Bloody Valentine.

di Alaska__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** OO » My bloody valentine « ***
Capitolo 2: *** O1 » Bloodwall « ***
Capitolo 3: *** O2 » Ghosts « ***
Capitolo 4: *** O3 » Make him pay for it « ***
Capitolo 5: *** O4 » Do you want to be our family? « ***
Capitolo 6: *** O5 » Let's work « ***
Capitolo 7: *** O6 » Chocolate « ***
Capitolo 8: *** O7 » Flowers « ***
Capitolo 9: *** O8 » Snow « ***
Capitolo 10: *** O9 » Informations « ***
Capitolo 11: *** 1O » Allies « ***
Capitolo 12: *** 11 » Punishment « ***
Capitolo 13: *** 12 » Courage « ***
Capitolo 14: *** 13 » Kisses and hugs « ***
Capitolo 15: *** 14 » Actors « ***



Capitolo 1
*** OO » My bloody valentine « ***


Premessa: i personaggi di questa storia sono OC, quindi mi appartengono. Pertanto, ne è vietato il plagio, così come della storia, pena la segnalazione di massa.
Non mi appartiene invece il contesto in cui si muovono, opera di Suzanne Collins, autrice della saga di Hunger Games. 




 
PROLOGO
 
My bloody valentine •

 
 
« Oh, my love, please, don’t cry
I’ll wash my bloody hands and we’ll start a new life. »
-Good Charlotte; “Bloody Valentine”
 
« Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. »
-Blaise Pascal; “Pensieri”
 
Il colpo di frusta parve risuonare all’infinito, rompendo l’opprimente silenzio che gravava sulla piazza. Un gemito soffocato lo accompagnò, facendo rabbrividire tutti i presenti.
Legato per i polsi ad un palo di legno, il ragazzo strizzò le palpebre e strinse i denti tanto forte da farsi male, anche se nulla poteva eguagliare il dolore provocatogli dall’ennesima frustata, il quale si irradiava lungo tutta la sua schiena.
Un rivolo di sangue scivolò a terra, caldo e viscido. Il lezzo di quel liquido vermiglio impregnava ormai l’aria e le narici del condannato, che si sforzava di non pensare e chiudere la mente.
Un altro colpo mandò leggermente in avanti il suo busto, strappandogli un lamento.
Più la frusta calava sulla sua schiena – ormai ridotta ad un intrico di ferite sanguinanti – più la sua percezione di ciò che gli stava intorno veniva meno.
L’idea della morte non gli era mai sembrata così allettante come in quel momento, e una muta preghiera si fece strada nei suoi pensieri; la fine di tutto invocata da poche parole.
Malgrado gli paresse che i suoi occhi fossero coperti da un velo, il ragazzo si sforzò di sollevare le palpebre. Tutto intorno a lui appariva confuso e indeterminato; i volti delle persone sembravano identici, ma cercò comunque l’unico che gli interessasse davvero.
Un sorriso rassegnato gli incurvò le labbra ormai martoriate dalla furia con cui si era aggrappato ad esse con i denti nei momenti peggiori, mentre metteva a fuoco quel volto tanto familiare.
Stretta a suo fratello, lei lo guardava intensamente, sobbalzando ogni qualvolta che il cuoio incontrava quei pochi rimasugli di pelle ancora attaccati alla schiena del condannato.
Il dolore gli fece serrare le palpebre ancora una volta, ma le riaprì subito dopo, per guardarla. Sembrava che il solo posare gli occhi su di lei alleviasse le sue sofferenze fisiche, allontanando per un istante la sua mente da ciò che l’uomo in uniforme bianca dietro di lui stava facendo.
Correre da lei e parlarle era impossibile, ma lui desiderava farlo con tutto se stesso. Le avrebbe detto di non piangere – anche se non ce ne sarebbe stato bisogno – prima di prometterle che tutto sarebbe andato bene; avrebbe lavato le sue mani insanguinate e poi avrebbero cominciato una nuova vita, senza pensare agli orrori – e agli errori – del passato.
La realtà, tuttavia, era ben diversa, e bastò l’ennesima fitta di dolore a ricordarglielo.
Mentre scivolava nell’oblio e il buio lo avvolgeva, il ragazzo le lanciò un’ultima occhiata. I suoi occhi scuri incontrarono quelli di lei, così verdi, come le foglie degli alberi in estate.
Un’ultima promessa, prima che tutto finisse. 


 
Alaska's corner

Esordiih.
Questa storia giace nel mio computer da mesi, solo che non ho mai avuto le palle di pubblicarla. Volevo aspettare di finirla, ma l'avrei pubblicata a ventiquattro anni, quindi ho accelerato i tempi.
Avevo paura, sì, perché in questo fandom vengono cagate solo le storie su Peeta e Katniss che trombano e io devo smetterla di fare la persona cattiva, sì.
Comunque, perché ho scritto questa cagata? Diciamo che avevo questi OC da una interattiva che sto scrivendo e che voi non dovete leggere o vi fate spoiler, diciamo che li amo e volevo scrivere qualcosa su di loro. E quindi è nata Bloody Valentine, la loro storia. Me l'ha ispirata la canzone dei Good Charlotte che ascoltavo sempre da piccola, esatto. x3

Coordinate spazio temporali: il prologo è in media res. La storia parte circa quattro anni prima di questa breve introduzione. Siamo a Panem, Distretto 6, il più malcagato e puzzolente (?), nell'anno 52 ADD, quindi si sono appena conclusi i cinquantaduesimi Hunger Games. 
La storia è divisa in tre parti; non anticipo molto per non fare spoiler, per intanto vi basti sapere che la prima va dal 52 ADD al 54 ADD; tra la seconda e la prima c'è uno stacco di un anno, infatti la seconda sarà ambientata tra il 55 e il 56 ADD; infine, la terza sarà ambientata tutta nel 56 ADD. 
Il rating è arancione per presenza di violenza, sangue e anche di una scena un po' hot, che però non scriverò nei dettagli perché odio scriverne. >.<
Tematiche delicate è un po' generico, quindi direi che ve le elenco brevemente senza incorrere in spoiler: suicidio, violenza domestica, perdita dei genitori, perdita di tanta gente perché io ammazzo tutti, gravidanza adolescenziale e ci sarà anche la presenza di un linguaggio un po' scurrile, perché i protagonisti non sono dei santi, ma sono degli adolescenti con gli ormoni a palla, quindi capiteli. 
Non vi sto a dire che legami ci sono tra i nomi presentati nell'intro: i personaggi si racconteranno da soli, pagina dopo pagina!
Vado a mangiare! Buon Natale e spero vi piaccia ♥
Alaska. ~

 

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Capitolo 2
*** O1 » Bloodwall « ***





PARTE I



 
 
CAPITOLO I
 
Bloodwall
 
 
« Ma chi sa per quanto tempo può durare un lutto. Non è possibile che dopo trenta o quarant'anni dalla scomparsa di un figlio o di un fratello di una sorella, ci si ritrovi nel dormiveglia a pensare al defunto con lo stesso senso di nostalgia e di vuoto, la sensazione di un'assenza che non potrà mai più essere riempita.. forse nemmeno dopo la morte. »
-Stephen King; “IT”


 
 
La fredda aria di novembre le carezzò il volto, scompigliandole appena i ciuffi di capelli color del grano che erano sfuggiti alla sua coda di cavallo.
La ragazza rabbrividì, stringendosi nella felpa pesante che fungeva da giacca e sistemandosi la sciarpa nera che portava al collo. La prese per un lembo e la alzò, di modo che le coprisse la bocca.
Al suo fianco, un bambino di sei anni si circondò il corpo con le braccia magre, come a volersi dare un solitario abbraccio, e fece strisciare le mani su di esse, per scaldarle.
«Hai freddo, Deryck?»
L’ultimo del gruppo – un ragazzo – tolse la sua felpa, porgendola al fratellino. Deryck lo guardò di sottecchi, indeciso se prendere o meno l’indumento. Il giovane lo esortò, allungando ancora di più il braccio nella sua direzione. Sospirando, il bambino afferrò la felpa del fratello e si tolse il cappellino di lana, liberando una folta zazzera di capelli color pece, che gli ricaddero sulla fronte pallida.
«Grazie» borbottò, infilandosi la felpa, che gli arrivava fino alle ginocchia. «Ma così non hai freddo?»
Il giovane scosse la testa, ma un brivido rivelò che quella era una menzogna. La misera maglietta a maniche lunghe che indossava non lo proteggeva affatto dal freddo pungente dell’autunno che di lì a un mese sarebbe volto al termine.
Deryck allungò un braccio, stringendo tra le mani il suo cappellino. «Tanto a me non serve, posso tirarmi su il cappuccio. E di sicuro ti tiene più caldo di quello». Con un cenno del capo, indicò il cappello con la visiera che il ragazzo teneva ben calcato in testa; il suo inseparabile compagno che indossava sia quando faceva caldo che quando le temperature erano basse come quel giorno.
Le sue labbra – seccate dall’aria gelida – si incurvarono in un sorriso, uno di quelli che lui faceva solo in presenza dei suoi famigliari.
«Mettitelo su, Deryck. È troppo piccolo per me». Scompigliò l’arruffata capigliatura del fratellino, prima di affiancarsi alla ragazza, che, nel frattempo, era stata ferma e si guardava intorno con aria guardinga.
«Ti prenderai un raffreddore così» mormorò l’unica femmina del gruppo, mentre i suoi occhi verdi scandagliavano il corpo del ragazzo.
«Non preoccuparti, Lala» la rassicurò lui, chiamandola con quel soprannome che utilizzava sempre. «Tanto tra un attimo torneremo a casa».
Lala era un nomignolo vecchio di quattordici anni, che solo il giovane e Deryck utilizzavano per appellarsi alla sorella, il cui vero nome, in realtà, era Franziska.
«Ci conviene sbrigarci, allora». La ragazza prese per mano Deryck, non prima di avergli sistemato il cappuccio della felpa nera sulla testa. Quello ricadde dinnanzi agli occhi del piccolo, che lo scostò con un gesto della mano.
«Non vedo niente così, Ziska» si lamentò, guardando la sorella. Franziska ridacchiò, dandogli un buffetto sulla guancia – quella gota che lei voleva fosse un po’ più paffuta, perché avrebbe significato che Deryck sarebbe stato bene, come tutti i bambini normali.
«Però stai al caldo e non ti becchi il raffreddore» replicò la quattordicenne, ripetendo le stesse azioni di poco prima. «Anche perché, se Igor non si copre, mi toccherà curare tutti e due» aggiunse, scoccando un’occhiata al fratello accanto a lei.
Igor fece roteare gli occhi verdi, incrociando le braccia al petto. «Starò bene, Franziska. Appena torniamo a casa mi faccio subito un bagno caldo, se questo serve a farti stare meglio».
La giovane sospirò, cominciando a camminare, la mano sinistra di Deryck bene stretta nella sua destra. Non appena i suoi piedi cominciarono a muoversi velocemente in direzione di casa, l’aria si fece ancora più fredda e più che una carezza, quel tocco pareva uno schiaffo.
Si sforzò di mantenere quella velocità, ignorando le narici che parevano bruciare per via di tutto quel gelo. Era uno degli autunni più freddi degli ultimi anni; lo aveva sentito dire prima da una donna al mercato, che si stava stringendo nelle sue pellicce con fare drammatico – era ricca, senza ombra di dubbio.
Lei non sa minimamente cos’è il freddo vero, si era ritrovata a pensare Franziska, prima di afferrare una mela dal banchetto e correre via, verso Igor che era andato al Mercato Nero con Deryck.
Il frutto era ancora lì, nel sacchetto che lei reggeva con la mancina, pieno anche di altre cianfrusaglie – cibo perlopiù, che avrebbero mangiato quella sera, da soli, seduti al vecchio tavolo di legno della loro cucina. Un borbottio proveniente dal suo stomaco le ricordò quanta fame avesse, e Franziska si sforzò di ignorarlo, mentre le sue iridi verdi correvano in automatico a guardare il bambino magro che teneva per mano.
Il suo stomaco stava di sicuro peggio di quello della ragazza e lei non poteva accettare tutto ciò. Se c’era qualcuno che doveva star bene, quello era Deryck. Aveva solo sei anni, eppure non poteva dire di avere una vita piena di belle cose, nonostante Franziska e Igor si fossero impegnati per anni al fine di farlo star bene.
Quasi stessero pensando la stessa cosa, gli occhi dei due fratelli maggiori – due smeraldi, uguali in tutto e per tutto – si incontrarono. La loro strana telepatia si manifestava sempre così, nei momenti anche più strani, come se Igor sapesse perfettamente quello che pensava Franziska e viceversa. Le era capitato di leggere in un libro che era una cosa piuttosto comune, tra i fratelli gemelli come loro due, quasi entrambi fossero nati collegati da un filo.
«Dimenticavo di dirti che domani io non vengo a scuola». Igor si calcò il cappellino sugli occhi, abbassando lo sguardo sulle scarpe da ginnastica malconce.
«Come sarebbe a dire che non vieni a scuola?» Franziska aggrottò la fronte, stupita e anche un po’ arrabbiata, ma la sua andatura non diede segni di voler rallentare.
Il quattordicenne ficcò le mani nelle tasche dei jeans strappati in più punti, facendo spallucce. «Oggi ho trovato un accordo con la merciaia. Se domani vado a tirar giù dal treno le casse provenienti dal Distretto 8, lei mi darà qualche soldo». Igor calciò un sassolino tra i suoi piedi, e quello andò a sbattere contro un palo della luce che aveva tutta l’aria di dover cadere da un momento all’altro.
«E non mi hai detto niente?» Più che arrabbiata, Franziska era infastidita. Tra lei e Igor non c’erano segreti; odiava quando lui non le diceva le cose subito. Avrebbe potuto aiutarlo tranquillamente, del resto erano abituati a marinare la scuola insieme.
Il ragazzo si grattò la nuca, rivolgendo uno sguardo comprensivo alla sua gemella. «Preferisco che tu vada a scuola. Lo so che ti piace studiare e so quanto ci tieni ad imparare cose nuove». La quattordicenne fece per replicare, ma Igor la interruppe bruscamente. «Guarda che vedo come leggi con passione tutti i libri vecchi di mamma. E poi, Deryck ha appena cominciato la scuola, non possiamo fargliela saltare continuamente per colpa nostra; ha bisogno di essere educato come si deve».
Sentendosi preso in causa, il più piccolo dei tre alzò lo sguardo. «Ma la scuola è noiosa…» tentò di protestare debolmente, sistemandosi il cappellino.
«No, Deryck, Igor ha ragione». Franziska gli lanciò uno sguardo che non ammetteva repliche. «Non vorrai diventare come lui» aggiunse con un sorriso furbetto, facendo l’occhiolino al fratello più piccolo, che fece una risatina.
«Non ridere, Deryck. Lo so che adori il tuo fratellone». Anche Igor gli fece l’occhiolino, spostandosi dietro di lui per sollevarlo e stringerlo tra le braccia. Franziska ridacchiò, senza fermarsi dal camminare. Il sorriso di Igor e quello di Deryck erano le uniche due cose che riuscissero a scaldarla davvero in quelle giornate così fredde, ancora meglio del fuoco che scoppiettava ogni sera in quella specie di buco che loro chiamavano “camino”. Era così raro, vederli felici, che ogni volta lei sperava che non smettessero mai, perché erano volti sprecati, i loro, quando erano così tristi.
Igor, poi, quando passava dei momenti belli sembrava davvero trasfigurare e quell’aria truce che si portava sempre dietro lasciava spazio al bambino che era stato e che mai più sarebbe tornato in superficie.
«No, sei brutto, cattivo e sei anche grasso!» Deryck rise, agitandosi tra le braccia forti del fratello maggiore – il quale, inarcato un sopracciglio, replicò con aria sarcastica: «Qualche altro difetto non ce l’ho?»
Il bambino fece finta di pensarci su per un attimo, grattandosi il mento con fare innocente. «Forse per oggi basta così» ammise candidamente, rivolgendo uno sguardo di sfida ad Igor.
«Allora siccome sono brutto e cattivo è meglio se cammini con le tue gambe». Il quattordicenne rise, mettendo a terra Deryck e prendendolo per mano. «Spero che Warwick non abbia occupato il bagno. Sto gelando, ho bisogno davvero di un bagno caldo, e anche tu» commentò, e i suoi occhi dardeggiarono in direzione della sorella. Al solo nominare il padre, essi si fecero più cupi, come il sole quando è coperto da una nube.
«Magari non è nemmeno a casa» ipotizzò Franziska. Divise la sua coda di cavallo in due grosse ciocche, prendendole tra le mani e tirandole; un vano tentativo di ravviarsi i capelli arruffati.
«Oggi non è nemmeno andato al lavoro, il coglione». La mascella di Igor si contrasse per un istante, mentre Deryck gli rivolgeva uno sguardo curioso e un po’ stupito. «Scusa, Der» aggiunse il ragazzo frettolosamente, per rimediare all’errore di aver detto una parolaccia davanti al bambino. Ormai ci era abituato, ma i gemelli tenevano alla sua educazione – anche se loro non erano di certo un esempio di virtù e galateo.
«Tanto non ci cambia niente, se lui lavora o meno». Franziska si trattenne dal dire un’altra parolaccia, mentre il volto di suo padre, così spento e così lontano, si proiettava nella sua mente, accompagnato da una sensazione di disgusto ormai troppo familiare alla quattordicenne. «Magari non aveva voglia di lavorare, come sempre».
Il sacchetto stretto tra le dita sembrò farsi più pesante, come se quelle parole appena pronunciate vi avessero infilato dentro altri oggetti; o forse, si trattava solo di tutti i sentimenti chiusi nel tono irritato della sua voce, quelli che Franziska ormai era abituata a trattenere e a nascondere sotto una maschera.
«Se solo mamma fosse ancora qui…» Igor non finì la frase, e ancora la sua mascella si contrasse in uno spasmo rabbioso, mentre le sue iridi smeraldine rifuggivano quelle della sorella e del fratello minore, fisse in un punto dinnanzi a sé.
Dal canto suo, Franziska non sapeva come ribattere a quell’ultima affermazione del suo gemello. Lei stessa desiderava riavere sua madre – non passava giorno senza che non pensasse a lei, ai suoi capelli biondi, i suoi occhi verdi e il suo sorriso – ma in certi casi sentiva che il silenzio era la miglior risposta. Igor sapeva che lei lo appoggiava, sempre o comunque.
Un gruppetto di ragazzini tagliò loro la strada, correndo, ansanti, verso qualche posto in cui avrebbero potuto giocare.
Nel vederli, Franziska provò un moto di compassione misto ad una strana felicità, pensando che nonostante tutte le brutture di Panem, quei bambini riuscivano a trovare un posto – o un momento – in cui essere felici. Persino il cielo del Distretto 6 – che pareva sempre grigio a causa dei fumi delle officine – sembrava quasi diventare sereno, quasi il sole volesse partecipare ai giochi dei più piccoli.
I suoi occhi si spostarono quasi automaticamente sulla figura di Deryck, su quel visino tanto pallido, magro e triste, che pareva ancora più cupo quando lo si guardava in quegli occhi così verdi e profondi, così maturi, per uno che aveva solo sei anni. Il desiderio più grande di Franziska era vederlo correre con i suoi amici per le anguste vie del Distretto 6, ansante, ma felice e con le gote finalmente rosse e gli occhi brillanti – quel verde così intenso non sarebbe più stato lo stesso colore delle foglie nel periodo in cui l’estate abbandonava il mondo per lasciar spazio all’autunno, quel colore cupo e con venature giallastre che simboleggiavano la loro morte.
Inspirò quell’aria gelida che le schiaffeggiava il volto, sentendo le narici bruciare al suo passaggio.
L’autunno più freddo degli ultimi anni, sembrò dirle una voce interiore, e il volto flaccido della ricca donna con la pelliccia le tornò in mente, accompagnato da un moto di rabbia cieca verso coloro che vivevano nella stessa condizione di quella signora.
Li chiamavano Hunger Games, ma forse non si riferivano solo ai Giochi. Tutta la vita di ogni persona che viveva a Panem era un gioco di morte e di fame, dove il tasso di mortalità era alle stelle e chi si svegliava alla mattina ancora sano doveva ringraziare una qualche divinità in cui credeva.
Tutta la sua rabbia non fece che aumentare quando il grigio profilo della sua casa si stagliò a pochi metri da dove camminavano. Le tenebre stavano ormai calando, e rendevano ancora più tetro quel posto di quanto già non fosse. Se qualcuno avesse visto la casa dei Madison da fuori, avrebbe potuto intuire quanta decadenza vi fosse all’interno. L’intonaco delle mura era ormai scrostato in più punti e il suo colore oscillava tra il grigio e un bianco sporco, come la neve ammucchiata a lato delle strade d’inverno. Le persiane delle finestre – un tempo verdi – portavano ancora pochi rimasugli dell’antica vernice, ed erano rotte in vari punti.
Solitamente si notava in lontananza una fioca luce proveniente dal salotto, o dalla camera di Warwick, ma quella sera era tutto buio.
«Le opzioni sono due» esordì Igor, fermandosi in mezzo alla strada e costringendo Deryck a fare lo stesso. Alzò l’indice della mano destra, indicando la prima delle ipotesi. «O Warwick non è casa», alzò anche il medio della medesima mano, «oppure è saltata la corrente».
«Entrambe molto certe». Franziska sospirò, incamminandosi verso la porta di legno che dava l’accesso alla loro misera casa. Infilò le chiavi nella serratura arrugginita, pensando che da un giorno all’altro l’avrebbe cambiata. Sentito il tipico clack, girò la maniglia, ed entrò nell’atrio buio che dava sul piccolo salotto. Igor e Deryck la seguirono a ruota, e il suo gemello chiuse la porta dietro di sé, per poi allungare una mano ed accendere la misera e mal funzionante lampadina che pendeva dal soffitto, senza più un lampadario che la rendesse quantomeno decente.
«Casa dolce casa». Franziska appoggiò il sacchetto sul divano, prima di togliersi la sciarpa e gettarla malamente accanto ad esso. «Igor, ti conviene coprirti, ora» disse poi, rivolta al gemello, che, nel frattempo, aveva appeso il suo inseparabile cappellino con la visiera all’attaccapanni – se così si poteva chiamare – accanto alla porta. Il ragazzo replicò con un cenno di assenso, togliendo la cuffia dalla testa di Deryck.
«Forse conviene che tu vada a lavarti, nanerottolo» ordinò Franziska al fratellino, scompigliandogli i capelli corvini. «Vado a prepararti un po’ d’acqua calda. Intanto, fai i compiti».
Il bambino rispose a quell’ordine con un verso gutturale di puro disgusto, che suscitò l’ilarità della quattordicenne. La bionda iniziò a salire i gradini che portavano al piano superiore, evitando abilmente quelli pericolanti, saltando direttamente su quello dopo. Come salita non era lunga, ma anche le scale erano talmente rovinate che dirigersi al piano superiore diventava un gioco d’abilità.
Giunta nello stretto corridoio che terminava con una finestra dalla vista ben poco panoramica, Franziska si diresse sicura nella prima stanza a destra, dove si trovava il piccolo bagno. Aprì la porta di scatto e accese la luce, ma quello che trovò al suo interno la fece rimanere ferma sull’uscio della porta.
Sentì un conato di vomito risalirle lungo l’esofago, accompagnato da brividi freddi che la scossero nel profondo, mentre osservava il cadavere di suo padre che giaceva nella vasca da bagno.
Il capo di Warwick era reclinato all’indietro, gli occhi semiaperti, così come le labbra, che facevano intravedere i suoi denti gialli dalle incrostazioni di tartaro. Aveva le braccia spalancate, appoggiate sui bordi della vasca, e i polsi forse non potevano chiamarsi più a questo modo. Erano squartati, il sangue ancora fluiva nell’acqua ormai fredda, rendendola spaventosamente vermiglia. Sul pavimento – circondata da un alone di sangue – giaceva una lametta.
Franziska rimase impotente ad osservare quello scempio, presa da una paralisi improvvisa. Il cervello pareva essersi spento, mentre cercava di trovare una soluzione o un motivo ragionevole a tutto ciò. Non riusciva a distogliere gli occhi da quei tagli così profondi che avevano causato la morte di Warwick Madison, come se essi esercitassero un’attrazione troppo forte per lei.
Quando poi i suoi occhi si posarono sul muro scrostato, quella paralisi si trasformò in disgusto e terrore, mentre leggeva quello che suo padre aveva scritto con il sangue. Un nome, quello di colei che per anni gli era stata accanto, il nome di quella donna che con lui aveva concepito tre figli.
Grace. 

 
 
*
 
Il Mercato Nero era un viavai di persone. Gli ultimi che volevano barattare qualcosa o comprare merce di contrabbando si stavano affrettando per accaparrarsi le ultime cose, che fossero esse delle bevande alcoliche, dei pezzi di stoffa o una ciotola di zuppa calda a poco prezzo.
Aaron si guardò intorno con fare guardingo, le mani ficcate nell’enorme felpa che indossava e il cappellino da baseball rigorosamente girato al contrario.
Non era la prima volta che si recava in quell’enorme officina abbandonata e ormai i loschi personaggi che lì vi si aggiravano erano suoi conoscenti, eppure, quella sera, sentiva brividi freddi lungo la schiena. Essi non fecero che aumentare quando i suoi occhi si posarono sull’uomo che aveva dinnanzi, ma soprattutto sul coso che teneva in mano. Era una specie di lungo ago appuntito, e il suo possessore – di cui Aaron non ricordava il nome – lo stava pulendo con un batuffolo di cotone intriso di disinfettante.
«Dobbiamo proprio farlo?» balbettò all’orecchio del ragazzo in piedi accanto a lui, avvicinandosi per non farsi sentire dal bestione con l’ago in mano.
Il suo amico gli rivolse un sorrisetto ambiguo. «Direi di sì» replicò con nonchalance, incrociando le braccia al petto e guardando il tipo dietro al bancone con aria di sfida. Quello andò avanti a lucidare il suo ago come se nulla fosse; sembrava non si fosse accorto minimamente dei due ragazzini che lo fissavano con insistenza.
«Col cazzo, Jimmy». Aaron gli tirò una gomitata, guardandolo con fare supplichevole. «Non vorrai farti infilare quel coso nella pelle».
«Oggi eri molto più simpatico, quando volevi farlo anche tu». Jimmy inarcò un sopracciglio, osservando il ragazzo accanto a lui con aria risentita. «Andiamo, Aaron. Proviamoci».
Il giovane deglutì. Era tutto il giorno che parlavano di andare da quell’uomo ed Aaron era stato esaltato per tutto il pomeriggio, ma all’improvviso il suo ardore parve venire meno, mentre osservava quello che puliva la sua arma con fare carezzevole.
«E poi, devo far vedere a mio padre che non deve starmi addosso». Jimmy si grattò la nuca, fattosi improvvisamente serio. «Sarò anche il figlio del sindaco, ma sono un damerino come lui mi vuole. Andiamo, Kidman» esortò il suo amico, tirandolo per il braccio sinistro e conducendolo a forza davanti al bancone.
Aaron deglutì per una seconda volta, mentre il tipo dai capelli rossi dietro il banco alzava lo sguardo, due penetranti occhi azzurri che spiccavano su un viso tondo come la luna ricoperto in gran parte da un’ispida barba color carota.
«Salve» esordì Jimmy, appoggiandosi al bancone come se stesse facendo una chiacchierata di piacere. A testa bassa, Aaron continuava a muovere le mani nella gigantesca tasca della sua felpa nera, agitato da quello che avrebbe detto di lì a poco il suo amico.
«Salve» replicò il rosso, con voce roca e profonda, che ben si adattava a quel fisico nerboruto.
«Vorremmo provare a farci un piercing». Jimmy abbassò la voce e si allungò verso l’uomo, quasi gli stesse confessando un segreto di stato. Questi aggrottò la fronte, e quel semplice movimento bastò a riaccendere le speranze di Aaron.
«Quanti anni avete?»
«Diciotto» mentì Jimmy, con un’abilità incontestabile. Aaron si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo dinnanzi alla sfacciataggine del suo migliore amico.
«E dove lo volete, questo piercing?» L’uomo guardò Aaron dall’alto in basso, un sopracciglio rosso che formava un perfetto arco e una smorfia ad increspargli le labbra carnose. Il giovane sostenne il suo sguardo, ma le mani gli tremavano per la paura – mista a speranza – che non avesse creduto alle parole di Jimmy. Malgrado la sua altezza, Aaron presentava un volto dai tratti fanciulleschi, che rivelava pienamente i suoi acerbi quattordici anni – e forse, se lo si fosse solo guardato in faccia, si sarebbe potuto pensare che fosse stato addirittura più giovane.
«Al labbro». Jimmy si picchiettò con un dito a lato del labbro inferiore. «Sia io che lui» aggiunse, muovendo lo stesso dito verso l’amico.
«Una specie di segno della vostra amicizia». Tra l’ispida barba dell’uomo comparve un sorriso, mentre si alzava dalla sedia e gettava il batuffolo di cotone in un cestino.
Jimmy si voltò verso Aaron, facendogli l’occhiolino con aria complice. Il quattordicenne rispose incurvando le labbra in su, nel primo e sincero sorriso di quella giornata.
Non sarebbe stato solo un segno d’amicizia, quel piercing, ma anche un segno di ribellione, quella a cui loro tanto agognavano. Tra i ragazzi con cui si divertivano a dipingere i muri del Distretto per protestare, ve ne erano alcuni che li portavano con aria fiera. Gli stessi avevano loro rivelato che li avevano fatti illegalmente, come segno di ribellione.
Aaron si era ritrovato a guardarli attonito, incredulo da quelle parole che non gli sembravano sensate, ma Jimmy si era subito esaltato e lo aveva trascinato al Mercato, del tutto convinto che un piercing lo avrebbe fatto apparire come un ribelle agli occhi dei genitori e non più come il dolce ed educato figlio del sindaco che lui non voleva essere.
«Seguitemi». Il rosso fece loro segno di andare dietro al bancone, esortandoli con un cenno della mano. I due obbedirono, Jimmy in testa e Aaron dietro, che si sistemava il cappellino in maniera quasi febbrile.
«Chi inizia?»
«Jimmy». Senza neanche pensare alle parole che gli erano appena uscite dalle labbra, Aaron diede una spintarella al suo migliore amico e questo, preso alla sprovvista, rischiò di andare addosso al colosso, che già aveva l’ago pronto in mano.
«Io?» Jimmy si voltò verso Aaron con espressione a metà tra lo stranito e l’arrabbiato, al quale il quattordicenne ribatté con la sua migliore faccia da angioletto.
«Vai, vai. Non voglio privarti di questo privilegio».
«Andiamo, forza!» L’uomo assestò una pacca sulla spalla di Jimmy, e il suo busto andò pericolosamente in avanti. Aaron si ritrovò a sogghignare sotto i baffi, mentre il proprietario del banchetto conduceva il quattordicenne dietro un telo. Quest’ultimo, prima di seguirlo, freddò il suo amico con uno sguardo, mimando con le labbra qualche parola: “Dopo ti ammazzo”.

 
 
*
 
Le corde vocali sembravano quasi tremarle per quell’urlo che non voleva saperne di uscire.
Fissava incantata il nome di sua madre scritto con il sangue, Franziska, gli occhi verdi fissi su quelle cinque lettere che un tempo rappresentavano una persona, una madre, una donna.
Il silenzio era opprimente, così come il lezzo di sangue che pervadeva il minuscolo stanzino. Si infilava nelle sue narici, dandole quasi l’impressione di stare soffocando. Nemmeno le ultime gocce color rubino che cadevano sulle mattonelle del pavimento facevano rumore. Scendevano silenziose, mute testimoni della vita di quell’uomo, perché quel sangue, un tempo, scorreva nelle sue vene, lo rendeva una persona. E per quanto Franziska lo avesse odiato, ripudiato, insultato, in quel momento pensare al fatto che anche quello – che lei non aveva mai nemmeno chiamato papà – era stato una persona viva e in carne ed ossa, con dei sentimenti, la stordiva ed inquietava al tempo stesso.
Finalmente, con grande sforzo, le sue labbra martoriate dall’aria fredda si schiusero, facendo uscire quell’urlo che aveva trattenuto per quegli interminabili secondi di silenziosa contemplazione.
«Igor!»
Il nome di suo fratello, la prima persona a cui lei aveva pensato nel vedere il corpo privo di vita del padre.
«Igor!»
Ancora, spaventata, lo ripeté con maggiore veemenza, e una nota di terrore si insediò nel suo tono di voce. Quel lezzo sembrò farsi improvvisamente insopportabile, e quasi senza che se ne accorgesse, Franziska indietreggiò di un passo, verso il corridoio buio.
I passi di suo fratello si fecero più veloci – forse l’aveva addirittura chiamata, ma lei non se ne ricordava; non aveva sentito, persa in quel mondo fatto solo di sangue, polsi straziati e nomi scritti sui muri.
Grace.
Lo rileggeva, lo ripeteva. Era stato l’ultimo desiderio di Warwick, l’ultima cosa a cui aveva pensato prima di morire.
«Ziska». Igor l’afferrò per il braccio, prima che i suoi occhi si posassero sull’interno del bagno. La quattordicenne non disse niente, si limitò ad osservare con freddo stupore – ancora una volta – i polsi di suo padre, dai quali il sangue continuava a colare, inesorabile, come un rubinetto chiuso male dal quale continuano a scendere delle fastidiose gocce d’acqua.
E quel sangue iniziò a darle fastidio. Voleva farlo sparire, cancellarlo, togliere quel nome dal muro insieme al cadavere di suo padre, magari levandolo del tutto da quegli anni di vita passata che sembravano ormai lontanissimi.
Igor sgranò gli occhi, fissando impotente quel cadavere reso freddo dalla morte, la cui pelle stava diventando già blu. Il volto del ragazzo si fece pallido, e il suo pomo d’Adamo risalì lungo la gola al ritmo della sua deglutizione nervosa.
«Cazzo» sibilò, facendo un passo indietro, tirando la sorella per la manica della felpa. «Dobbiamo… dobbiamo chiamare qualcuno» biascicò, respirando affannosamente. Franziska annuì, finalmente distogliendo lo sguardo da quello scempio.
«Carine». Un nome, una salvezza, una certezza. Carine era l’unica che avrebbe potuto aiutarli in quel momento.
Igor annuì e, lanciato un ultimo sguardo disgustato a Warwick, scese le scale di corsa. Qualche secondo più tardi, Franziska sentì la porta chiudersi, accompagnata dalla sottile vocina di Deryck che chiedeva informazioni, senza tuttavia ottenere risposta.
Quella composta freddezza che l’aveva assalita mentre osservava il corpo inanimato di suo padre lasciò spazio ai sentimenti e alle emozioni più forti che potesse provare, grazie al semplice ascolto della voce del fratellino.
Deryck. Tanto piccolo e dolce, con un padre assente, una madre morta e due fratelli troppo piccoli perché sostituissero i genitori. Deryck, così piccolo, ma così forte e segnato, con gli occhi che si illuminavano ogni volta che Franziska e Igor riuscivano a rubare un dolcetto per portarglielo e farlo felice.
Con rinnovata forza, la quattordicenne si diresse verso la vasca da bagno, camminando di corsa, quasi avesse premura di portare via quel corpo – anche se da sola, lo sapeva, non ce l’avrebbe mai fatta.
Doveva compiere quel gesto per Deryck, per non fargli vedere quello scempio.
Cauta, si avvicinò alle braccia di Warwick, osservando i tagli sui suoi polsi. L’odore di sangue la investì come un treno in piena corsa e un secondo conato le risalì lungo l’esofago, trattenuto a stento.
Si era tagliato i polsi così profondamente che doveva essere morto in poco tempo – l’ultima sofferenza di una vita piena di sofferenze.
Quell’odore nauseabondo iniziò a diventare insopportabile e Franziska si alzò in piedi, uscendo dal bagno e chiudendo la porta. Voleva evitare che Deryck sentisse quell’odore, che anche lui stesse così male.
Scese i gradini quasi di corsa, saltando quelli malconci e spiccando un balzo quando ne mancavano tre al pavimento.
Il salotto malamente illuminato era nelle stesse condizioni in cui lo aveva lasciato pochi minuti prima, con il sacchetto sul divano insieme alla sua sciarpa, e il cappellino di Igor appeso accanto alla porta.
Deryck era seduto su una poltroncina sfondata, e giocherellava con un trenino, facendolo girare sul bracciolo. Sentiti i passi poco femminili della sorella, alzò lo sguardo verso di lei, con rinnovata curiosità.
«Perché Igor è corso fuori a quel modo?»
Sospirando, la quattordicenne si avvicinò a lui e lo fece alzare dalla poltrona, prendendolo in braccio. Le gambe le tremavano e la testa le pulsava. Non sapeva bene come comportarsi in certe occasioni, non le era mai capitato prima.
Ingoiando un po’ di saliva, si costrinse a guardare il suo fratellino negli occhi. Allungò una mano verso la sua fronte, scostandogli un ciuffo di capelli neri come il cielo notturno, che creavano un bel contrasto con quella pelle di porcellana.
«Perché è successa una cosa un po’ brutta e deve chiamare Carine».
A sentire nominare colei che per anni lo aveva trattato come un figlio, le gote di Deryck si fecero più rosse dalla felicità e gli occhi lampeggiavano dalla gioia.
«Brutta quanto?» domandò poi, perdendo l’improvviso sorriso e avvicinando il volto a quello di Franziska.
«Mentirei se ti dicessi che non ce ne frega niente. È piuttosto brutta, Der». Un brivido freddo le corse lungo la spina dorsale, ma non era per il freddo. «Si tratta di Warwick».
«È scappato?» Il bambino aggrottò la fronte, per niente impressionato. Franziska scosse la testa in segno di diniego, prendendo una mano del piccolo tra le sue.
«Più o meno. È scappato in cielo».
Per un breve istante, gli occhi del piccolo si sbarrarono e le labbra si dischiusero leggermente. «È… morto?»
Indugiò su quella parola, troppo forte e misteriosa per un bambino di appena sei anni come lui. Franziska sapeva che la parola morte gli faceva paura perché lui aveva fatto anni ad abbinarla alla sua nascita, al giorno in cui la sua mamma se n’era andata per sempre.
«Sì».
Il piccolo abbassò lo sguardo a fissare il lurido tappeto che ricopriva il pavimento del salotto, poi, come se nulla fosse, fece spallucce.
«Dovrei sentirmi triste, vero? Tu eri triste, quando la mamma se n’è andata in cielo?»
Quelle lacrime che Franziska aveva trattenuto per anni sembrarono premere per scorrere lungo le sue gote, mentre ripensava al giorno in cui il corpo di Grace aveva perso qualsiasi funzione vitale, lasciando di lei null’altro, se non un corpo che ormai doveva essere stato del tutto mangiato dai vermi che vivevano sotto terra.
«Quando la mamma è morta, era diverso». Strinse a sé Deryck, annusando l’odore di pulito – così inusuale, in quella casa – che emanavano i suoi vestiti, mentre i ricordi di quella sera – quella della nascita del piccolo – tornavano alla sua mente con prepotenza, dandole una botta all’animo, quasi un aereo vi si fosse schiantato.
 
La mamma urlava da far paura, alternando strilli acuti a versi gutturali di puro dolore. La sua faccia – rossa dallo sforzo – era ridotta ad una maschera di paura e angoscia, trasfigurata dalla smorfia che avevano assunto le sue labbra.
«Spingi, Grace, ci sei quasi». Le lacrime scorrevano lungo le gote di Carine, mentre diceva quelle parole con calma. «È quasi nato, avanti, ci sei quasi». Ben presto, anche quelle incitazioni divennero una bassa litania, come una preghiera, rotta solo dalle urla della donna distesa sul letto.
Franziska stava in piedi, carezzando i capelli della mamma come se fosse la cosa più naturale del mondo. Quando lei era triste e voleva farsi coccolare, Grace glieli pettinava sempre con le dita, cantandole una canzone dolce.
Igor, accanto a lei, le teneva la mano e osservava una donna che guardava tra le gambe della mamma. Il volto del bambino era terrorizzato, gli occhi lucidi dalle lacrime che si sforzava di trattenere.
La bambina strinse ancora più forte la mano del gemello, come se quel contatto potesse trasmettersi anche alla mamma, che non la smetteva di urlare e respirare con affanno.
Con uno sguardo, freddò il padre che stringeva la mano della moglie, mentre lacrime silenziose scorrevano lungo il suo volto.
«Dille qualcosa» avrebbe voluto urlare Franziska, ma le sue labbra rimasero serrate, mentre carezzava quasi ipnotizzata i capelli della mamma.
Neanche un minuto dopo, nella stanza ci fu un nuovo suono. Il pianto di un bambino aleggiò nell’aria, forte, facendo trasparire la voglia di vivere di quel cosino rosso e urlante.
Grace si abbandonò sul cuscino, stanca, respirando appena. Sembrava impossibile che si muovesse, ma pian piano alzò una mano, facendo cenno ai due figli di avvicinarsi. Warwick si scostò, lasciando posto ai due bambini.
Franziska sentiva le lacrime che scendevano lungo le sue guance, calde e salate, e la sua presa sulla mano di Igor si fece ancora più salda.
Era davvero quella la sua mamma? Lei era sempre stata una donna in forze, bella, ma quella che aveva davanti era l’immagine della stanchezza e della morte.
«Prendetevi cura di Deryck». La sua voce era poco più di un sussurro, mentre debolmente asciugava le lacrime della bambina. «Siete gli unici che potete farlo». Il suo braccio ricadde sul materasso e i suoi occhi si socchiusero, mentre rivolgeva un ultimo sorriso ai due figlioletti. «Vi voglio bene» soffiò, e poi morì.
 
Chiuse gli occhi, appoggiando la fronte alla spalla del fratellino, che li cinse il collo con le braccia magre.
«È davvero tanto brutto il fatto che non sento niente, Ziska? Sono cattivo». La sua voce era intrisa di tristezza e lacrime mai fatte uscire, di sensi di colpa e di paura.
Franziska alzò il capo, dandogli un bacio sulla guancia. «Non sei cattivo, Deryck. Ti dirò: anche io non sono triste. Lui era solo l’uomo che ha messo incinta mamma, ma non si è mai comportato come un padre».
Nel pronunciare le ultime parole, la quattordicenne sentì un’ira repressa a stento venire a galla, ma si sforzò di non mostrarla. Deryck era abituato a sentire lei e Igor mentre inveivano contro Deryck – fin da piccolo gli avevano insegnato che lui non era nessuno, se non un coinquilino silenzioso e spesso assente – ma in quel momento, lei doveva insegnargli ad avere rispetto della morte e delle cose più grandi di lui.
Per quanto una parte del suo animo desiderasse dire che lei era contenta, che suo padre quella morte se l’era meritata, un’altra parte le suggeriva che non era giusto, perché nessuno sarebbe dovuto morire a quel modo, nemmeno un uomo spregevole come Warwick Madison.
Se l’è cercata, tentò di convincersi, alzando il fratellino e posandolo a terra. Si alzò poi dalla poltroncina, sistemandosi la felpa e stropicciandosi gli occhi, in preda ad una stanchezza che parve crollare sulla sua schiena come un macigno.
«E adesso che facciamo?» Deryck la tirò per una manica della felpa, con fare preoccupato.
«Non lo so. Aspettiamo Carine… e poi speriamo che si sistemi tutto».
Un po’ a sorpresa, il bambino circondò la vita della sorella con le sue braccine, affondando il capo nel tessuto pesante.
«Andrà tutto bene, Lala».
E Franziska sperò che le parole del fratello potessero essere vere.

 
 
*
 
«Merda, che male!»
L’imprecazione di Jimmy risuonò nel buio della sera tarda, in quel vicolo scuro che lui e Aaron stavano percorrendo per tornare nelle loro case.
Le uniche ad osservare il loro passaggio erano le stelle del cielo, parzialmente coperte da un velo di sottile nebbia, che rendeva ancora più fioca la loro luce.
Per le strade del Distretto 6 non c’era nessuno, se non qualche gatto randagio che miagolava stizzito o che li osservava con gli occhi che brillavano. Le persone, a quell’ora, erano tutte in casa ad attendere che il coprifuoco scattasse. Di lì a pochi minuti, i Pacificatori avrebbero iniziato a pattugliare la città, cercando eventuali trasgressori della legge da punire. Non importava cosa stessero facendo, se semplicemente camminando senza dare fastidio a nessuno, o dipingendo le mura con scritte oscene. I soldati della Capitale li avrebbero puniti comunque, con frustate sulla schiena e in casi estremi con la morte – che fosse essa veloce e indolore come una fucilata o lenta e dolorosa come la tortura.
Aaron rabbrividì e tirò su la zip della giacca nera, quasi fino al mento. Il labbro gli faceva ancora male, dopo che l’uomo dai capelli rossi vi aveva infilato l’ago per bucarglielo, e l’aria gelida sembrava far aumentare il dolore. Mentre camminava, capitava che se lo tastasse come a verificare se fosse ancora lì o per vedere se davvero spurgava, come gli aveva detto il tizio. Per due settimane circa avrebbe fatto uscire del liquido giallastro, anche se non si sarebbe notato molto, e aveva dato ordine ai due quattordicenni di non toglierlo per nessuna ragione al mondo. In realtà, gli aveva proprio detto che un piercing era per sempre, e avrebbero dovuto tenerlo su quasi per tutta la vita – toglierlo spesso li avrebbe fatti ammalare per un’infezione e nessuno dei due teneva a morire per una cosa così banale come un anello al labbro.
«Sei stato tu a volerlo» rispose con calma Aaron, tastandosi delicatamente il piercing.
Jimmy sbuffò e una nuvoletta di fiato si condensò nell’aria fredda della sera. «Tanto passerà» replicò, facendo spallucce, prima che il suo volto fosse attraversato da un ghigno soddisfatto. «Voglio proprio vedere la faccia del mio vecchio quando noterà il mio nuovo piercing». Ridacchiò soddisfatto, tirando un calcio ad una lattina che andò a sbattere contro un cestino dei rifiuti accanto al quale era accovacciato un gatto. L’animale se la diede a gambe levate, miagolando arrabbiato.
Aaron non rispose, sentendo lo stomaco contrarsi in una morsa. I suoi zii si sarebbero arrabbiati di certo nel vederlo tornare a casa con quell’anello sul labbro – o forse, come sempre, avrebbero alzato gli occhi al cielo e avrebbero parlato con lui, chiedendogli se qualcosa non andava.
Vivo a Panem, nel Distretto 6, che è quello più schifoso. Ogni anno devo prendere delle tessere per far sì che tiriamo avanti perché i soldi dello zio non bastano e dobbiamo nutrirci degnamente, visto che siamo in sette. Ah, sì, e dimenticavo gli Hunger Games, sai zietta, da due anni posso essere estratto come tributo.
Ogni volta che Katy gli chiedeva come stava, Aaron avrebbe voluto rispondere in questo modo, ma alla fin fine, ribatteva con un sorriso sbarazzino e un’alzata di spalle, dicendo che no, non c’era nulla che non andava, stava bene ed era solo un periodo un po’ brutto.
Mentire era facile come camminare, pensare o aggiustare qualche motore, per lui. Apriva la bocca e uscivano un mare di bugie, la chiudeva e lo assalivano i sensi di colpa.
«Mi ascolti?»
Preso com’era a seguire il filo invisibile dei suoi pensieri, il quattordicenne non si era accorto che Jimmy gli stava parlando. Ormai l’amico era abituato a quel modo di fare di Aaron, così strano per un ragazzino della loro età – per un maschio, soprattutto. Non erano rari i momenti in cui lui si perdeva, partendo da un pensiero e concludendo con una corsa in salita, perché numerose altre idee si erano affollate nella sua testa.
«Sì, scusa, stavo-»
«… pensando ad altro» completò Jimmy per lui, prima di dargli una pacca sulla spalla. «Vado a casa. Buonanotte, Kid!»
«’Notte» rispose Aaron, prendendo la via che conduceva alla modesta casa dei suoi zii. Jimmy andò a destra, verso la sua ben più lussuosa abitazione; un privilegio che solo i ricchi come lui potevano permettersi, in un luogo come il Distretto 6.
La casetta dove abitava non era molto distante, solo a poche centinaia di metri. In lontananza, vide subito le luci della cucina e del salotto, nonché alcune del piano superiore. Non erano luci forti, ma fioche. Di meglio non potevano permettersi, se non qualche misera lampadina che pendeva dal soffitto. Lo stipendio dello zio Martyn non era tanto alto, così come quello di suo figlio più grande Keegan e del mezzano, Jarod, e i soldi che Aaron guadagnava nell’aiutare Martyn erano perlopiù degli spiccioli di mancia, dati per non farlo restare a bocca asciutta.
Ogni tanto gli capitava di sentire i suoi zii discutere in cucina, mentre tutti  i giovani erano nelle loro camere e si preparavano per la notte. In quei momenti, Aaron si sentiva triste e arrabbiato al tempo stesso, perché avrebbe voluto cambiare le cose. Ma pensarlo non bastava al Distretto 6, dove la povertà dilagava, e anche farlo comportava dei rischi enormi.
Giunto sui gradini che conducevano alla porta di casa, Aaron sospirò, tastandosi un’ultima volta il piercing, prima di afferrare con sicurezza la maniglia della porta e spalancarla.
Il salotto malamente illuminato era perlopiù vuoto, se non per Katy e Martyn che sedevano sul divano sfondato. Con la coda dell’occhio, il quattordicenne notò che la cucina era occupata da Keegan, intento a lavorare su un pezzo di ricambio di qualche treno o hovercraft, la lingua che sporgeva appena dalle labbra chiuse, segno che il ventenne era estremamente concentrato, al punto che non sentì nemmeno la porta sbattere.
«Sono tornato». Aaron si tolse la giacca, mettendola sull’appendiabiti colmo di felpe, giacche e quant’altro. Sua zia si alzò dal divano, guardandolo mentre compiva quella semplice azione. Aveva un sorriso dolce e il naso un po’ arrossato dal raffreddore, ma nel complesso sembrava in forma – molto più di quella mattina, quando era stata costretta a buttar via almeno un centinaio di fazzoletti.
Quando però vide la faccia del nipote, lo sguardo di Katy si fece attento e incuriosito, il tutto condito con un pizzico di sorpresa e – forse – rabbia, nonostante l’ira della donna fosse sempre contenuta e mai esplosiva.
«Aaron! Che cavolo ti sei fatto al labbro?» chiese, indicando la faccia del nipote. Richiamato dalla voce preoccupata della moglie, Martyn si girò verso Aaron, facendo ricadere lo scotch con il quale stava aggiustando un libro di scuola di uno dei suoi figli. Nel vedere il piercing, anche la sua espressione divenne seria.
«Questo?» Era ovviamente una domanda retorica, ma Aaron sperò di temporeggiare. Si picchiettò il piercing con un dito. «Nulla. È semplicemente un piercing».
«Semplicemente?» tuonò Martyn, ma più che arrabbiato sembrava sconvolto. «Ti sei fatto bucare la pelle!»
«Oh, Aaron…» esclamò la zia, passandosi una mano tra i capelli lunghi per spostarli dal viso. «Perché mai ti sei fatto fare un buco sul labbro, sentiamo?»
Il quattordicenne fece spallucce, all’improvviso a corto di parole. Alzò lo sguardo verso le scale che portavano al piano superiore, notando i volti di suo fratello minore Brenton e di suo cugino Patryck che lo osservavano dalla sommità della scalinata.
«Jimmy voleva farlo».
«E tu, ovviamente, lo hai seguito?» Martyn si massaggiò le tempie con fare esasperato. «Aaron, se Jimmy fa qualcosa non devi farlo anche tu. Se lui si vuole buttare da un p-»
«… se lui si vuole buttare da un ponte, io che faccio, lo seguo o no? La risposta è che lo manderei a cagare, zio, come sempre». Aaron completò la frase dell’uomo. Ormai, quella predica era ben radicata nella sua mente per via di tutte le volte che l’aveva sentita. «Non l’ho fatto per lui. È… stata una scelta comune» aggiunse, ben calibrando le parole da dire.
Un lampo di delusione passò negli occhi dei suoi zii e per un istante anche Aaron si sentì deluso da se stesso. Loro lo trattavano come un figlio, senza fargli mancare nulla, e lui li ripagava sempre con dei colpi di testa improvvisi, che mai e poi mai nessuno si sarebbe aspettato da un ragazzo come lui.
«Mi dispiace… volevo… l’ho fatto per me e…» si impappinò, cercando le parole per chiedere scusa a Martyn e Katy. Non era facile, per Aaron era la cosa più difficile del mondo.
«Ormai la frittata è fatta». La zia si avvicinò a lui, prendendolo piano per il mento e guardando il piercing del quattordicenne. «Va curato».
«Lo so. Il tipo che ce li ha fatti ha detto di non toglierlo per due settimane perché deve spurgare liquido giallo, ma se spurga liquido verde devo andare in farmacia. Ah, e non devo nemmeno toglierlo e rimetterlo troppo spesso, oppure rischio un’infezione» recitò come un bravo scolaretto, e la zia sembrò farsi più tranquilla.
«Se succede qualcosa, avvertimi subito, d’accordo?» Gli stampò un bacio in fronte, evitando il cappellino che Aaron teneva ancora in testa. Se ne accorse solo in quel momento e lo tolse, liberando una zazzera castano scuro.
«A proposito» Martyn si avvicinò al nipote con le braccia conserte, mentre questi appendeva il copricapo accanto alla giacca, «ho un nuovo lavoro».
Quelle parole parvero risanare Aaron, che sorrise felicemente e guardò lo zio con gli occhi che mandavano lampi di gioia. Anche Martyn, seppur in modo contenuto, aveva le labbra incurvate in su.
Un nuovo lavoro significava nuove opportunità e – sperò Aaron – un salario più alto, così Brenton e Patryck non sarebbero stati costretti a prendere le tessere, una volta in età da mietitura. Quel giorno si avvicinava sempre di più. Solo due anni mancavano al momento in cui Brenton Kidman e Patryck Andrews sarebbero diventati solo due nomi nelle bocce della Mietitura, e non passava giorno senza che Aaron pensasse a quanto quell’evento avrebbe portato scompiglio nella vita dei due più piccoli, specialmente in quella di Brenton.
«Davvero? Dove?»
«Mi hanno trasferito in un’altra officina, dove c’è molto lavoro e dove potranno darmi una paga un po’ più alta». Il volto dell’uomo si fece d’un tratto più buio.
«C’è forse qualche problema?» Aaron era allarmato da tutto quel mistero. Temeva che ci fosse qualche problema insormontabile da risolvere, qualcosa di grave. Forse lo zio voleva dirgli che Brenton e Pat avrebbero dovuto prendere comunque le tessere, oppure che il salario non sarebbe comunque bastato per portare avanti una famiglia di sette persone.
«Lo sai che io non sono d’accordo sul fatto che tu prenda le tessere». Martyn gli lanciò uno sguardo fugace, dal quale emergeva tutta la sua rabbia nei confronti dei Giochi e la sua paura. Incurante dei pensieri degli zii, Aaron aveva deciso di prendere comunque le tessere. Keegan lo aveva fatto prima di lui, e anche Jarod, quindi non aveva visto il perché non avrebbe dovuto farlo anche lui. Sentirsi un peso in quella famiglia era già abbastanza senza che si sentisse anche in colpa, malgrado tutte le attenzioni riservategli dagli zii.
«E lo sai che io non sono d’accordo sul fatto che tu non sia d’accordo». Sorrise come a voler confortare lo zio. «Sul serio, zio, che problema c’è?»
«Ho paura che dovrai prenderle ancora» ammise l’uomo, abbassando lo sguardo sul pavimento. «Jarod non ne può più prendere, lo sai, e ormai sei l’unica fonte di sostentamento per quanto riguarda le tessere. Questo salario sarà più alto, ma di poco. Voglio che Keegan e Jarod tengano da parte i loro soldi perché abbiano un futuro migliore. Così come voglio che tu tenga da parte i tuoi». Sospirò, poi, facendo ricadere le braccia lungo i fianchi. «E tu verrai a lavorare con me tutti i pomeriggi» concluse, questa volta con un sorriso sornione.
Aaron strabuzzò gli occhi. Non era una novità, quella, ma solitamente andava in officina a giorni alterni, oppure stava qualche ora e poi andava in giro a vagabondare per il Distretto con Jimmy e, occasionalmente, con qualche altro ragazzo della loro banda.
«Tutti i giorni?»
«Tutti i giorni, Aaron».
«Ma devo studiare». Quella magra giustificazione sembrò non far crollare le salde condizioni di Martyn, che fece una risatina sarcastica.
«Tu non studi mai, Aaron, non dire cavolate. Da domani. Tutti i giorni. Io e zia Katy pensiamo che potrebbe aiutarti a smetterla questi colpi di testa». I suoi occhi si posarono prima sull’anello di ferro sul labbro del nipote, e poi vagarono in cerca della moglie, che si intromise nella discussione annuendo convinta.
«Almeno imparerai il mestiere» soggiunse la donna.
Il quattordicenne sospirò, passandosi una mano tra i capelli arruffati. «Bene» commentò, prima di dirigersi sulle scale.
«Buonanotte, Aaron». Sua zia lo salutò e lui rispose con un cenno della mano, dirigendosi verso la camera che condivideva con Keegan e Jarod.
Nel farlo, passò una mano tra i capelli del fratellino, ancora sulle scale.
«Domani inizia una nuova vita, gnometto» disse, e chissà che quelle parole non contenessero una verità incontestabile. 


