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di Eibhlin Rei
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***
Capitolo 4: *** 3. ***
Capitolo 5: *** 4. ***
Capitolo 6: *** 5. ***
Capitolo 7: *** 6. ***
Capitolo 8: *** 7. ***
Capitolo 9: *** 8. ***
Capitolo 10: *** 9. ***
Capitolo 11: *** 10. ***
Capitolo 12: *** 11. ***
Capitolo 13: *** 12. ***
Capitolo 14: *** 13. ***
Capitolo 15: *** 14. ***
Capitolo 16: *** 15. ***
Capitolo 17: *** 16. ***
Capitolo 18: *** 17. ***
Capitolo 19: *** 18. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Saaaalve... questa cosa potrei scriverla alla fine, ma preferisco mettere le mani avanti e togliermi il dente subito.
Questa storia la covavo da quanto? Mesi? E ora finalmente(?) mi sono decisa a buttarla giù e pubblicarla.
Il signor Dashner mi ha rovinata, spero che sia soddisfatto: mi sono letteralmente divorata i suoi libri quest'estate e sono stati tutti un colpo al cuore (in senso positivo, credo...). Quando poi è uscito "La Mutazione" mi ci sono buttata a pesce neanche fossi stata in crisi d'astinenza (ma forse lo ero...). Anche il film mi sono fiondata a vederlo appena è uscito (e mi è piaciuto molto, nonostante le differenze dal libro). Niente, quando si parla di questa saga torno ad avere quindici anni (ossia l'età da fangirl per eccellenza).
Comunque... questa storia parte da molto prima dell'entrata nel Labirinto e arriva fino a "La Rivelazione", quindi saranno presenti degli spoiler. Si parla anche della "vita" alla Cattivo e per farlo sono andata un po' a braccio, pur cercando di rimanere fedele alle "informazioni" rese note finora. Non andrò a cambiare la storia originale, ma ne creerò una "parallela" che andrà ad interagire con la prima in alcuni momenti non descritti o non approfonditi nel libro. E ci sarà un personaggio che sarà la "chiave" per queste interazioni.
Non so che altro dire, ma mi sembra di aver detto anche troppo. Io ci ho provato e spero di essere riuscita a scrivere qualcosa di quantomeno decente, ma questo sta a voi deciderlo.
Scusate se vi ho annoiato e beh... (spero sia una) buona lettura!
 
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Prologo
 
Johanna, adesso mi chiamo Johanna.
Si era ripetuta talmente tante volte quella frase che quasi le sembrava non avesse più senso.
Ma doveva ricordarselo o, per meglio dire, convincersene. Nessuno l’avrebbe più chiamata con il suo nome, le avevano spiegato i due signori che erano venuti a prenderla. E quando, stupita, ne aveva chiesto il motivo, si era sentita rispondere «Funziona così nel posto dove ti portiamo».
Le era sembrata una cosa davvero strana: perché mai dovevano cambiarle il nome? Aveva provato a porre nuovamente la domanda, sperando in una risposta più sensata di quella variante di “perché sì” che le era stata data, ma non aveva ottenuto nulla se non un “Ti chiami Johanna, da Giovanna d’Arco. Qual è il problema, non ti piace?”.
Non era la risposta che voleva, ma aveva capito che insistere sarebbe stato come prendere a testate una parete di cemento: non volevano dirglielo e non avevano intenzione di farlo. Quindi aveva smesso di fare domande, ma non si era rassegnata e si era promessa che prima o poi lo avrebbe scoperto.
Adesso però doveva fare buon viso a cattivo gioco e quindi farsi entrare in testa che il suo nome era Johanna. Si domandò quanto le ci sarebbe voluto per abituarsi e cosa ne avrebbe pensato la zia Maggie se l’avesse saputo. Gliel’avevano detto prima di portarla via con loro?
«Mia zia lo sa?», chiese. Poteva essere una domanda sciocca, ma voleva saperlo.
La donna magra e dai capelli neri raccolti saldamente sulla nuca, che le aveva detto di chiamarsi Ellen, la guardò sorpresa. «Scusami?»
«Mia zia sa che mi avete cambiato il nome?», ripeté pazientemente lei.
«Perché ce lo chiedi?»
«Semplice curiosità, voglio solo saperlo.»
Ellen sospirò e le sembrò infastidita. «Sì, hai altre domande o posso avere tregua?»
Jack, l’uomo che l’accompagnava, le diede una lieve gomitata nelle costole. «Ellen, per favore…», la riprese, poi si rivolse a lei. «Ascolta, è normale che tu abbia tante domande da farci, ma all’arrivo ti verrà spiegato tutto ciò che devi sapere. Per adesso, sappi solo che il tuo nome è Johanna per chiunque te lo chieda.» Le aveva parlato in modo gentile, ma con fermezza, come a voler far intendere che non avrebbe ammesso repliche.
Aveva detto che le sarebbe stato spiegato tutto ciò che doveva sapere. Ma lei capì subito che c’era differenza tra ciò che voleva sapere e ciò che loro ritenevano dovesse sapere. Se non avevano intenzione di rivelarle un particolare apparentemente così sciocco sul suo nuovo nome, quante altre cose non le avrebbero detto?
Fa niente: se le cose non me le diranno loro le scoprirò a modo mio.
Annuì. «Va bene, e Johanna sia», disse semplicemente e questo sembrò accontentare i suoi interlocutori.
Non parlarono più e lei si ritrovò a pensare alla zia Maggie. Era l’unica persona che le era rimasta e quella mattina aveva dovuto salutarla per sempre. Cercò di ricacciare in gola le lacrime e strinse i pugni: zia Maggie le aveva fatto promettere che non avrebbe pianto e che sarebbe stata forte.
Circa mezz’ora di silenzio dopo il furgone si fermò.
Ellen, che si era appisolata con la testa sulla spalla di Jack, si svegliò quando quest’ultimo la scosse lievemente. «Ci siamo», disse lui, e si alzò per scendere dal furgone, mentre la portiera veniva aperta, seguito a ruota dalla sua collega. Si voltò verso di lei, che era balzata in piedi, ma ancora non si era mossa. «Vieni Johanna.»
Lei aveva cercato di mettersi in testa quel nome, ma sentirsi chiamare per la prima volta così le fece comunque uno strano effetto.
Jack dovette essersene accorto perché le sorrise e le disse, «È normale, Johanna, ci farai l’abitudine». La aiutò a scendere e lei rimase a bocca aperta: in uno spiazzo deserto grande all’incirca quanto un campo da calcio, a neanche una trentina di passi dal furgone, era parcheggiata una Berga. Non era certo la prima volta che ne vedeva una, ma non le era mai capitato di salirci sopra o di avvicinarcisi così tanto.
 Jack la fece mettere in mezzo a lui ed Ellen e tutti e due la presero per mano. Lei ebbe la sgradevole sensazione che le avessero messo delle manette. Invisibili e che non facevano male. Ma pur sempre manette.
«È la prima volta che viaggi su una Berga, Johanna?», le chiese Jack quando si avviarono verso il mezzo. Pronunciava quel nome ogni volta che le si rivolgeva, anche quando non era strettamente necessario, e lei ne capì subito il perché: stava cercando di imprimerlo a fuoco nella sua testa. La cosa le diede un po’ fastidio, quasi la ritenessero stupida, ma decise di non darlo a vedere. «Sì, ma non ho paura di avere le vertigini o di sentirmi male, se è questo che vuoi chiedermi», rispose.
Jack sorrise – sorrideva troppo spesso per i suoi gusti, come se volesse far passare quel viaggio come una gita in campagna –. «Tua zia ci ha detto che sai il fatto tuo, Johanna, e devo riconoscere che aveva ragione.»
«Solo perché non ho paura di salire su una Berga
Jack ridacchiò e lei non riuscì proprio a capire cosa ci trovasse di divertente. «Perché non sei così terrorizzata da tutto questo al punto da piangere tutto il tempo o non riuscire a parlare, Johanna. O, se lo sei, non lo dai per niente a vedere.»
«Avete intenzione di uccidermi o di farmi del male?»
Jack le sembrò sorpreso, «Certo che no, Johanna, ci servi viva e in salute».
«Allora non vedo di cosa dovrei avere paura», ribatté e quella affermazione parve divertirlo parecchio.
Raggiunsero la Berga. C’era un uomo ad attenderli, un energumeno con i capelli cortissimi e talmente grosso che un solo suo braccio era grande quasi quanto lei. Persino Jack, che poteva vantare un’altezza piuttosto considerevole, vicino a lui sembrava di un uomo di statura ordinaria.
L’uomo la indicò subito con il mento. «È questa?»
Fu Ellen a rispondergli, spostando il peso su un fianco e guardandolo come si guarda uno stupido. «Tu che dici, Fred? Di certo non sono io. Sbrighiamoci a partire.»
Fred non si scompose, annuì e si avviò verso i controlli. Aspettò che il trio salisse sulla rampa, poi premette alcuni tasti e il portellone cominciò a chiudersi, con un suono stridulo e sferragliante. «Tempo un paio di minuti e sarà chiuso. Vado a dire a Hector di prepararsi al decollo», aggiunse e si defilò.
«E noi invece andiamo a riposarci, vieni Johanna», disse Jack. Lui ed Ellen fecero per avviarsi all’interno della Berga con l’intenzione di tirarsela dietro, ma lei lasciò bruscamente le mani di entrambi.
«Penso di poter riuscire a seguirvi anche senza che mi teniate per mano», disse, ignorando l’occhiataccia di Ellen. «Se avete paura che tenti la fuga potete tranquillizzarvi: non lo farò, voglio dire, dove potrei andare? E poi dovrei saper volare per scappare da una Berga e non mi sembra di esserne capace.»
Ellen la guardò in cagnesco, chiaramente pronta a dirgliene quattro, ma fu interrotta dall’allegra risata di Jack, che sorprese entrambe.
«Era a questo che mi riferivo, Johanna», disse lui, non appena riuscì a ricomporsi. «Hai appena, quanto? Sette anni? E già ci metti in riga in questo modo nonostante la situazione. Non c’è che dire: sei proprio quello che ci serve.»
Lei intuì che quella affermazione voleva essere un complimento, ma non riuscì a rallegrarsene o a sentirsene lusingata. Quel “sei proprio quello che ci serve” per qualche ragione la terrorizzò a morte. Non l’aveva fatto l’essere separata dalla zia Maggie, l’essere portata via per sempre da casa sua senza conoscere la destinazione, il sentirsi quasi un ostaggio nonostante i modi gentili o il salire la prima volta su una Berga. Ma quella semplice frase sì.
Nonostante la sua giovane età, credeva di aver smesso di avere paura, ma in quel momento la barriera che si era costruita intorno si incrinò e la realtà le arrivò addosso come una valanga: non provò più solo dolore per tutto ciò che stava abbandonando, ma anche un terrore cieco. Le avevano soltanto detto che avrebbe avuto un ruolo chiave nella cura dell’Eruzione e che avrebbe salvato la razza umana. Ma a quale prezzo? Cosa sarebbe successo a lei?
Per quel lungo attimo ebbe una terribile voglia di scappare. Il portellone non si era ancora chiuso del tutto e lei sarebbe passata senza problemi dall’apertura. Magari non si sarebbe fatta neanche troppo male cadendo, visto che la Berga non era ancora decollata. E poi avrebbe corso, in qualche modo avrebbe ritrovato la strada di casa, sarebbe tornata dalla zia Maggie e sarebbe rimasta con lei…
E l’avrebbe vista perdere il senno come era successo ai suoi genitori neanche due anni prima.
Non voleva mai più vedere un cosa del genere e adesso aveva la possibilità di fare in modo che non accadesse di nuovo. C’era solo una cosa da fare.
Fu un attimo, uno solo, poi la breccia si risanò e la sua barriera tornò ad essere solida e impenetrabile. Strinse i pugni, stupendosi della sua capacità di autocontrollo e complimentandosi silenziosamente con se stessa per non aver lasciato trapelare assolutamente niente.
Scrutò attentamente Jack e dopo qualche istante capì che non si era accorto di nulla, neanche con i suoi scrupolosi occhi indagatori. Su Ellen non ebbe il minimo dubbio: verso di lei, la donna aveva mostrato un certo disinteresse fin dal primo istante, intenzionata soltanto a fare ciò che le era stato ordinato.
«Lieta di sentirtelo dire», rispose con calma. «Andiamo?»
Jack annuì ed iniziò a salire la rampa. «Di qua.»
Si lasciarono alle spalle il portellone cigolante e si addentrarono dentro la Berga, fino ad arrivare in un stanza con almeno una decina di brande disposte lungo le pareti.
Ellen non fece complimenti e si buttò subito sul primo letto sulla destra, senza nemmeno togliersi gli scarponi o scostare le coperte.
«Non saranno il massimo del lusso, ma almeno sono comodi», sorrise Jack, sistemandosi a sua volta. «Scegline uno e riposati, Johanna, ci vorrà un po’ per arrivare.»
Fece come Jack le aveva suggerito, ma almeno ebbe cura di sfilarsi le scarpe e posizionarle accanto al letto. Sì tirò addosso la coperta fin sotto il mento, anche se non faceva così tanto freddo, e si sdraiò su un fianco, col viso rivolto verso la porta. In realtà non aveva sonno, ma fingendo di dormire non avrebbe dovuto affrontare eventuali conversazioni. Jack ed Ellen non erano intenzionati a spiegarle nulla, quindi non era interessata ad affrontare con loro altri argomenti.
Solo una cosa le premeva e non sarebbe stata zitta. «Jack, posso chiederti un favore?»
Lui le sorrise di nuovo, tirandosi su col busto per guardarla, e lei dovette trattenersi dall’alzarsi e correre a dargli un pugno dritto in faccia. «Certo, Johanna.»
«Potresti smettere di ripetere il mio nome anche quando non serve? Non sono stupida e so bene come mi chiamo.»
Non si era immaginata come Jack avrebbe reagito, ma non si sorprese affatto quando lo vide ridacchiare giovialmente ed annuire.
Levati quel maledetto ghigno dalla faccia o ci penserò io.
«Grazie.» Si voltò dall’altro lato, dandogli la schiena, e chiuse gli occhi. E, contro ogni sua previsione, si addormentò davvero.
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Capitolo 2
*** 1. ***


1.
 
«Papà, non ho così tanta fame!», protesta mentre suo padre continua imperterrito a riempirle il piatto.
«Non ci provare, signorina», ribatte lui. «Non ti voglio ritrovare di nuovo svenuta davanti al portico. Mangia e non fare storie», e le mette il piatto davanti, finalmente soddisfatto della quantità del suo contenuto.
Lei invece non è per niente contenta: ci metterà un’eternità a finirlo! «Ma papà…», tenta di nuovo.
Ma lui non ne vuole sapere. «Ma papà un bel niente! Sai che colpo mi hai fatto prendere?»
È da una settimana che va avanti così e la sorveglia come un mastino finché non ha finito tutto quello che ha nel piatto. Tutto per quello sciocco incidente.
Non che a lei non piaccia mangiare, anzi è il contrario. Ma detesta stare a tavola, ha sempre la sensazione di sprecare il suo tempo. In più, è anche lenta a mangiare – a volte le sembra quasi che il cibo le cresca nel piatto invece di diminuire – e non sopporta l’idea di stare lì seduta quando potrebbe fare tutt’altro. Come correre ed esplorare, ad esempio.
Il loro villaggio – anche se la loro casa è piuttosto isolata da tutte le altre – di poco più di cento anime si trova tra le montagne irlandesi, e a lei piace tantissimo girare per il paesaggio circostante alla ricerca di nuovi luoghi da scoprire. Vuole scovare le fate e i folletti. Finora non ne ha trovato nessuno, ma ha ancora tanti posti in cui guardare.
Ci va quasi sempre da sola, agli altri bambini non interessano certe cose e poi la ritengono anche un po’ strana, ma a lei non dispiace, si sente più libera.
Certe volte però, pur di non perdere tempo, afferma di essere sazia anche quando non lo è veramente. Solo che una di quelle volte, avendo corso e faticato più del solito, tornando a casa si è sentita mancare le forze ed è crollata a terra.
«Credevo ti fosse successo chissà che e cosa scopro? Che ti lasci morire di fame pur di avere più tempo per scorrazzare qua attorno», borbotta lui tutto imbronciato. «Che ci sarà da vedere poi… ringrazia che ti faccia ancora uscire.» Si serve a sua volta e si siede, iniziando a mangiare, e lei torna a guardare il suo piatto. Non riesce a trattenere una smorfia: le verdure quasi sommergono le fette di carne e per poco non strabordano sulla tovaglia.
Sarà meglio che cominci anch’io o non finirò mai.
Suo padre non borbotta più e per un po’ non si sente altro che il rumore delle posate contro i piatti. È lei a rompere il silenzio. «Come sta la mamma?», si azzarda a chiedere.
Lui appare visibilmente a disagio. «Ha sempre mal di testa.»
«Ma oggi posso vederla?» Da diversi giorni, sua madre non si sente bene: all’inizio le doleva la testa “a momenti”, quando si sforzava, poi è diventata una cosa fissa. Forse è per questo che ultimamente perde molto spesso le staffe e ha dei violenti scatti d’ira. Tanto violenti che suo padre da due giorni non la fa uscire dalla loro camera, se non per andate in bagno, e non permette a lei di entrarvi.
«Mangia. No, oggi non credo sia il caso», risponde lui con aria mesta.
Nessuno dei due aggiunge altro e finiscono di pranzare in silenzio. Ovviamente lui finisce prima e la tiene d’occhio fino all’ultimo boccone. «Bene», commenta, prima di toglierle il piatto da davanti. «Ora puoi uscire.»
Lei sorride, corre a dargli un bacio sulla guancia e si fionda subito fuori.
«Torna prima che faccia buio», si raccomanda lui e questo le strappa un altro sorriso: glielo dice ogni volta che esce.
Scende velocemente le scale del portico, ma non si allontana da casa. Si accerta che suo padre non stia guardando fuori dalla finestra e corre sul retro, dove l’edera rampicante ricopre quasi tutta la parete fino al tetto. Si guarda attorno – probabilmente più per scrupolo che per accertarsi che nessuno la stia osservando – ed inizia ad arrampicarsi per arrivare alla finestra della camera dei suoi. Anche arrampicarsi le piace da matti: è utile ad esplorare, nonostante per più di una volta sia tornata a casa piena di graffi e sbucciature.
La finestra è aperta, ma lei non sente il minimo rumore. Magari sua madre sta dormendo.
Farò il più piano possibile, voglio solo dare un’occhiata per vedere come sta.
Quando arriva abbastanza vicina alla finestra, allunga prima un braccio e poi l’altro verso il davanzale e si tira su, posandovi sopra un ginocchio.
All’interno della stanza c’è un silenzio quasi innaturale, ma non è questo a colpirla. Sua madre è sdraiata sul letto, il busto rialzato e sostenuto da alcuni cuscini e le gambe coperte da un plaid con diverse macchie. È dimagrita paurosamente, nota lei, i suoi begli occhi ambrati sono infossati e circondati da occhiaie e la pelle ha un aspetto flaccido e malsano. E probabilmente sono anche diversi giorni che non si lava, a giudicare dall’odore penetrante che aleggia nella stanza nonostante la finestra sia aperta. Muove la bocca senza parlare, dondolando la testa seguendo un ritmo che sente solo lei, ed agita la mano destra come se stesse dirigendo un’orchestra immaginaria. Ha un’espressione felice, quasi estatica, sul viso scarno.
Non sa bene cosa fare e valuta che forse sarebbe meglio andare via, ma sua madre si gira di scatto verso di lei e la sua espressione muta in un attimo: non è più estatica, ma furiosa.
«Che ci fai lì sopra?», ha una voce strana, stridente, con una spaventosa rabbia dentro. Serra le mani a pugno sul plaid, e non le da neanche il tempo di rispondere che subito aggiunge, «Te l’ho detto mille volte, ma proprio non vuoi capire, eh? Se cadi ti rompi l’osso del collo!».
Lei la guarda terrorizzata, le pare impossibile che quella donna sia sua madre.
Sua madre si afferra i lunghi, sporchi e arruffati capelli rossi, scuotendoli come a volerglieli mostrare. «Vuoi fare come Raperonzolo? Lo sai che il principe quando cadde dalla torre fu accecato sai rovi, lo sai?», le strilla contro, alzando sempre di più la voce. Scaraventa via la coperta e si alza per andare verso la finestra.
Devo andare via, pensa lei, ma per qualche strano motivo – forse per il terrore – non riesce a muoversi e sua madre la agguanta per un braccio.
«Ma io non ti ho calato la treccia, come diamine hai fatto a salire? Non va bene! Non va bene! Non è così che devi arrivare qui!», sbraita, sputacchiando e scuotendola violentemente. Le vene del collo e della fronte pulsano minacciosamente, gli occhi paiono iniettati di sangue. E la sua presa è ferrea, è troppo forte. E le fa male.
 Le si gela il sangue e si accorge di aver iniziato a piangere. Vorrebbe urlare e chiamare suo padre perché venga ad aiutarla, ma non ce la fa. «Mamma, per favore…», riesce solo a balbettare con un filo di voce.
«Stai zitta! Stai zitta! Mi fai venire mal di testa con quella tua vocetta da marmocchia! Smetti di parlare! Stai zitta!», le stringe il braccio ancora più forte e lei tenta inutilmente di farle allentare la presa.
La guarda con gli occhi che improvvisamente si accendono di gioia. Ma è una gioia malata e sadica. «Ma che bella idea! Vuoi che ti lasci? D’accordo! Non ci sono i rovi, però con un po’ di fortuna magari ti rompi l’osso del collo!», la solleva e lei si dimena per liberarsi, muovendo braccia e gambe come se fosse un insetto che steso sulla schiena non riesce più a rigirarsi.
Lasciami! Lasciami!
Ma sua madre non la lascia e la sporge pericolosamente fuori dalla finestra.
Lei cerca in ogni modo di aggrapparsi con tutte le sue forze al telaio mentre sente che un piede è già lontano – troppo lontano – dal davanzale. È una lotta disperata, con sua madre che la spinge e lei che tenta di tirarsi dentro.
«Perché non vuoi fare come il principe, eh? Perché non ti vuoi rompere il collo? Non vuoi fare contenta la tua mamma?»
La porta si spalanca, cogliendo di sorpresa entrambe, e dopo un attimo di sconcerto suo padre si fionda all’interno della stanza. «Meaghan, fermati! Lasciala stare!», le grida mentre con una mano afferra il braccio della donna e con l’altra cerca di tirare su lei. «È tua figlia! Lasciala stare!», le ripete.
Quell’assurda colluttazione si svolge in pochi istanti, ma è come se fossero ore interminabili. In qualche modo suo padre riesce, lei non capisce neanche come, ad allontanarle entrambe dalla finestra e sua madre la lascia finalmente andare.
È un’occhiata di soltanto un secondo, mentre il pavimento sale velocemente verso di lei, ma sul legno del telaio della finestra vede i sottili segni lasciati dalle sue unghie.
Cade carponi sul pavimento, picchiando molto violentemente il gomito, ma il gelo ormai è sceso anche nella sua gola e non le esce nemmeno un’esclamazione di dolore. Si tira su, riuscendo almeno a mettersi seduta e quando alza lo sguardo vede sua madre che si dibatte come una furia, mentre suo padre la trattiene a fatica.
«Lasciami! Lasciami!», si lamenta lei. «Dobbiamo giocare a Raperonzolo! Deve rompersi il collo! Il collo! Quel suo bel collo sottile sottile!»
Rimane seduta a terra a fissarli paralizzata dallo spavento, incapace di dire qualsiasi cosa e tenendosi il gomito dolorante. Trema. Piange. Sono le uniche cose che riesce a fare.
Sua madre scalpita e si protende con busto verso di lei, come se volesse morderla, non facendo altro che gridare di doverle rompere il collo.
«Fuori!», tuona suo padre, il viso sudato e bianco da far paura. «Esci fuori e chiudi la porta a chiave, io ho una copia!», ma lei non riesce a muoversi, il suo intero corpo non le risponde.
«Il collo! Il collo! Il collo!»
«ESCI!»
Improvvisamente, da qualche parte ritrova la forza di muoversi. Si alza barcollando e in pochi istanti raggiunge la porta, tra le urla che sembrano inseguirla.
«Il collo! Il collo! Il collooooooo!»
Si chiude con uno schianto la porta alle spalle, gira ripetutamente la chiave nel buco della serratura, come se avesse paura che una volta sola non possa essere abbastanza, tira via la chiave e la getta via. Scende di corsa le scale, rischiando di inciampare da quanto le tremano le gambe. Esce di nuovo di casa, vuole allontanarsi il più possibile e corre tantissimo, fino a non avere più fiato.
Alla fine le gambe le cedono e cade in ginocchio. Ha il respiro pesante ed i vestiti le si appiccicano addosso per il sudore. Chiude gli occhi e cerca di non pensare, ma nelle sue orecchie risuonano le grida folli di sua madre e il suo viso le fluttua davanti persino nel buio. Esangue, magrissimo, con gli occhi accesi dalla pazzia.
Mamma…
Respira profondamente per riprendersi e piano piano l’aria smette di bruciarle nei polmoni. È ancora stravolta, ma almeno non trema più. Nemmeno il gomito le fa più così male. Riapre lentamente gli occhi e si guarda attorno. Sa che non serve, ma non riesce a trattenersi dal farlo: e se fosse riuscita a liberarsi di suo padre e lei l’avesse seguita fin lì?
Nessuno. Non c’è nessuno, pensa con sollievo.
Sta per rialzarsi, ma si rende conto di avere lo stomaco sottosopra. Riesce appena a trattenersi i capelli dietro il collo con una mano, poi rigetta anche l’anima, reggendosi a stento su un braccio solo.
Sua madre ha cercato di ucciderla. Si accorge solo adesso che sta ancora piangendo e realizza sgomenta che ne avrà ancora per molto.
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Capitolo 3
*** 2. ***


2.
 
Le sembrò di riemergere da un profondo abisso. Era convinta che il passato avesse smesso di tormentarla nei sogni, ma evidentemente non era così. Qualcosa doveva aver superato il suo muro, insinuandosi nella breccia di terrore che prima, anche se per pochi attimi, l’aveva fatta vacillare. E l’aveva fatto silenziosamente, nascondendosi dietro la sua certezza di aver ricomposto tutto ed aspettando che si addormentasse per saltare fuori e morderla.
Aveva sognato sua madre. Sua madre che cercava di ucciderla. Ed era stato un sogno tremendamente realistico, mille volte più accurato nei dettagli di quanto lo fossero i suoi ricordi.
Avvertì una fitta al petto e sentì le lacrime salirle agli occhi. Ma qualcosa dentro di lei le ordinò di non cedere, di non permetterselo. Non capì il perché di quell’ordine, ma decise di seguirlo.
Maledizione, riprenditi, non provare a piangerti addosso, si intimò con durezza e riuscì a trattenersi per puro miracolo.
Poi una mano la toccò e si rese conto che qualcuno le stava scuotendo gentilmente la spalla e le stava parlando. «Siamo arrivati.»
“Siamo arrivati”, diceva, ma arrivati dove?
«Johanna», la voce – una voce maschile con un accento che le parve strano – adesso era più ferma e decisa. Perché una voce maschile? Dov’era zia Maggie? E poi quel nome…
Johanna…
Non le era nuovo, anche se non seppe spiegarsi perché. Ma la cosa più strana fu l’impressione che quell’uomo lo stesse usando per chiamare lei.
Poi tutto le tornò in mente di colpo. Zia Maggie non l’avrebbe mai più rivista e non sarebbe nemmeno mai più tornata in Irlanda. Avrebbe avuto una nuova casa, se così si poteva chiamare il luogo in cui stava andando. Le era stato dato un nuovo nome.
E le fu chiaro anche il perché di quella sua determinazione viscerale – talmente forte da trattenerla anche in un attimo in cui sembrava aver dimenticato tutto quello che le stava accadendo attorno – a non abbandonarsi disperata alle lacrime: non aveva più nessuno di cui potersi fidare e non doveva in alcun modo smascherare le sue debolezze.
«Svegliati», aggiunse la voce.
Lei spalancò gli occhi e si trovò davanti Jack con il suo immancabile sorriso. Si era chinato accanto al suo letto per guardarla meglio in faccia, ma quando la vide sveglia si tirò su e aspettò che lei si mettesse a sedere e si strofinasse rapidamente gli occhi per parlarle di nuovo. «Ci siamo», le disse allegramente, «Stiamo atterrando». Sembrava decisamente su di giri e questo le fece capire che lei non doveva esserlo.
Lei annuì rimanendo muta come un pesce, sperando così di troncare quella conversazione a senso unico, e saltò giù dal letto. Si stiracchiò, si rimise le scarpe e si lisciò il vestitino un po’ spiegazzato. Era il vestito migliore che aveva, di un delicato color glicine con il colletto bianco ricamato a violette. Non lo aveva mai indossato prima: con una cosa del genere non si poteva certo scorrazzare ovunque come era solita fare lei. Ma sua zia aveva insistito perché stavolta se lo mettesse. “Mia nipote sta andando a salvare il mondo: deve essere vestita bene”, aveva scherzato, cercando di non mettersi a piangere.
Era anche l’unico vestito che le avevano permesso di portare con sé, o meglio l’unica cosa oltre gli altri indumenti che aveva addosso. Non le avevano detto il motivo, ma era lampante che le avrebbero dato una divisa o qualcosa del genere.
Purtroppo per lei, Jack era in vena di chiacchierare e non pareva intenzionato a rispettare il suo silenzio. «Sono le nove del mattino e abbiamo volato per otto ore», la informò, distogliendola dai suoi pensieri.
Ma erano le dieci quando siamo partiti…, pensò confusa, ma le bastò qualche attimo per rielaborare il tutto e fare chiarezza: se avevano viaggiato per otto ore avrebbero dovuto essere le sei del pomeriggio, ma se adesso erano le nove di mattina probabilmente erano andati in un posto che doveva avere una differenza di fuso orario di nove ore con l’Irlanda. Quasi sicuramente in America, visto che sia Jack che Ellen parlavano con accento americano. Una cosa del genere in condizioni normali l’avrebbe senza dubbio entusiasmata, insomma era quasi come viaggiare nel tempo! Ma in quel momento non riuscì a gioirne neanche un po’.
Jack doveva essersi un po’ allarmato dal suo silenzio. «Hai qualche disturbo?», le domandò.
Lei lo guardò perplessa, ma poi intuì che probabilmente si riferiva al cambiamento di fuso orario, visto che avevano volato per otto ore. Avendo dormito per tutto il viaggio non ci aveva proprio pensato e al momento non avvertiva fastidi. Fece cenno di no con la testa e questo sembrò rassicurarlo.
«Finalmente saprai tutto, non sei contenta?», le chiese lui con rinnovata allegria.
Si morse la lingua per non rispondergli: “Sì certo, sono proprio curiosa di sentire come mi rigirerete la verità, sempre che ce ne sia una”. Non era il caso di fare l’indisponente ora che delle risposte – vere o no che fossero – sembravano essere così vicine.
E poi Jack sembrava aver smesso di ripetere il nome “Johanna” ogni volta che se ne presentava l’occasione.
Beh, è già un passo avanti…
«Sì», disse soltanto e si mise a rifare il letto, imponendo di nuovo il silenzio. Osservò Jack di sottecchi: era visibilmente contrariato dalla sua mancanza di entusiasmo, ma quantomeno ebbe la buona grazia di non protestare.
Non ti aspetterai certo che finga di esplodere di gioia, spero. Gentile sì, ma stupida no.
Mentre spianava le ultime pieghe esplorò la stanza con lo sguardo. Né Jack né Ellen si erano disturbati a risistemare le brande in cui avevano riposato.
Li avrebbe visti bene con zia Maggie, che era il genere di donna capace di negare la colazione finché un letto non fosse stato rifatto in maniera impeccabile. E senza fare colazione non si aveva il permesso di uscire fuori. Quel pensiero le strappò un piccolo sorriso: in quel modo era sempre riuscita a tenere sotto scacco anche lei.
Notò che un altro letto era stato occupato, ma la persona sotto le coperte non era Ellen.
Era un uomo di circa quarant’anni con i capelli biondi ed un accenno di barba leggermente più scura sul mento e sulle guance. Aveva i lineamenti parecchio tirati e sembrava dormire molto profondamente.
«Quello è Hector, il pilota», le disse Jack, che doveva aver notato la sua aria interrogativa. «Lui, Fred ed Ellen si sono alternati durante il viaggio: adesso c’è Ellen ai comandi.»
Vedendolo così propenso a parlare valutò che magari potesse valere la pena rompere il suo silenzio e provare a fargli qualche domanda. «Dove siamo?», gli chiese.
Lui le sorrise, ma non fece in tempo ad aprire bocca che Fred entrò nella stanza portando con sé dei cappotti scuri dall’aria molto pesante. «Siamo a terra, copritevi bene», annunciò e lei si accorse che le aveva lanciato una strana occhiata.
Senza aggiungere altro, l’uomo buttò gli indumenti sul letto dove aveva dormito Ellen e uscì.
Jack non si tolse il sorriso dalla faccia nemmeno per un secondo. «Ora vedrai.» Prese un cappotto e lo indossò. Lei fece altrettanto – l’indumento le stava un po’ grande di spalle e lungo di maniche, ma almeno non strascicava a terra e la copriva bene – e lo seguì quando lui si avviò fuori.
Mentre camminavano, si mise ad elencare mentalmente quanti posti freddi, presumibilmente in Nord America e molto lontani dall’Irlanda conosceva.
Raggiunsero di nuovo il portellone e trovarono Fred vicino ai comandi. Quest’ultimo picchiettò qualcosa e tirò una leva. Il rumore sferragliante ricominciò, ma questa volta la rampa cominciò ad abbassarsi.
«Adesso scendiamo solo noi due», le annunciò Jack. «In realtà non sarebbe permesso e dovremmo entrare nell’hangar che si trova all’interno della struttura.» Fece per parlare di nuovo, ma si interruppe come se qualcosa lo avesse turbato. «Sai cos’è un hangar, vero?»
«Sì, è dove si tengono le Berghe», tagliò corto lei, odiandolo per il suo fissarsi su particolari talmente insignificanti quando era chiaro come il sole per entrambi che quello che lei voleva sentirsi spiegare era ben altro. Sì chiese se ci avesse preso gusto e lo stesse facendo di proposito – ovviamente ostentando l’aria più innocente del mondo – per esasperarla. Non si sarebbe stupita affatto se fosse stato effettivamente così.
Lui sorrise ancora e lei trovò strano che non gli facessero male i muscoli del viso, visto che era la cosa che gli aveva visto fare di più da quando si erano incontrati. «Sì, esatto», confermò. «Comunque ho deciso di farti scendere all’aperto per farti dare un’occhiata al panorama mentre raggiungiamo la struttura a piedi, dato che una volta dentro non ci saranno molte occasioni di fare delle gite, purtroppo.» Aveva persino tentato di assumere un’aria dispiaciuta mentre lo diceva e lei dovette attingere a piene mani dalle sue scorte di pazienza e autocontrollo per non perdere le staffe e urlargli contro qualcosa di molto poco carino.
«È gentile da parte tua», rispose con il tono più cordiale e calmo che riuscì a trovare. Non è da tutti i carcerieri concedere un ultimo attimo di libertà.
«Non è perché vogliamo tenerti rinchiusa», si affrettò a precisare lui, come se avesse interpretato i suoi pensieri. «Ma è perché uscire non è affatto sicuro, con tutti gli Spaccati che potrebbero esserci in giro. Siamo veramente in pochi ad avere il permesso di andare fuori, ma nessuno di noi muore dalla voglia di farlo.»
Al solo sentire quella parola – Spaccati – nella sua mente si ripresentò il volto di sua madre, sciupato dalla sofferenza e deformato dalla follia. Lo scacciò via subito, prima che potesse farle male: non aveva intenzione di sentirsi di nuovo fragile, indifesa e terrorizzata. «Capisco», mormorò.
La rampa si stava abbassando sempre di più e il freddo iniziò a farsi sentire prepotentemente.
Rabbrividì, incassando la testa tra le spalle, e si avvicinò al bordo, che ormai si era aperto abbastanza da permetterle di osservare fuori senza piegarsi. Jack la lasciò fare, sicuramente certo del fatto che non avrebbe tentato la fuga.
La prima cosa che vide fu il bianco, il bianco della neve – nonostante la Berga ne avesse spazzata via un po’ da sotto di sé durante l’atterraggio, rivelando delle chiazze di terra scura. Poi vide il verde di una fitta foresta di aghi di pino, che terminava a qualche metro dall’innevato e spoglio terreno roccioso in cui erano atterrati.
Man mano che il portellone calava, la sua visuale aumentava sempre di più – seppur limitata dall’imponente presenza della Berga sopra di lei – ma dal punto in cui era non vide altro che la foresta sconfinata. Quindi si diresse velocemente dall’altra parte del portellone, sotto lo sguardo compiaciuto di Jack, che la guardava come un padre avrebbe guardato giocare i suoi figli al parco.
Dal bordo opposto vide l’azzurro dell’oceano in cui sembrava tuffarsi un’immensa scarpata. Sull’orlo di quest’ultima c’era un edificio bianco ed imponente, con pochissime finestre. Il cuore sembrava essere una possente torre e attorno ad esso si sviluppavano tante altre strutture più piccole, in un modo che le ricordò vagamente un castello medioevale. Dal punto in cui si trovavano, un sentiero stretto si faceva strada tra le rocce fino al complesso.
Qualcosa le diceva che avrebbe dovuto trovare quel luogo inquietante, ma non riuscì a trattenersi dal rimanere a bocca aperta per lo stupore: era un posto che faceva un certo effetto e non poteva sicuramente lasciare indifferenti.
Notò che Jack l’aveva raggiunta e si era messo al suo fianco e si voltò a guardarlo. Non gli chiese nulla, aspettando che fosse lui a parlare.
Lui le sorrise. «Benvenuta in Alaska, Johanna.»
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Capitolo 4
*** 3. ***


3.
 
