Fagets II

di elaisa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1- Fantasia ***
Capitolo 2: *** 2- Menzogna ***
Capitolo 3: *** 3- Realtà ***



Capitolo 1
*** 1- Fantasia ***


Ogni tanto mi prende bene aggiornare questo account ormai del tutto abbandonato, cosa che io ho voluto, ma va be', non voglio entrare in determinati particolari proprio adesso che ci troviamo di fronte ad un Signor Evento! XD
Passo alla presentazione della long, che è meglio:
Fagets II è la sottospecie di seguito di Fagets (senza numeri), Questa minilong a tre capitoli è nata ispirandosi a due persone diverse, ma più belle e mitiche delle precedenti due. XD
Grazie a loro di esistere e che Dio li benedica *_* <3

Inoltre, vorrei dire questo:
Fagets II è la mia prima long fiction.
Vi prego di segnare tutto questo come una data storica da ricordare negli annali e nella mia biografia, quando i giovini studieranno questo terzetto di storie come un canzoniere moderno che si ispirava ai canzonieri di Petrarca e Alfieri. XD (No, non direi che si vede molto che devo dare un esame sulla forma canzoniere nei secoli XD Assolutamente no XD)
Buona lettura, se gradite.

***

1- Fantasia




Estrasse una sigaretta dal pacchetto e la tenne tra i denti, mentre cercava l'accendino nella tasca dei jeans; lo fece scattare e incendiò il tabacco, aspirando voluttuosamente il fumo e lasciandolo fuoriuscire dalle labbra con aria compiaciuta.
I suoi occhi vagarono per il cortile e lei afferrò la consapevolezza di non essere da sola come credeva, bensì in compagnia di due ragazzi che sedevano in disparte sul muretto, al riparo di una colonna.
Uno sedeva tranquillo, con lo sguardo fisso davanti a sé con fare pensoso, mentre l'altro, tenendo una fotocamera in mano, lo guardava attraverso l'obbiettivo della stessa, muovendola per trovare l'angolazione giusta per scattare una foto.
Sapeva cos'erano, perché li aveva visti percorrere le strade per mano e scambiarsi effusioni nelle pause tra una lezione e l'altra: gay, li chiamava il mondo. Per lei erano peccato e dannazione, desiderio e perversione, lussuria che pulsava nello stomaco e tra le gambe.
La mandassero pure all'Inferno per aver desiderato di averli entrambi, insieme; per aver pensato di giacere con loro nell'aborto di un sentimento e nella profanazione della sua manifestazione più alta.
Loro non la notarono e lei ne approfittò per guardarli meglio, soffermandosi ad osservare i movimenti del ragazzo che teneva la macchina fotografica tra le dita; i suoi occhi si fissarono in quelli del giovane, tanto concentrati da non rendersi nemmeno conto di avere un pubblico in quel suo lavoro apparentemente inutile.
Fu il suo sguardo a colpirla, facendole quasi cadere la sigaretta dalle dita: era intenso, profondo, profuso di un sentimento talmente intenso che poteva percepirlo anche lei, dalla sua posizione di mero spettatore seduto in un posto scadente della platea del teatro.
Il suo compagno, che si era apparentemente disinteressato alle sue operazioni, si voltò di tre quarti e gli sorrise, un sorriso così caldo e accogliente che per un istante le incrinò il cuore. Il fotografo gli sorrise di rimando attraverso l'obbiettivo della fotocamera e soltanto allora scattò.
La tenerezza minacciò di schiacciarla sotto un blocco di cemento pesante e devastante, e lei si ritirò al riparo di una colonna, nascondendo l'espressione dolorosa che aveva assunto il suo viso; aspirò l'ultima boccata dalla sigaretta e spense il mozzicone nel posacenere, rilasciando il fumo con un sospiro pesante. Sentiva cose che non aveva il diritto di sentire, lo sapeva, ma non riusciva a scacciare da sé quella tenerezza che le era scaturita nel petto e che le aveva gonfiato gli occhi di lacrime; era più forte di lei, di ogni sua volontà prestabilita, persino del sogno erotico che era diventato il fulcro dei suoi pensieri negli ultimi istanti.
