Tanto indiero non si torna.

di MuraroChiara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Martedì ***
Capitolo 2: *** Mercoledì ***
Capitolo 3: *** Giovedì ***



Capitolo 1
*** Martedì ***


Il bianco opprimente del soffitto di camera mia mi stava dando alla testa. Per fortuna avevo convinto i miei a pitturare le pareti di un bel azzurro cielo, altrimenti avrei già cominciato ad impazzire da un pezzo. Sbuffavo. Guardavo l'orario sbloccando il telefono. Le 3.17. Tutto sommato era solo un'altra notte insonne. Dicembre in fondo è così. Professori più che sclerati che ti tartassano con verifiche su verifiche su interrogazioni, come se la loro vita dipendesse da quello e, soprattutto, come se la nostra vita fosse incentrata sulla scuola. Certo, perché un ragazzo di 17 anni con gli ormoni impazziti pensa solo a delle dannate versioni di latino. Certe volte mi chiedo cosa passi per la testa di quei pazzi scatenati, non sono mai stati ragazzi, loro? Non hanno mai provato il gusto del vento sul viso? Il profumo della notte? Le labbra sulla pelle? La musica nelle orecchie? Guardo l'ora. Sono le 3.24. Evidentemente no.
                Non penso sia il caso di dormire. La notte porta consiglio, dicono. Io però non ho bisogno di riflettere, ho solo bisogno di dormire. Non saprei su cosa riflettere, francamente. Ora come ora ho le mani legate. Per questo vivo alla giornata. Faccio un giro su WhatsApp, sperando di trovare qualcuno online, tanto per ammazzare il tempo. Il vuoto. Solo Gio, il mio migliore amico. Apro la sua chat, leggo gli ultimi messaggi, roba di poca importanza, chiariamoci: solo la versione di compito per domani, che poi alla fine è oggi. Rileggo alcuni frammenti di conversazione. Cosa fai domani, oggi esci, come stai, hai tu il mio accendino. Le solite cose. La richiudo. Generalmente non è a lui che scrivo durante le notti insonni. Il suo ultimo accesso è stato alle 21.38. Ora starà evidentemente dormendo. Non mi pare il caso di disturbare. Se continuo a prendere in mano il telefono è evidente che non dormirò mai, considerato anche che sono le 3.39 del mattino. Devo dormire.

Il mio risveglio è piuttosto brusco. Ho dormito solo quattro ore e ne dormirei volentieri il doppio. Mi metto a sedere sul letto e fisso il mio dizionario di greco. Oggi la sfida è contro di lui. Lo guardo fisso nelle pagine, scrutandole una ad una, ne sento perfino l'odore. Vado in bagno, mi lavo la faccia, faccio colazione sempre con in mente l'immagine di quel dittatore quale la mia professoressa. Non mi fa paura e nulla mi impedirà di copiare. Mi vesto bene, pronto ad affrontare la bestia. Prendo la cartella, me la butto in spalla, ficco sulla testa la mia berretta, lasciando uscire qualche ciuffo di capelli, tanto per sembrare un po' più figo di quanto non sia, mi carico sulla spalla il dizionario e scendo le scale di corsa. Non sono in ritardo, sono solo carico. Esco di casa e lo sbatto sul sedile del motorino. Rimbalza, ma non mi importa. Mi infilo il casco, salgo in sella e parto. Il tragitto per arrivare a scuola non sarebbe troppo lungo ma, visto che ho tempo, mi permetto di allungarlo un po'. Imbocco un piccolo vialetto e passo davanti alla casa di May. Il motorino non c'è. È già in strada. Non mi stupisco. È sempre il primo ad arrivare a scuola. Nel ritornare indietro mi accorgo però che c'è ancora un casco nel portico. Le opzioni sono due. O gli hanno rubato il motorino o Gio ha trovato il modo di saltare la verifica. May porta a scuola in moto Gio da quando è diventato maggiorenne, ma ogni tanto Gio viene anche per conto suo, specialmente se fa bel tempo. Quindi oggi non è il caso. Anche io porterei Anna, se potessi. Mi rimetto in marcia e passo da Gio. Suono. Tanto i suoi sono già a lavorare. Nessuno risponde. Lo stronzo starà ancora dormendo. Appena lo becco fuori lo faccio nero. Suono di nuovo. La casa è una tomba. Torno indietro parecchio arrabbiato. Volo a scuola, di corsa, nonostante siano solo le 7.35 ma ho bisogno di parlare con May e Anna. Il cielo non è limpido e non ci si avvicina nemmeno. È di un grigio scuro e non sembra intenzionato a far traspirare nemmeno un filo di sole, tuttavia l'ambiente era chiaro.        La pioggia imminente avrebbe potuto rappresentare un problema, ma non per me. Il cancello della scuola era deserto: di solito era pieno di ragazzi e ragazze che chiacchieravano vivacemente, ma oggi rimaneva solo l'ombra di quelle persone e sopravviveva solo qualche anima solitaria che sfogliava un libro. Sgattaiolo dentro, senza farmi notare, con la cartella tenuta su con una sola spalla, continuando a strattonarla per tenerla su, con il dizionario sotto braccio. Sento un tuono. Mi tiro su il cappuccio, nonostante non cada una sola goccia. Salgo la salita che porta al piazzale difronte alla scuola. Cerco May e Anna. Guardo l'entrata ma non vedo nessuno sulla porta. Non mi avvicino neanche, so che non sono li. Ci rifugiamo sotto il portico solo quando piove e oggi non è quel giorno. Poi qui non si può fumare. Nel girarmi verso la palestra, un grande stabile giallo vicino al cancello di servizio, il nostro solito punto d'incontro.
"Eta, dove.cazzo.è.Gio.?" Dice piano May. La sua voce è profonda come quella di uno della sua stazza Anna sta fumando una sigaretta. È visibilmente nervosa.
"May..."
"No, cazzo. Dov'è?" Dice Anna mentre tiene in bocca e accende un'altra sigaretta. Il suo viso pallido rende palese la sua nottata insonne. Il viola delle occhiaie risalta sul suo viso color latte, così delicato da sembrar fatto di carta.
"Non lo so.. speravo lo sapeste voi." Ribatto titubante. Si vede che ne sanno meno di me sulla scomparsa di Gio. Anna si sposta la lunga ciocca bionda che le cadeva sugli occhi, May si appoggia alla ringhiera che delimita il confine della scuola. Chiari segnali che non hanno dormito e che hanno le balle di traverso. "Vi dico quello che so.."
"Sarà meglio" farfuglia May, prendendo una sigaretta dal pacchetto di Anna che si sta svuotando a vista d'occhio.
"Ne vuoi una?" Mi chiede con un fil di voce.
"No grazie, se mai dopo" rispondo scuotendo la testa e guardano distrattamente la ghiaia sotto di me.
"Allora?" Mi incalza.
"Prima sono passato da te, e ho visto che avevi lasciato un casco a casa. Niente, poi sono passato a casa di Gio. Suono e non risponde nessuno."
"L'hai chiamato?" Mi chiede.
"Francamente no, pensavo l'aveste fatto voi. "
"Io gli avevo mandato un messaggio ieri sera.." risponde May.
"E?"
"E mi ha detto che oggi ci sarebbe stato. Poi sono passato e ho incrociato sua mamma che mi ha detto che non stava bene. Scusatemi, ma non me la bevo." Risponde, guardando la sigaretta. Le sue parole mi hanno fatto uno strano effetto. Un senso di delusione di scorre nella mente. Da Gio una cosa del genere non me la sarei mai aspettata. Insomma, la mente criminale del gruppo è lui.
"Comunque- dice Anna spegnendo la penso quarta sigaretta in dieci minuti- lamentarci del fatto che manca Gio non ci aiuta. Dobbiamo arrangiarci con quello che abbiamo."
"Anna ha ragione" commenta May.
"Io ho sempre ragione" risponde lei, acida. Non saprei dire se è l'acidità che fa parte di Anna o Anna che fa parte del l'acidità. May la guarda e alza le spalle. È l'unico tra noi che non ha ancora accettato la sua natura schietta.
"Allora...- ricomincia, voltandosi verso di me- stavolta ci tocca fare anche il lavoro di Gio. Ma questo è il minimo..."
"Ossia?" Chiedo.
"Il problema è che siamo distanti. Senza Gio siamo solo tre e ci manca quello in centro che ci passa i bigliettini. O speriamo in una colossale botta di culo o siamo fottuti."
"Chiaro." Commento- "ma nel caso in cui riuscissimo a metterci vicini?"
Propongo.
"Forse" commenta May facendo un lungo tiro alla sigaretta che sembra infinita.
Quando May esordisce con "Forse" la faccenda diventa seria. Anna storce il naso. Sa che non è un buon piano. I suoi occhi marroni incontrano dolcemente i miei. Non ho mai visto tanta bellezza contenuta in un così piccolo cappotto. Non spreca una parola. Il suo sguardo dice tutto. Non mi fissa a lungo, solo un'occhiata per accertarsi che io abbia compreso l'improbabilità della riuscita di questo piano. Un piano destinato a fallire. Non sono ancora le otto, anche se ormai dovrebbe mancare solo qualche minuto. May si allontana. Rimango solo con Anna.
                "Come stai?" Chiedo
"Bene, ora che sei arrivato." Sorride. Sospiro. Riprendo.
"Com'è andato il fine settimana? È un po' che io e te non facciamo qualcosa insieme..."
"Com'è andato dici? L'ho passato su quel fottuto libro di greco. Te piuttosto?"
"Non hai risposto alla mia domanda" le faccio notare, prendendo la sigaretta che mi era stata offerta prima.
"Quale domanda?"
"Quando facciamo qualcosa insieme, solo noi due dico."
"Eta.. sai che questa settimana siamo molto piena..."
"Lo so- rispondo a testa bassa- e se oggi venissi da me a studiare?"
Ride. "Sai che io e te non studieremo, vero?" "Infatti era più una proposta di venire a passare il pomeriggio da me a mangiare schifezze sotto una coperta guardandoci un bel film. Che ne dici?" Rispondo prendendole le mani.
"Mi piacerebbe molto" risponde guardandosi i piedi. Anna è così. Un po' dolce un po' salata.
Perché le cose devono essere così difficili?
                Suona la campanella. È ora di dare il via al piano. Anna è disposta di fronte a me e a May. Solitamente Gio avrebbe dovuto piazzarsi nella fila centrale e fare da tramite tra me e May e tra noi e Anna. Copiare così era a dir poco semplicissimo. Oggi invece che manca Gio le possibilità di essere sgamati aumentano esponenzialmente. Nessuna chance di sopravvivenza. Che i giochi comincino. La prof passa e consegna i fogli con stampata la versione. Solo a vederla mi sento male. È spaventosamente lunga. Apro il dizionario e inizio a cercare. Mille significati possibili per ogni parola e un solo significato esatto: il margine di errore è inesistente. A circa una mezz'oretta dalla fine del tempo, cominciano i primi segnali. May fa cadere la penna. Anna inizia a far tremare la gamba. Hanno finito la loro parte di versione. Io picchietto le dita sul tavolo. Chiedo ancora cinque minuti per finire la mia parte. Anna e May nel frattempo si portano avanti, scambiandosi il testo in un modo molto ingegnoso. Anna aveva appeso il suo zaino allo schienale della sedia e May aveva trascritto la sua parte in matita su un foglio di protocollo. Bastava inserire il foglio nella cartella di Anna e il gioco era fatto. La storia diventava più difficile quando si trattava di passare il foglio a quello dietro. Se ti volti ti beccano, se parli, anche per chiedere un fazzoletto, vengono a controllare. Qui entra in gioco Anna. Anna usa i post-it. Lei non ha mai passato nulla, nemmeno girata: lei ha sempre fatto leggere ed ecco perché lei è davanti. Scrive a pezzi sua versione su dei post-it per poi incollarseli sulla schiena con dei gesti eleganti che non lasciano trasparire la scaltrezza di questa ragazza. Loro due sarebbero anche sistemati, io no. Qui entra in gioco Gio che mi passa versione di May e passa la mia agli altri. L'unica tecnica nelle mie corde è quella del bigliettino. È sempre stato così, fin dalla prima superiore. Avrei dovuto raffinarmi in quattro anni ma purtroppo non è mai successo. Scrivo nervosamente il pezzo di versione per il quale avevi richiesto più tempo su un piccolo foglietto, quasi certo di aver scritto una baggianata. Passo il tutto, con nonchalance, a May. Vedo i suoi occhi rimbalzare come dentro un flipper tra me, la prof e l'orologio. Il tempo stringe. Scambia il pezzo di carta che aveva in mano con quello che gli stavo passando. Faccio appena in tempo a ritrarre la mano che comincia il disastro. La prof alza di scatto gli occhi scuri e severi che fino a poco prima erano concentrati su un grosso volume. Gli occhiali appoggiati sopra la punta del naso eliminano qualsiasi barriera tra noi e l'inferno. Un passo falso e siamo finiti. Con estrema rapidità, contrapposta alla figura marmorea che qualche secondo prima, la prof si alza, butta il libro sul tavolo e si fionda come un felino in fondo alla classe. Quella donna scruta l'aria quasi per percepire molecole di inchiostro, l'annusa per trovarvi l'odore della paura. Sudo freddo. Trattengo il fiato. Chino il capo e scrivo. Se ti muovi in modo sospetto potrebbe piombarti addosso come un leone farebbe con una gazzella. Dritto al collo. Non mi converrebbe muovermi, tuttavia lancio uno sguardo a Gio. Vedo la sua faccia sconvolta alla vista del mio biglietto. So di aver scritto una cazzata, ma ormai il danno è fatto. Soffoco una risata nel vedere la sua espressione. Mi ricordo della scure che pende su di me. Do un'altra occhiata a Gio, che stavolta mi risponde. Lo vedo: ha la versione giusta. Anna l'aveva già tradotta. Ora si tratta solo di passarmela ma la cosa non sarà semplice. Faccio un cenno per indicare che avevo capito. Mossa fatale. Il falco prende il volo e piomba su di me. Sento il suo fiato caldo sul collo. È ritta, di fianco a me e guarda il mio foglio. Fortunatamente il pezzo mancante è quello finale, così riesco facilmente a camuffare il fatto di aver copiato. Vede da sopra la spalla la parte confusa di versione che non sono riuscito a fare. Sogghigna. Guarda l'orologio e torna a sedersi.
"Pasini- mi richiama. Io alzo la testa- deve sperare in un miracolo."
Io non ho bisogno di un miracolo, penso. Io ho Anna. Il pericolo è scampato. Il passaggio avviene in un battibaleno. Manca forse un minuto alla fine del tempo. Copio come un dannato, come se non ci fosse un domani.
                La campanella suona e io consegno a pelo. Prima che le prove possano essere rintracciate, mi ficco in tasta tutti i biglietti sparsi sul banco. Non importa se siano fazzoletti o ritagli di carta mai usati, tutto finisce in tasca. La professoressa recupera velocemente il pacco di verificare e se esce dalla classe con una rapidità non comune per una donna della sua età. La fisso mentre se ne va. Sollevo il banco e lo attacco vicino a quello di Gio. Io e lui siamo vicini di banco. Appena lo sistemo, vedo già Anna e May venire verso di me. Il loro sguardo è chiaro. La mia versione non aveva senso.
"Lo so." Ammetto colpevole. Mi guardano e May scuote la testa.
"Dovrebbero darti un premio per la fantasia" ride mettendo una mano sulla spalla. Anna sorride e si appoggia al mio banco, vicino a me.
"Comunque ce la siamo cavata anche senza il bidone" commento. Gio sarebbe stato d'aiuto, certo, ma abbiamo visto che riusciamo a cavarcela anche da soli. I miei due soci fanno un segno di approvazione con la testa. Le prime due ore sono passate, dobbiamo sopravvivere alla terza e poi ci sarà ricreazione. Ciccio, la nostra vedetta, è affacciato alla finestra. Scruta l'orizzonte. Nessuna traccia del prof di inglese. Ci rimane ancora qualche minuto per parlare.
"Dite che farà recuperare la versione a Gio o che lo interrogherà?" Chiedo. Anna mi guarda sorpresa, come se si fosse svegliata da un pisolino ad occhi aperti. May guarda il pavimento appoggiandosi al banco dietro e alza le spalle.
"Forse" dice "forse lo interrogherà"
Mi lascio cadere all'indietro, cadendo sul mio banco, vicino a Anna. Le passo dolcemente la mano intorno al fianco. Tanto May sa. Lei poggia la sua testa sulla mia spalla. I suoi lunghi capelli biondi platino cadono sulla mia schiena. Oggi sono raccolti in una semplice ma elegante coda di cavallo. May si limita solo a inarcare le spalle.
