One and only

di LindaBaggins
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Tempi difficili ***
Capitolo 3: *** Diagon Alley ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO
 

31 OTTOBRE 1959
 
Isabel non credeva che per un essere umano fosse possibile provare tanto dolore. Aveva sentito parlare, ovviamente, della sofferenza che si provava in situazioni del genere, e in un certo senso era arrivata a quel momento preparata: in fondo, aveva sempre creduto che la sua soglia del dolore fosse abbastanza alta da permetterle di affrontare il tutto con sufficiente stoicismo. Ma aveva dovuto presto ricredersi, e accettare il fatto che i limiti della sua resistenza fisica fossero stati di gran lunga superati.
Fece del suo meglio per non urlare, ma non poté impedire ad un gemito di dolore di fuoriuscire dalle sue labbra strette fino allo spasimo. Sentì il sudore colarle copioso giù per il viso rosso e congestionato, e non poté fare altro che sperare, per l’ennesima volta, che tutto finisse il più presto possibile. Da quanto era in quella stanza? Due, tre ore? Non si ricordava nemmeno se fosse notte o giorno: le uniche cose di cui era consapevole erano gli spasmi lancinanti che la aggredivano fino a mozzarle il fiato, i muscoli del proprio corpo tesi fin quasi a spezzarsi e i tuoni che, di tanto in tanto rimbombavano nella stanza penetrando a fatica la coltre di dolore che le annebbiava il cervello. C’erano delle persone, tutto intorno a lei, ma al momento riusciva a distinguerne solo le sagome sfocate, gli occhi appannati da un misto di lacrime e sudore.
«Coraggio, Isabel! Ancora poco e ci sei!»
La voce femminile, calda e rassicurante, proveniva da un punto molto vicino a lei, ma stranamente le arrivò come da miglia e miglia di distanza. Isabel, con un gesto istintivo, strinse ancora di più la mano della donna bionda in piedi al suo fianco ed emise un grido strozzato, costringendo il suo ventre a contrarsi per l’ennesima volta nello sforzo. Si sentiva come se il suo corpo dovesse disintegrarsi da un momento all’altro, e per un breve, folle momento desiderò morire piuttosto che sopportare quell’indicibile dolore ancora per un secondo.
«Non ce la faccio … non ce la faccio …»
Si rese conto di aver parlato senza rendersene conto, senza nemmeno sapere quello che diceva.
«Certo che ce la fai!» le fece eco l’infermiera in tono incoraggiante, asciugandole premurosamente il sudore dal viso e ricambiando la stretta alla sua mano per rassicurarla. «Ci sei quasi, ancora un ultimo sforzo … così, bravissima!»
«Riesco a vedere la testa!» esclamò in quel momento una voce maschile di fronte a lei. «Forza, Isabel, forza!»
Fu come se qualche incantesimo le avesse appena restituito la facoltà di pensare lucidamente. Una violenta scossa di adrenalina la attraversò dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi, e all’improvviso persino il dolore sembrò farsi meno intenso. Serrò le palpebre e, respirando rapidamente come le era stato insegnato durante le sue innumerevoli visite di controllo al San Mungo, si preparò a compiere l’ultimo sforzo di quella interminabile nottata.
«Stai andando benissimo, Isabel, continua così!» esclamò ancora la voce del guaritore, con crescente entusiasmo. «Ecco che arriva … ecco che arriva … le spalle e il busto sono fuori, ci siamo quasi!»
La stretta sulla mano dell’infermiera era così forte, che Isabel era convinta di sentire saltar fuori le nocche dalla pelle da un momento all’altro. Si ripromise di scusarsi per averle stritolato la mano, non appena si fosse ripresa dalla fatica, ma un momento dopo pensò che probabilmente la donna era abituata ad assistere giovani madri al primo parto sconvolte dal dolore.
Proprio in quel momento, il mondo intorno a lei cominciò a comportarsi in modo strano. I rumori e le voci concitate, compresi i suoi gemiti di dolore, si smorzarono fino quasi a scomparire, e i minuti presero a dilatarsi in maniera quasi inconcepibile. Fu dopo quelle che a Isabel sembrarono ore, che, finalmente, uno strillo acuto e lamentoso invase la stanza, spezzando il silenzio ovattato nella sua testa e riportando il tempo a scorrere ad un ritmo normale. Sfinita, ebbe una fugace visione di minuscoli piedini e manine che si agitavano tra le braccia del guaritore, e per un attimo fu convinta che di lì a qualche secondo avrebbe perso i sensi.
«Ce l’hai fatta, Isabel!» la voce dell’infermiera, accanto a lei, era incrinata dalla commozione, la sua mano piacevolmente ruvida le accarezzava i capelli con fare materno. «Ce l’hai fatta, è finita!»
Senza che potesse fare niente per fermarli, violenti singhiozzi di felicità e sollievo cominciarono a scuoterla dall’interno, rendendole impossibile persino prendere fiato. Ci volle qualche minuto prima che il respiro affannoso le permettesse di parlare in modo comprensibile.
«E’ … è un maschio o … una femmina?» fu tutto quello che riuscì a chiedere tra le lacrime. Fu il guaritore a risponderle, avvicinandosi al lettino con un involto di coperte tra le braccia e un sorriso soddisfatto stampato sulla faccia madida di sudore.
«E’ una bambina, e sta benissimo» disse, porgendole con cautela il fagotto. Isabel, tiratasi su a fatica con l’aiuto dell’infermiera, si sistemò goffamente l’involto tra le braccia, e per la prima volta, con le labbra salate di lacrime e il cuore che le rimbombava violentemente nel petto, posò lo sguardo sul viso di sua figlia.
Era rosso e minuscolo, con gli occhi ancora semichiusi e un’incredibile massa di finissimi capelli scuri sulla testa. Aveva smesso di piangere a squarciagola e, emettendo solo qualche sommesso piagnucolìo, la fissava con uno sguardo di blando interesse, esausta apparentemente quanto lei.
Isabel rise tra i singhiozzi e le sfiorò una guancia con un dito, frastornata. «Ciao, piccolina …» sussurrò, beandosi della sua vista come davanti ad un’opera d’arte. «Ciao … finalmente ci conosciamo …»
Come per magia, il mondo intorno a lei si era ridotto ad una vaga e indistinta massa di sagome, colori e brusii; le ore appena trascorse, la fatica e il dolore, sembravano appartenere ad un’altra vita, o somigliavano al pallido ricordo di cose che erano successe a qualcun altro. Dentro di lei, in quel momento, c’era posto soltanto per un’enorme, totalizzante e assoluta felicità. Una sensazione così forte, e dimenticata da così tanto tempo, che Isabel per un attimo temette di rimanerne travolta. Fu soltanto quando una mano si poggiò delicatamente sulla sua spalla e una voce chiamò con gentilezza il suo nome, che fu di nuovo consapevole della presenza, in quella stanza, di altre persone che non fossero lei o sua figlia. 
«Isabel» la chiamò l’infermiera bionda, con la stessa cautela con cui si sveglierebbe un sonnambulo. «Desideri metterti in contatto con qualcuno? Vuoi … avvertire il padre della bambina?»
Isabel non distolse nemmeno per un attimo lo sguardo da sua figlia. In quel momento, le sembrava impossibile che i suoi occhi potessero rivolgersi verso qualcos’altro che non fosse quel minuscolo uccellino sgambettante. A quelle parole, tuttavia, il dito che accarezzava delicatamente la guancia della bambina si immobilizzò, mentre il suo cuore pareva dimenticare per un istante come si faceva a battere.
Sapeva benissimo a cosa si riferiva l’infermiera. Isabel era arrivata in ospedale poche ore prima, piegata in due per il dolore, senza nemmeno sapere come aveva fatto a racimolare la concentrazione necessaria per visualizzare nella mente il San Mungo e Materializzarsi nel posto giusto, ed era completamente sola. Nessuno la accompagnava. I guaritori, considerato il suo stato, non avevano perso tempo e l’avevano trasferita direttamente in sala parto, rimandando le domande a quando tutto fosse finito e lei si fosse ripresa. Quel momento, a quanto pare, era arrivato. E Isabel, suo malgrado, era preparata a quello che avrebbe dovuto dire.
Deglutì impercettibilmente. «Non c’è nessuno da contattare» rispose alla fine, controllando il più possibile il tremito che minacciava di incrinarle la voce. «Suo padre non c’è più.»
Anche senza voltarsi, riuscì a percepire chiaramente sulla pelle il gelo che era calato nella stanza alle sue parole. Con la coda dell’occhio scorse l’infermiera scambiare uno sguardo imbarazzato con il guaritore che l’aveva aiutata a partorire, e subito voltarsi verso di lei.
«Oh, Merlino … mi … mi dispiace molto» si scusò la donna, mortificata. «Non volevo essere inopportuna.»
Isabel scosse lievemente la testa, facendole capire che non ce l’aveva affatto con lei e che la sua domanda era stata più che legittima.
«Non c’è bisogno di scusarsi» disse con aria assente, lo sguardo ancora fisso sulla piccola fra le sue braccia. «Penso fosse così che doveva andare … purtroppo.»
Le lacrime minacciarono di nuovo di gettarsi a capofitto lungo le sue guance, ma questa volta la felicità non c’entrava proprio niente. Qualcosa di simile ad una voragine si era aperta nel petto di Isabel, quella voragine con cui aveva imparato da tempo a convivere e che negli ultimi mesi non l’aveva abbandonata nemmeno per un secondo. Era la voragine della perdita, della mancanza, della paura, un residuo del dolore che l’aveva divorata nei primi tempi e che ora si era trasformato in sorda rabbia intrisa di nostalgia.
La bambina emise un piccolo gorgoglìo e smise per un momento di lamentarsi, mentre le microscopiche dita della sua manina si poggiavano sul polso di Isabel. Era un gesto del tutto inconsapevole, Isabel lo sapeva bene, ma questo non le impedì si sentire il cuore gonfiarsi di commossa felicità. Fu allora che, per la prima volta dopo mesi, sentì finalmente chiudersi la voragine nel petto, e fu allora che sentì in modo chiaro che non solo era possibile per lei ricominciare a vivere, ma che la sua nuova vita stava cominciando in quel preciso momento. Forse – sicuramente - la voragine sarebbe ricomparsa, ma da quel giorno in poi Isabel avrebbe avuto qualcuno in grado di riempirla, qualcosa che le avrebbe ricordato, giorno dopo giorno, che la vita valeva la pena di essere vissuta.
«Staremo benissimo, sole io e te» bisbigliò sorridendo, il dito che riprendeva a sfiorare teneramente la guancia della bambina. «Staremo benissimo … non è vero, Catherine?»



 


 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Catherine era nella mia testa ormai da molti anni. Ha dovuto affrontare un lungo viaggio per venire fuori – un viaggio fatto di trame inadeguate, caratterizzazioni sbagliate, ripensamenti, cali di ispirazione – ma alla fine è riuscita a trovare la forma e la storia che più le si addiceva. Catherine è maturata, è cresciuta e si è evoluta insieme a me, e forse è per questo che, tra i personaggi delle mie storie, è quello che amo di più. Qui, in questa piccola stanza dell’Ospedale San Mungo per Malattie e Ferite Magiche, in questa tempestosa notte di ottobre, inizia il suo viaggio e la sua storia, e se riuscirò a trasmettervi anche solo un po’ dell’impegno che ho speso per idearla e dell’amore sconfinato per la saga a cui si ispira, potrò ritenere il mio scopo raggiunto.
Buona lettura

MrsBlack90

P.S. Il titolo della storia, come forse qualcuno avrà intuito, è tratto dalla canzone One and only di Adele, che mi ha fornito molta dell’ispirazione necessaria a concepire questa storia.
 

