Il pianista

di nevermore997
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Trasferimenti deludenti e capelli rossi ***
Capitolo 2: *** Progetti per Natale e inquietanti scoperte ***
Capitolo 3: *** Tempo di festa ***
Capitolo 4: *** Sorprese belle e sorprese brutte ***
Capitolo 5: *** Gite improvvisate non troppo divertenti ***
Capitolo 6: *** Nudisti e pianisti ***
Capitolo 7: *** Quando il gatto non c'è i topi ballano ***
Capitolo 8: *** Incompiuta ***
Capitolo 9: *** Le carte in tavola ***
Capitolo 10: *** Comincia un anno e finisce una storia ***



Capitolo 1
*** Trasferimenti deludenti e capelli rossi ***


CAPITOLO 1
Trasferimenti deludenti e capelli rossi

 
Quando arrivai per la prima volta nella casa nuova il pianoforte fu la prima cosa che notai. Era splendido, un vero capolavoro di strumento musicale, un gigante nero dai tasti d’avorio che non aspettava altro che le mie dita.
«Allora, ti piace la casa?», chiese mia madre, speranzosa.
«No», mentii io, laconica.
Non era vero. La casa nuova era un’autentica meraviglia, una bellissima villetta piuttosto antica posta al limitare del bosco. Aveva addirittura una torre ed un pozzo, che erano esattamente il genere di requisiti inquietanti che io ero solita apprezzare negli edifici. Ma questo non lo dissi. Mi limitai ad assumere un’espressione annoiata, che, speravo, avrebbe fatto imbestialire mia madre. Lei infatti roteò gli occhi con fare spazientito.
«Oh, Vittoria, sei veramente impossibile», sbottò, prima di andarsene ad esplorare la cucina.
Sapevo che mi stavo comportando in maniera infantile e tuttavia non potevo farne a meno. Non riuscivo a perdonare ai miei genitori quell’improvviso trasferimento in una città brutta, piovosa e soprattutto isolata dal resto dell’universo come quella.
«Perché?», avevo chiesto a mia madre, molto ragionevolmente.
«Perché tuo padre ha ricevuto un lavoro migliore ed una casa enorme completamente gratuita e già ammobiliata, perché è una zona più tranquilla e circondata da un bosco bellissimo e perché grazie a questa promozione avremo l’occasione di stare di più tutti assieme.»
«Non riesco a trovare neanche l’ombra di un buon motivo», avevo replicato, piccata. A quel punto mia madre mi aveva scoccato un arsenale di sguardi di rimprovero, ma aveva taciuto, ragion per cui avevo creduto di averla avuta vinta. Mi sbagliavo di grosso. Meno di un mese dopo, non appena erano iniziate le vacanze di Natale, eravamo partiti alla volta di Foggy Hollow, a nord dell’insignificante stato del Wyoming, senza quasi lasciarmi il tempo di salutare come si deve i miei amici. Quindi, in conclusione, no, per quanto quella casa fosse a dir poco fantastica, non avrei certo dato la soddisfazione a mia madre.
Mentre la summenzionata iniziava già ad armeggiare con le padelle in cucina e papà gironzolava incantato con la sua solita andatura baldanzosa irradiando positività, lasciai cadere la borsetta per terra ed andai a sedermi al pianoforte, quasi guidata da una mistica ed invisibile attrazione. Non ero quel che si dice una grande pianista (avevo cominciato a suonare solo da qualche mese ed avevo considerevoli problemi nella lettura degli spartiti), ma la musica che quello strumento era in grado di produrre aveva un effetto straordinario su di me. Era come se penetrasse dritta nella mia anima e le desse un violento scossone, risvegliandola dall’apatia e la monotonia della vita quotidiana.  Accarezzai i tasti e mi sentii rinascere. Forse, dopotutto, in quella casa non sarei morta d’inedia.
A quel punto sentii una mano posarsi sulla mia spalla. Era papà.
«Ti piace il pianoforte?»
Non potevo mentire di nuovo, stavolta.
«E’ bellissimo», concessi, senza rinunciare ad un’espressione altezzosa ed un tono antipatico. Papà mi fece un debole sorriso.
«Sai, Vittoria, ci rendiamo conto di quanto tutto questo sia difficile per te, anche se non lo pensi. Ma sei una ragazza fantastica e non ti sentirai fuori luogo molto a lungo. Te lo assicuro.»
Senza aspettare una risposta raggiunse la mamma in cucina. A quel punto mi sentii tremendamente in colpa. Perché comportarsi da comune adolescente viziata era così difficile?!
 
Per cena mamma aveva preparato le melanzane alla parmigiana, il mio piatto preferito, presumibilmente per comprarmi. Ero determinata a dimostrare che quei sistemi dozzinali con me non funzionavano, così ne mangiai solo tre porzioni e non una forchettata di più. Mamma e papà continuarono a chiacchierare allegramente per tutta la serata. Il tema della conversazione era, prevedibilmente, “quant’è bella Foggy Hollow”.
«Hai visto che belle stradine lastricate e che belle casette coi tetti spioventi?»
«Pensa che bello quando nevicherà! Le previsioni per domani annunciano neve, o no, Vittoria?»
«Mmmmphff.»
«E la scuola è proprio qui, in fondo alla strada! La mattina potrai svegliarti molto più tardi del solito, sei contenta, cara?»
«Mmmmphff.» (in realtà lo ero, ma ammetterlo non poteva che nuocere alla mia immagine de “l’incontentabile ed imperscrutabile Vittoria”, così tenni la bocca chiusa).
Il peggio però arrivò dopo cena, quando mia madre se ne uscì con una delle sue idee ben note per pateticità ed inutilità che le venivano quando era euforica.
«Potresti uscire a fare una passeggiata, Vittoria!»
«Dunque, vediamo, lasciami pensare… NO.»
«Ma potresti scoprire dove si incontrano i ragazzi del luogo e fare delle nuove amicizie!»
«Mamma, gli adolescenti non fanno amicizia in questo modo dal lontano 1936, alias quando tu eri una ragazzina.»
Me ne pentii all’istante. Mia madre aveva 45 anni ed una vera e propria paranoia all’idea di non portarli bene. Non che non lo facesse (per quanto odiassi ammetterlo, per la sua età era piuttosto in forma), ma stuzzicarla in proposito era un vero e proprio suicidio, l’equivalente di pungolare un mamba con un bastoncino. Ed io, con la mia frecciatina, lo avevo appena fatto.
Lo sguardo omicida con cui tentò di disintegrarmi non prometteva nulla di buono e d’istinto seppi che qualunque cosa mi avesse ordinato di fare da lì in poi, se ci tenevo ad arrivare viva a Natale, avrei fatto meglio a farla.
 
Inutile dire che neanche dieci minuti dopo camminavo sola come un cane per le vie del paese, imbacuccata in sei strati di maglioni, guanti, sciarpa e cappello. Per una che arrivava dalla California il clima rigido del Wyoming  era decisamente difficile da sopportare. Nonostante mi fossi vestita come un’eschimese, ancora rabbrividivo. Come se non bastasse, mi ero anche persa. La mia totale mancanza di senso dell’orientamento non era un segreto e per giunta non c’era nemmeno un lampione ad illuminare le strade buie peste. L’unica luce disponibile, oltre a quella intermittente delle onnipresenti luminarie natalizie, era quella della luna quasi piena filtrata da una coltre di nuvole grigie, e dunque non particolarmente utile. Era addirittura prevedibile che mi sarei smarrita, riflettei seccata mentre bighellonavo a vuoto. Ad un certo punto mi parve di sentire un vocio in lontananza. Seguii il rumore ed arrivai davanti ai cancelli arrugginiti di un parco giochi sgangherato, dentro il quale era riunito un gruppetto di ragazzi, che, ad occhio e croce, dovevano avere più o meno la mia età.
«E così, questa è la vita notturna di Foggy Hollow», mi dissi, sarcastica. «Fantastico.»
Non mi andava di raggiungere quei giovani ed implorarli di includermi nel loro gruppo come una povera sfigata, ma d’altra parte nemmeno l’idea di brancolare da sola come un’anima in pena era particolarmente allettante. Lanciai svariate maledizioni a mia madre per avermi sbattuta fuori di casa a calci, a mio padre per aver cambiato il suo ridicolo posto di lavoro, a me stessa per non aver combattuto più ferocemente per evitare il tutto ed infine all’universo in generale, sospirai e diedi una spinta al cancello, che, con un cigolio, rivelò la mia presenza. Il gruppetto si girò di scatto ed io, imbarazzata, mi avvicinai. Erano tre maschi e due femmine e mi guardavano come se fossi stata qualcosa di molto brutto e viscido che risaliva la parete della doccia. Avevano con loro un paio di torce e mi illuminarono senza dare segno della benché minima discrezione, accecandomi.
«Chi sei?», mi chiesero, tutti assieme, in una cacofonica sovrapposizione di voci. Mi domandai se in Wyoming esistesse il galateo, ma mi trattenni dal commentare.
«Mi chiamo Vittoria. Vittoria Baudelaire. Sono nuova in città, mi sono trasferita oggi.»
Tutti quanti risero, uno dei ragazzi fischiò.
«E così, quei pazzi che sono andati a vivere ad Avary Manor hanno una figlia!»
Probabilmente avrei dovuto difendere i miei genitori, ma vista la situazione odiosa nella quale le loro decisioni da adulti saccenti mi avevano trascinata, non me la sentii proprio di contraddirlo.
«Come lo avete chiamato?», chiesi invece.
«Avary Manor. Noi del posto lo chiamiamo così, sai», mi rispose una ragazza molto bionda e molto truccata, con voce strascicata. Non sapendo come commentare, annuii.
«Comunque io sono Lucy, lei è Kimberly e loro sono Owen, Toad e Maxwell.»
Asserii senza prestare particolare attenzione, tanto sapevo che, in ogni caso, di lì a poco avrei dimenticato ogni singolo nome.
«Tu da dove vieni, Vittoria?», mi chiese Kimberly, che aveva un sacco di doppie punte nei lunghi capelli neri ed una parlata un po’ biascicata per via dell’apparecchio ai denti.
Sorrisi. La provenienza era decisamente il mio asso nella manica. Per gli abitanti dello sperduto Wyoming, che veniva dimenticato addirittura dagli insegnanti di geografia, una Californian Girl in carne ed ossa, di quelle di cui cantava Katy Perry, era una vera e propria attrazione. Piccolo dettaglio: io non ero più una Californian Girl. Allontanai l’infausto pensiero con un gesto della mano e mi affrettai a rispondere.
«Da San Francisco.»
L’effetto non tardò a manifestarsi. Le ragazze si portarono le mani alla bocca ed i ragazzi proferirono in commenti ammirati.
«Ecco perché sei così in tiro!», esclamò uno di questi ultimi, dandomi una sonora pacca su una spalla. Detto da uno che si era infilato i pantaloni della tuta a rovescio ed aveva l’aria di non farsi una doccia da una quantità di tempo su cui preferivo non indagare, doveva essere un complimento.
Per le due ore successive i miei nuovi conoscenti non fecero che tartassarmi di domande sul sole, sul mare, sulla moda e sulla vita californiane. A fine serata avevo deciso che mi piacevano. Erano un po’ dei bifolchi senza un minimo di raffinatezza e senso estetico (i maschi infilavano un rutto in ogni frase e continuavano a grattarsi come se fossero stati assediati dalle pulci, mentre le ragazze sfoggiavano accostamenti cromatici a dir poco discutibili), ma se non altro non avevano peli sulla lingua ed erano piuttosto divertenti. Si, tutto sommato potevano andare.
Allo scoccare delle undici e mezza iniziarono tutti a raccattare le loro cose.
«Dove andate?», chiesi, perplessa.
«Abbiamo il coprifuoco», mi rispose con un sorriso la ragazza biondo platino (il cui nome era precipitato nel dimenticatoio meno di cinque minuti dopo che si era presentata).
«Oh», mi limitai a commentare, sgranando gli occhi. Io non avevo più un coprifuoco da quando avevo si e no dodici anni. Mia madre poteva anche essere nella maggior parte dei casi una tiranna, ma sotto l’aspetto degli orari era sempre stata piuttosto permissiva.
«Noi ci ritroviamo qui anche domani sera. Vieni con noi. Abbiamo deciso che ci piaci, Vittoria», mi disse uno dei ragazzi, dandomi un’altra pacca sulla spalla. Prima o poi avrei dovuto dire loro di piantarla con quella pessima abitudine: mi stropicciavano i vestiti e, peggio ancora, mi spettinavano.
«Oh, ehm, si, d’accordo», balbettai. L’indomani era sabato sera e sinceramente avevo sperato di trovarmi qualcosa di meglio da fare, ma a giudicare da quello che avevo potuto vedere di Foggy Hollow il cosiddetto “meglio da fare” doveva consistere proprio in quelle serate al parco. Era davvero a questo che si era ridotta la mia vita sociale?
Tutti si avviarono verso casa. Avrei tanto voluto farlo anche io, ma mi ricordai solo in quel momento che c’era un problema: non avevo idea della direzione da prendere per raggiungerla. Sapevo che chiedere indicazioni ai ragazzi sarebbe stato umiliante, ma volevo andarmene da quel parco giochi e faceva sempre più freddo.
«Ehm», dissi, e tutti si girarono a guardarmi. «Io mi sarei persa.»
«A Foggy Hollow?», chiese la ragazza mora, alzando un sopracciglio. Non aveva tutti i torti. Le rivolsi un’espressione desolata.
«Non c’è problema. Owen abita non lontano da Avary Manor. Ti accompagnerà lui, non è vero?»
Il summenzionato Owen annuì, silenzioso, ed a me parve di vederlo in quel momento per la prima volta. Mi accorsi solo in quel mentre che praticamente non aveva mai parlato (e nemmeno ruttato, il che deponeva a suo favore) durante tutta la serata ed era stato per tutto il tempo un po’ in disparte. Alla luce delle torce vidi che era alto e magro, aveva folti capelli rossicci ed il viso un po’ lentigginoso, ma la sua non era la classica faccia da simpatico irlandese che ci si aspetta dai pel di carota. La bocca era una linea dritta  che non sorrideva, gli occhi erano seri e ridotti a due fessure, l’espressione dura, quasi cattiva. A giudicare da come lo guardavano le ragazze, a Foggy Hollow il genere bello-e-dannato doveva essere parecchio apprezzato.
«Oh, ehm, va bene», accettai, poco convinta. Così ci avviammo, io e Rosso Malpelo in una direzione e gli altri nell’altra. Per una considerevole quantità di tempo restammo in tombale silenzio, accompagnati solo dallo scalpiccio dei nostri passi lungo le stradine tortuose del paese. Quando meno me lo aspettavo, Owen parlò, senza guardarmi in faccia.
«E’ davvero tutto strano per te, eh, Vittoria?»
La sua voce gelida e allo stesso tempo canzonatoria si addiceva perfettamente al suo aspetto fisico.
«Che cosa?»
Sorrise, sarcastico.
«L’atmosfera, le persone, i passatempi... non ci sei abituata. Sono veramente grandi novità per te».
Qualcosa nel suo tono mi diceva che non stava affatto cercando di essermi di conforto. Semplicemente, mi stava sfottendo.
«Come lo hai capito?»
Alzò le sopracciglia.
«Quando ti è stato menzionato il coprifuoco hai guardato tutti come se parlassero cinese, sprizzi disgusto da tutti i pori appena qualcuno ti tocca e detesti come poche altre cose la parlata volgare tipica di qui. Per la cronaca, sappi che non ho inserito una parolaccia o due in questa conversazione solo per evitare di scandalizzarti».
Dovevo concederglielo, era perspicace, ed anche un buon osservatore.  Persino troppo. Insomma, non era certo mia intenzione sembrare così deliberatamente schifata quando le ragazze, per salutarmi, mi avevano abbracciata e ricoperta di smancerie come se fossi stata in procinto di partire per il Congo. In fin dei conti, loro non potevano essere a conoscenza della mia oltremodo scarsa predisposizione al contatto fisico. Comunque, non mi sembrava che avessero notato quanto ero stata precipitosa nel mettere fine a tutte quelle effusioni. Loro no, ma Owen, evidentemente, lo aveva fatto.
«Stai tranquilla, loro non ci hanno fatto caso. Sono dei cari amici, ma piuttosto stupidi. Vedono solo quello che vogliono vedere».
«Che fai, leggi nella mente?», chiesi, spazientita, mentre giravamo un angolo per poi fare capolino in una piazzetta. Cercai di memorizzare il tragitto per poterlo ripercorrere il giorno seguente, ma era una battaglia persa in partenza. Owen rise.
«Sono solo un ragazzo sveglio.»
«Ed arrogante.»
«Ad ognuno il suo. Tu, ad esempio, sei particolarmente snob.»
Ahia. Colpita. Gli scoccai una di quelle occhiate fiammeggianti che avevo imparato da mia madre e lui rise di nuovo.
«Tu mi sembri diverso dagli altri ragazzi», cambiai frettolosamente argomento. Lui fece spallucce.
«Sono solo un po’ più attento alle reazioni delle persone».
«Spero vivamente che tu abbia anche hobby diversi dallo spiare la gente.»
«Sicuro. Gioco a calcio, di tanto in tanto leggo e, beh, suono il pianoforte. Ma quello non è un hobby, è un’autentica perdita di tempo. Lo faccio solo per fare contenta mia nonna.»
Mi inchiodai in mezzo alla strada e guardai Owen come se fosse stato un alieno, a bocca spalancata e con occhi indignati. Non riuscivo nemmeno a parlare, lo sdegno che provavo mi appiccicava alla gola tutte le parole.
«Che fai?», mi chiese, perplesso.
«Tu non hai capito assolutamente niente dell’esistenza! Il pianoforte è il più grande piacere della vita!»
«Ah si? Ed io che credevo fosse il sesso.»
Arrossii violentemente e strinsi le labbra con stizza, reazione che lui sembrò trovare estremamente divertente.
«Come siete puritane, in California!»
«Non ho intenzione di passare neanche un secondo più del necessario assieme a te», dichiarai, infuriata. Come si poteva essere tanto stupidi da non apprezzare la magia del pianoforte? Come si poteva non sentirsi invadere da quel soave ed inafferrabile piacere non appena quei tasti d’avorio iniziavano a diffondere la loro musica celestiale? Semplicemente, come si poteva non amarlo?
«Bene, perché io sono arrivato», disse lui in tutta risposta, indicando l’ultima villetta bianca sulla strada lastricata. «Pensavo di fare il galantuomo ed accompagnarti fino a casa, ma se proprio insisti posso anche andarmene. Tanto casa tua è a duecento metri da qui. Ma ti avverto: sono i più bui di tutta la città».
Indispettita come non mai, girai il naso e senza nemmeno salutarlo proseguii per la mia strada.
«Vittoria!», mi chiamò, poco dopo.
Mi aspettavo quantomeno delle scuse imploranti con tanto di scorta assicurata fino alla porta di casa. Ma quando mai le mie aspettative si rivelavano esatte?
«Tu non hai idea di come tornare al parco giochi domani, vero?»
Il mio silenzio fu eloquente.
«Ti passo a prendere alle otto. Sii pronta!», e, senza aggiungere una sola parola di più, entrò in casa, con un ghigno soddisfatto e divertito stampato sulle guance puntellate.
Tutto quello che riuscivo a pensare era quanto quel ragazzo fosse insopportabile. Mi aveva avvertita, nonna Betty, che i rossi di capelli sono figli del demonio.