"Risolto?" Chiede. Fisso il vuoto e scuoto la testa. Non serve aggiungere altro. Ciccio fa cenno di andare a sedersi. Mi dispiace staccare le mani dai suoi fianchi. La vorrei qui, sempre, vicino a me. Non la lascio andare: la mia mano passa sul suo braccio fino a prendere la sua mano per poi lasciar andare anche quella. Lei si volta e mi regala un sorriso. La osservo destreggiarsi tra i banchi fino ad arrivare al suo. In quel momento entra il prof di inglese con un passo deciso e ci saluta con un allegro gesto della mano. Il tipo qua è sempre di buon umore. Poggia distrattamente la sua valigetta sulla cattedra color verde acqua e si lancia al computer. Guarda gli assenti, firma il registro, apre qualche scheda. Ed ecco che l'unica cosa che non volevo che succedesse accade. Gio fa la sua entrata in classe. Sono basito. Riesco a leggere tutte gli insulti che stanno passando per la testa a May. Mi dispiace solo non poterli sentire ora, perché sarei sicuro che almeno due o tre sono nuovi. Anna ha i nervi a fior di pelle. Lo si capisce dal modo in cui si sposta il ciuffo all'indietro. Lo fa con un colpo deciso e poi si gratta il collo. Vorrebbe tirargli le forbici che tiene in mano dritte in bocca. Io mantengo un minimo di contegno. In fondo è il mio vicino di banco. Non lo posso uccidere, sarebbe troppo vistoso. Mi limito a guardarlo, a fissare quella sua faccia sorridente da bamboccione, cercando di fargliela esplodere col pensiero. Quella sua allegria frivola nell'arrivare al banco, nel sedersi e nel salutarmi con un cenno della testa mi manda fuori di testa.
"Difficile la versione?" Mi sussurra mentre apre lo zaino.
"Fottiti" ringhio.
"Hai ragione"
"Lo so"
"Perché parli come Anna?"
"Perché invece tu ti salvi il culo dalla versione ed entri alla terza ora?"
"Una domanda alla volta, Eta."
Respiro. "Io non parlo come Anna."
"Invece si"
"Cosa ho detto per sembrare lei?"
"Hai detto lo so"
"Ah, quindi se io dico Forse significa che sono May?"
"Si."
La conversione può finire qui per me. E va proprio così. Nonostante Gio sia il mio migliore amico, non posso tollerare il fatto che abbia finto una vista medica per stare a casa e saltare la verifica. Quale infame farebbe ciò? Oggi va così. Oggi ho la luna storta, punto. La lezione passa veloce. La campanella suona. La fine per Gio è vicina. Anna si butta fuori dalla classe e non faccio in tempo ad alzarmi che la vedo già scappare al bar. Deve calmarsi. May, con la sua imponente figura, arriva verso Gio.
"Sei uno stronzo." Dice
"Cosa?" Chiede distratto Gio.
"Sei uno stronzo, uno stronzo, stronzo, stronzo, stronzo."
"Ah."
"E ti dico anche di peggio" Ringhia May, puntandogli il dito sullo sterno.
"Ossia?"
"Sei un cretino."
Mi aspettavo di più da May, ma evidentemente è sconvolto.
"Grazie" dice Gio. Il gelo cala tra noi tre. Siamo una così bella squadra e ci dispiace litigare. Con uno sguardo di intesa, decidiamo di uscire. May e Gio si incamminano e io li seguo a ruota. Andiamo al solito posto, senza nemmeno scambiarci una parola. Anna è già li. Fissa il suo telefono. Lo sblocca e lo blocca, in continuazione. Si sblocca con la mia data di nascita, il 23 luglio. Il mio si sblocca con la sua, il 12 settembre. Non ha una sigaretta in mano. Nel vedere Gio avvicinarsi, mette in tasca il telefono e inizia a mangiare una grossa brioches alla crema che ha comprato al bar. Lo saluta con la mano. È visibilmente arrabbiata ma ha deciso di non darlo a vedere, o almeno pensa lei. Mi avvicino e do un morso alla brioches. Lei mi guarda con un'aria giocosa.
"Oh, T-Rex! Da un morso ancora più grosso, già che ci sei..." e ride. Allora l'abbraccio da dietro e poggio il mento sulla sua spalla, spostando la coda di cavallo, e le morsico il collo. Lei ride e piega la testa all'indietro, cercando di liberarsi. Solo allora, mollo la presa. Le do un bacio dolce nel punto stesso in cui l'avevo morsa. Sento un brivido scenderle lungo la schiena. Vedo May e Gio accendere una sigaretta, ma ora a me non va. Voglio solo stare li con lei.
"Non ora" risponde. Non perché non gradisca, lei adora i baci sul collo. In risposta, allontano semplicemente le mie labbra dal suo collo candido. Mi limito ad appoggiarmi sulla sua spalla.
"Allora per oggi?" Le chiedo gentilmente.
"Per oggi? Dici venire a casa tua?" Mi chiede, spostandosi i lunghi capelli sulla spalla libera.
"Si, facciamo direttamente dopo scuola. Mangi da me. Sono solo a casa, oggi"
"Per me non ci sono problemi, avviso mia zia." Prende il telefono e invia un messaggio. La risposta è quasi immediata e affermativa. Anna e suo fratello Stefano vivono con la zia materna. I loro genitori sono morti quando Anna aveva circa 11 anni e Stefano solo 4. Da allora abitano dalla zia.
"Ragazzi, qualcuno ha studiato latino?" Ricorda May.
Giusto. Mancano ancora due ore di inferno.
                Quarta ora: scienze. La nostra professoressa, la Biganrdi, una donna sulla quarantina, un po' pesante e non l'ascolto. Per la testa ho solo Anna.
"Ma oggi? Cosa avete intenzione di fare tu e Anna...?". Il solito malizioso Gio.
"Niente."
"Niente nel senso che non farete nulla o nel senso che non sono affari miei?" Mi provoca.
"Entrambi" ribatto. "Guarderemo un film, mangeremo schifezze.."
"Un po' di coccole?" Mi incalza, curioso come pochi.
"Ovvio..."
"Ehhhh... la porti in camera tua direttamente?"
"Non quelle coccole, Gio."
"Ma dai.."
"Sai come la penso"
"Si. Però potreste."
Lo guardo perplesso e incuriosito. Voglio capire dove vuole andare a parare.
"Nel senso: vi conoscete dalla prima elementare. A te piace. Tu le piaci. Siete innamorati da paura. State insieme da quasi un anno ormai. Lei è una bella ragazza. Tu sei un bel ragazzo. Ci sta, secondo me." Discorso che non fa una piega. Se non per un unico, mastodontico errore.
"Io e lei non stiamo insieme. "
"Lo so. Ma è come lo foste, no?" Mi fa notare. Non posso mentire perché è così.
"I fiori a San Valentino, I vostri mesiversari, I baci sul collo..."
"Non ho ancora risolto."
"come no?"
"Non ci ho ancora parlato."
"Allora fallo al più presto." Lo guardo colpevole. Lo so, avrei dovuto, avrei voluto parlarci e chiarire il tutto prima. Invece mi riduco sempre a quando è tardi. La campanella interrompe il flusso dei miei pensieri. Perché una cosa così semplice deve essere così complicata? La quinta ora è iniziata da un pezzo, ormai. Decido di fare un giro. Esco e vado in bagno. Mi lavo la faccia.
"Non devi farlo per forza." Riconoscerei quella voce ovunque. Anna era appoggiata allo stipite della porta del bagno dei maschi. La prof perde il conto di quanti escono durante la sua ora quindi abbiamo tutto il tempo del mondo.
"Ma io voglio."
"Allora trova il coraggio e vai." Dice prendendomi le mani. Le sue sono così fredde che vorrei poterle scaldare subito con uno di quelli abbracci in qui ti sciogli, ma mi limito solo a darle un bacio in fronte.
"Anna, io voglio farlo oggi. Quando torna, lo prenderò da parte e gli spiegherò tutto ok?"
"Non mi devi dimostrare nulla."
"Infatti era per dimostrare qualcosa a me"
La abbraccio. Senza alcun motivo, ne avevo essenzialmente bisogno. Guardo il vuoto dietro di lei.
Vorrei baciarla, qui e ora. Le prendo il viso tra le mani. Con un gesto del pollice, sposto la solita ciocca di capelli ribelle dal suo viso. I suoi grandi occhi castani mi ipotizzano.
"Hai degli occhi meravigliosi" mi sveglia dal mio sogno ad occhi aperti nei suoi.
 "Amo l'azzurro mare del tuo occhio sinistro e amo il verde smeraldo del tuo occhio destro."
Io sono nato così, con gli occhi di due colori diversi ma ad Anna piacciono. Le stampo un bacio sulle labbra rosse e screpolate. Un bacio caldo, leggero, dolce. Uno di quelli con le labbra socchiuse. Uno di quelli che si da in questi casi, ad occhi chiusi. Uno di quelli per dire ad una persona che la ami, non per dimostrare una passione. Restiamo li, qualche secondo, con gli occhi chiusi a sentire le labbra dell'altro sfiorare le nostre. Dimentico il mondo, con lei. Alzo le palpebre e incrocio il suo sguardo. Mi fa una carezza. Poggio la mia mano sulla sua. Sospira. Capisco che c'è qualcosa che non va.
"Dimmi." Dico.
"Niente." Risponde liberandosi dalle mie mani e andando verso la finestra. Mette una mano sul vetro, con l'altra si sposta il solito ciuffo dalla fronte.
"Anna, Amore.."
"Eta, non chiamarmi così." È fredda. Le sue parole tagliano l'aria di quel bagno celeste come coltelli. Li sento trapassarmi il petto uno ad uno.
"E come mai? Perché non posso chiamarti Amore?" Rispondo con un tono di sfida. Questa volta il manico l'ho in mano io.
"Lo sai." Risponde seria, girando velocemente verso di me. Sono esattamente dall'altra parte della stanza. Siamo così lontani. Lo spazio tra noi è così irreale.
"Certo. Ma spiegami una cosa- comincio calmo. Senza rendermene conto comincio ad avanzare verso di lei con passo deciso. La mia voce si alza.- Come mai non dici nulla quando ti bacio ma se ti chiamo Amore dobbiamo farne una questione di stato eh? Dammi una spiegazione.- mi trovo ad urlare. Chiudo immediatamente la bocca. Le sono addosso e lei si è appiattita contro la finestra. Guarda i lavandini. Sfugge al mio sguardo. Posso sentire i nostri respiri. Faccio qualche passo indietro, spaventato da me stesso.
"Anna.." la chiamo. Mi risponde alzando lo sguardo verso di me, inespressiva.
"Vorrei che le cose fossero più semplici. Non vorrei essere nella situazione in cui mi trovo. Vorrei poter prendere e andare via. Solo io e te."
Anna non risponde. Sorride. Ho già capito. Lei scapperebbe con me, se potessimo veramente farlo. Si avvicina a me mi strappa un bacio, con serenità, come se il discorso di prima non fosse mai avvenuto, cancellato dalle nostre menti. La paura del momento scomparsa. I muscoli rilassati. Se non fosse stata Anna, lei sarebbe corsa via piangendo. Anna se la mangia la paura. Io non la spavento. Lei si fida troppo di me, sa che non alzerei un dito sul suo esile corpo, che non un singolo capello sarebbe stato tolto, che nessun colpo sarebbe stato tirato sul suo incantevole viso di carta. Si limita a strapparmi quel bacio. Un bacio tutto sommato distratto, ma ricco di amore. Anna sa. Sa tutto, capisce e conosce che situazione sto vivendo. La vive con me, giorno dopo giorno. Anche lei è stressata per tutto questo. Vorrebbe volare via. Lo vorrei anche io, per lei. Non merita questo, che è un problema mio, sono dannati fatti miei ma tutto quello che riguarda me, purtroppo, riguarda lei e noi, ormai. Come ragazza, come amica, come compagna di classe, come colei che amo. È sempre al centro della mia vita e non ho intenzione di farla uscire. Rientriamo in classe prima Anna, e io dopo poco tempo. Sono passati all'incirca due o tre minuti. Tutto nella norma. L'ora di latino vola.
                Finita la scuola, io, May, Anna e Gio ci troviamo al cancello. Discutiamo di cose di poco conto, come alle versioni per compito, valutare se farle o no. Niente fuori dall'ordinario. Confesso la decisione di parlare con i miei, specialmente con mio padre. Ormai è definitiva. Ho trovato il coraggio. Anna mi guarda dolcemente. Gio mi abbraccia. May mi da il bocca in lupo e mi batte il cinque. Sono pronto e carico. Carico la cartella di Anna sul motorino e anche il suo dizionario. Non ho un secondo casco, purtroppo, altrimenti la farei montare in sella e sfrecceremmo a casa mia. Mi limito a spingerlo e a fare la strada con lei a piedi. Non è assolutamente un peso, mi spiace solo vederla camminare.
"Anna- la chiamo- salta su." Le propongo, porgendole il casco.
"Sai che non so guidare" mi ricorda, ridendo e infilandoselo, poi sale in sella.
"Tieniti forte" l'avverto.
Di colpo inizio a spingere il motorino da dietro. Lei sobbalza e lancia un piccolo urlo. Non c'è pericolo, la strada è poco trafficata. Io accelero alla massima potenza. Anna continua a ridere ed è il suono più bello di tutti. Arrivati a casa, metto il motorino al suo posto e porto su le nostre cartelle e i dizionari. Anna riesce a recuperarne uno, nonostante io insista per portare tutto. Apro la porta e butto tutto in terra, come facciamo sempre. Apriamo il frigo, la dispensa, tutti i cassetti e racimoliamo qualsiasi cosa ci possa servire per preparare un pranzo. Buttiamo qualche uovo sul fuoco e alziamo la radio al massimo. Passa Neutron Star Collision dei Muse. Anna prende la pentola e comincia con immensa goffaggine a far saltare le uova che hanno un ottimo aspetto. Queste uova volano nella mia cucina ed è un miracolo che ricadono sempre nella padella; in fondo, un uccello torna sempre al suo nido. Ormai stiamo cantando a squarciagola. Io prendo qualche fetta di mane e la tosto, ci sbatto sopra della salsa, la prima che ho trovato in frigo, e poi qualche fetta di salame. Iniziamo a mettere il tutto nei piatti. Le uova, tra un'acrobazia e l'altra, ormai, sono più che bruciate. Il mio panino è poco invitante. Per migliorare l'aspetto ci metto anche qualche fetta di formaggio.
"Ora si che si ragiona!" Dico soddisfatto.
La mia principessa ride piegando la testa all'indietro. Come primo piatto può andare. Ora pensiamo al secondo. Anna trova delle piadine in fondo al frigo. La data di scadenza è un optional, a casa Pasini. Ci buttiamo su di tutto, dalle patatine al formaggio fuso. Uno schifo, insomma. Tutto ha un gusto diverso con lei. La mettiamo sul fuoco e aspettiamo che si bruci. Intanto pensiamo al dolce. Alla radio ora passa Basket Case dei Green Day. Non puoi fare a meno di ballare con tutta quell'allegria in torno. Cantiamo ancora più forte di prima. Facciamo anche finta di suonare la chitarra. Per il dessert, prendiamo una ciotola di vetro, una terrina, e ci mettiamo tutto il gelato che riusciamo a trovare in frizzar. Ci mettiamo sopra del cacao in polvere e della salsa al cioccolato e, infine, l'immancabile panna montata, il tutto cosparso di caramelline gommose e zuccherini. Un capolavoro mortalmente portatore di diabete. Ci lanciamo sul divano abbracciarti. Accendiamo la televisione. Guardiamo la prima partita di calcio che riusciamo a trovare e  iniziamo a mangiare come degli animali. Ecco perché amo Anna. Perché è sia ila mia migliore amica che la ragazza che amo e vorrei lo sapesse tutto il mondo. Finito di mangiare, buttiamo i piatti nel lavabo e accendiamo la console. Giochiamo a Fifa. Vinco un discreto numero di partire ma Anna non è da meno. Finita l'ultima, lei poggia la testa sulla mia spalla. So che vuole un abbraccio. Mollo tutto e la prendo tra le mie braccia. Sono già le 18. L'orologio corre, ma noi siamo più veloci. La faccio sdraiare su di me. Non pesa più di una piuma. Inizio a stringerla delicatamente, non vorrei mai si rompesse. Iniziamo a baciarci, ma di quei baci seri, quelli che te ne fanno chiedere altri. Rotoliamo di qua e di là fino a cadere giù dal divano. Non importa, non ci siamo fatti male.
                Andiamo avanti imperterriti fino a quando non sento un rumore. Non proviene da dentro casa. Scatto in piedi come un suricato. Anna ci rimane un po' male, devo dire. È una macchina che parcheggia. Mi butto alla finestra. È mio padre. In meno di un nanosecondo, Anna si alza e spegne il televisore. Io raccatto tutte le cartacce sparse in giro e la butto nel cestino di camera mia, per eliminare le prove. Anna intanto ha tirato fuori i libri e i quaderni di latino ad una pagina a caso e ha preso in mano una penna. Mi lancio sul tavolo, mi siedo. L'immagine idilliaca che vede mio padre appena entrato è quella di due ragazzi che studiano. Lo saluto con un sorriso.
