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Sedeva al tavolo della cucina, i gomiti poggiati sulla tovaglia di
plastica
Sedeva al tavolo della cucina, i gomiti poggiati sulla
tovaglia di plastica.
Con gli indici delle mani, poggiate sulle tempie, si
stropicciava gli occhi chiusi fino a far apparire lampi rossastri nell’interno
delle palpebre.
Tenere gli occhi ostinatamente serrati lo liberava
dall’obbligo di guardare la tazzina di cattivo caffè solubile, la cucina
economica dai fornelli macchiati, i granelli di zucchero sparsi sul tavolo.
Il rubinetto lasciava cadere, con regolarità esasperante,
una goccia d’acqua sulla pila di piatti sporchi nel lavello; un solitario
calzino grigio, appallottolato sul pavimento, aggiungeva un senso d’abbandono
alla stanza spoglia.
Sospirò, tenendo sempre le dita sugli occhi.
Era stato tanto più semplice, tanto più bello, quando viveva
assieme a Keith: nel suo attico luminoso, coi quadri d’arte moderna alle pareti
e i mobili d’antiquariato; e una donna delle pulizie che veniva a rifare i
letti, lavare i pesanti bicchieri da long drink e le tazzine, svuotare i
portacenere déco.
Entrambi pranzavano fuori casa, e andavano a cena in un
ristorantino, o una pizzeria; ma il caffè lo prendevano sempre insieme.
Keith usava le zollette, per dolcificarlo: due zollette.
“Come una vecchia signora inglese”, lo aveva preso in giro lui.
Era diventato una specie di rito, fra loro, un gioco. Se
erano di buon umore, lui imitava l’accento britannico di Keith per chiedergli
quante zollette di zucchero volesse.
E Keith gli rivolgeva un sorriso condiscendente, si
accendeva una sigaretta senza filtro inclinando la testa, o lo guardava da
dietro la frangia, assorto; poi si accomodava meglio sulla sedia, lisciava le
pieghe del pigiama di cotone egiziano, o si stringeva la cintura
dell’accappatoio col monogramma, con una rapida torsione del polso.
L’ultima volta che aveva visto quell’accappatoio, ricordò
d’improvviso, sul polsino c’era - perfettamente rotonda - una macchiolina di
caffè.
Era caffè italiano (“Espresso”, diceva Keith), che avevano
bevuto in quelle mattine serene, parlando, ridendo, i visi inondati dalla luce
del mattino; e Keith lo preparava nella moka che suo padre aveva acquistato
durante un suo viaggio a Napoli.
Bere il caffè era un piacere, allora; non lasciava il sapore
polveroso del Folger’s in bocca, né la tazzina tracciava cerchi appiccicosi sulla
tovaglia; non c’erano granelli di zucchero fra le pagine del programma, né il
secco risuonare dei suoi passi solitari sul linoleum di un appartamento
dozzinale.
Lo squillo del telefonino lo riscosse dai suoi pensieri: con
un mugolio di fastidio, si alzò dalla sedia e sbatté le palpebre per scacciare
i puntini luminosi.
Si guardò intorno, cercando di individuare la provenienza
del trillo. Il pulviscolo dorato danzava nelle lame di luce che entravano dalle
veneziane socchiuse; qualcuno suonava insistentemente il clacson nella strada
sottostante. Passandosi una mano sul viso sudato, cercò di riscuotersi dal
flusso dei suoi pensieri.
Allungò il braccio, striato di luce giallastra, per
afferrare il cellulare.
“Pronto”, rispose stancamente.
“Parlo con Mr. Williams?”
Richard Williams esitò, colto alla sprovvista. Non aveva
riconosciuto il numero apparso sul display, ma aveva immaginato che fosse uno
dei suoi nuovi colleghi, con cui aveva scambiato da poco i numeri di telefono.
I membri della compagnia erano quasi tutti allegri e amichevoli, e lo avevano
già chiamato altre volte, per invitarlo a bere qualcosa insieme.
Però, stavolta, era sicuro che quella cortese voce maschile
gli fosse sconosciuta.
“Sì. Sono io. Chi parla?”, rispose, cercando di non apparire
troppo sorpreso: da fanatico della privacy qual’era, il suo numero di cellulare
non compariva sugli elenchi telefonici, e alle agenzie di collocamento aveva
sempre fornito soltanto l’indirizzo e-mail.
“Sono il sergente Patrick O’Malley, Mr. Williams. La chiamo
a proposito di Keith Finnegan.”
Richard sentì le gambe diventare molli, e il respiro farsi
improvvisamente difficoltoso
Richard sentì le gambe diventare molli, e il respiro farsi
improvvisamente difficoltoso.
Rapide immagini gli attraversarono la mente: Keith, le
scarpe bicolori e la camicia Paul Smith, la frangia bionda che ricadeva sugli
occhiali, trascinato in manette alla stazione di polizia; Keith pallido e
contuso in un letto d’ospedale, pestato un’altra volta dai giovani radicali
omofobi; Keith di nuovo nei guai a causa della cocaina.
Nel frattempo, al telefono, la voce cortese proseguiva, con
una traccia di accento irlandese nel modo di pronunciare le vocali chiuse: “Il
suo numero di telefono compare nella rubrica del cellulare di Mr. Finnegan, fra
quelli da chiamare in caso di emergenza.” Ecco. Questo spiegava il suo primo interrogativo.
“Lei è un parente di Mr. Finnegan? Perché, se non è così,
temo di non essere autorizzato a fornirle informazioni dettagliate sulla
dinamica dell’accaduto. Se conosce il nome o il numero telefonico di un parente
prossimo che possiamo contattare, ce lo fornisca, per favore…” La voce
proseguiva, con distaccata cortesia.
Ora Richard non era più sorpreso; era terrorizzato: Emergenza?
Dinamica dell’accaduto?
Percepì la voce al telefono che, perplessa per il suo
silenzio, lo chiamava per nome. “Mr.
Williams? Mr. Williams, è ancora in linea…?”
“Uh… Certo, sì, naturalmente.”, mormorò distrattamente
Richard, cercando di mettere ordine nei suoi pensieri. “Credo di avere il
numero dell’ufficio di suo padre, scritto da qualche parte ”, aggiunse,
frugando senza convinzione nel cassetto della cucina. Almeno lui lo tirerà
fuori dai guai, pensò.
Trovò il numero, scritto su un post-it giallo, e lo dettò al
telefono. Sentì, all’altro capo del telefono, il grattare di una matita, e la
voce del sergente che ripeteva i numeri a mezza voce, man mano che li scriveva.
“Molte grazie, Mr.Williams, lei è stato molto gentile. La
prego di scusare il disturbo e di permettermi di porgere le mie più sentite…”
Sfregandosi le tempie con una mano, cercando di controllare
il tremito della voce, Richard lo interruppe:
“Sergente O’Malley, signore, non credo di capire esattamente
il motivo per cui mi avete telefonato.
Mr. Finnegan è stato arrestato? Ha avuto, non so, un
incidente d’auto? È in ospedale?”
La voce al telefono sembrò stranamente sorpresa.
“Arrestato…? Oh Dio, Mr. Williams, temo proprio di non
essermi spiegato. Keith Finnegan non è in ospedale, e nemmeno in stato
d’arresto. È stato ritrovato morto, suicida, nel garage del suo appartamento.”
Richard rimase attonito, il telefono in mano, per qualche
minuto. Non aveva idea di come comportarsi. Confuso, incredulo, si guardò
ottusamente intorno per cercare di ricomporre le proprie idee.
Poi fece l’unica cosa che poteva ragionevolmente fare: prese
la giacca, uscì di casa e andò al lavoro. Non c’era niente, oramai, che potesse
fare per Keith; non sapeva nemmeno quando ci sarebbe stato il funerale… Eppure,
si sentiva inutile, a non far nulla. Mentre le porte scorrevoli della
metropolitana si chiudevano dietro di lui, pensò che doveva sapere almeno
com’era successo. Per quale motivo si era ucciso? Era già morto quando lo
avevano trovato? Aveva lasciato un biglietto di spiegazioni?
Non riuscì più a liberarsi di quegli interrogativi:
d’improvviso, gli sembrò che saperne le risposte fosse la cosa più importante
del mondo. Cominciò a battere nervosamente il piede a terra, impaziente di
scendere alla prossima fermata. Smaniava per fare qualcosa, qualunque cosa:
dimentico del lavoro, senza riflettere pescò il telefono cellulare dal fondo della
tasca e chiamò il numero di casa Finnegan. Scese dal vagone senza nemmeno
attendere che le porte fossero aperte del tutto.
“Mr.Finnegan?
Sono Richard, Richard Williams. È in casa, stamattina?”
Pagò il tassista chinandosi sul finestrino del conducente, e, quando si
rialzò, un soffio di vento gonfiò la sua giacca e fece
Pagò il tassista chinandosi sul finestrino del conducente,
e, quando si rialzò, un soffio di vento gonfiò la sua giacca e fece fremere il
colletto della camicia contro la sua pelle. Guardò a lungo il grande giardino e
il largo, dritto vialetto ghiaioso che portava alla villa. I ricordi
cominciarono ad affiorare alla sua memoria. senza connessione logica: Keith che
schiacciava un mozzicone di sigaretta con la punta della scarpa, sulla ghiaia;
che si voltava per dirgli qualcosa, il sole riflesso sulle lenti; che scacciava
con un blando gesto della mano una vespa.
Era una fredda, tersa mattina invernale, e i rami delle
magnolie si stagliavano, nudi e netti, contro un cielo luminoso. Richard
riconobbe, oltre le bordure di rose senza fiori, il bordo della piscina vuota;
e la fontana, grigia e verde di licheni, colma di foglie fradice. Quella vista
gli provocò una subitanea, intensa sofferenza.
Odore di erba tagliata, il suono dell’acqua, i passi
silenziosi di Keith sul prato appena rasato.
Lui fumava una sigaretta, la schiena contro la fontana,
gli avambracci poggiati sul bordo macchiato della vasca. Un calabrone volò,
ronzando, sul pelo dell’acqua.
“Quand’ero bambino, ” disse Keith, indicando la fontana
con un gesto del capo “c’erano due pesci rossi lì dentro.”
Spostò un ciuffo d’erba con la scarpa, sorrise.
“Io e Nikki ci sollevavamo sulla punta dei piedi e
allungavamo il collo come tartarughe, per guardarli nuotare.”
Richard distolse lo sguardo dalla fontana, e sentì una
stretta al cuore nel vedere la villa, bianca fra i rami scuri delle magnolie.
Se la vista del giardino era bastata a richiamare il ricordo di Keith in modo
così vivido, non sapeva come avrebbe sostenuto il dover entrare nella casa.
Respirando profondamente, raggiunse la scala di marmo
dell’ingresso e salì i gradini.
Notando la traccia rugginosa di un vaso da fiori, impressa
sul marmo chiaro di un gradino, pensò distrattamente che, da quando la madre di
Keith se n’era andata, la proprietà era stata molto trascurata: fontane vuote e
marcescenti, rose incolte, foglie morte sui viali.
Suonò il campanello, e un’inserviente silenziosa gli aprì la
porta e lo condusse nel soggiorno.
Mr. Finnegan lo attendeva, in completo scuro, seduto su una
delle poltrone chiare, le mani sulle ginocchia, lo sguardo altrove. Era una
versione invecchiata e severa di Keith: gli occhi azzurri spiccavano sul volto
duro.
Due bicchieri sfaccettati erano posati sul tavolino davanti
a lui, e una bottiglia di Jack Daniel’s rifletteva la sua etichetta nera sul
piano di cristallo.
Dietro di lui, a Richard parve di scorgere Keith, l’onnipresente
sigaretta fra le dita, sbirciare oltre le tende di chintz, il viso inondato di
luce.
(“Guarda, Dick, è la macchina di Nikki!”)
Sbatté gli occhi, e il ricordo svanì.
Nel vederlo entrare, Mr. Finnegan si alzò in piedi.
Tese la mano. “Richard, mi fa piacere che tu sia venuto.”
“Mr. Finnegan, non so dirle quanto la sua perdita mi abbia
addolorato, io… “
Mr. Finnegan gli indicò una poltrona con un gesto della
mano. “Siediti, Richard, bevi qualcosa. Immagino che tu non sia venuto solo per
porgermi le tue condoglianze.”
“Infatti, signore. Speravo che lei potesse chiarire qualcuno
dei miei dubbi. Sono rimasto sconvolto nel sapere che Keith si era, ecco…” Si
inumidì le labbra e deglutì. “Voglio dire, le circostanze in cui…”
Si sentiva un’idiota. Odiava il suono formale, artificioso
delle sue parole.
Mr. Finnegan gli porse un bicchiere pieno per metà. Richard
lo prese e tirò un lungo respiro. Pensò all’ultima volta che si erano visti.
L’aveva trovato un po’ smagrito, ma di buon umore.
“Insomma, quel che cerco di capire è questo: che motivi
aveva per uccidersi? Era nei guai, aveva qualche problema? Sembrava sereno,
l’ultima volta che ho parlato con lui.”
“Keith era sereno molto di rado, Richard, come tu dovresti
ben sapere.” Prese un bicchiere. Restò un attimo pensoso, lo sguardo altrove.
“Come sappiamo entrambi, non era una persona felice. Ma non avrei mai
pensato--” La voce gli si spezzò. Si portò una mano al viso, per poi abbassarla
immediatamente.
Fu l’unico momento teso della conversazione. Entrambi erano
sconvolti dalla scomparsa di Keith, ma in modo astratto, irreale. Erano stati
colti troppo di sorpresa dalla notizia per provare vero dolore.
Richard pensò – un’idea bizzarra - che fosse un po’ come
quella volta che, durante una prova a teatro, era caduto malamente sul fianco e
si era spezzato un braccio. Per qualche secondo, aveva pensato di non essersi
fatto nulla; ma quando il dolore era esploso, lo aveva lasciato senza fiato.
Nessuno dei due aveva ancora pienamente realizzato la
drammaticità della situazione. Il dolore sarebbe venuto dopo, portato dai gesti
quotidiani che avrebbero ricordato loro quella perdita: una voce simile alla
sua nella folla, un appunto nella sua calligrafia, i suoi sms ancora salvati
sul cellulare.
Mr. Finnegan si riprese immediatamente; posò il
bicchiere.
“Ma, per rispondere alla tua domanda, no, non mi risulta che
avesse gravi preoccupazioni. E se anche fosse stato nei guai, o avesse avuto
bisogno di denaro, sapeva che avrebbe potuto rivolgersi a me - come faceva
sempre, in fin dei conti.” Scosse la testa “Era un buono a nulla, ma era sempre
mio figlio” L’ultima frase era stata pronunciata con una punta di amarezza. Il
momento di tensione passò.