 

Alaska's corner

Miao!
Eccomi qui con il primo, vero capitolo di questa storia, in cui vi do già un assaggio di chi saranno i personaggi principali della prima parte: i Madison, i Kidman e Jimmy.
Dunque, innanzitutto vorrei chiedere a chi legge di non avere dei pregiudizi riguardo il comportamento dei protagonisti – in particolare quello di Franziska, Igor e Deryck nei confronti del padre. Lo so che è sconvolgente veder morire un genitore, dev’essere una cosa che ti uccide dentro, e quindi la reazione dei tre fratelli potrebbe essere sembrata… ambigua. Mi sto trattenendo perché tecnicamente i personaggi dovrebbero raccontarsi da soli, ma per ora vi basti sapere che quello che c’era tra loro tre e Warwick era odio, odio puro, non intendo una semplice antipatia come spesso capita tra genitori e figli nel periodo dell’adolescenza. Franziska, Igor e Deryck odiavano profondamente il padre perché anche lui odiava loro. Era uno psicopatico, ecco.
Poi non vorrei che ci si mettesse a fare paragoni con i personaggi della saga, nel senso che Franziska non è Katniss, così come Igor non è Gale e Deryck non è Prim (?). È una cosa a cui tengo particolarmente, ecco. Specialmente perché io tengo molto a questi personaggi e mi sono sforzata di dar loro una caratterizzazione quantomeno decente, oltre che renderli un po’ originali. Poi, so che sembrano molto strani per la loro età, ma loro sono parecchio maturi, specialmente Deryck perché non avendo i genitori è stato costretto a crescere abbastanza in fretta perché l’unica figura vagamente simile ad una madre era la Carine nominata alla fine, su cui saprete di più nel prossimo capitolo. (Il nome, comunque si legge come Karin :3)
Ah, la scena del suicidio me l’ha ispirata quel gran pezzo di libro che è It Più in là ci saranno altri riferimenti a questo libro, ma più che altro nella seconda parte – che arriverà tipo tra mille anni, ma speriamo di no.
Poi ci sono anche Aaron e Jimmy, belli de mamma ♥ Le loro parti sono un po’ più corte di quelle dei Madison, ma perché questi primi capitoli saranno incentrati molto sui tre fratelli e poi, tra pochissimo, saprete anche qualcosina in più su loro due – specialmente su Aaron. Per intanto, sapete già qualcosa: hanno entrambi quattordici anni (come Franziska e Igor), uno vive con gli zii e i cugini – oltre ad avere anche un fratello più piccolo – mentre l’altro è figlio del sindaco e si vede che hanno un rapporto non proprio tutto rose e fiori.
Per quanto riguarda i piercing, ho sempre immaginato che a Panem li facessero di contrabbando, non so perché xD Almeno, prima della rivolta, ma magari c’erano anche dei negozi specializzati che costavano troppo – Aaron, infatti, non potrebbe mai permetterselo.
Ah, e la parte in cui dice che spesso ha un po’ la testa tra le nuvole, non implica nulla di speciale: Aaron è semplicemente molto distratto; capita sempre anche a me quella cosa di concentrarmi e poi perdere il filo, quindi lo capisco bene. xD
Ultimo, ma non ultimo, vi do una breve spiegazione sul titolo del capitolo: Bloodwall penso non voglia dire niente (?); è semplicemente una storpiatura di Wonderwall, la famosa canzone degli Oasis. Non trovando un titolo, stavo pensando a qualcosa che collegasse il muro, il sangue, il suicidio e mi è venuto fuori questo.
 
Vi lascio anche i prestavolto di alcuni di loro – e queste note stanno diventando lunghissime, help.
Aaron Kidman
Brenton Kidman (Dovrebbe assomigliare a Douglas Booth molto giovane, ma ci assomiglia più o meno come io somiglio a Megan Fox, quindi dettagli)
Deryck Madison
Franziska Madison (Immaginatevela come una specie di Kate Hudson molto giovane e maschiaccio; personalmente non riesco a figurarmela in nessun altro modo >.< )
Igor Madison (Idem per lui, immaginatevelo come Jensen Ackles molto giovane. xD)
Jimmy Raimond
Keegan Andrews
Jarod Andrews
Patryck Andrews
 
Ecco qua, termino questo papiro augurandovi un buon anno e ringraziando tutti coloro che hanno letto ♥ Vi invito a cliccare un “Mi piace” sulla mia pagina facebook: Il brutto anatroccolo, per rimanere aggiornati sulla storia o semplicemente leggere qualche spoiler (?).
Alla prossima!
Alaska. ~    

 

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Capitolo 3
*** O2 » Ghosts « ***






CAPITOLO II
 
Ghosts

 
 
« Où t’es? Papaoutai?
[…]
Tout le monde sait comme on fait des bébés,
Mais personne sait comme on fait des papas.»
-Stromae ; “Papaoutai”

 
 
I polmoni gli bruciavano per il gelo penetrante, mentre correva verso la casa di Carine ad una velocità che avrebbe steso chiunque dopo pochi metri.
Igor correva, con il vento che gli soffiava nelle orecchie e l’immagine del cadavere del padre stampata in mente, come se qualcuno l’avesse incollata dinnanzi ai suoi occhi per fargliela vedere per sempre.
La prima sensazione avuta vedendo il corpo privo di vita di Warwick era stata di disgusto. Non pena, non compassione, non tristezza per aver perso un padre. Si era sentito assalire da un conato di vomito che a stento aveva trattenuto, nel vedere tutto quel sangue, ma nessun’altra emozione si era insidiata nel suo animo.
Freddezza.
Si sentiva freddo come le temperature, quel giorno, un pupazzo di neve fatto di carne e sangue, ma senza sentimenti da donare a quell’uomo che si era tagliato le vene nella vasca da bagno.
Mentre correva a perdifiato, Igor poteva sentire ancora i plic del sangue che cadeva sulle piastrelle già poco pulite del bagno, formando una chiazza vermiglia che gli aveva fatto venire quasi male agli occhi al solo guardarla troppo intensamente.
Di suo padre – suo padre – non gli era importato un bel niente. Come un assassino che si prepara per abbattere la preda, Igor aveva ragionato in modo rapido per cercare una soluzione a tutto quel dilemma. L’unica cosa che voleva era portare via quel corpo freddo e sanguinante, il corpo di colui che lo aveva concepito insieme a sua madre senza mai, tuttavia, essere un bravo padre. Ormai, Warwick Madison l’anima non l’aveva più da tempo e nell’apprendere della sua morte, Igor si era chiesto se sarebbe diventato anche lui così: un fantasma quasi invisibile, che vagava silenziosamente per una casa vuota, senza curarsi per nulla di ciò che gli accadeva intorno. Nel sentire quell’improvvisa freddezza assalirlo, aveva avuto la conferma che lui e suo padre erano più simili di quanto pensasse.
Mentre i piedi si muovevano ormai per inerzia, giunto quasi alla casa di Carine, poteva sentire quasi una risata – quella di suo padre, quella che lui non aveva mai sentito, ma che avrebbe tanto voluto entrasse nelle sue orecchie, specialmente quando era un bambino con un bisogno disperato di avere una figura genitoriale maschile accanto. Gli era capitato, svariate volte, di volerlo sbattere al muro, prenderlo a schiaffi fino a farlo rinsavire, per ricordargli che lui era suo figlio – il suo bambino – quello che lui avrebbe dovuto proteggere da tutto e da tutti, non lasciarlo da solo.
Le parole che sua madre aveva pronunciato poco prima di morire - «prendetevi cura di Deryck. Siete gli unici che potete farlo» - avevano acquistato finalmente un senso appena dopo la morte della donna, quando Warwick  - già all’epoca freddo e con istinti poco paterni, tanto che Igor non aveva mai avuto nemmeno una carezza da lui – si era all’improvviso dimenticato di quelle tre creature che abitavano nella sua casa.
Rallentò il passo, non appena la porta della casa che Carine condivideva con la sua famiglia si materializzò dinnanzi ai suoi occhi. Persino dall’esterno, quella modesta abitazione faceva intuire quanto amore vi fosse all’interno, quanto coloro che ivi vivevano condividessero dei gesti d’affetto. Trasudava gentilezza da ogni parete, quel luogo, per quanto rovinato fosse, come ogni casa del Distretto 6. L’intonaco bianco e pacchiano sembrava tingersi dei colori dell’arcobaleno, ogni volta che Igor rivolgeva gli occhi a quel nido d’amore e di famiglia che per anni aveva frequentato alla ricerca di un padre, di un abbraccio, di un po’ di affetto che non fosse quello della sorella o di Deryck.
Bussò con premura alla porta lignea, sentendo le dita e le nocche – anchilosate dal freddo – dolere per quel semplice gesto. Normalmente, non avrebbe mai bussato a quel modo, ma aveva fretta di portare via Warwick da casa sua, eliminare definitivamente la sua presenza da quelle quattro mura decadenti che ancora si ostinava a considerare come un nido sicuro per lui, Franziska e Deryck.
La porta si aprì dopo pochissimi secondi e sull’uscio comparve la figura di Edmure – il marito di Carine. Vedendo l’uomo che per anni aveva supplito alla figura di padre che Igor non aveva mai avuto, desiderò abbracciarlo e dirgli che finalmente era finito tutto, che Warwick se n’era andato per sempre e lui non avrebbe mai più dovuto dormire con Deryck per paura che gli succedesse qualcosa.
L’uomo lo accolse con il solito sorriso gentile e i capelli sparati in aria, ma l’espressione bonaria e generosa lasciò spazio a quella preoccupata e seria che assumeva sempre in momenti di grande tensione o quando era particolarmente concentrato.
«Igor…» Il suo nome sembrava più una richiesta di spiegazioni che un saluto e il quattordicenne non gli dava torto. Doveva sembrare devastato con i capelli arruffati, il volto rosso per lo sforzo e il corpo sudato che tremava per i brividi freddi.
«C’è Igor?»
Il ragazzo sentì i passi affrettati di Carine giungere verso la porta. La donna arrivò accanto al marito con uno strofinaccio che stava usando per asciugarsi le mani screpolate e un grembiule abbastanza sporco legato in vita e con un nodo sulla nuca.
«Cos’è successo?» La voce di Edmure tremava, mentre si abbassava di poco con la schiena per guardare Igor negli occhi. Il quattordicenne aveva ancora il fiatone e faticava a parlare. Mai prima di allora gli era capitato di dover annunciare la morte di qualcuno e si rese conto solo in quell’istante di quanto dovesse essere difficile. Warwick contava per Edmure e Carine quanto contava per lui, quindi non doveva essere difficoltoso, eppure la lingua sembrava essergli diventata di marmo.
«Franziska e Deryck stanno bene?» Carine, lo strofinaccio stretto in una mano, si affiancò al marito, preoccupata.
Igor scosse la testa in segno di diniego, per poi fare un respiro profondo. «Stanno… stanno bene». Indugiò sulle parole da usare, indeciso. Prima di correre fuori non si era nemmeno assicurato se Franziska stesse davvero bene, dopo aver trovato il cadavere di Warwick. Era conscio del fatto che per lei valesse tanto quanto per lui – ovvero nulla – ma scoprire un corpo privo di vita non doveva essere per niente una bella visione – lui stesso lo aveva provato sulla sua pelle pochi minuti prima, quando la gemella lo aveva chiamato.
«Allora cos’è successo? Vi sta andando a fuoco la casa? Vi hanno rubato qualcosa?» Edmure sembrava essersi fatto più tranquillo, dopo aver appurato che due dei suoi tre protetti stavano bene e anche il terzo – lì sulla porta di casa sua – non stava male, seppur sconvolto. Lo stesso valeva per Carine, che aveva tirato un lungo sospiro di sollievo.
Ancora una volta, Igor scosse la testa. «No. Warwick. È morto».
Lo annunciò con voce atona, come se colui che avesse visto il corpo dell’uomo fosse stato qualcun altro, un altro Igor, un ragazzino diverso che non conosceva nessun Warwick.
I suoi interlocutori spalancarono gli occhi e Carine portò una mano alla bocca. Edmure mormorò un’imprecazione, grattandosi la testa.
«Com’è successo?»
«Ha deciso che era ora di andarsene e si è tagliato le vene».
Edmure mormorò qualcos’altro, che suonava come un «quell’idiota», ma poteva anche benissimo essere qualche insulto peggiore. Tra l’uomo e Warwick non era mai corso buon sangue, nonostante avesse tentato numerose volte di socializzare con lui. La colpa era sempre del Madison, che sembrava voler bene solo alla moglie e guardava male chiunque le si avvicinasse troppo – persino i suoi figli, i pargoletti tanto adorati da Grace.
«Edmure, chiama i ragazzi». Decisa e con tono perentorio, Carine diede quest’ordine a suo marito, slegandosi il grembiule e gettandolo malamente sul pavimento del salotto, prima di uscire – priva di qualsiasi indumento per proteggersi dal freddo – e prendere Igor per un braccio.
«Io inizio ad andare con Igor» aggiunse. Il marito annuì, lanciandole la giacca appesa sull’attaccapanni. Fatto questo, si girò ed esclamò a gran voce i nomi dei suoi tre figli.
Carine e Igor iniziarono ad andare verso casa del ragazzo, veloci come due fulmini nel buio della sera. I lampioni che fiocamente illuminavano le strade facevano sembrare il luogo ancora più lugubre di quanto già alla luce del giorno non fosse, e il freddo pungente non faceva che aumentare quella sgradevole sensazione.
«Allora, cos’è successo di preciso?»
Carine si allacciò la giacca, mentre camminava spedita, quasi più veloce del quattordicenne accanto a lei.
«Siamo stati in giro tutto il pomeriggio e quando siamo tornati, Franziska è andata in bagno per preparare un po’ di acqua calda per Deryck, che era tutto gelato». Il ragazzo tirò su con il naso, sentendo che il raffreddore lo avrebbe ben presto indebolito. «E lì lo ha trovato. Si è fatto saltare le vene con una lametta».
Evitò di inserire il dettaglio più sconvolgente e macabro; quel “Grace” scritto con il sangue sul muro. Forse avrebbe dovuto dirglielo, ma Carine era già abbastanza sconvolta senza bisogno che lui le raccontasse quel particolare orribile riguardante la sua migliore amica – anche se sotto certi punti di vista sarebbe potuto sembrare romantico. Igor, però, lo aveva interpretato come la fine di un’ossessione, quella che per Warwick Madison era stata Grace.
«Franziska sta bene? E Deryck?» Gli occhi di Carine dardeggiarono in direzione del giovane.
«Credo di sì. Almeno, Franziska sì, mi sembrava leggermente sconvolta, ma sono corso via subito. E a Deryck penso lo abbia detto lei adesso».
Dette queste parole, tra loro calò il silenzio, rotto solo dal fruscio dei loro passi sull’asfalto malmesso della strada e da qualche rumore.
Il buio era ormai calato e di lì a poco il coprifuoco avrebbe dato loro ben poche possibilità di starsene in giro. Igor sperò solo che i Pacificatori chiudessero un occhio almeno per i lutti familiari, anche se i loro occhi erano perennemente coperti dai caschi che portavano sempre in testa – quasi non volessero far vedere il loro volto a chi uccidevano o semplicemente alla popolazione.  
Giunsero a casa Madison pochi minuti dopo, infreddoliti e agitati. Igor precedette Carine sui gradini di casa, aprendo la porta con tale foga che temette di scardinarla.
Il salotto era rimasto così come l’aveva lasciato, eccezion fatta per Franziska e Deryck, in piedi accanto alla poltrona.
«Carine!»
Le labbra della donna si incurvarono in un sorriso rassicurante, prima che aprisse le braccia per accogliere Franziska in un abbraccio e, dopo di lei, Deryck.
«State bene?» domandò, accovacciata accanto al più piccolo dei tre fratelli e stringendolo a sé. Il bambino si limitò ad annuire, appoggiando la guancia sulla sua spalla.
«Sì. Sto bene». Franziska si mise le mani sui fianchi, guardando il salotto come se da un momento all’altro dovesse comparire qualcun altro. «Un po’… nauseata. C’è un odore di sangue da far schifo» aggiunse a denti stretti, con aria più arrabbiata che disgustata.
«Adesso sistemiamo tutto». Carine si alzò, slacciando la giacca e appoggiandola accanto a quelle degli abitanti della casa. «Edmure e i ragazzi dovrebbero essere qui a momenti».
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase, che dalla strada si udì uno scalpiccio pesante, quasi una mandria di tori stesse arrivando verso l’abitazione. Si trattava solo di Edmure, seguito dai tre figli suoi e di Carine – tutti e tre più grandi dei gemelli. Il gruppetto salì di corsa le scale di casa, e non appena vide Franziska, Edmure l’abbracciò con foga.
«Stai bene? E tu, Deryck?»
Il piccolo si avvicinò a lui, aggrappandosi alla sua gamba.
Una fitta di dolore percorse il cuore già pieno di cerotti di Igor, che sentì le gambe diventargli di gelatina, mentre osservava il suo fratellino che si aggrappava ad Edmure come ogni bambino normale avrebbe dovuto fare con suo padre. Si rivide così tanto in quel gesto – quello che anche lui, anni prima, aveva compiuto con quello stesso uomo – che fu costretto a distogliere lo sguardo.
«Come procediamo? Sapete, non ho mai tirato via un corpo dalla mia vasca da bagno» esordì il quattordicenne dopo qualche istante, le braccia conserte e l’aria seccata. Gli sarebbe piaciuto che la serata concludesse in quella maniera, con tutti che si abbracciavano e consolavano, ma non vedeva l’ora di sbarazzarsi del cadavere di Warwick e gettarlo nella nuda terra.
«Tom ora andrà al Palazzo di Giustizia per il certificato di morte». Edmure lanciò uno sguardo al più grande dei suoi figli, che annuì, prima di uscire di corsa dal salotto e andare verso il centro del potere del Distretto 6, aperto per ogni evenienza fino allo scattare del coprifuoco.
«Cerchiamo di spostare il corpo dalla vasca, intanto, noi». L’uomo fece un cenno con l’indice della mano destra, indicando tutto il gruppetto al gran completo. «Franziska e Carine, voi state con Deryck».
«No!»
A parlare era stata la quattordicenne, e Igor quasi sorrise. Sapeva per certo che lei non si sarebbe mai messa seduta tranquilla, in momenti come quello.
«Non ce la faccio a stare seduta» addusse a mo’ di spiegazione, spostando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.
Edmure annuì, senza contestare la parola della ragazzina. «Allora andiamo» concluse, dirigendosi verso le scale.
La voce di Igor si levò dal fondo del gruppetto: «E possa la buona sorte sempre essere a nostro favore».
 
 
*
 
 
Sembrò passare tutto in un lampo.
Franziska aveva osservato ogni scena come una spettatrice esterna, quasi quello che fosse morto non fosse Warwick – suo padre, sangue del suo sangue.
Il corpo fu tirato fuori dalla vasca da bagno, freddo e bagnato, mentre i primi cenni della decomposizione si mostravano a chi lo guardava tramite una lieve sfumatura blu della sua pelle. Ogni gesto della quattordicenne era stato meccanico, come se qualcuno da una macchina la controllasse. Stette ferma, mentre Edmure e i suoi due figli sollevavano il cadavere gocciolante di acqua e sangue e lo posavano sul pavimento, adagiato su un asciugamano. Nemmeno la nudità dell’uomo sembrò turbare la ragazza – quella nudità che, normalmente, avrebbe fatto arrossire qualunque quattordicenne.
Di tanto in tanto, i suoi occhi correvano a cercare la figura di suo fratello, che, immobile, osservava la scena, il volto pallido e l’espressione quasi malaticcia – forse, si disse Franziska, l’odore di sangue gli dava fastidio.
Passarono i minuti, finché non entrò Tom nel bagno, accompagnato da un paio di uomini. Uno – la ragazza lo riconobbe – era la cosa più simile ad un medico che avessero al Distretto 6. Sapeva qualche semplice concetto di medicina ed era il marito della farmacista. Tutti lo consideravano una specie di guru, di guaritore, e, in effetti, quell’uomo di miracoli ne faceva parecchi, quando aggiustava le ossa e le ustioni di coloro che si facevano del male durante il lavoro.
In realtà, esisteva anche un medico molto più professionale, che aveva studiato nella migliore accademia di medicina di Capitol City; tuttavia, quasi nessuno al Distretto dei trasporti poteva permetterselo, se non i Vincitori e i ricchi in generale.
Con fare professionale, il medico si abbassò verso il corpo di Warwick e gli tastò il collo – nonostante fosse palese che Madison fosse morto. Dopo aver premuto leggermente il medio e l’indice della mano destra laddove avrebbe dovuto sentire il battito cardiaco del morto, il dottore si alzò e lo osservò.
«Direi che è morto da almeno due ore, due ore e mezza» concluse la sua analisi, guardando ora Franziska, ora Igor – come se ai due importasse qualcosa. «Dissanguato, a giudicare da queste ferite» aggiunse, l’indice rivolto ai polsi dell’uomo.
«Non l’avrei mai detto» commentò Igor a denti stretti, guardando il cadavere con astio. Franziska, dal canto suo, non sapeva cosa dire.
Sentiva il vuoto più assoluto, aveva l’impressione di essere una bambola – all’apparenza alla persona, ma aprendola non si sarebbe trovato nulla.
La tristezza non voleva saperne di farsi sentire, così come la rabbia. Solo vuoto, come se non avesse davanti un morto, ma una persona qualsiasi.
Più preoccupante di questa indifferenza, era anche lo strano senso di felicità che aveva fatto capolino nel suo cuore. Si sentiva libera da alcune corde invisibili che l’avevano stretta fino a quel momento e persino l’ambiente intorno a lei – seppur intriso ancora dello sgradevole tanfo di sangue – sembrava più accogliente, un po’ più caldo, come mai non era stato fino a quel momento. Negli anni addietro, ogni volta che Franziska entrava in casa, sentiva una sensazione di gelo invaderla. Poteva essere estate, primavera, ma lei percepiva brividi correrle lungo la spina dorsale, scuotendola.
Su un libro che lei custodiva gelosamente in camera sua, era scritto che quando una persona provava dei brividi improvvisi – malgrado il caldo – era perché la morte gli stava passando accanto. Quella frase all’apparenza innocua aveva scatenato in lei una serie di emozioni contrastanti. Si era immedesimata a tal punto, in quel passaggio, perché sapeva che parlava di lei. Warwick aveva perso tutto ciò che lo rendeva vivo il giorno che Grace era morta; e anche prima, quando la moglie aveva le guance arrossate e il sorriso felice in volto, l’uomo sembrava un fantasma, che si svegliava solo quando stava con la donna che amava.
«Il corpo lo lasceremo qui fino a domani pomeriggio, quando avverrà il funerale. Ho già chiamato alcuni collaboratori, mi aiuteranno a prepararlo per domani». A parlare era stato l’assessore distrettuale che si occupava delle pratiche dei funerali – il Becchino, lo chiamavano in giro. Sembrava portarsi sempre la morte appresso, con quel volto cinereo e il corpo magro come uno stuzzicadenti.
«Bene. A che ora?» domandò Franziska, le braccia conserte e lo sguardo ancora rivolto al cadavere.
«Penso verso le due e mezza. Prima è bene allestire una camera ardente per chi vuole salutarlo. E dimenticavo, devo farvi comprare una bara» gli occhi dell’uomo continuavano a guizzare da un lato all’altro della stanza, agitato, «se potete permettervela».
«Certo. Ho i soldi che straripano dalle mie tasche» borbottò Igor. «No, va bene così. Io i soldi per questo qua non li spendo e non ne ho nemmeno abbastanza».
Guardò suo fratello, Franziska, le sue spalle curve e i muscoli tesi. I capelli biondo scuro erano spettinati, gli occhi verdi carichi di rancore. Eppure, la ragazza rivide il bambino di pochi anni prima, quello che per anni era stato la sua spalla, quello che la sera che la mamma era morta aveva dormito abbracciato a lei, senza piangere – ma Franziska, alcune sere dopo, lo aveva visto con gli occhi lucidi e una gota rigata da una lacrima solitaria, silenzioso come sempre.
«Igor…» Quella di Edmure sembrava più una preghiera, che un rimprovero. Il quattordicenne non diede segno di aver sentito, ma la sua mascella si contrasse; le mani erano ficcate nelle tasche dei pantaloni logori, la pelle ancora pallida.
«Non vogliamo una bara. Va bene così» concluse Franziska, notando l’espressione attonita sul volto del Becchino. «Grazie mille». Sorrise, nel tentativo di apparire riconoscente, ma era conscia del fatto che quel sorriso paresse più una smorfia.
Il Becchino annuì, prima di fare cenno ad uno dei suoi collaboratori di coprire il cadavere con un lenzuolo bianco, perfettamente immacolato.
«Lo trasportiamo nella sua stanza per prepararlo e allestire la camera ardente. Voi, nel frattempo, potete stare tranquilli e riprendervi dallo shock». Parlò con voce atona, morta come quelle persone con cui lui stava a stretto contatto. Detto questo, i suoi seguaci – al Distretto chiamati da tutti I Discepoli del Becchino – sollevarono il corpo e lo portarono via.
Né Igor né Franziska proferirono parola. Poi, le loro iridi così identiche si incontrarono in una danza di sguardi confusi e la ragazza seppe immediatamente cosa pensava suo fratello.
Dovevano ripulire il bagno, mettere a letto Deryck e ringraziare Edmure, Carine e i ragazzi. Se Il Becchino poteva restare fuori anche dopo il coprifuoco, i Pacificatori non sarebbero stati altrettanto clementi con loro.
Scesero, dunque, nel salotto. Deryck, sdraiato sul divano, si era addormentato con il capo poggiato sulle gambe di Carine. La donna gli carezzava i capelli distrattamente, mentre lo scassato televisore che un tempo usava solo Warwick era acceso, sintonizzato sul canale di Capitol City, che, come sempre, trasmetteva i soliti programmi idioti della serata – per una volta, l’elettricità non li aveva abbandonati, facendo funzionare l’apparecchio.
«Avete finito?» Carine si girò verso di loro, parlando a voce bassa per non svegliare il bambino accoccolato accanto a lei.
Edmure annuì. «Il Becchino lo sta sistemando. Vuole preparare una camera ardente». Le ultime parole furono accompagnate da un cenno delle sue dita, che mimarono due invisibili virgolette.
Franziska fece una smorfia, cacciando indietro un ciuffo di capelli che le era sfuggito dalla coda. Chiamarla camera ardente era troppo. Nessuno sarebbe andato a dare l’ultimo saluto a Warwick – i più, forse, sarebbero stati alcuni dei suoi ipocriti compagni di classe, ma Franziska sapeva che non sarebbero comunque andati. Lei e Igor non erano particolarmente apprezzati dalla gente, così come il padre. I suoi geni si facevano sentire, nei momenti in cui dovevano socializzare con qualcuno.
Tale padre, tali figli.
Warwick Madison non aveva amici, se non qualche compagno di sbronze e – forse – di droga. Franziska non se n’era mai interessata. Per lei, suo padre era morto da anni, non solo da quella sera.
«Grazie di tutto» mormorò, stringendo il braccio ad Edmure, che, per tutta risposta, la strinse a sé con vigore, prima di fare lo stesso anche con Igor.
«Volete dormire da noi, questa sera?»
Carine scostò piano la testa di Deryck dalle sue gambe, svegliandolo. Il bambino sbatté più volte le palpebre, intontito, prima di stropicciarsi gli occhi e guardarsi intorno con aria stranita.
Fattagli un’ultima carezza sui capelli arruffati, Carine si alzò dal divano, dirigendosi verso il gruppetto.
«Tranquilla. Stiamo qui, siete già stati troppo gentili». Igor sorrise, questa volta, abbracciando Carine. «Io e Lala dobbiamo pulire il bagno, e poi la vostra casuccia non può ospitarci tutti».
La donna gli fece una carezza sulla guancia, prima di scoccargli un bacio in fronte. Dopodiché, si girò verso Franziska e la raggiunse, stringendola a sé.
«Grazie, Carine, grazie davvero» sussurrò la ragazza, cingendo la vita della signora con le braccia.
«Per qualunque cosa, chiamateci. Ci vediamo domani mattina, passerò a dare un’occhiata».
Gli ultimi saluti si conclusero in fretta, ma Franziska avrebbe voluto che non se ne andassero. Era la stessa sensazione che provava ogni volta che lei e Igor andavano a casa di Carine e Edmure: si sentivano in famiglia, come se i loro genitori fossero quei due, e non Grace e Warwick, una lapide di pietra e un fantasma.
Quando la porta si chiuse dietro di loro, la ragazza avrebbe voluto riaprirla, urlare a Carine di non andarsene, perché il giorno dopo sarebbero cominciati i veri problemi. Non avevano più nessuno, loro, e se prima si salvavano dall’andare all’istituto per il rotto della cuffia, ora non avevano più scuse. Il loro ultimo genitore era morto, erano rimasti in tre minorenni. Per quanto Franziska e Igor se la sapessero già cavare autonomamente, per la legge restavano ancora due ragazzini di quattordici anni con un particolare fiuto per i guai e due genitori sotto terra.
Sentì un brivido freddo, nel pensare ai volti di coloro che vivevano all’orfanotrofio. Magri, scavati, occhi persi nel vuoto: erano fantasmi, come suo padre. Nessuno di loro era felice, e quando camminavano per i grigi corridoi della scuola, sembravano portarsi dietro un alone nero che lasciava tristezza dovunque passassero.
Fu il volto insonnolito del suo fratellino a farla riprendere dai suoi pensieri.
Deryck si era alzato dal divano e camminava verso di lei, stropicciandosi gli occhi stanchi.
«Hai sonno, nanerottolo?» domandò, con falsa allegria nella voce. Il piccolo annuì e portò una mano all’altezza dello stomaco, massaggiandoselo.
«Sonno e fame, anche» rispose, sbadigliando sonoramente.
Si ricordò solo in quel momento, Franziska, che né lei né i suoi fratelli avevano mangiato, quella sera, presi com’erano da tutti quegli eventi. La visione del sangue le aveva quasi fatto passare la fame, ma il suo stomaco – grazie a Deryck che glielo ricordò – mandò un sonoro brontolio.
«Sì, anche io ho fame. Tu, Dodo?»
Sentire il suo soprannome parve risvegliare Igor, che fino a quel momento era stato fermo, con lo sguardo fisso sul pavimento. Franziska sapeva che anche lui era preoccupato per la storia dell’orfanotrofio, ma preferì non ricordarglielo. Ne avrebbero parlato dopo, quando avrebbero pulito il bagno da tutto il sangue di Warwick, e avrebbero cercato di cancellare anche quel nome ancora segnato sul muro.
Ma Franziska sapeva che sarebbe stato inutile. Quelle lettere, ormai, erano iscritte anche nelle loro menti e nei loro cuori, e cancellarlo da lì era impossibile.
 
 
*
 
 
La mattina successiva, Aaron si svegliò con il labbro che pulsava e gli occhi che non volevano saperne di aprirsi del tutto. Il suo primo pensiero era rivolto al lavoro, che, quel pomeriggio, lo attendeva.
Al solo pensarci, il ragazzo desiderò rimettere la testa sul cuscino e chiudere gli occhi, cadendo di nuovo tra le braccia del buon Morfeo, ma la voce di Martyn – insolitamente allegro – lo costrinse ad alzarsi.
«Sveglia, giovanotto! Oggi ti attende una grande giornata!» esultò l’uomo, spalancando la porta della camera dove Aaron, Jarod e Keegan dormivano insieme.
Il più grande dei tre – da sempre quello meno pigro e più dedito al lavoro – era già in piedi, e, in mutande, cercava un paio di pantaloni nel suo cassetto. Al contrario suo, Jarod e Aaron sembravano due scappati di casa, con i capelli sparati in aria, gli occhi semichiusi e la bocca aperta per uno sbadiglio.
«Posso dormire ancora cinque minuti?» azzardò il maggiore dei due con voce distorta. Aaron si accodò alla richiesta, alzando una mano mentre l’ennesimo sbadiglio gli rendeva impossibile parlare.
«Neanche per sogno! Jarod, oggi è il primo giorno di lavoro nella nuova officina. Aaron, se arrivi in ritardo a scuola ordinerò al tuo insegnante di strapparti quel coso che hai sul labbro. Forza, in piedi!»
Detto questo, Martyn richiuse la porta dietro di sé.
Con immane fatica, Aaron scalciò via le coperte e subito circondò il corpo magro con le braccia, in un vano tentativo di riscaldarsi.
L’autunno più freddo degli ultimi anni, si ricordò, mentre poggiava i piedi sul pavimento congelato e si dava una spinta con le mani premute sul materasso per alzarsi.
Prese le prime cose che gli capitavano sotto mano, vestendosi alla buona e passandosi una mano tra i capelli castani per dar loro una forma che fosse decente. Al contrario di Keegan – che sembrava uno di quei modelli che ogni tanto il canale di Capitol City mostrava in televisione – Aaron si sentiva una tartaruga rachitica, lenta e magra, mentre si dirigeva verso la cucina. Ad ogni passo, le sue ginocchia sembravano affondare e diventare sempre più molli, come se stesse camminando nelle sabbie mobili.
Scese le scale aggrappandosi al corrimano, mentre un odore invitante pareva svegliarlo sempre di più – senza contare che gli indicava la via per raggiungere la cucina, poiché il quattordicenne aveva ancora gli occhi socchiusi.
Non era uno spazio molto grande – come tutta la casa del resto – ma il luogo dove Katy si divertiva a cucinare era accogliente e caloroso, specialmente nelle fredde giornate d’inverno. Malgrado il cibo non fosse mai il migliore in circolazione, ad Aaron piacevano i manicaretti che la zia propinava ai suoi uomini – come li chiamava sempre. Riusciva a trasformare gli scarafaggi in farfalle, le cose più insulse in autentica meraviglia, ed era la caratteristica di Katy che suo nipote apprezzava di più.
«’Giorno, zia» la salutò, entrando in cucina. Il lungo tavolo in legno era già apparecchiato e quel giorno la donna sembrava averci dato dentro: frittelle, caffè e caffelatte erano disposti sulla tovaglia a quadri, accompagnati da del pane caldo – senza dubbio proveniente dalla panetteria - e della marmellata alla fragole – la preferita di Breton, che, seduto di fronte a Patryck, mangiava una fetta di pane tostato con gusto.
Aaron sorrise, scompigliando i capelli del bambino. «Ciao, marmocchio» lo salutò, prendendo la sedia e sedendosi accanto a lui.
«Ciao» replicò il piccolo, facendo uno dei suoi rari sorrisi, che il fratello non poté non ricambiare. Vedere sorridere Brenton era così raro che gli risultava difficile non ricambiare, quando lui lo faceva. Da quando i loro genitori erano morti, il più piccolo dei Kidman sembrava quasi trasfigurato.
«Hai dormito bene?» Aaron afferrò una frittella, mettendosela nel piatto, mentre Brenton rispondeva alla sua domanda con un cenno della testa.
«Oggi grande colazione!» Zia Katy tolse due fette di pane tostato dalla macchinetta che avevano trovato una volta in discarica e che Martyn era riuscito a far funzionare, aggiustando qualche pezzo distrutto.
«Infatti, mamma, vedo che hai fatto una bella spesa». Keegan diede un bacio sulla guancia della madre, sedendosi al suo posto.
«Già» fu il laconico commento di Jarod, che pareva ancora nel mondo dei sogni. Passando, diede una bottarella sulla testa a Patryck – in segno di saluto – e rubò il pane tostato dalle mani del fratello maggiore, prima di sedersi accanto a lui e ingollare il tutto senza nemmeno sentirne il sapore.
Aaron ridacchiò, il volto coperto dalla tazza di caffelatte che stringeva tra le mani. Mentre i suoi cugini battibeccavano e Martyn tentava di tenerli buoni, pensò che quella era una di quelle mattine in cui si sentiva davvero a casa, in cui il pensiero di essere un peso per quelle persone non lo sfiorava nemmeno un po’. Si sentiva come sette anni prima, quando suo padre e sua madre erano ancora vivi, Brenton era un pargolo di appena tre anni dalla risata facile e lui un bambino che amava sedersi sulle gambe del padre per ascoltare ore e ore discorsi sugli aerei e i treni, oppure su quelle della madre, per farsi coccolare.
All’improvviso, il volto di zia Katy gli parve quello di sua sorella, morta sette anni prima e Aaron rischiò di strozzarsi con il liquido bollente. L’aveva rivista non da morta, ma da viva, con i capelli legati, come quando lavorava e con una macchiolina di grasso a sporcarle la guancia, mentre le mani coperte d’olio trafficavano con un pezzo di ricambio.
Tossicchiò più volte, tanto che suo fratello gli tirò qualche pacca sulla schiena per farlo rinsavire. Le sue manine da bambino di dieci anni non riuscirono a molto, ma dopo qualche minuto la tosse di Aaron si placò, aiutata anche da un sorso d’acqua preso da un bicchiere che Katy gli aveva prontamente sistemato sotto il naso.
Alzò gli occhi lucidi dalle lacrime verso la zia, ringraziandola con un roco «grazie».
«Vuoi morire per saltare la scuola e il primo giorno di lavoro, eh?» lo apostrofò lo zio, sorridendo sornione dietro gli occhiali da vista.
Aaron fece una risata, tornando a mangiare la sua frittella. «Almeno non vedo Faccia Di Rana» replicò con la bocca piena, rischiando di strozzarsi una seconda volta nel pensare al volto della professoressa di matematica.
«Non l’hanno ancora vivisezionata?» Jarod punzecchiò la sua frittella con la forchetta, prima di staccarne un pezzo e gettarselo in bocca. Lo deglutì con aria soddisfatta, e i suoi occhi tornarono a rivolgersi al cugino.
«Ogni tanto mi verrebbe voglia».
«Aaron, non si dicono certe cose!» Zia Katy si sedette accanto a lui, reggendo un piatto sul quale erano posati alcuni biscotti con dei fiorellini glassati. «E, Jarod, non devi insegnargli a insultare i professori. Ormai hai diciannove anni, fai il bravo».
«Ne ho diciotto» puntualizzò il giovane, sputacchiando la frittella che aveva in bocca. L’aveva piegata e messa tutta tra le fauci, quasi fosse stata un pezzetto di carne tagliata.
«E non sai mangiare». Keegan si intromise nella conversazione, con la tazza di caffè fumante stretta tra le mani pallide.
Uno sguardo di Martyn bastò a far zitto Jarod, che mugugnò qualcosa, ma tornò a mangiare in silenzio – questa volta, tra le sue fauci che spesso ad Aaron ricordavano un animale feroce, finì un biscotto. Intero.
«Sai, Martyn, quando la fornaia ha visto che compravo tutta questa roba ci è rimasta di sasso» disse zia Katy, dopo qualche minuto di silenziosa colazione. «Le ho detto che ogni tanto è bene concedersi della roba così buona, specialmente quando bisogna festeggiare, come oggi».
L’uomo sorrise, bevendo un sorso di caffè. «Sicuramente la storia che ho un nuovo lavoro avrà già fatto il giro della piazza».
«Del Distretto» lo corresse Jarod, che finalmente pareva sveglio. «Quella là è una pettegola» aggiunse, aggrottando la fronte. «Peggio di Faccia Di Rana» concluse, e la sua voce si abbassò di qualche ottava.
«A proposito di pettegolezzi». Katy deglutì e bevve un sorso dalla sua tazza di tè, prima di riprendere il discorso. «Oggi la fornaia ne aveva uno grosso».
«Ovvero? Chi si è scopato questa volta il garzone del macellaio? La figlia dell’assessore White?»
«Jarod!»
Ancora una volta, Aaron si ritrovò a ridacchiare sotto i baffi, mentre il cugino gli faceva un cenno di compiacimento, sogghignando con aria di finta cattiveria.
«No, forse è andato con la figlia di Faccia Di Rana. Le starebbe bene». A parlare, questa volta, era stato Keegan, che diede il gomito al fratello minore con aria complice.
«Basta, ragazzi». Martyn allungò un braccio per far loro cenno di stare zitti, ma era palese il suo tentativo di non ridere. Le esperienze sessuali del garzone erano famose in tutto il Distretto 6, ormai. Aveva fatto parecchio scandalo, l’anno prima, quando un marito aveva trovato la moglie avvinghiata a lui, nel letto.
«Grazie, tesoro». Katy pareva esasperata, ma ormai era abituata ai commenti – a volte cattivi – che i suoi figli riservavano alla fornaia e alla professoressa di matematica. «Purtroppo la notizia non è così divertente, simpaticoni». Indicò con la forchetta i suoi figli più grandi, spostandola da Keegan e Jarod. «Qui è scappato il morto».
Martyn strabuzzò gli occhi da dietro le lenti dalla montatura fine, fissando la moglie. «Chi?»
«Warwick Madison. Lavorava, anni fa, nell’officina dove cominciate voi oggi». La donna tagliò un pezzo di frittella e lo infilzò con la forchetta, portandoselo alla bocca.
Aaron aggrottò le sopracciglia, chiedendosi dove avesse già sentito quel nome. Di Madison dovevano essercene nella sua scuola e furono proprio le successive parole di Martyn, a ricordarglielo.
«Il marito di Grace?»
«Lui» confermò Katy, dopo aver deglutito. Appoggiò la forchetta sul piatto, grattandosi la fronte e spostandosi un ciuffo di capelli. «Grace era amica di mia sorella e Jonathan».
Al sentire nominare i suoi genitori, Aaron sentì un improvvisa morsa allo stomaco, e fu costretto a posare la tazza dalla quale stava bevendo.
Erano rari i momenti in cui Katy nominava Keira – la sua unica sorella, deceduta – e il marito. Aaron sapeva che anche sua zia soffriva ancora per la fine che avevano fatto. Glielo leggeva negli occhi ogni volta che erano vicini, in silenzio, e lei lo guardava con aria affranta, prima di sorridergli e scostargli i capelli dalla fronte. Capitava, talvolta, che il quattordicenne la trovasse a fissare la foto di Keira che teneva in salotto, quella dove erano raffigurate entrambe da piccole, i capelli legati in due codini ordinati sulla testa e la divisa scolastica addosso – quelle che ormai non si portavano neanche più, all’istituto scolastico del Distretto 6.
Era così vecchia, quella foto, ma ogni volta che Aaron la guardava rivedeva la Keira che lui aveva conosciuto, quella donna dall’aria poco femminile e materna, ma che amava raccontargli storie e insegnargli tutti i segreti del mestiere di meccanico, ridere ogni volta che lui si sporcava con il grasso e si disegnava due strisce nere sugli zigomi, fingendo di essere un guerriero. In quei momenti, Aaron sentiva così tanto la mancanza di sua madre, che l’unica soluzione era aspettare che tutto passasse. Chiudere gli occhi e dormire era inutile: sua madre e suo padre tornavano ogni notte, regolarmente, tra i suoi sogni. Facevano capolino, vivi o morti che fossero, tra gli incubi e i bei sogni, con i loro volti resi più scuri dal soffocamento che li aveva condotti alla morte, o le loro guance rosse di vita.
Il primo istinto di Aaron, dopo aver sentito nominare Jonathan e Keira, fu di guardare l’orologio, quello che portava sempre al polso. Segnava le tre di notte, da sette anni ormai. La sua vita con i suoi genitori si era fermata in quel momento.
I suoi occhi cercarono poi la figura del suo fratellino, incupito, che stava gobbo sul tavolo e fissava il pezzo di pane mezzo mangiato. Giaceva nel suo piatto, solo e rotto, proprio come lui. La solitudine non era proprio una costante, per Brenton, ma a vederlo così, in mezzo a tanta gente che rideva, si aveva quella impressione. L’unica cosa che Aaron avrebbe voluto più che riavere indietro i suoi genitori, era vederlo finalmente felice, con gli occhi che brillavano di gioia e il sorriso – quello che lui aveva perso prematuramente, all’età di tre anni.
«Bene» Martyn si alzò in piedi, le mani premute sulla superficie lignea del tavolo, «è ora di andare. Lavatevi i denti e poi uscite, oggi sarà una grande giornata!»
I ragazzi si alzarono, in un rumore di sedie spostate che avrebbe udito persino un sordo, prima di mettersi in fila indiana fuori dal bagno, per aspettare il loro turno di lavarsi i denti. Aaron si mise dietro suo fratello e gli cinse la vita con le braccia. La magrezza del bambino sarebbe sembrata impressionante per chiunque, ma quella era una costante degli uomini Kidman. Mangiare e non ingrassare era un po’ la loro qualità più grande e Brenton non faceva eccezione.
«Tutto bene?» gli mormorò il maggiore all’orecchio, stringendolo a sé. Il bambino annuì, appoggiando le mani sulle braccia di Aaron.
«Secondo te era amico di mamma e papà?»
Aaron rimase per un istante basito, dinnanzi a tale domanda. In realtà, non conosceva bene gli amici dei suoi genitori. Ricordava solo delle facce sorridenti che spesso portavano con sé delle caramelle, per regalargliele, ma nulla di più. I nomi – a parte alcuni -, i volti, li aveva cancellati dopo quel terribile giorno in cui era rimasto orfano.
«Non credo. Hanno detto che la moglie era amica di mamma e papà» rispose a voce bassa, accovacciandosi accanto a lui per non farsi udire dai cugini.
«È morto come loro, però. E aveva dei figli anche lui».
Nonostante si chiedesse come Brenton facesse a conoscere quei ragazzi, la mente di Aaron si illuminò per un istante. Si ricordò di una coda di capelli biondi e di uno sguardo truce, anfibi vecchi e vestiti da maschio. Una ragazza gli tornò in mente, una che lui vedeva sempre a scuola, ma conosceva solo per sentito dire.
«Come fai a saperlo, tu?»
«Sono quei due tipi che ogni tanto si picchiano con altri a scuola. Una volta, la ragazza le ha date al fratello di un mio compagno. Hanno anche un fratellino».
Detto questo, Brenton entrò nel bagno, poiché Patryck aveva finito di pulirsi i denti.
Altri orfani come lui. Al Distretto 6, degli altri ragazzi avevano perso un altro genitore e chissà quale sarebbe stata la loro fine.
Strofinandosi i denti e stando ben attento a non farsi male al piercing, Aaron pensò alla ragazza, che ricordava a malapena. Aveva gli occhi verdi. Questo lo sapeva bene e, in un attimo forse un po’ folle, pensò che non avrebbe voluto che fossero tristi o più arrabbiati di quanto già non fossero normalmente.
Scosse la testa, levandosi quel pensiero dal cervello. Non la conosceva nemmeno, così come non conosceva i suoi fratelli.
Questa grande giornata sta iniziando in modo un po’ strano, pensò, lanciando un’ultima occhiata alla sua immagine riflessa dallo specchio.

