The story of a Dolphin

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***





In every colour there’s the light.
In every stone sleeps a crystal.
Remember the Shaman, when he used to say:
"Man is the dream of the dolphin".

~ Enigma ~

 
 
 
 
 
 
1.
 
 
 
 
 
 
Tuo padre sta morendo. Vieni subito a casa.

Okay, di tutti i messaggi che uno potrebbe ricevere, di certo questo non spiccherebbe nella top ten dei più gettonati.

Ma ormai lo sapevo da tempo.

Non ero mai stata fortunata, con gli uomini.

Partiamo dal principio, giusto per non fare confusione.

Il fatto di non essere mai andata d'accordo con mio padre non potrebbe, da solo, giustificare questa mia affermazione.

Ma il mio curriculum parla da solo.

Liti aspre, il più delle volte.

Strepiti, urla, insulti, le restanti occasioni.

Non ricordo neppure quante, a dire la verità.

Ce ne furono molte, in molte epoche diverse ma, fondamentalmente, il motivo fu sempre uno, e uno solo.

Io non ero – e non sono – come mi volevano i miei genitori.

Per questo, a diciotto anni, scappai con il mio fidanzatino del liceo, Kieran Murphy, per trasferirmi con lui nella mondana Dublino.

Abbandonammo le calme e noiose rive di Portmagee, nella contea di Kerry, per non farvi più ritorno.

All'epoca, mi parve una buona idea e, col senno di poi, certe cose non le butterei via. Ma, in pratica, quel mio colpo di testa mi costò la scomunica da parte dei genitori e tanto, tanto sudore e fatica.

Io e Kieran eravamo i classici ragazzini innamorati della vita – che parolona! Ma all'epoca ci credevo – che, ingiuriati dalle famiglie, decidevano di fare La Follia.

Ci sposammo neanche un anno dopo, con due testimoni raccattati a caso nel complesso folk dove suonava Kieran per mantenersi.

E lui morì neppure ventenne, lasciandomi i suoi debiti, e un appartamentino in un sottotetto dove, a stento, potevo dire di poter camminare in piedi, tanto era angusto.

Lo trovarono in un angolo di strada, in uno dei quartieri malfamati di Dublino, una pallottola in fronte e una nel petto.

Un regolamento di conti.

Non seppi mai se fu per droga, o per un debito di gioco.

La polizia lo archiviò come aggressione, perché non trovarono mai testimoni o prove di alcun genere per proseguire le indagini.

La famiglia ne richiese il corpo, e io non mi opposi.

Non sottolineai con loro che eravamo sposati e che, legalmente, avrei dovuto essere io a decidere della sua sorte.

Da quel breve matrimonio avevo già avuto tutto, perciò non volli prendere anche quello.

Piansi notti intere, pensando a cosa avevamo sbagliato, cosa ci fossimo illusi di fare, da soli e senza soldi.

Faticai non poco a non perdere il mio lavoro, presso la lavanderia sotto casa, ma per fortuna la proprietaria non mi buttò fuori.

Se fu per affetto o per semplice pietà, non volli mai saperlo.

Fui anche tentata di tornare a casa, ma la mia caparbietà me lo impedì.

Mi iscrissi all'università, trovai un altro lavoro e, quando finalmente riuscii a ottenere il mio tanto sospirato diploma di laurea in giornalismo, ero già vedova da quattro anni.

E a ventiquattro anni, non è il massimo.

Riemergendo a fatica da quei pensieri, guardai fissa la mia insostituibile aiutante e segretaria, il post-it giallo in una mano e la borsa con le mie inseparabili Canon nell'altra.

Mi parve a disagio, e non le diedi torto.

Chiunque ti porge un messaggio del genere, non può non sentirsi a disagio.

A parte i sassi, è ovvio.

Ma Eithe non rientrava nella categoria dei minerali, e neppure nella categoria degli insensibili.

«Mi spiace, Sherry... vuoi che dica a Todd di...»

La interruppi con un gesto della mano, su cui brillava solitario un pesante anello in argento e turchese.

Era un pezzo che avevo preso in India, durante un viaggio per conto del National Geografic, per cui scrivevo articoli e scattavo fotografie.

Il coronamento di un sogno, pagato di sicuro a caro prezzo.

La mia pinta di sangue, oltre alla mia oncia di carne, erano state ampiamente pagate.

Sorrisi a mezzo, mi grattai una guancia accartocciando al tempo stesso il post-it e, alla fine, aprii bocca.

Prima o poi avrei pur dovuto dire qualcosa!

«L'appuntamento con Todd non lo salto. E poi, dovrò pur dare a qualcuno tutto il materiale che ho raccolto a Ottawa. Che ci sono andata a fare, sennò?»

Cercai di mettere ironia nella mia voce di contralto, ma uscì più o meno l'equivalente di uno squittio.
Se fossi stata rossa di capelli come mia madre, a quel punto sarei avvampata in viso, ma avevo preso tutto da mio padre.

Gelida, imperscrutabile.

Da lui avevo ereditato anche i colori, non solo il carattere apparentemente serafico e incrollabile.

Ero nera di capelli e bianca di pelle. Sempre e comunque.

Dovevano ancora inventare qualcosa che mi facesse abbronzare per più di quindici minuti.

E il caro sole, che tanto ho pregato negli anni, neppure mi scalfisce.

Dovrebbero studiare il mio sangue, per farci una protezione solare coi controfiocchi.

L’unica punta di colore vera e propria erano i miei occhi, azzurri come le giornate d’estate più alte, quelle in cui ti illudi che il bel tempo possa durare in eterno.

Scossi la testa, scacciando quei pensieri assurdi, e riprovai.

Di solito, la seconda volta riesce meglio.

«Mi sa che mi prenderò un po' di ferie, a questo punto. Visto il tono del messaggio...»

«E' molto che non senti i tuoi?»

Eithe lo sapeva, ma forse sperava in un mio riavvicinamento dell'ultima ora.

Speranza vana.

Scossi il capo e mormorai un 'secoli' a mezza bocca, prima di veder comparire Todd – il nostro capo – sulla porta del suo ufficio.

A giudicare dalla sua faccia torva, Eithe doveva aver spifferato qualcosa.

Merda.

Non mi piace quando la gente vuole essere carina a tutti i costi, anche quando non è portata per esserlo.

Todd era uno di questi.

Un genio nel suo lavoro, un manager con le … beh, insomma, di polso, e con un fiuto per la notizia davvero eccezionale.

Dirigeva la sede locale del National Geografic da non meno di sette anni, e da tutti era visto come la mano destra di Dio.

Giusto per rendere l'idea.

Ma, insomma, nei rapporti umani era un po’ come me. Impacciato e, a volte, troppo indisponente.

Eppure, andavamo d’accordo. Vai a capire certe affinità elettive…

Mi fece un cenno – non è mai stato loquace, questo no – e lo seguii all'interno del suo ufficio, tutto fotografie e piante verdi.

Mi ritrovai a schivare la foglia tagliente e lanceolata di una dracena marginata e, quando mi accomodai sulla sedia di fronte alla sua scrivania dell'Ikea, gli domandai: «Ha mangiato uno dei facchini, quella pianta? E' gigantesca!»

Todd ridacchiò impacciato. Non voleva ridere alle mie battute per darsi un tono, ma falliva miseramente ogni volta.

Abbozzai un sorriso di scuse, e lui intrecciò le dita sul sottobraccio, impedendosi così di tamburellarle per il nervosismo, che vedevo chiaro nei suoi occhi.

Ahia.

«Com'è andato il volo?»

Classico esordio. La prossima domanda, quale sarebbe stata? Piove? C'è il sole?

Decisi di andare subito al dunque, e dissi: «Penso di prendermi un anno sabbatico, Todd. Mi spetta di diritto, lo sai, visto che non ho fatto un solo giorno di ferie – o malattia – da quando sono qui. Mi sono aperta in due, per te, e...»

Todd bloccò la mia arringa con un semplice cenno della mano e, cordiale, asserì: «So bene che potrei darti il distintivo di impiegato del secolo, Sherry. Volevo solo sapere come ti senti, ma faticavo ad arrivarci.»

«Ho notato. E io, come al solito, sono andata dritta sparata come un caccia bombardiere.»

Risi sommessamente.

«Se avessero mandato te, in Iraq, avresti finito la guerra in tre giorni» ironizzò lui, scrollando le ampie spalle da ex giocatore di rugby.

Feci la lingua, ma non dissentii. Mi conoscevo troppo bene, per dire il contrario.

E forse, solo il mio carattere mi aveva tenuto in piedi fino a quel momento, vista la vitaccia che avevo fatto per anni.

«Quindi? Come stai?»

«La verità? O il politically correct

Non mi rispose. Si limitò a sorridermi, come un padre che redarguisce bonariamente la figlia.

E, in parte, Todd aveva sempre avuto questo ruolo nella mia vita, fin dal primo giorno in cui ero stata assunta.

Gli veniva naturale? Forse.

O magari gli stavo simpatica io.

Anche in questo caso, non avevo mai voluto indagare a fondo.

Buffo, per un giornalista.

Ma certi segreti dovevano rimanere tali.

«Non so come sentirmi, a dirla tutta. Sono stordita, per la maggiore.»

Scrollai le esili spalle – che Todd era solito triturare ogni volta con la sua stretta – e non dissi altro.

«Mi sembra normale. Non hai mai avuto un vero e proprio rapporto, con loro» assentì, sciogliendo le dita per muoverle.

Forse, era arrivato a farle addormentare. Chissà.

Le scosse, apparentemente più nervoso di me, e aggiunse: «Lynn mi ha chiesto se avresti partecipato alla festa per i nostri venticinque anni, ma a questo punto...»

«Oh...»

Non riuscii a dire altro.

Lynn, la moglie di Todd, era la classica mamma dal grembiule bianco e i boccoli in testa.

Dolce come il miele, sapeva diventare un despota e tiranno, se non ti riguardavi.

E la prima volta che mi aveva vista, più magra di un chiodo e nervosa come una biscia, si era fatta personale carico di farmi ingrassare.

E calmare.

Nel primo caso, si era rivelata una causa persa.

Non avevo preso più di qualche chilo ma, nel complesso, ormai non sembravo più anoressica.

Essendo alta un metro e ottanta, e con un'ossatura delicata, non avrei mai potuto sembrare grossa, ma di sicuro non mi si contavano più le costole.

In compenso, Lynn era stata un mago come camomilla ambulante e, alla fine, era riuscita ad avere più o meno la meglio sul mio carattere riottoso.

Che se ne stava lì, pronto a scattare alla prima mossa falsa, ma per lo meno era più ammansito rispetto a otto anni prima, quando ci eravamo conosciute.

«Le spiegherò la situazione. Capirà.»

«Meritereste che io venissi da voi, altro che storie!» bofonchiai, grattandomi nervosamente il dorso di una mano.

«Sherry...»

Mi bloccai al volo, sapendo che era uno dei tic che mi venivano fuori quando ero prossima a esplodere.

«Perché non sei tu, mio padre?» mi lagnai, pur sapendo di essere infantile, al solo dire una cosa simile.

Lui mi sorrise comprensivo, sapendo bene cosa volessi dire.

«Ho quarantotto anni, Sherry. Avrei dovuto averti a quattordici anni!»

«Mi sarebbe andata comunque bene.»

Gli sorrisi generosa e lui, con lo sguardo, corse alla foto dei suoi due gemelli; Cory e Adam.

Due pesti di sette anni, giunte quasi a sorpresa per scombussolare le loro vite, e renderle perfette.
Loro mi chiamavano 'zia Sherry'.

E io li adoravo entrambi.

«Vai a casa, Sherry. Stai con la tua famiglia. Noi, qui, ce la caveremo. Ti chiamerò solo se saremo messi così male da non poter fare a meno di te, d'accordo?»

«Andata. Anche se ho una paura folle.»

«Di prendere l'aereo?»

«Ah-ah.»

Non dissi altro.

Mi limitai a consegnargli una chiavetta USB, dove avevo scaricato articolo e foto dopodiché, mogia, uscii dall'ufficio.

Salutai Eithe con un pugno contro pugno, seguito da un'arricciata di naso – nostro gergo in codice per dire che andava tutto bene – e, afferrata la mia giacca di jeans, andai via.

Quel che successe dopo, non rimase nella mia mente per più di qualche attimo.

Fu più che altro un susseguirsi di mansioni.

Lasciai le piante alla vicina di casa, perché se ne prendesse cura, spiegandole succintamente i motivi della partenza, e altri bla bla bla.

Passai in banca, dirottando temporaneamente la posta presso la casa dei miei nonni, a Portmagee e, con l'umore a terra, mi diressi al pub dei miei amici per avvertirli della mia imminente trasferta.

Alcuni di loro si stupirono persino di sentir nominare il mio paese d'origine – neppure lo conoscevano – mentre altri, preoccupati, mi chiesero se avevo bisogno di qualcosa.

Rifiutai aiuto e consolanti discorsi sull'amicizia e, con un bacio, mi dileguai in fretta.

Non ero mai stata una piagnona, e non avrei di certo cominciato quel giorno.

Sul finire della sera, stordita e con un calice di vino rosso in mano, tornai a guardare l'appunto di Eithe.

Non feci fatica a immaginare il tono di mia madre, serioso e composto, mentre snocciolava con autorità e tono ampolloso quello scarno messaggio.

Immaginai la faccia di Eithe nel riportarlo nero su bianco, così come sopportare i modi di fare sicuramente spocchiosi di mia madre. Doveva essere stato un brutto quarto d’ora.

Forse, si era spinta a usare persino una punta di alterigia, oltre al suo solito tono.

Ai suoi tempi lo aveva sempre fatto, con coloro che lei riteneva inferiori.

E io lo ero di sicuro, e così i miei amici.

Neanche lei fosse stata la Regina d'Inghilterra!

Risi tra me, finendo di bere il vino.

Neppure la sopportava, la regina. Mia madre era a dir poco idiosincratica, quando le si parlava di Impero Britannico e Corona.

Forse era cambiata, ma ne dubitai.

«E adesso mi tocca tornare in quel covo di pazzi.»

Sospirai di nuovo e, con una spinta pari a quella di un moribondo, afferrai il telefono e chiamai l'unica persona che, a Portmagee, mi era rimasta amica a dispetto del mio colpo di testa.

Attesi che qualcuno rispondesse alla chiamata e, quando avvertii il suono trillante della voce di Donna, mormorai: «Ciao, Donna. Sono Sheridan.»

Un attimo di silenzio e, subito dopo, la moglie del mio migliore amico esalò: «Oh... ciao, Sherry. Hai saputo, immagino.»

«Già. Ti scoccia se parlo un attimo con Fynn?»

Lei ridacchiò, come a voler scacciare i miei dubbi e, dopo aver chiamato il marito, disse: «Vieni a pranzo da noi, quando arrivi. Mi farebbe piacere vederti.»

Era buffo.

Io e Donna eravamo diventate amiche tramite telefono.

Non ci eravamo mai viste, in età adulta – l'ultima immagine che avevo di lei, apparteneva ai tempi del liceo – ma, da quando avevo ripreso i contatti con Fynn, sei anni addietro, avevamo imparato a conoscerci.

Io avevo inviato loro alcune foto mie, oltre ai posti che avevo visitato nel corso dei miei viaggi e loro, in compenso, mi avevano tenuto aggiornata sulle vicende di Portmagee.

E sui miei genitori.

Per non avermi detto nulla su mio padre, la notizia doveva essere più che fresca.

«Verrò senz'altro, Donna.»

Ciò detto, avvertii un brusio in sottofondo e, come un vento caldo e piacevole, la voce di Fynn attraversò la cornetta per avvilupparmi tutta.

«Ehi, terremoto, ciao.»

Sorrisi. Mi chiamava così fin dalla prima elementare.

E, anche quando avevamo fatto coppia fissa per un po’ al liceo, prima che la mia passione per Kieran mi portasse oltre il limite, non aveva smesso di usarlo.

Forse, se mi fossi accontentata di Fynn, sarei stata sposata con lui, con un paio di figli al seguito e...

Scuotendo il capo, rifiutai quello scenario.

Non avrei comunque sposato Fynn. Avevo impiegato poco per capire che lui, per me, sarebbe sempre e solo stato – e rimasto – un amico.

Forse, gli avevo persino fatto un favore.

Non ero certo la donna più facile da sopportare, almeno in quell'emisfero terrestre.

Donna era sicuramente una persona più adatta a lui e al suo carattere calmo e posato.

«Ciao, Fynn. Da uno a dieci, quanto è brutta, lì?»

«Oserei dire che dovresti usare la scala delle migliaia. Tua madre ha chiamato tutti i dottori d'Irlanda, indipendentemente dai desideri di tuo padre. Credo che abbia degli appuntamenti da qui al duemilaventi.»

La madre di Fynn non era solo la vicina di casa dei miei genitori, ma anche il miglior agente segreto dell'isola dei trifogli.

Se la regina avesse mai avuto bisogno di una spia, Shemaine Kriegan O'Keefe sarebbe stata la persona più adatta da contattare.

«Immagino che tua madre abbia preso appunti. Di solito, mamma è logorroica, in questo genere di cose, e tenerle dietro è quasi impossibile.»

Ironizzai, ben sapendo che Fynn non se la sarebbe presa. Contavamo sulle buone orecchie di sua madre proprio per tenere d'occhio i miei.

«Credo che abbia riempito un quaderno intero» assentì, facendomi sorridere per un momento.

L’attimo dopo, il suo tono si fece spiacente e colmo di dolore. «Mi spiace davvero, Sherry.»

«Non è colpa tua. Si sa, almeno, cos'ha? Nel messaggio, mia madre è stata criptica.»

«Cancro ai polmoni.»

«Merda! E dire che gliel'avevo detto di piantarla, con le sigarette!» sbottai, sentendomi male al solo pensiero.

Lo ricordavo seduto nel suo studio, come se lo avessi avuto innanzi in quel momento.

Il giornale della domenica in mano, intento a fumarsi la sua sigaretta senza filtro, mentre l'aria salmastra dell'oceano penetrava dalle finestre aperte.

Un mero compromesso per non far ammattire la mamma, che detestava i luoghi saturi di odore di fumo.

Forse, avrebbe dovuto preoccuparsi di più del fumatore in questione, piuttosto che della stanza maleodorante.

«Quando conti di rientrare?»

«Partirò domattina, sul presto. Penso di arrivare lì nel primo pomeriggio, comunque ti darò un trillo con il cellulare, quando sarò nei pressi di Portmagee.»

«Stai attenta, mi raccomando. Sono comunque più di quattro ore di auto.»

Sorrisi. Il caro, buon, vecchio Fynn, che pensava sempre alla salute degli altri.

Perché non mi ero innamorata di lui, al liceo?

Bel mistero.

Assentii tra me e dissi: «Starò attenta. A domani.»

Lui mi salutò con tono vagamente preoccupato, ma mi ero aspettata anche questo.

Tendenzialmente, niente riusciva a sorprendermi, o a cogliermi di sorpresa.

Solo una cosa, al momento, mi preoccupava, perché in questo caso non sapevo davvero cosa aspettarmi.

Che accoglienza mi avrebbe tributato la mia famiglia?





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N.d.A: e con questo capitolo, inizia una nuova serie, intitolata "The Cross of Changes". Sarà composta da quattro racconti e, a partire dalla seconda storia, sarà un crossover con un'altra serie che ho scritto, "La Trilogia della Luna". (giusto per darvi una mano a livello pratico)
Per chi non lo sapesse, The Cross of Changes è il titolo di un album degli Enigma, e i titoli delle varie storie riprenderanno quelli di alcune canzoni del sopracitato gruppo. 
Sono stati loro a ispirare queste storie, e spero sinceramente potranno emozionarvi.
Vi ringrazio in anticipo se vorrete seguirmi anche su questo vascello, diretto verso una nuova meta.
A presto!


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Capitolo 2
*** 2. ***


2.
 
 
 
 
 
Per essere un'irlandese, avevo girato davvero poco la mia terra.

Avevo passato più tempo all'estero, col culo spaparanzato sulle poltroncine sempre diverse di mille aerei, che in giro per le strade della mia isola.

Attraversarla per intero fu quasi catartico, per me.

A un certo punto, per non farmi mancare nulla, decisi di uscire dall'autostrada per concedermi una breve deviazione nelle campagne lussureggianti.

Quel giorno, così raro e prezioso per ogni irlandese che si rispettasse, le campagne erano inondate da un sole caldo e gradevole.

Ben presto il brutto tempo sarebbe tornato, assieme ai venti freddi, alle tempeste di neve e a tutto il corollario, ma per ora l'estate stava per bussare alla porta.

Mi fermai per un pranzo veloce presso il bar di uno sperduto paesino del Kerry – non controllai neppure il suo nome – e, in quel momento di tranquillità, ne approfittai per chiamare Fynn.

Lo avvisai del mio ritardo, dicendogli che sarei giunta intorno alle tre del pomeriggio, dopodiché gli raccontai delle mie deviazioni sul percorso.

Fu la paura a rallentare il mio passo? Forse.

Non mi entusiasmava l'idea di rimettere piede a Portmagee, con quella Spada di Damocle sulla testa.

Ma tant'era. Mio padre stava morendo, evidentemente mi aveva cercata, e mia madre si era data da fare per trovarmi.

Se c'era una cosa che lei sapeva fare, era esaudire i desideri di mio padre.

Quasi tutti, per lo meno.

Con me, aveva toppato alla grande.

Mi rimisi al volante della mia Mini Minor dal tettuccio colorato – esponevo orgogliosa la bandiera tibetana – solo dopo aver terminato il mio panino.

Distratta, infilai l’ennesimo CD nel lettore. Non avevo voglia di ascoltare la radio e i commenti dei DJ.

Volevo solo stordirmi di musica e non pensare che mio padre stava morendo, quando io non avevo la più pallida idea di come affrontare un evento simile.      

Optai per l'ultimo album degli Evanescence, e lasciai che la voce perfetta e potente di Amy Lee mi portasse nel suo mondo dark e dolente.

Non che non avessi già buoni motivi di mio per sentirmi dark e dolente, ma la voce di Amy era troppo bella perché non mi lasciassi prendere dal suo sound trascinante.

Fu con l'ultima canzone dell'album, che giunsi finalmente dinanzi alla casa dei miei genitori, nel centro di Portmagee.

The Mooring's, il ristorantino di proprietà del cugino di mamma, era aperto.

Quando parcheggiai dirimpetto all'entrata, scorsi alcune persone all'interno, intente a pulire pavimenti e tavolini.

L’esterno, ancora di un intenso e caldo color carminio, risollevava l’umore al solo sguardo.

Mi era sempre piaciuto quel posto, così come avevo sempre adorato le tinte allegre di quella via, con le casette le une attaccate alle altre, le vecchie porte aperte sul molo.

Quante volte avevo corso su e giù, rincorrendo i bambini più grandi che gironzolavano con le biciclette?

Un numero pari alle mie ginocchia sbucciate, retaggio di tutte le cadute dovute a quelle corse sfrenate nel tentativo di raggiungerli.

Sorrisi mesta, al ricordo.

Non ero mai stata una bambina facile, o tranquilla. Né lo ero ora, a trentaquattro anni compiuti.

Lanciai un ultimo sguardo al bar e, alla fine, mi decisi a non indugiare oltre.

Avrei salutato il cugino Cornelius e il suo staff più tardi: ora mi spettava un compito più arduo, e di certo meno gradevole del rivedere amici e parenti.

Dovevo affrontare il drago nella sua tana.

Afferrai perciò la mia borsa, chiusi l'auto e mi avviai verso la palazzina a lato del locale tutto colori sgargianti e profumi deliziosi.

Dubitai subito che, all’interno della mia casa natia, avrei trovato altrettanta luce o calore.

Presi perciò un gran respiro e suonai il campanello.

Mamma venne ad aprirmi dopo alcuni attimi e, sulle prime, non mi riconobbe affatto.

Ero partita magra come un chiodo, coi capelli sparati in testa, alcune ciocche blu e rosa, gli occhi bistrati e più piercing alle orecchie di quanti avesse mai sopportato.

Ora, invece, ero lì dinanzi a lei con una camicia di sartoria, pantaloni beige con la piega, tacchi vertiginosi ai piedi e i capelli in ordine.

E da notare, dello stesso colore, neri come la notte più buia.

Ma, soprattutto, ero senza piercing alle orecchie e gli occhi erano truccati in modo elegante, formale.

Insomma, un bel cambiamento.

«Ciao, mamma.»

Non mi venne in mente niente di più brillante da dire, ma evidentemente bastò a scuoterla dal torpore in cui era caduta.

Si riprese subito e, scostandosi dalla porta, mi permise di entrare.

Non disse niente, né tentò di abbracciarmi, o chiedermi come stessi.

Non l’aveva mai fatto neppure quando abitavo lì, perciò non mi stupii di tanta freddezza.

Mi accompagnò verso il salotto – uguale a come lo ricordavo – e, con un cenno rivolto al divano, finalmente aprì bocca.

«Accomodati pure. Chiamo papà.»

Annuii mentre lei prendeva la via del cucinotto, chiudendo la porta a vetri satinati senza produrre alcun rumore.

Con uno sbuffo infastidito, mi sedetti sulla poltrona accanto alla finestra, velata da leggere tende di batista bianca, senza fronzoli o ricami.

Iniziai subito a tamburellare le dita lunghe e sottili, su cui splendevano tre anelli in oro rosso e granati levigati.

Cominciai dopo pochi secondi a chiedermi come avrei potuto affrontare la situazione, se già mamma non mi parlava che a monosillabi.

Una mano si levò impulsiva a cingere una ciocca di capelli, con cui giocherellai finché non udii la porta aprirsi.

Mi volsi lesta, e alcune ciocche della chioma corvina si sparpagliarono sulle mie spalle.

Poggiai i miei occhi cerulei su un volto che non vedevo da anni, e rimasi turbata.

Era... vecchio.

Non lo avevo mai immaginato vecchio.

Mio padre era sempre stato imponente, inaccessibile, freddo. Un vero rompipalle, quando si trattava di sgridarmi per qualsiasi cosa.

Ma mi era parso impossibile che lui potesse invecchiare. O che qualcosa potesse anche soltanto scalfirlo.

Eppure, l'uomo che avevo innanzi, non era quello che avevo lasciato sedici anni prima, in quella notte d’estate inoltrata.

Quest'uomo era magro, col volto percorso da una smorfia di dolore, gli occhi spenti e la pelle grigiastra.

I capelli, canuti e crespi, sembravano sottili e deboli, non robusti come li ricordavo.

Mi levai in piedi come spinta da una forza invisibile, mossi qualche passo verso di lui, le braccia già levate per abbracciarlo.

Ma lui si scostò.

Andò a sedersi sul divano assieme a mia madre, facendo in pratica fronte comune contro di me, come sempre.

E io compresi come sarebbe stato il mio rientro in famiglia.

Né più né meno come la mia partenza.

Segnata dal dolore, dalla rabbia e dall'incomprensione.

Tornai a sedermi e, accavallate le gambe, decisi di fare come volevano loro, per una volta.

Mi mostrai al meglio, e lasciai che mi guardassero per quello che ero diventata.

Una donna in carriera. Seria e posata, almeno in apparenza.

E quanto contava, per la mia famiglia, l’apparenza!

«Sembri più alta.»

Quella constatazione mi colse alla sprovvista. Era ben strano che la mia altezza gli paresse così anomala, o fosse l’unica cosa a notare in me di diverso.

Ugualmente, replicai.

«Il tacco dodici fa miracoli. In tutto, misuro centonovantadue centimetri d'altezza, e fa un certo effetto, su chi mi guarda.»

Lo dissi senza ironia, come un dato di fatto.

Era vero.

Sapevo di essere una bella donna, di avere un fisico da modella – in quanti mi avevano tentata con un book? – e di possedere quel genere di sguardo che piace ai fotografi.

Semplicemente, volevo essere più di bel corpo, e quindi non mi ero mai fatta comprare. Punto.

Ma giocare le mie carte, ogni tanto, era utile.

E avevo sperato che fare bella figura con i miei genitori, mi avrebbe risparmiato qualche reprimenda, visto che solitamente giravo per casa con pantofole, pantaloni di felpa e maglie da rugby.

«Hai tolto tutto quel ferro dalle orecchie.»

Ancora a studiarmi. Forse, stentava a collegare la figura nella sua memoria, con la donna che aveva davanti?

Mi sfiorai un orecchio, annuendo.

«I fori si sono chiusi quasi tutti, ne ho tenuti tre su un lato e due sull'altro. Ma ho pensato di non mettere niente, oggi.»

Scrollai le spalle, lasciando che il resto della frase lo inventassero loro.

Mamma non aveva ancora parlato.

Continuò a squadrarmi come per registrare eventuali difetti e, non trovandone, sembrò accigliarsi ogni secondo di più.

Difficile trovare dei difetti in un tailleur di Dolce & Gabbana, e in scarpe Manolo Blanick.

«Fynn ci ha mostrato il tuo ultimo articolo. Hai fatto delle belle foto» asserì a quel punto mio padre, estraendo da sotto il tavolino del salotto una copia del National Geografic.

Fissai la copertina patinata, il primo piano di una goccia d'acqua – che avevo estrapolato dalle cascate del Niagara – e mormorai: «Ci sono quasi finita dentro, per prendere quella in particolare.»

Nessuno dei due commentò, né fece battute sarcastiche – neppure sapevo se ne erano capaci – così, iniziando a spazientirmi, esalai: «Posso sapere come stai, papà?»

«Un tumore ai polmoni al quarto stadio. Dicono che non possono farmi il trapianto, perché non servirebbe» mi disse con semplicità, senza nessuna inflessione nella voce.

Rimasi raggelata dalla sua calma e, senza riuscire a trattenermi, rabbrividii.

Mamma non parve comunque essere d'accordo con la sua diagnosi.

«Solo perché ci siamo rivolti a degli incompetenti. Vedrai che, quando ti visiterà il dottor Al Maliki di Belfast, ti dirà tutt'altro. Lui è un luminare nel campo dei trapianti.»

Fissai scettica mio padre, le cui condizioni fisiche erano più che evidenti e, perplessa, replicai: «Non credo sia il caso di portarlo fino a Belfast, mamma. Potrebbe...»

«Non ti ho chiamata qui perché mi dessi dei consigli!» sbottò immediatamente, fissandomi con livore. «Sei qui solo perché ti ci voleva papà! Ma non ascolterò le dissennate parole di una figlia negletta, che se n'è andata da qui contro il nostro parere e, per sedici anni, ha fatto finta che fossimo morti!»

Fissai il soffitto a cassettoni di legno e sbuffai, cercando di non prenderla male.

Lei era sempre stata così, non era una novità.

Come non era una novità che mio padre non replicasse alle parole di sua moglie.

Ero io quella fuori posto.

«Voglio soltanto dire che papà non mi sembra in grado di affrontare un viaggio così lungo, e che sarebbe più sensato chiedere al dottore di venire qui, piuttosto che il contrario. Non mi sembra vi manchino i soldi per un consulto personale.»

Ecco, l'avevo detto.

Non è che non sapessi della cospicua eredità che avevano ottenuto, alla morte dei miei nonni materni; ne avevo ricevuto notizia anch’io.

Però, avrei preferito non saltasse fuori a quel modo.

Mia madre, ovviamente, prese malissimo il mio appunto, e si accigliò non poco.

Si limitò a scrollare le spalle e, supponente, sentenziò: «Immagino che quella pettegola di Shemaine sia stata ad ascoltare una volta di troppo.»

«La madre di Fynn non c'entra un accidenti di niente. Il notaio mi inviò una lettera in cui mi disse che tutti gli averi dei nonni sarebbero andati a voi, mentre a me, in quanto unica nipote, mi sarebbe spettata la collezione di dischi del nonno. Punto.»

«E suppongo che li avrai gettati tutti» mi incalzò mia madre, fissandomi bieca.

Sbuffai sonoramente, iniziando a perdere la pazienza.

Puntati gli occhi su mio padre, che stava osservando la scena con aria dolente, e mi limitai a dire: «Se ti interessa qualche disco del nonno, papà, posso fartelo mandare. Se non erro, ti piaceva molto la compilation di Ray Charles.»

Lui annuì. «Mi interesserebbe, grazie.»

«Chiederò alla mia vicina di prenderlo e spedirmelo.»

«Hai lasciato le chiavi di casa tua a un'estranea?!» sbottò ancora mia madre, facendo tanto d'occhi.

«Cara, sicuramente Sheridan la conosce bene, se...»

Non si poteva replicare a quel modo ad Eileen O'Connell, questo era poco ma sicuro.

Mise un broncio epico e, per smorzare subito i toni, dissi atona: «Miss Penny Gordon è una cara signora. Vive nel mio stesso palazzo da venticinque anni, è la mamma del portinaio, Thomas, ed è mia dirimpettaia sul pianerottolo. Si occupa delle mie piante, di solito ma, visto che non avevo idea di quanto tempo sarei stata via, le ho lasciato le chiavi per controllare che nell'appartamento tutto fosse a posto. Se volete, vi do il suo numero di telefono, così potete controllare.»

«Va tutto bene, Sheridan. Immagino che, in sedici anni, tu ti sia fatta qualche amica» asserì quieto mio padre Brendan, dando una pacca sulla mano alla moglie.

Della serie, 'lascia fare a me, visto che tu ti inalberi subito'.

Papà era il paciere ufficiale, nella mia famiglia ma, a conti fatti, era sempre stato dalla parte di mamma. Aveva sempre evitato che ci prendessimo per i capelli ma mai, in tanti anni, si era dichiarato d'accordo con me.

Neppure una volta.

Mamma invece era... beh, quella che era.

Non mi sentivo di darle interamente la colpa, visto che sapevo benissimo di avere un carattere incompatibile con il suo.

Desideravo soltanto che mi prendesse per quella che ero. Tutto qui.

Io non avevo mai cercato di cambiarla.

O, per lo meno, non che io ricordassi.

«Todd e Lynn Hempstead sono i miei più cari amici, e sono madrina di battesimo di uno dei loro gemelli. Di Cody.»

Mi affrettai a estrarre dalla borsa il mio borsellino, dove tenevo la foto dei gemellini e, dopo averla allungata a papà, aggiunsi: «E' quello di sinistra, con la tutina gialla. L'altro è Adam.»

Brendan annuì pensieroso, forse chiedendosi come i genitori di quelle creature adorabili avessero potuto ritenermi una valida madrina.

«So che mamma ha parlato con la mia aiutante, Eithe O'Carolan, anche dopo la mia partenza. Con lei, siamo amiche dai tempi dell'università, ed è stata assunta un anno dopo di me, su mio consiglio.»

«Non mi è parsa molto sveglia. Quando le ho detto chi ero, è ammutolita» brontolò mia madre, irritata.

«Forse perché terrorizzi la gente?» ironizzai, caustica. «Mamma, Eithe sa benissimo che sono scappata di casa. Probabilmente, pensava ci fosse un errore. Soprattutto, visto che le avevo detto subito che sarei partita per venire qui. Pensavi sarei scappata per andare a Pechino?»

«E tu racconti i fatti tuoi al primo venuto?» protestò mia madre, forse irritata che Eithe mi avesse messa al corrente della sua seconda chiamata.

La porta d'entrata si aprì, interrompendo qualsiasi mia arringa.

Sulla soglia, la figura imponente di mio nonno paterno, accompagnata da quella minuta di mia nonna, fece il suo ingresso in grande stile.

«Se vuoi battibeccare con tua figlia, Eileen, ricordati di chiudere le finestre. Vi si sente dalla strada» ironizzò mio nonno Killian, facendola sbiancare in viso.

Nonna Niamh, al suo fianco, gli diede di gomito.

Serafica, replicai: «Mamma, ti prende in giro. Le finestre sono chiuse.»

Killian sorrise impertinente e, nell'avvicinarsi al figlio, si lasciò sfuggire solo un breve sospiro dolente.

I suoi occhi parlavano più di una radio accesa, almeno a mio parere, ma non me ne stupii.

Io e il nonno ci eravamo sempre capiti al volo.

Non faticai a comprendere quanto stesse soffrendo per il figlio e, al tempo stesso, quanto stesse cercando di nasconderlo.

Nonna Niamh si avvicinò per abbracciarmi e io, levatami in piedi, la feci ridere di gusto quando le feci poggiare il capo contro il mio seno.

«Tesoro, così sei più alta anche del nonno!»

Il suo commento mi fece sorridere e, quando Killian mi strinse a sé, seppi di essere tornata a casa.

«Allora, come sta la mia bellissima nipote? Ho letto il tuo ultimo articolo, e l'ho trovato davvero interessante. Mi viene quasi voglia di prendere l'aereo per andare in Canada. Ma dove sei andata a pescare quelle cose sulla geologia della zona?»

«Tanto lavoro di testa, nonno. Penso di aver passato più tempo su internet e al telefono con dei geologi, per quell'articolo, che in tutta la mia vita» risposi con naturalezza, sapendo che la domanda era sgorgata con sincerità, dal suo cuore.

«Se ti vuoi rinfrescare, ti ho sistemato la tua vecchia stanza. Ci troverai un po’ di cose mie, ma il letto è ancora a posto» intervenne mia madre, chiaramente per interrompere quell'idillio.

Le dava fastidio che io riuscissi ad andare d'accordo con i nonni, ma non con lei. Era palese.

«Oh, ma io pensavo di...» tentennai, cercando conforto nello sguardo di Niamh, che afferrò al volo il mio problema.

Guardando la nuora con occhi gentili e supplichevoli, la nonna le domandò: «Ellie cara, non potremmo ospitarla noi? Ci manca così tanto, e tu sei così impegnata con Bren che non vorremmo gravarti anche del peso di una persona in più, in casa.»

«Verrei ad aiutarti, è ovvio, se hai bisogno e...»

Non mi lasciò finire di parlare.

«Non c'è bisogno che tu venga a ficcare il naso qui, visto quello che hai detto prima. E' chiaro quanto tu poco ne capisca del prendersi cura del proprio marito.»

La frecciatina andò a segno, e in profondità.

Mi accigliai e, dopo essermi scostata dal nonno, affrontai apertamente mia madre e dissi lapidaria: «Non sono stata io a sparare a Kieran, né a dirgli di buttarsi nel giro della droga e delle scommesse clandestine. E' stato un idiota, e non ha voluto che lo aiutassi. Ne ho sofferto per anni, e ricordarmi in modo così becero che lui è morto, non mi fa desiderare di rimanere qui ancora per molto. Ho sbagliato a sposarlo così giovane. Nessuno dei due era pronto. Ma lui è morto, mamma. Non usare le persone estinte per ferirmi. E' squallido.»

Ciò detto, afferrai la mia borsetta e girai attorno al tavolino.

Mi chinai per dare un rapido bacio sulla guancia di papà, che mi fissò vagamente stranito, dopodiché uscii a passo di marcia.

Un solo altro attimo lì dentro, e sarei veramente esplosa.

L'aria salmastra dell'oceano mi colpì come un pugno allo stomaco non appena misi piede fuori, bloccandomi di colpo a metà di un passo.

Una marea di ricordi mi fece quasi affogare nella disperazione e, solo a stento, riuscii a trovare la forza per prendere un’altra boccata d’aria.

Non ero più abituata a sentirmi scorrere addosso quella brezza fresca e umida, ricca del sale e del sapore agrodolce dei ricordi.

Troppi ricordi.

Mi piegai su me stessa, afferrando la prima cosa che trovai per non crollare ginocchia a terra.

Fu il braccio di Neamh a sostenermi.

Premurosa, mise tra le mie mani le sue chiavi di casa e sussurrò: «Vai a casa, mo chrói, e non pensare a questa storia almeno per un po'.»

Annuii, non sentendomela di affrontarla e, dopo aver raggiunto la mia auto, proseguii come un automa lungo la costa, percorrendo la Regionale 565.

Non impiegai molto a raggiungere la loro casa sull'oceano, dove mantenevano ancora il servizio di B&B.

The Waterfront, l'avevano chiamato, e nessun nome avrebbe potuto essere più appropriato di quello.

Sito a pochi passi dalla spiaggia che si gettava sulla baia, la piccola casa dai colori sgargianti rappresentava un ottimo punto di ristoro per turisti o semplici girovaghi.

Le sue tinte allegre sottolineavano la personalità positiva dei proprietari, così come il giardino ben curato e a disposizione della clientela.

Avevo sempre avuto una stanzetta tutta mia, lì al B&B; non avrei trovato difficoltà a trovare il mio solito rifugio.

Parcheggiai l'auto accanto alla rimessa, discostata un poco dal giardino che circondava la casa e, dopo aver inserito le chiavi nella toppa, entrai.

Il profumo fresco di rose in boccio mi avvolse e, sorridendo spontaneamente, osservai i vasi ricolmi di fiori recisi e i vasetti di erica alle finestre.

Le tende, di leggera batista bianca e azzurra, erano trattenute da vezzose calamite a forma di farfalla.

Centrini di pizzo ricoprivano ogni mobile visibile nel corridoio d'entrata e, laggiù in fondo, proprio come ricordavo, vidi la cucina.

Vi entrai a passo deciso e sorrisi nel vedere la stessa linea country dalle tinte tenui, tra il giallo paglierino e il bianco.

Un centrotavola a punto croce ritraeva uno scorcio della baia e, nel mezzo, nonna aveva sistemato un portafrutta in argento.

Alcune tazze di porcellana fiorata erano state messe in scolo accanto al lavandino, segno che i nonni avevano avuto clienti a colazione.

Mi domandai se avrei incontrato qualcuno, verso sera. Non mi sarebbe dispiaciuta un po' di compagnia.

Curiosai sul registro delle entrate, che si trovava come sempre accanto al mobile del telefono – ora diventato videotelefono – e notai alcune prenotazioni.

Il cellulare suonò prima che potessi proseguire nel mio curiosarmi attorno.

«Pronto.»

«E' andata male, eh?» esordì Fynn, non sorprendendomi più di tanto.

«Cosa te lo fa pensare?»

«Il tuo tono funereo. Lo riconoscerei anche tra mille anni» sottolineò lui, lasciandosi andare a una risata fiacca.

Lo imitai. In quel momento, se avessi avuto una catasta di legna a disposizione, l'avrei spaccata tutta a ceppi piccolissimi.

Ero furiosa.

Avevo preparato mille volte, in quelle poche ore di viaggio, il discorso che avrei voluto esporre ai miei genitori, a mio padre, ma niente era andato per il verso giusto.

Il tempo si era annullato, riportandomi a tanti anni addietro, quando le liti erano all'ordine del giorno, e le sfuriate mie o della mamma, un fatto noto.

Papà era sempre rimasto in disparte a osservarci, silenzioso spettatore dei nostri limiti umani, e mai una volta si era schierato dalla mia parte.

Semplicemente, non aveva mai tentato di pacificare i nostri riottosi caratteri.

Paura, rassegnazione, semplice incomprensione?

Non l’avevo mai saputo.

E neppure quella volta era andata diversamente.

Lo dissi a Fynn, ma lui non parve sorpreso.

«Tu ed Eileen avete sempre avuto caratteri troppo distanti, per poter andare d'accordo. Pensavi davvero che il tuo ritorno avrebbe cambiato qualcosa?»

«Diciamo che speravo sarebbe passata sopra alle nostre divergenze per papà, ma mi sbagliavo. Rimango sempre la pecora nera della famiglia, e a papà quasi non interessa che io e la mamma ci scanniamo come due galli nel pollaio.»

Sbuffai, e Fynn rise.

Un attimo dopo mi accodai, lasciandomi accarezzare da quella risata famigliare.

Era sempre stato così, tra noi. Lui poteva schiaffarmi in faccia la verità, e l'avrei sempre accettata.

Per quanto brutta potesse essere, per quanto io potessi apparire stupida nel sentirmela dire, lui avrebbe sempre potuto dirmi tutto.

«Vieni a cena, stasera, stai un po' con noi. Conosci Donna, Keath e Maureen. Ti farà bene stare lontana dai problemi almeno per qualche ora.»

«Mi fa ancora strano pensare che hai due bambini.»

«Solo perché io sono un noioso padre di famiglia» ironizzò Fynn.

Ma io non la bevvi. C'era del dolore, in quelle parole. Un dolore che aveva radici antiche.

«Non fosti tu il problema, Fynn, ma io. Ero io a essere scapestrata, non tu troppo serio o posato. Non sapevo neppure io cosa volevo. Kieran mi parve la soluzione giusta, e sappiamo bene entrambi com'è finita.»

Sorrisi, e aggiunsi: «Donna era giusta per te, come io non lo sarei mai stata.»

«Vero.»

«Oh, ma... tu, brutto...» sbottai subito dopo, scoppiando nuovamente a ridere con lui.

Quando quell'eccesso di ilarità fu scemato, mi disse con sincerità: «Donna è fatta apposta per me. Spero solo di essere altrettanto io per lei.»

«Se non lo pensasse, sarebbe folle» dichiarai, facendo spallucce.

Nel sentire la porta di casa aprirsi, lanciai un'occhiata in direzione del corridoio e sorrisi nel veder comparire i nonni.

Li salutai con un cenno e riattaccai con Fynn, promettendogli che sarei passata per la cena.

Fu a fatica che tornai a fronteggiare lo sguardo dei nonni ma, quando lo feci, scorsi solo tanta comprensione, un po' di sorpresa e una vaga irritazione.

«Capirà, tesoro, non darti per vinta.»

Niamh fu come sempre gentile con me, anche se sapevo di non meritare tutte quelle attenzioni.

In fondo, ero io quella che era scappata da lì, ero io che mi ero sposata giovanissima, ero io che avevo disobbedito alla famiglia.

Non me l'aveva ordinato il dottore, non mi avevano rapita.

Avevo fatto tutto da sola.

Certo, con Kieran, fu ovvio fin dall'inizio chi, dei due, avrebbe portato i pantaloni, in quella stramba coppia.

E non fu mai lui.

Vivere con Kieran fu un divertimento solo nei primi mesi, quando la nostra fuga apparì a tutti i nostri nuovi amici come un'avventura mitica.

La realtà dei fatti, però, ci crollò addosso come un macigno fin troppo alla svelta.

Quando i contanti – che avevamo rubato nelle rispettive case – finirono, i guai arrivarono come le tempeste di neve dall'oceano, in inverno.

Puntuali, tremende e apparentemente infinite.

I creditori ci strinsero un cerchio attorno e, pur con tutta la mia buona volontà, faticai a portare a casa i soldi per mantenerci.

Iniziammo a tagliare sulle spese e, quando mi sembrò di aver ingranato a sufficienza per tirare un sospiro di sollievo, Kieran fu trovato ammazzato.

La droga e il gioco, lo uccisero.

Fui superficiale, allora, non essendomi accorta dei suoi vizi e delle sue debolezze.

Rischiavo di esserlo di nuovo, in quell'occasione.

Mi avvicinai ai nonni, abbracciai entrambi e sussurrai contro la spalla del nonno: «E' così difficile sapere qual è la cosa giusta da fare.»

«Se ti può consolare, non lo sappiamo neppure noi» replicò il nonno, carezzandomi la folta chioma corvina.

Sospirai, lasciai che il loro calore mi scaldasse e, solo quando mi sentii pronta a scostarmi da loro, dissi: «Cercherò di fare del mio meglio.»

«Che è quanto si possa chiedere a chiunque, e non più di questo.»

Niamh, come sempre, mi sorrise. Le sue perle di saggezza non erano mai rimbrotti, e questo mi era sempre piaciuto, di lei.

Sperai soltanto che, anche quella volta, lei avesse ragione.

Sperai che, il mio meglio, potesse bastare.





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Capitolo 3
*** 3. ***


 
3.
 
 
 
 
Il vento batteva la costa con violenza, scivolando ribelle sulle rive della baia, increspando le sue acque scure, sommovendo l'erba verde e rigogliosa.

I capelli legati in una coda di cavallo e un cappello da baseball in testa, inforcai la mountain bike del nonno – da sempre un appassionato ciclista – e me ne andai in giro per la campagna.

Avevo sempre amato gironzolare nei dintorni di Portmagee, spingermi fino alle scogliere e al faro sulla costa e lì, sola, sdraiarmi sui prati battuti dal vento.

Quel giorno, con me, avevo solo la mia Canon Eos 1Dx, una bottiglietta d'acqua e un panino, casomai avessi deciso di fermarmi in giro, invece di rientrare.

Lo zaino ben saldo sulle spalle, mi aggirai come una turista per vecchie strade che conoscevo a menadito, salutando di quando in quando vecchi amici di un tempo.

I muretti a secco di quanto ero bambina erano ancora in piedi, mantenuti in perfetto ordine dai padroni dei terreni.

L'erba alta, sui bordi della stradina che stavo percorrendo, danzava leggera al ritmo del vento, che portava con sé il sentore dell'oceano e lo stormire dei gabbiani.

In lontananza, i pescherecci stavano rientrando dopo la pesca mattutina, silenziose macchie bianche su uno sfondo blu scuro punteggiato di onde.

Una barca da diporto della Kerry Ocean Adventure, stava portando dei turisti a visitare le scogliere limitrofe, oltre che a mostrare la bellezza selvaggia di quei luoghi.

Era aspra, priva di vegetazione ad alto fusto, erba ed erica erano le uniche piante abbastanza forti da resistere, oltre ai licheni.

Eppure a me pareva bellissima.

Così come la sagoma bianca e nera che, imponente, svettava all'orizzonte.

Il faro di Reencaheragh, nei pressi di Portmagee, mi era sempre piaciuto.

Giaceva imponente sulla scogliera più occidentale di tutta l'Irlanda, e si allungava verso il cielo con la sua linea affusolata, come una lancia sormontata di luce.

Mi ero sempre avvicinata  quasi in punta di piedi, piena di reverenziale timore e affascinato stupore.

Ogni volta, il vecchio guardiano del faro mi aveva fatto salire fino in alto, laddove nasceva la magia del suo bagliore perenne.

In realtà, quando scoprii trattarsi solo di una serie infinita di specchi, oltre a qualche lampada a incandescenza piuttosto grossa, parte del mio entusiasmo scemò.

La me stessa bambina aveva immaginato bacili ricolmi di fiamme, o cose simili.

Scoprire che la mera energia elettrica faceva funzionare tutto, mi abbatté.

Ma il faro rimase comunque il mio porto sicuro, il luogo in cui tornare a ogni nuovo tumulto in famiglia.

E anche quel giorno, mi diressi lì piena di speranza.

Mi accorsi subito che qualcosa era cambiato, però.

La casa del custode era stata allargata, ridipinta di un bel bianco candido, e le finestre erano state dotate di serramenti in legno scuro.

Un giardino ben tenuto era riparato da un muro di cinta intonacato grossolanamente, anch'esso con una tinta bianco latte.

Scesi dalla bicicletta, lasciandola contro un vicino masso ricoperto di licheni e, fotocamera alla mano, mi apprestai a fare qualche foto.

Quello scorcio di paradiso selvaggio meritava di essere ripreso.

Non mi aspettai, però, di veder comparire qualcuno dal retro del faro.

E neppure che questo qualcuno si avvicinasse a passo di carica, e armato di zappa, neanche fosse stato pronto a spaccarmela sulla testa.

«Che diavolo sta facendo, qui?!»

La sua voce stentorea e profonda, che ben sovrastava il rombo delle onde contro la scogliera, oltre al vento sibilante, mi arrivò alle orecchie simile a una salva di cannoni.

Reclinai immediatamente la fotocamera e, stranita, fissai quello che ipotizzai essere l'attuale padrone del faro.

«Ehm... buongiorno. Stavo solo pensando di fare qualche foto al faro. Sa, ci venivo da bambina e...»

Interrompendomi con un gesto secco del braccio, che sciabolò l'aria con violenza, l'uomo, dai chiari occhi color acquamarina, mi frizzò con lo sguardo prima di sibilare: «Questa è proprietà privata, stradello compreso. E io non l'ho invitata.»

Sbalordita da tanta rabbia, che reputai più che immotivata, misi via la mia Canon prima di replicare, serafica: «Non pensavo si consumasse l'asfalto, mi perdoni. Me ne vado subito.»

«Bene» bofonchiò l'uomo, passandosi nervosamente una mano grande e forte tra la folta capigliatura.

Questa mandò dei lampi rossastri tra le ciocche brune, trattenute da quelle dita lunghe, e io mi incantai un istante di troppo a osservare lo spettacolo d'insieme.

Perché potevo anche essere risentita da quel comportamento da cavernicolo, ma difficilmente una fotografa si lascia scappare lineamenti così perfetti.

Era proporzionato in viso come nel corpo, che trasudava possanza da ogni poro – anche se ricoperto da una tenuta da giardinaggio – e, a quanto pareva, era infuriato nero con me.

«Se ne va, o no?!» sbottò a quel punto l'uomo, digrignando i denti.

Perfetti anche quelli, manco a dirlo.

«Me ne vado, me ne vado» mi affrettai a dire, inforcando la mia mountain bike per riprendere la via di casa.

Il burbero guardiano del faro sbuffò prima di tornare da dove era venuto, la zappa ben stretta in mano e il portamento di una persona che, in altre vesti, avrebbe potuto essere benissimo un guerriero in battaglia.

 
***
 
Tagliuzzando distratta un paio di carote al vapore, mi volsi sorpresa quando sentii mia nonna ridacchiare al resoconto della mia mattinata poco proficua.

«Non trovo nulla di strano in quel che mi dici, per questo rido» si affrettò a dire Niamh, dandomi una pacca sul braccio.

«Dovrebbero mettere un cartello in strada. 'Attenti al guardiano. Morde'.»

Sollevai il tagliere per lasciar scivolare le carote in un piatto di porcellana, che tenevo dinanzi a me, e Niamh annuì comprensiva.

«Nessuno si sogna di disturbare Ronan O'Sea, da quando ha perso la moglie e il figlioletto. A meno che non sia lui stesso a invitarti a casa sua, il che succede davvero di rado, e solo con pochissime persone.»

Sgranai gli occhi, confusa, ed esalai: «Moglie? Figlio? Ma...»

«Lo so, sembra che non abbia neppure trent'anni, eppure è poco più grande di te, mi sembra di un anno, e si è sposato con Mairie Kensington cinque anni fa, quando si trasferirono qui da Limerich.»

«Oh.»

Conoscevo Mairie dai tempi del liceo, e l'avevo sempre vista come una ragazza schiva ma molto brillante negli studi.

