Scendeva la neve, candida e
soffice come una pioggia di petali, sulle basse montagne nei pressi di Rubinheim, e nella grande tenuta della famiglia Horstmayer fervevano i preparativi per la grande festa di
Natale cui l’indomani avrebbero preso parte centinaia di invitati.
La
contessa Anna, padrona di casa, dirigeva i lavori, forte di una eleganza
signorile e di una autorità che ne avevano fatto negli anni una delle
nobildonne più rispettate di Amaltea, sorvegliando personalmente l’allestimento
delle decorazioni nell’ampio salone delle feste, la stanza più grande e
sfarzosa della villa, coperta di stucchi dorati e arredata con le stoffe e i
paramenti più ricercati, che si fondevano superbamente con quadri, statue ed
affreschi.
Lo
sfarzoso e imponente tavolo da pranzo era stato momentaneamente allestito per
ricontrollare un’ultima volta l’assegnazione dei posti e il buon accostamento
di colori tra il rosso dei tessuti, l’argento delle stoviglie e il bianco
dorato delle stelle di montagna; all’ultimo momento il Cardinale Diamanti aveva
confermato una partecipazione in un primo momento cortesemente declinata, ed
essendo sua eccellenza allergico alle orchidee alpine era stato necessario
trovare in tutta fretta dei degni sostituti, ma alla luce del risultato finale
anche così l’allestimento risultava di eccellente fattura.
Eleonor aveva
dovuto fare i salti mortali per procacciarsi quei fiori, e non poté non
manifestare il proprio sollievo di fronte alla tacita approvazione della madre,
ringraziando con il pensiero il fioraio di fiducia che, pur di ingraziarsi
ulteriormente la più importante famiglia della città, aveva aperto il suo
negozio il giorno prima di Natale.
«Mi
raccomando, lucidate bene!» continuava a ordinare la contessa alle sue
cameriere. «Lustrate piatti e calici come si conviene! Non tollererò mi si
derida come lo scorso anno a causa della vostra inettitudine!»
«Madre,
vado a controllare le stanze per gli ospiti» disse la figlia Eleonor.
Lasciato
il salone la donna si recò quindi ai piani superiori, dove anche lì l’attività
era a dir poco frenetica, con letti da rifare, pavimenti da spazzare e bagni da
preparare. Alcuni ospiti erano già arrivati con le rispettive famiglie, ma la
maggior parte, soprattutto i dignitari stranieri e i membri dell’Ordine della
Corona d’Alloro, sarebbero giunti solo il giorno dopo, giusto in tempo per
darsi una sistemata ed essere pronti a presenziare alla festa.
Lungo il
corridoio incontrò sua figlia, Alexia, sulla grande poltrona dove era solita
sedere, con in mano uno dei suoi libri di favole preferiti, "Il Treno
della Fantasia", di cui ormai conosceva le parole quasi a memoria.
La
malinconia e l’apparente tristezza che trasparivano dalla sua espressione
stonavano incredibilmente con i grandi occhi chiari, i lunghissimi capelli
biondi raccolti in eleganti boccoli spumosi e il fisico minuto, persino troppo
per una bambina di quasi dieci anni.
Da
parecchio tempo per Alexia il Natale aveva cessato di essere un momento felice,
e neppure la presenza dei suoi migliori amici, che Eleonor
aveva guadagnata dopo una lunga e litigiosa discussione con la propria madre,
sembrava averle risollevato il morale.
Quel
libro era il suo tesoro: ne aveva parecchi, forse neppure sapeva quanti di
preciso, ma quello era speciale, diverso da tutti gli altri perché glielo aveva
regalato una persona altrettanto unica, quasi un fantasma, tanto rare erano le
occasioni in cui si erano incontrati.
«Alexia?»
Ma la
bambina non rispose, gli occhi incollati al libro.
«Hai
intenzione di non parlarmi per tutta la durata delle feste?» sospirò la donna.
«Senti, mi dispiace. Non è stata colpa mia. Ma ha promesso che tornerà al
massimo il prossimo weekend, prima che finiscano le vacanze.»
«Lo
aveva detto anche l’anno scorso.» fu la risposta acida della bambina.
«Tu mi
farai diventare matta. Credi di essere l’unica bambina il cui padre non c’è
mai? Il papà della tua amica Feng passa almeno sei mesi all’anno lontano da
casa, eppure lei non mette il broncio facendo i capricci come fai tu.»
«Ma lui
non resta lontano da casa la vigilia di Natale.»
Eleonor
riusciva a capire quello che stava provando sua figlia, per questo non se la
sentiva di rimproverarla eccessivamente.
Da
ufficiale di marina Arlen non aveva orari, e anche
durante i brevi periodi di licenza non era raro che venisse richiamato
improvvisamente in servizio; quello sarebbe stato il terzo Natale che avrebbe
passato lontano da casa, complice un guasto al veicolo di trasporto della
stazione spaziale che gli avrebbe reso impossibile essere a casa in tempo per
Natale.
Nonostante
ciò, Arlen poteva essere tante cose ma di certo non
un padre assente: dava valore a ogni singolo momento che trascorreva con la sua
unica, adorabile figlia, e mentre era via la sommergeva di videomessaggi
chiamandola ogni volta che poteva, anche nel cuore della notte se le
circostanze lo imponevano.
Alexia
comprendeva le difficoltà dettate dal lavoro del padre, ma essere costretta a
guardare i suoi amici trascorrere il giorno più bello dell’anno con entrambi i
genitori, mentre i suoi erano uno perennemente fuori casa e l’altra preoccupata
più d’intrattenere gli ospiti che di pensare a lei, la faceva sentire
incredibilmente triste.
Affranta,
Eleonor se ne andò, e dopo poco due bambini più o
meno della stessa età di Alexia comparvero nel corridoio rincorrendosi l’un
l’altro; lui aveva capelli castani corti, occhi scuri e un’espressione
sbarazzina, lei invece tratti degli abitanti delle isole orientali, una lunga
chioma nera raccolta in eleganti trecce ad anello e profondi occhi blu.
«Alexia!»
disse lei notando l’amica. «Che fai qui tutta sola? Forza, gioca con noi!»
«Non mi
va, Feng.» rispose mogia Alexia.
«Ancora
con quel muso lungo?» replicò l’altro. «Ma dai, non è mica la fine del mondo.»