Scesero non appena il portellone toccò terra.
Il rumore sferragliante era cessato e si poteva sentire il rumore delle onde che si infrangevano sulle rocce.
Jack fece un breve cenno d’intesa a Fred, poi si rivolse a lei. «Muoviamoci, è una bella scarpinata fino a laggiù», e si avviarono rapidamente verso l’edificio. Quando furono a distanza di sicurezza la Berga decollò di nuovo e in pochi secondi sparì dietro la struttura, diretta verso l’hangar.
Jack la precedeva di qualche passo lanciandole ogni tanto qualche occhiata per assicurarsi che fosse in grado di cavarsela da sola, ma senza preoccuparsi di tenerla per mano per portarsela dietro. Si vedeva da lontano che era tranquillissimo e con ragione: se anche fosse riuscita a scappare, non avrebbe avuto alcun posto da raggiungere. Ormai c’erano un continente ed un oceano tra lei e casa sua.
Il sentiero non era propriamente agevole, ma non creò loro grossi problemi: Jack doveva averlo percorso mille volte e lei – grazie alle sue scampagnate – era avvezza a strade ben più impervie, quindi gli tenne dietro senza difficoltà.
Il freddo però era pungente e dovette alzarsi il bavero del cappotto e mettere le mani dentro le tasche per evitare di perdere del tutto la sensibilità alle dita e al naso.
Per un po’ non si udì altro che lo scrosciare delle onde unito al rumore dei loro passi e dei loro respiri, ma poi Jack prese di nuovo la parola. «Il posto in cui stiamo andando», iniziò, con il respiro lievemente affannato, «è la sede della C.A.T.T.I.V.O.».
«Un nome rassicurante», commentò lei con un leggero tono ironico e stando bene attenta a dove metteva i piedi.
Lo sentì contenere una risatina. «Si tratta di un acronimo, sta per “Catastrofe Attiva Totalmente, Test Indicizzanti Violenza Ospiti”.»
Lei rimuginò un attimo su quel nome, senza smettere di fare attenzione alla strada. «Non è che così migliori di molto.»
Questa volta Jack ridacchiò senza trattenersi. «Beh in effetti hai ragione, non vorrei che chi ha inventato questo nome si ritrovasse a decidere come si dovrebbero chiamare i miei figli.» Fece una pausa, come se si aspettasse di sentirla ridere, ma lei rimase zitta. «Comunque», riprese, «nonostante il nome, noi siamo – concedimi il gioco di parole – i buoni: cerchiamo di salvare l’umanità dall’Eruzione. E tu ci aiuterai in questo compito.» Aveva calcato l’ultima frase con una particolare enfasi. Evidentemente si aspettava un successo certo da qualsiasi cosa avessero intenzione di fare con lei.
O di lei.
«“Test Indicizzanti”, eh? Quindi mi sottoporrete a degli esperimenti o qualcosa del genere?», gli chiese, scavalcando una roccia.
«Sì, potremmo metterla così», fece lui, evasivo.
«E “Violenza” per cosa sta?»
«Non è quel tipo di violenza, puoi stare tranquilla: non ti sarà fatto nulla di male», le rispose con un tono a metà tra il divertito e il rassicurante.
Le stava facendo sempre più rabbia, ma si impose di restare calma. «Non mi hai risposto», gli fece presente cercando di non sembrare accusatoria.
Jack ridacchiò – di nuovo –. «Vorrei farlo, ma non è mia competenza dirti certe cose. In verità ti starei spiegando anche troppo.»
Se per “troppo” intendi informazioni date col contagocce o particolari inutili…
«Ho capito», mormorò, ma decise di provare a chiedergli qualcos’altro. «“Ospiti” significa che non ci sarò solo io in questo…», rimase in silenzio per qualche attimo per cercare la parola adatta, «… progetto, giusto?».
«Esatto», confermò lui. «Sei svelta a lavorare di deduzione, a dispetto della tua età», aggiunse serio, con una certa ammirazione.
«Non direi», disse lei, osservando le nuvolette di condensa che si formavano dalle sue labbra. «Lo dice la parola: “Ospiti” non “Ospite”. I lavori di deduzione sono ben altri.»
«Ti assicuro che in pochi dei tuoi… chiamiamoli compagni erano abbastanza lucidi da fare domande o trovare indizi in modo così immediato. Ci è voluto un po’ perché si adattassero e riuscissero a non lasciare che la paura condizionasse la loro intelligenza. Tu invece sembri avere una freddezza quasi inumana.»
«Lo prenderò come un complimento.»
«Lo è», e con quelle due parole terminò la loro breve conversazione.
Proseguirono in silenzio e dopo circa dieci minuti il sentiero cedette il passo ad un marciapiede ghiacciato che faceva il giro dell’edificio. Attorno alle mura erano stati piantati diversi fiori e piante per creare delle piccole aiuole, ma non erano riusciti a resistere al freddo.
La pesante porta in vetro, così come le strette finestre che aveva visto da lontano, era tinta di nero, rendendo impossibile vedere cosa ci fosse all’interno.
Jack bussò e lei sentì un lungo brivido correrle lungo la schiena. Stava per entrare nella sua prigione e si chiese se ne sarebbe mai uscita. Vide la sua sagoma nel riflesso della porta: uno scricciolino infagottato in un cappotto di una taglia o due più grande.
E si accorse di essere piccola. Troppo piccola, nonostante cercasse di non comportarsi come tale.
Piccola. Troppo piccola per tutto questo.
Scattarono diverse serrature e la porta venne aperta, facendo sparire il suo riflesso e rendendole più facile dominare le sue paure.
Sulla soglia apparve un uomo vestito di bianco dalla testa ai piedi dall’espressione infastidita. Era molto magro, con il naso lungo e gli occhietti piccoli e vispi. Le ricordò subito un ratto. «Qualcuno qui ha fatto una gita, eh?», esordì con una voce nasale che sembrava più uno squittio. «Vado all’hangar e cosa mi sento dire? “Jack voleva far vedere il panorama alla bambina, arriveranno a piedi”! Avete idea di quanto tempo ci state facendo perdere?»
Jack assunse un’aria colpevole. «Scusi signor Janson», disse, con un tono che però non sembrava affatto dispiaciuto.
Janson lo anticipò prima che potesse aggiungere altro, «Da qui in poi me ne occupo io, non sprechiamo altro tempo», poi si rivolse a lei, con un tono decisamente più cordiale. «Andiamo, la signorina McVoy ti sta aspettando.» Si spostò per farla entrare.
Le vennero in mente mille reazioni. Dire di no, urlare, scappare, piangere… ma non ne fece nessuna. Mosse un passo, poi un altro, mantenendo fieramente la testa alta.
E Johanna entrò alla C.A.T.T.I.V.O.
Una volta chiusa la porta, Janson le fece togliere il cappotto – mollandolo a Jack – la prese gentilmente per mano e si addentrò nell’edificio, portandosela dietro.
Jack non li seguì, dirigendosi – tanto per cambiare sorridendo – da tutt’altra parte.
Attraversarono l’ampio atrio che fungeva da ingresso e camminarono a lungo passando per mille stanze e corridoi.
L’uomo camminava molto velocemente, costringendo anche lei a tenere un’andatura spedita per stargli dietro.
Raggiunsero una porta chiusa con ai lati due uomini in giacca e cravatta che sembravano fare la guardia. «La ragazzina deve parlare con la signorina McVoy», annunciò Janson.
Uno dei due annuì e fece un cenno di assenso. «Può entrare.»
Janson le lasciò la mano. «Ti lascio a lei, vedi di comportarti bene», si raccomandò e lei ebbe la sensazione di essere una sorta di pacco postale. In quante altre mani sarebbe dovuta passare ancora?
Annuì e prese un bel respiro d’incoraggiamento. Non c’era né un pomello né una maniglia e per un attimo rimase spiazzata, ma una delle “guardie” premette la mano contro un pannello attaccato alla parete. La porta si aprì con un clic e si richiuse alle sue spalle non appena la ebbe oltrepassata.
Si ritrovò in un ufficio arredato in modo molto spartano. Dietro la scrivania infondo alla stanza sedeva una donna vestita anche lei di bianco, con dei corti capelli scuri, impegnata a sistemare fogli e a scrivere su altri. Quando la sentì entrare però interruppe il suo lavoro e alzò la testa. «Accomodati», le disse, indicando una sedia di fronte alla sua.
Fece come le aveva detto e rimase in silenzio, aspettando che le parlasse di nuovo. Ma per tutto il tempo la guardò dritta negli occhi per farle capire che non era la soggezione a farla tacere.
«Mi chiamo Katie McVoy», esordì la donna. «Qual è il tuo nome?»
«Johanna.»
«Bene, Johanna, sai perché sei qui?»
«Sì, ma speravo che lei potesse darmi informazioni più precise al riguardo», rispose, accompagnando l’impertinenza di quelle parole con lo sguardo più innocente che riuscì a fare.
La signorina McVoy assottigliò gli occhi. «Mi sembra di capire che sei un bel tipino. Bene: la cosa potrebbe giocare a nostro favore.» Mise i gomiti sulla scrivania e posò il mento sulle mani intrecciate. «Cosa ti è stato detto finora?»
«Non molto, in realtà. So che sono qui per aiutare voi della C.A.T.T.I.V.O. a trovare una cura al virus dell’Eruzione tramite dei test. E so che ci sono altri ragazzi con lo stesso compito.»
La donna annuì. «Sì, è così», confermò. «Ma sai perché abbiamo scelto proprio voi?»
Scosse la testa.
«Stiamo scandagliando tutto il pianeta e vi stiamo radunando qui perché avete l’Eruzione, ma non manifestate alcun sintomo. La malattia è radicata nel vostro cervello, eppure voi non ne soffrite.» Fece una pausa, come per lasciare che ogni parola facesse il suo effetto.
Lei si rese conto di pendere letteralmente dalle sue labbra, ritrovandosi quasi sull’orlo della sedia.
Le si era gelato il sangue alle parole “avete l’Eruzione” e attendeva solo un’altra parola per capire se anche lei sarebbe uscita di testa come i suoi genitori.
«Siete immuni», disse la donna infine e lei sentì il suo stomaco rilassarsi e il battito tornare regolare.
Ci fu un’altra pausa in cui la signorina McVoy la osservò attentamente, poi riprese, «Ma non è l’unico motivo: vi abbiamo scelti anche per la vostra intelligenza fuori dal comune, altrimenti non avremmo potuto nemmeno pensare di combinare qualcosa». Si raddrizzò, posando le mani sul tavolo. «Ci saranno due gruppi, il Gruppo A – composto da ragazzi – e il Gruppo B – composto da ragazze –, che parallelamente verranno sottoposti a delle prove chiamate Variabili. Mi segui fin qui?».
«Sì», mormorò lei, attenta come non mai.
«Bene. Secondo le nostre previsioni, queste Variabili si protrarranno per un paio di anni circa e durante questo periodo la zona della violenza – il cervello, ovvero il punto in cui l’Eruzione attacca l’individuo – di ciascuno di voi verrà analizzata attentamente.» Si interruppe di nuovo, per sincerarsi che la sua ascoltatrice non avesse perduto il segno. Appena ebbe la conferma riprese, «Alla fine lavoreremo assieme a voi sugli schemi ottenuti per arrivare a creare una cianografia che ci permetterà di trovare una cura». Finì di parlare e calò il silenzio.
Lei la guardò stupita, senza riuscire ad emettere alcun suono. Si era immaginata che quelle persone avessero dei grandi progetti, certo, ma quelle rivelazioni l'avevano colpita come uno schiaffo. Non le sarebbe mai venuta in mente una cosa del genere. Le ci volle un po’ per riprendersi e ritrovare la parola. «Ho capito», disse, annuendo.
«Ti è chiaro tutto?»
«Sì», rispose lei. «Quindi io sarò inserita nel Gruppo B, giusto?»
La donna fece uno strano sorriso. «No, tu sarai il soggetto 0 e sarai sottoposta a tutto un altro tipo di Variabili».
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Capitolo 5
*** 4. ***


4.
 
Cammina lentamente, come a voler allungare il percorso di ritorno il più possibile. È rimasta a lungo nel bosco e ha persino valutato di passarci la notte, ma poi si è resa conto che così facendo avrebbe solo rimandato l’irrimandabile. Deve tornare a casa e usare tutto il coraggio che ha per affrontare la situazione. Qualunque essa sia.
Le bruciano ancora gli occhi per il pianto e si sente debole, spossata. Distrutta.
Un leggero tremore si impadronisce di lei quando tra gli alberi inizia a intravedere casa sua. Vorrebbe voltarsi, scappare di nuovo e non tornarci più, ma si costringe a continuare ad avanzare.
La casa si fa sempre più vicina, ma regna un silenzio di tomba. Nessun rumore, nessuna voce. Nessun urlo. Non sa cosa voglia dire, ma per qualche ragione tutto quel silenzio non le piace. Anche quando si è affacciata in camera dei suoi genitori c’era un silenzio simile, ma ciò che vi è successo dopo non aveva nulla di normale.
Quando sale le scale del portico sente solo il leggero rumore prodotto dalle travi di legno sotto ogni suo passo. Ed è sempre più convinta che ci sia qualcosa che non va.
Apre la porta ed entra, cercando di fare il più piano possibile e muovendosi con una cautela ed una circospezione che non avrebbe mai immaginato di doversi ritrovare a usare nella sua stessa casa. Percorre l’ingresso e raggiunge la cucina.
Suo padre è seduto al tavolo e si passa stancamente una mano sugli occhi. Una mano piena di graffi e medicata in modo approssimativo. Ha le maniche lunghe, ma lei è pronta a scommettere che ha delle ferite anche sulle braccia.
Quella vista le risulta tanto insolita quanto straziante: non lo ha mai visto così abbattuto.
Passa qualche attimo prima che l’uomo alzi lo sguardo e la veda, ma non appena i suoi occhi – lucidi e arrossati – si posano su di lei abbozza un sorriso timido ed esausto. «Sei tornata presto oggi», mormora.
Non ne vuole parlare, è evidente, quindi lei decide di assecondarlo e di non infierire. «Sì», dice soltanto, entrando e andando a sedersi vicino a lui. Odia stare seduta senza far niente, ma se rimanesse in piedi un attimo di più le gambe le cederebbero definitivamente. Per la prima volta, ha bisogno di non fare assolutamente niente.
Lui la guarda e cerca di fare una faccia a metà tra il sorpreso e il divertito. «Chi sei? Cos’hai fatto di mia figlia?»
È una scena patetica – lei se ne rende conto fin troppo bene –, ma entrambi hanno bisogno di recitarla per non sentirsi crollare in tanti piccoli pezzi. «Devo solo riposarmi un po’», gli risponde.
Lui annuisce debolmente, massaggiandosi le tempie. Sembra sfinito e non solo fisicamente.
Di colpo però lo vede irrigidirsi, come se la stanchezza lo avesse abbandonato in un attimo. Fissa la porta alle sue spalle con un’espressione che lei non avrebbe mai creduto di poter vedere sul suo viso. È terrorizzato.
Lei si volta di scatto e la paura sembra azzannarla alla gola.
Sua madre è sulla soglia della cucina, una mano posata sullo stipite della porta come a volerne ricavare un sostegno per rimanere in piedi. È a piedi nudi, ha ancora la camicia da notte ed i capelli arruffati. Ma è il suo viso la cosa che la colpisce di più, in particolar modo i suoi occhi: sono spenti e pieni di lacrime. Non guarda né lei né suo padre, quasi avesse paura di farlo.
Per quello che sembra un lasso di tempo infinito regna il silenzio. Nessuno osa parlare o muoversi per non interrompere quella bizzarra e inquietante calma.
E c’è la paura. La paura che aleggia sulle loro teste simile ad una pressa in attesa di schiacciarli.
Si accorge di stare tremando visibilmente e di essersi saldamente aggrappata con entrambe le mani allo schienale della sedia. Le gambe sembrano non voler rispondere al comando del suo cervello di correre via dalla stanza. Quindi rimane lì, con il busto girato verso la porta a fissare sua madre. La donna che poche ore prima ha cercato di ucciderla.
Alla fine è proprio quest’ultima a rompere il silenzio e l’immobilità che sembra averli congelati tutti, trasformandoli in statue di ghiaccio. Solleva lo sguardo, fissandolo su di lei e facendola quasi sobbalzare per lo spavento.
«Mi… mi dispiace…», balbetta timidamente e in quelle poche e semplici parole c’è una sofferenza che la colpisce e la scuote fin dentro le ossa.
È scesa fino in cucina e le sta chiedendo scusa, sfidando il dolore evidente che la malattia le provoca. E nei suoi occhi non c’è più traccia di quella follia che chiamava a gran voce la sua morte. Davanti a lei adesso c’è sua madre. Solo sua madre.
Questa cosa per un attimo le riscalda il cuore, ma la pugnalata del terrore si ripresenta puntuale per affondarsi nella sua schiena.
E capisce che non riesce a non avere paura di sua madre.
«Io…», continua la donna, «… io non… prima non… volevo…», si interrompe, portandosi la mano libera alla fronte e strizzando per un attimo gli occhi. Sono gesti di una lentezza esasperante e lei li segue tutti scrupolosamente, tesa come una corda di violino.
«La mia… testa…», riprende sua madre e sembra che ogni parola le costi una fatica ed un dolore immensi, «… mi fa… male… la testa…». Si tocca di nuovo la fronte e si massaggia una tempia. «La mia… testa…», ripete, «… c’è… qualcosa… che non… va… nella mia… testa… testa… testa… io non… sto… bene… no…». Toglie la mano dallo stipite della porta e barcolla leggermente prima di riuscire a trovare un equilibrio. E si avvia con passo malfermo verso il tavolo. Avanza quasi più lentamente di come compia gli altri movimenti, le braccia tese in avanti per limitare i danni nel caso dovesse inciampare e cadere.
Finalmente riesce a mollare la presa dalla sedia, ma mantiene gli occhi fissi su sua madre, uscendo dalla sua torsione man mano che quest’ultima si avvicina al tavolo. Quando finalmente lo raggiunge vi posa sopra le mani per sostenersi, ma non si siede, nonostante sembri parecchio affaticata. Rimane invece nell’angolo tra lei e suo padre.
Anche l’uomo è rimasto letteralmente pietrificato e a corto di parole, ma è di nuovo sua madre a parlare. «Aaron…», gli si rivolge, senza staccare gli occhi dal tavolo. «… tu… tu lo sai… lo sai… che… che io… che oggi io… io non… volevo… Aaron lei è… lei è mia figlia…» Inizia a dondolarsi leggermente avanti e indietro, serrando le labbra e singhiozzando. «… è la mia bambina…», mormora con la voce di chi sta per scoppiare in lacrime.
Suo padre sembra riprendersi. «Lo so», le risponde soltanto e le posa cautamente la mano sulla sua.
Quel gesto sembra tranquillizzare la donna, che riesce a rimettersi ferma e persino ad abbozzare una piccolissima parvenza di sorriso.
Lei li osserva in silenzio, senza azzardarsi a fiatare o a muoversi. Però trema. Quello non riesce a impedirselo e può solo cercare di mascherarlo il più possibile.
Sua madre la guarda con gli occhi velati di tristezza nonostante il sorriso e, dopo qualche attimo di esitazione, solleva una mano verso il suo volto, ma poi la ritrae senza nemmeno sfiorarlo. Un’espressione colpevole le rabbuia di nuovo il viso.
Ha paura, ma le fa comunque male vederla così, quindi cerca di farsi forza e di pensare a qualcosa da dire per poterla confortare. Ci pensa per qualche attimo e arriva alla conclusione che se il semplice gesto di suo padre l’ha rassicurata, forse non c’è bisogno di qualcosa di grande o di particolarmente elaborato. Sorride, anche se forse con troppa poca convinzione, e apre bocca per dirle che le vuole bene e che è tutto apposto.
Poi accade tutto in un lampo.
Sua madre afferra il piccolo vaso in ceramica al centro del tavolo e lo sbatte dritto in faccia a suo padre con talmente tanta forza da farlo cadere all’indietro sul pavimento. L’uomo emette un terribile gemito di terrore, soffocato dalle mani che si è portato al volto pieno di sangue.
È tutto troppo veloce: lei non ha neanche il tempo di reagire o di spaventarsi che subito si sente agguantare alla gola da mani scarne e fredde. Mani che la sollevano come se non avesse il minimo peso e che si stringono attorno al suo collo come un cappio.
Annaspa disperatamente in cerca d’aria e finalmente capisce cosa sta succedendo.
No, non di nuovo, no!
Respirare è sempre più difficile ed è come se sui suoi occhi scendesse una patina di nebbia. Sente la schiena scontrarsi violentemente con una parete e l’impatto è così forte che altra aria se ne va dai suoi polmoni.
«La mia testa!», sente sua madre urlare, la voce carica di quella stessa furia di poche ore prima.
Le sue dita esplorano freneticamente la superficie dura e liscia, alla ricerca di qualsiasi cosa da poter usare come appiglio. Ma non c’è niente e se c’è qualcosa è al di fuori della sua portata.
«La mia testa!», grida ancora la donna, facendole martellare i timpani per il dolore. «La mia testa ha qualcosa che non va!».
Lasciami, lasciami stare!
«Ma la tua testa va bene! La tua testa non ha niente che non va! La tua testa è a posto! Quindi me la prenderò io!»
No, non voglio! Lasciami stare!
Abbandona la sua ricerca e tenta invece di allentare la presa ferrea che non le da tregua. Ma le ci vuole poco per realizzare che si tratta di una battaglia impari e questo non fa che accrescere smisuratamente il suo terrore.
Non voglio morire! Non voglio morire! Non voglio morire!
«Sì, sì, mi prenderò la tua bella testolina!», la voce di sua madre ora ha un tono enfatico, identico a quello di quando vaneggiava di gettarla giù dalla finestra. «Non è una splendida idea? Ma certo che lo è! Cosa ci può essere di meglio della testolina della mia bella bambina? Per me andrà sicuramente bene!»
Non voglio! Ti prego, no!
Artiglia le dita di sua madre con tutta la forza che ha. Graffia e sente pezzi di carne che vengono via mentre le sue unghie scavano la pelle, ma nemmeno quello sembra avere successo. Avverte le lacrime bagnarle le guance, mentre i suoi arti iniziano a risponderle sempre meno, rendendo ogni movimento più goffo e scoordinato.
«Starò bene! Guarirò!», e la risata che segue le ricorda in qualche modo l’urlo di una Banshee, la creatura che con il suo grido annuncia la morte.
È Aibhill… il suo lamento è per me…
Lei cerca ancora di lottare e di liberarsi, ma non riesce a resistere a lungo. Alla fine un leggero torpore pare diffondersi in tutto il suo corpo, assieme alla perdita di sensibilità che va piano piano aumentando. Persino i suoi sensi stanno smettendo di funzionare. I suoi occhi sono completamente appannati e tutto il rumore le giunge come ovattato. Le braccia le ricadono lungo i fianchi e le gambe smettono di dimenarsi. Non sente nemmeno più il dolore.
Sta per morire. O forse sta già morendo.
Non vuole, non è giusto. Non adesso, non in questo modo.
Ma non puoi vivere dopo aver sentito una Banshee disperarsi.
Tutto attorno a lei sembra dissolversi e il buio arriva ad avvolgerla. Sono pochi istanti, ma le sembrano infiniti. Prima di perdere del tutto conoscenza un pensiero si fa strada nella sua mente e rimpiange di non poterlo esprimere a voce.
Mamma, ti voglio bene.
E il buio la risucchia nel suo abisso.
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Capitolo 6
*** 5. ***


Ehm… ammetto che sono una frana in queste cose, ma ci tenevo a ringraziare tantissimo chi segue questa storia, quindi GRAZIE MILLE DAVVERO! *inchino* Non avete la minima idea di quanto mi state rendendo felice!
E volevo anche scusarmi con una certa Elliot per averle *coff coff* fregato *coff coff* il cognome… dite che sopravviverò?
Alla prossima e grazie ancora! :)

 
5.
 
Mamma ti voglio bene.
Il buio la lasciò andare e lei si ritrovò distesa sul letto, il braccio destro posato sul viso a schermare gli occhi. I ricordi sembrarono aleggiare ancora per qualche istante dietro le palpebre chiuse, approfittando della sua mente intorpidita dal sonno, ma lei li fece svanire subito dopo, quando fu abbastanza sveglia da capire che se non li avesse fermati le avrebbero fatto del male. E insieme a quelli scacciò via pure le lacrime.
Non fu facile togliersi di dosso il dolore e la paura che si erano ripresentati in maniera così vivida – troppo vivida – a dispetto del tempo trascorso. Morfeo le stava di nuovo mostrando il suo passato.
E non mi lascerà libera finché non avrà finito.
Ma, nonostante il turbamento, quella mattina il presente non la colse impreparata e non la fece sentire persa: sapeva esattamente dove si trovava e anche dove, con tutta probabilità, non sarebbe mai più tornata. Così quando spostò il braccio dal viso e aprì gli occhi aveva già la sua maschera indosso.
Era buio pesto, ma almeno quella situazione era possibile cambiarla accendendo la luce. Si tirò a sedere e premette il piccolo interruttore vicino al letto.
In un attimo le tenebre divennero una piccola camera da letto in cui regnava un bianco immacolato. Le pareti erano bianche. Le lenzuola e le coperte erano bianche. L’armadietto in un angolo – l’unica altra cosa presente in stanza oltre al letto – era bianco. Persino il legno del pavimento e delle porte era della tonalità più chiara possibile. E la lampadina gettava una luce fredda e asettica su tutto quel bianco, dando l’impressione di trovarsi in una stanza d’ospedale.
Ma almeno in ospedale ci sono le finestre.
In quella stanza non ce n’era nemmeno una. L’intero edificio ne aveva pochissime e tutte incredibilmente spesse in modo da proteggere le persone che ospitava dagli eventuali assalti degli infetti che stavano all’esterno.
Il piccolo orologio digitale a muro segnava le sei del mattino.
I due anni passati con zia Maggie mi hanno fatta diventare un’allodola…
Si stiracchiò e scostò le coperte. Anche il pigiama che le era stato dato era – ovviamente – bianco. Si alzò, rabbrividendo al contatto dei suoi piedi nudi con il pavimento, e rifece velocemente il letto. Non c’erano molte pieghe: per via del freddo non si era quasi mai mossa durante la notte.
Le mura e le finestre erano massicce e resistenti, ma le dita gelide dell’Alaska sembravano trovare sempre il modo di oltrepassarle e di indebolire il calore artificiale che cercava di diffondersi nella struttura.
Una volta finito, si diresse verso l’armadietto e prese la sua divisa: una maglia a maniche lunghe e dei pantaloni. Rigorosamente bianchi anche quelli. Come anche le scarpe.
Il bianco sembrava essere il simbolo della C.A.T.T.I.V.O. Era come un tentativo ribadire, tramite l’uso del più candido dei colori, il ruolo dell’organizzazione, almeno secondo i suoi membri.
Si avviò nel bagno annesso alla stanza, si tolse il pigiama e si infilò sotto la doccia. Mentre l’acqua calda le scorreva sulla pelle, togliendole temporaneamente di dosso il gelo di quel luogo, le tornò in mente una cosa che le aveva detto la signorina McVoy.
“La C.A.T.T.I.V.O. è buona.”
Era attivata solo il giorno prima in quello che aveva scoperto essere non una semplice sede, bensì il Quartier Generale dell’organizzazione, e aveva già sentito quella frase almeno una ventina di volte, metà delle quali soltanto durante il suo colloquio con la donna, partito come una spiegazione del ruolo che lei avrebbe avuto e terminato come un’appassionata arringa sulle buone intenzioni della C.A.T.T.I.V.O.
Anche tutte le altre persone che per il resto della giornata l’avevano sottoposta ad una miriade di analisi per “accertarsi di persona che fosse immune”, le avevano ripetuto all’infinito quel ritornello.
Forse dovevano essersi resi conto che andare in giro per il mondo a prelevare bambini dalle loro case per utilizzarli come cavie – o collaboratori, come preferivano chiamarli – non suonava esattamente come la cosa più integerrima del mondo.
Uscì dalla doccia e si asciugò cercando di metterci meno tempo possibile. Circa dieci minuti dopo rientrò nella sua stanza con indosso i suoi nuovi vestiti e i capelli pettinati anche se ancora leggermente umidi.
Sistemò il pigiama nell’armadietto e nel farlo le cadde l’occhio sullo specchio a figura intera all’interno dell’anta. In bagno aveva evitato accuratamente di specchiarsi, però adesso il suo riflesso la stava fissando dall’altra parte di quella lamina sottile e, per qualche strana ragione, le fu impossibile distogliere lo sguardo.
Vide uno stecchetto con la pelle bianca quasi quanto gli abiti che indossava, su cui spiccavano dei lisci capelli rossi che scendevano fino a metà schiena.
Quella vista le fece esattamente l’effetto che aveva immaginato, scatenando in lei un senso di pena e assieme di disgusto. Quella bambina non era lei. Quella bambina era Johanna Reid – le avevano dato pure un nuovo cognome –, cavia della C.A.T.T.I.V.O.
Richiuse l’armadietto e si sedette sul letto ad aspettare. Perché sicuramente c’era qualcosa da aspettare. Infatti alle sette in punto qualcuno bussò alla porta, interrompendo il religioso silenzio calato nella stanza. Erano dei colpetti molto leggeri, come se chi stava bussando avesse paura di poter svegliare qualcuno.
Andò ad aprire, ma restò interdetta quando non vide nessuno. Non con lo sguardo sollevato ad altezza adulto, almeno. Ma c’era comunque una persona ai margini del suo campo visivo.
«Più in basso», suggerì una voce, con un tono piuttosto divertito.
Lei seguì il suggerimento e si trovò di fronte una bambina che doveva avere più o meno la sua età, vestita esattamente come lei. Era talmente tanto graziosa da sembrare una bambola di porcellana, con lunghi capelli neri e degli occhi di un azzurro incredibilmente intenso.
La guardò in silenzio per qualche secondo, lievemente disorientata per aver incontrato una sua coetanea. Sapeva che c’erano altri bambini, ma il ritrovarsene una davanti quando fino a quel momento aveva avuto contatti solo con adulti le fece comunque uno strano effetto.
«Ti serve qualcosa?», le domandò cordialmente, riuscendo a riprendersi da quella sorpresa.
«Ero curiosa di conoscere la nuova arrivata, mi hanno detto che sei una tipa in gamba», rispose la bambina senza tanti giri di parole. Le tese la mano. «Mi chiamo Teresa. Teresa Agnes.»
Lei la strinse, «Johanna Reid».
«Ti porto a conoscere gli altri, sono a fare colazione», le annunciò Teresa senza perdere tempo.
Lei annuì, spegnendo la luce e chiudendosi la porta alle spalle. Lanciò una veloce occhiata alla targhetta che vi era affissa sopra.

JOHANNA REID. GRUPPO A, SOGGETTO A0. L’OSSERVATRICE
 
Lei e Teresa si incamminarono fianco a fianco per i corridoi della struttura. Il silenzio non durò che per pochi secondi. «Posso farti una domanda?», le chiese.
«Dimmi.»
«Sei qui da parecchio tempo?»
Sul volto di Teresa apparve un’espressione leggermente stupita, come se non si aspettasse una domanda come quella, ma sparì subito. «Me lo stai chiedendo o vuoi una specie di conferma?»
«Beh, mi sembra che tu sappia muoverti in questo posto… e sei venuta a prendermi da sola, segno che probabilmente hai una certa libertà di movimento, cosa che non credo si possa avere essendo qui da poco… quindi opterei per la conferma.» Quando finì di parlare si accorse che Teresa sembrava piuttosto impressionata da quella risposta.
Non fece in tempo a chiedersi se avesse detto qualcosa di sbagliato che l’altra sfoderò un sorriso compiaciuto. «Che osservatrice, sembra che ti abbiano assegnato proprio il ruolo giusto», commentò e subito dopo aggiunse, «Sono qui da quattro anni».
Non riuscì a trattenere il suo stupore. «Quattro anni?» Com’era possibile riuscire a passare quattro anni in un posto come quello?
Sempre che Teresa, o qualunque fosse il suo vero nome, le stesse dicendo la verità. Ma che vantaggi avrebbe avuto a mentire su una cosa del genere?
Beh, in un posto in cui ti cambiano il nome e ti usano come cavia non si può mai sapere.
«Esatto, quattro anni», confermò Teresa tranquillamente. «Ma meglio essere al sicuro qui dentro che circondata da Spaccati la fuori, non credi?»
Quella parola – Spaccati – le arrivò come una stilettata, portando con sé il viso di sua madre.
Smettila, idiota! Non puoi fare l’animale ferito ogni volta che hai a che fare con il passato!
Riuscì a controllarsi a stento, costringendosi a non lasciar trasparire nulla e stringendo le nocche fino a farle diventare bianche. «Direi di sì», rispose, stando attenta a non far tremare la voce.
Ma Teresa, con quelle fiamme azzurre che aveva negli occhi, doveva essersi accorta di qualcosa. «Ho toccato un tasto dolente?», le chiese dopo aver lasciato passare qualche attimo.
Cercò di usare un tono il più leggero possibile, come se l’argomento non la toccasse minimamente. «No, va tutto bene.»
Teresa però sembrava non voler mollare. «Hai avuto a che fare di persona con degli infetti?»
Anche troppo di persona.
«Non più di tanta altra gente, presumo.»
«Ti dà fastidio parlarne?», le domandò Teresa e le sembrò che stesse cercando di metterci più tatto possibile.
Si fermarono entrambe e lei la guardò negli occhi. Quell’azzurro ardente le fece quasi paura. Poteva fidarsi di quella bambina? La conosceva solo da pochi – pochissimi – minuti e non sapeva praticamente nulla su di lei. Però era come se ci fosse qualcosa nel suo sguardo che non le era nuovo. Per niente, anche se non riusciva a capire di cosa si trattasse.
Quindi la osservò attentamente, cercando al contempo di ricordare dove e quando potesse aver visto quel qualcosa. La risposta che le si presentò fu tanto semplice quanto scioccante: in ogni suo riflesso da circa due anni a quella parte, anche in quello di poco prima, quando aveva aperto l’armadietto.
Quello era lo sguardo di chi aveva già visto la follia e la morte. Di chi non scavava volentieri nei suoi ricordi. Di chi si era ritrovato a dover crescere troppo in fretta. Ma anche di chi, nonostante tutto questo, cercava di essere forte e andare avanti.
Capì che Teresa era come lei. E che di sguardi così ne avrebbe visti molti altri.
Annuì silenziosamente, poi le chiese, «È capitato anche a te, vero?».
Negli occhi di Teresa passò per un attimo un lampo di qualcosa che sembrava malinconia, ma poi le sorrise. «Non c’è che dire, sei davvero un’osservatrice e sei anche una dei pochi che appena arrivata qui non ha pianto fino allo sfinimento… mi sembri una tosta», le disse e le diede un colpetto sulla spalla. «Amiche?»
Sorrise anche lei e si accorse che era da un po’ che non lo faceva. «Amiche.»
Ripresero a camminare e l’atmosfera sembrava decisamente alleggerita. Poco dopo raggiunsero una porta chiusa. «Questa è la mensa», annunciò Teresa, mentre la apriva.
«Come si mangia qui?»
«Piuttosto bene e sono anche abbastanza sicura che non mettano alcun veleno nel cibo.»
La stanza aveva una pianta circolare ed era enorme e ben illuminata, con lunghe file di tavoli e sedie disposti in maniera ordinata e meticolosa.
Restò a bocca aperta: c’erano almeno un centinaio di bambini. Maschi e femmine di diverse età e di tutte le etnie. Tutti vestiti di bianco.
Ma non fece in tempo a fare nemmeno un passo che qualcuno la urtò. Fu come un impatto con un ariete e finì lunga distesa per terra. Calò un silenzio di tomba e sentì Teresa che urlava furibonda, «Minho! Tu e la tua maledetta grazia da elefante!».
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Capitolo 7
*** 6. ***


6.
 
