trovami
un solo motivo per restare calmo ed un altro per non andare da lui a
frantumargli le ossa una per una!»
Gerardo,
però, doveva essere di tutt’altro avviso,
giacché scosse
la testa: «Non risolveresti niente
prendendotela
con lui. Non
in questa situazione, almeno».
«E tu
cosa suggeriresti di fare, allora? Sentiamo!»
«Non
puoi andare alla polizia, perché non sei un parente stretto di
Beatrice
e, comunque, anche se ci andasse quel Guido, dovrebbero comunque
aspettare le ventiquattro ore prima di dichiarare la scomparsa. E, purtroppo, non credo che le
testimonianze di Alessio e Valentina contino molto, visto che sono solo dei
bambini» gli spiegò, con calma.
«Quindi?» incalzò
il biondo, sempre più spazientito.
Davvero non
sapeva come potesse restare impassibile in una situazione del genere:
avrebbe voluto vedere come si sarebbe comportato se qualcuno avesse
sequestrato Vittoria. Sicuramente non sarebbe rimasto a dispensare
consigli con tutta quella tranquillità!
«Ora
vado dalla signora Sofia e pensiamo ai bambini. Poi andremo a parlarne
con tuo padre, lui saprà cosa consigliarti, come quando
eravamo
solo dei ragazzini» affermò con estrema
convinzione
Gerardo. «So
che sei in pensiero per Beatrice, ma dobbiamo muoverci con intelligenza. Tu non sai dov’è Guido, potrebbe
benissimo
essere anche lui con Navarra e compagnia».
Marcello, superato l’impulso iniziale, dovette ammettere che
l’idea del suo amico era la più sensata da seguire, in
quel frangente. Se non altro, la grande fiducia che nutriva nei
confronti del genitore era un grande incentivo a seguire il suo consiglio.
Diversi minuti dopo, i
due ragazzi entrarono letteralmente correndo, nel salotto dove si trovavano il signor Giancarlo
e sua moglie, al punto da aver quasi travolto Ottavia
all’ingresso, ma limitandosi a gridarle qualche scusa, senza
fermarsi.
«Come
mai tutta questa fretta?» si informò
l’uomo,
sollevando gli occhi dal libro che stava leggendo e guardandoli al di
sopra delle lenti degli occhiali.
«Sì,
Marcello, non si corre in casa. Deve essere la cattiva compagnia che ti
sta portando sulla strada sbagliata» disse, invece, la Matrona
con disprezzo, senza smettere di ricamare una tovaglietta per la colazione.
Gerardo fece un passo indietro, come mortificato da quel giudizio, ma
Marcello lo agguantò per un braccio per impedirgli
di
allontanarsi ancora.
«È
una cosa urgente, papà, ho bisogno di aiuto e di un
consiglio da parte tua» annunciò, rivolgendosi esplicitamente
all’uomo e tale selettività richiamò
l’attenzione della madre, che mise da parte il ricamo e
riservando al figlio un’occhiata gelida.
«Il
mio parere non conta, dunque?»
Il ragazzo, però, la
ignorò, in attesa di un cenno del signor Giancarlo. Anche l’uomo non diede peso
alla
moglie e, dopo aver messo un segnalibro all’interno del tomo
che
stava leggendo, mise le braccia in grembo e disse: «Dimmi
tutto, Marcello».
Il giovane, allora, chiuse gli occhi ed inspirò a fondo, prima di
vuotare il sacco: «Hanno
rapito Beatrice».
«Rapita?»
ripeté il padre, mostrando chiari segni di stupore sul
viso.
«Beatrice?»
si inserì la donna, riducendo gli occhi a due fessure.
«Tu hai
frequentato quella mocciosa a mia insaputa?»
Marcello aprì la bocca per rispondere, ma non fece in tempo,
giacché la madre lo investì con le sue orrende
ingiurie.
«Hai venticinque anni! Non ti vergogni a sbavare dietro ad
una
ragazzina che ha appena finito di giocare con le bambole?!»
sbraitò, accalorata dalla foga, facendo tentennare il
ragazzo
per un secondo: purtroppo, la differenza di età tra lui e
Beatrice era un tarlo che non aveva mai smesso del tutto di tormentarlo.
«Claudia, per
favore, non mi sembra né il luogo, né il momento
per queste tue considerazioni
gratuite» intervenne gentilmente il marito, riprendendola.
«Tuo
figlio sta infangando il nostro nome!»
«Mio
figlio sta facendo ciò che ritiene giusto» la
corresse
l’uomo, guardandola con cipiglio severo. «E lo
ritengo
anche io».
Il viso della signora Claudia, non trovando l’appoggio del consorte,
divenne una maschera d’ira; quindi, si alzò con fare
impettito e lanciò ai due giovani un’occhiata
disgustata, per
poi raccogliere il suo cestino da cucito e la tovaglietta, per poi, finalmente, lasciare la stanza senza aggiungere
una parola.
«Il
dottor
Morozov se l’è data a gambe, quando gli ho
chiesto se fosse disposto a curare anche tua madre»
sospirò il signor Giancarlo, alzandosi dalla poltrona ed avvicinandosi
ai
due giovani.
«Ah, è per questo motivo che se ne è
andato?»
chiese Marcello, provando ancora più
solidarietà
verso l’uomo.
«Sì. Non avrebbe potuto sopportare sia Ortensia
che
Claudia. Perciò dovrò rivolgermi ad un altro psicologo, oppure
direttamente ad uno psichiatra» valutò a voce alta
il signor Tornatore, scuotendo la testa.
Poi, si rivolse di nuovo al figlio: «Affari di famiglia a
parte,
raccontami per bene che cosa è successo a quella dolce
ragazza».
In
breve, il biondo raccontò cosa e come aveva appreso del
rapimento di Beatrice, compresi i sospetti che aveva formulato sulle
cause, mentre Gerardo annuiva o aggiungeva qualche dettaglio.
L’uomo ascoltò con molta attenzione ogni singola
parola e, quando i due ragazzi tacquero, rimase in silenzio per qualche
secondo.
«Gerardo, hai ragione, la polizia non potrà mai
darci i dettagli che vorremmo. A meno che...»
«A
meno che?» incalzò Marini.
«Potrei
chiedere al questore se può fare uno strappo alla
regola».
Marcello, stupito, si voltò verso Gerardo, notando che aveva
avuto una reazione molto simile alla sua: non avrebbe mai pensato che a
suo padre sarebbe venuto
in mente di scomodare le alte sfere. E, sinceramente, aveva i suoi
dubbi sulla riuscita del piano.
«Vorresti
rivolgerti ad Augusto Saltarini?» chiese il giovane,
incredulo.
«Sì,
penso sia l’unico che possa aiutarci»
ribatté il signor Giancarlo, avviandosi con passo spedito
verso
la libreria. Ne estrasse un libricino che assomigliava ad una rubrica
telefonica e cominciò a sfogliarlo.
«Papà,
no, non voglio favoritismi!» si oppose il figlio,
profondamente
contrario a quel tipo di soluzione, nonostante, in cuor suo, sapesse
essere l’unico appiglio cui poteva aggrapparsi per sperare di
rivedere Beatrice.
«C’è
di mezzo la vita di una ragazza, non sono favoritismi, solo un
consiglio ad avviare le indagini prima che sia troppo tardi. Non ti sto
raccomandando per farti diventare vice questore aggiunto»
spiegò con calma l’uomo, continuando a girare i
fogli.
«Ecco, qui. Trovato!»
aggiunse dopo poco, esultando. Piegò la rubrica e, con un
sorriso stampato sul volto, si avviò verso il suo studio,
probabilmente per telefonare a Saltarini, non senza aver prima lasciato loro
un’ultima raccomandazione: «Ah,
Gerardo... ti affido questa testa calda: fai in modo che non si
faccia prendere dalla voglia di cambiare i connotati al fratello di
Beatrice».
Marcello sbuffò e l’amico dovette trattenersi dallo
scoppiare in una risata divertita.
A quanto pareva, il signor Giancarlo conosceva bene i suoi polli.
***
La prima cosa che Beatrice avvertì, quando
cominciò a
riprendere i sensi, fu un forte senso di nausea. Si sentiva pesante,
stanca, dolorante in ogni parte del corpo e persino aprire gli
occhi le costò un’enorme fatica.
All’inizio, rimase a fissare il soffitto, come in stato catatonico, incapace di muoversi e di parlare: sentiva la lingua
attaccata al palato e la sensazione le risultò quanto mai
spiacevole.
Nella sua mente, dapprima confusa, cominciarono pian piano a riaffiorare gli
ultimi ricordi e fu allora che si accorse di trovarsi in un luogo
sconosciuto, mentre una luce rossastra filtrava dalle persiane della
finestra di fronte, consentendole di esplorare l’ambiente almeno con lo
sguardo: un armadio con un’anta pendente, tende tarlate e cadenti,
chiazze di muffa sul soffitto e muri scrostati. Per quanto Villa dei
Salici fosse messa male, non era certo in quelle condizioni.
Questa nuova scoperta l’aiutò a scrollarsi di
dosso il
senso di stordimento e la spronò a cercare di mettersi seduta, anche se invano:
non
era arrivata nemmeno a piegare il busto, che una fitta tremenda alla
testa la obbligò a tornare supina, mentre la nausea
aumentava.
Allora, si impose di restare calma, per non peggiorare la situazione e per
trovare un minimo di sollievo in tutto quel malessere.
Era certa di non trovarsi a casa, perché non riconosceva
quell’ambiente;
anche se non si sentiva molto lucida, era più che sicura di non
aver mai visto un posto come quello. Dov’era finita, allora?
Ricordava con sicurezza che quella mattina c’era la nebbia e che lei era uscita di casa per
recarsi in merceria. Era quasi
arrivata, ma poi non si ricordava più nulla, fino al risveglio in quella
stanza.
Cercò nuovamente di mettersi seduta, ma il secondo tentativo
non
andò meglio del precedente. Ricadde sul qualcosa di morbido
e,
allora, si accorse di trovarsi su un materasso e di avere i polsi e le
caviglie legati da pesanti funi.
«C-Che cosa...?» farfugliò, confusa, senza finire la domanda. Persino
la sua stessa
voce le risultò strana, come arrochita da una brutta tosse,
e
per un istante si augurò di star facendo solo un brutto
sogno.
La realtà, però, le si
manifestò crudelmente, quando una risata cavernosa le
rimbombò nelle orecchie.
«Ti
sei svegliata finalmente, dulzura».
Si voltò lentamente verso la direzione da cui proveniva il suono, mentre una strana inquietudine si impadroniva di lei:
solo una persona avrebbe potuto chiamarla in quel modo.
Infatti, era proprio lì, fermo sulla porta, che le
sorrideva sardonico.
«Na..
var... ra» mormorò lei, osservandolo attraverso le
palpebre, semichiuse per il dolore alla testa.
L’uomo, allora,
si avvicinò al letto e si sedette accanto alla fanciulla,
senza
cambiare l’espressione di godimento che aveva stampata sulla
faccia.
«Buenas tardes, niña» la salutò,
accarezzandole i capelli.
Beatrice si ritrasse bruscamente, incurante della fitta scaturita dal suo movimento improvviso. Preferiva infliggersi
del
dolore da sola, piuttosto che farsi toccare da quel mostro.
Di fronte alla sua reazione, però, Conrado rise di nuovo.
«Anche in queste condizioni, non hai perso il
tuo bel caratterino, eh?» le disse, prendendole il mento tra due
dita.
Poi si avvicinò maggiormente e le sussurrò: «Sei
molto eccitante».
La ragazza, nell’udire quelle parole, strizzò gli
occhi e
avvertì risalire un conato: se avesse avuto qualcosa nello
stomaco, probabilmente avrebbe rimesso e, forse, sarebbe stato anche
meglio. Invece, non solo doveva sopportare tutto quel malessere fisico,
ma anche le porcherie che uscivano dalla boccaccia di
Navarra.
«Felipe
e Pablo hanno esagerato, non trovi?» proseguì
lui,
incurante del ribrezzo che le suscitava. Nonostante si sentisse ancora
tramortita, Beatrice gli indirizzò un’occhiata
carica di
tutto l’astio che provava nei suoi confronti. Come aveva
osato
farla rapire dai suoi scagnozzi?
«Co...sa m’han... fatto?»
domandò, sforzandosi
di recuperare il più in fretta possibile tutta la lucidità. Non si sarebbe
mostrata debole di fronte a quell’animale. Mai.
«Ti
hanno drogata, niña,
era l’unico modo per... convincerti
a seguirli» le spiegò
Conrado, lasciando la presa e cominciando a lisciarsi la barba con fare
compiaciuto. «Anche
se hanno usato più etere del dovuto, avresti dovuto
riprendere i sensi ore fa».
Quindi era così che era andata: l’avevano seguita
e presa mentre si recava in merceria.
«Questo
vuol dire che dobbiamo aspettare
domani, per partire» continuò l’uomo, come se pensasse che la
ragazza non vedesse l’ora di essere messa al corrente dei
suoi
loschi piani.
Tuttavia, con una fitta allo stomaco, dal plurale che aveva usato
l’energumeno, Beatrice capì che, volente o
nolente, anche
lei era stata coinvolta.
«Partire?»
chiese, inquieta.
«Non
possiamo più stare qui, la polizia mi sta cercando. Dobbiamo
raggiungere Zanzibar in aereo e tu devi essere in grado di poter
salire a bordo».
La fanciulla registrò attentamente ogni singola sillaba: se
era
vero che le forze dell’ordine si erano messe sulle tracce di
quel
delinquente, forse aveva ancora una piccolissima speranza di cavarsela
e di vederlo marcire in gattabuia.
«Da
quando ti interessi della mi’ salute?» gli
domandò con
tono disgustato, non sforzandosi nemmeno di celare i suoi veri
sentimenti.
Conrado le sorrise
mellifluo e si alzò dal letto.
«Dulzura, tu sarai
mia moglie, è normale che mi stia a cuore la tua
salute».
«Se ti sta a cuore, renditi utile: slegami!»
esclamò
la fanciulla, mostrandogli i polsi. Adesso che si era ripresa
quasi del tutto, sentiva che le corde le stavano segando la pelle.
Navarra finse di star prendendo in considerazione l’ipotesi,
assumendo l’espressione di chi sta pensando, ma poi
negò
col capo: «No, quello ancora no. Non vorrei che fossi colta
dall’ansia prematrimoniale e ti venisse la tentazione di
scappare».
Beatrice distolse prepotentemente lo sguardo da lui, odiandolo con
tutte le sue forze.
«A
proposito, ho prenotato i biglietti sotto falso nome e tu sarai la señora Mendez.
Spero
non ti dispiaccia se, per la compagnia aerea, siamo
già
sposati» le disse, dandole le spalle e lasciando che la sua
risata sguaiata riecheggiasse tra le mura della casa.
***
Sull’imbrunire,
quando il cielo aveva già virato al violaceo e le
ultime
luci del giorno lo striavano di rosso fuoco, Guido rincasò,
avvertendo da subito che c’era qualcosa di strano.
Dal salotto, infatti, provenivano le voci stridule della zia e della cugina, come se
fossero state alle prese con una conversazione piuttosto animata ed
impegnativa, e il brutto presentimento, che aveva avuto nel passare
davanti alla cucina, trovandola vuota, crebbe a dismisura: di solito,
infatti, rincasando, trovava sempre Beatrice intenta a preparare la cena.
Proseguì quindi lungo l’angusto corridoio, fermandosi alla
porta cadente, dalla quale filtrava una lama di luce pallida, e
l’aprì,
ritrovandosi faccia a faccia con le parenti che, sedute sul divano
scolorito, lo guardarono torve.
«Ah,
eccoti qui, pelandrone!» lo apostrofò
la zia Assunta, linciandolo con un’occhiata inferocita.
«Ci devi delle spiegazioni!»
«Dov’è
quella buona a nulla di tua sorella? Deve preparare la cena!»
esclamò Anna Laura, puntandosi le mani sui fianchi con fare
inquisitorio.
«La Beatrice
non l’è ancora tornata?»
domandò Guido,
stolidamente. Sapeva perfettamente qual era la risposta, ma non voleva
accettarla, forse, perché avrebbe dovuto ammettere anche di
avere una certa responsabilità nell’accaduto.
«No ed io sto morendo di fame! Non posso ordinare una pizza,
sono carboidrati ed io devo mangiare proteine!»
si lamentò la cugina, agitandosi sul posto.
«Tu
sai dov’è?»
domandò la donna, alzandosi dal divano e avvicinandosi a lui
con una lentezza inquietante.
Il ragazzo ne seguì i movimenti senza riuscire ad aprire
bocca,
paralizzato dalla consapevolezza di ciò che era successo.
La signora Assunta, vedendo che il nipote non si degnava di darle una
spiegazione esauriente, non appena gli fu abbastanza vicina lo
colpì in pieno viso con uno schiaffo che lo fece arretrare
di
qualche passo.
«Rispondi,
screanzato!»
Così spronato,
Guido si portò una mano alla guancia e pigolò:
«Navarra... l’è stato lui. M’aveva detto che sarebbe venuto a prenderla,
ma non immaginavo...»
A
conti fatti, non sapeva neanche lui cosa effettivamente si sarebbe
aspettato. Che le stupide raccomandazioni che aveva rivolto quella
mattina alla sorella sarebbero bastate a proteggerla? Che il suo
creditore aspettasse ancora un po’ prima di passare all’azione?
Oppure che gli rendesse noti, in carta bollata, ora e giorno in cui gli avrebbe portato
via Beatrice?
Navarra non era un gentleman, questo era poco ma sicuro, pertanto il
ragazzo era quasi certo che lo spagnolo avesse optato per un modo
barbaro quanto rapido per appropriarsi della fanciulla:
farla
portare via all’insaputa di tutti.
«Idiota,
non potevi mandarla via in un altro momento? Ci serviva
ancora!»
strillò la zia, agitando pericolosamente un pugno in aria e
facendo tintinnare i suoi innumerevoli bracciali.
«Non
l’ho deciso io...» provò a
replicare il giovane, senza successo.
La signora Assunta alzò la mano per colpirlo di nuovo, anche
se, alla fine,
non portò a termine il gesto, preferendo invece continuare
ad
urlare: «Silenzio!
Per colpa tua ora siamo senza una sguattera e senza soldi: lo stipendio
che portava quella mocciosa mi era molto utile!»
Nel frattempo, nel salotto era calato il buio e la sola luce della
lampada, posta sul tavolino di faggio scheggiato, non bastava
più. E fu proprio quello l’istante in cui Guido si
sentì solo, spaesato, e prese coscienza del fatto che non avrebbe mai
più
rivisto gli occhi blu di sua sorella guardarlo con sufficienza, dopo la
sua ennesima bravata, per poi diventare più condiscendenti e
annunciare che lei l’avrebbe comunque aiutato, anche se non
lo
meritava.
Era profondamente diversa da lui, sia fisicamente,
sia caratterialmente. Era bella, Beatrice, era buona e lui, suo fratello, l’aveva venduta ad un animale per trenta
denari.
«Se
vuoi rimanere qui, comincia a cercarti un lavoro, allora, perché io non
manterrò più nessuno» concluse Assunta, annunciando
la sua ultima sentenza; poi, fece un cenno alla figlia e si
defilò,
uscendo dalla stanza come se fosse stata una regina in procinto di ritirarsi
nei suoi appartamenti.
Con la coda
dell’occhio, il giovane vide Anna Laura che rideva sotto i
baffi, particolarmente appagata dalla scena:
si sapeva che odiava i suoi due cugini e vedere la miserevole fine
che stavano facendo entrambi doveva farla sentire al settimo cielo.
Alla fine, comunque, se ne andò anche lei, spegnendo la luce e lasciandolo al
buio,
continuando a blaterare qualcosa riguardo il fatto che non avrebbe potuto continuare a
seguire la sua dieta dissociata, seppur, per potendosi permettere, per una volta, un’eccezione.
A poco a poco, le voci divennero una presenza lontana e la sensazione di solitudine
si acuì, mentre Guido stringeva i pugni. Cosa credeva, che
Navarra giocasse quando gli diceva che voleva sua sorella? Sul serio
pensava che fosse il miglior partito per lei? Non gli aveva nemmeno
permesso di salutarla!
Si inginocchiò per terra e si prese la testa tra le mani,
incapace di fronteggiare tutto il turbine di pensieri invisibili che lo
stava imbrigliando. Chissà se c’era ancora
qualcosa che potesse fare per Beatrice, anche piccola... Sapeva qual era la
zona che Navarra aveva scelto per il suo nascondiglio, anche se non ne
conosceva l’esatta ubicazione.
Era forse il caso di andarlo a dire alla polizia? E se fosse finito
anche lui in galera? Davvero la felicità di sua sorella
valeva
quel sacrificio o, per meglio dire, la sua vita?
L’unica cosa di cui era certo, in quel momento, era che, se
cercava l’occasione per riscattarsi, non gliene
sarebbe mai più
capitata una migliore.
***
Nel
tardo pomeriggio, appena aveva appreso la notizia, era giunta a Villa Aurelia anche
Vittoria, con la chiara intenzione di fornire supporto morale - ed anche
psicologico - a Marcello, i cui nervi saldi cominciavano ad essere messi a dura prova da quella situazione.
Il signor Giancarlo ancora non era uscito dal suo studio e la cosa
aveva messo abbastanza in agitazione il figlio, che, abbandonata la sua
tipica razionalità, stava cominciando iniziando a pensare al peggio: il fatto che nessuno si fosse
degnato di fargli sapere anche la più piccola
novità
l’aveva reso piuttosto irritabile.
Se qualcuno, esattamente un anno prima, gli avesse detto che avrebbe
avuto così a cuore la sorte di una ragazza, non gli avrebbe
creduto, anzi, gli avrebbe riso in faccia, dicendogli che lui non era
predisposto all’innamoramento e che, anche se fosse esistita
una
ragazza capace di attirare la sua attenzione, di certo non avrebbe
avuto la fortuna di incontrarla.
In quel momento, si ritrovò a pensare che, a volte, la vita sapeva essere davvero imprevedibile.
«Vedrai che la troverai» disse Vittoria,
porgendogli una tisana calda, mentre lui se ne stava appollaiato come
un gufo sulla poltrona, in posizione perfetta per non perdere di vista la porta dello studio nemmeno per un secondo.
«Grazie» le rispose, soprappensiero, prendendo la
tazza fumante con entrambe le mani. Quel calore era piacevole, ma non
sarebbe mai bastato a mitigare il gelo che sentiva dentro: non sapeva
alcun che sulla sorte della sua
Beatrice e questo gli stava logorando il sistema nervoso. Se solo suo
padre si fosse deciso a venire fuori da quella benedetta stanza e
metterlo al corrente delle notizie apprese! Cosa significava
quel silenzio? Era già successo l’irreparabile?
No, non voleva neanche pensare a quell’eventualità.
La ragazza gli sorrise e tornò a sedersi accanto a Gerardo,
il quale tamburellava nervosamente le dita sopra il tavolino di faggio
vicino a lui.
Per un po’ non si udì altro rumore
all’infuori di quel ritmico picchiettare, poi, finalmente, la
porta si aprì e, dopo quattro ore di penosa attesa, ne
uscì il signor Giancarlo, accolto con la
stessa suspense riservata ai chirurghi uscenti salla sala operatoria
dopo un intervento particolarmente difficile. Aveva un’aria
stanca, ma serena, il che prometteva bene.
«Allora, cos’hanno detto?» domandò
Marcello, balzando in piedi, incapace di trattenersi oltre.
I suoi amici si avvicinarono a loro volta, pronti ad ascoltare qualsiasi
nuova notizia.
L’uomo si stropicciò lentamente gli occhi, poi disse:
«Finora non è stata denunciata la scomparsa di
nessuna Beatrice Tolomei. Sarebbe plausibile, non essendo passate le
canoniche ventiquattro ore, ma non ci sono stati nemmeno tentativi,
quindi sembra che nessuno se ne sia accorto».
«Trovo molto più probabile che nessuno se ne sia
interessato» commentò il biondo, velenoso, bofonchiando
tra sé e sé. Quindi tornò a rivolgersi al
genitore: «Cos’altro hai scoperto?»
«Che c’è un mandato di cattura
internazionale contro Navarra e che la polizia stava già
indagando su una sua possibile permanenza a Roma. Saltarini mi reputa
una fonte attendibile, perciò mi ha garantito che intensificheranno i posti di
blocco, soprattutto a Fiumicino e sul Raccordo1».
«Un mandato di cattura internazionale?» ripeté
Gerardo, come in preda ad un forte shock. «Navarra è
pericoloso, ma non fino a questo punto!»
Vittoria guardò il fidanzato, ma non osò prendere la
parola, molto probabilmente perché non conosceva bene i dettagli
della vicenda e non voleva fare strafalcioni, né dare opinioni senza
fondamento, nonostante sapesse bene che il soggetto in questione era
tutt’altro che raccomandabile.
«Sono arrivati questi ordini. Non mi ha detto quale sia il
governo in questione, ma sembra che Navarra abbia combinato guai seri in
qualche stato europeo» rispose pacatamente l’uomo.
Marcello si massaggiò le tempie, certo che la testa fosse ad un
passo dallo scoppiargli: nessuna notizia di Beatrice, quel depravato
era in cima alla lista dei più ricercati del Vecchio Continente e la
polizia pensava che bastassero due volanti e qualche controllo in
più a fermarlo.
Il signor Giancarlo, allora, batté una pacca sulla schiena del figlio,
cercando di confortarlo: «Stai tranquillo, vedrai che tutto si
risolverà nel migliore dei modi».
Lui annuì, esausto, come se non avesse più le forze per
controbattere; d’altra parte, era dalla mattina che non
toccava cibo, passando il tempo a struggersi
nell’attesa che qualcuno gli facesse sapere cosa ne era stato
della sua rossa fiorentina.
Quindi, si risedette sulla poltrona e sospirò, mentre suo padre salutava
i due ragazzi, dicendo che sarebbe andato a riposare un poco prima di
cena. La Matrona, invece, avendo visto che i due migliori
amici del figlio erano nei paraggi, aveva pensato bene di fingere una terribile emicrania e rintanarsi nella stanza da letto,
così da essere sicura di non essere costretta ad incontrarli
e
rivolgere loro la parola in nessun modo.
Perciò, dopo pochi secondi, rimasero in salotto solo loro tre,
consapevoli che tutto si era concluso con un nulla di fatto.
«Be’, almeno sembra che aumenteranno la
sorveglianza» esclamò Vittoria, con la chiara intenzione
di sdrammatizzare e allentare così la tensione, quasi fisicamente palpabile.
«Per quanto ne so, potrebbero aver lasciato il
paese e tutti quei controlli potrebbero essere più che
inutili» commentò Marcello, tetro, affossandosi ancora di
più tra i cuscini.
«Non essere cosi negativo!» lo rimprovero lei, puntandosi i pugni chiusi sui fianchi.
«Gerardo, di’ qualcosa a Marcello!»
Il ragazzo si avvicinò e, con la sua solita calma,
confermò quanto aveva detto la giovane: «Vittoria ha
ragione, non devi perderti
d’animo».
«Visto?» esclamò l’altra, più che soddisfatta.
Tuttavia, a Marcello quelle considerazioni inutili stavano cominciando
a dare fastidio: che cosa potevano sapere i suoi due amici di cosa stava
passando lui, dell’angoscia che lo asfissiava?
«Smettila di chiacchierare a vanvera!» le
intimò quindi, irritato, contraendo la mascella.
Vittoria aprì appena la bocca, assumendo un’espressione mortificata.
«Non te la prendere con lei!» insorse, allora, Gerardo,
avanzando minacciosamente in direzione dell’amico.
«Altrimenti, cosa pensi di fare?» lo sfidò il biondo, alzandosi di scatto e dardeggiandolo con uno sguardo fiammeggiante.
«È facile
parlare, per te! La tua donna è qui, al sicuro!»
La ragazza, non volendosi dare per vinta, si alzò in piedi a sua
volta e si frappose tra i giovani, ordinando loro: «Smettetela di
litigare, voi due!»
Entrambi la guardarono, arretrando appena e consentendole di finire ciò che aveva da dire loro.
«Gerardo, Marcello è in pensiero per Beatrice,
cerca di
comprenderlo» fece lei, elargendo al suo ragazzo un’occhiata dolce. «E
tu,
Marcello, non arrabbiarti con noi, perché fare così non ti porterà da nessuna
parte» aggiunse con tono morbido, rivolta al suo amico.
Quello si risedette sulla poltrona per l’ennesima volta, stremato: l’ansia l’aveva ridotto ad
un fascio di nervi, logorandolo come se fosse stato ai lavori forzati
per giorni. I suoi amici avevano ragione, non aveva senso prendersela
con loro, non era certo in quel modo che avrebbe liberato
Beatrice, per cui inspirò a fondo e si sfregò
delicatamente le palpebre.
«Sì, voi andate pure, non ha senso che restiate
qui».
Ma Vittoria scosse la testa e in qualche passo lo raggiunse,
accomodandosi sul bracciolo e prendendo così posto accanto a lui.
«Non ci schiodiamo di qui, invece!» esclamò,
risoluta, poggiandogli una mano sul braccio. «Anche noi vogliamo
che Beatrice torni a casa, vero, Gerardo?»
Anche il giovane si avvicinò, lo sguardo rivolto a terra.
Tentennò un attimo, poi si decise a parlare: «Marcello,
perdonami. Hai ragione: se io non dovessi sapere
dove si trova Vittoria, farei cose peggiori, probabilmente».
Lei, allora, si voltò verso di lui e gli regalò un
sorriso
riconoscente, al quale il giovane rispose con un timido cenno: il
biondo, nell’assistere a quel silenzioso scambio di gesti
d’affetto, capì che, in fondo, non era colpa di Gerardo e
Vittoria se avevano la fortuna di poter stare insieme, né,
tantomeno, avevano colpa se Navarra aveva deciso di comportarsi come il
peggiore dei briganti e rapire una fanciulla che doveva sopportare la
condanna di avere come fratello un idiota sconsiderato.
Quel Guido l’avrebbe pagata cara, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto!
«Non fa niente. Anch’io ti ho aggredito, ma non
sapere dove sia e cosa le stiano facendo, mi uccide» rispose,
sentendosi in colpa per come si era comportato con il suo migliore amico.
Gerardo, anche in questa occasione, dimostrò la sua vera
bontà d’animo e si limitò a scuotere la testa, come
a dire che era già tutto dimenticato ed archiviato, facendo,
addirittura, il primo passo di riappacificazione, avanzando verso di lui e dandogli qualche pacca affettuosa sulla
spalla.
Marcello
incurvò leggermente le labbra per rispondere al gesto, poi
appoggiò la schiena contro i cuscini della poltrona e chiuse gli
occhi, desiderando solo che finisse tutto quanto prima e
formulando una muta e intensa preghiera: se mai avesse avuto modo di
riabbracciare Beatrice, promise che le avrebbe
detto, finalmente, quanto era innamorato di lei.
***
La sera era calata, portando con sé un freddo molto
fastidioso e
Beatrice, oramai non più sotto l’effetto
anestetico
dell’etere, lo percepiva appieno, rabbrividendo sotto la
rozza
coperta di lana che le avevano dato i suoi rapitori, ma, forse, quello che sentiva non aveva niente
a che fare con la temperatura esterna.
Da quello che aveva sentito dire dai complici di Navarra qualche ora prima, doveva
trovarsi in una casa abbandonata, situata nelle campagne poco
fuori dalla città; in realtà, avuto anche modo di verificare
quest’informazione di persona, quando i due scagnozzi
l’avevano condotta in un bagno sporco e diroccato, per
consentirle di sciacquarsi e sistemarsi e lei, attraverso le
persiane bloccate, aveva intravisto un paesaggio campestre.
A dire il vero, di primo impatto, era stata
quasi sul punto di rifiutare l’offerta dei due individui, ma poi, davanti
all’opportunità di stare per qualche minuto da
sola e di
sentirsi liberare i polsi e le caviglie, aveva accettato di buon grado
anche di lavarsi con l’acqua fredda - e certamente contaminata - contenuta in una vecchia
tinozza.
Ora, però, la ragazza sedeva in un angolo del salotto, mentre, alla luce di alcune torce, Felipe e Pablo
nell’angolo opposto del grande salone confabulavano fra loro,
cercando di accendere un fuoco, senza tuttavia riuscire a ottenere
brillanti
risultati a causa di uno spiffero di vento che continuava a spegnere
ogni piccola fiammella che riuscivano a generare. Se si fosse trovata
ad assistere a quella scena in
un’altra circostanza, probabilmente l’avrebbe
trovata
ridicola, vedendo che due delinquenti come quelli non erano
nemmeno in grado di accendere un fuocherello per riscaldarsi e
preparare
la cena.
Ad un certo punto, senza troppe cerimonie, la giovane si distese sul divano sfondato
- unico pezzo di mobilio nella stanza, escludendo un vecchio
tavolo -
massaggiandosi i polsi: fino a che non avrebbe mangiato, le avrebbero
risparmiato i legacci. Su questo erano stati chiari: Navarra stesso
aveva dato quell’ordine, prima di sparire nel tardo
pomeriggio.
Chissà dove era andato. Essendo ricercato dalla polizia, in
teoria, non avrebbe potuto girovagare come se nulla fosse, a meno che
non avesse altri complici lì fuori,
pronti a difenderlo.
«Secondo
me questo posto è infestato!» sbottò Felipe,
alzandosi di scatto e dando un calcio ad uno scatolone abbandonato in un angolo.
«Non
dire scemenze!» lo rimbeccò Pablo, insistendo ad accendere
fiammiferi che, puntualmente, venivano spenti dal refolo dispettoso.
«E allora spiegami perché non riusciamo ad
accendere el fuego!» insorse l’altro, gesticolando nervosamente, per poi indicare il fuoco.
Beatrice si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere fragorosamente:
due delinquenti di quel calibro che si erano ridotti a dare la colpa ai
fantasmi, solo perché non erano in grado di fare una cosa
così semplice!
Purtroppo, però, la voglia di ridere le passò subito, perché
udì una voce cavernosa e tristemente familiare rimbombare
nell’ingresso.
«È tornato il capo» commentò Felipe,
lasciando da parte la lotta ingaggiata con legna e fiammiferi. Prese
una torcia e si diresse verso l’ingresso, sicuramente con
l’intento di illuminare il percorso a Navarra, ed evitare
così che inciampasse o cadesse, evenienza che, se non altro,
avrebbe davvero dato un po’ di soddisfazione a Beatrice.
«Cosa ha detto la
espía, Conrado?» domandò Pablo, quando l’imponente e losca figura fece il suo ingresso nel salone.
Nella penombra, la ragazza vide l’uomo grattarsi il mento con fare nervoso: «Ha detto che lo
ha già riferito a Lui:
non ci aiuterà più, l’abbiamo deluso
troppe volte».
«Questo vuol
dire que
non ci aiuteranno?»
gracidò lo scagnozzo: anche se non lo poteva vedere bene in
faccia, il tono che aveva usato era inequivocabilmente preoccupato,
come se non avesse mai potuto ritenere possibile un’eventualità
simile.
Navarra scosse la testa.
«È
stata la spia a metterci la policia alle
calcagna!» insorse l’altro complice, dando un altro calcio
allo scatolone che, probabilmente, conteneva il cibo destinato alla
loro cena.
La ragazza si tirò su per sentire meglio, incuriosita dalla
piega decisamente interessante che stava prendendo la conversazione: a
quanto sembrava, infatti, quel delinquente si era messo in
trappola con le sue stesse mani, probabilmente cercando di imbrogliare
qualcuno più furbo di lui e che non si era fatto troppi problemi
a vendicarsi.
Solo un evidente particolare, però, non tornava a Beatrice: se questo qualcuno
era anche lui un delinquente, come aveva fatto ad interagire con la
polizia? Magari, era un pentito che aveva deciso di parlare e rivelare i
nomi dei suoi complici...
«Almeno, ho il mio premio de consolación» affermò Conrado, voltandosi verso di lei e studiandola con occhi languidi e bramosi.
A quel punto, la
fanciulla, accorgendosi di ciò, lasciò da parte le sue
congetture e scattò in piedi, adirata: «E non son il
premio di consolazione di nessuno!»
Navarra scoppiò a ridere nel suo tipico modo sguaiato, per poi
interrompersi e lanciarle uno sguardo ancor più lussurioso di
prima.
«Dopo tutto quello che è successo oggi, ho diritto ad un po’ di sano svago, non trovi, dulzura?»
chiese, retorico. Quindi si rivolse ai suoi scagnozzi: «Voi due
andate ad assicurarvi che tutto sia pronto per domani mattina: non
voglio che ci siano altri incidenti di percorso, claro?»
I due uomini borbottarono parole di assenso in spagnolo e poi uscirono dalla stanza, lasciandola sola con il suo aguzzino.
Beatrice strinse i pugni, mentre un tremito di rabbia la percorreva da
capo a piedi: non era assolutamente intenzionata ad assecondare i
desideri sconci di quel depravato e, piuttosto che vedere calpestata la
sua dignità di donna, avrebbe preferito morire.
«L’hai aspettato così tanto per avermi, non puo’
attendere ancora qualche altro giorno, fino al matrimonio?» chiese, tenendo il mento alzato e sfidandolo apertamente. Forse, in
quella penombra, Navarra non riusciva a vederla bene in faccia, ma le
sue parole non potevano essere certo fraintese.
«Ti
sembro uno che aspetta? No, niña, decisamente no» fu la sua secca risposta, mentre muoveva qualche passo verso di lei.
Ma
la giovane non si arrese e, tirando fuori tutto il coraggio che aveva,
non cedette all’impulso di scappare e proseguì:
«Be’,
con me lo farai! Se vuo’ sposarmi, devi accettare le mie condizioni».
Navarra
rise ancora più sguaiatamente, alimentando l’odio che la ragazza
nutriva nei suoi confronti: che essere spregevole e disgustoso era!
«Altrimenti
cosa succederà? Mi ammazzerai nel sonno?» le chiese, canzonatorio.
«No, non l’ucciderò te»
gli
rispose Beatrice, molto lentamente, cercando di prendere tempo e
di trovare argomentazioni valide, sebbene quella
situazione non favorisse certo la concentrazione.
«Farò del male
a me
stessa. Certo, potresti sempre trovarti un’altra ragazza da
sposare, ma tu hai pagato, hai estinto l’ingente debito del mi’
fratello pur di avere me».
L’uomo la fissava in silenzio, come rapito dalle sue parole, e la giovane si augurò di avere la sua completa
attenzione, almeno per cercare di guadagnare tempo e poter pensare a qualcosa
di più convincente.
«E tu non vuo’ ridurre in cenere i tuo’ affari, vero, Conrado?»
continuò, sforzandosi di mantenere un tono fermo e convincente e
di non andare nel panico. Non era affatto facile, ma, in quel momento,
era l’unica cosa che poteva fare.
Il silenzio allora calò su di loro come una pesante lama, fredda e
affilata, tanto che lei rabbrividì, sentendo la mancanza
della coperta ruvida che aveva lasciato sul divano.
Dopo qualche istante, però, Navarra parlò, scandendo ogni parola con tono grave: «Anche
se la spia mi ha tradito, io posso ancora vincere molte
partite, Beatriz».
Si accovacciò in terra e cominciò a trafficare con i
fiammiferi e con la legna, riuscendo dopo pochi secondi laddove i suoi complici avevano
fallito; presto, infatti, nella stanza scoppiettò un bel fuoco
vivace e si diffuse un piacevole calore che sembrò invitare Beatrice ad
avvicinarsi; tuttavia, la ragazza si guardò bene dal cedere alla
tentazione, per evitare di trovarsi troppo vicina a
quell’energumeno.
Lui, invece, estrasse dalla tasca interna della giacca una sigaretta e
l’accese avvicinandola cautamente alla fiamma, poi si alzò
e se la mise in bocca, tirando un paio di boccate ed inspirando il fumo senza fretta.
«Questa sera, però, hai vinto tu, niña» le disse,
sogghignando. «Ti
sei resa molto più desiderabile di quanto già non
fossi e
ad un acquisto prezioso va sempre riconosciuto il suo valore».
Tuttavia, la ragazza non replicò, come se avesse il timore che, aggiungendo
una qualsiasi altra cosa, il suo aguzzino potesse cambiare di nuovo
idea, e trattenne il fiato finché non lo vide oltrepassare la
porta della stanza.
Navarra, però, si voltò verso di lei un’ultima volta, languendo ironico: «Buonanotte, dulzura. Riscaldati, non vorrei che fossi raffreddata, il giorno delle nostre nozze».
Subito, l’effetto dell’adrenalina cominciò a scemare e le
gambe le cedettero, facendola ritrovare seduta su quello scomodo
divano: aveva solo guadagnato un po’ di tempo, senza risolvere
effettivamente il suo problema. E adesso, cosa avrebbe fatto?
Si rannicchiò, gettandosi addosso la coperta di lana ruvida e
riconoscendo che non c’era via d’uscita, se non quella di
assecondare Navarra e abbandonarsi ad una vita di infelicità e
sofferenze, dove i suoi sogni e le sue aspettative sarebbero rimaste
solo un ricordo lontano dell’infanzia.
“Don’t
say a prayer for me now
Save it ’til
the morning after
No, don’t say
a prayer for me now
Save it ’til
the morning after”2
In quel momento, i versi di una delle sue canzoni preferite le
rimbombarono in testa, invitandola davvero a pregare per la sua sorte
che sembrava così tremendamente segnata. Finalmente, però, ebbe il
coraggio di pensare a Marcello e a tutte le cose che
non avrebbero
più
avuto modo di fare, mentre avvertiva un insopportabile dolore al petto,
come se
qualcuno la stesse opprimendo e le volesse impedire di respirare.
Perché doveva soffrire così tanto? Le sarebbe piaciuto
portarlo nella sua amata
Firenze, a fargli vedere i posti in cui era cresciuta, magari
prendendolo sottobraccio e perdendosi nel suo buon profumo. Invece le
sarebbe toccato lasciare l’Italia e scappare come una
criminale,
seguendo Navarra.
Eppure, Beatrice non si rassegnava al fatto che il suo destino fosse soltanto sottomettersi al
suo carnefice, ignorando la propria volontà: era nata libera e
tale sarebbe rimasta, non si sarebbe certo piegata ad un compromesso
tanto subdolo. Cosa sarebbe servito, dopotutto, continuare a vivere, rimanendo
assoggettata ad un uomo vile e meschino come Conrado?
Inoltre, non gli avrebbe dato la
soddisfazione di sentirla piagnucolare mentre lui abusava di lei. Era
una ragazza, era vero, non poteva sperare di competere con la forza
fisica di quell’energumeno, ma aveva un altro modo per far
valere
la propria posizione, per compiere un ultimo atto di libertà.
La stanchezza, però, cominciò presto a prendere il sopravvento e la luce
emanata dal fuoco cominciò ad affievolirsi sotto le palpebre che
sentiva sempre più pesanti.
Quanto avrebbe desiderato, in quel momento, trovarsi tra le braccia
sicure del suo Marcello! Gli occhi le bruciarono e i pensieri si
confusero ancora di più, ma non c’era tempo per le
lacrime: non
avrebbe mai permesso a Navarra di vincere.
Anche a costo di togliersi la vita.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per il supporto e la pazienza.
***
[N.d.A]
1. Raccordo: ovviamente, si tratta del G.R.A., vale a dire il Grande Raccordo Anulare.
2. Don’t
save... the morning after: si tratta della canzone Save a Prayer dei
Duran Duran, appartenente all’album Rio (1982).
***
Salve a tutti!
Anche questa volta - miracolosamente - sono riuscita ad aggiornare
secondo i tempi previsti. Come avete avuto modo di vedere, nella storia
si sta facendo
sempre più presente la nota “giallistica”, tanto
è vero che ho deciso di aggiungere, come ulteriore sottogenere, suspence. A
tal proposito vi annuncio che, prossimamente, ritoccherò anche
la presentazione, cercando di inserire qualcosa che offra una visione
più ampia del racconto (che, come ci tengo sempre a precisare,
non è solo una storia romantica).
D’altra parte, per me, gli Anni ’80
sono anche questo: rapimenti, malavita e misteri. Spero che non
consideriate tutto questo eccessivamente pesante, anche perché
vorrei che tutte le componenti avessero pari dignità, ma senza
eccedere nell’uno o nell’altro verso.
Ringrazio chi mi ha gentilmente recensito lo scorso capitolo, ossia Aven, Feynman, Anto e Balder Moon; chi legge in silenzio; chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite; chi mi lascerà un parere in futuro.
Sapere che ci siano delle persone interessate a questa storia, nonostante tutto, mi rende molto felice.
Come al solito, vi lascio il link alla mia pagina
facebook,
dove troverete, nei prossimi giorni, uno spoiler del capitolo
dodicesimo (che verrà pubblicato il 25 Marzo) e altre cose.
Alla prossima, per chiunque ci sarà!
Halley S. C.
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Capitolo 12 *** Capitolo Dodicesimo - Vento di Tensioni ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 12
- Capitolo Dodicesimo -
Vento
di Tensioni
Non
appena fu in grado di distinguere ogni lettera dello stemma illuminato
della
Polizia di Stato, Guido capì di essere arrivato troppo
vicino
per tirarsi indietro. La porta del commissariato Celio I1,
incastonata tra mattoncini rossi a pochi passi da lui, rappresentava la sua via di fuga,
oppure di eterna dannazione, a seconda della prospettiva da cui si guardava
la faccenda, giacché, se avesse detto tutto quello che sapeva
agli sbirri,
avrebbe, sì, aiutato Beatrice, ma si sarebbe
anche inimicato Navarra fino alla fine dei suoi giorni.
Il pensiero che quel delinquente potesse vendicarsi fece vacillare all’improvviso quel
poco coraggio che era riuscito a mettere insieme e che
l’aveva
portato fino a lì, provocandogli un’angoscia mai
avvertita
prima. Ciononostante, non avrebbe mai potuto abbandonare Beatrice
al suo triste destino ed era soltanto colpa sua se la
sorella era sparita: molto probabilmente, infatti, l’avevano portata
via
con la forza quella mattina mentre stava andando a lavorare.
Che fare, dunque?
Tentennò per qualche altro secondo, accennando un passo
avanti, per poi farne, subito dopo, almeno due indietro.
Intanto, l’agente piantonato vicino alla porta, un giovanotto
che
doveva avere circa vent’anni, lo scrutava con sospetto, con
gli
occhi ridotti a due fessure, come se avesse intuito che stava
nascondendo qualcosa. In fondo, era il suo lavoro, ormai doveva aver
sviluppato un intuito particolare nel riconoscere al volo chi potesse essere
un mascalzone con la coscienza sporca, un potenziale testimone o, come nel
caso di Guido, entrambe le cose.
«Ha intenzione di continuare questo ridicolo balletto ancora
per
molto?» lo apostrofò ad un certo punto, portandosi le
mani
sui fianchi e incenerendolo con lo sguardo.
«N-No...» balbettò il ragazzo,
sobbalzando. Ora che
era stato notato, il cuore prese a martellargli nel petto con
ancor
più forza.
«Se deve entrare, entri! Se invece sta cercando il circo,
arriva
tardi. Ma può sempre inseguirlo»
continuò quello,
sfiorando con una mano la fondina dove teneva la pistola.
A quel gesto, il giovane si sentì congelare e le parole gli
uscirono da sole: «I-Io vo-voglio s-solo che ri-ritroviate
la m-mi’
sorella!»
L’agente rimase a fissarlo, scettico, come se
dubitasse
della veridicità dell’affermazione, poi
inarcò le
sopracciglia, facendole quasi convergere fino a formare un angolo acuto.
«Cos’è successo a sua sorella?»
«L-L’han
rapita... Stamane... Per colpa
mia» disse stentatamente Guido, accasciandosi a terra: si
sentiva
esausto, ma in parte sollevato, giacché si era finalmente
liberato di un peso sulla coscienza che non aveva mai voluto ammettere:
il fatto che la responsabilità del rapimento di Beatrice fosse
unicamente la sua. Infatti, se non avesse deciso di sfidare Navarra a
poker, quella sera lontana, non avrebbe accumulato
nessun
debito di gioco, arrivando perfino ad impegnare la vita di sua
sorella.
Per giunta, la quantità di creditori dello spagnolo era tale
da
sospettare che quelle carte fossero state manomesse, così da
assicurargli di vincere ogni mano: se lo avesse saputo prima, sicuramente ci
avrebbe pensato due volte prima di accettare un suo invito a giocare.
E dire
che Beatrice,
da sola, era riuscita ad incantare quel ricco sfondato di Marcello
Tornatore. Se solo Guido l’avesse lasciata fare, senza impegnarla allo
spagnolo, probabilmente si sarebbe sposata con quello scorbutico e
anche lui, in qualità di fratello della sposa, ne avrebbe
tratto
vantaggio...
Intanto, mentre osservava l’asfalto, velato
dall’umidità della notte, udì un rumore di
passi che si
avvicinavano e poi due paia di braccia robuste che lo aiutavano ad
alzarsi.
Allarmato, si voltò a destra e a sinistra, scorgendo due
poliziotti che lo sorreggevano, mentre quello che gli aveva
rivolto la parola lo scrutava diffidente.
«Portiamolo dentro, quest’individuo deve chiarirci
molte cose».
La stanchezza della settimana appena trascorsa investì
Alberto
Molinari nello stesso momento in cui si sedette alla sua scrivania,
sfogliando distrattamente il fascicolo che gli avevano consegnato
quella mattina e che rappresentava il motivo per cui era costretto a
passare il sabato
sera in commissariato, piuttosto che tornare a casa dalla sua Angela.
Erano mesi, infatti, che stavano cercando di porre fine ad un commercio illegale
di armi dalla Spagna, senza tuttavia avere una pista cui
appigliarsi, quando, inaspettatamente, due giorni prima era venuto il
questore a comunicargli che c’era stata una soffiata da un
testimone molto attendibile che, però, aveva preferito rimanere anonimo.
In quei fogli compariva svariate volte anche Conrado de Navarra, già noto per varie attività illegali e
accompagnato da vari complici, sia spagnoli che italiani, sicuramente
implicati nel mantenimento della rete di contrabbando.
Molinari si passò una mano tra i corti capelli brizzolati e
sistemò la sua lampada da tavolo, inclinandola
leggermente, così che la luce non riflettesse sulla carta
bianca rendendogli più difficoltosa la lettura; poi, prese una matita
ben
appuntita dal portapenne davanti a sé e aprì la
cartellina azzurra, deciso a mettere un punto alla questione nel minor tempo
possibile. Tuttavia, convenne che, prima di mettersi
all’opera, aveva proprio bisogno di un bel caffè
forte.
Alzò perciò la cornetta del telefono per chiamare il bar
dell’angolo, aperto ventiquattro ore su ventiquattro
- una vera salvezza per chi doveva sostenere il turno di notte, quando
due vigorosi colpi alla porta lo interruppero.
«Avanti» disse l’uomo, contrariato: se i
suoi agenti più
giovani, anche questa volta, lo stavano disturbando per il solito
ubriacone molestatore del sabato sera, li avrebbe sbattuti in cella a
fargli compagnia!
Nella stanza, però, entrarono un ragazzo sui venticinque anni e
tre
poliziotti, due dei quali lo stavano letteralmente trascinando,
giacché non sembrava avere la forza per camminare, ma solo
quella per emettere una serie di fastidiosissimi lamenti a voce bassa.
Il quartetto era poi capitanato dall’agente Tonelli, da poco
trasferitosi a Roma, un giovanotto molto capace, ma, a volte, un
po’ troppo ostinato nelle sue convinzioni ed eccessivamente
pedante nell’analizzare tutti i cavilli della procedura
d’ufficio. A volte pensava che, mancando così tanto di
senso pratico, forse avrebbe fatto meglio a diventare avvocato o
magistrato.
«Commissario, quest’uomo si è presentato
qui, dicendo che sua sorella non è rientrata a casa, questa
sera» esordì,
indicando il ragazzo, il quale aveva l’aria di non sentirsi
troppo bene. Molinari sbuffò: ci mancava solo che svenisse
nel suo ufficio, come se non avesse già abbastanza cose di cui occuparsi!
«Ebbene? Saverio, puoi occuparti da solo delle denunce di
scomparsa. In questo momento sono molto occupato e desidero essere
disturbato solo per questioni importanti!» tuonò
il commissario, agitando pericolosamente i fogli che stava leggendo.
Tonelli deglutì, ma non si lasciò intimorire
più di tanto, perché proseguì:
«Commissario, quest’uomo sostiene che la ragazza
sia stata sequestrata e che lui stesso ne è coinvolto.
Inoltre, non sta collaborando molto...»
L’uomo, nell’udire queste informazioni,
abbassò cautamente il plico che stava sbatacchiando sulla
scrivania e spostò repentinamente lo sguardo sul ragazzo,
all’apparenza più morto che vivo. Che razza di
persona era quella che collaborava nel rapimento di un membro della
propria famiglia? Sicuramente, un delinquente della peggior specie, senza Dio e
senza morale!
Nonostante sapesse che il suo ruolo non ammetteva i pregiudizi,
l’integerrimo Molinari non poté fare a meno di
biasimare chi aveva di fronte, al punto di abbaiare,
imperativo: «Lei! Come si chiama?»
Poiché l’interrogato non rispondeva, sempre in
preda ai suoi lamenti, intervenne uno dei due agenti che lo
stava sostenendo: «Commissario, ha detto di chiamarsi Guido
Tolomei».
«E come si chiama sua sorella?»
«Beatrice. Beatrice Tolomei, di anni diciotto»
rispose, questa volta,
l’altro agente.
Il commissario chiuse la cartellina e la gettò con
malagrazia sulla scrivania, alzandosi in piedi e avvicinandosi a quel
Guido. Gli era già antipatico a pelle: che razza di uomo si
sarebbe ridotto in quelle condizioni pietose, invece di mostrarsi
agguerrito nel cercare di ottenere aiuto ed informazioni per salvare la
sorella?
«E chi sarebbe l’artefice del sequestro? Ma,
soprattutto, perché sostiene di esserne coinvolto direttamente?» gli sibilò, a pochissima distanza
dal viso.
Tolomei sollevò appena le palpebre e, dopo
qualche secondo, si
mise a piagnucolare: «E non volevo che le facesse del male... Si credeva2
che lui
l’avrebbe solo sposata e che
sarebbe finito tutto così!»
Molinari si tirò indietro, scrutando il ragazzo con
disgusto.
Solo sposata? Secondo i giovani ora il matrimonio adesso era forse diventata una
formalità o, peggio, una moda?
Ritornò sui suoi passi e si appoggiò al ripiano
della
scrivania, poi, sovrappensiero, domandò
all’agente alla
sinistra di Guido:
«Pontori, cosa diavolo sta blaterando? Chi è
questo lui?»
Tuttavia, fu Tonelli a rispondere, con grande diligenza: «Non siamo riusciti a
capirlo».
Il
commissario si
prese il mento con una mano e, dopo aver fatto le sue considerazioni,
ordinò ai due poliziotti: «Fatelo sedere qui e
sorvegliatelo a vista, non voglio che si sposti di un millimetro! Se
necessario, legatelo, inchiodatelo, ammanettatelo o quel che volete, ma
voglio
trovarlo qui al mio ritorno, chiaro? Ora io ho assolutamente bisogno di
un
caffè!»
Gli agenti, compreso Saverio, annuirono decisi, ma Molinari non aveva
fatto nemmeno in tempo ad abbassare la maniglia della porta, che Guido
parve risvegliarsi dal suo torpore e cominciò a strillare
come
in preda ad un delirio: «No, non m’arrestate, vi prego! E son
innocente!
Non volevo far del male alla
Beatrice...
Navarra minacciava di ucciderci
tutti!»
L’uomo, nel sentir pronunciare quel nome, rimase come
paralizzato: si era sbagliato, o quel fifone aveva appena detto
Navarra, come il principale sospettato del resoconto inviatogli quella
mattina da Saltarini?
«Tolomei, lei conosce questo Navarra?»
«Sì, sì, lo conosco! Da quando ho
avuto la sventura di perder tutto al poker, Conrado de Navarra
mi perseguita!»
«In che rapporti è con lo spagnolo?»
«Non buoni, mi sta prosciugando
di ogni lira, m’ha costretto
perfino ad obbligare la
mi’ sorella a sposarlo!»
Molinari soppesò molto ponderatamente quanto stava
apprendendo,
certo di aver individuato con buona precisione il bersaglio e più che sicuro che la mossa successiva più
opportuna fosse avvisare il questore delle novità. Si
voltò
verso Tonelli e lo indicò con l’indice, ordinando
perentorio: «Tu! Mettimi immediatamente in contatto con il
dottor
Saltarini. Non c’è un minuto da perdere: se
solleva
obiezioni visto che è sabato sera, digli che mi prendo io tutta la
responsabilità, ma devo parlargli
subito».
Il
ragazzo strabuzzò gli occhi, osservando il suo superiore
come se gli avesse chiesto di arrivare in America a nuoto.
«Commissario, è sicuro? Perché vuole
scomodare il questore di sabato sera?
Si tratta solo del rapimento di una ragazzina».
«Perché c’è molto di
più, sotto» rispose l’uomo, asciutto,
ritenendo che
non fosse quello il momento di rivelare particolari, dato che, se le
sue supposizioni erano esatte, sarebbe stata avviata
un’operazione entro l’alba. «Hai ancora
molta strada
da
fare, Saverio.
Nel nostro lavoro, non è contemplato il
pressappochismo».
Tonelli annuì, non troppo convinto, ma alla fine fece comunque quello che gli
era
stato ordinato, congedandosi e dirigendosi nell’ufficio adiacente.
Dopo aver lanciato una rapida occhiata oltre le veneziane che
dividevano le vetrate dei vari uffici ed essersi assicurato che il
poliziotto stesse rintracciando davvero il questore, Molinari
tornò a riversare tutta la sua concentrazione sul lamentoso
Guido.
«Mi
dica, Tolomei, per caso, sa se il Navarra è ancora qui a
Roma?»
Il giovane scosse nervosamente la testa: «Non lo so... E speravo che
voi m’aiutaste a trovare la
Beatrice. So solo che
era in partenza e che
aveva una base provvisoria in una cascina
abbandonata, in zona Roma Est».
«Commissario, abbiamo avuto una segnalazione dalle parti di
Torpignattara, qualche giorno fa: una signora ha detto di aver visto
movimenti sospetti in una villetta abbandonata da anni»
riferì l’altro agente, quello che, fino a quel momento, era
rimasto
più in silenzio.
Molinari si voltò verso il suo sottoposto con uno scatto,
come
se fosse stato morso, e dovette trattenersi per non
mettergli le mani al collo: perché era circondato da
incapaci?
«Ed ora me lo dici, solo ora, Sabatini?! Cosa aspettavi, che
questi delinquenti espatriassero e ci mandassero una cartolina dalle Canarie con i loro saluti?»
Quello sbiancò e prese a balbettare: «M-Ma,
co-commissario, n-non sapevamo se prenderla per
un’informazione
veritiera, è stata una signora anziana a
contattarci!»
«Sapete perfettamente che siamo sulle tracce di questi
criminali
da mesi! E avete anche il coraggio di lamentarvi che i cittadini non
collaborano con noi: se non li prendete sul serio, è il
minimo!» berciò il commissario, davvero alterato,
rivolgendosi ad
entrambi gli agenti. «Con i vostri atteggiamenti
menefreghisti
mettete in cattiva luce e in ridicolo tutto il corpo di Polizia!
Adesso pretendo che rintracciate la signora e che vi facciate dare
altri dettagli, il tutto pretendo che sia fatto prima che arrivi il dottor
Saltarini!»
I due poliziotti, davanti a tali rimproveri, sembrarono
rimpicciolire per la vergogna, quindi si affrettarono ad uscire di
corsa dall’ufficio per portare a termine i loro incarichi.
«E portatemi subito il mio caffè!»
***
Il cinguettio degli uccellini avvertì Marcello che stava
albeggiando.
Spostò la testa di poco, quanto bastava per verificarlo,
osservando la pallida luce che filtrava
attraverso le tende del balcone della sua camera da letto,
quindi ritornò supino, le
mani intrecciate sullo stomaco e gli occhi intenti a fissare il
soffitto, come aveva fatto per tutta la notte, non essendo riuscito a
chiudere occhio nemmeno per un misero istante, non sapendo ancora assolutamente
niente di Beatrice.
In quel momento, un improvviso fruscio di coperte gli ricordò che non era
solo:
sollevò appena il capo e vide che Gerardo e Vittoria,
abbracciati, stavano
ancora dormendo nel divano letto accostato alla parete,
poiché
non avevano voluto lasciarlo solo, costringendo
Ottavia a preparare in fretta e furia un posto per farli dormire.
La Matrona, però, con i suoi modi arcigni, non aveva permesso che venissero
preparate le stanze per gli ospiti, ma i due ragazzi non si erano persi
d’animo e avevano replicato che dormire tutti nella stessa
stanza, come quando erano bambini, sarebbe stato meglio anche per
Marcello, in quanto avrebbe percepito meno la solitudine;
anche loro, poi, erano in attesa di una buona notizia che, però,
non
era ancora arrivata.
Il giovane, alla fine, decise di alzarsi dal letto, trascinandosi in bagno per
lavarsi
la faccia con l’acqua fredda e schiarirsi i pensieri, intorpiditi da
quella che era stata una nottata di angosce e sospiri.
Una volta rientrato in camera, osservò Gerardo e Vittoria e
provò una piccolissima fitta di irrazionale invidia nei loro
confronti: non solo erano insieme, ma sia i genitori dell’uno
che
quelli dell’altra, avevano fatto letteralmente i salti di
gioia,
quando avevano detto loro di essersi finalmente fidanzati, tanto che
la signora Irene aveva già cominciato a pensare a quando
organizzare il matrimonio.
Sua madre, invece, non faceva altro che ricordargli che quella ragazza non era la donna giusta per lui e, in quel frangente di
costante incertezza riguardo le condizioni della ragazza, quelle considerazioni,
ovviamente, lo facevano solo stare peggio.
Lui stesso, infatti, per primo aveva delle riserve a causa della buona differenza di
età che c’era fra di loro, tuttavia era certo
che, se era vero che esisteva una sola anima gemella per ciascuno di
noi, la sua non sarebbe potuta essere diversa da Beatrice: brillante,
spigliata e allegra. Era tutto il suo opposto e, proprio per questo
motivo, lo faceva sentire completo.
Poi, dopo l’ennesimo sospiro in quelle ultime ore, decise di andare in cucina, anche se non
aveva
la benché minima intenzione di fare colazione, perché aveva lo stomaco chiuso da quando gli avevano riferito del
rapimento, tuttavia aveva bisogno di un buon tè per
recuperare
almeno un po’ di lucidità ed energia.
Dopo aver inserito il filtro di un tè ceylon in una tazza
traboccante di acqua bollente, il giovane aprì la
porta-finestra
della cucina che, per sua fortuna, aveva trovato miracolosamente
vuota, segno che sua madre ancora non si era svegliata e non aveva
ordinato la colazione. Quindi, si sedette al tavolino con le gambe in ferro
ed il ripiano in mosaico che dava sulla parte più nascosta
del
giardino, quella prospiciente alla pineta.
Il buon odore della bevanda calda agì come un balsamo
temporaneo
sulla tensione che Marcello aveva accumulato in corpo, al punto che
riuscì perfino a distendere i muscoli e ad abbandonarsi
contro
lo schienale della sedia, reclinando la testa all’indietro e
fissando il cielo che cominciava a farsi azzurro, per poi svuotare la mente da
ogni pensiero.
Aveva letto da qualche parte che, in India, avevano
l’abitudine
di inspirare con il naso, senza l’ausilio della bocca, quando
erano alla ricerca di un buon metodo per rilassarsi e ritrovare la
concentrazione perduta; quale migliore occasione di tutta quella
baraonda che si era animata, quindi, per sperimentare se era
vero?
Poggiò perciò il tè sul tavolino e chiuse gli occhi,
preparandosi a fare un bel respiro.
«Buongiorno, Marcello» fece una voce assonnata.
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme,
mandando al
diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione
orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di
fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo
faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito
di così» sbottò il giovane,
sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero
cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma
non
aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo
logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più
tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco
gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso
di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice, perciò
cercò subito di rimediare, mitigando il tono:
«Vuoi anche
tu un
po’ di tè?»
«No, grazie, magari tra una mezz’oretta, quando mi
sarò svegliata per bene» fece lei, poggiando i
gomiti sul tavolo e il viso tra i palmi aperti delle mani.
«Come ti senti?»
«Uno straccio consumato e strizzato, accanto a me, farebbe un
figurone, ma non credo potrebbe essere diversamente»
considerò semplicemente il giovane, prendendo la tazza e
facendo
oscillare la bevanda all’interno, prima di iniziarla a bere a
piccoli sorsi.
Vittoria gli rivolse un’espressione dolce e addolorata allo
stesso tempo, annuendo. Per qualche istante, l’unico rumore
che
si udì fu il canto melodioso di qualche uccellino che doveva
essersi appollaiato sugli alberi nelle vicinanze, poi, come se avesse
preso coraggio, si sporse verso di lui e gli posò una
mano
sul braccio.
«Andrà tutto bene» lo
rassicurò, sorridendo
malinconica. «Sono convinta che quest’incubo
finirà
presto e tu potrai riabbracciare Beatrice».
«In questo momento, vedo solo buio intorno a me»
replicò però lui, lapidario. Si sentiva come sospeso a
metri da terra, senza
sapere se ci fosse o meno una rete di sicurezza sotto ad attutire
un’eventuale caduta. «Come ti comporteresti tu, se
sapessi
che Gerardo potrebbe essere in pericolo?»
La ragazza espirò con forza e chiuse gli occhi, per poi
riaprirli con la risposta già impressa nel suo sguardo:
«Esattamente come te».
«Già cincischiate di prima mattina?» li interruppe una voce.
Entrambi si voltarono e videro proprio il ragazzo dirigersi verso di
loro, i vestiti un po’ stropicciati e l’espressione
stanca.
«Sei geloso?» rise lei, punzecchiandolo.
Sospirando, il giovane prese posto accanto alla sua fidanzata.
«Buongiorno, eh?»
«Su, non fare l’offeso, stavo solo cercando di
tenere alto
il morale di Marcello! Deprimersi non è mai una
buona soluzione,
anzi, crea solo più problemi».
Subito, il ragazzo lanciò a Vittoria un’occhiata tra lo
scettico e lo
sconvolto, quindi sembrò decidere di riservare la sua
attenzione
solo all’amico.
«Ancora niente, vero?» domandò, apprensivo.
In risposta, Marcello negò con un breve cenno del capo, prendendo un
altro sorso del suo tè. Poi, aggiunse: «No. Sinceramente, credevo che la polizia potesse esserci di
aiuto, ma, evidentemente, mi sbagliavo».
A quel punto, la giovane appoggiò la testa sulla spalla di Gerardo e lui
mise
una mano su quella di lei, mentre il biondo, dopo aver poggiato la
tazza vuota sul tavolino, incrociò le braccia sul ripiano: tutti e tre sembravano in attesa di qualcosa.
E, in effetti, qualcosa accadde davvero: all’improvviso
sbucò dalla porta finestra anche la governante, che sembrava
particolarmente affannata.
Immediatamente, i ragazzi scattarono in piedi all’unisono,
come
se avessero intuito che si trattava delle informazioni che avevano a
lungo atteso.
«Ottavia!» esclamò Marcello, colpito da
quell’inattesa comparsa. «Cosa ti
succede?»
«Devi venire subito al telefono! Tuo padre
non
c’è e mi sembra molto importante...»
rispose la donna, evidentemente agitata.
Lo stupore del giovane aumentò ancor di più
quando apprese quest’ulteriore notizia.
«Papà non c’è? E dove
è andato?»
L’altra scosse ripetutamente la testa, incapace di calmarsi.
«Non saprei, è uscito molto presto... Comunque, vieni subito, è urgente!»
«Ma... Si può sapere chi è che sta
chiamando?» domandò lui, stizzito: già
si stava
capendo poco, almeno che gli fossero rese note le scarse notizie che si
avevano!
«Marcello, non ci crederai mai: è la
Questura!»
***
Beatrice, seduta su una vecchia panca di legno ammuffito ed incapace a
camminare a causa dei legacci alle caviglie, stava osservando Pablo e
Felipe che sistemavano delle grosse casse di legno
all’interno
di un camioncino bianco, domandandosi cosa mai potessero contenere,
mentre Navarra urlava ordini senza sosta, insistendo
affinché le
casse non subissero urti considerevoli e fossero
maneggiate con estrema cautela.
La ragazza corrugò la fronte pensando che, allora, dovessero
contenere materiale molto delicato e si augurò di cuore che
non fossero miscele esplosive o qualcosa simile. Ci mancava solo che
quel depravato la facesse saltare in aria!
«Non abbiamo tutto il giorno, forza, muovetevi!»
I due scagnozzi sbuffarono, ma continuarono a lavorare,
finché non riempirono tutto il retro del veicolo, poi
chiusero il portellone.
«Muy bien!»
approvò Conrado, con la sua solita voce cavernosa, mentre si
guardava intorno, molto soddisfatto. «Entro sera saremo
miglia lontani
da qui!»
La fanciulla smise di contemplare i fili d’erba bagnati di
rugiada del prato davanti a sé e sollevò lo
sguardo su
quel colosso, avvertendo una spiacevolissima sensazione: la sera prima
era riuscita solo a temporeggiare, ma fare la sostenuta non
l’avrebbe salvata in eterno e, per di più, il solo
pensiero di non rivedere più il suo Marcello le metteva
addosso
una smania incontrollabile. Perché le doveva essere negata
l’opportunità di vivere una vita felice con
l’uomo
che amava?
Il sole nascente, nella luce nuova del mattino, le stava facendo
vedere le cose con molta più lucidità di quanta gliene
avesse concessa la stanchezza di qualche ora prima, perché
i
suoi caldi raggi del sole stavano sostituendo con una forte rabbia la
negatività portata qualche ora prima
dall’oscurità. Nel corso dei suoi quasi diciannove anni di
esistenza, non aveva ancora avuto modo
di assaporare la vita vera; infatti, nonostante fosse stata costretta
dalle
avversità a maturare prima del tempo, ancora non era
diventata
propriamente una donna e non voleva che
quest’opportunità
le fosse negata.
In quel momento, a quel pensiero, il senso di frustrazione la portò molto
vicina
al piangere, perché non voleva che quel mostro la toccasse e
la costringesse a rinunciare alla sua vita, ancora tutta da
assaporare. Aveva appena conosciuto Marcello e aveva dovuto aspettare
così tanto per trovare un ragazzo così... Se mai fosse riuscita ad uscire da quella situazione
orripilante, suo fratello gliel’avrebbe pagata molto cara!
«Sei silenziosa, questa mattina, niña, o sbaglio?»
L’intervento divertito e stuzzicante di Navarra la
infastidì non poco: ora non era neanche libera di struggersi
in
pace per la sua sorte? Per quanto ancora avrebbe dovuto essere
costretta a sentire quella voce odiosa?
«Queste corde mi stan facendo venire le piaghe. Liberami
immediatamente!» esclamò lei in risposta, freddandolo
con
un’occhiata gelida.
Lui le lanciò un sorriso sardonico e si sedette sulla panca.
«Te l’ho già spiegato, dulzura: quando
saremo all’aeroporto, ti libererò da queste corde,
per legarti a me definitivamente con il sacro vincolo del matrimonio»
disse, scimmiottando un sacerdote e piazzandole una mano sulla coscia.
La ragazza si staccò bruscamente e, non potendo alzarsi,
scivolò più in là lungo il sedile,
allontanandosi
il più possibile da quel depravato.
«Non mi toccare!» lo redarguì,
furibonda. La gioia
che avrebbe provato nel vederlo penzolare da una forca sarebbe
stata difficilmente quantificabile.
Navarra si alzò e le si avvicinò, agguantandole
il viso e
stringendole con forza il mento: «Fai la preziosa quanto
vuoi, niña. Ma tanto, che tu lo voglia o no, da stasera scalderai il mio
letto».
Beatrice si svincolò di nuovo, questa volta volgendo lo
sguardo
altrove e non girò la testa finché non ebbe
sentito i
passi di lui allontanarsi. Che essere disgustoso era!
Ogni risata gutturale che le arrivava alle orecchie aumentava
sempre di più la sua rabbia nei confronti sia del fratello,
che del suo seviziatore, causandole delle fitte alla pancia non
indifferenti, tanto era il nervosismo che stava accumulando.
Questa volta, però, le lacrime cominciarono a scendere da sole, finendo sulla
gonna dell’abito liso e sporco, non come segno di resa,
bensì come simbolo della sua grande disperazione di fronte ad una
tremenda
situazione, dalla quale non sapeva proprio come uscire.
E fu in quell’istante di grande sconforto e di massima
esasperazione che un nuovo rumore spense la risata sguaiata di Navarra:
una sirena sempre più forte che sembrava dirigersi proprio
verso
di loro.
«La policia!»
gridò Felipe, proprio nel momento in cui le sirene si
spegnevano.
Nel giro di una frazione di secondo si scatenò il caos e,
per
qualche istante, la ragazza perse la cognizione del tempo e dello
spazio.
Avvertì Navarra che urlava qualcosa in spagnolo ai suoi due
complici e, subito dopo, degli spari che
rimbombavano nell’aria.
Frastornata, si piegò istintivamente su se stessa,
temendo di essere colpita da una pallottola vagante: come aveva fatto
la polizia a scoprire dove si trovavano quei delinquenti? Erano forse
tenuti sotto controllo da tempo?
«Alzati!» le intimò improvvisamente
Conrado, artigliandole con violenza un braccio, per poi abbassarsi e
tranciare di netto i robusti legacci che le tenevano ferme le caviglie.
«Muoviti!» le ordinò, trascinandosela
dietro e
obbligandola a correre per i campi, cosa che le
risultò molto difficile, giacché, essendo stata
ferma ed
imbrigliata per molto tempo, aveva le gambe completamente intorpidite.
«Lasciami
andare!»
esclamò lei, cercando di liberarsi da quella presa
d’acciaio, mentre si voltava indietro per assicurarsi che
qualcuno li avesse visti e li stesse inseguendo.
Scorse due grandi macchie scure, ma indistinte, proprio
dietro di loro e tale consapevolezza la portò a
sperare
che quel brutto incubo fosse ad un passo dal concludersi.
Felipe, che correva affianco a loro, sparò un paio di
pallottole, ma dovette aver sbagliato la mira, poiché
nessuno
degli inseguitori si accasciò a terra; al contrario, fu
proprio il delinquente a soccombere con un gemito: evidentemente, gli agenti
dovevano essere tiratori più capaci.
«Maledizioneeee!» ululò Navarra, senza
smettere di correre.
«Arrenditi!» gli gridò uno dei due
poliziotti. «Ormai sei in trappola!»
«Mai!» fece lui, di rimando. Poi, senza preavviso, si
fermò e si voltò verso di loro, sparando un
colpo
verso ciascuno e
mancandoli clamorosamente entrambi. La ragazza stava quasi per
approfittare di quel momento di distrazione, in cui lo spagnolo aveva
allentato la presa, per tentare di svincolarsi definitivamente, ma,
purtroppo, quello capì in tempo ciò che voleva fare e
rinsaldò la presa su di lei.
«Non ci provare! » le ringhiò contro,
rivolgendole
uno sguardo iniettato di sangue; poi, Beatrice si sentì
scuotere
e strattonare violentemente, per ritrovarsi schiacciata contro
l’uomo, il suo braccio stretto intorno al collo e la
pistola
puntata contro la tempia.
«Allontanatevi o la uccido!»
La ragazza si sentì soffocare e si portò
istintivamente
le mani alla gola, cercando di allentare la morsa omicida di Navarra,
senza tuttavia riuscire a smuoverlo di un millimetro. Le voci le
arrivavano ovattate e distanti, come se quella baraonda non la riguardasse.
Il suo campo visivo si era ormai riempito di macchie e le forze cominciavano
a venirle meno, ma dalle labbra non le uscì nemmeno un rantolo.
Era
dunque così che sarebbe finita, senza nemmeno un ultimo addio al
suo
amato Marcello?
All’improvviso, un boato le esplose nella testa e subito
sentì di non essere più tenuta prigioniera, anche se un
terribile dolore
le s’irradiò presto per tutto il corpo, togliendole
definitivamente il fiato.
«Il suo complice è arrivato con un furgone! Stanno
scappando!» gridò qualcuno.
«Accidenti, l’ho colpito solo alla
gamba!» si aggiunse un’altra voce.
Si udì un motore che rombava, altre grida, poi
più nulla.
«Commissario, sta fuggendo!»
«Avvertite tutte le pattuglie in zona, non lasciatevelo
scappare!»
Man mano che l’aria tornava a riempirle i polmoni, la
ragazza cominciò a recuperare la lucidità, il
mondo smise
di girarle intorno e si ritrovò a guardare un soleggiato
cielo
azzurro, incurante di tutto il tramestio che si agitava intorno a lei,
come se non la riguardasse.
«Commissario, forse la ragazza è ferita!»
«E cosa stai aspettando ad accertartene, Saverio? Chiama
un’ambulanza3, se necessario!»
Qualcuno le si avvicinò e, dopo averla afferrata
delicatamente per le spalle, l’aiutò a mettersi
seduta.
«Stai bene?»
Beatrice riconobbe una delle voci che avevano gridato contro Navarra e perciò
spostò lo sguardo sul giovane poliziotto che le si era
accovacciato accanto; sbatté le palpebre più di
una volta
e aprì la bocca per diverse, prima di riuscire a
rispondergli.
A quanto sembrava, il dolore al fianco sinistro non era dovuto a
nessuna pallottola, ma solo alla brutta caduta che le aveva fatto fare
quello schifoso, sbattendola a terra nella frenesia della fuga.
«Sì, ora sì».
Saverio le sorrise gentilmente e, quando notò le corde ai
polsi,
tirò fuori dalle tasche un coltellino a serramanico, per poi adoperarsi a recidere il nodo.
«L’esperienza da scout può sempre
tornare
utile» commentò, buttando i legacci in mezzo al
prato e
tornando a guardarla. «Va meglio, ora, vero?»
Beatrice annuì stancamente, stringendo le spalle non
perché avesse freddo, ma perché desiderava solo
ripristinare
i propri spazi personali, così barbaramente violati nelle
ultime
ore.
Strinse le palpebre, respirando più lentamente: quasi
stentava a
credere che Navarra, finalmente, fosse allontanato da lei e si
augurò di non rivederlo mai più. Quando
riaprì gli
occhi, notò che il giovane era rimasto a fissarla qualche
secondo in più del dovuto e si sentì a disagio. Sapeva di
non avere un bell’aspetto, ma non era una giustificazione
sufficiente ad autorizzarlo a
guardarla così insistentemente.
«Ti chiami Beatrice, vero?» le domandò,
passandosi una mano sulla visiera del cappello dell’uniforme.
«Sì».
«Saverio, quanto ci metti ad accertarti che la ragazza stia
bene?
Smettila di fare il cascamorto e vieni qui!»
abbaiò quello
che doveva essere il commissario, richiamando il suo agente
all’ordine.
«Con permesso» si congedò allora il giovane,
accompagnando le parole con un cenno del capo.
La fanciulla lo vide allontanarsi e dirigersi verso gli altri
poliziotti che tenevano d’occhio un ferito e lamentoso
Felipe:
buffo come non le desse alcuna soddisfazione vederlo ridotto in quello
stato. D’altra parte, la stanchezza stava sopraffacendo
l’ansia e l’angoscia provate fino a poco prima e
non
poté non essere contenta del fatto che, per quel momento, gli agenti la
stavano
ignorando, lasciandola un po’ in pace. Guardò
le piaghe
che la corda le aveva lasciato sui
polsi, poi rialzò lo sguardo verso il cielo terso di
primavera,
lasciando che una lieve brezza le scompigliasse i capelli con
gentilezza, mentre il suo cuore si riempiva di pace e commozione per
essere arrivata sana e salva alla fine del suo supplizio.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per esserci sempre.
***
1. commissariato Celio I:
è il commissariato più vicino
all’abitazione di
Guido. A dire il vero, nelle vicinanze, è anche presente la
Questura di Roma, ma penso che un personaggio del genere non si sarebbe
esposto oltre il dovuto, preferendo un commissariato più
piccolo;
2. si credeva:
qui sta per credevo.
Forma impersonale, tipica del dialetto toscano;
3. chiama un’ambulanza:
nei primi Anni ’80, la rete GSM (rete cellulare), nonostante
cominciasse a muovere i suoi primi passi, non era ancora
all’apice della sua diffusione. Dovete pertanto considerare che
la Polizia, in questa storia, si avvale del proprio sistema di
trasmissione radio (con frequenza assegnata).
***
Salve!
Capitolo abbastanza denso, che ne dite? Il prossimo sarà
relativamente più tranquillo (direi che i protagonisti ne
hanno
bisogno) e riserverà qualche momento più dolcioso (?), ma
non crediate che le difficoltà siano finite,
perché ho ancora molte cose da raccontare.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo e, naturalmente, grazie anche
a chi
legge in silenzio,
chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, chi mi
lascerà
un suo commento in seguito.
Ogni segno del vostro apprezzamento verso questo racconto mi fa sempre molto piacere.
In ultimo, vi lascio, come sempre, il link alla mia pagina
facebook, dove troverete spoiler, novità e altre
cose.
Alla prossima, per chiunque vorrà esserci!
Halley
S. C.
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Capitolo 13 *** Capitolo Tredicesimo - Vento di Quiete ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 13
- Capitolo Tredicesimo -
Vento
di Quiete
Molinari
fissò il fondo della tazzina ormai vuota, pensando che il
caffè fosse finito davvero troppo presto: non sapeva di
preciso
quanti ne avesse bevuti dalla sera precedente, ma di certo doveva aver
superato abbondantemente la decina.
Poggiò con cautela la tazza sul piattino e lo spinse via,
cercando di scacciare dalla testa quella vocina (sorprendentemente
simile a quella di sua moglie), che lo stava rimproverando per
l’abuso di caffeina, mentre si giustificava con la
consapevolezza che non avrebbe potuto fare altrimenti,
giacché
aveva aspettato per mesi di poter mettere un punto fermo alle indagini
sul contrabbando di armi nella Capitale.
Nonostante Navarra fosse riuscito a fuggire, infatti, la squadra del
commissario era comunque riuscita a catturare uno dei suoi complici e,
di conseguenza,
avrebbero potuto interrogarlo con la speranza che si decidesse a
parlare e rivelasse qualche particolare utile per
prendere anche il suo capo e, finalmente, mettere fine
a
tutta quella storia.
L’uomo sospirò e si alzò dalla sedia,
trascinandosi verso la porta
e cercando di ignorare il fatto che non dormisse da più di
quarantotto ore, conscio che non fosse più un giovincello e
che, quindi,
non riuscisse a tollerare come una volta le ore
piccole.
«Tonelli!» tuonò, mettendo la testa
fuori dal suo
ufficio e guardando a destra e a sinistra del corridoio, cercando con
lo sguardo l’agente che, nel giro di qualche secondo, gli si
materializzò davanti.
«Ha chiamato me, commissario?» domandò
quello, con tono apprensivo.
«Conosci un altro Tonelli qui dentro, per caso?» gli fece
Molinari, infastidito dalla scarsa prontezza del ragazzo.
«No, ci sono solo io».
«Meno male!»
Saverio aprì la bocca per dire qualcosa a sua discolpa, ma
l’altro, deciso a non perdere ulteriore tempo, non gli permise di
emettere una sola sillaba, incalzandolo con altre richieste:
«Hai chiamato l’ospedale?»
«Certo, commissario, e i medici hanno detto che
l’operazione
è perfettamente riuscita. Presto potremo interrogare
Martínez» snocciolò il giovane, con
somma diligenza.
«Molto bene. Hai convocato anche la signora Fiorenzi per la
deposizione?»
«Sì, commissario, ha detto che sarebbe venuta
subito.
Preferisce ascoltarla lei o se ne occupa Pontori? Sa, mi sembra un
po’ sclerotica...»
Se per una frazione di secondo Molinari si era rilassato, quel giudizio
buttato lì dal suo sottoposto lo fece tornare nuovamente
contratto.
«Preferisco ascoltarla io» decretò,
spazientito. «E, comunque, Saverio, il tuo non
è un atteggiamento degno di un bravo poliziotto: devi fare a
meno dei commenti personali. Infatti, è solo grazie alla
collaborazione di quella donna, se siamo riusciti ad individuare subito
in quale caseggiato si nascondesse Navarra».
L’agente incassò il rimprovero e chinò
la testa, in segno di rispetto verso l’insegnamento che gli
aveva impartito il superiore, mentre il commissario si voltava
per rientrare nel suo ufficio. Tuttavia, un nuovo pensiero lo costrinse
a tornare sui suoi passi e a rimettere la testa fuori dalla stanza:
«Ah, Saverio, dopo la signora Fiorenzi voglio sentire Guido
Tolomei ed infine la ragazza, mi pare che si chiami...»
«Beatrice» completò Tonelli, mostrando
di essere preparato sull’argomento.
L’uomo, al quale non era sfuggita tale prontezza,
inarcò un sopracciglio.
«Esatto» borbottò. «Se fossi
in te, però, non mi ci affezionerei troppo».
Il ragazzo lo fissò per un attimo in tralice, per poi
affrettarsi a spiegare: «Io? Ma no, si figuri! Le pare
che...»
«Il mio è solo un buon consiglio, ecco tutto» tagliò corto il commissario,
affatto propenso a discutere oltre. «Ora vai,
ti ho dato dei compiti da assolvere e mi aspetto che tu li porti a
termine al più presto».
Poi si voltò, prima che l’altro potesse rispondergli,
sbattendo pesantemente la porta e tornando di malumore alla sua
scrivania chiedendosi perché mai dovesse essere circondato da incapaci.
Non poteva credere che adesso i suoi agenti si mettessero a civettare anche con gli
interrogati!
Saverio era proprio un ingenuo se credeva di potersi mettere indisturbato a fare il
filo a quella ragazzina, ipotizzando che, se
Saltarini in persona si era mosso, doveva essere
cara a qualcuno dei suoi importanti amici.
Tuttavia, ora che ci pensava, per Molinari c’era ancora qualcosa
in quella vicenda che continuava a non tornare: il Questore si era
interessato relativamente a come stesse la ragazza, mentre,
invece, era rimasto molto deluso dal fatto che Navarra fosse sfuggito.
Questo, ad una
prima analisi, sarebbe sembrato anche normale da parte di un capo di
Polizia, se non fosse stato per le dinamiche alquanto oscure che
avevano animato sin dall’inizio l’intera vicenda.
Saltarini, infatti, era venuto a consegnargli il fascicolo
contenente il nome di Navarra due giorni prima che fosse rapita la
ragazza, senza contare che il dottore l’aveva avvisato solo
poco prima che fosse avviata l’operazione della probabile
presenza, come ostaggio, di una giovane legata ad una famiglia che
conosceva personalmente: era come se si fossero intrecciati due filoni
apparentemente distinti con, in realtà, un unico punto in
comune, il quale doveva essere lo stesso spagnolo.
Chi era l’informatore anonimo che aveva fatto il nome di
Conrado de Navarra? E, soprattutto, quel delinquente stava scappando proprio da lui? Da
quel che aveva capito, la ragazza aveva avuto solo la sfortuna di avere
per fratello un emerito cretino e non sembrava strettamente coinvolta
con i traffici, ciononostante l’avrebbe ascoltata comunque.
D’improvviso, il commissario si riscosse dai suoi pensieri, prese una penna e, come gli aveva insegnato un capace ed
abile poliziotto durante il corso di formazione, scrisse su un foglio
alcune parole-chiave con annessi punti interrogativi,
cerchiandone una in particolare: regolamento
di conti.
***
La saletta nella quale avevano relegato Beatrice, in attesa
che
qualcuno la chiamasse per ascoltarla, era talmente angusta che, per un
attimo, le ricordò la stanza che aveva a casa della zia:
stretta
e buia, aveva tutta l’aria di essere
un’intercapedine
riadattata a spazio comune, arredata con due file di sedie, un
tavolino e una macchinetta per il caffè, che aveva tutta
l’aria di essere inutilizzata da tempo.
La ragazza prese tra le dita una ciocca dei suoi lunghi
capelli e
cominciò a lisciarsela, ancora abbastanza stordita dagli
ultimi
eventi, che l’avevano letteralmente travolta, a cominciare dal suo
salvataggio e
dalla fuga di Navarra e di Pablo, i quali erano riusciti a farla franca
solo per mera fortuna, visto che la polizia era stata ad un soffio
dall’arrestarli entrambi. Tuttavia, la cosa davvero
importante
era che avesse riconquistato la propria libertà,
anche
se la consapevolezza che quel delinquente era ancora a piede libero
non la rendeva affatto tranquilla.
E se avesse provato a rapirla di nuovo? Ma no, sarebbe stata una
follia, giacché il polverone alzatosi intorno all’uomo era
tale
da non essere certo possibile che fosse dimenticato tanto presto.
Rincuorata da questo pensiero, la fanciulla sospirò e si
abbandonò contro lo schienale della sedia, appoggiando la
testa
contro il muro e rivolgendo gli occhi al soffitto, rilassandosi forse
per la prima volta da quando quella brutta storia era iniziata: erano
passati solamente tre giorni da quando i due scagnozzi dello spagnolo
l’avevano prelevata a forza in Via Merulana, eppure a lei
sembrava che fossero passati anni, tanto le vicende erano state dense
di sentimenti forti, primo fra tutti la paura.
Socchiuse appena le palpebre, ripercorrendo rapidamente i
momenti della sua prigionia e rivivendo con chiarezza il terrore
provato, nonostante non si fosse mai arresa e avesse
lottato con le unghie e con i denti pur di uscirne sana e salva, anche quando aveva creduto che ogni speranza fosse persa.
Infatti, proprio nel momento di massimo sconforto, erano arrivati a
salvarla...
«Preferisci un tè o un caffè?»
Sobbalzando, si voltò nella direzione dalla quale proveniva
la voce e, sulla soglia della stanza, riconobbe l’agente che
le aveva tagliato i legacci, il quale, se non ricordava male, aveva
detto di chiamarsi Saverio Tonelli.
«Scusami, non volevo spaventarti, ho solo pensato che volessi
qualcosa di caldo, dopo tutto quello che hai passato» si
giustificò lui, scrollando le spalle.
«Oh, son a posto così,
grazie» gli rispose, squadrandolo guardinga: non si era certo
dimenticata che quel tipo l’aveva fissata troppo
insistentemente, mettendola a disagio. Va bene che era provata per la
brutta vicenda che aveva vissuto, ma non era certo scema o smemorata.
Saverio annuì ed entrò, fermandosi dietro al
tavolo e poggiando le mani sul ripiano.
«Non vuoi nemmeno un panino o un toast? Devi essere
affamata».
L’inconscio di Beatrice le riportò alla mente
quella volta
che Marcello l’aveva portata a mangiare uno spuntino in quel
lussuoso bar del centro, facendole spuntare sulle labbra un dolce
sorriso: chissà dove si trovava ora il giovane e
chissà cosa avrebbe
detto di ciò che le aveva fatto Navarra! L’aveva
cercata in quei giorni? Era andato a casa sua? Guido gli aveva confessato cosa era
successo? Al solo pensiero che aveva rischiato di non poterlo rivedere
più, lo stomaco le si contrasse dolorosamente.
«Beatrice...?» la richiamò flebilmente
il poliziotto, interrompendo la raffica di domande che le stava
affollando la testa.
«Ehm... No, grazie» gli disse, sperando di
indovinare la risposta, visto che non aveva sentito la domanda.
«Sto bene così,
gradirei
solo un po’ d’acqua, per favore».
Il ragazzo le sorrise ed uscì, per tornare subito dopo con
un bicchiere di plastica pieno di acqua fresca.
«Ecco qua, purtroppo non abbiamo altro».
La fanciulla fece spallucce: in quel momento, l’ultima cosa che la preoccupava era di che materiale fosse
il recipiente dal quale poter bere.
Lui si appoggiò nuovamente al tavolo, questa volta tenendo
le mani dietro alla schiena, e la guardò, inclinando la
testa di lato e serrando le labbra, come se stesse pensando a qualcosa
di molto impegnativo.
«Cosa ne diresti di uscire insieme, una sera di
queste?»
A quell’affermazione, le andò di
traverso l’acqua e tossì talmente forte che le
lacrimarono gli
occhi.
«Ho detto qualcosa di sbagliato? Non mi dire che non sei mai
stata invitata ad uscire da un ragazzo!»
Beatrice poggiò il bicchiere a terra e si ricompose
prendendo un bel respiro, dopo di che lo fulminò con lo
sguardo, inviperita: altroché, quelli che
aveva avuto con Marcello erano stati degli
appuntamenti di tutto rispetto! E quella conversazione alquanto irritante
era solo l’ennesima conferma della iella che continuava a
perseguitarla: doveva avere una sorta di tendenza ad
attirare idioti, perché altrimenti non avrebbe saputo
spiegarsi il fatto che continuava ad incontrarne, giacché,
tra Guido, Navarra e quel deficiente che aveva di
fronte, proprio non sapeva chi potesse essere il peggiore.
«E
credo che
sian affari miei» gli rispose, acida, senza smettere di
guardarlo di traverso.
«Non ti va di uscire con me?» incalzò
lui,
probabilmente nella speranza di riuscirle a strapparle un consenso.
La ragazza avrebbe tanto voluto dirgli che non avrebbe saputo
cosa farsene di lui, quando era già impegnata (per giunta
con
Marcello), ma, poi, pensò che fosse una risposta
maleducata ed indelicata, anche se, con la sua insistenza, quel
tipo l’avrebbe più che meritata. Alla fine,
decise di mantenere la calma e contò mentalmente
fino a tre, optando per un commento più neutro:
«Mi avete appena liberata da un sequestro, uscire con
un ragazzo non l’è
certo la
mia priorità».
Riafferrò il bicchiere sul pavimento e prese un altro sorso,
cercando di mantenere un contegno distaccato, mentre l’altro
assunse un’espressione che mostrava tutto il suo disappunto
nell’aver ricevuto un due di picche.
«E, comunque,
c’è
già
un altro» sottolineò ulteriormente lei,
così da mettere definitivamente in chiaro le cose,
affinché l’agente non si facesse venire altre
fantasie o tornasse all’attacco.
«Vuol dire che... sei fidanzata?»
domandò Tonelli, mentre il suo viso si trasformava da
indispettito ad una maschera di delusione.
«Sono... impegnata»
la buttò
lì Beatrice, mantenendosi sul vago. D’altra parte,
nonostante ciò che c’era stato tra lei e Marcello,
non poteva affermare di essere la sua ragazza a tutti gli effetti: farlo non
sarebbe stato veritiero.
«Non è la stessa cosa»
puntualizzò Saverio, stizzito, incrociando strettamente le
braccia contro il petto.
A questo punto, Beatrice era sinceramente risoluta a lasciar perdere la
diplomazia e a dire a quell’odioso invadente cosa pensava
realmente di lui, quando l’imperativo - e quanto mai
provvidenziale - intervento del commissario Molinari fece tremare le
pareti: «Saverio, smettila di fare il civettone o ti spedisco
a fare il secondino1!
Portami subito la ragazza, voglio parlare con lei
immediatamente!»
***
L’ennesima volta che Marcello sia alzò dalla
sedia, per
poi risedersi quasi subito, Vittoria sbuffò: «Non
è
facendo così che convincerai i poliziotti a dirti
qualcosa, sai?»
«Vitto’, lascialo fare, deve pur sfogare il
nervosismo in
qualche modo!» le disse Gerardo, osservando preoccupato
l’amico, che non aveva sentito nemmeno una parola: da quando gli
avevano
detto che, in quel corridoio buio e stretto, avrebbe aspettato solo
qualche minuto, perché l’avrebbero chiamato
presto, erano
passate almeno tre ore, senza che nessuno si facesse vivo o gli
riferisse le effettive condizioni di Beatrice.
La paura che le potesse essere successo qualcosa di brutto si andava
rafforzando ogni minuto che passava, giacché gli era
sembrato plausibile che tutto si potesse risolvere in breve tempo, se
la fanciulla fosse stata effettivamente bene, ma così non era
stato.
Stava quasi per arrendersi allo sconforto, quando
l’agente che lo aveva accolto all’ingresso del
commissariato sbucò da dietro una delle porte che si
aprivano sul corridoio.
«Signor Tornatore, venga, abbiamo quasi finito».
Il giovane scattò in piedi come una molla, sentendosi di
colpo
molto più sollevato: l’espressione di quel
poliziotto
sembrava serena, pertanto non sembrava che ci fossero cattive notizie
all’orizzonte e c’erano buone
probabilità che
Beatrice stesse bene.
«Noi ti aspettiamo fuori» disse Vittoria,
sorridendogli
fiduciosa, mentre Gerardo gli dava una pacca
d’incoraggiamento
sulla spalla. Lui li guardò entrambi ed
annuì,
avvertendo dentro di sé una leggera apprensione che,
però, decise di ignorare, almeno per il momento.
L’agente lo attese e, una volta che ebbe oltrepassato la
soglia,
richiuse la porta alle loro spalle. Marcello venne condotto in un altro
corridoio, più ampio del precedente, ma ugualmente cupo,
dove
c’erano un altro giovane poliziotto ed un uomo
sulla
cinquantina, il quale stava cercando di congedare un’arzilla
vecchietta che, invece, non sembrava particolarmente interessata a
levar le tende.
«Lo sapevo che in quella casa c’era qualcosa che
non
andava, era disabitata da anni! Chi mai andrebbe a vivere in un rudere
come quello? Solo chi ha qualcosa da nascondere, lo dicevo
io!»
stava riferendo la signora, agitando il bastone che usava per camminare.
«Mi sono detta: “Ida, qui devi chiamare la
polizia,
perché c’è qualcosa che non
quadra”. E ho
fatto bene!»
«Ha fatto benissimo, signora Fiorini, il suo aiuto ci è
stato
davvero prezioso» replicò stancamente l’altro.
Non indossava
l’uniforme quindi, probabilmente, non era un semplice agente,
aveva il viso di chi non dormiva da giorni, stanco e sbattuto, e il
biondo pensò che quell’indagine doveva essergli
costata
molte ore di sonno.
Il poliziotto che l’aveva accompagnato, allora, gli fece segno di
accomodarsi su una delle sedie in plastica nera e Marcello
ubbidì, restando in silenzio.
«È stato un piacere collaborare con le forze
dell’ordine. Lo
sa che mi tengo
informata anche sulle persone scomparse, commissario? Spero sempre di
poter aiutare qualcuno a tornare a casa. Vorrei che il mio povero
marito lo sapesse, diceva sempre che era una perdita di tempo da
impiccioni...»
«Signora,
perché non torna a trovarci qualche altro giorno per finire il
racconto? Purtroppo, ora abbiamo tanto da lavorare e non potremmo
darle la giusta attenzione».
La vedova aprì la bocca per protestare, ma il commissario fu
più rapido e ordinò: «Sabatini,
accompagna questa
gentile collaboratrice, poi torna subito qui ché mi servi!»
quindi, si girò verso la Fiorini, stringendole rapidamente
la
mano, e concluse: «Arrivederci, signora, faccia buon
rientro».
Le proteste della vecchietta si estinsero non appena il giovane
poliziotto l’ebbe scortata al di là della porta,
facendo
ripiombare il corridoio nel silenzio più totale.
«Qualche
giorno finirò in una clinica psichiatrica» brontolò
l’uomo, esausto. Poi, notò Marcello e chiese,
burbero:
«Pontori, questo chi è?»
«Commissario, il signor Tornatore è qui su
autorizzazione
del dottor Saltarini» rispose immediatamente
l’agente.
«Ah, sì. Sì, ora ricordo»
fece Molinari,
stropicciandosi stancamente gli occhi con due dita. «Fallo
rimanere qui, a breve rilasceremo la ragazza. Invece, vai a prendermi
Tolomei, voglio risentirlo: ci sono molti elementi nel suo racconto che non
mi tornano».
Il giovanotto annuì compostamente e sparì subito
dopo;
contemporaneamente, un telefono squillò e il commissario
abbandonò subito la sua posizione per andare a rispondere,
come
se aspettasse quella chiamata, lasciando il biondo nuovamente solo.
Tuttavia,
questa solitudine durò davvero poco, giacché ben
presto
Pontori fu di ritorno, spingendo un Guido ammanettato e piagnucolante:
non aveva affatto una bella cera, ma dopo quello che aveva combinato
era davvero il minimo.
«E
non ho fatto
nulla!» si lamentò, mentre veniva costretto a
sedersi su
una delle sedie poste di fronte a Marcello.
«Il favoreggiamento di sequestro di persona è
punibile
dalla legge, non ci siamo inventati niente di nuovo» gli
rispose
secco il suo carceriere, non lasciandosi affatto commuovere da quella
patetica scena. «Ed ora, non ti muovere: vado a chiamare il
commissario!»
Non appena quello ebbe voltato l’angolo, Guido
sbuffò,
mettendo in tensione i polsi e facendo tintinnare la catena che teneva
uniti i due bracciali di acciaio e bofonchiando qualcosa di poco
comprensibile, quindi alzò la testa e, quando vide chi aveva
di
fronte, spalancò le iridi grigio scuro, sbiancando
all’istante.
«Da quanto tempo, eh, Tolomei?» esordì
il biondo,
riversando sul suo interlocutore un’occhiata carica di odio:
se
avesse potuto, l’avrebbe incenerito all’istante.
«Tornatore... O’ che tu ci fa’
qui?» gli chiese, deglutendo.
«Sono in visita d’istruzione, sai, voglio imparare
come la polizia arresta gli stronzi
che vendono le sorelle» rispose lui inquietantemente calmo,
cercando
di rimanere seduto e di non alzarsi per dargliene di santa ragione.
«M-Ma e
non ho fatto niente...»
«Niente? L’hai data in pasto a quegli schifosi,
mentre tu ti davi alla bella vita!»
«De una fia2,
il Navarra minacciava anche
me! Non si
riusciva
a pagar i debiti!» rispose l’altro, assumendo
un’espressione infantile e capricciosa, mentre saltava in piedi.
«E per questo hai deciso di scendere a patti con quella feccia,
barattando tua sorella? Ma che razza di uomo sei?!» insorse il biondo che, non
riuscendo a trattenersi, si alzò a sua volta.
«Suvvia, la
Beatrice
dimenticherà
presto quel che
l’è successo. E
so che tu
le garbi molto, sarà sufficiente che te la spupazzi
un po’
e...»
Guido non riuscì a finire la frase che finì
addosso alle sedie, rovesciandole e cadendoci sopra, il naso ridotto ad
una zampillante fontana scarlatta.
«Ripetilo e ti do il resto, coglione!»
ringhiò Marcello, guardandolo furibondo.
«Lei non
è ’na
mignotta come quelle che frequenti tu!»
Aveva provato a reprimere la forte tentazione che aveva di massacrarlo
di botte, ma non ci era riuscito, perché
quell’essere non
si era mostrato minimamente pentito per ciò a cui aveva
costretto la sorella. Possibile che non avesse nemmeno il
più
piccolo rimorso per le atrocità che aveva commesso?
«Cosa sta succedendo qui?»
Marcello si voltò e vide Molinari, un poliziotto che non
aveva
ancora visto e quello che l’aveva condotto lì che
lo
fissavano inquisitori. Non si lasciò affatto intimorire e
ricambiò lo sguardo, alzando il mento: che lo mettessero
pure in
gattabuia, pur di provare quella soddisfazione, l’avrebbe
rifatto
altre mille volte! Infatti, nonostante appoggiasse sul serio i principi
di Beccaria, contrari alla pena di morte, rimaneva dell’idea
che
una bella ripassata ai rifiuti della società, talvolta,
fosse
più che necessaria.
Il commissario lanciò un veloce sguardo a Guido, che stava gemendo,
contorcendosi a terra, e prontamente ordinò:
«Saverio,
chiama un medico!»
Tuttavia, alla vista del sangue, il giovane divenne pallido come un
lenzuolo e andò giù come un birillo.
Molinari sbuffò sonoramente e aggiunse: «Come non
detto.
Pontori, occupati di Tonelli, e tu, Sabatini, chiama un dottore per
questo
campione».
Mentre gli agenti eseguivano celermente gli ordini, l’uomo
passò oltre la sagoma gemente di Guido e, senza fermarsi,
gli
sibilò: «Non dovrei dirlo, ma ti sta
bene».
Dopo qualche passo, però, fu davanti a Marcello ed il
ragazzo si
rese conto che il commissario, nonostante fosse più basso di
lui, riusciva comunque ad suscitare un notevole rispetto.
«Quanto a te, testa calda, questa volta te la faccio passare
liscia» gli disse, guardandolo fermamente negli occhi.
«Ma
alla prossima occasione che fai a botte qui dentro, ti sbatto in cella
a rinfrescarti le idee,
chiaro?»
«Sì, commissario» rispose il ragazzo, fissandolo senza battere ciglio.
«Marcello...»
Quella voce, giunta alle sue orecchie senza preavviso, lo fece voltare
di scatto e lì, sulla porta dell’ufficio di
Molinari, con
il viso stanco e gli abiti lisi, vide Beatrice che lo fissava radiosa.
«Sei venuto a prendermi».
In quel momento, fu come se il grosso peso che opprimeva il petto di
Marcello si fosse dissolto all’istante: era proprio lei ed era
lì, forse un po’ provata, ma viva.
«Sì» le disse, estraniato da tutto
quello: si
sentiva schiacciato dalla miriade di emozioni che stava provando in
quel momento, incapace di distinguere quale tra le tante prevalesse
sulle altre, se gioia, sollievo, commozione o profonda gratitudine
per aver rivisto di nuovo la sua
Beatrice.
Probabilmente, anche lei doveva essere abbastanza sopraffatta dai moti
dell’animo perché, dopo aver riservato al fratello
un’occhiata compassionevole, si avvicinò a
Marcello,
senza tuttavia toccarlo, come se avesse paura
di rompere la bolla di sapone nella quale erano immersi.
Molinari si schiarì la voce e richiamò
l’attenzione
di entrambi: «Signorina, la prego di rimanere a disposizione
per
i prossimi giorni. Può andare, sperando che ora sia in buone
mani».
La ragazza si girò verso di lui e, sorridendogli
timidamente, sussurrò: «Adesso
sì».
***
Nonostante
Gerardo e Vittoria stessero parlottando tranquillamente tra di loro,
appena Marcello e Beatrice fecero la loro apparizione sulla soglia del
commissariato, si interruppero e si avvicinarono velocemente ai due.
«Beatrice, come sono contenta di vedere che sei sana e
salva!» esordì la ragazza, prendendo le mani
dell’altra tra le proprie. «Siamo stati tutti in
pensiero per te».
«Oh, non volevo darvi noie» replicò la
fiorentina, arrossendo al solo pensiero che degli estranei avessero
avuto a cuore la sua sorte più dei parenti; infatti, non
solo tutto quel disastro era partito da Guido, ma, ormai, era anche
palese che né zia né cugina si erano prodigate
per avere sue notizie.
«Ma che noie, eravamo preoccupati per quello che sarebbe potuto
capitarti» la corresse Gerardo, sorridendole affabile.
Lei rimase a guardarlo perplessa per qualche istante:
sapeva perfettamente chi fosse, giacché sia Marcello che
Vittoria le avevano parlato di lui, ma non si azzardò a
presentarsi da sola, perché non voleva passare per
maleducata.
Per fortuna, Marcello dovette aver percepito la sua
difficoltà, perché si affrettò ad intervenire.
«Beatrice, lui è Gerardo» disse,
indicando l’amico.
«Avevo immaginato»
commentò la fanciulla, tendendo la mano al giovane per
stringerla.
Lui la prese e ricambiò con gentilezza la stretta,
aggiungendo
timidamente: «Non avevamo ancora avuto modo di presentarci
come si deve».
A questo punto, Vittoria prese nuovamente la parola e, come se avesse
letto nei pensieri della giovane, le chiese:
«Immagino
tu sia stanca, vuoi che ti accompagniamo a casa?»
«Neanche
morta!» insorse Beatrice, inorridita
alla sola idea. «Piuttosto, preferisco andare a vivere sotto un ponte!»
Dei tre, l’unico che non parve sorpreso da tale reazione fu
Marcello, poiché era il solo che sapesse perfettamente che
tipo
di rapporti ci fossero tra lei e le sue parenti, mentre gli altri
due rimasero perplessi, come se non si aspettassero un tale fervore.
La ragazza, lì per lì, arrossì
lievemente,
imbarazzandosi per la figura che aveva appena fatto; tuttavia, sapeva
che non aveva senso nascondere la verità e perciò decise di
spiegare subito anche a Gerardo e Vittoria il motivo del suo netto rifiuto:
«Con
la mia zia
e la mia
cugina non andiamo molto d’accordo. Credo che non abbian
sentito la mia mancanza».
«Oh, capisco» fece la giovane donna.
«Comunque, non c’è bisogno di essere
così
drastici da scegliere i ponti. Piuttosto, che ne dici di venire a stare
un
po’ a
casa mia? Ne sarei contentissima e mi farebbe davvero piacere
conoscerti meglio, Marcellino mi ha parlato molto poco di te».
«Immagino che tu non riesca proprio a capire
perché,
vero?» le rispose il ragazzo, ironico, fulminandola con lo
sguardo, ma lei non raccolse le provocazioni e, anzi, continuò a
punzecchiarlo: «So
che avresti preferito che venisse da te, ma non credo che in
questo momento sia la scelta migliore. La mammina deve essere
avvisata per tempo».
Marcello si trattenne palesemente dall’alzare gli occhi al
cielo,
quindi si rivolse alla fanciulla: «Tu che ne dici, ti piace
l’idea di andare a stare con questa sciroccata?»
Tutta
quella scenetta, per Beatrice sarebbe stata molto divertente, se non
fosse stato per il fatto che sembrava proprio che
il
biondo e la
sua amica si stessero stuzzicando sotto il suo naso. Subito una
fastidiosissima sensazione di vuoto allo stomaco la fece irrigidire,
causandole un’improvvisa tristezza.
Vittoria,
che non
pareva aver gradito l’appellativo, stava per protestare, ma
Gerardo la tirò per un braccio, facendole segno di tacere,
così che alla fanciulla fosse data l’occasione di
rispondere; lei, allora, ricacciò indietro tutti i
sentimenti
negativi e si costrinse ad esibire un sorriso di riconoscenza:
«Sì, sarebbe magnifico,
almeno finché
non trovo una sistemazione definitiva».
L’altra annuì, soddisfatta: «Certamente.
Oddio, se il biondino
si decidesse a parlarti, potresti trovarl...»
Tuttavia, la donna non poté finire la frase, visto che
entrambi
i giovani si affrettarono a tapparle la bocca con una mano,
lasciando la fanciulla attonita e a domandarsi di cosa
avrebbe dovuto parlarle Marcello.
«Come si è fatto tardi, non trovi che sia ora di
andare?
Beatrice sarà stanca» disse il giovane, guardando
il suo
amico con insistenza.
«Già!» concordò con veemenza Gerardo.
«Io e Vittoria cominciamo ad andare, voi raggiungeteci pure
quando volete».
Beatrice, stupita, rimase ad osservare il giovane che trascinava via la
ragazza, mentre Marcello sospirava rumorosamente:
«Vittoria
parla decisamente a vanvera».
«Se lo dici
tu» commentò la fiorentina, pensierosa: invidiava
terribilmente la confidenza
che c’era tra il biondo e Vittoria, sembravano due
fidanzatini sempre pronti a rimbeccarsi e questo la faceva stare male3.
Ed ora, per giunta, al danno si era aggiunta anche la beffa,
visto che avrebbe dovuto esserle grata
dell’ospitalità che
le aveva offerto.
«Cos’hai?» domandò lui,
scrutandola
severamente, come se si fosse finalmente reso conto che si era
incupita.