A
quell’affermazione Alexia abbassò ancora di più lo sguardo, e una parvenza di
pianto comparve nei suoi occhi.
«Sei
davvero un’aquila, Brando.» lo rimproverò Feng. «Però, d’altra parte, non posso
dargli torto Alexia. È inammissibile avere un’espressione tanto triste e
sconsolata la Vigilia di Natale. Forza, vieni a giocare fuori. Vedrai che
un’entusiasmante battaglia di neve ti risolleverà subito.»
Di nuovo
Alexia cercò di obiettare ma, prima che potesse farlo, Feng e Brando l’avevano
già afferrata per le braccia trascinandola giù dalla poltrona.
Raggiunto
l’atrio principale, si scontrarono involontariamente con una giovane coppia
abbigliata con pomposa eleganza, che stava varcando in quel momento il portone
d’ingresso, e un inserviente piegato in due sotto il peso del loro voluminoso
bagaglio. Con loro c’era un bambino, basso e abbastanza in carne, capelli a
caschetto rosso spento e lenti rotonde, il volto paffuto e lentigginoso che
unito al grosso libro sottobraccio lo faceva sembrare più grande di quanto
doveva essere in realtà.
«Alexia»
disse il padre carezzandole vigorosamente la testa. «Da quanto tempo! L’ultima
volta che ti ho vista stavi in una mano!»
«Signor
Roth» rispose lei quasi imbarazzata. «Cosa ci fa lei qui?»
«Che
domande, ci ha invitati tua madre. A quanto pare alla fine si è ricordata di
noi.»
I
signori Roth erano quelli che la Contessa definiva, non senza un certo
disappunto, i Ricchi Popolani: si erano trasferiti a Kyrador dalla campagna caldesiana subito dopo il matrimonio, con una valigia
ciascuno e qualche migliaio di kylis in tasca, e una
volta lì avevano avuto l’accortezza di investire nel settore del divertimento;
ora possedevano due aeronavi da crociera, e era stata proprio la passione
comune per i viaggi a far incontrare le due famiglie.
Arlen in
particolare aveva molta simpatia per i Roth, anche se negli ultimi anni, con il
ritorno degli Stirling ad Amaltea, i rapporti si
erano un po’ diradati. Forse era stato per la speranza, che anche lei malgrado
tutto nutriva, di veder tornare il marito in tempo per le feste che Eleonor aveva voluto invitarli, pur sapendo quale fosse
l’opinione della madre nei loro riguardi.
«Sei
carina come ti ricordavo» disse la signora Roth. «E mi hanno detto che sei
sempre buona come il pane. Scommetto che stanotte Nehryane
ti porterà un sacco di regali.»
Il
figlio sembrava completamente estraneo alla discussione, e aperto il libro
aveva preso a sfogliarlo disinteressato, alzando solo di tanto in tanto e per
brevi occhiate lo sguardo dalle pagine.
«State
andando a giocare?» domandò il signor Roth.
«Sissignora!»
disse sguaiatamente Brando. «Maratona di pattinata sullo stagno ghiacciato e
poi grande battaglia di palle di neve!»
«Bravissimi,
così si fa» disse la moglie. «Alla vostra età il gioco deve essere la prima
cosa. Everett, perché non vai anche tu?»
«Non ne
ho voglia» tagliò corto il bambino, al che il padre, con sguardo truce, gli
sfilò letteralmente il libro dalle mani. «Ma, papà…»
«Quando
sarai più grande potrai rimbecillirti nello studio finché vorrai, ma per ora le
tue priorità sono altre! Senza contare che un libro scolastico è l’ultima cosa
che un bambino dovrebbe tenere in mano la Vigilia di Natale. Quindi ora vai
fuori con questi bambini e impara a divertirti.»
Visibilmente
contrariato Everett venne a sua volta trascinato via da Feng e Brando, sotto lo
sguardo severo e quasi offeso della Contessa che li osservava dall’arco che
immetteva nel salone.
«Ecco
perché disapprovo i nobili per raccomandazione. Come si può pensare di tirare
su un degno erede inculcandogli in testa simili sciocchezze?»
«Madre,
voi forse dimenticate che Alexia è una bambina, prima che una Horstmayer» le rispose, non senza una certa veemenza, la
figlia.
«Quelli
come loro non capiranno mai le difficoltà del dover mantenere alto il prestigio
di un casato. La nostra famiglia ha origini antichissime. I nostri antenati
furono tra coloro che firmarono la carta che sancì l’alleanza tra umani e maghi
quasi cinquecento anni fa. E Alexia, che ti piaccia o no, è la mia unica
nipote. Il fardello che io porto, e che non sarà mai tuo, un giorno passerà a
lei. Non è mai stata solo una bambina.»
«In
questo momento, tutto quello che lei vorrebbe è avere suo padre vicino. E a te
questo sembra non importare.»
«Non
sono io quella che ha sposato un uomo sapendo che il suo destino sarebbe stato
il dover passare quasi tutto il suo tempo lontano da casa. Ti avevo avvertita,
se non sbaglio. Tu hai voluto seguire i tuoi sentimenti invece del giudizio di
tua madre, e ora tua figlia ne paga le conseguenze.»
Sul retro del giardino
della tenuta c’era un punto in cui la neve che cadeva copiosa in quell’angolo
di Amaltea si accumulava sempre in gran quantità, tanto che mettendoci un po’
d’impegno era possibile addirittura scavare delle gallerie sotterranee per
disputare memorabili battaglie.
Feng e
Brando non erano cresciuti negli allori e nell’agiatezza: il papà di Feng lavorava come chef a bordo delle astronavi da
crociera, dove cucinava piatti tipici del suo Paese d’origine, Xenzhen, il padre e la madre di Brando invece gestivano un
panificio. Come i rispettivi genitori, entrambi avevano ereditato uno spiccato
talento per la cucina, e durante le lezioni di economia domestica non c’era
nessuno capace di reggere loro il confronto.
Anche
caratterialmente erano piuttosto simili, ciò spiegava come mai fossero così
amici fin dai tempi dell’asilo. La differenza era che Feng ogni tanto riusciva
anche ad essere seria, cosa che a Brando sembrava risultare quasi impossibile,
almeno per quanto ricordasse Alexia.
