Vienimi a portare le arance

di Queen of Superficial
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** State zitti e fermi ***
Capitolo 2: *** Ginevra Kringe ***
Capitolo 3: *** Interlude ***
Capitolo 4: *** Uno slancio di ottimismo fuori misura. ***
Capitolo 5: *** Zachary Baker è morto ***
Capitolo 6: *** Dimmi, Tiresia ***



Capitolo 1
*** State zitti e fermi ***


Gli ascensori con massima portata 20 persone sono una macchinazione architettonica del demonio.
In primis, quando si aprono le porte con quel lieve plin il colpo d'occhio ti conferma un sospetto già formulato prima, leggendo la targhetta con la capienza: in quello spazio lì, 20 persone ci stanno solo se si vogliono molto bene, e quindi non si infastidiscono a sentire la massa corporea del vicino premergli addosso con un'intensità che rasenta la molestia sessuale. O forse abbiamo tutti frainteso, nella vita, e le 20 persone sono pensate per starci orizzontali. Orizzontali, a coppie, e impilate una sull'altra, allora forse c'entrano venti persone, in quelle trappole per topi.
Plin. Ascensore al piano. Le porte si aprono su due belle signorine in uniforme, o quella che sembra un'uniforme da collegio di lusso. Squadro la bionda. Guarda un punto misterioso della cabina, ma sente i miei occhi perforarle le costole, e più nello specifico il seno generoso dentro il maglioncino nero; mi sorride, timida. Le sorrido. Entriamo.
Siamo cinque, quindi più le due educande arriviamo a sette, ma già l'aria si fa irrespirabile. Shadows sta aprendo e chiudendo le braccia come una specie di gorilla rimbesuito dalla vecchiaia precoce: non ho capito se sta facendo esercizio o se cerca di mettere in mostra i muscoli. Lui dice che si concentra, quando fa così. Sono dieci anni che non gli crediamo eppure annuiamo partecipi, per quieto vivere.
“Non vi muovete troppo.”, sibila lievissimamente una voce vagamente nasale alla mia immediata sinistra. Jimmy, il nostro batterista, ha già il cuore che viaggia a una velocità irreale per via della fatica che fa a suonare quello strumento impegnandosi nell'imitazione fedele all'originale di una piovra in crisi pantoclastica; oltretutto, è afflitto da una lunga litania di fobie, una delle quali sono gli spazi chiusi.
Dobbiamo arrivare all'attico di questo hotel per quello che vorrebbe essere il party di lancio del nuovo album di una band di amici il cui nome al momento ho rimosso completamente.
7,8,9,10.
Ci proiettiamo a ritmo sostenuto nelle viscere dell'edificio.
11, 12, 13.
Zacky, alla mia destra, apre e chiude i pugni e getta sguardi languidi alle due collegiali. La bionda apre bocca per rivolgermi la parola.
14,15
clang

Le parole le muoiono sulle labbra, mentre con un bzz metallico l'ascensore si ferma. Lo scossone dello stop inaspettato catapulta le due educande giusto in mezzo al branco dei lupi. La bionda finisce dritta nelle braccia di Jimmy, che la sorregge più per cavalleria che per intenzione. È così teso che a momenti si spezza.
“Che cazzo è successo.”, formula, senza punti interrogativi, congelando con la ragazza ancora tra le braccia.
“Penso si sia fermato.”, interviene Brian.
“Grazie, Sherlock Holmes.”, lo rimbecca Jimmy.
Un altro scossone.
“Si staccano i fili!”, ipotizza, inusualmente stridulo, Zacky. Non riesce a stare fermo. Si agita come un ramoscello in balia del vento.
“Zacky, cosa dici.”, articola lentamente Brian.
Jimmy non parla. È piombato in una pozza gelata di terrorizzato mutismo. L'unica cosa che lo trattiene dallo strillare come un'aquila è il mantenimento della dignità di fronte a due estranee di sesso femminile. Oltretutto, la seconda educanda è stata afferrata da Shadows. È una ragazza pallida, esangue, sento da qui la puzza di soldi dei suoi; se ne sta ferma tra le sue braccia, aggrappata alle sue spalle, e si scruta intorno con aria vagamente superiore.
Ma perché a me non capita mai niente?
Insomma stanno fermi, impalati, tutti e due, con le signorine strette al petto. Non le lasciano andare, e loro non si divincolano. Piomba un silenzio antico, irreale. Siamo bloccati, senza speranza, in una gabbia per uccelli scavata in un muro.
“Ci dev...”, dice Zacky, ma poi si ferma, cercando di riportare la voce al suo timbro normale, due ottave più in basso. Ci riesce solo in parte. “Ci deve essere un pulsante di allarme, premetelo.”
Nessuno fa nulla.
La bionda addosso a Jimmy allunga un braccio. Sono i più vicini alla pulsantiera, ma nessuno dei due sembra volersi staccare dall'altro: un mutuo, silenzioso conforto. La ragazza spinge a fatica – fatica dovuta al fatto che sta aggrappata a Jimmy come un polpo a una boa - il bottoncino giallo con sopra il simbolo della campana. Attendiamo il suono, tutti quanti, con il fiato sospeso. Niente.
“Non funziona.”, gracchia Zacky, e si agita ancora peggio.
“Facciamo qualcosa!”, interviene Jimmy.
“Non c'è campo!”, ci informa Brian, che ha estratto il cellulare da una tasca.
“Ommioddio!”
“Cosa facciamo?”
“Facciamo qualcosa?”
“Cosa?”
“State zitti.”, tuona la voce di Shadows, improvvisa e solenne, “E fermi. State zitti e fermi.”
Infila le mani nella fessura delle porte e inizia a tirare, lentamente.
“Che cazzo fai”, squittisce Jimmy.
“Controllo a che piano siamo.”
Viene poi fuori che siamo nel muro. Dietro le porte aperte da Shadows ci osserva, impassibile, una solida parete di cemento armato.
“Sono claustrofobico”, ci informa Jimmy, d'un fiato. “Lo sappiamo”, rispondiamo tutti e quattro in coro. L'educanda bionda organizza un filo di voce per dire “Anche io.”
Brian solleva un sopracciglio, recuperando un minimo della sua verve da vipera.
“Anche tu lo sai?”
“No, anche io sono claustrofobica.”
Il nostro chitarrista le lancia un'occhiata stizzita.
“Beh? Siete claustrofobici? E non ve ne state attaccati come due francobolli, che siete, cretini?”
Jimmy osserva cupo le plafoniere sopra la sua testa.
“Ha un buon profumo.”, dice, sovrappensiero, “Mi tranquillizza.”
“Grazie! Come ti chiami?”
Abbassa lo sguardo lentissimamente sulla corpo umano che stringe tra le braccia. Si sofferma sugli occhi grandi e il viso pulito.
“James.”, risponde, ma dura solo un attimo. Vedo il terrore riaffiorargli sul volto a velocità sostenuta.
“Io sono Johnny.”, dico, tanto per dire qualcosa. “Lui è Zacky”, sorriso stirato, breve cenno, “lui è Matt”, torsione muscolare all'altezza della spalla, sorrisetto accattivante, “E lui è...”
“Incazzato come una bestia.”, conclude Brian, “Piacere.”
“E datti una calmata, Synyster Gates.”
La voce è giunta dalla ragazza esangue che ancora si tiene nelle immediate vicinanze di Shadows; come se ci fosse alternativa, poi, visto lo spazio angusto in cui ci troviamo. Il fantasmino alza un dito all'indirizzo della sua amica: “Sono una band metal che ascolto io. Si chiamano Avenged Sevenfold.”, dice, presentandoci. Per un attimo, il fatto che siamo in una scatola, sospesi nel vuoto, appesi a quattro corde e con l'unica via d'uscita bloccata da quindici quintali di calcestruzzo passa in secondo piano. Tutti la osserviamo leggermente frastornati. La pelle di un bianco che sembra porcellana, i capelli chiarissimi, le unghie curate, la gonnellina stirata di fresco e la camicia inamidata infilata oltre il bordo. No, decisamente non il nostro pubblico abituale.
“Tu ascolti metal?”
Il timbro vocale alto e lieve che pronuncia la domanda mi trae nell'inganno che a parlare sia stata la sua amica; invece, sfortunatamente, è stato Zacky.
“Lo sai che è la prima volta che noto che quando sei agitato hai il tono di voce di Celine Dion?”, fa presente Jimmy, che a brevi inframezzi inspira i capelli della bionda come se stesse respirando da un sacchetto antipanico.
Casper si stringe nelle spalle. “Sì, beh, è per questo che sono finita in collegio.”
“Pensavo fosse perché non sai apparecchiare.”, interviene la bionda.
Jimmy ride, ma piano.
“E tu, Raperonzolo? Perché sei finita in collegio?”, le chiede Brian, lusingato dal fatto di essere stato riconosciuto ma deciso a non dismettere i suoi consueti paramenti da arpia.
La ragazza bionda ha un'espressione molto dolce. C'è una certa cortesia nel modo in cui tiene le mani sul petto di Jimmy e gli lascia infilare il naso nei suoi capelli per calmarsi. Ha gli occhi scuri, profondi e delicati.
“Immagino fosse la conseguenza naturale delle suore francesi e del corso di danza classica e buone maniere. I miei sono gente all'antica.”
Brian sbuffa sarcastico, essendo lui un fervente attivista contro le suore francesi, la danza classica e le buone maniere.
“E ve la fanno un po' di educazione sessuale, in collegio?”
“Siamo un collegio femminile.”, risponde la bionda quasi in tono di scusa, dopo un attimo di tentennamento.
Lui ride, offensivo. “Quindi non sapete proprio nulla della cosa più divertente del mondo?”
Matt armeggia con la pulsantiera, infastidito.
“Brian, ti sembra il momento di tenere un comizio sulle api e i fiori? Nel caso non te ne fossi accorto, siamo bloccati in un ascensore.”
“E cosa proponi di fare, Capitan Findus? È inutile che perseveri in questo atteggiamento da caposquadra, siamo tutti bloccati, e finché a qualcun altro non viene la malsana idea di chiamare l'ascensore per salire nessuno si accorgerà del fatto che ci sono sette stronzi intrappolati come dentro quel film di merda, Buried.
“Buried.”, ripete Jimmy, improvvisamente sovrappensiero, “Buried alive...”
“Cosa sta dicendo, questo deficiente?”, sibila piccato Shadows, che si trova ancora di spalle a tutti e fissa la parete di cemento come se quella, da un momento all'altro, dovesse farsi da parte per farlo passare.
“Niente, cose senza senso.”, chiosa Brian, ormai irreversibilmente convinto che il miglior modo per passare il tempo in attesa che ci salvino è mettere in imbarazzo le educande.
“Allora, Raperonzolo e Sposa Cadavere, siete vergini?”, chiede, ammiccando come il coglione che in effetti è.
“No.”, risponde secca Casper, incrociando le braccia. Raperonzolo si muove a disagio addosso a Jimmy. “Sì.”, risponde, non sa nemmeno lei perché. Jimmy ripiomba per un attimo tra i vivi. “Quando usciamo da qui, sarei felice di porre rimedio.”
Lei avvampa, diventando di una curiosa sfumatura rosso carminio, e gli stacca impercettibilmente le braccia dal petto. Improvvisamente, poi, sorride. Pianissimo.
Brian scuote la testa, provocatorio. “Non penso che il mio amico sia tipo da fiori e valzer, però. Il corteggiamento non sarà un granché.”
Jimmy realizza cosa ha detto poco prima e si volta, stizzito: “Brian, stai zitto.”
“Magari, se ti ritrovi una cravatta che ancora non hai tagliato puoi andare a presentarti dai suoi, prima. Così, tanto per dare una parvenza ufficiale alla cosa.”, ribatte quello, per niente turbato. “E tu, cadaverino? Chi è stato il fortunato?”
“Chi sei, il prete confessore del collegio?”, risponde Casper, piccatissima.
“Oh, perché, le dite queste cose quando vi confessate?”, chiede Zacky, improvvisamente interessatissimo. Guarda Raperonzolo. Raperonzolo si stringe un po' di più a Jimmy, in evidente imbarazzo.
“Beh, sì. Siamo tenute a confessare i peccati, gli atti e i pensieri... beh, impuri che... beh.”
“Che meraviglia! Vogliamo sapere tutto.”, rincara Zacky. Casper alza gli occhi al cielo e Raperonzolo li abbassa al suolo, quasi allo stesso tempo. Io batto contro il muro dell'ascensore per attirare l'attenzione di qualcuno che, magari, passando, sente il rumore e ci tira fuori da qui prima che i miei compagni abbiano il tempo di lanciarsi in ulteriori investigazioni sull'altrui vita sessuale.
“Che volete sapere?”
Oh, Casper ha deciso di collaborare. Improvvisamente, mi coglie un vago interesse e mi metto ad ascoltare anche io.
“Come fate se dovete vedervi con qualcuno per scopare, in collegio?”, chiede subito Brian. Guardo Raperonzolo, che con ogni probabilità sta pensando che aveva ragione sua madre, i maschi sono tutti immondi sacchi di putridume con le gambe che non pensano ad altro che a quello.
“Lei esce dalla finestra. Io non ho ancora trovato nessuno per il quale valesse la pena di spaccarmi tutte e due le gambe scalando una grondaia.”
Raperonzolo, mi hai stupito. Sai fare altro oltre che balbettare e arrossire. Brava.
“E tra di voi non fate mai niente?”, si informa Zacky, pieno di antropologico interesse.
“Alcune delle educande sì. Noi due, tra noi, una volta sola. Non è stato granché.”
“Voi due siete state a letto insieme?”, rincara la dose il nostro secondo chitarrista, occhieggiando le gonnelline come un settantenne allupato. Beh, noi non siamo da meno. Stiamo tutti pensando un po' la stessa cosa. Jimmy si scosta leggermente da lei, vuole evitare che il suo corpo abbia qualche reazione inconsulta che gli costerebbe forse dieci, quindici anni di prese per il culo da parte nostra.
“Una notte. Avevamo bevuto un po'.”, spiega Raperonzolo, sfilandosi il maglione. “Dio, che caldo qui dentro.”
Passiamo tutti in posa da calcio di punizione, con le mani davanti al pacco. Raperonzolo ride, perché non è per nulla ingenua come sembrava. Si arrotola le maniche della camicia e la tira fuori dalla gonna, pinzandola con due dita per farsi un po' d'aria.
“Qualunque cosa tu faccia, non sbottonartela neanche un po'. Siamo già al limite dell'autocontrollo, qui.”, le consiglia Casper, togliendosi anche lei il pesante cardigan. Raperonzolo mette le mani sui fianchi, fa cenno a Jimmy con la testa: “Io mi prendo lui, agli altri pensaci tu.”, le dice, con un occhiolino. Ci guardiamo in faccia come se ci fossero appena spuntate a tutti sulla fronte delle manopole da forno. Incapaci di articolare pensiero, perfino Brian scivola in una vaga sistole e rallenta la propria capacità di ragionamento: da bersagliatore, è diventato bersaglio delle angherie psicologiche di queste due educande. Un po' se lo merita, penso con un sorriso. Che lui capta. “Che cazzo ridi, Christ.” Detesto ammetterlo, ma siamo un po' intimiditi.
“Ormai è un po' che siamo qui dentro, cosa facciamo?”, chiede Raperonzolo. Casper deposita il maglione in mano a Zacky, che lo prende come in trance.
“Vogliamo provare a vedere qual è la situazione sopra?”, risponde l'amica, occhieggiando la plafoniera sospesa sulle nostre teste.
“Cerco di spostare il quadro e vedo se c'è un comando elettrico esterno, tu dimmi se si muove qualcosa.”, ne conviene Raperonzolo. Brian la fissa con la bocca leggermente aperta. “Una mano a salire, per cortesia?”, chiede lei a Jimmy. Jimmy la guarda. Lei lo guarda. Jimmy si scuote dal sonno di morte cerebrale che l'aveva colto. “Certo.” dice “Come vogliamo fare?”
“Prendimi in braccio e tirami su.”
“Devi tirarla su per le cosce, non per i fianchi, altrimenti non ci arriva.”, interviene d'un tratto il noto ingegnere edile Brian Haner Jr., pensando con ogni probabilità a un'occhiata clinica alle mutandine che si sarebbero rivelate da sotto la gonna.
“Fate lo sforzo di non guardarmi le mutande?”, chiede Raperonzolo come leggendogli nel pensiero, mentre perfino Shadows si sta adoperando per dare una mano a Jimmy a issarla senza provocarle lividi equivoci sopra le cosce. Raccomandazione inutile. Lei stacca il quadro, noi tutti, ivi inclusa la sua compagna di stanza, le fissiamo rapiti uno slip di seta rosa pallido.
“Non ho appoggio.”, dice. Sobbalziamo tutti insieme, scossi.
“Non ho appoggio.”, ripete. Sta oscillando pericolosamente, non basta che Jimmy e Shadows la reggano per le gambe. Ha staccato il quadro ma non riesce ad avventurarsi all'esterno della parte superiore di quella trappola per topi. Casper fa un passo avanti, le appoggia una mano sul culo per darle stabilità.
“Sei bassa.”, le ingiunge Raperonzolo.
“Scusa, eh.”, ribatte irritata lei, rimuovendo la mano. Shadows e Jimmy si guardano. A questo punto, è questione di chi arriva prima. Ed è Jimmy che arriva prima, forte di un discreto allenamento alla velocità manuale dato da anni di batteria. La sospinge verso fuori. “Grazie.”, dice lei. “Prego.”, risponde lui, muovendosi a disagio a causa dell'incipiente erezione. Dopo circa un minuto, Raperonzolo ridiscende tra noi, aiutata dai miei volenterosi compagni di band. Si pulisce le mani sfregandole.
“Non ci sono quadri elettrici esterni.”
“Lo avevo intuito.”, risponde Casper, ancora leggermente risentita.
“Ora puoi togliere la mano, grazie.”, dice poi Raperonzolo a Jimmy, voltandosi a rivolgergli uno sguardo tra le ciglia. Jimmy alza le mani, dolcemente. Raperonzolo si volta. L'occhiata di compatimento che lancia a Brian lo spinge a ritrarre velocemente la mano e, al tempo stesso, lo fa infuriare come una vipera. “Scusa, volevo verificare.”, le dice lui. “Bel colore di mutande, comunque.”
“Grazie, me le ha comprate la mamma.”
Gliele ha comprate la mamma! Tutti ci muoviamo saltellando, a disagio, a causa del potenziale erotico sottaciuto di questa frase di cui lei, evidentemente, non si è resa conto.
“Beh, la mamma te le ha comprate e lo zio Brian te le toglierebbe volentieri.”, la informa Shadows, che di solito in queste discussioni becere fa più che altro l'arbitro, e non partecipa mai. Lo squadriamo basiti.
“Spiacente, sono già promessa.”, dice, indicando ancora una volta con la testa, ci dispiace dirlo, Jimmy, che rivolge a Brian un sorriso infido.
Un altro scossone.
“Che cazzo è.”
“Moriremo.”
“E' la fine.”
Shadows alza le mani per zittire la combriccola, appoggiando un orecchio esperto al muro. Fortunatamente è velocissimo a ritrarsi, perché l'ascensore riprende la sua corsa e rischia di grattugiargli l'orecchio contro il minaccioso cemento al di là delle porte che lui aveva contribuito a spalancare. La luce si spegne. Urliamo e ci abbracciamo tutti insieme. La luce si accende. Ci fissiamo stralunati, sempre urlando, in quei brevi inframezzi di fuga dall'oscurità. La luce si spegne. Le porte si richiudono con uno strano clangore. Qualcuno ritrova la fede in Dio. Qualcun altro fa presente di non averla mai persa, nonostante fosse potuto sembrare il contrario. La luce si accende. Casper urla fossero almeno stati i Metallica, credo riferendosi all'ingiustizia di dover morire in un ascensore in compagnia degli Avenged Sevenfold. La luce si spegne. Improvvisamente, la scatoletta si blocca. È una frenata brusca, ottusa. Cadiamo tutti a terra, scomposti. La luce si riaccende, e le porte si aprono con un delicatissimo plin. Brian è a gambe all'aria; in mezzo, riesco a vedere il volto scandalizzato del nostro manager e di quattro vecchi vestiti da teiere d'epoca.
“Mamma?”, scandisce un po' a corto di fiato Raperonzolo, a cavalcioni su Jimmy che le tiene le cosce strette in una morsa assassina. Gli sta praticamente distesa addosso. Si girano l'una verso l'altro stampandosi un primo piano che rasenta il tentativo di bacio, sconvolti, e poi si rigirano verso i vecchi fuori dall'ascensore. La signora Raperonzolo fissa per un secondo il quadro generale, poi si concentra sui tatuaggi sul braccio di Jimmy, poi su quelli sull'avambraccio, poi su quelli sulla mano, e infine osserva clinica quelli sulle dita, che stringono la coscia di sua figlia ben oltre il limite della decenza, quasi all'attaccatura dell'inguine che, per inciso, sta incollato al suo, di inguine, per via della caduta che tutti abbiamo subito durante quella brusca frenata che ha posto fine alla nostra avventura ascensoristica.
Finalmente, la signora si decide a svenire, accasciandosi al suolo. Casper si rialza - sua madre è ancora in posizione eretta e non batte ciglio, ha preso meglio il fatto che avesse il culo praticamente in faccia a Brian - e tira su l'amica da Jimmy, abbassandole la gonna in un unico, fluido, movimento. Io mi rimetto in piedi tenendomi la testa. Nessuno fiata. Intercetto quello che per conseguenza logica penso sia il padre di Raperonzolo, il quale non ha affatto soccorso la moglie: fissa ora la figlia, ora Jimmy, muto come un pesce e assolutamente inespressivo. Mi sporgo in avanti, a mano tesa: “Piacere, Jonathan Seward.”, dico.
“Caius Cartwright.”, mi risponde quello.
“Lei è il padre di...?”
“Eh? Lilian. Di Lilian...”
Ah, Raperonzolo si chiama Lilian. Lilian che si piega verso Jimmy, “Io sono Lily, a proposito.”, dice. “Beh, ci vediamo in giro.”
Jimmy le fa ciao con la mano, da terra. Vorrei scoppiare a ridere ma non sono certo che gli altri siano tutti vivi, quindi preferisco controllare.
Mentre mi sincero che i miei compagni respirino ancora, Lilian e Casper (che è rimasta senza nome) escono dall'ascensore. Ancora nessuno presta soccorso alla signora Cartwright. Sbuffando, capisco che, come al solito, devo fare tutto io. Mi chino in avanti, sul corpo esanime della statua di gesso vestita di avorio. “Signora? Mi sente?”
Zacky mi si fa accanto, gattoni. “Che cazzo fai qua? Se si sveglia e ti vede la spaventi!”, mi sibila.
“Ah, certo. Meno male che ci sei tu che tieni la faccia bella.”, lo prendo in giro. Non coglie.
“Signora?”
Jimmy si è alzato, e fronteggia il padre di Lilian. “Quello che ha visto è frutto di circostanze puramente accidentali, signor, ehm, signor...”
“Cartwright.”, risponde quello, ancora in trance, incredulo e basito.
“James. James Sullivan. Piacere.”
“Signora? Qualcuno ha dei sali? Mi portate dei sali?”, domanda Zacky, voltandosi a destra e a sinistra, stizzito dalla mancanza di collaborazione di tutti nella sua eroica operazione di salvataggio vecchie bacchettone vestite male.
“Si è bloccato l'ascensore e sua figlia, beh, mi è caduta addosso.”, seguita a spiegare Jimmy alla scultura di cera che ha preso il posto del padre di Lilian.
Brian si è avvicinato a noi, stordito. Abbassa lo sguardo sulla sagoma esanime della mamma di Lilian. Le si avvicina cauto a un orecchio.
“SIGNORA?”
“Sono morta!”, rinviene quella.
“Ma no, è solo...”
Madame Cartwright apre gli occhi su Brian, e subito acquistano una sfumatura di vaga preoccupazione.
“Lei è Satana?”
“Ora non esageriamo.”
La donna fa scorrere lo sguardo intorno a sé, prende una decisione, la mette in atto.
“Mi aiutereste ad alzarmi?”
Ci porge due braccia. Ci guardiamo come dei cretini, le afferriamo e la tiriamo su con una certa energia. Lei si liscia pieghe inesistenti del vestito e guarda, malissimo, Jimmy.
“Lilian, cosa ci facevi a cavallo di costui?”
“Sopravvivevo a un volo di quindici piani, madre.”
“Nient'altro?”
“Vi ho mai dato modo di pensare il contrario?”
Jimmy si volta verso Lilian, repentino. “Dai del voi a tua madre?”
Lei si stringe nelle spalle, dolce. “Te l'avevo detto che i miei sono gente all'antica.”
La signora stira le labbra in una smorfia di disappunto. “Vedo che invece voi due siete passati già al tu.
Lilian salta su piuttosto platealmente. “No, per carità.”, si volta verso Jimmy e gli tende la mano, “E' stato un piacere fare la sua conoscenza, signor Sullivan, e del suo... beh, del cavallo dei suoi pantaloni. Non dimenticherò mai la mano che mi ha dato per salire a controllare il quadro dei comandi sopra la centralina dell'abitacolo.”
Cerchiamo tutti di trattenere le risate, soprattutto Jimmy, che le stringe la mano divertito.
“Il piacere è stato mio, signorina Cartwright. Sarò lieto di darle una mano quando vuole.”
Lilian sorride, e finalmente rivedo la ragazza che per un attimo ho intravisto in ascensore, quella intraprendente, leggera, ironica. Divertente.
“Tutto questo è molto inopportuno.”, osserva Madame Cartwright, cercando complicità in Brian al suo fianco, prima di accorgersi che si tratta di Brian. “Ne convengo.”, risponde quello, beccandosi un'occhiata di disapprovazione dalla donna.
Finalmente, anche i genitori di Casper sembrano riacquistare la parola.
“Bene, credo che le nostre strade si dividano qui.”, dice il padre, “Ivy”, ah, Casper si chiama Ivy, “Lilian, Caius, Marjorie, cara”, cara sarebbe la moglie, “è meglio che andiamo, abbiamo già fatto tardi e le ragazze non sono nemmeno riuscite a cambiarsi per la cena.”
“Grazie ancora per il vostro aiuto, ragazzi.”, dice Ivy, rivolta a tutti noi, “Non ce l'avremmo mai fatta a uscire da lì senza il vostro intervento.”
Il vostro intervento? Che abbiamo fatto? Shadows ha aperto le porte, Brian ha dato fastidio alludendo ai costumi sessuali delle educande, io sono stato per lo più zitto, Jimmy ha fatto un po' il fesso con Lilian e Zacky ci ha deliziati tutti con le sue opinioni cretine. Per il resto del tempo, ci siamo urlati addosso come cinque oche. Il nostro manager tace.
“Beh, visto che questi ragazzi sono stati così gentili da aiutare le bambine” le bambine “a uscire di qui, forse dovremmo invitarli a cena.”
Tutti guardiamo il signor Cartwright, sconvolti. Il nostro manager si ricorda all'improvviso del lancio del cd che ci aspetta nell'attico.
“Veramente...”, tenta di dire.
“Accettiamo con piacere.”, ci precede tutti Brian, sfoggiando il suo miglior sorriso.
Il signor Cartwright tossisce.
“Allora, forse, volete approfittarne e cambiarvi tutti.”, osserva, squadrando le uniformi delle bambine e le nostre maglie con i teschi, i pantaloni strappati e l'eyeliner che il caldo dell'abitacolo ha fatto anche colare un po', per non parlare di tutti quei tatuaggi in bella vista.
“Non so se ho qualcosa di adatto.”, soggiunge Shadows, meditabondo.
“Io sì.”, interviene Zacky, tempestivo come gli uragani in Louisiana.
Il signor Cartwright tossisce di nuovo.
“C'è un ascensore di servizio, in fondo a quel corridoio.”, ci dice, questionando tra sé e sé l'invito che aveva poc'anzi così gentilmente avanzato.