Ciao a tutti. Sono Nevermore e questa è la mia prima storia a capitoli. Fa un effetto strano. Scrivere su un sito, intendo. Oh, scusate, sto farfugliando come al solito. Dovrei rinunciare a tentare di scrivere pensieri filosofici alla fine dei testi. Mi fanno sembrare soltanto, insomma, qual è la parola giusta? Un’idiota.
Aggiornerò la storia più o meno (voglia e scuola permettendo) ogni settimana. Nel frattempo voi approfittatene per tempestarmi di recensioni (come no). Ogni genere di commento, anche negativo, è ben accetto. Grazie a tutti quelli che leggeranno e recensiranno, veramente, mi fate un grande piacere.
Concludo dedicando questa storia a Leonardo, che durante tutto l’anno scolastico mi ha tormentata perché anziché seguire le lezioni di matematica scrivessi questa storia, che senza i suoi sproni non sarei mai riuscita a concludere. E’ merito suo se oggi potete leggere tutto questo. Beh, è anche merito suo se ho il debito di matematica. Ma comunque.
Baci a tutti
Nevermore

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Capitolo 2
*** Progetti per Natale e inquietanti scoperte ***


Capitolo 2
Progetti per Natale e inquietanti scoperte
 
 
Quando arrivai sulla soglia di casa avevo già in mente di mettermi a strimpellare un po’, sia per dare fastidio a mamma e papà, sia per dimostrare a me stessa quanto Owen si sbagliasse. Non avendo ancora le chiavi dovetti suonare il campanello e mi venne ad aprire mamma, trafelata, in vestaglia e con aria piuttosto seccata.
«Sei già tornata?», si stupì.
Per un attimo mi attraversò la mente il pensiero che magari mi aveva esortata ad uscire con tanto entusiasmo soltanto perché lei e papà avevano in mente una serata di sesso inaugurativo, ma scacciai immediatamente del mio cervello quell’immagine orripilante. Preferivo continuare a credere che i miei genitori fossero vergini e che un bel giorno mi avessero trovata in fasce sotto a un cavolo.
Fortunatamente, la seccatura di mamma sparì in un battibaleno e mi rivolse un gran sorriso.
«Abbiamo delle sorprese per te, Vittoria. Oh, sarai felicissima, vedrai! Bob, porta qui il nuovo arrivato!», ordinò a papà.
«Non mi avrete mica concepito un fratellino!», gridai, sbiancando come un cencio lavato ed in preda al panico.
«Non essere stupida», replicò mamma, ed il cuore mi scese di nuovo nel petto dalla gola, dov’era salito.
«Guarda qua».
In quel momento papà, con un sorriso a trentadue denti che gli attraversava la faccia, fece capolino nell’ingresso, con in braccio un… coso. Non lo si poteva definire altrimenti. Era un animale orrendo, guercio, con le orecchie smozzicate e la coda spelacchiata. Era di un vomitevole color grigio spazzatura ed era talmente grasso che papà faceva fatica a sorreggerlo.
«Sarebbe un gatto?», chiesi con tutto lo scetticismo di cui fui capace, indicando schifata la bestiaccia. Quello mi rispose con uno sbadiglio.
«Andiamo, Vittoria, hai sempre voluto un gatto quando eravamo in California!»
«Si, certo, ma un gatto vero. Non una sottospecie di felino che probabilmente fino ad oggi ha vissuto in un bidone».
«Oh, Vittoria, ha solo qualche segno particolare», lo protesse mia madre a spada tratta, la quale, da vegetariana convinta qual era, aveva un vero e proprio debole per tutte le creature di Madre Natura.
«E’ speciale, proprio come te», si sentì in dovere di aggiungere papà.
«Io non sono così brutta, grazie tante».
«Il mio voleva essere un complimento», si difese lui, punto sul vivo. Lasciò cadere il gatto a terra ed a quel punto lui fece una cosa molto strana. Scattò fino al pianoforte che torreggiava solitario nel bel mezzo del soggiorno ed iniziò a miagolare e soffiare furiosamente in sua direzione. Il pelo gli si gonfiò a dismisura ed inarcò la schiena assumendo la classica posizione da gatto furioso.
«Che sta facendo?»
«Sfoga il suo dramma interiore causato da orribile aspetto fisico?», azzardai, beccandomi in cambio un’occhiataccia.
«Mi sembra agitato. Bob, portalo nella lavanderia, sarà meglio», mise fine al dibattito mia madre. Rimaste sole io e lei, mi guardò con un sorrisetto.
«Per quanto tu sia una figlia ingrata e lagnosa, io e papà, in quanto genitori migliori che un adolescente possa desiderare, ti abbiamo preparato un’altra sorpresa. Vieni.»
Mi guidò al piano superiore di quella villa che ancora non conoscevo, e poi ancora più su, inerpicandosi su per la scala a chiocciola della torre. Una volta in cima, ci ritrovammo davanti a due porte chiuse a chiave e lei ne aprì una, con fare soddisfatto.
«La tua stanza», annunciò.
Entrai. C’era un letto gigantesco nel bel mezzo di una stanza ampia, dotata di una finestra enorme, che dava direttamente sul bosco che abbracciava il retro dell’edificio. Ad una parete era appoggiato un armadio in legno in stile Cronache di Narnia dove qualcuno (certamente mamma, dal momento che papà da solo incontrava difficoltà anche nell’abbottonarsi la camicia)  aveva scrupolosamente sistemato tutti i miei vestiti in ordine per colore, come piaceva a me. Per la prima volta da quando avevamo messo piede a Foggy Hollow, sorrisi a mia madre.
«Lo confesso, con questa sei riuscita a comprarmi».
Anche lei sorrise, e si vedeva che era felice per davvero.
«Ammetto di volerti molto bene anche quando ti ostini a comportarti da viziata litigiosa».
Ridemmo assieme.
«Potresti approfittare della tua bella cameretta nuova per andare a dormire presto», suggerì lei, prontamente.
«E’ solo mezzanotte e mezza!», protestai.
Non ero molto bene abituata dal punto di vista del sonno. Avevo più o meno il metabolismo di un gufo: vivevo di notte e dormivo di giorno. Mi correggo, avrei voluto dormire di giorno. Mio padre, accanito sostenitore della massima “il mattino ha l’oro in bocca”, si divertiva molto a buttarmi giù dal letto alle otto del mattino anche durante i giorni di vacanza. Il risultato era che non dormivo praticamente mai. Non c’era da stupirsi se qualche volta non mi dimostravo molto arguta.
Malgrado tutto, quella sera ero piuttosto stanca, così decisi di seguire il consiglio di mia madre. Mi struccai scrupolosamente nel bagno del piano di sotto (mi ero illusa che la porta accanto a quella della mia camera conducesse dritta alla mia lussuosa toilette privata, ma constatai con somma delusione che al di là c’era solo la stanza degli ospiti), misi in religioso ordine il mio beauty-case (ero probabilmente l’unica sedicenne al mondo ad avere un’avversione patologica per il disordine) e mi infilai nel letto tra le lenzuola che profumavano di pulito, dove mi addormentai all’istante.
 
Quando mi svegliai erano le quattro del mattino.
«Perché così presto?», mi chiesi, stropicciandomi gli occhi. Avevo ancora sonno e le mie palpebre erano talmente appesantite che non riuscivo a sollevarle. Mi ci volle un po’ per rendermi conto che cera stato qualcosa di preciso ad avermi destata: in lontananza si sentiva una musica. Aguzzai l’orecchio per sentire meglio ed improvvisamente la melodia mi scosse il cuore. Era lenta e triste, straziante, si trascinava da una nota all’altra lasciando un senso di rimpianto e desolazione ad aleggiare nell’aria. Qualcuno stava suonando il pianoforte al piano di sotto. Piccolo problema: in famiglia ero l’unica a saper suonare, e comunque, sarebbe stato molto improbabile che i miei genitori si svegliassero nel bel mezzo della notte con il folle desiderio di mettersi a fare musica. Mi alzai dal letto, decisa ad andare a controllare, ma non appena ebbi aperto la porta della mia stanza con un cigolio vagamente sinistro, la musica cessò. Tornai sotto le coperte, in attesa, ma la casa rimase avvolta nel silenzio. I miei occhi iniziarono nuovamente a chiudersi da soli e mi venne un colpo di sonno. Decisi perciò di tornarmene a dormire, ma lo feci con una spiacevole sensazione addosso: l’inquietante consapevolezza di non essermelo semplicemente immaginato.
 
«Ti avevo detto di essere pronta alle otto!»
Owen, relegato fuori dalla mia camera da letto, stava diventando veramente noioso con le sue lamentele, che ormai andavano avanti da dieci minuti buoni. Maledissi sia mia madre per averlo accolto e fatto accomodare come un figliol prodigo, sia lui per la sua snervante puntualità. Andiamo, quale ragazzo che si rispetti dice “alle otto” e poi si presenta veramente alle otto? “Le otto” significano come minimo le otto e mezza, è una delle tante universali ed incontestabili leggi della natura femminile.
«Chiudi il becco Owen!», gli gridai, mentre cercavo furiosamente i miei calzini. «Va di sotto, intrattieni  miei genitori, svuota gli scatoloni, fai qualunque cosa, ma smettila di fare l’uomo orologio davanti alla mia porta!»
Evidentemente lo trovò un buon consiglio, perché lo sentii scendere le scale. Adesso potevo finalmente concentrarmi sulle cose davvero importanti.
Era stata una giornata a dir poco orrenda, cominciata quando ero stata svegliata all’alba dalla frenesia psicotica dei miei genitori e costretta a lavori forzati da arredatrice e donna delle pulizie fino alle sei di sera. A quel punto mi rimanevano solo due ore per prepararmi ed era dunque scontato che fare in tempo sarebbe stata per me una missione impossibile. Quando avevo cercato di spiegare le mie ragioni ad Owen non mi era sembrato particolarmente d’accordo, dal momento che mi aveva definita una vanitosa narcisista perditempo. In realtà, aveva usato epiteti molto più coloriti, i quali però non ritengo assolutamente appropriato precisare.
A quel punto ero nel bel mezzo di una vera e propria tragedia: non trovavo i calzini bianchi, ma solo quelli rosa pallido, che non si adattavano assolutamente al resto dell’abbigliamento. Avrei dovuto cambiare l’intero outfit, ma a quel punto presumevo che Owen mi avrebbe veramente ammazzata, quindi alla fine dovetti rassegnarmi ed indossare i calzini rosa. Dopo averci infilato sopra gli stivaletti di pelle (sintetica, ovviamente. Se anche solo avessi provato ad indossare un animale morto, mia madre mi avrebbe diseredata all’istante), scesi finalmente le scale a due a due, di pessimo umore e con faccia funeraria. Trovai Owen seduto al tavolo della cucina, intento a chiacchierare amabilmente con mia madre. Incredibile come la sua espressione maligna andasse e venisse a comando. Ora si che sembrava un irlandese simpatico. A giudicare dal modo in cui continuava a tormentarsi i capelli biondi con le dita, doveva pensarla così anche mia madre.
«E così, vivi con tua nonna?»
«Esattamente. I miei genitori viaggiano molto per lavoro, così io e i miei fratellini restiamo con nonna Rosie. Di solito mamma e papà tornano per le feste, ma quest’anno sono costretti a restare in Svizzera e quindi saremo solo noi.»
«Ma è terribile! Non potete passare il Natale da soli! Venite da noi per il cenone, ne saremmo felicissimi! Io cucinerò, mio marito preparerà l’abete e Vittoria si lamenterà di qualcosa di al momento indefinito, sarà una bellissima serata! Oh, vi prego, venite!»
Cosa?! Mia madre stava invitando un perfetto sconosciuto a trascorrere la festività più importante dell’anno assieme a noi? Ma le era andato di volta il cervello?! Per quanto ne sapeva lei, Owen avrebbe anche potuto essere uno spacciatore.
Fortunatamente, mi dissi, lui certamente avrebbe declinato l’invito.
«Sarebbe un enorme piacere per noi, veramente. Non so come ringraziarla, signora Baudelaire!»
Come non detto.
«Oh, caro, chiamami Savannah!»
«OWEN!», li interruppi, tuonando il suo nome con fare bellicoso. «Cinque minuti fa mi sembravi molto di fretta!»
Lui si alzò e salutò educatamente mia madre, che era tutta un risolino ed uno scuotimento di chioma. Stavo per seguirlo a ruota fuori dalla porta, quando lei mi fermò.
«Che figo», sussurrò.
«Mamma», dissi, scandalizzata. «Non usare mai più quel termine. Non si adatta all’era giurassica dalla quale provieni».
E filai di corsa fuori da quella villa dove la follia regnava sovrana, prima che potesse scagliarmi addosso qualche oggetto.
 
Mia madre aveva avuto ragione sulle previsioni del tempo. Quella notte aveva nevicato ed ora tutta la città era ricoperta da un luminescente manto bianco. Anche se era tardi, tutto quel biancore rischiarava le tenebre.
«E così, passeremo il Natale insieme!», commentò Owen, con tono palesemente divertito.
«Non per mia scelta», ringhiai, stizzita.
Calò il silenzio e, prontamente, mi tornò in mente quel che era successo quella notte. Era tutto il giorno che ci pensavo. Mi ero auto-inflitta una sorta di terrorismo psicologico nel tentativo di convincermi che fosse stato solo uno strano sogno oppure un frutto della mia fervida immaginazione, con scarsi risultati: dentro di me, ero assolutamente convinta che quello che avevo vissuto fosse reale. Guardando Owen però, improvvisamente, capii tutto.
«Ma certo!», mi dissi, tronfia. Doveva per forza essere stato lui! Certamente doveva aver pensato che una fastidiosa strimpellata nel bel mezzo della notte mi avrebbe precipitosamente fatto cambiare opinione sul pianoforte. Ma come avevo fatto a non pensarci prima?!
«Senti un po’, tu!», esclamai, puntando il dito contro la sua testa rossa. «Non è che la scorsa notte ti sei intrufolato nel mio soggiorno?»
Solo quando mi guardò come se fossi stata una totale psicopatica mi resi conto di quanto in fin dei conti quell’idea fosse ridicola. Tanto per cominciare, Owen non aveva le chiavi di casa mia, e poi ero piuttosto sicura che alle quattro del mattino persino un individuo imprevedibile come lui avesse di meglio da fare che tormentare le altrui esistenze. Ops.
«Sei fuori di testa», si sentì in dovere di farmi notare. «A proposito, dal momento che sono abbastanza sicuro che tu abbia abbondantemente dimenticato i nomi di tutti, te li ripeto per risparmiarti una figuraccia. La bionda ossigenata è Lucy, quella con l’apparecchio Kimberly, quello che sembra un orso si chiama Maxwell ed il balbuziente con gli occhiali è Toad».
«Che descrizioni lusinghiere», commentai, sarcastica, ma dovetti ammettere che erano state efficaci: avevo capito esattamente a chi si riferiva.
Nonostante Owen avesse alleggerito l’atmosfera, ero comunque ancora agitata per la storia del pianista misterioso. Se non era stato Owen, allora chi aveva suonato quel dannatissimo pianoforte?
Quando arrivammo al parco giochi, tutti gli altri erano già lì.
«Come mai così in ritardo?», ci gridò Kimberly, non appena varcammo il cancelletto.
«Vittoria non trovava i calzini. A tal proposito, siete tutti caldamente invitati a notare quanto quelli che indossa ora siano terribilmente inadatti al resto dell’abbigliamento».
Questo costò ad Owen un calcio nello stinco. Le ragazze risero, mentre Toad e Maxwell continuavano imperterriti a prendersi a palle di neve sullo sfondo. Sperai ardentemente che non saltasse loro in mente la pessima idea di coinvolgermi nel gioco. Sarei stata capace di uccidere per molto meno. Fortunatamente, non appena li raggiungemmo interruppero la battaglia e ci sedemmo tutti assieme sullo stesso dondolo sfondato del giorno precedente. Gli altri chiacchieravano animatamente tra loro. Maxwell era molto deluso per la recente sconfitta dei Lakers e Lucy e Kimberly molto scandalizzate perché chissà chi si era fatto un orribile piercing che a detta loro era “davvero volgare, proprio una caduta di stile”. Toad balbettava a tutti parole di conforto mentre Owen si limitava ad osservare ogni cosa e scoccarmi, di tanto in tanto, qualche occhiatina complice.
A quel punto decisi di fare la domanda che mi ronzava incessantemente in testa fin dalla sera precedente.
«Ragazzi», chiesi, con voce incerta. «Ieri sera, sentendo che abito ad Avary Manor, avete avuto una reazione strana. Potreste spiegarmi il perché? Che cosa sapete di quella casa?»
Il gruppetto si zittì ed anche se non avevo l’innato spirito di osservazione di Owen, ebbi la sensazione che mi stessero nascondendo qualcosa. Come se non avessero voluto spaventarmi troppo.
«Beh», iniziò Kimberly, mordendosi il labbro. «Non molto, in realtà.»
«E’ dis… disabitata da anni», aggiunse Toad.
Fin qui non c’era niente di poi così spaventoso. Quando lo feci presente si guardarono di nuovo con quelle strane espressioni preoccupate.
«Ok, va bene, glielo dico io», sbottò Lucy alla fine. «Il punto è che mia madre conosceva gli ultimi abitanti di quella casa e una volta mi ha raccontato una storia. Vivevano qui poco meno di una decina di anni fa. Persone carine, a modo, ma sono fuggiti a gambe levate meno di un mese dopo il trasferimento. Qualcosa li ha spaventati a morte, fino ad indurli ad andarsene in fretta e furia. Erano una famiglia con due figli. I bambini…» Abbassò lo sguardo. «Uno è morto qualche mese dopo di nessuno sa cosa, il più piccolo. Il maggiore, si dice, non riuscì mai più a parlare e riprendersi dopo il trauma subito. Sembra che ad oggi abbia ancora gli occhi perennemente sbarrati dal terrore».
Il vento ululò in lontananza mentre tutti, in silenzio, mi guardavano.
«Probabilmente è solo una leggenda», sussurrò Kimberly. Dal suo tono, era evidente che non lo aveva davvero creduto nemmeno per un istante.
 
«Perché sei così preoccupata?», mi chiese Owen più tardi, mentre tornavamo a casa, con gli occhi azzurri ridotti a due fessure sospettose. «Non può essere solo per quella stupida leggenda. Sei troppo scettica e sofisticata per lasciarti impressionare da una cosa del genere».
Signore e signori, Owen il chiromante aveva colpito ancora. Alzai gli occhi su di lui e lo osservai a lungo. Mi credeva già irrimediabilmente matta, indi perciò, qualunque cosa avessi deciso di dirgli, non poteva intaccare più di tanto l’idea che già aveva di me.
«E se ti dicessi che c’è dell’altro?», buttai lì, per testare il terreno. Lui mi sembrò divertito.
«Ti ascolterei».
«Stanotte ho sentito suonare il pianoforte che c’è in soggiorno. Una melodia triste e tormentata. I miei genitori non sanno suonare e non vive nessun altro in casa mia».
Owen corrugò dubbiosamente la fronte.
«Sicura di non averlo semplicemente sognato?»
Scossi  energicamente la testa.
«Sono assolutamente sicura, ti dico. Era tutto vero. Qualcuno, stanotte, ha suonato il pianoforte di casa mia».
Evidentemente in difficoltà, Owen mi rivolse uno sguardo poco convinto.
«Ascolta», mi disse, infine. «Premettendo che non credo a qualsivoglia leggende su bambini morti o case stregate, se la cosa ti preme un giorno di questi posso accompagnarti in biblioteca a vedere se troviamo qualche documento più affidabile che parli di Avary Manor. Per quanto riguarda qualunque altro genere di problema, beh, io abito qui a duecento metri. Se dovessi aver bisogno di qualcosa o anche solo spaventarti, insomma, chiamami».
Annuii. Questa volta mi aveva accompagnata fino a casa, senza che nemmeno glielo chiedessi. Mi sorrise e mi salutò con un cenno.
«Passo a prenderti domani alle tre».
«Del pomeriggio?»
«Ehi, è la vigilia di Natale. Va passata tra amici».
Se ne andò con la sua camminata sicura e veloce ed io rimasi per qualche attimo immobile sulla soglia, stupita di quanto mi sentissi soddisfatta all’idea di avere degli “amici”.
 
 
 
Salve. Sono sempre io, Nevermore. Naturalmente. Certo. Ecco.
Ho deciso di aggiornare la storia con due giorni di anticipo (che megalomane) per il semplice fatto che domani comincio la scuola e probabilmente nei prossimi giorni non avrò tempo per smanettare in internet, dal momento che sarò molto occupata a recuperare tutti i compiti che ho scrupolosamente evitato di fare durante l’estate. Sono effettivamente una pessima studentessa.
Nel frattempo voi leggete e recensite.
Enormi abbracci
Nevermore

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Capitolo 3
*** Tempo di festa ***


Capitolo 3
Tempo di festa
 
Le parole di Owen avevano avuto un effetto confortante su di me, così, quando, quella sera mi infilai a letto, ero piuttosto tranquilla e mi addormentai senza fatica, determinata a non farmi abbindolare da stupide leggende e sicura che quella notte niente mi avrebbe disturbata. Mi spaventai a morte quando venni svegliata per la seconda volta dal suono di un pianoforte.
«Non può essere!»
Questa volta la musica era diversa, più rabbiosa, più angosciante, come se chiunque stesse suonando fosse stato in preda ad una tremenda ansia ed allo stesso tempo di un’incontrollabile rabbia. Rimasi immobile, ad occhi sbarrati, pietrificata dalla paura sotto il piumino mentre quella musica mi penetrava nel cuore e nell’anima, trasmettendomi le stesse sensazioni di cui sembrava alimentarsi. Intanto, un fiume di domande mi si riversava impetuosamente in testa. Chi stava suonando? Perché lo stava facendo? Ma soprattutto, che diamine ci faceva in casa mia?
Sapevo che, come avrebbe fatto un’impavida protagonista di film horror che si rispetti, avrei dovuto afferrare il coraggio a due mani, scendere al pianterreno ed acciuffare l’intruso, ma la verità era che non ero mai stata particolarmente nota per il mio cuor di leone, e in quel momento quasi non respiravo. Mi sentivo le gambe di piombo e mi sembrava che ogni singolo neurone presente nel mio cervello si fosse abbandonato all’oblio. Riuscivo solo a pensare come quella canzone suonata da tasti bianchi e neri mi stesse penetrando dritta nell’anima.
Improvvisamente però qualcosa cambiò. Ebbi una sorta di scatto, uno spasmo, tutto il fascino che provavo nei confronti di quella melodia e che mi teneva incatenata al letto si dissolse di colpo e venne sostituito da una paura ancora più grande. In preda al terrore, schizzai in piedi e mi fiondai fuori dal letto, giù dalla torre, correndo veloce come mai avevo corso prima d’allora in direzione della camera dei miei genitori. Spalancai impietosamente la porta per poi saltare a pesce nel loro baldacchino, svegliandoli con un urlo belluino ed un tremito spasmodico che mi aveva colta in tutto il corpo.
«Ma cos… Vittoria?»
«Sei decisamente troppo cresciuta per fare capolino nel lettone tutte le volte che hai un incubo», bofonchiò papà, con voce impastata dal sonno, nascondendo la testa sotto il cuscino.
«Lo avete sentito?», ansimai, ignorando completamente le loro lamentele, ancora con gli occhi spalancati dallo spavento.
«Sentito cosa?»
«Il pianoforte! Qualcuno lo stava suonando! Ma come avete potuto non sentirlo?!», gridai, frustrata.
Per qualche secondo i miei si misero in ascolto, ma fu ben presto evidente anche per me che chiunque fosse il misterioso pianista, non avrebbe ripreso a suonare. Mia madre mi squadrò severamente.
«Vittoria, abbiamo capito che vuoi tornare in California, ma cercare di convincerci che ci siamo trasferiti in una casa stregata mi sembra azzardato persino per te».
«Pensala come vuoi, ma io in camera mia non ci torno», replicai, incrociando le braccia. Che mi credesse oppure no, era cosa certa che mai e poi mai mi sarei mossa di lì. Non avevo la benché minima intenzione di trascorrere la notte da sola. Ero terrificata anche al solo pensiero di percorrere il corridoio a ritroso.
«Non fare la stupida. Torna in camera tua.»
«Dovrai trascinarmici di peso.»
Mamma alzò gli occhi al cielo e fece un lunghissimo sospiro. Non ci voleva un genio per capire che in quel momento si stava appellando a tutti i santi esistenti per trovare la forza di non strangolarmi.
«Va bene, Vittoria», disse alla fine, stampandosi in faccia un orribile sorrisino da rettile. «Ti accompagnerò nella tua stanza. E ti farò anche una camomilla per tranquillizzarti».
Avrei dovuto capirlo subito, che stava tramando qualcosa, ma sul momento fui talmente ingenua che pensai che magari aveva finalmente deciso di diventare una buona madre ed impegnarsi per davvero nelle cure verso la prole. Così accettai di buon grado la proposta e lei, come promesso, mi scortò fino in cima alla torre e mi preparò anche un infuso. Capii cosa c’era sotto solo quando ne ebbi già bevute due lunghe sorsate.
«E’ molto dolce… quasi troppo dol - OH MIO DIO!»
Alzai sbigottita lo sguardo su mia madre, che ghignava maligna, con le palpebre che iniziavano già ad appesantirsi.
«Ci hai messo dentro il sonnifero di papà!», la accusai, mentre sentivo la lucidità lentamente venir meno. Lei mi guardò, trionfante.
«Dieci gocce, per essere sicura di stroncarti per il resto della notte. Sogni d’oro, Vittoria!», ed uscì dalla stanza.
L’ultimo pensiero di senso compiuto che formulai prima di sprofondare nel sonno fu che mia madre era la peggior genitrice che si fosse mai vista.
 