 


Alaska's corner 

Mais, bonjour!
Sì, dovrei studiare francese, chebbbbbello. E a tal proposito, leggete la citazione all'inizio. In che lingua è? Mais en français, naturellement! 
A parte questa intro molto stupida, vi consiglio davvero di ascoltare la canzone da cui è tratta la citazione all'inizio, perché io l'adoro. Tra l'altro, ironia del destino, stavo scrivendo la parte dal PoV di Igor - mesi fa, tipo - e a un certo punto mi è partita, quindi ho pensato di inserirla al posto di una citazione ad cazzum sui padri assenti.
Comunque, in questo capitolo vediamo un po' di cose nuove, malgrado sia più corto del precedente.
Innanzitutto, alla prima parte tengo molto perché Igor è un personaggio a cui voglio tanto bene, sarà che ho un debole per i ragazzi come lui. Io stessa molto spesso non riesco a capirlo, so solo che è molto sarcastico, acido e silenzioso. xD E qui vediamo apparire anche Carine e Edmure, i migliori amici di Grace, la mamma dei Madison. Sì, il nome Edmure l'ho preso in prestito a George-sonounfottutoassassino-hodueerrenelnome-midevosbrigareascrivere Martin. Mi piace, ha un bel suono Edmure X3
Ah, per quanto riguarda la questione funerali al Distretto 6, me la sono inventata di sana pianta. xD Insomma, non credo che badino molto a certe cose, e credo anche che le bare possano permettersele in pochi. Tra l'altro, il 6 lo immagino come un Distretto piuttosto povero e oppresso dai Pacificatori - vedasi la scena in Catching Fire, quando vengono portati via i due ragazzi. Oltretutto, credo che qui gli Hunger Games li vincano moooolto raramente, perché sono un po' come il Distretto 12 e sanno maneggiare zero armi.
Chiusa questa parentesi, chiedo scusa se ci sono inesattezze mediche nella parte in cui ripescano (?) il corpo. Mi sono un po' informata e so che la decomposizione inizia pochi minuti dopo la morte, ed è accelerata in caso il morto sia in condizioni di umidità molto alta - lui era immerso nella vasca da bagno, per cui credo che il corpo abbia iniziato a presentare molto presto le tipiche macchie bluastre/violette che di solito si notano sui cadaveri. 
Come vi ho già accennato, Warwick era davvero malato, e qui ho fatto alcuni accenni al suo comportamento: in pratica, lui non voleva dei figli, odiava i bambini e amava solo la moglie. E sì, capitava che si drogasse, ma i figli se ne sbattevano come lui se ne sbatteva di lui. 
Basta, mi chiudo la bocca sennò i personaggi non si raccontano da soli. xD
Pooooi, amate la famiglia di Aaron. Io li adoro, davvero X3 Avete anche un quadro quasi completo di come sono: Brenton è molto silenzioso, Keegan è un gran lavoratore, Jarod è fondamentalmente un pirla (e amate il suo crestino alla Noah Puckerman, anche se qui non viene descritto), zia Katy è la dolcezza, zio Martyn lo amo e Patryck verrà descritto meglio nei capitoli a venire.  
Sì, qui vediamo il primo "contatto" tra i Madison e i Kidman. Tenete bene a mente questa cosa perché verrà spiegata più avanti - anche se questo dialogo apparirà poco, in quanto Aaron era davvero rncoglionito in quella scena ed è uno che dimentica in fretta le cose, quindi capiterà che non collegherà subito Grace e i tre Madison. xD Basta, sennò spoilero. No, aspettate. Ricordatevi bene anche il nome del padre di Aaron e Brent, Jonathan. Ricordatelo e basta. È very importante. Il nome della madre, Keira, l'ho scelto perché....... in quel momento avevo davanti il film di Pirati dei Caraibi, if you know what I mean. Non so scegliere nomi, sorry.
Ci vediamo al prossimo capitolo!
Alaska. ~

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Capitolo 4
*** O3 » Make him pay for it « ***






CAPITOLO III
 
Make him pay for it
 
« Come questa pietra
È il mio pianto
Che non si vede. »
-Giuseppe Ungaretti; da “Sono una creatura”
 
 
Ragazzini con zaini, vestiti più o meno bene, invadevano le vie del Distretto 6, diretti verso l’unico istituto scolastico lì presente. Alcuni camminavano velocemente, altri meno, ma tutti erano stretti nei loro cappotti – chi poteva permetterselo, almeno.
Passando, Igor li degnò a malapena di qualche sguardo, nonostante sentisse i loro occhi puntati su di lui. Tirò il cappuccio a coprirsi il volto, stringendosi nella larga felpa che indossava quella mattina.
Rispetto al giorno prima, non tirava un refolo di vento, ma l’aria era rimasta comunque fredda e nemmeno i timidi raggi del sole mattutino riuscivano a riscaldare l’ambiente. Malgrado il tempo apparentemente bello, all’orizzonte si scorgevano già nubi plumbee, che puntavano, inesorabili, verso il Distretto 6, cariche di pioggia e – forse – anche di neve.
Igor sbuffò e una nuvoletta di fiato si condensò dinnanzi al suo volto, prima di dissolversi nel nulla, così come era apparsa.
Odiava la neve. Non aveva mai sopportato il mondo visto sotto quella coltre bianca e fredda, che gli impossibilitava ogni movimento, ogni via di fuga quando andava a rubare qualche cibaria al mercato.
Un tempo l’aveva amata. L’Igor bambino adorava attendere la venuta della stagione fredda, contava i giorni che lo separavano da quel momento con un misto di eccitazione e rabbia, poiché sembrava non giungere mai il fatidico momento in cui i tetti sarebbero stati imbiancati da un soffice strato di neve fresca.
Quando poi i bianchi fiocchi iniziavano a cadere dal cielo, lenti, come una danza, Igor restava appiccicato al vetro, osservando ogni minimo movimento di quei cosini piccoli e gelati, che, malgrado la loro grandezza, riuscivano a creare delle vere meraviglie. Nulla lo rendeva più felice della neve, passeggiare e sentire il tipico rumore prodotto dalle suole dei suoi scarponi al contatto con quel manto immacolato.
Nei suoi ricordi c’erano anche dei pupazzi di neve, alti quasi più di lui. Una carota come naso, dei sassolini per creare la bocca e dei ramoscelli trovati tra la legna da ardere lo completavano fornendogli due esili braccia. E nonostante potesse essere brutto, malformato e freddo, a Igor piaceva perché ogni suo pupazzo di neve sorrideva sempre.
Ora sto diventando anche io un pupazzo. Ma non ho più un sorriso.
Scosse la testa per scacciare quei pensieri, mentre camminava verso la stazione, con il vento gelido che gli schiaffeggiava la faccia e faceva ardere i suoi polmoni.
Il luogo in cui doveva recarsi per lavoro era abbastanza distante dalla sua casa, poiché la stazione ferroviaria principale – quella dove arrivavano i treni merci – si trovava esattamente dalla parte opposta del Distretto, nella periferia sud.
Qualche persona gli lanciava degli sguardi incuriositi, ma lui si limitava a tenere gli occhi fissi dinnanzi a sé o, al massimo, sulle strade che stava percorrendo. Non brillava certo per bellezza dei camminamenti, il Distretto 6, e l’asfalto che ricopriva le strade – risalente all’epoca antecedente ai Giorni Bui – era ormai rovinato. Buche sorgevano qua e là; in molti punti, addirittura, dell’asfalto non vi era quasi traccia. Vi erano anche strade che potevano essere degne di questo nome, ma erano poche e destinate perlopiù al passaggio delle auto di Capitol City durante il Tour della Vittoria, dopo la Mietitura o quando qualche ricco si recava lì.
Che schifo di posto.
Chiedere ad un abitante di quel luogo se lo amava sarebbe stato inutile. Igor si chiedeva spesso come fosse possibile desiderare di vivere in un posto così grigio e cupo, dove chi andava agli Hunger Games non sapeva nemmeno tenere in mano un coltello e c’era un traffico di droga che avrebbe fatto impallidire chiunque.
Detestava quelle strade, lui, detestava tutto del Distretto 6. Valeva la pena abitarci solo per Franziska, Deryck e tutte quelle poche persone a cui voleva bene.
Giunse alla stazione che il treno proveniente dal Distretto 8 stava arrivando, carico di casse piene di bottoni e altri oggetti per la merciaia.
Il mezzo si fermò con uno sbuffo nella grigia stazione vuota, se non per il quattordicenne in piedi, coperto da strati di vestiti pur di non stare al freddo. Oltre al cappuccio – tolto non appena arrivò in stazione – i suoi capelli biondo scuro erano coperti da una cuffia di lana, che pizzicava la pelle, ma non gli faceva sentire freddo alle orecchie.
Scaricò le casse una ad una, appoggiandole sulla banchina della stazione. Mentre sollevava e i muscoli gli dolevano per lo sforzo, pensava a sua sorella e a suo fratello, ai loro volti. Li aveva lasciati a casa, che dormivano insieme nella camera di Franziska. Quella notte, tutti e tre avevano giaciuto sullo stesso materasso, sotto le stesse coperte, scaldandosi a vicenda come facevano sempre nelle notti invernali.
Sollevare e appoggiare: ben presto divenne un rito automatico, cadenzato dal suo respiro. Ogni cassa poggiata a terra aveva ben stampata sopra gli occhi dei suoi fratelli, così verdi; gli occhi dei tre fratelli Madison.
Era per loro che lo faceva: spezzarsi la schiena. Se per proteggerli doveva farsi dolere il dorso e le braccia, allora ne valeva la pena.
 
 
*
 
Faccia Di Rana parlava, e ben presto ogni singola parola uscita da quella bocca larga come un pozzo divenne un mormorio indistinto, che entrava nelle orecchie di Aaron e si depositava in qualche punto remoto del suo cervello.
Combatteva contro il sonno, sforzandosi di tenere le palpebre alzate; una mano chiusa a pugno era saldamente premuta contro la guancia, l’altra giocherellava con una matita, rigirandosela tra le dita.
Non solo le lezioni della donna erano noiose, ma Aaron si era ritrovato ad essere l’unico maschio tra due femmine – come se non bastasse, le due più pettegole della classe, due ragazzine ricche e viziate che non facevano che chiacchierare della loro vita sentimentale.
Mai come in quel momento il quattordicenne si pentì di tutte le volte che Faccia Di Rana lo aveva beccato mentre parlava con Jimmy. Era solo a causa di quel piccolo problema che lo avevano spostato tra le due ragazzine.
«Così magari starai zitto, Kidman» aveva concluso la donna, indicandogli il banco rovinato con un dito lungo e dall’unghia chilometrica,  che mal si adattava a quel corpo piccolo e rachitico – ancora più sottile di quello di Aaron. La cosa più buffa di Faccia Di Rana era la lingua, che saettava sempre tra le labbra quando parlava e – a tratti – sembrava biforcuta.
«Hai sentito cos’è successo dai Madison?» A parlare era stata Vivy, la ragazza alla sua destra. Trine, la ragazza a sinistra, scosse la testa.
«No, ma oggi nessuno dei tre si è presentato a scuola».
Vivy fece un sorrisetto malizioso, portando una ciocca di capelli ricci e corvini dietro l’orecchio destro. «È morto il loro vecchio» annunciò a voce bassa, portando una mano accanto alla bocca. «Kidman, levati» sbottò poi, spingendo un mezzo addormentato Aaron da parte, per poter parlare in modo più agevole con la sua amica.
La bocca di Trine, nel frattempo, si era aperta a formare una grande O. «Non mi stupisce. Gira voce che si drogasse. Papà mi ha detto di aver visto i suoi figli rubare qualcosa, una volta».
«E quello che rubano non è nemmeno bello! Dico, hai visto come si veste la figlia? Sembra un maschio». Vivy si lisciò la gonna costosa, quasi volesse fare un paragone tra i suoi abiti comprati dalla migliore sarta del Distretto 6 e quelli che indossava Franziska. Aaron, dal canto suo, si ritrovò a sbuffare per l’ennesima volta, desiderando far stare zitte tutte e due.
«Perché sbuffi, Aaron? Non credi anche tu che quei tre siano degli straccioni?» Trine si passò una mano tra i capelli lisci, spostandoli dal volto, e continuò a fissare intensamente il compagno di banco. Aaron distolse lo sguardo, continuando uno schizzo che aveva iniziato sul suo foglio. Era da una settimana a quella parte che Trine lo fissava come se si fosse accorta per la prima volta della sua esistenza.
Anche io sono uno straccione. Ma al posto di queste parole, il giovane non disse niente e si limitò a fare spallucce.
«Il gemello è figo». Vivy ridacchiò, portandosi una mano davanti alla bocca. «Stamattina l’ho intravisto che se ne andava a zonzo per il Distretto. Rispetto alla sorella, è davvero, davvero figo».
«Lei mi sembra un maschio. Non pensi anche tu, Aaron? Li conosci?» Trine continuava a farlo intromettere nel discorso, ma lui aveva zero voglia di parlare. Faccia Di Rana ce l’aveva già abbastanza con lui senza che si mettesse a chiacchierare nel bel mezzo della lezione.
«Sì» rispose laconico, tracciando un’altra linea poco marcata sul foglio a quadretti del quaderno.
«E lei come la trovi? Carina, o preferisci un altro tipo di ragazza?» Trine si fece più vicina, squadrandolo con i suoi occhi verdi da gatta. Aaron si ritrovò ad arrossire – come sempre, quando una ragazza gli si faceva troppo vicina.
Trine era bella – a prima vista, lui l’avrebbe definita così. Ma era una bellezza troppo comune, una brutta bellezza. Quell’ossimoro gli rimbalzava in mente ogni volta che la sua compagna di banco gli si faceva troppo vicina, o lo fissava come a volergli saltare addosso.
Trine non aveva quel tipo di bellezza che lo interessava. Era troppo simile a tutte le altre ragazze come lei, una pecora in un gregge, senza nulla che la distinguesse dalle altre.
«Non è male». Laconico, come prima. Trine inarcò un sopracciglio curato, guardandolo con astio.
«C’è di meglio».
«Sicuramente è meglio di voi due e tutte le altre che la prendono per il culo messe insieme». Quelle parole bastarono a zittire le due pettegole, che tornarono a seguire la lezione in religioso silenzio. Non gli sfuggì l’occhiata arrabbiata – o peggio, furiosa – che gli riservò Trine, prima di prendere in mano la penna e scrivere un calcolo che la professoressa aveva appena segnato alla lavagna.
Aaron mordicchiò l’estremità della matita, con una strana esaltazione addosso. Jimmy lo avrebbe di sicuro insultato per essersi fatto scappare una pollastrella – come il figlio del sindaco la definiva sempre. Ma al quattordicenne non importava: lui non voleva una ragazza come Trine. Era una mela: all’esterno perfetta, ma marcia dentro, senza una sola qualità che la rendesse unica.
«Hai intenzione di ascoltarmi, oppure stai rincorrendo le farfalle dei tuoi pensieri?»
La voce di Faccia Di Rana lo svegliò dall’intorpidimento in cui era caduto. Senza neanche rendersene conto, aveva abbassato le palpebre e la testa gli si era fatta più pesante.
«Io…» cominciò, spalancando gli occhi. «Scusi».
«Le tue scuse non mi bastano, Kidman». La donna piantò i suoi occhi porcini sul ragazzo. Il reticolo di rughe che aveva in faccia sembrava una mappa. «Per domani pretendo che tu faccia almeno venti esercizi extra riguardanti questo argomento» concluse, e ancora una volta la sua lingua che saettò tra le labbra parve biforcuta.
Con estrema lentezza e con una rabbia interiore che doveva sopprimere, Aaron prese il quadernetto dove scriveva i compiti, appuntandosi l’ultimo ordine della professoressa.
Ciò lo avrebbe fatto stare sveglio almeno fino a mezzanotte, contando che durante il pomeriggio sarebbe andato al lavoro con zio Martyn.
Sbuffò. Il mondo si era forse messo contro di lui, in quel periodo? Era come se qualcuno volesse fargliela pagare per tutte le cavolate fatte, per i muri pasticciati con le sue scritte e le canzoni che lui e Jimmy si erano inventati contro la Capitale.
Quella grande giornata procedeva sempre in maniera più disastrosa.
 
 
*
 
Non fu un funerale con molti fronzoli.
Igor, Franziska e Deryck – schierati l’uno accanto all’altro – osservarono con totale passività il corpo del padre che veniva calato nella nuda terra.
Di solito, a Panem non si festeggiavano i morti in maniera eclatante o sfarzosa – nel Distretto 6, almeno. Neanche il funerale di Grace di sei anni prima aveva presentato tante cerimonie.
Una differenza non troppo sottile tra quelli dei due coniugi c’era: le lacrime. Se durante il funerale della donna i suoi figli erano scoppiati a piangere, stretti l’uno all’altro e avevano sofferto, durante quello di Warwick il silenzio regnava sovrano. Non una lacrime sfuggì dagli occhi verdi dei fratelli Madison. Stoici, guardarono gli aiutanti del Becchino che mettevano il corpo dell’uomo nella gelida terra, senza battere ciglio.
Avevano insistito affinché il riposo eterno di Warwick si svolgesse accanto alla donna che lui tanto aveva amato nella sua vita, ma Franziska e Igor si erano opposti a tale scelta. Quella lapide, che ora gli uomini in nero stavano inserendo nel terreno, sarebbe rimasta sempre vuota. Sotto la scritta Warwick Madison non sarebbero mai apparsi dei fiori, disegni, o qualunque altra cosa servisse per rendergli omaggio.
Era quello il motivo per cui i due gemelli avevano voluto lasciarlo solo: il rischio di dover piangere sulla sua tomba quando non avrebbero voluto. Solo la pioggia avrebbe bagnato le sue ossa, solo lei avrebbe pianto per lui.
Quando gli aiutanti del Becchino terminarono il loro lavoro, di Warwick Madison non era rimasto più nulla, se non una semplice pietra recante il suo nome, la data di nascita e quella di morte. Un tumulo di terra fresca appena smossa ricordava che lì vi era stato appena posato un corpo privo di vita.
Warwick era sparito dal mondo, dalla vita dei suoi tre figli.
Franziska riuscì finalmente a distogliere lo sguardo da ciò che aveva davanti e voltò il capo a destra e a sinistra. I suoi occhi saettavano da una parte all’altra del camposanto, curiosi di osservare chi ivi si fosse recato per rendere onore a suo padre.
Esclusi Edmure, Carine e i figli, non vi era anima viva. Le labbra della ragazza si incurvarono in una smorfia, stupendosi del black humor della sua mente in un momento come quello. Era ovvio che non c’era anima viva. Era in un cimitero.
Ricordava che al funerale della mamma erano giunte molte persone. Oltre ai soliti Carine e Edmure, erano presenti anche alcuni amici e amiche di cui lei ricordava a malapena i volti – alcuni dei quali avevano fatto la stessa fine di Grace e si trovavano sotto alcune di quelle lapidi che si stendevano per metri e metri.
Sospirò, portando la sciarpa a coprirsi la bocca. Il freddo continuava a persistere, nonostante l’aria fosse del tutto immobile.
Le sue iridi saettarono per un istante verso sinistra, dove, in lontananza, si scorgeva un arco di metallo. Segnalava la parte del cimitero in cui riposavano coloro che avevano perso la vita durante gli Hunger Games. Per il Distretto 6, il numero dei morti era parecchio alto: Franziska non ricordava altri Vincitori che fossero i due morfaminomani, gli unici ancora vivi. Ve ne erano stati altri anni addietro, durante le prime edizioni – forse uno o due – ma chiunque fossero, erano morti. Overdose.
«Voi due andate pure a casa con Carine e gli altri. Vi raggiungo subito» mormorò, alzandosi sulle punte per parlare all’orecchio del fratello gemello. Igor annuì, lanciandole uno sguardo interrogativo, ma non fece domande.
Tirando su la zip della sua felpa pesante, Franziska iniziò a camminare in direzione delle tombe di coloro che erano deceduti agli Hunger Games. Mentre passava tra file e file di lapidi, i suoi occhi si posarono sulle varie pietre tombali, leggendo i nomi e chiedendosi chi mai fossero tutti loro. Il numero di morti là era impressionante, ma considerato quanti abitanti del Distretto 6 decedessero ogni anno, non c’era per stupirsi. Tra il giro di droga che vi era, gli incendi sul lavoro e quant’altro, il tasso di mortalità era alle stelle. Per non parlare, poi, dei bambini che morivano di stenti, o di coloro che gelavano fino alle ossa nei vicoli bui che fungevano loro da casa e quelli che venivano uccisi dai Pacificatori.
Camminò velocemente, con il volto pizzicato dall’aria fredda. Le mani erano nelle tasche larghe della felpa, in un tentativo alquanto disperato di scaldarle. Malgrado la temperatura fosse salita di poco, sentiva ancora le dita intorpidite e fredde come il ghiaccio.
Oltrepassò l’arco che consentiva l’accesso al camposanto degli Hunger Games, guardandosi intorno con circospezione. Non vi era nessuno in giro, ma qua e là il grigio paesaggio era reso più colorato dai fiori che alcuni famigliari avevano posato sopra i corpi dei loro cari che non c’erano più.
Era andata già altre volte in quel luogo, Franziska, ma ogni volta non poteva trattenersi dal rabbrividire. Occhi invisibili parevano scrutarla, occhi giovani e pieni di una vita che mai più avrebbero rivisto.
Cercò di non voltarsi mai, mentre si dirigeva verso l’unica tomba che tanto le interessava in quella parte di cimitero. Non molto distante dall’arco d’ingresso, si trovavano le due lapidi di coloro che avevano perso la vita durante la cinquantesima edizione degli Hunger Games, avvenuta solo due anni prima.
Due anni. Quel pensiero era incredibile, e per un attimo, Franziska dovette fermarsi a pensare, prima di voltare finalmente il capo in direzione della lapide che tanto aveva cercato.
Erano già passati due anni da quando era morta.
Con passo malfermo, si diresse verso la pietra recante la scritta Nikole Anderson. Sotto la data di morte e nascita era riportata un’altra frase: morta durante i cinquantesimi Hunger Games.
Si inginocchiò sull’erba, con la mano premuta sulla ruvida superficie della lapide. Percorse con dita tremanti – non solo per il freddo – l’incisione riportante il nome di colei che fino a due anni prima era stata la sua migliore amica – l’unica amica femmina che mai Franziska avesse avuto.
Due anni.
Non avrebbe mai smesso di stupirsi dinnanzi all’inesorabile e troppo veloce scorrere del tempo. Solo due anni prima, lei aveva una migliore amica con cui giocare e parlare e ora lei giaceva sotto terra, e forse, del suo corpo non era rimasto più nulla, se non qualche misero ossicino.
 
«Nel cinquantesimo anno, ogni Distretto dovrà mandare il doppio dei tributi previsti».
La faccia del presidente Snow, alla televisione, sembrava divertita mentre dalla sua bocca uscivano quelle parole tanto semplici, quanto terribili; una stilettata al cuore in piena regola.
 
Ricordava di aver avuto più paura del solito, Franziska. Era la sua prima Mietitura, il primo anno che il suo nome compariva nella boccia con i nomi delle ragazze – già per tre volte – e non le sembrava una grande maniera per cominciare la sua avventura come papabile tributo del Distretto 6.
Al posto suo, però, era stata estratta Nikole.
Nikole, con i suoi capelli corvini sempre pettinati come un maschio e gli occhi color ghiaccio che guizzavano curiosi da una parte all’altra del luogo in cui si trovava, come a volerlo fotografare con un solo sguardo; Nikole, che metteva gli abiti smessi del suo fratello maggiore e lo aiutava a tirare avanti; Nikole e la macchina fotografica che aveva trovato alla discarica, quella con cui si divertiva a scattare foto che poi finivano nella sua camera, nel suo salotto, riempivano tutte le pareti della sua modesta abitazione.
Nikole, che era stata la sua migliore amica.
Franziska chiuse gli occhi, sopraffatta da quell’ondata di ricordi, treno merci che arrivò ad una velocità impressionante nella sua mente, travolgendo i suoi occhi, il cuore, il cervello, l’anima.
Le mancava da morire e ogni volta che la sua mente si soffermava troppo sul ricordo di quel maschiaccio che abitava accanto a lei, la quattordicenne doveva assolutamente trovare qualcosa da fare, prima che il treno di ricordi la investisse.
Morta sua madre, Nikole, suo padre. Sarebbero forse morti anche Igor e Deryck, per essere stati troppo con lei?
Se di suo padre non le importava, Franziska non poteva però fare a meno di pensare che ogni volta che aveva a che fare con qualcuno a cui volesse bene, questi morisse. Non passava giorno senza che guardasse Igor e pensasse a quanto avrebbe voluto proteggerlo da tutto e tutti, dai suoi lavori pericolosi e dalle Mietiture. Voleva diventare uno scudo per proteggere anche Deryck, per non fargli succedere nulla di brutto perché a soli sei anni era stato costretto a vivere troppe brutte cose.
«Mi manchi» sussurrò alla lapide, appoggiando la fronte contro la fredda pietra. Rimase ferma alcuni istanti, in quella posizione stramba per chiunque, prima di staccarsi dall’unica cosa che segnalava che, un tempo, la sua migliore amica era stata una persona. Di lei, ormai, restava solo un’incisione.
«Mio padre ieri è morto» annunciò, quasi Nikole fosse davvero lì con lei. Poi, dal nulla, un mezzo sorriso fece capolino sul suo volto arrossato dal freddo. «Fagliene passare di tutti i colori, quando lo vedrai nell’Aldilà».
 
 
*
 
«L’istituto ci attende». La voce di Igor era carica di amarezza, gli occhi fissi sul televisore vecchio e scassato nel salotto di Carine e Edmure.
Franziska sospirò, appoggiandosi allo schienale del piccolo divano e reclinando la testa all’indietro. Sulle sue ginocchia, Deryck stava seduto con aria triste quasi come il fratello maggiore.
«Dobbiamo proprio?» protestò, voltandosi a guardare la sorella. La quattordicenne annuì con aria ancor più depressa del gemello. Non avevano altra soluzione: l’istituto o cercarsi un lavoro. Di certo la seconda era più allettante, ma gli assistenti sociali non avrebbero permesso che tre minorenni stesso da soli in casa. C’era anche l’opzione rischio: fingere che Carine e Edmure fossero i loro genitori, ma gli assistenti sociali avevano i nomi di tutti gli abitanti del Distretto e li avrebbero smascherato, così sarebbero finiti nei guai tutti e cinque.
«Cosa sono quelle facce tristi?» Carine entrò nel salotto, reggendo tra le mani un vassoio sul quale stavano in bilico quattro tazze di tè, una per ogni persona in quella casa. Edmure e i suoi figli erano andati a lavorare in officina, mentre la moglie si era offerta di ospitare – anche solo per qualche ora – i tre fratelli Madison.
«Tu non saresti triste, se dovessi andare in quella topaia di istituto?» domandò retorico Igor.
Carine si avvicinò al tavolino prospiciente al divano, abbassandosi per appoggiare il vassoio. Si alzò poi con un sospiro, dirigendosi verso una delle poltroncine e lasciandosi cadere sopra.
«Ho una fantastica notizia per voi. O almeno credo sia fantastica, forse non è il massimo». Si allungò e prese una tazza di tè con apposito piattino, togliendola dal vassoio.
«Ovvero?» Franziska aggrottò la fronte, abbandonando la posizione assunta poco prima e allacciandosi alla vita del fratellino con le braccia. Deryck appoggiò la testa alla sua spalla, mentre giocherellava con un laccio dei suoi pantaloni.
«Avete ancora una parente, non lo sapete?»
Igor, che aveva bevuto un sorso del suo tè, lo risputò nella tazza. Alzò lo sguardo dal liquido giallo scuro, puntando i suoi occhi sulla figura di Carine, intenta a girare il cucchiaino per far sciogliere lo zucchero.
«Una parente?» Franziska era eccitata, spaventata e contenta al tempo stesso, e non riusciva a spiegarsi come potesse contenere tutte quelle emozioni. Anni e anni passati solo con Warwick senza sapere di avere alcun parente, e ora scopriva che qualcuno di vivo c’era.
Forse la fortuna iniziava a girare a suo favore.
«Come, non la conoscete?» La più anziana del gruppetto inarcò un sopracciglio, la tazza fumante stretta tra le dita magre.
Franziska scosse la testa in segno di diniego, mentre sollevava Deryck per sistemarlo accanto a lei e poter prendere il tè. «Che io mi ricordi, mamma non ci ha mai detto nulla. E Warwick non parlava mai, quindi…» lasciò la frase in sospeso, impegnata a spostare una tazza dal vassoio per posarla sul tavolo. Afferrò un cucchiaino e prese un po’ di zucchero, gettandolo nella bevanda calda.
«Comunque, chi sarebbe?» chiese Igor, con la bocca piena di un biscotto ormai sbriciolato.
«Vostra nonna».
«Noi abbiamo una nonna?» Deryck si spostò sull’orlo del divano, sgranando gli occhi con fare eccitato.
Sul volto di Carine comparve l’ombra di un sorriso rassicurante. «La nonna Anne. La mamma della vostra mamma».
«Nonna Anne» ripeté Franziska, dando la tazza di tè a Deryck, che la strinse tra le manine gelate. Un sospiro di piacere fuoriuscì dalle sue labbra screpolate.
«Il nome suona gentile». Igor si pulì la bocca passandovi sopra l’avambraccio e sulla sua felpa rimase un’ombra scura. Non fece nemmeno in tempo a finire l’aggettivo che Carine proruppe in una risata che tutto sembrava fuorché ilare.
«Non la conoscete ancora. È una donna tosta. Credo che tu e lei potreste andare d’accordo, Franziska».
«Fantastico. Abbiamo bisogno di qualcuno di tosto visto il pessimo lavoro fatto da Warwick» borbottò la quattordicenne, bevendo un sorso di quella bevanda, che, scendendo lungo il suo esofago, parve scaldarle non solo il corpo, ma anche l’animo.
La prospettiva di trasferirsi da qualcuno che potesse dar loro almeno un minimo d’amore sembrava davvero allettante in quel momento, ma la cosa che più faceva piacere a Franziska era vedere l’eccitazione sul volto di Deryck, le sue iridi smeraldine risplendere di rinnovata speranza, mentre agitava le gambette magre con aria felice.
«Perché non si è mai fatta vedere a casa nostra?» Igor appoggiò la sua tazza sul tavolino, raggomitolandosi sul divano come un gatto in procinto di dormire.
«Vostra madre e lei… non erano in buoni rapporti. Hanno litigato, appena voi due eravate nati. E pensare che era così contenta di avere dei nipoti…» Lo sguardo di Carine si perse a fissare un punto imprecisato nel vuoto, mentre i gemelli si lanciavano uno sguardo interrogativo. L’idea di soggiornare da Anne sembrava essersi fatta meno allettante, ora che avevano saputo quel piccolo – ma significante – dettaglio in più sul passato di quella misteriosa donna.
«Potreste andare da lei, più tardi. Vi ci accompagno io, abita ancora nella stessa casa dove Grace viveva prima di sposarsi con vostro padre». Sputò quelle ultime due parole con veleno. Il pensiero di Warwick repelleva anche lei, come tutti in quella stanza.
«D’accordo. Vediamo com’è questa nonna tanto tosta».

 


Alaska's corner

Buonasera :3
Anche questo è un capitolo un po' corto, solo che non volevo inserirci troppi avvenimenti per non renderlo troppo "pesante" e suddividere un po' le cose in quelli a venire. Del resto, siamo solo all'inizio, la storia è lunga e voglio procedere con calma per far conoscere ai miei pochissimi lettori i personaggi pagina per pagina, anche se questo significa inserire alcuni capitoli di passaggio. 
Comunque, tornando a noi, in questo capitolo vi ho dato qualche informazione in più sui personaggi, credo (?). 
La prima parte ci tenevo ad inserirla perché Igor avrà non molti PoV nei capitoli futuri e ci tenevo a lasciargli un po' di spazio, specie per far capire com'è il suo rapporto con i fratelli. Con la descrizione del D6 sono andata un po' a cazzo, diciamo. Me lo immagino come un posto molto grigio e sporco e - stando all'HG wiki - qui c'è un gran traffico di droga; cosa anche abbastanza plausibile, vista la fine di entrambi i vincitori che conosciamo. A tal proposito, come ho già detto nello scorso capitolo e accennato in questo, immagino che al 6 non abbiano molti vincitori e in tutta la storia ce ne siano stati massimo sei o sette. Riflettendo, mi sono resa conto che, in effetti, quelli del 6 non sanno maneggiare armi. Certo, fanno pratica in officina e tutto, ma oltre a questo non c'è altro, a meno che possano lanciare un motore in testa a qualcuno. xD Quindi immagino che vincano raramente e quando sono particolarmente furbi/benvoluti dal pubblico; e con i mentori che si trovano, non credo abbiano molte possibilità, visto che sono un po' gli Haymitch della morfamina (?). 
Ok, dopo questa predica stupida... odiate la prof di Aaron, davvero. xD Come avrete notato, lui non è affatto uno studente modello, preferisce disegnare e cazzeggiare piuttosto che fare matematica o altro. E sì, ha rifiutato bruscamente la tipa. Lui è un po'... imbranato, con le donne, ma questo verrà detto anche nei capitoli a venire. xD Come avrete notato, è piuttosto timido e impacciato :3 
E qui si scopre che Franziska ha avuto una migliore amica! Si chiamava Nikole - capitan ovvio - ed è morta nell'edizione del vecchio e caro Haymitch. Sulla sua vita posso solo dirvi che era una ragazzina molto curiosa che si divertiva ad usare vecchi oggetti trovati in discarica, come la macchina fotografica e a volte anche roba come le piastre per capelli (?) xD E viveva con il fratello maggiore; era molto povera. Più avanti potrebbero esserci dei flashback con lei :3
Ah, il titolo del capitolo si riferisce alla scena della tomba; mi sono un po' ispirata alla frase che dice Johanna a Katniss prima dell'intervista in Catching Fire. 
E basta, credo (?) I Madison hanno una nonna, sì. E chi sarà questa misteriosa Anne? Com'è collegata la storia di Aaron, Jimmy e i tre fratelli? 
Lo scopriremo nelle prossime puntate.
Ah, dimenticavo che ho cambiato il prestavolto di Brenton perché quello di prima non mi convinceva. Ieri, poi, stavo guardando Noah e mi sono ricordata che nella prima parte del film che un bimbo cucciolotto che interpreta Sem aka Douglas Booth da piccolo e si assomigliano anche un po', quindi - vabbè, ve lo dico già - sicché il prestavolto di Brenton da adolescente/adulto è proprio lui, ho deciso di usarlo. Quindi, ecco qui: Brenton Kidman. (Ignorate gli occhi azzurri che dovrebbero essere color nocciola xD)
Alla prossima e ringrazio ancora le gentilissime ragazze che mi hanno lasciato una recensione ♥ Mi auguro che si aggreghi qualcun altro X3 
Alaska. ~

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Capitolo 5
*** O4 » Do you want to be our family? « ***





CAPITOLO IV
 
Do you want to be our family?

 
 
« Willy: Charlie, cosa ti fa sentire meglio quando ti senti giù?
Charlie: La mia famiglia. »
-Dal film “La fabbrica di cioccolato”

 
 
«Bussa tu».
«No! Bussa tu!».
«D’accordo. Deryck, bussa tu, sei il più piccolo e carino, sicuramente ti aprirà anche una vecchia megera». Igor afferrò il fratellino per la felpa, costringendolo a mettersi davanti alla porta di casa di Anne. Il più piccolo del gruppo si mordicchiò il labbro inferiore, indicando la superficie lignea con un dito tremolante.
«Devo proprio?» pigolò, rivolgendo a sua sorella uno sguardo supplichevole. Franziska alzò gli occhi al cielo, sospirando stanca. All’improvviso, l’eccitazione che aveva percorso l’intero gruppetto un’ora prima – quando Carine aveva annunciato loro l’esistenza di una nonna sconosciuta – era andata scemando. Lì, davanti a quella porta percorsa da crepe, il loro coraggio sembrava essere venuto meno, insieme a tutta la felicità.
Franziska portò una mano all’altezza della coda, togliendo con un solo e fluido gesto l’elastico. La cascata di grano che erano i suoi capelli le scese lungo la schiena, quasi fino a metà.
«Avanti, nanerottolo». La quattordicenne passò una mano nella sua folta chioma, cercando di assumere un aspetto quanto meno decente. «Bussa. Sei il più dolce e carino, la nonna non ti dirà nulla di male».
«Sicura?»
«Sicura, nano. Ora vai». Si sentiva una gran codarda a mandare il suo fratellino di appena sei anni in avanscoperta, ma, del resto, se lei fosse stata un’anziana donna avrebbe dato più ascolto ad un innocente bambino, piuttosto che a due quattordicenni dal muso lungo. Il fine giustifica i mezzi, aveva sentito dire in giro, e se lo ripeté anche in quel momento, mentre Deryck, visibilmente spaventato, picchiettava con le nocche screpolate dall’aria fredda contro la porta d’entrata.
I tre Madison rimasero fermi sull’uscio della casa, Deryck davanti, Igor e Franziska dietro, con due sorrisi stampati in faccia; un vano tentativo di risultare dolci. Dopo alcuni secondi – interminabili, secondo il soggettivo giudizio della ragazza – si udirono dei passi strascicati al di là della porta ed essa si aprì, rivelando la figura di una donna.
Bassa, il volto era un reticolo di rughe, ma in lei colpiva la posa fiera e dritta, solitamente non normale per una donna della sua età. I capelli raccolti in una crocchia le davano un’aria severa, così come il volto quasi inespressivo, che diede un solo segno di sorpresa non appena vide i tre nipoti sorridenti che la fissavano.
«Voi due» indicò, dopo qualche secondo di interminabile silenzio, i gemelli, «vi riconoscerei dovunque. Identici a vostra madre». I suoi occhi si posarono poi sull’esile e tremante figura di Deryck, i cui occhi erano specchio di tutta l’ansia che stava provando. «Tu, invece, assomigli a quell’idiota patentato di tuo padre. Anche se i lineamenti e gli occhi sono quelli della mia Grace, non c’è che dire. Non ti avevo mai visto, sai?»
La sua voce aveva assunto un tono più dolce – anche se di poco – ma Deryck continuava a fissarla come se potesse ucciderlo da un momento all’altro. Il bambino deglutì, prima di annuire nervosamente.
«Beh, entrate». Si fece da parte, Anne, lasciando libero il passaggio ai tre nipoti. Entrarono uno dopo l’altro, Deryck in testa, Igor a chiudere la fila.
Mentre la nonna era impegnata a chiudere la porta, i tre si lanciarono uno sguardo d’intesa. Fino a quel momento, tutto era andato bene, ma Franziska non si faceva illusioni: poteva anche rifiutare di prenderli con loro, cacciarli via a suon di colpi di scopa nel deretano, o peggio.
Si ritrovò a deglutire come Deryck poco prima, mentre la nonna si voltava di nuovo verso di loro e camminava nella loro direzione, senza distogliere lo sguardo. I suoi occhi abbracciavano tutto il gruppetto e nessuno dei Madison sfuggiva a quei due cieli tersi che li scrutavano con fare inquisitorio.
I ragazzi erano in fila, l’uno accanto all’altro, mentre la nonna girava intorno a loro e li osservava come uno spettatore di uno zoo guarda  incuriosito uno strano animale  in gabbia.
Franziska si ritrovò a rabbrividire, mentre l’anziana le passava accanto, gli occhi ben puntati sulla schiena. Sussultò, non appena Anne prese una ciocca dei suoi capelli e se la fece scorrere fra le dita.
«Come quelli di tua madre» commentò, e la quattordicenne poté giurare di aver avvertito una nota malinconica in quella voce melodiosa e dolce, che mal si adattava ad una signora con un carattere così terribile come l’avevano descritta. «Hai anche i fianchi larghi, vedo» aggiunse, dando un colpetto alla ragazzina con due dita.
«Io ho… cosa?» Franziska allargò le braccia, gli occhi rivolti ai suoi fianchi. Sapeva di non essere una silfide, ma detto da Anne quel commento sembrava una bocciatura al suo intero aspetto fisico.
«I fianchi larghi, tesoro. Ho detto che hai fianchi larghi».
«È tutta questione di costituzione» replicò la ragazza, mentre il sangue le affluiva alle guance, donando loro una sfumatura scarlatta. Non era la prima volta che qualcuno commentava a quel modo il suo aspetto fisico – l’ultima volta una ragazza si era persino beccata un colpo sul suo delicato nasino – ma i commenti della nonna sembravano averla messa a nudo, umiliata come nessuno aveva mai fatto prima.
All’improvviso, dalle labbra di Anne proruppe una risata roca, ma divertita. «Non ho detto che sei grassa. Ho detto che hai i fianchi larghi. Ce li ho anche io, e alla tua età mi facevo mille problemi» raccontò, con le dita puntate sulla parte del corpo appena descritta. «Non è un male, sai? Significa che non avrai problemi ad avere figli».
Franziska non poté trattenere un sorrisetto compiaciuto. Malgrado si fosse sentita insultata, la nonna era riuscita in meno di un minuto a calmarla e a far sì che la sua offesa non restasse ancorata all’animo della ragazza. Era contenta di avere qualcosa in comune con quella donna all’apparenza innocua, come se quel piccolo dettaglio potesse unirle un po’ di più.
«Tu sei un bel ragazzo, tesoro, ma, per l’amor del cielo: sorridi un po’ di più!» Anne diede un buffetto sulla guancia a Igor, che replicò con un’occhiata imbronciata.
«Io sorrido» replicò il quattordicenne, socchiudendo gli occhi. «Quando ce n’è bisogno» aggiunse poi, a mo’ di giustificazione per il suo broncio perenne.
«Hai la faccia da funerale e mi sembri un militare. Ma ti capisco. Con un padre come il vostro non mi aspetto tre ragazzini gioviali e allegri». Si spostò dunque accanto a Deryck, abbassandosi per guardarlo alla sua altezza.
«Io ho qualcosa che non va?» chiese il piccolo, dopo che il silenzio si era protratto più a lungo del solito, indicandosi con aria colpevole.
«A parte il fatto che assomigli a quell’ameba di tuo padre, sei perfetto». Anne si rialzò, scompigliando i capelli corvini del nipotino. Sul volto leggermente arrossato di Deryck comparve l’ombra di un sorriso soddisfatto, ma perso al tempo stesso.
Franziska si incupì, al sentir nominare la somiglianza tra Deryck e suo padre; la stessa che anni prima, per poco, stava per uccidere il suo fratellino. Scosse la testa, cercando di concentrare i suoi pensieri su qualsiasi altra cosa che non fosse quella tremenda sera, in cui suo padre aveva quasi privato della vita colui che, nascendo, gli aveva portato via sua moglie.
«Su, su. Sedetevi». Anne indicò con un dito il divano e l’unica poltrona del salotto, invitandoli ad obbedire – ma anche così, sembrava un ordine, più che un invito.
I tre sedettero su quel divano piccolo, ma comodo, guardandosi intorno. Prima, presi dalla paura che la nonna non li accettasse, non si erano nemmeno fermati ad osservare quel salottino. Per una donna che viveva in un quartiere periferico come il loro, la casa era molto accogliente. Una grossa finestra consentiva l’entrata della luce e in giro vi era un buon odore di fiori, non la tipica puzza che impestava le case vicine alle officine.
Anne sedette sulla poltrona, appoggiandosi allo schienale e chiudendo gli occhi come a voler assaporare qualcosa di particolarmente gustoso. L’espressione sul suo volto era la stessa che aveva un bambino affamato nel vedere un cibo succulento.
«Dunque? Parlatemi, ditemi qualcosa» ordinò, aprendo gli occhi.
Igor e Franziska si scambiarono una rapida occhiata e il ragazzo annuì. Si erano messi d’accordo, strada facendo, che la quattordicenne avrebbe spiegato alla nonna ogni dettaglio della storia e Igor sarebbe corso in suo aiuto in caso le cose si fossero messe male.
«Noi… avremmo una richiesta da farti». La giovane sospirò, torturandosi le mani. «Ieri sera, Warwick si è suicid-».
Una risata sguaiata di Anne interruppe la frase di Franziska, che fissò la nonna come una persona normale osserva un pazzo. Non capiva il perché di quell’improvviso scoppio di ilarità, e, per un tremendo istante, temette che volesse dir loro che lì non c’era posto per tre poveri orfanelli.
«Warwick? Non lo chiamate papà?» chiese poi, strappando un sospiro di sollievo alla nipote.
«Lo chiamiamo come si merita. Per nome» rispose con freddezza, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Anche tu lo chiami per nome, piccolino?» Anne si rivolse a Deryck, seduto con le gambe a penzoloni. Il bambino annuì, mentre i suoi occhi assumevano una sfumatura di una freddezza inusuale per uno di sei anni.
«Lui non era nostro padre». La sua vocina sottile sembrò farsi grossa – quasi da adulto – mentre pronunciava quella frase così carica di significato e così strana, uscita dalla sua bocca.
Anche il sorriso scherzoso di Anne scomparve, lasciando spazio ad un’espressione stupita. «Gli volevate bene, vedo» commentò, inarcando un sopracciglio.
«Ha quasi ucciso Deryck. Ci ha lasciati da soli nel momento del bisogno e non si è mai comportato come un padre». Igor si intromise nella conversazione, e Franziska trovò alquanto curiosa la somiglianza tra la sua espressione e quella di Anne. I due si guardavano negli occhi, come due guerrieri prima di una battaglia; una sfida silenziosa, ma tra titani.
«Ha quasi ucciso…» La donna non terminò nemmeno la frase, indicando il più piccolo dei suoi nipoti con un dito. Deryck si limitò ad annuire, mentre sua sorella gli cingeva le spalle con un braccio. Per quanto si fosse sforzata di tenere lontani i ricordi di quella tremenda sera, essi tornarono a bussare alle porte della sua mente, insistenti.
 
Notte. Buio. Silenzio.
Franziska e Igor, raggomitolati sotto le coperte, sul divano, sembravano solo due strani rigonfiamenti.
Non parlavano, giacevano solo l’uno accanto all’altra. Dormire era impossibile, parlare era escluso, se non volevano farsi scoprire da Warwick.
Nel silenzio assoluto, si udì il rumore della serratura che scattava, consentendo a quell’uomo che loro comunemente avrebbero dovuto chiamare “papà” di entrare in casa.
I passi strascicati sul pavimento avevano un che di spaventoso, accompagnati ai lamenti che fuoriuscivano dalle labbra dell’uomo, come una lenta litania di suoni indistinti.
«Dove cazzo sei?»
Igor e Franziska si guardarono negli occhi. La bambina sapeva cosa stava pensando il suo gemello: né lei, né lui afferravano il senso delle parole dell’uomo.
«Vieni fuori, piccolo stronzo».
I passi iniziarono a dirigersi verso il piano superiore e un’illuminazione colpì Franziska.
Deryck.
Suo padre voleva fare del male al suo fratellino.
Diede una spintarella a Igor, che balzò giù dal divano, liberandosi delle coperte. La bambina lo imitò e, lanciatogli un breve sguardo, gli fece cenno di correre in cucina e prendere un coltello.
Silenziosi come serpi, strisciarono verso il mobile, mentre la voce di Warwick continuava a ripetere parole incomprensibili.
La bambina si alzò leggermente sulle punte dei piedi, tirando il cassetto il più piano possibile, per non creare rumore. Con premura, afferrò un paio di coltelli da cucina, uno dei quali  lo allungò in direzione del gemello.
Fattosi un cenno di assenso, i due iniziarono a correre verso il piano superiore, rapidi e silenziosi come dei gatti.
Messo piede nel corridoio, si accorsero, con orrore, che la porta della camera di Deryck era illuminata e un bagliore lieve fuoriusciva dalla stanza.
Si affrettarono a raggiungere il luogo dove il loro fratellino riposava, spaventati, arrabbiati. Si affacciarono nella stanzetta, proprio nel momento in cui Warwick si avvicinava alla culla dove giaceva, addormentato, l’infante.
«Lascialo!» Franziska non si rese nemmeno conto di essere balzata nella stanza, il coltello in pugno e un’aria arrabbiata in volto. L’unica cosa di cui era a conoscenza era che avrebbe ficcato quella lama nella schiena di suo padre, se solo si fosse azzardato a toccare Deryck.
Con una lentezza quasi esasperante, Warwick si voltò verso i gemelli, guardandoli con astio. «Non immischiatevi, marmocchi».
«Chiamami ancora marmocchio e ti uccido, stronzo». Le parole dette da Igor sembravano davvero fuori luogo, pronunciate da un bambino di appena otto anni, ma nessuno parve farci caso. «Lascia stare mio fratello».
«Devo ucciderlo». Le mani di Warwick tremavano all’impazzata, gli occhi erano spalancati e iniettati di sangue. Incuteva timore, ma i due bambini non ci fecero caso, presi com’erano a voler proteggere il proprio fratellino.
«Fallo e noi corriamo dai Pacificatori». Anche le mani di Franziska presentavano un leggero tremolio, di paura, di rabbia, di troppe emozioni insieme.
«Non ti avvicinare a lui o questo ti finisce nella schiena. Così muori anche tu».
«Lui deve morire!» Calde lacrime iniziarono a rigare le guance di Warwick, mentre strillava come un maiale al mattatoio. «Me l’ha uccisa! E poi… mi assomiglia! Io non lo voglio, non voglio dei figli!» urlò, prendendosi la testa tra le mani e accovacciandosi a terra. «Così come non voglio voi due. Era Grace che voleva dei figli, io le ho detto che non conveniva, che portano solo disturbo…»
Un bambino. Warwick Madison sembrava davvero un bambinone, così accucciato, con le mani premute sulle tempie e quella nenia che continuava, ininterrotta, a fuoriuscire dalle sue labbra.
 