«Oh, niente. Devo ancora riprendermi dalla brutta
avventura» gli rispose Beatrice, stiracchiando un debole
sorriso.
Lui aggrottò le sopracciglia, dubbioso, ma, per fortuna, non
insistette.
«Almeno il commissario ti ha lasciata andare relativamente
presto».
«M’ha fatto qualche domanda e
fatto firmare un verbale, anche se m’ha chiesto di
rimanere disponibile».
«Probabilmente vorrà riascoltarti tra qualche giorno».
I due ragazzi si guardarono per un lungo istante e, in quello scambio
di sguardi, la fanciulla ritrovò un briciolo di
tranquillità, riuscendo ad assaporare il primo momento dopo
la
prigionia in cui si trovava sola con Marcello.
«Che cosa ti ha fatto Navarra?» le chiese in un
sussurro, accarezzandole la guancia.
«Niente. A parte volermi portare in Spagna e costringermi a
sposarlo».
«Che animale!» commentò disgustato,
scuotendo la
testa. «Gerardo ha ragione, sarai stanca. Per parlare avremo
i
prossimi giorni, sempre che non succeda
qualcos’altro...»
Nemmeno a dirlo, fu proprio così: improvvisamente, una
sagoma si
stagliò alla sinistra di lei, facendola trasalire.
«Beatrice, hai scordato la tua borsa»
spiegò Saverio, agitando il sacchetto di tela bianca sotto
il suo naso.
«Ah, sì» replicò freddamente
lei,
afferrandola con malagrazia e scrutandolo ad occhi socchiusi, seccata.
L’agente le sorrise, poi, accorgendosi della presenza di Marcello, fece un passo indietro e cambiò colorito.
«’sera!» gracchiò, alzando
maldestramente il
cappello in segno di saluto e allontanandosi a gambe levate, lasciando
il giovane visibilmente contrariato.
«Come mai quel poliziotto ti ha chiamata per nome?»
«S’è preso un po’ troppa confidenza,
nonostante io
non gliene abbia data» gli spiegò, rovistando
nella borsa
e controllando che ci fosse tutto. Quando ebbe finito, alzò
la
testa verso di lui e aggiunse, sorridendogli divertita: «Non
sarà che
tu se’
un po’ geloso?»
«Io?» domandò il ragazzo, con voce un
po’
troppo alta, come se fosse stato punto sul
vivo. La fanciulla gli riservò un’occhiata
eloquente,
notando che le guance di lui si era appena colorite, tradendo un certo
imbarazzo.
«E se anche fosse? Non ci
sarebbe niente di male» ribatté il biondo,
cercando di
sembrare distaccato, ma con risultati non proprio soddisfacenti.
«Infatti» confermò lei, dolcemente.
«E poi, penso l’abbia capito che contro di te non ha
speranze...»
***
Quando
uscì dal bagno, con ancora i capelli fumanti di
vapore,
Beatrice pensò che, dopo quei due giorni da incubo, stare
ammollo
nell’acqua calda per un’ora intera fosse il primo
passo per
ricominciare a vivere in tranquillità.
Aveva indossato i vestiti puliti che le aveva
prestato Vittoria
- un paio di leggins e una maglia lunga blu elettrico - cominciando a
sentirsi decisamente molto meglio: il solo fatto che non fosse
più nelle grinfie di Navarra le procurava una gioia tale che
le
pareva quasi di rinascere.
La giovane donna, poi, le aveva assegnato una camera confortevole e spaziosa che non
aveva nulla a che fare con la sua vecchia stanza: aveva una bella vista
sul giardino sul retro ed era provvista di ogni comodità, a
cominciare da un orologio a pendolo da tavolo, che in quel momento segnava le due e
cinque minuti, passando per un bel letto che sembrava molto accogliente e
finendo con un grandissimo specchio con la cornice argentea intarsiata
con motivi floreali. Beatrice si avvicinò proprio ad esso, con
l’intento di verificare se i suoi timori circa il suo aspetto
fossero fondati e così fu: aveva un viso molto provato,
anche se
le tracce della stanchezza e della preoccupazione cominciavano
già ad attenuarsi.
Sospirò, conscia che i segni che avrebbe portato
più a
lungo su di sé non sarebbero stati quelli fisici,
bensì
quelli morali, poiché l’esperienza che aveva
vissuto non
era stata solo traumatizzante, ma anche umiliante e destabilizzante: se
solo pensava a quanto lo spagnolo fosse stato vicino
all’abusare
di lei, si sentiva quasi venir meno dal terrore e non poteva far altro che ringraziare di essersela cavata con così poco.
Si sedette sul letto, ma, rendendosi conto di non voler affatto
dormire, si alzò quasi subito: era ancora incredibilmente
inquieta ed altrettanto certa che il sonno non l’avrebbe
colta
tanto presto, pertanto decise di uscire fuori sul balcone e di prendere
un po’ d’aria fresca, invogliata anche dal fatto
che
lì davanti pendesse un rigoglioso glicine, messo molto
meglio di
quello che c’era a Villa dei Salici e molto somigliante a
quello
che aveva piantato sua madre all’Isola d’Elba.
A dire il vero, le avrebbe fatto piacere rivedere
Marcello, ma, considerato l’orario, doveva aver preferito
andare
a casa. Peccato, lo avrebbe volentieri ringraziato per il trattamento
che aveva riservato a Guido: l’avergli fracassato il setto
nasale
le aveva dato più soddisfazione dell’arresto vero
e
proprio.
Allora, si chiese se il giovane potesse averle lasciato
detto qualcosa, sperando che, in tal
caso, Vittoria l’aggiornasse l’indomani.
Non
c’erano prove evidenti che nutrisse per il giovane sentimenti
oltre l’amicizia, ma il tarlo che tra quei due potesse
esserci
del tenero non le dava pace.
Beatrice si lasciò cadere su una piccola poltroncina,
sbuffando
forte: lui era venuto a prenderla al commissariato, si era preoccupato,
quindi, forse, un po’ ci teneva a lei, no? Però,
perché si era portato dietro la sua amica? Che bisogno
c’era di farlo?
Era vero che quella ragazza la stava ospitando e avrebbe dovuto
mostrarsi riconoscente verso di lei, tuttavia non riusciva proprio a
digerire il fatto che stesse sempre vicina al suo Marcello.
«Se qualcosa non dovesse piacerti, puoi dirlo tranquillamente
a Vittoria: non è una che se la prende».
Tale affermazione la lasciò di sasso. Non era
possibile, non poteva essere...
E, invece, la luce dei lampioni del giardino, anche se fioca,
rivelò che era proprio lui.
«Marcello!»
esclamò la fanciulla, con il cuore in gola.
Il giovane si limitò a mostrarle un lieve sorriso, spostando
una
fronda del glicine che lo celava parzialmente alla vista, e si
avvicinò a lei.
«Volevo salutarti prima di andar via, ma non mi è
parso
educato aspettarti in camera» le spiegò.
«Al
commissariato è stato tutto troppo confusionario, non
trovi?»
Beatrice, che lo stava fissando sorpresa, nell’udire la
domanda si affrettò a ricomporsi e ad annuire.
«Come
stai?» le chiese, avvicinandosi ancora di più e guardandola preoccupato.
«Ora meglio» gli rispose, sorridendogli timidamente
e spostando via una ciocca di capelli dagli occhi.
Un’ombra attraversò lo sguardo dell’altro, il
quale le
afferrò il braccio che aveva appena finito di muovere, stando attento a non
farle male, e rivolgendo la parte interna dell’arto verso di
lui.
Colta di sorpresa, la ragazza lo lasciò fare, chiedendosi, incuriosita, cosa mai avesse potuto provocargli una simile
reazione.
«Che cosa sono questi?» le domandò,
indicando delle
orribili linee irregolari e rossastre che le percorrevano la pelle.
«Ah, questi... sono i segni delle corde. Sai, mi tenevan legata»
gli rispose, quasi con noncuranza, poiché, ormai, vedersi
quei
marchi addosso non le faceva più alcun effetto. «L’è
stato un vero sollievo quando me li han tolti».
Beatrice vide il giovane serrare saldamente la mascella, infuriato per come l’avevano trattata.
«Non ti arrabbiare, per favore, adesso son qui...»
«Quel porco deve solo augurarsi di non incontrarmi mai più!»
sibilò
Marcello, non riuscendo ad alzare lo sguardo da quello scempio.
«Guarda cosa ti ha fatto!»
«La
cosa
peggiore è stata un’altra» gemette la
fanciulla,
avvertendo che le lacrime erano quasi sul punto di uscirle.
«Ho
avuto paura di non rivederti più!»
Marcello sospirò, addolorato.
«Quando ho saputo che ti avevano rapita, l’ho
temuto anch’io».
Poi, le accarezzò piano la pelle marchiata e si portò i
polsi
vicino al volto, per poi baciarle dolcemente le ferite e guardarla
dritta negli occhi: «In quel momento, ho fatto una promessa a
me
stesso».
«Q-Quale?» farfugliò lei, piacevolmente
imbarazzata per il gesto improvviso e così significativo.
«Se fossi riuscito a rivederti, ti avrei detto tutta la
verità».
«C-C’è...
qualcosa che
non so?» domandò, smarrita. Forse le stava per dire che
l’aveva frequentata solo per compassione, perché,
in
realtà, gli piaceva Vittoria?
«Ti prego, non mi far agitare...»
Ma
lui scosse appena la testa, come a volerla tranquillizzare e sorrise
leggermente, prima di accostarsi al suo viso e sussurrarle
ad un soffio dalla sue labbra: «Mi sono innamorato di
te».
Immediatamente, Beatrice avvertì una sensazione di vuoto allo stomaco,
seguita
da una un’ondata di calore che la pervase e le
annebbiò quasi del tutto la mente.
«Oh, Marcello... io... ti... ti amo anch’io...»
balbettò, trovando davvero difficile mettere insieme parole
che avessero una certa coerenza.
«E tu non sai nemmeno quanto».
Il
giovane sembrò colpito per la dichiarazione ricambiata e, per
un
istante, tentennò incerto. Poi, però, le
spostò
una ciocca di capelli dietro all’orecchio e si
chinò verso di lei per baciarla; tuttavia, al contatto, qualcosa che Beatrice
percepì come
diverso la
fece arretrare.
«Cosa c’è?» le
domandò, disorientato.
«Oggi hai la barba» notò la
ragazza, alzando
lentamente una mano e poggiandogli le punte delle dita sulla guancia per
verificare anche con il tatto. «Non l’è
molta, ma è un po’ ispida».
Marcello sembrò riflettere per qualche secondo sulla sua
considerazione, poi, sospirando, disse: «Già, hai
ragione.
Avrei dovuta farla stamattina, ma non appena mi hanno detto che ti
avevano trovata, mi sono precipitato al commissariato» le
spiegò. «Così ho dovuto evitare i
vezzi,
chiamiamoli così».
«In realtà, ti sta bene, sai?»
ridacchiò lei,
a bassa
voce, non riuscendo a celare la
sua approvazione, giacché, dopo quello che si erano
appena detti, pensò che fosse ormai inutile
negare quanto lo trovasse affascinante; inoltre, l’averlo
così vicino non l’aiutava di certo a reprimere il
trasporto crescente che aveva verso di lui.
«Come
stai bene in jeans e felpa oppure quando prendi a pugni i fratelli
molesti: son
tutti particolari che
enfatizzano
la tu’ aria
da
bel
tenebroso».
Il giovane sollevò un sopracciglio, ma non si mosse,
mostrando
di non voler riprendere da dove si erano interrotti, al che la
fanciulla gli domandò, delusa: «Non mi baci
più?»
«Forse sarà meglio rimandare a dopo che mi
sarò
rasato di nuovo» considerò il giovane, serio,
attorcigliandosi una
ciocca fulva di lei intorno all’indice, ma Beatrice non fu
d’accordo: aveva passato le pene dell’inferno negli
ultimi
due giorni e non aveva alcuna intenzione di dover aspettare oltre.
Voleva essere
coccolata un po’ e non le importò di risultare
sfacciata,
perché, se doveva osare, quello era il momento
più
propizio, potendo approfittare del clima di intimità che si
era
creato tra di loro.
Ciò che aveva provato nelle ultime ore, il dolore, la
tristezza, la paura di poter morire e di non rivederlo più,
almeno per quella sera, le davano
il diritto di azzardare richieste che mai avrebbe osato anche solo pensare.
Lo afferrò con entrambe le mani per il colletto della polo
e,
con un ardire che non credeva di avere, scandì:
«Non ci
provar nemmeno!»
Marcello la fissò per qualche istante, sorpreso, e lei si
costrinse a non abbassare lo sguardo, poiché, se voleva che
prendesse sul serio la sua richiesta, non doveva dargli
l’idea di
essere solo una bambina capricciosa: desiderava davvero con tutta se stessa che
il suo uomo la vezzeggiasse, dopo tutto quello che aveva subito da
quello schifoso di Navarra.
Il biondo sorrise lievemente, ricambiando
l’intensità
dell’occhiata.
«Come vuoi. Allora proverò
a fare
quest’altro»
mormorò, cominciando a baciarle le labbra con delicatezza,
premura che non abbandonò nemmeno quando i baci cominciarono
a
farsi più intensi.
Beatrice
insinuò le proprie dita tra i suoi capelli e
sentì
quelle di lui
che le percorrevano il fianco,
leggere ma
sicure, risalire fino alla schiena e suscitarle una
sensazione mai provata prima: sapeva essere gentile, ma non per questo
poco deciso nella presa, come dimostrò poco dopo, quando la
strinse ancora più forte e cominciò a baciarle il
collo, solleticandole la pelle con la barba appena ruvida e facendola
rabbrividire di piacere.
L’ebbrezza, causatale dal sentire il corpo di lui,
così
solido e caldo, addosso al proprio, la riempì di un appagante
stordimento: avrebbe volentieri continuato a baciarlo e accarezzarlo
tutta la notte, se l’orologio da tavolo non le avesse
ricordato
che esistevano tempo e spazio, rintoccando le tre del mattino.
I
due giovani
ritornarono alla realtà con difficoltà; tuttavia,
non si
distaccarono completamente e rimasero fronte contro fronte, le mani di
lui sulla schiena di lei e quelle di lei sul petto di lui, nascosti
dalla coltre frondosa del glicine.
«È tardi» sussurrò Marcello.
«Ho sentito» replicò mestamente la
ragazza,
consapevole di ciò che il giovane le avrebbe detto subito
dopo.
«Io... devo andare».
Lei annuì, sapendo che era giunto il momento, per ora, di
separarsi: le aveva detto che sarebbe rimasto solo per poco tempo,
anche se avrebbero voluto entrambi che quel momento di dolcezza non finisse
mai.
Il biondo la prese per mano e, lasciando la protezione
dell’albero, la guidò dentro casa, preoccupandosi
di
chiudere bene le ante del balcone; quindi, si avvicinò al
tavolo
dove era poggiato l’orologio.
«Questa è una stanza degli ospiti e non
è non molto
usata, ecco perché l’hanno messo lì
sopra» le
spiegò, ruotando una rotellina laterale. «Ecco,
ora
l’ho spento, altrimenti ti avrebbe svegliato ad ogni
ora».
«Grazie»
gli rispose Beatrice, scrutandolo malinconica:
aveva tanto desiderato poter stare con il suo Marcello, invece doveva
separarsi da lui ancora una volta.
Il giovane fece un cenno d’assenso con il capo, ma rimase
fermo,
come se nemmeno lui avesse molta voglia di andarsene, e
ciò spinse la ragazza ad avanzare una richiesta che le
veniva
dal più profondo del cuore:
«Rimani con
me almeno finchè
non avrò preso sonno, ti prego. Ho paura degli
incubi».
Marcello la squadrò attentamente, come se stesse valutando
in maniera molto accurata quale fosse la cosa giusta da fare.
«Va bene, Beatrice» acconsentì, infine,
dandole un buffetto sulla guancia.
La fanciulla si sciolse in un gran sorriso, credendo a stento che lui
le avesse detto di sì. Avvertendo che, finalmente, il sonno
stava per raggiungerla, si mise a letto, mentre il biondo, invece, si sdraiò
sopra le coperte accanto a lei, sussurrandole: «Vieni qui».
Beatrice non se lo fece ripetere una seconda volta e si
accoccolò tra le sue braccia, lasciando che lui la cingesse
e le
facesse poggiare la testa sul proprio petto, trasmettendole
serenità e senso di protezione. Tranquillizzata, chiuse gli
occhi quasi subito, sicura che, ormai, non avrebbe avuto
più nulla da temere.
***
Il sottile crack
che
udì e la sensazione appiccicosa che avvertì
sulle dita
richiamarono la sua attenzione, facendogli capire che la fetta
biscottata, sulla quale stava spalmando la marmellata di ciliegie, non aveva sopportato più la tortura inflittale
dal
coltello e, dopo un’eroica resistenza durata più
di
mezz’ora, aveva ceduto.
Marcello gettò ciò che era rimasto nel piatto davanti a
sé e si pulì come meglio poteva le mani con un tovagliolo
di
stoffa, apprestandosi a sorseggiare il suo tè.
«Se fossi in te, me ne fare portare un altro, quello si deve
essere raffreddato» si intromise suo padre, senza alzare gli
occhi dal cruciverba che stava facendo. «Sono quaranta minuti
che
sei seduto lì a fissare il vuoto, facendo finta di spalmare
marmellata. Quando eri piccolo, però, ti inventavi scuse migliori per non
essere costretto a mangiare, come nascondere le verdure nei miei vasi
dei gerani, per esempio».
Il braccio del giovane rimase sospeso a mezz’aria, reggendo
la tazza, palesemente fredda.
«Oh... Sì, hai ragione»
mormorò, facendo oscillare il liquido e accorgendosi che non
emetteva più vapore. «Sarà meglio
chiederne
dell’altro».
Annetta, che aveva sentito tutto, anche se era rimasta nel suo angolo,
in attesa di ricevere ordini, si precipitò e
portò via sia la teiera, sia i resti della
fetta biscottata. Poco dopo, fu di ritorno con tutto il necessario per
consentire a Marcello di fare colazione.
Il signor Giancarlo la ringraziò con un sorriso, quindi, mentre
versava l’acqua calda nella tazza pulita e gli passava la
scatola di legno dove erano sistemate le bustine dei vari tè,
rimproverò bonariamente il figlio: «Sei grande ormai per giocare con il cibo!»
«Già» si limitò a rispondere
lui, cupo, evitando di guardarlo negli occhi, poiché, se
l’avesse fatto, sapeva che non sarebbe riuscito a mentirgli e non poteva certo raccontargli la verità.
Non riusciva a non pensare a quello che era successo la notte precedente
con Beatrice, perché, se aveva adempiuto alla sua promessa
di dirle cosa provasse
realmente per lei, non avrebbe mai potuto prevedere come si sarebbe
evoluta la faccenda. Una volta che si era accertato di come stesse,
infatti, avrebbe dovuto andarsene, invece di rimanere su quel balcone per
baciarla in modo tutt’altro
che casto; poi, come se ciò non bastasse, aveva anche
assecondato la sua richiesta, tenendola tra la braccia
finché non si era addormentata. Solo allora, recuperando un
minimo di lucidità, aveva lasciato in tutta fretta la casa di
Vittoria, con la sensazione di aver fatto qualcosa di tremendamente
sbagliato.
Come gli era saltato in mente di restare e di lasciarsi andare fino a
tal punto? Non avrebbe mai dovuto, soprattutto perché ancora
non era chiaro a che punto fosse la sua relazione con Beatrice: in
fondo, non erano fidanzati. Lui si era dichiarato e aveva scoperto di
essere ricambiato, certo, ma tra questo ed un fidanzamento ufficiale
c’era una bella differenza.
Se la sua migliore amica lo avesse saputo, avrebbe sicuramente commentato dicendo
che “l’algido
Marcello aveva ceduto alla passione” e non avrebbe affatto
sbagliato, giacché lui era perfettamente consapevole
d’essersi fatto soggiogare dal miscuglio di emozioni
derivanti dal fatto che la ragazza fosse finalmente libera e al sicuro.
Per quanto ci girasse intorno, era un dato di fatto che aveva permesso
ai suoi istinti di prendere il
sopravvento, confinando in un angolo della sua mente la
razionalità, cosa che non avveniva poi così
raramente, quando
c’era di mezzo quella fanciulla.
«Dieci
minuti. Perfetto4!»
fece l’uomo, compiaciuto, poggiando penna e rivista di
enigmistica sul tavolo e controllando l’orologio da polso.
«Potrei quasi partecipare alle olimpiadi delle parole
crociate, se solo ci fossero. Tu che ne pensi, figliolo?»
«Eh?» domandò il giovane, cadendo
palesemente dalle nuvole.
«Oh, non importa. Marcello, hai caldo, forse? Sei diventato
tutto rosso. Eppure le finestre sono tutte aperte»
notò l’uomo, studiandolo attentamente da sopra gli
occhiali da lettura.
«Ah, io... Ecco... Non...»
«Immaginavo che c’entrasse quella cara ragazza, credo che non abbia passato dei momenti felici, in mano a quei
balordi. Dovresti impegnarti per tirarle su il morale» disse
il signor Giancarlo, versandosi a sua volta altra acqua calda e
riprendendo in mano la rivista. «E ti consiglio anche di bere
quel tè, prima che si raffreddi di nuovo».
Il giovane rimase a fissare il padre, basito: come faceva a sapere che
stava pensando a Beatrice?
Poi, senza staccare gli occhi dal genitore, prese un sorso della bevanda e
si dedicò a spalmare la marmellata su una fetta biscottata,
questa volta senza ridurla a pangrattato.
Mentre mangiava, valutò attentamente l’ipotesi di
parlare con lui delle perplessità che lo assillavano
circa una sua eventuale relazione con Beatrice, poiché, avendo più esperienza di vita,
avrebbe potuto elargirgli un saggio consiglio che lo avrebbe certamente
aiutato.
Tuttavia, quest’intenzione fu barbaramente cancellata
dall’ingresso in sala della Matrona.
«Lo
sapevo che ti eri fatto scappare l’affare del
secolo!» strillò, agitando in aria il quotidiano
del giorno.
«Cos’hai da urlare di prima mattina,
cara?» le chiese il marito senza smettere di riempire le
caselle dei cruciverba. «Non fa bene alle tue corde
vocali».
Claudia lo guardò per un fugace secondo, poi decise
di ignorarlo e di tornare a concentrarsi sul figlio:
«Colonna ha acquistato il trenta percento delle azioni legate
a quella maledetta piattaforma!»
Marcello aggrottò la fronte e ingoiò
l’ultimo boccone, tendendo la mano verso di lei:
«Fammi vedere!»
Una volta che fu entrato in possesso del giornale, già
aperto alla pagina che riportava l’articolo su Carter e
Colonna, il ragazzo lesse velocemente le righe incriminate:
“Ancora una volta, Ascanio Colonna centra il bersaglio,
avendo acquistato un terzo delle azioni della Omicron Rho, la
nuova piattaforma in costruzione che sta facendo concorrenza alla nota Piper Alpha5,
situata a poca distanza. Con questa abile mossa, Colonna è
diventato a tutti gli effetti il primo socio del magnate britannico del
petrolio Edward Carter. I due imprenditori hanno già fissato un
incontro con i giornalisti la prossima settimana, nel corso della quale
risponderanno a molte domande...”
L’articolo continuava per un’intera pagina, ma il biondo
non andò oltre, avendo deciso di aver dedicato fin troppo del
suo prezioso tempo a Carter e al suo socio.
«Quei due stanno combinando qualcosa di losco e Gerardo ed
io non vogliamo averci niente a che fare» fece, asciutto,
liquidando la questione in poche parole.
Ma la Matrona non era dello stesso avviso, infatti continuò:
«Lo sapevo che c’entrava quel buono a nulla!
Scommetto che è stato lui a metterti in testa queste
sciocchezze!»
«Affatto».
«Si sente importante solo perché è tuo socio e perché quella gatta morta
della Farnese ha accettato di fidanzarsi con lui. Figurarsi! Due sventurati
così avrebbero solo potuto prendersi tra di loro!»
Il giovane rinunciò a prepararsi la seconda fetta biscottata
ed alzò il viso verso la madre: «Ti
dispiacerà saperlo, ma sono davvero innamorati».
«Questo è quello che vogliono far credere loro!
Invece sono due buoni a nulla, esattamente come quella che ti ronza
intorno».
Marcello serrò la mascella, assottigliando lo sguardo,
avendo perfettamente capito dove volesse andare a parare sua madre:
stava per tirare in ballo Beatrice, ma lui non le avrebbe permesso di
maltrattarla, perché quella fanciulla certo non meritava di
essere infangata per bocca di Claudia Mecarini.
«Ti sei fatto scappare Maria Luisa Foscari da sotto il naso, che ora è andata a dare lustro ai Colonna. E tu? Cosa
mi hai portato, invece? Una disgraziata che è stata addirittura venduta
dal fratello a dei delinquenti, pur di trovare un
po’ di soldi».
«Non ti permetto di parlare così di
Beatrice!» insorse il figlio, scaraventando il tovagliolo a terra ed alzandosi in piedi.
Annetta e le altre due cameriere, avendo intuito l’antifona, si
affrettarono ad abbandonare la sala, lasciando i tre da soli.
«Claudia, non è un atteggiamento corretto, il
tuo» obiettò il signor Giancarlo, chiudendo la biro e fissando gravemente la moglie.
Lei, in risposta, scoppiò in una risata isterica.
«Hai anche il coraggio di parlare, tu? Se fosse stato per te, Tiberio
sarebbe ancora uno scapolo! Cosa ne sai di quello che ho dovuto
architettare
perché una Torlonia sposasse mio figlio?»
«Purtroppo, lo so molto bene, invece».
La donna indurì i tratti del viso, come se fosse stata costretta
con la forza ad ingoiare un boccone molto amaro. Si voltò verso
il tavolino accanto al divanetto e, afferrato un ventaglio, lo
aprì e cominciò a sventolarsi con foga, quindi
tornò davanti a marito e figlio, esibendo un’espressione
alquanto enigmatica.
«Marcello, credo sia il caso di far venire la tua, come dire, amica a pranzo,
domenica prossima. Sai, con Ortensia abbiamo organizzato i
festeggiamenti per il compleanno di Claudietta».
Il ragazzo spalancò gli occhi e non riuscì a trattenere il suo orrore: «Che cosa?!»
«Non pensi anche tu che sia arrivato il momento di farci
conoscere questa ragazza?»
«Per niente!»
«Peccato, sarebbe un vero peccato se in giro si spargesse la
voce che ti diverti con lei, mentre sei impegnato con la baronessa
Cardona» continuò la donna, con tono falsamente preoccupato, senza smettere di farsi aria.
«Non puoi ricattarmi. Io me ne sbatto
di quello
che vai dicendo su di me: non temo il giudizio degli altri»
sibilò il giovane, meno che mai deciso a cedere davanti agli
stupidi capricci della madre.
«Da quando hai preso questo modo di parlare
così gergale?
Non ti si addice» gli rispose lei, senza scomporsi minimamente. «Sì, lo so che tu non
temi niente e nessuno, ma la tua amichetta
ha già accumulato parecchio di cui vergognarsi, senza
che si aggiunga quella di amante
clandestina».
Marcello aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono:
sapeva che sua madre poteva essere molto pericolosa, ma non avrebbe mai
pensato che potesse essere capace di una bassezza del genere nei
confronti del proprio figlio, perché, se era vero che a lui non
interessava cosa si diceva in giro sul suo conto, era anche vero che
non valeva la stessa cosa per Beatrice. Non si sarebbe
mai perdonato, né avrebbe mai permesso che venissero messe in giro
cattiverie false su di lei.
E sua madre aveva centrato in pieno il suo punto debole.
«Poverina, non penso potrebbe sostenere
quest’ennesima umiliazione» fece lei, falsamente rammaricata, coprendosi parte del viso con il ventaglio.
Il signor Giancarlo, probabilmente mosso dalla cattiveria della moglie,
decise di continuare a prendere le parti del figlio e della ragazza:
«I tuoi trucchetti non funzioneranno con lei, Claudia.
È molto intelligente».
Tale affermazione cancellò il sorrisetto di trionfo dal viso della donna.
«Mi stai forse dicendo che tu la conosci
già?»
«Esattamente».
Tra i due coniugi scese un improvviso gelo e nessuno dei due sembrava intenzionato a permettere all’altro di prevaricarlo.
«In questo gioco, ancora deve venire il momento di mettere la
parola fine»
sentenziò la Matrona, chiudendo il ventaglio con un colpo secco
e dando le spalle ai due, per poi sparire in un fruscio di stoffa
rossa.
Ancora fuori di sé dalla rabbia per quanto successo, ma
decisamente più reattivo di prima, Marcello esplose:
«È uno sporco ricatto, sa bene che sarò
costretto a cedere per forza!»
«Se fossi in te, farei come dice» mormorò il padre,
raccattando gomme, matite, penne e riviste di enigmistica dal tavolo.
«Papà, sai bene che è
un’occasione del tutto inopportuna!» esclamò il
ragazzo, concitato. «Beatrice non può essere invitata per
la prima
volta ad un pranzo con tutta la famiglia, per giunta una come la
nostra».
Alzatosi dalla sua sedia, il signor Giancarlo sospirò e, una volta raggiunto il ragazzo, gli mise entrambe le mani sulle
spalle.
«Figlio mio, non penso ci sia altra scelta».
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per il suo grande aiuto.
***
[N.d.A]
1. secondino: termine oggi spesso
sostituito con guardia
carceraria
o agente di
polizia penitenziaria.
2. De una fia:
espressione toscana, popolare/volgare rafforzativa.
3. la faceva stare male:
spero
di essere stata abbastanza chiara nella narrazione, ma, qualora non
fosse, volevo precisare che Beatrice non sa nulla delle vicende di
Gerardo e Vittoria, né tanto meno che ora i due stanno
insieme,
essendo stata rapita prima che qualcuno potesse informarla; quindi,
penso sia normale che provi ancora molta gelosia riguardo il rapporto
che c’è tra
Marcello e Vittoria.
4. «Dieci
minuti. Perfetto!»: il fatto che il signor
Giancarlo sia appassionato di cruciverba, parole crittografate e si
cronometri nella loro risoluzione è un mio omaggio ad Alan
Turing e al film “The
Imitation Game”.
5. Piper Alpha: piattaforma
petrolifera operativa nel Mare del Nord, situata a circa 200 Km dalla
Scozia. Il 6 luglio 1988 (circa un anno dopo gli eventi qui narrati)
scoppierà un tragico incendio, portando a morte 167 su 300 dei
suoi lavoratori. Ad oggi, rimane uno dei più grandi incidenti
legati al campo marino-petrolifero.
***
Ringrazio chi mi ha dedicato un po’ del suo tempo, lasciandomi un parere sullo scorso capitolo, ovvero Aven, Anto, DarkViolet92 e Balder Moon;
ringrazio anche chi legge soltanto e chi ha messo la storia tra le
preferite/ricordate/seguite: è una forma di fiducia che mi date
e che sento di tradire quando non riesco a scrivere. Mi dispiace, ma
non lo faccio apposta.
Per qualsiasi cosa, chi volesse, sa dove trovarmi.
Halley
S. C.
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Capitolo 14 *** Capitolo Quattordicesimo - Vento di Sospetti ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 14
- Capitolo Quattordicesimo -
Vento
di Sospetti
Fare
giardinaggio con Vittoria, dopo la brutta avventura vissuta per colpa
di Navarra e Guido, si rivelò per Beatrice una vera e
propria
terapia distensiva: il tepore del sole di fine aprile ed il profumo del
glicine appena sbocciato, sommati alle gentilezze che tutti le stavano
riservando,
l’avevano messa di buon umore, aiutandola a ritrovare un
po’ di serenità.
Infatti, aveva quasi dimenticato la bellezza dello stare all’aperto,
senza
alcun pensiero negativo e senza l’ansia che qualcuno potesse
chiamarla all’improvviso per comandarla a bacchetta:
finalmente,
si sentiva di nuovo una ragazza di quasi diciannove anni, non
più schiavizzata e tenuta sotto scacco dai suoi familiari.
Verso le undici, mentre in sottofondo risuonava Moonlight
Shadow1,
la signora Irene portò alle due ragazze un cestino di frutta
di
stagione ed una caraffa di frullato alla fragola con ghiaccio, anche se
non si intrattenne con loro, giacché sembrava che avesse
molte
commissioni da fare.
«Chissà se il signor Rossiglione ha già
consegnato tutta la documentazione al liceo... Dovrei proprio andare da
lui» disse Beatrice, sfilandosi i pesanti guanti da
giardiniere e raggiungendo Vittoria alla fontanella di marmo.
«Ah, è vero,» esclamò
l’altra, finendo
di lavarsi accuratamente le mani e di rimuovere ogni
residuo
di terra, «tu devi fare
l’esame di maturità!»
«Già, non rimane moltissimo tempo e non so nemmeno
quando devo andare a fare gli esami preliminari2»
sospirò la fanciulla, prendendo un po’ di sapone
liquido
dal piccolo dispenser appoggiato sul muricciolo di mattoni.
La giovane donna poggiò l’asciugamano sul lastrone
decorativo della fontana e andò a sedersi al tavolo di
ferro e mosaico, versando il frullato in due alti bicchieri di
vetro opaco.
«Se vuoi, la settimana prossima sono libera e posso
accompagnarti» propose.
La ragazza la fissò per qualche secondo, ancora poco
abituata a
ricevere tanta gentilezza: se fosse stata ancora alla mercé
di
Anna Laura, non solo questa non l’avrebbe accompagnata,
ma, molto probabilmente, ne avrebbe approfittato per chiederle di andare a
comprare qualcosa dall’altra parte della città.
«Volentieri, ti ringrazio».
Vittoria sorrise, facendole cenno con la mano di avvicinarsi per
servirsi anche lei.
«A quale liceo hai fatto richiesta per essere
esaminata?»
«Al “Giulio Cesare”» rispose
Beatrice,
sorseggiando lentamente il suo frullato e trovandolo dolce e fresco al
punto giusto.
«Uno dei migliori per la maturità
classica» notò l’altra, piluccando le
ciliegie dal cestino. «Che materie sono uscite?»
«Greco per la seconda prova, mentre italiano, filosofia,
latino e fisica per l’orale» snocciolò
la fanciulla,
ripercorrendo mentalmente l’elenco che il Ministero della
Pubblica Istruzione aveva reso noto settimane prima. «Tra
l’altro,
presentandomi da privatista, devo portarle tutte e non solamente
due, come il solito».
«Se hai bisogno di aiuto per filosofia, non esitare a
chiedere» si offrì la giovane, spostando la sua
attenzione sulle fragole. «In teoria, avendo preso la
maturità scientifica, dovrei essere in grado di sostenerti
anche in fisica e latino, ma queste materie le lascio a Marcello. Io
sono molto più incline per la matematica».
«Davvero? E come mai hai deciso di intraprendere gli studi di
psicologia all’università, allora?»
domandò,
incuriosita, ricordando che Marcello le aveva accennato il fatto che
Vittoria prestava servizio presso il più grande policlinico di Roma
in
qualità di psicologa.
«Ti dirò... da piccola, volevo fare
l’insegnante di
matematica. Ecco perché mi sono iscritta al
liceo “Stanislao Cannizzaro”3,
con Gerardo e Marcello. Ma poi, durante il terzo anno,
mi sono appassionata alla filosofia e agli aspetti sociologici... e ho
fatto una scelta diversa da quella che pensavo».
Beatrice corrugò la fronte, faticando davvero ad immaginarla
come una possibile professoressa di matematica: tutti gli
insegnanti che aveva avuto nella sua vita, infatti, erano stati molto severi e
metodici, contribuendo a creare nella sua mente la convinzione che gli
appassionati di materie scientifiche fossero dei tipi molto
disciplinati
e rigidi, stereotipo che si allontanava molto dalla ragazza che aveva
di fronte.
«Invece quei due sono andati avanti per la loro
strada e si sono iscritti ad economia e commercio4»
proseguì lei, aprendosi in un sorriso partecipe.
«Gerardo lo conosco poco, ma invece so che Marcello sa esser
molto
determinato» fece Beatrice, cercando di rimanere sul
diplomatico,
ormai distratta dall’espressione che si era dipinta sul volto
della sua interlocutrice: perché, ogni volta che si parlava
o ci
si riferiva al biondo, la sua amica
sorrideva
in quella maniera? Anche se non era - o perlomeno non ancora
- il suo ragazzo, Vittoria doveva aver capito che le piaceva e non
le pareva affatto delicato che l’altra manifestasse -
in sua presenza - il trasporto che provava per il giovane.
Si trovava davvero bene con lei, ma non poteva permetterle di
allontanarla da Marcello, non dopo aver patito tutti quei supplizi
per poter tornare da lui.
«Gerardo è meno risoluto, anche se bisogna
riconoscere che
sa essere tenace: ti basti pensare che per dirmi che mi ama ci ha
messo vent’anni!»
In un primo momento, l’ultima frase venne registrata dal
cervello
di Beatrice in maniera del tutto passiva, poi, quando i suoi neuroni
smisero di arrovellarsi su una possibile volontà, da parte
di Vittoria, di sedurre
Marcello, misero finalmente in ordine tutti gli elementi e riuscirono a decriptarne il significato, fornendo la
soluzione ai suoi dilemmi di ragazza innamorata.
«Eh?» squittì, stralunata.
«Incredibile, vero? Per paura di rovinare la nostra amicizia,
è stato in silenzio, non sapendo che io lo ricambiavo
pienamente» continuò l’altra, sorridendo
dolcemente,
con gli occhi che le brillavano. «Ora spero solo che non ci metta
altri
vent’anni per chiedermi di sposarlo, visto che mia madre mi
sta
già organizzando quasi tutto il matrimonio».
Quella rivelazione aveva dell’incredibile: si era tormentata
inutilmente per
tutto quel tempo! Ciò che le aveva detto
Marcello tempo prima, ovvero che considerava Vittoria solo come una
sorella, in quel preciso istante, aveva trovato riscontro anche nelle parole della ragazza:
non solo lei non era interessata a lui, ma era perfino innamorata -
per giunta, ricambiata! - di Gerardo.
«Quindi... voi... state insieme?» disse Beatrice,
esigendo
un’ulteriore conferma solo per poter rendere la gioia, dovuta al
fatto
che non aveva una rivale, ancor più piena e degna di essere
assaporata.
«Oh, finalmente sì...» ammise
l’altra, arrossendo appena.
La
fanciulla dovette lottare contro se stessa per
restare seduta, poiché, se avesse potuto, si sarebbe messa a
saltare
dalla felicità; tuttavia
cercò di contenersi, giacché non voleva che la
giovane
la prendesse
per pazza o, peggio, per una sciocca ragazzina che
aveva
appena appreso di potersi ancora augurare un futuro più
dolce.
***
Più Marcello rifletteva sull’idea che Beatrice dovesse essere
presentata a tutto il parentado, e più la trovava pessima,
poiché, se fosse vissuto in una famiglia come le altre,
sarebbe
stato più che giusto presentare loro la ragazza
che
stava frequentando, tuttavia, si dava il caso che i suoi parenti,
salvo suo padre, non si potessero definire propriamente normali.
Perciò, doveva assolutamente parlare con la fanciulla e, prima di invitarla,
dirle come stavano realmente le cose, soprattutto riguardo alla
cattiveria di sua madre: il minimo che avrebbe potuto fare, infatti, sarebbe stato
prepararla ai colpi bassi che le avrebbe inflitto, con sommo gaudio, la
Matrona.
«Sia Herr Berger che Herr Müller devono aver parlato
benissimo di noi a questa società austriaca»
proruppe
Gerardo, allungandogli un fascicoletto dalla parte opposta del tavolo.
«Guarda che offerta vantaggiosa ci hanno fatto!»
Il giovane smise di contemplare a braccia conserte e preso dai suoi
pensieri la siepe che delimitava il giardino e si voltò
verso
il socio.
«Sì, ho letto» commentò, in
tono piatto.
«Non sei contento? Abbiamo fatto una buona impressione a
quegli
imprenditori tedeschi e loro hanno fatto il nostro nome ad altri»
spiegò l’altro, come se fosse sicuro che Marcello
non
avesse afferrato il punto della situazione.
«Molto» continuò lui, senza la
benché minima enfasi.
Gerardo, che era rimasto con il braccio proteso verso di lui,
ritirò l’arto e, squadrando il suo amico, rimise
il plico di fogli nella sua cartellina.
«Stamattina hai la luna storta, per caso?»
«Sono abbastanza di malumore» ammise il biondo,
scrollando le spalle con fare seccato.
«È per la questione di Colonna, Carter e la Omicron Rho?»
«Ma no, figurati! Non mi interessa un accidente di quello che
combinano quei due avanzi di galera!» sbottò
l’altro, disgustato. «Tanto, presto o tardi, i telegiornali
ci
informeranno
che quella piattaforma è saltata in aria come una mina
vagante.
Dubito che la stiano costruendo seguendo gli standard di
sicurezza».
«Eh, abbiamo capito che Lord Carter non è uno che
bada
tanto alla legalità e Colonna non è da
meno»
concordò l’altro, scuotendo la testa. «Ma non
credi che dovremmo provare a fermarli?»
Marcello inarcò un sopracciglio, incapace di credere che il suo socio
avesse fatto una proposta così utopistica:
«E come? Comprando forse Viale dei Giardini e Parco della
Vittoria? Magari, se ci piazziamo
sopra due alberghi ed abbiamo un po’ di fortuna, potrebbero
capitarci sopra!»
Il giovane arrossì lievemente, avendo sicuramente intuito da
quella ironica risposta che, per quanto nobili, i suoi propositi
sarebbero stati alquanto irrealizzabili.
«Ah, ehm... Sì, forse hai ragione».
«Carter è troppo furbo e troppo ben
ammanicato»
commentò, sprezzante. «Comunque, non è
la notizia
che i nostri amici sguazzano nei loro successi ad avermi
contrariato».
«E cosa, allora?» chiese Gerardo, scrutandolo
perplesso.
Marcello decise di dire tutto al suo amico, giacché riteneva
che
fosse perfettamente inutile tirarla per le lunghe, anche
perché,
come aveva detto il signor Giancarlo, ormai non poteva più tirarsi
indietro: «Mia madre vuole conoscere Beatrice e
l’ha
invitata alla festa di compleanno di mia nipote».
«Ma il compleanno di tua nipote non cade sei giorni dopo il
mio,
ovvero il dieci aprile? Sono già passate due settimane, tra
un
po’ è maggio!»
«Ah, non chiedere a me cosa passa per la testa di mia madre e
di
mia cognata» decretò lui, spazientito.
«Il problema
è un altro, cioè che vorrei risparmiare a Beatrice la pantomima del
pranzo della domenica con tutto il parentado».
«Un bel problema» considerò
l’altro, accarezzandosi il mento con fare cogitabondo. «Ne
hai parlato con Vittoria?»
«No, non ne ho ancora avuto modo».
«E cosa aspetti? Sbrigati, domenica è vicinissima
e
l’unica che credo possa darti un saggio consiglio
è lei!»
Marcello rimase a fissare Gerardo per qualche secondo, non del tutto
certo che parlarne con la ragazza fosse la mossa migliore da fare,
tuttavia dovette ammettere che il ragionamento dell’amico non
facesse una grinza. Era molto probabile che mettere Vittoria al
corrente dei suoi problemi gli avrebbe assicurato un interrogatorio con
i fiocchi, ma, almeno, forse avrebbe
trovato un’ottima soluzione per affrontare quella situazione
con
meno inconvenienti possibili.
Alleggerito da quel peso, si sentì subito meglio, mostrando
addirittura a Gerardo un debole sorriso di riconoscenza, al quale
il
giovane rispose alzando le spalle: si conoscevano talmente bene che
riuscivano a capirsi anche solo con uno cenno.
«Dal profumino che arriva dalla cucina, sembra proprio che
oggi
ci sia la parmigiana. Gerardo, rimani con noi a pranzo?»
domandò il signor Giancarlo, sopraggiunto in
quell’istante, con in mano due vasetti di primule.
«Oh, buongiorno!» lo salutò il giovane,
che era
sobbalzato, non avendolo sentito arrivare. «Ecco, se non
disturbo, volentieri».
L’uomo si avvicinò al dondolo e poggiò
i vasi a
terra, sistemandoli quanto più possibile vicino al muro,
forse
per evitare che qualcuno, distrattamente, potesse passarvi accanto e
farli cadere.
«L’unico a cui potresti dare disturbo è
Marcello, perché a
me non di certo!» scherzò, sfregandosi le mani per
rimuovere i residui di torba.
«Vuoi dire che mamma non c’è?»
chiese quello, che aveva capito cosa intendeva suo padre.
«No, è andata con le sue amiche ad uno di quei
pranzi che le piacciono tanto».
I due ragazzi tirarono un sospiro di sollievo, ben contenti
di
poter mangiare in santa pace senza che la Matrona mandasse loro di
traverso il pranzo con le sue subdole insinuazioni, che mettevano sempre a
disagio Gerardo e facevano innervosire Marcello.
«Allora è un sì? Vado ad avvisare
Ottavia di
aggiungere un coperto in più, a tavola. Quella parmigiana
è troppo buona per lasciarla solo a te, figliolo».
Il giovane si voltò di scatto verso il genitore, facendo
cadere
due o tre penne dal tavolo, come se gli avesse sentito dire che gli
alieni erano appena sbarcati da Marte.
«Tu non la mangi, papà?»
domandò, stranito. «Eppure è il tuo
piatto preferito!»
«Il dottore mi ha consigliato di
mangiare per un po’ in
bianco e leggero e non credo che le melanzane fritte grondanti di
delizioso sugo al basilico rientrino nella dieta, purtroppo» si
giustificò lui, con un sorriso rassicurante.
Marcello osservò l’uomo attentamente, cercando
qualche
indizio che confermasse che non stesse bene e, in effetti, lo
trovò abbastanza pallido, cosa alquanto strana dato che era
uscito e aveva passato tutta la mattinata sotto il sole, a scegliere le
primule più belle di tutto il mercato, come faceva ogni
primavera.
«Va tutto bene?»
«Sì, non ti preoccupare, solo un qualche malessere
passeggero» fece il signor Giancarlo, con tono morbido.
«Avanti, andate a lavarvi le mani, che tra poco dovrebbe
essere
pronto».
Gerardo lanciò uno sguardo fugace al suo amico, il quale
ricambiò con un’occhiata eloquente, anche se non
aggiunse
altro. Per quella volta, avrebbe fatto finta di credere al padre, anche se sentiva che qualcosa non quadrava affatto.
***
Come aveva fatto per tutte le fermate precedenti, invece di rallentare
e quindi fermarsi, l’autista del tram inchiodò di
colpo,
facendo quasi cadere Marcello e la signora, carica di buste della
spesa, che aveva accanto.
Imprecando sottovoce per l’incapacità alla guida
del
tramviere, il giovane saltò giù dal mezzo con un
balzo,
voltandosi per rintracciare la donnina con lo sguardo e intravedendola
a malapena, tra la calca di gente che cercava di salire e che la
ostacolava: dopo aver condiviso con lei tutte le lamentele su quella
corsa così movimentata ed aver scoperto che avevano
la stessa destinazione, il minimo che avrebbe potuto fare sarebbe stato aiutarla
a scendere.
«Signora, mi dia la mano, così posso
aiutarla» si offrì educatamente.
Quel giovedì mattina, infatti, il traffico di Viale Regina Margherita
non era certo meno degli altri giorni, rendendo davvero difficoltosa per i passeggeri la
discesa dai mezzi pubblici a causa del rischio di esser trascinati via dalla
moltitudine di gente che andava e veniva dall’Umberto I o dagli uffici disposti lungo la strada.
«Oh, grazie. Tu sì che sei un bravo
giovanotto!» rispose la vecchietta, non facendoselo ripetere due
volte.
Agevolata dall’aiuto del ragazzo, la donna riuscì quindi
ad
abbandonare il tram ed il suo folle conducente, il quale ovviamente
ripartì
a tutta velocità, sferragliando sulle rotaie.
«Sei stato così gentile che meriti un
premio»
riprese la signora, tirando fuori dalle buste una mela verde
dalla
buccia liscia e lucida. «Ecco, prendi!»
Marcello tese la mano ed afferrò il frutto, portandoselo
accanto
al viso per sentirne l’odore: era asprigno con un sottofondo
dolce, come ci si sarebbe aspettati da una Granny Smith.
«La ringrazio, signora. Con questo caldo, una mela fresca
è quel che ci vuole» rispose, sinceramente.
«Vuole
che l’aiuti ad arrivare fino a casa?»
«Oh, no, ho approfittato fin troppo di te, per fortuna sono
quasi arrivata».
«Si figuri. Allora, arrivederci, signora».
La donnina annuì con un sorriso composto, dopo di che prese
la
sua spesa e si allontanò, mantenendo un’andatura
spedita,
nonostante ogni tanto barcollasse leggermente a causa del peso delle
buste.
Persone con una fibra così forte cominciavano ad essere una
rarità, bastava guardarsi intorno per rendersi conto che i
giovani dell’epoca erano tutti dei rammolliti, come quel
Guido Tolomei, che ne era un esempio lampante: ogni volta che Marcello
ripensava a
quell’inetto e a ciò che aveva fatto a Beatrice, infatti, non riusciva a provare il benché minimo
pentimento per avergli rotto il naso, anzi, se avesse potuto, gli
avrebbe fratturato qualche altro osso.
Il giovane costeggiò il cancello che racchiudeva il
Policlinico e sorpassò l’entrata del complesso in
stile
neocinquecentista che ospitava il dipartimento di Pediatria e
Neuropsichiatria Infantile, facilmente riconoscibile dalla frase
che era scolpita nel fregio marmoreo del portone: in puero homo5.
Poi, una volta che fu entrato all’interno, si
ritrovò in
un dedalo di percorsi che si snodavano tra i vari edifici, ma non si
lasciò confondere e proseguì per la sua strada,
destreggiandosi fra la fiumana di pazienti, camici bianchi, infermieri
e portantini che si muovevano da un complesso all’altro,
finché non giunse in un giardinetto interno arredato con
panchine in pietra.
Guardò l’orologio e vide che le lancette segnavano
le
undici meno dieci: se ricordava bene, la fine del turno di Vittoria era imminente, pertanto decise di fermarsi lì ed
attenderla.
E, di fatto, così fu: la ragazza gli passò
davanti meno
di dieci minuti più tardi, borbottando qualcosa tra
sé e
sé e cercando affannosamente qualcosa nella sua borsa.
«Che gente egoista e menefreghista, come si può
essere
tanto malvagi!» brontolò, rivolta a se stessa.
«Ecco, ci mancava anche questa, eppure ero convinta di aver
preso
i crackers! Accidenti, dopo questa giornataccia ci manca solo che
svenga dalla fame!»
«Contro chi stai imprecando?» le domandò il giovane, affiancandosi a lei, senza che se ne accorgesse.
La ragazza sobbalzò e, tra il basito e lo sconvolto,
esclamò: «Marcello, mi vuoi far prendere un
colpo?!»
«Mi spiace, non volevo spaventarti» si
giustificò semplicemente lui.
«Davvero? Si direbbe il contrario...»
notò lei, accigliata. «Come mai sei da queste
parti, piuttosto?»
«Avrei bisogno di chiederti un consiglio, ma non credo che
sia il
momento giusto: ti vedo piuttosto, come dire... irritata».
«Lascia stare, ho un diavolo per capello».
«Si vede, sono più ricci del solito»
commentò
il ragazzo, lanciando un’occhiata obliqua alla
folta chioma
dell’amica.
Vittoria, dapprima, rimase a guardarlo in silenzio, poi,
però, scoppiò in una risata leggera e liberatoria.
«Oh, sei incredibile! A volte mi chiedo come farei senza
Gerardo e senza di
te» disse, dolcemente.
«Stamattina hanno dimesso una ragazza che non mangia da
mesi e
soffre di anoressia nervosa. Ma, a mio parere, non avrebbero dovuto farlo, perché è
stata
la madre che ha fatto pressione sui medici».
«Magari vuole soltanto riportarla a casa in un ambiente più
familiare» avanzò lui, anche se non del tutto
convinto.
«No, è questo il punto!» scattò subito l’altra. «Non si cura della figlia:
quella ragazza potrebbe morire, capisci?»
Marcello increspò le labbra, intuendo che l’amica
aveva
davvero bisogno di sfogarsi e buttare fuori tutta l’amarezza
che
si portava dentro.
«Sediamoci un attimo, così mi puoi raccontare con calma, d’accordo?»
le propose, prendendola delicatamente per un braccio e guidandola verso
una panchina e lei lo lasciò fare, seguendolo senza obiettare.
«Purtroppo, sono solo una volontaria che ancora non ha capito
che
strada intraprendere, non faccio parte dell’èquipe
di
psicologi dell’ospedale e... questo mi limita
parecchio» sbuffò, non appena si fu seduta.
«Non è colpa tua» cercò di
rassicurarla Marcello, accomodandosi accanto a lei.
«Quella ragazzina soffre di scarsa autostima e di disturbi
affettivi: padre assente e madre ossessionata dall’aspetto,
è chiaro che il problema sta proprio nella
famiglia!
Cerca attenzioni, ma nessuno dei genitori è
all’altezza
del suo ruolo6.
Ero riuscita a stabilire un dialogo con lei e non mi respingeva come
faceva con altri del personale sanitario. Avevo trovato anche un certo grado
di empatia, ma sua madre ha rovinato tutto».
Il biondo inclinò da un lato la testa, pensieroso,
concludendo
il ragionamento: «Quindi vorresti continuare ad aiutarla, ma
non
sai come fare».
Vittoria chiuse gli occhi per un attimo, ispirando a fondo, per poi
riaprirli e buttare fuori tutta l’aria:
«Già. Sai, questa piccola
esperienza, anche
se non retribuita e professionalmente non gratificante, mi ha fatto
capire cosa voglio fare: aiutare i giovanissimi nel percorso di
crescita e formazione della personalità».
«In effetti, saresti perfetta. Ti ci vedo molto accanto ai
giovani».
La giovane lo guardò e, lentamente, dischiuse le labbra in
un sorriso, più rilassata.
«Hai detto che la ragazza ha fiducia in te, no? Tu non puoi
andare da lei, ma lei sa dove trovarti: se avrà bisogno di
te e
vorrà aiuto, ti verrà a cercare»
considerò
Marcello, incrociando le braccia contro al petto e lanciando
all’amica un’occhiata rassicurante.
«Non lo so, non è detto. Anche se ammetto che ci
spero».
Nel vedere Vittoria così presa dal caso di quella ragazza,
il
giovane sorrise, convinto che fosse un bene che ci fossero persone
così dedite alla loro professione, anche se lei, di fatto, ancora non
era
una psicologa a tutti gli effetti.
«Cos’è quella?»
domandò improvvisamente la giovane, guardandogli la mano.
Marcello la imitò, seguendo la direzione dello sguardo di
lei, e
si ricordò del dono che gli aveva fatto poco prima quella
signora.
«Una mela che mi ha regalato una vecchietta che ho aiutato a
scendere dal tram».
«Oh, è una Granny Smith, la mia
varietà preferita!»
disse, allegra, togliendogliela abilmente di mano.
«Be’, grazie, avevo giusto un po’ di
fame».
Senza
che al biondo fosse dato il tempo di replicare, Vittoria
addentò
il frutto e, masticando compostamente, anche se di gusto, emise un
mugolio d’approvazione riguardo il sapore.
«Ti
volevo
perfino invitare a pranzo, ma direi che ti sei appena giocata
l’occasione» commentò lui, indispettito
dal gesto
dell’amica che, ancora una volta, aveva dimostrato di avere una rapida capacità di riprendersi.
«Mi vuoi offrire il pranzo? Che gentile!»
Marcello fece per controbattere, ma lei lo
anticipò:
«Non mi sono dimenticata che vorresti un consiglio da me, ma sai
che
a stomaco pieno si ragiona meglio? Mi dispiacerebbe molto non poterti
essere d’aiuto...».
E il ragazzo alzò lo sguardo al cielo, domandandosi come
facesse Vittoria ad averla sempre vinta.
I due ragazzi pranzarono in un caffè sotto i portici che circondavano Piazza della
Repubblica7,
in compagnia sia dei turisti che si dilettavano nel fotografare la
Fontana delle Naiadi, sia dei romani che passeggiavano lì
intorno, approfittando dell’arrivo della bella stagione.
«Allora, di che cosa volevi parlarmi?» chiese Vittoria,
facendo sparire l’ultimo boccone del suo tramezzino con
prosciutto e formaggio.
Marcello smise di osservare il viavai di gente e si voltò verso l’amica.
«Si tratta di Beatrice».
«Immaginavo» disse lei, esibendo un sottile sorriso
sornione. «Quando vuoi parlarmi con urgenza, c’è
sempre di mezzo la tua rossa fiorentina».
Il giovane increspò le labbra, ma non commentò,
limitandosi a scuotere la testa e a bere un sorso
d’acqua dal bicchiere che aveva in mano.
«E di mia madre» aggiunse, osservando le bollicine che salivano in superficie.
La ragazza rimase a fissarlo per una frazione di secondo, prima di
domandare, con fare circospetto: «Che cosa ha fatto adesso?»
«Vuole che Beatrice prenda parte al pranzo per i festeggiamenti del compleanno di mia nipote, domenica prossima».
«Un pranzo con la tua famiglia... come prima occasione di
incontro? Ma non è indicato!»
In risposta, Marcello si lasciò sfuggire un sorrisetto ironico,
prima di vuotare il bicchiere e, così, riprendere a parlare:
«Vedo che hai afferrato il punto».
«Beatrice come l’ha presa?»
«Non lo sa ancora. Volevo un parere da te, prima di parlare con lei».
Vittoria spalancò gli occhi e poggiò entrambe le mani sul tavolo, non riuscendo a celare la propria sorpresa.
«Non lo sa?! Marcello, oggi è giovedì, domenica è tra tre giorni!»
Purtroppo, l’altro sapeva fin troppo bene il ben misero anticipo con
il quale la Matrona aveva imposto il suo dispotico volere e, come era
già accaduto con Gerardo, ogni volta che qualcuno glielo
ricordava si sentiva ancor più oppresso dalla situazione e dai
capricci della sua genitrice.
«Mia madre ha avuto questa brillante trovata martedì: non
capisci che l’ha fatto apposta per mettere in difficoltà
Beatrice? Se lei non verrà, metterà in giro voci false
sul suo conto» sbottò, preferendo mettere subito in chiaro
le cose e mettendo così la sua amica al corrente del gioco
sporco che c’era sotto quell’invito fuori luogo.
Dal canto suo, la giovane, che conosceva bene quanto potesse essere
malvagia Madama Claudia, inclinò il capo da una parte, con fare
pensieroso. Dopo poco, parlò, dimostrando di aver capito
esattamente gli intenti della donna: «Quindi tiene in pugno anche
te, perché è ovvio che
non vuoi che quella povera ragazza subisca questo martirio».
Marcello annuì, lieto che Vittoria avesse centrato in pieno il
fulcro del suo problema senza troppe spiegazioni o giri di parole.
«Va bene, dai, ora ci ragioniamo su e troviamo una soluzione, d’accordo?
Intanto, stasera precipitati da lei per informarla».
«Anche Gerardo mi ha detto la stessa cosa» notò lui,
consapevole che i suoi amici gli avevano dato quel consiglio
perché era la cosa più sensata da fare.
«Ovvio! Ci tiene a te ed è un ragazzo molto
giudizioso» commentò lei, tessendo le lodi
del suo fidanzato. «Ritornando alla tua fiorentina, penso
che non dovresti
risparmiarti sui particolari: più informazioni le darai
sull’indole da megera di tua madre, meglio la preparerai a ciò che l’aspetta».
«Mi sembra il minimo» concordò il ragazzo. «Anzi, io direi che... ed ora perché ridi?»
In effetti, la giovane era scoppiata a ridere, di punto in bianco, in
maniera così fragorosa, che parecchi clienti del caffè si
erano voltati a guardarla perplessi. Persino la cameriera, che aveva
appena fatto accomodare due uomini in abito scuro al tavolo accanto al
loro, nel rientrare dentro il locale, sicuramente per comunicare alla
cucina le ordinazioni, le lanciò un’occhiata incuriosita.
«Ah, ah, ah, la tua vita è molto più complicata
di Dallas
o Sentieri8. Hai superato la finzione!»
Marcello, però, non era affatto dello stesso avviso, tanto che
si
indignò per il paragone con quei programmi, da lui ritenuti la
spazzatura del palinsesto televisivo, e assunse un’espressione
palesemente offesa.
«E lo trovi divertente? Dovresti provare a metterti nei miei
panni!» sbottò, innervosito anche dal tramestio di sedie
spostate proveniente dai suoi rumorosi vicini di tavolo: possibile non
sapessero che, per non disturbare gli altri, era preferibile alzare la
sedia per spostarla?
«Ti stavo prendendo un po’ in giro, non ti scaldare!» gli spiegò lei, ancora ridacchiando.
Il biondo incrociò le braccia sul petto, stizzito, fissandola ad
occhi socchiusi, domandandosi come avrebbe potuto prendere sul serio i consigli di
una persona che si faceva apertamente beffe di lui e della congiura che
gravava sulla sua testa.
«Tua madre stava per scoppiare dalla felicità, quando le
hai detto di te e di Gerardo. Forse non saresti stata così
contenta, se avesse reagito come la mia»
puntualizzò, seccato.
«Come sei permaloso!» lo redarguì, scherzosamente.
«Comunque, Beatrice è una ragazza intelligente, se le
darai apertamente sostegno davanti a tua madre, sono certa che se la
caverà».
Lui distorse lievemente le labbra, poiché non credeva bastasse così poco a sistemare la situazione e stava appunto
per farlo notare all’altra, quando lei proseguì:
«Poi, se non hai già provveduto ad un pensierino per la
bambina, credo che dovresti farti consigliare da lei. Pensaci:
presentando un regalo scelto insieme, lancerete il messaggio che
siete
una coppia. Senza contare il fatto che solleverai quella povera ragazza
dall’incomodo
di
portarne uno alla festeggiata, con il rischio che tua madre e tua
cognata possano criticare la sua scelta».
Rianimato da quell’ottimo consiglio,
Marcello si sentì un po’ più pronto ad
affrontare quello che lo aspettava, anche se restava da fare
ancora la cosa più importante: informare Beatrice di
ciò che l’avrebbe attesa domenica.
Aprì la bocca per ringraziare sinceramente Vittoria per
l’illuminante punto di vista, quando captò distintamente
alcune parole della conversazione che si stava svolgendo al tavolo alle
sue spalle.
«Lord Carter è molto deluso».
«Lo so bene, ma non avrei potuto fare di più».
Raggelato da ciò che aveva appena udito e dalle voci che aveva
riconosciuto senza fatica, il ragazzo impiegò qualche secondo
per decidersi a voltare leggermente la testa per guardare oltre la
propria spalla, riconoscendo nel tizio che era seduto a poca distanza
da lui John Miller, mentre il suo interlocutore, di cui vedeva
solo la schiena ed i capelli, ma che anche così era facilmente
riconoscibile, era Ascanio Colonna.
Quando
erano arrivati, non si era accorto che i due uomini in nero erano sue
vecchie conoscenze, tanto era stato
preso dalla conversazione con Vittoria e in quel momento pregò che anche loro
non l’avessero notato, anche se, come il giovane arrivò a
considerare un secondo più tardi, se fosse stato così lo avrebbero
schernito e si sarebbero fatti spostare subito ad un altro tavolo.
«Cosa c’è?» gli chiese lei, messa in allarme dal suo fare circospetto.
Marcello la zittì con un gesto secco della mano e, stando
attendo a non voltarsi per non farsi riconoscere, si sporse leggermente
per sentire meglio ciò che si stavano dicendo quei due. La
fortuna aveva voluto che, essendo così disposti, gli unici che
potevano vedersi in faccia erano Miller e Vittoria: l’uomo non
aveva mai visto prima di allora la ragazza, pertanto non avrebbe potuto
ricollegarla a né a lui, né a Gerardo.
Lei tacque all’istante, poiché era abbastanza intelligente
da capire che c’era sotto qualcosa della massima importanza.
«Di più? Non hai fatto niente, ecco perché non sei riuscito a portare a termine il compito
che ti era stato assegnato!» sibilò il britannico, con
un’intonazione nella voce che faceva trapelare che, in
realtà, era compiaciuto da quel fallimento.
«Ti ripeto che ho fatto quello che ho potuto! Ho chiesto anche la
collaborazione di persone molto in alto» si giustificò
Colonna, evidentemente seccato.
«Allora hai sbagliato a scegliere di chi fidarti» disse
l’altro, continuando nel suo tono sprezzante e, al contempo,
canzonatorio. «Come quello scultore che è si
è fatto fermare alla dogana dell’aeroporto, perché
non aveva
nascosto bene la partita di hashish: già, sai davvero come sceglierti amici e
collaboratori...»
Colonna rimase in silenzio e Marcello non ebbe difficoltà ad
immaginarlo mentre digrignava i denti, come faceva sempre quando
qualcosa non andava secondo i suoi progetti.
In quel momento, la cameriera tornò da loro con le due orzate
che avevano ordinato e i due rimasero in silenzio finché non se
ne andò.
«Ora limitati a portare avanti le compravendite con i partner
che ti ho assegnato. Lord Carter si occuperà personalmente di
riparare al tuo errore» riprese Miller, marcando con enfasi l’ultima frase.
«Corrompendo anche l’Interpol?» sbottò
Colonna, ormai chiaramente irritato: non era certo tipo da subire
passivamente tutti quei rimproveri, soprattutto se mossi da un
sottoposto del suo socio.
L’uomo fece tintinnare il bicchiere e un improvviso rumore di
sedia spostata fece capire che doveva essersi alzato in piedi.
«Impara qual è il tuo posto, se non vuoi fare la stessa
fine del traditore o del tuo amico!» disse, poco prima di passare
a passo deciso davanti al tavolo di Marcello e Vittoria, allontanandosi
in fretta e sparendo presto oltre una delle colonne del porticato.
«Maledetto leccapiedi!» ringhiò Colonna, non
abbastanza a bassa voce da non farsi sentire dai suoi vicini di tavolo.
Vittoria lanciò un’occhiata eloquente a Marcello, anche se
non si azzardò a parlare, intuendo che il pericolo di essere
riconosciuti non era ancora passato.
Dal canto suo, il giovane, impegnato a rielaborare
quello che aveva appena sentito, fece segno all’amica di alzarsi
e di restare in silenzio; poi i due, cercando di mantenere una certa disinvoltura
per non dare nell’occhio, si defilarono verso l’entrata del
caffè, così da riuscire ad andare a pagare senza attirare
l’attenzione di Ascanio.
«Chi era l’interlocutore di Colonna?» chiese la
ragazza, non appena furono in mezzo della piazza, lontani dalla
portata d’orecchio del loro nemico.
«John Miller, l’assistente di Lord Carter»
spiegò il biondo, mentre finiva di chiudere il portafoglio e lo
rimetteva nella tasca interna della giacca.
«Come immaginavo» asserì lei, lisciandosi il vestito e passandosi il manico della borsa da una mano
all’altra, inquieta. «Hanno anche fatto implicitamente il
nome di Bartolomeo. In quel momento, mi sono vergognata come mai in
vita mia: come ho potuto essere così stupida da non vedere con
chi ero fidanzata?»
«Non ha senso rimproverarsi per questo» la consolò
Marcello, dandole un’affettuosa stretta sul braccio. «Hai
già sofferto abbastanza a causa di quel bastardo».
Vittoria annuì, ma non sembrava particolarmente convinta,
giacché non doveva aver completamente dimenticato ciò che
aveva passato per colpa del suo ex fidanzato, nonostante le attenzioni
di Gerardo le stessero facendo conoscere il lato sano e giusto
dell’amore.
«Quello che vorrei sapere, però,» proseguì il ragazzo,
desiderando distrarla e sentire la sua opinione in merito,
«è chi potrebbe essere questo fantomatico traditore. Per scatenare l’ira di Lord Carter, non deve essere certo un ladruncolo da poco».
«In effetti, anche se non conosco i dettagli, ammetto che le
minacce di quel tipo mi hanno messo i brividi» concordò
l’amica. Poi, improvvisamente, esclamò: «Oh, guarda!
Colonna sta venendo da questa parte... e c’è Maria Luisa
con lui!»
«Voltati e fai finta di dirmi qualcosa riguardo la fontana»
le ordinò Marcello, prontamente. «Magari indicala
anche».
«Giochiamo a fare le spie sovietiche? È la seconda volta
che origliamo, oggi!» scherzò Vittoria, ma fece comunque quanto le
era stato detto.
In quel frangente, i due ragazzi si arrestarono proprio dietro di loro.
«Comincia a fare caldo e mi stanco facilmente» si lamentò Maria Luisa.
«Sai bene che nelle tue condizioni non dovresti uscire di casa» la rimproverò il compagno, asciutto.
Di
colpo, Marcello si ricordò una cosa che aveva momentaneamente
dimenticato, ossia che la ragazza era in dolce attesa.
D’altra parte, essendo molto magra, il ventre di lei era ancora
poco prominente: se non
avesse saputo con certezza che aspettava un bambino, non se ne sarebbe
mai accorto. E questo, di certo, li avrebbe aiutati almeno a salvare le
apparenze durante la cerimonia che si sarebbe svolta di lì a due
settimane.
«Qualcuno si
doveva pur occupare delle bomboniere. Adesso manca solo
l’addobbo floreale per la chiesa» replicò Maria
Luisa.
«Di questo te ne puoi occupare chiedendo l’aiuto di tua madre».
«Di questo?» fece
la ragazza, con voce tremula. «Veramente, ci stiamo occupando noi
di tutto. Eppure, tu sei lo sposo, dovresti fare qualcosa».
«Io non ho tempo per queste idiozie. La cosa più importante è il riconoscimento di mio figlio».
Nauseato, Marcello non riuscì a trattenersi dal lanciare
un’occhiata obliqua all’indirizzo del suo nemico, il quale
era impegnato a trafficare con il suo palmare, anziché guardare
in faccia Maria Luisa. Che Colonna non fosse un tipo sentimentale era
un qualcosa di più che assodato, ma mai avrebbe pensato che
potesse essere così disinteressato verso la sua futura moglie,
che vedeva molto probabilmente solo come un mezzo per mettere al mondo
un erede. Infatti, lo stralcio di conversazione che udì poco
dopo, gli diede la conferma.
«Avanti, ti riaccompagno a casa, non devi stancarti, perché il bambino potrebbe soffrire».
«Potrebbe anche essere una bambina» gli fece notare lei,
dolcemente, mettendosi una mano sulla pancia. «Hanno detto che
dalla prossima ecografia si potrebbe capire se...»
«Non dire sciocchezze!» la freddò, come se stesse
dicendo un’eresia, chiudendo con un gesto secco il palmare.
«Sarà un maschio e porterà avanti il mio impero.
Adesso andiamo!»
Ammutolita da quest’ultima osservazione, la ragazza lo
seguì in silenzio e il biondo poté giurare di aver visto
due lacrime rotolarle giù per le guance.
«So che non dovrei dirlo, ma mi fa davvero tenerezza, poverina...»
sussurrò Vittoria, visibilmente rammaricata, non appena i due
ebbero imboccato via Nazionale. «Anche se era tra le tue
ammiratrici più frivole, penso che nessuna ragazza meriterebbe
di sposare Colonna».
«Non posso che darti ragione» sospirò lui, provando
per Maria Luisa un dispiacere più grande di quello che avrebbe
mai pensato di poterle riservare.
Dopo aver raccolto parecchio materiale su cui riflettere, i due giovani
camminarono per un po’ assorti nei propri pensieri,
diretti verso la stazione della Metro A Repubblica,
fin quando Vittoria si lasciò sfuggire un’espressione di
stupore e si allontanò a grandi passi verso una vetrina che dava
sulla strada.
Incuriosito da ciò che aveva attratto così
l’amica, la
seguì, notando che si era fermata di fronte ad una
gioielleria.
«Non pensavo che ti interessassero queste cose, di solito
critichi sempre chi ne fa sfoggio!» le disse a
voce alta, affinché lo sentisse.
«Guardare non vuol dire comprare. E, comunque, non si può proprio
fare a meno di ammirare questa meraviglia!» gli rispose lei,
invitandolo a raggiungerla per dare un’occhiata lui stesso.
Accigliato e borbottando qualcosa tra sé e sé sulla volubilità
di molte donne di fronte a qualsiasi cosa che luccichi, Marcello si
decise ad avvicinarsi per vedere con i propri occhi, attraverso le
inferriate della saracinesca, cosa mai ci fosse di così
eccezionale. Tuttavia, quando l’amica gli ebbe indicato, tra
tutti quei preziosi, quello che l’aveva colpita, il giovane
non poté negare la rara bellezza di quella creazione: era un
raffinatissimo ciondolo a forma di farfalla in
filigrana dorata e brillanti. Le pietre multisfaccettate creavano
giochi di luce così particolari, che sembrava davvero che
l’insetto avesse preso vita e stesse sbattendo le ali.
«Non trovi che sia bellissimo?» sussurrò Vittoria, ammaliata.
«Non posso dire il contrario» ammise Marcello che,
nonostante fosse un uomo, non riusciva a rimanere insensibile di fronte a
una tale dimostrazione di superba arte orafa.
Subito, nella sua mente, lo vide indosso a Beatrice, certo che le
sarebbe stato molto bene e che l’avrebbe resa ancora più
graziosa. Di lì a qualche settimana sarebbe stato il suo
compleanno e non sarebbe stato male avvantaggiarsi con il regalo,
pertanto, senza perdere ulteriore tempo, chiese all’altra:
«Secondo te, potrebbe
piacere a...»
«Alla tua rossa fiorentina? Certamente! È elegante, ma
semplice, perciò secondo me è perfetto per lei» rispose la ragazza con un
entusiasmo che, probabilmente, non avrebbe avuto nemmeno se fosse stata
lei la destinataria di quel regalo.
Marcello, che, anche se conosceva bene la sua amica e la sua
capacità di trarre spesso conclusioni esatte, era rimasto
spiazzato da tale prontezza, impiegò qualche secondo prima di
annuire. Il risvolto positivo, però, fu l’aver avuto
l’ennesima conferma che almeno Vittoria aveva preso in simpatia
la fanciulla, cosa che, purtroppo, non si poteva dire altrettanto di
sua madre.
«Ora il negozio è chiuso. Non posso comprarlo»
borbottò, guardando in tralice la porta sprangata, rabbuiato
anche dal ricordo dell’imminente supplizio domenicale e dal fatto
che, entro sera, avrebbe dovuto parlarne con Beatrice.
«Potresti venire a prenderlo domattina, prima di andare a lavoro,
visto che stasera hai cose più importanti da fare» gli
disse Vittoria, come se gli avesse letto nella mente.
Poi cambiò tono e, maliziosamente, aggiunse: «Sono certa
che Gerardo capirà se farai un po’ di ritardo...
D’altra parte, al cuor non si comanda, no?»
***
L’angoscia provata durante il rapimento, per quanto tremenda, non
impedì, però, a Beatrice di essere colta da un altro tipo
di ansia, quando si rese conto che la separavano solo due mesi dal suo
esame
di maturità.
Nonostante fosse già rimasta d’accordo con Vittoria per
riprendere contatti con il signor Rossiglione e, quindi, ricominciare a
studiare assiduamente sotto la sua guida, la ragazza non se la
sentiva di trascorrere in ozio il tempo che sarebbe trascorso fino a
quel momento, pertanto decise di farsi prestare alcuni libri e studiare
un po’ in autonomia.
Il fresco venticello pomeridiano che dapprima l’aveva invitata a
studiare sulla terrazza della sua stanza, ora le stava facendo
compagnia mentre cercava di ricordare date e nomi della Seconda Guerra
Mondiale, aiutata da una mole di ordinati schemi riassuntivi che
racchiudevano l’intero programma di storia
dell’ultimo anno: ricordava la grande fatica fatta per cercare di
rendere quegli specchietti quanto più esaustivi, ma, nello
stesseo tempo, coincisi e ringraziò se stessa per
essere stata
così previdente, giacché, in quel momento, si stavano
rivelando un prezioso supporto.
Era talmente assorta nella lettura che non si accorse che lui si era fermato sulla soglia del balcone e la stava guardando già da alcuni minuti, prima di decidersi a chiamarla.
«Buonasera, Beatrice».
Subito, la ragazza alzò la testa e, trovandosi di fronte Marcello, sobbalzò e arrossì all’istante.
«Ciao, Marcello, scusami, non t’ho sentito arrivare».
«Scusami tu, non volevo spaventarti. Ho bussato, probabilmente
non mi hai sentito» le spiegò, tentennante. «La
signora
Irene mi ha assicurato che ti aveva appena portato un succo di frutta e
ti aveva vista studiare, altrimenti non mi sarei mai permesso di
entrare senza...»
Ma il giovane deglutì e non terminò la frase: era evidente
che fosse piuttosto in difficoltà, probabilmente sia per non
averla avvisata del suo arrivo, sia perché doveva star ancora
pensando a ciò era successo tra di loro qualche sera prima. In
realtà, però, anche lei era un po’ imbarazzata, ma
era decisa a
far
prevalere i sentimenti positivi su tutto il resto. Per questo si fece
coraggio e prese la parola: «Sì, infatti, stavo ripassando qualcosa, ma posso prendermi una piccola pausa. Ti va di sederti?»
«Sì, con piacere» rispose lui, accomodandosi sulla sedia
accanto alla sua, mentre Beatrice metteva da parte i suoi schemi.
«Come stai, oggi?» le domandò, con una lieve dolcezza nel tono della voce.
«Bene, grazie» fece lei, sorridendogli. «Comincio ad esser un po’ preoccupata per la maturità, sai, presentandomi da privatista, e credo che non sarò avvantaggiata».
«Con una buona preparazione di base, credo che al massimo possano
metterti un po’ in difficoltà, ma di certo non
bocciarti».
«Lo spero davvero» mormorò, alzando le spalle. Poi
vide il vassoio con le bibite fresche e i bicchieri e gli chiese:
«Vuoi del succo di frutta?»
Marcello si voltò verso il tavolino e rimase incerto per qualche
secondo, poi rispose: «Grazie, ma non preoccuparti: faccio da
me».
Si versò dell’acqua in un bicchiere di vetro blu e tornò a guardarla con aria pensierosa.
«Beatrice, c’è una cosa di cui ti devo parlare...» le disse, con aria molto seria.
Preoccupata da quel tono, la fanciulla si irrigidì, sicura che
quello che aveva da dirle non sarebbe stato qualcosa di buono.
«È successo qualcosa di grave?»
«No, ma si tratta di una cosa delicata» proseguì
lui, fermandosi un attimo dopo per sospirare. «Mia madre ti ha
invitata a pranzo domenica prossima, perché vorrebbe conoscerti di
persona».
Beatrice non riuscì a trattenersi dall’assumere
un’espressione stupita, con tanto di bocca aperta. Non conosceva
la signora Claudia di persona, ma quelle poche informazioni che aveva
appreso qua e là non la dipingevano come una di
quelle mamme tutte torte fatte in casa e sorrisi, pertanto la notizia
la mise abbastanza in agitazione.
«Immagino che
non possa rifiutare» disse, ricordando che le era stata descritta
come una donna molto autoritaria. Stando a quel che le aveva detto
Marcello al bar diversi mesi prima, ovvero che si era messa in testa di
cercare lei una ricca moglie al figlio, intuiva di avere ben poche
speranze di piacerle. Infatti, non era una ragazza proveniente da una situazione economica agiata; per
giunta, gli unici parenti che le erano rimasti non erano né
rispettabili, né educati.
«Purtroppo è così. Ti ho già spiegato quanto
sia difficile il suo carattere, però vorrei comunque che non ti
spaventassi» disse il giovane, soppesando accuratamente le parole.
«Ora, rispetto a questo, la maturità mi sembra una passeggiata» commentò, amara.
Il ragazzo si alzò dalla sedia, inquieto, e cominciò a passeggiare avanti ed indietro.
«So bene che non è questo il modo di comportarsi, essendo
la prima volta che vieni a casa. Credimi, ho
cercato di dissuaderla, ma non c’è stato niente da fare,
anzi, l’unico risultato che ho ottenuto è stato di farla
incattivire ancora di più».
Beatrice non osò chiedere cosa intendesse con quel farla incattivire di più. Non la conosceva nemmeno e già aveva le sue riserve su quella donna.
Evidentemente, però, il silenzio teso che scese subito dopo
dovette fece a Marcello il grande disagio nel quale si trovava la
ragazza,
tanto che le si avvicinò e, dopo essersi genuflesso davanti a
lei, le prese una mano tra le proprie e le disse: «Comunque, di
una cosa puoi essere certa: non le permetterò di trattarti
male, perché lei non ha alcun diritto di criticare la ragazza di
cui mi sono innamorato. La mia fidanzata non ha bisogno della sua approvazione».
Il gesto e la parola fidanzata
ebbero il potere di far colorire le guance della ragazza, che si
limitò a guardarlo sbattendo le palpebre. Ora non avrebbe più potuto avere nessun dubbio: Marcello
vedeva la sua relazione con lei come qualcosa di ufficiale.
Questa considerazione la portò, inaspettatamente, a vedere la
vicenda sotto una prospettiva più lucida, giacché era
evidente che, essendo arrivati a quel punto, l’incontro con la
suocera, prima o poi, sarebbe dovuto avvenire.
Certo, sempre meglio poi che prima, ma pensò che era anche vero
il detto che affermava che il toro va afferrato per le corna.
«Se’ sempre molto carino con me» gli disse, guardandolo intenerita.
Leggeremente in difficoltà, Marcello le lasciò la mano e, tirandosi su, si
schermì: «Mi sembra il minimo, non è certo colpa
tua se ti sei trovata in questa situazione».
Beatrice lo guardò divertita, consapevole che, visto il suo
carattere, quell’oggi il ragazzo le aveva dimostrato fin
troppa dolcezza. D’altra parte, se stava accettando di andare
nella fossa dei leoni, era soltanto per lui.
Poi, quello si rimise a sedere e, per qualche secondo, si udì solo il canto degli uccellini.
«C’è un’ultima cosa» aggiunse poi lui,
improvvisamente. «Domenica festeggeremo il primo compleanno di
mia nipote e mi chiedevo se... ecco... domani pomeriggio volessi venire
con me, per aiutarmi a scegliere il
regalo per la piccola Claudia».
Onorata dalla richiesta, la fanciulla accettò con piacere: «Molto volentieri».
Tuttavia, il clima di ritrovata tranquillità che si era appena
instaurato venne interrotto dall’arrivo di una trafelata signora
Irene.
«Scusate la brusca interruzione» disse, con il fiatone.
«Ma è urgente: Beatrice, devi venire subito nell’ingresso».
I due giovani si guardarono e, senza nemmeno chiedere il perché
di tanta fretta, si alzarono e seguirono la donna fino al tinello,
dove, ad attenderli, trovarono un agente di polizia dall’aria
familiare.
«Saverio!» esclamò la ragazza, stupita. Si ricordava che
le avevano detto di restare a disposizione, ma non credeva che
l’avrebbero cercata così presto.
«Buonasera, Beatrice» la salutò lui, sorridente,
sfiorando appena la falda del cappello. Poi notò Marcello e,
cambiando immediatamente tono, fece un cenno di saluto con il capo:
«Buonasera, signor Tornatore».
«Il commissario vuol già riascoltarmi?»
«Affermativo! Sei stata convocata al commissariato martedì prossimo» scandì, con tono solenne.
«Ma non da parte del commissario Molinari. Questa volta, vuole
ascoltarti il
questore in persona».
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per aver letto tutto questo in anteprima.
***
[N.d.A]
1. Moonlight Shadow:
canzone composta dal britannico Mike Oldfield e cantata dalla solista
scozzese Maggie Reilly. Venne pubblicata bel 1983;
2. esami preliminari:
i candidati privatisti all’esame di maturità,
negli anni ’80 (come è tornato in vigore negli
ultimi anni), dovevano affrontare un esame preliminare, scritto e
orale (di tutte le materie dell’ultimo anno), per mezzo del
quale la commisione doveva certificare
l’idoneità del canditato a sostenere
l’esame di Stato. Inoltre, all’esame orale,
bisognava portare
tutte le materie delle quattro sorteggiate e non soltanto due come chi
aveva frequentato un normale anno scolastico presso una scuola (una
scelta dallo studente ed una scelta dalla commissione); le
materie che cita Beatrice, sono realmente quelle sorteggiate per la
maturità classica del 1987;
3. “Stanislao
Cannizzaro”:
un liceo scientifico che si trova nel quartiere dell’Eur,
dove abita Vittoria; il Giulio
Cesare, invece, come saprete, è il
più famoso liceo classico della Capitale;
4. economia e commercio:
prima la laurea in economia aveva questa dicitura;
5. in puero homo:
letteralmente “nel bambino,
(c’è già)
l’uomo”. Frase di Leonardo da Vinci, invita a riflettere
sull’importanza del prendersi cura dei bambini in toto,
giacché saranno gli adulti del domani. La frase è
tutt’ora
incisa su una lastra di marmo, collocata sopra al portone del
dipartimento di Pediatria dell’Umberto
I;
6. all’altezza
del suo ruolo:
per il caso della ragazza, mi sono ispirata ad uno realmente
accaduto che ci hanno raccontato a lezione. Il tema dei disturbi
alimentari - e del coinvolgimento della famiglia nella loro insorgenza
- mi sta molto a cuore;
7. Piazza della Repubblica: conosciuta anche con il nome di Piazza Esedra.
8. Dallas o Sentieri:
Dallas
è una serie televisiva statunitense, trasmessa in Italia a
partire dal 1981, famosa per i suoi colpi di scena; Sentieri,
invece, è una soap opera, sempre statunitense, trasmessa nel
nostro paese dal 1982. Entrambe sono state molto famose e molto
seguite, anche dai giovani;
***
Come
sempre, ringrazio di cuore chi sta avendo pazienza nell’attendere
che questa storia riesca a trovare una conclusione - è tutto
nella mia testa, deve solo avere il coraggio di uscire fuori -, chi
legge, anche in
silenzio, e chi mi ha
voluto dare fiducia, mettendo
la storia tra seguite/ricordate/preferite.
Grazie anche a chi
è
stato tanto gentile da recensirmi lo scorso capitolo, ovvero Anto, Lady Moonlight, DarkViolet 92, Aven, Mini GD, 21century e Balder Moon.
In ultimo, vi lascio il link alla pagina
facebook dove
(presto o tardi) troverete uno spoiler del capitolo quindicesimo e news
in
tempo reale (se mai doveste chiedervi che fine ho fatto). Vi anticipo
che il prossimo capitolo è a metà stesura, pertanto tra
Settembre ed Ottobre dovrebbe essere pronto.
Saluti e alla prossima,
Halley
S. C.
|
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Capitolo 15 *** Capitolo Quindicesimo - Vento di Prove ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 15
- Capitolo Quindicesimo -
Vento
di Prove
Le
occhiate maliziose che Vittoria, seduta dall’altro lato del
tavolo, continuava a lanciargli lo stavano facendo innervosire non
poco: forse, solo le insinuazioni prive di fondamento
di sua madre avevano il potere di fargli perdere più
rapidamente la pazienza. E questo era tutto dire.
«Per quanto hai intenzione di continuare?» la
redarguì Marcello, riservandole
un’occhiataccia.
La giovane gli mostrò un sorrisetto divertito,
rispondendogli:
«Finché mi andrà. Stento a credere che
anche
l’incontentabile Marcellino abbia trovato finalmente una
ragazza che gli va a genio».
Il
ragazzo inarcò un sopracciglio, ma non rispose,
giacché
gli sembrava del tutto superfluo ribadire che era consapevole del
proprio carattere non propriamente facile, senza contare che non
sarebbe mai stato in grado di stare con una ragazza solo per compiacere
sua madre o pur di non stare solo, anche perché aveva il
sospetto che, qualunque cosa avesse detto, non avrebbe cambiato la
situazione: come suo solito, Vittoria si stava divertendo a
stuzzicarlo.
«Io
non ci
trovo niente di strano. A volte, bisogna solo avere il coraggio di
aspettare la persona giusta» osservò
giudiziosamente
Gerardo.
Il biondo indirizzò al suo amico un cenno di riconoscimento:
«Per fortuna, almeno uno di voi due dimostra di essere
saggio».
Subito, lei assunse un’aria offesa.
«Cosa vorresti dire?»
«Vittoria, si sta facendo tardi» intervenne il fidanzato,
guardando distrattamente il proprio orologio da polso e camuffando
palesemente un tentativo di distrarre la sua fidanzata. «Se
non
ci sbrighiamo, il fiorista chiuderà e non potrai chiedergli
ciò che devi».
La giovane lo guardò sorpresa, ma, dopo che ebbe verificato
l’orario, convenne che era giunto il momento di andare.
«Oh, sì, hai ragione» fece, prendendo la
borsa,
poggiata sul bracciolo del divano accanto alla porta. Poi, si
voltò verso l’amico e, piccata, gli puntò un
dito
contro: «Per questa volta te la cavi, ma sappi che la prossima non
sarai
così fortunato!»
Ed uscì dalla porta, con fare teatralmente offeso.
«Le passerà» commentò
Gerardo, rassicurante,
preparandosi a seguirla. «Ci vediamo domani, buona uscita».
«Anche a te» gli rispose Marcello, salutandolo con
un cenno della mano.
Si
ritrovò così solo, anche se non gli dispiacque
affatto,
giacché aveva talmente tanti pensieri per la testa che aveva
bisogno della tranquillità necessaria per affrontarli uno
alla
volta.
Il fatto che Beatrice
fosse ospite in quella casa, infatti, rendeva molto probabile, ogni qualvolta
volesse vederla, la possibilità di incappare in Vittoria e
nelle sue
domande e, per quanto volesse molto bene all’amica, il
giovane
cominciava a sentire la necessità di portare avanti la sua
relazione senza dover informare, minuto per minuto, mezza
città.
Per giunta, lo scompiglio portato dal rapimento, dall’arresto di Guido e
dai
continui interrogatori della polizia aveva poi
fatto
insorgere ancor di più in Marcello il desiderio di essere
lasciato in pace, almeno per ciò che riguardava la sua vita
privata.
Inoltre, ogni volta che pensava all’imminente incontro tra la fanciulla e la
sua famiglia, si augurava che il tutto passasse nella maniera
più
veloce ed indolore possibile; infine, il dialogo che aveva
sentito tra Miller e Colonna
l’aveva preoccupato abbastanza, poiché, nonostante
non sapesse verso chi
fossero rivolte le ire di Carter, intuiva quanto poco il magnate fosse propenso a perdonare i traditori.
Per la sua fortuna, Beatrice arrivò qualche istante
dopo, permettendogli di distrarsi con qualcosa di molto
più
piacevole: la prospettiva di un pomeriggio da passare con lei.
«Scusa
se t’ho
fatto aspettare» disse la ragazza, mentre entrava nel salotto, intenta
ad
abbottonarsi un golfino color panna; con il suo arrivo,
l’aria venne rinfrescata da una profumata ventata di
lavanda.
«Figurati» le rispose il giovane, alzandosi dalla
sedia e
avvicinandosi a lei. Si scambiarono un’occhiata intensa e lui
si
chiese se stessero pensando entrambi alla stessa cosa, ovvero che
quella sarebbe stata la loro prima uscita ufficiale, senza più bisogno di
sotterfugi o di giocare a nascondino con chicchessia.
«Possiamo andare?»
«Sì, ora son prontissima! Hai già
pensato a quale negozio potrebbe andar bene?»
Marcello annuì con rassegnazione, ripensando alla
rapidità con la quale Ortensia gli aveva suggerito la
boutique
per l’infanzia più costosa della città.
«Per non sbagliare, mi sono fatto indicare da mia cognata
dove comprano sempre i vestiti ed i regali per la bambina. Tu
che ne pensi?» le domandò con gentilezza,
sinceramente interessato alla sua risposta.
«E
credo che
sia un’ottima idea! Per un regalo, l’è
sempre meglio sceglier gli stessi negozi del destinatario»
approvò Beatrice, con un leggero sorriso.
Rinfrancato dalla sua approvazione, il giovane si rilassò e,
con
un elegante gesto del braccio, la invitò a precederlo
nell’uscire dal salotto. L’entusiasmo
della giovane mitigava senza dubbio la tensione, ma non risolveva certo
il problema di fondo: se
la Matrona fosse stata diversa, si sarebbero sicuramente potute evitare tante
situazioni scomode.
Gli abiti colorati dei
turisti che popolavano Piazza Navona creavano un piacevole contrasto
con il freddo marmo della Fontana dei Quattro Fiumi e della facciata di
Sant’Agnese in Agone, donando al tutto un’atmosfera allegra
e conviviale.
Decisi a raggiungere l’angolo di via Agonale, Marcello e
Beatrice si fecero largo a fatica tra la folla chiacchierina, la quale continuamente
si voltava
ammirata a guardare prima l’una, poi l’altra delle
due opere d’arte.
«Guarda la statua del Rio de la Plata: sembra proprio che
stia per proteggersi da un probabile crollo della facciata!»
esclamò una ragazza, aggrappandosi al braccio di un giovane,
così da richiamarne ancor di più
la sua attenzione.
«Sì, hai ragione! Bernini voleva dare
chiaramente
lezioni di architettura al suo rivale» notò
l’altro,
incrociando le braccia sul petto con beota supponenza.
«Sarebbe una storia perfetta, se il Borromini non avesse
iniziato la chiesa dopo
che il Bernini aveva già finito la fontana1»
bisbigliò Beatrice, con un sorrisetto ironico,
rivolgendosi al suo accompagnatore.
Il
ragazzo, allora, lanciò un’occhiata distratta ai due, che
in quel momento si stavano amabilmente
sbaciucchiando, e pensò che, molto probabilmente, si erano
voluti
impressionare reciprocamente con informazioni sbagliate.
«Immaginavo
che
fosse solo una leggenda, i soliti
pettegolezzi che si tramandano nella storia» rispose in tono
neutro, prendendola per mano e tirando fuori entrambi dalla bolgia di gente
accalcata sotto la statua del Nilo, in fila per fare una foto
accanto
al gigante di pietra.
Una volta che ebbero superato fontana e chiesa, trovarono il passaggio
molto più agevole e, finalmente, riuscirono a raggiungere la
porta del negozio
consigliato da Ortensia senza essere costretti a spintonare nessuno per
avanzare.
«C’è qualcosa che non va?
L’ho notato da
pprima: oggi se’
pensieroso» gli chiese la ragazza, visibilmente preoccupata,
mentre lo seguiva senza lasciargli la mano.
«Pensieroso non è l’aggettivo giusto. Direi più... imbestialito»
precisò il giovane, arrestandosi proprio davanti alla pesante
porta della boutique; si voltò verso di lei e, con tono
alterato, proseguì: «Sarebbe stato molto bello presentarti alla mia famiglia, se si fossero comportati
normalmente e se fosse stato organizzato tutto nel migliore dei
modi. Invece, loro sono terribili e
l’occasione, be’... direi che è la peggiore possibile».
A queste parole, Beatrice abbassò lo sguardo, stringendogli
la
mano, e il ragazzo si rimproverò per essere stato
così
brusco, visto che la posizione di lei era molto precaria,
poiché era chiaro che la signora Claudia le avrebbe dato parecchio filo da torcere. In
più, non la conosceva certamente come lui che era pur sempre
suo
figlio.
«La
tu’
mamma non dovrebbe esser attenta
all’etichetta?»
notò la fanciulla in un pigolio sommesso.
«Mia madre è attenta all’etichetta solo
quando vuole
lei. Al contrario, quando intuisce che può mettere in
difficoltà le sue vittime, non bada più a
niente»
le rispose, senza cercare di addolcire la pillola. D’altra
parte,
mentire non sarebbe servito a nulla, anzi, sarebbe stato perfino
dannoso per la fanciulla, giacché doveva prepararsi al
peggio:
quando c’era di mezzo la Matrona, non si poteva mai stare
tranquilli.
Tuttavia, scorgendo segni di turbamento sul volto della ragazza,
Marcello, nella sua ira, vacillò. Infatti, si era reso conto
che,
se avesse mantenuto quell’atteggiamento negativo, continuando
ad
angustiare entrambi, le avrebbe solo fatto del male.
E poi, certamente, non era certo quello il modo giusto per affrontare quella
situazione, giacché la negatività non si
combatteva con
altra negatività: lui non doveva alimentare il tormento,
bensì proteggerla e non farle mai mancare il suo appoggio,
esattamente come aveva detto Vittoria.
Affrontando insieme le difficoltà, tutto sarebbe stato
più facile.
«Scusami, non volevo stressarti, so che hai già
altri
pensieri» le sussurrò, carezzandole appena una
guancia con
la mano libera. Lei, allora, rialzò la testa, guardandolo
intensamente,
come se stesse cercando proprio quel tipo di conforto.
In quel frangente, alcuni clienti uscirono dalla porta, ma i due
giovani erano talmente presi che si scansarono appena per farli
passare, senza interrompere il contatto.
«Già.
Ad esser sincera,
sono un po’ in ansia per l’interrogatorio. Senza contare che son preoccupatissima per
quel che
mi dirà i’ mi’
insegnante, visto che sono molto indietro con
il programma!» esclamò, con voce decisamente
acuta, cominciando a lasciarsi prendere dal panico.
Questa reazione mortificò non poco Marcello, il quale si
rimproverò per non aver realizzato subito che, in quel
periodo,
Beatrice stava subendo troppi stress.
Immediatamente, si pentì di essere stato
così
superficiale e di aver considerato solo la punta dell’iceberg
di
quell’intricata vicenda, e con voce morbida le propose:
«Se
ti va, posso accompagnarti al commissariato. È
lì che ti hanno convocata, vero?»
La ragazza non riuscì a celare
un’espressione
sorpresa e annuì, all’apparenza leggermente più
rilassata.
«Per quanto riguarda lo studio, invece, potrei darti una mano
a ripetere qualcosa, se
te non ti dà fastidio studiare con qualcun altro».
«Davvero faresti tutto questo per me...?»
domandò lei, ora assolutamente esterrefatta.
Con grande piacere, il biondo notò che la tensione era quasi
del
tutto sparita dal volto di lei e, di riflesso, anche lui si
sentì meno contratto e maldisposto, tanto è vero che,
abbozzando
un sorriso, le disse: «Be’, se mi sono offerto... tu che
dici?»
Beatrice sorrise a sua volta, tornando la radiosa ragazza di sempre:
«E
dico che non posso
rifiutare. Non penso sia una proposta che fai tutti i giorni,
vero?»
Al contrario di ciò che aveva pensato la fanciulla
guardandolo
da fuori, l’interno del negozio si rivelò molto
luminoso,
grazie alla presenza di faretti sparsi sul soffitto e di
parquet e mensole in legno molto chiaro.
«Eccomi, arrivo tra un attimo!» disse una voce
squillante,
proveniente dal retrobottega; evidentemente, la commessa doveva aver
sentito il tintinnio dei campanellini appesi alla porta ed aver intuito
che era entrato un cliente.
«Faccia con comodo» rispose Marcello, lasciando
vagare lo sguardo qua e là.
Beatrice lo imitò, ma, poiché non voleva limitarsi solo a guardare,
decise di fare un giro per guardare da vicino gli abitini riposti
ordinatamente, piegati o appesi a delle piccolissime grucce.
Le fantasie e i colori delle stoffe erano tutti molto vivaci, ma
non eccessivi, perciò li trovò assolutamente perfetti per dei bambini.
«Dovrei dire alla signora Sofia di comprare stoffe di questo
genere. Sono allegre e morbidissime!» esclamò,
rivolta al
giovane, mentre toccava una maglietta per saggiarne la consistenza.
«Molte nonne chiedono tessuti pratici e delicati per i loro
nipotini».
«A proposito della signora Sofia, Gerardo mi ha detto che
ieri
sono andati a trovarlo Alessio e Valentina» fece il giovane,
come
se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa di molto importante.
«Hanno detto che vorrebbero riabbracciarti presto».
Il ricordo del sorriso dei due bambini portò la stessa
Beatrice
a sorridere a sua volta, anche se con una vena di malinconia: da quando
era stata liberata, aveva avuto modo di fare solo un paio di telefonate
alla sarta e ai suoi figli per rassicurarli e far
sapere
loro che stava bene. La donna l’aveva rassicurata a sua volta
che
il posto per lei in negozio ci sarebbe sempre stato e Beatrice ne era
stata contenta, poiché ricordava il periodo del lavoro alla
merceria come uno tra i più felici della sua vita,
contrariamente alla permanenza presso le sue parenti. Infatti, era ben
risoluta non voler vedere mai più
né la zia, né la cugina; invece, per quanto riguardava
Guido, non l’aveva ancora perdonato e non aveva alcuna intenzione
di scapicollarsi per andare a trovarlo in carcere.
«Oh, anch’io
non vedo l’ora di rivederli. Non appena
avrò sistemato le cose
con il
professore, andrò da loro.
L’è
stato tutto così
confuso,
ultimamente» ammise, pensierosa.
«Non è stato un momento facile»
concordò Marcello, con tono pacato e carezzevole.
La ragazza annuì, arrossendo leggermente per la delicatezza
che
lui le aveva riservato, anche se solo a parole: nonostante non fosse
particolarmente espansivo, riusciva sempre a tranquillizzarla, anche
solo con uno sguardo rassicurante o con un tono di voce dolce.
Tuttavia, dopo mezz’ora di attesa senza che la
commessa
desse traccia di sé, la calma del ragazzo venne meno:
«Ci
sta mettendo un po’ troppo, non ti pare?»
sbuffò, appoggiandosi con fare seccato al bancone.
«L’altro giorno, mentre passeggiavo con Vittoria,
ho visto un
negozio per bambini che mi sembrava molto più organizzato di
questo».
Per un istante, Beatrice fu alquanto destabilizzata da
quest’affermazione, ma la sorpresa durò qualche
secondo, perché poi iniziarono ad affollarsi nella mente diverse domande:
quando era successo? Perché né lui, né
la ragazza
le avevano detto che stavano uscendo insieme? Che cosa avevano fatto
durante quella passeggiata? Voleva assolutamente avere una risposta
esauriente a ciascuno di questi quesiti, eppure dalle labbra le
uscì solamente: «Se’ uscito... con la
Vittoria?»
«Sì, dovevo chiederle un favore»
tagliò corto lui.
La fanciulla si morse l’interno della guancia, dubbiosa. Dopo
i chiarimenti ricevuti, non le dava più tanto
fastidio che l’amica interagisse con Marcello, ma moriva
comunque
dalla curiosità di sapere cosa si erano detti e cosa avevano
fatto.
D’altro canto, era anche vero che i due ragazzi si
conoscevano da quando erano bambini, pertanto era normale che
avessero quel rapporto così fraterno, tanto che,
pensò
Beatrice, l’unica cosa da fare era cercare di fidarsi di
entrambi
e cercare di placare, una volta per tutte, la propria gelosia.
«Buongiorno e scusate l’attesa, signori, stavo
sistemando
della nuova merce in magazzino. Allora, cosa posso fare per
voi?»
trillò la commessa, finalmente riemersa dal retrobottega,
con un
sorriso che le andava da un orecchio all’altro.
«Stiamo cercando un regalo per mia nipote» rispose
Marcello, guardandola scettico, come se temesse per la sua salute
mentale.
La
ragazza mutò subito la sua espressione allegra,
trasformandola in una stupita.
«Ah, non è per voi? Per il vostro
bambino?»
Mentre il giovane la scrutava sempre più torvo, Beatrice,
arrossendo, si affrettò a dire: «Ehm,
no».
«Oh,
scusate» continuò la commessa, ridacchiando e
portandosi una mano davanti
alla bocca. «In effetti, signora, lei non sembra incinta.
Anche
se, a volte, qualche futuro genitore viene a comprare qualcosa
già al primo mese di gravidanza, quando la pancia non si
vede».
La fanciulla vide Marcello corrugare la fronte, increspare le labbra e
portarsi le braccia dietro la schiena, come se volesse vedere fino a
che punto si sarebbe spinta la venditrice: in fondo, lo
conosceva abbastanza da capire che non doveva aver
gradito la sua invadenza, decisamente poco
professionale. Eppure, quella boutique era un negozio dal quale ci si
sarebbe dovuti
aspettare un certo standard nei servizi.
«Va bene, vorrà dire che ora comprerete per la
nipotina e,
quando lo avrete, tornerete per il vostro bambino!»
proseguì quella, dimostrando di essere convinta che
fossero in procinto di diventare genitori.
Beatrice, a disagio, arrossì ancor di più e
lanciò l’ennesima occhiata furtiva al biondo,
per vedere come stava reagendo e rimase alquanto sorpresa,
giacché sembrava che il ragazzo fosse più
imbarazzato dalla schiettezza della
commessa, che infastidito dall’affermazione in
sé. Come
se, in effetti, l’idea di creare una famiglia con lei non gli
dispiacesse.
Ben presto, però, il bancone fu riempito di
vestitini di tutti i colori e modelli e lei fu costretta a focalizzarsi sul
motivo per il quale erano lì: trovare un regalo per la nipotina di Marcello.
Mentre la commessa continuava a ciarlare, la ragazza sollevò
un paio di abitini dalla pila che si era formata davanti a lei,
guardandone anche il prezzo e intuendo così il motivo per
cui, in quel momento, loro due erano i soli clienti.
Poi, ne scartò alcuni perché troppo pomposi, altri
perché troppo costosi per quella che, a parer suo, era la
qualità offerta ed altri ancora perché di stoffa
troppo pesante, considerando che il caldo sarebbe arrivato nel giro di
un mese.
«Cosa
ne dici di questo? Mi sembra molto carino»
disse alla fine, mostrando al fidanzato un vestitino bianco con la gonnellina
cosparsa di minuscoli fiorellini. «La fantasia
è primaverile e starebbe davvero bene alla tu’
nipotina, biondina com’è!»
“Per di
più, è uno dei pochi che non costa un
patrimonio!” aggiunse mentalmente, contraria al
fatto che, per fare il regalo alla nipote, il ragazzo dovesse spendere
a tutti i costi una fortuna, pur potendoselo permettere. Lo trovava un
inutile spreco di soldi, perché la bambina stava ancora crescendo, quindi, di sicuro, le sarebbe
andato bene solo per un lasso di tempo molto ristretto.
«Forse è fin troppo semplice per il gusto di sua
madre, ma a me piace» rispose lui, prendendo in mano un lembo
dell’abitino e osservandolo con attenzione, davanti e dietro.
La commessa si complimentò: «La signora ha davvero
un ottimo gusto, quello è arrivato proprio ieri, fa parte
della collezione nuova. Sarà di gran moda!»
«Oh, mi ha colpita
appena l’ho visto» spiegò Beatrice,
facendo spallucce, «senza contare che sembra
molto fresco.
L’ho trovato adatto all’estate».
«Sapevo che mi saresti stata di grande aiuto» la
ringraziò Marcello. «Meglio se è
leggero, così Claudia non
morirà di caldo».
Sentendo
quest’ultimo commento, la fanciulla sorrise, certa che,
nonostante l’apparente severità, quel giovane
sarebbe stato un ottimo padre.
***
La
fatidica domenica, a parere di Marcello, arrivò
davvero troppo presto.
Dopo essersi svegliato all’alba, per giunta di cattivo
umore, uscì di casa per andare a seguire la funzione nella
Basilica di San Pietro in Vincoli, dove aveva appuntamento con
Vittoria, Gerardo e, naturalmente, Beatrice. Aveva invece
lasciato, senza alcun rimpianto, che madre, cognata, fratello e
nipotina
andassero a fare la consueta sfilata tra i banchi del Laterano, al
contrario di suo padre che avrebbe certamente scelto, in
virtù del suo spirito secessionista, le solite retrovie.
Mentre si avvicinava alla chiesa, notò che molte famiglie si
stavano mettendo in auto con pacchi, cestini e barbecue smontabili, di
sicuro diretti nei dintorni per fare qualche bella gita fuori porta: il
clima abbastanza caldo era un invito troppo appetibile per poter dire
di no, specialmente dopo l’inverno rigido appena trascorso. Anche
se non era nevicato come nel 1982, infatti, non era mancata qualche
gelata
di troppo.
Il giovane si ritrovò inconsciamente ad invidiare tutte
quelle persone che avrebbero trascorso la domenica in maniera
spensierata, incuranti di quello che attendeva invece lui e Beatrice.
Decisamente, gli sarebbe piaciuto molto di più portarla a vedere i Castelli Romani,
organizzando, magari, un pic-nic nei boschi intorno a Castel Gandolfo,
piuttosto che essere costretto ad un tremendo pranzo con i suoi parenti.
Che senso avrebbe avuto avere davanti tutte quelle succulente portate,
se poi non ne avrebbe potuta gustare nemmeno una a causa del nervosismo
che gli avrebbe causato sua madre? Sarebbe stato meglio persino un
semplice panino in una delle fraschette2 di Ariccia, perché almeno
avrebbero mangiato tranquilli, godendosi il tempo trascorso
insieme; mentre pensava a questo, gli sembrò che la canzone
di Al Bano e Romina3
acquistasse finalmente un
senso.
Dopo essersi abbandonato ad un sospiro sconsolato, il giovane
rifletté sul fatto che, indipendentemente da tutto,
l’idea di una piccola gita da fare con Beatrice, nei dintorni
di Roma, fosse da prendere seriamente in considerazione: glielo avrebbe
proposto senz’altro, appena ne avrebbe avuto
l’occasione, sperando di trovarla d’accordo.
Una volta giunto davanti alla chiesa, si rese conto di essere di umore
leggermente migliore rispetto a quando si era alzato dal letto e lo
prese come un buon segno, giacché avrebbe dovuto fare appello ad
ogni traccia di calma rimasta, per fronteggiare le
frecciatine di sua madre e, probabilmente, anche di suo fratello.
«Con quale piede è scesa dal letto tua madre,
stamattina?» furono le prime parole che gli indirizzò
Vittoria, non appena gli fu abbastanza vicina da farsi sentire.
«Non mi sembra proprio il momento adatto per fare la
spiritosa» gli rispose lui, seccato, lanciando un’occhiata
obliqua a Beatrice: era molto carina nel suo vestito lilla con una
larga fascia in vita, ma ciò non sarebbe stato abbastanza per
impressionare la signora Claudia, sapendo che la donna non si sarebbe lasciata
incantare nemmeno se la fanciulla fosse stata ricoperta d’oro.
«Ciao, Marcello»
lo salutò, sorridendogli incerta. Anche se non sembrava
particolarmente provata, si intuiva che non era comunque tranquilla.
«Ciao, Beatrice» le rispose, cercando di mantenere un tono calmo e rassicurante. «Come stai?»
«Abbastanza bene, tu?»
Il ragazzo le avrebbe tanto voluto dire che c’erano stati momenti
migliori, tuttavia non gli sembrò opportuno, sapendo che, in una
circostanza simile, avrebbe potuto avvilirla di più, pertanto si
limitò ad un fugace: «Abbastanza bene anch’io,
direi».
Lei alzò le spalle, come per dire che, in qualche modo, era
normale sentirsi così; in fondo, si trattava pur sempre
della presentazione ufficiale alla impossibile famiglia di lui.
«Vittoria, ricordati di dare la pianta a Beatrice» si
intromise Gerardo che, fino ad allora, era rimasto in disparte.
«Mi avete fatto cercare in lungo ed in largo per trovarla!»
«Di quale pianta parlate?» chiese Marcello, voltandosi verso i suoi amici.
Vittoria agitò la mano e, con noncuranza, spiegò:
«Abbiamo preso un’orchidea da portare a tua madre, per
ringraziarla dell’invito. L’etichetta prevede che il giorno
dopo l’incontro si mandino dei fiori alla padrona di casa con i
ringraziamenti, ma per rendere le cose più semplici ho pensato
che una pianta fiorita fosse un buon compromesso».