Il giorno dopo, il 24 dicembre, mi svegliai a mezzogiorno in una pozza della mia stessa bava. Non avevo mai dormito così a lungo in vita mia. Nell’aria aleggiava un delizioso profumino di biscotti di Natale, che mia madre era solita cucinare in quantità industriali per poi distribuirli a chiunque incontrasse lungo il suo cammino. Quando scesi in cucina, infatti, stava infornando due teglie contemporaneamente, in compagnia del gatto, che strisciava sul pavimento in cerca di qualche avanzo.
«Buongiorno Vittoria, dormito bene?», mi chiese, con voce melliflua. «Per la cronaca, alla prossima trovata del genere lo sciroppo per dormire verrà sostituito dal cianuro. Donna avvisata…»
«Parliamo da meno di un minuto e sono già stufa di te», borbottai, addentando un biscotto.
Per un attimo pensai di riprovare a convincerla che quello che avevo sentito era autentico, ma poi decisi di lasciare perdere: sarebbe stato inutile. C’era una sola persona con cui potevo parlare liberamente degli strani eventi che si verificavano a casa mia, e quella persona era Owen.
 
Se fosse stato per me, quel giorno, non avremmo neanche fatto tardi: alle tre in punto ero pronta, pettinata e profumata davanti alla porta di casa. Ci pensò mia madre a farci tardare, trascinando nel vero e proprio senso della parola Owen in cucina, dove lo ingozzò di biscotti come la strega di Hansel e Gretel. Morale della favola, quando uscimmo di casa erano già le tre e mezza.
«Adoro tua madre», esclamò, mentre ci affrettavamo lungo le stradine del villaggio. Era la prima volta che lo vedevo alla luce del giorno. Le case erano tutte piccole villette dal tetto spiovente, tutte avvolte da lucine, renne di plastica, Babbi Natale ed addobbi. Tutto sommato era piuttosto pittoresco come posto, ma avrebbe dovuto congelarsi l’inferno prima che dessi quella soddisfazione a mia madre. Soprattutto dopo il tiro mancino del sonnifero.
Guardai Owen. Aveva la bocca tutta circondata di briciole di pastafrolla. Pensai di dirglielo, ma poi decisi di non farlo. Gli davano un’aria più infantile, un po’ meno terribilmente geniale ed un po’ più simile a me.
«Se ti trattasse come tratta me la tua opinione in merito sarebbe ben diversa.»
«Oh, non vedo l’ora di sentire delle vostre scaramucce madre-figlia.»
Lo aggiornai brevemente sugli eventi di quella notte, e lui passò una buona metà del tragitto casa-parco ridendo a crepapelle.
«Non posso crederci, i tuoi genitori ti hanno drogata per farti tenere la bocca chiusa! Non vedo l’ora di passare il Natale con degli individui del genere!»
Lo colpii alle costole con la borsetta.
«Lascia perdere i miei genitori e concentrati sulla faccenda del pianoforte!»
A fatica, tornò serio.
«Dunque, vediamo. Per quanto tu sia assolutamente fuori di testa e per i miei gusti anche parecchio strana, sono certo che tu non sia una bugiarda. Perciò, quello che senti deve succedere davvero, in qualche modo.»
Apprezzai che, per quanto fosse sfiduciato nei confronti delle leggende, si stesse sforzando di credere a ciò che gli dicevo. Io stessa mi rendevo conto di quanto fosse inverosimile come storia.
«Possiamo andare in biblioteca oggi?»
«E’ la vigilia di Natale, dubito fortemente che sia aperta.»
Era vero. Mi mordicchiai il labbro, preoccupata.
«Ho paura», confessai.
Owen stava per rispondere qualcosa, ma non ne ebbe il tempo, dal momento che eravamo arrivati al parco giochi, dove gli altri  ci accolsero rumorosamente e calorosamente come se non ci vedessero da giorni.
«Tanti auguri, tanti auguri!», dicevano tutti in coro.
Kimberly e Lucy mi vennero incontro con dei giganteschi sorrisi di complicità ed un pacchetto arancione in mano.
«Abbiamo un pensiero per te», mi dissero, tutte allegre. «Come regalo di benvenuto e nella speranza che tu voglia diventare membro ufficiale del nostro gruppo.»
Arrossii, leggermente imbarazzata. Io non avevo proprio pensato a fare loro dei regali.
«Oh, ragazze, ma io non ho preparato nulla!»
«Oh, non fa niente!», mi risposero in coro, ed apprezzai quanto fosse evidente che lo pensavano veramente. A San Francisco “oh, non fa niente” significava più o meno “lurida schifosa, ti infilerò vermi nell’armadietto per il resto dei tuoi giorni per farti pentire di avere osato farmi questo”.
Scartai il pacchetto e scoprii che conteneva una sciarpa con applicazioni di stoffa a forma di fiori che normalmente non avrei indossato nemmeno con una pistola puntata alla tempia. Ma non quel giorno. Quel giorno me la avvolsi attorno al collo e risi dell’aspetto ridicolo che mi conferiva.
«La adoro», dissi, ed il tono sincero che mi uscì sorprese persino me.
Trascorsi il resto del pomeriggio ad assistere allo scambio di regali del gruppo. Toad, che era un intellettuale, aveva preso libri per tutti, mentre Max aveva creato per ognuno un animale di plastilina. Ne aveva uno anche per me, uno strano coso azzurro che ricordava vagamente un delfino. Lo accettai con un sorriso e lui ne fu molto felice. Kimberly e Lucy avevano fatto tutti i regali in coppia, per lo più vestiti, ma i doni più apprezzati in assoluto restavano quelli di Owen. Sembrava aver trovato per ognuno la cosa che desiderava di più in assoluto. Osservai Kimberly saltare di gioia per un CD di una band pop, Lucy commuoversi per una lozione per capelli schiarente e Max e Toad gioire come bambini rispettivamente per i loro cappello dei Lakers ed enciclopedia medica nuovi. Ma la migliore notizia della giornata doveva ancora arrivare.
«Vittoria, nella mia famiglia facciamo il veglione natalizio il 24. Ti va di venire? Sarà molto divertente e, se vuoi, potrai fermarti anche a dormire».
Regalai a Lucy un sorriso di dimensioni esorbitanti. Chiunque mi offrisse una notte lontana dalla mia casa meritava un trattamento a dir poco principesco.
 
Il veglione a casa di Lucy fu piacevole. Mia madre, che era sempre grata quando scorgeva all’orizzonte un’occasione per liberarsi di me, mi accordò il permesso in un battibaleno, a patto che il giorno dopo tornassi in tempo per aiutarle nei preparativi per il cenone. Così passai la serata con i genitori e la sorella di Lucy, che furono tutti quanti estremamente gentili nonostante la loro indiscrezione, che ormai avevo etichettato come tipica del Wyoming.
«Sei davvero coraggiosa, ad abitare in quella casa», mi disse la madre di Lucy durante la cena. Quanto ha ragione, avrei voluto rispondere, ma mi trattenni, improvvisamente folgorata da un’idea migliore. Dovevo cogliere quell’occasione per indagare.
«Lucy mi ha detto che lei conosceva la famiglia che ci ha abitato prima di noi», commentai, fingendo noncuranza. La cinquantenne rabbrividì.
«Si, tesoro, li conoscevo, ma stiamo parlando di ormai otto anni fa. I Carmichael. Oh, erano brave persone. Un intera famiglia di pianisti. Il bimbo più piccolo poi, era delizioso, il più talentuoso che avessi mai visto. Suonava che era una meraviglia. Che disgrazia, la sua morte».
In testa mi si accese un campanello d’allarme. Una famiglia di pianisti. Quindi c’era, un collegamento!
«Che ne è stato del resto della famiglia?»
«Non ti saprei dire dei genitori, ma so per certo che il fratello maggiore si è dato alla vita eremitica. Vive in una cascina abbarbicata su una montagna, sopra un paesino a una trentina di chilometri da qui. Creepford, se non sbaglio».
Creepford. Ebbi la sensazione che, quel nome, avrei fatto meglio a non dimenticarlo.
 
Quando, il mattino dopo, mi alzai, fui estremamente felice di constatare che avevo dormito sonni tranquilli. Alla luce dei fatti avrei voluto restare a casa di Lucy per sempre, ma sapevo che mia madre mi avrebbe riservato tutt’altro che un trattamento di cortesia se avessi scelto proprio il giorno di Natale per sparire dalla circolazione. Così ringraziai la famiglia di Lucy e me ne tornai ad Avary Manor.
 
Mettere piede in casa fu più o meno l’equivalente di entrare nel magico laboratorio di Babbo Natale. Mia madre era riuscita ad agghindare con lucine ed agrifoglio ogni singolo pezzo dell’arredamento. Anche il gatto era stato decorato con un nastrino rosso ed un campanellino, del quale non sembrava affatto contento, dal momento che stava cercando di mangiarselo. Un abete gigantesco torreggiava nel salone accanto al pianoforte, che era stato anch’esso travolto dall’ingombrante Natale di mia madre, ovvero tappezzato di pupazzi di neve di carta. Anche così ridicolizzato, mi ritrovai a pensare che fosse piuttosto inquietante.
«Sei tu, Vittoria? Vieni immediatamente in cucina!», mi gridò mia madre. La trovai intenta a cuocere quella che supponevo essere la milionesima teglia di biscotti, nel panico più totale.
«E’ un disastro! Siamo indietro sul programma! Non c’è niente di pronto! Il Natale è rovinato!»
Feci appello a tutta la mia pazienza per cercare di placarla.
«Mamma, come puoi dire che non c’è niente di pronto? Questa casa sembra arredata dagli elfi.»
In tutta risposta mi tirò un mestolo
«Chiudi il becco e scaldati le dita, Vittoria. Hai qui duecento biscotti da glassare. Impiega le tue abili manine da truccatrice per qualcosa di utile.»
Mi indicò eloquente il suo set di glasse multicolori (sissignori, mia madre possiede un set di glasse multicolori) e non ebbi altra scelta se non mettermi all’opera.
«Ma perché non lo fai fare a papà?», protestai, per quanto sapessi che sarebbe stato completamente inutile.
«Tuo padre è a malapena in grado di colorare un disegno coi pastelli senza uscire dai bordi. E poi, l’ho mandato ad appendere gli addobbi sulle scale. Lì se la cava egregiamente».
Esattamente in quel momento si senti un tonfo di palline di vetro infrante e qualche imprecazione.
«Oh, si, egregiamente», feci eco.
Ma mamma sembrava essere improvvisamente diventata sorda, così fui costretta a passare l’intera giornata disegnando sulla pastafrolla Babbi Natale, regali, alberelli, renne dal naso rosso e berrettini da elfo. Mia madre nel frattempo era intenta a cucinare una cena che doveva per forza essere destinata ad una legione di insaziabili orchi, vista l’abbondanza. Quattro antipasti, affettati, formaggi, insalate, risotto ai funghi, lenticchie… stava tagliando il tacchino quando mi decisi ad intervenire.
«Mamma, stai preparando una cena per sette, non per quattrocento. Di questo passo ci ciberemo degli avanzi di oggi fino a quando sarò vecchia.»
Mi guardò come se fossi stata una completa deficiente.
«Non essere stupida, Vittoria.» (era la sua frase preferita in carica) «Non conoscendo la famiglia di Owen, devo per forza cucinare qualcosa di un po’ vario.»
«Appunto. Qualcosa di un po’ vario. Non ogni singola ricetta mai inventata dall’uomo.»
Non si prese neanche la briga di rispondermi e se la svignò in sala, probabilmente a tormentare papà per come stava svolgendo una qualche piccolezza che lei giudicava di vitale importanza. Quando tornò, qualche minuto dopo, iniziò a borbottare tra sé e sé.
«Mah, dove l’avrò messo? Eppure ero sicura… ma dove..?»
«Che cosa succede?»
«Hai visto il mio coltello? Ero convinta di averlo lasciato qui, ma non c’è più. Oh, non fa nulla, ne prenderò un altro.»
Ma io non l’ascoltavo più. Fissavo con tanto d’occhi il tagliere di legno abbandonato accanto al lavandino, da dove la grossa mannaia da cucina che si usa per tagliare la carne era scomparsa nel nulla.
 
 
 
Buonasera a tutti quanti. Ecco a voi il terzo capitolo della storia di Vittoria (che bello fa anche rima). Fatemi sapere cosa ne pensate con qualche recensione. Sempre se ne avete voglia. E tempo. E qualcosa da dire. Oh insomma, se recensite a me fa molto molto piacere.
Informo gli interessati (vedi: nessuno) che non ho superato l’esame del debito di matematica che la stesura di questa storia mi ha regalato. Questo significa che c’è un’alta possibilità che i miei genitori mi travino (questa cosa si dice anche da voi o solo nel mio remoto paese?) e che mi sequestrino tutto il sequestrabile, incluso il computer. Quindi se non dovessi aggiornare per tempo non preoccupatevi per la mia incolumità, significa semplicemente che i miei genitori mi hanno condannata ad un’esistenza di arresti domiciliari, disequazioni fratte e teorema di Ruffini. Così è la vita. Piena di algebra.
Baci baci baci

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Capitolo 4
*** Sorprese belle e sorprese brutte ***


Capitolo IV
Sorprese belle e sorprese brutte
 
 
La famiglia di Owen arrivò verso le sette, quando mia madre mi aveva rilasciata dal suo regime di schiavismo da più o meno un’ora. A quel punto mi ero volatilizzata al piano di sopra, mi ero imbellettata alla velocità della luce ed ora ero pronta come non mai.
Sua nonna era una vecchina adorabile dai capelli bianchi e radi, con piccoli occhialetti tondi ed un grande sorriso cordiale ed un po’ sdentato. I suoi fratelli erano due gemellini paffuti  e vivaci sui cinque anni, che erano la sua copia in miniatura, solo, senza espressione diabolica. Non appena furono entrati in casa si misero a rincorrere allegramente il gatto sotto l’albero di Natale. Mi ritrovai a sorridere della loro candida ingenuità e pensare che per loro doveva essere molto difficile crescere con dei genitori così assenti.
Owen sembrava a suo agio come tutto il resto dei suoi parenti. Dalla mia posizione seminascosta in cima alle scale osservai non vista come salutava gentilmente mia madre, come stringeva la mano a mio padre per presentarsi e come guardava intenerito i suoi fratellini che giocavano.
Era l’occasione giusta per il mio ingresso trionfale.
Avevo indossato il vestito blu di raso che mia madre mi aveva comprato per un matrimonio qualche anno prima, avevo messo gli orecchini pendenti e mi ero fatta un’acconciatura aristocratica seguendo un tutorial su internet. Insomma, ce l’avevo messa tutta per sembrare più carina del solito quella sera, e avrei ritenuto quasi offensivo se nessuno lo avesse notato. Il che, mi dissi, era praticamente impossibile, vista l’entrata ad effetto che mi ero accuratamente studiata.
Era arrivato il momento. Presi un lungo respiro, mi stampai un sorriso regale in faccia degno di Maria Antonietta e, con un tintinnio di tacchi a spillo, iniziai a scendere le scale. Tra i vantaggi che offriva Avary Manor c’era appunto quella scalinata principesca, uguale a quella del castello de La Bella E La Bestia.
Proprio come avevo previsto, su qualche volto si dipinsero sorrisi che interpretai come di profonda ammirazione. Quello che invece non avevo previsto era che quell’impiastro di mio padre avesse avuto la brillante idea di lasciare i cocci di una pallina rotta nel bel mezzo di un gradino, né tantomeno che ci avrei prestato sopra. Sicuramente non erano nei miei piani lo scivolone ed il rovinoso e sgraziato volo d’angelo giù dalle scale che ovviamente seguirono, fatto sta che fu esattamente quello che accadde. Completai degnamente la mia performance da perfetta idiota atterrando dritta sui piedi di Owen, in una posizione che sospettavo offrisse una vista panoramica sulla mia biancheria intima.
«Vittoria, Vittoria, stai bene?», chiese affannosamente mio padre.
«Certo che sta bene, Bob, come ben saprai, ha la testa dura come il cemento», gli rispose al mio posto mia madre, simpatica come la sabbia nelle mutande, prima di sparire in cucina seguita da coloro che non vedevano l’ora di dedicarsi ad un tour della casa, alias, tutti a parte me ed Owen. Volevo morire dalla vergogna. Alzai lo sguardo su di lui e vidi che stava praticamente soffocando nel tentativo di non ridere.
«Ti serve una mano?», chiese, con voce strozzata.
Mi tese il braccio, ma io, nel tentativo di non buttare alle ortiche quel briciolo d’orgoglio che mi rimaneva, lo ignorai e mi issai in piedi da sola, dandogli le spalle con fare imbufalito.
«Oh, sei più alta. Ti stanno bene, i tacchi. Ora mi arrivi addirittura alla spalla.»
Mi inviperii ancor di più. Mi piaceva pensare di non essere bassa, bensì semplicemente circondata da persone spropositatamente alte. Owen, con il suo metro e novanta di statura, non costituiva un’eccezione.
«Owen, solo tu riesci a renderti così insopportabile nel giro di così poco tempo», ringhiai, lisciandomi nervosamente con le mani il vestito sgualcito.
Lui rise.
«Ma se ti ho anche portato una sorpresa.»
Mi girai di scatto e vidi che stringeva tra le mani un pacchettino avvolto in carta dorata. L’espressione di assoluta sorpresa che mi apparve in faccia parlò prima che potessi farlo io.
«Credevi veramente che non avessi nessun regalo per te?»
«Ma io…», iniziai, mortificata, ma lui mi precedette.
«So che tu non mi hai regalato niente e so anche che ne sei davvero dispiaciuta. Non ha importanza. Adesso però apri il pacchetto e chiudi il becco. Quando stai zitta sei piuttosto carina».
Era incredibile come quel ragazzo riuscisse ad insultarmi e farmi complimenti contemporaneamente. Gli rivolsi un sorriso incerto, gli presi il pacchetto dalle mani e lo aprii. Non appena vidi cosa conteneva, gli occhi mi si illuminarono letteralmente.
«Owen…», iniziai, ma il resto della frase mi morì in gola. Dentro l’incarto c’erano una dozzina di spartiti per pianoforte, scritti a mano con calligrafia tremenda sui pentagrammi.
«Si, ecco…», bofonchiò lui, distogliendo lo sguardo con fare un po’ imbarazzato. «Sono canzoni che ho scritto io nel corso degli anni. Non so quanto possano piacerti, non so nemmeno se piacciono a me. Non ho mai detto a nessuno che compongo musica, ma tu mi sembravi la persona adatta.»
Scossi la testa più volte, nel disperato tentativo di trovare qualcosa di intelligente da dire.
«E’ il regalo perfetto.»
Mi venne il forte sospetto che in realtà lui amasse suonare il piano molto più di quanto non volesse far credere.
«Lo so», ghignò. «Sono un genio».
Sfogliando gli spartiti mi cadde lo sguardo sul titolo dell’ultimo e per poco non mi cadde di mano. In alto a sinistra, al posto del titolo, scarabocchiato indecentemente, si leggeva il nome “Vittoria”.
A quel punto sapevo che avrei davvero dovuto dire qualcosa, o, quanto meno, se proprio non mi veniva in mente nulla, superare le mie remore sul contatto fisico ed abbracciarlo. Alzai lo sguardo su di lui, che, accorgendosi di quale partitura avevo notato, sorrise. Eravamo davvero vicini, talmente vicini che…
«Vittoria, che cos’hai lì?!»
Mia madre, con lo stesso tempismo del ciclo a ferragosto, sbucò dal nulla, con un sorriso esagerato stampato in faccia. Arrossendo, feci precipitosamente un passo indietro e mi finsi molto interessata al soffitto della stanza. Owen, dal canto suo, sembrava essere perfettamente a suo agio.
«Mamma», dissi, sputando fuori le parole dalle labbra come se fossero state dardi avvelenati. «Owen mi ha regalato degli spartiti per pianoforte».
Lo sguardo della Disturbatrice Indesiderata si animò.
«Oh, si, Rosie mi ha detto che sei un bravissimo pianista! Ti andrebbe di farci sentire qualcosa? Ci farebbe talmente piacere!»
Probabilmente per la prima volta da quando ero nata mi ritrovai ad essere d’accordo con mia madre.
«Si, Owen, suonaci qualcosa», diedi manforte, socchiudendo maliziosamente gli occhi.
Lui sembrava improvvisamente molto a disagio (cosa che mi fece provare un alquanto scortese ed inammissibile senso di vittoria) ed iniziò a passarsi nervosamente una mano tra i capelli rossi.
«Ma io… non sono poi così bravo…»
«Oh, non ti preoccupare, non puoi essere peggio di Vittoria ed i suoi perenni Jingle Bells ed Inno Americano.»
«Molte grazie, mamma», commentai, ma ero troppo curiosa di sentire Owen per stizzirmi a dovere.
«Io… beh, suppongo che… e va bene», si arrese lui, con somma soddisfazione mia e di mamma. Papà lo diceva sempre, che quando ci alleavamo sapevamo essere peggio di avvoltoi alla ricerca di carcasse.
Nel giro di mezzo secondo le intere famiglie Baudelaire e Fitzgerald (era proprio questo l’improbabile cognome di Owen) erano riunite sul divano del salotto a fissare con tanto d’occhi il pianista dai capelli rossi, che aveva l’aria di chi avrebbe preferito infilare la testa in un secchio di anguille piuttosto che essere in quella situazione. Guardò con fare spaesato i miei nuovi spartiti che gli avevo affidato, ma, dopo l’esitazione iniziale, con un sorriso scelse l’ultimo. Si sedette sullo sgabello, posò le dita sullo strumento e si mise a suonare “Vittoria”.
La sensazione che provai sentendo quelle note fu indescrivibile. Era una melodia enigmatica, a tratti vivace e a tratti un po’ malinconica, ma costantemente avvolta da un’aura di mistero. Mi diede un brivido talmente violento da mozzarmi il fiato. Alzai lo sguardo su Owen e non potei fare a meno di notare quanto fosse diverso, quando suonava.  Il suo viso si rilassava, tutte le rughette di preoccupazione che erano solite ombreggiare le sue espressioni svanivano in una rilassatezze ed in una tranquillità che erano in grado di placare tutte le mie angosce. Le sue dita affusolate correvano sulla tastiera e carezzavano delicatamente i tasti dando vita a quella musica celestiale, che toglieva il senso a tutti i sentimenti che avessi mai provato prima d’allora. Felicità, soddisfazione, rabbia, tutto sembrava ridicolmente piccolo ed effimero messo a confronto con ciò che suscitava in me la canzone di Owen. In quel momento ebbi la sensazione che non stesse suonando per tutto il pubblico presente nella stanza, ma esclusivamente per me. Quando ebbe finito e si fu alzato per godersi appieno gli applausi scroscianti ed entusiasti della sua audience improvvisata mi sembrò che, con i suoi grandi occhi azzurri, stesse guardando me e me soltanto.
 