«Cavolo, è appena arrivata e già la vuoi fare fuori?!», fece Teresa, portando avanti il suo rimbrotto, poi si chinò su di lei. «Tutto a posto?», le chiese e subito la affiancarono altri due bambini: un ragazzino dai tratti orientali e un altro con i capelli castano rossicci.
Era un po’ indolenzita, sia per via dell’urto che per aver preso in pieno il pavimento senza la possibilità di ammortizzare il colpo usando le mani, ma tutto sommato stava bene. «Direi di sì», le rispose, puntellandosi sui gomiti per sollevare il busto. «Sono intera.»
Si guardò attorno: avendo visto che non era successo nulla di che, tutti avevano ricominciato a chiacchierare e a mangiare tranquillamente, anche se ogni tanto qualcuno le lanciava un’occhiata.
Teresa le diede una mano a rimettersi in piedi. «Sicura? Minho ti ha fatto fare un bel volo», ribatté, scoccando un’occhiataccia al ragazzino asiatico.
Minho – che appariva po’ affannato, come se avesse corso – rispose con una smorfia allo sguardo di Teresa, poi spostò gli occhi su di lei. Sembrava leggermente in imbarazzo. «Non ti avevo proprio vista», si giustificò.
«Tranquillo, è tutto ok.»
Lui le sorrise e le mostrò il pollice alzato. «Bene così. Io sono Minho, anche se qualcuno», e si interruppe per restituire l’occhiataccia a Teresa, «… mi ha già presentato».
Teresa gli fece la linguaccia. «La tua immensa leggiadria ci ha pensato prima di me», borbottò in risposta.
Avvertì uno strano brivido lungo la schiena. Ed era quel battibecco la causa: era così normale… Talmente tanto normale che non se lo sarebbe mai aspettato in un luogo come quello. L’unica volta in cui aveva provato ad immaginarsi come sarebbero stati i suoi compagni la sua mente li aveva elaborati come tanti piccoli manichini con la testa bassa e gli occhi vuoti. Questi invece chiacchieravano, scherzavano, si punzecchiavano… non c’era niente in loro che potesse ricordare dei manichini. Erano normali. E la cosa le piaceva.
Si riprese in fretta dalla sorpresa e strinse la mano che Minho le tendeva. «Johanna.»
Lui le strizzò l’occhio. «Dì la verità: sei rimasta spiazzata perché sono bellissimo, vero?», le chiese, e non sembrava che stesse scherzando. Teresa alzò gli occhi al cielo a quella uscita.
Si lasciò sfuggire una risatina. «Sì, confesso che buttandomi giù come un castello di carte mi hai proprio rubato il cuore», replicò divertita.
«È l’unico modo in cui questo qui riuscirebbe a stendere una femmina», intervenne ridacchiando il bambino con i capelli castano rossicci, rimasto in silenzio fino a quel momento. «Piuttosto Minho…», riprese, rivolto all’asiatico, «… tu non avevi una scommessa in corso?».
Il cambiamento di faccia di quest’ultimo fu uno spettacolo impagabile e il suo sorriso spavaldo venne rimpiazzato da un’espressione che sarebbe stato un eufemismo definire sconvolta. «Nooo!», esclamò e scattò, mettendosi a correre come un pazzo.
Ma che diamine…?!
Si scansò prontamente per non farsi prendere in pieno di nuovo e lo fissò con gli occhi sgranati mentre si allontanava a tutta velocità. Guardò l’altro ragazzino con aria interrogativa, mentre Teresa se la rideva.
«Ha scommesso che sarebbe riuscito a fare il giro della stanza in trenta secondi», le spiegò lui, intuendo la sua domanda.
«Oh…»
«Io comunque sono Thomas, piacere», proseguì lui, tendendole la mano.
Lei la strinse. «Johanna, piacere mio.» Un attimo dopo il suo stomaco brontolò rumorosamente.
«Forse è meglio andare a mangiare prima che tu finisca a terra di nuovo e non per colpa di quel tornado di Minho», intervenne Teresa.
Sorrise, seguendo gli altri due. «Sì, hai ragione, ieri mi hanno rifilato solo due panini in tutta la giornata, credevo che volessero farmi fare la fame.»
«Sì, il primo giorno è sempre così: un colloquio e poi accertamenti su accertamenti per essere sicuri di avere per le mani dei veri Muni… insomma, degli immuni», replicò Thomas. «Ma poi migliora, sia il cibo che il resto. Dopo un po’ ti lasceranno anche andare in giro per la struttura da sola, prima che inizino le Prove, ovviamente.»
Il che potrebbe significare esplorare e forse capire qualcosa di più…
Quel pensiero le fece venire in mente una domanda sciocca, ma decise di porla ugualmente. «Le porzioni qui sono abbondanti?» Una volta ottenuta la libertà di movimento, forse il sottrarre un po’ di tempo alla durata dei pasti le sarebbe potuto tornare utile…
Com’era prevedibile si beccò una duplice occhiata un po’ sorpresa da parte delle sue “guide”.
«È che non mi piace molto stare seduta a tavola», spiegò.
«Beh… loro ci danno il cibo e noi ci riempiamo il piatto, quindi dipende da te», rispose Thomas con un’alzata di spalle. Parlò di nuovo solo quando raggiunsero un tavolo con alcuni posti liberi. «Siamo qui, vi avevo preso il posto prima.» Lui e Teresa si sedettero accanto e quest’ultima le indicò il posto libero di fronte a lei.
Si trovò tra un ragazzino con un casco di arruffati riccioli scuri – che però non sembrò affatto accorgersi che qualcuno si stesse sedendo accanto a lui, rapito com’era dal suo pasto – e una bambina di forse quattro o cinque anni dai lunghi boccoli color miele – unica altra presenza femminile a quella tavolata oltre a lei e Teresa – che le dava le spalle e sembrava star facendo decisamente dannare un biondino dalla corporatura smilza e nervosa.
«Non lo voglio mangiare!», si lamentò la bambina e lei colse subito uno spiccato accento inglese nella sua voce.
Il ragazzino – con ogni probabilità suo fratello – teneva in mano una forchetta e aveva un’aria disperata. «Per favore, Lizzie, non puoi fare la fame.»
«Mangialo tu!», ribatté la bambina con decisione. «Io mangerò quando torneremo a casa!», e si girò dall’altra parte, ritrovandosi faccia a faccia con lei. Nel vederla il broncio sul suo viso lasciò il posto alla sorpresa: evidentemente non doveva essersi accorta che il posto accanto al suo era stato occupato.
Anche il ragazzino biondo sembrò notarla solo in quel momento, ma non parve prendersela per il fatto che lei li stesse guardando. Emise invece un sospiro di rassegnazione, come a voler dire “Mi arrendo”, e posò la forchetta. «Lizzie, non ci torniamo a casa. Non adesso, almeno.»
Sì, è decisamente suo fratello.
Anche lui aveva un accento inglese e la bambina era praticamente la sua fotocopia – solo femminile, più piccola e con gli occhi verdi –.
La bimba lo ignorò bellamente e si rivolse a lei. «Tu sei la nuova arrivata?»
Stava per rispondere, ma qualcun altro lo fece per lei. «Ci puoi giurare che è la nuova arrivata», disse Minho. Aveva il fiato grosso e si lasciò cadere sulla sedia vuota accanto a Thomas, che, assieme a Teresa, non riuscì a trattenere una risatina.
Dopo qualche attimo di assoluta immobilità, Minho puntò l’indice contro il biondino. «Hai vinto solo perché l’ho presa in pieno», lo accusò, ma con la poca voce che aveva non suonò per niente intimidatorio.
Il bambino non nascose neanche un po’ la sua soddisfazione. «Intanto ho vinto», rispose, con un amabile sorriso a trentadue denti, e si voltò verso di lei, evidentemente rallegrato dalla vittoria. «Ma grazie di averlo… fermato.»
Si ritrovò ad arrossire senza capire bene il perché e scoprì di essere a corto di parole, ma Minho le giunse inconsapevolmente in soccorso. «Anche lei ha un accento strano, simile a quello tuo e di Lizzie, penso sia delle vostre zone», disse, con il respiro leggermente meno affannato, un attimo prima di buttarsi sul contenuto del suo piatto come una bestia famelica.
Dentro di sé lo ringraziò infinite volte di averle fatto guadagnare quei pochi ma preziosi secondi per riuscire a dominare quella strana sensazione di imbarazzo.
A sentire quelle parole anche Lizzie tornò di buon umore. «Sei inglese anche tu? Come ti chiami?»
Lei le sorrise. «Sono irlandese, in realtà», fece una breve pausa, preparandosi a dire la frase che tanto odiava. «E mi chiamo Johanna.»
«Io mi chiamo Al-», si fermò e sembrò che qualcuno le avesse appena tirato una secchiata d’acqua gelida in faccia. «Elizabeth», si voltò a guardare il ragazzino biondo, come a cercare la sua approvazione. «Sì, mi chiamo Elizabeth», ripeté, anche se il tono era quello di una domanda.
Quella vista la intenerì e la indignò al contempo: la C.A.T.T.I.V.O. non si faceva scrupoli ad usare anche dei bambini così piccoli per i suoi scopi. E quello sciocco motto – “La C.A.T.T.IV.O. è buona” – suonava sempre più falso alle sue orecchie.
Il bambino annuì e quel semplice gesto bastò per rassicurare Lizzie, che si rivolse di nuovo a lei e riprese a parlare allegramente. «E questo è mio fratello Newton», lo presentò, indicando dietro di sé con il pollice.
Lei non riuscì a trattenersi dal ripeterlo con una leggera sorpresa nella voce, «Newton?». L’unica cosa che le avevano spiegato sulla faccenda dei nuovi nomi è che erano tutti “ispirati” a quelli di persone importanti, soprattutto scienziati o – come nel suo caso – personaggi di una certa rilevanza culturale e politica, ma quel nome – Newton – le sembrava un po’ insolito anche partendo da una premessa del genere.
Al ragazzino quel nome non sembrava andare molto a genio perché annuì timidamente. «Sì, Newton…»
Quella strana sensazione si ripresentò di nuovo ad aggrovigliarle lo stomaco e le parole le uscirono di bocca prima che potesse fermarle. «Beh, mi piace: sarà particolare, ma è anche un nome molto importante. Io sarei fiera di chiamarmi così.»
Zitta zitta zitta, cos’è questa sviolinata solo per un nome che, tra l’altro, è pure falso?!
Si aspettava un’occhiata strana – tipo quelle che si rivolgerebbero ad un marziano appena atterrato nel proprio giardino di casa – o una risatina di scherno, ma Newton non fece nulla del genere. Le sorrise con un misto di imbarazzo e riconoscenza dipinto sul volto e la ringraziò.
Come lo fece il suo stomaco tornò ad aggrovigliarsi e si sentì andare a fuoco le orecchie.
«Mi racconti qualcosa sull’Irlanda?», intervenne Lizzie, traendola in salvo da quell’impaccio come poco prima aveva fatto Minho.
Sì, qualcosa sull’Irlanda, sì. Era una buona idea, almeno concentrandosi non avrebbe lasciato spazio a quell’insolita sensazione. Acconsentì e si servì una porzione di bacon e uova strapazzate.
«Cosa mi racconti?», le domandò Lizzie con impazienza.
Lei ci rifletté per qualche attimo. «Beh… potrei raccontarti com’è nata la mia terra», le propose e alla piccola l’idea parve piacere molto. Quella storia era sempre stata la sua preferita, quindi fu felice di vederla così interessata.
«Dunque, tanto tempo fa la terra era ancora sommersa dal mare e un seme di cardo volava sospinto dal vento ormai da migliaia di anni. Quel seme in realtà era il mago Mac, che era stato anche una goccia e prima ancora un tuono. Era molto stanco e quindi si rivolse al mare, che era signore anche della terra, chiedendogli di far emergere una delle lande sepolte sotto le sue acque così che lui potesse riposarsi. Il mare allora fece emergere un’isola grigia e riarsa e annunciò», fece una pausa, cercando di rendere la sua voce grossa ed impostata, come faceva sempre sua zia Maggie quando interpretava il mare, «Sarai signore di questa terra solo se supererai le prove che ti darò. Per prima cosa dovrai far diventare questa terra un immenso prato verde».
Lizzie pendeva dalle sue labbra e anche Newton sembrava piuttosto interessato al racconto.
«E il mago cosa fece?», chiese la bambina, con gli occhi che le brillavano per la curiosità.
Lei si prese qualche attimo prima di rispondere. «Facciamo così: se mi prometti che oggi mangerai tutto senza fare storie, domani te lo racconterò.»
Sentendo quelle parole, Newton le indirizzò uno sguardo di infinita gratitudine che le scosse di nuovo lo stomaco. Lei riuscì ad abbozzare un piccolo sorriso e tornò a guardare Lizzie.
«Domani a colazione?», le chiese quest’ultima.
«Domani a colazione», confermò lei.
Come colta da un’improvvisa e incontrollabile fame, Lizzie sembrò quasi aggredire il cibo nel piatto di fronte a sé.
Anche lei si mise a mangiare, sperando che questo potesse far calmare il suo stomaco. Incrociò lo sguardo di Teresa che le indicò Newton con un lieve cenno del capo e poi le strizzò l’occhio.
Non capendo quel gesto, la guardò confusa, ma Teresa aveva già abbassato gli occhi sulle sue uova strapazzate e non le diede alcuna spiegazione.
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Capitolo 8
*** 7. ***


Salve a tutti! :)
L’avevo già detto che non sono brava ad esprimermi ma volevo ringraziare con tutto il cuore chi legge/segue/recensisce questa storia. Sì, con tutto il cuore, perché se oggi sono riuscita a sopravvivere alla combo “due ore o poco più di sonno – nulla sotto i denti per l’ansia da esame – scleri a manetta – esame”, per mettermi davanti al computer a finire di scrivere questo capitolo… lo devo solo a voi.
Quindi, un sentitissimo ed enormemente enorme GRAZIE a tutti voi.
Detto questo… buona lettura! ;)
7.

Aprì gli occhi, abbandonando il tentativo di dormire. Era stanca, ma non riusciva a prendere sonno e, a dire la verità, non moriva nemmeno dalla voglia di farlo: sapeva bene cosa l’aspettava.
Allungò un braccio, tastando la parete accanto al letto dove c’era il piccolo orologio digitale. Quando le sue dita riuscirono a trovarlo e a sfiorarne lo schermo, questo si illuminò leggermente, mostrando distintamente l’ora anche al buio. Mancavano pochi minuti alle undici. Era passata quasi un’ora e mezza da quando era scattato il coprifuoco.
Si ritrovò a ripercorrere con il pensiero quella prima giornata e non ci voleva certo un genio per capire che non sarebbe stata diversa dalle seguenti, salvo forse qualche rara eccezione.
Subito dopo colazione il Gruppo A e il Gruppo B erano stati divisi – condividevano solo i pasti e le due ore di svago tra la cena e il coprifuoco – e l’intera mattinata era stata dedicata ad una lezione sulla storia – sempre la stessa, le aveva detto Teresa – di come le Eruzioni Solari avessero devastato la maggior parte del pianeta e di come in seguito il virus VC321XB47, altrimenti detto l’Eruzione – originariamente un’arma batteriologica – fosse sfuggito al controllo dilagando come una piaga tra la popolazione.
Era chiaro come il sole che quelle lezioni – con tanto di filmati – non avevano uno scopo informativo, ma di indottrinamento, finalizzato a creare delle cavie entusiaste di essere tali. L’insegnante – se poteva essere definita tale – aveva di fatto ripetuto più e più volte l’immancabile ritornello “La C.A.T.T.IV.O. è buona”.
Durante il pomeriggio, invece, erano passati a quella che l’Uomo Ratto – era così che Minho chiamava il signor Janson e a lei era sembrato decisamente azzeccato come soprannome – definiva la “fase pratica”, ovvero una sorta di preparazione in vista delle Prove. Ai bambini venivano insegnate diverse tecniche e trucchi utili alla sopravvivenza, al sostentamento e all’organizzazione, si spiegava come ricavare dati dalle analisi e come utilizzarli per creare cianografie. E li facevano anche studiare come se fossero stati a scuola. Quest’ultima cosa – che lei riteneva senza il minimo dubbio positiva – l’aveva inizialmente lasciata di stucco: una cavia intelligente ma poco istruita sarebbe stata molto più semplice da manovrare di una con una solida educazione alle spalle.
Ma evidentemente gli serviamo al meglio delle nostre capacità per essere del tutto sfruttabili…
In ogni caso, era quella la routine alla C.A.T.T.I.V.O. e lo sarebbe stata finché non fossero iniziate le Prove.
Dovette però riconoscere che come prima giornata non era stata poi così traumatica: il fatto che lei e Teresa fossero le uniche femmine nel Gruppo A l’aveva un po’ preoccupata, ma aveva avuto modo di ricredersi, facendo amicizia con diversi bambini, oltre a Thomas, Minho… e Newton.
Le bastò soltanto ripensare a quel nome per sentirsi di nuovo lo stomaco scosso da chissà quali sensazioni e non riuscì più a rimanere distesa. Scostò le coperte e saltò giù dal letto, ritrovandosi a saltellare da un piede all’altro e a stringere le braccia attorno al busto per scaldarsi.
Lei e Newton non si erano parlati molto, considerato il ritmo serrato delle attività e il fatto che subito dopo cena l’Uomo Ratto le aveva fatto memorizzare la pianta dell’edificio – senza però entrare troppo nei dettagli e limitandosi ad indicarle le zone – in modo che, una volta ottenuto il permesso di girare sola, nessuno dovesse più andare a prenderla.
Fu quell’ultimo pensiero che fece scattare qualcosa dentro di lei, facendo calmare il suo stomaco e togliendole persino il freddo di dosso.
Perché aspettare di avere libertà di movimento?
Aprì con molta cautela la porta, gettando uno sguardo a destra e a sinistra. Nel corridoio erano accese molte meno luci che durante la giornata, giusto quelle necessarie per riuscire a vedere cosa si aveva davanti e dove ci si trovava. Ma c’erano diversi punti d’ombra. Ed era vuoto.
Perfetto… sempre che non si tratti di una trappola.
In effetti, sembrava tutto troppo tranquillo… ma se non ci avesse provato avrebbe avuto un’altra occasione come quella? Durante il giorno non c’erano molti momenti morti e gironzolare di nascosto con tutta la gente che percorreva i corridoi della struttura era decisamente impossibile.
Se però ora l’avessero scoperta nessuna scusa sarebbe stata in piedi…
Allora mi conviene non farmi scoprire affatto.
Si incamminò decisa, cercando di non fare il minimo rumore. Arrivò senza problemi in quella che l’Uomo Ratto le aveva sommariamente indicato come l’area degli uffici e si mise a passare in rassegna le porte, prima origliando e poi tentando di aprirle.
Dopo qualche tentativo andato a vuoto, finalmente trovò una porta non chiusa a chiave. Entrò senza esitare nella stanza e accese la luce. Sulla scrivania c’era soltanto un computer spento.
Beh, sempre meglio di niente.
Accese il computer, incautamente non protetto da alcuna password, e iniziò a spulciare ogni singolo file di ogni singola cartella. Non che ce ne fossero molti in realtà, infatti pochi minuti dopo spense il tutto, piuttosto delusa.
Non aveva trovato nulla di interessante. Niente che rivelasse come si era giunti alla conclusione di usare dei bambini, cosa esattamente la C.A.T.T.I.V.O. avrebbe fatto di questi una volta creata la cianografia, il perché del cambiare i loro nomi… o se le Prove avrebbero potuto essere in qualche modo fatali per qualcuno di loro.
Quella considerazione le diede i brividi, ma cercò comunque di non lasciarsi inquietare: l’ultima cosa di cui aveva bisogno era avere paura di quell’organizzazione. Decise di continuare a cercare, ma nelle poche stanze in cui riuscì a entrare non sembrò andar meglio del primo tentativo.
Stava quasi per gettare la spugna quando, posando l’orecchio contro l’ennesima porta, colse un’ovattata voce maschile, terribilmente simile a quella di Jack. «Non mi pare così grave…»
«Spero tu stia scherzando», questa invece era una voce di donna. Non parlavano a voce alta, ma non bisbigliavano nemmeno, quindi ascoltare non si rivelò troppo arduo. «Come hai fatto a farti venire in mente un’idea del genere?! Ci stai esponendo tutti ad un grosso rischio. Lo sai, vero?»
«Non c’è nessun rischio», ribatté quello che lei non aveva più dubbi fosse Jack. «Ha analizzato il caso tanto attentamente quanto l’abbiamo fatto noi. Non potremo che avere esiti positivi.»
«Questo lo dici tu, ma fa’ come vuoi, io non voglio più parlarne. Solo, se succede qualcosa – e stai pur certo che succederà – ricordati che io ti avevo avvertito.»
Jack ridacchiò. «Ti ricrederai, Ladena, ti ricrederai.»
«Aiutami a sistemare questi documenti o finiremo domani mattina», borbottò la donna come se non lo avesse sentito.
Rimase ad ascoltarli per diversi minuti, ma non volò più una mosca e alla fine si decise a tornare nella sua stanza. Per quella notte aveva investigato abbastanza.
Facendo il percorso a ritroso, non riuscì a smettere di pensare a quella discussione. Non era riuscita a capire di cosa quei due stessero parlando, ma quel poco che aveva sentito non le piaceva per niente. Avrebbe potuto anche essere una cosa senza importanza, ma c’era qualcosa dentro di lei che urlava l’esatto contrario. Elaborò mille ed una ipotesi, ma con così pochi indizi su cui basarsi nessuna di esse le sembrò abbastanza plausibile.
Diverse porte con targhe identificative iniziarono a sfilarle davanti agli occhi ed ebbe la conferma di non essersi persa e di essere tornata nell’area delle stanze dei bambini del Gruppo A.
Stava per svoltare un angolo quando un rumore di passi la bloccò sul posto. Cercò di restare calma, ma non riuscì a distogliere gli occhi dalla direzione da cui arrivava il suono.
Torna indietro. Il corridoio è lungo, ma puoi sfruttare le zone d’ombra.
Ma poi vide qualcosa a terra, simile ad un cono di luce che si muoveva e le fu subito chiaro di cosa si trattasse: era una torcia.
L’avrebbero scoperta e, conoscendo il falso buonismo della C.A.T.T.I.V.O., probabilmente anche punita. Ma doveva affrontare le conseguenze del suo gesto, quindi strinse i pugni, decisa ad andare lei stessa incontro a chi stava arrivando. Qualcosa però glielo impedì.
Una mano le afferrò il polso e lei sobbalzò, riuscendo per puro miracolo a trattenere un grido. Si voltò di scatto e si trovò davanti Newton che le faceva segno di stare in silenzio.
Lei annuì sbigottita, ma lo fu ancora di più quando lui se la portò dietro, aprì rapidamente una porta e le fece cenno di entrare. «Aspetta qui», sussurrò soltanto – talmente piano che lei riuscì a capire quello che le stava dicendo solo grazie ai gesti – e richiuse l’uscio senza fare alcun rumore, una volta che lei si fu sistemata nell’angolo, in modo da non essere vista da fuori.
Era successo tutto così in fretta che lei riuscì ad rielaborare le idee solo in quel momento, nel buio che dominava la stanza: un attimo prima stava per essere scoperta e un attimo dopo Newton l’aveva… salvata?
Si rese conto di stare sudando freddo e che il suo stomaco sembrava reduce da un giro sulle montagne russe. Ma cosa diamine aveva che non andava?!
Una voce maschile proveniente dal corridoio interruppe il flusso dei suoi pensieri. «Ah Newton, come mai sei tornato così tardi stasera?»
«Mia sorella non si voleva addormentare», rispose il ragazzino.
«Beh, tu invece non fare troppe storie: la sveglia non segue i tuoi comodi.»
«Lo so», replicò freddamente Newton, aprendo la porta e facendole balzare il cuore in gola per la sorpresa. «Buonanotte». Sgusciò dentro senza accendere la luce e richiuse la porta con decisione.
Attesero entrambi, al buio ed in silenzio, che i passi si facessero sempre più lontani. Quando non udirono più niente, ci fu un piccolo click e la luce illuminò la stanza, rivelando una camera da letto interamente bianca e un bambino dai corti e arruffati capelli biondi di fronte a lei che la fissava.
Si sentì di nuovo come quella mattina, con lo stomaco in subbuglio, il calore che le saliva al viso e la bocca che si rifiutava di collaborare con il cervello.
Fortunatamente, era Newton che sembrava aver voglia di iniziare il discorso. «Che ci facevi in giro di notte?», le chiese, ma nella sua voce e nel suo sguardo c’era solo sincera curiosità.
Era ovvio che le avrebbe fatto quella domanda, ma lei non aveva comunque una risposta pronta. Rimase in silenzio, sentendosi come se gli occhi scuri di Newton la stessero trapassando da parte a parte. Quel ragazzino aveva qualcosa che la confondeva e la faceva sentire… strana.
«Non vuoi dirmelo?», le domandò di nuovo davanti al suo silenzio.
Lei scosse la testa, cercando di reprimere quelle strane sensazioni. «Scusa, ma preferirei non parlarne», mormorò.
Sorprendentemente, Newton non se la prese. «Se cambi idea mi trovi qui, non penso di andare chissà dove», disse, riuscendo a strapparle un piccolo sorriso, e si mise a gambe incrociate sul letto.
«Già, nemmeno io», rispose lei. «Comunque… grazie Newt», si ritrovò ad aggiungere ed un attimo dopo – quando Newton la guardò stupito – si pentì di non essersi staccata la lingua a morsi. Quel diminutivo le era uscito di bocca così, senza che quasi se ne accorgesse, ed era stato al momento tanto spontaneo quanto adesso le sembrava sfacciato. Arrossì violentemente.
Come oggi a colazione, pensò sconfortata. Stupida rana dalla bocca larga che non sei altro!
Durante tutta la giornata non erano stati solo gli impegni a non darle occasioni di parlare con Newton: anche lei ci aveva messo del suo, cercando di avere meno contatti possibile con lui.
E con ragione, visto quanto diventi stupida quando te lo ritrovi davanti!
Il bambino sembrò riflettere su quel nome e ciò che disse la sorprese di nuovo. «Newt, eh? Mi piace», affermò con un sorriso. Un sorriso che le mandò le orecchie in fiamme.
«Ti piace?», gli domandò incredula. «Davvero?»
«Sì, è più… mio», le rispose e sembrava davvero soddisfatto. «Ed è più fico di Newton, chissà perché non ci avevo ancora pensato.» Le mostrò il pollice alzato e lei non riuscì a fare altro che sorridergli di rimando.
«E comunque per prima», proseguì Newt, «non ringraziarmi: facciamo che ti ho ricambiato i due favori che ti dovevo».
Lo guardò perplessa, lasciando per un attimo da parte le capriole del suo stomaco. «Favori?»
«Minho e Lizzie.»
«Oh… ma dai, paragonato a quello che hai fatto tu, io non ho fatto niente.»
Newt sollevò le sopracciglia e scosse la testa. «Non direi.»
Non seppe cosa rispondere e rimase in silenzio per qualche attimo. «Eri da Lizzie prima?»
«Sì, vuole che stia con lei finché non si addormenta. Quel tizio viene ogni sera a controllare che io sia tornato in camera.» Si passò una mano prima tra i capelli e poi sugli occhi.
E lei si sentì una vera cafona. «Scusa, ti sto tenendo sveglio a parlare… è meglio che vada.»
«Non mi dispiace parlare», replicò Newt, alzandosi. «Però hai ragione. “La sveglia non segue i nostri comodi”», proseguì, scimmiottando la voce della guardia.
Lei gli sorrise – di nuovo –. «Buonanotte… e grazie ancora.»
«Buonanotte, criminale irlandese», scherzò Newt.
«Chiudi il becco, complice inglesino», ribatté, facendo la linguaccia e fingendo di prendersela.
C’era poca luce, ma prima di andare diede un’occhiata alla targhetta fuori dalla porta della stanza di Newt.

NEWTON WELLS. GRUPPO A, SOGGETTO A5. IL COLLANTE

Il Collante… chissà perché l’hanno chiamato così?
Tornò in camera sua sentendosi stranamente leggera, nonostante lo stomaco ballerino. E quando si infilò sotto le coperte pregò che il passato le desse tregua almeno per quella sera.
Per favore… e scivolò tra le braccia di Morfeo.
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Capitolo 9
*** 8. ***


8.
 
La terra piano piano riempie la fossa, coprendo il corpo avvolto in un lenzuolo.
Lei è in piedi ad osservare la scena, ferma e rigida come una statua, la schiena dritta come un fuso e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Le fanno male gli occhi e le guance le bruciano per via delle lacrime roventi che vi sono scese fino a quella mattina. Ma adesso non piange più, nonostante il dolore sembri infilzarla ripetutamente con i suoi artigli.
Alla fine, il lamento di Aibhill non era per lei. O, se lo era, ci ha pensato suo padre a cambiare i piani della Banshee.
Tutte le immagini e le sensazioni che per tutta la notte l’hanno tormentata le ripassano spietatamente davanti agli occhi. Il buio per un attimo l’ha sommersa, ma subito dopo l’ha come risputata fuori, facendola tornare a vedere tutto. Tutto.
Ed è quel tutto che si è impresso a fuoco nella sua memoria che adesso le si mostra davanti per l’ennesima volta. Lo sguardo di sua madre che all’improvviso si fa vacuo, quel “Dio mio, che sto facendo” sussurrato prima che le sue mani allentino la presa sul suo collo e la donna crolli rovinosamente a terra, trascinandola con sé. La rivede tossire, sputandole in faccia il sangue, e poi lasciarla definitivamente andare.
Sente di nuovo l’aria arroventarle i polmoni e il duro impatto con il pavimento. Rivive quegli strazianti e interminabili secondi in cui le labbra di sua madre si schiudono, esalando l’ultimo respiro mentre mormorano il suo nome. E infine vede ancora la pozza di sangue che lentamente si allarga sotto quel corpo ormai senza vita – leggermente incurvato, come se avesse qualcosa conficcato nella schiena – e suo padre, con le mani sporche di quello stesso liquido rosso, che la guarda stravolto e tremante, come se qualcosa gli avesse appena risucchiato l’anima.
Sotto il nero del terriccio, ormai il bianco del lenzuolo non si vede quasi più e lei si vergogna di non provare solo dolore a quella vista. Sa che è orrendo, egoista e terribilmente sbagliato – quel genere di sbagliato con cui una bambina di cinque anni non dovrebbe mai ritrovarsi a dover fare i conti –, ma una piccola parte di lei è sollevata che quell’incubo sia finito.
Aspetta immobile ed in silenzio che suo padre finisca di riempire la fossa. Non c’è nessun altro oltre a loro due. La loro casa è abbastanza isolata dalle altre perché qualcuno del loro villaggio possa essersi accorto di quello che è successo e suo padre le ha proibito di farne parola con chiunque.
“Nessuno sapeva che la mamma era malata”, le ha detto, “E nessuno deve sapere che… che non c’è più, ecco. Se qualcuno ti chiede dov’è… tu digli che è andata via”.
Dopo quella che le sembra un’eternità suo padre finisce e le si avvicina con il volto madido di sudore e le mani coperte di terriccio. «Hai pregato?», le chiede.
No, non l’ha fatto: ha sempre pregato fino ad allora, eppure sua madre adesso è lì, sepolta sotto metri di terra all’ombra di quella quercia sotto la quale era solita sedersi con lei per giocare o leggerle le favole. Pregare non le è servito a niente. Ma annuisce e questo pare donare una scintilla di serenità a quel volto che, dalla sera prima, sembra essere invecchiato di almeno una decina d’anni.
È talmente diverso che per un attimo si chiede se quello sia davvero suo padre.
«La mamma… la mamma adesso non soffre più», mormora l’uomo, in un pallido tentativo di consolarla, ma di fronte al suo silenzio non aggiunge altro e si avvia in casa, pulendosi le mani sui pantaloni e barcollando leggermente, come se le gambe non lo sostenessero del tutto.
Lei invece rimane lì ed è come se i suoi piedi avessero messo radici nel terreno. Se è vero che sua madre non soffre più, allora perché le sembra di sentirla urlare di dolore?
 
Si rannicchia in un angolo, premendosi le mani contro le orecchie, ma i colpi e le urla non si arrestano e, anzi, sembrano aumentare di intensità ad ogni secondo che passa. La porta della sua camera è chiusa a chiave dall’interno, ma le sembra di avere suo padre davanti agli occhi. Lo vede distintamente colpire cose, romperne altre, graffiarsi il viso e strapparsi ciocche di capelli.
È passata quasi una settimana da quando hanno seppellito sua madre, ma già dal giorno dopo suo padre ha iniziato a lamentare un feroce mal di testa e la situazione non ha fatto altro che peggiorare: al mal di testa si sono aggiunte feroci ed incontrollabili esplosioni di rabbia, in una dolorosa replica del calvario di sua madre verso la pazzia.
Cerca di farsi il più piccola possibile quando sente che alcuni colpi raggiungono la sua porta. Si sente scoppiare il cuore e le lacrime le scendono lungo le guance.
Vai via, vai via, vai via…
«È colpa tua!»
Quella frase le gela il sangue nelle vene ed è come se tutto, lei compresa, si bloccasse per un attimo. Un interminabile attimo in cui si sente come se la sua testa fosse su posata un ceppo, in attesa che la lama cali sotto il peso di quell’accusa.
«È colpa tua!»
Tutto riprende a muoversi e la lama si abbassa – le sembra quasi di sentirne il sibilo –, strappandole anche l’ultima briciola di quell’innocenza che credeva di avere.
I colpi si fanno sempre meno frequenti, sostituiti dai singhiozzi. «È colpa tua», continua a ripetere suo padre, stavolta senza più urlare, con la voce rotta dal pianto. «È colpa tua… è colpa tua… l’ho uccisa per colpa tua…»
Si morde un labbro fino a sentire il sapore del sangue in bocca, mentre quelle parole le aleggiano attorno, infiltrandosi in ogni poro della sua pelle e facendola a pezzi dall’interno. Finora ha cercato di giustificarsi, ma adesso che la verità è stata detta ad alta voce non può più farlo. Suo padre ha ragione: è colpa sua. È solo colpa sua.
Si abbraccia le gambe, stringendosele al petto, e nasconde il viso premendolo sulle ginocchia.
Sente uno strano rumore – come se qualcosa stesse scivolando lentamente lungo la porta – seguito da un tonfo sul pavimento.
Adesso ci sono solo i singhiozzi a rompere il silenzio.
«Mi dispiace…», mormora infine l’uomo. «Mi dispiace, ma l’ho ammazzata per colpa tua…»
Lei continua a piangere, ma non risponde niente, lasciando che il silenzio inghiotta le parole che vorrebbe dire.
Scusami, papà. Scusami per tutto… scusami anche perché non ho pregato.
E un attimo dopo è felice che il buio la sommerga, portandola via da lì.
 