Ma quel
giorno, come aveva detto saggiamente il padre di Everett, la serietà era
bandita: contava solo divertirsi.
Come al
solito Brando volle fare l’eroe della situazione, e calatosi nella parte di un
prode cavaliere invitò i due orribili draghi a misurarsi con lui, ricevendo
subito in cambio una raffica di palle di neve.
Alexia
riuscì a lasciarsi andare quasi subito; rinchiusa nella sua pesante ma elegante
giacca bianca, con il colletto sollevato e la sciarpa rossa a sbucare come un
batuffolo fuori dal bavero, sembrava il ritratto della spensieratezza, e se
c’era una cosa che i suoi amici riuscivano a fare molto bene questa era senza
dubbio il liberarla da tutti i suoi brutti pensieri.
Chi non
riusciva proprio a farsi prendere dall’entusiasmo, invece, era Everett, ma gli altri
tre si stavano divertendo troppo per rendersene conto.
«Voi che
cosa avete chiesto a Nehryane per Natale?» chiese
Brando. «Io personalmente non vedo l’ora di ricevere i nuovi stivaletti a
levitazione.»
«Io
invece vorrei il bastone magico della Toys&Toys,
quello della pubblicità con Teddy» rispose Feng con aria incantata. «È così bello e sbrilluccicoso. E poi permette di maneggiare incantesimi
elementari. Al solo pensiero degli scherzi che farò a quella odiosa della
professoressa Agama mi viene da ridere.»
«Che
assurde sciocchezze.» sbottò in quella Everett, guadagnandosi le occhiate
storte dei due bambini. «Non siete un po’ troppo grandi per credere ancora a Nehryane?»
«Ma
sentilo, avrai sì e no la nostra stessa età» replicò Feng. «Chi ti credi di essere?»
«Nehryane è solo una favola. Sono i vostri genitori che
mettono i regali sotto l’albero mentre voi dormite. Non ditemi che non lo
sapevate.»
«Impossibile»
protestò Brando. «I miei genitori la notte lavorano sempre, anche quella della
Vigilia. Infatti arriveranno solo domani mattina.»
«A
maggior ragione. Visto che sono svegli, possono farlo senza che tu te ne
accorga.»
«Sei
davvero così sicuro che Nehryane non esista?» domandò
Alexia. «E se invece esistesse?»
«Impossibile.
Come farebbe a consegnare milioni di regali nel giro di ventiquattro ore?»
«Con la
magia.»
«Ci sono
dei limiti a quello che la magia può fare. Posso dirlo con certezza. Ho già
letto opere come il trattato sulle applicazioni magiche di Arthur Felmal e le Discussioni di Magia di Potier,
e a ragione di ciò posso affermare senza ombra di dubbio…»
Una
palla scagliata senza troppa forza gli si infilò nella bocca aperta,
cogliendolo del tutto impreparato e facendolo cadere all’indietro con la faccia
nella neve.
«Come ti
sei permesso?» ringhiò rialzandosi in piedi, il volto tutto rosso e gli
occhiali infradiciati.
«Dopo
tutto quel parlare, temevo ti si fosse seccata la bocca» disse Brando trovando
a stento il fiato tra una risata e l’altra. «Così ti ho dissetato.»
«Tu,
maledetto! Se è questo che vuoi ti accontento subito!»
A quel
punto la battaglia si scatenò furibonda, uno spassosissimo tutti contro tutti
cui assistevano, divertiti, anche i camerieri e gli inservienti dalle finestre
che davano su quel lato.
«Hai
visto, non ci voleva niente» rise Feng quando fu evidente che ormai Everett
aveva gettato la maschera.
Giocarono
come matti per tutta la mattina, dimenticandosi persino del pranzo, e nel primo
pomeriggio erano tutti e quattro così stanchi che dovettero fermarsi per forza
di cose.
«Ragazzi,
sono esausto» disse Brando abbandonandosi sulla sedia di un tavolino in una
anonima stanzetta attigua alle cucine. «Però complimenti, Evy.
Ci sai fare con le palle di neve.»
«Ancora
con questo Evy! Io mi chiamo Everett!»
«È
troppo lungo» sorrise il bambino divertito. «Qui abbiamo tutti dei soprannomi.
Io sono Bray, Alexia è Lyx,
tu sei Evy, e Feng…»
«Sì?»
domandò l’interessata ansiosa.
«Lei è
un caso a parte.»
«Grazie
di niente, maleducato!»
Tutti
risero di gusto, poi una cameriera venne a portare loro qualcosa da mangiare
per contrastare il brontolio di stomaco.
«Allora,
scherzi a parte» disse Brando mentre affondava i denti nel suo panino. «Che
cosa vorresti che Nehryane ti portasse per Natale, Evy?»
«Ancora
con questa storia? Nehryane non esiste! È solo una
favola.»
«Fai
finta che non sia così.» lo incalzò Feng.
«Beh»
tossì lui. «Se proprio dovessi stare al vostro gioco… c’è un manuale sulle
applicazioni magiche nell’ingegneria spaziale che non ho chiesto ai miei
genitori…»
«Perché speravi
che te lo portasse Nehryane, prova a negarlo.»
Il suo
rossore imbarazzato fu più che eloquente, ma per non abbassarsi ad ammettere
ciò che in realtà era palese, il bambino preferì cambiare argomento.
«Lo
sapete? Ho letto un libro sulle antiche leggende terrestri tempo fa. Anche i
nostri antenati aspettavano di ricevere i regali la notte di Natale, ma non li
portava Nehryane.»
«E
allora chi li portava?» chiese incuriosita Alexia.
«Un
certo Santa Clause. Un vecchio grasso e barbuto
vestito di rosso che viaggiava a bordo di una grossa slitta infilandosi nei
camini.»
«Ma dai,
non è possibile» disse Brando. «Un vecchio che consegna i regali e realizza i
sogni. Come può sperare di competere con Nehryane?»
«Detesto
ammetterlo, ma stavolta sono d’accordo con lui» disse Feng. «Nehryane è la personificazione dei sogni di tutti i
bambini. È giovane, bellissima, indossa un abito azzurro fatto di neve e di
ghiaccio, e attraversa le stelle in sella ad un carro d’oro tirato da cavalli
bianchissimi. Questo Sanny Clause
grasso e rosso non ha niente a che vedere con il Natale.»