Davanti alla palpabile intensità dei sentimenti di quei ragazzi considerati dal mondo come persone invertite, mentalmente disabili, sospirò di nuovo e si rimproverò per quello che aveva appena fatto: aveva spiato qualcosa che non poteva capire, guardandola con occhi che ammiccavano a qualcos'altro di preesistente nella sua mente, qualcos'altro a cui pensava ogni notte, nel buio della sua camera.
Aveva bramato un mondo in cui non sarebbe mai potuta entrare.
Si sporse un poco per osservare di nuovo i due giovani che parlavano tra loro, mentre guardavano insieme le fotografie scattate sulla fotocamera digitale, e in quel momento realizzò che lei, che nell'amore sincero non credeva più, che aveva perso ogni fiducia nel crederci ancora, finalmente aveva trovato un motivo per tornare a sperare.
E quel motivo gliel'avevano dato uno sguardo intenso e un sorriso dolce, entrambi carichi di parole non dette; gliel'aveva dato un ragazzo cui piaceva la fotografia, che aveva portato la sua macchina fotografica per immortalare un istante passato insieme al suo compagno, imprimendolo nella memoria e conservandolo per sempre; gliel'aveva dato una tenerezza derivata da un sorriso scambiato attraverso un piccolo schermo, che, come una maschera calata sul volto per celare le verità, si faceva tramite di sentimenti inespressi, ma palpabili e sacri. Infine, quel motivo per sperare ancora che anche per lei potesse esistere qualcuno che la guardasse così intensamente, che le sorridesse con quell'amorevole e delicata dolcezza, gliel'avevano dato due ragazzi che il mondo non voleva, che ripudiava e trattava come persone scomode in una società fatta di perbenisti, due compagni che si erano scelti con la consapevolezza che, forse, nessuno li avrebbe approvati e trattati da persone normali.
Il loro coraggio, che cadeva sul cortile soleggiato come sangue che sgocciolava sul terreno umido – di un rosso ugualmente intenso, ma altrettanto doloroso per l'anima -, non poteva e non doveva essere strumentalizzato, ma stimato e ammirato per la forza che esprimeva.
E la loro forza aveva la sfacciata pretesa di gridare a squarciagola che, sì, loro si amavano e non se ne vergognavano.
Per l'ultima volta, lei sospirò, scostandosi dalla colonna per avviarsi di nuovo in classe e raggiungere le sue amicizie – completamente inconsapevoli di quel tumulto nell'anima che l'aveva sconvolta. Per un'ultima volta, del tutto involontariamente, i suoi occhi tornarono sui due ragazzi, ora stretti in un abbraccio giocoso.
Distolse lo sguardo immediatamente e rientrò.
Nel cuore il dolore violento dovuto alla tenerezza, negli occhi l'amara consapevolezza d'aver rubato ancora una volta un attimo di complicità che non le apparteneva e che avrebbe dovuto restare tra il giovane fotografo e il suo compagno.

Perché l'amore, anche se incompreso, è pur sempre un amore.



***

Titolo ispirato a "Faget" dei KoRn.
Storia protetta da svariate licenze che vi prego di leggere attentamente nel caso in cui vi venga in mente di prendere anche solo una virgola da questo testo qui.
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Capitolo 2
*** 2- Menzogna ***


Eccoci al secondo capitolo di Fagets II.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e commentato, a parte Princy e Shanny, in privata sede (una persona sola, che io sappia, ma le sue parole mi hanno uccisa e fatta risorgere 14 volte per l'emozione. Sery <3 Grazie <3)
Altro non aggiungo e vi lascio al secondo capitolo della mini-long.