Appena rinviene, la prima cosa che avverte è uno strano odore. Come di…
Bruciato.
Apre gli occhi di colpo e si alza in piedi, ignorando l’indolenzimento che le pervade tutto il corpo. La sua stanza si sta lentamente riempiendo di fumo e il panico prende il posto del dolore, mentre un’ipotesi spaventosa si fa strada nella sua mente.
No. No. Non può essere vero…
Si lancia contro la porta, aprendola con le mani che le tremano febbrilmente.
Il fumo in corridoio è molto di più di quello che era riuscito a filtrare in camera sua e la prende alla gola, facendola tossire. Si preme la manica sul viso nel tentativo schermare il più possibile bocca e naso, e si avvia di corsa giù per le scale, cercando di ignorare il calore ed il fumo che si fanno sempre più opprimenti ad ogni suo passo.
Arriva fino in cucina e la scena agghiacciante che le si presenta davanti agli occhi è una terribile conferma ai suoi pensieri.
Il fuoco divampa velocemente, divorando tutto ciò che si trova davanti e rendendo l’aria rovente ed irrespirabile. È come se la Porta dell’Inferno si fosse aperta in quella stanza.
Schiaccia ancora di più il naso contro la stoffa e socchiude gli occhi che hanno iniziato a lacrimare… non solo per via del fumo.
Suo padre sembra perfettamente a suo agio e saltella da un angolo all’altro della cucina, gettando olio ovunque per alimentare il fuoco. Tutto d’un tratto si ferma proprio sopra la pozza di sangue rappreso e inizia ad eseguirvi uno strano balletto sopra. Ha uno sguardo estasiato e un sorriso talmente gioioso da far venire i brividi. È così rapito da ciò che sta facendo che gli ci vogliono alcuni istanti per accorgersi che lei è sulla soglia della porta.
«Oh, ecco il mio piccolo dolce angioletto dai capelli rossi», esclama, interrompendo la sua “danza” e tendendole una mano – quella libera dalla bottiglia di olio – come a volerla invitare. «Avanti, vieni a ballare con il tuo papà! È la nostra festa, no?»
Nonostante il calore insopportabile, lei avverte come un soffio gelido dietro la nuca che la fa rabbrividire.
L’uomo la guarda contrariato, ma non ritira la mano. «Non vuoi? Ma è la nostra festa: l’ho ammazzata io, ma è stata colpa tua, quindi siamo entrambi i festeggiati!» Il suo tono non è quello di una persona divorata dal dolore e dalla follia, ma quello di un bambino che ha appena trovato una marea di regali sotto il suo albero per la mattina di Natale. È questo che più di ogni altra cosa le spezza il cuore.
Sposta leggermente il braccio – la stoffa della manica è fradicia – per liberare la bocca. «Papà», lo supplica. «Papà, per favore, vieni via.»
Lui scuote la testa, afflitto, e finalmente abbassa la mano. «Non vuoi prendere parte alla festa? È nostra, è per noi… non ti piace? Non ti sembra bella? Mi sono impegnato tanto per organizzarla.»
«È bellissima», si costringe a rispondergli, soffocando sul nascere un violento colpo di tosse. «Non ho mai visto una festa così bella… ma, ti prego, vieni fuori con me un momento.»
L’uomo ignora del tutto la sua richiesta, come se non l’avesse affatto sentita, e scoppia in una sonora risata. «Lo sapevo! Lo sapevo di essere stato bravo!», gioisce, battendo le mani e saltellando sul posto. «Certo, ho fatto tutto all’ultimo secondo, ma sono stato comunque bravissimo, non è vero?»
Lei annuisce, deglutendo nervosamente. Il terrore sta mettendo a dura prova il suo – già non troppo saldo – autocontrollo. «Sì, papà, ma…»
«E aspetta di vedere i fuochi d’artificio!», la interrompe lui. «Con quelli credo davvero di aver superato me stesso. Anzi, ne sono sicuro! Saranno meravigliosi, te lo prometto!», e riprende a spargere olio per la stanza. «Fammi solo accendere il gas.»
Sono quelle ultime parole a farla scattare come una molla. Si getta verso di lui, afferrandolo per un braccio. «Vieni via, papà!», grida, tentando disperatamente di trascinarlo lontano dai fornelli.
Con un brusco movimento, l’uomo la scaraventa a terra, liberandosi dalla sua presa. «Perché vuoi rovinare la mia festa?!», le urla contro irato, incombendo su di lei come una belva feroce pronta ad attaccare la sua preda. «Non sei per niente un piccolo dolce angioletto dai capelli rossi! Non lo sei affatto!»
«Papà…», singhiozza lei, affranta. «Papà, per favore, andiamo via…»
«Sta’ zitta! Non sei altro che un demonio!», tuona lui, facendole morire le parole in gola. «Un demonio dai capelli rossi, sì, ecco cosa sei! Me l’hai fatta ammazzare! Io l’amavo e tu me l’hai fatta ammazzare! È colpa tua! Vattene via, non meriti di stare alla mia festa!»
Lo fissa sconvolta, mentre le lacrime le appannano la vista e un dolore diverso e mille volte più forte di quello fisico, dovuto alla caduta, si fa strada dentro di lei. «Papà…»
«Vattene via», sibila l’uomo, ma nella sua voce non c’è più un tono aggressivo. E i suoi occhi sono pieni di qualcosa che sembra sconforto e… affetto? «Vattene via», ripete lui. «Adesso. Fallo per me.» Un attimo dopo si getta sui fornelli.
Il suo corpo si muove da solo: si alza e corre il più velocemente possibile verso l’uscita, rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi. Si allontana dalla casa, sentendosi sempre più simile ad un sacco vuoto ad ogni metro che percorre.
Eppure, nonostante la lontananza, il boato giunge forte e chiaro alle sue orecchie.

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Capitolo 10
*** 9. ***


9.

Si svegliò con gli occhi che le bruciavano, il braccio rigorosamente premuto su di essi quasi fino a farsi male. Resistere alla tentazione di piangere sembrava farsi sempre più difficile, ma riuscì a non cedere. Inspirò profondamente numerose volte, cercando di calmarsi e di mandar via quella dolorosa sensazione che le gravava sul petto come un macigno, rendendole difficile respirare.
Se vado avanti così impazzirò, pensò, spostando il braccio dal viso e massaggiandosi gli occhi. Controllò l’ora e le sfuggì un sospiro: erano le sei. Se non altro, sarò una pazza mattiniera.
Si alzò e si preparò, ripetendo la stessa identica routine della mattina precedente. Solo che stavolta non fu Teresa a presentarsi davanti alla sua porta, ma l’Uomo Ratto.
«Buongiorno», la salutò lui cordialmente, esibendo un sorriso talmente subdolo che sembrava chiamare a gran voce una serie infinita di cinquine su quella faccia da roditore. Le diede a malapena il tempo di rispondere al suo saluto e subito riprese a parlare, «Ieri è venuta Teresa a prenderti, ma è stato uno strappo alla regola che non si ripeterà più. Finché non avrai avuto il permesso di muoverti da sola per la struttura, spetta a me accompagnarti».
Grandioso…
Non era poi così sorpresa: Janson era il responsabile del Gruppo A e anche il giorno prima era stato lui a portarla da un luogo ad un altro e a “coordinare” ogni suo spostamento. Ma il fatto che si aspettasse una cosa del genere non significava certo che le andasse a genio.
Posso solo sperare che questo permesso mi venga dato il prima possibile.
Annuì come se la cosa non la toccasse minimamente e lo seguì in direzione della mensa. Dentro di sé ringraziò che non le avesse preso la mano.
«Oggi pomeriggio sei dispensata dal prendere parte alle esercitazioni. Hai un colloquio», le annunciò l’Uomo Ratto. «La signorina Lichliter vuole vederti e ti fornirà gli ultimi chiarimenti sul tuo ruolo. Ti darà i dettagli che non ti ha dato la signorina McVoy.»
«Va bene», rispose lei, ma dovette trattenersi per non lasciar trapelare la sua irritazione: perché non potevano dirle ogni cosa in un colloquio solo? Perché dovevano “spezzettarsi” l’incarico e farla penare in quel modo per darle qualche informazione?
Arrivarono alla mensa e l’Uomo Ratto si dileguò, portandosi via anche buona parte della sua irritazione.
La scena che le si presentò davanti quando entrò nella grande stanza circolare sembrava uguale a quella del giorno precedente, ma stavolta nessuno la travolse facendola finire a terra. Si guardò attorno e individuò Teresa che, già seduta al tavolo, agitava un braccio verso di lei, salutandola e facendole segno di raggiungerla.
Avvicinandosi, notò che con lei c’erano anche Thomas, Minho, un ragazzino di colore di nome Alby, uno con degli arruffati capelli neri che doveva essere Gally e un bambino molto piccolo dai riccioli scuri – lo stesso a cui era stata seduta accanto il giorno prima – che si chiamava Chuck. C’era anche Lizzie, che si illuminò non appena la vide. E accanto a lei, ovviamente, c’era Newton – anzi Newt – che le indirizzò un breve sguardo d’intesa e le fece l’occhiolino.
Fu troppo: il suo stomaco riprese a saltellare neanche fosse stato un canguro impazzito. Cosa diamine c’era di sbagliato in lei? O in quel ragazzino? O in tutti e due?
Non seppe darsi una spiegazione ed abbozzò un piccolo, timidissimo sorriso in risposta, per poi distogliere lo sguardo subito dopo. Salutò tutti, riuscendo a celare quel bizzarro turbamento, e si sedette accanto a Lizzie, che pareva non volerle staccare gli occhi di dosso.
«Ti è toccato l’Uomo Ratto oggi, eh?», scherzò Minho a bocca piena, sputacchiando un po’ ovunque e beccandosi per questo un’occhiata glaciale da parte di Teresa.
Quello spettacolo le strappò un sorriso. «Già… ma non è andata troppo male: volevo solo prenderlo un po’ a schiaffi», gli rispose, mettendosi il cibo nel piatto.
«Ah, questo vogliono farlo tutti, stanne certa», ribatté lui, continuando a spargere piccole parti dei suoi pancake sul tavolo.
«Io prima prenderei a schiaffi te», borbottò Teresa, guardandolo male, «Sei disgustoso».
Per tutta risposta, Minho si riempì la bocca, masticò, e poi la spalancò, facendo in modo che Teresa potesse avere una panoramica completa di tutto ciò che ci aveva infilato.
Quest’ultima fece una smorfia disgustata. «Ringrazia che tra me e te ci sia Tom, Minho. Ti dico solo questo.»
Lizzie le tirò con insistenza la manica destra e lei si voltò a guardarla, lasciando Minho e Teresa al loro battibecco. «Ieri ho mangiato tutto», le annunciò la bambina con un sorriso orgoglioso. «Hai visto, no?»
Somigliava tantissimo a suo fratello, ma allora perché quando la guardava non si sentiva strana come quando guardava lui? Si rese subito conto di quanto sciocco fosse quel pensiero e se ne disfece rapidamente. Annuì, sorridendole a sua volta. «Sì, sei stata proprio brava.»
I grandi occhi verdi di Lizzie si illuminarono. «Allora mi racconti come continua la storia?», le domandò speranzosa.
«Certo. Dov’ero rimasta?»
«Sarai signore di questa terra solo se supererai le prove che ti darò», intervenne Newt, cercando di imitare la voce del mare come aveva fatto lei.
Sentendolo, Minho scoppiò a ridere di gusto. «Non ci credo!», esclamò tra una risata e l’altra. «Newton che fa le voci, segnate questo giorno sul calendario!» Finì quasi per strozzarsi con il cibo e Thomas iniziò a dargli dei colpetti sulla schiena per aiutarlo.
«Minho, io so fare tutto, ancora non l’hai capito?», ribatté Newt con un sorriso ed un aplomb invidiabile. Poi si voltò verso di lei, ma il suo sorriso sembrò svanire, rimpiazzato da un leggero imbarazzo, quando vide l’espressione confusa che le si era dipinta in volto.
Non aveva fatto nulla di particolare, eppure l’aveva colta di sorpresa: ogni cosa, anche la più semplice, che quel ragazzino faceva sembrava spiazzarla – oltre ad agitarle lo stomaco e a farle andare a fuoco la faccia – e non riusciva a capirne il motivo.
«Quella storia ha preso anche me», le disse, come se d’un tratto si sentisse in dovere di giustificare il suo ricordarsi esattamente quelle parole. «Il mago Mac doveva trasformare la terra che il mare gli aveva dato in un prato verde».
Si ritrovò a sorridere per avergli sentito dire che la sua storia – la sua preferita – gli piaceva. Si sentì inspiegabilmente leggera, con una gran voglia di sorridere per qualsiasi cosa, come le era accaduto la sera prima. «Sì, esatto», gli confermò, annuendo.
Lizzie le toccò il braccio, richiamando la sua attenzione su di sé e facendola tornare con i piedi per terra. «E il mago come fece?», le chiese.
Riuscì a trattenersi dal baciarla sulla fronte per averla riportata sul pianeta Terra, evitando che tutta quella leggerezza potesse farle fare o dire qualcosa di stupido, e si affrettò a continuare. «Beh, lui aveva un grande potere: era capace di fermare il tempo. Così passarono tantissimi anni e la terra venne pian piano ricoperta di un soffice manto d’erba verde…», si interruppe – sua zia faceva sempre quella pausa ad effetto – e dopo pochi secondi riprese, «…ma per il mare era passato solo un giorno».
Lizzie la fissò sbalordita. «Solo un giorno? E il mare era contento?»
Avvertì una strana fitta di nostalgia: anche lei aveva reagito più o meno in quel modo la prima volta che aveva sentito del trucco del mago Mac. Era come se in Lizzie stesse rivedendo sé stessa.
In una bambina più piccola di me di soli due anni… non è giusto.
Non era giusto che una bambina si sentisse troppo più grande rispetto ad un’altra. Non era giusto che una bambina si sentisse come si sente un adulto che ripensa alla propria infanzia. Niente di quello che le era successo era giusto. Non lo era affatto.
Ma scacciò via quei pensieri in un attimo, prima che potessero radicarsi in lei. «Più che contento», rispose, «Era meravigliato.»
«E che cosa gli disse di fare poi?»
«Gli lanciò la seconda sfida…», si fermò di nuovo e si schiarì la gola. «Come seconda prova, in una notte e un giorno questa terra dovrà essere ricca di acqua dolce», mentre lo diceva, il suo sguardo incrociò quello di Newt. Lo distolse in fretta, ma non abbastanza da non accorgersi che lui le aveva sorriso.
«Quindi il mago Mac fermò di nuovo il tempo e cominciò a piovere», proseguì, cercando di concentrarsi solo sulla storia. «Così, la pioggia scese per anni, secoli, creando alberi e dando vita a fiumi, sorgenti e laghi… ancora una volta però, per il mare era passato un solo giorno.»
Lizzie pareva sempre più meravigliata. «E gli disse che quella terra era sua?», le chiese.
Scosse la testa. «Il mare si complimentò con lui, ma c’era un’ultima prova da superare…», e fece di nuovo la voce grossa. «Ora dovrai creare mio figlio, così potrò dire di aver generato una nuova creatura che mi chiamerà “Padre”!»
La bimba non disse nulla, continuando a guardarla rapita, e lei seguitò a raccontare. «Il mago Mac fermò il tempo per la terza volta, creò gli animali e fece uscire dalle acque del mare un cavaliere. Ma questo cavaliere altri non era che lo stesso mago Mac.»
«E com’era il cavaliere?», domandò Lizzie, riuscendo a parlare nonostante lo stupore. «Era bello?»
«Era bellissimo. Più bello di un principe, con gli occhi che splendevano come due stelle.» Zia Maggie gliel’aveva sempre descritto in quel modo e ogni volta che lei se lo immaginava lo vedeva somigliante a suo padre, con indosso una splendida armatura verde come i suoi occhi. Occhi che sembravano contenere tutto il verde dell’Irlanda. Ma il cavaliere che stava immaginando adesso aveva degli occhi diversi, più scuri. Molto più scuri.
Il sospiro e la successiva domanda di Lizzie la distolsero da quel flusso di pensieri. «E poi cosa successe?»
«Il mare stabilì che quell’unico figlio fosse il padrone di quella terra… ma gli lanciò un’altra sfida.»
Lizzie la fissò con un’espressione leggermente corrucciata. «Ma non si accontenta proprio mai questo mare», protestò.
Lei ridacchiò. «In effetti è vero, anch’io ho sempre pensato che fosse un po’ troppo esigente… ma se non fosse stato per le sue sfide forse quella terra non sarebbe mai diventata così bella.»
«Però…»
«E Johanna adesso non sarebbe qui a raccontarti questa storia», intervenne Newt, cogliendo di sorpresa entrambe: si erano talmente concentrate sulla storia da essersi quasi alienate da tutto il resto. Quella motivazione sembrò spazzare via tutti i dubbi di Lizzie e lei si affrettò a dargli ragione, cercando di non far suonare strana la sua voce.
«Cos’altro chiese il mare?» Questa volta, a porre la domanda fu Newt, con uno sguardo tanto interessato quanto quello di Lizzie.
Per l’ennesima volta, sentì le proprie guance diventare bollenti e lo stomaco credersi un campione di salto in alto. Ma accadde qualcosa di strano, come se qualcuno avesse appena premuto un pulsante nel suo cervello. Per qualche bizzarro motivo non avvertì queste sensazioni come negative o da reprimere e quando parlò si stupì di riuscire a farlo in maniera così rilassata e tranquilla, senza sentirsi a disagio. Anzi, si scoprì contenta, anche se ne ignorava il motivo, all’idea di raccontare qualcosa – qualsiasi cosa – a Newt.
Fece di nuovo la voce grossa e impostata, «“Il tuo regno ha bisogno di gente che lo abiti e si ricordi di me”, gli disse il mare, “Ora devi creare la donna”».
«E il mago fermò di nuovo il tempo?», chiese Lizzie dopo qualche attimo.
«Ehm… non vorrei interrompere la famigliola felice», si intromise Minho, rigorosamente a bocca piena, proseguendo quando tutti e tre si voltarono a guardarlo. «Ma il tempo per mangiare sta per finire e noi non siamo dei maghi Mac. Vi conviene correre come se aveste alle calcagna dei mostri schifosi se non volete uscire di qui a stomaco vuoto.»
«Grazie di avermi condito la colazione, Minho», ribatté Newt.
Minho gli mandò un bacio. «Prego, tesoro.»
Lei sorrise e scambiò uno sguardo d’intesa con il biondino, per la prima volta senza sentirsi in imbarazzo. Poi indicò a Lizzie il suo piatto. «Domani a colazione», disse soltanto.
La bambina annuì energicamente. «Domani a colazione», ripeté.

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Capitolo 11
*** 10. ***


Ehm… ecco… salve, Pive!
Scusatemi, è una vita che non aggiorno, ma sono stata sommersa dagli esami T^T ora però, per vostra (s)fortuna, sono libera come l’aria!
E niente, grazie mille ancora a chi segue/legge/recensisce questo mio delirio abissale che ho la faccia tosta di chiamare storia. Grazie mille di cuore! <3
Io e i miei pessimi discorsi passiamo e chiudiamo, buona lettura! :D

 
10.
 
L’Uomo Ratto si fermò davanti ad una porta e lei non tardò a riconoscerla: era la stessa dalla quale, la notte prima, aveva origliato quella breve conversazione. Dovette trattenersi per non lasciarsi sfuggire un sorriso soddisfatto: quella sarebbe stata la sua meta non appena fosse calato il buio.
Chissà che non riesca a trovarci qualcosa di interessante…
«Tornerò a prenderti per riportarti dai tuoi compagni», le disse soltanto l’Uomo Ratto, poi bussò alla porta e, dopo qualche attimo, la aprì per farla passare.
Mentre l’uscio si chiudeva alle sue spalle, si diede una rapida occhiata intorno. L’ufficio non aveva nulla di diverso da quello della signorina McVoy, tranne – com’era ovvio – la sua occupante, seduta dietro la scrivania.
La signorina Lichliter era molto graziosa e, probabilmente, non doveva avere più di una trentina d’anni. Aveva i capelli castani raccolti in uno stretto chignon e un viso dai lineamenti regolari ed armoniosi. Ma i suoi begli occhi grigi la fissavano con astio da dietro la sottile montatura degli occhiali e la sua espressione non era decisamente delle più amichevoli. I suoi vestiti, come quelli di tutti i suoi colleghi, erano completamente bianchi.
«Avvicinati e siediti», le ordinò freddamente, indicandole una sedia. Sentire la sua voce non le lasciò più alcun dubbio: era lei la donna che aveva sentito discutere con Jack.
Obbedì senza distogliere gli occhi dai suoi. Aveva rischiato la vita più di una volta, non sarebbe stato certo uno sguardo malevolo ad intimorirla.
«Identificati. Nome, soggetto e titolo.»
Giusto per farmelo entrare meglio in testa, vero?
«Johanna Reid, Soggetto A0. L’Osservatrice.»
Devo aggiungerci anche “Proprietà della C.A.T.T.I.V.O.?”, pensò, ma si morse la lingua e si trattenne dal dirlo: non era il momento di mettersi a fare del sarcasmo, visto che la signorina Lichliter pareva essere abbastanza acida per entrambe.
Quest’ultima le rivolse un secco cenno di assenso. Sembrava non avesse voglia di perdersi in inutili convenevoli. Lo apprezzò, nonostante l’atteggiamento scontroso.
«Bene. Sai perché ti hanno dato questo appellativo?»
Tutte le vostre spiegazioni iniziano con delle domande? È una prassi qui alla C.A.T.T.I.V.O.?
Scosse la testa, continuando a sostenere il suo sguardo. «No, signorina. Posso solo supporre che derivi dal tipo di Variabili a cui verrò sottoposta.»
Se poi lei ha intenzione di fare il suo lavoro e di darmi qualche spiegazione in merito, sappia che non mi offenderò affatto.
Quella riposta sembrò far comparire una minuscola traccia di interesse negli occhi della donna. «Sì, è esatto», confermò senza scomporsi. «Il tuo compito consisterà nell’assistere alle Prove che il Gruppo A e il Gruppo B dovranno affrontare.»
Si sentì come se la signorina Lichliter si fosse appena allungata sulla scrivania e le avesse rifilato uno schiaffo talmente forte da farla cadere dalla sedia. Per un attimo le mancò il respiro.
Le Prove dei suoi compagni…
Dato il suo epiteto, era scontato che avrebbe dovuto osservare qualcosa… ma non si sarebbe mai immaginata di dover assistere a quello. Per quel poco che ne sapeva, quelle Prove non sarebbero state affatto rose e fiori. Magari avrebbero potuto essere anche fatali.
Fino a quel momento, per qualche motivo, quella ipotesi le era sembrata lontana ed improbabile – o forse era lei che, con già due perdite alle spalle, aveva voluto crederla tale –, ma adesso che si ritrovava “esterna” alla situazione vide quella debole certezza sgretolarsi in un attimo.
Avrebbe dovuto stare a guardare dei ragazzini, tra cui i suoi amici, privati della loro memoria ed abbandonati a loro stessi in ambienti ostili. E, probabilmente, una volta finite le Prove, non li avrebbe nemmeno rivisti tutti di persona…
La paura aveva di nuovo attraversato la sua barriera e adesso le strisciava attorno, avvicinandosi sempre di più a lei, come un serpente in attesa di mordere la sua preda.
La signorina Lichliter, che era stata capace di dirle una cosa tanto terribile in una maniera così semplice, come se fosse stata completamente normale, continuava a guardarla con i suoi occhi gelidi pieni di astio.
Ancora una volta il suo autocontrollo le era venuto in soccorso, impedendole di lasciar trapelare i suoi pensieri e di scoppiare in lacrime. Era riuscita ad apparire calma e tranquilla, nascondendo perfettamente le sue emozioni, in quella che ormai era diventata un’abitudine di cui non andava affatto fiera. Ma quel lungo silenzio l’aveva tradita, in quanto non poteva certo essere passato inosservato.
«Ti aspettavi qualcosa di diverso?», le chiese la donna, sporgendosi leggermente in avanti, come per osservarla meglio.
«No, direi di no», rispose, rintanandosi di nuovo dietro il suo muro.
«Stai mentendo», ribatté duramente la Lichliter. «Ti avverto, marmocchia: le bugie usale con qualcun altro, io le so riconoscere bene.»
Quella insistenza le sembrò una cosa davvero stupida: cosa diamine poteva importare a quelli della C.A.T.T.I.V.O. dell’idea che si era fatta riguardo a ciò che avrebbe dovuto affrontare? Eppure quando l’avevano portata via da casa non si erano fatti troppi problemi su quello che avrebbe potuto pensare.
Ma una cavia che pensa troppo non è una buona cavia…
«Sto aspettando la verità, A0.»
Doveva inventarsi qualcosa, la signorina Lichliter non pareva intenzionata a rinunciare ad una risposta. E si capiva benissimo anche solo guardandola negli occhi che non si sarebbe bevuta una semplice scusa. Quindi decise di dirle la verità… o meglio, una parte di verità.
«Stavo… stavo solo riflettendo.»
«Su cosa?», la incalzò la donna.
«Sul fatto che… mi sembra strano che io debba fare proprio questo.»
L’ostilità negli occhi grigi della sua interlocutrice venne rimpiazzato da una strana confusione. «Che vuoi dire con “strano”?», le domandò, ed anche il tono della sua voce suonò molto meno autoritario. Sembrava che con quella semplice risposta l’avesse spiazzata.
«Voglio dire… io devo soltanto osservare? Non devo fare nient’altro? Davvero vi tornerà utile questa cosa?» Scoprire quale sarebbe stato il suo ruolo non le aveva suscitato certo delle sensazioni piacevoli, ma, paradossalmente, sul piano razionale questa cosa la incuriosiva e non poco.
La signorina Lichliter si irrigidì e le parve offesa da quelle domande. «Stai dicendo che stiamo lavorando su un progetto che si rivelerà inutile?»
«Sto solo cercando di capire», rispose lei, pazientemente. «A che vi serve una bambina senza memoria… seduta a guardare dei monitor senza fare nulla?»
La donna la fissava basita, ma si ricompose in un attimo, ritornando ad essere gelida e professionale. «Quello che a te sembra “nulla” è la chiave del progetto che ti riguarda», disse, ma sembrava che stesse ripetendo a memoria una poesia. Suonava poco convinta, quasi meccanica… totalmente differente dai suoi colleghi che si infervoravano quando parlavano dei disegni della C.A.T.T.I.V.O. e ne lodavano fino allo sfinimento le intenzioni.
«Con le Variabili testiamo le vostre reazioni», proseguì, «Nel tuo caso, le reazioni a ciò che vedrai. La signorina McVoy ti avrà già detto che per farlo inseriremo un dispositivo nella zona della violenza tua e dei tuoi compagni, ma a te non verrà rimossa la memoria come agli altri… sarebbe del tutto controproducente».
Lei la guardò perplessa. «Niente Filtro, quindi?»
«Niente Filtro», confermò la donna, annuendo. «Ci serve che ricordi tutto, dato che qualche volta ti verrà chiesto di aiutarci ad elaborare alcuni dati ricavati dalle giornate di osservazione.»
Calò il silenzio e lei si prese qualche attimo per rielaborare le parole della signorina Lichliter, mentre quest’ultima continuava a squadrarla attentamente.
Se c’era una cosa che aveva capito in quei pochi giorni passati al Quartier Generale, e sulla quale non aveva il minimo dubbio, era che la C.A.T.T.I.V.O. non faceva mai niente per caso. Ogni cosa veniva decisa o accadeva per un motivo. E, certamente, anche i progetti che l’organizzazione aveva per lei non erano certo stati ideati perché un giorno qualcuno si era svegliato e si era reso conto che il cielo era più azzurro del solito.
Perché le sarebbero stati lasciati i suoi ricordi? Perché era stata scelta lei? Che cos’aveva di diverso dai suoi compagni per far parte di un altro progetto? E perché solo lei?
Alzò gli occhi, smettendo di fissare i pugni serrati posati sulle sue ginocchia e tornando a guardare in faccia la sua interlocutrice. «Perché solo io?», si decise a chiedere, rompendo quel silenzio che le sembrava durare da un’eternità.
La Lichliter scrollò le spalle con noncuranza, ma non le sembrò troppo convinta. «Non c’è un motivo particolare… semplicemente i due Gruppi erano già al completo quando ti abbiamo rintracciata, ma per alcuni miei colleghi sarebbe stato uno spreco non lavorare con te…»
O su di te.
«Ed è stata avanzata la proposta di inserirti in un nuovo progetto che in qualche modo si ricollegasse all’altro, in modo da non… perdere quest’occasione.»
«Capisco…», mormorò lei in risposta, anche se a dir la verità c’era qualcosa che non le quadrava in quella spiegazione. E, soprattutto, c’era qualcosa che non le quadrava nella Lichliter: aveva l’impressione che tutta quella faccenda del Progetto di Osservazione non le andasse troppo a genio.
«Bene, credo di averti detto tutto quello che ti dovevo dire», disse la donna con un tono più leggero, come se avesse appena portato a termine un compito molto fastidioso. «Se non hai altre domande dirò al signor Janson di venire a riprenderti.»
Non aspettò la sua risposta e sollevò alcuni dei fogli sparsi sulla scrivania, rivelando un piccolo apparecchio di forma ovale dalla liscia superficie argentata. Vi picchiettò pigramente sopra con le dita, come se stesse tracciando dei ghirigori immaginari.
Lei guardò sbalordita quello strano oggetto illuminarsi di una flebile luce rossa in uno strano disegno di punti e linee che andarono a formare la scritta “C.A.T.T.I.V.O. È BUONO”. Sentivano davvero il bisogno di inserire quello stupido ritornello ovunque…
«Signor Janson, abbiamo terminato», annunciò la signorina Lichliter, «Può riportare il Soggetto A0 alle esercitazioni, c’è voluto molto meno tempo del previsto». Non appena ebbe finito di parlare, tamburellò un paio di volte sul dispositivo, facendo sparire la scritta rossa, e si rilassò sulla poltrona, senza però smettere di lanciarle occhiate al vetriolo.
«Perché io sono il Soggetto A0 se non farò parte degli altri due gruppi?», chiese lei di punto in bianco. In un contesto normale sarebbe potuta apparire come una domanda sciocca… ma quello in cui si trovava lei non lo era affatto.
La signorina Lichliter sbuffò. «A cosa ti servirebbe sapere una cosa del genere?»
Lei fece un sorrisetto innocente, che sembrò decisamente far irritare la donna. «Sono solo curiosa», rispose, «Teresa è stata inserita nel Gruppo A e Aris nel Gruppo B, ma ci hanno detto che servirà a far capire agli altri che… le cose cambieranno. Ma io perché sono nel Gruppo A se devo osservare tutti e due i Gruppi?».
La donna si sistemò gli occhiali sul naso, sospirando, e parlò come se le stesse facendo una grande concessione, «Nel Gruppo A ci sono alcuni Soggetti… molto promettenti. Per questo l’osservazione del suddetto Gruppo avrà una leggera priorità su quella dell’altro. Soddisfatta?».
«Direi di sì, la ringrazio.»
Ladena Lichliter non era esattamente l’incarnazione dell’affabilità – come non lo era stata quella Ellen che, assieme a Jack, l’aveva scortata nel luogo in cui si trovava adesso –, ma paradossalmente si ritrovò a pensare che la preferiva di gran lunga a quel branco di individui ipocriti che tentavano di usare la gentilezza per far sembrare innocenti le loro azioni.
Non si dissero più nulla e aspettarono in religioso silenzio che Janson si presentasse davanti alla porta dell’ufficio. La signorina Lichliter non smise di guardarla con sospetto neanche per un attimo, come se fosse stata una pericolosa criminale da tenere costantemente sott’occhio…
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Capitolo 12
*** 11. ***


11.
 