 

Il secondo ascensore che abbiamo preso, con la cortese compagnia di un facchino dell'albergo, non si è bloccato. Siamo saliti e riscesi in perfetta salute. Jimmy squadra il vestito con il fiocco di Lilian, probabilmente pensando a quanto starebbe bene sul pavimento della sua camera da letto. Lei si volta ad aggiustargli il nodo della cravatta.
“Quanti anni hai, Lilian?”, le chiede, fissandola mentre armeggia con il suo collo.
“Diciannove.”, risponde lei.
“Diciannove...” fa eco ironico e acuto Brian. Jimmy storna lo sguardo su di lui, che, da dietro alle spalle di Lilian, giunge le mani all'altezza dei polsi e gli fa il gesto delle manette.
“Ecco qui.”
Jimmy riabbassa lo sguardo su di lei e le fa l'occhiolino. Lilian si volta e avvampa. Gesù, come sono dolci, carine e pudiche queste educande. Voglio vomitare.
Le ragazze, nei loro vestitini bon ton, ci precedono fuori dall'ascensore. Brian si avvicina a Jimmy, tirandosi il collo della camicia per respirare meglio. “Ti arrestano!”, gli sibila a un centimetro dall'orecchio, sorridendo alla signora Cartwright che sta apparendo in dissolvenza dietro l'angolo, “Un'altra volta!”, aggiunge, per ricordargli la lunga litania delle sue incomprensioni con la legge.
Jimmy osserva Lilian che si china in avanti verso sua madre per dirle qualcosa e poi si volta a guardarlo come un cerbiatto, tra le ciglia.
“Ti raccomando, vienimi a portare le arance, in carcere.”, dice a Brian, prima di raggiungere la famiglia di porcellana accelerando sulle gambe lunghe.

 

 

 

 

Allora.
È andata così:
“Ti prego, basta psicodrammi.”
“Ok.”
“Una cosa corta, leggerina, per Natale? Magari un paio di capitoli? Tipo calendario dell'avvento?”
“Ok.”
"Ma mi stai almeno ascoltando?"
"No. Sì. No. Ti chiamo dopo."
E mi sono messa a scrivere.







 

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Capitolo 2
*** Ginevra Kringe ***


“I ricordi si appiccicano al petto, alla schiena, a tutta la pelle,
e formano pian piano una patina invisibile che separa dal mondo.”
- Alejandro Jodorowsky

 

 

Entriamo nel ristorante accompagnati da un refolo di aria fresca che ci siamo portati da fuori; checché se ne dica, l’aria di Natale è aria di Natale ovunque, perfino in California. Per tutto il tragitto ho pensato a un miliardo di cose, nello specifico all’odore di guai e vaniglia che avevano le ragazze nel retro di quella limousine nera, al tanfo di amido delle camicie dei loro padri, alla posa impettita e compatta delle loro madri. Mentre la guardavo chinarsi verso Jimmy, ho formulato un pensiero anche su Lilian: alcuni dettagli stavano smantellando a poco a poco tutte le impressioni che avevo avuto su di lei in ascensore. All’improvviso, non mi sembrava affatto innocente e candida come prima; forse, l’aria rarefatta di un abitacolo pensato forse per trasportare venti casse di lumache (certo non venti persone) in cui stavo bloccato e pensavo di dover morire in sola compagnia delle cose che ancora non avevo fatto in tempo a realizzare e dei quattro deficienti più deficienti che il Signore abbia avuto la sfortunata idea di creare ottundeva leggermente la mia capacità di ragionamento. Comunque, entriamo al ristorante. Shadows praticamente mi pesta, sorridendo alla signora Cartwright nel reggerle la porta. La vecchia non sembra subire il fascino delle sue fossette, e se per quello manco io; sbuffo. Nella sala non si ode un rumore, fatta eccezione per un lieve tintinnio di posate e conversazioni sussurrate talmente a bassa voce che credo che la gente debba fare un grande sforzo di immaginazione per sentire quello che dice il commensale di fronte.
Jimmy è perplesso. “Ma che posto è?”
“Non lo vedi?”, sibila Brian, che ormai si è abbonato a un sorriso di circostanza, tra i denti, “È una cripta.”
In effetti, siamo circondati di cadaveri vestiti a festa.
“Se i signori vogliono accomodarsi nel lounge, facciamo subito preparare il tavolo.”
Tutti e cinque saltiamo alle parole del cameriere. “Cos’è? Un pinguino?” sibila Jimmy, il cui già precario senso estetico sembra essere stato irrimediabilmente offeso dalla livrea che l’uomo indossa per servire ai tavoli. Lilian e Ivy stanno attente a mantenere una distanza di sicurezza che non insospettisca i genitori, ma ci orbitano intorno come due piccole farfalline desiderose di spiegare le ali. Non so perché, inizio a trovare questa situazione lievemente patetica.
E ci addentriamo nel lounge, uno spazio semi-aperto dove, se non altro, si può fumare. Mi attiro due sguardi sconvolti e non meno di tre maledizioni voodoo mentre do fuoco alla mia sigaretta. Alzo lo sguardo. La signora Cartwright mi fissa come se mi avesse appena visto staccare la giugulare a un cerbiatto con un paio di pinzette da sopracciglia. Mi guardo intorno alla ricerca di cartelli con su scritto vietato fumare, e non ne trovo. Scuoto lentamente la testa, per segnalarle che non capisco dove sia il problema. Stira le labbra. Mi guarda malissimo. Disapprova me, i miei capelli, le mie sigarette, la mia stessa esistenza, in un modo non dissimile da quello in cui io disapprovo la sua. Fortunatamente, l’intero consesso di genitori apprensivi identifica, dall’altro lato della sala, altri genitori apprensivi. “Se ci volete scusare un secondo, dobbiamo salutare.”, ci dice il signor Cartwright, e si porta appresso tutti, comprese le riluttanti ragazze. Lilian, allontanandosi, fa indugiare il dorso della mano pericolosamente vicino al cavallo dei pantaloni di Jimmy. Io sbuffo per la seconda volta in quattro minuti, lui invece nemmeno ci fa caso perché sta ordinando da bere.
Poi la vedo io per primo, perché è sempre così. La vedo e la sento, una voce burrosa e ascendente, miele in senso buono, leggermente divertita.
“Ma quello non è il piccolo Baker?”
Il piccolo Baker? Mi volto alla ricerca del rumore, scansionando il lounge, e finalmente li vedo: una famiglia di tre persone, lui (vecchio), lei (vecchia), lei.
“Zack?”, dice, quasi sussurrando, gli occhi grandi aperti in un moto di gioiosa sorpresa. Zacky si volta e gli va di traverso il drink. Pianta gli occhi verdi dentro quelli profondi di lei, ne osserva per un lungo minuto i capelli, sinuosi, che le cadono in onde sulle spalle: ciglia chilometriche e fitte le sbattono sugli occhi, la bocca carnosa, tinta di un lieve rosato, si apre in un sorriso dolcissimo e felice. Le gambe lunghe si muovono verso di noi; il vestito bianco che ha addosso le ondeggia intorno, si ferma appena sotto le ginocchia. Lo sguardo di divertito stupore che aveva negli occhi mezzo secondo fa ancora non se n’è andato. Si avvicina a Zacky, che la fissa come Adamo deve aver fissato Eva la prima volta che la vide, nel Paradiso Terrestre: vale a dire, come uno che non sa assolutamente che cazzo è l’oggetto tridimensionale che gli sosta davanti. “È una donna.”, gli sussurra infatti Brian per aiutarlo, a titolo informativo. “Sembra anche a me.”, provo ad aggiungere.
“Zack?”, ripete lei. Poi fa una cosa che nessuno di noi si aspetta: sporge il labbro inferiore e spalanca ancora di più gli occhioni, ostentando un finto broncio. Zacky si illumina di immenso, quell’espressione di lei evidentemente gli accende qualche lampadina in testa.
“Gin?”, dice, infatti.
“Sì, anche io. Due gin.”, ne approfitta Brian, intercettando il cameriere.
Zacky scuote la testa. “No”, dice, indicandoci quel batuffolo di gioia, “Lei è Gin.”
Gin e Zacky si fissano per alcuni intensi secondi, ancora storditi dalla sorpresa: d’un tratto, inscenano quella bizzarra danza a passetti tipica delle persone che non sanno se è il caso di abbracciarsi o meno. Alla fine, Gin prende una decisione, e gli butta le braccia al collo lasciandosi stringere. La stanza si congela, colta di sorpresa dall’evidenza di un contatto fisico tra due entità umane di sesso opposto. Che cosa disdicevole e oltremodo inopportuna.
Gin sorride, si scansa da Zacky, spiega con gesti delicati delle mani: “Mi sono laureata. Da poco. In psicologia! Ci pensi?”
“Io non mi sono laureato per niente, invece. Anzi, sono diventato un chitarrista.”, conclude Zacky, ridendo leggermente a disagio. Fortunatamente è arrivato il gin.
Gin sorride ancora, è allegra: “Lo so, siete una band. Vi ho visti, un paio di volte. Veramente bravi!”
Siamo tutti, di nuovo, un po’ sbalorditi. Neanche lei sembra tipa da Avenged Sevenfold. Nessuno, qui dentro, sembra tipo da Avenged Sevenfold. “E perché non sei passata a salutare?”, le fa Zacky, riemergendo dalle nebbie della sorpresa.
Lei scoppia a ridere. “Beh, cosa facevo? Entravo nel backstage e ti dicevo ciao, Zacky, ti ricordi di me? Sono Ginevra Kringe, la figlia dell’amica di tua madre, sai, la bambina che correva nuda nel giardino di casa tua?”
Zacky si stringe nelle spalle; da quando l’ha vista, la fissa contento e stordito come se fosse appena uscita da un sogno. “Perché no.”
Gin esita, uno sguardo dubbioso le offusca gli occhi dolci. “Non lo so, in realtà.”
Tossisco. Zacky si riprende dalla trance. “Oh, scusa, li conosci? Lui è Matt.”
Shadows vorrebbe una colonna a cui appoggiarsi per dare sfoggio di tutto il suo sex appeal, ma deve accontentarsi di trasudare sensualità virile all’impiedi, dentro un completo da sera. Le sorride. Lei è sensibile alle fossette, pare. “Ma certo.”
“E Brian...”
Brian dice “come va?”, giuro, dice proprio come va, alzando il mento in un modo che vorrebbe essere sexy, penso, però a me pare soltanto un coglione. Gin ride. “Il figlio di Brian Haner, vero? Tuo padre è una leggenda.”
“Lui è Johnny, l’amico di mio fratello!”
Lei ride di nuovo, entusiasta di quella passeggiata nel viale dei ricordi.
“E lui è Jimmy.”
Il sorriso un po‘ si attenua, mentre lei annuisce, sospesa. “Jimmy Sullivan.”, dice. Il modo in cui pronuncia il suo nome ha un sacco di sottintesi e mi rende pensieroso. Sembra un po‘ ferita, ma è sempre leggera, non c’è rancore nella sua espressione. Jimmy la guarda un po‘ stordito. “Siamo stati a letto e poi non ti ho richiamata?”
Il sorriso sul viso di Gin si allarga di nuovo. “Non che io ricordi. Dici che me ne ricorderei, se fossimo stati a letto insieme?”, gli risponde, semplicemente. Brian si produce in un’espressione di selvaggio divertimento per il colpo che lei ha assestato e che Jimmy non può fare altro che incassare con dignità. Addirittura si piega sulle ginocchia, quel deficiente di un chitarrista.
“Non credo di ricordarmi di te.”, le dice, per niente risentito.
“Ho un anno in meno di Johnny.”, risponde lei, indicandomi, “È probabile che ricordi mia sorella Delia, però. La chiamavano DN.”
L’espressione di Brian sconfina nel sublime. Questa situazione lo entusiasma a non finire. “Deadly Nightshade!” sibila, estasiato. La serata si sta mettendo bene; scivoliamo velocemente tra le pieghe di un inusitato dramma, anche se per il momento non facciamo altro che percepirne appena i contorni. Jimmy conosce quel nome, ma non batte ciglio: regge lo sguardo di Gin, tranquillo. Delia, per quanto ne so, è stata una sua fiamma parecchio infuocata; così infuocata dal portarlo a scriverle una canzone.
“Perché non mi ricordo di te?”, insiste invece Jimmy, con il savoir fare di un coccodrillo, glissando elegantemente sull’argomento.
“Sono tornata a vivere qui in pianta stabile da pochissimo, sono sempre stata fuori. Da quando avevo tredici anni. In collegio, poi in un’università cattolica, in Europa. Grazie a Delia. I miei volevano, non so, risparmiarmi le sue esperienze. Le sue devianze, come le chiamano loro. Mia sorella è stata una teenager, e poi una giovane donna, piuttosto turbolenta. Ma questo già lo sai.”, spiega lei, ma non è arrabbiata e non sta accusando nessuno. Mi chiedo come faccia a prenderla così.
“E lei come sta?”, si sforza di dire a quel punto Jimmy, perché non ha alternative.
“Bene, si è sposata. Vive in Louisiana con il marito.”, poi si volta verso Zacky, “Sai chi è lui? Carl.”
“Ma dai! Dull Carl? Quel bacchettone che veniva a scuola con il papillon?”
Gin scoppia di nuovo a ridere, annuendo. Improvvisamente, si volta alle sue spalle e fa cenno ai due vecchi che avevo visto prima di raggiungerci: sono i genitori. Gin si volta verso Jimmy: “Non ti preoccupare, loro non sanno che sei tu quello che Delia definiva lo stronzo che mi ha rovinato la vita per sempre. È sempre riuscita ad infilarsi nei guai in modo molto discreto, tenendogli nascosti tutti i dettagli. Con me le riusciva facile, parlare, tanto io ero a un oceano di distanza. Per quello so di te. Almost easy è bellissima, a proposito.”, dice, tranquillissima, ricca di riferimenti e cenni, trasudando dolcezza, come se stesse parlando della cosa più naturale e accettabile del mondo. Sua madre si avvicina, ci saluta, afferra le guance di Zacky. “Ma guarda come sei cresciuto!”
“Buonasera?”
Ah, finalmente, sembrano passati mille anni: riecco i Cartwright, quegli altri che non sono i Cartwright e le figlie al seguito. Ci guardano storditi. Le ragazze guardano piuttosto intimidite Gin.
“Miss Kringe?”
“Ivy! Lilian! Cosa ci fate qui?”
Vedo Lilian combattere con se stessa per non prendere il braccio di Jimmy e marcare il territorio, andando incontro a qualche, non so, punizione medievale che comprende una gabbia, o qualunque cosa facciano i genitori-teiera quando devono punire le figlie disobbedienti e lascive.
“Siamo a cena con loro.”, risponde Ivy, e ci indica. I signori Cartwright e i genitori di Ivy si scambiano convenevoli con i signori Kringe e con Gin che, comprendo, è un consulente al collegio delle ragazze, tipo che tiene dei seminari per aiutarle a scegliere cosa vogliono fare all’università.
Ci chiamano per il tavolo.
“Aspetta”, dice Zacky a Gin, con una prontezza di riflessi che mi pare assurdo venga proprio da lui, questo uomo-cuscino pettinato male e vestito peggio,  “Lasciami almeno il tuo numero, così ci vediamo, qualche volta!”
I signori Kringe si bloccano e Gin fa un sorriso bellissimo. Afferra un tovagliolo dal bancone del bar e una penna dal taschino di un cameriere che si ferma, sconvolto, e attende che lei abbia finito di scrivere il numero per richiedergliela indietro. Porge il foglietto a Zacky, sorride ancora e ci abbraccia tutti con lo sguardo, uno per uno. “Ciao, ragazzi.” Poi i suoi occhi si fermano su Jimmy: “Ciao, Almost easy.”
Niente rancore, ma uno sguardo di quelli che bucano le montagne e fanno zampillare sangue dagli occhi delle statue delle Madonne.
La guardiamo voltarsi, rapiti dal movimento del vestito bianco sui suoi fianchi. Io mi sporgo in avanti, interessato da lei come persona, più che dal suo culo. Ve lo giuro. Sono affascinato, irretito dal modo spontaneo in cui ha tenuto testa a Jimmy.
Shadows, al solito, non capisce un cazzo e mi occhieggia con aria di sagace consapevolezza: “Non pensarci nemmeno.”
Io non rispondo. Brian ride come un ossesso, ormai, fissando Jimmy.
“Oltretutto, dovresti anche passare sul cadavere di Zacky.”, continua Matt, lo stronzo. Zacky fa un gesto come per scacciare una mosca, sottolineando disinteresse.
“Sul cadavere di Zacky, eh? Quanto danno per l’omicidio?”, mi informo a questo punto, “Da trent’anni all’ergastolo?”
“Credo di sì.”
Guardo Brian, serissimo. “Che vi devo dire. Vieni a portare le arance anche a me.”