«Quando è successo?» La voce di Anne la riportò alla realtà; Franziska non si era nemmeno resa conto di aver stretto un lembo della sua felpa tanto forte da farsi male alle dita.
«Quando era appena nato e noi due avevamo otto anni» rispose Igor, gli occhi che mandavano scintille ben piantati sul volto dell’anziana.
«Abbiamo dovuto minacciarlo con un coltello». Franziska scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli lunghi. «Da quel momento si è praticamente dimenticato della nostra esistenza. Abbiamo fatto anni a rubare, prendere le tessere e barattare merce al mercato nero».
Inaspettatamente, sul volto della donna si aprì un lieve sorriso; sembrava soddisfatta, ma nei suoi occhi chiari si leggeva ancora una punta di orrore per ciò che aveva appena sentito.
«Ve la siete cavata. Molto bravi» commentò, annuendo con vigore. Sospirò poi, affondando nello schienale del divano. «E adesso avete… quanti anni? Quattordici? Quindici?» domandò, indicando i due gemelli con un cenno della mano.
«Quattordici. E Deryck ne ha sei» prese parola Igor, grattandosi la testa. La nonna aggrottò la fronte e Franziska non poté biasimarla: chiunque avrebbe avuto quella reazione dinnanzi alla dichiarazione dell’età di Igor. Malgrado avesse appena quattordici anni, il ragazzo ne dimostrava già alcuni in più, grazie alla sua invidiabile altezza, lo sguardo adulto che tradiva una certa fierezza e i tratti di un viso già maturo.
«Giovani. Molto giovani». Quello di Anne fu appena un sussurro, che quasi nessuno nella stanza riuscì a percepire. Fissava un punto imprecisato della stanza, come se fosse assorta nei suoi pensieri.
«Allora…» Franziska azzardò, lanciando uno sguardo d’intesa al gemello, che rispose con un cenno del capo, «sei disposta a… badare a noi?» Indugiò sulle ultime parole, non sapendo bene come chiedere alla nonna quel favore. Non la conoscevano, non si erano parlati per anni e anni, e Franziska era certa che non sarebbe stata una sorpresa, se Anne li avesse cacciati via.
Al contrario di ciò che la quattordicenne pensava, però, la donna annuì, levando il capo per osservare i nipoti. «Va bene. Qualunque posto è meglio che quel mortorio dell’istituto, dico bene?»
Nonostante le parole che nutrirono la speranza e la gioia della ragazza, la voce della nonna tradiva ancora una certa esitazione e incertezza. Con la mano poggiata sul mento e il busto piegato in avanti, sembrava davvero preoccupata, e il suo sguardo fisso sui nipoti più grandi non aiutava a far sparire quella sensazione.
«Ci sono alcuni problemi, però» disse infatti, assumendo la posizione ben più comoda di poco prima. «Primo: questa casa, come vedete, è molto modesta. Grace era la mia unica figlia, quindi c’è solo la sua stanza e il suo letto. Forse, potete portare i vostri letti da dove abitate, ma il problema dello spazio piccolo resta».
«Non è un problema» la interruppe Igor, guardandosi attorno. «Più tardi possiamo guardare la camera di mamma e valutare quanto spazio c’è. Mal che vada, quella sarà la cameretta di Deryck. Per quel che mi riguarda, io dormirei anche sul divano. Oppure io e Ziska possiamo mettere i nostri letti qua in salotto. So che non sarà accogliente come adesso, ma forse è una soluzione» concluse, scrollando le spalle. Sul volto di Anne era, nel frattempo, comparso un sorriso ancor più soddisfatto di prima e Franziska dovette trattenersi dal tirare una pacca sulle spalle del fratello. Sembrava proprio che le stessero piacendo: l’obiettivo della giornata era pressoché raggiunto.
«Hai spirito di iniziativa e organizzazione, tu» rilevò la donna, inarcando un sopracciglio – ma questo gesto, malgrado potesse sembrare derisorio o controverso, faceva trasparire una certa ammirazione, così come il suo tono di voce. «Passiamo al secondo problema, allora. La mia pensione non basta per tirare avanti una famiglia con dei ragazzini. E non voglio che voi rubiate, il primo di voi che avrà dei problemi con la legge se la vedrà con me». Si puntò un dito al petto, con decisione. «Quindi, dobbiamo trovare anche un piano per far sì che voi riusciate a mangiare, o comunque a tirare avanti».
«Un lavoro è molto difficile da trovare». Franziska scrollò le spalle. Avevano appena quattordici anni, un carattere non facile e la scuola di mezzo: trovare un impiego sarebbe stato molto difficile, se non del tutto impossibile.
«Non è detto, tesoro. Provare non costa nulla! So che a scuola vi insegnano come fare i meccanici».
«Sì, e abbiamo anche fatto dei lavoretti saltuari—»
«Provate». Anne interruppe le parole della ragazza, l’espressione divertita e ammirata di poco prima aveva lasciato spazio ad una fermezza che alla quattordicenne ricordò quella di sua madre, anni prima. «Grace lavorava in un’officina dove c’era un proprietario molto gentile. Non ricordo il suo nome, ma non era affatto un despota e prima che voi nasceste mi raccontò che questo tipo aveva assunto un sedicenne a cui erano appena morti i genitori».
«Mi ricordo!» esclamò Igor. «Ci andavamo spesso, ti ricordi, Lala?»
«Lala?» La nonna sorrise con fare tenero, inclinando leggermente il capo per osservare i nipoti. «Che soprannome dolce e strano».
«Mamma ci ha raccontato che quando eravamo piccoli e non sapevamo parlare, ogni volta che noi due ci vedevamo dicevamo delle cose strane. Lui diceva sempre “Lala” e io “Dodo”» raccontò Franziska, e il peso della malinconia le gravava sul petto come un macigno, mentre il ricordo troppo bello e doloroso della madre si faceva sempre più vivo man mano che parlava. «Quindi, sono i nostri soprannomi» concluse, ancora una volta passandosi una mano tra i capelli biondi. Non essendo abituata a tenerli sciolti così a lungo, decise che il momento delle belle figure era finito ed era giunta l’ora di legarli nella solita, inseparabile coda di cavallo. Prese quindi l’elastico dal polso e lo allargò, iniziando a raccogliere i capelli in alto sulla testa.
«Molto dolci. Allora, volete farlo? Io non vi obbligo, ma sarebbe meglio. Con un po’ di buona voglia ce la potreste fare». Anne sembrava speranzosa e Franziska non se la sentì proprio di tradire le sue speranze.
«Ovvio. Ce l’abbiamo fatta per anni, ce la faremo per altri anni. Il duro sarà solo fino ai nostri diciotto anni, dopo saremo liberi di lavorare senza la scuola di mezzo».
Sul volto di Anne comparve nuovamente un sorriso. «Mi piaci, ragazzina. Mi dispiace di non avervi conosciuti prima. Sembrate dei bei tipetti, voi due e questo piccolino». Si allungò verso il più piccolo dei suoi nipoti, dandogli un buffetto sulla guancia, e Deryck – zitto fino a quel momento – ridacchiò contento, come aveva fatto poche volte in vita sua.
«Al lavoro, allora». Anne si alzò, spalancando le braccia. «E benvenuti nella vostra nuova casa».
 
 
*
 
Disegnare gli occhi gli piaceva da sempre, sin da quando era bambino.
Non sapeva spiegarsi il perché, Aaron, ma da quando aveva imparato a tenere una matita in mano, quelli erano diventati i suoi soggetti preferiti.
Marroni, azzurri, ambra, verdi, nocciola: potevano essere di qualsiasi colore, di qualsiasi forma, e lui avrebbe saputo rappresentarli come un pittore che ama raffigurare la donna amata su una tela.
«Mi ascolti?» La voce di Jimmy, bassa e sibilante, svegliò il suo cervello dal torpore in cui era caduto, mentre i suoi occhi venivano rapiti dai segni che tracciava sul foglio a quadretti.
«Cos—?» Si voltò verso l’amico, preso alla sprovvista dal colpetto che gli diede sul gomito.
Un giorno o l’altro lo ammazzo.
Se lo ripeteva ogni giorno, quando Jimmy pensava bene di interromperlo mentre disegnava, mentre era perso in quel mare di pensieri che era la sua mente. Eppure, sapeva che ammazzarlo non avrebbe portato a niente, perché lui era il suo migliore amico e – seccatore o no – gli voleva pur sempre bene.
«Dicevo» Jimmy pose particolare enfasi sul verbo all’imperfetto, forse per mostrare ad Aaron che quelle parole le aveva già ripetute, ma lui non le aveva sentite, «che Trine ti sta lanciando degli sguardi… infiammati. Non vorrei essere te!»
Lanciato uno sguardo interrogativo al migliore amico, Aaron si voltò verso Trine – come al solito seduta accanto a Vivy. Teoricamente, il quattordicenne doveva trovarsi tra le due inseparabili comari, ma aveva approfittato dell’assenza di Faccia Di Rana per spostarsi accanto a Jimmy. Le lezioni sulla storia di Panem – una marea di balle su ciò che dovevano a Capitol City – erano ancora più insopportabili di matematica, tra quelle due.
Non appena gli occhi scuri di Aaron intercettarono quelli più chiari di Trine, ebbe l’impressione di essere colpito da una freccia proprio al centro della fronte. Non solo erano infiammati i suoi sguardi, ma i suoi occhi parevano davvero fatti di brace, tanta era la rabbia che essi contenevano – accentuata, poi, dalle nocche sbiancate che stringevano una malcapitata matita.
Senza perdere ulteriore tempo, il quattordicenne tornò al suo disegno, ma continuava a sentire lo sguardo di Trine sulla sua schiena, tanto che ebbe l’impressione di sentire un buco, proprio al centro.
«L’hai fatta grossa, amico» sussurrò Jimmy, avvicinandosi a lui. Aaron riprese in mano la sua matita, finendo di colorare la pupilla dell’occhio destro.
«Lo so» sospirò.
«Te di donne non capisci proprio un cazzo. Ti sei proprio fatto sfuggire una bella pol—».
«… pollastrella» concluse Aaron per lui, «sì, lo so, e allora? Trine non mi piace».
Un verso gutturale alla sua destra gli fece intuire che Jimmy non aveva apprezzato le sue ultime parole. Cacciò via quel pensiero quasi con violenza dalla sua mente. Non sarebbe stato lui a fargli cambiare idea riguardo ai suoi sentimenti o alle ragazze che gli piacevano.
La matita finì nel suo astuccio con un lancio. Aaron allungò un braccio verso quell’oggetto ormai rammendato talmente volte che non sapeva più nemmeno quale fosse la sua originaria forma. Infilò un paio di dita all’interno, avvolgendole sull’esile figura di un pastello verde.
Occhi verdi.
Gli erano sempre piaciuti, gli occhi verdi. Erano quelli di sua madre e l’ultimo ricordo che aveva di lei era proprio uno sguardo carico di paura, mentre gli accarezzava una guancia e correva via.
«Parliamo d’altro, allora?» Jimmy si allungò sul banco, le braccia incrociate e il mento appoggiato. La professoressa non diede minimamente segno di voler interrompere la discussione dei due studenti, continuando a parlare di come Panem – un tempo splendida – era retta da un altrettanto splendente capitale che aveva dato tutto ai Distretti.
Le lezioni di storia di Panem erano sempre così: chiacchiere a volontà, disegni e dormite. L’unica pecca di quella misera ora era che capitava solamente una volta a settimana.
«Parliamo d’altro» sospirò Aaron, cominciando a colorare l’occhio sinistro.
«Com’è andato il tuo primo giorno di lavoro?» Jimmy sghignazzò divertito, giocherellando con la gomma da cancellare trafugata poco prima al suo compagno di banco.
«Bene» rispose secco Aaron.
«Dimmi altro, Kidman, non farmi stare sulle spine».
«Ho lavorato e basta, non sono andato a vedere uno spogliarello».
Jimmy rise ancora, abbandonando la posizione assunta poco prima e appoggiandosi allo schienale, con le mani intrecciate dietro la nuca.
Aaron sbuffò, continuando, imperterrito, a colorare. Il giorno prima era andato veramente bene, a parte il fatto che la sera era crollato sul divano e suo zio pareva abbastanza soddisfatto di ciò.
Quella mattina, si era svegliato così stordito che stava persino sbagliando porta, e anziché recarsi in cucina per la colazione stava per entrare nel bagno, proprio nel momento in cui lo stava occupando Keegan.
Niente più colpi di testa, si ricordò mentalmente, ripensando alle parole pronunciate un paio di sere prima da suo zio.
Niente più colpi di testa e tanta stanchezza, corresse.
Il suono della campanella arrivò come una manna dal cielo. Un sospiro di sollievo e qualche grida di giubilo l’accompagnarono, mentre uno scalpiccio veloce iniziò a diffondersi nei corridoi.
Un frastuono di sedie spostate sostituì il monotono parlare dell’insegnante e i brusii degli studenti annoiati.
Aaron afferrò lo zainetto – a terra, accanto al banco – e con un solo, secco gesto vi ficcò dentro il quaderno appena chiuso con all’interno il foglio. L’astuccio lo seguì, e finalmente il giovane poté chiudere la sacca e uscire dall’aula, seguito da Jimmy.
Il rumore prodotto da tutti gli studenti che correvano fuori dalla scuola sembrava quasi frastornante, mentre si dirigeva svogliatamente al portone che dava sul cortile di cemento.
Tutto si poteva dire di quella scuola tranne che fosse accogliente e Aaron, ogni mattina, non poteva fare a meno di osservarla con disgusto, mentre varcava il grande arco che vi dava accesso.
Era un luogo tetro e macabro, il Distretto 6. Quel poco di bello che c’era, si trovava solo nella Zona A, comunemente conosciuta da tutti come la Prima Classe, il luogo dove vivevano i ricchi.
Persino nella città centrale – quella dove abitava Aaron – non c’era bellezza. Era difficile trovare dei soggetti da disegnare, tra i fumi delle officine e il sangue che – di tanto in tanto – macchiava la grande piazza del Distretto.
Compreso il sangue dei suoi genitori.
«Quella tipa non è male». Per una volta, la voce di Jimmy sembrava oro, per lui, una delicata melodia che lo distraeva dai suoi pensieri troppo cupi e tetri, ancora più scuri del cielo plumbeo che, quel giorno, gravava sulle loro teste.
Delle grida poco lontane attirarono l’attenzione dei due amici, intenti a dirigersi lentamente verso l’arco d’ingresso al cortile.
«Una rissa». Jimmy iniziò a prendere velocità, cambiando direzione e andando verso la probabile litigata, dove un gruppetto di persone era intento a guardare.
Aaron lo seguì, sistemandosi le cinghie logore dello zaino sulle spalle. Si avvicinarono, facendosi largo tra la calca di studenti che si era ammassata lì intorno.
Quando poi Aaron vide chi si stava picchiando, temette di avere un attacco cardiaco.
Brenton era a cavalcioni sopra un ragazzino e gli aveva appena sferrato un pugno su un occhio. Entrambi erano piuttosto pesti. Quello a terra perdeva sangue dal naso, mentre Brenton aveva un occhio che andava gonfiandosi.
«Brenton!»
Senza troppe remore, Aaron spinse da parte un suo compagno di classe, che sghignazzava divertito dinnanzi a quella scena.
Il quattordicenne si avvicinò ai due litiganti, passando le mani sotto le ascelle del fratellino e alzandolo in piedi.
«Andiamo!» esclamò arrabbiato, trascinando via il bambino, senza curarsi minimamente di quello a terra, che si stava rialzando.
Camminò veloce come un robot, trascinando dietro il povero Brenton, che doveva fare almeno dieci passi per stare dietro alle ampie falcate del fratello maggiore.
Era così pieno di rabbia, Aaron, da non pensare a nulla.
Vedere Brenton con quell’occhio nero gli aveva ricordato i volti lividi di morte dei suoi genitori, quell’orribile mattina in cui aveva visto i loro corpi.
Non erano rare quelle risse a scuola – e a volte, il quattordicenne si divertiva a guardarle – ma in quel momento si rese conto che vedere lì in mezzo il suo fratellino era un’altra cosa.
Non poteva permettersi di perdere anche Brenton, non dopo tutto ciò che era capitato ai loro genitori.
Era arrabbiato con lui, con il Distretto, con la Capitale, con chiunque lo fissasse troppo a lungo e persino con Jimmy che gli correva dietro come un cagnolino; il solito sorrisino sarcastico era sparito dal suo volto, sostituito da un’espressione grave e severa.
«Fammi vedere quest’occhio».
Aaron si fermò all’improvviso, senza neanche essersi reso conto di aver percorso tutta quella strada. Si erano ritrovati in uno dei vicoli che dalla scuola conducevano alla piazza.
Brenton obbedì, alzando un poco il mento verso il fratello maggiore, che si avvicinò all’occhio pesto del bambino.
«Sei un cretino. Che ti è saltato in mente, si può sapere?» Era furioso, arrabbiato, pieno d’ira fino alla punta dei capelli. Più che il gesto in sé, a disturbarlo era stato quello che Brenton avrebbe potuto fare – quell’occhio nero sarebbe potuto diventare qualcosa di più, in futuro, come una coltellata nello stomaco durante una rissa al bar. Si sentiva una mamma troppo premurosa a pensare tutto ciò, ma ormai era quello, lui: l’unica cosa che potesse quasi sostituire una madre nella vita di Brenton. Per quanto zia Katy lo curasse, era Aaron l’unico della sua famiglia ad essergli rimasto.
«Mi ha provocato» mormorò il bambino, strisciando con il piede a terra e fissando le sue logore scarpe da ginnastica.
«E tu l’hai pestato. Brenton, tu non puoi picchiare chi ti provoca, okay?» Lo prese per le spalle con il braccio sinistro, mentre la mano destra correva ad alzargli il mento per poterlo guardare negli occhi.
Le iridi color nocciola del più piccolo si piantarono in quelle più scure di Aaron, fissandolo pieni di senso di colpa e di paura. Malgrado lo sguardo quasi adulto, per una volta il quattordicenne ebbe l’impressione di trovarsi davvero davanti ad un bambino, com’era giusto che suo fratello fosse.
«Okay» sussurrò Brenton, annuendo con poca convinzione. «Di solito c’è Pat a fermarmi» buttò lì, come se l’assenza del cugino fosse la causa di quella zuffa.
«Vedila in modo positivo, Kid». Jimmy si intromise nella conversazione, mettendo una mano sui capelli arruffati del piccolo di casa di Kidman. «Queste risse possono essere un allenamento per gli Hunger Games. Nel corpo a corpo è bravo».
Volente o nolente, anche Aaron si ritrovò a sorridere. In qualche modo, lasciato da parte il carattere stupido che Jimmy sfoderava in certe situazioni, il suo migliore amico riusciva sempre a strappargli qualche momento d’ilarità nella sua vita poco felice.
«Ha ragione. Però niente più risse, okay?»
Brenton annuì, prendendo inaspettatamente per mano il suo fratellone. Il quattordicenne rimase a fissare per un istante le loro mani, stupito e felice al tempo stesso.
Quand’era stata l’ultima volta che Brenton lo aveva preso per mano? Quand’era stata l’ultima volta che il suo fratellino si comportava come un bambino degno di questo nome?
Era passato tanto, troppo tempo. Si rese conto che Brenton gli era mancato; aveva avuto una pazza nostalgia di quei gesti d’affetto che il fratellino gli riservava quando i loro genitori erano ancora vivi.
Aveva l’impressione che i suoi polmoni si fossero riempiti di aria buona. Sentiva la mente leggera e le labbra che si inarcavano in su, a formare un sorriso.
E camminando verso casa, Aaron ebbe l’impressione che quel cielo plumbeo diventasse color arcobaleno.  

 


Alaska's corner

Here I am!
Ho aggiornato un po' in ritardo perché - lo ammetto - avevo poca voglia di rileggere. XD
Ma a parte questo, sto organizzando anche un'altra storia, quindi mi stavo concentrando perlopiù su quella e questa l'ho messa da parte per un paio di settimane. Oggi, però, ho voluto aggiornare, anche se questa storia la sto sistemando, nel senso che alcuni capitoli a venire saranno complicati e sto finendo di mettere a punto alcune cose.
Niente, qua conosciamo la terriiiibile nonna Anne, che poi tanto terribile non è. Mi piaceva che fosse una tosta, perché i tre fratellini hanno avuto poche occasioni di osservare una tutrice tosta come lei. 
Pure la cosa del lavoro non so se funziona così a Panem, voi prendetela come licenza poetica, visto che Suzy non ci fa sapere nulla a riguardo. 
Che dire, Anne immaginatevela come Meryl Streep (divinaH ♥).
Ah, sì, poi Warwick che impazzisce... ehm, sì, ve l'ho detto che era fuori come un balcone. Immagino che dopo la nascita di Deryck abbia avuto questa fase-raptus, dopodiché si è rassegnato alla morte di Grace e ha semplicemente cominciato ad ignorare i tre pargoletti, che sono diventati un po' dei delinquentelli. 
Per quanto riguarda la parte di Aaron, volevo approfondire un po' il suo rapporto con Brenton. Come vedete, il piccolo Kidman è un teppistello ♥ Sì, insomma, Aaron e Brent sono molto diversi, caratterialmente, e il maggiore - come avrete notato - è veramente una mamma apprensiva, e ha addirittura paura che il fratellino muoia per una piccola rissa a scuola x3 
Solo che, essendo l'ultimo membro della sua famiglia, Aaron è molto, molto protettivo con Brenton. 
E comunque, Aaron con le donne non ci sa fare, no x3 
Oh, sì, poi volevo dire un paio di parole riguardo a come immagino il Distretto 6. Credo - come gli altri grandi Distretti - che sia diviso in varie zone. La zona A è quella più ricca, poi c'è la zona B, la zona C (Centrale) e via dicendo, e tutte sono collegate da treni/metropolitane. Questa cosa mi è venuta in mente perché stavo dando un'occhiata a Mockingjay - qualche tempo fa - e viene detto che al Distretto 2 c'è un treno che porta dall'Osso fino alla città centrale. Quindi, credo che più o meno sia così anche al 6, varie zone tutte collegate con una città centrale - che è quella dove abitano i protagonisti - dove ci sono la scuola e i vari negozi.
La cosa "Prima Classe" mi è venuta in mente perché il 6 è il Distretto dei trasporti, quindi mi piaceva l'idea della zona più ricca, chiamata, appunto, come la classe più costosa in cui si viaggia. xD
Questo capitolo credo sia stato un po' noioso - in caso chiedo venia, ma sto procedendo con calma. Dal prossimo capitolo dovrebbe esserci un po' più movimento e le strade dei nostri eroi cominceranno ad incrociarsi, in un certo senso. 
Ringrazio coloro che hanno letto, recensito, messo tra i preferiti e i seguiti ♥ Non siete molti, ma meglio di niente. In ogni caso, io questa storia andrò avanti a pubblicarla fino alla fine, perché ci tengo moltissimo e fa tutto parte di un progetto più grande che comprende altre sei storie circa x3 Poche, insomma.
Alla prossima!
Alaska. ~

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Capitolo 6
*** O5 » Let's work « ***




 
CAPITOLO V
 
Let’s work

 
« When she was just a girl
She expected the world,
But it flew away from her reach,
So she ran away in her sleep
And dreamed of Paradise. »
-Coldplay; “Paradise”
 
«Quindi, è vero? Tuo padre è morto?»
Quella voce la colpì come uno schiaffo, mentre camminava nel cortile della scuola. Il peso dello zainetto parve diventare ancora più grande, accompagnato dalla solita morsa allo stomaco che la prendeva quando qualcuna delle oche osava rivolgerle la parola.
Franziska alzò lo sguardo verso chi aveva parlato, incontrando gli occhi verdi di Trine – una ragazza dell’altra classe che lei non aveva mai sopportato, sebbene le interazioni tra di loro si fossero limitate a qualche risolino da parte di quest’ultima.
Il sorrisetto tronfio sul volto di Trine sembrava davvero una presa in giro, e quelli delle sue amichette non facevano eccezione.
«Sì. È morto» tagliò corto la quattordicenne, stringendo le mani a pugno.
«E ora andrai all’orfanotrofio. Magari lì ti daranno dei vestiti più decenti».
Un’onda di rabbia pervase il suo animo, infiammandola, facendola sentire come un fuoco vivo che nessuno poteva trattenere. E come esso, era libera di andare.
Libera di andare verso Trine e pestarla.
Si avvicinò velocemente, prendendo la malcapitata per il collo e sbattendola contro il muro. Le sue amichette – solitamente ridacchianti e sornione – abbassarono la cresta, e quei sorrisetti di trionfo scomparvero dai loro volti, lasciando posto a espressioni d’orrore.
«Ascoltami, troietta» cominciò la bionda, ponendo particolare enfasi su quell’epiteto, «un’altra parola sui miei vestiti e faccio diventare questo tuo bel faccino una maschera. Io non ho il papino che mi para il culo e mi compra i vestiti belli per andare in giro a farmi la figa. Mettitelo in testa, razza di ricca pidocchiosa».
«Franziska!»
Mai la voce del suo gemello gli era sembrata più bella e melodiosa come in quel momento. Lasciò la presa, e la malcapitata finita nella morsa d’acciaio delle sue dita si accasciò addosso al muro, portando le mani laddove Franziska l’aveva stretta.
La quattordicenne si girò verso il fratello, che teneva per mano uno stupito Deryck, con lo zaino grande il triplo di lui.
«Che cazzo è successo, si può sapere?»
Gli occhi di Igor erano rivolti alla sorella, ma quella domanda pareva rivolta a tutte, più che solo alla sua gemella.
Il gruppetto di ragazze – lo stesso che ridacchiava piacevolmente ogni volta che Igor passava nei corridoi della scuola – si fece muto, mentre si attorniava intorno all’amica a terra.
«Niente. Andiamo, Igor».
Franziska lo afferrò per mano, iniziando a camminare verso l’arco per uscire da scuola.
Ne aveva abbastanza di quel luogo, delle sue compagne e delle occhiate compassionevoli che le rivolgevano le insegnanti. Per quanto amasse studiare e imparare cose nuove, odiava quel luogo con tutta se stessa; andarci era ormai un inferno, per lei, complici gente come Trine e le sue amichette.
«Ti hanno provocata?» chiese suo fratello, mentre si dirigevano a velocità elevata fuori dal cortile, incuranti degli sguardi di chi, come loro, stava andando a casa. Franziska sentiva le guance in fiamme e le gambe rese molli dalla rabbia; avrebbe tanto voluto che quel cemento diventasse una sabbia mobile, per sprofondare e andarsene da quel luogo tanto odioso.
«Sì. Ora non ho più voglia di parlarne, se non ti dispiace».
Rallentò un poco l’andatura, lasciando andare la mano del fratello che aveva stretto fino a quel momento senza neanche rendersene conto. Probabilmente aveva rischiato di rompergli ogni singolo osso, considerata la sua presa ferrea.
Presentarsi arrabbiata a quel modo dinnanzi al nuovo, possibile datore di lavoro non era di certo una grande idea, e lei ci teneva a far bella figura. Ne andava della sopravvivenza della sua famiglia. Se quel giorno Jean – così aveva scoperto si chiamava – avrebbe accettato la richiesta sua e di Igor di lavorare nella sua officina, la strada sarebbe diventata meno ripida, per lei.
Mentre camminava, con lo zaino che le pesava sulla schiena, sentì l’agitazione tornare a galla e far fremere il suo corpo. Non vedeva l’ora di andare da Jean e parlare, spiegargli tutto e sentire la sua risposta. Bene o male, almeno quella stupida ansia l’avrebbe finalmente lasciata andare e sarebbe stata libera di respirare normalmente. Invece, in quel momento, si sentiva così a disagio che i suoi polmoni erano diventati pietra, facendole pesare il petto e rendendole difficile la respirazione.
Calciò un sassolino con rabbia e quello andò a sbattere contro un cassonetto.
Non ce la faceva più, Franziska. Aveva solo quattordici anni, ma la vita le sembrava un macigno; voleva cambiarla, essere una persona migliore e magari trovarsi qualche amico. Non ci aveva mai provato, in passato: forse era ora di provarci davvero.
Le capitava, da piccola, quando sua madre era viva, di pensare che diventare grande sarebbe stata una fantastica avventura. Aveva sognato, per anni, di poter volare via da quel posto con uno di quegli hovercraft che vedeva sempre quando accompagnava Grace in officina; andarsene per vedere cos’altro c’era oltre a Panem, andarsene per non vivere sotto il cielo del Distretto 6.
Le sarebbe bastato anche salire su uno di quei treni ad alta velocità che a Capitol City tanto amavano; tutto andava bene, pur di fuggire da quel luogo così tetro e pieno di ricordi già troppo dolorosi, malgrado la sua giovane età.
Erano sogni infantili di una bambina che si aspettava il mondo, ma questo era pian piano andato via dalle sue mani, e lei si era ritrovata ad essere sola, con un fratellino a carico e con solo il suo gemello su cui fare affidamento.
Ogni tanto, però, le capitava di sdraiarsi sullo scomodo materasso del suo letto e di sognare ad occhi aperti. Immaginava di essere lontana dal Distretto 6, con i suoi fratelli, in un posto dove gli Hunger Games non esistevano, i bambini non morivano di fame, e lei era solo una quattordicenne che poteva vivere appieno la sua adolescenza, proprio come facevano molti dei suoi coetanei.
 
Lasciato Deryck dalla nonna e posate le cartelle nel salotto – adesso completo anche di due brandine destinate ai gemelli – Franziska e Igor si diressero verso l’officina del signor Jean. La nonna aveva lasciato loro alcune indicazioni e, appurata che la strada era abbastanza lunga per due sprovvisti di bicicletta come loro, decisero di partire subito, senza nemmeno darsi un’occhiata allo specchio.
Franziska se ne pentì ben presto. Seppur non amasse passare delle ore a rimirarsi per farsi bella, sapeva che avere un aspetto quantomeno decente avrebbe potuto aiutarla a far colpo sul proprietario dell’officina. Presentarsi là sporchi e stanchi non doveva essere una grande idea.
Al suo fianco, Igor camminava in silenzio, il cappellino da baseball calato sugli occhi e i capelli biondi che spuntavano appena.
Pur di non prestare attenzione all’ansia che non le dava pace, Franziska si ritrovò ad osservare suo fratello, chiedendosi come mai gente come le ragazze con cui aveva litigato prima lo ritenesse carino.
Essendo suo fratello non ci aveva mai fatto molto caso, ma dovette ammettere a se stessa che Igor era decisamente un bel ragazzo. Non solo per i tratti somatici, quanto per il fatto che appariva, in un certo senso, misterioso. Stava sempre zitto e non si curava di nessuno; aveva pochi amici – se così si potevano definire quelli con cui giocava a calcio qualche pomeriggio – e nessuno sapeva qualcosa sulla sua vita, a parte ciò che trapelava dai pettegolezzi. Era normale, dunque, che qualcuna fosse interessata a lui.
Improvvisamente, l’agitazione di Franziska fu sostituita da una gelosia cieca. L’idea di qualche ragazza che le portasse via suo fratello le risultava inconcepibile. Era la sua roccia, lui, l’unico che le stesse accanto nei momenti di difficoltà e saperlo con qualche altra persona che non fosse lei, oppure Deryck, la faceva sentire strana.
Distolse lo sguardo dal ragazzo, continuando a camminare. Piuttosto che essere gelosa, preferiva di gran lunga essere agitata.
«Dici che gli piaceremo?»
Igor aveva parlato per la prima volta dopo minuti interi di camminata, ma il suo sguardo era ancora ben piantato sulle sue scarpe ormai ridotte a una suola mezza staccata dalla quale si intravedeva il nero delle sue calze.
Franziska fece spallucce, scrollando le spalle. Era un interrogativo che si portava dietro dal giorno prima, quello. Si era sforzata di non rimembrare il fatto che lei non piaceva mai alla gente. Non li biasimava: nemmeno lei si sarebbe piaciuta, con quello sguardo truce, la sua impulsività e il suo vocabolario così volgare da far impallidire uno scaricatore di porto.
«Forse, se facciamo finta di essere dolci e carini» rispose, ficcando le mani nell’unica, grande tasca della sua felpa.
«Noi non siamo dolci e carini».
«Appunto».
«Siamo fottuti».
Igor sospirò, passandosi una mano sul volto e facendo alzare leggermente la visiera del cappello.
Era la stessa cosa che pensava Franziska dal giorno prima, solo che non aveva avuto il coraggio né di dirlo né di ammetterlo a se stessa, perché sapeva che ciò l’avrebbe reso troppo reale per essere accettato.
Loro non erano gentili, carini, o gente su cui fare affidamento, non lo erano mai stati. Il signor Jean sarebbe scappato a gambe levate, si disse, con ancora più sconforto.
Il resto della camminata non durò troppo. Giunsero all’officina dopo tre quarti d’ora circa, mettendoci meno tempo del previsto; complice, forse, l’ansia che provavano entrambi. Franziska era certa che suo fratello provasse le sue stesse emozioni. Era da anni che riusciva quasi a sentire tutto ciò che passava per quella testolina coperta da capelli biondo scuro.
Malgrado fosse identica a tutte le altre officine del Distretto 6, quella di Jean appariva molto più minacciosa, considerate le emozioni provate in quel momento dai gemelli.
Non era null’altro se non un enorme capannone scuro, dal quale provenivano tantissimi rumori e fuoriuscivano, di tanto in tanto, delle fumate grigie, mute testimoni che lì dentro c’era chi lavorava, chi guadagnava soldi, chi cercava di mandare avanti la sua famiglia.
Entrarono in religioso silenzio, guardandosi intorno con sospetto, come se da un momento all’altro un animale potesse saltare fuori e far di loro la sua preda.
Seppur i loro pensieri fossero così tragici, non c’era nulla di cui avere paura: molti uomini e donne erano intenti a lavorare su pezzi di ricambio, alcuni parlavano tra di loro, pulendosi le mani con dei panni sporchi di grasso.
Entrando, Franziska incontrò per un istante lo sguardo di un ragazzo, chino su un tavolo da lavoro. I loro occhi si scontrarono per un solo istante, prima che lei cominciasse a fissare le proprie scarpe. Non era una faccia nuova: aveva già visto quel ragazzo a scuola.
Aaron Kidman.
La sua fama di writer precedeva la sua identità. Girava voce che fosse lui l’artefice di tutti quei disegni che imbrattavano i muri del Distretto 6, quelli che riuscivano a donare un po’ di colore a tutti quei colori spettrali, che viravano dal nero al grigio, fino a giungere al bianco.
L’aspetto da bravo ragazzo del giovane non intaccava l’opinione che Franziska aveva di lui. Ammirava il suo coraggio, ma doveva ammettere che gli sembrava solo un ragazzetto che osava troppo, incosciente e perdigiorno. Si stupì, quindi, di trovarlo al lavoro lì. Fino a quel momento non le aveva dato l’impressione di uno che si rimboccava le maniche per lavorare.
Mi lamento dei pregiudizi e sono la prima ad averne. Arrossì, a quel pensiero, poiché non ci aveva mai fatto caso, fino a quel momento. Anni e anni passati a lamentarsi di chi aveva nei pregiudizi nei suoi confronti, e poi lei era la prima a giudicare senza conoscere un suo coetaneo.
Distolse la mente dall’immagine di Aaron; non era su di lui che doveva concentrarsi, ma su quell’uomo poco distante da lei e suo fratello, che parlava con un collega. I due erano intenti ad osservare un foglio e discutevano, anche se a causa del rumore dei macchinari, i gemelli non riuscirono ad afferrare mezza parola.
Si fermarono a pochi passi da Jean, nervosi. Come sempre, i loro occhi si cercarono, in un muto interrogativo: andiamo o non andiamo?
«Andiamo» disse Igor, prendendo la sorella per mano – sembrava una richiesta di aiutarlo a farsi forza.
Si avvicinarono a Jean, cauti, l’uno aggrappato alla mano dell’altra come se stessero per cadere da un precipizio. La presa delle dita di Franziska si fece ferrea al punto che temette di spezzare quelle del gemello, ma Igor non diede segno di volersi lamentare.
Non appena giunsero vicini a Jean, questi alzò per un istante il volto dal foglio. Tutto in quell’uomo ispirava fiducia, persino la corta barba che gli ricopriva le guance. C’era qualcosa, nei suoi occhi marroni che donava quel tocco di gentilezza in più al suo viso dai tratti abbastanza duri.
«Vai pure, ne parliamo dopo». Fece un cenno al suo interlocutore, invitandolo ad andarsene. Quest’ultimo si sistemò gli occhiali dalla grossa montatura che gli erano scivolati lungo il naso e, lanciato uno sguardo infastidito ai gemelli, girò i tacchi e arrotolò il foglio del lavoro, andandosene.
«Salve» li salutò Jean, e tra la barba comparve un sorriso amichevole. «Come posso esservi utile?»
«Lei è il signor Jean, o sbaglio?» Franziska era stata improvvisamente assalita dall’idea che quello fosse un altro. La nonna aveva lasciato loro una descrizione dettagliata, ma temeva comunque di cadere in errore. In fondo – si era detta – di uomini mori e con la barba ce n’erano parecchi.
«In persona». L’uomo si indicò con il pollice. «E ho l’impressione di conoscervi, ma proprio non riesco a ricordarmi di voi» aggiunse, grattandosi la nuca. Aggrottò la fronte, scrutando i due con aria attenta.
«Siamo i figli di Grace, Igor e Franziska». Igor lasciò la mano di sua sorella, e per un attimo la ragazza si sentì come una barca lasciata alla deriva. «Grace Madison» continuò il quattordicenne, vista l’espressione interrogativa sul volto del loro possibile datore di lavoro.
Poi, il viso di Jean si rilassò, e un lampo di malinconia attraversò i suoi occhi. «Siete i due gemelli» rilevò, abbassandosi un poco verso di loro per osservarli meglio. «Siete cresciuti tantissimo. Quanti anni sono passati da quando…» lasciò la frase in sospeso, quasi temesse la forza delle parole successive. Ma Franziska non apprezzò quel gesto. Avrebbe preferito che avesse pronunciato anche l’ultima parte della frase – quanto tempo è passato da quando Grace è morta?
Da sempre odiava tutto quel timore a parlare della morte di sua madre davanti a lei o i suoi fratelli, come se tutti temessero di riaprire quelle ferite rimarginate a fatica. Franziska avrebbe voluto urlare al mondo di smetterla di trattarla come una ragazzetta appena colpita dal lutto, perché quelle ferite non si erano rimarginate, non sarebbe mai successo, e odiava dover vivere con tutta quel timore nei suoi confronti. Non si sentiva una bambola di porcellana, lei, era fatta di cemento massiccio, messo insieme dopo anni di privazioni; ormai da tempo resisteva ai colpi bassi della vita, alcune parole non avrebbero cambiato quello stato.
«Sei anni» rispose Igor. «Noi ora ne abbiamo quattordici».
«Siete già nel pieno dell’adolescenza». Sorrise, Jean, prima di voltarsi e fare un cenno con la mano in direzione di una porta poco lontana. «Andiamo nel mio ufficio, che ne dite? Così potremo parlare tranquillamente, senza che tutte queste macchine ci rendano difficile sentire».
Senza dire nient’altro, il gruppetto iniziò a camminare verso quella porta scura, che quasi non si notava, se non per una finestrella che si apriva sul resto dell’officina.
Una volta giunti nell’ufficio di Jean, i rumori si fecero più attutiti, e l’atmosfera cambiò radicalmente. Sembrava di stare in un salottino: per quanto piccolo, lo stanzino era arredato come una casa. Su una scrivania ingombra di carte c’erano alcuni portafoto, e altre fotografie stavano alle pareti. Perlopiù, raffiguravano dei bambini e una donna adulta – la moglie di Jean, con ogni probabilità, e la sua mancanza in una foto dove era ritratta tutta la famiglia faceva presupporre che il simpatico proprietario dell’officina fosse rimasto vedovo, oppure divorziato.
«Sedetevi, prego» li invitò, indicando due sedie poste dinnanzi alla scrivania. Lui prese posto dietro il grosso tavolo, sedendosi su una sedia ben più professionale di quelle prospicienti ad esso.
Riluttante e non poco a disagio, Franziska prese posto, guardandosi intorno con curiosità. Lo stesso fece suo fratello, anche se appariva meno preso da tutto ciò che aveva attorno e continuava a fissare Jean, attendendo che dicesse altro.
«Dunque» esordì l’uomo, afferrando una matita e picchiettandola a terra; di fronte a lui vi era un foglio, come se dovesse prendere appunti, «avete tutta l’aria di dovermi dire qualcosa di davvero importante».
«Sì». Igor allungò le mani sul tavolo, torturandosi le dita. «Io e Franziska dovremmo parlarle di una questione importante. Importantissima, direi». I suoi occhi dardeggiarono in direzione della gemella, che sedeva composta, senza osare muovere un muscolo.
«Non posso uccidere della gente, vi avverto». Jean alzò le mani in segno di resa, ridacchiando e, suo malgrado, anche la quattordicenne si ritrovò a incurvare le labbra in su. Quell’uomo aveva la capacità di alleggerire la tensione e far sentire chi parlava con lui a proprio agio e fu felice di ciò. Se proprio doveva lavorare per lui, era contenta di avere un capo così, piuttosto che un despota che stava con il fiato sul collo ai propri meccanici.
«Nulla di troppo impegnativo» disse la ragazza. «Ma è una questione seria. Noi cerchiamo un lavoro».
Dritta al sodo, senza giri di parole. Franziska sapeva che erano inutili, in momenti come quello. Voleva una risposta e la voleva subito, senza dover attendere un lungo discorso introduttivo che non sarebbe servito a nulla.
«Purtroppo siamo in una situazione delicata» si intromise Igor, togliendosi il suo inseparabile cappellino da baseball. Passò una mano tra le ciocche spettinate, cercando di sistemarle senza alcun risultato. «Nostro padre è morto, ma nostra nonna ci ha gentilmente accolti. Purtroppo, però, Warwick non ci ha lasciato nemmeno un soldo, mentre nonna ha una pensione bassa e non riesce a mantenere noi due più il nostro fratellino e se stessa. E le tessere non servono a molto, se non hai soldi per comprare altre cose utili».
«Hai ragione» assentì Jean, annuendo. In mano stringeva ancora la matita, ma anziché mettersi a scarabocchiare come avrebbe potuto fare chiunque altro, era rimasto zitto a fissare il quattordicenne.
«Nostra nonna ci ha consigliato di venire da lei, per trovare lavoro. Si ricordava di lei e ci ha raccontato che era il datore di lavoro di mamma, quindi abbiamo pensato che venire qui sarebbe stato quantomeno un passo avanti per provare a sistemare le nostre vite» spiegò Franziska, gesticolando nervosamente.
«Siete dei ragazzini molto tenaci, vedo». Jean sorrise, sfoderando una schiera di denti dritti come fusi. «Assomigliate a vostra madre, sia in questo che fisicamente. Sapete, molto spesso mi capita di incontrare dei ragazzi come voi, che cercano un lavoro perché hanno delle famiglie povere. Li ammiro molto. Significa che sanno prendersi le loro responsabilità. Ma d’altronde, a Panem si impara a sopravvivere così, giusto?»
Quelle parole sembravano contenere almeno una miriade di significati nascosti. Era come se Jean stesse accusando Capitol City e Franziska decise una volta per tutte che quell’uomo le piaceva.
«Giustissimo. Allora, che si fa?»
Lo scrutò di sottecchi, cercando di captare ogni sua minima reazione che avesse indicato un diniego.
«Si lavora, allora».
Franziska dovette trattenersi dal saltare sulla sedia e urlare di gioia. Era come se un treno merci carico di felicità l’avesse investita, lasciando la sua mente in un intorpidimento piacevole e sereno, una sensazione che era poco abituata a provare.
La ruota stava iniziando a girare nel verso giusto, ma non per investirla e farle male, come era capitato fino a quel momento.
Dovendo trattenere una reazione di gioia estrema, si limitò a stamparsi un sorrisetto compiaciuto in faccia.
«Grazie!» Igor si alzò, allungando il braccio verso il loro nuovo datore di lavoro. Jean la strinse con vigore, ridendo, e fece cenno al quattordicenne di sedersi.
«Mettiamoci d’accordo sui turni di lavoro, allora. Voi due avete la scuola», li indicò con la matita, «quindi potrete lavorare solo al pomeriggio».
«La scuola posso anche saltarla, non è un problema».
L’entusiasmo di Igor fu subito sedato da Jean. «Anche io non volevo andare a scuola alla tua età, ma devi andarci e studiare. Non voglio che la tua tostissima nonna venga qua a prendermi a bastonate. Al pomeriggio andrebbe bene, direi magari un’oretta dopo che avete finito la scuola, in base ai vostri orari. Vi chiederei gentilmente di scriverli qua».
Prese un foglio di carta da una risma accanto a lui e lo posizionò dinnanzi a Igor, tendendogli anche la matita da cui non si era separato dall’inizio di quel colloquio. Il ragazzo la prese, iniziando ad appuntare tutti gli orari scolastici su un foglio.
«Facciamo magari quattro ore al giorno? Non voglio strapazzarvi di lavoro. So che dovete studiare e tutto il resto, quindi vi lascio liberi. La paga che vi darò dovrebbe bastarvi per mandare avanti la vostra famiglia. Purtroppo ho molti operai e devo sempre tirare la cinghia con i più giovani. Ma secondo i miei calcoli, tra le tessere e questo salario mensile potrete farcela senza problemi».
Prese dalle mani di Igor la matita che gli stava tendendo e il foglio. Lanciò una breve occhiata alle scritte, per poi tornare a rivolgere la sua attenzione ai giovani.
«Buon lavoro, allora. Domani si inizia».
 
 
 
*
 
Per tutta la sera le sembrò di camminare sulle nuvole, a cento metri da terra. La sua felicità era tale che nemmeno il pensiero delle giornate incasinate che l’attendevano riusciva a lenirla.
Erano anni che non si sentiva così contenta, gioiosa. L’ultima volta era stata quando la mamma era viva. Per il resto, i momenti di serenità erano stati talmente rari e brevi che lei nemmeno li ricordava.
Seduto sul letto, Igor continuava a strimpellare con la chitarra, uno degli ultimi ricordi della madre che era rimasto ai tre fratelli. Deryck era addormentato accanto a lui, con il volto affondato nel cuscino e i capelli neri che sembravano una macchia su quel bianco immacolato della federa. Quanto ad Anne, lei era andata a dormire poco prima, minacciando Igor di spaccargli lo strumento in testa se solo avesse osato fare troppo rumore.
«Cosa mi suoni di bello, mio dolce cantastorie?» domandò Franziska, gattonando sul letto di suo fratello e sedendosi accanto a lui. Igor le rivolse un’occhiata divertita, ma le sue dita non si staccarono dalle corde della chitarra, come un fidanzato protettivo con la sua dolce metà. Franziska avrebbe scommesso milioni sul fatto che suo fratello non avrebbe mai abbandonato quella chitarra, anche a costo della vita.
La sapeva suonare anche lei – Grace aveva insegnato ad entrambi – ma Igor sapeva fare magie, quando le sue dita incontravano le corde di nylon, dolcemente, come una carezza sulla guancia di una donna o di un bambino.
Non passava serata senza che il maggiore dei Madison deliziasse i suoi fratelli con qualche canzoncina, di quelle imparate quando la mamma era ancora viva.
Amava una musica strana, Grace, che lei definiva rock. Con quella chitarra, però, non potevano riprodurla così come la sentivano nei CD lasciati loro in eredità dalla donna.
«Non lo so, mia piccola sirena». Le labbra di Igor si incresparono in un sorrisetto. Era lei, la cantante del gruppo. Franziska adorava mettersi a cantare, mentre il suo gemello si dedicava alla chitarra – nonostante anche lui avesse dato prova di buone abilità canore. Avevano pensato, molte volte, di mettersi per strada e ottenere soldi così, ma entrambi si erano rifiutati, senza un motivo ben preciso. Forse perché era già capitato che vedessero alcuni mendicanti, e la loro condizione non era di certo delle migliori. Uomini dagli sguardi spenti, appostati agli angoli delle strade, vestiti di stracci e con delle chitarre ormai stonate in mano che cercavano di racimolare qualche spicciolo, per un pezzo di pane raffermo, o anche solo per una coperta e morire al caldo, mentre la tempesta di neve infuriava.
«Mia piccola sirena?» Franziska inarcò un sopracciglio. «Siamo al Distretto 6, in caso te ne sia dimenticato» aggiunse a voce bassa; una constatazione di quanto anche la sua vita fosse miserabile come quella dei mendicanti.
Tutto in quella parola – Distretto 6 – sembrava indicare quel posto così poco accogliente. Ogni volta che lo ripeteva Franziska aveva come l’impressione che ad essa si sovrapponessero altri sostantivi, altri aggettivi.
Povertà. Miseria. Scarse abilità di combattimento. Morte quasi certa agli Hunger Games. Un traffico di droga da far invidia a qualunque altro posto. Pacificatori che stanno addosso.
«Lo so, ma le sirene possono esserci anche in posti così brutti; in fondo anche il mare era inquinato un tempo. L’hanno detto a scuola». Era una magra consolazione, quella di Igor, e anche il suo sorriso prese una piega amara.
«Le sirene muoiono dove non c’è acqua».
Franziska portò le ginocchia al petto, circondando le gambe con le braccia. Si sentì improvvisamente trascinata indietro di almeno sei anni, come se qualcuno avesse stoppato il film della sua vita e premuto il tasto rewind. Viaggiò con la mente fino a quando, da bambina, si metteva sempre in quella posizione, perché era triste, perché voleva un po’ di conforto, ma aldilà di Igor non c’era più nessuno per lei, dopo la morte di sua madre.
«Tu sei una sirena speciale». Igor scosse la testa, tornando a strimpellare. «Allora, che vuoi cantare?»
«Ora come ora mi viene in mente una canzone che ci cantava sempre mamma. Te la ricordi My Bloody Valentine?»
La canzone preferita di Grace, quella che lei amava tanto cantare nonostante il significato decisamente tetro.
Per un istante, Franziska ripensò a lei, al modo in cui accarezzava con cura le corde della chitarra, come le passava tra i suoi capelli quando era triste; ripensò alla sua voce, così dolce e armoniosa, che ogni sera le cantava qualcosa per farla addormentare – tentativo vano, poiché sia lei che Igor si alzavano, battendo le mani, e chiedendo il bis.
«Certo. È da tanto che non la cantiamo». L’ultima volta era stata forse qualche anno prima, in uno dei rari momenti che avevano avuto per stare tutti insieme senza essere troppo stanchi o arrabbiati, mentre Warwick era fuori a bere, a drogarsi o a fare sesso con una prostituta.
«Allora cominciamo. Vai».
Igor iniziò a suonare quella melodia che da troppo tempo non accarezzava le loro orecchie, la suonò con cura, come se Grace fosse ancora lì con loro ad ascoltare.
«Oh, my love, please don’t cry. I’ll wash my bloody hands and we’ll start a new life» intonò la ragazza, stupendosi non poco di ricordarsi ancora il testo dopo così tanto tempo.
Amava quella canzone, per quanto il significato non fosse di certo allegro e gioviale come ci si sarebbe aspettato dal trasporto con cui cantava.
Sua madre le aveva raccontato anni prima che narrava di un giovane così follemente innamorato di una ragazza da uccidere il fidanzato di quest’ultima, e poi prometterle che avrebbero iniziato insieme una nuova vita.
«I ripped out his throat and call you on the telephone to take off my disguise just in time to hear you cry».
Quando era piccola, Franziska era rimasta colpita da tutta quella storia così macabra e romantica al tempo stesso, tanto da arrivare a pensarci persino di notte, quando non riusciva a dormire. Bambina com’era, le risultava inconcepibile l’idea di poter uccidere qualcuno per amore. Non solo l’amante di una persona di cui si è così innamorati da star male, ma anche le persone che cercano di portarti via colui o colei per cui daresti la vita.
«Oh, my love, please don’t cry, I’ll wash my bloody hands and we’ll start a new life. I don’t know much at all, I don’t know wrong from right. All I know is that I love you tonight».
Crescendo, però, si era resa conto che quelle erano solo credenze infantili e puerile paura di far del male a qualcuno. Aveva capito, Franziska, che persino lei sarebbe arrivata ad uccidere qualcuno, pur di far star bene coloro che amava. Non era stata lei, del resto, a minacciare suo padre con un coltello, desiderando sventrarlo pur di difendere il fratellino? L’idea di ucciderlo l’aveva carezzata così tante volte, irresistibile e proibita tentazione. Farlo fuori, per non avere più paura, per non dover più dormire ogni notte nella stanzetta di Deryck, con un coltello a portata di mano per ficcarglielo nelle viscere ed evitare di uccidere il suo fratellino.
Ma malgrado fosse così scettica dinnanzi a quel racconto così triste, che tuttavia aveva del romanticismo intrinseco, le era capitato, con la sua infantile e innocente fantasia di bambina, di sognare di avere anche lei un ragazzo così. Si discostava molto dal canone di fidanzato ideale delle altre sue coetanee, ma non poteva fare a meno di immaginare di essere una ragazza amata così tanto da una persona da costringerla ad ucciderne un’altra.
Nei suoi sogni proibiti e inaccessibili, il principe macabro e assassino era un ragazzo dai capelli e dagli occhi castani – non biondo o con gli occhi azzurri, perché c’era già Igor, con i capelli e gli occhi chiari, e lei lo considerava un po’ il suo principe, fin da piccola. Ma anche lui era una specie di amante assassino, che avrebbe fatto di tutto per proteggere lei e Deryck.
Durante la crescita aveva perso quel sogno così strano per una bambina, eppure una parte di lei ancora immaginava che un principe assassino dai capelli e occhi castani sarebbe entrato nella sua stanza per portarla via da tutto quello schifo, verso un luogo ben più accogliente e colorato del Distretto 6.
Finita la canzone, si rese conto che mentre cantava era entrata in una sorta di altro mondo, dimenticando tutto ciò che c’era attorno a lei. Le sue palpebre si erano serrate, mentre accedeva ai luoghi più reconditi e nascosti della sua mente; quelli di cui solo lei aveva le chiavi.
Deryck si era seduto sul letto e la guardava incuriosito; Igor le rivolse un sorrisetto compiaciuto, uno di quelli così rari che ormai Franziska aveva persino dimenticato come fossero.
«Hai una voce stupenda».
Si stupì non poco di sentire la voce della nonna a poca distanza da lei.
Anne era sulle scale, i lunghi capelli sciolti che le scendevano lungo la schiena, fasciata da una leggere camicia da notte bianca. Il solito cipiglio severo era stato sostituito da un’espressione rilassata e vagamente malinconica, tanto che Franziska ebbe l’impressione di vedere i suoi occhi luccicare sotto la fioca luce della lampada.
Arrossì violentemente, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro. Era abituata a cantare con tutti i suoi famigliari intorno, ma sentire complimenti la metteva sempre in imbarazzo, specie se essi provenivano da una persona semisconosciuta come Anne.
«Grazie» sussurrò.
«Anche Grace amava cantare. Sei brava come lei».
La nonna si avvicinò a lei, la camicia da notte che strusciava a terra e il passo stanco. Le sue mani erano giunte in grembo, quasi stesse pregando. Si sedette accanto alla nipote, prendendo a carezzarle i capelli come una volta faceva sua madre.
«Me l’ha insegnata lei questa canzone. Ci ha insegnato anche a suonare la chitarra» raccontò, e d’un tratto si sentì ancora tornare piccola, mentre le mani della nonna si muovevano tra le ciocche color grano, districando anche quei piccoli nodi che vi si erano formati.
«Me la ricordo. La cantava spesso. Hai ereditato il suo talento». Anne deglutì, come se stesse trattenendo le lacrime. «Siete dei ragazzi davvero bravi. Non dovete lasciare che la vostra vita vada sprecata in questo schifo di posto».
«Ma che altre possibilità abbiamo?» Igor si girò verso di loro, appoggiando la chitarra a terra, ma continuano a reggerla. «Non si può scappare dai Distretti. Nessuno può farlo. E siamo ancora papabili tributi».
«Papabili tributi… e persone. Potreste fare grandi cose. In voi arde il fuoco della giovinezza, della forza e della ribellione. Potreste essere le scintille che appiccheranno il fuoco della rivolta».
Per un breve istante, Franziska rimase sbalordita dinnanzi alle parole appena pronunciate dalla donna, come se fosse stato qualcun altro a parlare. Erano così strane, dette da lei, con quel tono pacato e gentile che fin’ora non le aveva mai sentito; un tono che comunque manteneva una nota di decisione. Si percepiva tutta la sua rabbia, tutta la sua voglia di cambiare le cose. Con la sua età, lei aveva visto gli Hunger Games nascere ed espandersi, aveva assistito ad ogni edizione, visto ritornare treni senza più i ragazzi che vi erano saliti a bordo per andare a Capitol City.
«Tu credi che finirà mai tutto questo?» chiese con un filo di voce, le mani che tremavano leggermente.
«Sarebbe giusto. Sono sicura che prima o poi arriverà una persona a porre fine a tutto questo. Potresti anche essere tu, chi lo sa». La donna scostò un ciuffo di capelli dalla fronte della nipote, prima di alzarsi. «Ora, però, vai a dormire, sia tu che il signorino non-sorrido-mai. Deryck, amore di nonna, tu vieni che andiamo a nanna». Tese una mano verso il nipotino, che scese dal letto e salì sulle scale, seguito da Anne.
«Secondo te dice sul serio?» Franziska avvicinò il volto all’orecchio del fratello, mormorando queste parole. Igor scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli scompigliati.
«Lo spero davvero» sussurrò, appoggiando la chitarra a terra. «E vorrei tanto essere io, quella persona».