«In
realtà ci sono molte leggende attorno a Nehryane»
puntualizzò Everett. «Quella del carro e del vestito è solo una delle tante.
Secondo alcuni non ha una forma prestabilita, ma può trasformarsi a seconda
delle necessità.»
«E poi
in realtà Nehryane non si limita a portare i regali»
incalzò Alexia. «Il suo vero potere consiste nel realizzare i sogni di chi
crede in lei.»
Nel dire
quelle parole, però, la bambina non riuscì a non ripensare al sogno che neppure
Nehryane sarebbe stata in grado di realizzare, e
allora la tristezza che Brando e Feng erano faticosamente riusciti a farle
dimenticare tornò a stringerle il cuore.
Se solo
fosse esistito davvero il treno magico della sua favola preferita; quello che
portava le persone nel luogo dove più desideravano, attraversando mari e monti,
stelle e pianeti, Avrebbe potuto portarla dal suo papà, e farla stare insieme a
lui almeno il giorno di Natale.
Purtroppo
era destinato a rimanere un sogno, perché, come aveva detto Everett, c’era un
limite a ciò che la magia era in grado di fare, e in verità anche lei, malgrado
tutto, sentiva di non avere più la forza di credere veramente in Nehryane.
Poco
dopo iniziò lo show della Strega Balcocca e i quattro
bambini ne vennero immediatamente catturati, perdendosi dietro le avventure
surreali e tragicomiche della piccola streghetta
aspirante cattiva, ma il cui buon cuore e la comprovata capacità di cacciarsi
nei pasticci ne facevano sempre una involontaria eroina.
Ancora
una volta Alexia provò a farsi trascinare dall’entusiasmo dai suoi compagni, ma
stavolta la sua mente era inesorabilmente occupata da altri pensieri, tanto che
le risate grottesche ma esilaranti di Balcocca e il
suo famoso gracchiare forzato della voce le giungevano solo come un distorto
rumore di fondo, quasi incomprensibile.
D’un
tratto, voltato quasi per caso lo sguardo oltre la porta finestra, scorse
nitidamente una piccola macchia rossa aggirarsi nel cortile.
Una
volpe, come ce n’erano tante in quella zona, dove la foresta arrivava a lambire
con le fronde la cancellata della villa, riempiendo di verde le pendici dei
monti circostanti.
Non era
la prima volta che ne vedeva una, eppure le venne voglia di seguirla, un po’
per cercare di trovare qualcos’altro a cui pensare, un po’ per una ragione che
neppure lei riusciva a spiegarsi.
I suoi
compagni non la videro allontanarsi, tanto erano presi dalle avventure di Balcocca, e la bambina, rinchiusasi di nuovo nel suo largo
cappotto impellicciato, si avventurò ancora una volta all’esterno.
La volpe
tergiversò, tenendo il suo sguardo attento rivolto verso quel cucciolo d’uomo
che si avvicinava a piccoli passi, senza apparenti intenzioni bellicose, ma
all’ultimo, forse spaventata da un gesto inconsulto, girò i tacchi e corse via
in tutta fretta incuneandosi tra le sbarre del cancello.
«Aspetta!»
disse Alexia correndole dietro.
Con
molta fatica la bambina riuscì a sua volta ad oltrepassare la recinzione, e pur
riuscendo a scorgere solo un batuffolo rosso che si allontanava di gran
carriera le corse comunque dietro, inoltrandosi nella foresta.
«Perché
scappi? Non voglio farti male!»
Alexia
attraversò sentieri, scalò rocce, saltò ruscelli ghiacciati o tramutati in
rigagnoli di acqua gelida, mentre tutto attorno a lei calava un silenzio quasi
assoluto, rotto solo dal frusciare del vento tra le fronde e il verso sommesso
di qualche altro animale nascosto nel fitto degli alberi.
Alla
fine dovette fermarsi, stanca e senza fiato, ma grande fu il suo stupore
quando, alzati gli occhi, si avvide che la piccola volpe era ancora lì, appena
visibile, girata verso di lei come se stesse aspettando di farsi nuovamente
inseguire.
Ma ormai
Alexia non ce la faceva più, e resasi conto di quanto lontano doveva essersi
spinta provò quasi paura.
D’un
tratto, una voce parve riecheggiarle nelle orecchie.
«Perché
gli uomini cercano il cielo pur essendo delle creature senza ali?»
La
bambina si riscosse, spalancando stupita i grandi occhi scuri, e procedendo a piccoli
passi nella direzione in cui aveva visto per l’ultima volta la volpe, ora
sparita, raggiunse infine una piccola radura circolare coperta di neve, dove il
sole, riflettendosi su una vicina parete rocciosa, proiettava una luce diversa,
quasi irreale.
Al
centro dello spiazzo, insolita per un luogo così apparentemente isolato e fuori
dal mondo, una statua di donna si ergeva su un piedistallo, inginocchiata come
in preghiera, gli occhi socchiusi, le mani poggiate sulle ginocchia e i lunghi
capelli che ricadevano fluenti sulle spalle, lasciate scoperte dalla lunga
veste riccamente decorata con motivi floreali.
Era così
strana, così bella.
La
bambina ne rimase rapita, quasi ipnotizzata, e sedette sulla neve ad osservarla
mentre il freddo volto di pietra pareva quasi muoversi, scostando le palpebre,
piegando le labbra, e volgendo impercettibilmente il volto in direzione della
piccola spettatrice.
Di
nuovo, Alexia ebbe l’impressione di sentire quella voce nella testa, ripetere
sempre la stessa domanda, come a sollecitare una risposta da parte sua.
Si sentì
scuotere all’improvviso.
«Alexia!»
Lei
quasi svenne per lo spavento, e voltatasi si trovò a tu per tu con gli amici.
«Che
cosa ci fate qui?»
«Dovresti
dircelo tu» replicò Brando, irritato. «Come ti è saltato in mente di sparire
così? Per fortuna che abbiamo potuto seguire le tue impronte, altrimenti non ti
avremmo mai trovata!»
Tutti e
tre poi furono a loro volta attratti dalla statua, restandone ugualmente
colpiti.
«È molto
bella» osservò Feng. «Fa un certo effetto vederla qui. Chissà chi l’avrà
costruita.»