«Secondo la Vittoria, la tu’ mamma si lamenterà comunque, ma, almeno, io avrò fatto la mia parte» aggiunse Beatrice, sospirando. «Così ci siamo messe a pensare a quale fiore fosse il più indicato per l’occasione ed ho scelto l’orchidea, perché l’è un fiore regale» concluse, probabilmente facendo allusione ai gusti della signora Claudia.
«Ormai abbiamo perso il conto di quante volte Vittoria ci ha
salvato in calcio d’angolo» commentò Gerardo
all’indirizzo del biondo, scoccando un’occhiata
d’apprezzamento alla sua ragazza.
L’altro aggrottò la fronte, scrutando la sua amica seriamente colpito.
«Come diavolo fai a tenere tutto sotto controllo?» domandò
alla giovane donna, chiedendosi davvero come avrebbe fatto senza di
lei. Ricambiare il saluto di quella vivace bambina con le trecce, quel
torrido pomeriggio di giugno di ventuno anni prima, era stata una
tra le scelte più felici della sua vita.
«Qualcuno deve pur farlo, no?» fece lei, strizzandogli l’occhio.
***
Non appena ebbero varcato il cancello della villa, Beatrice si
fermò, come se un qualche ostacolo fisico le stesse impedendo
di avanzare oltre. Aveva abbassato lo sguardo ed incurvato le spalle,
stringendo il vaso dell’orchidea e assumendo
l’atteggiamento di chi non si sente all’altezza del posto in
cui si trova e questo, a Marcello, provocò una fitta di
dispiacere, tanto che tornò indietro e le cinse la vita con un
braccio.
«Andrà tutto bene, vedrai» le sussurrò,
incoraggiante. Dopo tutto quello che aveva passato quella ragazza, la
cattiveria gratuita della Matrona era qualcosa di assolutamente
superfluo ed immeritato.
A quel punto, lei alzò il capo verso di lui e, a bassa voce, disse: «E se a la tu’ mamma davvero non dovessi piacere?»
Il ragazzo inclinò la testa da un lato, cercando le parole
giuste per esprimere ciò che sentiva, giacché non voleva
darle false speranze, ma
nemmeno permettere che si deprimesse, convincendosi che sarebbe stata una
brutta giornata.
«Sinceramente, credi che cambierebbe qualcosa tra di noi?»
le chiese, deciso. «Io non cerco l’approvazione di mia
madre, non l’ho mai cercata. E a mio padre, invece, piaci
già ed anche tanto, direi!»
«Davvero?» domandò Beatrice, piacevolmente sorpresa.
«Sì, è molto contento che io... mi sia interessato
a te» le confermò il giovane, lasciando trasparire un
leggero sorriso.
La fanciulla sistemò meglio il vaso con l’orchidea fra le mani e,
per qualche secondo, parve riflettere sulle ultime rivelazioni, infine
constatò: «L’approvazione del tu’ babbo, però, ti interessa».
«Sì, lo ammetto, ma siamo sempre andati d’accordo:
lui non mi ha mai deluso ed io altrettanto»
affermò Marcello, incurante di aver fatto trapelare chiaramente
la preferenza che accordava al padre e la poca tolleranza riservata,
invece, alla madre. D’altronde, secondo lui, non aveva senso
mentire, soprattutto in un’occasione come quella.
«Sembra davvero una brava persona» concordò lei, di gran lunga più sollevata.
«Lo è» ribadì il giovane, togliendole
delicatamente la pianta dalle braccia. «Dai, la porto io. Andiamo!»
Beatrice lo ringraziò con lo sguardo e annuì,
affrettandosi a seguirlo su per il vialetto in pendenza, alla
fine del quale c’era ad attenderli il signor Giancarlo.
«Siete arrivati in perfetto orario» li accolse, mostrandosi
soddisfatto. «Buongiorno, mia cara, come stai?»
«Oh, io bene, signore. Lei?» fece la ragazza, arrossendo appena e
tendendogli la mano, che l’uomo prontamente prese e strinse con
energia.
«Non c’è male».
«Papà, questo è un pensiero di Beatrice, per
ringraziare dell’invito» disse Marcello, consegnando al
padre il vaso infiocchettato.
Almeno, qualcuno avrebbe gradito il pensiero che avevano avuto la sua
ragazza e la sua migliore amica.
«Oh, ma che bella! Sai che non ne abbiamo di questo colore? La
prendo in custodia io... Magari, prima la facciamo vedere a tua madre e poi
la porterò a far compagnia agli altri fiori» disse il
signor Tornatore, sinceramente ammirato. «Sai, Beatrice, che nel
retro del giardino, ho una serra dove mi dedico al giardinaggio?»
«Oh, sì, Marcello m’ha detto che si prende cura di ogni piantina che cresce qui» replicò timidamente lei.
«Esatto, lo trovo molto rilassante. Adesso, venite con me, ci aspettano tutti dentro».
La fanciulla si voltò istintivamente verso il giovane, il quale
la prese per mano, con l’intento di rassicurarla, mentre la
conduceva all’interno della villa.
I venti scalini che portavano dal giardino all’ingresso non gli
erano mai sembrati così difficili da salire e, in quel frangente,
si sentì davvero come un condannato che avanza verso il
patibolo del boia; c’era però da dire che non temeva tanto
per se stesso, quanto per Beatrice, non sapendo davvero come
avrebbe potuto reagire sua madre, poiché, come aveva avuto modo
di apprendere in venticinque anni di vita, quando c’era di
mezzo lei, al peggio non c’era mai fine.
Non riusciva proprio ad immaginare come avrebbe potuto
accogliere la ragazza, essendo la prima fidanzata che
portava a casa e dopo che non si era pronunciata bene nei suoi confronti.
L’avrebbe insultata? Oppure derisa?
Purtroppo, ebbe occasione di scoprirlo molto presto, giacché,
prima che salissero gli ultimi gradini, la donna, affiancata da
figlio e nuora, si parò davanti a loro come una regina
davanti alla sua corte.
«Alla buon’ora, Marcello! Si può sapere
perché non sei venuto ad assistere alla funzione con noi?»
domandò la Matrona, inquisitoria, agitando un enorme
ventaglio dal pavese in pizzo e con la base in legno, alla pari delle ricche señoras delle telenovelas argentine che amava tanto guardare; infatti, anche se si reputava molto raffinata, la signora Claudia
aveva dei gusti alquanto discutibili.
Il giovane
contò fino a dieci prima di rispondere, cercando di non lasciarsi sfuggire parole poco carine, per rispetto di Beatrice.
«Ieri sera ti avevo detto che sarei andato con Beatrice, Gerardo e Vittoria a San Pietro in Vincoli».
«E perché mai? La Farnese sta raccogliendo fondi per conto di qualche altra miserabile associazione? Sai bene che non dovresti continuare a dare corda a quella perdigiorno».
Marcello avrebbe tanto voluto risponderle per le rime, ma cercò di contenersi.
«Vittoria cerca sempre di rendersi utile» disse di rimando, a denti stretti.
«Claudia, cerca di comprenderlo» cercò di blandirla
il marito. «Piuttosto, vieni a conoscere Beatrice! Guarda che
bella rag...»
«Certo, certo me lo dirai dopo» fece la donna,
interrompendolo, annoiata. Poi, con un colpo secco, chiuse il ventaglio
e si
voltò, in direzione della porta-finestra. «Ortensia, vai a
prendere la bambina e tu, Tiberio, avvisa in cucina che il pranzo deve
essere servito».
L’uomo e sua moglie annuirono, poi, senza dire una parola, scomparvero oltre la porta.
Lì per lì, Marcello non fece caso a ciò che era
appena successo, tanto era concentrato a reprimere la rabbia crescente,
ma, quando incrociò lo sguardo di una stupefatta Beatrice, la
realtà si manifestò davanti i suoi occhi in tutta la sua
indecenza: suo fratello, sua cognata e, soprattutto, la Matrona avevano
ignorato del tutto la fanciulla.
«Claudia, ma... non hai salutato Beatrice!» esclamò
proprio in quel momento il signor Giancarlo, tra il disorientato e il deluso. «Ha portato
anche questa bellissima orchidea» continuò, mostrandogliela.
La donna si voltò appena, guardandolo come se avesse appena
detto qualcosa di assolutamente senza senso, poi, increspò appena
le labbra e disse: «Non fare tardi a tavola, un ritardatario
basta e avanza».
Senza aggiungere altro, entrò in casa, inghiottita subito dalla penombra dell’ingresso.
Sconcertato, il giovane si avvicinò alla sua fidanzata, non
sapendo proprio cosa dire per giustificare un simile atteggiamento.
«Non... non l’è
andata tanto male, avrebbe... a-anche potuto insultarmi»
sussurrò lei, con voce tremante, forse cercando di farsi
coraggio.
«Oh, Beatrice...» fece Marcello, addolorato e spaesato, «credimi, non ho parole per...»
«Tua madre ha fatto una cosa molto grave» disse il signor
Giancarlo, severo. Quindi si rivolse alla giovane: «Mia cara,
come stai?»
La ragazza provò a parlare, ma non ci riuscì, anzi, si
portò immediatamente la mani alla bocca, come se fosse sul punto
di piangere e non volesse farlo.
Allora, l’uomo le poggiò una mano sulla testa e le
accarezzò i capelli: «Non piangere, Beatrice. Non meritano
che una ragazza così forte come te pianga per loro».
Dopo quelle parole gentili, lei ricacciò indietro le lacrime e rimase in silenzio qualche
secondo, come per ritrovare il suo equilibrio, mentre Marcello
avvertiva per la prima volta il dolore di vederla in uno stato simile per colpa della condotta
riprovevole di sua madre. In quel momento, nonostante andasse
contro i suoi stessi ideali di tolleranza, promise a se stesso che
gliel’avrebbe fatta pagare. E con gli interessi!
«A lei dispiace se frequento suo figlio?» chiese la fanciulla, guardando spaurita l’uomo.
Il giovane, sorpreso da quella domanda, mise da parte i suoi propositi
di vendetta e concentrò la sua attenzione sull’espressione
del genitore.
Il signor Giancarlo, invece, le scompigliò affettuosamente i capelli
fulvi e le rispose: «Assolutamente no! Sono davvero felice che
Marcello abbia trovato qualcuno che riesce a sopportarlo».
«Ma... papà!» esclamò il giovane, punto sul vivo.
«A me puoi dirlo, se lo trovi un po’ bacchettone»
continuò l’uomo, mettendosi una mano davanti alla bocca,
come se volesse essere udito soltanto da lei. «Non
glielo andrò a riferire, promesso» aggiunse, ammiccandole.
Beatrice si sciolse in un sorriso sereno e, nel guardarla, il biondo
dovette riconoscere che, se non ci fosse stato suo padre, la situazione
sarebbe drammaticamente degenerata.
«Ce la fai a venire a tavola? Se te ne vai ora, la darai vinta a mia moglie».
«Sì, credo di sì...»
L’uomo sorrise, per poi rivolgersi al figlio: «Guai a te se ti lasci scappare questo fiore di ragazza!»
Qualche minuto dopo, ignorando le occhiatacce di sua madre, Marcello fece accomodare
Beatrice tra lui e suo padre, sfidandola apertamente a
contraddirlo. Infatti, se da una parte, essendo solo sei a tavola,
le coppie si sarebbero dovute separare, costringendo la fanciulla a
sedersi vicino a Tiberio, dall’altra era anche vero che tale
regola non si applicava ai fidanzati ufficiali.
La Matrona comunque corrugò la fronte, ma non disse nulla, limitandosi a
diventare livida di rabbia, perché non voleva essere
costretta a sentirsi dire che suo figlio era ufficialmente fidanzato con quella ragazza.
La bambina, invece, era adagiata nel passeggino, accanto a sua madre e vicina al
nonno, impegnata a dormire placidamente e ignorando, come sembravano aver fatto anche gli altri, che l’unica vera
festeggiata, quell’oggi, sarebbe dovuta essere lei.
«Gli abitini estivi che hai regalato a Claudia le vanno
divinamente» esordì Tiberio, interrompendo bruscamente
quel silenzio ostile. «Indovini sempre tutto, mamma».
A tal complimento, la signora sorrise compiaciuta, dando un lieve cenno d’assenso con il capo.
«Marcello, abbiamo ricevuto il tuo regalo. È...
carino» si sforzò di dire Ortensia, visto che erano
entrati nell’argomento.
Il ragazzo lanciò in risposta alla cognata un’occhiata talmente gelida che la fece sussultare.
«Non è solo da parte mia» precisò, «ma
anche da parte di Beatrice, come scritto sul biglietto. Sai,
avreste dovuto leggerlo prima di scartare il pacco».
La donna storse appena la bocca, irritata, ma lasciò cadere la questione.
Poco dopo, fu servito l’antipasto e, a quel punto,
Tiberio si alzò, prendendo dal contenitore con il ghiaccio alle
sue spalle una bottiglia di vino.
«Questo è un Tarquinia rosso secco,
eccellente abbinato a sapori decisi come quelli che prevede il
menù di carne di oggi» spiegò, roteando il cavaturaccioli
per stapparla e sciorinando tutta la sua abilità da sommelier.
«L’ho scelto personalmente, cara mamma, e sono certo che
saprà deliziare le tue papille gustative».
«A fine pasto saprò dirti. Finora non hai mai sbagliato» gli concesse la madre, condiscendente.
Marcello alzò gli occhi al cielo, esasperato e nauseato: se
quella era l’antifona, tanto valeva sperare di
arrivare presto alla frutta, così da potersela dare a gambe e
dare un senso a quella giornata. Se la fortuna avesse girato dalla sua
parte, magari, avrebbe potuto perfino fare una passeggiata solo con
Beatrice, prima di riportarla a casa di Vittoria, così da non
lasciare nella memoria della fanciulla un ricordo del tutto negativo.
Quando fu servito il primo, il signor Giancarlo le chiese
se avesse mai mangiato i porcini colti nei dintorni e lei gli rispose
di no, così l’uomo si lasciò andare nel raccontare
divertenti aneddoti di gioventù riguardanti una gara con dei
suoi amici per scovare il porcino più pesante, riuscendo anche a farla ridere
in più di un’occasione.
Se la Matrona
mangiava a bocca stretta, Tiberio, invece, cercò di inserirsi più
volte nella conversazione, ma fu prontamente ignorato dal padre, con
grande soddisfazione di Marcello: forse finalmente avrebbe capito cosa si provava
a non essere considerati, anche se il biondo dubitava che il fratello
avrebbe fatto comunque tesoro dell’insegnamento.
Il giovane aveva appena accettato il fatto che il pranzo,
in quel clima di reciproca indifferenza, non fosse poi così
male, quando la piccola si svegliò e cominciò a piangere
disperatamente.
«Oh, come mai la piccina piange? Era così tranquilla!» bisbigliò Beatrice all’orecchio del ragazzo.
«Non credo che sia una colica, il pediatra ha detto che dovrebbe averne molto meno, a quest’età».
Ortensia si alzò immediatamente e si diresse verso la bambina, prendendola dal passeggino e mettendosela in braccio.
«Cosa c’è?» le chiese, scuotendola, più che cullandola.
Tiberio si alzò a sua volta, tendendo le braccia per farsi dare la figlia.
«Perché la mia principessa piange? Cosa ti fa male?»
La Matrona, invece, posò elegantemente forchetta e coltello sul piatto e,
dopo essersi pulita le labbra con il tovagliolo, chiese alla nuora: «Ortensia, hai fatto mangiare la minestrina a
Claudia?»
La donna impallidì e si guardò intorno, smarrita.
«Ecco... veramente... No, non c’è stato tempo. Ma
chiederò alla cuoca di prepararne un piattino, quando avremo
finito di pranzare».
«La tua cura personale viene prima di quella di tua figlia?»
«No, ma...»
«Niente ma!» gridò la signora. «Tiberio, se
tua moglie è un’oca senza cervello, devi supplire tu alle sue
mancanze!»
«Mamma, devi sapere che...»
«Silenzio!» strillò, isterica, spaventando la nipotina, che pianse ancor più forte di prima.
Marcello e Beatrice a quel punto si scambiarono uno sguardo accigliato, rimanendo in silenzio.
«Sono circondata da idioti! Mi avete fatto scoppiare mal di
testa!» sbraitò, scansando la sedia dal tavolo e alzandosi
in piedi. «I miei figli sono due falliti, due poveri falliti!
Ne ho abbastanza di voi, oggi, siete stati capaci di mandarmi di
traverso anche il pranzo!»
Raccattò quindi il suo scialle e se ne andò, uscendo dalla sala
a grandi passi, proprio mentre Ortensia dava prova delle sue
incredibili abilità di attrice svenendo e scivolando al suolo.
Allora il ragazzo, rinunciando alla possibilità di far passare la sua famiglia per normale
e conoscendo a memoria il copione, incrociò le braccia sul
tavolo e rimase ad osservare, immobile, tutta la sequenza:
il pianto di Ortensia, la sua richiesta di essere portata dallo
psicologo di turno (finché questi non si stancava di lei e
scappava lontano, lasciandola nelle mani di un altro) e Tiberio che,
senza salutare nessuno, la trascinava via, lasciando la sua principessa a casa dei nonni, affidata alla cure del caso.
Il signor Giancarlo, invece, che fino a quel momento era rimasto
seduto, senza mutare espressione, si versò dell’acqua e la
bevve con calma, mentre la nipotina continuava a strillare.
«Ehm... Marcello, non credi che dovremmo, ecco, fare qualcosa?» domandò la fanciulla, preoccupata, non riuscendo a distogliere gli occhi dalla bambina che piangeva.
«Credo sia un’ottima idea» convenne l’uomo.
«Marcello, Beatrice, per favore, occupatevi di questa povera
piccolina. Chiedete ad Annetta e vi aiuterà a preparare un
po’ di pastina, magari aggiungendoci un po’ della carne di
oggi, frullata».
Il giovane sospirò, sicuro perché, come al solito, sarebbe toccato
a lui prendersi cura di Claudia. Non che gli dispiacesse, ma, oramai,
era come se avesse l’adottata.
«Sì, papà, andiamo subito» rispose,
appoggiando il tovagliolo sul tavolo ed alzandosi, prontamente imitato
dalla ragazza.
«Ecco, bravi. Quando avrete finito, ricordatevi che
c’è la mousse al cioccolato, in frigo. Se qualcuno dovesse
dirvi qualcosa, be’, riferite che vi ho autorizzato io a mangiarne
quanta ne volete!»
Nello stesso istante in cui si accomodò sugli sgabelli
della cucina, Beatrice realizzò che, nel bene e nel male, il tanto temuto
pranzo era andato, anche se aveva avvertito talmente tante emozioni
contrastanti, che ci avrebbe impiegato un bel po’, prima di
metabolizzarle. La meraviglia che aveva avvertito nell’ammirare
le bellezze della villa, dall’arredamento ai soffitti stuccati,
si era infatti tramutata in terrore, quando la Matrona l’aveva bellamente
ignorata, per poi evolvere in sollievo davanti alla gentilezza del
signor Giancarlo.
Il teatrino finale, invece, l’aveva lasciata perplessa, giacché
davvero non si aspettava qualcosa di simile da persone di
tale estrazione sociale; sembrava quasi che Marcello e suo padre
appartenessero ad un’altra famiglia.
«Prendi il pentolino nel mobile accanto al frigorifero, per
favore. Dovrebbe essere il primo sul secondo ripiano» le chiese
il giovane, mentre si toglieva la giacca e si arrotolava le maniche
della camicia fin oltre il gomito.
La fanciulla ubbidì, trovando ciò che le era stato chiesto senza difficoltà.
«Posso metter già l’acqua sul foco?»
«Sì, grazie, ma non metterci il sale, la carne frullata
è già abbastanza sapida» disse lui, prendendo dal
frigorifero un vasetto di vetro e osservandolo in controluce.
«Per fortuna, la cuoca ha già ridotto l’arrosto ad
omogeneizzato».
«Come mai non c’è nessuno in cucina, piuttosto?»
«Perché mio padre ha detto loro che adesso Claudia doveva
mangiare e non dovevano esserci troppe persone nei paraggi»
spiegò il giovane, prendendo un altro pentolino e riempiendolo
d’acqua, per poter scaldare il barattolo a bagnomaria.
«Sparecchieranno più tardi».
«Ah» disse Beatrice in risposta, riaccomodandosi.
Lanciò uno sguardo alla bambina, che stava cercando di afferrarsi i
piedini con le mani: sembrava essersi calmata, come se avesse intuito
che qualcuno si stava adoperando per farla mangiare. A quel punto la ragazza
spostò la sua attenzione sull’intera stanza, notando che
era molto più grande della cucina della zia e che tutti gli utensili
appesi alle pareti davano l’idea che fosse molto
attrezzata; tutt’intorno maioliche finemente decorate e mobilio
bianco-grigio con sottili venature più scure.
Non aveva mai visto una cucina così chiara, dato che di solito erano
tutte in legno scuro, e si chiese se la signora Claudia non si fosse
lasciata influenzare da qualche stile in voga all’estero nella scelta
dell’arredamento.
Marcello allora si sedette accanto a lei, osservando la nipote.
«Oggi farai pranzo e merenda con lo stesso pasto» le disse,
rassegnato. Poi si rivolse a Beatrice: «Dobbiamo aspettare che
l’acqua cominci a bollire».
Lei annuì e Claudia emise uno dei suoi versetti allegri.
«Ancora non parla?» domandò la ragazza, incuriosita.
«No, ma ogni tanto si limita a ripetere qualche sillaba».
«E... cammina?»
«Neanche. Non è adeguatamente stimolata dai suoi genitori e
ai bambini bisogna dedicare tempo ed attenzioni, se si vuole che
apprendano» sentenziò il giovane, con una smorfia di
disapprovazione, manifestando apertamente ciò che pensava del
modo in cui suo fratello e sua cognata stavano crescendo la loro figlia.
«Almeno tu ti dedichi a
lei» notò la fanciulla, afferrando una manina della
bambina e scuotendola in modo giocoso, mentre la piccolina rideva
contenta.
«Non basta» disse lui, sconfortato. «A proposito dei
miei parenti... Beatrice, mi dispiace davvero per tutto quello che
è successo oggi».
«Be’, ad esser sincera, nonostante mi avessi preparata,
non credevo che sarebbe stato così... così...»
«Tremendo? Mio fratello e sua moglie si sono comportati malissimo,
per non parlare di mia madre... ha dato il peggio di sé!»
«Se l’è presa anche con l’Ortensia, però».
«Ma a lei non piace sua nuora, le va bene solo perché
è ricca» spiegò Marcello, alzandosi per andare a
controllare le pentole sui fornelli; spense il fuoco del pentolino
più piccolo e mise tre cucchiai di pastina all’interno
dell’altro, in evidente ebollizione.
«Oggi, avendo deciso di ignorarti, non ti ha potuta insultare e
ha scaricato tutta la sua frustrazione su Ortensia. Aveva ragione, certo, ma non era quello il modo di esprimere le sue
opinioni» proseguì, prendendo un piatto fondo dalla
credenza e mettendolo sul piano di lavoro.
Beatrice rimase colpita dalla precisione con cui il giovane stava
cucinando, intuendo che dovesse essere avvezzo a quel tipo di
attività e, dopo quello che aveva visto quella mattina, non
faticò a capire come stessero le cose: a causa delle mancanze
dei genitori, doveva essersi preso cura di Claudia in più di
un’occasione.
«C’è la possibilità che la tu’ mamma cambi idea su di noi?» gli domandò, incrociando le braccia sul tavolo e sporgendosi leggermente in avanti.
«No» rispose lui, asciutto, rimestando la pastina, per
evitare che si attaccasse al fondo del pentolino. «Ma a me non
importa. Per quanto mi riguarda, puoi ignorarla a tua volta, non sarai mai
obbligata a frequentarla».
Trascorsero qualche istante in silenzio, durante il quale il giovane
scolò l’acqua in eccesso dalla pentola e mise la
minestrina nel piatto, mescolandola accuratamente con il preparato di
carne per qualche minuto. Dopo di che prese un cucchiaino e ne
assaggiò una quantità irrisoria, per
verificare che fosse di buon sapore e non troppo calda.
Infine, prese un bavaglino dalla borsa attaccata al passeggino e lo mise alla nipote, facendola sedere sulle proprie ginocchia.
«Adesso, Claudia, apri la bocca, su, fai A!»
Come incantata dalle parole dello zio, la bambina ubbidì senza
fare nemmeno un capriccio, ennesima prova del fatto che era abituata
ad essere imboccata dal ragazzo.
Beatrice, rapita a sua volta dalla scena, si mise comoda, poggiando
prima un gomito sul tavolo e poi una guancia sul palmo aperto.
«L’impeccabile messer Tornatore, imprenditore di successo, che gioca con la nipotina pur di farla mangiare» commentò, sorridendo.
«Be’, non posso certo lasciarla morire di fame»
rispose lui, anche se si vide chiaramente che era lievemente arrossito.
Tuttavia, non smise comunque di imboccare la bambina.
Le luci filtranti dalla finestra in fondo alla stanza avevano ormai cambiato
intensità, divenendo più fioche e suggerendo che il primo
pomeriggio doveva essere finito da un pezzo; ciononostante, per la
prima volta da quando si era svegliata, Beatrice avvertì
distintamente un po’ di serenità.
«In fondo, la giornata sarebbe potuta andare anche peggio, non trovi?»
«Sarebbe potuta andare anche meglio, però»
ribatté il ragazzo, spostando per un istante lo sguardo su di
lei. Parve riflettere per un attimo e quindi aggiunse: «Ti
piacerebbe fare una passeggiata ai Castelli, una di queste
domeniche?»
L’idea le piacque così tanto che non esitò a rispondere: «Oh, sì, sarebbe bellissimo se si facesse una piccola gita!»
Marcello fece un cenno d’assenso, poggiando il piatto sul tavolo
e prendendo un tovagliolo per pulire la boccuccia della bambina.
«Posso imboccarla io?» si offrì Beatrice,
approfittando della pausa. In realtà, avrebbe voluto chiederglielo molto prima, ma non ne aveva avuto il
coraggio, temendo che la piccolina potesse stranirsi nel vederli
invertirsi di posto.
Il biondo guardò prima lei, poi Claudia ed in ultimo il
piatto, quindi annuì e passò quest’ultimo alla
ragazza, sistemandosi meglio la bambina in braccio.
«Tieni lontano il piatto dalla sua portata, perché
se ci mette le mani dentro, la pastina finirà anche sui
muri» si raccomandò.
«Va bene» replicò lei, prendendo il piatto e spostandosi
più vicina a loro; prese un bel respiro d’incoraggiamento
e disse: «Piccina, ora fai vedere allo zio Marcello che fai la brava anche con me, d’accordo?»
Per un istante che le sembrò interminabile, Claudia non si
mosse, poi, aprì molto lentamente la bocca.
Sorridendo di gioia, la fanciulla, con la mano un po’ tremante,
avvicinò il cucchiaio e... la bimba mandò giù subito tutto
il boccone.
«Abbiamo un’altra candidata all’assistenza nel
momento pappa, a quanto pare» commentò Marcello,
palesemente interessato ai risvolti che aveva preso la vicenda. «Non è
così, zia Beatrice?»
Nel sentirsi chiamare così, la ragazza rimase a bocca aperta e,
dopo essersi scambiata un’occhiata eloquente con il ragazzo,
ammise che, in fondo, quell’appellativo non le dispiaceva affatto.
***
Come era stato stabilito, il mattino seguente Vittoria e Beatrice si recarono di buon ora a casa del signor Rossiglione.
Da una parte, la ragazza aveva fretta di incontrarlo, giacché
era passato molto tempo dall’ultima volta che l’aveva visto
e temeva di essersi persa numerose novità riguardo il suo esame
di maturità; dall’altra, però, voleva ritardare
quel momento il più possibile, perché, una volta saputo come stavano sul serio le cose, non avrebbe più
avuto scusanti.
E, a dire il vero, dopo la domenica appena trascorsa, non aveva molta voglia di apprendere cattive notizie.
Per fortuna però, a quel riguardo, Vittoria era stata molto discreta e si era limitata a
fare qualche domanda non troppo specifica. In fondo, anche lei
conosceva la signora Claudia ed era stata spesso vittima delle
sue ingiurie, quindi era certa che l’avrebbe capita, ma non se la
sentiva comunque di rivelarle come era stata trattata.
Perfino con Marcello aveva temporeggiato nel raccontargli come la
trattavano a casa, proprio perché preferiva prima rielaborare le
cose per conto suo e poi confidarle ad altri. Non voleva la compassione
di nessuno, anche se era certa che
l’amica non l’avrebbe mai trattata con pietà.
Arrivate davanti al portone del palazzo, dove abitava
l’insegnante, situato nei pressi del Parco della Caffarella,
Beatrice esitò per una frazione di secondo, prima di suonare.
«Cosa c’è?» domandò Vittoria, preoccupata.
«Ho come il presentimento che siano in arrivo brutte notizie» sussurrò la fanciulla, rabbuiandosi.
«Ma non devi pensare a queste cose, altrimenti vedrai tutto in
negativo e ti succederanno davvero cose spiacevoli. Su, ora
suoniamo!» disse l’altra con il suo solito entusiasmo,
premendo il pulsante dell’interno sette.
Dopo qualche secondo, una voce profonda e parzialmente distorta dal
microfono del citofono, anche se non abbastanza da essere riconoscibile, domandò: «Chi è?»
«Professore, buongiorno. Son la Beatrice» disse la ragazza, con tono dimesso.
«Beatrice!» rispose l’uomo, chiaramente meravigliato.
«Santo cielo, che fine hai fatto? Sali, cara, sali pure!»
Il portone venne aperto all’istante e Vittoria spalancò altrettanto rapidamente il battente.
«Avanti, dopo di te! E non aver paura, nessuno vuole mangiarti!»
Dopo aver percorso qualche rampa di scale, le due giovani trovarono
l’insegnante ad aspettarle, in piedi sulla porta del proprio
appartamento.
«Oh, eccoti, finalmente! Sono stato anche a casa tua, ma non mi
hanno voluto dire dove fossi finita! Cosa ti è successo?»
domandò, piuttosto concitato.
«L’è una storia lunga» spiegò Beatrice. «Perfino io stento a credere che sia vera».
Il signor Rossiglione annuì.
«Dai, entra dentro, così mi racconti. Lei è una tua amica?»
«Esattamente» rispose l’altra, tendendogli la mano
con fare affabile. «Sono Vittoria, piacere di conoscerla!»
L’uomo fece subito accomodare le due ragazze sul divano dell’ampio
e luminoso salotto, offrendo loro da bere e dei biscotti, scusandosi di
non poter offrire loro di meglio, poiché sua moglie, anche lei
insegnante, era andata in gita scolastica con la sua classe e non
c’era nessuno che sapesse fare la spesa come si deve.
Quando si fu seduto anche lui sulla sua poltrona di velluto blu un
po’ spelacchiata, la fanciulla poté finalmente iniziare il
suo racconto, andando avanti per una buona oretta e mezza. Fu
interrotta soltanto da qualche esclamazione del precettore, a
volte di rabbia, altre di disgusto o di angoscia.
«Povera ragazza, non avrei mai potuto immaginare che stessi passando tutto questo!» commentò lui, alla fine.
«Non le han detto proprio niente la mia zia e i mi’ fratello?»
«Assolutamente niente e, comunque, ho incontrato solo la signora
Assunta. Anzi, è stato già un miracolo che mi abbia
permesso di prendere le tue cose!»
«Le mie cose?» domandò lei, confusa.
«Sì, hanno venduto la villa e hanno traslocato al nord,
credo vicino a Pavia. Solo per miracolo, quindi, sono riuscito a
portare qui le tue cose» spiegò Rossiglione, pulendo gli
occhiali con un
fazzoletto estratto dalla tasca della giacca. «Non ne
sapevi nulla?»
Beatrice guardò smarrita Vittoria e quest’ultima alzò le spalle, altrettanto incredula.
Nel vedere tanto sgomento, l’uomo mise le mani sulle ginocchia e si diede la spinta per alzarsi.
«Venite con me» disse loro, invitandolo a seguirlo.
Furono condotte entrambe in una piccola stanzetta, dove c’erano
un asse da stiro ed una cesta di vimini contenente un mucchio di
vestiti ancora da stirare e, nella penombra, non riconobbe subito il
paravento e la macchina per cucire che erano appartenute alla contessa
Elena, tenuti lì in un angolo.
Vittoria chiese qualcosa a Rossiglione e lui le rispose, ma lei non li sentì, frastornata dalle nuove rivelazioni.
Riuscì a mettere a fuoco gli oggetti molto lentamente, precipitandosi solo in un
secondo momento ad assicurarsi che tutti i suoi effetti fossero
lì, per rendersi poi conto che parecchie cose erano rimaste a
Villa dei Salici, sempre che non fossero state vendute dalle parenti.
«Ovviamente, manca
il libro...» sussurrò a
bassissima voce, non trovando il prezioso regalo che le aveva fatto
Marcello. In effetti, lo aveva nascosto sotto la tavola del doppio
fondo dell’armadio, dove era certa che nessuno sarebbe andato a
ficcanasare, quindi, se la fortuna era dalla sua parte, aveva
ancora qualche possibilità di ritrovarlo.
«Meno male che sei venuta tu, perché io non sapevo proprio dove
cercarti. Sono andato a scuola e hanno detto che gli esami preliminari
sono stati fissati per il quindici maggio» disse
l’insegnante, richiamando la sua attenzione.
«Per il quindici? Ma l’è tra poco più di due
settimane!» rispose lei distrattamente, continuando a frugare tra le sue cose e facendone mentalmente l’inventario.
«Purtroppo, Beatrice, non è questo il vero problema»
continuò lui, grave. «Vedi, il programma di fisica che
portano i tuoi compagni, per scelta del loro professore, è molto
più ampio di quello che abbiamo fatto noi».
«E quindi?»
«Il commissario d’esame si adeguerà a loro».
All’improvviso, la fanciulla si fermò, capendo finalmente
ciò che le era stato appena detto e si voltò lentamente
verso Vittoria e Rossiglione, scorgendo sui loro visi espressioni
tutt’altro che confortanti.
«A-Aspettate un momento» balbettò, ancor più confusa. «Questo vuol dire che... che...
son rovinata!»
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie mille anche alla mia Anto
che mi consiglia in fase di stesura.
***
[N.d.A]
1. se il Borromini...
la fontana: la leggenda si basa, infatti, su un forte
anacronismo,
giacché la statua è stata scolpita tra il 1646 e
il 1651, mentre la chiesa è stata iniziata nel 1652.
2. fraschette: non so se
qualcuno già le conosce, sono dei tipici locali che si trovano
nella zona dei Castelli Romani, abbastanza “rustici”. Qui
vengono servite diverse specialità locali, tra le quali spicca
il famoso panino con la porchetta;
3. la canzone di Al
Bano e Romina: ovviamente, Marcello sta pensando a Felicità,
arrivata seconda al Festival di Sanremo del 1982;
***
Salve!
In un modo o nell’altro, questa storia sta procedendo,
lentamente, ma procedendo. Purtroppo vivo in funzione dello studio e
per la scrittura ho sempre meno tempo, anche se non è
assolutamente mia intenzione lasciare incompleto ciò che ho iniziato.
Ringrazio chi mi ha lasciato una traccia del suo passaggio al capitolo
precedente e a chi ha messo la storia tra le seguite/ricordate/preferite.
Se tutto va bene, il prossimo capitolo dovrebbe essere pronto per
metà del prossimo mese o giù di lì, comunque, se
volete rimanere informati con più precisione, vi invito, come
sempre, a fare un salto sulla mia pagina
facebook, dove riprenderò a pubblicare estratti dei capitoli futuri e altre cose.
Alla prossima, per chiunque continuerà a darmi fiducia (sarete
ricompensati e ne vedrete la fine, ve lo prometto) e a seguire questa
storia.
Halley S.C.
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Capitolo 16 *** Capitolo Sedicesimo - Vento di Avversità ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 16
- Capitolo Sedicesimo -
Vento
di Avversità
L’invitante
profumo dei cornetti caldi proveniente dal corridoio aveva ormai
saturato l’aria del suo ufficio, ma il commissario Molinari
lo
ignorò con stoica fermezza: aveva confidato a sua moglie la
volontà di mettersi a dieta (nonché di limitare i
caffè giornalieri) ed intendeva onorare la sua parola.
Così, con l’intenzione di arginare la tentazione,
chiuse la porta
ed
aprì la finestra - nonostante fossero le undici di sera -
per far cambiare l’aria,
riaccomodandosi nella sua postazione, proprio nel momento in cui
squillò il telefono.
L’uomo girò immediatamente la testa in direzione
dell’apparecchio e
lo guardò in cagnesco, non volendo essere disturbato in quel
momento precario; tuttavia, poiché non poteva ignorare una
chiamata sul posto di lavoro e, sopratutto, doveva essere
d’esempio per i
suoi
sprovveduti sottoposti, che avevano deciso di alleggerire il turno di
notte con una retata
ad una cornetteria notturna, decise di sollevare il
ricevitore.
«Qui Molinari!»
Dall’altro capo del telefono, rispose una voce piuttosto
concitata: «Commissario, c’è in linea
Tonelli dal
San Camillo, ecco, riguarda Martínez... sembra
urgente!»
«Passamelo subito, Pontori!» ordinò il
commissario,
spostando la cornetta all’orecchio sinistro, per lasciare
libera
la mano destra per scrivere, nel caso ce ne fosse stato
bisogno. Poi, altrettanto rapidamente, afferrò una penna dal
portapenne davanti a
sé ed
aprì il bloc-notes ad una pagina pulita.
Fu messo in attesa e, quando il segnale telefonico tornò,
non
perse tempo per abbaiare: «Saverio, cosa
c’è?»
«Commissario, deve venire subito, il magistrato è
stato
già avvisato!» farfuglò il ragazzo.
«Il magistrato?» domandò, stranito
l’uomo.
Socchiuse appena gli occhi, insospettito da quello stato di
estrema agitazione che sembrava essersi impossessato dei suoi agenti.
Cosa mai poteva essere accaduto di così preoccupante?
«Saverio, non farmi perdere tempo e pazienza e spiegati una
buona volta!»
Quello, allora, proseguì concitato: «Non sappiamo
come
sia
potuto succedere! Noi eravamo qui, ci siamo dati sempre il cambio, come
aveva detto lei...»
Molinari sbuffò,
picchiettando con forza la punta della penna sul foglio.
«Insomma! Vuoi parlare, sì o no?»
«L’abbiamo piantonato giorno e notte,
perciò nessuno
potrebbe
essere riuscito ad entrare senza essere visto, eppure, poco fa,
quando l’infermiera è entrata per cambiare la
medicazione...»
«Tonelli, basta! Esigo che tu mi dica subito cosa diavolo
stai
farneticando!» tuonò, a quel punto, il
commissario, alzando la
mano che
stringeva la penna, la quale, nell’udire finalmente
cosa era
successo, gli scivolò dalle dita, cadendo a terra.
***
La sedia su cui l’aveva fatta accomodare uno degli agenti che
già aveva visto in passato era tutt’altro che
confortevole. O, forse,
era lei ad essere talmente agitata da non riuscire a trovare una
posizione comoda.
«Andrà tutto bene» le disse Marcello,
stringendole la mano che teneva appoggiata sulle ginocchia.
Beatrice, allora, sospirò ed annuì, non del tutto
convinta: di
brutte notizie e di essere costantemente sotto scacco, ne aveva davvero
le tasche piene. Perché mai il questore l’aveva
convocata?
Pensava che non avesse detto tutto, quando la polizia l’aveva
liberata? Eppure, non aveva niente di nuovo da aggiungere,
giacché, per fortuna, non aveva più avuto modo di
rivedere Navarra e i suoi scagnozzi dopo ciò che era
accaduto.
Subito dopo, il poliziotto di prima uscì dalla porta di uno
degli uffici
che si affacciavano sul corridoio e si diresse verso di lei con passo
fermo.
«Signorina Tolomei, la prego di seguirmi» le
ordinò, con una nota dolce nella voce.
Lei scattò immediatamente in piedi, come se la sedia fosse
di colpo
diventata bollente.
«Certamente»
disse, con un filo di voce, per poi voltarsi verso Marcello in cerca
di supporto.
«Ti aspetto qui» le sussurrò lui con
dolcezza, mentre le
lasciava andare la mano, anche se Beatrice avrebbe preferito che non
l’avesse fatto. Perché non poteva andare con lei?
Che male
ci sarebbe stato a far assistere anche il suo fidanzato
all’interrogatorio? Non avrebbe potuto inficiarlo in alcun
modo,
ma, probabilmente, la sua presenza sarebbe stata semplicemente
contraria al
protocollo.
«Prego, mi segua: il commissario e il questore la stanno
aspettando» la incalzò Sabatini, indicandole con
il
braccio
teso la direzione da seguire.
Rassegnata, Beatrice rivolse un ultimo sguardo al giovane e,
trattenendo il fiato, si accinse a seguire il poliziotto.
***
Molinari stava picchiettando nervosamente il tappo della penna contro
il
ripiano della sua scrivania, tenendosi il mento stretto tra due dita
della mano sinistra, fuori di sé per quello che si era
verificato la notte precedente e per i dettagli in merito che Tonelli
gli stava riferendo proprio in quel momento.
«Il decesso è stato stimato intorno alle due di
questa
notte o, almeno, così ha detto il medico
legale» disse il ragazzo, leggendo gli appunti che aveva
preso poco prima di lasciare l’ospedale.
«Sospetti sulle cause della morte?» chiese, allora,
il
questore,
riversandosi all’indietro e mettendo in tensione lo schienale
della sedia girevole imbottita su cui era seduto, facendola cigolare
all’istante.
«Dalle primissime analisi che sono state fatte, risulta
esserci una
quantità anomala di potassio nel sangue».
«E questo cosa dovrebbe significare?»
latrò
Molinari, sentendosi sempre più irrequieto. Quel caso si
stava
complicando sempre di più! Ne avrebbe
mai
visto la fine?
Felipe
Martínez era morto in circostanze ancora tutte da verificare
e
ciò non aveva fatto altro che aggiungere altra legna ad un
fuoco
che si alimentava già da sé, poiché,
riguardo al caso
Navarra, le
perplessità e le domande superavano di gran lunga le
certezze. E ora che anche l’unico testimone diretto era stato
ridotto al
silenzio, con molta probabilità, proprio per evitare che
spifferasse
qualcosa che non avrebbe dovuto, la situazione non avrebbe potuto far
altro che peggiorare.
«Da
quello che ho scoperto, commissario, il potassio, in
determinate quantità, porta all’arresto cardiaco.
È
utilizzato soprattutto in cardiochirurgia1»
snocciolò
l’agente, fiero del livello di approfondimento delle proprie
ricerche. «Comunque, il medico legale ha detto che ha bisogno
di
più tempo per fornirci un quadro più
preciso».
«Vorrà dire che aspetteremo. Tuttavia, mi sembra
sia evidente già da ora che bisogna indagare
nell’ambito
del policlinico» disse il dottor Saltarini.
«Tonelli,
questa
è la lista di tutto il personale che era di turno questa
notte?» aggiunse, sollevando davanti a sé un
foglio A4 battuto a macchina.
«Sì, dottore».
«Molto bene, gli daremo un’occhiata non appena
finiremo di interrogare la ragazza. Cosa ne pensa, Molinari?»
L’uomo lanciò la penna sulla scrivania, incurante
di farsi
vedere mentre perdeva le staffe da un suo superiore, e si
alzò in piedi.
«Sono assolutamente d’accordo» fece,
muovendo qualche passo per smaltire il nervosismo, ma, proprio in quel
momento, qualcuno bussò alla porta.
«Questo deve essere Sabatini. Saverio, fai accomodare subito
la
signorina Tolomei» ordinò, quindi, perentorio il
commissario.
Saverio non se lo fece ripetere due volte ed aprì la porta,
lasciando che Beatrice, scortata dall’agente che
l’aveva accolta, entrasse nella stanza. Poi le
sorrise piuttosto impacciato, ma lei gli riservò
un’occhiata commiserevole e passò oltre, facendo
scuotere la
testa al commissario: era proprio un caso disperato.
«Buongiorno, signorina, come sta?» chiese subito il
questore,
gioviale, alzandosi dalla sedia girevole e tendendole la mano.
La ragazza la prese e, stringendola timidamente, rispose con un flebile
Bene, grazie,
dopo di che accolse l’invito a sedersi, mentre i due agenti
più giovani si congedavano con un gesto di rispetto ed
uscivano
dall’ufficio.
«Signorina Tolomei, le presento il dottor
Saltarini»
esordì Molinari, indicando l’altro: era sicuro
che la ragazza l’avesse già capito, ma doveva
comunque attenersi ai formalismi.
L’uomo le sorrise rassicurante, tuttavia la fanciulla non
accennò a voler abbandonare l’espressione tesa che
trapelava dal suo volto.
«Ora, so che non deve essere piacevole per lei, ma...
dovrebbe
ripeter al dottore tutto ciò che ricorda del suo
sequestro» riprese il commissario, cercando di mantenere un
tono neutro
per non agitarla; ciononostante, la vide sussultare.
D’altra parte, come non comprenderla? Solo lei sapeva che
inferno
doveva aver passato in quei momenti e, certamente, la ragazza avrebbe
preferito
dimenticare tutto, anziché riportarlo alla mente, ma la
burocrazia imponeva che fosse sottoposta a quell’ennesima
tortura.
«Durante la prigionia, non ha mai sentito parlare Navarra e i
suoi complici di terzi con cui erano in contatto?» le chiese,
con calma, cercando di essere chiaro.
Lei ci rifletté un attimo, socchiudendo gli occhi e serrando
le labbra, poi rispose: «No, non mi pare. Anche se... oh,
sì, ora che ci penso li ho sentiti parlare di un certo lui».
«Un certo lui?»
ripeté Molinari, corrugando la fronte.
Beatrice annuì e aggiunse, convinta:
«Sì, ma non ho idea di chi potesse essere,
non l’han
mai nominato con precisione».
Sorpreso dalla rivelazione, l’uomo si voltò allora
verso
il questore e i due si scambiarono un’occhiata circospetta.
«Signorina, è sicura di non ricordare altro? Vede,
ieri notte
siamo
stati informati che Martínez è stato assassinato,
pertanto ogni
dettaglio ci potrebbe essere utile» insistette il commissario.
«A-Assassinato?»
balbettò la ragazza, sgranando gli occhi per la sorpresa. Li
guardò entrambi e poi divenne improvvisamente pallida.
Nel vedere tale reazione, Saltarini non perse tempo e si
alzò in piedi, avvicinandosi a lei.
«Signorina Tolomei, sta bene?» le chiese,
preoccupato. «Le faccio portare un bicchiere
d’acqua?»
«N-No, grazie. È solo c-che...»
balbettò
lei, destabilizzata, portandosi una mano davanti alla bocca.
«Oh, no, no, non deve scusarsi, si figuri» si
affrettò ad aggiungere l’altro, visibilmente
preoccupato
per lei.
«Ora capisce perché è importante che ci
riferisca
ogni dettaglio?» la incalzò, invece, Molinari con
veemenza.
«Sì,» rispose Beatrice, in stato di
evidente agitazione, «ma io davvero non so che dirvi di
più! Ho ripreso
conoscenza
solo la sera ed il mattino dopo mi
avete liberata, non ricordo
altro!»
Non ne poteva davvero più di rivivere quegli attimi di puro
terrore ed ebbe paura che quei due avrebbero insistito ancora, sperando
di cavarle qualcosa che, però, lei non era veramente in
grado di
riferire.
Fortunatamente, a quel punto, il questore si arrese e, con fare
paterno, la
rassicurò, dandole due o tre pacchette sulla spalla:
«Va
bene, basta così, stia tranquilla».
Quindi, si rivolse al suo
sottoposto: «Commissario, mi sembra evidente che questa
povera
ragazza non sappia nulla che possa esserci utile, perciò
propongo di
rimandarla a casa».
«Ma, dottor Saltarini, non...»
«Suvvia, Molinari! Credo che l’unica cosa che
voglia fare
la signorina Tolomei ora, sia dimenticare questa brutta avventura,
giusto?» le domandò, con inaspettata
dolcezza, ma Beatrice annuì appena.
«Può andare, signorina, la ringraziamo per essere
stata a nostra disposizione».
La
fanciulla, allora, si alzò, tentennando, ma, non vedendo
l’ora di
uscire, si ricompose rapidamente e si affrettò a raggiungere
la porta,
oltrepassandola e augurandosi di non dover far più ritorno
in
quella stanza.
«Dottore,
perché ha congedato la ragazza? Non pensa che
avrebbe potuto darci altri indizi per scoprire qualcosa?»
chiese
Molinari, quando quella si chiuse la porta alle spalle, guardando
dubbioso il suo superiore, giocherellando
nervosamente con la matita, facendosela passare tra le dita.
Saltarini, però, scosse con energia la testa, avvicinandosi
lentamente alla finestra.
«No, non credo, commissario. Di fatto, non sapeva niente di
davvero rilevante ed io sono contrario a mettere in mezzo degli
innocenti senza un valido
motivo» spiegò. «Soprattutto, in storie
torbide come questa».
Molinari smise all’istante di muovere la matita e
si alzò, puntando le mani sul ripiano della scrivania.
«Dunque, lei sospetta che dietro ci sia qualcosa di veramente
pericoloso?» avanzò, scrutando attentamente il
questore,
ma questo impiegò qualche secondo di troppo per rispondere,
cosa
che lo insospettì fortemente.
«Sinceramente, credo che sia ancora troppo presto per mettere
tutte
le
carte in tavola» rispose, infine, l’altro, senza
tradire una particolare emozione.
Il commissario assottigliò lo sguardo, ma non aggiunse
altro, appuntandosi mentalmente di studiare meglio il
comportamento del superiore in futuro, convinto che gli stesse
nascondendo qualcosa di estremamente importante su quel caso.
D’altra parte, per quanto lui stesso trovasse disdicevole
dover
torchiare una povera ragazza di quasi diciannove anni, sapeva che era
un elemento importante per la risoluzione del caso, essendo
l’unica testimone che aveva avuto a che fare con lo spagnolo
fino
a pochi istanti prima della sua fuga. Perché Saltarini non
aveva
insistito un po’ di più?
«Comunque, la prego di tenermi informato, se la sua squadra
dovesse mettere
le mani su Navarra e i suoi complici. Voglio saperlo subito!»
si
raccomandò quello, raccogliendo i suoi effetti e prendendo
il
cappotto che aveva appeso all’attaccapanni, pronto per
congedarsi.
«Come vuole, dottore» rispose Molinari, accennando
appena un inchino.
***
«Eccoti, finalmente!» esclamò Marcello,
incredibilmente sollevato, quando vide apparire nuovamente Beatrice
dopo un’assenza durata appena mezz’ora.
«Sinceramente, credevo che ti avrebbero trattenuta di
più».
«Oh, il commissario
avrebbe voluto, nonostante io non
avessi proprio nient’altro da aggiungere a quanto già
detto,» gli
spiegò lei, invitandolo a seguirla fuori con un cenno
della mano, «ma il questore l’è
stato più clemente
e
m’ha lasciata
andare».
Il giovane annuì e, poiché aveva a cuore la
ragazza, sperò che davvero
quella brutta questione si fosse risolta una volta per tutte. Infatti,
commentò, seccato: «Mi auguro siano soddisfatti,
adesso. Anche perché è il loro lavoro mettere
insieme gli indizi e dare la caccia ai delinquenti!»
«Eh» sospirò lei,
stanca. Poco dopo, però, parve riprendersi, tanto che
suggerì: «Poiché
abbiamo fatto presto, che
ne dici di passare a salutare la signora Sofia? Vorrei tanto rivederla
e son sicura
che a lei
farà piacere
vedere anche
te!»
Marcello rifletté per qualche secondo
sulla proposta, nell’eventualità che avesse
dimenticato qualche
appuntamento importante della tarda mattinata, poi, essendo certo di
non averne, la accolse positivamente. Così, i due si
avviarono in silenzio verso il negozio.
Mentre passeggiavano, avvicinandosi sempre di più a Via del
Corso, al ragazzo sorse un dubbio e ne rese subito partecipe la
compagna: «Con gli esami di maturità alle porte,
non credo che vorrai tornare a lavorare tanto presto, giusto?»
«Oh, no!» esclamò Beatrice, scuotendo il
capo. «Mi dispiace
veramente tanto, ma sarò costretta a spiegare alla signora che, ora,
dovrò solo
studiare. A dire il vero, non vorrei nemmeno approfittare ancora
dell’ospitalità della Vittoria, ma
non posso fare altrimenti».
«Stai tranquilla, Vittoria non bada a queste
inezie,» la rassicurò
lui, «anche
perché non vivrai per sempre a casa sua, visto che, prima o
poi...»
A quel punto, però, Marcello ammutolì di colpo,
fermandosi appena
prima di aggiungere “andremo
a vivere insieme”.
Infatti, nonostante avesse le più serie intenzioni con lei,
pensare al loro futuro insieme lo metteva ancora in agitazione,
giacché non riusciva proprio a scrollarsi di dosso gli
scrupoli che aveva a causa della differenza di età che
c’era tra
loro e perciò, finché ci sarebbe stato
quell’ostacolo, sapeva bene
che non avrebbe mai trovato il coraggio di chiederle di sposarlo.
Dal canto suo, la ragazza non sembrò fare caso a
quell’interruzione e rispose con tranquillità:
«Lo so, sono tutti gentili con me, ma devo
trovarmi un piccolo
appartamento in affitto, magari,
in periferia, dove costan
meno. O anche
lì i prezzi sono alti?»
«Qualcosa di decente e ad un prezzo ragionevole si
trova» commentò lui, cercando di avere un
tono il più neutro possibile.
La fanciulla, allora, sorrise, riprendendo a camminare, e lui la
seguì, pensando che, se fosse stato un po’
più intraprendente, molte cose sarebbero andate meglio.
Il familiare tintinnio della porta che si apriva fece sorridere
Beatrice, la quale già si immaginava l’espressione
sorpresa che le avrebbe riservato la signora Sofia, rivedendola dopo
tanto tempo. E, in effetti, l’accoglienza della donna fu
talmente festosa che le aspettative della ragazza non rimasero
minimamente deluse.
«Oh, Beatrice! Sei proprio tu!» esclamò
la sarta, congiungendo le mani e avvicinandosi rapidamente alla
ragazza. «Come sono contenta che tu sia passata, fatti
abbracciare!»
«Anche per me è un piacere, signora»
rispose Beatrice, ricambiando l’affettuosa stretta della
donna.
Quella, quando si distaccò, si soffermò per
qualche attimo a scrutarla a fondo, probabilmente per cercare
qualche segno esteriore che le desse informazioni sulla sua salute.
«Vedo che, tutto sommato, stai bene»
commentò, infatti, poco dopo. Poi, gettò
un’occhiata oltre la sua spalla e fece, contenta:
«Oh, ti sei fatta accompagnare! Come stai,
Marcello?»
«Abbastanza bene, grazie. Lei?» le rispose il
giovane, accennando un sorriso.
«Bene, bene» replicò la donna,
sorridendogli
a sua volta e tornando a guardare la ragazza. «Mi sembra
incredibile che tu sia di nuovo qui. Quando Gerardo è venuto
a dirmi cosa ti era successo, ho creduto di morire di pena!»
A quelle parole, Beatrice assunse un’espressione mortificata:
«Oh, mi dispiace averla fatta stare in pensiero».
«Non è certo colpa tua se quel lestofante ha
deciso di rapirti» sentenziò, però, la
sarta, scuotendo
la testa. «Ti siamo tutti affezionati e anche Alessio e
Valentina erano preoccupati per te. A proposito, saranno qui tra poco e
penso che sarebbero felici di rivedervi entrambi!»
Anche i due ragazzi si mostrarono molto contenti di poter incontrare le
due simpatiche pesti, pertanto si accomodarono sul
divanetto che la signora Sofia aveva destinato al riposo delle clienti
anziane in attesa del loro turno.
Quella mattina, però, il negozio era vuoto e la donna aveva
appena finito di
fare l’inventario dei nuovi filati appena arrivati,
così Beatrice decise di approfittare di quel momento di
calma per
introdurre il discorso sulla sua forzata pausa lavorativa. Si
scambiò un’occhiata con Marcello, il quale, avendo
avvertito che la questione era nell’aria, annuì
per
esortarla ad esporre la sua situazione.
«Signora
Sofia...» cominciò, tentennante,
giacché temeva di passare per sfacciata, «vorrei chiederle una cosa».
«Dimmi pure, cara» la incoraggiò
l’altra, sorridendole con il suo solito fare materno.
La giovane, allora, prese un bel respiro e decise di dire tutto
insieme, per
evitare di bloccarsi a metà:
«Ecco,
come sa,
quest’anno devo sostenere
l’esame di maturità e...»
«Hai bisogno di tempo per studiare e quindi vorresti
assentarti per qualche mese dal negozio»
l’anticipò, però,
l’altra, con tranquillità, senza smettere di
sorridere.
«Dovevi chiedermi questo, per
caso?»
Stupita, anche se non troppo, poiché la signora aveva
sempre
rivelato di avere un ottimo intuito, Beatrice fece segno di
sì
con la testa.
«Penso che sia giusto che ora ti dedichi allo
studio» affermò la sarta, comprensiva.
«Tra l’altro, i sei mesi di prova
si concluderanno tra qualche giorno. Se poi vorrai tornare tra qualche
mese, vedremo come aggiustarci, va bene?»
«Benissimo, direi» disse Beatrice, soddisfatta
della
proposta, perché sapeva che, durante i mesi estivi, avrebbe
dovuto
cercare un altro lavoretto per cominciare a mettere da parte qualcosa,
se voleva davvero cominciare ad essere indipendente.
«Anche perché suppongo che, poi, vorrai iscriverti
all’università e verresti comunque a lavorare
solo per
qualche pomeriggio a settimana, come hai finora».
Lì per lì, la ragazza rimase a bocca aperta,
giacché non aveva mai pensato di poter intraprendere
l’università: finché era stata tenuta
sotto scacco
dalle parenti, non aveva mai creduto che la zia le avrebbe pagato le
tasse universitarie, ma ora, visto che era libera di poter scegliere,
decise che avrebbe tenuto seriamente in considerazione l’idea.
«Sarebbe semplicemente
perfetto».
«Hai già scelto che facoltà
prendere?»
«In realtà no, ma non mi dispiacerebbe qualcosa che abbia a che fare con
l’arte» rispose, pensierosa.
«Saresti molto portata» intervenne con un sorriso
Marcello, che, fino ad allora, non aveva preso parte alla
conversazione, mostrando grande rispetto per lei e le sue
decisioni.
La ragazza, allora, si voltò a guardarlo e la sua
stima verso di lui crebbe
ancor di
più - ammesso che potesse farlo -, poiché si era
dimostrato non
contrario all’istruzione femminile.
In quell’istante, il campanello tintinnò per la
seconda
volta ed i bambini entrarono nel negozio. Non appena notarono Beatrice,
buttarono le cartelle in un angolo e corsero ad abbracciarla, arrivando
perfino ad ignorare la madre che, però, non se la prese.
«Beatrice, sei salva!» esclamò
Valentina, saltellando contenta. «Sapevamo
che Marcello ti avrebbe salvata!»
«Veramente,
io
non ho fatto molto, il merito è tutto vostro che ci avete
avvertiti, permettendoci di chiamare subito la
polizia»
precisò il ragazzo, arruffando affettuosamente i capelli dei
due
fratelli.
«Siamo stati proprio bravi!» si vantò
Alessio,
gonfiando il petto. Poi, si rivolse alla fanciulla: «Non ti
hanno
fatto del male, vero? Altrimenti gliela farò
pagare!»
«È andata meglio di come sarebbe potuta
andare»
tagliò corto lei, stirando un debole sorriso per non far
capire loro quanto, in realtà, avesse sofferto.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata intensa, ma, con
suo enorme
sollievo, non aggiunse altro. Beatrice, infatti, sapeva di non avergli
raccontato proprio tutto, nascondendogli che Navarra aveva
tentato di abusare di lei, anche se era cosciente del fatto che, prima
o
poi, avrebbe dovuto farlo; tuttavia, la paura, la vergogna e
l’orrore che aveva provato per quel momento glielo impedivano.
Per fortuna, Alessio la trasse d’impaccio, cambiando
argomento: «Tornerai presto a lavorare qui?» le
chiese, guardandola.
«Oh, piccino,
mi piacerebbe
davvero tanto, ma devo studiare» gli rispose subito lei,
sinceramente
affranta.
«Anche a te danno tanti compiti?» si
informò
Valentina, pensando a quelli che doveva
svolgere lei.
«Abbastanza. Devo affrontare un esame che mi
permetterà di finire la scuola».
«Per finire la scuola bisogna fare un esame?!»
esclamò il bambino, sconvolto. «Dovrebbero dare un
premio, invece, a chi non è scappato prima!»
I due giovani, di fronte a tanta spontaneità, scoppiarono a
ridere di cuore, ma poi la fanciulla, ripensando alla propria
disastrosa condizione in fisica ed in matematica, convenne che Alessio
non aveva affatto tutti i torti.
***
Nello stesso momento in cui Marcello realizzò che
un’ambulanza stava uscendo dal cancello nero di Villa
Aurelia, inconsciamente, il suo pensiero andò a
suo padre, temendo che si fosse sentito male.
Così, allarmato, bruciò in pochi istanti la
distanza che lo
separava da casa e, una volta nel giardino, quando vide parcheggiata
sul brecciolino la Mercedes 560 SL di Tiberio, fu colto da una tremenda
sensazione di smarrimento misto a paura, che gli fece salire i
gradini della scala di travertino a due a due.
Entrò, quindi, in casa quasi travolgendo Ottavia, la quale
stava
piangendo con il viso nascosto in un ampio fazzoletto di stoffa.
«Ottavia, cosa è successo?»
le domandò, con il
fiatone per la corsa e il cuore che batteva furiosamente per
l’angoscia.
«Oh, Marcello... il tuo povero papà...»
singhiozzò la donna, stravolta.
Se prima il ragazzo avvertiva il sangue pulsargli nelle orecchie, in
quel momento gli parve addirittura che avesse perfino smesso di
circolargli in corpo.
«Come sta?» riprovò, ma non ricevendo
risposta,
incalzò: «Santo Cielo, parla! Cosa diamine gli
è
successo?»
La governante, allora, si mise a piangere più forte, ma alla
fine riuscì finalmente a rispondere: «Sor
Giancarlo... ha avuto un malore!»
Rinfrancato almeno in parte dal fatto che suo padre fosse ancora vivo,
con quel minimo della lucidità che gli era rimasta, il
biondo
chiese, con un filo di voce: «Ed ora
dov’è?»
«In camera sua. Tuo fratello è
arrivato...»
Marcello, tuttavia, non seppe mai cosa avesse aggiunto la donna,
giacché
non perse tempo e si diresse subito dove gli era stato detto,
sperando che l’uomo fosse cosciente e non in condizioni
gravi.
Sapeva che il padre non stava bene, poiché lo aveva
già notato quando si era
rifiutato di mangiare il suo piatto preferito, ma non pensava che la
situazione fosse già precipitata!
I corridoi della villa non gli erano mai sembrati così
lunghi e,
ad ogni passo, il terrore di arrivare tardi crebbe sempre di
più. Quando, infine, aprì la porta e si
lanciò
nella stanza, vide solo il signor Giancarlo sul letto, sostenuto da
una pila di cuscini, e si mise in ginocchio davanti a lui. Tuttavia,
prima che potesse fargli anche solo una domanda, qualcuno
cominciò a sbraitare: «Si può sapere
dov’eri?!»
Il giovane, allora, si voltò e vide che suo fratello lo
guardava con
odio
misto a disgusto, tenendo la mano di sua madre, seduta sotto shock
accanto a
lui.
«Non sono affari tuoi!» gli ringhiò
contro, ricambiando l’occhiataccia.
«Invece sì, che lo sono!»
berciò Tiberio, con
occhi fiammeggianti dall’ira. «Papà si
è
sentito male e non sapevamo dove diavolo fossi!»
«Stavo comunque ritornando!» ribatté con
forza
Marcello, deciso a non farsi prevaricare dall’altro, che
stava meschinamente approfittando di quel momento
precario per fare il prepotente.
«Finitela!» intervenne a quel punto la Matrona,
muovendo il
braccio con
un gesto secco. «Nemmeno davanti a vostro padre in queste
condizioni avete un po’ di riguardo?»
«Lasciali fare, è il loro modo di scaricare la
tensione» mormorò, invece, flebilmente il signor
Giancarlo, forse per cercare
di
sdrammatizzare e di evitare che i suoi figli arrivassero alle mani.
Allora, il maggiore si alzò in piedi e si
avvicinò al
letto del padre con incedere sicuro, dichiarando perentorio:
«Chiamo subito il professor Spadoni, è primario di
medicina interna al policlinico Gemelli!»
«No, no, non ti preoccupare, non ne ho bisogno. In
realtà...» replicò a fatica
l’uomo, ma venne
interrotto prima che potesse finire la frase.
«Sciocchezze, papà! Tu hai bisogno di un ottimo
medico!» insistette Tiberio.
«Perché non lo lasci parlare?» lo
rimbrottò, allora, Marcello, senza celare il suo disprezzo.
Così, l’altro non si lasciò sfuggire
l’occasione per
attaccare nuovamente il fratello e, dopo averlo incenerito con lo
sguardo, latrò: «Ancora hai il coraggio di
fiatare? Cosa
hai fatto da stamattina tu
per nostro padre? Niente! Io
sono arrivato subito, io
mi sono preoccupato per lui!»
Il biondo aprì la bocca per replicare, ma l’altro
non glielo lasciò fare, rincarando invece la dose.
«Sei inutile, basto io!
Tu tornatene da
quella sciacquetta
con cui ti stavi divertendo!» aggiunse e tali parole ebbero
il potere di ridestare la signora Claudia dallo stato di
prostrazione nel quale era caduta dopo il malore del marito.
Infatti,
la donna si sistemò sulla sedia, raddrizzando la schiena e,
con le
mani
in grembo, si apprestò a dare la sua sentenza:
«Sul serio
eri con lei,
Marcello? Non ti è bastata la lezione che ti ho dato? Ancora
stai perdendo tempo con quella?
È solo una mocciosa, non ti vergogni ad andarle dietro alla tua età?»
Il giovane, già minato da ciò che era successo a
suo
padre e, per giunta, colpito nel suo punto più debole, non
riuscì a trovare le parole per ribattere e dovette subire
l’affondo della madre, senza alcuna possibilità di
difendersi. Guardò prima l’uno, poi
l’altra,
sentendosi montare la collera dentro, ma non riuscì a
tirarla
fuori e a rispondere loro per le rime.
Tuttavia, tale offesa non passò inosservata.
«Claudia, Tiberio, adesso basta!» tuonò,
infatti,
poco dopo il signor Giancarlo che, nonostante fosse seriamente provato,
dimostrò di avere il polso necessario per rimettere in riga
sia la
moglie che il figlio maggiore. «Sono in grado di
cercarmi da solo
un medico come, appunto, ho già fatto! E, comunque, in mia
presenza, vi
proibisco di insultare quella povera ragazza!»
Madre e figlio maggiore guardarono in cagnesco padre e figlio minore, i
quali, a loro volta, risposero con una fredda occhiata. Sembravano
davvero quattro statue di sale, ferme e rigide, ma, a quel punto,
l’uomo interruppe il silenzio con un annuncio che li
sconvolse profondamente.
«Ho un linfoma2» spiegò, voltandosi verso la
finestra. «Allo stomaco».
Istantaneamente, nella stanza la temperatura sembrò scendere sotto zero.
Stravolto dall’inquietante rivelazione, Marcello
spalancò gli occhi: aveva sentito parlare di quel male,
ma non aveva idea di cosa fosse nello specifico e sapeva solo che, se lo
avessero trafitto a morte, in quel momento, non ne sarebbe uscita una
sola goccia di sangue.
«Perché... perché non ce
l’hai detto
prima?» farfugliò, senza nemmeno rendersi bene
conto di
cosa stava dicendo.
«Volevo prima esserne certo» replicò il
padre, sorprendentemente tranquillo.
la signora Claudia, invece, pallida come uno straccio, fissava il marito senza
realmente vederlo, come se fosse rimasta completamente paralizzata.
Infatti, solo Tiberio riuscì ad articolare qualcosa di vagamente
sensato.
«Papà, permettimi di chiamare il professor
Spadoni, ti garantisco che...»
«Tiberio, no!» disse il padre, con tono fermo.
«Ho
già parlato con un mio amico, il dottor Conti, che mi ha
messo
in contatto con il professor Weinberger di Zurigo.
L’operazione
è già stata fissata».
«Operazione?» ripeté Marcello, che, ad
ogni secondo che trascorreva, capiva sempre meno.
Il signor Giancarlo si sistemò meglio i cuscini su cui si era appoggiato e, dopo
esservi
riadagiato sopra, alzò le spalle per poi spiegare la situazione, come se
non
lo riguardasse: «La faccenda è seria, perciò bisogna
agire
piuttosto in fretta».
«Io... io ho bisogno d’aria»
gracchiò a quel punto la
signora, scioccata. «Tiberio... figlio mio, ti prego...
ac...accompagnami fuori».
«E papà?» domandò
l’altro, confuso. «Mamma, papà non
può...»
«Rimarrà Marcello» propose
l’uomo, abbozzando
un sorriso in direzione del figlio maggiore. «Tu occupati di
tua
madre, per favore».
Allora, barcollando, il ragazzo si mosse in direzione della madre e, dopo esser
riuscito con grande fatica a rimetterla in piedi, le
circondò
le spalle con un braccio e la condusse lentamente fuori, mormorandole,
di tanto in tanto all’orecchio qualche frase sconnessa.
Incredibilmente, l’unico che in quell’occasione sembrò aver conservato un
certo
senno, fu proprio quello che sarebbe stato giustificato se
lo
avesse perso.
«Ti va di sederti qui, come quando eri piccolo?»
fece il
signor Giancarlo, all’indirizzo di Marcello, indicandogli il
punto del materasso dove avrebbe potuto accomodarsi e il giovane, quasi
senza rendersene conto, lo assecondò.
Tuttavia, passarono ancora alcuni minuti in silenzio, durante i quali il biondo, fissando il pavimento di
marmo grigio, cercò di dare ordine ai propri pensieri, seguendo le
venature più scure della pietra per non perdere il filo;
talvolta, però, accadeva che una di esse si intersecasse con
un’altra, scompigliandoli di nuovo e costringendolo a ricominciare da capo. Si chiese
più volte se quello fosse un brutto sogno e se stesse
accadendo
proprio a lui, dato che gli sembrava una situazione talmente assurda da sentirsi
alienato perfino da se stesso. O forse era solo una difesa della sua mente, che
voleva allontanarsi da tanto dolore.
«Ecco perché non hai mangiato la
parmigiana!» disse
ad un certo punto, aggrappandosi ad un ricordo lontano, ma chiaro e ben
delineato.
«Sapevo che quel particolare non ti sarebbe sfuggito, non sei
certo ottuso come tuo fratello» cercò di scherzare
il
padre, stiracchiando debolmente le labbra. «Comunque, non
facciamone una tragedia prima del tempo. Odio avere intorno musi
lunghi, come se fossi già morto!»
Finalmente, sentendo quelle parole, Marcello ebbe una piccola reazione ed
alzò di scatto la testa verso il padre, guardandolo negli
occhi.
«Ma...» tentò di protestare.
«Preferisco che sia così» concluse
l’uomo con un tono che non ammetteva repliche.
Rimasero ancora in silenzio per qualche minuto durante i quali il ragazzo
cercò di tornare a seguire le venature del pavimento, ma,
questa
volta, l’espediente non servì a molto, perché nella sua
testa,
continuarono a vorticare pensieri senza senso.
Alla fine si arrese, scivolando anche lui nell’apatia,
nonostante
la parte di lui ancora vigile lottasse con
tutta se stessa per spronarlo a stare vicino al padre.
«Dovresti chiederle di sposarti» disse proprio questi
all’improvviso e il giovane lo osservò, sbattendo le
palpebre.
Di chi
stava
parlando? Cosa c’entrava lo sposarsi con tutto quello? Pian
piano, però, riaffiorò in lui il ricordo di Beatrice e
fu come
se un po’ di luce fosse entrata in quella stanza cupa: lei
era
qualcosa di troppo bello per essere mischiato con quella fitta al cuore che
continuava a rendergli difficile persino respirare.
Non ricevendo risposta, il signor Giancarlo insistette:
«Volevo
dirtelo da diverso tempo e, per quanto ti possa sembrare strano, questo
è proprio il momento migliore per ricordarti che devi chiederle di
sposarti».
Ovviamente, allora Marcello non capì cosa volesse dire suo
padre: quelle parole, però, gli sarebbero tornate spesso
alla
mente negli anni a venire e, poco alla volta, ne avrebbe colto il vero
significato.
«È troppo piccola e troppo vivace
per me. Inoltre, non si sa come potrebbe
andare il tuo intervento» si ritrovò a rispondere,
non
filtrando più nessuna delle paure che gli si agitavano dentro e dicendo la
verità.
L’uomo, allora, gli poggiò una mano sulla testa,
sorridendogli in maniera così dolce che il figlio,
avvertì un altro taglio sanguinante aprirsi nel suo
cuore.
Come avrebbe fatto senza suo padre?
«Marcello, in qualunque modo dovesse andare, la mia vita, nel
bene e nel male, l’ho fatta» replicò, allora, il signor
Giancarlo, con
disarmante e semplice serenità. «Qui si tratta
delle tua e
di
quella della tua futura compagna».
Fece appena una pausa, come per essere sicuro che il giovane stesse
assimilando le sue parole, poi proseguì: «E non
prestare
attenzione a quello che dice tua madre, perché tu e Beatrice siete tutte e due
abbastanza maturi per decidere del vostro
destino.
Promettimi che seguirai il mio consiglio e le chiederai di
sposarti, perché non troverai un’altra
ragazza così».
Marcello sospirò e, intuendo che c’era davvero qualcosa
di
saggio in quell’impegno preso, poco prima di abbracciarlo
stretto
e lasciare che lacrime silenziose gli rigassero le guance, gli
sussurrò: «Te
lo prometto».
***
Ogni singola cosa di quel corridoio, dalle mura bianche e spoglie, al
pavimento di marmo crivellato dal tempo, fino alla fioca luce che filtrava da
finestre troppo strette, le trasmetteva l’idea di rigore e
sterilità.
Beatrice sentì un’improvvisa voglia di scappare,
ma, dopo aver supplicato la guardia carceraria di farle vedere Guido
nonostante non fosse orario di visita, si trattenne dal
fare dietro-front e correre lontana dal carcere. Non riusciva davvero ad
immaginare come i detenuti potessero resistere là dentro,
anche se dovevano aver
fatto qualcosa
di male per trovarsi lì; e se tra loro ci fosse stato qualche innocente
ingiustamente condannato? Avrebbe pazientato di essere assolto e,
quindi, scarcerato? E se, invece, la sentenza che lo avrebbe liberato, per un qualche errore
umano, non fosse mai arrivata?
A questi pensieri, la ragazza rabbrividì e si
affrettò a raggiungere l’agente di polizia che,
avendo il passo più lungo del suo, l’aveva
distanziata di un bel po’.
Ben presto, arrivarono davanti ad una pesantissima porta scura di
metallo e, allora, l’uomo le disse: «Signorina
Tolomei, io l’aspetterò qui. Dentro
troverà il detenuto e altri poliziotti che assisteranno al
colloquio, per ragioni di sicurezza».
Poi, infilò la chiave nella serratura e la fece scattare con
un gran frastuono che quasi spinse Beatrice a tapparsi le
orecchie.
«Non più di un quarto d’ora»
fece la guardia, imperativa. «Abbiamo già fatto
un’eccezione».
La fanciulla annuì, balbettando un ringraziamento, ed
oltrepassò la soglia, ritrovandosi in una grande stanza con
le pareti bianche e spoglie, esattamente come in corridoio. Nel
mezzo c’era un lungo tavolo che andava da parte a
parte, fissato su un battente e sormontato da una spessa lastra di
vetro per impedire qualunque contatto tra i
visitatori e i detenuti; accanto ad esso, da entrambe le parti, c’erano anche degli sgabelli,
ordinatamente sistemati ed equidistanti l’uno
dall’altro.
Beatrice rimase in piedi, in attesa, guardando quell’ambiente come se
si aspettasse che, abituandosi, potesse sembrarle migliore, tuttavia,
accadde l’esatto contrario e questo le parve sempre più
gelido ed alienante.
Guido arrivò dopo qualche minuto, ammanettato e scortato da
due uomini in divisa, alti e massicci come due armadi. Vederlo
così, però, non le fece molto effetto, anzi, pensò che i due energumeni fossero anche troppo per uno come
lui, per nulla pericoloso o incline alla ribellione.
D’altra parte, nemmeno il giudice aveva stabilito una qualche disposizione restrittiva, considerandolo,
probabilmente, solo un idiota che si era andato ad invischiare in
qualcosa più grande di lui. Non che avesse torto, in effetti.
Subito dopo, una delle due guardie tolse le manette al ragazzo e, dopo
averlo afferrato per una
spalla, lo condusse malamente ad uno sgabello posto più o
meno a metà del tavolo, costringendolo a sedersi.
Dopodiché, fece un brusco cenno del capo
a Beatrice, invitandola ad accomodarsi di fronte al fratello, e fu a
tal punto che si rese conto che il naso di lui sembrava guarito.
Peccato, Marcello avrebbe potuto fargli più male...
«Tolomei, non fare scherzi, ché poi farai i conti
con noi. Hai solo qualche minuto, quindi fallo fruttare bene!»
lo minacciò, lasciandolo andare, non senza prima, però, di avergli dato
un altro strattone. Poi, si allontanò, prendendo posto
accanto al suo collega, senza tuttavia distogliere mai gli occhi da Guido.
Questo, dopo aver lanciato un’occhiata carica di risentimento
al suo carceriere, si voltò in direzione di Beatrice e la
fissò in cagnesco per qualche secondo, prima di dirle,
velenoso: «Ti se’
ricordata
d’avere un fratello!»
La ragazza ricambiò l’occhiata con distacco, senza lasciarsi impietosire dalle pessime condizioni in cui
versava il giovane: pallido, con profonde occhiaie e
piuttosto sciupato.
«Dopo quel che
m’hai fatto, dovresti solo ringraziarmi d’esser
venuta a trovarti!» replicò lei, seccata da tanta
arroganza, poichè lui si trovava in quel pasticcio solo ed
esclusivamente per colpa sua. A quel punto, fece per alzarsi, risoluta
ad andarsene, ma il ragazzo si alzò in piedi a sua volta,
poggiando le
mani contro il vetro.
«Tolomei, ritorna al tuo posto!»
riecheggiò subito minacciosa la voce della guardia.
Guido, allora, si guardò appena indietro, ma ubbidì e si
risedette. Beatrice lo seguì, come se quel comando fosse
stato rivolto anche a lei.
«Ti prego,
Cicci» la
implorò il fratello, divenuto improvvisamente più
mansueto. «Scusami,
ma qui l’è
tutto orribile! L’avvocato
d’ufficio
che
m’hanno assegnato l’è
un’incompetente
abissale. Ed è anche
brutta!»
Infastidita da quel commento superfluo, poiché riteneva che l’aspetto fisico non influisse
minimamente sulle capacità di una persona, la fanciulla
commentò, acida: «Vedo che star qui non t’ha
insegnato proprio niente. Tu sta’ toccando il fondo e ancora
t’ostini a giudicar le persone, o meglio, le ddonne, dal loro
aspetto!»
Il giovane non ribatté, roteando gli occhi e lasciandosi
scivolare addosso quel rimprovero, come se non lo trovasse sensato o
pertinente.
Tuttavia, Beatrice non si arrese e continuò a riprenderlo:
«Comunque,
dopo quel che
hai combinato,
non potevi certo
sperar che
fossero tutti clementi con
te».
Sentendo quelle parole, lui la guardò, stralunato, e fece, indicandosi: «I’ non ho
fatto nulla!»
«Certo
che
no!» replicò la ragazza, sarcastica. «Infatti, complottare con Navarra alle
mie spalle è nulla!»
Guido sbuffò, appoggiando le mani sul ripiano e allontanando
il busto da esso, come per dire che Beatrice stava ingigantendo le sue
colpe, ma, nuovamente, lei non si diede per vinta e riprese: «Guardati,
ora. Tu sei qui e lui è libero: bell’intuizione
hai avuto, nel metterti in affari con
lui!»
Seguì qualche secondo di silenzio, in cui il ragazzo si
mostrò alquanto inquieto, grattandosi la nuca e scuotendo
ripetutamente la testa. Infine, si decise a parlare, rivelando qualcosa
che la ragazza non avrebbe mai potuto immaginare: «Beatrice, se non esco di qui,
perderemo la casa
della nostra mamma» mormorò.
La sorella, allora, lo guardò sbigottita, aprendo appena la bocca.
«Cosa?»
domandò.
Dopo
aver lanciato l’ennesimo sguardo in direzione dei suoi
carcerieri, Guido si fece quanto più vicino potesse e, dopo aver abbassato la
voce, disse: «Ascoltami
bene, Beatrice...
L’ultima volta che
ho
sentito
Pierpaolo, m’ha detto che
la produzione delle olive era ormai ridotta a zero e che quindi, se non
andrò ad aiutarlo,
molto probabilmente dovrai vendere la villa ed i terreni in nostro
possesso».
La notizia lasciò la ragazza alquanto perplessa, poiché,
nonostante non si fosse mai interessata direttamente agli aspetti
economici della loro tenuta in Toscana, quella rivelazione stonava alquanto con quello che
aveva sempre detto suo padre.
«Finché
era in vita il babbo, Pierpaolo è stato un amministratore
oculato e i terreni han sempre avuto un’ottima rendita... cosa è successo,
adesso?»
«Non so» rispose l’altro, alzando le
spalle. «Tra l’altro, da quando sono qui, non ho
più avuto modo di sentirlo. Avevo proprio sperato che tu sposassi
Navarra, così
che potesse aiutarci
nel risollevare le sorti dei terreni...»
«Gran bell’aiuto!» commentò lei, sprezzante.
Improvvisamente, Guido appoggiò i gomiti sul ripiano e,
fattosi ancor più vicino fino quasi ad
incollarsi al vetro, propose: «Perché non chiedi al
tu’
innamorato di prendermi un avvocato
migliore? Certamente
ha le conoscenze
ed il denaro necessari».
Indignata da quelle parole e dall’atteggiamento del fratello,
Beatrice insorse: «Con
quale coraggio
mi chiedi
queste cose?!»
«Se non mi vuoi aiutare, allora preparati a tornare a Marciana Marina3
come ospite
e non
più come
padrona» cantilenò il giovane, socchiudendo
appena gli occhi grigi, che tradivano la (vana) speranza di avere un certo ascendente sulla sorella.
«Altrimenti, ora che
tu se’
la passerina
del Tornatore,
ffatti aiutare da lui, a salvare le proprietà.
Non l’è
forse il suo lavoro giocare
con i capitali?»
concluse, rivolgendole un sorriso beffardo.
Beatrice pensò che, se non ci fosse stata quella lastra di
vetro a dividerli, gli avrebbe volentieri fatto un occhio nero e, a
giudicare dall’inquietudine che si era creata dalle guardie,
poteva scommettere che le avrebbero persino dato una mano.
Già si era abbassata ad andarlo a trovare, facendo prevalere
l’istinto fraterno su tutto il resto, perciò non aveva nessuna voglia di essere insultata
in quella maniera. Senza contare che
Guido era stato irrispettoso anche nei confronti di Marcello.
«Avrei potuto impiegar
meglio il mio tempo, piuttosto che
venire qui!» gli sibilò, inviperita.
«Nemmeno il carcere ti sta
insegnando ad esser più umile!»
Quindi, si alzò, infuriata, e, nonostante le suppliche del fratello perché restasse,
uscì in fretta da quell’asettica stanza, lasciando
lì lui e le sue stupide scuse.
Mentre si allontanava in tutta fretta da Rebibbia, furibonda per la
strafottenza, assolutamente fuori luogo, mostrata dal fratello, Beatrice ebbe modo di
riflettere in maniera più accurata su quello che lui le
aveva detto in merito alla loro villa sull’Isola d’Elba. Non conosceva i dettagli della
loro situazione
economica, ma le sembrava davvero strano che, di punto in bianco, le
cose stessero andando così male e, sinceramente, riteneva
che
Guido non avesse le giuste capacità per gestire nessun
terreno.
Inoltre, sul ruolo di Pierpaolo, che era stato il braccio destro del conte
Tolomei nell’amministrazione delle rendite di Villa Paolina,
rimaneva un grande punto interrogativo, poiché non lo vedeva da parecchio
tempo e non aveva mai parlato con lui del lato economico della loro
tenuta.
Decisamente, a quel punto a Beatrice sembrò che l’unico modo
per avere
chiara l’intera faccenda fosse recarsi sul posto ed andare a
vedere di persona, magari coinvolgendo Marcello, che, in
materia, era certamente più scaltro di lei. Ovviamente, non
per
fare un favore a Guido, quanto perché quella
villa
rappresentava uno dei pochi luoghi in cui era stata felice e di cui
conservava bei ricordi, pertanto le sarebbe davvero dispiaciuto se la
situazione fosse precipitata a tal punto da essere costretta a vendere
tutto. Fino a prova contraria, l’intestataria
dell’intera
proprietà era lei, essendo un lascito che le aveva
esplicitamente fatto sua madre poco prima di morire e non si sarebbe
di certo arresa alle prime difficoltà.
Doveva solo trovare il momento giusto per condividere con lui tutte le
sue perplessità, certa che non l’avrebbe
abbandonata in quel momento precario. A quel pensiero, sorrise, grata
di
aver trovato un ragazzo che potesse supplire perfettamente a tutte le
mancanze, di qualunque genere, che, invece, le aveva sempre riservato
il fratello: Marcello, infatti, si era sempre mostrato partecipe, efficiente e
premuroso nei suoi confronti, diventando per lei il punto di
riferimento che, dopo la morte dei suoi genitori, le era mancato.
Messa di buon umore da quella considerazione, Beatrice guardò
distrattamente l’orologio e, resasi conto di aver fatto
piuttosto presto, decise di passare per Villa dei Salici per vedere
come fosse ridotta ora che le parenti erano andate via dalla
città e, soprattutto, per cercare di recuperare il prezioso
regalo che le aveva fatto il suo fidanzato.
L’esterno della villa, ormai svuotata di tutti i suoi
inquilini,
le sembrò ancor più fatiscente di come lo
ricordava,
nonostante fossero passate solo poche settimane da quando ancora
abitava lì.
Il cancello, arrugginito e cigolante, non si oppose per nulla alla sua
spinta e si aprì subito, lasciandole libero il passaggio verso il
giardino, ormai pieno di erbacce ed ortiche, che la ragazza fece attenzione ad evitare per non avere
spiacevoli
incidenti.
Una volta che ebbe salito le scale, si rese conto che la porta della
cucina era aperta, segno che la casa era davvero abbandonata, e si
chiese se fosse già stata venduta o se qualcuno si fosse
incaricato di trovare un acquirente, sempre ammesso che esistesse un
tale intenzionato a comprare quella catapecchia.
L’interno
le si rivelò buio ed umido e le stanze, ormai piene di
ragnatele e con la carta da parati quasi completamente scrostata e
private di gran parte del mobilio, dato che, ovviamente, i pezzi
migliori erano stati portati via, sembravano davvero la scenografia
perfetta
per un film dell’orrore.
All’improvviso, un rumore proveniente dalla sala la fece
sobbalzare e, ad un primo impatto, la ragazza fu sul punto di tornare
indietro, ma, alla fine, prevalse la volontà di recuperare a
tutti i costi il
libro
che le aveva regalato Marcello, così, dandosi da una parte della
sciocca
per non essere fuggita e facendosi coraggio dall’altra, si
avvicinò in punta di piedi alla porta del salotto,
ripromettendosi di dar solo un’occhiata e di scappare a gambe
levate se avesse intuito un qualche pericolo.
E, quando entrò, il fatto che le finestre fossero aperte e ci
fosse
un po’ più di luce, fu preso dalla ragazza come un
buon
segno.
Infatti, la fortuna volle che, lì, ci fosse una sua vecchia
conoscenza, per giunta più che felice di rivederla.
«Signorina Beatrice!» la salutò Bettina,
la vecchia
cameriera, che stava cercando di pulire alla bell’e meglio il
pavimento incrostato, non appena la vide. «Non credevo che
l’avrei mai più rincontrata!»
«Oh, cara
Bettina!» esclamò la fanciulla, avvicinandosi alla
donna per abbracciarla.
«Cosa ci fa qui?» le domandò
l’altra,
prendendole il viso tra le mani e dandole qualche carezza,
probabilmente ricordando che, al contrario delle sue parenti, con lei la ragazza era sempre stata
buona.
«Sono venuta a cercare di recuperare delle cose che ho
lasciato qui».
«Cerchi pure, signorina, ma non so se troverà
qualcosa» mormorò la cameriera, pensierosa.
«Lei non
può saperlo, ma questa casa è stata venduta ad un
ricco
proprietario di alberghi che vuole trasformarla in una graziosa
pensione esclusiva!»
«Ah» fece Beatrice, sorpresa. Il suo insegnante le
aveva
accennato qualcosa, ma, evidentemente, non doveva essere al corrente di
tutti i dettagli.
«Per questo stavo pulendo» proseguì la
donna.
«Il signor Maneschi, il nuovo proprietario, mi ha chiesto di
dare
una sistemata. Sa, la prossima settimana verranno i muratori per
iniziare la ristrutturazione e devono trovare un po’
più
d’ordine».
La fanciulla stava quasi per augurarle buona fortuna, ma
riuscì a trattenersi in tempo.
«Se lei vuole dare un’occhiata in giro, si senta
libera di farlo,
tanto ci sono solo io. Il suo vecchio letto e il suo armadio non sono
stati portati via da sua zia, perché troppo pieni di tarme,
ma
devo avvertirla che hanno preso tutti i suoi vestiti, vendendoli al
mercato».
A questa rivelazione, Beatrice sentì il sangue
congelarsi, provando un dispiacere non indifferente nel sapere che la
zia e la cugina le avevano tolto anche quello che si era fatta con le
sue mani, per di più guadagnandoci. Non che avesse mai creduto che
quelle
due potessero avere rispetto per il suo lavoro, anzi, poteva immaginare
perfettamente i commenti disgustati che dovevano aver fatto mentre
saccheggiavano il suo armadio, considerando il ricavato di gran lunga
inferiore a ciò che avevano dovuto sborsare per
lei.
«Per fortuna, il signor Rossiglione è riuscito a
salvare
parecchie cose da quella razzia» commentò Bettina a quel punto,
sinceramente contenta che l’uomo si fosse trovato a passare da lì
proprio mentre la signora Assunta stava facendo
l’inventario delle cose di cui sbarazzarsi, tra le quali, appunto, c’erano molte cose appartenenti a Beatrice.
La fanciulla sorrise appena a quelle parole e, dopo aver ringraziato la donna, la
salutò e tornò in corridoio. Poi, salì di
corsa le
scale, con il cuore in gola, pregando davvero che il suo nascondiglio
non fosse stato profanato. Arrivata in camera, aprì con un
calcio il vecchio armadio e non le importò nulla quanto l’anta,
ormai mangiata dalle tarme, si staccò, cadendo a terra e
sollevando un gran nugolo di polvere. Vedere l’interno
completamente vuoto, le provocò una stretta allo stomaco:
tutto
il suo lavoro, i vestiti che si era cucita con tanta gioia non
c’erano più e, nonostante Bettina
l’avesse avvisata,
di fronte a ciò non riuscì a non provare un
profondo
dispiacere, soprattutto perché, tra la refurtiva,
c’erano
anche il meraviglioso abito blu che le aveva regalato la signora Sofia
e il vestito che aveva indossato la prima volta che aveva incontrato
Marcello, dopo l’ennesimo assalto di Navarra.
In quel momento, fu solo il pensiero che il doppio fondo dell’armadio non fosse
stato
violato ad impedirle di piangere quando, dopo essersi inginocchiata,
si
adoperò per rimuovere la tavola di legno che celava alla
vista
il suo nascondiglio segreto.
La gioia che provò nell’accorgersi che sia il libro che
il
soprabito lilla erano ancora lì, impolverati, ma
integri, fu indescrivibile: mentre li prendeva in mano si accorse che stava
tremando e, dopo esserseli stretti al petto, rimase così per
un
quarto d’ora buono.
Fu solo quando sentì di aver recuperato un po’ di
stabilità, che si rimise in piedi, sempre stringendo a
sé
i suoi tesori, senza curarsi del fatto che fossero pieni di polvere, e scese
nuovamente le scale; questa volta, però, passò
per il
giardino sul retro, poiché voleva salutare per
l’ultima volta il suo glicine,
l’unica cosa che le era mai piaciuta di quella casa.
Tuttavia, ebbe un’altra amara sorpresa: l’albero era
stato
barbamente tagliato e tutto ciò che rimaneva era solo un povero
ceppo
spoglio, buttato in un angolo accanto alla siepe di alloro.
Beatrice, intristita, si avvicinò subito ai resti del suo amico,
deplorando il nuovo proprietario che, probabilmente, non
l’aveva
gradito, sbarazzandosene senza il minimo rimpianto.
In quel momento, una fresca brezza primaverile le mosse appena i
capelli e si rese conto di non avere davvero più
alcun
legame con quella villa che, per lei, era stata più simile
ad
una prigione che una casa ed avvertì
che,
nel bene e nel male, un capitolo della sua vita si era appena chiuso definitivamente.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto,
che mi sostiene e supporta anche nei momenti di buio.
***
[N.d.A]
1. il potassio... in
cardiochirurgia:
il potassio, essendo un inibitore della contrazione cardiaca, viene
usato per rallentare i battiti cardiaci e, quindi, agevolare i
chirurghi durante gli interventi che vengono fatti direttamente sul
cuore (es. sostituzione di valvole).
2. linfoma: il signor
Giancarlo è affetto da un linfoma gastrico, un tumore maligno
che colpisce i linfonodi di drenaggio
dell’apparato digerente (in particolare, dello stomaco). I
sintomi sono del tutto sovrapponibili a quelli di un tumore allo
stomaco.
3. Marciana Marina:
uno degli
otto comuni in cui è divisa l’Isola
d’Elba e dove si
trovano le proprietà della famiglia di Beatrice.
***
Salve a tutti!
A parte scusarmi per le mie assenze prolungate e per la
velocità da bradipo con cui aggiorno questa storia, posso
provare a promettere di non far passare più cinque mesi tra un
capitolo e l’altro, anche perché, parafrasando Manzoni,
potrei dire che, ormai, questa storia s’ha da finire. Soprattutto, perché, tra gli obiettivi del 2016, c’è anche quello
di terminare questo racconto, nonché quello di portare alla
luce la
prossima long (ambientata, questa volta, ai giorni nostri).
Spero
di aver usato tutto il riguardo possibile per trattare la tematica dei
malati di cancro, giacché, da futuro medico, non posso
non schierarmi contro i (tremendi) cliché della letteratura odierna
e poi scrivere qualcosa di peggiore, non trovate? Ergo, se qualcuno
dovesse trovare qualcosa da ridire, sa dove trovarmi.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo (Anto, Aven, 21century, Juliet Leben22, McSevenNaught, Chambertin), i
pochi superstiti che ancora seguono questa storia, chi l’ha
messa tra le seguite/ricordate/preferite, chi mi farà avere un suo parere prossimamente.
Per qualsiasi cosa (info, anticipazioni, estratti, eccetera), vi lascio, come sempre, il link alla mia pagina
facebook.
Alla prossima!
Halley
S. C.
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Capitolo 17 *** Capitolo Diciottesimo - Vento di Decisioni ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 18
- Capitolo Diciottesimo -
Vento
di Decisioni
Dall’alto
del Gianicolo si iniziarono ad intravedere le prime luci dell’alba che,
con
le loro tinte dal rosa all’arancio, sembravano risvegliare
dolcemente
case e monumenti, tra i quali spiccavano le imponenti moli di Castel Sant’Angelo e della cupola di San Pietro.
Marcello era seduto a gambe incrociate su uno dei muretti che
delimitavano la strada e guardava dritto davanti a sé, immerso
in una sorta di dormiveglia che gli impediva di ammirare
l’incantevole bellezza di quel
panorama. Infatti, non appena erano rintoccate le quattro di
mattina, aveva smesso di fissare il soffitto ed era
letteralmente scappato da casa, non volendosi trovare lì
quando sarebbe arrivata la telefonata che gli avrebbe comunicato il
verdetto dell’operazione di suo padre.
Se non fosse stato tanto presto e la palestra del signor Nardone non
fosse stata chiusa, sarebbe
volentieri andato a prendere a pugni il sacco da boxe, ma, in mancanza
di questa possibilità, aveva deciso di ripiegare su qualcos’altro:
correre
finché non sarebbe
crollato a terra sfinito.
Anche se non sapeva se quel desiderio di fuga e di auto-annullamento era
dovuto a codardia o
meno, era certo di non essere pronto a ricevere nessun
tipo di notizia, buona o cattiva che fosse, poiché si sentiva una mina
vagante pronta ad esplodere al minimo urto.
Ancora una volta furono alcune campane a ridestarlo dal
torpore in cui era caduto, facendogli riacquistare finalmente
sensibilità alle gambe, indolenzite per la scomoda posizione
che aveva assunto per tanto tempo. A quel punto, notando che cominciava
ad
esserci un maggiore via vai di gente, decise di rimettersi
in moto e scendere dal colle per raggiungere il Lungotevere in Sassia,
affrettandosi a lasciarsi alle spalle la fiumana di gente diretta verso
il Santo Spirito1 e
sperando che nessuno lo fermasse per chiedere indicazioni, visto che,
quella mattina, non era molto ben disposto verso le relazioni
interpersonali.
Tuttavia, sentendo il bisogno fisico di stare in movimento, Marcello
evitò
di prendere mezzi pubblici per tornare a casa, preferendo, invece,
costeggiare l’argine del Tevere e farsi così
riscaldare dal piacevole sole di metà maggio. Era appena
riuscito a recuperare un po’ di serenità, quando
la sua
attenzione venne catturata da un trafiletto di giornale esposto fuori
da un’edicola, che diceva: La Capitale si veste a festa
per le nozze dell’imprenditore Ascanio Colonna.
Dopo aver letto il titolo dell’articolo, se da una parte il giovane si
trattenne
dall’imprecare contro il rivale e le sue idee di grandezza,
dall’altra ringraziò di non aver preso parte a
quella
commedia e di non essere stato tra la torma di sudditi di Colonna che
avevano omaggiato quell’unione così precaria.
Tuttavia,
non aveva nemmeno finito di disgustarsi, che lesse un altro trafiletto,
questa volta davvero inquietante: Morto Edward
Carter, magnate dell’industria petroliera
britannica.
Non credendo ai suoi occhi, il
giovane distolse lo sguardo e poi attese qualche secondo prima
di
tornare a leggere. Le parole, però, non cambiarono, confermadogli
che Lord Carter era passato a miglior vita.
Piuttosto stordito da quella notizia, si cacciò
immediatamente le mani nella tasca dei pantaloni della tuta, sperando
di trovarvi gli spiccioli necessari per comprare il quotidiano,
giacché, essendo uscito di casa in fretta e furia, non aveva
pensato a prendere il portafoglio. Per fortuna, riuscì a racimolare quel tanto che bastava per acquistare
una
copia, così, senza indugiare oltre, si fiondò
all’interno dell’edicola.
Quando, un quarto d’ora dopo, Gerardo gli aprì in pigiama
la porta del proprio appartamento, un’espressione insonnolita
dipinta sul volto, Marcello capì che, forse, aveva
disturbato davvero troppo presto il suo amico. Sapeva che era
tutt’altro
mattiniero, soprattutto nei giorni che non doveva recarsi in ufficio,
perciò
si augurò che le importanti notizie che gli stava portando
sarebbero bastate a farsi perdonare per quell’irruzione
inattesa.
«Marcello... che cosa ci fai qui, a
quest’ora?!» gli domandò immediatamente l’amico, trattenendo a stento uno sbadiglio.
«Buongiorno, Gerardo, e scusa per il disturbo,
ma vedi...» lo salutò il biondo, indeciso su
come continuare. «Ecco...
è piuttosto complicato».
Avvertendo la sua irrequietudine, l’altro aggrottò
appena la fronte e lo guardò preoccupato.
«È forse successo qualcosa a tuo
papà?» domandò subito dopo,
improvvisamente allarmato.
«Oh, no... Cioè, ancora non lo so...»
gli rispose quello,
piuttosto confuso, rendendosi conto che il sonno arretrato, il timore
per la sorte di suo padre e le ultime inquietanti rivelazioni stavano
mettendo a dura prova la sua lucidità.
«Come sarebbe a dire ancora
non lo so?»
ripeté Gerardo, spalancando gli occhi e fissandolo come se
avesse perso il senno. E, di fatto, non era poi così lontano dalla verità.
«Ultimamente, ci stai facendo preoccupare parecchio,
sai?»
continuò, sempre più perplesso.
Tuttavia,
non passarono pochi secondi che sospirò, all’apparenza
rassegnato
alle stranezze che Marcello aveva manifestato nell’ultimo
periodo. Infine, scuotendo la testa, gli propose: «Dai,
accomodati, così mi spiegherai tutto con calma, d’accordo?»
Di fronte a tanta comprensione, il giovane annuì e, dopo aver
ringraziato l’amico, si addentrò all’interno,
lasciando che lo guidasse
nella cucina piastrellata di verde chiaro, dove lo accolse
l’invitante odore del caffè appena fatto.
Era già passato quasi un anno, infatti, da quando il suo amico aveva
deciso
di
andare a vivere da solo, lasciando i genitori e acquistando un
appartamento piccolo, ma carino, in uno stabile tra Ponte
Milvio e Tor di Quinto. Come gli aveva confessato più di una
volta, aveva fatto quella scelta perché era
arrivato ad
un
punto della sua vita in cui, dopo aver raggiunto
l’indipendenza
economica, desiderava qualcosa di più, così aveva deciso di dimostrare a tutti che
poteva
cavarsela da solo, scrollandosi di dosso quel senso di inadeguatezza
che lo aveva sempre accompagnato fin da quando era bambino. E,
considerati i passi da gigante che aveva fatto anche nella vita
sentimentale, riuscendo finalmente a legarsi a Vittoria, Marcello si
ritrovò a sorridere, consapevole di quanti progressi avesse
fatto il suo amico negli ultimi mesi.
Nell’accomodarsi su una delle sedie di legno
impagliate,
il giovane si ritrovò subito in grembo Perla, la gatta
bianca che
conviveva con Gerardo e che riconobbe nell’ospite
una
vecchia conoscenza.
«Ben svegliata!» la salutò lui,
accarezzandole il lungo pelo del dorso, mentre quella cominciava a fare
le fusa.
«Vuole le sue crocchette, la signorina»
spiegò
l’altro, mentre si adoperava per apparecchiare la tavola,
mettendo su di essa tovagliette, tazze, cucchiaini e zuccheriera. «Non
so
perché, ma anche quando Vittoria si ferma a pranzo o a cena,
va
da lei a chiedere il cibo».
«Probabilmente, è una gatta che ama mangiare in
compagnia» commentò Marcello, sollevando lo
sguardo verso
il suo interlocutore. «Meno male che ha conosciuto Vittoria
sin
dai primi mesi allora, altrimenti temo che sarebbe stata gelosa, se la tua
ragazza fosse stata un’altra, comparsa
all’improvviso!»
«L’ho pensato anche io, sai? Per fortuna, invece, sono
diventate grandi
amiche» sospirò Gerardo, mentre portava in tavola
due
scatole di latta dalle tinte pastello, contenenti l’una
diversi
tipi di biscotti e l’altra fette biscottate. Poi, notando che
l’amico aveva capito che stava apparecchiando per due, gli
spiegò: «Sto preparando anche per te,
perché
qualcosa mi dice che non hai fatto colazione».
Il ragazzo lo fissò stupito per qualche istante,
meravigliandosi
di come sia Beatrice che i suoi amici, negli ultimi tempi, riuscissero
ad anticipare le sue necessità. Non che avesse mai
dubitato
del loro affetto, ma in quella circostanza si era reso davvero conto di
quanto fossero disposti ad aiutarlo.
«Hai indovinato, avevo un forte senso di nausea e
non sono
proprio passato per la cucina» confessò, facendo
spallucce, domandandosi se anche lui, con il suo carattere scostante,
sarebbe stato bravo come loro a confortarli, se ce ne fosse stato
bisogno.
«Immaginavo...» ribatté l’altro,
voltandosi verso
la cucina per prendere dei tovagliolini di carta da uno degli stipiti
posti sopra il piano di lavoro. «Tè o
caffellatte?»
«Caffellatte, grazie. Ho bisogno di qualcosa di
forte».
Annuendo, Gerardo si
avvicinò al frigo e prese il cartone del latte, versando
parte
del contenuto in un pentolino per poi metterlo sul fuoco.
«Da che ora sei in piedi?» gli chiese, mentre
portava la caffettiera in tavola e si accomodava anche lui.
«Non ho proprio dormito» ammise
Marcello, stropicciandosi gli occhi con i pugni chiusi.
«Dopo due settimane di accertamenti vari, stamattina
presto hanno operato mio padre e questo pensiero non mi ha fatto
chiudere occhio. Così, alle cinque, non ho
più resistito e sono andato a correre lungo il Tevere e sul
Gianicolo, per scaricare la
tensione».
«Quindi, ancora non sai come sta...»
commentò
l’altro, scrutandolo attentamente e incrociando le braccia
sul
tavolo.
Il ragazzo scosse la testa, affranto, sospirando un no.
A quel punto, rimasero in silenzio e solo qualche minuto più
tardi, Gerardo decise di alzarsi per andare a prendere il cibo per
gatti.
Sentendo il rumore dei croccantini che cadevano nella ciotola
d’acciaio, Perla alzò la testolina e, in un batter
d’occhio, saltò giù dalle gambe di
Marcello, trotterellando impaziente verso il suo pasto.
«Comunque, non sono venuto solo per parlare della mia
situazione familiare, ma anche per questo»
riprese il giovane, poco dopo, ricordandosi del motivo principale che lo aveva
spinto a disturbare l’amico così presto. Poi, recuperò il
giornale che aveva appoggiato sul tavolo
quando si era seduto e lo aprì alla pagina dove si trovava
l’articolo sull’industriale britannico, porgendolo
all’altro, il quale, immediatamente, lo prese e si
buttò a
capofitto nella lettura.
«Cosa?!» esclamò dopo pochi secondi,
esterrefatto, lasciandosi cadere sulla sedia. «Carter
è... morto?»
«A quanto pare, sì»
commentò il ragazzo, alzando le spalle. «E non
è tutto,
da’ un po’ un’occhiata alla foto del
matrimonio di
Colonna: indovina un po’ chi era l’ospite
d’onore?»
A tale domanda, Gerardo alzò gli occhi
dall’articolo e li puntò su Marcello, guardandolo
perplesso per qualche secondo, prima di voltare il
giornale e studiare attentamente la foto che ritraeva la
coppia circondata da tutti gli invitati sui gradini della
breve scalinata di Santa Maria Maggiore.
«Miller? Da
quando lui e Colonna sono diventati così
intimi?» chiese, stupito ed incredulo.
«Me lo sto chiedendo anche io» ribatté
il biondo, tamburellando nervosamente le dita sul tavolo.
«L’ultima volta che li ho visti erano ad un passo
dal voler farsi fuori a vicenda».
Non del tutto convinto da ciò che aveva visto,
l’altro si alzò dalla sedia e si diresse verso il
piano cottura, spegnendo il fuoco e portando il bollilatte in
tavola.
«A giudicare dalla sua espressione, Miller non sembra
particolarmente contento» commentò, riempiendo
prima la tazza di Marcello e poi la propria, aggiungendo in ultimo in entrambe il caffè.
L’amico lo ringraziò con un cenno prima di allungare il
braccio per prendere la scatola dei biscotti.
«Infatti» concordò, mentre
l’apriva. «Ma, quello che mi lascia più
perplesso, è che il galoppino di Carter stesse banchettando
ad un matrimonio pochi giorni
prima che lui morisse».
«Qui dice che è stato stroncato nel sonno da un
infarto, perciò è morto
all’improvviso... Miller non avrebbe potuto
saperlo in anticipo!» esclamò
Gerardo, zuccherando abbondantemente la sua bevanda.
A quel punto, Marcello smise di disporre nel suo piattino i frollini al
cacao che aveva preso e riservò al suo amico
un’occhiata sospettosa.
«Questa storia non mi convince affatto, ma ammettiamo per un
attimo che sia vera» affermò, prendendo un
biscotto e spezzandolo a metà, per poi intingerlo nella
tazza. «Perché,
allora, non è
stato invitato anche Carter? Colonna è un suo partner, non di
John
Miller».
«Be’, queste sono solo tue supposizioni» gli
fece, però, notare l’altro, mentre sbocconcellava
pensieroso una fetta biscottata. «Magari,
invece, era stato invitato ma, poi, non è andato, mandando
l’assistente al suo posto. Può darsi che
già si sentisse poco bene».
Tuttavia, tale teoria non lasciò soddisfatto il ragazzo che, anzi,
mentre continuava a rimuginarci sopra, facendo sparire un biscotto
dietro l’altro, la trovò talmente poco credibile,
da convincersi sempre di più che l’assistente di
Carter doveva necessariamente avere un qualche ruolo in quella scabrosa
vicenda.
«Comunque,
ora hai altro a cui pensare, perciò anche la morte di Lord Carter
può aspettare» considerò saggiamente
Gerardo poco dopo, alzandosi dal tavolo e incominciando a portare nel
lavello le stoviglie sporche. «Finisci di mangiare e
poi chiama i tuoi da qui, va bene?»
In risposta a tanta risolutezza, il giovane aggrottò la
fronte e smise di bere, appoggiando la tazza sul tavolo, stupito dalla
sicurezza che l’amico aveva dimostrato di possedere solo negli
ultimi tempi; tuttavia, nonostante Marcello fosse contento di un tale
cambiamento, non voleva approfittare della sua generosità.
«Da qui?!
No, no, non potrei mai» rispose, infatti, sbattendo le
palpebre. «È una chiamata internazionale,
non so nemmeno quanto costi!»
Le sue proteste, però, furono stroncate sul nascere
dall’espressione seccata che si dipinse sul volto di Gerardo, il quale alzò gli
occhi al
cielo, smise di lavare la tazza e si voltò verso di lui,
sbottando: «Che palle,
Marce’... che palle!
Mettilo da parte, pe’
’na
volta, ’sto
senso del dovere verso gli altri!»
Davanti a tale reazione, il biondo rimase letteralmente a bocca aperta,
per poi richiuderla nello stesso istante in cui comprese che la
situazione in cui si trovava suo padre l’aveva reso ancora
più pignolo e pesante del solito. Per fortuna anche in
quell’occasione, sia
Beatrice, sia i suoi due migliori amici stavano dimostrando una
pazienza encomiabile nei suoi confronti.
«Hai il numero
dell’ospedale?» gli chiese, allora, l’altro, lanciandogli
un’occhiata indagatrice.
«Oh, sì...» mormorò lui,
riscuotendosi dai suoi pensieri, «l’ho chiamato
talmente tante
volte da
imparare tutte le cifre a memoria!»
«Perfetto, allora. Il telefono sai
dov’è» dichiarò con sicurezza
l’altro, tornando ad occuparsi delle stoviglie insaponate.
«Sta’
tranquillo che una chiamata all’estero non mi
manderà in fallimento, dovessi anche telefonare in
Australia!»
Sapendo bene che, in quel momento di smarrimento, aveva proprio bisogno
di qualcuno che lo scuotesse, Marcello ringraziò Gerardo con
un sorriso, per poi spostarsi in corridoio, dove, tra la
porta del bagno e quella della camera da letto, c’era il
tavolino con il telefono.