 


Alaska's corner

Eccomi, eccomi :3 Dunque, aggiorno dopo millemila anni, ma sinceramente ero abbastanza arrabbiata con me stessa; diciamo che mi aspettavo più successo e ne ho ottenuto pochissimo, probabilmente perché la storia - in effetti - è noiosa, oppure boh. 
Fatto sta che ho voluto aggiornare perché l'ho iniziata e ora la porto a termine, non voglio arrendermi u_u
Dunque, questo quinto capitolo è stato dedicato soprattutto a Franziska e Igor, me ne rendo conto, però dovevo approfondire bene la questione della loro ricerca di lavoro. C'è pero un primo contatto tra i protagonisti, come vedete, Franziska già adora Aaron (?)
A parte gli scherzi, come vedete, PER ORA, le cose per i gemelli vanno bene, ma badate PER ORA. E con PER ORA, intendo che i problemi devono ancora arrivare e ce ne saranno eccome, per tutti i nostri protagonisti :D 
Sì, in questo capitolo c'è il secondo accenno al titolo, perché comunque ricorrerà anche in un futuro capitolo e altri ancora, forse... 
Ah, sì, qui finalmente si scoprono alcune cose: Aaron fa i graffiti, Franziska e Igor amano la musica. Lo so che la questione canto può fare tanto Katniss, ma ripeto: Franziska non è Katniss; è peggio. 
La questione lavoro è molto inventata, non so come effettivamente funzioni il lavoro a Panem, visto che non ci viene mai detto. 
Uh, ho fatto un piccolo cambiamento, nel senso che inizialmente questa storia doveva essere formata da due parti; alla fine ho deciso di dividerla in tre parti e togliere la seconda prevista (che era ambientata in un altro periodo) e di scriverla come sequel, perché sennò questa mi veniva di tipo 100 capitoli.
Scappo a finire di studiare e scrivere! Se volete seguirmi, vi ricordo di cercare Il Brutto Anatroccolo su facebook. Come semrpe, un grazie a chi ha letto e recensito ♥
Alla prossima - probabilmente lunedì prossimo;
Alaska. ~

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Capitolo 7
*** O6 » Chocolate « ***






 
CAPITOLO VI
 
Chocolate
 
 
« Un colpo secco li fece sobbalzare tutti quanti. Il professor Lupin stava spezzando un’enorme tavoletta di cioccolato.
“Tieni” disse a Harry, e gliene tese un pezzo piuttosto grosso. “Mangia. Ti farà bene”. »
J.K. Rowling; “Harry Potter e il prigioniero di Azkaban”
 
 
Il giorno dopo, Igor contò i minuti, i secondi che lo separavano dal suo nuovo lavoro, quasi stesse aspettando che arrivasse Natale per scartare i regali. Persino a scuola passò tutto il suo tempo tamburellando con la matita sul banco, o immaginando come sarebbe stato il primo giorno in officina.
Non che ci fosse da esserne allegri, ma una strana euforia aveva pervaso le sue membra non appena si era svegliato, quella mattina.
Il discorso della nonna la sera prima lo aveva turbato ed esaltato al tempo stesso. Malgrado a soli quattordici anni avesse già un’idea chiara di come andasse il mondo, c’era ancora quella stilla di speranza sul suo cuore che non voleva saperne di asciugarsi, quella stilla che gli faceva sperare in un mondo nuovo e migliore.
Stare a scuola, tuttavia, lo deprimeva non poco. L’ambiente non era di certo paragonabile alla lussureggiante villa del presidente Snow che aveva intravisto in tv diverse volte. La classe null’altro era, se non uno spazio di quadrato; quattro grigie pareti che tenevano a bada un manipolo di studenti che sembravano aver voglia di far tutto, meno che stare lì.
Odiava la scuola, Igor, aveva sempre detestato stare lì dentro sin da quando sua madre lo aveva portato per la prima volta. Si sentiva come un animale in gabbia e le inferriate alle finestre non facevano che aumentare quel senso di oppressione che lo pervadeva ogni volta che metteva piede nell’angusta aula riservata alla sua classe.
I suoi compagni, poi, non erano il massimo della libidine. Se non per qualche piccola eccezione – come sua sorella e qualche ragazzo che viveva nelle sue stesse condizioni – gli altri non erano tipi con cui voleva fare amicizia. Sembravano tutti degli zombie, con quelle facce tristi e depresse, quasi più grigie delle mura della scuola. Seguivano tutti la lezione in silenzio, gli occhi persi a fissare qualche punto imprecisato.
Automi. Erano tutti automi comandati dal volere di Capitol City, che li voleva trasformare in robot senz’anima e senza cuore, considerati animali da mandare al macello una volta all’anno, giusto per divertire la Capitale.
E il Distretto 6 non era di sicuro il posto più favorito di Panem, ai Giochi. In tutta la storia degli Hunger Games avevano avuto forse tre, quattro vincitori, di cui solo due erano in vita, ma la loro condizione non lo dava a vedere.
Il suono della campanella interruppe il discorso della professoressa di inglese – ormai divenuto una sorta di mormorio indistinto che produceva sonnolenza immediata in chiunque l’ascoltasse.
Quasi dovesse correre per una gara, Igor si alzò in piedi, scaraventando indietro la sedia e afferrando lo zaino. Gettò dentro le cose alla bell’è meglio, senza curarsi se stropicciava o meno i fogli; al contrario di sua sorella, che ripose le matite nell’astuccio ormai rotto che usava e chiuse i quaderni con cura.
Ogni tanto, Igor invidiava Franziska per quella sua strana fame di conoscenza che aveva. Era intelligente, lei, mentre lui si considerava poco più che un ragazzetto senza molto cervello. Gli capitava di pensare che avrebbe voluto essere come lei, uno studente quasi modello – quasi perché di tanto in tanto, anche sua sorella saltava le lezioni, proprio come lui, e faceva parecchie risse.
«Sbrigati, Lala» la esortò, picchiando con il piede destro a terra. I loro compagni di classe stavano già correndo fuori dall’aula, con gli zaini che sbatacchiavano sulla schiena e i volti decisamente rasserenati rispetto a qualche minuto prima.
«Ci sono, ci sono». Franziska si mise lo zaino in spalla, raggiungendo il fratello, nonché compagno di banco da ormai diversi anni. Igor si rattristò non poco, pensando che qualche anno prima erano in tre, di solito. Lui, Franziska e Nikole, un trio strano, ma inossidabile.
 
«E dai, Dodo! Vieni a fare un giretto con me e Nikole!»
Franziska lo guardava con fare supplichevole, tenendo Deryck stretto tra le braccia. Il bambino stava giocherellando con una ciocca di capelli della sorella maggiore, guardando incuriosito i riflessi dorati prodotti dal sole pomeridiano.
«Non ci penso nemmeno. Io non esco con le femmine!» esclamò il ragazzino, sputando fuori l’ultima parola come qualcosa di abominevole. Gli stava simpatica, Nikole, era l’unica amica che sua sorella avesse, ma non gli piaceva proprio l’idea di stare in giro con due ragazze. C’era Deryck, ma lui aveva appena tre anni, quindi non contava come esempio di maschio.
«Sei solo un vanitoso e fifone!»
Nikole gli fece la linguaccia, ma i suoi occhi color ghiaccio ridevano di gioia e di divertimento.
Igor arrossì furiosamente, distogliendo lo sguardo dalla ragazzina e maledicendosi più volte. Non voleva arrossire davanti a lei – non poteva – oppure avrebbe capito che, sotto sotto, lui aveva una cottarella per lei.
«Non sono vanitoso e fifone! Ho undici anni, presto sarò un uomo… e comunque, vengo, sì» borbottò, iniziando a camminare verso le due ragazzine, che si scambiarono un sorriso radioso.
 
 
*
 
Non gli era sfuggita l’entrata dei gemelli Madison in officina, il giorno prima.
Mentre lavorava, Aaron si era chiesto cosa ci facessero quei due lì dentro. Non gli era mai capitato, - fino a quel momento, almeno - di trovare suoi coetanei al lavoro. I più erano gente che andava in officina per aiutare i propri genitori – come lui con zio Martyn – ma Igor e Franziska erano orfani e vederli lì dentro gli aveva fatto una strana impressione.
Anche io sarei orfano, si ricordò mentalmente, arrossendo leggermente al solo pensiero. Viveva con gli zii, ma non aveva mai dimenticato le sue vere origini, sebbene, di tanto in tanto, gli sembrasse di stare proprio con i suoi genitori.
Brenton, al contrario suo, sembrava portarsi appresso l’assenza di Keira e Jonathan, proprio come un’ombra, e glielo si leggeva in faccia ogni volta che erano tutti a tavola, ogni volta che erano tutti insieme e lui non badava agli altri.
Aaron avrebbe voluto fargli dimenticare tutto quello che era successo loro nella vita, ma sapeva che era impossibile.
Lui non era una gomma. Lui non cancellava nulla, anzi, era forse un pennarello nero per ripassare i contorni e con la sua presenza non faceva che ricordare le due figure genitoriali a Brenton.
 
«Aaron, mi passeresti quel cucchiaio?»
Il bambino – seduto sul tavolo con le gambe a penzoloni – osservava la zia mentre si dedicava alla preparazione di una torta. Erano rari i momenti in cui riuscivano ad avere tutti gli ingredienti necessari, ma quando capitava era una festa.
Stare in cucina mentre la zia lavorava era una delle cose che divertiva di più Aaron, specialmente quando Katy gli dava un po’ dell’impasto da assaggiare e lui faceva finta di essere un buongustaio.
Tese il cucchiaio alla zia, come un ottimo aiutante, e, per ringraziarlo, la donna gli diede un buffetto sul naso, lasciandogli un impercettibile traccia di farina.
«Così mi copri tutte queste lentiggini» commentò il bambino, toccandosi le guance con fare imbronciato. A sentire sua zia, quelle lentiggini erano una delle sue qualità migliori, ma a lui non piacevano. Sembrava che avesse il viso costantemente macchiato, quasi qualcuno si fosse divertito a disegnare dei pallini con un pennarello indelebile.
«A me piacciono! Le hai ereditate da tuo padre».
Il bambino si fece d’un tratto più interessato. Si ricordò all’improvviso che anche suo padre ne aveva, sul viso, proprio come lui.
Il fatto che gli fosse tornata alla mente quella cosa così lo fece sentire strano. Aveva passato anni con Jonathan, ma pian piano era come se il volto dell’uomo stesse svanendo dai suoi ricordi. Gli succedeva, spesso, ormai, di provare ad immaginare le facce dei suoi genitori, ma tutte le volte esse non erano quelle sorridenti e felici che aveva conosciuto, bensì quelle rese scure dallo strozzamento che li aveva condotti alla morte.
Si stava scordando di loro e questo oblio dei suoi ricordi lo spaventava forse di più della morte stessa.
«Hai voglia di assaggiare?»
Katy si girò verso di lui, brandendo il cucchiaio con dell’impasto nella mano destra.
Aaron fece finta di leccarsi i baffi e strusciò le mani l’una contro l’altra, sentendo un languorino allo stomaco.
«D’accordo, mamma».
Non si rese conto di quelle parole finché non si accorse che la zia aveva sgranato gli occhi e lo guardava, stupita.
L’aveva chiamata mamma.
Ma lei non era la sua mamma. Lei era zia Katy, la sua tutrice, la sorella di Keira.
Si sentì così schifato da se stesso, che saltò giù dal tavolo e corse via, senza nemmeno lasciare che la zia lo fermasse.
Aprì la porta, correndo fuori, mentre le lacrime iniziavano a scorrere lungo il suo volto.
Come gli era venuto in mente di chiamare Katy “mamma”?
Come aveva potuto scambiare le due, malgrado la somiglianza fosse evidente?
Si odiava per quell’errore, voleva solo farsi del male. Era come se avesse tradito Keira, il suo ricordo, tutto ciò che lei era stata. Aveva come l’impressione di averla rinnegata, di essersi dimenticato di lei.
Il tempo passava, andava via veloce e portava via tutti i ricordi.
Ma al contempo, essi parevano più presenti che mai.
«Scusa» biascicò, mentre correva verso la tomba di colei che era stata sua madre.
 
 
«Scusa? Scusa!»
Aaron sbatté più volte le palpebre, risvegliandosi da quello strano stato di apatia in cui era caduto mentre pensava a sua madre e a sua zia.
La voce che lo chiamava parve fondersi con la sua dei ricordi, e ci mise un istante a capire che chi stava parlando con lui era reale e non un mero incubo dei tempi andati.
Si girò verso destra, stropicciandosi gli occhi con le mani.
Franziska Madison era accanto a lui. Per poco non gli prese un colpo. Aveva fantasticato su di lei e il fratello fino a quel momento, prima di ricordarsi di sua madre. Era come se si sentisse colpevole di un crimine non commesso, mentre la guardava.
La quattordicenne stava accanto a lui, le mani sui fianchi e la solita espressione imbronciata che lui aveva notato spesso e volentieri a scuola. Lì vicino, però, poté notare altro: i capelli, ad esempio, biondi come il grano, ma non quel biondo stopposo e giallastro che spesso notava nelle sue compagne; gli occhi, verdi, che risplendevano in quel volto dai lineamenti ancora paffuti dall’infanzia, ma che presto avrebbero assunto un’aria più adulta; lo sguardo, truce, ma al contempo triste, come se stesse nascondendo un segreto al mondo.
«Parli con me?» chiese, dandosi subito dell’idiota per quella domanda inutile e retorica. Era ovvio che parlasse con lui. I suoi occhi sembravano quasi trafiggerlo.
«No, parlo con il pezzo di ricambio che tieni in mano» replicò la giovane, inarcando un sopracciglio. «Mi passeresti quella chiave inglese?»
Con un dito indicò l’utensile, poggiato a qualche centimetro dalla mano di Aaron.
Il quattordicenne arrossì ancora una volta, senza smetterla di darsi dello stupido, mentre allungava il braccio e le sue dita si stringevano attorno all’arnese. «Ecco qua».
«Grazie».
Fredda e distaccata, quel “grazie” sembrava più un semplice rito che una parola detta col cuore. Persino il leggero incurvarsi delle sue labbra in un finto sorriso era freddo come il ghiaccio.
Aaron si rimise al lavoro, distogliendo lo sguardo dalla collega.
Ogni volta che si trattava di donne, gli andava sempre il cervello in pappa.
 
 
*
 
Per quanto potesse sembrare strano, stare in officina a lavorare le piaceva.
Nonostante la fatica, la noia che qualche volta l’assaliva, si divertiva a stare lì e montare, mettere a posto varie parti di treni e sistemare i motori. Per essere il suo primo giorno di lavoro, doveva ammettere di trovarsi bene.
Al suo fianco, c’era un ragazzo, lo stesso con cui il giorno prima si era scambiata una breve occhiata. Doveva avere la sua età, Aaron, ma in confronto a lei sembrava molto più grande, sebbene il suo viso dai tratti tanto fanciulleschi tradisse quanti anni avesse realmente.
Di tanto in tanto, Franziska gli lanciava delle occhiate, cercando di studiarlo. Era un’abitudine strana, ma quando stava accanto a qualcuno tendeva sempre ad osservarlo, come a voler capire come fosse fatto veramente.
Aveva imparato, negli anni, che i soli occhi di una persona potevano rivelare la sua vera natura, il suo Io interiore che all’esterno non si notava.
E gli occhi di Aaron – lo aveva visto durante il loro breve scambio di battute – lasciavano trasparire una tristezza quasi rassegnata, accompagnata però ad una rabbia strana, per un ragazzo dall’aria così tranquilla.
Erano marroni, le sue iridi. Due pezzi di cioccolato, che spiccavano su un volto piccolo e da bambino, coperto da lentiggini. Solo il piercing che aveva al labbro lo faceva sembrare leggermente più grande, così come la sua altezza.
Carino.
Si stupì, pensando quel semplice aggettivo.
Distolse lo sguardo dalla figura di Aaron, tornando a concentrarsi sul motore al quale stava lavorando.
Era la prima volta che si trovava a descrivere così un maschio. Fino a quel momento, l’unico che aveva definito carino era stato Igor, ma era suo fratello e non contava. Gli altri ragazzi erano solo un branco di pecore che vedeva a scuola, molti dei quali gente con cui aveva intrattenuto qualche rissa insieme al suo gemello.
Ma era così che avrebbe definito Aaron: carino. Non solo per il suo aspetto fisico piuttosto piacevole, ma anche per il modo in cui l’aveva guardata, come se vedesse una ragazza per la prima volta, per il modo in cui era arrossito dopo che lei gli aveva risposto in modo brusco.
Un gemito soffocato – che riuscì ad udire, sebbene i rumori dell’officina tendessero a non far sentire nulla – la costrinse a voltarsi verso destra.
Aaron era indietreggiato, tenendosi una mano e guardandola con aria spaventata. Franziska riuscì a notare una goccia di sangue che cadeva a terra, accompagnata da un mormorio indistinto che continuava a fuoriuscire dalle labbra del ragazzo. Non riuscì a capire ogni parola, ma le sembravano delle imprecazioni ripetute una dietro l’altra.
«Dire parolacce non ti farà passare il dolore» esordì, girandosi del tutto e mettendo le mani sui fianchi, incurante di averle sporche di grasso fino alle unghie. «Anche se alcuni sostengono il contrario».
Aaron le lanciò un’occhiata stranita, la bocca contorta in un’espressione di dolore. «L’ho sentito anche io» disse, arrossendo fino alla punta dei capelli, e Franziska non poté trattenere un sorrisetto intenerito.
«Fammi vedere il taglio».
Non sapeva da dove veniva quello slancio di bontà, ma improvvisamente si era sentita piena di gentilezza come mai era stata in vita sua; complice, forse, il fatto che fosse felice di aver trovato un lavoro.
Aaron tese la mano verso di lei, con cautela, guardandola di sottecchi quasi temesse che lei lo sbranasse da un momento all’altro.
La quattordicenne osservò il taglio che spiccava sul palmo abbastanza abbronzato del ragazzo – una carnagione strana, per quel Distretto, si ritrovò a pensare. Non sembrava molto profondo, ma Aaron aveva la mani sporche di olio e grasso, e continuando a lavorare con la mano praticamente aperta avrebbe potuto portare ad un’infezione.
«Vieni con me» ordinò, facendogli cenno di seguirlo negli spogliatoi. Decisa, camminò per i corridoi dell’officina, affollati di operai, ignorando le occhiate stranite che qualcuno le lanciava.
Non hanno mai visto una ragazza lavorare qua?
La infastidiva non poco quel comportamento nei suoi confronti. Non era la prima volta che qualcuno la guardava così, come se fosse un alieno capitato nel posto sbagliato. Si era trattenuta varie volte dallo sbottare e urlare contro chi la fissava che anche lei aveva tutto il diritto di stare lì.
Ignorando chiunque, andò dritta nello spogliatoio femminile, che aveva il pregio di essere quasi completamente libero, considerata la poca affluenza di donne, là dentro. In effetti, dei ganci dove potevano appendere i loro vestiti, solo quattro o cinque erano occupati, e gli zaini posati sulle panchine non superavano quel numero.
«Dobbiamo proprio stare nello spogliatoio delle femmine?»
Aaron si bloccò sulla porta, voltando il capo da una parte all’altra con aria guardinga. Entrando, le sue guance si erano tinte ancora di più di rosso.
«Certo che sì. Ho qui tutta la mia roba» rispose la giovane, dirigendosi verso il suo zainetto. Aaron la seguì all’interno, deglutendo, mentre i suoi occhi saettavano da una parte all’altra della stanza.
Franziska aprì la sacca, tirando fuori tutto il necessario.
Prima che andassero a lavorare, la nonna aveva riempito lei e Igor di tutto il necessario per curarsi in caso di ferita: garze, disinfettante, cerotti. Mancavano solo le pastiglie, l’ago e il filo per cucire le ferite più profonde e sarebbe stato come portare in giro una farmacia.
Si era resa conto, quel giorno, che le era mancata quella sensazione di familiarità e amore che aveva provato anni prima con sua madre, quando baciava lei e Igor prima di mandarli a scuola, oppure li curava dopo che si erano sbucciati le ginocchia giocando a pallone.
Scosse la testa, appoggiando la bottiglietta di disinfettante sulla panchina. Si accorse solo in quel momento di avere le mani sporchissime, tanto che ormai il rosa pallido della sua pelle non si notava nemmeno più.
«Mi lavo le mani e ti curo. Siediti, intanto» ordinò al ragazzo, dirigendosi verso il misero lavandino posto accanto ad una parete. Si lavò le mani con cura, premurandosi di levare ogni traccia di sporco, onde evitare di combinare dei guai mentre curava Aaron. Dopodiché, tornò allo zaino e prese un asciugamano, pulendosi le mani bagnate.
Tornò di nuovo al lavandino, infine, e mise il panno sotto l’acqua. Lo avrebbe usato per pulire le mani di Aaron, sporche quasi quanto le sue.  
In tutto quel tempo, il quattordicenne non aveva proferito parola, ma si era limitato a stare seduto, osservando ogni minimo movimento della coetanea, facendola innervosire non poco.
«Eccomi qua».
Franziska si accucciò accanto ad Aaron, prendendogli la mano ferita e iniziando a tamponarla delicatamente.
 
«Mi sono sbucciata il ginocchio!»
Franziska indicò la sua gamba con un dito, gli occhi lucidi di lacrime e il dolore che non la lasciava in pace. Era come se qualcuno le avesse staccato le pelle a forza, nonostante si fosse solo fatta un taglio mentre giocava a calcio con Igor e i figli di Carine.
«Adesso lo curiamo, così poi la gamba ti torna come nuova». Grace si abbassò fino a guardarla negli occhi, sorridendole e dandole un buffetto sulla guancia. La bambina si costrinse a ricambiare quel sorriso, che svanì subito non appena sua madre si alzò con una smorfia di dolore.
«Ti sei fatta male anche tu, mami?» chiese, lasciando che Grace la issasse sul tavolo per guardare meglio la ferita.
Non le erano sfuggiti, il giorno prima, i gemiti provenienti dalla camera dei suoi genitori, e le parole quasi urlate di suo padre. Pensava che fosse solo un brutto sogno, ma lì, con la mamma che faceva delle smorfie addolorate, capì che forse non si era immaginata tutto. Si rabbuiò, mentre Grace andava a prendere delle garze in bagno, negando ogni sintomo di dolore.
Aspettò tranquilla, dondolando le gambe nel vuoto, e lanciando delle occhiatine a Igor, che, nel frattempo, ne aveva approfittato e si stava preparando un panino con la marmellata per merenda.
Avrebbe voluto dirglielo, raccontargli che la sera prima, mentre lui dormiva, lei aveva sentito il papà che faceva male alla mamma, ma non poté, interrotta dall’entrata nella cucina di Grace.
«Vediamo di mettere a posto il tuo ginocchio, okay?»
Sorrise, sua madre, un sorriso sincero senza ombra di dolore, e Franziska ebbe voglia di urlare, di dire a suo padre che era cattivo, perché le toglieva il sorriso. La bambina adorava vedere sua madre felice, perché ogni volta che lo era diventava contenta anche lei, e anche Igor, e giocavano tutti insieme come una famiglia.
Un mugolio di dolore proruppe dalle labbra di Franziska, mentre sua madre appoggiava un batuffolo bagnato di disinfettante sul suo ginocchio.
«Adesso passa, amore. Il dolore passa sempre. È come la pioggia, quando c’è non è bello, ma quando se ne va via arriva il sole».
La bambina fece un sorrisetto, rincuorata dalle parole della donna. «Igor dice che sono negata a giocare a calcio». Indicò il fratello gemello con un dito, ma un’altra fitta glielo fece abbassare subito, proprio mentre Igor le faceva la linguaccia.
«Se sei una schiappa non è colpa mia».
«Siete bravissimi tutti e due» si intromise Grace, lanciando delle occhiate di rimprovero ad entrambi i figlioletti. «Ti devi allenare, Ziska, così diventerai brava e non ti sbuccerai più le ginocchia».
«Tom ha promesso che un giorno mi insegna come giocare bene» raccontò, lasciando che sua madre applicasse un cerotto sulla ferita. «Così divento brava come lui! Un giorno portiamo anche te, mamma».
La donna ridacchiò, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Prese Franziska in braccio, poggiandola a terra.
«Magari un giorno vengo, sì».
«E poi se ti fai male ti curo io! Posso metterti il cerotto dove ti fa male, adesso?»
Non le sfuggì l’ombra di tristezza che attraversò gli occhi della donna, mentre le faceva quella domanda innocente.
E ancora una volta, Franziska sentì un moto di rabbia nei confronti di suo padre.
 
«Grazie, comunque». Il sussurro di Aaron la riportò alla realtà; si era estraniata solo un istante, mentre l’onda di quel ricordo la trascinava via con sé, riportando a galla anche tutta la sua rabbia e la sua angoscia.
È morto. Ha avuto ciò che si meritava.
«Di niente» replicò, costringendosi ad apparire quantomeno gentile e allegra. Non voleva che Aaron leggesse nei suoi occhi tutta l’ira che la pervadeva ogni volta che pensava a suo padre e al modo in cui aveva messo le mani addosso a sua madre. Quel ragazzo la metteva a disagio, perché aveva tutta l’aria di essere uno che capiva le persone, anche con un semplice sguardo.
«Non… non mi hai ancora detto il tuo nome» balbettò lui, sorridendo con aria sbarazzina.
«Nemmeno tu mi hai detto il tuo». Franziska inarcò un sopracciglio, divertita. Aveva sentito varie voci su quel ragazzo, ma parevano tutte smentite dinnanzi a quella timidezza e impaccio che emergevano dalle sue parole.
«Già… che stupido» si grattò la nuca con aria imbarazzata, arrossendo ancora una volta. «Mi chiamo Aaron. Kidman. Aaron Kidman. E tu sei Franziska, o sbaglio?»
«In persona. Come conosci il mio nome?» domandò la quattordicenne con disinteresse, lasciando cadere a terra l’asciugamano ormai sporco, al contrario della mano di Aaron che pareva come nuova – a parte, ovviamente, per quel taglio che le dava un’aria macabra.
«Non passi inosservata». Il giovane le rivolse un sorrisetto, passandosi la mano sana tra i capelli castani. «Ogni tanto ti vedo mentre picchi della gente».
«Però. Ho una bella fama, in giro» commentò la ragazza. Prese la bottiglietta di disinfettante e strappò un batuffolo di cotone, per poi girare la prima e far cadere il liquido nel secondo.
«Perlomeno la gente ti teme. Sei sicura che non ti danno fastidio».
Franziska sospirò, picchiettando le dita di Aaron per fargli allargare la mano. «Non penso che tutti abbiano imparato la lezione, visto che ieri una tua compagna mi ha rotto le scatole e l’ho appesa al muro».
«Chi?»
«Trine, o come cazzo si chiama, non lo so». Parlare delle ragazze che aveva picchiato la metteva a disagio, perché lì per lì non si rendeva mai conto di ciò che faceva, ma la sera l’assalivano i sensi di colpa; che, puntualmente, lei cacciava via pensando che se lo fossero meritato.
Senza perdere ulteriore tempo, appoggiò il cotone sul taglio, strappando un gemito di dolore ad Aaron.
«Su su, non è niente, non piangere» commentò sarcastica, abbozzando un sorrisino. I suoi occhi incontrarono quelli di Aaron, che le rivolse uno sguardo imbronciato.
«Io non piang-». La sua frase fu interrotta da un secondo mugolio, che suscitò l’ilarità della ragazza.
«Ma ti lamenti come una femminuccia». Tolse il batuffolo dalla mano, per poi strapparne un altro e ripetere le stesse azioni di poco prima.
«Non è molto piacevole avere del disinfettante su una ferita aperta. È tremendo!» Le labbra di Aaron si stirarono in una smorfia buffa, che strappò una risata a Franziska.
«Voi uomini siete bravissimi, quando si tratta di lamentarvi dal dolore. Sembra sempre che stiate per morire» commentò, mentre il bianco del cotone si tingeva di rosso.
«Non è vero!»
«Sì che è vero. Anche i miei fratelli fanno sempre così, è come avere una casa piena di bambini». Diede l’ultimo tocco alla ferita, gettando il batuffolo sulla panchetta e allungandosi per prendere il cerotto. Strappò la carta che lo ricopriva, estraendo una striscia color carne.
«Ecco perché sei così brava a curare le ferite. Hai esperienza».
La ragazza aggrottò la fronte. «Non ci vuole molta esperienza, per disinfettare e mettere il cerotto su una ferita. Sono azioni che chiunque dovrebbe essere in grado di fare» puntualizzò, applicando il cerotto sul taglio, cercando di essere il più delicata possibile per non strappare altri lamenti a quel povero ragazzo che aveva già torturato.
«Ecco fatto. Dovrebbe essere a posto» annunciò, alzandosi in piedi. Aaron la imitò, guardandosi il palmo come se Franziska avesse compiuto un miracolo sulla sua mano, sostituendogliela con una nuova.
Osservò il volto tanto fanciullesco quanto indecifrabile, lei, mentre il ragazzo era intento a guardare la mano con fare ossessivo.
Nel complesso, non si poteva dire nulla, se non che era grazioso e dai lineamenti ancora infantili, come se un bambino fosse rimasto rinchiuso in quel corpo alto e secco. I suoi occhi erano come cioccolato – quello che Franziska tanto amava e che cercava sempre di regalare a Deryck, per strappargli un sorriso; quello stesso alimento che, aveva sentito, era capace di far cambiare l’umore di una persona con un semplice morso.
Occhi che potrebbero rendere felice una persona solo guardandola.
Arrossì leggermente e distolse lo sguardo, imbarazzata da quei pensieri che mai prima di allora la sua mente aveva formulato.
Eppure, mentre i suoi occhi si erano posati sulla figura di Aaron, le era tornata in mente quella cosa che tanto spesso sua madre le diceva ogni volta che era imbronciata.
 
«Perché mi hai portato del cioccolato, mamma?»
«Perché eri triste. Ti fa tornare il sorriso, questo, lo sai?»
 
Abbassò le palpebre, in preda a quei ricordi troppo dolorosi, troppo belli. Troppo.
Gli occhi di quel ragazzo con il loro colore apparentemente banale le avevano riportato alla mente cose che era meglio dimenticare, dettagli che lei aveva preferito sotterrare sotto una catasta di altri dettagli più lievi, che non le davano l’impressione di ricevere una coltellata in pieno petto.
Eppure, gli occhi di Aaron, malgrado fossero come cioccolato, non erano felici. Erano come un muro, invalicabile, alto, massiccio.
Un muro di cioccolato.
Le era capitato di leggere che chi rideva tanto aveva le rughe di espressione.
Aaron non le aveva.
E nemmeno lei, a pensarci bene. Sfidava chiunque a ridere spesso in quel posto così cupo che faceva venir voglia di piangere e basta.
«Io… vado» disse Aaron ad un tratto, indugiando sulla fine della frase come se pronunciarla gli costasse una fatica immensa. Franziska alzò gli occhi da terra, piantandoli in quelli del giovane.
«Sì. Anche io» mormorò, facendo un passo per dirigersi verso la porta, ma la voce del coetaneo che la chiamava la fece fermare.
«Grazie. Sei… sei stata… davvero dolce» concluse Aaron con un’alzata di spalle, rivolgendole un sorriso sghembo con un tocco di timidezza che lo faceva apparire come un cucciolo da coccolare.
«Di niente. Alla prossima, Aaron Kidman».
Non riuscì al trattenersi dal sorridere, mentre varcava la porta e tornava al lavoro. 


 

Alaska's corner

Buongiorno e buona Pasqua!

Aggiorno dopo una settimana, con un capitolo... che non mi convince per niente. Non lo so, non mi piace molto come l'ho scritto, ma ormai la frittata è fatta.
Finalmente c'è il primo incontro tra i nostri protagonisti! Come vedete, hanno due caratteri molto diversi :'D 
È un capitolo con diversi flashback, ma volevo dare spazio un po' anche al loro passato, sebbene non sia emerso ancora tutto. Come avrete visto, sì, la mamma di Franziska e Igor subiva violenza domestica; i genitori di Aaron sono morti soffocati, anche se non vi ho ancora rivelato il perché :D 
Tutto a tempo debito, insomma.
La citazione iniziale non potevo non metterla, visto che si parla di cioccolato e buon umore :P E poi, io sono dell'opinione che i maschi con i capelli e gli occhi castani siano sottovalutati e Aaron è d'accordo u.u 
Spero che le descrizioni di entrambi visti dai due punti di vista non vi siano sembrate artificiose o troppo... troppo. Vi ricordo che la bellezza è molto soggettiva; Franziska di per sé non ha un fisico da modella, ma per Aaron è piuttosto carina, idem per lei, che trova Aaron molto dolce, nonostante non abbia un fisico muscoloso e sia goffissimo. xD 
Ringrazio ancora chi ha letto - spero davvero di ricevere qualche recensione in più perché per me sono importantissime per migliorarmi! 
Alla prossima,
Alaska. ~ 

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Capitolo 8
*** O7 » Flowers « ***


 

CAPITOLO VII
 
Flowers

 
«Un fiore è breve, ma la gioia che dona in un minuto è una di quelle cose che non hanno un inizio o una fine.»
- Paul Claudel

 
 
Il resto della giornata lavorativa passò quasi in un lampo.
Franziska non si rese nemmeno conto di che ora si fosse fatta , finché Igor non venne a chiamarla, toccandola per un braccio.
Aveva passato tutto il tempo a montare, mettere a posto, girare chiavi inglesi e non si era resa conto che il tempo era passato, veloce come solo lui sapeva essere.
Aaron era stato al suo fianco per gran parte della giornata, e non erano stati rari i momenti in cui si erano scambiati qualche parola riguardo al lavoro in officina.
Lavorare la assorbiva del tutto, ma aveva scoperto che farlo con una compagnia piacevole come quella del coetaneo era ancora meglio perché anche la fatica, la rabbia per i lavori complicati che non riusciva a fare svaniva come cancellata con una gomma.
Solo tornando a casa Franziska si rese conto di quanto effettivamente stanca fosse.
Tutto il peso della giornata le si riversò addosso come una secchiata di acqua gelata, e quasi barcollava, mentre percorreva i vicoli angusti del Distretto 6, diretta verso l’abitazione così confortevole dove abitava.
Non appena mise piede nell’ingresso, un profumino invitante le arrivò alle narici, dandole quasi una sensazione di freschezza e facendola rinsavire da tutta la fatica. Un brontolio del suo stomaco le fece capire quanto fosse effettivamente affamata, dopo un’intera giornata passata in piedi a sporcarsi le mani.
«Bentornati, cari!» li accolse la nonna, facendo capolino dalla porta della cucina con un mestolo di legno che recava i segni della vecchiaia in mano.
Non appena vide tornare i fratelli, Deryck uscì fuori dalla cucina, correndo loro incontro e gettando le braccia attorno alla vita di Igor. Il ragazzo sorrise, cingendolo con un braccio.
«Hai fatto il bravo, nanerottolo?» domandò, scompigliandogli i capelli.
«Un angelo» si intromise Anne. «Al contrario vostro». Indicò i nipoti con il mestolo, in un tentativo di apparire severa, ma le sue labbra erano incurvate in un sorrisetto divertito. «Mi ha aiutata a sistemare casa, ha fatto i compiti e mi ha persino aiutata a cucinare!»
«Spero per voi che il cibo sia buono, allora!» esclamò Franziska, afferrando Deryck sotto le ascelle e sollevandolo da terra. Gli posò un bacio sulla guancia, presa da un impeto di felicità, nata dal vedere il suo fratellino finalmente contento.
«Buonissimo, cosa credi?» Deryck ridacchiò, mettendole le mani sulle guance, e per la prima volta Franziska aveva davvero l’impressione di trovarsi davanti ad un bambino di sei anni, non all’adulto che suo fratello era stato fino a quel momento.
«E cosa avete cucinato, di tanto buono?» Igor tirò la guancia al fratellino, prima di dirigersi verso la nonna.
«Una cosa decisamente buona per festeggiare il vostro primo giorno di lavoro» rispose la donna, dopodiché, al passaggio del nipote, gli tirò il mestolo in testa. «Leva quel tono saccente dalla tua voce, signorino! Io e il tuo fratellino siamo due fantastici cuochi».
Igor portò una mano laddove il legno aveva incontrato il suo corpo, strizzando gli occhi e lanciando un’occhiataccia alla nonna. «Non serve picchiarmi» borbottò, entrando in cucina e guardandosi intorno, inspirando profondamente quell’odore così buono che mai in vita loro i fratelli Madison avevano sentito.
«Me lo dici cosa avete cucinato o no?» Anche Franziska andò in cucina, rimettendo Deryck a terra.
«La pasta!» Il bambino indicò un vassoio fumante posto al centro del tavolo ligneo, sorridendo felice. La ragazza sgranò gli occhi, sorpresa. Mai in vita sua aveva avuto il privilegio di poter mangiare cose che tutti le avevano dipinto come estremamente deliziose; quella era la prima volta che trovava un pasto caldo ad attenderla a casa e per un breve istante, gli occhi le si riempirono di lacrime di gioia, che lei si premurò di cacciare indietro, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«È… fantastico». Non sapeva come definire tutto ciò. Lanciò un’occhiata a sua nonna, sperando che Anne leggesse nei suoi occhi tutto il riconoscimento che provava nei suoi confronti.
Non sarebbe bastato un semplice aggettivo come “fantastico” a descrivere la bontà di quel piatto, che lei ebbe occasione di provare per la prima volta non appena si sedette a tavola e sua nonna le piazzò una porzione sotto il naso; una porzione così sostanziosa, come lei non ne aveva mai mangiate nei suoi quattordici anni di vita.
«Com’è andato il primo giorno di lavoro?» domandò Anne, spostando la sedia e accomodandosi al suo posto; non prima di aver dato un buffetto sulla guancia del nipote più piccolo, al quale sembrava affezionata in modo particolare.
«Non male» rispose Igor, prendendo un boccone di pasta e ficcandoselo in bocca.
«Piuttosto bene, per essere il primo» si accodò Franziska, con la forchetta in mano e gli occhi fissi sul piatto – aveva quasi paura di rovinare quella splendida pietanza; guardarla la faceva quasi sentire sazia.
«Avete fatto nuove conoscenze? Sono simpatici i vostri colleghi?»
Franziska, finalmente, si decise a ficcare la forchetta in un pezzo di pasta e lo portò alla bocca, piano, prima di iniziare a gustarlo con lentezza, masticando a velocità di lumaca.
Da quanto tempo non sentiva un sapore così delizioso? Anni?
Le era mancato.
Non ne aveva mai sentito il bisogno finché non se l’era trovato davanti, ma in quel momento capì che le era mancato avere una famiglia, qualcuno che cucinasse per lei, qualcuno che si informasse sulla sua giornata.
E si accorse di amare quel sentimento di affetto e calore che sembrava irradiare la cucina in quel momento, come se le sole preoccupazioni della nonna potesse fungere da riscaldamento per quel gelido inverno che ormai stava arrivando.
«Ho parlato con qualche collega. Sono perlopiù adulti, ma qualche giovane c’è». Igor scosse la testa, allungando il braccio per prendere il bicchiere colmo d’acqua fin quasi all’orlo. «Sembrano… simpatici» aggiunse, indugiando su quell’ultimo aggettivo che strappò un sorriso a sua sorella. Era raro che Igor trovasse qualcuno simpatico, al di là di lei e Deryck; e ancora più raro era vederlo così rilassato e tranquillo a fine giornata.
«E tu, Franziska?» La nonna si voltò in direzione della nipote, che fino a quel momento si era limitata a masticare e ascoltare, lentamente, per non far finire subito quella pietanza così gustosa.
«Ho parlato con qualche collega anche io. Ho conosciuto un ragazzo della mia età».
Anne sbarrò gli occhi con  espressione sorpresa, appoggiando i gomiti al tavolo e osservando la nipote come se aspettasse altri, scottanti dettagli.
Franziska si affrettò a distogliere lo sguardo e fare spallucce; non voleva che la nonna si facesse un’idea strana della frase ho conosciuto un ragazzo della mia età.
Non le sfuggì l’occhiata irritata che le rivolse Igor, come se volesse bucarla con il solo uso degli occhi.
«Dimmi altro, avanti» la esortò Anne, tornando a mangiare e sorridendo con aria furbetta.
Franziska arrossì, gli occhi ben puntati sul piatto e l’espressione imbarazzata. «È solo un tipo dell’altra classe. Si chiama Aaron Kidman».
«Oh…» Il volto della nonna assunse un’espressione grave e seria, prima che tornasse a mangiare come se nulla fosse. «L’ho già sentito nominare» aggiunse.
«È un tipo che fa i graffiti. Gira voce che prima o poi lo arresteranno» raccontò Igor, continuando a scoccare sguardi inviperiti alla sorella – che, dal canto suo, gli rivolse una linguaccia.
«Sì, beh… l’ho semplicemente aiutato» borbottò la ragazza; le sua guance parevano due fuocherelli accesi, reazione dovuta agli sguardi compiaciuti e al contempo maliziosi che la nonna continuava a lanciarle.
«Aiutato a far che?» Anne sembrava decisa a voler sapere ogni dettagli di quella storia, e si era quasi dimenticata di mangiare. L’unico che non sembrava dar peso a quello che accadeva intorno a lui era Deryck.
«Si è fatto male ad una mano e gliel’ho disinfettata, mettendogli sopra un cerotto».
Il racconto di Franziska fu sbrigativo, nella speranza che Anne distogliesse gli occhi da lei e continuasse a mangiare, senza più farle domande su quel ragazzo che aveva appena conosciuto. Certi discorsi la imbarazzavano e se c’era una cosa che lei odiava, quella era arrossire dinnanzi ad altra gente.
«Sei stata gentile» concluse la nonna, sorridendo misteriosamente.
Con somma gioia della nipote, la smise di parlare e farle domande, tornando a concentrarsi sul suo piatto e facendo qualche domanda ad Igor – questioni che Franziska non sentì, rinchiusa nella sua bolla d’imbarazzo e fastidio.
 
 
*
 
«Cosa ti sei fatto alla mano?»
La domanda di Katy lo prese in contropiede, mentre stava seduto sul divano e cercava di decifrare le frasi del libro di storia. La stanchezza sembrava essersi riversata addosso a lui tutta in un momento, e faticava a stare attento; la televisione che continuava a trasmettere il solito programma di Caesar Flickerman non aiutava.
Aaron sollevò la mano, gettando uno sguardo al cerotto ancora ben applicato sulla ferita; era solo sollevato sugli angoli, poiché si era bagnato mentre il ragazzo si faceva la doccia.
Scosse la testa, riappoggiando l’oggetto dell’interesse di sua zia contro il libro. «Mi sono tagliato» fu la sua sbrigativa risposta, ma Katy non pareva soddisfatta delle parole del nipote.
«E non mi hai detto niente?» La donna lo afferrò per il polso, controllando il palmo della sua mano con aria maniacale. «Dove lo hai trovato questo cerotto? Avresti dovuto dirmelo, ti avrei disinfettato la ferita. Aaron, rischi l’inf-».
«Mi sono già disinfettato il taglio, zia» la interruppe il quattordicenne, ridacchiando divertito dinnanzi alla preoccupazione esplosiva della sua tutrice. «Mi ha aiutato… una ragazza». Fece spallucce, indeciso se raccontare o no quella storia ai suoi parenti.
«Una ragazza?» Jarod – sdraiato in modo scomposto sul divano – levò il capo per guardare il cugino; in volto aveva stampata un’espressione divertita e trionfante. «Non ti ho nemmeno visto con questa ragazza».
«Chi è?» Keegan – al contrario del fratello minore – era seduto in maniera più composta sulla poltrona e tra le mani reggeva una penna di cui si stava servendo per disegnare su un foglio. «La conosco?»
«Si chiama Franziska» rispose sbrigativamente Aaron, mentre un lieve rossore andava diffondendosi sulle sue guance. Non amava parlare di sé, normalmente, e quel momento non faceva eccezione. Tutto quell’interesse dei suoi cugini nei confronti delle ragazze che conosceva gli davano fastidio, ma al contempo provava una sorta di autocompiacimento. Era stato abituato da sempre a vederli mentre uscivano con le loro coetanee senza mai poter essere come loro, per colpa di quella stupida timidezza che lo bloccava ogni volta che un essere umano di sesso femminile entrava in contatto con lui, anche solo accidentalmente.
«Franziska come? Ha la tua età?» Jarod abbandonò la posizione scomposta di poco prima, sedendosi e osservando il cugino con fare interessato, del tutto ignorante degli immagini orribili che la televisione trasmetteva – la solita replica di un’edizione degli Hunger Games risalente a qualche anno prima.
«Franziska Madison. Sì, ha quattordici anni anche lei, sta nell’altra classe». Resosi conto che studiare era pressoché impossibile, Aaron chiuse il libro di storia con un gesto secco, appoggiandolo sul pavimento sotto il divano.
«Ho capito. È la figlia di Grace». La voce di Martyn si aggiunse alla discussione. Ormai erano tutti interessati alla misteriosa ragazza che aveva aiutato Aaron; persino Patryck e Brenton avevano abbandonato il loro gioco sul pavimento per guardare il quattordicenne.
«Hai fatto colpo, eh?» Jarod fece l’occhiolino al cugino, tornando a sdraiarsi come prima. «Era ora. Ho tentato in questi anni di farti trovare una ragazza, ma niente. Sei peggio di una mummia quando si tratta di donne».
«Aaron ha solo quattordici anni». Katy accorse in difesa del nipote, appoggiandogli una mano sulla spalla e sorridendo. «Ha tutto il tempo che vuole per trovarsi una ragazza».
Stanco com’era, il giovane non riusciva nemmeno a trovare le parole per partecipare alla conversazione. Rimase zitto, ad ascoltare tutte quelle persone che parlavano della sua situazione sentimentale come se non fosse stato nella stanza – le loro parole, peraltro, erano del tutto contraddittorie, considerato che Franziska lo aveva semplicemente aiutato, senza mostrare interesse nei suoi confronti.
Ha tutto il tempo che vuole per trovarsi una ragazza.
Aaron avrebbe voluto replicare che lui, di tempo, non ne aveva. Nessuno ne aveva là, dove ogni anno rischiavano di morire per colpa di alcune strisce di carta gettate in una boccia di vetro insieme a tante altre.
Non aveva tempo, lui. Non ne avevano avuto i suoi genitori, per vedere crescere lui e Brenton. E forse – pensava con una nota di rammarico – ne avrebbe avuto poco anche Keegan, il cui desiderio più grande era andare a vivere con la sua fidanzata storica.
Ma lei aveva ancora il proprio nome della boccia della Mietitura.
Il destino non potevano prevederlo; e se le fosse successo qualcosa? Aaron aveva smesso di sognare troppo in grande da quando i suoi genitori erano stati uccisi.
Aveva capito, all’epoca, che Capitol City non permetteva ai cittadini – ai sudditi del presidente Snow – di avere ambizioni troppo ardite. Erano scritte sulla sabbia; scritte che una semplice onda avrebbe potuto cancellare, portandole via con sé.
«… carina?»
Quella voce giunse come un faro nel buio della mente di Aaron. Il ragazzo alzò la testa, sbattendo le palpebre, senza essersi minimamente reso conto che qualcuno gli aveva parlato fino a quel momento.
«C-cosa?» balbettò, prima di sbadigliare sonoramente.
«Ho chiesto» Jarod si voltò verso di lui, sorridendo furbetto, «se almeno è carina».
Le gote di Aaron divennero due autentici roghi. «Io… sì, non è male».
«”Non male”? Dimmi di più».
Non sapeva di preciso come descriverla. Interessante era il primo aggettivo che gli era balzato in mente; subito dopo la sua idea di disegnarla. Aveva gli occhi verdi, lei, come quelli di sua madre, come quelli che lui amava rappresentare. Erano iridi interessanti, che raccontavano la storia di una ragazza tosta e dall’aria decisamente antipatica, ma che, in un certo senso, aveva affascinato Aaron.
Scosse la testa, per poi passarsi una mano nella zazzera di capelli castani che ricadevano in ciuffi sulla sua fronte.
«È bionda» rispose semplicemente, come se solo quell’espressione potesse dare a suo cugino un’immagine mentale della giovane.
«”È bionda”» lo scimmiottò Jarod, lanciandogli uno sguardo interrogativo. «Dimmi di più, Kidman».
«È bionda e ha gli occhi verdi. Ti basta?»
«È già un inizio. E dimmi…»
«Jarod». Gli occhi di Martyn dardeggiarono in direzione del figlio, lanciandogli un’occhiata eloquente.
Sbuffando, il diciottenne tornò a rivolgere la sua attenzione alla televisione. «D’accordo. Lo lascio stare, ma Aaron devi trovarti una tipa, diamine».
«A proposito di tipe» Katy guardò male Jarod, scuotendo la testa con aria affranta, «sarebbe bene ringraziare questa ragazza, non credi, Aaron?»
Il giovane fece spallucce, abbassandosi poi per riprendere il libro di storia malandato e rovinato da scritte e sottolineature.
«Potresti portarle dei fiori!» La zia batté le mani, come se avesse appena avuto un’illuminazione divina. «Domani vai da Zarya, in piazza. È una mia amica di vecchia data, di solito mi fa degli sconti, se voglio comprare dei fiori». La donna fece l’occhiolino al nipote con aria complice, e il ragazzo rispose sollevando le labbra in su.
«D’accordo, domani vado» promise, alzandosi con un sospiro dal divano. Di nuovo, tutta la stanchezza si riversò su di lui come un fiume in piena e per poco non sentì le gambe cedere sotto quel masso invisibile.
Si stiracchiò, strizzando le palpebre e sbadigliando. Avrebbe potuto dormire anche lì, in piedi, se solo ne avesse avuto l’occasione. Doveva, tuttavia, trovare la forza di salire al piano di sopra, mettersi il pigiama e, finalmente, infilarsi sotto le coperte e piombare nel sonno.
«Vado a dormire. Buona notte a tutti!» annunciò, camminando in direzione delle scale.
Un coretto di voci gli rispose, ma, quando aveva il piede sul primo gradino, sentì le dita di qualcuno avvolgere il suo polso magro.
Si voltò indietro, incrociando le iridi color nocciola di suo fratello, che lo fissavano con aria cupa, come sempre.
«Ti sei davvero trovato una fidanzata?» chiese Brenton a voce bassa, e il suo tono di voce tradiva un certo nervosismo ben celato sotto quello sguardo truce e il broncio che ormai era il suo marchio.
Aaron sorrise appena, scompigliando i capelli castano chiaro del fratellino. «Non ho una fidanzata. È solo una collega».
Brenton parve sollevato, nell’udire quella risposta, e, fatte spallucce, tornò in salotto per giocare con il cugino.
 