Cercò di nuovo di concentrarsi sul libro di storia che aveva davanti, ma le parole della signorina Lichliter continuavano a risuonarle nelle orecchie, distraendola.
“Il tuo compito consisterà nell’assistere alle Prove che il Gruppo A e il Gruppo B dovranno affrontare.” Non era di certo il tipo di frase che ci si poteva lasciare alle spalle uscendo da un ufficio e chiudendo una porta.
In più, prendere un testo a caso dalle imponenti librerie che rivestivano le pareti di quella enorme stanza, adibita a sala studio, non era stata una decisione propriamente felice: il libro che le era capitato sottomano era tutt’altro che semplice. Un tomo alto più di cinque centimetri sulla guerra del 2020, scritto in modo talmente pesante che chiamarlo soporifero sarebbe stato come fargli un complimento.
Certo, zia Maggie era stata una più che valida insegnante e, nei due anni in cui l’aveva fatta studiare a casa, era riuscita ad abituarla a libri abbastanza tosti e a metodi e ritmi di studio molto maturi per la sua età. Ma lei rimaneva pur sempre una bambina e in alcuni momenti questo non troppo trascurabile particolare si faceva sentire con insistenza.
E questo era uno di quei momenti. E quel libro era dannatamente pesante. E non poteva nemmeno chiacchierare un po’ con Teresa, visto che lei e Thomas dovevano studiare assieme ed erano sorvegliati a vista dall’Uomo Ratto. E avrebbe dovuto assistere alle Prove del Gruppo A e del Gruppo B.
E tutto quel silenzio le stava facendo scoppiare la testa. E probabilmente chissà quante cose non le aveva detto la Lichliter. E quei tizi col camice che girovagavano per la sala dando aiuti o spiegazioni le sembravano molto più dei cani da guardia che degli insegnanti. E avrebbe dovuto assistere alle Prove del Gruppo A e del Gruppo B.
E il bianco del Quartier Generale non era lontanamente paragonabile al verde della sua Irlanda. E lo stare sempre chiusa in quell’edificio senza mai uscire prima o poi l’avrebbe fatta impazzire. E il passato quella notte sarebbe tornato. E avrebbe dovuto assistere alle Prove del Gruppo A e del Gruppo B.
Basta… basta…
Sospirò, prendendosi la testa tra le mani come a voler liberare la mente da quei pensieri e facendo uno sforzo sovrumano per non scaraventare via quello stupido mattone.
«Le pagine me le giro da solo, grazie», sussurrò qualcuno.
Alzò la testa di scatto, ritrovandosi davanti Newt. Giocherellava rigirandosi una penna tra le dita e anche lui aveva un libro aperto di fronte a sé, oltre ad un piccolo blocco note da cui erano state strappate ed accartocciate diverse pagine.
«Quello, più che un sospiro, sembrava uno sbuffo di vento da quanto era forte», disse il ragazzino, con un’aria piuttosto divertita.
Si sentì andare le orecchie a fuoco. Come diamine aveva fatto a non accorgersi che si era seduto proprio di fronte a lei? E menomale che avrebbe dovuto essere un’osservatrice!
«Scusami», mormorò imbarazzata, anche se da una parte era contenta di riuscire a parlare con Newt senza andare in confusione.
Sto facendo progressi…
Lui scosse la testa con un sorriso, come a voler dire “Ma figurati” e il suo stomaco ricominciò a fare le capriole. Ormai non se ne stupiva più.
«Sei qui da parecchio?», gli domandò.
«Una decina di minuti, più o meno», rispose Newt tranquillamente, facendola rimanere di sasso.
«Dieci minuti…», ripeté lei con un filo di voce, sentendosi incredibilmente stupida, «… me ne sono accorta solo ora…».
«È perché sono un ninja perfetto», sorrise il biondino, fingendo di darsi delle arie. «Ma anche perché tu avevi gli occhi incollati alle pagine», aggiunse, indicando il libro di fronte a lei.
E la testa troppo piena…
«Ma… avresti potuto chiamarmi…»
Newt la guardò perplesso per un attimo, poi le sorrise di nuovo. «L’ho fatto… tre volte a dire la verità, poi ho smesso per non darti fastidio. Questa è stata la quarta.»
Lo fissò esterrefatta e dentro di sé si diede della stupida almeno una quindicina di volte in una manciata di secondi. Era seduto di fronte a lei da dieci minuti, aveva provato a parlarle quattro volte e lei l’aveva sentito solo all’ultimo tentativo.
«Newt…», balbettò, dopo essere riuscita a riprendersi, «… scusami, non mi davi fastidio, ma stavo pensando a tutt’altro e non mi sono accorta di nulla…».
Lui agitò la mano come per scacciare via qualcosa. «Va tutto bene, me l’ero immaginato», le disse, facendole l’occhiolino.
E lei si ritrovò ad arrossire e a pensare che fosse incredibilmente carino. I suoi capelli erano parecchio arruffati – probabilmente non gli piaceva molto pettinarsi – e di una tonalità leggermente più scura rispetto a quella color miele di Lizzie, con delle calde sfumature castano ramate. Aveva uno sguardo furbo ed intelligente e i suoi vispi occhi scuri le ricordavano quelli delle volpi che qualche volta le era capitato di vedere durante le sue “esplorazioni”.
Newt si allungò leggermente sul tavolo, sporgendosi verso di lei e riportandola alla realtà. I suoi occhi si erano improvvisamente assottigliati e l’espressione divertita aveva lasciato il posto ad un’aria molto seria e concentrata. Fino a quel momento avevano bisbigliato, ma lui riuscì ad abbassare ancora di più la voce, riducendosi quasi a muovere semplicemente le labbra, «Pianificavi un nuovo crimine per stanotte?».
Sgranò gli occhi e rimase a fissarlo interdetta per qualche secondo, prima di capire che Newt stava solo facendo finta di essere serio. I lineamenti del ragazzino infatti subito dopo tornarono a distendersi in quell’espressione scanzonata di poco prima.
Ma quanto devi essere tonta?!
Gli sorrise di rimando, arrossendo ancora, e cercò di stare al suo gioco. «Può darsi…», mormorò, sollevando il mento e cercando di darsi delle arie da agente segreto.
«Voi irlandesi siete proprio dei criminali», fece lui, fingendosi esageratamente indignato.
Gonfiò le guance e gli fece la linguaccia. «E voi inglesi usate il tè anche per farvi il bagno», ribatté, guadagnandosi uno sguardo stranito da parte del suo interlocutore.
«E questo adesso che cosa c’entra?»
Lei scrollò le spalle. «Non lo so, mi è uscito così…»
Si guardarono in silenzio per un po’, come se nessuno dei due sapesse bene che cosa dire dopo quella affermazione, poi entrambi sorrisero quasi simultaneamente.
«Tregua?», propose Newt.
Lei annuì. «Tregua.»
«Che leggi?», le chiese il biondino, indicando il libro che aveva preso.
Sfogliò svogliatamente qualche pagina. «È sul conflitto del 2020, ma è noioso… e poi le guerre non mi sono mai piaciute.»
«E allora perché l’hai preso?»
«In realtà ero talmente sovrappensiero che ho preso un libro a caso», rispose lei con un’alzata di spalle e un sorrisetto imbarazzato. «Tu invece cosa stai leggendo?»
Newt sospirò e non le sembrò particolarmente entusiasta. «Se te lo dico non ci credi, quindi è meglio se ti faccio vedere la copertina», disse e sollevò il libro, mostrando che si trattava di un dizionario di lingua giapponese.
Il suo sguardo rimbalzò diverse volte tra la scritta stampata sul dorso del libro e il volto di Newt, prima di fermarsi su quest’ultimo.
«Ho fatto una scommessa con Minho», proseguì lui, che probabilmente doveva aver intuito la sua domanda. «Ci siamo sfidati e dobbiamo imparare venti parole in giapponese entro stasera.»
«Tu e Minho scommettete parecchio, eh?», gli chiese, lasciandosi sfuggire un sorriso.
Un po’ li ammirava: riuscivano a scherzare e ad essere così umani pure in una situazione come quella. Sembrava che nulla li turbasse o li spaventasse abbastanza da togliere loro il sorriso e la voglia di giocare. E quando si ritrovava ad aver a che fare con loro anche lei riusciva in qualche modo a distrarsi. Anche adesso, chiacchierare semplicemente con Newt le aveva liberato un po’ la mente da quei pensieri assillanti sulle Prove e tutto il resto.
Si sentiva quasi una bambina normale.
«Sì e vinco sempre io», affermò compiaciuto Newt.
«Anche su chi è più vanitoso?», ridacchiò lei.
Per tutta risposta, il biondino le lanciò una delle sue palline di carta dritta sul naso, facendo il finto offeso.
«Ehi!», lo riprese lei, cercando di non alzare troppo la voce. «Non sei leale, inglesino! Io non ho munizioni!», e gli fece la linguaccia.
Newt si portò una mano alla fronte con fare melodrammatico. «La tregua è finita», mormorò con un esagerato tono sofferente, come se lei l’avesse ferito a morte. «Mi hai offeso… non posso perdonarti…»
Scosse la testa, trattenendo una risata, poi raccolse la pallina di carta e gliela rilanciò contro, beccandolo in fronte. «Piantala.»
Lui fece un’ultima smorfia contrariata, poi abbandonò la sua messinscena tragica con una scrollata di spalle ed un leggero sorriso. «Agli ordini, Jo», rispose, drizzando la schiena e facendo il saluto militare.
Lo guardò con tanto d’occhi. «Newt… per favore, “Jo” no: è da maschio», protestò.
Il ragazzino però alzò un sopracciglio con un’aria non troppo convinta: evidentemente non sembrava trovare valida quella motivazione.
Si rese conto che avrebbe dovuto rincarare la dose. «Dai, Minho mi prenderà in giro fino alla morte se ti sente chiamarmi così. Già me lo sento…», gli disse. «Per favore», aggiunse poi, utilizzando un tono supplichevole e mettendo in gioco la faccia che sua zia era solita chiamare “da cucciolo spaurito”.
Newt riuscì a resistere per qualche istante, poi finalmente cedette. «E va bene, vorrà dire che ti troverò un altro soprannome…»
Lei annuì e gli sorrise con un misto di soddisfazione e di gratitudine.
Il biondino si grattò la nuca e le sembrò che fosse leggermente arrossito.
Ripresero entrambi a dedicarsi ai libri che avevano davanti e calò di nuovo il silenzio, fino a quel momento rotto dai loro sussurri.
Passarono diversi minuti, e lei stava giusto riuscendo a farsi entrare – finalmente – qualcosa in testa quando un’altra pallina di carta la raggiunse di nuovo sul naso.
Alzò la testa per guardare l’ovvio lanciatore che le mostrava il suo dizionario, indicando una pagina tutto contento. Prima che potesse chiedergli il motivo della sua gioia, Newt esultò, facendo comunque del suo meglio per non alzare la voce. «L’ho trovato, questo ti piacerà, ne sono sicuro!»
Le passò il testo. «Quinta riga», le disse soltanto.
Seguì quell’indicazione e vide un simbolo che in qualche modo le ricordava un po’ un albero stilizzato e che doveva essere l’ideogramma della parola, seguito poi dalla scritta “Han – metà; mezzo; mezza parte”.
«Ti piace Han?», le domandò Newt, guardandola speranzoso.
Se lo ripeté a mente diverse volte, poi provò a mormorarlo per sentire come le suonava pronunciato da lei. «Han… sì, mi piace», disse, restituendogli il dizionario con un sorriso e questo parve rendere Newt ancora più contento.
«Lo sapevo», fece lui allegramente. «C’è anche Hana che vuol dire fiore, ma secondo me ti sta meglio Han.»
«Sì, piace di più anche a me.»
Lui le tese la mano. «Han, allora?»
«Han», confermò lei, annuendo e stringendola.
 
… ma sì, stavolta lo scrivo in fondo.
 
Salve Pive! :)
Oddio, mi sembra una vita che non aggiorno, con questo capitolo (che spero vi sia piaciuto) mi era preso un po’ un blocco…
La trama qui non è andata molto avanti, ma volevo far interagire un pochino questi due pargoletti. Comunque non preoccupatevi, dal prossimo capitolo torna Johanna, anzi Han in versione 007.
Ringrazio tantissimo l’autrice first day greenie che mi ha risolto la questione del soprannome, dandomi il là per ricamarci sopra tutta questa cosa della metà. Grazieee :3
Tra pochi capitoli dovrebbe iniziare l’azione (scusatemi, sono lenta lo so, ma vi assicuro che è necessario… poi capirete) e arriverà pure la nuova copertina (a proposito, sono riuscita a scendere a patti con la tecnologia ed ho rifatto quella del primo capitolo), fatta dalla bravissima Stillintoyou che è stata davvero una santa. Grazie mille! :D
E ovviamente un grazie immenso a voi che leggete/recensite/avete messo tra le seguite/preferite/ricordate questa storia: riuscite a farmi passare anche il blocco dello scrittore!
Al prossimo capitolo e grazie ancora!
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Capitolo 13
*** 12. ***


12.
 
Raggiunse l’ufficio della signorina Lichliter senza intoppi e stavolta non udì alcuna voce o rumore quando accostò l’orecchio alla porta. Anche dalla fessura sotto di essa sembrava non filtrare nemmeno una piccola striscia di luce. Con il cuore che le martellava nel petto, avvicinò cautamente una mano al pannello sulla parete lo premette.
Ci fu il solito clic e dopo un attimo l’uscio si aprì. La luce era spenta e l’ufficio era immerso nel buio. Si lasciò andare ad un enorme sospiro di sollievo quando, dopo aver richiuso la porta e acceso la luce, vide confermate le sue supposizioni: non c’era nessuno.
La mezzanotte era passata da un po’ – aveva deciso che valeva la pena rinunciare a qualche ora di sonno pur di non rischiare di incappare di nuovo nella guardia della notte prima – però le sembrava un po’ insolito che in un posto come quello qualcuno potesse ritirarsi senza chiudere la porta a chiave. Magari la signorina Lichliter se n’era semplicemente dimenticata. O magari era uscita solo temporaneamente.
E se è così mi devo dare una mossa.
Si diresse subito alla scrivania, su cui c’era lo stesso disordine che aveva visto quel pomeriggio. Scartoffie su scartoffie, fogli su fogli, documenti su documenti. C’era davvero l’imbarazzo della scelta per iniziare a spulciare.
Decise di cominciare da un fascicolo piuttosto corposo con su scritto “Gruppo A” che sembrava promettere piuttosto bene, ma non fece in tempo nemmeno a sfogliarlo che uno strano scintillio argenteo al margine sinistro del suo campo visivo catturò la sua attenzione. Si voltò per vedere da che cosa provenisse e individuò tra i fogli lo stesso… affare – non sapeva come altro definirlo – con cui quel pomeriggio la signorina Lichliter aveva contattato l’Uomo Ratto per comunicargli di venire a prenderla dopo la fine del loro colloquio.
Lo osservò incuriosita per diversi istanti, lasciando del tutto perdere il fascicolo e chiedendosi cosa sarebbe potuto succedere se avesse allungato una mano per sfiorare quell’apparecchio. Sì immaginò di tutto: dallo scatto di un allarme ad una piccola scossa elettrica, dal niente più assoluto alla fragorosa autodistruzione dell’intero edificio…
Ma sobbalzò quando tutto d’un tratto, senza che lei avesse fatto nulla, vide ricomparire quelle strane lucine rosse che qualche ora prima avevano formato la scritta “C.A.T.T.I.V.O. È BUONO” e che adesso invece si composero in una semplice sigla: “D. M. G.”.
Ci mise un po’ per calmarsi e per convincersi che, no, quello strano affare non le aveva “letto nel pensiero” e che, sì, probabilmente si era attivato da solo ed era una cosa assolutamente normale. Una volta che ci fu riuscita, lo scrutò attentamente.
D. M. G.
Cosa poteva voler significare – oltre al fatto che la C.A.T.T.I.V.O. sembrava avere un’innata passione per gli acronimi?
La scritta si mise a lampeggiare e la tentazione di toccare quell’oggetto tornò a ripresentarsi. Si ritrovò a picchiettare con l’indice sulla gelida superficie argentata, ma non accadde niente. Provò anche a seguire le linee di quelle tre lettere, ma di nuovo il risultato fu nullo. Il dispositivo doveva essere bloccato e forse c’era bisogno di una “sequenza” particolare per sbloccarlo, come accadeva per i tablet o per i cellulari. Provò anche con “C.A.T.T.I.V.O.”, “C.A.T.T.I.V.O. È BUONO” e persino con “LADENA LICHLITER”, ma nessuno di questi tentativi andò a buon fine e quella scritta rossa continuò a lampeggiare, come se avesse voluto beffarsi di lei.
L’unica cosa che aveva scoperto era che sicuramente doveva trattarsi di una parola più corta, dato che la Lichliter ci aveva messo molto meno a digitarla. Dentro di sé, rimpianse di non aver prestato attenzione ai segni che le aveva visto tracciare.
Un improvviso rumore di passi sempre più vicini le fece letteralmente gelare il sangue e si voltò spaesata verso la porta. Era sicura che si trattasse della Lichliter. E, se le sue orecchie non la ingannavano, assieme alla donna doveva esserci qualcun altro.
Si guardò attorno, cercando di mantenere la calma e di capire cosa fare. Sarebbe potuta sgattaiolare fuori approfittando delle zone d’ombra, ma era piuttosto improbabile che nessuna delle persone che stavano arrivando non si accorgesse di lei.
Al suono dei passi si aggiunsero delle voci. Erano due e, anche se non riusciva ancora a capire che cosa si stessero dicendo, suonavano maledettamente familiari alle sue orecchie.
Erano le voci di Jack e di Ladena Lichliter.
Ed erano troppo vicine.
Le sue mani trovarono il bordo della scrivania dietro di lei e vi si aggrapparono, come se questo avesse potuto darle forza. Non le piaceva sentirsi così, si odiava quando succedeva, ma aveva paura. Aveva dannatamente paura. Quasi senza accorgersene, indietreggiò leggermente e la sua gamba urtò qualcosa. E quando lanciò un’occhiata a quel qualcosa le sembrò di vedere il paradiso. La scrivania era fatta in modo da coprire interamente le gambe dell’occupante.
Era una cosa semplice, ma era anche la sua unica possibilità, quindi corse a spegnere la luce e si nascose senza fare troppi complimenti, rannicchiandosi il più possibile in un angolino e sperando con tutta se stessa di avere fortuna. Fece appena in tempo.
Udì di nuovo il clic della porta e subito dopo si accese la luce. Trattenne il respiro e chiuse gli occhi quando sentì i due entrare nella stanza.
Stai calma, stai calma, stai calma…
«Non mi piace questa faccenda, Jack, te lo ripeto», disse la Lichliter e sembrava decisamente preoccupata. «Non mi piaceva prima e non mi piace nemmeno adesso.»
«Ma ci hai parlato, non è stato abbastanza?», fece lui con il suo solito tono scanzonato.
Stai calma, stai calma, stai calma…
«Al contrario, direi che è stato anche troppo», ribatté la donna, lasciando che la sua inquietudine si macchiasse leggermente di acidità. «Ed è esattamente per questo motivo che la faccenda mi piace ancora meno.»
Jack ridacchiò – le sembrò quasi di trovarselo davanti da quante volte gliel’aveva visto fare. «Sai che quello che stai dicendo non ha senso, vero?»
Stai calma, stai calma, stai calma…
«Non ha senso? Jack, ma tu ci hai avuto veramente a che fare? Quella bambina… quella bambina non è normale
Spalancò gli occhi e fu come se qualcosa l’avesse punta all’improvviso, dando il via libera ad una corsa di innumerevoli brividi lungo la sua spina dorsale. Ma non erano brividi di paura. Come non era stata la paura ad averle mozzato il respiro. Aguzzò le orecchie, improvvisamente incuriosita dalla conversazione.
«Oh andiamo, non esagerare», fece lui. Un attimo dopo la scrivania si mosse lievemente. Forse vi si era appoggiato.
A quella semplice frase la donna scattò come una molla, facendola quasi sussultare per la sorpresa. «Io non sto esagerando! Oggi pomeriggio mi è sembrato di trovarmi davanti tutto fuorché una bambina di sette anni. C’è qualcosa di strano in lei e non è una cosa positiva. Non porterà niente di buono, me lo sento.»
Stavano parlando di lei, non aveva dubbi. Il suo “nome” non era stato fatto, ma era piuttosto ovvio, a meno che la signorina Lichliter non avesse avuto un altro caso di odio a prima vista con un’altra bambina di sette anni durante quello stesso pomeriggio.
Aveva capito di non averle suscitato una buona impressione – la cosa non era stata tenuta troppo nascosta – ma il sentirsi descrivere in quel modo la spiazzò: davvero dava l’idea di essere così… insolita? Talmente insolita da riuscire a turbare una donna adulta?
Jack sospirò. «Ladena, ne abbiamo già parlato… sì, è intelligente, parecchio intelligente e per qualche motivo riesce a ragionare in maniera molto adulta e matura per l’età che ha, ma è proprio per queste sue caratteristiche che è qui. Beh, oltre al fatto che…»
«Oh, per favore, Jack!», lo interruppe bruscamente la Lichliter. «Questa è proprio l’ultima cosa che ho bisogno di sentire adesso!»
«Va bene, va bene. Ti chiedo scusa», fece lui pacatamente. «Non volevo farti agitare.»
La donna inspirò profondamente, come per calmarsi. «È che sono a pezzi… tutta questa faccenda… io non credo di poterla reggere.»
«Hai solo bisogno di dormire, tutto qui. Prendo il fascicolo che mi serve e andiamo.»
«D’accordo… è lì sulla scrivania, oggi non ho avuto tempo di rimettere a posto.»
Avvertì un rumore di fogli che venivano spostati proprio sopra la sua testa e si sentì inondare da un misto di diverse sensazioni. Sollievo per il fatto che se ne stessero andando e allo stesso tempo un turbamento che l’avrebbe lasciata solo una volta che quei due fossero definitivamente usciti dalla stanza. Ma soprattutto, c’era l’incredibile curiosità che tutta quella situazione le aveva messo addosso.
«Eccolo, “Gruppo A”. Ah, credo ti sia arrivato un messaggio: è da quando siamo entrati che vedo lampeggiare il Trasmittente.»
«Fa’ vedere.» Dopo qualche attimo la Lichliter schioccò la lingua. «Ci mancava solo questa», commentò stancamente. «Bah, sentiamo che cos’ha da dirmi.»
Una strana voce metallizzata che rendeva impossibile capire l’età del parlante, o se quest’ultimo fosse maschio o femmina, si diffuse nella stanza. «Signorina Lichliter, posso assicurarle che dagli esami effettuati non è stato rilevato alcun dato per cui valga la pena preoccuparsi. Se tuttavia dovessero esserci ancora dei dubbi, la invito a presentarsi domattina al Laboratorio 742 e le fornirò volentieri tutti i chiarimenti di cui ha bisogno. Buonanotte.»
«Sentito?», fece Jack. «È tutto sotto controllo.»
«Beato te che hai questa certezza», mormorò lei, mestamente. «Vieni.»
La scrivania si mosse di nuovo e questo le fece capire che Jack si era alzato.
Una volta che se ne furono andati, finalmente si lasciò andare ad un enorme sospiro di sollievo. Sgattaiolò fuori dal suo nascondiglio ancora incredula per il non essere stata scoperta e si accorse che le gambe le tremavano leggermente. Se non altro, aveva smesso di sudare freddo. Si concesse qualche minuto per riprendersi del tutto, poi si avviò verso la porta.
Quando Jack e Ladena erano andati via avevano sicuramente chiuso la porta dall’esterno, ma non era un problema visto che dall’interno poteva essere aperta lo stesso. Aveva imparato che tutte le porte alla C.A.T.T.I.V.O. funzionavano in quel modo.
Premette il pannello a muro – dopo aver tastato un po’ alla cieca per via del buio – e attese il clic. Ma quando la porta si aprì, per poco non si sentì mancare.
Proprio di fronte a lei, con i capelli raccolti sulla nuca e l’espressione severa, c’era Ellen.
Sentì il sangue defluirle dal viso e strinse le mani a pugno quasi fino a farsi male, cercando di fare in modo che la calma non la abbandonasse definitivamente. Non l’aveva minimamente sentita arrivare e le si seccò la gola quando notò che la donna aveva un’arma tra le mani. Non ne aveva mai vista una simile, ma quella luce azzurra e quegli strani scoppiettii metallici all’interno del tubo trasparente, che sembrava essere il cuore del dispositivo, non avevano un aspetto propriamente rassicurante.
Ellen la guardò in cagnesco e strinse saldamente quella sorta di fucile.
La paura provata poco prima le sembrava uno scherzo in confronto a quella di adesso, ma si impose di rimanere immobile, di farsi forza e di sostenere lo sguardo della donna.
Ironia della sorte, proprio ora che stava per morire davvero, nelle sue orecchie non risuonò l’urlo di alcuna Banshee…
Ma Ellen, contro ogni aspettativa, si spostò da una parte con un sospiro esausto. «Tornatene in camera e vedi di sbrigarti», le disse soltanto, senza la minima inflessione nella voce.
Lei la fissò incredula e per un attimo fu come se il tempo si fosse congelato, con quelle parole che continuavano ad aleggiare sulle loro teste.
Riuscire a parlare sembrava immensamente difficile, ma ci provò comunque. «C-cosa?», farfugliò, sicura di aver capito male.
Invece Ellen sembrava aver detto proprio quello. «Tornatene in camera», ripeté, scandendo bene ogni parola, come se lei fosse stata dura d’orecchio.
L’aveva sorpresa a ficcanasare e adesso la stava lasciando andare senza farle nulla? Le sembrava impossibile. «Ma…»
«Stammi a sentire», la interruppe Ellen, «Hai voluto giocare alla piccola spia e non voglio sapere che cosa speravi di trovare: non mi interessa. Se vuoi fare il tour notturno del Quartier Generale sei liberissima di farlo, per quanto mi riguarda, ma stai lontana dall’area degli uffici. Da domani farò aumentare la sorveglianza e mi assicurerò personalmente che ogni porta venga chiusa a chiave. Se ti becco di nuovo qui…», si fermò per lanciare un significativo sguardo all’arma che imbracciava e lei si ritrovò a deglutire nervosamente.
«Non credere di poter avere la stessa fortuna di stanotte: l’unica cosa positiva che farò sarà riconoscere che hai davvero un bel fegato. Sono stata chiara?»
Affondò le unghie nei palmi e si costrinse ad annuire. «Cristallina», disse soltanto, riuscendo per miracolo a fare in modo che la sua voce non tremasse.
Ellen la osservò a lungo, poi la liquidò con un secco cenno del capo. «Ora vai, ci penso io a chiudere la porta.»
Le obbedì, muovendosi quasi come se fosse stata in trance e sentendosi scioccamente leggera. Era talmente frastornata e tutto sembrava continuare a ripassarle davanti agli occhi che si accorse solo dopo di aver superato di almeno cinque metri la porta della sua stanza.
Soltanto quando si mise sotto le coperte, con il viso rivolto verso il soffitto, riuscì a realizzare cos’era accaduto. E, soprattutto, che era ancora viva.
La stanchezza arrivò tutta insieme subito dopo e il sonno le chiuse gli occhi.
Sono ancora viva, riuscì a pensare appena prima di addormentarsi.
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Capitolo 14
*** 13. ***


13.
 
Sono ancora viva.
Quelle tre parole continuano a rimbombarle nella testa da quando è stata portata in quella stanzetta spoglia. Ma da quanto tempo si trova lì? Minuti? Ore? Giorni? Non lo sa più nemmeno lei.
Il signore che l’ha trovata nel bosco mentre vagava senza meta, dopo aver capito che qualsiasi domanda che le avesse fatto non avrebbe ottenuto alcuna risposta, se n’è andato lasciandola da sola e non si è più fatto vedere.
È seduta immobile su una brandina sgangherata, con le gambe penzoloni, lo sguardo perso nel vuoto e la schiena ingobbita, come se un enorme macigno le gravasse sulle spalle. Se nelle sue orecchie risuonano parole che potrebbero sembrare di speranza, le scene che non fanno altro che passare davanti ai suoi occhi sono tutto un altro paio di maniche.
Prima suo padre, poi sua madre, poi i loro volti che si sovrappongono, i loro sguardi malati che si concentrano in uno solo e i loro gesti folli che si combinano in un assurdo e macabro spettacolo di rabbia, pazzia… e morte.
Sono ancora viva.
È sfinita e si sente vuota, come se assieme alle lacrime avesse versato fuori ogni cosa, lasciandosi dentro nient’altro che lo spazio per dei ricordi orribili, talmente vividi che gli odori di sangue e di bruciato sembrano ancora prenderla alla gola. E, oltre ai ricordi, c’è il dolore ed è come se la infilzasse senza sosta dall’interno, lacerandole la carne.
Sta male, dannatamente male, ma ha la gola talmente secca che non riesce ad emettere neanche il più piccolo lamento.
Crolla distesa su un fianco senza quasi rendersene conto e raccoglie le ginocchia contro il petto, pensando che forse sarebbe meglio dormire. Non sa cos’altro fare, non ha idea di come comportarsi, non sa cosa sia giusto dire o pensare. L’unica cosa che vorrebbe fare è piangere, ma ha finito le lacrime e gli occhi le bruciano in maniera quasi insopportabile.
Si rannicchia ancora di più su se stessa, come se questo potesse farla sentire in qualche modo protetta. Non è triste per essersi salvata, anzi, sa bene che se si presentasse di nuovo l’occasione di scappare via da casa sua per vivere, lei non se la lascerebbe certo scappare. Quindi no, non è triste per questo, ma non riesce nemmeno ad esserne felice. I suoi genitori sono morti e lei è lì, in un luogo che non conosce, da sola, senza nemmeno più una casa dove poter tornare.
Sono ancora viva.
Di nuovo quelle tre parole. Sì, è ancora viva, ma che cosa farà adesso?
 
Un rumore di passi e di voci la fa svegliare all’improvviso, facendola sussultare. E, ancora prima di aprire gli occhi, le sue mani corrono a toccare la fronte e a massaggiare le tempie.
Le fa male la testa.
Dopo un attimo di spaesamento, quella constatazione la getta nel panico, facendola scattare in piedi completamente sveglia, anche se le gambe sembrano riuscire a sorreggerla per puro miracolo. Trema, guardandosi attorno come se si aspettasse di poter essere attaccata da qualcosa da un momento all’altro. Non può avere mal di testa. Non deve avere mal di testa.
La porta si spalanca, facendole quasi perdere un battito, e l’uomo che l’ha portata lì fa il suo ingresso nella stanza. Sembra rimanere un attimo interdetto quando la vede in piedi, ma si ricompone immediatamente. Ora che lo guarda meglio, si rende conto di conoscerlo. È il signor Moore, l’anziano contadino che, quando è stagione, le regala sempre un po’ delle sue fragole. «L’avevo lasciata qui a riposare, ma adesso è sveglia. Venga.»
Subito dopo quelle parole, entra anche una donna. Ha un’aria severa, anche se leggermente preoccupata. Dimostra non più di una trentina d’anni e ha lunghi capelli fulvi, impeccabilmente raccolti in una stretta treccia, e un viso pallido e sottile dai lineamenti un po’ spigolosi, su cui spiccano dei vigili occhi castani dal taglio allungato. Le ci vuole qualche attimo per riconoscerla, ma non ha dubbi: è sua zia Maggie.
La guarda in silenzio, la paura rimpiazzata dalla confusione, mentre il mal di testa continua a martellarle le tempie. È sua zia, d’accordo, ma sono passati mesi dall’ultima volta che si sono viste e non sa assolutamente che cosa dirle o come relazionarsi con lei. Da quanto ricorda, sua zia non è mai stata troppo entusiasta nei confronti delle smancerie o del contatto fisico.
«L’ho trovata ieri sera nel bosco», dice il signor Moore e si rende conto che si sta riferendo a lei.
Ieri sera. Quindi è da ieri sera che si trova lì.
«Vagava come un’anima in pena ed era praticamente stravolta. Quando le parlavo sembrava che non mi sentisse né mi vedesse. È probabile che non mi abbia nemmeno riconosciuto.»
Zia Maggie non le toglie gli occhi di dosso e continua a tormentarsi nervosamente le mani in grembo. «E a mia… mia sorella e a suo marito… cos’è successo?», domanda, con un leggero tremito nella voce.
«Sono andato fino a casa loro questa mattina, appena è sorto il sole», mormora l’uomo, improvvisamente a disagio. «Ma…», deglutisce, guardandola come un condannato guarda un giudice e non come un anziano guarda una bambina. «… ma non li ho trovati. Non entrambi, almeno. E la casa…»
«Ho capito», lo interrompe lei ed i suoi occhi sembrano essersi fatti leggermente lucidi. «Potrebbe lasciarmi un attimo da sola con mia nipote, per favore?»
Il signor Moore annuisce. «Certo», risponde soltanto ed esce immediatamente dalla stanza, chiudendosi la vecchia porta scricchiolante alle spalle.
Lei e zia Maggie si osservano in silenzio a vicenda, ma dopo un po’ il dolore alla testa la costringe a tornare a sedersi sul letto. Si abbraccia le gambe, sistemando la schiena contro il muro e posando la fronte sulle ginocchia.
Sente dei passi leggeri sul legno del pavimento, poi avverte il materasso cigolare leggermente alla sua sinistra. Non ha bisogno di alzare gli occhi per vedere che sua zia le si è seduta accanto.
«Dio, odio i momenti come questi», sospira la donna. «Non sai mai se quello che dici è giusto o no e io in generale non me la sono mai cavata bene. Sai, è sempre stata Meaghan quella brava in queste cose.»
Lei non dice niente, lasciando che cali ancora una volta il silenzio e che il nome di sua madre aleggi sopra di loro come un’invocazione. La testa le fa sempre più male e i volti stravolti dalla follia dei suoi genitori non ne vogliono sapere di lasciarla in pace.
La sente singhiozzare leggermente. «Bah, lei se ne uscirebbe senz’altro fuori con uno dei suoi abbracci. Lei e Aaron erano convinti che potessero risolvere tutto», prosegue, con la voce incrinata.
Anche stavolta, lei non risponde nulla. Se li ricorda bene gli abbracci dei suoi genitori. Se li ricorda dannatamente bene.
Zia Maggie prende un respiro profondo. «Senti, ormai l’avrai capito che sono venuta qui a prenderti, quindi… quindi direi di andare, va bene?» Il materasso cigola di nuovo quando si alza e lei si decide a sollevare lo sguardo.
Ha i pugni stretti, il viso tirato e gli occhi rossi. Non ci vuole certo un genio per capire che sta trattenendo le lacrime. Non si sarebbe mai aspettata di vedere sua zia – la “zia generale”, come la chiamava scherzosamente suo padre quando le parlava di lei – così fragile, ma forse è proprio questo che gliela fa sentire vicina e che le da finalmente il coraggio di aprire bocca. «Mi abbracci, per favore?», le chiede con un filo di voce.
Zia Maggie sposta nervosamente il peso da un piede all’altro senza dire nulla, poi si siede nuovamente sul letto e la stringe goffamente a sé. E in quell’abbraccio impacciato, ma rassicurante, lei si sente finalmente salva.
È ancora viva. E non è sola.
Ma quel sollievo non dura che pochi secondi e le parole le escono di bocca prima che possa fermarle. «Zia, mi fa tanto male la testa… sto per impazzire anch’io?»
 
Ha sete e si sente la gola terribilmente secca. Si alza dal letto, rabbrividendo leggermente per l’aria fresca che le si infiltra sotto il pigiama, ed esce dalla sua stanza per andare in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Scende la scaletta a chiocciola, stando attenta a non inciampare, anche se al buio non è per niente semplice.
Dorme in mansarda, nonostante l’iniziale disaccordo di zia Maggie, che avrebbe preferito risistemare per lei una delle due camere inutilizzate al primo piano. Ha adorato quella stanza dal primo momento in cui l’ha vista: per entrare non c’è una porta, ma una specie di botola e hanno sistemato il suo letto esattamente sotto la finestra, in modo che lei prima di dormire possa guardare il cielo.
Ormai sono circa due anni che vive con sua zia in un villaggio a poca distanza da quello in cui è nata. I primi tempi non sono stati affatto facili, soprattutto a causa degli incubi che l’hanno tormentata per più di sei mesi, ripresentandole notte dopo notte il passato e facendola svegliare in preda al panico e alle grida, lasciandola poi incapace di riprendere sonno. Alla fine non è impazzita, la zia le ha spiegato che il suo era un “semplice” mal di testa da stress e che non era malata come i suoi genitori – loro avevano preso l’Eruzione, una malattia dal nome spaventoso –, ma quegli incubi l’hanno portata pericolosamente vicina a perdere il lume della ragione.
Anche l’abituarsi l’una alla presenza dell’altra non è stato certo una passeggiata, ma la cosa è andata migliorando quando, finalmente, hanno imparato a conoscersi davvero, scoprendo di andare parecchio d’accordo. Questa cosa è stata di grande aiuto: né lei né sua zia – nonostante quest’ultima detesti darlo a vedere molto più di lei – hanno superato del tutto il dolore della perdita, ma, sostenendosi silenziosamente e facendosi forza a vicenda, sono riuscite a fare in modo che questo non prendesse il sopravvento sulle loro vite. Soffrono entrambe, è umano – le ha detto la donna, quando lei una notte si è rifugiata nella sua camera dopo l’ennesimo incubo –, ma non devono lasciare che questo le rovini e le riduca in pezzi.
Cammina in punta di piedi, cercando di non fare il minimo rumore, visto che zia Maggie ha il sonno incredibilmente leggero. Ma si blocca quando, passando davanti alla porta socchiusa dello studio al piano terra, sente la voce di sua zia.
È un po’ sorpresa di trovarla ancora sveglia a quest’ora, nonostante sappia che la donna è solita dormire molto poco, soprattutto per via del suo essere l’unico dottore del villaggio. Spesso la gente non si fa problemi ad andare a chiamarla anche a tarda notte.
Sta parlando al telefono, una cosa normalissima, ma c’è qualcosa di strano nella sua voce ed è proprio questo che impedisce alle sue gambe di procedere verso la cucina e che la fa rimanere lì.
Avvicina l’orecchio alla piccola fessura per ascoltare meglio. Sa che non dovrebbe farlo e che se sua zia dovesse scoprirla non ne sarebbe affatto contenta, ma una strana sensazione le suggerisce che qualcosa che non va. E deve sapere che cos’è.
«Sì… sì, la situazione è sicura, ho fatto tutti gli accertamenti necessari. Potete stare tranquilli, non c’è assolutamente nulla di cui preoccuparsi e… non vorrei parlare a vanvera, ma credo di avere per le mani proprio ciò che vi serve.»
La sente sospirare e quando riprende a parlare nella sua voce c’è una punta di turbamento. «Così presto? … no, no, è che mi… mi servirebbero ancora due, no, tre settimane… tre settimane, sì.»
Non l’ha mai sentita così incerta e remissiva, quasi non sembra lei. Che cos’è successo alla sua “zia generale”?
Un altro sospiro. «Vorrei soltanto spiegarle la situazione con calma e farla abituare all’idea… insomma, una separazione non è mai facile per una bambina.» A quelle parole le vengono i brividi e si sente mancare la terra sotto i piedi. si riferisce a lei, ne è più che sicura. Ma di che diamine sta parlando? E perché devono separarsi?
«Va bene. Allora vi aspetto… sì, vi avviserò se dovessero sorgere dei problemi… arrivederci.» Sua zia respira profondamente e la sente accasciarsi sulla poltrona. «Scusami Meaghan», mormora, con un tono che le fa spezzare il cuore.
Rimane lì, impietrita, con i pugni stretti lungo i fianchi a cercare di trattenere le lacrime. Le è persino passata la sete. Tre settimane… e poi che cosa le succederà?
È come se quel senso di sicurezza e protezione che le sembrava di aver trovato si fosse sgretolato in un attimo al sentir pronunciare la parola “separazione” da zia Maggie.
Sono ancora viva.
Ma è davvero un bene che sia così?
 
Ciao a tutti miei piccoli raggi di sole ehm, Pive! Pive, sì, volevo dire Pive…
Prima di tutto voglio ringraziarvi ancora di seguire/leggere/recensire questa storia (?) e poi voglio rassicurarvi: siamo vicini alla fine della parte pallosa (sempre che non mi esca fuori palloso anche il resto… Dio, spero proprio di no), tra poco si cresce e inizia l’azione (o qualcosa di simile).
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e… e niente, vi saluto e vi mando un bacione grande grande (oggi sono un po’ appiccicosa, vi prego di perdonarmi).
Ciaooo :)
 
 
 
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Capitolo 15
*** 14. ***


14.
 