***

2- Menzogna




Uscì in cortile di nuovo e loro erano seduti sul muretto, come al loro solito.
Sorrise, mentre prendeva una sigaretta dal pacchetto mezzo vuoto che teneva in mano; la mise tra le labbra, saggiando la morbidezza del filtro con gli incisivi; estrasse l'accendino dalla tasca e lo fece scattare, osservando per un istante i due giovani che parlavano tra loro davanti agli appunti della lezione attraverso la piccola fiamma. Si accese la sigaretta e aspirò il fumo per poi gustarlo sulla lingua e sul palato.
Era come un appuntamento fissato per ogni giorno alle undici del mattino, si disse, mentre si appoggiava al muro e distoglieva lo sguardo dai due ragazzi. Era come se loro sapessero che lei era lì e li guardava, assorbendo quello che essi provavano l'uno per l'altro per cibarsene e farne fonte di vita e salvezza.
Forse era davvero così.
Scosse la cenere a terra muovendo di scatto il filtro della sigaretta tra le dita e la guardò cadere sul pavimento con lentezza, come se fosse neve. Quando alzò gli occhi verso la parte aperta del cortile, notò che aveva iniziato a piovere; l'aria aveva già assunto l'odore della pioggia, un odore che faceva pensare a una baita di montagna e a una tazza di cioccolato caldo fumante tra le dita: lei amava quell'odore e amava la pioggia. Chiuse gli occhi, isolando il rumore dell'acqua che cadeva al suolo – il pianto del cielo, l'angoscia che celava nel cuore – dal brusio degli studenti e dagli altri rumori, beandosene per un istante prima di tornare alla sua realtà, in quel cortile pieno di gente al cui cospetto due ragazzi, i suoi protetti, affrontavano a testa alta il mondo.
Li guardò, consapevole del fatto che loro non avrebbero mai scoperto quanto fosse piacevole per lei spiarli, mentre combatteva contro sensazioni contrastanti che andavano dalla più nera lussuria alla più azzurra tenerezza: erano vicini e guardavano un foglio senza reale interesse, bisbigliando all'interno del piccolo cerchio creato dalle loro magre figure e sorridendosi a tratti.
Lei chinò il capo e lasciò che i capelli le ricadessero sul volto a celare un sorriso che non aveva niente di casto né niente di peccaminoso. Un sorriso che era semplicemente un sorriso. Che cosa nuova era: un sorriso; sentimento nuovo, di colore giallo brillante, che affiorava da anfratti della sua mente che credeva morti e sepolti, o mai esistiti.
Di nuovo alzò gli occhi per fissare i ragazzi e il cuore le si strinse in una morsa feroce che mai aveva provato.
Quello che tra i due era più alto – e lo si notava anche se era seduto – aveva portato una mano al volto dell'altro, accarezzandogli lievemente lo zigomo con le nocche, poi aveva appoggiato il palmo sulla sua guancia e aveva avvicinato il viso al suo. Da prima il bacio era stato dolce, uno sfioramento di labbra che chiedevano come il permesso per qualcosa di più profondo e intimo; qualcosa che avvenne, perché il bacio si approfondì e lei poté scorgere il colore rosato della lingua del ragazzo più basso che, con intraprendenza, guizzava lentamente nella bocca dell'altro, cercando la sua in una romantica rumba che le scaldò il ventre di desiderio e tenerezza, di rispetto, ammirazione e un'infinita dolcezza che, come la volta precedente, quando li aveva visti sorridersi attraverso la fotocamera, le incrinò il cuore, mandandolo definitivamente in frantumi.