 
 
*
 
L’aria quel giorno era fredda come nei giorni precedenti, ma il grigio del cielo era stato sostituito da un bell’azzurro e il sole – che aveva giocato a nascondino fino a quella mattina – si affacciava, timido, tra le nuvole bianche.
Aaron guardò nervosamente la porta d’entrata del negozio di fiori, nella cui vetrina erano presenti i tipi di piante più disparati: fiori di cui lui non conosceva nemmeno i nomi, colorati, tanto che parevano di troppo in quella piazza grigia e circondata dai vari negozi.
Il quattordicenne portò una mano all’altezza della tasca dei jeans logori che non indossava, sfiorando appena il denim scolorito. Sentì subito la consistenza delle monete che gli aveva dato la zia; parevano quasi pesare più del normale.
Non amava i momenti nei quali gli zii gli davano dei soldi, anzi, li odiava profondamente. Si sentiva ancora più un mantenuto, ma Katy e Martyn erano sordi, quando lui diceva loro che avrebbe potuto pagare con i soldi di mancia che aveva guadagnato lavorando.
Sospirando, fece un passo in direzione della porta, sentendo i brividi corrergli lungo il corpo.
Non era tanto l’idea di comprare dei fiori ad agitarlo, quanto il fatto che avrebbe dovuto regalarli a Franziska e lui, con le donne, era un incapace. Durante la chiacchierata del giorno precedente, la giovane Madison non gli era affatto sembrata una ragazza dedita alla cura delle piante e dei fiori, ma tutt’altro.
Le sue dita incontrarono il vetro della porta, freddo e levigato, e con una spinta insicura la aprì. Non appena entrò nel piccolo negozietto, un buonissimo odore di fiori invase le sue narici, lasciandolo, per un breve istante, stordito.
Mai in vita sua aveva sentito così tanti buoni profumi tutti insieme; aveva già annusato dei fiori prima di allora, ma erano i soliti due o tre che portava alla tomba dei suoi genitori e, solitamente, era zia Katy a recarsi in negozio per comprarli.
Si guardo intorno, indeciso sul da farsi.
Tutte le piante lì presenti erano bellissime, ma quali poteva prendere? Non era un esperto di fiori, e non conosceva così bene Franziska da capire quali potessero piacerle.
Desiderò di essersi morso la lingua, la sera prima, almeno non si sarebbe invischiato in quel casino senza né capo né coda.
«Salve!» Una voce femminile e squillante lo fece voltare verso il bancone, dove una donna, con il mento appoggiato alle mani, lo guardava sorridente.
«Buongiorno» borbottò lui, sistemandosi il cappellino rigorosamente girato al contrario.
Quella doveva essere Zarya – considerò, guardando la donna con aria intimorita. Non dava l’impressione di una donna cattiva – anzi, i capelli così ricci e spettinati la facevano sembrare una ragazzina – ma lui non osò dare un giudizio troppo positivo.
«Sei il famoso nipotino di Katy, vero?» domandò, alzandosi dalla sedia per andare verso di lui. «Ricordo di averti visto di sfuggita una volta mentre eri in giro con i tuoi zii. Io sono Zarya». Si avvicinò e tese la mano verso di lui, con lo stesso sorriso di poco prima stampato in volto.
Aaron si costrinse ad apparire gioviale e strinse la mano della donna. «In persona» si presentò. «Piacere».
«Sei cresciuto tanto dall’ultima volta che ti ho visto». Gli occhi della donna – al di sotto degli occhiali dalla grossa montatura che indossava – scandagliarono il corpo di Aaron, soffermandosi soprattutto sul suo volto e sul piercing che portava al labbro inferiore. Il giovane si limitò a fissarsi i piedi, vergognoso: era raro – anzi, rarissimo – vedere dei ragazzini della sua età che giravano con certa ferraglia addosso, ne era consapevole e per un istante si sentì anche abbastanza stupido.
«Vuoi comprare dei fiori, dunque? Ti servono per qualche occasione speciale?» domandò Zarya, rivolgendo i suoi occhi chiari ad un mazzo di rose bianche lì vicino.
Aaron si grattò la guancia, facendo una smorfia di imbarazzo. «No. In realtà dovrei regalarli ad una ragazza» disse, cercando di parlare con nonchalance, ma le sue guance si erano comunque tinte di rosso.
Questo stupido rossore.
Ringraziò il cielo di avere una carnagione naturalmente abbronzata, mentre il volto di Zarya assumeva la stessa espressione che aveva quello di sua zia la sera precedente.
«Per una ragazza, eh?» Gli fece l’occhiolino, facendo cenno di seguirla. «È la tua fidanzata?» s’informò, percorrendo sicura un corridoietto e piazzandosi dinnanzi ad un mazzo di fiori piccoli e azzurri.
«No. No. Non è la mia ragazza». Cercò di apparire disinteressato, ma il suo tono di voce sembrava più seccato che altro.
«In ogni caso, per un fanciulla sono belli questi». Zarya indicò i fiorellini azzurri con un cenno della mano, sfiorandoli appena. Aaron si avvicinò, flettendo le gambe e allungando il busto per poter guardarli più da vicino.
«Non me ne intendo di fiori. Questi come si chiamano?»
«Nontiscordardimé». Zarya ne prese un mazzetto e lo sollevò, portandolo alle narici e poi facendo lo stesso con Aaron, per permettergli di annusarne l’odore. «Personalmente, li trovo molto belli. Crescono in primavera, di solito, come gran parte dei fiori e per mantenerli qua ho dovuto far sì che la stanza avesse una certa temperatura. Vengono direttamente dal Distretto 11. Lì, come al 4, fa quasi sempre caldo, per cui non c’è problema».
«Sono davvero belli» commentò il quattordicenne, prendendone in mano uno. Erano piccoli, tanto che uno nel palmo della sua mano sembrava un minuscolo puntino nero in mezzo ad un foglio bianco. Temeva quasi di romperlo con il solo uso degli occhi, da quanto era fragile.
«Ti piacciono, allora? Ci sono questi, e poi ci sono anche i tulipani rossi, altri fiori che adoro». Non dovette fare molta strada per mostrare ad Aaron la seconda specie a cui aveva appena accennato. Anche questi, come i precedenti, erano davvero molto belli – ma al quattordicenne, che di erbologia e tutto il resto se ne intendeva molto poco, apparivano tutti fantastici e meravigliosi.
«Trovo che i tulipani rossi e i nontiscordardimé potrebbero stare bene insieme. Hanno entrambi dei bei significati». Zarya prese un tulipano dalla cassetta in cui erano disposti, dandolo ad Aaron. Il quattordicenne circondò lo stelo con dita tremanti, avvicinandolo agli occhi per osservarlo.
«Ah, sì? E che significati hanno?»
«Il nontiscordardimé è simbolo dell’amore vero. Il tulipano rosso, invece, è simbolo di una dichiarazione d’amore».
Se prima Aaron si era imbarazzato, ora lo era ancor di più. Tutti quei significati simbolici dei fiori avevano fatto sì che lui formulasse strani pensieri in merito a ciò che stava per fare.
Amore vero? Dichiarazione d’amore?
«Ovviamente non devi regalarglieli con l’intento di farle una dichiarazione d’amore». Zarya ridacchiò. «Però trovo che abbiano dei significati davvero molto belli. Starei qui tutto il giorno a parlarti di fiori, ma suppongo che tu abbia da fare e non voglio disturbarti troppo».
Aaron agitò la mano davanti al volto, in segno di diniego. «No. Devo andare a lavorare tra un’oretta. Oggi è sabato, niente scuola».
«Allora vorrei farti vedere un altro fiore che ho intenzione di inserire nel regalo». Gli fece cenno con la mano di seguirla, mentre reggeva nell’altra alcuni mazzi delle due qualità che gli aveva appena mostrato.
Camminarono per pochi secondi, fino ad un’altra cassetta vicino all’ingresso, dove si trovavano tutti i vari tipi di rose.
«Le rose. Effimere, ma bellissime» le descrisse, allungando la mano per prenderne una di colore viola. «Rose viola significano amore a prima vista. La vuoi sentire una storiella?» Le labbra di Zarya si incurvarono in un sorrisetto furbo. «Tuo zio pregò mia madre – che all’epoca curava il negozio – di dargliene un mazzo, dopo aver conosciuto Katy. Si innamorò di lei a prima vista».
Aaron non riuscì a trattenere una risata, immaginandosi uno zio Martyn molto giovane che regalava – con quella sua aria sempre persa tra le nuvole – un mazzo di rose viola ad un altrettanto giovane zia Katy.
«Sono stupende» mormorò Aaron, toccando i petali di un fiore posato tra mille altri, delicatamente, come se temesse di spezzarlo.
«Posso metterle nel mazzo. Farai un figurone». Zarya ne afferrò alcune, stando attenta a non pungersi con le spine.
Ritornò dunque al bancone, dove rimase qualche minuto, intenta a sistemare il regalo con cura.
Aaron, dal canto suo, se ne stette in piedi, le mani ficcate nelle tasche della giacca. Si guardò intorno, cercando qualcosa di interessante con cui distrarsi, ma era circondato solo da fiori, con i loro odori, i loro colori, e si accorse anche di iniziare ad avere molto caldo.
All’esterno, diversa gente percorreva le stradine; lavoratori, perlopiù, che si dirigevano alle officine. Normalmente, i suoi coetanei dormivano il sabato mattina, approfittando del primo giorno del weekend durante il quale non sarebbero dovuti andare a scuola.
Li invidiava un po’, Aaron, considerato che lui doveva andare ad aiutare suo zio al lavoro.
Jimmy si lamentava sempre di suo padre, di quanto fosse fissato con l’etichetta perché era il sindaco, ma più e più volte il quattordicenne si era ritrovato a fantasticare su come sarebbe stata la sua vita scambiato con quella del suo migliore amico. Perlomeno, Jimmy non sentiva la necessità di prendere le tessere, aveva entrambi i genitori e un fratellino che non manifestava un carattere a dir poco orribile come quello di Brenton.
«Ecco qui!»
Zarya gli mostrò il mazzo di fiori e Aaron, sospirando, si avvicinò al bancone.
Guardando il perfetto lavoro fatto dalla donna gli venne un dubbio atroce, che strinse il suo stomaco in una morsa.
Aveva passato tutti i minuti precedenti ad assecondare ogni scelta della fiorista, ma non si era informato sul prezzo, preso com’era a pensare a ciò che sarebbe accaduto di lì a pochi minuti.
Deglutì nervosamente, dandosi più volte dell’idiota per quella sua distrazione. «Ehm… quanto costano?» balbettò, strisciando il piede a terra come a voler scappare via di lì da un momento all’altro. «Ho paura che i soldi che mi ha dato la zia non bastino» confessò.
Zarya, per tutta risposta, scoppiò a ridere. «Tranquillo! Katy è una mia vecchia amica, le faccio sempre degli sconti perché so che la vostra situazione economica è difficile. Sono quattro e cinquanta, comunque».
Il ragazzo sospirò – questa volta di sollievo – e tirò fuori i soldi dalla tasca. Erano giusti e li porse a Zarya cercando di non apparire come un ebete.
Che figura di merda.
«Grazie». Prese il mazzo e si affrettò a girare i tacchi per correre via di lì.
«Poi fammi sapere come va con la tua misteriosa ragazza!» esclamò Zarya, ridacchiando.
Non è la mia ragazza. Mettetevelo in testa.
Corse fuori, ancora una volta sentendosi un perfetto idiota.
 
 
*
 
Un veloce bussare alla porta la sorprese mentre stava preparando lo zainetto prima di andare al lavoro.
All’infuori di lei, nel salotto non c’era nessuno. Dal piano di sopra proveniva lo strimpellare della chitarra di Igor, che si era messo a suonare per Deryck – svegliatosi praticamente all’alba, incurante del fatto che avrebbe potuto dormire qualche ora in più, proprio come stava facendo la nonna.
Franziska sospirò, abbandonando la sacca sul letto e avviandosi verso la porta. Con ogni probabilità – si disse – chi li disturbava a quell’ora del mattino doveva essere Carine. Non immaginava chi altri potesse bussare alla porta di casa loro, data la scarsa mancanza di vita sociale dei fratelli Madison e di nonna Anne.
Aprì la porta, non prima di essersi sistemata la coda scarmigliata in cui aveva legato, poco prima, i capelli biondi.
Rimase sorpresa, nell’apprendere che chi era andato a disturbarla a quell’ora era proprio Aaron. Sgranò gli occhi, stupita dalla presenza del coetaneo nella sua casa, ma anche spaventata dall’idea che potesse vedere i letti che ingombravano il piccolo salotto.
Gli aveva raccontato, il giorno prima, dove si trovava la sua casa, ma mai si sarebbe aspettata di trovarlo lì, sull’uscio, con in mano un mazzo di fiori.
«Ciao» disse, presa in contropiede.
«Ciao». Aaron si grattò la nuca con aria imbarazzata, per poi sistemare il solito, logoro cappello da baseball che indossava. «Io… uhm… ti ho portato questi». Il suo braccio si allungò, i fiori ben stretti nella mano. Non la guardò nemmeno negli occhi, in quel breve istante, preso com’era ad osservare i fiori, mentre le sue guance abbronzate si tingevano di un pallido rosso.
Franziska arrossì a sua volta, sentendo all’improvviso uno strano calore pervaderle le membra. Rimase immobile, gli occhi piantati su quel regalo inatteso e strano, mentre una sorta di autocompiacimento le riempiva l’animo.
Allungò poi un braccio e le sue dita afferrarono il mazzo di fiori chiuso in una carta decorata con motivi floreali, recante – in una scrittura pressoché incomprensibile – il nome del negozio dove Aaron li aveva acquistati.
«Io… io non… grazie» balbettò, senza sapere bene cosa dovesse dire in momenti come quello. Era la prima volta che qualcuno le regalava dei fiori, la prima volta in cui un ragazzo la guardava come una femmina e non come un individuo dal quale stare alla larga.
Abbassò lo sguardo, incontrando i suoi anfibi ormai logori e recanti i segni della sporcizia che percorreva ogni giorno.
Poi, come uno schiaffo, sentì la risata di Aaron.
I suoi occhi incontrarono quelli di lui, furenti, mandando scintille. Il quattordicenne aveva un sorrisetto divertito e ridacchiava di gusto, guardandola non più come una femmina, ma come un fenomeno da baraccone.
È esattamente come tutti gli altri stronzi.
Un’ira cieca le impediva di ragionare; prese possesso della sua mente e anche delle sue azioni, mentre scagliava quel regalo che lei per pochi attimi aveva amato contro la faccia del ragazzo.
Lo odiava.
Lo odiava perché la guardava in quel modo idiota, come la guardavano tanti ragazzi per prenderla in giro; lo odiava perché l’aveva fatta arrossire e l’aveva fatta sentire come una bambinetta che sogna il principe azzurro; lo odiava e odiava quello stupido mazzo di fiori.
«Tieniteli, visto che ti diverti tanto» sbottò, e la sua mano corse verso il legno della porta. Fece per chiuderla, ma qualcosa impedì ad essa di porre un muro tra lei e Aaron.
Era il suo piede destro, fasciato in una scarpa da ginnastica recante i segni del tempo.
«Aspetta! Io non…»
Lasciò la frase in sospeso Aaron, mentre Franziska apriva di poco la porta, solo per lanciargli uno sguardo di fuoco.
«Non volevi pigliarmi per il culo?» replicò acida, quasi digrignando i denti.
«Non volevo ridere, solo che… ecco, non mi aspettavo che una come te arrossisse, e… e… non lo so nemmeno io che mi è preso, però sei carina… cioè, n-non fraintendermi, intendevo dire che mi ha fatto piacere perché hai apprezzato il mio regalo. Oh, insomma, tieni!»
Ancora una volta, il braccio di Aaron scattò in avanti, reggendo nella mano il mazzo di fiori.
Franziska, a braccia conserte, non distoglieva lo sguardo dal volto del quattordicenne.
Non sapeva nemmeno spiegare cosa provava. Rabbia? Di sicuro. Eppure, a tutta quest’ira si mescolava anche una certa tenerezza, dovuta al modo di parlare di quel giovane, come se la temesse e l’ammirasse al tempo stesso.
«Prendili, ti prego» la supplicò lui, mordendosi l’interno della guancia.
Presa forse dalla compassione, la giovane allungò la mano, cauta e indecisa, e le sue dita avvolsero la carta dai decori floreali.
«Te li ho portati per ringraziarti. Per ieri». Aaron le mostrò la mano, con ancora attaccato il cerotto che lei aveva applicato il giorno prima. «Sei stata davvero gentile. E io non volevo ridere, scusa. Solo che… ecco, insomma, mi hai fatto tenerezza» ammise con un sorriso sbarazzino, massaggiandosi la tempia con le dita.
«Potrei anche perdonarti». Franziska fece spallucce, guardando i fiori. Rose viola, tulipani rossi e nontiscordardimé.
Non aveva mai visto dei fiori, in casa sua. L’unica cosa a rallegrare l’ambiente quando ancora abitavano tutti con Warwick era il sorriso dei Deryck nei giorni in cui lei e Igor riuscivano a recuperare qualche caramella da regalargli.
«Ne sono contento. Hai voglia di… venire al lavoro con me?» domandò Aaron, guadandola con aria supplichevole.
Non era una richiesta fatta per pura cortesia o gentilezza; Franziska capì che il coetaneo la stava davvero invitando a recarsi all’officina con lui. E ancora una volta, si sentì così compiaciuta che non poté non accettare quella richiesta.

 

Alaska's corner

Salve, miei inesistenti lettori!

Arrivo mooolto in ritardo perché questo è stato un mese e mezzo di fuoco. Sono andata in Francia, poi sono tornata e ho avuto mille verifiche, poi è arrivata la mia corrispondente, poi altre verifiche e poi basta. E come se non bastasse, la mia chiavetta si è mezza rotta e mi ha cancellato alcuni capitoli di questa storia .-. 
Cooomunque, capitolo sette. Altri due capitoli in cui si potranno conoscere meglio i personaggi e poi comincerà più o meno la storia vera e propria. 
Qui vediamo i primi momenti dell'amicizia tra Aaron e Franziska. Chiedo scusa se il boquet di Aaron fa schifo, ma non me ne intendo. xD Ah, e la reazione di lei è un po' esagerata, ma fondamentalmente ogni reazione di Franziska è esagerata.
Niente, ho poco da dire a riguardo. Vi lascio il volto di 
Franziska visto che le ho trovato una pv adolescente. Immaginatela così, ma con gli occhi verdi e i capelli lisci, ecco. 
Poi, lascio il link alla mia pagina facebook, dove ci sono info sulle mie storie e i miei personaggi - in particolare, ci saranno spoiler e varie informazioni sulle altre long facenti parte della serie sparks. 
Alla prossima,
Alaska. ~

 

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Capitolo 9
*** O8 » Snow « ***


 

CAPITOLO VIII
 
Snow

 
« Ho incontrato il tuo sorriso dolce, 
con questa neve bianca adesso mi sconvolge, 
la neve cade e cade pure il mondo 
anche se non è freddo adesso quello che sento 
e ricordati, ricordami: 
tutto questo coraggio non è neve.
»
-“L’ultima notte al mondo”; Tiziano Ferro
 
 
Qualche giorno dopo, iniziò a nevicare.
Bianchi fiocchi scendevano dal cielo in una danza affascinante e lenta, posandosi dolcemente sulle strade rovinate del Distretto 6, donando un tocco di colore in più al solito grigiore.
Dicembre era ormai iniziato da un paio di giorni, portando con sé del vento gelido, il quale per nulla aveva migliorato la situazione riguardante le temperature, che si abbassarono ulteriormente.
Raggiungere il lavoro e la scuola divenne per i gemelli molto difficoltoso, tra il ghiaccio che tendeva loro delle trappole mentre camminavano e il freddo pungente che non voleva saperne di andarsene.
Gli unici momenti in cui potevano avere un po’ di calore erano a casa e – appena appena – al lavoro, dove, impegnati com’erano a montare e sistemare pezzi di hovercraft e treni, non avevano tempo di pensare al gelo. A scuola i termosifoni erano fuori uso – come ogni anno – e i professori, con le loro litanie non erano d’ausilio al sonno che il brutto tempo pareva portare con sé.
Seduta sul divano, le mani avvolte intorno ad una tazza fumante di tè caldo, sedeva Franziska. I suoi occhi erano persi fuori dalla finestra, dove osservava il rincorrersi dei fiocchi di neve, sospinti dal vento.
La televisione era accesa, ma di lì a qualche minuto – la quattordicenne ne era certa – si sarebbe spenta per mancanza di elettricità.
D’istinto, guardò l’orologio appeso alla parete. Segnava le cinque del pomeriggio.
Sospirando, la giovane portò la tazza alle labbra, bevendo un sorso di tè. Il liquido caldo parve scaldarle un po’ anche l’animo, mentre guardava con disinteresse la replica di un’edizione degli Hunger Games.
Ormai era all’ordine del giorno, vederle in televisione. Sembrava una beffa, quella: Capitol City continuava a mandare in onda repliche su repliche dei Giochi, per mantenere vivo l’incubo, una costante minaccia di morte ai danni di chi viveva nei Distretti, specialmente quelli bassi come il 6.
«Che schifo» mormorò Igor, seduto accanto a lei e strimpellando con la chitarra. Stavano cercando in qualche modo di far passare quella noiosa domenica pomeriggio, cantando, giocando a qualcosa o chiacchierando, ma la noia continuava a tornare. Deryck era appena corso in camera sua, quasi avesse avuto una folgorazione, ed Anne si era recata da una sua amica di vecchia data.
«Lo so» fu la scarna risposta di Franziska. Erano due statue impassibili, dinnanzi alla vittoria di Annika Carrey, l’ultima Vincitrice che il loro Distretto avesse mai avuto.
Avrebbero dovuto gioire, o quantomeno mostrarsi felici – del resto, Annika era una loro compaesana, prova vivente che agli Hunger Games si poteva sopravvivere anche se si proveniva da un Distretto povero.
Eppure, nessuno dei due riusciva a sorridere. Quando Annika aveva vinto, ricordava Franziska, avevano festeggiato tutti – era brutto da ammettere, ma più che felici per lei, erano tutti felici perché finalmente anche il Distretto 6 poteva avere i regalini della Capitale, quelli che, ogni anno, venivano recapitati alla fazione del Vincitore.
Malgrado dimostrasse che anche i poveri potevano trionfare, però, la Carrey non era di certo la figura del Vincitore che tutti si aspettavano.
Anche lei, come altri che precedentemente avevano trionfato, era caduta nel giro della morfamina appena poche settimane dopo la sua vittoria durante la cinquantunesima edizione.
Non se la sentiva di sorridere dinnanzi a tutto ciò, Franziska. Nessuno usciva vivo dagli Hunger Games; non vivo per quanto riguardava l’animo, almeno.
«Sei pensierosa, Lala?» Igor abbandonò la chitarra accanto a sé. Era tutto il giorno che suonava note a casaccio – a parte qualche canzone – e si vedeva lontano un miglio che lo faceva senza passione, giusto per non diventare schiavo della noia.
«Un pochino» ammise la ragazza, prima di dare un altro sorso al suo tè ormai finito.
«Io mi sento del tutto apatico. Per fortuna che ci sono queste belle repliche che mi tengono attivo il cervello» commentò, sarcastico, il gemello.
Franziska si allungò per appoggiare la tazza sul tavolino prospiciente al divano, asciugandosi la bocca con la manica della felpa.
«Almeno abbiamo qualcosa di cui parlare».
La quattordicenne si fece ricadere sul divano, chiudendo gli occhi. Odiava le domeniche. Le aveva sempre detestate, da quando sua madre era morta.
Quando Grace era ancora viva, trovava sempre qualcosa da far fare ai figli, in quei pomeriggi di totale libertà, che fosse questo “qualcosa” un gioco appena inventato, una partita a calcio o una visita a Carine per chiacchierare.
Da quando era morta, però, la loro vita era stata un susseguirsi di eventi negativi. Stare a casa era impossibile, con Warwick in giro che li osservava come un condannato guarda il carceriere, e non potevano giocare liberamente – le prime volte, almeno, quando Deryck era appena nato e dormiva quasi sempre.
«A proposito, si sa qualcosa di questa e dell’altro drogato? Non si vedono mai in giro». Igor indicò la televisione con un cenno del capo, proprio nel momento in cui veniva mostrata la faccia di Caesar Flickerman che annunciava la fine del programma; accanto a lui, nell’angolo in alto a destra, si vedeva ancora il volto di Annika durante l’intervista finale.
«Non lo so». Franziska si passò le mani sul volto, e la sua voce era ovattata. «Stanno sempre chiusi al Villaggio per farsi di morfamina, credo. Ogni tanto li si vede in giro, ma di solito nei momenti in cui vanno a comprare la droga e fare acquisti per vivere. Per il resto, li avrò visti pochissime volte, in giro».
«Bel posto, il Villaggio». Il ragazzo fece un verso che poteva benissimo sembrare una risata, ma anche un grugnito. «Lussuoso, ma pieno di merda».
«Pieno di merda non direi» replicò Franziska, aggrottando le sopracciglia. Se quella definita da suo fratello merda era ciò che si trovava al Villaggio dei Vincitori – il posto più opulento del Distretto 6 – allora non sapeva a cosa paragonare la casa in cui abitavano prima di trasferirsi dalla nonna. «È il posto più bello del Distretto» aggiunse a mo’ di giustificazione.
«Non intendevo in quel senso, Fra’». Igor prese il telecomando quasi con rabbia e spense il televisore, rilanciando l’aggeggio sul tavolino. «Intendevo che tutti quelli che ci hanno abitato non sono molto normali». Per esprimere meglio il suo concetto, si picchiettò la tempia destra con l’indice. «I Giochi li hanno strapazzati tutti per bene, non trovi?»
Non le era mai capitato di vedere le cose sotto quel punto di vista – o meglio, sì, le era successo di pensare al perché i Vincitori del loro Distretto, malgrado la ricchezza e la fortuna, avessero iniziato ad abusare di morfamina.
Provò a mettersi nei panni di una persona nell’Arena, vedere le cose sotto un’altra luce.
Immaginò di osservare  altre ventitré persone morire, di uccidere qualcuno e poi farsi prendere dai sensi di colpa per saper di aver privato una famiglia di un figlio.
E decise che lei, nell’Arena, non avrebbe mai voluto andare; e forse, se ciò sarebbe mai accaduto, sarebbe stato meglio morire che vivere, perché avrebbe posto fine alle sue sofferenze una volta per tutte.
«Anche vincere non è sicuro» confermò la bionda a bassa voce. «Scommetto che quei due poveracci preferiscono essere morti, nell’Arena».
«Credo che tutti i Vincitori preferiscano essere morti» puntualizzò il fratello, lanciandole una breve occhiata, «a parte i Favoriti, ovvio».
La loro chiacchierata fu interrotta dalla vocina di Deryck, che correva giù dalle scale ad una velocità quasi rischiosa.
«Ragazzi! Alzatevi!» strillò, correndo incontro ai fratelli maggiori.
Franziska si girò in direzione del bambino, incredula e divertita nell’apprendere come si era vestito. In testa aveva un cappellino di lana nero e il cappuccio di una felpa, sopra la quale aveva indossato una giacca larga almeno il triplo di lui – pescata non si sa dove; Franziska intuì che avesse fatto una capatina in soffitta, per prendere qualche vestito che doveva essere appartenuto al nonno.
«Cosa fai concio così, nanerottolo?» chiese Igor, alzandosi dal divano con un sospiro, ma stava sorridendo.
«Voglio fare un pupazzo di neve!» esclamò il più piccolo del gruppo, avvicinandosi alla sorella. La sua piccola mano s’infilò in quella della maggiore, avvolgendole le dita e iniziò a tirare, pretendendo che si alzasse.
I gemelli si lanciarono un’occhiata. Poi, Igor annuì e si diresse verso la camera di Deryck – dove lui e Franziska tenevano i loro abiti, considerato che erano a corto di armadi.
«Andiamo, eh?» Deryck tirò ancora una volta la sorella per il braccio, fissandola con fare supplichevole. Franziska portò un dito al mento e tamburellò, con gli occhi alzati al cielo per far finta di doverci pensare su.
Vista la reazione della sorella, Deryck sporse il labbro inferiore, emettendo degli strani mugolii con la bocca, come un cagnolino in cerca di cibo.
«Ti prego» sussurrò, calcando particolarmente il tono di voce sulla “e” di “prego”. Le sue braccine magre circondarono la vita della sorella e si appoggiò con il mento allo stomaco di lei, guardandola con la stessa espressione di poco prima.
Franziska, non riuscendo più a trattenersi, scoppiò in una risata e sistemò il cappuccio di suo fratello.
«Dammi solo il tempo per cambiarmi e andiamo» disse, prendendo la tazza sul tavolino per portarla in cucina.
Qualche minuto dopo, i tre fratelli erano pronti ad affrontare il gelo dell’inverno che stava arrivando, coperti con sciarpe e cappelli. Igor e Franziska – sprovvisti di una giacca – si erano dovuti mettere addosso almeno tre felpe, il che li rendeva piuttosto ridicoli.
Uscirono sulla strada praticamente deserta, se non per qualche gatto randagio che miagolava tra i cassonetti dell’immondizia. Le uniche cose che provassero che lì intorno c’era della civiltà erano le orme sulla neve, ancora fresche.
Il freddo li investì come un treno in corsa non appena aprirono la porta.
«Accipicchia!» esclamò Deryck, atterrando con un salto sulla neve fresca. «È tutto bianco!» aggiunse, girando in tondo con le braccia spalancate e ridacchiando.
«Allora, lo facciamo questo pupazzo o no?»
Igor prese un po’ di neve, iniziando a modellarla per costruire la prima parte del pupazzo.
Franziska inspirò a fondo l’aria gelata, malgrado le facesse bruciare le narici.
Da quanto tempo non aveva una domenica pomeriggio così senza pensieri? Da quanto non si divertiva davvero, senza bisogno di pensare a cosa sarebbe successo una volta rimesso piede in casa?
 
«Stai attenta!» esclamò sua madre, abbassandola appena in tempo prima che la palla di neve di Igor la colpisse in piena faccia.
Non ebbe molta fortuna, Grace: la munizione del figlioletto la colpì sul petto.
«Dobbiamo vendicarci, non credi?» Fece l’occhiolino alla bambina, abbassandosi per prendere una manciata di neve e creare una palla.
Franziska ridacchiò, imitando i gesti della madre.
Igor, invece, era corso a prenderne altra per difendersi dai lanci della madre e della sorella. «Cattive! Non fatemi male!»
«Non ascoltiamolo, mamma». Franziska diede dei colpetti alla neve, sistemando la sua munizione. «Lancia!»
 
Quel ricordo la prese in contropiede, mentre osservava la neve che non la smetteva di cadere, impigliandosi tra i suoi capelli e umidificandoli.
Le mancava più che mai, sua madre.
Ogni volta che si concentrava troppo su qualcosa che gliela ricordava, sentiva la malinconia stringerle il cuore e lo stomaco e la mente, senza farla ragionare.
Avrebbe pagato oro pur di riabbracciarla e sentire la sua voce, la sua risata, il suo profumo, i suoi baci sulle guance, sul naso e sulla fronte che le dava prima di dormire.
«Attenta, Lala!»
La voce del suo fratellino la riportò alla realtà, facendole evitare, per un pelo, una palla di neve scagliata da Igor. Si spostò di poco, ed essa andò a infrangersi contro la sua spalla.
Suo fratello scoppiò a ridere, abbassandosi per recuperare altra neve.
«Vuoi la guerra?» Franziska gli lanciò uno sguardo di sfida, cercando di apparire minacciosa, ma la risata che risaliva lungo le sue corde vocali le rendeva difficile trattenersi dall’incurvare le labbra in su. «E che guerra sia!»
Si abbassò, ridendo, prendendo della neve.
Le era mancato anche suo fratello, si rese conto.
Igor era sempre stato accanto a lei, una roccia che mai si sarebbe spezzata, ma era come distante anni luce, rispetto al bambino che aveva conosciuto da piccola.
Lo ricordava come un po’ dispettoso, ma silenzioso e tanto dolce, però, da quando Grace era morta, anche lui era cambiato un bel po’. Le risate erano andate via via scemando, così come la sua voglia di fare dispetti, che era stata rimpiazzata da un silenzio opprimente, uno scudo tra lui e gli altri.
Le era mancato.
E non voleva più perderlo.
Una palla di neve la colpì in pieno volto, lasciandola per un istante congelata come dopo essersi immersa in un lago, nuda, in pieno inverno.
Mentre levava la neve dalla guancia, intravide Deryck che ridacchiava contento, scagliando un’altra palla verso il fratello.
«Ah, è così, dunque?»
Franziska si asciugò il volto con la manica della felpa, prima di andare velocemente verso Deryck e circondargli la vita con le braccia. Lo sollevò da terra, iniziando farlo girare su se stesso, come una trottola.
«Così almeno non prendi più la neve con quelle manacce!» esclamò, ridacchiando come una bambina, mentre suo fratello emetteva dei versi a metà tra una risata e un gridolino.
Lo mise a terra dopo qualche secondo, sentendo i piedi bagnati fradici e i capelli che presto sarebbero diventati come loro.
Si voltò appena in tempo, giusto per vedere una figura che avanzava verso di loro.
Socchiuse gli occhi, trovandola familiare; a quella distanza, però, non riusciva a capire chi fosse.
Quando poi si avvicinò di più, Franziska capì di chi si trattava.
Aaron veniva verso di loro, una cuffia nera calcata in testa, le mani in tasca e lo sguardo rivolto a terra. Non alzò gli occhi finché non si accorse di non essere solo.
Le sue iridi castane incontrarono quelle verdi di Franziska e, istintivamente, i due si scambiarono un sorriso.
Non si aspettava di trovarlo lì, lei, non quel tempaccio e da solo, almeno. Non lo aveva mai visto da quelle parti, a parte il giorno in cui le aveva portato i fiori e il due giorni prima, quando l’aveva accompagnata a casa dal lavoro, incurante delle occhiatacce di Igor – che, anche in quel momento, lo fissava come un pugile sul ring fissa l’avversario.
«Ciao!» esclamò, con un’allegria dovuta forse al bel momento appena passato; sperò solo che Igor non la interpretasse come un segno che aveva una cotta per Aaron, visto che era assolutamente falso.
«Ciao» la salutò di rimando il ragazzo, facendo un cenno con il capo. I suoi occhi dardeggiarono per un istante in direzione di Igor, ma, abbozzato un piccolo sorriso, tornò a concentrarsi sulla ragazza. «Giocate con la neve?»
«Tentavamo di fare un pupazzo, ma siamo finiti per prenderci a palle di neve» raccontò la ragazza. «Il mio fratellino ha voglia di giocare, non è vero, Deryck?»
Il piccolo annuì, ridacchiando sotto i baffi. Era certa che di lì a poco le avrebbe lanciato un’altra ghiacciata munizione.
«Quindi è lui il fratellino di cui mi parlavi». Aaron sorrise in direzione del bambino, che ricambiò con uno sguardo fermo, ma per nulla amichevole. Con un’occhiata, Franziska gli ordinò di sorridere, visto che già Igor aveva l’aria di un assassino in procinto di uccidere qualcuno.
«Sì. Deryck». Prese il fratellino per una spalla, trascinandolo davanti a sé per mostrarlo al collega. Il bambino aveva un sorriso forzatissimo, ma Franziska si considerò soddisfatta di quel piccolo passo avanti nell’atteggiamento dei suoi uomini. Perlomeno, Deryck non lo guardava in cagnesco.
«Dovrebbe avere l’età del mio». Aaron guardò il bambino, con lo stesso sorriso di prima stampato in volto.
«Ha sei anni» puntualizzò la ragazza. «Brenton quanti anni ha?»
«Dieci. È un po’ più grandino. Conosci un certo Jasper?» chiese il quattordicenne, abbassandosi verso Deryck.
Il bambino annuì. «È un mio compagno di classe. Il figlio del sindaco».
«È il fratello del mio migliore amico. Ti sta simpatico?»
La timidezza che Aaron aveva manifestato il giorno in cui si erano conosciuti sembrava essere svanita, e Franziska ebbe l’impressione di trovarsi dinnanzi ad un altro ragazzo, non il giovane di qualche tempo prima, che ancora ogni tanto arrossiva e balbettava quando parlava con lei.
Le pareva a proprio agio, mentre parlava con Deryck, e guardandolo negli occhi capì che le sue iridi color del cioccolato avevano la stessa limpidezza di quelle verdi del suo fratellino; una limpidezza sporca, oscurata da anni e anni di tristi trascorsi.
«Non è male. Non ci ho mai parlato troppo, è sempre zitto» rispose il bambino, grattandosi una guancia. «Ogni tanto parla di suo fratello. Dice che è stupido, ma simpatico».
Aaron scoppiò a ridere, gettando la testa all’indietro. «Ha ragione. Però non è stupidissimo, sa essere intelligente, quando s’impegna».
«Jasper è intelligente, ma sta sempre zitto. Ogni tanto mi piacerebbe parlare con lui perché gli altri compagni sono antipatici, ma non so mai come fare» confessò Deryck, e tutto l’astio che aveva manifestato inizialmente era sparito, sostituito da una sincerità che si vedeva solo in rare occasioni e dalla lingua lunga che sfoderava solo in presenza di gente a cui voleva davvero bene e di cui si fidava.
Lo sguardo di Aaron – notò Franziska – si era rabbuiato per un istante, come se volesse nascondere qualche segreto troppo brutto da essere raccontato.
Il suo viso tornò ad addolcirsi come se niente fosse successo. «Tu provaci. Ti assicuro che è un po’ timido e malfidente, ma dopo un po’ ci prende la mano. All’inizio non parlava mai nemmeno con me, ma pian piano si è aperto».
«D’accordo. Anche tu sei simpatico» ammise Deryck con un’alzata di spalle. «Lala mi ha detto che lo sei, ma all’inizio non ci credevo». Si appoggiò con il corpicino alle gambe della sorella.
«Tu non credi a tante cose, Deryck» mormorò la giovane, sfiorando il capo coperto dal cappuccio del fratellino.
«Domani ci sei al lavoro?» Aaron arrossì lievemente, nel fare quella domanda.
«Certo. Tu?»
«Ovvio». Si grattò la nuca con fare imbarazzato. «Mio zio mi tiene ai lavori forzati».
Zio?
Franziska aggrottò la fronte un istante, chiedendosi cosa significasse quella parola. Sapeva che Aaron lavorava in officina per racimolare dei soldi, ma non aveva mai accennato alla presenza di uno zio nella sua vita.
La consapevolezza di quello spaccato di vita del quattordicenne di cui lui non le aveva mai parlato le diede un pugno nello stomaco.
Era orfano. Esattamente come lei.
All’improvviso si sentì meschina per averlo giudicato prima di conoscerlo, valutando le sue azioni poco raccomandabili come dettate dalla stupidità. Probabilmente erano solo un gesto di ribellione, un gesto per manifestare tutta la sua rabbia perché anche lui aveva perso i suoi genitori.
Esattamente come lei.
«Oh…» fu l’unica cosa che le uscì dalla labbra. Non riusciva nemmeno a sostenere lo sguardo del ragazzo per timore di essere investita da tutta la sua tristezza.
«Ha ragione. Almeno la smetto di fare cazzate». Aaron fece spallucce e ridacchiò con aria nervosa.
«Ma no, sei un bravo ragazzo». Si chiese, Franziska, come un ragazzo all’apparenza così candido e delicato come lui potesse in realtà combinare delle cavolate. Sapeva quel che si diceva su di lui, certo, e a causa di ciò aveva nutrito dei pregiudizi nei suoi confronti, ma la realtà era ben diversa.
«Questo lo dici tu. È tutta colpa di questo». Indicò il piercing che portava al labbro inferiore con un dito, sorridendo. «Da quando l’ho fatto mio zio e mia zia cercano di impedirmi di fare altre cagate».
«Non hanno tutti i torti». La ragazza inarcò un sopracciglio, divertita. «Potresti prenderti un’infezione».
«Però è strano andare in giro con un anello al labbro». Deryck piegò la testa di lato, fissando con aria incuriosita il volto del quattordicenne. Igor, nel frattempo, si stava avvicinando sempre di più alla porta, guardando Aaron in cagnesco.
«Fa tanto male?» Il bambino indicò il volto del maggiore.
Aaron annuì con aria convinta. «Non ti consiglio di farlo». Rise, poi, una risata cristallina che non si addiceva a tutta quella tristezza mal celata dietro i suoi occhi.
«Non glielo farò fare io. E nemmeno la nonna».
«Chi mi ha chiamata?»
Franziska si irrigidì, stupita di sentire la voce di Anne a pochi passi da lei.
Un brivido le corse lungo la schiena, non tanto per il freddo, quanto per ciò che di lì a poco la sua tutrice avrebbe potuto dire. Non si era dimenticata del modo in cui l’aveva guardata quando le aveva raccontato la storia di Aaron e della mano ferita, qualche giorno prima.
«Ciao, nonna!» la salutò Deryck, allegro, agitando la manina.
«Nonna…» Franziska fece un cenno con il capo. Igor era rientrato in casa, borbottando qualcosa a proposito del fatto che aveva freddo e si sentiva poco bene – tutte balle.
«Ciao, cari». La donna fece una carezza sulla guancia del nipote più piccolo, prima che i suoi occhi si posassero sulla figura di Aaron.
«Come è andato il tè dalla tua amica?» chiese la quattordicenne, cercando, disperatamente, di distrarla e non farle dire nulla di troppo equivoco. Erano giorni che ridacchiava ogni volta che Franziska nominava il lavoro, lanciandole degli sguardi maliziosi che si spostavano poi sull’imbronciato volto di Igor.
«Benissimo, tesoro, era proprio l’ideale in una giornata così fredda». Un dito lungo e ossuto della sua mano indicò Aaron. «Lui è un vostro amico?»
Il quattordicenne – gli occhi fissi sulla signora – deglutì nervosamente, grattandosi una guancia e sistemandosi poi la cuffia nera.
«È Aaron, un mio… amico» rispose Franziska, soppesando le parole giuste da dire. Cos’erano lei e Aaron di preciso? Lei non sapeva quando una persona varcava il limite tra conoscenza e amicizia – o almeno, lo aveva saputo, in un passato che pareva lontano anni luce, ma che nessuno le avrebbe più restituito.
Era un collega, lui, ma ormai in quei giorni di lavoro era diventato anche una compagnia piacevole per non pensare alla fatica e alla noia. Chiacchierare con lui le piaceva, anche se non si erano mai fatti grandi confidenze.
«Quindi è lui il famoso malato che hai curato». Anne sorrise in direzione del ragazzo, facendosi poi largo tra i nipoti per avvicinarsi al giovane. «Ciao, io sono Anne, la nonna di questi tre adorabili ragazzi, anche se ora sono rimasti in due, come avrai notato». Allungò un braccio verso di lui, per stringergli la mano.
Tremante, Aaron imitò le azioni della donna, e la sua pelle incontrò quella rugosa della donna. «Piacere, signora, io mi chiamo Aaron. Aaron Kidman».
«Sembri anche gentile. Sono felice che Franziska si sia trovata un amico così dolce».
A Franziska non piacque affatto l’enfasi che l’anziana aveva posto sulla parola “amico”, quasi a voler sottintendere che tra lei e Aaron ci fosse qualcosa di più.
Erano colleghi. Conoscenti. Forse amici.
Era troppo presto per parlare di amore e, anzi, Franziska era certa che tra loro due non sarebbe successo nulla in quel senso. Lei per prima non aveva voglia di impegnarsi con qualcuno. Inoltre, non riteneva che un ragazzo potesse interessarsi a lei, con quell’aria da maschio mancato e i modi di fare rozzi e bruschi.
«Oh, grazie». Aaron si grattò la nuca, abbassando lo sguardo e arrossendo visibilmente, anche se con quella pelle olivastra non si notava molto.
Che invidia, si ritrovò a pensare Franziska. Lei, con la sua simile a neve fresca, sembrava un pomodoro, ogni volta che arrossiva.
«E quindi anche tu lavori in officina con lei e il mio adorabile» nel dire questo aggettivo, gli occhi di Anne saettarono verso la porta di casa, «nipotino? È bello vedere dei giovani che si impegnano così tanto!»
«Sì. Aiuto mio zio e i miei cugini in officina, da quando si sono trasferiti lì. Non è molto che lavorano dal signor Jean».
«Un uomo delizioso!» esclamò Anne, nell’udire il nome del datore di lavoro dei suoi nipoti. «La mia defunta figlia e quell’ameba del marito lavoravano per lui. Sant’uomo. È stato gentilissimo ad accettare la richiesta di lavoro dei miei nipotini!»
Aaron abbassò lo sguardo una seconda volta, fissandosi le scarpe. «Oh, io… mi dispiace per sua figlia» balbettò poi, muovendo un piede nella neve fresca con fare compulsivo.
Anne agitò una mano davanti al volto come a voler scacciare una mosca. «Non è niente, tesoro, non preoccuparti. Sono passati molti anni, ormai, dopo un po’ ci si abitua all’assenza delle persone».
La voce le si era abbassata, in netto contrasto con ciò che stava dicendo quasi con nonchalance. Franziska aggrottò la fronte.
Era una bugia.
Non passava, il dolore, non passava mai dinnanzi a certe cose, ma si faceva più forte man mano che le lancette dell’orologio proseguivano la loro infinita corsa.
«Sì, forse ha ragione» mormorò il ragazzo, facendo spallucce, ma senza mai alzare lo sguardo. «Mi dispiace, in ogni caso. So quanto sia difficile perdere delle persone care».
Franziska lo fissò di sottecchi, cercando di dare un senso a quelle parole. Si riferiva ai suoi genitori? Si rese conto di voler sapere qualche dettaglio in più sulla vita di quel giovane a cui aveva medicato la mano. In fondo, in quei giorni passati come colleghi aveva scoperto solo qualche informazione: si chiamava Aaron Kidman, aveva quattordici anni come lei, aveva un fratellino, il suo migliore amico si chiamava Jimmy ed era il figlio del sindaco. Infine, sapeva che aveva perso – con ogni probabilità – i suoi genitori.
Non le era mai interessato così tanto della vita di qualcuno – di solito, la sua filosofia era vivi e lascia vivere.
Ma Aaron aveva qualcosa di strano, qualcosa che inspiegabilmente l’attraeva, anche se non in senso amoroso. Forse perché con lui si era trovata bene per la prima volta con qualcuno che non fossero i suoi fratelli, da quando Nikole era morta.
«Oh, insomma, parlare di cose così tristi non è per niente bello!» esclamò la nonna, con un sorriso. «Sei davvero un ragazzo delizioso, sai? Sono decisamente contenta che Franziska si sia trovata un amico, considerato che a volte penso che siano un gruppetto di eremiti. E sei anche un bel ragazzo!»
«Lei è troppo gentile, Anne».
«Dammi del tu, caro. Mi fai sentire vecchia, così. Detto questo, vi saluto. Deryck! Con me!»
Come un soldatino ben addestrato, il bambino si affrettò a seguire la nonna all’interno, senza neanche tentare di protestare, sebbene dal suo volto si intuisse il suo disappunto. Del resto, era stato lui a voler uscire a giocare con la neve, e vedersi portar via così il divertimento doveva farlo sentire piuttosto offeso.
Rimasti soli, Franziska e Aaron si scambiarono una veloce occhiata, prima di abbassare entrambi lo sguardo a terra.
La ragazza se lo sentiva: Anne aveva portato via Deryck per lasciarli da soli.
Un brivido di fastidio le percorse la spina dorsale. Non le piacevano affatto tutte quelle insinuazioni ad una probabile e futura relazione tra lei e quel ragazzo che conosceva appena. Quelle cose non facevano per lei – anche se una parte della sua anima sperava sempre di trovare la sua esatta metà.
Anni e anni con suo padre le avevano fatto perdere i sogni di bambina, in cui il suo futuro marito sarebbe stato un uomo dolce, sincero e gentile, con cui avrebbe avuto tanti bambini.
Si era resa conto, Franziska, che l’amore era diverso.
L’amore era ossessione, gelosia. L’amore era pura paura che non lasciava spazio ad altri sentimenti.
«Allora… giocavate a palle di neve?»
La domanda inaspettata di Aaron la prese in contropiede, e quasi sussultò per essersi dimenticata della sua presenza, lì vicino a lei.
«In realtà dovevamo fare un pupazzo di neve, ma la cosa è degenerata» rispose con una smorfia, guardando i piccoli cumuli di neve, resti del gioco di poco prima.
«Anche io e i miei cugini finiamo sempre per fare così». Aaron si ficcò le mani nelle tasche del giubbotto. «Una volta per colpa di mio cugino Keegan mi si è infilata della neve del naso. Non è stato bello».
Franziska sorrise, alzando finalmente lo sguardo da terra. «Ti capisco. Che ci fai in giro tutto solo?»
La ragazza iniziava a sentire i piedi simili a due blocchi di ghiaccio, mentre si tratteneva dal battere i denti a velocità supersonica. Un vento gelido si era appena levato e il buio stava prendendo possesso del cielo già plumbeo.
Se proprio doveva andarsene a zonzo, Aaron non avrebbe avuto molto tempo, prima del coprifuoco.
«Andavo dai miei amici. O meglio…» non completò la frase, mordendosi il labbro.
«Andavi da qualche conoscente che fai finta sia tuo amico per passare il tempo?» chiese Franziska, con finto disinteresse.
«Sì». Il ragazzo lasciò che il sorriso di poco prima sfumasse. «Forse è una definizione azzeccata».
«Allora ti conviene sbrigarti». La quattordicenne si guardò intorno, indicando il cielo con un dito. «Il buio sta calando. Credo che il coprifuoco scatterà tra poco, come sempre d’inverno».
Aaron scosse la testa. «Io non… non mi interessa del coprifuoco. O almeno, sì, mi interessa, ma sono già stato in giro dopo l’orario» rispose, abbassando la voce quasi impercettibilmente. Lì intorno poteva esserci chiunque a sentire, anche un Pacificatore.
«Che ribelle» commentò la ragazza, inarcando un sopracciglio. «Vai in giro a fare i graffiti?» chiese, abbassando la voce a sua volta e avvicinandosi a lui per farsi sentire.
«Io… come fai a saperlo?» balbettò Aaron, e dalla sua voce si percepiva tutta l’ansia che stava provando.
Franziska rise. «Andiamo! Tutti conoscono la tua fama di writer ancora prima della tua personalità. Girano tante voci al Distretto, stai attento». La risata fu rimpiazzata da un tono fermo, deciso e serio. Non scherzava: Aaron doveva davvero stare attento, o avrebbe rischiato di farsi catturare da qualche indesiderato soldato in uniforme bianca.
«Stare attento è il mio mestiere» replicò il quattordicenne, con un tono di voce senza il solito balbettio o mormorio insicuro.
«Dunque vedi di farlo bene. Ti lascio andare, visto che devi divertirti». Franziska sospirò, muovendo un passo verso la porta di casa.
«Aspetta!»
L’esclamazione del ragazzo la bloccò. Si voltò verso di lui, alzandosi la sciarpa per coprire il volto gelato.
Aaron le stava sorridendo, mentre si grattava all’altezza della tempia destra con un dito. «Domani vieni al lavoro con me?»
La ragazza ricambiò quel sorriso. «Certo che sì».