 

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Capitolo 2
*** Tempi difficili ***


CAPITOLO 1

TEMPI DIFFICILI

 

AGOSTO 1976

L’odore salmastro e pungente del mare, mescolandosi piacevolmente al profumo dei fiori, impregnava l’aria di quella mattina di fine estate. Un sole spietato, incurante del fatto che agosto stava volgendo al termine e che stava arrivando il momento di smorzare un po’ la sua ferocia, brillava nel cielo azzurro completamente sgombro di nuvole, disegnando sul verde del prato ampie pozze di luce alternate a chiazze d’ombra. Dalla finestra aperta che dava sul giardino il rumore attutito di pentole e stoviglie, portato dalla lieve brezza proveniente dalla Manica, si confondeva con le note di una canzone trasmessa alla radio, in cui la voce roca e potente di Celestina Warbeck ammoniva l’amante fedifrago di aver “rotto l’incantesimo tra loro e risvegliato la Bashee che era in lei”.
Catherine, i capelli raccolti in un nodo distratto in cima alla nuca e un paio di vecchi occhiali da sole sollevati sulla testa, se ne stava inginocchiata all’ombra di un vecchio tiglio, godendosi la lieve frescura ed esaminando attentamente una piccola porzione di prato davanti a lei.
«… tre, quattro, cinque … sei … e sette!» mormorò contando con un dito, mentre il viso le si illuminava sempre più di sollievo.
Meno male … anche questa volta ce l’ho fatta a recuperarvi tutti!
Sul terreno, all’interno di un approssimativo recinto di circa un metro di diametro costruito con sassi di medie dimensioni, strisciavano pigramente sette lumache delle dimensioni di una mano. Sarebbero sembrate in tutto e per tutto delle lumache giganti babbane, se non fosse stato che il loro corpo e il loro guscio, al posto della consueta tonalità marrone e giallastra, esibivano colorazioni che andavano dal blu elettrico, all’arancione, al rosa shocking, al verde acido. Catherine, canticchiando distrattamente tra di sé il ritornello della canzone di Celestina Warbeck, prese una ciotola piena di foglie di insalata poggiata sull’erba accanto a lei e le depositò, prendendole a manciate, all’interno del recinto improvvisato. Gli Streeler – questo era il nome delle grosse lumache multicolore – si avventarono sul cibo il più velocemente che la loro andatura lo consentì, e iniziarono a divorare l’insalata con una voracità quasi inquietante.
Catherine lanciò una rapida occhiata all’orologio che portava al polso sinistro. Le lancette la informarono che mancavano pochi secondi allo scoccare dell’ora, e la ragazza si dispose ad osservare attentamente il gruppo di lumache, gli occhi stretti per la concentrazione. Proprio nel momento in cui la radio dentro casa annunciava gracchiando che erano le tredici in punto, i sette Streeler, con un debole schiocco secco, cambiarono colore tutte nello stesso momento, dando vita ad un altro bizzarro caleidoscopio di blu, verdi, gialli, rossi e arancioni. Catherine, estratto dalla tasca un foglio di pergamena spiegazzato, controllò velocemente l’elenco di numeri, orari e giorni della settimana che vi erano segnati e, a giudicare dal sorriso di soddisfazione che le si allargò sulle labbra, parve che la conclusione a cui era giunta fosse più che soddisfacente.
«Cathy! Vieni in casa, per favore, il pranzo è quasi pronto!»
Il richiamo la raggiunse all’improvviso dalla finestra aperta della cucina, mischiandosi alla voce dello speaker del notiziario radiofonico e al rumore delle onde che, in lontananza, si abbattevano placide sugli scogli. Catherine si alzò in piedi e si scrollò via qualche filo d’erba dalle gambe e dai pantaloncini corti. Prima di raccogliere la ciotola vuota e dirigersi verso la veranda, però, prese una fialetta piena di liquido rossastro poggiata sull'erba accanto a lei, tolse il tappo e, tenendola sospesa a una trentina di centimetri da terra, ne versò il contenuto sopra il recinto degli Streeler. Subito una sorta di cupola trasparente e traslucida, appena visibile a occhio nudo, apparve sopra il cerchio di sassi, rimarginandosi rapidamente nei punti dove si vedevano degli squarci; uno degli Streeler, che aveva appena iniziato ad arrampicarsi per tentare la fuga, iniziò a strisciare lungo la parete trasparente, così che presto sembrò sospesa a mezz’aria a testa all’ingiù.
Quell’Incantesimo di Ostacolo era una precauzione che Cathy aveva dovuto prendere fin dai primi giorni in cui aveva cominciato ad allevare gli Streeler, per evitare loro di scappare e andarsene a zonzo per tutto il giardino. Oltre ad essere difficile ritrovarle tutte e sette una volta che si erano disperse tra piante e cespugli, c’era anche il problema della scia velenosa che si lasciavano dietro e che era in grado di far bruciare e avvizzire qualsiasi tipo di vegetazione con cui veniva a contatto - un’altra delle caratteristiche che le distingueva dalle loro cugine non magiche. La chiazza d’erba che Catherine aveva designato come loro casa e che aveva provveduto a delimitare con i sassi, infatti, era già completamente scomparsa, lasciando il posto a terra nuda e arida per il sole. 
«Mi farai diventare matta, con questa tua fissazione per le bestie strane!» aveva esclamato sua madre, terrorizzata per il suo amato giardino, quando all’inizio dell’estate Catherine le aveva chiesto il permesso di allevare degli Streeler. «Io alla tua età avevo un cane, non una legione di infernali lumache fluorescenti!»
Catherine sorrise tra sé e sé. Alla fine, come sempre quando si trattava di assecondare la sua passione per gli animali di tutti i tipi (magici e non), sua madre aveva acconsentito alla richiesta, a patto però che trovasse un sistema per impedire agli Streeler di scappare. A volte capitava che le lumache, grazie alla corrosiva bava che si lasciavano dietro, riuscissero a sfondare gli Incantesimi di Ostacolo di sua madre e ad evadere; fortunatamente Isabel non aveva mai minacciato ritorsioni e si era solo limitata a fornire a Catherine una scorta di Pozione Riattivante - utilissima per ripristinare o rafforzare gli incantesimi danneggiati - oppure a rimetterle dentro lei stessa, rinforzando l’incantesimo e borbottando contrariata tra di sé.
Appena varcata la soglia dell’ingresso, un profumino invitante arrivò ad allietare le narici di Catherine, il cui stomaco si esibì in un buffo e sonoro gorgoglio. Fece il suo ingresso in cucina con l’acquolina in bocca e trovò sua madre china davanti al forno, intenta a controllare una teglia piena di quelle che sembravano invitanti lasagne alle verdure, mentre la radio gracchiava in sottofondo.
«Tempismo perfetto» si complimentò Catherine con un sorriso. «Ho una fame da lupi.»
Sua madre le lanciò una breve occhiata distratta. «Come stanno le tue bestiacce?» chiese, agitando un paio di volte la bacchetta verso il contenuto della teglia e infilandola di nuovo nel forno. «Sei u a recuperarle tutte?»
Catherine non si offese. Il tono conciliante usato da sua madre le fecero capire che l’appellativo “bestiacce” era stato usato in modo più affettuoso che ostile.
«Sì!» rispose trionfante, staccando un acino d’uva dalla ciotola sul ripiano della cucina e infilandoselo in bocca. «Tutte tornate alla base! Lo sai, credo di aver scoperto una cosa interessante!»
«Davvero? Che cosa?»
Catherine non si fece pregare. «Sono quasi sicura che tra alcuni Streeler che vivono a stretto contatto da molto tempo si sviluppi un tipo di legame più forte, di modo che, quando cambiano colore allo scoccare dell’ora, tendono ad assumere più o meno la stessa colorazione, oppure tendono a “scambiarsi” il colore che avevano fino a quel momento!» spiegò entusiasta.
Lo sguardo che sua madre le rivolse, questa volta, era di gran lunga più attento e decisamente colpito. «Dici sul serio?»
«Eccome! Oh, non vedo l’ora di dirlo ad Hagrid! Ha promesso che se fossi riuscita a raggiungere buoni risultati con gli Streeler durante l’estate, avrebbe messo una buona parola con il professor Kettleburn per farmi badare ad uno Snaso tutto mio!»
Isabel sospirò, rassegnata. «Beh … uno Snaso almeno  sarà utile a qualcosa e non se ne andrà in giro a bruciacchiarmi tutti i fiori del giardino.»
«Ma dai, sei ingiusta!» rise Catherine. «Anche gli Streeler sono utili! Devo essere io a ricordarti, signora pozionista, dell’efficacia del loro veleno per tenere lontani gli Horklump?» ci pensò un attimo su, fermamente decisa a trovare un altro pregio a quei bizzarri lumaconi a cui, tutto sommato, aveva finito per affezionarsi. «E poi sono carini!»
Sua madre scoppiò in una breve risata e socchiuse nuovamente il forno per controllare le lasagne. «Non offenderti, tesoro, ma per quanto riguarda gli animali hai un concetto di “carino” che proprio non capirò mai. Spero che tu non usi lo stesso metro di giudizio con i ragazzi, o dovrò iniziare a preoccuparmi di chi mi troverò un giorno per casa!»
Gli occhi di Catherine rotearono verso l’alto. «Direi che per adesso puoi anche fare a meno di preoccupartene» replicò, ironica. «E’ pronto il pranzo?»
«Quasi, ma non pensare di sederti a tavola in quelle condizioni. Fila di sopra a lavarti e a metterti dei vestiti puliti, e poi ne riparliamo.»
«D’accordo!» obbedì Catherine, sorridendo. Le depose un piccolo bacio sulla guancia e lasciò la cucina, diretta alle scale che portavano ai piani superiori.
«Ci sono delle lettere per te, le ho appoggiate sulla tua scrivania!»
La voce di Isabel la raggiunse quando era già a metà dei gradini, e il sorriso che ancora aleggiava sulle labbra di Catherine non poté fare a meno di allargarsi ancora di più. Aumentò il passo, salendo gli ultimi scalini due a due, così impaziente di arrivare in cima che sull’ultimo quasi scivolò e perse l’equilibrio.
Il corridoio del piano di sopra era breve. Vi si affacciavano soltanto tre porte – quelle delle due camere da letto e del bagno – e le pareti dalla calda tonalità color giallo tenue erano occupate da decine di fotografie che ritraevano lei, sua madre o entrambe, nei luoghi e nelle situazioni più svariate. In una di esse, una piccola Catherine di poco meno di un anno gattonava nel prato davanti a casa tentando di raggiungere un giocattolo; in un’altra lei e sua madre – quattro o cinque anni più tardi – sorridevano all’obiettivo, con alle spalle la frastagliata costa della Cornovaglia e le onde che si infrangevano ritmicamente sugli scogli; in un’altra ancora, una Catherine undicenne decisamente impacciata posava davanti alla macchina fotografica con indosso la divisa di Hogwarts, la lettera di ammissione in una mano, la bacchetta magica fresca di negozio nell’altra e i capelli raccolti in una distratta coda di cavallo, mentre le labbra, tese in un sorriso imbarazzato, non riuscivano del tutto a nascondere gli incisivi un po’ sporgenti. Catherine sorpassò distrattamente le fotografie che le sorridevano e la salutavano da dietro il vetro delle cornici, ma nonostante la fretta non poté fare a meno di posare lo sguardo – come sempre quando arrivava a quel punto del corridoio - su una vecchia foto in bianco e nero mescolata alle altre. Sua madre, poco più che ventenne, teneva goffamente in braccio un fagotto di coperte tra le quali si intravedeva il visetto addormentato di Catherine, nata da pochi giorni. Isabel fissava dritto dentro l’obiettivo, scostandosi ogni tanto una ciocca di capelli dal bel viso acqua e sapone, e sorridendo leggermente. Benché la parte inferiore del volto esprimesse gioia, tuttavia, la parte superiore sembrava appartenere ad un’altra persona: i suoi occhi verdi, così simili a quelli di sua figlia, erano oscurati da una nube di inequivocabile tristezza. Catherine non sapeva perché la sua attenzione fosse sempre così attratta da quella fotografia piuttosto che da una qualsiasi di tutte le altre che affollavano le pareti. Sospettava che fosse per via della stupefacente bellezza giovanile di sua madre, una bellezza che avrebbe saputo attirare su di sé qualsiasi sguardo e che –le venne da pensare con rassegnazione – di certo non era riuscita a trasmettere a lei. Ma il motivo era anche un altro, e Catherine lo sapeva fin da quando era stata abbastanza grande da elaborare pensieri sensati: ciò che la attirava di quella fotografia era l’evidente solitudine di sua madre, quell’assenza ingombrante accanto a lei che senza dubbio era la ragione del suo sguardo pieno di velata tristezza.
Aveva fatto domande, all’inizio: non riusciva a capire perché tutti gli altri bambini avessero due genitori e lei soltanto uno. Non che in fondo ne fosse troppo turbata: erano sempre state solo loro due, solo lei e Isabel, e questo, per quanto la riguardava, era una cosa perfettamente normale; ma il fatto che la maggior parte dei bambini avesse, accanto ad una mamma, anche un papà che di tanto in tanto faceva fare loro cose curiose come issarseli sulla schiena o farli volare in aria per poi riprenderli al volo, era una stranezza che proprio Catherine non riusciva a spiegarsi. Sua madre, nei primi tempi, era stata cauta. Aveva cercato di spegnere la sua curiosità infantile ripiegando su una mezza verità che non la impressionasse troppo, e sostenendo che il suo papà “era partito per un viaggio molto lungo”. Al che Catherine un giorno, ingenuamente, le aveva chiesto se prima o poi sarebbe tornato. Ricordava come fosse ora il modo in cui sua madre l’aveva fissata per diversi secondi con le labbra semiaperte e gli occhi improvvisamente umidi, la forchetta piena di cibo che si stava portando alla bocca immobile e tremolante a mezz’aria.
«No, tesoro» si era limitata a rispondere, alla fine. «Non tornerà.»
Solo crescendo Catherine aveva capito pienamente il significato di quelle parole. La sua curiosità, tuttavia, non si era spenta del tutto, e presto era tornata alla carica per cercare di estorcere a sua madre qualche altra informazione e avere la meglio sull’ostinato mutismo che sembrava cogliere Isabel ogni volta che Catherine accennava all’argomento. Alla fine, in un uggioso pomeriggio autunnale in cui le sue insistenze erano state più tenaci del solito, Isabel aveva acconsentito a raccontarle in modo molto scarno e sintetico le tragiche circostanze che avevano portato alla morte di suo padre, pochi mesi prima della sua nascita. Catherine ricordava bene il modo asciutto e apparentemente distaccato in cui le parole erano uscite fuori dalla bocca di sua madre, ma aveva stampato in mente in modo  altrettanto chiaro lo sguardo di profonda amarezza che aveva invaso i suoi occhi mentre parlava. Pur non essendo troppo cresciuta, aveva compreso immediatamente, in modo quasi istintivo, quanto fosse costato a Isabel ripercorrere quegli avvenimenti e raccontargli quelle cose. Aveva accettato in silenzio quello che le era stato detto, senza osare chiedere altro, molto più dispiaciuta per il dolore che vedeva dipinto sul viso di sua madre piuttosto che per quello che aveva appena appreso. Sapeva che era sbagliato, sapeva che avrebbe dovuto provare almeno un po’ di sofferenza per suo padre, ma non ci riusciva. Non l’aveva mai visto. Tutto quello che conosceva di lui era la tomba nel cimitero di Newhaven che, di tanto in tanto, sua madre la portava visitare, e su cui erano incise solo un nome, una data di nascita e una di morte.
Brandon Swire, 15.07.1936, 21.03.1960.
Le parole si formarono in modo quasi automatico nella mente di Catherine, come uno scioglilingua imparato a memoria e ripetuto tanto spesso da perdere significato, mentre la sua mano si poggiava sulla maniglia della porta della sua stanza. Non appena entrò, un paio di orecchie si sollevarono da un ammasso di folto pelo striato acciambellato al centro del letto, e due grandi occhi verdi la fissarono pigramente mentre si avvicinava.
«Buongiorno, bellezza!» salutò Catherine con un sorriso, i pensieri su suo padre già sbiaditi e dimenticati in qualche remoto angolo della mente. Medea, la femmina di Kneazle incrociata con un gatto che Catherine possedeva fin da quando era un cucciolo di pochi mesi, si srotolò con un elegante movimento fluido e si allungò fino a raggiungere quasi il doppio della lunghezza che era stata fino ad un momento prima, rivelando una folta coda simile a quella di una volpe e un petto candido e vaporoso. Si produsse in un suadente e amichevole “prrr”, mentre raggiungeva il bordo del letto e sporgeva la scura testa tigrata verso di lei. Catherine le concesse qualche secondo di carezze e grattatine dietro le orecchie (gesto che non mancò di essere ringraziato con sonore fusa), prima di dirigersi con impazienza verso la propria scrivania. Su di essa, come Isabel le aveva preannunciato, erano poggiate due lettere. Fece per allungare la mano verso la prima, ma un seccato stridio proveniente da sinistra la finestra la fece bloccare. Stryx, il piccolo allocco dal petto dorato e dai tondi, dolci occhi gialli, la fissava dal suo trespolo vicino alla finestra aperta, facendo schioccare il becco con disappunto.
«Hai ragione, scusami!» rise Catherine, estraendo un Biscottino Gufico dalla scatola sulla sua scrivania e lanciandoglielo. Stryx lo prese al volo e lo ingoiò con evidente soddisfazione, per poi sistemarsi meglio sul trespolo e infilare la testa sotto l’ala. Catherine, nel frattempo, si era seduta alla scrivania e aveva preso in mano la prima delle due lettere, la cui busta (decisamente voluminosa) era tappezzata di francobolli raffiguranti la Statua della Libertà e impettiti Ministri della Magia con la parrucca e il cappello a tricorno. Mentre strappava la busta, sentì un peso familiare balzarle sulle ginocchia.
«Non pensarci nemmeno» disse in tono di avvertimento a Medea, che stava già fissando Stryx con gli occhi verdi socchiusi e la coda che fendeva eccitata l’aria. «Lo sai che devi lasciarlo in pace.»
La gatta, dopo aver lanciato uno sguardo rassegnato in direzione della padrona, abbandonò la sua posizione di attacco e si accovacciò sulle gambe di Catherine facendo sparire tutte e quattro le zampe sotto al corpo, ma senza smettere di frustare l’aria con la coda né di fissare il volatile con sguardo famelico. I due animali convivevano senza grossi incidenti ormai da qualche anno – da quando Catherine aveva convinto sua madre ad adottare un cucciolo di Kneazle – ma Medea, pur abbastanza intelligente da capire che l’allocco di casa godeva di una speciale immunità, non poteva fare a meno di rimanere a lungo nella stessa stanza con lui senza fissarlo leccandosi i baffi. Catherine era abbastanza certa che non avrebbe mai osato spingersi oltre, e tuttavia era felice che settembre stesse per arrivare: Medea sarebbe venuta con lei a Hogwarts, e per qualche mese sarebbe potuta stare lontana dal povero Stryx, scongiurando l’eventualità che il suo innato istinto predatorio le sfuggisse di mano.
Dalla busta fuoriuscirono numerosi fogli pieni di una calligrafia piccola e tondeggiante, piena di fronzoli e ghirigori qua e là. Catherine, riconoscendo immediatamente la calligrafia, sorrise e si appoggiò allo schienale della sedia. Si dispose alla lettura, la mano destra che carezzava distrattamente il dorso di Medea.