«A
vederla sembra nuova» disse Everett. «Ma probabilmente risale alle prime
spedizioni. I coloni erano soliti lasciare tracce del loro passaggio ovunque
andavano, e se non sbaglio il primo embrione della futura Rubinheim
sorse proprio da queste parti. Forse è un monumento per commemorare il loro
arrivo in questa regione.»
«Tornando
a noi, come sei finita qui?» domandò ancora Brando. «Hai idea di quanto abbiamo
dovuto correre per raggiungerti?»
«Scusate,
è che avevo visto una volpe, e..»
«Una
volpe!?» esclamò Feng. «Sei matta!? Non lo sai che non si dovrebbero mai
inseguire le volpi?»
«Perché?»
«Sono
animali magici, oltre che molto intelligenti. Si dice che amino giocare scherzi
alle persone e irretirle con miraggi per farle perdere nei boschi.»
«Ancora
con queste favole» sospirò Everett. «Sono tutte leggende! Come potrebbero le
volpi essere magiche? È risaputo che gli unici esseri viventi capaci di
controllare la magia sono gli uomini.»
«E i
famigli allora?» chiese Feng, provocatoria.
«I
famigli hanno un DNA parzialmente umano. Non sono animali veri e propri. E
comunque le loro capacità magiche sono piuttosto limitate. È vero, le volpi
secondo alcune leggende sono considerate messaggeri divini, qualcuno le associa
persino alle favole su Nehryane, ma come ho già
ripetuto fino alla nausea, si tratta solo di racconti. Figuriamoci se le volpi
sono capaci di usare la magia!»
Alexia
restò in silenzio, pensierosa e un po’ confusa, quando un grosso fioco di neve
discese placidamente dal cielo dinnanzi a lei, posandosi sulla punta del suo
naso e facendola starnutire.
Il
cielo, da terso che era, si era improvvisamente oscurato, e dalle nuvole
cominciavano già a discendere le prime avvisaglie di una imminente, copiosa
nevicata.
«Accidenti,
questa non ci voleva» ringhiò Brando. «Se non ci sbrighiamo la neve cancellerà
le nostre impronte. Forza, andiamo via!»
Alexia
seguitò a osservare la statua fino a quando, trascinata letteralmente via
dall’amico, non la vide scomparire tra le fronde mentre quella leggera
spruzzata di neve si tramutava rapidamente in un principio di tempesta.
I
quattro riuscirono a seguire le tracce per alcuni metri, ma poi le impronte
cominciarono a diventare sempre meno nitide, fino a scomparire del tutto.
Provarono
a seguire l’istinto, puntando sempre verso il basso, sicuri di arrivare prima o
poi al limitare della foresta, ma in verità nessuno di loro conosceva
abbastanza quella zona da potersi orientare con precisione, meno che meno con
una tempesta che diventava sempre più forte.
«Non
ditemelo» mormorò ad un certo punto, sconsolata, Feng. «Ci siamo persi!»
Il
freddo ed il vento erano insopportabili, si infilavano nei vestiti e tagliavano
la pelle, ed era solo il pensiero di potersi sostenere gli uni con gli altri a
trattene i bambini dal mettersi a piangere disperati.
Brando
era l’unico che sembrava mantenere un certo autocontrollo, forte di una volontà
e di una perseveranza che tutti i suoi amici bene o male gli riconoscevano, ma
anche lui ad un certo punto parve farsi prendere dallo sconforto.
Quanto
ad Alexia, si sentiva malissimo, perché sapeva che quella situazione era in
parte colpa sua.
Forse
Feng aveva ragione: era davvero caduta nella trappola della volpe, e aveva
finito per trascinarci anche i suoi amici.
La
frustrazione e lo sconforto erano tali da non farle prestare attenzione a dove
metteva i piedi, e proprio mentre il gruppo stava sostando accanto a un ripido
pendio, una lastra di ghiaccio nascosta sotto la neve la riportò crudelmente
alla realtà.
«Alexia!»
gridarono tutti vedendola cadere.
Con
l’istinto e la forza della disperazione la bambina riuscì ad afferrare un
pugnetto d’erba che emergeva da sotto il manto bianco, e anche se questa si
strappò quasi subito, Brando ebbe il tempo di afferrarla per un polso, venendo
a sua volta afferrato per il braccio libero da Feng ed Everett.
«Tranquilla!
Ti teniamo!»
Purtroppo
il ghiaccio c’era anche per loro, e quando Everett, tirando, vi passò sopra,
tutti e quattro scivolarono rovinosamente nel pendio, ritrovandosi immersi in
quasi mezzo metro di neve sul fondo di una stretta gola, probabilmente una
spaccatura nella roccia dove durante la bella stagione scorreva un ruscello.
«State
tutti bene?» domandò Brando.
«Mi
dispiace, sono scivolato.»
Subito
Brando cercò di risalire, ma si accorsero ben presto che le pareti erano troppo
ripide e fradice per arrampicarvisi.
«Siamo
bloccati.»
E
allora, negli occhi di tutti comparve la paura.
Rapidamente com’era
arrivata, la tempesta si placò, e il sole ebbe appena il tempo di ricomparire
oltre le nuvole prima di iniziare la sua rapida, inesorabile discesa oltre le
montagne, lasciando spazio alla notte più magica dell’anno.
E a ogni
stella che compariva nel cielo, Eleonor era sempre
più preoccupata.
Gli
inservienti avevano cercato dappertutto, ma Alexia e i suoi amici sembravano
scomparsi nel nulla. Anche i genitori di Everett erano preoccupati; del resto,
era la prima volta che il figlio li faceva stare in pensiero.
«Ma si
può sapere dove sono finiti?» domandò la donna guardando fuori per l’ennesima
volta e sentendo montare la preoccupazione. «Avete cercato con attenzione?»
«Stiamo
perlustrando ogni singola stanza della villa mia signora, oltre al cortile e
alle zone attigue alla tenuta» rispose educatamente il maggiordomo. «Non abbia
timore, li troveremo.»
«Quella
piccola peste. Ma che le sarà saltato in mente?»
«Quando
salterà fuori, sarà il caso di farle un bel discorsetto» disse severa la
Contessa. «A quanto pare non sei stata abbastanza severa.»
«Non è
questo il momento per parlarne, mamma.»