 


Alaska's corner

Hola!
Mesi dopo giungo con un altro capitolo, ma giuro che da ora sarò più puntuale!
Ho deciso che Bloody Valentine sarà pubblicata ogni giovedì/domenica perché ora ho un po’ più tempo per cercare di essere puntuale. Salterò solo un paio di settimane perché vado in vacanza, prima in montagna, da sabato, e poi a Londra, a settembre :D
Ma basta parlare degli affari miei; spiego qualcosa di questo capitolo e poi stacco.
Dunque, questo è più corto degli altri ed è essenzialmente di passaggio. Volevo inserire un piccolo pezzo in cui viene mostrato come Aaron e Franziska stanno imparando a conoscersi, perché dal prossimo capitolo la loro conoscenza subirà una svolta sulla quale si baserà tutta la prima parte di questa storia!
Mi piaceva l’idea di mettere questo piccolo capitolo di passaggio, in cui non solo si vede un po’ come Aaron e Franziska stiano diventando, pian piano, amici, ma anche un momento in cui i fratelli Madison hanno un po’ di svago, in cui approfittano di questa loro ritrovata serenità. Ovviamente non tutto andrà così bene fino alla fine; la storia è molto lunga, sono più di cinquanta capitoli, credo (?).
In ogni caso, amate la nonna impicciona che si diverte a far la maliziosa sulle nuove conoscenze di sua nipote; io adoro il rapporto tra Franziska e Anne, si assomigliano tanto e mi fanno morire xD
Il prossimo capitolo sarà un mix tra il passaggio e il non, nel senso che non accadrà nulla di troppo eclatante, ma si verrà a sapere qualcosa in più sulla vita di Aaron e ci sarà un piccolo fatto che darà il via alle avventure di loro due.
Niente, ci si sente giovedì, spero!
Alla prossima,
Alaska. ~ 

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Capitolo 10
*** O9 » Informations « ***







CAPITOLO IX
 
Informations
 
 
Anna: «Olaf, you’re melting!»
Olaf: «Some people are worth melting for».
-Da “Frozen”; 2013

 
L’aria era più fredda che mai in quel pomeriggio di metà dicembre.
Quelle due settimane erano passate in fretta, tra lavoro, scuola, neve e ancora neve. Franziska non aveva avuto tempo per concentrarsi su altro, se non su ciò che l’attendeva in officina e sui compiti che sembravano farsi sempre più intensi in quel periodo di fine quadrimestre.
Non che al Distretto 6 – come nel resto di Panem – tenessero particolarmente all’istruzione, ma la quattordicenne aveva premura di far tutto per bene, per non avere problemi oltre ai turni di lavoro.
All’officina le cose andavano come sempre. Capitava, di tanto in tanto, che chiacchierasse con altri operai, ma alla fine l’unico con cui parlava sempre era Aaron.
Ancora non sapeva se considerarlo amico o semplice conoscente. L’unica cosa di cui era certa era che non le spiaceva chiacchierare con lui – perlomeno le faceva passare i pomeriggi lavorativi. Inoltre, era contenta di avere anche qualcun altro con cui scambiare due parole all’uscita di scuola, oltre a Igor e Deryck.
Quel giorno – una domenica, l’unico giorno libero dal lavoro – Franziska si era diretta, come ogni sedici dicembre, al cimitero.
Non era una data qualsiasi, quella, ma il compleanno di Nikole.
Era un avvenimento che – Franziska ne era certa – sarebbe diventato quasi un rito, nella sua vita. Anche l’anno prima si era diretta sulla tomba della migliore amica, con un bouquet di fiori stretto tra le mani.
I suoi risparmi le erano serviti – il giorno prima – per comprare una pianta di crisantemo, i fiori dei morti.
Sebbene fossero così macabri, Franziska li trovava in qualche modo bellissimi e affascinanti, forse per tutta la tristezza che trasmettevano quei petali colorati, che stonavano così tanto in un luogo deprimente come il cimitero del Distretto 6.
Appoggiato il vaso di fiori sulla tomba dell’amica, si alzò da terra, spazzolandosi la neve via dai pantaloni con una mano guantata – malgrado la lana non la scaldasse affatto. I guanti che indossava, infatti, erano rotti all’altezza delle unghie, lasciando scoperta la parte superiore delle dita. Non erano il massimo, ma non poteva permettersi di meglio, considerato che al Mercato Nero aveva trovato solo quelli.
Il Campo Santo era sepolto sotto una coltre bianca e soffice, e poche erano le orme che si notavano su di essa. Le più si dirigevano verso tombe nuove, quelle poste solo qualche mese prima nella parte di cimitero dedicata ai Tributi che non ce l’avevano fatta.
A Franziska si strinse il cuore nel vedere alcune orme più piccole che si fermavano dinnanzi alla lapide recante il nome del ragazzo che era morto durante la cinquantaduesima edizione. Nessuno dei Tributi del Sei ce l’aveva fatta, ma la cosa che più faceva arrabbiare il popolo era l’età di entrambi: dodici anni il maschio, tredici la ragazza.
Giovanissimi, anche troppo.
La quattordicenne si voltò, tirandosi in testa il cappuccio della felpa per proteggersi dalla neve che aveva ricominciato a cadere.
Si accorse solo in quel momento di non essere sola. Poco più in là, in piedi davanti ad una tomba, c’era una figura che in quei giorni era diventata anche fin troppo familiare.
Le sue labbra si incurvarono in un mezzo sorriso, mentre arrancava nello strato candido di neve per raggiungere il suo collega di lavoro.
Sentiti i passi della giovane, il quattordicenne si girò, aprendo appena la bocca, stupito. Poi, anche lui sorrise.
«Buon pomeriggio, Kidman. Qual buon vento ti porta al cimitero di domenica pomeriggio?» domandò Franziska, una volta che lo ebbe raggiunto.
«Lo stesso che porta te, a quanto vedo» ribatté il ragazzo, avvicinandosi alla bionda. Il suo volto era coperto da una spessa sciarpa di lana nera, stesso materiale della cuffia che copriva i suoi capelli castani, lasciando fuori appena qualche ciuffo sulla fronte. «Non dovresti essere a casa a studiare?»
«E tu?» Franziska tirò ancora più su la zip della felpa pesante che indossava a mo’ di giacca. «Ho già studiato un po’ prima, stasera terminerò. Volevo venire al cimitero, prima».
«Io non ho proprio aperto libro. Anche io volevo venire a farmi un giretto qua».
Con la coda dell’occhio, Franziska notò una lapide poco lontana, quella dinnanzi alla quale Aaron si era fermato poco prima.
Sulla nuda pietra vi era solo una scritta: Mathias Kidman. Morto durante i trentunesimi Hunger Games.
«Oh… sì, con questo tempo vien solo voglia di dormire» disse la giovane, distogliendo lo sguardo dalla lapide; il silenzio tra di loro si era protratto per troppo tempo e temeva che lui la scambiasse per un’impicciona.
Aaron, però, pareva essersi accorto che la ragazza aveva posato lo sguardo sulla tomba di quel parente – di cui Franziska non aveva ancora scoperto l’identità. Poteva forse essere suo padre? Fece un rapido calcolo mentale, capendo infine che non poteva essere lui. Aaron era nato nel trentottesimo anno dopo i Giorni Bui e l’inizio degli Hunger Games, proprio come lei.
Il quattordicenne si girò verso la tomba, quasi impercettibilmente, per tornare a guardare la ragazza subito dopo.
«Sì. Hai ragione. Ma anche venire al cimitero non è il massimo, comunque. Vedo che hai… visto la tomba». Indicò con il capo il luogo dove qualche suo parente giaceva.
Franziska affondò il volto nella sciarpa, vergognandosi da morire per quella figuraccia. «Sì» ammise. «Non volevo impicciarmi, scusa».
Aaron fece spallucce. «Non fa niente. Anche io sarei curioso. Era mio zio, comunque» spiegò, indicando lo stesso posto di poco prima con un dito. «Il fratello di mio padre. Aveva quindici anni, quando è morto».
«Mi dispiace tanto» mormorò la ragazza, posando una mano sul braccio del coetaneo, in un maldestro tentativo di consolarlo. «È brutto perdere della gente a cui si tiene. Lo capisco bene. E quando accade agli Hunger Games è ancora peggio. Fa rabbia, vero?»
Si morse il labbro inferiore martoriato dall’aria congelata, facendo ricadere il braccio lungo il fianco.
Aaron annuì. «Credo sia così. Almeno, io mio zio Mathias non l’ho mai conosciuto, ma mio padre aveva una certa avversione nei confronti dei Giochi per questo motivo». La guardò di sottecchi, come a volerle chiedere il permesso di continuare a parlare. «Hai… perso qualcuno per questo stesso motivo?»
«Sì». Non riusciva a parlare, Franziska. Sentiva un nodo in gola che diventava sempre più grosso, bloccandole quasi la respirazione e le corde vocali. Sentì gli occhi – già lucidi per l’aria fredda – riempirsi ancora di più di lacrime, e fu costretta ad abbassare lo sguardo sulla neve fresca.
I suoi occhi saettarono per un istante verso la tomba di Nikole.
Aaron la guardava ancora, in attesa, e decise che, per una volta tanto, parlare a qualcuno che non fosse Igor dei suoi problemi le avrebbe fatto più che bene.
Fece un cenno ad Aaron con la mano, indicandogli dove si trovava il luogo dell’eterno riposo della sua migliore amica.
«Era lei» sussurrò, quando si avvicinarono alla tomba.
Aaron flesse le gambe, allungandosi per leggere il nome inciso sulla pietra, che in quel momento era seminascosto dalla neve che continuava a cadere.
«Si chiamava Nikole. È morta a dodici anni, durante la cinquantesima edizione. Al Bagno di Sangue».
Franziska disse quelle informazioni con voce meccanica, come se ciò che usciva dalla sua bocca non fossero parole sue, ma di qualcun altro.
Era una macchina sulla quale le frasi venivano digitate. Apriva la bocca. Parlava. Raccontava con voce atona colei che un tempo era stata la sua migliore amica, l’appiglio a cui aggrapparsi nei momenti di sconforto.
Diceva tutto ciò come una spettatrice.
Ma lei non era una semplice persona che osservava. Lei aveva vissuto quel dolore in prima persona, soffrendo, buttandosi a terra e urlando.
«Mi dispiace».
Aaron le passò un braccio intorno alle spalle, goffo, e a Franziska venne istintivo sorridere.
«Quella era stata la nostra prima Mietitura» le uscì di bocca, quasi come una giustificazione.
«Lo so. Non è stato molto piacevole iniziare ad andare in piazza proprio l’anno della Seconda Edizione della Memoria». Aaron aveva ancora il braccio intorno alle sue spalle. Lo guardò, come una persona guarda qualcosa di particolarmente strano e si affrettò a spostarlo, un’espressione imbarazzata in volto.
«Allora… da quanto tempo vi conoscevate tu e Nikole?» domandò il ragazzo, togliendosi la cuffia e passandosi una mano tra gli arruffati capelli castani. Si rimise subito il copricapo, tirandolo talmente giù che per poco non si sarebbe coperto gli occhi. «Ovviamente non devi rispondere se ti fa male. Scusa se sono stato inopportuno» aggiunse, parlando in maniera così veloce che Franziska temette per un possibile arrotolarsi della sua lingua.
«Non è un problema». Scosse la testa, facendogli cenno di seguirla. Iniziava a sentire i piedi come due cubetti di ghiaccio attaccati alle caviglie e non era piacevole. Per non parlare delle mani, le cui dita stavano lentamente diventando rigide come dei rami.
I due si incamminarono verso il grande arco che consentiva l’accesso alla parte del cimitero riservata alle vittime degli Hunger Games.
«Io e Nikole ci siamo conosciute da bambine. Abitavamo vicine e giocando insieme siamo diventate amiche. Lei viveva con suo fratello maggiore perché i suoi genitori erano morti in un incendio».
«Forse lo ricordo. È morta anche un’amica di mia madre, lì» la interruppe Aaron, tirando un calcio a una bottiglia di birra vuota; rimasuglio, forse, di qualche ubriaco che era andato lì una sera in preda alla disperazione per piangere sulla tomba di un parente. Non era rara la gente così, al Distretto 6.
«C’è anche da dire che di incidenti del genere ne capitano praticamente tutti i giorni, in questo posto di merda». Franziska avrebbe tanto voluto avere anche lei quella bottiglia tra i piedi, per sfogare la sua rabbia contro di essa. «Comunque, sì, io e Nikole ci siamo conosciute giocando. Lei era in gamba. Davvero in gamba». La voce le si era abbassata di qualche ottava e sentiva il nodo alla gola che tornava più stretto di prima, facendole quasi male. «Quando avevo otto anni ed è morta mia madre, lei mi ha aiutata spesso. Mi aiutava a rubare qualcosina al mercato, a barattare al Mercato Nero, oppure semplicemente mi cedeva qualche avanzo di cibo. Una volta per poco si è quasi fatta prendere dai Pacificatori, mentre rubavamo…» Un sorrisetto malinconico affiorò sulle sue labbra, mentre ripensava a quel giorno che pareva lontano anni luce. «Io l’ho dovuto distrarre, dopodiché ce la siamo squagliata, io, lei e Igor».
«Rubavi?» Aaron la guardava con aria ironica. «Tu, che l’altro giorno mi hai detto di stare attento a non stare fuori durante il coprifuoco?»
Franziska sbuffò, ma senza rabbia. In effetti, lei non era il massimo esempio di galateo e virtù. Se lo ripeteva spesso, quando insegnava a Deryck delle regole che lei, poi, non rispettava.
«Fa niente, quello è un capitolo della mia vita chiuso e passato».
Ironico pensare a come tutto ciò accadeva circa un mese prima. Il tempo era volato in modo anche fin troppo veloce, in quel periodo. Eppure, erano cambiate tantissime cose: suo padre era morto, lei viveva dalla nonna, Deryck sorrideva di più, lei e Igor lavoravano e si era trovata addirittura un nuovo amico.
«E comunque, dovevo farlo» borbottò come scusa, calciando un sassolino. Stavano ormai uscendo dal cimitero, lasciandosi dietro il fetore di morte che pareva alleggiare nell’aria.
La strada dinnanzi a loro era bianca di neve, e in giro non c’era nessuno; solo le orme lasciate da qualche viandante poco prima erano mute prove che qualcuno si era diretto in quel luogo.
«Dovevi? Non stavate da vostra nonna prima, quindi?» chiese Aaron, grattandosi il naso con una mano guantata.
«No, te l’ho detto: siamo lì da poco. Prima vivevo con mio padre» rispose la ragazza, e impercettibilmente si voltò verso l’ingresso del cimitero. La tomba di sua madre l’aveva visitata poco prima di quella di Nikole; alla lapide recante il nome Warwick Madison  non si era nemmeno avvicinata.
Era meschino e lo sapeva. Fin da piccola le avevano insegnato ad avere rispetto dei morti, ma l’unica cosa a cui pensava quando ricordava il padre erano i lividi che aveva sua madre sul corpo, la sua voce rotta mentre minacciava Deryck e il modo con cui aveva chiaramente rivelato ai gemelli di odiare loro e il fratellino.
«È… morto?» Aaron indugiò su quell’ultima parola, quasi avesse paura di ferirla. Franziska lo fulminò con lo sguardo. Non voleva che la trattassero così. Lei non era una ragazzina che piangeva per la morte del padre. Anzi, nei momenti di rabbia più profonda, pensava che, in fondo, il fatto che Warwick fosse deceduto era stato una liberazione.
«Sì. Qualche settimana fa».
«Oh… mi dispiace. Adesso che ci penso, me lo avevano detto, solo che non mi sono ricordato» mormorò il quattordicenne.
«Non dispiacerti. A me non è dispiaciuto». Franziska osservò  i suoi piedi che si muovevano su quella coltre immacolata, mentre rifletteva su quanto dovessero sembrare crudeli quelle parole alle orecchie di chi non conosceva lei, suo padre, o la storia della sua vita.
«Problemi in famiglia?» Un lampo di compassione passò negli occhi marroni del giovane.
«Sì. Mio padre non era un tipo molto raccomandabile».
Era combattuta. Parlargli o non parlargli di quella storia? Se ne vergognava, in un certo senso. Sapere di avere avuto una famiglia così disastrata la faceva sentire fuori posto.
Una parte di lei, però, insisteva sul fatto che parlarne con qualcuno le avrebbe fatto più che bene. In fondo – si diceva – non c’era nulla di male. Warwick era morto e lei e i suoi fratelli erano già prima gli zimbelli del Distretto.
«Il mio lo era… credo». La bocca di Aaron si strinse in un’espressione di disappunto e ancora, Franziska desiderò saperne di più sulla sua vita. La curiosità provata qualche giorno prima, quando lui aveva fatto accenno al fatto che fosse orfano, era tornata prepotente come non mai.
«Il mio no. Warwick era un idiota o, per dirla con le parole di mia nonna, un’ameba. Probabilmente era malato». La quattordicenne si picchiettò la tempia sinistra con un dito a mo’ di spiegazione del concetto.
Che Warwick Madison avesse una malattia psichica non era da escludere. Franziska ricordava ancora lucidamente quella sera in cui aveva tentato di uccidere Deryck, il modo in cui si era accasciato e aveva iniziato a piangere e strillare, come un bambino, come una persona malata.
Le era già capitato di vedere gente del genere. A scuola c’era stato, anni prima, un ragazzino che era completamente fuori di testa. Vederlo nei corridoi le faceva talmente paura che si spiaccicava sempre contro il muro, come se quello nascondesse una porta per farla uscire e non farsi vedere. Fortunatamente quel tipo non l’aveva mai notata e qualche anno dopo era stato ucciso da alcuni Pacificatori per aver urlato qualcosa di controverso in piazza.
«Che mi dici del tuo, allora? Era normale, credi?» domandò la ragazza, cercando di abbattere la barriera di mistero che avvolgeva il suo interlocutore.
«Papà era un uomo molto buono. Solo che…» lasciò in sospeso la frase, proprio nel momento in cui un gruppetto di bambini urlanti passava accanto a loro, brandendo delle palle di neve. Erano ormai tornati in città, in uno dei tanti vicoli bui e sporchi.
«Guarda che non sei costretto a dirmelo».
«No!» Aaron quasi lo urlò e tornò a guardarsi le scarpe. «No, tranquilla… credo che parlarne potrebbe farmi più che bene».
«Allora parliamone. Sei un bel mistero, lo sai?»
Il ragazzo sorrise sbarazzino, lanciandole una breve e timida occhiata. «Non parlo molto spesso di me. Come te, da quel che ho notato. Comunque, mio padre è morto, così come mia madre. Giustiziati, entrambi».
Franziska sgranò gli occhi, sentendosi orribile per aver riportato a galla ricordi che avrebbero dovuto rimanere sul fondale.
Le era chiaro, ora, come mai la nonna avesse reagito in modo strano quando aveva nominato il cognome di Aaron. Non ne sapeva niente, lei, o almeno, non aveva mai fatto caso a cosa fosse successo. Di morti per la giustizia ve ne erano parecchi, lì, e ogni anno almeno un centinaio di persone venivano impiccate, frustate o fatte morire di stenti in prigione – oltre, ovviamente, alle vittime dei Giochi.  
«Dev’essere tremendo… Warwick si è suicidato, invece. Mamma è morta di parto». Sospirò, sistemandosi il cappuccio. Quella non era certo una gran discussione da condurre la domenica pomeriggio, per di più in compagnia di un ragazzo.
«Questo discorso è l’ideale per una domenica pomeriggio». Aaron sembrò leggerle nei pensieri e scoppiò in una risata di falsa allegria.
«Hai ragione». Franziska scosse la testa. «Solo che ogni tanto parlare di certe cose fa bene, credo. Non mi sono mai sfogata con nessuno riguardo ai miei problemi familiari e non ne ho mai parlato. Con nessuno».
«Con me sì, però».
Franziska non ebbe bisogno di girarsi per vedere il rossore sulle guance dell’amico. Ormai era una costante, quell’arrossire di Aaron, come se si vergognasse di ogni parola uscita dalla sua bocca.
«Mi sei simpatico. Ritieniti fortunato». Ficcò le mani nelle tasche della felpa, affondando con il mento nello sciarpone che indossava.
«Bene. Sfoghiamoci, allora». Aaron le rivolse un piccolo sorriso, mentre una folata di vento mandava loro i fiocchi di neve in faccia. Oltre ai bambini incontrati poco prima, in giro non c’era nessuno, a parte qualche sporadico viandante.
«Sfoghiamoci». Franziska accettò la proposta. «Vuoi partire tu?»
«D’accordo. Senti, ti va se ci dirigiamo da questa parte?» Il quattordicenne indicò un vicolo con un cenno del capo. Dinnanzi a loro c’era una biforcazione. «Lo so che casa tua – e anche casa mia – sono dall’altra parte, però se vogliamo parlare un po’ tranquilli…» deglutì nervosamente, come se si vergognasse di proporle di andare a fare un giro, «… ci sarebbe un posto, al riparo dalla neve senza che nessuno ci stia intorno».
«Mi va bene» replicò Franziska. «Che posto sarebbe?»
Per un attimo, il suo istinto di sopravvivenza tornò a galla, facendola sentire irrequieta più che mai. Non le era mai capitato di trovarsi sola con un ragazzo, o comunque con qualcuno che non fosse parte della sua famiglia o di quella di Carine e Edmure. L’idea di trovarsi nello stesso luogo con un ragazzo estraneo – più o meno – la metteva in agitazione.
Si disse che una chance avrebbe anche potuto dargliela, ma in caso qualcosa fosse andato storto, avrebbe tirato fuori la sua migliore arte del combattimento, acquisita, negli anni, grazie a tante risse scolastiche, spesso anche con gente più grande.
«Un’officina». Aaron si immise nel vicolo, camminando svelto. Franziska lo seguì, sempre guardinga. «Un’officina abbandonata» proseguì il giovane. «Sono anni che è lì, ma nessuno ha più voluto comprarla e dentro è praticamente vuota, a parte per una cosa che ti farò vedere poi. Probabilmente è stata lasciata a marcire durante i Giorni Bui, non saprei. La cosa straordinaria è che dentro è tutto normale, tutto aggiustato».
Camminando, la curiosità veniva sempre più a galla, il tutto alimentato dal fatto che Aaron aveva aumentato l’andatura.
Non si fidava molto, Franziska, ma era sempre più interessata a quella storia. Di officine abbandonate ve ne erano alcune, ma la maggior parte erano in pessimo stato; alcune avevano il tetto sfondato a causa dei bombardamenti aerei della Capitale ai danni del Distretto 6 durante i Giorni Bui, altre erano semplicemente vittime dell’incessante passare del tempo.
Ci misero circa venti minuti ad arrivare, e in quel tempo non parlarono molto se non di scuola, lavoro e altre cose. Sembrava che Aaron volesse parlare solo una volta giunti in officina e Franziska lo comprendeva. Nemmeno lei avrebbe rivelato dettagli tanto scottanti della sua vita fuori, all’aperto, con gente che poteva passare e sentirli.
L’officina era un casermone, anche se rispetto a quelle ancora attive era molto piccola. Probabilmente era stata un’attività a conduzione familiare – sapeva, Franziska, che un tempo erano molto attive, prima che il potere di Capitol City diventasse tanto grande da opprimere chiunque e far entrare in crisi diverse officine.
Quando entrarono, si accorse della sorpresa di cui le aveva parlato Aaron. Non era nulla di che, ma di certo vedere lì una cosa del genere avrebbe stupito chiunque.
All’interno, infatti, vi era un letto, alcuni mobili dall’aria decadente e un fornello a gas, con attaccata ancora una bombola. Era tutto esattamente come una minuscola casa.
«Sembra che qualcuno ci abbia fatto il nido» commentò, avvicinandosi al letto e sfiorando il lenzuolo lercio che ricopriva il materasso.
«Io l’ho scoperta un po’ di tempo fa, durante un giretto. Io e Jimmy pensavamo di farci una specie di rifugio, o qualcosa del genere. Non è malaccio come posto». Aaron si guardò intorno e allargò le braccia, quasi a voler presentare quel piccolo angolo di mondo alla sua amica.
Franziska si tolse il cappuccio, sentendo che l’ansia provata fino a qualche minuto prima veniva meno. Sembrava che Aaron non volesse tenderle alcuna trappola, per ora.
«Dicono che ci vivesse una ragazza, una volta. O almeno, mi hanno raccontato così, a casa. Una ragazza che poi dev’essere andata agli Hunger Games, o qualcosa del genere». Il ragazzo piombò sul materasso, non prima di aver scostato quel ricettacolo di pulci che era il lenzuolo e averlo gettato lontano.
«A parte gli spifferi non sembra brutto» bofonchiò la bionda, sedendosi accanto all’amico e spostandosi fino ad appoggiare la schiena alla parete.
Aaron la imitò, e Franziska si sentì infinitamente piccola, con la testa che sfiorava la spalla del ragazzo, così più alto di lei.
«Devo sfogarmi io per primo, giusto?» Aaron si puntò un dito al petto, sorridendo timidamente. Franziska annuì, convinta.
«Non puoi più tirarti indietro, Aaron Kidman. Sfogati. Raccontami un po’ cosa nascondono questi occhi di cioccolato».
Il ragazzo abbassò la testa, ridendo e con le guance ancora arrossate. «Partiamo dalle cose semplici?»
«Cose semplici del tipo?»
Aaron alzò le spalle. «Tipo il nome dei miei genitori?» Sospirò, portando una mano alla testa per togliersi la cuffia e riavviarsi i capelli arruffati.
«Mi sembra un ottimo inizio». Franziska aveva l’impressione di essere una specialista dei problemi degli altri. Aveva letto, da qualche parte, che esistevano dei medici che si occupavano proprio di ciò: aiutare gli altri. Forse a Capitol City esistevano ancora, ma lei di loro conosceva solo il nome: psicologi.
«Si chiamavano Jonathan e Keira».
«Bei nomi» lo interruppe la ragazza, portando le ginocchia al petto e circondandole con le braccia.
«Lo so». Aaron fece un verso a metà tra una risata e uno sbuffo. «Comunque, avevano due figli, come già ben sai. Il sottoscritto e Brenton, di quattro anni più piccolo di me. Abbiamo vissuto tutti insieme fino al mio settimo anno di età. Poi, una sera, di rientro da una passeggiata, trovammo la casa che era un caos tremendo. Papà e mamma erano davvero spaventati e, dopo che lui corse in camera e uscì con dei fogli in mano, ci portarono via. Dai nostri zii, per la precisione. Martyn e Katy, si chiamano. Lei è la sorella di mamma». Aaron fece una pausa, incrociando le gambe e grattandosi una guancia. Dopo aver compiuto questi semplici gesti, la sua mano corse al polso e sollevò le maniche della giacca e della felpa, rivelando un orologio nero che circondava il suo polso magro.
Franziska non lo aveva mai notato prima – o almeno, aveva visto l’orologio, ma ciò che non aveva mai guardato con attenzione era il quadrante. Segnava le tre, e le lancette erano ferme.
Aspettò che Aaron proseguisse, prima di chiedere come mai fosse così strano.
«Mi diede questo». Il quattordicenne diede un colpetto al quadrante con un dito. «Era il suo orologio. Poi, se ne andarono, lui e mamma. Non li rividi più per poco tempo finché un giorno, tornando da scuola, io e i miei cugini più grandi, Keegan e Jarod, non vedemmo una grande folla dirigersi verso la piazza. Andammo anche noi – beh, io e Jarod di nascosto; Keegan non voleva che vedessimo se i Pacificatori stavano frustrando qualcuno o peggio. Ha sempre avuto il complesso del fratello maggiore, sai». Sospirò ancora, passandosi per l’ennesima volta una mano tra i corti capelli castani, come se solo quel gesto potesse aiutarlo a star meglio e a sistemare l’ordine dei suoi ricordi. «Io e Jarod, appunto, lo seguimmo. E quando giungemmo al limitare della folla…» deglutì nervosamente, mordendosi il labbro inferiore, «… vidi i miei genitori. Impiccati».
Franziska rimase zitta.
Non sapeva cosa rispondere; le parole le si erano impigliate in gola, come se ci fosse stata una rete dalle maglie troppo piccole. Le frasi che voleva dire erano troppo grandi per uscire, troppo false. Una frase fatta buttata lì per caso non sarebbe mai servita a nulla; di certo non avrebbe fatto dimenticare ad Aaron i volti dei suoi genitori morti.
Quella storia era così terribile – così ingiusta – che le venne voglia di alzarsi e spaccare qualcosa, tanta era la rabbia che stava montando ad una velocità insuperabile anche dal treno più veloce della Capitale.
Anziché parlare, fece una cosa che risultò inaspettata persino per lei.
Intrecciò le dita di Aaron alle sue, appoggiando la guancia contro la sua spalla, in un vano – almeno a suo parere – tentativo di confortarlo. Era sicura che non sarebbe servito a molto, ma forse valeva la pena farlo, per vederlo star bene.
Era divisa tra il timore che covava nei confronti di quel ragazzo e una strana voce nella testa che le suggeriva di fidarsi, di provare – ancora per una volta nella sua vita – a voler bene a qualcuno di estraneo.
Ormai Aaron non era del tutto sconosciuto, ma le ci voleva tempo per fidarsi di qualcuno, di solito. Con lui, però, sentiva qualcosa di diverso, come se lui potesse comprendere tutto ciò che lei provava; come se la tristezza in quegli occhi marroni fosse la stessa degli occhi verdi di lei.
Aveva voglia di voler bene a qualcuno.
Dopo due anni in cui era rimasta sola, senza più la sua migliore amica, sentiva la necessità di legarsi a qualcuno, di poter dire: «Finalmente ho un amico anche io».
Perché lo sapeva che non era colpa degli altri, se lei era sempre sola. In parte, forse, concorrevano anche loro alla sua solitudine, ma sapeva che per circa il novanta per cento era anche colpa sua, del suo orgoglio, del suo carattere così orribile, del suo far fatica a legarsi agli altri perché in ogni persona vedeva solo i difetti.
Sentì le dita di Aaron che si irrigidivano sotto il suo tocco, e il suo corpo sussultare leggermente per quel contatto. Avvertì il suo capo che si girava per guardarla, mentre poggiava la testa contro la sua spalla.
Pian piano, poi, le dita del ragazzo strinsero le sue e appoggiò anche lui la guancia contro i suoi capelli, piano, timidamente, quasi avesse paura di farle del male.
«Nemmeno mille parole servirebbero per consolarti» sussurrò Franziska, lo sguardo fisso sul pavimento impolverato dell’officina, sul quale emergevano, nitide, le loro orme. «Spero che almeno questo serva a farti sentire un po’ più confortato».
«È la prima volta che qualcuno lo fa con me» ammise lui, rafforzando la presa delle sue dita attorno a quelle della bionda.
«È la prima volta che io mi comporto così con qualcuno» mormorò Franziska.
Si vergognava, e allo stesso tempo era contenta di essersi messa in quella posizione; fare del bene la faceva sentire più leggera e contenta.
«Ribadisco: ritieniti fortunato, Aaron».
Il ragazzo fece una risatina. «Ora tocca a te raccontarmi qualche scottante dettaglio della tua vita, però».
Franziska rise a sua volta, alzandosi e sciogliendo l’intreccio delle loro dita. «Cosa posso dirti?»
Non sapeva bene da dove cominciare. La sua vita era solo piena di brutti eventi e pochi momenti felici. «Sono nata il diciotto gennaio…»
«Davvero?» la interruppe Aaron, guardandola sorpreso. «Anche io a gennaio. Il nove, però!» esclamò quasi contento.
«Possiamo festeggiarlo insieme, allora». Franziska gli fece l’occhiolino, sedendosi poi in una posizione più comoda. «Comunque, ti dicevo. Ho vissuto con mia madre, Warwick-»
«Non lo chiami mai papà?»
Franziska alzò gli occhi al cielo, infastidita da tutto quell’interrompere. Mai si sarebbe immaginata che un ragazzo così timido e impacciato potesse tirar fuori tutta quella voglia di chiacchierare.
«No. Lui è Warwick. Solo Warwick. Impara anche tu, perché nessuno deve definirlo “il papà di Franziska”» lo mise in guardia, puntandogli un dito contro il petto con finta aria minacciosa. «Ah, e non interrompermi!» lo rimbeccò.
Il ragazzo fece finta di cucirsi le labbra con ago e filo, e la bionda, suo malgrado, sorrise.
«Bravo. Così si fa. Comunque, Warwick era un po’ pazzo, come già ti dissi. In pratica, lui voleva bene solo a nostra madre. Non ricordo un momento in cui mi abbia abbracciata, mi abbia dato un bacio sulla guancia o mi abbia carezzato i capelli. Era molto freddo, sia con me che con Igor. E il bene che voleva a mia madre… era più un’ossessione». Si mordicchiò il labbro inferiore, indecisa se aggiungere lo scottante dettaglio della violenza che subiva sua madre.
«Un’ossessione?»
«Sì, non saprei come altro definirla. Ogni tanto…» deglutì, portandosi, tremante, una mano al volto, «… li sentivo urlare. Cioè, lui urlava degli improperi e lei rispondeva, ma poi Warwick la picchiava. Non ho mai avuto il coraggio di andare a guardare, però».
Ancora, ad anni di distanza, si sentiva in colpa per quel fatto. Spaventata com’era, non si era mai avvicinata alla stanza dei suoi genitori per vedere cosa accadeva, temendo che Warwick avrebbe alzato le mani anche su di lei, o peggio.
«E poi mamma – si chiamava Grace, comunque – è rimasta incinta di Deryck. Warwick era nervosissimo, in quei giorni. Non voleva quel bambino e si vedeva. Dopodiché, mamma ha partorito ed è morta per alcune complicazioni. E lì è iniziato l’inferno. Warwick ha addirittura tentato di uccidere il mio fratellino una sera. Io e Igor abbiamo preso dei coltelli e lo abbiamo minacciato, come non avevamo mai fatto quando quello stronzo picchiava nostra madre. E poi la mia vita è stata un susseguirsi di furti, di cibo datomi da Nikole e da Carine, la migliore amica di mia madre. Non potevano fare niente, nessuna delle due. E noi non volevamo andare all’istituto. Alla fin fine, in casa Warwick non faceva granché. Non ci picchiava, semplicemente ci ignorava».
Si era rimessa ancora nella stessa identica posizione di prima, quella di una bambina spaventata, quella che lei assumeva quando si sentiva troppo spaventata e spaesata.
«E arriviamo a noi… Warwick si è suicidato qualche tempo fa. Ho trovato io il corpo». Sentì le narici invase dall’odore acro del sangue, mentre davanti agli occhi balenavano flashback di quell’orribile sera, della scritta sul muro. «Sulla parete ha scritto anche il nome di mia madre. Con il sangue. Si era tagliato le vene».
Aaron emise un gemito strozzato e sbarrò gli occhi, rivolgendoli alla sua interlocutrice. Dal canto suo, Franziska stette immobile, il mento appoggiato sulle ginocchia e il petto che si abbassava piano, al ritmo del suo respiro.
«È… tremendo» fu il primo commento del ragazzo. «Non… dev’essere brutto. Cioè, è brutto. Ti capisco bene». Poi, inaspettatamente, il suo braccio circondò le spalle della ragazza con un gesto goffo, timido e dolce allo stesso tempo.
«Non è niente, te l’ho detto. Lo odiavo». La ragazza strinse le mani a pugno, cercando di non lasciar trasparire quanto piacere le facesse sentire il braccio di Aaron attorno alle sue spalle. Per la prima volta, si era sentita… a posto. Come se il mondo avesse un luogo anche per lei – e chissà che non potesse essere proprio l’Officina Abbandonata.
«Sai… a volte anche io odio i miei genitori. No, cioè, non li odio proprio, ma sono arrabbiato da morire con loro». Aaron si avvicinò ancora di più a lei. «Se solo non avessero fatto qualche atto di ribellione forse sarebbero ancora qui. E poi, avrei voluto che me ne parlassero. Chissenefrega se avevo appena sette anni, ero loro figlio».
«I genitori fanno cose strane per proteggerci» mormorò Franziska, lasciandosi andare e appoggiando la testa contro la spalla di Aaron, come a volergli trasmettere un po’ di conforto. «Quindi, i tuoi erano ribelli?» Sperò solo che quella domanda non lo facesse arrabbiare e che non la scambiasse per una pettegola – quella storia la incuriosiva anche troppo.
«Credo di sì. Insomma, li hanno uccisi i Pacificatori». Il ragazzo fece un cenno verso la porta del capannone, quasi un drappello di soldati fosse là fuori. «Non so cosa abbiano fatto di preciso. Sono scappati via, una sera. Credo se ne siano andati dal Distretto 6. È vietato andare negli altri Distretti, per noi poveracci».
«E tu non sei mai stato curioso? Mi spiego: non hai mai voluto sapere cosa stavano combinando?»
Aaron annuì. «Come è ovvio che sia. Solo che non l’ho mai chiesto a nessuno. Mia zia è restia a parlare di mamma, le manca tanto e so che anche lei soffre quando viene nominata. Dei loro progetti so solo… niente, a dire il vero, se non che, di tanto in tanto, si incontravano con degli amici, come se stessero facendo delle riunioni».
«E tu non li conosci, questi amici?» Franziska si alzò dal letto, improvvisamente eccitata. Quella storia le metteva una certa agitazione addosso. Sapere che i genitori del ragazzo che aveva accanto erano stati dei ribelli la faceva sentire strana, sia felice che spaventata, anche se la prima emozione prevaleva. Una ribellione era ciò che tutti sognavano da anni e anni.
«Sì. Uno era il padre del mio amico Jimmy, il sindaco. E poi c’erano altre persone, ma di alcuni non conosco il nome. Erano un gruppetto di circa dieci persone. Un paio di loro addirittura non li ho mai più visti». Il quattordicenne si sedette nella stessa identica posizione assunta poco prima dall’amica, e Franziska non poté fare a meno di pensare che sembrasse davvero un cucciolo spaventato.
«E non ti è mai venuta voglia di scoprire cosa combinavano?» La ragazza allargò le braccia con espressione quasi esasperata. Era ciò che avrebbe fatto lei: informarsi, indagare, scavare a fondo per scoprire cosa volevano fare i suoi genitori e poi portare a termine i loro propositi di ribellione. Era un pensiero folle, ma poteva scommettere sulla sua testa che chiunque, lì al 6, ambiva ad una ribellione per liberarsi dall’oppressione della Capitale.
«Certo. Solo che… non so, non ho mai voluto metterci il becco, anche se l’idea mi ha toccato svariate volte».
«Se vuoi farlo, io ti appoggio!» esclamò la ragazza, alzando il braccio destro con la mano chiusa a pugno. Aveva sentito dire in giro che era un gesto di ribellione e le sembrava il più appropriato per esprimere i suoi sentimenti in quel momento.
Aaron ridacchiò, alzandosi a sua volta dal letto. «Tu sei pazza» commentò, scuotendo la testa.
«Non sono pazza! Davvero, Aaron, non sei curioso di scoprire l’oscuro passato dei coniugi Kidman? Ormai hai quattordici anni, non sei un bambino». La ragazza colpì il petto del giovane con un dito, sorridendo. «Pensaci. Io ti aiuterei in queste ricerche. E credo che anche il tuo amico-che-non-sta-mai-zitto. Forse anche mio fratello» aggiunse, con una scrollata di spalle.
Aaron aggrottò la fronte. «Tuo fratello… mi… odia» balbettò, strisciando un piede per terra e sollevando un po’ di polvere.
«No, non ti odia. È semplicemente stupido e geloso perché non gli piace vedermi in giro con un ragazzo».
Se fino a quel momento la pelle olivastra di Aaron era riuscita a nascondere il rossore che spesso si notava a malapena sulle sue gote, in quel momento, esse erano porpora.
«È g-geloso quando vai in giro con un ragazzo?»
«Sì. Anche se è solo un amico. Ma lui si fa mille seghe mentali e crede che quello automaticamente sia il mio fidanzato». Franziska fece una smorfia.
«Spero che non mi voglia prendere a pugni, allora».
La giovane scosse la testa. «No, perché se ci prova lo piglio a schiaffi. Senti un po’, con questa cosa abbiamo distolto l’attenzione dal problema principale». Si avvicinò lentamente al ragazzo, alzandosi poi in punta di piedi e piantando il suo volto a poca distanza da quello ancora rosso di lui. «Vuoi indagare sì o no?» sibilò.
Aaron annuì frettolosamente. «Certo. Mi hai convinto» ammise, stirando le labbra in un sorriso sbarazzino.
Franziska si allontanò, soddisfatta dopo aver compiuto quel semplice, ma importante gesto.
«Sarò il tuo braccio destro, in questa storia. Quando vuoi cominciare, dimmelo».
«Stavo pensando di farlo quando smetterà di nevicare. O comunque, potremmo iniziare quando saremo liberi dal lavoro, di domenica».
«La prossima? Se non nevica, possiamo farcela. Ormai si avvicina il periodo natalizio, le scuole saranno chiuse».
In realtà, il Natale non si festeggiava quasi più – almeno al Distretto 6. Franziska aveva sentito dire che, una volta, nel periodo che andava dal venticinque dicembre al sei gennaio era sempre festa. I ragazzi stavano a casa da scuola, si addobbavano le città e ci si scambiavano dei doni. Era un momento di gioia per chiunque, specialmente per i più piccini.
A Panem, ormai, anche quell’usanza era decaduta. I ricchi, spesso e volentieri, festeggiavano il Natale scambiandosi dei regali, il che accadeva raramente nei Distretti, e con maggior frequenza nella Capitale. Franziska ricordava di aver visto in televisione le immagini di un grosso abete addobbato con festoni e palline colorate, che troneggiava nel giardino del Palazzo Presidenziale.
«Perfetto». Aaron annuì, passandosi una mano sulla guancia. «Allora… domenica prossima ti aspetto. Ti devo anche presentare Jimmy, così saprai chi sarà uno dei tuoi collaboratori». Nel dire l’ultima parola fece il segno delle virgolette.
«Spero per te che sia simpatico». Franziska si voltò verso i finestroni del capannone, appurando così che il buio stava ormai calando. «Meglio muoverci» avvertì, dirigendosi verso l’uscita.
Non parlarono poi molto, al ritorno. Il freddo era così intenso che non riuscivano nemmeno a scambiarsi due parole, e la neve si schiaffava sui loro volti, congelandoli ancora di più.
Il Distretto 6 ormai era bianco e non un’anima c’era in giro, se non qualche persona che rientrava frettolosa nella propria casa e i Pacificatori che si appostavano per la ronda notturna, le armi in pugno e i volti al solito ricoperti dai caschi.
Franziska fece una smorfia, passando accanto a questi, desiderando che, per una volta, fossero loro a stramazzare al suolo e non le povere persone che si divertivano tanto ad uccidere per ordine del presidente Snow.
Lì nel Distretto dei trasporti, poi, l’oppressione dei Pacificatori era delle più violente. Spesso, Franziska aveva desiderato sapere se fosse lo stesso anche nelle altre fazioni di Panem. Non sapeva molto su di esse, se non lo stretto necessario che aveva appurato a scuola e durante le edizioni degli Hunger Games – manifestazione durante la quale i tributi, soprattutto coloro che trionfano, ne approfittavano per parlare di casa loro, con quel tono malinconico e gli occhi lucidi che tanto facevano impazzire il pubblico capitolino, ma che a gente come Franziska faceva solo un’immensa tenerezza. In quelle occasioni, era venuta ad appurare che il Distretto 2 era un posto pieno di montagne – malgrado lei non abbia mai desiderato vederlo, considerato che Nikole era stata proprio uccisa da un tributo di quel luogo – il Distretto 4 era, invece, sempre soleggiato e non faceva mai freddo, d’inverno; il Distretto 7 era pieno di alberi e si respirava aria buona; il Nove presentava un’enorme distesa di campi di grano.
Spesso, desiderava vedere tutti quei posti, viaggiare per le strade di ogni fazione. Le era capitato di desiderare di essere invisibile, per salire sul primo treno merci e andarsene, correre via da tutto quel grigio e da quello schifo con cui conviveva giornalmente.
«Ti saluto, allora».
Presa com’era dai suoi pensieri, non si era nemmeno resa conto di essere giunta dinnanzi a casa sua.
Alzò lo sguardo, spaesata, verso Aaron, che si era rimesso in testa la cuffia e si era alzato così tanto la sciarpa che gli si vedevano solo gli occhi.
«Uh… sì, ciao! Ci vediamo a scuola, allora».
«A domani».
Poi, inaspettatamente, il ragazzo si abbassò la sciarpa e si abbassò verso di lei, posandole un bacio sulla guancia.
Mentre se ne andava, Franziska rimase a guardarlo, con una mano premuta laddove le labbra di Aaron avevano incontrato la sua pelle. Stupita ed incredula, si chiese come fosse possibile che un ragazzo avesse deciso di dare un bacio sulla guancia proprio a lei.
Si accorse anche di avere una strana sensazione all’altezza dello stomaco e preferì rientrare in casa, per non pensarci più.



 


Alaska's corner 

Eccomi :D
Dunque, come vi ho già anticipato, questo capitolo non è molto denso d’azione, ma mi piaceva l’idea di inserire una chiacchierata tra Aaron e Franziska per vedere come evolve il loro rapporto e per far prendere loro questa pazza decisione di indagare sulla morte dei genitori di Aaron.
In questo capitolo vengono svelate alcune cose su di lui, perlopiù sulla sua famiglia: suo zio Mathias, il fratello di Jonathan, è morto agli Hunger Games; i genitori di Aaron e Brenton, invece, sono morti come ribelli. Verrà spiegato tutto meglio nei prossimi capitoli, ma, in ogni caso, verranno scritti anche alcuni spin-off. Uno ce l’ho già pronto, ma non posso pubblicarlo perché contiene ben due spoiler grossi come due palazzi presidenziali del Presidente Snow.
La citazione iniziale sarebbe stata meglio nel capitolo precedente, I know that, ma mi sembrava più carino inserirla qui. Ovviamente si riferisce ad Aaron e Franziska e il loro “sciogliersi”, il rivelare cose della loro vita passata di cui non sapeva nessuno, ma che ora sono pronti a rivelare l’uno all’altra perché – pur conoscendosi relativamente da poco – cominciano a fidarsi. E poi Frozen è l’amore e io amo Olaf; la citazione l’ho messa in lingua originale perché mi piaceva di più ♥
Un’altra cosa che vi chiedo, è di ricordarvi dell’Officina Abbandonata. Nei capitoli a venire sarà importante; ma soprattutto, ricordatevi anche della storia citata da Aaron sulla ragazza che vi abitava, perché sarà ripresa verso la fine di questa storia, nella terza parte.
Dal prossimo capitolo, i due cominceranno a sistemare i pezzi, per indagare con alcuni formidabili alleati – immagino sappiate già chi sono. xD
Ci si risente domenica!
Alaska. ~ 

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Capitolo 11
*** 1O » Allies « ***


 

CAPITOLO X
 
Allies

 
 
« E' Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano. E' Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza. E' Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri. »
-Madre Teresa di Calcutta
 