Non la ricordavo bene ma sapevo che, a causa del lavoro del padre, si erano dovuti trasferire a Limerich quando lei aveva da poco compiuto quindici anni.

Evidentemente, l'amore per Portmagee l'aveva riportata a casa.

E qui era morta.

«Com'è successo?» domandai, turbata.

«Morì di parto, circa un anno dopo il loro trasferimento qui. Complicazioni durante la nascita, dissero. Il bambino era podalico, così tentarono un cesareo. Non riuscirono a fermare l'emorragia, e il bambino nacque cianotico. Non resistette che un giorno, poi morì anche lui.»

Sospirò e, con sguardo triste, mi passò un altro piatto in cui sistemare le verdure per il nonno. Lui detestava le carote, contrariamente a me.

«Da quel giorno, Ronan è cambiato. Viene di rado in paese e, quando lo fa, è solo per le scorte alimentari, per il giardino, che Mairie adorava e che lui cura con attenzione maniacale, oppure per dei lavori al porto. Gli unici che riescono a parlare con lui, sono coloro che hanno a che fare con il suo lavoro. Aggiusta le barche ai pescatori, e altri lavoretti simili.»

«E io ho invaso i suoi spazi» sospirai, sentendomi un'idiota nonostante l'iniziale arrabbiatura. «Deve averla amata moltissimo, per essere così... arrabbiato col mondo.»

«Non avresti potuto vedere due persone più innamorate» assentì Niamh. «Mairie letteralmente risplendeva, e Ronan la accompagnava sempre in paese perché lei parlasse con le amiche, o visitasse il negozio di fiori del centro. Era prodigo di attenzioni, e non le faceva mancare nulla. La sua mano era sempre pronta per lei.»

Non seppi dire se questo particolare mi piacesse o meno.

Tendenzialmente, ero troppo indipendente per apprezzare attenzioni così palesi o superflue.

Non amavo gli uomini-zerbino. Anche quelli innamorati pazzi.

«Parlate di Ronan?» intervenne il nonno, comparendo dall'orto attraverso la porta sul retro, che dava direttamente in cucina.

«Già. Sherry si è appena scontrata con le sue zanne» ridacchiò la nonna, raggiungendo il tavolo con lo stufato fumante e profumato di erbe.

Nonno Killian rise sommessamente e, nel darmi una pacca sulla spalla, disse: «Morde, ma non è pericoloso. E' solo molto, molto ferito dai casi della vita. Credo stia cercando di tirare avanti come può, ma è dura perdere qualcuno che ami quando sei così giovane.»

«L'hai conosciuto prima che passasse al lato oscuro della forza?» ironizzai, mettendomi a sedere.

«Eccome. Ronan, oltre a occuparsi del faro, è anche un ottimo falegname. La staccionata che vedi là fuori l'ha fatta lui, e gran parte delle opere in legno che vedrai i paese, le ha sistemate lui. Ci sa davvero fare, con la pialla.»

«Un po' meno con le persone.»

Brontolai mio malgrado, perché il faro aveva un significato particolare, per me, e venirne defraudata a quel modo, senza aver commesso nessun reato, mi sembrò ingiusto.

Comprendevo il suo dolore – solo un sasso non l'avrebbe fatto – ma trovavo scortese che mi avesse scacciata a quel modo dalla sua proprietà.

Non avevo fatto nulla di male, per meritare un trattamento di tal risma.

Nessuno, nei dintorni, si lamentava se qualcuno passava negli stradelli privati per raggiungere le scogliere! Era normale!

«Da dove viene, comunque? Non ho mai sentito di una famiglia O'Sea, in zona.»

«Noi sappiamo soltanto che lui e Mairie si sono conosciuti a Limerich, ma credo non abbia nessuno, oltre a se stesso, perché al funerale non partecipò nessun membro della sua famiglia, né si fece mai vivo alcuno per confortarlo, nel corso degli anni. Gli unici che vanno a trovarlo a casa senza che dia in escandescenze, sono Fynn e Cormac.»

«Fynn riuscirebbe a far parlare un leone marino con il mal di denti» ridacchiai, annuendo tra me. «Quanto a Cormac... non me l'aspettavo. Quel vecchio lupo di mare solca ancora l'oceano con la sua barca?»

«Ehi, dico! Cormac ha solo cinque anni meno di me!» sbottò ironico mio nonno, fissandomi con aria falsamente disgustata.

«Pardon, nonno. Ma ammetterai che Cormac ha più rughe in faccia di uno Shar Pei! E ha la stessa simpatia di una tempesta di grandine.»

Ridemmo tutti e tre, passando ad altri argomenti, ma la faccenda 'Ronan' rimase in sospeso nella mia testa.

Non volevo rinunciare così facilmente al mio angolo di paradiso, perciò avrei dovuto trovare il modo per ammorbidire quella sottospecie di orso.

Nel frattempo, però, dovevo occuparmi di una questione più annosa.

I miei genitori.

Il giorno precedente non era andata esattamente bene, ma speravo in qualche modo di rimediare almeno una sufficienza, quel pomeriggio.

Dopo aver promesso alla nonna di portarle a casa del pesce fresco, mi recai dai miei genitori.

Atteso paziente che mia madre venisse ad aprirmi, entrai con un sorriso esitante e un’idea fissa in testa. Non dovevo sbarellare, per nessun motivo.

Mio padre sedeva nello studio, il giornale tra le mani… e la pipa ancora fumante nel posacenere.

Inorridii alla sola vista.

«Sono io che ho capito male, o tu sei malato?»

Indicai la pipa come se fosse un criminale armato di pistola e mio padre, con una scrollata di spalle, evitò la domanda.

«Hai dormito bene, dai nonni?»

«Da pascià, ma non è questo il punto» brontolai, già sul chi vive, in barba a tutti i miei buoni propositi.

Fissai sgomenta mia madre, ma lei non trovò null'altro da dirmi se non 'vi lascio soli'.

Se ne andò in cucina, chiudendosi la porta alle spalle con un fruscio di legno e cardini ben oliati.

Rimasi ancora un attimo a fissare la pipa dopodiché, quasi le gambe avessero deciso di darmi buca, fui costretta a sedermi.

Non ce la facevo davvero a reggere una discussione anche quel giorno, ma sembrava inevitabile.

«Papà, non credi che sia un po' come darsi la zappa sui piedi?»

Il riferimento alla zappa non fu casuale.

La visione di quell'attrezzo contundente, e pronto a spaccarmi la testa, mi era rimasto ben impresso.

Magari Ronan non l'avrebbe realmente usata contro di me, ma l'idea bastava a traumatizzarmi a ogni nuovo passaggio su quel ricordo in particolare.

«La mamma non è d'accordo, esattamente come te. Ma lei non è neppure d'accordo sul fatto che io muoia. Come se ci potesse fare qualcosa.»

Io e mia madre che eravamo concordi su qualcosa? Era da segnare sul calendario.

Le ultime parole di mio padre, però, fecero subito passare in secondo piano quel record da Guinness dei Primati.

«Cosa vuoi dire, papà?»

Aggrottai la fronte, cercando di capire.

«Che non ho speranze. Me l'hanno detto tutti. Solo, lei non lo accetta, e continua a cercare sempre medici nuovi. Non ascolta la verità.»

«Ti vuole bene. Cerca di fare il meglio per te» buttai lì, neppure troppo convinta di aver detto la verità.

Li avevo sempre visti come una coppia fredda e poco incline ai sentimentalismi, perciò non sapevo se stavo solo usando delle frasi fatte.

Era penoso rendersi conto di conoscere così poco i propri genitori.

Lui mi sorrise, replicando soltanto: «Potrei girare la frase a te. E mi sembra che anche tu abbia fatto di testa tua. Non solo io, adesso.»

«Uh» mugugnai, reclinando il capo.

E come potevo dargli torto? Per lo meno, sulla seconda parte della frase. Sulla prima, nutrivo ancora qualche dubbio.

Sul fatto che, però, mamma avesse sempre cercato di instradarmi per darmi la sua idea di ‘cosa fosse meglio’, non avevo nulla da ridire. L'aveva sempre fatto.

Stabilire se avesse avuto o meno ragione nel farlo, era un altro discorso.

Uscii da casa dei miei molte ore dopo.

Gli intensi colori del tramonto a macchiavano le nubi temporalesche di maggio, che si stavano gonfiando sull'oceano agitato.

Quella notte, con tutta probabilità, sarebbe piovuto.

A capo chino, me ne tornai a casa in sella alla bicicletta, le sneakers ben piantate sui pedali e le mani sul manubrio, mentre le gambe si muovevano a un ritmo lento, noioso.

Non avevo voglia di pedalare veloce, in quel momento.

Arrivai con calma, misi la bici in garage e me ne andai in bagno per una doccia veloce, mentre il chiacchiericcio di alcuni turisti riempiva il salottino.

Quando uscii, pulita e un po' rinfrancata, mi presentai e mi offrii di mostrare loro alcuni luoghi interessanti da visitare.

Spuntate le località su una cartina che, sapientemente, tenevano sulle loro biciclette da turisti esperti, dissi loro cosa vedere e dove soggiornare.

Nel pensare al faro, – di solito meta di interesse per molti turisti – mi dissi di non consigliarlo.

Non volevo che Ronan spaccasse la testa a qualcuno, rovinando così il buon nome di Portmagee.

Meglio tenerli lontani da quel punto in particolare della costa.

 
***
 
«Penso che andrò a scusarmi e, al tempo stesso, gli chiederò se posso usufruire di uno dei suoi sassi per sedermi. Chissà che non la prenda in ridere, e non si convinca che non voglio fare nulla di male.»

Nonna e nonno mi fissarono straniti per alcuni attimi, prima di capire a cosa mi stessi riferendo.

Ero così abituata a fare i miei ragionamenti a voce alta – a casa, c'erano solo le piante ad ascoltarmi – che scoppiai a ridere, imbarazzata.

«Scusate. Pensavo a voce alta.»

«Immagino tu stia parlando di Ronan. Ma perché ci tieni tanto a quel faro? Abbiamo altri scorci bellissimi, da queste parti, se vuoi metterti a fare fotografie.»

Niamh, come sempre, fu pragmatica.

«Lo so, nonna, ma quel faro conta molto, per me. Ci andavo da bambina, e lì mi sono sempre trovata bene.»

Sarebbe stato assurdo dire loro quanto, quel luogo, mi aiutasse a venire a patti col mondo, e mi facesse sentire in pace con me stessa, aiutandomi ad accettare i motivi della mia presenza lì.

«Fossi in te, lo prenderei con le molle. Oppure, chiederei a Fynn di fare da paciere.»

Nonno Killian era un mediatore nato.

«Non voglio scomodare Fynn per una cosa del genere.»

Brontolai come una bambina, ma non vi diedi importanza.

Tanto, i miei nonni sapevano benissimo quanto fossi indipendente. Anche quando si trattava di cacciarmi nei guai.

 
***
 
Appollaiata sul muro di cinta della casa di Fynn, una birra in mano e i piedi penzoloni, scrutai con un mezzo sorriso il volto ghignante del mio amico.

Insomma, quando mai ero stata coerente? Ben poche volte.

Subito dopo aver cenato con i miei, avevo afferrato le chiavi dell’auto e, in barba al mio principio di non voler infilare Fynn in mezzo a quel casino, ero andata a casa sua.

Avevo giocato per un poco con Keath e Maureen prima di dar loro la buonanotte, e ora Donna stava tentando di trovare il bandolo della matassa nel caos seguito ai nostri giochi.

Non la invidiai, e mi ripromisi di aiutarla, dopo aver parlato con Fynn.

Ma ora, avevo bisogno anche delle sue rassicurazioni.

Passandosi una mano tra i corti capelli castani, mi squadrò con il suo solito sguardo comprensivo, e io gli feci la lingua.

«Mi domando sempre se la tua sia semplice testardaggine, o un insano senso del pericolo che non riesci a domare. Perché vuoi disturbare Ronan nel suo sancta santorum

«Non è che voglia… disturbarlo. Ma ho bisogno di stare lì. Più di quanto riesca a spiegarlo a livello razionale.»

Scrollai le spalle, non sapendo cos’altro aggiungere. Sapevo benissimo anche da sola che, quel mio accanirmi, poteva essere visto solo come un capriccio.

Ma erano la mia pelle, i miei nervi, la mia corteccia celebrale, tutta quanta me a chiedermi di andare là.

Un bisogno insopprimibile che non potevo cancellare così semplicemente, anche se la zappa di Ronan era stato un buon motivo per darmi alla fuga.

Lui sospirò, ammiccò con i suoi occhi color del ghiaccio e mormorò: «Ronan non è cattivo, davvero. Solo, non ci sa fare con la gente.»

«Ma va? Non l’avevo notato!» esclamai, sorseggiando un po’ di Guinness. Il suo retrogusto cioccolatoso mi rimase in bocca come una dolce promessa e, sospirando, aggiunsi: «Senti, nonna mi ha detto di sua moglie e del figlio. Mi spiace davvero ma, in tutta onestà, non capisco che danno potrei fare, bazzicando lì.»

«In realtà, nessuno. Preso a piccole dosi, Ronan sa anche essere simpatico. Basta non pressarlo con domande su Mairie e il figlio. Lì, allora, si perde. Ed esce fuori il suo lato più dolce» ironizzò mestamente Fynn, spallucciando.

«Dolce come una zappa?» ironizzai, e lui rise.

Gli avevo raccontato l’aneddoto, e Fynn era scoppiato a ridere così tanto da rischiare di strozzarsi.

Donna gli aveva piantato una gomitata nel fianco, ma questo non era bastato a calmarlo.

Alla fine lo avevo mandato al diavolo, minacciandolo di andarmene se lui non avesse smesso.

E ora eravamo lì a disquisire di un uomo e dei suoi demoni.

Dio, potevo capirli meglio di chiunque altro. Quei demoni erano rimasti parcheggiati a casa mia, con il loro culone enorme, per anni interi.

Anni che avevo speso nel tentativo di capire come camminare nuovamente, come respirare nuovamente.

Avevo amato Kieran di un amore giovanile, puro, ricco di aspettative ma, sostanzialmente, anche assai immaturo.

Ci avevo messo parecchio per venire a patti coi nostri errori, e con il fatto che, nel bene e nel male, lui non mi avrebbe più fatta ridere, o sentire desiderata… speciale.

Capivo Ronan? Eccome se lo capivo!

Ma il faro era più importante di qualsiasi altra cosa, anche del buonsenso.

«Vuoi un consiglio? Non stressarlo, non ficcanasare, non imporgli la tua presenza, e vedrai che non avrai problemi.»

«Sono nel mio anno sabbatico. Il mio cartellino da giornalista lo lascio nella borsa» ghignai, levando tre dita come se fossi stata una scout.

Fynn mi fissò con estremo scetticismo, replicando bonario: «La curiosità è donna per concezione, ma con te assume dimensioni diaboliche.»

Nel sentire dei passi dietro di noi, mi volsi a mezzo, sorrisi a Donna e, indicando Fynn con la bottiglia di Guinness, esclamai: «Salvami da lui! Mi ha appena detto che sono diabolica!»

Lei rise sommessamente e, nel dare un bacetto sulla tempia al marito, mormorò: «Sii buono con lei, Fynn. Dopotutto, non è da tutti affrontare Ronan e uscirne indenni.»

«Siete cattive. Ronan non è così tremendo.»

Sia io che Donna lo fissammo divertite e lui, levando le mani in segno di resa, dichiarò: «Non mi metterò contro due donne, poco ma sicuro. Vado a prendermi un’altra birra. Voi approfittatene pure per sparlare di me.»

Lo osservai con un sorriso prima di rivolgermi a Donna e dire: «Sei fortunata. In pochi hanno la grazia di avere un marito come Fynn.»

«Ha i suoi pro e i suoi contro, ma hai ragione. Sono fortunata» assentì lei, dandomi una pacca sul braccio. «E Fynn ha ragione su una cosa. Ronan non è cattivo, ma credo che non sappia bene come prendere le persone. Hai visto i giocattoli di legno di Keath?»

Annuii, e lei mi disse: «Li ha fatti tutti lui. E dopo la morte di Mairie. Non ce l’ha col mondo, solo non sa come affrontarlo. A ogni compleanno di Keath, Fynn veniva a casa con un giocattolo nuovo intagliato a mano.»

La fissai strabiliata, sinceramente senza parole.

Il suo sorriso si fece dolce, quando mormorò: «Ricordo che una volta, quando Keath aveva solo quattro anni, Fynn lo portò con sé da Ronan. Dentro di me, ero terrorizzata, ma non dissi nulla perché sapevo quando Fynn teneva – e tiene – all’amicizia di Ronan. Quando tornarono a casa, Keath era entusiasta.»

«Non … non soffrì, vedendolo?» esalai, sempre più confusa.

«Forse. Ma non lo diede a vedere. Fynn mi raccontò che, per tutto il tempo passato nella sua officina, Ronan non fece altro che sorridere a Keath e, mentre aggiustava la mia sedia a dondolo, gli spiegò tutto ciò che stava facendo. Keath lo aiutò passandogli i chiodi e, per tutto il tempo, Fynn ristette lì a guardarli.»

Sospirò, sorseggiando la sua birra fredda, e aggiunse: «No, credo che Ronan abbia smesso di piangerli da tempo. Penso sia cosciente di dover ricominciare. Solo, non sa come riappropriarsi della sua vita.»

«E’ sempre la parte più difficile» assentii, torva in viso.

 
***

La notte era già scesa da tempo, quando tornai a casa.

Quando il temporale iniziò, io mi posizionai alla finestra con la macchina fotografica.

I fulmini mi erano sempre piaciuti e guardarli infrangersi sulla costa, come sulle onde furenti dell'oceano in tempesta, era eccitante.

Lì nella baia le acque erano agitate, ma non così terrificanti come, immaginai, fossero in quel momento in mare aperto.

Mi chiesi per un istante se Ronan fosse alla finestra a godersi lo spettacolo, poi mi diedi da sola dell'idiota.

Un orso come lui non avrebbe mai potuto trovare affascinante un simile sfoggio di forza della Natura.

Nel complesso, riuscii a ottenere delle buone riprese e, verso le tre di notte, mi infilai a letto.

La casa era silenziosa, se si escludeva il lontano battere dell'orologio a pendolo, che nonno aveva sistemato nel salotto a tinte bianche e blu.

Ristetti a lungo a occhi aperti, fissandomi sugli eventi della giornata e, solo a fatica, riuscii a prendere sonno.

Trovavo assurdo che mio padre fumasse la pipa, in quelle condizioni.

Ma chi ero io per dissuaderlo, se neppure sua moglie riusciva a portarlo a più miti consigli?

 
 
 
__________________________
The Waterfront, come B&B, esiste realmente. Io mi sono solo inventata gli interni.
Quanto al faro, non esiste in zona, ma il luogo in cui l’ho posizionato c’è davvero e porta il nome riportato nel racconto.
Il nome della nonna di Sherry, Niamh, si legge “niv”.


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Capitolo 4
*** 4. ***


 
4.
 
 
 
 
Una settimana mi sembrò un buon margine di tempo, per lasciar sbollire una persona.

Dopo averne riparlato con Fynn – cedendo ai consigli dei nonni – lui mi consigliò un approccio solare quanto cauto.

Insomma, dovevo ritirare gli artigli e i denti da squalo.

Come se fosse facile.

Ero abituata da quando avevo vent'anni, a cavarmela con le mie sole forze, ad apparire sempre forte e determinata.

Questo era anche servito a tenere lontani potenziali molestatori – interessati alla giovane vedova di Kieran – e creature similmente disgustose.

Non era stato facile, avevo dovuto imparare a difendermi da sola e capire di chi fidarmi.

Ma, soprattutto, avevo dovuto mettere in conto che, alla mia porta, non sarebbe mai arrivato nessun cavaliere a salvarmi.

Abbassare le difese per mostrarmi gentile e affabile, non era esattamente la cosa più facile del mondo, per me.

Ma ci tenevo a recuperare quell'angolo di terra, fosse anche solo per la mia pace mentale, tralasciando il puro puntiglio che in gran parte mi stava spingendo verso il faro.

Perché sapevo che c'era di mezzo anche la mia testardaggine, in tutto quel gran parlare di Ronan.

La prima volta che avevo accennato il problema a Fynn e Donna, lui era scoppiato a ridere e lei aveva controllato che, sulle mie braccia, non vi fossero stati segni di zanne.

Questo mi aveva fatto capire che, quel trattamento così antisociale, era prassi fissa per l'uomo.

Quando il riso di Fynn era terminato con un gran lacrimare divertito, gli avevo chiesto consiglio, e lui se n'era uscito con quella proposta.

Rendermi docile.

Ah-ah.

Divertente.

Mentre pedalavo verso il faro, lo zaino sulle spalle e un cappellino della Guinness in testa, mi chiesi per l'ennesima volta se sarei riuscita nell’impresa.

Non ero brava a eseguire gli ordini, soprattutto se si trattava di manipolare il mio carattere riottoso.

Ma quel faro era mio, almeno nel mio cuore, e lo volevo indietro.

Non appena raggiunsi la proprietà di Ronan, poggiai la bicicletta sul lato opposto della strada, contro il muretto in sassi dei Donnelly, e suonai il campanello.

Il cancelletto in legno che conduceva al vialetto d'ingresso era chiuso, perciò non provai neppure a scavalcarlo.

Cosa che avrei fatto tranquillamente con qualsiasi altra persona. Lì a Portmagee, era difficile trovare una porta chiusa.

Tutti si fidavano di tutti, ed era un segnale incoraggiante anche per i turisti, abituati a chiedere ospitalità per la notte anche ai 'non addetti ai lavori'.

Non era insolito che semplici cittadini indirizzassero i viaggiatori presso i B&B, o si prodigassero in prima persona per trovare un alloggio per la notte.

Ci si comportava così, coi forestieri.

Tremai interiormente, quando vidi Ronan spuntare dalla porta d'entrata, il viso corrucciato e i capelli in disordine.

«Cosa vuole ancora?!»

Oookay, non era il massimo, per il mio concetto di educazione, ma tentai comunque di non rispondergli per le rime.

Mi appuntai un sorriso sulla faccia e dissi: «Buongiorno, Mr O'Sea. Non le ruberò molto tempo. Vorrei solo porle una domanda.»

Ronan uscì come una furia, macinò il terreno sotto di sé, neanche lo stesse bruciando sotto i suoi piedi e, quando si fermò dinanzi a me, i suoi occhi chiari mandarono scintille.

«Le ho già detto che questa è proprietà privata, che non può fare fotografie o fermarsi sul mio terreno. Cosa non le è entrato in testa, di preciso?»

Calma, calma, calma, mi ripetei all'infinito, tentando con tutta me stessa di non rifilargli un destro in faccia.

Primo, mi sarei fatta male, secondo, avrei mandato all'aria anche l'ultima possibilità di riavere indietro il mio faro.

Beh, insomma, il suo faro.

Presi perciò un gran respiro e restai ferma nei miei propositi.

«Ho compreso tutto perfettamente, Mr O'Sea, ma non ho avuto modo di spiegarle le mie argomentazioni. Vede, venivo spesso qui, quando ero piccola, e...»

Ronan mi sorprese, voltandosi per andare via, come se non gli importasse nulla del mio dire.

E forse era proprio così.

Non ci vidi più.

In barba ai miei migliori propositi, scavalcai il cancello, lo raggiunsi e lo afferrai a un braccio, trovandolo forte e duro come una sbarra d’acciaio.

Un braccio capace di spaccarmi la testa come nulla, se lo avessi fatto arrabbiare veramente.

Me ne infischiai e, quando lui si volse verso di me, l'aria stralunata e furiosa, esclamai: «Maledizione, può anche stare ad ascoltarmi per uno stramaledettissimo minuto!»

«E'. Sulla. Mia. Proprietà.»

Il suo ringhio furente, che scaturì dalle labbra tese, non giunse a sfiorare i miei recettori della sopravvivenza.

Ero troppo incazzata, perché quelli sentissero qualcosa. O riuscissero a penetrare, con le loro urla angosciate, lo strato di pura cocciutaggine che ora ricopriva il mio cervello.

«Lo so benissimo. L'ha chiarito molto bene. Ma qui ci ho passato un sacco di tempo, quando ero piccola. Era il mio unico angolo di pace! Non può semplicemente strapparmelo così!»

«Non sono affari miei.»

«Lei ci si è rinchiuso dentro come in una fortezza, e per gli stessi motivi per cui mi ci rifugiavo io da piccola. Perché qui si sente al sicuro. Si sente a posto! Erano i miei stessi motivi! Quindi, sa perfettamente di cosa parlo, e perché sono anche affari suoi!»

Ormai ero alle lacrime, e Ronan se ne accorse.

Da furioso che era, riuscì a trovare un minimo di controllo e, dopo aver estratto un fazzoletto dalla tasca anteriore dei pantaloni, me lo porse.

Io lo rifiutai, tergendomi il viso con il dorso della mano e, a quel modo, mi ricomposi.

«Mi scusi. Non avrei dovuto alzare la voce. Ho un pessimo carattere, e mi ero anche ripromessa di non tirarlo fuori, di essere carina e dolce... ma proprio non ce l'ho fatta.»

Reclinai il viso, sconfitta, e me ne tornai verso il cancelletto.

«Perché? Perché veniva qui?»

Quella domanda mi bloccò sul posto, portandomi a voltarmi con lentezza quasi esasperante.

Lo trovai fermo, le mani in tasca e l'aria sinceramente curiosa, non più adombrata dall'ira.

Sospirai, e ammisi: «Non so quanto conosca gli abitanti di Portmagee, Mr O’Sea. Conosce i coniugi O'Connell?»

«Eileen e Brendan? Sì, di vista. So che lui non sta molto bene.»

Annuii. «Sono i miei genitori, e sì, mio padre è malato di cancro.»

Ronan si irrigidì un poco, a quelle parole.

«Mi spiace.»

Fu più una frase di cortesia, che altro, ma lo apprezzai.

«Grazie. Comunque, questo c'entra poco con il motivo per cui sono qui.»

Mi passai una mano sulla nuca, umida di ansia, e proseguii.

«Non sono mai andata d'accordo con loro, e dire che non mi trovavo bene in casa mia, è un eufemismo. Così venivo qui, dal vecchio guardiano del faro, e lui mi faceva sedere su quella panca laggiù, accanto al muro, finché non sbollivo la rabbia. Oppure, mi permetteva di dargli una mano con la manutenzione del faro. Insomma, qui mi trovavo bene. Era il mio angolo di pace.»

Lui sospirò, annuendo lentamente e, con aria rassegnata, mi domandò: «Cosa vorrebbe, esattamente?»

«In realtà, niente. Anche sedermi su quella roccia laggiù» ammisi, indicandogli una pietra smussata dalle intemperie, poco oltre il contorno del suo muretto di cinta. «Mi basta poter guardare il faro. Mi rilassa.»

Ronan si passò una mano tra i capelli, e solo in quell'istante mi accorsi del tatuaggio che aveva sull'avambraccio. Era una stella dalle punte frastagliate, forse in stile maori.

Era davvero ben fatta, con colori nitidi e forti, o almeno così mi parve a un'occhiata veloce.

«Può... può venire, se ci tiene tanto. Ma non dovrà disturbarmi, è chiaro?!»

Il tono burbero tornò, ma non ci feci caso.

Annuii soddisfatta e dissi: «Neppure le parlerò.»

«Bene. Le lascerò il cancelletto aperto, allora... così non dovrà scavalcarlo.»

Mi fissò con leggera ironia, mista a stupore. Probabilmente, non aveva mai incontrato donne testarde quanto me.
Mi limitai a una scrollata di spalle, corredata da un sorrisino un po' idiota, lo ammetto.

Avevo pensato di dover strisciare, litigare, forzare la mano, minacciarlo... invece, mi era bastato dire la verità.

Magari, fosse stato altrettanto facile farlo con i miei genitori!

Me ne andai quasi saltellando e, quando inforcai la bicicletta, iniziai a fischiettare.

Stavo ancora fischiettando, quando arrivai a casa di Fynn.

Lui era al lavoro assieme al proprietario della Kerry Ocean Adventure; si occupava di guidare le barche da diporto per i turisti.

Solo occasionalmente si immergeva con i più temerari – che volevano sfidare le gelide acque oceaniche – per mostrare loro le grotte sotterranee lungo la costa.

Nel giardino, dinanzi alla casa dall’intonaco rosa, trovai Donna, impegnata a sradicare alcune erbacce dal giardino.

Stava sicuramente approfittando della mancanza dei figli, che erano all'asilo e alla scuola elementare.

La salutai con un cenno della mano e, dopo aver depositato la bicicletta contro il muro di cinta in mattoni, mi misi a darle una mano.

Le spiegai i risultati della missione e lei, scoppiando a ridere, si deterse il viso chiaro ed esalò: «Non avrei mai avuto il coraggio di affrontarlo così a muso duro! Sei ben più coraggiosa di me!»

«I miei la definiscono testardaggine, e danno la colpa a Nonna Niamh, se sono così.»

Ridacchiai, sapendo che in parte avevano ragione. Se c'era una persona testarda e tenace, in famiglia, era lei.

«Comunque, mi sembra già un record che non ti abbia cacciato a pedate nel sedere. Puoi ritenerti fortunata.»

«Credo di avergli fatto pena» ammisi, scrollando le spalle. «Raccontargli la verità è stato d'aiuto. Mi pare abbia... capito

«Visto che è qui tutto solo da anni, e la sua famiglia non si è mai presentata alla  porta del faro, forse ti capisce davvero. Comprende il tuo bisogno di evasione da una situazione scomoda» mi rincuorò Donna, dandomi una pacca sul braccio con espressione comprensiva.

Si sistemò i corti capelli biondi con le mani, prima di rammentare di avere i guanti sporchi di terra.

Risi con lei e, per un attimo, dimenticai ciò che mi aveva spinta ad affrontare il drago nella sua tana.

Non era un mistero per nessuno, quel che avevo combinato lì a Portmagee. Il paese è piccolo, e la gente mormora.

E' un proverbio che va bene a qualsiasi latitudine.

E all'epoca, l'avevo davvero fatta grossa.

Scappare di casa con l'innamorato di turno, non parlare più per anni con la famiglia e far sapere – con mooolto ritardo – del mio matrimonio e del mio stato di vedovanza, non era stata esattamente una manovra eccellente.

I miei genitori non avrebbero tollerato bene neppure un mio interesse a sposare normalmente Kieran, figurarsi ciò che avevo fatto!

Avevo rovinato il loro buon nome in paese, cosa a cui loro tenevano più di tutto.

Che io avessi fatto carriera, fossi apprezzata come giornalista e fotografa, avessi buoni amici e un lavoro promettente, contava molto poco, adesso.

L'onta che mi tiravo dietro mi avrebbe segnata per il resto dei miei giorni.

Stare al faro serviva a lenire quel senso di sconfitta e, a quanto pareva, anche la presenza pacifica e tranquillizzante di Donna aveva questo effetto, su di me.

«Ha detto che mi lascerà il cancello aperto, così non dovrò scavalcarlo.»

Ridacchiai, nel dirlo, perché quel cancelletto avrebbe sì e no fermato un bambino di sei anni. Era lì per bellezza, non come deterrente.

Ma il fatto che lui mi avesse fatto questa concessione, deponeva a suo favore.

Donna sorrise a quel commento e, per un po’, proseguimmo a lavorare assieme nel giardino.

Quando poi fu il momento di andare a prendere i bambini a scuola, la accompagnai.

Erano secoli che non rivedevo la mia vecchia scuola, e immaginavo avessero apportato molte migliorie.

Salii così sulla sua station wagon, una vecchia Volvo V70 di almeno dodici anni, ma che cantava come un usignolo.

Era chiaro quanto quell'automobile fosse il campo di battaglia dei bambini e, nel sorridermi imbarazzata, Donna mormorò: «Se trovi dei pupazzi, o roba da mangiare in vari stadi di decomposizione, non ti preoccupare. E' normale amministrazione. A volte, trovo cose che neppure immaginerei nei miei più remoti incubi.»

«Non preoccuparti. Sono la madrina di battesimo di un ragazzino adorabile... quanto confusionario. E' impossibile trovare qualcosa, in camera sua. Sono vaccinata» ridacchiai, sorridendole divertita.

Quando raggiungemmo la St.Brendan's National School, notai che aveva ancora il cancello in ferro color verde scuro, oltre all'ampio giardino dinanzi all'entrata.

Una palma era stata piantata in barba al clima, forse per sfidare la sorte, ma sembrava resistere bene a quel clima altalenante.

I bambini erano già pronti per scappare dalle mani attente delle maestre, che li trattenevano dinanzi all'entrata a vetri, sotto l'ampio porticato dal tetto scuro.

Sorrisi, nel notare che le pareti esterne della lunga e semplice struttura a un piano della scuola, erano ancora tinte di un tenue giallo canarino.

Dopotutto, assomigliava ancora molto a come la ricordavo.

E là, assieme ai ragazzini di prima elementare, vidi la mia maestra.

Era invecchiata – vent’ anni passano per tutti – eppure l'avrei riconosciuta anche tra un secolo.

Ora il suo chignon era più bianco che biondo, e la forma si era un poco arrotondata, ma Margareth O'Gready era una figura riconoscibile anche adesso.

Le sorrisi, salutandola con un cenno della mano prima di rammentare che io, invece, ero cambiata, e tanto.

Ma lei non impiegò molto a capire chi fossi. Ci pensò su un attimo, poi mi sorrise e rispose al saluto.

Quando fu dato il via, i ragazzi partirono all'assalto del cancello, chi per raggiungere i genitori, chi per salire sull'autobus mentre io, facendomi largo tra loro, raggiunsi Mrs O'Gready per un veloce saluto.

La abbracciai con naturalezza e lei, osservandomi dall'alto al basso con aria sbalordita, esalò: «Cara la mia Sheridan O'Connell, ti hanno forse tirato per i capelli per troppo tempo? Sei altissima!»

Risi sommessamente, mentre Donna e suo figlio Keath andavano in direzione dell'ala della scuola dove si trovava l'asilo. Maureen sarebbe uscita di lì a poco.

«Promettevo bene, viste le dita lunghe che avevo fin da piccola.»

«Dita lunghe e abili. Cosa combini, adesso, ragazza?»

Mi era sempre piaciuto il suo modo schietto di parlare alla gente, e fui felice di scoprire che non era cambiata.

«Sono una fotoreporter del National Geografic. Lavoro in una succursale di Dublino.»

«Ah,... ottimo. Un lavoro adatto alla tua fantasia sfrenata.»

Cambiò tono e umore quando mi chiese di mio padre, e io la capii benissimo. Tutti sapevano dei nostri trascorsi.

Mi schiaffai in faccia un'espressione di copertura e dissi: «Non sta benissimo, ma sembra che la malattia non gli procuri molti dolori.»

«E tu, come stai?»

Perché mi ero illusa che fosse facile farla franca, con lei? E dire che la conoscevo bene. E pure lei, me.

Sospirai, lasciando che le mie spalle seguissero la forza di gravità.

Mi passai una mano sulla nuca e ammisi: «Vorrei essere da tutt'altra parte. Magari, in Alaska. O a Timbuctu.»

Mrs O'Gready mi sorrise benevola, lasciando cadere l'argomento e, quando vide sopraggiungere Donna assieme ai figli, sorrise loro e disse: «Ti lascio in loro compagnia ma, se vorrai, vieni a trovarmi. Parleremo un po', e mi dirai qualcosa del tuo lavoro.»

«Ne sarò felice. A presto.»

Sorrisi nell'abbracciarla e, assieme a Donna e i bambini, tornai in paese per passare il pomeriggio assieme alla famiglia di Fynn.

Non avrei sopportato di vedere i miei genitori tutti i santi giorni. E non perché avessi paura dei rimbrotti di mia madre.

Più semplicemente, non potevo sopportare che mio padre si stesse accorciando di proposito la vita, e mia madre non gli dicesse di smettere.

 
***
 
La notte precedente aveva piovuto, ma il vento della mattina aveva già asciugato le strade asfaltate da poco.

Quando mi ritrovai a fronteggiare il profilo arrotondato del faro, l'erba era di un verde brillante.

Sorrisi nell'accorgermi che, sulle foglie lanceolate, erano ancora presenti molte gocce d'acqua, che riflettevano i raggi del sole apparendo ai miei occhi come una distesa di diamanti luccicanti.

Entrai nel cortile – come promesso, Ronan mi aveva lasciato aperto il cancelletto – e, dopo essermi piazzata sulla panchina a gambe intrecciate, iniziai a lavorare al PC portatile.

Essermi presa un anno sabbatico poteva anche essere un vantaggio, ma avevo dei progetti in sospeso, e almeno quelli volevo terminarli per inviarli a Todd.

Iniziai a ticchettare sulla tastiera a una buona velocità e, cappello sulla testa e matita infilata sopra un orecchio, continuai a lavorare per tre ore di fila.

Il profumo del rododendro, intenso e corposo, si confondeva con quello dell'erica, che cresceva selvatica poco oltre il muretto di cinta.

File di botton d'oro, e ranuncoli dai mille colori, erano disseminate lungo il muro, e aiole ben tenute erano circondate da sassi smussati dall’azione incessante dell’acqua.

Forse, raccolti in un fiume.

Rosmarino, salvia, timo e lavanda crescevano al riparo di una piccola serra in vetro, visibile poco oltre il perimetro della casa.

E, in lontananza, forse a causa delle porte chiuse del capanno, udii i colpi attutiti di un martello.

Forse, Ronan era impegnato nella riparazione, o nella costruzione, di qualcosa.

Non ne ero sicura. Non si era ancora visto, quel mattino, e forse neppure sapeva che ero lì.

Ma non importava.

Io ero interessata al posto, non all'uomo.

E quel ritmico picchiare non era un fastidio, bensì un rilassante naturale.

Avevo sempre apprezzato le persone che ci sapevano fare, con i lavori manuali.

Inviai email per una buona oretta, inserendo assieme al testo degli articoli una buona dose di fotografie.

Ero quasi dell'idea di alzarmi per sgranchirmi le gambe – stare nella posizione del loto per ore, può far atrofizzare anche un fachiro – quando, all'improvviso, il sibilo sorpreso di Ronan mi fece sobbalzare.

Afferrai il portatile abbastanza velocemente per non farlo cadere e, a occhi sgranati, levai lo sguardo per guardarlo, chiedendomi cosa fosse successo.

Lui mi guardò stralunato, gli occhi chiarissimi spalancati e, con voce strozzata, esalò: «Cristo! Non mi aspettavo di trovarla qui!»

«Gliel'avevo detto, no?» replicai, allungando le gambe, che scricchiolarono per protesta.

Ronan prese un bel respiro, che fece gonfiare i pettorali sotto la maglietta a maniche lunghe coperta di segatura, e ammise: «Me n'ero dimenticato.»

«Più che evidente dalla sua... tua faccia. Posso darti del tu? Mi sento un'idiota a dare del lei a un mio coetaneo.»

Lui scrollò una spalla, dandomi così il suo benestare.

Non era esattamente la persona più ciarliera del mondo, ma non c'erano problemi. Io lo ero per tutti e due.

«Se ti scoccia che stia proprio qui, posso spostarmi laggiù sul prato. Contro il muretto.»

«L'erba è ancora umida. Ti bagneresti per niente, e io la panchina non la devo mica usare.»

Come le altre volte, la sua voce uscì come un borbottio contrariato, come se gli costasse parlare.

Era più che evidente quanto fosse deficitario, quanto a relazioni con il prossimo.

«Non voglio disturbarti nel tuo lavoro. Mi sgranchisco un po' le gambe, poi mi rimetto al computer» dissi a quel punto, levandomi in piedi per stiracchiarmi.

Per andare lì, avevo indossato una semplice tuta in felpa leggera e scarpe da ginnastica.

Lui mi guardò per alcuni attimi, forse trovandomi strana, poi proseguì per entrare dentro casa, chiudendosi la porta alle spalle con gentilezza.

Io, nel frattempo, passeggiai un po', piegandomi accanto a una aiola per strappare alcune erbacce.

Ne feci un mucchietto ma, quando cercai un punto in cui gettarle, mi ritrovai a fissare un sacchetto in plastica riciclabile.

Ronan me lo stava allungando perché ve le gettassi dentro e, burbero, disse: «Non devi sprecare tempo accanto alle aiole. Ci penso io, a loro.»

«Ero in pausa relax, e non mi si è spezzata neppure un'unghia, tirando via le erbacce.»

So che fu stupido rispondere, ma non riuscii a trattenermi.

«Buon per te, perché non ti pagherei la manicure per...»

Si interruppe quando sollevai le mani per mostrargliele, tutta ghignante per lo scherzo appena fatto.

Non solo non avevo le unghie lunghe, ma le portavo cortissime – e in quel momento erano tutte sporche di terra.

Erano passati i tempi in cui me le mangiavo per il nervosismo, ma non mi ero mai sognata di farle crescere. Non ero il tipo da perderci dietro del tempo.

Ronan sbuffò, tornando sui suoi passi con la borsa piena di erbacce così, ridacchiante, tornai alla panchina.

Ero già pronta a rimettermi al lavoro quando, di colpo, un asciugamano profumato mi piombò in testa, portandomi a sbuffare per la sorpresa.

Udii una finestra chiudersi e, poco dopo, sollevando l'orlo dell'asciugamano, vidi passare Ronan, diretto al capanno.

Sbuffai di nuovo, e utilizzai il telo di spugna per pulirmi le mani.

«Che razza di cafone...» brontolai tra me, lasciando il telo sulla panchina prima di rimettermi al lavoro.

Il sole proseguì nella sua salita, giunse allo zenith e iniziò a discendere.

Per tutto quel tempo, Ronan continuò a lavorare nel capanno degli attrezzi, fregandosene bellamente delle ore che passavano.

Saltò il pranzo – o almeno, non tornò in casa per prepararselo – mentre io mangiucchiavo un panino al formaggio, preparato per l'occasione proprio quella mattina.

Stavo finendo l'ultimo pezzo, quando sentii la porta del capanno aprirsi.

Imperterrita, continuai a ticchettare sulla tastiera ma, quando mi ritrovai a fissare i suoi scarponi – poco oltre la linea dello schermo del portatile – capii che si era fermato davanti a me.

Levai perciò lo sguardo, e fui sorpresa di ritrovarlo nudo fino alla cintola, sudato e sporco di trucioli di legno.

Portava la maglietta grigia di traverso su una spalla, evidentemente intrisa di sudore, e perciò pronta per un passaggio in lavatrice.

Questo spiegò il torso nudo. Ma non la sua fermata.

«Se speri che ti faccia il bucato, scordatelo.»

Lui storse il naso, limitandosi a dire per tutta risposta: «Se speri che ti prepari il pranzo, scordatelo. Vai a casa.»

«Tranquillizzati. Ho mangiato un panino che mi sono portata da casa. E non fare il pappagallo. Spremiti il cervello per inventarti qualcosa di tuo.»

Come sperai, storse bocca e naso, infastidito.

Non sapevo bene perché, ma mi divertita prenderlo in giro.

Anzi, lo sapevo il perché. Volevo fargliela pagare per essere stato scortese con me, ma non era molto edificante ammetterlo.

Non disse niente, limitandosi ad andarsene verso la porta di casa ma, così facendo, mise in mostra la schiena dai muscoli tonici... e un'orribile cicatrice ormai vecchia di anni.

Parevano denti, ma nessun animale terrestre aveva una dentatura così ampia.

Sgranai gli occhi, terrorizzata all'idea del dolore che doveva aver patito e, balbettante, esalai: «Cosa... è stato? Chi ti ha... f-ferito così?»

Si bloccò, volgendosi a mezzo per squadrarmi, ricordandosi solo in quel momento – probabilmente – di aver esposto al mio sguardo quell'ammasso di tessuto cicatriziale dalle proporzioni enormi.

Si accigliò, ma mormorò: «Uno squalo. Alcuni anni fa. Sette, credo. O otto.»

«Cristo. Santo.»

Non proseguì nel racconto, e in cuor mio lo ringraziai.

Avevo già fatto dei servizi fotografici su persone ferite da animali selvatici, ma non mi era piaciuto all'epoca come non mi piaceva ora.

Di sicuro, doveva aver lottato come un pazzo per liberarsi, forse scarnificandosi, e quello era il risultato.

Provai pietà per lui, ma preferii non lasciarlo trasparire. Dubitavo fortemente gli avrebbe fatto piacere.

Ronan entrò in casa senza dire nient'altro e, per circa una mezz'ora, non sentii nulla, neppure un minimo accenno di vettovaglie smosse o di rumori 'da cucina'.

O era fenomenale nel fare tutto in silenzio, o non stava mangiando affatto.



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Capitolo 5
*** 5. ***


 
5.
 
 
 
 
«Cosa diavolo stai facendo?!»

Quell'esplosione di... no, non era collera, era semplice incomprensione, o totale confusione, condita con una buona dose di maleducazione.

Risollevai in fretta testa, fotocamera e busto e, con un velo di neri capelli a coprirmi il viso, sbuffai dicendo: «Beh? Che c'è?»

Scostai parte della liscia chioma con un gesto secco della mano, e l'azzurro dei miei occhi si schiantò contro l'acquamarina di quelli di Ronan.

I suoi, erano sconcertati.

I miei, spazientiti, ne ero sicurissima.

«Te ne stavi a... a...»

Balbettò, non sapendo se essere furioso o imbarazzato e io, con una scrollata di spalle, parlai per lui.

«A sedere per aria, appesa al tuo muretto a testa in giù, lo so. Stavo cercando di fotografare una lumaca.»

Ronan strabuzzò gli occhi e, chiaramente, mi giudicò pazza da legare.

Mi sistemai i capelli con gesti nervosi delle mani – perché non me li ero tagliati? Vanità, che brutta bestia – e cercai di spiegarmi meglio.

«Sto preparando un articolo sulla flora e la fauna locale, e quella che ho visto sul tuo bel muretto era una cepaea nemoralis

«Che sarebbe?» borbottò Ronan, arricciando le sopracciglia, ancor più confuso di prima.

Mi appoggiai al muretto di cinta e, accavallate le caviglie, dissi: «Ci sono studi in corso per stabilire come questa specie in particolare sia giunta qui in Irlanda, e molti pensano si sia fatta un viaggetto dall'Inghilterra alla nostra bella isola tramite barca. Insomma, è un'immigrata clandestina da almeno... ottomila anni, più o meno.»

Quella notizia parve confonderlo ancora di più. Ma gli fece anche sorgere un anomalo sorrisino ai bordi della bocca.

Accarezzai l'idea di buttare lì una battuta solo per vedere se si sarebbe messo a ridere, ma poi lasciai perdere.

Non ero lì per sgrossare il suo manto di burbero orso.

«Sei una malacologa?»

Fu il mio turno di apparire vagamente sconcertata.

«Se è un reato, smentisco su tutta la linea.»

Ancora quel sorrisetto. E tremava, premeva per uscire allo scoperto.

«E' uno studioso di molluschi, e i gasteropodi fanno parte dei molluschi.»

Quella spiegazione mi fece sorridere e, scuotendo il capo, replicai: «Oh. Capito. No, sono una fotoreporter del National Geografic. In realtà, mi sarei presa un anno sabbatico, ma non riesco a stare ferma, così ho chiesto al mio capo se potevo fare un articolo su questa zona, e lui ha accettato.»

La notizia parve sorprenderlo e, sì, riportargli alla mente qualcosa.

Almeno a giudicare dal lampo che gli scorsi negli occhi.

Senza dirmi nulla, si allontanò per andare in casa, mollandomi lì senza una spiegazione.

«Quello è tutto strano» brontolai, tornando a buttare giù la testa per curiosare la zona bassa del muro di cinta, casomai la mia lumaca fosse ancora nei dintorni.

Quando la intercettai, mi allungai ancora di più, desiderando scattare una macro con i fiocchi.

Peccato che non avessi tenuto conto di una particolare legge della fisica. La gravità.

Sporgendomi così tanto, sbilanciai il mio già precario equilibrio e, quando la mano destra scivolò sull'intonaco umido, fu un disastro di proporzioni epiche.

Sbattei con una certa violenza contro il muretto mentre, con tutta me stessa, cercavo di non cadere in avanti.

Inutile, del tutto inutile.

Scivolai inesorabilmente verso il prato sotto di me, carambolando a terra con neppure troppa grazia, finendo così per picchiare schiena, fondoschiena e tutto il mio corollario di gambe e piedi.

«Umpf!»

Il fiato mi uscì di getto dai polmoni per il contraccolpo, ma fu la risata sguaiata di Ronan – non poteva che essere la sua, visto che non c'erano altre persone presenti – a sorprendermi, non tanto il mio capitombolo.

Era calda, corposa, piena di divertimento. E vagamente arrugginita, come se fossero secoli che non usciva dalla sua gola.

Mi tolsi dalla faccia i capelli tutti scompigliati, osservai ansiosa la mia Canon, fortunatamente sopravvissuta al mio volo d'angelo spennato, e cercai di rimettermi in piedi.

Fu a quel punto che due mani forti si allungarono verso di me, passando sotto le mie braccia per fare leva sulle ascelle.

Ronan mi sollevò senza apparente fatica e, quando fui nuovamente in piedi, mi fissò con aria più che mai divertita, esalando: «Il volo più spettacolare che abbia mai visto.»

«Potevi prendermi, se eri presente» bofonchiai, spazzolandomi nervosamente i pantaloni di felpa, ricoperti di steli d'erba umidi.

«Non ho fatto in tempo» replicò lui, mentendo spudoratamente, almeno a mio avviso.

I suoi occhi brillavano ilari, le guance erano rosee di divertimento e i suoi denti bianchi riflettevano il sole di quella calda giornata di fine maggio.

Erano tre settimane che ero tornata ma, a parte qualche battuta scambiata con Fynn o coi nonni, non avevo mai avuto un solo momento in cui ridere spensierata.

La situazione a casa dei miei genitori non era migliorata, col passare dei giorni, e i nostri rapporti tesi mi avevano sempre fatto sorgere delle emicranie spaziali.

Vedere Ronan ridere per il mio non certo elegante balzo dal muro, mi portò a unirmi a lui, a lasciare che il mio imbarazzo venisse divorato dall'ironia della situazione.

Nell'asciugarmi lacrime di ilarità, esalai: «Se ne parlerai a qualcuno, ti ammazzerò, lo giuro.»

Lui annuì, si appoggiò al muretto da cui era nato tutto e, più serio, mi allungò una rivista che riconobbi subito.

Era una copia abbastanza vecchia del National Geografic, di circa un paio di anni prima e, sulla copertina, c'era un enorme baobab circondato da un cielo al tramonto.

Quella foto non l'avevo fatta io, ma un mio collega di Miami... ma, all'interno di quel numero, c'era un articolo che ricordavo molto bene.

«Le orche in Alaska» mormorai, sfogliando velocemente la rivista per andare alla pagina che volevo.

«Hai fatto tu le foto a quel piccolo?» mi domandò, la voce sommessa e neutra.

Annuii, sfiorando con un dito la carta lucida, dove si poteva vedere in primo piano l'occhio liquido e dolce di un'orca cucciolo di pochi mesi di vita.

Avevo rischiato l'ipotermia, immergendomi in quelle acque gelide, e mi ero pure presa una pinnata – del tutto involontaria – da parte di uno dei cetacei.

Ma le foto erano risultate splendide. Ne andavo tutt'ora orgogliosa.

«Non ti sarebbe bastato fotografare le orche in una vasca, e poi fotoshoppare lo sfondo?» mormorò lui, con tono vagamente ironico.

Giuro, mi venne spontaneo.

Gli diedi uno spintone piuttosto forte e, inviperita, gli schiaffai la rivista tra le mani, levandomi in piedi come una furia.

«Io non lavoro così!»

Ciò detto, me ne andai a grandi passi, la postura rigida come un bastone e un'aria di lesa maestà che avrebbe fatto desistere dall'avvicinarsi anche un leone affamato.

Perché lo avrei sbranato io, poco ma sicuro.

Dio, ma che razza di insulto! Come se io potessi falsificare a cuor leggero le mie fotografie!

Inforcai la bicicletta per tornarmene a casa, l'ira che serpeggiava sulla mia pelle come mille spilli acuminati.

Come cavolo si era permesso di insultarmi a quel modo?!

 
***
 
La risata di Fynn non aiutò molto il mio amor proprio, ma mi consolò vedere Donna dargli una gomitata nelle costole, abbastanza forte da farlo smettere.

Keath e Maureen erano nel giardinetto dietro casa, intenti a giocare sulle altalene.

Le loro risate allegre riempivano l'aria come il profumo dell’erica, che cresceva in vasi panciuti di terracotta.

«Hai finito di fare l'idiota?» bofonchiai, intrecciando le braccia sotto i seni.

«Scusa... ma l'idea di te che rotoli giù da un muretto... per fotografare una lumaca... è troppo... davvero...» ansò lui, asciugandosi lacrime d'ilarità.

«Molto, mooolto spiritoso. Anche Ronan ha riso come un idiota, quando mi ha vista rotolare in terra. Si vede che è giornata.»

Quell'accenno fece azzittire Fynn che, particolarmente strabiliato e con gli occhi sgranati a palla, esalò: «Ronan... ha riso?»

«Già. Poi, se n'è uscito con un'ipotesi del tutto assurda, secondo cui io avrei potuto benissimo...»

Fynn mi interruppe, tappandomi la bocca con una mano, che io scostai subito, indispettita. «E piantala!»

«Fynn, dai...» soggiunse Donna, ed io la dispensai di un sorrisone allegro.

«Voi non capite. Ronan non ride mai! E' un evento!» protestò per contro Fynn, cercando di farci capire quanto fosse serio.

Non lo ascoltai.

«Non mi interessa. Mi ha offesa, insinuando cose poco simpatiche sul mio lavoro.»

«E dai, Fynn, puoi dire quel che vuoi, ma Sherry ha ragione. Non può fare commenti sul suo lavoro, visto che non la conosce» mi sostenne Donna.

Io la ringraziai con un sorriso tutto fossette.

«Ah, no, care mie. Non farete combutta contro di me. E' troppo comoda. Vi dico soltanto che Ronan ha un carattere difficile, e il fatto stesso che abbia riso depone a favore di Sherry. Secondo me, non voleva offenderti. Soltanto, non ci sa fare con la gente.»