“Ma allora, per quale motivo…”
“Non lo so, Richard. Non so perché mio figlio abbia commesso
una simile sciocchezza. E d’altronde, nemmeno la maniera in cui lo ha fatto era
nel suo stile…”
Richard lo guardò in modo interrogativo. “Tu sai com’è
successo? No? Si è sparato un colpo in testa, con una delle pistole da
collezione di suo nonno, nel suo garage. Quando l’hanno ritrovato, era a fianco
della Lotus in un lago di sangue. L’accappatoio ne era tutto inzuppato.”
Richard era sconvolto. Sparato? Keith si era sparato?
Aveva dato per scontato che avesse usato i gas di scarico dell’auto. Facile,
pulito, indolore. Keith aveva sempre avuto il terrore del dolore fisico.
“L’accappatoio? In garage?” Richard era letteralmente a
bocca aperta. “Ma è assurdo, ridicolo. Andiamo!, sono certo che, attento
com’era al suo aspetto, avrebbe messo il suo abito migliore e avrebbe trovato
un sistema migliore per morire!”
Mr. Finnegan sussultò, a quella affermazione. “È quel che ho
pensato anche io, inizialmente. Tuttavia, come possiamo immaginare che cosa
passa per la testa di qualcuno, quando decide di compiere un gesto del genere?
Non si sta certo a pensare a che abito indossare.”
“Questo è vero”, mugugnò Richard, poco convinto. “Ma non
riesco a capacitarmene lo stesso.”
Mr. Finnegan si allungò sopra il tavolino per poggiargli una
mano sulla spalla. Richard rivide in un lampo Keith piegarsi in avanti nello
stesso, medesimo, identico gesto.
(“Non preoccuparti, Dickie. Avrai quella parte.”)
“Richard, figliolo, ascolta.” Gli strinse la spalla, poi
tornò nella sua posizione originaria. “Sei un bravo ragazzo, e so che,
nonostante i suoi problemi e le sue stranezze, volevi bene a Keith. Ma era un
tipo bizzarro, un genere a sé. Nessuno sapeva mai cosa gli passava per la
testa. Io sono suo padre, ma qualche volta lo guardavo… “ Scosse di nuovo la
testa. “Lo guardavo, ti dico, e mi sembrava di non conoscerlo affatto.”
Durante il viaggio di ritorno verso il suo appartamento, Richard
continuò a pensare a quel che Mr
Durante il viaggio di ritorno verso il suo appartamento,
Richard continuò a pensare a quel che Mr. Finnegan gli aveva detto. Gli aveva
descritto il ritrovamento del corpo, e da allora era in preda alla nausea.
Ebbe un flash di Keith, riverso a terra, i capelli biondi
incrostati di sangue, gli occhiali sul pavimento.
Più ci pensava, più l’intera scena gli appariva irreale: la
larga macchia rossa sull’accappatoio candido, l’angolo innaturale delle gambe
piegate, i chiari occhi grigi spalancati.
Non era mai stato propriamente bello, Keith: il viso troppo
angoloso - il naso affilato, gli zigomi pronunciati - per essere davvero
piacevole; i denti leggermente irregolari, le lenti degli occhiali a nascondere
gli occhi penetranti. Ma quando, la sera, si sedeva sul balcone dell’attico a
fumare una sigaretta, il viso slavato rivolto al tramonto, la luce intensa sui
capelli e negli occhi pallidi, sembrava uno di quei severi angeli medievali,
luminosi e gravi nei loro mosaici di vetro.
E pensarlo ora, immobile ed esangue sul tavolo del coroner,
il grosso foro d’uscita sulla tempia, le labbra blu e il taglio a Y
dell’autopsia sul petto, dava a Richard un senso di vertigine.
Trovava assurda l’idea che si fosse ucciso in quel modo
barbaro: Keith era stato una persona elegante, curata, dai modi garbati. Era
raffinato fino all’eccesso. Aborriva la violenza e la vista del sangue, e più
di ogni cosa avrebbe odiato l’idea di sfigurarsi il volto con un colpo di
pistola.
Eppure, Richard ricordò anche, con un colpo al cuore, che
buon tiratore fosse. Lo aveva osservato colpire con mira precisa, uno ad uno, i
piatti del tiro a volo, solo per impressionarlo.
(Ricordava bene quella giornata: un ventoso, limpido
pomeriggio di settembre - Keith strizzava gli occhi al sole- le rosse foglie
degli aceri scosse dal vento, i colpi secchi del fucile.
Il braccio col fucile ricadeva, Keith si voltava a
sorridergli controluce, allegro.
“Hai visto, Dick? Non ne ho sbagliato nemmeno uno!”).
Giunto a casa sua, Richard gettò con gesto rabbioso il caffè
del mattino, freddo nella tazzina, nel lavello. Non aveva voglia di mangiare,
né di andare al lavoro. Si lasciò cadere su una sedia, la testa fra le mani.
Poi si riscosse, staccò da un blocco un foglio di carta e
prese una matita.
Soldi
Droga
Affari
Famiglia
Malattia
Si fermò a mangiucchiare la matita, pensoso. Che altri
motivi può avere una persona per togliersi la vita? Keith non era il tipo da
affliggersi per una storia d’amore finita male; né gli risultava fosse
coinvolto in traffici poco chiari, nonostante i suoi vecchi problemi con la
droga.
Non aveva mai avuto problemi ad accettare la sua
omosessualità, ed era da escludere che fosse quella la ragione del suo gesto.
Possibile che qualcuno lo stesse ricattando proprio in base
a questo? Ma no, per quale motivo avrebbe dovuto? In molti ne erano a
conoscenza, compresi i suoi familiari.
I soldi non erano mai stati un problema –suo padre era
sempre stato fin troppo generoso; e inoltre Keith godeva di un appannaggio
mensile, in qualità d’azionista della società di famiglia. Non aveva mai
lavorato seriamente; per quanto Richard gli fosse legato, riconosceva che era
sempre stato un perdigiorno.
Non che passasse tutto il suo tempo a divertirsi, o a
sperperare il denaro del padre in capricci da giovane blasé, questo no. Anzi.
Era una persona riflessiva, talvolta persino malinconica.
Era intelligente, colto, ben istruito. Ma era anche
incostante, volubile: quanto più si entusiasmava per qualcosa, tanto più
rapidamente perdeva interesse.
Si era iscritto ad una scuola d’arte, per poi abbandonarla;
aveva investito tempo e denaro nel sostenere il lavoro di artisti emergenti,
finanziato mostre, e infine aperto uno studio di design: nel giro di pochi mesi
se n’era completamente disinteressato, finché questo non era andato in
bancarotta.
Era stato Mr. Finnegan a pagare le spese legali relative al
fallimento.
Aveva in seguito sviluppato una passione per il mondo del
teatro: e in quel modo aveva conosciuto lui, Richard. All’epoca in cui la loro
storia era finita, Keith stava già perdendo interesse anche per quello,
nonostante avesse continuato a fare di tutto per aiutarlo. Era merito di Keith
se aveva ottenuto il ruolo di Conrad, che era stato di Nureyev e Fonteyned, se
era uscito dall’anonimato della fila.
Questa considerazione portò Richard a ripensare alla strana
maniera in cui il loro rapporto era finito; Keith aveva cominciato ad
allontanarsi da lui proprio quando aveva cominciato a vedere riconosciuto il suo
talento: quando era passato dalla fila a ruoli minori, e da qui a sostenere le
parti dei personaggi principali; fino a ottenere una parte da protagonista.
Mentre era immerso nella sua riflessione, il telefono
cellulare riprese a squillare, facendogli fare un sobbalzo. Con l’irragionevole
speranza che fosse O’Malley con nuove informazioni, si precipitò a rispondere.
“Richard! Come va? Sei malato? Non sei venuto alle
prove, oggi!”
Richard fu terribilmente deluso: la voce all’altro capo del
telefono, briosa e fastidiosamente acuta, apparteneva a una delle sue
colleghe.Ebbe la visione, subitanea,
di capelli ossigenati, una larga bocca dai denti bianchi, lunghe unghie
laccate.
Ballerina di notevole talento, socievole e allegra,
all’interno della compagnia era considerata una bellezza; ma a Richard
irritavano i suoi modi infantili e la voce stridula.
Sapeva di piacerle: fin dall’inizio aveva dovuto respingere
con imbarazzo i suoi tentativi di portarselo a letto. Non poteva tuttavia
essere scortese con lei, perché le avevano assegnato il ruolo di Medora.
Avrebbero dovuto fare insieme il pas de deux, che era il climax dello
spettacolo: non dovevano esserci tensioni fra loro.
Richard ricordò vagamente che, all’inizio, la coreografia
aveva previsto un pas de trois fra Medora, lo Schiavo e il Corsaro, ma a
un certo punto una delle due figure maschili era stata eliminata.
“Ciao, Beth”, rispose Richard, tenendo il telefono scostato
per proteggere le orecchie dagli acuti della voce di lei.
“Non sono malato.” Disse, in tono stanco. “Un mio, uhm, un
mio amico si è suicidato. Sono stato fino ad ora a parlare con la sua famiglia”
“Oddio, Richard, quanto mi dispiace!, che cosa
orribile --“. Come aveva previsto, la sua reazione gli perforò i timpani. Era
così teatrale, Elizabeth: il modo in cui enfatizzava le parole, sgranava gli
occhi, gesticolava. Anche se non poteva vederla, era certo che si fosse portata
una mano al cuore, avesse atteggiato il viso a un’espressione sconvolta.
Riusciva sempre a dare un’impressione di simpatia, di
umanità e calore; ma a Richard pareva che lo facesse più per soddisfare il suo
senso drammatico, che per autentica sensibilità.
Quando ascoltava qualcuno, o lo consolava, o scherzava con
lui, recitava sempre una parte: si protendeva verso l’interlocutore, annuiva
enfaticamente, rideva con affettazione, piegando la testa, in un modo quasi
comico: proprio come se qualcuno la stesse riprendendo. Richard aveva
l’impressione che lo facesse senza neppure rendersene conto.
Beth continuava a parlare, con voce stridula, al telefono,
ma Richard non l’ascoltava più.
Aveva chiuso gli occhi, in preda alla nausea. Pensava a
Keith, il suo Keith, nella cella frigorifera di un obitorio: brina sulle
ciglia, le labbra livide, i capelli irrigiditi in ciocche biancastre.
L’immagine gli faceva venire in mente qualcosa, ma non
ricordava cosa. Strinse le palpebre nello sforzo di ricordare, mentre la voce
di Beth diventava sempre più distante.
Neve, tende piantate sul
ghiaccio, una foto in bianco e nero…
Il capitano Scott! Keith che leggeva un libro sulla
spedizione di Scott al Polo, una sera d’inverno.
“Guarda”, gli
aveva detto, tutto interessato, mostrandogli un’immagine: cinque uomini in
posa, infagottati in tute da sci, una bandiera inglese sullo sfondo bianco di neve.
“Senti qua: Oates si è allontanato volontariamente dalla tenda, per salvare
i compagni dall’inedia. Sai quali sono state le sue ultime parole?”.
Richard si era voltato verso di lui. “Ha detto: Vado a fare un giro,
potrebbe volerci un po'.”
“Pensa”, aveva detto Keith, lo sguardo assorto. “quando
sono arrivati al Polo Sud, ci hanno trovato la bandiera piantata da Amundsen
nemmeno un mese prima. Ti immagini la delusione? La loro tenda fu trovata
sepolta dalla neve: Wilson e Bowers, gli occhi chiusi, morti nel sonno. Invece
Scott fu trovato disteso mezzo fuori dal sacco a pelo, la brina nei capelli,
con un braccio intorno al corpo di Wilson. Te lo immagini?”
Keith aveva una straordinaria capacità d’immedesimazione.
Richard era certo che vedesse Scott, Wilson, il piccolo Bowers e gli
altri, camminare irrigiditi dal freddo, bere dalle tazze di peltro; come vedeva
Caravaggio vagare, febbricitante, sulla spiaggia di Porto Ercole; o il capitano
Smith affondare col Titanic.
Poteva quasi sentire la sua voce. “Te lo immagini, Richard?”
Lo diceva sempre, sempre; gli occhi sgranati, la voce sognante.“Te lo Immagini?”
Richard ricordò con un nodo alla gola i suoi monologhi
didattici, il modo assorto in cui gli parlava del suo ultimo interesse –
l’omicidio di Kennedy, il teatro elisabettiano, i quadri di Caravaggio.
Tutto lo interessava, tutto lo affascinava.
“Ascolta” diceva talvolta, seguendolo in giro per
casa con un libro in mano. “Ascolta cosa ha scritto questa superstite su
Thomas Andrews, dopo che affondò il Titanic”.
“… Richard? Richard? Mi stai ascoltando?”
“Uh? Scusami, Beth, non sono molto lucido, oggi… Cosa mi
stavi dicendo?”
“Ti capisco, devi essere sconvolto”, disse, premurosa.
“Chiedevo se per caso lo conoscevo, questo tuo amico”.
“Credo di sì. Si chiamava Keith. Lo avrai visto, al teatro:
biondo, non tanto alto, con gli occhiali…”
“Oh, ma sì, sì, Keith! Quello che ha finanziato lo
spettacolo dell’anno scorso. Ci ho parlato, anche, qualche volta. Sembrava
gentile, un tipo simpatico.”
“Lo era.” Una nuova ondata di malessere: aveva la nausea, la
testa gli doleva.
“Ti veniva sempre a prendere, alla fine delle prove”, disse
Beth, con una nota di malizia, che lo irritò.
“Eravamo molto amici.” Disse seccamente, più di quanto
avrebbe voluto. Era stanco, stava male…
“Scusa, scusa, non volevo insinuare nulla”, fece lei,
sollecita.
Improvvisamente, la sua voce acuta fu più di quanto lui
potesse sopportare. Si accorse di avere un mal di testa terribile. Si scusò in
fretta e spense il telefono.
Si alzò dal tavolo, e lo spostamento gli provocò un forte
capogiro. Andò a rovistare nell’armadietto dei medicinali per cercare un
antidolorifico. Cominciò a spostare scatole e boccette. Qualcosa tipo Newbutal,
o ibuprofene, poteva andare bene. O magari un’aspirina.
La testa gli pulsava ora in modo insopportabile. Afferrò a
caso delle boccette, le scartò con gesto nervoso. Non trovava niente, solo
antibiotici scaduti da anni, o spray al cortisone, robaccia inutile. Trovò un
inalatore per l’asma, di Keith: sichiese come mai fosse finito fra le sue cose.
Continuò la sua ricerca. Un’aspirina, per l’amor di Dio…
Era sempre più irritato, il dolore lo rendeva rabbioso.
Cominciò a gettare tutto a terra, cercando disperatamente un antidolorifico
qualunque: avrebbe rimesso tutto a posto dopo, quando il dolore avesse smesso
di trapassargli la testa. Non trovò nulla.
Frustrato, spazzò con un largo gesto della mano il ripiano,
e quasi tutte le boccette caddero sul pavimento, dove più d’una s’infranse con
suono secco.