Le gambe cedettero sotto il suo poco peso e si preparò all'imbarazzante impatto con il terreno, che non avvenne; due braccia la sorressero e la fecero sedere sul muretto, al riparo di una colonna, facendola sdraiare un attimo per riprendersi da quello che, disse lei, era stato un semplice calo di pressione. In realtà – quella realtà segreta che sarebbe rimasta celata nella sua anima, se ancora ne aveva una -, l'emozione l'aveva travolta e dilaniata, schiacciandola sotto i cingoli di un carro armato che portava lo stemma di un amore tanto grande, anche se incompreso e ritenuto un abominevole rifiuto dalla società.
La sua speranza era tutta lì, in quel bacio casto eppure carico di una passione repressa – che sarebbe sgorgata appena non si fossero trovati in pubblico, dove lei non avrebbe potuto vederli; la nuova luce che vedeva brillare davanti a sé apparteneva a quei due ragazzi talmente sfrontati da osare una sfida – che si sarebbe conclusa con una sanguinosa guerra – diretta a chiunque avesse soltanto provato a dire che erano ingiusti, contro natura. Nati sbagliati.
Si mise seduta, passandosi una mano sugli occhi stanchi, e si accorse di aver lasciato cadere a terra la sigaretta; la cercò con lo sguardo: giaceva al suolo, calpestata e ormai irrecuperabile. Estrasse il pacchetto e se ne accese un'altra, ignorando le proteste di coloro che l'avevano salvata da una sventurata caduta.
Sapeva che quel bacio non avrebbe dovuto vederlo: apparteneva a quei ragazzi, era uno dei momenti che doveva restare tra loro soltanto. Eppure si sentiva come in diritto di guardarli, come se quei momenti, ormai, fossero anche suoi; erano legati da un filo invisibile, quei ragazzi a lei, che appariva tanto nitido ai suoi occhi da rischiare di inciamparci, mentre camminava per strada.
Erano i suoi protetti, loro, e lei si era eletta loro protettrice senza chiedere niente in cambio, se non un po' del loro amore, che rifrangeva su di lei tramite uno specchio che non poteva riflettere immagini, ma solo sentimenti.
Poteva ancora vederli, adesso, punzecchiarsi giocosamente tra loro e ridere felici del loro reciproco infastidirsi; il ragazzo più alto appoggiò una mano sulla testa del suo compagno, accarezzandola brevemente per poi avvicinarsela con forza alla labbra, incurante delle scherzose proteste dell'altro, e depositarvi un bacio dolce.
Erano come due bambini: ispiravano purezza, tenerezza. Un dolore infinito, derivato dal senso di protezione che le ispiravano i due ragazzi, le scaturì nel petto e si domandò se davvero lei potesse arrogarsi il diritto di sentirsi la loro protettrice nell'ombra, colei che si sarebbe battuta all'ultimo sangue pur di preservarli dalla cattiveria di chi non poteva capire. Preferì non rispondersi, perché in fondo sapere la verità non le interessava: preferiva mentirsi, perché le bugie erano più semplici della realtà.
I due ragazzi si alzarono e si incamminarono verso la porta che li avrebbe riportati in classe; lei abbassò lo sguardo e fissò le loro mani: avevano le dita intrecciate con fare distratto e rilassato, le une abbandonate nelle altre a significare un bisogno costante di toccarsi, di sentirsi vicini e appartenenti l'un l'altro.
Li guardò rientrare poi si alzò in piedi e appoggiò la schiena alla colonna di cemento, accendendosi l'ennesima sigaretta prima dell'arrivo della professoressa; riflettendoci bene, sì, poteva arrogarsi il diritto di proteggere il loro amore dall'ignoranza e la maldicenza: non faceva altro che ricambiare a quella coppia il favore d'averla salvata.
Rientrò anche lei, dopo aver spento il mozzicone nel posacenere, e l'ultima cosa che vide prima di sedersi al suo posto fu un abbraccio scambiato davanti agli occhi di quattrocento persone che, fingendo di guardare altrove, non si persero niente di tutta la scena. E altrettanto niente capirono.