La replica di Fynn non mi convinse neppure per un istante.

«Spiegami quel che ti ha detto. Testuali parole

La voce del mio migliore amico era tornata seria e, quando lo guardai in viso, ne ebbi la conferma. Non stava più scherzando.

Con un sospiro, quindi, gli ripetei a pappagallo quello che tanto mi aveva fatto infuriare e Fynn, dopo aver annuito un paio di volte, si limitò a dirmi: «Non è che, molto semplicemente, ti stava facendo un complimento perché tu non ti sei comportata a quel modo?»

«Come?» gracchiai, sconcertata.

Scossi il capo, certa che il mondo stesse andando al contrario. Come poteva, Fynn, dare ragione a Ronan?

«Sherry, ascoltami. Ronan è così arrugginito nei rapporti umani che, secondo me, si è solo espresso male. Non vederci del marcio a tutti i costi. Torna da lui domani, come se niente fosse, e vedi che succede. Secondo me, hai ingigantito tutto perché, come tuo solito, ti inalberi per un alito di vento.»

Mi accigliai immediatamente. E altrettanto immediatamente sospirai.

In effetti, Fynn aveva ragione.

Io e la rabbia eravamo due amiche inseparabili e, se facevamo combutta con testardaggine, diventavamo quasi insopportabili. Quanto incontrollabili.

«D'accooordo. Farò come mi hai detto. Ma se dice ancora qualcosa di scortese, gli tiro un pugno sul naso.»

Sottolineai la mia promessa tirando un destro sul palmo della mia mano sinistra, producendo uno schiocco sordo.

Donna mi sorrise complice e Fynn, sospirando, esalò: «Ma perché hai imparato a fare a pugni? Spiegamelo. Non eri così manesca, da ragazzina.»

«Ero anche uno stecchino per i denti, se ben ricordi» ironizzai.

Non che fossi molto più in carne, ora, ma almeno qualche chilo di muscoli in più lo avevo ammucchiato, attorno alle ossa.

I coniugi risero a quel commento, e io mi accodai. Rammentavo bene com'ero.

Una ragazzina dark, arrabbiata col mondo e con il cibo, sempre in perenne lotta con tutto e tutti.

Era stato evidente fin da subito, almeno per tutti tranne che per i miei genitori, che la vita qui a Portmagee mi sarebbe sempre andata stretta.

Trasferirmi a Dublino era stato un errore di valutazione grossolano ma, d'altro canto, mi aveva aperto le porte per un futuro alternativo a quello scelto per me dalla mia famiglia.

Perdere Kieran a quel modo mi aveva fatto maturare molto... e mi aveva spinto a decidere di imparare a difendermi da sola.

Perché, quando sei una ragazzina sola in un quartiere non proprio bene, o impari a curarti di te stessa, o può succedere di tutto.

Non avevo mai raccontato neppure a Fynn quanto, quei primi mesi solitari dopo la morte di K, fossero stati tremendi e spaventosi. Non desideravo la sua pietà.

Ma ricordavo fin troppo bene le notti passate a barricare la porta con i pochi mobili a disposizione, la mazza da baseball stretta al petto mentre, terrorizzata, tentavo di prendere sonno nel letto sfatto.

Il giorno non era mai stato un sollievo, perché i teppisti che avevano ammazzato Kieran non conoscevano orari di pausa.

Girare per Dublino da sola non era mai stato piacevole, ma avevo imparato a convivere con la paura, a usarla come barriera.

E così mi ero iscritta a un corso di autodifesa. Da lì al pugilato e al kenpo,  era corso poco.

Il mio insegnante me li aveva consigliati perché mi aveva vista portata e, a tutti gli effetti, mi ero divertita a buttare al tappeto donne grosse il doppio di me.

Alla fine dei conti, imparare mi aveva resa sicura di me, pronta a battermi per me stessa.

Ma tutto questo me lo sarei tenuto per me, perché altrimenti Fynn si sarebbe sentito in dovere, come mio migliore amico, di diventare il mio protettore, ora che ero a casa.

E non ne avevo davvero bisogno.

«Farò come dici, e domani tornerò al faro.»

Ciò detto, li salutai per andare a casa dei miei.

Quel giorno, sarebbe arrivato un medico da Limerich, e volevo esserci. Non mi stavano più bene le notizie smozzicate di papà, o quelle edulcorate di mamma.

Volevo sentire con le mie orecchie come stesse mio padre, quali fossero i parametri della sua malattia.

Pedalai in tutta fretta per raggiungere la stradina del porto e, da lì, la casa dei miei genitori.

Quando vidi un'auto sconosciuta posteggiata accanto alla porta d'ingresso, mi affrettai.

Appoggiai la mountain bike al muro ed entrai, avviandomi verso il salotto, dove la porta era aperta e giungevano alcune voci sommesse.

Bussai contro la porta a vetri per far notare la mia presenza e, con un sorriso elegante, mi rivolsi al dottore – che mi guardò vagamente sorpreso – dicendo: «Buongiorno, dottor MacArthur. Sono Sheridan O'Connell.»

«Ah, buongiorno. Suo padre mi stata giusto appunto dicendo che sarebbe stata presente anche lei, alla visita.»

Mi strinse la mano con un sorriso stampato sulla faccia magra e pallida e io, annuendo, andai ad accomodarmi sul divano, dove mia madre a malapena mi guardò.

Era evidente quanto la mia presenza le desse noia. Forse, non voleva far sapere a nessuno tranne a se stessa, quanto stava male papà.

Questa sua gelosia assurda mi fece prudere le mani, ma cercai di contenermi.

Litigare non sarebbe servito a nessuno.

Perciò, con calma assoluta, assistetti alla visita del medico, al suo scrutare assorto le risonanze magnetiche e gli ultimi esami del sangue.

Il tutto, avvenne nel più completo silenzio, scandito solo dal tic toc dell'orologio a pendolo del salotto.

Fu frustrante, quasi disturbante starmene lì ferma, silenziosa e rigida come una statua, mentre mia madre sembrava perfettamente a suo agio.

Come vi riuscisse, rimaneva un mistero.

Forse, il fatto che non riuscissi a sopportare quella staticità forzata, dipendeva dalla mia indole ribelle.

Non potevo saperlo per certo ma, quando finalmente il dottore decise di parlare, lo ringraziai mentalmente.

Mi aveva appena evitato una crisi di nervi.

Quel che disse alla fine della visita non mi stupì più di tanto, ma sentirlo fu comunque difficile.

La diagnosi non lasciava scampo.

Quello che mi sorprese, però, fu la reazione opposta dei miei genitori.

Se mio padre sospirò quasi sollevato, annuendo al dottore come se il suo dire lo rasserenasse, mia madre si accigliò, rimase rigida come un bastone e, quando si trattò di congedare il dottore, lo fece con gelida cortesia.

Subito sostituita dalla più nera ira, quando fu al sicuro da sguardi e orecchie indiscreti.

Di sicuro, non avrebbe detto una sola parola sconveniente, in presenza di orecchie curiose. O del diretto interessato.

«Quell'uomo è un vero incompetente! Non ho mai sentito un dottore parlare in modo così... così... inesperto! Non avrei dovuto fidarmi di Cornelius, quando mi consigliò di contattarlo!»

La sua non fu una vera esplosione di collera. Per lo meno, non per i miei standard.

Si mosse con calma per la casa, gesticolando come se stesse colloquiando amabilmente. Solo il tono, oltre al viso contratto, lasciavano intendere quanto fosse inviperita.

Cercai di calmarla, di blandirla a gesti, ma fu tutto inutile.

Quando il suo sproloquio solitario perdurò per più di un quarto d'ora, sbottai.

«Insomma, mamma, non puoi insultare un dottore plurilaureato, e solo perché non ti ha detto quello che volevi sentire! La risonanza parla chiaro! Lo capisco persino io che non sono un medico!»

Mio padre rimase in silenzio, le mani che massaggiavano le cosce ricoperte di pantaloni in velluto a coste.

Mia madre mi si rivoltò contro, furente come un pitbull desideroso di sangue, e riversò su di me tutta la sua rabbia, tutta la sua frustrazione.

«Come osi parlare, tu che non sai nulla di questo argomento?! Sono io che mi sono sempre occupata di tutto. IO! Non certo tu, che te ne stavi a Dublino a fare la bella vita, mentre tuo padre si ammalava!»

Sgranai gli occhi, basita e insultata dal suo dire.

«Bella vita?! Ma in che film? Mi sono fatta il mazzo fin da quando Kieran è morto, cioè da quando avevo vent'anni! Non venirmi a parlare di bella vita! Ho studiato, fatto anche tre lavori per pagarmi gli studi, mi sono sorbita la gavetta come chiunque altro e, quando finalmente sono stati riconosciuti i miei meriti, ho lavorato sodo per non perdere la fiducia dei miei capi!»

«Per scattare quattro foto, non ci vuole un genio» mi rinfacciò lei, preparandosi un tè con mani tremanti.

Era pallida, stranamente vulnerabile nel suo tremore debole, ma questo non mi fece desistere dal risponderle a tono.

«Solo perché non ho studiato medicina come volevi tu, non significa che quello che faccio non sia difficile, o non meriti rispetto! Ma tu che vuoi saperne! Quando mai mi hai portato rispetto?! O ti è importato dei miei interessi?!»

«Sheridan, per favore...» mormorò pacato mio padre, afferrandomi gentilmente a un braccio. «Mamma è solo nervosa. Non pensa veramente quello che ha detto.»

«Beh, non mi pare siano arrivate smentite in redazione» sbottai, adombrandomi in viso.

«Se tu non te ne fossi andata, se non avessi portato la vergogna sulla nostra famiglia... tuo padre non si sarebbe ammalato!» mi rovesciò addosso mia madre, facendomi sobbalzare per la sorpresa e lo sgomento.

Le guardai gli occhi, colmi di lacrime che mai e poi mai avrebbe versato... ma, soprattutto, colmi di una convinzione tale da ammutolirmi.

Era veramente convinta che io avessi fatto ammalare mio padre.

Questo bastò a distruggermi.

Le braccia che, fino a quel momento, avevo tenuto sollevate per gesticolare, crollarono lungo i fianchi come se mi avessero strappato i nervi a forza.

Il viso mi si fece di ghiaccio, la bocca mi si serrò e, senza dire più nulla, uscii da casa.

Mi incamminai lungo la via, dimentica della mia bicicletta e, senza stare troppo a pensarci, mi infilai dentro il The Bridge Bar.

I soffitti bassi, dalle travi in legno grezzo, le sue pareti in stucco approssimativo, i colori caldi e famigliari, il profumo della birra e dei salatini, tutto questo mi fece sorgere uno spontaneo sorriso.

E un principio di emicrania.

Mi accomodai a un tavolino d'angolo, vicino alla finestra che dava sulla strada e, quando vidi comparire Suzanne con il menù in mano, le dissi: «Ciao. Tanto per stare sul sicuro, mi porti una birra?»

«Certo, tesoro.»

La donna, cameriera in quel bar da più anni di quanti non ricordassi, mi conosceva da una vita.

Quando mi portò la birra e una ciotola di salatini, mi diede una fuggevole pacca sulla spalla.

Non occorreva un genio per capire come mai mi fossi rifugiata lì.

Guardai distrattamente l'orario – erano le cinque – e, colta da un briciolo di buon senso, avvertii i nonni che non sarei tornata per cena.

Rimasi lì al bar a bere e mangiucchiare qualcosa, parlai e risi con gli avventori del locale, che in gran parte conoscevo, e li ragguagliai sulla mia vita di città.

Le birre si susseguirono l'una dopo l'altra, in un continuum senza fine finché, ormai pronta a lasciarmi andare allo stordimento che avevo cercato, poggiai la testa sul tavolo e mugugnai: «Perché si deve comportare così? Perché?»

Avvertii sì e no il profumo alla frutta di Suzanne, le sue mani sulla mia testa e le mie braccia, le sue parole di conforto.

Dopodiché, fu il buio.

 
***
 
L'unica cosa che rammentai al mio risveglio – quando mi ero addormentata? – fu il mal di testa ciclopico che suonò la fanfara nel mio cervello mentre io mi riprendevo... nel mio letto, a casa mia.

Mi guardai intorno confusa, gli occhi annebbiati e lo stomaco sottosopra.

Le pareti bianche, la scrivania sotto il lucernario, la poltroncina in vimini ricoperta di abiti disordinati, la mia macchina fotografica riposta ordinatamente sul comò.

Era tutto come al solito, ma…

Come fossi arrivata lì, era un mistero, e non è che fossi molto in vena di concentrarmi, in quel momento.

Non ricordavo un accidenti, se non che avevo passato la sera al bar.

Da lì in avanti, tabula rasa.

L'arrivo di mia nonna con un vassoio per la colazione, mi fece arrossire di vergogna.

Ma lei non mi chiese niente, non aprì bocca.

Si limitò a poggiare sulle mie gambe il vassoio e, tranquilla, si accomodò sul bordo del letto, gli occhi grigi scaltri e saccenti.

«Ciao» mormorai roca, la gola secca e come scartavetrata da lame acuminate.

«Buongiorno, cara» mi rispose lei, sorridendomi calma.

Ingollai un po' di tè bollente – che servì allo scopo di ustionarmi il palato e la gola già sofferente – prima di ricordare che, forse, avrei dovuto soffiarvi un po' sopra.

Nonna mi sorrise melliflua, immaginando senza troppo sforzo quanto quel sorso mi fosse costato.

Allungando fuori la lingua per farle prendere aria, le dissi un attimo dopo: «Niente rimbrotti del tipo 'dove diavolo sei stata tutto questo tempo?' oppure 'era il caso di venire a casa sbronzi?'. Che poi, detto tra noi, come ci sono arrivata, a casa?»

Niamh sapeva come rendermi nervosa, poco ma sicuro.

Mi scrutò a lungo, in silenzio, soppesando i pro e i contro di una sua eventuale confessione ma, alla fine, annuì e disse: «Ronan si è presentato qui, ieri sera, con te in braccio e la tua bicicletta sul pick-up.»

«Cosa!?» gracchiai, strabuzzando gli occhi.

Di tutte le persone...

«Sei sicura? Sì, no, cioè, immagino tu lo sia, visto che tu eri sobria e io no» bofonchiai, trovando assurdo ciò che nonna mi aveva appena detto.

Ronan. Ronan mi aveva portata a casa. Questa poi!

Il sorriso di nonna aumentò.

«Ci ha detto di averti vista al bar, che tracannavi una birra dietro l'altra, e farfugliavi qualcosa sui tuoi genitori assieme a Suzanne.»

Un sospiro, e Niamh tornò seria e vagamente triste.

«Cos'è successo,  a stoírin1

Sospirai, tornai a sorseggiare il tè, ora non così ustionante e, dopo aver sbocconcellato una tartina alla frutta, mormorai: «Ho litigato con mamma. Sostiene che papà si sia ammalato per colpa mia.»

«Santa Brigida misericordiosa!» esclamò, levandosi in piedi con aria sconcertata e, sì, furente. «Di tutte le idiozie che ho sentito, questa le batte tutte! Quella ragazza mi sentirà, adesso!»

«Nonna, stai calma. Non c'è bisogno che tu faccia nulla. Sai come l'ha sempre pensata e, d'altra parte, forse è vero che un po' è colpa mia. Insomma, non è che sia stata una figlia esemplare...»

I dopo sbornia tiravano sempre fuori il meglio di me, poco ma sicuro. Autocommiserazione compresa.

«Oooh, smettila! Sei quello che sei. Nel bene e nel male.»

«Sono nata nella famiglia sbagliata, forse.»

«O hai la madre sbagliata» replicò irritata Niamh. «Sherry, non è questione di essere sbagliati o giusti, è questione di sopportarsi a vicenda, di amarsi a vicenda, pregi e difetti compresi. Non si deve mai tentare di prevaricare l'altro, di cambiare l'altro, o si incorrerà necessariamente in un disastro. E se proprio non si riesce a far scaturire l'amore, almeno bisognerebbe rispettarsi.»

Sorrisi malinconica e la nonna, dopo avermi ordinato di finire la colazione, se ne andò.

Sperai sinceramente che non andasse a spifferare tutto al nonno, perché non volevo che intervenissero in mia difesa.

Non sarebbe stata la prima volta, e non volevo creare ulteriori problemi, o situazioni di disagio.

Era una cosa che dovevo risolvere da sola.

Il mio leitmotiv, insomma.

 


 
 
 
__________________________
1: A stoírin: (gaelico irlandese) Piccolo tesoro, mio cuore (vezzeggiativo).

 

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.
 
 
 
 
 
Ero seduta sulla panchina dinanzi a casa.

Peccato non fosse mia, la casa, ma di Ronan.

Alla fine, dopo aver rimuginato a lungo sulle parole di Fynn, mi ero decisa a recarmi lì come al solito e, come al solito, avevo trovato il cancelletto aperto.

Ero entrata in punta di piedi, quasi aspettandomi di essere cacciata a pedate e, furtiva, mi ero sistemata sulla panchina di sasso.

Ne avevo saggiato l’asperità sotto i polpastrelli, neanche quella fosse stata l’ultima volta in cui l’avrei vista, dopodiché mi ero decisa a mettermi al lavoro.

Dopotutto, ero andata lì per liberarmi la mente, non per riempirla con altri problemi, con altri dubbi.

Ticchettavo veloce sulla tastiera del portatile, la testa bassa, il berretto della Guinness in testa e la coda di cavallo che scivolava sulla mia schiena diritta.

Fu così che mi trovò Ronan, quella mattina, sul tardi.

«Tieni.»

Non mi salutò – non lo faceva mai – perciò non ci vidi niente di strano.

Quando, però, sollevai lo sguardo per capire cosa dovessi prendere, rimasi basita di fronte alla tazza fumante, e profumata di fiori, che mi porse.

«Ehm... grazie?»

«Bevila.»

Ovviamente, non lo feci.

Quando mai facevo quello che mi si chiedeva di fare, e al primo colpo?

Poggiai la tazza fiorata su una gamba e, scrutandolo da sotto l'aletta del berretto, gli domandai: «Tendenzialmente, non bevo nulla senza sapere cos'è. Soprattutto, se a darmi qualcosa da bere è uno sconosciuto.»

Ronan sbuffò, ma mi rispose. Cercò anche di mascherare un sorrisino, ma non vi riuscì.

«E' un infuso d'erbe. Serve per sistemare l'intestino.»

«Oh» esalai, lanciando una seconda occhiata alla bevanda dalla colorazione verdastra.

La tastai perciò con la punta della lingua, arricciando subito le labbra, ma la bevvi.

Sorprendentemente, quel calore benefico rilassò i muscoli del mio addome e, quando l'ebbi terminata, riconsegnai la tazza a Ronan.

«Perché?»

Quella mattina, tra tutti e due, eravamo molto ciarlieri.

Più o meno.

Lui, sorprendentemente, si sedette al mio fianco sulla panchina e, avambracci poggiati sulle cosce robuste, mormorò: «Ieri sera, sembravi sull'orlo di un baratro.»

Non ricordavo praticamente nulla della serata passata al bar, ma non faticavo a credere alle sue parole.

Il fatto stesso che mi fossi ubriaca era sintomo di un grande disequilibrio, almeno per me. Non ero solita tracannare alcol per divertimento.

Anzi, ero praticamente astemia.

«Lite furiosa coi miei.»

Non volli scendere nei particolari.

Io e Ronan non eravamo così in confidenza perché io spifferassi tutto con lui, eppure, il fatto stesso che si fosse preoccupato per me, mi fece piacere.

Lui mi fissò per alcuni attimi, forse indeciso su come procedere, poi aggiunse: «Non... non ce l'avevi per quello che ti ho detto, quindi.»

«Dipende che senso volevi dare alle tue parole, ieri. Mi sono accorta di essere partita in quarta, quando forse volevi dire tutt'altro.»

Scrollai le spalle, e lasciai che decidesse come rispondere, e quando.

Visto che mi aveva riportata a casa, gli dovevo il beneficio del dubbio.

«Mi ha sorpreso, vedere quelle foto. Pensavo fossero finte, ma nella didascalia si parlava di te, e di come eri riuscita a fotografare quelle orche. Mi sono chiesto a lungo perché avessi rischiato tanto quando, col computer, sarebbe stato tutto più semplice.»

Lo fissai basita. Era il discorso più lungo che gli avevo sentito fare, dacché ci conoscevamo.

E fui sorpresa anche dall'idea che lui avesse speso del tempo su un pensiero del genere. Chi era il lettore che si poneva simili problemi?

Gli sorrisi calorosa, segretamente gongolando all’idea che qualcuno avesse pensato a me, e non solo alle foto pubblicate. Non succedeva praticamente mai.

«E' vero, col computer avrei fatto sicuramente prima. Ma non sarebbe stata la stessa cosa. Io avrei saputo che erano dei falsi, e avrei odiato quell'articolo dall'inizio alla fine.»

«Ha senso» annuì, come se gli avessi spiegato le leggi della fisica quantistica. O il motivo per cui le stelle nascevano e morivano.

Ronan sapeva essere davvero bizzarro, quando ci si metteva.

«Ti è piaciuto quell'articolo in particolare, per qualche motivo?» gli domandai a quel punto, curiosa.

Visto che era in buona...

Ma Ronan parve non aver sentito la mia domanda.

I suoi occhi erano puntati sullo schermo del mio portatile e, quando ne seguii la direzione, mi morsi la lingua per la mia idiozia.

Il mio screen saver conteneva le foto fatte durante il battesimo dei gemelli di Todd e Lynn e, sicuramente, la vista di due neonati non poteva che renderlo infelice.

Feci per pigiare il pulsante del mouse, ma lui mi bloccò.

Fissò con bramosia i bambini, i suoi occhi chiari si venarono di lacrime e, senza dire nulla, si alzò e se ne andò verso il capanno.

Sospirai, e preferii lasciarlo andare.

A volte, la solitudine era la migliore delle cure.

 
***

Okay, la coerenza non è mai stata il mio forte.

Quando il mio orologio segnò l'una e di Ronan non vidi traccia, mi alzai per dirigermi verso il capanno, ben decisa a dirgli che fracassarsi di lavoro non serviva a nulla.

In barba a tutti i più sani principi legati al ‘farsi gli affari propri’.

Aprii perciò la porta senza neppure bussare ma, quando mi ritrovai faccia a faccia con una barca in ristrutturazione, mi bloccai.

E pure lui lo fece.

«Cosa vuoi?! Non mi pare che questa parte rientri negli accordi!» mi urlò addosso, il suo solito tono di voce profondo e riottoso.

«Vero, verissimo, hai perfettamente ragione, ma se tu muori di fame perché hai le palle girate, io qui non ci potrò più mettere piede!» lo rabberciai, circumnavigando la barca per raggiungerlo.

Dove Ronan aveva messo mano, il legno sembrava addirittura seta, tanto era liscio.

Ci sapeva fare, con la pialla, esattamente come aveva detto il nonno.

«Ah, per la cronaca, sta venendo bene» gli dissi in faccia, non appena l’ebbi raggiunto.

Ciò detto, lo afferrai per un polso e, senza dar peso alla sua occhiata raggelante, iniziai a trascinarlo fuori dal capanno.

Mia madre sarebbe stata orgogliosa di me. Mi stavo comportando in modo davvero signorile e aggraziato.

Probabilmente, se fosse venuta a sapere quello che stavo combinando, le sarebbe venuto un infarto.

«Sei impazzita?! Dovrei buttarti fuori a calci nel sedere!» protestò a quel punto Ronan, pur senza impedirmi di portarlo via con me.

Gliene fui silenziosamente grata anche perché, col fisico che si ritrovava, non solo avrebbe potuto sul serio sbattermi fuori, ma avrebbe potuto anche farmi molto male.

Mi fermai solo quando raggiungemmo il giardino e lì, lasciatolo per un attimo, raggiunsi la mia borsa per afferrare uno dei panini che mi ero preparata.

Glielo consegnai con estrema serietà, lui tutto nero in faccia e con la bocca piegata in una smorfia.

«Mangia.»

«Neanche morto.»

Oh, beh, questa poi!

«Io, la tua tisana l'ho bevuta, però!»

Quinta elementare, e vai!

Ronan ringhiò, esponendo i denti bianchissimi al sole e, furioso, sibilò: «Ti ho già detto che non ti preparerò da mangiare, se anche vieni qui.»

«Ne ho un altro. Mangia quello e sta zitto!»

Brontolando tra me e me, tornai alla panchina, afferrai il secondo panino e mi piazzai davanti a lui, la bocca aperta e il sandwich pronto per essere divorato.

«Ebbene?» lo punzecchiai, dando il primo morso.

Lui sbuffò, mi mandò al diavolo, ma mangiò.

Chi ci avesse visti, ci avrebbe preso per matti.

Due persone adulte, piazzate nel bel mezzo del giardino, a mangiare – in piedi – due panini con insalata e prosciutto.

Non esattamente una cosa per persone sane di mente.

Mangiammo in silenzio, passandoci la bottiglietta d'acqua che mi ero tirata dietro per il pranzo.

A ogni morso seguì un grugnito da parte sua, e uno sbuffo da parte mia ma, nel complesso, non andò male.

Lui non mi prese a pugni, e io non finii col sedere a terra. Un buon risultato.

Quando anche l'ultimo pezzo fu terminato, restammo comunque a fissarci in cagnesco.

Era evidente che la mia piazzata non gli era piaciuta un granché, e ora voleva farmela pagare.

Invece, disse soltanto: «Era buono.»

Ciò detto, tornò al capanno, le mani nelle tasche posteriori dei jeans e la schiena ampia e nuda offerta al sole e al mio sguardo.

Mi accorsi solo allora che, anche in quell'occasione, l'avevo trovato a torso nudo.

Che fosse una sua abitudine? Ma non aveva paura di farsi male, con tutte le seghe a nastro e gli oggetti contundenti che aveva là dentro?

L'arricciatura del tessuto cicatriziale della sua ferita attirò il mio sguardo, lei così bianca a confronto con la pelle abbronzata di Ronan.

Ancora, mi chiesi quanto dolore avesse patito, e se avesse dovuto essere ricoverato per un lungo periodo di riabilitazione.

Con una lacerazione simile, non ne dubitai neppure per un attimo.

D'istinto lo seguii e, quando mi vide sulla porta, lui con un martello in una mano e un chiodo nell'altra, ringhiò infastidito e mi disse: «Giuro che te lo tiro dietro, se non esci immediatamente

«Ti do una mano.»

Poi, fissandolo con uno sguardo altrettanto irritato, poggiai le mani sui fianchi e ringhiai a mia volta: «Sono capace di tenere in mano un martello, cosa credi?!»

«Beh, io non ti voglio qui dentro, è chiaro?!» sbottò allora lui.

Mi irritai all'inverosimile, pur sapendo che lui aveva ragione da vendere – dopotutto, erano i suoi spazi – e, con tono alterato, replicai: «Sono quattordici anni che me la cavo da sola! E di certo, mio marito non era un asso, nel fai-da-te! Se volevo qualcosa, dovevo farmela da sola!»

Quella frase lo spiazzò, rendendolo un po' meno burbero.

«Ti avrà sicuramente mollata per il tuo caratteraccio. Poco ma sicuro.»

Mentre lo diceva, mi passò il martello e la sacca dei chiodi.

Io sbuffai per tutta risposta, mi misi al suo posto e, quando mi indicò un punto dove piantare il chiodo, lo feci con competenza di movimenti e un pizzico di alterigia.

«Morì un anno dopo il nostro matrimonio. Avevamo entrambi vent'anni, quando successe.»

Lo dissi atona, senza sfilacciature di memorie tragiche o che, e forse fu questo a sconvolgerlo di più. Il fatto che non ne soffrissi affatto.

Mi disse con maggiore calma cosa dovevo fare, dopodiché si mise a piallare un'asse grezza, lunga più o meno due metri.

Restammo in silenzio per parecchio tempo, il toc dei miei colpi di martello e lo zing della sua pialla a fare da colonna sonora al nostro imbarazzo.

Dovevo ancora capire perché l'avessi seguito là dentro e, soprattutto, perché avessi insistito per lavorare.

A casa, ero abituata da anni a fare quello che richiedeva la mia abitazione.

Non mi ero mai preoccupata molto di rovinarmi le unghie. Ecco un altro motivo per cui le portavo corte.

Con tutte le martellate che mi ero data le prime volte, avevo imparato che erano solo una scomodità.

Col tempo, mi ero specializzata nei piccoli lavori con il legno – l'idea di usare un saldatore mi atterriva – e, pur non avendo mai messo mano su una sega a nastro, ci sapevo fare con quella a mano.

Ikea era diventato il mio regno, e molte delle migliorie che avevo apportato a quei mobili lineari e semplici, le avevo fatte di mia mano.

Mi era sempre piaciuto darmi da fare, lavorare manualmente, mettere in pratica ciò che la mia mente ideava.

Ero quasi sicura però che, se l'avessi detto a mia madre, sarebbe inorridita.

Era già tanto che sopportasse il mio girovagare per il mondo come giornalista.

Se avesse saputo che, per diletto, facevo dei lavori di fai-da-te, le sarebbe venuto un colpo.

Una signora per bene non prendeva in mano cacciavite e sparachiodi.

«Come morì?»

Quella domanda giunse a bruciapelo, senza che io me l'aspettassi, e mi costrinse a fermarmi per un attimo.

Fissai la borsa dei chiodi, ne afferrai uno e, dopo averlo sistemato a dovere, diedi un colpo secco con il martello, infilandolo al primo colpo.

«Lo ammazzarono per un debito di gioco. Kieran era scapestrato, e non aveva molta voglia di lavorare. Era uno spirito libero,... suonava la chitarra, per vivere, perciò immaginerai bene come doveva essere.»

Non c'era acrimonia nella mia voce. Mi limitavo a dire la verità.

Il nostro matrimonio, come la fuga, era stato un errore madornale, e io ne avevo pagato il prezzo, così come Kieran.

«Non tornasti a casa, però.»

Risi senza allegria.

«Passo dall'altra parte, a inchiodare?»

Lui annuì alla mia domanda e, dopo essermi posizionata sul lato opposto dell'imbarcazione, ricominciai a picchiare duro col martello.

Era taumaturgico, in un qualche modo davvero contorto.

«Tornare, avrebbe voluto dire ammettere la sconfitta e, a quel punto, i miei mi avrebbero rinchiusa in un convento di clausura. Ero troppo arrabbiata col mondo, per farlo, così rimasi, mi trovai tre lavori per pagarmi l'affitto e le spese scolastiche e iniziai l'università. E, nel frattempo, piansi tutto il tempo.»

«Ti mancava?»

«Un po', ma soprattutto ce l'avevo con me stessa. Pensavo a torto – ora lo so – che, se fossi stata più attenta a quel che Kieran spendeva, forse non lo avrebbero ucciso. Fui io a chiamare i suoi genitori per dirglielo. Ti lascio immaginare la telefonata, e quello che mi dissero. Quando dissi loro che eravamo sposati, mi etichettarono in tutti i modi possibili. Credo che il più carino sia stato Meretrice di Babilonia, se non ricordo male. Lasciai che si occupassero di tutto loro, perché sapevo bene che non avrebbero lasciato che io decidessi nulla. Dissi la stessa cosa al notaio, prima di contattarli, e lui me lo concesse dietro una delibera scritta.»

«Non lo uccidesti tu» sottolineò come ovvietà.

Ai genitori di Kieran non era parso altrettanto ovvio, a suo tempo, e forse neppure a tutt’oggi.

«Per come la videro loro, sì. Fui io a decidere di partire per Dublino, io che lo convinsi a dare voce ai suoi sogni velleitari di diventare un musicista. Io

Lo dissi come se ci credessi veramente, anche se avevo passato quella fase da molto tempo, e lui storse la bocca, irriverente.

«Se così fosse stato, allora compiango quel povero diavolo per non aver avuto spina dorsale a sufficienza per tenerti testa. Ma non penso sia andata così.»

«Fu Kieran a comprare i biglietti dell'autobus, a presentarsi a casa mia nel cuore della notte, pregandomi di seguirlo. Io ero sciocca e innamorata, e odiavo i miei genitori. Fai due più due, e ottieni un disastro.»

Il solo metterlo a voce mi fece sorridere. Soltanto Fynn conosceva l'intera storia.

Non proseguì con le domande, e io continuai a martellare fino a terminare il mio lavoro.

A quel punto, poggiai il sacchetto dei chiodi e il martello su uno dei ripiani da lavoro.

A braccia conserte, mi sistemai a due passi da lui, scrutando il legno che, colpo dopo colpo, diventava più liscio e perfetto.

Il silenzio tornò ad ammorbare l'aria, ma stavolta fu più leggero, quasi giusto.

Un uccellino zampettò sul tetto del capanno, facendo tintinnare la copertura in rame.

Il vento si levò, sommovendo la polvere in terra e le scaglie di legno, che si trovavano un po' dappertutto sul pavimento in pietra.

Questo mi portò ad avvicinarmi alla porta per curiosare all'esterno e, lasciandomi sfuggire un sospiro di sorpresa, esalai: «Porca la miseriaccia ladra!»

«Una tempesta in arrivo, vero?» chiosò lui, continuando imperterrito il suo lavoro.

Il cielo si era oscurato nel giro di pochissimo.

Lanciai uno sguardo verso l'alto e intravidi la luce del faro con maggiore chiarezza, ora che le nuvole si erano fatte minacciose.

La sua luce chiara tentava di trapanare quel muro interminabile di oscurità, color canna di fucile. Fu uno spettacolo impressionante.

«Mi sa che me ne tornerò a casa, prima di bagnarmi come un pulcino.»

Mi volsi verso di lui, non sapendo bene cosa aspettarmi dopo la mia uscita.

Lui non disse nulla, si limitò ad annuire, continuando a lavorare imperterrito sull'asse di legno, neanche volesse ridurla in polvere.

«Beh... ciao.»

«A domani.»

Disse soltanto questo, ma fu come una sorta di benedizione.

A quanto pareva, il fatto che tornassi da lui ogni santo giorno, non gli dava poi così fastidio.

Lo salutai con un cenno della mano e inforcai alla svelta la mia bicicletta, dopo aver messo il portatile dentro lo zainetto.

A gran velocità, poi, mi diressi verso Portmagee, lasciandomi alle spalle il muro di nere nubi provenienti dall'oceano e le scogliere a picco sul mare.

E Ronan.

 
***

L'acqua picchiettava violenta sui tetti e il terreno erboso.

Osservando la tempesta infuriare sulla costa attraverso la finestra della cucina, mi chiesi come fosse il mare, in quel momento.

Lì nella baia, le acque erano scure, ribollenti.

Le onde che si infrangevano sulla spiaggia, però, erano semplici starnuti in confronto ai montanti che, sicuramente, stavano percuotendo la scogliera.

Una coppia di turisti ritardatari arrivò proprio in quel momento alla porta, i ponci gocciolanti e l'aria di essersela vista davvero brutta.

Con un sorriso, li aiutai a sistemare tutto nel locale lavanderia, lasciando ad un secondo momento la visione della tempesta.

Dopo aver domandato loro se stessero bene, li vidi annuire e dichiararsi entusiasti di ciò che avevano visto.

«L'oceano in tempesta è davvero eccezionale. Una vera forza della natura. Meno male che il faro è acceso, altrimenti le imbarcazioni neanche capirebbero dov'è la costa, tanto le onde sono alte e la pioggia fitta.»

Mr Fitch annuì soddisfatto mentre la moglie, ridacchiando, aggiunse: «Non vorrei davvero essere un marinaio, adesso.»

«Neppure io. Questo è sicuro» assentii con vigore, consigliando loro di farsi una bella doccia calda.

Dopo averli visti sparire nella loro stanza da letto, mi domandai come dovesse essere stare al faro, in quel momento.

Chissà se Ronan apprezzava le tempeste?

Quel pensiero mi fece sorridere.

Probabilmente, se avesse mostrato il suo ringhio migliore, la tempesta si sarebbe spaventata a tal punto da non tornare mai più sulle coste irlandesi.

L'arrivo di mia nonna fu provvidenziale. Se avessi continuato ancora un po’ su quell’andiamo, sarei partita in auto per andare a curiosare.

E allora sì, che Ronan si sarebbe infuriato davvero.

Lasciai a lei i clienti, e io mi diressi al nostro bagno privato per fare una doccia.

Tra me, comunque, ridacchiai come un’idiota all'idea di Ronan che scacciava le tempeste a causa delle sue cattive maniere.

Aperta l'acqua, lasciai che diventasse bollente e, con un risolino, mi ci intrufolai sotto, rattrappendomi quando il getto caldo mi colpì.

Sospirai deliziata, quando la pelle si abituò a quella temperatura e, socchiudendo gli occhi, lasciai che quel calore si diffondesse nel mio corpo indolenzito.

Dare tutti quei colpi di martello mi aveva lasciato un ricordino alle spalle, che ora si lagnavano dolenti e indispettite.

Anche le dita erano un po' malmesse, leggermente irritate dal continuo frizionare con i chiodi in acciaio brunito.

Era evidente, quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che mi ero data alla carpenteria spicciola.

L'ultima volta che mi ero cimentata in lavori di falegnameria, era stato in occasione della nascita dei gemelli.

Avevo fatto per loro una cassapanca in legno d'acero, decorata con motivi giocosi e allegri.

Non appena l'avevo mostrata ai genitori, loro mi avevano abbracciata con calore, ringraziandomi.

Era stato bello sentirmi partecipe della loro gioia, condividerla come se fossimo stati una vera famiglia, e non solo degli amici e, per un istante, mi ero sentita meno sola.

Meno... fuori posto.

Certo, sapevo che i miei nonni paterni mi volevano bene.

Quelli materni, si erano sempre disinteressati a tutti noi; neppure avevano voluto che mia madre si sposasse con mio padre!

Niente di strano che non avessero desiderato conoscermi a fondo.

Ma quello che mi mancava, e che mi accorsi di volere in quel momento, lì sotto la doccia, era l'affetto di mia madre.

Uscii fradicia e mi strinsi nell'accappatoio, sentendomi vuota come non mai.

Mi sentivo lontana da tutti, dispersa in un vuoto che non volevo attorno a me, che volevo riempire a tutti i costi, ma non sapevo come.

Me ne tornai in camera mogia e spenta e, quando mi presentai a cena, Niamh si accorse subito che qualcosa non andava.

«Tu e Ronan avete litigato?»

«Sì. No, beh, un po'. Ma poi abbiamo parlato. Insomma, come al solito. E' un gran casino, con lui, ma almeno mi permette di stare lì.»

Non fui molto chiara, e la nonna sorrise comprensiva.

«Non mi pare ti faccia bene. Hai una faccia!»

«Non è colpa di Ronan, o del faro. Finché sto là, mi sento... a posto. Ma stasera...»

«Siediti, ragazza, e dimmi cosa succede.»

Il nonno scelse quel momento per comparire in cucina, ma mia nonna lo scacciò con un gesto della mano, e lui fu lesto a obbedire.

Nell’uscire, comunque, si prese il tempo per strizzarmi l'occhio mentre chiudeva la porta alle sue spalle.

Io ridacchiai.

C'era un feeling così speciale, tra di loro!

Quando fummo finalmente sole, io allungai gli avambracci sulle cosce coperte di jeans scuro e mormorai: «Mi sento sola. So che è stupido, perché ci siete voi, la mamma e il papà... però...»

«Ti manca Kieran?»

«No. Sono vaccinata da anni contro la sua mancanza e, col senno di poi, ho capito da tempo che non avremmo mai dovuto sposarci. Eravamo troppo diversi, e volevamo cose troppo diverse. Non ce l'ho con lui, e non ce l'ho con me stessa per questo errore, però...»

«Però, senti che qualcosa manca.»

«Sì. Ma non so esattamente cosa voglio, per riempire il vuoto che sento.»

«Da quanto non fai sesso con un uomo, cara?»

Quella domanda mi spiazzò, giuro.

Avvampai come un cerino acceso e sgranai gli occhi per fissarli in quelli candidi, e vagamente ironici, di Niamh, che mi sorrise come se niente fosse.

«Cara... pensi davvero che non mi ricordi come si fa?»

«Nonna, ti prego. Non farmi venire in mente che tu e nonno facevate sesso, oppure non riuscirò mai più a prendere sonno» mi lagnai, disperata.

Lei scoppiò a ridere e, nel rialzarsi per terminare di preparare la cena, mi disse con semplicità: «E' solo il brutto tempo, a metterti questa tristezza addosso, oltre alla mancanza di un uomo che ti scaldi il letto. Ma sono sicura che passerà tutto con un buon stufato di carne e un budino al cioccolato. Che ne pensi?»

«Che se ti sentirò parlare ancora di sesso, scapperò di qui a gambe levate» ridacchiai, alzandomi per darle una mano.

«Tesoro, sei arrivata da Dublino con una Spada di Damocle sul collo, sapendo bene che avresti trovato un luogo ostile in cui combattere perché so benissimo che, con tua madre e tuo padre, si riduce tutto a una lotta di predominio sul territorio. E' normale che ti venga un po' di malinconia.»

«Dovrei alzare bandiera bianca?» ironizzai. Con un sonoro 'nonno!' , richiamai indietro Killian, che entrò dopo alcuni istanti come se nulla fosse successo.

«Tu, alzare bandiera bianca? Bambina cara, assomigli troppo ai tuoi genitori, per farlo. Probabilmente, noi saremo i testimoni di una strage, in quella casa, se andate avanti così. Vi ammazzerete l'un l'altro.»

Lo disse con ironia, ma nei suoi occhi lessi anche una buona dose di timore.

E, maledizione, aveva ragione da vendere!

Perché, a onor del vero, se i miei genitori non avevano mai ceduto su nulla, neppure io ero stata più elastica di loro.

Non mi faceva piacere ammetterlo, ma era così.

«Preferirei comunque evitare di vedervi scannare, se possibile. Sai che sono una donna impressionabile.»

Sorrisi a mia nonna, annuendo e, quando portai le patate al forno in tavola, sperai tanto di poterla accontentare.




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N.d.A.: Spero di tutto cuore che le feste natalizie siano trascorse serenamente per tutte/i e, visto che il prossimo aggiornamento sarà nel 2015, vi auguro fin d'ora un entusiasmante Capodanno!!! :-)

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.
 
 
 
 
 
Una cintura per attrezzi in cuoio, nuova e ancora scricchiolante, un martello e dei guanti di pelle.

Okay, i casi erano due.

O Ronan se li era dimenticati sulla panca – cosa molto strana, visto che era maniacalmente preciso – oppure era un sottile invito a darmi da fare.

Con un mezzo sorriso di sfida, infilai la cintura, che profumava di pelle e di nuovo.

La saggiai attorno alla vita e, annuendo tra me, mi incamminai verso il capanno in legno, dove Ronan ci stava dando dentro con martello e incudine.

Aprii la porta senza annunciarmi e là, vicino al banco da lavoro, lo vidi impegnato a dar grandi martellate a un pezzo di metallo.

Doveva essere uno dei rinforzi metallici da inserire sotto la chiglia della barca, a giudicare dalla curvatura che gli stava dando a suon di colpi.

Le masse muscolari della sua schiena guizzavano potenti, e lenti rivoli di sudore scivolavano giù, andando a scomparire oltre la linea dei jeans lisi.

Ma dormiva mai, quell'uomo? Erano solo le otto del mattino, e lui era già a pieno regime.

Stetti a osservarlo per puro diletto, comunque.

Dopotutto, pur se scorbutico come un'arpia, era pur sempre un bell'esemplare di uomo, e alle prese con un mestiere duro, il che faceva uscire la sua parte più primitiva. E la mia.

Sorrisi appena quando cambiò posizione, stiracchiandosi per un attimo, ma sobbalzai terrorizzata quando mi disse: «Quando hai finito di lustrarti gli occhi, là ci sono dei chiodi nuovi, oltre alle assi da sistemare all'interno della barca.»

«Ops» sussurrai, ridacchiante, affrettandomi a prendere il nuovo sacchetto di chiodi e le assi da sistemare.

Lui si volse a mezzo, mi fissò con i suoi chiari occhi color acquamarina e aggiunse: «Bene, l'hai trovata.»

«Grazie.»

Lisciai teneramente con le mani la cintura nuova e lui, con una scrollatina di spalle, continuò il suo lavoro.

«Visto che sei così ficcanaso da non saper stare al tuo posto, tanto vale che ti rendi utile. E non mi andava che tu usassi i miei attrezzi.»

L’ultima frase fu così carica di ironia che mi aspettai di sentirlo ridere a crepapelle.

Ovviamente non avvenne, ma mi divertii in ogni caso, nel sentirlo così gioviale.

Gli feci la lingua per puro divertimento e, nel sistemarmi all’interno della barca, iniziai a darci dentro di martello.

Andammo avanti così, senza parlare, per un tempo indefinito e, man mano che il tempo passava e le mie spalle si indolenzivano, il mio sorriso si fece più ampio.

Le tossine, accumulate durante la notte, andarono disperdendosi come il sudore sulla mia fronte, e io mi sentii sempre più a mio agio, sempre più tranquilla.

L'attività fisica mi stava rinvigorendo, così come quel luogo così lontano da tutti i miei problemi e le mie ansie.

Terminai di sistemare le assi in un tempo piuttosto soddisfacente, almeno secondo i miei standard e, quando mi fermai, quasi lanciai un urlo degno di una sirena.

Ronan era fermo accanto alla barca e mi stava osservando con attenzione.

Non mi ero neppure accorta che lui aveva smesso di dare martellate, tanto mi ero immersa in quel lavoro.

Portandomi una mano al cuore, che batteva all'impazzata per il terrore, esalai sconvolta: «Oddio! Avverti, prima di comparirmi alle spalle a questo modo.»

«Sei sorda, per caso? E' da un po' che ho smesso di martellare» sottolineò lui, indicando l'incudine.

Ghignai dispettosa e Ronan, per tutta risposta, diede una spinta alla visiera del mio berretto, spingendomelo sul naso.

«Ehi!» protestai, rimettendolo al suo posto.

Quando lo feci, lo vidi sorridere, e tutto andò a posto.

La rabbia svanì, sostituita da un gorgogliante desiderio di ridere.

Cosa che feci un attimo dopo.

Mi passai una mano sul viso madido, sempre ridendo e Ronan, allungandomi un asciugamano pulito, chiosò: «Tu sei tutta matta.»

«E tu sei un approfittatore di mano d'opera gratuita.»

«La cintura nuova l'ho pagata io» replicò con tono ironico, spallucciando.

«Oh, allora sono a posto» esalai a quel punto, fingendomi ammaliata da tanta generosità.

Lui allora sorrise, sorrise veramente, un sorriso che raggiunse anche gli occhi, che si illuminarono come stelle, e io persi di vista ciò che volevo dire.

Sbattei le palpebre, confusa e stordita dal suo sorriso e, subito, lui smise di accecarmi e si volse verso l'incudine, come se quel momento di serenità fosse uno spregio, una cosa da non ripetersi.

«Ronan...»

Il mio richiamo fu inutile. Prese un altro pezzo di metallo e ricominciò a battere sull'incudine.

Ritentai, pur sapendo che era rischioso toccare un simile argomento.

Scesi dalla barca per affiancarlo e, sfiorandolo al braccio libero dal martello, dissi sommessamente: «Scusami, Ronan. Non volevo metterti a disagio.»

«Vai su quella maledetta panchina a gustarti il sole. Non ho nient'altro da farti fare, ora.»

Il tono roco e disperato con cui mi spinse ad allontanarmi, mi fece salire le lacrime agli occhi.

Mi allontanai silenziosa, chiudendo la porta del capanno senza dire una parola e, quando raggiunsi la panchina, mi ci lasciai cadere sopra, sentendomi pronta a piangere.

Ma perché?

Sapevo di non aver fatto nulla di male eppure, stando là dentro, avevo avvertito il bisogno di scoppiare in lacrime, di picchiare i pugni contro il muro di legno, di lanciare per aria le prime cose che mi fossero capitate sotto mano.

Fu un pensiero di per sé assurdo perché, quando potei respirare l'aria salmastra del mare, la mente mi si rischiarò, e il desiderio di piangere si dileguò.

Ristetti lì a lungo, a fissare il profilo del capanno e i fiori del giardino, incapace di muovermi, di estrarre il mio portatile per portare avanti il mio lavoro.

Mi limitai a starmene lì, a gambe intrecciate e mani poggiate sulle ginocchia.

Il sudore mi si cristallizzò sulla fronte, dandomi la classica sensazione di freddo e fastidioso umidore, ma non vi badai.

Non avevo intenzione di andarmene a casa e lasciare solo Ronan, specialmente dopo averlo inconsapevolmente intristito a quel modo.

Osservai le ombre accorciarsi, raggiungere lo zenith e poi allungarsi ancora, segno che mezzogiorno stava sempre più allontanandosi.

Mangiai in silenzio il mio sandwich, mentre i rumori nel capanno continuavano imperterriti, senza sosta.

Iniziai a preoccuparmi quando il tempo si protrasse troppo a lungo, per i miei gusti e, in barba alla richiesta di Ronan, tornai sui miei passi.

Infilai la testa dentro per precauzione ma, quando vidi il sangue scorrere lungo il suo braccio, mandai alla malora tutto ed entrai come un bufalo impazzito.

«Ronan, la tua mano!» strillai.

Lui si volse a mezzo, sorpreso che io fossi ancora lì, probabilmente.

Stralunato, mi fissò per un attimo prima di aggrottare la fronte quando io gli arrivai addosso come un treno in corsa.

Mi allungai per afferrare la mano che teneva il martello, ma lui la allontanò, come allontanò me dal suo spazio vitale.

«Che diavolo fai?! Rischi di farti male!»

«Che fai tu! La tua mano sta sanguinando!» sbottai, scostando la sua mano dalla mia spalla per tornare ad avvicinarlo.

Gli tolsi il martello dalle dita, fissando accigliata quella che sembrava essere una piaga con i fiocchi e che, a quanto pareva, non era stata curata a tempo debito.

Non seguita, aveva finito con il lacerarsi e sanguinare.

Ronan mi fissò malissimo, infischiandosene della sua mano ferita, ma io non mi diedi per vinta.

Lo guardai incazzata ed esclamai: «Pensi che l'autolesionismo serva a qualcosa?! Che ridere sia un delitto perché sei vedovo?!»

Okay, forse avevo esagerato.

Ronan, semplicemente, divenne rabbia allo stato puro.

Afferrò il martello che tenevo in mano e, con forza, lo lanciò sul lato opposto del capanno, facendomi rabbrividire di paura.

Non contento, mi venne addosso, facendomi indietreggiare fino a farmi urtare contro la barca e lì, con occhi spiritati e pieni di dolore, mi sputò in faccia con ira funesta: «Tu non mi conosci così bene da poter sputare sentenze, mia cara, quindi sei pregata di tacere

«Scusami…»

Il mio fu solo un mormorio roco, niente più di un semplice ansito, ma bastò a far sorgere il panico negli occhi di Ronan, solo un istante prima carichi di odio e dolore.

Si allontanò, pur non avendomi mai veramente toccata e, tremando, ansò: «Vattene… vattene subito.»

«No.»

Forse fu sciocco imporgli la mia presenza, ma avevo già vissuto un dolore simile, e avrei tanto voluto qualcuno al mio fianco, quando ero crollata.

E invece, avevo dovuto sfogare tutto il mio dolore da sola, bagnando la federa di un vecchio cuscino, in un cencioso appartamento nel sottotetto di un palazzo di periferia.

Mi avvicinai a Ronan, che ora tremava visibilmente, e dissi atona: «Non conoscevo tua moglie, ma conosco la solitudine da più tempo di quanto tu non immagini, e non mi riferisco solo alla morte di Kieran.»

«Non voglio parlarne» borbottò con voce roca, ruvida come carta vetrata, le braccia robuste che tremavano come scosse da crampi.

Quanta energia stava trattenendo?

«E pensi che starai meglio, a tenerti tutto dentro? A trattare di merda la gente? Cosa cambierà, spiegamelo!? Ti sei rifugiato qui per tenere lontani tutti, ma intanto soffri!»

«Anche tu ti rifugi qui! E per gli stessi miei motivi! Perché quello che ti lasci alle spalle, quando vieni al faro, ti fa schifo!» mi rinfacciò con rinnovata ferocia.

Sembrò essersi ripreso almeno in parte ma, in compenso, andò dritto al cuore del mio problema.

Reclinai colpevole il capo e, annuendo, mormorai: «Già, il mondo fuori di qui mi fa schifo e, se non fosse per i nonni e Fynn, me ne sarei già tornata a Dublino, mandando affanculo tutti. Ma non posso. Volente o nolente, non posso chiudere il mondo fuori, e non puoi neppure tu.»

«Col cavolo che non posso!» protestò lui, falciando l’aria con una mano. Ora, i tremori erano scomparsi.

«Perché aggiusti le barche e ti prendi cura del faro, allora? Vattene, tornatene dai tuoi, scappa dal luogo dove è morta Mairie, se è vero che non te ne frega più di niente e di nessuno.»

Fu ingiusto, ma vedere una persona così divorata dai suoi stessi demoni fu orribile, almeno per me. Ci avevo convissuto per troppo tempo, per poterlo sopportare.

Lui mi fissò caustico, ma replicò con voce piuttosto controllata: «Non voglio tornare, e non per non abbandonare Mairie. Lo so benissimo che lei non tornerà mai più da me, così come non riavrò mai più mio figlio! Credi che sia stupido?! Ma non sei la sola ad avere dei problemi in famiglia. Inoltre, qui mi piace. Anche la gente, se è per questo, anche se tutti pensano il contrario. Il mondo di cui parlo è un'altra storia.»

«Benvenuto nel club degli sfigati, allora» ghignai, allungandogli una mano.

Ronan la guardò, non seppi dire per quanto tempo, ma alla fine la strinse.

«Sei una stronza fatta e finita, lo sai?»

Risi debolmente, annuendo a quel mezzo sorriso che mi rivolse come una proposta di pace.

«Eccome se lo so, ma non serve a niente scappare, quanto vedi una persona in piena crisi di nervi. Bisogna rimanere saldi. E, se possibile, dare una mano.»

«Sei la prima a cui sento dire una cosa del genere. A parte Cormac, ma anche lui è matto da legare, per cui…»

Nel dirlo, si passò una mano tra i capelli mossi e, solo in quel momento, mi accorsi che non avevo ancora sistemano la sua ferita sanguinante.