Quando ci sedemmo a tavola fuori iniziò a nevicare piuttosto violentemente.
«Veramente un tempaccio», commentò mio padre, sbirciando fuori dalle tende.
Tuttavia neanche quel piccolo disguido riuscì a rovinare la gioiosa atmosfera generale, alimentata soprattutto da mia madre, che da quando ci eravamo spostati nella sala da pranzo, luogo dove regnava indiscussa, aveva iniziato ad infervorarsi sempre di più. Era stata molto lieta di scoprire che tutti i Fitzgerald mangiavano ogni sorta di cibo, e, per giunta, con un notevole appetito. Per lei, vedere i gemelli finire la seconda porzione di risotto ed iniziare a battere le posate sul tavolo inneggiando il tacchino era un autentico spettacolo idilliaco. Io ed Owen eravamo capitati seduti vicini.
«Tua madre è una cuoca fantastica», mi disse sottovoce, tra una forchettata di lenticchie e l’altra. Io annuii.
«Come genitrice è piuttosto scadente, ma devo dargliene atto, ai fornelli non è niente male.»
Lui ridacchiò, scuotendo la testa.
«Sei definitivamente la persona più incontentabile che io abbia mai conosciuto.»
«Mi staresti dicendo che sono una lagna?»
«Io ho usato parole molto diverse, l’interpretazione sta a te», ghignò lui, ignorando la gomitata nelle costole che ricevette in tutta risposta.
Finimmo di cenare verso le undici ed a quel punto ci trasferimmo in sala, in modo che gli adulti potessero “bere una cosina”. Sapevo per esperienza che quando mia madre “beveva una cosina” diventava paonazza, iniziava a ridere fino alle lacrime e fare domande parecchio imbarazzanti, il che era decisamente il genere di spettacolo a cui avrei preferito che Owen non assistesse. Così accampai una scusa idiota e lo trascinai di peso in camera mia, ben lontano da Savannah Baudelaire e la sua ubriachezza molesta.
«Come mai tutta questa fretta?», mi chiese, ammiccando in un modo che non mi piacque per niente.  Lo incenerii con lo sguardo.
«Lo faccio per te, caro il mio ingrato. Mia madre sbronza è uno spettacolo che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico.»
«Quindi non mi stai trascinando nel tuo covo per uccidermi e mangiarmi, ma solo per proteggermi. Beh, bene a sapersi.»
Quella frase che voleva essere soltanto una battuta mi fece gelare il sangue nelle vene.
«A proposito di uccidere…», commentai, macabra.
Raggiunta la mia camera, chiusi la porta per accertarmi che nessuno ci sentisse e gli raccontai dell’episodio della mannaia, che fino a quel momento ero quasi riuscita a dimenticare. Owen non sembrava irrequieto neanche la metà di quanto lo ero io.
«Tua madre ha perso un coltello, e allora?», ribatté a storia finita, con sguardo ipercritico.
«No, Owen, non hai capito. Ti sto dicendo che mia madre lo ha lasciato sul tagliere, si è assentata dalla stanza per qualche minuto ed al suo ritorno il coltello – il quale, ci tengo a ricordarti, è un oggetto molto affilato che nelle mani sbagliate può diventare senza fatica un’arma micidiale – era scomparso. Ed io sono rimasta in cucina per tutto il tempo.»
Lui era ancora alla ricerca di un’ombra di logica nell’intero accaduto.
«Ok, d’accordo, lo ammetto, questo è strano. Ma è anche vero che se qualcuno avesse anche solo cercato di prenderlo, tu lo avresti sentito. E tu invece non hai sentito nulla, vero?»
Scossi la testa. Naturalmente al momento non ci avevo fatto particolarmente caso, ma ero piuttosto sicura che, in ogni caso, se qualcuno avesse tentato di intrufolarsi nella stanza me ne sarei accorta. Owen sospirò.
«Ho paura. Non voglio passare la notte qui», dissi, facendo sfoggio di una vocina da bambina viziata con cui mi disgustai da sola. Lui, seduto sul letto di fronte a me, aveva tutta l’aria di non avere la più pallida idea di come consolarmi. Ad un certo punto sollevò una mano e credetti che volesse usarla per stringere le mie, ma poi sembrò ripensarci e se la passò tra i capelli, sospirando di nuovo.
Mia madre scelse proprio quel momento per fare capolino nella stanza, spalancando la porta con tanta violenza che pensai stesse tentando di scardinarla. Aveva le guance color ciliegia matura ed un sorriso beato stampato in viso.
«Ragazzi, abbiamo un problema», ci disse, col tono di chi ha appena vinto alla lotteria. «Venite di sotto.»
Guardandoci perplessi, io ed Owen la seguimmo al pianterreno, dove tutti gli altri ci aspettavano.
«Fuori il tempo è peggiorato disastrosamente», ci informò mio padre, con tono grave. «C’è una vera e propria bufera. Al telegiornale suggeriscono di barricarsi in qualunque posto al chiuso e non uscire per nessuna ragione. Anche se abitate qui vicini mi sembra un rischio farvi camminare fino a casa con questa tormenta.»
Al che scoccò un’occhiata eloquente in direzione di Rosie, che era di costituzione talmente fragile che sembrava pronta a spezzarsi al primo refolo di vento.
«Perciò, Owen, abbiamo pensato che forse è meglio se vi fermate a dormire qui.»
Io e lui ci guardammo di nuovo, increduli, ed io, mio malgrado, mi ritrovai a pensare che questo era addirittura meglio di vincere alla lotteria.
 
Le trattative per la sistemazione nelle stanze furono a dir poco eterne. Avevamo due camere per gli ospiti, una con un letto singolo ed un’altra con un letto a due piazze. Furono proposte centinaia di possibili soluzioni (tra cui anche quella di sistemare Owen nella mia stanza assieme a me, mozione però alla quale mi opposi fermamente), ma alla fine si decise che i gemelli e nonna Rosie avrebbero dormito tutti e tre assieme nella stanza più grande, mentre Owen si sarebbe sistemato nella stanza singola, che stava nella torre, accanto alla mia. Questo mi confortava. Per quanto sperassi che non succedesse nulla di insolito (ne andava del mio orgoglio come anche della mia sanità mentale), se non altro sapevo che a mali estremi potevo svegliare anche lui ed obbligarlo così a condividere le mie pene. Per questo, quando ormai a mezzanotte e mezza ero sul punto di andare a dormire, ero piuttosto tranquilla. Almeno fino a quando non sentii bussare insistentemente alla porta della mia stanza.
«Chi è?!», chiesi, sobbalzando, impugnando una spazzola come arma di difesa improvvisata ed immaginando già un gigante vestito tutto di nero che picchiettava la porta con il manico della mannaia.
«Vittoria, non essere stupida, sono Owen. Fammi entrare.»
Buttai uno sguardo veloce sullo specchio appeso all’anta dell’armadio e quello mi restituì il riflesso di una ragazza struccata, ignobilmente spettinata ed in camicia da notte. Non ci voleva certo un genio per intuire quale sarebbe stata la mia reazione.
«Neanche per sogno, non permetterò mai che tu mi veda in déshabillé», risposi altezzosamente. Sentii sbuffare attraverso il legno dipinto di bianco della porta.
«Ti ho vista spiaccicata in fondo ad una scala con tanto di mutande della carica dei 101 al vento. Dubito fortemente che tu possa essere in condizioni peggiori.»
Colpita e affondata. Ribollendo dalla rabbia andai ad aprirgli la porta e mi ritrovai faccia a faccia con il suo sorriso trionfante.
«Non erano della carica dei 101, erano dei Looney Toones», precisai ringhiando. Lui non mi prestò nemmeno attenzione, impiegato com’era ad analizzarmi da capo a piedi. Proprio quando ero sul punto di scaraventarlo di nuovo in corridoio (o, in alternativa, di tramortirlo con un colpo di spazzola dritto in testa), fece spallucce.
«Sei assolutamente identica a tutti gli altri giorni.»
Gli rivolsi un’espressione supplichevole.
«Per favore. Sono acqua e sapone ed indosso una camicia da notte degna di Wendy e Barbie Schiaccianoci messe assieme. Finiscila di prendermi in giro. E adesso, di grazia, si può sapere che vuoi?»
Lui scrollò nuovamente le spalle.
«Solo darti la buonanotte e dirti che, per qualunque cosa, io sono di là».
Arricciai il naso.
«Tanto non avrò bisogno di nulla.»
«Oh, si invece», sogghignò lui.
Prima che potesse aggiungere altro gli avevo già sbattuto la porta in faccia.
 
 
 
 
Buonasera. Siamo già al quarto capitolo, che emozione. Oggi volevo approfittare di questo altrimenti pressoché inutile spazio autrice per ringraziare di tutto cuore tutti i recensori e tutti quelli che seguono o hanno aggiunto ai preferiti sia “il pianista” sia la one shot “serate indimenticabili” (per chi non dovesse ancora averla letta la trovate sul mio profilo). Mi fa davvero molto piacere, se potessi verrei nelle vostre case, vi abbraccerei uno ad uno e diventerei amica di ognuno di voi. Purtroppo è piuttosto improbabile, ma continuerò ad immaginarlo tanto fervidamente da farlo sembrare reale.
Millemila abbracci,
Nevermore.

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Capitolo 5
*** Gite improvvisate non troppo divertenti ***


Capitolo 5
Gite improvvisate non troppo divertenti
 
Quando, quella notte, mi svegliai, per un attimo credetti che fosse tutto soltanto un brutto sogno, ma un brivido che mi attraversò dalla testa ai piedi mi riportò all’amara realtà. Quella era proprio la mia vera vita, e nella mia vera vita qualcuno stava suonando il pianoforte dentro alla mia casa. La mia camera era avvolta nel buio e nel gelo più totali ed alle mie orecchie giungeva forte e chiara la melodia crepacuore del gigante nero del mio soggiorno. Inspirai profondamente e cercai di non farmi prendere dal panico. In fin dei conti, mi dissi, era solo un po’ di musica. Fino a prova contraria, non poteva farmi alcun male, e poi ero decisa a non fare la figura del coniglio con Owen a meno che non fosse stato strettamente necessario. Rimasi in ascolto per quella che mi parve un’eternità, lunga distesa sotto le coperte a rabbrividire dal gran freddo, finché improvvisamente il mio cervello formulò un ragionamento fondamentalmente molto semplice, ma sostanzialmente di vitale importanza. Mi resi conto che era veramente assurdo che in una stanza con il riscaldamento acceso, sotto le coperte e con le finestre chiuse si congelasse in quel modo. L’unico dettaglio era che le finestre non erano affatto chiuse, bensì spalancate, in modo da lasciar entrare folate di vento gelido. Per quanto fossi distratta, ero assolutamente sicura di non aver combinato una cosa del genere per sbadataggine. Qualcuno, durante la notte, aveva aperto le finestre della mia stanza.
Non potevo né volevo resistere un solo secondo di più. Schizzai fuori dal letto e,  senza badare al freddo lancinante al contatto dei miei piedi nudi sul pavimento che sembrava fatto di ghiaccio, mi precipitai in camera di Owen. Mi chiusi la porta alle spalle e, terrorizzata e tremando come una foglia, mi infilai nel suo letto e gli afferrai con foga un braccio, svegliandolo di soprassalto.
«Ah! Che irruenza, Vittoria, non pensavo di attrarti così tanto», commentò, aggiudicandosi il premio inappropriatezza del millennio. Gli scoccai la peggiore delle mie occhiatacce.
«Owen, sei un dannatissimo testa di legno».
Lui rise.
«Signore e signori, il lato volgare di Vittoria.»
A quel punto però evidentemente notò che ero veramente spaventata e che non avevo la benché minima intenzione di disincagliarmi dal suo braccio, perché divenne serio in un battibaleno.
«Vittoria, che succede?», mi chiese, con tono apprensivo, circondando le mie mani con la sua, più grande. Il contatto con la sua pelle calda mi faceva sentire al sicuro, tanto che mi domandai come avessi potuto essere così stupida da non raggiungerlo prima.
«Il pianista», balbettai. «Stava suonando di nuovo. E qualcuno ha aperto la finestra della mia camera. Io…»
Al pensiero che l’intruso fosse  passato così vicino a me, al mio letto, alla mia totale impotenza, mi mancò il fiato. Owen non fece domande di alcun tipo, ma avvicinò la sua testa alla mia ed iniziò a sussurrarmi quel genere di parole di conforto che si dicono ai bambini che hanno avuto un incubo.
«Va tutto bene, Vittoria. Ci sono qui io. Adesso è finit-», e, in quell’istante, la tastiera riprese a suonare. Owen spalancò la bocca in una smorfia di tetra sorpresa, mentre io gli conficcavo le unghie nella carne. Se mai aveva avuto un margine di dubbio su quello che gli raccontavo, ora doveva arrendersi alla terrificante evidenza.
«Dobbiamo andare a vedere chi è!», esclamò, cercando di alzarsi, ma io glielo impedii.
«Chiunque sia, molto probabilmente ha una mannaia», gli ricordai, e lui sembrò ripensarci. Tornò a sedere sul copriletto tenendo lo sguardo fisso in avanti, muovendosi come un automa. Restammo immobili, in ascolto, mentre la melodia del pianoforte non cessava di echeggiare in lontananza.
«E’ sempre la stessa canzone», dissi, con voce atona, all’improvviso. Owen mi guardò in attesa che proseguissi.
«All’inizio credevo di no, ma adesso mi rendo conto che suona sempre la stessa melodia.»
«La conosci?»
Scossi la testa, desolata, e lui, senza pensarci, mi circondò un fianco con il braccio. Mi accorsi solo in quel momento che era a torso nudo.
«Owen, ma perché cavolo dormi senza maglietta il 25 dicembre?!», protestai, divincolandomi. Lui rise. Anche se era un po’ spenta ed un po’ stanca, era la sua solita risata e la cosa mi rassicurò molto.
«Ho erroneamente creduto che la tragicità della situazione ti avrebbe momentaneamente indotta a lasciare da parte la tua intramontabile accidia.»
Sorrisi, mentre il pianista affrontava un passaggio particolarmente triste. Quel gesto mi fece sentire potente nel mio piccolo. Quel suonatore misterioso poteva rubare i miei coltelli, spalancare le mie finestre e penetrare a piacimento in casa mia, eppure io potevo provare un’emozione diversa da quella che i suoi movimenti sui tasti d’avorio volevano farmi percepire. Era una soddisfazione minuscola, ma era meglio che niente. Mi sentii come animata da una nuova energia.
«Owen, dobbiamo mettere fine a questa storia», dissi, con decisione. Lui annuì.
«Si, e forse so cosa dobbiamo fare.»
Lo squadrai, interrogativa.
«E come?»
«Dobbiamo andare a parlare con il fratello Carmichael sopravvissuto.»
 
Il mattino dopo mi risvegliai nel letto di Owen, separata da lui da una barriera di cuscini che ricordavo di aver eretto durante la notte, perché la vista di Owen seminudo mi indisponeva. Per qualche istante mi abbandonai ai ricordi di poche ore prima. Dopo lo spavento iniziale, ci eravamo rassegnati al fatto che non potevamo fare nulla, se non aspettare. Ci consolavamo pensando che finché sentivamo suonare il pianoforte, significava che l'eventuale coltello era lontano due piani da noi. Così parlammo, scherzammo addirittura, il tutto perennemente accompagnati dall’incessante melodia. Se all’inizio avevo avuto qualche dubbio, adesso ne ero definitivamente sicura: la canzone era sempre la stessa, e si ripeteva più volte. Avevo addirittura imparato il suo susseguirsi. Come scoprii, non era sempre una composizione triste. Nei primi minuti era dolce, soave, speranzosa, ma poi quella speranza veniva avariata da una sorta d’ansia che vi si insinuava, fino a raggiungere un momento catastrofico di panico totale. Ecco allora che iniziava la parte triste, la più lunga di tutte, la quale si concludeva con un inaspettato spezzone rabbioso e vendicativo. La canzone finiva subito dopo, con qualche secondo di accordi sconnessi, stonati, premuti a casaccio sui tasti, e poi, ogni volta, ricominciava, in un girotondo infinito. Impossibile decidere se mi piacesse oppure no, sapevo solo che avevo la fastidiosa sensazione di non capirla davvero, almeno, non come avrei dovuto.
Mi distolsi dai miei pensieri e mi girai verso Owen, che, al di là del monte di cuscini, dormiva ancora. Quando dormiva, pensai con un sorriso vagamente intenerito, era terribilmente simile a quando suonava, sembrava liberarsi da ogni turbamento e riacquistare una dolcezza ormai da tempo perduta. Comunque, piacevole da vedere o no che fosse, adesso aveva decisamente dormito abbastanza.
«Sveglia, Owen!», esclamai, rifilandogli una sonora cuscinata in faccia. Lui mi rispose con un grugnito infastidito e si girò dall’altra parte.
«Vattene, Vittoria, è presto!», mugolò, assonnato.
«Su, su, il mattino ha l’oro in bocca!», lo esortai, sentendomi pericolosamente simile a mio padre. Dal momento che non sembrava minimamente intenzionato a darmi retta, gli sfilai il lenzuolo da sotto il corpo, facendolo precipitare rovinosamente sulle piastrelle.
«Vittoria! Sei una pazza! E pure violenta!», gridò dal pavimento.
Lo ignorai.
«Vestiti in fretta. Oggi ci aspetta una gita a Creepford.»
Constatai con mia somma soddisfazione che il tempo era migliorato. Il cielo era ancora di un opprimente color grigio piombo, ma se non altro aveva smesso di nevicare. Cercai di ignorare il campanello d’allarme che nella mia testa trillava all’impazzata, ricordandomi che il meteo che avevo visto alla televisione il giorno prima prevedeva clima instabile durante il corso di tutta la giornata.
Così andai nella mia camera a vestirmi pesante. Quando scendemmo in cucina il resto della famiglia era ancora a dormire, a parte il gatto, che stava leccando avidamente l’impasto dei biscotti rimasto nella teglia, facendo sfoggio della sua spropositata mole. Mentre io lasciavo un biglietto a mia madre dove la avvertivo che non sarei tornata prima dell’ora di cena (e le suggerivo caldamente di mettere a dieta la bestiaccia pelosa), Owen andò ad analizzare il pianoforte. Non lo toccava, semplicemente lo osservava, come sopraffatto da un senso di timore e riverenza allo stesso tempo. Ricordavo di averlo guardato nella stessa identica maniera, a mio tempo.
«E’ che questa storia non mi convince», spiegò, quando si accorse che lo stavo guardando. «Gli elementi che abbiamo… non quadrano. E’ impossibile che una persona ti abbia rubato un coltello da sotto il naso, come, a pensarci bene, è impossibile anche che qualcuno sia entrato in casa dalla finestra della tua stanza in cima alla torre. C’è qualcosa che ci sfugge.»
Scrollai le spalle.
«Non saprei.»
«Ed è anche strano che i tuoi genitori non abbiano il minimo sospetto. Com’è possibile che loro non sentano mai nulla?»
«Owen, i miei non si sveglierebbero neanche se la casa venisse assaltata dai Pellerossa.»
La sua espressione restava molto scettica.
«Forse il fratello Carmichael saprà darci delle risposte», aggiunsi, speranzosa.
Uscimmo di casa verso le undici ed Owen mi guidò fino al limitare del villaggio, dove si trovava la stazione dei treni. Lì prendemmo due biglietti per Creepford e dopo neanche tre quarti d’ora di viaggio arrivammo a destinazione. Creepford era un paesino tremendamente freddo, brutto e spoglio (non che Foggy Hollow fosse esattamente quel che si dice il fulcro della vita sociale, ma se non altro ogni tanto per strada si vedeva un’anima viva), incastrato nell’angusta gola tra due montagne innevate.
«Entro sera nevicherà di nuovo», commentò Owen, guardando il cielo con fare preoccupato.
Era vero. La volta celeste sopra di noi si era tinta di bianco e conferiva all’intero villaggio un’illuminazione inquietante, che lo faceva quasi sembrare una città fantasma.
«Non mi piace questo posto», commentai, e le mie parole si dispersero nel vento.
«Come facciamo a trovare casa sua?»
«La madre di Lucy mi ha detto che non è in paese, ma abbarbicata sulla montagna. Dove esattamente, però, non lo so.»
«Potremmo chiedere a qualcuno.»
Mi sembrò una buona idea, così, non appena vedemmo una locanda, decidemmo di entrare per chiedere informazioni. Il locale si chiamava “l’allegro somelier” e di allegro non aveva proprio niente. Quando entrammo fummo accolti da un’atmosfera cupa e luci spente. Non c’era nessuno. L’unico dettaglio che confermasse che il posto era aperto era una signora sulla sessantina intenta a lucidare i tavoli, evidentemente la proprietaria, che sembrò estremamente sorpresa di vederci.
«Vi siete persi, bambini?», ci chiese, con fare apprensivo, agitando lo straccio per pulire. Io ed Owen ci guardammo, indecisi sul da farsi.
«No», rispose lui, infine. «Volevamo solo chiedere un’informazione. Vorremmo sapere dov’è casa Carmichael e come si può raggiungerla.»
La donna spalancò gli occhi come se le avessimo appena chiesto il permesso di darle fuoco e ballare la tarantella sulle sue ceneri. Tuttavia riuscì in qualche modo a trovare la forza di risponderci.
«E’ sulla montagna», disse, con voce tremante. «La si raggiunge tramite un sentiero delle capre che parte dietro alla bottega del fornaio. Ma io non vi consiglio di andarci.»
«E perché?»
Il corpo paffuto della donna fu attraversato da un brivido.
«Toby Crmichael è un ragazzo molto strano. Vive tutto solo su quella montagna, non parla mai con nessuno. E poi, quegli occhi…»
La signora distolse lo sguardo, come se pensare agli occhi perennemente sgranati di Toby Carmichael fosse semplicemente troppo, per lei. Sinceramente, non facevo fatica a crederlo. Ero molto tentata di seguire il suo consiglio e darmela a gambe con tanti saluti, ma sapevo che non potevo farlo.
«Lo abbiamo sentito dire, ma dobbiamo andarci comunque. Molte grazie per l’indicazione.»
Feci per andarmene, seguita a ruota da Owen, ma lei mi fermò.
«No, no! Vi prego, bambini, lasciatevi almeno offrire il pranzo. Non potete rischiare di incappare in una bufera a stomaco vuoto.»
Considerate le condizioni della locanda, quella donna non sembrava proprio quel che si dice economicamente in grado di offrirci un pasto, ma insistette tanto che ci ritrovammo ad accettare. Sembrava contenta di avere compagnia, nonostante continuasse a fissarci come se avessimo dovuto morire davanti ai suoi occhi da un istante all’altro. Ci portò una zuppa di verdure, pane e pesce. A giudicare dalla sue forme generose, sembrava il genere di donna convinta che un buon pasto abbondante fosse la cura a tutti i mali del mondo. In effetti, non appena ebbe notato che mangiavamo di gusto (avevamo entrambi un discreto appetito), parve tranquillizzarsi.
«Come mai cercate Toby Carmichael?», ci chiese.
Capii subito che non voleva impicciarsi, ma semplicemente chiacchierare con qualcuno, dal momento che non sembrava averne l’occasione molto spesso. Così decisi di premiarla con la mia sincerità.
«Sono andata ad abitare nella sua casa d’infanzia, Avary Manor, ed ho delle domande da fargli in proposito», risposi, mentre ripulivo il mio piatto. Avevo paura di non fare in tempo a raggiungere il rifugio di Toby prima che iniziasse la tormenta, e di conseguenza anche una certa fretta. La signora annuii con fare preoccupato.
«La casa delle disgrazie. La conosco, certo.»
Fuori dalla locanda si sentì il vento soffiare più forte, con un lamento cupo e sordo.
«Forse dovremmo andare.»
Owen convenne e la signora ci lanciò un ultimo sguardo da chioccia apprensiva.
«Fate molta attenzione, bambini. Che Dio vi benedica», ci disse, scortandoci alla porta. Mentre uscivamo nel freddo pungente, aveva la faccia di chi prevedeva le peggiori catastrofi mai sentite.
 