Tuttavia, prima di sollevare la cornetta, la fissò
a lungo, incapace di imporsi quel comando tanto semplice, consapevole
che, ad attenderlo all’altro capo, c’era la verità. Verità
che lui non era sicuro di voler conoscere. Poi, rimproverandosi
mentalmente per quell’istante di debolezza, scosse
ripetutamente la testa per ritrovare la lucidità e, prima
che potesse ripensarci nuovamente, afferrò il ricevitore con
una mano e con l’altra si affrettò a comporre il
numero del centralino dello Stadtspital Triemli2.
Dopo alcuni squilli, gli rispose in tedesco una voce giovanile di
donna, alla quale replicò in inglese, chiedendo
di
poter parlare con suo padre. Quella, però, non si
lasciò
minimamente turbare e passò anche lei alla stessa lingua,
assicurandogli che gli avrebbe immediatamente passato la stanza che
avevano assegnato al signor Giancarlo. E, infatti, dopo averlo messo in
attesa per appena una manciata di secondi, il ragazzo sentì
che
era stato messo in linea con un telefono interno, anche se a
rispondergli fu,
come immaginava, sua madre.
«Ciao, mamma, come stai?» le chiese, sforzandosi di
sembrare gentile e ricordandosi che non la sentiva da qualche giorno,
nonostante fosse impaziente di parlare con l’altro genitore.
«Come vuoi che stia? Ho passato tutta la notte in bianco,
perché questo
non è un ospedale, ma un mercato! E poi, hanno anche il
coraggio di dire che gli svizzeri sono discreti...» si
lamentò subito Madama Claudia che, come al solito, aveva dimostrato
scarsa capacità di adattamento.
«Mamma, è un ospedale pubblico, non una clinica
privata» le fece notare il figlio, irritato dal suo comportamento frivolo.
«Infatti!» ribatté lei, insistendo. «Ho provato anche a
convincere
il professor Weinberger ad operare tuo padre in una clinica con tutte
le comodità, ma lui non ne ha voluto sapere!»
«Evidentemente, il professore pensa che tutte le comodità
non siano una priorità, in questi casi. Ed anche io
sono
convinto che gli ospedali pubblici siano meglio, per questi interventi
così delicati» cercò di spiegarle, allora,
Marcello,
sorprendendosi da solo per quella insolita pazienza che non credeva di
possedere, soprattutto quando aveva a che fare con sua madre, per
giunta più acida del solito.
Dall’altro capo, sentì la donna sbuffare, così,
approfittò di quell’attimo di tregua
per domandarle: «Come sta papà?»
«Sembra che l’operazione sia riuscita,
un’ora fa
l’hanno portato in terapia intensiva»
fece lei, con un tremolio appena percettibile nella voce, tradendo un
certo sollievo: evidentemente, anche se voleva far credere di essere
infrangibile, doveva aver temuto seriamente per la vita del marito. «Non
capisco come abbiano potuto farci aspettare fino al
venti maggio!»
«Avevano bisogno di vedere tutti gli accertamenti,
forse» commentò il ragazzo, giocherellando con la
spirale formata dal cavo del telefono.
«Comunque, alla buon’ora, Marcello! Perché hai
chiamato solo adesso? Tuo fratello,
da stamattina, ha già fatto quattro telefonate! Una via di
mezzo è forse chiedere
troppo?»
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, trattenendosi
dal
riattaccare il ricevitore solo perché aveva a cuore la
salute
di suo padre.
«Quando posso chiamare per parlare con
papà?» riprese, ignorando la considerazione appena
fatta
dalla madre, ma avvertendo allo stesso tempo un senso di
vuoto per non essere riuscito a parlare con il signor Giancarlo.
«Ah, non lo so, qui non mi hanno detto niente. So solo che,
se le sue condizioni resteranno stabili,
tra due giorni tornerà in stanza».
A quel punto, il giovane sospirò, consapevole che,
nonostante le
notizie apprese grazie a quella telefonata l’avessero
rasserenato, avrebbe dovuto attendere ancora per parlare
con il diretto interessato. Per fortuna, la madre venne prontamente
richiamata da un’infermiera che voleva alcune informazioni,
così, poco dopo, lo liquidò, ponendo fine alla
conversazione,
con gran sollievo di Marcello. Se non altro, gli erano state
risparmiate altre lamentele da parte della genitrice, delle quali, ad
essere onesto, non sentiva affatto la mancanza.
«Allora, come sta tuo papà?» chiese
Gerardo,
leggermente in apprensione, uscendo proprio in quel mentre dalla cucina.
«Secondo mia madre, sta bene, ma è ancora in
terapia
intensiva. Per parlare con lui dovrò richiamare»
riassunse
brevemente il ragazzo.
«Se non ci sono state complicazioni durante
l’intervento, penso sia positivo, o sbaglio?»
notò l’amico, che sembrava rinfrancato da
quel resoconto.
«Sì, credo tu abbia ragione»
replicò lui,
meditabondo, facendo già i calcoli per capire quando avrebbe
potuto richiamare nuovamente. L’altro, allora, nel vederlo
così
preoccupato, sorrise dolcemente e gli diede una pacca sulla spalla.
«Andrà tutto bene, vedrai».
A quel tocco, Marcello, si riscosse e, dopo aver ricambiato il sorriso, espresse a Gerardo tutta
la sua gratitudine: «Grazie. Di tutto».
Quello, però, agitò una mano nel vuoto, come a
dire che
non stava facendo niente di importante. Il biondo stava per replicare
che, per lui, tutto quello era davvero
tanto, quando la sua attenzione fu catturata da un telo da
doccia celeste con il bordo
decorato da margherite ricamate appeso ai ganci a parete del bagno.
«Quello non mi sembra tuo» commentò,
stranito, socchiudendo appena gli occhi.
A tale osservazione, l’amico si voltò in quella
direzione e
spiegò: «Infatti è di Vittoria. L’ha
lasciato venerdì
scorso, quando è rimasta a dormire qui».
Quando si rese conto di quello che aveva appena detto,
però, Gerardo
non tardò ad arrossire come un peperone e si
affrettò ad aggiungere:
«Ehm... abbiamo
davvero solo
dormito insieme, non è successo altro!»
«Non sono certo affari miei quello che fate quando vi
vedete» ribatté prontamente Marcello, con
un’alzata
di spalle, che ci teneva a chiarire che non voleva entrare assolutamente nel
loro rapporto di coppia. Vedendo l’amico così a
disagio,
stava quasi per ribadirglielo, quando quello, dopo qualche
incertezza, riprese a parlare: «Non so che scusa rifili ai
suoi
genitori, ogni volta che si
ferma
a dormire da me. Sai, nonostante non siano
bigotti, non
credo che approvino, anche se mi conoscono da una vita. Da quando
stiamo insieme, mi guardano con occhi diversi e si fidano
molto
meno».
Il biondo, di primo acchito, rimase spiazzato da una simile confidenza,
poi, però, capì che tra lui e Gerardo,
nonostante la relazione di questi con Vittoria, non era cambiato
assolutamente niente e che potevano continuare tranquillamente a parlare e scambiarsi
consigli su tutto.
«Be’, conoscendo entrambi, io mi fiderei molto meno
di
lei, che di te» osservò, a quel punto, Marcello, che sapeva bene
che, tra
i suoi due migliori amici, era la ragazza ad avere un carattere
più esuberante. Infatti, il rossore ancor più
intenso che
comparve poco dopo sul volto dell’altro, gli fece capire che
Vittoria non si doveva essere certo risparmiata nel mettere in
difficoltà il suo fidanzato.
Tuttavia, ciò che aggiunse Gerardo qualche istante dopo, gli
diede un’ulteriore conferma di quanto fosse maturato.
«In realtà, ho intenzione di chiederle di sposarmi
al
più presto. Ho già perso troppo tempo e fatto
soffrire
entrambi, non dichiarandomi subito» fece quindi una
piccola pausa e poi riprese: «Non
farò
più lo stesso errore».
Il ragazzo rimase a fissare l’amico, riflettendo sul fatto che, oramai,
era uscito vincitore da molti conflitti interiori e questo gli
fece davvero piacere, anzi, Marcello doveva ammettere che, sotto quel
profilo, era persino
più
avanti di lui, che aveva preso la decisione di proporsi a Beatrice solo
dopo aver sbattuto ripetutamente la testa contro il muro creato dalle
difficoltà di una relazione come la loro.
«Secondo me, Vittoria non aspetta altro»
commentò, lanciandogli un’occhiata eloquente.
A quel punto, Gerardo sorrise, un po’
imbarazzato, ma chiaramente contento di aver ricevuto la sua approvazione.
«Oh, a proposito, non ti ho chiesto se volevi farti una
doccia,
essendo andato a correre!» esclamò,
all’improvviso, portandosi una mano sulla fronte.
«Mi è passato di
mente... Comunque, se ti va, accomodati pure. Magari,
poi, ti presterò dei vestiti... dovrei avere qualcosa che
potrebbe
andarti bene».
«Ti ringrazio, ma faccio prima a tornare a casa»
fece, però, il ragazzo, avviandosi verso la porta
d’ingresso,
«anche perché
dubito che i tuoi abiti mi vadano, visto che sono
più robusto di te».
Gerardo, allora, inarcò appena un sopracciglio, squadrandolo
ironicamente.
«Di sicuro, hai un fisico migliore del mio, non essendo pigro
come me!» obiettò, lasciando trapelare una velata
invidia.
In risposta, Marcello inclinò appena la testa da un
lato e
ribatté, increspando le labbra: «Da quel che so,
Vittoria
ti apprezza comunque, o
sbaglio?»
La parabola perfetta che seguì
il
pezzetto di zucchina sfuggito al coltello terminò
bruscamente
contro la bottiglia dell’olio, facendola tintinnare
impercettibilmente. Beatrice sbuffò, raccattando con malagrazia il fuggitivo e
gettandolo nella padella con un gesto di stizza: nonostante avesse
appreso già da qualche giorno i risultati degli esami di
ammissione, ancora non riusciva a digerire la cattiveria con cui era
stata trattata. Infatti, ad eccezione del nove in inglese e in storia
dell’arte e dell’otto in storia e in filosofia, in
tutte
le altre materie aveva raggiunto solamente il sei, segno che
Bellocchi era riuscito a portare dalla propria parte sia il fratello, che
Tavelli. D’altra parte, già durante le interrogazioni questi si
erano mostrati recalcitranti perfino ad ascoltarla, come se
fossero convinti a priori che non avrebbe mai potuto fare un esame
brillante.
Non aveva mai nemmeno dubitato dell’influenza
negativa
che quell’uomo poteva esercitare sui colleghi, ma rimaneva il
fatto che presentarsi con sei in latino, greco
ed italiano ad una maturità classica era davvero
frustrante.
Non le restava, quindi, che confidare nella magnanimità dei
commissari
esterni, anche se, considerata la sua fortuna, non si aspettava
più niente di buono.
E, proprio mentre metteva la padella sul fuoco, la ragazza sentì gli
occhi
che cominciavano a pizzicarle: avrebbe dovuto essere contenta di star
preparando il pranzo per il pic-nic del giorno seguente, ma, invece, si
sentiva schiacciata dalla consapevolezza che la sua maturità era già compromessa ancor prima di
cominciare. Dopotutto, cosa poteva saperne quel professore di tutto quello che era
stata costretta ad affrontare? Come se fosse stato piacevole, per lei, venir
sradicata dalla
propria e amata città natale, lasciando casa, scuola,
compagni e
amiche, per trovarsi catapultata in una realtà sconosciuta,
ostile e piena di insidie, senza nessuno disposto a
proteggerla!
A quei pensieri, le lacrime le appannarono la vista, costringendola a
passarsi la manica della maglietta sugli occhi per asciugarseli, mentre cercava di calmarsi e
di concentrarsi sull’unica consolazione che le era
rimasta:
la prospettiva di
festeggiare il suo diciannovesimo compleanno con Marcello.
Allora, chiudendo gli occhi e spostandosi una ciocca di capelli dalla fronte,
Beatrice inspirò a fondo per farsi coraggio e
trovare
la forza per affrontare anche quell’ennesima
difficoltà; poi, prese una ciotola di vetro e una frusta a mano e si diresse dirigendosi
verso il piano di lavoro per sbattere le uova, decisa a
non permettere a quel mostro di Bellocchi di rovinarle
l’uscita
che aspettava da un sacco di tempo. In quel frangente, però,
entrò in cucina Vittoria, portando tra le mani una scatolina
bianca perlata e canticchiando a ritmo: «We will, we
will rock you! We will, we will... rock you!»
Una volta arrivata davanti al contenitore della pattumiera, la
scaraventò all’interno e rimase a fissarla per qualche
istante con
un’espressione alquanto compiaciuta, per poi voltarsi e notare la
fanciulla che la scrutava di rimando con un sopracciglio inarcato,
più che mai convinta che quella ragazza, a volte, fosse tanto
strana quanto gentile.
«Oh, ciao Beatrice, sei ancora qui? Pensavo avessi finito con le tortine di zucchine e
fossi già di sopra!» le fece, elargendole un gran
sorriso.
In quel momento, la fanciulla si ritrovò a pensare che
non fosse molto carino continuare a guardarla perplessa, così si
affrettò a ricambiare il sorriso e a rispondere:
«No, ma ho quasi fatto».
Allora, Vittoria gettò una fugace occhiata agli ingredienti
sul piano di lavoro e, annuendo, esclamò: «Ah,
giusto! Sei talmente ordinata che non avevo notato che stavi ancora
cucinando!»
«La tu’
mamma l’è
stata così
gentile a concedermi
l’uso della cucina, che
mi sembra il
minimo restituirgliela pulita e ordinata» ribatté Beatrice, con un’alzata di spalle. Poi, mentre
apriva le uova e ne versava il contenuto nella ciotola, ripensò
allo
strano oggetto che l’altra aveva buttato con tanta
soddisfazione nell’immondizia così, spinta dal desiderio di sapere
cosa fosse, decise di indagare prendendo il discorso alla larga: «Se’ una
fan de’ Queen, per caso?» domandò.
«Esatto, fin da quando ero
un’adolescente!» rispose con entusiasmo la ragazza,
accomodandosi su una delle sedie disposte intorno al tavolo di noce.
«Gerardo e Marcello mi hanno perfino regalato qualche loro LP3, tra cui, appunto, News of the World».
Beatrice annuì, aggiungendo gli altri ingredienti prima di sbattere il composto, delusa per
non essere riuscita a carpire all’amica qualche indizio utile;
tuttavia, non passò più di un minuto che Vittoria
aggiunse: «Se te lo stessi chiedendo, prima ho buttato era
la
bomboniera del matrimonio di Ascanio e Maria
Luisa».
Nell’udire tale risposta, Beatrice si fermò e si lasciò sfuggire un ah, al quale l’altra rispose con un leggero sogghigno, avendo intuito la sua curiosità.
«Avresti potuto chiedere direttamente, non è un segreto»
le disse, infatti, subito dopo, appoggiando il mento sul palmo aperto e
guardandola divertita. «Sinceramente, non non
l’ho nemmeno aperta e non mi interessa tenerla».
Il tono distaccato con cui la ragazza aveva pronunciato l’ultima
frase portò Beatrice a sollevare lo sguardo su di lei: «Non penso tu sia
molto amica di questa Maria Luisa» azzardò.
«Per niente» affermò Vittoria, asciutta, cambiando
posizione e mettendosi a braccia conserte. «È una
delle tante ragazze che pensano che io sia una donna facile, per dirla con
parole carine. Anche se poi è stata lei a dover
ricorrere ad un matrimonio riparatore».
A quel punto, si alzò e si camminò fino alla porta,
sbuffando: «Almeno Gerardo finirà di guardarla!»
Beatrice, nell’andare a prendere la padella, riservò un’occhiata obliqua all’amica, percependo un
pizzico di gelosia nella sua voce e ritrovandosi a
sorridere, perché era la conferma che la competizione
tra donne non risparmiava nemmeno quelle belle e intelligenti come
Vittoria.
«Però devo ammettere che mi dispiace per lei...
Quando
è passata per portarmi la bomboniera, non mi è
sembrata
affatto contenta: già era molto magra di suo, ma ora
è
quasi scheletrica e non si vede nemmeno che è al quarto
mese» continuò quella, tornando a sedersi di fronte a lei.
«Be’, io l’ho vista solo alla tua mostra, ma ho capito anch’io che non l’era contenta, visto
che avrebbe voluto sposare Marcello»
osservò la fanciulla, stizzendosi, poiché, a quanto
pareva, era arrivato anche il suo turno di essere gelosa.
«Oh, sì, era una sua affezionata
ammiratrice...
più o meno come tua cugina!» commentò l’amica, pensierosa. «Anche se non
credo che
nessuna delle due avrebbe potuto sopportare il caratteraccio di
Marcellino come sai fare tu».
Tale considerazione fece colorire lievemente le guance di Beatrice, che
si affrettò a finire di mescolare il composto e a versarlo negli stampini di rame, per poi metterli nel forno caldo.
«Beatrice, ma... hai pianto, per caso?» proruppe improvvisamente Vittoria, dopo averla osservata attentamente.
La fanciulla, allora, si voltò immediatamente verso di lei, confusa; a quel punto,
però, ricordò ciò che aveva pensato prima che
l’altra entrasse in cucina e, non volendo passare per
piagnucolona, si affrettò a negare: «No, no, l’è
solo...»
«... la cipolla, giusto?» concluse l’altra,
ironica,
guardandola con cipiglio. «Deve essere particolarmente forte,
visto che ti ha fatta lacrimare senza nemmeno essere tra gli ingredienti!»
Incapace di trovare una scusa plausibile, la giovane decise di tacere
con un sospiro, accomodandosi a sua volta su una sedia, ma
l’amica
non si lasciò scoraggiare dal suo silenzio ed insistette:
«Ti va di dirmi cosa c’è che non
va?»
A quella domanda, Beatrice sospirò di nuovo, poiché
c’erano diverse cose che non andavano. Anche se, forse, erano
solo preoccupazioni di una ragazzina, la facevano stare male, pertanto
decise di aprirsi con Vittoria, con la certezza che non l’avrebbe
giudicata.
«Stavo ripensando ai mie’
esami» rispose, alzando lo sguardo su di lei. «Ho paura d’esser bocciata oppure
d’essere promossa con
un voto bassissimo».
«E perché mai?» chiese l’altra, perplessa. «Non essere
pessimista, tu
impegnati e andrà tutto bene. Il presidente della
commissione
correggerà i compiti insieme con i professori e quel
Bellocchi
non potrà essere troppo cattivo».
Dopo tali parole, la fanciulla si soffermò ad analizzare meglio
la sua situazione e si rese conto che aveva considerato il problema da
un’ottica parzialmente sbagliata: se per la classe alla quale
era stata abbinata la presenza di insegnanti estranei poteva essere
uno svantaggio, per lei, invece, era un grande punto a favore,
poiché, non conoscendo nessuno di loro, l’avrebbero
giudicata alla pari degli altri ragazzi. Tra l’altro, né
Bellocchi-bis, né Tavelli facevano parte della commissione
interna, mentre era presente la Valenti, la quale si era subito
dimostrata benevola nei suoi confronti.
«Oh, speriamo davvero sia così!»
replicò lei, rincuorata, intravedendo per la prima volta una possibilità di
salvezza e ritrovando, così, lo spirito giusto per godersi al meglio il
pic-nic che l’attendeva. «Comunque... grazie, Vittoria.
M’ha fatto bene parlare con te, m’hai fatto vedere la situazione da un altro punto di vista».
«Mi sembra il minimo, Beatrice. Dopotutto, sei un’amica» replicò quella, ammiccandole.
«Scommetto che se’ molto brava nel tu’ lavoro.
Adesso mi sento davvero più sollevata, sai?» commentò
Beatrice, con un sorriso riconoscente, mentre l’altra ricambiava,
arrossendo appena.
«Mi fa piacere che tu stia meglio. Vedo ogni
giorno l’impegno che metti nello studio e sono certa che ti verrà
riconosciuto» osservò Vittoria, annuendo con convinzione.
«L’importante è che cerchi di mantenere la
calma, d’accordo?»
A quel punto, la fanciulla incurvò di nuovo le labbra e si mise
in piedi con rinnovato slancio, dirigendosi subito verso il forno per
controllare la cottura
delle tortine.
«Credo che ci voglia solo qualche altro minuto» notò.
«Allora possiamo lavare tutto ciò che hai
usato, nel frattempo» le propose, allora, la giovane. «Ammetto di essere
proprio negata
in cucina, ma posso comunque darti una mano a pulire, così finiremo prima».
«Oh, ti ringrazio,
se’
molto gentile».
«Figurati, faccio così anche quando cucina
Gerardo, che è
molto
più capace di me ai fornelli: pensa che è in grado
di preparare
delle pennette al salmone e vodka uguali a quelle che faceva mia
nonna quando ero a pranzo da lei4!»
La confidenza che le era stata appena fatta lasciò Beatrice
molto sorpresa e, ancora una volta, la ragazza non riuscì a reprimere la
sua curiosità.
«Non l’immaginavo
che Gerardo sapesse
cucinare» commentò.
«Sì, se l’è sempre cavata
egregiamente»
replicò Vittoria, tradendo un certo compiacimento, mentre raccattava gli utensili sporchi d’impasto e li metteva nella ciotola. «Se fossi più capace, domani sera potrei preparare
io la
cena, ma, purtroppo, temo che dovremo accontentarci di una pizza
d’asporto.
Sai, mi ha
invitata da lui per vedere insieme Il ritorno dello Jedi, l’ultima parte di Guerre Stellari5...»
«Ah, a lui piace?»
si informò Beatrice, prendendo il detersivo per i
piatti dal mobile posto sotto il lavandino.
«Sì, è un grandissimo fan ed
è solo grazie
alla sua passione per questa trilogia che sto riuscendo ad
apprezzarla anche io» le spiegò subito l’altra, mettendo
tutto ciò che aveva in mano nel lavello. «Ad essere
onesta, la prima
volta che
ho visto i film, è stata solo la presenza di Harrison Ford
che
me li ha resi guardabili e credevo che anche Gerardo li apprezzasse per
via di Carrie Fisher...»
«E invece?» incalzò la fanciulla, mentre versava il detergente sia nell’acqua, sia sulla spugnetta.
«Eh, ho scoperto che sia lui che Marcellino sono
devoti al lato oscuro
e stravedono per Dart Fener6!»
le confessò l’altra, con una smorfia di disappunto,
facendola scoppiare a ridere.
Beatrice conosceva solo a grandi linee quella saga
cinematografica e si ritrovò a pensare che le sarebbe
piaciuto vederla con Marcello, seguendo l’esempio di Gerardo
e Vittoria; magari, avrebbero potuto vedere anche altri film al cinema
e non le sarebbe dispiaciuto affatto farlo, soprattutto perché era
parecchio che non ci andava e, dato che si era liberata dei suoi parenti
despoti, poteva riprendere a fare tutte le cose che facevano le
ragazze della sua età. Intanto, però, avrebbe avuto modo di apprezzare
la gita del giorno seguente, per la quale era perfino riuscita a
cucirsi un grazioso vestito a pantaloncino a fantasia fiorata.
Qualche minuto dopo, quando la cottura delle tortine fu terminata, la ragazza si
avvicinò al forno e, mentre le tirava fuori, rigonfie e
profumate com’erano, domandò all’amica: «Secondo
te a Marcello
piaceranno? So di non esser bravissima, ma sto facendo del mio meglio».
A quella domanda, Vittoria smise di asciugare e rimettere le posate nel cassetto e la guardò severamente.
«È da oggi pomeriggio che ti stai prodigando per
preparargli
il pranzo» esclamò, indignata. «Se quel polemico dovesse avere da
ridire,
penso che potresti benissimo lasciarlo a digiuno!»
***
Le nuvole grigie che si erano allineate all’orizzonte, come un
esercito pronto ad attaccar battaglia, non ispirarono a Marcello niente
di buono, poiché sapeva benissimo che, puntualmente, ogni aprile e
maggio si ripeteva la stessa storia: durante il fine settimana pioveva
a dirotto, rovinando qualsiasi progetto di gita fuoriporta.
Mentre borbottava tra sé qualcosa contro le stranezze della
primavera romana, il giovane lasciò il terrazzo della biblioteca
per rientrare in casa, augurandosi che, se proprio il cielo
doveva rannuvolarsi, almeno non piovesse, poiché non voleva che saltasse
la gita con Beatrice.
Una volta dentro, si avvicinò al tavolino tra i due divani, dove era
poggiata la scatolina contenente il regalo per la ragazza acquistato
qualche tempo prima, la prese tra le dita e l’aprì,
permettendo ai brillanti che adornavano la farfalla in filigrana di
rifulgere in tutta la loro perfezione.
Poi, appoggiò nuovamente il gioiello sul ripiano e, dopo essersi
seduto, si soffermò a contemplarlo, sperando di riuscire a farle
una proposta di matrimonio di tutto rispetto, nonostante la sua scarsa
attitudine al romanticismo. Sarebbero bastati solo i suoi sentimenti
sinceri a convincerla?
Ormai si conoscevano da parecchio tempo ed aveva l’impressione
che la fanciulla avesse capito, nonché accettato, questo suo
limite senza farne un dramma; ciononostante, si ripromise che avrebbe
fatto del suo meglio per offrirle la dichiarazione che meritava. Il
signor Giancarlo era stato molto fiducioso nelle sue capacità e
il giovane si augurò che, anche in questo caso, ci avesse visto
giusto.
Al pensiero del genitore, Marcello sospirò, avvertendo
l’angoscia che tornava ad impossessarsi di lui ricordandosi di
essersi ripromesso di chiamarlo prima di passare a prendere Beatrice,
sperando che si fosse ristabilito abbastanza da potergli rispondere di
persona. Perciò, titubante, si avvicinò
all’estremità del
divano e prese il telefono, mettendoselo sulle gambe, prima di
sollevare
il ricevitore e comporre il numero e attendere. Dopo quelli che gli
sembrarono anni, la centralinista riuscì a metterlo in contatto
con la stanza di suo padre e, quando riconobbe la sua voce, il giovane
si rianimò del tutto.
«Come stai, papà?» gli chiese, tutto d’un fiato, senza preoccuparsi di scandire bene tutte le sillabe.
«Buongiorno anche a te, Marcello. Di solito si saluta, quando si
sente una persona dopo molto tempo» gli rispose l’altro,
usando, però, un tono scherzoso.
«Oh, sì, scusa» mormorò il ragazzo, parlando più lentamente, «ma non vedevo
l’ora di sentirti. Come va?»
«Ad essere onesto, ci sono stati momenti migliori,
anche se, tutto sommato, non credo di potermi lamentare» gli
rispose l’uomo, apparentemente tranquillo; tuttavia, si
tradì qualche istante dopo, dando qualche colpo di tosse
stizzosa, che mise immediatamente in allerta il figlio, portandolo a
dubitare che quella fosse la verità.
«Sicuro di stare bene?» gli domandò, perplesso.
«Sto benissimo, non ti preoccupare. Anzi, i medici parlano
già di dimissioni» cercò di rassicurarlo, l’altro, con voce flebile.
Nell’udire una rivelazione del genere, il giovane rimase talmente
sorpreso, che incalzò: «Davvero? Hanno già intenzione di mandarti a casa?»
«Se le mie condizioni continueranno a migliorare, hanno detto che
potrei uscire di qui tra una decina di giorni».
Del tutto impreparato ad un’eventualità del genere, il
ragazzo si augurò che tutto andasse bene, così da poter
riabbracciare il genitore molto presto, poiché cominciava a
sentirne la mancanza, la quale, sommata all’incertezza e
all’angoscia dovute alla sua situazione, lo stava mettendo a dura
prova.
«Questa è un’ottima notizia» mormorò, soprappensiero.
Dopo qualche istante di assoluto silenzio da parte di entrambi, il signor Giancarlo improvvisamente gli chiese: «E tu come
stai?»
«Ora che ti ho sentito di persona, decisamente meglio»
sospirò Marcello, appoggiando la schiena contro il cuscino del
divano e assumendo una postura più rilassata. Tuttavia, non
aveva nemmeno finito di adagiarsi, illuminato da quel piccolo spiraglio
di serenità, che quello che disse poco dopo il padre lo fece
immediatamente tornare contratto.
«E come sta Beatrice?»
«Bene, anche se sta studiando per la maturità,
perciò, ultimamente, ci siamo visti di rado e quasi
esclusivamente per
ripetere qualcosa insieme» rispose il figlio, in leggera
tensione,
intuendo quale sarebbe stata la domanda successiva, che, infatti, non
tardò ad arrivare.
«Le hai chiesto ciò che ti ho suggerito?»
Quella velata allusione gli fece capire che il genitore
non poteva essere più esplicito perché Madama
Claudia doveva essere nei paraggi e il giovane non faticò
affatto ad immaginarsela, mentre, come un’arpia, al solo captare
il
nome della fanciulla, svolazzava intorno al marito per cercare di
carpire altri dettagli su ciò che si stavano dicendo.
Allora, scuotendo la testa per mandare via quell’immagine
raccapricciante, si protese verso il tavolino e prese tra le mani il
gioiello, fissandolo intensamente.
«Non ancora...» rispose, dopo qualche istante di pausa, «ma ti garantisco che è solo
questione di ore» aggiunse subito dopo, chiudendo la scatolina con uno scatto secco.
***
Dopo aver condotto
Beatrice in giro per Castel Gandolfo per farle vedere i suoi elementi più caratteristici, tra cui Piazza della
Libertà, il Palazzo Apostolico, residenza estiva del Pontefice,
e la vista sul Lago Albano, che poteva vantare di essere il
più profondo d’Italia, Marcello decise di farle vedere
anche il paesaggio campestre delle zone limitrofe, luogo perfetto per un
pic-nic.
In particolare, per trascorrere il resto della giornata, scelse un
prato da cui si poteva godere un’ottima visuale sui colli che
circondavano il piccolo lago, il cui perimetro quasi perfettamente
circolare denotava l’origine vulcanica, certo che sarebbe
piaciuto alla ragazza; infatti, non appena quella si trovò
davanti quel particolare panorama, circondata da papaveri, malva e
avena selvatica, non perse tempo nel manifestare la propria ammirazione.
«Oggi m’hai fatto vedere degli scorci davvero
carini. Per non parlare poi di questo posto bellissimo!» esclamò, infatti, guardandosi intorno con aria entusiasta.
«Sì, sono abbastanza caratteristici e
turistici» le rispose il giovane, stendendo una coperta a quadri
sull’erba e appoggiandovi sopra il cestino di vimini che
conteneva il pranzo, lanciando un’occhiata preoccupata
all’ombra che le nuvole avevano gettato sul prato,
sperando che non cominciasse a piovere da un momento all’altro.
La ragazza, in quel momento, si voltò verso di lui e lo guardò divertita, incrociando le braccia contro il petto.
«Sapevo che l’avresti risposto così» replicò, avvicinandosi lentamente. «Non riesci proprio a non esser diplomatico,
o sbaglio?»
A quell’osservazione, Marcello, che si stava accomodando sulla
coperta, rimase come bloccato ed inarcò un
sopracciglio, provando a ribattere: «Be’, in
realtà...»
Tuttavia, poiché non poteva negare che quella era la verità, si sedette e tacque, proprio mentre lei si
lasciava scappare un sorrisetto di compiacimento, facendosi
scorrere tra le dita un fusto d’avena.
«Di solito, ti sento dire una parola fuori posto solo
quando sei molto arrabbiato, ma per il resto se’
sempre...
misurato» commentò poi, lanciandogli improvvisamente
addosso le spighette che aveva raccolto e alcune si andarono
ad attaccare alla stoffa della polo blu scuro di lui.
Il giovane sobbalzò, sbattendo le palpebre
e guardandosi istintivamente il petto, per poi affrettarsi a togliersi
di dosso i
residui della graminacea, mentre Beatrice, divertita dalla sua
reazione, scoppiava a ridere; Marcello, invece, dopo aver gettato via
l’ultima spighetta, la fissò a lungo, prima di chiederle:
«Tutto questo era forse un modo carino per dire che sono noioso e
prevedibile?»
Senza smettere di sorridere, lei si accomodò accanto a lui e, facendo spallucce, gli rispose, vaga:
«Può darsi».
Intuendo che lei continuava a prenderlo bonariamente in giro,
lui increspò le labbra, consapevole della rigidità che
gli impediva di godere appieno perfino di momenti come quello.
Sospirando, si stava appunto preparando per dirle che gli dispiaceva
essere sempre così serio e statico, quando, inaspettatamente, la
ragazza gli si fece più vicina e, con dolcezza, commentò:
«Oggi ti vedo più sereno. Son proprio contenta che il tu’ babbo stia meglio».
Interdetto da quell’affermazione, che gli aveva confermato ancora
una volta quanto poco bastasse a Beatrice per capire il suo stato
d’animo, il giovane rimase a fissarla a bocca aperta per qualche
istante, prima di riscuotersi e replicare a sua volta: «Anche tu sei
più tranquilla, nonostante tutte le disavventure relative alla
maturità».
Lei sospirò ed annuì, mentre il suo volto
tradiva tutta la stanchezza e lo stress che le stava causando la preparazione
dell’esame di Stato.
«Diciamo che per oggi voglio lasciare
da parte questi problemi» ammise, stringendo le spalle. Poi,
prese il cestino di vimini e, dopo aver tirato fuori tovagliolini, posate
e cibarie per allestire il pranzo, si voltò verso Marcello ed
aggiunse: «Spero ti piaccia quello che ho preparato, anche se son cosette semplici».
«A me piace molto la semplicità» replicò
immediatamente lui, soffermandosi ad osservare due farfalle gialle
e nere che le
svolazzavano intorno.
Beatrice gli sorrise, contenta, e riprese a sistemare tutto a puntino;
improvvisamente, però, lanciò al giovane
un’occhiata di sottecchi e, come se stesse cercando le parole
giuste, cominciò, esitante: «Marcello, ecco... potrei chiederti una cosa un po’ delicata?»
Il giovane le fece segno di continuare e lei, rassicurata, dopo aver
preso un bel respiro, proseguì: «Guido ha bisogno di
un altro avvocato d’ufficio. Gl’hanno assegnato una
donna e non va bene per uno come lui, visto che pensa solo
all’aspetto fisico e non collabora... Se continuerà così,
farà una brutta fine. Ci vorrebbe proprio un uomo di
polso».
Non
appena Beatrice ebbe finito di parlare, l’altro inarcò
marcatamente le sopracciglia, squadrandola attentamente. «Beatrice, davvero pensi ancora a quell’idiota, dopo tutto quello che ti ha fatto?» le chiese, incredulo.
«È pur sempre i mi’ fratello» replicò la fanciulla, guardandolo affranta.
Non riuscendo a sostenere quell’espressione e sapendo che non
sarebbe mai riuscito a dirle di no, il giovane volse lo sguardo
altrove, sbuffando.
«No, sei tu che sei troppo buona!» ribatté, severo, mettendosi a braccia conserte. «Comunque,
vedrò che cosa posso fare... forse conosco la persona che fa al caso
tuo».
«Chi sarebbe?»
«Ludovico Martelli, un mio vecchio compagno di corso che
è passato a giurisprudenza. Ora sta facendo pratica presso uno
studio legale, ma fa anche l’avvocato d’ufficio. È
molto bravo, Gerardo ed io ci siamo rivolti a lui in un paio di
occasioni per alcune consulenze» le spiegò, tornando ad
osservarla.
A quelle parole, Beatrice si illuminò,
manifestandogli la propria riconoscenza: «Oh, grazie di cuore, Marcello...»
«Sia chiaro, però, che non devi farne parola con
quell’idiota, perché non deve sapere che sono stato io ad
aiutarlo, visto che lo faccio solo per te» l’ammonì
lui, anche se vederla così contenta contribuì ad
ammorbidirlo un po’.
All’improvviso, però, avvertì una goccia di pioggia
bagnargli la guancia ed istintivamente alzò la testa verso il
cielo, rendendosi conto che le poche nuvole presenti si erano rivelate
sufficienti a far piovigginare, nonostante il sole,
dando vita ad un particolare spettacolo, molto comune in primavera nei dintorni di Roma.
«Sapevo che sarebbe piovuto!» brontolò Marcello,
indispettito, tamponandosi una guancia contro la manica
della maglietta. «Se non smette, dovremo andarcene!»
«Non fare così...»
lo blandì subito dolcemente Beatrice, raccogliendosi i capelli da una
parte e chiudendo per qualche secondo gli occhi, lasciando che le gocce
le accarezzassero il volto, «in fondo, non l’è così male!» aggiunse poi, elargendogli un sorriso partecipe.
In risposta, il giovane la squadrò, scettico, prima di aprire la bocca per
ribattere che era davvero una disdetta che non si fosse mantenuto il
bel tempo, ma non ne ebbe alcun modo. Infatti, in quel momento, sentì la
fanciulla che gli poggiava la testa sulla
spalla, mentre guardava incantata la pioggerellina che aveva formato
davanti a loro una
coltre argentea danzante, e questo provocò al ragazzo una piacevole
sensazione di vuoto allo stomaco, quando, all’improvviso, il malumore
dato da
quel temporale primaverile scomparve, lasciando spazio ad un languore
che non aveva niente a che fare con la fame. D’istinto, allora, il
giovane le cinse la vita con un braccio, mentre lei si abbandonava
ancor di più contro di lui, completamente rilassata,
solleticandogli una guancia con i capelli.
In quell’istante, Marcello avvertì un brivido che gli
percorreva la spina dorsale e, ispirato da quel senso di calore che
solo lei
sapeva trasmettergli e che già da tempo aveva sciolto
l’inverno che era in lui, prese tra le dita una ciocca di capelli
di lei e cominciò a giocherellarci, sfiorandole, di tanto in
tanto, la schiena. Allora, la ragazza alzò lentamente il capo
verso di lui e rimase a fissarlo per qualche secondo con
un’espressione divisa tra la sorpresa e la curiosità di
sapere fin dove avrebbe osato, mentre il silenzio veniva riempito
dal rumore delle gocce che cadevano sulle foglie delle querce che li
circondavano.
Le labbra appena schiuse di lei erano un invito ad assaporarle fin
troppo allettante per non assecondarlo e, infatti, il giovane non
esitò oltre, avvicinandosi ad esse con delicatezza per farle
sue, proprio mentre la fanciulla gli passava le braccia intorno al
collo e si voltava completamente verso di lui, sfiorandogli le gambe
con le proprie e facendogli avvertire qualcosa di molto simile ad una
scossa elettrica.
Da quando la conosceva, pian piano aveva imparato cosa significasse
amare una donna, ma, in quel preciso momento, capì anche cosa si
provasse a desiderarla, avvertendo che non poteva fare a meno di
baciarla sempre più intensamente, sfiorandole delicatamente la
lingua con la propria e accarezzandole la schiena, mentre la faceva
sdraiare sulla coperta, spostando tutto il suo peso sul fianco
destro. In quel momento, tra di loro si era creata un’intimità senza
precedenti, più libera, forse perché, per la prima
volta, sapevano entrambi di essere soli, senza il rischio
che qualcuno arrivasse ad interromperli o giudicarli. Fu allora che si
abbandonarono entrambi alla fiducia reciproca, lui permettendole di
passargli le dita tra i capelli e lei di baciarle ogni punto lasciato
scoperto dalla scollatura del vestito.
Qualche minuto dopo, furono riportati alla realtà dal canto degli
uccellini e dai tenui raggi del sole che accarezzavano la loro pelle, annunciando che
aveva smesso di piovere.
«Quindi è vero che almeno un po’ ti piaccio» fece Beatrice, senza mostrare la benché minima voglia di
alzarsi, continuando ad accarezzargli le ciocche bionde.
«Dubitavi, forse?» ribatté lui, corrugando appena la
fronte e solleticandole il collo, facendola ridere.
«A volte, ho pensato che non mi trovassi abbastanza carina, vista la tu’ reticenza a baciarmi e lasciarti andare» ammise la giovane, ricomponendosi e arrossendo appena.
Marcello, allora, inclinò appena la testa e la fissò
intensamente, prima di replicare, serio: «Be’, mettiamola
così: se ti trovassi solamente carina, non credo saremmo arrivati a questo punto».
La ragazza abbassò appena lo sguardo, piacevolmente imbarazzata,
e lui stava quasi per aggiungere che era la prima a cui aveva riservato
quel genere di attenzioni, quando, improvvisamente, si ricordò
del
ciondolo.
«A proposito... ho una cosa per te» disse, staccandosi
momentaneamente da lei e cominciando a frugarsi nelle tasche dei jeans,
mentre Beatrice si tirava su e si sistemava il vestito, guardandolo
incuriosita.
«Tieni, aprila» la invitò, porgendole la scatolina.
«Che cos’è?» domandò lei, prendendola tra le dita tremanti.
«Il regalo per il tuo compleanno».
«Ma... il regalo non era l’avermi portata qui?»
Il giovane scosse la testa, sistemandosi meglio davanti a lei e spiegandole: «Sono due cose diverse».
Sbattendo le palpebre, confusa, Beatrice spostò lo sguardo da
lui a ciò che aveva in mano, prima di dedicarsi
all’apertura del suo regalo. Quando ne vide il contenuto, il suo volto si tinse della più sincera meraviglia.
«Oh!» esclamò, rapita dai riflessi policromi delle
pietruzze che decoravano la farfalla. «È... è...
bellissima... io... grazie, non l’avresti dovuto...»
Davanti a quella reazione, Marcello non poté fare a meno di
sorridere e, senza pensarci due volte, le propose: «Se vuoi ti
aiuto a metterla».
La fanciulla, allora, lo guardò con le guance rosse e gli occhi lucidi,
per poi annuire e dargli le spalle, così che lui potesse aiutarla ad
indossare quel magnifico ciondolo.
«Vorrei tanto avere uno specchio!»
«Ti sta benissimo» commentò il ragazzo, pensando che
Vittoria aveva avuto proprio ragione, quando aveva detto che un
gioiello del genere sarebbe stato perfetto per Beatrice.
A quel complimento, lei arrossì ancora di più e
abbassò leggermente il capo, spostandosi da un lato i capelli
per poter ammirare quel piccolo capolavoro, mentre Marcello, ormai
incapace di trattenersi ulteriormente, raccoglieva tutto il suo coraggio e
le chiedeva: «Beatrice... vorresti sposarmi?»
Istantaneamente, l’altra rialzò la testa e, fissandolo sbigottita, esalò: «C-Come, s-scusa..?»
Abbozzando un sorriso leggermente imbarazzato, il biondo esitò
un attimo prima di ripeterle la domanda, questa volta cercando di essere più dolce: «Mi daresti una felicità
mai
provata, se accettassi di diventare mia moglie...»
Per quelli che a lui parvero secoli, lei si limitò a guardarlo,
senza spiccicare mezza parola, lasciando che si sentisse solo il
sottofondo degli uccellini che, numerosi, cantavano
allegri appollaiati sui rami degli alberi lì intorno. Poi, tutto
d’un tratto, la ragazza, commossa, gli sussurrò:
«Sì... sì... infinite volte sì!»
Il giovane non aveva nemmeno finito di rendersi conto che gli aveva
dato una risposta positiva, che lei, di slancio, lo baciò di
nuovo, cogliendolo di sorpresa e stordendolo, anche se non abbastanza
da impedirgli di prenderla per la vita ed incurvare maggiormente le
labbra ad ogni bacio che riceveva.
Tuttavia, quello stato di beatitudine fu bruscamente interrotto quando,
nello staccarsi da lei, lui si accorse che i suoi occhi erano
velati di lacrime.
«Che cos’hai, Beatrice? Non ti senti bene, per caso?» le chiese, preoccupato e confuso.
L’altra, però, scosse la testa, subito contraddetta dalla lacrima
che le scese lungo una guancia. Tuttavia, non volendo forzarla a
parlare, preferendo aspettare che fosse lei stessa a rivelargli cosa le
provocasse tutto quel dolore in un’occasione che sarebbe dovuta
essere di gioia, Marcello si allungò sulla coperta e
recuperò un fazzoletto di carta dal cestino, per poi asciugarle premurosamente il volto.
«S-Scusami, non volevo rovinare questo momento... io son davvero felice... l’è solo che m’è tornato in mente quando è stato Navarra a chiedermi
di sposarlo» fece tutto d’un fiato, prendendosi poi una
piccola pausa, interrotta da un singhiozzo, «anzi, non me
l’ha chiesto, me l’ha imposto... e voleva anche violentarmi!»
Tale rivelazione sconvolse talmente tanto il ragazzo che, per qualche
istante, rimase come paralizzato, incapace perfino di consolarla.
«Che cosa?!» ringhiò sommessamente, quando ebbe
ripreso il controllo di se stesso. Oramai aveva terminato tutte le
maledizioni che poteva riservare a quell’animale, ciononostante,
si augurò che il destino lo mettesse di nuovo sulla sua strada,
così da potergli far scontare tutto il male che aveva causato
alla sua Beatrice.
«Perché me l’hai detto solo ora?» le
domandò poi, sfregandole un braccio, nel tentativo di farla
calmare.
«Mi vergognavo! L’è stato orribile, mi ha fatta sentire sporca!» esclamò lei, nervosa, tremando da capo a piedi. «Come se fossi stata io a provocarlo...»
Nel sentirla così agitata, il ragazzo sentì il cuore
che gli si stringeva e, lentamente, le si avvicinò, per poi abbracciarla
con delicatezza, facendole poggiare la testa contro il proprio petto e
lasciando che sfogasse tutto il dolore che aveva conservato dentro di
sé per così tanto tempo.
«T-Ti sporcherò la maglietta.... mi sta colando il mascara...» la sentì mormorare, mentre alzava lo sguardo verso di lui.
«Non ti preoccupare, una volta a casa ci penserà
Ottavia» replicò, però, lui, dandole un bacio sui
capelli e tornando ad accarezzarla, nel tentativo di tranquillizzarla.
La giovane, nel guardarlo, arrossì e si
portò una mano sugli occhi, per poi guardarsi le dita e rendersi
conto che, effettivamente, le si era sfatto tutto il trucco.
«Non mi guardare, sono
orribile!» fece a quel punto, con una smorfia, cercando di ritrarsi; tuttavia,
venne prontamente bloccata da Marcello, che le impedì di
allontanarsi.
«No, sei solo buffa» la corresse lui con un
sorriso, alzandole il mento per tamponarle delicatamente le
guance e la rima inferiore degli occhi.
Allora, Beatrice si arrese e si abbandonò alle sue cure, mentre
il vento che aveva cominciato a spirare sopra di loro portava via le
nuvole, facendo tornare il sereno.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Un sentito grazie va anche alla mia Anto per la sua
pazienza nell’assistermi nei miei dubbi.
***
[N.d.A]
1. Santo Spirito: è
un ospedale situato nel centro di Roma;
2. Stadtspital Triemli:
l’ospedale maggiore di Zurigo. La città si trova
nel cantone omonimo, regione della
Svizzera in cui si parla tedesco;
3. LP: detto anche Long playing o 33 giri,
è un disco di vinile, antenato dei nostri CD, i quali hanno
cominciato a diffondersi verso la fine degli Anni ‘80. In questo
caso, la canzone We will rock you risale al 1977 e fu pubblicata, per la prima volta, nell’album LP “News of the World” il 28 ottobre dello stesso anno;
4. pennette... lei:
negli
Anni ‘70, quando Vittoria era più piccola, le pennette con
salmone e vodka erano un piatto molto famoso e cucinato in tutto il
mondo;
5. Guerre Stellari:
per quanto io ami molto chiamare la saga con il nome originale Star Wars, negli
Anni ‘80 era di uso comune il nome tradotto in italiano e
usare la versione inglese sarebbe un anacronismo;
6. Dart Fener:
stessa cosa di prima. Nel doppiaggio della prima trilogia (1977-1983)
molti nomi
furono cambiati, a cominciare da Darth Vader, che venne tradotto con
Dart Fener per motivi di fonetica. Per fortuna, nell’Episodio
III
e nell’Episodio VII hanno lasciato il nome originale.
***
Eccoci qui.
Questa storia procede lentamente, ma procede e vi posso dire che ho
progettato di pubblicare un capitolo al mese fino al prossimo autunno,
sperando di riuscire a concluderla entro la fine del 2016.
Ringrazio chi ha la pazienza di attendermi, chi legge, chi ha messo la
storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi mi ha lasciato un parere
allo scorso capitolo (Aven, Anto, StormyPhoenix, AClaudia).
Come di routine, vi lascio il link alla pagina
facebook per anticipazioni, informazioni varie e altro.
Essendo arrivati a giugno, faccio un grande augurio sia a tutti quelli
che stanno affrontando la maturità (come
Beatrice), sia a chi è un po’ più
grande ed è alle prese con gli esami
universitari (come la sottoscritta).
Alla prossima,
Halley
S. C.
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Capitolo 18 *** Capitolo Diciassettesimo - Vento di Reazioni ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 17
- Capitolo Diciassettesimo -
Vento
di Reazioni
La
porta dell’ufficio si aprì dopo le solite
tre
mandate, svelando un corridoio buio e silenzioso che stupì
non
poco Gerardo e Vittoria, entrambi certi che avrebbero trovato Marcello,
intento a lavorare come il solito.
«Sei sicuro che potessi prenderti questa
giornata di libertà? Non è che oggi era il tuo
turno, per caso?» chiese dubbiosa la ragazza,
precedendo il fidanzato all’interno e dirigendosi subito verso le finestre per
aprirle e far entrare un po’ di luce.
«Certo che no!» replicò lui, leggermente
offeso. «Marcello ed io eravamo rimasti d’accordo
che ieri e l’altro
ieri non sarebbe venuto nessuno, mentre oggi sarebbe toccato a lui e
lunedì a me, visto che in questo momento possiamo svolgere
gran
parte del lavoro da casa» spiegò, posando le
chiavi
sulla sua scrivania e guardandosi poi intorno, come se si aspettasse
che
l’amico saltasse fuori da un momento all’altro:
era andato al lavoro anche con la febbre, come era possibile che si
assentasse senza nemmeno farglielo sapere? Era pur sempre il suo socio!
Intanto Vittoria, dopo aver spalancato le persiane,
lasciò la finestra socchiusa e si avvicinò al fidanzato con
aria pensierosa, come se anche lei stesse pensando la stessa cosa.
Infatti, poco dopo, gli domandò: «Davvero non ti
ha detto che si sarebbe assentato?»
In risposta, il giovane negò col capo ed alzò le
spalle.
«Io ne so quanto te» affermò, perplesso,
incrociando poi le
braccia. «Magari, ha semplicemente avuto un contrattempo ed
arriverà con un’oretta di ritardo».
«È probabile» concordò la
ragazza, poggiando
una mano sulla scrivania e abbassando il mento fino a toccare la spalla sinistra, assumendo così un atteggiamento
meditabondo. «Comunque, tornando a noi, perché
siamo
venuti qui, anche se oggi avevi promesso di stare tutto il giorno con me?»
Gerardo notò l’espressione piccata di Vittoria e,
non
reputandolo un buon segno, si affrettò a rispondere:
«Mercoledì mi sono dimenticato di prendere il
numero di un collaboratore con cui stiamo lavorado dietro esplicita richiesta di un cliente».
«Qualcuno che conosco?» domandò, allora, la
ragazza, incuriosita, alzando la testa.
«Il cliente o il collaboratore?» chiese a sua volta
il
giovane, sfogliando accuratamente la propria agenda, in cerca
dell’appunto che gli occorreva.
«Il collaboratore, ovvio!» esclamò lei,
facendo il
giro della scrivania per avvicinarsi a lui. «Spero sul serio
che
non sia Ascanio!»
Il ragazzo, che nel frattempo si era ricordato di aver appuntato il numero
su un foglietto ed era passato a cercarlo tra le
cartelline che aveva davanti a sé, lasciò perdere per un attimo plichi e bustine di plastica trasparente e la
guardò con aria grave.
«Non lavorerei con lui neanche morto!» insorse, infastidito
solo dal
sentir
nominare quell’essere. «In realtà, non
penso che tu
lo
conosca... Sai, lui e la moglie sono tornati in città
dall’estero solo qualche mese fa, anche per far nascere qui il
loro bambino. Si chiama
Lorenzo
Corsini e, per quello che ho avuto a che fare con lui finora, sembra
una brava
persona e un commericalista molto competente».
Vittoria parve soddisfatta di quella risposta e, dopo avergli regalato
un sorrisetto compiaciuto, senza chiedere il permesso si
accomodò sulla sua poltrona, poggiando i gomiti sui
braccioli, apparentemente talmente a suo agio, che lui le lanciava
ogni tanto un’occhiata, ritrovandosi a prestarle
più
attenzione che alla sua ricerca. D’altra parte, però, alla
ragazza non sfuggì questo particolare, giacché, dopo
essersi
voltata nella sua direzione, si abbandonò sensualmente
contro lo
schienale ed accavallò con naturalezza le gambe,
sollevando di qualche centimetro la gonna, mettendole bene
in mostra.
«È questo che si prova ad essere un uomo di
potere?» gli domandò, inclinando appena la testa
da un lato.
A quel punto, pur sapendo di essere il destinatario di quello
spettacolo, Gerardo fu vinto dall’imbarazzo e si
affrettò
a distogliere lo sguardo, arrossendo fino alla punta dei capelli e
raddoppiando i suoi sforzi per trovare il famoso foglietto,
sperando nel frattempo di non perdere la lucidità.
«Marcello lo è molto più di
me, visto che, tra
noi due, è lui il più capace» si
schermì,
riuscendo a parlare solo dopo aver deglutito a vuoto un paio di volte.
«Be’, avrai pure tu fatto qualcosa, no?»
si stizzì lei, arricciando il naso. «Da
quel che so, vi dividete equamente i compiti, perciò... non sentirti sempre
inferiore!» concluse, con una leggera nota di rimprovero nella voce.
Sorpreso da quella reazione, il ragazzo la fissò nuovamente.
«Sono solo obiettivo» le fece notare.
«Tuttavia, devo
ammettere che il nostro è un lavoro di squadra ed
anch’io
faccio la mia parte».
«Così va già meglio»
commentò lei, ammorbidita.
«Be’, lo sai che funzioniamo solo perché
c’è
sintonia tra di noi» aggiunse lui, scorgendo finalmente il
biglietto e tirandolo fuori da sotto una pila di incartamenti.
«Come tra te e me?» gli domandò, allora, a
bruciapelo
Vittoria, costringendolo così a voltarsi verso di lei e
riservandogli un sorriso malizioso.
Preso in contropiede, Gerardo arrossì per la seconda volta
e, mentre si metteva il
foglietto nella tasca interna della giacca, evitando di guardarla,
cercò di organizzare una frase che avesse un senso:
«Oh,
ecco... tra Marcello e me c’è
un’affinità nel senso di amicizia e... lavorativa, invece tra
me e te
è più una cosa... diciamo, sentimentale
e...»
«D’attrazione?» gli suggerì
prontamente la ragazza,
protendendosi verso di lui e facendolo deglutire di nuovo. In quel
momento, gli sembrò di avere il cervello completamente
annebbiato, poiché le esplicite provocazioni di Vittoria non
lo
lasciavano indifferente, anche se il suo carattere timido gli rendeva
molto difficile reagire di conseguenza.
Tuttavia, mentre temporeggiava in cerca di una risposta che non fosse
banale e non gli facesse fare la figura dell’idiota, la
ragazza
spostò lo sguardo sulle scartoffie che erano poggiate sulla
scrivania e, di colpo, la sua
espressione divenne di pietra. Poi, con un gesto rapido, prese una busta da lettere che spuntava
da sotto un fascicolo e gliela mise sotto il naso.
«Questa la conservi come reliquia?» gli
domandò,
lasciando trapelare dal tono di voce una certa irritazione, mentre il
giovane, inebetito, si ritrovò ad osservare la
partecipazione di
nozze che gli avevano inviato Colonna e Maria Luisa,
maledicendosi subito dopo per
non aver seguito l’esempio del suo amico, gettandola via non
appena
gli era stata recapitata.
«Certo
che no!» esclamò, sottraendogliela di mano e
stracciandola in innumerevoli pezzi. «Non sapevo dove fosse
finita, ecco
perché ancora non l’avevo buttata!» spiegò,
ma quella risposta non dovette convincere molto la fidanzata, dato che
assottigliò immediatamente lo sguardo e lo
squadrò con i
suoi occhi nocciola, critica e sospettosa allo stesso tempo.
«Quindi, non parteciperai al matrimonio della tua vecchia fiamma?»
gli chiese, leggermente minacciosa. «Anche perché,
se ci
andassi, saresti l’unico di noi tre, sai?»
«Assolutamente no!» si affrettò a rispondere
lui, sperando che lei non si ingelosisse per quella svista.
«Già ero contrario prima... ma, dopo quel
che mi avete riferito tu e Marcello sugli intrighi di Carter, Miller e
Colonna, ci ho messo definitivamente una pietra sopra! Anche se ammetto
che sono un
po’ dispiaciuto per Maria Luisa».
«Ah sì?» fece lei, increspando
leggermente le labbra e mostrandogli così tutto il suo disappunto.
«Non si trova in una bella situazione»
spiegò allora Gerardo, buttando i coriandoli in cui aveva
ridotto la
partecipazione nel cestino sotto alla scrivania. «Chiunque
con un
po’ di sensibilità lo farebbe. E poi, sai bene che l’unica donna che abbia mai
amato
sei
tu» concluse.
A tali parole, Vittoria sorrise intenerita e, dopo essersi protesa
nuovamente verso di lui, gli sussurrò: «Sei
davvero dolce,
ma ciò non basta per farti perdonare, quindi ti suggerisco
di
inventarti qualcos’altro».
«Ehm, ad esempio?» domandò lui, sbattendo le
palpebre e
sentendo che il proprio battito cardiaco cominciava ad aumentare, proprio quando lei, divertita dalla sua espressione, lo
afferrò improvvisamente per la cravatta e lo
attirò a sé.
«Sono sicura che qualche idea ti verrà»
mormorò, poco prima di cominciare a baciarlo con trasporto.
Da
parte sua, Gerardo rimase per qualche secondo intontito; poi,
però, riuscì a ricambiare il bacio, arrivando perfino a
mettersela in braccio e accomodandosi a sua volta sulla poltrona e
cingendole delicatamente la vita.
La ragazza apprezzò talmente tanto l’iniziativa,
che non
tardò a manifestare la propria approvazione solleticandogli
il
collo con la punta delle dita e mordicchiandogli leggermente il labbro
inferiore. Così stuzzicato, il giovane si sentì
diviso
tra due sensazioni molto diverse tra loro: da una parte la felicità di trovarsi
in atteggiamenti così intimi con lei e dall’altra la
consapevolezza di
essere ancora molto impacciato in quei gesti, unita al timore che le desse
fastidio il suo essere così inesperto.
Infatti, percepiva l’abisso che c’era tra
l’approccio
di lei ed il suo, ammettendo anche che non sapeva proprio da dove
cominciare per essere all’altezza della sua elegante
sensualità.
All’improvviso, però, lei smise di baciarlo, allontanandosi di
qualche centimetro.
«Gerardo, che cosa c’è?» gli
chiese, scrutandolo a
fondo, come se avesse percepito i suoi pensieri, e lui la
guardò
a sua volta, ma, non riuscendo a sostenere il sguardo dell’altra, abbassò rapidamente il proprio.
«Niente» bofonchiò, malinconico.
Non soddisfatta della risposta, Vittoria gli sollevò il
mento ed
incalzò: «Non dire bugie, sento che sei
distante... non ti
piace baciarmi, forse?»
Sorpreso da quella assurda considerazione, il giovane
spalancò gli occhi ed esclamò: «Certo
che mi piace,
anche troppo, a dire il vero!»
La giovane, allora, lo guardò dubbiosa, ma non aggiunse altro,
limitandosi a guardarlo con una punta di severità, come se
si
aspettasse che lui si convincesse a dirle la verità. Cosa
che,
infatti, accadde qualche secondo dopo.
«In realtà, è proprio questo il
problema:
io non sono bravo come te, io sono imbranato»
sbottò infine lui, intristito, non riuscendo più
a
mentirle e, a quel punto, Vittoria sospirò, tradendo subito
dopo un sorriso divertito.
«A me non dispiace affatto questo lato di te, sai?» gli
disse,
passandogli una mano tra i capelli e lasciandola poi scivolare lungo il
collo. «Però, se ti mette così tanto a disagio, cerca di
essere
più rilassato: vedrai che il resto verrà da
sé».
Annuendo appena, Gerardo sospirò a sua volta, accarezzandole
una
guancia: la felicità di averla finalmente tra le sue braccia aveva
fatto nascere dentro di lui anche l’irrazionale paura che, se
avesse fatto qualcosa di sbagliato, lei lo avrebbe lasciato. Tuttavia,
non avrebbe potuto continuare a lungo in quel modo, giacché era
stato
proprio per i suoi timori di essere rifiutato che non le si era
dichiarato prima, facendo soffrire entrambi.
«Facciamo così, va bene? Chiudi gli occhi» gli
propose
inaspettatamente Vittoria. «E promettimi che non li aprirai
finché non avremo finito».
«Avremo finito... cosa?»
domandò il ragazzo, imbarazzato e confuso.
Lei, però, non soddisfò la sua
curiosità, limitandosi a sorridere, birichina, spiegandogli:
«Non vale
se te lo dico, perciò non credo che tu abbia scelta, se non quella di fidarti
di me».
Non del tutto convinto, Gerardo le lanciò
un’occhiata
perplessa, ma fece comunque come gli aveva detto, senza
sollevare
ulteriori obiezioni.
Passarono solo pochi secondi prima che il ragazzo avvertisse che riprendeva a baciarlo, anche se, quella volta, lo fece in
maniera più dolce, accarezzandogli i capelli,
mentre lui,
invogliato a ricambiare con la medesima delicatezza, le
appoggiò una mano sulla schiena, sfiorandola con gentilezza.
Allora, Vittoria approfondì il bacio, passandogli
le
braccia intorno al collo e Gerardo, come di riflesso, le mise le mani
intorno ai fianchi, stringendo leggermente la presa.
Aveva appena cominciato ad assaporare meglio la piacevolezza di quelle
effusioni, quando, all’improvviso, lei gli prese una mano e,
spostando appena la stoffa della gonna, la mise sulla
coscia, mozzando il respiro del giovane e dandogli l’impressione di aver perso le proprie
viscere, sprofondate chissà dove.
«Visto che non era tanto difficile?»
ridacchiò la ragazza, baciandolo ancora una
volta.
Gerardo, a quel punto, si sforzò di non aprire gli occhi pur sentendosi andare
a
fuoco, mentre il cuore sembrava sul punto di scoppiargli da un
momento all’altro; tuttavia, si sorprese quando si accorse di provare anche un forte
desiderio di esplorare con il tatto quella parte del suo corpo, tanto
che esercitò dapprima una lieve pressione, per poi, man mano
che
prendeva confidenza, affondare le dita nella coscia soda di lei, la
quale, non volendo essere da meno, gli allentò la cravatta
fino
a sfilargliela e gli aprì i primi bottoni della camicia,
accarezzandogli infine il collo ed il petto.
Diviso tra l’imbarazzo dettato dal timore che non lo trovasse
attraente per via dei pettorali
non particolarmente muscolosi, e l’euforia data da un momento
di
passione con la donna che amava, il giovane si sorprese a pensare che,
alla fine, a Vittoria piaceva esattamente per quello che era.
Allora, schiuse lentamente le palpebre e la trovò, a sua volta,
intenta a guardarlo ad occhi socchiusi.
«Non direi che sei poi così imbranato, sai?»
commentò lei, solleticandogli
il mento e sorridendogli compiaciuta.
Il ragazzo rispose incurvando le labbra e spostandole i capelli dal
collo, per poterlo accarezzare. Trascorsero così
qualche
minuto, traendo piacere dallo stare l’uno tra le braccia
dell’altra.
«Hai
deciso se andare a Dublino o no, la settimana prossima?» le
chiese poi, ricordandosi con un certo dispiacere che,
probabilmente, si sarebbero dovuti separare per due settimane, non
potendo lui accompagnarla per via del lavoro.
«Non vuoi proprio che stia lontana da te, eh?» lo
provocò lei, ridendo.
«Scherzi a parte, non andrò da nessuna parte,
perché Leandro non merita la mia presenza alla sua
conferenza. Alla fine, non si è minimamente impegnato per venire alla mia
mostra, anche se poi è stata un completo disastro».
Poi, si sistemò la gonna e scosse
la testa, come per scacciare un pensiero molesto, assumendo
l’espressione irritata che compariva sempre sul suo volto,
quando
era costretta a parlare del fratello. Gerardo sapeva che lui la
trattava molto male, reputandola una ragazza sciocca e senza
capacità, e questo lo aveva sempre portato a pensare
che fosse una
vera fortuna per Leandro che non si fossero mai incontrati, altrimenti
gliene avrebbe dette certamente quattro.
«Inoltre, ho troppe cose da fare qui, non posso lasciare
Beatrice da sola ad affrontare gli esami di ammissione alla
maturità e nemmeno quella ragazza con cui ho appena iniziato
il
percorso terapeutico» aggiunse Vittoria, poco dopo.
«La ragazza che soffre di anoressia? È tornata per
chiederti
aiuto?» le domandò il giovane, sinceramente
incuriosito, ma anche
ben contento di poter cambiare argomento, giacché si era
sentito
in colpa per averla fatta inavvertitamente inquietare.
E, in quel momento, con sua grande sorpresa e piacere, la ragazza parve illuminarsi.
«Oh, sì, e non sai come sono
contenta per questo!»
esclamò, entusiasta. «Si è ricordata di
tutto quello
che le avevo detto e che le sarei stata vicino, se lo avesse
voluto!»
«Avrà certamente capito che sei una psicologa
davvero in
gamba e in grado di aiutarla» le disse lui, in risposta,
dandole
un buffetto sulla guancia.
Sentendo quelle parole, Vittoria sorrise, mostrando compiacimento unito
ad un leggero
imbarazzo, poi si alzò. Gerardo subito la
seguì, riabbottonandosi la camicia e dirigendosi verso lo
specchio nel
corridoio per rimettersi anche la cravatta.
«È passata
quasi
un’ora da quando siamo qui, ma Marcello ancora non è arrivato» le disse, in tono
abbastanza
alto, affinché lei lo potesse sentire dall’altra stanza.
La ragazza, allora, si affacciò in corridoio e, appoggiando una mano
sullo
stipite della porta, ammise: «L’ho notato anche io e per questo comincio
ad essere preoccupata sul serio».
«Chiamiamo a casa, magari riusciamo a parlare con lui e a
sapere
se è successo qualcosa, cosa ne dici?» propose il ragazzo,
raggiungendo
in poche falcate il telefono e sollevando la cornetta. Compose subito il
numero dell’amico e poi attese che qualcuno, dall’altra parte, alzasse il
ricevitore, anche se, purtroppo, non successe; così, dopo una decina di
squilli, decise di riattaccare.
A quel punto, alzò lo sguardo su Vittoria e, dopo aver dato una scrollata
di
spalle, la informò: «Non risponde
nessuno».
«Nemmeno Ottavia?» replicò lei, incrociando le braccia sul petto, parecchio
incupita.
«No» mormorò
Gerardo, strofinandosi il mento con fare perplesso. Non gli piaceva
quel silenzio ostinato, soprattutto perché conosceva molto
bene l’amico e sapeva che non sarebbe mai sparito nel nulla così
misteriosamente. Per giunta, il fatto che a casa sua non rispondesse
nessuno portava a pensare che fosse successo qualcosa di veramente
grave.
«Vogliamo andare a vedere di persona?»
domandò dopo qualche secondo di riflessione il
giovane alla sua compagna, non trovando altra alternativa, e lei, avendo compiuto un
ragionamento analogo, fu subito d’accordo.
«Sì, credo proprio che non ci sia altro da
fare» rispose.
***
Mentre aiutava Tiberio a riporre le valigie nel portabagagli, evitando
accuratamente di rivolgergli la parola, Marcello si ritrovò
a
pensare per l’ennesima volta che non riusciva proprio a
credere
che quella situazione fosse reale,
avendo l’impressione di essersi ritrovato a vivere, suo
malgrado,
la vita di un’altra persona. Infatti, se da una parte trovava
difficile riuscire ad accettare tutto quel dolore, dall’altra
riteneva impossibile dare ad esso una spiegazione razionale.
«Mamma, abbiamo finito con i bagagli, possiamo
andare!»
annunciò proprio in quel momentoTiberio, strappandolo
brutalmente da quei pensieri ed avvicinandosi alla Matrona, che aveva
dispensato per tutto il tempo consigli su come sistemare meglio le
valigie,
senza però alzare nemmeno un dito.
«Meno male, cominciavo a temere che avremmo perso il
volo!»
esclamò lei, alzandosi da una delle due panchine vicino alla scalinata d’ingresso e lisciandosi
le
pieghe del vestito.
«Impossibile, ho calcolato tutti i tempi, siamo perfino in
anticipo!» ribattè il figlio, annuendo con fare
saccente,
mentre Marcello cercava in tutti i modi di trattenersi dal
dargliele di santa ragione: il fratello, infatti, si era offerto di accompagnare
i genitori a Fiumicino e lui gli aveva lasciato il ruolo di primadonna
senza obiettare, non volendo armare una discussione anche per quello,
poiché sapeva bene che meno interagiva con Tiberio, meglio
era
per tutti.
«Sbrigarsi non è mai uno sbaglio»
sentenziò la signora Claudia,
avanzando impettita verso l’auto e piazzandosi davanti ad
essa,
in attesa che il figlio maggiore le aprisse lo sportello per farla
accomodare sul sedile posteriore.
Come sempre, Tiberio capì al volo ciò che desiderava
e si
adoperò per soddisfarla, mentre il signor Giancarlo li osservava con un sopracciglio alzato ed
un’espressione perplessa sul volto.
«Marcello, ti dispiacerebbe darmi una mano?» chiese
allora, gentilmente, alzandosi a sua volta con grande
fatica e cominciando ad avanzare molto lentamente.
«Papà, ti aiuto io!» si offrì, però,
l’altro
figlio, richiudendo lo sportello e scattando in avanti nel tentativo
di anticipare il fratello; tuttavia, il padre lo fermò prima,
alzando
una mano.
«No, non ti preoccupare, figliolo» gli rispose,
pacatamente. «Tu comincia pure ad andare ad aprire
il cancello grande, mi aiuterà Marcello».
Dopo queste parole, il ragazzo rimase spiazzato per
qualche istante, per poi ricomporsi piuttosto rapidamente ed eseguire,
anche se non prima di aver lanciato un’occhiata risentita al
fratello,
borbottando
qualcosa tra sé e sé.
A quel punto, il biondo si affrettò a raggiungere il padre,
offrendogli il braccio come appoggio per camminare, tuttavia,
l’uomo, prima di accettare quella cortesia,
lo osservò
attentamente per qualche istante.
«Cosa devi dirmi? Quando mi
guardi
così devi sempre dirmi qualcosa di importante» gli chiese, gentile.
«Avrei preferito venire anche io» rispose di getto
l’altro, sostenendolo saldamente mentre camminava.
«Marcello, ne abbiamo già parlato, mi
accompagnerà
solo tua madre, perché sarebbe inutile andare tutti. Io
tornerò qui con le mie
gambe»
affermò il signor Giancarlo, mantenendosi fermo nel tono,
nonostante l’andatura incerta. «E poi, sai bene che
la
signorina dell’agenzia ha faticato
parecchio per trovare anche solo due biglietti aerei in
così
poco tempo».
«Almeno, chiama quando puoi».
«Oh, sai bene che tua madre chiamerà sempre, anche
quando non potrà» commentò bonariamente l’uomo.
Non dubitando nemmeno per un istante che le cose sarebbero andate
proprio così, Marcello sospirò e
mormorò, in modo
tale che solo il padre potesse sentirlo: «Io voglio sentire
te,
però».
Quello, allora, si arrestò proprio dinnanzi
all’auto e lo guardò, tra il serio ed il divertito.
«Mi sentirai» lo rassicurò, battendogli
affettuosamente una mano sulla spalla. «Non ho intenzione di
morire prima di aver visto il mio nipotino. O la mia nipotina,
ovviamente. Anche se forse sarebbe meglio un maschietto, sai? Una
principessina basta e avanza».
Il ragazzo, che si era proteso per aprirgli la portiera, nel sentire
ciò si fermò immediatamente e si voltò
verso il
genitore, con un’espressione alquanto stralunata.
«Ortensia è di nuovo incinta? Perché
nessuno mi ha
detto niente?» gli domandò, sbattendo le palpebre.
A quel punto, il signor Giancarlo alzò gli occhi al cielo,
avvicinandosi alla portiera ed aprendola con qualche
difficoltà.
«Fino a prova contraria, non è solo Tiberio che
può
darmi dei nipoti» notò, dopo essersi
accomodato sul sedile anteriore. «Non è forse vero
che ho due
figli?»
Marcello, avendo finalmente capito cosa intendesse l’uomo,
avvampò e fece per ribattere, tuttavia, proprio in quel
momento, sopraggiunse
Tiberio, che spinse via il fratello e, con fare dispotico,
ordinò: «Dobbiamo
andare via immediatamente, non abbiamo tempo da perdere!»
Dopo di che, chiuse con un colpo secco lo sportello del padre e fece il
giro, per andare a sedersi al posto di guida.
Evitando accuratamente di fargli presente che aveva contraddetto
ciò che aveva detto poco prima, l’altro gli
lanciò un’occhiataccia; poi, attraverso i vetri dell’auto,
augurò buon
viaggio ad entrambi i genitori, riservando, però, solo al padre un sorriso pieno di
speranza.
Non appena il resto della sua famiglia ebbe lasciato la villa,
Marcello sospirò, affranto, per poi
andare a
chiudere il cancello, mentre una bolgia di pensieri negativi gli
scoppiava in testa, offuscandogli la mente: si sentiva come se uno dei
pilastri sui quali si era sempre poggiato si
stesse sgretolando sotto ai suoi piedi, minacciando
l’equilibrio
al quale era abituato e gettandolo in una strana agitazione.
Con molta fatica, fissò a terra un’anta del
cancello e
stava per chiudere anche l’altra, quando si
sentì
richiamare improvvisamente. Tuttavia, dopo che ebbe rialzato la testa, ci mise
qualche istante a mettere a fuoco Gerardo e Vittoria, che lo stavano salutando dall’altro lato della
strada.
«Cosa ci fate qui?» domandò loro,
perplesso, non
appena furono abbastanza vicini da sentirlo senza che alzasse la voce, visto che non aveva né voglia,
né
forze sufficienti per urlare.
Il tono con cui aveva posto la domanda insospettì subito
l’amico,
che si soffermò a guardarlo, sulla fronte una ruga che esprimeva tutta la sua preoccupazione.
«Non ti sei presentato al lavoro, allora abbiamo chiamato a casa, ma
non ha risposto nessuno» rispose quello, riassumendo tutto in
poche parole. «Così siamo passati a vedere come
stai».
«Ci è sembrato strano che non rispondesse nemmeno
Ottavia» aggiunse la ragazza, anche lei visibilmente in
apprensione.
Marcello li guardò entrambi, vedendo riflessa sui loro visi
la
stessa inquietudine che avvertiva dentro di sé, ma ci mise un
po’ per capire davvero quello che gli avevano
detto,
impiegando pertanto parecchio tempo anche per rispondere.
«Oggi è domenica, perché eri in
ufficio?» fu
tutto quello che riuscì a dire, appigliandosi
all’unico
dettaglio che lo aveva colpito.
«No, oggi è sabato» lo corresse
l’altro,
sempre più preoccupato. «E, per giunta, toccava a
te andarci».
Improvvisamente, fu come se nella mente del giovane si fosse acceso un
barlume di lucidità, facendogli capire cosa gli avessero
effettivamente detto.
«Oh, hai ragione...» mormorò, spaesato,
facendo
vagare lo sguardo sui suoi amici, ma senza soffermarsi su nessuno dei
due in particolare. «Scusami sul serio, Gerardo. La
verità è che non ci sto molto con la
testa...»
I due ragazzi, nel sentire la sua risposta, si scambiarono un’occhiata nervosa ma, poco
dopo, fu
solo Gerardo a riprendere la parola: «Figurati, non è
successo
niente. Piuttosto, stai bene? Sembri molto provato».
A tale affermazione, Marcello chiuse gli occhi e sospirò,
consapevole che fosse arrivato il momento di dire loro la
verità, nonostante per lui fosse un grandissimo sacrificio dire ad alta voce cosa stava succedendo a
suo
padre, poiché significava eliminare ogni dubbio sul fatto che quella fosse
la realtà. Sapeva bene che quello non era un comportamento
razionale, eppure, dopo una lunga riflessione, era arrivato alla
conclusione che dovesse trattarsi di uno
strano meccanismo innescato dalla sua mente per autoproteggersi.
«Tiberio sta accompagnando mamma e papà
all’aeroporto, perché sono in partenza per Zurigo» buttò fuori,
tutto
d’un fiato, sperando di non dover essere costretto a
ripeterlo.
«Per Zurigo?» ripeté Gerardo, stranito.
«Sì, ecco...» ricominciò il
biondo, incerto, prima di rendersi conto che quello non era il luogo
più adatto per parlare di una questione tanto delicata. Era
certo che i suoi amici non avrebbero
preso bene la notizia e lui stesso sentiva di aver bisogno di sedersi.
«Marcello, per l’amor del Cielo, sei pallido e
sembri
stravolto!» esclamò all’improvviso
Vittoria, che a quella reticenza non era riuscita
più a trattenere la sua inquietudine. «Cosa
è
successo? Parla!»
Lui la guardò e, finalmente, con tono rassegnato,
sussurrò: «Venite dentro. Così saprete
tutto».
Le lacrime di Vittoria e lo sgomento di Gerardo resero Marcello ancora
più triste, anche se il ragazzo era cosciente che non si sarebbe
potuto
aspettare una reazione diversa da parte loro, dato che conoscevano il
signor Giancarlo da quando
erano bambini e gli erano incredibilmente affezionati.
Quando il giovane finì di parlare, erano entrambi seduti sul divano della biblioteca, mentre lui
affondava nella poltrona di fronte, raccolto su se stesso, nel tentativo di rassicurarsi
da solo.
«Oh, n-non... non p-può....»
singhiozzò la
ragazza, mentre il fidanzato tentava di consolarla, accarezzandole i
capelli. Qualche istante dopo, quello si voltò verso
l’amico e, riservandogli un’occhiata mesta, gli
chiese:
«Però, non è ancora detta l’ultima
parola,
giusto?»
L’altro sospirò per l’ennesima volta:
trovava molto
difficile parlare della malattia di suo padre, ma sapeva che i due
ragazzi volevano solo fargli coraggio, come era successo
quando avevano rapito Beatrice, e lui non poteva non apprezzare tale
gesto, per questo si sforzò di rispondergli: «Sembra che
dipenda
tutto dall’esito di questo intervento.
Ho parlato con il dottor Conti, un amico di papà, ma ammetto
che,
quando ha cominciato a blaterare di percentuali di sopravvivenza a
cinque anni... non ho voluto più sentire altro».
Gerardo annuì, intristito, stringendo più forte
a sé Vittoria,
la quale era ormai aggrappata a lui, singhiozzando sommessamente.
«Lo s-so che non t-ti aiuto piangendo... scusami, non devo
comportarmi come se fosse tutto deciso» disse, a bassa voce,
quando riemerse dall’abbraccio del suo ragazzo, forse rivolta
più a se stessa che a Marcello. Qualche secondo dopo,
però, aggiunse: «V-Vuoi...
che restiamo con te?»
Tuttavia, lui scosse la testa, sorridendo dolcemente:
«No, tranquilli. Non ce ne è bisogno».
La ragazza aggrottò appena la fronte, non del
tutto convinta.
«Sicuro?» insistette, lasciando definitivamente la
presa su
Gerardo e voltandosi completamente verso l’amico, il quale
rimase
a fissarla per qualche secondo, cercando le parole giuste per esprimere
ciò che provava. In quel momento,
dentro di sé sentiva soltanto una gran confusione e
trovava difficile capire
cosa
lo avrebbe davvero quietato, pertanto non trovava giusto obbligarli a
rimanere, sapendo che poi, magari, sarebbe stato colto da una forte
smania di voler restare solo e avrebbe intimato loro di andarsene
su due piedi. Conosceva il lato tremendamente solitario del suo
carattere, soprattutto nel dolore, e sapeva che la possibilità che accadesse non era poi così remota.
«Apprezzo
il pensiero» disse, lentamente, «ma adesso non so
nemmeno io di che cosa ho bisogno».
La ragazza annuì, anche se non mancò di
aggiungere: «Se
dovessi cambiare idea, però, chiamaci, capito? Anche di
notte!»
«Vittoria ha ragione, non ti fare problemi proprio
ora» aggiunse Gerardo, mostrandosi fermo nell’appoggiare la fidanzata.
Nel vederli così partecipi e attenti, Marcello sorrise, riconoscente. Sapeva di
essere davvero fortunato ad avere due amici come loro, pronti a
sostenerlo sempre, senza forzarlo, facendogli capire
allo stesso tempo che
per lui ci sarebbero stati in qualunque momento.
«Grazie».
A quel punto, i due ragazzi si alzarono dal divano ed esortarono
l’amico ad accompagnarli alla porta, più per
distrarlo e
per farlo stare ancora un po’ in loro compagnia, che
perché ne avessero effettivamente bisogno, dato che conoscevano a
memoria
tutti i corridoi e le stanze della villa.
«Beatrice lo sa?» domandò Vittoria all’improvviso,
quando giunsero nell’ingresso.
Nell’udire quel nome, la mente di Marcello
percepì dei pensieri positivi,
abbassò
le difese e si dimostrò più collaborante,
permettendogli
di organizzare una risposta senza troppe difficoltà.
«Non ancora, io stesso l’ho saputo due giorni
fa...»
spiegò. «Tu, però, non farne parola con
lei, voglio essere io
stesso a dirglielo. D’accordo?»
«Credo sia anche giusto così» commentò
Gerardo.
Pochi minuti dopo si congedarono e, in quel momento, i due abbracciarono entrambi Marcello
con trasporto, facendogli percepire ancora una volta quanto ci
tenessero a lui e il giovane, nonostante la sua abituale ritrosia a
manifestare troppo i suoi sentimenti, ricambiò con vigore,
deciso a far capire loro, almeno con i gesti, quanto fosse loro grato, in
quell’occasione più che mai, che fossero suoi amici.
Una volta lasciatosi alle spalle la porta chiusa,
il giovane avvertì distintamente un velo di malinconia
depositarsi su
di lui e su tutto ciò che lo circondava, come se una sorta
di potente incantesimo fosse sceso su tutta la villa.
Perfino Ottavia, Annetta e le altre tre cameriere, data la situazione,
si erano ritirate nelle loro stanze, perciò
l’unica compagnia che gli era rimasta era il suo stesso
silenzio,
che lo seguiva nel suo vagare per i corridoi, poiché non
riusciva a pensare ad
un’attività che lo avrebbe distratto abbastanza, che fosse
accendere la televisione o leggere un libro, a causa della poca
concentrazione di cui
disponeva. Quando giunse davanti al balcone della sala, quello che dava
sul
giardino posteriore, lo sguardo del ragazzo si perse nel fitto della vegetazione che, sotto la fioca luce del crepuscolo,
sembrava addormentata a sua volta.
Fu proprio allora che capì perché non riusciva a
liberarsi di quell’opprimente angoscia che lo perseguitava:
per
la prima volta da quando aveva memoria, si stava sentendo solo.
Non aveva mai sofferto la solitudine, anzi, era successo molte altre
volte che si trovasse solo in casa per parecchi giorni ed era stato
benissimo unicamente in compagnia di se stesso; tuttavia, sentiva che
quella
volta era
diverso, giacché l’inquietudine che lo opprimeva
era persino più profonda di quella provata quando era stata
rapita Beatrice.
Subito dopo, poggiò le punte delle dita contro il vetro, ma quello,
nonostante
il
tepore di fine aprile, gli risultò freddo, costringendolo a
ritrarsi
immediatamente, mentre avvertiva chiaramente che l’unico modo per
spezzare quell’oscuro sortilegio era uscire da quella casa e
parlare con qualcuno che avrebbe potuto confortarlo.
Immediatamente, i suoi pensieri si rivolsero alla fanciulla e il
desiderio di passare un po’ di tempo con lei
cominciò ad
alimentare in lui una piccola speranza di trovare un attimo di pace.
Infatti, nonostante Gerardo e Vittoria gli avessero offerto il loro
aiuto, Marcello sapeva benissimo che l’unica che poteva
dargli il
conforto di cui aveva bisogno era proprio Beatrice.
Così, rinfrancato dalla prospettiva di rivederla, il ragazzo diede una rapida
occhiata all’orologio da polso,
accorgendosi che erano solo le nove meno un quarto; allora, tamburellò
pensieroso le dita contro il telaio della finestra, facendo un
rapido calcolo del tempo che ci avrebbe impiegato per raggiungere la casa
di Vittoria e stimando che, prendendo l’auto di suo padre e
con il modesto traffico della tarda sera, gli sarebbe occorsa un’oretta.
A quel punto, si chiese se, in quel periodo, Beatrice stesse
studiando fino a tardi; se non ricordava male, infatti, la
ragazza avrebbe dovuto sostenere gli esami di ammissione alla
maturità verso la metà di maggio, perciò, temendo di
disturbarla, Marcello tentennò per qualche istante, indeciso.
Tuttavia, si scoprì
incapace di rinunciare alla possibilità di vederla,
anche solo per qualche istante, così si decise ad
andare comunque,
ripromettendosi di non distrarla oltre il
necessario.
***
Tra gli indubbi vantaggi che gli avevano dato anni di
frequentazione di casa di Vittoria, c’era anche quello di
conoscere a memoria tutti i punti deboli della recinzione, a cominciare
dalle aste di ferro non fissate bene, che potevano costituire un
ottimo punto d’accesso senza il bisogno passare dal
cancello.
Non appena si era formata nella sua mente l’idea di andare da
Beatrice, era sorta contemporaneamente anche l’intenzione
di non suonare il citofono, giacché non voleva che
gli abitanti
della villetta sapessero che era andato lì, desiderando che
la sua visita rimanesse privata. Infatti, se nei mesi
precedenti era stato stancante vedere la fanciulla di nascosto, adesso
dover
essere costretto ad informare mezza città, ogni volta che
voleva
parlare con lei, era anche peggio.
Nonostante il buio, comunque, il giovane si mosse con sicurezza in quel giardino
così familiare, procedendo con cautela fino ad arrivare
sotto
al balcone della stanza di Beatrice, notando che, attraverso la finestra, si intravedeva qualche
tenue riflesso luminoso sul muro, segno che la ragazza non stava ancora
dormendo. A quel punto, però, gli si presentò il
problema
di come richiamare l’attenzione di lei senza svegliare
l’intero quartiere.
Quando era andato a trovarla nottetempo a casa della zia, infatti, era stato
fortunato, poiché lei era uscita per puro caso
proprio nel momento in cui era arrivato davanti al cancello, ma sapeva
che una tale fortuita circostanza non si sarebbe ripresentata tanto facilmente, pertanto
decise di optare per la soluzione più ovvia: arrampicarsi
fino
al balcone usando il graticcio di legno per il gelsomino come appoggio,
sfruttando il fatto che la camera fosse situata soltanto al primo piano.
In realtà, non era la prima volta che si cimentava in una simile
impresa, anche se, fino ad allora,
lo
aveva fatto sopratutto da piccolo, giocando
con Vittoria e Gerardo; inoltre, aveva una buona resistenza fisica,
così giunse sul balcone in un batter d’occhio. Non appena
ebbe
poggiato entrambi i piedi a terra, intravide attraverso la finestra la
ragazza di spalle, intenta a scrivere qualcosa,
soffermandosi di tanto in tanto per pensare senza, però,
distogliere la testa
da ciò che aveva davanti.
Allora, sorridendo, il giovane decise di bussare subito al vetro con
delicatezza, augurandosi che Beatrice, nel vederselo comparire
così all’improvviso, non si spaventasse troppo e,
per
fortuna, fu proprio ciò che accadde.
Infatti, non appena il ragazzo ebbe finito di battere il secondo colpo,
la ragazza rizzò la schiena, voltandosi immediatamente nella
direzione da cui era provenuto il rumore; nel vederlo, aveva spalancato
gli occhi per la sorpresa, ma senza gridare, alzandosi invece in piedi e avvicinandosi al balcone.
«Ciao, Beatrice» la salutò dolcemente
Marcello, nello stesso istante in cui lei aprì la finestra.
«Marcello...
oh, che tu
ci fa’ qui?»
esclamò lei, lasciando trapelare tutta la sua sorpresa, facendo
saettare di continuo lo sguardo da lui al parapetto, forse
domandandosi come fosse arrivato fin lì.
«Volevo vederti» rispose semplicemente il giovane,
sussurrando.
«Davvero?» chiese la fanciulla, ancor
più sorpresa,
arrossendo
all’istante. Tuttavia, poco dopo assunse
un’espressione
confusa e, guardandosi attorno, fece, anche lei a bassa voce:
«Ma... perché
non se’
passato dalla porta?»
«Perché non volevo che nessuno sapesse della mia
visita» replicò lui, sincero. «Sai, non
sopporto
più di dover rendere conto a destra e manca ogni volta che
voglio parlarti!»
Corrugando la fronte, la ragazza lo fissò per qualche
secondo,
per poi lanciare uno sguardo oltre la sua spalla e, avendo dedotto
tutto alla perfezione, esclamò: «Ah, ora capisco come hai fatto,
ti se’ arrampicato
su per il graticcio!»
L’altro stava per rispondere affermativamente, ma quella non
gliene diede modo perché, dimostrando di aver apprezzato particolarmente la sua
iniziativa, aggiunse: «Oh, siamo quasi come
Romeo
e Giulietta!»
«Sì, però, se noi restassimo vivi,
sarebbe
meglio» commentò, allora, Marcello, che non voleva certo
prendere in considerazione l’eventualità che lui e
Beatrice
facessero la stessa macabra fine degli amanti di Verona.
«Oh, ma l’è
ovvio che
non intendevo
in quel senso!» si difese lei, stizzita. «Come se’
poco romantico!»
A quell’osservazione, lui scrollò le spalle e
considerò:
«Sai, ho
sempre avuto il sospetto di non essere stato il primo della fila,
quando distribuivano il romanticismo».
Sconsolata, la ragazza, a quel punto, sospirò e scosse la testa, anche se
poi
lo
invitò
comunque ad entrare nella stanza, avvolta dalla penombra; la
prima cosa che notò il giovane, non appena vi mise piede
dentro,
però, fu la gran quantità di oggetti poggiati sulla scrivania:
c’erano almeno quattro tra libri e quaderni aperti,
illuminati
da una lampada da tavolo, diverse penne e matite colorate, alcune gomme
per cancellare, una calcolatrice, un bloc-notes e una tazza vuota.
«Stavi ripassando qualcosa, per caso?» si informò,
avvicinandosi al tavolo per dare un’occhiata più
da vicino.
«Non posso fare altro» ribatté lei,
improvvisamente
incupita. «Il quindici m’aspettano gli esami
d’ammissione, ma non sono tanto quelli a preoccuparmi, quanto
più il programma
di fisica:
ho scoperto
solo qualche
giorno fa
che l’è
raddoppiato».
Il ragazzo annuì, poi prese in mano il libro con gli esercizi e
cominciò a
sfogliarlo per studiarne attentamente il contenuto, trovandolo di
livello abbastanza avanzato.
«Come te la cavi in questa materia?»
«Ehm, sinceramente?»
Marcello non rispose, limitandosi ad alzare lo sguardo dal
libro per fissarlo su di lei che, dal canto suo, arrossì
e chinò la testa, ammettendo con un sospiro:
«Un
disastro».
Poi ci fu qualche istante di silenzio dopo i quali Beatrice, ormai visibilmente
in preda all’ansia, riprese a parlare un po’ troppo
velocemente: «E in matematica non vado meglio.
Tra l’altro, la
prima prova è fissata per il ventidue1
e, considerando
che i
privatisti comincian
gli orali
prima di tutti, ho pochissimo
tempo... praticamente poco
più d’un mese e mezzo per fare un miracolo! Purtroppo,
io odio le materie scientifiche,
non sono un asso come
te!»
Nel sentirla così agitata, il giovane inclinò
appena la
testa da un lato, perplesso: se fosse andata avanti così,
la ragazza sarebbe caduta nella psicosi, pertanto trovò sensato
cercare di rassicurarla. Così, rimise nuovamente il libro sulla
scrivania, riportandolo alla pagina cui era prima e si avvicinò alla ragazza, optando per un approccio
delicato.
«Immagino sia stata Vittoria a dirti che i numeri non mi
dispiacciono» le disse, lanciandole uno sguardo tra
l’intenerito ed il divertito. «Comunque, se vuoi
una mano,
posso aiutarti io».
A quella proposta, Beatrice lo fissò stupita e a lui
parve che si fosse già in parte ripresa.
«Lo faresti sul serio?»
«Tu
che ne dici?» replicò
lui, scrutandola mentre increspava appena le labbra, incrociando le
braccia sul petto. «E poi, te l’avevo già proposto
tempo fa, non ricordi?»
Non potendo più obiettare, la ragazza gli sorrise, timidamente riconoscente, riprendendo
posto alla scrivania, subito seguita da Marcello che, in mancanza di
un’altra sedia e non potendo uscire dalla stanza per andare a
recuperarne una, fu invitato ad accomodarsi sul letto, posto accanto.
«C’è qualcosa in particolare che non ti
è chiaro?» domandò subito lui, riprendendo tra
le mani il
libro e leggendo il titolo del paragrafo che la fanciulla
stava studiando prima del suo arrivo: Differenze
e similitudini tra il campo magnetico ed il campo elettrico.
«Sì!» esclamò Beatrice, risoluta,
come se non aspettasse altro che
quella domanda. «Nella vita, a cosa mi serviranno tutte queste formule?!»
Quella risposta lasciò Marcello talmente basito da
restare a
fissarla con il libro in mano, sbattendo le palpebre, prima si scoppiare a ridere,
sentendo che il
peso che portava sul cuore si stava pian piano alleggerendo.
«Be’, forse tu
non
le userai mai nella vita» le spiegò, ancora con
il
sorriso sulle labbra, mentre le rimetteva davanti agli occhi il tomo di fisica,
«ma a qualcun altro che, magari, vuole
fare
l’ingegnere potrebbero tornare molto utili, quindi la scuola
deve dare un’infarinatura di tutto».
Lei lo guardò scettica e sbuffò sonoramente,
appoggiando i
gomiti sulla scrivania e puntando i pugni contro le guance; rimasero a
fissarsi così per circa un minuto, alla fine del quale la
ragazza cedette e, dopo aver tirato un sospiro di rassegnazione, disse:
«Credo
che sia
meglio cominciare
dai vettori di campo».
Annuendo, Marcello si allungò per farsi dare carta e penna,
così da poter cominciare a spiegarle quel concetto, per poi passare a formule
sempre più complesse, scoprendola un’allieva
attenta e
partecipe, bloccata solo dalla paura di non essere all’altezza
della
prova che l’attendeva; quando il giovane ebbe finito di parlare, le
consegnò la penna e le fece ripetere tutto quello
le aveva spiegato, trovandosi ad intervenire solo un paio di volte per
rettificare in minima parte le sue parole.
«Adesso sì che
l’è
tutto più
chiaro»
disse ad un certo punto Beatrice, soddisfatta. «Se’ molto
bravo nello spiegare».
«Forse non studierai mai ingegneria, ma almeno affronterai la
maturità con più serenità» replicò
il ragazzo, stiracchiandosi appena per sciogliere i muscoli, un
po’ irrigiditi dopo essere stati molto tempo nella stessa
posizione.
Quando tornò a guardare Beatrice, la vide ricambiare lo
sguardo di
sottecchi con un’espressione pensierosa, come se stesse cercando di
prendere coraggio per dirgli qualcosa, che, infatti, non
tardò
ad esprimere poco dopo: «Marcello,
io... ecco...
lo so che
ti
chiedo
tanto, ma... m’aiuteresti a ripetere fino
all’esame?
Se
mi confrontassi
con te,
sarei più tranquilla».
Vedendola così tesa, lui si addolcì non poco e non
poté fare a meno di sorridere.
«Se può esserti d’aiuto, molto
volentieri».
«Anche
con la
matematica?»
Aspettandosi che sopraggiungesse anche quella richiesta, il giovane
inclinò appena la testa e annuì, ricevendo in cambio un gran sorriso pieno d’entusiasmo.
Osservando la delicatezza con la quale la ragazza si muoveva per mettere a posto le cose sparse sulla scrivania, Marcello si
sentì pervadere da un senso di calma che non credeva
possibile in quel momento, considerata l’angoscia che si
portava
dentro: quando si trovava con Beatrice, però, si sentiva davvero bene, era
come se avesse raggiunto un nuovo equilibrio che non sarebbe
più
potuto esistere senza di lei. Pur non sapendolo, lei l’aveva
aiutato
a sopportare meglio la sua precaria situazione familiare,
pertanto pensò che sarebbe stato giusto aiutarla ad
alleviare l’angoscia che le stava dando la preparazione per gli
esami.
«L’otto maggio è il tuo compleanno, giusto?» le domandò, all’improvviso.
«Oh, te ne se’
ricordato...»
fece quella, sorpresa, stringendo tra le mani le matite che stava
radunando, mentre le sue guance si colorivano di un rosso tenue,
«volevo
dire, sì, è l’otto. Perché
me l’hai chiesto?»
«Ti ricordi che volevo portarti a fare un giro nei dintorni
di Roma? Potremmo farlo in quest’occasione».
«Oh, sarebbe fantastico!»
esclamò lei, contenta. «Solo che
preferirei fare dopo il quindici, sai, con
l’ansia per gli esami d’ammissione potrei rovinare
la giornata».
«Mi sembra giusto» le concesse lui, d’accordo.
Stava per aggiungere qualcos’altro, quando, improvvisamente,
Beatrice si andò a sedere accanto a lui, puntandogli contro
uno
sguardo severo.
«Non m’hai detto, però, perché sei
venuto qui di fretta» gli disse, poi, con una punta di rimprovero.
«Anche
se per colpa
di questa
maturità sto sfiorando l’isteria, mi son accorta che se’
preoccupato,
sai? Solo che non
m’hai ancora detto perché».
Meravigliato che la fanciulla, nonostante i suoi sforzi, avesse capito
che c’era qualcosa che non andava, Marcello rimase
interdetto.
Tuttavia, ben presto sentì prevalere in lui un forte senso
di
tenerezza verso di lei e le avvicinò una mano al viso,
accarezzandolo.
«Non
ti si può proprio nascondere niente» le
sussurrò, con dolcezza.
«Come
hai visto, no!» ribatté lei, decisa incrociando le
braccia sul petto.
A quel punto, il giovane sorrise e si avvicinò ulteriormente a lei, dandole un
bacio
sulla guancia che, però, lo lasciò insoddisfatto.
Avvertendo di desiderare qualcosa di più, si
spostò
dolcemente all’angolo della bocca ed infine sulle labbra, in
un
crescendo di intensità, ma, al tempo stesso, assaporando ogni attimo di quella
serenità rubata: per qualche misero istante voleva scrollarsi
di
dosso ogni preoccupazione e ogni ansia. Così, affondò anche una mano tra i capelli
ramati di lei, facendo scivolare lentamente
l’altra sul fianco.
Dal canto suo, Beatrice gli
appoggiò le proprie sulle spalle, ricambiando il bacio con
partecipazione e facendogli percepire tutto il suo calore, mentre con
delicatezza lo invitava a stendersi comodamente con lei sul letto,
senza staccarsi da lui nemmeno per un istante. Lo fecero solo
molto tempo dopo, rimanendo però abbracciati a
scambiarsi carezze.
«Se mi prometti che
questo sarà il premio che
mi
spetterà per
ogni esercizio
risolto bene, forse la fisica potrebbe anche cominciare a piacermi...»
gli sussurrò Beatrice, strappandogli ancora un bacio a fior
di labbra.
Marcello, allora,
le
spostò una ciocca dal viso, sfiorandola appena e
soffermandosi a
contemplarla nella sua semplice bellezza. Non voleva caricare
d’angoscia anche lei, ma costretto a dirle
cosa era successo, sia perché ormai non poteva
più
nasconderlo, sia perché trovava giusto che fosse lui stesso
ad
informarla della situazione.
«Due giorni fa ho scoperto che mio padre sta molto
male» le disse, ricominciando a passarle una mano tra i
capelli.
A tale affermazione, la ragazza spalancò i suoi occhi blu e,
incredula, domandò: «Il tu’
babbo? Cos’ha?»
Il ragazzo trovò estremamente difficile ripetere ancora una
volta cosa affliggeva il signor Giancarlo, soprattutto
perché
gli sembrava che, ogni volta, la situazione diventasse più concreta.
«Ha un linfoma gastrico» mormorò,
concentrandosi sul
movimento delle ciocche di lei tra le sue dita per non cadere di nuovo
vittima di orribili pensieri. «Lo sapeva, ma
non ce l’aveva detto. Ed ora è a Zurigo, in attesa
di
essere operato».
«Cosa..?»
fece
Beatrice, guardandolo con un’espressione sconcertata; poi,
inaspettatamente, lo abbracciò forte, senza
aggiungere altro, lasciando che lui percepisse semplicemente la
sua presenza e
la
sua vicinanza. Il giovane le
fu talmente grato che le avesse dimostrato affetto, anziché
compassione, che ricambiò la stretta, affondando il viso
nella
sua chioma e lasciandosi cullare dal suo profumo di fresca
lavanda. Rimase a farsi confortare da lei per
più di un’ora e, se fosse stato per lui, non si
sarebbe più mosso da quella posizione, ma, purtroppo, sapeva che
non era possibile, anzi, era certo di essersi intrattenuto
con lei anche più del previsto.
«Forse è ora che vada, devi andare a riposare,
visto che domani devi studiare nuovamente» le disse, avvertendo, però, che il suo
corpo non la pensava alla stessa maniera, giacché sembrava
che
ogni singola fibra si rifiutasse di muoversi, malgrado i suoi sforzi.
Lei, allora, si staccò, riservandogli un’occhiata mesta e dolce allo stesso
tempo.
«Perché,
invece,
non... resti a dormire qui... con
me?» gli
domandò, timidamente. «So che hai un carattere forte, ma, magari, in queste condizioni non
vuo’ restare solo in casa...»
Marcello socchiuse appena gli occhi, provando un dolore sordo al petto:
avrebbe accettato volentieri, perché gli sarebbe piaciuto
farla
addormentare tra le sue braccia, ma sapeva che non era possibile.
Infatti, anche se non si sarebbe mai permesso di metterle le mani
addosso, rimanere lì non sarebbe stato comunque corretto nei
confronti dei genitori di Vittoria, che avevano accolto Beatrice sotto
la loro protezione e avevano sempre trattato lui al pari un figlio, fin
da quando era piccolo; si era già introdotto in camera furtivamente, pertanto passare la notte
lì sarebbe stato troppo, nonostante bramasse la serenità che lei
sapeva
infondergli come acqua nel deserto.
«Ho detto ad Ottavia che sarei rincasato tardi, ma che sarei
comunque
tornato. Non voglio farla preoccupare» le rispose, dandole un
ultimo bacio sulla fronte ed alzandosi finalmente dal letto, sapendo
solo lui quanto gli era costato farlo.
«Ah, va bene» fece la ragazza delusa, mettendosi
seduta e
stringendo le spalle, mentre il giovane pensò che,
ormai, la loro situazione non sarebbe potuta andare
ulteriormente
avanti in quella maniera, giacché non doveva interessare
a nessuno con chi lei passasse ogni notte.
Fu così che, mentre la salutava e usciva fuori sul balcone,
prese una decisione ferrea: seguendo il consiglio di suo padre, le
avrebbe chiesto di sposarlo.
***
Appoggiata contro il muro accanto alla sala professori, Beatrice
fissava pensierosa il pavimento, stringendo tra le braccia il Rocci2,
in attesa
che la chiamassero per dirle come erano andati gli scritti e per farle
il colloquio finale sulla maggior parte delle materie
umanistiche, mentre, per matematica, fisica, inglese e storia dell’arte (l’unica ventata
d’aria
fresca in mezzo a quell’ecatombe) avrebbe dovuto aspettare il giorno successivo.
Purtroppo, quella mattina ancora non c’era stato modo di
conoscere i professori della classe alla quale era stata abbinata,
giacché sembrava che fossero tutti troppo impegnati per
presentarsi e, addirittura, quello di italiano e greco aveva lasciato
le tracce delle prove di ammissione alla segretaria, che
poi le aveva presentate a lei.
A pochi passi di distanza, c’erano due ragazzi della seconda3 D,
uno basso e minuto ed uno decisamente robusto, messi in
punizione dal loro insegnante e sfruttati come testimoni durante lo
svolgimento delle prove; stavano parlottando tra di loro, come avevano
fatto per tutto il tempo, senza rivolgerle la parola nemmeno una volta
e
facendola sentire più a disagio di quanto già non fosse,
mentre era impegnata a rimuginare su quanto aveva fatto durante la
mattinata.
Infatti, nonostante fosse piuttosto sicura di aver tradotto bene il
passo dell’Apologia di Socrate, aveva qualche dubbio sullo
svolgimento del tema sulla violenza nella società, perché
avrebbe voluto scrivere molte più cose, perciò non era
sicura di aver
selezionato quelle più importanti.
Mentre si arrovellava il cervello con questi pensieri, passò
davanti a lei un uomo alto e molto magro con i capelli brizzolati, che
si fermò poco prima di entrare in sala professori,
apostrofando i due ragazzi: «Righetti e Noldi, vedo che
anche
quest’anno avete deciso di soggiornare perennemente in
presidenza!» commentò.
«In realtà, professore, saremmo potuti andare via ore fa, ma ci hanno incastrato per fare da testimoni alla privatista»
rispose quello basso e minuto, indicando Beatrice con un cenno del capo
e lei, sentendosi chiamata in causa, si staccò dal muro, pronta a
ribattere che non era colpa sua se, per legge, durante lo svolgimento
delle prove dovevano essere presenti due testimoni. Tuttavia, nel
vedere l’occhiata piena di superbia che le lanciò
l’insegnante, le parole le morirono in gola.
«Ah, sei tu,
allora» fece quello, squadrandola con un sorrisetto beffardo.
«La signorina che non ha voluto frequentare la scuola come tutti
i comuni mortali».
Irritata da quel commento, la ragazza socchiuse gli occhi, ma non
osò rispondere per le rime, non sapendo chi fosse
e che poteri avesse quell’uomo, poiché, se già aveva quei pregiudizi
verso di lei senza nemmeno conoscerla, sarebbe stato poco saggio
alimentare quella diffidenza.
«Allora, restate qui. Quando vi chiamerò, entrerete tutti
e tre» ordinò poi quello, secco, prima di entrare
nella stanza.
Beatrice si riappoggiò subito al muro, corrugando appena la fronte, per
nulla rassicurata da quell’insegnante
che aveva già mostrato una palese riserva nei suoi confronti,
solo perché stava affrontando l’esame di maturità
senza aver frequentato l’ultimo anno di scuola come tutti gli
altri ragazzi della sua età. Magari, se avesse saputo quanto
aveva dovuto faticare per studiare, lottando contro la volontà
di quella megera di sua zia, forse non sarebbe stato dello stesso
avviso.
«Sei proprio sfigata,
rossa» le fece ad un certo punto il ragazzo che aveva interagito
con il professore. «Sei capitata nella classe di Bellocchi!»
«E di Bellocchi-bis!» gli fece eco l’altro.
«Porti anche fisica, per caso? Anche se ho sentito dire che
quest’anno è esterna, quindi forse potresti salvarti».
Non avendo capito granché di ciò che le avevano detto,
visto che era la prima volta che metteva piede in quella scuola e non
sapeva assolutamente nulla dei professori che insegnavano lì, la
ragazza si limitò a rispondere: «Presentandomi da privatista, devo
portare tutte e quattro le materie, non solo due».
«Più sfigata di
te non si può essere, allora!» commentò il primo che aveva
parlato, mettendosi a ridere subito dopo e contagiando l’altro.
Mentre quei due quasi si rotolavano a terra dalle risate, la ragazza li
guardò furente, perché non c’era bisogno davvero
che le ricordassero quanta poca fortuna avesse avuto, da quando erano
morti i suoi genitori. Anche se era vero che l’aver conosciuto
Marcello era un risarcimento abbastanza soddisfacente...
«Righetti, Noldi e Tolomei, dentro!» proruppe
improvvisamente Bellocchi, richiamandoli tutti e tre per esortarli ad entrare in sala professori.
Beatrice seguì gli altri due in silenzio, ritrovandosi in una
sala ampia, circondata da scaffali in metallo pieni di faldoni e
cartelline schedate, al centro della quale si trovava un enorme tavolo di
legno scuro con diverse sedie intorno. Ad un angolo, erano seduti
tre adulti: il professore che aveva appena conosciuto, una donna dai
capelli biondi frisè e un uomo panciuto che stava leggendo il
giornale.
I due ragazzi si andarono a sistemare sull’unica panca addossata
al muro, mentre la donna fece cenno alla fanciulla di avvicinarsi a
loro.
«Siediti pure, cara» le disse, sorridendole affabile.
«Io sono la professoressa Valenti e assieme al professor
Bellocchi e al professor Tavelli, ti farò qualche domanda per
verificare la tua preparazione. Ti hanno spiegato come funziona? Se non
ho letto male, hai avuto un insegnante privato».
«Oh, sì, il professor Rossiglione» rispose
prontamente Beatrice, mentre appoggiava a terra il vocabolario di greco e
si sedeva di fronte al terzetto. «Insegna al liceo di
Tivoli».
«Ah, sarà per questo che non l’ho mai sentito
nominare» commentò l’altra, sempre sorridendo.
«Beatrice Tolomei, la nostra privatista...»
esordì allora Bellocchi, con tono di scherno, sbattendo sul
tavolo un plico di fogli e sfogliandolo con fare distratto. Poi, lesse
sottovoce qualcosa e subito dopo alzò lo sguardo sulla
fanciulla, fissandola intensamente. «Che, fino all’anno
scorso, ha frequentato il Dante4 di Firenze».
Lei, ricambiando l’occhiata, annuì, ma non si azzardò a far uscire una sola parola dalle labbra.
«Provenendo da un liceo simile e con il nome che porti, come
minimo mi aspetto che tu sappia tutta la Divina Commedia a
memoria» proseguì il professore, sfoderando un
ghigno sottile. «Come mai non sei rimasta a casa tua e sei venuta
a concludere gli studi qui, senza degnarti di frequentare una
scuola?»
«Ho avuto qualche
problema in famiglia» tagliò corto Beatrice, senza
staccare gli occhi da quell’uomo che, con il suo atteggiamento di
sufficienza, la stava seriamente indisponendo: si sarebbe mozzata la
lingua piuttosto che raccontargli la sua storia,
anche perché era certa che non le avrebbe mai
creduto, anzi, probabilmente avrebbe pensato che gli stesse dicendo un mucchio di
frottole per impietosirlo e farsi promuovere.
Bellocchi, allora, socchiuse appena le palpebre, come se avesse percepito
l’astio che aveva scatenato nella ragazza, per poi continuare a
punzecchiarla crudelmente: «Secondo questo pezzo di carta,
risulti regolarmente
promossa fino alla seconda classe liceale con voti passabili».
Indignata, la giovane strinse i pugni: passabili? I suoi otto e nove, costati ore e ore di studio, erano passabili?
«Luca, non essere così severo! Beatrice ha un ottimo
curriculum» intervenne a quel punto la Valenti, che
pareva sinceramente risentita per il comportamento che stava avendo il
collega. Poi, si voltò verso Beatrice e la rassicurò:
«In storia e filosofia hai degli ottimi voti, perciò sono convinta che
andremo d’accordo».