«Vediamo di sistemare quella mano, per l’amor di Dio! O lascerai che ti esca tutto il sangue dalle vene?» brontolai, afferrandolo per un polso al fine di trascinarlo verso casa sua.

Lui mi lasciò fare ma, quando misi mano alla maniglia della porta, mi bloccai.

Lo guardai da sopra una spalla – ora stava ghignando maligno – e mormorai: «Per favore?»

«Già così, va meglio. Apri pure.»

Sbuffai ma, quando mi voltai, sorrisi tra me.

Non appena mi trovai all’interno dell’abitato, notai che molte cose erano cambiate.

Dacché lo ricordavo io, al pian terreno c’erano sempre e solo stati un cucinotto, dei divani, una stufa di ghisa e poco altro.

Evidentemente, Ronan e Mairie avevano apportato molte modifiche.

L’ambiente era rustico, tutto legno e pietre di zona, dai colori vivaci e dalle linee morbide e rustiche.

C’era profumo di erbe aromatiche e detersivo al limone, oltre che della fragranza maschile di Ronan, che assomigliava a un misto tra brezza di mare e acqua di fonte.

Gli chiesi dove teneva il necessario per il pronto soccorso, e lui mi indirizzò in cucina, dove trovai una scatola bianca e rossa, da cui estrassi garze, disinfettante e forbici.

Non impiegai molto a risistemargli la mano – quando si è soli, si imparano un sacco di cose – e, quando ebbi terminato il bendaggio, lo guardai accigliata.

«E’ inutile che mi guardi come una mamma furiosa col proprio figlioletto indisciplinato. Lavoro, perciò posso farmi male» mi rinfacciò lui, quasi sfidandomi a replicare.

«Se usassi i guanti, non ti faresti male. A me li hai dati» gli feci notare con una certa acredine per diretta conseguenza.

E quando mai stavo zitta, io?

Ronan allora mi fissò con aria di sufficienza e sì, con una buona dose di strafottenza maschile, a cui io risposi con un pestone sul piede e un ‘vai al diavolo!’ parecchio sentito.

Lui lanciò un urlo di dolore per diretta conseguenza e, zoppicante, si volse per bloccarmi a un braccio con la sua mano ampia e forte.

Io svicolai lesta, fin troppo abituata a difendermi da aggressioni simili per non muovermi d’istinto.

Ronan, però, notò immediatamente questo particolare e, con voce tonante, esclamò: «Fermati, per favore! Non voglio farti nulla!»

Lo sapevo benissimo, ma il mio corpo era abituato a reagire d’impulso, prima ancora di ricevere un ordine diretto.

«Lo so.»

Aggrottò la fronte, si appoggiò al muro della cucina e mi domandò: «Perché cavolo mi hai pestato un piede?»

«Hai fatto una faccia che non mi è piaciuta.»

Lui strabuzzò gli occhi, esalò un sospiro esasperato e, infine, mormorò: «Sheridan O’Connell, sei davvero la creatura più bizzarra che mi sia capitato di conoscere, sia per mare, che per terra.»

Frase un po’ strana, ma forse era stato un marinaio, perciò per lui contavano anche le esperienze diportistiche.

Mi guardai intorno, un po’ nervosa per quanto stavo per dire, ma ben decisa a dirla a tutti i costi.

Avrei cercato dopo i motivi di quel momento di apertura mentale.

«Quando morì Kieran, fu orribile. Ero sola, avevo paura che sarebbero venuti a cercarmi per farmi fare la stessa fine e, al tempo stesso, non sapevo a chi rivolgermi per farmi aiutare. Non volevo tornare a casa, perché sapevo bene che non avrei trovato nulla, ad accogliermi, solo il vuoto che avevo lasciato nel partire. Avrei tanto voluto che qualcuno mi consolasse durante le mie crisi di panico, che mi dicesse che c’era speranza anche per me.»

Mi bloccai, passandomi le mani nei capelli scompigliati. Dov’era finito il mio cappellino?

«Ma non c’era nessuno. Così dovetti imparare a difendermi da sola, a riempire quei vuoti che mi facevano paura, a mettere un piede davanti all’altro senza aspettare che fosse qualcun altro a dirmi di farlo, o a farmi vedere come fare» terminai poi di dire, ormai prosciugata da quella confessione.

Ronan annuì e mi invitò a sedermi sulla poltrona in tessuto color crema, che si trovava vicino a un piccolo caminetto di pietra.

Lui si accomodò in quella accanto, fiorata, che sospettai essere stata la preferita della moglie.

Davanti a noi, un tavolino imbottito in velluto blu era ricoperto di riviste di falegnameria, opuscoli sul fai-da-te e… sorpresona, uno degli ultimi numeri di National Geografic.

Preferii non chiedergli nulla, lasciando che fosse lui a parlare di quel che voleva.

«Nessuno mi ha mai… parlato di Mairie, prima di te. Neppure Fynn, che è uno dei pochi che mi sopporta davvero. Cormac, invece, evita deliberatamente l’argomento.»

Lo disse con un mezzo sorriso, pieno di contrizione, e continuò.

«Furono tutti gentili, con me, ma a conti fatti…»

Si interruppe, reclinò il capo in avanti, massaggiandosi il collo come se fosse stato dolorante e, infine, aggiunse: «Nessuno mi ha mai sbattuto in faccia che mi stavo piangendo addosso.»

«Ti ci voleva uno schiacciasassi, e si dal caso che io lo sia.»

Mi guardò dal basso, vagamente confuso e, senza ironia alcuna, aggiunsi: «Se dovessi mai sentire mia madre parlare di me, ti direbbe che ho la stessa sensibilità di uno schiacciasassi, e la sua stessa leggerezza nel muovermi.»

«Non credo tu sia uno schiacciasassi. Credo che tu dica quel che va detto, in barba a quel che pensano gli altri» replicò lui, addolcendo il rimbrotto con un sorriso sghembo.

«E’ un mio difetto, lo ammetto. Ma mi è venuto spontaneo. Scusa se ti ho portato alla mente brutti ricordi, o se ho avuto la presunzione di pensare per te. Ognuno gestisce il dolore come meglio crede.»

Lo dissi con sincerità, e lui annuì, rimettendosi a sedere più comodamente.

Mi guardò, ora più sereno e meno divorato da demoni, e io rilassai le membra.

Non mi ero accorta di essermi irrigidita per tutto quel tempo.

«Non pensasti mai di tornare, di dirti ‘al diavolo, è la mia famiglia. Mi capiranno’

Sorrisi mesta, annuii e poggiai i gomiti sulle ginocchia, il mento sui palmi delle mani.

«Più di una volta, a dir la verità. Ma poi ricordavo le parole della madre di Kieran, e ci ripensavo.»

«Cosa ti disse?»

«Che una disgraziata come me non avrebbe dovuto dare ulteriori sofferenze alla propria famiglia, e che mia madre ne aveva già patite a sufficienza, per rivolermi a casa.»

«Le credetti?»

«Perché non avrei dovuto? Mia madre la pensa tuttora così. Attribuisce a me la malattia di mio padre» dissi con aspra ironia, sorprendendolo.

Ronan aggrottò la fronte, scosse il capo e infine disse: «Penso che nessun essere umano sia in grado di farne ammalare di cancro un altro. Credo piuttosto che tua madre sia così sconvolta dal dolore e dalla paura, da trovare in te una valvola di sfogo. Non è giusto, ma è abbastanza umana, come reazione.»

«E’ una testarda senza speranza, ecco cos’è. Prima si renderà conto che papà è malato, meglio sarà per tutti.»

Borbottai infastidita, pur sapendo di apparire petulante.

«Il bue che da del cornuto all’asino» celiò a quel punto lui, fissandomi con aria vagamente ironica, ma soprattutto comprensiva.

«Dici?» mugugnai, storcendo la bocca.

Lui annuì, così me ne ristetti zitta e immobile in quella posizione da pensatore.

Lasciai che i minuti passassero, mentre Ronan si affaccendava in cucina e, quando tornò con una teiera fumante e un piatto di biscotti alla glassa di limone, sobbalzai leggermente.

«E questi?» esalai, confusa.

«Per la tua terapia d’urto non richiesta, ma liberatoria.»

«In che senso?» volli sapere, osservandolo mentre mi serviva il tè in graziose porcellane bianche dai fiorellini azzurri.

«Credo che stanotte riuscirò a dormire» ammise con semplicità, offrendomi il tè.

Non dissi nulla, sapendo bene cosa intendeva.

I ricordi, come gli incubi, cospiravano per uccidere il sonno. Avere entrambi poteva far uscire pazza la gente.

E io ne sapevo qualcosa, esattamente come lui.

«Ogni tanto… provavo a parlarne con Cormac, ma poi mi bloccavo. Mi chiedevo sempre “perché dovrei scocciarlo coi miei problemi?”, oppure “non sono abbastanza grande da cavarmela da solo?”, e così rinunciavo. E stare in mezzo alla gente diventava più difficile… più pesante.»

Il suo fu solo un mormorio, ma compresi più che bene ogni parola e, soprattutto, le sensazioni da lui provate.

Ci ero passata a suo tempo, sapevo cosa voleva dire tentare di uscire da un tunnel, e non riuscire a trovare le parole esatte, i percorsi esatti da percorrere.

«Così, i rapporti umani ti sono diventati sempre più difficili» chiosai, sorseggiando pensierosa il tè.

Lui si limitò ad annuire, e non aggiunse altro. A volte, anche i silenzi contano.

Più delle parole.

 
***

Suonare il campanello e attendere con pazienza dinanzi alla porta dei miei, non fu esattamente il meglio della vita.

Specialmente perché il vento sferzava la strada, alcune goccioline di pioggia mi inumidivano i capelli rilasciati sulle spalle, e la torta che tenevo in mano pesava un quintale.

Alla fine, grazie a dio, mia madre venne ad aprire.

Vedendomi lì sul fare della sera, scarmigliata e arruffata come un pulcino, mi fece entrare nonostante si stesse domandando, sicuramente, cosa ci facessi lì.

La ringraziai con un borbottio e, quando fui finalmente dentro casa, le consegnai il porta torte enorme che tenevo in mano, dicendo: «E’ una torta di mele e vaniglia. L’ho fatta io. Al papà è sempre piaciuta, no? Beh, insomma, magari gli fa piacere. Poi, sì, so che la vaniglia ti piace, così l’ho aggiunta e…»

Sbuffai, odiandomi per essere così impacciata proprio con loro e, reclinando imbarazzata il capo – anche se fu inutile, visto che ero più alta di mia madre – aggiunsi: «Se vi va di venire dai nonni, domenica farei lo storione sotto sale e del budino al caramello… sì, insomma, dopo la messa, s’intende…»

«E’ mai possibile che tu debba comportarti come uno scaricatore di porto? E’ così che ti comporti, in ufficio? Ingobbita e tutta borbottii?» brontolò mia madre, azzittendomi di colpo.

Giuro, la fissai basita. E, a giudicare dal male alle palpebre, dovetti aver sgranato gli occhi oltre ogni limite fisico.

Ma che aveva, nel cervello? Segatura? Io che mi ero data tanto da fare per…

«Siediti in cucina, mentre ti preparo un tè caldo. Hai il naso rosso per il freddo. Sta arrivando una tempesta, per caso?» brontolò, mettendo mano al bollitore.

Sbattendo le palpebre con aria un po’ sciocca, mi accomodai e mio padre, affacciandosi alla porta della cucina – la sua pipa fedele nella mano ingrigita – mormorò: «Sono mele?»

«Torta. Di mele» gracchiai, fissando la schiena di mia madre mentre si affaccendava in cucina. «Pensavo che… potesse andarvi. Le mele fanno bene, e ho usato solo prodotti naturali, così che…»

Mi impappinai nuovamente ma, quando mia madre mi rifilò una tazza di tè bollente, profumato di menta, cominciai a capire una cosa.

Reagivo d’istinto ai toni burberi di mamma, e così non facevamo che beccarci.

E lei faceva la stessa cosa, reagendo alla mia ostilità con un tono ancora più duro.

Il bue che da del cornuto all’asino.

Forse, Ronan aveva ragione.

Inforcai il cucchiaino per intingerlo nel vasetto del miele e, dopo aver mescolato per un po’, mormorai a capo chino: «L’altro giorno, quando è venuto il dottore…»

«Sheridan, forse non è il caso di…» intervenne mio padre, attirando la mia attenzione.

Levai il capo a guardarlo, e mi sentii male.

Sembrava che un velo di grigio si fosse steso sul suo viso. Il male avanzava, ed era così evidente che avrei voluto urlare.

Ma non sarebbe servito a niente, e io non volevo creare ulteriori spaccature.

Non era il più il tempo di impuntarsi, di reclamare l’impossibile.

Tornando a fissare Eileen, la madre tiranna della mia adolescenza, vidi solo una donna in là con gli anni, stanca e ferita e sì, priva di speranze.

Quegli occhi non potevano mentirmi, anche se l’apparente calma sul suo volto cercava di mascherare – come sempre – i suoi sentimenti.

«Non dovevo parlare senza conoscere appieno i fatti. Voi ci siete dentro da più tempo di me.»

«Hai sempre dato fiato alla bocca senza prima riflettere…» iniziò col dire mia madre e, dentro di me, avvertii i morsi della ribellione, della furia. Li tenni a bada a fatica, ben decisa a lasciarla finire prima di aggredirla verbalmente.

«…ma, a quanto pare, è una cosa che ho sviluppato anch’io» aggiunse in un mormorio, aprendo il porta torte per osservare la mia opera di pasticceria.

Giuro, mi guardai intorno per essere certa che non si fossero aperte le porte del Paradiso – o dell’Inferno.

Quella era la frase più simile a una scusa che io avessi mai sentito in … beh, in tutta la mia vita.

Sorrisi a mezzo e mio padre, sbirciando la torta, mormorò: «Mi sembra bella.»

«Hai usato la carta forno, invece di imburrare lo stampo, vero?» mi domandò mia madre, continuando a osservare la torta con aria critica.

«Già. So che a te piace il bordo più regolare, però…»

«Ha un suo perché» si limitò a dire, lanciando un’occhiata torva alla finestra.

Ne seguii lo sguardo, accigliandomi quando vidi le nubi nere e rigonfie all’orizzonte.

«Vai a casa. Le strade sono pericolose, coi temporali» mi ordinò mia madre, lanciandomi un’occhiata degna di un generale.

Non gliene volli. Dopotutto, era il senso della frase a contare.

Mi levai in piedi e, lanciata un’occhiata a entrambi, domandai: «Per domenica, dunque?»

«Verremo sicuramente, Sheridan.»

A rispondere fu mio padre.

Annuii e fuggii via prima che il temporale potesse esplodere in tutta la sua violenza sopra la mia testa.

Non servì a molto.

A metà strada, iniziò a piovere, ma non mi preoccupai più di tanto.

Levai il cappuccio dell’impermeabile e affrettai il passo, godendomi la sensazione della pioggia sulle spalle, il profumo salmastro dell’aria e il cic ciac degli stivali sull’asfalto.

Quando raggiunsi la casa dei nonni, trovai Niamh ad attendermi, un sorriso sulle labbra sottili e l’aria di chi era orgogliosa di ciò che vedeva.

Non le dissi nulla, ma lei capì dal mio sorriso tranquillo che, a casa dei miei, tutto era andato per il meglio.

Forse era chiedere troppo che, tra me e mia madre, ci fosse il rapporto che avevo con la nonna, ma per lo meno ero riuscita a darle la torta.

Per una volta, ero riuscita a sorprenderla, e non in senso negativo.






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N.d.A.: Fate attenzione. La reazione di Sheridan al dolore di Ronan non è casuale. Fa parte del puzzle che lo riguarda... tenetelo a mente.

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Capitolo 8
*** 8. ***


 
8.
 
 
 
 
 
Quanto più l’estate si avvicinava, tanto più la salute di mio padre si faceva cagionevole.

Todd mi chiamò diverse volte, in quei due mesi passati dalla mia partenza da Dublino e, tutte le volte, fui costretta a dargli cattive notizie.

Il mio articolo sulla fauna e la flora locale sarebbe stato inserito nel numero di settembre, e io sperai con tutta me stessa di poterlo mostrare a mio padre.

Non per vantarmi con lui, ma perché questo avrebbe voluto dire che, a settembre,  avrebbe ancora camminato assieme a noi.

Dimagriva a vista d’occhio e, nonostante le cure e i medicinali, il male sembrava non conoscere tregua.

Mia madre appariva così stanca che, più di una volta, mi offrii di rimanere a casa loro, la notte, per darle una mano con papà.

Quando mi svenne tra le braccia, un pomeriggio agli inizi di luglio, le fu chiaro di non poter più dirmi di no.

Fu così che rinunciai a parecchi dei miei pomeriggi al faro e, durante uno degli ormai radi interludi con la panchina di fronte alla casa di Ronan, lui mi chiese lumi.

«Papà è peggiorato, così aiuto mamma facendo la notte a casa loro, e il mattino lo passo a dormire. Il pomeriggio vado là per le faccende domestiche, e così via.»

Si sedette al mio fianco, annuendo pensieroso, e mi chiese: «Non potreste assumere un’infermiera? Anche tu, col passare del tempo, ti sfiancherai. Per quanto tu sia giovane e forte, resti pur sempre mortale, e …»

Gli sorrisi divertita, interrompendolo, e replicai: «Mia madre si è ridotta a svenirmi davanti, prima di ammettere di aver bisogno d’aiuto. Pensi sul serio che permetterebbe a un’estranea di avvicinarsi a papà? La sbranerebbe, piuttosto. Già con me, è un continuo riprendermi su come faccio le cose, figurarsi con la povera sventurata che dovessimo malauguratamente assumere.»

«Rischi di ammalarti» sottolineò, arricciando le sopracciglia in un fosco cipiglio.

«Sei preoccupato per me, Ronan?» ironizzai, dandogli un colpetto con la spalla.

Lui sbuffò, tornando per un attimo al suo atteggiamento schivo.

Ma, ormai, non ci facevo più caso.

Dopo più di due mesi passati a parlare assieme, avevo quasi del tutto compreso quando era veramente infuriato con me, e quando invece si sentiva in imbarazzo.

Era taumaturgico per entrambi sbranarci verbalmente, e capitava piuttosto spesso, tra di noi.

Eppure, non smettevamo di farlo, perché ci faceva sentire… liberi.

Ronan ricordava la moglie come mai aveva fatto con nessun altro, io gli parlavo dei miei e di Kieran, ammettendo quanto fossi stata spaventata dalla solitudine dei primi anni.

Non lo facevamo mai a bassa voce, o con toni pacati.

Il più delle volte, ci beccavamo come galli nel pollaio, ma alla fine ci salutavamo sempre con un sorriso.

E a volte, con un tè e degli ottimi biscotti.

«Dico solo che la salute è importante. Quella di tutti.»

«Ti tranquillizzerebbe sapere che non ho una sola otturazione dentale, né ho mai preso più di un raffreddore? Sono forte come un cavallo, e ho la stessa tempra.»

Mostrai i muscoli – oddio, ci provai, ma non ne avevo granché – e lui, tastandomi il braccio magrolino, mormorò: «Sei tonica, ma niente di più.»

«Non ingrasso, e i muscoli si rifiutano di aumentare. Che ci posso fare?» brontolai, ritirando il braccio.

«E con cosa fai esercizio? Con bottigliette d’acqua da mezzo litro?» mi irrise lui, ammiccando al mio indirizzo.

Lo frizzai con un’occhiataccia, ma lui non vi fece alcun caso e, per puro dispetto, mi mostrò i suoi, di bicipiti.

Grazie.

Sbuffai e, con le mani, cercai di avvolgerli, non riuscendovi.

«Okay, sono più grossi delle mie cosce, o quasi. Ma tu sei un uomo!»

«Mia madre è grande due volte te» sottolineò lui, con un sorrisino.

Era in assoluto la prima volta che sentivo parlare di uno dei suoi familiari, con l’esclusione di Mairie.

Quella notizia, scarna e giunta quasi per errore, mi fece perciò sgranare gli occhi, sorpresa.

Anche lui parve accorgersi di quell’apparente gaffe, perché si cucì la bocca e non disse più nulla.

Per evitare drammi, cambiai lesta argomento e dissi: «Scommetto, però, che a te non hanno mai detto di avere un lato B da urlo.»

Ronan si lasciò sfuggire una risatina – gli capitava sempre più spesso, ormai – e ammise: «Non ho mai bazzicato in posti dove potessero dirmelo, in effetti.»

Poi, scrutandomi curioso, mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e domandò: «Col viso che ti ritrovi e il fisico che non assorbe grassi, come lo definisci tu, perché non hai fatto la fotomodella? Avresti trovato lavoro molto tempo prima, e faticando meno.»

Non lo disse per offendermi, o per insinuare che non fossi brava nel mio mestiere. Avevo ormai capito anche questo.

Erano domande sincere, non velate di malizia o sottintesi.

Voleva veramente sapere come la pensassi, conoscere i vari perché che mi avevano indirizzato da una parte, piuttosto che dall’altra.

Ronan si era invero dimostrato non solo un ottimo ascoltatore, ma anche un pubblico pieno di domande.

Certo, quando ci avventuravamo sull’argomento ‘Mairie’, le risposte erano più telegrafiche, ma avevo notato quanto, il parlarne, lo rendesse più sereno, alla fine.

Come se, rammentarla e farla conoscere anche a me, lo aiutasse a liberarsi della parte più dolorosa del lutto. La mancanza di chi si è amato tanto.

Sorrisi, nel rispondere.

«Un paio di volte ci pensai, quando avevo così fame che avrei dato le testate contro il muro, pur di mangiare qualcosa. Ma non ho mai voluto svendere il mio corpo, e le proposte che mi fecero furono per lo più legate a ‘uno scambio equivalente’, piuttosto che a vero e proprio lavoro.»

Lui aggrottò la fronte, comprendendo al volo cosa volessi dire, e io scrollai le spalle noncurante. Non ci pensavo più da tempo, ormai.

Ronan, però, non lasciò correre e strinse le mani a pugno, forse desideroso di spaccare qualche testa.

Il tatuaggio a stella che aveva sull’avambraccio parve fremere, e io mi chiesi come mai. In fondo, gli avevo detto che non era successo nulla. Perché infuriarsi tanto?

«Ronan, guarda che non ci sono mica andata a letto, con quelli…»

«Nessun uomo degno di tale nome avrebbe dovuto offrirti un simile scambio!»

La sua voce fu pura, lesa maestà, come se un simile sgarbo lo avessero fatto a lui, o a un suo stretto congiunto.

Poggiai una mano sul suo braccio fremente, avvertendo senza sforzo i suoi muscoli guizzanti. Le mie dita sfiorarono la stella e, per un attimo, mi parve che andasse a fuoco.

Fu una sensazione davvero strana.

Con calma, per evitare che perdesse la testa, mormorai: «Ronan, li ho mandati debitamente a quel paese, davvero. Non è successo nulla

Lui parve riscuotersi a quelle mie ultime parole e, con un mezzo sorriso di scuse, mormorò: «Sono troppo impulsivo, scusa. Non ti ho spaventata, vero?»

«Per la verità, per un momento ho pensato di darti nome e cognome dei tipi che mi hanno fatto quelle proposte indecenti, giusto per vedere cosa gli avresti fatto» ironizzai, vedendolo sorridere di rimando. «Ma poi ho pensato che non li volevo sulla coscienza, così ho preferito fermare la tua ira achillea.»

«Come?» esalò, vagamente confuso.

Ridacchiai, e dissi: «Sì, sai… cantami, o Diva, del Pelide Achille, l’ira funesta

«Ti sembro Achille?»

«Quello di Troy? Parecchio.»

Ghignai nell’annuire, e lui scosse il capo, sorridendo esasperato.

«Ti avrò detto mille volte che non guardo la televisione. E non sono mai stato neppure un fanatico del cinema. Mairie mi ci portava praticamente trascinandomici dentro.»

«La poveretta! Ho pena per lei! Dovrò comunque renderti edotto. Domani sera sono libera. Perché non vieni a casa dei nonni, così ti faccio vedere cos’è Troy

Quella proposta apparentemente innocua lo sconcertò e, in qualche modo, lo mise di cattivo umore.

Sbuffando, riformulai.

«Ronan O’Sea, non è un appuntamento, non agitarti. Metti un freno alle tue idiosincrasie. Ti sto solo invitando a una cena con i miei nonni, niente di romantico, perciò… e guarderanno anche loro Troy, visto che nonna Niamh apprezza molto Brad Pitt.»

«Ci… penserò.»

Il solo dirlo, per poco, non gli costò un collasso.

Gli sorrisi comprensiva, battendogli una mano sulla spalla prima di alzarmi e, con passo da vamp, mi diressi verso il capanno degli attrezzi.

Lui mi guardò con un sorriso sghembo e, nel volgermi a mezzo per poi mettermi in posa da fatalona, mormorai roca: «Allora, non ho un lato B eccezionale?»

Ronan rise, si alzò in piedi e, dopo avermi raggiunto, disse: «Da urlo.»

 
***

Non sembrava imbarazzato. Pareva semplicemente un palo di fronte a una porta.

Quasi quasi, mi pentii di averlo invitato.

Non volevo sconvolgergli la vita, solo farlo uscire dai confini ristretti del faro, perché riscoprisse il mondo poco per volta, e non solo per motivi di lavoro.

D’accordo elaborare il lutto, d’accordo ricordare Mairie e far pace col suo fantasma, ma ci voleva una scrollata degna di tale nome, con quel testardo di Ronan.

L’idea di portarlo da Killian e Niamh mi era parsa buona, visto che erano in grado di mettere a loro agio praticamente chiunque, al contrario di me.

Nonna, come sempre, non mi deluse.

Pensò lei a fare gli onori di casa, mentre io sistemavo la giacca di pelle di Ronan sull'appendiabiti.

Nonno Killian lo fece accomodare in cucina, dove la tavola era già apparecchiata, e io mi presi qualche secondo di tempo per chiedermi cosa cavolo mi fosse venuto in mente.

Parlandone con Fynn, mi aveva dato della pazza, oltre che dell'impicciona.

Non mi bastava che Ronan avesse acconsentito a farmi entrare nella sua proprietà. No, dovevo anche impicciarmi degli affaracci suoi!

Non avevo fatto menzione dell'incidente della mano ferita, né tanto meno dei lavori saltuari che svolgevo per lui, accanto alla nuova barca che stava sistemando.

Sapevo per certo che Fynn mi avrebbe detto di piantarla, di cominciare a lasciare in pace la gente.

Il punto era che non riuscivo a farmi gli affari miei. Non con lui.

Volevo che Ronan imparasse a convivere serenamente con i ricordi di Mairie e, al tempo stesso, che si desse una chance di tornare a respirare senza sentire un peso opprimente al petto.

Io mi ero sentita così, all’inizio, e sapevo cosa si provava.

Ma forse, Fynn aveva ragione. Col tempo, avevo sviluppato il complesso della crocerossina, e ora sfogavo le mie manie sul povero Ronan.

Sbuffai e, cercando di convincermi di aver fatto la cosa giusta, li raggiunsi in cucina.

Ciò che vidi alla mia entrata mi fece sorridere – nonna e nonno erano impegnatissimi a farlo sentire a proprio agio – e, quando diedi una pacca sulla spalla a Ronan, seppi che era terrorizzato.

I suoi occhi mi cercarono come se fossi una lancia di salvataggio e, nel piegarmi verso di lui, mormorai al suo orecchio: «Basta soltanto che non li sbrani. Poi, andrà tutto bene.»

«Tranquilla. So già che loro non mi faranno mai sbarellare come fai tu. Ma so di non essere esattamente la persona più loquace, o simpatica, del mondo.»

«Meno male che lo ammetti.»

Mi fulminò con un’occhiataccia, stando ben attento a non farsi scorgere dai miei nonni, ma io lo ignorai.

Ridacchiai, accomodandomi accanto a lui e, quando vidi comparire il piatto forte della nonna – lo stufato di montone con le verdure – mormorai: «Pancia mia, fatti capanna.»

«Tu non mangi. Sennò come potresti essere così magra?» mi ritorse contro Ronan, parlando a bassa voce.

«Vedrai» ribattei, profetica.

Ronan dovette ricredersi molto alla svelta.

 
***

Seduti su due delle poltrone del salotto, mentre i nonni erano impegnati a registrare un paio di turisti ritardatari – che si erano presentati quasi alle nove di sera – osservavamo tranquilli la TV.

Ronan si era scongelato nel corso della cena luculliana preparata da Niamh e, come gli avevo predetto, io avevo mangiato tutto, pudding compreso.

Il solo fatto di vedermi mangiare così tanto, lo aveva sbalordito.

E colse quel momento di solitudine per farmelo notare.

«Ammettilo, corri per cinquanta miglia, la mattina, per smaltire tutto quello che ingurgiti.»

Ghignai, ma scossi il capo. Ero così e basta.

«L'unica attività fisica che faccio, attualmente, è venire da te in bicicletta. A Dublino, però, sono iscritta a un corso di boxe e uno di arti marziali.»

Questo lo incuriosì, e il suo sopracciglio arcuato si sollevò interessato.

«Boxe? Sai... boxare? E non ti sei mai rovinata il naso?»

«Ho collezionato qualche occhio nero e diversi lividi in altre parti del corpo ma no, niente nasi rotti.»

Fece per chiedermi altro, ma si trattenne.

Allora, non potendone fare a meno, ammisi quel che, neppure con Fynn, avevo mai detto.

«Ho imparato perché volevo sapermi difendere con ogni mezzo e, visto che sono magrolina, ho dovuto sfruttare a mio vantaggio qualsiasi cosa. Quando abiti in un quartiere famoso per le risse, devi sapere cosa fare per evitarle o, eventualmente, per difenderti.»

«Sei tonica, non magrolina.»

«Semantica. Rimango pur sempre una donna di un metro e ottanta, e che pesa sessanta chili.»

Lui mi sorrise divertito, e io gli feci la lingua.

Fu in quel momento che entrò in scena Achille, con tanto di Briseide al seguito.

La scena riguardava il loro primo incontro nella tenda, e Brad era semplicemente divino.

«Sai, vero, che questa non è l'Iliade?» mi interrogò a quel punto Ronan, divertito suo malgrado da quanto aveva fin lì visto.

Sin dalle prime immagini, aveva iniziato a protestare sugli errori storici e sui costumi del tutto sbagliati, persino assurdi.

Niamh e io ne avevamo riso, mentre Killian si era dimostrato solidale con lui. Specialmente tutte le volte che era comparso un uomo discinto.

«Lo so benissimo che non è la stessa cosa, ma il film è strutturato bene, anche se la trama è in gran parte inventata. E poi, Brad è magnifico.»

«Non mi esprimo sui fondoschiena maschili.»

Ridacchiai di nuovo. Ronan era sulle sue, eppure il sorrisino che si stava arrampicando ai bordi della sua bocca, era innegabile.

Cercava di fare il sostenuto, ma era sempre più difficile, per lui, trattenersi dal dimostrare che, in fondo, si stava divertendo.

«Ho impiegato tre anni prima di riuscire a godermi un film al cinema. E non solo perché, in precedenza, non avevo i soldi per andarci.»

Ammetterlo, fu un duro colpo per la mia autostima. Neppure Fynn o i nonni sapevano quanto avessi dovuto faticare, in quei primi anni senza Kieran.

Ma sapevo che, se volevo mettere a suo agio Ronan, dovevo fargli capire che godersi una serata tra amici, era possibile. Anche dopo aver subito un lutto così doloroso.

Ci si poteva riprendere, alla fine, se uno lo desiderava veramente.

E mi era ormai chiaro, almeno per quanto ne avessi capito io, che Ronan voleva uscire dal tunnel buio in cui era caduto dalla morte di Mairie.

Solo, fino a lì non aveva saputo come fare.

Non si era negato alla vita stessa per volontà propria, si era solo perso lungo la strada, e nessuno era stato in grado di trovare un modo valido per aiutarlo.

Io volevo portarlo fuori da quel tunnel maledetto, anche a costo di trascinarlo fuori a forza di braccia.

«Avevo paura del buio nella sala, di quelli che mi stavano vicini, e che non conoscevo. Ma, soprattutto, mi sembrava di fare un torto a K. Mi dicevo 'questo film gli sarebbe piaciuto', oppure, 'questo non sarebbe mai venuto a vederlo'. E allora, tornavo a casa senza entrare al cinema. Un giorno, però, ho visto le insegne di un film della Disney, non ricordo più neppure quale, ed entrai. Che male poteva farmi, una favola?»

«Come ti sentisti?»

«Da schifo, almeno per la prima mezz'ora, ma poi riuscii a ridere, a emozionarmi, e compresi che non era ingiusto sentire quello che sentivo. Io respiro, Ronan, non posso impedirmelo, perché morirei. E' così per tutto il resto. Non basta sopravvivere, almeno non per me.»

«E vorresti che lo facessi anch'io?»

Nel suo tono, lessi una velata speranza, quasi mi stesse chiedendo se sarebbe stato in grado di farlo anche lui, un giorno.

«Solo se lo vuoi, e mi è parso tu lo voglia. Hai detto che sei rimasto qui perché ti piace il posto, e la gente.  E’ un buon inizio, ottimo direi. Certo, sono affari tuoi come vivi, anche se può sembrare che io stia cercando di farti fare l’esatto contrario. Ho voluto offrirti... una visuale diversa della vita, tutto qui. Ricordarti che si può fare qualsiasi cosa, volendola con tutto il cuore.»

«Perché?»

Ecco. Ottima domanda. Magari avessi conosciuto la risposta.

«Per ora, la risposta più sensata che ho trovato, è il complesso della crocerossina. Ti può bastare?» gli risposi, sorridendo speranzosa.

Lui abbozzò un sorriso e, annuendo, tornò a guardare il film.

«Briseide non è male.»

«Concordo.»

Magari, il giorno dopo sarebbe tornato a rifugiarsi all'interno del faro, e non sarebbe più uscito.

Ma almeno, ora aveva una possibilità di scelta.

Aveva scorto una via alternativa, nel tunnel buio in cui si trovava. Ora stava a me scoprire perché avessi voluto mostrargliela.

In tutta onestà, però, non ero sicura di voler scoprire perché mi fossi intestardita a quel modo con Ronan.

Perché mi ricordava me stessa, i primi anni in cui avevo perso Kieran.

Forse. E forse no. Per certi versi, mi ero comportata in modo molto peggiore di Ronan, anche se ammetterlo mi dava noia.

Ma sapevo benissimo di aver preso a morsi la gente, e non soltanto a male parole.

Il mio non era mai stato un carattere pacifico e tranquillo come quello di mio padre, né pacato e controllato come quello di mia madre.

In questo, non somigliavo a nessuno dei due.

Ormai sapevo più che bene che, le mie diatribe con loro, dipendevano solo da questo, e non da errori più o meno gravi commessi da ambo le parti.

Quando non parli la stessa lingua, non è colpa di nessuno.

Volevo forse evitare che Ronan commettesse i miei stessi errori, evitandogli così delusioni cocenti e sofferenze inutili?

No di sicuro.

Quel tempo era già passato anche per lui, e in quel momento stava già affrontando un percorso di ritorno alla vita normale, pur se con i suoi modi un po’ bislacchi.

Perché, quindi, desideravo dargli una mano? O, per meglio dire, imporgliela?

Scrutai il suo profilo, illuminato dalla luce altalenante della televisione, e sospirai tremula.

Ero terrorizzata dalla risposta che mi stava serpeggiando dentro, eppure non potevo nascondermi nella sabbia come gli struzzi.

Che lo volessi o meno, prima o poi avrei dovuto ammettere ad alta voce cosa mi stava spingendo verso di lui.

Cosa mi stava obbligando a imporgli la mia presenza, i miei pensieri, le mie idee.

Quello che ne sarebbe venuto, mi terrorizzava ancor di più della consapevolezza che qualcosa, dentro di me, stesse crescendo senza che io lo avessi cercato.

Ma non ero una codarda, e non mi sarei fatta mettere i piedi in testa proprio dal mio cuore.

 

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.
 
 
 
 
 
Appisolarmi sulla poltrona, che tenevo vicino al letto dal materasso ad aria di papà, fu quasi scontato.

Avevo dormito pochissimo, nelle ultime settimane, e luglio era stato foriero di giornate così stranamente belle e soleggiate che, nonostante la stanchezza, ero rimasta alzata fino a tardi.

Dopo quella prima volta a casa dei nonni, Ronan era venuto un altro paio di volte e, una mattina, mi si era presentato innanzi con un paio di guantoni e un caschetto imbottito.

L’avevo fissato dubbiosa, chiedendomi se fosse impazzito, ma alla fine lui si era spiegato.

Aveva voluto togliersi lo sfizio di capire quanto fossi brava a boxare, ma senza rischiare di farmi male.

Io, naturalmente, avevo accettato la sfida e, dopo essermi infilata i guantoni e il caschetto, lo avevo affrontato dietro casa, un sorriso sghembo a illuminarmi il viso.

Lui allora aveva cominciato a danzare sui piedi, muovendosi con la stessa agilità di una libellula, tanto da sorprendermi per la sua bravura.

Aveva tirato qualche fendente, giusto per regolarsi sulla distanza e, mentre io avevo schivato con abilità i colpi, lui mi aveva sorriso.

Da quel momento, ogni momento libero lui lo aveva passato a migliorare la mia postura e le mie mosse, neanche avesse fatto quel mestiere per una vita intera.

Mi era parso evidente fin da subito quanto, quello sport, fosse affine al suo carattere e, quando gliene avevo chiesto spiegazioni, lui aveva riso.

Aveva accennato a dei fratelli e al fatto che, tra loro, avessero sempre boxato per diletto.

Alla fine, era saltato fuori che anche la sorella gemella si era dilettata in quello sport, prima di passare ad altre attività ludiche.

Scoprire alle sue spalle una famiglia così numerosa mi aveva sorpresa, soprattutto in considerazione del fatto che mai, uno di loro, si era preso la briga di fargli visita.

O semplicemente, di chiamarlo.

Come sempre, non avevo indagato per non angustiarlo.

Se parlare di Mairie era divenuto, di giorno in giorno, più semplice e meno doloroso, l’argomento tabù era rimasto la famiglia.

E non me l’ero mai sentita di scavare così a fondo nel suo passato.

Mi era bastato vederlo rasserenarsi a ogni giorno passato assieme e capire il perché, ormai, stare assieme a lui era diventato indispensabile come respirare.

Nonostante tutto, Ronan mi piaceva. E molto.

Era bello stare in sua compagnia, anche se spesso litigavamo come cane e gatto.

Non avevo idea se quel dolce sentimento sarebbe sfociato in qualcosa di più forte, ma era già bello sapere di poter provare ancora qualcosa del genere per qualcuno.

Ovviamente, non ne avevo fatto menzione con lui, perché ero più che sicura che sarebbe ammattito, scacciandomi dalla sua vita.

Era ancora troppo impegnato a capire cosa fare della sua nuova esistenza, per avere a che fare con i miei personali problemi di cuore.

Già il fatto che avesse accettato con un sorriso il pudding di una vicina, deponeva a favore della sua rinascita.

Soprattutto, pensando che si era sdebitato aggiustandole la staccionata. Gratuitamente.

Aveva fatto innumerevoli passi avanti, e aveva iniziato a sorridere sempre più spesso. Perché angustiarlo con questioni che potevano benissimo aspettare?

«Sheridan…»

La voce soffusa di mia madre mi fece aprire di colpo gli occhi e, stordita, la fissai a occhi sgranati prima di lanciare uno sguardo teso in direzione del letto.

No, papà respirava ancora. Con affanno, attaccato alla macchina dell’ossigeno, ma respirava.

Sospirai sollevata e mormorai: «Cosa c’è, mamma?»

Appariva del tutto priva di forze, con la messa in piega sfatta e le rughe intorno agli occhi più profonde del solito.

La stava decisamente vivendo peggio di quanto avessi temuto, e avevo il sentore che potesse ammalarsi anche lei. Sarebbe stato davvero un bel guaio, a quel punto.

La pendola dabbasso segnò le tre e io, alzandomi dalla poltrona, mi stiracchiai.

«Hai bisogno di qualcosa?» chiesi ancora, non avendo ottenuto risposta.

Reclinò il capo, quasi imbarazzata, e mormorò: «Vai a casa. Vai a dormire. Sei stanca.»

La fissai senza capire bene quello che voleva, quasi avesse parlato in aramaico.

Scossi il capo, passandomi una mano tra la chioma scompigliata di capelli, e replicai: «Mi sono appisolata un attimo. Non devi temere che non lo tenga d’occhio, comunque. Ho il sonno così leggero che potrebbe svegliarmi il passeggiare di una formica.»

«No, beh… non volevo…»

Balbettò – e quanto mai lo faceva? – e riprovò una seconda volta.

«Voglio che ti riposi.»

Sobbalzai, fissandola accigliata e lei, per diretta conseguenza, sbottò: «E’ così difficile credere che mi preoccupi per te?!»

Temendo che gli animi si potessero scaldare al punto da svegliare papà, la accompagnai fuori dalla stanza e, una volta in corridoio, mormorai: «Non è… difficile. E’ strano. Quando ero ragazzina, ti preoccupavi che non combinassi guai tali da mettere in imbarazzo la famiglia. Ma, per il resto, non è che ti strappassi i capelli.»

«Eri così… irrequieta!» protestò mia madre, irrigidendosi.

Io sorrisi malinconica.

«Lo so. Come so di non averti mai… reso fiera di me. Ma ero… sono così.»

Non seppe cosa dire. Si torse le mani magre senza sapere bene cosa farsene, ma alla fine parlò. Con tono duro, ma senza acredine.

«Ricevetti un’educazione spartana, e fu la stessa che tentai di inculcarti. Ma tu non ti ribellasti!»

«Motivo per cui nonna Amalia e non Conrad non mi hanno praticamente mai voluta vedere» sottolineai con un mesto sorriso, facendo spallucce. «Non si può cambiare il carattere delle persone, a meno di non spezzarne le fondamenta, e io non posso mutare ciò che sono. Posso plasmarlo perché non abbia così tanti spigoli, ma non posso toglierli tutti.»

«Sarebbe bastato non scappare con Kieran, neanche foste due fuggitivi.»

C’era tristezza, nella sua voce, e un profondo senso di perdita.

Era la prima volta che lo sentivo, e mi stupì. Possibile che avesse sentito la mia mancanza?

Sospirai, le diedi una pacca sulla spalla, sorprendendola – non eravamo mai state molto fisiche, tra di noi – e asserii: «Fu una decisione nostra. Ed eravamo maggiorenni, mamma. Potevamo sbagliare, e nessuno avrebbe potuto impedircelo.»

«Ma ho fallito nell’educarti, e il tuo comportarti in maniera così sconsiderata ne è stato la riprova.»

Ora c’era un profondo senso di impotenza, nel suo tono.

«No, mamma. Sapevo bene che ti avrei… vi avrei delusi, comportandomi così, ma lo feci lo stesso. Il mio desiderio di fuga era maggiore rispetto all’idea di deludervi, di farvi un torto.»

Scossi il capo, quasi incredula di fronte a quello che stavo per dirle. «Non mi pento di averlo fatto, ma di avervi ferito, sì.»

Lei non disse niente per un po’, si limitò a inspirare con forza, quasi stesse trattenendo le lacrime.

Alla fine, aprì la porta della stanza di papà per entrarvi e mi parlò con tono lapidario.

«Vai a casa a riposarti, e domani non venire.»

Ciò detto, chiuse la porta, lasciandomi sola nel corridoio con quell’ordine perentorio a spingermi fuori di casa con discrezione, ma con forza.

Grugnii, trovando come al solito i suoi modi gentili come una palata in fronte, ma non mi opposi, non cercai di venire a patti con lei.

Mi limitai a obbedire. Un’autentica novità, per noi.

Se lei voleva che mi riposassi, l’avrei fatto.

In fondo, era un favore che potevo concederle.

Mi infilai in auto sbadigliando sonoramente e, procedendo lungo il paesino deserto, tornai a casa dei nonni.

Osservai con un sorriso sghembo le prime barche uscire per le battute di pesca del mattino e, quando le luci delle lampare furono lontane, distolsi lo sguardo.

Non mi ci volle molto, per raggiungere casa.

Entrai silenziosa e, come un peso morto, crollai sfinita sul letto, dove mi addormentai all’istante.

Fu bello, per una volta, non aver litigato con mamma. Forse, fu questo a permettermi di addormentarmi così velocemente.

 
***
 
«… e così mi ha rispedita a casa con l’ordine di non presentarmi, oggi» terminai di dire, sferrando un destro micidiale, che però Ronan schivò abilmente.

Balzellando leggero sulle punte dei piedi, provò a centrarmi con un uppercut, ma mi spostai in tempo per evitarlo, sbilanciandomi però sul piede destro.

Ballonzolai fino a riprendere l’equilibrio e lui, annuendo fiero, replicò: «Per quanto i suoi modi siano stati bruschi, penso sinceramente che fosse preoccupata per te.»

«Credo anch’io ma, per una volta, vorrei che mi dicesse le cose senza quell’aria perennemente furiosa.»

Sapevo di pretendere la luna, ma era più forte di me. Desideravo con tutta me stessa che, per una volta, mia madre mi guardasse come faceva Niamh.

Con affetto complice, senza pause passate a chiedersi perché fossi crescita a quel modo, piuttosto che come voleva lei.

«Non stai facendo esattamente quello che lei tenta di fare con te? Cambiarla?» mi ritorse contro, sorridendomi a mezzo quando partì con un gancio alle reni.

Lo schivai per un soffio, ma mi sbilanciai così tanto che finii contro di lui, andando a sbattere contro il suo torace nudo e umido.

Trattenermi nella caduta con i guantoni non fu la cosa più semplice del mondo, ma ci pensò lui a evitarmi un tonfo in terra.

Mi afferrò ai fianchi con le mani – lui indossava solo le fasciature per coprire le nocche – e mi raddrizzò, sorridendomi divertito.

«Scusa.»

«Mossa non valida.»

«Già, l’agguato in stile balena arenata, non è previsto dal regolamento» ammisi ghignante, rimettendomi saldamente diritta sui piedi.

«Sei stanca. Chiudiamo qui, per oggi. Non voglio che ti spezzi una caviglia per errore.»

Fece per allontanarsi, e intercettare con la mano una delle bottigliette d’acqua che tenevamo a portata di sorso, ma io scossi il capo.

«Continuiamo ancora un po’, per favore.»

Lui mi guardò da sopra la spalla muscolosa, la ferita da squalo evidente come un’insegna al neon sulla sua schiena, e mi domandò: «Cos’altro ti preoccupa, Sheridan?»

Ronan non usava mai il mio nomignolo. Era come se lo trovasse sciocco.

O, forse, troppo intimo.

Non aveva mai voluto spiegarmi il perché, ma mi piaceva il suono della sua voce, mentre lo pronunciava, perciò non avevo mai mosso obiezioni.

Aveva uno strano accento, e tendeva a trascinare le parole con indolenza come se, per una vita o più, fosse stato abituato a farlo.

Gli sorrisi a mezzo e, nell’osservare un istante il cielo terso, gli risposi.

«Papà sta morendo.»

Buttai fuori quelle tre semplici parole e, di colpo, il mio corpo subì un crollo.

Scivolai sulle ginocchia e, pian piano, mi sedetti a terra, le spalle scosse dai singhiozzi.

Ronan fu al mio fianco in un attimo e, inginocchiatosi accanto a me, sfiorò le mie spalle con le mani, indeciso sul da farsi.

Iniziai a piangere senza un motivo apparente – sapevo da mesi che non sarebbe sopravvissuto alla malattia – e, tergendomi il viso con i guantoni, balbettai: «Non… non l’ho mai d-detto prima, ad alta voce… ma ieri notte… insomma, quando mamma mi ha mandato via… temevo che lui morisse senza… s-senza di me…»

«Cristo!»

Ronan si passò le mani tra le onde castano rossicce, si guardò attorno senza sapere se scappare lontano da me o restare ma, alla fine, fece l’unica cosa fattibile.

Mi sollevò da terra, tenendo le mani sotto le mie ascelle, e mi strinse in un rude abbraccio, dandomi delle pacche goffe sulla schiena.

Il pianto divenne irrefrenabile, quasi isterico.

Aggrappata a quel corpo forte e saldo come una roccia, sfogai in una volta sola tutti quei mesi colmi di tensione, rabbia e dolore.

Non so bene quanto tempo passai tra le sue braccia, lasciando che il calore della sua pelle passasse alla mia, gelida come neve.

Quando alla fine mi scostai da lui, ero rossa in faccia, e non solo per le lacrime perse.

Ero imbarazzatissima.

Lui non disse nulla, afferrò un asciugamano e in silenzio me lo passò sul viso, asciugandomi le lacrime sulle gote gonfie.

Mi guardò pensoso, senza mai aprire bocca, tergendomi il viso con attenzione, delicatezza, neanche stesse sfiorando una statuetta di porcellana.

Quando si ritenne soddisfatto, poggiò l’asciugamani e, dandomi un pugno leggero sulla testa, borbottò: «Non lasciare che il pianto si accumuli, sciocca. E dire che, con me, rompi tanto le scatole perché io mi sfoghi

Misi il broncio; avrei preferito un’altra serie di parole consolatorie, ma annuii.

Si rimise in posizione, sfidandomi a colpirlo e io, dopo aver picchiato i guantoni l’uno contro l’altro, mi misi d’impegno per proseguire nella lotta.

Ci muovemmo lesti sul selciato sconnesso, tirando e schivando colpi e, quando meno me lo aspettai, riuscii a raggiungere la superficie del suo zigomo.

Fu un colpo di striscio, ma fu la prima volta in cui riuscii a colpirlo.

Lui faticò a rimettersi diritto e, quando lo fece, si bloccò sui piedi, mi fissò come se avesse appena visto sorgere l’aurora boreale, e io arrossii.

Non avevo mai visto un sorriso così orgoglioso sul volto di nessuno, neppure su quello dei nonni, e questo mi riempì di una gioia così genuina da spingermi a ridacchiare.

«Brava.»

Non disse altro, ma mi bastò.

Corsi e gli gettai le braccia al collo, attaccandomi a lui come un koala, tanto che Ronan soffocò un ansito di sorpresa e dolore.

Quel gesto lo colse decisamente di sorpresa.

Mi trattenne per un attimo accanto a sé poi mi scostò con gentilezza, scrutando dubbioso i miei occhi illuminati dalla soddisfazione.

Non riuscii a trattenermi.

Presi il suo volto tra i guantoni e gli stampai un bacio sulle labbra, dopodiché mi scostai del tutto e, ballando un giga sgraziata quanto allegra, esclamai: «Ti ho preso! Ti ho preso! Ti ho preso!»

Ancheggiai, feci dei gestacci non esattamente eleganti e battei il piede a terra, soddisfatta e, in tutto quel tempo, Ronan mi fissò come se gli avessero dato una bastonata in faccia.

Quando finalmente interruppi il mio balletto assurdo, lo fissai con aria birichina e, strizzandogli l’occhio, chiosai: «E dai! Non ti avrò mica sconvolto, spero…»

Ronan si morse il labbro, storse il naso e infine borbottò: «Non mi piace essere colto di sorpresa.»

«E allora dove sta il divertimento? Non ti sarai mica offeso, spero. Era un bacetto innocuo, amichevole.»

Non fui sicura di aver detto la verità, o di averglielo dato solo per amicizia, ma fu meglio non cavillare sui particolari.

Mi volsi per raggiungere la panchina, dove si trovavano le bottigliette d’acqua, e fu in quel momento che lanciai uno strillo degno di un’aquila.

A sorpresa, Ronan mi prese in vita e mi caricò su una spalla, facendomi prendere una paura del diavolo e, nel contempo, scoppiare a ridere di gusto.

«Te lo do io il bacetto innocuo!»

Risi più forte quando cercai di scendere, e lui si rifiutò di lasciarmelo fare.

Non appena iniziò a girare intorno a casa, trasportandomi come un sacco di patate, esalai ilare: «Dai, giuro che non lo faccio più! Lasciami scendere!»

Lui scosse il capo, rise debolmente prima di aprirsi in una calda risata di gola, che fece tremare tutto il suo corpo possente.

Mi trasportò in giro ancora per un po’ ma, quando giungemmo in prossimità del muretto di cinta, che ci separava dal baratro delle scogliere, si bloccò costernato.

Scesi a un suo cenno e, già pronta a ricominciare con gli scherzi, notai subito il suo umore improvvisamente nero e la sua aria bellicosa.

Lo fissai dubbiosa per un istante, prima di seguire la linea del suo sguardo e, sgomenta e preoccupata assieme, notai lo spaventoso fronte temporalesco in arrivo dall’oceano.

Le nubi sembravano non avere fine, erano gonfie e purulente, quasi entità vive e vegete, pronte a divorarci in un sol boccone.

Non ci eravamo minimamente accorti che una simile tempesta si fosse avvicinata così tanto alla terra ferma e, quando tornai a guardare Ronan, scorsi la sua preoccupazione.

«Devo tornare a casa subito

«No. In bicicletta, impiegheresti troppo tempo e…»

Imprecò, ricordandosi solo in quel momento di avere portato il pick-up dal meccanico, quel giorno, e di non potermi riaccompagnare a casa in auto.

Mi guardò preoccupato, lanciando occhiate alterne alla casa e alla mia bicicletta.

«Chiamo nonno perché mi venga a prendere.»

«No» disse ancora, scuotendo il capo. «Una tempesta simile sarebbe pericolosa anche in auto. Meglio evitare. Non voglio che Killian giri con questo mostro sopra la testa.»

Mi afferrò la mano mentre il vento si alzava, sempre più forte e umido, portando con sé le prime gocce di pioggia.
Mise la mia bicicletta nel capanno degli attrezzi, che chiuse con il lucchetto dopodiché, parcheggiatami in salotto, afferrò il telefono e chiamò i miei nonni.

Disse loro che, almeno fino a tempesta ultimata, sarei rimasta lì e, un attimo dopo, un tuono fece tremare l’intera struttura, facendo saltare la luce.

Non avevo mai avuto paura dei temporali, ma quel tuono mi fece fremere.