***

Titolo ispirato a "Faget" dei KoRn.
Storia protetta da svariate licenze che vi prego di leggere attentamente nel caso in cui vi venga in mente di prendere anche solo una virgola da questo testo qui.
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Capitolo 3
*** 3- Realtà ***


La mia più infinita gratitudine a Sere che ha recensito privatamente anche questo secondo capitolo e che, spero, gradirà il "surprise!!!" di questo terzo. XD
Amo fare casino coi finali, è una cosa a cui non rinuncerei mai.
Siamo ormai giunti alla fine di questo "canzoniere tripartito", che spero possiate prendere con le dovute pinze e interpretarlo secondo come deve essere.
Non ho la presunzione di crederci, comunque; la mia testolina è sin troppo complessa perché qualcuno riesca a penetrarla solo grazie a uno scritto in tre capitoli.
Buona lettura comunque ^_^

***

3- Fantasia




Camminava per strada con un andamento lento e cadenzato dal suono della musica proveniente dal suo i-pod. Estrasse il pacchetto delle sigarette dalla tasca, prendendone una e mettendosela tra le labbra, per poi accenderla con un accendino nero come la notte. Aspirò il fumo e lo espirò lentamente: aveva un sapore amaro sul palato, quel giorno, e le bruciava in gola come se fosse fuoco.
Alzò lo sguardo dall'asfalto e i suoi occhi caddero sulle mani dei due ragazzi che le camminavano di fronte: avevano le dita intrecciate, strette in una morsa così dolce e possessiva da far male al cuore di chi si fosse soffermato su quel particolare, vedendoli passeggiare insieme per le strade.
Si domandò se uno di loro – o tutti e due – avessero le mani fredde dal nervosismo di sentirsi osservati da occhi curiosi e malevoli, ma non riuscì a trovare una risposta: nella loro disinvoltura, sembrava che non se ne accorgessero nemmeno. Si chiese se avrebbe mai potuto essere diverso, se avrebbero mai vissuto senza quegli sguardi infami e disgustati che li squadravano, senza lingue maligne che parlavano sibilando alle loro spalle non appena passavano davanti a qualcuno di poco tollerante; la risposta a questo giunse spontanea: no, non avrebbe potuto essere diverso. Loro per il mondo non erano che malati di mente che dovevano essere curati da un bravo medico – o da un bravo psichiatra.
Sospirò, aspirando un'altra boccata di fumo amaro e pastoso sulla lingua; lei, ormai, si era abituata alla sensazione di vetri rotti nel petto che la loro vista le procurava – la vista dei suoi protetti, la vista di coloro che l'avevano salvata dall'annegamento nel nero mare della disperazione -, ma quelle occhiate gelide degli altri erano nuove. Fuori dal cortile privato, senza il riparo della colonna di cemento che li proteggeva, l'odio e il ribrezzo della gente sembrava penetrare nella loro carne come tanti sottili stiletti appuntiti – e colpivano anche lei, che li proteggeva nell'ombra, incurvandola di più a ogni affondo.
Loro, invece, con la sfrontatezza di chi non faceva niente di cui avrebbe dovuto vergognarsi, camminavano per la strada senza curarsi di nessun altro che loro stessi, sorridendosi, parlandosi senza sosta di tutto e di niente, del mondo e del nulla.
Spense l'i-pod, arrotolandovi le cuffie attorno prima di riporlo nella tracolla nera, e si mise le mani in tasca per cercare calore laddove sentiva soltanto freddo – erano gli sguardi della gente a renderle le mani gelate, e non soltanto quelle: anche il suo cuore era diventato freddo a causa dell'odio del popolo.
L'illusione vissuta con i due ragazzi, che le avevano consegnato la chiave d'accesso a un nuovo mondo in cui il colore della speranza – giallo intenso e brillante – la faceva da padrone, l'aveva uccisa per darle modo di rinascere diversa; più viva, ma pur sempre se stessa: eterna, volubile, terribile.
Avrebbe voluto ringraziarli entrambi, il ragazzo alto coi rasta e quello più basso con i capelli corti e la barba lunga, ma sapeva perfettamente che non avrebbe potuto: loro non la notavano nemmeno, chiusi nel loro piccolo mondo perfetto, e lei non aveva interesse a farsi notare; sapeva di non essere che un mero spettatore che osservava dalla platea una rappresentazione bellissima e che, alla fine, non avrebbe avuto nemmeno il coraggio di alzarsi in piedi e applaudire gli attori assieme al resto del pubblico, tanto si sentiva commosso ed emozionato – però regalava le sue lacrime, che erano già più di quanto avrebbe immaginato.
Un uomo vestito di tutto punto passò accanto ai suoi protetti, lanciando loro un'occhiata di puro disgusto.