Cara Cathy,

scusa se ci ho messo così tanto a risponderti, ma nell’ultima settimana non abbiamo avuto nemmeno un giorno libero da impegni. Ci sono talmente tante cose da fare, qui a New York, che è difficile persino trovare un momento per mettersi seduti e riposare! Inoltre devo badare di continuo a quel mostriciattolo pestifero di Kevin, perché se lo perdessimo di vista anche solo per un attimo sarebbe capace di scappare e di perdersi. Il che mi starebbe più che bene, francamente, ma quando l’ho fatto presente ai miei mi sono beccata uno scappellotto e una ramanzina, perciò sono costretta a fargli da balia.
Comunque, non posso lamentarmi troppo: qui è tutto così incredibile, così diverso da Londra, che non puoi fare a meno di andare in giro con il naso per aria e la bocca aperta. Ci sono palazzi così alti che non riesci a vedere la cima, e hai presente quel bizzarro mezzo di trasporto babbano con cui il signor Evans accompagna sempre Lily all’Espresso di Hogwarts? Qui ce ne sono a fiumi, le strade sono completamente invase dal loro rumore infernale. A mia madre il primo giorno stava per venire un attacco isterico, sai quanto odia la confusione!
Mio cugino mi ha parlato della scuola di magia che lui frequenta qui, e mi ha fatto persino vedere una fotografia. Non è bella quanto Hogwarts, ma pare che si divertano molto di più e che gli insegnanti non siano così rigidi come da noi: insomma, ti sembra giusto che le gonne delle loro divise siano di almeno una spanna più corte delle nostre? E pare che le squadre di Quidditch abbiano addirittura dei gruppi femminili di sostegno che durante le partite incitano i giocatori cantando e ballando. Dici che se provassi a proporlo alla McGranitt si arrabbierebbe molto?
Ma adesso, Cathy, arriva la parte migliore: mio cugino mi ha fatto conoscere alcuni dei suoi compagni di scuola, e non so dirti quanto fossero carini, simpatici e alla mano! Altro che quei ghiaccioli musoni che dobbiamo sorbirci a Hogwarts! E, reggiti forte … uno di loro, Joe, mi ha lasciato il suo indirizzo nel caso nei prossimi mesi volessimo scriverci! A dire la verità ci siamo anche scambiati un paio di baci, ma la cosa è finita lì. Voglio dire, era davvero
troppo carino, ma non ho voluto incoraggiarlo più di tanto: non so se mi va di impegnarmi in una relazione a distanza … Ovviamente è sottinteso che David non deve saperne nulla, intesi? Non voglio che succeda la fine del mondo per un paio di baci innocenti e (probabilmente) senza futuro.
Tu come te la passi? Come vanno gli esperimenti con i tuoi viscidi esserini multicolori? Scommetto che hai già finito tutti i compiti delle vacanze, al contrario di me. Mia madre era già abbastanza arrabbiata per questo, poi sono arrivati anche i risultati dei G.U.F.O. a peggiorare la situazione. Insomma, a te sei G.U.F.O. sembrano così pochi? E’ vero che la maggior parte sono degli “Accettabile” e che con quello “Scadente” a Pozioni non potrò essere ammessa alla classe di Lumacorno, ma non mi sembrava davvero il caso di farne una tragedia …
Hai sentito Lily? Mi ha scritto la settimana scorsa, e anche se non l’ha ammesso (lo sai quant’è orgogliosa) mi è sembrata ancora parecchio giù per quello che è successo lo scorso giugno. Merlino, ancora non ci credo che Piton abbia potuto essere così idiota! Voglio dire, sai che non mi è mai piaciuto granché, ma a parte il suo essere un viscido strambo e la sua tendenza a frequentare la peggior feccia Serpeverde, mi sembrava che un po’ di cervello, di tanto in tanto, l’avesse! In ogni modo, Lily è ancora in vacanza con i suoi, ma se non ricordo male la lettera diceva che dovrebbe tornare domenica. Il che è perfetto, perché anche io dovrei tornare nel finesettimana, e pensavo che lunedì prossimo potremmo andare tutte insieme e Diagon Alley! Ho troppa voglia di rivedervi, mi siete mancate in queste settimane!
Adesso devo proprio andare, mio zio vuole portarci a visitare altri nostri parenti americani. Non posso credere che ce ne siano ancora, ho dovuto baciare almeno cinque vecchie zie barbute da quando sono arrivata qui!
Ti prego, convinci tua madre a mandarti a Diagon Alley, lunedì! Dille di non preoccuparsi, e che saremo di ritorno prima del tramonto. Salutamela tanto, e fai una carezza (simbolica) agli Streeler da parte mia! Aspetto con ansia tue notizie!

A prestissimo!

Tua

Mary

Soltanto quando arrivò alla fine della lettera, Catherine si accorse che sulle sue labbra aleggiava un piccolo, involontario sorriso. Rimise i fogli nella busta, scuotendo leggermente la testa con aria rassegnata. Mary non si smentiva mai: dovunque andasse, qualsiasi cosa facesse, trovava immancabilmente il modo di infilarsi in qualche avventura amorosa che, di solito, durava giusto il tempo di trovare qualcuno di altrettanto carino verso cui sbattere le sue lunghe ciglia da cerbiatta. Lei e Lily trovavano incredibile la sua capacità di attirare esseri umani di sesso maschile nello stesso modo in cui le persone normali attiravano zanzare nel periodo estivo, ma in fondo non c’era molto di cui stupirsi: Mary era davvero una bella ragazza, senza dubbio una delle più carine di Hogwarts, dove poteva vantare molte conquiste, diversi cuori infranti e l’ostilità di non poche studentesse. Catherine e Lily erano le sole a perdonarle la sua incorreggibile volubilità: la conoscevano meglio di chiunque altro, e sapevano bene che sotto la superficialità e il cinismo che Mary a volte ostentava c’era un carattere più sensibile e leale di quello che le apparenze lasciavano credere.
In ogni modo, la sua proposta di andare tutte a Diagon Alley quel lunedì era troppo allettante per non tenerla in considerazione. L’aspettativa di rivedere presto le sue due amiche, di scorrazzare insieme per i negozi e di mangiare un gelato da Florian Fortebraccio ascoltando Mary mentre raccontava i dettagli della sua vacanza negli Stati Uniti, riusciva a metterla di buonumore al solo pensiero. Sperava solo che Isabel non avrebbe fatto troppe obiezioni …
Concesse a Medea una grattatina dietro l’orecchio, prima di allungare la mano verso la seconda lettera e di strapparne la busta con impazienza. I fogli di pergamena, questa volta, erano molto meno numerosi, ma considerato chi era il mittente Catherine non se ne stupì più di tanto: al contrario di Mary, che in certe occasioni rasentava la logorrea, Lily non aveva la stessa propensione per le chiacchiere.