 

Lilian ha passato tutto il tempo a sfiorarci le gambe sotto il tavolo, durante la cena. È nel momento in cui formulo il pensiero ma cos’hanno, le ragazzine di oggi che mi sento decrepito, e capisco simultaneamente di aver sbagliato carriera. Le nostre strade con le famiglie teiera si sono divise in maniera indolore, poco fuori dal ristorante. Ora ci siamo soltanto noi cinque, frastornati, ancora incapaci di comprendere per quale motivo Brian abbia deciso di accettare a nome di tutti quell’invito a cena, seduti sopra un muretto davanti al mare. In silenzio. Jimmy osserva con occhio clinico un paio di mutandine di seta rosa pesca. Le mutande di Lilian. No, dai.
“Allora.”, dico, tanto per dire qualcosa, fissando quell’indumento un po’ intimidito dall’idea del suo precedente contenuto. “Tu e questa Delia Kringe stavate insieme?”
“Hm?”, fa Jimmy, riemergendo da profondità a noi sconosciute. Per un attimo nessuno dice nulla. Poi Shadows rotea gli occhi come una signorinella impaziente in coda dal ginecologo, aprendo anche un po’ la bocca per prodursi in una favolosa espressione di noia mortale; si alza in piedi e storna lo sguardo su di me. “Secondo Delia stavano insieme, sì, secondo Jimmy non si sa. Come al solito.”
“È finita male, comunque.”, interviene Brian, inusualmente serio.
“Hm?”, fa di nuovo Jimmy.
“PRONTO” gli urla Brian in un orecchio, infastidito, “STAVAMO PARLANDO DI TE E DI DELIA KRINGE!”
“Chi?”
“Deadly Nightshade.”
“Ah.”
Il mare divora la sabbia a una cinquantina di metri da noi, e mi sorprendo a pensare a quanto siamo diversi. Ogni tanto mi verrebbe da dire che con loro, a parte la nostra passione e un rapporto decisamente conflittuale con i parrucchieri, non ho niente in comune. Io sono sempre stato piuttosto fedele a Lacey. Non ho mai avuto le loro tormentate storie d’amore, che poi erano amore quasi sempre solo dal punto di vista delle loro fidanzate del momento; belle donne, o donne normali, o donne interessanti, comunque donne folli, che li facevano impazzire e gli piantavano grane e li mandavano al manicomio con liti e pretese, sfuriate epocali in cui volavano piatti e ti telefonavano esasperati, con le voci rotte dalle urla, per chiederti se potevano stare un po’ da te. Erano sempre loro a lasciare il campo, chissà perché. Mai una donna si era voltata e se n’era andata di casa, lasciandoli nei loro spazi. Io e Lacey siamo sempre stati una coppia piuttosto ordinaria, in confronto; mai esagerate esplosioni di meraviglia, mai abissi oscuri di rabbia e sgomento, mai assurde litigate senza fine e senza motivo. Mai una volta avevo avuto bisogno di, per così dire, scappare da lei, rifugiarmi dai miei amici e cercare di recuperare un equilibrio che tanto, comunque, non avevo mai avuto. Noi siamo noiosi, in confronto a loro. Perfino Matt e Valary - così solidi, così indivisibili - vivono un continuo psicodramma: sono arrivato addirittura a pensare, in certi punti, che quello che in realtà li unisce così tanto è un sottofondo di sospetto e risentimento, il che non è necessariamente un male. Per loro, tutti e quattro i miei amici di una vita, i miei fratelli... per tutti loro, il rimpianto è un’abitudine. Allora forse, penso, fissando quelle mutandine rosa, forse siamo io e Lacey quelli che dell’amore ne sanno davvero qualcosa.
“Quello sguardo che lei ti ha lanciato quando ti ha detto ciao, Almost easy è stata una delle cose più cariche di significato che io abbia mai visto accadere in vita mia.”, osservo. Gli altri si voltano a guardarmi come se mi fossero spuntate le antenne. “Scusate.”, mi affretto a dire, vagamente risentito. Ma guarda tu questi quattro cretini: fanno tanto i cantautori e poi non sanno gestire un’affermazione un po’ più profonda, che non sia seguita da una parolaccia e salutata da un rutto. Ma che vado a pensare? Forse sto diventando gay. 
“Quale sguardo?”, mi chiede Jimmy. Jimmy si fida di me, e io di lui. È sempre stato così: in mezzo alle angherie, agli scherzetti da liceali un po‘ invecchiati e al fatto che ogni tanto si divertono a menarmi, questi mi tengono in gran considerazione. Bella consolazione. Comunque, serafico, lo guardo condiscendente e gli rispondo: “Dormi, Jimmy, non ti preoccupare.”
Brian agita le braccia per fare la mia imitazione, cosa che non gli riesce affatto, ma gli altri ridono.
“Veramente non vi siete accorti di nulla? Ho una notizia per voi, casanova: non ne capite proprio un cazzo di donne.”
Jimmy mi sventola davanti le mutande dell’educanda, come a volermi smentire.
“Bravo. Hai fatto colpo su una diciannovenne ninfomane e falsa come una banconota da tre dollari. Tu sì che sei un professionista.”
Lui si stringe nelle spalle: “Me la devo scopare, mica sposare.”
Mi incazzo: “No, ma ormai non hai più vent’anni, sai, bello? Prima o poi qualcuna te la dovrai sposare, e non perché devi, ma perché vorrai farlo! A maggior ragione, dopo che ti sei lasciato con-”
“NON NOMINARLA!”, urlano gli altri tre, spaventati.
Sospiro e aggiusto la frase: “Dopo che ti sei lasciato con colei che non deve essere nominata, capisco che tu abbia voglia di avventure, ma alza il tiro, amico! Che ci fai con quello scricciolo di donna che non fa altro che metterti il culo in faccia, in barba alla scuola di buone maniere e a tutte le pose da signorina dell’ottocento con tanto di mamma a cui dà del voi?”
Brian sente la eco di nugoli di femmine morte ai suoi piedi non appena sale sul palco e si leva il cappello, e alza gli occhi alle stelle, riflettendo seriamente sulla mia affermazione. Shadows penso si sia sempre considerato sposato con Valary, in un certo senso, anche quando erano talmente piccoli che stavano ancora cercando di capire come funzionassero i rispettivi organi di riproduzione. Zacky è felicissimo, la sua Gena è la donna più bella e - secondo lui - fortunata del mondo. E poi ci siamo io e Lacey, la nostra storia normale e le nostre serate sul divano tra i biscotti e i vecchi film di vampiri.
Zacky sta giocherellando con il portafoglio. Ne estrae una foto, con uno sguardo appannato negli occhi. “Ah, eccola qui.”, dice, come se tutti sapessimo di cosa sta parlando. Sono quattro bambini in un giardino. Due sono in lontananza, si schizzano con la pompa dell’acqua: in primo piano, invece, ci sono un ragazzino con sorprendenti occhi verdi e una bambina più piccola, biondissima, che gli sta stringendo il collo con una smorfia di trionfo e due denti in meno in bocca.
“È Delia?”, si informa Shadows, ostentando l’intuito di uno scaldabagno.
“È Ginevra.”, rettifica Zacky, con un sospiro nostalgico.
“Quanto è diventata alta!”, osservo.
“Non so se te ne sei accorto, ma anche messo su due belle pere. E un culo che parla. E due gambe lunghe come autostrade.”, aggiunge Brian, esperendo un’analisi da libro di anatomia patologica.  “E come le si muovevano bene i fianchi in quel vestito.”, continua poi, non riscontrando in noi reazioni apprezzabili o commenti da camionisti sull’immagine evocata. Ancora niente. Si volta verso Jimmy.  Jimmy si volta verso Brian. “Brian, senti, a stento l’ho guardata.”, fa Jimmy, giustificandosi.
“Sì, stocazzo.”, Shadows, provocatorio.
“Grazie per il tuo contributo, Matt.”, Jimmy, tracotante.
“Scusa, ma non puoi dire una cosa del genere! Sono stato testimone oculare dello sguardo da maniaco che le hai lanciato!”, Shadows, scientifico.
“Quello è il mio sguardo solito. Io guardo tutto così. Non ti ricordi l’opinione diffusa del vicinato? James Sullivan è un pazzo.”, Jimmy, esegetico.
“Non è che avessero torto.”, io, mettendomi in mezzo.
“Questi sono dettagli di nessuna importanza.”, chiude infine Jimmy, rifiutandosi categoricamente di ammettere che sì, in effetti, tutti abbiamo guardato Ginevra Kringe e Ginevra Kringe ci ha guardati tutti. Oltretutto, ha anche assestato una sonora stoccata al suo orgoglio maschile con quel soave dici che me ne ricorderei, se fossimo stati a letto insieme?, che Jimmy ha apparentemente incassato con un certo signorile distacco, ma io lo conosco e so che dentro di lui si stava attivando un particolare tipo di enzima al solo scopo di significargli, dentro il cervello, la scritta intermittente al neon CENTRO PERFETTO, 50 PUNTI, SEI UN COGLIONE.
Improvvisamente mi punge un dubbio. “Zacky, hai conservato il foglietto con il suo numero di telefono?”
Zacky salta. Si tasta come se si stesse perquisendo da solo. Estrae un tovagliolo, visibilmente sollevato. Allora, e solo allora, dice: “Sì, perché?”
Sto per rispondere, ma Shadows fa prima: “Invitiamola al barbecue di Natale, sabato prossimo. Possiamo estendere l’invito anche ai suoi genitori visto che ci saranno i tuoi, Zacky.”
Segue pausa generale a scopo meditativo.
“Sì.”, chiosa infine Brian, dando una pacca sulle spalle a Jimmy talmente forte che lo sbilancia in avanti rischiando di farlo finire a faccia in giù nella sabbia, “Invitiamola al barbecue.”

 

 

 

Allora.
Ovviamente, siete tutti invitati al barbecue.
Mi sa che "multicapitolo breve" non è proprio il termine esatto, comunque - tanto per avvertirvi. 
L o v e, 
Q. 

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Capitolo 3
*** Interlude ***


“Istantanee di secondi lunghi quanto un anno bisestile.”
- Incanto

 

 

Ore 3.15, stanza di Lilian e Ivy, Collegio delle Sorelle del Sacro Cuore.
 

“Allora, gli hai dato il numero di telefono?”
Ivy si muove a disagio tra le coperte. Le dà fastidio il lenzuolo, la vita, la prospettiva di altri sei mesi in quel bunker di cemento in cui ci sono più crocifissi che forchette. Sente Lilian squittire eccitata.
“Sì! Non vedo l’ora che mi chiami!”
Segue discreto silenzio.
L’amica non lo sa, ma Lilian, oltre al numero di telefono, gli ha dato anche gli slip. Così, per sicurezza.
“Perché mi chiamerà, vero?”
Ivy sbuffa. È sempre stata una ragazza piuttosto pragmatica, molto meno incline dell’amica a perdersi in duemila romanticherie che duravano giusto il tempo di una serenata e una scopata. A proposito di scopate.
“Certo che ti chiamerà. Ma perché gli hai detto che sei vergine?”
Il rumore che Ivy sente è quello di Lilian che si stringe nelle spalle.
“Non lo so. Ai ragazzi non piace sentirselo dire?”
Ivy vorrebbe dire qualcosa, ma non è sicura che ci sia davvero qualche osservazione da fare. Conosce Lilian da quando erano bambine, volerla capire per forza è un errore che non è più disposta a fare: l’ha vista una marea di volte innamorarsi e poi dimenticarsi di quelli di cui si era dichiarata dipendente nello spazio di un amen, e ormai non ha più tanta voglia di darle retta. Però sa che lo deve fare. Sa che Lilian per lei lo farebbe, o almeno vuole crederci. Una cosa, però, deve proprio dirgliela.
“Quello non è un ragazzo, Lily, è un uomo.”
“È una rockstar!”
“Sì ma le rockstar afferiscono sempre agli esseri umani, non è che fanno parte della razza dei frigoriferi, Lilian.”
L’amica non la sta ascoltando, Ivy lo sa. La sente infilarsi le cuffie e perdersi nell’idea di quella storia d’amore proibita con uno tanto più grande; uno che, peraltro, sua madre non avrebbe mai approvato. Difficile far entrare in testa alle diciannovenni che Romeo e Giulietta è durata tre giorni ed è finita con sei morti.
Chiude gli occhi, Ivy, vuole scivolare nel sonno anche se sa che le porterà gli incubi psichedelici che la accompagnano da quando riesce a ricordare: mostri che si materializzano dal nulla, vapori omicidi che salgono dal piatto della doccia, nebbie così dense che si possono tagliare con il coltello e che nascondono silenzi e sagome senza bocca che la fissano minacciose. Lilian, però, si toglie le cuffie e le rivolge la parola, costringendola a spalancare le palpebre di nuovo nel buio. Nell’oscurità non c’è quasi differenza, osserva Ivy, tra avere gli occhi aperti e averli chiusi: il pensiero, chissà come, la conforta.
“Senti, ma secondo te come mai la suora mancata li conosce?”
Ivy sorride. Le piace Ginevra Kringe, il suo modo di fare affettuoso e confortante, il fatto che in biblioteca canticchi a bocca chiusa e che sembri sempre serena, a parte quei momenti - che Ivy intercetta e perfino attende, a volte - in cui qualcosa le offusca lo sguardo e si perde in distanze inconoscibili. Le piace il fatto che sappia un sacco di cose, che sia colta e divertente, e che una volta le abbia confidato che le piace il metal. Le piace quando la vede da sola in cortile e, nei suoi vestiti da ragazza perbene, si siede accanto a lei e le tira fuori la camicia dell’uniforme dalla gonna, spingendola con la spalla, esortandola a parlare con lei di cose che, lo sa benissimo, Ivy non le dirà mai. Le piace il suo intuito, quello che le fa percepire gli incubi di Ivy che a volte la tormentano anche di giorno, ed è per questo che va a sedersi da sola negli angoli del giardino. Le piace perché è una persona gentile e non se la tira per niente, anche se la Madre Superiora gliel’ha presentata, al corso di orientamento, come una donna intelligentissima e bellissima e figlia perfetta e studentessa modello e fidanzata con il miglior partito possibile, quasi volesse fargliela odiare da subito, e temere, facendo capire a lei e alle sue compagne che lei era il modello da seguire ma comunque difficilmente sarebbero state alla sua altezza. Lilian la odia, infatti, per questo la chiama “la suora mancata”: la identifica con quelle figure mitologiche che girano per il convento, tutte gelo, preghiere e rigidità di mente e di costumi, ma sa di mentire, perché Ginevra non è così. Non è affatto così. Lei è gentile. È forte. Ed è veramente buona.
“Mi stai ascoltando, Ivy?”
“Scusa, mi ero appisolata.”, mente lei, “Cosa hai detto?”
“Ti ho chiesto secondo te perché la suora mancata conosce i ragazzi.”
I ragazzi. Ivy sorride.
“Mi è sembrato che conoscesse Zacky, veramente. Forse erano amici. Non è molto più piccola di loro.”
“Hm.”, fa Lilian, insoddisfatta dalla risposta, ma per fortuna non dice più nulla.
Ivy sospira. Finalmente si può dormire. 

 

Ore 3.15, casa di Ginevra Kringe, una delle villette a schiera sulla strada davanti alla spiaggia.
 

Gin si rigira a letto a disagio. Rivederlo è stato un colpo al cuore che non è sicura di potersi consentire. Richard si muove appena quando lei si alza per andare a prendere dell’acqua. Scende le scale e si ritrova nell’open space, tra salotto e cucina. Si guarda intorno come se dovesse riconoscere le sagome dei mobili che ha scelto lei. Perché è tornata ad Huntington Beach? Avrebbe potuto restarsene a Parigi a fare quel master alla Sorbone. Avrebbe potuto accettare quell’incarico di assistente a Dusseldorf. Invece no, ha fatto i bagagli prima ancora di rispondere alla lettera in cui la Madre Superiora del collegio in cui aveva passato un anno, appena un anno prima di essere spedita in Europa, le scriveva per proporle un posto da assistente all’orientamento delle ragazze dell’ultimo anno fino a giugno, promettendole poi un posto da ricercatore alla UCLA. Ma certo che è tornata ad Huntington Beach, certo, certo. Che cretina. Richard è appena stato assunto alla divisione Sud del CalTech, ha voluto, ha dovuto seguire il suo fidanzato a Los Angeles. È giusto così, no?  E sarebbe stata vicino ai genitori. Certo. Che stupida. Lascia perdere l’acqua e si prepara un tè: sì che rivederlo è stato un colpo al cuore. E, oltre a lui, è stata molto contenta di aver rivisto anche Zacky.

 

Ore 18:30 del giorno seguente, Wrecked Records, negozio di vinili sulla Ocean Lane

 

Lui la vede prima che lei veda lui, e gli viene un sorriso da squalo che non sa ben identificare. La prende alle spalle, sporgendosi oltre il suo viso per vedere che disco sta fissando con tanta intensità.
“Johnny Cash. Bello. Un po’ cruento per una signorina, no?”
Lei sobbalza appena, ma sorride. “Ma che idea avete tutti quanti di me? Ciao, Almost easy.”
Il sorriso di Jimmy, quello di prima, si allarga mentre lui si rimette in posizione eretta e Gin si volta, stringendo il vinile tra le braccia.
“Ciao, fatina.”, le dice, squadrandola sfacciato.
“Questa occhiata da predatore vorrebbe essere intimidatoria?”, dice lei, quasi divertita.
“No, solo un apprezzamento.”
“Jimmy, porto un maglione di tre misure in più della mia. Non c’è molto da apprezzare.”, ribatte Gin, sorridendogli per nulla intimidita dalla vicinanza e dal quello sguardo che lui ha negli occhi. È la seconda volta in assoluto che la sente pronunciare il suo nome, e ci rimane secco per un secondo. Solo un secondo.
“Ho l’occhio clinico.”, le risponde, con un occhiolino. Lei scoppia a ridere, spiazzandolo. Fortunatamente, da dietro a una pila di dischi in precario equilibrio spunta un terzo individuo vestito male e pettinato malissimo, tempestivo come non saprà mai di essere stato.
“Jimbo, ho trovato quel... Oh! Ciao, bel-culo.”
Gin non si scompone affatto. Gli rivolge, anzi uno sguardo carico di affetto. “Ciao, Brian.”
Jimmy le sfila dalle mani il vinile. “Questo te lo regalo io.”, le dice, senza darle il tempo di ribattere. Rimangono lei e Brian mentre lui va alla cassa.
“Che è successo mentre io cercavo questa cagata degli Oingo Boingo?”
“È successo che mi è apparso alle spalle come il conte Dracula, abbiamo fatto una breve osservazione stilistica su Johnny Cash, dopodiché mi ha, diciamo, squadrata con la sua speciale vista a raggi x attraverso il maglione, e poi sei arrivato tu.”
Brian annuisce, girandosi il CD tra le mani con aria perplessa. “Ottimo resoconto. Senti, ti ha chiamato Zacky?”
Gin piomba in una leggera confusione. “No, perché, doveva chiamarmi?”
Brian crolla le braccia lungo il corpo, stufo di esistere: “Certo. Quell’imbecille doveva invitarti al barbecue pre-natalizio a casa mia.”
“Beh, potevi chiamarmi tu.”, disse lei. Brian rimase per un secondo con il dito indice a mezz’aria, raccogliendo i pensieri.
“Ma il numero ce l’ha lui.”
“E non te lo potevi far dare?”
Brian è confuso. L’inattaccabile logica di questa femmina lo lascia dubbioso e impreparato. Gin sposta gli occhi un po’ a destra e un po’ a sinistra, in attesa di una risposta: è veramente dolcissima, pensa Brian, poi pensa che pensare che una donna sia dolcissima significa per forza che sta diventando gay. Anche Johnny ha avuto la stessa sensazione su se stesso, il giorno prima, ma Brian non lo sa.
“Cosa c’è, non si fa? Viola qualche codice, non so, della fratellanza dei Sevenfold?”
In effetti, no. Brian salta su e si decide a parlare, tanto più che sta tornando Jimmy e non vuole farsi trovare come un crotalo stirato dalle ruote di un tram, tramortito dalle osservazioni in effetti giuste di quella donna.
“Ci farebbe molto piacere se venissi al barbecue pre-natalizio che daremo a casa mia, puoi portare, non so, qualche birra e i tuoi genitori, ai Baker farebbe senz’altro piacere vederli.”
“Grazie, vengo volentieri.”, gli rovescia la mano e afferra una penna dal bancone lì vicino, “Questo è il mio numero, mandami un messaggio con l’indirizzo.”
Brian frinisce leggermente tra i denti perché la punta della biro gli sta facendo il solletico.
“Figurati. Sabato prossimo alle 18, puntuale.”
“Sabato, hai detto? Che peccato, Richard sarà già a San Francisco.”
Un coro di due voci si congiunge in un sentito: “E chi è Richard?”
Jimmy è tornato con un pacchetto. Lo porge a Gin, che lo accoglie con un sorriso. “Richard è il mio fidanzato. Ora, se volete scusarmi, devo scappare a cucinare. Grazie, Jimmy, significa molto per me.”
Li bacia tutti e due sulle guance e scappa fuori, voltandosi una volta ancora per sorridere a loro e poi a sé stessa. Jimmy e Brian restano lì, impalati come due torsoli di mela, a fissare il punto in cui lei è appena sparita. Improvvisamente, il chitarrista si riscuote e si volta verso il batterista: “Grazie, Jimmy, significa molto per me? Da quando ti fai dire cose del genere dalle donne? Sei proprio un gay.”, proietta i suoi timori, canzonatorio.
“Chiedilo a tua madre.”, fa appena in tempo a dire Jimmy, prima che Brian salti rendendosi conto di aver appoggiato la mano con il numero su una superficie. Se la guarda, per sincerarsi che sia ancora lì.
“Cos’è quello?”, fa Jimmy, inquisitorio. Brian si produce in un sorriso ferino: “Il numero di telefono di Gin.”, dice, soddisfatto.
“Cosa? Io le regalo i vinili e lei dà il suo numero a te? Non c’è più religione.”
“Se invece di fare il galantuomo facessi l’intraprendente, magari ne caveresti qualcosa in più. Oltretutto, ti sei già fatto sua sorella.”
“Non è quello il punto.”
“Ma poi tu non dovevi chiamare la ragazzina, scusa?”
“Fatti un po’ i cazzi tuoi.”
“E da quando i cazzi miei e i cazzi tuoi sono due cose diverse?”
Jimmy fa una smorfia accondiscendente. “Hai ragione.”, dice.
“Comunque ha detto che viene al barbecue.”, lo informa Brian.
Si guardano per un momento, in silenzio.
“Ma chi cazzo è ‘sto Richard?”, chiede Jimmy, più a se stesso che a lui. 