Non capì esattamente in che modo fosse successo, ma un
attimo dopo era inginocchiato a terra, frammenti di vetro a pungergli le gambe,
scosso da profondi singulti senza lacrime. Sussultava in modo incontrollabile,
quasi incapace di respirare, sentendo il suono dei propri singhiozzi come se
provenissero da un luogo remoto, da un’altra persona.
Flasback di Keith si affollavano nella sua mente,
incoerenti. Non i suoi momenti migliori, non i giorni o le notti che più aveva
amato, ma ricordi casuali: Keith che si strofinava i capelli bagnati con un
asciugamano, Keith che parlava al telefono con sua sorella - il telefono
bilanciato fra la spalla e l’orecchio - Keith che si tagliava le unghie,
distratto.
Nicole era seduta ad uno dei tavoli esterni del bar; teneva
la testa bassa, le mani intorno alla tazza di caffè. Il vento leggero le
scompigliava i corti capelli biondi.
Richard vedeva Keith riflesso in ogni suo lineamento: il
taglio degli occhi, la linea della mascella…
Cercò di non pensare a quanto somigliasse al fratello.
I suoi modi bruschi celavano un animo sensibile, come quello
di Keith: erano sempre andati d’accordo, lei e Richard, durante la sua
relazione con Keith; e lui aveva imparato ad apprezzare le sua battutacce, le
pacche sulle spalle, le maniere dirette.
Mascolina, energica,
volitiva, Nicole Finnegan era riuscita dove il fratello aveva fallito: gestiva
uno studio di fotografia di tendenza, che le rendeva bene. Periodicamente si
organizzavano mostre dei suoi lavori, e lei era spesso invitata ai cocktail
party e nei salotti-bene della città.
Richard chiamò il cameriere con un cenno e si fece portare
un caffè a sua volta.
“Grazie a te. Stavo pensando di chiamarti, ieri sera, sai?,
ma mi hai preceduto.”
Nicole ebbe un tenue sorriso. Era molto pallida; lo guardò
di sfuggita.
“Sono sempre io la più veloce”
Si riferiva ad un vecchio scherzo: ogni volta che loro tre -
Keith, Nicole e Richard - camminavano sul lungo vialetto della villa di
famiglia, Richard e Nikki prima si guardavano di sottecchi, furtivamente,
acceleravano il passo con indifferenza, e infine spiccavano una corsa per
vedere chi arrivava per primo al cancello: come due bambini. Non sapevano come
fosse cominciata la sfida, ma ogni volta che percorrevano insieme il vialetto,
la gara si ripeteva.
Keith restava a guardare con le braccia incrociate,
sorridente, scuotendo la testa con finta disapprovazione. Fanatica del jogging,
Nikki vinceva quasi sempre: arrivava al cancello, le braccia alzate come una
campionessa, fingendo di tagliare un immaginario nastro del traguardo.
Erano stati giorni felici.
La guardò ora. Finito il caffè, si stringeva nella giacca di
jeans. Aveva le ciglia appiccicate, come se avesse appena pianto. Era più bella
del fratello, gli occhi azzurri come il padre, i lineamenti delicati: ma
vestiva in modo sciatto (jeans, sneakers, camicie da uomo), e teneva i capelli
– chiarissimi, come quelli di un albino - in un pratico taglio corto.
“Pensi che si sia ammazzato?” Chiese d’improvviso.
Guardava altrove, la voce sorda.
“No.”
Nikki tirò su rumorosamente col naso.
“Neanch’io.”
Pausa. Un soffio di vento arruffò i capelli a entrambi.
“Nikki… Era di nuovo nei guai con la droga?”
“No!” Lei alzò la testa di scatto, rabbiosamente. “Non aveva
più niente a che fare con quella roba, ne sono sicura. Lo sentivo spesso, negli
ultimi tempi: me ne sarei accorta.”
“Davvero?”
“Ti dico di no.” Incrociò le braccia, ostinata.
“Va bene, va bene.”
Sospirò. “Allora. Tu hai qualche idea su cosa possa essere successo?”
“Speravo che ne avessi una tu, Dick. Ti ho chiamato proprio
per questo.”
Richard fece un risolino scialbo.
“Santiddio.”
“Direi che siamo molto d’aiuto l’uno all’altro.”
“Richard sospirò. “Non aveva problemi di soldi. Non era
malato. Non aveva nemici.” Si prese la testa fra le mani. “Non so cosa pensare,
Nikki”
Rimasero entrambi in silenzio per un po’.
“Richard…” Nicole aveva di nuovo lo sguardo sfuggente, si
mordeva un labbro.
“Cosa?”
Cincischiava l’orlo della giacca.
“Cosa, Nikki?”
“Insomma, si vedeva con un tale, negli ultimi tempi. Non
sapevo se dirtelo oppure no.”
L’interesse di Richard si risvegliò d’improvviso.
“Chi? Chi era?”
“Non lo so, Richard, l’ho visto sì e no due volte…” Sospirò
al sopracciglio alzato di Richard. “Ok, ok. Si chiama Ben... Benjamin, credo. È
un avvocato.”
“Benjamin come?”
“Non lo so! Te l’ ho detto, ci siamo incontrati un
paio di volte.” Lo guardò, irritata. “Cosa pretendevi?, che gli chiedessi il
numero d’assicurazione e il cognome da nubile di sua madre?”
“Va bene, va bene, va bene.” Disse Richard in fretta,
conciliante. Nikki aveva la tendenza ad innervosirsi facilmente, per un
nonnulla: una frase, un commento. Tanto facilmente quanto, poi, dimenticava
l’accaduto. “Hai detto che è un avvocato, giusto? In che studio lavora? Ne hai
un idea?”
Nicole fece spallucce. “Che ne so…” Giocherellava col
tovagliolino di carta, appallottolandolo. Improvvisamente, però, sembrò colpita
da un’idea. Alzò la testa.
“Aspetta. Non so come si chiama lo studio, però è sulla
Sesta - sai, mi è venuto in mente perché una volta Keith doveva passare a
prendere Ben, ed era irritato perché stavano ristrutturando la stazione della
metro, e lui doveva allungare il percorso per aggirare il cantiere... E l’unico
lavoro di questo tipo che hanno fatto ultimamente è stato sulla Sesta strada.”
Nicole lo guardò, sospettosa. “Non ti metterai a giocare
alla signora Fletcher, spero?”
“No, no, no. Non mi ci vedo, con la permanente.” Schivò la
pallottola di carta che Nikki gli aveva gettato addosso.
“Scemo”
“No, no, sono serio, sono serio. Voglio solo fare un po’ di
chiarezza in questa storia. Magari questo Ben Comesichiama sa qualcosa che noi
non sappiamo.”
Nikki si agitò sulla sedia, a disagio. Sembrava pensierosa.
“Richard… Gli volevo bene anch’io, lo sai.” Disse infine.
Lui la guardò, sorpreso. “Certo. Lo so. Perché mi dici
questo?”
Nicole sorrise, con un po’ d’imbarazzo.
“Se vuoi andartene in giro a ficcanasare nella vita di mio
fratello, violare la privacy della gente e metterti nei guai, beh, non sperare
di farlo senza di me.”
Richard rise, un risolino triste.
“Grazie, Nikki.”
“Ok, allora. Sai dove trovarmi, se hai bisogno di me.” Lei
si alzò dal tavolo, si abbottonò la giacca.
“Bene, è ora che io vada. Ciao, Richard.” Si incamminò, poi
si girò di nuovo. “Ah, il funerale è domenica. Alle nove.”
Il giorno del funerale il cielo era greve di nubi bianche, la luce
stranamente intensa; l’erba del cimitero, quasi troppo verd
Il giorno del funerale il cielo era greve di nubi bianche,
la luce stranamente intensa; l’erba del cimitero, quasi troppo verde per essere
vera, era spazzata da un vento radente, si piegava in onde cangianti, in un
liquido chiaroscuro.
La famiglia di Keith avrebbe voluto celebrare la funzione
nella chiesa di St.Patrick, ma il vecchio pastore si era rifiutato: scuotendo
insistentemente la testa, con fare pedante, li aveva invitati a uscire: non si
celebravano funerali religiosi, per chi si toglieva la vita.
Così Richard si era trovato direttamente al cimitero, seduto
su un’instabile sedia di plastica, a guardare la fossa rossastra, la bara di
legno lucido sospesa su di essa.
Un officiante stava dicendo qualche generica parola di rito,
leggendola da un libricino nero; il cappotto schiaffeggiato dal vento, i
capelli scompigliati, non riusciva a tener ferme le pagine, che venivano
sfogliate avanti e indietro.
L’intera scena sembrava a Richard surreale: lo scricchiolio
delle sedie, il sibilo del vento, quella luce opprimente, terribile.
Mr.Finnegan e la figlia, vestiti a lutto, sedevano
compostamente in prima fila; la bionda testa di lei arruffata, come una peonia,
dal vento.
Ogni tanto, meccanicamente, lei alzava una mano a pettinarsi
i capelli con le dita; invano.
Dietro di loro, una folla di uomini e donne in nero, per la
maggior parte sconosciuti, atteggiavano il viso a un controllato dolore,
cincischiavano con il libro di preghiere, si sussurravano l’un l’altro
all’orecchio..
Richard aveva sperato che quel tale, Benjamin, si
presentasse al funerale, risparmiandogli la fatica di cercarlo; ma a un suo
sguardo interrogativo, Nicole si era guardata intorno con discrezione e aveva
fatto un breve cenno di diniego.
Richard guardava di sottecchi i visi intorno a lui: qualcuno
di loro sapeva qualcosa? Dietro uno di quei volti opportunamente tristi si
nascondeva l’assassino di Keith? Chi, chi, chi: la domanda ronzava,
fastidiosa, insistente, nella testa di Richard.
L’uomo con gli occhiali da sole? La ragazza bruna e nervosa
seduta accanto a lui, che si mangiava le unghie e frugava nella borsetta?
Mr.Finnegan stesso, che non aveva versato una lacrima per il figlio perduto?
Si riscosse, sentendosi stupido. Questi erano ragionamenti
da film giallo, da poliziesco da quattro soldi.
Doveva stare calmo, svuotare la testa da quei pensieri
inutili.
Sentì un suono fastidioso, ronzante, provenire da qualche
parte. Si guardò intorno, per scoprirne l’origine, prima di rendersi conto che
proveniva dalla sua tasca. Con disappunto, ricordò di non avere spento il
telefono cellulare: che non suonava, grazie a Dio, ma vibrava nella tasca in
modo ripetitivo.
Richard diede un’occhiata al nome sul display – Elizabeth –
e spense il telefono con gesto stizzoso.
Cercò di concentrarsi sulle parole dell’officiante: “… E
Dio asciugherà le lacrime dai loro volti, e la morte non esisterà più”,
recitava con voce monotona, arrochita dall’aria fredda. Nessuno gli prestava
molta attenzione. Richard si abbandonò di nuovo ai suoi pensieri. Si riscosse
al suono di una musica: qualcuno aveva predisposto un impianto stereo che,
nascosto fra vasi di fiori, suonava Nearer my God to Thee.
Lui l’aveva sempre trovata insopportabilmente triste, e
Keith la odiava. Diceva che era quella, l’ultima canzone che avevano suonato
sul Titanic, prima che affondasse.
Ricordò, con una strana sensazione di sorpresa, quando Keith
gli aveva detto, scherzando, di volere Auld Lang Syne al suo funerale.
Era ubriaco, quella sera, lo erano entrambi.
For auld
lang syne, my dear, for auld lang syne, avevano cantato, fuori tono, resi sentimentali
dall’alcol. We’ll take a cup of kindness, yet, for auld lang syne.
Richard fu quindi sorpreso al massimo quando sentì una voce
flebile, ma limpida, chiara, quasi infantile nel silenzio assoluto, iniziare a
cantare.
Should
auld acquaintance be forgot, and never brought to mind?
L’ultima sillaba risuonò alta e cristallina.
Nikki si era alzata in piedi, e il vento le schiaffeggiava
gli abiti, le scompigliava I capelli, ma lei cantava, le mani strette sulla
borsetta. Guardava dritto davanti a sé.
Tutti erano ammutoliti dalla sorpresa.
Richard si unì a lei nel secondo verso, e le loro due voci
risuonarono nitide e irreali.
Should
auld acquaintance be forgot and days of auld lang syne?
Mr.Finnegan si alzò a sua volta, e li raggiunse con la sua
bassa voce tenorile.
For auld
lang syne, my dear, for auld lang syne
We’ll
take a cup of kindness, yet, for auld lang syne.
La cantarono tutta, senza accompagnamento, voci e basta;
qualcuno si unì a loro, timidamente, poi qualcun altro. L’ultima strofa fu
cantata in coro da quasi tutti i partecipanti, un tremito nella voce di ognuno.
Qualcuno ora piangeva, Richard sentiva singhiozzi soffocati provenire dalle
ultime file. We'll take a right
guid-willie waught,
For auld lang syne
Fu il loro tributo a Keith.
Le immagini dei luminosi capelli di Nikki scossi dalla
brezza, dei cappotti neri contro il cielo lattiginoso, avrebbero perseguitato
Richard per anni a venire. Alcuni fogli bianchi rotolavano a terra, trascinati
dal vento fra l’erba, e il suono irreale delle voci nel cimitero silenzioso si
spense gradatamente: un’ultima vibrazione; un tremito, un sospiro, il silenzio.
La bara venne calata, e il suono spaventoso della terra che
cadeva sul legno lucido turbò Richard più di quanto si sarebbe mai aspettato.
Mentre gli uomini delle pompe funebri coprivano la bara, Nikki gettò un mazzo
di gigli fra la terra smossa, e presto altra terra li insozzò, e coprì, e
infine nascose per sempre.
Sulla via del ritorno avevano cominciato a cadere i primi
fiocchi di neve.
Prese una bottiglia di scotch e un bicchiere e si sedette
sul divano. Aveva intenzione di ubriacarsi solennemente, ma al secondo
bicchiere sentì il campanello suonare.
Si alzò svogliatamente per andare ad aprire. Sulla soglia,
cristalli di neve sui capelli, stava Elizabeth, avvolta in un cappottino
azzurro-cielo e una gran sciarpa, con un gran sorriso e una scatola di
biscotti.
Ottuso dall’alcol e dalla stanchezza, la lasciò entrare. La
sentiva cinguettare con la sua voce affettata, senza ascoltarla veramente (“Devi
essere distrutto, povero Richard!). La invitò a sedersi, ma lei rifiutò e
si mise invece a trafficare in cucina, sempre parlando con voce squillante.
Lui si sedette e bevve un altro paio di bicchieri.
Beth tornò da lui dopo pochi minuti.
“Ti ho preparato qualcosa di caldo: so che non avrai molta
fame…” Lo guardò con un’espressione sollecita.
“Ma devi mangiare!”