"Ciao pa, come mai in anticipo oggi?"
"Eh sai- risponde togliendosi il cappotto- Giorgia voleva vederti."
 In quel momento vedo entrare il signor Mazilli, il datore di lavoro di mio padre, e Giorgia, sua figlia. L'incubo.
Lo sguardo di Anna è chiaro. 'Cosa ci fa lei qui oggi adesso ora perché' leggo.
Chiudo gli occhi. Spero sia tutto un brutto sogno, ma non è mai stato così reale.
Sento la voce stridula di quella viziata trapanarmi il timpano. Mi da un bacio passionale difronte a mio padre, a suo padre e ad Anna. Mi sento morire. Finita la tortura abbasso la testa. Anna si sforza di sorridere. È bella anche quando finge.
"Ehi ciao piccola. Non dovresti studiare oggi?" Chiedo a Giorgia con un finto entusiasmo. I nostri genitori si spostano in cucina con la scusa di un caffè.
"No, avevo voglia di stare col mio ragazzo." Mi risponde, strusciandosi su di me. Mi irrigidisco. 'Anche Anna' penso.
"Che bello, mi mancava stare con te." Commento distrattamente, alzando gli occhi verso Anna, visibilmente imbarazzata.
"Scusatemi, devi andare un attimo al bagno." Dice Anna.
So perché va via. Vorrebbe strapparle tutti i capelli e lanciare addosso il dizionario ma Giorgia è il mio problema.
"Allora Ettore, chi è la troia li?" Mi chiede disgustata guardando Anna andarsene. Non so se abbia sentito o meno, ma io mi sono sentito morire.
"È Anna, la mia migliore amica."
"Ah. Pensavo di essere io..." ribatte facendo la finta offesa.
Patetica.
"No Giorgia, tu sei la mia ragazza." Spiego, restando al gioco il minimo indispensabile.
"Lo so " dice stampandomi un grosso bacio sulla guancia, sporcandomi col rossetto, quasi per marchiarmi a vita.
Doppiamente patetica.
I suoi capelli biondi tinti in modo atroce continuano a finirmi in bocca. Passo all'incirca venti minuti sentendo le mie gambe andare in cancrena per l'eccessivo peso mal distribuito del corpo di Giorgia che continua imperterrita a giocare col suo telefono. Anna rientra in salotto. Giorgia la guarda con aria di sfida.
"È meglio che vada..." dice a voce bassa, raccogliendo le sue cose sparse.
"No dai, perché non rimani a cena?" Riesco a bloccarla prima che esca dalla porta.
"Non saprei.. dovrei già essere a casa ora." Ribatte, imbarazzata. Lei rimarrebbe tutta la vita.
"Ecco, allora vattene." Il segnale di Giorgia è chiaro.
Io sono il suo territorio. Sono il suo schiavo. Secondo lei, sono il suo ragazzo. Impotente, la lascio uscire. La posso solo salutare con un gesto della mano. Vorrei perlomeno abbracciarla, ma mi è impossibile. Rimango a subire in silenzio fino a dopo cena Giorgia e suo padre. Non so chi mi stia più in culo. Mamma era rientrato poco dopo che Anna era uscita. La cena peggiore della mia vita. Una così bella giornata rovinata.
                "Pa." Dico. La famiglia Mazilli aveva levato le tende da poco più di dieci minuti e io mi sentivo pronto ad affrontare mio padre.
"Dimmi Ettore"
Sono deciso. "Io odio Giorgia."
 Sento il volume della televisione spegnersi di colpo e l'acqua del lavabo smette di scorrere.
"Amo un'altra. Voglio mollare Giorgia per stare con lei."
La reazione di mio papà tarda ad arrivare. Non so se per lo shock o per qualcos'altro. In casa sento la temperatura calare di colpo. Il mio sudore farsi freddo e i miei muscoli irrigidirsi. Deglutisco a fatica. Voglio dare il colpo di grazia.
"La ragazza che amo è Anna."
Come sente il suo nome, mio padre si alza e mi butta contro il muro, ma non mi faccio male.
"Stammi a sentire: tu non mollerai Giorgia per stare con Anna."
"Perché no?- ribatto- io sono innamorato di lei dalla prima superiore. Giorgia è una ragazza odiosa, insensibile, strafottente, maleducata e tutte le cose peggiori di questo mondo, e tu lo sai. Hai visto come si comporta? Pensa di essere al centro del mondo, mi schiavizza, mi fa fare i suoi compiti! Capisci?! Me li manda su WhatsApp alle 10.30 di sera e io devo stare li come un deficiente a farli. E se questo non ti sembra abbastanza, perché, in effetti, questa è la cosa migliore che mi succede, ti faccio presente il fatto che lei si struscia continuamente su di me in un modo a dir poco imbarazzate: è come vedere un pachiderma ballare la salsa!- sento mia madre sogghignare- Non c'è una singola cosa che mi piace di lei e ho seriamente e ripeto seriamente paura che Giorgia mi violenti nel cuore della notte. Detto questo, penso di aver detto il minimo indispensabile."
"Hai ragione su tutto, ma non la lascerai. Io ho ancora bisogno del tuo aiuto."
"Per cosa? Per farti invitare a cena dal presidente? Pa, le cose ormai si sono sistemate, tu non rischi più di perdere il posto, hai avuto la tua promozione e sei il braccio destro del boss. Basta no? Una rottura tra me e quell'animale viziato di sua figlia non cambierà gli equilibri. E poi, non puoi costringermi a stare con Giorgia."
"E invece posso. Lo sto facendo. E continuerò a farlo finché Giorgia non troverà qualcun'altro da tormentare."
"Quindi lo pensi anche tu?" Ribatto. La sfida tra me e mio padre è più accesa che mai.
"Senti, non mi importa cosa vuoi e cosa non vuoi. Devi sacrificarti per la tua famiglia, come faccio io e come fa tua mamma. Se non fosse per te e per la tua storia con Giorgia, ora saremmo sul lastrico: quindi ora continua a tenere in piedi questa pagliacciata. Sono stato chiaro?"
Mio padre mi sta sbraitando contro.
"Perché non posso stare con la ragazza che amo?" Sussurro.
Sento la mano pesante di mio padre colpirmi la guancia con uno schiaffo. Fisso il pavimento. Di sicuro mia madre ora si starà tappando la bocca con la mano. Mio padre è li, fermo, vincitore.
                "Scusami, ma le cose stanno così."
Dico con tutta la voce che mi è rimasta. Scivolo in camera. Sbatto la porta: è bene che sentano. Come mi ritrovo dentro, crollo. Mi lascio scivolare per terra. Il bianco opprimente dei camera mia mi sta dando alla testa. Rimango seduto per non so quanto, poi decido di alzarmi. Gironzolo per camera mia, come fosse la prima volta, come fossi alla stazione dei treni, ad aspettare qualcuno o qualcosa, forse proprio il treno per andarmene da qui. Prendere Anna e andare via per sempre. Guardo qualche soprammobile del quale non mi ero mai accorto dell'esistenza, prendo in mano alcune cornici decorate nei più svariati modi, una con le conchiglie, una con dei ritagli di carta. Contengono foto mie, da piccolo, con mia sorella Costanza, con la mia famiglia, con i miei amici e una perfino con Anna. Era la nostra prima foto insieme. Tengo tra le mani quella cornice piena di brillantini colorati e stelline argentate, dipinta di blu. È ruvida al tatto. Dentro ci siamo io e Anna al mio sesto compleanno. Anna aveva i capelli lunghi di sempre, stavolta raccolti in due codini e una simpatica frangetta. Gli occhi bellissimi di sempre. La solita incantevole pelle di carta. Le sue guance erano rosse come due mele, come il sole che vedo tramontare ora fuori dalla mia finestra. Io avevo i miei soliti capelli neri corti corti e i miei occhi, che sembravano molto più grandi e vivaci una volta che non adesso. Nella foto sorrido e mi mancava qualche dente. Era estate. Mi sembra di ricordare la gentile brezza che tirava quel giorno. Mi rivedo correre per il prato davanti a casa mia. Non esisteva niente, non esistevano le sigarette, il cellulare, l'amore, i baci, non esistevo io, non esisteva Anna e tanto meno Giorgia. Anzi, c'era tutto, ma non mi toccava. Eravamo una quindicina di bambini tutti in costume da bagno: cercavamo di farci bagnare dall'irrigatore che stava in giardino. Osservo quei bambini finiti chissà dove dalla finestra. Il cielo è azzurro, il sole ancora alto. Riconosco alcune facce e mi stupisco di chi rivedo. Ragazzi e ragazze con i quali ho ormai perso i contatti da anni, che mi hanno voltato le spalle, che ora come ora odio, tutti li, nel mio giardino. Li guardo con nostalgia di quell'innocenza, prima di imparare a fare del male. Vedo Anna: indossa un costumino rosa, a due pezzi, con disegnate delle margherite bianche. Corre scalza, felice, ancora all'oscuro di quello che sarebbe stato il suo futuro. Vedo i suoi genitori in lontananza. Chiacchierano con i miei, ancora pieni di vita. Ed eccomi la, in fondo, nascosto dietro il tavolo a sgraffignare pezzi di torta avanzati. Ero incorreggibile, come oggi del resto. Avevo un costume rosso che mi arrivava al ginocchio. Penso di averlo ancora, da qualche parte. Sbuco fuori all'improvviso da dietro un cespuglio e spavento Anna, che inizia a scappare spaventata, ma capisco che stavamo solo giocando. Corriamo in cerchio, dimenticandoci di tutto e di tutti, solo noi, come ora. Finalmente riesco a prenderla: la catturo e la stringo forte in vita, per non farla andare via. Appena la rimetto coi piedi per terra, compare sua madre, con una macchina fotografica in mano. Le somiglia molto. Anna mi butta le braccia intorno al collo, mette la sua guancia contro la mia e scattiamo la foto. La foto che ho tra le mani. Penso che tutto sia partito da li. Precisamente dall'istante dopo. Subito dopo, infatti, Anna mi stampa un bacio sulla guancia. Un bacio da bambini, ovvio, ma in me qualcosa è cambiato. Come in un eterno flashback, rivedo tutto il tempo passato con Anna. La settimana al mare in seconda elementare, il funerale dei suoi, i pigiama party, quella volta che siamo scappati in un campo di grano muniti solo di una chitarra, quando ci siamo arrampicati sul tetto, la nostra prima sigaretta, il nostro primo bacio. Tutto passa come un fulmine. Vedo un piccolo Ettore salutarmi dalla finestra e torno alla realtà. Guardo la foto che tengo tra le mani. Il mio volto è bagnato da una lacrima, la mia. Mi ricompongo prima di subito. Devo uscire, andare via, scappare. Sono solo le 20.00. Potrei uscire. Prendo la giacca e qualche soldo. Apro la porta di camera ed esco. Non so se si vede che ho pianto, ma meglio che vedano.
"Ma, Pa, io esco."
"A che ora torni?" Mi chiede mia madre. È seduta al tavolo, da sola. Mio padre sarà sicuramente nello studio.
"Non se neanche se torno. In caso sono da Gio." Se la beve.
Salto sul motorino e parto. Ho già una meta. ___________________________________________________ ___________________________________________________ Ehi ciao! Ti prego, lasciami un piccolo commento! mi interessa moltissimo sapere cosa ne pensate dei miei lavori! grazie mille!!

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Capitolo 2
*** Mercoledì ***


Arrivato, suono il campanello. La casa è al terzo piano di un condominio. Aspettando una risposta scorro tutti i nomi sulle cassette delle lettere. Li avrò letti milioni di volte, ormai li so a memoria talmente bene da notare subito che si è traferito un nuovo coinquilino. Risponde la voce di un bambino.
"Si? Chi è?" Chiede.
"Ehi Stefano! Sono io, dai aprimi campione."
In un battibaleno sono su. Salgo i gradini a due a due tenendo il casco sotto braccio. Busso alla porta. Mi aprono subito.
"Eta! Ciao, come stai?" Mi chiede con un sorriso.
"Ciao zia Doni! Io bene tu?"
"Molto bene, ma entra, entra!" Vengo accolto come uno di famiglia. Stefano appende la mia giacca e mi invita in camera sua a vedere il suo album di figurine, senza nemmeno lasciarmi il tempo di parlare con la zia Donatella. La sua camera non è molto grande: il letto è incassato nell'armadio e il vano in cui si trova è ricoperto da poster di super eroi, come Superman, Batman, Iron Man, Spiderman, Lanterna Verde. Della scrivania non rimane altro che un ammasso di libri e fumetti, quaderni e pennarelli sparsi e ammucchiati fino a farla scomparire ed è un miracolo che sia ancora in piedi. L'armadio ha le ante azzurre con le maniglie in legno scuro e le pareti sono bianche. Ci sono delle mensole sparse qua e la, piene di cianfrusaglie, come modellini d'auto d'epoca, costruzioni in lego, coppe vinte giocando a calcio, vecchie foto di famiglia con i suoi genitori. Dopo circa dieci minuti, bussa Donatella. Mi chiede se mi andava di mangiare qualcosa ed io accetto volentieri visto la cena disgustosa di prima. Stasera si mangia cinese.
    "Allora, Eta, sai che da noi sei sempre il benvenuto, ma qual buon vento ti porta qui? Con così poco preavviso poi! Insomma, nessuno mi aveva detto nulla..." Rimane appoggiata allo stipite della porta e mi guarda sorridente.
Abbasso la testa. Il suo sguardo comincia a spegnersi. Si avvicina a Stefano e dolcemente gli dice: "Stefano, adesso Eta viene con me in cucina un attimino ok?"
Mi porta fuori, sul balcone. Mi offre una sigaretta devo dire che l'accetto più che volentieri.
"Non tu va di parlarne vero?" Si lascia cadere coi gomiti sulla ringhiera. Guarda giù e poi le luci della città.
"Non molto..."
"Capisco. Sappi che io non ne so proprio nulla, non mi sono intromessa. Per la vostra privacy, insomma... " Si alza una leggera brezza che fa svolazzare la gonna del vestito marrone di Donatella e porta lontano il fumo. Lontano dove vorrei essere io. Fa un tiro e butta fuori tutto, come se si svuotasse di tutti i problemi e le preoccupazioni. Io non riesco a farlo. Mi limito a far uscire il fumo. Donatella portava un taglio corto, maschile e sbarazzino. Le dona molto, soprattutto le dona il colore biondo dei suoi capelli. "Quando ha fatto una tappa qui, per prendere delle cose, l'avevo vista un po' giù di corda, ma mi sono limitata a guardare. Aveva bisogno di sfogarsi, sai no? Com'è fatta, dico?" Rispondo con un cenno della testa. La guardo. È una donna giovane, sulla trentina. Una ragazza quando le caddero addosso tutte le responsabilità. Ha gli occhi castani, stanchi per la giornata, tristi per tutto il resto. Una bocca sottile, con delle labbra chiare, coperte da un velo di rossetto, un po' sbavato.
"Ora dov'è?"
Donatella non risponde. Fissa il vuoto. Sento squillare il suo telefono.
"È un messaggio, dice 'il solito'. Bene, ora posso chiamare il ristorante. Si cena per le 8.30"
E ritorna in cucina, apparecchia il tavolo, solite cose. Evita la mia domanda, le passa in parte con una freccia che ha mancato il suo bersaglio. Non capisco perché non mi abbia risposto: in fondo ho chiesto solo dov'è. Mi sento all'oscuro di qualcosa. Scollo le spalle e rientro. Ritorno in camera di Stefano che mi sta aspettando. Continuiamo a sfogliare l'album finché non sento la porta principale aprirsi e chiudersi: sono le 8.15. Scatto in salotto. Anna è rientrata.
    "Che ci fai qui?" Dice in tono sorpreso.