 

Ore 19:50, casa Baker.

 

“Zzzsì.”
“Pronto? Zacky?”
Ti pareva. Zacky si issa a sedere sul letto e si leva la mascherina da sonno, accendendo alla cieca la abat-jour sul comodino.
“Cosa vuoi, Brian?”, cerca di articolare nonostante la voce impastata che si ritrova a causa del brusco risveglio.
“Ma stavi dormendo?”
“Che domande fai? Chiami a quest’ora criminale!”
“Sono le otto di sera, imbecille.”
“Appunto, non lo sai che io dalle sei e mezza alle otto faccio il riposino pomeridiano?”
“Sei proprio vecchio. Tra poco dovremo chiuderti in un ospizio e saremo costretti a cercarci un nuovo chitarrista.”
“Se non dormo mi vengono le rughe.”, provò a giustificarsi quello, un po’ in imbarazzo.
“Già lo vedo: Casa di Riposo ‘Il Cipresso’, stanza singola, vista mare.”
“Smettila. Cosa vuoi?”
“Hai chiamato Gin?”
Zacky si fa cupo e crolla all’indietro verso lo schienale del letto, che fortunatamente è imbottito.
“Non ancora.”
“Lo so benissimo. E sai perché lo so? Perché nemmeno un’ora fa l’ho incrociata con Jimmy al Wrecked Records, stava comprando vinili di Johnny Cash.”
“Sempre detto che era una dritta: apprezzare Johnny Cash è sintomatico delle persone perbene.”
“Bravo, Sigmund Freud. Comunque gliel’ho detto io, del barbecue.”
“Ok, hai fatto bene.”
“E mi ha anche dato il suo numero.” aggiunge poi trionfale Brian.
“Ma che bravo! Guarda come sei contento! E ti ha dato anche un bacetto sulla guancia?”
Brian coglie la lieve presa per il culo: “Veramente sì.”, dice, un po’ risentito. Ok, detto da un quasi trentenne e mi ha anche dato il suo numero suona un po’ idiota, ma c’è stato qualcuno che, se possibile, è stato ancora più idiota.
“Jimmy le ha comprato il vinile.”
“Che?”
“Jimmy le ha regalato il vinile di Johnny Cash!”
“Che vinile era?”
Folsom Prison Blues.”
“Che romanticone! Semmai dovesse decidere di regalarle un libro accompagnalo tu a scegliere, altrimenti le presenta, non so, il Malleus Maleficarum o Tutti i racconti del terrore di Edgar Poe. Lui sì che ci sa fare coi regali.”
“Lei ce l’aveva già in mano: lui gliel’ha semplicemente sfilato ed è andato a pagare.”
“Ancora più romantico! E dimmi, prima di ridarglielo indietro gliel’ha suonato in testa, come si usava fare nel paleolitico per manifestare il proprio interesse alle femmine?”
“Sei simpatico.”
“E tu ora te ne accorgi? Lo sono sempre stato.”
Il silenzio che segue è leggero, ma vagamente compromesso.
“Senti.”, aggiunge Zacky, “Trattatela bene. Non fate le bestie come di vostro solito.”
“Come sei delicato, carissimo! Da quando sei così protettivo nei confronti di altri esseri umani?”
“Dico sul serio, Brian. È vero, eravamo amici da piccoli e poi ci siamo rivisti dopo centomila anni, ma ho un bellissimo ricordo di lei. Era veramente una bambina speciale.”
“Se giocava con te ci credo che era una bambina speciale. Senz’altro, almeno, affetta da qualche deficit dell’apprendimento.”
“No, davvero, Brian. Non sto scherzando.”
Brian tace. Per un attimo, medita. Non che gliene freghi granché del mondo e della stragrande maggioranza dell’umanità che lo popola, ma difficilmente Zacky parla in questo modo di qualcuno, ed è un fatto che richiede almeno il beneficio di un momento di meditazione.
“Non vogliamo mica sbranarla, Zachary. Datti una calmata.”
Zacky sospira, ed è un sospiro pieno.
“Ti ricordi cos’è successo con sua sorella, vero? Non vogliamo rivivere quell’anno atroce.”
Brian si incupisce, all’altro capo della cornetta. “No.”, dice, deciso, “Non vogliamo.”

 

Ore 22:00, casa di Ginevra

 

Il suono cristallino di un messaggio in arrivo fa voltare Richard verso il tavolo: è il cellulare di Gin.
“Piccola.”, le dice, “Ti è arrivato un sms.”
Gin copre la distanza tra il divano e il tavolo in maniera un po’ troppo repentina per essere casuale, ma Richard non le fa domande. Non gli viene neanche in mente. Lui è fatto così.
Gin sorride, il messaggio è di Brian. C’è l’indirizzo, l’orario, saluti un po’ singolari.
What’s up, fine-ass! It’s Brian... Un uomo d’altri tempi. “Cosa ridi, Gin?”, le chiede finalmente il fidanzato, guardandola sedersi sul divano accanto a lui con il cellulare in grembo.
“Niente. Ti ho detto che l’altra sera, a cena con mamma e papà, ho rincontrato un vecchio amico?”
Richard le getta un’occhiata inquisitrice, a quarantacinque gradi.
“Non fare quella faccia! Da bambini giocavamo insieme, sua madre e mia madre sono amiche da sempre. Non è niente di oscuro o compromettente.”
Lui sorride, le passa un braccio intorno alle spalle e se la tira addosso. In tv danno un film con Gene Kelly, uno di quegli uomini che, Richard lo sa, Gin adora. Perché sanno ballare, sanno cantare e sono affascinanti in un modo tutto loro, non so, sembra che abbiano un odore particolare. Tipo odore di avventura. Non guardarmi così, lo so che le immagini non hanno odore, in genere. Alcune sì, però. Glielo aveva spiegato in questo modo, una volta, dopo qualche bicchiere di vino. Richard non lo sa, ma Gin ci sta pensando proprio in quel momento, alle immagini che non hanno odore. Le vengono in mente polaroid su polaroid, spedite in busta chiusa e arrivate a volte dopo mesi, perché quello era il modo in cui Delia le diceva che era felice. A volte c’era qualche frase, dietro, altre soltanto una data. Non erano mai foto di Delia, sempre di qualcun altro; una persona o un gruppo di persone, un paesaggio, un dettaglio che lei vedeva, immortalava e le mandava, per includere anche lei, lontana in quel collegio, nella sua sconfinata, deleteria libertà. Già, pensa Gin, le immagini non hanno odore. Alcune sì, però. 

 

 

 

Allora.
Questo capitolo è un interlude, nel senso che ci serve da ponte per arrivare al prossimo capitolo, e, Gesù!, che fattacci che ci aspettano nel prossimo capitolo.
Sentite, vi voglio bene, sto dicendo cose senza senso; sono le quattro e mezza di mattina. Mi rifaccio viva presto.
Love, 
Q.

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Capitolo 4
*** Uno slancio di ottimismo fuori misura. ***


“And I called your name
like an addicted to cocaine
calls for the stuff he’d rather blame.”
- Narcotic,
Liquido

 

 

Venerdì notte, Collegio del Sacro Cuore.

 

Lilian sembra particolarmente agile a scalare le grondaie, per essere una che non l’ha mai fatto.
Jimmy la aspetta di sotto, fuori dal cancello che, comunque, non è lontano dal punto in cui lei atterrerà una volta finita la corsa giù dalla parete dell’edificio.
Lilian sale nella sua macchina senza dirgli una parola, si accende una sigaretta, ostenta una posa da donna vissuta e schiude le gambe. Gli basta giusto un’occhiata per capire che, sotto la gonna troppo corta, non porta biancheria. Sorride perché gli sembra una cosa triste.
“Dove mi porti?”, gli chiede finalmente lei, piegando la testa di lato con fare sensuale.
“Su una stella.”, scherza lui. Forse lei ha visto Titanic, ma, se è così, non se lo ricorda, perché non risponde. Ride, un po’ troppo acuta, come se lui avesse detto qualcosa di particolarmente divertente. A lui viene fuori un ghigno un po’ stanco che non è altro che il lontano parente di un sorriso. Sta pensando a troppe cose, ultimamente, troppe e tutte insieme. Certo non può disfare gli errori che ha fatto, ma perché allora sembra che lei di quegli errori non ne sappia nulla? No, non è vero, Gin sa tutto e gliel’ha fatto capire. È più come se, come dire, non le importasse davvero. Non glieli fa pesare. Non è mai stata scortese o scostante, con lui, e sembrava davvero contenta quando le ha preso quel vinile; un regalo, deve ammetterlo a se stesso, fatto in modo un po’ impacciato. Ma non lo ha fatto per riparare a qualcosa, no. Quel vinile di Johnny Cash lui gliel’ha regalato perché voleva fare qualcosa di bello per lei, non per scusarsi del casino che aveva combinato secoli prima con quella sorella che, con un po’ di fortuna, era riuscito quasi a dimenticare e ora gli si ripresentava davanti in tutta la sua gloriosa devastazione, spuntando fuori praticamente dal nulla, portata dal fruscio di un vestito bianco in un ristorante per vecchie mummie eleganti. Ma allora perché, perché Gin fa così? Perché non gli fa pesare quel che ha fatto? Forse non conosce tutta la storia.
“A che stai pensando?”, gli chiede all’improvviso Lilian, suadente.
Il sorriso strano sul viso di Jimmy si allarga. Si volta a guardarla, e sa di farle un certo effetto, con quegli occhi blu così potenti. “Ai fantasmi, piccola.”, le dice, bevendosi ogni goccia della devozione ammirata che lei gli sta offrendo, “Sto pensando ai fantasmi.”

 

 

Sabato, 18 in punto, casa Haner

 

Jimmy non ha dormito un cazzo. Si guarda intorno stralunato, non capisce per quale diavolo di motivo abbia scelto proprio quel venerdì per vedersi con Lilian.
“Hai delle occhiaie da fare schifo.”, osserva Johnny, avvicinandosi. È con Lacey, se la tiene stretta come se dovessero portargliela via da un momento all’altro. Gli sorride, a tutti e due, e si stropiccia un occhio sorpassando con un gesto esperto le lenti degli occhiali da vista. Non voleva metterseli, proprio oggi, però era troppo stanco per infilarsi le lentine.
Brian li raggiunge con una mezza corsa che lo fa sembrare un completo deficiente, cosa che in effetti è.
“Hey, ragazzi, comeMADONNA, JIMMY, MA CHE HAI FATTO”
“Non urlare, Cristo, ho mal di testa.”
Brian lo osserva con aria di smaccato rimprovero. “PAPÀ!”, urla di nuovo, seguitando a fissare Jimmy dritto negli occhi, “MI PORTI DUE ASPIRINE E UN CAFFÈ?”
“STAI MALE?”, urla Brian Sr., vicino al barbecue che già produce un fumo così grigio e denso da fare invidia ai segnali degli Indiani Cherokee.
“NO, PSJ.”
“PSJ?”
“PRONTO SOCCORSO JIMMY.”
Quella conversazione urlata, a beneficio di tutto il già abbastanza gremito cortile degli Haner, rischia di far saltare a Jimmy la testa dal collo.
“Ti prego” sibila, sofferente, “smetti di gridare.”
Intanto, circa trenta secondi dopo arriva Shadows al trotto con in mano una tazza e due pillole.
“Tieni, bevi, bestia.”
Quattro teste si alzano all’unisono verso il cielo, meditando attentamente come colte da illuminazione. Soltanto Lacey si guarda ancora intorno con aria indifferente, completamente disinteressata al potenziale di “Tieni-bevi-bestia” come eventuale prossima canzone dell’album che i Sevenfold stanno scrivendo.
Jimmy butta giù le aspirine direttamente con il caffè e quasi gli va tutto di traverso; ha già visto quei due vecchi che stanno sorpassando il cancelletto. Quel giorno al ristorante. La signora Baker quasi si manda la salsa barbecue sui pantaloni beige per correre incontro a quella che chiama, gridando, “MALENA!”
“MARIA!”
Urlano tutti, povero Jimmy, ma mentre il padre di Zacky saluta con qualcosa di molto simile a due sonori schiaffi l’uomo che è arrivato con la signora Malena - talmente forti che momenti gli partono di mano le birre, le acque si aprono e spunta lei. Porta in mano una specie di confezione che, probabilmente, contiene qualche tipo di dolce. Jimmy non sa perché è improvvisamente così attratto dalla merlettatura dello scatolo da pasticceria. Probabilmente per non alzare gli occhi e incrociare i suoi. Forse, finalmente, ci troverà la eco di un’accusa. Nessuno di loro si muove verso Gin, neanche Zacky, che è il più vicino a lei. Alla fine, lo fa Johnny, trascinandosi dietro Lacey che lo segue contenta e incuriosita. Jimmy si rende conto che non può fissare il cartone del dolce per sempre, quindi alza lo sguardo; lei è stata appena accolta da sua sorella Kelly. Ha un vestito leggero, lungo fino alle caviglie, con un po’ di spacco; si chiede dove arrivi, quello spacco, perché non riesce a capirlo. Certo che ha proprio centrato l’obiettivo di presentarsi in abbigliamento da barbecue, quella ragazza. Anche il vestito sembra coperto da una specie di pizzo, ma è color avorio. La scatola del dolce invece è azzurra. Ma che gliene frega? Da quando fa caso a queste cose? Probabilmente sta diventando gay anche lui. Stanno diventando tutti gay. Ci sono quindici gradi, e lei ha un golfino nero. Un golfino nero e i capelli chiari, e si muovono con lei quando si volta o cerca di evitare il vento. Quando posa gli occhi su di lui, lo fa come al rallentatore. Zacky si volta a fissarlo per identificare reazioni inopportune, spropositate o che tradiscano una qualche mira del suo amico nei confronti di Gin per la quale, non sa perché, si sente responsabile. Jimmy non batte ciglio, sembra tranquillissimo; alza una mano, quella che regge la tazza, e lei gli sorride tra le ciglia, muovendo le dita in un saluto fugace. Ma ecco che arriva Johnny. Johnny? Che diavolo ci fa, Johnny, con Gin?
La persona normale, civile, educata ed urbana: ecco, cosa ci fa.
“Hey, ciao.”
“Ciao!”
Si guardano sorridendo, inebetiti. Johnny le accenna con la testa verso Kelly. “Hai conosciuto la sorella di Jimmy?”
“Certo che mi ha conosciuto, Jonathan.”, ribatte Kelly, prima di allontanarsi con il dolce. Ma perché devono essere tutti così irascibili, in questa benedetta famiglia.
“Lei è Lacey, la mia fidanzata.”
“Oh!”
Finalmente una fidanzata, sembra pensare Gin. Lei e Lacey si piacciono subito, attaccano a parlare del sistema universitario della California, ma Gin si riscuote d’un tratto, si scusa, e si volta come in cerca di qualcosa. Quando la trova, quella cosa è Zacky: corre dai Baker e il signor James la solleva tra le braccia come se non pesasse nulla. Abbraccia Zacky come se non lo vedesse da un sacco di tempo.
“Secondo te c’è qualcosa?”, chiede Brian a Jimmy, in un altro punto del giardino.
“Ho mal di testa.”, risponde quello. Stanno guardando tutti e due lo sciame di convenevoli tra i Baker e i Kringe, lievemente disgustati.
“Lei non c’entra niente con noi, vero?”
“Che vuoi dire?”
“Mah, è più tipo da country club... Con quei vestiti da brava ragazza, quello sguardo da brava ragazza, quel visino pulito, e soprattutto quel Richard... Un fidanzato con un nome del genere, Richard...”
“Che ha di strano Richard?”
“È un nome troppo altolocato.”
“È un nome normale. Anche tu hai un nome normale, Brian. Anche io ce l’ho. Mi chiamo James, mica, non so, Berserk.”
“Lieto di sapere che ti ricordi ancora come ti chiami. Comunque, non volevo dire questo. Volevo dire un’altra cosa.”
“Quale cosa?”
“Io ho avuto il buonsenso di cambiarmelo, il nome. Io sono Synyster Gates.”
“Definirlo buonsenso mi sembra uno slancio di ottimismo fuori misura.”, osserva pacato Jimmy, con gli occhi su Gin che sta ricevendo la solita pioggia di complimenti che i vecchi fanno ai giovani quando non li vedono da un po’ e improvvisamente si rendono conto che hanno superato il metro e venti con tutti e quattro gli arti ancora attaccati. Come-sei-cresciuta-guarda-come-sei-bella-che-brava-hai-ancora-tutte-e-due-le-mani. Anche Brian guarda Gin, ma è più concentrato sul suo vestito. Quel vestito sembra averlo sconvolto una volta e per tutte.
“Guardala”, dice, con aria saggia, “che si è messa addosso?”
“Calmati, fashion police.”
“Sembra si sia vestita come se dovesse andare ad una comunione!”, continua imperterrito Brian, deciso a proseguire la sua crociata contro l’abito, “È completamente fuori posto.”
“Non so se può essere un problema, per lei, ma non credo. Del resto, noi siamo sempre stati fuori posto praticamente ovunque e siamo sopravvissuti, come vedi.”
“Già.”, fa Brian, lanciandogli un’occhiata inquisitrice, “A proposito, dovevi proprio vestirti come se stessi andando alle esequie del tuo bisnonno?”
Jimmy si dà un’occhiata sommaria all’outfit. “Perché, cos’ha che non va il total black?”
“Che sembri una cornacchia impagliata di due metri, ecco cosa non va.”
Il contenzioso viene spezzato da un rumore alle loro spalle, che li spinge a voltarsi verso l’orizzonte: tre case più in là, i vicini di Brian hanno deciso che era un buon momento per testare i fuochi d’artificio.
Quando si rigirano verso il cortile, sobbalzano tutti e due.
“Ciao.”, dice Gin, ridendo piano di quella reazione. “Non volevo spaventarvi.”
“Ciao, piccola. Non preoccuparti, non ci hai spaventati.”, mente Brian, appoggiandosi con disinvoltura a Jimmy per attenuare il tremore alle gambe.
Il signor Haner urla il nome del figlio, il quale si allontana di corsa (tremolando) verso il barbecue. Jimmy e Gin rimangono da soli, si guardano. Lei è un po‘ imbarazzata, ma lui non sembra affatto a disagio. “Ciao, fatina.”, le dice, facendola sorridere. Gin piega la testa di lato e gli rivolge uno sguardo clinico. “Stai bene.”
“Un po‘ di mal di testa.”
“No, intendevo dire che stai bene con gli occhiali. Comunque, già che ci siamo...”
Jimmy non ha previsto le mani di Gin che gli si appoggiano alle tempie, il suo tocco delicato. Chiude gli occhi quasi d’istinto: le dita di lei sono morbide e fresche, e dopo un minuto o giù di lì gli sembra sul serio che vada molto meglio, ma forse è suggestione.
“È una cosa che faceva mia nonna quando mi faceva male la testa da bambina.”
“Funziona.”, la rassicura lui. Il modo in cui gli scosta i capelli dalla fronte, la pressione circolare delle sue dita sulle tempie, tutto questo, le aspirine e il caffè rimettono al mondo un uomo nuovo, pronto a urlare tutta la notte nelle orecchie di Brian per vendicarsi della sua poca delicatezza di prima.
Lei abbassa le braccia e lui apre gli occhi nei suoi: “Sei straordinaria.”
“Non saprei. A little piece of Heaven è straordinaria.”
Jimmy le sorride. Lei sorride all’erba, un po‘ in imbarazzo. Forse teme di aver detto troppo.
“Sono contento che ti piaccia. È un po’ cruenta pure quella, però. Anche più di Folsom Prison Blues.”
“Mi piacciono le cose cruente.”
Gin coglie il doppio senso nelle proprie parole e anche lui, infatti si guardano e ridono.
“Gin, per quanto riguarda Delia, io...”, dice Jimmy all’improvviso, non sa perché.
Gli occhi di lei si offuscano impercettibilmente. “Non c’è nulla da dire, Jimmy, davvero. Raggiungiamo gli altri.”
Mentre si incamminano, Jimmy riafferra un pensiero che ha fatto un po‘ di tempo prima e abbassa o sguardo sul suo vestito.
“Me la togli una curiosità?”, le chiede.
“Certo.”
“Dove arriva quello spacco?”, dice, indicando con li occhi la parte inferiore dell’abito. Gin lo fissa per un secondo, sorpresa, poi sorride di un sorriso bellissimo, inatteso. Scosta la gonna, e Jimmy ha modo di verificare che il vestito si apre, in teoria, fino a un po‘ più di metà coscia.
“Vertiginoso. Non sembrava.”, commenta, distogliendo lo sguardo.
Gin lascia andare il lembo dell’abito, sorride. “Non si aprirà mai così tanto da solo, a meno che qualcuno non lo apra di proposito.”
“Non preoccuparti.”, la rassicura lui, ironico, “Lo so che sei una brava ragazza.”
Gin ride. “La razza peggiore.”, dice. Si guardano per un secondo, divertiti, prima di buttarsi nella mischia che arrostisce costolette all’imbrunire. 