Reso malleabile dallo scotch, Richard trovò, quella sera, la
sua presenza chiassosa stranamente confortante.
Seduta di fronte a lui, lei lo guardava mangiare, protesa
sul tavolo, gli occhi sgranati.
Continuava a parlare, e il suo squillante cicaleccio lo
distraeva dal suo dolore: del teatro, del loro duetto, degli altri membri della
compagnia. Il suono della sua voce petulante lo tranquillizzava. Mangiò
svogliatamente l’omelette che gli aveva preparato. Sentiva, in parte per la
stanchezza, in parte per l’alcol ingerito, uno strano calore, una sensazione di
piacevole ottundimento.
Beth si alzò dalla sedia e andò alla finestra. Scostò le
tende. Richard la guardò: era molto carina, riconobbe.
Si rese vagamente conto che lei si era girata di tre quarti
per offrirgli il profilo, e si era scostata, a bella posta, una ciocca di
capelli dal viso.
“Oh, ma guarda! La neve ha già cominciato a coprire le
strade…” Si morse il labbro. “Bisogna che parta subito, o avrò dei problemi a
tornare a casa”, disse, in tono volutamente casuale.
“Resta qui, per questa notte. Ti porto a casa io,
domattina.” Le parole uscirono dalla bocca di Richard prima che lui potesse
riflettere. Qualcosa dentro di lui si era ribellato all’idea di rimanere solo
in casa: e la presenza di Beth, anche se invadente, era gradita quella notte.
“Oh, no, non voglio darti altro disturbo…” Si era appoggiata
languidamente e lo guardava con aria contrita, mordendosi di nuovo il labbro.
“Nessun disturbo. Dormirò sul divano - no, no, tranquilla,
non c’è nessun problema”, disse in fretta, in risposta a un suo tentativo di
ribattere.
“Ma non voglio sloggiarti dal tuo letto, Richard!”
“Nessun problema, davvero. Ci ho dormito altre volte, è
abbastanza comodo.” Mentì.
Beth sospirò con finta rassegnazione. Allargò le braccia.
“Beh, allora ti ringrazio, Richard: ero davvero preoccupata, all’idea di
guidare con questo tempaccio”, disse, in tono grato.
Si sedettero sul divano (“Hai bisogno di parlare,
Richard: sfogati pure con me”), e bevvero quel che restava della bottiglia
di scotch. In realtà fu Richard a finirla: Beth rimescolò lo stesso bicchiere
per tutta la sera, dando però l’impressione di bere quanto lui; quando venne il
momento di andare a dormire (Beth che si alzava dal divano e si stiracchiava
con voluta lentezza), lei andò nella camera di Richard per cambiarsi.
Ne tornò fuori con aria fintamente offesa, minacciandolo
scherzosamente col dito.
“Richard, dì la verità, vuoi dormire sul divano solo per
farmi sentire in colpa! Di là c’è un letto matrimoniale, ci si sta comodamente
tutti e due!”
Doveva essere davvero ubriaco, riflettè la mattina
dopo, per avere accettato la sua proposta.
Durante la notte lei gli si era gradualmente avvicinata, e
poi rannicchiata accanto, e lui ne aveva sentito il calore, la traccia del
profumo. Si era girato – stanco, confuso, sentendosi terribilmente solo - e
l’aveva presa fra le braccia, senza domandarsi il perché. Ricordava gli umidi
baci di lei, la sua carne tenera e leggermente sudata, i suoi mugolii nel buio.
Quando si era svegliato, Beth stava uscendo dalla doccia: i
capelli raccolti per non bagnarli, avvolta in un asciugamano, l’aria per nulla
imbarazzata. L’aveva salutato con un sorriso – Richard l’aveva guardata
inebetito, senza nemmeno rispondere - e aveva detto che sarebbe tornata a casa
da sola: le strade erano state pulite durante la notte. Si era vestita in
fretta e aveva lasciato la casa, sempre sorridendo; uscendo lo aveva salutato
di nuovo, con la mano guantata.
Chiusa la porta dietro di lei, Richard si sedette sul divano e si prese
la testa fra le mani
Chiusa la porta dietro di lei, Richard si sedette sul divano
e si prese la testa fra le mani. Non riusciva a capacitarsi dell’accaduto:
aveva sentito, è vero, storielle che parlavano di gente che, appena tornata da
un funerale, si precipitava a fare l’amore con una sorta di frenesia.
Ma a lui Elizabeth neppure piaceva!
Era molto graziosa, è vero; ma lui non aveva mai provato
molta attrazione per le donne, nonostante avesse avuto qualche ragazza prima di
incontrare Keith; ed Elizabeth era proprio l’opposto del suo tipo!
Atletica, esuberante, un poco sciocca, Richard l’aveva
subito soprannominata Barbie Girl. (Quando passava, diretta ai camerini
femminili, Richard cantava sottovoce “…Life in plastic, it’s fantastic”, e i
colleghi ridacchiavano.)
C’era in lei qualcosa che lo irritava: una sorta di malizia,
mista a un’eccessiva padronanza di sé. Non che fosse arrogante, ma sapeva fin
troppo bene di essere bella.
Si sentiva terribilmente male: il giorno del funerale di
Keith lui era andato a letto con una ragazza! Gli venne la nausea, in parte
provocata dalla sbornia della sera precedente.
Bevve un bicchiere d’acqua prendendola dal rubinetto, la
mano che tremava.
Sentì che doveva uscire di casa, fare qualcosa per evitare
di pensare alla giornata precedente. Prima il funerale, Nikki che cantava con
voce limpida, poi Beth, che si affaccendava in cucina, chiacchierava senza posa
e lo faceva ubriacare. Poi il letto, il profumo dei suoi capelli…
Ma certo! Richard si diede mentalmente dell’idiota. Era
stato tutto voluto, premeditato: Beth l’aveva consolato: gli aveva passato il
braccio intorno alle spalle, sfiorandolo quasi per caso ogni volta che si
muoveva; si era messa in mostra tutta la sera, raddrizzando le spalle,
allungando le gambe snelle fasciate dalle calze di seta; si era chinata su di
lui per fargli aspirare il profumo dei suoi capelli, e l’aveva fatto bere come
una spugna.
Ebbe un subitaneo moto di collera verso di lei. L’aveva
praticamente sedotto, e lui c’era caduto come un adolescente!
Furibondo con se stesso, afferrò il cappotto e uscì, diretto
verso la Sesta strada, nel tentativo di fare qualcosa che lo facesse sentire
meno stupido: trovare quel Benjamin, per esempio, ottenere delle informazioni.
Il vento gelido lo fece rabbrividire, ma anche sentire
meglio. Si avviò a piedi, le mani in tasca, la mente schiarita dall’aria fredda
e pura.
Richard riflettè per un attimo sulla direzione da prendere.
Nikki aveva detto che Keith aveva dovuto aggirare il cantiere della
metropolitana in ristrutturazione. Dunque lo studio di quell’avvocato doveva
trovarsi quasi in fondo alla strada, andando nella direzione che avrebbe preso
lui.
Si diresse rapidamente verso la più vicina stazione della
metropolitana e prese il primo treno, scendendo alla fermata della Sesta. Il
cantiere era ancora aperto.
Salì le scale e l’aria fredda gli sferzò di nuovo il viso. Avrei
dovuto consultare un elenco telefonico, pensò Richard, troppo tardi. Ora lo
aspettavano vari chilometri di strada da percorrere, guardando ogni campanello
per vedere se corrispondesse ad uno studio legale. Fu fortunato. Aveva percorso
poche centinaia di metri quando vide una targhetta d’ottone sul grande portone
di un edificio edoardiano: sperando fosse lo studio legale che cercava, si
avvicinò; ma la scritta recitava Studio Notarile Wilkes & Sons.
Richard ne fu deluso. L’avrebbe ignorato e avrebbe continuato per la sua
strada, ma l’occhio gli cadde sui nomi accanto ai campanelli. Sotto un Wilkes, John, c’era un Wilkes,
Benjamin.
Richard sentì un flusso di adrenalina percorrergli le vene.
Forse aveva trovato quel che cercava! Non un avvocato, un notaio: ma Nikki non
era mai stata precisa coi dettagli.
Pensò di salire e inventarsi una scusa per parlare con quel
Benjamin, ma quando spinse l’elegante porta a vetri (B. Wilkes, Notaio),
la testa gli si svuotò. E se fosse stato un errore, andare lì?
Forse Wilkes non avrebbe voluto parlare con lui. Forse non
era nemmeno la persona che stava cercando.
Era in preda all’incertezza, quando una segretaria di mezza
età, l’aria gentile ed efficiente, gli chiese se poteva fare qualcosa per lui.
“Devo vedere Mr. Wilkes”, rispose Richard, meccanicamente.
“Ha un appuntamento?”
Esitò. “Non esattamente”.
“Mi spiace, signore, ma senza appuntamento non --“
“Dica a Mr.Wilkes che vorrei parlargli a proposito di Keith
Finnegan”, disse d’impulso.
La segretaria lo guardò con aria perplessa, ma si alzò e
bussò con discrezione alla porta dell’ufficio. Mise dentro la testa per qualche
secondo.
Un attimo dopo, un uomo vestito con eleganza usciva
dall’ufficio con passo tranquillo.
Parlò con voce controllata, piacevole.
“Prego, entri. Io sono Ben Wilkes, e lei deve essere
Richard”
Richard rimase sbigottito nel sapere di essere atteso
Richard rimase sbigottito nel sapere di essere atteso. Entrò
nell’ufficio – legno scuro alle pareti, una libreria a vetri alta fino al
soffitto, mobili di buon gusto – e si sedette su una confortevole poltrona di
pelle.
L’uomo si sedette alla scrivania, congiunse le mani.
Non era certo come Richard se lo era immaginato: non molto
alto, esile, poteva avere quarant’anni. I capelli andavano ingrigendo, e il
viso dai tratti regolari non era sgradevole; ma non aveva nemmeno nulla di
notevole, tranne gli occhi, forse, di un azzurro intenso. Prima di parlare si
era tolto gli occhiali (tondi, metallici, quasi ottocenteschi), e guardava
Richard con un’espressione che a lui non riuscì di identificare.
Quando infine parlò, Richard ebbe la più grande delle
sorprese.
“Suppongo che sia qui per parlare del testamento.”
L’espressione sbalordita sul viso di Richard indusse l’uomo
a continuare, esitando: “…Non è così?”
“Testamento? Di quale testamento parla?”
Richard si sentì preso in contropiede. Testamento?
Guardò Ben Wilkes, che gli restituì lo sguardo con
espressione quieta, partecipe.
“Io non ne so niente, dev’esserci uno sbaglio.” balbettò,
confuso.
“Sono venuto a parlarle perché Nikki – la signorina Finnegan
– mi ha detto che lei e Keith vi frequentavate, e volevo chiederle se poteva
parlarmi degli ultimi giorni di Keith.”
Fu la volta di Wilkes di essere sorpreso.
“Frequentarci? Intende… Oh, no, no, no” Scosse la testa più
volte, disorientato in modo quasi comico.
“Mr. Finnegan e io avevamo esclusivamente rapporti d’affari.
Ci siamo incontrati svariate volte, questo è vero; ma solo per redigere un
testamento pubblico, di cui lei è stato nominato parzialmente beneficiario ed
esecutore. Pensavo che fosse qui per questo.”
“No! Io…” La sua voce risuonò stridula. Alzò le
braccia in un gesto di smarrimento, le lasciò ricadere. “Io non capisco.”
“Che cosa non capisce?” L’uomo si appoggiò allo schienale
della sedia, l’aria perplessa.
“Un testamento pubblico è un atto ricevuto da un notaio in
presenza di due…”
“No, no.” Richard scosse la testa. “Perché abbia voluto fare
testamento. Era giovane, sano… Non aveva neanche trent’anni, perdio!”
“Non lo so, mr. Williams, ma pareva avere, come dire? Una
certa fretta.”
Il notaio aveva assunto un’espressione imbarazzata.
“Fretta?”
“Già. O almeno, questa è l’impressione che ho ricevuto.”
Si guardarono per un po’, in silenzio.
“Capisco.” Disse infine Richard, che in realtà non capiva affatto.
La notizia, combinata alla sbornia della sera prima, gli stava procurando
un'altra emicrania. Si stropicciò gli occhi, che cominciavano a bruciare.
“Posso vedere il… uh, il documento?” Chiese, una pioggia di
puntini luminosi davanti agli occhi.
“Certamente.”
Wilkes si alzò ed estrasse una cartellina da uno schedario.
La aprì davanti a Richard e gli porse un foglio scritto a macchina; in calce,
la firma di Keith e quelle di altre due persone. I testimoni, pensò
distrattamente Richard.
Il contenuto del testamento era estremamente semplice.
L’appartamento in cui Keith aveva vissuto, di proprietà del
padre, tornava a mr.Finnegan, che poteva venderla per ripagare eventuali debiti
del figlio; una consistente somma di denaro – il lascito fiduciario di suo nonno
– andava a Nikki, insieme alla maggior parte della mobilia. A Richard erano
stati lasciati tutti gli effetti personali (abiti, accessori, il telefono
cellulare, il computer), i quadri e l’automobile, con il permesso di disporne
nel modo che preferiva. Avrebbe potuto vendere, tutto o una parte del lascito,
cederlo a terzi, oppure tenersi tutto quanto.
Non c’era altro. Keith non possedeva beni immobili, o denaro
suo.
Richard finì di leggere, indugiò sulla firma di Keith – la
sua mano aveva esitato, tremato, mentre apponeva quella firma? Ma no, il tratto
era fermo, netto, deciso.
“…prendere possesso dei beni ereditari, farvi apporre i sigilli,
presentare la denuncia di successione, pagare i debiti eredit
“…prendere possesso dei beni ereditari, farvi apporre i
sigilli, presentare la denuncia di successione, pagare i debiti ereditari,
rappresentare in giudizio l’eredità e rendere conto della sua gestione.”
Richard porse una copia del testamento a Nicole, seduta di
fronte a lui al tavolo di cucina dell’appartamento di Keith; lei gli diede una
rapida occhiata.
“Mi ha lasciato i soldi del nonno, dopotutto.” Posò il
foglio. Si mangiava le unghie delle mani, coperte dalle maniche troppo lunghe
della felpa. Fece un mezzo sorriso da dietro le dita piegate. “Diceva sempre
che li avrebbe dati all’associazione dei gatti randagi.”
“Prego?”
Risatina stanca. “Secondo Keith, andando in giro sempre
vestita da manovale, sarei diventata una vecchia zitella con la casa piena di
gatti randagi. Perciò diceva di voler donare direttamente i soldi a qualche
associazione per gli animali abbandonati, così avrebbe risparmiato tempo.”
Richard scosse la testa. “Proprio da lui.”
In effetti, però, quel giorno Nikki sembrava proprio un
operaio, con la salopette di jeans e le scarpe da tennis ingrigite. I capelli
corti le spiovevano, spettinati, sul viso struccato, facendola sembrare un
ragazzino.