Era stato così violento, dai toni così cupi, da farmi tremare dalla punta dei piedi a quella dei capelli.

Fissando spazientito il portatile ormai muto, Ronan mormorò con un certo disappunto: «Almeno, sa che sei al sicuro. Non ho potuto dirgli nient’altro.»

«Già.»

Assentii meccanicamente, cominciando a sentire un po’ di freddo dopo tutta quell’attività fisica.

Essere in canottiera e pantaloncini non aiutò, specialmente quando iniziò a piovere, e l’aria si fece immediatamente umida e fredda.

Ronan chiuse in fretta le finestre e mi passò un pannetto leggero, con cui mi coprii le spalle, dopodiché accese in fretta il camino e mi ordinò di sedermi davanti al focolare.

Obbedii con un sorrisino e lui, dopo essersi guardato intorno un po’ imbarazzato, mi disse che sarebbe andato a farsi una doccia.

Annuii senza problemi e lui sparì al piano superiore, imboccando una piccola scala di pietra, dal mancorrente in legno.

Ascoltai assorta il picchiettare sempre più violento della pioggia, accompagnato da una serie di fulmini via via più forti, più dirompenti.

Tremai al pensiero di coloro che, in quel momento, si trovavano per mare e mi strinsi ancor di più nella coperta.

Profumava di fiori freschi e di limone, gli aromi che andavano per la maggiore in casa. Ma sapeva anche di Ronan, di quel non so che di maschile e misterioso che aveva la sua pelle.

Era come il profumo del mare.

Ne inspirai attratta l’aroma e, chiusi gli occhi, mi lasciai andare contro lo schienale della poltrona, assopendomi.

Fu così che mi trovò Ronan.

Quando mi riscosse dal pisolino che avevo schiacciato, lui era fresco e profumato,  abbigliato con maglietta a maniche lunghe e jeans chiari.

Ai piedi, aveva le infradito.

«Vuoi farti una doccia anche tu?» mi domandò, non sapendo bene da che parte guardare.

Era in imbarazzo? O era semplicemente arrugginito con l’altrui sesso?

Più probabile.

«Dovrai prestarmi qualcosa da mettermi, perché ho solo quello che indosso, ed è umido di sudore.»

Si grattò la nuca, le gote velate di purpureo imbarazzo, e disse: «Ti ho lasciato alcune cose sul letto, in camera mia. Il bagno è in fondo al corridoio, ma puoi raggiungerlo direttamente anche dalla camera da letto. Ha due entrate.»

«Oh. Comodo. Grazie» replicai gentilmente, preferendo sparire alla svelta per toglierlo dall’impaccio.

Probabilmente ero la prima donna entrata in casa sua, da quando Mairie era morta, perciò capivo perfettamente quanto la mia presenza potesse metterlo a disagio.

Non pensai neppure per un istante che l’imbarazzo fosse dovuto a qualcos’altro.

Avrebbe voluto dire illudermi su qualcosa che, al momento, non dovevo mettere a voce.

Quando misi piede al piano superiore, notai che Ronan aveva acceso delle candele, sistemate in piccole alcove scolpite nel muro di pietra.

Sorrisi per quella gentilezza e proseguii verso il fondo del corridoio, dove la luce era più intensa.

Non appena misi piede nella camera da letto, sospirai deliziata.

Le pareti in pietra erano di un bel color panna, e le travature in legno a vista si adattavano alla perfezione a quel locale, rustico e romantico al tempo stesso.

Il letto, in ferro battuto tinto di bianco, era a due piazze e, accanto alla pediera, si trovava una piccola panca imbottita, su cui Ronan aveva appoggiato alcuni abiti.

Avvicinandomi, scorsi una piccola scala a semicurva, in pietra, una porta aperta – da cui intravidi il bagno – e un mobile a tre ante, in legno rustico e scuro.

Ma non fu quello a mandarmi in confusione. Fu la vista degli abiti scelti da Ronan.

Erano indubbiamente abiti femminili. Gli abiti di Mairie.

Le lacrime sorsero spontanee, di fronte a quel gesto adorabile.

Nell’accarezzare la camicia fiorata e i pantaloni di velluto, mi morsi un labbro per non scoppiare a piangere.

Trattenni il pianto e lasciai stare gli abiti, infilandomi in bagno dopo essermi sincerata che, all’interno, vi fosse un asciugamano abbastanza ampio per me.

Mi godetti la doccia calda – ringraziando Ronan per avermene lasciata a sufficienza – e, dopo essermi asciugata e aver raccolto i capelli in un telo di spugna, infilai il suo accappatoio e le scarpette da ginnastica.

Scesi così conciata e, quando lui mi vide, strabuzzò gli occhi prima di alzarsi, confuso, ed esalare: «Oh… forse gli abiti ti andavano stretti. Mairie era più piccola di te e…»

«Non li ho provati» precisai, sorridendogli timida. «E’ stato un gesto bellissimo, Ronan, grazie. Ma erano cose sue, e so quanto tu ci tenga.»

Lui reclinò il capo, sorridendo a mezzo, e disse soltanto: «Sono abiti. E a lei sarebbe andato bene se, beh, se una persona come te li avesse indossati.»

«Ma erano suoi. Lo so che è un modo un po’ contorto per portarle rispetto, però…» sottolineai, pur apprezzando le sue parole di conforto. «Se non ti scoccia troppo, terrò il tuo accappatoio finché non tornerà la luce, e potrò mettere gli abiti nell’asciugatrice.»

«D’accordo» assentì a quel punto lui, andandosene in cucina.

Ben stretta nell’accappatoio, andai a sistemarmi dinanzi al fuoco scoppiettante e Ronan, nel tornare da me con un vassoio, mi domandò: «Cosa preferisci per cena?»

Lo guardai teneramente, limitandomi a dire: «Quello che c’è. Non ho problemi.»

Mangiammo praticamente senza parlarci, lasciando che fosse il temporale a riempire i nostri silenzi.

La luce non era ancora tornata, quando io dichiarai di voler dormire un po'.

Ronan mi offrì la sua stanza, ma io rifiutai. Il divano sarebbe andato benissimo.

I suoi cuscini erano morbidi e avvolgenti, e non disdegnavo di dormire raggomitolata.

L'avevo sempre fatto, specialmente da quando Kieran era morto.

Mi aveva sempre dato sicurezza.

Lui non insisté, ormai sapeva quanto ero testarda, ma si premurò di coprirmi con un panno.

Indugiò a lungo sulle increspature della coperta, lisciandole quasi come se servissero a calmarlo e, a momenti alterni, mi lanciò occhiate dubbiose.

Io restituii i suoi sguardi ogni volta, cercando di comprendere cosa gli passasse per la testa, ma senza ottenere nulla in cambio.

Anche la mia, in quel momento, era parecchio sgangherata, quasi riflettesse i pensieri di Ronan.

Non erano neppure le dieci, quando salì al piano superiore.

Ero stremata, sopraffatta da emozioni troppo forti, eventi susseguitisi con fin troppa velocità. Avevo bisogno di una tregua da quello tsunami di endorfine.

Il sonno mi prese poco dopo aver gettato gli ultimi ciocchi di legno nel camino e, con un sospiro, mi lasciai andare tra le braccia di Morfeo.

Fu molte ore dopo, o così ipotizzai al mio risveglio improvviso, che aprii gli occhi di soprassalto, destata da un fulmine particolarmente violento.

Tutt'intorno a me c'era oscurità, calmierata soltanto dal rossore tenue delle braci nel camino.

La tempesta infuriava ancora, quasi non avesse alcuna intenzione di smettere.

Dal piano superiore non giungeva alcun rumore,… proprio nessuno.

Non del tutto tranquilla, presi una delle candele che Ronan aveva spento prima di andare a dormire, e la accesi con le braci per farmi luce.

Rinvigorii il fuoco nel camino e, dopo un ultimo sospiro, mi diressi verso le scale.

In silenzio, risalii poco alla volta, ascoltando attentamente gli urli e gli strepiti della tempesta.

Pareva essere adirata col mondo intero, ben decisa a farla pagare a qualcuno.

Passo dopo passo, raggiunsi la camera di Ronan e trovai la porta aperta, il letto sfatto …e nessuno al suo interno.

Il bagno era deserto.

Ma dov'era finito?

Preoccupata, mi domandai se fosse uscito per raggiungere il faro, e controllare che il generatore a batterie – che teneva in vita le luci – fosse ancora in funzione.

Era vitale, specialmente con una tempesta simile, che il faro fosse funzionante.

Scesi di corsa le scale, ben decisa a sincerarmi che stesse bene e, in barba all'acqua gelida che pioveva dal cielo, uscii di casa.

Mi inzuppai in neppure mezzo minuto, ma non mi importò nulla.

L'ansia mi raggelava di per sé. L'acqua non contribuì minimamente ad abbassare la mia temperatura corporea.

Raggiunsi la porta che conduceva all'interno del faro e la aprii a fatica, rischiando di venire trascinata via dal vento, quando questa sbatté con violenza.

L'interno era buio, ma il ronzio incessante del generatore mi rassicurò. Funzionava.

Ma di Ronan non v'era traccia.

Dove diavolo era, allora?

L'ansia si tramutò in paura, e la paura in terrore quando, andando al capanno degli attrezzi, lo trovai ancora chiuso con il lucchetto.

Tremavo tutta, la mia pelle era gelata e ricoperta d'acqua, e l'accappatoio era pesante sulle mie membra indolenzite.

Fu a quel punto che urlai la prima volta.

Gridai il suo nome nel tentativo di sovrastare l'infuriare degli elementi, ma non ottenni nulla.

Il vento mi schiaffeggiò volto e corpo tremanti, ma non mi diedi per vinta.

Avanzai a fatica, cercandolo nel giardino, nelle vicinanze del muro di cinta e, colta dal panico più totale, mi chiesi se non si fosse gettato dalla scogliera.

Forse, il mio bacio innocente lo aveva turbato più di quanto avesse ammesso, facendo sorgere ricordi così dolorosi da portarlo a buttare via tutto, di sé.

Forse, si era spinto fuori per controllare che nulla si fosse danneggiato, ed era rimasto ferito a causa di un fulmine.

Forse...

«Smettila, con tutti questi forse!» sbottai ad alta voce, proseguendo nel mio andirivieni lungo il muro di cinta.

Gridai ancora, e fu a quel punto che lo vidi, ben oltre il basso muro di pietre stuccate, là, fiero e indomito a sfidare gli elementi.

Un passo di più, e sarebbe finito giù dalla scogliera, ma sembrò non interessargli.

Forse, era davvero sconvolto per ciò che avevo fatto!

In barba al mio terrore per le altezze – soffrivo di vertigini da sempre – scavalcai il muretto e, avanzando tremante verso di lui, urlai il suo nome.

Ronan, le mani strette a pugno e l'aria di voler combattere contro la tempesta, si volse lesto non appena mi sentì e, perso del tutto il suo desiderio di lotta, corse verso di me.

Mi raggiunse in pochi, rapidi passi e io, letteralmente, mi accasciai contro di lui, tremando come una foglia.

«Non... non devi buttarti! E' chiaro?!»

«Ma cosa stai dicendo?!» esclamò lui, strabuzzando gli occhi. «Non voglio affatto buttarmi giù!»

Evidentemente, mi credeva pazza.

«E' tutta colpa mia, okay? Tu non hai fatto niente di male! Sono io che ti ho baciato, non tu! Non hai fatto nulla di sbagliato, mentre io sì, quindi allontanati da qui e non pensare a cose brutte!»

Rabbrividii così forte che i denti sbatterono tra loro e Ronan, scuotendo il capo, mi sorrise a mezzo e circondò le mie spalle, spingendomi verso il muretto.

Lanciò un'ultima occhiata sprezzante dietro di sé, quasi avesse un conto in sospeso con la tempesta, dopodiché mi prese in braccio e scavalcò il parapetto.

Urlò, per sovrastare il rombo dei tuoni.

«Cosa ti è venuto in mente di uscire con questa tempesta? Potevi farti male!»

«Perché, tu no?!» protestai, notando per l’ennesima volta quel suo sorrisetto strafottente, ironico.

Ultimamente, scaturiva spesso sul suo viso.

Mi strinse più a sé, quando mi sentì tremare con violenza e, sempre a gran voce, esclamò: «Non ho mai rischiato veramente. Ma tu stai congelando, razza di sciocca.»

«Ero preoccupata per te, idiota!» sbottai, fissandolo accigliata.

Lui si fermò di botto, fissandomi come se avessi parlato in lingua farfallina, e non seppe che dire.

«Non devi. E non devi più pensare che io possa gettare via tutto. Non ho mai voluto farlo.»

Sorrise un po’ tristemente, e aggiunse: «Mairie non l’avrebbe mai voluto, e di certo non ne ho mai avuto neppure l’intenzione. Solo, ho sempre faticato a capire come riassestare la mia vita.»

Quell’uso del passato mi fece irrigidire, ma lui non disse altro, lasciando in sospeso la sua spiegazione e l’idea che aveva voluto esporre.

Sospirai e, reclinando il capo, ammisi controvoglia: «So bene cosa vuol dire guardarsi intorno, e non capire dove andare. Tutte le strade sembrano brutte allo stesso modo.»

Annuì col capo, aggrottò un attimo la fronte e infine mi riportò in casa, dove mi depositò sulla poltrona a fiori.

Senza attendere oltre, riaccese il fuoco e mi lanciò un'occhiata tesa e dubbiosa da sopra la spalla.

Io me ne stavo raggomitolata e tremante, gocciolavo come un tubo rotto e la bocca era così serrata che, entro breve, avrei sbriciolato i denti.

«Cristo... hai le labbra viola...»

Scosse il capo, preoccupato, si passò una mano tra i capelli bagnati e si alzò, diretto al piano di sopra.

Ne tornò poco dopo, indossando un accappatoio pulito e asciutto, e tenendo in mano una coperta enorme e apparentemente caldissima.

La allargò dinanzi a me e disse: «Togliti quell'accappatoio. Non ti servirà più a nulla, zuppo com'è.»

Annuii, ma faticai da matti a denudarmi, mentre lui teneva alta la coperta, così che non potesse vedermi.

Mi sentivo davvero un'idiota, a essermi lanciata fuori come una pazza furiosa.

Ma, soprattutto, mi sentivo un mostro per averlo messo in una situazione così imbarazzante.

«Scusa.»

«Hai finito?» mi domandò per contro lui, atono.

Annuii, alzandomi fino a incontrare i suoi occhi oltre il bordo della coperta e lui, a sorpresa, mi ci avvolse dentro, stringendomi a sé, che era caldo, quasi febbricitante.

Non mi toccò mai con malizia, ma si assicurò che fossi coperta da capo a piedi.

Sorprendendomi ancora di più, mi prese in braccio e, a fatica, mi portò al piano di sopra.

La scala era troppo stretta per passarvi agevolmente in due, ma lui non volle assolutamente farmi camminare.

«Ronan, davvero, non è necessario...»

«Stai zitta, una buona volta, e vedi di fare almeno una cosa sensata, in vita tua.»

Mi azzittii infastidita, irritata da quelle parole burbere e davvero crudeli ma, quando lo guardai in faccia, scorsi solo una profonda preoccupazione e... dubbio?

Raggiunta la camera da letto, mi depositò sul materasso e, con delicatezza, mi coprì anche con la sua trapunta dopodiché, esitante, vi si sdraiò sopra.

E passò un braccio sopra a tutte quelle coperte per stringermi in qualche modo a sé.

«Ronan...»

«Sst, zitta.»

Non lo disse con acredine, questa volta, e io obbedii.

«Maledizione!»

Esclamò irritato, balzò giù dal letto e corse a prendere un asciugamano.

Io, senza capire, lo guardai armeggiare alla luce di una candela accesa sul comodino, imprecare quando urtò qualcosa con un piede e, infine, giungere da me con il dubbio dipinto in faccia.

Mi si accoccolò accanto e, sorprendendomi non poco, mi avvolse i capelli nel telo di spugna, stando ben attento a non farmi male.

Continuò a scuotere la testa, come se qualcosa lo turbasse nel profondo, facendogli una paura del diavolo.

«Ronan...» ritentai, la voce flebile come il mio respiro.

«Non vado bene per te» mormorò roco in risposta e, sconvolgendomi, si avvicinò per baciarmi.

Fu un bacio rude, goffo, labbra premute con forza contro le mie, che erano gelate, mentre le sue ardevano come fuoco.

Mi ammorbidii all'istante e lui, stringendo la sua mano sopra l'asciugamano che mi avvolgeva la testa, mi attirò verso di sé.

Cercai di entrare, e lui mi accontentò, divorandomi le labbra, la bocca, tutta quanta, con quel bacio disperato.

Si staccò con violenza, così come aveva iniziato il bacio, e affondò nei miei occhi di cielo come se stesse annegando, e avesse il terrore di chiedere aiuto.

Sembrava volesse lasciarsi andare, morire, e al tempo stesso desiderasse sopravvivere a quell'assalto dei sensi.

Non sapeva neppure lui come comportarsi, e questo mi intenerì più di quanto avrei ritenuto possibile.

Sorrisi incerta e, estratto un braccio dal bozzolo in cui mi aveva rinchiusa, gli sfiorai il viso ricoperto di leggera barba.

«Va tutto bene, Ronan. Non avere paura.»

«Non vado bene, per te. Per nessuno

Lo ripeté altre due volte, ma tornò a baciarmi, quasi volesse prendere dimestichezza con la mia bocca. E smentire se stesso e le sue parole.

Quasi dovesse sfidare la sua stessa condanna contro i suoi sentimenti.

Era evidente dai suoi gesti che ero la prima donna che lui baciava, da quando Mairie era morta.

Lo strinsi a me con l'unico braccio che avevo liberato dalla gabbia delle coperte e lui, tra i singhiozzi, esalò: «Non voglio più solo respirare...  Mairie è morta. Mio figlio è morto. Sono morti entrambi, e non posso cambiare questo stato... ma non sopporto di sopravvivere e basta. Voglio molto di più.»

«Ronan, sdraiati qui accanto a me.»

Il mio tono fu perentorio e dolce al tempo stesso, e lui non replicò.

Seguì le mie indicazioni come un bambino e, dopo essermi assicurata che fosse ben coperto, tornai a carezzargli la guancia, sorridendogli.

«E' morta di parto, Ronan. Non fu colpa tua. La gente crede il contrario, ma partorire rimane ancora pericoloso, per una donna, nonostante tutti i traguardi tecnici fin qui raggiunti.»

«Non andavo bene... non vado bene...» scosse il capo lui, serrando gli occhi, forse per non piangere.

Cosa lo portasse a dire proprio quelle parole, dovevo ancora capirlo, ma era evidente che aveva il terrore di far soffrire qualcun altro.

Di far soffrire me.

Questo mi rese più sicura di me e dei miei mezzi, per contro.

«Lei ti amava. Ti ha voluto come suo marito, come padre dei suoi figli. Andavi bene, per lei.»

Lo dissi con sincerità, e lui tornò a guardarmi negli occhi, come se in essi vi fosse una verità sconosciuta, da sempre cercata ma mai trovata.

«L'ho uccisa. Il mio sangue l'ha uccisa.»

Scossi il capo, e replicai: «Dimmi cosa successe, Ronan. Per favore.»

E lui, senza freni, mi raccontò della gravidanza difficoltosa, della decisione di Mairie di tenere il bambino nonostante lei soffrisse di cuore, pur senza averglielo mai detto.

Mi disse di averlo saputo solo a gravidanza avanzata, quando ormai era tardi per qualsiasi cosa.

Il ginecologo l’aveva sconsigliata, ma lei aveva voluto fare di testa sua, in barba a tutto e a tutti.

I genitori di Mairie si erano ben guardati dal fargliene una colpa, quando tutto era andato a rotoli e, per un breve periodo di tempo, gli erano stati accanto per aiutarlo con l’elaborazione del lutto.

Lui, però, aveva rifiutato l'aiuto degli amici che, pian piano, si erano allontanati da lui.

Aveva rifiutato l'affetto dei suoceri, che avevano compreso il suo desiderio di solitudine, e l'avevano accontentato.

Aveva rifiutato di tornare a casa, perché lì non avrebbe trovato nulla, a consolazione della sua perdita.

Si era limitato a rimanere nei luoghi in cui si era trovato bene, cercando di ripartire da lì senza peraltro comprendere come fare.

E, alla fine, si era ritrovato chiuso in quel circolo vizioso che, invece, aveva cercato di evitare a tutti i costi.

Ma poi ero arrivata io, così fuori dagli schemi, così strana, … e con un passato tanto simile al suo. Che però avevo vissuto in maniera tanto differente.

«Non ti sei chiusa a riccio, non hai smesso di respirare... hai messo un piede davanti all’altro, invece di girare in cerchio per paura di provare a camminare. A cadere, se necessario. Io non sono stato così coraggioso. E’ stato più facile arrabbiarsi col mondo e tenerlo lontano, tentando scioccamente di fare tutto da solo.»

Ora appariva più calmo e, quasi anche il temporale avesse risentito del suo stato d'animo, gli elementi all'esterno parvero chetarsi.

«Per un certo periodo lo feci anch’io, ma mi resi conto che continuare a piangere non sarebbe servito. Dovevo muovermi, agire, o sarei morta dentro.»

«Fu quello che feci io, pensando a torto che rifiutare l’aiuto degli altri servisse a rafforzarmi, a darmi maggiore coraggio per andare avanti. Sbagliai» mormorò, reclinando il viso per non affrontare il mio sguardo.

«Non sei morto dentro, Ronan. Questo sappilo. Hai solo percorso il sentiero più lungo e difficile di tutti. Ma non hai mai abbandonato la speranza di riuscirci, credimi.»

Lui si limitò a stringermi in un abbraccio e ci assopimmo così, stretti nel nostro dolore che, poco alla volta, stava sciogliendosi per lasciar trapelare ciò che aveva tenuto avvinto in una stretta fredda fino a quel momento.





________________________
N.d.A.: direi che i segreti di Ronan stanno venendo a galla, visto che gli stanno sfuggendo più particolari di quanto lui stesso non voglia dire. Che intende con "non vado bene per te.", o "il mio sangue l'ha uccisa."?
Da cosa verranno simili paure? Beh, nel prossimo capitolo scopriremo tutto. E allora sarà Sheridan ad avere i suoi bravi problemi.
Grazie a tutti/e coloro che fin qui hanno letto e/o commentato.

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Capitolo 10
*** 10. ***


10.
 
 
 
 
 
 
Mi risvegliai con il profumo del mare nelle narici... e il torace di un uomo sotto la  guancia.

Sbattei le palpebre, confusa, chiedendomi dove diavolo fossi.

Impiegai qualche minuto per fare mente locale, e soprattutto mi domandai cosa avrei dovuto fare, a quel punto.

Durante la notte, Ronan doveva aver avuto caldo, perché il suo accappatoio era sparito, e ora le coperte gli coprivano sì e no l'inguine.

Dormiva della grossa, con il respiro profondo e tranquillo, e il suo viso appariva sereno come non l'avevo mai visto.

Il problema non era il suo sonno pacioso, comunque, ma qualcos’altro.

Se mi fossi mossa, sarebbe successo un incidente piuttosto imbarazzante e, viste le confessioni della sera prima, preferivo non causare altri guai.

Era stato bello sentir parlare Ronan a cuore aperto, ammettere le sue paure e le sue speranze, il suo desiderio di vivere, di camminare su una nuova via.

E di poter ricordare Mairie con il cuore finalmente libero da ombre.

Fino a quel momento, avevo sentito la sua storia solo a spizzichi e bocconi perché, per gran parte del tempo, ero stata io a raccontare di me.

Ma mi era stato bene.

Avevo avuto bisogno che qualcuno super partes mi ascoltasse, e lui aveva trovato giovamento nell’affrontare un’analoga situazione, ma vissuta in modo diverso.

Ci eravamo salvati a vicenda.

Sentirlo parlare di come avesse conosciuto la moglie, durante una crociera ai Caraibi, e di come si fosse stupito di scoprirla a sua volta irlandese, mi aveva sorpresa.

Nel chiedere notizie della crociera dove si erano incontrati, gli avevo domandato se vi fosse andato da solo, e lui aveva annuito.

Ci era andato per rivedere il luogo in cui lo squalo lo aveva quasi ucciso.

Parlandone con Mairie, una volta scesi su una delle tante isole toccate dalla crociera, lei si era offerta di accompagnarlo, perché non affrontasse da solo quel brutto ricordo.

Tornati a Miami, da dove era partita la crociera, si erano già innamorati.

Aveva riso impacciato, ricordando le attenzioni di cui l’aveva ricoperta, e io gli avevo replicato che mai, nella vita, un uomo avrebbe dovuto fare altrettanto con me.

Ronan ne aveva riso, dandomi dell'insensibile e del pezzo di legno.

Non me l’ero presa. I suoi occhi avevano brillato, nel dirlo, come se la sua non fosse stata una presa in giro, ma un complimento.

Raccontandomi del loro matrimonio affrettato, del desiderio di venire a stare a Portmagee, di come avessero sistemato questa casa, i suoi occhi avevano brillato malinconici.

Ma tranquilli.

Parlare della gravidanza, delle sue paure, e di come la morte di Mairie lo avesse mandato in confusione, era stato diverso.

Già prima del parto, lei lo aveva pregato di rifarsi una vita, se le esigenze della vita li avessero divisi, ma lui non aveva neppure voluto ascoltarla.

Semplicemente, aveva dato per scontato che non si sarebbero mai divisi.

Il non averle dato ascolto, il non aver preparato se stesso a quell’eventualità remota, lo aveva fatto cadere nell’oscurità.

Gli aveva impedito di capire come proseguire da solo quella nuova vita senza di lei.

Guardandomi con occhi ormai stanchi ma stranamente sereni, aveva però ammesso di aver compreso, di non aver più paura.

Si era assopito con un sorriso che sapeva di speranza nuova, e ora io mi risvegliavo con la guancia sul suo torace, ancora avvolta nella coperta con cui mi aveva protetta dal freddo.

«Ronan...»

Provai a chiamarlo un paio di volte, ma non servì a nulla.

Pareva dovesse recuperare giorni, mesi, forse anni di sonno, da come dormiva saporitamente.

Tentennai, indecisa sul da farsi.

Ma la natura chiamava, e io avevo necessità di spacchettarmi dalla coperta. Possibilmente, senza denudare lui.

Fuori, bargigli di sole filtravano tra i serramenti in legno, lasciando presagire il ritorno del bel tempo.

Gli uccellini cinguettavano lieti... e io dovevo andare in bagno.

«Ohhh, al diavolo!»

Sbottai e, chiudendo ermeticamente gli occhi, rotolai dal lato libero del letto, tirandomi dietro tutto... me compresa.

La coperta finalmente si aprì, lasciandomi libera di muovermi.

Così facendo, però, scoprii Ronan che, bellamente, continuò a dormire come un ghiro.

Lo fissai strabiliata, non credendo possibile che qualcuno potesse continuare a dormire dopo quel gran tirare di coperte. Ma lui continuò imperterrito.

E io mi affrettai ad afferrare le coltri per coprirlo, prima che il mio Ego impertinente e curioso facesse la sua comparsa.

Corsi in bagno afferrando l'accappatoio di Ronan e, dopo essermi chiusa dentro, feci quel che dovevo.

Tentai di accendere la luce, ma niente. Non era ancora tornata.

Evidentemente, la tempesta doveva aver fatto dei danni considerevoli alle centraline.

Mi lavai i denti con il dentifricio spremuto su un dito e, dopo essermi avvolta nell'accappatoio profumato di mare, ridiscesi le scale di pietra e lo trovai ancora a letto.

Sorrisi, trovandolo tenero e infantile, con le braccia e le gambe aperte, l'ampio torace offerto al mio sguardo e i suoi tratti rilassati e sereni.

Mi accucciai al suo fianco e, delicatamente, depositai un bacio sulla sua fronte, come ringraziamento per ciò che mi aveva dato quella notte.

Il suo passato, i suoi segreti, le sue paure inconfessabili, la speranza di un nuovo, più sereno futuro.

Non lo avrei mai creduto possibile, eppure era successo.

I suoi occhi si aprirono sonnacchiosi in quel mentre e io, ampliando il sorriso, mormorai sopra di lui: «Buongiorno.»

Sbatté le palpebre un paio di volte, mi mise finalmente a fuoco e, sorprendendomi non poco, levò un braccio per afferrare il mio polso.

«Sheridan...»

Fu poco più di un sussurro, ma fu così possessivo che mi sconvolse.

Mi attirò a sé, deponendo un bacio sulle mie labbra socchiuse e, con una mossa repentina, mi portò sotto il suo corpo desto.

In tutti i sensi.

Lo fissai vagamente confusa, un sorrisino un po' scemo sul volto, ed esalai: «Ehm, Ronan... che succede?»

Affondò il viso sul mio collo, leccandomi la pelle con movimenti lenti, sensuali, deliberatamente delicati e leggeri.

Mi inarcai istintivamente,  come ridestata dal suo tocco sensuale, ma poggiai le mani sul suo torace per tenerlo a distanza.

«Ronan, sei confuso... aspetta...»

«Voglio divorare il tuo corpo, donna... fino all'ultimo pezzettino, e marchiarti come mia...»

Lo disse con voce più roca e profonda del solito, con un tono che non gli avevo mai sentito usare. E un timbro vocale che non aveva nulla a che fare con il suo solito.

Era sicuro di sé, libero da drammi interiori, indecisioni.

Un Ronan che avevo solo ipotizzato potesse esistere, sotto la patina di confusa paura che lo aveva coperto fino a quel momento.

In quei mesi, questa si era progressivamente scollata dal suo corpo, facendolo risorgere poco alla volta, ma trovarmelo lì davanti, senza preavviso, mi lasciò basita.

Non seppi se esserne spaventata, o eccitarmi almeno quanto lo era lui.

Ma non volevo che fosse solo una risposta al desiderio di riprendersi la sua vita.

Volevo che succedesse perché ero io. E non soltanto perché ero una donna, e lui voleva sfogare la sua astinenza.

Il bacio che mi diede sulla bocca, però, fece capitolare il mio corpo traditore.

Mugolai alla ricerca di qualcosa di più, e lui non esitò a darmelo.

Mi liberò dell'accappatoio, denudandomi per il piacere dei suoi occhi.

Con un sorriso che sapeva di maschia virilità, tornò su di me per fare fiero pasto delle mie carni.

Accarezzò ogni centimetro della mia pelle, che lui seppe scaldare come nessun altro, e fece seguire la sua bocca alle dita esploratrici.

Dimenai gambe e braccia, desiderando di più, volendo di più.

Ronan continuò tutto il tempo a mormorare il mio nome, con crescente desiderio e reverenza.

Io mi limitai ad accarezzarlo sulla schiena, troppo preda di lui per fare molto altro.

Le mani sfiorarono la sua cicatrice e, per un attimo, desiderai poter cancellarla al mio semplice tocco.

Nessun uomo mi aveva mai fatto infiammare tanto, neppure Kieran.

Ronan sapeva toccare punti che, neppure in mille anni, avrei mai pensato potessero risvegliare in me un simile desiderio.

Eppure, lui vi riuscì.

Quando infine raggiunse il centro della mia femminilità, esplosi in un ringhio rauco e lui, con una risata mascolina, mi fece sua.

Risi e, forse sorprendendolo, ribaltai la situazione, spingendolo con una rotazione a stare sotto di me.

Ronan mi fissò stranito, forse non abituato a quella posizione, ma non mi scostò.

Sorrise ancora di più e si mosse lento, come volendo torturarmi.

Io lo assecondai, piegandomi all'indietro, arcuando la schiena che lui stava accarezzando.

Socchiusi gli occhi, preda del calore che mi stava divorano fin nell'anima e, stupidamente, mi chiesi quando Ronan avesse aperto le imposte per lasciar entrare il sole.

Sorrisi all'idea di noi due che facevamo l'amore alla luce del mattino.

Quando, però, riaprii gli occhi per godermi lo spettacolo, dovetti reprimere in fretta un urlo di puro terrore.

Era Ronan a brillare come una maledetta lampadina!

Mi irrigidii, e lui dovette accorgersene perché si bloccò a sua volta.

Aprendo a sua volta gli occhi per capire cosa mi avesse spaventata, imprecò vistosamente prima di uscire dal mio corpo.

Io rimasi a fissarlo come un'ebete, il corpo che ancora desiderava il suo contatto, mentre i miei occhi erano focalizzati sulla sua pelle bronzea... e luminosa come una cazzo di lampada alogena!

Anche lui si guardò, ma parve irritato come una biscia, quasi pronto ad ammazzarsi con le sue mani. O ad ammazzare me, a seconda dei casi.

Non parlai – ero troppo sconvolta per farlo – e lui, fissando se stesso e me per diversi secondi, imprecò in una lingua che non riconobbi prima di esclamare: «Non è possibile! Non ora

«Come, prego?» esalai, non sapendo bene se arrabbiarmi o essere ancora più terrorizzata.

Ronan non mi rispose.

Cominciò a camminare a destra e a manca, sempre più nervoso, il suo corpo che si inondava maggiormente di luce, neanche fosse stato una lucciola gigante.

Mi irritai dopo il secondo minuto di quel via vai sconclusionato e, dopo essere balzata giù dal letto, lo bloccai esclamando: «Ronan, piantala! E dimmi che cazzo sta succedendo, per tutti i santi del Paradiso!»

Lui tornò a guardare se stesso, le mani che tenevo poggiate sulle sue spalle... e l'alone di luce che emanava nel punto in cui le nostre carni si sfioravano.

Si allontanò come se lo avessi ustionato, ed esclamò furente: «Non voglio! Non voglio che succeda! No!»

«RONAN!» strillai, ormai a un passo da una crisi isterica.

Cosa che, invece, lui stava già sperimentando, a quanto pareva.

Si passò le mani nei capelli, ormai dritti sulla testa, ed esclamò: «Perché è dovuto succedere?!»

«COSA?! E, se mi hai anche un minimo a cuore, rispondimi, o giuro che farò una strage!»

Ringhiai, strillai, piansi – già, piansi – e Ronan, afferrandomi per le spalle, mi strinse a sé per calmare i miei tremori, così come i suoi, dicendo contro la mia spalla: «Ssst, calma, calma. Non ti succederà nulla, davvero.»

«Spiegami cosa succede, e forse sarò d'accordo con te, per una volta.»

Ridacchiò nervosamente, forse sorpreso che riuscissi a fare ancora dell'ironia, e mi fece sedere sulle sue gambe come una bambina piccola.

Accarezzò il mio corpo, con le sue mani che brillavano come piccole stelle, e io riuscii a dire: «Ronan, perché fai così?»

«Non... non mi è mai capitato... in tanti secoli, non mi è mai capitato...» mormorò a bassa voce, quasi stesse cantando una ninna nanna per farmi addormentare.

Ma io ero ben sveglia, e quel commento mi fece sbarellare.

«Che intendi… con secoli?!» sbottai, cercando inutilmente di alzarmi.

Lui mi stava trattenendo per la vita, in quel momento.

Cominciai a tremare per la paura, la confusione e la rabbia.

Non capivo ciò che stava dicendo, ciò che stava tentando di farmi capire con quelle parole assurde, e lui mormorò ancora: «Non ti farò del male.»

Rimasi ferma nel suo abbraccio caldo e, riprendendo a respirare con più tranquillità, mi sforzai di guardarlo.

Non avevo dato peso al fatto che il suo corpo – quello che avevo visto prima di finire a letto con lui – fosse glabro.

E dire che, da brava fotografa quale ero, certe cose avrebbero dovuto balzarmi all’occhio.

Le volte che lo avevo visto a torso nudo, impegnato nei suoi lavori sulle barche, lo avevo osservato con interesse. Ma non ero mai stata veramente attenta.

Qualcosa, dentro di me, mi aveva spinta a non avvicinarmi più di quel tanto, interiormente terrorizzata all’idea di interessarmi ancora a qualcuno.

Questo aveva come messo un velo dinanzi ai miei occhi attenti, ma non era bastato a tenermi lontana dal suo cuore.

Mi ero intestardita a non guardarlo per l’uomo che era, e alla fine mi ero innamorata di lui lo stesso.

I suoi modi schivi avevano punzecchiato il mio Ego, spingendomi ad avvicinarlo.

Il fatto che, poi, avesse più problemi di me nel relazionarsi col sesso opposto, mi aveva spinta a osare.

E mi ero aperta come un fiore al primo sole, lasciando che mi abituassi a lui, al suo carattere ruvido, ai suoi estremismi, alle sue prese di posizione.

«Chi sei, Ronan?» gli domandai, quando riuscii ad articolare una frase di senso compiuto senza tremare di paura.

«Il mio nome è Rohnyn mac Lir, non Ronan.»

Lo disse sommessamente, come se questo facesse una grossa differenza, come se il sapere il suo nome bastasse a spiegare tutto.

Un attimo dopo, però, mi irrigidii e pensai attentamente a quanto aveva appena detto.

Oh, sì. Eccome se faceva differenza!

O’Sea. Lui si era presentato al mondo come Ronan O’Sea. Ronan, …figlio del mare.

E anche mac Lir significava la stessa, maledettissima cosa,… ma era legato a miti ancestrali vecchi quanto la terra stessa.

«Non… non è un nome qualunque, vero?» balbettai, e mi diedi della sciocca per averlo fatto.

Se veramente Ronan avesse voluto farmi del male, non avrebbe atteso così tanto e, soprattutto, non sarebbe venuto a letto con me.

Però… insomma…la luce emanata dal suo corpo non smetteva di ricordarmi, e a chiare lettere, che qualcosa non andava.

E alla grande.

Deglutii, e riuscii a chiedere: «Chi è tuo padre?»

Lo sentii sospirare, ma parlò.

«Tethra mac Lir, signore del popolo dei fomoriani.»

Okay. Era troppo, davvero troppo.

Nonostante tutti i miei propositi di non cedere al panico, iniziai a tremare e Ronan – no, Rohnyn – mi strinse maggiormente a sé, trascinandomi sul letto prima di coprire entrambi con la coperta.

Il tremito si fece irrefrenabile, e Rohnyn continuò per tutto il tempo a massaggiarmi braccia e schiena, imprecando contro se stesso, la sua famiglia e il mondo intero.

Più io tremavo, più lui imprecava, in un crescendo senza senso che mi fece ben presto smoccolare a mia volta.

«Basta! Se vuoi veramente calmarmi, smettila di sparare imprecazioni come una mitragliatrice!»

Mi domandò scusa e, la fronte premuta contro la mia spala, mormorò: «Non è un caso che ti abbia detto che, in Troy, gli abiti erano sbagliati.»

Presi un gran respiro per digerire la notizia, ma non servì a niente.

Sfuggii alla sua stretta e mi catapultai in bagno, dove rimisi acido nella tazza del water.

Non avendo ingurgitato nulla dalla sera prima, il mio stomaco era più vuoto di un pozzo asciutto, ma i conati durarono minuti interi, accompagnati da lacrime furiose.

Rohnyn mi raggiunse in fretta e, trattenendomi i capelli sopra la nuca, rimase con me tutto il tempo, massaggiandomi la schiena con la sua mano calda.

Quando fui sicura di riuscire a muovermi senza svenire, mi volsi a mezzo e lo trovai lì, gli occhi chiari che mi fissavano spiacenti, il corpo che aveva perso parte della sua lucentezza.

Appariva umano non meno di me, ma ormai sapevo che non lo era.

Eppure, niente era cambiato dentro di me.

Ero pazza? Forse.

«Non volevo succedesse.»

«Cosa?» gracchiai, la gola riarsa e la bocca intrisa del sapore aspro degli acidi intestinali.

Ronhyn mi passò un asciugamano, che io usai per pulirmi la bocca e lui, mesto, aggiunse: «Quello che hai visto… non volevo venissi a sapere le cose a questo modo. Avrei voluto… parlartene, prima. Informarti.»

«Beh, mi pare evidente che, della tua storia passata, tu abbia omesso un bel po’

Le ultime parole, le sottolineai con una smorfia ben evidente.

Lui si rialzò, ergendosi in tutta la sua eccezionale altezza e possanza, ma non vi feci caso. Il bagliore era scomparso, adesso.

«Come avrei anche potuto minimamente pensare di affrontare un simile argomento con una giornalista? Ammettilo, al mio posto anche tu avresti avuto delle remore.»

Mi accigliai e, imitatolo, mi piantai dinanzi a lui, incurante della mia nudità, poggiando le mani sui fianchi.

«Spiegami perché o, immortale o meno, ti spaccherò la faccia, se la tua risposta non mi piacerà.»

Rohnyn si passò le mani tra i capelli, un gesto per lui molto abituale, e che io avevo imparato ad apprezzare – maledetta me! – ed esclamò irritato: «Ho visto come lavori ai tuoi pezzi, con quanta assiduità curi i dettagli. Pensi che una notizia del genere non avrebbe risvegliato il tuo più intimo desiderio di scoprire la verità… per pubblicarla al mondo?!»

Assottigliai le palpebre, riducendo sicuramente i miei occhi a un pozzo fosco e scuro.

«Mi piace sempre meno, questa storia.»

«Pensi che a me piaccia? Già il fatto di aver ceduto alle mie brame, è una cosa incresciosa. Mi ero ripromesso di proteggerti da me stesso, da ciò che sono… e non l’ho fatto. Scoprire che poi tu sei… sei…»

Levai le mani per bloccarlo, sempre più confusa, e borbottai: «Frena. Prima tiri in ballo il giornalismo, e ora il problema sei tu. O io. Non ho ben chiaro in che modo, comunque. Non mi chiarisci le idee, così.»

«I problemi sono molteplici.»

Lo disse con tono così spocchioso e sicuro di sé, che desiderai spaccargli la faccia. Maledetta supponenza maschile!

Aspra, esclamai: «Bene! Allora, elencameli, Ronan, perché evidentemente sono un po’ tarda.»

«Quello che hai visto prima, il bagliore e tutto il resto, è il riconoscimento del tuo stato di Unica. Possiamo scegliere decine, centinaia di partner sessuali, nel corso dei millenni, ma solo una sarà la depositaria dello scrigno del nostro avvenire.»

Dirlo, lo fece irrigidire. E io feci lo stesso.

Perché questo era un problema bello grosso, e anche una risposta bella grossa.

Lo scrigno… dell’avvenire.

E l’avvenire, in qualsiasi civiltà, o razza, sono i figli.

Mairie non avrebbe potuto essere la madre dei suoi figli.

Mi sentii male al solo pensiero, e Ronan con me.

Reclinò il capo, perdendo parte del suo nervosismo, e ammise: «Quando seppi del bambino, era già troppo tardi. Me lo tenne nascosto proprio perché sapeva dell’arganthe, l’Unicità della Consorte. Voleva tentare comunque, darmi almeno un figlio. Sapevamo entrambi che non avremmo potuto avere altro. Solo l’Unica può dare ai fomoriani una stirpe… prolifica.»

Imprecò, tornando a torturarsi i capelli. «Mi sento un mostro, a parlartene in questi termini, ma non so in che altro modo farlo, per farti capire la situazione. Io, a ogni modo, non avrei voluto farla rischiare, dopo aver scoperto quanto fosse cagionevole di salute.»

«Ronan…» esalai sconvolta.

Non faceva specie che la morte di Mairie lo avesse sconvolto tanto, e per così tanto tempo. Si sentiva… in colpa.

«Per lo stesso motivo, quando cominciai a provare per te qualcosa di più di semplice… amicizia, mi preoccupai. Non ero sicuro di essere in grado di amare ancora, di… potermi mettere in gioco completamente, stavolta.»

Quella precisazione mi sorprese. Cosa intendeva dire?

«Ma… visto che è comparsa la luminescenza, non dovresti essere contento? E’ una buona cosa.»

Ancora non capivo dove fosse il problema.

Mi guardò tristemente, e mormorò in risposta: «Sei umana, Sheridan, mentre io vivrò per altri undicimila anni, se tutto andrà come deve. Tu sarai cenere ben prima che questo succeda. E io non posso sopportare di perdere la donna che amo.»

Pur gioendo per quelle parole, mi infuriai anche, e replicai: «Ma Ronan… non capisci che è follia pura? Il tuo corpo, la tua mente, il tuo sangue ti dicono che io sono la persona giusta. Perciò vuole dire che, umana o meno, io devo far parte della tua vita. Io voglio far parte della tua vita.»

«E non sarai mai tentata di dire al mondo la verità? Ammettilo con te stessa, Sheridan. Riusciresti a trattenerti dal dire a tutti che, non solo l’uomo che ti ama è un fomoriano, ma che un intero popolo vive sul fondo dell’oceano, sconosciuto al mondo intero grazie alle sue arti magiche?»

Okay, quegli input erano davvero troppi.

Crollai sulle ginocchia, cercando di respirare e, con la mente, viaggiai alla ricerca di ciò che sapevo sui miti dei fomoíre, sul loro popolo marino, sulla loro discendenza.

Sospirai sconvolta e, levato il capo a guardarlo, compresi finalmente le sue paure, pur non condividendole.

Io non avrei mai parlato, pur se quella notizia avrebbe fruttato al mio giornale l’invidia a vita di tutte le altre testate mondiali.

E non l’avrei fatto per il suo popolo, per la sua sicurezza… ma solo per lui. Perché lo amavo.

«Non mi conosci, evidentemente» mormorai, addolorata che pensasse questo di me.

Tornai ad alzarmi, più lentamente stavolta, e uscii dal bagno per raggiungere la camera da letto.

Osservai stranita le lenzuola sfatte, pensando a quanto fosse strano il tempo.

Pareva passata un’eternità, da quando io e Ronan aveva condiviso passione e amore, in quel letto, e ora mi veniva solo voglia di bruciarlo per la rabbia.

«Sheridan…»

Mi chiamò, indeciso se essere preoccupato per me o per se stesso, ma io lo fulminai con lo sguardo, bloccandolo sul posto.

Indossai la mia tenuta ginnica, sempre senza mollarlo con lo sguardo e, quando fui pronta, ringhiai: «Non parlerò di te, se è questo che temi. Sai che puoi fidarti di me. Pensa a quanto sai di me, a quanto hai scoperto sul mio conto, a quanto sia importante la nostra amicizia. Solo allora, torna a cercarmi con risposte più sensate su ciò che intendi fare di noi. Ma non pensare di propinarmi delle fantasie paranoidi, perché allora, fomoriano o meno, io ti ucciderò

Ciò detto, pur sapendo di essermi comportata in maniera piuttosto melodrammatica, uscii di gran carriera, facendo le scale a due a due.

Recuperai dallo svuota tasche sul tavolo della cucina le chiavi del capanno e, dopo aver liberato la mia bicicletta, corsi a casa con un diavolo per capello.

Ben decisa a non versare una sola lacrima per quell’idiota patentato.

 
***

Stavo stirando, quando mamma entrò nel locale lavanderia.

Mi guardò dubbiosa, incerta se parlarmi o meno.

Forse, sulla mia faccia era stampato il mio umor nero e, per una volta, questo preoccupava Eileen O’Connell più di qualsiasi altra cosa.

«Papà non sta bene? Hai bisogno di aiuto per il bagno?» le domandai, bloccandomi.

«No.»

«Ah. Okay» assentii, rimettendomi al lavoro.

La musica che avevo acceso per distrarmi era a basso volume, una collezione mista di brani di Enya.

Avevo sperato che quei suoni dolci, caldi e  morbidi potessero calmarmi.

Dopo quasi due ore ininterrotte di ascolto, però, ero infuriata esattamente come quando ero uscita dal faro.

Dio, quanto era stupido, Ronan!

«Nonna ha detto che non sei rientrata, stanotte. Che sei dovuta rimanere al faro.»

Lo disse con tono così preoccupato che dovetti levare il viso a guardarla, chiedendomi se sarebbe arrivata una reprimenda sui miei modi da ragazza leggera.

Fui pronta a difendermi con le unghie e con i denti, già sul piede di guerra, ma lei mi sorprese dicendo: «Spero che O’Sea sia stato un buon padrone di casa.»

Sapevo cosa non voleva chiedermi, e io non volevo affrontare un argomento del genere con lei.

Perciò mi limitai ad annuire, seria in viso. Impenetrabile.

«Io e Ronan andiamo d’accordo, mamma. E’ stato lui a offrirsi di tenermi all’asciutto, e si è pure prodigato perché fossi comoda e al calduccio. Non temere.»

Annuì una sola volta, si passò una mano tra i capelli pettinati alla bell’e meglio e io, sospirando leggermente, le dissi: «Perché non vai da Doris a farti rifare la messa in piega? Rimango io con papà per un altro paio d’ore.»

Si accigliò subito a quelle parole, e replicò secca: «Sai cosa direbbe la gente, se mi vedesse dalla parrucchiera mentre mio marito sta… sta…»

Non riuscì a terminare la frase e, reclinando il viso, singhiozzò leggermente.

Io e la mia boccaccia.

Avrei mai imparato a capire mia madre?

Lasciai il ferro da stiro per raggiungerla e, nello stringerla a me rigida come un palo – era davvero fin troppo poco abituata ai contatti umani – mormorai: «Non volevo farti arrabbiare, mamma. Senti, facciamo così. So come fare a metterti i bigodini, e a farti anche il colore. Vado a prendere il necessario e lo facciamo in casa, va bene? Magari, papà vuole vedermi mentre armeggio con la tua testa. Potrebbe essere divertente.»

La scrollai leggermente, e lei annuì.

Si scansò da me con meno animosità di quanto avrei previsto.

Affrettandomi perciò a uscire, corsi nel locale mini market per prendere tutto il necessario per la messa in piega.

Parlai brevemente con la commessa, che mi chiese di mio padre e, a sorpresa, di Ronan.

Ridacchiò, nel farlo.

Avevo dimenticato che, nei paesi piccoli, la gente parla più delle vecchie comari dei film.

Feci buon viso a cattivo gioco e risposi telegrafica alle sue domande, preferendo non entrare nello specifico in nessuno dei due argomenti.

Buffo come, entrambe le cose, mi facessero soffrire e incazzare al tempo stesso.

In meno di venti minuti fui a casa e, dopo aver chiesto a papà se volesse assistere – trovando il suo plauso divertito – mi misi all’opera sulla testa di mamma.

Pareggiai un poco i capelli dopo averli puliti adeguatamente e, con mano ferma, misi il colore e le strisce di foglio alluminato con una competenza che insospettì entrambi.

Ridendo mio malgrado, ammisi: «Ho fatto l’aiutante presso un negozio di parrucchieri, a Dublino, per pagarmi gli studi.»

Mamma non disse nulla, mentre papà ridacchiò.

«Eri sempre brava, quando dovevi impiastricciarti le mani.»

«Non posso difendermi da quest’accusa, visto che è la verità» ghignai, puntando il timer per la tinta. «Bene, mamma. Ora ti farò una foto così conciata, e poi la manderò al giornale locale.»

«Non osare!» esclamò lei, parandosi le mani dinanzi al viso prima di soffermarsi un istante a guardarmi.

Avevo le mani sui fianchi, l’aria divertita… e nessun oggetto atto a fare foto nei paraggi.

Storse il naso senza più dire nulla, forse infastidita dal mio scherzo, ma papà le batté una mano sulla spalla dal suo letto ad aria, e lei si chetò.

Era forse la prima volta in trentaquattro anni che, un mio scherzo, non finiva in una carneficina.

Forse, c’era speranza anche per noi.

Presi la via della porta e, nel voltarmi a mezzo, dissi: «Chiamami quando suona. Nel frattempo, finisco di stirare.»
Eileen annuì e, mandandomi nel pallone, mormorò: «Grazie.»

Avvampai – ne fui più che sicura, visto che sentii le guance andarmi a fuoco – e, reclinando imbarazzata il capo, mi passai una mano sulla nuca e balbettai: «Ah, beh, ecco… n-non c’è di che. Sì, insomma, non ho mica fatto niente e…»

Sbuffai, lanciai un’imprecazione a mezza bocca, e mi catapultai fuori dalla stanza prima di dire troppo.

Era proprio vero che, in casa mia, le cose non erano mai andate come in quelle delle altre.

 
***

Il salottino di casa di Mrs O’Gready rispecchiava tutta la dolcezza di quella donna.

Le tende di pizzo, come i lavori all’uncinetto che potevo vedere, erano senz’altro opera sua.

L’aria profumava di pino silvestre e di biscotti alla mandorla e, quando me li servì assieme al tè, sorrisi.

Era strano sedersi lì con la mia vecchia insegnante di scuola, ma al tempo stesso era una sensazione piacevole.

«Allora, cara, come procedono le cose? E’ da un po’ che non vieni. Immagino che, tra le tue visite al faro e i lavori che sbrighi dai tuoi, tu non abbia più molto tempo per  fare qualcos’altro.»

Sorrise, e io sorseggiai la bevanda ambrata trovandola squisita.

La miscela era davvero ottima.

«C’è qualcuno che non sa che vado al faro?»

La donna ridacchiò, mentre io mi servivo un biscotto. Come al solito, era buonissimo.

«Tutti si sono chiesti quando O’Sea ti avrebbe uccisa, ma a quanto pare sei viva e vegeta. E più serena, nonostante tutto.»

«Ronan non farebbe del male a una mosca, anche se è scorbutico quanto un branco di iene affamate.»

Dirlo mi fece sorridere e, al tempo stesso, mi fece venire voglia di scagliare qualcosa contro il muro, ricoperto di carta da parati fiorata.

Quella casa sembrava uscita da un racconto Jane Austen, tanto era delicata, bella e accogliente.

Mrs O’Gready ridacchiò al mio commento, e annuì.

«Tutti noi, in paese, piangemmo per la sua perdita ma, quando fu chiaro che lui non voleva il nostro conforto, il paese non impiegò molto a lasciarlo solo. Ammetto che, forse, impiegammo davvero troppo poco, e ben pochi di noi si impegnarono per rimanergli vicino nonostante il suo caratteraccio. So che Fynn è stato uno dei pochi, assieme a quel lupo di mare di Cormac MacHugh.»

«Già. Fynn è sempre stato un cuore tenero» motteggiai, annuendo. «Anche Fynn mi ha parlato di Cormac. Mi sorprende, visto che anche lui non è mai stata una persona ciarliera.»

«Forse, si sono trovati proprio per questo.»

Sorrise sorniona, e aggiunse: «Se non erro, Fynn era il tuo fidanzatino, all’epoca della scuola.»