«Secondo te perché ha chiamato Avary Manor casa delle disgrazie?», urlai ad Owen, per sovrastare il rumore dell’aria. Ci stavamo inerpicando su per il sentiero delle capre da quasi un’ora e faceva talmente freddo che il vento ghiacciato sembrava penetrare fin nelle ossa. Come se non bastasse, i refoli erano talmente forti che anche solo muovere pochi passi costava una fatica esorbitante. Ero affaticata, avevo le dita dei piedi gelate e, soprattutto, avevo un disperato bisogno di distrarmi da quella situazione orrenda.
Owen fece spallucce, con gli occhi che lacrimavano dal gran gelo e tenendo le mani infilate nelle tasche.
«Probabilmente si riferiva alla faccenda del bambino morto.»
«Mi sembra un po’ poco per arrivare a definirla in quel modo.»
Si girò verso di me. Il sentiero era talmente stretto che costringeva a camminare in fila indiana. Mi guardò con fare grave.
«Pensi che ci sia dell’altro?»
Questa volta toccò a me scrollare le spalle.
«Non lo so. So solo che faremmo meglio ad accelerare il passo. Tempo dieci minuti e nevica.»
Più in alto sulla montagna si intravedeva un’unica cascina di legno, un unico, minuscolo posto sicuro nel bel mezzo di quell’inferno bianco. Affrontammo l’ultima salita che ci separava da esso proprio nel momento in cui iniziavano a cadere i primi fiocchi di neve. Quando finalmente raggiungemmo la porta in legno della catapecchia nevicava già abbondantemente. Non avevamo il tempo di pensare ad un modo lusinghiero per entrare. Se il vento fosse aumentato ancora, c’era il rischio che mi scaraventasse veramente giù dallo sdrucciolo, mentre Owen aveva le dita delle mani che avevano assunto una preoccupante tonalità di bluastro. Così, non appena ci ritrovammo il legno dell’uscio davanti, iniziammo a tempestarlo di pugni senza pensarci un attimo.
«Signor Carmichael, signor Carmichael! Ci faccia entrare, la prego!», gridai a pieni polmoni, con nella voce una nota di panico che avrei preferito evitare. Non avevo mai avuto tanto freddo in tutta la mia vita e la parte tragica del mio cervello, il cui hobby preferito era profetizzare disgrazie, era intenta a ricordarmi con insistenza che quella era una zona a rischio valanghe.
Aspettammo, mentre io continuavo a sgolarmi e picchiare sulla porta ed Owen, rassegnato, si lasciava scivolare lungo il legno, rannicchiandosi su se stesso per scaldarsi un po’.  Proprio quando stavo per desistere, sedermi a mia volta ed iniziare a dettare ad Owen il mio testamento, lo spioncino d’ottone si aprì di scatto ed al di là apparve un gigantesco occhio spalancato. L’iride, di un azzurro annacquato che una vola doveva essere stato splendente come il cielo, era circondato dal rosso di capillari esplosi. L’istinto di conservazione fu l’unica cosa ad impedirmi di sussultare davanti a quello spettacolo terrificante.
«Signor Carmichael!», gridai, con la voce rotta dal sollievo, puntando il mio sguardo disperato dritto nel forellino. «Deve farci entrare! Moriremo di freddo qua fuori! La prego!»
Toby Carmichael si ritrasse e per un terribile istante pensai che avesse optato per abbandonarci al nostro destino, ma subito dopo la porta si aprì con un cigolio.
«Owen! Vieni dentro, muoviti, ci ha aperto!»
Senza aspettare una reazione, lo strattonai all’interno della catapecchia ed immediatamente mi chiusi la porta alle spalle.
Mi ci volle un attimo per abituarmi al nuovo ambiente. Il lamento rabbioso del vento ora era solo un’eco lontana e l’intera casa, senza nessuna finestra aperta, era avvolta nella penombra. Dopo una manciata di secondi capii che era composta da un unico stanzone semivuoto, fatta eccezione per qualche mobile polveroso dall’aspetto vecchio di millenni. Intravidi un tavolo di legno, un forno dall’anta bruciacchiata, una branda mezza sfondata ed una sedia a dondolo. In fondo alla stanza, l’ombra di un uomo si agitava convulsamente, tanto che per un attimo temetti di essere passata dalla padella alla brace. In quel momento si sentì lo sfrigolio di un fiammifero che si accendeva e, brandendo una lanterna, Toby Carmichael illuminò la stanza.
Trattenni a stento un grido di sorpresa. Toby non dimostrava più di una ventina d’anni. Doveva essere stato molto alto, ma tanta altezza era resa addirittura minacciosa dalla gobba che aveva sulla schiena. Aveva le spalle curvate in avanti, le braccia e le gambe sottili come cannucce ed il collo teso come una corda di violino per poterci guardare in faccia da quella sua posizione perennemente volta al pavimento. Ma la cosa più incredibile ed inquietante erano i suoi occhi. Avevo creduto che la madre di Lucy esagerasse a proposito del suo sguardo e invece, mio malgrado, dovetti constatare che era tutto vero. I suoi occhi erano talmente spalancati che uscivano dalle orbite e sembravano sul punto di esplodere da un momento all’altro. Fu terribile constatare che nonostante il suo aspetto mostruoso non sembrava un uomo cattivo, ma soltanto un uomo terrorizzato, martoriato dalla paura e dall’angoscia nell’anima come nel corpo.
«Signor Carmichael…»
Lui, sentendo il suo nome, si ritrasse e si coprì il viso con le mani, lasciando fuori soltanto gli occhi, i quali saettavano incessantemente da me, ad Owen, ai suoi piedi. Sembrava quasi che temesse che potessimo fargli del male.
«Signor Carmichael, non abbia paura.»
Animata da un coraggio che non credevo di avere mi avvicinai a lui e, con gesti calmi e misurati, gli presi le mani. Lo condussi fino al tavolo dove lo feci sedere e mi sistemai di fronte a lui. Owen avvicinò la sedia a dondolo e si sedette accanto a me.
«Toby, siamo venuti qui perché abbiamo delle domande da farti», esordii, decidendo improvvisamente di dargli del tu, per sembrare meno minacciosa. «Non serve che parli, basta che tu annuisca o faccia qualche gesto. Capisci?»
Toby annuii e vederlo collaborativo mi fece sentire leggermente sollevata. Owen mi strinse una spalla con la mano per incoraggiarmi a proseguire e mi ritrovai a sperare che non la togliesse. Mi faceva sentire, anche se in minima parte, più fiduciosa.
«Mi chiamo Vittoria, sono figlia unica e vengo dalla California. A volte sono un po’ antipatica e scontrosa, sono allergica ai pinoli»
Non sapevo bene perché gli stessi dicendo quelle cose. Mi pareva di ricordare di aver letto da qualche parte che dare informazioni personali ad una persona spaventata avesse un effetto calmante. Infatti Toby, sentendomi provare ad alta voce che non ero nient’altro che una persona comune, parve tranquillizzarsi. Proseguii.
«Da meno di una settimana mi sono trasferita a Foggy Hollow con la mia famiglia, precisamente ad Avary Manor. Ci hai abitato anche tu, non è vero?»
Il corpo segaligno di Toby fu scosso da un brivido e poi annuì lentamente, senza guardarmi in faccia.
«In quella casa stanno succedendo cose strane. Oggetti spariscono, finestre si aprono, il pianoforte del soggiorno si mette a suonare in piena notte. Queste cose ti sono familiari?»
Questa volta Toby alzò gli occhi e vidi che erano pieni di lacrime. Annuì di nuovo. Mi alzai ed andai a inginocchiarmi di fronte a lui per fargli la domanda più importante di tutte.
«Toby, tu sai cosa sta succedendo in quella casa?»
Ci fu una pausa che sembrò durare un’eternità. La mano di Owen, che, con mio silenzioso piacere, non si era mai spostata, strinse più forte la mia clavicola mentre, senza osare nemmeno fiatare, aspettavamo.
Alla fine, mentre la prima di una lunga serie di lacrime amare gli rigava il viso, Toby annuì per la terza volta. Ebbi un tuffo al cuore.
«Toby, devi dirmelo. Io lo devo sapere. Sono in pericolo in quella casa e senza il tuo aiuto non ho modo di salvarmi, quindi ti prego, Toby… dimmelo.»
Lui aprì la bocca e le labbra gli tremarono mentre piangeva in silenzio.  Sembrava che stesse convogliando tutte le sue forze per riuscire ad esprimersi. Credevo che fosse sul punto di, finalmente, parlare, quando improvvisamente le carte in tavola cambiarono nel peggiore dei modi. Toby si alzò di scatto ed emise un lungo e gutturale lamento, forse di dolore, forse di paura, forse di entrambe le cose. Afferrò me ed un esterrefatto Owen per un braccio con una forza che non gli avrei mai attribuito e ci trascinò via, fino all’ingresso. Aprì la porta e scaraventò Owen nella neve fresca. Quando era sul punto di riservare lo stesso trattamento a me, riuscii con la forza della disperazione ad afferrargli una mano.
«Toby, ti prego!»
Nei suoi occhi sgranati e bagnati lessi le sue più disperate e sincere scuse. Ricambiò con forza la stretta alle mie dita, prima di gettare anche me nella tempesta. Mi si mozzò il respiro dal freddo. La tormenta impazzava tutt’attorno a me, tanto che a malapena riuscivo a vedere Owen, che giaceva ad appena qualche metro di distanza.
«Owen, dobbiamo tornare in paese!», gridai, alzandomi a stento, mentre il vento faceva del suo meglio per ributtarmi a terra. Gesticolando come un pazzo, Owen mi fermò.
«Aspetta, guarda! Sta aprendo la finestra!»
Mi girai speranzosa verso la cascina e constatai che Toby aveva aperto dall’interno gli scuri della finestra. Ora potevo vedere il suo volto cinereo attraverso i vetri appannati. Stavo per gettarmi in sua direzione e supplicarlo di rifarci entrare, ma Owen mi trattenne di nuovo, afferrandomi la mano.
«Aspetta! Sta scrivendo qualcosa.»
Era vero. Con una delle sue lunghe dita storte stava tracciando velocemente delle lettere sulla condensa del vetro. Quando ebbe finito i suoi occhi erano tristi. Senza capire, guardai la finestra. Aveva scritto “Clair de Lune”. Chiaro di luna.
 
 
 
Buonasera a tutti, miei cari e simpatici lettori.
Questo capitolo è un po’ più lungo del solito (o almeno, così mi sembra. La verità è che non sono molto brava in tutte queste cosette che richiedono rigore e precisione), spero la cosa non vi indisponga. Come al solito non so come utilizzare questo spazio autrice (sono terribilmente invidiosa degli altri scrittori di EFP che sembra abbiano sempre due milioni di cose da dire, mentre io devo strizzarmi il cervello per un’eternità per produrre due frasi coerenti), quindi credo che mi limiterò a tempestare di ringraziamenti chiunque abbia letto e recensito questa storia. Mi rendete davvero felice. Un sacco di abbracci, pacche sulle spalle e colpetti sulla testa,
Nevermore.

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Capitolo 6
*** Nudisti e pianisti ***


Capitolo 6
Nudisti e pianisti
 
In quel momento io ed Owen avevamo ben più che un problema. Dovevamo riuscire a tornare al villaggio percorrendo una ripidissima discesa nel bel mezzo di una bufera, possibilmente arrivando a destinazione con tutti gli arti ancora attaccati al corpo. Dovevamo liberare la mia casa da un inquietante pianista che girava con una mannaia in tasca. Dovevamo dare un significato al criptico messaggio di un gobbo bipolare. Decisamente, avevo avuto giorni migliori.
Con Owen ancora appeso alla mia mano, cercai disperatamente di connettere i neuroni superstiti del mio cervello e di farmi venire un’idea intelligente, ma ero talmente frastornata che non riuscivo a pensare. Fu come se tutti gli eventi di quella settimana mi piombassero sulle spalle solo in quel momento ed improvvisamente mi facessero sentire piccola, appesantita, impotente.  Un violento strattone al braccio mi riscosse da quel torpore.
«Vittoria, dobbiamo andarcene di qui!»
Guardai Owen ed ebbi per un istante un brivido di paura al pensiero di aver coinvolto anche lui in tutto quell’enorme pasticcio.
Avanzammo mano nella mano a ritroso giù per il pendio, tra la neve gelida ed il vento potentissimo che avevano tutta l’aria di averci dichiarato guerra. A volte inciampavamo, oppure la forza della tormenta ci sbilanciava e cadevamo carponi nella neve fresca, congelandoci ancor di più mani, piedi e gambe. In quei momenti trovare la forza di tirarsi in piedi era una vera e propria benedizione. Quando sbucammo finalmente dietro alla bottega del fornaio avevo le punte dei capelli gelate, mani e piedi ridotti a due immobili blocchi di ghiaccio e la sensazione che quel vento mi avesse congelato fin sotto la pelle, arrivando alle articolazioni e rendendomi ogni movimento difficile e meccanico. Avevo le gambe che andavano da sole quando, seguendo Owen, iniziai a correre a perdifiato verso “l’allegro somelier”. Una volta raggiuntolo ci precipitammo dentro, trafelati e bagnati fino al midollo, tanto sconvolti che all’anziana proprietaria per poco non venne un infarto.
«Oh, cielo, bambini! Cosa vi è capitato?! Venite dentro, presto, presto! Sedetevi qui, prendete delle coperte, dovete assolutamente fare un bagno caldo!»
Solo in quel momento mi accorsi che eravamo ancora mano nella mano, immobili e stralunati, come coniglietti in mezzo alla strada accecati dai fanali di un’auto. Mentre la signora si affannava attorno a noi alla ricerca di qualcosa con cui scaldarci, riuscii a stento a mormorare una frase sconnessa.
«Noi… noi dobbiamo prendere il treno… per tornare a Foggy Hollow…»
«Tesoro, il servizio ferroviario è bloccato a causa della tormenta. Temo che dovrete passare la notte qui.»
«Ma…», balbettai, confusa. «Mia madre non lo sa, e poi non abbiamo soldi!»
La donna mi guardò negli occhi.
«Non mi dovete nulla. L’importante è che siate al sicuro. Di là c’è un telefono, puoi usarlo per avvertire la tua famiglia.»
Chiamare mia madre in quel momento fu una delle imprese più titaniche che avessi mai compiuto in vita mia. Non appena capì che dall’altra parte della cornetta c’ero io iniziò ad urlare talmente forte che la sua voce in un battibaleno sforò gli 800 decibel per poi trasformarsi in ultrasuoni. Era furiosa per circa un milione di motivi, ma ero talmente stanca, intirizzita e spaventata che non riuscivo nemmeno a concentrarmi su quello che diceva. Me ne stavo semplicemente lì, a lasciarmi travolgere dalle sue urla omicide. Forse fu proprio questo a farle decidere, infine, che era il caso di calmarsi. Solitamente, per farmi stare zitta occorreva o imbavagliarmi o sedarmi (ed uno di questi sistemi, come ben sappiamo, lo aveva già messo in pratica). Mi accordò il permesso di dormire alla locanda con un tono di voce relativamente normale, mi raccomandò di ringraziare la proprietaria e mi attaccò il telefono in faccia.
Tornai da Owen e dalla nostra gentile ospite (che si era presentata come Molly O’Malley) e quest’ultima ci condusse su per le scale, al piano superiore, dove c’erano le camere. Aprì la porta della prima e ci fece cenno di entrare. Era una stanza piccola, con due letti singoli ed un bagno privato, dipinta di un discutibile color verde pistacchio e dall’arredamento di dubbio gusto, e tuttavia in quel momento mi sembrò una reggia paradisiaca. Miss O’Malley ci lasciò soli ed Owen, molto galantemente, mi concesse di farmi la doccia per prima, a patto che promettessi di non impiegare tre ore per  “spalmarmi creme ed arricciarmi i capelli”. Decisi di risparmiargli la lezione sul genere femminile ed il sacro rituale della doccia e mi limitai a rispondere con una smorfia, prima di rintanarmi in bagno.
Il getto bollente fu rigenerante. Fu come se tutte le mie preoccupazioni scivolassero via assieme all’acqua calda, lasciandomi qualche istante di tranquillità, pace e silenzio. La bella sensazione però ci mise ben poco a sparire, dal momento che già appena uscita dalla doccia mi accorsi di una cosa: non avevo vestiti asciutti e quell’albergo non offriva accappatoi. C’erano solo un paio di asciugamani di spugna striminziti che mi coprivano a malapena le cosce. Mi guardai attorno alla disperata ricerca di qualunque cosa potesse accorrere in mio aiuto, ma in quella stanzetta minuscola, a parte un water, una doccia ed un lavandino, non c’era assolutamente nulla. Ponderai per qualche istante l’idea di mummificarmi l’intero corpo con la carta igienica, ma alla fine decisi che lo spreco sarebbe stato eccessivo e che dovevo trovare un’altra soluzione.
«Owen?», chiamai, con tono esitante, socchiudendo appena la porta e stringendomi bene addosso il telo di spugna.
«Che c’è?»
«Potresti chiudere gli occhi ed infilare la testa sotto il cuscino finché te lo dico io?», azzardai.
D’accordo, non era esattamente il piano più geniale che avessi mai avuto, ma non mi veniva in mente nient’altro. Ci fu qualche istante di silenzio.
«…perché?»
«Chiudi il becco e fallo e basta!»
Si sentirono diversi sbuffi esasperati.
«Va bene, va bene… ecco fatto.»
Presi un respiro e mi sistemai accuratamente un asciugamano a mo’ di turbante sui capelli gocciolanti. Controllai per l’ennesima volta che più centimetri possibile del mio corpo fossero coperti e poi spalancai la porta.
Non appena fui fuori dal bagno constatai esterrefatta che Owen non era affatto barricato sotto il cuscino come promesso, bensì in piedi accanto al letto, con braccia incrociate, un sopracciglio aggrottato in un’espressione scettica e, quel che è peggio, gli occhi decisamente aperti e puntati su di me.
«Ti avevo detto di non guardare!», strillai, arrossendo impietosamente e schizzando il più in fretta possibile nel mio letto, sotto le coperte. Lì mi tirai il lenzuolo fin sopra al naso, lasciando fuori solo gli occhi, necessari per fulminare Owen con un arsenale di sguardi dardeggianti.
«Oh, Vittoria, quanto la fai lunga, da come me lo hai chiesto credevo fossi nuda come un verme.»
In tutta risposta gli tirai dietro il mio cuscino e lui scoppiò a ridere.
«Vai a farti la doccia e lasciami in pace!»
Con un ultimo ghigno sparì in bagno ed io potei finalmente rilassarmi. Mentre lui si lavava (interrompendosi di tanto in tanto per gridarmi superflue ed inconsistenti lamentele come «Vittoria, che schifo, hai lasciato sul pavimento della doccia un tappeto di capelli!», «come sei riuscita a finire una boccetta di bagnoschiuma da sola?!» e simili) ripensai a quello che  era successo da Toby Carmichael, al modo in cui mi era parso che volesse veramente aiutarmi, dirmi la verità, ma una paura più grande della forza di volontà glielo impedisse. E poi, quella frase sulla finestra. Clair de Lune. Non riuscivo a capire che senso avesse. Forse, pensai, poteva riferirsi al fatto che il misterioso pianista suonava solo di notte, ma mi sembrò forzata come motivazione, senza contare che era una cosa che già sapevo.
«A cosa stai pensando?»
La voce di Owen interruppe il filo dei miei ragionamenti. Era uscito dal bagno in una nuvola di vapore e notai con mio sommo disappunto che aveva un asciugamano legato attorno alla vita e nient’altro.
«Owen!», protestai, serrando forte le palpebre e coprendomi anche la faccia con le mani, per rincarare la dose.
«Come sei schizzinosa.»
«Possibile che ti piaccia così tanto andare in giro nudo?!»
«Si, in effetti si.»
Sbuffai rumorosamente, ma mi arresi all’evidenza che dovevo quantomeno aprire gli occhi. Owen si stava sistemando nel suo letto, che era a un metro dal mio, con la massima tranquillità. Infilò le gambe sotto le coperte e si appoggiò allo schienale, mentre si frizionava in malo modo i capelli rossi con un asciugamano per i piedi (avevo provveduto personalmente ad usare tutti gli altri teli di dimensioni decenti). Mi colpì quanto sembrasse pacato, a suo agio. Aveva un fare tranquillo, i muscoli delle braccia e del torace rilassati. Accorgendosi che lo guardavo, mi rivolse un sorriso interrogativo.
«Che c’è?»
«Oh..! Niente, io volevo… insomma, parlare, ecco.»
In realtà stavo semplicemente rimirando il suo busto, ma avevo la sensazione che ammetterlo non sarebbe stato troppo lusinghiero. Lui mi rivolse uno di quei suoi sorrisetti di chi la sa lunga, come se con quella sua odiosa perspicacia avesse già colto tutto l’implicito. Si girò su un fianco, verso di me, sorreggendosi la testa con una mano.
«Ti ascolto», mi disse.
«Secondo te cosa significa il messaggio di Toby?»
Sospirò, frustrato.
«Ci ho pensato e ripensato. Non ne ho la più pallida idea. Non so cosa possa avere a che fare quella frase con Avary Manor e se anche lo sapessi dubito che risolverebbe i nostri problemi.»
Apprezzai che li avesse definiti “nostri” e non soltanto miei. Faceva piacere sapere di avere qualcuno con cui condividere quel gigantesco peso sulle spalle.
«Sono contenta di avere una scusa per passare un’altra notte lontana da casa.»
Owen annuì, comprensivo.
«Dovresti trascorrerla dormendo. Hai una faccia sconvolta.»
Sospirai, consapevole del fatto che doveva essere proprio vero. Prima mi ero guardata allo specchio e quasi non mi ero riconosciuta da tanto sembravo stanca ed affaticata. Dopo esserci augurati la buonanotte spegnemmo le luci e ci accoccolammo ognuno nel proprio letto, in silenzio. Mi accorsi solo in quel momento di quanto sonno avessi. Prima di abbandonarmi tra le braccia di Morfeo, mormorai qualche parola.
«Grazie, Owen.»
«Per che cosa?»
«Chiudi il becco. Accetta i ringraziamenti e basta.»
Anche se non potevo vederlo, ero certa che in quel momento stesse sorridendo.
«Oh, va bene allora. Grazie a te Vittoria.»
«Per che cos…»
«Chiudi il becco.»
 