 È una via di mezzo tra lo spavento e il felice. Felice di vedermi, spaventato dal fatto che io l'abbia vista con quel borsone blu scuro che stava portando sulla spalla. Lo lascia cadere e viene a salutarmi. Mi da un bacio sulla guancia e sorride. Mi convinco, ancora di più, che non è entusiasta del fatto che io fossi qui, a casa sua, in questo orario, oggi. Ha un'aria stanca, ma contenta. Raccoglie quello che aveva fatto cadere e sparisce in camera. Vorrei seguirla ma penso che sia meglio restate qui, in salotto. Mi siedo sul divano e aspetto. Il salotto è ben arredato. La televisione occupa la parete principale. È poggiata su un mobile, che la incornicia. Sui lati ci sono delle vetrinette. Mi alzo e inizio a guardare tutti i bellissimi piatti decorati a mano che sono esposti. Sono uno diverso dall'altro. Uno con delle farfalle, un altro con degli alberi. Rimango incantato a fissarli. Mi accorgo che, accanto a questo mobile, c'è una grande libreria. Spostandomi tra i libri, noto altre foto di famiglia, che sembrano tappezzare la casa. Ne prendo qualcuna in mano, tanto per vedere meglio. Tutto d'un tratto eccola la, fa la sua entrata, come una sposa in chiesa. Indossa una felpa blu, di un taglio decisamente maschile con la scritta "London", e dei pantaloni sempre di felpa, grigi, stretti sul fondo e un paio di calze bianche. I lunghi capelli cadono sciolti sulle spalle e una ciocca le cade sul petto. Se li sta ancora pettinando con le mani, come può. Il suo viso pulito si accende in un saluto verso sua zia e poi verso suo fratello. Io sono ancora li, in piedi accanto alla libreria. Rimetto in tutta fretta la foto di lei e suo padre sullo scaffale e mi accomodo sul divano. Continuo però a tenere lo sguardo fisso sulla cornice. Si siede accanto a me.
Quasi nessuno a scuola sa come sia successo.
Le passo un braccio intorno alle spalle. Lei mi prende la mano, intenzionata a non lasciarla andare mai. A casa sua può comportarsi senza filtri, lascia uscire emozioni, risate, paure, fragilità. In pubblico non farebbe mai così, soprattutto vista la situazione. Le confesso tutto. Della discussione con mio padre, di perché sono qui.
"Anna..." le prendo la mano.
"Dimmi? Prima che tu dica qualsiasi cosa però, volevo scusami. Per come mi sono comportata oggi, insomma, io... ecco. Avrei dovuto andare via prima, tutto qui. Poi anche quello che è successo in bagno, davvero..." farfuglia. Non sa nemmeno lei cosa dire.
"Sono io quello che deve scusarsi, Amo..." Mi blocco. Lei non vuole essere chiamata Amore.
 "... Anna - riprendo più convinto- per quello che è successo al bagno, oggi. Non so cosa mi sia preso. Sai che io sono un tipo calmo, di solito. Solo che.. lo stress, Giorgia, la scuola, oggi ci si è messo anche Gio... sono scoppiato addosso a te. Mi dispiace perché il problema è mio, non tuo, e ti sto travolgendo in una battaglia che non dovresti combattere. E.." dico d'un fiato.
 Lei mi prende dolcemente il viso tra le mani.
Sono le 8.32 e arriva la cena. La zia Doni ci raggiunge sul divano, accendiamo la tele e guardiamo un film. Io abbraccio Anna e stiamo li, accoccolati a mangiare. Donatella ci stappa due birre. Una volta finito, il campione ci intrattiene con qualche simpatico trucco di magia. Non tutti riescono, ma non passa un solo istante senza che Anna abbia il suo meraviglioso sorriso stampato in faccia. Dopo svariati tentativi, finalmente indovina la carta scelta da me. Era un 7 di picche. Un trucco molto semplice ma di grandissimo effetto. La fotografia nella cornice continua a fissarmi e io non posso fare a meno di guardarla. Anna avrà certamente notato che sono un po' assente. Quella foto, quegli sguardi mi catturano. Forse non dovrei, ma le parole mi sono già scappate di bocca quando ci penso.
    "Anna, come sono morti i tuoi genitori?"
Ho gli occhi bloccati sulla foto. Anna sobbalza, Donatella distoglie lo sguardo, Stefano scappa in camera. Anna appoggia delicatamente il bicchiere che teneva in mano sul tavolino, mette i gomiti sulle ginocchia e si sposta il ciuffo dal viso. Si morde le labbra. Mi sussurra di accompagnarla fuori. In quel momento mi sento cadere dalle nuvole; riesco finalmente a distaccare lo sguardo da quei volti di cui non ho altro che un vago ricordo. Usciamo sul balcone.
"A volte le cose succedono a persone che non sono in grado di affrontarle."
Dice accendendo una sigaretta.
"Io ero una di quelle. Ero piccola quando successe. Viaggiavano molto, per lavoro. Erano in Francia: ci avevano mandati foto, lettere, cartoline. Eravamo felicissimi e non vedevamo l'ora che tornassero: sai, papà ci portava sempre un regalo dai suoi viaggi di lavoro. Una maglietta, un quadro, una calamita. Dipendeva da dove andava e da quanto stava via. Andare a Parigi era sempre stato il sogno della mamma e così, dato che ci andava, papà se la portò dietro. Erano molto innamorati. Sarebbe tornato in un paio di giorni, ma rimasero una settimana perché così la mamma poté realizzare il suo sogno. Io e Stefani sentivamo molto la loro mancanza perché eravamo affezionati tantissimo ai nostri genitori. Quando morirono nel tornare. Un incidente col treno. La maggior parte morti. Cosa contava uno di più o uno di meno.- la fisso perplesso.- Per me e Stefano fu devastante. Lui ci mise un po' a capire che non sarebbero mai tornati, che l'ultimo abbraccio era stato una settimana prima dell'incidente. Io capii al volo. Era appena morto il gatto di quelli di sopra. Prima, gironzolava sul nostro davanzale, lo accarezzavi, lo coccolavi, poi d'un tratto non c'era più. Mi sembrava quella, la morte. Ma la verità è che la morte è tutt'altro. Lo capii qualche giorno dopo, al funerale. C'eri anche tu. Non si trattava di rimpiazzare un gatto, qui se n'erano andati i miei genitori. La casa era vuota, senza di loro. C'erano i parenti che si davano il cambio per badare a noi, ma in realtà eravamo abbandonati a noi stessi. Nessuno riempiva il vuoto lasciato dai nostri genitori. Forse solo il pianoforte che era a casa mia. All'epoca non sapevo suonarlo. Ma guardandolo, notavo che aveva dei tasti bianchi, la maggior parte, e anche dei tasti neri. Anche i tasti neri servono per fare musica, in fondo. Fa tutto parte della vita, di un progetto, di una melodia che ha scritto qualcuno lassù, in cielo. Almeno, la vedo così. Non si può vivere senza mettere in conto le cadute, i momenti bui, i tasti neri, altrimenti hai fallito in partenza. Fatto sta, che l'unica cosa che sembrasse dare un minimo di senso alla perdita dei miei fosse la venuta di qualcuno, di un cambiamento. È per questo che prego."
Poggia tra le labbra per la prima volta la sigaretta. La guardo basito.
"Ti ha tolto tutto." Ribatto convinto.
"Sai, penso ancora che Dio sia buono."
"Come mai? Ti ha fatto del male, ti ha fatto soffrire e tu lo preghi ancora."
"Mi ha dato te."
Ammutolisco, silurato. Anna non mi degna di uno sguardo.
    "Non si muore mai da soli." Mi scivola fuori dalle labbra. Perché irreparabilmente una perdita uccide chi perde e chi viene perso. Irreparabilmente lasciamo sempre qualcosa di incompleto. I nostri progetti, le nostre aspettative, la nostra vita. Perdere qualcuno è come perdere una tessera di un puzzle. Tuttavia, tu devi completarlo, non puoi piantarlo li e stop. È una di quegli avvenimenti che succedono e devi accettare. Devi andare avanti, qualunque cosa comporti. Così ha fatto Anna. Così ha fatto Stefano e così anche Donatella. Ciò non vuol assolutamente dire che sia passato tutto, infatti per loro tutti è ancora una ferita aperta. Mentre formulo questi pensieri, guardo il profilo del viso delicato di Anna. La sua fronte non troppo spaziosa, le sopracciglia sottili, gli occhi grandi e castani, il naso a punta, piccolo, le labbra rosse che tengono strette una sigaretta. Ne prendo anche io una dal pacchetto. Appoggio la parte bassa della schiena contro la ringhiera del balcone e mando il fumo verso l'alto. Vedo la nuvola trapassata da una goccia d'acqua che ricade sulla mia scarpa destra. Pioviggina. Spero solo migliori, visto che sono qui in motorino. Che migliori, come l'umore di Anna, la rabbia di mio padre, la situazione. D'un tratto, senza che io dica nulla, Anna mi abbraccia. Sento il suo dolore passare dal suo corpo fragile al mio, come se stesse di gettarlo fuori, alla ricerca di un aiuto, di qualcuno che la salvi. Ma io non sono quel qualcuno. Posso solo essere uno spettatore di un dolore che non ho mai e non so come affrontare. Posso solo essere il suo diario segreto, ascoltarla, in silenzio, senza poter rispondere. Posso solo essere preso a pungi, straziato dalle sue lacrime senza poterle asciugare. Sono come dietro un vetro. Posso solo vedere e sentire, ma non posso agire. Assorbo tutto il male che posso. Il male arriva a tutti, anche a quelli che non se lo meritano. Anche a quelli che non sono in grado di affrontarlo. La stringo più forte. Guardo il fumo della mia sigaretta nel posa cenere salire al cielo perché, in fondo, è la fine di tutti. La pioggia si fa più insistente. La invito ad entrare. Varchiamo la soglia della porta finestra proprio quando sento un tuono. Anna sembra non accorgersi di niente e rimane imperterrita abbracciata a me. Veniamo avvolti dal calore della casa e dagli sguardi di Stefano e Donatella. L'orologio segna le 22.30. Dovrei già essere a casa. Do un occhio fuori e la pioggia cade ancora lieve.
"Grazie mille per l'ospitalità, ma penso sia meglio che vada." Sussurro all'orecchio di Anna. La stringo più forte che posso poi la lascio andare.
"Grazie zia Doni, grazie di tutto, ma è tardi... quindi scappo. Buona notte a tutti, anche a te, Campione." Arruffo i capelli del piccolo Stefano che è seduto in parte alla zia. Le do un caldo abbraccio. Subito dopo, con uno scatto, prendo Anna per un fianco, le alzo il mento e le do un bacio sulle labbra tagliate per il freddo. Appena chiudo la porta, inizio una corsa senza fine fino all'entrata del condominio.
     Infilo il casco in qualche modo e sfreccio via. La pioggia diventa sempre più insistente e mi piomba addosso come se fosse fatta di sassi. Entro nel vicolo di casa, butto in terra il casco e salgo. Sono stufo di tutto e di tutti, tranne di Anna.
"Dove sei stato?"
"Fuori."
Mia madre ringhia. È seduta al tavolo. Con il telefono in mano, ci giochicchia. Io sono in piedi, ancora con il pomello della porta in mano. La chiudo lentamente e faccio per andare in camera.
"Ho chiamato la mamma di Giovanni. Tu non eri a casa sua vero?" La voce di mia mamma è distrutta. La sento cadere a pezzi, frantumarsi ad ogni parola.
"No, non ero da Gio."
"Allora dov'eri? A drogarti al parco? A rubare? A violentare qualche ragazza?" Mi accusa tra i singhiozzi. Corro verso di lei e le prendo il viso fra le mani. Ha visibili segni di violenza sul volto, mio padre si sfoga su di lei da anni.
"Mamma ero da Anna."
Tira un sospiro di sollievo e mi prende la mano. Il suo volto è quello di una donna straziata. I suoi capelli neri sono raccolti un una coda disordinata. Si intravedono pochi capelli bianchi, sciupati. Ha un livido sotto i grandi occhi azzurri, probabilmente causato da uno schiaffo. Le sue guance sono rigate da una lacrima, le sue labbra socchiuse. Le preparo una camomilla. La verso in una tazza alta, azzurra, poggiata su un piattino bianco con un cucchiaino in parte. Mi siedo di fronte a lei e la convinco a raccontarmi cosa è successo. Mio padre, dopo che ero partito, aveva iniziato a discutere con lei sul mio comportamento, sul modo in cui mi aveva lasciato andare via, su come mi ha educato, sul fatto che doveva tenermi lontano da Anna fin da subito e invece non l'ha fatto. Riesco ad immaginarlo perfettamente mentre sbraita, mentre urla, mentre butta li, una dietro l'altra, parole senza senso, dette solo per occupare spazio, per una ferita mai richiusa risalente a chissà quanto tempo fa e, tanto per cambiare, tutto ciò ricade su una delle poche persone che non c'entra assolutamente nulla: mia madre. Dopo aver preso una bottiglia di vino e averne bevuta più della metà, aveva iniziato a imprecare e a buttare bicchieri, piatti, bottiglie e tazze per terra, e questo confermava i molteplici cocci che avevo visto sul pavimento in cucina. Aveva poi cominciato ad avvicinarsi a mia madre e l'aveva colpita più volte, insultandola. Usava le sue grandi e così apparentemente gentili mani come fossero armi sul delicato e dolce viso di mia madre che soffriva, impotente. Coglievo a piccole parti, a frammenti simili a quelli sul pavimento, tra i suoi singhiozzi la terribile storia. Mio padre non era uscito da tanto, una mezz'oretta massimo. E lei era rimasta li, da allora, aspettando il mio ritorno, per avere la certezza di non essere sola. Dopo che Costanza è partita, sono rimasto solo io. Mia sorella è in università a Pisa da ormai due anni, e io sono rimasto solo con mia madre contro mio padre. La porto a letto, le rimbocco le coperte e l'abbraccio. Non si accorge del l'evidente puzza di fumo proveniente dai miei vestiti. Un dispiacere alla volta basta e avanza. Esco e spengo la luce. Manca poco a mezzanotte e ho ancora molte cose in sospeso, come avvisare Costanza, dire a mio padre che può andarsene all'inferno, infamare di nuovo Gio, dire ad Anna che la amo, copiare i compiti da May. Sgattaiolo in bagno senza far rumore. Mi farei un bel bagno caldo se avessi la certezza che mio padre non potesse entrare in questo preciso momento dalla porta e cacciarmi fuori a pedate. Mi limito a bagnarmi il viso e dimenticare tutto. Mi lancio sul letto, scrivo a Costanza "Papà l'ha rifatto" e metto il cellulare in carica. Le coperte mi cadono addosso, calde e pesanti. È finita un'altra giornata e, come mio solito, ne faccio un bilancio; un bilancio né positivo, né del tutto negativo. Ho passato un bel pomeriggio e una bella serata con Anna, ma è success tutto quel che è successo con i miei e oggi Gio ha dato il meglio di se. So che mia sorella mi ha già risposto, ma non ho voglia di guardare il telefono. Mi giro su un fianco e mi addormento, aspettando la sveglia.
    Suona prima del solito , almeno, a me sembra suonare sempre troppo in anticipo, perché la voglia di dormire non è mai abbastanza. La luce abbagliante del mio telefono mi acceca. Con gli occhi praticamente chiusi cerco di fermare i Linkin Park che si stanno impegnando per farmi svegliare. Fuori è ancora buio. Mi alzo e vado in bagno. Lo vedo un po' sottosopra, evidente segno che mio padre è rincasato ubriaco marcio. Mi lavo le mani e la faccia, mi vesto, mangio le prime cose che mi capitano in mano dalla dispensa, rubo un pacchetto di sigarette dall'ufficio di mio padre, esco. La giornata sembra migliore, per il tempo. La macchina è parcheggiata alla meno peggio in garage. Spingo il motorino fuori con enorme fatica. Sono a scuola in un battibaleno. Anna, May e il simpatico Gio al loro posto, vicino alla palestra. Mi avvicino con un passo sostenuto, ma non mi va di correre. Nel vedermi, May alza una mano in segno di saluto e io contraccambio, continuando imperterrito ad avanzare. Oggi il cielo e limpido.
"Gli dei sono propizi, oggi."
Ridacchia Gio. I suoi jeans sono strappati e il suo giaccone appariscente. Lo guardo stranito, non capendo la sua affermazione.
"Abbiamo volontari in latino: Gironi e Campana."
Dice May, con lo sguardo perso nel vuoto e una sigaretta in mano.
"Bene." Rispondo, sorpreso. Era da molto che non ne capitavano, di volontari che si offrissero VOLONTARIAMENTE.
    "Facciamo una stronzata?" Ridacchia Gio, accendendo una sigaretta. Gio è il burlone della classe. Ne inventa di tutti i colori e io mi lascio sempre e volentieri coinvolgere.
"Spara." lo incalzo io.
È un piano geniale.
La prima ora abbiamo la sclerata di matematica. La vittima ideale. Ci facciamo nascondere gli zaini e diamo il via alle danze. In classe, abbiamo un armadio non troppo largo, ma abbastanza profondo dove ci stanno perfettamente due persone in piedi. Poco prima delle 8, io e Gio ci chiudiamo dentro, aspettando il momento adatto per agire. La professoressa entra più fuori di se del solito, una vipera con i tacchi. Ci segna giustamente assenti. Il piano procedere a meraviglia, fino a quando non incomincia a insospettirsi. Chiede ad Anna se sa qualcosa, lei risponde che non ne sa nulla, che stamattina mi aveva mandato un messaggio ma nulla, io non rispondevo. Stessa domanda a May e lui la informa che era passato da Gio prima di venire ma, suonato il campanello, la casa sembrava deserta.