Loro non se ne accorsero, come non si erano mai accorti della sua lieve esistenza, e risero insieme per qualcosa che quello più basso aveva detto: disinvolti e concentrati nell'ignorare gli indegni, immersi nella contemplazione di loro stessi; la loro noncuranza affatto studiata, derivata dalla normalità del legame che li univa – tra loro e con lei -, la rinfrancò ancora una volta, nutrendola e saziando il vuoto dovuto alla solitudine e alla disperazione.
Ciò che restava del suo cuore scricchiolò nuovamente alla seconda occhiata di orrore che ricevettero da un ragazzo, quella volta, il quale si sentì in diritto di aggiungere una smorfia al ribrezzo con cui li aveva osservati.
I due ragazzi continuarono a camminare sotto il cielo grigio, a testa alta, e lei si sentì più vecchia di quanto non fosse, terribilmente stanca di una lotta insensata come quella che il mondo combatteva contro chi si amava, anche se in maniera semplicemente diversa.
Il rumore dei passi dei due giovani le pervase le orecchie e il battito del suo cuore si adeguò a quel ritmo cadenzato, una velocità struggente che rischiò di farla svenire e cadere definitivamente nel vuoto.
Alzò di nuovo gli occhi dall'asfalto umido fissando prima le loro mani, ancora saldamente ancorate l'una all'altra in una stretta possessiva e infinita, poi i loro volti, la cui dolcezza era come il miele – viscoso, infinitamente dolce, ma tanto appiccicoso da divenire difficile ripulirlo dalle dita – e si sentì perduta una volta per tutte in loro e con loro: l'anima – che non aveva più, ma le piaceva credere che ci fosse qualcosa a colmare quel buco vuoto – scivolò lentamente nell'oblio e ciò che di lei restava si pietrificò davanti alla cristallizzazione di quell'amore infinitamente dolce e infinitamente puro, che dai suoi giovani protetti, che ormai le appartenevano, le veniva trasmesso grazie al suo specchio non riflettente.
Gettò la sigaretta sul terreno e ne estrasse un'altra dal pacchetto; non si stupì di sentire ancora l'amaro del fumo impastarle la lingua, quando la accese e ne aspirò una boccata. Era cattivo quel tabacco, come se fosse andato a male: cattivo come la gente che disprezzava e derideva l'amore, che provava ed esprimeva per esso ribrezzo; era amaro come le nubi di quella giornata grigia e apatica, in cui solo un solo raggio di sole brillava per lei, permettendole di proiettare un'ombra sull'asfalto: quello che splendeva nitido dai due ragazzi che si tenevano per mano.
Qualcuno la tirò con forza indietro verso il marciapiede; non si era nemmeno accorta che il semaforo era rosso e le macchine sfrecciavano velocemente sulla strada, tanto era persa nei suoi pensieri. Ringraziò e chiese perdono per il disturbo.
I suoi inconsapevoli protetti non si erano voltati a osservare il suo salvataggio, ma erano rimasti a parlare vicini, sorridendosi in quel modo sfacciatamente melenso che ogni volta la uccideva e l'aiutava a risorgere dalle sue ceneri, come una fenice nera portatrice d'ombra, anziché di luce.
Respirò profondamente, quando il ragazzo alto con i rasta avvicinò il suo volto a quello dell'altro, chinandosi sulla sua guancia per depositarvi un bacio casto e innocente, dando vita a un candido ritratto della purezza che li circondava e che si espandeva nel cielo plumbeo della città.
Chiuse gli occhi, assaporando sulla lingua la dolcezza che si diffondeva dai due ragazzi; la loro bellezza, lo splendore che erano capaci di emettere insieme, erano cose alle quali non avrebbe mai potuto rinunciare - sebbene sapesse che prima o poi avrebbe dovuto imparare a farne a meno.
Riaprì gli occhi appena in tempo per vedere una signora distinta avvicinarsi a passi svelti e decisi ai due ragazzi, fermandosi davanti a loro e troneggiando sulle loro figure che, davanti alla rabbia che le si leggeva negli occhi, sembrarono farsi tanto piccole da diventare poco più grandi degli insetti.
“Cosa diavolo pensate di fare? - Disse la donna con un tono di voce stridulo, rasentante l'isteria – Mi fate venir voglia di vomitare!”
I due giovani si separarono, lasciando ricadere le mani lungo i fianchi; l'espressione felice del loro volto mutò, trasformando la gioia in avvilimento e tristezza; i loro occhi, prima brillanti di felicità e rilassatezza, si riempirono di amarezza alla constatazione che nel loro universo era entrato un intruso non desiderato.
Lei, nel guardare quella scena orribile, si sentì uccidere e straziare l'anima una volta per tutte. Ne raccolse i brandelli, tenendoli tra dita invisibili che si macchiavano di sangue e dolore, mentre continuava ad ascoltare la signora distinta esprimere il suo sdegno per qualcosa che non poteva comprendere, per una relazione tra due ragazzi non perversi né anormali, per un amore incompreso – ma pur sempre un amore - che li legava in una diversità unica e speciale, soltanto loro.