Quando, il mattino dopo, mi svegliai ai primi raggi di sole, mi maledissi per aver dimenticato, la sera prima, di chiudere le persiane. Dalle finestre entrava una tenue luce che mi batteva dritta in faccia. Infastidita, mi girai verso Owen, ma mi accorsi che il principino dormiva ancora come un sasso. Approfittai del momento per precipitarmi in bagno e recuperare i miei indumenti, ormai asciutti. Solo una volta vestita di tutto punto mi arrischiai ad avvicinarmi al letto di Rosso Malpelo.
«Owen…», sussurrai.
Niente.
«Owen!», tuonai, a voce altissima.
Un lieve russare come risposta.
Essendo la mia (pressoché inesistente) pazienza già abbondantemente esaurita, decisi di passare alle maniere forti. Ricordando quanto era stato efficace il mattino precedente, optai per un poderoso strattone alla coperta a scopo di far ruzzolare rovinosamente la mia vittima sul pavimento. Quella parte del piano, in effetti, funzionò esattamente come ricordavo. Quello che invece non ricordavo era che Owen, la sera prima, esattamente come me era andato a dormire con addosso nient’altro che un asciugamano, il quale evidentemente doveva essersi slacciato dai suoi fianchi durante la notte. Restai a guardarlo con occhi e bocca spalancati dalla sorpresa per un istante di troppo, mentre lui, completamente nudo, si contorceva sul pavimento dal dolore.
«Aiuto… ahi! Vittoria, ma che fai?»
Non appena realizzai veramente che cosa era appena successo feci un salto all’indietro degno di uno stambecco, ma inciampai nelle coperte. Non essendo io particolarmente nota per il mio equilibrio, lo persi immediatamente e precipitai a mia volta, con la differenza che lo feci dritta addosso ad Owen.
Ci furono una decina di orribili secondi dove io, a faccia in giù col naso sprofondato nel petto di lui, metabolizzavo gli orribili dettagli della mia umiliante ultima performance, mentre Owen, da parte sua, si limitava a tenere le braccia spalancate alla “mi arrendo” e non fare assolutamente niente per migliorare la situazione.
Non appena ebbi accettato il fatto che quanto era appena successo non era solo un brutto sogno bensì la mia imbarazzante ed assurda vita, schizzai in piedi gridando come un’ossessa.
«Ah! Scusa, scusa, scusa, non l’ho fatto apposta, oh cielo, mi dispiace tantissimo!», farfugliai con un ritmo di ottocento parole al minuto, girandomi di scatto e coprendomi la faccia con le mani (in realtà, più che per non dover vedere Owen, lo feci per nascondere il colorito paonazzo che la mia carnagione aveva assunto). Lui, a dire il vero, sembrava molto più divertito che non imbarazzato.
«Vittoria, cerca di frenare i tuoi bollenti spiriti, ho capito che impazzisci per me, ma non esagerare con l’impeto!»
Stizzita come non mai, mi girai per assestargli un pugno. Pessima mossa, dal momento che il signor nudista aveva deciso che era il caso di alzarsi proprio in quel momento. Me lo ritrovai davanti, stagliato nel suo metro e novanta di altezza e – neanche a dirlo – senza assolutamente niente addosso.
«Chiudi quella maledetta boccaccia! E vai a vestirti!», gli urlai, con la voce rotta dall’esasperazione e la faccia talmente incandescente che si sarebbe potuto friggerci sopra delle uova. Mentre Owen sghignazzava ignobilmente, mi buttai a peso morto a faccia in giù sul letto, con tutta l’intenzione di lasciarmi lentamente morire dalla vergogna.
 
Lasciammo l’albergo verso le dieci, con la benedizione ed i migliori auguri di Molly O’Malley. Arrivammo in treno a Foggy Hollow verso le undici e non appena misi piede in casa fui travolta dall’ira omicida di mia madre. Credo che la presenza di Owen fu l’unica cosa a trattenerla dal farmi a pezzi e fare uno spezzatino con le mie carni.
Owen avrebbe voluto restare di più a farmi compagnia e a parlare di Toby Carmichael e Clair de Lune, ma sua nonna lo aspettava a casa e perciò dovette andarsene. Ci accordammo per vederci verso le quattro del pomeriggio per andare in biblioteca (che aveva finalmente riaperto) e poi ci salutammo, io senza il coraggio di guardarlo negli occhi, non dimentica della figuraccia di qualche ora prima.
Trascorsi un’oretta tranquilla ad oziare per casa, fino a che non fu pronto il pranzo. Mi sedetti a tavola con mamma e papà, i quali, dovevo concederlo, avevano una qualità: non erano il genere di genitori che serba rancore e tiene il muso per mesi. Quando si arrabbiavano urlavano per una decina di minuti e poi tornavano quelli di sempre. Prova ne era che, quel giorno, a tavola, erano i soliti Bob e Savannah, il che significava principalmente tre cose: irritanti, inopportuni ed impossibili.
«E’ proprio carino quell’Owen, Vittoria, dovreste proprio stare assieme! Magari la sua influenza ti renderebbe un po’ meno antipatica.»
Ci mancò poco che mi strozzassi con l’acqua che stavo bevendo. Iniziai a sbatacchiare la forchetta sul piatto facendo molto più rumore del necessario, nella speranza che mia madre cogliesse l’implicito invito a tapparsi la bocca. Naturalmente, fu inutile.
«Guarda che parlo sul serio. Non lo trovi carino?»
Tentai un altro approccio, quello del silenzio agghiacciante. Nemmeno così si decise a smetterla.
«Beh, a me piace. Va bene, ha un colore di capelli un po’ discutibile, ma degli occhi veramente fantastici. Se i vostri bambini li ereditassero sarebbero deliziosi.»
Aveva davvero detto “bambini”?! Saltai in piedi facendo un gran fracasso.
«Devo andare!»
«E dove, si può sapere?»
«A cercare di assistere ad uno spettacolo talmente traumatico da farmi dimenticare mia madre che pianifica i miei figli!», gridai col tono più tragico di cui fui capace, mentre lasciavo platealmente la stanza. Anche da fuori, la sentii che continuava imperterrita a parlare di Owen assieme a papà.
 
La biblioteca di Foggy Hollow era probabilmente uno dei posti più squallidi in cui fossi mai entrata. Miss Howpkins, una donna ossuta con degli orribili occhiali triangolari in equilibrio sul naso ed un’espressione particolarmente severa, ci guidò con estrema riluttanza nel reparto che conteneva i libri di storia locale, illustrandoci nel frattempo con voce truce le sanguinolente pene che ci attendevano nel caso avessimo rovinato o perso un libro. Io non la ascoltavo. Ero troppo impegnata a guardarmi attorno. L’impressione che dava quel posto era che a Foggy Hollow fossero tutti analfabeti. Ogni volume era ricoperto da due dita di polvere e sembrava che nessuno lo sfogliasse da un’eternità. Ciliegina sulla torta, i libri non erano ordinati secondo il classico e fidato codice Dewey, bensì secondo il personale gusto della bibliotecaria, il che era traducibile con “completamente a caso”. Ero tentata di chiedere chiarimenti facendo sfoggio del più altezzoso dei miei toni da snob californiana, ma un’occhiata alle unghie di Miss Howpkins, che somigliavano più che altro a lunghi artigli acuminati laccati di viola, mi convinse a lasciar perdere. Quando fummo arrivati nella sezione che cercavamo ci fece le ultime raccomandazioni e ci lasciò soli, presumibilmente per andare a mangiare bambini o a mescolare i libri ancora un altro po’.
«Cerca di moderare la tua espressività facciale. Persino un cieco capirebbe che questo posto ti disgusta», mi prese in giro Owen, con il suo mezzo sorriso canzonatorio. Sbuffai, insofferente.
«Non è colpa mia se questo posto sembra gestito da un daltonico che cerca di risolvere il cubo di Rubik», grugnii.
Owen rise, ma venne zittito dal sibilo serpentesco dello “shhhht!” della bibliotecaria, perfettamente udibile anche attraverso le pareti. Mi chiesi perché mai dovessimo fare silenzio, dal momento che quel posto era completamente deserto, ma preferii non arrischiarmi ad esprimere a parole le mie perplessità. Feci cenno ad Owen di abbassare la voce e lui obbedì. Per parlarmi mi si avvicinò molto, chinandosi su di me per arrivare con il viso all’altezza del mio, la qual cosa mi mise addosso una certa agitazione.
«Quindi che cosa dobbiamo cercare?», sussurrò.
Sentivo il suo respiro sul mio orecchio, i ciuffetti di capelli sfiorarmi la tempia, il suo naso che quasi toccava la mia guancia.
«Spostati», balbettai, girandomi di scatto, dal momento che avevo la paura decisamente fondata di essere impietosamente arrossita. «Cerca qualunque cosa riguardi Avary Manor, i fratelli Carmichael, pianisti malefici, insomma, tutto ciò che riguarda le cose che ci sono capitate in questi giorni. Mettiamoci al lavoro, non abbiamo tempo da perdere.»
Così iniziammo a scandagliare gli scaffali, alla minuziosa ricerca di qualunque volume con anche solo una parvenza di utilità. Racimolati libri a sufficienza ci sedevamo al tavolo ed iniziavamo a sfogliare e ricercare. Sprecai le successive due ore della mia vita leggendo resoconti sulla fondazione di Foggy Hollow, curiosità disgustose sul Wyoming e la storia del primo preside della scuola del paese (che, per tutti coloro a cui dovesse interessare, era un vecchio psicopatico zoppo che amava usare il suo bastone più che altro per sollevare le gonne alle signore e dare una sbirciatina sotto). In sintesi, neanche l’ombra di un’informazione utile. Ero sul punto di sbattere i libri sul tavolo en sventolare bandiera bianca, quando Owen ruppe il silenzio con voce vagamente preoccupata.
«Vittoria, vieni a vedere.»
Lo raggiunsi dall’altra parte del tavolo e vidi che stringeva in mano un libriccino manoscritto logoro e stropicciato, che sulla copertina recava scritto “Sebastian Avary” e nient’altro.
«L’ho trovato nascosto tra le pagine di un tomo. Secondo te è lo stesso Avary di casa tua?»
Gli presi il volume dalle mani e lo aprii lentamente, con rispetto quasi religioso. Non aveva più di una dozzina di pagine. Presi un lungo respiro ed iniziai a leggere a mezza voce.
 
«Sebastian Moris Avary (1838 – 1872) è uno dei più straordinari e talentuosi pianisti degli Stati Uniti, apprezzato soprattutto a causa della sua capacità di trasportare nella sua musica i suoi sentimenti, il suo vissuto e ciascuna delle molteplici sfaccettature della sua anima tormentata.»
Non avevo bisogno di ulteriori conferme. Il mio istinto mi assicurava che eravamo a un passo dalla meta. Annuii ad Owen, il quale mi sfiorò la mano con le sue dita lunghe e affusolate per farmi coraggio. Proseguii con la lettura.
«Nato a Cokeville, nella contea di Lincoln, Wyoming, Avary scopre ed inizia a coltivare la passione per la musica fin dalla più tenera età. A dieci anni è in grado di suonare Mozart, Bach e Beethoven come un adulto. A partire dai quattordici anni, appoggiato dai genitori, frequenta con ottimi risultati l’accademia delle belle arti di Afton, dove impara a comporre lui stesso canzoni e riceve le prime convocazioni per suonare a serate di gala, ricevimenti ed eventi di lustro.
I suoi studi vengono bruscamente stroncati dalla perdita di entrambi i genitori in un incidente ferroviario. Avary affronta una vera e propria crisi esistenziale. Abbandona la scuola e si trasferisce nel desolato paesino di Foggy Hollow, dove si da alla vita eremita e compone i suoi primi pezzi originali, soggetti a grandissimo successo soprattutto a causa del ritmo tormentato e della musica struggente, particolarmente amati al tempo.
Parenti, professori ed amici sono convinti all’unanimità che la crisi di Avary sia irreversibile, eppure, inaspettatamente, qualcosa cambia. Il pianista conosce una fanciulla chiamata Luna Reclide che sembra riaccendere i suoi istinti e dare nuovo senso alla sua vita. I due si innamorano perdutamente e la ragazza entra a far parte di tutti gli aspetti della vita di Avary. Come lui, la sua musica rinasce e vive un periodo di singolari gioia, soavità e candore. In questo lasso di tempo il pianista traduce nei suoi pezzi la felicità e l’incondizionato amore provati per Luna, arrivando all’apoteosi dell’idillio quando scrive la sua celeberrima marcia nuziale, che lui stesso suona il giorno del suo matrimonio con la giovane.
La gioia però non è destinata a durare. Al ritorno dal viaggio di nozze Luna contrae una grave malattia del sangue che si preannuncia incurabile. Avary sprofonda nella più totale disperazione. Sta vicino alla moglie e la vede ammalarsi ed indebolirsi sempre di più, mentre al contempo impiega tutte le sue energie nel tentativo di scrivere per lei una canzone. Trascorre ore ed ore seduto al pianoforte a scrivere quel pezzo che gli è inspiegabilmente ostico, dal momento che non riesce a comporre niente in grado di descrivere la sua amata in maniera degna e sufficientemente bella. Tutto questo lo rende sempre più nervoso ed irascibile, tanto che un giorno arriva a perdere le staffe con la stessa Luna e ad infuriarsi con lei, inveendole contro con parole sprezzanti. Alla ragazza ed al suo debole cuore lo spavento è fatale: muore a causa di un infarto sotto gli occhi disperati di Avary, il quale trascorre tutto quel che gli resta da vivere nella convinzione di essere stato lui ad uccidere la moglie.
Diviene ossessionato dal suo stesso componimento. Passa giornate intere al pianoforte a smussare e perfezionare il pezzo per l’amata, dimenticando di mangiare, bere e dormire. Un mese dopo la sua perdita, viene trovato morto di stenti accasciato sulla tastiera, assieme alla sua canzone per Luna, che non ha fatto in tempo a concludere.
Da qui in poi, però, iniziano ad accadere delle macabre stranezze. Tutti coloro che suonano l’incompiuta melodia muoiono a distanza di poco tempo in circostanze misteriose. Lo spartito viene dunque nascosto all’interno della casa, nella speranza che nessuno lo ritrovi mai più. Si dice che all’interno di casa Avary tutti i pianisti, durante la notte, possono ancora sentire le noti agitate della canzone di Luna echeggiare tra le pareti.»
 
Mi sedetti. Non riuscivo a respirare. Era tutto chiaro, lapalissiano, tutti i tasselli di quel puzzle infernale si incastravano alla perfezione nella mia mente. Ecco perché i miei genitori non si svegliavano mai al suono del pianoforte mentre sia io, sia Owen, sia, a suo tempo, l’intera famiglia Carmichael, lo udivamo così chiaramente. Ecco perché il fratellino di Toby era morto. Ecco perché qualcuno era riuscito ad intrufolarsi in casa mia senza che me ne accorgessi. Semplicemente perché era sempre stato dentro. Perché non era una persona in carne ed ossa, ma semplicemente uno spirito perennemente incatenato ad un ricordo, un oggetto. Ed ecco che, improvvisamente, sapevo anche di che oggetto si trattava. Alzai lo sguardo su Owen, che fino a quel momento aveva rispettato il mio silenzio. Ora sapevo che cosa dovevamo fare.
«Dobbiamo distruggere quella canzone.»
Owen scosse la testa, confuso.
«Ma non sappiamo nemmeno come si chiama!»
«Si che lo sappiamo.»
Era talmente evidente che mi chiesi come avevo potuto non capirlo subito. Owen mi guardò con occhi interrogativi.
«Clair de Lune», mormorai.
Per avere l’ennesima conferma che quel che dicevo era giusto, bastava guardare il titolo in ogni suo aspetto. Non solo “lune” era un evidente riferimento al nome della moglie di Avary, ma bastava un’osservazione attenta per accorgersi che “Clair de Lune” aveva le stesse, identiche lettere di Luna Reclide.
 
 
 
Buonasera a tutti quanti, cari lettori.
Sono molto sorpresa della costanza con cui sto effettivamente riuscendo ad aggiornare la storia. Di solito quando mi riprometto di fare una cosa così rigorosa il minuto dopo me ne sono già dimenticata. Stavolta no. Ma comunque.
Grazie a tutti voi recensori per il sostegno che mi date continuamente, è veramente una bella sensazione sapervi così affezionati a questa storia. Spero di tutto cuore che Vittoria, Owen, Foggy Hollow e compagnia bella continuino a sorprendervi fino alla fine.
Tanti cari abbracci
Nevermore

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Capitolo 7
*** Quando il gatto non c'è i topi ballano ***


Capitolo 7
Quando il gatto non c’è i topi ballano
 
Owen mi accompagnò fino a casa come sempre. Durante il tragitto non fece che esprimere ad alta voce le sue perplessità.
«Quindi la casa è infestata e a suonare il tuo piano è… lo spettro di Sebastian Avary?»
Lo squadrai da capo a piedi.
«Ti sembra il momento di fare il polemico?»
Fece una smorfia.
«E’ che non credo alle storie di fantasmi.»
«Ci sei dentro.»
Al che non ebbe niente da ridire e se ne restò zitto per tutto il resto della camminata.
Quando arrivammo a casa mia trovai mia madre che correva su e giù per le scale trascinandosi dietro un borsone e borbottando parole affannate e mio padre che cercava senza successo di annodarsi la cravatta elegante con le sue dita piccole e tozze. Sembravano entrambi travolti da una gran frenesia.
«Che state facendo?», chiesi, perplessa.
«Oh, Vittoria, scusaci se ti avvertiamo così tardi, è successo tutto molto in fretta!», gridò mia madre mentre si infilava le scarpe da sera, senza nemmeno guardami in faccia.
«Torniamo in California?!», esclamai, speranzosa.
Stavolta nemmeno la fretta dissuase mia madre dallo scoccarmi la sua famosissima occhiata di disapprovazione mista a disgusto coniata appositamente per me.
«Non essere stupida. Tuo padre ha ricevuto una chiamata urgente per una presentazione di lavoro a Riverton.»
Il famoso lavoro di mio padre che ci era costato la vita a San Francisco altro non era che il rappresentante di vini. Non avevo mai capito in cosa consistesse di preciso, sapevo solo che dove non c’era vino da degustare, lui non lavorava. Con la siccità che aveva colpito la California ultimamente, non c’era da stupirsi se i vigneti avevano iniziato a scarseggiare. Così ci eravamo dovuti trasferire in Wyoming, luogo dove, a detta delle riviste enologiche, si beveva il miglior vino d’America.
«Ma se siamo in cerca di buon vino non potremmo trasferirci in Francia?», avevo protestato a mio tempo, ovviamente senza risultati.
Tornando ai miei genitori, sembravano avere una gran fretta.
«Abbiamo il treno tra mezz’ora. Staremo via due notti, ma tanto a te non dispiace stare sola, vero?»
Io ed Owen ci guardammo, increduli davanti ad un simile colpo di fortuna. Ci stavano servendo sul piatto d’argento l’occasione per “disinfestare” la casa. Non restava che coglierla.
«Oh, no, certo, va bene. Divertitevi.»
Quell’augurio finale fu decisamente troppo azzardato, dal momento che mia madre mi squadrò come se fossi stata un alieno appena disceso da Marte.
«Ci stai davvero augurando buon divertimento? Ti ricordo che una volta hai definito il lavoro di papà più noioso ed inutile di una lezione di mimo per sordomuti.»
Sbuffai.
«Con te non si può nemmeno provare ad essere gentili!»
Mia madre roteò gli occhi.
«Come al solito tocchi vette di insopportabilità irraggiungibili per tutto il resto del genere umano. Come non detto, noi ce ne andiamo. Ciao Vittoria e ciao Owen, mio caro.»
Mi trattenni a stento dall’indignarmi per la facilità con cui Owen mi aveva sostituita nel ruolo di figlia prediletta solo perché avevo fretta di mettermi all’opera. Li osservai uscire senza commentare nessuna delle loro azioni (per quanto il vestito orribile scelto da mia madre meritasse ben più di una frecciatina innocente) fino a quando, con un saluto veloce, si chiusero la porta d’ingresso alle spalle.
Owen mi lanciò un’occhiata maliziosa.
«Allora?»
«Allora cosa?»
«Non c’è niente che vuoi chiedermi? Un favore, ad esempio?»
Intuendo dove voleva arrivare, gli risposi con un grugnito infastidito.
«Scordatelo. Sii gentiluomo, metti in pratica la tua cavalleria e offriti volontario senza che io debba muovere un dito.»
Scosse la testa ridendo.
«Voglio sentirtelo dire. Dai Vittoria, chiedimelo. Voglio sapere che suono ha un invito gentile pronunciato dalle tue labbra.»
Capii che di quel passo non ne saremmo mai usciti, così, incrociando le braccia dal fastidio, veloce come se stessi ingoiando una cucchiaiata di sale, gli chiesi esattamente quel che voleva sentirsi dire.
«Owen, potresti restare a dormire da me per questa notte?»
Face spallucce, fingendo noncuranza.
«Tanto sarei rimasto comunque. Senza di me non sopravvivresti un minuto.»
«Io me la cavo benissimo da sola!», mi stizzii, arricciando il naso.
«Certo, certo. Intanto che vaneggi io vado a preparare qualcosa per cena, dato che mi ci gioco un braccio che da sola non sei in grado neanche di bollire un wurstel. A presto, mia cara.»
E se ne andò in cucina ridacchiando tra sé e sé, mentre io, a labbra saldamente serrate pur di non dover ammettere che aveva ragione, lo osservavo ribollendo di rabbia.
 