 

 

Johnny.

 

“Grazie di essere convenuti a questa riunione.”
Vorrei ucciderlo, e poi arrostirlo. O forse arrostirlo vivo. Ma che problemi hanno con Dio e con gli uomini, questi quattro cretini? Una settimana fa siamo rimasti chiusi dentro un ascensore e cosa fa quel vorticoso precipizio di demenza di Brian Haner Jr.? Convoca una riunione nel suo stanzino per le scope.
“Ti rendi conto che siamo cinque maschi adulti-”
“Quattro e mezzo.”
“Vaffanculo, Jimmy. Ti rendi conto, Brian, che siamo cinque maschi adulti chiusi dentro il tuo MALEDETTO SGABUZZINO?”
“Non urlare, Johnny, c’è poca aria.”
Shadows ha acconsentito a partecipare a questa cosiddetta riunione semplicemente perché, negli ultimi tempi, tira aria di crisi personali ed è convinto che nei suoi doveri di leadership sia incluso anche il soccorso psicologico agli amici e la coordinazione delle loro crisi mistiche. Lui e i suoi cinquemila chili di muscoli stanno molto scomodi, in uno spazio così angusto.
“Volevo affrontare una questione con voi.”
“Brian, sei una grossolana svista del Padreterno, lo sai? Parla, veloce! Non respiro, qua dentro!”, fa Zacky, facendosi aria. Oltretutto, è buio pesto. Motivo per cui, facendosi aria, mi tira anche uno schiaffo accidentale in pieno volto.
“Ma Cristo”
“Scusa, Johnny.”
“Qui non ci disturberanno.”, ci rassicura Brian.
“E parla, per Dio, fulgido deficiente!”, Zacky.
“Si tratta di Jimmy.”, Brian.
“Di me? Che ho fatto?”, Jimmy,
“Esisti.”, io.
“Fa il cretino con la sorella di Delia.”, Brian.
“Io non faccio il cretino con nessuno.”, Jimmy.
“E si è pure scopato quell’educanda, quella Leanor.”, Brian.
“Lilian.”, io.
“Grazie per il bollettino, Radio Gates. Ma la domanda è: perché ce lo dici? Non sono fatti di Jimmy?”, Shadows. Ah, quindi è vivo.
“Senti, Jimmy, vacci piano con Gin, lei è una ragazza veramente adorabile, e per me è importante.”, Zacky.
“Zacky, due cose: uno, sei proprio un gay. Due, ma quale importante e importante? Se vi siete rivisti  la settimana scorsa per la prima volta dopo dodici secoli!”, Brian.
“Non c’entra niente. Ve lo chiedo come favore personale, davvero. Non lo so perché ci tengo tanto, e non è niente di romantico, credetemi, ma per cortesia, per pietà, non fate come di vostro solito. Che la masticate e poi la sputate.”, ci giunge accorato l’appello di Zacky. Siamo tutti un po’ increduli e scossi, visto che è la prima volta in assoluto che lo sentiamo parlare di una donna in questi termini da cavaliere della tavola rotonda.
“Sembra una brava ragazza.”, interviene Shadows.
“E tu che ne sai? Vi siete scambiati si e no tre parole, da quando vi siete conosciuti.”, Brian.
“A differenza vostra, io non ho bisogno di un’insegnante di sostegno per capire le cose.”, Shadows.
“Brian, si può sapere perché hai ritenuto di dover sensibilizzare tutti quanti su quelle che tu credi siano le mie intenzioni con Gin?”, Jimmy.
“Perché so come sei fatto, e non vogliamo ripetere quell’esperienza di...”
Due colpi alla porta. Ci giriamo tutti.
“Permesso?”
La voce, inequivocabile, di Gin, ci coglie tutti di sorpresa. Spalanchiamo gli occhi nel buio. Che cazzo facciamo. Se non rispondiamo, confermiamo a lei e all’intero giardino che siamo cinque imbecilli. Se rispondiamo, confermiamo a lei e all’intero giardino che siamo cinque imbecilli.
“Avanti.”
“Johnny, che cazzo fai!”, mi sussurra strillando Brian. Shadows apre la porta, rischiarando l’oscurità con la luce artificiale del giardino.
“Entra, svelta.”
Io non riesco più a trattenermi, scoppio a ridere. Lei anche. Quando la porta si richiude, ripiombiamo nel nero pece. Nessuno fiata. “Ma che ci fate, chiusi qui dentro?”
Zacky allunga un braccio alla cieca e nella foga mi struscia pure il pacco, ma poi afferra Gin e se la tira addosso. Lei lascia andare un gridolino divertito, continua a ridere.
“Non allungate le mani solo perché è buio.”, dice Zacky, circondandola con le braccia.
“Grazie, ehm, Zack.”
Brian è infastidito dall’intrusione. In fin dei conti, abbiamo passato tutti da molto, molto tempo gli anni del kindergarten, il che fa di noi sei adulti chiusi in uno stanzino che ridono a caso e si spintonano come dementi. “Volevo parlare in privato con i miei amici.”, sibila Brian, piccato.
“Ah, scusate, allora vado.”
“No, resta.”
Io ho parlato? Ho parlato io? So che si sono voltati verso di me, anche se non li vedo.
“Non c’è motivo per cui tu te ne vada.”
Lei si divincola dall’abbraccio di Zacky, dolcemente. “Perché non giochiamo a nascondino?”, dice. “Ormai è buio, siamo rimasti in pochi e secondo me potrebbe essere divertente tornare ai bei vecchi tempi. Riprendiamo da dove avevamo lasciato, che dici, Zacky?”
Taciamo tutti per un secondo.
“Ragazzi, abbiamo cento anni a testa, finisce pure che ci facciamo male.”, osservo, cauto.
Ancora silenzio.
“E facciamoci male.”, acconsente infine Jimmy a nome di tutti, convinto.

 

Ore 23.03, vano lavanderia di casa Haner, cantina

 

“Occupato!”, sibila Brian, che non è più tanto sicuro del perché si è lasciato coinvolgere in quella situazione.
Gin lo ignora e si infila dentro con lui: “Ero con Michelle, ma l’ho persa! Mi fai un po’ di posto?”
Brian sbuffa e si stringe in un angolo. Piace a tutti, quella ragazza, anche a chi l’ha vista per la prima volta solo quella sera, come la sua fidanzata, che di solito diffida per procura di tutti gli esseri di sesso femminile che orbitano intorno a Brian, persuasa irrimediabilmente che vogliano tutte scoparselo. C’è da dire che spesso, però, ha ragione.
“Chi sta contando?”, chiede Brian, perché tanto ormai Gin è dentro.
“Tuo padre.”
Suo padre. Certo.
Eccoli là. Abbastanza ubriachi da essere arrivati alla terza manche di nascondino ridendo come delle iene, spingendosi e infilandosi sotto i divani senza riuscire più a uscirne da soli (Johnny). Gin ha bevuto una serie di bicchierini di tequila sale e limone; ha sfidato Jimmy, e ovviamente ha perso. Brian ha bevuto una serie di bicchierini di tequila sale e limone e vino, e birra, e Jagermeister, e il Signore solo sa che altro; non riesce tanto bene a stare in piedi diritto, ma per il resto se la cava.
“Ho notato che non c’è Gena.”, osserva, nei fumi dell’alcol.
“Chi è Gena?”, chiede Gin, facendosi aria con uno straccio per la polvere pulito.
“La fidanzata di Zacky. Quasi sua moglie, veramente.”
“Oh.”, fa Gin, senza commentare oltre.
Brian la squadra di sottecchi; per farle capire che la sta squadrando di sottecchi deve impegnarsi molto, dal momento che non hanno acceso la luce per evitare di essere scoperti e deve sfruttare la fessura della porta che lascia passare il riverbero delle luminarie da esterno in giardino, a loro volta appannate dal vetro delle finestre. Brian è bravo, però, e Gin si sente messa all’angolo. “Non è niente di quel che pensi.”
“Non penso granché quando si tratta di te, sai, bel-culo? In fin dei conti nemmeno ti conosco. L’unica cosa che non mi spiego è perché non hai un problema con Jimmy.”
“Che vuol dire perché non ho un problema con Jimmy?”
“Dopo quello che ha fatto a tua sorella. So che non dovrei dirlo, sono il suo migliore amico, in effetti non so nemmeno bene perché te lo sto dicendo. Perché te lo sto dicendo?”
Gin sorride. “Perché sei sbronzo, Brian. Comunque, per rispondere alla tua prima domanda, non ho un problema con Jimmy perché conosco Cordelia.”
“Cordelia?”
“Delia si chiama così. Cordelia.”
“Che nome di merda.”
“Sì, lo pensa anche lei.”
“STO ARRIVANDOOOOooO”, giunge da fuori.
Gin abbassa drasticamente il tono della voce: “Tuo padre è ubriaco.”
“Me ne sono accorto.”, le sussurra di rimando Brian.
Una strana adrenalina gli percorre le viscere, a tutti e due, e per un attimo sembrano tornati a un tempo che non hanno neanche vissuto insieme: sono compagni di scuola, alle elementari, e si tappano la bocca a vicenda per evitare che il suono del respiro attiri il terribile lupo che si aggira all’esterno, con un’eccitazione un po’ sinistra che però non riesce a impedirgli di provare un fortissimo impulso a ridere. Dopo un po’, finalmente, sentono i passi barcollanti di Papa Gates che risalgono le scale della cantina.
“Sparpagliamoci, è meglio.”, suggerisce Gin, aprendo uno spiraglio della porta per accertarsi di avere campo libero.
“Gin.”, dice Brian all’improvviso,  pentendosene subito dopo, “Tua sorella si è quasi ammazzata per Jimmy.”
Ginevra è fuori per tre quarti e si guarda intorno; tuttalpiù lui può parlare con il suo fondoschiena, del quale è comunque un grande fan.
“È un modo di vedere le cose.”, gli risponde, prima di uscire e lasciarlo lì come un cretino, a meditare su quella frase.

 

Ore 23:15, secondo piano di casa Haner, cabina armadio di McKenna

 

Gin si è fatta tutte le scale di corsa rasente il muro. Ha intravisto Zacky nascosto nel sottoscala e gli ha lanciato un cenno di saluto. Ha avuto il cuore in gola per tutto il tragitto, una paura bianca, buona, di essere scoperta. Poi ha visto quella stanza da letto femminile e si è buttata lì; dopo una breve ricognizione, ha identificato quella che sembrava una cabina armadio e ci si è infilata dentro, chiudendo la porta pianissimo. Si lascia andare contro la parete liscia, non ingombra dai vestiti che invece sembrano occludere tutto il resto dell’ambiente - non lo sa per certo, è buio pesto -, e si siede a terra, ravviandosi i capelli. Si lascia andare a una leggera risata. “Dio, sono proprio un’imbecille. Un’imbecille masochista del cazzo.”, osserva tra sé e sé, sussurrando. “Cosa mi è venuto in mente? Perché diavolo sono tornata qui? Dovevo starmene in Europa, maledetta, stupida Gin! Non riesco neanche a sostenere il suo sguardo senza farmi venire la tachicardia. Idiota di una maledetta ragazzina aggrappata a quattro fotografie e quattro impressioni che non sa nemmeno se sono giuste. Idiota! Idiota! Idiota!”
“Quanti complimenti.”
Quella voce un po’ nasale, anche se sussurrata, la riconosce subito. Salta in piedi ma riesce a trattenere un urlo. Due mani le si appoggiano sulle braccia: “Hey, non volevo spaventarti, fatina.”
Gin ci mette un attimo a recuperare l’autocontrollo. Lui non le chiede a cosa si stesse riferendo poco prima, e lei non glielo dice.
“Beh, però sembra che ti riesca molto bene spaventarmi, James. Cristo, non fai altro.”, dice, un po’ troppo aspra. Jimmy sussurra un fischio. “Finalmente.”
“Finalmente cosa?”
“Un po’ di rabbia.”
Gin sospira, si passa una mano sul viso. “Sono ubriaca e siamo dentro una cabina armadio.”
Il suo odore è vicino, così vicino che può indovinare la consistenza della sua pelle anche senza toccarla.
“Non sono arrabbiata con te per quello che è successo con Delia, Jimmy.”
“Io sì. Io sono sempre stato arrabbiato con me per quella storia.”
Gin sospira.
“Delia è mia sorella, non farmi dire cose che non voglio dire.”
Al buio, i pensieri odorano di tequila e di idee scomode. Gin sente il profumo di giacche di pelle e vestiti indossati da una ragazzina.
“Ci puzza di minipony, qui dentro.”, osserva Jimmy, come leggendole nella mente. Gin sta in silenzio ancora un attimo e poi scoppia a ridere, così forte che non riesce a fermarsi; ride anche lui, tappandole la bocca per attutire il rumore.
“Shh, shh, ci beccano!”, le fa, mentre lottano per riprendere il controllo.
Quando si calmano, Gin sospira. “Richard è a San Francisco.”, dice, non sa neanche bene perché.
“Chi?”
“Rick. Il mio fidanzato.”
“Mmm. Cosa fa, nella vita, questo Dick?”
Rick.”, lo corregge lei, ma le viene da sorridere perché dick vuol dire cazzo, e l’errore sembra poco casuale, “È uno psicologo, come me. Anche se lui ha scelto un percorso più classico, io una strada più sperimentale.”
“Vale a dire?”
“Cosa faccio io? Studio i ricordi.”
“C’è una frase fighissima sui ricordi, è di uno scrittore cileno.”
“Che ne sai tu, Jimmy, degli scrittori cileni?”
“Io so un sacco di cose, fatina.”
Gin sorride, annuisce e gli appoggia la fronte contro la spalla, senza un vero motivo.
“Dick invece che fa?”
Rick. Le solite cose: Freud, Jung, l’io, il superio e l’inconscio.”
“Da quanto state insieme?”
“Da qualche mese. Tu, invece?”
“Io cosa? Io e Dick? Non siamo mai stati insieme. Non mi sarei mai potuto mettere con uno con un nome del genere.”
Gin ride di nuovo; non lo corregge nemmeno, stavolta.
“No, volevo sapere della tua vita sentimentale.”
Jimmy sorride, nell’oscurità.
“È sempre stata più o meno uno sfacelo, fatina. A un certo punto mi è anche sembrato che stesse andando tutto bene, ma-”
“TANA PER... JIMMY E... E... JESSICA!”
Jimmy e Gin ridono insieme, spostando lo sguardo tra Papa Gates, che ha appena spalancato l’anta della cabina armadio, e i rispettivi occhi.
“Ginevra.”, lo corregge Jimmy guardandola, con l’ombra della risata ancora nella voce, “Si chiama Ginevra.” 

 

 

Ore 2:20, cortile di casa Haner

 

Sono andati via tutti, ormai, e quelli che sono rimasti si sono addormentati sulle sdraio davanti alla piscina. Jimmy e Gin, lei molto più ubriaca di lui, dividono una sdraio. È arrivata anche Gena, la fidanzata di Zacky, e ora gli dorme addosso. Gin si guarda intorno, un po’ appannata, e nota che dormono proprio tutti. Tranne loro due.
“È stata la serata più divertente della mia vita.”
“Perché, non ti divertivi, in collegio?”
Gin ride, alza gli occhi dentro i suoi, leggermente provati dalla stanchezza. Il braccio che la avvolge è forte, però, e l’angolo di torace in cui poggia la testa si muove tranquillo al ritmo del respiro.
“Delia mi accoltellerebbe e getterebbe il cadavere in un fosso, se ci vedesse così.”, osserva, lieve, ma nel pronunciare quelle parole lo stringe di più. Ormai ha valicato un confine immaginario di cui nessuno è informato, tranne lei.
“Sai, Jimmy, per tutta la vita ho fatto solo quello che dovevo.”
“E chi te l’ha fatto fare?”
“I segreti.”
“Quali segreti? Quelli di tua sorella?”
“Anche. In un certo senso.”
Delia ha mollato la scuola, è caduta e riemersa dalla droga un paio di volte, e in ogni caso sembrava aver deciso che il suo scopo nella vita era deludere le aspettative dei genitori. Gin - ma questo Jimmy non lo sapeva - non la biasimava per questo. La biasimava molto per il coefficiente di autolesionismo che la cosa aveva comportato, però.
“Tua sorella è una brava ragazza. Non nel senso classico del termine, ma è buona. E fragile.”
Alza gli occhi su di lui: “Smettila di incolparti, non ha senso.”
“Le ho fatto del male, Gin.”
“Tutti ci facciamo del male, nella vita. È proprio la cosa che ci riesce meglio.”
Segue mezzo secondo di silenzio.
“Sono sempre stata una grande appassionata di teschi. Sai, di crani, di ossa, di iconografia della morte. Non andava bene, però, perché non si addiceva ad una signorina. All’Università, di nascosto dai miei, ho presentato una lunga ricerca sulle implicazioni psicologiche del significato della Santa Muerte nell’iconografia messicana. Grazie a quella, la UCLA ha accolto la richiesta della mia vecchia Madre Superiora di assumermi come ricercatore appena finito l’orientamento alle ragazze del Sacro Cuore. I miei ancora non lo sanno.”
“Forse dovresti provare a fare le cose che ti va di fare senza farti troppe domande. Le costrizioni fanno venire un sacco di malattie psicosomatiche.”, osserva Jimmy, giocherellando con una ciocca dei suoi capelli.
“Dici che dovrei buttarmi?”
“Dico. Fai qualcosa di folle, ogni tanto, senza pensare alle conseguenze. Giusto perché ti va. Vedi che succede. A volte fa bene. Io non faccio altro.”
Gin gli sorride, pensa che ha ragione.
“Mi piacerebbe leggerla, la tua ricerca.”, le dice all’improvviso Jimmy.
Lei si illumina, sorpresa: “Te la mando.”
Le vibra il cellulare in tasca e risponde senza pensarci.
“Pronto?”
“Amore? Dove sei?”
“Dick!... Scusa, volevo dire, Rick!” Jimmy ride sottovoce, vedendola fare confusione, e lei gli molla  un cazzotto scherzoso sul petto, “Sono al barbecue a casa di quell’amico del mio amico. Ricordi?”
“Sei ancora là? A quest’ora? Ma è tardissimo!”
“È vero ma, sai, avevamo più di dieci anni di aneddoti da recuperare...”
Richard non sembra convinto. “I tuoi sono ancora lì?”
“No, sono tornati a casa già da un po’.”
“E chi ti riaccompagna?”
“Rick, so cavarmela, non preoccuparti.”
“Lo so benissimo, ma non mi piace che tu sia da sola a quest’ora della notte.”
“Non sono da sola.”, dice lei.
“Ginevra, è importante che tu capisca che una ragazza, specie della tua età, in quell’ambiente...”
Lo sapeva. Non doveva dirgli che Zacky era il chitarrista di una band metal.
“Non essere ridicolo, Rick.”
Rickdicolo.”, sussurra Jimmy tra sé e sé, e Gin soffoca una risata.
“Sono serissimo, Ginevra.”
Fa sempre così, Rick, per quello piace tanto ai suoi genitori. La controlla, la delimita, la definisce, e la tratta come una deficiente.
“Lo so, e la cosa mi preoccupa molto.”, gli risponde, dura, sorprendendosi di se stessa. Fare qualcosa di folle. Mm. Rick sospira dall’altro capo del telefono, raccoglie le idee e inizia a farle un discorso sulle responsabilità che lui ha nei suoi confronti. Gin si volta pensierosa verso Jimmy, che la guarda interrogativo. Qualcosa di folle. È un unico movimento, fluido, quello con cui si scontra con le sue labbra, e precario è il suo equilibrio - e quello della sdraio - mentre si sistema addosso a lui, continuando a baciarlo, con il ricevitore un po’ lontano dall’orecchio e Rick che sproloquia sull’influenza che certi contesti hanno sulle ragazze impressionabili che non hanno mai visto il mondo perché sono sempre state protette dalle quattro mura di un collegio. A Gin non frega niente, perché sente le campane, gli angeli e le onde del mare, e non le dà fastidio che Jimmy, che nella vita si fa sorprendere da pochissime cose - e certo non da quella che lei ha appena fatto -, faccia scorrere una mano giù per la sua schiena, fino alla curva dolce che Brian le ammira tanto.
“Ginevra? Mi stai ascoltando?”
Gin resta sulla sua bocca, con il fiato corto, e risponde al suo fidanzato sentendo una scarica di adrenalina proibita accenderle la spina dorsale: “Certo che ti sto ascoltando, Rick.”, dice, posando poi un lieve bacio, due, tre, sulle labbra di Jimmy, che la guarda tranquillo.
“Ora devo andare.”, taglia corto lei, attaccando il telefono senza neanche attendere una risposta. Vuole baciarlo ancora. Vuole baciarlo sempre. Gli affonda le dita tra i capelli e gli piega la testa all’indietro, per approfondire il bacio.
Quando si staccano, sono entrambi senza fiato.
Jimmy la guarda con infinita tenerezza: “Sono proprio uno stronzo.”, dice, scostandole i capelli dal viso prima di darle un altro bacio, a labbra chiuse. La sorellina di Delia.
Gin si tira in piedi e si sistema il vestito e il golfino, gli sorride: “Ho fatto tutto io. Devo dire che anni di collegio hanno prodotto un bel risultato, ricordami di farlo presente alla Madre Superiora.”
Jimmy incrocia le braccia dietro la testa e la guarda: “Lo hanno fatto davvero. O, quantomeno, non hanno fatto danni permanenti. Ora torna qui.”, le dice, indicando il proprio torace con il mento. Gin lo guarda, sorride, scuote la testa incredula, afferra una delle molte coperte che hanno addosso a Brian e Michelle e si stende di nuovo accanto a Jimmy, su quella sdraio. Nasconde il viso nel suo collo, convinta che non dormirà mai in un cortile, su una sdraio, addosso all’ex fidanzato di sua sorella che ha appena baciato, con quel tasso vorticoso di umidità. Invece si addormenta quasi subito, e con lei Jimmy, la testa appoggiata sulla sua.
Johnny invece è sveglio, qualche metro più in là, e tiene gli occhi spalancati nella notte decidendo cosa pensare di quella situazione.