«Dai compiti che ha fatto stamattina, però, non
sembrerebbe, Lorena» osservò lui, prendendo i fogli che
aveva in mano e buttandoli malamente davanti alla ragazza, la quale,
con suo sommo orrore, notò che erano pieni di segnacci rossi e
blu.
Passi pure le correzioni sul tema, la cui valutazione rimaneva
pur sempre soggettiva, ma aveva imparato la traduzione
dell’Apologia quasi a memoria, non poteva averla sbagliata tutta!
«Sei troppo condiscendente con i ragazzi» insistette
l’uomo, dubbioso, lanciando alla professoressa uno sguardo
commiserevole.
Ci fu qualche istante di silenzio, in cui i due insegnanti si
guardarono in cagnesco, facendo percepire a Beatrice che dovesse
esserci tra di loro una qualche rivalità più o meno
latente, come spesso accadeva tra colleghi di una stessa scuola, per le
più svariate ragioni.
Quel momento di tensione, però, fu rotto improvvisamente da un
colpo di tosse di
Tavelli che, però, riprese subito a leggere il giornale, voltando pagina come se si fosse trovato
da solo nella stanza, così Bellocchi, approfittando
di quella casuale intromissione, tornò al suo interesse
preferito del momento: torchiare Beatrice.
«I miei ragazzi hanno un’ottima preparazione e mi
aspetto che tu, anche se non fai parte della terza C, non mi faccia
fare brutte figure con i commissari esterni, di qualunque materia. Sono stato
chiaro?» le sibilò, velenoso.
«Quanto sei pesante... dovresti
incoraggiarla, invece!» sbottò la Valenti, incrociando le braccia
sul petto e lanciando all’altro uno sguardo obliquo, mentre
Tavelli continuava ad ignorarli tutti, facendosi i fatti propri.
«Io premio solo le eccellenze, Lorena, e questa ragazza si
mantiene a malapena a galla» affermò il professore,
convinto della sua tesi. Poi, si voltò nuovamente verso Beatrice
e, dopo averle lanciato uno sguardo intimidatorio, le disse:
«Comunque, domani vedremo il
punteggio complessivo, anche se non credo che tu possa essere
promossa... Il professore di fisica è mio fratello e non
è certo più magnanimo di me».
La ragazza, nell’udire ciò, non fece una piega, essendo
ormai abituata ad interagire con persone che non mostravano il
minimo rispetto nei suoi confronti e che sembrava traessero un particolare piacere dal
prendersela con lei. Pertanto, sostenne lo sguardo di Bellocchi e serrò le
labbra, decisa a fargli vedere cosa era in grado di fare: aveva bisogno
a tutti i costi di quel diploma e, in un modo o nell’altro, se lo
sarebbe preso.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie mille anche alla mia Anto
che mi sostiene sempre.
***
[N.d.A]
1. fissata per il
ventidue:
nel 1987, gli esami di maturità si sono svolti davvero il 22
e
il 23 giugno (prima e seconda prova), mentre gli orali si sono svolti
dal 27 in poi (il 26 per i privatisti);
2. Rocci:
per chi non avesse fatto degli studi classici, è
così che viene comunemente definito per metonimia il
dizionario di greco
(scritto da Lorenzo Rocci). Io ammetto che avevo il GI della Loescher,
tuttavia, poiché non esisteva negli anni ’80, mi
sono adeguata a quello che, nella mente di molti studenti del classico,
è l’emblema dello studio (faticoso) del greco
antico;
3. seconda:
la numerazione delle classi segue quella del liceo classico, quindi
sarebbe il quarto anno, come la terza classe sarebbe il quinto anno, eccetera;
4. Dante: è il liceo classico più antico del capoluogo toscano.
***
Bentrovati, dunque.
Vi annuncio ufficialmente che mancano otto capitoli alla fine di questa
storia (più l’epilogo).
Ringrazio chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Anto, Aven), chi
continua a leggere questo racconto, chi l’ha messo tra le storie
seguite/preferite/ricordate, chi mi darà un feed-back (di
qualsiasi genere) in futuro.
Come il solito, per chi vuole, lascio il link alla pagina
facebook, dove, nei prossimi giorni, troverete un’anticipazione del prossimo capitolo e qualche piccola sorpresa.
A presto!
Halley
S. C.
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Capitolo 19 *** Capitolo Diciannovesimo - Vento di Passaggio ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 19
- Capitolo Diciannovesimo -
Vento
di Passaggio
Era
una mattina dei primi di giugno quando, in anticipo di qualche giorno
rispetto a quanto aveva annunciato, il signor Giancarlo
rientrò
finalmente a
casa.
Nel vederlo comparire in salotto, il figlio, che stava finendo di bere
il tè seduto sul divano davanti alla televisione
accesa, scattò immediatamente
in piedi, per poi rimanere fermo a guardarlo come se si trattasse di uno spettro.
«Buongiorno, Marcello» lo salutò quello,
arrancando fino al centro della stanza, appoggiandosi a un bastone.
Il giovane notò subito quel particolare così dopo aver
superato l’iniziale sorpresa dovuta
a quell’apparizione inattesa, si
concentrò meglio sul
genitore, trovandolo molto provato, pallido e dimagrito; inoltre,
qualche capello bianco aveva cominciato a fare capolino fra la chioma
scura.
«Non vieni a salutarmi?» gli chiese l’altro, perplesso,
vedendo che
se ne stava lì impalato, rigido come uno stoccafisso.
«Be’,
forse sei ancora mezzo addormentato. In questo caso ti scuso» aggiunse.
«Ma... mi avevi detto che saresti tornato la mattina del
sette!» riuscì finalmente a replicare il ragazzo,
stralunato, muovendo con incertezza qualche passo nella sua direzione.
Quello, però, si limitò a scrollare le spalle,
ribattendo
con noncuranza: «Le mie condizioni erano stabili da giorni, così
ho
suggerito ai medici di liberare il letto per un altro ricovero e loro hanno accettato».
Per nulla convinto da quella versione, Marcello lo guardò
trascinarsi fino al divano, con un misto di preoccupazione e angoscia,
temendo che, ancora una volta, il padre gli stesse tacendo la verità,
esattamente
come aveva fatto quando aveva nascosto a tutti la sua malattia.
«Come stai?» gli domandò, cercando di nascondere una punta di tristezza.
«Oh, bene, bene» rispose l’uomo, mentre
si adagiava
comodamente sui cuscini, appoggiando il bastone da un lato.
«L’unica seccatura è la dieta costituita
da
cibi leggeri
e prevalentemente frullati, ma, tutto sommato, credo di poter
sopravvivere».
Il figlio, colpito dalla sua prontezza di spirito, mostrata
anche in quella drammatica occasione, aprì la bocca per
ribattere, ma venne bloccato da un commento dell’altro, che era stato
catturato dal telegiornale, il quale stava passando
dal servizio sugli scontri in Libano all’aggiornamento sul
quadro
della politica nazionale in vista delle imminenti elezioni per la X
Legislatura1.
«Quasi non mi sembra vero, sai, figliolo?
Finalmente un notiziario che non sia in tedesco!» esclamò,
infatti, il signor Giancarlo, lasciandolo di stucco, ma il giovane non
si distrasse, per nulla intenzionato a cambiare argomento.
«Papà, se c’è qualcosa che
non va, devi
dirlo» affermò, deciso.
«Marcello, non sono ancora moribondo!»
sbottò quello, in risposta,
spalancando le braccia e spostando
l’attenzione sul figlio,
anche se, subito dopo,
sospirò ed
aggiunse, con tono più calmo: «Tranquillo,
è la
verità. Sto bene».
Mortificato, il biondo si sentì avvampare, rendendosi conto di aver esagerato con la sua insistenza,
perché, dopo tutto quello che aveva subito, in quel momento, suo padre aveva bisogno solo di un
po’
di tranquillità; pertanto, abbassò lo sguardo e
mormorò: «Sì, scusa, hai ragione... Sei
appena
tornato, non volevo metterti sotto pressione».
Tuttavia, l’uomo scosse la testa e, sospirando, pentito, gli
fece:
«No, scusami tu. Purtroppo, sono molto... stanco. Credo di
aver
proprio bisogno di un po’ di riposo...»
A quel punto, sulla stanza cadde il silenzio che,
però,
venne interrotto quasi subito da urla e improperi provenienti dal
corridoio, sempre più acuti e
comprensibili man mano che si avvicinavano.
«Basta mancare qualche settimana e qui tutti battono la
fiacca!» berciò la Matrona, entrando teatralmente
in
salotto, puntando in avanti il ventaglio chiuso come se fosse una
spada. «La polvere in corridoio è alta due dita,
dove sono
quelle sfaccendate di Ottavia e Annetta?»
Davanti ad una simile sceneggiata, padre e figlio si limitarono a
fissare la donna, quasi compassionevoli, mentre quella proseguiva nella
sua invettiva, includendo tra le sue vittime anche il figlio maggiore:
«Per non parlare di Tiberio! Quanto gli sarebbe costato
portare
in casa le valigie, invece di lasciarle sulla ghiaia?»
«Ben tornata, mamma» la salutò, allora, Marcello con un’inflessione volutamente ironica, lanciandole
un’occhiata
torva.
La Matrona si voltò immediatamente verso di
lui ed, essendosi
accorta solo in quel momento della sua presenza, rimase spiazzata
per qualche secondo,
prima di riappropriarsi della sua aria di perenne disgusto e squadrare
con disappunto la maglietta ed i pantaloncini che indossava il
giovane, per poi criticarlo: «Ah, sei qui?
Perché sei ancora vestito per la notte e non al
lavoro?»
«Stavo proprio per andare a prepararmi»
tagliò corto
lui, evitando accuratamente di dirle che quella mattina se
l’era
presa
comoda, poiché la notte precedente era rimato sveglio fino
alle tre per aiutare Beatrice a ripetere fisica, assieme a Vittoria che, invece, le aveva dato una mano in filosofia. Infatti,
se sua madre avesse saputo una cosa del genere, come minimo lo avrebbe
accusato di concubinato.
Rapidamente, recuperò la tazza, piena fino a metà
di
tè ormai freddo, e stava proprio per lasciare in tutta
fretta il
salotto, quando il padre, gentilmente, lo richiamò:
«Figliolo, prima di andare, mi accompagneresti in camera? Non
vedo l’ora di spaparanzarmi sul mio comodissimo
letto».
Preso alla sprovvista, Marcello si arrestò solo dopo qualche
passo, prima di voltare il capo in direzione del genitore, realizzando che
sarebbe stato imperdonabile se l’avesse lasciato
lì, a sorbirsi le lamentele della moglie quando, invece,
aveva tutto il sacrosanto diritto di stare in pace.
«Lascialo andare, è già in
ritardo!»
esclamò, però, proprio la Matrona, puntando i pugni
contro i
fianchi e scrutando severa il giovane.
«Non ci metteremo molto, Claudia» replicò
bonariamente l’uomo, sporgendosi con il busto in avanti e
sollevandosi appena con le braccia, per agevolare il figlio, che,
ignorando la madre, si era precipitato ad aiutarlo.
Poco dopo, quando era già arrivato sulla soglia della
porta, aggiunse candidamente, rivolto alla moglie:
«Perché non ti fai dare una mano da
Ottavia a disfare le valigie? Così comincerai a vedere un
po’ d’ordine e poi sono certo che starai
meglio».
Dopo che Marcello ebbe aiutato il padre a sistemarsi nel letto,
rimboccandogli anche lenzuola e trapuntino, si sedette al solito posto
accanto a lui, soffermandosi a guardarlo, malinconico. Quel mattino,
infatti, nella stanza regnava un silenzio surreale, mentre solitamente
non era raro che risuonassero dal vecchio giradischi composizioni
verdiane, tra le quali
la “Marcia Trionfale”
dell’Aida,
il “Va’, pensiero” del Nabucco oppure il
“Libiamo ne’ lieti calici” della Traviata2,
canticchiate dal signor Giancarlo mentre era impegnato a farsi la barba
nel bagno attiguo.
«Mi hai comprato tutti i numeri che mi sono perso!»
esclamò l’uomo, con
un sorriso compiaciuto, notando
la pila di riviste di enigmistica che si erano accumulate sul comodino in sua assenza.
«Sì, era un modo per convincermi che saresti
tornato a casa... e a fare i cruciverba» ammise
il ragazzo, con un sospiro, non sapendo ancora quale santo dovesse
ringraziare per quella grazia.
«Be’, almeno avrò qualcosa di
intelligente da fare durante la convalescenza»
commentò quello, con il suo solito tono scherzoso,
prendendole in mano e divertendosi a contarle.
A quel punto, il giovane si lasciò scappare un
sorriso sollevato e, alzandosi dal letto, gli disse:
«Credo che ora sia meglio che ti lasci riposare».
Tuttavia, il padre, mise subito da parte i fascicoli e, sporgendosi
verso di lui, lo trattenne per un braccio.
«No,
no, rimani pure qui» gli sussurrò, con tono quasi
supplice. «Sono settimane che non abbiamo modo di parlare
come si
deve, figliolo».
Di fronte a quell’espressione, così piena di sofferenza e
dolcezza, il
ragazzo non poté far altro che riaccomodarsi, riservando
all’uomo un’occhiata intenerita e realizzando per la prima
volta
da
quando lo aveva rivisto che era davvero tornato a casa da lui.
«Anche a me fa piacere parlare con te, papà, ma
pensavo
che magari preferissi un po’ di
tranquillità»
spiegò, subito dopo. «Non deve essere
stato facile
sopportare mamma che si lamentava di continuo di ogni cosa, perfino del cibo
dell’ospedale!»
«Le sue lamentele
sono solo apparenza»
replicò, però, l’altro, abbandonandosi stancamente
contro
la pila di cuscini e chiudendo per qualche istante gli occhi.
«In
realtà, tua madre ha sofferto, in questi giorni, e non certo
per i
pasti insipidi che le hanno servito».
Tuttavia, tale rivelazione non lasciò particolarmente
sorpreso
Marcello, poiché, dalle conversazioni che aveva avuto al
telefono con la genitrice, aveva intuito quanto fosse preoccupata per
la sorte del marito, pur senza abbandonare la
maschera da donna di ferro che si era costruita, criticando tutto e
tutti appena ne aveva avuto l’occasione.
A quel punto, per qualche istante nessuno dei due parlò, finché il
giovane, che desiderava sapere qualcosa di più sul vero
stato di
salute del padre, visto che poco prima, in salotto, era stato molto
evasivo, non riprese la conversazione.
«Ti
hanno dato qualche terapia da fare nel
post-intervento?» chiese, osservandolo con
attenzione, così da poter capire dalla sua espressione se
stesse
dicendo la verità.
«Un
po’ di chemioterapia,» rispose quello, con la
stessa
noncuranza che esibiva quando il medico gli consigliava di prendere
un’aspirina per l’influenza, «ma posso
tranquillamente essere
seguito qui a Roma dal dottor Conti, l’ho già
interpellato».
Questa affermazione, però, invece di quietarlo,
allarmò all’inverosimile
Marcello che, immediatamente, protestò
con veemenza: «Papà, non sminuire la cura che devi
fare, la chemioterapia è una cosa
seria!»
«Lo so, ma sono dell’opinione che sia inutile
fasciarsi la
testa prima di essersela rotta. Non credi anche tu?» gli fece
notare, allora, il padre, scrutandolo tra il severo ed il divertito.
«Ora, però, basta annoiarci parlando dei miei
malanni. Tu,
invece, che cosa mi racconti?»
La particolare enfasi che il signor Giancarlo aveva messo
sull’ultima frase, accompagnandola con un sorriso sghembo,
non
lasciò al giovane molte possibilità di
interpretazione:
era fin troppo evidente che avesse insistito per restare solo con lui solo per sapere se aveva fatto la proposta di matrimonio a
Beatrice. In
quel momento, Marcello si sentì tornare bambino, quando suo
padre, sapendo
che aveva combinato qualche marachella, riusciva a farlo confessare dopo pochi minuti di interrogatorio.
Anche quella volta, di fronte a quella domanda, il giovane rimase a
bocca aperta, sbattendo le palpebre e avvertendo che le guance si
stavano
tingendo di rosso, per poi
richiuderla e ridarsi un contegno, schiarendosi la voce.
«Ecco... io ho... finalmente chiesto a Beatrice di
sposarmi» cominciò a raccontare, in leggero
imbarazzo.
«E lei... mi
ha detto di sì».
A tale rivelazione, l’uomo, con gli occhi lucidi per
l’emozione, si sciolse in un gran sorriso, riacquistando
perfino
un colorito più sano.
«Questa sì che è un’ottima
notizia!» esclamò, felice.
A raffreddare gli entusiasmi, però, ci pensò una
voce
gracchiante che, facendogli eco, intervenne: «Per
niente!»
Immediatamente, il ragazzo si voltò in direzione della
porta e vide sua madre avanzare verso di lui,
puntandogli minacciosamente un dito contro e sbraitandogli addosso:
«Ti avevo ordinato di stare lontano da quella
mocciosa!»
Per nulla intimidito da quell’atteggiamento aggressivo,
al
quale era fin troppo abituato, Marcello si alzò lentamente
in
piedi, portandosi le mani ai fianchi e squadrando la madre con gli occhi
socchiusi.
«Non ti ubbidivo nemmeno quando ero bambino, non
comincerò certo a farlo ora!» affermò,
spavaldo, inclinando la testa con tono di sfida.
«Tu sposa quella disgraziata ed io ti diseredo!»
ribatté, allora, la madre, avvicinandosi con incedere
intimidatorio, il volto ridotto ad una maschera di rabbia e disgusto,
ma il
giovane faticò a
prendere quella minaccia sul serio, poiché sapeva molto bene che
la donna
aveva già da tempo diviso i suoi averi tra i suoi figli,
favorendo nettamente il maggiore.
«Mi diseredi?»
ripeté lui, lanciandole un’occhiata incredula.
«E di cosa, di preciso?
Hai già dato tutto a Tiberio!»
«Rimane questa casa!» berciò lei,
spalancando le braccia e alzando gli occhi verso il soffitto.
«Ti ricordo che tu e papà avete la separazione dei
beni e
che questa casa
non è tua, ma sua,
visto che l’ha fatta costruire nonno Antonio»
rispose,
però, il ragazzo con estrema calma, sicuro di ciò
che
stava dicendo.
«Comunque sia, io non aspetterò certo la tua
carità. Senza contare che guadagno abbastanza da poter
mantenere dignitosamente me stesso, mia moglie ed eventuali
figli».
A quel punto, Madama Claudia assottigliò lo sguardo,
lasciando
che una smorfia di stizza comparisse sul suo volto, giacché
cominciava a rendersi conto di star esaurendo gli argomenti a sostegno della propria tesi.
«Forse dimentichi che è rimasta la villa di
Viterbo, che
appartiene
alla mia famiglia da generazioni!» esclamò,
all’improvviso, trionfante, come se fosse sicura di avere
ancora
l’ultima parola e Marcello stava proprio per ribadirle che
non
avrebbe saputo che farsene di quel vecchio casale che lei si ostinava a
spacciare per gran villa, quando, inaspettatamente, intervenne il
signor Giancarlo.
«In effetti, mia cara, credo che quella casa serva a
noi due» considerò, con dolcezza, rivolto alla
moglie, mettendosi le mani in grembo.
A quelle parole, moglie e figlio si voltarono istantaneamente verso
l’uomo, convertendo l’ira in sorpresa.
«Come sarebbe a dire..?» domandò il
biondo,
stralunato, avendo perso momentaneamente le fila del discorso, cosa
che, invece, non era accaduta a sua madre, la quale non perse tempo per
inveire anche contro al marito, malgrado le sue precarie condizioni di salute.
«Il tuo piano era questo sin
dall’inizio!» sbraitò, agitando con foga
un pugno chiuso.
«Confinarci in campagna, mentre
quella pezzente prende possesso di casa
mia!»
«Claudia, è giusto che anche nostro figlio minore
si
faccia una sua
famiglia. Tiberio ha scelto la casa di Albano, perciò, se non ricordo male,
avevamo deciso che Marcello avrebbe avuto quella di Roma» le
spiegò pazientemente l’altro, restando appoggiato
ai
cuscini con espressione serafica, come se non temesse la sua reazione.
«E poi, non ti sto portando in ospizio, ma nella
casa che è stata prima dei tuoi genitori e poi di tua
sorella, finché è rimasta in
vita».
Allora, fissando alternativamente marito e figlio con gli occhi spiritati e
i capelli crepitanti di elettricità, la donna si diresse verso
la
propria toletta e, in un impeto di rabbia, scaraventò a
terra sia la
boccetta del profumo che quella della cipria, mandandole in frantumi,
passando poi a gettare sul pavimento tutto quello che le capitava sotto
mano.
Davanti ad un tale raccapricciante spettacolo, Marcello, sbigottito,
cercò con lo sguardo suo padre che, però, non
mutò
espressione, limitandosi a riservare alla moglie uno sguardo
compassionevole.
Qualche minuto più tardi, quando non rimase
più
niente da distruggere, la Matrona espirò a
fondo e
si voltò verso i due uomini, raccogliendo il ventaglio che
era
caduto a pochi passi da lei e riappropriandosi della sua aria altezzosa.
«Io non alzerò un solo dito per organizzare questo
matrimonio!» sibilò, all’indirizzo del
figlio, sollevando lentamente
l’indice per enfatizzare quanto detto.
«Che cosa?» esclamò il giovane,
indignato,
ridestandosi completamente dallo stato di shock in cui era caduto.
«Beatrice non ha più la
mamma... tocca proprio a te aiutarla con i preparativi,
invece!»
«Non mi interessa, visto che vi sposerete contro il mio
parere. Per quanto mi riguarda, potete anche andare a mettere le
firme in Comune ed in chiesa solo voi due ed i testimoni»
ribatté lei, caricando ogni parola di rancore e frustrazione.
«Però, hai aiutato Ortensia,
che aveva anche sua madre a guidarla
nell’organizzazione!» insorse l’altro,
furibondo.
«Certo, perché Tiberio mi
ha ubbidito, sposandola! Si è scelto una donna sciocca,
è vero, ma ricca e dell’età
giusta»
replicò ancora la donna, insistendo su quello che, ormai,
aveva
capito essere il punto debole della difesa del figlio, forse sperando
ancora di poterlo portare dalla propria parte.
Tuttavia, il ragazzo, nonostante avesse subito il colpo della madre, lo incassò alla perfezione
e
rispose, senza esitazione: «Beatrice è molto
matura per i
suoi
diciannove anni».
A tale commento, la donna rimase ad osservarlo in tralice per
qualche secondo, prima di scoppiare a ridere con tutta la perfidia di
cui era capace.
«Povero Marcello... in
fatto di donne, sei davvero un sempliciotto!»
esclamò, con una smorfia, scuotendo
lievemente la testa con finto rammarico. «Il fatto che
quella sgualdrina sia una ragazza sveglia
e... precoce
non significa che sia matura, ma solo che ha capito quanto sia facile mettere nel sacco uno sprovveduto come te!»
Dopo quell’ennesima stoccata, il giovane socchiuse gli occhi,
fremente dalla rabbia, incapace di accettare altre
cattiverie gratuite su Beatrice e su se stesso da parte della madre. Aveva appena aperto la
bocca per dirle che non avrebbe cambiato idea nemmeno se lo
avesse minacciato di
buttarsi dal ponte di Ariccia3,
quando, per la seconda volta, fu suo
padre ad
intervenire.
«Ti ho già fatto presente una volta di non
insultare Beatrice in mia presenza» scandì, con
voce
ferma, puntando negli occhi della moglie uno sguardo che non ammetteva
repliche e quella, oltraggiata per la presa di posizione del
marito in favore del figlio, ricambiò l’occhiata
con freddezza.
«Anche tu sei contro di me? Molto bene!»
replicò, con tono sorprendentemente calmo. Poi, si diresse
verso lo specchio della toletta e si ravviò i capelli.
«Sappiate, però, che non finirà
qui!» aggiunse, poco dopo, guardando entrambi un’ultima
volta attraverso il vetro, prima di girare i tacchi e dirigersi in
tutta fretta
fuori dalla stanza, come se avesse appena ricevuto una dichiarazione di
guerra e dovesse correre a verificare l’entità dei
propri armamenti.
Rimasto solo con il padre, Marcello impiegò qualche secondo per
riprendersi da quel diverbio che era certo l’avesse lasciato
più spossato che se fosse stato uno scontro fisico. Quando
si voltò verso il genitore, però, preoccupato che potesse sentirsi
male dopo una tale sceneggiata, non si aspettava di certo che quello
gli rivolgesse uno sguardo così malinconico e sconsolato.
«Ora capisci perché ho
insistito tanto affinché chiedessi a quella dolce ragazza di
sposarti? Vi compensate a vicenda e sono convinto che non
esista un’altra che possa renderti felice quanto lo fa
lei» fece poi una breve pausa e si abbandonò ad un
sospiro
afflitto. «Non voglio che tu faccia i miei stessi errori o
quelli
che
non sono riuscito ad impedire che facesse Tiberio».
«Di quali errori stai parlando?» chiese il giovane,
confuso e sorpreso per quel discorso inaspettato.
Il signor Giancarlo, però, si limitò a fissarlo in
silenzio con aria triste, voltando la testa verso la finestra
socchiusa, come quando aveva dato l’annuncio riguardante la
sua
malattia.
«Quando si concretizzano unioni male assortite, si rischia di
non andare d’accordo. Ovviamente, non sto parlando di
bisticci o scaramucce tra moglie e marito come quelli ci saranno anche tra
te e Beatrice, ma di divergenze di opinioni sulle cose
importanti» spiegò, con lo sguardo perso
nel vuoto. «In quel caso, a pagarne le conseguenze sono sempre i
figli».
«Tu sei stato un ottimo genitore, papà. È mamma
che...»
attaccò subito Marcello, infastidito da quell’assunzione
di colpa
che a lui sembrava del tutto fuori luogo.
«No, Marcello. Non è così»
lo interruppe, invece, con voce ferma il padre, tornando a
guardarlo negli occhi. «Non sono così perfetto
come
credi, sai? Per quanto
mi sforzi, non riesco ad essere imparziale tra i miei figli e questo non
fa altro che alimentare l’invidia che tuo fratello prova per
te».
A quel punto, il giovane fece per ribattere, ma, quando capì
ciò che aveva detto l’uomo, le parole si bloccarono
in gola:
in quel momento, fu come se fosse stato scoperchiato un vaso simile a
quello di Pandora, solo che, invece di liberare i mali del mondo, questo aveva
sguinzagliato le ombre che si aggiravano come spettri tra i componenti
della sua famiglia. L’invidia ed il risentimento di Tiberio
verso
di lui da una parte ed i tentativi poco ortodossi della madre di
accasarlo con una ragazza di buona famiglia dall’altra, infatti, sotto
quella luce gli parvero più comprensibili, anche se il
giovane
continuava a non condividere il loro punto di vista. Tuttavia, la cosa
che lo lasciò più sgomento fu il rendersi conto
che non
erano rivelazioni del tutto nuove, che, in fondo, nel suo subconscio, ne era sempre stato consapevole.
Allora, sbattendo le palpebre, Marcello fissò il padre e quello, in
risposta, come se avesse intuito i suoi pensieri, aggiunse:
«Anche se può sembrarti strano, quella di tua
madre,
più che cattiveria pura, è un misto di
ignoranza ed
insicurezza. Sai bene che è convinta che solo con
il
prestigio sociale e con i soldi si possa acquistare una certa
credibilità».
Fece una piccola pausa e si sporse verso il comodino per versarsi un
bicchiere d’acqua che poi bevve a piccolissimi sorsi, mentre il
figlio lo guardava diviso tra la tenerezza, scaturita dal saperlo non
ancora ristabilito del tutto, e la rassegnazione, derivata, invece,
dalla consapevolezza che la madre non avrebbe mai accettato il suo
matrimonio.
«E tuo fratello non è molto diverso da lei.
Perciò, perdona la
loro debolezza e
la loro superficialità, se puoi» riprese
l’uomo,
poco dopo, spingendo sul ripiano il bicchiere ormai vuoto, prima di lasciarsi cadere a peso morto sui cuscini, esausto.
Per un po’, nessuno dei due disse nulla, ognuno
immerso
nei propri pensieri, finché Marcello non si decise a
riprendere
il discorso sull’eredità di Villa Aurelia.
«Ad essere onesto, questa storia del lasciarmi questa casa
non
convince neanche me» esordì, pensieroso.
«Come
farai
ad andare
a vivere a Viterbo, dovendo sottoporti alla chemio? I grandi ospedali
sono tutti qui a Roma e...»
«Punto primo: prima che tu e Beatrice vi sposiate ci
vorrà
qualche mese, giusto?» lo fermò, però,
immediatamente l’altro, prima che potesse andare avanti.
«E, punto secondo: mi auguro
che ospiterai il tuo povero padre malato, in caso di
necessità» concluse, recuperando un briciolo del
suo
antico spirito.
«Ma che dici, papà!» esclamò
il ragazzo, punto sul vivo. «Certo che...»
«Allora, va bene così. La verità,
Marcello, è che sono stanco»
fece il padre, tagliando corto e abbassando il tono. «Ho
bisogno di tranquillità e,
in questo
momento, solo la campagna può darmi ciò che
cerco».
Nonostante si fosse mostrato abbastanza sicuro di ciò
che
stava dicendo, il giovane rimase alquanto perplesso da
quell’affermazione e riservò
un’occhiata
indagatrice, che, però, non sfuggì al genitore,
che,
infatti, gli rispose subito: «Non devi pensare a me,
perché che io viva ancora altri sei mesi o un anno, o cinque o dieci... non
è questo il
punto».
«Ma...» tentò di protestare ancora il
figlio, che
non voleva nemmeno sentir parlare dell’eventualità
di una
recidiva.
«No, Marcello. Ora devi concentrarti sulla tua vita, che
è
ancora tutta davanti a te» concluse il signor Giancarlo,
deciso,
anche se, subito dopo, assunse un’espressione più
dolce ed
aggiunse: «Però, se nei
progetti tuoi e di Beatrice dovesse rientrare anche un nipotino per me,
sappi che non mi dispiacerebbe affatto».
A tali parole, il biondo arrossì vistosamente, mentre gli riaffiorava alla mente il ricordo di quando
era stata la stessa fanciulla ad esprimere la volontà di
avere un bambino; tuttavia, dopo un primo imbarazzo,
ricambiò timidamente il sorriso del signor Giancarlo e
ammise
tra sé e sé che, in fondo, l’idea
di diventare padre non gli sembrava
poi così male.
***
Le
lancette dei secondi passarono per la seconda volta sul sei, facendo
capire a Beatrice che era passato più di un minuto da quando
aveva cominciato a fissare l’orologio del salotto, in cerca
della
risposta alla domanda che le aveva fatto
Marcello. In teoria, la conosceva perfettamente, ma aveva la testa
così piena di formule e definizioni che non riusciva
più
ad associarle.
«Allora, cosa
dice la seconda legge di Ohm, Beatrice?» ripeté il
giovane, a braccia conserte, studiandola attentamente
dall’altra
parte del tavolo.
Giocherellando nervosamente con la matita e spostando lo sguardo sul
foglio bianco
davanti a sé, come in attesa di un’ispirazione
dall’alto, la ragazza strizzò gli occhi, cercando
di
concentrarsi quel tanto che bastava per ricordare qualsiasi nozione
affine a ciò che le era stato chiesto.
«In un conduttore
metallico...
l’intensità della
corrente
è... direttamente proporzionale...»
cominciò, mentre l’immagine della pagina
del libro
si materializzava pian piano nella sua mente. Tuttavia, quando colse
perplessità nell’espressione di Marcello,
ammutolì
di colpo.
«Quella è la prima» le fece notare con
dolcezza lui,
appoggiando le braccia sul quaderno che aveva aperto di fronte, dove
era riportato l’infinito programma di fisica. Beatrice
riservò ad esso un’occhiata angustiata, per poi
tornare
immediatamente a guardare il giovane.
«Ti prego, andiamo a fare due passi? Non ne posso davvero
più!» lo supplicò, sentendo di avere
davvero raggiunto il
limite delle sua capacità di tolleranza: era dalla mattina
presto che non faceva altro che ripetere, pertanto non le
sembrò
affatto strano essere arrivata al punto di confondere due argomenti
simili. Anzi, era stata fin troppo brava a non citarne uno che non
c’entrasse nulla!
In risposta, lui la fissò per qualche secondo, corrugando la
fronte, come se
stesse valutando i pro ed i contro dell’assecondare quella
richiesta, e la fanciulla sperò vivamente che la risposta
fosse
positiva, perché, nonostante sapesse che mancava ancora
parecchio alla conclusione del programma, era altrettanto consapevole del fatto che, se non avesse fatto una pausa,
avrebbe rischiato un esaurimento nervoso.
«Accontenta questa povera ragazza!»
esclamò,
improvvisamente, Vittoria, entrando nella stanza assieme a Gerardo. «Merita un po’ di
svago, non
sta facendo altro che studiare!»
Marcello si voltò immediatamente verso l’amica aggrottando la fronte e
ribatté, piccato: «Il giorno in cui non dirai
più
la tua opinione senza nemmeno essere interpellata, si
congelerà
l’Inferno!»
«Addirittura? Sei sempre il solito catastrofico»
replicò lei, con un sorrisetto sottile. «Comunque,
ho solo
detto la verità».
A quella risposta, Beatrice si voltò verso il fidanzato e
notò che aveva ridotto gli occhi a due fessure, irritato, mentre Gerardo, in evidente
difficoltà, spostava di continuo lo sguardo dalla sua
ragazza
all’amico.
«Vittoria, ti avevo detto che sarebbe stato meglio
bussare»
la riprese poi pacatamente, ma con
fermezza. Tuttavia, lei si limitò a lanciargli
un’occhiata
obliqua e a sbuffare, prima che nella stanza calasse un silenzio
alquanto
imbarazzante, durante il quale Beatrice si ritrovò a pensare
che
non vedeva davvero l’ora di non sentirsi più
ospite in
casa d’altri, poiché, nonostante l’amica
fosse buona
e cara, sentiva che era arrivato il momento di riappropriarsi dei suoi
spazi.
«Comunque, sì, facciamo una pausa,
perché, a questo punto,
continuare sarebbe controproducente» sospirò,
infine, il biondo, alzandosi dalla sedia.
«Tra l’altro, oggi si sta benissimo fuori, non fa
nemmeno
troppo caldo» intervenne, a quel punto, Gerardo, rilassandosi
un poco e rivolgendo un sorriso a
Beatrice. «Ti farà bene passeggiare un
po’, almeno potrai distrarti».
La ragazza si alzò a sua volta e ricambiò il
sorriso,
avendo l’impressione che, in quelle parole, ci fosse un
velato invito ad uscire di casa e restare sola con Marcello;
d’altra parte, quel giovane doveva sapere molto bene che la
fidanzata,
anche senza volerlo, a volte poteva essere alquanto invadente.
Poi, poco dopo, mentre stava radunando tutte le sue cose, la fanciulla
sentì l’altra battere le mani una contro
l’altra per richiamare
l’attenzione di tutti e tre,
come se si fosse appena ricordata di qualcosa.
«Ah, Marcellino, prima che te ne vada, devo riferirti una
cosa!» esclamò, avvicinandosi al ragazzo.
«Don Marco
vuole avere quanto prima i certificati che vi ha chiesto. Sembra
essersi ammorbidito un po’, anche se non credo abbia digerito
il
fatto che vi sposiate senza aver seguito il suo corso per
fidanzati, soprattutto perché non si aspettava da te un
simile
tradimento».
Solo a sentirne il nome, a Beatrice vennero i brividi,
poiché non aveva certo dimenticato tutte le innumerevoli
difficoltà che aveva presentato loro, rischiando di mandare tutto all’aria, quando si erano recati
da
lui per prendere accordi per il matrimonio. E anche Marcello non doveva avere un bel ricordo
dell’episodio, a giudicare da come reagì.
«Don
Marco sa
perfettamente perché siamo stati costretti a
fare così. Inoltre, ci ha puniti abbondantemente
facendoci scegliere tra il prossimo ventiquattro agosto oppure ottobre 1988».
«Ci
si augura che
non faccia
troppo caldo...»
aggiunse
subito dopo la fanciulla, soprappensiero, preoccupata che
l’estate appena iniziata potesse riservare loro temperature
da
tropici, sapendo che il clima, in quella zona e in quel momento
dell’anno, era tutt’altro che piacevole.
«Non ci sperare» replicò, per
l’appunto,
l’altro, tetro, mentre recuperava il portafoglio e le chiavi
dell’auto dal tavolo e se li metteva in tasca.
«Posso solo immaginare la litania di commenti sgradevoli che farà mia
madre!»
A tale considerazione, gli altri tre tacquero, poiché
nessuno di
loro, conoscendo la Matrona, se la sentì di controbattere; tuttavia,
l’indole
allegra di Vittoria non le impedì di tentare
comunque di
risollevare i toni della conversazione.
«Su, su, pensa al lato positivo: è il
periodo migliore per fare il viaggio di nozze!»
considerò.
«Se non ci saremo sciolti prima sulla soglia del
Laterano, con quaranta gradi all’ombra, ovviamente» le fece,
però, notare Marcello, oramai in caduta libera verso il
pessimismo più nero, guardandola in tralice.
Nel vedere l’espressione indispettita dell’amica,
Beatrice
trattenne a stento una risata, poiché
la profonda differenza di carattere tra la ragazza ed il suo fidanzato aveva un qualcosa di comico.
«Purtroppo, è l’unica data disponibile
in tempi
brevi» considerò poi la giovane, non appena fu sicura di
non
scoppiare a ridere in faccia a nessuno dei due.
«Secondo me non sarà così
drammatico...»
commentò, invece, Gerardo, calmo. «In
fondo,
molte coppie scelgono agosto, perché si dice che sia un mese che porta agli
sposi molti cambiamenti in positivo».
La fanciulla, allora, voltò la testa verso di lui e si sorprese a
pensare che, nonostante parlasse molto meno rispetto ai suoi amici,
ciò che diceva era sempre molto confortante. Non aveva avuto
molte occasioni per interagirci direttamente, ma le aveva sempre
dato l’impressione di essere una persona molto buona e
paziente,
l’unico in grado di equilibrare il terzetto, limitando gli
eccessi di Vittoria e smussando, al tempo stesso, la spigolosità di Marcello.
«E tu come lo sai?» gli chiese, infatti, proprio quest’ultimo, osservandolo
tra lo scettico ed il sorpreso.
«Lo dice sempre mia madre. Sai, anche i miei si sono sposati
ad
agosto» replicò l’amico, facendo
spallucce ed
incurvando appena le labbra. «E il loro è stato un
matrimonio felice».
Quella risposta dovette bastare al biondo, perché perse
l’aria torva che aveva assunto, mostrandosi un po’
più rilassato e Beatrice finalmente si ritrovò a sorridere,
rasserenata anche lei, giacché non sopportava che il suo
fidanzato si incupisse per colpa della megera di sua madre, soprattutto
dopo aver saputo che quella donna non li avrebbe aiutati ad organizzare nulla.
Dopo aver avuto occasione di toccare con mano la cattiveria della
Matrona, la fanciulla non si aspettava più
niente
da lei, ma non credeva che avrebbe toccato il fondo,
punendo anche il figlio solo perché non approvava la persona che aveva scelto come sua futura moglie.
Ovviamente era
a conoscenza del proverbiale attrito tra nuora e suocera, ma lei aveva
davvero
trovato una
delle peggiori e la considerazione che aveva della signora Claudia,
dopo quell’ennesimo affronto, aveva raggiunto i minimi
storici.
Per fortuna, però, Marcello non era affatto uno
di
quegli uomini perennemente attaccati alle sottane materne e, per
giunta, il
signor Giancarlo si era dimostrato benevolo verso di lei, facendola
sentire, almeno lui, apprezzata e benvoluta.
«Be’,
visto che siamo in argomento, avrei da chiedere una cosa ad
entrambi» fece poi il biondo, tutto d’un tratto, riservando ai suoi due amici
un’occhiata
estremamente seria, mentre anche Beatrice, ormai riscossasi dai propri pensieri,
si voltava verso di lui, che proseguì:
«Vittoria, Gerardo... ecco... mi farebbe molto piacere se foste i miei testimoni».
Non appena Marcello ebbe finito di parlare, la fanciulla vide entrambi
giovani rimanere letteralmente a bocca aperta, stupiti, come se davvero
non si aspettassero una simile richiesta; poi, visto che tutti e due
sembravano aver momentaneamente perso l’uso della parola, il
ragazzo aggiunse: «Non ditemi che non ve lo aspettavate! A
chi
pensate che lo avrei chiesto?»
«A dire il vero non ci avevamo proprio pensato...»
mormorò Vittoria che, come era prevedibile, si riprese più rapidamente del
fidanzato. Infatti, subito dopo, mostrò un ampio sorriso ed
esclamò: «Comunque, non possiamo proprio
rifiutare!
Giusto, Gerardo?»
«Certo che no...» assentì questi,
rivolgendo anche
lui un gran sorriso a Marcello. «Anzi, grazie per volerci al
tuo
fianco anche in questo».
«Mi sembra il minimo, dopo più di
vent’anni di
amicizia, non trovate?» commentò, allora,
l’altro,
mantenendo una certa serietà, anche se Beatrice
riuscì a
cogliere la sua felicità nell’aver ricevuto una
risposta
così positiva.
La fanciulla aveva sempre trovato molto bello il legame che univa quei
tre e, ogni volta che emergeva l’affiatamento che
c’era tra
di loro, si ritrovava a pensare che sarebbe piaciuto anche a lei avere
delle amicizie così consolidate e partecipi. Purtroppo, però,
non
era stata molto fortunata: quando viveva a Firenze e andava a scuola
lì, infatti, aveva avuto qualche amica più stretta, ma il
fatto
stesso che avessero interrotto i contatti dopo solo qualche mese dal
suo trasferimento a Roma la diceva lunga su quanto profondi fossero quei rapporti.
«E i tuoi testimoni, Beatrice? Chi saranno?» le
chiese all’improvviso Vittoria, distraendola dai
suoi
pensieri.
«L’ho chiesto
alla signora Sofia e al signor Rossiglione,
perché
per me sono stati entrambi due guide
importanti» rispose lei, stringendo al petto i libri e
quaderni
che aveva tra le braccia. «Hanno accettato subito tutti e due e ne sono felicissima».
In risposta, l’altra annuì soddisfatta, mentre la
ragazza avvertiva una piccola fitta di dispiacere,
poiché, se da una parte la sua felicità era
reale,
dall’altra non poté fare a
meno di pensare che, se suo fratello fosse stato diverso e si fosse
comportato meglio, avrebbe potuto chiederlo a lui. Invece,
non avrebbe neanche potuto assistere alla cerimonia, poiché
il
giudice non gli aveva concesso il permesso d’uscita nemmeno
per
le nozze della sorella.
«Be’, ora penso proprio che dovremmo pensare al
vestito, allora!» continuò poi Vittoria,
lasciandosi
trasportare dall’entusiasmo. «Ne troveremo
sicuramente uno che ti starà d’incanto!»
A tale esclamazione, però, Beatrice non poté fare
a meno
di guardarla perplessa, sbattendo le palpebre, non capendo a cosa si
stesse riferendo.
«Quale vestito..?» domandò.
«Quale vestito?!»
ripetè l’altra, spalancando gli occhi, sconvolta,
«ma, ovviamente... l’abito da sposa!»
Nel ritrovarsi puntati addosso gli occhi di tutti i presenti, Beatrice si sentì avvampare, mentre prendeva
coscienza
di non aver proprio pensato ad un dettaglio fondamentale, facendo la
figura della svampita, come era già capitato in passato.
«Ah, sì... giusto...»
farfugliò. «Ehm, volevo dire, sì, magari, ci si
penserà non appena
l’avrò finito gli
esami».
«Sì, hai ragione, una cosa per volta. Questo
periodo si
sta rivelando troppo impegnativo per te» la
rassicurò
subito Marcello con dolcezza. «Comunque... che cosa ne dici di andare adesso,
Beatrice? Ci siamo trattenuti fin troppo».
Ben lieta che il fidanzato le stesse dando l’occasione per
togliersi dal centro dell’attenzione, la fanciulla si
affrettò ad annuire e a recarsi in camera sua per riportarvi
i
libri, ma, mentre saliva le scale, realizzò che non
disponeva affatto dei soldi necessari per comprarsi un abito da sposa.
Purtroppo, dato che non lavorava più
e
che aveva dato gran parte dei suoi stipendi passati alla zia, aveva da
parte solo una modesta cifra che le avrebbe consentito di comprare, a
malapena, un vestito usato.
Proprio in quel momento, però, sentì Vittoria salire
a sua volta le scale di corsa, arrestandosi proprio davanti a lei.
«Perdonami per prima, Beatrice, non volevo metterti in
difficoltà! Come mi hanno appena fatto notare Marcello e
Gerardo
a volte mi lascio... prendere troppo la mano» le disse,
alzando
le spalle e riservandole un sorriso dispiaciuto. «In effetti,
credo
che sia meglio fare come dici tu: prima finisci gli esami e poi
sceglieremo il miglior negozio dove andare».
«Ecco, a dire il vero, stavo proprio pensando a
questo»
ammise lentamente la ragazza, accarezzando i propri libri.
«Io
non l’ho
molti soldi da parte e non mi posso permettere un
granché,
perciò
preferirei andare a cercare
qualcosa in
un
negozio
non troppo costoso».
«Ma è
importante per una
ragazza...» protestò
l’altra;
tuttavia, Beatrice si mostrò irremovibile.
«Oh, lo so, ma non tutte posson permettersi abiti
da
ffiaba.
Sai, son grandicella
per credere
ancora
nella fata
madrina e non voglio che
Marcello
spenda una sola lira per me, perché
so già
che tutto ciò che
riguarderà la cerimonia
sarà a su’
carico.
Quindi, l’è
giusto che io compri
il mi’
vestito con
i mie’
risparmi» replicò, infatti, con decisione, la ragazza.
La giovane donna rimase a fissarla con un misto di
perplessità e
delusione, ma non si arrese e tentò di parlare ancora. Tuttavia, ancora una volta,
Beatrice non le lasciò nemmeno aprire la bocca.
«Non ti preoccupare, per me va bene lo stesso. Se l’avessi
avuto più
tempo, l’avrei cucito
io stessa,» disse la fanciulla, portandosi un palmo aperto al
petto e
battendolo contro di esso due volte, senza, però, riuscire a celare
una certa malinconia, «ma è andata così e
son convinta
che
sarà bellissimo lo stesso».
Vittoria si limitò a fissarla con scetticismo per qualche secondo, ma lei si
ostinò ad esibire un sorriso stiracchiato, pur sapendo
di
non esser convinta fino in fondo nemmeno lei; ciononostante,
salutò l’amica e salì gli ultimi
gradini con una
certa fretta, pensando che, se fosse stato tutto perfetto, sarebbe
stato irreale, pertanto doveva soltanto gioire di ciò che aveva: la fortuna di poter sposare
l’uomo che amava.
Come
in un
paesaggio ritratto da un pittore impressionista, le chiome dei ciliegi
giapponesi erano appena scarmigliate dal
sottile venticello che spirava da ponente, animando le foglie sotto la
luce del sole al tramonto.
Donati
al Parco Centrale del Lago dal
primo ministro nipponico nel 1959, quegli
alberi rappresentavano una rarità botanica che
attirava l’ammirazione di turisti e residenti, compreso Marcello
che, infatti, non appena Beatrice gli aveva chiesto dove volesse
andare, non aveva esitato a proporglielo.
I due giovani avevano passaggiato per qualche minuto accanto alle siepi
che costeggiavano il laghetto dell’EUR, fermandosi poi nei
pressi
del molo delle canoe, dove erano radunate alcune anatre, talmente
impegnate a lisciarsi le piume che a stento notarono il loro arrivo. Fu solo quando la fanciulla estrasse dalla borsa un
sacchetto con dei pezzetti di pane raffermo e cominciò a
distribuirli che quelle uscirono fuori dall’acqua e le si
avvicinarono con la loro andatura barcollante.
«Quando son venuta la prima volta con la
Vittoria, mi sarebbe piaciuto dar loro da mangiare, ma non avevo
niente perciò son contenta di aver avuto un’altra occasione per
farlo» spiegò,
voltando la testa verso il giovane, mentre continuava a lanciare briciole ai
pennuti. Lui, in risposta, annuì, trovando molto rilassante stare
lì ad
osservarla mentre sfamava e parlava con le anatre - senza ovviamente
ricevere risposta - e, di fronte a quella vivacità
che gli
piaceva tanto, il biondo non riuscì a trattenere un sorriso.
Quando i pezzetti di pane furono terminati, la ragazza si
scrollò le mani e, dopo aver salutato le sue nuove amiche,
ritornò da Marcello, esordendo: «Mi son
dimenticata di dirti ch’ho sentito Guido per telefono e,
adesso,
sembra proprio che le cose stiano
andando meglio. Il nuovo avvocato lo tiene sotto scacco!»
ridacchiò, facendo una piccola pausa, per poi riprendere
quasi
subito: «Ovviamente, non gl’ho detto
che sei stato tu a farmi il nome del Martelli».
«Perfetto!» rispose lui,
particolarmente compiaciuto. «Ed è così
che devi continuare a fare».
«Grazie,
Marcello»
gli disse lei, guardandolo teneramente con le sue iridi color zaffiro.
«Non mi devi ringraziare, io l’ho fatto solo per
te» replicò lui, burbero, giacché, se
Guido non fosse stato il fratello di Beatrice, non lo avrebbe aiutato
nemmeno se si fosse trattato di una questione di vita o di morte.
La fanciulla, però, parve intuire i suoi pensieri,
poiché
ribatté, con un dolce sorriso sulle labbra:
«Appunto per
questo, grazie».
Davanti a quell’espressione, il giovane deglutì,
avvertendo la solita stretta allo stomaco che si manifestava quando era
con lei, e gli astiosi pensieri che aveva avuto verso Guido furono
presto sostituiti da qualcosa di più piacevole. Infatti, rimase
a
guardarla a lungo, come ipnotizzato, e lo stesso fece lei con lui
finché non finirono a contemplarsi vicendevolmente come se si
fossero trovati in un luogo dove
c’erano solo loro due.
Improvvisamente, però, la fanciulla assunse
un’espressione
molto triste e distolse lo sguardo da quello di Marcello, per poi
girarsi e cominciare a camminare lentamente verso la sponda del lago.
«Beatrice, che hai?» le domandò subito lui,
preoccupato,
non appena l’ebbe raggiunta. «Non starai ancora
pensando a
quel porco di Navarra, spero!» aggiunse, appoggiandole delicatamente una
mano
su un fianco.
«Oh, no, no!» rispose lei, scuotendo
energicamente
la testa e facendo danzare sulle sue spalle le ciocche ramate.
«La verità è... è che avrei un altro
favore da
chiederti,
ma non voglio disturbarti un’altra volta».
«Si tratta nuovamente di quel cretino di tuo fratello, per
caso?» chiese, allora, il biondo, increspando le labbra e
ricominciando istantaneamente ad inveire tra sé e
sé
contro il futuro cognato.
Tuttavia, Beatrice fece nuovamente segno di no ed aggiunse, con aria
pensierosa e angosciata: «Per fortuna no, anche se l’è
una cosa ancora
più seria...»
«E... sarebbe?» la incalzò il giovane, che,
a quel
punto, non aveva proprio idea di cosa potesse aver fatto cambiare
così repentinamente umore alla sua fidanzata. Per conoscere
la
risposta, però, non dovette attendere molto; infatti, dopo
appena qualche secondo di silenzio, quella sospirò e
alzò
la testa nella sua direzione, guardandolo con aria seria.
«Come
sai, qualche
settimana fa sono stata a trovare Guido
e... non si è solo lamentato della sua situazione, ma
m’ha anche detto che
ci son dei problemi con
le nostre proprietà
sull’Isola d’Elba» spiegò,
afflitta.
Marcello corrugò appena la fronte, poiché, fino
ad
allora, Beatrice gli aveva menzionato la sua villa in Toscana solo
quando gli aveva raccontato della sua infanzia, senza alcuna
allusione ad ulteriori questioni economiche in sospeso.
Poi, però, si ritrovò a pensare che era stato
davvero
sciocco a non prendere in considerazione
quell’eventualità,
vista la grande incapacità del fratello di lei nel gestire
il
patrimonio familiare dopo la morte dei loro genitori.
«Che genere di problemi?» si informò,
desideroso di vederci chiaro.
«Non l’ho ben capito,
a dire il vero, ma
pare che il terreno
non
produca
più olive e che, quest’anno, si rischi così di
non poter
produrre
nemmeno una goccia
d’olio» spiegò lei, socchiudendo gli occhi, sempre
più angustiata. «Si
perderebbero un sacco di compratori e...»
«Sono notizie un po’ generiche»
commentò,
allora, Marcello, riflettendo su quanto gli era stato appena riferito.
«Oh, io non me ne intendo e t’ho detto quanto
so»
fece lei, in risposta, stringendo le spalle. «Il contabile
del mi’
babbo, a detta di Guido, sostiene che
non ci sia molto da fare per risollevare la situazione e
gl’ha
consigliato
di... vender tutto a lui».
Il tono con cui Beatrice aveva pronunciato quelle parole avrebbe
commosso anche un sasso, tanto erano cariche di tristezza e
sconforto, e il giovane, sapendo bene quanto lei fosse legata a quella casa, non faticò ad immaginare che
gli
avesse raccontato tutto per chiedergli di aiutarla a salvare
l’ultima proprietà rimasta dopo che Guido aveva
scialacquato tutto il patrimonio in donne e gioco d’azzardo.
Inoltre, anche se non conosceva i dettagli, gli sembrava piuttosto
strano che qualcuno potesse essere interessato all’acquisto
di un
terreno messo così male. A meno che, ovviamente, non ci
fosse
sotto qualcos’altro di cui, in quel momento, loro non
erano
ancora a conoscenza.
«Ma tu non vorresti, giusto?» le
domandò, allora, con dolcezza, stringendo la presa sul suo
fianco.
«Certo che no! Non venderei mai la casa della mi’
mamma, dove si
è trascorso l’ultimo periodo di felicità
tutti insieme» ribatté l’altra, con
determinazione.
A quel punto, Marcello, che aveva ben capito tutta la situazione e non
voleva certo veder soffrire di nuovo Beatrice a causa
dell’inettitudine e della stupidità del fratello,
si prese
qualche minuto per riflettere e, poco dopo, le propose:
«Facciamo
così, allora: ti prometto
che farò tutto il possibile per capire meglio come stanno
le
cose e, se necessario, andremo a vedere di persona, va bene?»
L’espressione di pura gioia che si dipinse
all’istante sul
volto della fanciulla, illuminandolo, portò il ragazzo a
sorridere di riflesso e la sensazione di calore che provò fu
talmente forte e appagante, che gli venne un’idea ancor
migliore.
«Anzi, potremmo andare in viaggio di nozze a Marciana
Marina... che cosa ne pensi?»
Come immaginava, tale
suggerimento piacque alla giovane ancor più del primo e,
infatti, quella non esitò nemmeno un istante a manifestargli la propria entusiasta approvazione.
«Io... non potrei davvero chieder
di meglio» gli sussurrò, commossa e felice.
In risposta, il biondo le accarezzò una guancia e la
rassicurò ulteriormente, dicendole: «Vedrai che
sistemeremo anche quest’altro problema».
In quel momento, però, una fresca brezza riportò
la loro
attenzione al presente, facendo loro alzare la testa al cielo, giusto
in tempo per notare che il sole aveva cominciato a tramontare e che
per
Beatrice era giunta l’ora di tornare sui libri.
Qualche minuto più tardi, mentre percorrevano Via Cristoforo
Colombo, Marcello le chiese se, per
quella sera, aveva in programma di ripassare qualche argomento ostico e
preferiva che restasse con lei ancora un po’, ma la fanciulla lo
rassicurò dicendogli che, dopo cena, si sarebbe rilassata
dedicandosi
a storia dell’arte.
«Vuoi che ti accompagni, la mattina del ventidue?»
le
domandò, allora, lui, all’improvviso, pensando che, non
avendo
amicizie tra i compagni di classe e trattandosi pur sempre
dell’esame di maturità, per lei sarebbe stato
meglio
almeno recarsi a scuola in compagnia.
«Ti ringrazio, ma preferisco di no»
gli rispose, inaspettatamente, lei, incurvando appena le labbra.
«Sai,
anche la
Vittoria m’ha chiesto
se volessi un supporto, ma credo
di
sapermela cavare
da ssola».
Colpito da tanta fermezza, il giovane non poté
far altro
che annuire, anche se non mancò di aggiungere:
«Come vuoi.
Però, se dovessi ripensarci, sappi che
puoi farmelo sapere anche la mattina stessa».
In quel momento, arrivarono davanti al cancello della casa di Vittoria e
Beatrice, arrestandosi e facendo una giravolta su se stessa, si mise
davanti a lui, guardandolo con determinazione.
«Be’, devo andare a sostenere l’esame di
maturità, quindi devo dimostrare di esser matura ed in grado
di badare a me stessa!»
«Non è questo il punto, Beatrice...» gli
fece lui di
rimando, perplesso. «Comunque, se vuoi così,
rispetterò la tua scelta».
Dal canto suo, la ragazza si limitò a sorridere di nuovo e,
voltandosi, si avviò verso l’ingresso, lasciando
Marcello
momentaneamente indietro a
contemplarla a distanza per qualche secondo. Conosceva bene le difficoltà
che
la giovane stava affrontando, essendosi presentata da privatista, e
averebbe fatto qualsiasi cosa per renderle quell’esperienza il
meno
traumatica possibile. Tuttavia, memore anche di quello che gli aveva
detto suo padre, si ritrovò a sospirare, consapevole che,
per
quanto possa essere forte la volontà di proteggere le
persone
amate, la decisione finale sulle questioni della loro vita spetta
comunque sempre a loro.
***
Per
la terza mattina nell’arco della stessa settimana, Beatrice
si ritrovò a percorrere Corso Trieste fino a fermarsi davanti
all’edificio squadrato del liceo Giulio Cesare. La prima
volta
che la ragazza si era ritrovata a guardare quella sagoma imponente, si
era sentita molto piccola a confronto e, per qualche istante, non
era stata più sicura di voler affermare la propria
indipendenza, desiderando che ci fosse Marcello al suo
fianco. Quel giorno, invece, nonostante non ci fosse la torma di
studenti che sostava accanto ai cancelli, come era stato le mattine
degli scritti, si sentiva più tranquilla, forse
perché, ormai, quel luogo le sembrava quasi
familiare.
Inoltre, aveva sofferto molto l’assenza di compagni di classe con i
quali condividere quell’avventura, poiché, come aveva immaginato, nessuno degli altri maturandi
si era mostrato disposto a fare amicizia con lei, facendola sentire ancora
più estranea di quanto già non fosse. Anzi, a dirla tutta, aveva avuto
l’impressione che Bellocchi avesse fatto di tutto per
caricarli ancora di più di disgusto nei suoi confronti.
Tuttavia, Beatrice aveva saputo rimboccarsi le maniche anche in quel
clima di astio ed era riuscita a fare un ottimo lavoro sia nel tema di
italiano, sia nella versione di greco4.
Quel giorno, mentre valicava i pilastri a pianta
quadrata che sorreggevano il porticato d’ingresso, la ragazza
inspirò a fondo, sperando che l’epilogo di quella
mattinata fosse positivo e che il professore di italiano, di fronte al
resto della commissione, non le tirasse troppi tiri mancini.
Quando poi entrò all’interno della scuola, invece, la trovò
immersa in silenzio tombale, tanto che il rumore dei suoi passi
risuonò nell’atrio, accompagnandola fino
all’aula che le avevano indicato come sede del colloquio.
Poiché si presentava come privatista, avrebbe fatto
l’esame orale da sola, anche se, come era stato per gli esami
d’ammissione, erano
stati convocati con lei anche due testimoni, scelti tra coloro che
avrebbero sostenuto la prova l’ultimo giorno. E,
infatti, furono proprio loro i primi che trovò davanti alla
porta scalcinata della seconda B. Quelli, vedendola arrivare, smisero
immediatamente di parlottare tra di loro e la fissarono in cagnesco:
erano un ragazzo ed una ragazza e, da quello che aveva avuto modo di
carpire da alcuni commenti uditi nei giorni precedenti, erano i
più bravi della classe, anche se davvero carenti in educazione,
visto che non si degnarono nemmeno di rispondere al suo saluto.
Rassegnata a quell’ennesimo atteggiamento ostile, la fanciulla si disse
tra sé e sé che sarebbe stato stupido pensare che qualcosa potesse cambiare proprio
l’ultimo giorno, pertanto si mise accanto al muro e spostò
lo sguardo in basso, in attesa di essere chiamata dai professori che, a
giudicare dal vociare che proveniva dall’aula, dovevano essere
già radunati all’interno.
Ad un certo punto, però, con sua grande sorpresa, Beatrice vide con
la coda dell’occhio la ragazza che si avvicinava verso di lei e,
immediatamente, alzò lo sguardo nella sua direzione,
fissandola perplessa. Che cosa mai poteva volere?
«I tuoi capelli sono rossi naturali?» le chiese
subito quella, indicandoli con un dito e contrando appena le labbra in una piccola
smorfia.
«Ehm... sì...» rispose Beatrice,
prendendosi
tra le dita una ciocca cuprea e avvertendo che ciò che le avrebbe
detto dopo non sarebbero stati certo complimenti. «Perché?»
In risposta, la ragazza scoppiò a ridere con cattiveria, scuotendo la propria chioma biondo cenere.
«Sono proprio orrendi!
Se fossi in te, mi vergognerei talmente tanto che me li sarei tinti da
un
bel pezzo!» esclamò, poi, smettendo di sghignazzare e tornando a guardarla con aria di
scherno.
«Be’, se tu avessi avuto i capelli come questa sfigata,
non ti
avrei mai chiesto di uscire, Daria» intervenne, allora, il ragazzo, riservando a Beatrice uno sguardo disgustato.
La giovane, a quel punto, spostò lo sguardo più volte
dall’uno all’altra, sconcertata da tanta cattiveria: non la
conoscevano nemmeno,
perché dovevano prendersela con lei in quella maniera?
«La signorina privatista si crede fortunata solo
perché la
Valenti è dalla sua parte... ma quella non conta niente,
è
Bellocchi che vale di più ed è perfino amico di
mio padre!» proseguì poi Daria, incrociando le braccia sul
petto e scoccando alla fanciulla un’occhiata commiserevole e il giovane rincarò la dose, offrendo a Beatrice altri
insulti.
«Roscia5,
proprio alla nostra classe dovevi venire a rompere le
scatole? Devo ripassare per l’orale e sto perdendo una
mattinata
per colpa tua!»
«Sono stati i professori a scegliervi, non io!»
ribatté la diretta interessata, indignata e furente. Amava molto
il colore
dei suoi capelli e quei due non avevano alcun diritto di offenderla o
usarla come capro espiatorio per sfogare la loro frustrazione.
«Se fosse stato
per me, non vi avrei voluti di certo!»
Dopo quella sfuriata, entrambi la fissarono stupiti, poi lui assunse
un’espressione sofferente e patetica, mentre l’altra la
squadrò con gli occhi ridotti a due fessure.
«Tranquillo, Davide, chiederò a mio padre di
raccomandare anche te con il prof» disse poi, senza staccare gli occhi da Beatrice.
«Io voglio il mio sessanta6,
mi serve per
l’ammissione all’università
americana!» piagnucolò, allora, Davide, scrollando la testa con vigore. «Non
posso rischiare di prendere un voto
più basso per te, sfigata
che non sei altro!»
A quel punto, Beatrice provò dentro di sé una sensazione
così spiacevole, a metà strada tra il disgusto e la rabbia, che, se
non avesse già digerito la colazione, avrebbe quasi sicuramente
dato di stomaco; quei due erano solo dei figli di papà,
meschini e arrivisti, esempio lampante del fatto che essere i primi della classe
non significa necessariamente né essere persone rispettabili, né
tantomeno intelligenti.
«Tanto sappiamo che sei antipatica al prof, quindi verrai
bocciata!» ricominciò Daria, che sembrava aver trovato il
modo migliore per scaricare la sua insoddisfazione per l’essere
stata costretta a stare lì. «Roscia,
perché non rinunci a fare l’esame e te ne torni a
casa?
Così, magari, anche noi possiamo andare a
studiare».
«Io ho diritto a sostenere l’esame come voi, anzi, forse, più di voi, dato che
siete solo due stupidi raccomandati!» buttò fuori, allora,
la
fanciulla sfogando tutta la rabbia che aveva accumulato in quelle
settimane a causa delle vessazioni di ogni genere che aveva subito. A quel punto Davide, adirato per
quella risposta, cominciò ad avanzare verso di lei con la mano
alzata, come per schiaffeggiarla.
Per fortuna, in quel momento, fece la sua comparsa in corridoio la professoressa Valenti.
«Lo Masto!» esclamò, tra il sorpreso e
l’indignato. «Stavi forse per picchiare una tua compagna,
per giunta una ragazza?»
«Professoressa, ha cominciato lei!» lo difese subito Daria
con una vocetta acuta, mentendo spudoratamente. «Ci stavamo solo
difendendo!»
«Difendendo, Lanzi? Alzando le mani?»
scandì, però, la donna, puntando le mani sui fianchi e guardando la
ragazza con disapprovazione. «Cosa ne penseresti se un ragazzo
picchiasse te, invece? A prescindere da chi abbia ragione? La
violenza non è mai una soluzione! E quella sulle ragazze è qualcosa di vergognoso!»
«Professoressa, la privatista ci ha insultati!» insorse il
compagno, con voce strozzata e gli occhi fuori dalle orbite, come se
fosse sul punto di avere una crisi di nervi, anche se la Valenti non se
ne curò minimamente.
«Quindi non sei pentito di ciò che stavi facendo, Lo
Masto?» commentò, piena di sdegno. «Molto bene! Se le cose stanno così, per
quanto mi riguarda, puoi scordarti il sessanta. E anche tu, Lanzi,
visto che sei d’accordo».
Nell’udire quella sentenza, i due giovani strabuzzarono gli occhi
e spalancarono la bocca, sbiancando e provando a balbettare qualcosa in
risposta che, però, non servì a smuovere la donna.
«Non mi interessa, il compito di un’insegnante è
anche quello di educare gli alunni» ribatté, infatti,
quella, con voce molto ferma. «Io avrò a disposizione il
mio voto e lo esprimerò, non mi interessa cosa faranno i miei
colleghi».
Ancora una volta, Beatrice vide i
ragazzi tentare un nuovo approccio per dissuadere la Valenti dal suo
proposito, finendo, invece, per collezionare l’ennesimo buco nell’acqua,
poiché la donna, anziché starli a sentire, si volto verso
di lei e, con dolcezza, la invitò: «Vieni con me,
Beatrice».
Furibondi per ciò che era successo, Davide e Daria si
incamminarono a loro volta, borbottando qualcosa anche contro la
professoressa. In particolare, il ragazzo ci andò giù
parecchio pesante con le parole, ma quella non si scompose minimamente, anzi,
non essendo né stupida, né disposta a farsi mettere sotto
i piedi da un suo alunno così presuntuoso, prima di farlo
entrare in stanza lo fermò sulla porta e gli fece, con voce
carezzevole: «Che cosa c’è, Lo Masto, vuoi picchiare
anche me, per caso?»
Il primo volto che Beatrice individuò fra quelli dei professori seduti
dietro le due cattedre unite fu proprio quello di Bellocchi, il quale la
guardò inespressivo, come se fosse stata la prima volta che la vedeva;
ciò che, però, aiutò la giovane a scaricare la
tensione, fu notare che almeno gli altri quattro uomini, i
membri esterni della commissione, stavano sorridendo.
«Buongiorno» li salutò, leggermente tesa.
A quel punto, il presidente, il professor Arcani, un uomo dal viso
rubicondo e un simpatico paio di baffoni castani, le sorrise
affabilmente e la invitò a sedersi sulla sedia di fronte a lui,
appositamente preparata per lei, mentre la
professoressa Valenti tornava al suo, anche lei
sorridente.
«E così avrai tu l’onore di aprire le danze!» esordì scherzosamente quella.
«Abbiamo fatto tutti un’abbondante colazione, quindi, stai tranquilla che
non ti mangeremo» fece poi Arcani, proseguendo con quel tono
faceto, avendo probabilmente notato che la ragazza era in apprensione.
Nel frattempo, dietro quest’ultima, Daria e Davide continuavano a parlottare tra loro - “sicuramente ce l’han con me”
pensò, infastidita, Beatrice - e si zittirono solo quando il
professor Sallusti, quello di latino, ebbe loro intimato di smettere.
Quando, finalmente, calò il silenzio, la ragazza sentì
l’agitazione salire pian piano, ma si impose di restare calma e
di non lasciar trapelare nemmeno il più piccolo segno di
disagio per evitare che gli insegnanti pensassero che volesse strappar
loro la promozione a suon di pianti e sceneggiate, anziché
affrontando dignitosamente l’esame. In quel momento, le
tornarono utili le raccomandazioni di Vittoria, che le aveva
consigliato, in caso di panico, di concentrarsi sulla propria
respirazione. Un, due: inspira, respira.
«Presidente, se lei è d’accordo, direi di far vedere
alla ragazza gli scritti solo al termine della prova e di cominciare subito
l’orale, così finiremo prima» propose, a quel punto, la
Valenti, girando la testa in direzione di Arcani, che stava appunto per
confermare, quando fu interrotto dall’intromissione di Bellocchi.
«Mi sembra un’ottima idea, presidente. La mia collega ha
avuto senz’altro un’intuizione eccellente nel voler
agevolare questa ragazza, che è svantaggiata rispetto
ai suoi compagni, che hanno seguito un anno di lezioni».
Sia la ragazza che la professoressa si voltarono nello stesso momento
verso l’uomo, il quale esibiva un’espressione così
composta e apparentemente
naturale che chiunque avrebbe pensato che fosse in buona fede;
tuttavia, a Beatrice, invece, non sfuggirono le sottili e velate
insinuazioni
che aveva messo in quelle parole, ma, purtroppo, non fu lo stesso per
il capo della commissione.
«Sono d’accordo» fece, infatti, questi, annuendo. Poi, si
rivolse agli altri insegnanti: «E voi, professor Sallusti e
Modesti? E anche lei, professor Antonioni? Che cosa ne pensate?»
Mentre i docenti di latino, storia dell’arte e fisica
esprimevano la loro approvazione, la fanciulla si dedicò a
studiare a fondo il volto del suo nemico, scorgendovi il ritratto della
soddisfazione.
“Che ipocrita!”
pensò, essendo arrivata alla conclusione che quell’uomo,
molto probabilmente, intendeva accaparrarsi la simpatia del presidente
per raccomandare proprio i due cretini che avevano maltrattato lei e
chissà quanti altri sfortunati compagni.
«Antonioni, vuole iniziare lei?» chiese improvvisamente Sallusti
al collega, membro esterno di fisica che aveva preso il posto di
Bellocchi-bis, ridestando immediatamente Beatrice e procurandole una
bella tachicardia: perché dovevano cominciare proprio con la
materia che le era più ostica? Poi, però, la ragazza
rifletté meglio sulla questione e si accorse che, forse, sarebbe stato meglio
togliersi di torno il prima possibile le discipline in cui era meno
ferrata, anche se iniziare bene
l’orale le avrebbe garantito una buona prima impressione.
Antonioni accettò la proposta e subito, passandosi ripetutamente una
mano in mezzo ai capelli corvini, meditabondo, mise un foglio bianco
davanti alla fanciulla e le porse una penna, scrutando concentrato il
ripiano della cattedra, sicuramente pensando a quale domanda farle.
Dopo qualche secondo, finalmente, si decise e, sollevando lo sguardo su
di lei, parlò.
«Vediamo... perché non ci parli della... seconda legge di Ohm?»
Per qualche istante, la giovane rimase ferma a fissarlo, ancora con la
mano con cui aveva preso la penna ancora a mezz’aria, pensando
all’ostinazione e alla pazienza che le aveva dimostrato Marcello
nell’insistere affinché studiasse bene
quell’argomento a cui, a dirla tutta, se fosse stato per lei,
avrebbe dedicato il minimo dell’attenzione. Così, mandando un
silenzioso ringraziamento al giovane e annuendo all’insegnante,
Beatrice appoggiò la penna sul foglio e iniziò.
***
«Vittoria, si
può sapere dove stiamo andando?» si arrischiò a
domandare Gerardo, dopo più di un’ora di marcia
forzata, durante la quale nessuno dei due aveva emesso una sola
sillaba.
«Lo scoprirai presto!» replicò la ragazza,
senza nemmeno voltarsi indietro, continuando a camminare con passo
spedito e sicuro.
Perplesso per quella risposta lapidaria, il giovane si guardò
bene dal fare altre domande, limitandosi a seguire la sua fidanzata per
le vie del centro cittadino, ignaro di cosa le stesse passando per la
testa. Infatti, lei quella mattina l’aveva quasi buttato giù
dal letto dicendogli soltanto che avevano una missione da compiere per
il bene di Marcello e Beatrice, anche se poi non gli aveva fornito
ulteriori particolari, né, soprattutto, quale
fosse il suo ruolo.
Tuttavia, quando Vittoria si arrestò davanti alla porta della
merceria di Via della Mercede, fu come se le sinapsi del ragazzo si
fossero attivate tutte insieme e quello finalmente intuì che la famosa missione
riguardava il matrimonio del loro migliore amico.
Non appena i due giovani entrarono nel negozio, il tintinnio
della porta richiamò Alessio e Valentina che, ormai in
vacanza, trascorrevano quasi tutto il tempo nel laboratorio della
madre.
«Gerardo!» lo salutò subito la bambina con un gran sorriso, correndogli incontro.
«Sei
da solo? E Marcello dov’è?» gli chiese, invece,
Alessio, alzandosi sulle punte e sbirciando dietro di lui, come se si
aspettasse che il biondo si fosse nascosto per fare loro una sorpresa.
«Oggi è rimasto in ufficio, aveva molte cose da
sbrigare» spiegò il ragazzo, abbassandosi
all’altezza dei due e facendo spallucce, «però, non
sono da solo» aggiunse, sollevando il capo verso la compagna e i
fratelli, seguendo la direzione che aveva indicato loro, scorsero Vittoria, squadrandola per qualche
secondo senza parlare.
«Io ti ho già vista» notò
poi Valentina, inclinando la testa da un lato e dondolando sul posto.
«Vengo molto spesso a fare acquisti qui» replicò la
ragazza, incurvando le labbra con dolcezza. «Anche io vi ho
già visto, solo che non ci siamo ancora presentati».
Invece, Alessio, diffidente come il solito, si limitò a scrutarla ad
occhi socchiusi, mentre la sorella, più intuitiva, dopo aver guardato attentamente prima l’uno e
poi l’altra, si voltò verso Gerardo e gli chiese, con
innocente candore: «Lei è la tua principessa?»
A quella domanda, quello si tirò su immediatamente, sentendosi andare a fuoco e, imbarazzato, balbettò un ehm, sì.
Tale rivelazione, però, fece cambiare
repentinamente espressione ad Alessio, che si avvicinò
subito a Vittoria.
«Come ti chiami?» le chiese.
«Vittoria» rispose lei, sorridendogli.
«Hai un nome da regina!» notò lui,
ammirato.
«A scuola, la maestra ci ha raccontato di una regina
d’Inghilterra che si chiamava come te».
«Vittoria, hai già baciato Gerardo?» intervenne, a
quel punto, Valentina, che non aveva affatto dimenticato la
conversazione che lei ed il fratello avevano avuto con il giovane prima
di Natale.
Vedendo però che il ragazzo non rispondeva, esibendosi, invece,
nella sua perfetta imitazione di un pesce rosso, la bambina si
sentì in dovere di raccontare a Vittoria anche il resto:
«Sai, ci ha
detto che
è un principe ranocchio e solo con un tuo bacio
può
trasformarsi» spiegò.
A quel punto, quella parve capire tutto e si voltò verso il
giovane che, sempre più rosso, ricambiò l’occhiata,
sbattendo le palpebre: mai avrebbe immaginato, infatti, che un giorno la sua
fidanzata sarebbe venuta a conoscenza di quell’aneddoto e, in
quel momento, avrebbe voluto solo sparire nel nulla.
La ragazza, però, fu di tutt’altro avviso, come
lasciò intendere quando rispose, intenerita: «Certamente. Anzi,
direi che è diventato un principe
perfetto!»
A quel punto, con un provvidenziale intervento, la signora Sofia
attirò l’attenzione su di sé, permettendo a Gerardo di
tirare un sospiro di sollievo.
«Alessio, Valentina, si può sapere chi state
importunando?» domandò, severa, avanzando verso i figli
con le braccia incrociate sul petto. Poi, però, scorgendo il
giovane, assunse un’aria sorpresa.
«Ah, ciao Gerardo! È parecchio tempo che non ti
vedo» commentò, scrutandolo pensierosa. Dal canto
suo, lui non si meravigliò per la sua reazione, poiché
era quasi certo che la donna si era ricordata che l’ultima volta
che si erano visti era stata in occasione del rapimento di Beatrice, e
rispose, educatamente: «Buongiorno, signora. Sì, è
passato qualche mese».
La sarta, allora, aprì la bocca, forse per chiedergli se potesse fare qualcosa per lui, quando notò Vittoria.
«Oh, ciao, cara. Perdonami, non ti avevo vista» si
scusò. «Hai un viso conosciuto, o sbaglio? Mi sembra che non sia
la prima volta che vieni qui».
«Sì, ha ragione, sono una sua cliente, anche se oggi sono
venuta per farle una richiesta un po’ particolare»
spiegò subito Vittoria, togliendosi la borsa dalla spalla e posandola in un angolo del bancone.
«Di che cosa si tratta?» chiese, allora, la donna, appoggiandosi
a sua volta contro di esso e guardando incuriosita la sua interlocutrice.
«Io ed il mio fidanzato vorremmo fare un regalo speciale ad una
coppia di amici» spiegò la ragazza, facendo arrossire
nuovamente Gerardo, questa volta sotto l’occhiata interessata
della donna. Il giovane, infatti, non aveva ancora imparato a non
imbarazzarsi vistosamente ogni volta che veniva presentato
o si presentava lui stesso come il ragazzo di Vittoria, poiché
gli sembrava ancora troppo bello per essere vero.
«Come saprà, Beatrice e Marcello si sposeranno il prossimo
agosto, ma l’orgoglio di quella cara ragazza sta mettendo
seriamente a rischio la possibilità che abbia un abito da sposa
degno di questo nome» proseguì, intanto, l’altra, dimostrando
una particolare delicatezza nel riferire con poche e semplici parole il
succo della discussione che aveva avuto con l’amica in merito
alle scarse finanze di cui disponeva e alla sua ostinazione a voler
fare tutto da sola.
In risposta, la signora Sofia sospirò, portandosi una mano su un
fianco e l’altra sulla guancia, in atteggiamento addolorato.
«Quella povera bambina è stata molto sfortunata,»
mormorò, quasi tra sé e sé, avendo capito
perfettamente la situazione, «perciò, se potrò dare una
mano per renderla felice, lo farò volentieri».
Dopo una tale
risposta, il giovane vide la compagna congiungere di colpo le mani e,
a giudicare dal sorriso che si era appena dipinto sul suo volto, capì che doveva
aver raggiunto il suo scopo.
«Ero sicura che sarebbe stata d’accordo. Sono convinta che, unendo le nostre forze, potremo regalare a
Beatrice un abito eccezionale!» esclamò, felice di aver
trovato un’alleata.
Fu
proprio allora che anche a Gerardo fu chiaro ciò che aveva
architettato Vittoria e dovette ammettere che la ragazza non smetteva
mai di stupirlo: si prodigava sempre molto per gli altri,
arrivando anche a mettere se stessa da parte, come era accaduto il giorno del
suo compleanno che, cadendo poco più di una settimana prima
dell’inizio della maturità, aveva preferito passare a casa
ad aiutare l’amica, decidendo di rinviare i festeggiamenti al
momento in cui anche Beatrice avrebbe potuto prendervi parte.
A quel ricordo improvviso, il ragazzo sorrise, sentendosi fiero di lei.
«Ovviamente, alle spese penseremo noi, vero, Gerardo?» gli
chiese proprio in quel momento lei, togliendolo ai suoi dolci pensieri.
«Certo. Non sarò un esperto di vestiti e cucito, ma anche io voglio dare
il mio contributo» rispose lui, regalando all’altra un
sorriso partecipe e quella, subito dopo aver ricambiato,
tornò a rivolgersi alla donna: «Però, lei, in quanto sarta, ci dovrà aiutare con la realizzazione».
«È implicito!» ribatté subito la signora
Sofia. «Aspettatemi un attimo, vado a prendere alcuni cataloghi di
abiti da sposa, d’accordo?» aggiunse poco dopo, sparendo rapidamente nel retrobottega e
riemergendone una manciata di minuti più tardi, con le braccia
cariche di raccoglitori e fascicoli con la copertina translucida.
«Sì, che bello, regaleremo a Beatrice un abito da
principessa!» fecero i bambini, in coro, cominciando a saltellare
per il negozio come caprioli.
«Ecco, a proposito di principesse... la prego di non pensare a
nulla di pomposo come i modelli che vanno ora» si
raccomandò Vittoria, prendendo un catalogo e cominciando a
sfogliarlo, aggrottando la fronte. «Mi spiace per Lady
Diana, ma il suo vestito era orrendo... Su Beatrice vedo più
qualcosa alla Grace Kelly».
«Oppure qualcosa come questo, simile al modello che l’atelier
delle Sorelle Fontana
realizzò per Linda Christian7,
anche se non è una principessa in senso stretto» propose, invece,
la sarta, staccando un pieghevole da un raccoglitore e sottoponendolo
all’attenzione della ragazza, che lo prese e cominciò a
studiarlo attentamente in tutte le sue parti.
Gerardo, nel guardare la sua fidanzata così presa, non
poté far meno di buttare anche lui un occhio su tutte quelle
foto e, per quanto sapesse di non essere un esperto
di moda, si ritrovò a pensare che la sua Vittoria, con indosso
uno di quelli, sarebbe stata davvero bellissima. Tuttavia, si rese anche conto che, prima di
portarla all’altare e di vederla vestita di bianco, avrebbe
dovuto chiederle di sposarlo...
«Anche noi vogliamo partecipare! Non lasciateci fuori!»
protestò in quel momento a viva voce Valentina, mettendo il broncio e annodando
le braccia sul petto.
«Sì, Beatrice è anche nostra amica!» le diede man forte Alessio, alzando orgogliosamente il mento.
Divertita da quell’intervento, la giovane si voltò verso
quelle due pesti e si chinò verso di loro, appoggiando le palme
sulle ginocchia.
«Certamente, bambini» disse loro, facendo l’occhiolino. «Per fare una sorpresa con i fiocchi... c’è bisogno della collaborazione di tutti!»
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Come sempre, grazie alla mia Anto
e alla sua pazienza.
***
[N.d.A]
1. scontri
in Libano... X Legislatura:
nel giugno 1987, la Siria intervenne militarmente a Beirut (capitale
del Libano) per
porre
fine agli scontri tra sunniti e sciiti (attivi dal 1975), anche se la
guerra civile terminerà solo nel 1990; 14 giugno dello
stesso
anno, in Italia, si svolsero le
elezioni
politiche per la X Legislatura;
2. “Marcia
Trionfale”... Traviata: forse questa nota
è inutile, ma mi sento di dover giustificare gli articoli
che ho messo davanti ai vari titoli. La
“Marcia Trionfale” perché è
sottinteso che è un’aria, il
“Va’,
pensiero” perché è un coro e il
“Libiamo ne’ lieti calici”
perché è un valzer. Inoltre, faccio presente che
nel Va’,
pensiero ho aggiunto l’apostrofo (Va’
è forma apocopata di Vai),
nonostante nel libretto orginale la grafia ne fosse priva,
perché preferisco la forma più moderna (e
più corretta);
3. ponte di Ariccia:
si tratta di un monumentale viadotto che collega Ariccia e Albano
Laziale. È conosciuto con il nome di ponte dei suicidi,
poiché, vista la sua considerveole altezza (60 metri), molte
persone si sono gettate da esso per togliersi la vita. Considerato
l’alto tasso di morti, l’ANAS, a partire dal 2000,
ha
disposto delle barricate di contenzione lungo tutto il percorso del
ponte, così da ridurre i tentativi di suicidio;
4. tema... greco: tra le tracce della prima prova del 1987, ho pensato che per
Beatrice fosse perfetta quella che invitava ad argomentare e commentare
una frase di Norberto Bobbio sulla definizione di cultura; invece,
la seconda prova del liceo classico fu una versione di Platone;
5. Roscia:
nel dialetto di Roma e dintorni, la storpiatura roscio
dell’aggettivo rosso
(riferito ai capelli) per lo più ha una valenza
dispregiativa, in accordo con la
credenza popolare che i possessori di capelli rossi portino sfortuna e,
addirittura, possano essere creature malvagie;
6. sessanta:
ovviamente, negli
anni ‘80, la votazione all’Esame di Stato era in
sessantesimi, quindi il sessanta rappresenta il voto massimo (e non il
minimo, come oggi);
7. un abito pomposo...
Linda Christan: Lady Diana si è sposata il 29
luglio del 1981 e lo
sfarzoso
modello del suo abito nuziale ha influenzato molto la moda delle spose
di tutti gli Anni ’80. Invece, i vestiti di Grace Kelly
(sposatasi
il 19 aprile del 1956) e di Linda Christian (la mamma di Romina Power,
sposatasi il 28 gennaio 1949), seppur nella loro ricercatezza, appartenendo ad altri momenti
storici, hanno avuto una linea
più semplice.
***
Salve a tutti!
Arrivati a questo punto, posso dire che ci troviamo in un
momento di transizione - come già annunciato dal titolo -,
poiché la seconda parte di questo
racconto è ufficialmente conclusa e, dal prossimo
aggiornamento,
comincerà la terza ed ultima, in cui tornerà a farsi sentire la componente “poliziesca”.
Prima di passare ai saluti, ringrazio di cuore chiunque sia ancora qui
tra i lettori, chi aspetta con pazienza che questa storia arrivi alla
sua fine, chi l’ha messa tra le seguite/ricordate/preferite,
chi
mi ha lasciato un’opinione la scorsa volta (Feynman, Aven, Anto).
In ultimo, vi lascio, come il solito, il link alla mia pagina
facebook,
dove presto pubblicherò un estratto dal capitolo ventesimo e
altre cinque curiosità sulle mie storie (ho visto che la
precedente iniziativa è stata apprezzata da diverse persone).
Alla prossima!
Halley S.C.
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Capitolo 20 *** Capitolo Ventesimo - Vento di Cambiamenti ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 20
- Capitolo Ventesimo -
Vento
di Cambiamenti
Contrariamente
a quanto aveva sostenuto Bellocchi, Beatrice dimostrò di
possedere una preparazione di gran lunga superiore a gran parte dei
suoi studenti e questo, alla fine, le valse un bel cinquantaquattro.
La mattina in cui uscirono i quadri, la fanciulla incrociò
per
caso proprio il professore di lettere nel corridoio al piano terra e,
dall’occhiataccia che questi le lanciò quando le
passò
accanto, sembrò non aver gradito quel brillante risultato.
Non
che a lei importasse più di tanto, comunque, visto che non
lo avrebbe più rivisto; tant’è che si lasciò
subito contagiare dall’entusiasmo di Vittoria, la quale le
aveva appena confessato di non essere stata così soddisfatta
nemmeno ai tempi del suo esame di maturità.
Infatti, mentre percorrevano Corso Trieste sotto il caldo asfissiante
dei primi di luglio per raggiungere la fermata dell’autobus,
situata lungo Via Nomentana, quella, cavalcando l’onda
dell’entusiasmo, esclamò: «Ero certa che
sarebbe
andato tutto bene!»
«A dire il vero, se prima degli esami m’avessero
detto che
l’epilogo sarebbe stato così
soddisfacente,
non c’avrei
creduto!» replicò, invece, la fanciulla,
che ancora
non aveva realizzato appieno di essere sopravvissuta
anche a quell’incubo.
«Perché ti sottovaluti troppo, Beatrice»
ribatté, a sua volta, l’altra, fermandosi un
attimo per
scrutarla severamente. «Se si fanno le cose con impegno e
determinazione, quasi sicuramente vanno a buon fine e gli sforzi non
vengono ripagati».
In risposta, la ragazza si limitò a sorridere,
poiché, di fronte all’evidenza dei fatti, non aveva
proprio nulla da aggiungere.
«Adesso non ti resta che scegliere la facoltà che
vorrai
frequentare, allora» continuò Vittoria, riprendendo a
camminare dopo aver spostato la borsa color panna da una spalla all’altra.
«Se vuoi, posso accompagnarti a chiedere
informazioni sui vari corsi, così potrai fare dei
confronti».
Nell’udire quelle parole, Beatrice realizzò
improvvisamente che la possibilità di
frequentare l’università era diventata una
realtà
concreta e farlo sarebbe stata una scelta solamente sua, senza che ci
fossero parenti invadenti o egoisti a metterle i bastoni fra le ruote:
il suo desiderio di emancipazione e riscatto, finalmente, non era
più
soltanto un sogno.
«Se’
molto gentile,
Vittoria, tuttavia, credo
di aver già
deciso: m’iscriverò a storia
dell’arte» le
rispose, dopo essersi presa qualche secondo per assaporare
quell’invitante prospettiva.
«So che ti piace molto come indirizzo, quindi penso sia davvero quello che fa per te» replicò
subito
l’altra, sorridendole compiaciuta, e la fanciulla
annuì,
ricambiando il sorriso.
Certo, ci sarebbe stato il problema dei come pagare le tasse
universitarie, ma era convinta che, in un modo o nell’altro,
se
la sarebbe cavata, come aveva fatto fino ad allora. Infatti, la signora
Sofia le aveva lasciato intendere che a settembre
l’avrebbe riassunta volentieri e, magari, le cose si
sarebbero
sistemate da sole, anche perché non era nelle sue intenzioni fare la mantenuta pesando sulle spalle di Marcello,
nonostante fosse ad un passo dal diventare suo marito e non avesse
problemi economici.
Come
se avesse
intuito i suoi pensieri, l’amica propose,
tutto
d’un tratto: «Che cosa ne dici, Beatrice, se
passassimo un
attimo in merceria?»
Lì per lì, la fanciulla rimase sorpresa e
rispose: «Adesso?»
«Certamente! Non ti farebbe piacere informare la tua
benefattrice
del tuo brillante risultato?» replicò
l’altra,
proprio mentre svoltavano in Via Nomentana, lasciando l’ombra
protettiva degli edifici e ritrovandosi sotto un sole cocente.
«In effetti, credo che
tu abbia ragione, sai? Mi sembra il minimo dopo che
ho lasciato
il lavoro per prepararmi meglio»
notò Beatrice, socchiudendo gli occhi e schermandoli con il palmo della mano
per evitare di essere accecata dall’intensa luce del mattino.
Tuttavia, non le sfuggì comunque il largo
sorriso di Vittoria, che le fece sospettare
ci
fosse un altro motivo di tutt’altra natura dietro quella deviazione improvvisa.
Ciononostante, non le fece altre domande e la seguì,
affrettandosi a raggiungere la fermata dell’autobus.
Alessio
e Valentina videro le due ragazze da lontano e, senza indugiare nemmeno
un secondo, corsero loro incontro.
«Beatrice, finalmente sei tornata!» la
salutò la
bambina, prendendole le mani e cominciando a saltellare allegramente,
come se avesse rivisto dopo tanto tempo la sua compagna di
scuola preferita.
«Ciao, Vittoria!» le fece eco il fratello,
avvicinandosi all’altra.
Quella confidenza inaspettata richiamò subito
l’attenzione di Beatrice, che inarcò un
sopracciglio e
chiese, incredula: «Vi conoscete?»
Il ragazzino si voltò subito verso di lei, guardandola sbattendo le
palpebre.
«Sì, è già venuta
per...»
cominciò a spiegare, prima che la sorella lo zittisse
tirandogli
un calcetto. Alessio tentò di protestare, ma Valentina
scosse la
testa, portandosi nel frattempo un indice alle labbra. Il bimbo, allora, cambiò repentinamente espressione ed
ammutolì.
Insospettita da una reazione simile, Beatrice scrutò perplessa i
due fratelli e stava proprio per chiedere loro spiegazioni, quando
intervenne prontamente Vittoria: «Be’,
vengo spesso qui a fare rifornimenti di stoffe e bottoni. Non
ricordi, Beatrice, che una volta mi hai servita proprio tu?»
Di fronte ad una tale prontezza, la fanciulla si
voltò verso l’amica e aggrottò la
fronte. Tuttavia,
non potendo controbattere la veridicità
dell’affermazione,
tacque, ma senza abbassare la guardia, intuendo che nessuno dei tre gliela stava
raccontando giusta. Comunque, decise di accantonare momentaneamente la
faccenda, sperando di ottenere più tardi qualche
delucidazione
da Vittoria.
Quando, poco dopo, entrò nel negozio, la ragazza lo trovò
molto
cambiato, con numerosi costumi da bagno appesi un po’ ovunque
e
colorate borse di paglia da mare disposte con ordine in ogni angolo.
Il solito tintinnio del campanello posto dietro la porta
richiamò immediatamente la sarta, che comparve dal
retrobottega
portando due bicchieri colmi di
fettine di pesca per la merenda dei bambini.
Non appena vide Beatrice, però, appoggiò tutto sul bancone e, sorridendo, le andò
incontro.
«Cara, che sorpresa!» esclamò,
abbracciandola affettuosamente. «Come stai?»
«Molto bene, signora Sofia. E lei?» rispose la
giovane, incurvando a sua volta le labbra.
«Bene, bene, non c’è male»
fece l’altra,
inclinando appena la testa. «Hai finito gli esami?»
Accompagnando le parole con un gran sospiro di sollievo, Beatrice
annuì e non perse altro tempo:
«Oh, sì, son passata proprio per dirle che stamani ho saputo il
risultato: cinquantaquattro!»
«Sei stata bravissima!» si congratulò,
allora, la
sarta, battendo le mani con grazia. «Anche se, in
realtà,
non ho mai avuto alcun dubbio sulle tue capacità».
«Che voto sarebbe cinquantaquattro?»
domandò, invece,
Alessio, entrando nel negozio, seguito dalla sorella e da
Vittoria.
Beatrice li fissò per un attimo aggrottando la fronte,
rendendosi conto solo in quel momento che quei tre avevano lasciato che
andasse avanti da sola, rimanendo fuori a confabulare tra loro e decisamente questo
deponeva a loro sfavore, rafforzando i suoi sospetti. Ma che cosa stavano macchinando alle sue spalle?
«Sarebbe un nove, più o meno» rispose,
perplessa,
scrutando prima i due bambini e poi Vittoria,
cercando di cogliere qualche particolare che l’avrebbe
tradita,
ma invano: la ragazza sembrava il ritratto della serenità e
qualunque cosa avesse architettato, stava riuscendo a dissimulare molto
bene il suo coinvolgimento.
«Allora sei stata proprio brava!»
commentò Valentina, distraendo la fanciulla dalle sue elucubrazioni.
«Chissà se
riuscirò anch’io a prendere un voto
così
alto...» aggiunse, assumendo un’espressione
preoccupata. Il
fratello, invece, sbuffò e roteò gli occhi.
Divertita dalle precoci preoccupazioni della figlia, la signora Sofia
le sorrise e le accarezzò i capelli, rassicurandola:
«Per
ora non ci pensare, ci vuole ancora un po’ di tempo prima che tu vada al liceo...»
«Peccato, io non vedo l’ora di finire!» saltò
su, allora, il bambino, scurendosi in volto e dimostrando ancora una
volta di non nutrire verso la scuola lo stesso entusiasmo della sorella.
A quella simpatica uscita, la madre guardò Alessio con
dolcezza
e scosse la testa, per poi tornare a rivolgersi a Beatrice:
«Cara, come procede l’organizzazione del
matrimonio, invece?»
«Abbastanza bene, anche
se non abbiamo chissà quali grandi
preparativi da ffare...
Sa, con Marcello si
è pensato di fare una
cosetta
piuttosto semplice»
rispose lei, sentendosi subito angosciata al solo ripensare al fatto
che la madre di lui non solo aveva negato loro il suo aiuto,
ma aveva anche fatto il diavolo a quattro affinché nessuna
delle
sue conoscenze prendesse parte alla cerimonia: il risultato era che avevano solo una
manciata di invitati e ben pochi festeggiamenti da organizzare.
Il fatto, poi, che la donna continuasse a far finta che Beatrice
non
esistesse, ignorandola ogni volta che si erano ritrovate nelle stessa
stanza (e, per fortuna, era successo solo in un paio di occasioni, da
quando Marcello le aveva fatto la proposta), aveva contribuito
a
far nascere nella fanciulla un astio verso di lei pari solo a quello
che anutriva nei confronti delle sue parenti e di Navarra. Ma
ciò che la amareggiava di più, però, era
l’esser certa che, se invece di remare loro
contro,
la signora Claudia avesse impiegato le sue energie e la sua
capacità di persuasione in senso positivo, ne sarebbe venuto
fuori sicuramente un matrimonio dignitoso e molto raffinato.
«E... per quanto riguarda il tuo vestito da
sposa?» chiese ancora la sarta, distogliendo la
ragazza dai
suoi cupi e angusti pensieri.
«Non l’ho ancora avuto tempo di andare a provarne
qualcuno» le rispose quella, facendo spallucce.
«Gli esami hanno avuto la precedenza» spiegò
Vittoria, che fino a quel momento era stata insolitamente zitta.
Tuttavia, aveva usato un tono quasi divertito che stupì non
poco
Beatrice, che per questo cominciò a temere che le stessero
organizzando qualche scherzo, nonostante la sua parte più
razionale stesse tentando di tranquillizzarla, sostenendo che quella
ragazza e, soprattutto, la signora Sofia non erano persone in grado di
prendersi gioco di lei. Anche se, d’altra parte, era così evidente che le
stavano tenendo nascosto qualcosa...
«Già» mormorò, allora, Beatrice,
osservando di
sottecchi l’amica, decisa a scacciare
quell’inquietudine che si era impossessata di lei. Poi,
si ricompose
e
tornò a rivolgersi alla donna: «A proposito,
signora
Sofia, lei saprebbe suggerirmi qualche negozio che ne ha di
carini, ma a basso prezzo? Andrebbe bene anche... usato».
Non appena ebbe finito di pronunciare quella domanda, nella merceria
calò un silenzio pesante e la sarta guardò la
fanciulla
con un misto di dolore ed incredulità, come se non avesse
mai
pensato che la sua ex lavorante potesse farle una
richiesta del genere. Sotto un tale sguardo, Beatrice si
sentì
arrossire, poiché non voleva la pietà di nessuno:
la
faccenda era già
abbastanza
spinosa, senza che si aggiungesse anche la compassione di una persona
che reputava un’amica.
Tuttavia, la donna mutò presto la sua espressione in una di
pura
gioia e, scuotendo la testa, le rivelò a bassa voce, come se
le
stesse confidando un importante segreto: «Oh, no, cara. A
dire
il vero, non credo proprio ce ne sarà bisogno».
Detto ciò, si allontanò con il sorriso di chi la
sa lunga
stampato sul volto, diretta verso il retrobottega, mentre Alessio e
Valentina la guardavano ridacchiando. Sconvolta da un simile
atteggiamento, Beatrice si chiese se non fossero ammattiti tutti o se,
invece, non fosse prigioniera di una strana allucinazione in cui era finita in
una realtà alternativa. Istintivamente, cercò con
lo
sguardo Vittoria, per poi accorgersi che anche lei stava cercando di trattenersi dal
ridere.
Stava proprio per sbottare, stizzita, e chiedere perché si stessero
divertendo a trattarla come una stupida, quando la signora Sofia fece
ritorno nel negozio, reggendo con una mano una gruccia e con
l’altra un enorme sacco di tela bianca che pendeva dal
gancio.
Non era la prima volta che Beatrice vedeva un oggetto del genere, perciò lo
riconobbe subito come una sacca porta-abiti.
«Aprilo,
è per te» le disse con dolcezza la donna,
appoggiando tutto sul bancone, proprio davanti a lei. «Questo
è da parte di tutti noi».
Lì per lì, la fanciulla rimase di stucco, non
sapendo
proprio cosa potesse contenere quell’involucro di stoffa, tant’è che
si
limitò a far scorrere lo sguardo su tutti i presenti, i quali la guardavano a loro volta, incuriositi, come se
aspettassero di conoscere la reazione che avrebbe avuto
nell’aprire quel misterioso regalo.
A quel punto, Alessio e Valentina le si avvicinarono e le si disposero uno per lato,
per essere i primi a condividerla con lei e, allora, la
ragazza, incoraggiata da quel gesto, afferrò il cursore
della
chiusura lampo che chiudeva la sacca e, dopo aver preso un bel respiro,
lo tirò giù, fin oltre la metà, in un sol colpo, rivelando ben presto un
trionfo di seta e pizzo color bianco ghiaccio.
Non riuscendo a credere ai propri occhi, Beatrice si adoperò
per liberare immediatamente il vestito e per poterlo
così
ammirare meglio: infatti, sembrava uscito direttamente da una fiaba, non
perché fosse pomposo o particolarmente ricco nei ricami,
anzi,
era davvero semplice, bensì perché era stato
fatto
apposta per lei.
«L’è
meraviglioso...» riuscì a stento a mormorare,
passando
delicatamente le dita sulle maniche di pizzo, incantata da ogni particolare.
«Ti piace?» chiese Valentina, osservandola
speranzosa.
«Da morire, piccina...»
le rispose Beatrice, poco prima di appoggiare con estrema cura
l’abito sul bancone e chinarsi sui due bambini per abbracciarli.
«Grazie,
grazie
mille!» esclamò, commossa, rialzandosi, mentre
Alessio
gonfiava il petto, orgoglioso per la sorpresa ben riuscita e la sorella
batteva le mani, felice. Poi, la fanciulla si diresse verso la signora Sofia e Vittoria, per ringraziare anche loro.
«Ero certa che ti sarebbe piaciuto!» fece
l’amica,
con un gran sorriso, ricambiando il caloroso abbraccio che aveva
ricevuto. «Altro che abito da sposa usato!»
«Davvero, non riuscirò mai a dirvi grazie abbastanza...» sussurrò l’altra che,
pur sapendo
di avere un’espressione da sciocca dipinta sul volto, non se
ne
curò, volendo godersi pienamente quel momento di
felicità.
«Be’, potresti farlo indossandolo
per noi, in
anteprima» propose, allora, la donna, ammiccando verso di lei, per poi
recuperare dal cestino di vimini che teneva sul bancone un metro da
sarta e un puntaspilli. «Così, in caso ci sia
qualche
piccolo difetto, potrò sistemarlo. Avendoti aiutato a
sistemare
altri tuoi capi, conosco le tue misure, ma è un’altra
cosa vedere un vestito indosso».
A quel punto, Vittoria prese una busta di plastica nera e rigida dietro
di sé e ne estrasse quella che aveva tutta l’aria
di
essere una scatola per scarpe di colore blu cupo.
«Allora, credo sia il caso che provi anche queste,
Beatrice» le disse, porgendogliela. «Sono da parte
di
Gerardo... anche se, a dire il vero, le ho scelte io».
Sbalordita da quell’ulteriore sorpresa, la fanciulla
riuscì a malapena a balbettare un ringraziamento per il
giovane, che l’altra la sollecitò ad aprirlo, rivelando qualcosa di fondamentale per
completare la sua gioia: un paio di décolletées
dello stesso colore del vestito.
«Avevano terminato quelle in cristallo»
scherzò
Vittoria, «ma trovo che anche queste facciano la loro bella
figura» aggiunse poi, visibilmente soddisfatta.
La fanciulla, stordita, stava per ricominciare a profondersi in
ringraziamenti, quando, tutto d’un tratto, notò
che
Valentina stava venendo verso di lei, reggendo in mano un cerchietto
ricoperto di perline bianche e lucide.
«Questa l’abbiamo fatta noi, perché sei
una
principessa e devi avere la tua corona!» le spiegò
Alessio, mentre la sorella consegnava il loro regalo a Beatrice, la
quale rimase a fissarlo per qualche istante, sopraffatta dalle troppe
emozioni.
«Ci ha aiutato un po’ la mamma,
però» ammise timidamente la bambina, alzando le
spalle.
Tra tutti i regali che aveva ricevuto, fu in assoluto quello che
la commosse di più: quelle piccole pesti avevano realizzato
un
regalo con le loro mani perché le volevano bene e la
fanciulla
sentì che era stato proprio quel gesto, così puro, a
cancellare
ogni ingiustizia che le aveva fatto la Matrona. Per questo, mentre
si
inginocchiava davanti ai due fratelli, piangendo e stringendoli
dolcemente tra le sue braccia, si sentì incredibilmente
fortunata.
***
In piedi, di fronte allo specchio interno al suo armadio, Marcello
stava finendo di annodarsi il papillon.
Aveva sempre preferito le cravatte e con quel caldo avrebbe preferito
non mettere proprio nulla che gli stringesse il collo, ma non poteva lamentarsi il giorno del suo matrimonio,
soprattutto perché c’era già qualcun
altro che lo
stava facendo per tutti: sua madre. Infatti, la Matrona aveva
cominciato fin dalla colazione a sbraitare per ogni piccola cosa,
facendo addirittura piangere Elisa, la più giovane delle
cameriere, accusandola di aver apparecchiato mettendo i coperti a una
distanza eccessiva l’uno dall’altro, mentre il
signor
Giancarlo, invece, si era limitato a sospirare, scuotendo la testa e
lanciando, di tanto in tanto, occhiate esasperate al figlio.
L’unica cosa che si augurò il giovane, perciò, fu che,
almeno, la
signora Claudia avesse esaurito tutta la sua voglia di urlare prima di
entrare in chiesa, altrimenti non si sarebbe certo opposto se Don Marco l’avesse cacciata fuori.
Finito anche quell’ultimo dettaglio, con un sospiro,
recuperò la giacca nera dal suo letto e, prima di indossarla, la
osservò accuratamente, prendendo coscienza
che da
quel giorno in poi molte cose sarebbero cambiate. Certamente in meglio,
ma era comunque un passaggio importante e non poteva essere che felice
di affrontarlo assieme a Beatrice.
A ridestarlo dai suoi pensieri, giunse poco dopo suo padre che, dopo aver bussato
alla porta e aver ricevuto l’invito ad entrare,
avanzò
verso di lui con un’espressione di assoluta gioia ad illuminargli il volto stanco.
«Manca solo questo» gli disse, appuntandogli
all’occhiello della giacca un bocciolo di rosa bianca, simile
a
quello che indossava anche lui. Poi, alzò lo sguardo e lo
puntò negli occhi del ragazzo, mettendogli le mani sulle
spalle.
«Come ti senti?»
Marcello fece una smorfia d’incertezza, impiegando qualche
secondo per rispondere.
«Ho lo stomaco in subbuglio, ma, a parte questo, direi...
bene» rispose, cercando di apparire più tranquillo
di
quanto non fosse.
Il padre, però, sorrise e scosse la testa, dandogli una
stretta
affettuosa sul braccio e rassicurandolo: «Credo che sia
normale,
figliolo».
In realtà, il signor Giancarlo gli aveva detto appena
qualche
parola, tuttavia, forse per il tono con cui gli si era rivolto o forse
per la sua semplice presenza, il giovane si sentì subito
più rilassato, tanto da concentrarsi sugli ultimi preparativi.
«Hai ritirato i biglietti del traghetto?»
domandò, a
quel punto, il padre, mentre si accomodava sul letto. Il giovane lo
vide con la coda dell’occhio mentre era intento ad allacciarsi le
scarpe e
fu sollevato nel vedere che l’altro si stava riposando: ormai
ricorreva all’uso del bastone solo nei giorni in cui si
sentiva
più stanco o dopo le sedute di
chemioterapia,
tuttavia era comunque meglio che non si affaticasse.
«Sì, ieri pomeriggio.
L’imbarco
è alle cinque e mezzo a Piombino, poi attraccheremo a
Portoferraio, perciò, sicuramente, arriveremo a tarda sera a Marciana
Marina» gli rispose, concedendosi di andare nei
particolari,
poiché sapeva che al padre avrebbe fatto piacere essere messo al corrente
dell’itinerario, avendo girovagato e in largo prima di sposarsi, essendo un amante dei viaggi, delle
escursioni e, in generale, delle programmazioni nel dettaglio.
«La cerimonia finirà per le dodici circa, quindi
dovreste
farcela» concordò, infatti, quello, lisciandosi il
mento
compiaciuto.
«Per fortuna, la traversata è piuttosto breve, poco
più di un’ora e Portoferraio dista da Marciana
Marina
appena sedici chilometri e mezzo1»
aggiunse, poi, Marcello,
tirandosi su e ritornando davanti allo specchio per abbottonarsi la
giacca e lanciare un’occhiata compassionevole ai propri
indomabili capelli: aveva rinunciato in tenera età a
pettinarli
e, dopo aver dichiarato la battaglia contro di loro persa in partenza, fece
spallucce.
L’uomo lo scrutò divertito e, serrando le braccia
contro
il petto, notò: «È stato un gesto molto
carino da
parte tua interessarti ai problemi della proprietà di
Beatrice, sai?
Sono certo che ne sarà molto contenta».
«Sì, anche se la situazione si annuncia
piuttosto...
complicata» rivelò il giovane, serio,
chiudendo
l’anta dell’armadio e voltandosi in direzione
dell’altro che stava proprio per chiedere ulteriori
delucidazioni, quando, purtroppo, la Matrona fece la sua comparsa,
ancora in veste da camera e bigodini.
«Quella sgualdrina che stai per sposare non sarà
mai mia
nuora» dichiarò con enfasi, come se nei mesi
precedenti
non avesse messo già abbastanza in chiaro il concetto.
Marcello, però, la ignorò, non degnandosi nemmeno di guardarla in
faccia e dedicandosi, invece, con particolare concentrazione ad indossare i
fermapolsi.
«Claudia, per favore. Non cominciare di nuovo»
l’ammonì, al contrario, il marito, osservandola con cipiglio
angustiato.
«Almeno oggi, cerca di essere felice per nostro
figlio».
Tuttavia, quella non fu per niente d’accordo con la sua
proposta e, infatti, battendo un piede in terra come una
bambina capricciosa, strillò: «Non chiedermi di
essere
felice per un’unione che non ho mai approvato!»
Nell’udire quelle parole, Marcello sentì montare
dentro di sé una
collera che, nonostante i suoi sforzi, non riuscì a placare.
«Va bene!» sbottò poco dopo, furibondo,
dardeggiando la madre
con un’occhiata di fuoco. Poi, in pochi passi, la raggiunse e,
fissandola con tutto l’astio che covava da tempo verso di
lei, le
sibilò: «Faremo come vuoi: Beatrice non
sarà mai
tua nuora, ma... tu non sarai più mia madre».
Meravigliata ed intimorita, la donna fece per
ribattere, ma Marcello alzò una mano, facendole capire che
non
voleva ascoltare un’altra parola dalla sua bocca. Anzi, senza aggiungere altro, raggiunse a grandi falcate il corridoio,
desiderando null’altro che allontanarsi quanto più
possibile dalla genitrice.
Gli era dispiaciuto perdere la pazienza davanti a suo padre,
soprattutto sapendo che non era al massimo della forma fisica, ma
davvero non ne poteva più di quei continui commenti
velenosi su Beatrice.
Fin da bambino era stato cosciente di non avere una madre
affettuosa e partecipe come tante altre, una figura di
riferimento, dolce e pronta a sostenere i figli nelle
difficoltà: infatti, la Matrona era sempre stata autoritaria, perennemente
insoddisfatta ed eccessivamente critica verso tutto e tutti, rendendosi
insopportabile agli occhi del figlio minore che, al contrario del fratello, aveva smesso di cercare la sua approvazione
nello
stesso momento in cui aveva capito che vedevano le cose in modo troppo
diverso.