«Ma dove hai imparato a cucinare la pasta?»
Seduti al tavolo della cucina, uno di fronte all’altra, mangiavamo il capolavoro culinario di Owen, io con particolare foga e avidità. Lui per lo più mi guardava, sorridendo ed arrotolando distrattamente gli spaghetti attorno alla forchetta.
«Dove diamine hai imparato a cucinare?»
«Crescere con una nonna offre questo genere di vantaggi.»
Annuii, mentre continuavo ad ingozzarmi. Detestavo dovergli dare la soddisfazione di riconoscergli che era un bravo cuoco, ma non avevo mangiato una pasta così buona neanche quando ero stata in vacanza in Italia, il che, per quanto mi costasse ammetterlo, era degno di nota.
Finita la cena lo costrinsi ed alzarsi in fretta e furia, senza nemmeno sparecchiare.
«Cosa vuoi fare, trascinarmi in camera tua come hai fatto la sera di Natale?»
Gli conficcai le unghie in un braccio con tutta l’intenzione di fargli il più male possibile.
«Non ti ho trascinato in camera mia! Stavo solo cercando di salvarti da mia madre!», mi difesi, arrossendo.
«Certo, Vittoria, certo. Come vuoi tu», mi disse, condiscendente, guadagnandosi un calcio sullo stinco.
«Smettila immediatamente e concentrati su quello che dobbiamo fare. Se non troviamo lo spartito di Clair de lune entro notte non so cosa faremo.»
Owen annuì.
«Hai idea di dove possa essere?»
Riflettei per qualche secondo.
«Sicuramente non nel nascondiglio originale, dal momento che evidentemente il fratello di Toby lo ha suonato. Dev’essere dove lo ha lasciato lui prima di scappare da Avary Manor.»
«Ricapitolando, non ne hai idea.»
In quei momenti sentivo che avrei potuto ucciderlo.
«Chiudi il becco e dividiamoci. Io cerco di sopra, tu al pianterreno.»
Passammo l’intera serata a scandagliare ogni scafandro della casa, costantemente disturbati dal gatto, che amava scegliere i momenti di disordine per degnarci della sua compagnia. Quella sera il suo passatempo divenne rotolarmi tra le gambe nei momenti in cui il mio equilibrio era precario, ottenendo il risultato di farmi ruzzolare a terra un’infinità di volte, con sommo divertimento da parte di Owen. Imprevisti a parte, arrivammo a mezzanotte che avevamo trovato uno yo-yo che si illuminava, un pettine incastonato di perle, una lettera che aveva tutta l’aria di essere stata scritta da Winston Churchill in persona ed anche il cadavere di un topo, ma neanche l’ombra di uno spartito.
Stanca e frustrata, mi lasciai cadere accanto ad Owen sul divano del soggiorno.
«Dove accidenti è quello spartito?»
«Magari lo hanno portato via, o distrutto, o magari non è nemmeno la cosa giusta da cercare…»
Non sembrava particolarmente preoccupato e capii che l’idea del fantasma non lo convinceva ancora. Eppure io, da parte mia, ero assolutamente sicura di essere sulla pista giusta. Volevo replicare, ma le parole mi morirono in gola. Scoraggiata, mi misi a guardare distrattamente il gatto, che ora si trascinava pigramente in sala, ammiccando con il suo unico occhio giallo. Lo osservai mentre arrancava verso il pianoforte ed iniziava a soffiare furiosamente in sua direzione.
«Che sta facendo?», chiese Owen, incuriosito.
Feci spallucce.
«Fa così fin dal primo giorno. Magari il suo sesto senso felino capta la malvagità pura.»
Owen mi scoccò uno sguardo supplichevole.
«Vittoria, sei sconvolta. Andiamo a dormire, cercheremo quello spartito domani.»
«Non voglio passare un’altra notte in mezzo a questa maledizione!», esclamai. Stavo cominciando ad agitarmi e, soprattutto, ad avere paura. Owen cercò di tranquillizzarmi.
«Stai tranquilla, vedrai che non succederà niente! Se vuoi posso dormire con te questa notte. Così sarai più calma. Ed ora non ti preoccupare. Non sei da sola.»
Si alzò dal divano e mi fece cenno di seguirlo al piano di sopra. Gli andai dietro come un piccolo cucciolo spaventato, incapace anche solo di formulare una frase decente.
 
Quella sera accettai di andare a dormire direttamente nello stesso letto di Owen, a condizione che venisse eretto il consono monte di cuscini e che indossasse una maglietta. Sorda a tutte le sue lamentele («ma mi sembra di essere un malato di peste con questa barriera!», «ma ho caldo a dormire con la maglietta!» ed altre simili quisquilie), mi preparai psicologicamente alla notte insonne che mi aspettava. Infatti, un attimo dopo esserci augurati la buonanotte, Owen si addormentò come un sasso (come facesse a prendere sonno in circostanze simili per me restava un mistero), mentre io restai sveglia, ad occhi sgranati ed orecchie tese. Dovetti attendere più di un’ora, ma finalmente, verso le due, il dolce inizio di Clair de Lune iniziò a risuonare tra le pareti di Avary Manor. Diedi un colpetto al braccio di Owen e lui aprì gli occhi, ancora assonnato.
«E’ cominciata!»
Per qualche minuto restammo immobili, oppressi e pietrificati dalla straordinaria completezza della musica di Sebastian. Poi però, inaspettatamente, Owen saltò in piedi di scatto.
«Che stai facendo?!», sibilai.
«Vittoria, dobbiamo andare a controllare!»
«Sei matto?!», risposi, in preda al panico, cercando di non lasciar trapelare l’isteria dalla mia voce. «Ne abbiamo già parlato! Ti sei dimenticato del coltello? Owen, potrebbe ucciderci!»
Lui scosse la testa con decisione.
«Dobbiamo verificare che i nostri sospetti siano fondati! Tu non avrai bisogno di prove per convincerti di essere tormentata da un pianista fantasma, ma io si. Quindi vado a controllare!», e uscì dalla stanza in punta di piedi.
In preda al panico, non mi restò altro da fare se non seguirlo. Sgattaiolai fuori a mia volta, correndogli dietro giù per le scale della torre.
«Owen, fermati!»
Si girò e senza tante cerimonie mi prese le mani. Essendo io qualche gradino più in alto di lui, i nostri visi erano esattamente alla stessa altezza. Guardò per un attimo i miei occhi traboccanti di panico e poi mi si avvicinò di scatto, fino a sfiorare il mio naso con il suo.
«Stai. Tranquilla.», mi sussurrò, scandendo bene le parole. Poi mi lasciò le mani e sparì al piano inferiore.
Avary Manor era una di quelle ville antiche, con due scalinate che partono dalle estremità del salone per poi incontrarsi al piano superiore, formando una sorta di balcone interno. Affacciandosi alla ringhiera del primo piano era quindi possibile avere una visuale su tutto il salone.
Fu solo quando mi affacciai accanto ad un Owen senza fiato che non ci furono più dubbi. Nel soggiorno rischiarato dalla luce della luna, il pianoforte era perfettamente visibile. Altrettanto visibile era che seduto sullo sgabello non c’era assolutamente nessuno, eppure i tasti d’avorio si muovevano su e giù da soli, spinti da una forza invisibile, diffondendo Clair de Lune nell’intera stanza. Ma la cosa più visibile in assoluto era il luccichio sinistro della lama della mannaia, che, senza che nessuno la stesse tenendo in mano, galleggiava solitaria davanti al pianoforte, volteggiando a ritmo di musica in un’agghiacciante danza della morte.
Io ed Owen ci risvegliammo dallo stupore e balzammo indietro quasi nello stesso istante. Risalimmo le scale in un battibaleno, tornammo in camera, ci chiudemmo la porta alle spalle a doppia mandata e ci rintanammo assieme sotto le coperte, accomunati dal desiderio di scomparire. Mi resi conto che stavo tremando e che ero sul punto di piangere. Owen buttò da una parte i cuscini e mi strinse tra le sue braccia forti e calde ed io non mossi un dito per protestare. Lo lasciai fare, mi abbandonai completamente a quell’abbraccio rassicurante, nell’assurda speranza che il corpo di Owen potesse davvero proteggermi dai mali del mondo.
«Scusa se non ti ho creduto subito. Avevi ragione tu. Scusami», mormorò, accarezzandomi i capelli, senza riuscire a nascondere una nota spaventata nella sua voce. Annuii per fargli capire che accettavo le sue scuse, ma lui non mi lasciò andare. Continuò a confortarmi con la sua vicinanza per tutta la notte, fino a quando, esausti ed esasperati dall’inarrestabile musica, ci addormentammo.
 
Quando, il mattino dopo, mi svegliai, ero confusa e frastornata. La radiosveglia sul comodino indicava mezzogiorno ed ero in una stanza che non era la mia. Comunque fosse, avevo ancora sonno, così con uno sbadiglio mi girai sull’altro fianco, decisa a rimettermi a dormire. E’ indescrivibile il mio spavento quando mi ritrovai faccia a faccia con Owen, sorridente, dallo sguardo vispo e perfettamente sveglio.
«Owen, ma sei impazzito?!»
Con la stessa velocità di un treno in corsa i ricordi della notte precedente piombarono nella mia testa. In un attimo rammentai la musica, le scale, il pianoforte fantasma, il coltello, Owen che mi abbracciava per farmi stare tranquilla… con mia somma sorpresa notai solo in quel momento che il suo braccio era ancora delicatamente avvolto attorno alla mia vita, la sua mano aperta sulla mia schiena ed i nostri corpi vicinissimi.
«Cosa c’è di divertente nel guardarmi mentre dormo?»
Ridacchiò.
«Quando sei nel mondo dei sogni sembri una creaturina indifesa, dolce e delicata. Certo, quest’immagine di te sfuma non appena apri bocca, ma mentre dormi è piuttosto realistica.»
Stizzita, lo spinsi via e mi alzai dal letto, lisciandomi la camicia da notte sulla pancia. Lui si finse esasperato e buttò all’indietro la testa, sghignazzando.
«Muoviti ad alzarti», gli intimai. «Oggi dobbiamo assolutamente trovare quel maledetto spartito. Questa storia deve finire.»
 
 
 
 
Buongiorno a tutti!
Mi scuso per i due giorni di ritardo nell’aggiornamento, ma mercoledì sera sono stata impegnatissima a studiare sette milioni di pagine di letteratura francese (mai sentito parlare di Descartes e Corneille? Mi auguro di no) e dunque non ho potuto rispettare la scadenza. Effettivamente avrei potuto pubblicare giovedì, ma suvvia, c’era x-factor alla televisione e i The Wise hanno cantato una versione di Fat Bottomed Girls dei miei amati Queen (in caso non li ascoltaste, sappiate che state scialacquando le vostre inutili esistenze) talmente splendida che sono stata in iperventilazione per qualche ora, cosa che mi ha impedito di metter mano al computer. Tutta questa manfrina per scusarmi sentitamente per non essermi data una mossa. Mi spiace, cari.
Scusatemi per l’eventuale presenza di errorini ortografici o di battitura, non ho avuto il tempo materiale per revisionare adeguatamente (ops). Scusatemi anche se è un capitolo di transizione un po’ inutile. Si insomma oggi abbiamo capito che non è giornata, cercate di non lapidarmi.
Come sempre grazie di cuore a chi mi segue e recensisce, siete super super fantastici e mi migliorate le giornate. Milioni di abbracci,
Nevermore.

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Capitolo 8
*** Incompiuta ***


Capitolo 8
Incompiuta
 
Passammo un’altra inutile giornata a frugare ogni angolo della casa, processo durante il quale mi impegnai ad evitare Owen il più possibile, dal momento che i ricordi della notte precedente mi lasciavano una strana sensazione addosso. Non che fosse successo nulla di scandaloso, ma lasciarsi proteggere e cullare in quel modo normalmente non era affatto una cosa da me. Non riuscivo a capire cosa mi fosse preso, fatto sta che mi sentivo in imbarazzo alla sola idea di guardarlo in faccia. Lui, dal canto suo, sembrava altrettanto restio a passare del tempo insieme a me in allegria, quindi finimmo per non rivolgerci quasi la parola per l’intera giornata. Quando però, allo scoccare della mezzanotte, ci ritrovammo daccapo (vedi: seduti sul divano, col morale sotto ai tacchi e con niente di fatto), parlarsi divenne inevitabile, sia pur senza guardarci negli occhi.
«Non è da nessuna parte. Lo abbiamo cercato in ogni angolo. Semplicemente, non è qui.»
«Forse i Carmichael se lo sono portato via.»
«Forse, anche se non vedo perché avrebbero dovuto portare con sé un simile conduttore di disgrazie.»
Calò nuovamente il silenzio, interrotto solo dal ronfare del gatto, che si stava accuratamente dedicando al suo rotolamento serale lungo il perimetro della sala. Una volta imbattutosi nel pianoforte si dedicò al suo solito arsenale di sbuffi e grugniti in direzione dello strumento.
Fu allora che capii.
Il mio gatto non era un sensitivo che percepiva malefici o vedeva fantasmi.
«E’ un randagio», mi aveva spiegato mamma, quando avevo chiesto informazioni su come ce lo fossimo procurato. «L’ho trovato che gironzolava da solo nel giardino di casa.»
Era sempre stato ad Avary Manor. Anche quando ci abitavano i suoi occupanti precedenti. No, il mio gatto non aveva un sesto senso felino ipersviluppato, ma stava cercando di darmi un messaggio.
Schizzai in piedi.
«Owen, so dov’è quello spartito.»
Tutto quadrava, era l’unica soluzione plausibile. La famiglia Carmichael lo aveva nascosto dove pensava che nessuno lo sarebbe mai andato a cercare, nel luogo più oscuro ed inquietante della casa. Incredibile come quel nascondiglio fosse anche il più tristemente appropriato.
«E’ nel pianoforte.»
Saltò in piedi a sua volta, come se la logica innescatasi nel suo cervello gli avesse dato la scossa.
«Il tuo gatto ha visto i Carmichael mentre lo nascondevano! Sta cercando di indicarci la pista da seguire! Vittoria, quest’animale è un genio!»
Annuii, sbrigativa, seppur lieta che anche lui ci fosse arrivato.
«Presto, andiamo, aiutami a sollevare il coperchio.»
Il pesante legno che copriva le corde del pianoforte a coda fu difficile da smuovere. Quando finalmente io ed Owen riuscimmo a sollevarlo, affannati dalla fatica, ci sporgemmo ad osservare l’interno dello strumento, riempito di quei marchingegni semplici eppure così perfetti.
Posato sulle corde, con il titolo bene in vista, quasi volesse osservarci con fare accusatorio, c’era lo spartito di Clair de Lune.
 
Io ed Owen rimanemmo immobili per una manciata di secondi, come pietrificati dall’importanza della nostra scoperta. Per un po’, nessuno osò parlare.
«Basterà strapparlo?», chiese Owen infine, con un filo di voce, rompendo il silenzio.
Riflettei. Avevo letto un sacco di cianfrusaglie su come i fantasmi si aggrappino ad un oggetto terreno senza via di fuga, ed altrettante su come rimandarli nell’aldilà.
«No», decisi infine. «Bisogna bruciarlo. Vado a prendere l’accendino in cucina. Tu intanto prendi quello spartito.»
Feci per avviarmi verso la stanza accanto, ma improvvisamente ed inaspettatamente qualcosa mi interruppe.
Tutte le luci si spensero di colpo, lasciando solo il bagliore della luna a rischiarare la casa, conferendole un’illuminazione spettrale, da incubo. Tutte le finestre si spalancarono ed un vento fortissimo, gelido e certamente non proveniente da qualche entità terrena iniziò a soffiare. Infine, quel che è peggio, note rabbiose e suonate con furore omicida iniziarono a diffondersi tutt’attorno a me in modo assordante. Il soprannaturale si stava manifestando proprio lì, davanti ai miei occhi, ed io mi sentivo come se mi si fosse congelato il cuore in petto dalla paura.
«Owen, che succede?!», gridai, in preda al panico, a voce altissima per sovrastare la musica infernale e girandomi di scatto. Lui non rispose, ma notai che in mano stringeva lo spartito e lo guardava con occhi sgranati: smuovendo la sua reliquia, avevamo definitivamente risvegliato il fantasma.
«Corri, Vittoria! Fa presto!»
Mi precipitai in cucina accompagnata da quel boato che mi spaccava i timpani. Le mani mi tremavano talmente tanto che riuscivo a malapena a frugare nei cassetti. Quando finalmente trovai l’accendino tornai di corsa dal pianoforte e da Owen, col vento freddo che mi sferzava la faccia come un terrificante presagio di morte. Lo spettro di Sebastian Avary viveva attorno a noi. Riuscivo a percepirlo, a sentire sulla mia pelle la sua rabbia mentre quelle note piene d’odio suonavano da sole sui tasti d’avorio.
«Passami lo spartito!», gridai.
Owen obbedì e mi allungò il foglio di carta pentagrammata. Non potei fare a meno di notare che anche lui stava tremando. Ricevuta la canzone, innescai la fiammella del mio accendino, facendole scudo con il corpo perché il vento non la spegnesse. Era arrivato il momento. Di lì a poco non sarebbe rimasta che cenere e lo spettro di Sebastian sarebbe stato finalmente libero, svincolato per sempre dalla sua prigione terrena. Non appena avvicinai la carta al fuoco però la musica crebbe d’intensità, di rabbia, di odio. Nel panico più totale, capii che era il modo di Sebastian per dirmi che stavo sbagliando. Lanciai ad Owen uno sguardo scoraggiato, per poi tornare ad implorare lo spartito con gli occhi, con la folle speranza che potesse in qualche modo darmi le risposte che cercavo. Che cosa dovevo fare? Dove avevo sbagliato? Qual era il vero modo per disinfestare la mia casa?
Lo sguardo mi scivolò sul finale. Note rabbiose ed una brusca interruzione. Le parole del libro della biblioteca si illuminarono come luci al neon nella mia testa.
«Diventa ossessionato dal suo stesso componimento… viene trovato morto di stenti assieme alla sua canzone per Luna, che non ha fatto in tempo a concludere…»
«Incompiuta…», mormorai tra me e me.
L’unico scopo di quella canzone era rendere omaggio a Luna, la bellissima e soavissima amata di Sebastian. Come poteva essere all’altezza del compito una melodia senza finale?
Lasciai cadere l’accendino.
«Owen!», gridai, con una nuova risolutezza nella mia voce. «Lui non vuole che distruggiamo la sua canzone, lui vuole che la finiamo! Tu sai comporre! Devi scrivere il finale di Clair de Lune!»
Nonostante il vento, il panico, la situazione infernale e la musica cacofonica suonata da invisibili mani, vidi il suo volto illuminarsi. A quel punto, mentre mi si avvicinava per iniziare a lavorare sullo spartito, credetti davvero di essere ad un passo dalla fine.
Accadde in un attimo. Quando lo vidi arrivare era già troppo tardi. Urlai  e protrassi le mani in avanti, ma non potei nulla contro il letale coltello d’acciaio, che, dopo essere stato sguainato alle spalle di Owen da una forza impalpabile, si abbatté su di lui, conficcandosi in profondità nella sua schiena. La sua espressione mutò immediatamente in una smorfia di cupa, amara sorpresa.
Immobilizzata dall’orrore, rimasi a guardare mentre, dopo un lieve barcollio, cadeva faccia in giù sul pavimento, mentre rivoli di sangue sgorgavano sul tappeto dal punto dove era stato trafitto.
«Owen!», gridai, precipitandomi su di lui, mentre il pianoforte infuriava accanto a me. Ma come avevo potuto dimenticarmi della mannaia?! Gliela estrassi dalla schiena imbrattandomi mani e vestiti di sangue che odorava di ruggine e lo girai sulla schiena, un po’ per cercare di rassicurarlo, un po’ per non vedere quella brutta ferita che, lo sapevo, lo stava uccidendo.
«Owen», mormorai, prendendogli il viso tra le mani e sporcandolo con il suo stesso sangue e le mie lacrime, che, mi accorsi in quel momento, scivolavano lente lungo il mio viso, incessanti e silenziose. Lui mi guardò e fui sicura che al mondo non esistesse nulla di più triste dei suoi occhi azzurri confusi e stralunati dal dolore.
«Vittoria…»
Con enorme fatica mi posò a sua volta una mano sulla guancia, bagnandosi le dita di lacrime salate.
«Scappa», esalò. «Va’ via. Salvati. E’ troppo potente anche per te, e si sa che sei sempre stata la più forte tra noi due.»
Mi sorrise con quello che doveva essere uno sforzo immane.
«Va’ via», ripeté, e chiuse gli occhi.
La Vittoria californiana se la sarebbe data a gambe senza pensarci un attimo. Ma io non ero più quella ragazza. Ero diventata molto di più, e in quel momento seppi che piuttosto che arrendermi sarei morta, per quanto quella maledetta situazione mi atterrisse. Recuperai il coltello, lo spartito e una matita. Eravamo una ragazza e una mannaia contro un furioso spettro invisibile e mai come allora era stato importante vincere.
Mi sedetti al pianoforte impugnando il mio materiale di cancelleria ed in tutta risposta la musica sembrò, nella sua furia, farsi più incoraggiante, condiscendente. Sebastian mi stava dicendo che stavolta ci avevo visto giusto.
Rivolsi a quelle note scritte a mano più di cent’anni prima uno sguardo carico di panico. Io non sapevo comporre. Riuscivo a malapena a strimpellare. Avevo sempre avuto un certo orecchio però, eppure per quella canzone non sembrava esistere nessuna combinazione di note adatta a proseguirla. Sembrava semplicemente impossibile.
Frustrata, lessi attentamente le note di quella melodia che non riuscivo a capire. Prima soavi e leggere, venivano lentamente avariate da un’angoscia di accordi minori che sfociavano in una lunga tristezza di tragici arpeggi. Poi la rabbia, infine l’interruzione. Di solito la musica mi parlava, ma non quella canzone. Realizzai che fino a che non l’avessi capita, nemmeno con tutto il talento del mondo avrei potuto scriverne il finale. Premetti a casaccio le dita sui tasti, che mi restituirono un suono stonato, inacidito quanto il mio stato d’animo. Cercai disperatamente di riflettere, anche se la musica violenta ed astiosa attorno a me mi suggeriva che non ne avevo né il tempo né la possibilità.
Clair de Lune. Una canzone per celebrare l’amata. Una donna meravigliosa, un amore infinito. Speranza, felicità, angoscia, tristezza rabbia e… incompiuta. Incompiuta. Incompiuta…
Fu un lampo. Un’illuminazione improvvisa. La musica che, finalmente, riusciva a svelarsi alle mie orecchie. Sapevo qual era la cosa giusta da fare, ne ero assolutamente sicura. Lasciai cadere la matita e mi alzai in piedi, accarezzando il pianoforte. Guardai il corpo immobile di Owen e venni scossa da un singhiozzo, ma sapevo che non era il momento. Ora dovevo portare a termine un altro compito.
«Sebastian!», gridai al vento che mi gelava il sangue nelle vene, alla musica assordante ed alla presenza che avvertivo tutt’intorno a me. Volevo essere sicura di rivolgermi proprio a lui, volevo che mi ascoltasse e che, finalmente, capisse.
Una melodia che suggeriva attesa mi diede la conferma che lo spettro era in ascolto. Presi fiato e sperai che non mi tremasse la voce.
«Sebastian, io non posso finire la tua canzone.»
Ora il pianista era arrabbiato, premeva i tasti con foga e sete di vendetta, ma non lasciai che mi interrompesse.
«Non posso, perché tu non ti rendi conto che la tua canzone è già finita.»
Le note rabbiose si fecero interrogative. Mentre una lacrima silenziosa e salata mi scivolava in bocca, mi accinsi a spiegare a quel pianista tormentato e maledetto quello che ci avevo messo giorni a capire, ma lui, temevo, non aveva mai neanche minimamente sospettato.
«Mentre componevi Clair de Lune per celebrare Luna non ti accorgevi che in realtà non stavi descrivendo lei, ma la sua vita, o meglio, la vostra vita insieme. La soavità dell’introduzione è la gioia di quando la conoscesti, l’amore meraviglioso ed incondizionato che fu in grado di trasmetterti. Poi c’è la parte ansiosa di quando scoprì di essere malata, la paura di morire seguita dalla tristezza del periodo in cui era certa che sarebbe successo. Poi improvvisamente c’è la rabbia, la rabbia che sfogasti nei suoi confronti, ed infine basta, più niente, un’interruzione, e questa è la morte. La morte di Luna è la morte della musica, inaspettata, irreversibile. Tu desideri un degno finale per la sua canzone, ma la verità è che la vita di Luna non ha avuto un degno finale. Si è spezzata a metà, è rimasta incompleta. Incompiuta.»
Abbassai ancora lo sguardo su Owen ed il semplice fatto di vederlo mi diede, per l’ennesima volta, la forza di continuare.
«Devi lasciarla andare,», mormorai rivolta alla musica, che ora era stata dilaniata da note struggenti ed addolorate come non ne avevo mai sentite. «E’ morta, ma tu non sei obbligato a restare incatenato al suo ricordo. Sai, tu la puoi raggiungere. Nell’aldilà esiste un mondo perfetto dove chi si ama può stare insieme per sempre, dove non esistono finali infausti, dove l’amore non fa mai male, dove ci si alimenta di gioia, si vive per sempre, la morte non è che un ricordo lontano. Esiste un mondo dove tu e Luna siete l’eternità, e non ci sarà nessuna disgrazia, nessun dolore ad interrompervi.  Lascia andare questa canzone e va da lei, Sebastian.»
In quel momento le note disperate e frenetiche della musica si alzarono esponenzialmente, così come il vento, che divenne talmente forte da farmi cadere bocconi sul pavimento. Mi rannicchiai su me stessa coprendomi la testa con le braccia, pronta al peggio. In tutto quel marasma mi sembrò che la stanza tutt’attorno a me iniziasse a ruotare vorticosamente. Alla musica si aggiunsero delle voci confuse di un uomo e di una donna, inizialmente grida, ma che poi, fiorendo assieme alle note, si trasformavano in risate. Persi completamente il senso della gravità, del basso e dell’alto, della destra e della sinistra. Stavo vivendo solo ed esclusivamente di quella melodia, che, dopo aver raggiunto una vera e propria apoteosi, con una serie di accordi gloriosi si interruppe. La stanza smise di girare, il vento di soffiare, mi ritrovai accucciata per terra avvolta da un fragoroso silenzio. Sebastian Avary se n’era andato. Quando mi arrischiai ad aprire gli occhi mi accorsi che, a pochi centimetri dal mio viso, abbandonato sul pavimento, c’era lo spartito di Clair de Lune. Fui sicura che tutto era davvero finito quando mi accorsi che sotto al titolo, con una svolazzante calligrafia ottocentesca, era stata aggiunta una parola.
«Incompiuta».
 