«Per un breve periodo, sì.»

Ghignai, e aggiunsi subito dopo: «Non mi dica che feci male a seguire Kieran a Dublino. Ho già ricevuto rimbrotti in merito sufficienti per due vite.»

«Cara, non sono né tua madre, né il tuo confessore. Sai tu i motivi che ti spinsero a quel gesto. Io non sono qui per giudicare» replicò lei, sorseggiando con gran classe il suo tè.

Sospirai e, nel rigirarmi un biscotto nella mano, mormorai: «Volevo la libertà che qui mi era negata, sfuggire alle regole della casa, avere le mie regole. E commisi un errore dietro l’altro.»

«Mi sembra che, nonostante tutti gli errori che dici di aver commesso, ora tu sia una donna appagata, con un lavoro sicuro e un carattere forte. Non è poco, a mio parere.»

Quelle semplici parole, esposte con calma e un pizzico di ironia, mi fecero sentire meglio. Mi riscaldarono il petto, portandomi a sorridere.

«Lo crede davvero?»

«Non dico mai bugie, Sheridan. Dovresti saperlo.»

Mi sorrise sorniona, e io ridacchiai.

E questo mi portò a lasciare che una lacrima ribelle scivolasse sulla gota, tradendomi.

Mrs O’Gready se ne accorse subito e, perdendo di colpo qualsiasi desiderio di sorridere, mormorò: «Oh, cara, cosa succede? Tuo padre, per caso…»

Scossi il capo e una mano, come a voler dare maggiore enfasi al mio diniego, e mormorai: «No, lui non sta né peggio né meglio rispetto al solito, ma…oh, insomma… non so cosa fare.»

«Perché ho come l’impressione che quella lacrima fosse per O’Sea? Vuoi parlarmi di qualcosa, Sheridan?»

Mi alzai in piedi, poggiando le mani sui fianchi e, andandomene avanti e indietro per il salottino, mi massaggiai il collo, sfregando così forte la mano da arrossare la pelle.

Abituata ai miei sfoghi emotivi, Mrs O’Gready non badò al mio scatto nervoso.

Mi lasciò navigare in giro per il salotto, calpestando con le pantofole di tela i tappeti persiani e il parquet di rovere.

Fuori, il sole splendeva allegro. Non sembrava neppure che, la sera precedente, fosse infuriata una tempesta di tutto rispetto.

Ma in Irlanda era così. Il tempo era così mutevole che non ci si doveva meravigliare di nulla.

Raggiunsi un quadro che ritraeva il faro – lo aveva dipinto il marito di Mrs O’Gready – e dissi: «Mi piace, e molto. E credo, in qualche modo, di piacergli. Ma è così maledettamente cocciuto che… uffa…»

«Non ti avrebbe permesso di passare così tanto tempo nel suo santuario, se non lo avessi colpito in qualche modo. Sei stata l’unica persona a cui abbia concesso di valicare quel confine per così tanto tempo di seguito. Persino Fynn non ci è stato che poche volte.»

«Come?» esalai, un po’ confusa. «Pensavo che … e le barche? Chi gliele porta?»

«Le barche le va a prendere lui con il pick-up, e sempre all’attracco di Cormac. Con Fynn, si incontrano spesso al porto, invece. Nessuno, quindi, ha mai varcato la soglia di casa sua così spesso come hai fatto tu.»

Mi tornarono in mente le parole di mia madre, la sua preoccupazione, e compresi.

Per forza che era parsa così frastornata. Ero la classica eccezione che confermava la regola!

«Allora… è doppiamente idiota.»

Mi passai una mano sul viso, odiandomi nel trovare alcune lacrime sulle dita.

Non dovevo piangere per lui. Non ero quella che piangeva per un uomo!

«O è spaventato a morte all’idea di provare ancora dei sentimenti per una donna. Ha passato così tanto tempo da solo con i suoi demoni, che ora deve trovare tutto spaventoso. Specialmente l’amore.»

Mi volsi a guardare Mrs O’Gready e, turbata, le domandai: «Conosceva Mairie?»

«Era un’algida ragazza dal sorriso tenero, ma tanto cagionevole di salute. Ronan era sempre prodigo di attenzioni, e lei non faceva che decantare le sue premure con tutti. Erano una coppia affiatata, ma non avevano praticamente nulla in comune, a parte l’amore che li legava.»

«In che senso?» volli sapere, lacerata dal mio solito desiderio di conoscenza.

«Mairie tendeva ad ammalarsi spesso, perciò non praticava nessuno sport, o attività fisica di genere. Ronan, invece… beh, lo sai meglio di me.»

Sbuffai, e ammisi: «Quello, non lo distrugge neppure un treno in corsa.»

«Non mi sarei espressa così, ma hai reso bene il concetto. Faceva immersioni, aiutava i pescatori con le reti, o direttamente sulle barche, la notte. Arrampicava con un mio nipote di Limerich, oppure si lanciava con il paracadute. Insomma, una forza inarrestabile. E Mairie era con lui, quando poteva, oppure perdeva ore a farsi raccontare le sue avventure.»

Storsi il naso. C’era qualcosa che non quadrava, in quel racconto, e lo dissi.

«Sembravano un dio e la sua postulante.»

E col senno di poi…

Mrs O’Gready annuì.

«Lei lo guardava con ammirazione, quasi venerazione, e lui la portava in palmo di mano, come un oggetto prezioso e raro.»

Mairie sapeva – questo lo avevo sentito dalle labbra stesse di Ronan – e forse, lei si era innamorata del suo lato mistico, più che di quello umano.

Come Ronan, forse, si era beato di quell’adorazione, più che amarla veramente per quella che era.

Era da lì che nasceva il suo dolore? Dalla consapevolezza di averla avuta per i motivi sbagliati? E di averla vista morire prima che lei potesse trovare il vero amore della sua vita?

Forse, il lutto di Ronan aveva più strati, e varie cause a rinfocolarlo di continuo.

Non potevo chiedere alle due parti in causa, visto che la prima era morta e, con la seconda, non volevo neppure parlare.

Ma così, la faccenda cominciava ad avere un senso. Quel ‘completamente’ che aveva pronunciato quasi a caso, iniziava ad avere una motivazione valida.

Forse era ancora troppo presto, per lui, e impegnarsi in un rapporto così profondo lo terrorizzava, nonostante tutto.

Perdere Mairie per i motivi che sospettavo, l’aveva quasi annientato.

L’idea di perdere me, forse, lo spaventava più di quanto potesse sopportare.

Perché, se dopo Mairie era sopravvissuto… non era detto che, dopo di me, avrebbe potuto.

Sospirai, cominciando finalmente a capire la portata del suo turbamento.

Ma non ero ancora pronta ad affrontarlo, perché dovevo prima capire cosa volevo io.

Ero davvero così sbruffona da pensare che, vedendolo morire, mi sarei comportata diversamente?

Cosa poteva dire, per lui, affezionarsi a qualcuno e poi vederlo andarsene poco per volta, sapendo di non poter far nulla per interrompere quel processo?

No, non doveva essere per nulla semplice.

Questo mi portò a spingermi su un terreno più accidentato e, tornando a sedermi, dissi: «Non c’entra nulla, ma per tenermi occupata farei di tutto. Il mio capo mi ha chiesto di dedicare un articolo alle leggende irlandesi, e vista la zona in cui siamo, pensavo di occuparmi del mito del Popolo dei Fomoriani. Ma la mia memoria è quella che è, e volevo sapere se potesse indirizzarmi un poco. Non voglio semplicemente buttarmi su Santa Wikipedia e scopiazzare di brutto.»

Mrs O’Gready ridacchiò per quella mia richiesta – in realtà, Todd non mi aveva chiesto un accidente di niente – e, tamburellandosi un dito sul mento, iniziò a pensare a una risposta.

Quando infine parlò, mi sorprese.

«Di leggende sui miti irlandesi ne puoi trovare fin che vuoi, ma credo che dovresti partire da un punto di vista più ampio, se veramente vuoi fare qualcosa di interessante e diverso.»

«In che senso?»

«Conosci la tribù africana dei Dogon?»

«Quelli che sapevano dell’esistenza della stella Sirio B, e parecchi secoli prima che gli astronomi la scoprissero coi telescopi? Sì. Ha un che di inquietante, questa cosa, ma non capisco cosa c’entri con i fomoriani» assentii, non comprendendo appieno che legame avessero un popolo africano e le leggende irlandesi.

«Forse non sai che gli sciamani Dogon sostengono che i delfini sono, in realtà, antichi alieni sbarcati sulla Terra e che, questi ultimi, hanno passato le loro conoscenze agli esseri umani, facendo in modo che essi si evolvessero. Da qui, si pensa, derivi la grande intelligenza e compassione di questi cetacei.»

Rimasi a bocca aperta, sconvolta da quella storia.

«Se ci pensi bene, in qualsiasi religione esistono creature marine che hanno avuto a che fare, presto o tardi, con gli esseri umani. Basti pensare ai tritoni e alle ninfe del mare dei miti greci, o alle selkies scandinave, per non parlare delle ondine, le fate dei fiumi irlandesi. Come vedi, il mare,  l’uomo e le sue creature magiche sono sempre stati legati a doppio filo. Niente di strano, perciò, che esistano miti come quello di Atlantide, Mu o, per l’appunto, dei fomoriani, gli antichi abitanti di Mag Mell, il regno dei mari. E i delfini fanno parte integrante di questo mito. Se tu provassi a legare le varie mitologie, a notare similitudini e discrepanze, sarebbe carino.»

Mrs O’Gready inserì la modalità ‘professoressa’ e andò avanti una mezz’oretta circa, fornendomi più informazioni di quante avrei creduto possibili.

Quando terminò di parlare, mi consigliò di leggere anche un paio di libri e io, stordita da tutti quegli input, non potei che ringraziarla.

Ciondolai fino a casa dei nonni, dove mi sistemai nel giardino dietro casa, stesa su una sdraio, e aprii il mio portatile.

Il sole era alto in cielo e, per un attimo, fui tentata di inforcare la bicicletta per andare al faro.

Rinunciai un attimo dopo, però, pensando a quanto avevo sentito solo poche ore prima.

Era davvero troppo presto per affrontare la sua confusione, quando avevo già la mia a farmi compagnia.

Entrambi avevamo bisogno di tempo per capire, per accettare quanto ci era piovuto addosso tra capo e collo.

Io volevo comprendere con cosa avessi a che fare – per quanto, basarmi sui miti, fosse un rischio.

Lui doveva capire se, e come, digerire quello che avevamo scoperto su di noi, e in questo caso io gli avrei solo causato ulteriori dubbi.

A volte, stare lontani, era più salutare per tutti.

Ma quella sera, quando Ronan non chiamò, mi sentii male.

Avrei tanto voluto sentirlo, sapere come stava.

Ma anch’io non alzai il ricevitore del telefono, da pavida quale ero improvvisamente diventata.

La solitudine avrebbe dovuto accompagnarci ancora per un po’, anche se la detestavo, come compagna di viaggio.






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N.d.A.: ed ecco che si comincia a fare chiarezza su chi sia in realtà Ronan. Tanto per chiarire, i fomoriani esistono nel mito, ma non la faccenda della luminescenza, che ho inventato io.
Per quanto riguarda il mito citato da Mrs O'Gready sui Dogon, invece, appartiene realmente alla loro storia orale, esattamente come la conoscenza della stella doppia di Sirio.
Ulteriori dubbi e spiegazioni si avranno anche nei prossimi capitoli, ma diciamo che ormai il Vaso di Pandora è scoperchiato.

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Capitolo 11
*** 11. ***


 
11.
 
 
 
 
 
Il porto era, come sempre, un insieme di attività frenetiche, vociare chiassoso e  corpi frementi, costantemente pronti a lavorare di buona lena.

Camminando sulla banchina del porto, in cerca del molo dove solitamente attraccava il peschereccio di Cormac, mi guardai intorno curiosa.

Erano anni che mancavo da quel luogo, eppure nulla sembrava essere cambiato veramente.

Tutto pareva essersi congelato nel tempo, anche se sapevo che nulla rimaneva uguale a se stesso.

Né il tempo, né tanto meno la vita.

Molti mi salutarono, e con alcuni mi fermai per una breve chiacchierata, chiedendo e rispondendo a domande su mio padre.

In alcuni casi, mi scoprii a ridere allegramente di eventi risalenti ad anni e anni addietro, che quasi avevo dimenticato.

In un certo qual modo, uscire dallo stretto circolo vizioso in cui ero caduta in quei mesi – faro, casa, casa, faro – mi fece bene.

Nonostante provassi ancora ansia e tensione, riuscii comunque a liberarmi un poco la mente, schiarendomi le idee quel tanto che bastò per non apparire una corda di violino ben tesa.

Quando finalmente raggiunsi la barca di Cormac, la trovai in secca, sollevata su diverse traversine in legno consunto.

A giudicare dalle imprecazioni che sentii giungere dalla poppa della barca, qualcuno doveva essere impegnato in qualcosa di molto antipatico.

La circumnavigai, sfiorando con le dita la vernice ormai pronta per essere piallata, le striature del legno sottostante e, tra me, pensai a Ronan impegnato su quello scafo.

Brava, datti la zappa sui piedi da sola, mi rimproverai, scacciando con forza l’immagine di Ronan a torso nudo, impegnato a lavorare nel suo capanno.

Quando infine raggiunsi Cormac, lo trovai accucciato e seduto su uno sgabello a tre piedi, una spatola in una mano e gli occhi fissi sui cirripedi che incrostavano lo scafo.

Li stava evidentemente togliendo per poter procedere a un restauro della barca, visto che non si stava preoccupando di andarci leggero, con la mano.

Sentire il suono delle mie infradito, che flip-flipparono fino a raggiungere le sue orecchie, lo interruppe di colpo.

Sollevato il suo capo brizzolato, mi fissò torvo per un istante.

L’attimo dopo, mi riconobbe e, nel posare la spatola in un vicino secchio d’acqua, poggiò le mani ruvide e abbronzate sulle ginocchia ed esclamò: «Che mi venga un colpo se tu non sei la ragazza di Ronny!»

Quel commento mi strappò un ‘cosa!?’, corredato da un sobbalzo all’indietro e una bella arricciata di naso.

Chi è che diceva cose simili, in giro?!

Lui scoppiò a ridere di fronte alla mia espressione e, nell’alzarsi, mi batté una mano sulla spalla, dicendomi: «E’ stato Ronny a parlarmi di te, ragazza. E visto che sei la prima donna di cui mi parla da quando quella dolce cosina di Mairie è morta, ne ho dedotto che sia finalmente uscito dal tunnel.»

«Beh, ecco… non so se è esattamente così. Comunque, insomma…»

Ma quant’ero brava, a balbettare!

Cormac rise ancora e, nell’invitarmi a bere qualcosa con lui, mi consegnò una lattina di birra – estratta da un frigo portatile – e mi guardò curioso.

Io non seppi che dire e, dopo essermi seduta su uno degli ormeggi in cemento del molo, sorseggiai la bevanda fresca e gli domandai torva: «Cosa le ha detto, di me?»

«Voleva un consiglio. Peccato che, da un vecchio lupo di mare come me, possa ottenere poco! Non mi sono mai sposato, io! E la mia unica donna, è sempre stata l’oceano!»

Rise sguaiato, e io mi ritrovai a sorridere nonostante la mia ansia.

Conoscevo Cormac fin da quando ero piccola, e lui mi era sempre parso il classico marinaio che si vede nei film. Sguardo sempre rivolto verso il mare, pelle bruciata dal sole, smania sempre presente di prendere il largo.

Era ancora così, a quanto pareva.

Sorseggiò la birra, tornò serio e, nell’osservarsi le mani, ammise nostalgico: «Quasi litigammo, per via di Mairie. Gli dissi che non era la donna adatta a lui, e Ronan non gradì l’appunto.»

«Perché gli disse una cosa del genere?»

«Il loro era uno strano rapporto. Certo, si amavano. Solo un cieco non l’avrebbe notato. Ma c’era qualcosa di sbagliato, in Mairie, oserei dire di malsano. Idolatrava troppo Ronan, e lui neppure se ne rendeva conto.»

«Lo trattava come un dio, non come un uomo?» ipotizzai, sentendomi sempre più vicina alla verità.

Cormac annuì, finendo la birra al suo secondo sorso.

Un gabbiano veleggiò sopra le nostre teste e, tetro, lanciò il suo grido nell’aria.

Lo ignorai, o almeno ci provai. Mi avevano sempre messo tristezza, e quel giorno non ne avevo davvero bisogno.

«Chi non sogna una donna così?» ironizzò Cormac, ma senza alcuna allegria nella voce roca. «Solo, non mi sembrava giusto. Glielo dissi, ma lui non volle credermi… sul momento

Aggrottai la fronte, facendomi attenta, e gli chiesi: «Perché dice ‘sul momento’? Cosa successe, poi?»

«Quando scoprì che Mairie aspettava un bambino, giunse da me una notte, preda dell’attacco di panico peggiore che avessi mai visto in un uomo. Cominciò a straparlare della sua famiglia, di come Mairie si fosse intestardita a dargli un erede per la sua stirpe. Cose folli.»

Lo fissai dubbiosa, chiedendomi quanto sapesse di Ronan, e ugualmente Cormac fece con me.

Alla fine sogghignò e, grattandosi la nuca, mormorò: «Te l’ha detto, eh?»

Annuii, non arrischiandomi a dire altro. Dalla sua risposta, avrei capito quanto sapeva del segreto di Ronan.

E quanto ne sapevo io.

Cormac, allora, si grattò pensoso una guancia e aggiunse: «Mi mostrò la sua rihall, la voglia a forma di stella che ha sul braccio, e mi spiegò cosa fosse.»

Mi sorrise sghembo, mettendo in mostra una fossetta sulla guancia destra che non avevo mai notato.

«Non la digerii bene… come penso tu possa ben immaginare. Chi si aspetta di vedersi capitare davanti al naso una creatura dei mari in carne e ossa?»

Annuii, sapendo bene cosa volesse dire. Per quanto una persona possa essere di ampie vedute, certe cose stroncano le gambe anche dei più forti.

E io non sapevo, in tutta onestà, se avessi retto bene o meno al colpo.

Di certo, la cosa mi procurava più emicranie di quante non volessi, e dubbi estesi quanto l’oceano.

«Mi pregò di mantenere il segreto, e io glielo concessi. Dopotutto, è un bravo ragazzo, e non mi andava mi cacciarlo nei guai» proseguì nella storia Cormac, accennando un sorrisino.

A quanto pareva, sapeva ben di più cose della sottoscritta, allora! Il solo pensiero, per un istante, mi irritò.

L’attimo dopo, però, mi concentrai su Cormac e formulai un’altra domanda.

«Le disse qualcos’altro? Su Mairie, intendo.»

Il marinaio mi fissò lungamente, forse indeciso su cosa dirmi, ma alla fine parlò.

«Rimpianse di aver detto subito la verità a Mairie, di essere ormai convinto che i sentimenti della moglie fossero più legati alla sua natura soprannaturale, che al suo lato umano. Mi spiegò delle differenze tra noi e loro… e della parvhein. La luminescenza. Mi disse che non era comparsa, con Mairie e che, per questo motivo, lei si fosse convinta a mettere al mondo un figlio a tutti i costi. Per compensare il fatto di non potergliene dare altri, da quel che compresi.»

Sgranai leggermente gli occhi, e Cormac mi sorrise. Aveva capito, il volpone.

«Oh, … e così sei tu. Beh, non fa specie se, ieri notte, è venuto qui ubriaco fradicio e tremante come un bambino.»

«Come?» esalai, turbata.

Annuendo, Cormac asserì: «Mi ha detto quel che è successo. A grandi linee, non temere. Ma non sapevo che fosse saltata fuori la parvhein. Questo spiega la sua agitazione, e la convinzione di aver combinato un casino, con te.»

Non seppi come sentirmi, in tutta onestà.

Non ero del tutto sicura di essere contenta che Ronan, pur con tutte le ansie che poteva aver avuto, si fosse precipitato dall’amico fidato per spifferargli che aveva fatto sesso con me.

Ma forse, non era esattamente questo che gli aveva detto.

E comunque, io cosa ci stavo facendo, lì in giro a fare domande su domande, se non trovare risposte ai miei dubbi?

Che avevo tanto da criticare?

«Quali sono state le sue esatte parole? E’ importante, per favore» mi informai a quel punto, stringendo le mani con fare nervoso.

Le nocche mi si sbiancarono, ma non vi badai. La sua risposta era più importante della circolazione sanguigna nelle mie mani.

Cormac mi comprese all’istante, perché ci rimuginò sopra con estrema serietà, prima di dire: «Sono innamorato di lei, ma ho paura di averla offesa a morte. Ma non so davvero come fare. E’ tutto così complicato! Se i miei genitori lo scoprissero, probabilmente la ucciderebbero!»

Questo sì che mi fece trasalire.

Impallidii visibilmente e il marinaio, passandomi una seconda lattina di birra, mi confidò: «Ha detto così, testuali parole.»

Assentii, lappandomi le labbra con fare sempre più nervoso. L’idea che qualcuno potesse volermi morta, e solo perché mi ero innamorata di Ronan, mi diede di stomaco.

Ma che persone erano?!

«Non cercarlo, oggi. Credo non lo troveresti. Penso sia andato dai suoi genitori proprio per evitare che ti stacchino la testa. Dio solo sa perché, ma sembrava veramente spaventato da quell’eventualità.»

Annuii, ringraziandolo profusamente e, nell’alzarmi in piedi, lo abbracciai con forza, mormorando: «Sono contenta che abbia avuto lei, accanto.»

«Quel ragazzo mi piace. Se avessi avuto un figlio, avrei voluto fosse come lui. Non rovinarmelo, ragazza. Mi raccomando.»

Risi, e glielo promisi.

Le mie intenzioni erano ben lontane, poco ma sicuro.

 
***

Fynn mi stava guardando come se avessi le corna e la coda, ma onestamente non me la sentii di dargli torto.

In fondo, avevo appena ammesso di aver fatto sesso con Ronan, e la cosa non si era risolta esattamente bene.

Certo, io e Fynn ci dicevamo praticamente qualsiasi cosa – almeno, io tendevo a farlo – ma forse quello era un argomento che non avrei dovuto toccare.

Si passò una mano sulla faccia prima di guardarmi confuso, le gote leggermente rosse per l’imbarazzo.

«Okay, forse non avrei dovuto dirtelo.»

«No, beh, ecco, apprezzo che tu sia così sincera con me, ma non so cosa dovrei fare, adesso. Devo andare là e spaccargli la faccia? Non sono tuo padre, ma se ti ha fatta soffrire, insomma… Cioè, se vuoi che lo sistemi per le feste, posso farlo.»

Si interruppe, diede un calcio a una gomena arrotolata sulla sua barca, e imprecò.

L’aria salmastra del mare gonfiava le vele di alcuni mono albero, appartenenti sicuramente a qualche turista benestante.

La baia era tranquilla e, sul ponte che collegava l’altra sponda del golfo a Portmagee, rade auto si avventuravano da una parte all’altra, paciose e lente come carri di bestiame.

Nessuno aveva fretta, fuori dal porto, tutti parevano sereni e pacifici.

Solo io sembravo in lotta con il mondo, fuori posto come al solito.

Rivolevo la cacofonia di Dublino, i suoi mille e più difetti, i suoi mille e più pregi.

Volevo allontanarmi da lì e, al tempo stesso, volevo comprendere cosa fosse successo, cosa avrei potuto dire, o non dire. Fare, o non fare.

Mi sedetti sul parapetto della barca da pesca di Fynn, stando attenta a non infilarmi una scheggia di legno nelle dita.

Il colore aveva cominciato a staccarsi, lasciando comparire il legname sotto di esso. Anche la barca di Fynn aveva bisogno di un restauro, ormai.

«Non posso dirti se hai fatto bene o male, Sherry. Alla fine, puoi saperlo solo tu. Chiediti soltanto una cosa. Provi qualcosa di realmente profondo, per lui, o è solo un desiderio passeggero? Dopotutto, Ronan è un bell’uomo. Sarebbe difficile non notarlo.»

Come se non ci avessi già pensato anche io, in quei sette giorni di forzata lontananza.

Parlare con Cormac mi aveva chetata solo in parte. Saperlo lontano a perorare la nostra causa mi aveva messa in un altro tipo di agitazione, e non ero sicura fosse migliore della precedente.

Non andare al faro stava diventando molto simile al trovarsi in una rehab, ricoverata per una disintossicazione da droga. Un vero strazio.

Ma era innegabile quanto mi mancasse quel posto… quanto mi mancasse lui.

Chissà se era già tornato? Davvero non lo sapevo.

«Sai che tiravamo di boxe, ogni tanto?» gli dissi a sorpresa, sgomentandolo.

«Cosa?!»

Risi di fronte al suo sconcerto, così gli spiegai delle mie lezioni di boxe e di come, avendolo saputo, Ronan si fosse offerto di farmi migliorare.

E l’aveva fatto, maledetto lui. Ma ora comprendevo anche i motivi di una tale bravura.

Se era vissuto al tempo della guerra di Troia – per lo meno, al tempo in cui la ideò Omero – non faceva specie che la conoscesse come le sue tasche.

Aveva avuto millenni per imparare!

Quel pensiero mi fece rabbrividire per un istante.

Ronan aveva migliaia di anni e, da quel che mi aveva detto, ne sarebbe vissuti un altro sacco e più. Io, decisamente no.

Avrebbe avuto tutto il tempo di dimenticarmi, di cancellare quel baluginio dal suo corpo e…

Non volevo. Era sciocco, egoistico, ma non volevo.

Se lui reagiva così a me, allora…

«Sherry? Ti senti bene? Sei impallidita di colpo.»

La voce di Fynn mi strappò a quei pensieri e, tornando a guardarlo, mi morsi un labbro e asserii: «Temo di essermi innamorata di lui, anche se non volevo nessuna storia, nella mia vita. Non ora, per lo meno.»

«Allora, c’è ben poco che tu possa fare, a parte dargli il tempo di pensare a voi due e, eventualmente, cambiare idea. Dopotutto, dopo quello che ha passato con Mairie, non mi stupisce che ora sia spaventato all’idea di ritentare con un’altra donna. Forse, lo sarei anch’io, se perdessi Donna.»

«Credi che Donna ti vorrebbe da solo, a crogiolarti nel dolore, indipendentemente dalla presenza dei vostri figli?» protestai, accalorandomi.

Possibile che gli uomini pensassero soltanto a chiudersi in un cantone, e farsi piccoli piccoli?

Fynn mi sorrise comprensivo, annuendo.

«No, certo. Vorrebbe che tornassi ad aprire il mio cuore a qualcuno, o per lo meno a vivere la vita pienamente. Ma non tutti sono in grado di farlo, anche se ci provano.»

«E io, nel frattempo, cosa dovrei fare? Piangermi addosso? Tornare a Dublino? Cosa!?»

Il sorriso di Fynn si fece più ampio e, sedutosi che fu al mio fianco, mi batté una mano sulla spalla.

«Lo ami davvero molto, se ti accalori a questo modo.»

«Stavo bene, con lui, perché non gli importava quanto fossi strana, o quanto fosse insopportabile il mio carattere. Ma poi ci si è messo di mezzo questo stupido cuore e… e…»

Mi picchiai debolmente il petto, reclinando il viso, e proseguii nel mio sproloquio. «Mi faceva sentire bene dentro, completa, al sicuro, non più spezzata, non più soltanto una giornalista tutta lavoro e fama. Ero una donna e un’amica, con lui.»

«Non lo sei anche con me?» ironizzò allora Fynn, ammiccando.

«Sai cosa intendo…» replicai, dandogli un colpetto con la spalla.

Lui annuì, comprendendo bene la differenza sostanziale.

Per lui, ero sì un’amica e una donna, ma non c’erano connotati sessuali di mezzo. Avrei potuto essere un ragazzo, e il nostro rapporto non sarebbe cambiato di una virgola.

Con Ronan era diverso, e questo mi faceva soffrire.

Non rischiavo di perdere solo un potenziale amante, colui che sentivo nel cuore come la mia metà, ma anche un amico. Un amico caro che mi aveva aiutato laddove nessuno era riuscito.

Mi lasciai andare a un’imprecazione e, nel risollevarmi, ringraziai Fynn per avermi ascoltato.

Feci per allontanarmi dall’imbarcazione, ma l’arrivo di gran carriera di uno dei pescatori mi mise in allarme.

Si fermò sul molo, a pochi passi dalla Blue Sea di Fynn e, guardandomi spiacente, mormorò: «Sheridan. Tua madre ti cerca. Ti sta aspettando a casa.»

Sbiancai, ne fui certa e, se non fosse stato per Fynn, sarei stramazzata a terra come una pera cotta.

Mi avvolse la vita con un braccio, trattenendomi accanto a sé finché non ebbi ritrovato un centro nel mio equilibrio.

A quel punto, mi aiutò a scendere con un balzo dalla barca e, tenendomi per mano, si mise a correre assieme a me per raggiungere la casa dei miei.

Poteva voler dire tutto e dire niente, quell’accorato richiamo, ma la faccia di Nelson aveva parlato molto più della sua voce roca.

Allungai il passo, e Fynn con me.

Non persi un solo attimo di tempo, sperando che il nostro correre non fosse sprecato.

 
***
 
Ero chiusa da ore in quella che, un tempo, era stata la mia camera da letto.

Mamma ci aveva ricavato un piccolo studiolo per il cucito, lasciando comunque il mio letto in un angolo, ma in quel momento mi importava ben poco.

La notte era scesa da tempo e, ormai da ore, la casa era invasa da persone che venivano a porgere le loro condoglianze, più o meno sentite che fossero.

Quando io e Fynn eravamo arrivati a casa, stremati entrambi e con il volto ricoperto da un velo di sudore, mamma ci aveva condotti dentro senza dire una parola.

Era stato lui a chiamarmi, a cercarmi con un esile alito di speranza e, quando mi aveva visto entrare, mi aveva sorriso, allungando una mano verso di me.

Ero corsa da lui, crollando in ginocchio accanto al suo letto e, la mano stretta contro il mio volto riarso dalla corsa, lo avevo sgridato per avermi spaventata a quel modo.

Lui aveva provato a ridere, ma non ce l’aveva fatta.

Avevo guardato mia madre, ferma sulla porta assieme a Fynn, sorretta dal mio amico come, in precedenza, aveva fatto con me.

Sorrisi mesta al pensiero che, senza saperlo, avevamo assunto la stessa posa.

Papà aveva passato circa una ventina di minuti a carezzarmi il viso, i capelli, parlando di me come se fossimo tornati indietro nel tempo.

E forse era stato davvero così, nella sua mente.

Si era spento come una candela consumata poco alla volta finché, con un sospiro, la sua mano era scivolata via dal mio capo, andando a sfiorarmi il viso.

Mi ero sollevata di botto, tastando il suo collo, cercando il suo respiro, ma nulla.

Mamma si era avvicinata in silenzio e, con un ansito strozzato, mi aveva pregata di uscire un po’.

L’avevo accontentata e, passando dinanzi a Fynn – in lacrime – mi ero rifugiata nella mia vecchia stanza.

La prima cosa a finire contro il muro era stata una gruccia.

Da lì in poi, non avevo più tenuto conto di nulla, solo delle lacrime che scorrevano sul mio volto e dei tonfi contro il muro.

Mamma era venuta da me un paio di ore dopo, non aveva detto nulla sul caos che regnava nella stanza ma anzi, a un suo cenno, le avevo passato il cesto del ricamo.

Lei lo aveva tirato con ben poca energia contro il muro, ma era stato sufficiente.

Era stato il suo primo, vero atto di ribellione dopo il matrimonio con papà. E le era venuto benissimo.

Le spolette di cotone, il ditale, alcune pezzuole di stoffa, gli aghi… ogni cosa aveva finito con lo spargersi a terra.

L’avevo abbracciata, forse le avevo fatto male, ma lei non aveva protestato.

Non aveva restituito l’abbraccio, ma non me l’ero presa. Non potevo pretendere che il mondo cambiasse in un giorno, e soprattutto, che cambiasse in blocco.

Era già molto che lei avesse deciso di condividere quel momento di rabbia e dolore con me.

Se ne era andata in silenzio, così come era entrata e, da quel momento, ero rimasta sola nella stanza.

Fu Donna a venire a riprendermi, per portarmi di nuovo nel mondo dei mortali.

Non bussò. Si limitò a raggiungermi nel mezzo della stanza, mi aiutò a sollevarmi dal covo di macerie su cui ero accomodata e, calma, mi disse: «Vai da tua madre. Penso che ora possiate rimanere nella stessa stanza senza pestarvi i piedi. E’ pronta anche lei.»

«Il cestino l’ha tirato lei.»

Forse fu sciocco da dire, ma mi sembrò importante, in quel momento.

Donna mi sorrise, stringendo un braccio attorno alla mia vita, accompagnandomi fuori.

«Bene. Condividere è positivo.»

Discesi le scale assieme a lei e, quando scorsi i volti delle persone presenti, per un attimo non li riconobbi.

Dovevo essere più stordita di quanto pensassi.

Fu Donna a farmi capire perché.

Mi deterse il viso dalle lacrime, e tutto fu subito più chiaro.

La ringraziai con un sorriso e, quando finalmente misi piede nella stanza di papà, lo ritrovai dentro la bara, con i fiori attorno e le candele accese.

Mamma era stata operativa  come sempre, e aveva fatto tutto da sola, mentre io ero stata impegnata a dare di matto.

Molto maturo, da parte mia.

Mi mossi per avvicinarla, e lei mi sorrise appena.

«Scusa. Avrei dovuto aiutarti in qualcosa, chiamare almeno le pompe funebri, invece…»

Scosse il capo, replicando semplicemente: «Avresti messo dei pon-pon dentro la bara, oppure degli orsetti. Meglio
di no.»

Impiegai un attimo per capire che mi stava prendendo in giro. In modo fiacco, ma era un tentativo.

Le sorrisi mesta, avvolgendole le spalle con un braccio e, annuendo, aggiunsi: «Non hai pensato alle bandiere pirata, mamma.»

«Dio ce ne scampi e liberi…» mormorò allora lei, lanciandomi un’occhiata che sapeva di complicità.

La prima, in tutta la nostra vita.

Ammiccai, e la lasciai ai suoi amici, pensando ai miei.

Ringraziai tutti, uno dopo l’altro, finché la processione non ebbe termine verso le undici di sera.

Fynn e Donna ci domandarono più di una volta se volessimo compagnia, e i nonni imposero la loro presenza nonostante Eileen li avesse pregati di tornare a casa per riposare.

Dopotutto, papà era figlio loro.

Quando infine mi ritrovai sul divano di casa di mamma, le mani intrecciate dietro la nuca e il silenzio dell’abitazione a farmi compagnia, piansi.

Ronan non era venuto.

 
***
 
Il funerale si svolse due giorni dopo.

Il cielo era un caleidoscopio di nuvole, di tutte le forme, i colori e le dimensioni.

Esuli cirri si confondevano a più importanti cumulonembi, mentre rade nuvole lenticolari erano intervallate a sprazzi di cielo azzurro intenso.

La brezza onnipresente batteva il cimitero come una lieve carezza calda e piacevole.

Mentre il feretro avanzava sulla spianata, io mi guardai intorno, lo sguardo infastidito dalla veletta nera.

Mamma aveva insistito che io mi vestissi a modo, e questo aveva voluto dire un tailleur nero su camicia bianca… e una veletta appuntata ai capelli, raccolti in uno chignon.

Avevo indossato le mie scarpe più belle e, nel complesso, apparivo austera, elegante e fredda.

I miei non erano mai stati colori caldi, dalla pelle chiara, agli occhi azzurro ghiaccio, ai neri capelli.

Ma dentro ribollivo di sentimenti, sentimenti che però imbrigliai più che bene, quel giorno, ben sapendo quanto mamma non apprezzasse le piazzate.

Mi concessi una lacrima ribelle durante il rito funebre ma, quando vidi passare il feretro per raggiungere la sua ultima dimora, fui impassibile come mamma.

Una roccia.

Avrei avuto tutto il tempo del mondo, in privato, per piangerlo.

E se le bastava questo, per farla contenta, l’avrei fatto.

Ristetti al suo fianco tutto il tempo, mentre il parroco recitava l’estremo saluto, e la bara veniva calata nel terreno, attorniato da amici, parenti e … Ronan.

Lo vidi solo verso la fine della funzione, in piedi accanto a un’altra tomba, di nero vestito e con lo sguardo rivolto verso il basso.

Il solo vederlo mi fece perdere un battito, e anche per questo seppi di essere perduta.

Era inutile che ci girassi tanto intorno. Non l’avrei dimenticato neanche volendo.

Attesi che il pastore se ne andasse, per scusarmi un momento con mamma e raggiungerlo.

Lei annuì, restando a contemplare il tumulo di terra smossa, dove ora si trovava il marito.

Io mi incamminai su per la collina come meglio potei, a causa dei tacchi alti e, quando raggiunsi Ronan, mi bloccai.

La tomba accanto a lui era quella di Mairie.

«Ciao» dissi semplicemente, non arrischiandomi a proferire altro.

Lui levò il capo a guardarmi e, senza dire nulla, mi attirò a sé per un abbraccio consolatorio.

Cedetti subito.

Il calore del suo corpo, il suo profumo di mare, tutto quanto lui mi fece perdere immediatamente la battaglia.

Lasciai che mi accarezzasse la schiena, che mi tenesse avvinta a sé e, senza neppure accorgermene, restituii l’abbraccio.

«Mi sei mancata.»

Sorrisi contro la sua spalla, e annuii.

«Mi spiace davvero tantissimo. Sarei venuto anche l’altra sera, ma ero fuori per mare e… l’ho saputo troppo tardi.»

«Sei andato dai tuoi genitori?» mormorai in risposta, scostandomi da lui per guardarlo negli occhi con espressione confusa.

Mi guardò sorpreso per alcuni attimi, non sapendo bene da dove cominciare ma, alla fine, si volse a scrutare meditabondo la tomba della moglie.

Lo imitai, stando accanto a lui ma senza sfiorarlo.

«I miei genitori non furono d’accordo, quando sposai Mairie. E non soltanto per via della parvhein, la luminescenza.»

«Che intendi dire?» gli chiesi a quel punto, volendo sapere tutto, ogni suo segreto.

Parve imbarazzato, ma parlò.

«Mi sentivo legato a te già dalla prima volta che ti vidi. C’era qualcosa di speciale, in te e, pian piano, me ne resi sempre più conto.»

«E’… una sorta di incantesimo? Tipo la faccenda della pelle delle selkies?» esalai, cominciando a preoccuparmi.

Non desideravo un uomo costretto per magia a stare con me. Non lo volevo proprio.

Piuttosto, sarei scappata in capo al mondo per seminarlo.

Lui sorrise appena, scuotendo il capo.

«Le selkies hanno le loro regole, i fomoriani altre. Avrei sentito quello che sento per te anche senza essermi unito carnalmente a te.»

«E cioè?»

Dovevo saperlo, sentirglielo dire. Era troppo importante.

Ronan si volse a guardarmi, si piegò per un leggero bacio a fior di labbra e disse soltanto: «Vieni da me, quando vorrai. Parleremo di noi, di tutto. Non lesinerò più sulla verità. Su nessuna verità. Ma questo non mi sembra il luogo più adatto per parlare di noi.»

Annuii, pur volendo che lui parlasse, e subito.

Ma potevo capirlo.

«Com’è andata, con i tuoi?» gli chiesi a quel punto.

«Ti parlerò anche di questo.»

Non disse altro, e io non chiesi altro.

Per il momento, sarebbe bastato.

Mi lasciò dopo avermi baciato le guance e la fronte e, dopo aver disceso la collina, porse le sue condoglianze a mia madre e si avviò per uscire dal cimitero.

Tornai sui miei passi e, quando mi misi accanto a mamma, lei mi domandò: «State insieme?»

«Forse» dissi soltanto, lasciandomi andare a un sorriso buffo.

Mamma annuì, mi diede una pacca leggera sul braccio, e mormorò: «E’ un bell’uomo.»

Mi limitai ad imitarla, annuendo a mia volta.

Forse ne avremmo parlato. Forse no. Ma andava bene così.

 
***

Raggiunsi il faro in auto e, dopo averla parcheggiata sulla spianata dinanzi al cancello, uscii e scavalcai il cancelletto come facevo di solito.

Il solo pensiero di poterlo fare di nuovo, fece sorgere sul mio viso un sorriso compiaciuto.

Non sapevo bene cos’avrei trovato, ma il solo fatto che Ronan mi avesse invitato a tornare da lui, faceva ben sperare.

Certo, c’erano ancora un sacco di cose in sospeso, misteri che dovevano essere chiariti, ma il mio cuore era pronto.
Sperai che lo fosse anche il suo.

Non feci neppure in tempo a bussare.

Lui aprì la porta e mi attirò a sé, affondando il viso nel mio collo per inspirare il profumo della mia pelle.

Lo lasciai fare, assaporando il calore del suo corpo e il suo profumo di mare e sale.

Mi attirò dentro dopo un attimo e, con un sorriso incerto, sollevò la mia mano destra, tenendola palmo contro palmo alla sua.

La pelle di Ronan prese come fuoco, illuminandosi come se l’avessero accesa dall’interno e io mi morsi un labbro, ancora incerta su come prendere quell’evento.

«E’ ciò che sono, Sheridan. Puoi accettarlo?»

La sua domanda mi sfiorò le orecchie, supplichevole.

Non sapendo come rispondere, replicai con un’altra domanda. «Cosa significa, esattamente? La spiegazione dell’altra settimana non mi ha chiarito nulla.»

«Era un discorso che avrei dovuto affrontare a mente lucida, ma quando la luminescenza ti avvolge, non sei esattamente… presente. E questo spiega anche perché ti sono letteralmente saltato addosso, quella mattina.»

Sorrise impacciato, imbarazzato dai suoi stessi sentimenti, e io mi rilassai un poco.

Era consolante vederlo spaesato quanto me, confuso da ciò che aveva nella mente e nel cuore.

«Ma siediti, per favore. Mi sento un idiota a parlare con te, in piedi, quando ci sono un divano e delle poltrone per noi.»

Me le indicò come se fosse un gran cerimoniere di corte, e questo mi insospettì. Qualcosa, nelle sue movenze, era cambiato.

Mi accomodai sul divano, mentre lui scelse per sé la poltrona bianca.

Anche il suo modo di accomodarsi, mi fece venire in mente gli antichi film in costume e, curiosa, gli chiesi spiegazioni.

Lui, ridacchiando impacciato, ammise: «Quando passo un po’ di tempo in mare, e poi torno sulla terraferma, il mio corpo impiega qualche giorno per riprendere le movenze degli esseri umani. Sott’acqua ci muoviamo in modo più… fluido…»

Annuii, sorridendogli. Avevo idea che, se lo avessi visto al suo meglio, sarei svenuta per la troppa grazia.

Meglio non pensarci, in quel momento.

Ronan allora intrecciò le mani, tenendo gli avambracci poggiati sulle cosce robuste e, dopo aver preso un gran respiro, mormorò: «La luminescenza è il modo in cui il mio corpo riconosce la compagna adatta a lui. Tu saresti in grado di darmi molti figli, mantenere alta la sopravvivenza della mia stirpe. E’ un po’ crudo, come discorso, ma il senso primo della parvhein è questo. Non ha a che fare con i sentimenti, ma solo con la genetica, come direste voi.»

Deglutii, annuendo. Avevo voluto la verità, no? L’avevo sospettato fin dall’inizio, ma averne la conferma mi fece piacere. E mi fece anche sentire un po’… un oggetto.

Non esattamente come volevo sentirmi in quel momento.

«E tu, insomma, il tuo corpo lo ha capito quando ci siamo uniti carnalmente?»

Lui annuì, in imbarazzo.

«Tra la mia gente, è considerato un grande onore ma capisco anche che, per te, sia un po’ riduttivo essere vista solo come una prosecutrice della razza.»

«Abbastanza.»

Lo dissi cercando di rimanere calma, ma dentro di me fremetti.

Non avevo mai sopportato chi vedeva le donne come incubatrici viventi.

«Anche per questo ero irritato. Quello che sento qui…» e nel dirlo, si toccò il torace all’altezza del cuore. «… non ha niente a che fare con il mio desiderio di avere un figlio. Stare con te mi faceva, mi fa sentire… vivo. Temevo, mio malgrado, che questo volesse dire qualcosa di più profondo, di troppo simile all’amore, per questo mi sono ostinato a tenerti a distanza. A essere solo tuo amico. Non sapevo se ero in grado di amare ancora.»

«Ha un suo senso un po’ contorto» ammisi.

«Quando mi baciasti, però… capii non di avere più scelta. Amavo Mairie, l’ho amata di amore sincero… ma sapevo che non era altrettanto, per lei. Per lei era… diverso

«Lei sapeva di te, e immagino che avesse anche una sorta di idolatria nei tuoi confronti.»

Annuì, sciogliendo le mani per massaggiarsi le ginocchia. Era nervoso, come se quell’argomento lo mettesse in agitazione.

Era suo malgrado confortante sapere che, anche lui, teneva a chiarire la nostra situazione così strana.

«Ero ai Caraibi per un motivo preciso.»

Si toccò il fianco, dove sapevo trovarsi la ferita procuratagli dallo squalo, e aggrottai la fronte. Cosa voleva dire?

«Lo squalo che mi procurò questa ferita, era stato rinchiuso in un acquario di Miami, e io volevo sapere come stesse.»

Strabuzzai gli occhi, sempre più confusa.

«In che senso, scusa? Cioè, lui ti ha quasi aperto in due come una scatoletta di tonno, e tu… tu…»

Mi sorrise, ridacchiando per il mio modo di esprimermi, e annuì.

«E’ una creatura del mare, come me, e non meritava di essere messo in una gabbia di vetro. Fu uno scontro equo, il nostro, e non avrei mai voluto, per lui, un simile destino.»

Mi passai le mani tra i capelli, cercando di dare un senso alle sue parole.

L’uomo di cui ero innamorata, si scontrava in mare con gli squali. Okay, forse potevo sopportarlo.

Forse.

«Come sta tua madre?» mi chiese all’improvviso, facendomi trasalire.

«Oh… ah, le ho dato un blando sedativo per farla riposare ma, nel complesso, sembra aver sopportato la batosta piuttosto bene. E’ forte, su questo nessuno può dire nulla.»

«E tu?»

Allungò una mano verso di me, e io la strinsi per un attimo, attingendo alla sua forza per rispondere.

«Vado a momenti. Ci sono volte in cui la verità mi piomba addosso come un macigno, e allora fatico a respirare. Altre, in cui guardo mia madre e capisco che papà non c’è più, e allora cerco di farmene una ragione.»

Annuì, tornando a intrecciare le mani.

«Mairie fu la prima persona umana con cui feci conoscenza nel mondo terrestre. Fino a quel momento, ero venuto in superficie solo per brevi viaggi, ma non avevo mai parlato con nessuno, se non raramente, pur conoscendo tutte le vostre lingue.»

Strabuzzai gli occhi, ma preferii tacere perché proseguisse nella sua storia.

«Fu così bello parlare con lei, condividere i miei pensieri, saperla così gentile e disponibile a comprendermi, ad ascoltarmi. Da noi, le donne sono molto più chiuse di così, e … beh… diverse.»

Preferii non indagare su come fossero diverse. Era vitale giungere a un altro punto.

«Mi innamorai della sua spontaneità, del suo essere così diversa da tutto ciò che fin lì avevo conosciuto… ma non fatico a capire, adesso, che avevamo ben poco in comune. Non avrebbe mai funzionato, a lungo andare.»

Scrutò fuori dalla finestra, il cielo plumbeo e scuro, che prometteva pioggia, e mormorò: “La tempesta porta con sé le voci dei miei cari. E’ più facile ascoltarli quando le nubi corrono nel cielo come durante un temporale.”

Quelle parole mi fecero rammentare la volta in cui ero rimasta al faro, quando lui aveva quasi sfidato la tempesta a suon di pugni, e lui annuì.

“Mio padre. Tentava inutilmente di ricondurmi a più miti consigli. Come sempre.”

Sospirò, si passò una mano tra i capelli, e aggiunse: «Continua a ingiuriarmi, a sfidarmi a tornare, e anche la mia ultima visita non è stata differente dalle altre. Liti, liti e ancora liti. Non ha mai creduto nel mio sogno di una vita felice. E il sogno che accomunava me e Maire è finito come ben sai. Fu la prima persona a me cara che vidi morire di malattia, e non di vecchiaia, o su un campo di battaglia.»

Feci tanto d’occhi, a quella notizia.

Cosa intendeva dire?

«Ho visto la morte per un colpo di spada, per l’assalto di uno squalo o di un capodoglio. Ho visto i più anziani fomoriani morire al termine della loro lunghissima esistenza, ma mai niente che assomigli a ciò che successe a Mairie.»

«Pur con tutta la tecnologia di cui disponiamo, il parto è ancora molto pericoloso, per la donna» annuii, comprendendo quanto fosse stato difficile, per lui, accettare un simile evento.

«Volle a tutti i costi darmi un figlio, l’unico figlio che avrebbe mai potuto darmi, in quanto non Prescelta. Non riuscii a farle capire che non importava. Era ossessionata dall’idea di dare alla luce il mio erede. Pensava che così mio padre si sarebbe ravveduto.»

Lo disse con l’amaro nella voce, come se il solo pensarlo fosse stata follia.

E lui aveva perso moglie e figlio nel modo peggiore. Non faceva specie che fosse quasi morto di dolore.

«Ti sentisti in colpa, vero?»

Ronan annuì mesto, reclinando il capo. «Fui così sciocco da pensare che, se proprio ci teneva, sarebbe stato ingiusto impedirglielo. Non sarebbe stata la prima, e neppure l’ultima umana che si era unita a un fomoriano. Mio padre, però, mi mise in guardia, mi consigliò di non affezionarmi a una creatura mortale dall’aspettativa di vita così breve, ma io non gli diedi ascolto. Mairie mi faceva sentire così speciale… E lei credeva sul serio che tutto sarebbe andato bene. Non pensava affatto che sarebbe stato un problema arrivare in fondo alla gravidanza. Ma il suo cuore, … beh, sai come finì.»

Sorrisi mio malgrado di fronte al suo tono così contrito, così demoralizzato.

Lasciai il divano per avvicinarmi a lui e, dopo aver preso tra le mie le mani di Ronan, mormorai: «Fu felice, con te. Tutti mi hanno sempre detto questo, di voi due.»

«Fu per un tempo troppo breve… un effimero respiro nella vastità del tempo. E, a conti fatti, l’imprigionai in un rapporto fasullo.»

«Quando si vuole bene a una persona, Ronan, non è mai tempo sprecato quello che si passa con lei. Mairie voleva quel bambino, perciò non è colpa tua se la Natura ha avuto il sopravvento sugli eventi. Negarglielo, forse, l’avrebbe ugualmente uccisa.»

Lui mi sorrise, strinse tra le sue forti mani il mio viso e sussurrò: «Sei più forte di molte donne che conosco. E sono tutte guerriere.»

Sorrisi.

«Non hai dunque più paura di quello che senti?»

«No. E non mi interessa della luminescenza. Ti avrei amata anche senza» scosse il capo, continuando a carezzarmi il viso.

Sembrava voler rientrare in contatto con me, come se mi fossi allontanata da lui per un tempo lunghissimo.

Sapevo che non era così, ma anche per me sembrava essere passata un’eternità.

«Quindi, è stato un attacco di panico, il tuo?»

«Lo si può definire così. Ti volevo indipendentemente dalla luminescenza, ma avevo il terrore di commettere un errore, di farti soffrire… o peggio. Scusa se sono stato sgarbato. Ho detto cose che non pensavo. So che non avresti mai tradito il mio segreto ma, sul momento, la mia mente ha sragionato di brutto.»

Fu contrito al punto giusto e io, con un risolino, mi rialzai per sedermi sulle sue gambe.

«E da quando, noi due, ci andiamo leggeri con le parole?»

Rise sommessamente, annuendo al mio commento, e io lo baciai sulla fronte.

«Tuo padre cosa ha detto, quando gli hai parlato di me?»

A quell’accenno, aggrottò la fronte, e questo mi fece pensare che la discussione non fosse andata per il verso giusto.

«Credo che le parole giuste, riguardo a lui, siano ‘infuriato all’inverosimile’. Mi ha sbattuto fuori da palazzo come persona non gradita, e mia madre mi ha chiesto se fossi del tutto impazzito, a voler ritentare con un’umana. Poco importa che, per le nostre leggi, tu sia degna. Sei umana e questo li fa, per l’appunto, infuriare.»

Trovai tutto questo veramente ingiusto, e lo dissi.

Lui fu d’accordo con me.

«Non mi interessa il loro punto di vista, Sheridan. Desideravo essere onesto con loro, e spiegare perché non sarei mai più tornato a palazzo. Poco importa se loro non hanno accettato le mie parole.»

Lo disse con così tanta serenità che aggrottai immediatamente la fronte. C’era qualcos’altro, in quelle parole.

«Immagino che non sia la stessa cosa che è capitata a me. Fuggire da casa tua non ha la stessa valenza che fuggire da casa mia, vero?»

Mi carezzò gentilmente le gambe, la vita, le braccia, pensieroso, ma alla fine parlò, evitandomi così di esplodere in uno scoppio d’ira.

«Se rimango troppo tempo fuori dall’acqua, inizio a invecchiare. Il mio mondo è l’oceano, e solo lì posso godere di lunga vita. Vivere qui mi preclude questo vantaggio, ma non è un problema.»

Rabbrividii a quelle parole. E fui schiacciata dal peso che esse ebbero su di me.

«Rinunceresti a questo… per me

«Sono qui, no?» mi sorrise lui, scrollando le spalle con noncuranza.

Non ce la feci. Esplosi.

Mi alzai dalle sue gambe e, fissandolo irritata, ringhiai: «Ma sei completamente impazzito?!»

«Sheridan, ma cosa…» esalò, ora confuso e sperduto. Di certo, non si era aspettato una reazione simile.

Non parlai. Mi limitai a voltargli le spalle e, in lacrime, corsi fuori, lontano da lui.