«Non è
mai il momento, Eleonor. Già il fatto che tua figlia
sia praticamente cresciuta senza un padre la dice lunga sul tipo di educazione
che sicuramente le avrai impartito. Ti ho vista tutte le volte che le perdonavi
quello che faceva, o passare sopra i guai in cui puntualmente si va a cacciare,
come in questo caso. Dare troppa corda ai figli significa mandarli alla deriva,
poiché non capiranno mai il senso del dovere e della disciplina.»
«Proprio
tu mi parli di dovere?» sbottò a quel punto Eleonor,
rossa in volto e con gli occhi lucidi. «Tu che tutto sei stata per me fuorché
una vera madre?»
La
Contessa rimase di sasso, facendosi più bianca dei suoi capelli, argentei fin
da quando era venuta al mondo, a testimoniare l’immenso patrimonio in fatto di
abilità e capacità arcane che quella donna custodiva in grembo.
«Da
quando sono nata, non ricordo una sola volta in cui tu sia stata per me una
vera madre! Tu per me non c’eri mai, e quelle poche volte che stavamo insieme
mi sembravi quasi un’estranea! Non lo so se fosse perché non ero al tuo
livello, né lo sarei mai stata, o per il tuo considerarmi solo un intermezzo,
un’incubatrice da cui doveva emergere la tua vera erede, ma da parte tua non ho
mai sentito un vero affetto nei miei confronti! La verità è che quel potere di
cui vai tanto fiera in realtà è un cancro! Una malattia che negli anni ha
ucciso i tuoi sentimenti!»
«Eleonor…»
«Alexia
ti vuole bene, mamma, e nonostante tutto te ne voglio anch’io. Ma devi
smetterla di pensare da matriarca e comportarti da madre e da nonna. E per
quanto mi riguarda, non crescerò Alexia come tu hai cresciuto me. Lei per me è
una figlia prima di ogni altra cosa. E per te? Cosa è per te? È la tua unica
nipote o la tua erede?»
In quel
momento un bellissimo esemplare di husky entrò nel salone, circondandosi di
luce e assumendo le fattezze di una giovane cameriera avvicinandosi alle due
donne.
«Mie
signore, ho trovato tracce della signorina e dei suoi amici all’esterno del
cancello, in direzione della montagna ad est. Temo si siano persi nella
foresta.»
«Che
cosa!?» disse pallida Eleonor, il volto segnato dalla
paura. «Presto, chiama tutti! Dobbiamo trovarli subito!»
«L’ho
già fatto, mia signora. Aspettano lei.»
Giusto
il tempo di sostituire l’elegante abito da sera nero con cappotto e tenuta da
sci, e la donna seguì l’inserviente sotto lo sguardo silenzioso e
apparentemente insensibile della madre, che rimasta sola si avvicinò a piccoli
passi al comunicatore affisso alla parete.
«Ufficio
del Direttore Generale.»
«Sono la
Contessa Horstmayer.»
Anche se la nevicata era
passata, con l’arrivo della sera la temperatura era scesa vertiginosamente, e
nonostante Alexia fosse riuscita a dare fuoco ad alcuni legnetti trovati qua e
là usando le sue scarse conoscenze di magia, quelle timide fiammelle e i loro
vestiti, benché spessi, non erano in grado di difenderli da un freddo che
diventava ogni secondo più pungente.
Per quel
poco che gli era stato insegnato a scuola, non dovevano addormentarsi per
nessun motivo, altrimenti avrebbero corso il rischio di non svegliarsi più.
Perciò cercavano di tenersi impegnati come potevano, parlando del più e del
meno, facendosi forza l’un l’altro e dandosi vicendevolmente dei colpetti se
qualcuno chiudeva gli occhi per troppo tempo.
Everett
sembrava una statua, silenzioso e apparentemente lucido, anche se ogni tanto
Alexia e gli altri lo vedevano muovere impercettibilmente le labbra, quasi
stesse pregando, oppure cantando.
E
infatti ad un certo punto, tendendo bene l’orecchio, i suoi improvvisati
compagni di avventura lo sentirono distintamente mormorare una strana
canzoncina, armoniosa e molto gradevole, ma dalle parole apparentemente
incomprensibili.
«Che
cos’è?» domandò Feng.
«Credo
sia una vecchia canzone natalizia, probabilmente di origine terrestre. L’ho
trovata in una vecchia registrazione risalente al primo periodo coloniale in
biblioteca.»
«Sembra
molto bella» disse Alexia. «Quindi anche sulla Terra festeggiavano il Natale?»
«Non
solo. Festeggiavano anche il Capodanno e la Festa della Primavera.»
Tutti
allora alzarono gli occhi verso l’alto, verso quello stupendo cielo stellato.
«Mi sono
sempre domandata come deve essere la Terra.» disse Feng.
«Anche
tu?» disse scherzoso Brando. «Allora siamo in due. Anche se io mi accontenterei
di sapere com’è passeggiare lassù tra le stelle.»
«Probabilmente
sarà un paradiso» rispose Everett. «Hanno cento anni di progresso in più
rispetto a noi.»
«Secondo
voi come mai non sono più arrivati coloni dopo le prime sette navi?»
«Forse
hanno trovato un nuovo pianeta abitabile, più vicino e meglio raggiungibile
rispetto a questo.»
«Però,
se ci pensate è ironico» disse Alexia cercando di trovare la forza di ridere.
«In un certo senso, siamo un po’ come degli alieni.»
«Direi
che è proprio così. Non siamo nati su questo mondo, ma lo abbiamo raggiunto e
colonizzato arrivando dalle stelle.»
«La
Terra» disse Feng con sguardo sognatore. «Chissà se un giorno la rivedremo
mai.»
«Di
sicuro noi non ci riusciremo. Ci vogliono ancora troppi anni di viaggio per
raggiungerla. Ma puoi consolarti con i microfilm e le vecchie registrazioni.»
«A
proposito di registrazioni» incalzò Brando. «Facci sentire ancora quella
canzone. Come si chiama?»
«Non ne
ho idea. Sul disco si parlava solo di canzoni natalizie.»
«È una
lingua strana» disse Alexia. «Era quella dei nostri antenati?»