I colpi alla porta la svegliarono, strappandola dal passato.
Si puntellò sui gomiti, frastornata, mentre la sua mente ricomponeva, come se fossero stati frammenti di un puzzle, gli eventi accaduti poche ore prima nell’area degli uffici. Si sentiva stanca, intontita… ma era viva e quasi non le sembrava possibile.
Sono ancora viva.
«Johanna, apri per favore.» La voce nasale dell’Uomo Ratto aveva un che di tristemente inconfondibile e servì a confermarle che, sì, era ancora viva. Non era particolarmente credente, ma da quello che le era stato insegnato riguardo al Paradiso – non le sembrava di aver fatto nulla di così grave per non meritarlo e finire all’Inferno –, era praticamente impossibile che avesse anche la più piccola somiglianza con il Quartier Generale della C.A.T.T.I.V.O. e con la gente che vi lavorava… e meno di tutti con l’Uomo Ratto.
«Johanna, apri», la chiamò di nuovo quest’ultimo.
Cercò l’orologio a muro e, quando il display si illuminò, vide che erano le sette. A quanto pareva, la sua “sveglia biologica” non aveva funzionato quella mattina.
Respirò profondamente per più di una volta, cercando di togliersi di dosso quello strano disorientamento, però non fu affatto facile.
Un incessante turbinio di pensieri le affollava la mente e non riguardavano solo il “passato” della sera prima, ma anche quello che le aveva fatto visita nel sonno. Fino alla notte precedente, il ciclo dei suoi incubi si era sempre concluso con la sua ultima fuga da casa. Ma lasciare zia Maggie e sentirsi abbandonata da lei evidentemente significava un altro volto da ricordare con dolore, come se già i volti di due persone – e non due persone qualunque, ma i suoi genitori – distrutte dalla follia non fossero stati abbastanza…
«Johanna Reid», chiamò una terza volta l’Uomo Ratto, ora con un leggero fastidio nella voce. «Non mi costringere ad entrare e a trascinarti fuori. Apri.»
«Un momento…», mormorò lei con la voce ancora impastata dal sonno, mentre accendeva la luce e si alzava. Le girava un po’ la testa e barcollò lievemente, sentendosi malferma sulle sue gambe. Dovette appoggiarsi al muro per non cadere e si schiarì la gola. «Non mi sono svegliata in tempo… mi dia qualche minuto per prepararmi…»
Dall’altra parte della porta, sentì l’Uomo Ratto schioccare la lingua. «Sbrigati», disse soltanto.
In meno di un quarto d’ora riuscì ad essere pronta e di nuovo rinchiusa al sicuro nella sua fortezza. Non le girava più nemmeno la testa, ma una bizzarra sensazione le gravava all’altezza dello sterno e non sembrava intenzionata ad andarsene. Non riusciva a capirne l’origine, ma intuì che se vi avesse dato troppo peso non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, quindi decise di ignorarla.
Aprì la porta, trovandosi davanti un alquanto innervosito Uomo Ratto. Non fece nemmeno in tempo a dirgli “Buongiorno”.
«Finalmente», squittì lui – Dio, sembrava davvero un roditore – e si incamminò a passo svelto, facendole segno di seguirlo.
Camminarono in silenzio per alcuni minuti – minuti durante i quali le sembrò che i muri dei corridoi stessero aspettando solo un suo attimo di distrazione per stringersi su di lei fino a soffocarla – poi l’Uomo Ratto parlò di nuovo. «Vorrei ti assicurassi che una cosa del genere non accada mai più», le disse, scrutandola con la coda dell’occhio. «Se non sei sicura di riuscire a svegliarti da sola, ti consiglio di impostare la sveglia nell’orologio che hai in camera: risparmierai a te stessa e a noi molti fastidi.»
«Vedrò di ricordarmene, la ringrazio», rispose distrattamente, troppo presa dallo scrutare con attenzione il corridoio: era una sua impressione o il soffitto si stava abbassando?
L’Uomo Ratto annuì semplicemente e non si dissero altro, congedandosi silenziosamente non appena ebbero raggiunto la mensa.
Entrò e raggiunse il suo posto al solito tavolo, domandandosi come mai quella sala le sembrasse stranamente più piccola e cupa dei giorni precedenti.
«Ehi, Han!», la chiamò Teresa. In poche ore il soprannome che Newt le aveva dato era diventato di dominio pubblico e la moretta era stata una dei primi ad iniziare a usarlo. «Oggi volevi fare la furba e restartene a letto, vero?», scherzò, dandole una lieve pacca sulla spalla.
Sorrise. «Sì, ma non mi è andata tanto bene: l’Uomo Ratto ha minacciato di trascinarmi fuori dalla camera.»
«Scommetto che ti ha anche consigliato di impostare la sveglia per “risparmiare a te stessa e a noi molti fastidi”», intervenne Thomas, accompagnando l’ultima parte della frase con una perfetta imitazione della voce nasale di Janson.
«Già…»
«Fa sempre lo stesso discorso a tutti», proseguì lui, tornando al suo normale tono di voce. «E qualcuno qui lo sa molto bene, vero Minho? Quante volte te l’ha ripetuto?»
«Centosettantatre e ogni volta che lo fa la sua faccia diventa sempre più rossa», rispose il ragazzino asiatico con un certo orgoglio e rigorosamente a bocca piena. «Prima o poi lo farò diventare viola, me lo sento.»
«Se poi arrivi a farlo scoppiare potrei addirittura perdonare il tuo hobby di “benedire” il tavolo con le briciole di quello che mangi», mormorò Teresa, coprendo il suo piatto con una mano.
Minho la guardò con una finta espressione sorpresa. «Ehi, adesso sai dire anche cose carine?»
«Ho detto che potrei…», ribatté la mora, fulminandolo.
Lei alzò gli occhi al cielo – ormai aveva capito che quel punzecchiarsi era il loro modo un po’ contorto di essere amici – e si voltò verso Lizzie e Newt, ma rimase interdetta quando vide lo sguardo che quest’ultimo le stava indirizzando. Il ragazzino sembrava concentrato sul suo viso e lo guardava come se stesse cercando di studiarne i lineamenti. Le dava l’idea di un investigatore in cerca di indizi… ma indizi di cosa?
Lo fissò anche lei in silenzio, leggermente a disagio e senza sapere che cosa dire, per secondi che le sembrarono ore, finché Lizzie non richiamò la sua attenzione allungandole uno dei suoi scones. «Te ne ho messo da parte uno. Questi qui ai mirtilli finiscono subito», le disse, posandolo nel suo piatto.
«È stata la prima cosa a cui ha pensato quando non ti ha vista arrivare», commentò Teresa con un sorriso. «E ha fatto bene, visto che Minho se ne è presi cinque…»
«Guarda che ti sento!», protestò lui. «E ritiro tutto sul fatto che sei capace di dire anche cose carine!»
Thomas sospirò. «Perché continuo a sedermi tra voi due?»
Lei scosse la testa, trattenendo una risatina, e tornò a guardare Lizzie. «Grazie, quelli ai mirtilli sono i miei preferiti», le disse sorridendo. E grazie di tirarmi sempre fuori d’impaccio, anche se non te ne rendi conto.
La più piccola le sorrise di rimando. «Sono anche i preferiti di Newt, a me invece piacciono di più quelli al cioccolato.»
«L’ha sorvegliato come un tesoro perché aveva paura che potessi rubarlo», fece Newt, il volto rilassato e libero dalla serietà che l’aveva dominato fino a poco prima e che l’aveva fatta sentire così a disagio. «Dice che quando si parla di scones perdo la testa.»
«Perché è vero!», ribatté lei, punzecchiandogli una guancia con l’indice. «Ladro di scones
«Beh, visto che hai difeso la mia colazione da questo ladro…»
«Ehi! Non ti ci mettere anche tu!», la interruppe il biondino, gonfiando le guance e facendo il finto offeso.
Vederlo scherzare le restituì la disinvoltura che il suo strano sguardo indagatore le aveva tolto. «Zitto, ladruncolo inglese», gli disse, facendogli la linguaccia.
Lui assottigliò gli occhi. «Attenta, cara la mia irlandese Han, posso sempre ricominciare a chiamarti Jo…»
Lei prese il dolcetto e lo avvicinò suo al viso, quasi schiacciandoglielo sul naso. Ritrasse di scatto la mano non appena quella di Newt scattò per afferarglielo. «E invece non lo farai», cantilenò e, indirizzando al biondino uno sguardo da “alla faccia tua”, addentò lo scone.
Dopo essersi guardati per qualche attimo simulando un clima da guerra fredda, ridacchiarono entrambi e Newt sollevò le mani in segno di resa.
Lei gli strizzò l’occhio, poi tornò a guardare Lizzie. «Scusami, stavo dicendo che ti sei meritata il seguito della storia del mago Mac.»
La bimba annuì con gli occhi che le brillavano. «Eravamo rimaste al mago che doveva creare la donna. Come fece? Fermò il tempo?»
«No… lui non sapeva come fare e iniziò a sentirsi sempre più triste e solo, così il Mare inventò il gioco degli scacchi per consolarlo. Se Mac avesse vinto lo avrebbe guarito dal suo male, ma per ogni sconfitta gli avrebbe chiesto qualcosa. Così giocarono e il Mare vinse la prima partita.»
«E che cosa gli chiese?»
«Gli fece costruire una casa, delle strade e coltivare i campi, rendendo la terra che gli aveva donato sempre più bella. Giocarono un’altra volta e il Mare vinse ancora, così gli ordinò di scavare la montagna per prenderne il ferro e creare degli utensili. Una volta fatto questo, giocarono di nuovo.»
«E il mago riuscì a vincere?», chiese speranzosa Lizzie.
Lei fece segno di no col capo. «Vinse ancora il Mare e gli disse di ammaestrare tutti gli animali. Ma un giorno Mac perse tutti i suoi poteri. Era così disperato che il Mare decise di aiutarlo.»
«E che cosa fece?»
Il ricordo le strappò un sorriso. Quella era sempre stata la sua parte preferita perché sua zia ci inseriva sempre dei riferimenti al suo aspetto fisico, facendola sentire parte della storia. Il pallore “lunare”, le foglie d’acero per i capelli e le cortecce più scure degli alberi per gli occhi. Adesso lei doveva semplicemente fare la stessa cosa con Lizzie.
«Chiamò la Terra, che mise a sua disposizione la materia per modellare la donna.» Si interruppe un attimo e osservò i capelli e gli occhi della bambina. «Con i petali dei girasoli il Mare le creò la chioma e colorò i suoi occhi con il verde delle foreste, mettendoci due frammenti di stelle per illuminarli. Poi la Luna usò la sua polvere per colorarle la pelle e le donò la bellezza e la grazia. Infine, il vento le donò il respiro. Così il cavaliere ebbe una compagna e non soffrì più di malinconia… Fine.»
Lizzie la fissava affascinata, sembrava quasi che non riuscisse a respirare. Probabilmente il piccolo espediente che aveva imparato da sua zia aveva fatto il suo effetto. «È bellissima», mormorò la bambina con gli occhi che le brillavano, poi si voltò verso il fratello. «Newt, la donna della storia mi somiglia!»
Lui scrollò le spalle e sollevò il mento. «Beh, se somiglia a te somiglia anche a me, quindi sarà sicuramente bellissima», commentò, beccandosi una gomitata nelle costole da Alby che era seduto accanto a lui.
«Viva la modestia, eh», mugugnò Minho.
«Senti chi parla!», ribatté il biondino, facendogli il verso.
«Grazie», cinguettò Lizzie, ignorando quel piccolo battibecco. «Domani me ne racconterai un’altra?»
Annuì con un sorriso. «Volentieri.»
Non si dissero altro, troppo impegnate a finire ciò che avevano nel piatto prima che il tempo a disposizione terminasse. In quei minuti di relativo silenzio, ora che non aveva più la sua storia da raccontare a distrarla, quella sala le sembrò improvvisamente più piccola e troppo affollata, risvegliando quello strano peso all’altezza dello sterno.
Si impose di non guardare le pareti o il soffitto, ripetendosi mentalmente che doveva essere solo una sua impressione.
Te lo stai solo immaginando, è tutto a posto…
Quando si alzarono tutti e si avviarono verso la sala delle proiezioni, urtò più volte diversi suoi compagni mentre cercava di stare il più possibile lontana dal muro. Appena furono davanti alla porta, Newt le si affiancò, agguantandola per un gomito per evitarle l’ennesima collisione, questa volta con Gally. «Han, tutto okay?»
Arrossì e abbozzò un sorrisetto imbarazzato, liberando velocemente il braccio. «Sì… sì, è tutto okay, grazie.»
Lui sollevò un sopracciglio. «Ti muovi come se avessi paura di essere attaccata.»
Ci aveva visto giusto, quindi lei decise di rincarare la dose, cercando di risultare il più tranquilla possibile. «Sto bene, sono solo stanca.» Non voleva fare la figura dell’idiota dicendogli “Sai, mi sembra che le pareti stiano cercando di chiudersi su di me” o “Credo che il soffitto possa schiacciarmi come una pressa”.
Newt la scrutò di nuovo con quel suo sguardo indagatore che la fece sentire terribilmente indifesa. «Sicura?»
Si schiarì la gola. «Sicurissima. Davvero Newt, sono a posto.» Corse a sedersi vicino a Teresa, sperando di terminare lì quell’interrogatorio, ma il biondino la raggiunse.
«Posso?», le chiese – anche se dal tono sembrava tutto tranne che una domanda –, indicando il posto accanto al suo, e lei non riuscì a fare altro che annuire in silenzio.
Si guardò attorno. Anche la sala delle proiezioni le sembrava stranamente più piccola delle altre volte. E quando la luce venne spenta iniziò a farle male la testa. Inspirò profondamente e prese a massaggiarsi la mano per far passare il dolore, come le aveva insegnato sua zia, ma non sembrò funzionare.
«Han», la chiamò Newt con un sussurro. Decise di far finta di non averlo sentito, ma il ragazzino la chiamò una seconda volta, posandole la mano sul braccio.
Sospirò. «Che c’è?»
«Stanotte troviamoci davanti alla porta della mensa, credo di aver capito cos’hai…»
 
La sociopatica è tornataaaah!
Santo cielo, questo capitolo è stato uno stramaledettissimo parto plurigemellare E SI VEDE! (Si nota che sono un pochino esaurita?) Se siete arrivati fino in fondo devo dirvi due cose: “Complimenti!” e un sentitissimo “GRAZIE!”.
Dannato blocco dello scrittore che si sblocca solo alle due di notte quando sei stanca, stanca, stanca e ancora STANCA (e dovrei avere vent’anni… sì, vent’anni per gamba!). Insomma, se fate conto che più di tre quarti di questa storia sono scritti by night (perché sì, sono praticamente un gufo)… si salvi chi può!
Ok, scusatemi, mi ritiro, questo angolino dell’autrice sta diventando un vero e proprio delirio…

Sono di fuori come un terrazzo, ma vi voglio bene <3 Byeee.
 
 
 
 
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Capitolo 16
*** 15. ***


15.
 
All’inizio aveva pensato di non andare e di rimanere a letto, non era esattamente dell’umore giusto per passeggiare per la sede e durante il giorno quella strana sensazione si era fatta sempre più forte: le girava ancora la testa e tutto pareva comprimersi su di lei fino a non volerle lasciare più respiro. Ma quel “Credo di aver capito cos’hai” continuava a ronzarle nelle orecchie, risvegliando in lei un’enorme curiosità. Newt sapeva davvero che cosa le stava accadendo? E se sì, come faceva a saperlo lui invece che lei?
Così si era ritrovata ad uscire di soppiatto dalla sua camera, con la divisa indossata sopra al pigiama e con il pesante cappotto nero – l’unica cosa non bianca del suo vestiario – sottobraccio, come si era raccomandato Newt. Aveva provato a chiedergli dove avesse intenzione di andare, ma lui non aveva voluto dirle nulla, limitandosi ad un “Vestiti pesante e fidati di me”.
E lei aveva deciso di fidarsi.
Quando arrivò davanti alla porta della mensa – Dio, perché quei maledetti corridoi sembravano sempre più bassi e stretti? –, Newt era già lì che la aspettava. Dalla maglia della sua divisa sbucava, un po’ spiegazzato, il colletto del pigiama e anche lui aveva con sé il cappotto nero. Le si avvicinò, guardandola con un’aria preoccupata. «Come stai?»
Come se stessi per impazzire. «Diciamo che sono stata meglio», gli rispose, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Allora, dove andiamo?»
Lui le rivolse uno sguardo incoraggiante e le prese la mano. Quel semplice gesto scatenò in lei un vero e proprio putiferio. Come se tutto quello che aveva non fosse stato abbastanza, il suo stomaco sembrò aver deciso che era da troppo tempo che non faceva giravolte e capriole e che adesso doveva recuperare. Anche il sangue doveva aver avuto nostalgia del suo viso perché corse tutto insieme ad assalirle le guance.
«In caso ti mancasse l’equilibrio», spiegò lui, in risposta alla sua occhiata stranita. «Ti gira la testa, vero?»
Da morire. «Un po’…»
Newt annuì. «Vieni», disse soltanto, incamminandosi.
Si lasciò guidare, quasi senza far caso al tragitto che stavano percorrendo. I suoi occhi erano fissi sulla sua mano stretta in quella di Newt. Da una parte poteva essere un bene, dato che non saettavano più da una parete all’altra vedendole sempre più vicine. Ma dall’altra quella semplice immagine le riempiva la testa, che ora girava come una trottola.
Ti ha solo presa per mano. Ti ha solo presa per mano. Non c’è nulla di strano, ti hanno già presa per mano, è normale, si ripeté, cercando di calmarsi, ma non servì a nulla. Una miriade di pensieri confusi continuava ad abbattersi contro le sue tempie, che le martellavano così tanto da farle male, la testa le girava come impazzita, il viso non smetteva di andarle a fuoco, il petto era ancora oppresso da quel nodo che le rendeva difficile respirare e le sue gambe minacciavano di cedere da un momento all’altro. Che cos’aveva?
Per favore, implorò, anche se non sapeva esattamente a chi o a cosa si stesse rivolgendo. Non… non voglio impazzire anch’io…
«Han? Ci siamo.» Newt le aveva lasciato la mano – quando era successo? – ed era di fronte a lei.
Si trovavano davanti ad una porta, su cui non era affissa alcuna targhetta, ma la confusione nella sua testa era tale che non ricordava né in quanto tempo né come fossero arrivati li. Avevano salito delle scale? Che percorso avevano fatto?
«Han», la chiamò di nuovo Newt.
«Mi… la testa», balbettò con un filo di voce. «Newt, scusami, ma devo tornare in stanza… mi devo riposare, non mi sento bene…»
Lui non le lasciò fare neanche un passo, parandosi di fronte a lei e sbarrandole la strada. «Fidati, per favore», disse, guardandola dritta negli occhi.
Sostenne per un po’ il suo sguardo incredibilmente serio, ma poi finì per cedere. «Va bene», acconsentì con un sospiro. Ancora una volta, aveva deciso di fidarsi di lui.
Si misero i pesanti cappotti neri e, giusto un secondo prima di aprire la porta, Newt le prese di nuovo la mano. Ma lei riuscì a malapena a farvi caso, visto che la sua attenzione era totalmente presa da qualcosa che aveva appena sferzato il suo viso.
Aria. Un soffio d’aria gelida.
Sgranò gli occhi, senza smettere di fissare la porta che si stava aprendo, rivelando un largo spiazzo grigiastro, che alla luce del sole doveva essere bianco. Ma non fu quella la cosa che la colpì di più.
Fu il cielo. Da quanto tempo non lo guardava? Da quanto tempo non usciva all’aperto?
Sentì Newt tirarla leggermente e lo seguì fuori senza fare una piega, accorgendosi che ad ogni suo passo le tempie le martellavano sempre di meno, la testa smetteva di girarle, il mondo non sembrava più volerla schiacciare e che quel peso dentro al petto si stava piano piano alleggerendo, lasciandola finalmente libera di respirare normalmente.
Si fermò, prese un’enorme boccata d’aria – le sembrava che avesse un profumo meraviglioso – e fu come se quel semplice gesto l’avesse rimessa al mondo, facendo sparire del tutto ciò che la tormentava. All’improvviso, stava bene. Assurdamente bene.
«Va meglio, vero?», le chiese Newt, che ancora la teneva per mano. Ma adesso quel particolare non la imbarazzava più né la metteva in difficoltà. Le sue dita erano piacevolmente calde contro il freddo della notte e la sua presa, delicata ma salda, le trasmetteva un senso di sicurezza.
Si voltò a guardarlo stupita. «Come…?»
«Anche io ho avuto lo stesso problema quando sono arrivato qui: non ne potevo più di stare al chiuso, avevo bisogno di prendere aria», fece lui con un’alzata di spalle, come non se stesse parlando di qualcosa che l’aveva fatto soffrire. «Siamo sul tetto dell’edificio. L’ho scoperto per puro caso, “spiando” come fai tu…», si interruppe un attimo per fingere di guardarla male
Gli fece la linguaccia. «E rimproveravi me?!»
Per tutta risposta, Newt sollevò un sopracciglio e sfoderò un sorrisetto compiaciuto. «Beh, tu non lo sapevi», disse con una certa soddisfazione.
«Inglesino bugiardo», borbottò lei, facendo la finta indignata.
«Furbo, prego», fece il ragazzino, fissandola con i suoi vispi occhi da volpe. «Comunque, qui ci vengo almeno una volta alla settimana per respirare un po’», riprese e il suo viso si fece di nuovo serio. «Stamattina mi è bastato guardarti per capire cos’avevi e ho pensato di portarti quassù.»
Gli sorrise, guardandolo con un’immensa gratitudine. I suoi disturbi derivavano da una cosa scioccamente semplice, ma lei non ci aveva pensato. Lei, che aveva speso gran parte della sua vita a correre e giocare all’aperto, non si era resa conto che era proprio l’esterno ciò di cui aveva bisogno.
Newt invece la conosceva da pochissimi giorni, eppure era riuscito a capire l’origine del suo male ed era stato incredibilmente gentile con lei quando avrebbe potuto far finta di non aver notato niente e lasciarla ai suoi problemi.
«Grazie, Newt», mormorò, dando una leggera stretta alla sua mano. «Grazie davvero.»
«Di nulla», le rispose lui, sorridendole di rimando. «Vuoi ancora tornare indietro?»
«Scherzi? Fosse per me, non mi muoverei da qui!», ribatté, guardandosi attorno affascinata. Era un terrazzo, nulla di particolare in realtà, eppure ai suoi occhi appariva come l’ottava meraviglia del mondo. Il cielo terso, illuminato da una perfetta luna piena e punteggiato da una miriade di stelle, era di un blu profondo, quasi nero, in netto contrasto con il bianco assoluto della C.A.T.T.I.V.O. Non poté fare a meno di trovare un’immensa bellezza in quella differenza.
Chissà se… «Quanto siamo in alto?», domandò, avvicinandosi con cautela al bordo. Continuò a tenere la mano a Newt, che la seguì e aspettò che guardasse con i suoi occhi per darle una risposta.
«Troppo per calarci giù…»
Aveva ragione: quello su cui si trovavano doveva essere il tetto del blocco centrale – quello più imponente – di tutto l’edificio. Se anche fossero riusciti in qualche modo a calarsi giù, sarebbero stati ancora ben lontani dalla libertà. Vide che nessuno degli altri blocchi aveva una porta che sbucasse sul tetto, quindi tentare l’operazione da uno di quelli era praticamente possibile.
E poi cosa avrebbero usato? Sarebbero servite parecchie lenzuola, ma anche se le avessero trovate non c’era nulla a cui assicurarle: quella sorta di terrazzo non aveva nemmeno una ringhiera.
Sospirò, vedendo quella speranza spegnersi ancor prima di prendere vita. Avrebbe dovuto cercare un altro modo.
«Certo che prendere un po’ d’aria ti ha fatto davvero bene», osservò Newt, distogliendola da quei pensieri. Sembrava guardarla con un’espressione a metà tra l’ammirato e il sollevato. «Mi sembri molto concentrata… ti ci è voluto pochissimo per tornare lucida.»
«È tutto merito suo, dottor Newt. È davvero bravo… per essere un inglese», scherzò lei, dandogli una leggera gomitata.
Lui le lasciò la mano per punzecchiarle un po’ il fianco. «Ti va di sederci?», le chiese poi.
«Sul bordo, dici?»
«Sì. Non avrai paura di cadere giù?»
Sollevò fieramente il mento. «Sono irlandese, Newt: se io ho paura tu ne hai il doppio di me.»
Newt schioccò la lingua, fissandola in silenzio per qualche secondo, poi si sedette. «Una devo riconoscertela, irlandese… riusciresti a zittire persino Minho.»
«Lo prendo come un complimento», disse, mettendosi accanto a lui.
«Lo è.»
Per un po’ non si dissero altro, fissando l’immensa pineta – anche se al buio appariva più come una macchia scura – che si estendeva a perdita d’occhio.
«Newt…», mormorò lei di punto in bianco, senza distogliere lo sguardo dal punto in cui le sembrava che finissero gli alberi e iniziasse il cielo. «Posso farti una domanda?»
«Dimmi.»
«Quando finirà tutto… tu e Lizzie avete dove tornare?»
Newt emise un lungo sospiro. «Se devo dirti la verità, non ne ho idea… anche se credo che io e Lizzie ci troveremo a dover ripartire da zero.»
Non le aveva detto molto, eppure aveva capito esattamente ciò di cui stava parlando. Sentì il cuore stringersi in una morsa dolorosa. «Non avete nessuno che vi aspetti?»
«Non credo che per quando saremo fuori ci saranno ancora…»
Stupida, stupida, stupida! Proprio di questo dovevi decidere di parlare?!
Strinse i pugni, mentre un groppo le si formava in gola. In quel momento, la loro situazione le sembrava più orribile che mai. Andarsene via dalla propria vita, abbandonare tutto e tutti senza la certezza di poter tornare. E sapere che, se anche ci fosse stato un ritorno, nulla sarebbe stato più come prima. Era come un incubo. Peggio di un incubo.
«Mi dispiace», riuscì soltanto a dire. Le si appannò la vista e si accorse che gli occhi le si stavano riempiendo di lacrime. Le ricacciò a fatica in gola, cercando di non farsi vedere.
Lui invece pareva rassegnato, quasi la cosa non lo toccasse. E notarlo le fece un male incredibile.
«Tu invece hai qualcuno?»
«Mia zia, credo…», rispose, tentando di apparire il più calma possibile. Ma dentro si sentiva in colpa ad affermare che, in confronto a lui e a Lizzie, poteva avere un briciolo di speranza in più.
«Era infetta?»
«No… non quando sono andata via, almeno.»
«E… i tuoi genitori?»
Quella parola fu come una stilettata. «Non ce li ho più.»
Se qualcuno anche solo poche ore prima le avesse detto che si sarebbe ritrovata a parlare del suo passato con qualcuno conosciuto da appena tre giorni non ci avrebbe mai creduto. Eppure adesso ne stava parlando con Newt, di cui sapeva poco o niente.
Quest’ultimo si distese sulla schiena, le braccia dietro la testa e le gambe lasciate a dondolare nel vuoto. «Cosa facevi quando eri in Irlanda?»
«Esploravo… andavo in giro per i boschi a cercare le fate, i folletti e gli elfi… tu, invece?»
«Giocavo con Lizzie, alla fine non facevo nulla di particolare. Tornavamo a casa sempre sporchi dalla testa ai piedi. E spesso papà ci portava al mare. Mi ha insegnato a nuotare e voleva insegnare pure a mia sorella.» Se poco prima le era apparso apatico e rassegnato, ora parlava con un tono carico di nostalgia e sembrava perso nei suoi pensieri. «La mamma si arrampicava benissimo e voleva che imparassi anch’io, anche se non ero bravo come lei… e faceva sempre la crostata ai mirtilli. Non hai idea di quanto fosse buona. Anche le sue mani profumavano di mirtilli… poi papà è impazzito ed è finito tutto…»
Si voltò a guardarlo e le bastò lanciare un’occhiata al suo viso per capire che si era disteso per evitare di versare le lacrime che gli riempivano gli occhi. Si morse un labbro per non mettersi a piangere anche lei e gli prese di nuovo la mano.
Newt sembrò riscuotersi dal suo flusso di pensieri e la fissò spaestato. «Oddio… scusa, Han», farfugliò mortificato, tirandosi su di scatto e strizzando gli occhi per non farli lacrimare. «Scusami.»
Lei scosse la testa. «No, scusami tu, il discorso l’ho iniziato io.»
Rimasero a fissarsi per qualche istante, quasi a volersi tranquillizzare a vicenda tramite gli sguardi. Infine, Newt fece un debole sorriso e lei non riuscì a trattenersi dall’abbracciarlo, al diavolo l’apparire debole e sentimentale. Ne aveva bisogno. Ne avevano bisogno entrambi.
«Mi dispiace, Newt», sussurrò. «Mi dispiace per te e per Lizzie.»
«Liam», disse lui dopo alcuni attimi. «Mi chiamo Liam. E mia sorella si chiama Alice.»
Quella rivelazione le strappò un piccolo sorriso. «Liam… ti si addice.»
E lei? Doveva dirglielo? Poteva fidarsi?
Quel ragazzino aveva oltrepassato il muro che la proteggeva in un brevissimo lasso di tempo, eppure non riusciva a vedere la cosa in maniera negativa. Non era un attacco, non era un’invasione. Era un sostegno, una presenza che poteva essere amica, qualcuno da appoggiare e a cui appoggiarsi per non impazzire e rimanere sola.
In quell’abbraccio, per la terza volta, decise che sì, poteva fidarsi. E stavolta definitivamente.
«Io sono Erin.»
 
*prende un grosso respiro*
Ohssignur, questo capitolo era UNA VITA che volevo scriverlo e finalmente ci sono arrivata e ce l’ho fatta! Oh mio Dio, non ci si crede!
Eee insooommaaa (ok, scusatemi, la smetto di allungare le vocali), i nostri due marmocchi hanno un nome e finalmente potrò riferirmi alla protagonista senza dover più usare solo “lei” (yuppiii!!! Sì, visto che sono di fuori mi ero autoimposta di non chiamarla per nome finché non si fosse scoperto quello vero xD).
Beh, che altro posso dirvi… -1 alla seconda parte della storia! Speriamo bene.
Non ero mai riuscita ad arrivare a questo punto in una storia ed è tutto merito di voi che seguite/recensite/avete messo tra le preferite/ leggete questa ff.
Graziegraziegraziegrazie (si ripete all’inifinito), vi voglio un mare di bene. <3
 
p.s. Se vi dicessi il “lacchezzo” che c’è stato dietro alla scelta del nome “Liam” vi fareste delle grasse risate per i miei (molto più che) assurdi trip mentali xD
 
 
 
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Capitolo 17
*** 16. ***


16.
 
«Cantala ancora.»
Erin distolse lo sguardo dal cielo, così identico a quello visto quella notte di sette anni prima, e lo spostò sul viso di Liam. Il ragazzo, non appena l’aveva vista sedersi, si era sdraiato e aveva posato la testa sulle sue gambe senza fare troppi complimenti e in barba alla neve che ricopriva la terrazza. «Tanto questi cappotti sono pesanti», aveva detto, in risposta alle sue proteste. Poi aveva chiuso gli occhi e le aveva chiesto di cantargli qualcosa.
Si recavano in quel luogo almeno una volta alla settimana e Liam aveva preso quasi fin da subito l’abitudine di chiederle di cantare. Diceva che lo rilassava e che sentiva la mancanza della musica: lì alla C.A.T.T.I.V.O. nessuno cantava o suonava mai.
Erin ridacchiò, continuando a giocherellare con quei morbidi e arruffati capelli biondi. «Te l’ho già cantata due volte.»
«Ma non c’è due senza tre, giusto?», replicò lui.
«Me la chiedi quasi ogni volta che veniamo qui…»
«Perché è quella che mi piace di più sentirti cantare. È come se ci mettessi qualcosa in più… anche se non ti so spiegare cosa.»
Sorrise intenerita. «Ci sono i ricordi, Liam.» Ricordi che, finalmente, riusciva a rievocare senza che si ricollegassero automaticamente a quei momenti di dolore.
Dalla prima sera in cui aveva messo piede su quella terrazza, la sera in cui aveva rivelato all’amico non solo il suo vero nome, ma anche il suo passato, gli incubi avevano smesso di tormentarla. Forse era stato semplicemente perché Morfeo si era annoiato di mostrarle sempre cosa le era successo, ma a lei piaceva pensare che raccontare tutto a Liam e parlarne con lui le avesse fatto incredibilmente bene.
«Che ricordi?», le chiese il ragazzo, tenendo sempre gli occhi chiusi.
«Questa canzone è di un gruppo dello scorso secolo che mio padre amava. Erano inglesi, sai? Si chiamavano… aspetta…», si interruppe, cercando di ricordare. Gliel’aveva detto, ne era sicura, eppure le sembrava di avere un vuoto totale in testa. Ci pensò per qualche minuto, ma poi fu costretta a rassegnarsi. Niente. Tabula rasa, non le veniva proprio in mente.
«Ora non mi ricordo come si chiamavano…», ammise, imbarazzata. «Comunque, lui conosceva ogni loro canzone, e me le cantava tutte. Mi ha fatto sentire anche i brani originali. Era bravissimo, e questa era la canzone che gli riusciva meglio: la sua voce sembrava davvero uguale a quella del cantante. Ecco perché gliela chiedevo più delle altre.»
Liam sorrise, le palpebre ancora serrate. «Ed è anche quella che viene meglio a te… ricantamela, ti prego. Tra poco sarà il mio compleanno. Fallo per me.» Accompagnò le ultime due frasi con una vocina supplichevole da bambino che chiede un’ultima caramella dopo averne mangiate decine.
La sua mano lasciò andare i capelli del biondino e andò a pungolare sua la guancia. «Ci stai marciando un po’ troppo sul fatto che domani sarà il tuo compleanno, inglesino. Già stamattina sono stata zitta quando ti sei giustificato così per avermi rubato il muffin», fece, simulando un tono leggermente offeso.
Liam aprì gli occhi e la guardò con un misto di serietà e malinconia. «Allora fallo perché, a partire da domani, non so quanto tempo passerà prima che possa sentirti cantare di nuovo.»
Quella risposta le spezzò il cuore, facendole tornare in mente la cosa a cui entrambi avevano cercato in tutti i modi di non pensare. Il giorno dopo, il quattro gennaio, il giorno del suo compleanno, Liam sarebbe diventato definitivamente Newt e sarebbe stato spedito nel Labirinto, senza memoria ed assieme ad una manciata di altri ragazzi.
Il tutto sotto i suoi occhi.
Lo guardò in silenzio per qualche istante e, cercando in tutti i modi di trattenere le lacrime, ricominciò a cantare.
 