Cara Cathy,

Sono davvero contenta di avere avuto tue notizie! Come stai? Hai fatto progressi con gli Streeler? Da quanto ho capito dalla tua ultima lettera, la tesi che stavi cercando di dimostrare era molto interessante. Sono sicura che il professor Kettleburn sarà molto soddisfatto di te!
Io, purtroppo, ho poco o niente da raccontarti rispetto all’ultima volta che ci siamo sentite. Questa vacanza con i miei è abbastanza piacevole, ma a volte mi annoio: Petunia è sempre un po’ scontrosa, con me, e spesso mi sembra di essere da sola persino quando siamo insieme nella stessa stanza. Per giunta non conosco nessuno in questo posto, così passo le giornate a leggere e a fare lunghe passeggiate per conto mio. Puoi immaginare con che sollievo accolga ogni volta l’arrivo delle lettere tue e di Mary!
Ti sembrerà strano, ma quest’anno il pensiero di tornare a Hogwarts non mi rende euforica come tutte le altre volte. Voglio dire, sono contenta, ovviamente, e non vedo l’ora di rivedervi, ma ho una specie di buco nello stomaco che … beh, non so spiegarlo. Forse è soltanto ansia al pensiero di dover affrontare un altro anno da Prefetto. Sì, è sicuramente così. Sono orgogliosa che mi abbiano affidato questa responsabilità, ma francamente lo scorso anno è stato il più stancante che io abbia mai passato a Hogwarts. Credi che sia facile tenere testa a quegli idioti di Black e Potter e trovare anche il tempo di mangiare, dormire, andare in bagno, pattugliare i corridoi e seguire le lezioni? E Lupin non mi è per niente di aiuto! Sai quanto io lo stimi, ma il fatto che il più delle volte tenda a coprire, ignorare o giustificare i suoi amichetti mi irrita da morire.
A proposito di Hogwarts, quasi dimenticavo! Hai già avuto i risultati dei G.U.F.O.? A me sono arrivati qui (per fortuna la nostra casa è piuttosto isolata e nessun Babbano ha visto arrivare il gufo con la lettera), e direi che non posso affatto lamentarmi.
Non ho ancora avuto notizie di Mary, nell’ultima settimana, ma dall’ultima lettera che mi ha scritto sembrava se la stesse spassando alla grande. Scommetto quello che vuoi che anche negli Stati Uniti è riuscita a infilarsi in qualcuno dei suoi flirt inconcludenti!
In ogni modo, io sarò di nuovo a casa domenica pomeriggio al più tardi, quindi dobbiamo assolutamente trovare un modo per incontrarci! Sono un po’ pensierosa, in questi ultimi tempi, e rivedervi mi tirerà sicuramente su di morale.
Scrivimi presto e saluta tua madre da parte mia!