«No, non
credo. Probabilmente è ancora più antica. Purtroppo l’audio era di qualità
molto bassa, e non sono neppure sicuro di aver capito bene tutte le parole,
benché l’abbia ascoltata diverse volte.»
«Tu
cantala comunque. È molto bella.»
Quasi
con imbarazzo, Everett si schiarì un momento la gola, trasse un respiro e
ricominciò a cantare, stavolta con tono un po’ più alto.
Era
davvero una bella canzone, che scaldava il cuore e rasserenava l’animo, e al
terzo bis, senza quasi accorgersene, anche Alexia, Brando e Feng si ritrovarono
a cantarla a loro volta, producendo un gentile coro di voci infantili che nel
silenzio della foresta si propagava per miglia tutto attorno, rendendo
nuovamente magica quella notte.
ADESTE FIDELES LATE TREUMPHANTOS,
VENITI, VENITI AN BELTHEHEM.
NATOR VIDETE REGEM ANGELORIUS.
VENITA ADORAMUS
VENITA ADORAMUS
VENITA ADORAMUS
DOMINUS.
Poi, il vento si fece più
forte, glaciale, spegnendo troppo presto quel bellissimo coro e riportando i
bambini alla cruda realtà.
Il
fuoco, già debole, si spense, e i quattro si ritrovarono di nuovo al buio e al
freddo, stringendosi l’un l’altro e rannicchiandosi il più possibile contro il
bordo del pendio per tentare di ripararsi.
«Non vi
addormentate!» continuava a ripetere Everett vedendo che tutti faticavano a
tenere gli occhi aperti. «Non dovete addormentarvi!»
Alexia
era la più spaventata, e lottando contro sé stessa ripensava con tutte le sue
forze alla sua casa, alla sua famiglia, e a tutto ciò che la rendeva felice,
come la cioccolata calda della signorina Husky o i suoi libri di favole,
cercando in quei pensieri la forza di restare sveglia.
Non voglio stare qui. Voglio tornare a
casa. Mamma! Papà!
Poi,
come per magia, una luce si accese per tutti loro, e un rumore riempì la notte.
Sembrava
un fischio, ma non quello del vento: era il fischio di un treno.
L’aria
si fece calda, piacevole, e tutto sembrava pacifico e calmo.
Alexia,
Brando, Feng ed Everett un attimo prima erano seduti sulla neve nel bel mezzo
della foresta.
Ora,
invece, stavano solcando le stelle, accoccolati sugli spaziosi e morbidi sedili
imbottiti nel vagone di un lungo, lunghissimo treno, tutto colorato e
scintillante di luci, che sospinto da una possente e maestosa locomotiva a
vapore saliva sempre più verso l’alto, perdendosi nello spazio infinito.
La tazza
di cioccolata che ognuno di loro teneva tra le mani riscaldava il corpo e la
mente, diffondendo un piacevole tepore, e saggiando l’aria si poteva sentirne
il profumo zuccherino.
Ma la
vera meraviglia era data dal panorama.
Dinnanzi
a loro, oltre i finestrini, i bambini vedevano stagliarsi l’immensa,
incomparabile meraVigilia del cosmo, con stelle,
pianeti, comete, e anche astronavi, stazioni spaziali e satelliti, tanto vicini
da dare l’impressione di poterli toccare.
Celestis
era dietro di loro, bellissimo, ma davanti sembrava di vedere la Terra,
splendida come raccontavano le storie, con la sua unica luna a gravitarle
intorno e il sole, caldissimo, a illuminarla.
E
allora, i loro occhi si accesero di meraVigilia.
Era come
un sogno. Un sogno bellissimo.
L’immensità
dello spazio si svelava ai loro occhi in tutta la sua magnificenza, mentre quel
treno luminoso di cui sembravano gli unici passeggeri si avventurava sempre più
nell’infinito, con le stelle che parevano danzargli attorno, formando uno
scintillante tunnel di luci proiettato verso altri mondi, altre meraviglie.
Si
sentivano sereni, e i loro cuori battevano all’impazzata alla vista di tanta
incredibile magia, anche se scorgendo in lontananza, un attimo prima di
chiudere gli occhi sotto la spinta di una rinnovata stanchezza, il profilo
della stazione spaziale Infinity, una lacrima scivolò
lungo le guance di Alexia, macchiando con un velo di tristezza un’espressione
altrimenti bellissima.
Gli uomini sono davvero creature strane, ebbe l’impressione di sentir dire mentre
si addormentava, sono le uniche creature
le cui ali esistono ma non si vedono.
Quasi tutto il personale al
servizio della famiglia Horstmayer, dalle cameriere
agli inservienti, era composto da famigli di origine canina, in grado di
percepire la presenza della signorina meglio di quanto avrebbero potuto fare
coi propri cuccioli.
Illuminati
da decine di luci magiche create appositamente, decine di loro attraversavano la
foresta latrando al seguito di un esiguo numero di uomini, riuscendo nonostante
la neve, il freddo e le poche tracce a seguire la pista lasciata dalla piccola
padrona e dai suoi amici.
Eleonor
sembrava fuori di sé per l’ansia, e camminava talmente spedita che nessuno dei
servitori ancora in forma umana riusciva a starle dietro.
«Ci
siamo quasi, mia signora» disse l’husky che la seguiva. «Avverto la presenza
della signorina!»
«Continuate
a cercarla! Non può essere ancora molto lontana.»
D’un
tratto comparve una luce, dorata e soffusa, carica di calore, e i sensi di
tutti i famigli si acuirono, captando con maggiore intensità l’oggetto della
ricerca.
«Mia
signora, di qua!».
Tutti
affrettarono il passo, indifferenti alla fatica di quell’ultima, impervia
salita, seguendo quel bagliore, fino a giungere ai piedi di un ripido pendio.
Alexia e
gli altri erano lì, stretti l’uno all’altro, apparentemente immersi in un sonno
profondo, circondati da una barriera magica che li teneva al sicuro e dava loro
calore. Pochi bambini di quell’età sarebbero stati capaci di produrre uno scudo
così ben fatto, ma dopotutto Alexia era pur sempre l’ultima erede di una delle
più grandi famiglie di maghi, nelle cui vene scorrevano secoli di esperienza
nella stregoneria.
Quattro
servitori scesero in pochi balzi nello stretto pertugio, e raccolto un bambino
ciascuno si affrettarono a riportarli al sicuro.