“I give her all my love
That's all I do
And if you saw my love
You'd love her too
I love her”
 
Quando l’Uomo Ratto, esattamente una settimana prima, aveva elencato i nomi dei primi soggetti che avrebbero dato inizio alle Prove, aveva persino avuto il coraggio di dare al ragazzo una piccola pacca sulla spalla, quasi a volersi congratulare con lui. «Non è contento, signor Newton?», gli aveva chiesto, tutto compiaciuto. «Il viaggio per la salvezza dell’umanità avrà inizio il giorno del suo quindicesimo compleanno e dell’anniversario della nascita del suo brillante omonimo. Non dovrei sbilanciarmi, ma credo che questo non possa portarle altro che fortuna.»
Liam non aveva risposto niente. Era rimasto immobile, in piedi accanto a lei, con le labbra serrate e non aveva permesso ad alcuna emozione di comparire sul suo viso finché quell’uomo odioso non si era allontanato.
Poi si era stretto nelle spalle, come se la cosa non lo riguardasse, e aveva abbracciato Alice, che singhiozzava senza sosta. «Dai, Lizzie», le aveva detto, ridacchiando e scompigliandole i capelli. «Cosa vuoi che siano pochi anni? Scommetto che quando ci rincontreremo rimpiangerai il tempo passato senza il tuo fratellone assillante che ti dice sempre cosa fare e ti ruba gli scones
Ma quelle parole non erano sembrate sortire alcun effetto e la ragazzina aveva continuato imperterrita a piangere.
«E stai tranquilla, non combinerò guai: ci sarà Alby a farmi da babysitter», aveva aggiunto, lanciando un’occhiata al ragazzo di colore che, assieme a Minho e a Thomas, era diventato praticamente il suo migliore amico.
Erin aveva osservato quella scena senza proferire parola, mentre un’orribile sensazione le contorceva lo stomaco e le faceva bruciare gli occhi.
Quella stessa sera, su quel terrazzo, Liam era scoppiato a piangere, stringendola quasi avesse voluto stritolarla. «Alby sarà con me, ma non ci ricorderemo l’uno dell’altro. Non importa se ora siamo amici, arriverò lì e non avrò nessuno», le aveva detto. «Ho paura, Erin… ho paura…»
 
“She gives me ev'rything
And tenderly
The kiss my lover brings
She brings to me
And I love her”
 
Liam aveva di nuovo chiuso gli occhi, ma il suo volto non era tornato a rilassarsi.
Fissò le sue sopracciglia aggrottate, sfiorate da alcuni ciuffi biondi che gli ricadevano disordinati sulla fronte e a cui la luce della luna conferiva una sfumatura quasi argentata, i lineamenti leggermente spigolosi ma comunque armonici, il naso dritto e le labbra sottili che ogni tanto si schiudevano per sussurrare qualche parola a tempo con la canzone.
Era cresciuto, si poteva notare benissimo, ma i suoi tratti conservavano ancora quella freschezza infantile che lo faceva sembrare un po’ più piccolo della sua età. Cosa di cui – neanche a dirlo – non era troppo contento, ma che lei invece trovava adorabile. E di cui era segretamente un po’ soddisfatta. D’altronde non poteva essere sempre e solo lei quella a cui davano sempre qualche anno in meno!
Ma almeno il biondino aveva dalla sua parte un’altezza già abbastanza considerevole, che in qualche modo “livellava” la situazione e che gli aveva fatto guadagnare il soprannome di “aspirante torre”. Ovviamente, l’idea l’aveva avuta Minho.
«Almeno ora non sono più basso di Runa», l’aveva sentito scherzare – anche se nella sua voce aveva colto una nota di malinconia – con Alice una volta, quando anche lei lo aveva chiamato in quel modo. Runa era – anzi, era stata – il loro cane, una border collie che aveva l’abitudine di alzarsi su due zampe e di buttarsi a peso morto sempre e solo addosso a Liam mentre giocavano.
Quando gli uomini della C.A.T.T.I.V.O. erano venuti a prendere lui e sua sorella, avevano dovuto separarsi anche da lei. L’ultimo ricordo della sua vita di prima, le aveva raccontato, era sua madre che piangeva disperata di fronte alla porta di casa, nascondendo il viso nel collo del cane con la scusa di tenerla ferma. Runa invece aveva continuato a fissare lui ed Alice mentre se ne andavano ed era rimasta in silenzio finché le portiere del furgone non si erano chiuse. Da quel momento, aveva iniziato ad ululare e alle orecchie di Liam erano sembrate vere e proprie grida di dolore.
«Non voglio ritrovarmi ad andarmene di nuovo», le aveva detto, la fronte posata sulla sua spalla, mentre ancora continuava a stringerla. «Non voglio lasciarmi ancora qualcuno alle spalle. Se solo fossi uno degli ultimi ragazzi…»
 
“A love like ours
Could never die
As long as I
Have you near me”
 
«Dio mio… non saprò neanche che quel giorno sarà il mio compleanno… non mi ricorderò che il ventisette novembre Alice compirà dodici anni», aveva proseguito, quando si era un po’ calmato.
Da come ne parlava, Erin aveva avuto l’impressione che di tutte le cose che avrebbe dimenticato, era proprio quella a suscitare in lui la maggiore preoccupazione.
«E dimenticherò anche che tu ne farai quattordici il diciotto giugno…»
Lei aveva simulato una risatina, tentando di nascondere quel groppo che le si stava formando in gola e che le stava facendo bruciare gli occhi. Non era riuscita a fare nulla per la sua espressione, ma, per fortuna, Liam non sembrava voler smettere di stringerla, quindi non avrebbe visto niente. Non era esattamente il massimo dire qualcosa per tentare di risollevare un po’ il morale di un amico con una faccia da funerale…
«E con questo cosa vuoi dire? Ti pare una scusa valida per non farmi gli auguri o per non comprarmi un regalo, inglesino? Guarda che non la accetto!», aveva detto, mettendo su un tono indignato.
Era stata una cosa piuttosto sciocca da rispondere, ma in quel momento aveva avuto bisogno di dirla. In qualche modo, le era servita per esorcizzare – almeno per qualche attimo – la tristezza che gravava sulle teste di entrambi come un macigno e che sembrava infiltrarsi fin dentro le loro ossa, arrivando più a fondo di quanto facesse il freddo dell’Alaska.
«Appena ti avranno tolto il Filtro, pretendo che tu recuperi il tempo perso e che mi sommerga di scuse, auguri e che mi porti un numero di regali che sia come il minimo il doppio di quello dei miei compleanni passati a cui non sei stato presente.»
Ma, purtroppo, questo non sembrava essere servito a distrarre Liam dai suoi pensieri funesti. «E se invece decidessero di non togliermi il Filtro? Se finissi per non ricordare mai più nulla?»
«Oh, questo non conviene affatto a nessuno di loro. Non hai idea di cosa sarei capace di fare pur di avere i miei regali…» Pur di riavere indietro te, Alice, Minho e tutti gli altri…
«Ricorderai», gli aveva detto, cercando di convincere anche se stessa. «Ti toglieranno il Filtro e ricorderai tutto.»
 
“Bright are the stars that shine
Dark is the sky
I know this love of mine
Will never die
And I love her”
 
«E se non dovessi reggere? E se finissi per impazzire?»
Lei si era staccata quel poco che bastava per potergli prendere il viso tra le mani. «Reggerai. Reggerai e farai rodere il fegato a quei bastardi.» Gli aveva sorriso con fare incoraggiante e gli aveva passato i pollici sulle guance per asciugargli le lacrime. «Sarai il più forte di tutti. Già ti ci vedo, assieme ad Alby, a fare i leader della situazione…»
«Guardami, Erin», l’aveva interrotta lui. «Guardami. Guarda in che condizioni sono. Sono tutto tranne che forte. Fin da quando quello schifoso Uomo Ratto ha letto il mio nome, è diventata tutta una lotta continua con me stesso per non scoppiare a piangere ogni singolo dannatissimo secondo…»
Erin l’aveva guardato. E dire che l’aveva visto distrutto sarebbe stato un eufemismo.
«Sei forte proprio per questo», gli aveva detto poi, guadagnandosi come risposta un’occhiata tra l’esterrefatto ed il sorpreso. Le sue mani si erano spostate sulle spalle del ragazzo, quasi a volerlo sorreggere.
«Ma che…?»
«Diciamo che oggi ho iniziato a svolgere la mia… mansione con diversi giorni di anticipo e ti ho osservato attentamente. Sembrava quasi che non te ne importasse nulla e sei stato tutto il tempo a consolare Alice e a scherzare con gli altri. Non ti sei lasciato andare. Sei stato forte abbastanza da reggere, non ti sei mostrato vulnerabile di fronte a loro… solo quando siamo arrivati qui, solo quando quella porta si è chiusa ti sei concesso di piangere.»
Sullo sguardo di Liam si era dipinta un’espressione scettica. «E per te questo è essere forti?»
«Certo! È perfettamente normale piangere. Sei umano, la cosa strana sarebbe se non lo facessi! Ma tu sei riuscito a non scoppiare di fronte a tutti. Ce l’hai fatta a controllarti quando ce n’era bisogno.»
«Io… io ho paura di non farcela. Non solo a non piangere, ma anche a reggere là dentro.»
«Anche avere paura è normale. Non sei né il primo né l’unico che si è sentito, si sente o si sentirà così, quindi non devi vergognarti di nulla.» La sua stretta sulle spalle di Liam si era fatta più salda. «Ce la farai.»
Lo so.
 
“Bright are the stars that shine
Dark is the sky
I know this love of mine
Will never die
And I love her”
 
Quando finì la canzone, Liam aprì gli occhi.
Si guardarono per qualche istante, quasi spaventati dall’idea di dire qualcosa e rompere così il silenzio che era appena calato. La mezzanotte doveva essere sicuramente già passata.
Il ragazzo si sollevò e le si sedette accanto, lasciando dondolare le gambe nel vuoto. Erin gli posò la testa sulla spalla. Lei e Liam si erano avvicinati molto ed era una cosa che già da parecchio tempo aveva preso l’abitudine di fare, ma stavolta avvertì un lungo brivido scorrerle lungo tutta la schiena. Quella era l’ultima volta che poteva farlo, poi chissà quanto tempo sarebbe dovuto passare prima che lei potesse di nuovo appoggiarsi a quella spalla. Per quanto avrebbe dovuto aspettare il ritorno di quella che ormai era diventata una persona incredibilmente importante per lei?
Il giorno del suo arrivo la signorina McVoy aveva affermato – se lo ricordava come se ci avesse parlato poche ore prima – che le Variabili si sarebbero protratte per circa due anni. Ma sarebbe stato davvero così? Sarebbe davvero andato tutto come programmato? Non seppe darsi una risposta e preferì non insistere per evitare di finire ad ipotizzare cose che non le sarebbero piaciute per niente.
Sospirò, osservando il suo respiro prendere forma in una piccola nuvoletta di condensa. «Buon compleanno, Liam», mormorò.
«Grazie…» Le dita del ragazzo si intrecciarono con le sue. «Per favore, stai vicina ad Alice… finché la terranno qui, almeno.»
«Contaci. Se qualcuno le torce un capello si ritroverà le impronte delle mie scarpe in faccia.»
Lo sentì sorridere. «Sai, sono più che sicuro che, se domani non mi cancellassero la memoria, mi mancheresti da morire.»
«E vorrei ben vedere, Earnshaw!», ribatté lei, dandogli una piccola gomitata. «Anche tu mi mancherai», aggiunse poi con un sussurro.
Liam si spostò leggermente in modo da poterla guardare in faccia.
«Ehi, stavo comoda!», protestò, ma la voce le si affievolì non appena vide che il viso del ragazzo si stava avvicinando sempre di più al suo. Arrossì, mentre il suo stomaco faceva le capriole e il battito impazzito del suo cuore le rimbombava nelle orecchie.
Quando Liam parlò di nuovo, il suo respiro caldo sulle sue labbra la fece tremare leggermente. «Sai una cosa, O’Riley? Hai esattamente centosette lentiggini.» Un attimo dopo, la bocca del ragazzo si posò sulla sua.
Fu un bacio dominato dall’inesperienza di entrambi, timido, impacciato, goffo… eppure incredibilmente tenero e dolce. Le loro labbra si sfioravano lentamente, con delicatezza, come se i due temessero di farsi del male a vicenda se avessero premuto un po’ di più.
Era una cosa giusta legarsi così, con un gesto che non era affatto da amici? Avrebbe complicato le cose? Erin non lo sapeva, ma in quel momento, con lo stomaco che le sembrava essersi riempito di tanti esserini svolazzanti, decise che non le importava. Era una cosa bella, la faceva stare bene. E non poteva negare di averla aspettata e sognata a lungo.
Con il tempo, quell’istintiva simpatia che fin dall’inizio aveva provato per quell’inglesino si era andata trasformando in qualcosa di più. Qualcosa di molto di più. Qualcosa che magari sarebbe cresciuto ancora, assieme a loro, nonostante l’imminente separazione.
Qualcosa che avrebbe dato un motivo in più per resistere a lei e, seppur in maniera indiretta, anche a lui.
Piano piano, le loro labbra iniziarono a prendere più confidenza le une con le altre, a muoversi con più sicurezza, intensificando il bacio, rendendolo sempre più simile ad una promessa silenziosa, in cui si giurarono tutto.
Si giurarono che non si sarebbe trattato di un “addio”, ma di un “arrivederci”.
Si giurarono che avrebbero superato tutto quello a cui la C.A.T.T.I.V.O. aveva intenzione di sottoporli.
Si giurarono che ne sarebbero usciti integri, alla faccia di quel branco di bastardi.
Ma, soprattutto, si giurarono che si sarebbero rivisti e che, da quel momento in poi, avrebbero affrontato il futuro – qualunque fosse stato – assieme. Loro due e Alice.
Ce la farai, Liam. Come ce la farà Alice. E come ce la farò anch’io.









 
Comunicazione d’ufficio – C.A.T.T.I.V.O. – Data: 4.1.230, Ora: 00.30
Destinatario: I miei colleghi
Mittente: Ava Paige, Cancelliera
Re: Risvolti interessanti, Gruppo A – Progetto d’Osservazione
 
È una cosa incredibilmente affascinante notare quanta speranza ci possa essere in una mente giovane.
Molto spesso si tratta di una speranza talmente forte da portare addirittura a credere ingenuamente che una gazzella sia capace di riuscire a trovare un nascondiglio sicuro in una tana di leoni. Ed è proprio ciò che è accaduto in questo caso.
Vi prego di perdonarmi il paragone che assegna praticamente a tutto il personale, me compresa, un ruolo senza dubbio molto poco innocente, ma ho semplicemente pensato che fosse il più adatto alla circostanza.
Ma per farvi capire il perché di questo mio pensiero, devo prima di tutto mettervi al corrente di alcune cose.
Ormai da diversi anni – sette per la precisione, ovvero da pochi giorni dopo il suo arrivo al Quartier Generale – il Soggetto A0, Johanna Reid, l’Osservatrice, e il Soggetto A5, Newton Wells, il Collante, si recano assieme almeno una volta alla settimana, nel cuore della notte, sul tetto della struttura e vi rimangono fino a poche ore prima dell’alba.
Si tratta di un’abitudine che il Soggetto A5 aveva già da tempo e che il Soggetto A0 ha acquisito in fretta. In pratica, hanno scelto quel luogo come “rifugio segreto” e non hanno mai sospettato, nemmeno una volta, di poter essere sorvegliati anche in un posto del genere.
Non appena ci siamo accertati che non avessero alcuna intenzione di scappare, abbiamo deciso di non intervenire e di tenerli semplicemente d’occhio.
Lì i due soggetti parlano, si raccontano molte cose delle loro vite precedenti o delle circostanze che li hanno portati in questo luogo, si sfogano e si consolano a vicenda e, molto frequentemente, il Soggetto A5 chiede al Soggetto A0 di cantare.
Anche stanotte vi si sono recati, probabilmente per avere la possibilità di salutarsi in privato: domani il Soggetto A5 verrà mandato nel Labirinto, assieme ad un altro gruppo di ragazzi, dando così inizio allo Stadio 1 delle Prove.
Dopo quanto vi ho descritto, mi sembra superfluo affermare che i due abbiano legato molto. Come a voler confermare ulteriormente ciò, giusto poco fa hanno fatto una cosa che due semplici amici di norma non farebbero. Tra i due, infatti, c’è stato un bacio.
Mi rendo conto di come, da una prospettiva esterna, spiare due ragazzini crescere assieme e separarli mentre ancora stanno imparando ad amarsi possa sembrare una cosa spregevole, ma in una situazione come la nostra ci si trova costretti a mettere da parte i sentimenti – nostri e degli altri – e gli scrupoli, sacrificandoli alla causa di un bene più grande.
È questo il nostro scopo, la nostra missione. La mia speranza è che in futuro tutti questi ragazzi riescano a comprendere che, nonostante il nome, la C.A.T.T.I.V.O. è veramente buona.
Ma non si diventa capaci soltanto di dominare e mettere da parte la sfera emotiva. Si impara a fare anche altre cose: come ad esempio cercare di sfruttare al meglio qualsiasi occasione ed è esattamente ciò che faremo in questo caso.
Il fatto che il Soggetto A0 provi questo sentimento potrebbe rivelarsi straordinariamente utile per ciò che abbiamo in mente per lei.
Domattina mi consulterò personalmente con la signorina McVoy e con i coordinatori del Progetto d’Osservazione ed esporrò le mie idee al riguardo.
Vi terrò aggiornati.

 

Questo capitolo.
Mamma. Mia. Questo. Capitolo.
Il bacio, Erin che canta (e che canzone canta! <3), il luogo “nascosto”, le centosette lentiggini (ci credete che per decidere questo numero mi sono messa allo specchio a disegnarmele? Volevo che fossero una spruzzata molto leggera, ma non sapevo quante avrebbero dovuto essere per poter essere definite tali… così mi sono messa all’opera xD), la stramaledettissima comunicazione della C.A.T.T.I.V.O.… fate conto che se quello di prima era una vita che volevo scriverlo, questo ce l’ho in testa praticamente dalla mia vita precedente!
No, ok, forse sto un pochino esagerando…
Comunque, è da questa scena che la mia mente ha iniziato a sviluppare questa storia. È il fulcro di tutto. È da qui che è partito tutto questo folle progetto (perché mi sento come se stessi facendo scaricabarile con un qualcosa di inanimato e che, inevitabilmente ricondurrà sempre e solo a me e alla mia pazzi… oh, giusto…).
E così si conclude definitivamente la prima parte della storia. Non vedo l’ora di iniziare con la seconda e farvi vedere la copertina nuova *^*
Grazie infinite a tutti voi Pive che state seguendo, che recensite o che semplicemente leggete questa pazzia. Spero che il capitolo vi sia piaciuto o che almeno non l’abbiate trovato terribile :)
E niente, vi sto volendo un bene dell’anima <3 e verrò a farvi una serenata sotto casa (ovviamente vi canterò “And I love youuu”)!
Alla prossimaaa~
 
 
 
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Capitolo 18
*** 17. ***


 
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17.
 
Erin si sedette sul lettino in silenzio, quasi non fosse lei quella a cui stava per essere ficcato un marchingegno nel cervello. Attaccata alla testiera del letto e posizionata esattamente al di sopra del punto in cui si sarebbe trovato il suo viso subito dopo essersi sdraiata, c’era un’inquietante maschera di metallo luccicante da cui partivano diversi tubicini di plastica.
Teresa aspettava immobile in un angolo, i grandi occhi azzurri velati di una lieve inquietudine. Aveva insistito un bel po’ per accompagnarla. «Sarai la prima a cui verrà inserito quest’impianto, voglio solo essere sicura che nulla vada storto», le aveva detto.
Lei aveva scrollato le spalle. «In tal caso, potresti farci qualcosa?»
Teresa era stata costretta ad ammettere che no, non avrebbe potuto fare nulla, ma aveva aggiunto che al responsabile dell’errore sarebbe sempre potuto capitare qualcosa, magari durante la notte…
Erin si era concessa una piccola risata, che era riuscita a sciogliere almeno un po’ il nodo ingarbugliato in cui  si era tramutato il suo stomaco.
Inspirò profondamente, scambiando con quella che ormai era diventata la sua migliore amica un’occhiata d’intesa. Inizialmente era stata categorica nell’affermare di non volere che nessuno assistesse all’operazione, ma adesso era grata che Teresa avesse insistito e fosse lì con lei.
«Sei preoccupata?»
«Meno di quanto mi aspettassi», le rispose con tranquillità. «Ho un po’ di strizza, sì, ma non così tanta… alla fine è solo una piccola operazione.»
La mora sollevò un sopracciglio. «Sembra quasi che non te ne importi nulla.»
«Cerco di essere obbiettiva… voglio dire, non stravedo per queste persone, ma devo ammettere che il loro… chiamiamolo lavoro lo fanno piuttosto bene, quindi perché dovrebbe andare storto qualcosa?»
Teresa parve essere rimasta positivamente impressionata da quella risposta. «Non c’è che dire, sei sempre stata tosta e non ti stai smentendo affatto», commentò, andandosi a sedere accanto a lei. Lasciò passare qualche attimo, poi parlò di nuovo, ma con un tono di voce molto più sommesso. «Hai già visto Newt, oggi?»
Tecnicamente sì, l’aveva visto eccome, dato che da quando era tornata in camera – alle cinque passate – non erano trascorse neanche tre ore. Teresa era l’unica persona, oltre ad Alice, a sapere dei suoi incontri con Liam, ma non era esattamente il caso di mettersi a parlarne lì come se niente fosse.
«No», rispose con un sospiro. «Tu e Tommy non eravate gli unici assenti a colazione… e subito dopo l’Uomo Ratto mi ha portata qui.»
«E Lizzie?»
«No, non ho visto nemmeno lei. Credo sia con Newt per stare un po’ assieme a lui prima…» Esitò: non le piaceva affatto quello che stava per dire, specie in quel momento, visto che di lì a poche ore e sarebbe diventato reale. «… di separarsi.»
«Capisco…», mormorò Teresa, ma poi alzò gli occhi verso il soffitto un paio di volte e lei capì che le stava chiedendo se quella notte si fossero visti sul tetto. Glielo chiedeva sempre così quando quell’argomento saltava fuori in posti in cui avrebbero potuto essere osservate o ascoltate. Quasi sempre, in pratica.
Lei sbatté ripetutamente le palpebre. E quello era il suo modo di risponderle: un sospiro per dire no e dei rapidi battiti di ciglia per dire sì.
Non ebbero il tempo di “dirsi” altro perché un attimo dopo la porta si aprì per lasciar entrare la signorina McVoy, accompagnata da un uomo con indosso un lungo camice bianco. Era molto alto, con la carnagione olivastra, gli occhi grigio-verdi e le labbra sottili incurvate in un sorriso.
E Erin quell’odioso sorriso non se l’era mai scordato, nonostante non l’avesse più visto dal giorno del suo arrivo al Quartier Generale.
«Jack?», domandò, non riuscendo a mascherare il suo tono sorpreso.
«In persona», confermò lui, senza smettere di sorridere. «È un po’ che non ci si vede, Johanna.»
Non sarà mai troppo.
«Che cosa ci fai qui?»
Prima che Jack potesse risponderle, la signorina McVoy si schiarì la gola. «Johanna, ti sarei grata se ti rivolgessi al mio collega con più educazione», la riprese, lanciandole un’occhiata severa.
Erin rimase in silenzio, guardandola fissa negli occhi, come a volerle far intendere di non essere stata affatto intimorita dal suo rimbrotto.
Se ti aspetti delle scuse possiamo anche stare qui per l’eternità.
Gli occhi della donna si assottigliarono, riducendosi a due fessure. «E per rispondere alla tua domanda, il dottor Fowler è qui perché è il creatore del dispositivo che sarà inserito nella tua zona della violenza. L’ha ideato appositamente per te e per il Progetto di Osservazione.»
Erin spostò di nuovo lo sguardo su Jack e all’improvviso non riuscì più a sentirsi così tranquilla. Le tornò in mente cos’aveva pensato quando, sette anni prima, aveva avuto a che fare con l’uomo per la prima volta: se lui era entusiasta di qualcosa, lei non doveva esserlo affatto.
E in quel momento, l’uomo le sembrava fin troppo entusiasta.
«Ora sdraiati sul lettino, per favore», disse la signorina McVoy.
Lei deglutì, avvertendo un brivido scorrerle lungo la schiena. Se fino a pochi istanti prima quell’operazione non le era sembrata nulla di che, adesso l’unica cosa che voleva era scappare a gambe levate in modo da allontanarsi il più possibile da quella stanza. Jack non le piaceva per niente e l’idea di doversi affidare a lui le faceva gelare il sangue nelle vene.
La leggera stretta che Teresa diede al suo braccio la riscosse, facendole ricordare che in quella stanza non c’erano solo la McVoy e Jack, ma anche una persona di cui potersi fidare. Si voltò a guardare per un attimo la sua migliore amica e questa le fece un breve cenno d’incoraggiamento. «Ci vediamo dall’altra parte», le sussurrò prima di alzarsi e di tornare nell’angolo.
Erin le sorrise per ringraziarla e, dopo aver inspirato profondamente, si distese. Mantenne lo sguardo fisso davanti a sé, concentrandosi su quella maschera che di lì a poco sarebbe calata sul suo viso. Sentì un leggero fastidio, come un pinzo, sul braccio destro e, mentre scivolava rapidamente nell’incoscienza dell’anestesia, cercò di concentrarsi su un unico pensiero.
Non sono sola.
 
Dopo essersi staccata da suo fratello, Alice le si avvicinò e le si strinse contro, mordendosi un labbro nel vano tentativo di fermare le lacrime che le scendevano copiose lungo le guance.
Erin si limitò a passarle un braccio attorno alle spalle. Non disse nulla, temendo che il groppo che le si stava formando in gola potesse farle tremare la voce.
«Han…»
Capì che era il suo turno. Era l’unica a non averlo ancora salutato.
Alzò lo sguardo, ritrovandosi davanti Liam. In quel momento, nonostante si trovasse solo a pochi passi da lei, le sembrò più lontano che mai. Era lì, le sarebbe semplicemente bastato allungare un braccio per toccarlo, ma era come se, di punto in bianco, quello fosse diventato il gesto più difficile del mondo.
«Non mi saluti?», le chiese lui, mentre un sorriso triste gli si disegnava sulle labbra. Quelle stesse labbra che, una manciata di ore prima, avevano sfiorato le sue.
Quel ricordo sembrò quasi spezzarla a metà. Avrebbe dovuto essere felice per ciò che era successo, e una parte di lei lo era… ma l’altra era in preda al dolore e alla rabbia. Ma, soprattutto, c’era la paura.
Erin voleva gridargli contro che no, non l’avrebbe salutato perché non avrebbe lasciato che la C.A.T.T.I.V.O. la separasse di nuovo da qualcuno a cui teneva e che quindi lui in quel dannato Labirinto non ci avrebbe proprio messo piede, al diavolo le Prove, le Variabili e tutto il resto… ma, ancora una volta, non disse neanche una parola, facendo del suo meglio per non tremare.
Di fronte al suo silenzio, il debole sorriso di Liam si spense definitivamente, lasciando che la malinconia prendesse possesso del suo viso.
Strinse i pugni, sentendo il foglietto stretto nella mano destra, infilata in tasca, accartocciarsi ancora di più. Aveva voglia di prendersi a schiaffi. Proprio lei, che aveva cercato di infondergli coraggio, ora faceva scena muta, negandogli il suo appoggio e rendendo stupide e futili tutte le sue parole. Ci aveva creduto quando gliele aveva dette e ci credeva ancora.
Ma era come bloccata dal dolore. Perché le separazioni dovevano fare sempre così male?
«Han», la chiamò di nuovo lui con un sussurro. «Posso almeno chiederti un abbraccio?»
Dovette fare uno sforzo a dir poco sovrumano per non scoppiare a piangere e aggrapparsi al suo collo per non lasciarlo più. Annuì e basta ed Alice si staccò da lei per permetterle di abbracciare il fratello.
Lui le si avvicinò quasi con cautela, circondandola con le braccia e stringendola a sé.
In quell’abbraccio, che le sembrava talmente caldo da farle dimenticare le dita gelide dell’Alaska che in qualche modo riuscivano sempre a raggiungerla, finalmente Erin riuscì a ritrovare il coraggio che sembrava averla abbandonata. Era incredibile: un attimo prima si era sentita quasi sprofondare, ma le era bastato avere Liam vicino per riprendersi. Per ricordare che ce l’avrebbero fatta.
Ricambiò l’abbraccio, ritrovandosi a stringerlo quasi avesse voluto togliergli il respiro… ma la cosa era reciproca: il ragazzo la teneva tra le braccia come se avesse avuto un bisogno disperato di lei.
Le vennero in mente una marea di cose da dire, dalle più banali e scontate alle più strappalacrime e sentimentali, ma alla fine decise di non dire nulla. Forse in futuro l’avrebbe rimpianto e si sarebbe odiata per non avergli detto che le sarebbe mancato da morire, o per non aver espresso a parole il sentimento che la sera prima li aveva portati a scambiarsi quel bacio… ma adesso le sembrava solamente che quell’abbraccio fosse più che eloquente.
Quei momenti sembrarono volare, ma a quanto pareva, secondo l’Uomo Ratto dovevano essere stati troppi perché tossicchiò un paio di volte per farsi notare e i due ragazzi dovettero staccarsi.
Minho, ovviamente, non si fece sfuggire l’occasione di commentare l’accaduto con un “Bentornati alla realtà, miei piccoli raggi di sole. Magari la prossima volta prendetevi una stanza o rischiate di accecarci tutti!” ed Erin approfittò dell’occhiataccia che Janson e la McVoy gli rivolsero per far scivolare nella tasca di Liam quel piccolo foglietto accartocciato. Il ragazzo non parve neanche accorgersene.
«Bene, ragazzi! Il tempo dei saluti è finito, è ora di andare», annunciò l’Uomo Ratto con un odioso entusiasmo. «Seguitemi.»
Liam la guardò un’ultima volta, sussurrando semplicemente, «Ci vediamo, Han».
«Ciao, Newt.»
Ci vediamo. Ciao.
Avrebbero dovuto suonare meglio di “addio”, ma invece furono delle vere e proprie stilettate.
Erin lo seguì con lo sguardo finché le fu possibile, poi, quando la porta da cui lui, Janson e tutti gli altri ragazzi erano passati si fu chiusa, strinse i pugni ed inspirò profondamente, sentendo che qualcosa, dentro al petto, sembrava farsi intollerabilmente pesante.
Nella stanza, che all’improvviso le pareva essere diventata molto più fredda e scura, erano rimasti solo lei, Alice, Teresa, Minho, Thomas e la McVoy.
«Se n’è andato…», mormorò Alice dopo qualche attimo di silenzio quasi surreale. A sentirla, sembrava quasi più incredula che addolorata.
Deglutì, tentando di ignorare il gusto dolorosamente amaro delle lacrime. «Tornerà», le disse.
«Ci puoi giurare che tornerà: abbiamo una scommessa aperta io e il signorino», rincarò Minho.
Thomas si lasciò sfuggire un sospiro, scambiando una veloce occhiata con Teresa. «Perché la cosa non mi sorprende?»
«Voi non potete capire…», ribatté Minho con una certa enfasi – Erin fu quasi sicura di aver sentito Teresa rispondere a bassissima voce che avrebbe cercato di farsene una ragione –, «… abbiamo scommesso che…».
La McVoy batté ripetutamente le mani, interrompendolo. «Basta. Come ha detto il signor Janson, il tempo dei saluti è finito. Thomas, Teresa, raggiungete subito le vostre postazioni, non possiamo perdere tempo. Minho ed Elizabeth, voi tornate alla sala delle esercitazioni. Johanna, tu invece vieni subito con me.» Le posò una mano sulla spalla, dandole un piccolo strattone per rafforzare il concetto dell’ultima frase.
Minho sbuffò infastidito, ma poi allungò ad Erin una piccola pacca sulla spalla e si avviò con Thomas fuori dalla stanza. Teresa li seguì subito dopo, ma prima le indirizzò un ultimo silenzioso sguardo d’incoraggiamento di cui Erin non poté fare altro che esserle riconoscente.
Alice fu l’unica a non fare nemmeno un passo. Non si mosse nemmeno quando la McVoy le ripeté – con un certo fastidio – l’ordine. I suoi occhi erano fissi sulla porta e le tremavano le mani.
Prima che la donna finisse per arrabbiarsi, Erin raggiunse la ragazzina e le prese la mano, riuscendo finalmente a catturare la sua attenzione.
Guardarla dritta in faccia le fece quasi male: era sempre stata molto simile al fratello, ma adesso quella somiglianza le sembrava rafforzata. I lineamenti del viso, il taglio degli occhi, la piega malinconica assunta dalla bocca… per un attimo fu come se il volto della persona di fronte a lei non fosse più quello di Alice, ma quello di Liam.
«Oggi Lizzie potrebbe venire con me?», domandò piano alla McVoy, mascherando a stento il tremolio che le incrinava la voce.
 
Quando l’ascensore si fermò bruscamente, anche le urla si interruppero di colpo. Il “viaggio” era durato solo un paio di minuti, ma tutti quei ragazzi sembravano essersi ridotti all’ombra di loro stessi. Pallidi, spaesati e in preda al terrore, la maggior parte di loro non riusciva nemmeno a reggersi in piedi. Qualcuno aveva rigettato, qualcun altro era scoppiato a piangere, altri ancora avevano cercato inutilmente di aggrapparsi a qualcosa, ripiegando poi sui propri “compagni”.
Nella Scatola, adesso risuonavano solo sussurri e singhiozzi, ma Erin non poté fare a meno di pensare che se la paura avesse avuto un rumore, si sarebbe trattato proprio di quello.
Non aveva staccato lo sguardo dallo schermo nemmeno una volta, troppo sconvolta da ciò che stava vedendo per pensare anche soltanto di poterlo fare.
Si accorse di stare sudando freddo e di avere la gola secca e i pugni serrati. Se stava così al solo assistere ad una cosa del genere, non osava immaginare come si sarebbe sentita se al posto di uno di quei ragazzi ci fosse stata lei.
«D-dove siamo?», balbettò Nick dopo che nessuno sembrava voler spiccicare parola. Stava cercando di rimettersi in piedi, dopo essere rovinosamente caduto quando il folle movimento della Scatola si era arrestato, ma le gambe non lo sostenevano e dovette farsi aiutare da un altro ragazzo.
Fu Alby a rispondergli. «Non lo so…», disse, passandosi una mano sulla fronte imperlata di sudore. «Non… mi ricordo nulla…»
A quell’affermazione ne seguirono tante altre se non uguali, per lo meno simili: nessuno sapeva dove si trovassero e nemmeno il perché, nessuno ricordava niente di antecedente al brusco e traumatico risveglio in quella stanza. E nessuno aveva idea di chi fossero gli altri.
L’unica cosa certa era solo il proprio nome.
In tutta quella confusione, Liam fu l’unico a non dire nulla. Fin da quando la Scatola si era fermata, era rimasto immobile, schiacciato in un angolo con gli occhi sbarrati ed una mano premuta sul petto come a voler imporre un ritmo regolare al suo respiro. Tremava come una foglia e sembrava sul punto di crollare in pezzi da un momento all’altro.
Al vederlo così, Erin si sentì come se degli artigli metallici le si stessero conficcando al centro dello stomaco per poi salire, con una lentezza straziante, verso il cuore.
Alla sua destra, Alice singhiozzava sommessamente, gli occhi fissi sullo schermo a cercare il volto del fratello e, per un attimo, Erin rimpianse amaramente di aver chiesto che la ragazzina venisse con lei.
Ma il rimpianto non durò che per pochi istanti. Aveva voluto che Alice la accompagnasse per un motivo ben preciso. Le prese la mano e la strinse. Le sue dita erano gelide. «È tutto ok, tranquilla», sussurrò, forse più a se stessa che alla sua amica.
Alby stava cercando invano di ristabilire la calma, ma non era affatto facile e la situazione non migliorò affatto quando le porte sopra le teste dei ragazzi iniziarono ad aprirsi. Fino a pochi attimi prima quello di scappare da quella gabbia era stato il desiderio più ambito, ma adesso, paradossalmente, sembrava che tutti avessero paura di cosa li potesse aspettare all’esterno.
«Fate silenzio!»
Con tutta quella confusione, Erin non riuscì a spiegarsi come la voce di Liam fosse riuscita a sovrastare le altre.
Il ragazzo squadrò dal primo all’ultimo i suoi compagni, che adesso lo osservavano muti. «Ascoltatemi: qualsiasi cosa ci sia lassù, di sicuro sarà meglio che stare qui dentro tutti pressati come delle dannate sardine. Io direi di uscire fuori per dare un’occhiata.» Aveva parlato con un tono fermo e sicuro, ma per tutto il tempo non aveva smesso di passarsi le dita sul mento.
Ed Erin ricordava bene quel gesto: faceva quasi sempre così quando qualcosa lo innervosiva o lo preoccupava. Eppure era riuscito a controllarsi e a non farsi prendere dal panico.
Sapevo che ce l’avresti fatta, Liam.
«Tuo fratello è forte, Lizzie», mormorò.
Alby e Nick furono subito d’accordo con lui.
«Usciamo da questa cacchio di… scatola, ascensore o qualsiasi cosa sia», sentenziò il ragazzo di colore.
Si arrampicarono fuori, mettendo ufficialmente piede nella Radura. Piano piano, li seguirono anche tutti gli altri.
La Radura era un gigantesco cortile squadrato, con dei grossi blocchi di pietra che in alcuni punti ne costituivano la pavimentazione. In un angolo, parecchi alberi erano come ammassati a formare un boschetto. In un primo momento, tutto ciò non sembrò destare impressioni troppo negative – oggettivamente, non era brutto come posto –, ma a questo “rimediarono” subito le Mura.
Gigantesche, fatte di pietra e ricoperte di edera, circondavano tutto il perimetro della Radura gettando ombra su tutto ciò che vi si trovava all’interno. Ognuna di esse aveva un’apertura verticale al centro, alta quanto le Mura stesse. Le entrate del Labirinto.
«E ora che cosa facciamo?», domandò Nick dopo un lungo attimo di stupore.
Alby scosse la testa, confuso. «Non lo so… magari diamo un po’ un’occhiata in giro e… e cerchiamo di capire cosa cacchio è questo posto…»
 
Erin osservava Liam rigirarsi nervosamente in uno dei sacchi a pelo che i ragazzi – ormai Radurai – avevano trovato all’interno della Scatola, oltre a delle provviste sufficienti per circa una settimana. Le sembrava che fosse apparso sugli schermi molto più spesso degli altri, forse perché ad assistere c’era anche Alice, che per tutto il tempo non aveva accennato a lasciarle la mano.
Era stato per tutta la giornata ad esplorare in lungo e in largo la Radura assieme ai suoi compagni, tranne un piccolo gruppo che si era addentrato nel Labirinto… e che, una volta giunta l’ora del tramonto, vi era rimasto intrappolato dentro a causa della chiusura delle Porte. Erano dodici ragazzi e nessuno di loro avrebbe rimesso piede nella Radura l’indomani. I Dolenti avevano provveduto al riguardo con fin troppo zelo… ed Erin e Alice avevano dovuto assistere ad ogni singolo attimo di ogni singola uccisione.
Aveva visto molti progetti riguardanti i Dolenti e, sebbene non l’avesse chiesto, Janson la aggiornava ogni qualvolta veniva aggiunto anche il minimo particolare o la più piccola modifica. In pratica, aveva seguito per filo e per segno la creazione di quei cosi e più di una volta li aveva visti nella loro forma definitiva.
Poteva dire di conoscerne a memoria ogni dettaglio: erano delle sorte di lumaconi grosse quasi quanto dei cavalli, forse anche di più, e tutto il corpo era ricoperto di peli e punte di metallo retrattili. La cosa più inquietante erano però le numerose braccia metalliche, ognuna con una diversa terminazione: tenaglie, aghi, artigli. Il loro scopo era tristemente ovvio.
 Ma non li aveva mai visti in azione contro delle persone vere e, sebbene si fosse fatta un’idea e avesse cercato di prepararsi psicologicamente ad assistere a scene del genere, il ritrovarsene non una, ma una dozzina davanti agli occhi era stato a dir poco devastante.
Alice aveva pianto e probabilmente era stata l’unica ragione che l’aveva trattenuta dallo scoppiare in lacrime anche lei. Se avesse ceduto, la ragazzina non avrebbe avuto più nessuno a cui aggrapparsi lì dentro.
Avrebbe pianto, sapeva benissimo che non sarebbe riuscita a trattenere quelle lacrime per sempre. Ma l’avrebbe fatto più tardi, nella sua camera. Da sola, al riparo dagli sguardi di tutti. Lontana da Alice.
Liam si liberò bruscamente dal sacco a pelo e si alzò di scatto, risvegliandola dai suoi pensieri con quel movimento improvviso. Si stava sfregando il mento con le dita con talmente tanta forza che sembrava volesse staccarsi la pelle. Imprecò tra i denti, lo sguardo che si stava piano piano appannando di un terrore tenuto nascosto a tutti i suoi compagni per l’intera giornata. Iniziò a camminare freneticamente avanti e indietro, passandosi di tanto le mani tra i capelli e mormorando tra se e se altre imprecazioni.
Liam…
«Ehi, tu! Newt, giusto?», la voce di Alby lo riscosse, facendolo irrigidire.
Cercò immediatamente di ricomporsi e si schiarì la voce. «Sì… sì è il mio nome», rispose poco convinto. «E tu sei Alby, vero?»
«Così sembra… qualcosa non va?»
Il biondo sospirò, allargando le braccia e guardandosi attorno con aria stanca. «Sono qui da solo un giorno e già odio questo posto. Con quelle dannate mura mi sembra di stare in una gabbia.»
Alby lo guardò comprensivo e gli posò una mano sulla spalla. Erin gli fu grata di quel gesto. Se c’era qualcuno che tra tutti quei ragazzi poteva stare vicino a Liam e sostenerlo, quello era proprio Alby.
«Newt non è solo, Lizzie…»
«Non sei l’unico…», disse il ragazzo di colore. «Ma vedrai che ne usciremo: prima o poi quelle cacchio di… aperture, o qualsiasi altra cosa siano, si riapriranno. Non erano chiuse stamattina, no? Magari è una cosa temporanea…»
Liam si passò una mano sul viso. «Mi piacerebbe riuscire ad essere così ottimista… ma ho una fottutissima paura.»
«Beh, è normale avere paura, cacchio!», ribatté Alby. «Se non hai paura non sei umano! Anch’io… ehi, cos’è quello?»
«Quello cosa?»
«Ti è caduto qualcosa dalla tasca… sembra una pallina di carta…»
Quell’affermazione generò una strana confusione all’interno della stanza, ma Erin sorrise e non smise di farlo nemmeno quando la McVoy si voltò verso di lei.
«Di qualunque cosa si tratti, ci metto la mano sul fuoco che questa è opera tua», sibilò la donna, indirizzandole uno sguardo al vetriolo.
Alice aveva smesso di singhiozzare e adesso guardava con attenzione lo schermo. Doveva aver avvertito la strana agitazione che adesso regnava sovrana nella stanza.
La telecamera rimase fissa su Liam mentre quest’ultimo si chinava e raccoglieva la pallina di carta con aria interrogativa. Non appena l’ebbe aperta, uno degli schermi mostrò un’inquadratura ravvicinata di ciò che c’era scritto.
 