Richard la guardò, meravigliandosi ancora una volta della
sua somiglianza col fratello. Nikki stava rileggendo distrattamente una riga
del testamento, rosicchiandosi le unghie, e gli occhi pallidi scorrevano il
foglio avanti e indietro.
Alzò lo sguardo su Richard, che si schiarì la voce,
imbarazzato.
“Se c’è qualcosa, di quel che Keith ha lasciato a me, che
volete tenere… Intendo, tu e tuo padre… Insomma, io non voglio…”
“Se Keith voleva che tu avessi queste cose, avrà avuto le
sue buone ragioni.” Nikki allungò una mano sul tavolo per stringere un attimo
la sua.
“Papà non vuole vedere nulla di quel che apparteneva a
Keith, quindi non ti devi preoccupare. Io non voglio niente, davvero.”
“Sicura? Nemmeno la macchina?”
“Oh, per l’amor del cielo, quell’affare succhiasoldi!
Spenderei tutto che guadagno solo per il carburante che mi serve ad andare al
lavoro. Dammi retta, Richard, vendila e comprati qualcosa di meno impegnativo.”
Nikki possedeva una Smart, che guidava come se fosse una bicicletta, facendola
scivolare tra un’auto e l’altra durante gli ingorghi e incuneandola fra un
albero e un idrante quando non trovava parcheggio.
“E comunque, c’è il sangue di mio fratello su quell’auto. Lo
so che l’hanno ripulita… Ma anche se non se ne vedesse più nemmeno una traccia,
non ci salirei nemmeno morta.”
Seguì un silenzio imbarazzato. Nikki tornò a rosicchiarsi le
unghie, a disagio.
Richard ruppe il silenzio, di nuovo.
“E i quadri?”
“Tienili. Non la posso soffrire, l’arte moderna. Tutti
quegli occhi, e nasi, e cubi, e… pffff.” Fece con le mani un gesto ad indicare
confusione.
“Non so nemmeno che farmene di questi mobili.” Indicò la
casa con un ampio gesto del braccio. “Dovrò venderli, suppongo. Chissà perché
li ha lasciati a me.”
“Credo che volesse fare una cosa equa.”
“Perché diavolo l’ha fatto?” si chiese Nikki,
soprappensiero.
“Beh, per accontentare quelli che…”
“No, no”, fece Nikki, con un gesto lievemente infastidito.
“Intendo, il testamento.”
“Oh. Me lo sono chiesto anche io. Il notaio dice che gli è
sembrato avesse fretta.”
“Che cosa sciocca. Perché avrebbe dovuto avere…”
I loro occhi si incontrarono.
Nikki alzò un dito ammonitore e glielo puntò contro.
“No, Richard, so cosa stai pensando…” disse, la voce
instabile.
“Nikki --”
“No!”
Gli occhi chiari le si riempirono di lacrime. Si premette la
mano coperta dalla manica sulla bocca.
“Nikki, non piace nemmeno a me ammetterlo, ma…” Richard
sospirò. “Come altro si può giustificare il fatto che abbia redatto un
testamento appena prima di morire, se non ammettendo che si è suicidato?”
Nicole si asciugò rabbiosamente gli occhi col dorso della
mano, lasciando sulla stoffa grigio chiaro della felpa le tracce scure delle
lacrime.
“Senza un motivo? Senza lasciare un biglietto?”
Richard abbassò lo sguardo.
“Forse non sapeva come spiegarcelo.” Mormorò.
“Forse non si è suicidato!” Le lacrime le scorsero sulle
guance.
Con quei grandi occhi azzurri pieni di lacrime, il viso di
porcellana contratto, a Richard ricordò Tami Stronach nella parte
dell’Imperatrice Bambina; quando il mondo cominciava a caderle letteralmente
addosso, e non c’era che una persona, che credesse ancora in lei...
“Va bene, va bene” Richard si alzò e andò ad abbracciarla.
“Va bene. Ti credo.”
Richard scese dalla Smart davanti alla porta di casa sua e salutò Nikki
con la mano
Richard scese dalla Smart davanti alla porta di casa sua e
salutò Nikki con la mano.
Mentre saliva le scale e infilava la chiave nella toppa, non
si accorse della musica soffocata che proveniva dal suo appartamento. Ma,
appena la porta si aprì, riconobbe immediatamente le note del brano di Riccardo
Drigo che faceva da colonna sonora al pas de deux.
Una ragazza in body e scaldamuscoli neri gli dava la
schiena; i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, provava un arabesque
appoggiata allo schienale di una sedia, nel salotto. Ai piedi portava
scarpette dalla punta di gesso.
“Elizabeth!”
Richard era allibito.
Vedendolo, lei sorrise, gli fece un cenno e andò a spegnere
lo stereo.
Gli corse incontro, con grazia, sulla punta dei piedi.
“Ciao, Richard!”, gli disse con calore, il sorriso che le
formava due fossette sulle guance.
“La tua padrona di casa mi ha fatto entrare.” Cinguettò. “Ho
pensato che un po’ di esercizio ti avrebbe fatto bene, sai, per distrarti. E
poi la prima è fra poche settimane, non possiamo permetterci di perdere tempo!”
Sorrideva in modo affettato, il tono brioso.
Richard la guardava, senza riuscire a capacitarsi della sua
sfacciataggine. La sua presenza, subitanea, fragorosa, era troppo da
sopportare.
Come si permetteva di presentarsi di nuovo a casa sua,
dopo quella sera?, si chiese.
Pensava forse di piacergli, solo perché lui si era
lasciato sedurre in un momento di sconforto?
“Elizabeth”, ripetè, freddamente.
Lei lo guardò, gli occhi pieni di ingenua sorpresa.
“Qualcosa non va?”, chiese.
Piccola ipocrita, pensò Richard. “Va’ via.” Disse.
“Subito.”
Il sorriso le si spense sul volto. “Come, prego?”
“Vattene da casa mia!”
“Ma, Richard, io --”
“Va’ via, via, via!” Le urlò Richard. Staccò il suo
cappotto, la sciarpa, il borsone dall’appendiabiti e glieli gettò addosso, con
malgarbo.
“Fuori di qui, adesso!”
La afferrò e cominciò a strattonarla verso la porta.
“Aspetta, aspetta, aspetta, non posso uscire così.”
Gridò allora lei, improvvisamente spaurita, comprendendo che faceva sul serio.
Puntò i piedi, si aggrappò al suo braccio.
“Ti prego, Richard! Congelerò, non posso camminare nella
neve con queste scarpette…” La voce le si era fatta piagnucolosa, uno stridulo
falsetto.
Richard la lasciò andare, d’improvviso. Tenne le braccia
ostentatamente lontano dal corpo di lei, come se bruciasse.
“Va’ in bagno a cambiarti.” Disse, duro. “E fai presto,
altrimenti ti butto nella neve così come sei.”
Elizabeth raccolse le sue cose e corse in bagno, spaventata,
la coda di cavallo che dondolava sulla sua schiena. Richard la sentì chiudere a
chiave la porta, gettare le scarpette sul pavimento.
Si lasciò cadere sul divano, la testa fra le mani.
Non poteva permettersi di farla arrabbiare. Era stato un
gesto da sciocco.
La sua posizione non era stabile come quella della ragazza;
era un novellino, e sapeva che, se Elizabeth avesse deciso di non ballare
con lui, la compagnia avrebbe messo qualcun altro al suo posto, piuttosto che
perdere lei.
Richard sussultò nel sentire la porta del bagno che si
apriva. Alzò gli occhi.
Elizabeth uscì con gli occhi bassi, rivestita, tenendo in
mano le scarpette di raso. Si era sciolta i capelli, che ora ricadevano a
nasconderle il viso.
“Beth, perdonami, io…” La voce risuonò sorda e innaturale
alle sue stesse orecchie.
“Non fa niente. Scusa se ti ho disturbato.” Mormorò
Elizabeth; la voce quieta, smorzata, non sembrava la sua. Gli passò accanto
senza guardarlo, strascicando i piedi.
“Elizabeth…”
Lei aprì la porta d’ingresso. Si girò e sembrò sul punto di
dire qualcosa, ma poi uscì dalla casa, senza una parola, chiudendosi la porta
alle spalle.
Prima la figura da imbecille nello studio del notaio.
Poi Elizabeth.
Si lasciò ricadere sul divano. Il giorno dopo, avrebbe
dovuto presenziare, insieme al notaio Wilkes, alla lettura ufficiale del
testamento davanti alla famiglia di Keith. Sperò ardentemente che non
sorgessero problemi – parenti che saltavano fuori a rivendicare la loro parte,
o chissà che altro.
Tirò fuori dalla tasca la sua copia del testamento – la stessa
copia non ufficiale che aveva fatto vedere a Nikki – e la rilesse.
L’orologio in cucina ticchettava nel silenzio, le lancette
si spostavano con suono netto, limpido.
Il suo sguardo si soffermò sulle firme dei testimoni. Chissà
chi erano, si chiese pigramente. Era stanchissimo; si stropicciò gli occhi
e si lasciò scivolare all’indietro sul divano, in una posizione semisdraiata.
Si appisolò, il foglio gli sfuggì di mano.
Quando, una mezz’ora dopo, si risvegliò, balzò in piedi di
scatto, col cuore che batteva forte: i testimoni!
Forse, dopotutto, le sue ricerche non erano arrivate al
capolinea. Decise di telefonare immediatamente al notaio, per farsi dire chi
fossero.
Se Keith li aveva scelti come testimoni, doveva aver dato
loro una spiegazione del suo gesto. Forse erano suoi amici, persone che lo
conoscevano bene…
Raccolse il testamento dal punto in cui era caduto, sperando
che la carta intestata dello studio notarile recasse anche il numero di
telefono di Wilkes.
C’era: Richard estrasse il cellulare dalla tasca e cominciò
a comporre febbrilmente il numero, le dita che formicolavano per la fretta e
l’agitazione. Aveva un presentimento, la sensazione di essere giunto a una
svolta. Mentre il telefono squillava a vuoto – la lentezza esasperante del
segnale di “libero” che gli riecheggiava nell’orecchio – Richard pregava
sottovoce che Wilkes rispondesse.
Quando infine, con un clic, la segreteria automatica
entrò in funzione – un’irritante voce femminile
Che pregava di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico
-, Richard gettò il telefono sul divano con gesto stizzoso.
“Maledizione!”, imprecò sottovoce. “Maledizione!”
Si rese conto di tenere ancora in mano il foglio. Nella foga
del momento lo aveva stretto con le dita fino ad accartocciarlo. Lo lisciò stirandolo
col braccio sul tavolo, poi si mise ad osservare le firme, cercando di
riconoscere i due nomi.
Il primo nome poteva essere Charles Hamilton, il secondo
Jack o John Gunson. Le firme dei testimoni erano abbastanza diverse, ma Richard
notò che i due avevano lo stesso modo di tracciare la “n”, in un rapido,
nervoso segno orizzontale, come di chi avesse fretta di finire.
Se solo avesse avuto un computer! Avrebbe potuto cercare i
due nomi rapidamente, informarsi in pochi minuti di chi potessero essere quegli
uomini.
Con un sospiro, si rassegnò a scendere dalla sua padrona di
casa per chiederle un elenco telefonico. Non avendo il telefono fisso, infatti,
non gliene era mai stata consegnata una copia.
Scese in fretta le scale, suonò alla porta della donna – una
grassa, sfatta matrona, con le calze contenitive e la voce arrochita dalle
sigarette, e una tendenza a chiamare tutti dolcezza.
Impaziente, suonò una seconda volta dopo pochi secondi,
senza lasciare il tempo alla donna di venire ad aprire la porta.
“Arrivo, arrivo”, la intese dire dall’interno della
casa, la voce soffocata.
Sentì la donna ciabattare verso l’ingresso.
“Chi è?”, chiese, stridula.
“Sono Richard, il suo vicino di casa. Avrei bisogno di un
favore.”
Un suono metallico avvertì Richard che la donna stava
rimovendo la catenella di sicurezza che chiudeva la porta. Un attimo dopo, la
faccia guardinga di mrs. Benteen lo guardava dal vano della porta.
“Che vuoi, dolcezza?”
“Mi potrebbe prestare un elenco del telefono? Per favore, è
molto importante.”
La donna grugnì e richiuse la porta. Richard rimase un
attimo perplesso per quel brusco trattamento, poi la sentì ciabattare di nuovo
verso l’ingresso.
La porta si riaprì, e mrs. Benteen si appoggiò allo stipite
col fianco, l’elenco del telefono in mano.
“Ecco qui, dolcezza”, disse gioviale, ma quando Richard
allungò la mano per prendere il grosso volume, lei tirò indietro il braccio.
“A-ha!”, lo fermò lei. “Te lo do se mi prometti di non
maltrattare più in quel modo quella graziosa biondina che è venuta a trovarti
l’altro giorno. L’ho vista scendere le scale in lacrime. Non si trattano così
le signore.”
Richard si trattenne dal ribattere che se quella graziosa
biondina non si fosse autoinvitata a casa sua, facendosi dare le chiavi da
mrs. Benteen, lui non avrebbe avuto motivo di trattarla male.
“Sì, sì, d’accordo”, disse frettolosamente.
Mrs. Benteen gli porse l’elenco. Richard lo afferrò e corse
di nuovo su per le scale.
“Che modi!”, borbottò la donna; poi richiuse la porta e mise
la catena.
Richard si sedette al tavolo della cucina e si mise a sfogliare le
pagine dell’elenco in modo febbrile
Richard si sedette al tavolo
della cucina e si mise a sfogliare le pagine dell’elenco in modo febbrile.
Grundy, Guard, Guerrant, Guerrero, Guess,
Gulley, Gunn, Gunning…
Scorse i nomi col dito, finchè non trovò quello che cercava.
Gunson!
Richard sorrise, trionfante,
quando il suo dito indicò il numero di telefono di Gunson, John,
residente in G. Washington Road 153/B, Manhattan.
Per scrupolo, continuò a scorrere
i nomi fino all’ultimo Gunson, per accertarsi che non ci fossero omonimi.
E qui ebbe la prima sorpresa.
Perché dopo Gunson, Rodney, Gutowski, Dmitri,e Haaney, Colleen,
c’era un Hamilton, Charles, residente a Cross Bay Boulevard, 1202,
Queens.
L’unico Hamilton, Charles
dell’elenco.
Che coincidenza, pensò Richard.
Entrambi nella stessa pagina.
E che strano, pensò, che Keith
conoscesse qualcuno del Queens; e che abitava sulla Cross Bay, fra l’altro.
Per quanto ne sapeva, su Cross
Bay c’erano quasi solo alberghi e residences da pochi soldi, abitazioni anonime
ed economiche predilette da piccoli spacciatori, operai, impiegati sottopagati.
Non certo la fascia sociale in cui Keith era solito cercare degli amici.