Non era giusto, si disse mentre la rabbia la pervadeva, non era giusto che i suoi protetti subissero quell'umiliazione senza che lei, loro protettrice nell'ombra, guardiana di un amore puro che non danneggiava nessuno, anche se era diverso, facesse nulla per salvarli da quella stupida creatura imbevuta di pregiudizi.
Sospirò e gettò la sigaretta a terra, facendosi largo tra la folla per raggiungere il centro del cerchio formato dai curiosi e dai pettegoli, al centro del quale i due ragazzi stavano subendo qualcosa che, forse, avevano già sperimentato sulla loro pelle, e che bruciava e feriva come fuoco e lame; lo si capiva dall'amara rassegnazione dipinta sui loro volti che non era la prima volta che venivano presi a brutte parole dalle persone prive di buonsenso: per nessuno dei due dovevano essere delle novità quegli insulti dolorosi e taglienti.
Lei li raggiunse e gli si parò davanti, un piccolo scudo di fronte a un grande male.
“La smetta. - Disse semplicemente – E si vergogni di ciò che dice.”
La signora e i due giovani la guardarono come se fosse spuntata da una nuvola di fumo denso e pastoso, sgranando gli occhi per lo stupore.
“Cosa vuole, lei? - Domandò la signora – Non la disgustano, forse? Non si sente oltraggiata nella sua sensibilità di fronte a cotanta svergognatezza?”
Lei scosse il capo negando e guardò la signora con rabbia. “No, - rispose – è lei che mi disgusta. Lei e la sua sfacciata ignoranza. Lei e la sua indecente presunzione di detenere la verità su cosa è giusto o cosa è sbagliato. - Fece una pausa, spostando lo sguardo verso i due giovani che, ammutoliti, la fissavano per la prima volta, in silenzio – Non vede come sono belli? Non riesce a vedere quanto brillano in mezzo alla mediocrità di cui si fa portavoce? - Indicò i due giovani con una mano, tornando a guardare la donna che, a ogni parola, ammutoliva sempre di più – Si vergogni, quindi, perché quest'oggi lei ha mancato di rispetto all'Amore e alla Felicità altrui, ha violato un universo che non le apparteneva per esprimere un'opinione che non le era stata richiesta. Lei ha mancato di rispetto a due ragazzi che, con un coraggio invidiabile e una sfrontatezza adorabile, si amano e non si vergognano di mostrarsi al mondo, anche se composto per la maggior parte da feccia come lei.”
Terminò la sua arringa da arrabbiato avvocato difensore e la signora distinta terminò di ammutolire; il colorito del suo volto si fece giallognolo e i suoi occhi mandarono scintille d'ira. Tuttavia non osò replicare e si limitò a voltare le spalle ai ragazzi e a lei, andandosene lungo il marciapiede con passo cadenzato ed elegante. La folla di curiosi si sciolse in fretta e tutti coloro che avevano assistito al piccolo spettacolo che avevano offerto tornarono a farsi gli affari propri, parlando con gli amici o semplicemente facendo finta che niente fosse successo.
Lei estrasse una sigaretta dal pacchetto, l'ultima, e l'accese con l'ultimo residuo di gas dell'accendino, che poi rimise in tasca – più per abitudine che per necessità; il fumo le ustionò la lingua e il palato, disegnandole una lieve espressione di dolore sul volto tanto pallido da sembrare traslucido.
I due ragazzi, ancora immobili, si presero di nuovo per mano e le si avvicinarono guardinghi. Il più alto dei due, quello coi rasta, le si mise di fronte e le sorrise, un sorriso dolce e caldo che la fece sentire apprezzata, scaldandole il cuore che si era fatto gelido come il ghiaccio.
“Grazie.” Disse, passandosi una mano tra i capelli.
Lei fece spallucce ed espirò del fumo. “Di niente, figurati.” Gli rispose.
Anche il ragazzo più basso e con i capelli corti le sorrise, e lei, di fronte a quei due sorrisi disarmanti, non poté fare a meno di fare altrettanto, dimostrando a se stessa che aveva davvero imparato a sorridere e basta: un sorriso nuovo, semplice, in risposta a due sorrisi altrettanto semplici che aveva imparato ad amare – e a proteggere.
Il semaforo si fece verde e i ragazzi, dopo averlo visto, si incamminarono attraverso la strada con le dita intrecciate e gli occhi, che non si staccavano mai dalla contemplazione di loro stessi e di ciò che li univa, tornati luminosi.
Lei rimase immobile a guardarli varcare il confine di un luogo in cui non poteva più seguirli, mentre le persone intorno a lei passavano al di là della strada senza vederla e senza toccarla. Se anche avessero voluto, non avrebbero potuto farlo.
Aveva avuto tutto ciò che non aveva mai desiderato, pagato col prezzo della sua falsa esistenza e della sua vita di menzogna.
Adesso non le restava che chiudere gli occhi sotto il cielo grigio, vomitare l'anima e lasciarsi cullare dal vuoto.