Un abbraccio dalla tua

Lily

Il sorriso che Cathy si ritrovò sulle labbra, questa volta, aveva un sapore un po’ più amaro del precedente. Le lettere di Lily, di solito, erano allegre e solari: era una ragazza forte – sicuramente la più forte di tutte loro - e capitava di rado che permettesse alla tristezza di sopraffarla. Catherine, tuttavia, percepiva senza troppa difficoltà la malinconia che affiorava tra quelle righe vergate con grafia stretta, elegante e ordinata. Mary aveva ragione: Lily era troppo orgogliosa per ammettere di stare passando un brutto momento, ma loro la conoscevano bene, e riuscivano a capirlo senza bisogno che lo dicesse apertamente.  Si ripromise, per l’ennesima volta, di non dispiacersi troppo quando Piton si fosse beccato la prossima Fattura Urticante da Potter e Black. Perché, per quanto Lily fingesse di non dare importanza a quello che era accaduto a giugno, e per quanto si illudesse che quel buco nello stomaco fosse colpa di tutt’altra cosa, era fin troppo chiaro che la causa del suo malessere fosse la rottura con il suo migliore amico. Catherine non amava dare giudizi troppo netti sulle persone, ma questa volta era costretta a concordare con l’appellativo di “idiota” che Mary, senza troppe cerimonie, aveva riservato a Piton.  Sperò ardentemente che Isabel le accordasse il permesso di andare a Diagon Alley, il lunedì seguente: una bella giornata tra amiche, con un giro al Ghirigoro e Mary che si lanciava in iperboliche ed esilaranti descrizioni della sua esperienza in America, era quello che ci voleva a Lily per tirarsi un po’ su di morale! Sarebbe stato auspicabile che anche Petunia facesse la sua parte per rinfrancarla un po’, ma Catherine sapeva che su quel versante c’era poco in cui sperare: Lily e sua sorella non erano mai andate troppo d’accordo, e dopo l’ammissione di Lily a Hogwarts i loro rapporti erano, se possibile, ancora peggiorati.
«Cathy! E’ in tavola!»
La voce di sua madre la raggiunse dal fondo delle scale, scuotendola dalle sue riflessioni e facendola ripiombare nella realtà. Rimise frettolosamente la lettera di Lily nella busta e si alzò dalla sedia, provocando le indignate proteste di Medea. Ripromettendosi di rispondere alle amiche appena terminato di pranzare, si diresse al piano di sotto, facendo solo una rapida tappa in bagno per lavare via i rimasugli di terra dalle mani, dalle braccia e dal viso.
Quando finalmente approdò in cucina, dove sua madre aveva appena iniziato a depositare generose porzioni di lasagne sui piatti, la radio sulla credenza stava continuando a ronzare in sottofondo con le notizie del giorno. Si lasciò cadere al suo posto e prese in mano la forchetta, mentre sua madre, dall’altra parte del tavolo, faceva lo stesso.
«Il Ministero della Magia ha reso noto poche ore fa il bilancio delle vittime dell’aggressione avvenuta nelle prime ore della sera nel villaggio di Portbury, vicino a Bristol» stava dicendo in quel momento lo speaker, in tono serio e grave. «Secondo il Quartier Generale degli Auror e il Dipartimento delle Catastrofi e degli Incidenti  Magici, le vittime ammonterebbero a venti persone, per la maggior parte Babbani e Nati Babbani, mentre i feriti – che in questo momento si trovano all’Ospedale San Mungo – sarebbero circa una trentina. Gli Obliviatori della Squadra di Cancellazione della Magia Accidentale sono subito accorsi sul posto per occuparsi dei Babbani coinvolti, ma prima che venisse loro modificata la memoria molti di loro hanno affermato istericamente di essere stati attaccati da delle figure incappucciate che sono comparse all’improvviso, come dal nulla, nella piazza centrale del villaggio. Il portavoce dell’Ufficio per l’Applicazione della Legge Magica ha rilasciato una dichiarazione in proposito, dove ha confermato che un Marchio Nero è stato avvistato in cielo subito dopo l’aggressione. La rivendicazione dell’attentato da parte dei Mangiamorte, quindi, non sembra essere messa in dubbio dalle fonti ufficiali. Passiamo adesso all’elenco dei nomi delle persone scomparse in queste ultime ore …»
Catherine si accorse di non stare prestando la minima attenzione a quello che stava mangiando. La sua mandibola e la mano che portava la forchetta alle labbra si muovevano automaticamente, quasi appartenessero a qualcun altro, mentre le sue orecchie erano tese ad ascoltare, con lo stomaco annodato, le notizie gracchianti della radio. Non sapeva perché continuava ad ascoltarla ad ogni occasione, in modo quasi ossessivo, rovinandosi puntualmente quasi tutti i pasti della giornata. Era raccapricciata, ma allo stesso tempo attratta irresistibilmente dalle notizie che arrivavano dall’esterno. Voleva sapere, voleva informarsi di quello che accadeva, ma allo stesso tempo aveva paura di quello che avrebbe sentito: era capitato più volte, negli ultimi tempi, di sentire i nomi dei genitori di alcuni suoi compagni di scuola negli elenchi delle vittime o delle persone scomparse, e ogni volta le sembrava di stare vivendo dentro un orribile sogno da cui era impossibile svegliarsi. Lanciò un fugace sguardo a sua madre al di sopra dell’ennesima forchettata di lasagne alle verdure. Isabel consumava il suo pranzo in silenzio, la testa china sul piatto, la mano destra che manovrava lentamente la forchetta, ma a Catherine non sfuggirono il suo volto tirato e le sue sopracciglia aggrottate.
Il preoccupante aumento, in quegli ultimi mesi, di morti improvvise, arresti, torture e misteriose sparizioni, avevano gettato sua madre in uno stato di preoccupazione quasi permanente. Non che lei e Catherine avessero qualcosa da temere, essendo entrambe purosangue, ma – come aveva osservato Isabel quando Catherine gliel’aveva fatto presente – non si poteva mai sapere fino a che punto avrebbe potuto spingersi la follia di quei fanatici. C’era, poi, una questione ancora più rilevante: fino alla sua decisione di ritirarsi a vita privata per badare alla figlia appena nata ed elaborare il lutto per la morte del marito, Isabel era stata una delle più note pozioniste della Gran Bretagna. Il fatto che ancora nessun Mangiamorte avesse bussato alla loro porta di casa per reclutarla nelle loro file, era merito soltanto dell’impegno con cui sua madre aveva fatto perdere le sue tracce trasferendosi in uno sperduto paesino sulla costa meridionale, nonché – come Catherine sospettava – del puro e semplice caso. Erano queste le ragioni per cui nella loro cantina (come in quella di migliaia di altre famiglie di maghi) era sempre pronto un Armadio Svanitore in cui scomparire all’occorrenza; erano queste le ragioni per cui entrambe sobbalzavano involontariamente ogni volta che sentivano bussare alla porta, ed erano queste le ragioni per cui sua madre, ultimamente, non vedeva molto di buon occhio l’idea di mandarla in giro da sola.
Ingoiò l’ennesimo boccone di cibo con la stessa facilità con cui avrebbe mandato giù un sasso. Era decisamente il momento meno opportuno per esporre a Isabel il suo progetto riguardante Diagon Alley, ma si rese conto che, se voleva dare una risposta in tempi brevi a Mary e Lily, prima della fine del pranzo avrebbe dovuto chiederle il permesso. Stava giusto pensando ad un modo per porre la sua richiesta che non allarmasse troppo Isabel e che non causasse infinite discussioni e malumori – come era ormai successo diverse volte – quando, inaspettatamente, fu sua madre a introdurre l’argomento.
«Come stanno Mary e Lily?» le domandò in tono leggero, prima di bere un sorso di Succo di Zucca. «Sono tornate dalle vacanze?»
«Non ancora» rispose Catherine. «Saranno di nuovo a casa nel finesettimana, mi hanno detto. Comunque, a quanto ho capito, stanno piuttosto bene.»
«Pensavo che prima dell’inizio della scuola potresti invitarle da noi per un tè» continuò Isabel. «Mi farebbe piacere rivederle. E poi, se non sbaglio, Lily mi aveva chiesto una mano per aiutarla a preparare quella Pozione Lucidante da regalare a sua madre per il suo compleanno, l’ultima volta che ci siamo viste.»
«Sarebbe carino» concordò Catherine. «Lo scriverò nelle risposte alle loro lettere, più tardi.» Esitò un momento, rimestando incerta il cibo nel piatto, prima di continuare: «Sai, mi hanno proposto di andare insieme a loro a Diagon Alley, lunedì prossimo. Ho pensato che sarebbe stata una buona idea, visto che … insomma, devo ancora comprare tutto il materiale per la scuola … e poi non ci vediamo da un sacco di tempo. Tu cosa ne dici? Posso … potrei andare?»
Sbirciò la madre, ansiosa, sperando di leggere nel suo volto anche solo un piccolo indizio di accondiscendenza, ma come si aspettava Isabel aggrottò le sopracciglia ed emise un lungo sospiro.
«Cathy» cominciò, pazientemente «ne abbiamo già parlato diverse volte. Lo sai che questo non è il periodo più adatto per tre ragazze di sedici anni …»
«Quasi diciassette, per quanto mi riguarda» borbottò Catherine, ficcandosi in bocca un altro boccone di lasagne.
«… per andarsene in giro da sole. So bene che ormai siete quasi adulte, ma i tempi sono molto cambiati!»
«Credo di essermene accorta. Leggo il giornale e ascolto la radio come tutti» ribatté Catherine piano, gli occhi ancora puntati sul piatto. Stava iniziando a sentire una familiare avvisaglia di irritazione tremarle nello stomaco, ma cercò di mantenere un tono tranquillo.
«Benissimo, allora non c’è bisogno che ti spieghi che un posto come Diagon Alley, pieno di studenti di Hogwarts provenienti dalle famiglie più svariate, potrebbe diventare il bersaglio ideale, se i Mangiamorte decidessero di pianificare un attacco!»
Catherine trasse un profondo respiro. Stava tentando con tutte le sue forze di rimanere calma, ma quando Isabel assumeva quell’atteggiamento da donna onnisciente, come se solo lei si rendesse conto della gravità della situazione e Catherine fosse solo una bambina inconsapevole, la rabbia minacciava sempre di sopraffarla. Quando finalmente rispose, sentì la propria voce leggermente incrinata dalla stizza: «Forse è per questo che da un po’ di mesi a questa parte Diagon Alley è piena di Auror ad ogni angolo. Non credi che questo lo renda, al contrario, uno dei posti più sicuri della Gran Bretagna?»
Le sopracciglia di Isabel si aggrottarono fin quasi ad unirsi in un’unica linea scura. Fissò la figlia con espressione severa per qualche secondo, come imponendosi a sua volta di non perdere la calma di fronte alla chiara sfumatura di sarcasmo nel tono di Catherine.
«Non mi interessa quanti Auror ci siano» replicò dopo qualche secondo, scandendo lentamente le parole. «Lo sai come la penso al riguardo. Se non ti dispiace, preferirei che tu non andassi.»
«Ma non posso nemmeno starmene chiusa in casa per sempre!» sbottò Catherine, incapace di trattenersi oltre. «E poi sono una purosangue, santo cielo, quante probabilità ci sono che diventi un bersaglio per i Mangiamorte?»
«Abbiamo già parlato anche di questo, Cathy, e vorrei non dovermi ripetere per l’ennesima volta!» La voce di sua madre, adesso, era notevolmente più alta, e il suo tono decisamente spazientito. «E’ dei Mangiamorte che stiamo parlando, di persone fanatiche, crudeli e senza scrupoli! Il fatto che tu sia una purosangue non è una garanzia che tu venga lasciata in pace, specialmente se …»
La mano di Catherine si bloccò a metà strada e rimase per diversi secondi immobile, vibrante davanti alla bocca. Aveva un vago sospetto di ciò che sua madre stesse per dire, ma cercò di illudersi ancora per qualche istante che non sarebbe stato così.
«Specialmente se … ?» ripeté lentamente, invitandola a continuare.
Prima di rispondere, Isabel deglutì, come se improvvisamente non fosse più molto sicura di ciò che stava per dire. «Specialmente se ti fai vedere in giro con persone che non possono vantare la tua stessa inattaccabilità dal punto di vista del loro stato di sangue» sputò fuori alla fine a voce più bassa ma decisa, distogliendo lo sguardo da quello della figlia.
La rabbia, che fino a quel momento Catherine aveva fatto del suo meglio per tenere sotto controllo, straripò dagli argini e dilagò.
«Se ti riferisci a Lily, sappi che non ho nessuna intenzione di smettere di andare in giro con lei soltanto perché i suoi genitori sono Babbani!» mise in chiaro, a voce più alta di quanto avrebbe voluto. «Ho già declinato il suo invito ad andare in vacanza con loro, quest’estate, e soltanto perché non volevo lasciarti da sola a casa in preda all’ansia per un mese intero! Santo cielo, non posso credere che tu mia stia dicendo queste cose! E’ quasi il tipo di discorso che farebbe un sostenitore di …»
«Ora non buttarla sul melodrammatico!» la interruppe Isabel. «Lo sai che non ho mai avuto nessun pregiudizio e che voglio bene a Lily come se fosse mia figlia!»
«Oh, e quindi invitarla a casa nostra per un tè va bene ma andare insieme a lei a Diagon Alley no?»
«Ti sto solo chiedendo di essere prudente, tutto qui! E fammi il piacere di smetterla di usare quel tono con tua madre!» esclamò Isabel bruscamente, sovrastando la voce di Catherine. La ragazza ammutolì e strinse le labbra, impotente, le narici allargate e lo sguardo puntato in quello di Isabel con aria di sfida. Le mani le tremavano per la rabbia che era costretta a reprimere, e la gola era stretta in una morsa di ferro.
«Credo di non avere più fame. Ti aiuto a sparecchiare» disse dopo qualche secondo con voce inespressiva, spingendo rumorosamente indietro la sedia e portando via il proprio piatto. Isabel non replicò né si mosse dal proprio posto, mentre Catherine faceva avanti e indietro tra il tavolo e la cucina per mettere i piatti nel lavello. Si limitò a fissarla di sottecchi con aria indecifrabile, come valutando ciò che era appena accaduto fra loro. Un paio di volte sembrò sul punto di dire qualcosa, ma richiuse subito le labbra, stringendole fino a ridurle ad una linea sottilissima.
Dopo che ebbe tolto dal tavolo anche la tovaglia e che l’ebbe ripiegata e riposta nel cassetto, Catherine abbandonò la stanza senza una parola, lasciandosi alle spalle sua madre impegnata a lanciare un incantesimo sule stoviglie perché si lavassero da sole. Salì la rampa di scale che portava al piano di sopra pestando più del solito sugli scalini, e fu sollevata quando finalmente si ritrovò sola nella sua stanza. Fu arduo trattenersi dallo sbattersi la porta alle spalle, ma in qualche modo ci riuscì: non voleva dare a Isabel un altro motivo per prendersela con lei, e sicuramente non aveva alcuna voglia di far nascere un’altra discussione. Si buttò a pancia in su sul letto e rimase per diversi minuti a fissare il soffitto, cercando di controllare il respiro e calmarsi.
Non sapeva con chi sentirsi più infuriata: se con Isabel, che avrebbe voluto vedere più forte e che invece cedeva così facilmente alla paura, o se con Tu-Sai-Chi e tutti i suoi Mangiamorte, i veri responsabili di quel clima di terrone che si era creato nel paese e che portava contrasti, discordie e incomprensioni anche tra i membri della stessa famiglia.
Sospirò e si premette i pugni sulle palpebre chiuse. C’erano volute settimane, nonché gli sforzi congiunti suoi, di Mary e di Lily, per convincere Isabel a firmarle il permesso per le uscite di Hogsmeade, al terzo anno. Sua madre aveva acconsentito a firmare solamente quando era stata assolutamente sicura che il villaggio, al pari del castello, era protetto da un numero sufficiente di Auror e dai più avanzati incantesimi di protezione; e anche dopo, aveva continuato per molto tempo a inviarle lettere piene di raccomandazioni ogni volta che, durante i finesettimana, si preannunciava un’uscita a Hogsmeade.
Catherine non riusciva a biasimare del tutto sua madre per i suoi timori e le sue paure a volte eccessive: era comprensibile che l’istinto di protezione nei confronti della sua unica figlia – anzi -  dell’unica cosa importante rimastale al mondo dopo la morte di suo marito, la  spingessero, a volte, ad esagerare con l’apprensività; e d’altronde, le cose che si sentivano alla radio e si leggevano sulla Gazzetta del Profeta ogni giorno era talmente agghiaccianti che, certe volte, era impossibile per chiunque non cedere al panico.  Catherine non era un’incosciente. Aveva paura, esattamente come tutti gli altri. Di notte veniva svegliata, madida di sudore, da incubi terribili pieni di figure nere incappucciate, risate malvagie, grida e lampi di luce verde, esattamente come tutti gli altri. Ogni giorno si chiedeva non più se, ma quanti nomi di persone che conosceva avrebbe sentito alla radio nella lista delle persone uccise o scomparse, esattamente come tutti gli altri. Sapeva benissimo che, in quei tempi difficili, la prudenza non era solo necessaria, ma vitale.
E tuttavia, ogni volta che sua madre la pregava di non uscire e di non farsi vedere con Lily, ogni volta che alla radio o sul giornale raccomandavano di limitare i propri spostamenti e di rimanere in casa, sentiva un moto di ribellione scuoterla nel profondo. Era proprio questo, quello che voleva Lord Voldemort: intimorirli, terrorizzarli, ridurli a un branco di topi spaventati che non osavano nemmeno mettere il naso fuori dalla tana; dividerli, seminare discordia, metterli l’uno contro l’altro. Le sembrava impossibile che sua madre non lo capisse, proprio lei che per Catherine era sempre stata un modello di forza e di integrità.
Inspirò profondamente e allargò le narici, il petto gonfio di rabbia. Lei era solo una giovane strega di sedici anni dal carattere timido e pacifico, che amava i libri, lo studio e il tè caldo nei pomeriggi di pioggia, senza particolari talenti a parte ciò che riguardava gli animali e le creature fantastiche. Non poteva fare molto per migliorare la situazione, ma non aveva nessuna intenzione di farsi trasformare in un topo spaventato. Di questo era assolutamente certa.
L’amara realtà dei fatti, tuttavia, non cambiava: nonostante tutti i suoi tentativi e tutti i suoi buoni propositi, lunedì non sarebbe potuta andare a Diagon Alley con le altre. Aveva aspettato per settimane l’occasione di passare una giornata insieme a loro, scorrazzando per negozi e mangiando gelato fino a farsi venire il mal di pancia, e adesso doveva rinunciarci. Certo, sarebbero comunque potute venire a casa sua a prendere un tè per fare due chiacchiere … ma non sarebbe stata la stessa cosa.
Sospirò. Avrebbe dovuto trovare un modo per dare la notizia alle ragazze senza che ci rimanessero troppo male. Forse con Mary sarebbe stato più facile, ma con Lily … Aveva già declinato il suo invito a passare le vacanze insieme a lei: se avesse rifiutato anche questa occasione per passare del tempo insieme avrebbe potuto intuire che sua madre non vedeva di buon occhio che si frequentassero fuori dalla scuola, ed era un’eventualità a cui Catherine preferiva non pensare. Era tutto così frustrante!
Dei leggeri colpi alla porta la strapparono alle sue riflessioni e fecero drizzare le orecchie a Medea, che sonnecchiava sulla sedia davanti alla scrivania.
«Avanti» rispose Catherine controvoglia. Non le andava di vedere sua madre e ascoltare di nuovo le sue giustificazioni sul perché sarebbe stato molto meglio, per lei, non andare a Diagon Alley. Odiava quando le parlava con quel tono condiscendente e paternalistico, come se lei fosse soltanto una bambina capricciosa che andava blandita. Voleva solo rimanere da sola per un po’, finché la rabbia fosse sbollita e il malumore si fosse attenuato.
«Posso entrare?»
Isabel mise dentro la testa, socchiudendo la porta di uno spiraglio. Catherine si limitò ad un secco gesto di indifferenza con il mento, cosa che a sua madre sembrò bastare. Entrò e si sedette sul bordo del letto, cautamente, come se avesse paura di occupare troppo spazio. Tacque per qualche istante, le mani schiacchiate tra le cosce, a disagio. Catherine continuò a non guardarla, mantenendo un ostinato silenzio. Trascorsero diversi secondi prima che Isabel finalmente, si decidesse ad aprire bocca.
«Immagino che tu sia molto arrabbiata con me» constatò con un piccolo sospiro, a mezza voce. Catherine non disse nulla: la risposta le sembrava più che evidente. Continuò a evitare il suo sguardo, la mandibola contratta e le narici dilatate.
«Non sei una stupida, Cathy» continuò sua madre in tono paziente. «Sai bene perché ti ho detto quelle cose. Il solo pensiero che possa succederti qualcosa … io, ecco … non voglio neanche prenderlo in considerazione.»
La sua voce si incrinò leggermente verso la fine della frase, cosa che Catherine non poté fare a meno di notare. Subito cominciò ad avvertire un fastidioso pizzicore agli angoli degli occhi, e si maledisse per la sua dannata debolezza. La verità era che, per quanto a volte non la sopportasse, odiava vedere sua madre piangere, oppure sul punto di farlo. Avrebbe dato qualsiasi cosa per evitare che accadesse: ogni volta era come se qualcosa le si spezzasse dentro. Sapeva che, in quei momenti, avrebbe dovuto essere forte anche per lei, ma la maggior parte delle volte non ci riusciva affatto, e il risultato era che, per quanto si sforzasse di trattenersi, si ritrovava a piangere a sua volta per la pena di vederla triste. E, anche quella volta, sembrò che il copione stesse per ripetersi.
Improvvisamente, Catherine sentì che non sarebbe riuscita a rimanere trincerata dietro la sua rabbia ancora per molto. Sapere che per sua madre era la cosa più importante del mondo era una cosa, ma sentirselo dire apertamente, con quel tono fragile, era tutta un’altra faccenda. Continuò tuttavia a fissare la parete alla sua destra come se fosse la cosa più interessante sulla terra, decisa a non cedere.
«Questo, però, non giustifica quello che ho detto poco fa sul conto di Lily» disse Isabel, la voce ridotta quasi ad un sussurro. «Credo proprio di avere esagerato, questa volta.»
Catherine lanciò cautamente un’occhiata nella sua direzione, come se volesse assicurarsi di aver sentito bene e che il suo udito non le stesse facendo strani scherzi. Sua madre si stava davvero scusando con lei? Quante volte era successo durante le loro discussioni, nei suoi sedici anni di vita? Probabilmente avrebbe potuto contarle sulle dita di una mano …
 «Tu sai quanta stima io abbia di Lily e quanto le voglia bene …» disse Isabel, fissandola con gli occhi umidi.
«Lo so» rispose Catherine, deglutendo per cercare di ricacciare in fondo alla gola la morsa che la bloccava.
«Non voglio che tu pensi che stia cominciando ad avere pregiudizi.»
Fu a quel punto che Catherine capì di essere sul punto di capitolare. Si girò sul fianco sinistro, si puntellò sul gomito e avvolse il braccio libero intorno al collo della madre.
«Non l’ho mai pensato» la rassicurò, il viso nascosto nell’incavo del suo collo per nascondere la commozione.
Ci furono diversi secondi di silenzio, un silenzio molto diverso da quello gelido che era calato nella stanza all’ingresso di Isabel. La donna la abbracciò, il sollievo palpabile nella forza della sua stretta, e – sospettò Catherine – si prese del tempo per calmarsi e ricacciare indietro le lacrime che avevano minacciato di strariparle dagli occhi. Quando parlò di nuovo, infatti, la sua voce era molto più ferma.
«Stavo pensando, Cathy … riflettendoci bene, forse l’idea di andare a Diagon Alley non è poi così brutta.»
Catherine si staccò da lei e la guardò con gli occhi spalancati, sorridendo raggiante. «Dici sul serio?»
Il volto di Isabel, che alla vista dell’entusiasmo di Cathy si era aperto a sua volta in un sorriso, assunse un’espressione più seria.
«Sì» le confermò in tono indulgente, ma che non ammetteva repliche. «Però dovete promettermi di tenere gli occhi bene aperti, di essere molto prudenti e di stare insieme il più possibile. Mi sono spiegata?»
Catherine annuì, felice. Era più di quanto avesse osato sperare.
«E state alla larga da Nocturn Alley! Non è un buon posto dove andare a ficcare il naso, specialmente di questi tempi.»
Acconsentì anche a questo, anche se non c’era davvero bisogno di una raccomandazione del genere: chiunque fosse dotato di un minimo di buon senso e non avesse nutrito alcun interesse per la Magia Oscura sapeva che addentrarsi nei vicoli di Nocturn Alley non era affatto una buona idea. Quel posto faceva venire i brividi …
«Allora posso scrivere a Mary e Lily che lunedì potrò andare anch’io?» chiese al settimo cielo, tirandosi seduta.
Isabel sorrise. «Fai pure. E ricordati di dire loro che sono invitate a casa nostra per il tè.»
Catherine la abbracciò di slancio, gli occhi che minacciavano di nuovo di iniziare a pizzicare per la commozione. «Grazie» disse semplicemente, piena di gratitudine. Sapeva quanto doveva essere costato a sua madre darle il permesso di andare. Sapeva anche che le loro discussioni non sarebbero finite lì, e che la volta seguente, probabilmente, le preoccupazioni eccessive sarebbero ricominciate, insieme alle discussioni e ai malumori, ma per il momento le andava bene così.
Si sciolse dall’abbraccio e scese dal letto, mentre Isabel si alzava e usciva dalla stanza. Le servivano pergamena, penna e inchiostro, immediatamente! Non vedeva l’ora di scrivere a Mary e Lily la splendida notizia! Frugò nel tremendo disordine del primo cassetto della scrivania, alla ricerca dell’occorrente per scrivere. Le sembrava già di sentire l’odore di libri vecchi del Ghirigoro, il profumo di pergamena nuova della cartoleria, l’odorino delizioso del gelato al cioccolato di Florian Fortebraccio, i bisbigli eccitati di Mary e la risata cristallina di Lily.
Prese in braccio Medea, si sedette e spianò ben bene il pezzo di pergamena che aveva scovato nel fondo del cassetto. Intinse la penna d’oca nel calamaio e poggiò la penna sul foglio, sorridendo tra sé e sé per la felicità.