Quando, finalmente, arrivò in giardino, si fermò a riprendere fiato,
appoggiandosi ad un vecchio pino accanto al viottolo di ghiaia e, nel
vedere le due biforcazioni che prendevano origine da
quest’ultimo, vi lesse una metafora della situazione che
stava
vivendo in quel frangente.
Quell’ennesima
discussione, per quanto breve, era stata davvero la goccia che aveva
fatto traboccare il vaso e, in quel momento, il giovane prese coscienza
che il suo rapporto con la madre, già ai ferri corti, dopo
il
matrimonio si sarebbe definitivamente lacerato, per poi deteriorarsi a
poco a poco negli anni che sarebbero venuti, senza alcuna possibilità di riavvicinamento.
La signora Claudia, molto probabilmente, non sarebbe stata una nonna
affettuosa con i figli suoi e di Beatrice, non avrebbe mai
invitato tutta la famiglia la domenica a pranzo e non avrebbe mosso un
dito per aiutarli, qualora ce ne fosse stato il bisogno.
Tuttavia,
mentre si staccava dall’albero, Marcello considerò
che, a
conti fatti, non ci sarebbe stata una vera e propria perdita,
poiché, effettivamente, non avrebbe potuto sentire la
mancanza di qualcosa che non aveva mai avuto.
I banchi del Laterano decorati con tulle e gerbere bianche erano
soltanto tre sulla destra e altrettanti sulla sinistra, essendo il
numero
dei partecipanti alla cerimonia vergognosamente esigui e
Marcello si ritrovò a pensare che non era certo un bello
spettacolo vedere una chiesa maestosa come
quella quasi deserta, mentre osservava
Alessio e Valentina che si divertivano a rincorrersi per tutta la
navata centrale, facendo riecheggiare i loro passi. A dirla tutta,
però, il biondo non
ce l’aveva con tutti quelli che avevano declinato
l’invito, per lo più parenti alla lontana e
conoscenti, poiché non avrebbe mai potuto pretendere che
facessero altrimenti, inimicandosi la Matrona, sapendo bene cosa questa
era in
grado di fare e, ancora una volta, il ragazzo si ritrovò a
pensare che sua madre, se non le fosse piaciuto così tanto
frequentare i salotti, sarebbe stata un perfetto capo della malavita.
«Avremo modo di festeggiare in un altro momento»
gli disse, a quel punto, Gerardo, con tono rassicurante, dandogli una pacca sulla
schiena, avendo sicuramente intuito cosa gli stava passando per la
testa in quell’istante.
«Già!» sbuffò
l’altro, contrariato. «Non sarà mai la
stessa cosa, ma
con Beatrice abbiamo deciso di invitare a cena quanto prima sia il
signor Rossiglione e sua moglie, che la
signora Sofia e la sua famiglia. Inoltre, vorremmo organizzare anche un rinfresco
per tutti quelli che ci hanno fatto gli auguri, di persona o
in altro modo» spiegò poi, come se esprimere a
voce alta i propri pensieri, condividendoli con il suo migliore amico,
rendesse meno penosa quella situazione. Sapeva che, probabilmente,
non era
quello che il Galateo suggeriva di fare in una tale occasione, ma, considerando le condizioni, non aveva senso badare troppo
all’etichetta.
«E
noi, invece? In quale gruppo saremo inclusi?»
domandò, a quel punto, Vittoria, intromettendosi nella
conversazione, mentre si sistemava la stola di seta, intonata con
l’abito rosa cipria.
«Sai bene che voi sarete i primi ad essere
invitati» ribatté immediatamente Marcello,
lanciandole un’occhiata obliqua. «Faremo
qualcosa insieme non appena torneremo dall’Isola
d’Elba».
In
risposta, però, la ragazza esibì un sorrisetto
enigmatico e replicò, con estrema sicurezza: «Be’,
a dire il vero, non è detto che dovremo aspettare
così tanto».
Insospettito da quel commento sibillino, il giovane socchiuse appena
gli occhi, scrutando severamente l’amica, ma non fece in
tempo a farle altre domande, perché venne tirato per una
manica da Alessio.
«Marcello, ti possiamo venire a chiamare quando arriva
Beatrice?» chiese il bambino anche a nome della sorella, che
lo guardava da metà della navata centrale,
giocherellando con uno dei nastrini bianchi che aveva tra i capelli.
«Certamente» confermò lui,
lasciando da parte per un attimo i suoi tumulti interiori per sorridere
al piccolo. Quello ricambiò il sorriso e tornò
saltellando da Valentina, per poi cominciare a correre entrambi verso
il portale principale. Proprio allora, il giovane udì
distintamente sua madre lamentarsi a voce alta dell’eccessiva
vivacità dei due fratelli, ma fece finta di ignorarla,
non degnandola nemmeno di un’occhiata, non faticando ad
immaginarsela mentre sparlava di lui con Tiberio ed Ortensia, seduti
accanto a lei, mentre la bambina stava dormendo nel passeggino.
Quello che, invece, reputò più importante fu
appuntarsi mentalmente di scusarsi con la sarta appena conclusa la
cerimonia. La Matrona stava davvero toccando il fondo e, nemmeno
lì, sotto lo sguardo delle statue
dei dodici Apostoli, ognuna incassata in una nicchia lungo la navata, stava cercando di trattenersi.
«Avete litigato anche oggi?» chiese proprio in quel momento Vittoria,
guardando la signora Claudia in tralice.
«Qualcosa del genere» tagliò corto subito il
biondo, alzando lo sguardo verso il soffitto dorato a cassettoni.
«Che pesantezza!» commentò, invece, Gerardo,
scuotendo la testa con disapprovazione.
A quel commento, Marcello sorrise per la seconda volta, tornando a guardare i suoi
migliori amici e ringraziando il Cielo che di poter sempre
contare su di loro, anche nei momenti più delicati e
sconfortanti.
A quel punto, giunse da loro Don Marco, con i capelli scuri pettinati
all’indietro come di consueto e l’abito talare, pronto per
sequestrare i due giovani, il
signor Rossiglione e la signora Sofia per fare un ripasso generale
delle loro mansioni durante la cerimonia, poiché aveva
deciso che non avrebbero fatto solo i testimoni, ma si sarebbero anche
divisi le varie letture della liturgia. Quell’intermezzo,
però, così in linea con l’ossessiva attenzione
per i dettagli del sacerdote, infuse a Marcello una tale
serenità, che decise di perdonarlo per tutte le
difficoltà che
aveva creato a lui e a Beatrice nell’organizzazione del
matrimonio, a cominciare dalle sue proteste per la loro scelta di usare
l’Ave Maria
di Schubert come canto d’ingresso. Infatti, secondo l’uomo,
era poco consono ad un matrimonio, poiché il compositore
l’aveva ideato pensando
all’amante2,
notizia che, invece, aveva lasciato i due
giovani, davvero poco superstiziosi, del tutto indifferenti.
«Marcello, Marcello!» lo richiamò, invece,
concitatamente
Alessio, arrivando da lui trafelato per la corsa, riportando la sua attenzione su
ciò che stava accadendo in quel frangente intorno a lui.
«È
arrivata... è arrivata Beatrice!»
In quell’istante si udì l’attacco
dell’organo. Ciò che accadde dopo fu abbastanza confuso,
poiché, non appena scorse una figura vestita di bianco percorrere la navata sottobraccio a suo padre, scortata da
Valentina che le reggeva il strascico del velo, il giovane rimase in
sua contemplazione man mano che la vedeva avanzare verso di lui. Essendo la
distanza tra il portale e l’abside davvero notevole,
Marcello
poté riconoscere i lineamenti della sua sposa solo quando fu
abbastanza vicina e per questo fu allora che notò lo splendore che
quella emanava
nell’abito realizzato con tanto affetto dai loro amici, con i
capelli rossi raccolti in un morbido chignon laterale ed il bouquet di
gerbere candide e fiori della nebbia.
Finalmente, come risvegliatosi da una specie di torpore, il ragazzo le
andò
incontro e, non appena la giovane ebbe lasciato il
braccio dell’uomo, la prese per mano. Ci fu un rapido e molto significativo
scambio
di occhiate
tra padre e figlio, dopo di che, i due giovani si guardarono e lui non
riuscì a trattenersi dal mormorarle qualche parola.
«Sei un
incanto».
Beatrice arrossì all’istante, ma si
sforzò di non
abbassare gli occhi, seguendolo verso l’altare,
mentre
Valentina, ormai giunta a termine della sua missione, si
andò a
sedere al primo banco sulla destra, accanto al fratello.
Per essere una funzione ufficiata da Don Marco, non durò
oltre
il dovuto. Marcello osservò Beatrice ogni qualvolta ne ebbe l’occasione e
lei fece lo stesso con lui, innescando un gioco di sguardi che
valsero più di ogni parola e che culminò nel
momento
dello scambio degli anelli, portati su un cuscinetto di seta da un
rigidissimo e nervosissimo Alessio, il quale confidò
sottovoce
al giovane, mentre prendeva la fede che avrebbe dovuto mettere
all’anulare di Beatrice, che aveva avuto paura di inciampare
e
rovinare tutto.
«Però è andato tutto
bene,
giusto?» gli sussurrò in risposta il biondo,
rassicurante,
guadagnandosi immediatamente un sorriso più sereno da parte
del
bimbo.
Quindi fu la volta di Beatrice di pronunciare le promesse coniugali: la
ragazza recitò la formula con la voce incrinata
dall’emozione, ma senza commettere nemmeno un
errore
e, nel prendere la mano del suo sposo, gli trasmise come una scossa
elettrica che lo stordì ancor di più, facendolo
sentire
felice come non era mai stato.
Al termine di quel momento così solenne, Marcello si rese
conto
che il signor Rossiglione e Gerardo li guardavano e sia suo padre, che
la
signora Sofia che Vittoria si erano commossi di cuore. Fu loro grato
per il grande affetto che provavano verso la sua compagna, mentre non
poté non avvertire una fitta di rabbia nel vedere
che sua
madre era rimasta pressoché impassibile.
Nemmeno l’apparenza a cui teneva tanto e che, per altro, era
l’unico motivo che l’aveva spinta a prendere parte
alla
celebrazione di un’unione che disprezzava, era stata sufficiente
perché si mostrasse un po’ più partecipe. Infatti,
se ne stava al suo posto,
rigida, come se avesse ingoiato un bastone che le impediva di muoversi,
con un’espressione imperscrutabile sul volto.
Evidentemente, le parole che il figlio le aveva rivolto quella mattina
e la sua decisione di entrare in chiesa da solo, senza, invece, essere accompagnato da lei, non erano state
una punizione sufficiente a piegarla, facendogli capire una volta di più che, ormai, tra di loro, non vi era
più alcun punto in comune.
Quando la cerimonia finì, il giovane incrociò
volutamente
lo sguardo della madre e prese per mano Beatrice, come a sottolineare
che, tra le due, aveva scelto lei. Tuttavia, sentendo che, per chiudere
una volta per tutte quel conflitto con la genitrice, serviva un segnale
d’impatto, dopo averle lanciato un’occhiata di
sfida e tra
gli applausi dei presenti, fece quello che sentiva essere un gesto inequivocabile: baciò sua moglie davanti a tutti.
***
La macchia verde della vegetazione sul versante est
dell’isola
creava un contrasto gradevole con il mare azzurro intenso, appena
increspato dal vento, leggero e salmastro.
Marcello si lasciò scompigliare i capelli da quella
piacevole
brezza, mentre studiava con interesse il paesaggio incontaminato che si
poteva ammirare dalla terrazza della camera da letto. La parte
più urbanizzata di quella zona sorgeva dall’altra
parte
del piccolo promontorio dove era situata Villa Paolina e il giovane
aveva
già in programma di visitare presto il paesino di Marciana
Marina, avendo avuto occasione di vederlo di sfuggita, quando l’aveva attraversato con l’auto.
«Ti piace?»
gli
domandò Beatrice, in piedi accanto a lui, anche lei in
contemplazione di quella visuale che le era mancata per troppo tempo.
«Molto» rispose lui, osservando un gabbiano che si
librava
nell’aria un po’ più
fresca, essendo la
sera ormai prossima. «Non ero mai stato su
quest’isola,
prima d’ora».
«C’è
sempre
una prima volta» osservò, allora, la fanciulla,
sorridendogli. «Sai, qui l’aria l’è
molto pulita e scommetto
che farebbe
bene al tu’
babbo».
Nell’udire quell’ultima considerazione, Marcello si
sentì pervadere da una sensazione di dolcezza per la bontà d’animo che sua moglie sapeva sempre
manifestare con delicatezza.
«Lo penso anche io» concordò.
Poi, lei si diresse verso il glicine che, dal basso del giardino, si
era inerpicato fin lì. Era coperto quasi solo di foglie,
essendo
passata da un bel pezzo la stagione della fioritura, tuttavia, lo guardò come se fosse ancora bellissimo e rigoglioso,
accarezzandone il tronco sottile.
«Finalmente mi sento a casa»
sussurrò, con un velo di nostalgica malinconia nella voce.
«E dire che
Guido aveva promesso tutto questo al Navarra...»
«Come se impegnare te non fosse già
abbastanza!» sbottò in risposta Marcello,
furibondo ed indignato come ogni volta che la ragazza si
apriva con lui e gli raccontava una malefatta del fratello o di quell’altro
delinquente di cui era all’oscuro, mentre si chiedeva quanto male le
avessero fatto quei due.
Sospirando, allora, Beatrice si prese una ciocca di capelli non più acconciati tra le dita e se la
torturò per
qualche istante, nervosa.
«La verità è che il mi’
fratello l’ha
messo in mezzo anche
questa casa,
per tenere buono il su’
aguzzino, visto che
io continuavo
a respingerlo» spiegò. «Anche
se al Navarra eran comunque
già arrivate voci sulle difficoltà che ci sono
qui».
Davanti a quell’espressione così triste, il
giovane si sentì in dovere di intervenire, poiché voleva che capisse, ancora una volta, che non
avrebbe più permesso a nessuno di farle del male.
Anche se Beatrice
aveva dimostrato molte volte di essere perfettamente in grado di
cavarsela da sola, lui, amandola dal più profondo del
cuore, l’avrebbe protetta comunque.
«Non assumerti colpe che sono solo di quei vermi
schifosi» le sussurrò, accarezzandole una guancia
con il dorso delle dita, facendola sorridere sotto il suo
sguardo deciso.
Tuttavia, quel momento di tenerezza ebbe vita breve, perché fu presto interrotto
dall’arrivo di Lina, l’anziana governante della
villa che, non appena aveva rivisto la ragazza dopo anni, era scoppiata
in un pianto dirotto. In quel momento, osservandola nuovamente, Marcello
poté ancora leggere sul suo viso ancora segni di commozione per
aver riabbracciato l’unico membro della famiglia Tolomei che
non fosse morto o finito in galera.
A dire il vero, se doveva essere sincero, l’atmosfera che il
giovane aveva respirato
fin da subito a Villa Paolina gli era sembrata carica di nostalgia, non
solo perché, come gli aveva spiegato la ragazza, il nome
della casa era un omaggio alla sorella di Napoleone, la quale
sembrava avesse soggiornato lì durante l’esilio
dell’imperatore, ma, soprattutto, perché
sembrava che anche la famiglia di Beatrice fosse stata costretta
lontano dalle circostanze. Il ritorno di almeno una dei legittimi
proprietari di quella tenuta, infatti, era stato accolto con grande
gioia sia dai pochi inservienti rimasti che dai braccianti che
lavoravano negli uliveti. Segno che, evidentemente, i genitori della
ragazza erano stati molto amati da tutti.
«Beatrice, ci sono alcune visite per te3»
annunciò la donna, distraendo
Marcello dalle sue riflessioni.
«Visite?» ripeté la giovane, perplessa,
come se pensasse di aver capito male.
«Sì, ma sono rimasti di sotto, in
giardino» precisò la governante, con un sorriso,
non volendo rivelare l’identità di quei misteriosi ospiti
inattesi.
A tale rivelazione, che poco aggiungeva a quanto già noto,
la fanciulla aggrottò la fronte e si scambiò
un’occhiata con Marcello, il quale non tardò a farle un cenno.
«Be’, vediamo di chi si
tratta» suggerì.
Annuendo, l’altra lo seguì verso il parapetto di
marmo, dal quale subito dopo si affacciarono entrambi, scorgendo sul mattonato
sottostante due uomini ed una ragazza bionda che parlottavano tra di
loro. Non
appena, però, quella si accorse di essere osservata, alzò la testa verso l’alto ed
esordì, a voce alta e agitando freneticamente una mano:
«Beatrice, da quanto tempo!»
«Fiammetta!» esclamò l’altra,
sporgendosi con un tale slancio che il giovane quasi scattò
per afferrarla per un braccio per impedire che cadesse giù.
Poi, la giovane guardò meglio i due accompagnatori dell’amica
e riconoscendoli subito, salutò anche loro:
«Pierpaolo, Giacomo... ci siete anche voi, non immaginavo che
v’avrei visto così
presto!»
«Appena ci hai detto che saresti venuta abbiam pregato la Lina di farci
una telefonata non appena fossi arrivata!» le rispose allegro il più vecchio dei due, piantandosi le mani sui
fianchi. Doveva aver passato la cinquantina da poco, i capelli bruni
erano striati di bianco sulle tempie, ma, visto da sopra,
sembrava piuttosto alto, anche se aveva qualcosa
nell’espressione che non convinse del tutto Marcello, il
quale preferì spostare l’attenzione sull’ultimo
membro del terzetto che, invece, somigliava moltissimo
all’uomo, solo in versione più giovane.
«Non avremmo mai potuto ignorare il tuo
ritorno» commentò, appunto, quello, elargendo a
Beatrice un sorriso lezioso. «Sono anni che non ci vediamo,
ma posso dire senza alcun dubbio che sei sempre più bella» aggiunse
poi, guadagnandosi un’occhiata torva dalla giovane che era
con lui e anche dal biondo che, dopo aver udito
quell’affermazione, decise che avrebbe cercato di tenere quel
tizio il più lontano possibile da Beatrice.
Proprio mentre il ragazzo lo fissava come se volesse incenerirlo,
Giacomo
spostò lo sguardo verso di lui e, quando si incrociarono, rimase
alquanto sorpreso, come se si fosse accorto solo in quel momento della
sua presenza.
Nel frattempo, Beatrice, che si era limitata a rispondere al
complimento con un sorriso di circostanza, replicò:
«Dateci
un attimo, così
scendiamo!»
Quindi, appoggiò una mano su quella di Marcello, nervosamente
stretta al corrimano, e gli disse, con tono dolce:
«Andiamo? Così
ti presento a questi vecchi
amici, perché loro
non sanno ancora
che sono sposata».
Inaspettatamente, quella notizia placò immediatamente
l’animo del ragazzo che, immaginando la faccia che avrebbe fatto
quel bellimbusto
nell’apprendere la verità, avvertì
già un piccolo anticipo della soddisfazione che avrebbe
provato di lì a poco.
«Con molto piacere» le rispose, staccandosi dalla balconata e invitandola a precederlo.
Poi, mentre scendevano lunga la scala di marmo bianco e rosso, tirata
così a lustro da potersi specchiare sopra, la fanciulla
gli fece un rapido riassunto della situazione: «Quello è Pierpaolo
Landi, l’amministratore del babbo.
Giacomo è
il su’
figlio e Fiammetta una amica comune
d’infanzia. Sai, si son sposati qualche anno
fa».
A quel punto, Marcello si arrestò, lasciando che lei
scendesse ancora tre o quattro gradini prima di accorgersi che non
la stava seguendo.
Quindi, quel tipo era così stupido da fare apprezzamenti
diretti ad altre donne con sua moglie presente? Ecco perché
Fiammetta gli aveva lanciato quell’occhiata! Eppure, a colpo d’occhio, non gli era
sembrata un caso tanto disperato da essere costretta ad accettare la
proposta di matrimonio di un idiota simile, a meno che non ci fosse
dietro un qualche tipo di accordo.
Alla fine, scuotendo la testa, si affrettò a raggiungere Beatrice,
convinto che recarsi lì e controllare l’intera
situazione di persona fosse stata la decisione migliore.
Quando il giovane si trovò davanti i tre, li
osservò
meglio ed ebbe la conferma della prima impressione che aveva avuto
osservandoli dalla terrazza: padre e figlio non lo convincevano affatto
e la ragazza aveva uno
sguardo troppo acuto per aver volontariamente scelto di accollarsi quel
Giacomo.
Dopo aver salutato Beatrice con baci ed abbracci,
la loro attenzione si spostò su di lui e
Pierpaolo fu il primo ad avanzare nella sua direzione, con la mano tesa.
«Pierpaolo Landi» si presentò,
stringendo mollemente la mano del biondo. «Lui, invece, è
mio figlio Giacomo e lei è la Fiammetta, mia
nuora».
«Marcello Tornatore» rispose il ragazzo,
ricambiando la stretta di mano di tutti e tre, cercando di trattenersi
dal frantumare le ossa di quella di Giacomo, che lo stava guardando in
cagnesco, probabilmente chiedendosi chi fosse.
«Credevo che ti avrebbe accompagnata Guido, invece vedo che
sei... in altra
compagnia» notò, infatti, proprio in quel momento, l’uomo, con una punta di
malizia nella voce. «Non mi avevi detto di avere il fidanzato,
Beatrice».
Il giovane, che trovava
quell’uomo sempre più odioso ogni secondo che passava, stava per rispondergli a
tono, ma la fanciulla lo precedette.
«Oh, no, Marcello non
è il mi’
fidanzato» ribatté, decisa.
«Suvvia, a noi puoi dirlo, ti conosco da quando eri una
nanerottola che correva per i campi qui dietro» insistette, però, l’altro, convinto di averla sgamata, con
un sogghigno che, forse, voleva essere complice. «Non hai
motivo di essere in imbarazzo».
«Nessun imbarazzo» replicò la ragazza con fermezza, non facendosi minimamente
destabilizzare. «È vero che non è il mi’ fidanzato... perché ora è il mi’ marito».
Le reazioni che i tre ebbero a quella rivelazione furono piuttosto
varie: Landi spalancò gli occhi e divenne bianco come un
lenzuolo, Giacomo squadrò Marcello dalla testa ai piedi,
visibilmente preoccupato, mentre Fiammetta, che fino a quel momento non
era sembrata particolarmente interessata al giovane, lo
guardò meglio e si illuminò, accennando un
sorriso.
«E sarà lui ad occuparsi della
tenuta al posto di Guido, d’ora in poi» aggiunse Beatrice, con orgoglio, rivolgendosi specificatamente
al più anziano di loro.
«Buona fortuna, allora, Marcello»
fece, tutt’ad un tratto, Fiammetta, incrociando le braccia
sul petto. «Avrai molto da fare visto che,
quest’anno, per colpa di quel microbo che ha
attaccato gli ulivi, il raccolto sarà molto
scarso».
«Microbo?» ripeté il giovane, colpito.
Pierpaolo, allora, scrutò di sottecchi la nuora per qualche
secondo,
arricciando le labbra; poi si voltò verso il figlio e gli
scoccò una fugace occhiata seccata che, però, non
fu abbastanza rapida da sfuggire a Marcello, il quale non ebbe
più dubbi che padre e figlio stessero nascondendo qualcosa,
abbastanza certo che entrambi non avevano messo in conto che qualcun
altro
avesse potuto prendere il posto di Guido.
«Sì, secondo più di un botanico che ha
visitato gli alberi della zona, tutte le piante stanno morendo a causa
del batterio che provoca la rogna degli ulivi4»
spiegò, poi, l’uomo, con tono neutro,
come se volesse volutamente mantenersi sul vago.
«Secondo alcuni potrebbe addirittura essere trasmessa
all’uomo» aggiunse prontamente
Giacomo, rabbrividendo.
«Sarebbe interessante poter parlare con almeno uno di questi
botanici, allora» commentò, a quel punto, Marcello, non
riuscendo a trattenersi dall’essere vagamente sarcastico. Anche se non aveva alcun tipo di conoscenza in botanica o
medicina, infatti, gli sembrava abbastanza improbabile che un batterio delle
piante potesse attaccare anche l’uomo. Aveva sentito qualcosa di
simile nel caso degli animali e esseri umani, ma mai uno in cui fosse coinvolto
un vegetale.
«Non credo sarà possibile, al momento sono tornati
tutti nei loro laboratori, sparsi in giro per l’Italia» fu, però,
la pronta risposta di Pierpaolo, il quale dovette rendersi conto da
solo che era davvero troppo vaga, tanto che aggiunse:
«Però, potrei recuperare i loro numeri di
telefono».
Dubitando seriamente che quei recapiti esistessero, il biondo stava per
fare qualche altra domanda su quella strana malattia, quando Fiammetta,
con tono indispettito, si intromise nella conversazione: «Comunque, Bea,
è imperdonabile che ti sia
sposata senza dirmi niente!» esclamò.
Spaesata, la fanciulla sbatté le palpebre e tentò
di abbozzare una scusa: «Oh, sai, l’è
che abbiam fatto una cosa
tra pochi
intimi...»
«Be’, devi raccontarmi un sacco di cose,
allora!» fece l’altra, in risposta, mettendosi le mani sui
fianchi. Poi, si voltò verso il marito e gli chiese:
«Giacomo, che ne dici di invitare Marcello e Beatrice stasera
a cena?»
Nel ricevere una tale proposta così su due piedi, il giovane
restò per qualche istante spiazzato, poi,
dopo essersi scambiato un cenno d’intesa con il genitore,
concordò.
«Come vuoi, tesoro».
Quella parve davvero molto soddisfatta e, sorridendo raggiante, si
avvicinò ai neo sposi.
«Molto bene, è deciso. Vi aspettiamo per le otto e
mezzo a casa nostra» disse loro, prima di prendere le mani
dell’amica e aggiungere, con
entusiasmo: «Cara, la strada la
conosci!»
***
L’aria carica di salsedine e lo sciabordio continuo delle
onde erano indizi sufficienti a fargli capire che il mare non doveva
essere lontano.
Una volta terminata la cena, infatti, Beatrice aveva proposto a Marcello di
andare a fare una piccola passeggiata sul breve tratto di spiaggia che
faceva parte del territorio della tenuta e lui, intravedendo
un’occasione di serenità dopo una giornata
così intensa, aveva accettato all’istante.
Mentre seguiva la fanciulla per la pineta percorrendo un sentiero
illuminato pressappoco solo dai raggi lunari, il ragazzo ebbe anche
modo di
riflettere meglio su tutto ciò che aveva appreso dal suo arrivo,
arrivando alla conclusione che le informazioni più
importanti erano state quelle del pomeriggio, poiché durante il
pasto i discorsi erano stati tenuti principalmente da Fiammetta, mentre
Pierpaolo e Giacomo sembravano essersi cuciti la bocca, forse
perché, alla fin fine, si erano resi conto di aver rivelato
più di quanto fossero veramente disposti a fare.
Tuttavia, le occhiate eloquenti che si erano lanciati i due uomini ogni volta che la ragazza citava quella strana epidemia, che
sembrava aver colpito ogni pianta di ulivo della tenuta, non avevano
fatto che insospettire ancora di più il biondo. Questi, allora, decise che la prima
cosa che avrebbe fatto il giorno dopo sarebbe stato studiare i
registri degli ultimi anni delle vendite dell’olio e parlare
con qualcuno dei lavoranti per cercare di capire qualcosa in
più.
«Oggi sarebbe dovuta esser una giornata di festa, invece per te
l’è stata
più stressante delle altre!» commentò
all’improvviso Beatrice, arrestandosi sul limitare della pineta,
al confine tra il prato e la spiaggia di ciottoli.
Colto di sorpresa, Marcello non rispose subito, lasciando che per
qualche istante si sentisse in sottofondo solo la risacca delle onde,
mentre la osservava accomodarsi sul prato e, meccanicamente, la imitava.
«A dire il vero, io...» iniziò, incerto, sentendosi
in colpa per essersi adombrato e, di riflesso, aver fatto intristire la
ragazza anche nel giorno delle nozze.
«Marcello, me ne sono accorta,
sai?» gli fece, però, notare lei, con la sua solita
determinazione, mettendosi a braccia conserte. «Stamattina
l’eri giù per via della tu’
mamma...»
«Be’, è stata davvero incivile: non ha
detto una parola ed è uscita dalla chiesa non appena
è finita la cerimonia» osservò l’altro che,
solo al ricordo della genitrice che lo insultava e si ostinava ad ignorare Beatrice, perfino davanti alla Basilica del
Laterano, si sentì pervadere dall’irritazione: la
cattiveria di sua madre era riuscita ad offuscare anche quello che
sarebbe dovuto essere per lui uno dei giorni più belli.
«... e stasera ti se’ arrovellato il cervello su
Pierpaolo e Giacomo» concluse la fanciulla, sospirando.
Nonostante l’illuminazione fosse ridotta ad un tenue barlume
lunare, Marcello in quel momento poté vedere chiaramente che sua moglie aveva assunto
un’espressione mesta e, sentendosi la causa di quel malessere,
volle cercare di rimediare, chiudendo in fretta la questione.
«Quei due non me la contano giusta e voglio vederci
chiaro» affermò, deciso. «Ho promesso che ti avrei aiutato a
risollevare le sorti della tenuta ed è quello che
farò».
A quel punto, la ragazza incurvò le labbra, sciogliendo la
tensione che si era accumulata sul suo volto e tornando a essere splendida
come era stata quella mattina.
«Lo so» gli sussurrò, prendendogli il viso tra le mani. «Però, ho notato che l’eri
anche un pochino geloso di Giacomo» aggiunse, poi, birichina.
«Tu dici?» replicò lui, sollevando marcatamente un sopracciglio. «Mi pare il minimo, dopo che
ti ha rivolto apprezzamenti che avrebbe potuto risparmiarsi!»
Divertita da quella reazione, Beatrice rise e, per stuzzicarlo ancora di più, si mise a canticchiare: «La gelosia
più la scacci e più l’avrai5...»
«Io non ci trovo niente di male nell’essere
gelosi» borbottò lui in risposta, leggermente imbarazzato.
La ragazza, allora, sorrise e gli accarezzò i capelli, guardandolo con gli occhi appena socchiusi.
«Nemmeno io» gli sussurrò, prima di iniziare a
baciarlo.
Il giovane, allora, la lasciò fare per qualche istante, prima
di ricambiare le effusioni ed appoggiarle delicatamente le mani sui
fianchi, sentendosi sempre più rilassato: quando era con lei, infatti,
riusciva a trascorrere momenti di autentica serenità che non
aveva mai provato prima di conoscerla.
«Comunque, come t’ho detto già una volta...» mormorò lei, tra un bacio e l’altro. «Per me, nessun altro ha speranze contro di te».
Allontanandosi appena, il giovane si fermò a contemplarla e le
accarezzò dolcemente una guancia, mentre un cupo pensiero gli
attraversava la mente: forse aveva un carattere troppo difficile per
una ragazza così spontanea e vivace? L’avrebbe resa
davvero felice? O davvero meritava un altro genere d’uomo?
«Beatrice, tu sei contenta di avermi sposato?» le
domandò, malinconico, intrecciando i suoi lunghi capelli tra le
dita.
In maniera del tutto inaspettata, invece di rispondere, la ragazza riprese a baciarlo con più intensità di prima.
«Non credo d’esser mai stata così
felice...» le sentì dire, rendendosi che non riusciva più a staccarsi da lei e dalle sue labbra.
Il suo profumo di lavanda lo faceva sentire più ebbro che se
avesse bevuto una gran quantità del più forte dei
liquori, stordendolo e rendendolo del tutto incapace di smettere di
accarezzarla o di baciarle ogni punto di pelle scoperta che riusciva a
raggiungere, incurante del fatto che si trovassero a pochi passi dal
mare e benedicendo che la villa e la sua spiaggia sorgessero in un
posto isolato.
Dal canto suo, la ragazza stava facendo lo stesso con lui, mentre,
molto lentamente, aveva cominciato a sbottonargli la camicia. Marcello,
allora, nonostante il discreto impaccio, rispose sbottonandole
il vestito sulla schiena e sfiorandole con i polpastrelli la pelle
nuda, facendola rabbrividire, nonostante il clima di fine agosto,
finché, all’improvviso, non la sentì irrigidirsi.
A quel punto, si arrestò completamente, senza muoversi e, per qualche istante, trattenne anche il respiro.
«Beatrice... se non ti va... non devi sentirti
obbligata» le sussurrò, con tutta la tenerezza di cui era
capace, cercando di farla sentire quanto più possibile a suo
agio.
«Oh, no, non l’è quello...»
replicò lei, in difficoltà, ma non dubbiosa. «Il problema è che mi sento...
imbranata».
«Ad essere onesto, per me è lo stesso...
È la prima volta anche per me» ammise, allora, lui, sentendosi avvampare.
Dopo tale dichiarazione, però, la ragazza parve rasserenarsi al punto che
appoggiò la sua fronte contro quella del giovane, giocherellando
con i lembi inferiori della sua camicia.
«Allora, può darsi che tra du’
imbranati l’uscirà qualcosa
di
buono» gli disse, sottovoce, sfiorandogli appena le labbra con le
proprie e facendolo sorridere, spingendo a mettere da parte ogni timore.
Così, dopo essersi reciprocamente rassicurati, Marcello e
Beatrice si abbandonarono entrambi a quella scintilla di fuoco che
avevano sentito divampare tra di loro, lasciandosi cullare dal melodico
rifrangersi delle onde lontane.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto
per esserci sempre.
***
[N.d.A]
1. L’imbarco...
sedici chilometri e mezzo: ogni distanza e/o tempo di
percorrenza citato/a è assolutamente veritiero/a;
2. Ave Maria... amante:
ammetto che non so se questa diceria sia vera, ma, poiché me
l’ha riferita in prima persona un sacerdote, ho deciso di
utilizzare tale versione anche nella mia storia. Ciò che
è vero, tuttavia, è che i versi originali
tedeschi non sono gli stessi latini che vengono cantati
durante le cerimonie in chiesa, poiché Schubert compose
questa canzone (il cui titolo originale è Ellens dritter Gesang,
ovvero La terza canzone
di Ellen) sulla base di alcuni testi del poema “The Lady of the Lake”
di Walter Scott. Quindi, nonostante anche originalmente fosse
un’inno alla Vergine Maria, il contesto è diverso
da quello in cui questa lirica viene proposta oggi;
3. Beatrice... per te: questa nota varrà per tutti i capitoli
ambientati a
Marciana Marina. Ho deciso di rendere più leggero
l’accento di tutti i personaggi che Marcello e Beatrice
incontrano sull’Isola d’Elba per due motivi. Il
primo
è che, dopo averlo sentito, l’ho trovato davvero
meno marcato rispetto a quello fiorentino; il secondo è
che essendo molti personaggi a parlarlo, la lettura diventerebbe
pesante e non gioverebbe alla storia. Spero possiate capire e che non
la prendiate come un’imprecisione da parte mia;
4. batterio... rogna
degli ulivi:
per questo particolare mi sono ispirata ad una vicenda successa
l’hanno scorso in Puglia, dove la Xylella fastidiosa
ha distrutto migliaia di alberi di olive. Tuttavia, non essendo stata
presente in Italia prima del 2013, ho optato per un’altra
malattia, la rogna
degli ulivi, appunto, che esiste sul serio ed è
causata dal batterio Pseudomonas
savastanoi;
5: la gelosia... avrai:
la canzone citata è Gelosia
di Adriano Celentano, appartenente all’album “I miei americani 2”
del 1986.
***
Ordunque, bentrovati.
Come potete vedere, sto mantenendo un ritmo di pubblicazione costante
e, questa volta, spero proprio di essere sul serio vicina alla fine.
Ci tenevo a spiegare che non ho dedicato molto spazio alla cerimonia
nuziale perché, secondo me, la storia di Marcello e Beatrice non
ha come fine il matrimonio
(anzi, per loro anche in quest’ultima parte ci saranno
difficoltà da affrontare, di varia natura). Il cambio
d’ambientazione serve anche a questo, ossia ad aprire una nuova
strada che arriverà fino alla conclusione di questa vicenda.
Come sempre, ringrazio chi legge in silenzio, chi ha il coraggio e la
bontà di cuore di continuare ad attendere che mi decida ad
aggiornare, chi ha messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate,
chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Aven, Anto).
Per conoscere in anteprima un breve estratto del prossimo capitolo vi lascio, al solito, il link la mia pagina
facebook.
Grazie a tutti e alla prossima,
Halley
S.C.
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Capitolo 21 *** Capitolo Ventunesimo - Vento di Bugie ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 21
- Capitolo Ventunesimo -
Vento
di Bugie
Le
tende color avorio della finestra della camera da letto si muovevano
appena, sospinte dalla brezza mattutina che annunciava
l’inizio
di una nuova giornata, quando, sotto quella fresca carezza che le blandiva le spalle scoperte,
Beatrice si svegliò lentamente, richiamata anche dalla
luce del sole che, poco a poco, stava inondando la stanza con la sua
coltre dorata.
Fu, però, solo mentre abbandonava definitivamente il torpore del sonno e
riconosceva
le pareti bianche ed il mobilio scuro della sua vecchia camera,
che realizzò che, tornando dalla spiaggia, si erano dimenticati
di
chiudere le persiane; tuttavia, quando alzò la testa e si
ritrovò tra le braccia di Marcello, accoccolata contro il
suo
petto, non le dispiacque più aver aperto gli occhi prima di lui e poterlo guardare mentre dormiva.
Incapace di resistere alla tentazione di passargli le dita tra i
capelli arruffati, la ragazza alzò lentamente il braccio,
esitando un attimo prima di sfiorare il giovane, temendo che potesse
svegliarsi. Quando lo toccò, quello si mosse appena, continuando a
dormire beato, permettendole di spostare anche alcune ciocche bionde dalla
fronte e accarezzargli il volto.
Mentre si perdeva nella contemplazione del marito, Beatrice non
poté
non
ripensare alla dolcezza e alla delicatezza che lui le aveva
riservato la notte precedente, facendola sentire sempre amata e
desiderata.
Fu proprio allora che nel suo animo si fece strada la consapevolezza di
essere stata davvero fortunata a poter
condividere quel momento così intimo con l’uomo
che amava
e non con quel mostro di Navarra che, molto probabilmente, avrebbe
usato il suo corpo solo come un giocattolo, senza nessun rispetto e, soprattutto, non preoccupandosi se le stesse facendo male o
prendendo in considerazione la repulsione che lei provava per lui. Subito, il pensiero della giovane andò
a tutte
le donne vittime di abusi e violenze,
talvolta perfino costrette dalle circostanze a sposare un uomo senza amarlo, ritrovandosi così a vivere una vita
infelice
e priva della gioia che, invece, avrebbero meritato; si
sentì, allora,
estremamente solidale con loro, avendo sperimentato, anche se per poco,
l’esperienza del sentirsi impotente, in balìa di un essere
spregevole e perverso.
A quel ricordo, le salirono quasi le lacrime agli occhi e
rabbrividì; per un attimo, la
stanza sembrò diventare più cupa e fredda, come se una nuvola
avesse momentaneamente offuscato il sole, e Beatrice si strinse ancor
di più al marito. Poco a poco, il
familiare e robusto aroma del patchouli esalato dalla pelle di lui la
tranquillizzò, ricordandole ancora una volta che il
giovane non avrebbe permesso mai più a
nessuno
di farle del male e, finalmente, l’atmosfera
tornò ad
essere calda e luminosa come poco prima.
Ritrovata la serenità, la ragazza chiuse gli occhi e
ascoltò il ritmico e rassicurante respiro di Marcello; tuttavia,
in quel
medesimo istante, una contrazione dei muscoli del braccio che
aveva intorno alla vita le annunciò che
il
ragazzo si stava svegliando, ma non si mosse comunque, rimanendo
abbracciata a lui.
Pochi istanti dopo, quello schiuse lentamente le palpebre e si guardò un
po’
intorno,
prima di posare le sue iridi verde chiaro su di lei.
«Buongiorno»
lo
salutò Beatrice, accompagnando le parole con un dolce
sorriso e sfregando appena la propria guancia sul suo petto, mentre gli
accarezzava il volto.
In risposta, Marcello la fissò incantato e
prese con delicatezza una
mano della giovane, baciandole
la punta delle dita.
«Buongiorno» le sussurrò, poi, lui dandole
un altro bacio, questa volta sul dorso.
Quei gesti fecero avvampare immediatamente la fanciulla che,
istintivamente, si raggomitolò su se stessa, pur continuando
a
mantenere il contatto fisico con lui: svegliarsi tra le sue braccia e
nello stesso letto era una sensazione nuova e bellissima, che, però, le
procurava allo stesso tempo imbarazzo, piacere e gioia,
anche
se, comunque, quest’ultima prevaleva di gran lunga su
tutte
le altre emozioni.
Nel frattempo, il mattino avanzava, ma nessuno dei due giovani sembrava
avere particolare fretta di alzarsi, perché rimasero ancora per un
po’ a guardarsi, senza parlare, assaporando l’inizio della loro nuova vita insieme, accarezzati
dolcemente dal vento che
sembrava partecipare alla loro felicità.
***
Sul tavolo del giardino, allestito per la colazione, Beatrice
fu
contenta di ritrovare esattamente le stesse leccornie che avevano
allietato le mattinate trascorse a Marciana Marina da bambina:
marmellate di fichi e di limoni dell’orto, pane fatto in casa,
miele, frittelle di castagne, una torta ed un cestino di frutta mista
molto invitante.
«Sono tutti prodotti della zona» spiegò,
con un
certo orgoglio, Lina, versando a Marcello del tè
nero
bollente in una tazza del servizio a fiorellini blu con il bordo
dorato. «E, sicuramente, molto più genuini di
quelli che
mangi a casa tua, in città».
«Ne sono certo» rispose, allora, il giovane,
sorridendo
alla governante. «Comunque, signora Lina, grazie per aver
accettato di darmi del tu».
Quella agitò una mano, come se stesse cacciando una mosca, poi, appoggiò la teiera accanto alla zuccheriera e,
dopo aver
salutato i due ragazzi, si diresse verso la villa per svolgere le
solite mansioni quotidiane. Quando la donna sparì dal suo campo visivo, la ragazza
sospirò e, incurvando le labbra, tornò a guardare
il
marito, impegnato a spalmare della marmellata di limoni su una fetta di
pane: conoscendo il suo senso dell’onore, quando
Lina gli si
era rivolta con un “Buongiorno, signore”, Beatrice
aveva
immaginato ancor prima che lui aprisse bocca che non avrebbe mai
accettato che una rispettabile signora, con
quasi il triplo dei suoi anni, gli riservasse tanta
formalità.
Inoltre, era evidente che i due si
erano presi subito in simpatia e questo non poteva
che renderla contenta.
«Ti è molto affezionata» le fece notare
Marcello,
mentre metteva un cucchiaino raso di zucchero nel tè. «Ogni volta che ti guarda, le si
illuminano gli occhi».
«La
Lina, in un certo
senso, ha sempre fatto parte della
famiglia» gli rispose la fanciulla, accarezzando la
tovaglia
bianca di cotone su cui era stata apparecchiata la tavola, spostata per
l’occasione sotto ai pini per poter fare colazione godendo della
frescura della loro ombra: ogni
cosa, insomma, era stata organizzata perfettamente dalla solerte
governante.
«Qui si respira un clima molto familiare e mi piacerebbe che
anche a casa nostra,
d’ora in poi, fosse così»
commentò il
giovane, prendendo tra le mani la tazza e rivolgendo
un’occhiata
interessata alla moglie.
Quella, dal canto suo, alzò lo sguardo verso di lui e,
contenta
di sentirgli dire una cosa simile, gli sorrise, riconoscente.
«Anche
a me» sussurrò con un sospiro, versando il
latte
caldo nella propria tazza. L’idea di essere la nuova signora di
Villa Aurelia la emozionava ma, allo stesso tempo, aveva paura di non
essere
all’altezza: sarebbe stata in grado di coordinare correttamente
il tutto? Quelle poche volte che aveva avuto modo di parlare con
Ottavia o con sua figlia Annetta le erano sembrate due persone con le
quali si potesse collaborare, perciò Beatrice era certa che,
svanita una volta per tutte
l’influenza negativa ed oppressiva della Matrona, anche in
quella
casa sarebbe tornata ad esserci un’atmosfera
serena.
Era giovane, certo, ma decisa a far vedere quanto valeva e non si
sarebbe mai comportata come quella donna, anzi, avrebbe cercato di
guadagnarsi la stima e l’affetto della governante e del resto
del
personale della casa comportandosi in maniera esattamente opposta.
«Come immaginavo, il pane toscano è insipido, ma
è gradevole con questa particolare marmellata»
considerò Marcello, mentre prelevava con il coltello
un’altra porzione abbondante di confettura, questa volta di fichi,
e la
stendeva sulla fettina di pagnotta casareccia che aveva in mano.
«Be’, credo che sia una questione di gusti, io preferisco il pane sciocco1»
replicò lei, prendendo la pirofila con
dentro le frittelle ancora calde e lasciandone scivolare un paio nel
proprio
piatto. «A Roma lo fan
troppo salato».
«Dici? A me non dispiace» affermò lui,
scrollando le spalle.
«Perché,
rispetto a me, tu se’ abituato»
ribatté, allora, la giovane, pratica.
Poi, prese il vassoio con la torta già tagliata a quadretti
e lo mise davanti al ragazzo, per fargli scegliere il pezzetto che preferiva.
«Assaggia
la schiaccia briaca2,
la prepara la
Lina in
persona, perché
sa che
è la mi’
preferita e non la
fa mai mancare».
L’aspetto curioso ed invitante del dolce non concesse al
biondo
la possibilità di rifiutare, così, dopo aver servito la ragazza,
questi fece lo stesso per sé; prima di mangiarlo, però,
si
soffermò a sentirne il profumo.
«Oltre ad avere un buon odore, ha anche un buon
sapore»
concordò, non appena ebbe mandato giù il primo
morso.
Contenta che il marito apprezzasse le specialità della sua
regione di origine, la ragazza cominciò a mangiare anche
lei:
quei sapori, così familiari al palato, le risultarono ancora
più buoni di come li ricordava, forse perché
caricati
di nostalgia e desiderio di tornare nei luoghi che
l’avevano vista felice, prima che la sua famiglia fosse
disintegrata dalla malasorte.
Nel degustare quella prelibatezza, Beatrice si ritrovò a
pensare
addirittura che non le sarebbe affatto dispiaciuto riprodurre lei stessa quella
torta, simbolo della tradizione elbana, dopo aver chiesto la ricetta a Lina e, soprattutto, al marito il permesso di
usare la maestosa cucina di Villa Aurelia.
«Marcello?»
lo chiamò, infatti, poco dopo, incerta.
Immediatamente, quello alzò lo sguardo su di lei e, dopo
essersi
educatamente pulito le labbra con il tovagliolo di stoffa, la
invitò a parlare.
«Dimmi, Beatrice».
«Adesso che sono la
tu’ moglie...»
iniziò, allora, la fanciulla, arrossendo nel pronunciare
quella
parola,
«potrò cucinare anche io, oppure dovrà
farlo solo
la cuoca? So di non essere molto brava, ma mi piacerebbe
tanto...»
«Tu potrai fare tutto ciò che vorrai» la
interruppe
lui, prendendole la mano appoggiata sul tavolo e stringendone le dita
tra le proprie. «I giorni della dittatura di mia madre sono
finiti».
Quell’affermazione, così decisa e rassicurante,
strappò a Beatrice un sorriso e la tranquillizzò.
«Grazie»
gli sussurrò, riconoscente.
Allora, il giovane le sorrise di rimando e, dopo essersi versato
un’altra tazza di tè, le chiese, cambiando
argomento:
«Domani mi piacerebbe andare a fare un giro a Marciana
Marina. Ti andrebbe di accompagnarmi?»
«Certamente»
rispose lei, entusiasta. «E dobbiamo visitare assolutamente anche
Portoferraio. Ci si
andava spesso quando l’ero
piccina, ma
ormai
son
anni che
non ci
vado!»
«Sì, hai ragione. In fondo, questo è
anche il nostro
viaggio di nozze, mi pare giusto che facciamo anche un po’ i
turisti» concordò il ragazzo, abbandonandosi pensieroso contro
lo
schienale della sedia, in attesa che la
sua bevanda si intiepidisse.
«Oh, sì! Sarà divertente
anche
accompagnare Gerardo e la
Vittoria, quando verranno».
Corrugando appena la fronte, il giovane spostò lo sguardo
sulla
moglie e, prendendo la sua tazza, considerò:
«Be’,
una loro visita non è certo
imminente».
A quel punto, Beatrice sospirò, sentendo che era arrivato il
momento di rendere partecipe anche Marcello di ciò che aveva
deciso qualche giorno prima, mentre raccontava all’amica
quanto
fosse contenta della meta scelta per la luna di miele. Non glielo aveva detto
prima soltanto perché sapeva che avrebbe sollevato pesanti obiezioni
e perciò sperò che, in qualche modo, non
prendesse
troppo male la notizia.
«In realtà, saranno qui lunedì
prossimo» rivelò, tutto d’un fiato e,
udendo quelle
parole, all’altro per poco non andò di traverso il
tè.
«Che cosa?!» berciò, appoggiando la
bevanda sul
tavolo, prima che gli cadesse di mano, e guardando la moglie come se
fosse impazzita. «Beatrice, abbiamo fatto i
salti mortali per restare finalmente soli e tu che fai..? Inviti Vittoria?»
In risposta, quella sospirò e scosse energicamente la testa,
poiché si era aspettata una reazione del genere, visto che,
in
fondo, ciò che aveva appena detto l’altro era la
pura
verità.
«La casa
è grande, ci incontreremo
a malapena.
Inoltre,
m’ha detto che
le sarebbe piaciuto
trascorrere
qualche giorno
in
spiaggia, così
le ho chiesto
di venire» si difese poi, calma, facendo
spallucce. «Resteranno solo una settimana».
«E immagino che lei non abbia esitato a dirti di
sì, o sbaglio?» la incalzò, però,
l’altro, con
un cipiglio severo, serrando le braccia contro il petto.
«Adesso
capisco che cosa
volevano dire le frasi ambigue di quella sciroccata!»
«Per favore, cerca
di capirmi,
Marcello» riprovò la fanciulla, supplice.
«Per me non
l’è
stato
semplice
essere ospite da lei per tutti questi mesi, perciò volevo ricambiare
la su’
gentilezza».
Infatti, era stata proprio quella fastidiosa sensazione di essere in
debito verso Vittoria ed i suoi genitori a spingere Beatrice a proporre
all’amica di andare in vacanza a casa sua:
per
troppo tempo era stata costretta a dipendere da altri ed ora che era
rientrata in possesso della sua tenuta aveva tutta
l’intenzione
di mettersi in pari con la cortesia che la era stata riservata.
Inoltre, si augurava sul serio che il marito potesse far qualcosa per
recuperare almeno un minimo della vecchia rendita annuale dei terreni,
perché quel piccolo guadagno, sommato al discreto stipendio
derivato dal lavoro in merceria, le avrebbe garantito una certa
indipendenza economica almeno fino a che non si sarebbe laureata e non
avrebbe trovato un impiego definitivo. Non aveva aspirato a sposare
Marcello per i suoi soldi e non gli avrebbe mai permesso di mantenerla
senza far nulla, seguendo l’esempio di sua madre che,
nonostante fosse malata, quando le finanze avevano cominciato a
scarseggiare, si era data da fare vendendo abiti confezionati da lei.
Ed era stato proprio in quel periodo che la fanciulla aveva imparato a
cucire, mettendo in pratica quanto appreso realizzando vestiti per le
sue bambole di pezza.
Probabilmente, lo sguardo fiero che le avevano ispirato questi
pensieri, colpì molto Marcello, il quale, dopo averla
scrutata a
fondo ed aver recuperato la tazza, dichiarò la sua resa.
«Vorrà dire che, se farà
l’invadente come suo
solito, la spediremo nel primo albergo disponibile»
decretò, prendendo un sorso di tè.
Soddisfatta di essere riuscita a spuntarla, Beatrice si
rilassò e cominciò ad inzuppare la torta nel suo
latte.
«Addirittura? Non starai un tantino esagerando?»
commentò, allora, ammonendo bonariamente il marito e cercando
di rimanere seria, malgrado il sorrisetto che le era affiorato sulle labbra.
***
La visita della tenuta, escludendo i terreni sul retro e la rimessa
accanto alla spiaggia, richiese tutta la mattinata, impegnando i due
giovani fino all’ora di pranzo.
Felice di poter condividere con Marcello i suoi ricordi migliori, la
fanciulla, infatti, lo aveva condotto ovunque,
mostrandogli tutti gli angoli che erano stati luogo di qualche aneddoto significativo
della sua infanzia e lui stette ad ascoltarla con piacere, seguendola
passo dopo passo, parola dopo parola senza protestare nemmeno una
volta.
Nel pomeriggio, finalmente, i due ragazzi riuscirono ad entrare nella piccola
biblioteca: era una stanza piuttosto buia, giacché
prendeva luce solo da una finestra stretta, incassata in una rientranza
del muro, le pareti ricoperte di armadi in noce con ante istoriate che ne
delimitavano
il perimetro; al centro, invece, c’era una scrivania
di legno scuro ricoperta da un ripiano in vetro, dove erano posati
altri libri ed una lampada da tavolo in ottone con il paralume in
stoffa.
«Qui dovrebbero l’esserci tutti i registri della contabilità»
esordì Beatrice, mentre apriva la persiana e lasciava
entrare un
po’ d’aria fresca. «Anche se, forse,
prima di metterti a cercare, dovremmo chiedere alla Lina di darci una mano a
spolverare!» aggiunse, osservando con disappunto la coltre
polverosa che si era adagiata ovunque.
Nonostante questo, la giovane sapeva benissimo che Pierpaolo aveva continuato ad
utilizzare quella stanza come suo ufficio personale anche dopo la morte
di suo padre, non permettendo a nessuno di entrarci, nemmeno per fare
le pulizie. Quando l’aveva riferito a Marcello, anche lui
aveva
concordato che non era certo un comportamento da persona che non ha
nulla da nascondere e questo li aveva portati a concludere il giro lì.
«Chissà dove sono i registri dell’ultimo
anno...» mormorò il biondo, pensieroso,
passeggiando
accanto agli armadi e sfiorandoli di tanto in tanto, come se potessero
trasmettergli per contatto la risposta alla sua domanda.
«Prova a vedere qui. Il babbo teneva fori il registro
dell’anno in corso» suggerì, allora,
Beatrice, avvicinandosi al tavolo e battendo delicatamente una mano
sopra ai faldoni impilati su di esso.
Voltandosi verso la fanciulla e facendo passare velocemente lo sguardo da lei alla
piccola pila che si rifletteva appena sul ripiano in vetro, il
ragazzo si mosse nella loro direzione e, dopo aver preso tra le mani
quello con su scritto “1987”, slacciò il
nastro che lo teneva chiuso, cominciando a scartabellare i fogli che
conteneva.
«Sì, hai ragione!» esclamò,
appoggiando il tutto sulla scrivania e spingendolo in direzione della
moglie, per far sì che potesse vedere anche lei.
«Ma... l’è
quasi vuoto!» fece lei, stupita, dopo aver visto Marcello
girarsi tra le dita l’ennesimo foglio bianco.
«Per fortuna che hai chiesto a Vittoria e Gerardo di
venire» considerò il biondo, mentre
gettava a terra quel mucchio di carta
straccia, stizzito. «Chiederò a lui di darmi una
mano, è l’unico di cui possa fidarmi sul
serio».
Sorridendo all’idea che, alla fine, l’arrivo dei
due amici fosse addirittura
provvidenziale, Beatrice si chinò per raccogliere i fogli e
li sistemò nel faldone alla bell’e meglio.
«Infatti, non credo
che sarebbe
saggio rivolgersi
a Pierpaolo» sussurrò, preoccupata. «E
nemmeno a Giacomo».
«Da quello che ha detto ieri sera, Landi si aspettava che
venissi
con tuo fratello» considerò l’altro,
scuotendo la testa con rabbia. «Ovviamente, per poter essere certo di riuscire
nell’imbroglio! Be’ direi che è gli
andata male!»
Poi, si diresse verso la finestra con le braccia incrociate dietro la
schiena e, dopo appena qualche secondo di pausa, annunciò,
meditabondo: «Comunque, vorrei anche andare a fare qualche domanda
ai braccianti, se per te non è un problema».
«Credi
che
sapranno darti le informazioni che
cerchi?» gli
chiese la giovane, spostandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, mentre osservava attentamente la figura del marito in
controluce: quei giochi d’ombra e quell’espressione
così seria lo facevano sembrare uno di quei personaggi
letterari consumati dalle loro disavventure e lei si sentì
un po’ in colpa per averlo coinvolto in una faccenda torbida come quella, ben sapendo che si sarebbe impegnato ben oltre
le sue possibilità per aiutarla. Le era sempre piaciuta la
sua determinazione e, ancora una volta, si scoprì
innamorata di lui più di prima.
«Non penso che conoscano i dettagli relativi alla
contabilità, ma
sicuramente avranno sentito di questa strana epidemia che ha colpito
gli alberi» rispose Marcello, facendo spallucce.
«Non ho mai sentito di una malattia che dalle
piante si trasmette all’uomo».
«In effetti, l’è
parecchio
strano...» commentò lei, abbandonando le
sue dolci considerazioni, inorridita al solo pensiero che davvero
potesse scoppiare un’epidemia delle proporzioni di quella di
colera che, nel 1973, aveva messo in ginocchio tutta Napoli3.
All’epoca, lei aveva solo cinque anni e viveva ancora a Firenze,
ma ricordava la grande agitazione sollevata da quell’emergenza.
In quel momento, il loro discorso venne interrotto
dall’entrata della governante, seguita da Fiammetta.
«Scusatemi, cari, ero convinta che mi aveste sentita
bussare!» esordì la donna, in difficoltà, guardando
prima l’uno e poi l’altra, ma subito il giovane le
sorrise e si affrettò a rassicurarla.
«Non si preoccupi. A dire
il vero, io stavo andando via» annunciò.
Nell’udire tali parole, Beatrice, che stava per salutare la
sua amica, rimase spiazzata per qualche istante, poiché non
credeva che il marito avesse intenzione di iniziare il suo giro di
domande quel pomeriggio stesso. Per giunta, era appena
arrivata Fiammetta e sarebbe stato perciò opportuno se
fosse rimasto con lei per riceverla
nel migliore dei modi.
«Oh, in tal caso non ti tratteniamo oltre» si
inserì l’ospite, incurvando appena le labbra, con
un tono appena canzonatorio. «Sembri piuttosto di
fretta».
«In un certo senso...» mormorò il ragazzo, vagamente
accigliato per quella risposta. Tuttavia, non replicò, anzi, senza indugiare oltre, salutò le tre donne ed
uscì dalla biblioteca con l’aria di chi
è in procinto di affrontare una questione di vita o di morte.
Un po’ delusa da quell’allontanamento che, a suo
parere, avrebbe potuto essere rimandato, la fanciulla cercò
di non dare a vedere quanto ci fosse rimasta male e, dopo aver
congedato Lina, si avvicinò alla sua amica.
«Son contenta
che tu sia venuta a trovarmi» le disse, sorridendole. Il fatto che fosse
andata da sola era un’ulteriore indizio a sostegno della tesi che il
marito ed il suocero si volevano tenere lontani dalla villa,
poiché, forse, temevano un interrogatorio da parte di Marcello.
Evenienza molto verosimile, in effetti.
«Non ci vediamo da anni, dobbiamo recuperare il tempo
perduto!» esclamò, in risposta, Fiammetta, guardandosi
intorno con curiosità e aggiungendo, qualche istante dopo:
«Quanti ricordi! Sembra sia passata una vita da quando
venivamo qui, mentre
giocavamo a nascondino».
«Già»
sospirò la fanciulla, mentre le riaffioravano alla mente
frammenti del suo passato, felice e spensierato come
può essere solo il periodo in cui si è ancora bambini. «Vieni, accomodiamoci in salotto: dobbiamo raccontarci parecchie cose!»
Beatrice fissava i cubetti di ghiaccio che galleggiavano nella
sua aranciata, chiedendosi da quanto tempo non ne beveva una.
Ancora stentava a credere che, nell’ultimo anno, la sua vita era
stata un tale susseguirsi di prove e avversità, che
anche sorseggiare una semplice bibita era diventato una specie di
lusso.
«Tuo marito non sarà molto socievole, ma, in
compenso, è un giovane davvero aitante» commentò
improvvisamente l’altra, prendendo un biscotto ai pinoli dal
vassoio ben assortito che aveva portato Lina.
«Eh?» fece la ragazza, ritornando bruscamente alla
realtà. Non aveva sentito la frase per intero, tuttavia
cercò comunque di imbastire una risposta sulla base delle ultime parole
percepite. «Mmm... sì, abbastanza».
«Abbastanza?!» esclamò, però, Fiammetta,
sbattendo più volte le palpebre prima di scoppiare a ridere.
«Sul serio, Beatrice,
forse non hai idea di quanto sia bello l’uomo che hai
sposato, anche se perde molti punti per la sua eccessiva
serietà» considerò poi, dando un morso al suo
dolcetto.
«Non c’è solo
l’estetica»
obiettò la fanciulla, raddrizzando la schiena, leggermente
indispettita da quella considerazione, giacché era più
che certa che si sarebbe innamorata del giovane anche se non fosse
stato così avvenente, dato che era stato il suo carisma ad
affascinarla fin da subito.
Infatti, precisò: «E, poi, Marcello l’ha tante qualità. Certo, oggi
l’è stato un po’ fuggitivo, ma
è un ragazzo buono e affidabile».
Di fronte ad una tale reazione, la sua interlocutrice corrugò la
fronte e strinse con forza il bicchiere che aveva in mano, abbandonandosi poi ad un sospiro sconsolato.
«Di certo, con uno così, Pierpaolo e Giacomo
dovranno faticare parecchio per riuscire ad estorcerti la villa ed i
terreni» disse allora, scuotendo la testa.
Messa in allarme da una tale affermazione, Beatrice si avvicinò di poco all’amica, guardinga.
«Ti han detto loro di voler acquistare la tenuta?» le chiese, scrutandola a fondo.
«Veramente no, ma ho sentito comunque tutto. Sai, hanno il brutto
vizio di mettersi a discutere dei loro affari nella stanza sotto la
nostra camera da letto proprio quando io sto cercando di prendere
sonno» le
spiegò l’altra, con un tono molto difficile da decifrare,
guardandola negli occhi. Tuttavia, non passò più
di qualche secondo che Fiammetta, improvvisamente, si alzò e
prese a passeggiare nel salotto, avvicinandosi alla finestra con aria
mesta, per poi voltarsi di scatto verso la fanciulla.
«Beatrice, sta’ attenta!» le sussurrò poi, con voce tremula. «Non
permettere a quei due di farti... quello che hanno fatto a me».
Sempre più confusa da quel suo strano comportamento, la
giovane rimase in silenzio, non riuscendo a capire se la sua ospite
stava dicendo la verità o solo recitando una parte
per agevolare quei due impostori.
A dirimere i suoi dubbi, però, bastò ciò a cui
assistette qualche attimo dopo: la ragazza, infatti, di punto in bianco
scoppiò in un pianto dirotto, tenendosi una mano sulla bocca
per soffocare i gemiti d’angoscia.
«Fiammetta, ma... che cosa ti è successo?»
domandò, allora, Beatrice, sconvolta da quel repentino cambio
d’umore: un minuto prima la ragazza stava prendendo in giro
Marcello, ora, invece, si disperava come se le avessero detto che
l’avevano condannata a morte.
Ciononostante, la fanciulla si sentì incapace di assistere a
quello straziante spettacolo, così, subito dopo, alzandosi di
scatto dal divano, si
avvicinò all’altra, prendendola per mano e facendola
accomodare nuovamente, sperando che in questo modo si calmasse e le
spiegasse il perché
aveva reagito così. Per fortuna, non dovette attendere tanto,
poiché quella, al solo avvertire le carezze di conforto
che le stava riservando, pian piano si quietò quanto
bastava per riprendere a parlare.
«Dopo che è morta la mamma, io e il babbo ce la siamo cavata da soli per
qualche tempo, ma la situazione si è fatta sempre
più difficile» cominciò, prima di essere interrotta
da un singhiozzo. «Vedi, il babbo è emofiliaco e ha bisogno di cure molto costose4, ma io non avevo i soldi necessari per fronteggiare tutte le spese. Poi, un giorno, si sono presentati alla
nostra porta Pierpaolo e Giacomo, offrendomi la soluzione: vendere
tutto a loro e sposare Giacomo».
Nonostante l’importanza di quella rivelazione, Beatrice
scoprì di non essere molto meravigliata di sapere come era andata
veramente la faccenda del matrimonio di Fiammetta, giacché aveva
già immaginato da sola che non era stato un colpo di fulmine
con il figlio dell’amministratore ad indurla a fare quel passo.
«Non vedendo altra via d’uscita, mi sono detta che, in
fondo, era una soluzione ragionevole, dato che
non avevo un fidanzato, né tantomeno ero innamorata di
qualcuno. Tra l’altro, Giacomo lo conoscevo fin da piccina,
così... ho accettato» proseguì, poi, la ragazza,
ritrovando un po’ di coraggio, come se avesse aspettato anni per
trovare qualcuno con cui potesse sfogarsi senza essere giudicata
oppure, come nel caso di suo padre, dargli un dispiacere, facendolo
sentire responsabile di quella scelta. «Non mi trattano male,
anzi, mio padre ha tutta
l’assistenza di cui ha bisogno, vivo ancora nella casa che
è stata dei miei nonni e non mi manca nulla, perciò non è così terribile».
A quel punto fece una piccola pausa e Beatrice ne approfittò per
versarle dell’altra aranciata, porgendogliela con delicatezza.
L’altra piegò appena le labbra con riconoscenza, quindi,
dopo aver bevuto un generoso sorso, riprese a raccontare: «Con il
tempo, ho
perfino imparato a chiudere entrambi gli occhi sulle scappatelle di
Giacomo e... a far sembrare che vada tutto bene» concluse, mentre
si
asciugava una lacrima con il dorso di una mano, l’altra
intorno al bicchiere semivuoto che teneva in grembo.
Dopo aver ascoltato una storia tanto orribile, la fanciulla non
riuscì a trattenersi ed abbracciò di slancio
l’amica, cogliendola di sopresa.
«Oh, Fiammetta, mi dispiace tanto...» mormorò,
rammaricata. Poteva capire benissimo cosa aveva provato quella
poverina: non era forse vero che suo fratello, fino a qualche mese
prima, aveva complottato alle sue spalle per farle sposare un
troglodita, così da ripagare i suoi debiti? Le loro
vicissitudini erano davvero molto simili, ricordava molto bene quando
lei l’aveva chiamata per annunciarle la morte di sua madre e
quanto si era sentita partecipe del suo dolore, avendone provato uno
uguale. L’unica differenza tra di loro era che, per Fiammetta,
non era arrivato nessun Marcello ad evitare che fosse immolata sull’altare come vittima
sacrificale per un bene superiore.
«Sta’ tranquilla, diciamo che ora va meglio...»
rispose, però, quella, ancora stupita e perfino un po’ imbarazzata, non
essendo forse abituata ad essere consolata così spontaneamente.
«Anche se
ammetto che un po’ ti invidio: si vede che tu e Marcello siete
molto affiatati. Anzi, scusami per i miei commenti su di lui, è
stata la frustrazione per il mio matrimonio infelice a farmi
parlare» aggiunse, mentre le sue guance diventavano più
colorite.
«Oh, figurati. Da un certo punto di vista, infatti, hai detto la
verità!» esclamò Beatrice, mentre
l’amica si metteva a ridere e, finalmente, un po’ di tranquillità tornava sul suo volto triste.
In verità, la fanciulla si era sentita in colpa per essersi
arrabbiata per le considerazioni dell’altra sul giovane, senza
sapere cosa ci fosse effettivamente dietro. Al posto suo,
probabilmente, non sarebbe sopravvissuta nemmeno due minuti ad un’unione con Navarra.
«Ieri sera non potevo parlare molto, ma ho davvero sperato di
aver messo la pulce nell’orecchio a tuo marito riguardo alla
misteriosa epidemia» disse, poi, Fiammetta, rimettendosi un
po’ più composta, riprendendo il discorso della famosa
malattia degli ulivi. «Non conosco i dettagli, non mi rendono
partecipe delle loro discussioni, ma ho capito che la faccenda non
è come vogliono farla sembrare».
Lì per lì, così presa dalle sventure della sua
amica, Beatrice faticò a rientrare in argomento, ma, vista
la grande importanza che aveva per lei e per le sorti della sua tenuta,
fece uno sforzo per concentrarsi a dovere.
«Posso dirti che ci se’ riuscita, visto che è scappato via proprio per indagare meglio» le rispose, ripensando alla rapidità con cui il ragazzo si era dileguato.
«Meglio così» commentò la bionda, decisa,
appoggiando il bicchiere sul tavolo e prendendo un altro biscotto,
questa volta al cioccolato. «Ultimamente, Giacomo e suo padre
confabulano di continuo facendo squallide battute sulla bellezza delle donne spagnole. Sai, mentre
riordinavo il salotto, due giorni fa, ho trovato un
opuscolo turistico sull’Andalusia».
«Andalusia?» ripeté la fanciulla, perplessa, sentendosi opprimere da una strana e spiacevole sensazione.
«Sì, non ho proprio idea di cosa stiano architettando, ma
ho la sensazione che non sia nulla di buono» sospirò
Fiammetta, affranta e rassegnata.
Quando abbracciò l’amica, salutandola sotto al glicine,
Beatrice si augurò davvero che, in futuro, la vita potesse
essere più benevola con lei, visto che trovava profondamente
ingiusto che avesse dovuto rinunciare alla sua felicità con un uomo che l’amasse sul serio, per sposare, invece, un
delinquente.
Vedendola andare via, si fermò anche a riflettere sul fatto che, in sua assenza, molte cose erano
cambiate da quelle parti: la sua allegra compagna di giochi era
una moglie triste ed insoddisfatta, Giacomo era diventato un
perdigiorno fortemente dipendente dal padre e del buon Pierpaolo, fedele assistente del conte Tolomei, era rimasto solo un
involucro di farabutto. O, magari, era proprio quella la sua vera indole.
La conversazione che aveva avuto con la giovane, inoltre, le aveva
lasciato
addosso una strana inquietudine, per lo più dovuta alla conferma
del voltafaccia delle persone di cui, un tempo, suo padre si era
fidato. Poi, quando aveva sentito nominare l’Andalusia, il suo
cuore
era sembrato fermarsi per alcun secondi, in preda ad un terrore
talmente radicato in lei che pareva non avere spiegazione razionale, se
non per il fatto che si trattava di una regione della Spagna, nazione
che
aveva imparato ad associare all’essere più sordido che
avesse mai conosciuto.
***
Ciò che notò subito Marcello, nonostante non si
fosse
addentrato nel fitto degli alberi, fu che le piante di olivo sembravano
essere in perfetta salute e cariche di frutti in via di maturazione.
Ripercorrendo i propri passi, allora, il giovane tornò sulla
stradicciola che collegava la villa ai terreni, lasciando
che la sua mente lavorasse frenetica per venire a capo di
quell’arcano: se era vero che la produzione di olio era stata
messa a rischio da quella terribile malattia, non avrebbero dovuto
esserci almeno dei piccoli segni sul tronco, sui rami e sulle foglie,
oltre che sulle stesse olive? Non si era avvicinato più di tanto
(anche se, oramai, era sempre più convinto che fosse tutta una
montatura per tenere lontane dai terreni quante più persone possibile, anche se ancora non ne conosceva la vera ragione),
tuttavia si ripromise che
sarebbe tornato sul luogo del crimine e avrebbe dato un’occhiata
più approfondita con la piena luce del giorno.
Arrivato a circa metà del percorso, notò un ragazzetto
sui quindici anni che se ne stava seduto sull’erba sotto un
grande eucalipto, intento ad intrecciare cestini di vimini dalla forma
circolare e la rapidità e la precisione con cui quel giovane
piegava i ramoscelli essiccati, senza spezzarli, spinsero il biondo a
fermarsi proprio davanti a lui per osservarlo con curiosità.
«Sei molto bravo e veloce» si complimentò, dopo un po’, sinceramente ammirato.
Quello smise immediatamente di lavorare e sollevò le sue iridi nere sul nuovo arrivato, sobbalzando.
«Mi scusi, non l’avevo notata» ammise, mettendo da
parte la cesta per alzarsi in piedi, scrollandosi i pantaloni.
«Comunque, grazie, signore».
In risposta, l’altro sorrise, socchiudendo appena gli occhi.
«Credo che Marcello possa bastare. Chiamarmi signore e darmi del lei, mi fa sentire vecchio» gli disse, arricciando scherzosamente il naso.
«Come vuole... ehm, scusa, volevo dire... come vuoi»
balbettò il ragazzo, sfregandosi nervosamente la fronte con la
mano.
«Tu sei il marito della signorina Beatrice... il nuovo
padrone, vero?»
«Oh, no, la proprietà è di mia moglie, io le do
solo una mano a sistemare un po’ le cose» precisò, però,
il biondo, con una scrollata di spalle.
L’altro, allora, assunse un’espressione incuriosita e si tolse i
capelli mossi e corvini dal volto per osservarlo meglio, così
Marcello ne approfittò per chiedergli: «Come ti chiami?»
«Leonardo» rispose prontamente quello.
«Stai preparando i cestini per la raccolta delle olive, per caso?»
s’informò poi, indicando il lavoro incompiuto che
giaceva accanto a loro.
Contento che qualcuno si stesse interessando a ciò che faceva,
l’altro sorrise e annuì soddisfatto, prima di spiegare:
«Sì, ma sono in anticipo, perché in questa zona non
la facciamo
mai prima di ottobre, ma allora sarà già ricominciata la
scuola. Anche se, quest’anno, non sembra ci
sarà molto da raccogliere».
«Per via dell’epidemia?» domandò, allora, il
giovane, rendendosi conto che, senza affannarsi troppo, aveva trovato un
testimone a cui chiedere informazioni non censurate su ciò che
stava accadendo nella tenuta.
«Sì» rispose Leonardo, intristito, recuperando da terra le fascine di vimini e il
cesto incompleto e stringendoseli contro il petto. «Il signor Landi ha detto che non ci
pagherà se non ci saranno olive da raccogliere e molti
braccianti sono preoccupati, perché hanno bisogno di quei soldi. Sono ormai sette o
otto mesi che ci terrorizza dicendo queste cose».
«Immagino...» mormorò Marcello, per niente stupito
dalle minacce di quella canaglia. «E... in generale, come si comporta Landi con i
lavoranti?»
A quella domanda, il giovanotto lo fissò seriamente e smise
immediatamente di giocherellare con le estremità dei ramoscelli
di vimini, per poi, dopo qualche istante di esitazione, chiedergli
sottovoce: «Mi assicuri che non andrai a riferirglielo?»
Il biondo, allora, si fece simbolicamente una croce sul cuore e fece, solenne: «Hai la mia parola».
Rincuorato, l’altro si preparò a raccontare e disse tutto
d’un fiato: «È tremendo... è cattivo! Quando
è ora di
raccogliere la frutta o le verdure dell’orto lui e suo figlio non
fanno altro che sbraitare dalla mattina alla sera. L’anno scorso,
mentre raccoglievamo le olive, mio padre si è
sentito male e Giacomo non ha voluto nemmeno chiamare il dottore!»
«Addirittura?»
«Questo è niente, non sai cosa hanno fatto a Ivano
Berti...» proseguì, rabbrividendo, «è stato
colpito da questa malattia e loro l’hanno costretto ad isolarsi,
nemmeno sua moglie può vederlo!»
«Qualcuno è stato contagiato dalla rogna degli
ulivi?» domandò il giovane, sconcertato, rifiutandosi di
credere a una cosa del genere. Cosa diavolo si erano inventati quei due
farabutti per rendere credibile la loro messinscena?
«Sì! Ivano ha cominciato a comportarsi in maniera strana,
l’ho visto io stesso, una mattina, mentre aiutavamo
un’altra famiglia a raccogliere l’uva»
continuò a raccontare Leonardo, ancora visibilmente
scosso dall’episodio. «Ha cominciato a ricoprirsi di bolle e a dire cose senza
senso. Ho avuto davvero paura di ammalarmi
anch’io!»
Dopo aver udito quelle parole, Marcello increspò appena le
labbra, incapace di dare un senso a tutte le informazioni che aveva
raccolto fino a quel momento: ormai, era quasi certo che la malattia
degli ulivi fosse una pura invenzione dei Landi per coprire qualcosa
che stavano tramando alle sue spalle e a quelle di Beatrice, ma il tono
e l’espressione così terrorizzati del ragazzo erano troppo
spontanei per essere parte di una recita, pertanto ritenne che i braccianti non sapessero come stavano realmente le
cose. A quanto sembrava, si erano ritrovati tutti, loro malgrado, ad
avere una parte in quello spettacolo da due soldi.
«Il signor Landi non permette nemmeno al dottor Costa di visitarlo» fece poi Leonardo,
sovrappensiero, come se anche lui trovasse molto strano un
atteggiamento simile.
«Be’, direi che il signor Landi sta davvero
esagerando» lo incalzò, allora, il giovane, ora più
che mai deciso a smascherare Pierpaolo e Giacomo e mettere fine al loro
ridicolo teatrino. Tuttavia, nel vedere il suo nuovo amico così
triste e preoccupato, decise di tirargli su il morale rendendosi suo
complice.
«Sai mantenere un segreto, Leonardo?» gli chiese, infatti,
a voce bassisima, protendendosi appena nella sua direzione.
Quello, sorpreso e contento per quel tono così confidenziale,
spalancò i suoi grandi occhi scuri e si affrettò ad
annuire, in preda alla
curiosità.
«Nemmeno a me quei due hanno fatto una buona impressione».
Dispiegando le labbra in un gran sorriso, Leonardo ripeté il
gesto che il biondo aveva fatto poco prima, come a giurare che non si
sarebbe mai lasciato scappare con nessuno ciò che si erano
appena detti.
«Marcello, sai che mi sei simpatico?» aggiunse, subito dopo. «Perché non rimani tu e mandi
via quel prepotente?»
Di fronte ad una richiesta che era perfettamente in linea con quello
che aveva appena deciso di fare, il giovane sorrise a sua volta e gli
arruffò i capelli, promettendogli: «Farò il
possibile».
L’aver parlato con Leonardo si rivelò per Marcello estremamente utile,
poiché quel ragazzino aveva rivelato con le sue espressioni e
con il suo atteggiamento molto più di quello che aveva fatto a
parole: i due Landi si divertivano a tiranneggiare i lavoranti ed il
fatto che tenessero il medico lontano dall’unico contagiato era
alquanto sospetto.
Perché non volevano che qualcuno curasse quel poveraccio? E,
soprattutto, come mai una sola persona era stata colpita, se la
malattia era davvero pericolosa come ritenevano?
Molte cose non tornavano in quella faccenda e Marcello si convinse
sempre di più di essere sulla strada giusta, contento che
Gerardo fosse in arrivo per aiutarlo a sciogliere
dell’enigma.
In quel momento, però, percepì con la coda
dell’occhio una figura che si muoveva furtiva tra gli olivi, ad
occhio e croce a cinquanta metri da lui: non sembrava averlo visto,
pertanto decise di giocare su questo vantaggio, nascondendosi dietro ad
un castagno che si trovava sul confine tra l’oliveto e la piccola
vigna.
Non appena si sentì al sicuro, il giovane si sporse oltre il
tronco per studiare meglio l’individuo sospetto e così notò
che si trattava di un uomo piuttosto robusto, all’incirca sulla trentina, che si era
piazzato proprio davanti ad un ulivo, fissandone la chioma. Ad un certo
punto, quello tirò fuori una pipa da una scarsella che aveva appesa
alla cintura e, dopo averla preparata con il tabacco, l’accese
e cominciò a fumare con aria pensierosa.
Per un po’, non si mosse, lasciando Marcello in
compagnia delle mille domande che gli affollavano la mente, per poi,
all’improvviso, allungare una mano verso un rametto
dell’albero vicino a lui, carico di frutti e di foglie, e spezzarlo con grande
facilità; infine, se lo rigirò tra le dita, togliendosi la
pipa di bocca giusto il tempo di grattarsi il mento con il cannello,
meditabondo.
Corrugando la fronte, il giovane si chiese chi mai potesse essere e
perché fosse tanto interessato a quel ramo. Sembrava quasi che lo stesse... analizzando, come se anche
lui non credesse ad una sola parola di ciò che si diceva
sull’epidemia di rogna, visto che non sembrava particolarmente
turbato dal fatto di aver toccato a mani nude una pianta potenzialmente infetta.
Qualche istante dopo, l’uomo misterioso si guardò intorno
con circospezione e, non rilevando la presenza di forme di vita degne
di interesse, si allontanò con passo pesante, lasciando dietro
di sé una scia di sbuffi di fumo come una vecchia locomotiva a
vapore.
A quel punto, Marcello si sentì abbastanza certo di poter uscire
dal suo nascondiglio in tutta tranquillità e ritornò sul
sentiero battuto, fissando il punto in cui, fino a poco prima,
c’era stato quell’individuo. Anche se non avrebbe potuto
metterci la mano sul fuoco, sentiva che entrambi, in quella
contesa, stavano dalla stessa parte e decise che una delle sue prossime
mosse sarebbe stata proprio scoprire l’identità di quel
tale, quindi trovarlo e andarci a fare una bella chiacchierata.
***
Vittoria non era nemmeno scesa a terra che già sentiva di
essersi
innamorata dell’Isola d’Elba e, man mano che si
avvicinava a
Portoferraio, e riusciva a distinguere con sempre più
chiarezza i tratti di molti edifici storici che, fino ad allora, aveva
solo visto sulle guide turistiche, li trovò molto più belli dal vivo.
Approfittando del fatto che la rotta del traghetto costeggiava per un
lungo tratto le coste dell’isola prima di entrare in porto,
la ragazza aveva pregato Gerardo di accompagnarla sul piccolo ponte e,
con grande contentezza, da lì era riuscita a scorgere il profilo di Forte
Stella, arroccato sulla cima del promontorio che dominava da nord
l’intera cittadina. Subito dopo, però, la sua
attenzione era stata catturata dal faro, la Torre del Martello5, il quale, essendo situato ad un’estremità
dell’avamporto, sembrava dare il benvenuto ai nuovi arrivati.
«È stupendo!» gridò al
fidanzato, per
sovrastare il rumore dei motori e del vento, rapita da quel panorama
così suggestivo che aveva risvegliato in lei il suo animo di
viaggiatrice instancabile, messo faticosamente da parte negli ultimi
anni per concentrarsi sugli studi e sul lavoro.
«Sembra davvero un bel posto!» urlò lui,
di rimando,
prendendole una mano e tenendola stretta, come se temesse che potesse
volare via.
La ragazza, allora, si voltò verso di lui e,
spostandosi
dal volto i capelli per evitare che le coprissero gli occhi, gli
sorrise, felice che fosse con lei: era la prima vacanza che facevano
insieme e l’idea di poter passare ben sette giorni con il suo
ragazzo in un luogo bello come quello la rallegrava. Anche se
sarebbero stati ospiti di Beatrice e Marcello nella villa dei lei a
Marciana Marina, in un’altra parte dell’isola, Vittoria era
sicura che le sarebbe
piaciuto moltissimo anche quel versante
dell’Elba.
Una volta messo piede sulla banchina del porto, i due ragazzi si
misero subito da parte per lasciar passare la torma di gente che era
scesa assieme a loro, così da avere la calma necessaria per
decidere sul da farsi.
«Marcello mi ha consigliato di prendere un taxi e di farci
portare direttamente alla villa, perché con i bagagli,
nonostante il tragitto non sia lungo, sarebbe scomodo prendere
l’autobus» spiegò Gerardo, guardandosi
intorno,
probabilmente alla ricerca del punto di raccolta dei tassisti.
La giovane, allora, avendo intuito i pensieri del suo compagno,
intenerita dalla sua espressione corrucciata, lo anticipò,
ridendo: «Va bene. Dai, mentre tu vai a rimediare un
autista,
io resterò qui con le valigie».
Sorpreso da quell’intervento così puntuale,
l’altro
smise di voltare la testa a destra e sinistra e si soffermò
sulla ragazza, guardandola per qualche secondo prima di incurvare le
labbra e mormorarle dolcemente: «Sei un tesoro».
Vittoria arrossì all’istante, piacevolmente spiazzata da
quel complimento così spontaneo ed inatteso, tanto che
nemmeno
si rese conto che il giovane si era già allontanato
da lei,
diretto verso la parte più interna del porto.
A quel punto, ancora un po’ trasognata, la ragazza si
accomodò su una bitta senza cavi d’ormeggio, alle
spalle di una
fila di piccole barchette attraccate lungo la banchina, e chiuse gli
occhi, lasciandosi baciare dal sole, impaziente di
poter
andare in spiaggia per abbronzarsi un po’ e, magari, imparare a nuotare, dato che
Gerardo si era offerto di farle da istruttore.
Improvvisamente, però, la sua quiete venne
interrotta
da due voci che sembravano discutere piuttosto animatamente dietro di
lei.
«Sei proprio sicuro che arriveremo in Corsica in sole quattro
ore?» domandò qualcuno, con
un’inflessione della
voce che faceva trapelare un certo dubbio.
«Ho già portato laggiù altri prima di
te: ricordati
che sei stato tu a cercarmi proprio per questo»
replicò subito risentito il suo interlocutore, che sembrava
più
anziano. «Piuttosto, voglio
che mi paghiate il prezzo pattuito e non una lira di meno!»
«Stai tranquillo, ho parlato con i miei soci e hanno deciso
che
va bene» ribatté quello che aveva parlato per
primo,
seccato. «Adesso, vedi di mantenere quello che hai promesso,
oppure comincia a pregare tutti i santi che conosci, perché
il
capo non perdona chi si mette contro di lui!»
Sopraffatta dalla curiosità, la ragazza riaprì
gli occhi e si voltò, scorgendo su un piccolo
peschereccio
azzurro parecchio malandato un uomo anziano con la pelle bruna ed
incartapecorita e un ragazzo che doveva avere solo qualche anno
più di lei, alto, moro e vestito piuttosto bene.
Aggrottando la fronte, scettica all’idea che quella bagnarola fosse in grado di
portare qualcuno fino alle coste della Corsica, Vittoria rimase a
fissare il giovane che, dopo aver salutato frettolosamente
l’altro, lasciò la barchetta e risalì
sul molo con
un saltello.
Anche se aveva sentito solo un breve stralcio del discorso, era
palese che quei due stavano organizzando qualcosa di illegale e, mentre
pensava se fosse o meno il caso di andare a riferire quanto udito alla polizia, il ragazzo alzò la testa
verso di lei e i loro sguardi si incrociarono.
Trasalendo, la ragazza si affrettò a tornare a guardare
davanti
a sé, sperando che quel tipo non avesse capito che aveva udito la conversazione tra lui e quello che,
probabilmente,
era un pescatore convertitosi ad attività clandestine.
Maledicendo la sua incapacità di ignorare i discorsi altrui,
rimase immobile a fissare un punto a terra per un minuto o due, ma,
proprio quando stava per tirare un sospiro di sollievo, vide
un’ombra fermarsi a pochi passi da lei.
«Ciao» la salutò una voce che,
purtroppo, non era quella di Gerardo.
Essendo fin troppo certa che quel saluto era rivolto a lei, la giovane
si decise a staccare gli occhi da terra con grande riluttanza,
trovandosi davanti il ragazzo di prima.
«Ehm... ciao» rispose, dopo aver deglutito a vuoto,
cercando di non apparire troppo
nervosa e decidendo che, se lui avesse fatto qualunque insinuazione,
lei avrebbe negato con tutta la sicurezza di cui disponeva, nonostante
in quel momento la sua riserva fosse piuttosto esigua.
«Sei una turista?» proseguì quello, mettendosi le
mani in
tasca e spostando la testa da un lato, osservandola con attenzione.
«Mmm... più o meno» mormorò
Vittoria, sfregandosi le
labbra con apparente noncuranza per sfogare
la
tensione. Perché doveva essere sempre così
maledettamente
curiosa?
«Allora, hai bisogno di qualcuno del posto che ti mostri le
bellezze della zona» fece, quindi, il giovane, elargendole un
sorriso particolarmente lascivo, facendo scorrere insistentemente lo
sguardo addosso a lei e indugiando sfacciatamente sul suo
seno
generoso.
Di fronte ad un atteggiamento così volgare, la ragazza
aprì la bocca e lo fissò sconcertata: da una
parte era
decisamente sollevata che quel tipo non avesse alcun tipo di
sospetto su di lei, ma, dall’altra, si sentì
irritata da
quello che aveva chiaramente riconosciuto come un patetico tentativo di
abbordaggio.
«Grazie, ma credo di sapermela cavare da sola»
replicò, freddamente, squadrandolo inquisitoria e alzandosi
per
essere alla sua stessa altezza. In realtà, il suo
molestatore la
superava di quasi tutta la testa, ma essere in piedi la faceva comunque
sentire in posizione meno svantaggiata.
«Una passerina
così carina potrebbe essere facile preda di
malintenzionati» proseguì, però,
l’altro, per nulla scoraggiato,
avvicinandosi di qualche passo. Poi, aprì la giacca
color
carta da zucchero e, dopo aver estratto un cartoncino dalla tasca
interna, glielo
porse con fare cerimonioso. «In ogni caso, puoi trovarmi a
questo numero, se dovessi cambiare idea».
Non volendogli assolutamente dare la falsa impressione di essere
interessata, soprattutto dopo essere stata apostrofata in quella
maniera così triviale, la giovane diede al biglietto da
visita
una scorsa appena
sufficiente a leggere il nome che vi era scritto sopra: Giacomo Landi.
«Non penso ci sarà occasione»
decretò, secca,
fissandolo in cagnesco. «Ecco, sta tornando il mio
ragazzo!» aggiunse subito dopo, arretrando con fare altezzoso
fino a toccare la bitta con le gambe, incrociando le braccia
sul petto. Possibile che non potesse
restare sola per più di due minuti senza che qualche
marpione la importunasse?
Sollevando le sopracciglia, Giacomo, allora, si voltò e,
dopo
aver notato Gerardo, che avanzava verso di loro,
trionfante, agitando una mano in direzione della ragazza, scoppiò a
ridere di gusto, infilandosi nuovamente il biglietto nel taschino.
«Tesoro, non mi prendere in giro: una bambola come te non
può stare con un... coso
del genere!» esclamò, ancora in preda
all’eccesso di risa.
Indignata, la giovane si puntò le mani sui fianchi e,
sentendosi
affluire tutto il sangue alle guance per la rabbia, sbottò:
«Coso sarai tu! Quello è il mio fidanzato e non
devi permetterti di insultarlo!»
«Sì, certo, certo... ed io sono il principe Carlo
d’Inghilterra»
sghignazzò l’altro, scuotendo la testa come se lei
gli
avesse appena raccontato un’esilarante barzelletta.
«Be’, buona giornata e a presto,
dolcezza».
«A mai più rivederci, vorrai dire!»
ribatté
Vittoria, tremante, sentendosi pervadere dall’istinto di mettergli le mani al collo.
Udendo quelle parole, Giacomo, che si era già allontanato di
qualche metro, tornò a guardarla, riservandole un
sorrisetto beffardo e sinistro.
«Oh, non ci contare, bambolina, perché
saprò come ritrovarti e posso scommettere
che non ti dispiacerà» dichiarò, con
voce bassa ed inquietante. Dopo di che, si abbandonò ad
un’ultima, perfida
risata e sparì inghiottito dalla folla del porto.
«Con chi stavi parlando?» le
domandò Gerardo, non appena fu a portata di orecchio della
fidanzata.
Con lo stomaco ancora sottosopra per la paura provata poco prima, poi
degenerata in collera, la giovane si prese qualche istante per ricomporsi, prima di
rispondere.
«Oh, nessuno di importante, solo un tizio che voleva a
tutti
i costi che alloggiassimo nel suo albergo»
sbuffò,
scuotendo infastidita la testa, «ma gli ho detto che siamo
ospiti
da amici».
«Hai fatto bene, in fondo è la
verità»
approvò il ragazzo, dirigendosi verso le due valigie,
rimaste
incustodite sulla banchina. «Dai, andiamo, il tassista ci
aspetta. I bagagli li porto io, tu occupati solo della tua
borsa»
aggiunse poi, elargendole un tenero sorriso.
Nel ricambiare, Vittoria stiracchiò debolmente le labbra,
avvertendo
un peso sul cuore: si sentiva terribilmente in colpa per non avergli
detto la verità, anche se aveva un motivo più che
valido
per farlo. Infatti, se Gerardo avesse saputo che quel cretino ci
aveva provato con lei e aveva deriso lui, si
sarebbe arrabbiato, reagendo male e rovinando
l’inizio della vacanza.
Autoconvincendosi di aver fatto la scelta giusta, la ragazza, allora,
seguì il fidanzato, ripetendosi mentalmente che,
così, gli aveva risparmiato solo
un’inutile
sofferenza.
Tanto, quando mai avrebbe avuto l’occasione di
rivedere quell’idiota di Giacomo Landi?
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto
per il continuo sostegno.
***
[N.d.A]
1. pane sciocco:
nel dialetto toscano, sciocco
significa “senza sale”, da cui deriva anche il
significato più ampio di persona ingenua e stupida;
2. schiaccia briaca:
dolce
tipico dell’Isola d’Elba, a base di frutta secca,
uvetta,
olio, vino aleatico e alchermes (che dà la tipica
colorazione
rosata). Ne esiste anche una versione in bianco e con il vino moscato,
tipica della zona del comune di Capoliveri;
3. epidemia...
Napoli: quest’epidemia si è realmente
verificata sul finire dell’estate del 1973, colpendo la zona
partenopea. Fu una situazione abbastanza drammatica e la popolazione di
Napoli (e non solo) fu sottoposta ad una vaccinazione di massa per
evitare il contagio e bloccare quindi la diffusione del batterio
responsabile del colera;
4. emofiliaco... costose:
l’emofilia è una malattia ereditaria legata al
cromosoma
X, pertanto colpisce quasi esclusivamente gli uomini. Comporta
un’incapacità del sangue di coagulare bene e viene
curata
con infusione di concentrati di fattori della coagulazione. Negli Anni
‘80, erano disponibili solo fattori
provenienti da
donatori umani, perciò le cure erano molto costose e poco reperibili (e anche
ad elevato rischio di trasmissione di epatite B e C); a partire dalla
fine degli Anni ‘90, invece, grazie alle biotecnologie, sono
stati prodotti fattori della coagulazione in laboratorio, rendendo la
cura meno costosa, più sicura e largamente disponibile;
5. Torre del Martello:
nota anche come Torre
della Linguella.
***
Rieccoci.
Essere a soli cinque capitoli dalla fine è un traguardo per
me
importantissimo, considerando che questa storia va avanti dal 2012.
Tuttavia, mi sto impegnando affinché possa trovare la sua
fine
entro il prossimo dicembre, anche perché
c’è un
nuovo racconto che scalpita per venire alla luce.
Ringrazio sempre chi ancora mi segue, chi legge in silenzio, chi ha
messo questa storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi mi ha
lasciato un parere allo scorso capitolo (Anto, Aven, Balder Moon).
Per dettagli e anticipazioni sul prossimo aggiornamento, come di consueto, vi lascio il link alla mia pagina
facebook.
Alla prossima!
Halley
S.C.
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Capitolo 22 *** Capitolo Ventiduesimo - Vento di Malintesi ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 22
- Capitolo Ventiduesimo -
Vento
di Malintesi
Inaspettatamente,
l’aver invitato Vittoria
a trascorrere qualche giorno a Marciana Marina si rivelò
provvidenziale, visto che la ragazza portò a Beatrice il
miglior antidoto possibile alla frustrazione dovuta al fatto di vedere
suo marito
dedicarsi con maggior cura agli interessi della tenuta piuttosto che a
lei.
Le due giovani, infatti, si ritrovarono a condividere ben presto una
sorte simile, poiché i loro compagni sembravano
essersi
completamente dimenticati della loro esistenza, barricati in
biblioteca da tre giorni senza uscire nemmeno per pranzare, lavorando senza sosta per ricostruire la contabilità
dell’ultimo biennio.
Marcello aveva fatto dello svelare le malefatte dei
Landi una priorità e, alla lunga, ciò aveva reso la
fanciulla insoddisfatta e annoiata, poiché non
era
quello il modo in cui aveva immaginato si sarebbe svolto il suo viaggio
di nozze. Certo, era ben consapevole dell’indole poco
romantica
del consorte, ma non avrebbe mai pensato che potesse arrivare a
tanto.
Dal canto suo, anche l’altra aveva dato segni di
insofferenza dopo
essersi ritrovata ad aspettare invano per ore ed ore che il fidanzato
la raggiungesse in spiaggia, a metà della loro settimana di
vacanza; tuttavia, rispetto
all’amica, sembrava tollerare un po’ meglio
quell’assenza, anzi, talvolta era talmente persa nei
suoi
pensieri che pareva vivere fuori dalla realtà.
Tant’è che quell’atteggiamento, così strano
da parte sua,
preoccupò seriamente Beatrice, la quale si ripromise
più volte di chiedere all’altra cosa non andasse,
senza
però trovare mai l’occasione giusta per farlo.
Quando, come da copione, la mattina del quarto giorno, i ragazzi trangugiarono
velocemente la colazione per poi scappare in biblioteca e, subito dopo,
una sconsolata Vittoria annunciò che sarebbe andata a
prendere
il sole sulla terrazza più alta per un’ora o due, l’unica cosa che rimase a far compagnia a
Beatrice fu il frinire delle cicale.
Amareggiata, allora, la fanciulla spinse con stizza le sue frittelle lontano da
sé, mentre le riaffiorava alla mente il ricordo di quando era stata
costretta a mangiare da sola a casa della zia, con la differenza che,
all’epoca, essendo circondata da persone ostili, era
un’evenienza
giustificabile.
Qualche minuto dopo, venne Lina per sparecchiare la tavola e la ragazza
colse l’occasione per chiederle di portarle tutta
l’argenteria che necessitava di
essere
lucidata, poiché aveva deciso di approfittare delle faccende
domestiche lasciate in sospeso per
sfogare su di esse tutta la sua delusione, sapendo quanto le attività
manuali erano utili a distendere i nervi.
Tuttavia, proprio mentre stava cominciando a rilassarsi, seduta
al tavolo sotto ai
pini, sfregando energica candelabri e piatti da
portata, udì dei
passi sul
vialetto.
«Buongiorno, cara» la salutò una voce e quando
alzò la testa per vedere di chi si trattava, si rese conto
immediatamente che avrebbe fatto meglio a
continuare a lavorare.
«Buongiorno,
Giacomo»
rispose, infatti, con tono piatto, riprendendo immediatamente a strofinare
un panno
intorno al porta-caramelle di cui si stava occupando prima di essere
interrotta, per nulla intenzionata ad intavolare una discussione
con il giovane.
Quello, però, fece finta di niente e si accomodò
comunque di fronte a lei, scrutandola con attenzione.
«Posso fare qualcosa
per te?» chiese, allora, Beatrice,
irritata per la sua insistenza e per il suo silenzio.
«Cercavo Marcello» disse, infine, lentamente e con
atteggiamento pensieroso l’altro, come se stesse cercando di inventarsi in fretta una scusa plausibile.
«L’è
in biblioteca con un
su’
amico» tagliò corto la ragazza, sempre
più
infastidita dalla sua presenza: dopo quello che le aveva rivelato
l’amica, la disgustava anche solo l’essere costretta
a
sopportare la vista di Giacomo, senza contare che la lontananza di suo
marito la indisponeva già ampiamente verso
qualunque
tipo di relazione interpersonale.
«Siete sposati da poco e già ti trascura?»
insinuò subito quello, con tono suadente e sicuro, tradendo un’espressione di grande soddisfazione.
A quel punto, ormai satura, la
fanciulla appoggiò l’oggetto che aveva tra le mani sul tavolo e
puntò
negli occhi del suo interlocutore uno sguardo velenoso,
giacché,
nonostante l’altro avesse centrato in pieno la situazione,
non
desiderava minimamente discuterne con lui. Se aveva intenzione di
proporle di diventare la sua amante, be’, aveva proprio
sbagliato
persona per tessere le sue tresche schifose ai danni di Fiammetta.
«Ci son parecchi
punti che
non quadrano nei conti
della tenuta.
Qualcuno
deve pur mettere a posto le cose,
non trovi?» rispose, poi, con calma inquietante,
intenzionata a mettere in chiaro la sua posizione fin da subito, oltre
a fargli capire che lei era a conoscenza dei giochetti che avevano
organizzato lui e suo padre.
Freddato da una risposta così provocatoria, il ragazzo
aggrottò
appena la fronte, anche se fu più che altro il fremito delle
sue labbra a far intendere chiaramente alla giovane di aver capito
di essere stato scoperto, poco prima che si
alzasse di scatto, allontanandosi dal tavolo di qualche passo.
«Vorrà dire che tornerò
quando Marcello
sarà più libero» borbottò, alla fine, tra i
denti. Tuttavia, non si lasciò sfuggire
l’occasione di
insistere ancora una volta: «Ricordati, però, che,
se
dovessi aver bisogno di parlare con qualcuno... qui
c’è un
vecchio amico pronto ad ascoltarti».
Decisa a cacciarlo letteralmente a calci, la ragazza aveva
già
puntato i piedi a terra per tirarsi su, quando si rese conto
che Giacomo sembrava aver perso ogni interesse verso
di lei, impegnato ad osservare con espressione beota un punto
imprecisato oltre la sua spalla e la fanciulla non fece nemmeno in
tempo a
voltarsi per capire di cosa si trattava, che udì la voce di Vittoria.
«Beatrice, alla fine, sono andata in spiaggia, ma...»
ma la
nuova arrivata non finì la frase, perché
si
arrestò di colpo, spalancando gli occhi, e la poca
abbronzatura
che aveva non fu sufficiente a nascondere che era impallidita.
Prima che l’altra potesse anche solo pensare di
chiedere
all’amica scosa stesse accadendo, però, intervenne Giacomo.
«Bea, non mi presenti la tua ospite?» le chiese,
con tono
lascivo, lanciando a Vittoria un’occhiata famelica e in
quel preciso istante Beatrice capì appieno cosa volesse dire l’espressione
“mangiarsi
qualcuno con gli occhi”.
Incerta
se quella
fosse davvero la mossa giusta da fare, temporeggiò
ancora qualche secondo, prima di decidersi: «Ecco... Giacomo, lei
è
Vittoria, una mia amica. E... Vittoria, questo
è Giacomo Landi, il figlio dell’amministratore dei
nostri
terreni».
«Non credevo che sarebbe stato così semplice
ritrovarti» aggiunse subito lui, sogghignando.
«Inoltre, adesso so anche il tuo nome».
Tuttavia, Vittoria non rispose, limitandosi ad osservarlo
con
occhi spalancati come se avesse visto un fantasma.
«Vi
conoscete...
già?»
chiese, allora, una sempre più disorientata Beatrice, che
faticava a capire il comportamento dell’amica,
così diverso dal solito.
«Ci siamo incontrati al porto» spiegò il
ragazzo,
facendo spallucce, senza staccare mai il suo sguardo bramoso dalla
giovane, che sembrava aver perso improvvisamente la parola.
«Comunque, si è fatto davvero tardi, belle
ragazze, a
quest’ora mio padre avrà certamente bisogno di me.
Ma non
temete, avremo certamente occasione di rivederci» aggiunse
subito
dopo, sorridendo in maniera sinistra, prendendo congedo da entrambe con un cenno de capo, prima di allontanarsi con una certa
celerità.
Non appena se ne fu andato, Vittoria si afflosciò su una
sedia,
esausta, stringendo convulsamente tra le dita la stoffa del suo
copricostume verde acqua.
«Stai bene?» le domandò subito Beatrice,
preoccupata, avvicinandosi a lei con una certa fretta e mettendole una mano
sulla schiena, come per sostenerla.
«No, per niente!» gemette l’altra,
angosciata,
scuotendo la testa, sul punto di scoppiare in lacrime
da un momento all’altro.
Sbattendo le palpebre, la fanciulla, allora, si accomodò accanto
a lei e attese qualche secondo che si
calmasse,
anche se, in realtà, ogni istante che passava, Vittoria diventava
sempre più inquieta, mentre mormorava tra sé e
sé frasi
sconnesse.
«Ti va di dirmi cosa
l’è
successo, magari
dall’inizio?» riprovò, con dolcezza, sperando di farle sentire con il suo tocco che era
disposta ad ascoltare e, quindi, ad aiutarla.
A quel punto, la ragazza fece un profondo sospiro e, non
aspettando altro, probabilmente, che l’occasione propizia per buttare fuori
tutto
quello che teneva dentro e che le stava facendo così male,
le
raccontò dell’incontro
al porto
con il giovane Landi e di ciò che ne era seguito.
Nell’udire delle oscene avances che quello aveva fatto
all’amica,
Beatrice si sentì pervadere dall’ira e dal
disgusto.
«... e così ho mentito a Gerardo, dicendo che
Giacomo lavorava per un albergo che cercava clienti. Davvero, non
credevo che l’avrei ritrovato qui!» concluse, alla fine,
scuotendo nervosamente la testa.
Notando che l’amica sembrava più sollevata, a Beatrice venne spontaneo paragonarla a
Fiammetta, la quale aveva avuto la stessa reazione dopo aver sfogato la
rabbia per le malefatte del marito.
«Certo
che l’è
stata una bizzarra coincidenza
che
tu l’abbia incontrato a Portoferraio...»
mormorò,
pensando che quel cretino era davvero una piaga per tutte le donne che avevano la sfortuna di incontrarlo.
«Mi sono lasciata incuriosire da ciò che stava
dicendo al
pescatore» raccontò, ancora, Vittoria,
stringendosi contro
le braccia, come per cercare di proteggersi.
«Sta
organizzando con
alcuni complici una fuga in Corsica».
«Corsica?»
domandò, allora, Beatrice, stupita da quella rivelazione.
«Eppure, la
Fiammetta aveva parlato d’Andalusia!»
«Fiammetta?»
«Sì, l’è
una mi’
cara amica, nonché la moglie di Giacomo.
M’ha detto d’aver trovato in casa una grande
quantità di materiale sull’Andalusia, non sulla Corsica»
spiegò brevemente, la mente già impegnata ad
elaborare
quanto aveva appena appreso, chiedendosi quale fosse la vera destinazione di
quei due delinquenti e chi fossero gli altri complici citati, senza
tralasciare il quesito più importante: perché
stavano
scappando?
Dopo aver appreso la verità sul suo molestatore ed essere
inorridita ancor di più, Vittoria riuscì appena a
sussurrare: «Povera ragazza...»
Poi, dopo qualche secondo di silenzio, torno a rivolgersi
nuovamente all’amica, con tono supplice: «Ti prego,
Beatrice, non dire niente a Gerardo, né di
questa mattina, né di quello che ti ho raccontato».
Distolta bruscamente dai propri pensieri, che non riuscivano a trovare
spiegazioni soddisfacenti al comportamento dei Landi e ai loro
innumerevoli inganni, Beatrice posò lo sguardo sulla sua
interlocutrice e, non approvando quella decisione, non tardò
ad
esprimerle il suo dissenso.
«Scusami
se mi permetto, ma credo
che
dovresti proprio dirgli tutto,
invece! Tanto lo verrà a sapere, prima o poi, visto che
quell’idiota non rinuncerà
di certo a
darti fastidio solo
perché
se’
fidanzata».
«C’è il rischio che Gerardo la prenda
molto
male, però...» ribatté l’altra, scuotendo
vigorosamente
la testa, «hai ragione: devo trovare il momento opportuno e raccontargli
tutto».
«Son sicura
che capirà»
la rassicurò la fanciulla, stringendole una mano, augurandosi con tutto il cuore che quel fedifrago, un giorno,
pagasse per ciò che aveva fatto alle sue amiche.
***
«Mi pare ovvio, ormai, che i due Landi stiano complottando ai
danni
di
Beatrice» commentò con disappunto Gerardo,
rimettendo nel
ripiano più basso dell’armadio
l’ennesimo faldone
pieno di lacune relativo al bilancio
dell’ultimo anno. «Li ho visti entrambi di
sfuggita e non mi hanno convinto per niente. Evidentemente, vogliono
accaparrarsi
questa tenuta, perciò stanno simulando il fallimento per indurre tua moglie a
vendere tutto a loro».
Marcello, invece, era seduto
su una delle poltrone di fronte alla scrivania, intento a riflettere
accuratamente su ogni dettaglio che aveva raccolto nei giorni
precedenti, senza che nessuno di essi, per quanto
importante, gli desse l’indizio definitivo per capire
cosa ci
fosse esattamente dietro tutti quei misteri.
«Sono pienamente d’accordo con te» affermò, appoggiando un gomito sul
braccio e,
quindi, una guancia sul pugno chiuso, «ma la mia
domanda è: perché solo ora? Il conte Tolomei è morto da anni e Guido non
è mai stato un ostacolo, visto che non è in grado di gestire
nemmeno se stesso».
L’altro si tirò su ed incrociò le
braccia contro il petto, un’espressione meditabonda sul volto.
«Tra
l’altro, stando a quello che so, quel fannullone aveva
promesso la tenuta a Navarra come ulteriore pagamento, proprio perché
era convinto che non valesse nulla»
continuò
il biondo, contemplando la fine arte con cui erano state decorate le
ante di tutti i mobili della stanza. «Se ci pensi, il
fratello di Beatrice non brilla certo per scaltrezza, pertanto non
avrebbe mai potuto bluffare un criminale del calibro dello spagnolo.
Anzi, credo proprio che non abbia nemmeno le capacità intellettuali per
arrivare a pensare una cosa del genere».
«Magari, allora, i Landi potrebbero aver avuto problemi solo in
quest’ultimo periodo» continuò
l’amico, accomodandosi sulla poltrona libera e mettendosi le
mani
sulle ginocchia, la schiena ben dritta.
«Ne dubito» replicò Marcello,
diffidente,
rimettendosi composto, per poi saltare in piedi, facendo cigolare le
molle del cuscino dove era stato seduto. «Ho parlato con un
ragazzetto che dà una mano nei lavori agricoli e mi ha
riferito che questa storia della rogna degli ulivi è
iniziata
sette, otto mesi fa» aggiunse, appoggiandosi
le
mani sui fianchi, lanciando a Gerardo un’occhiata
scettica.
Quello, dal canto suo, alzò le spalle, consapevole che le loro indagini erano
giunte ad un vicolo
cieco.
«Effettivamente, ci sono parecchi dettagli che non quadrano
in
questa vicenda, ma sappiamo comunque dove trovare le prove schiaccianti del
tradimento dei Landi» sentenziò, infine.
«Esattamente. Per questo dobbiamo scopri...»
riprese l’altro, prima di essere interrotto da una visita
inattesa.
«Marcello, Marcello... è successa una cosa
terribile!» gridò, infatti, Leonardo, entrando
improvvisamente in
biblioteca come un piccolo ciclone e facendo cadere a terra una torre di
incartamenti che i due giovani avevano momentaneamente depositato
dietro alla porta.
«Una cosa terribile?» ripeté
meccanicamente il
biondo, osservando il piccolo amico tra il sorpreso ed il perplesso.
«Riprendi fiato, così mi racconterai
tutto».
«Scommetto che questo giovanotto è il tuo nuovo
informatore» commentò, invece, Gerardo, avvicinandosi ad
entrambi, osservando il nuovo arrivato con una punta di
curiosità.
In risposta, l’altro annuì con un sorriso, per poi
battere subito dopo un paio di pacche affettuose
sulla spalla del ragazzo: «Si chiama
Leonardo» lo presentò.
«Piacere, io sono Gerardo, un amico di Marcello»
rispose a
sua volta Marini, sorridendogli affabilmente, e quello, imbarazzato, sbatté le palpebre e deglutì, nervoso.