 

You cast a spell on me
you hit me like the sky fell on me


 

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Capitolo 5
*** Zachary Baker è morto ***


the little girl
just could not sleep
because her thoughts
were way too deep
her mind had gone
out for a stroll
and fallen down
the rabbit hole

 

 

Gin si rigira nel letto senza trovare una posizione che le renda possibile addormentarsi. Un’inquietudine strana, senza nome, le si annida nel petto. I pensieri sono così tanti che rischiano di farle esplodere la testa. Negli ultimi anni della sua vita, le esperienze che ha avuto - l’università, gli amici, le persone care che ha imparato a conoscere con gli occhi di un adulto - le hanno instillato dentro una specie di foschia che le rende poco chiare le idee. Non sa più esprimersi come vorrebbe. Era facile, prima, dare un nome alle cose; facile dar loro un ruolo. Ora tutta questa vita semplice, questo universo ordinato anche se imprevedibile e ogni tanto doloroso, si è trasformato in un cuscino puntaspilli in cui lei cerca di infilare una parola, una frase, una spiegazione, e quella salta via come se non avesse appiglio a cui incollarsi e le rimbalza in faccia. Gin è confusa, ma non è la confusione bianca che conosceva fino a qualche anno fa; somiglia più alla nebbia, avvolge e divora, toglie il respiro e cancella i contorni alle cose.
Rick è ancora a San Francisco - ha già scritto due libri, lui, e lo chiamano tutti per intervenire e per collaborare. Lo ha conosciuto perché era l’assistente del suo professore di Psicologica Clinica. Gin si alza e scende le scale sbattendo sui muri. Sono passati tre giorni da quando ha baciato Jimmy. La sera del loro primo appuntamento Rick le ha aperto la portiera della macchina e le ha detto: “Vieni, bambina, ti porto a vedere le cose del mondo.” Le cose del mondo. Quali cose? Due giorni fa Gin ha aperto la mail e ha mandato a Jimmy la sua ricerca sulla Santa Muerte. La sera le è arrivata una risposta: reading, fairy. Ma che ore sono? Le 4:10. Perfetto. Gin crolla a sedere sul divano, in mezzo a libri che non ha mai finito di leggere. Tutto la annoia, perfino l’amore. L’amore... che insensato viavai di tachicardia e silenzio che è stato l’amore, per lei, nella vita. Non ha mai detto di Jimmy a Delia. Non le ha mai detto quanto la irretisse il modo in cui lei le raccontava di lui, quanto incredibile trovasse il suo cervello, quanto le erano care quelle polaroid che sua sorella scattava quando lui era assorto a fare qualcos’altro. Razionalmente - e Gin si era formata come razionalista, ci credeva nella potenza dell’intelletto, lei. Forse. - non ci si può innamorare di una foto. Ma alcune volte le foto hanno odore, colore e ti si muovono in testa. Gin apre il suo vecchio diario a una pagina a caso. “Sono stato vecchio ad Alamo, bambino a Maratona; ogni idea, l’ultima, era buona.”, c’è scritto sul foglio bianco. Lei era stata davvero così: aveva vissuto il mondo attraverso le pagine dei libri, lo aveva imparato, era cresciuta fianco a fianco con persone che non aveva mai visto e neanche esistevano nella realtà. Non le era parso poi così strano, dopo, innamorarsi di una fotografia. Tutte queste cose che sta pensando, proprio tutte, vorrebbe dirle a lui. Alzare il telefono e chiamare Jimmy, per dirgli ogni cosa, in barba alle convinzioni, alle convenzioni, al dare tempo, al far accadere le cose con ordine, al pensare alle conseguenze. Vorrebbe fare una cosa folle. La fa.
Il telefono squilla tre volte prima che una voce assonnata risponda.
“Chi è?”
“Sono Gin.”
“Gin... che ore sono?”
“Zacky, volevo dirti una cosa.”
Zacky si volta verso la sveglia sul comodino.
“Alle quattro del mattino?”
“Scusa se ti ho svegliato, non sapevo chi chiamare. Non ho amici, qui, e non ho ancora confidenza con nessuna delle ragazze. Non abbastanza da chiamarle alle quattro del mattino, almeno. ”
Fa un secondo di pausa. Qualcosa di folle. Bisogna fare cose folli, abbattere le barriere, dire esattamente quello che si pensa e provare a vedere che succede. “E poi, sinceramente, avevo bisogno proprio di te. Non c’è nessun altro a cui avrei voluto dire quello che sto per dire.”
“Aspetta un secondo.”
Zacky si tira a sedere ed esce, nel buio, dalla stanza da letto; Gena manco se ne accorge, a stento cambia posizione. Accende una luce in corridoio e lo percorre fino alla finestra, oltre la quale una luna gigante si sta mangiando Huntington Beach. Mentre si accende una sigaretta, non riesce a fare a meno di sentirsi felice per quel che Gin gli ha detto. Fiero? Boh. Qual è la parola adatta? Chissà se c’è, una parola per descrivere la sensazione che si prova quando si è contenti che qualcuno abbia deciso di fidarsi proprio di te.
“Ti ricordi che quando eravamo bambini ci eravamo promessi che saremmo stati amici per sempre?”, dice la voce di Gin.
Zacky ride, mentre sbuffa fumo, “Sì. Poi mi hai picchiato. Forte. E ti sei tolta i vestiti per buttarti in piscina.”
“Non ci credo, te lo ricordi ancora.”, lo prende in giro lei, ridendo.
“Certo che me lo ricordo.”
Gin non lo sa, ma Zacky conserva quei ricordi - tutti, non solo quelli di lei - di quand’era bambino come un tesoro a cui nessuno può accedere. C’era una vita, prima dei Sevenfold, ed era una vita di tramonti dorati e nessun pensiero. I suoi amici - la sua anima, il suo cuore -, erano venuti dopo, in quel punto in cui l’esistenza inizia ad assumere colori strani e devi imparare a fare i conti con le cose, soprattutto con quelle che ti fanno paura.
“Sai cosa mi dicesti, Gin? Mi dicesti: Zacky, sei la mia persona preferita al mondo.”
“Sono innamorata di Jimmy. Lo sono da sempre.”, soffia fuori Gin, con una mano davanti al viso anche se non c’è nessuno a vederla. Quello che sente poi le smonta le certezze.
“Lo so. O, almeno, lo sospettavo.”
“E come?”, dice lei. Ha gli occhi spalancati nella penombra.
“Non so se questo lo dicono i tuoi libri di psicologia, ma io credo che ci siano cose che restano sempre le stesse, nelle persone. Espressioni spontanee che avevi da bambino e che poi non cambiano mai. Forse è stato più facile per me perché ti ho vista bambina e poi donna, senza niente di mezzo, e quindi il ricordo che avevo di te ha fatto presto a trovare le somiglianze con la persona che mi sono trovato davanti già adulta. È stato il modo in cui l’hai guardato appena l’hai visto.”
Gin sorride.
“Come l’ho guardato?”
“Come guardavi me, quando giocavamo in giardino.”
Il sorriso sul viso di Gin si allarga e le fa eco quello di Zacky, che sta alla finestra con lo sguardo perso in un punto dell’orizzonte che si fonde con il tempo passato.
“Sono stato il tuo primo amore, mi sa.”, le dice.
“Sì, lo sei stato.”
“E tu sei stata il mio.”
“Quattro anni di differenza erano un abisso, all’epoca.”
“Eravamo veramente due ribelli.”
Gin scoppia a ridere.
“Non mi chiedi come mi sono innamorata di Jimmy?”
“È importante?”
“Non lo so. Lo è per me.”
“Se lo è per te allora dimmelo.”
“Il modo in cui mia sorella me lo raccontava, anche e soprattutto quando la faceva arrabbiare. Si incazzava così tanto, Zacky! Lei voleva litigate chilometriche e struggenti e lui invece la zittiva con una frase. E poi tutte quelle foto che lei mi mandava, e le cassette con i video...”
“Ah, ecco perché girava quei video. Un paio di volte si è presentata anche a noi con quella telecamera, ma per lo più li girava quando era sola con Jimmy.”
“Sì. Diceva che voleva mostrarmi la vita.”
“Eri in collegio, mica in isolamento. Ma io poi non so esattamente com’è un collegio.”
“Ho baciato Jimmy, al barbecue.”
“Oh, Cristo onnipotente... E Dick?”
Gin sorride. “Rick.”
“E Rick?”
“E Rick nulla. Non lo so. Non l’ho mai amato davvero, credo. Sarebbe bello che i cuori si sfilassero come si sfilano i vestiti, ma non è così. Sono tornata ad Huntington Beach perché speravo di incrociare Jimmy, e allo stesso tempo ne avevo il terrore. Ovviamente, è successo.”
“Ovviamente.”
Sospirarono insieme.
“Brian sarebbe stata una scelta migliore, comunque. Almeno lui fa parte di una categoria di stronzi che puoi prendere in qualche modo. Jimmy non è così, lo sai? È imprevedibile.”
“Lo so.”
“E ti piace per questo? Perché è una sfida psicologica?”
“Non mi piace, Zack. Non penso mi sia mai piaciuto. L’ho amato e basta, credo.”
“Ottima e terribile risposta, piccola. A lui l’hai detto?”
“Non ancora. Pensi che dovrei?”
“Secondo me gli viene un colpo. Non gli sei indifferente, sai. Dopo il ristorante, quando quella Lilian gli ha mollato le sue mutandine, se ne stava seduto su un muretto a riflettere nel vuoto. Ho creduto pensasse a tua sorella, ma poi riflettendoci credo che stesse pensando a te.”
“Lilian? Lilian Cartwright? L’educanda del collegio?”
Merda, pensa Zacky. Si dà pure uno schiaffo. Gin sente, ma non commenta. Guarda l’orologio: le cinque meno un quarto del mattino.
“Gin, ascolta, io non...”
“Zacky.”
“Senti, domani mattina non credo che trovi sveglio nessuno perché io e te siamo al telefono a quest’ora e gli altri sono andati a una festa al Johnny’s Saloon che probabilmente finirà alle sette, come al solito, quindi se vuoi parlarne da vicino, anche con lui, possiamo fare nel pomeriggio prima delle prove...”, tenta di rimediare lui, imprecando in silenzio.
Gin tace per un momento.
“Al Johnny’s?”
Zacky sbianca, valuta la possibilità di farsi asportare le corde vocali.
“No, Gin, non...”
Troppo tardi.

 

 

Johnny.

 

Le feste al Johnny’s vanno sempre avanti ben oltre la soglia di sopportazione del nostro Johnny, che se ne sta abbandonato in un divanetto in giardino con la birra nella mano destra, inerte, quasi completamente ubriaco. Ridursi come le pezze è una delle cose che gli riesce meglio. Matt ride con alcuni dei roadies, a voce altissima, tonante. Jimmy sta parlando con un tizio, che, da lì, non si vede bene chi sia. Chi se ne frega. Quanto manca all’alba? Ha fatto bene Zacky ad andarsene a casa a dormire insieme alla signora. Lacey domani mattina ha da fare all’università, quindi non si è proprio presentata. Brian, Michelle e Valary... dove sono Brian, Michelle e Valary? Boh. Chi se ne frega. Sempre la solita gente. Le solite facce. Le solite birre. I soliti ubriachi. Le solite urla. Le solite figlie di papà che attraversano il giardino impettite con il vestitino sotto al ginocchio, il golfino, le ballerine e i capelli belli in ordine nonostante siano le cinque del mattino.
...
No, aspetta.
Johnny si tira a sedere giusto in tempo per vedere Ginevra che falcia il prato a passo sostenuto. Jimmy si volta a guardarla giusto un secondo prima di ricevere uno spintone che, se fosse stato sobrio, non l’avrebbe smosso di un millimetro. Ma sobrio non è. Jason - ah, ecco con chi parlava - gli impedisce di sbilanciarsi, con il risultato che il batterista fa appena un passo indietro prima di ritrovarsi Ginevra Kringe a mezzo centimetro dalla faccia.
“È una ragazzina, per Dio!”
Sente Brian bestemmiare tra i denti, indeciso se intervenire o meno: è in piedi dietro di lui, si rende conto Johnny voltandosi, e accanto c’è Zacky. Da dove diavolo è uscito, Zacky? Spuntano come i funghi.
Jimmy sostiene lo sguardo di Gin.
“Forse non la conosci come la conosco io.”
“La conosco benissimo. È una troia, ma resta il fatto che è una ragazzina!”
Tutti ci guardiamo un po‘ inebetiti: ha veramente detto troia?
“Dorothy, guarda che il Kansas è dall’altra parte.”, le dice Jason, intromettendosi.
“Mi rendo conto di aver sbagliato film. Devo essere capitata sul set di Biancaneve. Tu quale dei sette nani sei?”
A Johnny e Zacky viene da ridere, ma si trattengono per rispetto.
Jimmy molla il drink in mano a Jason, che fissa ancora inebetito Ginevra.
“Sei gelosa, fatina?”
Gin lo spintona di nuovo, e questa volta lui le ferma le mani sul suo petto, impedendole di divincolarsi.
“Non puoi pensare di fare tutto quello che ti pare nella vita, James Sullivan, non è così che funziona.”
“Non mi hai risposto.”, le fa notare lui. Sfoggia di nuovo quel sorriso da coccodrillo. Per un momento, Johnny teme il peggio.
“Perché mi hai baciato, allora?”, gli soffia lei.
“Tu mi hai baciato!”
“Irrilevante! Non sembrava che ti dispiacesse!”
“Non mi dispiaceva, infatti.”
Ginevra si gira sconvolta, a bocca semi-aperta, proprio verso il punto in cui c’è Johnny, cercando sostegno. Johnny alza le spalle e apre le mani. Gli altri lo fissano con aria di rimprovero. Johnny abbassa le mani di corsa.
Gin si volta di nuovo a guardare Jimmy, che la fissa in silenzio.
Per dire la verità, è piombato un silenzio generale, etilico.
“Ma che diavolo ci faccio qui.”, dice lei tra sé, all’improvviso. La sua espressione cambia, diventa un velo di confusione e... qualcos’altro. Ma cosa?
“Io ho cercato di fermarti.”, le fa Zacky, facendo un passo avanti. Lei si volta a guardarlo come se lo vedesse per la prima volta.
Dolore, forse.
“No, cosa ci faccio qui ad Huntington Beach. La vita sarebbe stata molto più semplice, a Dusseldorf.”
“Mi dispiace informarti di questa cosa, ma la vita è complicata ad Huntington Beach, a Dusseldorf e da qualunque altra parte, piccola.”
Gin si volta di nuovo verso Jimmy, che ha appena finito di pronunciare quella frase. Johnny si alza, vorrebbe avvicinarsi ma non sa se è il caso. Si stupisce che Brian non sia ancora partito all’attacco per smorzare i toni tra lei e Jimmy; non sa cosa gli ha detto Zacky, prima di entrare.
“Hai ragione.”, dice all’improvviso Gin, e il silenzio si intensifica colorandosi dei toni dello stupore, “Sono stata proprio una stupida. Tu non mi devi nulla. La mia è stata una reazione d’istinto. Ero a telefono con Zacky e appena mi ha detto di Lilian sono partita come una molla. Mi dispiace, davvero. È stato spropositato da parte mia, ma devi scusarmi. Scusate tutti. Sono un po‘ a digiuno di vita, non so comportarmi. A quanto pare ci sbagliavamo”, fa a Jimmy, un po’ ferita, “dieci anni di carcere di massima sicurezza hanno dato i loro frutti.”
Fa un passo indietro, e Johnny si avvicina, fregandosene di tutto il resto. Lei si muove spaesata, non sa cosa fare. Continua a indietreggiare e alla fine gli sbatte addosso. Non Zacky, non Jimmy, ma lui, Johnny, la volta verso di sé e le legge tutta la confusione e il dolore del mondo negli occhi, quindi la abbraccia. Lei piega la testa per appoggiargliela sulla spalla, è scossa e trema un po’. “Non è successo niente, piccola.”, le dice, accarezzandole i capelli. Gli altri si sbloccano, tutti insieme. Valary si avvicina e le poggia una mano tra le spalle, e Gin si irrigidisce. Sta pensando a quanto è cretina, e a che figura di merda ha fatto.
Johnny vorrebbe che ci fosse Lacey: lei saprebbe cosa dirle. La schiena di Gin diventa una tavola di marmo e lei tira su il viso e si volta verso Jimmy, fronteggiandolo a quattro metri di distanza. La delusione ferita che lei ha negli occhi è una vista insopportabile, almeno per Johnny.
“Mi dispiace. Di tutto quel che ho detto prima, ma anche di molto altro. Mi dispiace che tu non sia in grado di stabilire il tuo valore e che per questo la tua vita sentimentale sia uno sfacelo. Mi dispiace che tu abbia pensato di doverti giustificare, con Delia o chiunque altro, per le cose che pensi e per il modo in cui sei, e mi dispiace che lei non sia stata adatta a capire cosa aveva tra le mani. Mi dispiace che tu ti senta responsabile per lei, perché credimi, tutto il male che si è fatta se lo è fatta da sola. Mi dispiace aver creduto così tanto in te da non aver avuto più spazio per credere in nient’altro, a un certo punto della mia vita. E mi dispiace, moltissimo, sono davvero desolata, per me stessa. Per la fine che ho volontariamente scelto di fare, e per aver corso il rischio di tornare qui sapendo che ti avrei rivisto e che sarebbe stata una tragedia.”
In sottofondo, dalle casse, c’è Nothing compares to you di Sinead O’Connor. Una canzone che non c’entra nulla con le altre della playlist. Chissà che diavolo ci fa lì.
“Mi dispiace per i tuoi incubi, che sono così simili ai miei. Mi dispiace che tu creda di essere prigioniero di te stesso. Mi dispiace anche che tu abbia avuto bisogno di una Lilian; di quelle ce ne sono in giro quante ne vuoi, ma, che io sappia, non hanno mai risolto alcun problema. Semmai ne hanno creati. Ma non sono affari miei. Scusate l’intrusione, me ne torno a casa.”
Jimmy non ha detto una parola. La guarda e basta, la ascolta. Lei si volta per andarsene.
Johnny si fa di lato per lasciarla passare, ma qualcun altro le sbarra il passo. Brian.
“Vuoi qualcosa da bere?”, le chiede. 
Gin sorride.
“Non mi sembra il caso, Brian, ma grazie.”
“Resta.”
Gin si volta a guardarlo, non gli dice nulla.
“Resta.”, ripete Jimmy.
Tutti si voltano verso Gin, in attesa.
“Va bene, resto.”, risponde lei, senza un’ombra di rancore.

 

 

Alba.