Il ragazzo più basso dai capelli corti si fermò sul marciapiede opposto e il suo compagno si immobilizzò con lui, guardandolo con aria interrogativa.
“Che c'è?” Gli domandò un po' perplesso, senza capire come mai avesse lo sguardo smarrito.
“Abbiamo dimenticato di chiedere a quella ragazza come si chiamava e ci siamo scordati di presentarci. - Disse con disappunto - È stata infinitamente gentile con noi, avremmo dovuto ringraziarla in maniera migliore.”
Il ragazzo coi rasta annuì. “Hai ragione, - rispose – sono stato piuttosto scortese. E anche tu.” Concluse con una nota spensierata nella voce, che fece sorridere il compagno.
Si guardarono intorno, cercando colei che li aveva salvati da una situazione imbarazzante e oltraggiosa; tra le persone che avevano attraversato la strada, però, non ve n'era traccia.
Il ragazzo dai capelli corti, infine, si girò verso il marciapiede opposto, dove l'aveva vista l'ultima volta, e assunse un'espressione perplessa, stranita. Anche il ragazzo coi rasta si voltò e, dopo aver visto ciò che aveva catturato l'attenzione dell'altro, assunse la sua stessa espressione basita.
Lei, la ragazza di nero vestita e dalla pelle tanto candida da sembrare trasparente nel grigiore di quel giorno, non c'era più.
Al suo posto, sull'asfalto umido, era rimasta soltanto la tracolla nera che portava con sé a lezione.
E una sigaretta appena accesa, che si consumava lentamente diffondendo nell'aria una lieve scia di fumo grigio, denso e pastoso sulla lingua.



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Titolo ispirato a "Faget" dei KoRn.
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