«Ehm... Ciao» balbettò, stringendo le
spalle come per farsi ancora più piccolo.
«Tranquillo, Leonardo, Gerardo è un mio amico ed
è
la persona più buona che io abbia mai conosciuto» lo
rassicurò
rapidamente il biondo, calcando particolarmente sull’ultima parte.
«Che cosa volevi dirmi di tanto importante?»
Il ragazzo sobbalzò, come se si fosse improvvisamente
ricordato di avere qualcosa di molto urgente da riferire, e cominciò
a
raccontare in modo molto concitato: «Ivano Berti sta per
morire!
Il signor Landi
l’ha fatto trasportare a casa sua questa mattina e sta
impedendo
a chiunque di vederlo... La signora Sandra sta impazzendo di
dolore!»
A quelle parole, i due giovani si scambiarono immediatamente
un’occhiata nervosa, essendo
probabilmente arrivati nello stesso momento alla medesima conclusione:
Pierpaolo e
Giacomo stavano lasciando che un pover’uomo passasse a
miglior
vita solo per dar credito alla loro stupida messinscena.
«Credo proprio che dovremmo andare a vedere»
propose, allora, Gerardo, assottigliando lo sguardo.
«Già, lo penso anche io»
concordò Marcello,
non meno sospettoso di lui. Poi, con tono gentile, si rivolse al suo
giovane collaboratore: «Leonardo, facci strada!»
«Venite con me!» rispose subito quello, felice di poter essere utile,
facendo loro segno di seguirlo.
Dalla consistente folla radunata sull’aia si levava un
vociare
piuttosto concitato: era come se ogni bracciante della zona fosse
accorso alla villa dei Neri per verificare la situazione con i propri
occhi e dire il suo parere in merito.
Quando furono più vicini, i due giovani intravidero
Fiammetta così, dopo aver lasciato che Leonardo corresse dai suoi
genitori, si fecero faticosamente
largo tra la gente verso di lei, curiosi di
apprendere qualcosa in più su ciò che stava
accadendo, approfittando anche della momentanea assenza di Giacomo e Pierpaolo.
Tuttavia, proprio in quel frangente, l’attenzione della ragazza fu
catturata da un nuovo arrivo e, seguendola con lo sguardo, Marcello
vide che era letteralmente corsa incontro ad uomo piuttosto massiccio,
che il biondo riconobbe immediatamente come l’individuo che
aveva visto nell’uliveto.
«Dottor Costa!» gridò lei, per
sovrastare le voci dei braccianti. «Menomale che è
arrivato... Il povero Ivano delira da stamane!»
Dopo essersi scambiati un’occhiata di intesa, i ragazzi,
facendosi strada a suon di gomitate, moltiplicarono i loro sforzi per
raggiungere la giovane e il suo interlocutore, arrivando proprio
nell’istante in cui quello stava dicendo: «Signora
Neri, farò il possibile, stia tranquilla».
Sorpreso dal fatto che, contrariamente ai braccianti, il medico avesse chiamato la ragazza con il suo
cognome da nubile, Marcello squadrò attentamente
entrambi,
notando che, dopo quell’intervento, lei sembrava decisamente
più rassicurata. Poi, dopo essersi congedato con un garbato
cenno del capo, vide l’uomo dirigersi all’interno della
piccola
dependance dove avevano trasportato il malato.
A quel punto, nonostante le mille domande che gli ronzavano in testa,
il biondo fece segno a Gerardo di seguirlo, avvicinandosi a Fiammetta.
«Oh, buongiorno» li salutò questa, con
aria stanca, non appena le furono davanti. «Hai saputo
anche tu di Ivano?»
«Già» rispose Marcello, grave.
Poi, presentò sbrigativamente l’amico, deciso a non perdere troppo tempo con i convenevoli.
«La situazione è critica come sembra?»
«Lo è» confermò la ragazza,
con un sospiro, mentre stringeva la mano di Marini. «Il
dottor
Costa è molto bravo e si preoccupa sempre per tutti...
Pensate che ogni settimana passa qui per
sapere come sta mio padre dopo le trasfusioni1,
ma nemmeno lui potrà compiere un miracolo»
aggiunse,
rassegnata.
«Pover’uomo!» esclamò Gerardo, lanciando
subito dopo un’occhiata mesta alla porta della dependance.
«Oh, sì... Anche Pierpaolo e Giacomo sono molto
preoccupati e...»
Tuttavia, Fiammetta non riuscì a completare la frase,
perché un urlo straziante di donna si levò dalla
casupola. Ne seguì un silenzio surreale, rotto qualche
secondo dopo da un altro grido, proveniente, però, da un capannello di gente che si
era formato sotto il noce che offriva ombra all’aia:
«È morto! Ivano Berti... è
morto!»
Subito, esplose il caos e
molti di quelli che si erano radunati lì corsero via, mentre altri cominciarono a gridare come forsennati,
mulinando le braccia nel vuoto; diverse donne, invece, presi in braccio i loro
bambini, si allontanarono in tutta fretta, sentenziando che il demonio aveva
lanciato una maledizione su quelle terre. Fra di loro vi furono anche Leonardo e la sua famiglia.
Gli unici che non si mossero di un passo, come se tutto quello
non li riguardasse, furono i tre ragazzi, che rimasero a fissare la
porta in cui era entrato qualche minuto prima il dottor Costa e dalla
quale, proprio in quell’istante, ne uscì
di nuovo l’uomo, spinto in malo modo da Giacomo e seguito da Pierpaolo che,
estratta una pistola dall’interno della giacca, sparò due
colpi a salve in aria per riportare la quiete.
«Smettetela di gridare alla maledizione, bifolchi!»
tuonò, agitando un pugno con aria minacciosa. «Il
colpevole di tutta questa tragedia è davanti ai vostri
occhi!»
«È così, gente!»
confermò con foga il figlio, additandolo.
«Questa belva ha diffuso un miasma tra di noi per i suoi
sciocchi studi!»
«Smettila di accusarmi, folle!» si difese immediatamente il
medico, ringhiando e riservando al giovane uno sguardo carico
d’odio e di ribrezzo. «Siete tu e tuo padre che
uccidete degli innocenti per il vostro tornaconto!»
A quelle parole, Pierpaolo scoppiò a ridere con
malvagità e Marcello avvertì un istintivo
desiderio di farlo tacere per sempre.
«Quest’uomo delira!» insorse
l’amministratore. «Chi
vorrà farsi curare da un assassino, ora?»
Istantaneamente, i pochi rimasti cominciarono a parlottare a bassa voce
e sul dottore si
riversarono parecchie occhiate diffidenti, piene di orrore e disgusto,
ma lui rimase in piedi, ritto come un fuso, senza lasciarsi
piegare da quelle infami calunnie.
«Basta, Pierpaolo!» intervenne, allora, Fiammetta,
avanzando a grandi passi in direzione del suocero. «Il dottor
Costa non c’entra niente con tutto questo!»
Palesemente infastidito da quell’intromissione,
l’uomo la guardò di traverso e borbottò a denti
stretti: «E come fai ad esserne certa, cara?»
Irritata, la ragazza aprì la bocca per replicare, ma
qualcuno fu più veloce di lei.
«Finché non avremo indagato, non ci sarà
alcuna certezza!» esclamò, infatti, una voce che
Marcello non aveva mai sentito prima.
In quel momento, dalla poca folla rimasta emersero tre uomini,
di cui i due più giovani erano in divisa da poliziotto ed il terzo, invece, in borghese. Aveva
un’espressione molto severa che scaturiva dagli occhi scuri e una
massa di capelli ondulati, anche se non troppo lunghi, gli incorniciava il viso dai bei lineamenti sottili.
«Commissario Guardalupi!» lo salutò
Giacomo, sorpreso da quell’apparizione, ma non abbastanza da non
riprendersi in fretta e correre incontro al nuovo arrivato. Quando lo
raggiunse, cambiando
completamente tono, gli chiese: «L’hanno
già avvisata di ciò che è
successo?»
«Abbiamo ricevuto una chiamata molto allarmata da parte di
Gerolamo Ricci non
più di un quarto d’ora fa» rispose quello, scrutandolo sospettoso.
«Ci ha riferito che un uomo è morto a causa
della... rogna degli ulivi».
«A quanto pare... sembra proprio
così...» farfugliò il ragazzo,
gesticolando nervosamente.
Guardalupi socchiuse appena gli occhi e piegò appena le
labbra in un’espressione nauseata, come se quello non godesse
della sua simpatia. «Nessuno andrà via di qui
finché non
avremo interrogato tutti!» ordinò, perentorio.
«Molti sono già andati via, in
realtà» gli fece notare, però, Pierpaolo, con un
sorriso beffardo.
«Grazie dell’interessamento, ma questo è
un mio problema, signor Landi» gli rispose, secco, il
poliziotto, scoccandogli un’occhiata gelida.
«Piuttosto, perché non ci ha riferito
di questa... epidemia?
Sono venuto a conoscenza di tutto solo questa mattina».
«Non pensavo che fosse così grave...» si
giustificò l’altro, con un borbottio infastidito.
Di fronte ad una tale risposta, Guardalupi inclinò
leggermente la testa e corrugò appena la fronte.
«Ora che ci è scappato il morto, signor Landi,
è più credibile, invece?» fece, sarcastico.
Poi, si rivolse ai suoi sottoposti per impartire loro alcune
consegne: «Angelini, avvisa la scientifica, voglio che siano
fatti tutti
i rilevamenti possibili sulle piante malate. Invece, Teani, tu chiama
la Questura di Livorno2,
esigo che sia fatta
l’autopsia sul cadavere».
Prontamente, i due agenti si misero subito al lavoro, obbedendo senza
dire nemmeno una parola.
Soddisfatto dell’ottima capacità organizzativa
dell’uomo, Marcello e Gerardo si scambiarono un’occhiata
compiaciuta, certi che, presto o tardi, grazie al coinvolgimento delle
forze dell’ordine, i Landi sarebbero stati messi alle strette.
Tuttavia, i due non dovevano ancora essere soddisfatti, visto che, come dimostrarono poco dopo, avevano ancora la
presunzione di voler dire la loro. Infatti, poco dopo, si
inserì nella conversazione anche Giacomo, senza essere stato
interpellato da nessuno.
«Non credo che ce ne sia bisogno, commissario. La colpa
è tutta di quest’individuo, che ha liberato questa piaga per i suoi macabri interessi!»
Il dottor Costa, in risposta, digrignò i denti e strinse convulsamente i
pugni.
«Come... osi...» sibilò, trattenendosi a
stento dall’avventarsi contro di lui.
«Sono io che do gli ordini e conduco le indagini, signor
Landi!» tagliò, però, corto Guardalupi, con tono
intimidatorio. «Dottor Costa, lei rimanga a disposizione, invece, ho alcune domande da farle».
Nel frattempo, era arrivato sull’aia anche il padre di
Fiammetta e la giovane si era precipitata da lui con
l’intenzione di riportarlo in casa, non senza,
però, aver prima rivolto un sorriso di incoraggiamento al medico.
Giacomo, che, come Marcello, aveva colto quel particolare, contrasse le
labbra in una smorfia inquietante e si avvicinò
all’uomo,
sussurrandogli qualcosa nell’orecchio e facendolo rivoltare
come se l’avesse trafitto con un pugnale.
«Non ti azzardare, maledetto, hai capito?!» gli
sbraitò contro, allungando le mani per prenderlo, ma
l’altro fu più veloce e riuscì ad allontanarsi
in tempo, sghignazzando come una iena.
«Piantatela, o vi faccio arrestare!»
intimò, allora, il commissario, seccato per essere stato distratto
mentre cercava di organizzare gli interrogatori.
A quel punto, Marcello fece segno all’amico di seguirlo e,
trovata una rientranza all’ombra del muro della villa, si
misero lì. Non potevano andare via, dovendo anche loro essere
ascoltati come testimoni, ma avevano entrambi alcuni sospetti e
volevano iniziare il prima possibile a scambiarsi
le prime impressioni sull’accaduto.
«Finalmente ho scoperto chi è l’uomo
che ho visto l’altro giorno aggirarsi tra gli
ulivi!» esordì il biondo, lisciandosi il mento,
pensieroso. «Ma sono convinto che non sia lui il
responsabile» aggiunse.
«Intendi dire che hai riconosciuto il dottor
Costa?» domandò Gerardo, inarcando un
sopracciglio. «In effetti, a pelle, sento anche io che non
è lui il vero colpevole».
«Be’, diciamoci la verità: è
il capro espiatorio
perfetto. Quando
l’ho visto nell’uliveto, sembrava
stesse indagando per proprio conto su questa strana epidemia, ma
qualcun altro potrebbe aver frainteso le sue intenzioni, vedendoci
del maligno».
«Già. Ho visto che la gente
del posto è piuttosto suggestionabile»
commentò Gerardo, leggermente soprappensiero, forse
ripensando alla reazione che aveva avuto la gente di fronte alla
notizia della morte di Ivano Berti, davvero simile a quelle che il
popolo manifestava all’epoca della caccia alle streghe.
«Che indecenza, Giacomo e Pierpaolo hanno accusato un
innocente, dopo aver lasciato morire un povero malcapitato per rendere
più credibile la loro farsa!» concluse subito
dopo, abbandonandosi ad un gran sospiro.
«Probabilmente, il dottor Costa è vicino al
mettere fine a tutto
il melodramma e i Landi si sono sentiti minacciati» sintetizzò Marcello, cominciando a
passeggiare avanti ed indietro, nel tentativo di mettere in ordine gli
indizi che avevano raccolto fino a quel momento. «Ora, mi chiedo cosa
faranno quando la scientifica fornirà a Guardalupi i risultati
delle analisi, svelando che le piante
di ulivo sono perfettamente sane».
«Hanno sicuramente in mente un piano» replicò Gerardo, guardando seriamente l’amico,
«e vanno fermati prima che possano metterlo in
atto».
***
Vittoria scese la scalinata che portava in giardino come
una furia, reggendo tra le mani un mazzo di rose rosse avvolto in una
fascetta dorata. A passo di marcia, si diresse verso l’enorme
cassonetto verde dove il giardiniere era solito mettere i rametti
potati dagli arbusti e le erbacce strappate qua e là e vi
gettò lo scandaloso regalo che le aveva fatto Giacomo.
Quel tipo non la convinceva affatto: aveva uno sguardo lascivo e, allo
stesso tempo, minaccioso, tanto che non si sarebbe meravigliata se
si fosse rivelato affetto da un qualche
disturbo mentale di natura sessuale. Nella sua mente, infatti,
nonostante all’epoca dei fatti fosse stata solo una
ragazzina, era ancora vivo il ricordo delle macabre vicende
del massacro del Circeo e del mostro di Firenze3 e, inoltre, la sua
deformazione professionale le suggeriva che non sarebbe stato saggio
sottovalutare un potenziale maniaco.
Scrollando con forza la testa per far uscire quei pensieri così
macabri, Vittoria lanciò un ultimo sguardo schifato ai fiori e
richiuse con forza il coperchio del bidone dei rifiuti, come se
temesse che potesse riaprirsi e ributtare fuori ciò che vi
aveva nascosto, rivelando il suo piccolo e terribile segreto. A quel
punto, esausta, si sedette sulla panca sotto al gazebo, appoggiando le
braccia sul tavolino e sprofondando tra di esse, in cerca di un attimo
di pace: paradossalmente, se si fosse disfatta di un cadavere -
soprattutto se fosse stato quello del suo odioso e perverso ammiratore
- si sarebbe sentita più in pace con la propria coscienza e
meno in difficoltà nei confronti di Gerardo.
Il solo pensiero che il giovane potesse venire a conoscenza di
ciò che era successo al porto, infatti, la rendeva inquieta e
angosciata, perennemente in bilico tra il senso di colpa per non avergli detto subito tutta la
verità e la paura che il suo ragazzo potesse sentirsi
tradito e, quindi, decidere di lasciarla.
Sapeva perfettamente che Beatrice aveva ragione quando sosteneva che dovesse
raccontargli tutto, ma non era semplice scegliere il modo, il momento e, soprattutto,
le parole migliori per farlo. Purtroppo, quando aveva detto quella
bugia, non avrebbe mai potuto immaginare che
Giacomo si recasse a casa dell’amica così spesso e così una piccola menzogna
detta a fin di bene le si era ritorta contro...
«Eccoti, finalmente!» esclamò Gerardo,
sbucando da dietro la siepe di alloro e facendola sobbalzare.
«Ti ho cercata ovunque, non riuscivo a trovarti».
«Santo Cielo, Gerardo!» esalò Vittoria,
con entrambe le mani contro il petto, riprendendosi a stento dallo
spavento. «Non puoi farmi prendere un accidente in questo
modo!»
Dal canto suo, quello si mortificò subito, assumendo
un’espressione dimessa.
«Scusami tanto, non volevo» fece, a bassa voce,
rimanendo in piedi in mezzo al prato.
Mordendosi il labbro inferiore, la giovane lo guardò per
qualche istante, disprezzandosi da sola: era solo colpa sua se aveva la
testa altrove e non riusciva a venir fuori dal pasticcio che aveva
combinato, Gerardo non c’entrava nulla e non meritava certo
di essere trattato male.
«No, scusami tu...» mormorò, alzandosi
dalla sedia per raggiungerlo, «ero solo soprappensiero, tutto qui» si giustificò con una
debole alzata di spalle.
«Eppure siamo in vacanza, non dovresti rilassarti un po’?»
le chiese subito lui, confuso, avendo colto l’agitazione che permeava le sue parole.
«Mmm, sì».
Non molto convinto da quella risposta titubante, il ragazzo scosse la
testa, tuttavia decise di non approfondire il discorso.
«Comunque, ero venuto per invitarti a cena: Beatrice mi ha
parlato di un eccellente ristorante che dà sul mare e ho
pensato che questa fosse la serata giusta per provarlo, dato che oggi
non ci siamo praticamente visti» le propose, prendendola per
mano. «È stata una mattinata faticosa, ma forse Marcello
ed io siamo vicini al risolvere diversi misteri e devo assolutamente
raccontarti cosa abbiamo scoperto».
La giovane, però, non ascoltò nemmeno una parola, presa
com’era dalla sensazione della mano di lui nella sua, così
calda e affettuosa da farla sentire ancora peggio: Gerardo non meritava
di essere tenuto
all’oscuro dei tentativi di abbordaggio di Giacomo, aveva il
diritto di sapere come l’aveva offeso e come
l’aveva molestata, così da potersi far valere la
prossima volta che si sarebbero incontrati. Se ciò non era
ancora accaduto era solo da attribuirsi al caso, che, certamente, non
sarebbe stato clemente in eterno.
«Vittoria, ti senti bene?» le domandò poco dopo lui, preoccupato, accarezzandole una guancia.
Davanti a quelle attenzioni così dolci, la ragazza non
poté fare a meno di concedergli una tenera occhiata,
sentendo di non meritare tutte quelle premure.
«Oh, sì, è solo stanchezza, non
preoccuparti» sussurrò, abbozzando un lieve sorriso. Lui,
però, non si lasciò convincere e volle controllare di
persona.
«Non mi sembra che tu abbia la febbre»
considerò, dopo che le ebbe appoggiato il palmo aperto
sulla fronte e sulle tempie, per verificarne la temperatura.
«Però, se non ti va di andare stasera, possiamo
fare un altro giorno».
Vittoria scosse la testa, sottraendosi a quel contatto che le provocava
una fitta di tristezza al solo pensiero che potesse essere uno degli
ultimi.
«No, tranquillo, per me va bene».
Aggrottando appena la fronte, Gerardo scrollò le spalle,
arrendendosi di fronte allo strano comportamento della fidanzata.
«Allora, vai a prepararti, così ci possiamo
avviare, d’accordo?» le suggerì, poi.
In risposta, la ragazza annuì, sforzandosi di sembrare
tranquilla, ma, senza che potesse evitarlo, prima che andasse via, il suo
sguardo cadde ancora una volta sul bidone verde poco lontano.
***
Lo stretto corridoio, invaso dalle tende delle finestre sospinte dal
vento, apparve a Marcello come un percorso ad ostacoli di quelli che si
trovavano talvolta al parco giochi. Impaziente di riferire alla moglie tutto quello che aveva appreso nel
corso della mattinata, mentre attendeva di essere interrogato dallo
scrupoloso commissario Guardalupi, il giovane salì i gradini a
due a due, diretto nel salottino di cui Beatrice stava rinnovando pian
piano l’arredamento, certo che l’avrebbe
trovata lì.
Infatti, la scorse già dal disimpegno antistante la stanzetta, mentre, raggomitolata sul divano, disegnava il modello di
un abito sul suo blocco di fogli bianchi.
«Buonasera, Beatrice» la salutò, con tono dolce,
intenzionato ad accompagnare quelle parole con un bacio. Tuttavia, fu
freddato immediatamente dal distaccato atteggiamento di lei, la
quale non proferì verbo, limitandosi ad alzare la testa per
qualche istante, appena il tempo di lanciargli uno sguardo
inespressivo, prima di rimettersi a lavorare al suo progetto.
Stupito da una reazione simile, il giovane si accomodò comunque
accanto a lei e si prese qualche istante prima di riprendere a
parlare, non riuscendo davvero a capire il perché di tanta
ostilità da parte sua.
«Gerardo ed io siamo arrivati ad un punto di svolta» le annunciò, certo di
comunicarle una buona notizia.
Beatrice, però, non sembrò dello stesso avviso, tanto
è vero che lo liquidò con uno sbrigativo: «Buon per
voi».
Sempre più stranito, l’altro decise di non perdere la calma e
di riprovare ancora una volta con le buone, sperando di capire il
perché di un simile trattamento.
«A dire il vero, credo che questo riguardi anche te» le fece notare.
La fanciulla, però, non sembrò essersi minimamente
pentita, anzi, cominciò a tratteggiare il suo modello con
talmente tanta foga che, di lì a poco, avrebbe certamente bucato
il foglio con la punta della matita.
«Oh, non credo proprio» sbottò, acida.
A quel punto, anche Marcello decise di accantonare la diplomazia e,
dopo essersi messo in piedi, si portò le mani sui fianchi e
scrutò la moglie con gli occhi ridotti a due fessure,
intimandole: «Beatrice, vuoi spiegarmi cosa ti è preso?»
«Assolutamente niente» fu la secca risposta della ragazza, sempre più inviperita.
«Allora, potresti anche smetterla di fare la bambina imbronciata, sai?» la rimproverò, assumendo un tono che,
però, sarebbe più stato adatto ad un padre che ad un
marito.
Si era appena reso conto del suo madornale errore, quando la fanciulla
gettò sul divano, alla rinfusa, matita e blocco, scattando
in piedi e trafiggendolo con uno sguardo gelido.
«Bambina imbronciata?!» ripeté, indignata. «Son giorni
che mi ignori e siamo in viaggio di nozze! Come puoi pretendere che io
faccia finta di niente e ti accolga a braccia aperte quando ti degni di
ricordarti di me? Non sono una mocciosa che si deve accontentare di poco!»
In quel momento, una parte del giovane avrebbe davvero voluto chiederle
scusa per quella frase infelice, tuttavia, dopo una breve lotta, in lui prevalse l’amor proprio,
che gli fece buttare fuori le parole, senza che se ne rendesse nemmeno conto:
«Be’, forse ti è sfuggito qualche dettaglio, ma sto
lavorando per risolvere i problemi delle tue proprietà».
«Sì, certo» sbottò lei, agitando una mano come se fosse qualcosa di poco conto. «Marcello, non ti nascondere
dietro ad un dito: l’ho capito che di me, in realtà, non te ne
importa proprio nulla!»
«Come, scusa? Potresti ripetere?» sibilò lui, oltraggiato.
«Tu se’ sposato con il tu’
lavoro» lo incalzò ancora, ormai incapace di trattenere
dentro tutta l’amarezza che aveva covato in quei giorni. «Con
me hai solo voluto legalizzare l’unione, per portarmi a letto
senza sentirti in colpa o senza infangare il tu’ maledetto onore!»
Se, invece di riversargli addosso quelle parole, lo avesse
schiaffeggiato a più riprese, probabilmente a Marcello avrebbe
fatto meno male. Gli parve, infatti, che gli fosse caduto addosso un
pesantissimo telo di cui non riusciva a liberarsi e che lo stava
soffocando poco a poco: non meritava quelle spregevoli calunnie, non
lui che aveva sempre trattato Beatrice con rispetto.
«Dunque, è questo quello che pensi di me?»
mormorò, mentre, lentamente, il dispiacere di essere stato
etichettato così proprio da sua moglie lasciava il posto alla
rabbia e alla ferma convinzione di essere decisamente meglio del
ritratto che lei aveva appena dipinto. «Molto bene, basta dirle
in faccia certe cose».
Incollerito, forse più con sé stesso per come aveva e
stava gestendo la situazione, che con Beatrice, il ragazzo
avvertì di star ascoltando, ancora una volta, il suo orgoglio e
raggiunse in pochi passi la porta della stanza, intenzionato ad
allontanarsene il prima possibile.
«Ed ora dove stai andando?» gli chiese la ragazza, però, con voce appena incrinata.
Ignorando quella piccola manifestazione di pentimento da parte di lei,
il biondo si voltò e le riservò un’occhiata
scettica.
«Non penso ti riguardi, Beatrice» le sussurrò, distaccato.
Stroncata da una risposta del genere,
Beatrice indurì i tratti del volto e, prima che potesse ritornare sui suoi
passi, rincarò la dose: «Sì, forse l’hai ragione, sai? La cosa buffa è che ci siam dovuti sposare per capire che non siam altro che due estranei!»
«Infatti» approvò lui, sentendo le proprie viscere
farsi sempre più contratte, forse ormai ridotte ad un unico ed
enorme nodo. «E, visto che almeno su questo siamo
d’accordo, credo che non abbiamo proprio nient’altro da
dirci» aggiunse, furente, voltandosi, per poi farsi inghiottire
dall’oscurità del corridoio.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto
per leggere sempre in anteprima tutto ciò che scrivo.
***
[N.d.A]
1. trasfusioni:
per trasfusione non si intende solo di sangue, ma anche di tutti i suoi
derivati. In questo caso, fattori della coagulazione;
2. Questura di Livorno:
il territorio dell’Isola d’Elba dipende dalla
provincia livornese;
3. ricordo... Firenze: le vicende del massacro del Circeo e del mostro di Firenze sono
due avvenimenti di cronaca nera che risalgono, rispettivamente, al 1975
(il primo) e al periodo che va dal 1968 al 1985 (il secondo), ovvero
quando Vittoria era bambina/adolescente. Entrambi sono stati
caratterizzati da efferatezza, violenza e crudeltà a danno di
donne. Le vittime del massacro del Circeo (una località in
provincia di Latina) furono due ragazze della Roma bene, mentre, per
quanto riguarda il mostro di Firenze, i delitti interessarono varie
coppie appartatesi in campagna. Tuttavia, gli scempi e gli sfregi nel
post-mortem furno compiuti principalmente sui corpi delle donne. Per
chi fosse interessato, sul web ci sono numerose pagine che trattano di
questi casi nel dettaglio, cosa che io ho deciso di evitare
per vari motivi.
***
Bentrovati.
Prima che decidiate di linciarmi per l’immenso ritardo e per gli sviluppi di
questo capitolo,
ci terrei a precisare che mi è dispiaciuto tantissimo far
litigare Marcello e Beatrice, ma, poiché tengo molto al
realismo, volevo far vedere che anche nelle coppie più
consolidate e ben assortite ci sono dei dissapori/momenti di crisi.
Quindi, non
è assolutamente un risvolto messo a caso oppure per allungare il brodo (anche perché questa storia è infinita già di suo).
Comunque, nel corso dei prossimi aggiornamenti avrete modo di vedere
come si evolverà la faccenda.
A tal proposito, mi scuso davvero per le promesse non mantenute circa
la cadenza regolare degli aggiornamenti, ma, purtroppo, in questi
ultimi mesi me ne sono successe davvero di tutti i colori. Ciononostante, ho
tutte le intenzioni di portare a termine questa storia a tutti i costi, anche perché manca davvero poco alla fine.
Come sempre, ringrazio chi è ancora qui, chi legge - anche
in
silenzio -, chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/preferite
e chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Aven, Anto, Balder Moon). In
ultimo,
vi lascio il link alla mia pagina
facebook, dove potrete venire a dare un’occhiata qualora vi chiediate dove sia finita.
Auguri di buone feste e appuntamento a Gennaio 2017!
Halley
S.C.
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Capitolo 23 *** Capitolo Ventitreesimo - Vento di Misteri ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 23
- Capitolo Ventitreesimo -
Vento
di Misteri
Quando
Gerardo si era offerto di
darle la prima lezione di nuoto, Vittoria si era rallegrata a tal punto
da dimenticarsi completamente di Giacomo.
Qualche
giorno prima, infatti, Beatrice le aveva parlato della spiaggia di
Redinoce1,
dipingendola come una località perfetta per imparare a
nuotare,
visto che si trovava in una posizione più isolata e,
pertanto,
meno frequentata dai turisti. Così i due giovani, dopo
essersi
riforniti di tutto l’occorrente, lasciarono
la villa di buon’ora per recarsi a prendere la piccola e poco
affollata navetta che li avrebbe portati a destinazione.
Una volta scesi dal mezzo, Vittoria riconobbe facilmente i punti di
riferimento che le aveva citato l’amica:
l’indicazione per
l’isolotto della Paolina e, subito dopo, la strada sterrata
circondata da piante di lentisco. Per giunta, anche altre tre persone
che
avevano fatto il viaggio con loro si avviarono in quella direzione,
confermandole che stava procedendo correttamente.
Con un gran sorriso, la ragazza invitò subito Gerardo
a
seguirla, pregustando la deliziosa giornata che
aveva davanti.
«Non avevo mai visto il mare di questo colore!»
esclamò poi, quando, una volta raggiunto l’ultimo tratto dello scosceso
viottolo, intravide tra la vegetazione quella
meravigliosa
oasi.
«Direi che Ostia non può assolutamente reggere il
confronto» commentò, invece, il giovane, anche lui
rapito
dalle
sfumature che dal verde acqua viravano al blu verso
l’orizzonte.
Tra la spiaggia libera ed il minuscolo stabilimento balneare non si
contava più di una dozzina di bagnanti, proprio come aveva
previsto Beatrice, anche
se Vittoria sperò che
quell’esiguo
lembo di terra rimanesse tale anche dopo le dieci o, peggio, nel
pomeriggio.
I due ragazzi si sistemarono non molto distanti dalla battigia,
stendendo entrambi due asciugamani uno sopra l’altro per
attutire quanto più possibile il contatto con la dura ghiaia.
«Oggi il mare è perfetto per fare qualche
bracciata»
considerò il giovane, notando la completa assenza di onde.
«Questo mi rende più tranquilla»
commentò lei, poco convinta, mentre estraeva una confezione
di lozione solare
dalla
sua borsa di paglia e la porgeva al fidanzato. «Gerardo, mi
aiuteresti a mettere la crema, per favore?» gli chiese,
accompagnando le parole con un sorriso sottile.
Quello, di primo acchito, si limitò
a
sbattere le palpebre, per poi diventare più rosso del
costume a
pantaloncino che
indossava. Tuttavia, anche se con una certa esitazione, alla fine non
si
sottrasse a quella richiesta e, dopo aver preso il flacone, si
avvicinò
a
lei, che, nel frattempo, aveva slacciato il pareo, esponendogli la
schiena nuda.
Il tocco delicato ed incerto di lui, benché tradisse il suo
imbarazzo, le procurò subito un dolce
piacere, mettendola di buonumore,
poiché le suscitava un’incredibile tenerezza
pensare che stava lottando contro se stesso per lei.
Infatti, era l’unico uomo, oltre a Marcello, che riusciva
a
farla sentire a suo agio anche mentre era in due pezzi davanti a lui,
poiché da anni Vittoria aveva rinunciato a frequentare le
spiagge nei
giorni
e, soprattutto, nelle ore più affollate a causa delle
battutine piccanti dei ragazzi e quelle velenose delle ragazze sulle
sue curve naturalmente prosperose. Ovviamente, non aveva mai badato
troppo ai commenti altrui, ma non
sopportava comunque di essere oggetto di fantasie perverse o di insulti
invidiosi a causa di un fisico che non aveva chiesto lei di
avere. Anzi, quando era più piccola avrebbe preferito essere
come le sue compagne di classe, che potevano permettersi di mettere
magliette più aderenti o scollate senza sentirsi dare della
poco
di buono; poi, con il tempo, aveva impararato ad accettarsi.
«Appena avrai finito, ricambierò il
favore»
propose lei ad un certo punto e subito l’altro si
bloccò,
facendola ridacchiare al solo immaginarsi l’espressione sulla
sua faccia.
Purtroppo, però, quei momenti di quiete terminarono presto,
quando un fischio acuto trapassò l’aria e
congelò Vittoria: aveva già udito molte altre
volte quel
suono così volgare, ma, in quel contesto, conosceva una sola
persona che avrebbe potuto importunarla così. Un paio di secondi
dopo, nel sentire una voce tristemente nota, ebbe conferma di
ciò che
più
temeva.
«Ciao, bellezza» la salutò Giacomo,
avanzando verso di lei con passo baldanzoso.
Irritato da quell’approccio, Gerardo chiuse con un colpo
secco il
tappo del flacone che aveva in mano e lo gettò su un
asciugamano, per poi
frapporsi tra la fidanzata e il nuovo arrivato.
«Fischia di nuovo alla mia ragazza e ti ritroverai con
qualche
pezzo in meno!» lo apostrofò, guardandolo in
cagnesco.
«Non ti bastano i guai che hai causato a tutta quella povera
gente?»
Per nulla intimidito da tali parole, l’altro lo
degnò
appena di uno sguardo compassionevole, per poi spostare subito tutta
l’attenzione sulla ragazza, che lo guardava senza riuscire ad
emettere una sola sillaba, incapace di capire cosa avesse fatto di male
perché quel depravato venisse
a
rovinarle una giornata che si annunciava perfetta.
«Non ti scaldare, le stavo solo esprimendo il mio
apprezzamento,
così, magari, riesco a convincerla a darmi una
possibilità...» ribatté Giacomo, con
estrema calma,
sorpassando Gerardo e avvicinandosi sempre di più a
Vittoria,
«visto che è davvero sprecata per un cesso come
te».
Il giovane si voltò appena, ma non rispose, aprendo e
chiudendo
spasmodicamente le mani, tremando da capo a piedi; Vittoria,
invece, quando realizzò che il suo peggiore incubo stava per
diventare
realtà, si sentì mancare. Come aveva fatto il suo
molestatore a scoprire dove si trovava quella mattina? Si era forse
appostato fuori dalla villa per monitorare tutti i suoi spostamenti con
l’intenzione di pedinarla non appena fosse uscita?
«Allora, bambola, hai pensato all’offerta che ti ho
fatto
quando ci siamo conosciuti?» esordì, infatti,
subito dopo quello,
piazzandosi
davanti a lei e osservandola con una brama tale che lei ebbe la
spiacevole impressione che la stesse spogliando con lo sguardo.
«Offerta?» ripeté meccanicamente
Gerardo, stranito e sorpreso.
«Gerardo, io...» pigolò la ragazza in
risposta,
senza, però, riuscire a finire la frase.
«Un’offerta da non rifiutare»
continuò,
infatti, Landi, increspando le labbra in un sorriso sardonico.
«Tour completo di Portoferraio, cenetta esclusiva e
intrattenimento notturno compreso nel prezzo»
snocciolò,
con evidente compiacimento.
Disgustato, il ragazzo riservò alla sua compagna
un’occhiata carica di rabbia e delusione che la
freddò
all’istante.
«Tu sì che hai il senso degli affari»
affermò, invece, subito dopo, con tono lievemente ironico,
rivolgendosi a Giacomo.
«Davvero
un’ottima proposta per promuovere il turismo, da vero responsabile d’albergo»
sottolineò, lasciando intendere che non solo aveva
riconosciuto
il misterioso interlocutore di Vittoria al porto, ma che si era anche
ricordato di ciò che lei gli aveva raccontato quando si era
allontanato.
«Gerardo, non è come credi, io...»
iniziò
lei, tentennante, avvertendo di aver incominciato a tremare da
capo a piedi, «p-posso spiegarti...»
«No, hai ragione» la interruppe l’altro,
ormai rosso, ma in quel caso di rabbia. «Io credo sempre
alle cose sbagliate, a cominciare dal fatto che tra te e me potesse
funzionare sul serio!»
«N-No, non...»
«Per te sono solo un sempliciotto che può essere
raggirato
a piacimento, ecco qual è la verità!»
continuò, furibondo, raccattando nel giro di pochi secondi
tutti
i suoi effetti personali, mentre la giovane avvertiva che il suo cuore,
gonfio di dolore, stava per dividersi in due.
«Divertiti, Vittoria» concluse, prima di voltarle
sdegnosamente le spalle. Tuttavia, prima di allontanarsi
definitivamente, si fermò vicino a Giacomo e gli
sussurrò
con voce appena percettibile: «Meglio
essere un cesso
che un morto di figa
come te».
Quest’ultima provocazione lasciò sia il suo
destinatario
che la ragazza sorpresi, anche se per motivi diversi: il primo
perché, probabilmente, non si aspettava una reazione
così
da parte sua, la seconda perché aveva capito che, per essere
arrivato a tanto, il suo fidanzato doveva aver percepito la situazione
come un vero e proprio tradimento.
«Gerardo, non mi lasciare sola!» gridò,
allora,
Vittoria, cercando di corrergli dietro, ma, prima che potesse fare
qualsiasi altra cosa, fu prontamente fermata
dal Landi.
«Vuoi
andartene
proprio ora che nessuno ci disturberà
più?» le chiese, stringendole con forza la presa
intorno al
polso.
«Non mi toccare!» gli ordinò lei,
sibilando e cercando di divincolarsi,
ma quello non
sembrò aver sentito, perché rinsaldò
la presa,
facendola gemere
di dolore. A quel punto, la furia omicida che aveva covato dentro di
sé per tutto quel tempo esplose dirompente e la ragazza gli
tirò un pugno in piena faccia, esattamente come gli aveva
insegnato il signor Nardone, durante le lezioni che le aveva impartito
ogni volta
che Marcello aveva tardato nel terminare gli allenamenti.
“La boxe non
è uno sport solo per uomini, anche le ragazze devono essere
in grado di difendersi”
aveva saggiamente sostenuto più volte il vecchio pugile e
Vittoria, dopo quanto
accaduto, si ritrovò perfettamente concorde.
L’impatto fu talmente violento che Giacomo lo
incassò
malamente e barcollò, lasciando il polso della giovane e
cadendo
all’indietro, rotolando poi su se stesso, gemente.
«Ben ti sta, stronzo!»
gli gridò dietro lei, incurante delle nocche dolenti,
affrettandosi
a
ficcare tutti i suoi averi nella borsa di paglia e a riallacciarsi
addosso il pareo lilla, per poi lasciare la spiaggia senza curarsi dei
bagnanti che avevano assistito a quel grottesco
spettacolo.
Sfortunatamente, quando arrivò sulla strada
sterrata, la
giovane si rese conto che, ormai, di Gerardo non c’era
più
la più piccola traccia: doveva essere già
arrivato alla
fermata della navetta e aver preso il bus per tornare a Marciana Marina.
Abbandonandosi ad un sospiro di dolore, allora, Vittoria rimase per
qualche
istante a fissare il terreno del viottolo, inaridito e spaccato dal
sole, così simile alla sua anima in quel momento:
il dolore che la stava
dilaniando era tale, che non aveva nemmeno la forza di piangere.
Fu allora che avvertì il senso di colpa prendere il
sopravvento
sul suo cuore: se solo
avesse avuto il coraggio di seguire il consiglio di Beatrice e
confessare tutto a tempo debito, forse l’epilogo non sarebbe
stato così amaro.
***
Sotto i riflessi rosati dell’aurora, Marcello
osservò il sasso che aveva scagliato rimbalzare tre volte
sul pelo dell’acqua, prima di affondare tra le onde come un
naufrago, similitudine con la quale trovava una certa
affinità. Infatti,
era proprio così che si sentiva in quel momento, spaesato e
sconsolato, in balìa di eventi sui quali non aveva
potuto avere
pieno controllo.
Per questo, dopo la seconda notte insonne trascorsa a rimuginare senza
sosta nella
stanza degli ospiti, non appena il cielo aveva assunto le tinte
dell’indaco, il giovane aveva deciso di scendere in spiaggia
e
fare
quattro passi accompagnato dalla brezza mattutina. Tuttavia,
nemmeno l’aria mite era riuscita a lenire la
mancanza di Beatrice e, così, l’unica cosa che gli
era
rimasta era starsene seduto sui ciottoli a guardare
l’eterno infrangersi delle onde sulla battigia, deplorando il
comportamento che aveva avuto nei confronti della ragazza. Infatti,
sapeva di non aver tenuto una condotta esemplare, lasciandola
sola per gran parte della giornata, mentre dava la caccia agli indizi
per inchiodare i due Landi: si era lasciato prendere la mano, accecato
dal desiderio di vedere quelle due piaghe marcire in galera per il
resto dei loro giorni.
Ripensando a quei deficienti, il ragazzo sbuffò e raccolse
da
terra un altro sassolino, scagliandolo lontano con tutta la rabbia che
aveva in corpo, anche se presto si rese conto che sfogarsi in quella
maniera non giovava affatto al suo umore, poiché
l’unica
cosa che davvero l’avrebbe reso felice sarebbe stato fare
pace con sua
moglie.
Si chiedeva continuamente come stava, se anche lei stava soffrendo, se
sarebbe
stata incline a perdonarlo. Dal canto suo, Marcello
l’aveva già fatto, perché era
più che certo
che ciò che gli aveva urlato contro era stato dettato dalla
rabbia e dalla delusione, esattamente come era successo a lui,
che aveva permesso al suo orgoglio di avere
la
meglio su tutti i buoni, forti sentimenti che
provava per Beatrice.
Sospirando, ad un certo punto il ragazzo si alzò in piedi e
si
scrollò la
polvere dai pantaloni, senza, però, interrompere le sue
riflessioni. Anzi, si ritrovò a pensare a quanto gli sarebbe
piaciuto telefonare a suo
padre per chiedergli consiglio, mentre la sua coscienza, invece, gli
suggeriva che, quella volta, avrebbe dovuto cavarsela da solo.
In fondo, il signor Giancarlo gli aveva preannunciato, in maniera
più o meno velata, che ci sarebbero state incomprensioni e
bisticci, perché lo conosceva bene, senza contare che
aveva alle spalle parecchi anni di matrimonio, per giunta con una donna
che avrebbe fatto esaurire la pazienza del più mite
degli
uomini.
All’improvviso, però, un gemito soffocato lo
distolse dai
suoi pensieri, facendolo sobbalzare. Allarmato, si guardò
intorno per cercare di capire la fonte di quel suono inquietante, ma fu
solo aguzzando la vista che scorse in lontananza una figurina bianca
che vagava senza meta nella pineta: sembrava in tutto e per
tutto un fantasma e, se Marcello fosse appena meno
coraggioso e
razionale, sarebbe scappato a gambe levate. Invece, rimase
immobile a fissare con curiosità
quell’entità poco
definibile, finché, quando quella inciampò e
cadde rovinosamente a terra, svelando una cascata di capelli ricci,
capì che si trattava di una persona in carne ed ossa e
che
somigliava tremendamente a...
«Vittoria!» esclamò il ragazzo, nel
riconoscere l’amica, per poi affrettarsi a
raggiungerla per aiutarla a rialzarsi dal suolo inumidito dalla rugiada
notturna.
A quel richiamo, però, lei non si mosse e quando Marcello le
fu
abbastanza vicino si rese conto che era avvolta in un lenzuolo leggero
e stava tremando.
«Per la miseria, che cosa ti è
successo?» le chiese,
prendendola per le braccia e sollevandola di peso per rimetterla in
piedi, mentre la giovane alzava la testa e lo guardava inespressiva,
sul volto i segni di un recente pianto. Dal canto suo, quella non
rispose
subito alla domanda,
anzi, fece passare diversi istanti prima di decidersi ad aprire bocca.
«Gerardo non vuole più vedermi»
sussurrò,
infine, trattenendosi visibilmente dallo scoppiare in lacrime di nuovo.
«E perché mai?» domandò il
giovane, stupito. «Avete litigato anche voi, per
caso?»
«Sì, è successo ieri e...»
Vittoria,
però, si interruppe improvvisamente e fissò
l’amico
tra l’interrogativo e l’incredulo. «Come
sarebbe a
dire “anche voi”?»
A quel punto, il giovane sospirò rumorosamente e ammise:
«Ho avuto una... piccola
discussione con Beatrice».
In risposta, l’altra lo fissò, stralunata.
«Ah» si lasciò sfuggire.
«Oltre ad essere la villa degli esuli, allora questa
è anche la
dimora della discordia» commentò il
biondo, concedendosi una stizzita alzata di spalle.
«Villa degli esuli?» ripeté
l’amica, confusa, sbattendo le palpebre.
«Lascia stare, ti spiegherò tutto dopo»
tagliò corto, però, il ragazzo. Poi, notando che
l’altra
stava ancora tremando, anche se era fine agosto, aggiunse:
«Dai,
vieni con me, hai bisogno di un tè per scaldarti,
così mi
potrai raccontare tutto».
Nonostante il forte desiderio di fare pace con i rispettivi partner,
né Marcello, né Vittoria si sentivano
emotivamente pronti ad affrontare Beatrice e Gerardo, così i
due decisero di andare a fare colazione in un grazioso bar con gli
ombrelloni verde scuro situato in piazza Vittorio Emanuele, poco
distante dal litorale.
Essendo gli unici due clienti, ebbero anche la possibilità
di
scegliere il tavolino, optando per quello più vicino
alla
chiesa di
Santa Chiara, che, con la sua facciata contornata da marmo rosa, dava
allo slargo prospicente un’aria molto elegante.
«Comincia tu» fece la ragazza, tenendo le mani a
coppa intorno alla tazza, dopo essersi rifocillata con qualche
focaccina al miele e diversi sorsi di tè nero caldo.
«Be’, la mia situazione è molto
semplice» cominciò lui, osservando una coccinella
che correva sul tavolo di legno bianco. «Beatrice si
è arrabbiata perché l’ho trascurata. Io
le ho dato della bambina e lei mi ha rinfacciato di averla sposata solo
per portarmela a letto».
«Sintetico fino all’osso, come sempre!»
sbuffò Vittoria, incrociando le braccia e lanciando
all’amico un’occhiata indispettita. Poi,
però, si ammorbidì e commentò:
«Comunque, non credo che lo pensi veramente».
Non del tutto convinto da quella risposta, il giovane inarcò
un sopracciglio.
«Come fai ad esserne sicura?»
«In questi giorni, visto che eravamo da sole, ho
avuto modo di conoscerla ancora meglio. Si capisce che ti ama
moltissimo, ma è rimasta delusa dal tuo atteggiamento, che,
per inciso, non è stato certo dei più
affettuosi» spiegò lei, facendo una piccola
smorfia.
«Sai bene perché mi sono comportato
così» ribatté subito Marcello, convinto
che non avrebbe potuto fare altrimenti. Tuttavia, quello che
replicò l’amica lo fece tentennare.
«Ciò non toglie che avresti potuto organizzarti
diversamente, perché il viaggio di nozze è
importante per una
coppia: è il momento per eccellenza in cui ci si scambiano
coccole e tenerezze!» osservò, infatti,
l’altra.
«Per come la vedo io, Beatrice
si è sentita ferita ed ha voluto, in un certo senso,
vendicarsi, colpendoti nel tuo punto debole:
l’onore».
A quel punto, ci fu un lungo silenzio, durante il quale il ragazzo si
soffermò a pensare a quanto appena udito, finendo per
concordare con l’amica:
anche se non l’aveva fatto con cattive intenzioni, aveva
anteposto il lavoro a sua moglie, lasciandola sola per troppo tempo.
«Voleva solo che reagissi e che le dimostrassi quanto
l’ami» continuò, infatti, quella,
inclinando
la testa da un lato.
«Be’, tutto quello che ho fatto, è stato
solo per lei... è ovvio che
la amo...» borbottò lui, sempre
più consapevole delle sue mancanze verso la consorte.
«Oh, Marcello, sei così inesperto di ragazze che
mi fai tenerezza!» rincarò, allora, la dose
Vittoria, trattenendo a stento un sorrisetto. «Sai, a quasi
tutte
piace che il partner riservi anche un altro tipo di attenzioni,
come ad
esempio, passare del tempo insieme. Beatrice non pretende
chissà cosa, quindi potresti anche cercare di impegnarti un
po’ di più» gli spiegò poi,
lanciandogli un’occhiata eloquente.
«Se mi darà l’opportunità di
rimediare ai miei sbagli, volentieri»
sospirò lui, abbattuto. «Chissà che
sarà di noi...»
aggiunse, poi citando inconsciamente Battisti2.
«...lo
scopriremo
solo vivendo!» ribatté
l’altra, canticchiando il verso successivo della nota
canzone.
«Sposarsi non è un punto di
arrivo, ma solo l’inizio di tutto, di un nuovo percorso di
crescita a due».
Colpito dalla semplice veridicità di
quell’affermazione,
Marcello comprese la vera natura del suo sbaglio e quale insegnamento
prezioso ne avesse tratto; mentre faceva propria quella nuova
consapevolezza, lasciò vagare per qualche istante lo sguardo
sulla piazza, per poi tornare a concentrarsi sulla sua interlocutrice.
«Già, hai ragione» ammise.
«Una storia
siamo noi, con i miei problemi e i tuoi, che risolveremo e poi...3»
intonò, allora, Vittoria, facendo finta di avere in mano un
microfono ed imitando Tiziana Rivale. Di fronte a tanta
teatralità, il giovane alzò gli occhi al cielo.
«Quasi quasi ti propongo per condurre la prossima stagione di
Discoring4»
le fece. «Almeno canalizzeresti meglio il tuo estro
canoro».
«Quanto sei antipatico!» ribatté subito
lei,
mostrandogli la lingua. «Prendimi pure in giro, ma ricordati
che,
senza i miei consigli, molte volte saresti stato perso!»
Non potendo negare, ma non essendo nemmeno disposto a dargliela vinta,
il biondo si limitò a fissarla inarcando un sopracciglio ed
increspando le labbra, mentre lei scoppiava a ridere. Tuttavia, di
punto in bianco, il riso si trasformò in lacrime.
«Ed ora, perché stai piangendo?»
domandò, sconcertato da un
cambio d’umore
così repentino.
«Perché i fatti hanno dimostrato che i buoni
consigli so
darli solo agli altri!» gli rispose l’altra,
disperata. «Nonostante il mio lavoro, non sono
stata capace né di proteggermi dai miei ex, né di
tenermi
stretto l’amore della mia vita... che ora mi odia!»
E fu così che, incapace di trattenersi oltre, Vittoria
raccontò a Marcello quello che era successo, dal
nefasto incontro con il giovane Landi a Portoferraio, fino alla lite
che aveva avuto in spiaggia con Gerardo il giorno prima.
Nella foga, parlò molto velocemente, mangiandosi anche
qualche
parola, ma lui non
la
interruppe nemmeno una volta, poiché non faticò
ad
immaginare come fossero andate le cose, essendoci Giacomo di mezzo.
Alla fine, dopo aver
ascoltato il doloroso racconto dell’amica, si alzò
immediatamente e, facendo il giro del tavolino, la raggiunse,
cingendole le spalle e stringendola affettuosamente.
«Gerardo non ti odia» le sussurrò,
asciugandole una
lacrima con il dorso della mano. «Non sarò uno
psicologo,
ma io penso che
se la sia
presa perché gli hai mentito, non per le avances di quella
chiavica».
«Come se io fossi contenta di attirare l’attenzione
di
soggetti disturbati!» sbottò lei, tirando su col
naso e
spostandosi un ricciolo dalla fronte. «Sai bene quanto ho
sofferto quando le
nostre compagne del liceo mi chiamavano Vittroia,
perché convinte che mi mettessi in mostra con i
ragazzi».
«Già» mormorò lui, ricordando
perfettamente le
cattiverie che la ragazza aveva subito dalle coetanee fin dai tempi
della
scuola. In effetti, a pensarci bene, Marcello si rese conto che
l’unica sincera amicizia
femminile che aveva Vittoria era quella nata con Beatrice e lui, da
uomo, si accorse che
non riusciva davvero a comprendere come alcune donne potessero trarre
piacere da pettegolezzi e maldicenze senza fondamento ai danni di altre
esponenti del loro sesso.
«Quando ho sentito Giacomo parlare della fuga in Corsica,
avrei
dovuto far finta di niente!» esclamò la giovane,
scuotendo
la testa e richiamando l’attenzione di Marcello, che mise da
parte i suoi pensieri per concentrarsi su quel nuovo indizio.
«Corsica?» ripeté, sorpreso.
«Sì, quell’idiota stava prendendo
accordi con un
pescatore per il trasporto, suo e di altri soci»
spiegò
subito l’altra, voltandosi appena per guardarlo negli occhi.
«Anche se,
in base a quanto ha riferito Fiammetta a Beatrice, i Landi, in
realtà, stanno
progettando una vacanza
in Andalusia».
Animato da quelle interessanti rivelazioni, Marcello si tirò
su
di scatto, la mente già intenta a mettere insieme, una volta per tutte, le tessere di quel complicato puzzle. Prima di
riappacificarsi con sua moglie, perciò, doveva trovare tutte
le prove che le
avrebbero consentito di riappropriarsi della tenuta, così,
forse, sarebbe
stata più incline a perdonare le sue mancanze.
«Credo sia arrivato il momento di andare a parlare con il
dottor
Costa» disse, lentamente, sempre più convinto che
quell’uomo fosse l’unico in grado di fornire gli
ultimi
dettagli mancanti. D’altra parte, anche se non ne era certo,
c’erano anche buone probabilità che il medico,
indagando
per
proprio conto, avesse scoperto qualche altro misfatto di Pierpaolo e
suo figlio e che, proprio per questo motivo, quei due si erano decisi a
far
ricadere su di lui i sospetti.
«Il dottor Costa?» domandò Vittoria,
perplessa, alzandosi a sua volta.
«Sì, te ne parlerò strada
facendo» gli
rispose il biondo, sbrigativo, togliendo due banconote da diecimila
lire dal portafoglio per metterle sotto al piattino del suo cappuccino.
«Sai dove abita?»
«Me l’ha detto Leonardo».
Dall’occhiata stralunata che gli rivolse l’amica,
Marcello
capì che Gerardo non le aveva raccontato molto e che sarebbe
stato compito suo ovviare a quelle lacune.
«Ti racconterò anche di lui» si
affrettò ad
aggiungere, prendendola per mano e trascinandola dietro di
sé.
«Ora, però, andiamo!» la
incitò, prima di correre via.
***
La casupola in cui viveva il dottor Costa sorgeva ai limiti della
frazione abitata di Marciana Marina, un po’ in
disparte
rispetto ai complessi residenziali; era circondata da una recinzione
arrugginita e un orto ben coltivato, ricco di piante ed alberi da
frutto, tra i quali spiccava un grande castagno che sovrastava la
piccola aia, dove passeggiavano indisturbate alcune galline.
I due giovani si avvicinarono al cancello malandato, ma, nonostante
fosse
aperto, esitarono nel procedere oltre.
«Non c’è il campanello»
notò Vittoria,
soffermandosi ad osservare la targa di legno su cui era stata
pirografata la dicitura Dott.
Mattia Costa - medico
chirurgo, unica presenza su quei pali di metallo
consumato.
«Credi che dovremmo entrare e bussare direttamente alla
porta?»
«Tecnicamente, è violazione di
proprietà
privata» rispose Marcello, spostandosi per
verificare se
l’uomo fosse nei paraggi, «ma non credo che abbiamo
alternative» aggiunse, già con un piede dentro il
cortile.
«Forse avremmo dovuto telefonare»
osservò
giudiziosamente la ragazza. «È un medico, qualcuno
dovrà pur avere il suo numero!»
«La buona educazione è un lusso che, in questa
situazione,
non possiamo permetterci» sentenziò,
però,
l’altro,
asciutto, avanzando deciso. Tuttavia, venne bruscamente fermato
dall’amica, la quale lo trattenne con forza per un braccio.
«Vittoria, mi vuoi spiegare cosa ti prende?!» le
domandò, sorpreso.
«Non puoi entrare in casa di uno sconosciuto senza sapere
da che parte sta effettivamente. In
questo posto, io non mi fido più di nessuno»
mormorò lei, lanciando alla casetta un’occhiata
carica di
sospetto. «Doveva essere la prima vacanza con Gerardo e,
invece,
è diventata un incubo!»
«Be’, ti ho raccontato quello che so sul dottor
Costa, per cui...» iniziò lui prima di essere
bruscamente interrotto con un gesto della mano.
«Certo, certo! Da quel che mi hai raccontato, sembra anche a
me una
brava
persona, ma come fai ad essere certo che non sia in combutta con i due
Landi? O, peggio, che non sia tutta opera sua?»
«Come prova, temo di avere solo la mia parola,
signorina»
rispose una voce. «Quindi, sta lei decidere se credere a me o
alle calunnie di quelle serpi».
Immediatamente, i due si voltarono e, sotto il castagno, scorsero il
medico che
li fissava, reggendo in mano un cestino pieno di melanzane e peperoni
gialli e rossi.
«Buongiorno, dottor Costa» lo salutò
Marcello, mentre
Vittoria, invece, gli riservava uno sguardo torvo. L’uomo,
però, non si scompose, anzi, appoggiò il raccolto
sul
davanzale della finestra per andare loro incontro.
«Cosa posso fare per voi?» domandò
gentilmente, guardando prima uno e poi l’altra.
«Avremmo bisogno di parlarle» rispose subito il
biondo,
pronto.
«E di cosa?» lo incalzò il medico,
socchiudendo appena gli occhi.
«Vorremmo chiederle di darci alcuni chiarimenti riguardo...
la rogna degli ulivi».
Nell’udire ciò, quello sollevò un
sopracciglio e la sua espressione si indurì, scrutandoli a
fondo, come se
stesse
valutando se assecondarli o meno. Rimase in silenzio per qualche
secondo, poi, alla fine, scuotendo la testa, cedette.
«Venite in casa. È meglio discuterne
dentro».
Così, dopo essersi scambiati un’occhiata
d’intesa,
Marcello e Vittoria oltrepassarono il cancelletto sconquassato.
L’interno della casetta era costituito da un unico grande
ambiente comprensivo di una cucina in muratura, un tavolo con quattro
sedie di legno scuro e due sofà posti accanto al caminetto.
Le
finestre semiaperte erano coperte da tende a motivi alpini bianchi e
rossi,
dettaglio che, assieme alla targa e al mobilio,
rafforzò
in Marcello la convinzione che il
dottor Costa non fosse originario dell’Isola
d’Elba, come sospettava dalla prima volta che aveva sentito
il suo
accento, che non era certo quello della zona.
«Siete
stati fortunati a
trovarmi, il giovedì di solito sono in ambulatorio solo nel
pomeriggio» spiegò,
avvicinandosi al lavabo. «Accomodatevi
pure» li
esortò poi, indicando
loro i divani, mentre svuotava il cestino nella vasca
d’acciaio,
già piena d’acqua.
I due non se lo fecero ripetere e presero posto l’uno
accanto all’altra, in modo da poter seguire entrambi i
movimenti
del medico.
«Preferite un tè freddo al limone o un
caffè?» domandò quello, preparando sul
tavolo un
vassoio e appoggiandovi sopra un piatto colmo di cantucci e amaretti.
«Per me niente, grazie» rispose secca Vittoria, che
continuava a squadrarlo con diffidenza.
«Se volessi ucciderla, signorina, non si preoccupi, non
l’avvelenerei in maniera tanto maldestra!»
replicò
subito il dottor Costa, voltandosi verso la credenza per prendere tazze
e bicchieri.
Indispettita, la ragazza incrociò le braccia e
sbuffò,
mentre il giovane si lasciava scappare un sorriso divertito.
«Il tè freddo andrà
benissimo» rispose, «anche per la mia
amica».
Non passò molto che l’uomo li raggiunse
nuovamente, portando i
dolci,
una brocca piena di un liquido ambrato e tre bicchieri di vetro
decorati con disegni di frutti vari, poggiando il tutto su un
tavolinetto coperto da un centrino color crema.
«Lei deve essere il marito della contessina Beatrice
Tolomei» disse, rivolto al giovane, mentre si sedeva sul
divano
di fronte a loro.
«Sì, esatto, sono Marcello Tornatore»
confermò lui.
«L’ho intravista l’altro giorno, alla
villa dei
Neri» proseguì l’altro, versando il
tè ad
entrambi. All’improvviso, però, alzò lo
sguardo sulla
giovane e
rimase a fissarla finché lei, con estrema riluttanza, non si
decise a presentarsi.
«Vittoria Farnese» borbottò a mezza
voce.
Tuttavia, al medico dovette bastare, perché non fece
alcuna
osservazione sulla palese ostilità della ragazza nei suoi
confronti; anzi, passò oltre.
«Cosa volete che vi dica di preciso?» chiese,
guardando
alternativamente i ragazzi, mentre si metteva
più comodo, sprofondando tra i cuscini.
«Ecco, dottore, in realtà... vorrei sapere quando
è
cominciata tutta questa storia» avanzò Marcello,
ponderando bene la scelta delle parole, visto che la
possibilità
di tirare le somme sulle sue indagini dipendeva dalle informazioni
apprese durante quell’incontro.
«Lo ricordo come fosse ieri» cominciò
l’altro, «era la seconda domenica di gennaio quando
Pierpaolo Landi si è presentato da me chiedendomi di
comunicare
agli abitanti di Marciana Marina la pericolosità
dell’epidemia che aveva colpito gli ulivi della tenuta dei
Tolomei, espandendosi poi anche alle piante dei poderi
limitrofi».
«E lei?»
«Ovviamente, non l’ho fatto, sia
perché non avevo
le prove, sia, soprattutto, perché Landi e suo figlio non mi
sono
mai
piaciuti» spiegò, facendo una smorfia di disgusto.
Quelle nuove rivelazioni, che cozzavano con ciò che
l’amministratore aveva sempre detto a Guido, suggerirono al
biondo che, in realtà, Pierpaolo e suo figlio
stavano tramando alle spalle di Beatrice e della sua famiglia da
parecchio tempo.
«Un’altra cosa: che lei sappia, la
proprietà di mia
moglie era in difficoltà, prima che cominciasse questa
vicenda?» domandò, allora, il giovane, sentendo
che
quella
era la direzione giusta verso cui procedere.
«Affatto» rispose senza esitazione
l’uomo,
socchiudendo le palpebre. «Dopo ogni raccolto, il Landi
riportava
dal frantoio una quantità d’olio che tutto il
paese
avrebbe potuto farci il bagno per un anno intero».
Quella risposta appianò definitivamente qualsiasi
perplessità, facendo, però, esplodere
nella mente del ragazzo un’infinità di spiegazioni
alle menzogne di Pierpaolo, prima fra tutte la
volontà
di
appropriarsi indebitamente di gran parte della rendita annuale di Villa
Paolina, approfittando dell’inettitudine di Guido. Tuttavia,
ogni
ragionamento venne prontamente interrotto da un’inattesa
richiesta
del dottore.
«Ora, invece posso farle io una domanda, signor
Tornatore?»
esordì, infatti, di punto in bianco, osservandolo
severamente.
«Come mai
è venuto da me a chiedere queste informazioni accompagnato
da
una... amica,
anziché da sua moglie, la legittima proprietaria?»
«Dottor Costa, non le permetto di fare simili
insinuazioni!» insorse immediatamente Vittoria, indignata,
scattando in piedi. «Noi non siamo amanti, io sono innamorata
di
un altro uomo e Marcello non potrebbe mai tradire Beatrice!»
«Sì,
è
così» confermò il ragazzo, notando il
repentino imbarazzo del suo interlocutore, segno che quel rimprovero
era stato più che sufficiente a mettere in chiaro le cose;
pertanto, prese l’amica per un braccio e la costrinse a
sedersi
di
nuovo.
«Sono certo che il dottore non voleva essere
scortese» le
disse, con dolcezza, cercando di placarla, ben sapendo quanto, in quel
momento, fosse suscettibile a qualsiasi allusione alla sua
infedeltà verso Gerardo.
«No, no, assolutamente. Anzi, scusate l’invadenza,
in fondo non sono affari miei» ammise, infatti, subito dopo
l’uomo, scuotendo nervosamente il capo e lasciando intuire
quanto si fosse pentito di
essersi eccessivamente sbilanciato nei giudizi.
«Appunto!» convenne lei con veemenza, agitandosi
sul
posto. «Io non potrei tradire il mio uomo nemmeno
sotto minaccia!» continuò, alzandosi di nuovo in
piedi,
così che il biondo dovette costringerla a riaccomodarsi una
seconda volta.
«Non tutti sono devoti come lei, signorina Farnese»
commentò, allora, Mattia Costa, assumendo
un’espressione addolorata
e Marcello ebbe l’inspiegabile, ma istintiva sensazione che
si stesse
riferendo a
Giacomo.
«Comunque, tornando a noi, credo che io e lei
siamo arrivati alla stessa conclusione: gli ulivi sono in perfetta
salute» intervenne lui, per cercare di riportare il discorso
sul
motivo principale della loro visita. «L’ho vista
giusto
qualche
giorno fa,
mentre
staccava un rametto da un albero».
Di fronte a tale affermazione, il medico non sembrò affatto
stupito, perché si limitò ad osservare
attentamente Marcello; poi,
si
alzò e si diresse verso la mensola del camino per prendere
la
scarsella e la pipa. La preparò con grande cura e solo
quando fu
pronta tornò a rivolgersi ai suoi ospiti.
«Ho fatto alcune analisi sulle piante che dovrebbero
essere infette e i risultati hanno confermato tutti la stessa cosa: non
c’è la più piccola traccia di
malattia» disse, con il cannello tra i denti,
mentre si
frugava nelle tasche per cercare la scatola con i fiammiferi.
«Come spiega, allora, la morte di quel bracciante?»
gli
chiese, allora, il biondo, seguendo i suoi movimenti con lo
sguardo.
«Mio nonno era un medico condotto5
e
mi ha insegnato a
familiarizzare con gli assistiti» rispose quello, aspirando
e soffiando per alimentare la combustione del tabacco, mentre
nell’aria cominciava ad espandersi un odore pungente.
«Conoscevo bene
Ivano Berti, spesso ci ritrovavamo al bar a fine giornata assieme
agli altri lavoratori. Inoltre, meno di un mese fa, la figlia più piccola ha
avuto
una severa
bronchite, perciò negli ultimi tempi mi sono
recato a casa loro quasi
ogni sera, per accertarmi che la bimba si stesse riprendendo».
A quel punto, fece una pausa per concedersi alcune boccate di fumo
più profonde, mentre i due giovani aspettavano in silenzio,
senza osare
muovere nemmeno un muscolo.
«Durante la mia ultima visita, mi ha chiesto un consiglio per
un male che lo affliggeva, un dolore tremendo alla schiena,
caratterizzato,
inoltre, dalla comparsa di vescicole sulla pelle del dorso»
riprese, poi, il dottor Costa, con calma, rimettendosi seduto.
«E... quindi?» lo
incalzò il giovane, impaziente di vederci chiaro una volta
per tutte.
«Ovviamente,
non è stato contagiato da nessun ulivo» affermò
l’altro. «Ciò che penso, invece, è che Ivano
Berti sia morto per
un’encefalite
da herpes zoster».
Per qualche istante si udì solo il chiocciare delle galline
che
razzolavano nell’aia.
«E sarebbe..?»
domandò
Marcello, corrugando la fronte.
«Oh, certo...» fece il dottore, togliendosi la pipa
dalla
bocca e scuotendo la testa, consapevole del suo eccessivo tecnicismo.
«Ecco, avete presente il fuoco
di Sant’Antonio?»
«Se non sbaglio, è una specie di recidiva che
può colpire chi ha avuto la varicella6,
presentandosi dopo diversi anni dalla malattia»
intervenne, inaspettatamente, Vittoria, che da quando si era difesa
non aveva aperto più bocca. Sorpreso, Marcello si
voltò e
la fissò, inarcando un sopracciglio, ma lei, in risposta, si
limitò ad alzare le spalle, così il giovane
arrivò
alla
conclusione che doveva aver appreso quelle informazioni in qualche
corsia dell’ospedale dove lavorava.
«Esatto!» confermò l’uomo,
annuendo. «È davvero raro che il virus si estenda fino al
cervello, tuttavia è possibile. E, in tal caso, può
casuare un’encefalite, che si manifesta con
disorientamento, alterazione della personalità,
allucinazioni.
Ho sentito io stesso Ivano mentre vaneggiava».
Ci fu un altro momento di silenzio, durante il quale i ragazzi
rielaborarono ciò che avevano appena sentito, prendendo
coscienza di cosa significasse.
«In poche parole, ci sta dicendo che i Landi hanno lasciato
senza
cure quell’uomo, sfruttandone la morte a proprio
vantaggio?» riprese il biondo, lentamente, orripilato, dando
voce
ai pensieri di entrambi.
«Purtroppo... sì».
In realtà, Marcello sapeva già da prima come
stavano
davvero le cose, ma era come se, dopo averne ottenuto la conferma, ai
suoi
occhi il crimine di Pierpaolo e Giacomo risultasse ancora
più
efferato.
Destabilizzato, fu riportato alla
realtà solo dalla voce di Vittoria che, tremante, chiedeva
al
medico:
«E se, invece... l’avessero portato in ospedale...
avrebbe
potuto salvarsi?»
«Su questo non mi posso pronunciare con certezza,
signorina» rispose, però, l’altro, con
una debole alzata
di
spalle, «ma Ivano avrebbe sicuramente sofferto meno. I Landi
lo
hanno isolato solamente per fomentare la paura nelle persone ed evitare
un
contagio di varicella tra i braccianti che avrebbe smascherato il loro
piano».
Tuttavia, quella risposta non alleviò affatto
l’angoscia dei
due
ragazzi, che non riuscirono a trovare parole per esprimere il loro
stato d’animo.
«Dottore, lei ha riferito tutto questo alla
polizia, dopo essere stato accusato?»
domandò, infine, Marcello, riuscendo a malapena ad
articolare la
frase.
«Non ancora, ma non credo sia fondamentale, visto che il
commissario ha richiesto l’esecuzione
dell’autopsia» rispose quello,
molto
lentamente, incerto se aggiungere altro o meno e decidendo solo dopo
qualche
tentennamento di proseguire.
«Per giunta, Giacomo Landi sa cosa ho scoperto e mi ha
minacciato: se
avessi parlato, avrebbe fatto del male alla signora Neri, come se non
l’avesse maltrattata abbastanza da quando l’ha
sposata!» ringhiò, stringendo forte il fornello
della pipa.
«E non trova, invece, che sia proprio questo il motivo
principale
per cui dovrebbe dire tutto quello che sa?» intervenne,
allora, Vittoria,
piegando appena la testa e rivolgendogli
un’occhiata
critica. «Quei due stanno rovinando
la vita di quella povera ragazza e di un intero paese, senza contare
che stanno organizzando una fuga all’estero e vanno fermati!
Quando arriverà quel referto, potrebbe essere troppo
tardi!»
Sorpreso da quelle informazioni, l’uomo sembrò
combattere
una breve battaglia interiore, che si concluse con un sospiro.
«Se le cose stanno così, non posso
indugiare»
acconsentì. «Spero solo che non accada niente alla
signora
Neri, altrimenti non potrei mai perdonarmelo».
Improvvisamente, complice l’insistente preoccupazione del
medico
per Fiammetta, Marcello colse il vero significato di ogni gesto e
parola dell’uomo nei confronti
della ragazza, a cominciare dal fatto che si ostinasse a chiamarla con
il suo cognome da nubile: aveva un debole per lei. E il marito della
giovane doveva esserne a conoscenza, visto che doveva averlo minacciato
proprio quando gli si era avvicinato sull’aia, scatenando la
violenta reazione dell’altro.
«Forse, dovrei raccontare alla polizia anche della
dependance...» mormorò, poi, il dottor Costa,
soprappensiero.
«Dependance?» ripeté Vittoria, sbattendo
le
palpebre, perplessa, mentre Marcello veniva richiamato nuovamente alla
realtà.
«Sì, ogni volta che vado a trovare il signor Neri
per
sapere come sta dopo le trasfusioni, vedo Giacomo e suo padre che
portano cassette piene di viveri in quella catapecchia che hanno dietro
casa» le spiegò l’uomo, sospirando.
«Poiché i magazzini sono da tutt’altra
parte, ho sospettato che stessero tramando
qualcos’altro e che... nascondessero qualcuno».
Qualche minuto dopo aver salutato e ringraziato
il
dottore per la sua disponibilità, i due giovani lo
lasciarono
con la sua rassicurazione che sarebbe andato
immediatamente dal commissario. Marcello e Vittoria si ritrovarono,
così, sulla strada di casa, intenti a tirare le fila del
discorso.
«Dobbiamo scoprire chi si nasconde nella dependance della
villa
dei Neri!» concluse lui, infervorato dai
fruttuosi
risvolti che aveva avuto l’incontro appena concluso.
Tuttavia, Vittoria scosse il capo, per niente allettata da
quella proposta.
«No, Marcello!» fece, ferma. «Lascia fare
al dottore e alla polizia, noi ci siamo esposti fin troppo».
«Se tu non vuoi venire, non sei obbligata, ma io sento di
doverlo
fare» ribatté con forza l’altro, senza
rallentare
la propria andatura, mentre lei faticava per riuscire a stargli dietro.
«Sento che è pericoloso. Ti prego, lascia
stare!»
insistette ancora, ma invano.
«No, non posso, sono troppo vicino alla verità per
tirarmi
indietro» replicò di nuovo lui, sempre
più
determinato a scoprire a tutti i costi chi fossero i complici di
Giacomo e Pierpaolo, anche perché aveva
l’impressione che
ci fosse un qualche collegamento con qualcuno che conosceva da
ben prima di approdare sull’isola, ma che continuava a
sfuggirgli. «E poi, si tratta solo di dare
un’occhiata,
senza contare che per i Landi è ormai finita: non appena
Guardalupi ascolterà il dottor Costa, li
farà
arrestare immediatamente».
Davanti a tanta sicurezza, Vittoria si fermò in mezzo al
campo
che stavano attraversando e assunse un atteggiamento meditabondo,
sfregando la punta della scarpa di tela blu sul terreno polveroso.
«Be’, forse hai ragione...»
mormorò. Poi,
alzò di scatto la testa e sorrise, lasciando intendere che
aveva
cambiato idea e che la curiosità aveva avuto la meglio sulla
prudenza. «Siamo arrivati fin qui, sarebbe un peccato lasciar
perdere ad un passo dalla fine, no?»
Marcello ricambiò il sorriso e, con un cenno del capo, la
invitò a seguirlo ancora una volta.
«Allora andiamo!»
E così, entrambi ripresero la marcia con passo sostenuto,
ignari, però, dell’ombra nascosta tra i cespugli
di ginepro che
li seguiva da lontano.
***
Erano appena le dieci di mattina, ma già Alberto Molinari
non ne poteva
più del sole ustionante, degli schiamazzi dei bambini, delle
pietre che gli perforavano la pelle e della salsedine che gli si era
depositata addosso.
Quando aveva accettato il consiglio di portare la consorte in vacanza a
Marciana Marina, ascoltando i consigli del questore che glielo aveva
descritto come un paesino tranquillo, non avrebbe mai immaginato che
avesse una spiaggia
così caotica.
«Qualcosa ti infastidisce, caro?» gli chiese,
infatti, con dolcezza
la moglie, richiamata dai continui borbottii di lui, alzando appena
la testa dal lettino.
In risposta, l’uomo emise un grugnito e strinse ancor di
più le braccia contro il petto, non cercando nemmeno di
celare
il suo disappunto, cosicché la donna sospirò e
tornò ad occuparsi della sua tintarella.
Tuttavia, proprio quando la noia sembrava che stesse raggiungendo il
culmine, un grido d’allarme richiamò
l’attenzione
dei presenti: «Al ladro! Al ladro!»
Immediatamente nell’abbacchiato commissario si
risvegliò
il senso di giustizia e questi scattò in piedi, guardandosi
intorno
per scorgere il potenziale furfante, individuandolo poco dopo in un
ragazzo che
correva nella sua direzione, stringendo contro il petto un oggetto
piccolo e rosso, che, aguzzando la vista, non tardò
a riconoscere.
«Un portafoglio!» esclamò. Poi, in una
frazione di
secondo, elaborò la strategia migliore possibile per fermare
quel piccolo
delinquente e la mise in atto: intercettò la sua traiettoria
e
gli fece lo sgambetto nel preciso istante in cui quello gli
passò davanti.
Come aveva previsto, nella fretta della fuga, il ragazzo non
notò il tranello ed
inciampò, finendo dritto per terra, mentre il portafoglio
rosso volava in una buca in prossimità della riva,
spaventando i due bambini che la stavano scavando.
«Angela, vai a recuperare la refurtiva!»
ordinò,
imperioso, Molinari alla moglie come avrebbe fatto con i suoi
sottoposti, mentre torceva malamente le braccia dietro la schiena del
giovane e lo spingeva a terra, facendolo gemere.
Nel frattempo, dall’ammirato capannello di gente che si era
riunito intorno a lui, qualcuno gli fornì dei lacci da
scarpe
con cui legare provvisoriamente le mani del ladruncolo.
«Adesso io e te andiamo a fare una bella visita al
commissariato!» gli intimò, completata
l’operazione, prendendolo per
le spalle e tirandolo su con poca grazia, ignorando le sue proteste.
«Ecco qui, tesoro» gli disse la signora Angela,
sopraggiungendo in quell’istante con in mano la refurtiva,
proprio mentre arrivava anche la proprietaria della stessa.
«Grazie, grazie mille, signor...»
annaspò quella,
una donnina molto magra e dai corti capelli neri, senza fiato per la
corsa.
«Sono il commissario Molinari, signora» la
interruppe
l’uomo, con tono fermo e risoluto, «e
sarebbe
il caso che ci seguisse anche lei, così da poter sporgere
denuncia» le suggerì, torcendo ancora un
po’ i
polsi del malcapitato, facendolo ululare dal dolore.
Non appena Molinari entrò nel piccolo commissariato di
Marciana
Marina7, ebbe
subito
l’impressione che sarebbe stato il posto ideale in cui
lavorare, poiché, nonostante fossero solo in servizio solo
tre
poliziotti, l’ordine e la diligenza con cui lavoravano
costituivano un ottimo biglietto da visita: un agente, infatti, era
impegnato a
battere a macchina alcuni fogli, mentre un altro stava rimettendo a
posto dei
faldoni sugli scaffali ed un terzo, dai capelli biondo cenere, in
borghese, era impegnato a studiare una cartina. Tuttavia, non appena si
rese conto della presenza dei nuovi visitatori, quest’ultimo
non esitò ad
alzarsi per accoglierli.
«Buongiorno, sono l’ispettore Baccari» si
presentò, con fare gentile.
«Cosa posso fare per voi?»
«Buongiorno, sono il commissario Molinari» rispose
in
maniera distinta l’uomo, indicando la donnina e spingendo in
avanti il ragazzo. «Qui ci
sono la signora Ricci e questo farabutto che avrebbero qualcosa da
raccontavi».
«Un collega!» esclamò Baccari, subito
cordiale. «Molto bene. Prego, signora,
si accomodi» aggiunse, mostrando alla donna una sedia vuota
di fronte alla sua scrivania.
«Grazie mille» trillò quella,
accomodandosi immediatamente.
«Pacini, occupati del ragazzo finché non avremmo
capito cosa ha combinato» ordinò, poi, il
poliziotto
all’agente che stava rimettendo in ordine i faldoni, il
quale,
senza fiatare, eseguì prontamente, ammanettando il giovane e
prendendolo in custodia, mentre quello, ormai rassegnato, non
provava nemmeno a protestare.
Tutta quell’efficienza piacque moltissimo a Molinari, che si
ritrovò a desiderare che Saverio avesse almeno un briciolo
della
diligenza del metodico ispettore.
«Chi è il commissario qui?»
domandò, dando
un’occhiata in giro, compiacendosi anche per come era ben
tenuto
l’ufficio, pulito e ricco di piante verdi.
Baccari, che si stava preparando a stendere la denuncia della signora
Ricci, alzò la testa dalla macchina per scrivere e, prima di
rispondere, si sistemò meglio gli occhiali.
«Vede, è il...» iniziò,
interrompendosi subito. «Commissario, già di
ritorno?»
Intuendo che già
di ritorno
non potesse essere certo il cognome del suo fortunato collega, Molinari
si voltò verso la porta, scorgendo due uomini sulla
trentina, di
cui uno con un’aria molto familiare.
E fu proprio lui a parlare per primo: «Sì, a
quanto pare,
il dottor Costa stava venendo a trovarci di sua
volontà».
«Giorgio?» domandò Molinari, incredulo,
squadrando l’altro ufficiale di polizia da capo a piedi.
Quello, a sua volta, ricambiò con uno sguardo indagatore,
socchiudendo le palpebre.
«Commissario Molinari?» chiese, infine, spalancando
gli occhi, attonito.
«Che sorpresa trovarti qui!» commentò
l’uomo,
piacevolmente stupito. «Non sapevo che ti avevano
già
assegnato un commissariato tutto tuo... d’altra parte,
già
in accademia promettevi molto bene».
«È piccolino, ma ha il suo daffare»
affermò
Guardalupi, senza nascondere una certa soddisfazione. Poi, si rivolse
al dottor Costa e lo invitò ad accomodarsi, sostenendo che
sarebbe tornato da lui molto presto, quindi assegnò a
ciascuno
dei suoi sottoposti un ordine, per poi tornare a rivolgersi a Molinari.
«Commissario, se non le dispiace, potrei chiederle un parere
su
un caso abbastanza recente e piuttosto... complicato?»
«Certamente» rispose l’altro.
«Di che cosa si tratta?»
«Mi segua nel mio ufficio, è una faccenda lunga da
spiegare che sta mettendo a soqquadro tutto il paese»
replicò Guardalupi, facendosi improvvisamente
serio.
Incuriosito e allettato da quelle premesse, Molinari lo
seguì,
certo di aver trovato un’interessante e fortuita alternativa
ad
un’altra tediosa mattinata sulla spiaggia.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto
per aver letto in anteprima.
***
[N.d.A]
1. Redinoce:
è una
piccola località situata sul versante nord
dell’Isola
d’Elba, a pochissima distanza da Marciana Marina. Ha una
bellissima e piccola spiaggia, oggi dotata di stabilimenti balneari
(anche se non molti), ma, all’epoca del racconto, era molto
meno
frequentata;
2. citando... Battisti:
citazione di Con il
nastro rosa di Lucio Battisti, appartenente
all’album Una
giornata uggiosa (1980);
3. Una storia... poi:
citazione di
Sarà quel che sarà
di Tiziana
Rivale, vincitrice del Festival di Sanremo del 1983; Vittoria
canticchia questa canzone perché il titolo ed alcuni versi
fanno
assonanza con quelli di Battisti;
4. Discoring:
si tratta di un programma musicale, andato in onda dal 1977 al 1989,
durante il quale c’erano esibizioni di cantanti e classifiche
dei
brani più ascoltati della settimana;
5. medico condotto:
fino alla legge del 1978, l’assistenza sanitaria di base non
era appannaggio del cosidetto medico
di famiglia, bensì del medico condotto,
il quale aveva diverse competenze oltre a quella strettamente medica e,
in taluni casi, poteva rivelarsi una vera e propria figura di
riferimento per gli assistiti;
6. complicanza della
varicella: l’herpes
zoster non deve essere confuso con l’herpes comune, in
quanto causato da un virus diverso (Varicella
Zoster Virus vs Herpes
Simplex Virus).
La famiglia di appartenenza, però, è comune (sono
tutti
virus herpetici). In alcune persone, tra quelle che hanno
già
avuto la varicella,
- per
diversi motivi che che qui ometto per semplicità -
può
verificarsi la
riattivazione del virus e, quindi, la comparsa di quello che viene
popolarmente chiamato Fuoco
di Sant’Antonio (molto doloroso e non scevro da
possibili complicanze gravi, tra le quali, appunto,
l’encefalite);
7. commissariato di Marciana Marina:
ovviamente si tratta di un luogo di fantasia, visto che l’unico
commissariato dell’Elba si trova a Portoferraio. Perdonate la
“licenza poetica”, ma ho immaginato il commissariato di
Guardalupi talmente nei dettagli da volerlo inserire a tutti i costi.
***
Innanzi tutto, buon inizio 2017
a tutti.
Come promesso, sono riuscita a pubblicare il nuovo capitolo e vi avviso
che siamo ufficialmente a meno tre dalla fine. Vi anticipo che,
nonostante
cercherò di fare il possibile per fare prima, il prossimo
aggiornamento cadrà a Marzo, visto che sono nel pieno della
sessione invernale. Mi scuso con tutti voi, ma gli esami hanno sempre
la priorità, purtroppo.
Ringrazio sempre chi legge in silenzio, chi con grande pazienza segue
ancora
il mio racconto, chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Aven, Anto),
chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, chi mi fa
sapere cosa pensa di ciò che scrivo attraverso altre vie.
In ultimo, vi lascio
come da routine la mia pagina
facebook,
dove presto troverete una piccola anticipazione del prossimo capitolo
oppure potete usarla per tenermi semplicemente d’occhio,
accertandovi che non
sparisca nel nulla (come è accaduto troppo spesso).
Alla prossima!
Halley
S.C.
|
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Capitolo 24 *** Capitolo Ventiquattresimo - Vento di Azione ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 24
- Capitolo Ventiquattresimo -
Vento
di Azione
L’assenza
di Marcello in ogni angolo della villa preoccupò non poco
Beatrice che, dopo aver vagato in lungo e in largo per ben due ore alla sua ricerca, si sedette sotto ai
pini con i gomiti poggiati sul tavolo e il mento tra i palmi aperti:
suo marito sembrava essersi letteralmente volatilizzato.
Fu allora che, nella quiete della prima mattina, la ragazza si sentì ancora
più sola ed in colpa per tutto ciò che gli aveva
detto,
ritrovandosi a riflettere sul fatto che stesse imparando sulla propria pelle quanto la
rabbia e la delusione potessero essere le peggiori consigliere,
rendendola cieca ed insensibile.
Improvvisamente, mentre se ne stava lì, meditando su dove potesse essere il
suo consorte, udì una voce
che la
salutava: «Oh, ciao, Beatrice».
Subito, la giovane alzò appena la testa, distogliendosi dai
suoi
tristi pensieri e scorgendo Gerardo che si avvicinava a lei, sul viso
un’espressione non molto dissimile dalla sua.
«Ciao»
rispose, osservandolo mentre si accomodava anche lui al tavolo e si
guardava intorno con fare rassegnato.
«Stai cercando la Vittoria, per caso?»
gli chiese poi, intuendo che ci fosse qualcosa che non andava. Infatti,
si accorse proprio in quel momento che, nel suo girovagare per la villa
ed il giardino, non
aveva incrociato nemmeno l’amica, nonostante a
quell’ora
fosse solitamente di ritorno dalla sua oretta di bagno di sole.
Prima di replicare, l’altro incrociò le braccia e
vi sprofondò il viso.
«Sì» fece la sua voce, soffocata, benché
fosse abbastanza chiara da svelare la nota d’afflizione che la
impregnava. «Sembra essere sparita nel nulla».
«Come
Marcello»
commentò Beatrice, cupa.
Per qualche minuto rimasero ognuno concentrato sui propri pensieri,
lasciando che si udisse solo il cinguettio degli uccellini, dispersi
tra i rami degli alberi. Poi, senza preavviso, Gerardo
riemerse
dal suo nido di depressione e puntò lo sguardo negli occhi
blu
della sua interlocutrice.
«Avete... litigato anche voi?» si
azzardò a domandare, non senza un certo imbarazzo.
In risposta, quella sospirò, annuendo, e il
giovane decise di non indagare oltre, dimostrando ancora una volta la
sua discrezione. In quel frangente, Beatrice si ritrovò ad
osservarlo attentamente e a pensare che, prima di allora, non aveva mai
avuto l’occasione di restare sola con lui a parlare di
argomenti
molto personali; ciò che la stupì,
però, fu la
sensazione di
sentirsi completamente a suo agio, come se ce ne fossero state molte
altre.
«Tu sapevi di Giacomo?» domandò
tutt’ad un tratto il ragazzo, richiamando la sua attenzione.
«Sì» rispose lei, cominciando
lentamente. «Per questo ho consigliato alla Vittoria di
parlartene».
«Be’, non l’ha fatto»
ribatté istantaneamente
lui, guardandola torvo. «Ho scoperto che cosa era successo
solo quando quello
si è presentato in spiaggia e mi ha sbattuto in faccia
quanto si
sia divertito alle mie spalle» aggiunse, stizzito,
allontanandosi
dal tavolo con tutta la sedia e voltando la testa dall’altra
parte.
Percependo più delusione e dispiacere che rabbia, la giovane
tentennò per qualche istante prima di esprimere la sua opinione: «La
Vittoria ha sbagliato,
l’è
vero, ma
è stato solo perché
l’aveva
paura di
perderti».
«Mi sono sentito preso in giro» ribatté
lui, piuttosto risentito.
In risposta, Beatrice indurì lo sguardo, sentendosi in dovere di prendere le difese della sua amica, non
approvando la scarsa considerazione manifestata da Gerardo verso i
sentimenti di lei.
«L’è
stata molto male, sai? Non le fa
certo piacere essere
importunata dovunque vada» sbottò.
Tuttavia, il ragazzo non mostrò alcun mutamento, perché replicò: «Appunto per
questo avrebbe dovuto parlarmene, non trovi?»
«Potresti anche cercare di
metterti nei
suo’
panni, per una volta!» insorse, allora, la fanciulla,
scoccandogli un’occhiata di disapprovazione.
«Non
l’è
facile come
pensi, sai? Vorrei proprio vedere se ci fossi stato tu al
su’
posto! Davvero credi che saresti stato così
sicuro?»
A quel punto, la conversazione precipitò in un silenzio teso e i due giovani si scrutarono, immobili, per parecchio
tempo. Perfino gli uccellini smisero di cantare, come se fossero anche loro in attesa di qualcosa.
Quel muto e statico scontro, però, si concluse presto con la
resa di Gerardo, il quale chiuse gli occhi e sospirò,
lasciando trapelare tutta la malinconia che, fino a quel momento, aveva
confinato in fondo al suo cuore.
«No, anzi, penso proprio che sarei stato in
difficoltà» ammise, finalmente, abbassando lo sguardo.
Sorpresa, Beatrice si sentì un po’ in colpa per
essere esplosa in quella maniera, sapendo di aver esagerato.
«Mi spiace, non volevo essere scortese»
si affrettò a dirgli, «ma ho visto quanto la
Vittoria ha sofferto e so che
non c’era
malizia nel tenerti
nascosta
una cosa
simile».
«Hai ragione tu» mormorò a sua volta il
ragazzo, mesto. «La verità è che sono
stato a contemplarla in disparte per così tanto tempo che
non mi sembra vero che adesso stiamo insieme. Inoltre, mi sento
così inferiore a lei che ho sempre paura che qualcuno possa
portarmela via».
Poi, fece una piccola pausa, durante la quale ne approfittò per togliere due
aghi di pino che erano caduti sul tavolo, gettandoli a terra.
«Vorrei chiederle scusa,
ma non so dove sia. Anche se penso che sia con Marcello» aggiunse, più rivolto a se stesso che alla sua
interlocutrice.
«Dici?»
intervenne, però, Beatrice, incuriosita da quel particolare.
«Oh, sì. Quando Vittoria aveva qualche problema
sentimentale, cercava sempre lui ed io lo invidiavo da
morire per questo» spiegò l’altro, con
un’alzata di spalle, tornando a guardarla. «Solo
recentemente, infatti, ho capito
perché
non sceglieva me».
In quel momento, tutta la tristezza per la lontananza del marito
tornò a farsi sentire e la giovane pensò che
Gerardo non era il solo a doversi scusare con qualcuno.
«Secondo te, Marcello
riesce a
perdonare chi
l’ha ferito
nell’orgoglio?» gli chiese,
all’improvviso, serrando nervosamente le mani tra di loro.
«Temo d’esser
stata un
po’ troppo... severa con
lui».
Inaspettatamente, invece di risponderle subito, Gerardo la
fissò per qualche secondo, immobile, prima di
sciogliersi in un tenero sorriso.
«Se lo conosco bene come penso, ti ha
già
perdonata» le rivelò,
dolcemente. «Probabilmente, ora è
in un angolo a leccarsi le ferite, ma tornerà presto da te, ne sono
certo. Anche se non sembra, non riesce a starti lontano troppo a
lungo».
«Oh!» esclamò lei, arrossendo. Per un
po’, rimase zitta, ma poi, avvertendo
l’impellente bisogno di sfogare le sue angosce con qualcuno,
proseguì: «Non l’avrei
dovuto dirgli quelle cose
brutte, ma
mi sono sentita abbandonata e... non sono riuscita a
trattenermi».
Il giovane tentò di rassicurarla, gentile: «Quando
si butta sul lavoro, non c’è per
nessuno.
Tuttavia, si vedeva quanto teneva a risolvere l’intera
faccenda al
meglio solo per farti felice. Devi avere un po’ di
pazienza con lui e vedrai
che, per amor tuo, cambierà».
Abbastanza rinfrancata da tali parole, Beatrice si sforzò di
sorridergli a sua volta, contenta di essersi aperta con lui e di
aver intravisto, grazie alle sue parole, una speranza di poter ricucire il suo rapporto con
Marcello.
***
La dependance di cui aveva parlato il dottor Costa si trovava in un
boschetto di querce, non molto distante dalla villa dei Neri.
Dall’esterno, sembrava una casetta di legno abbastanza
malmessa: quasi tutte le assi delle pareti erano crivellate dalle tarme
e i vetri delle finestre erano opachi e scheggiati; in un angolo, erano
ammucchiate le cassette di plastica nera che sarebbero dovute servire
per la raccolta delle olive.
I due giovani erano rimasti per un po’ nascosti tra gli
alberi, ad osservare il circondario, pronti a rilevare anche
il più piccolo movimento sospetto o rumore proveniente dalla
catapecchia, senza tuttavia riportare alcun risultato.
«Non sembra una dimora molto accogliente»
commentò Vittoria, lanciandole uno sguardo compassionevole.
«Secondo me, ammesso che ci sia stato
qualcuno, deve essere andato via il prima possibile».
«Avviciniamoci con cautela, che ne dici? Solo così potremo
scoprire se è davvero abitata» suggerì,
allora, Marcello, lasciando il suo nascondiglio e procedendo verso
quell’ammasso di vecchio legname. «Stai dietro di
me» ordinò poi a Vittoria, afferrandola per un
polso e costringendola a mettersi alle sue spalle.
Si sentiva responsabile nei suoi confronti e
sapeva che, se le fosse successo qualcosa, Gerardo
non glielo avrebbe mai perdonato, anche se, ovviamente, sarebbe
stato lui il primo a sentirsi in colpa.
Avanzarono lentamente, con estrema cautela, attendendo diversi secondi tra un
passo e l’altro, in costante allerta, ma, per fortuna,
non accadde nulla e riuscirono a raggiungere senza intoppi la baracca.
«L’interno è buio ed i vetri sono
sporchi» bisbigliò la ragazza, dopo aver lanciato una rapida occhiata, dondolando sul
posto per cercare di vedere meglio.
Marcello stava per replicare che, forse, non c’era
davvero nessuno, quando si udì un tonfo, seguito da un orrendo, cavernoso grugnito:
«Basta con questi peperoni, Landi! Siamo su
un’isola e non riesci a rimediare dei camarones?»
«Non è così facile pescare dei
gamberetti, sai?» replicò, immediatamente, la voce
di Giacomo.
A quel punto, i due giovani si guardarono e, capendosi senza proferire mezza
parola, si sporsero quel quanto che bastava per avere una panoramica
del piccolo porticato della casetta, senza essere
visti. Fu allora che Marcello ebbe la conferma che, a pochi passi da
lui, c’era l’uomo che più odiava al mondo e che
aveva a lungo sperato di incontrare nuovamente.
«Questo passa il convento, Navarra» lo
rimbrottò il giovane Landi, gettando ai piedi
dell’altro il cestino colmo di vegetali, che si rovesciarono, spargendosi sul terreno spoglio.
Subito dopo, sbucò dalla casetta anche Pablo,
puntando addosso al ragazzo la sua pistola. Quello, però,
rimase impassibile e, anzi, attaccò di nuovo: «Non
ti conviene ordinare al tuo scagnozzo di farmi fuori, Navarra. Sono
l’unico che può aiutarti a lasciare
l’Elba e farti tornare a casa».
«Certo! Lasciare questo sputo di terra per portarmi su
un’altra isla!» berciò l’altro, tirando un calcio ad una cassetta di legno marcito, sfasciandola.
«Ti ho già spiegato» cominciò stancamente il ragazzo «che
l’unico modo per rallentare la polizia è fare
scalo in un altro paese, prima di raggiungere la Spagna. È
una fortuna che ci troviamo a così poca distanza dal suolo
francese».
L’uomo alzò lo sguardo su di lui, ma non replicò, fissandolo per qualche istante.
«Ecco come stanno le cose...» mormorò, allora,
Marcello a Vittoria, mentre anche gli ultimi dettagli trovavano la loro
collocazione all’interno del complesso quadro. Dal canto suo, lei
si limitò a scuotere la testa, concentrata sui malviventi.
Trascorse qualche altro momento di esitazione, poi, alla fine, lo spagnolo fece segno
a Pablo di mettere giù l’arma.
«Questa notte andremo via»
annunciò Giacomo, accomodandosi su una vecchia sedia
sgangherata, posta proprio accanto ad un palo di sostegno del porticato.
«Se così non dovesse essere, non ti
risparmierò» decretò secco Navarra, spronando con
un cenno del capo il suo collaboratore a rientrare in casa.
«La nostra parola non ti basta, forse?» domandò l’altro, provocatorio, assottigliando lo sguardo.
In risposta, lo spagnolo fece schioccare la lingua contro il palato e
misurò a grandi passi lo spazio prospiciente la casetta.
«Mi avevate promesso molto, quando sono venuto qui lo scorso
gennaio» esordì, parlando molto lentamente. «Il mio silenzio sui vostri imbrogli negli
affari dei Tolomei in cambio di una bella quantità
d’olio da rivendere come aceite
verde de Andalucìa1. Peccato che non abbiate
rispettato gli accordi».
«Frode alimentare!» esclamò Marcello,
abbassando subito dopo il tono di voce, allarmato, sperando di non essere stato
sentito dai due. «Cos’altro diavolo hanno in mente?»
Tuttavia, non ebbe modo di dire altro alla sua compagna, giacché
il Landi si alzò in piedi e, piantandosi davanti allo
spagnolo con le mani in tasca ed un’espressione strafottente sul
volto, non tardò a dire la sua.
«Sai bene che abbiamo fatto di tutto affinché quell’uomo morisse la
settimana prossima, perché così avremmo avuto il tempo di organizzarci
meglio» scandì. «Non è certo colpa nostra se ora abbiamo quel mastino di Guardalupi alle
calcagna!»
«Una settimana in più non avrebbe comunque risolto il
problema, le aceitunas
non sono ancora mature» ribatté Navarra, accarezzandosi la barba e guardando minaccioso il suo interlocutore.
«Avrei lasciato delle istruzioni dettagliate a Fiammetta su
come far arrivare le olive a Cordova» spiegò l’altro, scuotendo la testa con noncuranza. «Una volta
convinti i braccianti che le piante erano infette,
sarebbe stato un gioco da ragazzi farle raccogliere da gente fidata e
appropriarsene».
A quel punto, Conrado estrasse da una tasca dei pantaloni un pacchetto
di sigarette, mettendosene una tra le labbra. Poi, prese un accendino
di latta e ne fece scattare il coperchio a poca distanza dal volto di
Giacomo. La fiammella gli divampò davanti, ma quello non si
mosse, anche se il suo volto tradiva la preoccupazione che lo tormentava dentro.
«Da quel che so, tu
esposa
non è dalla tua parte» commentò malignamente
Navarra, accendendosi la sigaretta e sbuffando in faccia
all’altro il fumo.
«Pur di non far morire il suo dottorino, avrebbe fatto
qualunque cosa» replicò il ragazzo, tossendo e agitando una mano per dissipare velocemente la coltre grigiastra.
Allontanandosi di poco, lo spagnolo tirò qualche altra boccata,
tenendo una mano in tasca mentre osservava con un ghigno ironico Landi, prima di replicare.
«Ho fatto bene a venire di persona ad accertarmi delle
condizioni della tenuta dei Tolomei, ma non a fidarmi di voi» sentenziò, irritato.
«Be’, in fondo, il piano non era male»
si giustificò il ragazzo. «Ti avrebbe aiutato anche a vendicarti di Tornatore, che ti
ha soffiato la contessina».
Nel
sentirsi tirare in ballo, Marcello si appiattì ancor di
più contro la parete della casetta e sbatté le palpebre,
scambiandosi subito dopo uno sguardo stupito con Vittoria, piuttosto
agitata. Uno schianto, però, attirò nuovamente la loro
attenzione: con un violento calcio, lo spagnolo aveva distrutto
un’altra cassetta.
«Quel maldito!» latrò, digrignando i denti come una belva pronta a fare a pezzi la sua preda.
«Se non fosse stato per lui, avrei avuto tutto questo e la bella Beatriz!»
Giacomo, però, non dovette essere d’accordo,
poiché non perse tempo nell’esprimere il suo parere su un argomento di cui si sentiva
molto esperto.
«Non capisco davvero come faccia a piacerti quel pallido
spaventapasseri dai capelli rossi» commentò, inconsapevole
che Marcello, fremente di rabbia, fosse in ascolto. «Mio padre mi ha
obbligato a far finta di farle la corte per portare zizzania tra lei e
suo marito, ma, a dirla tutta... io preferisco di gran lunga la sua
amica» aggiunse, infine, negli occhi un luccichio sinistro.
«Mi è arrivata la voce che anche Victoria
Farnese è qui» affermò, allora, Navarra, piuttosto
annoiato, scagliando il mozzicone nel fitto della boscaglia. «La
conosco. La sua bellezza è
all’altezza della sua fama, ma è
una di quelle mujeres che hanno più tetas che
cervello».
«Sì, è davvero ben fornita» confermò
l’altro, sogghignando e gesticolando volgarmente per alludere
alle forme della ragazza. «Comunque, intelligente o meno non importa, visto che me la devo solo spupazzare
un po’ prima di andarmene».
Indignata da quel disgustoso scambio di battute, Vittoria saltò
su e si sarebbe fatta scoprire, se l’amico non l’avesse prontamente
afferrata per un polso e costretta a tornare al suo posto.
«Lasciami!» soffiò, divincolandosi come una gatta
imprigionata. «Devo andare a cavare gli occhi a quei due
porci!»
«Ferma!» la riprese il biondo, cercando di bloccarla senza
farle male. «Sei impazzita, per caso?! Vuoi farti uccidere?»
«Mi stanno insultando!»
«Lo so, ho sentito» bisbigliò lui, guardandola negli
occhi con decisione. «E ti assicuro che pagheranno per
ogni parola di troppo che hanno usato verso di te o Beatrice, ma ora,
ti prego, calmati».
Dopo qualche secondo di esitazione, finalmente, lei smise di agitarsi,
pur continuando a tremare per la frustrazione ed il ribrezzo.
«In questo momento non possiamo farci scoprire, ma non la
passeranno liscia, te lo prometto» le disse ancora lui, con dolcezza,
accarezzandole una guancia. Poi, tornò a concentrarsi sui due
malviventi che, a pochi passi da loro, ridevano sguaiatamente delle loro sconce osservazioni e,
nauseato, mormorò: «Dovremmo informare immediatamente il
commissario Guardalupi...»
«Posso andarci io!» esclamò all’improvviso una voce, facendoli sobbalzare entrambi.
«Leonardo!» fece Marcello, convinto di essere prossimo ad avere un infarto. «Che cosa ci fai qui?!»
«Ti ho visto uscire dalla casa del dottor Costa e ti ho
seguito» spiegò innocentemente il ragazzino, che non
poteva immaginare di aver inconsapevolmente attentato alla vita dei due
giovani.
«Così, lui è Leonardo...» commentò Vittoria con un filo di voce, ancora piuttosto provata.
«Sì, sì, le presentazioni a dopo»
tagliò corto il biondo, riprendendo fiato appoggiato
con la schiena alla catapecchia, attento a non far scricchiolare le
vecchie assi di legno. «Comunque è una buona idea»
se ne uscì dopo alcuni secondi.
«Quale?» chiese l’amica, lasciandosi cadere a terra,
esausta, come se lo spavento preso fosse stato il colpo di grazia.
«Leonardo andrà alla villa ad avvisare Beatrice e
Gerardo, mentre tu andrai dal commissario» espose Marcello, con
sicurezza, guardando prima l’una e poi l’altro.
«E tu?» domandò lei, confusa.
«Io resterò qui» asserì lui. «Per
quanto ne sappiamo, questi individui potrebbero lasciare presto il loro
nascondiglio e non possiamo assolutamente perderli di vista».
«È una follia!» protestò la ragazza,
recalcitrante, scuotendo la testa con vigore. «Come puoi
pretendere che ti lasci da solo? E se ti dovesse succedere
qualcosa?»
«Tranquilla, non mi succerà niente».
«È arrivato Highlander2!» replicò Vittoria, ironica, accompagnando le parole con una
smorfia di disappunto. «Davvero credi di essere invincibile? E se
dovessero
spararti?»
«Prima andrai da Guardalupi, prima ridurrai le
possibilità che mi spediscano al Creatore» ribatté,
allora, il ragazzo, scoccandole un’occhiata risoluta.
Nel frattempo, Leonardo, in silenzio, aveva spostato lo sguardo
alternativamente fra i due, seguendo interessato tutto il
discorso, e proprio in quel momento si decise ad intervenire.
«Anche io voglio mandare in prigione quei brutti ceffi!» fece, contento.
«Molto
bene, allora ti affido Vittoria, assicurati che raggiunga Marciana
Marina, d’accordo?» gli disse Marcello, scompigliandogli i capelli.
Il ragazzetto, allora, lo prese in parola e diede la mano alla giovane ancora riluttante,
invitandola ad alzarsi, anche se lei non sembrava troppo convinta.
«Marcello... stai attento» lo supplicò, infatti, guardandolo con malinconia e apprensione.
In risposta, quello incurvò appena le labbra, sapendo bene di non avere altra scelta.
«Adesso andate, non c’è tempo da perdere!» li
incoraggiò lui, restando a guardarli mentre entrambi si
allontanavano alla chetichella, accompagnati da un sottile venticello
che sembrava spronarli a correre più veloci.
***
Molinari archiviò l’ennesima deposizione inutile, stropicciandosi gli occhi stanchi.
Aveva accettato di buon grado di aiutare Guardalupi a
sciogliere i numerosi enigmi alla base di quella contorta indagine,
tuttavia le numerose falle nella ricostruzione degli eventi
stavano rendendo vano ogni suo tentativo di tirare le fila del discorso.
Dopo un lungo sospiro, lanciò un’occhiata angustiata al suo fedele block-notes e
all’ordinata grafia con cui aveva preso qualche appunto,
grattandosi una guancia con fare perplesso.
«C’è qualcosa che non va, commissario?»
domandò il collega più giovane, smettendo di applicare le
graffette ai numerosi fascicoletti che aveva davanti.
«Si tratta di un caso molto strano» commentò
l’altro, versandosi un bicchiere di succo alla pesca, per poi
cominciare a sorseggiarlo poco alla volta, passando ad un’altra
deposizione. «Sembra, infatti, che non ci siano dubbi su chi
siano i colpevoli, ma che, al tempo stesso, non vi siano le prove sufficienti per
richiedere un mandato d’arresto».
Guardalupi confermò, annuendo brevemente.
«Sì, è proprio così».
«Quando hai detto che sarà pronto il referto
dell’autopsia, Giorgio?» gli chiese, allora, Molinari,
tracciando una linea divisoria perfettamente orizzontale sul foglio
delle annotazioni.
«Ho parlato stamane con il medico legale e mi ha assicurato che
farà di tutto per farmelo avere al massimo entro domani»
gli rispose quello, con tono di voce sicuro.
«Però, secondo il dottor Costa, i due Landi stanno
progettando una fuga che, per quanto ne sappiamo, potrebbero attuare
prima della prossima alba» gli fece notare l’altro,
tornando ad immergersi nelle sue letture. Era quasi convinto che, anche
quella volta, avrebbe fatto un buco nell’acqua, quando lesse il
nome del sottoscrivente del documento.
In quel momento, come un lampo rischiaratore nella notte, ebbe
un’illuminazione e si tuffò immediatamente sul faldone che
raccoglieva tutti i documenti sul caso, cercandone un altro. Quando
lo ebbe trovato, si diede mentalmente dello sciocco per non averci
fatto caso prima e per non aver prestato maggiore attenzione ad un
dettaglio tanto rilevante: evidentemente, il suo cervello stava
protestando per essere costretto a lavorare
anche in vacanza.
«Che rapporti hanno il signor Tornatore e la signorina Tolomei
con questa vicenda?» domandò, di punto in bianco, al suo
collega, desideroso di avere un sunto di informazioni prima di procedere con i
suoi ragionamenti.
«Lei è la proprietaria della tenuta dove ha avuto origine
il focolaio epidemico. Lui, oltre ad essere suo marito, era presente al
momento del decesso di Ivano Berti» snocciolò sinteticamente Guardalupi, accigliato. «Perché me lo
chiede?»
«Sono mie vecchie conoscenze» fece l’uomo,
accarezzandosi il mento, vagamente sorpreso nel ritrovare lì i due giovani. «Qualche mese fa la
ragazza è stata rapita da un noto trafficante d’armi, un
certo Conrado de Navarra».
«Sì, ne ho sentito parlare» affermò, allora,
l’altro poliziotto, con una rapida scrollata di spalle. «Se
non sbaglio, è ricercato in tutta Europa».
«Già» mormorò Molinari, soprappensiero. «È una coincidenza molto... buffa».
«Una volta, lei mi ha detto che non esistono le
coincidenze» replicò subito il giovane commissario,
inclinando la testa da un lato e puntandogli addosso la
penna che aveva in mano.
«Sì, è vero» fece l’altro, sinceramente
meravigliato da quell’osservazione. «Ricordi ancora quel
corso
d’addestramento ad Olbia con l’ispettore Jackson?»
«Certamente. Le sono molto riconoscente per i suoi
insegnamenti» disse Guardalupi, sorridendo appena e senza la
più piccola traccia di ruffianeria nella voce. «Mi sono stati molto ut...»
Tuttavia,
non riuscì a terminare la frase, perché Baccari irruppe come una furia
nel piccolo ufficio, travolgendo maldestramente il vaso della begonia
che era accanto alla porta che si rovesciò, spargendo la terra sul pavimento.
«Scusi l’interruzione, commissario, ma è arrivata una ragazza che dice di
avere informazioni importanti per le nostre indagini sul caso della
rogna!» esclamò, concitato.
Lì
per lì, Guardalupi lo fissò stralunato, ma presto superò il
disorientamento ed incalzò il suo sottoposto a fornire ulteriori
dettagli.
«Che cosa ha detto di preciso?»
«I due Landi stanno per lasciare l’isola» rispose quello, pronto.
«Maledizione, vanno fermati immediatamente!» ruggì
Molinari, scagliando con violenza la matita contro il blocco.
L’ispettore li guardò entrambi ed esitò, prima di proseguire: «Commissario, non è
tutto... A quanto pare, con loro ci
sono altre due persone pronte a salpare dall’Elba».
«E chi sarebbero?» domandò il superiore, sempre
più meravigliato.