Cara Mary,

non crederai mai a quello che sto per dirti! …

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

Ben ritrovati a tutti! Innanzitutto mi scuso per quanto ci ho messo ad aggiornare, ma impegni universitari di vario genere non mi hanno permesso di scrivere molto, in questi ultimi mesi. Spero che il primo capitolo sia stato di vostro gradimento. Effettivamente non succede granché, serve più che altro a presentare la protagonista, la sua famiglia, i suoi interessi e una parte del suo carattere (che comunque verrà approfondito nei prossimi capitoli), nonché a inquadrare i tempi difficili (da qui il titolo) in cui Catherine sta vivendo. Dal prossimo capitolo cominceranno a entrare in scena anche gli altri personaggi importanti di questa storia, e le cose inizieranno a farsi un po’ più interessanti (spero). La passione di Catherine per gli animali (fantastici e non) è un omaggio alla me di moooolti e molti anni fa, quando ero fissata con gli animali e sostenevo (beata ingenuità) che da grande avrei fatto la veterinaria, convinzione abbandonata molto presto con il passaggio al lato oscuro della forza, ovvero all’area umanistica.

Ringrazio fin da ora tutti coloro che vorranno leggere e – magari – lasciare un parere! Un ringraziamento particolare va a Cate90, che mi ha sostenuto moralmente e consigliato riguardo ad un aspetto della trama di questa fan fiction, e ad Alexander_Supertramp, che mi ha fatto notare un’incongruenza nella data di nascita di Cathy (nascendo il 31 ottobre 1960, ovvero dopo il 1 settembre di quell’anno, non avrebbe potuto andare a Hogwarts nel 1971 insieme ai Malandrini, quindi ho provveduto a spostarla al 31 ottobre 1959). Grazie davvero, siete stati molto utili!


Per chi fosse curioso di sapere chi è la pazza che partorisce questi capitoli, ecco qua:
- Il mio profilo su EFP: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=150485
- Il mio profilo personale di FB: https://www.facebook.com/linda.delgamba
Per chi invece volesse rimanere sempre aggiornato su ciò che scrivo, qui trovate la mia PAGINA EFP su Facebook: https://www.facebook.com/mrsblack90efp

Spero di tornare presto ad allietarvi (o rompervi le scatole, dipende dai punti di vista) con il prossimo capitolo!
Saluti,

MrsBlack90

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Capitolo 3
*** Diagon Alley ***


CAPITOLO 2

DIAGON ALLEY
 
 

“La timidezza non è che la conseguenza di un senso di inferiorità.
Se potessi convincermi che le mie maniere sono del tutto disinvolte e garbate, non sarei timido
.”
(Jane Austen, Ragione e sentimento)
 
 
 