____________________________
N.d.A.: Ovviamente, Sheridan non può prendere le cose per come le vengono offerte, deve puntare i piedi sempre e comunque... ma Ronan sa farsi valere, non temete.
Per chi non sapesse del particolare delle selkies, ve lo spiego brevemente. La leggenda vuole che le selkies, o donne foca, lascino le loro pelli animali sulle spiagge per trovare un mortale a cui legarsi. Se qualcuno le trova e le raccoglie, la selkie è obbligata a stare con chi ha trovato la sua pelle. Questo legame è indissolubile finché il mortale che ha trovato la pelle non se ne disfa. Il legame che si crea, quindi, è magico, forzoso, per questo Sheridan non lo vuole, e tiene a sottolinearlo.

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Capitolo 12
*** 12. ***


 
12.
 
 
 
 
 
Sarebbe morto.

A causa mia, Ronan sarebbe morto nel breve trascorrere di una vita umana.

Il solo pensiero mi stava già uccidendo lentamente, portandomi sempre più lontana dall’oggetto del mio desiderio.

Non avrei mai potuto accettare un simile peso sul cuore. Mai e poi mai.

Lui però mi afferrò al braccio quando raggiunsi il limitare della proprietà e, volgendomi con forza, esclamò: «Dove pensavi di andare?!»

«Lontano da un folle!» sbottai, tergendomi le lacrime dal viso per fissarlo con astio.

Non volevo un simile pegno, da parte sua.

Ronan si passò le mani tra i capelli, esasperato, e urlò: «Perché niente è semplice, con te?! Mairie era felicissima di avermi al suo fianco. Perché tu no?!»

«Beh, allora Mairie era una bella egoista, lasciatelo dire» replicai scocciata, stringendo le mani a pugno, la posa rigida e bellicosa.

«Cosa?!» Il suo volto si fece scuro, irritato.

«Ma insomma, Ronan, non capisci? Non vorrò mai che, per colpa mia, tu perda la tua longevità! Non accetto che l’uomo che amo si sacrifichi per me, che perda qualcosa, una qualsiasi cosa, per causa mia!»

«Sheridan, cerca di capire…»

Tentò di afferrarmi nuovamente, ma io lo scansai, inviperita.

«Accetterò di stare con te solo se mi prometti che tornerai regolarmente al tuo palazzo.»

«No.»

«Cosa?!» Fu il mio turno per farmi scura in volto, irritata non meno di lui.

«Sei una creatura selvaggia, Sheridan O’Connell, degna del nome che porti, ma questo non mi impedirà di fare ciò che ho deciso.»

Lo disse con così tanta supponenza che io non resistetti.

Gli scaricai in faccia un pugno degno di tale nome e lui, impreparato al mio assalto fisico, non poté evitarlo.

Barcollando all’indietro, l’aria sconcertata e sì, più che mai rabbiosa, mi fissò per un attimo senza sapere cosa fare, o dire.

Io prevenni qualsiasi sua mossa, dicendogli aspra: «Non accetterò mai che tu muoia per me.»

«Gli umani muoiono, Sheridan! Tuo padre è morto, ma non penso che tua madre si sia pentita di averlo sposato. Tu stessa mi hai detto di godere dei ricordi di Mairie, senza soffermarmi sull’esiguità del tempo passato assieme!»

Okay, mi ero data la zappa sui piedi da sola, lo ammetto.

«Beh… predico bene e razzolo male. E allora?!» ringhiai, sbattendo le braccia lungo i fianchi, ben decisa a non mettermi nuovamente a piangere.

Non ero una piagnona, io.

Fu a quel punto che Ronan si aprì in un sorriso e, avvicinandosi a me con le braccia levate al mio indirizzo, mormorò: «Tesoro, lo so che hai paura. La morte di tuo padre è troppo fresca, perché tu non pensi alla mortalità umana come a una medaglia dai due lati oscuri. Ma ti giuro che la nostra sarà una vita lunga e piena.»

«Non puoi saperlo!» sbottai, dando uno schiaffetto a una delle sue mani protese.

Lui ridacchiò, ritentando.

«E’ vero, non posso saperlo. Ma non pensi che anch’io abbia lo stesso timore, pensando a te? Eppure, sono disposto a correre di nuovo il rischio. Ti amo, Sheridan, e voglio passare il tempo che ci verrà concesso, con te. Non avrebbe senso vivere altri diecimila anni, e non averti al mio fianco.»

«Ronan…»

«Diecimila anni sono un’eternità, da passare soli e senza la donna che ami. Se non posso state con te, che senso ha? Te lo dissi già la volta scorsa. Perdere Mairie fu difficile. Perdere te, sarebbe l’annientamento definitivo.»

Capitolai.

Reclinai le spalle e lui mi avvolse tra le braccia, baciandomi il capo con un sorriso che aleggiava sulle labbra.

«Avevo anche pensato a un’alternativa, ma no… non avrebbe mai funzionato, per noi due. Per te.»

Quelle parole mi fecero irrigidire. Un’alternativa? E quale?

Mi scostai da lui, fissandolo dubbiosa e Ronan, nel sistemarmi una ciocca di capelli dietro un orecchio, mormorò: «Niamh scelse quella strada, per stare con il suo amato.»

«Mia nonna?» esalai, confusa dalle sue parole.

Lui allora sorrise, scuotendo il capo e, nell’accompagnarmi al muretto di cinta, si sedette e prese me sulle gambe.
«Parlo di Niamh mac Lir, una cugina di mio padre… dovresti conoscerla perché legata al mito di Oisin.»

Strabuzzai gli occhi e deglutii. Quando avrei smesso di sorprendermi delle sue parole? Forse mai, ma quando stai con una creatura del mito, penso sia normale.

«Lei donò parte del suo sangue a Oisin, per permettergli di abitare a Mag Mell. Si sposarono ed ebbero due figli, ma ben presto la mancanza della sua terra natia si fece sentire. Niamh, pur terrorizzata all’idea di lasciarlo andare, gli concesse di rivedere le sue terre, a patto che non scendesse dal suo destriero, impregnato della sua magia protettrice.»

Annuendo, mormorai contro la sua spalla: «Ricordo il mito. Lui scese dal cavallo e morì perché, se nelle terre di Niamh erano passati solo tre anni, qui ne erano passati trecento. Quindi…»

«Quindi, io potrei donarti parte del mio sangue per farti affrontare il viaggio fino a Mag Mell ma, da quel momento in poi, saresti confinata entro i confini della città, impossibilitata a muoverti perché priva di una pelle di delfino. Vivresti segregata in una gabbia dorata per l’eternità, non più in grado di rivedere i tuoi cari, la tua terra, il baluginare del sole al mattino, il chiarore della luna nelle notti più chiare e serene. E questo sarebbe ingiusto e crudele.»

«Ronan…»

Lui scosse il capo, mi baciò la fronte e aggiunse: «Sei una creatura solare, brillante, piena di vita, e non meriti di essere rinchiusa in uno scrigno solo per permettermi di vivere più a lungo. Moriresti di inedia, e non accetteresti mai le regole restrittive del mio mondo.»

Mi sorrise, avvolgendomi in un caldo abbraccio e terminò di dire: «Ti amo anche perché tu sei la gioia stessa, il calore della terra, la frenesia della vita… e Mag Mell non sarebbe il luogo adatto a te. Ti spegneresti come una candela, e io saprei di averti condannato per puro egoismo. Preferisco passare poche decine di anni con te, qui sulla terraferma, che migliaia di anni sott’acqua, chiusi in una gabbia magica di immane bellezza ma, a conti fatti, vuota e fredda.»

Non aveva compiuto la sua decisione per mero capriccio, ma valutando bene ogni punto e, soprattutto, pensando a me.

«Tu mi conosci…» mormorai commossa, stringendomi ancor più a lui.

Assentì, chiosando: «Sì, ti conosco meglio di chiunque altro.»

«Stando così le cose…penso che cederò, per stavolta» capitolai, scostandomi da lui per sorridergli e carezzare il punto in cui lo avevo colpito.

«Mi hai fatto un male cane, sai?»

«Scusa» borbottai.

«Mio fratello Stheta ti troverebbe interessante. A lui piacciono molto le donne volitive come te.»

«E a te?» sorrisi, lanciando un’occhiata al suo viso. Lo zigomo si stava gonfiando, e io mi sentii tremendamente in colpa. Quando avrei imparato a ragionare, prima di muovermi?

«Mi sembrava di avertelo fatto capire.»

«Anche se sono così diversa da Mairie?»

Ronan sospirò, scuotendo esasperato il capo, e replicò: «Mairie era Mairie, tu sei tu, e l’amore che sento per te è reale, non è il frutto di una magia o di un condizionamento. Quando te ne convincerai?»

«Sono testona.»

«Non mi dire! Non l’avevo notato!» rise lui, stringendomi forte a sé per poi baciarmi sul collo.

Risi con lui, dondolando assieme a lui sotto la luce chiara e diafana della luna.

Il vento era praticamente assente e il mare era calmo, sotto di noi. Le nostre risate erano gli unici rumori presenti, e io le trovai bellissime.

Mi lasciai riaccompagnare in casa, dove Ronan iniziò a baciarmi con una certa insistenza, ma senza darmi l’idea di voler fare l’amore con me.

Quando glielo chiesi, lui mi rispose con grande semplicità.

«Non è il momento adatto. Tu hai subito un grave lutto, e io desidero che tu abbia la mente sgombra e il sorriso sereno sul viso.»

«D’accordo.»

Lui sollevò le sopracciglia con divertimento, prendendomi in giro sul fatto che, finalmente, fossimo d’accordo su qualcosa.

Io, per puro dispetto, gli diedi un colpetto sulla spalla e Ronan, ridendo gaio, mi sollevò in braccio, girando più volte su se stesso.

Era bello vederlo così felice, così luminoso, così pieno di speranza.

Quando mi rimise a terra, lo strinsi forte e, dopo avergli dato un bacio, gli promisi che sarei tornata da lui la sera seguente.

Ronan annuì, lasciandomi andare a fatica, ma comprendendo quanto, in quel momento, fosse più importante restare accanto a mia madre.

Raggiunsi casa in breve tempo e, quando entrai, trovai la luce della cucina accesa.

Mi ci addentrai, trovando mamma seduta al tavolo, una tazza di tè in una mano e l’aria smarrita.

«Mamma…»

Sobbalzò, sentendo la mia voce e, correndo con la mano libera a sistemarsi i capelli in disordine, esalò: «Sheridan… non eri uscita?»

«Ma sono rientrata.»

Mi accomodai accanto a lei, e aggiunsi: «Non dormi?»

«Ci ho provato. Ma è chiaro che le medicine non fanno effetto, su di me.»

Sorrise mesta, e bevve un altro po’ del suo tè.

Poggiai delicatamente la fronte contro la sua spalla – sapevo di non doverla abbracciare, perché non avrebbe gradito – e mormorai: «Mi dispiace, mamma.»

«Riproverò a dormire, non temere.»

Scossi il capo, cercando di mettere a parole ciò che volevo dire e, a fatica, dissi: «No, mamma. Volevo dire… scusa se sono quella che sono.»

Eileen si volse lentamente a guardarmi, le rughe di ansietà e stanchezza ben visibili sul suo volto, così come la sua sorpresa.

Era ovvio quanto fosse scioccata.

Non le avevo mai detto una cosa del genere.

Abbozzò un sorriso e mormorò: «Sono in lutto, Sheridan, ma non sono così intontita da non capire cosa stai cercando di fare.»

«Come, scusa?» esalai, strabuzzando gli occhi.

«Non ho bisogno di contentini. E tu non sei veramente dispiaciuta.»

«Beh, però…»

Sorseggiò lentamente il suo tè, prima di aggiungere: «Tu sei un rovo dalle mille spine, Sheridan, mentre io volevo che fossi un candido giglio, morbido e privo di asperità.»

Storsi il naso. Quel paragone non mi piacque per nulla.

Io non ero un rovo! Cioè, insomma, sapevo di avere spine dappertutto, però…

«Non ho mai capito che anche un rovo può essere bello, alla sua maniera, e che può dare frutti che un candido giglio non mi darà mai.»

«Mamma…»

«So che non saremo mai… amiche come tu lo sei con nonna. Questo l’ho messo in conto tanti anni fa.» Prese un gran respiro e aggiunse: «Ma ho davvero apprezzato che tu sia tornata a casa, anche se non te l’ho fatto capire.»
Sorrisi mesta, scuotendo il capo.

«Non mi sembra di essermi impegnata tanto, in questi anni, per trovare un modo di parlarti da persona civile.»

«E’ vero.»

«Mamma, per favore…»

Mi sorrise appena e io, mordendomi un labbro, sussurrai: «Posso dirti una cosa?»

«Dimmi.»

Sorrisi imbarazzata e, per la prima volta nella mia vita, le feci una confessione da figlia a madre.

«Sono innamorata di Ronan.»

Quella frase la spiazzò, lasciandola nel dubbio per quasi un minuto.

Non avevo mai parlato di ragazzi neppure quando abitavo ancora lì. Figurarsi se si aspettava che gliene parlassi da adulta.

Eppure volevo farlo.

Come aveva detto lei, non avremmo mai avuto un rapporto come io avevo con nonna Niamh, ma era ingiusto pretenderlo, o volerlo.

Le persone non possono cambiare se stesse più di quel tanto. Si può tentare di modellare se stessi un po’, ma snaturare la propria natura sarebbe stato scorretto.

E io, nonostante tutto, non volevo che mamma lo facesse, neppure per far piacere a me.

«E’ … beh… una bella… notizia. Non pensavo fossi così presa da lui. E’ una cosa seria?»

«Direi di sì.»

Stavo sorridendo come una sciocca, ma non mi importò.

Parlammo per ore intere, finché l’alba non sopraggiunse e, quando fummo così esauste da non poter tenere gli occhi aperti, raggiungemmo finalmente i nostri letti.

L’indomani avremmo dovuto affrontare gli stessi problemi del giorno prima, ma ogni giorno sarebbe stato migliore del precedente.

Ormai ne ero sicura.

 
***
 
Aiutando nonna a sistemare un vaso di timo nella serra dietro casa, sorrisi di fronte alla sua aria sorniona.

Aver accennato a Ronan l’aveva incuriosita, ma non avevo ancora aggiunto nulla per puro dispetto.

Avevamo iniziato a lavorare in giardino – mentre nonno si occupava di accogliere i turisti di passaggio – e lei, buona buona, aveva aspettato paziente che io parlassi.

Era giunto il momento.

«Direi che è l’uomo giusto.»

«Non posso che essere d’accordo. L’ho sempre trovato un bravo ragazzo. Un po’ schivo e chiuso in se stesso, ma c’è da capirlo.»

Annuì con vigore e sorrise con maggiore enfasi.

Ridacchiai, e aggiunsi: «E sì, nonna, è anche bravo a letto. Sapevo che volevi andare a parare lì.»

Niamh rise deliziata, e mi diede un buffetto su un braccio.

«Tesoro, è importante anche questo.»

«Sei una scostumata» replicai, ghignando.

Tolsi alcune foglie secche a un pomodoro e, dopo aver controllato che non vi fossero danni alla serra, uscii con nonna per andarmi a sedere al tavolino da giardino.

L’aria fresca e frizzante portava con sé i profumi salmastri dell’oceano, e il sentore delle verdure che stavano cocendo lentamente sul fornello in cucina.

Un uccellino si andò a posare sul filo per stendere i panni, così lo osservai meditabonda.

Si pulì le piume col becco, veloce e preciso, dopodiché si involò verso il cielo, scomparendo alla mia vista.

«La sua famiglia non è d’accordo con la sua scelta.»

Non potevo certo dirle perché, ma volevo che sapesse almeno un po’ quello che stava succedendo.

Niamh scosse il capo, accigliata, e borbottò: «Visto che, neppure con Mairie, si sono mai presentati qui, devo dedurre che abbiano fatto la stessa cosa. Devono essere davvero delle persone inquadrate e piene di pregiudizi.»

O di un altro mondo, pensai tra me, trovando quel particolare ancora assurdo.

Mi ero informata su Mag Mell e, da quel poco che avevo capito, era l’equivalente marino del Regno dell’Eterna Giovinezza, di Tir N’a Nog.

Si sapeva molto poco di questo reame. Le leggende erano scarne, ma io volevo conoscere ancora molto sul posto da cui proveniva Ronan.

Basarmi solo su miti e leggende, poteva portarmi su strade diametralmente opposte alla verità.

Era difficile pensare che, sotto la distesa d’acqua che si trovava poco oltre la striscia di terra alle mie spalle, esistesse un mondo sconosciuto, in cui vivevano creature beneficiate di lunga vita.

Eppure, ne avevo avuto le prove sotto le mie mani.

Nessun essere umano avrebbe potuto brillare come Ronan.

«Non ti farai intimidire dal loro rifiuto, spero…»

Risi, scuotendo il capo nel tornare a prestare attenzione a mia nonna.

«Per me, la possono pensare come vogliono. L’importante, è quello che pensa Ronan. Se un domani vorranno conoscermi, io sarò ben lieta di incontrarli. Ma fino a quel momento…» mostrai i muscoli, e terminai di dire: «… devono solo provare a darmi fastidio.»

 
***

Raggiunsi il faro in auto, visto che era sera inoltrata.

Le luci erano ancora accese, segno che Ronan era sveglio.

In alto, sulla torre tondeggiante del faro, la luce brillava a rischiarare la notte.

Sorrisi, pensando a quanti bei momenti avevo passato qui e a quanti, sperai, ne avrei passati in futuro.

Io e mamma avevamo parlato per ore, quel pomeriggio, discorrendo su papà, sul mio lavoro a Dublino, sulle mie abitudini alimentari.

Mamma stentava ancora a credere che io non riuscissi a mettere su peso, e si era lagnata con me, pregandomi di non lesinare sul cibo solo per mantenere la linea.

Ne avevo riso, ma l’avevo lasciata dire.

Alla fine, le avevo chiesto di potermi assentare per un paio d’ore e lei, con un sorrisino, mi aveva detto di non tornare.

L’avevo bonariamente mandata al diavolo, dicendole che l’avrei svegliata nel cuore della notte, e solo per farle un dispetto.

Era piacevole poter discorrere con mamma come, da adolescente, non ero mai riuscita a fare.

Forse, eravamo cadute dal pero più tardi degli altri.

A ogni modo, era un buon traguardo, per due come noi.

Ora, dinanzi alla porta della casa di Ronan, quasi sperai che lui mi convincesse a restare per la notte.

Bussai, speranzosa, ma nulla avvenne.

Riprovai una seconda volta, ma non udii né il tonfo dei suoi piedi sulle scale, né la sua voce baritonale.

Qualcosa non andava.

Andai a controllare al faro, ma il silenzio mi abbracciò con il suo freddo saluto.

Tornando verso casa, non notai le aiuole rotte. I miei occhi erano distratti dall’ansia.

Aprii la porta d’ingresso, trovandola aperta.

Se c’era una cosa che mi aveva sempre divertito, di Ronan, era la sua fissazione per le porte chiuse a chiave.

Perché, quindi, la porta principale, non era chiusa?

Sgomentata da quel particolare, fissai un attimo dopo il caos che regnava nel salottino.

La poltrona che era stata di Mairie giaceva a terra assieme ad alcuni libri, al pannetto che avevo usato io… e al mio cappellino della Guinness.

Neppure ricordavo di averlo lasciato lì.

Chiamai Ronan un paio di volte, ma non rispose nessuno. Allora, salii in fretta in camera, e solo per trovarla nello stesso stato del salotto.

Tutto era in disordine e, nel mobile aperto di Ronan, intravidi i suoi abiti a terra, le scarpe sparse sul pavimento.

E quello che sembrava essere un tessuto traslucido, rimasto impigliato nell’angolo di un cassettone aperto malamente.

Lo afferrai, tastandolo con le dita.

Sembrava seta, ne aveva la consistenza, ma era troppo lucida e bella per esserla.

Nessuno avrebbe potuto tessere un indumento del genere. Nulla esisteva, in natura, di così seducente e splendido.

Possibile che…

Mi accigliai e, di corsa, discesi le scale, afferrai il fucile che Ronan teneva sopra il camino e, dopo aver rintracciato le cartucce nel capanno degli attrezzi, lo caricai.

Presi un gran respiro e, guardandomi intorno, finalmente notai le aiole rovinate… e la striscia di erba schiacciata sul prato.

Come se avessero trascinato qualcuno.

«Ronan!»

Iniziai a correre e, in barba alla mia paura, scavalcai il muretto e mi portai in prossimità delle scogliere.

Guardai dabbasso, imprecando contro me stessa per il tremore che avevo a braccia e gambe.

Un attimo dopo, sgomenta, fissai i sei uomini che stavano discendendo verso il mare in bonaccia… trascinando Ronan con loro!

Sparai un colpo in aria e, sorpresi, i rapitori si volsero verso di me.

«Lasciatelo andare!»

Non mi diedero ascolto, e ripresero a discendere l’erta sassosa calpestando roccia e sabbia con i loro anacronistici calzari di pelle.

Fomoriani senza alcun dubbio, visti gli abiti più simili a un film in costume, che alla vita di tutti i giorni.

«Dio, ti prego, aiutami…» mormorai tra me, cominciando a discendere a mia volta, nonostante la paura mi facesse ciondolare le ginocchia.

Scivolai un’infinità di volte, nel tentativo di mettere le ali ai piedi, e non contai i graffi che mi procurai alle mani.

Non mi importava di nulla.

Dovevo solo raggiungere Ronan. Al resto, avrei pensato più tardi.

Sparai un secondo colpo, stavolta più vicino ai loro piedi, e questo li fece bloccare.

La luce lunare mi permise di vederli abbastanza chiaramente, e questo mi fece sorgere parecchie domande, oltre a nessuna risposta.

Il più alto tra i rapitori somigliava così tanto a Ronan, che avrebbe potuto essere il suo gemello.

Lunghe e fluenti onde castano rossicce si abbinavano a un fisico possente, abbracciato da un largo mantello della stessa stoffa rilucente che avevo scorto in casa.

Ai piedi portava sandali allacciati al ginocchio, un gonnello cingeva le sue carni bronzee e perfette e, sul petto, era intrecciata una trama fitta di fibbie di pelle.

Aveva segni di guerra sul corpo, e li portava con orgoglio tutto maschile.

Così come la spada al suo fianco, inguainata in un fodero ricamato con materiale traslucido.

«Chi sei?» ringhiai furente, puntando l’arma contro di lui.

Dovette sembrargli un buon deterrente, perché non mosse un dito. Né i suoi sottoposti.

«Stheta mac Lir, è il mio nome. Maggiore dei figli di Tethra mac Lir, signore dei fomoriani e re di Mag Mell. Deponi l’arma, mortale, se non desideri assaggiare il metallo della mia lama.»

Parlò con tono tronfio, supponente, e questo mi fece imbestialire.

«Beh, se tu non vuoi assaggiare il mio, di metallo, farai bene a deporre Rohnyn a terra, oltre ad andartene con i tuoi scagnozzi. Lui rimane qui con me.»

Stheta aggrottò la fronte, forse impreparato a una femmina che non cadesse ai suoi piedi, o semplicemente si limitasse ad accettare i suoi ordini in quanto principe.

«Sei tu l’umana di cui si è invaghito mio fratello, dunque. Nessun altro, altrimenti, avrebbe conosciuto il suo nome.»

«Bene, presentazioni fatte. Mi stai già antipatico, quindi finiamola qui. Vattene, e non ti riempirò di piombo.»

Presi la mira, e uno dei suoi uomini ringhiò un’imprecazione.

Non compresi la lingua, ma le parolacce si riconoscono sempre.

Il fratello di Ronan, allora, sguainò la spada per infilzarla nella sabbia, di fianco a sé, dopodiché allargò le braccia per mostrare che non portava altre armi.

Irridendomi con lo sguardo, Stheta disse poi bonario: «Rohnyn dice che tu sei all’altezza delle donne del nostro popolo, ma ho i miei seri dubbi che un’umana possa reggere il confronto con le nostre guerriere. Vuoi tu dunque smentirmi coi fatti?»

Poggiai cautamente il fucile accanto ai miei piedi, senza mai distogliere lo sguardo da lui e, torva, ringhiai: «Prima di insultare noi umane, o il giudizio di tuo fratello, io ci andrei piano. Il tuo essere principe, o una creatura millenaria, non ti esula dallo sbagliare, così come dal commettere errori nel giudicare le persone.»

«Ronhyn ha sempre amato troppo la terraferma… e le sue creature. Questo lo ha condotto troppo lontano da casa, ed è giusto che si ravveda.»

Il suo tono sprezzante mi fece infuriare ancor di più.

«Creature? Intendi forse il suo amore per Mairie? O per me? Ci ritieni alla stregua di una cane o di un gatto? Non siamo dunque degne?! Cosa ne sai, tu, dell’amore che può provare una donna umana?! Il nostro cuore batte come il vostro, e prova emozioni come il vostro!» gli urlai contro, infuriata e ferita.

«Menzogne costruite ad arte per irretirlo! Mia madre è stata chiara, con me,  riguardo a ciò che Ronhyn ha detto su di te, e questo l’ha convinta del suo profondo stato di confusione. Ha bisogno della sua famiglia, per recuperare lucidità, mentre stare con te lo porterebbe solo sull’orlo del baratro e alla morte prematura» ironizzò lui, puntando su di me le stesse iridi color acquamarina del fratello. Peccato che quelle, su di me, non sortissero alcun effetto.

«Beh, se è questo che pensi, vieni a scoprire quanto ti sbagli, Stheta mac Lir dei fomoriani. Ti dimostrerò quanto è forte l’amore di una mortale, e quanto tua madre ti abbia mentito sul mio conto.»

Parve non aspettare altro e, simile a un fulmine, si avventò su di me.

Quello che forse non sapeva, però, era che io mi ero allenata con Ronan.

E che la sua tecnica era in tutto simile a quella del fratello.

Possibile che Ronan mi avesse preparata a un’eventualità simile? O, più semplicemente, volesse insegnarmi qualcosa del suo mondo?

Qualunque fosse stato il motivo che l’aveva spinto, schivai il suo colpo e lo respinsi con una spazzata, spiazzandolo.

Di certo, non si era aspettato che una donna magrolina come me, la sua esatta metà in peso e stazza, potesse gabbarlo.

Ghignai irriverente e proposi un mio attacco.

Ecco quello che succede a non tenersi informati.

Se suo fratello, vivendo tra gli umani, si era abituato al genere di boxe moderna, Stheta non ne conosceva le mosse, e rimase spiazzato di fronte al mio uppercut.

Lo centrai in pieno sul mento, allontanandomi un attimo dopo, esattamente come mi aveva insegnato Ronan.

Scorsi la collera in quegli occhi bellissimi ma, quando fui sul punto di riprendere il combattimento, due mani mi strinsero le braccia, bloccandomi a tradimento.

«La terrò bloccata io, mio signore!»

Stheta fissò il suo subalterno senza sapere bene cosa dire, dopodiché guardò me.

Non c’era più divertimento nei suoi occhi, ma confusione. E un briciolo di rispetto.

Io scalciai, mi dimenai ma, bloccata com’ero, potei fare ben poco.

Imprecai contro colui che mi aveva presa alle spalle e, quando vidi Stheta allontanarsi, gli urlai contro con tutto il livore che seppi trovare dentro di me.

«E’ così che combattete, voi fomoriani? Colpendo alle spalle i vostri avversari, come dei vili codardi!? Bel principino dei miei stivali, torna qui a combattere da uomo, se ne sei capace!»

Ricevetti un colpo al fianco che mi spezzò il fiato, facendomi crollare a terra .

Prima ancora di inveire, però, vidi Stheta colpire con un manrovescio l’uomo che mi aveva fatto del male.

«Non osare farlo mai più! L’onore in battaglia non è solo mera vanagloria, per noi!» gli ringhiò contro Stheta, entrando subito dopo in acqua con Ronan e gli altri.

Uno dopo l’altro, svanirono tra le onde leggere e, mentre io tentavo invano di rialzarmi – il colpo al fianco era stato troppo forte – il fratello di Ronan mi lanciò un ultimo sguardo.

A sorpresa, reclinò il capo in segno di rispetto poi, sotto i miei occhi sconvolti, si avvolse con il mantello e mutò forma, prendendo le sembianze di un delfino.

Lo osservai attonita prendere la via del mare e, quando trovai finalmente la forza per urlare, chiamai all’infinito Ronan, finché non mi rimase più voce per gridare.


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N.d.A.: Prima o poi, doveva comparire la sua famiglia, no? Comunque, non abbiate timore. Il tutto si risolverà velocemente. 

 

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Capitolo 13
*** 13. ***


 
13.
 
 
 
 
Ferma sulla spiaggia, le lacrime che solcavano il mio viso simili a lame infuocate, faticavo a respirare.

Ogni boccata d’aria sapeva di veleno e, per un momento, desiderai lasciarmi andare ai flutti, annegare, terminare in quel modo silente la mia vita.

Ronan non c’era più, me lo avevano strappato via nel modo più crudele, dandomi colpe che non avevo e senza concedermi la possibilità di parlare a mio favore.

Le onde lo avevano cancellato al mio sguardo, forse per sempre, e io non avevo il coraggio di alzarmi da quella spiaggia ghiaiosa.

Volevo indietro il mio Ronan, ma sapevo benissimo che non lo avrebbero mai liberato.

Non finché io fossi stata in vita, per lo meno.

Cinquanta, sessant’anni, e lui avrebbe rivisto la libertà.

Io, la morte.

Se non fossi morta prima di inedia o crepacuore.

«RONAN!» urlai per l’ennesima volta, la voce resa roca dal troppo gridare.

Un’onda lunga sfiorò le mie ginocchia, bagnandomi i jeans, raggelandomi.

Fissai stordita il fucile accanto a me, tastai il mio fianco dolorante e, a fatica, tornai ad alzarmi.

Afferrai l’arma che, in quel momento, avrei voluto usare con maggiore efficacia contro Stheta e, con passi lenti, risalii la scogliera.

Morire sarebbe stato facile, persino piacevole e, a conti fatti, mi avrebbe risparmiato un sacco di dolore.

Ma quanto ne avrei causato, io, con quel gesto egoista?

Mia madre aveva appena perso il marito, i miei nonni il loro unico figlio.

No, non potevo semplicemente gettarmi in mare perché mi avevano strappato il cuore dal petto.

Avrei sofferto in silenzio e, altrettanto in silenzio, me ne sarei andata.

Sarei tornata al mio lavoro, alla mia città, e avrei cercato di andare avanti. Non sapevo ancora come, ma l’avrei fatto.

Non avrei fatto soffrire la mia famiglia ora che, in qualche modo, ci eravamo riavvicinati.

Potevo farlo. Ero abbastanza forte e cocciuta per impormi una simile afflizione.

Ma, quando raggiunsi il faro, le lacrime non avevano smesso di correre sul mio viso affaticato.

Entrai in casa, ripulii per bene la confusione che, l’arrivo di Stheta e dei suoi uomini, aveva lasciato ogni dove.

Quando anche l’ultimo barlume di polvere fu scomparso, mi accucciai sulla poltrona di Ronan e afferrai il cellulare.

Cercai fiacca un numero in particolare nella mia rubrica, che mai avrei pensato di utilizzare così a breve, e chiamai.

A rispondermi fu una voce stanca, arrochita dal sonno e dal fastidio di essere destato alle due di notte.

«Chi diavolo è a quest’ora?!»

Sorrisi appena nel sentire la voce irritata  di Cormac MacHugh e, con un sospiro, mormorai: «Sono Sheridan. Lo hanno portato via, Cormac… non c’è più, e io ho bisogno di lei. Sono al faro. Venga qui, la prego.»

Udii un’imprecazione soffocata, del trambusto in sottofondo e, senza neppure un saluto, la comunicazione venne interrotta.

Chiusi gli occhi, lasciai scivolare a terra il cellulare e, stringendomi le ginocchia al petto, mi lasciai andare a un altro pianto silenzioso.

Ronan non c’era più.

 
***

Cormac mi trovò assopita sulla poltrona, i capelli in disordine e il viso inumidito dal pianto.

Mi scosse leggermente per destarmi e io, con un sobbalzo, sgranai gli occhi, lo fissai stordita prima di balzare in piedi e soffocarlo con il mio abbraccio.

Lui mi sorresse a stento, forse sorpreso dal mio gesto, forse imbarazzato da tanta intimità improvvisa.

Mi diede pacche leggere sulla schiena, mormorando frasi a caso per calmarmi.

Quei gesti, quella dolcezza impacciata mi ricordarono mio padre quando, verso i miei sette anni, mi ero ammalata di influenza.

Una delle rarissime volte in cui mi ero ritrovata a letto con la febbre.

Stesa a letto febbricitante, con una tosse convulsa interminabile, lui era rimasto lì a coccolarmi per ore, massaggiandomi la schiena dolorante.

Mi aveva parlato del suo lavoro – non era bravo a raccontare storie, ma mi era servito a calmarmi – e, quando infine mi ero addormentata, mi aveva stesa sul letto e coperta per bene.

Lasciai che quel ricordo fluisse in me, sperando che contribuisse a chetarmi e, con profondi respiri, cercai di dare un ritmo al mio cuore impazzito.

Riuscii in qualche modo a scostarmi da Cormac e, nel tergermi il viso col dorso di una mano, mormorai: «Non sapevo chi altri chiamare. Mi scusi.»

«Hai fatto bene, ragazza» mi rassicurò, dandomi una pacca sul braccio.

Si guardò intorno, confuso e sperduto, e domandò: «Lo hanno portato via davvero?»

«Ho rimesso in ordine ma…» mormorai, lasciandomi andare a un lungo, pesante sospiro. «…ma sì, lo ha portato via suo fratello, assieme a diversi soldati. Non sono riuscita a fermarli.»

Gli indicai il fucile steso sul divano, e Cormac sgranò leggermente gli occhi, forse sorpreso dalla piega che avevano preso gli eventi.

Raccontai ciò che era successo, intervallando le parole ai gesti e, per tutto il tempo, camminai su e giù, non rimasi mai ferma.

Ero certa che, se avessi arrestato i miei passi, mi sarei accucciata a terra e non avrei fatto altro che piangere.

Sentivo il cuore andare in pezzi, una scheggia sanguinante alla volta, e la mia volontà di resistere assottigliarsi sempre di più, come un elastico troppo teso.

Prima o poi, si sarebbe spezzato, lasciandomi cadere a terra, simile a una marionetta senza più fili a sostenerla.

Ma ora dovevamo risolvere la situazione, evitare che la curiosità della gente diventasse morbosa.

Non volevo che degli estranei ficcassero il naso, perciò dovevamo far apparire la scomparsa di Ronan il più credibile possibile.

Solo io e Cormac avremmo saputo la verità, e il segreto di Ronan sarebbe stato al sicuro.

Ma non sapevo come.

Quando terminai il mio racconto, Cormac annuì torvo, imprecò degnamente – avrei voluto farlo anch’io, ma non avevo abbastanza forze per essere creativa – e mi disse: «Dobbiamo coprirlo, ragazza. Se qualcuno comincia a chiedersi dove sia finito, interverrà la polizia, e allora saranno guai. Non so fino a che punto lui sia regolare, per il nostro mondo e, se indagano troppo a fondo, chissà a cosa potrebbero approdare.»

«Nessuno lo collegherebbe mai ai fomoriani, poco ma sicuro, ma sì… non voglio che vengano a ficcanasare qui dentro. Questa è casa sua» mormorai, assentendo con vigore. «Non voglio che il suo nome sia macchiato da sospetti. Di nessun genere.»

Mi guardai attorno, il profumo di mare e salsedine che ancora aleggiava nell’aria, memento di colui che aveva abitato entro quelle mura.

Sentii il petto torcersi, il cuore soffocare e, portandomi una mano tra i seni, ebbi la sensazione di non avere più aria nei polmoni.

Cormac mi guardò spiacente, poggiando una mano scarna e ruvida sulla mia guancia a mo’ di consolazione.

«Vai a casa, ragazza. Hai bisogno di sdraiarti, questo è certo. Penserò io al faro, stai tranquilla.»

«E… e la barca? Il suo lavoro al porto?»

I sorrise e, battendomi delicatamente sul viso quella mano solcata dagli anni e dalle intemperie, mormorò: «Mi prenderò cura come posso delle cose di Ronny… e della donna che ama.»

Non riuscii a frenarmi.

Lo abbracciai, affondando il viso contro la sua spalla, inspirai il suo profumo, che sapeva di mare, di libertà e di esperienza, e sussurrai roca: «So che lui ne sarebbe felice.»

Cormac annuì e, quando mi scostai da lui, fui certa di aver visto una lacrima, in quei profondi occhi scuri.

«Diremo che è dovuto partire… partire per raggiungere la famiglia.»

Storsi il naso, scuotendola testa. «La gemella. Diremo che la gemella ha dei gravi problemi di salute, e Ronan si è dovuto recare da lei. Non specificheremo dove, né diremo altro.»

Sospirai e, nel riprendere il mio cellulare da terra, aggiunsi: «Mi chiamerà lei, Cormac, e io fingerò sarà Ronan. Mi…»

Soffocai per un istante, schiacciata dal peso della bugia che avrei dovuto raccontare al mondo che ci circondava.

Avrei sopportato di mentire a tutti, di reggere una simile storia fino al giorno della mia partenza?

Ne avrei avuto la forza?

«Lo faremo insieme, Sheridan, e insieme proteggeremo il nostro ragazzo, per quanto possibile.»

Assentii, non avendo la forza di parlare e, con il cuore ormai ridotto in frantumi e sparso qua e là per il mio animo, me ne tornai a casa.

Raggiunsi Waterfront senza neppure rammentare il tragitto compiuto in auto e, quando mi chiusi nella mia stanza, sprofondai in un sonno privo di sogni.

Ero certa non ne avrei mai più avuti, se non incubi.

Per me non v’era più spazio per i sogni, per le speranze.

Essi erano spariti assieme a Ronan.

 
***

«La gemella?»

La voce di Niamh mi parve sorpresa, mentre mi serviva del te caldo e alcuni pasticcini alla crema.

Fuori, il tempo era plumbeo, un vento inclemente spirava da nord, portando con sé le avvisaglie di un temporale e il richiamo cupo dell’autunno.

Annuii meccanicamente, non avendo il coraggio di affrontare il suo sguardo. Ero più che certa che, se quella mattina l’avessi guardata negli occhi, Niamh avrebbe capito tutto.

«Lo hanno chiamato i suoi fratelli, ieri notte, mentre… mentre ero da lui. Ha avuto un grave incidente stradale e…»

Mi morsi il labbro inferiore, niente affatto in difficoltà nel mostrarmi prostrata e in ansia. Era così che mi sentivo realmente.

Nonna mi diede una pacca consolatoria sulla spalla, e io desiderai con tutta me stessa dirle ogni cosa.

Ma non potevo. Solo Ronan avrebbe potuto dirmi a chi rivelare il suo segreto.

E lui non c’era, né ci sarebbe più stato, nella mia vita.

Presi perciò fiato e aggiunsi mogia: «E’ in coma, e così i suoi fratelli gli hanno chiesto di tornare. Non per i loro genitori, ma per lei.»

«L’amore per lei deve essere sicuramente superiore all’astio che lo ha spinto lontano da casa. Questo dimostra quanto sia generoso e onesto» mi disse Niamh, forse nella speranza che le sue parole potessero confortarmi.

Conoscendo la verità, mi sembrò di bruciare.

Se solo nonna avesse saputo che proprio uno dei fratelli di Ronan lo aveva tradito, forse non sarebbe stata così propensa a passare sopra ai peccati della sua famiglia.

Eppure, come ogni volta che il mio pensiero si attardava sulle memorie che avevo di lui, le sue parole mi trapanarono il cervello.

Lui amava i suoi fratelli, la gemella. Le poche volte che ne aveva accennato, aveva sempre avuto parole di lode e affetto, per loro.

Possibile che Ronan avesse così mal riposto il suo affetto?

Non lo credevo possibile, ma Stheta e ciò che aveva fatto fugava ogni dubbio in me.

Ronan era stato tradito, e questo aveva portato alla distruzione di qualsiasi sogno condiviso con lui.

«Ti ha detto qualcos’altro, prima di partire?»

«No. Solo che mi chiamerà. Mi terrà informata» mormorai, levandomi dal tavolo della cucina.

Sorrisi per un attimo a Niamh e, nel defilare, asserii: «Vado a vedere come sta mamma, poi passo al faro.»

«D’accordo.»

Il suo assenso mi giunse quando già stavo chiudendo la porta.

Imponendomi di uscire in tutta fretta, salutai di corsa mio nonno, che stava sistemando la legna nella cassa vicino al camino, e scappai.

Fuggii via, non sentendomi più sicura in nessun luogo, ormai.

Quando raggiunsi il centro di Portmagee, parcheggiai a breve distanza dalla casa dei miei e, dopo aver bussato, entrai.

Lì, trovai mia madre impegnata a ripulire lo studio, un fazzoletto a trattenere i capelli e una salda determinazione negli occhi.

Mi salutò con un cenno, restando saldamente ancorata al suo spazzettone e io, per un attimo, desiderai essere come lei.

Solida, indistruttibile, incorruttibile al dolore.

Sapevo che le rimordeva le carni, ormai lo avevo compreso, ma era in grado di tenerlo a bada molto meglio di me.

La invidiai. Per la prima volta nella mia vita, la invidiai.

E lei dovette accorgersi di qualcosa perché, bloccando il suo ramazzare, mi domandò: «Cosa succede? Hai una faccia cadaverica.»

Non stentai a crederle. Mi ci sentivo sul serio, un cadavere.

Mi avvicinai a lei e, ripetendo a macchinetta ciò che avevo raccontato a nonna Niamh, riferii quanto avevo concordato con Cormac.

Mia madre parve sorpresa dalla notizia, così come dallo scoprire della presenza di Cormac in tutta questa faccenda.

Evidentemente, non tutti conoscevano l’amicizia che aveva legato i due uomini per tutto questo tempo.

«E’ davvero una sciagura. E, di sicuro, Ronan ha dimostrato più cuore della sua famiglia» mormorò Eileen, annuendo.

«Già. Mi chiamerà quando saprà qualcosa, ma non sa davvero quando potrà tornare. Non vuole lasciarla sola.»

Sapevo che stavo parlando di me stessa, ma ciò che avevo detto andava bene anche per la bugia che avevamo messo in piedi.

Nessuno si sarebbe insospettito, non vedendolo tornare e, quando anch’io me ne fossi andata per tornare a Dublino, le bugie sarebbero state più semplici.

A quel punto, avrei potuto inventarmi di tutto, e nessuno avrebbe letto sul mio viso quali menzogne stessi raccontando.

E, per tutto quel tempo, avrei tentato di imparare a vivere senza di lui.

 
***

Le mani poggiate sul muricciolo di cinta del faro, lasciai che il mio sguardo veleggiasse sull’orizzonte sgombro di nubi.

La tempesta era giunta e se n’era andata, portando con sé freddo e un nuovo giorno di sole.

Mi parve quasi si stesse burlando di me e del mio dolore.

Sapevo che non era vero, ma l’idea che mi feci fu quella.

Sperai di vedere qualcosa, qualsiasi cosa che mi dicesse che Ronan stava bene.

Che, nonostante tutto, mi rassicurasse sulle sue condizioni di salute, ma nulla venne.

Cormac, fermo al mio fianco, le mani nelle tasche dei jeans e l’aria ombrosa, mormorò: «Al porto, ho raccontato a tutti la nostra storia. C’è addirittura chi ha proposto una colletta da mandare alla famiglia. Ti rendi conto?»

Sorrisi divertita e, imitandone la posa, asserii: «Siamo gente di cuore, ecco tutto. Magari un po’ scartavetrati dalle intemperie, ma il nostro cuore è puro.»

«Se solo lo capissero anche quelli laggiù» brontolò Cormac, sbuffando sentitamente prima di tornarsene in casa.

La casa di Ronan. La casa che, da quel giorno in poi, avrebbe ospitato Cormac.

Cormac stava rinunciando alla sua vita per mare, alla sua adorata Betsy Ann, per tener fede al suo amore paterno per Ronan.

E io? Me ne sarei rimasta lì a languire e basta?

Da quando in qua mi comportavo in maniera così pavida?

Non sarei mai stata capace di nascondere le mie angosce come mia madre, ma se c’era una cosa in cui ero brava, era saltar fuori da guai.

Mi rimboccai le maniche e, seguendo Cormac in casa, gli esposi i miei piani prima di sogghignare e terminare di dire: «Per inciso, non mi interessa se è d’accordo o meno. Lo farò in ogni caso, che le piaccia o no.»

Cormac ristette impalato nel bel mezzo del salottino, incapace di rispondere alle mie parole.

Io allora lo sfidai con lo sguardo, puntando le mani sui fianchi e, a quel punto, lui esplose in una calda risata di gola.

«Solo Ronny poteva trovarsi una donna così dannatamente testarda!» mi rinfacciò, guardandomi con qualcosa di molto simile all’affetto paterno. «Fai quel che vuoi, ragazza. Non ti fermerò. Capisco perché vuoi farlo, perciò affoga pure in questo modo il tuo dolore.»

«Grazie» assentii, uscendo di gran carriera dal faro.

Nel giardino, dove ancora potevo scorgere i segni della lotta tra i fomoriani e Ronan, lanciai uno sguardo alla lunga lancia bianca allungata verso il cielo, e sorrisi.

Non mi sarebbe servito a cancellare Ronan dalla mente e dal cuore, ma almeno non sarei impazzita del tutto.

Dopo aver acceso il motore, partii per raggiungere il porto di Portmagee e, una volta parcheggiato nei pressi dei moli, mi diressi verso la barca di Cormac.

Betsy Ann era ancora appollaiata sulle assi trasversali, in attesa di essere ripulita a dovere dai suoi lunghi viaggi.

Ma, contrariamente ai giorni passati, da quel momento in poi mi sarei presa io cura di lei.

Di buona lena, mi misi al posto che era stato di Cormac, mi sistemai sullo sgabellino e, forte ti spatola e acqua, iniziati a scartavetrare lo scafo.

Anch’io, forse, sarei stata come quella barca.

Ma non oggi, e neppure nei giorni a venire. Ci sarebbe voluto qualcosa di più di olio di gomito e buona volontà, per farmi apprezzare la vita. O il semplice respirare.

 
***

Intenta com’ero a darci dentro di spatola, impiegai diversi minuti prima di rendermi conto di avere Fynn al fianco, tutto impegnato a scrutarmi curioso.

Sobbalzai, lasciando andare a terra la spatola, che rischiò di finire in acqua.

Accigliata, lo fissai burbera e borbottai: «Hai intenzione di farmi venire un collasso, Fynn? Che vuoi?!»

Imperturbabile di fronte al mio umor nero, afferrò uno dei bidoni del colore – che sarebbe servito per riverniciare Betsy Ann – e vi si accomodò sopra.

Il vento spirava leggero, ma era parecchio freddo, e quel break mi permise di rendermene conto.

Sollevai il colletto del mio maglione e, per precauzione, mi infilai un berretto in testa.

 Non avevo nessunissima intenzione di ammalarmi.

«Allora è vero. Non volevo credere a Bastian, quando mi ha detto che ti eri messa a lavorare alla barca di Cormac, invece è la pura verità.»

«Che c’è di strano, scusa? So lavorare il legno, cosa credi? E poi, sono stata per anni qui al molo, a guardare lavorare i pescatori alle loro barche. Mica farò un casino, sai?» brontolai irritata.

Sapevo che era ingiusto prendermela con Fynn, che era da veri bastardi, ma…

Una settimana non era bastata a farmi tornare la voglia di respirare, e inanellavo un passo dinanzi all’altro solo perché avevo quel progetto da portare a termine.

Ma sapevo bene che lo avrei terminato fin troppo alla svelta e che, in seguito, tornare a Dublino sarebbe stata l’unica risposta alla mia sofferenza.

Nonostante tutto, Fynn non se ne andò, rimase anche di fronte alla mia insofferenza manifesta e mi disse: «Ronan ti ha più chiamata? Ci sono novità?»

«Nessuna. Sua sorella è stabile. Tutto qui» mormorai, tornando a ripulire la chiglia della barca dagli ultimi residui. Entro un paio di giorni, avrei potuto cominciare a dipingere lo scafo.

«E tu mordi il freno, vero?»

«Che intendi, scusa?»

«Che vorresti essere assieme a lui ma che, per qualche motivo, non puoi o non vuoi essere là con Ronan.»

Mi bloccai nuovamente, puntando le mani sui fianchi e, irritata come una biscia, lo fissai malamente, sbottando: «Senti, Fynn, non ho bisogno che mi psicanalizzi. So benissimo anch’io che stare con Ronan sarebbe preferibile ma, se mi avesse voluta là, me l’avrebbe detto. Evidentemente, visti i precedenti screzi coi genitori, vuole evitare grane.»

«E questo basta a fermarti?» mi domandò a quel punto, spiazzandomi.

Cosa diavolo mi ero aspettata da lui? Che bevesse la nostra storia come se nulla fosse?

Se c’era una persona che mi conosceva a menadito, era proprio Fynn, e quello era il classico esempio di situazione in cui avrei imposto il mio pensiero.

La mia presenza.

Sospirai, lasciandomi andare sullo sgabello e, allungate le gambe, mormorai: «La situazione in casa sua è orribile, Fynn, e non volevo creare guai. So quando tirarmi indietro, anche se non ho mai dato grandi esempi di discernimento.»

«Però soffri, stando lontano da lui. Questo è evidente.»

Me lo disse pieno di comprensione, senza alcun rimprovero nella voce, e questo mi portò molto vicino al pianto.

Perché Fynn doveva essere così gentile con me?

Semplice.

Perché era mio amico da sempre e, volente o nolente, lui si sarebbe sempre preoccupato di me. In un modo o nell’altro.

Mentire a lui sarebbe stato ancor più difficile che con gli altri.

Ma dovevo. Non potevo fare altrimenti.

Allungai perciò una mano verso di lui, la poggiai su un suo ginocchio e, sforzandomi di sorridere, mormorai: «Mi spiace stargli lontano, è vero. Ma capisco quanto sia importante che lui stia accanto alla sorella, perciò sopporterò in silenzio la lontananza. Prima o poi, devo maturare anch’io.»

«Sai che puoi parlarmi di tutto, vero?»

«Lo so. E io ti sono grata del tuo appoggio ma, davvero, va tutto bene. E aiuto Cormac perché lui si sta prendendo cura del faro, mentre Ronan non c’è.»

Sapevo, lo vedevo dai suoi occhi, che Fynn credeva sì e no alla metà di quello che gli avevo appena detto, ma non riuscii a fare di meglio.

Mi rimisi al lavoro e, nulla potendo fare per farmi parlare ulteriormente, mi salutò e se ne andò.

Solo quando lo seppi lontano, mi concessi il lusso di piangere in silenzio.

«Mi dispiace, Fynn. Se potessi, te lo direi… se potessi, te ne parlerei e…» singhiozzai, parlando tra me e me, mordendomi il labbro per trattenere un urlo di pura frustrazione.

Levai lo sguardo verso il cielo, ammirandone gli sprazzi azzurri tra le folte nubi bianche e gonfie.

I gabbiani veleggiavano tristi, andandosi ad appollaiare sui tramezzi degli alberi delle barche, sulle impavesate, nei pressi dei banchi di pesce.

Tutto proseguiva senza mai fermarsi, ero solo io ad essere arenata lì, bloccata in quella vita che non lo era del tutto, terrorizzata all’idea di fare un solo passo in avanti.

Perché questo avrebbe voluto dire abbandonare anche l’ultimo barlume di speranza, l’unica bava di ragno che mi teneva ancorata lì.

La barca era una scusa. L’avevo saputo fin da quando l’avevo proposto a Cormac.

Per quanto lavorarci accanto mi fosse piaciuto, sapevo che era solo l’ultimo tentativo di restare vicina ai luoghi che avevano visto Ronan sulla terraferma.

Tornare a Dublino mi avrebbe aiutato a mentire meglio, non a vivere meglio.

Mi infuriai, dandoci dentro ancor più di prima con la spatola e, quando l’imbrunire giunse a carezzarmi le guance con il suo freddo bacio, finalmente mi scostai dallo scafo.

Era ripulito, pronto per essere levigato e riverniciato.

Ma, per quanto soddisfatta del mio lavoro, lanciai stizzita la spatola nel secchio vicino a me e imprecai.

«Non me ne intendo molto, di artigianato umano, ma mi sembra un buon lavoro.»

Una voce femminile irruppe nei miei pensieri, una voce che aveva un timbro a me familiare  ma, al tempo stesso, del tutto estraneo.

Una voce che mi portò a volgere lo sguardo, fissandolo in due iridi color delle ametiste, circondato da neri e folti capelli stretti in una trina di trecce.

Era alta, la donna che sostava a pochi metri da me, avvolta da un parka color oliva. I lunghi capelli neri come ali di corvo danzavano sulle sue spalle, mentre profondi occhi di un insolito color ametista mi fissarono dubbiosi.

Non la riconobbi, ma aggrottai la fronte, quando la sentii parlare nuovamente.

«Rohnyn ti ha descritta molto bene… non avrei potuto sbagliarmi neppure volendo. Mi ci è voluto un po’, ma alla fine ti ho trovata.»

Quel nome mise furia ai miei pugni, e velocità ai miei piedi.

Senza lasciarmi il tempo di ragionare, di chetarmi, il mio corpo prese il sopravvento e si scagliò contro la nuova arrivata, scaricandole addosso un pugno.

Lei lo evitò con destrezza, dimostrando di avere competenza e agilità di movimenti e, con altrettanta rapidità, mi bloccò a un polso, mormorando concitata: «Non sono qui per infierire o irritarti, Sheridan O’Connell. Giungo con un messaggio e una speranza.»

Mi scostai, recuperando il braccio con uno strattone e, fissando furente la donna innanzi a me, sibilai: «Ciò che è giunto dal mare, tolto Ronan, mi ha portato solo dolore, quindi scusami se sono un po’ restia a crederti.»

La donna allora mi mostrò le sue mani, che recavano diverse escoriazioni e, sorridendo appena, mi disse: «Me le sono procurate per poter parlare con Rohnyn… il mio gemello.»