«Ecco,
all’inizio mi è sembrato strano che fossero proprio loro, perciò ho
fatto un paio di telefonate e...» cominciò il ragazzo, per poi fermarsi
bruscamente e deglutire un paio di volte.
«Baccari, non abbiamo tempo da
perdere!» gli abbaiò addosso Molinari, spazientito dalla
lentezza della giovane recluta. «Dicci di chi si tratta!»
Scosso dal rimprovero, l’altro sobbalzò e si affrettò a dire tutto quello che sapeva.
«Sono due individui su cui pende un mandato di
cattura internazionale: Pablo Cabrera e... Conrado de Navarra».
Nell’udire
quei nomi, entrambi i commissari spalancarono gli occhi e si
scambiarono un’occhiata incredula, per poi tornare a rivolgersi al loro
sottoposto.
«Baccari, portaci subito la ragazza!» ordinarono all’unisono, perentori.
***
L’afa di mezzogiorno
aveva reso incandescente la fatiscente casetta di legno, facendola sembrare molto
simile ad una grossa fornace accesa, pertanto, dopo aver cercato di resistere, Marcello dovette arrendersi e cedere,
accovacciandosi accanto alle cassette impilate davanti a lui, con la speranza di
essere ben nascosto.
Da quanto erano andati via Vittoria e Leonardo
non era successo niente di rilevante: Navarra aveva continuato a
studiare quella che sembrava una cartina, seduto vicino a Pablo che
intaccava pigramente alcuni rami con un coltello a serramanico. Di
tanto in tanto, si erano detti qualche parola nella loro lingua
che, però, il giovane, vista la lontananza e la sua scarsa conoscenza
dello spagnolo, non aveva ben compreso.
Intanto, Giacomo era tornato
un paio di volte alla villa per prendere bottiglie d’acqua fresca
e
cestini di frutta da servire agli accalorati ospiti e, magari, anche
con l’intento di farsi vedere da Fiammetta e rendere così
la sua assenza meno sospetta.
Tuttavia, proprio quando il biondo, considerata
la situazione di indolenza generale, stava pensando di allontanarsi a
sua volta e raggiungere l’amica al commissariato, giunse Pierpaolo,
agitando una mano.
«Ottime notizie! Ho parlato con Ettore e mi ha
confermato che è tutto pronto!» comunicò agli altri, gaio. «Ci aspetta
a mezzanotte, al solito posto. Dopodiché, salperemo per Bastia».
Non
avendo mai sentito prima parlare di quell’Ettore, Marcello ipotizzò che
si trattasse del famoso pescatore menzionato da Vittoria, quindi
abbandonò il proposito di andarsene e, incuriosito, rimase in ascolto.
«Muy bien»
commentò, soddisfatto, Navarra, ripiegando la cartina e gettandola alla
rinfusa sul rozzo tavolino. «Una volta a Cordova potrò smettere di
nascondermi e mi vendicherò prima della espía e poi... di lui!»
«Sul
serio vuoi metterti contro... quello?» fece Giacomo, impallidendo. «Non
ti basta che ti abbia messo la polizia di mezzo mondo alle calcagna? Non
hai visto che non si ferma davanti a nessuno?»
«Lo fermerò io» decretò lo spagnolo, spavaldo, gonfiando il petto.
«Secondo me, hai sbagliato ad inimicartelo. Non è stata una mossa molto furba cercare di imbrogliare uno come lui» insistette il ragazzo, rabbrividendo.
Nonostante
Marcello sospettasse da tempo che Giacomo non fosse un cuor di leone,
le sue reazioni di terrore lo lasciarono parecchio
perplesso, soprattutto perché non riusciva a capire perché non
chiamassero per nome l’uomo di cui stavano parlando. Certamente,
doveva essere un tipo piuttosto pericoloso ed influente, se era
riuscito a far diventare Navarra un ricercato internazionale.
«Ha
fatto uccidere Felipe per essere sicuro che non parlasse!» latrò,
allora, l’omone, facendo tremare la terra intorno a lui e richiamando
l’attenzione del giovane. «Sarà la prima cosa che gli farò pagare!»
Fomentato
da quelle rivelazioni sulla verità sulla morte del suo
scagnozzo, Marcello drizzò la schiena e, nel farlo, urtò
inavvertitamente una cassetta, facendola cadere con un tonfo su
un’altra posta più in basso. Trasalendo, trattenne il fiato per qualche
secondo, convinto che quei delinquenti gli sarebbero stati addosso in
un batter d’occhio, ma così non fu.
Anzi, Navarra e Giacomo sembrarono non essersi accorti nemmeno del rumore, continuando a discutere come se nulla fosse.
«L’importante è che non parlerai di noi, quando ti troverai faccia a faccia con lui»
intervenne, ad un certo punto, Pierpaolo, alzando la voce. «Ti stiamo
aiutando, ma non vogliamo avere altri problemi, visto che è solo
questione di tempo prima che la polizia scopra il nostro gioco con gli
ulivi».
«Avete davvero poca spina dorsale» li canzonò lo
spagnolo, mostrando loro un sorriso beffardo. «Ma non temete, amigos, perché sarò io a vincere e allora li ucciderò come bastardi!»
A
quel punto, i due Landi si scambiarono un’occhiata nervosa, arretrando
di qualche passo e mettendosi a parlottare tra di loro, mentre Navarra
tornava ad occuparsi della sua cartina. All’improvviso, però, Marcello si rese
conto che Pablo non era più seduto alla sedia, rimasta vuota in mezzo ad un mucchio informe di
trucioli e schegge.
Fu in quello stesso momento che il ragazzo avvertì la spiacevole
sensazione di avere qualcosa di freddo e metallico puntato tra le
scapole.
«Muoviti o grida e sei muerto»
gli intimò una voce bassa e gutturale, mentre qualcuno che lo
agguantava malamente per una spalla e lo costringeva violentemente
prima a mettersi in piedi e poi a voltarsi verso di lui.
«Conrado sarà muy felice de rivederti» continuò, facendo schioccare le labbra e atteggiandole a un sorriso sardonico.
Non
appena Navarra vide spuntare Marcello da dietro la catapecchia, si
concesse per qualche istante di assumere un’espressione alquanto
sorpresa, mutandola poi in un autentico ghigno
di compiacimento.
Giacomo e Pierpaolo, invece, strabuzzarono gli occhi e,
consapevoli che ormai le loro trame erano state definitivamente
svelate, si guardarono, preoccupati.
«Ho trovato questo ficcanaso
che si godeva lo spettacolo!» annunciò Pablo con la sua pronuncia
sibilante, spingendo senza riguardi l’ostaggio davanti al suo
acerrimo nemico.
«Bene, bene, guarda chi si vede» fece quello,
contraendo la bocca in una smorfia terribile. «In effetti, non è strano
trovarti qui, visto che ti sei appropriato indebitamente della mia donna e di tutto quello che mi spettava».
Il
giovane aprì la bocca per rispondergli che Beatrice non era affatto sua
e che non lo sarebbe stata nemmeno se l’avesse ucciso, quando vide
l’altro estrarre la pistola dalla fondina attaccata alla cintura e
puntargliela contro.
«Tornatore, hai già detto le tue ultime preghiere?»
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto che legge sempre con interesse tutte le anteprime.
***
[N.d.A]
1. aceite verde de Andalucìa: si tratta dell’olio verde
di Andalusia, specialità molto rinomata e provvista di
certificazione DOP (Denominazione di Origine Protetta), pertanto, per
essere tale, deve essere prodotto in questa regione a partire da olive locali;
2. Highlander:
riferimento al film cult del 1986 “Highlander - L’ultimo
immortale” e al protagonista Conner MacLeod
(interpretato da Christopher Lambert), facente parte degli immortali,
una stirpe di guerrieri destinata a rimanere sempre giovane.
L’unico modo per ucciderli era la decapitazione con la spada.
***
Salve a tutti!
Non odiatemi, io amo i finali cliffhanger
e credo che riservarlo al penultimo capitolo (ne manca uno solo, poi ci
sarà l’epilogo) sia un accorgimento utile per lasciare un
po’ con il fiato sospeso - come se non vi avessi lasciato
abbastanza in sospeso, trascinando la pubblicazione di questa storia per ben cinque anni.
Come sempre, ringrazio chi legge, anche in silenzio, chi mi ha fatto
sapere la sua sul precedente capitolo, chi ha messo la storia tra le
preferite/ricordate/seguite.
Per leggere in anteprima un estratto del work in progress, mi trovate, al solito, sulla mia pagina
facebook. Il prossimo aggiornamento dovrebbe arrivare tra fine Aprile/inizio Maggio, quindi abbiate fiducia.
Saluti e a presto!
Halley
S.C.
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Capitolo 25 *** Capitolo Venticinquesimo - Vento di Confronti ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 25
- Capitolo Venticinquesimo -
Vento
di Confronti
Dal
corridoio in cui si trovavano i due commissari proveniva
un borbottio sommesso e incomprensibile che Beatrice aveva
cercato più volte di decifrare, ottenendo, invece, come
risultato solo un peggioramento del suo mal di testa. Avvertendo
improvvisamente anche un fastidioso formicolio alle gambe, si
alzò
dalla sedia e mosse qualche passo, sperando di riattivarne la
circolazione e di sfogare almeno in parte la sua inquietudine.
A poca distanza da lei, seduti l’uno accanto
all’altra, c’erano Gerardo e Vittoria, entrambi inespressivi,
i volti terrei. Ogni tanto si scambiavano
qualche parola, ma si vedeva che erano tesi, sia per la situazione
precaria in cui si trovavano, sia per le loro discussioni irrisolte.
Dall’altra parte della stanza, invece, stretto tra i suoi
genitori, c’era
Leonardo, anche lui preoccupato per Marcello e unico tra
tutti i presenti ad avere ancora il fiato per chiedere a voce alta,
senza però ottenere risposta, come stesse il suo amico e se
fosse in
pericolo.
Quando il ragazzino era giunto alla villa, trafelato, annunciando cosa
era successo, Beatrice si era sentita estraniata dal suo corpo, come se
il suo peggiore incubo - il ritorno di Navarra e suo marito in pericolo
di vita - fosse diventato realtà.
Pertanto, temendo di impazzire, aveva messo a tacere tutti i brutti
pensieri
e,
non volendo pensare alle conseguenze peggiori, iniziò ad
autoconvincersi che il ragazzo sarebbe tornato da lei sano e
salvo il
prima possibile, perché, in caso contrario, non avrebbe
sopportato che gli potesse accadere qualcosa senza aver prima fatto pace.
Istintivamente, mentre cercava di concentrarsi
su quel poco di positività rimasta, si portò una
mano al pendente a forma di farfalla, proprio mentre il
commissario Molinari
giungeva a
rompere quel clima di silente disperazione.
«Ciò che ci ha detto è stato molto
utile» disse al dottor Costa, che lo seguiva, invitandolo ad
accomodarsi assieme agli altri. Quello subito ubbidì, prendendo
posto a tre sedie di distanza da quella occupata dalla fanciulla, anche
lui tutt’altro che allegro.
Poi, il poliziotto passò oltre e si avvicinò
proprio a
lei che, nel sapere che era lì si sentì subito più
sollevata,
poiché era convinta
che fosse l’unico davvero in grado di
arrestare lo spagnolo. Ovviamente, era rimasta parecchio sorpresa dal ritrovarlo a
Marciana Marina, ma, vista la delicatezza della circostanza, non poteva
esserne che contenta.
«Signora Tolomei, ha bisogno di qualcosa?» le
chiese quello, preoccupato, non appena le fu davanti.
«No, no... sto... va bene così»
esalò appena Beatrice, cercando di non far trapelare troppo
la
sua angoscia.
Per qualche istante, l’altro la squadrò
attentamente, ma, alla fine,
annuì, ritornando sui suoi passi.
«Perdoni la considerazione, ma... sembra quasi che lei e suo
marito vi facciate sequestrare a turno» commentò,
pensieroso.
«Però, non si preoccupi, le garantisco che faremo
di tutto per
farglielo riabbracciare tutto intero al più presto».
Rincuorata dalla sicurezza dell’uomo, Beatrice
abbozzò un sorriso, costretta ad ammettere con se stessa che, in
effetti,
viste dal di fuori, le loro vicende dovevano risultare alquanto
bizzarre.
In quel frangente, arrivò Baccari, agitando un foglio di
carta stampata.
«Commissario Molinari, sono appena arrivati i risultati della
scientifica e da Livorno hanno dato il via libera: il mandato
d’arresto arriverà, quindi possiamo
agire!»
esclamò, trionfante, l’ispettore.
«Tuttavia, il
commissario Guardalupi vorrebbe consultarsi con lei prima di entrare in
azione e...»
«Resto sempre dell’opinione che la signora Neri non
vada
assolutamente informata, se non vogliamo compromettere la riuscita
dell’operazione» lo interruppe il superiore, secco,
mentre
il dottor Costa, invece,
sobbalzava sulla sedia. Dal canto suo, Beatrice aveva sentito
il proprio cuore fermarsi, come se il pericolo fosse
diventato improvvisamente più concreto.
Tuttavia, nessuno parve accorgersi dello sconforto dei due e,
così, il giovane
agente annuì con vigore, dileguandosi all’istante.
Poi,
Molinari si avvicinò ai genitori di Leonardo.
«Signori Foresi, voi potete andare» disse loro, con
tono
calmo. Quelli, però, lo guardarono perplessi e, allora,
l’uomo aggiunse: «Non
c’è motivo per cui rimaniate qui.
Nel caso dovessero essere ancora necessarie le vostre testimonianze, vi
richiameremo».
«Io voglio solo sapere se Marcello sta bene...»
intervenne, a
quel punto, il ragazzino, alzandosi dalla sedia e osservando il
poliziotto che, improvvisamente, si illuminò, capendo il
motivo
della loro ostinata presenza.
«Ti prometto che lo rivedrai» lo rassicurò,
ammorbidendo
l’espressione. «Ora, però, devi tornare
a casa,
perché, tra poco, questo commissariato pullulerà
di
delinquenti».
«Li metterà in prigione?»
domandò Leonardo, spalancando i grandi occhi scuri, pieno di
speranza.
Molinari annuì e affermò, con fare deciso:
«Puoi contarci».
Allora, l’altro sorrise e, dopo essersi avvicinato ai
genitori, disse loro appena qualche parola per farli
alzare.
Quindi, i due adulti salutarono l’ufficiale di polizia, per poi
avvicinarsi a
Beatrice e salutarla mestamente; al contrario, Leonardo, invece di
trotterellare dietro ai suoi, tornò indietro e
la abbracciò di slancio, staccandosi da lei solo al
richiamo del padre, già fuori la porta.
La ragazza, dopo aver ricambiato la stretta come un automa, lo
osservò allontanarsi, avvertendo che il calore che quello le
aveva trasmesso si stava già dissipando nell’aria.
Quell’attesa
così snervante le stava prosciugando tutte le energie,
facendola sentire sempre più stanca e provata ogni
minuto che passava.
«Se volete, voi potete restare» disse, a quel
punto, Molinari, attirando l’attenzione dei presenti.
«Non devo farvi altre
domande, almeno per oggi, ma penso proprio che non vogliate schiodarvi
da qui, giusto?»
«Finché non sapremo come sta Marcello, non
ci muoveremo!» esclamò subito Vittoria,
seguita da Gerardo che, però, si limitò ad annuire.
Dopo aver fatto scorrere lo sguardo sui tre ragazzi, l’uomo
si voltò verso il medico e, gentilmente, gli chiese:
«E lei, dottor Costa, cosa ha intenzione di fare?»
Quello lo fissò con espressione vuota,
come se non avesse capito, e fu solo dopo
qualche istante che si decise a rispondere, con voce roca:
«Io... vorrei rimanere».
Sospirando, l’altro fece una breve alzata di spalle in segno
di approvazione. Tuttavia, aveva appena mosso qualche passo per tornare dai
colleghi, quando fu richiamato dal dottore.
«Commissario, la prego... faccia in modo che non accada
niente alla signora Neri».
Nell’udire tale richiesta, così apparentemente
insolita, Molinari si fermò e riservò
all’interlocutore uno sguardo indagatore; non fece, però,
altre domande, anzi, in quel momento le rughe sul suo viso parvero distendersi.
«Non permetterei mai che rimanessero coinvolti civili innocenti» lo rassicurò. «Si fidi di
me».
Allora, il medico chiuse gli occhi, espirando lentamente con la testa
appoggiata al muro e il commissario, finalmente,
uscì dalla stanza, la quale fu avvolta da un silenzio denso
di inquietudine.
Beatrice lo trovò piuttosto spiacevole, giacché
quella falsa tranquillità sembrava fomentare i pensieri
negativi che, oramai, le stavano monopolizzando la mente.
«Non avrei dovuto lasciare Marcello da
solo...» mormorò,
all’improvviso, Vittoria, con voce frammentata, il busto
rivolto in avanti, quasi a volersi rannicchiare su se stessa.
«Ti
ha mandata via per proteggerti» le rispose Gerardo, talmente
piano che le sue parole furono appena percepibili. «E sarebbe
dovuto scappare anche lui».
«Son certa
che andrà tutto bene» sussurrò, invece,
Beatrice, forse più a se stessa che agli altri, avendo
meccanicamente registrato ciò che era stato appena detto dai
suoi amici. Poi, all’improvviso, si alzò in
piedi e, sotto lo sguardo
spento degli altri, si diresse nel piccolo giardino del commissariato.
Fu solo lì, all’aria aperta, una leggera brezza
che le accarezzava le guance, che poté permettersi di
piangere lacrime di sconforto e rabbia, rivolta sia verso di
sé, per essere stata tanto infantile, sia verso suo marito e
la sua tremenda caparbietà.
***
Marcello era seduto su una sgangherata cassa di legno ammuffito,
talmente malridotta che il giovane, da quando l’avevano
costretto a sedervisi sopra, non aveva smesso nemmeno un istante di
chiedersi quanto potesse resistere prima di farlo capitombolare a
terra. Infatti,
nonostante non fosse in sovrappeso, non era certo una piuma,
come gli ricordava puntualmente il signor Nardone ogniqualvolta lo
iscriveva ad un incontro nella categoria dei pesi
mediomassimi1.
Intanto, sotto il pergolato, Navarra e i due Landi stavano discutendo
animatamente sulla sua sorte, apparentemente incapaci di mettersi
d’accordo.
«Io propongo di portarlo con noi, ucciderlo non appena avremo
preso il largo e poi disfarci del cadavere in mare aperto»
propose Giacomo, lanciando al giovane un’occhiata astiosa.
«In tal caso, però, dovremo tenerlo nascosto per bene fino alla
partenza» gli fece notare subito lo spagnolo,
«visto
che la polizia potrebbe venirlo a cercare».
«In Italia, la polizia non può fare niente
finché
non passano ventiquattro ore dalla scomparsa» si
sentì in dovere di precisare Pierpaolo. «Per
allora saremo
già lontani».
«Se le cose stanno così, direi che avete ragione:
non
conviene ucciderlo subito, anzi... potrebbe perfino tornarci utile
aiutandoci a trasportare qualcosa sulla barca!» sentenziò alla fine Navarra,
ridacchiando, decretando la chiusura della questione e suggellandola con un ghigno
mefistofelico.
In risposta ai macabri progetti che lo riguardavano, Marcello
inarcò un sopracciglio e cominciò a
guardarsi
intorno
per cercare qualcosa con cui recidere le corde che gli legavano i polsi
dietro la schiena, poiché, nonostante fosse sicuro che Vittoria
avesse già dato l’allarme, non ne poteva
più di essere legato come un salame.
Così, mentre passava in rassegna tutto
ciò che c’era nel suo campo visivo, notò, appesa
alla
parete anteriore della casetta, una vecchia falce arrugginita che,
forse, non aveva perso del tutto l’antica
affilatura. Certo, sarebbe stato difficile prenderla, senza
contare i rischi che avrebbe comportato il tagliarsi con della
ferraglia in quello stato pietoso, ma per quest’ultimo aspetto si augurò di essere
ancora
sotto la
copertura della vaccinazione anti-tetanica.
Tuttavia, i suoi piani di fuga furono interrotti dalla risata cavernosa
di Navarra, il quale si stava avvicinando a lui, sul volto una smorfia
alquanto sinistra.
«Deve essere il mio giorno fortunato»
disse,
piantandosi davanti al giovane e sovrastandolo con la sua stazza
massiccia. «Ho sempre sperato di poterti incontrare
di nuovo,
così da poterti spedire all’infierno».
«Sai, è parecchio strano, perché io
potrei dire lo
stesso di te» rispose subito Marcello, piegando le labbra in
un sorriso strafottente.
A quelle parole, l’energumeno serrò la mascella e
scoccò al ragazzo uno sguardo di fuoco, puntandogli contro
la sua Colt .452.
«Ti sei preso gioco di me troppo a lungo»
ringhiò,
impugnando più saldamente l’arma e facendo
scattare la
levetta della sicura.
«Non puoi ucciderlo ora!» intervenne, però, repentinamente
Pierpaolo, agitando freneticamente le braccia. «Qui intorno
è pieno di bifolchi al lavoro che, appena sentiranno lo sparo,
si precipiteranno a vedere che cosa è successo!»
Fortunatamente, quel richiamo fu sufficiente a fermare lo spagnolo che,
dopo aver riflettuto per una manciata di
secondi, abbassò
il braccio. Poi, fece per andarsene, ma, inaspettatamente, si
voltò nuovamente verso il biondo, avventandosi su di lui
come
una belva e colpendolo violentemente con il calcio della
pistola.
Preso alla sprovvista, il ragazzo si ritrovò piegato in due,
tramortito, e così rimase per qualche secondo, prima di
sentirsi
tirare bruscamente per i capelli.
«Stai
scherzando con la persona sbagliata, Tornatore»
gli fece notare Navarra, mentre l’espressione ferina sul suo
volto si dilatava.
Con la testa che gli pulsava, Marcello tossì, avvertendo un
rivolo caldo che gli colava dall’angolo della bocca
e gocciolava sulla maglietta bianca, chiazzandogliela di rosso.
«Ancora non posso ammazzarti, ma, nell’attesa,
posso sempre torturarti» rincarò l’uomo,
strattonandogli con forza
le ciocche che aveva strette in pugno. «E lo farò
lentamente. Beatriz
faticherà a riconoscere i tuoi resti, se mai ti
ripescheranno dal fondo del mare!»
A quel punto, con la coda dell’occhio, il giovane vide Pablo
avvicinarsi e ridere con cattiveria alle parole del capo, mentre i due
Landi, bianchi come due cenci, facevano saettare continuamente lo
sguardo da lui allo spagnolo.
«Poi, quando le acque si saranno calmate, la farò
rapire e
così, finalmente, sarà mia! Sai, comincio a
sentirmi solo, la noche»
proseguì il malvivente, sogghignando, prima di strattonare un’ultima volta i capelli di
Marcello e poi lasciarli andare.
Dopo aver scosso la testa per schiarirsela, il giovane
raddrizzò
la schiena e riservò all’altro
un’occhiata di odio,
mentre, con atteggiamento di sfida, si passava la lingua sulla ferita,
leccando via il sangue.
«Se oserai anche solo sfiorare Beatrice, tornerò
dall’oltretomba e ti perseguiterò
finché non
morirai» sibilò, incapace di reprimere l’impulso di fare a pezzi il suo carnefice,
pur sapendo che avrebbe fatto meglio a tacere per non istigarlo ulteriormente. Sua
moglie era abbastanza in gamba da potersela cavare anche senza di lui,
tuttavia, se si fosse fatto uccidere, avrebbe tradito la sua fiducia,
lasciandola sola di nuovo e questa volta per sempre.
Dal canto suo, l’altro, dopo essersi soffermato a guardarlo
con aria di finta compassione, ghignò, beffardo, come se
avesse aspettato solo un’altra provocazione prima di passare ai
fatti.
«Allora, sarà il caso di spararti subito,
così
potrai cominciare a cercare la via d’uscita, non
trovi?» gli disse, visibilmente compiaciuto, alzando il
braccio armato.
A quel punto, Marcello deglutì, consapevole di essersela
andata a cercare. Non si sarebbe mai umiliato supplicando il suo
aguzzino di risparmiarlo, ma al contrario si augurò che Beatrice,
un giorno, sarebbe riuscita a perdonarlo.
Istintivamente, allora, chiuse gli occhi per non vedere il trionfo di Navarra e,
una frazione di secondo dopo, udì il fragore di uno sparo.
Non passò molto tempo che ce ne fu un altro, al quale,
però, come nel primo caso, non seguì il dolore
causato da una pallottola conficcata nel petto.
Stordito, il giovane schiuse lentamente le palpebre, per poi aprirle di
colpo quando si rese conto che Pierpaolo e lo spagnolo si stavano
rotolando sul terreno, il primo che cercava di disarmare il
secondo.
«Non erano questi i patti!» grugnì il
Landi, cercando invano di contrastare la forza bestiale
dell’avversario. «Adesso chiameranno la polizia e
ci sarà addosso, abbiamo perso ogni vantaggio che ci
restava!»
Nello stesso momento, poco dietro i due che lottavano,
Pablo stava prendendo di nuovo la mira e, questa volta, non
sbagliò il colpo, colpendo Pierpaolo alla spalla, il quale
lanciò un grido straziante.
«Papà!» esclamò Giacomo,
rimasto inerme per tutta la durata dello scontro, scattando verso il
genitore, prima di venir bloccato dallo scagnozzo, che gli si era
minacciosamente parato davanti.
Intanto, sotto lo sguardo incredulo e sempre più confuso di Marcello, Navarra si era rimesso in piedi.
Soffiando come un mantice per l’affanno, l’uomo si
affrettò a raccogliere la Colt per poi puntarla contro
Pierpaolo, il quale, steso a terra, si lamentava, tenendo una mano
insanguinata sulla ferita.
Improvvisamente, però, qualcuno tuonò:
«Fermi, polizia!»
Fu un attimo: come se fosse stato lo spettatore di un film
d’azione, il biondo vide i poliziotti addosso a
Navarra, Pablo e Giacomo, inchiodandoli tutti a terra.
«La tua latitanza finisce qui, Conrado de Navarra!»
sentenziò una voce estremamente familiare. Scuotendosi, il giovane mise a fuoco la figura che stava ammanettando
l’energumeno e, con sua grande sorpresa, riconobbe il
commissario Molinari. Il delinquente tentò invano di
opporsi, ma l’altro strattonò verso il basso
le braccia bloccate dietro la schiena, facendogli emettere un verso
animalesco.
«Prova a ribellarti e ti spezzo i tendini!» lo redarguì, minaccioso.
«Vi ammazzerò tutti!» latrò in risposta lo
spagnolo, livido in volto e con gli occhi fuori dalle orbite,
agitandosi come una belva imprigionata.
Tuttavia, Molinari
non si scompose minimamente, riservandogli, anzi, lo stesso trattamento
di poco prima, ma questa volta imprimendo più forza.
«Grida ancora e ti staccherò le braccia!» gli
intimò, sovrastando i suoi lamenti, prima di spintonarlo per
farlo camminare.
«Qualcuno si
preoccupi del ferito!» vociò a quel punto Guardalupi,
mentre si occupava personalmente di Pablo e faceva
segno ad un agente di portare via uno stravolto Giacomo.
Ancora piuttosto stordito, Marcello sentì qualcuno che
armeggiava intorno ai suoi polsi in maniera decisamente più
delicata rispetto a come era stato trattato fino a poco prima.
«Signor Tornatore, sono l’ispettore
Baccari» gli disse con tono calmo e gentile il suo misterioso
salvatore. «Qualche attimo di pazienza e sarà
libero».
Nel giro di qualche minuto, il ragazzo avvertì le corde
cedere e allora, finalmente, poté massaggiarsi le giunture dolenti
e far roteare un poco le spalle per scioglierle. Infine, barcollando,
si mise in piedi.
«Come si sente? Ha bisogno di un dottore?» gli
domandò il poliziotto, sistemandosi gli occhiali
sul naso e osservandolo attentamente.
«No, grazie... credo di potercela fare» rispose lui, anche se poco convinto.
In risposta, l’altro annuì e sorrise, prima di
congedarsi e raggiungere i suoi superiori, impegnati nel distribuire
ordini per concludere nel modo giusto quella delicata operazione.
Rimasto solo, Marcello prese coscienza solo in quel momento di
ciò che era veramente successo e, strofinandosi la guancia
con il dorso della mano per cercare di rimuovere il sangue coagulato,
ringraziò Vittoria, Leonardo e il tempismo della polizia per
avere ancora l’opportunità di fare pace con
Beatrice.
***
Non
sapeva per quanto
tempo era rimasto ad osservare un ricciolo attorcigliato intorno ad un
orecchino di Vittoria, ma, a giudicare dalla fievole luce che entrava
attraverso le inferriate della finestra e si rifletteva sui muri
bianchi della stanza, doveva esserne trascorso
parecchio. L’ultima volta che aveva controllato
l’orologio erano le cinque e, nel dargli una rapida
scorsa, ebbe la conferma che erano da
poco passate le sei e mezza del pomeriggio.
Ormai
erano ore che lui e le ragazze aspettavano di poter parlare con
Marcello, dopo aver ricevuto solo una rapida rassicurazione
dall’ispettore Baccari riguardo le sue condizioni, e al fatto che, prima di poter
andar via, avrebbe dovuto rispondere ad alcune domande.
Inoltre, il fatto che Molinari si fosse incaponito di far trasferire
immediatamente Navarra e il suo sgherro a Rebibbia, così da
potersi occupare personalmente del latitante cui aveva dato la caccia
per mesi, aveva rallentato un po’ il lavoro di tutto il
commissariato, poiché la Questura di Livorno, invece, aveva reclamato i
due arrestati ed il diritto di condurre le indagini, finché non era
intervenuto il questore Saltarini in persona, riuscendo miracolosamente a sbloccare
la
situazione.
Nel frattempo, a causa di una gravissima emorragia in corso, Pierpaolo era
stato portato urgentemente agli Spedali Riuniti3.
In realtà, Gerardo non aveva capito granché di cosa
era successo e le poche informazioni che aveva carpito dai dialoghi dei
poliziotti gli avevano fornito un’idea molto generale della
situazione, perciò era impaziente di riabbracciare Marcello anche per scoprire qualcosa di più al riguardo.
Stanco di aspettare, alla fine, il giovane diede una rapida occhiata a
Vittoria, stravolta quanto lui, e poi
passò a Beatrice, il cui pallore si era leggermente attenuato
solo alla notizia che suo marito era ancora vivo e che Navarra,
criminale destinato ad un reparto di Alta Sicurezza, sarebbe stato
portato immediatamente a Livorno, senza transitare per quel
commissariato.
L’unico rumore, perciò, era il lieve brusio di sottofondo,
dovuto a Fiammetta e al dottor Costa che parlottavano in un angolo.
«Secondo te, quanto lo tratterranno ancora?» gli
sussurrò, tutto d’un tratto, la
fidanzata e Gerardo, non volendo dare a vedere la sua sorpresa, si
prese un po’ di tempo prima di rispondere.
«Spero non molto» sospirò, infine,
voltandosi verso di lei ed alzando le spalle. La ragazza si
soffermò a scrutarlo per qualche istante, ma, quando entrambi si
resero conto che era la prima volta che si guardavano negli occhi da
quando avevano litigato, si affrettarono a distogliere lo sguardo,
imbarazzati.
Tuttavia, quel momento di disagio durò poco, perché
presto si trovò a transitare per la stanza Giacomo, ammanettato
e scortato da Baccari e dall’agente Teani, che lo teneva saldamente
per un braccio. Il ragazzo sembrava preoccupato, forse per suo padre,
per la sua situazione o per entrambi, ma ciò non gli
impedì, quando scorse Vittoria, di fermarsi e tentare un ultimo,
squallido approccio.
«Bambola, dovrai aspettare un po’ per il nostro prossimo incontro» le sussurrò, infatti, lascivo.
Immediatamente, l’ispettore lo strattonò indietro e lo
ammonì: «Chiudi la bocca e cammina, perché i
colleghi di Livorno non possono aspettare i tuoi comodi!»
Quello, però, rimase ben piantato ad osservare la ragazza che, a
sua volta, ricambiava lo sguardo, sbigottita e scossa da un leggero
tremore. A
quel punto, Gerardo, accecato dalla rabbia, si alzò in piedi e
si avvicinò all’altro a passo di carica.
«Adesso mi hai proprio stancato!» latrò, prima di
sferrargli un pugno allo stomaco, talmente forte da farlo accasciare su
se stesso. «Avvicinati ancora alla mia ragazza e ti farò
ingoiare tutti i denti!»
«Si calmi!» intervenne subito Teani, tirando nuovamente su Giacomo
senza alcun riguardo. «La giustizia farà il suo corso e quest’essere presto marcirà in
galera».
«Ma la soddisfazione è un’altra cosa» replicò,
allora, Fiammetta, giunta anche lei davanti al marito, assieme al
dottor Costa, che rivolse al prigioniero uno sguardo disgustato. In quel
preciso istante, calò il silenzio e nemmeno i due poliziotti
osarono replicare.
«Ci sei anche tu? Non ti avevo vista» commentò
Giacomo, deglutendo, prima di mostrare alla giovane un sorrisetto
beffardo.
«Che novità!» insorse lei, furibonda.
«È da prima di sposarmi che non mi vedi, preferendo la
compagnia di altre donne!»
«Be’, direi che hai trovato la tua consolazione, però!» le
rispose l’altro, indicando il medico con un astioso cenno del
capo.
Adirata da quella considerazione, Fiammetta si mosse rapida e, senza che nessuno
potesse impedirglielo, schiaffeggiò il ragazzo con tutte le sue
forze, lasciandogli sulla guancia l’impronta della mano.
«S-Signora Neri...» balbettò Baccari, meravigliato
da tanta foga, dando voce ai pensieri di tutti i
presenti.
Lì per lì, Giacomo rimase intontito e, approfittandone,
la ragazza gli urlò contro: «Questo è niente
in confronto a tutto quello che tu e tuo padre mi avete fatto!»
Poi, trattenendo a stento le lacrime, indietreggiò e
lasciò che il dottor Costa la prendesse tra le sue braccia per rassicurarla.
Allora, finalmente, i due poliziotti riagguantarono il giovane e, senza dire altro, lo portarono via.
Dopo la dipartita di Giacomo, Fiammetta e il medico decisero che era
giunto per loro il momento di tornare a casa e, dopo pochi minuti, si
congedarono.
Non appena furono andati via, Gerardo si voltò verso Vittoria,
guardandola deciso. Lei se ne accorse subito e le sue guance si colorirono
appena, anche se non cercò in alcun modo di evitare il contatto
visivo.
«Lo so che Marcello è ancora dentro... ma non posso
più aspettare. Dobbiamo parlare» affermò lui,
serio, non volendo rinviare ulteriormente quel confronto incapace di essere in lite con lei. «Non penso che
si dispiacerà se ci allontaniamo per qualche minuto».
«Ma... non possiamo lasciare sola Beatrice!» gli fece notare l’altra, sbattendo le palpebre, perplessa.
Proprio in quel momento, però, la fanciulla si mise in piedi e
si avvicinò a loro, camminando ritta,
un’espressione di dignitosa fierezza sul viso e Gerardo, nel vederla, si
ritrovò a pensare che se non aveva preso parte all’alterco
contro Giacomo doveva essere per pura stanchezza, non per paura.
Parlando con lei quella mattina, infatti, aveva capito che solo
una donna della sua tempra avrebbe potuto catturare l’interesse
del suo incontentabile amico.
«Non preoccupatevi per me, anch’io ho bisogno di prender una boccata d’aria» sospirò. «Se Marcello dovesse uscire, gli riferirò che lo avete aspettato».
«Grazie, Beatrice» le fece il giovane, riconoscente e quella, in risposta, abbozzò appena un sorriso.
A quel punto, Gerardo si rivolse a Vittoria, indicandole elegantemente
la porta, per invitarla ad uscire e l’altra, dopo un breve
cenno d’assenso, lo precedette.
***
Un gabbiano planò dolcemente sulla spiaggia di ciottoli, a pochi
passi da Gerardo che, seduto su uno scoglio, osservava Vittoria passeggiare sulla battigia, immersa nel mare fino alle caviglie,
tenendosi i capelli con una mano per evitare che il vento, seppur
leggero, glieli mandasse davanti agli occhi.
Non era stato facile trovare un posto tranquillo e solo il caso aveva voluto
che quel piccolo lembo di litorale fosse rimasto incontaminato dal
fermento che aveva investito Marciana Marina, in seguito alla recente
retata alla villa dei Neri.
«A quest’ora l’acqua è caldissima»
commentò la ragazza, tentennante, una volta che si fu seduta
accanto a lui. «Sai, dovresti... provare anche tu».
Il giovane apprezzò il suo tentativo di approcciare un discorso
e, incurvando le labbra, si voltò verso di lei.
«Possiamo tornare domani alla stessa ora per... la tua prima
lezione di nuoto» la buttò lì. «Sempre che tu voglia ancora».
«Mi piacerebbe molto» rispose subito l’altra,
abbozzando un timido sorriso incoraggiante.
Per un po’ rimasero entrambi in silenzio, assaporando quel clima
di ritrovata serenità, avvolti dalla luce rosso-arancio del
tramonto, così in contrasto con l’indaco del mare davanti
a loro.
«A dire il vero, due giorni fa
Beatrice mi ha chiesto se vogliamo restare qualche altro giorno,
visto che la settimana appena trascorsa non è stata propriamente
una vacanza» riprese Vittoria, lasciando diverse pause tra una
parola e l’altra, come se ciò che stava dicendo fosse
frutto di una lunga riflessione non ancora conclusa.
«Già» sospirò l’altro, in risposta, non potendo che concordare.
A quel punto, con uno scatto inatteso, la ragazza si mise in ginocchio
sullo scoglio di fronte a lui e, dopo aver preso un bel respiro, si
liberò di tutto quello che aveva dentro: «Gerardo, io...
mi dispiace per quello che è successo. So
che avrei dovuto raccontarti tutto, ma avevo paura che ti saresti
arrabbiato... anche se poi è successo ugualmente».
Intontito da quella confessione impetuosa ed improvvisa, così
tipica di lei, il giovane impiegò appena qualche secondo per
rendersi conto che non solo l’aveva perdonata da un pezzo, ma che
sentiva anche il crescente bisogno di scusarsi a sua volta.
«Ho sbagliato anche io. Non avrei dovuto aggredirti, soprattutto
perché, dentro di me, in realtà ero certo che non avessi incoraggiato
quell’idiota» ammise, infatti, subito dopo.
«Certo che no!» esclamò l’altra, intristita.
«Sapessi cosa mi hanno detto alle spalle lui e Navarra, questa
mattina!»
«Posso immaginare» bofonchiò tra i denti lui, e,
rimpiangendo di essere stato fin troppo magnanimo nei confronti di
Giacomo, aggiunse: «Peccato che gli ho rifilato solo un pugno!»
Quella risposta alleggerì immediatamente l’atmosfera e
divertì talmente tanto Vittoria che, ormai completamente
distesa, scoppiò a ridere. Nell’udirla, Gerardo si
sentì sciogliere e, avvertendo il forte desiderio di baciarla,
le accarezzò una guancia.
Finalmente rasserenata, la giovane si ricompose e si soffermò a guardarlo ad occhi socchiusi.
«Sai che mi piaci da morire quando mostri il tuo lato oscuro?»
gli sussurrò, con una punta di malizia, dimostrando di essere
tornata la ragazza di sempre, e lui si chiese come avesse fatto a
restare per così tanto tempo senza di lei.
«Vittoria, quando qualcuno ti importuna, per
favore, dimmelo senza aspettare, d’accordo?» le disse il
ragazzo, guardandola con dolcezza. «So che sai difenderti
benissimo da sola, ma mi piacerebbe tanto essere un tuo...
alleato, per una volta».
Alla giovane dovette piacere quella definizione, poiché, dopo
averci riflettuto su per qualche istante, dispiegò le labbra in
un sorriso radioso.
«Gli alleati non sono mai troppi» considerò,
avvicinandosi a lui, il quale, affondando una mano tra i suoi ricci
scuri, l’attirò delicatamente a sé per baciarla.
Subito, l’altra gli buttò le braccia al collo, come se
anche lei non avesse aspettato altro che quel momento, e Gerardo le
mise la mano libera sul fianco, trovando estremamente piacevole il
contatto con la pelle fresca di lei, lasciata scoperta dalla corta
canottierina. Intrigato da quella sensazione, senza mai smettere di
riempirla di baci, decise di andare oltre, alzando il resto
e sfiorandole la schiena con la punta delle dita, fino a sfiorarle i laccetti del costume.
La ragazza, allora, emise un piccolo sospiro sulle sue labbra e
ricambiò, accarezzandogli i capelli sulla nuca e percorrendogli
con dolcezza il collo, facendolo rabbrividire.
Tutte le emozioni provate nel corso della giornata avevano
stordito abbastanza il giovane, al punto da renderlo alquanto
disinibito rispetto al solito. Tuttavia, ciò non gli dispiacque,
giacché, in quell’istante, non voleva avere
nessun’incertezza o preoccupazione, ma solo scambiarsi tenerezze
con la sua fidanzata.
«Devo esserti proprio mancata...» ridacchiò
Vittoria, staccandosi appena da lui, non riuscendo a smettere di
sorridere.
«Parecchio» commentò Gerardo, avvertendo che
l’imbarazzo cominciava a far di nuovo capolino dentro di lui. Ciononostante, sentì di
non
riuscire più a trattenersi e, approfittando di quel momento di
euforia e profonda intimità, chiese alla ragazza, tutto
d’un fiato: «Vittoria, mi vuoi
sposare?»
Per qualche istante, lei si limitò a fissarlo a bocca aperta.
Poi, arrossì di colpo e deglutì a vuoto, aggrappandosi
ancor di più alle spalle di lui.
«Sono... mesi che aspetto che tu me lo chieda» mormorò, alla fine, visibilmente commossa. «Tanto
che avevo deciso di farlo io, non appena tornati a casa, perciò... certo che voglio sposarti!»
«D-Davvero?» domandò l’altro, imbambolato. «Vuoi essere... mia moglie?»
In risposta, Vittoria sorrise, felice e il giovane, sentendosi avvampare con
la sensazione di essere sul punto di sciogliersi, si affrettò ad
aggiungere, nonostante non sapesse bene cosa stesse dicendo:
«Scusami se ci ho messo tanto a chiedertelo, ma, ecco, sai che
sono un po’... lento».
«Meglio tardi che mai, non trovi?» commentò,
però, la ragazza, guardandolo intenerita. «E, comunque,
sei perfetto così» concluse, prima di accoccolarsi di
nuovo contro di lui.
***
Nel momento in cui tacquero le voci dei poliziotti provenienti
dalla stanza attigua, Marcello avvertì la propria emicrania
attenuarsi leggermente, segno che, forse, l’aspirina offertagli
gentilmente dall’ispettore stava cominciando a fare effetto e il
ragazzo sperò seriamente che fosse così per non dover
consultare il dottor Costa.
Aveva appena cominciato a rilassarsi, quando una considerazione di
Molinari, facilmente riconoscibile dal timbro di voce, richiamò
la sua attenzione: «Voglio assolutamente occuparmi io di Navarra.
Per fortuna, è intervenuto il dottor Saltarini ed è
riuscito ad ottenere il trasferimento di quel delinquente a Roma.
Sinceramente, non credevo che avrebbe accolto con una prontezza simile
la mia richiesta».
«Evidentemente, ha grande fiducia in lei» rispose, allora,
Guardalupi. Fece una breve pausa, quindi aggiunse: «Invece, i due
Landi non supereranno i confini della Toscana».
«Certo! Per quanto machiavellici, sulla loro testa non pende un mandato
di cattura internazionale» spiegò l’altro.
«Navarra è pericoloso, non è un
malvivente qualunque, anche se, finalmente, ora è nelle mani
della giustizia».
Nell’udire quelle parole, il giovane sospirò, augurandosi
che lo spagnolo avesse finito una volta per tutte di creare problemi a
lui e a Beatrice. Poi, nel corridoio, riecheggiò un rumore di
passi che sembravano farsi sempre più vicini e Marcello
sperò che i due venissero a comunicargli che poteva tornare a casa.
«Sono davvero contento che le circostanze l’abbiano portata
da queste parti, commissario Molinari, visto che abbiamo formato
proprio una bella squadra... Elba Squadra Cinque Zero4» commentò Guardalupi, soddisfatto, mentre entrava nel suo ufficio, assieme al suo collega.
«In effetti, questo caso intricato sarebbe perfetto per un
telefilm poliziesco» ribatté quello, incrociando le braccia
sul petto. Poi, come se si fossero ricordati della presenza del
ragazzo, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, i due si voltarono verso
di lui.
«Signor Tornatore, ci dispiace di averla fatta attendere»
esordì il più giovane, aprendo appena le braccia in
atteggiamento
di scusa. «Dovevamo sbrigare un po’ di burocrazia, prima di
poterla congedare».
«Non importa» rispose Marcello, ben felice di alzarsi, impaziente di uscire da lì. «Ora, però,
posso andare?»
«Se l’ispettore Baccari le ha fatto firmare tutto quello
che doveva, non abbiamo motivo di trattenerla» rispose
Molinari, annuendo. «Abbiamo il suo recapito, perciò,
eventualmente, sapremmo come contattarla. Anche se, spero che questo
sia
l’ultimo caso in cui la vedo coinvolta».
«Lo spero anche io» commentò il biondo, con un sospiro.
A quel punto, i tre si salutarono e Guardalupi chiamò
l’agente Angelini per ordinargli di accompagnare il ragazzo alla
porta. «Se non sbaglio,
c’è sua moglie ad attenderla in giardino» disse il
commissario al giovane, prima di lasciarlo andare definitivamente.
«Direi che ha aspettato fin troppo, povera ragazza!»
Non appena Marcello mise il piede fuori dal commissariato,
trovò conferma a ciò che gli aveva detto Guardalupi.
Infatti, a poca distanza da lui e seduta su un massetto di cemento,
c’era Beatrice, intenta a giocherellare con l’orlo del
vestito.
Quella scena provocò al ragazzo una fitta allo stomaco,
poiché fu solo allora che realizzò quanto avesse
seriamente rischiato di non poter più vedere sua moglie.
«Beatrice!» la chiamò, istintivamente.
Quella alzò di scatto la testa e, nel vederlo, spalancò
gli occhi. Allora, il giovane cominciò ad andarle incontro,
aspettandosi che lei facesse lo
stesso. Con sua grande sorpresa, tuttavia, la fanciulla rimase immobile. Perplesso, il
ragazzo si arrestò e stava proprio per chiederle se si sentisse
bene, quando, lasciandolo di sasso, l’altra si mise in piedi e,
senza alcun motivo apparente, scappò via.
***
Dopo
la giornataccia che aveva trascorso (e che non sembrava ancora
finita) correre a perdifiato per le stradicciole di Marciana Marina,
per Marcello, si rivelò il colpo di grazia.
Infatti, nonostante fosse ben allenato, arrivò a Villa Paolina
con il fiatone e la testa ancora più dolente. In tutta
onestà, non si era aspettato che, ovviamente, dopo tutto
quello che era successo, la moglie lo accogliesse a braccia aperte, ma
nemmeno che fuggisse da lui, scegliendo stradine nascoste per seminarlo.
Il giovane aveva capito perfettamente che Beatrice era ancora molto
arrabbiata, ma la loro lontananza era durata fin troppo e riteneva, perciò, che
l’unica cosa da fare fosse trovarla e sperare che gli concedesse la
possibilità di spiegarsi, anche a costo di supplicarla.
Dopo lunghi minuti, con le mani sui fianchi ed il respiro più regolare, Marcello
finalmente alzò la testa e si guardò intorno alla ricerca di qualche
indizio che potesse suggerirgli dove si fosse nascosta la fanciulla,
quando, inaspettatamente, il vento cominciò a spirare in
direzione del balcone della loro stanza da letto, il marmo del
corrimano appena arrossato dalla luce del tramonto.
Dentro di sé, allora, il ragazzo comprese il significato di quel
suggerimento e lo
seguì, precipitandosi su per le ripide scale della villa due
gradini alla volta, cercando di fare ordine nei suoi pensieri per
scegliere accuratamente le parole da rivolgerle.
Tuttavia, ogni sforzo fu vano, poiché, non appena uscì
sulla terrazza e la vide, tutto ciò che aveva preparato gli
sfuggì di mente: era lì, davanti a lui, incorniciata
dalle fronde del glicine, i
capelli rossi leggermente arruffati e le iridi blu che lo squadravano
severe. In quel momento, fu come se tutte le emozioni che il giovane
aveva cercato di controllare fino a quel momento lo investissero
con tutta la loro forza, confondendolo e inibendolo, tanto che gli
sembrò strano udire la sua voce che diceva:
«Beatrice, perché scappi da me?»
Quella però, non rispose, limitandosi a fissarlo per qualche
altro secondo. Poi, cominciò ad avvicinarsi lentamente, sempre
senza aprire bocca, fino a quando non gli fu quasi addosso.
Sotto quello sguardo di rimprovero, Marcello si sentì ancora
più in difficoltà e stava proprio per scusarsi, quando,
inaspettatamente, la ragazza cominciò a colpirlo al petto.
«Beatrice, ma... che cosa ti prende?» domandò lui,
arretrando, talmente basito che non provò nemmeno a difendersi.
«Che cosa mi prende?!» esclamò l’altra, inviperita. «Sparisci per due giorni senza dire nulla e poi vengo a sapere dalla Polizia che stavi giocando all’eroe, rischiando di farti ammazzare!» rincarò, continuando a colpirlo.
A quel punto, il giovane prese per i polsi e la bloccò, stando comunque attento a non farle del male.
«Calmati... ti prego, calmati!» le intimò, preoccupato per
quella reazione. Lei, dal canto suo, cercò di divincolarsi
ancora per qualche istante, poi, però, si arrese e rimase a
guardarlo in un modo che, nel complesso, aveva qualcosa di buffo:
sembrava, infatti, più imbronciata che arrabbiata.
«Adesso posso lasciarti senza che tenti di farmi a pezzi?»
«A tu’ rischio e pericolo» gli rispose lei, battagliera.
«Rischierò» decretò Marcello con un sospiro, lasciando lentamente la presa.
Per alcuni secondi si studiarono a vicenda e, in quel frangente, il
giovane si chiese se la moglie avrebbe ripreso a picchiarlo, tuttavia,
quella alla fine si mise a braccia conserte e sbuffò.
«Cos’hai fatto all’angolo della bocca?» gli chiese, vagamente accigliata.
Interdetto, Marcello si portò una mano nel punto che gli aveva
indicato, rendendosi conto che era tumefatto e dolente, e,
improvvisamente, ricordò quello che era successo.
«Un regalino di quel bastardo di Navarra» le rispose con
una smorfia, guardandosi le dita per controllare che non si
fossero imbrattate di sangue.
A quel nome, un’ombra passò sul volto di Beatrice che, con uno scatto, distolse lo sguardo.
«Per fortuna, ora l’è in galera» commentò, inquieta. «Vo’ a prendere il disinfettante e il cotone» aggiunse subito dopo, rientrando in casa.
Un paio di minuti più tardi, la fanciulla fu di ritorno con
tutto l’occorrente ed invitò il marito a sedersi
sulla panchina sotto al glicine, prima di prendere posto accanto a lui.
«Sai... a dire il vero, non so se curarti
o darti il resto» commentò, caustica, mentre impregnava un batuffolo di ovatta con l’acqua ossigenata.
«Se proprio devi, aspetta almeno che mi sia ripreso»
replicò l’altro, con una scrollata di spalle.
«Malridotto
come sono, non credo avresti molta soddisfazione».
In risposta, Beatrice scosse la testa e cominciò a tamponargli delicatamente
la ferita, pulendo anche la guancia dai residui di sangue
incrostato, mentre lui la lasciava fare, avvertendo solo un lievissimo
bruciore.
Approfittando del fatto che la moglie fosse impegnata, il
giovane provò a cercare nuovamente le parole adatte per
scusarsi, poi, sperando che
lei non riprendesse a colpirlo, decise di cominciare nel modo
più semplice.
«Mi dispiace» le sussurrò con un velo di malinconia.
«Per che cosa?»
«Per... tutto» aggiunse, incerto e
facendosi via via sempre più sicuro. «Per averti trascurata, per
averti lasciata sola, per averti fatta preoccupare».
Di fronte a quella confessione, la fanciulla smise di medicarlo e lo fissò tra il severo e l’intristito.
«Sai bene che tu se’ l’unica persona che ho»
mormorò, vicina alle lacrime. «Mi hanno già
abbandonata in troppi».
«Hai ragione» ammise, sinceramente addolorato, accarezzandole una guancia. «Sono stato un...
irresponsabile».
«Parecchio» sbuffò lei, corrucciata, tirando su col
naso ed evitando di guardarlo negli occhi. Davanti a
quell’espressione, che aveva un qualcosa di tenero, Marcello non
riuscì a trattenersi dal sorridere e, prendendola per il mento,
le diede un leggero bacio.
Arrossendo per quel gesto inatteso, Beatrice alzò lo sguardo su di lui
e, riappropriatasi del suo cipiglio, lo interrogò: «Almeno,
dopo tutta questa baraonda, se’ riuscito a sistemare tutte le magagne?»
«Sì, ora è tutto risolto».
Per un po’, allora, tacquero entrambi, restando in ascolto
dell’aspro frinire delle cicale che ben presto sarebbe stato
sostituito da quello notturno e più armonico dei grilli.
«Grazie... per aver salvato questa casa»
disse poi, all’improvviso, la ragazza, abbandonando finalmente
ogni traccia di severità e rivolgendogli un’occhiata colma
di gratitudine.
Sollevato da quel cambiamento, il giovane si rilassò un poco,
intuendo che non sarebbero rimasti in lite ancora per molto.
«So quanto ci tieni» si schermì, guardandola con dolcezza.
«Sì, è così»
confermò lei. Quindi, si prese una piccola pausa, emettendo un
piccolo sospiro. «Anch’io ti devo delle scuse... non avrei
dovuto dirti tutte quelle cattiverie, perché sapevo che
stavi lavorando per aiutarmi» aggiunse subito dopo,
decretando finalmente la fine di tutte le ostilità.
«Non importa» la interruppe lui, ben consapevole di quali
fossero le sue colpe. «In fondo, non avevi tutti i torti. Dovrei
imparare ad essere meno... inquadrato».
«Ah, sì?» fece, osservandolo incuriosita.
«Be’, potresti cominciare già da ora» gli
suggerì poi, accorciando la distanza che c’era tra di loro.
«Ottima idea» approvò il giovane, spostandole via i
capelli dal viso, poco prima di appropriarsi delle sue labbra. In un
primo momento, Beatrice si lasciò completamente andare, poi,
però, si distaccò e gli chiese, preoccupata: «Ti fa
male la ferita?»
«Niente di insopportabile» la rassicurò lui,
riprendendo a baciarla subito dopo. Gli era mancata così tanto
che non sarebbe certo bastato l’indolenzimento generale a
trattenerlo, anche perché essere lì con lei a lasciarsi
inebriare dal suo profumo di lavanda era una ricompensa più che
sufficiente.
Per stare più comoda, la ragazza, allora, si sedette in braccio al
marito, continuando ad accarezzarlo con delicatezza, come se così facendo volesse
cancellare i segni che gli aveva lasciato lo
spagnolo.
Dal canto suo, Marcello, appagato da tutte quelle tenerezze, la strinse
a
sé, desideroso di sentire il corpo di lei contro il proprio,
deliziandosi a baciarle il collo con intensità e lentezza,
così da poter carpire tutto il piacere che quelle effusioni gli
procuravano.
«Dovresti lasciare
questo filo di barba più spesso, sai?» gli fece notare
Beatrice, con un sorriso birichino, sfiorandogli la guancia e poi le
labbra con la punta delle dita. «Magari, senza che ci sia un rapimento di mezzo».
«Vedrò che cosa posso fare» le rispose il ragazzo,
chiudendo gli occhi, prima di sprofondare dolcemente il volto nel
delicato seno di lei, lasciando scivolare le mani sulle cosce, solo
parzialmente coperte dal vestito, mentre lei gli circuiva le spalle con
le braccia e appoggiava la guancia sui capelli di lui.
Allora, confortati dal calore reciproco, i due giovani, finalmente, assaporarono
appieno la sensazione di pace ritrovata, circondati dalla quiete della
sera e nascosti al mondo dalle foglie del glicine, appena mosse dal
vento.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto
per seguirmi sempre.
***
[N.d.A]
1. pesi mediomassimi:
nel pugilato a carattere dilettantistico (diverse sono le regole per i
professionisti), questa categoria comprende gli atleti di peso tra i 75
e gli 81 Kg;
2. Colt .45:
sarebbe la Colt
M1911, una pistola semiautomatica molto diffusa durante le due guerre
mondiali e usata come arma d’ordinanza
nell’esercito degli
Stati Uniti dal 1911 al 1985. Ho scelto questa per diversi motivi: si
prestava al modello che avevo in mente per Navarra, ne esiste una
versione prodotta in Spagna ed è tutt’oggi in uso
presso
l’esercito spagnolo;
3. Spedali Riuniti: è la principale struttura ospedaliera di Livorno;
4. Elba Squadra Cinque
Zero: è un riferimento alla serie tv poliziesco-giudiziaria Hawaii Squadra Cinque Zero (in
originale Hawaii Five-O),
trasmessa negli Stati Uniti dal 1968 al 1980 (In Italia a partire dal
1971). Forse, qualcuno di voi conoscerà il riavvio di questa
serie, prodotto dal 2010 e ambientato ai giorni nostri, intitolato Hawaii Five-0.
Guardalupi la cita perché, oltre ad essere una serie della
sua gioventù, si svolge in un ambiente isolano.
***
Salve a tutti!
Come sempre, non faccio mancare un po’ di ritardo rispetto a
quanto promesso (purtroppo, organizzo il mio tempo in funzione degli esami).
Sembra strano da scrivere, dopo aver passato quasi cinque anni a
lavorare su questa storia, ma è vero: il prossimo capitolo
sarà l’ultimo, nel quale verranno svelati gli ultimi
enigmi lasciati irrisolti. È già in lavorazione, quindi
spero di non metterci troppo tempo a finirlo.
Comincio ad anticipare già da adesso che questo racconto non
avrà seguiti, se non in forma un po’ diversa dai canonici
sequel, ma di questo ve ne parlerò meglio la prossima volta.
Ringrazio, come sempre, chi legge, anche in silenzio, chi ha messo la
storia tra le preferite/seguite/ricordate, chi mi ha lasciato un parere
allo scorso capitolo (Anto, moet et chandon, Aven).
Per leggere in antepirma un estratto di ciò che vi
aspetterà nell’epilogo, vi lascio il consueto link alla
mia pagina
facebook.
Alla prossima!
Halley S.C.
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Capitolo 26 *** Capitolo Ventiseiesimo - Addio del Vento ***
Vento dell'Ovest - Capitolo 26
- Capitolo Ventiseiesimo -
Addio
del Vento
Uno degli
insegnamenti più importanti che Molinari ricordava dalla frequentazione della
Scuola Superiore di Polizia era una citazione di Agatha
Christie molto cara al Funzionario d’Ufficio che si era
occupato del suo addestramento: “Un indizio è un
indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.
E, dopo aver provato la tisana al miele e
camomilla, l’infuso di rabarbaro e zenzero e perfino il
decotto alle bacche di sambuco,
poté confermare che non aveva bisogno di un quarto
tentativo per avere la prova che il caffè era
insostituibile.
Così, rassegnato all’idea che avrebbe deluso le aspettative di sua
moglie, tradendo anche i suoi buoni propositi per il 1988 appena iniziato, il
commissario chiuse la scatola di legno che quella gli aveva
regalato per Natale con un’infinità di
bustine
aromatizzate e la mise nell’ultimo cassetto della sua
scrivania,
pensando a chi potesse rifilarla. D’altra parte, nonostante
avesse capito che le tisane non facevano per lui, gli sarebbe
dispiaciuto gettare via un dono di Angela.
Stava proprio per uscire in corridoio con l’intenzione di
andare al bar a prendersi un bel caffè macchiato, interrompendo
un’astinenza durata oltre una settimana, quando,
nell’aprire la porta, inaspettatamente, si ritrovò
davanti
il questore Saltarini.
«Buonasera, dottore» lo salutò,
riprendendosi subito
dalla sorpresa. «Non aspettavo una sua visita, è
successo
qualcosa di grave, per caso?» aggiunse, perplesso.
«Buonasera a lei, Molinari» rispose quello con un
sorriso
rassicurante, ricambiando il saluto. «Non si preoccupi,
è
stata una decisione... improvvisa.
Stava uscendo?»
«No, avevo solo voglia di fare quattro passi e di prendere un
caffè al bar. Mi fa compagnia?»
«Molto volentieri, ma, prima, se non le dispiace, vorrei discutere con lei di
questioni piuttosto... urgenti»
replicò l’altro, con una breve scrollata di spalle.
Insospettito da tutte quelle reticenze e dall’atteggiamento
alquanto strano del suo superiore, il poliziotto lo guardò
aggrottando appena la fronte, senza ulteriori commenti;
anzi, lo invitò ad accomodarsi e quello, dal canto suo, non
se
lo fece ripetere, prendendo posto su una delle poltroncine antistanti la
scrivania.
Allora, Molinari fece subito per imitarlo, quando venne interrotto
dallo squillo del telefono.
«Risponda pure» lo invitò Saltarini,
indicando
l’apparecchio con la mano aperta, sempre con il solito sorriso
che,
sotto la luce della lampada da tavolo, unica fonte di illuminazione
accesa in quel momento, assunse un’aria inquietante.
Non riuscendo a capire se fosse solo frutto della sua immaginazione o
se davvero il suo interlocutore si stesse prendendo gioco di lui,
l’uomo alzò molto lentamente il ricevitore e,
senza
staccare gli occhi dal questore, lo avvicinò
all’orecchio.
«Qui Molinari».
Ciò che udì subito dopo da un agitatissimo
Tonelli gli
fece immediatamente accapponare la pelle, facendogli arrivare a dubitare che fosse
accaduto sul serio.
«Ma... non è possibile!»
esclamò, sgomento.
«Il direttore del carcere mi aveva assicurato che era una
sistemazione sicura!»
Mentre Molinari si affannava al telefono, sforzandosi di mantenere la
lucidità,
notò con
la coda dell’occhio che Saltarini lo stava fissando molto
attentamente, accavallando poi una gamba sull’altra con le
mani giunte sotto al mento, come se lo stesse studiando.
Quando il suo agente gli ebbe comunicato tutti i
dettagli,
con la gola riarsa, il commissario bofonchiò qualcosa in risposta e chiuse la
chiamata, senza staccare gli occhi dal questore.
Per qualche secondo i due si guardarono in tralice, poi il poliziotto si
schiarì la voce e fece per parlare, ma venne bruscamente
interrotto.
«So già cosa le hanno detto e, se mi permette, le
consiglierei di... lasciar correre» commentò
l’altro, tranquillo, rimettendo entrambi i piedi a terra ed
alzandosi dalla sedia.
Infastidito dall’ennesima pausa del suo superiore, Molinari assottigliò lo sguardo,
ormai
convinto che l’altro fosse fin troppo coinvolto nella
faccenda.
Senza timore delle conseguenze, perciò, appoggiò le mani
sul
ripiano della scrivania ed alzò fieramente la testa.
«Lei sa che questo è un caso che non
può essere semplicemente
archiviato» cominciò, molto
lentamente.
«Perché mi sta chiedendo di ignorare la
necessità
di aprire un’indagine?»
In risposta, Saltarini rimase in silenzio per qualche minuto, al termine dei quali, lasciando basito il suo interlocutore,
scoppiò in una risata sinistra.
Davanti ad una simile reazione, il commissario rimase congelato, faticando
a riconoscere la stessa persona con cui aveva collaborato in tanti
anni. Man mano che prendeva consapevolezza della situazione, nella sua
mente cominciò a vorticare un insieme confuso di pensieri,
nessuno dei quali, però, in grado di aiutarlo a decidere
come
comportarsi in quel momento, soprattutto perché non riusciva
a
capire fino in fondo quanto il questore fosse complice in quella losca
faccenda.
Poi, improvvisamente come aveva iniziato, Saltarini smise di ridere e
riservò all’altro uno sguardo quasi benevolo.
«Molinari,
che ne dice di andare a prendere quel famoso
caffè?» gli
propose, estremamente calmo. «Ovviamente, offro io, quindi
sarebbe davvero scortese rifiutare, non crede?»
La luce delle poche decorazioni del Natale appena trascorso
connotava l’atmosfera con quella malinconia tipica di
gennaio,
mese in cui riprendevano le attività lavorative nel rigore
dell’inverno, senza che, però, ci fosse
più la
prospettiva dell’allegria delle festività a
mitigarlo.
Seduto nell’angolo più nascosto di un piccolo e
cupo bar
di via Capo d’Africa, Molinari scrutava oltre il vetro
leggermente appannato il buio della strada, appena rischiarato dalle
sporadiche luminarie, chiedendosi se sarebbe sopravvissuto a
quell’incontro, poiché aveva capito da un bel
pezzo che il
questore non l’aveva certo invitato lì per cortesia.
«Ha fatto un ottimo lavoro all’Elba, ero sicuro che
non mi
avrebbe deluso» esordì all’improvviso
quello,
prendendo il suo succo d’arancia ed inclinandolo verso di lui prima di berlo, come se volesse brindare alla sua salute.
Richiamato, il commissario si voltò molto lentamente, riservandogli uno sguardo scettico.
«Catturare Navarra era nell’interesse di
tutti».
«Sì, ha perfettamente ragione»
replicò
Saltarini con un sorriso ambiguo, appoggiando il bicchiere sul tavolo.
«Per questo mi
sono assicurato che lei fosse sul posto, quando sarebbe scattata
l’operazione che avrebbe portato all’arresto dello
spagnolo».
«Mi sta forse dicendo che, quando mi ha parlato
dell’Isola
d’Elba come il posto perfetto dove portare mia moglie in
vacanza,
non era solo un consiglio?» ribatté aspramente il
poliziotto.
«Temo di no».
Irritato da quella rivelazione, che lo fece sentire come una marionetta
priva di qualsiasi forma di volontà, Molinari
aggrottò la
fronte e spinse via da sé la tazzina di caffè ancora mezza piena.
Notando quel gesto, il suo superiore cambiò espressione e
sembrò quasi addolcirsi; poi, si sporse verso di lui e, a
bassa
voce, gli confidò: «Vede, Molinari, credo di
sapere come
si sta sentendo: una pedina
in un’immensa scacchiera senza sapere chi sia a fare le
mosse. E,
detto fra noi, è un bene che lei non lo sappia».
A parere del commissario, quella similitudine calzava ancor più della sua, tuttavia
ciò che lo colpì maggiormente fu
l’ammissione
spontanea del questore che, dietro il suo atteggiamento ed il suo operato
c’era, in realtà, qualcuno di ancora
più
importante ed influente.
«Dietro l’arresto di Navarra
c’è molto
più di quello che mi ha detto, non è vero?» domandò, allora, intenzionato a
scoprire una volta per tutte quale fosse la verità.
«È corretto» gli concesse
l’altro, scrollando appena le spalle.
«Quindi, ora potrebbe spiegarmi anche perché la
soffiata e
le prove che incastravano Navarra
come responsabile dei traffici d’armi verso
l’Unione
Sovietica sono spuntate in concomitanza con il rapimento di Beatrice
Tolomei» lo incalzò Molinari, assottigliando lo
sguardo.
Si sentiva lacerato tra la rabbia di essere stato usato a piacimento
da altri e il profondo desiderio di ottenere delle risposte a tutte le
domande che gli affollavano la mente. «Gli stavamo addosso da
mesi senza aver ottenuto
nemmeno un riscontro, poi arriva lei, dottore, tirandole fuori dal
cilindro come se niente fosse... perché
non le ha condivise prima?»
rincarò, incrociando le braccia sul petto ed inclinando la
testa da una parte.
«La verità ha un prezzo, Molinari»
affermò, in risposta, Saltarini, assumendo all’istante
un’espressione
rammaricata. «Lei lo sa, vero?»
«Anche fin troppo bene» ribatté il
poliziotto,
risoluto a non cambiare atteggiamento, poiché non riusciva a
sopportare di essere vissuto nella menzogna così a lungo.
A quel punto, ci fu una lunga pausa, durante la quale si udì
in
lontananza il brusio dei baristi che, approfittando della scarsa
clientela, stavano fumando una sigaretta sulla porta del locale.
L’odore del tabacco si mescolò a quello del
caffè rimasto nella tazzina, creando uno sgradevole connubio
che
nauseò Molinari, già teso per la situazione.
«L’ho portata fuori dal commissariato proprio per
poterle
spiegare alcune cose, ma, per la sua stessa sicurezza, la prego di non chiedere ulteriori
informazioni rispetto a quelle che le darò. Le è chiaro?»
Ancora troppo concentrato sul suo malessere, l’uomo
impiegò qualche secondo per realizzare che il suo
interlocutore
aveva parlato, tant’è che, in un primo momento, rimase a fissarlo
sbattendo le palpebre, per poi riscuotersi e annuire. Con quel cenno,
Saltarini capì che il commissario era in ascolto e, dopo
aver
sospirato brevemente, riprese:
«Navarra è rimasto solo un sospettato
finché non ha
pestato la coda di qualcuno molto in alto. Quando lo spagnolo
è
diventato un intralcio, è diventato necessario
eliminarlo».
«E cosa c’entra questo con il rapimento della signora
Tolomei?»
domandò Molinari, perplesso, dato che ancora faticava a far
combaciare tutti i pezzi di quel confuso mosaico, pur avendo
sospettato fin da subito che dietro alla soffiata su Navarra ci fosse
un regolamento di conti.
«Be’, si sa che i malviventi, messi sotto
pressione,
tendono a fare qualcosa di stupido... che, però,
può
diventare una buona occasione per
arrestarli» gli spiegò il questore, a bassa voce,
come se
temesse che qualcuno che non avrebbe dovuto sentirli fosse nelle
vicinanze. «Si ricorda quando ho insistito per far andare via
quella
ragazza, anche se non aveva finito di deporre? Non volevo semplicemente
coinvolgerla ulteriormente in qualcosa che sarebbe potuto diventare
pericoloso».
«Capisco...» mormorò
l’ufficiale,
adattandosi inconsciamente a quel tono di conversazione insolitamente
basso.
«Sa, mi ha ricordato mia figlia Annalisa,
così giovane, con ancora tutta una vita
davanti...»
proseguì l’altro, mentre gli occhi gli diventavano
improvvisamente lucidi e fu proprio in quell’istante che,
finalmente, Molinari capì l’effettivo
coinvolgimento del
suo superiore: molto probabilmente non aveva agito per suo tornaconto
personale, bensì perché ricattato dal giocatore di scacchi
che doveva aver minacciato di far del male alla
ragazza.
Alla luce di quest’ultima rivelazione, tutta la rabbia che aveva provato nei
confronti dell’altro si attenuò e, anzi, si
ritrovò improvvisamente
a giustificarlo. Infatti, nonostante non avesse figli e fosse fiero
della sua integrità morale, non era del tutto certo che, al
posto del questore, si sarebbe comportato diversamente.
«Che cosa vuole che faccia, allora? Non posso ignorare la
telefonata
ricevuta poco fa» gli chiese, aggrottando la fronte.
«Indaghi, però senza scrostare troppo la
superficie,
faccia ciò che non farebbe in altri casi, si accontenti
delle
apparenze... e metta la parola fine a questa catena di
sangue» lo
supplicò Saltarini, giungendo le mani come in preghiera.
«Lei sa benissimo che il medico legale smentirà
l’ipotesi di suicidio».
«Il medico legale scriverà sul referto autoptico
quello
che io gli dirò» replicò quello,
indurendo lo sguardo. «Mi creda, Molinari, chiudere la
questione senza farsi domande è l’unico modo per
uscirne
tutti
vivi».
In quell’istante, il commissario si rese conto di avere le
mani
pressoché congelate e si domandò tra
sé se fosse a
causa del riscaldamento mantenuto troppo basso per risparmiare,
oppure se fosse ciò che aveva appena udito ad avergli
arrestato
la circolazione.
«Mi tolga un’ultima curiosità...»
avanzò,
incerto su come porre la domanda, mentre si sfregava le nocche contro
la stoffa dei pantaloni, per riscaldarle un po’
«come
faceva a sapere
che Navarra era a Marciana Marina? I collegamenti con Beatrice Tolomei
e Marcello Tornatore erano palesi, certo, ma...»
«Navarra aveva qualcuno di molto vicino che ha fatto a lungo
il
doppio gioco, informandomi su tutti gli spostamenti» rispose
subito l’altro, senza nemmeno fargli finire la domanda.
«La
stessa persona che ha fatto la soffiata e che oggi ha
ottenuto una cella in isolamento».
Sconcertato, il commissario si paralizzò, spalancando gli
occhi per la sorpresa.
«Pablo Cabrera!»
Sorridendo malinconico, Saltarini si curvò sul tavolino,
avvicinandosi a lui.
«Mio caro commissario, lei è sempre stato molto
acuto».
***
Man mano che saliva le scale buie verso il secondo piano del
Caffè del Borgo, Saltarini sentiva le gambe farsi sempre
più pesanti ed un nodo stringergli la gola. Ogni
volta
che aveva un appuntamento con quell’uomo, veniva puntualmente
assalito dall’angosciante dubbio di non riuscire a rimanere vivo
fino
alla fine dell’incontro con la speranza di arrivare al
successivo.
Sapeva che, in quanto funzionario dello Stato, non avrebbe dovuto
cedere alle minacce di quei malviventi che,
all’apparenza, sembravano cittadini per bene, tuttavia era
anche
cosciente del rischio che correva sua figlia, troppo piena di gioia di
vivere per morire brutalmente nel fiore della sua adolescenza.
Arrivato alla fine del corridoio, perciò, bussò alla
porta e, senza
attendere una risposta, l’aprì, trovandosi davanti
due
uomini seduti su eleganti poltroncine a discutere affabilmente, mentre
sorseggiavano un bicchiere di prosecco davanti al camino scoppiettante.
«Buonasera, questore» lo salutò John
Miller, con una
smorfia beffarda, facendo oscillare il vino nel calice.
«Quali
notizie ci porta? Io ed il signor Colonna ci stavamo
proprio chiedendo quando sarebbe arrivato».
«Ho dovuto sistemare ciò che mi ha
chiesto» rispose
in un sussurro Saltarini, la fronte imperlata di sudore e non certo a
causa del
poco calore diffuso nella stanza.
A quel punto, Miller fece segno al socio di andare a chiudere la porta
e
quello ubbidì prontamente, per poi prendere il questore per
un
braccio e trascinarlo verso una terza poltrona disposta davanti alle
altre
due.
«Prego, si sieda» gli intimò il
britannico, con un
tono tutt’altro che amichevole. A quel
punto,
le ginocchia dell’altro cedettero e quello si lasciò
cadere sul
duro cuscino di pelle bordeaux.
«Come è andato il suo colloquio?» lo
incalzò
Colonna, riprendendo posto senza togliergli occhi di dosso.
«H-Ho...» cominciò l’uomo,
tentennante. Poi,
rendendosi conto di avere la voce impastata, si fermò un
attimo
e se la schiarì, prima di proseguire: «Ho parlato
con il
commissario Molinari, convincendolo a chiudere le indagini quanto
prima».
«E non si è insospettito?»
domandò Ascanio, fissandolo con fare dubbioso.
«Molinari ha fiducia in me e non contravverrà agli
ordini» ribatté il questore, cercando di essere il
più
sicuro possibile. «Ma vigilerò comunque sul suo
operato,
intervenendo subito se dovessi notare qualcosa che non va».
«Sa cosa l’aspetta, se così non dovesse
essere» intervenne, allora, Miller con un sottile ghigno.
«Che
cosa ci dice, invece, sulla guardia carceraria che ha collaborato con i
miei sicari?»
Intuendo che il suo interlocutore aveva fretta di avvicinarsi al vero
motivo di quella convocazione, Saltarini si prese il suo
tempo
per capire come dovesse esporre i fatti evitando altre vittime.
«Non appena sarà finita l’indagine,
lascerà
Roma. Mi ha assicurato che, con il lauto compenso che lei gli ha
offerto, sarà ben contento di fuggire alle
Seychelles».
«Molto bene» affermò in risposta il
britannico,
alzandosi dalla sedia e avvicinandosi al tavolino posto sul fondo della
stanza, dove erano appoggiate alcune bottiglie. «So
che si è occupato personalmente anche dei
Landi, assicurandosi il loro silenzio, così come ha fatto
con
Cabrera».
«L’isolamento è la soluzione che
preferiscono molti
detenuti, per la loro stessa tutela, perciò il mio collega di Livorno non ha
battuto ciglio quando gliel’ho proposto» gli
riferì
il questore, mentre quello si versava dell’altro vino, con
un sorriso sadico che gli fece accapponare la pelle.
«A questo punto, direi che il problema è
più che
risolto» intervenne Ascanio, accavallando una
gamba
sull’altra, spostando lo sguardo sul suo socio.
«Navarra
era l’unico che, per vendetta, avrebbe potuto rivelare il suo
segreto, ma ora non ci darà più
problemi».
«Esattamente. Inoltre, ha avuto quello che meritava per aver
tentato di prendermi in giro, negando di aver venduto
le sue armi giocattolo ai sovietici per sabotare la costruzione del
mio
oleodotto in Medio Oriente» considerò il
magnate,
ripercorrendo i suoi passi e tornando a sedersi sulla poltrona.
«Credeva di essere molto
furbo, invece è stato il peggiore idiota che abbia mai
conosciuto... Chi spera di raggirarmi, o peggio, di non ubbidirmi, paga
con la vita!» concluse, finendo in un unico sorso tutto il
prosecco che era rimasto nel bicchiere.
«Come quel povero diavolo che le faceva da
copertura!» aggiunse Colonna, ridendo malvagiamente. «Devo
ammettere
che, quando ho capito come stavano realmente le cose, Lord Carter, ho
trovato il suo piano per depistare i nemici semplicemente
geniale».
Compiaciuto da quel commento, l’industriale piegò
le labbra in una smorfia soddisfatta.
«Io non faccio sconti a chi si mette contro di me e Miller si
era calato eccessivamente
nella parte».
Desiderando solo allontanarsi il prima possibile da quell’essere
mostruoso che lo teneva in pugno, Saltarini si alzò e, dopo
aver
deglutito a vuoto, si fece coraggio e gli chiese: «Lord
Carter,
con me ha finito?»
In risposta, quello gli puntò contro i suoi occhi plumbei e
malvagi che sembravano avere la capacità di leggergli nel
più profondo dell’animo e nutrirsi del terrore che
ispiravano.
«Sì,
per ora, sì. Verrà informato a tempo debito sul
prossimo lavoretto che dovrà svolgere per me»
gli rispose stancamente, congedandolo con un pigro gesto della mano.
«Continui ad eseguire tutti i miei ordini e continueremo ad
andare d’accordo... non vorrei mai che
alla piccola Annalisa succedesse qualcosa di tremendamente
spiacevole».
A quelle parole, il questore sentì il proprio cuore
arrestarsi,
tuttavia, avendo ormai imparato a dissimulare le sue reazioni per la sua stessa
sopravvivenza, atteggiò la sua espressione ad una maschera
di
indifferenza. Quindi, omaggiò i due uomini con un
inchino piuttosto rigido e contenuto e
lasciò la
stanza.
Avvolti nei loro caldi cappotti di panno blu scuro, Marcello e Gerardo
stavano percorrendo una Via della Conciliazione pressoché
deserta, entrambi desiderosi di
rientrare a casa prima di diventare due ghiaccioli, lasciandosi alle
spalle la
cupa sagoma del grande abete natalizio che aveva decorato la piazza,
ormai spoglio e in attesa di essere rimosso, in contrasto con la cupola
di San Pietro, rifulgente nell’oscurità della
sera.
«Sembra che il vento stia cambiando»
osservò il
biondo, alzando gli occhi verso il cielo e aggiustandosi la sciarpa
grigia di cachemire per proteggersi dagli spifferi freddi.
«D’altra parte, l’inverno è
cominciato
già da un pezzo».
L’altro, però, non diede segno d’aver sentito,
anzi,
continuò a camminare con lo sguardo rivolto a terra, immerso
in
chissà quali pensieri; dal canto suo, Marcello non insistette,
giacché aveva notato che il suo amico era piuttosto assente
da
parecchio tempo e, sapendo che sarebbe stato inutile forzarlo a parlare,
stava aspettando che fosse lui a farlo spontaneamente.
E quel momento doveva essere finalmente arrivato perché quello si
arrestò
di colpo proprio accanto al basamento in marmo di uno degli imponenti
lampioni
che illuminavano il marciapiede, dando finalmente voce ai propri
tormenti interiori.
«Mia madre è disperata, dice che se
continuerò
così arriverò al giorno del matrimonio senza il
vestito!» sbottò.
Sorpreso, l’amico si voltò verso di lui, inarcando
appena
un sopracciglio.
«Ecco svelato il motivo per cui sei intrattabile da
giorni!» commentò, vagamente ironico.
In risposta, Gerardo gesticolò nervosamente ed ammise,
frustrato: «Non riesco a trovare il tempo per
organizzarmi...»
«Be’, hai ancora un po’ di tempo, dato che mancano
ancora quattro mesi» gli fece, però, notare, pacatamente,
Marcello, cercando di calmarlo, poiché sapeva bene che
l’amico, quando era sotto pressione, tendeva a perdere molto
facilmente la lucidità. «Inoltre, da
domani, potrai
prenderti
quanti giorni di ferie vorrai, visto che, finalmente, abbiamo concluso
la
trattativa con i clienti svizzeri» aggiunse.
Non del tutto convinto, l’altro sospirò e,
abbastanza
preoccupato, confessò: «A dire il vero, Vittoria
ed io
abbiamo ancora diverse cose da scegliere, a cominciare dalle
bomboniere. Per colpa dei miei impegni, infatti, stiamo andando a
rilento».
Di fronte a tanto scoraggiamento, sentendosi in dovere di spendere
qualche parola di conforto per risollevare il suo migliore amico, il
biondo gli si avvicinò e gli diede una pacca affettuosa sul
braccio.
«Non pensare che ci voglia chissà quanto
per comprare
un abito da cerimonia. Io ho preso il primo che
ho provato!» commentò, con una scrollata
di spalle.
«Be’, grazie tante, è stata Vittoria a
selezionarlo
tra tutti i modelli!»
sbuffò, inaspettatamente, Gerardo, mostrandosi piuttosto
risentito. «E poi, sai bene che non è la stessa cosa, visto
che addosso a te starebbe bene anche un sacco della
spazzatura».
In un primo momento, spiazzato da una reazione simile, Marcello
fissò l’altro con un misto di
incredulità e
sorpresa; tuttavia, si riebbe piuttosto rapidamente e, scoccandogli
un’occhiata inquisitoria, lo apostrofò:
«Perdona la
schiettezza, ma devo proprio dirtelo: sembri una ragazzina
isterica!»
Colpito da quelle parole, l’altro rimase a bocca aperta e
rimase a guardarlo con espressione stralunata.
«Questi continui paragoni tra te e me sono
perfettamente
inutili, perché servono solo ad alimentare le tue
insicurezze»
proseguì il biondo, sempre con tono di rimprovero, cercando al
tempo stesso di non essere troppo severo. Infatti, concluse
dicendo:
«Concentrati, invece, sui tuoi lati positivi... per esempio che
sei la
persona
più buona e leale che conosco e tra le uniche tre che reputo
degne di completa fiducia».
«Le altre due sarebbero Vittoria e Beatrice, per caso?»
domandò Gerardo, sbattendo le palpebre.
«Secondo te?»
Per qualche secondo, tacquero entrambi. Poi, dopo un’attenta
riflessione, quello strinse le spalle e, un po’ imbarazzato,
ammise: «Scusami, mi sono lasciato prendere
dall’agitazione... purtroppo, la verità
è che ho
paura di far sfigurare Vittoria».
«Vi conosco entrambi da una vita e tu sei l’unico
uomo che
la merita, perciò non credo che potresti mai farle fare
brutta
figura» replicò immediatamente l’altro,
deciso.
«Comunque, se pensi che possa aiutarti, per il vestito
chiedi consiglio a
Beatrice. Io non capisco niente di moda e sartoria,
invece lei è bravissima e sarà molto contenta di
darti
una mano» aggiunse, sperando di essergli stato utile.
A quel punto, quello sembrò illuminarsi e mutò
repentinamente espressione, mostrandosi molto sollevato.
«Hai ragione...» mormorò,
soprappensiero. «In
effetti, mi sento abbastanza stupido a non averci pensato prima da
solo».
«Be’, in fondo gli amici servono anche a questo,
non trovi?» osservò Marcello, sorridendo e, di
riflesso, l’amico fece altrettanto.
Quindi, rasserenati,
i due ripresero a camminare, giungendo fino all’incrocio con Via
San Pio X.
«Come sta tuo papà?» chiese
improvvisamente
Gerardo, aspettando che il semaforo diventasse
verde,
così da poter attraversare Ponte Vittorio Emanuele II e
portarsi sull’altra sponda del Tevere, dove avevano
parcheggiato le auto.
«A volte meglio, a volte peggio» spiegò
il biondo,
con una punta di rassegnazione nella voce. «Purtroppo, i
cicli di
chemioterapia lo spossano parecchio. Tuttavia, il lato positivo della
vicenda è che mia madre sta apprezzando le gioie della vita
di
campagna e questo rende mio padre molto felice».
Non riuscendo a trovare una risposta appropriata, l’amico si
limitò ad
annuire. Quella domanda, però, aveva risvegliato in Marcello
le
paure che aveva deciso di tenere confinate per
non vivere bloccato nell’angoscia, ma, anzi, per avere verso
il genitore un atteggiamento propositivo e speranzoso, come lui stesso
aveva chiaramente detto di preferire.
«Ciò che mi spaventa è che i medici non
escludono
ancora il rischio di una ricaduta...» aggiunse, infatti, il
ragazzo in un
sussurro, tremando solo a pronunciare quelle parole.
«Cerca di non pensare al peggio, perché sono
convinto che essere positivo possa essere
d’aiuto sia a lui che a te» lo confortò,
allora, con dolcezza l’altro.
Grato di poter sempre contare sulla preziosa amicizia di Gerardo, il
biondo scosse la testa e, piegando appena le labbra,
commentò: «Sai, credo che tu e Vittoria andrete
molto d’accordo:
entrambi sapete dare ottimi consigli agli altri, ma, quando si tratta
di voi stessi siete un completo disastro».
«Già» ammise l’altro,
sciogliendosi in un sorriso sincero,
contento di condividere quel particolare con la donna che amava.
«A proposito, la prossima volta che tuo papà viene
a Roma
senza dover andare in ospedale, se per lui non è un
problema, a me e
Vittoria farebbe piacere venirlo a trovare».
«Sicuramente ne sarà contento, gliene
parlerò appena lo chiamerò di nuovo»
affermò Marcello, lieto che i suoi amici non perdessero mai
occasione per manifestare il proprio affetto nei confronti di suo padre.
Avevano appena messo piede sul marciapiede del Lungotevere dei
Fiorentini, quando un’elegante berlina nera li
superò, svoltando in Piazza Pasquale Paoli,
esattamente dall’altra parte della strada. Nonostante le
ruote non si fossero ancora completamente fermate,
entrambi gli sportelli posteriori si aprirono e ne uscirono due uomini
più o meno della stessa altezza, i quali si avvicinarono e
si strinsero la mano, come se si stessero salutando. E fu allora che,
sotto la fioca luce dei lampioni, i ragazzi riconobbero due loro
vecchie conoscenze.
«Guarda un po’ chi si vede: Colonna e
Miller!» esclamò Marcello. «Devono
appena aver finito un incontro al Caffè del Borgo».
«A quanto pare, sono diventati inseparabili»
notò Gerardo, sospettoso. «Eppure, fino a qualche
tempo fa si sopportavano a stento».
Concordando con l’amico, il biondo annuì
brevemente e assottigliò lo sguardo, risoluto a non perdersi
nemmeno una mossa di quei due.
«Da quando Carter è morto, Miller sembra molto
contento di
aver preso il suo posto. Sono sempre più convinto
che sia stato lui ad ucciderlo» borbottò.
«Anche se fosse così, non credo che possiamo farci
niente» commentò saggiamente l’altro.
«Accontentiamoci, invece, di non essere più costretti ad
interagire
con lui o con Ascanio».
Tuttavia, Marcello, nel vederli confabulare fitto fitto come stavano
facendo, non riuscì a zittire la sua curiosità, pertanto, senza indugiare oltre,
propose al suo socio: «Approfittiamo del buio e del discreto
traffico per avvicinarci a loro senza farci vedere, che ne dici?»
Altrettanto interessato agli intrallazzi del rivale e del suo nuovo
partner, quello fu subito d’accordo; così, con
molta discrezione, i giovani attraversarono la strada e si appiattirono
contro il muro dell’edificio che faceva angolo, ringraziando
che i due uomini fossero abbastanza vicini da riuscire a
cogliere gli ultimi stralci della loro conversazione.
«È un vero peccato, signor Colonna, che non possa
trattenersi fino a cena. Avrei voluto presentarle alcuni collaboratori
molto influenti» disse Miller, troppo sussiegoso per sembrare
sinceramente rammaricato.
«Conoscerli sarebbe stato molto interessante, ma devo andare
da
mio figlio, perché la baby-sitter ha quasi finito il suo
turno» gli rispose Ascanio, con un tono che confermava la sua
fretta.
«Il moccioso non è ancora
autosufficiente?» domandò, allora, il britannico,
senza celare il proprio disgusto, come se ritenesse che i bambini
piccoli
fossero qualcosa di immondo.
«Ha appena compiuto cinque mesi!»
protestò vivamente Colonna, indignato.
«Non può occuparsene la madre?»
«Quell’alcolizzata non sa badare nemmeno a se
stessa e sono
stato costretto a rinchiuderla in una clinica per convincerla a
disintossicarsi» replicò il ragazzo, con un misto
di compassione e disprezzo. «Anche se è buffo
pensare che, se
non si fosse ubriacata lo scorso Capodanno, a quest’ora non
avrei
nessun erede».
«Le donne non servono a nulla, ma, almeno,
quell’inetta di sua moglie le ha dato un maschio»
osservò Miller, concentrando in poche parole tutta la sua
misogina e arretratezza mentale. «C’è qualche speranza che, un
giorno, potrà essere qualcuno».
«Oh, ma di questo sono certo: mio figlio arriverà
anche più in alto
di me, perché sarà il primo in tutto!» esclamò
l’altro, fomentato. «Per questo
l’ho chiamato Massimo».
Nauseato da quanto udito, Marcello si scambiò
un’occhiata con l’amico, che non tardò ad
esprimere la propria repulsione verso i due, scuotendo schifato la
testa.
In quel momento, si udirono brevi saluti e rumori di portiere che venivano chiuse
con forza, quindi il rombo di un’auto che partiva. A quel
punto, i ragazzi si decisero ad affacciarsi verso la piazza e trovarono
solo Ascanio che, dopo aver lanciato uno sguardo fugace verso Castel
Sant’Angelo, si incamminava in quella direzione.
«Tu sapevi che Maria Luisa si trova in una
clinica?» chiese Gerardo, perplesso, non appena fu certo che
il loro antagonista fosse abbastanza lontano. «Credevo fosse a Montecarlo dai suoi parenti».
«Così ha fatto credere Ascanio» rispose
l’amico, cupo. «Non pensavo che la situazione fosse
così grave».
«Sapere che quel bambino crescerà solo con il
padre mi mette i brividi» considerò
l’altro, contraendo il viso in una smorfia
d’orrore.
«A chi lo dici...» concordò Marcello,
con un piccolo sospiro, pensando all’inevitabile destino del
piccolo Massimo: diventare uguale ad Ascanio, se non addirittura
peggiore.
***
La voce di Beatrice, intenta a ripetere per l’esame
imminente, lo
accolse
non appena imboccò il corridoio che portava in sala da
pranzo e,
inconsciamente, gli fece incurvare le labbra
all’insù.
La trovò, infatti, seduta al tavolo della sala immersa in
diversi libroni, sparsi davanti a lei; ce ne erano anche diversi
piuttosto
consunti, probabilmente presi in prestito dalla Biblioteca Nazionale,
dove spesso la ragazza andava a studiare con le nuove amiche che
aveva conosciuto all’università.
«Ciao, Beatrice»
la salutò, appoggiando una mano sullo schienale della sedia
imbottita e chinandosi su di lei per darle un bacio sulla tempia.
«Com’è andata oggi?»
«Bentornato!» lo accolse con un sorriso lei, dopo
aver alzato la testa nella sua direzione. «Molto bene. A te,
invece?»
«Una giornata tranquilla, come sempre» le rispose,
facendo
spallucce ed evitando di riferirle ciò che aveva appreso su
Maria Luisa, come se fosse un pettegolezzo fresco.
Sicuramente, ci sarebbe stata un’occasione più
consona per
parlarle delle malefatte di Ascanio Colonna.
«Sai, oggi m’ha
chiamato la
Fiammetta e ha detto che,
la
settimana prossima, verrà a Roma con il dottor Costa. Vorrebbero
passare a trovarci»
gli annunciò la ragazza, chiudendo con grazia un
tomo
ingiallito e dalla copertina semi-cadente. «La Sacra Rota1, infatti, sembra ben intenzionata ad annullare il matrimonio con
Giacomo, visto che quella poverina
è stata ingannata e costretta
a sposarlo» spiegò, mettendosi in piedi davanti al
marito.
«Sarebbe anche ora» commentò, in
risposta, Marcello,
aiutandola ad impilare tutti i volumi e i quaderni, mentre lei si
dedicava a rimettere le penne colorate nell’astuccio.
«Con
l’Ottavia, invece, abbiam avviato la cena e
sarà pronta tra poco» aggiunse poi, spostando i libri su un tavolino più basso.
«Molto bene, così ho tempo di dare un’occhiata al
notiziario» affermò lui. Poi, dopo essersi
assicurato che
la moglie non avesse più bisogno del suo aiuto, si
andò a
sedere sul divano, accendendo la televisione. Il telegiornale era
già iniziato da un pezzo, tuttavia a Marcello non dispiacque
aver saltato la rassegna politica e trovarsi già alla
sequenza sui fatti di cronaca locale ed estera.
A quel punto, Beatrice lo raggiunse, accomodandosi sulle sue gambe, e
il giovane le passò istintivamente un braccio intorno alla
vita.
Fu in quell’istante che il giornalista introdusse una notizia
che
li lasciò entrambi esterrefatti: «Questo
pomeriggio, il
noto trafficante d’armi Conrado de
Navarra, arrestato alla fine dell’agosto scorso, è
stato trovato
impiccato nella sua cella del carcere di Rebibbia. Per ora,
l’ipotesi delle autorità è che si
tratti di
suicidio».
Per qualche istante, i due ragazzi rimasero come pietrificati davanti
allo schermo, per poi scambiarsi un’occhiata di puro
sgomento,
mentre, nella mente di Marcello si materializzava
l’inquietante
immagine di Navarra penzolante da una corda attaccata al soffitto, totalmente in contrasto con la personalità dello
spagnolo.
Infatti, per quanto sapesse di non possedere le competenze adatte, non pensava che quello potesse essere incline al
suicidio, soprattutto dopo le minacce che gli aveva sentito indirizzare
a Molinari. Era molto più probabile, invece, che il famoso lui
avesse ordinato la sua morte e, nonostante il giovane odiasse
profondamente Navarra per quello che aveva fatto a sua moglie, nel
figurarsi un’esecuzione capitale per impiccagione,
rabbrividì.
Scuotendo la testa per scrollarsi di dosso quell’orribile
sensazione, allora, si voltò verso la ragazza e vide che era
impallidita.
«Beatrice, stai bene?» le chiese, preoccupato,
accarezzandole teneramente una guancia.
«S-Sì...» balbettò lei,
riprendendosi dallo
shock. Poi si mise in piedi, anche se con qualche
difficoltà.
«Vo’
a controllare la cena...» farfugliò poi, muovendo
qualche passo incerto, confusa.
Preoccupato, il biondo la seguì con lo sguardo
finché non scomparve dal suo campo visivo, poi, tornò a guardare la televisione, ma
senza vederla sul serio, ancora troppo scosso da quello che aveva
sentito. Diverse, infatti, erano le domande che lo tormentavano, anche se, d’altra parte, una
vocina interiore gli suggeriva di dimenticare quanto
prima
l’intera faccenda, poiché c’era
sicuramente dietro
qualcosa che sarebbe stato meglio continuare ad ignorare.
Improvvisamente, un tonfo che sembrava provenire dal
salotto attiguo alla sala da pranzo lo distrasse bruscamente dai suoi pensieri.
«Che cosa è caduto?» chiese a gran voce,
per farsi
sentire dalla moglie. Non ottenendo, però, risposta,
riprovò, chiamandola per nome:
«Beatrice...?»
Insospettito dal persistente silenzio, il giovane, allora, si
alzò e si diresse nell’altra stanza, oppresso da
un brutto
presentimento che, purtroppo, si rivelò fondato quando trovò la ragazza sul
tappeto, svenuta.
«Beatrice!»
Immediatamente, Marcello si precipitò da lei e nello
sfiorarle
la pelle, si rese conto che era fredda. Allora, appigliandosi ai vaghi
ricordi che aveva sulle pratiche di primo soccorso, la
sollevò da terra,
prendendola in braccio, e la portò sul divano, adagiandovela
infine con grande delicatezza.
«Tesoro mio, apri gli occhi...» la
supplicò,
angosciato, stringendole una mano e spostandole i capelli dal volto.
Era già pronto a precipitarsi al telefono per chiamare
un’ambulanza, quando, finalmente, la giovane riprese i sensi.
«Mmm» mugolò, intontita, guardandosi
intorno, spaesata; poi, cercò di mettersi
seduta, ma si bloccò subito. «Mi gira la
testa...»
«Fai piano, non alzarti di scatto» le
sussurrò
Marcello, dolcemente, sorreggendole saldamente la schiena con una mano mentre con l’altra
sistemava meglio i cuscini, per poi aiutarla a distendersi nuovamente.
«Come
son finita sul divano?» chiese lei, frastornata.
«Sei svenuta» le rispose lui, sospirando.
«Ora non muoverti, vado a prepararti acqua e
zucchero».
Non erano passati nemmeno due minuti, che il ragazzo tornò
dalla
cucina reggendo in mano un bicchiere colmo quasi fino
all’orlo.
«Ecco qui, ora bevilo
lentamente» ordinò alla
giovane, porgendoglielo. «Scommetto che non hai pranzato
oggi,
giusto?»
«Sì, ho preso un panino con altre colleghe del corso»
rispose quella, cominciando a sorseggiare la mistura, senza trattenere
una piccola smorfia per il sapore stucchevole.
«Penso che dovresti mangiare qualcosa di più
sostanzioso,
sai?» le fece notare il marito, tra il severo ed il
preoccupato,
sedendosi accanto a lei. «Anche se penso che la notizia di
prima
ti abbia
scossa molto».
Sbattendo le palpebre, Beatrice rimase con il bicchiere a
mezz’aria e lo guardò sorpresa.
«Quale?»
«Quella della morte di Navarra» le
spiegò lui,
perplesso, chiedendosi se fosse possibile che, restando
turbata, avesse già rimosso
quell’informazione.
«Non ti ha suggestionata?»
«Oh, certo
che no, non
son così
impressionabile!» esclamò lei, quasi offesa.
«Non posso dire di esser
contenta,
ma mi sento sollevata che
non possa più darci
fastidio».
Stupito da quell’irritazione, Marcello si limitò
ad
annuire e tacque, non sapendo bene cosa dirle per il timore che si
infervorasse e che potesse avere un altro mancamento. Anche
perché, aveva avuto modo di verificare in prima persona quanto
sua
moglie, se indispettita, potesse essere infiammabile.
«Non son svenuta per quello» ammise, a quel punto, Beatrice in un
sussurro, terminando ciò che restava dell’acqua
zuccherata.
Di fronte ad una rivelazione simile, il ragazzo rimase ancor
più
stupito e, subito, fu assalito dalla tremenda sensazione che la moglie
gli stesse nascondendo qualcosa di importante, proprio come aveva
già fatto suo padre.
«Allora, sai il motivo...» mormorò,
avvertendo una fitta allo stomaco.
«Be’, ecco... sì. Avrei voluto dirtelo
stasera a cena...»
cominciò lei, incerta. «Stamani
sono andata a ritirare le analisi e...»
Alla parola “analisi”, Marcello sentì il
buio calare
su di lui, poiché, ormai aveva imparato ad associare a quel
vocabolo solo angosce e timori.
«Che cos’hai? Perché non mi hai detto niente?» le chiese, allarmato, convinto che la situazione gli
fosse già sfuggita di mano.
«Perché
non ne ero sicura!»
replicò l’altra, senza scomporsi, appoggiando il
bicchiere
vuoto sul tavolino lì accanto. «A volte,
può capitare
che...»
«Beatrice, io sono tuo marito ed esigo sapere sia quando stai
bene che quando stai male!» la interruppe lui, dando uno
stizzito
colpo al cuscino su cui era seduto, infastidito per essere
stato
estromesso da un aspetto importante della vita di sua moglie.
A quel punto, lei lo guardò sbigottita per qualche istante,
prima di scoppiare a ridere.
«Ma no, Marcello,
non son malata!» esclamò, gioiosa. «Sono
solo... incinta!»
Tra i due calò immediatamente il silenzio, che
servì al
giovane per capire cosa gli avesse effettivamente appena detto sua
moglie.
«... incinta?» ripeté, stralunato, come
se, ribadendo il concetto, questo potesse acquisire più significato.
Con un timido sorriso, la ragazza annuì e Marcello,
rigido
come un baccalà, si limitò a fissarla, deglutendo
a
vuoto: c’era un bambino in arrivo... avrebbe avuto un figlio!
A quel pensiero, si ritrovò ad arrossire per la figuraccia
appena fatta con Beatrice, essendosi dimostrato, come suo solito,
incline a trarre conclusioni catastrofiche, anche nei momenti meno
indicati.
«Perché
non dici
niente?» gli chiese l’altra che, notando il suo
mutismo,
s’intristì. «Forse non sei contento?»
Smosso da quel tono ferito, Marcello si voltò verso la
consorte
e, finalmente, dispiegò le labbra in un gran sorriso.
«Ma certo che lo sono...» le disse, prendendola per
i
fianchi e avvicinandola a sé. «È la
gioia
più bella che mi hai dato, dopo aver accettato di
sposarmi» le sussurrò poi, prima di darle un bacio
alquanto appassionato.
In risposta, Beatrice, rasserenata, lo assecondò
con la stessa intensità, sfiorandogli il volto e i ciuffi della
frangia con la punta delle dita.
«So che
sarà molto impegnativo, con
l’università, il lavoro part-time alla merceria e tutto il
resto, però...» considerò, tra un bacio e
l’altro, pensierosa.
«Però, non sei sola. Ti aiuterò io,
visto che è anche
mio figlio» gli fece notare il ragazzo, premuroso,
distaccandosi
da lei quel tanto che bastava per guardarla negli
occhi. «Basterà solo
organizzarsi».
Sorridendo, felice, la giovane appoggiò la propria fronte
contro
quella del marito, lasciandosi coccolare dalle sue carezze.
«Sai già quando nascerà?» le
chiese poi Marcello, desideroso di saperne di più.
«Oh, no, la dottoressa non ha detto molto, voleva prima accertarsi che fossi
davvero incinta» spiegò la moglie, concitata,
torturandosi una ciocca di capelli per sfogare l’agitazione
del
momento. «Inoltre, mi piacerebbe
che
andassimo insieme alla visita, soprattutto alla prima ecografia...»
«Ma certo che andremo insieme, anche io voglio vedere il
nostro
bambino! O bambina, ovviamente» la rassicurò lui, prendendole
la mano
libera e baciandole il dorso. Sapeva bene che, essendo solo l’inizio della gravidanza, si sarebbe visto ben poco,
però era certo che sarebbe stato comunque emozionante.
«La Vittoria
ha detto che
ci siam fatti un regalo di Natale molto originale»
commentò, inaspettatamente, l’altra, non riuscendo
a
nascondere un sorriso divertito. Marcello, però, non appena
udì quel nome, non fu dello stesso avviso.
«Vittoria?»
le
domandò, infatti, augurandosi di aver capito male, pur
sapendo
quanto, purtroppo, fosse poco probabile. «Che cosa
c’entra
lei, esattamente?»
«L’ho incontrata
fuori dal laboratorio analisi, oggi l’era il
suo turno in ospedale» gli raccontò Beatrice,
alzando le spalle con fare innocente.
«Quindi, l’ha saputo prima di me»
osservò il
giovane, infastidito, domandandosi come facesse la sua amica a trovarsi
sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, anche se, forse,
lei avrebbe detto l’esatto contrario.
«Sì. Però, m’ha
promesso che non lo dirà a nessuno, nemmeno a Gerardo,
perché preferisce che siamo noi a dargli la
notizia».
«Eh, certo!» borbottò Marcello, ironico,
inarcando un sopracciglio. «L’importante
è che lo
sappia lei, mentre quel poveraccio è l’unico a non
esserne
al corrente!»
«M’ha
fatto anche
capire che le piacerebbe molto
essere la madrina» aggiunse la ragazza, infine,
sembrando perfino gradire l’idea.
A quel punto, il giovane decise di prendersi un paio di secondi per
calmarsi ed evitare che l’invadenza senza speranza di
Vittoria
gli rovinasse quel bel momento.
«D’accordo, d’accordo»
sospirò,
sforzandosi di non inveire contro l’amica. «Allora,
vorrà dire che inviteremo sia lei che Gerardo domani sera a
cena, così avremo
modo di dirlo anche a lui e chiedergli di fare da padrino al
nascituro».
A Beatrice piacque molto la proposta e fu subito d’accordo,
tuttavia, trovandosi in argomento, il ragazzo pensò bene di
aggiungere: «Per quanto riguarda gli altri, a cominciare da
mia
madre, penso, invece, che possiamo
anche aspettare qualche mese prima di dare
l’annuncio».
«E tuo papà?» chiese istintivamente la
ragazza, aggrottando appena la fronte. «Marcello, sai
bene che è in una situazione... precaria.
Son certa che
saprà mantenere il
segreto».
Messo di fronte a quell’obiezione, il giovane dovette
riconoscere
che sua moglie aveva assolutamente ragione, poiché,
nonostante il signor Giancarlo non sembrasse in imminente pericolo, i
medici non avevano certo taciuto i loro dubbi in merito. Una parte di
Marcello, quella più razionale, infatti, era consapevole del fatto
che il
destino di suo padre fosse in bilico e fu la stessa che in
quell’istante si ricordò di quello che gli aveva
detto
Gerardo poche ore prima.
«Anche perché credo che non avremmo potuto farlo
più contento,
visto che desidera molto un altro nipotino o
nipotina»
considerò il giovane, meditabondo,
augurandosi che, sapere che sarebbe stato presto di nuovo
nonno, avrebbe aiutato l’uomo ad avere una ragione
in
più per farsi forza.
Regalandogli una carezza di conforto, Beatrice, a quel punto, richiamò la
sua attenzione: «A proposito, si deve scegliere
il nome!»
«Di già?» chiese il ragazzo, stupito.
«Non è presto?»
Ma la moglie scosse la testa.
«Be’, possiam cominciare
a farci
un’idea. Anche se, a dirla tutta, questa è
l’unica cosa
che vorrei
tener segreta fino all’ultimo».
Pensando che potesse essere un buon compromesso, il giovane
annuì e, sistemandola meglio tra le proprie braccia, si
preparò ad ascoltare quali opzioni aveva in mente.
«Se dovesse essere una bambina» esordì,
«ti piacerebbe se la chiamassimo Elena, come mia
madre?»
«È un bel nome» confermò
l’altro. «D’altra parte, non la
chiamerei Claudia nemmeno se non ci fosse già
l’altra
nipote».
Soddisfatta per la risposta ottenuta e per la sintonia che
c’era
con il consorte, Beatrice sorrise e proseguì:
«Invece, se
sarà un bambino, che ne dici di...»
Si fermò per un istante, concedendosi un sorriso, e poi si
avvicinò di più a lui, sussurrandogli qualcosa
all’orecchio.
«Ne sei sicura?» chiese Marcello, piacevolmente
colpito.
«Non potrebbe esserci scelta
migliore» decretò lei, serena.
All’improvviso, la finestra sulla parete in fondo si
spalancò e una lieve brezza si insinuò nella
stanza,
giocando con le tende, gonfiandole, e solleticando i cristalli del
lampadario, facendoli tintinnare. Accarezzò anche i due
giovani, scompigliando con dolcezza i loro capelli.
«Eppure, l’ero
convita di averla chiusa!»
esclamò la ragazza, incredula, non riuscendo a capire come
l’anta potesse essersi aperta, soprattutto con un venticello
debole come quello.
«Tranquilla, ci penso io» affermò il
giovane, aiutandola a rimettersi in piedi prima di alzarsi a sua volta.
Una volta che la finestra venne richiusa, il Vento dell’Ovest
seppe che per lui era arrivato il momento
di congedarsi da Marcello e Beatrice e ricominciare il suo viaggio. Come ultimo saluto al parco
di Villa Aurelia, che lo aveva accolto in quella lontana giornata
autunnale, lo percorse in lungo e in largo, facendo vibrare ogni ramo e
vorticare le foglie cadute in terra. Quindi, si librò in
aria,
sempre più in alto, fino alle nuvole, portandole con
sé
verso altri luoghi da esplorare, altre persone da conoscere e nuove
storie da
raccontare.
***
Per la revisione di questo
capitolo, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la
grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto
per seguirmi sempre.
***
[N.d.A]
1. Sacra Rota:
nome popolare per il Tribunale
della Rota Romana,
tribunale ordinario della Santa Sede. Tra le varie
attività, si occupa anche di valutare i casi di richiesta di
annullamento dei matrimoni celebrati secondo il rito cattolico.
***
Devo ammettere che, nell’arco di questi cinque anni, ci sono
stati dei momenti in cui ho temuto che non sarei mai arrivata a questo
punto.
Ho deciso di lasciare questo finale un po’ incompiuto,
soprattutto per la parte poliziesca, perché tra gli anni
‘60 e ‘80 ci sono state moltissime vicende di
cronaca -
anche politica - irrisolte e volevo essere coerente con i tempi.
Come già ho anticipato, questa storia non avrà sequel canonici, tuttavia è vero che Marcello e Beatrice hanno un piccolo ruolo in un’altra
mia
storia, scritta qualche anno fa, e avranno un cameo nel racconto che ho
in cantiere, dove compariranno anche Gerardo e Vittoria.
Come ultimo “promemoria”, vi avviso che
nelle prossime
settimane revisionerò massicciamente i primi due capitoli di
questa storia (le ragioni saranno spiegate a revisione ultimata).
Ringrazio di cuore chiunque mi abbia sostenuta: chi ha letto tutta la
storia, anche silenziosamente;
chi l’ha messa tra le preferite/ricordate/seguite; chi, in
passato, mi ha fatto sapere la sua; chi mi ha
lasciato una recensione allo scorso capitolo (Aven, StormyPhoenix).
Per seguire gli aggiornamenti sui miei prossimi lavori, vi lascio il
solito link alla mia pagina
facebook. Se, invece, volete avere una panoramica di tutte le
trame connesse a questa, troverete sul blog
una sorta di indice.
Grazie mille per essere rimasti fino alla fine e per aver atteso,
pazientato, creduto di poterci arrivare.
Halley
S.C.
P.S.
Come bonus-premio per tutti voi temerari, ho cominciato a lavorare su
alcuni disegni. Gerardo e Vittoria sono solo
da colorare, Marcello e Beatrice sono in realizzazione. Appena finiti,
saranno resi pubblici sulla mia pagina DeviantArt.
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