 
 
Buonasera miei cari. Mi scuso per il ritardo (di nuovo. Sapevo che la mia affidabilità non sarebbe durata più di tanto), ma la mia stupidissima scuola mi sta strangolando e allo stesso tempo la mia vita sociale mi sta complicando l’esistenza. Pensare che io non chiedo altro che cinque minuti di pace. Che disastro.
Come al solito mi riconfermo incapace nello scrivere saluti decenti alla fine dei capitoli. Non posso fare altro se non ringraziarvi di tutto cuore per il sostegno e incoraggiarvi a recensire, sempre che vi vada. Insomma. Avete tutti capito di cosa sto parlando. No?
Per dare un po’ di spessore a questo trafiletto allieto la vostra vita con un’inutile curiosità: il titolo di questo capitolo (“incompiuta”) è il titolo che originariamente pensavo di dare alla storia. In realtà non so di preciso perché ho cambiato idea. Vi sarebbe piaciuto di più?
Abbracci stritolanti e Fruttoli omaggio per tutti,
Nevermore

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Capitolo 9
*** Le carte in tavola ***


Capitolo 9
Le carte in tavola
 
Mi alzai da terra, barcollando e stringendo in mano il foglio. Sembrava essere tornato tutto normale. Sebastian Avary aveva lasciato la sua casa per sempre. Mi guardai le mani e mi stupii nel vederle pulite, senza traccia di sangue. Anche il pavimento era immacolato e mi accorsi che la ferita sul corpo esanime di Owen era scomparsa. Caracollai fino a lui, con le gambe che a malapena mi reggevano in piedi. Non dava segno di essere ferito, come se il fantasma, andandosene, si fosse portato via anche tutto il dolore che aveva procurato. Eppure era immobile, gli occhi chiusi, la bocca semiaperta dalla sorpresa della morte, il torace immobile animato da nessun respiro. Lo avevo perso. Era tutta colpa mia. Lo avevo trascinato in quella situazione impossibile e lui, pur di proteggermi, era rimasto ucciso, senza che io potessi fare niente per cambiare le carte in tavola.
O forse no?
Cercai di riflettere. Riflettei su Sebastian, su come aveva punito con la morte tutti coloro che avevano suonato la sua canzone senza saperla concludere. Teoricamente, io avevo finito Clair de Lune, eppure non l’avevo mai suonata. Non avevo mai creduto né nelle magie né nei miracoli, ma era anche vero che di solito ero piuttosto scettica anche nei confronti dei fantasmi, ed invece avevo appena ricevuto la prova tangibile del fatto che il sovrannaturale esisteva.  A quel punto non mi restava che tentare il tutto e per tutto. Mi stropicciai gli occhi impiastricciandomi tutte le dita di trucco colato, mi alzai ed andai al pianoforte, munita dell’incompiuta melodia di Sebastian Avary. Deglutii nel vedere la complessità di quelle note, tuttavia, decisa, posai le dita sulla tastiera ed iniziai, per la prima volta da quando vivevo a Foggy Hollow, da quando conoscevo Owen, da quando ero diventata una nuova Vittoria, a suonare.
Clair de Lune si diffuse nella stanza e solo in quel momento, suonata dalle mie mani, fui davvero in grado di estrapolarne il significato completo, o almeno, ciò che significava per me. La speranza: Sebastian che conosceva Luna, io che conoscevo Owen. L’angoscia: la paura della malattia contro la presa di consapevolezza di vivere in una casa infestata. La tristezza straziante che rappresentava per lui l’aggravarsi delle condizioni di Luna, per me la disperazione nel vedere Owen giacere in una pozza del suo sangue. Infine, il senso di colpa e la rabbia che ci accomunavano e poi l’interruzione, la morte, incompiuta. Sperai di tutto cuore che la vita di Owen non fosse destinata a rimanere anch’essa così tristemente incompiuta.
Mi alzai dal pianoforte e mi precipitai sul suo corpo, in attesa che qualcosa, qualunque cosa, succedesse, che qualche avvenimento eclatante ribaltasse la situazione.
Non accadde nulla e capii che mi ero illusa, che non aveva funzionato. Non c’era nulla che potesse portarlo indietro dal regno dei morti, ed io dovevo farmene una ragione.
Scoppiai a piangere di nuovo ed affondai il viso sul suo petto, ancora caldo sotto la maglietta, aggrappandomi forte ai suoi vestiti, come per non lasciarlo andare. Restai in quella posizione per ore, o forse fu solo un minuto. Fatto sta che, ad un certo punto, mi parve di sentire un mugolio.
«Owen?», chiesi, speranzosa.
Nessuna risposta, il suo corpo restava immobile. Credetti di essermelo immaginato, quando sentii un altro rantolo, questa volta molto più udibile e decisamente reale.
«Owen?!», gridai, a voce più alta.
«V… Vittoria?», biascicò lui, issandosi sui gomiti e socchiudendo gli occhi azzurri.
Non resistetti un secondo di più. Mi lanciai gettai letteralmente addosso a lui, buttandogli e braccia al collo ed incastrando il viso nell’incavo della sua spalla. Rotolammo entrambi sul tappeto in un disordinato abbraccio.
«Sei sempre la solita irruenta, Vittoria. Capisco di essere irresistibile, ma tu dovresti decisamente cercare di darti un contegno», scherzò lui, al suo solito, stringendomi a sua volta tra le sue braccia forti e protettive. Questa volta, per la prima volta, non mi venne né da stizzirmi, né da spingerlo via. Mi limitai a ridere con le lacrime agli occhi.
«Sei stata bravissima, Vittoria. Hai risolto tutto da sola, ci hai salvati entrambi», mormorò, e dalla sua voce si capiva che era emozionato almeno quanto me.
Ce l’avevamo fatta. Avevamo sconfitto il fantasma di Avary Manor.
 
Il giorno dopo volli andare al cimitero. Speravo di trovare la tomba di Sebastian, dove avevo deciso di lasciargli lo spartito di Clair de Lune. Inizialmente avevo pensato di tenerlo, ma poi mi ero resa conto che non sarebbe stato giusto. Era meglio così, meglio non correre il rischio che finisse nelle mani sbagliate. Era destinato all’eterno riposo assieme al suo proprietario.
Owen accettò di accompagnarmi e così, durante quella pallida mattinata di fine dicembre, ci recammo assieme tra le cripte di Foggy Hollow.
Mi erano sempre piaciuti i cimiteri. Le lapidi coperte di fiori, le fotografie sorridenti che si vedevano sugli epitaffi, le statue di angeli ad ali spiegate che sembravano davvero lì lì per spiccare il volo, erano tutti elementi che non riuscivano a farmeli associare a tetri posti di morte. Li vedevo più come luoghi di riposo, di tranquillità, di ricordo sereno di come persone avevano vissuto vite intense e gioiose per poi, un giorno, chiudere gli occhi e andarsene in pace.
Ci districammo tra le stradine di ghiaia in silenzio, accompagnati soltanto dallo scricchiolio dei nostri passi. Se volevamo trovare Sebastian, dovevamo raggiungere l’ala più antica del cimitero. Lì le tombe più sfarzose venivano gradualmente sostituite da sepolcri piccoli e semplici, le immense croci in pietra da strutture più modeste in legno intagliato. Il loculo di Sebastian era in un angolo, ornato da un mazzo di pratoline un po’ appassite. Sorridendomi, Owen andò a posare sulla pietra la composizione di gigli che avevamo portato. Io stringevo in mano lo spartito. Mi soffermai per qualche istante ad osservare la fotografia in bianco e nero affissa sotto il nome inciso nel granito. Raffigurava un ragazzo bello, giovane, innamorato, dagli occhi scuri accesi di gioia e vivacità.
Owen si allontanò di qualche passo per lasciarmi sola a cospetto di quel che restava del grande pianista. Mi inginocchiai, piegai la sua canzone in quattro e feci scivolare il foglio nella fessura tra la lapide e la lastra di marmo che copriva la bara. Ora quel capolavoro era riunito al suo proprietario. Sentii di aver fatto la cosa giusta. Una folata di vento particolarmente tiepido per quella stagione mi carezzò una guancia. Immaginai che fosse il modo di Sebastian di ringraziarmi.
«Grazie a te, Sebastian.»
 
 
 
Buongiorno!
Per l’ennesima volta perdonatemi l’atroce ritardo. Suvvia, cercate di capire, prima c’è stato Halloween, poi il sacrosanto sabato sera, sono stata troppo impegnata a rovinare il mio fegato e la mia reputazione per aggiornare. Non che ci sia da stare allegri. Ma comunque.
Come avrete intuito, la storia volge al termine ed io sono veramente triste, perché mi sono parecchio affezionata a Vittoria, ad Owen, a Sebastian e soprattutto a tutti voi lettori. Ma così è la vita. Storie che finiscono e storie che cominciano.
Volevo usare questo trafiletto per dirvi una cosa a cui tengo molto in proposito di questa storia. Probabilmente avrete notato che non compare nessuna descrizione fisica di Vittoria. Volevo che sapeste che non è una distrazione, ma semplicemente un modo per far si che il lettore si immedesimi in lei il più possibile e si senta un po’ il protagonista della storia. Per voi ha funzionato? Vi siete sentite un po’ Vittoria?
Il mio affetto più sincero,
Nevermore

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Capitolo 10
*** Comincia un anno e finisce una storia ***


Capitolo 10
Comincia un anno e finisce una storia
 
Venne capodanno ed i miei genitori ebbero l’eccellente idea di andarsene ad un ricevimento (mia madre usò esattamente questo termine pomposo che faceva pensare ad un invito a palazzo) da vecchi amici di Afton, lasciandomi la casa tutta per me. Avendo carta bianca, decisi di sbizzarrirmi ed organizzare una festa a mia volta. Invitai tutti, Lucy, Kimberly ed il suo fidanzato (mi feci l’appunto mentale di suggerirle che, con i denti storti che si ritrovava, avrebbe fatto meglio a lasciarlo), Toad e la sua insopportabile sorellina dodicenne, Maxwell e due compagni della sua squadra di basket, due energumeni bontemponi proprio come lui. E infine, ovviamente, Owen. Dalla visita al cimitero non ci eravamo visti molto e, dovevo ammetterlo, avevo una gran voglia di passare del tempo con lui. E poi, beh, per quanto questo fosse decisamente meno lusinghiero da confessare, avevo assolutamente bisogno di qualcuno che preparasse la cena. Con le mie doti culinarie avremmo potuto cibarci al massimo di tramezzini e latte freddo.
Da brava padrona di casa maniaca dell’ordine, avevo spolverato e lucidato ogni singola superficie disponibile, mi ero messa un bel vestito rosso con un fiocco sulla schiena e non avevo nemmeno un capello fuori posto. Questa volta, tuttavia, decisi di rinunciare all’ingresso in pompa magna dalla cima delle scale.
Non appena gli ospiti arrivarono Owen fu subito schiavizzato in cucina («sei pessima, Vittoria, mi hai invitato solo per non morire di fame») mentre noialtri restammo nel salone a chiacchierare del più e del meno. Stetti ben attenta a non nominare mai Sebastian Avary, Clair de Lune ed il mistero della mia casa in generale. Io ed Owen avevamo deciso di non parlarne. Era più bello che restasse un nostro piccolo segreto, e comunque, in ogni caso, dubitavamo che qualcuno ci avrebbe mai creduti. Una mezz’oretta dopo il nostro cuoco improvvisato fece capolino nella stanza.
«E’ pronto in tavola!»
Tutti quanti, affamatissimi, si precipitarono schiamazzando nella sala da pranzo, tranne me. Mi si era, non ho idea di come, impigliato il fiocco del vestito tra i rami dell’albero di Natale ed ero fastidiosamente incastrata. Diedi uno strattone per liberarmi, ma ci misi troppa energia ed ottenni soltanto il risultato di sbilanciarmi all’indietro, perdendo l’equilibrio. Chiusi gli occhi, pronta ad una dolorosa ed umiliante caduta sul pavimento, ma atterrai invece su un paio di morbide braccia, quelle di Owen.
«Sei veramente un impiastro», ridacchiò, guardandomi con gli occhi che brillavano di un misto di compassione e tenerezza.
«Maledetti tacchi», borbottai, arrossendo più di quanto non avrei voluto e cercando di rimettermi in piedi mantenendo una certa dignità (per chiunque fosse interessato a sapere se ci riuscii, la risposta è, naturalmente, no). Owen mi sorrise.
«Vittoria, tu sai perché Sebastian Avary ha cercato di uccidermi?»
Non riuscivo a spiegarmi il perché di quella domanda. Non ci avevo assolutamente mai pensato, quindi scossi la testa.
«Non ne ho idea, e tu?»
«Credo di saperlo.»
Lo guardai con espressione interrogativa.
«E perché?»
Mi sorrise.
«Credo che fosse semplicemente geloso. Geloso perché io sono riuscito nell’impresa della sua vita, quella che lui non è mai riuscito a portare a termine: scrivere una canzone per… per la persona a cui si tiene di più, ecco.»
Alzai lo sguardo su di lui e vidi che le sue guance lentigginose si erano impercettibilmente tinte di rosso. Mi presi del tempo per osservarlo. Era il solito Owen, con quei capelli color carota perennemente disordinati, gli occhi azzurri illuminati da una luce furba e vagamente maligna e quel sorriso storto alla Sylvester Stallone. Lo stesso Owen che mi aveva vista ruzzolare giù dalle scale, dormire con camice da notte imbarazzanti, ingozzarmi al cenone di Natale e con la faccia stravolta dopo aver affrontato una tempesta di neve. Lo stesso Owen che mi aveva vista isterica, terrorizzata, intrattabile, la stessa persona con cui avevo dato il peggio di me e che eppure non se n’era andata. E proprio mentre stavo pensando a tutte queste belle cose, a come il nostro rapporto fosse fiorito e maturato, a come in fin dei conti lui fosse esattamente il genere di persona che avrei voluto avere sempre accanto, lui si chinò su di me e mi diede un bacio.
Sgranai gli occhi, esterrefatta, immobile come uno stoccafisso, mentre tutto dentro di me (lo stomaco, il cervello, il cuore) sembrava esplodere. Alla fine, nel dubbio, feci un salto all’indietro degno di un campione olimpico di salto in lungo. Lui alzò lo sguardo su di me con espressione confusa e vagamente ferita.
«Ma questo avevo in mente di farlo io!», esclamai. Cercai di fingermi stizzita, ma si vedeva lontano un miglio che in realtà ero felice come non lo ero mai stata. Owen scoppiò a ridere, una risata traboccante di sollievo e tenerezza.
«Vittoria, sei veramente impossibile», mi disse.
Mi tirò a se di nuovo e mi baciò di nuovo, stavolta a lungo, con più trasporto, con più passione, proprio come se quello fosse un momento che aspettava da tanto tempo e finalmente era arrivato. Fosse stato per me, avremmo anche potuto non staccarci mai, ma un urlo dalla cucina che ci intimava di darci una mossa ci costrinse a separarci.
«Andiamo a mangiare l’indimenticabile cena che ho cucinato?», mi chiese, accarezzandomi i capelli.
«Ottima idea, ho giusto appetito.»
«Lo vedi? Senza il mio aiuto stasera saresti sicuramente morta di fame. Ammettilo Vittoria, saresti persa senza di me.»
Il sorriso che gli feci fu il meno ironico ed il più sincero della mia vita.
«Verissimo», risposi semplicemente.
Ci avviammo verso il cenone di capodanno ed ebbi la certezza che, con nessun fantasma molesto in giro per casa e soprattutto con Owen al mio fianco, quello sarebbe stato davvero un felice anno nuovo.
Fine.
 
 
 
Buonasera, miei amatissimi lettori!
Vi preannuncio che per la prima volta in assoluto in questo trafiletto finale ho UN SACCO di cose da dire, quindi sarà meglio che io non mi perda nei soliti farfugliamenti inutili e mi dia una mossa a cominciare. E voi, piccoli imbroglioni, non saltate subito in fondo e leggete tutto quello che ho da dire. Guardate che vi vedo.
Ebbene si, è finita, e vi confesso che non sono mai stata così malinconica. Mi mancherà così tanto pubblicare ogni mercoledì (beh, dai, più o meno) e leggere le vostre meravigliose recensioni. Cercherò di tornare al più presto con una nuova Long, sotto la quale spero di ritrovarvi tutti.
Siccome non riesco a trovare un modo per far capire ai miei recensori quanto io sia loro grata per il loro sostegno, i loro complimenti ed i loro consigli, credo che la cosa migliore da fare sia citarli uno ad uno.
Con tutto il mio cuore grazie a:
 
  • Adda95 (per avermi sempre fatta ridere e mai annoiata con le sue parole meravigliose)
  • CatWarrior (per aver compiuto l’incredibile impresa di leggere ben nove capitoli in un solo giorno)
  • freeedom (per avermi dato della “scrittrice non da poco” e per esserci stata fin dall’inizio)
  • matt2212 (per avermi fatto notare che la parmigiana non è propriamente adatta al Wyoming)
  • Percabeth7897 (per essere stata la più grande fan di Vittoria ed Owen in assoluto)
  • Shailene_bird (per aver avuto fiducia in questa storia quando era appena iniziata)
  • SilverSoul (per essersi sempre incuriosita su tutto)
  • Steph808 (per essere stata la prima arrivata e per avermi insegnato a non abusare degli avverbi in mente)
  • (per aver avuto fiducia in questa storia quando era appena iniziata)
 
A tutti voi va il mio affetto più sincero. Spero, almeno in queste righe, di essere riuscita a farvi sentire speciali come voi avete fatto sentire me. Un grazie sincero va anche a tutti i “lettori silenziosi” che hanno aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite. Sappiate che non passate inosservati e mi date anche voi una gioia immensa.
Ancora una volta grazie a Leonardo, senza il quale questa storia non sarebbe mai esistita. Anche se non leggerai mai queste righe perché sei troppo impegnato a fare cose che non scrivo solo e unicamente per amor tuo, sappi che hai dato inizio ad un percorso nuovo, che mi manchi e che ti voglio bene anche se non lo ammetterei mai.
Siamo davvero arrivati alla fine. Spero di tutto cuore di non essermi dimenticata nulla. Vi prometto che tornerò al più presto con una nuova Long, nel frattempo sul mio profilo potete sempre leggervi le One Shot “Rumori” e “Serate indimenticabili” (Nevermore passione spam). Un abbraccio traboccante d’affetto a tutti voi,
Nevermore

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