«Stia
tranquilla, stanno solo dormendo» disse Husky passando delicatamente Alexia
alla madre. «Entro domani mattina staranno benissimo.»
Vedendo
la sua bambina così apparentemente serena, che le dormiva tra le braccia come
quando era piccola, Eleonor si sentì ebbra di gioia,
stringendola a sé e sfiorando la fronte sulla sua.
Non
c’era regalo di Natale che potesse renderla più felice.
La prima cosa che Alexia
sentì un attimo prima di riaprire gli occhi fu una gradevole sensazione di
morbidezza e conforto, che solo l’essere distesi su di un morbido letto poteva
offrire.
Un
raggio di sole entrava dalla finestra malamente chiusa illuminandole il viso, e
probabilmente era stato questo a svegliarla anzitempo.
Solo in un
secondo tempo ricordò quanto era successo, il freddo e la neve, e il bellissimo
sogno del quale conservava solo sbiaditi ricordi, pochi frammenti d’immagine,
ma di cui percepiva nitidamente il calore che le aveva suscitato nell’animo.
Ma era
stato davvero un sogno?
Non lo
sapeva, e forse non lo avrebbe saputo mai, ma non le importava. Le bastavano
quelle sensazioni bellissime.
Si
guardò attorno.
Qualcuno
l’aveva spogliata e vestita con una delle sue camice da notte, e agli altri
letti della stanza, a loro volta con indosso dei pigiami improvvisati,
dormivano anche i suoi compagni di avventura; Brando come al solito ronfava a
pancia scoperta, la coperta ai piedi e una gamba lasciata a penzolare, Everett
russava come un vecchietto e Feng, la più rilassata di tutti, sorrideva come
davanti ad una torta di compleanno, accoccolando la testa nel cuscino.
«Allora,
ci hanno riportati a casa» mormorò guardandosi attorno.
Poi,
sentendo il pigolare fuori dalla finestra di un uccellino, ricordò che giorno
era, e anche se si sentiva matura abbastanza da non farsi trasportare
dall’entusiasmo, non riuscì a resistere al richiamo dei regali che
l’aspettavano sotto l’albero.
«Ehi,
svegliatevi! È Natale!»
Ma a
differenza di lei, Brando e gli altri erano ancora troppo stanchi per
indirizzare altrove le loro attenzioni, e allora Alexia da sola, infilatasi in
tutta fretta un paio di pantofole, uscì dalla stanza correndo verso le scale.
Quando
scese nell’atrio, l’albero era lì, bellissimo, e ai suoi piedi erano ammassati
decine e decine di regali, delle forme e delle dimensioni più svariate.
Davanti
all’albero, però, c’era anche sua madre, Eleonor, già
vestita e pronta per la festa che sarebbe iniziata di lì a breve, e che contro
ogni tradizione e rispetto dell’atmosfera natalizia la fissava a braccia
conserte e sguardo severo; molto severo.
Di
fronte a quegli occhi la piccola si bloccò, chinando il capo mortificata; dopo
quello che era successo, sua madre non aveva tutti i torti ad apparire così
arrabbiata.
«Mi
dispiace» pigolò con gli occhi bassi. «È stata colpa mia. Io… io non volevo. Ci
siamo persi, sono caduta, e…»
Ma non
vi fu risposta, né si mosse qualcosa nell’espressione della donna, e allora
Alexia capì che forse era meglio stare in silenzio.
Quando
era arrabbiata la mamma sapeva essere più spaventosa di qualunque mostro delle
favole.
Eppure
stavolta c’era qualcosa di strano; non sembrava il solito sguardo di
rimprovero.
«Mamma…»
disse allora Alexia una seconda volta.
Solo in
quell’attimo la bambina si accorse di un’ombra che appariva a malapena alle
spalle dell’albero, ben nascosta dalle fronde, e che in un batter d’occhio le
fu davanti assumendo i tratti di un gentile e rispettabile signore in uniforme,
i capelli biondo paglierino, gli occhi chiari, il viso ovale e un paio di piccoli,
eleganti baffi da soldato.
Alexia
rimase col fiato sospeso, pensando per un attimo di stare ancora sognando.
«Papà!»
gridò, e in un istante gli fu addosso sommergendolo di baci ed abbracci,
traboccante di gioia.
«Piccola
peste. Hai fatto preoccupare per bene tutti quanti. Ma quello che conta è che
tu stia bene.»
«Papà!
Avevano detto che non potevi venire!»
«Ma te
l’avevo promesso, ricordi? Che saremmo stati insieme per Natale. E quando mai
il tuo papà ha mancato ad una promessa?»
Eleonor
restava in disparte; voleva lasciare quel momento tutto per loro. Ma nel suo
cuore era felice, e le lacrime, oltre al sorriso, erano lì a dimostrarlo.
Girato
lo sguardo, intercettò il volto della madre che li osservava nascosta dietro
una colonna della balconata superiore, facendo dono anche a lei, per la prima
volta dopo molto tempo, di un sorriso.
«Se
posso, mia signora» disse Husky, che seguiva la Contessa. «È stato un gesto
bellissimo da parte sua.»
«Mia nipote
ha una passione innata per cacciarsi nei guai» disse la Contessa con un filo di
voce, nascondendo le labbra dietro l’ampia manica del vestito. «Ma quello che è
accaduto stanotte mi ha convinta una volta di più che sarà una grande
capofamiglia. E comunque, ogni bambino ha diritto al suo regalo di Natale.»
Un
regalo che era costato diverse migliaia di kylis;
tanto c’era voluto per ottenere una nave da sbarco che decollando la Vigilia di
Natale recuperasse tutti gli occupanti della stazione spaziale e facesse poi la
spola tra un continente e l’altro per farli arrivare a casa in tempo per
festeggiare con le famiglie.
«Ma che
quella peste non s’illuda di averla scampata. Domani mattina sia io che sua
madre avremo molto da dirle.»
Ma
quello non era il momento di fare certi discorsi. E per quanto non volesse
ammetterlo anche la Contessa, nel vedere la sua unica nipote abbracciare forte
il padre, del tutto indifferente alle decine di regali che attendevano solo di essere scartati, sentì un piacevole calore spandersi
nel petto.
«Buon
Natale, Alexia.»
«Buon
Natale, papà.»