"Sapete perché ve lo chiedo?" Dice togliendosi gli occhiali.
"Ehm, francamente no." Risponde May.
"Perché a me non piacciono le persone che marinano la scuola."
"Vuole un applauso?" Mi bisbiglia all'orecchio Gio. Inizio a ridere: Gio cerca di farmi smettere, ma è più forte di me.
"Non muoverti, che sono claustrofobico!" Si agita.
"Allora sei un idiota! Perché hai voluto nasconderti in un armadio?!" Sbraito io. Siamo chiusi in mezzo metro quadrato in due, la nostra posizione è molto equivoca e questo mi dice di essere claustrofobico? Robe che se fossimo all'aperto lo ammazzerei.
"Non mi piacciono per niente," Continua la prof dopo una lunga pausa "e ancora di meno mi piacciono quelle che se ne infischiano altamente della scuola. Sappiate che oggi ho il colloquio con i genitori di Bettini, quindi vi conviene che quello che avete appena fatto non sia un atto di omertà!" Si sente fiera del suo discorso, suppongo, perché la vedo, dalle fessure dell'armadio, che sono proprio ad altezza dei miei occhi, che si alza in piedi, fiera e convinta. Sento il cuore fermarsi. Non può aprire l'armadio ora. No. Si avvicina sempre di più. L'intento è quello di stare nascosti tutta l'ora e saltar fuori alla fine. Sento Gio prendermi la mano: la sta stritolando. Se i suoi scoprono quello che stiamo facendo, lui è in punizione per sempre. Io pure. Rimaniamo nascosti per all'incirca 35 minuti, poi la prof apre l'armadio.
"PASINI! BETTINI! COSA CI FATE NELL'ARMADIO?!" strilla in preda a un attacco isterico.
"Prof, siamo appena tornati da Narnia!" Spiega Gio. Davvero, è un maestro.
"MA, io mi domando: fate queste cose da bambini? Dopo tutti questo tempo?"
"SEMPRE PROF!"
Ha firmato la sua condanna a morte, di conseguenza anche la mia. Vedo Anna soffocare una risata. May ha la testa infilata nella cartella per non farsi beccare mentre ride.
"VOI DAL PRESIDE. PRIMA DI SUBITO."
    L'ufficio del preside è ben arredato. L'unica cosa positiva della faccenda. Il pavimento è grigio, come in tutte le altre classi, con mattonelle grandi e quadrate, molto pulite, al contrario delle nostre che sono ricoperte da un folto strato di polvere e sporcizia. Le pareti sono di un bianco opprimente che tra poco, lo so, mi darà alla testa. Sono spoglie, se non per una bacheca in sughero vicino alla porta, alla sua sinistra. Ci sono appese alcune circolari, ma non riesco a leggere. Dietro di noi, si eleva un gigantesco armadio di metallo, non troppo vistoso, se non per le dimensioni. Ai lati, due piante verdi, contenute in due grossi vasi di ceramica, decorati a mano al laboratorio scolastico. Sono ben curate e crescono rigogliose, donando un tocco di colore alla stanza. Alla nostra sinistra, le finestre. Timidi raggi di sole filtrano tra le tapparelle abbassate ma, nonostante la volontà di lasciar fuori qualsiasi cosa, questi regalano un po' di allegria a noi poveri carcerati in attesa di un giudizio, una sentenza. Uno dei raggi mi accarezza il viso, come farebbe Anna, come farei io con mia madre. Lo lascio li, poggiato sulla mia guancia, senza spostarmi. Di fronte a noi, imponente, vediamo la scrivania in scuro legno massiccio del preside. L'incubo di tutti gli alunni. Non ci sono molti oggetti sopra: qualche scartoffia, una, due penne sparse qua e la, un bel porta oggetti nell'angolo, un moderno computer con la stampante sull'altro lato. Dietro di questa, come un aquila sulla vetta di una montagna, una comoda poltrona nera ci controlla. È vuota, ma non per molto. Ha lo schienale alto, imbottito, trapuntato, fatto in cuoio. La seduta, ormai consumata, pare essere molto comoda. I poggia braccia sono fatti in plastica, sono larghi e neri. Guardo Gio seduto accanto a me. Fissa il vuoto. Cerco di godermi il momento, nel limite del possibile ovviamente, pensando a quanto sia comoda la sedia dove sono. Forse un po' vecchiotta, ma molto morbida. Il silenzio assordante di quella stanza è ogni tanto interrotta da uno squillo di un telefono, dal rumore di una stampante in funzione, da una porta che sbatte. E sbatte nella stanza in parte alla nostra.
    "Vorrei capire: sono le 8.37 del mattino, la sclerata della Bortolotti arriva di qua come se fosse assatanata dicendomi che ci sono due ragazzi che sono dei "mascalzoni" da "castigare", non ci sono le circolari sulle vacanze di Natale e manca poco più di una settimana e in più venite a dirmi, alle 8.37 del mattino, che la Bignardi va in maternità? Ma siete seri? Io vi licenzio tutti. Io vi polverizzo, io vi trucido, io vi stacco la testa a morsi, io vi prendo a sberle a due a due finché non diventano dispari. Capite che io devo gestire un corpo docenti che non è mentalmente stabile, 48 classi, un'orda di genitori incazzati e maleducati che si presentano qui a qualsiasi ora del giorno o della notte, sbraitandomi contro, accusandomi di essere un incompetente, un insensibile ai problemi dei loro figli perché non hanno la media del 16 in tutte le materie, un gruppi di rozzi e sfaticati bidelli che sono qui solo per scaldare le sedie con quei loro sederi flaccidi, e mi ritrovo a lavorare con un branco di fannulloni come voi, con un personale che gestisce la segreteria come fosse un camioncino dei gelati guidato da due scimmie che si grattano il fondo schiena! Sono le 8.39 del mattino gente. Forza, al lavoro."
"Quella del camioncino dei gelati è nuova, di solito una quella del parco giochi dietro casa sua." Commenta Gio.
Sono completamente terrorizzato. Lo abbiamo sentito sbraitare dall'altra stanza, colpire una scrivania con la mano a ogni insulto e minaccia. Gio è stato dal preside così tante volte che è un secondo padre, per lui.
"Ditemi cosa avete fatto e vi lascio andare." Dice il preside, buttandosi sulla sedia.
"Siamo tornati da Narnia." Lo informa Gio.
"Bettini, siete della il 2^ liceo classico, il 4° anno per capirci, giusto?"
"Si"
"Non siete un po' troppo grandi per lo scherzo di Narnia? Insomma, se foste entrati in classe con la sigla di Ghostbusters e degli aspirapolveri avrei capito ma... per quello dell'armadio siete fuori età, capite?"
"Certamente"
Io sono paralizzato, non oso aprire bocca.
"Ma, il tuo amico li, cos'ha?" Chiede il preside, guardandomi. Ho lo sguardo fisso su di lui, con un'espressione di terrore sul volto.
"Niente, niente... è solo la sua prima volta."
"Mentre tu sei qui quasi tutti i giorni."
"Esattamente"
"Non era un complimento, sai?"
"L'avevo intuito"
"Tu sei?" mi chiede. Cerco di far uscire qualche suono dalla mia bocca, ma non ho certezze.
"Ettore Pasini."
"Ettore Pasini...-inserisce il mio nome nel computer- ...condotta impeccabile, ottima media generale. Cosa ci fai qui?"
"Io..."
"Vai pure."
Mi alzo istintivamente. Sento lo stimolo di uscire e correre via. Ma mi trattengo un secondo.
"Tutto bene? Ti serve, non lo so, un Oki?"
"La Bignardi?" Chiedo d'impulso.
"Arriverà un supplente." Mi informa.
    Annuisco e mi avvicino alla porta, metto la mano sulla maniglia ed esco. Nel chiudere vedo il preside che parla con molta serietà, più di quanta ne abbia avuta con me, a Gio. Io ritorno in classe prima che mi richiamino dentro. La prof non c'è: evidentemente sarà rimasta in aula insegnanti a calmarsi. Sto li, sulla porta, a riprendere fiato. Fisso i miei compagni con gli occhi sbarrati.
"S.T.I."
"S.T.I.? Di chi?" Mi chiede Ciccio.
"Bignardi."
Nella classe cala il silenzio più assoluto. S.T.I. è una sigla che sta per "Supplente a tempo indeterminato” e, come tante altre, viene utilizzata per mandarci messaggi in codice senza che i professori riescano a decriptarli. Nessuno si aspettava un supplente a metà anno, specialmente di scienze. Il dubbio è il seguente: chiameranno un professore esterno oppure no? Potremmo cazzeggiare anche con il supplente o ci toccherà ascoltare? Tutti pendono dalla mie labbra.
"So solo questo, scusatemi."
 Torno al posto e mi accomodo sulla sedia, che non sarà mai comoda come quella nell'ufficio del preside. Dopo circa dieci minuti, rientra Gio.
"Responso?" Chiede May.
"Sospeso da dopo domani fino a martedì, escluso." Cinque giorni secchi di sospensione, se contiamo anche la domenica in mezzo. I suoi gli caveranno la pelle. Anna lancia uno sguardo a May che è visibilmente stupito.
"E tu?" Si rivolge a me.
"Lui se è salvato per l'ottima media, l'abbasseranno di un voto il comportamento, nulla di più." Risponde Gio al mio posto. May lo guarda ancora più stranito. Rimaniamo tutti seduti, in silenzio, fino al suono della campanella. Nessuno ha voglia di far chiasso dopo la sfuriata della prof di mate. L'ora di ginnastica vola, come quella di storia dell'arte. Alla quarta ora, però, incombe su tutti noi la consegna delle versioni del giorno prima.
"Pasini, Bettini, complimenti. "
Facciamo un cenno con la testa: abbiamo capito a cosa si riferisce e non è il caso di vantarsene, almeno, non con gli altri insegnanti. La consegna occupa quasi tutta l'ora.
"Anna, ottima verifica." Dice con un sorriso mentre consegna la versione ad Anna. Lei l'afferra con dolcezza e ritorna al suo posto. Si fa dondolare sulla sedia e fa vedere a May, seduto nel banco dietro il suo, la verifica. Sono molto amici, migliori amici, e a me sta bene. Mi fido molto di lui. Anna, come sempre, ha scritto un bel 8.5 sulla verifica. May ha preso 8. Io, miracolosamente, sono arrivato al 7.5.
"Pasini- mi chiama in tono sgarbato, come solo lei sa fare- qualcuno ha guardato giù."
 'Diciamo che hanno guardato dietro' bisbiglio a Gio, tornando al posto. Sogghigna. Lancio uno sguardo ad Anna e vedo May intento a passarle un bigliettino. Anna annuisce. Non me ne curo tanto.
"Bettini, Bettina caro -dice con enfasi quella donna- a te manca un voto! Ti va di uscire interrogato?"
"Ma oggi?"
"Adesso."
"Prof, ma è una domanda o un'affermazione?"
"Una minaccia se non sei qui tra due secondi."
Le sue gambe scattano in piedi ancora prima che il suo cervello abbia elaborato l'accaduto. Le sue mani prendono libro e quaderno come se fossero comandate da qualcun'altro. Mi lancia un labiale: "aiutami". Apro il libro di greco su uno degli ultimi argomenti fatti e metto una matita per tenere il segno, giro disperatamente le pagine cercando qualche particolarità inerente alla versione che c'era di compito. Intanto, Gio si avvicina alla cattedra, trascinando i piedi, e riesco a percepire i suoi movimenti pesanti far vibrare il pavimento. Lancia il libro sulla cattedra e inizia leggere il brano. Durante tutta l'interrogazione lo vedo mentre cerca nervosamente di capire i miei suggerimenti, ripete ogni sillaba che esce dalle mie labbra. Scrivo su dei fogli le risposte alzandole quando la prof è distratta. Se la cava con un 6+.
    L'ora di greco finisce e ne comincia una di latino.
"Prof, non mi sento molto bene... posso andare in bagno?" Dice May. La cosa mi lascia perplesso, stavo così bene stamattina. Dopo circa 5 minuti chiede di uscire anche Anna. So che sicuramente staranno parlando. Forse qualcosa che riguarda il bigliettino dell'ora prima. Rientrano entrambi 10 minuti dopo. Voglio sapere cosa si sono detti, lo voglio sapere assolutamente. So che Anna è frustrata per tutta la faccenda, che anche lei detesta Giorgia, e magari sta cercando un pretesto per rompere una storia mai iniziata. Io non me lo posso permettere. La campanella suona e istintivamente mi butto verso di lei e l'abbraccio. "Andiamo tutti a mangiare insieme, giù, in Fossa." Propongo impulsivamente, di getto. L'idea è accolta da tutti piacevolmente.
"Io ho parcheggiato giù il motorino, nel parcheggio, mi incammino e facciamo che ci vediamo giù alla fermata del bus in Fossa." Ci informa Gio, cercando le chiavi nel suo zaino. May oggi si è fatto accompagnare dai suoi ed è senza moto. Penso sia il momento di agire.
"Ah, May! Ti spiace venire con me un secondo? Dovresti darmi una mano col motorino..." invento e devo dire che risulta credibile.
"Ah ok. Allora io vado con Gio. Eta mi dai..."
"Tranquilla Anna anche io ho un casco in più."
"Allora ciao! Ci si vede li!" Dico frettolosamente. May mi segue senza domandarsi il perché. Saliamo al parcheggio superiore. Non dovrei dare così tanto peso a quello che si sono detti, ma è piur forte di me.
"Quindi... oggi sei "stato male". Anche tu non ce la facevi più giusto?" Faccio una battuta per rompere il ghiaccio.
"Si davvero: ma quella donna andrà in pensione prima o poi?"
"Speriamo. E Anna? E venuta li con te? Vi eravate accordati prima? Con il bigliettino, no? Ottima mossa, ottima mossa." Dico con in tono estremamente costruito e che suona falso come il Picasso a casa mia.
"Non ho intenzione do rubarti la morosa."
"No, no, non dico quello, solo che..."
"Solo che cosa? Solo che non ti fidi di me? Eta, siamo amici da una vita, mi conosci e conosci Anna, sai com'è e che non le passerebbe nemmeno per l'anticamera del cervello di fare a te quello che stai facendo con Giorgia. Te ne avrebbe già parlato. Sai il mio legame con Anna: è profondo e radicato. Parliamo da amici, ci confidiamo da amici e tutto quello che facciamo lo facciamo appunto perché siamo amici. Lei sa cose di me che nessuno sa, io conosco cose di lei che forse, e sottolineo forse, solo tu sai, oltre me. Quindi, per una buona volta, sei pregato di scendere dal piedistallo e capire che non tutto gira intorno a te e che non tutti parlano solo ed esclusivamente di te e, soprattutto, che Anna non pensa sempre a te, che per quella testa passa anche altro. Spero di aver risposto alle tue domande."
Sono sbigottito. Mi ha frantumato un meraviglioso discorso incriminatorio nel quale lo minacciavo di togliere gli occhi da Anna perché lei è mia e di non parlarmi alle spalle. Mi sento dire di essere un egocentrico.
"Io non sono egocentrico."
"Lo pensi sul serio? Allora perché ti importa quello che ci diciamo io e Anna? Perché pensi sempre che riguardi te, perché tu vuoi essere la star di questo spettacolo ma sappi che sei solo un personaggio come tutti gli altri e come tutti noi. Quindi, di grazia, abbi un minimo di fiducia nei confronti della tua ragazza."
Non mi sento di ribattere. Questo round è di May. Saliamo sul motorino e raggiungiamo Anna e Gio in Fossa. Sono li, alla fermata. Non penso siano arrivati da molto.
"Io non ci vado più in moto con lui." Dice Anna, lanciando il casco in mano a Gio.
"Benvenuta nel mio mondo." Risponde May. Il nostro gruppo si riunisce e andiamo a mangiare. Sento una voce familiare che strilla. La voce di Giorgia.
"Gio dammi il tuo giubbotto."
"Perché?"
"Tu dammelo." Ci scambiamo il più velocemente possibile i giubbini e mi metto la berretta di May. Ora, se non per il viso, potrei essere chiunque. Vedo Giorgia passare a qualche decina di metri da noi, con il suo stile che dovrebbe ricordare il punk ma risulta solo una pagliacciata assurda. Indossa dei leggings neri lunghi fino alle caviglie, le tipiche scarpe col plantare, che Anna chiama da "disagiati", un giubbotto extralarge e una cuffia in testa. Ovviamente l'immancabile cellulare in mano. Il tipo di ragazza che non vorrei mai avere. Anna indossa dei semplici jeans, a vita alta, con un maglione rosso che le sta molto bene. Indossa un cappotto marrone scuro, con un taglio corto, una vaporosa sciarpa bianca e un berretto femminile, anche questo bianco. Passiamo inosservati, o forse ci nota, francamente, anche se ci avesse notato, non ci avrebbe considerato comunque perché lei odia i miei amici.