Jimmy e Gin sono seduti su un dondolo, nel giardino del Johnny’s. Il resto della truppa, incluso Zacky che alla fine si è trovato lì e ci è rimasto, è riverso sui tavoli e sui divanetti interni. Fa un po‘ freddo, e Gin si stringe le braccia intorno al corpo. Jimmy la guarda di sottecchi, si sfila la felpa e gliela porge.
“Grazie.”
Poi le passa un braccio intorno alle spalle e se la tira accanto: “Forse è arrivato il momento di parlare.”, le dice. Finora hanno, più che altro, bevuto.
Gin si passa le mani sul viso. “Io devo chiamare il Collegio per avvertirli che stamattina dormo.”
Jimmy ride. “Sì.”
Lei lo guarda tra le dita dischiuse, le abbassa, si sporge, lo bacia. Un bacio così intenso, carico di significati.
“Bisognerà dire qualcosa a Rick, prima o poi.”, osserva Jimmy.
“Dick.”, lo corregge lei, automaticamente, “Ah, no. L’avevi detto giusto.”
Si guardano e scoppiano a ridere.
“Siamo ubriachi.”, dice lei.
“Tu più di me. Sei arrivata vergine, dall’Europa.”
Gin annuisce, ironica. “Non sai quanto hai ragione.”
Jimmy le getta uno sguardo allusivo, e lei annuisce di nuovo, con aria saggia. Lui ha la delicatezza di non prodursi in espressioni sorprese.
“E Dick?”, le chiede, neutro.
“E Dick dice che le mie paranoie devono essere smontate un po‘ alla volta, e che aspetta che io sia pronta e che il lavoro di sblocco che sta facendo su di me dia i suoi frutti.”
“È un lavoro di sblocco che non prevede le mani, mi pare di capire.”
Gin scuote la testa, e lo guarda. “Sei geloso?”
“E tu, fatina?”
“Perché mi chiami fatina?”
“Perché è quel che sei. Niente con quel vestito era mai entrato al Johnny’s. Niente che non fosse una spogliarellista in costume da educanda.”
Gin scoppia a ridere.
“Domani è Natale.”, osserva, pensierosa.
“Non cambiare argomento, mi stavi raccontando di Dick.”
“Già, dove eravamo rimasti?”
“Mi dicevi che Dick è gay.”
Gin scoppia a ridere di nuovo. “Non ho mica detto questo! Ho detto che aspetta, con pazienza, che io sia pronta per il sesso.”
“E dorme affianco a te tutte le sere. È gay.”
“D’accordo, allora, ricapitolando, sono una sognante, disorganizzata ex educanda di collegio che non sa comportarsi, si veste come una bambola di porcellana e ha un fidanzato gay.”
“Non è più il tuo fidanzato.”
“Ma lui ancora non lo sa.”
“Lo sappiamo io e te.”
Gin sorride all’erba.
“Con te lo farei anche stasera. Anche in questo istante.”, dice, e avvampa.
Jimmy si volta a guardarla, sorride anche lui.
“Sono andato a prendere Lilian, la sera prima del barbecue, con l’intenzione di scoparmela. Poi non è successo. Non mi andava.”
Gin lo guarda sorpresa. Lei non sa dissimulare.
“Quell’espressione stupita dal fatto che io non abbia fatto sesso con una pur avendone l’occasione devo prenderla per l’opinione che hai di me, fatina?”
“Certo che devi.”, risponde lei, convinta.
“Potresti dirmi qualcosa di carino, una volta, tanto per cambiare. Finora hai fatto l’elenco delle mie mancanze e hai pungolato senza sosta la mia virilità. Sono un po‘ offeso.”
Gin gli sorride, dolcissima. “Ti ho sempre amato, Almost easy.”
Lui la guarda senza parlare. Sono dieci secondi, ma sembrano dieci anni. “Non hai mezze misure, eh?”
Gin si stringe nelle spalle, per nulla turbata. “No, e oltretutto non reggo l’alcol.” Si alza in piedi: “Penso che andrò a casa a dormire.”
“Vieni a casa con me.”
Lei lo guarda sorpresa, abbassando lo sguardo sul dondolo su cui lui è ancora seduto, tranquillo come se non fosse successo niente.
“Dormiamo e basta.”, dice, alzando le mani, lui, per rassicurarla.
“Qualcuno mi ha detto che pianificare sempre tutto non fa bene. Andiamo a casa e vediamo che succede.”
Jimmy scoppia a ridere, si alza per seguirla; quando la raggiunge, le mette un braccio intorno alle spalle.
“Puoi ripeterlo ancora una volta?”, le fa, mentre attraversano un Johnny’s Saloon che sembra la fine di una partita di Call of Duty, con tutti riversi cadavere sui tavoli e i divani. Con la sola differenza che questi russano. Forte.
“Cosa?”
“Quello che hai detto prima.”
“Che pianificare non fa bene?”
Gin in realtà ha capito. Gli afferra la mano che è sulla sua spalla, stringendosi a lui.
“No, prima ancora.”
Allora, alza gli occhi per guardarlo.
“Te lo ripeto a casa, se per te è lo stesso.”
“Se me lo ripeti a casa potrei non rispondere di me.”
Gin si stringe nelle spalle. “Pazienza.”, dice, mentre escono alla luce del sole di Huntington Beach.

 

 

To stay the hero,
sometimes you have to prove
you can turn into the villain.

 

 

Ginevra si muove sicura nella geometria sconosciuta che è casa di Jimmy per lei. Guarda i soprammobili, il colore delle mura, la disposizione degli oggetti; è tutto lontano, come dentro una nebbia leggera.
“Non so bene come comportarmi.”, dice lei, appoggiando il golfino sulla spalliera di una sedia dandogli il sentore di un gesto che le vede fare da sempre, anche se non è mai stata lì. Jimmy è rimasto sulla porta con le chiavi in mano e le mani in tasca, appoggiato allo stipite, a guardarla. Sta pensando che lei si incastra perfettamente con quel posto, per un’arcana, inspiegabile magia sulla quale non ha voglia di indagare oltre.
“Intendi che non sai bene come comportarti qui ed ora, oppure in generale nella vita?”
Gin ride, e nel farlo getta un po’ la testa all’indietro; non lo guarda, e lui sa perché. Non è molto più grande di lei, ma è più esperto, più sveglio e più navigato di lei: riconosce il momento in cui a una donna viene meno la spavalderia che ha usato in un territorio più neutro e innocuo di una casa, e improvvisamente si accorge di avere davanti una bambina. Quanto mondo non conosce, Gin, e quello che conosce lo ha sempre e soltanto filtrato attraverso i propri occhi, e forse i suoi; persone così non hanno vita facile anche quando sono libere di muoversi senza l’oppressione delle quattro mura di un collegio a pesargli addosso come una sentenza, figurarsi poi se all’ombra di quelle mura ci hanno vissuto tutta una vita. Una vita soltanto immaginata, come la sua.
“Vuoi del latte?”, le chiede, senza sapere perché. Lei si guarda intorno, ma non le interessa l’arredamento; Jimmy sa che i suoi occhi stanno facendo un giro inutile perché non trovano il coraggio di posarsi su di lui, eppure lo desiderano ardentemente. Così appoggia le chiavi sul mobile dell’ingresso, e quel lieve tintinnio fa sobbalzare Gin come il rumore di uno sparo. Le va vicino, dietro le spalle. Così vicino che Gin riesce quasi a sentire il suo respiro fondersi con il proprio. Lui è tranquillo, lei non lo è, il sole filtra arancione dalle tende dischiuse e una lieve brezza muove l’aria intorno a loro. Si appoggia all’indietro addosso a lui, perché nessuno le ha insegnato che non si fa, oppure, più probabilmente, le hanno spiegato soltanto la teoria, e quella da sola non basta mai. Il tempo si incastra tra le corde di un violino.
“Era la mia testa, non Delia. La mia testa li ha convinti a mandarmi in collegio.”
Jimmy è saldo, tridimensionale dietro di lei; ha abbassato appena la testa, per farle sentire che risponde al suo contatto, ma non ha mosso le mani. Sarebbe troppo. Lei non lo sa, forse, ma lui di certo sì.
“Li ho sempre spaventati così tanto. Parlavo con l’aria, da bambina, ma io vedevo e sentivo cose che per loro erano oscure e imprendibili. Io pensavo ad un ritmo che non gli sarebbe mai stato familiare o comprensibile, perché non avevano mai visto né sperimentato nulla del genere. A molti non capita, a noi è capitato.”
Jimmy respira tranquillo, muovendo appena il collo. La mano di Gin si spinge all’indietro, trova la sua nella tasca e si circonda la vita con il braccio; soltanto allora lui muove l’altra, di sua spontanea volontà, per chiuderla dentro un abbraccio che, per lei, durerà per sempre.
“Tutto quel che vedevo, lo scrivevo. Sapevo che era soltanto nella mia testa. Ma era vero. Volevo che loro capissero, volevo condividere se non altro la ragione dei miei lunghi silenzi. Di quelle cose che mi facevano restare, la notte, ad occhi spalancati nel buio, a sobbalzare per gli spifferi e a vedere animarsi le ombre sul muro. Quando si sono accorti che non erano paure infantili, ma il mio mondo personale, e che probabilmente lo sarebbe sempre stato, mi chiusero in collegio. Soprattutto da quando Delia aveva iniziato a frequentare cattive compagnie, cioè voi. Ma io ero la compagnia peggiore. Hanno sempre pensato che sia stata io, e quel che le raccontavo, a spingerla verso la strada che poi se l’è ingoiata viva. In realtà lei ce l’aveva con me, ma era un’invidia bianca, senza tracce di cattiveria. Avrebbe voluto la mia testa, così ha pensato di infilarsi dentro la tua. Avrebbe voluto vedere le cose che vedevo io, così ha iniziato con la droga. Ma le mie sono sempre state immagini che nessun allucinogeno poteva evocare.”
Si divincola dall’abbraccio con dolcezza. Jimmy non è troppo sorpreso di vederla accendersi una sigaretta, ma poi lei siede sul tavolo, tira su le gambe, crolla la testa e lo guarda di sottecchi, con un mezzo sorriso negli occhi; allora, sì, è sorpreso, perché si rende conto che la sta vedendo per la prima vera volta. Lo guarda, lei, con la testa di galassie, sussurri e ombre che gli ha appena descritto. Ora sa perché sta con Dick, sa anche perché non è arrabbiato con lui per Delia, sa perché non è scappata via una volta e per tutte da qualunque collegio e sa anche com’è sopravvissuta tutti quegli anni: Ginevra Kringe è una donna che sa come stanno le cose. Il pensiero, per un attimo, lo spaventa. C’era una volta Ginevra Kringe e a quanto pare c’è ancora, anche se qualcuno ha fatto di tutto per rubarle la vita, per trasformarla in altro da se stessa, per mettere un freno a quella testa impossibile.
“Li spaventavo, Jimmy. Sbiancavo fissando un punto nell’aria, piangevo per giorni senza motivo, sapevo cosa stessero pensando non perché gli leggevo nel pensiero, ma perché sono sempre stata brava con le persone. Le persone, quello che creano, quello che credono, quello che temono e quello che sentono erano e sono il mio campo. Ho un intuito incredibile, come se avessi le antenne, per tutto quello che sta nelle crepe tra la realtà dei fatti in cui la gente vive e lo spazio immenso in cui la gente pensa. Non credo di essere in grado di spiegarlo a te né ad alcun altro, e vorrei che tu non provassi a capire. Però è così. Io sono questa. Lo sono da sempre, lo sarò per sempre, e sono stanca di pagare per quello che sono.”
Jimmy si volta e va al frigo, a prendere in mano il cartone del latte per stringere le dita attorno a qualcosa di solido che non sia il collo di Delia Kringe. Delia, i suoi capelli neri sparsi sulla coperta che si portavano sulla spiaggia quando passavano la notte strafatti a raccontarsi gli incubi contando le stelle. Delia, le sue mani esperte, le unghie con lo smalto sbeccato che gli si conficcavano nelle gambe. Improvvisamente, sente un liquido fresco colargli giù per il braccio e si volta, stordito, verso Gin; a stento si è accorto di aver stretto così tanto il cartone del latte da farlo esplodere, ma lei non sembra impressionata. Fuma piano e lo osserva, con un ginocchio al petto e una gamba pendula oltre il bordo del tavolo. Tranquilla, silenziosa come un incubo ipnotico. Ora capisce, Jimmy, che lui e Brian si sbagliavano, al barbecue di casa Haner: lei non è affatto fuori posto, lì. Anzi, ha avuto la lungimiranza di tornare nell’unico posto in cui potesse veramente dirsi a casa. In mezzo a loro, e con lui.
“Ti capisco bene, invece.”, le dice all’improvviso, e lei scende dal tavolo e gli va vicino facendo frusciare il vestito intorno alle gambe. Trova uno straccio sul mobile della cucina che nessuno ha messo lì e asciuga dolcemente il latte sul suo braccio.
“Delia non ha cercato di uccidersi per te, ma perché voleva disperatamente vivere in un incubo. Tu lei sei servito da scusa. Mi ha sempre invidiata, perché a me veniva naturale, la tenebra. Ma nessuno, Jimmy, nessuno ha il diritto di desiderare i drammi degli altri.”
“Avresti voluto essere normale?”
Gin sorride, concentrata sul bianco che ancora macchia i tatuaggi. “Lo sono.”, gli risponde, “Non ho mai conosciuto qualcosa meglio di quanto conosco me stessa, ed è chiaro che, per me, io sono normale e gli altri sono strani.”
“E non ti pesa?”
“Certo che mi pesa. Ma è casa mia. Il buio è casa mia, l’invisibile è casa mia, Edmund Burke e le fantasie distorte sono casa mia, e non si può fare a meno di voler bene alla propria casa. Anche quando è oscura e imprevedibile.”
Appoggia lo straccio e alza gli occhi per guardarlo. “Ormai è da quand’ero poco più di una bambina che non vedo più le cose. Però continuo a sentirle. Sono parte di me.”
“Di quali cose parli?”
“Paure. Fisiche, tridimensionali. Finali alternativi a cose che vanno, in realtà, in un altro modo. Soltanto idee, che per me sono reali. Non so se le invento oppure le sento, ma dopo un po’ non fa più differenza.”
Si ferma un pensiero sopra le loro teste. Gin si guarda intorno, chissà cosa vede, cosa sente.
“È vero che quando guardi nell’abisso l’abisso guarda dentro di te, ma a tutto si fa l’abitudine, quando si impara il proprio spazio nel mondo. Diventa quasi facile.”
Jimmy sorride. “Almost easy.”, dice.



 

Johnny’s Saloon, ore 8:25


Una figura avvolta in un lungo soprabito appare in controluce sulla porta principale del bar.
Johnny, semisveglio e misteriosamente in piedi al centro di quella scena da guerra del Vietnam che è diventato l’interno del Saloon dopo la più grande festa etilica degli ultimi vent’anni, alza una mano per mettere a fuoco. Senza successo. Ma tanto non capisce niente. Non sa come mai si trovi lì. La stanza gli gira intorno o forse sta girando lui, e in ogni caso tutto è sfocato e senza contorni. Si accorge a malapena di essere vicino alla porta sul retro.
“Devo parlare urgentemente con Zachary Baker.”, dice la figura, una voce di donna, forse. Zacky, riverso su una panca dietro un tavolo che lo nasconde alla vista, apre un occhio. Shadows, disteso sul bancone, alza lievemente il collo, e con lui Jason Barry, che è rimasto miracolosamente in equilibrio seduto su uno sgabello e fino a quel momento stava profondamente dormendo su una coscia del cantante.
“Devo parlare urgentemente con Zachary Baker.”, ripete la donna-forse.
Johnny non lo ricorderà, e non ricorderà neanche cosa sta per rispondere; invece lo ricorderanno, sconvolti, Zacky, Matt, Jason e la figura, in maniera così nitida che lo racconteranno a chiunque vorrà ascoltare per molto tempo dopo quella mattina.
“Zachary Baker è morto.”, risponde Johnny, solenne. Poi impartisce una benedizione episcopale, inciampa sullo scalino della porta sul retro e si dirige barcollando in cortile, verso i dondoli.

 

“The world breaks everyone
and, afterwards,
many are strong at the broken places.”
- Ernest Hemingway





 

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Capitolo 6
*** Dimmi, Tiresia ***


 

Il primo amore si scrive invariabilmente in una inesorabile prima persona. Come potrebbe essere altrimenti? Nonché in un inesorabile indicativo presente. Ci vuole tempo per rendersi conto che esistono altre persone e altri tempi verbali.
— Julian Barnes, L’unica storia

 

Le lenzuola sono una nuvola opalescente sospesa nella luce dell’alba.
Il sole si sta alzando, lo sanno.
Jimmy ripercorre a mente ogni passo compiuto fin lì; il silenzio improvviso, le mani sugli occhi, una risata di bimba in un corpo di donna — un corpo che, a istinto, ha saputo perfettamente aderire al suo, accendendogli la complessa e banale serie di stimoli elettrici che portano un uomo all’eccitazione; ha fatto di più, in realtà, Ginevra gli ha fatto scattare l’interruttore centrale, quello del cervello. L’ha presa tra le braccia ed il tremito che ha sentito sprigionarsi da quelle ossa leggere lo ha trasformato, per un momento, in un animale cieco. Ha respirato forte per tornare in sé, e si è lasciato condurre per mano in una camera da letto che lei non poteva conoscere; eppure sapeva dov’era. Lo ha lasciato in piedi mentre, paziente e metodica come un canto, si sfilava i vestiti; è bastata una scarpa, una delicata ballerina rosa di buona fattura, ed è stato costretto a sedersi — crollare, è il verbo giusto — in poltrona osservando il resto di quel rito mistico come sotto ipnosi. Non ha mosso un muscolo mentre lei, dolce, si sfilava il golfino lasciandolo cadere a terra; un fuoco ardente gli ha avvolto i fianchi alla vista di quella pelle nuda — solo un braccio — ed ha saputo, d’istinto, che mordendola avrebbe sentito sulla lingua la stordente dolcezza del latte. Poi il vestito. Un vestito semplice, da brava ragazza, che Ginevra ha sbottonato alzando le braccia dietro il collo — ogni bottone un colpo del suo cuore, un piccolo olocausto personale — e che le è arrivato alle caviglie leggero come spuma. Lo ha scavalcato con un gesto infantile, tesa e trepidante com’era, — tutta la vita, per tutta la vita ho sognato questo istante con te — ed è rimasta interdetta un secondo. Poi ha deciso. Un gancio, un altro, le braccia incrociate sul petto ad afferrare le spalline, ed anche quel reggiseno di pizzo è finito a terra. Poi l’ha guardato tra le ciglia, vestita solo degli slip la cui trasparente e contraddittoria dichiarazione di innocenza moltiplicava il suo desiderio di lei all’infinito. Si è alzato prima di accorgersi che si stava alzando, e l’ha raggiunta. Per un po’ è rimasto lì a impararla a memoria, indeciso su cosa fare, poi le ha passato una mano — delicata e lenta come non era mai stata — nell’incavo tra i seni. L’ha sentita fremere al suo tocco ed ha indovinato con certezza il calore che le stava crescendo dentro.
“Posso aspettare”, le ha detto comunque, facendosi violenza.
“Io temo di non poter aspettare un minuto di più, invece.”, gli ha risposto lei.
E sono finiti sul letto.
Adesso, seduti l’uno di fronte all’altra, cercano di capire com’è che siamo tutti grandi esperti di sesso finché non arriva quell’unica volta. Jimmy si sfila la maglia lanciandola a caso verso una lampada che spera di rompere, ma non ce la fa. Una scarpa, poi l’altra, e poi vira verso l’apertura dei pantaloni; ma lei è più veloce, più audace, e lui stringe i denti mentre sente le sue mani fargli saltare il primo bottone dei jeans. Quegli occhi dolcissimi si piantano saldamente dentro i suoi mentre gli tira giù la zip, e lui intravede chiaramente avvicinarsi la necessità di una camicia di forza. Stringe i pugni, cerca di mantenere il controllo. Si sfila i jeans da solo, ma si tiene i boxer. Ha bisogno di un momento per ricomporsi, emozioni e voglie sono un fiume in piena e si accalcano con gran baccano le une sulle altre, ma lei gli sale addosso a cavalcioni — Jimmy sente ogni cosa; le gambe di lei, morbide e invitanti, il calore umido che racchiudono nel mezzo e che gli preme sull’erezione dolorosa; il profumo della sua pelle e dei suoi capelli, inebriante al punto di stordirlo, la bocca rosea, le lunghe ciglia, uno stillicidio in stop motion che si ripromette di inserire in una canzone quale la lunga litania di bestemmie del desiderio — e, vicinissima al suo viso, gli parla dritta sulle labbra: “Prendimi.”
Non ci vede più.
Se la rovescia sotto, la sente dischiudere le gambe per accoglierlo anche se hanno ancora entrambi la biancheria, per poco non si dà uno schiaffo per costringersi a ricordarsi che è vergine e che non deve farle male, e quando lei muove i fianchi per incitarlo a iniziare a fare sul serio le si pianta davanti, marmoreo, e le dice: “Fatina, tu hai un effetto molto strano su di me, per cui, per assicurarci che la cosa si piacevole per entrambi, ti prego, per un minuto, sta’ ferma.”
Un sacco di virgole per una frase sola. Lei gli sorride, radiosa. Inebriata dall’ascendente che ha su di lui. Riuscite ad immaginare cosa significhi? Amare un uomo da lontano, amarlo bambine e poi donne, ed arrivare al giorno impossibile in cui tutto quello sperare, quell’immaginare, quel fremere e combattere contro la pervasività della sua assenza e presenza insieme si risolve lì, nella timida cornice di un letto qualunque ignaro di star per diventare il letto. Quello in cui si compie il miracolo, si schiude la porta all’atteso e distante finale della favola.
Disobbediente, gli tira giù i boxer senza staccare gli occhi dai suoi. Jimmy afferra un lembo del suo slip e tira forte, strappandolo di netto: “Ti avevo o non ti avevo pregato di stare ferma, fatina?”
Lei gli prende un labbro tra i denti e succhia piano — tutto il sangue che Jimmy ha in circolo passa a salutare il cervello e poi converge nei fianchi; è dentro di lei, e si conia un sospiro a due voci. Ritorna in sé e la guarda, in cerca di una smorfia di dolore. Invece lei rifulge di luce propria e lo bacia, con la bocca e con tutto il corpo.
“Tutto bene?”
“Brucia un po’.”
“Ora mi muovo. Andrà meglio.”
Jimmy scopre che c’è un altro uomo in lui; uno che sa essere delicato e profondo dentro una donna, uno che mette se stesso al secondo posto per una volta, e soprattutto uno che capisce improvvisamente che è vero che il sesso è bello con qualunque donna, ma se per caso ti capita di incontrare quella con cui l’incastro è scienza, destino e magia, sei fottuto per tutta la maledetta eternità.
Gin si trasforma sotto di lui, mentre le si infrange dentro con il movimento metodico di un’onda; si stupisce di quanto gli piaccia, di quanto ogni cosa di lei sembri essere fatta per lui — il modo in cui gli serra intorno le gambe per tirarselo più vicino; le sue mani bianche che afferrano e graffiano lievi le sue cosce, la sorpresa di trovarsele perfino intorno a tenerlo su di lei ed assecondare le sue spinte; la fame che sembra avere di lui e che si manifesta in mille modi, il ruvido e dolce passaggio della sua lingua sul collo, il piccolo morso all’orecchio, al mento, i gemiti e i sospiri — e quando la sente contrarsi intorno a lui ed inarcare la schiena fa appena in tempo ad offrirle un appoggio afferrandola con un braccio per non farla ricadere di schianto sul materasso, mentre lei stringe forte le cosce ai suoi fianchi e sussurra “oh, Jim”, piantandogli per sempre in mente il suono del suo nome detto con quella voce ed in quel frangente al posto di quello di battesimo e distraendolo dal fatto che, ebbene, sta venendo anche lui. Le crolla addosso, tra spinte e morsi e braccia che afferrano, gambe forti e sottili, dolce tenaglia che lo esorta a spingersi più a fondo; per un attimo davvero non ci vede, e collassa su di lei, ansante, chiedendosi se Ginevra Kringe non sappia, in realtà, di aver dimostrato un incredibile talento per quell’arte sottile e mai abbastanza proibita.
Poco dopo fa un’ardita piroetta e se la stende addosso. Ginevra protesta per il mancato preavviso; si è staccato da lei delicatamente, ma per lei tutto è nuovo. È nuovo anche il modo in cui lo guarda, innamorata e misteriosa, custodendo in tutto quel corpo di gatta reso tiepido dalla soddisfazione la scoperta di un’altra cosa, una che per tutta la vita si era immaginata soltanto, e senza dettagli.
“Tutto bene, bambolina?” Le chiede, giocando con i suoi capelli. Lei è immersa nel torpore del sesso appena fatto, — i sensi appagati, l’orgasmo come un’esplosione di stelle ancora in via di estinzione, — e annuisce verso la bocca di lui in cerca di un bacio.
“Ti ho fatto male?”
“Nessuno mi ha mai fatto tanto bene in vita mia, Jimmy.”
Lui sorride, non dice nulla, ma pensa; già, nemmeno a me.
Il sole, ormai, è alto.