La prima impressione che Catherine ebbe una volta attraversato il varco incantato che dal retrobottega del Paiolo Magico conduceva a Diagon Alley, fu che sulla città fosse improvvisamente calata una spessa cortina d’oscurità.
Non c’entrava nulla il tempo: il sole di fine agosto, proprio come nei giorni precedenti, splendeva violento e incontrastato nel cielo limpido, costringendo i passanti a mantenersi sui bordi della strada per sfruttare il più possibile la frescura delle pozze d’ombra formate dagli edifici. Era piuttosto qualcosa che aveva a che fare con le facce delle persone. Tutti quanti camminavano rapidamente, a testa bassa, come se avessero fretta di recarsi da qualche parte. Le risate erano brevi, sporadiche e venate da un’impercettibile nota di nervosismo, quasi ci fosse il timore che qualcuno potesse sentirle. Pochissimi si trattenevano all’aperto a chiacchierare, preferendo piuttosto soffermarsi nella rassicurante penombra dei negozi. Nella mente di Catherine, in piedi a metà tra il mondo babbano e il mondo magico, tornò prepotente il paragone con i topi spaventati, e una sensazione di cupa inquietudine le attraversò il petto. Forse sua madre aveva ragione, dopotutto … venire a Diagon Alley non era stata una brillate idea. Per un momento Cathy desiderò essere a casa, nella tranquillità della sua stanza, con il familiare rumore delle fusa di Medea sulle ginocchia, ma il pensiero di Lily e Mary la fece riscuotere dal suo torpore. Fu sollevata di sentire un lieve sorriso incresparle le labbra, mentre l’angoscia, come una grigia cortina di nubi, poco a poco si dissipava. Già pregustava il momento in cui le avrebbe riabbracciate e avrebbero colmato con chiacchiere, risate e racconti quegli interminabili mesi di separazione. Si erano date appuntamento davanti alla gelateria di Florian Fortebraccio, il che costituiva un altro valido motivo di felicità: se c’era un cosa per cui Catherine andava pazza (oltre agli animali strani e potenzialmente pericolosi), era il gelato … e quelli di Florian erano tra i più buoni che avesse mai assaggiato in vita sua. Stava giusto per muoversi in direzione della gelateria, impaziente di scoprire se le sue amiche fossero già arrivate, quando una voce a pochi metri da lei la fece sussultare.
«Ciao. Ehm … mi rincresce disturbarti, ma dovrei controllare la tua borsa.»
Catherine fissò confusa il ragazzo alto dai capelli castani che le si stava avvicinando. Ci mise qualche secondo a capire perché un estraneo avesse necessità ficcare il naso nella sua borsa, ma quando visualizzò lo stemma del Ministero della Magia appuntato sulla sua veste tutto cominciò ad esserle più chiaro.
«Mi dispiace» ripeté il ragazzo con un sorriso di scusa, notando la sua perplessità. «Mi rendo conto che non è piacevole, ma purtroppo ho ricevuto disposizioni precise.»
«Oh … ma certo!» rispose Catherine, sfilandosi in fretta la borsa dalla spalla e tentando di aprirla. Si sentiva lo sguardo del giovane Auror puntato addosso, e ciò non rendeva le cose più facili. Mentre armeggiava con il fermaglio della borsa, che guarda caso aveva l’irritante vizio di bloccarsi nei momenti meno opportuni, fece un rapido mente locale sulle condizioni della sua faccia e dei suoi capelli. Quella mattina l’avevano costretta a rimanere più del solito davanti allo specchio, d’accordo, ma a parte questo non le sembrava di avere un aspetto da malintenzionata …
«Ecco qua» disse, riuscendo finalmente ad aprire la borsa e spalancandola davanti agli occhi del ragazzo. L’Auror scrutò attentamente all’interno con gli occhi socchiusi, poi puntò verso l’interno la punta della bacchetta e borbottò qualche parola incomprensibile, probabilmente alla ricerca di qualche incantesimo di invisibilità o di camuffamento. Catherine si ritrovò a chiedersi quanto potesse essere utile controllare le borse dei passanti al fine di cogliere in flagrante eventuali maghi oscuri. Anche utilizzando tutti gli incantesimi di smascheramento possibili, faticava a cogliere l’efficacia di quelle misure di sicurezza. Sospettava, tuttavia, che in giro per il villaggio fosse presente un nutrito numero di Auror in incognito, e questo la rassicurava ben più di qualche frettolosa e superficiale perquisizione.
«Beh, sembra proprio che sia tutto a posto!» decretò il ragazzo rinfoderando la bacchetta e rivolgendole un ampio sorriso.
«Fantastico!» rispose Catherine, riappropriandosi della borsa che il ragazzo le porgeva. Sorprendentemente, l’Auror non si allontanò, ma le rimase accanto continuando ad osservarla lottare di nuovo con la chiusura difettosa, le labbra piegate in un mezzo sorriso.
Adesso che ci pensava si rese conto che i suoi capelli ondulati, i suoi occhi chiari e la linea decisa del suo profilo le apparivano vagamente familiari, ma prima di riuscire a ricordarsi dove potesse averli già visti, il ragazzo le chiese di punto in bianco, con aria di complicità: «Hogwarts, eh?»
«Già!» rispose Catherine, sentendo un improvviso e ingiustificato bisogno di sistemarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Ho intravisto la lista dei libri nella borsa, mentre la controllavo» spiegò lui. «Che anno frequenti, se posso chiederlo?»
«Sto … sto per iniziare il sesto.»
«Sesto? Wow! Mi sembra ieri che sono venuto anch’io a Diagon Alley a comprare Guida alla trasfigurazione avanzata! I gusti della McGranitt sono sempre gli stessi, a quanto vedo.»
Cathy sorrise di nuovo, indecisa se sentirsi imbarazzata o divertita. «Beh … pare di sì!» Sembrava che il ragazzo stesse per aggiungere qualcos’altro, ma una voce burbera e decisamente più matura proveniente da qualche parte in direzione della farmacia lo richiamò all’ordine.
«William Ross! Si può sapere che accidenti stai facendo, ragazzo? Ti sono appena passate accanto due vecchiette con due borse grosse come bauli, e tu nemmeno te ne sei accorto!»
La faccia del ragazzo si accese d’improvviso di un rosso scarlatto. «Oh … ehm … scusami, credo proprio di dover tornare al lavoro! Buona fortuna per i tuoi acquisti! Ci … ci vediamo in giro!»
«Certo … »rispose Catherine frastornata, salutandolo gentilmente con un cenno della testa. Lo osservò mentre raggiungeva in tutta fretta un mago di mezza età dall’aria arcigna e lo sguardo circospetto, farfugliando con aria mortificata “mi scusi, signor Moody”. Per evitare di metterlo in imbarazzo mentre veniva rimproverato da un suo superiore, Catherine distolse lo sguardo e decise che era arrivato il momento di andare per la sua strada. Si avviò lungo la via principale di Diagon Alley, pensando che, se non altro, si spiegava perché la faccia di quel William le sembrasse così familiare: doveva aver frequentato Hogwarts solo qualche classe avanti a lei, anche se non riusciva proprio a ricordarsi quanti anni potesse avere. In ogni caso sembrava molto giovane per essere un Auror. Probabilmente era ancora in apprendistato, e gli avevano affibbiato un incarico semplice perché potesse farsi le ossa …
Presto i suoi pensieri deviarono il loro corso, e Catherine si ritrovò a scorrere mentalmente, per l’ennesima volta, la lista dell’occorrente per la scuola. Aveva quasi finito le sue scorte per Pozioni … e doveva assolutamente fare una capatina al Serraglio Stregato per fare rifornimento delle crocchette preferite di Medea, o a Hogwarts quel piccolo demonio sarebbe sgattaiolato continuamente nelle cucine a rubare cibo (Merlino solo sapeva come ci riusciva!) seminando il panico tra gli elfi domestici …
Finalmente dalla curva disegnata dalla strada spuntarono la tenda variopinta della Gelateria Florian Fortebraccio. I pittoreschi tavolini che il proprietario aveva disposto all’aperto, di solito pieni di schiamazzanti bambini con le bocche impiastricciate di cioccolato e di adulti che chiacchieravano affondando i cucchiai in enormi coppe di gelato, quel pomeriggio erano deserti in modo quasi desolante. L’attenzione di Catherine non tardò quindi ad essere catturata da una chioma rosso fuoco appartenente ad una ragazza seduta su uno degli sgabelli in elegante ferro brunito. Affrettò il passo, felice, mentre Lily Evans le rivolgeva un sorriso radioso e agitava il braccio nella sua direzione in segno di saluto.
«Cathy!»esclamò abbracciandola stretta quando finalmente l’amica l’ebbe raggiunta. «È così bello rivederti! Mi sei mancata!»
«Anche tu a me! Mary non si è ancora vista?»
«Aspetta un attimo» rispose Lily fingendo di pensare intensamente. «Stai parlando di Mary? Mary McDonald, che è geneticamente incapace di arrivare con meno di mezz’ora di ritardo? Quella Mary?»
Cathy alzò le mani in segno di resa. «Hai ragione, domanda stupida. Ehi, non posso crederci, ti sei abbronzata! Com’è possibile?»
Lily ridacchiò, facendo brillare gli occhi verdi. La sua pelle, bianchissima e piena di lentiggini, di solito sembrava possedere lo strano potere di respingere i raggi del sole, ma adesso aveva effettivamente l’aspetto di qualcuno che ha passato quasi due mesi in vacanza al mare. Anche Catherine aveva per natura la pelle molto chiara, con l’unica differenza che ogni volta che provava ad esporsi al sole ne ricavava irritanti scottature rossastre su cui poi doveva applicare pozioni lenitive per giorni.
«Tutto merito del Decotto Abbronzante di tua madre!» rispose Lily allegra, mentre si sedevano. «Ha fatto veramente miracoli! Ricordami di ringraziarla, quando ci rivedremo.»
«Ne sarà felice» sorrise Catherine. Ripensò al giorno prima, alle parole avventate di Isabel riguardo ai rischi dell’essere amica di Lily, e constatò con tristezza che, se sua madre fosse stata lì in quel momento, probabilmente si sarebbe sentita ancora più in colpa davanti alla gratitudine con cui Lily parlava di lei.
«Allora» disse, imponendosi di scacciare i pensieri sgradevoli e concentrarsi solo sulle cose belle che quella giornata aveva da offrire, «Abbronzatura a parte, come sono state queste settimane di mare?»
«Piacevoli, direi!» rispose Lily con moderato entusiasmo. «Era un sacco di tempo che non facevo una vacanza con i miei genitori, ci siamo divertiti molto! Peccato solo per … » il suo sorriso si incrinò appena « … Beh, come ti ho scritto nella lettera, Petunia non è stata sempre il massimo della compagnia.»
A Catherine parve di vedere un’ombra fugace passare sul volto di Lily mentre pronunciava queste parole, ma non se ne stupì. Da quando erano diventate amiche, sei anni prima, aveva frequentato spesso la famiglia Evans, e non aveva mai mancato di notare che all’estremo orgoglio con cui Lily veniva trattata dai genitori faceva da contraltare l’evidente rancore riservatole dalla sorella maggiore. Petunia sembrava nutrire per tutto ciò che riguardava il mondo magico (Lily compresa) un’avversione tanto tenace da sconfinare nell’odio; ma a Catherine non era sfuggito che il tanto ostentato disprezzo per “quelle stramberie da svitati” e l’acidità con cui accoglieva ogni tentativo di Lily di farla partecipe della sua vita nascondevano qualcosa di molto diverso: invidia, gelosia e un bruciante senso di inferiorità. Nella mente di Petunia, lei era una normalissima ragazza senza alcun particolare talento, mentre Lily era speciale; lei avrebbe poteva aspirare nella migliore delle ipotesi all’anonima scuola pubblica di Cokeworth, mentre Lily era stata scelta per frequentare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts; lei era goffa, sgraziata e introversa, mentre Lily era bella, solare e piena di amici; lei riusciva a raggiungere risultati dignitosi soltanto al prezzo di enormi fatiche, mentre Lily brillava con facilità in tutto ciò che faceva. Catherine, a volte, non sapeva per quale delle due ragazze provare più pena: se per Petunia, costantemente messa in ombra dalla sorella, o per Lily, che vedeva costantemente mortificati tutti i suoi sinceri tentativi di stabilire un legame. Non avrebbe mai creduto di poterlo pensare, ma in quel momento fu quasi contenta di non essere andata in vacanza con gli Evans: essere testimone per un lunghissimo mese del conflitto tra le due sorelle, senza poter fare nulla per smorzare il disagio dell’amica, era una prospettiva che, in fin dei conti, non la allettava per niente.
Lily, a quanto pare, aveva notato la sua espressione significativa, perché si affrettò ad aggiungere: «Sai, Tunia è un po’ sotto pressione per via di quel corso da dattilografa che sta seguendo a Londra … è un po’ stressata, ecco.»
Catherine non era mai riuscita a capire perché Lily si ostinasse sempre a difendere così tenacemente sua sorella. Petunia non mancava occasione di dimostrarle il suo livore, mentre Catherine poteva giurare di non aver mai sentito Lily spendere una singola parola cattiva contro di lei. La sua amica era probabilmente una delle persone più dolci e comprensive che conoscesse, ma sapeva anche essere dura con chi se lo meritava: James Potter (e più recentemente Severus Piton) ne erano stati una dimostrazione palese.
Dev’essere questo che significa avere una sorella, pensò Catherine con una punta di amarezza. Volerle bene nonostante tutto, a prescindere da come può comportarsi con te.
Proprio in quel momento Florian Fortebraccio, il burbero e gentile proprietario della gelateria, si avvicinò al loro tavolino con un ampio sorriso, chiedendo che cosa volessero ordinare. Catherine e Lily lo salutarono cordialmente, ma risposero che preferivano aspettare la loro amica, anche se era in leggero ritardo.
«Leggero un corno» borbottò Catherine guardando l’orologio mentre Florian si allontanava. «Sono già venti minuti che si fa attendere! Giuro che Mary dovrà offrirmi gelati per il resto dell’anno scolastico!»
«Abbi pietà di lei, in fondo è ancora entro i limiti della sua mezz’ora d’ordinanza» ribatté Lily ironica, lanciando una distratta occhiata all’orologio. «Piuttosto, prima che me ne dimentichi … Ti ho riportato il libro che mi hai prestato prima dell’estate!»
Frugò per qualche secondo nella borsa e ne estrasse un volume rilegato non troppo spesso con una bella copertina verde brillante, su cui campeggiava il titolo: Il mistero della villa sul lago. Un giallo di Magnus Webb.
«L’hai finito!» esclamò Catherine. «Come ti è sembrato?»
«Meraviglioso!» rispose Lily entusiasta. «Non riuscivo a smettere di leggere, sono stata tutto il tempo con il naso incollato alle pagine! Quando Celsius ha smascherato McDowell davanti a tutti non potevo crederci, chi avrebbe mai pensato che l’assassino fosse lui? Insomma, solo un pozionista esperto avrebbe saputo dosare l’essenza di belladonna in modo che non lasciasse tracce!»
Catherine sorrise. Parlare di libri - babbani e non - di solito era un buon modo per distrarre Lily dai pensieri tristi, e anche stavolta sembrava aver funzionato. «Sono contenta che ti sia piaciuto. A casa ho anche il secondo volume, posso prestartelo quando vuoi.»
«Sì, sarebbe fantastico!» concordò Lily. «Ricordami di … Chi diamine è quello
Catherine si voltò cautamente e gettò un’occhiata furtiva oltre la sua spalla: il ragazzo dai capelli castani che le aveva perquisito la borsa stava risalendo proprio in quel momento la strada principale. Si affrettò a voltarsi di nuovo: per qualche ragione non voleva che la sorprendesse a fissarlo.
«Oh … ehm … è un Auror, mi ha controllato la borsa all’ingresso di Diagon Alley» spiegò a Lily. «Strano che tu non l’abbia visto …»
«Quando sono arrivata io ce n’era uno più vecchio» disse Lily scuotendo la testa, e Catherine immaginò che si riferisse all’Auror dall’aspetto arcigno che aveva rimproverato William davanti a lei. «È strano, mi sembra che abbia un’aria familiare … In ogni modo, hai idea del perché ci stia fissando?»
Catherine non fece in tempo a pensare ad una risposta plausibile, perché proprio in quell’istante si accorse che il ragazzo, arrivato all’altezza della gelateria, aveva attraversato la strada e si dirigeva nella loro direzione.
«Ehi!» sorrise rivolto a Catherine, quando raggiunse il loro tavolino. «Ci si rivede, a quanto pare!»
«Già» rispose lei ricambiando il sorriso e accorgendosi con orrore di quanto la sua voce suonasse acuta. Doveva piantarla di rispondere sempre “già”. Sembrava una completa idiota che non conosceva altri vocaboli a parte quello.
«Finito di fare compere?» chiese William in un palese tentativo di avviare una conversazione.
«Veramente … stiamo aspettando un’amica.»
«Oh. Capisco.»
Per un attimo, proprio come era successo all’ingresso di Diagon Alley, l’Auror sembrò sul punto di dire qualcosa per poi cambiare idea all’ultimo momento.
«Beh, io adesso vado in pausa» disse alla fine, sorridendo nervosamente. «Buona fortuna per i libri!»
Rivolse ad entrambe un breve cenno di saluto con la mano. Poi attraversò di nuovo la strada per tornare sui suoi passi, voltandosi per guardare ancora nella loro direzione e rischiando di travolgere un’anziana strega con uno sgargiante cappello viola. Catherine lo guardò allontanarsi, orribilmente consapevole dell’espressione maliziosa con cui Lily la stava fissando.
«Sì, direi che ora è tutto chiaro» sentenziò l’amica.
«Cosa è chiaro?» chiese Catherine cadendo dalle nuvole.
«Ma che gli piaci, mi sembra ovvio!»
Catherine, suo malgrado, sentì la faccia andarle letteralmente a fuoco. «Che cosa? No, lui non … ci saremo parlati sì e no per cinque minuti … sono sicura che …» si impappinò.
Lily sollevò un sopracciglio. Catherine odiava quando lo faceva. La faceva sentire una perfetta idiota.
«Cathy …» sospirò Lily. «Ha cambiato strada per venire a farti domande completamente inutili, ti ha fissato per tutto il tempo e ha quasi calpestato una vecchietta.»
Catherine si mordicchiò il labbro inferiore. «Tu credi che …» iniziò, dubbiosa.
«O è così, oppure il Ministero te l’ha messo alle costole per pedinarti, nel qual caso consiglierei loro di scegliere meglio i loro agenti in incognito» ribatté Lily sarcastica. «Vedi un po’ quale ti sembra l’ipotesi più probabile.»
Catherine sbatté le palpebre, perplessa, ma pensò che Lily non aveva tutti i torti. In fondo, lei era una frana ad accorgersi di questo genere di cose. Capitava talmente di rado che un ragazzo si mostrasse interessato a lei, che non sapeva mi interpretare i segnali nel modo giusto.
«Beh … in effetti aveva un comportamento un po’ strano …» azzardò titubante, ma non poté fare a meno di sentire una piacevole sensazione di vanità lusingata fare le fusa nel suo stomaco.
«Poteva andarti peggio!» osservò Lily strizzandole l’occhio. «È anche piuttosto carino!»
«Sì, lo è …» mormorò Catherine sorpresa, guardandolo allontanarsi sempre di più lungo la strada principale di Diagon Alley. Non l’aveva ancora formulato come pensiero vero e proprio, impegnata com’era a cercare di ricordarsi dove l’avesse già visto, ma mentre lo diceva si rese conto che, Merlino, era proprio vero …
In quel momento, mentre la figura alta e i capelli castani di William sparivano dietro la curva, Catherine vide Lily spostare lo sguardo verso un punto al di là della sua spalla e iniziare ad agitare il braccio.
«Oh, ecco Mary, finalmente!» esclamò con evidente sollievo. «E c’è anche David!»
Catherine si voltò giusto in tempo per vedere la figura slanciata e snella di una ragazza con i capelli neri precipitarsi verso di loro sorridendo radiosa. Gli occhi erano coperti da un paio di larghi occhiali da sole, e le sue dita erano graziosamente intrecciate a quelle di un ragazzo alto e dalle spalle larghe, con un ciuffo ribelle di capelli castani sulla fronte. Era David Cooper, settimo anno, cacciatore e capitano della squadra di Quidditch di Grifondoro.
«Ragazze!» le chiamò Mary eccitata, agitando freneticamente una mano in segno di saluto. «Eccovi qua!»
Non appena arrivò accanto al loro tavolo mollò senza troppi complimenti la mano del suo ragazzo e le strinse entrambe in un abbraccio stritolatore. «Merlino, quanto mi siete mancate!» esclamò stampando un bacio sulla guancia di ciascuna. «Dite la verità, non pensavate che ce l’avrei fatta ad arrivare, vero?»
Catherine sorrise indulgente. Era quella una delle cose belle di Mary: aveva una montagna di difetti (di cui l’essere costantemente in ritardo era solo uno dei più lievi), ma sapeva scherzarci su senza prendersi mai troppo sul serio.
Nel frattempo anche il ragazzo di Mary le aveva raggiunte. Le salutò con quieta cordialità, le mani affondate nelle tasche e un sorriso gentile sulle labbra. «Ehi, ragazze. Tutto bene?»
«Ciao, David!» rispose Catherine. «Non c’è male, grazie. E tu? Passata una bella estate?»
Lui si strinse nelle spalle. «Un po’ monotona. Mio padre non ha potuto prendersi nemmeno un giorno di ferie … sapete, con tutte le misure di sicurezza che il Ministero sta mettendo su in questo periodo … così siamo rimasti tutti a casa per non lasciarlo solo. Ma avrei comunque passato le vacanze sui libri per recuperare i miei voti in Pozioni, perciò non ha fatto molta differenza.» Cinse con un braccio le spalle di Mary. «Almeno lei si è divertita! Si era offerta di rimanere a Londra per tenermi compagnia, ma l’ho obbligata ad andare con i suoi. Insomma, non capita spesso di andare in vacanza negli Stati Uniti, giusto?»
Mary sembrava essere improvvisamente molto interessata alle unghie della sua mano destra, sulle quali ovviamente non c’era la minima traccia di scheggiatura. Lily, da parte sua, si era appena lasciata sfuggire un leggero ma significativo colpo di tosse, così Catherine pensò che era decisamente il caso di far virare la conversazione verso un argomento meno compromettente.
«Anche a me non è andata troppo bene in Pozioni» disse, affrettandosi a cambiare discorso (Mary, ancora attaccata al fianco di David, sospirò visibilmente di sollievo). «Sono riuscita a strappare la sufficienza e a prendere un G.U.F.O., ma non so se Lumacorno mi vorrà nella sua classe solo con un “Accettabile”.»
«Beh, Lumacorno può essere un po’ pomposo a volte, ma in fondo è un buon diavolo. Vedrai che non ti creerà troppi problemi» la rassicurò David. «Io spero solo che i M.A.G.O. mi lascino abbastanza tempo per occuparmi del Quidditch, o quest’anno possiamo anche scordarci la coppa, Potter o non Potter … Oh, ci sono Michael e Clark!» Agitò una mano verso due Grifondoro del suo anno che lo stavano chiamando dall’altro lato della strada, poi si rivolse a Mary: «Puffola, ti secca se li raggiungo?»
«Dave, ricordi la nostra conversazione a proposito dei nomignoli in pubblico?» replicò Mary a denti stretti, con un sorrisetto tirato. «Comunque non c’è problema, vai pure. Ci vediamo più tardi prima di tornare a casa.»
David le stampò un lungo bacio sulle labbra (a cui Mary rispose con tiepido entusiasmo) e poi si allontanò baldanzoso, salutando Lily e Catherine con la mano. Mary si lasciò cadere su una sedia accanto a loro, e Catherine non poté non notare l’evidente sollievo dipinto sulla sua faccia.
«Grazie al cielo anche i suoi amici hanno deciso di venire a Diagon Alley, oggi» sbuffò, sistemandosi le pieghe della gonna. «Stavo già iniziando a temere di vedermelo appiccicato alle costole tutto il pomeriggio.»
«In effetti ero convinta che l’essere fidanzati comportasse trascorrere del tempo insieme» obiettò ironica Catherine. «Ma tu sei decisamente più esperta di me sull’argomento, perciò chi sono io per giudicare?»
«Hai ragione, ma che posso dirti? Da un po’ di tempo a questa parte Dave sta iniziando ad essere un po’ soffocante … pensa che mi ha addirittura chiesto se volevo conoscere i suoi genitori!»
«Cielo, come ha potuto fare una cosa del genere?» esclamò Catherine fingendosi sdegnata.
«Presumo dal tuo tono che tu gli abbia detto di no … » azzardò Lily.
Mary scrollò le spalle, a disagio. «Ovvio che gli ho detto di no! Voglio dire, mica stiamo per sposarci!»
Catherine scambiò uno sguardo rassegnato con Lily (che evidentemente, come lei, faticava a cogliere il nesso tra essere presentata alla famiglia del proprio ragazzo e fissare la data delle nozze), ma ancora una volta si astenne dal commentare. Rientrava tutto nell’ordinaria amministrazione: Mary si metteva con un ragazzo e puntualmente già qualche mese dopo iniziava a stufarsi di lui. Con David era durata persino più del previsto: era già quasi un anno che stavano insieme, e sia Catherine che Lily si erano stupite che ancora non lo avesse scaricato per flirtare con qualcun altro.
«Non è che non gli voglia bene» continuò Mary incrociando le braccia nude sul petto. «Ma sto cominciando a pensare che sia troppo … tranquillo per i miei gusti. È troppo … troppo … troppo bravo ragazzo, se capite cosa intendo.»
Catherine capiva benissimo cosa intendesse, e non poteva negare che David, in effetti, fosse davvero un bravo ragazzo. Oltre a possedere il fascino del giocatore di Quidditch (caratteristica che aveva contribuito parecchio ad accendere l’interesse di Mary nei suoi confronti), era un tipo intelligente, gentile, premuroso e incline al romanticismo. Qualità che molte altre ragazze avrebbero probabilmente accolto con gioia, ma che sul carattere indipendente e stravagante di Mary esercitavano un’attrattiva molto limitata nel tempo.
Come volevasi dimostrare, la seguente mezz’ora fu impiegata da Mary nel racconto dettagliato della sua estate negli Stati Uniti, con particolare enfasi sull’eccitante flirt clandestino con Joe l’americano, il quale, a quanto pareva, non aveva l’irritante vizio di David di comportarsi da “santarellino” e di fare lo sdolcinato in pubblico. Catherine e Lily la ascoltarono tra il rassegnato e il divertito, affondando i cucchiai nelle gigantesche coppe di gelato guarnite da cialde e ombrellini che Florian, nel frattempo, aveva portato al loro tavolo. Era piacevole starsene lì sedute senza nulla a cui pensare, ridacchiando per le chiacchiere di Mary in compagnia del proprio cibo preferito, e Catherine si rese conto improvvisamente di quanto tutto quello le fosse mancato durante quell’interminabile estate a tu per tu con gli Streeler.
«E così gli ho detto: “Senti, solo perché abbiamo pomiciato un paio di volte nella tua stanza non vuole dire che dobbiamo andare in giro tenendoci per mano, ti pare? Io riparto tra qualche giorno, quindi cerchiamo di dimenticarci la cosa e tanti saluti!”. Lui ovviamente l’ha presa benissimo, non è certo il tipo da farsi questo genere di problemi!» concluse Mary gesticolando animatamente con un ombrellino giallo limone nella mano destra.
«Mary, non vorrei fare la parte della guastafeste, ma non credi di stare un po’ esagerando?» obiettò Lily cautamente, prima di prendere un’altra cucchiaiata di gelato. «Voglio dire, David non è la solita storiella passeggera. State insieme da quasi un anno, e lui sembra molto preso da te.»
Catherine tacque, ma non poté fare a meno di trovarsi d’accordo. Lei e Lily non avevano mai giudicato Mary per la sua mancanza di costanza nei rapporti con i ragazzi: la conoscevano meglio di chiunque altro, e sapevano che il modo superficiale con cui gestiva le proprie storie non era dovuto alla cattiveria, ma ad un genuino desiderio di seguire i propri impulsi e di divertirsi quanto più possibile. Tutte le storie in cui Mary era andata ad impelagarsi si erano puntualmente rivelate dei fuochi di paglia e delle cotte passeggere, ma nel momento in cui si invaghiva Mary lo faceva in modo sincero: ogni volta sembrava essere un innamoramento destinato a durare per la vita, e l’entusiasmo dell’amica in quelle occasioni toccava vette tali che anche Catherine e Lily, che ormai sapevano benissimo come sarebbe andata a finire, non potevano evitare di sentirsi felici per lei. Finora, però, Mary si era sempre limitata a porre fine a una relazione quando il suo entusiasmo per il ragazzo di turno si affievoliva: il problema del tradimento, quindi, non si era mai posto perché nessuna storia era mai durata abbastanza da permetterlo. Con David, però, le cose sembravano stare in modo un po’ diverso.
Evidentemente anche Mary se ne rendeva conto, perché le parole di Lily la fecero arrossire leggermente. Quando parlò di nuovo, però, il suo tono suonò tranquillo e spavaldo come sempre.
«Forse hai ragione» rispose scrollando le spalle con finta indifferenza e stuzzicando l’ombrellino giallo con la punta del dito. «Ma in fondo questa storia di Joe è stata solo una cosa senza importanza. Non voglio lasciare David per una sciocchezza del genere. Come hai detto tu, ci tiene molto a me, e non mi va proprio di ferirlo.»
Catherine pensò che Mary si stesse comportando un po’ da egoista, ma non poté fare a meno di sorridere fra sé: anche se faceva di tutto per dimostrare il contrario, era palese che anche lei (in un modo distorto e tutto suo) volesse bene a David.
Mentre le coppe di gelato giungevano al termine, la conversazione virò poco a poco verso altri argomenti. Catherine si divertì a provocare il malcelato ribrezzo delle amiche mentre raccontava nei dettagli il suo studio estivo sugli Streeler, mentre Lily parlò in tono entusiasta dei bellissimi paesaggi, della cordiale ospitalità e del buon cibo offerti dal paesino di mare in cui aveva trascorso le vacanze.
«E … sei anche andata al cimena, ogni tanto?» domandò Mary elettrizzata, mostrando poco interesse per le passeggiate sulla spiaggia, i ristorantini di pesce e le escursioni del signor Evans. «Negli Stati Uniti non sono riuscita a vedere un solo maledettissimo film, i miei cugini non ne volevano sapere. ‘Sai che novità, Mary, fotografie che si muovono! E i babbani pensano di aver fatto questa grande scoperta?’ Zoticoni …»
Da quando, un paio di anni prima, Lily le aveva portate entrambe in una sala cinematografica per la prima volta, Mary era rimasta folgorata da quella bizzarra e sconosciuta forma di intrattenimento. Comprava in continuazione riviste di cinema babbane (a Hogwarts se le faceva recapitare ogni mese dal suo gufo), tormentava Lily perché le raccontasse fin nei minimi dettagli tutti i film che aveva visto, e durante le vacanze, anche in assenza di Lily, trascinava spesso Catherine in un piccolo cinema vicino a casa sua (facendo ogni volta una solenne confusione con le monete babbane e facendo impazzire il bigliettaio).
«Sì, ci siamo andati un paio di volte» rispose Lily, ridacchiando per la storpiatura a cui ancora Mary riusciva a sottoporre la parola “cinema”.
«Davvero?» chiese Mary, mentre i suoi occhi si allargavano per l’interesse. «E che cosa avete visto? Voglio sapere tutto, dalla prima all’ultima scena!»
A Catherine parve giusto intromettersi. «Scusate se interrompo questo interessante scambio culturale, ma sta iniziando a farsi un po’ tardi, e se vogliamo finire gli acquisti prima che cali il sole dovremmo muoverci.»
«D’accordo» sospirò Mary rassegnata, mentre tutte e tre si frugavano nelle tasche in cerca delle falci necessarie a pagare i gelati. «Basta che evitiamo di incrociare David e i suoi amici. Se mi chiama di nuovo Puffola in pubblico, credo che potrei Schiantarlo.»