    Così, con il mio camuffamento, siamo solo un gruppo di sfigati per lei. Appena esce dal nostro raggio visivo, entriamo nel locale: una piccola paninoteca dai prezzi molto abbordabili. Il proprietario ci conosce da sempre.
"Il solito per tutti." Ordino. I panini sono pronti del giro di qualche minuto. Porto l'ordine al tavolo dove gli altri si erano seduti. È la prima volta, nell'arco di circa dieci anni, che noto l'eleganza con cui May si siede. Con la schiena dritta, composto, gomiti mai sul tavolo, gambe accavallate. Ha gli avambracci appoggiati sul tavolo rotondo e giochicchia con un tovagliolino di carta. Nessuno sembra accorgersi dei suoi modi di fare così, così distinti.
"Ecco qui" dico appoggiando il vassoio al centro del tavolo.
Ognuno prende il suo. Gio inizia a divorare il suo, facendo cadere la salsa e pezzi di insalata sulla tovaglietta sotto. Uno spettacolo orrendo. D'altronde, siamo ragazzi. Anche io mangio sporcandomi completamente. Anna e May no, mangiano i panini a piccoli morsi e cercano di non sporcarsi.
"Ma May, come mai mangi come una ragazza?" Chiede Gio ancora con la bocca piena.
"Perché mi fa schifo vedervi mangiare e vorrei evitare di somigliare a un cinghiale." Risponde, mettendosi una mano davanti alla bocca per non far vedere che stava masticando.
I suoi lineamenti sono pronunciati, guardandolo di profilo. Solo ora mi rendo conto del potenziale di May con le ragazze. Occhi castani, capelli biondo scuro, un naso sì grosso, ma non sproporzionato al suo viso. Una bocca sottile, rossa, denti bianchi e un bel sorriso. Non voglio sembrare gay, ma May è un bel ragazzo. Ha un fisico assurdo. Me ne sono reso conto negli spogliatoi, durante l'ora di ginnastica. Ha degli addominali scolpiti, dei quali io sono invidioso, delle gambe snelle e muscolose, che lo fanno sembrare ancora più alto, due braccia che mi rendono soltanto più invidioso di lui. Tuttavia, Anna ha scelto me e non May. Per questo motivo, mi avvicino a lei e l'abbraccio mentre finiamo di pranzare.
"Si, ecco, come Francesco!" Dice Anna.
Scoppiano a ridere sia lei che May. Io e Gio non capiamo.
"Un nostro amico che mangia come voi!" Ci informa lei, continuando a ridere. Cerco di aggregarmi alla risata. Non ho la più pallida idea di chi sia e non lo voglio nemmeno sapere.
    Verso dell'acqua nel mio bicchiere e ne verso un po'anche in quello di Anna. Bevo lentamente. Mi rendo conto della scomoda posizione in cui sono. Con i gomiti sul tavolo, la schiena curva sul tavolino, una goccia di salsa che mi scivola fuori dalla bocca. Sono un animale. Osservo Gio, seduto di fronte a me, mentre azzanna il suo pranzo. Spero solo di non somigliargli nemmeno un po'. Inizio allora a far scivolare i gomiti giù dal bordo del tavolo, a raddrizzarmi, comparendo così in tutta la mia altezza. Mi pulisco la bocca strofinando il tovagliolo con un colpo deciso. Passo anche una seconda volta per sicurezza. In un batter d'occhio finisco di mangiare. Rimaniamo un po’" seduti a chiacchierare, fino a quando Anna da una gomitata a May. Gli sussurra qualcosa. Si alzano, ci salutano, vanno alla cassa pagano e escono. Rimaniamo soli, io e Gio. Li vediamo salire su una grossa macchina nera, quella dei genitori di May.
    "Qualunque cosa facciano- inizia Gio- i loro genitori ne sono a conoscenza." Sentenzia.
Io lo guardo cercando di capire il senso di quello che aveva appena detto.
"Intendo- riprende- che non fanno qualcosa che è all'oscuro dei loro genitori. Non si farebbero certo accompagnare in macchina dal papà di May che è un padre decisamente protettivo."
"Magari vanno al cinema, o erano d'accordo di farsi venire a prendere." Farfuglio, tanto per non dargliela subito vinta.
"Alle 2? Di giovedì? Il cinema è improbabile, a meno che non vadano a vedere un cartone animato. E poi, che fretta c'era? Avrebbero potuto dircelo che scappavano così presto." Continua imperterrito, puntandomi il dito.
"C'è qualcosa che non sappiamo." Mi convince ad ogni parola. C'è qualcosa che non sappiamo. Magari stanno solo prendendo i regali di Natale per me e Gio, ma la faccenda sembra molto più seria, dal nostro punto di vista.
"Secondo me non è affatto casuale come cosa. Ha una ciclicità, settimanale penso. martedì, mercoledì e venerdì. Io penso sia così." Dice appoggiandosi allo schienale.
"Saranno coincidenze."
"No, non lo sono affatto. Stranamente, né Anna né May si fanno mai interrogare di mercoledì, di giovedì e di sabato, o almeno è molto raro. E, come mai non escono mai con noi di mercoledì sera? Te lo sei mai chiesto?"
"Francamente no."
"E non sono online su WhatsApp per circa tre ore, se noti."
"È vero..."
Gio annuisce. La sua tesi è a prova di bomba. Quei due tramano qualcosa. ehiii ciao a tutti! vi ringrazio di aver letto fino a qui! il prossimo capitolo è work in progress!! intanto vi consiglio di visitare la pagina di una mia amica! ecco il link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2776748&i=1

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Capitolo 3
*** Giovedì ***


Paghiamo e usciamo dal locale. Io indosso ancora il giubbotto di Gio. Appena fuori, ce lo scambiamo. Raggiungiamo i motorini e ci salutiamo.
"Ah- mi ricorda- da un'occhiata all'ultimo accesso di Anna, in questo pomeriggio. Vediamo se coincide con quello di May." Faccio un cenno con la testa.
 Torno a casa in poco tempo, dato che ho preso una scorciatoia. Salgo in casa e vedo mia mamma seduta sul divano che beve un caffè. Mio padre è fuori per lavoro fino a cena.
"Ciao Ma."
"Ciao Tesoro, come è andato greco?"
"7.5"
"Bravissimo! Era difficile?"
"Perché?"
"Dico, 7.5 è un bel voto ma.."
"Ma?"
"Volevo solo sapere se avevi avuto dei problemi con.."
“No.”
"Hai fame?"
"No, ho già mangiato. Grazie."
"Di nulla, buono studio."
"Ciao Ma."
La conversazione è piatta, completamente priva di emozioni. Entro in camera mia. Trovo una pila di miei vestiti sul letto da mettere nei cassetti. Li sistemo con cura e poi butto la cartella in terra. Mi siedo alla scrivania.
                Fisso io vuoto. Dire che non ho assolutamente voglia di studiare penso sia un tantino riduttivo. Apro ad una pagina a caso il mio libro di greco e lo sfoglio fino ad arrivare all’esercizio che devo svolgere. Una stupida versione di Apollodoro. “Date spazio all’immaginazione dopo la seconda riga di traduzione”, diceva. Cazzata. Se lo faccio la prof mi lincia. Mi conviene tradurla al meglio. Inizio cercando sul dizionario la prima parola. Volto una pagina alla volta, con lentezza, con non curanza. Scelgo distrattamente i termini e li metto insieme tra loro alla meno peggio. Non va. Non funziona niente. Giro e rigiro le parole ma non si incastrano. Comincio a muovere le gambe, facendo leva sul piede, picchietto con le dita sulla scrivania, mi sfrego la punta del naso col l’indice della mano sinistra. Il vuoto. Chiudo il dizionario e lo lancio in terra. Mia madre sente il frastuono causato dal volume e corre in camera.
“Tutto bene? Cosa è successo?” chiede affannata.
“Niente. È solo che…” sospiro. Alzo le braccia in alto e poi le lascio cadere, piego indietro la testa.
“Non riesci a tradurre?” mi chiede mia madre premurosamente.
“No, non riesco.”
Appoggio il viso tra le mani: qualche lacrima bagna le mie mani stanche. Sono in crisi. Mi capita, qualche volta, di andare completamente nel pallone, senza avere la minima idea di che fare, di che scrivere, di che cercare. Mi tornano alla mente mille mila dubbi, che pensavo di aver risolto, come una semplice preposizione. Mia madre mi poggia una mano sulla schiena e mi accarezza con delicatezza; poi scompare in cucina. Rimango li, solo, con i gomiti sulle ginocchia e la testa sul palmo della mano sinistra, con la penna nell’altra e ci giochicchio. Ora che ci penso, io ho sempre usato delle biro blu per scrivere, perché il nero mi rattristava. Poco più tardi, arriva con una tisana calda. La bevo a piccoli sorsi: scotta. Mi convinco a dormicchiare mezz'ora. Mi giro e mi rigiro nel letto. Vorrei solo che Anna fosse qui. Mi piacerebbe abbracciarla e coccolarla un po'. Sblocco il telefono e apro WhatsApp. Mi ricordo immediatamente della missione affidatami da Gio. Apro la chat con Anna: sono le 14.53 e il suo ultimo accesso è stato alle 14.30. Mi pare una cosa normale, insomma. Guardo per curiosità anche l'accesso di May. 14.30 anche lui. Un po' me l'aspettavo. Fisso il bianco opprimente del mio soffitto che mi sta dando alla testa. Inizio a fantasticare su cosa staranno facendo. Elimino il più velocemente possibile qualsiasi ipotesi nella quale Anna mi sta tradendo con May. Non voglio e non posso anche sono minimamente pensarci. Anna non farebbe mai una cosa del genere. Come se fosse un libro, scorro a ritroso le pagine dei miei ricordi, cercando altri indizi ma non mi viene in mente nulla. Cerco do far corrispondere la teoria di Gio con quello che ricordo, ma è come provare a far passare un quadrato in un cerchio. Da stupidi e impossibile. Guardo la pila di libri che dovrei leggere per la scuola, vorrei iniziarli, ma prima devo fare i compiti. Mia mamma ha detto che fino alle 15.30 non mi devo neanche avvicinare alla scrivania, o potrebbe venirmi un altro attacco.
                Decido allora di chiamare mia sorella, Costanza.
"Pronto?"
"Ciao Costanza, come stai?"
"Ciao fratellino!- " Ride. Sa che detesto essere chiamato "fratellino"- io sto bene, tu?"
"Ho appena avuto un attacco ma tutto sommato bene."
"Mi dispiace.. ma come mai?"
Sospiro. "Non lo so. Alcune volte capita."
"Ieri ho letto il tuo messaggio,- si affretta a cambiar discorso, che non è poi tanto meglio del precedente.
"Ah sì. Ha fatto di peggio, comunque." Dico mentre mi passo tra le mani il cavo del caricatore del telefono.
"Davvero?" Mi chiede incredula.
"Sì, sì. Ha rotto solo qualche tazza e la mamma se l'è cavata quasi con niente. Nulla a che fare con quando ha ribaltato il televisore." Quella volta era davvero uscito di sé.
"E la mamma? Si è decisa, stavolta?" Mi chiede con fare insistente.
"Non so, non penso." Dico con tono piatto.
"Bello schifo. Pensavo fosse la volta buona. Sai come la penso, e sai che qui c'è spazio per te e pe..."
"Costanza. Grazie, lo sappiamo. Ma la mamma vuole stare qui."
"Quando vuoi tu puoi venire, anche solo a fare un salto."
"Durante le vacanze di Natale pensavo di venire, da mercoledì fino al 28, che non so che giorno sia." La informo. Ne avevo già parlato con i miei e avevano detto che andava bene.
"Ah ok! Allora ci vediamo tra poco! Sono felicissima, mi manchi tantissimo fratellino."
"Simpatica. Mi manchi anche tu."
"Ti voglio bene."
"Ti voglio bene."
Butta giù. Mi alzo dal letto e riprendo i compiti. Finisco alle 18.00 circa di fare gli scritti. Mi manca ancora da studiare. Ieri non ho fatto un cazzo, con Anna in giro. Sento suonare il campanello. È Gio.
"Fratello. Sto indagando." Mi dice entrando in casa.
"Spara."
"Allora: entrambi non sono stati online dalle 14.30 fino alle 16.30. Ciò significa che, in questo lasso di tempo, sono stati impegnati. Cosa possono fare due ragazzi di diciassette anni con regolarità il giovedì pomeriggio dalle 14.30 fino alle 16.30?" Mi chiede. Io pensavo fosse una domanda retorica, quindi esito a rispondere. Il suo sguardo si fa insistente e li capisco.
"Sport?"
"No. Il circolo lettura. Si riunisce il giovedì a quest'orario. È anche comprensibile il perché siano partiti così presto, perché il più vicino è a 10 chilometri da qui. Quindi ci sta. Non capisco perché non ci abbiano invitato."
"Perché tu odi leggere."
"Ah già." Mi convinco sempre di più che è un coglione.
"Ok, questo spiega una parte della tua teoria. Ma il venerdì e il mercoledì? Che fanno? Saccheggiano Roma?" Gli ricordo. Non l'avessi mai fatto.
"No! Il venerdì dalle 15 alle 17 c'è il corso di ceramica al centro sociale e il mercoledì la sera c'è il corso di scrittura creativa, alla scuola media."
"Ma davvero?" Lo guardo, facendo intendere dal mio tono che trovo tutto questo un'immensa cavolata e una teoria assolutamente priva di alcuna logica.
"Sì, è per forza così."
Dio, se è stupido.
"Ma i tuoi? Per la sospensione?"
"Sono in punizione a vita. Fino a gennaio. Niente Capodanno."
Faccio una smorfia. È una cosa terribile.
"Allora che cazzo ci fai qui?"
"Avevo detto che andavo a buttare la spazzatura e sono corso qui."
"A piedi?"
"A piedi."
Chiudo gli occhi. Sospiro.
"Secondo me non ha senso quello che dici: insomma, il circolo lettura ci sta, lo ammetto. Ma il corso di ceramica è veramente troppo, è palese che è una cazzata. Ci mancava solo la lezione su come accudire gli unicorni e poi potevi prendere questa bella testolina- dico mettendogli una mano sulla testa e mentre parlo con una vocina ridicola- e buttarla nel cesso."
"Va bene. Allora torno a casa e mi metto sotto."
Si alza e schizza via.
                Io torno in camera e finisco di studiare. Mio papà rientra in orario. Sbatte la porta.
"Vestiti." Mi dice con tono severo.
"Cosa?"
"Cambiati, metti qualcosa di carino."
"Perché?"
"Esci. Con Giorgia, chiaramente."
"Ma davvero?"
"Tra venti minuti devi essere a casa sua; fai tu."
Impreco.
"Ti sento." Mi rimprovera mio papà.
"Non me ne frega un cazzo." Mi pento immediatamente di quello che ho detto.
"Come?" Dice, affacciandosi alla mia porta. Non aveva capito.
"Mi vesto come un razzo." Sillabo. La passo liscia.
Mi infilo qualcosa addosso, nulla di che. Metto le mani nella cartella per cercare le sigarette. Apro la tasca davanti: non le trovo. Tolgo i libri che avevo nello zaino e lo ribalto, ma il pacchetto non si trova. Le avrò finite, dandole a destra e a manca. Mi gratto la testa mentre mi assicuro di non essere visto. Non reggo tutta la sera senza fumare. Potrei impazzire. Vado nell'ufficio di mio padre. C'è un pacchetto aperto sulla scrivania. Mio papà è li, in piedi, con la finestra aperta e una sigaretta in mano. Guarda fuori, il panorama cittadino che si può vedere da una finestra, niente campi verdi, niente azzurro del cielo. Sembra non accorgersi della mia presenza, troppo immerso nella sua sigaretta e nel suo mondo, fatto di cemento e di denaro. Non ho intenzione di farmi annunciare. Entro con un passo deciso e mio padre si volta di scatto, come se avesse percepito una presenza umana indesiderata. È visibilmente teso. Con lo zaino su una sola spalla, le gambe larghe e lo sguardo deciso, fisso gli occhi di mio padre. Di sfuggita, vedo un pacchetto, probabilmente quello da dove aveva preso la sigaretta che stava fumando, sulla scrivania. Era praticamente nuovo, ne aveva fumate solo due. Cammino tranquillamente verso di lui. Sono deciso più che mai a prenderlo. Senza distogliere lo sguardo da mio papà, afferro lentamnete il pacchetto. Lui mi guarda sbigottito.
Indietreggio, senza mai voltarmi.