 

 

Zacky.

«Ed ecco, la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si schiantarono, le tombe s'aprirono e molti corpi dei santi, che dormivano, risuscitarono; e, usciti dai sepolcri, dopo la risurrezione di lui, entrarono nella città santa e apparvero a molti
Un giovane chitarrista ritmico urla con solennità siffatte parole nel portico di casa sua, mentre l’oceano infuria più in là a concedergli la grazia di un degno sottofondo ed il postino in bici passa oltre, atterrito, decidendo che quella raccomandata dopotutto può aspettare.

“Zacky? Zachary? Ma perché bisogna sempre farne un affare di stato?”
“Johnny, taci. Taciti. Questo è un affare di stato. Bisogna chiamare a Washington per far dichiarare lo stato di calamità.”
Shadows, scettico e per la verità ancora un po’ sbronzo, chiede: “Che tipo di calamità?”
Zacky parte per la tangente senza neppure l’invito. “Calamità qualsiasi! Calamità naturale! Calamità, catastrofe! CALAMITÀ INNATURALE!”
“Zack, io credo che tu stia esagerando. In fondo sono passati diversi anni, siamo tutti adulti e—”
“SCIAGURA!”
“Brian?”
Zacky intercetta Brian che esce, scavalcando lo sportello senza avere un solo buon motivo per non uscire dalla decappottabile come qualsiasi persona normale (cioè aprendolo), e lo indica con una serietà che in genere un uomo raggiunge solo dopo due lustri di sacerdozio di clausura: “Le sette torri della fiera Tebe sono avvolte dalle fiamme! Corvi pasteggiano con gli occhi dei nostri figli! Sciagura! Sciagura!
“Tiresia, hai rotto il cazzo.”
Entrambi i chitarristi si voltano verso Johnny Christ, che studia con un certo rimpianto il quadro desolante offerto dai suoi amici.
“Ma guarda, fino all’altro ieri vi veniva un capogiro anche solo a leggere le etichette dei bagnoschiuma ed ora siete esperti di tragedia greca e letture bibliche. Gli stessi testi per cui davate a Jimmy del segaiolo intellettualoide. Solo che secondo me ora gliele fa qualcun altro, le seghe. Mentre voi siete qui, a sbraitare come una versione delle Baccanti sceneggiata da Tim Burton dopo una lunga meningite, e per di più mi guardate con quest’aria stupita come se non avessi fatto anche io le scuole dell’obbligo. Io lo so benissimo chi è Tiresia. Tu, invece, Brian? Tu sei un gay.”
Shadows ingoiò d’un fiato il suo bicchiere di limonata e gettò al bassista un lungo sguardo saggio.
“Sappiamo che sei preoccupato per Ginevra, Johnny.”
“IO sono preoccupato per Ginevra! Lei è amica mia.”, Zacky.
“Peraltro il più intelligente di noi, cioè Jimmy, non si è mai nemmeno diplomato. Dimostrando che non serve, per conoscere Sofocle.”, Johnny, in arringa.
“E purtuttavia si scopa Jimmy.”, Brian, oggettivo.
“Ma chi, Sofocle?”
“Quando mai tu hai saputo usare l’avverbio purtuttavia?”, Zacky, avvelenato.
“Quando mai tu hai saputo cos’è un avverbio?”, Brian.
“Guarda che io sono una persona colta!”, Zacky.
“Ma vattene a fanculo, persona colta!”, Brian.
“Ragazzi, ho capito che avete recentemente scoperto quanto vi piacciano le ex educande di collegio, ma ormai è un po’ tardi per imparare le tabelline.”, interviene Shadows, che per seguire quel ping pong ha dovuto inforcare gli occhiali da sole.
“Solo perché tu ti sei immolato alla causa di Valary e da allora hai smesso di avere il permesso di ragionare in autonomia non significa che tutti dobbiamo seguire il tuo illustre esempio.” Ribatte Zacky, didascalico.
“Piuttosto mi faccio inchiodare i coglioni ad un asse di legno.”, Brian, esegetico.
“Sempre un faro di resistenza e poesia.” Johnny, infine.
Cala il silenzio, ma dura poco.
“E continuiamo a girare intorno al problema.”, osserva Shadows.
“Noi lo risolveremmo pure, ma i piccioncini non rispondono al telefono.”, dice Brian.
Silenzio.
“Quindi ora lei è lì.”
“Penso proprio di sì.”
“E possiamo fare qualcosa?”
“Penso proprio di no.”
“Va bene.”, sospira Zacky, e tutti insieme riprendono a preoccuparsi all’ombra degli alberi di limone.
“Dovremmo andare”, dice Brian, le mani sui fianchi.
“No, peggioreremmo le cose.”, chiude la questione Shadows, tormentando il bicchiere vuoto.

 

Alcuni chilometri più in là

Jimmy quasi non sente il campanello. È la seconda volta che fanno l’amore e lei, persa l’incertezza insieme alla verginità, è diventata più audace; comincia a temere che dovrà restare lì con quella ragazza tra le braccia finché quel sacro fuoco non perderà un po’ di fulgore, e potrebbe volerci una vita.
Il suono insistente buca la parete del suo paradiso privato. La lascia ad occhi socchiusi nel letto in disordine e si infila il primo pantalone che vede, senza neanche preoccuparsi di chiudere la zip, perché vuole manifestare all’inopportuno visitatore tutto il suo disappunto. Passando davanti allo specchio, si lancia un’occhiata in tralice e si trova più in forma che mai. Sbatte, forte, sullo spigolo dell’isola in cucina e recupera gli occhiali da una mensola, infilandoseli mentre apre la porta. Poi qualcosa gli si fa di ghiaccio dentro gli occhi azzurri.
Cordelia Kringe, una tempo D.N., lo osserva altera.
“Se le mie informazioni sono esatte, e spero vivamente di no”, gli dice, senza espressione, “ti stai scopando mia sorella.”

Ginevra non è un’ingenua.
Non è la donna che urla “amore, chi è alla porta?” da una stanza all’altra per far sapere a chiunque sia che lei è lì. Nuda, si infila il vestito e raggiunge il salotto; non è sorpresa quando si trova davanti la sorella maggiore. Jimmy si volta e scopre ancora un’altra cosa su se stesso; non è la prima volta che avverte quel desiderio di proteggere una donna, ma mai prima d’ora è stato così intenso ed inappellabile. Istintivamente, si mette tra loro.
“Ciao, Delia.”
Parla per primo, non sa perché. Vede le due donne che si squadrano e non riesce a capire in che modo.
“Non mi hai mai chiamata Delia. Mai.”
Ginevra si chiude il vestito, raggiunge sua sorella sulla soglia e la guarda.
“Andiamo fuori”, le dice, e Jimmy si rende conto in un istante che la più piccola è anche la più forte. E che Delia la teme tanto quanto la ammira. Fa un passo avanti, ma si blocca quasi subito. Le ragazze vanno nel portico e lui sa che non sarebbe giusto seguirle, ma non riesce a togliersi di mezzo; resta in piedi dietro la porta socchiusa, pronto a scattare. Afferra il cordless e compone un numero.
“Pronto?”, quasi urla Zacky.
“Lei è qui.”
“Lo so bene, è venuta al Johnny’s; cercava te. Non so come abbia saputo di voi, probabilmente tramite qualcuno al barbecue. Non siete stati esattamente discreti.”
“E perché avremmo dovuto?”
“Tanto per cominciare perché Ginevra è fidanzata, Jimmy, e non con te.”
Silenzio. Questa versione di Zacky, un monumento itinerante al buonsenso che dispensa lezioni di vita con la stessa sicurezza del Dalai Lama, gli ha già rotto il cazzo. Soprattutto perché ha ragione, ed un universo in cui Zachary Baker abbia ragione è un universo in cui non c’è da stare tranquilli.
“Ti sto chiamando da almeno un’ora per avvisarti, ma tu stavi giocando al dottore.”
Lo spaventa il tono con cui l’amico ribatte: “Cosa cazzo pensi, Zacky, che io abbia la palla di vetro? Sono fuori a parlare, non so cosa fare."
Zacky sente un movimento tellurico nel petto; è la prima volta da quando si conoscono che Jimmy si rivolge a lui per qualcosa che somiglia ad un consiglio.
“Restane fuori. Noi arriviamo subito.”
“Va bene.”, risponde Jimmy, “Grazie.”
Restano zitti, ma nessuno dei due attacca.
“Se dovesse farle del male?”
“Non farti arrestare, Jimmy.”

 

Ginevra Kringe

“Perché lui, Ginevra?”
“Perché è sempre stato lui, Cordelia. E tu lo sai.”
“Mi ha quasi uccisa.”
“Hai fatto tutto da sola, non incolpare lui.”
“E Richard?”
“Parlerò con Richard da vicino.”
“Ci ho già parlato io.”
“Certo. Cosa gli hai detto?”
“Che ti stavo venendo a prendere. Che hai preso una sbandata per una persona poco raccomandabile.”
Ginevra raccoglie le gambe sulla sedia da giardino e chiude gli occhi, inspirando il profumo impossibile della siepe di ligustro del viale.
“L’unica persona poco raccomandabile a cui io sia stata legata nella vita sei tu.”
Cordelia somiglia alla sorella solo nel taglio degli occhi; per il resto è tutta spigoli, e negli anni la linea dritta della bocca si è curvata sotto il peso di troppi bocconi amari.
“Ho parlato anche con mamma e papà. Non sono stati molto contenti di sapere che la loro perfetta figlia era finita nientedimeno che nel letto di Jimmy Sullivan.”
“Delia, ora hai una vita ed un marito che ti ama. Che senso ha questa gelosia?”
“Gelosia? Io ti sto solo proteggendo. È sesso e basta, Ginny, lui non sa amare.”
“Che non abbia amato te non significa che non sappia amare.”
“Tu sai sempre tutto, vero? Il nostro piccolo diamante, sempre così impeccabile… perché ti sei fatta scopare da lui, avevi voglia di ribellione?”
“Scopare con lui è tutto tranne che una questione di ribellione, Delia.”
“E cos’è?”
“Inevitabile. Perché l’ho sempre voluto, perché è una cosa che si fa per amore, e perché per una volta preferisco chiedere il perdono che il permesso. Ma, anche dovessi scusarmi con qualcuno, quel qualcuno sarebbe Richard; non certo tu.”
Delia stringe i pugni sui braccioli della sedia, e quasi sussulta visibilmente quando Jimmy appare nella cornice della porta con i jeans sbottonati e l’eye-liner sbavato dalla sera prima.
“Volete qualcosa? Non so, un caffè?”
“Un caffè? Da quando sei così premuroso?”
Jimmy la guarda e non riesce a trovare dentro di sé neppure più l’ombra del motivo per cui stava con lei.
“Lasciala stare, Delia.”
“Ma guardati…”
Non fa in tempo a finire la frase che l’auto di Brian entra sgommando nel viale; sorride, vedendo tutta la band smontare dalla Mustang. Shadows le sorride a sua volta, freddo e bello come sempre.
“Ciao Delia, quanto tempo.”
“Non mi sarei aspettata di vedervi al gran completo. Forse Zacky sì, dal momento che l’ha sempre amata, ma certo non tutti voi.”, dice, con una risata sgradevole, poi si volta verso Jimmy per parlargli, e china il capo incuriosita quando si accorge che sua sorella è in piedi tra loro.
“Rientra in casa.”
“Che cosa?”
“Rientra in casa, Jimmy.”
Ginevra non scherza, e Brian se ne accorge seguendo il suo sguardo che è fisso sulla sorella. Qualcosa non va. E visto che ama Jimmy più di qualsiasi altra cosa al mondo si fa avanti, lo afferra per un braccio e lo spinge oltre la porta, in salotto. Un attimo dopo, si scatena il caos. Jimmy sente rumori che non capisce, ma non gli importa di capire; evita di mandare Brian al tappeto per un soffio quando lo scavalca e corre fuori. Nella foga gli occhiali gli sono scivolati via, e nella bruma offuscata che è il mondo distingue la sagoma di Shadows, qualcosa di chiaro e qualcosa di rotto; calpesta, ferendosi, una scheggia di quella che una volta era la staccionata di legno del patio. Sente Zacky che urla a Brian “chiama un’ambulanza”; poi un rumore in crescendo, come una musica; alla fine, più niente.

 

M. Shadows

Si è quasi rotto un braccio nello slancio, però è agile e veloce e per questo arriva su di lei prima del pensiero. Non sa cosa Ginevra abbia visto, ma qualsiasi cosa sia l’ha fatta scattare così in fretta che lei e Delia sono finite contro la staccionata, giù nella siepe; un fugace bagliore gli ha fatto affiorare tutta la preoccupazione alle vene temporali e si è precipitato su di loro, strappando Gin a quello strano viluppo di corpi e di foglie. Ha visto il sangue, non avrebbe saputo dire di chi, poi ha sollevato lei prendendola in braccio come una bambina e si è voltato appena in tempo per vedere Jimmy che cadeva a terra. A quel punto il tempo è uscito di sesto. Non si è accorto di Delia che si era alzata e stava scalando l’impalcatura in legno che porta al patio sopraelevato — quello stupido patio di Jimmy, contorto e poetico come lui — ed il dolore al fianco è arrivato in ritardo, insieme alle sirene dell’ambulanza sempre più vicine. Ha sentito Zacky che gli diceva qualcosa, poi gli passava sotto un braccio e afferrava il polso di Delia; il coltello gli è volato davanti, andandosi a schiantare contro il muro. Brian era in ginocchio accanto a Jimmy con le mani nei capelli. Ha provato ad avanzare, si è sfiorato la maglia bianca — liquido, caldo — ed ha visto quel curioso fiore carminio allargarsi sulla stoffa e contaminare il vestito di Ginevra che, raccolto il filo dei pensieri, stava correndo da Jimmy. La polvere del viale fa slittare l’ambulanza sul selciato, aumentando il tempo di frenata; come a volte accade, ciò che richiama tutti alla realtà non è mai quel che ti aspetti. L’antifurto dell’auto di Brian, colpita al parafanghi dalla manovra azzardata del mezzo di soccorso, riporta tutti in questa dimensione; mentre i paramedici smontano dal predellino Ginevra — ora lo vede, Matt, il proprio sangue ed il suo, che esce a fiotti da un lungo taglio sul braccio — sta già praticando un massaggio cardiaco. Non piange.
Sente qualcuno dire “serve una volante della polizia e del personale ospedaliero specializzato in contenimento; abbiamo almeno due feriti ed un uomo in stato di incoscienza.”

 

Più tardi

Johnny è in piedi in uno spazio così bianco che sembra l’anticamera del purgatorio.
Si appunta mentalmente che non intende assistere mai più ad una lite tra sorelle, specie se una delle due è affetta da un disturbo borderline della personalità.
Jimmy respira dentro una mascherina, incazzatissimo. Kelly fissa il vestito che Ginevra si è tolta come se vedesse per la prima volta una stoffa; ora lei ha un abito azzurro decisamente troppo elegante per una stanza d’ospedale ed una spessa fasciatura sul braccio sinistro. La lama ha mancato di poco una vena importante, hanno detto. Shadows, accasciato su una sedia a torso nudo, si lamenta virilmente del dolore al fianco con quattro infermiere che hanno tutta l’aria di stare per togliersi le mutande. Brian sta appollaiato come un corvo di sale sopra il davanzale dell’unica, grande finestra, e guarda fuori. Nel silenzio di tomba, il più a disagio di tutti è Richard; in camicia e pantaloni di lino, trattiene a stento la rabbia e l’oltraggio. Parla a Gin senza guardarla.
“Delia straparlava, quando mi ha chiamato. L’hanno sedata, quindi?”
“Sì. I miei sono di là con lei.”
“Ma cosa le è preso? Una crisi psicotica?”
“Qualcosa del genere.”
“Beh, per fortuna ora è tutto sotto controllo. Dovresti venire a casa a riposare un po’.”
Gin sospirò. “Grazie per il cambio d’abito, Rick. Più tardi verrò a prendere le mie cose.”
“Ma cosa dici? Per andare dove?”
“Da me.”, disse Zacky. Aveva un caffè in mano e nessuna voglia di discutere.
“E tu sei?”
“Zachary Baker. Il vecchio amico di Ginevra.”
“Ah, certo.”
“Tu invece sei Dick, giusto?”
“Rick.”, lo corregge, “Andiamo, Gin. Sei chiaramente sconvolta, possiamo parlarne a casa con calma.”
Le cinge le spalle con un braccio e viene colto da una voce che non ammette repliche.
“Toglile le mani di dosso.”
Rick si volta, molto lentamente, verso la barella; gli occhi di Jimmy gli bucano il cranio.
“Non farmelo ripetere, Dick”, gli dice, “Toglile le mani di dosso e vattene.”
Lui si lascia andare ad una risata nervosa, ma si allontana.
“Non affaticarti, ti prego”, dice Gin, avvicinandosi a Jimmy. Che la ignora. Sta ancora fissando Rick, carico di disprezzo.
“Cos’è, vuoi fare a botte?”
“Non ti conviene. Non farti ingannare dall’ossigeno.”, ribatte Jimmy. Lui non gli ha chiesto chi è, — lo sa benissimo, — e l’aria si fa carica di tensione. Kelly si stringe d’istinto a Gin, Brian è sceso dal davanzale; perfino Shadows ha disperso le infermiere e si è alzato in piedi.
“Va bene”, dice Rick, “Ti chiamo. D’accordo, tesoro?”
Gin non risponde. Per la prima volta, in una vita che le sembra lunghissima, si sente al sicuro. Quando l’uomo lascia la stanza, Johnny riprende a respirare. Il silenzio si fa più morbido. Infine, parla: “Jimmy, cos’hanno detto i medici, comunque? Hai una cardio…?”
“Cardiomegalia.”, gli risponde lui. Ginevra gli si siede accanto, sfiorandogli la mano, e lui la stringe nella sua: “E per fortuna l’hanno scoperto. Altrimenti, mi sa che con i miei ritmi non mi restava molto tempo. E sarebbe stato un vero peccato.”
“Tu sei immortale, stronzo.”, sorride Brian, in controluce.

 

 

 

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