ANGOLO AUTRICE
Dopo mesi di ispirazione mancata, ripensamenti e impegni universitari, eccomi tornata da voi con un altro capitolo della storia di Catherine. Come avrete capito non succede niente di particolare, ma vengono più che altro introdotti personaggi che saranno importanti per la storia. Mary McDonald è un personaggio che la Rowling fa menzionare a Lily Evans nei famosi flashback de I doni della morte, e che da quanto si riesce a evincere è probabilmente una Grifondoro (Lily dice che è stata lei ad avvertirla del fatto che Piton minacciava di dormire davanti al ritratto della signora Grassa se lei non accettava di vederlo), anche se non sappiamo di preciso quale anno frequenti. Non essendoci informazioni più precise, ho pensato di potermi permettere un certo grado di libertà con lei, così ho deciso di collocarla nello stesso anno e nella stessa casa di Catherine e di Lily. 
Vi preannuncio (ma sicuramente ve ne sarete già accorti) che purtroppo, per cause di forza maggiore, non potrò garantire regolarità negli aggiornamenti. Però tengo molto a questa storia, intendo portarla avanti anche se ci vorrà molto tempo, e sero che vorrete continuare a seguirla ugualmente.
Detto ciò, ringrazio di cuore tutti coloro che hanno letto e ne approfitto per ricordarvi che qualsiasi consiglio/suggerimento/commento sarà ben accetto. 
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A presto!

MrsBlack90

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