Pensò di essersi sbagliato.
Forse i due testimoni di Richard
erano di un’altra città, o magari del New Jersey, dove aveva dei parenti; o
addirittura del Maryland, dove aveva frequentato l’Accademia Militare di
Annapolis, spinto dal padre; uno dei tanti college della sua tortuosa
carriera scolastica,da cui era stato cacciato per droga.
Decise di fare comunque un
tentativo.
Compose il numero di Charles Hamilton,
che rispose al primo squillo, facendo sobbalzare Richard per la sorpresa.
“Chi è?”, chiese una voce
maschile, rauca, da vecchio.
In sottofondo, Richard poteva
sentire uno speaker commentare una partita di baseball.
“Chi diavolo è, ho chiesto!”,
disse, con un tono iroso, ma confuso, da ubriaco.
Richard era certo che una voce
come quella non potesse appartenere ad un amico di Keith: a qualcuno di cui lui
si fidasse al punto di farlo assistere alla stesura del suo testamento.
Ma aveva chiamato, quindi tanto
valeva accertarsene.
“Mr. Hamilton? Sono Richard
Williams, un amico di Keith Finnegan…”
“Chi?”
Richard chiuse il telefono,
guardando davanti a sé, come in trance.
Rimase seduto fissando la parete,
il cuore che batteva forte.
Pensò che avrebbe dovuto chiedere
spiegazioni a Wilkes, il giorno dopo.
Tentò, per scrupolo, anche
l’altro numero.
Un’allegra voce femminile rispose
al telefono.
“Chi parla?”, chiese, vivace.
“Signora? Sono Richard Williams,
vorrei parlare con mr. Gunsen, se è possibile.”
“Mi spiace, mr.Williams, mio
marito non è in casa. Sapesse quante chiamate ricevo, da quando è partito per
il Messico! Lei è un suo studente?”
“No, sono… Non importa. Sa dirmi
quando torna?”
La donna rise, un riso
squillante.
“Oh, santo cielo, no! Non sarà a casa
prima di aprile, forse maggio! Sa come sono, questi viaggi di ricerca.
John è partito appena prima di
Natale, dicendomi che non sarebbe tornato prima di sei mesi. E io che pensavo
di essermi accaparrata un uomo tranquillo, quando ho sposato un insegnante di
arte precolombiana; sa, io e John avremmo dovuto andarci insieme in Messico,
però all’ultimo momento…”
Ma Richard non l’ascoltava più.
John Gunson era in Messico, il
giorno in cui avrebbe dovuto firmare il testamento di Keith.
Sì, pensò, scendendo le
scale per restituire l’elenco a mrs. Benteen. Wilkes avrebbe decisamente
dovuto dare delle spiegazioni.
Questo e i seguenti risulteranno, temo, capitoli "di transizione" non molto densi di avvenimenti.
Ma, da brava grafomane, ho complicato eccessivamente la trama e ora la devo districare un po'. Spero che questa parte della storia non risulti troppo pesante, ma credo sia funzionale al proseguimento della storia. (Sì, lo so, dato che l'autrice sono io, avrei potuto evitare di ingarbugliare così le cose: ma i personaggi mi hanno preso la mano, facendo quel che volevano loro, e io ho una personalità troppo debole per contrastarli...)
E invece, Wilkes non diede nessuna spiegazione, quando si incontrarono
davanti a casa Finnegan, il giorno seguente
E invece, Wilkes non diede
nessuna spiegazione, quando si incontrarono davanti a casa Finnegan, il giorno
seguente. Prima di entrare, Richard lo aveva preso per una manica per farlo
girare verso di lui, e gli aveva parlato delle due telefonate a vuoto.
Sulle scale dell’ingresso, il
notaio si voltò; la luce si rifletteva sulle lenti degli occhialini tondi, in
modo che Richard non riusciva a vedere i suoi occhi, ma solo due cerchi
bianchi, inespressivi..
L’aria gli usciva a sbuffi dalle
labbra pallide, le guance scarne arrossate dal freddo.
Il taglio severo del suo
cappotto, gli occhiali fuori moda, la rigida borsa porta-documenti di pelle, lo
facevano sembrare un medico d’altri tempi.
“Non so che dirle, mr.Williams.”
aveva replicato, semplicemente.
Il tono quieto, quasi di scusa,
che aveva usato, convinse Richard di essersi sbagliato sul suo conto. Lo seguì
in casa, imbarazzato.
Wilkes si presentò e procedette
alla lettura del testamento, con voce bassa e pacata.
Quand’ebbe finito, si tolse gli
occhialini con gesto rapido, quasi un tic nerveux, e girò lo sguardo sui
presenti. I suoi occhi azzurro cupo passarono da Nicole a Richard, a Mr.
Finnegan.
“Qualche domanda?”, chiese
infine, gentile.
Tutti scossero la testa;
Mr.Finnegan si alzò dalla poltrona e lo ringraziò con voce turbata,
stringendogli brevemente la mano.
Wilkes ricambiò la stretta, ma
sembrò improvvisamente ansioso di andarsene. Scusandosi per la fretta, cominciò
a raccogliere le sue cose, quando Mr.Finnegan lo fermò.
“Mr. Wilkes, mio figlio le ha
dato tutto ciò che le spettava? Lei è stato così gentile, e io non vorrei
essere in debito…”
“Oh, no, no, Mr. Finnegan, sono a
posto con i pagamenti, davvero.” cercò di schermirsi l’uomo, a disagio.
“Per favore, può controllare? Non
è- non era raro che mio figlio lasciasse conti da pagare.”
“Controllerò, Mr. Finnegan, ma
sono sicuro che suo figlio mi avesse dato quanto dovuto.”
“In ogni caso, potrebbe lasciarmi
recapito telefonico col quale io possa contattarla?
“Ma certamente.” Wilkes tolse
dalla tasca della giacca un biglietto da visita, poi lo girò e scrisse qualcosa
sul retro. “Non ho ancora fatto stampare il numero del mio telefonino”, spiegò,
con un sorriso di scusa.
Mr. Finnegan prese il biglietto e
diede una rapida occhiata, poi se lo mise in tasca.
“Grazie, Mr. Wilkes.”
“Di nulla. Ora, se volete
scusarmi --”
Wilkes prese la borsa e il
cappotto, e uscì.
Richard, Nicole e Mr. Finnegan
restarono a guardarsi in silenzio, a disagio.
Mr. Finnegan si schiarì la gola,
si scusò e disse che andava a riposare. Prima di uscire, si girò verso Richard.
“Grazie per essere venuto”, disse.
Richard e Nikki rimasero soli.
“Dunque, Ben Wilkes era il suo
notaio, non il suo nuovo compagno”, disse infine Nikki, dopo un lungo silenzio.
“Già.”
“Mi spiace”
“Non fa niente.” Richard sospirò.
“Sai, ieri sera ho persino pensato che avesse falsificato il testamento”,
disse, e le spiegò brevemente gli avvenimenti del giorno prima.
“Fa’ vedere”, disse Nikki,
incuriosita, prendendo la copia che il notaio aveva lasciato sul tavolo.
“Vedi? Le firme sono diverse, ma
la lettera “n” è fatta allo stesso modo.”
Mentre lo diceva, Richard stesso si
rese conto di quanto debole fosse la sua argomentazione.
“Uhm.”, fece Nikki, poco
convinta. “A me sembra solo che entrambi avessero un po’ fretta. Anche io
scrivo in quel modo, quando non ho tempo.”
Posò il foglio e si appoggiò al
tavolo, le braccia conserte.
“E per quanto riguarda le
telefonate, può darsi che fossero le persone sbagliate. Forse erano amici di
Keith dai tempi del college.”
“Sì, probabilmente hai ragione”,
mormorò Richard, avvilito. Non tentò nemmeno di farle notare che aveva trovato
i due nomi nella stessa pagina dell’elenco. Gli avrebbe risposto che era ovvio,
dato che i loro cognomi erano uno seguente all’altro in ordine alfabetico.
Nikki si staccò dal tavolo. “Be’,
io devo andare, adesso. Non farti prendere troppo da questa storia, intesi? Hai
un lavoro da mantenere, Keith non vorrebbe che tu gettassi la tua grande occasione
al vento.”
Richard prese la sua giacca e si
preparò ad andarsene a sua volta.
“D’accordo.” Disse. “Cercherò di
non pensarci, per un po’. Ci vediamo, Nikki.”
Richard sedeva sul bordo del palcoscenico, allacciandosi i nastri delle
scarpette
Richard sedeva sul bordo del
palcoscenico, sistemandosi i nastri delle scarpe da danza. I suoni rimbombavano nel
teatro semivuoto: le voci dei tecnici delle luci, del direttore del teatro,
arrivavano attutite in un’eco incomprensibile.
Richard non ci faveva molto caso;
ripensava allo strano sogno fatto quella notte.
Lui ed Elizabeth eseguivano
insieme il pas de deux, ma non nel teatro: danzavano, senza musica, su
una spianata di terra battuta: al centro di un boschetto di magnolie fiorite,
ma ancora senza foglie. I rami neri e i bianchi fiori turbinavano intorno a
lui, ipnotici; Richard si distrasse a guardarli, e quando tornò con lo sguardo
a Elizabeth, notò una terza figura che si era aggiunta a loro, un uomo.
Ballava.
Richard aveva rivolto uno sguardo
interrogativo alla ragazza. “Oh, l’impresario ha deciso che dobbiamo eseguire
un pas de trois, come nell’opera originale”, aveva detto lei, in tono
indifferente. “Personalmente non sono d’accordo. Confonde gli spettatori, e mi
rende tutto più difficile.”
Mentre parlava, il terzo
ballerino si intromise fra loro, e urtò Elizabeth, che si ritrasse,
infastidita.
“Vedi? Così non si può fare.”
Richard stava per risponderle, ma
la scena cambiò improvvisamente. La figura maschile era sparita, ed Elizabeth
era seduta ad una massiccia scrivania di mogano, con un paio di occhiali da
lettura sul naso.
All’entrata di Richard, aveva
sollevato gli occhi, che avevano scintillato, azzurrissimi, dietro le lenti. Si
era alzata dalla sedia e aveva attraversato l’ampio, distorto spazio che la
separava da lui. Richard l’aveva vista camminare a zig-zag, la sua immagine più
volte alterata durante il percorso, come da specchi deformanti: prima alta, poi
bassa, prima uomo, poi donna.
Quando infine era giunta da lui,
gli aveva porto un foglio.
“Firma qui, Richard, per favore”,
gli aveva detto, seria. “Firma qui.”
Si era svegliato oppresso dal
ricordo del sogno, un’angoscia che non l’aveva abbandonato per tutta la
mattina. Continuava a pensare che il sogno fosse un messaggio, un indizio. Era
certo che la misteriosa figura maschile fosse Keith. Poteva forse significare
che Elizabeth aveva un ruolo nella sua scomparsa?
Infine, ancora scosso, aveva
telefonato a Nikki e le aveva raccontato tutto.
“Pensi che voglia dire
qualcosa?”, le aveva chiesto.
Sentì Nicole, all’altro capo del
telefono, sospirare, l’eco debole del traffico dietro di lei.
“Può darsi.” Aveva detto infine,
senza sbilanciarsi. “Ma credo che tu sia solo molto sotto pressione, Richard.
In fondo, nel sogno mio fratello non c’era, o ce n’era un’immagine molto vaga…
Mentre era ben presente il tuo lavoro, le preoccupazioni per l’esibizione che
dovrai sostenere fra pochi giorni. È normale che tu sia stressato e che questo
si rispecchi nei tuoi sogni.”
Richard l’aveva ringraziata e
aveva spento il telefonino.
Non voleva essere preso per un
visionario da lei, ma era sicuro che il sogno non fosse il risultato dello
stress.
“Ciao,Richard.”
Si riscosse e alzò lo sguardo.
Elizabeth lo sovrastava, in piedi dietro di lui. Sorrideva, con aria un po’
imbarazzata.
Per tutta la durata delle prove, Elizabeth si comportò come se il loro
alterco di pochi giorni prima non fosse mai avvenuto
Per tutta la durata delle prove,
Elizabeth si comportò come se il loro alterco di pochi giorni prima non fosse
mai avvenuto. Richard era cupo e silenzioso, ma lei pareva non accorgersene; o
forse fingeva di non notarlo.
Per parte sua, Richard ballò
molto peggio del solito, suscitando le preoccupazioni dell’impresario, che lo
mandò a fare due passi per rilassarsi.
Tanto per fare qualcosa, andò a
vedere cosa si provava sull’altro palcoscenico, nella sala più piccola del
teatro. Spesso lì si tenevano rappresentazioni di dilettanti o monologhi.
Quando entrò, colse le ultime battute di una canzone.
“I feel you, Johanna, I’ll steal you…”
Richard incrociò le braccia e si
appoggiò al muro, per seguire il resto delle prove.
“Cos’è?”, chiese a un tecnico di
passaggio, accennando allo spettacolo con un cenno della testa.
“Sweeney Todd. Tim Burton
l’ha trasformato in un film qualche mese fa ed è improvvisamente tornato di
moda, così ora tutte le scuole superiori della zona hanno prodotto la loro
versione teatrale.”
“Uhm, sì, mi pare di averlo
visto. È quello del barbiere assassino che vuole vendicare la moglie, no?”
“Proprio. L’insegnante di teatro
che gestisce questa versione ci sta facendo diventare matti, con le sue
richieste. Vuole che riproduciamo il forno di Mrs. Lovett con tanto di fuoco,
per rendere meglio l’atmosfera. Sa, la fornaia che aiuta il barbiere…?”
“Sì, sì, mi ricordo.”
“Beh, stiamo cercando di
convincerla che non possiamo procurarle un forno vero con delle vere
fiamme, ma non vuole sentire ragioni. Mah.” E il tecnico si allontanò, scotendo
la testa.
“Mrs. Quilty, la prego, se le
dico che non è possibile…” Richard lo sentì dire dietro le quinte, in tono
supplichevole.
Seguì un altro stralcio di
recitazione – il ragazzo che interpretava Sweeney brandiva maldestramente un
rasoio e parlava mangiandosi le parole – poi tornò alle sue prove.
Trovò Elizabeth inginocchiata sul
pavimento, che cercava freneticamente qualcosa a terra e supplicava i colleghi
di aiutarla.
“Che succede?”, chiese Richard ad
uno dei ballerini di fila, che stava chinato con lo sguardo a terra.
“Elizabeth ha perso una lente a
contatto, sta’ attento a dove metti i piedi.”
“Oh.” Richard abbassò gli occhi e
girò svogliatamente lo sguardo sul pavimento.
In quel momento, lo strillo
acutissimo di Beth risuonò nel teatro.
“L’ho trovata, l’ho trovata!”,
gridò con voce stridula, allegra. “Grazie a tutti, ragazzi.”
L’impresario, che era rimasto a guardare la pessima performance
di Richard prima, gli isterismi di Elizabeth dopo, decise che ne aveva abbastanza.