Mentre raggiungo la soglia della stanza e faccio per girarmi mio papà dice:
"Allora..." aveva capito che io a fottere le sigarette dal suo cassetto.
"Che ti aspettavi?" Allargo le braccia e faccio qualche passo all'indietro, tenendo il pacchetto con una presa salda nella mia mano. Esco. Non saluto nessuno. Appena fuori, mi metto una sigaretta in bocca. Sono ancora dentro il condominio in cui abito e davanti a me ci sono solo le scale. Mi ispeziono toccandomi tutte le tasche. Mi manca l'accendino. Rientro in casa, aprendo la porta con una certa violenza. Sbatte.
"Ho dimenticato l'accendino." Dico a mio padre, ancora in stato confusionale. Lo prendo sbattendo la mano sul legno duro della scrivania. Faccio rumore. Accendo la sigaretta, faccio un tiro e esco.
"Ciao Ma." Dico togliendo la sigaretta dalla bocca.
                Me la fumo in un battibaleno, nello scendere le scale. Accendo il motorino. Arrivo a casa della viziata in orario. Ho deciso che voglio farmi mollare. D'altronde, se mi molla lei, il padre non può vendicarsi e, nonostante la figlia coli il cazzo, non sarà mai talmente stupido da farla pagare a mio padre. La sua casa è una reggia. Parcheggio la moto e accendo una sigaretta. Due camerieri mi aprono la porta. Sputo loro il fumo in faccia, praticamente, ma non l'ho fatto apposta. Non sono un cafone, solo che odio quella ragazza con tutto me stesso. In altre circostanze, mi sarei scusato con loro, ma oggi devo fare lo stronzo. Entro continuando imperterrito a fumare, alzo gli occhi verso il soffitto e sento tossire quei due. Il fumo sale lento. Entro nella stanza principale e Giorgia è li, stravaccata sul divano, come se un maiale fosse stato buttato sul bancone della salumeria. Uno schifo.
"Ciao Amoree!" Mi saluta.
"Ciao" dico, continuando a fumare. Non la degno di uno sguardo. È vestita con dei pantaloni attillati di jeans, delle scarpe bianche, di quelle che vanno di moda e un maglione con sotto una camicia, anche questa di jeans. Un abbigliamento così banale e patetico come solo Giorgia sa essere. È sempre stata così: una ragazzina insulsa, viziata, abituata a avere tutto senza mai accettare compromessi. Una ragazza senza scrupoli, morale, ritegno o pudore, una di quelle che non mi stupirei a vedere in tangenziale. Ho perso il conto dei ragazzi che si limona in discoteca, da sballata, sotto quelle luci stroboscopiche che mi fanno venire solo il mal di testa, ubriaca marcia da far schifo. Opportunista, insensibile, falsa. Tutte le cose peggiori concentrate qui, in Giorgia. Vada al diavolo. Io intanto continuo a fumare.
"Sentimi- inizia, mentre io fisso il vuoto- stasera ti va di farci un po' di coccole?"
Mi irrigidisco. Cosa intende con coccole? Mi alzo di scatto nell’intento di cercare un posacenere ma Giorgia mi afferra per la manica. Ruoto lentamente la testa verso di lei: fa un sorriso malizioso.
“Io…” inizio, ma non mi lascia il tempo di finire.
“Rilassati.” Mi dice con una voce seducente.
Io rimango in piedi, paralizzato. In un attimo lei è lì, dritta davanti a me e mi guarda dritta negli occhi. Fuggo il suo sguardo.  Appoggia le mani sulle mie spalle e le fa scorrere prima sul mio petto, poi sul mio addome, fino a finire una sulla gamba destra e una sulla gamba sinistra. Lei ora è accucciata in terra. Mi guardo in torno nella speranza che qualcuno entri e fermi questa follia. Nessuno accorre in mio aiuto. I suoi genitori sono fuori per cena e non ritorneranno prima delle 23.00. Estrae dalla sua tasca una piccola confezione argentata e l’appoggia sul divano. Ci metto un po’ a capire che è un preservativo.
“Dove l’hai preso?” chiedo pietrificato. Sento i muscoli rigidi.
“In camera dei miei.” Mi dice lei con tranquillità.
In una frazione di secondo, Giorgia mi ha slacciato la cintura e tirato giù i pantaloni. Mi da una spinta e mi fa cadere all’indietro e io sprofondo nel morbido divano rosso. Mi sfila le scarpe e poi i pantaloni e li lancia in fondo al salotto. Rimango solo con le mutande, e sembra che nemmeno quelle mi dureranno molto addosso. Il mio respiro si fa affannoso, sto entrando in iperventilazione. Faccio uno scatto per cercare di recuperare almeno i pantaloni, ma Giorgia mi tiene incollato al divano. Si siede sulle mie ginocchia e si toglie prima il maglione e poi la camicia. È solo in reggiseno. Mi metto la sigaretta in bocca e cerco di alzarmi nuovamente. Sta iniziando a mettermi le mani addosso in un modo che non mi piace affatto. Mi tengo strette le mutande. Tra me e Giorgia inizia una lotta: lei cerca di togliermele, io cerco di tenerle. Penso rapidamente a come uscire, intanto lei comincia a mettere le mani in posti impensabili, che nemmeno Anna per sbaglio aveva mai toccato. Istintivamente la spingo all’indietro: lei cade e si becca una bella botta alla testa. Io corro e afferro i pantaloni.
“Ehi Ettore- sento che mi chiama. Mi giro di colpo. È ancora li vicino al divano.- sei così sexy quando fai lo stronzo.”
Corro.
Mi precipito fuori, ancora in mutante e lascio li le mie scarpe. Magari muore asfissiata. Butto in terra la sigaretta proprio sui gradini all’entrata. Salgo sul motorino e lo accendo. Metto i pantaloni come fossero una sciarpa e torno a casa infrangendo qualsiasi limite di velocità. Parcheggio sotto casa e salgo come fossi inseguito da un pervertito, e più o meno questa è la mia situazione. Mentre corro disperatamente di gradino in gradino, non ho tempo nemmeno per accendere le luci e per pensare che non ho le scarpe. Mi sento un animale braccato da un cacciatore. Arrivo finalmente sul pianerottolo di casa mia. Entro dalla porta e in salotto ci sono mia mamma e mio papà.
“Ciao Ma, ciao Pa.” Dico senza quasi farmi vedere.
“Come mai a casa così presto?” mi chiede mio papà.
Non posso farmi vedere, cazzo. Sono in mutande.
“Giorgia non stava bene.” Invento sul momento.
“Strano.” Replica mio papà.
Sembra che l’abbia scampata. Vado piano, con passo leggero in camera.
“Tesoro, come mai hai il fiatone?” mi chiama mia madre.
Esco allo scoperto. Mi mostro ai miei, praticamente più nudo che vestito, con i pantaloni al collo e senza scarpe.
“Come mai sei senza scarpe e, soprattutto, in mutande.” Mi chiede lei scandalizzata.
Io allargo le braccia.
“Giorgia voleva fare certe cose ma io no. E per questa divergenza di opinioni, io sono scappato via  da casa sua. E nel fuggire, non ho avuto tempo di mettere i pantaloni e di recuperare le scarpe, che sono a casa sua.” Rispondo.
I miei fissano il nulla.
“Io vado a letto, allora.” Annuncio.
“Potevi starci, però.” Dice mio padre.
È li, con in mano la sua birra, grasso, sul divano. Io tengo in una salda stretta il pomello della porta. Mi giro verso di lui. Stavolta, non mi risparmierò.
“Che problemi hai, scusa? Già sono costretto a una relazione forzata e ora devo anche…  non riesco nemmeno a pensarlo: no, ma ora me la spieghi. Ti sei un pazzo…” Rispondo a tono.
“Devi sacrificarti per la famiglia.” Dice.
“Per sacrificarmi già lo faccio, ma non ho intenzione di prostituirmi per il tuo cazzo di lavoro. Tu se li, a ingrassare, sembri un maiale: ti sei visto? Hai la donna più bella del mondo con te e nemmeno la rispetti. Mi fai pena.”  Potevo essere più convincente.
                Me ne vado in camera. Odio mio padre. Lo odio alla follia.
Adesso papà se la prenderà con mamma, come fa sempre. Stranamente non sento alcun rumore, né di piatti rotti, né di urla. Solo il silenzio. Mi metto in pigiama e apro il libro per scuola. Ne leggiucchio una, due pagine. La mia attenzione cala rapidamente e decido di andare su Facebook. Ricevo una notifica nella quale sono stato taggato in un post da Giorgia.
“Sei sexy anche quando fai lo stronzo amore mio.” Trovo scritto.
Gio ha messo mi piace. Nel pensare a lui, ricevo anche una sua chiamata.
“Sei sexy anche quando fai lo stronzo. Spiegami.” Mi dice in tono serissimo.
“Non mi sento di commentare.” Rispondo.
“Aveva le sue voglie, delle quali mi parli ogni tanto?”
“Si.”
“E tu sei scappato, giusto?”
“Giusto.” Mi mordo le labbra. Aveva capito già tutto, perché non era la prima volta che Giorgia ci provava. Io provo a farmi lasciare, e lei è sempre più attratta da me. Provo a vestirmi male, a comportarmi come uno zotico, ma nulla sembra avere effetto. Mi impegno il più possibile nel rendermi odioso, tuttavia Giorgia non desiste dal volermi come suo fidanzato. La sua ossessione per me deve avere radici in qualcosa che va oltre l’aspetto fisico e il comportamento, quasi a simboleggiare una ripicca nei confronti di qualcuno, solo per rendermi “occupato” e quindi irraggiungibile e desiderabile per qualche ragazza.
                Mi addormendo con [R1] questi interrogativi che gironzolano per la mia testa. Mi giro e mi rigiro nel letto, continuando a pensare che tra poco partirò per Pisa e chi s’è visto s’è visto. Domani è solo giovedì, ho ancora qualche giorno di inferno.
 
                Giovedì. Io odio il Giovedì.
Troppo presto. È troppo presto. Non ho voglia. Due ore di filosofia, piuttosto mi sparo in bocca. Mi guardo introno ancora avvolto nel buio della stanza. Mentre appoggio la testa fra le mani e mi stropiccio gli occhi penso a quanto mi faccia cagare l’orario di quest’anno. Mi striscio le mani sul viso fino ad arrivare al mento. Rimango così, a fissare il soffitto nero per l’oscurità e a pensare a come affrontare la giornata. Orami vivo così, alla buona, giorno per giorno, senza farmi troppi problemi, altrimenti sarei dovuto impazzire da tempo. Strano. La sveglia non è ancora suonata, o forse sì? Prendo di fretta il telefono e leggo l’orario: mancano cinque minuti alle otto. Secondo i miei calcoli, non ho il tempo di pisciare. Guardo i pantaloni che indosso: sono quelli della tuta, non assomigliano ad un pigiama, posso andarci a scuola e nessuno noterà nulla. Nel caso potrei portarmi dei jeans di riserva nello zaino. Mi tolgo la felpa bucata che uso per dormire e me ne infilo una pulita, che sarà comunque sporca. Infilo le scarpe come fossero pantofole, metto il giubbino e parto. Quando parcheggio sono le 8.01. corro a perdi fiato su, per due piani di scale, e spalanco la porta. Il prof non è ancora in classe. Tiro un sospiro di sollievo e lancio lo zaino ai piedi del banco. Dopo una frazione di secondo, ecco il professor Falcinelli, un omaccione di 120 chili, più largo che alto: fai prima a scavalcarlo che a passargli in parte, sembra disegnato col compasso. Avete presente una di quelle persone odiose, che sembra nata solo per laurearsi in filosofia e farti scartavetrare le balle nelle sue ore? Ecco: Falcinelli. Siamo una delle uniche classi che hanno lui come insegnante di filosofia e insieme con noi, in questo incubo, ci sono la 4^M, scienze applicate, la 3^P, linguistico, e la 5^D, anche quella di linguistico. Ho un caro amico che frequenta la 5^B, scientifico, e come ha saputo che avrei avuto Falcinelli ha detto che avrebbe pregato per me. All’inizio, non ne capivo il senso: era fine estate, stava per ricominciare la scuola e io avrei studiato filosofia per la prima volta. Avevo preso lezioni da amici di famiglia, perché non stavo nella pelle, non vedevo l’ora di cominciare a conoscere i grandi filosofi greci e contemporanei. Verso l’inizio di settembre, era stato esposto, nella bacheca scolastica, l’organico delle varie classi, i rispettivi docenti, per intenderci. Come lesse il nome Falcinelli, il mio amico trasalì. Il commento che ne seguì fu “Cazzo.”
                Da quel momento, capii tutto. Oggi, era vestito peggio del solito: indossava un completo giacca e pantalone color pesca, con una camicia nera. Apre il libro e parla, parla, parla fino allo sfinimento. Spara nomi di filosofi totalmente a caso, facendo collegamenti che non stanno né in cielo né in terra. Prima di crollare per la noia, guardo Anna. È bella, bella come un fiore, bella come sempre, bella come Anna. Ha i capelli raccolti in una treccia che scende sulla spalla sinistra, il dolce viso appoggiato sul palmo della mano, una blusa bianca abbottonata fin all’ultimo bottone e una gonna azzurra con dei fiori bianchi. Le gambe magre traspaiono un poco attraverso le calze nere. Non mi degna di uno sguardo, è attentissima alla lezione. Decido che è meglio seguire e prendere appunti. Non faccio in tempo a formulare questo pensiero, che sento vibrare il cellulare. La potente voce del professore ha completamente coperto il suono prodotto dal messaggio. Lo leggo, è da parte di Anna.
Sappiamo qualcosa sul supplente di scienze.
 
Tenendo la testa bassa le lancio un’occhiata. Lei mi sta guardando e ne approfitto per fare cenno di aver capito. Esamino ancora una volta il testo. “Sul supplente”: è un maschio, o forse non lo sanno. Spero solo non sia quello che insegna allo scientifico altrimenti, davvero, possiamo spararci in bocca. Mi spremo le meningi ma non mi viene in mente assolutamente nulla.
                “Ragazzi! Fate silenzio,- (e c’è silenzio, cazzo) dice Falcinelli- state buoni, perché, come diceva Seneca, vuoi ottenere la vera libertà? renditi schiavo della filosofia diceva Seneca! E se voi non vi comportare bene, io a ricreazione, non vi mando! Perché se io non vi insegnerei- insegnerei. I N S E G E R E I- quello che so? come facciamo? Infatti, Platone diceva quando insegni, insegna allo stesso tempo a dubitare di ciò che insegni, diceva. Non era mica scemo! - Ed era Ortega y Gasset a dirlo, ma la vedo come licenza poetica.-. Io ora devo, perché lo dice il codice della scuola, io ora devo leggervi questa circolare, tocca a me farlo, non può mica andare quello dell’ora dopo no! devo farlo io perché fortuna vitrea est; tum cum splendet, frangitur! E voi, che siete latini–precisamente-,  dovreste saperlo no? cosa vuol dire, giusto? Ora vi leggo la circolare. Si comunica alla presente che, avete visto come è impaginata bene? Non come alcune verifiche che mi arrivano… si comunica che in data lunedì 23 dicembre inizieranno le vacan… ma tanto lo sapete già no?, le vacanze di Natale. Per chi non lo sapesse -non ci credo che sta per dirlo- il Natale è la festa del compleanno di Gesù, ma che non è come la tua, Chiodini, che vai a ballare, no!, qui è seria la cosa, infatti, come diceva Marx, che io oggi ho spiegato benissimo, la religione è l'oppio del popolo!, mentre tu, Chiodini, l’oppio te lo danno al compleanno capisci -e allora questo prof qua cosa assume per fare discorsi del genere?-. Quindi, da lunedì 23 non ci si vede più. Ciao.” Ed esce. 
                “Prof, abbiamo due ore oggi.” Lo richiamiamo dentro.
Quando mi risveglio, sono le 10.05. La professoressa di italiano non è ancora entrata in classe e non prevedo lo farà prima di qualche minuto, perciò mi alzo e vado verso Anna e May. Do un bacio ad Anna e batto il cinque a May, che sembrano tanto svegli e pimpanti, mentre io sto dormendo in piedi. Mi siedo sul banco davanti ai loro, che sono in terza fila e mi stropiccio gli occhi.
“Novità?” Mi chiede May.
“Nulla di che. Voi cosa sapete?” ribatto sbadigliando.
“Il supplente è un esterno, un ragazzo, è molto giovane, dicono. Abbiamo sentito Falcinelli e Ponzinibio che ne parlavano, ma sai, sono solo voci, non abbiamo certezze…”- mi informa. Le informazioni sono poche ma sufficienti: sicuramente, non avendo molta esperienza, non sarà uno di quei professori col pugno di ferro, sarà semplice piegarlo ai nostri voleri, in teoria. Per le verifiche non prevedo che sarà un problema, abbiamo metodi abbastanza ingegnosi per distrarre i professori e copiare: funzionano anche con quelli più esperti, figuriamoci coi novellini.