Quella notizia mi sorprese non poco – non si assomigliavano per nulla – e, vagamente più controllata, le domandai: «Hai due minuti di tempo, prima che afferri il primo oggetto contundente che mi capita per pestartelo in testa. Parla, dunque, e sii veloce.»

La donna accennò un sorrisino divertito e sì, vagamente sorpreso, ma disse: «Permetti che io mi presenti, Sheridan O’Connell. Io sono Lithar mac Lir, ultimogenita della casata dei mac Lir e sorella gemella di Rohnyn. Vorrei porgerti innanzitutto le scuse mie e dei miei fratelli, e pregarti di accettare nel tuo cuore la speranza che ti porto come pegno per i nostri errori.»

«Parli troppo e non dici nulla. Sei logorroica, ragazzina. Vieni al dunque, perché hai già perso un minuto buono in scemenze» brontolai, pestando un piede a terra per la rabbia malcelata.

Era bella, educata, addestrata sicuramente alla guerra e, maledizione, il suo candido sorriso mi piaceva, ma non potevo dimenticarmi di Stheta!

«Chiedo venia, Sheridan. Sono abituata a dialogare in questo modo, con i miei pari, ma cercherò di essere breve per venire incontro al tuo giusto desiderio di conoscere la verità.»

Sbuffai, e Lithar se ne uscì con un sorrisino tutto fossette, pieno di una contrizione genuina.

«Stheta si profonde in sentite quanto dolenti scuse, con te, ma è stato ingannato e plagiato dalla nostra stessa madre. E’ stato…»

Cercò le parole, lappandosi le labbra come se le sfuggisse il gergo più adatto da utilizzare in quel caso, e questo mise fine al mio livore.

Non c’era desiderio di ingannarmi, ma di darmi veramente una spiegazione.

Per venirle incontro, le dissi cauta: «Ronan mi disse che potete, in qualche modo, rilasciare all’esterno le vostre sensazioni, le vostre emozioni. Qualcosa di simile a una sorta di telepatia. O un’empatia molto potente.»

Lithar annuì, sorridendo di fronte alla mia spiegazione.

«Sono lieta che Rohnyn te ne abbia parlato, perché questo renderà più semplice ed esaustiva la mia spiegazione. Nostra madre Muath è in grado di usare questo dono in modo molto marcato, imponendo il suo volere, i suoi desideri, le sue sensazioni. Se non si è barricati a dovere, lei può plagiare anche l’anima più candida e la persona più forte.»

«Vuoi farmi credere che Stheta è…» iniziai col dire, aggrottando la fronte dinanzi a ciò che ipotizzai stesse per dirmi.

Il sorriso di Lithar sparì, sostituito da una smorfia addolorata, irritata.

«Stheta era così preoccupato per le sorti di nostro fratello Rohnyn, che aveva appena lasciato in odio il palazzo reale per tornare da te, da non badare alle sue barriere psichiche. Muath lo colse in fallo, approfittando di lui, mentre io e mio fratello Krilash eravamo fuori da Mag Mell, di ronda lungo le correnti nord-atlantiche.»

Preferii non dilungarmi in inutili domande per capire cosa volesse intendere, con quella spiegazione, e le domandai soltanto: «Stheta non voleva… non voleva portarmelo via?»

«Tutt’altro. Si recò da nostra madre per perorare la vostra causa, ma lo fece senza preoccuparsi di proteggere se stesso dalle mire di Muath. Mi rincresce dire che, in questo, mio fratello maggiore è stato molto incosciente. Non si può mai abbassare la guardia, con nostra madre.»

Sospirò, distogliendo lo sguardo da me per lanciare una lunga occhiata al mare scuro.

Le prime stelle comparvero nel cielo, laddove era possibile vederle e Lithar, con un mormorio contrito, asserì: «Stheta si è dato dello sciocco per giorni, ha persino litigato furiosamente con nostra madre, ma nulla è servito. Sia Muath che Tethra sono rimasti arroccati nelle loro posizioni. Sono sicura che, se lo vedessi ora, non avresti animo di cercare giusta vendetta su di lui. E’ distrutto dal dolore e dalla rabbia

Sospirò nel dirlo, e strinse forte i pugni, come se il diabolico piano ordito a spese di Stheta fosse troppo grande da sopportare.

«Purtroppo, ognuno di noi ha commesso, nel corso dei millenni, simili leggerezze, perciò sappiamo bene quanto Muath sia infida e meschina, anche con noi che siamo i suoi figli» aggiunse, fissandomi spiacente.

La descrizione di quella Muath mi sembrò sempre più vicina a quella di un diavolo incarnato, e la cosa non mi piacque per nulla.

«Le tue mani, dunque?»

Lithar tornò a guardare le sue mani lunghe e affusolate, asserendo: «Rohnyn si trova confinato nelle segrete del palazzo, a tutt’oggi, e a noi fratelli ne viene vietato l’accesso. Nessuno di noi può vederlo, perciò abbiamo aggirato gli ordini e siamo sgattaiolati dentro attraverso le condutture sotterranee. Purtroppo, sono piuttosto strette e anguste, e le mie mani ne hanno sofferto. Ma patirei altre mille volte un simile supplizio, per lui.»

Mi si avvicinò e, con fare goffo, mi afferrò un braccio, stringendolo con forza all’altezza del polso.

«Non avremmo mai voluto abbandonarlo, in questi anni, ma fu lui a spingerci a farlo, a stargli lontano. In principio, per tenere a freno le ire dei nostri genitori, che mal sopportarono la sua scelta di sposare Mairie. In seguito, perché non riusciva a sopportare neppure la nostra vista.»

Annuendo, mormorai mestamente: «Sarebbe crollato di fronte al vostro sincero affetto, e questo non l’avrebbe mai accettato.»

Lithar mi lasciò andare, annuendo orgogliosa. «Nessun fomoriano si lascia andare alle proprie emozioni, siano esse positive o negative. Ne soffrirebbe la sua capacità logica e tattica in battaglia, se dovesse lasciarsi prendere dai sentimenti.»

«E così, ha voluto affrontare un dolore così cocente, e che mai aveva provato prima, senza il vostro conforto. Tipico di lui» mormorai, lasciandomi andare a un sorriso ironico e triste.

Anche Lithar si unì a me, annuendo sentitamente. «Ci separano millenni e millenni di usanze diverse, e modi di comportarci che, a te, potranno apparire assurdi e crudeli ma credimi quando ti dico che, io e i miei fratelli, amiamo Rohnyn.»

Forse fu difficile per lei ammetterlo, visto quanto mi aveva appena detto, perciò le credetti.

Annuii al suo indirizzo e Lithar, sospirando leggermente per il sollievo, aggiunse: «Peroreremo la vostra causa ancora e ancora e, se null’altro rimarrà oltre al tradimento, noi tradiremo. E te lo riporteremo. Non disperare, Sheridan O’Connell, e credi a questo. Lui ti ama, e noi siamo dalla vostra parte. Ripareremo ai torti subiti da entrambi.»

«Dubito che, di fronte a un simile concentrato di potere e astuzia, avrei potuto fare diversamente da Stheta. Se ho capito bene come funziona la cosa, sarei rimasta vittima anch’io del potere di vostra madre, visto che parto sempre per la tangente senza mai pensare alle conseguenze.»

Lithar aggrottò un attimo la fronte, forse tentando di comprendere il mio gergo non proprio raffinato ma, alla fine, sorrise e assentì.

«Nostra madre è forte, sì, ma lo siamo anche noi, e te lo dimostreremo. Ti chiedo solo di pazientare e sperare. Non tutto è perduto.»

Ciò detto, si avvicinò al bordo del molo e, a sorpresa, si lasciò cadere in acqua, sorprendendomi non poco.

La raggiunsi subito e, inginocchiatami a terra, le allungai una mano per aiutarla a risalire.

Lei scosse il capo, replicando: «Devo tornare, prima che scoprano dove sono stata. Ma volevo assolutamente conoscerti, oltre a portarti speranza.»

Con un ultimo sorriso, si immerse totalmente, riemergendo con le sembianze di un enorme delfino dalla pelle perlacea e traslucida.

Lo stesso colore del delfino che avevo visto quella notte, quando Ronan era stato portato via.

Quindi, erano tutti così, i fomoriani, nella loro seconda forma?

Ne accarezzai il dorso, prima che lei si inabissasse e, con quella sensazione di sericea perfezione sulle dita, la ammirai allontanarsi dal porto.

Speranza, aveva detto.

Beh, se non ero impazzita dopo tutto quello che era successo, potevo anche dare speranza a quella principessa che sapeva trasformarsi in un delfino.






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N.d.A.: spero di aver chiarito cosa sia successo a Stheta, e cosa lo abbia spinto a tradire il fratello. Il suo non è stato un gesto volontario, ma una vera e propria coercizione, e questo peso se lo porterà appresso per un bel po', credetemi, e lo spingerà a compiere un certo tipo di azioni, nella seconda storia - a lui dedicata -, proprio per ripagare questo debito col fratello.

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Capitolo 14
*** 14. ***


14.
 
 
 
 
 
Un pomeriggio di inizio dicembre, esattamente uguale agli altri che lo avevano preceduto, ero seduta nel salotto di mia madre.

Stavo rammendando una maglietta quando, all’improvviso, lei comparve con una delle mie valige in mano e l’aria risoluta stampata in viso.

Sgranai gli occhi, sbalordita da quell’entrata in scena così plateale, e poggiai la maglia sulle ginocchia.

«Che c’è? Vuoi sbattermi fuori?»

«Precisamente.»

«Come, scusa?» gracchiai, credendo di non aver sentito bene.

«Non ti voglio qui dentro a ciondolare, quando potresti essere benissimo a Dublino a lavorare. Non ho cresciuto una persona svogliata, ma una che si impegna, che vince

Il suo tono fu così autoritario che, per un momento, temetti di essere tornata al punto di partenza, con lei.

Ma quando incrociai i suoi occhi volitivi e sì, la sua speranza che uscissi dal buco nero in cui ero caduta dalla sparizione di Ronan, compresi.

Da quando Lithar era scomparsa nelle acque scure del porto, erano passati quasi due mesi, due mesi in cui non erano più giunte notizie, speranze, voci di alcun genere.

Per quanto mi fossi ripromessa di non cedere allo sconforto, ci ero comunque finita dentro e ora arrancavo, mi muovevo a stento come nella melassa.

E credere in una seppur flebile speranza, era sempre più difficile.

Vedere mia madre così determinata a scacciare i fantasmi di tale torpore, quindi, mi sorprese.

Stava cercando, a modo suo, di darmi una mano. Sapeva che il lavoro era un’àncora di salvezza per molti, e sperava che fosse così anche per me.

Mi sollevai in piedi, sgranchendomi le gambe e le braccia e, volutamente ironica, chiosai: «Di certo, non potrai dirmi che sono scappata dalla finestra, stavolta.»

«E’ sprangata» sottolineò lei, accennando un sorriso.

A quel punto sospirai e, nell’avvicinarmi a lei, le sfiorai il viso con un dito.

Non le piacevano ancora, gli abbracci, ma ogni tanto l’accarezzavo in viso.

Apprezzò il mio sforzo, e si lasciò toccare.

«Sei sicura che starai bene, qui da sola? La casa è grande, e c’è tanto da fare.»

«Farò come i nonni, e affitterò una stanza o due» mi spiegò lei, scrollando le spalle.

La fissai scettica, e non potei esimermi dal dire: «Dovrai cambiare registro, allora. Alla gente bisogna sorridere, ogni tanto.»

Mi fissò burbera, ma disse perentoria: «So come si fa.»

«Lo spero per i tuoi poveri villeggianti» ironizzai, mettendo calore nel mio dire.

«Sciocchina» disse allora lei, dandomi una pacca sul sedere prima di mollare accanto ai miei piedi la valigia vuota.

Strabuzzai gli occhi, indecisa se pregare Dio e ringraziarlo del miracolo, oppure starmene semplicemente zitta e godermi il momento.

Scelsi la seconda e, irriverente, dissi soltanto: «Quanto tempo ho?»

«Due ore. Quando Ronan tornerà, gli dirò che sei tornata al lavoro, se già non glielo dirai tu per telefono, e lui ti raggiungerà là. Ma non voglio vederti un solo giorno di più ad aspettare indolente che  torni. Lui si sta impegnando a sostenere la sorella, tu impegnati nel tuo lavoro, visto che lo sai fare bene.»

Risi debolmente, non sentendomela di metterci dello spirito ma, di buona lena, andai a casa dei nonni per fare le valige.

Sapevo che non scherzava, in quel caso, e io non volevo mettermi a discutere con lei.

Da quando Ronan era sparito, forse non ero più nemmeno in grado di farlo.

 
***

Spazzolare la lapide di mio padre era un compito che mi ero affidata da sola.

Quando andavo al cimitero con mamma, volevo farlo sempre io e, dopo le prime discussioni, lei aveva ceduto il passo.

Cosa più unica che rara.

Sotto la luce diafana del crepuscolo, con le nubi rigonfie sopra la mia testa, mi accucciai e sistemai meglio i fiori recisi nel vaso.

Il vento li aveva smossi.

Il primo fiocco di neve iniziò a cadere con la prima lacrima.

A cui ne seguì una seconda, e una terza.

Smisi di contarle quando la vista mi si annebbiò e, nel tergermi il viso con una mano inguantata, mormorai: «La mamma è forte, sai? Stoica fin nel midollo. Piange ogni tanto, la notte, ma va avanti.»

Sospirai e, calandomi ben bene la cuffia sul capo – il vento era gelido – proseguii nel mio monologo.

«Io non riesco a essere così. E, scusami se te lo dico, non piango solo per te. Avrei voluto parlarti di Ronan, prima di… sì, insomma, prima del tuo viaggio di sola andata…» sorrisi nel dirlo, e carezzai la foto sulla lapide. «… ma non ce n’è stato il tempo. Ero arrabbiata col mondo, con te e la mamma. Lo sono sempre stata. Arrabbiata. E non ho mai capito perché.»

Crollai a sedere a terra.

Reclinai il viso in avanti, in mezzo alle ginocchia ripiegate, e borbottai: «Ora conosco i motivi della mia rabbia, ma saperli non mi aiuta a star meglio.»

La sirena del porto avvisò l’arrivo di un fronte temporalesco violento e, nel risollevarmi a fatica da terra, mormorai: «Volevo essere diversa, unica, perché voi foste orgogliosi di me e, restando qui, non sarei mai riuscita a dimostrarvi quanto valevo. Ma ho combinato un gran casino nel mezzo, e alla fine vi ho solo delusi.»

«Sheridan…»

Sobbalzai, sorpresa che vi fosse qualcun altro, a parte me, nel cimitero.

Mi volsi, ancora ansante, e vidi Cormac in piedi a pochi passi da me, un mazzo di fiori in mano e l’aria stanca e mogia non meno della mia.

Gli sorrisi mesta e, nel vederlo poggiare i fiori accanto alla lapide di mio padre, lo ringraziai.

Restammo così per diversi minuti, in silenziosa contemplazione della tomba, prima di allontanarci al secondo squillo di una sirena nel porto.

«Non ci sono ancora notizie, vero?» mi domandò Cormac, quando ci chiudemmo alle spalle il cancello di ferro del campo santo.

Gli avevo raccontato del mio incontro con Lithar, delle sue parole cariche di fiducia e speranza, ma ormai non sapevo più dove trovare la forza per crederle ancora.

Annuii, non riuscendo a mettere a parole il  mio dolore e lui, nel battermi una mano sulla spalla, borbottò: «Se sua sorella si è spinta fino in superficie per tranquillizzarti, allora vuol dire che lei credeva fermamente in ciò che ti ha detto. Continua ad avere fede.»

«E’ difficile, soprattutto dopo due mesi senza notizie di nessuno di loro. Non sono così forte come pensavo di essere» singhiozzai, bloccando i miei passi sul marciapiede.

La neve, ora più copiosa, iniziò a viaggiare veloce, piegata dal vento stesso in sferzanti raffiche gelide.

Cormac mi accompagnò silenzioso alla mia auto e, dopo essere salito al mio fianco, attese che io proseguissi.

«Cos’ho di sbagliato?! La parvhein si è manifestata, per tutti i demoni dell’Inferno! Che altro vogliono i suoi genitori?!»

«Se Ronan ha preferito rimanere qui anche dopo la morte di Mairie, ho idea che a casa sua non si sia mai trovato bene.»

«Quel che mi fa stare peggio è che, nonostante tutto, io credo che comunque lui voglia ancora bene a entrambi i genitori… anche se non capisco come» brontolai, incredula.

«Vorrei solo che gli fosse concesso di decidere liberamente» aggiunsi, poggiando il capo sul volante per poi guardare Cormac.

Lui mi sorrise, mi diede un buffetto sulla guancia e, con un tono di voce lugubre, mi disse: «Anche Ronan usò queste stesse parole, parlando di te.»

Saperlo non mi rese felice, ma mi diede la riprova, una volta di più, di quanto avessi perso con la sua scomparsa.

«Sarà meglio se ora vai a casa, ragazza. Da quel che vedo in cielo, stanotte nevicherà di brutto, e non penso tu voglia rimanere bloccata qui.»

Scese dall’auto, salutandomi con un gesto semplice della mano e, infagottato nella sua giacca di velluto a coste, si diresse piano verso il suo pick-up.

Lanciai un ultimo sguardo al cimitero – le lapidi erano ormai bianche – e, senza alcuna voglia di tornarmene a casa, avviai il motore.

 
***

La tavolata preparata per me al The Moorings dal cugino Cornelius, mi portò quasi a piangere di commozione.

Avevano voluto partecipare praticamente tutti, in vista della mia imminente partenza.

Dai colleghi di Cormac alla signora O’Gready, ogni persona che mi aveva vista crescere era lì, quella sera.

Il locale era letteralmente ricolmo di persone, intervenute per salutarmi con la speranza che tornassi lì ogni tanto a trovarli, dopo tanti anni di assenza.

Fingere che tutto andasse bene, e che la mancanza di Ronan fosse solo una cosa di breve durata, fu massacrante.

Ma lasciar trasparire il mio dolore avrebbe attirato su di me troppe domande, e più di tutto non volevo che Fynn si accorgesse di qualcosa.

Era fin troppo attento ai miei cambiamenti di umore e, se non fossi stata attenta, avrebbe fatto domande a cui non avrei potuto rispondere.

La presenza di Cormac fu basilare e, anche grazie a lui, riuscii a tirare avanti per arrivare in fondo alla serata.

Le vettovaglie si sprecarono, così come la birra, e le risate fecero da contorno a una delle feste meglio riuscite che io riuscii ricordare.

Sorrisi tutto il tempo, pur sentendomi morire dentro al pensiero di ricominciare senza Ronan.

Fynn e Donna si raccomandarono con me di non dimenticarmi di loro, e io li invitai a Dublino, promettendo che avrei fatto loro da guida.

Stessa cosa dissi ai nonni, così come a mamma, che non promise nulla, ma si limitò a sorridermi.

C’era una piccola speranza, per noi due.

Il solo fatto che ci parlassimo senza scannarci, era un risultato esaltante.

Avrei potuto ballare una giga tutta la notte, solo per questo, ma il mio ballerino non c’era più.

E non avrei trovato nessun altro, nella vita, in grado di farmi sentire come Ronan mi aveva fatto sentire in quei mesi.

L’amico burbero, l’amante solerte, … il principe immortale.

Fu con quei pensieri che prima di partire, il giorno seguente, mi ritrovai a fissare la scogliera frastagliata, la linea curva del muretto di cinta del faro e la sua torre tondeggiante.

La casa, ora, era abitata stabilmente da Cormac.

Sorprendentemente, la vita al faro sembrava piacergli e, quando avevo saputo per bocca sua che avrebbe venduto Betsy Ann, ne ero rimasta sorpresa.

Lui mi aveva spiegato che ormai, il mare, non aveva più la stessa attrattiva di prima, senza Ronan.

Forse, si sarebbe comprato una piccola barchetta per qualche giro sporadico attorno alle scogliere, ma niente di più.

Si sarebbe dedicato al faro, avrebbe sistemato le barche e i natanti come, in precedenza, aveva fatto Ronan e, nel frattempo, avrebbe pregato per un suo pronto ritorno.

Non me l’ero sentita di allontanarlo da quella speranza, perché in fondo desideravo che si avverasse non meno di lui.

Solo, mi riusciva sempre più difficile crederci.

Dopo un ultimo sguardo a quella bianca lancia stagliata verso il cielo, salii sull’auto, ben decisa a rientrare a Dublino per mettermi a lavorare.

Non aspettavo altro.

 
***

Todd ed Eithe mi accolsero con abbracci degni di un tritatutto e, per qualche momento, temetti di avere rimediato almeno due costole incrinate e un polmone perforato.

Ma quell’assalto violento mi fece bene.

Sorrisi nel rimettere piede in redazione e, quando i rumori e gli odori di quel posto mi aggredirono i sensi, seppi di avere qualche speranza di non impazzire.

Certo, non sarebbe stato facile, avrei pianto un’infinità di volte, ma ce l’avrei fatta.

Ero una guerriera, in fondo, no?

Quella sera stessa, Todd mi invitò a casa sua e, quando Lynn mi vide, mi stritolò al pari del marito e della mia amica Eithe.

In quel momento, fui certa dell’incrinatura alle costole.

Nel sedermi a tavola con loro, i gemelli accomodati su sedie identiche e coloratissime, percepii tutto il loro amore, la loro preoccupazione e il loro desiderio di essermi vicini.

«C’è poco che posso dire, a parte grazie.»

«Sai benissimo che, se vuoi stare qui da noi, non ci sono problemi. Il tuo appartamento può aspettare, cara. Aspetterai qui con noi che Ronan ritorni» mi disse Lynn, dandomi una pacca gentile sulla mano poggiata sul tavolo.

Cory e Adam strillarono, eccitati all’idea che la ‘zia Sherry’ rimanesse a dormire da loro, ma non fui del tutto certa di riuscire in un simile impegno.

Desideravo avere intorno persone che mi volevano bene ma, al tempo stesso, volevo evadere, allontanarmi, scappare da tanto amore.

Ero davvero una persona incontentabile.

Finimmo di cenare in tutta tranquillità, intervallando il cibo a brevi giochi con Cory e Adam, che si dimostrarono particolarmente bravi e ben poco capricciosi.

Forse, subodorarono che qualcosa non andava.

Erano sempre stati dei bimbi sensibili.

Con l’accompagnamento musicale di un film Disney, ci accomodammo sul divano del salotto e lì, dietro invito di Todd, bevvi un po’ di whisky con ghiaccio.

Mi servì a cadere in uno stato di dolce torpore, che sciolse un poco il dolore che mi stava lacerando il petto.

Lasciai che il mio corpo scivolasse in quella nebbia incandescente, perché bruciasse le mie ferite, cauterizzandole.

Todd non ci mise molto a recuperare un panno per me e, mentre il film proseguiva incessante sullo schermo, mi addormentai.

Non li sentii andare a dormire ma il mattino dopo, al mio risveglio, trovai un bicchiere di latte e due enormi biscotti al cioccolato sul tavolino del salotto.

E un biglietto.

Lo aprii insonnolita e, con le lacrime agli occhi per la commozione, vi trovai scritto all’interno i nomi di Cory e Adam con le loro scritture scoordinate e scomposte, oltre a un grande cuore rosso.

Mi detersi il viso, e dalla cucina uscì Lynn.

Indossava un grembiule bianco, e i boccoli biondi erano raccolti in una coda di cavallo.

Mi sorrise comprensiva e venne a sedersi accanto a me, sul divano.

Ingollai un po’ di latte per lavarmi la bocca e, nell’adocchiare i biscotti, le domandai: «Una parte della loro colazione?»

«Mi hanno detto loro di lasciartela, prima che Todd li portasse all’asilo. E,… Todd si è raccomandato di non andare al lavoro, o ti prenderà per i capelli e ti sbatterà fuori.»

Lo disse sorridendo divertita, e io accennai un risolino.

Sarebbe stato capace di farlo e, soprattutto, aveva la forza per farlo.

Annuii e presi un biscotto. Sapeva di burro, cioccolato e tanto amore.

Masticandolo lentamente, lasciai che le endorfine prendessero possesso del mio corpo mentre Lynn, pacata, mi
domandava di Ronan.

«Non ne so più di ieri. La sorella continua a essere grave, e lui non vuole lasciare il suo fianco. Coscientemente, lo capisco, ma…»

«… ma rimanere soli, quando si è appena riscoperto l’amore, non è mai facile per nessuno» terminò per me, stringendo la sua mano sulla mia spalla esile.

Poteva sembrare anche una bambola di porcellana, ma Lynn aveva forza da vendere.

Non solo fisica, ma soprattutto morale.

Scossi il capo, sapendo già quanto tutto quel gran scervellarsi fosse inutile.

Ronan era andato per sempre, per me. Dovevo solo convincermene.

«Riuscirò a riprendermi, davvero. E poi, non sarà in eterno» Sì, come no!, dissi poi tra me e me.

Ormai sapevo quella cantilena a memoria.

«Sei sempre stata più emotiva e dolce di quanto non volessi far credere alla gente, e ora il tuo cuore è allo scoperto» replicò Lynn, sorridendomi quieta. «Ti conosco, Sherry, e so quando dici una frottola. Non sarò tua madre, ma riconosco una bugia quando la vedo scritta sulla tua faccia.»

Le sorrisi mesta, senza dire nulla. Cosa avrei potuto raccontarle, del resto?

Al mio silenzio seguì un suo sospiro. E una stretta di mano.

«So che stai fingendo una sicurezza che non provi, e solo per non far stare in ansia anche noi, ma sappi questo, Sherry. Noi saremo sempre dalla tua parte, in ogni caso e, se un domani ti andrà di parlarmene, sai dove trovarmi.»

Annuii, poggiando il capo contro la sua spalla e Lynn, avvolgendomi con un braccio, mi cullò in silenzio, lasciando che il tepore del suo corpo lenisse il freddo che avevo dentro.

Restai lì ancora per alcune ore ma, alla fine, dovetti rimettere piede nel mio appartamento.

La mia vicina di casa mi riconsegnò le piante – rigogliose e forti – e mi fece gli auguri per la sorella di Ronan.

Durante le nostri frequenti telefonate, avevo iniziato a parlarle di lui e, quando Ronan era sparito, mi era parso giusto estendere quella bugia anche a lei.

Restammo sul pianerottolo a parlare per un po’ e, in tutto quel tempo trascorso insieme, iniziai a capire una cosa molto importante.

Quando finalmente rimisi piede in casa, vidi che tutto era stato tenuto pulito e spolverato – mi ripromisi di ringraziare Meggy, per questo – e, soprattutto, che non c’era nessuno.

Ronan non ci sarebbe stato, avrei dovuto farmene una ragione e, prima l’avessi fatto, meglio sarebbe stato per tutti.

Meggy c’era riuscita, dopo la perdita del marito tanto amato; si era risollevata innanzitutto per il figlio e, in secondo luogo, per se stessa.

Con Kieran l’avevo fatto. Forse, la necessità mi aveva spronata con maggiore forza ma, in quel momento, non riuscii a trovare alcuna soluzione al mio problema.

Sapevo solo di doverlo risolvere, o sarei morta. Lentamente, un giorno alla volta, e senza scampo alcuno.

Con o senza Ronan, dovevo riuscire a mettere un piede davanti all’altro, ancora una volta.

Solo, stavolta pensai sarebbe stato impossibile farlo. E questo mi fece paura.

Davvero paura.

 
***

Il mio primo impegno, dopo quei lunghi mesi di cambiamento, fu un viaggio che mi portò alle pendici dell’Himalaya.

L’intervista con il Dalai Lama mi tenne impegnata quasi una settimana e, mentre i ghiacci e la neve si diffondevano ogni dove, e non solo in quelle terre isolate, venne infine il Natale.

Come avevo sperato, mamma e i nonni mi raggiunsero a Dublino per festeggiare e, con orgoglio misto a timore, mostrai loro il mio appartamento.

Le piante che avevo lasciato alla vicina avevano prosperato, in mano sua e, quando mamma le vide, si complimentò con lei per il buon lavoro svolto.

Nonna e nonno apprezzarono i miei lavori di bricolage e, quando portai in tavola un pranzo di Natale degno di tale nome, tutti si complimentarono con me.

Nessuno sollevò l’argomento ‘Ronan’, e io fui loro grata.

Lui era a Mag Mell e, con tutta probabilità, vi sarebbe rimasto per i prossimi sessant’anni, giusto il tempo di farmi passare a miglior vita.

Non c’era nient’altro da dire.

Certo, per lui non sarebbero trascorsi sul serio, visto che era una creatura plurimillenaria, ma io avrei contato i giorni e le ore che mi avrebbero visto separata da lui.

Ci eravamo aiutati vicendevolmente ad aprire una nuova pagina nelle nostre vite, e questo non avrei mai potuto dimenticarlo.

Solo, lui avrebbe continuato a vivere per tante altre migliaia di anni, dimenticandomi una volta che il dolore per la mia perdita fosse scemato.

Io, al contrario, non avrei potuto fare la stessa cosa. Il tempo speso per cancellarlo dal mio cuore, non sarebbe mai stato sufficiente.

Ero sicura che non esistesse, sulla faccia della terra, un altro Ronan per me.

Quindi, sarei vissuta con il rimpianto di non averlo accanto a me, fino a che il mio cuore non si sarebbe fermato.

Nella giornata di Santo Stefano, ci incontrammo con Lynn e Todd e, per la prima volta, potei presentare loro la mia famiglia.

Mamma si dimostrò stranamente calorosa con i gemelli e, quando anche il nonno e la nonna li ebbero conosciuti, stravidero per loro.

Fu un bel momento, e stemperò per un attimo il dolore continuo che provavo.

Il punch che Lynn mi passò, mentre i gemelli erano impegnati a mostrare a mamma i loro ultimi disegni, seppe di lancia di salvataggio e coperte calde.

Dandomi di gomito, osservò i figli e mia madre e, piano, mi domandò: «Come va? Fate progressi?»

«Non ha sbranato nessuno, quindi direi che è un successo» ironizzai, bevendo la bevanda arancione. La trovai speziata al punto giusto.

Lynn mi sorrise benevola e ironica al tempo stesso, e replicò: «Mi è sembrata una donna molto educata. Un po’ rigida, ma non cattiva.»

Annuii, addolcendo il mio sguardo quando mamma carezzò il capo di Cory.

«No, non è mai stata cattiva. Solo, non ci siamo mai trovate sulla stessa lunghezza d’onda. Volevo qualcosa che loro non avrebbero mai capito, e l’avrei voluto solo per essere capita da loro. Un bel guazzabuglio, ti pare?»

«Essere perfetti agli occhi dei genitori non è un male. Come, e se, questo possa avvenire, è tutt’altro affare. Eravate su due piani differenti di realtà.»

«Già.»

«Ora, uno dei due piani paralleli si è piegato, e state per cozzare l’una contro l’altra… ma in senso buono» mi sorrise Lynn, finendo il suo punch.

«Tu e le tue Teorie delle Stringhe. Non iniziare a parlare per enigmi, Lynn, o giuro che scapperò a gambe levate!» risi mio malgrado, e lei assentì compiaciuta.

«Se servirà a farti sorridere, parlerò anche di buchi dimensionali, quasar, singolarità e orizzonte degli eventi. Ti subisserò di così tanti dati, tesoro, che non vorrai aver mai messo piede qui.»

«Benedetti fisici quantistici. Sempre a parlare di cose astruse» brontolai, pur sorridendole con affetto.

«Andiamo, stellina a neutroni. Se non mangi qualcosa, esploderai per il nervosismo. Prova uno di quei dolcetti alle noci. Sono sicura che ti piaceranno e, forse, riuscirai a mettere su almeno un etto.»

«E non sia mai che tu non tenti di farmi ingrassare un po’, vero?» ironizzai, seguendola al tavolo dei rinfreschi.

Lei mi lanciò uno sguardo sicuro da sopra una spalla e, nel passarmi il dolcetto, dichiarò: «Non mi darò mai per vinta, Sherry. E non dovresti farlo neppure tu.»

Ingollai il dolcetto e, mentre il sapore ricco delle noci si diffondeva nella mia bocca, assentii.

Forse non avrei più rivisto Ronan, ma non avrei permesso loro di uccidermi dentro.

Presto o tardi, sarei stata nuovamente Sheridan.

Forse.

 
***

Il Capodanno venne, cancellando quell’anno così denso di avvenimenti, di morte, dolore e speranza.

Quando abbracciai quel nuovo inizio, sperai di poterlo far fruttare in qualche modo.

Festeggiare assieme alla famiglia e agli amici aiutò un po’ ma, quando giunse il mio compleanno, il sei gennaio, non trovai nulla per cui festeggiare.

Todd si presentò in ufficio con una torta monumentale, ed Eithe mi sommerse di regali e attenzioni.

Io desiderai soltanto andarmene, e un attimo dopo mi sentii un mostro per aver anche solo pensato una cosa del genere.

Forse, avvedendosi del mio crescente stato di inquietudine, Todd arrivò al punto di programmare per me una serie di viaggi in giro per l’Irlanda, cosa che io accettai al volo.

Ma fu nel mese di maggio che mi fece un vero e proprio regalo, con la R maiuscola.

Lo ringraziai con un bacio, quando mi propose di partire per San Francisco.

Lì, avrei dovuto occuparmi di un servizio sulle foche accampate al Pier 39, nei pressi del porto della città californiana.

Partire per il nuovo mondo mi avrebbe aiutata a staccare.

La città, caotica e fumosa, immersa nella sua nebbia pomeridiana, si rivelò essere piacevole e stancante al tempo stesso.

I suoi alti e bassi, le strade percorse dai suoi innumerevoli tram dall’aria antiquata, le sue mille e più sfaccettature, la sua miscellanea di stili e culture, tutto era affascinante ai miei occhi curiosi.

Ogni cosa contribuiva a rendere San Francisco unica nel suo genere.

Forse, sarebbe stata la città ideale dove perdersi, dove cominciare una nuova vita, dove tentare un inizio differente.

Non sapevo se Todd mi ci aveva mandato per questo o se, effettivamente, l’aveva fatto solo per il lavoro che mi accingevo a svolgere.

Avevo bisogno di distrazioni continue, per poter sopravvivere, e quello sembrava il luogo ideale.

Anche se, lo stretto contatto con l’oceano, mi provocava sempre delle strane sensazioni.

Mi avviai comunque nel distretto di Fisherman’s Wharf, dove si trovava per l’appunto il Pier 39, pronta al bagno di folla continuo e al profumo salmastro dell’aria.

Nella zona, l’impresario Warren Simmons aveva ristrutturato l’intero molo, facendo sorgere un centro commerciale e una serie di negozi a tema.

Il tutto, accompagnato dalla presenza costante e assidua di un branco di foche che, in barba alla presenza umana, si erano sistemate su un molo dismesso, facendone la loro casa.

L’attrattiva era piaciuta all’imprenditore, che aveva colto la palla al balzo, chiedendo permessi su permessi per costruire nell’area e renderla più piacevole ai turisti.

Questo aveva portato, negli anni, una marea di curiosi eco-consapevoli che, rispettosi delle foche, avevano approfittato di quell’eccezionale vicinanza per ammirare i maestosi animali.

Nessuno dava loro fastidio e, anzi, i membri dello staff del vicino acquario si occupavano della loro salute e del loro benessere.

Il luogo, così come lo avevo visto su internet, era cacofonico per voci e colori, un’autentica festa per gli occhi.

Era divertente, ricco di musica, e le persone in villeggiatura che si godevano la vita.

Tutti sembravano divertirsi piacevolmente, in quel luogo, persino coloro che erano impegnati a lavorare.

Quando giunsi lì in taxi, cercai immediatamente di farmi coinvolgere da quell’ambiente così saturo di sensazioni positive.

Zaino sulle spalle e cavalletto in una mano, entrai e uscii da diversi negozi, comprai un enorme cappello di paglia dalla tesa larga e un foulard in seta dai colori sgargianti, che misi al collo.

Sorrisi ad alcuni bambini scorrazzanti, mi feci largo tra le persone senza realmente vederle e, quando il profumo del mare ebbe ragione dei mille e più profumi del molo, rabbrividii.

Mi avrebbe perseguitato per il resto della vita, dovevo rendermene conto e accettarlo.

Sfiorai con la mano uno dei parapetti in legno, ricoperti da una leggera patina di sale, e sospirai.

Ronan sarebbe stato per sempre l’anello mancante nella mia vita e, pur con tutta la mia buona volontà, non avrei mai potuto cancellarlo dalla mente.

Dovevo accettare che lui non ci sarebbe più stato, per me, e andare avanti con quella certezza.

Come se fosse facile da accettare…

Reclinai all’indietro il capo, osservai il cielo terso – la nebbia si era diradata, in quel punto – e mi decisi a fare il mio dovere; trovare le foche da fotografare.

Mi avventurai perciò fino al molo 9, dove erano solite riunirsi e, dopo aver trovato una posizione ottimale dove sistemare la mia attrezzatura, mi misi all’opera.

Catturai delle inquadrature davvero perfette e, mentre ero lì, intervistai un po’ di turisti, oltre a parte dello staff dell’acquario che si occupava delle foche.

Mi concessi persino il lusso di un caffè macchiato e di una brioche, dopo tre ore di appostamento, e fu in quel momento che scorsi, tra la folla, una persona che non avrebbe dovuto essere lì.

Rischiai di rovesciarmi il caffè addosso, tante furono la sorpresa e la speranza provate e, quando lo vidi allontanarsi sul molo per raggiungere la spiaggia, pagai in fretta e lo seguii.

Non poteva essere lui, eppure…

Con un’andatura degna di uno schiacciasassi in movimento, mi feci largo tra la folla di turisti per raggiungere le scale che conducevano alla battigia.

Feci scorrere lo sguardo qua e là, ansiosa. I capelli mi schiaffeggiavano la faccia, al pari della tesa del cappello di paglia, mossa da un vento ben poco gentile.

Levai una mano, scostando una ciocca scura dagli occhi e, frenetica, continuai con lo studio della spiaggia, alla ricerca di lui.

Lo vidi fermo accanto a uno scoglio, la sua figura a me famigliare e cara. Dolorosamente famigliare e cara.

Corsi in fretta, terrorizzata all’idea che potesse scomparire nel nulla così come era apparso.

Inciampai sulla sabbia un’infinità di volte e, irritata, lasciai cadere lo zaino con la mia attrezzatura per avere più libertà di movimento.

Il cappello volò via chissà dove, ma non me ne curai.

Lui si allontanò dallo scoglio, allargò le braccia e io, con uno strillo eccitato, mi gettai tra le braccia di Ronan, stringendolo così forte da farlo ansimare in risposta.

Mi tenne sollevata da terra, baciandomi il collo più e più volte, mentre le mie lacrime bagnavano il suo volto sorridente.

Quando finalmente mi rimise giù, io lo fissai in viso ed esalai sconvolta: «Ronan! Oddio, non sei solo un parto della mia immaginazione! Sei veramente qui

«Sono qui per restare con te. E sì, non sono solo frutto della tua immaginazione.»

Fu a quel punto che lo guardai meglio e, sconcertata, notai i segni del patimento sul suo viso, e le tracce di qualcosa che non seppi distinguere con precisione.

La prima cosa che mi venne in mente, furono i ricordi dei prigionieri di guerra, e di quello che la prigionia lasciava sui loro corpi, nei loro occhi.

Mi irrigidii al solo pensiero, ma preferii non mettere a parole le mie paure.

Era lì con me, e io avrei ammazzato il primo uomo pesce che fosse emerso dalle acque per strapparmelo di nuovo, se fosse successo.

Evidentemente, Ronan dovette comprendere i miei pensieri perché, mesto, mi accompagnò allo scoglio, dove mi fece sedere.

Mi accoccolai contro di lui, incredula di poter ancora sentire il suo profumo, il suo calore.

Eppure era con me, stanco e provato, ma era lì.

«Mi hanno tenuto prigioniero fino a circa due settimane fa. Stheta è riuscito a liberarmi solo dopo diversi tentativi, per questo non sono riuscito a raggiungerti prima.»

Non mi sorprese più di tanto che proprio Stheta, che me lo aveva portato via, si fosse prodigato per liberarlo.

«Dopotutto, con quello che mi fece passare quella notte, mi sembra il minimo che si sia impegnato in prima persona per liberarti» commentai, accennando un sorrisino ironico.

Mi fissò con una domanda negli occhi, e io compresi cosa mi volesse chiedere.

Ora che sapevo che, in determinati momenti e condizioni, lui poteva esternare le sue emozioni e sensazioni, non mi fu difficile capirlo.

Quando mi era successo la prima volta – parevano passati anni, da allora – non avevo compreso cosa mi fosse preso, ma ora sapevo. Ora ero consapevole di ogni cosa.

E desideravo conoscere altro, tutto quanto.

«Ci fu uno scontro verbale e fisico, e uno dei vostri soldati mi colpì alle spalle. Stheta lo schiaffeggiò con violenza, per questo, ma io intanto ero a terra, e non potei fare nulla per salvarti» gli spiegai, mettendo a parole un resoconto stringato di ciò che era successo quella notte.

Quel ricordo mi avrebbe perseguitato ancora per lungo tempo, ma potevo sopportare praticamente qualsiasi cosa, con Ronan al fianco.

Annuì turbato, ma proseguì nel racconto.

«Nostro padre Tethra non fu esattamente cordiale, al mio ritorno, e mi fece imprigionare prima ancora che potessi aprire bocca. E le segrete del palazzo reale di Mag Mell non sono proprio degli alberghi a cinque stelle.»
Gli sfiorai il viso, in corrispondenza di un taglio in via di guarigione, e fremetti.

«E ovviamente, tua madre ne fu più che lieta.»

Lui rise del mio commento, annuendo sarcastico.

«Il piano di plagiare Stheta perché mi riportasse a casa venne da lei, non da mio padre. L’artefice prima fu lei.»
Lo fissai a bocca aperta, non sapendo che dire.

Io e mia madre non saremmo mai state best friend forever, ma da lì a raggiungere i livelli di questa Muath, ce ne correva!

Un gabbiano volteggiò sopra le nostre teste, lanciando il suo triste grido nel vento.

Lo guardai rabbrividendo, sperando non fosse foriero d ulteriori guai. Ne avevo avuto a sufficienza per due vite.

«Quando sono riuscito  finalmente a  tornare a Portmagee, sono salito subito al faro, trovandovi Cormac. Mi ha spiegato del vostro piano, atto a mettere al sicuro la mia identità, perciò mi sono attenuto a mia volta a questa storia.»

Mi sorrise, sistemando una ciocca ribelle dietro un mio orecchio, prima di riprendere a parlare.

«Se avessi avuto tempo di spiegarvi, avreste potuto evitare di preoccuparvi…» cominciò col dire, estraendo dalla tasca interna del suo giubbotto un portafogli.

Ne estrasse la sua patente di guida e, ammiccando al mio indirizzo, vi passò sopra un dito e me la mostrò.

Io spalancai gli occhi, sconvolta e lui, tornando a passarvi sopra il dito, mormorò: «E’ il mio dono. Posso manipolare qualsiasi tipo di documento scritto, sia esso cartaceo o digitale. Neppure l’hacker più preparato avrebbe mai potuto trovare pecche nei miei documenti. Ma grazie per aver pensato a proteggermi.»

Deglutii a fatica e, mentre Ronan rimetteva a posto la patente, io gracchiai: «Per. La. Puttana.»

Lui ridacchiò, scrollando le spalle.

«Ho avviato subito le pratiche per vendere definitivamente terreno e faro a Cormac e, nel frattempo, mi sono recato da tua madre.»

«Mia. Madre?» gracchiai, più che mai sorpresa.

«Non ci siamo mai presentati formalmente, e a certe cose tengo molto» mi sorrise, mettendo dell’ironia nella sua voce. «Sono rimasto lì per una buona mezza giornata, parlando di me, di te, di mia sorella e dei miei fratelli. Alla fine, mi ha domandato cosa volevo veramente da te.»

«Diretta come un pugno in faccia. Sicuro di aver parlato con lei?» esalai, sempre più scioccata. E da quando mia madre affrontava di petto un problema, invece di infiocchettarlo per bene?

Ronan rise sommessamente, assentendo. «Ha solo voluto essere certa che avessi intenzioni serie, con te. E io non ho avuto problemi a tranquillizzarla.»

Gli sorrisi, scuotendo il capo, e lo afferrai a una mano, la stessa che tempo prima si era lacerato con il martello, e che io gli avevo curato.

Non v’era più segno di quella ferita, ma io la rammentavo bene.

Rammentavo di lui ogni più piccolo respiro, ogni particolare apparentemente insignificante.

L’aria che respiravo non mi era così cara come lui.

«Quindi, siamo ufficialmente fidanzati, almeno agli occhi di mia madre?» gli domandai, trovando quella situazione del tutto paradossale.

Con una certa enfasi, e occhi che brillavano di ironia, mi disse: «Le ho chiesto la tua mano, ma tu sola puoi avere l’ultima parola. Anzi, credo si aspetti una chiamata da parte tua, per la cronaca.»

«Ti sei divertito a fare la parte del galantuomo, eh? Lo sapevi che lei avrebbe apprezzato» gli domandai, levando un sopracciglio con ironia.

«Per la verità, ci speravo. Dopotutto, lei è tua madre, fa parte della famiglia, e non voglio che ci siano screzi tra di noi» ironizzò, scrollando le spalle. «Come ben sai, sul fronte opposto non raccoglieremo niente, almeno per quel che riguarda i miei genitori.»

Scoppiai a ridere di fronte a quella speranza, e lui si unì a me in quello sfogo spontaneo.

«Ora che succederà, comunque? Torneranno a prenderti in qualche altro modo? Dovremo trasferirci sull’Himalaya, per essere sicuri che non tornino a disturbarci?»

Lo dissi con ironia, ma la mia paura era più che reale, e strisciava nelle mie viscere come un mamba pronto ad avvelenarmi dall’interno.

Lui mi sorrise in risposta e, indicando un mucchietto fumante alle sue spalle, disse: «Quella era la mia chiave d’accesso a Mag Mell.»

Fissai quello che sembrava essere un mantello, molto simile a quello che avevo scorto sulle spalle di Stheta, e borbottai: «I mantelli si ricuciono, Ronan. Non mi sembra che tu possa stare così tranquillo, e solo perché hai bruciato un capo di abbigliamento.»

Mi sorrise divertito, e scosse il capo.

«E’ la mia pelle di delfino, Sheridan. Non è un mantello qualunque. E’ legata a noi, è unica e insostituibile. In seguito, viene intessuta nei mantelli per praticità, attraverso arti magiche che non voglio stare qui a spiegarti, ma rimane pur sempre la nostra seconda entità. Anche volendo, ora posso vivere solo qui. Con te.»

Sgranai gli occhi, strabiliata, e tornai a guardare il mucchietto fumante, ormai ridotto in briciole.

Per un attimo avvertii ancora il senso di colpa, dentro di me, ma lui fugò qualsiasi mio dubbio baciandomi teneramente.

Restammo avvinghiati per un tempo infinito e, quando la sua bocca si scostò dalla mia, sussurrò: «Non sono cambiato, Sheridan… ho solo perso la mia lunga vita. Tutto il resto, è uguale a prima, e lo metto nelle tue mani. Per sempre.»

«Per sempre, principe Rhonyn.»

Scosse il capo, e replicò divertito: «Solo Ronan.»

«E’ un ‘solo’ che mi piace molto.»









Note: Siamo ormai arrivati al termine di questo primo racconto, a cui seguirà a breve il secondo, intitolato The Cross of Changes. Il personaggio che seguiremo sarà Stheta mac Lir, alle prese con la sua primogenitura, il suo desiderio di pagare il debito nei confronti del fratello Rohnyn e l'interesse verso un nuovo personaggio - Eithe - che, in questo primo racconto, è stato solo accennato.
Da questo secondo racconto, partirà il crossover con la saga "Trilogia della Luna" e, in particolare con la sua terza parte, intitolata "All'ombra dell'Eclissi". Sarò più specifica a tempo debito e, per chi non avesse seguito quella trilogia, non si preoccupi. Ho inserito all'interno del racconto sufficienti spiegazioni anche per i "non addetti ai lavori" (dopotutto, Stheta non ne sa nulla...) e, durante la narrazione, inserirò anche un prontuario con i vocaboli più usati, e su cui potreste avere qualche dubbio. 
In ogni caso, sono sempre disponibilissima a qualsiasi tipo di spiegazione ulteriore.
Ciò detto, vi saluto e vi ringrazio per la vostra fiducia, rimandando gli arrivederci all'Epilogo, che ci sarà la settimana prossima.
Per ora, grazie! 

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


 
Epilogo.
 
 
 
 
Sette anni dopo.
 
 
«Oh, no, mio caro, non pensarlo neppure! Ho ragione io, punto!»

La mia voce si librò alta nella casa, riverberando tra le pareti intonacate di fresco mentre Ronan, tenendo in mano il pennello, mi fissava livido di rabbia.

E forse pronto a spaccarmi in testa lo stesso pennello che ora stava subendo la sua ira, solo a stento trattenuta.

«Non posso credere che tu sia così testarda da non capire! Ti facevo più intelligente!»

Ronan intrecciò le braccia sul torace, fissandomi bellicoso, ma io non mi diedi per vinta.

La libreria sarebbe rimasta esattamente dove l’avevo sistemata.

Il fatto che lo amassi più di me stessa, e che fosse il padre dei nostri tre figli, non voleva certo dire che io avrei ceduto sulle mie decisioni.

Il mobilio si sarebbe sistemato secondo il mio senso estetico.

La discussione si protrasse a lungo, senza vincitori né vinti, finché dal divano non giunse un sospiro lungo e pesante. Quasi dolente.

All’unisono, ci voltammo verso il nostro ospite e, ringhianti come leoni, esclamammo: «Non una parola, Stheta!»

Lui, per contro, levò le mani in segno di resa e si limitò a dire: «E chi apre bocca? Con voi non si può parlare, quando urlate come due aquile spennate.»

Lo fissammo parimenti infuriati, ma una risatina ci fece calmare subito.

Il nostro primogenito Kevin, appollaiato sul bracciolo del divano, borbottò pacifico: «Litigate sempre, quando dovete fare i lavori in casa.»

Stheta ridacchiò complice e diede una carezza sul capo al nipote. Con voce ugualmente tranquilla, aggiunse: «E dire che pensavo che, dopo tutti questi anni, i vostri animi si fossero un po’ pacificati. A quanto pare, sbagliavo di grosso. Dovrò dare ragione a Krilash, appena lo vedo. Lui è stato più testimone di me alle vostre sfuriate.»

Quest’ultimo, quasi richiamato dal suo nome, comparve sulla porta di casa ed esclamò: «Ho portato il gelato! Venite fuori! A Keely e June l’ho già dato.»

Tutti noi lo fissammo esasperati – ogni volta che veniva sulla terra, mangiava solo gelato, e in quantità quasi imbarazzanti – e Stheta, levandosi in piedi dal divano, prese in braccio il nipote e disse: «Facciamo così. Voi scannatevi pure, ma non fatelo davanti a vostro figlio. Andiamo, Kevin, noi giocheremo in giardino mentre questi due se le suonano. Non dovevi presentarmi il tuo nuovo cucciolo?»

«Oh, sì. La zia me l’ha portato la settimana scorsa, ed è bellissimo! Un bovaro bernese, se non ricordo male.»

«E’ più esperta di me, in tal senso, quindi lo chiederemo direttamente a lei» dichiarò Stheta, accompagnandolo verso la porta d’ingresso.

Kevin annuì e, mentre la porta veniva chiusa alle loro spalle, io e Ronan restammo soli a fronteggiarci.

Non sapendo che altro fare, misi in freezer il gelato portato da Krilash e, lanciato uno sguardo dispiaciuto a Ronan, mormorai: «Scusa. Non avrei dovuto alzare la voce a questo modo. Specialmente davanti a Kev’.»

Lui mi raggiunse, prendendomi il viso tra le mani per baciarmi teneramente e, sorridendo, replicò: «E’ colpa mia. Ho sempre avuto la tendenza ad alzare la voce.»

«Perché? Io no?» ironizzai, baciandolo.

Ronan mi accarezzò con le labbra e le mani, approfondendo il bacio e facendolo diventare una richiesta, cui io risposi con impegno.

Sollevai una gamba per avvolgerla attorno alla sua vita stretta e lui, con un movimento repentino, mi prese per le natiche e mi condusse verso la camera da letto.

Senza mai scostare le labbra da me.

Chiudendosi la porta alle spalle con un calcio, disse tra un bacio e l’altro: «Impiegheranno… un sacco… di tempo, a giocare col piccolo Thor. E noi… possiamo usarlo… al meglio… Inoltre, le bambine vogliono… vogliono sempre stare in giardino,… quando c’è mia sorella.»

«Possiamo litigare un’altra volta» assentii, quasi strappandogli di dosso la camicia sporca di vernice.

Lui rise, annuendo e, con aria lasciva, mi denudò prima di farmi sdraiare sul letto.

Nuda sotto di lui, sorridente e fiera, lo attirai a me e mormorai contro il suo collo: «La libreria rimane lì.»

«Vedremo…»

«Cosa mi daresti in cambio, se decidessi di fare a modo tuo?» gli proposi a quel punto.

Ronan mi baciò i seni, uno dopo l’altro e, alitandovi sopra aria calda, mormorò: «Questo. E questo. O quest’altro.»

Mi inarcai al suo passaggio, sempre più eccitata e, più il suo peregrinare si fece eccitante, più concessioni gli diedi.

Era ingiusto che lui facesse così… ma era così bello cedere a quel modo.






Note: e con questo breve squarcio nel futuro, giungiamo alla fine di questa prima parte della tetralogia. Il prossimo a entrare in campo, sarà Stheta mac Lir, maggiore dei fratelli mac Lir ed erede al trono di Mag Mell. Con la sua storia inizieremo a esplorare il mondo sottomarino, le sue leggi, le sue restrizioni, le sue differenze con il mondo della terraferma. Faremo la conoscenza con nuove creature mistiche e inizieremo a comprendere meglio le dinamiche famigliari dei mac Lir. Per il momento ringrazio tutte/i voi per aver letto e/o commentato la storia, e vi aspetto la settimana prossima, con l'inizio di "The Cross of Changes", seconda parte della tetralogia dedicata ai fomoriani.






 

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