“Oggi non è giornata, ragazzi.”
Battè le mani. “Tutti a casa, si prova di nuovo domani mattina. Cercate di
riposare e calmarvi un po’, va bene? Vi voglio un po’ più equilibrati, domani.”
“In tutti i sensi”, disse
sottovoce a Richard, mentre gli passava di fianco. Richard ne fu mortificato:
durante le prove era quasi caduto durante un semplice garguillade.
Uscì dal teatro con lo sguardo a
terra, umiliato. Nevicava, faceva un freddo terribile: Richard si strinse nel
cappotto. Si guardò intorno alla ricerca di un taxi per tornare a casa – non
era nello stato d’animo per infilarsi in un affollato, vociante vagone della
metropolitana – e fece appena in tempo a vedere Elizabeth che fermava un taxi
giallo e nero. La giovane aveva indossato un berretto di lana bianco coi pompon
e una sciarpa pure bianca; le donavano molto, dandole un’aria da enfant
terribile.
Nel salire, la ragazza si voltò
un attimo verso di lui: sullo sfondo bianco di neve, con le labbra pallide per
il freddo incorniciato dal bianco della sciarpa, l’unica cosa che spiccava,
nitida, intensa, nel suo viso, era l’azzurro dei suoi occhi. I due si fissarono
per un istante, una frazione di secondo in cui Richard sentì il ricordo del
sogno, vividissimo, ripresentarsi alla memoria – poi Elizabeth salì nell’auto e
chiuse la portiera con uno scatto metallico.
Mente il taxi si allontanava,
Richard ripensò alla lente a contatto smarrita da Elizabeth, e venne assalito
da un pensiero improvviso: un ricordo, una coincidenza, uno strano ibrido di
immaginazione e realtà.
Richard si gettò sul divano con il cappotto ancora addosso
Richard si gettò sul divano con
il cappotto ancora addosso.
Ricordò quando aveva visto Sweeney
Todd: con Keith, al cinema. Cosa indossava, Keith, quella volta? Com’era
pettinato? Era allegro, nervoso?
Non se lo ricordava.
D’improvviso, Richard venne preso
dalla paura di dimenticare il suo viso; se lo richiamava alla mente, non
riusciva a ricomporlo alla perfezione.
Lo vedeva, questo sì, colto
nell’atto di fare qualcosa – girarsi verso di lui, sorridere –, ma era un flash
di un secondo; se cercava di fermare l’immagine, quella svaniva. Certo,
ricordava i suoi capelli – biondi -, il colore dei suoi occhi, la forma
dell’ovale; ma non riusciva a comporre questi elementi in un ritratto, una
figura salda e immutabile nella sua memoria: il viso di Keith oscillava e
scintillava nel ricordo come una monetina gettata in una fontana, che affonda
catturando i raggi del sole. Un momento si vede, il momento dopo non c’è più.
Richard pensò, angosciato, che
non aveva foto di Keith; nel periodo passato insieme, non c’era mai stata
occasione di farne.
Recuperò il telefonino dalla
tasca del cappotto e fece il numero di Nicole.
Quando rispose, le chiese, senza
nemmeno salutarla: “Puoi darmi una foto di Keith?”
Nicole fu presa alla sprovvista.
Esitò un attimo.
“Ma sì, certo.”, disse infine.
“Quando vuoi. Vieni alla villa, ti mostrerò quelle che ho.”
Meno di mezz’ora dopo, Richard
percorreva il viale di magnolie ed entrava nella villa.
Nicole era seduta sulla poltrona
di suo padre, le gambe ripiegate sotto il corpo. Teneva sulle ginocchia una
scatola di latta, che aveva contenuto dei biscotti, e ne estraeva delle
istantanee colorate.
“Oh, Richard, ciao.”, disse,
alzando gli occhi. Battè la mano sulla poltrona accanto alla sua, invitandolo a
sedersi. “Guarda cosa ho trovato. Sono foto di Keith al college.”
Richard si sedette e prese una
manciata di fotografie dalla scatola. Le sfogliò. Mostravano un Keith
sorridente, in divisa da hockey o con la felpa dell’università – il nome della
scuola stampigliato in lettere maiuscole, o in costume da bagno, insieme ad
altri ragazzi.
Una foto lo colpì più delle
altre. Mostrava un giovanissimo Keith – poteva avere diciassette, diciott’anni
– con le braccia sulle spalle di un ragazzo dai capelli scuri, gli occhi di un
azzurro intenso. Accanto a loro sorridevano Nicole e una ragazzina esile, con
lisci capelli castani, e occhi pure azzurri dietro le lenti. I due ragazzi
sconosciuti erano chiaramente fratello e sorella, e Richard ebbe la curiosa
sensazione di averli già visti.
Avvicinò la foto agli occhi per
guardarla meglio: la sensazione di deja-vù su accentuò, ma contemporaneamente
anche l’impressione di uno sfasamento, una confusione. Gli pareva di essere
davanti a uno di quei giochi di logica che si trovano sui supplementi di
enigmistica dei quotidiani, e di dovere trovare le differenze in due figure
simili ma non identiche.
“Chi sono questi due?”, chiese
infine, volgendo lo sguardo a Nicole.
Lei alzò gli occhi. Indicò con un
dito il ragazzo. “Questo era il migliore amico di Keith, John. E la ragazza è
sua sorella. Eravamo ad una gara di tiro al piattello, al college. Keith aveva
insegnato a me e a lei a tirare.”
“Li conosco?”
“Non credo. Lui è morto anni fa,
una brutta storia. Keith fu coinvolto nelle indagini, ma poi se la cavò con
un’ammonizione… Sai, era il periodo in cui aveva problemi con la droga, e John
è morto di overdose.”
“Oh.” Richard era scosso. Keith
non gliene aveva mai parlato.
“Credo che papà gli abbia dato
una mano, in quell’occasione. Ci fu un processo, sai, ma Keith riuscì a evitare
di parteciparvi. Fu espulso dalla scuola, però, e dopo non è più riuscito a
combinare nulla di buono.”
“Capisco. Dev’essere stato
difficile.”
“Non quanto lo è stato per i
genitori del ragazzo. Credo che la madre si sia uccisa, poco dopo. Soffriva di
depressione.”
Richard guardò la foto per
qualche istante, in silenzio.
“Come si chiamava, lei?”, chiese
infine, indicando la ragazzina.
“Oddio, Richard, non so... Non la
conoscevo bene, ci siamo incontrate pochissime volte. Becky - no, Betty, forse.”
Richard sentì la testa girare.
“Beth?”, chiese, con una
voce che suonò innaturale alle sue stesse orecchie. “Era forse Beth?”
“Sì, credo di sì. Ora che mi ci
fai pensare, era proprio Beth. Aspetta, com’era il cognome? Wilkers…?”
Provò un senso di vertigine.
Tutti i pezzi – particolari,
somiglianze, coincidenze - che si erano agitati nella sua mente, confusi e
sovrapposti, che avevano tormentato i suoi sogni, erano sfilati davanti ai suoi occhi ogni giorno, sfidandolo a comprendere, facendolo quasi uscire di senno; tutti quei pezzi scivolarono al loro posto,
naturalmente, incastrandosi l’uno nell’altro senza sforzo. Composero un mosaico perfetto, un'immagine semplice e luminosa, chiara come se fosse sempre esistita; in attesa solo di un movimento che riunisse insieme tutti i tasselli.
“Richard?”, lo chiamò Nicole,
preoccupata. “Che hai? Cosa succede? Stai male?”
Richard era pallidissimo. Con lo
sguardo fisso davanti a sé, mosse le labbra.
“Portami il numero di cellulare
che Benjamin Wilkes ha dato a tuo padre”, ordinò, in un tono che non ammetteva
repliche. “Subito.”
Capitolo un po' più lungo del solito, per tirare le fila della storia. Spero.
Quando ebbe in mano il biglietto, non si stupì nemmeno di vedere che,
nello scrivere in fretta cell num
Quando ebbe in mano il biglietto,
non si stupì nemmeno di vedere che, nello scrivere in fretta cell num.,
il notaio aveva tracciato la ‘n’ nel tratto nervoso e obliquo che aveva notato
nelle firme dei testimoni.
Sapeva già tutto, ormai; aveva bisogno
solo di capire come era successo, chi dei due avesse materialmente sparato. Non che avesse molta importanza; ma lo doveva a Keith.
“Mr. Wilkes? Sono Richard Williams.”
“Aspettavo la sua chiamata”,
rispose l'uomo, quietamente. “Vediamoci al mio ufficio, fra mezz’ora.”
“Ci sarò.”
Chiuse il telefono.
Nicole lo guardava con gli occhi
sbarrati. “Vuoi spiegarmi, per favore?”, chiese, allibita.
“So chi è l’assassino di tuo
fratello. Anzi, gli assassini. Ora devo andare.”
Lei sbattè le palpebre. “Cosa? Dove?
A chiamare la polizia?”
“A parlare con loro”, rispose
semplicemente.
“Sei matto?!” Nicole era sempre
più confusa; pensò che Richard fosse impazzito.
“Non parli sul serio.”
Silenzio.
“Dick, se davvero quelle persone
hanno sparato a Keith, cosa ti dice che non faranno lo stesso con te?”
“Perché io non ho fatto niente.”
“Scusami?”
“Non preoccuparti, Nikki. Non c’è
motivo di avere paura di loro.”
“Ma se…”
“Davvero, Nikki, non devi avere
paura.” Richard parlava in tono piatto, calmo, come in trance.
“Ti accompagno.”
“No!” Si riscosse, quasi
urlò. Si scusò subito. “Perdonami, ma è una cosa che devo fare da solo.”
“Sei fuori di testa”
“Ti racconterò tutto quando
torno.”
Nicole lo fissò. “Non penserai
sul serio che ti lasci andare a incontrare due assassini. Io chiamo la
polizia.”
Allungò la mano verso il
telefono, ma la mano di Richard spinse di nuovo la cornetta al suo posto.
“No. Per favore, fidati. Se non
ti contatto entro un paio d’ore, puoi chiamare chi vuoi. Ma prima di allora, mi
devi lasciare parlare con loro.”
“Ma…”
“Ci sentiamo, Nic. Prendo in
prestito la fotografia.”
“Richard…”
Ma lui era già uscito dalla
stanza. Nicole sentì la porta d’ingresso sbattere.
Benjamin Wilkes sentì bussare con
discrezione alla porta.
“Entra pure, Richard.”
Richard si richiuse la porta alle
spalle con un debole clic.
Il notaio gli dava le spalle.
Teneva in mano una foto di famiglia in una cornice d’argento. Il vetro sulla fotografia rifletteva la luce che entrava dalla finestra sul viso del notaio, come uno specchio.
“So cos'è successo”, disse Richard,
a disagio. Ora che era lì, non sapeva bene come comportarsi.
“Lo so.” Il notaio posò la
cornice sulla scrivania e si voltò verso di lui. Sul suo volto non c’era paura,
né rabbia, o sconforto, ma solo una placida, quieta rassegnazione.
“L’ho capito nel momento stesso
in cui mi hai chiamato.”
Ci fu un lungo silenzio.
“Perché?”, chiese Richard infine,
con un sospiro.
“Vieni qui, per favore.” Indicò
la cornice. “Guarda.”
Richard prese la fotografia.
Sullo sfondo di un prato verdissimo, stavano quattro figure in leggeri abiti
estivi; sorridevano con allegria, senza forzatura, come se avessero visto
qualcosa di divertente.
Un Benjamin Wilkes senza capelli
grigi passava il braccio attorno alle spalle di una donna dal viso dolce e dai
capelli scuri. Una bambina, indosso un vestito di cotone a
quadretti, strizzava gli occhi azzurri - identici a quelli del padre - dietro un
paio di occhiali; poggiava la testa sulla spalla di un ragazzo robusto e
abbronzato, in calzoncini corti. Erano seduti su una tovaglia, stesa sull’erba,
e un thermos pieno di tè freddo spuntava in mezzo a loro da una montagna di
tovagliolini di carta.
John ed Elizabeth Wilkes con i
genitori.
Richard estrasse dalla tasca la
fotografia di Keith e confrontò le due immagini.
La Elizabeth che lui conosceva, coi capelli
tinti e le lenti a contatto, si sovrappose alla bambina sorridente nelle fotografie.
“La mia era una famiglia felice. Oh, ma non una di quelle che fingono di esserlo, e nascondono i problemi dietro i
barbecue con gli amici e lo steccato bianco. Noi eravamo felici davvero. Mia
moglie era una donna fragile," disse. "Ma era anche così dolce, una così brava mamma… E sembrava avere trovato un po’ di
serenità, nei figli, nella vita di casa.” Sospirò.
“E John! L’avevamo chiamato come
suo nonno. Un ragazzo eccezionale. Sportivo, studioso, gentile con tutti: Beth
lo adorava, gli stava sempre intorno. E mai che lui si infastidisse” prese in
mano la fotografia di Richard, sorrise tristemente. “Anzi, la portava con sé alle gare della scuola,
le aveva insegnato il tiro a volo. Un altro ragazzo non avrebbe voluto che la
sorellina lo tediasse quando era con gli amici, ma a lui non dispiaceva.”
Posò la foto, si girò verso
Richard..
“Quando morì… Mia moglie non
resse il colpo. Era sempre stata così fragile." ripetè. "Si uccise coi gas di scarico, in
garage, una mattina che io e Beth eravamo fuori casa. Beth uscì quasi di senno,
quando la trovò.”
“Fu lei a trovare la madre?”
Richard si sentì invadere da un impeto di pietà e orrore.
“Sì, e di questo non mi perdonerò
mai. Charlotte teneva in garage i prodotti per la pulizia, perché non fossero
alla portata di Beth e John quando erano bambini. Quando non la vidi in casa,
pensai che fosse andata a prendere qualche detersivo in garage, e mandai
Elizabeth a darle una mano.”
Si tolse gli occhiali e passò una
mano sugli occhi.
"Ma che cosa c'entrava, Keith, con tutto questo?", chiese Richard, un nodo alla gola. Non riusciva a biasimare Wilkes e la figlia per quel che avevano fatto.
“John lo adorava: Keith era il suo
migliore amico, il suo idolo, il suo eroe. E come dargli torto? Era brillante, popolare, espansivo. I professori lo avevano in simpatia, piaceva alle ragazze. Quando Keith cominciò a fare uso di
droghe, John cercò di aiutarlo, ma alla fine ci cadde anche lui. Non so come
sia successo; ma una sera erano ad una festa studentesca, e John si sentì male:
morì poco dopo, in ospedale, senza riprendere conoscenza.”
Richard lo fissò.
“Quindi non è certo che sia stato
Keith a dargli la dose che l’ha ucciso.”
“Invece sì. John non si drogava;
avrebbe accettato di farlo solo se gliel’avesse chiesto Keith.”