                Anna non parla. Sta scrivendo su un quaderno, che cosa non si sa. È la prima volta che la vedo intenta a farlo. Faccio un cenno con la testa a May, chiedendogli cosa stesse facendo Anna, e lui alza le spalle e le sopracciglia, spiegandomi che non ne sapeva nulla. Intanto lei continuava imperterrita a scrivere, e non se ne sapeva nemmeno il perché. Continua a scrivere anche durante l’ora di italiano, scrive, scrive, scrive. Durante la ricreazione, durante l’ora di inglese, quella di storia e di religione, imperterrita. E io la guardo, incantato, fantasticando sul contenuto di quelle pagine, senza che spiaccicasse parola di quello che stava scrivendo, senza che nessuno ne sapesse nulla, nemmeno May, nemmeno io. La giornata passava così, con questo dubbio, con questa domanda: cosa scrive?
                Arrivo a casa distrutto. Non c’è ancora nessuno, meglio. Mangio qualcosa racimolato in frigo, qualche avanzo, poi mi butto sul divano e cerco di dormire. Quando riapro gli occhi, sono le 15.34. Decido di farmi una doccia. Metto a lavare i pantaloni che al tatto sono sudici. Mi tolgo il maglione e lo appoggio sulla sedia in camera mia, mi tolgo la t-shirt che tenevo sotto e la canottiera. Prendo le mutande pulite dal cassettone e dei calzini. Prima di uscire, non posso non passare davanti allo specchio. I segni dell’abbronzatura se ne sono andati via ormai da tempo e la mia pelle è tornata chiara come quella dello scorso inverno. Devo dire che mi sono alzato di qualche centimetro, rispetto all’ultima settimana. Sulla spalla vedo ancora il graffio rosso della caduta in bici di quest’estate, che speravo fosse scomparso con la bella stagione, ma purtroppo non è così. Mentre richiamo alla memoria i ricordi della epica scivolata, entro in doccia. Io la doccia la faccio con l’acqua fredda, è un mio problema, lo so. Quale pazzo si lava così? Mi gratto bene la testa mentre mi lavo i capelli: forse sono troppo lunghi, dovrei tagliarli un po’. L’acqua gelida mi scorre lungo la schiena e sento un brivido. Dopo qualche minuto, sono già uscito ed asciutto. Infilo la mano del cassetto e afferro una maglietta: la annuso per capire se è pulita a meno. Quando mi sono rivestito, torno in salotto. La serata si conclude senza grosse novità.
                Il giorno seguente[R2] , me ne riserva più del previsto. Durante le prime quattro ore la solfa era la solita, la stessa di tutti gli altri giovedì. Ma quell’ora, l’ora di scienze, ha cambiato tutto. Al cambio dell’ora, come penso accada in qualsiasi scuola e in qualsiasi istituto, vige la legge del caos. Noi, del classico, le chiamiamo le ore Dionisie, in onore del Dio Dioniso, che rende molto bene l’idea. Si mangia, si beve, si gioca a carte, si copiano i compiti, si preparano le sigarette per la giornata, si falsificano le firme. Ciccio, la nostra vedetta, è l’unico a mantenere un minimo di contegno. Rimane li affacciato alla finestra e, di tanto in tanto, alla porta che dà sul corridoio, per avvistare gli insegnati per tempo e darci la possibilità di farci trovare seduti ai banchi. Gironi e Chiodini erano appena usciti dall’aula, probabilmente dirigendosi al bar per prendere qualcosa da mangiare; Campana stava intrattenendo gran parte delle mie compagne di classe con le sue simpatiche barzellette che, per la cronaca, non fanno ridere, ma quelle oche sghignazzano solo perché lui è un Don Giovanni coi fiocchi. I più studiosi ripassano, con la testa curva sui libri, sicuri di un’imminente interrogazione. Ciccio è appollaiato alla finestra e scruta l’orizzonte. Anna sta scrivendo, May sta copiando i compiti da me, che sto svuotando un pacchetto di patatine, con i piedi appoggiati sulla sedia e seduto sul banco. Sono le 12.03: Gironi e Chiodini sono appena rientrati. Ciccio non vede nulla. Tutto d’un tratto, un ragazzo entra nella nostra classe. Nessuno di noi lo nota: rimane li sull’uscio, ad esaminare la situazione, poi si avvicina alla cattedra.
“Buongiorno.” Dice appoggiando la tracolla in pelle sulla sedia. Il suo tono è caldo e affascinante. Come lo sente aprir bocca, Anna alza di scatto lo sguardo e lo fissa incantata. Piano piano, tutte le ragazze che gravitavano intorno all’innato talento comico di Campana iniziano ad azzittirsi e a sedersi ai rispettivi banchi. Ciccio scende dal cornicione della finestra e si accomoda al suo posto; Campana si mette a sedere; Gironi e Chiodini smettono di mangiare. Rimango solo io, con le spalle verso la cattedra: mi giro lentamente e rimango stregato a mia volta. Mi alzo con calma e senza abbassare lo sguardo, mi dirigo al mio posto. Il silenzio.
“Buongiorno, ragazzi!” Saluta il professore.
“Buongiorno.” Mormoriamo.
“Bene, finalmente il silenzio. Siete sempre così rumorosi al cambio dell’ora?”
Nessuno fiata.
“Va bene, allora io mi presento: sono il professor Fermi. Sarò il vostro supplente di scienze. Voglio essere estremamente franco con voi. Non sono qui per farmi prendere in giro da nessuno, tanto meno da una classe come la vostra. Mi sono informato: non siete proprio degli stinchi di santo, giusto? Quindi vi conviene mettervi subito in riga, perché i piedi in testa, io, non me li faccio mettere. Sono giovane e inesperto, ma non sono due buone ragioni per comportarsi come degli animali. Io pretendo: silenzio, ordine, disciplina, attenzione, studio e rispetto. C’è da mettervi un due? Ve lo metto senza problemi. Gli altri professori mi hanno messo in guardia riguardo a voi, ho già avuto modo di inquadrarvi quasi uno per uno.”
Un brivido freddo mi scorre lungo la schiena, mi pare ancora di essere sotto la doccia.
“Fate il liceo classico, e allora? Volete un premio? Pensate di essere meglio e più intelligenti di quelli la fuori? Se volete saperlo, io non ho mai capito l’utilità dello studiare il greco e latino, le ragazze e i ragazzi che frequentavano questo corso, ai miei tempi, erano degli sbruffoni con la puzza sotto il naso e, a vedervi, voi non sembrate da meno. Ma voglio darvi una possibilità, quindi, per ora, siete solo una classe di studenti del quarto anno.”
Questo ci ha appena ricoperti di merda con un badile.
“Io ho studiato alla scienze applicate, sono uscito con voti altissimi e sono un uomo di scienza. Non voglio cose filosofiche, battute latine o citazioni greche. Nulla di questo schifo: qui conta la matematica, la scienza. Sono delle scienze esatte, perfette nel loro essere astratte e completamente e assolutamente razionali. Non ci sono interpretazioni, la verità è una e una sola, come le rette passanti per due punti. Immaginatela così, la mia materia: una retta passante per due punti, unica e sola, senza variazioni o possibilità. È, come di te voi ragazzi, una forza! Infatti la forza, come diceva Archimede, si applica! Il greco e il latino, mi dispiace dirvelo, ma no, rimangono utili a loro stesse. Ecco perché io amo le scienze e mi definisco un uomo di scienza. Sono figlio della ragione e dalla precisone, dei calcoli e delle formule, vi ho dedicato una vita, come dovrebbero fare tutti, e non ho seguito la strada della letteratura, così fragile e così aperta alle interpretazioni e, di conseguenza agli errori. La musica è una scienza perfetta, la cucina anche, la costruzione di una casa, la trasmissione del patrimonio genetico, tutte scienze perfette.”
“Non gliel’ha mai data nessuna, a questo.” Bisbiglia quello dietro di me. Scoppio in una risata che riesco a stento di trattenere.
“Mi scusi,- comincia Anna dopo aver alzato la mano- mi scusi se la contraddico ma, vede, io penso che si sia sbagliato nel affermare che la musica, la cucina, la costruzione e il patrimonio genetico sono delle scienze esatte.- Il professore sobbalza. È visibilmente spiazzato.
“In realtà…” prova ad incominciare.
“In realtà, professore- riprende Anna- lei ha ragione, in teoria. L’errore è basilare, dal mio punto di vista, e, se mi permette, si nota che lei è un uomo di scienza: non osserva la realtà, ma si affida essenzialmente al calcolo matematico.”
“Ma…”
“Ma lei ha ragione, e non glielo nego, ma ha sbagliato nel considerare tutto quello che ha elencato prima solamente come una scelta esatta. Infatti, senza l’idea, senza un testo, senza dei sentimenti, la musica cos’è? Un insieme di suoni sintetizzati in onde sonore? E la cucina, senza un sapore, un colore, senza dei condimenti, senza una scelta accurata riguardo la freschezza degli ingredienti, rimane solo una reazione chimica? La costruzione di una casa è solo miracolo dell’ingegneria, o dietro di essa si trova un progetto? E la genetica? Mi sta veramente prendendo in giro? Vuole che le spieghi come avviene la creazione di un nuovo individuo, con un suo codice genetico particolare? Non credo assolutamente, e mi corregga, la prego, se sbaglio, dato che lei ha studiato, che uno spermatozoo si metta a fare un’equazione prima di fecondare un ovulo, o è così? E soprattutto, per un nuovo codice, chiamato anche vita umana, ma non penso che lei ne sappia qualcosa, ci vuole più che una semplice formula matematica: ci vuole una decisione, ci vuole determinazione, due persone e dell’amore. In caso contrario, sarebbe solo un ammasso informe di cellule e le sei è fiero di definirsi tale, buon per lei, davvero. Si ricordi, che prima di essere scienziati o letterati, si è persone, e che dietro formule, scoperte, libri e poesie si trovano idee vincenti e sentimenti, non nati certo grazie alla successione di Fibonacci, ma cullati da una delle più grandi conquiste del genere umano: il pensiero. Il greco e il latino sono il pensiero dell’uomo, oltre che a essere lingue morte, però vive nel significato. Perché esistono le parole? Perché dietro di essere ci sono concetti, idee, modi di vivere.”
Il professor Fermi è esterrefatto, come me del resto. È seduto sulla cattedra, con le gambe, infilate in un paio di pantaloni color ocra piuttosto stretti, a penzoloni. Si accarezza il mento e le guance scavate, coperte da un velo leggero di barba, gli occhi marroni rimangono spalancati e guardano Anna, che si sta battendo per quello in cui crede. I capelli, neri e corti, sono tenuti in ordine da un leggero strato di gel che brilla al sole. Il braccio sinistro è appoggiato nella zona dell’addome, a contato con un morbido maglione grigio, dal quale sporge un colletto di camicia bianco a righe blu. Ora che lo guardo bene, devo dire che ha certamente il suo fascino. Gli occhi grandi, il naso sottile, le labbra rosse. Poi è magro, terribilmente magro, e alto, smisuratamente alto.
“Quindi, professor Fermi, nonostante io la ritenga uno dei professori più carini, più affascinanti e più seducenti mai entrato da questa porta, in virtù di quello che penso e di quello che studio, la invito a prendere la sua bellissima laurea in chimica  e buttarla nel cesso.”
Anna riceve una standing ovation. La classe è un applauso generale: c’è chi fischia, chi fa cori. Ma lei no, è seduta composta, con lo sguardo fisso sul quel docente, così giovane e così attraente, ma allo stesso tempo così lontano dai nostri pensieri. Fermi non ribatte, la classe è in delirio ma lui non ribatte, non fiata, non dice di stare buoni. Si sta mangiano le unghie. Di colpo, come preso da un qualche istinto, si precipita dietro la cattedra, apre la sua borsa e ne estrae un fascicoletto.
“Nome e cognome.” Dice, indicando Anna.
“Anna Traversi.”
Il professore sfoglia le pagine nervosamente. Si ferma su una e la legge attentamente, poi alza lo sguardo verso Anna. Aspettiamo una sua prossima mossa, come una selvaggia interrogazione a sorpresa. Ma lei è li, vincitrice e in toccabile.
“Traversi, lei non mi piace.”
“Perché le ho fatto vedere un aspetto dell’esistenza che non aveva considerato, perché le ho risposto a tono mentre ci insultava? Mi illumini.”
“Tu non mi piaci.”
Anna incrocia le braccia: si sta scaldando parecchio.
“Me ne farò una ragione.” Ribatte lei.
“Voi,- riprende dopo una lunga pausa di riflessione- voi siete degli alunni, e io sono il professore. E io… io non tollero, non tollero un tale comportamento. Per questo motivo, ho deciso di non fare nemmeno un ripasso, no. Faremo una verifica, appena rientrati dalle vacanze. Martedì spiegherò un nuovo argomento, e vi conviene capirlo al volo, perché non ho voglia di rispiegare nulla.”
                Bestemmie volano dal fondo della classe, sussurrate piano, quasi impercettibili, ma si fanno sentire lo stesso. C’è chi inizia già a disperarsi; i secchioni nelle file centrali ci guardano con un’aria quasi di disprezzo, con la faccia da saputelli. Nessuno, e sottolineo nessuno, se la prende con Anna. Siamo tutti arrabbiati col professore: entra in classe e ci insulta come fosse la norma. Lei ha solo fatto presente che esistono altri modi di vedere la realtà, nulla di più. Ma il libero pensiero, ormai, è visto come un’arma troppo potente per essere lasciata in mano a dei ragazzini come noi, un privilegio che nessuno dovrebbe avere, secondo qualcuno. Più siamo ignoranti, meglio è. Purtroppo mi hanno sempre insegnato a pensare, qui al classico. Che sia forse un reato? Questo io non lo so. Ormai l’illegalità è legale, ma pensare viene visto come una colpa, esprimersi come una  mancanza di educazione. E sono stufo, stufo marcio, di questi professori, col sapere e con pochi soldi in tasca, che si sfogano su di noi, incapaci di capire le nostre esigenze e la nostra natura, sia di studenti che di ragazzi, docenti che credono che il mondo noi sia cambiato da quando andavano a scuola loro, che pensano che la materia che insegnano sia l’unica al mondo e la verità assoluta. Con l’amaro di questi pensieri in bocca, sento suonare la campanella. Le lezioni sono finite e si può finalmente tornare a casa. Basta rotture di palle, per oggi.
                La settimana finisce in fretta, come le poche giornate di bel tempo che l’hanno accompagnata e seguita. Inizia a scendere la neve, ormai. Natale è sempre più vicino e sento gli abbracci caldi di mia sorella Costanza stringermi sempre più forte. Manca solo qualche giorno alla mia partenza e sono sempre più impaziente: lunedì passa in fretta, martedì lo trascorro raccontando a Gio, rientrato dalla sospensione, del professore di scienze tanto a lungo che è già mercoledì, quando mi accorgo che è giovedì e che non avevo ancora preparato la valigia, che avrei finito di riempire con le ultime cianfrusaglie venerdì, trascorrendo sabato aspettando l’imminente partenza nella mattinata di domenica. Sono le 6.50 di domenica 22 dicembre. Cammino con tranquillità, trascinando la valigia dietro di me. L’ampio corridoio è gremito di gente e di cartelloni pubblicitari, che costeggiano le pareti di marmo giallastro; il soffitto è ricurvo, in lamiera, bianco, e le luci accese lo fanno sembrare luminosissimo. Raggiungo una scala, numerata col numero 7, e salgo i gradini, sollevando la valigia con forza. Mi trovo sotto un piccolo portico in metallo brunastro, non so se per la ruggine o per la vernice e aspetto il treno delle 7.01. Mi siedo in seconda classe, in un posto vicino al finestrino. Mi sparo la musica a tutto volume nelle orecchie. Il treno si ferma a Bologna, nella stazione centrale alle 8.25: scendo e aspetto la coincidenza, che passerà introno alle 9.18 e ne approfitto per fare colazione. Risalgo sul treno quasi un’ora dopo, a causa dei ritardi. Arrivo a Pisa, nella stazione centrale, alle 11.34, dopo essermi fermato a Firenze per un’altra coincidenza. Percorro i corridoi luminosi al contrario, destreggiandomi tra i tanti pendolari di fretta. Esco dalla stazione e mi ritrovo in piazza. Passo attraverso le arcate di pietra dell’edificio, guardando la fontana difronte a me. Cerco con lo sguardo tra le persone che affollano l’entrata e mi dirigo verso il centro della piazza. Le rotelle della mia valigia saltellano tra un sanpietrino e l’altro. La vedo. È li, davanti a me, seduta su una panchina di marmo, ad aspettarmi. Le corro incontro. Finalmente, Costanza.  

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