Sarai signore di questa terra solo se supererai le prove che ti darò.
 
Era per questo che aveva voluto che Alice l’accompagnasse: voleva che assistesse alla scoperta di quel biglietto. Quella frase poteva sembrare priva di significato, ma Erin l’aveva scelta per un motivo ben preciso.
In qualche modo, voleva dare a Liam una sorta di indizio sulla sua situazione, ma spiegargli tutto quanto in un piccolo pezzo di carta sarebbe stato alquanto impossibile. Voleva fargli capire che c’era qualcosa dietro, che non erano capitati lì per caso e che avrebbe dovuto farsi forza per superare quella situazione. Forse era stato sciocco scrivere quella frase per fargli capire tutte quelle cose, ma Erin si fidava di Liam.
E poi… voleva che avesse con se un suo ricordo, anche se lui sicuramente non l’avrebbe interpretato in quel modo.
I due ragazzi rilessero più e più volte quella frase. Alby si grattò la nuca. «Ma che caspio significa?»
Liam scosse la testa. «Non lo so…», mormorò. «Ma sono… credo di essere abbastanza sicuro che questa non sia la mia scrittura. Cioè, non… non credo di scrivere così… mi sembra troppo precisino per essere mio.»
Erin sorrise a quelle parole, ricordando ciò che Liam le diceva ogni volta che vedeva la sua scrittura.
“Cacchio, Han, ma non ti stanchi mai di essere sempre così dannatamente precisina? Mi fai quasi vergognare di scrivere come una persona normale!”
«Ricordi qualcosa?», domandò Alby, speranzoso.
Liam rilesse di nuovo la frase e sospirò. «No, non mi ricordo nulla», fu costretto ad ammettere. «Ma se questo non l’ho scritto io – e sono sicuro di non averlo fatto – deve avermelo lasciato qualcuno.»
«E quindi?»
Il biondo si prese qualche attimo per rimuginare prima di rispondere. «E quindi… credo che ci sia qualcosa dietro a tutto questo… qui dentro… qui dentro non ci siamo finiti per caso.»
Alby si passò una mano sul viso, rivolgendogli uno sguardo piuttosto scettico. «Amico, non starai esagerando? È solo una frase, cosa ti fa pensare che possa voler dire proprio questo? Solo perché parla di prove da superare?»
Liam strinse il foglietto nel pugno, gli occhi improvvisamente illuminati da un piccolo barlume di speranza. «Non lo so… ma qualsiasi cosa siano queste prove, io ho intenzione di superarle. Non importa cosa dovrò fare.» Si interruppe un attimo, guardando Alby come a voler cercare il suo appoggio. «Ci sarà da rimboccarsi le maniche.»
In quel momento, fu come se un grosso blocco di cemento le fosse stato tolto dal petto. Le lacrime che adesso premevano per uscire dai suoi occhi non erano più di dolore ma di gioia. Ce l’aveva fatta. Liam aveva capito.
La McVoy continuava a fissarla con odio per aver osato intromettersi, ma ad Erin non importava nulla. Il suo sguardo si spostò dallo schermo al viso di Alice, che si era voltata verso di lei. Nei suoi occhi c’era la stessa scintilla di speranza presente in quelli del fratello. E c’era gratitudine. Tanta gratitudine.
Erin le strinse di più la mano e la guardò con fare incoraggiante.
Ce la faremo. Ce la faremo tutti.

 
Eeehm… saaalve Pive!
Sono viva, sono tornata! (Ma chi ti volevaaa…) Scusatemi se sono sparita, sono una cattiva persona, lo so :(
Cooomunque… spero che questo capitolo/inizio della seconda parte della storia vi sia piaciuto/ non vi abbia disgustato.
Avete visto che bella la copertina nuova? Io la adoro *^* e ringrazio in ginocchio l'autrice Stillintoyou (perché, ovviamente, non l’ho fatta io… voglio dire, ve lo ricordate quell’obbrobrio che si trova all’inizio? Ecco, quello è stato fatto da me e non aggiungo altro xD).
E niente (lo dico spesso, lo so), oltre a questo sproloquio, volevo solo dirvi grazie. Un grazie grande quanto tutto il Labirinto (che brutto paragone…)! Grazie di seguire/recensire/leggere questa storia. Grazie mille davvero <3
Alla prossimaaa~ (cercherò di non sparire di nuovo…)



 
 
 
 
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Capitolo 19
*** 18. ***


Sono una brutta persona, lo so. Quest’assenza è stata a dir poco imperdonabile, e menomale che avevo detto che avrei cercato di non sparire più…
È partito tutto da un casino: il computer è praticamente morto, ho perso la storia (sono stata un genio del male a non averla salvata su qualche altra piattaforma) e ci sono rimasta talmente male da non riuscire più a rimetterci mano. Quindi tutto questo progetto è caduto in standby, con me che dicevo, “Sì, no, poi la continuo”. Andava a finire che mi mettevo al computer e non mi riusciva scrivere niente.
Diciamo che si è trattato di un blocco dello scrittore, ma mi sembra che sia durato un’eternità… in sostanza, quando mi è ritornata la voglia di scrivere, è subentrata la vergogna: “Ma non ti senti una cretina a pubblicare dopo tutto questo tempo?”, mi dicevo, e quello non mi ha aiutato a ricominciare. Mi vergognavo talmente tanto da non osare nemmeno rispondere alle recensioni.
Poi alla fine, qualche settimana fa, mi sono messa davanti ad un bivio: “Allora, questa storia o la porti avanti o la molli definitivamente”. Ho deciso di ritentare e di portarla avanti.
Ho ributtato giù lo scheletro della trama ed ho riscritto il capitolo che avevo perso.
In pratica, tutto questo sproloquio è il mio “Scusatemi, mi dispiace tantissimo per essere sparita”. Non me la cavo in queste cose, lo so…
Comunque, se non seguirete più questa storia (sì, mi rendo conto di quanto sia sciocco scriverlo, visto che non lo leggerete) vi comprendo benissimo, vi chiedo ancora scusa e vi ringrazio di averla seguita. Se invece ci siete ancora, ringrazio infinitamente e chiedo scusa anche a voi e spero che questo capitolo non vi deluda.
 
 
Capitolo 18
 
Dei forti colpi alla porta la fecero sussultare, svegliandola bruscamente.
Confusa e spaesata, Erin si tirò su col busto, mettendosi a sedere. Tastò la parete al buio, cercando l’orologio. Aveva preso l’abitudine di impostare la sveglia alle sei e mezza del mattino. In realtà poi finiva per svegliarsi sempre un paio di minuti prima, ma era disposta a sopportarlo pur di evitare di ritrovarsi di nuovo l’Uomo Ratto davanti alla porta di camera sua. Stavolta però non doveva averla sentita.
«Johanna Reid! Apri immediatamente!» La fastidiosa voce nasale di Janson le diede la sensazione di stare avendo uno spiacevole deja-vu.
«Un attimo…», mormorò con la voce impastata dal sonno.
L’orologio si illuminò, segnando le 05:37. Erin sbatté più volte gli occhi, convinta di aver visto male. Accese la luce e guardò nuovamente le cifre. Nessun errore, erano le 05:37.
Ma a che ora si alzano questi tizi? Che razza di problemi hanno?
«Johanna!!!», ripeté inviperito l’Uomo Ratto. Ma che diamine poteva volere a quell’ora?!
Con un sospiro di rassegnazione, scostò le coperte e andò ad aprire la porta, camminando in punta di piedi sul pavimento freddo come il ghiaccio.
L’Uomo Ratto non lasciò nemmeno che si spostasse per farlo passare ed entrò come una furia, rischiando quasi di travolgerla e costringendola ad appoggiarsi alla porta per non cadere. «Dov’è?!», tuonò, fermandosi al centro della stanza. «Dove diavolo è?!»
Erin lo guardò perplessa, ma dopo pochi istanti intuì che cosa lo avesse fatto arrabbiare in quel modo.
O meglio, chi.
Perché il responsabile poteva essere solo lui.
«Intende Minho?», gli chiese con cautela.
Quando si trattava del ragazzo asiatico, Janson sembrava perdere la testa. In generale, era sempre piuttosto incline ad infastidirsi o arrabbiarsi anche per delle sciocchezze… e questo l’aveva reso il bersaglio preferito di Minho.
Forte del suo status di “Soggetto particolarmente promettente” e di conseguenza ancor più intoccabile di tutti gli altri, ogni giorno il ragazzo si inventava qualcosa di nuovo per far infuriare l’Uomo Ratto.
Purtroppo, da subito dopo colazione fino all’orario di cena, lei era sempre rinchiusa nella Sala d’Osservazione e doveva quindi aspettare che arrivasse la sera per ascoltare i dettagliati resoconti di quella mente malefica ed assistere alle grottesche parodie delle reazioni della sua “vittima”.
Janson si voltò a guardarla, furente. La sua faccia era paonazza e le vene del collo gli pulsavano talmente tanto da spingerla a chiedersi come mai non fossero ancora scoppiate.
Direi che come conferma potrebbe bastare questo…
«Sì, Minho! Minho! Minho! Il maledetto Soggetto A7! Quel piccolo bastardo del tuo amichetto! Il Leader, o in qualsiasi altro modo tu preferisca chiamarlo!», strillò spazientito.
Erin cercò di rimanere impassibile, ma una parte di lei avrebbe voluto chiuderlo in quella stanza ed allontanarsi il più possibile. Aveva assistito a talmente tante delle sue sfuriate che ormai avrebbe dovuto essersi abituata, eppure non poteva fare a meno di aver paura delle sue urla, dell’ira che balenava nei suoi occhi… e del pensiero che potesse finire per metterle le mani attorno al collo da un momento all’altro.
«Ora se la starà sicuramente ridendo come un pazzo, quello schifosissimo pidocchio, ma ti assicuro che per stasera avrà finito di ridere!»
«Che cos’è successo?»
Quella semplice domanda sembrò far infuriare ancora di più Janson. Con uno scatto repentino la afferrò per un braccio, strattonandola con forza. «Che cos’è successo?! Che cos’è successo?! Proprio tu vieni a chiedermelo?!»
Erin deglutì, tentando di ignorare il dolore al braccio e di prepararsi psicologicamente ad un possibile assalto. Ormai sembrava inevitabile.
Essendo l’unica a far parte del Progetto d’Osservazione, anche lei era stata etichettata come “Soggetto particolarmente promettente”, ma le mancava qualcosa. E quel qualcosa era il principale motivo per cui l’Uomo Ratto non aveva mai osato alzare neanche un dito sul suo amico.
Minho era un ragazzo dal fisico asciutto ed atletico, grazie all’intenso allenamento a cui si sottoponeva tutti i giorni. Non era particolarmente grosso, ma non avrebbe avuto problemi a far mangiare la polvere a Janson.
Lei, invece era un altro paio di maniche.
Era esile, la natura non le aveva concesso una grande altezza e il passare quasi tutto il giorno seduta a fissare degli schermi non aveva di certo contribuito a renderla più forte e robusta.
Per non far atrofizzare i suoi muscoli – e anche per non impazzire a causa di tutta quella staticità forzata – faceva almeno un’ora e mezza di ginnastica ogni sera, ma non si allenava certo a combattere e quindi non era pronta per un eventuale scontro.
 Che cosa avrebbe dovuto fare? Cercare di liberarsi dalla sua presa e scappare via? E se non ce l’avesse fatta?
Detestava sentirsi così dannatamente vulnerabile, indifesa ed impotente e rimpianse amaramente di non aver mai chiesto a Minho di insegnarle qualche colpo o mossa che anche una “scricciolina come lei” potesse usare.
L’Uomo Ratto la strattonò ancora. «Proprio tu vieni a chiedermelo?!», ripeté, indignato. «Credi di poterla passare liscia così?»
«Signor Janson, se glielo chiedo è perché non ho idea di che cosa sia successo!», ribatté lei, cercando di mantenere la calma.
L’Uomo Ratto la guardò sprezzante. «E pensi che io ti creda? Dimmi subito dov’è!»
«Non lo so!»
«Non mentire!»
Le ci volle qualche secondo per assimilare quell’accusa, da quanto era assurda… ma non appena l’ebbe fatto, il sangue le andò alla testa e una scarica di adrenalina la attraversò da capo a piedi, facendola sentire come se fosse stata colpita da un fulmine.
Quelle due semplici parole avevano fatto scattare qualcosa in lei e in un attimo la rabbia e l’indignazione rimpiazzarono la paura. Si ritrovò a pensare che se l’uomo avesse cercato di aggredirla, lei avrebbe trovato il modo di farglielo rimpiangere. Magari, anzi quasi sicuramente, si sarebbe ritrovata piena di lividi o con qualche slogatura, ma se fosse riuscita a fargli anche soltanto un occhio nero li avrebbe accettati di buon grado.
Al diavolo il fisico minuto e la scarsa preparazione fisica, anche uno scricciolo, se voleva, era capace far male. Specialmente uno accusato di essere un bugiardo da chi respirava menzogne e si cibava di ipocrisia.
«Non sto mentendo!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Divincolò con forza il braccio, riuscendo a liberarlo dalla stretta di Janson, e fece un ampio gesto per indicare la stanza. «Minho qui non c’è! Non c’è e lo sa perché? Perché non sono nemmeno le sei del mattino e una persona normale a quest’ora è nel suo letto che dorme beata e tranquilla!»
«Non era nella sua camera!», esclamò l’Uomo Ratto, con una punta di stupore per quella reazione inaspettata.
Erin non gli lasciò il tempo di aggiungere altro. «Oh! E allora sarebbe qui da me, vero? Beh, certo, ha ragione: se non volessi farmi trovare anch’io andrei dritta da uno dei miei migliori amici! È davvero un piano a prova di bomba, a nessuno come prima cosa verrebbe mai in mente di cercarmi lì!» Si interruppe un attimo per riprendere fiato.
Adesso, lo stupore dell’Uomo Ratto era decisamente aumentato.
Ma Erin non aveva ancora finito. Anzi, aveva appena cominciato.
«Bene, allora! Lo cerchi! Lo cerchi pure! Mi raccomando, guardi ovunque e faccia molta attenzione, come avrà sicuramente notato, ci sono così tanti posti in cui potersi nascondere! Se me lo permette vorrei darle un consiglio: si risparmi di guardare sotto il letto, visto che li ci sono le fate e folletti che sono venuti qui con me dall’Irlanda! Sa, purtroppo Minho non va molto d’accordo con loro. Ogni volta che si incontrano finiscono per litigare! Magari si trova in bagno! La mattina usa sempre le docce degli altri per lavarsi, pur di non sprecare troppo la sua! O forse potrebbe essersi nascosto dentro l’armadietto! Un ragazzo alto quanto lui e con un fisico come il suo non avrebbe di certo problemi a entrare in uno spazio in cui a malapena potrei entrare io!»
Si batté teatralmente una mano sulla fronte, come se all’improvviso avesse ricordato una cosa importantissima. «Oh, ma che stupida! Come diamine ho fatto a dimenticarlo?! Quando ci vuole entrare si trasforma sempre in un indumento, così per ambientarsi meglio! Ma certo, ma certo! È lì dentro!»
Si fermò di nuovo e in un attimo raggiunse l’armadietto. «Prego, venga pure a tirarlo fuori! Non mi guardi così! Lascio a lei l’onore, non vorrei mai toglierle questa soddisfazione! Tenga d’occhio i vestitini da bambina color glicine con il colletto ricamato, gli piace da morire assumere quella forma! Solo che lui ama le rose e quindi ci sono quelle ricamate sul colletto, non le violette! Lo so cosa sta pensando: è un abbinamento terribile, sono d’accordo con lei, ma avanti, le ho pure dato un indizio per smascherarlo, perché non viene qui?! Che cosa sta aspettando?! La conosce la differenza tra rose e violette, no?!»
Finalmente calò il silenzio, questa volta definitivamente.
Erin si accorse di avere il respiro affannato, il viso che le bruciava come se qualcuno l’avesse appena presa a schiaffi e le mani che le prudevano dalla voglia che aveva di sbatterle su quella faccia da roditore che Janson si ritrovava.
Sollevò con fierezza il mento, lanciando al suo interlocutore uno sguardo pieno di sfida.
E ora sentiamo che cos’hai da dire, forza!
Quest’ultimo era immobile come una statua di sale, totalmente sconvolto e frastornato da quel fiume di parole e dall’aggressività con la quale erano state pronunciate. Sembrava che non avesse la minima idea di come ribattere.
Piano piano, mentre il suo respiro tornava regolare, tutta la rabbia che l’aveva infiammata iniziò a scemare, lasciando di nuovo il posto al buon senso. E quando anche l’ultimo guizzo di quel fuoco fu definitivamente coperto dalla cenere della ragione e dell’autocontrollo, Erin riuscì di nuovo a pensare con lucidità… ma non poi era così sicura che la cosa le piacesse.
In un attimo, la consapevolezza di ciò che era appena successo la travolse come una vera e propria valanga. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi. Non era stata capace di contenersi e aveva perso il controllo… no, dire che aveva “perso il controllo” sarebbe stato riduttivo.
Era esplosa.
Era letteralmente esplosa. E tutto per un’accusa. Una stupidissima accusa fatta dallo stupidissimo Uomo Ratto…
… lo stesso Uomo Ratto che – forse in maniera neanche troppo metaforica – teneva in mano la sua vita e a cui sarebbe bastato un attimo per stringere il pugno e… sgretolarla.
Un lungo brivido le corse lungo la schiena, facendola sentire minuscola e impotente. Adesso, l’idea che l’essere un Soggetto unico potesse salvarle la vita, oltre a evitarle eventuali pestaggi o punizioni fisiche, le sembrava più assurda che mai.
Passarono dei lunghi, lunghissimi istanti silenziosi. Infine, Erin notò con sgomento una strana e inquietante luce negli occhi dell’Uomo Ratto e, nonostante la paura crescente, cercò di fare mente locale e di prepararsi a fuggire dalle sue grinfie.
Janson aprì la bocca, prendendo fiato e preparandosi a scattare per sfogare su di lei la sua rabbia… e si immobilizzò subito dopo, come se fosse stato congelato sul posto. Passarono alcuni istanti e non si mosse neanche di un millimetro poi, sotto lo sguardo stupefatto di Erin, inspirò profondamente e si ricompose.
«Sembra che non sia qui», disse semplicemente. «So che non è tua abitudine ritardare, ma ti chiedo comunque di arrivare in orario.»
Erin lo osservò guardinga: le sembrava di stare avendo a che fare con Dr. Jekill e Mr. Hyde. Dopo quel repentino cambio d’umore sarebbe potuta arrivare un’altra esplosione.
«Sarò puntuale.»
Con la sveglia anticipata di quasi un’ora, vorrei vedere come potrei fare altrimenti…
L’Uomo Ratto annuì. «Perfetto.»
Erin non si mosse, mentre la sua mente ripercorreva ciò che era appena successo, come per convincersi che fosse vero.
«Un momento!», esclamò.
Janson si voltò a guardarla, sollevando un sopracciglio. Forse aveva parlato con un po’ troppo vigore, ma un particolare dettaglio di quei ricordi aveva avuto su di lei l’effetto di una secchiata d’acqua gelida.
«Cosa c’è?»
«State cercando Minho?»
La risposta fu uno sbuffo infastidito. «Mi sembra di avertelo già detto, Johanna.»
Erin ignorò quel tono così accomodante e cordiale e continuò a fissarlo, come a volergli far capire che quella risposta non le bastava.
L’Uomo Ratto sbuffò ancora, si girò completamente verso di lei e incrociò le braccia. Fece ognuno di questi gesti con tutta la calma possibile, irritando non poco la ragazza, che però si costrinse a rimanere immobile e a mantenere un’espressione neutrale. Dopo un sospiro, seguito da un’altra lunga ed estenuante pausa, quasi si divertisse a tenerla sulle spine, finalmente Janson le rispose. «Comunque sì, stiamo cercando Minho…» Si interruppe di nuovo, senza toglierle gli occhi di dosso nemmeno un istante. Quando parlò, non cercò nemmeno di nascondere il suo tono e la scintilla di soddisfazione che brillava nei suoi occhi. «Oggi è il suo grande giorno.»
Erin rimase impietrita, mentre un lungo brivido gelido le correva lungo la schiena.
Minho sarebbe stato mandato nel Labirinto. Un altro suo amico le sarebbe stato strappato e anche stavolta non ci sarebbe stata la minima garanzia di rivederlo vivo.
E non ebbe alcun bisogno di porgli la seconda domanda che le frullava nella mente: Janson era andato a cercarlo così presto semplicemente perché non vedeva l’ora di toglierselo di mezzo.
«Hai altro da chiedermi?», proseguì l’Uomo Ratto, palesemente compiaciuto del suo silenzio.
Sì, l’Inferno non ti manca nemmeno un po’?
«No», rispose, stringendo i pugni.
«Allora a dopo. Non fare tardi.», squittì l’altro e se ne andò chiudendosi la porta alle spalle.
Nella stanza ritornò il silenzio.
Erin si sedette stancamente sul letto, sentendosi come se tutte le forze le fossero improvvisamente venute a mancare. Ad ogni “grande giorno” il ricordo della separazione da Liam – che già non l’abbandonava nemmeno per un istante – si faceva più doloroso. La sofferenza “vecchia”, ma sempre costante, andava ad aggiungersi a quella nuova, facendole desiderare di essere lei a dover essere mandata nel Labirinto, così almeno il Filtro le avrebbe fatto dimenticare tutto.
Dio mio, la sofferenza d’amore mi sta rendendo patetica…
«Wow, Han, devo ricordarmi di non farti mai arrabbiare!»
Quella frase le fece fare un salto talmente grande che per poco non si ritrovò stomaco e cuore in gola. Recuperata in un attimo tutta l’energia, balzò in piedi, guardinga.
Ebbe bisogno di qualche istante per rendersi conto che quella voce la conosceva e che non c’era alcun bisogno di avere paura. E che veniva da dentro l’armadietto.
«… Minho…?»
«Proprio io: in stoffa e colletto con violette. Ci ho azzeccato stavolta?» Senza lasciarle il tempo di rispondere, l’anta dell’armadietto si aprì. Minho era in una posizione indescrivibile: talmente assurda che sembrava volesse fare concorrenza ad un contorsionista.
Erin sgranò gli occhi, completamente senza parole. Ma come diamine aveva fatto ad entrarci?!
Il ragazzo cominciò a muoversi per uscire, facendo traballare il suo nascondiglio. «Cavolo, non credevo ci potesse essere nulla di peggio che piegarsi come uno stendino per entrare qua dentro… non avevo ancora fatto i conti con l’uscire…» Finalmente riuscì a mettere fuori un braccio, poi una gamba e, piano piano, uscì fuori, facendosi scrocchiare tutte le ossa.
Erin sospirò e si rimise a sedere sul letto, lasciandosi sfuggire una risatina. Ormai si era abituata a quel genere di stranezze da parte di Minho. «Vediamo… da che domanda dovrei iniziare?»
Il ragazzo si massaggiò il collo. «Chiedermi come mai Dio ha dato solo a me un aspetto così meraviglioso anche se appena uscito da una piegatura da asse da stiro potrebbe essere un buon punto di partenza.»
«Un dono che ha pensato benissimo di abbinare alla tua modestia.»
«Ecco, chiedergli perché mi ha sommerso di qualità rendendomi motivo d’invidia per l’umanità intera mi sembra un ottimo modo di proseguire.»
La ragazza alzò gli occhi al soffitto. «Certo, come hanno fatto a non venire in mente a me?»
Minho si fece scrocchiare il collo. «Comunque sei stata davvero tosta», disse il ragazzo, con un misto di ammirazione e di divertimento negli occhi. «Sul serio, un altro po’ e l’Uomo Ratto te lo saresti mangiato! Brava, vedo che stai imparando.»
Erin ridacchiò nuovamente, sistemandosi a gambe incrociate, e chinò la testa, accompagnando il movimento con un gesto esagerato della mano, come in un cerimonioso inchino. «Grazie, ma in gran parte è anche merito suo: quell’uomo ha un talento naturale nel tirare fuori il peggio di me.»
Il giovane annuì con aria grave, incrociando le braccia. «Mi pesa, ma questo devo riconoscerglielo anch’io.»
Lei lo fissò sollevando un sopracciglio, divertita da quella finta concentrazione. «E dimmi un po’: Marthe dov’è?»
L’espressione di Minho a quella sua domanda sembrava suggerire che gli fosse appena caduto un macigno di ferro dritto in testa.
Erin gli sorrise, come a volergli dire “Sì, lo so benissimo che è qui”.
Invece di rispondere, il ragazzo si rivolse alla diretta interessata. «Marthe, vieni fuori: Sherlock Holmes, qui, ha già capito tutto.»
Subito dopo la porta del bagno si aprì, e ne uscì una ragazza con lunghi riccioli castani. Il suo volto era il ritratto dell’insoddisfazione. «Te l’avevo detto che se ne sarebbe accorta», rimproverò Minho, parlando con uno spiccato accento francese e piantandogli addosso i suoi grandi occhi verde bosco.
Il ragazzo si mordicchiò l’interno della guancia, evidentemente messo in imbarazzo dall’essere ripreso davanti a qualcuno. O dall’essere ripreso in generale.
«Dovevamo farci vedere allo stesso momento, non prima uno e poi l’altra. Persino un idiota ci arrivereb–» Subito, Marthe interruppe il suo rimbrotto e si voltò di scatto verso Erin. «… con questo non volevo assolutamente darti dell’idiota, Jeanne…»
«Ne t’en fais pas, Marthe, il n’y a pas de problème1», le rispose lei con un sorriso.
«Brava, il tuo accento sta migliorando», constatò l’altra con aria compiaciuta. Subito dopo lanciò un’occhiata a Minho, sospirando. «Passe comme lui… il est un désastre.2»
«Sì, certo, continuate pure a complottare in francese… e io me ne vado da Romy e mi metto a parlare in tedesco con lei», borbottò Minho, facendo il finto offeso.
Marthe lo fulminò con un’occhiata. «Oh, tu no che non ci vai da Romy… e poi di cosa ci vuoi parlare con lei se non spiccichi una parola di tedesco nemmeno a strappartela con le pinze? Se avessi voluto fare una cosa intelligente avresti fatto come Jeanne, che ha cercato di farsi insegnare più lingue possibili fin da subito… infatti lei il tedesco lo parla.»
Minho le fece la linguaccia. «Prima o poi la smetterai di avere sempre ragione», borbottò.
La francese sollevò le spalle e gli strizzò l’occhio, concludendo quel finto battibecco. «Non credo che vedremo mai quel giorno…»
«Scusatemi», si intromise Erin, divertita. «Se posso intromettermi tra moglie e marito, potreste dirmi che ci fate in camera mia a quest’ora?»
I loro volti si scurirono all’improvviso. I due ragazzi si lanciarono un’occhiata, come per consultarsi silenziosamente su chi dovesse risponderle. Alla fine fu Marthe a prendere la parola. «Volevamo salutarti, era chiaro come il sole che l’Uomo Ratto sarebbe venuto a prenderci prima degli altri», disse, con tono incredibilmente serio.
Fu come se le corde che sostenevano il sorriso di Erin si fossero recise all’improvviso. Non cercò nemmeno di nasconderlo.
«Te ne vai anche tu, Marthe…»
Non l’aveva chiesto, infatti nessuno dei due le rispose.
Altri due che se ne vanno…
Per diversi minuti regnò il silenzio. Erin non riusciva nemmeno a guardare in faccia i suoi amici. Aveva apprezzato il pensiero del volerla salutare, ma al tempo stesso desiderava che non l’avessero fatto: gli addii stavano diventando troppi e sempre più difficili.
Alla fine fu Minho a rompere il silenzio. «Andiamo ragazze, c’è un’atmosfera peggiore di quella che segue le battute di Thomas! Vedete di levarvi questi musi lunghi!»
Erin si voltò a guardarlo.
«Eddai, Han! Non guardarmi come se stessi assistendo al mio funerale, non è carino», riprese, facendo il finto offeso.
Marthe lo fulminò con un’occhiata. «Ottima scelta di parole, complimenti…»
Lei rimase in silenzio. Non riusciva a spiccicare mezza parola. Si era trincerata di nuovo dietro il suo silenzio.
«Jeanne, ci vorrà pochissimo… non faremo neanche in tempo a mancarti, giuro!», disse Marthe, posandole le mani sulle spalle e cercando di incoraggiarla.
Per un attimo, Erin la odiò. Questa è una stronzata e tu lo sai meglio di me.
Marthe capì che non era il caso di insistere e si scambiò un’occhiata con Minho. «Noi… noi andiamo.»
Lei non riuscì a far altro che annuire.
Si avviarono entrambi verso la porta e solo quando il ragazzo fece per aprirla Erin sembrò ritrovare la parola. «Fate attenzione.» Si lasciò sfuggire un piccolo sorriso quando i due si voltarono a guardarla. «L’ultima cosa che vorrei sentire è Janson che squittisce “Lo sapevo!”.»
«E tu vedi di mettere su un po’ di forme, così farai contento Newt quando tornerà», ribatté Minho, strizzandole l’occhio.
Marthe gli lanciò un’occhiataccia, sbuffando, poi andò ad abbracciarla. «Vuoi che lo uccida, Jeanne?», finse di sussurrarle all’orecchio per farsi sentire anche da lui. «Sono capace di farlo senza lasciare prove.»
«C’est un petit peu excessif, ma chérie3», cinguettò lui.
Lei e Marthe ridacchiarono, separandosi.
«Ci vediamo.»
La ragazza le sorrise e raggiunse Minho. «E comunque il tuo accento rimane pessimo.»
«Mai una soddisfazione», ribatté lui con fare melodrammatico, fingendosi ferito. Poi si rivolse a lei: «Fatti valere, Han, mi raccomando.»
Erin annuì e sollevò fieramente la testa. «Contaci.»
Minho premette il pannello sulla parete e, pochi istanti dopo, lui e Marthe se n’erano andati.
Di nuovo da sola.
Sospirò, sedendosi sul letto e abbracciandosi le ginocchia. Vi posò sopra la fronte e chiuse gli occhi. Si sentiva spossata.
 
Il trillo della sveglia la strappò bruscamente dal sonno in cui era caduta. Si rese conto di essere ancora in posizione fetale: doveva essere caduta su un fianco dopo essersi assopita. Si tirò su, leggermente intontita, e si stiracchiò.
Vide che l’armadietto era stato lasciato aperto e sbuffò. Si alzò per andare a richiuderlo, ma ad un tratto si fermò, convinta di aver calpestato qualcosa. Non vide nulla e si inginocchiò per guardare meglio. Era sicura di non esserselo immaginato.
E aveva ragione: a terra, a stento distinguibile dal resto del pavimento, c’era un minuscolo rettangolo bianco, più o meno della stessa dimensione dell’unghia del suo pollice. Corrugò le sopracciglia e lo prese delicatamente tra le dita per osservarlo meglio. Era sottilissimo.
Aveva tutta l’aria di essere una schedina di memoria. Questo dettaglio le snebbiò la mente, facendole dimenticare la stanchezza. Doveva essere caduto all’Uomo Ratto durante la sua sfuriata.
Lo rigirò più volte tra le dita e si scoprì a sorridere tra sé e sé: non sapeva ancora cosa ne avrebbe fatto, ma il Soggetto A0 non sarebbe rimasto nella sua camera quella notte.
 
 
Note:
 
1 – Non preoccuparti, Marthe, non c’è problema.
2 – Non come lui… è un disastro.
3 – È un pochino esagerato, mia cara.

Il mio francese è un po
 (un po tanto) arrugginito, scusatemi...
 
 
 

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