Nel momento in cui lo diceva,
Richard capì che era vero. Keith aveva il dono di convincere le persone a fare
cose che non avrebbero mai sognato di fare. Era successo anche con lui: la sua
vita era cambiata da quando lo aveva conosciuto: molti dei suoi gusti si erano
trasformati, a emulazione quelli di Keith – il rito del caffè, i locali, i vestiti. Prima di conoscerlo, non era mai stato attratto da un uomo.
“Mi dispiace”, disse
semplicemente. “Mi dispiace davvero. Ma non avrebbe dovuto ucciderlo lo stesso”
Altro capitolo lungo. La storia è alla fine, manca solo un epilogo che spieghi ciò che eventualmente è rimasto oscuro e quali sono le sorti dei personaggi coinvolti.
Ho cercato di limare le parti che mi sembravano poco chiare... Ma non sono sicura di esserci riuscita del tutto. Spero che non risulti confuso.
“Sono stata io”, disse Elizabeth, con calma
“Sono stata io”, disse Elizabeth,
con calma. Stava ritta nel vano della porta, e puntava una piccola pistola col
manico di madreperla contro Richard. La mano le tremava violentemente.
“Beth, tesoro…”
“No, papà, è colpa mia” La sua
voce era ferma, al contrario delle sue dita. “Non voglio che tu abbia a pagare
per i miei sbagli.”
“Nessuno pagherà. La morte di
Keith è stata archiviata come suicidio, e io intendo lasciare le cose come
stanno.”
Era stato Richard a parlare. Dopo
un attimo di smarrimento, nel vedere la ragazza puntargli una pistola contro,
si era riavuto e aveva preso una decisione.
Elizabeth passava lo sguardo da
lui al padre, nervosamente.
“Cosa intendi dire?”
“Intendo dire, Beth, che se
avessi voluto denunciarvi l’avrei già fatto. Non sarebbe difficile per un
perito calligrafico stabilire che le firme sul testamento sono contraffatte, e
da qui a capire che il documento è un falso il passo è breve. Basterebbe questo per far sospettare tuo
padre di omicidio; se poi tornasse a galla la storia di John, non ve la
cavereste con tanta facilità.”
Elizabeth lanciò un’occhiata al
padre. Questi le fece un cenno col capo. Abbassò la pistola.
“Come hai fatto a collegarmi a
lui?”
“Grazie a un sogno.”
“Prego?” Beth si girò a guardare
Wilkes, che si strinse nelle spalle, perplesso.
“Ti spiego. La somiglianza fra te
e tuo padre è tutt’altro che evidente, specie ora che sei diventata bionda. Ma
c’è; non l’ho notata subito, naturalmente, ma devo averla registrata da qualche
parte nel subconscio. Ed è tornata a galla grazie a un sogno.”
“Sarebbe a dire…?”
“Ho sognato che portavi gli
occhiali. In quel modo, la somiglianza con tuo padre era molto più evidente: e mi sono reso
conto di chi mi ricordavi. Voi due avete gli stessi occhi. Identici.
Impossibile non notarli: credo che sia l’azzurro più intenso che io abbia mai
visto: difficile da dimenticare, specie quando si incontra su due persone
diverse in un lasso di tempo così breve.”
“Ma… Io non porto più gli
occhiali da anni, Richard, non puoi avermeli visti addosso.”
“Infatti, non li ho visti addosso
a te, ma a tuo padre. È qui che il sogno ha operato la distorsione: ha fuso le
vostre due figure in una sola. Ho visto te come lui, e viceversa.”
“Oh.” Elizabeth sembrava più
confusa di prima.
“Ma non sarebbe bastato questo,
nemmeno dopo averti visto cercare la tua lente a contatto. Dopo, ho collegato
quell’episodio al fatto che probabilmente avevi ereditato da tuo padre, oltre
al colore degli occhi, anche il problema alla vista che aveva lui; ma prima ho
dovuto inciampare in una fotografia. Questa.”
Richard prese la fotografia che
gli aveva dato Nicole e la porse a Elizabeth, che si era avvicinata. Lei la
guardò per qualche istante. L’espressione le si raddolcì; sembrava persa in un
ricordo felice.
“Come l’hai trovata?”
“Per caso. Ricordi quando,
durante le prove, l’impresario mi ha mandato a schiarirmi le idee dopo che ero
quasi caduto? Beh, mi sono fermato a guardare le prove di un gruppo di
ragazzini: rappresentavano un musical che avevo visto con Keith. Per ragioni
che non ti sto a spiegare, questo mi ha fatto venire in mente che non avevo
fotografie sue, e ho chiesto a sua sorella di farmene vedere alcune. Quando ho
preso in mano questa, vi ho riconosciuto. John era una versione giovane e senza
rughe di tuo padre, e anche tu gli assomigli molto.”
“John non meritava di morire. E
nemmeno mia madre.”
“No. E Keith, lui lo meritava?”
A Elizabeth tremarono le labbra.
“Una volta credevo di sì. Ho trascorso anni a immaginare la mia vendetta: non
ha mai pagato per quello che ha fatto a John, e a mia madre.”
“E ora?”
“Non ne sono più così sicura.”
Si asciugò rabbiosamente una
lacrima col dorso della mano.
“Sai, Beth, io credo che, a modo
suo, abbia pagato. Non è più riuscito a essere felice, da allora. Ha fallito
negli studi, nelle relazioni. Non aveva amici, non aveva sogni. Le sue letture
riguardavano sempre persone morte pagando per il proprio errore. Ora lo
capisco: Andrews, Scott… Non erano che proiezioni, simboli del suo senso di
colpa. Non sono uno psicologo, ma credo che desiderasse espiare il suo errore…
Rimediare. Suo padre, evitandogli il processo, lo ha privato di un’assoluzione:
la cosa che Keith desiderava di più.”
“È vero”, intervenne Wilkes.
“Quando sono andato da lui per parlargli, mi ha riconosciuto subito. Si è messo
a piangere: il mio desiderio di vendetta è sparito, quando ho visto l’infelicità
di quel ragazzo, il suo desiderio di essere una persona migliore. I finanziamenti ai giovani
artisti, i suoi progetti… Non erano che un modo per dirsi che poteva fare
qualcosa di buono.”
“Di cosa avete parlato, durante i
vostri incontri, se il testamento è un falso?”
“Ho dovuto stilare il testamento,
per coprire me ed Elizabeth: solo così potevamo sostenere l’ipotesi di suicidio
– sai, il giovane disperato che regola i conti prima di farla finita – e
contemporaneamente giustificare la mia presenza.”
“Vedi, Richard, Keith e io
avevamo avuto il nostro primo incontro sincero. Non cercò di discolparsi, anzi.
Voleva creare, col mio aiuto, una fondazione a nome di John, per aiutare i
giovani tossicodipendenti. Ma voleva farlo con le sue forze, senza chiedere
soldi al padre. Per una volta, voleva cavarsela da solo.”
Richard ricordò l’ultimo incontro
con Keith: gli era sembrato stanco, ma sereno. Sereno.
Finalmente aveva l’occasione di
riscattarsi, senza aiuto da parte di Mr.Finnegan.
“Mi credi, Richard?” chiese
Wilkes, equivocando la sua espressione pensosa.
“Sì, Mr.Wilkes. Le credo.”
“È per questo che Keith ti ha
lasciato senza spiegazione. Faceva parte del suo progetto: non voleva aiuti,
non voleva elogi o consolazioni. Doveva pagare da solo.”
“Capisco.” Ora a Richard tornava
tutto. La scomparsa repentina di Keith, il telefono sempre spento, l’aspetto
affaticato ma appagato, quasi ascetico, che aveva durante la loro ultima
conversazione. L’espressione di chi si è impegnato anima e corpo in qualcosa in
cui crede. L’espressione di chi si è riscattato.
“Richard”, intervenne Elizabeth.
“Perdonami per averti tormentato. Dovevo starti addosso, controllarti
continuamente. Non volevo che tu arrivassi a papà.”
Richard sorrise. “E io che
pensavo di piacerti”, scherzò.
Elizabeth sorrise debolmente.
“Sapevo che tu e Keith stavate insieme, per questo ho chiesto di essere
introdotta nella compagnia in cui ballavi tu… Era tutto programmato.”
“Perché l’hai ucciso, nonostante
quel che stava facendo?”
“Cerca di capirmi. Ti prego. Io
odiavo Keith. L’ho odiato per anni. Aveva ucciso mio fratello e condotto mia
madre alla morte. Mi aveva rovinato la vita… Ero solo una bambina, Richard!”
“E lui era solo un ragazzino,
Elizabeth… Era diventato una persona diversa, da allora.”
“Non m’importava. Quando l’ho
visto, vivo, a teatro - mentre John e la mamma non c’erano più, per colpa
sua!… Ho perso la testa. L’ho seguito a casa, ho memorizzato la strada in
cui abitava. Qualche giorno dopo, sono tornata con la pistola.”
La voce le si spezzò. Wilkes le
passò un braccio attorno alle spalle, la strinse a sé.
Elizabeth prese un profondo
respiro. “Mi ha aperto la porta, era in accappatoio. Non mi ha riconosciuta
subito, per via dei capelli. Gli ho puntato la pistola addosso: John mi aveva
insegnato a sparare, sono un’ottima tiratrice. Gli ho detto chi ero. Non
sembrava spaventato, solo… Triste.”
“Avevo intenzione di farlo morire
come era morta mia madre… Non tanto per ricreare la scena, credimi, ma perché
avrebbe avvalorato l’ipotesi di suicidio. Ma quando l’ho costretto a scendere
in garage, e lui ha capito quel che volevo fare… Mi ha guardato con una tale
espressione…! Dio, l’espressione di quegli occhi! ”
Nascose il
viso contro la spalla di suo padre. Singhiozzava.
Richard aspettò che si calmasse.
Quando, pallida ma ricomposta, si staccò dal padre e si asciugò le lacrime, lui
la invitò con un cenno a continuare.
“Mi ha guardato, ed era così triste,
così… Scusa.”
“Tranquilla, non fa niente.”
Elizabeth respirò a fondo.
“Mi ha guardato e mi ha detto:
‘Se vuoi spararmi, fallo. Ne hai tutti i diritti. Ma ti prego, ti prego,
non farmi passare per un vigliacco ancora una volta. Non voglio che si pensi
che sono sfuggito ai miei doveri. Di nuovo.’ Questo mi ha detto. Ed era
così calmo, e così triste… Non ho potuto sopportarlo. Ho chiuso gli
occhi e gli ho sparato, alla cieca. Non ha nemmeno tentato di schivare il
colpo.”
Richard si fermò davanti alla lapide di marmo lucido
Richard si fermò davanti alla
lapide di marmo lucido. Teneva in mano un mazzo di gigli zeffiro, avvolti in
carta di giornale.
Glieli aveva dati Nicole: li
aveva strappati da un ciuffo di gigli che crescevano, inselvatichiti, vicino
alla fontana dei pesci.
Con cautela, si sedette accanto
alla tomba, sull’erba nuova. Qualche pallida primula spuntava già fra le croci
del camposanto.
Richard appoggiò gli avambracci
sulle ginocchia.
“Lo spettacolo è stato un
trionfo, sai?”, mormorò, rivolto al tumulo di terra.
“Non ce l’avrei mai fatta senza
il tuo aiuto, Keith.”
Giocherellò un po’ con il bordo
del giornale, arrotolando la carta su se stessa, srotolandola con l’unghia.
“Non li ho denunciati, alla fine.
Sono sicuro che tu non avresti voluto.” Sospirò. “È stata dura convincere
Nicole, ma alla fine anche lei si è rassegnata a dirsi d’accordo con me. È
testarda, quella ragazza. Ma lo sai meglio tu di me.”
Un soffio di vento primaverile
agitò dolcemente i fiori nelle sue mani, come a dargli ragione.
“A tuo padre non ho detto nulla,
non mi è sembrato il caso. Vuole finanziare un’ala del nuovo teatro comunale a
tuo nome, sai? Pensa: un giorno potrei ballare in una sala dedicata a te. O
potrebbe farlo Elizabeth. È stata grande, la sera della prima. Penso non abbia
mai ballato così bene… Però non so se continuerà a farlo, in realtà. La tua
morte l’ha molto cambiata: l’ultima volta che ho avuto sue notizie, stava
partendo per una missione umanitaria, pensa!”. Richard sorrise.
“Forse anche lei avrà la sua
assoluzione, dopotutto.”
“Mr.Wilkes continuerà l’opera che
tu avevi iniziato, e penso che gli darò una mano. Nicole ha già promesso che
parte dei ricavati della sua prossima mostra saranno devoluti alla fondazione
‘John Wilkes’. Penso che tu saresti fiero di come sta diventando. E che saresti
fiero anche di me, almeno un po’.”
Richard si alzò.
“Sarà dura senza di te”, sussurrò
pianissimo. “Ma me la caverò. Grazie di tutto, Keith.”
Posò i fiori sull’erba tenera,
proprio davanti al marmo lustro.
“Riposa in pace, amico mio.”
Richard si voltò e cominciò a
camminare. Sembrò preso da un pensiero improvviso.
Tornò sui suoi passi, estrasse il
portafogli dalla tasca posteriore. Prese qualcosa, un foglio ripiegato.
Lo aprì e stirò con la mano, poi
lo posò a terra, fermandolo con i fiori. Sorrise.
“Stammi bene, Keith. Io di certo
lo farò.”
Se ne andò via, risollevato,
sereno. Non avrebbe mai dimenticato Keith, ma il ricordo, ora, sarebbe stato
dolce. Era certo che l’amico fosse in pace.
Un soffio di vento fece tremolare
i petali rosati dei gigli, e mosse appena l’oggetto sottostante.
I visi di Keith, di John, di
Elizabeth e di Nicole, giovani e sorridenti su uno sfondo d’erba - giovane e
verde come quella su cui la fotografia era posata - occhieggiarono fra i gigli.
L’angolo della fotografia
sfiorava l’ultima lettera della frase commemorativa.
KEITH FINNEGAN
BELOVED SON AND BROTHER
FAITHFUL FRIEND
The world to him was but a savage play
Hecame, saw, dislik'd, and
passed away
Ringraziamenti
Bene, sono arrivata alla fine di questa chilometrica storia. Spero che qualcuno l'abbia trovata una lettura piacevole.
Ringrazio tantissimo tutti coloro che hanno lasciato una recensione, rendendomi terribilmente soddisfatta di me.
Un grazie particolare a Mocchan, che è la "madre ideale" di questa storia, e a Mika, che mi ha costretto a scriverla.
Un grazie anche a HarryEly e a Mirkodancer per le loro parole di apprezzamento: credetemi, hanno significato molto per me.
Grazie anche a elrohir e IceWarrior, per avere avuto il coraggio di inserirla fra i preferiti.
Grazie, ragazzi. Grazie mille.
Ah, per inciso. Questo *non significa* che non sarò felicissima di ricevere altri commenti! XD