Sebbene i piani di Aaron e Franziska fossero già programmati e pronti per il via già la domenica dopo, i due dovettero rimandarli di alcuni giorni. La causa di questo ritardo fu una bufera di neve che si abbatté sul Distretto 6, rendendo impraticabili le vie del luogo. Le scuole, per ordinanza del sindaco, vennero chiuse, ma i lavoratori dovevano comunque recarsi nelle officine, anche se i loro datori di lavoro divennero più morbidi, giustificando i loro ritardi a causa di tutta quella neve che aveva coperto il Distretto 6 con una fredda cappa.
Franziska e Igor ne approfittarono per fare degli straordinari al lavoro e guadagnare, quindi, qualche soldino in più, nella speranza di potersi comprare degli indumenti che non fossero vecchi di anni. Igor , infatti, sembrava crescere a vista d’occhio, e più passava il tempo, più diventava alto, tanto da sovrastare la gemella ormai di quindici centimetri. Franziska – dal canto suo – aveva deciso che parte della sua prima busta paga l’avrebbe sfruttata per potersi comprare, finalmente, un giubbotto che le tenesse caldo durante quel rigido inverno.
In quei giorni, sognava spesso guerre e ribellioni, si immaginava anche come avrebbe potuto farne partire una. Ne aveva anche parlato con suo fratello – pur non rivelandogli i suoi progetti, ma buttando lì l’argomento con finto disinteresse - e, malgrado nutrisse quanto lei un odio viscerale nei confronti della dittatura di Capitol City, aveva scosso la testa e si era mostrato poco convinto.
In effetti, la stessa Franziska sapeva che non avrebbe mai potuto far partire una rivolta da sola. Non in quel momento, almeno, quando aveva appena quattordici anni e i suoi discorsi di incitamento sarebbero risultati poco credibili e guidati perlopiù da una rabbia intrinseca che non l’abbandonava da due anni, da quando Nikole era morta.
Non ebbe modo di progettare qualcosa di serio, però, perché il lavoro prendeva ogni minuto libero della sua giornata. L’unico giorno di assoluta libertà che lei e il suo gemello si concessero fu il venticinque dicembre, la giornata di Natale, quella in cui nessuno lavorava.
Al Distretto 6 non si festeggiava, ma ritenevano comunque che fosse opportuno lasciare a casa operai e studenti. A Capitol City, quella festività era vista come l’occasione per abbellire la città con luci colorate, posizionare abeti nelle strade e addobbarli, essere tutti felici e contenti.
Quel giorno, i Madison non festeggiarono in maniera particolarmente eclatante. Come ogni anno, Franziska, Igor e Deryck ne approfittarono per dormire un po’ di più e svegliarsi a mattinata inoltrata, freschi e riposati. Al pomeriggio si posizionarono sul divano, tutti insieme a nonna Anne, guardando la televisione che trasmetteva le immagini in diretta dalla Capitale.
Un sovreccitato Caesar Flickerman stava conducendo l’edizione natalizia del suo programma quotidiano; sulla testa –  che quell’anno esibiva un’acconciatura color magenta – portava un cappello rosso con un pompon bianco e delle stelline illuminate su una striscia del medesimo colore che circondava la tesa dell’accessorio.
«E ora, in diretta dalla Residenza Presidenziale, vediamo il meraviglioso albero del presidente Snow!» Il presentatore indicò un maxischermo dietro di lui, sorridendo estasiato, mentre il pubblico – che indossava un cappello identico a quello di Flickerman – applaudiva contento.
Franziska alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, osservando anche per quell’anno l’abete che svettava nell’elegante e ben curato giardino del palazzo dove risiedeva il tanto temuto presidente Snow.
La sua bocca si contrasse in una smorfia. Non era niente di che: solo qualche lucetta appesa, con dei festoni colorati di oro e argento. Le illuminazioni formavano il sigillo di Capitol City, e dai rami pendevano delle palline colorate.
«Senti, Lala…» Deryck le toccò il braccio, richiamando la sua attenzione, «… ma che cavolo è il Natale?» chiese poi, con un’espressione corrucciata in volto.
Franziska chiuse il libro, appoggiandolo sul tavolo dinnanzi a sé, e afferrò suo fratello per posizionarselo sulle gambe.
Anche lei spesso, da piccola, si era interrogata sul significato del Natale, finché, un bel giorno, sua madre non glielo spiegò, raccontandole buffi aneddoti e bellissime leggende riguardanti quella festa tanto misteriosa quanto felice.
«Vedi quell’albero?» La quattordicenne indicò la televisione con un dito e Deryck socchiuse gli occhi, come se si dovesse sforzare di captare qualche immagine particolare. «Una volta si facevano sempre cose del genere» raccontò la ragazza, avvicinandosi all’orecchio del fratellino.
«E perché?» L’espressione dubbiosa del bambino non era ancora sparita.
«Perché lì sotto ci mettevano i regali». Franziska sorrise al fratellino, scostandogli un ciuffo di capelli dalla fronte. «È una storia un po’ lunga. La vuoi sentire?»
Il bambino annuì con vigore, sistemandosi più comodamente sulle gambe della sorella e appoggiandosi con la schiena al petto della ragazza.
«Mi piacciono le storie lunghe» disse, giocherellando con un cordino della sua felpa.
«Allora questa ti piacerà sicuramente. Si racconta che a Natale fosse nato un bambino speciale. Un po’ come te». La ragazza scompigliò i capelli corvini di Deryck, stringendolo con più vigore. «Questo bambino era talmente importante che addirittura tre uomini da molto lontano andarono a trovarlo, portandogli dei bellissimi doni e prostrandosi davanti a lui».
«Che vuol dire “prostrandosi”?» Deryck aggrottò le sopracciglia, lasciando andare il cordino della felpa.
«Vuol dire “inginocchiarsi”». Il piccolo annuì, facendo intuire alla sorella di poter proseguire. «Quindi, a Natale si festeggia la nascita di questo bambino che poi divenne un uomo molto importante, tanto da avere addirittura delle persone che lo seguivano dovunque andasse. Ci sono però tante leggende intorno a questa festa. Si dice che ogni anno le persone decorassero un abete da tenere in casa, sotto il quale un uomo tutto vestito di rosso e bianco, con una lunga barba, un cappello come quello di Flickerman» fece un gesto verso la televisione, dove il gioviale presentatore sorrideva compiaciuto, «e una pancia grande, come quella del macellaio, lasciava dei regali per i bambini».
«E come faceva ad entrare in casa, scusa? Bussava? E se lo faceva, come facevano a saperlo quelli che ci abitavano?» Deryck rivolse lo sguardo alla sorella maggiore.
«Ma lui non bussava. Lui entrava dal camino». Franziska indicò il soffitto con un dito. Le sopracciglia del bambino tornarono ad aggrottarsi, e portò una mano al mento, assumendo una posizione pensante.
«Ma scusa…» Deryck guardo verso l’altro, un sopracciglio inarcato ad indicare il suo disappunto, «… se aveva la pancia come ci entrava dal camino?»
«Non lo so». La ragazza alzò le mani quasi in segno di resa. «Probabilmente dimagriva improvvisamente, oppure allargava magicamente il camino. Nessuno lo ha mai saputo, lui non rivelava i suoi segreti a nessuno, a parte agli elfi che lo aiutavano».
«Aveva degli elfi che lo aiutavano?» Gli occhi verdi del piccolo si sgranarono in un’espressione sorpresa e felice allo stesso tempo. Franziska gli aveva già parlato di quelle meravigliose figure mitologiche che erano gli elfi, e Deryck ne era rimasto affascinato, tanto che spesso la quattordicenne lo sorprendeva a guardarsi le orecchie allo specchio per controllare se esse erano a punta o meno.
«Sì, ma sono un po’ diversi da quelli di cui ti ho raccontato. Quest’uomo – che si chiamava Babbo Natale, ma molti lo chiamavano anche San Nicola – aveva una lista con i nomi di tutti i bambini del mondo e ogni Natale faceva una selezione. Ai piccini che erano stati buoni durante l’anno portava dei bellissimi regali, ma ai bambini un po’ birichini non li portava. E di solito, tutti i piccoli potevano fare una lista con i doni che desideravano. Lui, conoscendo quelli bravi, andava a ritararla e la leggeva, dopodiché ordinava agli elfi di preparare questi regali».
«Parlami degli elfi!» Deryck si appigliò alla maglietta della quattordicenne, guardandola con fare supplichevole. «Ti prego, Lala!»
Franziska rise, beandosi della curiosità e della partecipazione del fratellino. Deryck aveva l’attitudine alla curiosità e alla scoperta, proprio come lei e la mamma, e quella cosa la rendeva stranamente fiera – proprio come una madre con il proprio figlio, quasi fosse anche grazie a lei se lui amava sentire storie.
«Gli elfi di Babbo Natale erano un po’ diversi da quelli di cui ti ho parlato, come già ti ho detto. Avevano le orecchie a punta, ma erano molto più bassi» fece un gesto con la mano per indicare all’incirca la loro altezza, «e indossavano dei vestiti verdi. Avevano anche un berrettino, simile a quello di Babbo Natale, ma senza il pom pom all’estremità. Gli elfi erano dei gran lavoratori, e ogni Natale si impegnavano per preparare i bellissimi regali richiesti dai buoni bambini di tutto il mondo. Dopodiché, la notte di Natale uscivano insieme al loro capo per andare a distribuirli».
«Andavano a piedi? O con il treno? O gli hovercraft?» Deryck continuava a fare domande, senza sosta.
«Se mi lasci parlare te lo dico, nanerottolo». La bionda diede un buffetto sulla guancia al piccolo. «No, Babbo Natale non era così tecnologico e soprattutto non abitava al Distretto 6, quindi non aveva i fantastici mezzi di trasporto che abbiamo qua. Lui viveva in un posto chiamato Lapponia, in cui faceva davvero tanto freddo, quindi andava in giro con una slitta per la neve. Ma bada: non era una slitta normale. Era volante e trainata da un gruppo di renne».
«Renne?»
La ragazza annuì. «Sì, le renne. Sono degli animali che ora non esistono. Non qui, almeno. Erano simili ai cervi. Hai presente quell’animale che abbiamo visto una volta alla televisione?» Si riferiva ad un’edizione degli Hunger Games che avevano visto insieme poco tempo prima. In realtà, a Deryck non era permesso assistere all’annuale kermesse tanto amata dai capitolini e tantomeno alle repliche, ma quella volta si era svegliato proprio sul più bello ed era saltato su, chiedendo alla sorella e al fratello cosa fosse quello strano animale marrone e con le corna che era stato abbattuto da una freccia scagliata da uno dei tributi.
«Sì, me lo ricordo» rispose il bambino.
«Ecco. Erano simili, ma molto più grosse, più forti e con corna decisamente più grandi. E avevano anche il naso rosso, un po’ come il tuo quando ti viene il raffreddore». Franziska tirò il naso al fratellino, come facevano spesso quando giocavano a “rubarselo” a vicenda.
Deryck ridacchiò. «E poi?»
«E poi questa carrozza munita di renne portava Babbo Natale nelle case della gente e lui si calava dal camino, così entrava in casa».
«Faceva male, credo». Il piccolo si massaggiò la tempia, quasi anche lui avesse avvertito un dolore improvviso.
«Beh, lui era grasso, forse tutto ciò lo aiutava a non farsi male». Igor si intromise nella conversazione; fino a quel momento era stato seduto sulla poltrona in una posizione strana, addormentato.
Il più piccolo del gruppetto scoppiò a ridere. «Magari rimbalzava anche!»
«Vai, vai, prendilo in giro… voglio vedere quando sarai così anche tu, tra qualche anno». Igor gli fece l’occhiolino, guardandolo con un sorriso sornione.
Deryck scese dalle gambe della sorella, per arrampicarsi poi su quelle del fratello. «Sei tu quello grasso!» ribatté, punzecchiando lo stomaco di Igor con due dita.
«Nessuno è grasso, qui. Siamo tutti magri e bellissimi». Franziska spostò i capelli dal volto, assumendo una finta espressione vanitosa.
Igor aggrottò la fronte con fare ironico. «Tu hai fianchi larghi, lo ha detto anche nonn-».
L’ultima parte della frase fu soffocata da un cuscino, che atterrò proprio sulla faccia del quattordicenne, impedendogli di parlare.
«Zitto. Almeno mi saranno utili quando dovrò diventare mamma». La ragazza rise, parafrasando le parole della nonna quando l’aveva appena conosciuta.
«Sperando che non abbiano il tuo carattere di merda» replicò il suo gemello, restituendole il cuscino con un lancio. «Scusa, Deryck» aggiunse a macchinetta; ormai era fin troppo abituato a dire quella frase quando gli scappava una parolaccia in presenza del piccolo Madison.
«Lala, senti, ma posso fare anche io una letterina di Babbo Natale anche se non esiste?» Deryck guardò la sorella con fare supplichevole, allacciando le braccia dietro il collo di Igor e appoggiandosi al suo petto.
«Penso di sì. Immagina che esista e chiedigli qualcosa». La bionda allungò le gambe sul divano e appoggiò il busto al bracciolo, intrecciando poi le dita dietro la nuca. Tenne però la testa alta, per osservare il suo fratellino, che aveva assunto un’espressione pensante.
«Gli chiederei di darmi tanto cioccolato!» cominciò il bambino, leccandosi le labbra, «e anche qualche caramella, giusto per non farsi mancare niente».
«Poi ingrassi» si intromise ancora Igor, ridendo.
«Fa niente, ma almeno avrò mangiato!» Deryck incrociò le braccia al petto, guardando il fratello con aria di sfida. «E poi, voglio una bella voce, come Lala. E qualche giocattolo un po’ carino, come quelli che ha Jasper, visto che lui è ricco». Si fermò un istante, gli occhi verdi che si alzarono verso il cielo. «Vorrei anche una mamma… la nostra mamma, così io avrei potuto conoscerla, e voi due avreste potuto averla ancora qui».
Un grave silenzio cadde sulla stanza, mentre Franziska e Igor si scambiavano una veloce occhiata.
Non seppe come rispondere a quell’affermazione del fratellino. La ragazza voleva solo prenderlo in braccio e stringerlo, fino a farsi male, per dirgli che sarebbe andato tutto bene. Sapeva che Deryck si sentiva in colpa perché la mamma era morta a causa sua, ma non aveva mai trovato le parole adatte a consolarlo – in certi casi, poi, era meglio stare zitti e far sentire il proprio conforto, più che utilizzare vuote parole che non avrebbero fatto altro, se non peggiorare la situazione.
Si rese conto solo in quel momento di quanto le mancasse sua madre, di quanto odiasse non averla più lì e stringerla quando era triste. Piangere la sua morte non le era stato concesso: già pochi giorni dopo, aveva dovuto proteggere il fratellino dalla furia omicida di suo padre e rimboccarsi le maniche per evitare che lui morisse di fame. Sua madre era morta e pochi giorni dopo lei già stava rubando al mercato e barattando le cose al Mercato Nero, come una vera fuorilegge.
Le era capitato, negli anni addietro, di chiudere gli occhi e di ricordare il volto di sua madre, con i suoi capelli biondi, gli occhi verdi, il suo sorriso, la sua aria da maschiaccio tanto simile alla sua. E in quei momenti, Franziska si chiedeva se Grace sarebbe stata fiera di lei, a vederla lì, con un bambino che non sapeva crescere, un gemello che diventava sempre più silenzioso e un padre che non le parlava.
La rivoleva anche lei. Voleva abbracciarla, andare in officina e imparare tante nozioni come solo lei le sapeva insegnare, passare le serate a casa di Carine per chiacchierare come facevano quando Grace era viva.
Non disse nulla.
Si alzò, in silenzio, e andò ad accovacciarsi sulle ginocchia di Igor, che non era più solo un fratello: era il suo migliore amico, suo padre, suo fratello gemello tutto insieme. Sedendosi e sentendo il braccio del quattordicenne che le cingeva la vita, Franziska si sentì davvero tornare indietro di tanti anni, a quando era piccola e già suo fratello era più massiccio di lei e la prendeva in braccio o l’abbracciava, nelle sere quando era particolarmente sconfortata.
Mentre abbracciava Deryck, pensò che forse non tutto era perduto: avevano un lavoro, erano insieme e la loro tutrice era una persona fantastica. C’erano ancora gli Hunger  Games, ma se tutto fosse andato bene, sarebbero stati insieme ancora per almeno qualche mese.
Erano una squadra.
Insieme avrebbero affrontato anche le montagne più alte.
 
 
*
 
Non riusciva a dormire.
Inquieta, si continuava a girare sul materasso; le lenzuola erano ridotte ad un groviglio unico e la stringevano in un abbraccio che la scaldava poco o nulla.
Sbuffando per la frustrazione, Franziska si sdraiò a pancia in su; le sue braccia erano allargate e gli occhi rivolti al soffitto che presentava macchie di umidità.
Con astio, guardò suo fratello, che, nel letto accanto, dormiva con fare beato e tranquillo. Aveva preso sonno pochi minuti dopo che si erano dati la buonanotte; lei, invece, si era sforzata di chiudere gli occhi e accettare l’abbraccio di Morfeo, ma sembrava che fosse lui a non volerla stringere a sé.
Si morse il labbro inferiore, mentre guardava il petto di Igor che si alzava e abbassava al ritmo costante del suo respiro.
Non gli aveva ancora raccontato i suoi progetti in merito a quello di cui avevano parlato lei e Aaron; voleva dirglielo già da un pezzo, ma ogni volta che stava per farlo, una strana agitazione le stringeva lo stomaco in una presa d’acciaio.
Nemmeno lei sapeva spiegarsi di preciso cosa c’era di tanto spaventoso nel dire a suo fratello che voleva indagare su una presunta ribellione, ma tutte le volte che lo chiamava per dirlo, concludeva la frase nel modo sbagliato.
Si era detta che – forse – tutta quell’ansia era dovuta al timore che Igor rifiutasse, che le dicesse che stava per compiere una delle sue solite azioni spericolate. Non che lui fosse molto meno impulsivo, ma spesso si era trovata ad essere sgridata dal fratello per gesti che avrebbero portato cattive ripercussioni su entrambi. Sotto quel punto di vista, lo spirito di abnegazione di Igor era molto più ampio del suo.
Abbassò le palpebre un istante, inspirò ed espirò. Doveva dirglielo. Ora o mai più.
Con un gesto secco, si mise a sedere sul materasso. Il lenzuolo le cadde sulle cosce; il freddo della stanza divenne tagliente come la lama di una spada.
Tremando, fece uno scatto verso il letto di suo fratello e vi balzò sopra. Igor aprì gli occhi all’istante e Franziska si affrettò a tappargli la bocca con una mano, prima che urlasse o compisse qualche azione che avrebbe svegliato Deryck e la nonna. Portò quindi un dito alle labbra, indicandogli di fare silenzio, dopodiché tolse la mano.
Igor sospirò, come dopo esser stati senza aria per tanto tempo, ma i suoi occhi non tardarono a trafiggere quelli della sorella con uno sguardo arrabbiato.
«Adesso mi spieghi» sibilò, mettendosi a sedere, «perché cazzo mi hai svegliato nel bel mezzo della notte».
Franziska strofinò le mani sulle braccia coperte dalle maniche di una felpa che usava come pigiama, in un vano tentativo di scaldarsi.
«Se mi fai spazio nel letto te lo dico».
Igor continuò a fissarla con insistenza, senza dir nulla, né accennarsi a muoversi.
«Igor!» sibilò a denti stretti la ragazza. «Sto gelando» mugolò, sperando che il suo tono di voce supplichevole facesse crollare l’ira del suo gemello.
Il quattordicenne fece un sospiro e si spostò di lato, consentendo così alla sorella di sdraiarsi accanto a lui. Quando Franziska appoggiò la testa sul cuscino, Igor prese la coperta e la stese su entrambi.
«Allora?» domandò.
«Allora…» Franziska fece un bel respiro. Ora o mai più. Ora o mai più. «Ti devo dire una cosa».
«Questo l’avevo intuito». Igor inarcò un sopracciglio. «Dev’essere una cosa importante, perché tu abbia osato svegliarmi a quest’ora» ringhiò.
«Abbastanza». La quattordicenne si morse il labbro. Era importante? Per lei di sicuro sì, era Igor il vero problema. «C’entra Aaron».
Lo sguardo del suo gemello si rabbuiò. «Ti ha fatto qualcosa?»
«No, no, nulla di quello che tu pensi» si affrettò a rispondere la ragazza. Era conscia del fatto che suo fratello non amasse molto il suo amico e provasse una sorta di astio nei suoi confronti, nonostante Aaron non gli avesse fatto niente. «È un bravo ragazzo» borbottò poi.
«Ho capito. Ora dimmi cosa volete tu e quello dalla mia vita e soprattutto dal mio sonno» ordinò il biondo.
«Dunque…» Franziska non sapeva bene cominciare. Pensò che andare dritta al sodo fosse il modo migliore. «I genitori di Aaron erano ribelli» disse tutto d’un fiato, osservando con attenzione il fratello per notare ogni minima reazione.
Gli occhi verdi di Igor si sbarrarono un istante, ma poi il suo volto tornò ad assumere lo stesso, severo cipiglio. «Quindi? Mi hai svegliato per darmi questa sconvolgente notizia?»
«Sì… e poi non riuscivo a dormire e mi dava fastidio vederti russare».
«Io non rus—».
«Scherzavo! E fammi spiegare». La ragazza si accoccolò ancora di più contro il corpo di suo fratello. Aveva ancora i brividi e lui sembrava una fornace. «Aaron mi ha raccontato che i suoi genitori, una sera, sono scappati dal Distretto e poi sono stati giustiziati. Mi ha anche detto che facevano delle riunioni strane, con altra gente. E vogliamo indagare per scoprire cosa combinavano».
«Vogliamo?»
«Sì. Io e lui. E tu, se vuoi unirti a noi». Eccolo lì, il rifiuto di Igor. Lo percepiva nell’aria, come il ronzio delle ali di una mosca.
Al contrario delle sue aspettative, però, Igor non disse niente; si limitò a guardarla negli occhi.
«Lo so che è una pazzia, però… sarebbe bello poter fare luce su questa storia. Aaron ci tiene tanto. E potremmo scoprire qualcosa di grosso. Di enorme» tentò di convincerlo, ma la sua voce resa tremula dal freddo non suonava convincente nemmeno alle sue orecchie.
«Beh…» Igor si grattò la nuca, «in fondo io e te facciamo tutto insieme, no? Una cazzata in più non ci farà del male. Finché si tratta solo di non mettere a rischio le nostre vite, possiamo provare».
Franziska sorrise, raggiante. Non si aspettava un assenso così veloce da suo fratello, ma non era il caso di stupirsi: aveva accettato, contava solo questo.
Non sapeva cosa rispondergli di preciso: i rischi c’erano, questo doveva aspettarselo anche lui. Forse, però, se avessero agito con cautela, sarebbero stati quasi al sicuro.
Non voleva, tuttavia, fare considerazioni su quanto grande fosse la portata di quel quasi.
«Come si chiamavano i genitori di Aaron?» domandò Igor, dopo qualche secondo.
«Keira e Jonathan» rispose Franziska, dopo averci meditato per un brevissimo lasso di tempo. Erano nomi che lei aveva sentito nominare solo da Aaron, quando avevano passeggiato, ma su Igor sortirono un effetto diverso. Il suo gemello aggrottò la fronte, abbassò gli occhi, per poi rialzarli subito dopo.
«Keira e Jonathan?» chiese.
«È quello che ti ho appena detto». Il silenzio si protrasse per un altro momento. «Perché?»
«Li ho già sentiti nominare. Da mamma». Igor aveva l’espressione di uno che sta rimuginando su una cosa di particolare difficoltà.
«Dalla mamma?»
«È quello che ho appena detto» la scimmiottò lui. «Sì, da mamma. Però ero piccolo, non sono sicuro se siano le parole esatte».
«E con chi ne parlava?» Franziska sentiva i battiti del cuore che acceleravano. Sua madre conosceva i genitori di Aaron. Sua madre forse conosceva i genitori di Aaron. Significava che Grace Madison forse era una ribelle.
«Con Carine, se non sbaglio. Ma ti ripeto, ero piccolo. Tu stavi giocando con Tom, io mi sono avvicinato a mamma e Carine e mamma ha detto qualcosa a proposito di questi due». Scrollò le spalle. «Mistero. Direi che lo scopriremo quando incontreremo il tuo nuovo ragazzo».
«Non è il mio ragazzo». Franziska diede un pizzicotto sul braccio al fratello. Non era la prima volta che insinuava che ci fosse del tenero tra loro due; prima o poi – ne era certa – sarebbe sbottata e avrebbe obbligato tutti a smetterla, con quella storia. Erano amici. Colleghi. Coetanei. Nulla di più.
«E perché ci esci?»
«Potrei fare lo stesso ragionamento con te e Tom e gli altri ragazzi. Sono i tuoi ragazzi, visto che giocate sempre a calcio insieme?»
Igor fece una smorfia. «Non è lo stesso».
«Sì che è lo stesso». Franziska si rannicchiò accanto al corpo di suo fratello, come faceva da piccola quando aveva paura. Sentiva il calore emanato da Igor, il suo respiro sui suoi capelli, e le tornarono in mente le sere di non molto tempo prima, quando Warwick era ancora vivo e lei si aggrappava a lui nei momenti di disperazione. Come se fosse ancora un momento presente, allungò una mano e afferrò un lembo della felpa di suo fratello con le dita, quasi avesse paura di annegare e lui fosse la sua boa.
«Posso stare qui?» domandò. La sua voce era ovattata. «Non ho voglia di tornare nel mio letto, al freddo».
Sentì Igor che sospirava e le circondava il corpo con le braccia. Non rispose. Bastava solo quel gesto.
E, tra le braccia forti di suo fratello, le sue palpebre si fecero più pesanti.
 
 
*
 
A vacanze di Natale finite, le scuole riaprirono.
Un nuovo anno a Panem era cominciato: il cinquantatreesimo anno dalla sconfitta dei ribelli. E quale miglior modo per cominciare, se non con un avviso del sindaco che annunciava la prossima venuta del Tour della Vittoria? Gli Hunger Games si erano conclusi ormai da quasi sei mesi: di lì a poche settimane, un treno sarebbe partito dal Distretto vincitore per fare tappa in tutte le altre fazioni di Panem, per mostrare al popolo chi aveva vinto quell’anno; chi, per la cinquantaduesima volta, era diventato una semplice pedina in mano ai capitolini e al presidente Snow in particolare.
Non che ad Aaron importasse: trovava che il Tour della Vittoria fosse solo uno stupido modo per tenere vivo l’incubo dei Giochi e per far imbarazzare un povero adolescente, costretto a dover parlare in pubblico di quanto la Capitale fosse fantastica contro la sua volontà, e magari davanti anche ai parenti di coloro che erano sfortunatamente capitati a ridosso della sua arma nell’Arena.
Il quattordicenne aveva ben altro a cui pensare: il lavoro, la scuola,  suo fratello che sembrava sempre più indomabile e quell’idea di ribellione che Franziska non voleva levarsi dalla testa.
Aaron era diviso tra l’eccitazione e la paura: una rivoluzione l’avrebbe portata avanti volentieri, ma sapeva di non avere la stoffa adatta. Non era un leader, lui, non era come il suo defunto padre, uomo non dalle incontestabili abilità retoriche, ma dal carattere determinato. Lui, con la sua timidezza, la sua goffaggine e le sue paturnie mentali, era conscio di avere poche chance di vittoria, in una guerra come quella. Avrebbe potuto lasciare lo scettro del potere a Franziska, che sembrava più determinata di lui, o addirittura a Jimmy, a cui, peraltro, non aveva nemmeno accennato a quel fatto.
Prese l’iniziativa il primo giorno di scuola dopo le vacanze, durante la ben nota e noiosa ora di storia di Panem, alla quale nessuno prestava attenzione.
La matita era, come sempre, stretta nella sua mano, mentre un foglio bianco giaceva dinnanzi a lui. In quei momenti, la sua vena artistica emergeva. In un certo senso, anche l’ora di storia di Panem era prolifica, sotto quel punto di vista.
«Il mio vecchio mi ha sclerato dietro, oggi» gli sussurrò Jimmy, dopo che la lezione era cominciata da dieci minuti. Durante quei momenti, il suo migliore amico o dormiva o parlava. Per una volta, Aaron era ben contento che la parlantina di Jimmy fosse emersa: sentiva proprio la necessità di informarlo sulla storia della ribellione.
«Che hai combinato?» chiese con disinteresse: ormai era abituato agli screzi tra il suo amico e suo padre. Essere figlio del sindaco aveva i suoi privilegi, ma a vedere il rapporto tra Jimmy e il padre, si capiva che in fondo anch’essi non erano esimi da tutti i problemi delle persone normali.
«Un cazzo. No, non proprio». Il quattordicenne si passò una mano tra i capelli castani, fermandola sulla nuca. «Insomma, secondo me non ho fatto nulla. Lui mi ha semplicemente detto che quando arriverà qui il Vincitore degli Hunger Games per quel Tour fottuto, io dovrò andare alla cena». Fece un sospiro. «Per forza» bofonchiò poi.
«E tu non vuoi?» Aaron tracciò una linea sul foglio, sovrappensiero.
«Ovvio. Non ho voglia di andare a quella stupida cena e fare la bella statuina, vestito con quegli abiti del cazzo che si devono mettere in occasioni del genere. E peggio sarà sentire tutti i discorsi fasulli di mio padre su quanto dobbiamo alla Capitale. Gliel’ho detto e mio padre si è incazzato come una iena». Jimmy fece un sospiro pesante, appoggiando la guancia sulla mano chiusa e pugno. «Ogni tanto vorrei che qualcuno di quei Vincitori del cazzo si ribellasse e evitasse certe cose. Forse non ci sarebbero nemmeno più i Giochi» aggiunse bofonchiando.
Aaron strinse le labbra. Era giunto il momento di raccontargli tutto, per la sua felicità. «A proposito di ribellione…» si mordicchiò il labbro, indeciso su come continuare, «dovrei dirti una cosa».
«Del tipo? C’è qualcuno che sta insorgendo? Walt ha forse deciso di smetterla di fare murales e di cominciare veramente una ribellione?»
Walt era il loro “capo” quando si trattava di pasticciare i vari muri del Distretto 6. Non era veramente un leader, ma nel gruppetto di ragazzi con cui di solito stavano nei momenti liberi, lui era uno di quelli che emergeva di più, come personalità e come parlantina. Era famoso per le sue chiacchiere gettate al vento; promesse che poi non manteneva mai. Da quando Aaron e Jimmy lo aveva conosciuto, aveva ripetuto sì e no mille volte che avrebbe fatto partire una ribellione da un giorno all’altro, ma poi finiva sempre al solito: si ritrovavano tutti insieme a gironzolare per il Distretto, spesso muniti di bombolette per fare qualche murales.
«No, Walt non c’entra niente». Aaron sperò davvero che il loro collega writer non si intromettesse mai in quella storia: tratto distintivo della sua personalità era un’irruenza e una strafottenza quasi agli estremi – peggiore addirittura di quella di Jimmy. Il quattordicenne era certo che avrebbe rovinato tutto in un batter d’occhio.
Il figlio del sindaco fece un sospiro di sollievo. «Grazie a Dio. Quello se fa partire una ribellione ci ammazza tutti». Fece una risatina, prima di tornare serio. «Chi c’entra, allora?»
«Io… più o meno. E un’altra persona».
«È forse quella biondina con cui parli sempre e che non mi hai mai presentato?»
Al sentire le parole dell’amico, Aaron arrossì visibilmente e si affrettò ad affondare il capo nella felpa, in un vano tentativo di non far notare il rossore sulle sue guance.
«Sì, lei».
Jimmy gli fece l’occhiolino. «Beccato, Kidman. Allora? Che avete combinato tu e la tua fidanzata?»
«Aspetta» sibilò Aaron, prima di assumere una faccia da malato – anche se, ne era certo, sembrava sanissimo. Il discorso era lungo e complicato e preferiva andare in bagno, per parlarne con il suo migliore amico poiché l’insegnante aveva cominciato a fissarli con insistenza.
«Prof…» mormorò, alzando il braccio quasi con timidezza.
La donna si voltò verso di lui, abbassando leggermente il capo per osservarlo meglio al di là delle lenti che stavano scivolando sempre più verso la punta del suo naso aquilino.
«Dimmi, Kidman» ordinò brusca, lanciandogli un’occhiata di fuoco.
«Sto poco bene… posso andare in bagno?»
La professoressa alzò gli occhi al cielo e sospirò. Aaron suppose che non ci credesse, il che gli fu in parte confermato anche dal tono con cui rispose, come se sapesse che lui e Jimmy volevano solo parlare.
«Certo. Non vorrei che mi morissi qui. Raimond, accompagnalo, per favore».
I due ragazzi si alzarono in contemporanea, in un trambusto di sedie che parve disturbare ancora di più la donna.
Veloci, uscirono dall’aula, dirigendosi velocemente verso i bagni.
«Aaron, ma che cazzo…?»
«Non ora, Jimmy. Aspetta che arriviamo nei bagni».
Questa frase mise a tacere il figlio del sindaco, che non proferì parola finché non entrarono negli angusti servizi dell’istituto: un pavimento sporco, quattro gabinetti pieni di scritte e sporcizia, quattro lavelli che avevano l’aria di cadere a pezzi, così come l’intonaco scrostato.
Aaron guardò bene che nelle cabine dove si trovavano le turche non ci fosse nessuno, dopodiché si diresse verso la porta principale e – data una veloce occhiata ai corridoi, che gli fece appurare l’assenza di qualsiasi essere vivente – la chiuse stando attento a non far casino. Girò la chiave già inserita nella serratura. Non era sicuro che ciò gli fosse consentito, però se la lasciavano lì, a qualcosa doveva servire.
«Come mai tanto mistero?» Jimmy sembrava quasi spaventato, mentre poneva quella semplice domanda al suo migliore amico.
Aaron si appoggiò alla porta con la schiena. «Non volevo che qualcuno ci sentisse» sussurrò, lanciando un’occhiata al suo amico. Gli occhi chiari di Jimmy erano puntati sulla sua figura; la fronte era aggrottata in un’espressione che stava a metà tra il dubbioso e lo stupito.
«È davvero una cosa così importante?» chiese poi, appoggiandosi ad un lavello, ma scostandosi subito dopo con un verso schifato.
«Molto. Cioè, non è ancora così certa come cosa, ma potrebbe diventarlo e non vorrei fare la stessa fine dei miei».
Un lampo di consapevolezza passò negli occhi di Jimmy. «Dimmi tutto. Lo sai che di me ti puoi fidare».
Aaron deglutì, passandosi una mano tra i capelli arruffati. «Primo: la “biondina” come la chiami tu, non è la mia fidanzata» puntualizzò, ricordandosi delle parole pronunciate dal figlio del sindaco poco prima – lo stesso che fece una risatina al sentire l’affermazione dell’amico.
«Scherzavo, Aaron. Solo che vi vedo sempre che andate al lavoro insieme, o vi vedo mentre la saluti in cortile e qualche dubbio mi era venuto».
«Non è la mia fidanzata» ripeté a voce più alta. «Però mi sta aiutando, in un certo senso. L’altro giorno le ho parlato della mia storia e di quello che è accaduto ai miei genitori e lei mi ha detto che sarebbe stato interessante investigare sulla loro storia e su ciò che stavano facendo, perché avrebbe potuto essere utile dal punto di vista di una futura ribellione». Parlò tutto d’un fiato come se solo dire le cose lentamente avrebbe potuto fargli cambiare idea su quella situazione.
Jimmy gli rivolse uno sguardo stupito. «Beh, non ha brutte idee, la biondina» commentò, grattandosi una guancia; aveva l’aria pensierosa e determinata allo stesso tempo.
«Lo so. Ha ragione, avrei dovuto iniziare prima ad investigare sui miei genitori. In fondo, so solo che sono stati arrestati come ribelli, ma nient’altro. Sono curioso». Si staccò dalla porta, muovendo qualche passo in direzione dell’amico. «Tu cosa ne pensi?»
«Penso che se non la sposi tu, lo farò io». Un largo sorriso attraversò la faccia di Jimmy, e anche Aaron si sentì costretto ad incurvare leggermente le labbra in su. «A parte gli scherzi» proseguì Jimmy, «la sua idea non è male. Hai tutto il diritto di sapere perché i tuoi genitori sono morti. E per fare giustizia». Quell’ultimo periodo fu detto con un tono così gelido e una voce così strana per gli standard di Jimmy, che quasi Aaron si spaventò. Erano poche le volte in cui vedeva il suo amico davvero serio – in quelle volte rientravano i momenti in cui gli raccontava della sua difficile situazione a casa.
«Spero solo di non fare casini». Il quattordicenne si passò le mani sul volto.
«Ne fai sempre, Kid» replicò l’amico, dandogli un pugnetto sulla spalla con fare scherzoso. «Sai chi altro c’è, oltre a me, te e alla bionda?»
«Forse suo fratello. Non l’ho detto a nessun’altro».
Jimmy aggrottò la fronte. «Suo fratello…»
«Igor Madison» concluse Aaron per lui. «Hai presente, no? Quel tipo che fa sempre a botte insieme a lei, alto, biondo, che ha le ragazze che gli sbavano dietro e indossa sempre un cappellino da baseball?» Il ragazzo si indicò la testa. «Credo che Franziska gliene abbia parlato. È suo fratello gemello, dopotutto».
«Sì, Kid, lo so chi è». Jimmy sorrise. «Andreste d’accordo per la cosa del cappellino da baseball, credo». Indicò la tasca dell’enorme felpa indossata dal coetaneo, dove teneva il suo inseparabile copricapo, appartenuto – prima di lui – al suo defunto padre.
Aaron si costrinse a fare un mezzo sorriso. Almeno una cosa in comune ce l’avevano, lui e silenzioso fratello della sua nuova amica. Non sapeva spiegare il perché, ma in un certo senso gli metteva soggezione, con quell’aria già adulta e gli occhi verdi che sembravano leggere dentro chi gli si parava davanti.
A scuola, Igor Madison era famoso per il suo sarcasmo e la sua tagliente; Aaron non desiderava mettersi contro di lui per nulla al mondo e sembrava che la vicinanza tra lui e Franziska gli desse parecchio fastidio.
«Comunque, forse parteciperà anche lui. Franziska mi ha accennato qualcosa, ma non so se gliene abbia parlato. E non so nemmeno se vorrà collaborare» ammise con un’espressione desolata.
«Se lui e la bionda sono tanto legati come sembrano, credo che ci darà una mano» replicò Jimmy con tono incoraggiante.
«Lo spero». Aaron si grattò la nuca, osservandosi le scarpe da ginnastica. «E comunque» alzò la testa, e i suoi occhi incontrarono quelli più chiari del suo migliore amico, «non chiamarla “bionda”».
Jimmy fece una risata, che rimbombò nel bagno vuoto. «Perché? È bionda» disse, a mo’ di giustificazione.
«Non so se sia un soprannome di suo gradimento» rispose Aaron, strisciando il piede per terra. «E poi ha un nome. Si chiama Franziska».
«Certo, lo so. Però tu non ti arrabbi quando ti chiamo Kid». Il figlio del sindaco fece spallucce, rivolgendo uno sguardo innocente all’amico.
Aaron sospirò. «Io sono io. Lei è lei. Ed è anche abbastanza suscettibile».
«Non mi dire che ti ha già pestato». Jimmy diede una spintarella al ragazzo all’altezza della spalla.
«No». Aaron passò una mano tra i capelli arruffati. «Mi ha solo lanciato un mazzo di fiori in faccia».
Sul volto del suo amico si dipinse un’espressione di puro stupore. «Questa non me l’hai mai raccontata» quasi lo accusò, puntandogli il dito addosso. «Fa niente» aggiunse poi, con un sospiro. «Me ne parlerai quando sarò triste, così potrò ridere».
«Ah, spiritoso». Aaron allungò una gamba per tirargli un calcio, ma Jimmy si scansò in tempo.
«Quando incontriamo la tua amica e il suo adorabile fratello?» domandò, appoggiandosi con la mano ad uno dei lavandini.
«Dopo la scuola. Ho detto a Franziska di aspettarci. Passiamo a prendere tuo fratello, suo fratello, Patryck e Brenton e andiamo» spiegò Aaron.
«Suo fratello?»
«È in classe con Jasper» tagliò corto il maggiore dei Kidman. «Potrebbero essere amici».
«Può essere». Jimmy fece spallucce. «Jas non ama molto le persone, ma avere qualcuno vicino potrebbe essergli utile».
«Esatto». Aaron lanciò un’occhiata alla porta. Ormai erano fuori da un bel po’ di tempo; l’insegnante – con ogni probabilità – si stava domandando dove fossero finiti, sempre che gliene importasse qualcosa. Il protocollo, però, imponeva loro di agire e mandare a casa gli studenti, in caso essi si fossero tardati al bagno per problemi di salute; non che ad Aaron dispiacesse, andarsene a casa e riposarsi, ma se zia Katy lo avesse visto tornare, sano come un pesce, lo avrebbe mandato a lavorare. Inoltre, doveva anche aspettare il suo fratellino.
«Meglio tornare in classe» disse.
Per tutta risposta, Jimmy mugolò infastidito e storse le labbra in una smorfia. «E se scappassimo?» propose, indicando l’unica finestrella di quella piccola stanza; un misero quadrato di vetro posto ad almeno tre metri d’altezza.
«Non credo che arriveremmo vivi all’esterno» rispose Aaron, scrollando le spalle. La finestra era in alto e loro erano addirittura al secondo piano dell’edificio: scendere sarebbe stato difficoltoso e pericoloso, se non impossibile.
«Va bene, allora. Torniamo in classe a sentire quali sono le cose che dobbiamo a Capitol City» si arrese il figlio del sindaco, sbuffando.
Suo malgrado, Aaron si girò e armeggiò per qualche secondo con la chiave, prima di aprire la porta.
L’idea di tornare in classe non allettava nemmeno lui: l’ora di Storia di Panem era buona dal punto di vista dello stress praticamente nullo, ma dall’altro lato non era molto divertente ascoltare l’insegnante che parlava per un’ora di quanto i Distretti dovevano essere grati a Capitol City.
Respirando profondamente, Aaron uscì nel corridoio deserto.
Mancava poco, si disse, e poi sarebbe uscito da quello schifo di posto.
 
 
*
 
«… e dunque, se io risolvo il delta con questa semplice formula, potrò poi passare a risolvere l’equazione, in questo modo».
Franziska appuntò l’ultima cosa detta dalla professoressa, di malavoglia. Ormai non scriveva nemmeno più con tanta cura; i suoi appunti erano diventati solo degli svolazzi, decorati da qualche disegnino qua e là.
Sospirò, poggiando il mento su una mano e osservando l’arcigna insegnante che si apprestava a scrivere l’ennesima formula.
Materia da lei considerata tanto inutile quanto stupida, la matematica non era riuscita a fargliela piacere nemmeno il pensiero che Faccia Di Rana avrebbe potuto metterle un brutto voto. Ci aveva provato, aveva studiato, ma quelle formule non volevano saperne di entrarle in testa: del resto, a cosa serviva studiare la matematica al Distretto 6, dove, bene o male, quasi tutti finivano a lavorare in officina per assemblare pezzi di vari mezzi di trasporto?
La quattordicenne scrisse la seconda formula; la punta della matita correva veloce sul foglio pasticciato. Alzò poi gli occhi verso l’orologio appeso al muro, constatando, con suo sommo piacere, che mancava ormai un quarto d’ora al termine della lezione e di quell’ennesima e noiosa giornata scolastica.
Accanto a lei, suo fratello era chino sul foglio, ma era evidente che non stava prendendo appunti. Era tutto raggomitolato su se stesso, la testa appoggiata alle braccia incrociate. Dormiva, o forse aveva solo chiuso un po’ gli occhi. L’altro loro compagno di banco – un giovane che abitava a poche case dalla loro e che era la cosa più vicina ad un amico che Igor avesse – non sembrava in condizioni migliori.
Franziska avrebbe tanto voluto fare lo stesso, ma c’era una parte di lei che la costringeva a stare leggermente china sul foglio e scrivere tutto ciò che usciva dalla bocca della professoressa. Si sarebbe sentita in colpa, una cosa che lei odiava.
«Signor Madison?»
Franziska non si era accorta che Faccia Di Rana si fosse avvicinata così tanto al loro banco; suo fratello men che meno perché non si premurò nemmeno di alzare la testa dal foglio.
La ragazza allungò una mano sotto il banco e gli diede un pizzicotto.
«Dormiamo?» domandò la donna, quando Igor alzò la testa con aria confusa in volto – la quale si trasformò in una smorfia d’orrore non appena notò il viso dell’arcigna insegnante a poca distanza dal suo.
Aprì la bocca per rispondere, ma da essa uscì solo un sonoro sbadiglio, che suscitò l’ilarità di tutta la classe – Franziska compresa, che affondò il mento nella felpa per non farsi vedere dalla donna. Le risate parvero svegliare anche il loro compagno di banco, che alzò la testa con un’espressione ancora più confusa di Igor.
«Non è divertente» sibilò Faccia Di Rana, sillabando bene le parole. La pelle del suo collo era tanto tesa che si vedevano le vene sporgere in fuori come le tane delle talpe nel terreno. Franziska distolse lo sguardo da quell’orrore. Si chiese come mai prendessero in giro lei per i suoi fianchi larghi e non la gente così magra; erano come delle ossa coperte malamente da uno strato di pelle.
«Scusi…» brontolò Igor, passandosi una mano tra i capelli biondi, ma la sua voce sembrava più seccata che desolata. Franziska gli lanciò un’occhiata, sperando che capisse che doveva andarci piano.
«Non le accetto, le tue scuse. Magari tu e il tuo compagno dall’aula preferite andare a dormire fuori, che ne dite?»
«Se proprio ci tiene». Igor si alzò dalla sedia, senza fare il minimo sforzo di sembrare educato. «Andiamo, Robbie, che dici?»
«Io…» cominciò l’insegnante, ma si zittì subito, mentre la sua pelle assumeva una tonalità porpora che la rendeva ancora più brutta.
«L’ha detto lei prof: la disturbiamo, qui. E io non voglio essere d’impiccio, per cui, se ci tiene, me ne vado fuori». Igor prese i quaderni e li gettò nello zaino, per poi caricarselo su una spalla. «Tanto la matematica mi fa schifo». Mentre se ne andava, si abbassò verso l’orecchio di sua sorella. «Ci vediamo dopo» sussurrò, facendole l’occhiolino. Franziska fece un sorriso; era inadeguato – lo sapeva – ma come poteva rimanere impassibile con suo fratello che faceva il giullare?
Faccia Di Rana era sconvolta, glielo si leggeva in faccia. Non oppose nemmeno resistenza quando Robbie sbatté la porta dietro di sé.
«Torniamo alla lezione» ordinò, lanciando un’occhiataccia a Franziska, come se la colpa di tutto ciò fosse anche sua.
La ragazza sospirò, lanciando una seconda e impaziente occhiata all’orologio. Erano passati solo tre minuti. Tra dodici minuti esatti lei avrebbe incontrato Aaron e avrebbero parlato di quella follia che volevano compiere.
Non aveva ancora deciso se era giusto fare ciò o meno: era giusto per far giustizia, ma sbagliato perché rischiavano grosso.
Sospirò, appuntando un’altra cosa sul foglio, mentre da fuori proveniva una risata – non era Igor, però. Lui non rideva mai.
Dopo dodici, interminabili minuti, in cui Faccia Di Rana aggiunse molte frecciatine ai due usciti dall’aula, alternandole alle spiegazioni, la campanella suonò.
Franziska recuperò in fretta il quaderno e l’astuccio, li gettò nello zaino e corse fuori che ancora stava chiudendo la zip. Si diresse fuori dall’aula, spingendo di lato una sua compagna troppo lenta. Suo fratello era lì, appoggiato al muro con la schiena e con un piede, l’altra gamba tesa, su cui appoggiava tutto il peso del suo corpo. Si era messo il cappellino e guardava con aria distratta tutte le persone che gli passavano davanti; sorrise persino ad una ragazza dell’altra classe che lo guardava con fare insistente.
Franziska alzò gli occhi al cielo, cancellando dalla mente l’immagine di Igor che teneva per mano quella tizia, e gli prese la mano.
«Mi fai vomitare quando fai gli occhi dolci alle ragazze» commentò; era gelosa e voleva nasconderlo, ma sapeva che quel tentativo non sarebbe andato a buon fine. «Andiamo. Hai dormito, poi?» Domanda retorica: la risata di Robbie di poco prima era una risposta più che sufficiente.
Igor fece spallucce. «Nah» replicò. «Abbiamo preso per il culo Faccia Di Rana e la nostra amica Karen. Hai visto con che faccia soddisfatta mi guardava mentre uscivo?»
Karen era la secchiona della classe. Figlia di un assessore distrettuale, era da tutti conosciuta per la sua abilità nel leccare i piedi e l’odio spropositato che nutriva nei confronti del maggiore dei fratelli Madison, dopo che lui era riuscito a farla star zitta l’anno prima, durante una discussione.
Franziska fece una risatina. «A dire il vero non ci ho fatto caso» rispose, mentre scendevano le scale che conducevano al pianterreno. «Ma immagino che ti stesse fulminando».
«Era un temporale. Davvero».
Iniziarono a notare una luce più intensa, indice che erano vicini al portone d’ingresso della scuola.
Quando lo oltrepassarono, Franziska prese una boccata d’aria; era sempre molto contenta quando usciva da quel posto, ma non si poteva dire che l’aria del Distretto 6 fosse molto pulita. Probabilmente erano pochi i Distretti a superarli in quanto a inquinamento.
«Dimmi se li vedi» ordinò a suo fratello, alzandosi in punta di piedi. Tra la selva di teste che aveva davanti, cercò quella di Aaron, ma non notò nessuno di famigliare.
«Per ora niente. Magari faranno un po’ di ritardo». Igor si alzò sulle punte, anche se ne aveva poco bisogno. «Devono andare a prendere tutti i loro fratelli e Deryck».
«Oh» Franziska abbandonò la posizione di poco prima, «già».
«Sicura che sia un bene lasciar loro nostro fratello?» Igor sembrava piuttosto nervoso, ma Franziska lo capiva: del resto, per anni avevano badato solo loro a Deryck, faceva strano anche a lei figurarselo insieme a qualcun altro.
«Sì» replicò, cercando di apparire decisa. «Aaron mi sembra una persona affidabile» aggiunse, per provare a convincerlo. In realtà, nemmeno lei lo conosceva benissimo, ma non le sembrava una persona cattiva. D’altronde, l’altro giorno erano stati insieme in un’officina lontana persino dalla periferia: se avesse voluto farle qualcosa, lo avrebbe fatto senza pensarci due volte.
«E il suo amico no?»
«Non lo conosco» rispose, più brusca di quanto volesse apparire. Igor aveva il brutto vizio di metterle la pulce nell’orecchio.
«Guardali». Suo fratello le indicò un gruppetto in avvicinamento, composto da due ragazzi alti e quattro bambini. La folla si era ormai diradata, e Franziska poté vederli bene. Il suo fratellino era lì, vicino ad un altro bambino – Jasper, con ogni probabilità – e stavano parlando tra di loro.
Deryck alzò la testa, quel tanto che bastò perché i suoi occhi incontrarono quelli della sorella. Non appena vide sia lei che Igor, prese ad agitare il braccio destro, per salutarli, prima di correre verso di loro. Arrivò addosso a Franziska con uno spintone, abbracciandola all’altezza della vita.
«Ehi, nanerottolo!» La ragazza gli scompigliò i capelli corvini, abbracciandolo a sua volta, sebbene lo zaino del bambino rendesse i suoi gesti più difficili da compiere. «Tutto bene?»
Deryck annuì. «Sì! Oggi ho preso una A in inglese!»
«Tu non sei mio fratello». Igor inarcò un sopracciglio; sembrava divertito. «Mio fratello non prenderebbe mai A in un compito».
Deryck gli fece una linguaccia e portò una mano sulla guancia, tirando la pelle per assumere un’espressione spaventosa. «Sei solo geloso perché io sono bravo e tu no!» esclamò, indicandolo con un dito.
Il quattordicenne alzò gli occhi al cielo. «Ma smettila» disse, toccandogli il fianco con le mani per fargli il solletico.
Deryck ridacchiò, riparandosi dietro la sorella, prima che il loro breve colloquio fosse interrotto dall’arrivo del resto del gruppo.
Aaron era insieme ad un ragazzo che Franziska aveva visto qualche volta in giro – Jimmy, di sicuro. Si aspettava che il figlio del sindaco avesse un aspetto più elegante e raffinato, ma il giovane si vestiva come il suo amico accanto a lui, con abiti larghi, e aveva un piercing al labbro inferiore. Sorrideva sornione, guardando ora Franziska, ora Igor.
Aaron, invece, aveva lo zainetto su una sola spalla e sorrideva a sua volta, ma in maniera più timida, guardando solo la ragazza.
«Ciao» esordì, sistemando la cinghia dello zaino sulla spalla. «Ti ho portato il tuo fratellino, come promesso».
«Grazie. Lui è il tuo?» chiese, indicando un bambino con i capelli biondi e dall’aria vispa, che sembrava desideroso di dire qualcosa.
«No, no». Aaron scompigliò i capelli del bimbo biondo. «Lui è mio cugino Patryck. È lui mio fratello». Allungò una mano, prendendo per la maglietta un altro bambino, che doveva avere all’incirca l’età di Patryck e che stava guardando, silenzioso, l’entrata della scuola.
In effetti, quello che Aaron gli stava presentando gli assomigliava di più, anche se non sembravano comunque fratelli. L’aria timida e impacciata che si portava dietro il maggiore, infatti, sembrava del tutto assente nel più piccolo. Brenton aveva i capelli castani, più chiari di quelli di Aaron, e gli occhi color nocciola, che a prima vista sembravano solo marroni, ma, in realtà, sfumavano intorno alla pupilla, assumendo un colorito verdastro.
Non fu tanto l’insolito colore dell’iride del bambino, a colpire Franziska. Non fu il suo aspetto fisico, e nemmeno il modo in cui si atteggiava.
I suoi occhi erano quelli più tristi che lei avesse mai visto. Erano occhi da adulto, occhi di una persona che ne ha passate tante.
«Brenton, saluta» ordinò Aaron.
Il bambino fece un cenno con il capo. «Ciao» salutò, senza mostrare alcuna emozione.
«Ciao» replicò Franziska, deglutendo. La metteva in soggezione, quel bambino. Sembrava una specie di bambola di porcellana dagli occhi vitrei.
«E poi ci sono Jasper e Jimmy» concluse Aaron, dando una pacca sulla spalla al ragazzo accanto a lui. Erano alti uguali, ma il figlio del sindaco aveva un fisico più robusto – un fisico da persona che può permettersi di mangiare ogni sera un pasto decente.
Jimmy si fece avanti, senza smettere di sorridere. Si mise proprio davanti a Franziska, e la ragazza dovette trattenersi dall’assumere un’espressione spaventata. Lo guardò dritto negli occhi – li aveva azzurri, lui, un azzurro brillante come il cielo estivo.
Non vorrà mica baciarmi.
Contro ogni sua aspettativa, Jimmy la prese per mano e mise un ginocchio a terra. Dopodiché, le sue labbra si posarono sulla mano di lei.
Una smorfia di puro disgusto attraversò il volto di Franziska, mentre ritraeva la mano di scatto.
Sentiva il cuore pulsarle a velocità elevata, lo sentiva nelle tempie e nei polsi.
«Ma che cazzo fai?» esclamò infine, dando uno spintone al figlio del sindaco, che cadde sulla schiena.
«Mi presentavo» rispose l’altro, aggrottando la fronte. Si alzò, passandosi le mani sui pantaloni per pulirli, mentre Patryck e Jasper si sbellicavano dalle risate.
Aaron, invece, era serio e guardava il suo migliore amico come una mamma guarda il figlio troppo esagitato.
«E devi proprio lasciarmi la tua schifosissima saliva sulla mano?» Franziska si asciugò il punto dove Jimmy l’aveva baciata con un lembo della felpa.
«Alle ragazze piace» ribatté il figlio del sindaco, affiancandosi al suo amico.
«Non a tutte. A me no, per esempio. E non mi piace che mi si pigli per il culo, quindi vedi di non toccarmi più». Franziska lo avrebbe volentieri preso a pugni, se non ci fossero stati i bambini.
«Cretino» sibilò Aaron, dandogli un colpo in testa. Jimmy cominciò a massaggiarsi dove lo aveva colpito, mentre suo fratello continuava a ridere. Persino sul volto di Brenton era comparso un mezzo sorriso.
«Credo che ora posso presentarti mio fratello». Franziska fulminò Jimmy con lo sguardo, e lui replicò con un sorrisetto compiaciuto. «Lui è Igor, il mio gemello» continuò, indicando il ragazzo accanto a lei con un cenno della mano.
Igor fece un passo avanti; le sue dita erano strette intorno alla cinghia dello zaino e guardava Aaron con fare sospettoso, studiandolo dall’alto verso il basso. L’altro, dal canto suo, sembrava più intimidito, ma si avvicinò comunque.
«Piacere» lo salutò, abbozzando un sorriso. «Sono Aaron». Allungò la mano verso il suo interlocutore.
«Sì. L’avevo intuito». Igor strinse la sua mano, ma, al contrario di Aaron, restò serio. «Piacere mio». Le sue dita lasciarono la presa, mentre Aaron continuava a guardarlo con la stessa espressione di poco prima. Franziska sentì un brivido, e sperò con tutta se stessa che Igor non facesse danni. Le era ben noto il suo modo di “fare amicizia”.
«Mia sorella mi ha detto cos’avete intenzione di fare» continuò il biondo, indicando la ragazza con un cenno del capo. «Accetto. Poi mi spiegherete bene qual è il vostro piano».
«Che cosa fate?» Patryck aveva l’aria smarrita, mentre tirava il cugino per la giacca, costringendolo a voltarsi verso di lui.
Aaron scosse la testa, sorridendo al piccolo. «Nulla, Paky. Cose nostre» tagliò corto, scompigliandogli i capelli biondi. «Non ne abbiamo ancora uno, in realtà» aggiunse, rispondendo alla muta questione di Igor. I suoi occhi cercarono quelli di Franziska. «Pensavamo di decidere tutti insieme» concluse.
«Sì, ottima idea». Igor si grattò la nuca con una mano. «Ora, se non vi dispiace, sarebbe meglio and—»
«Bene, bene, bene».
La frase del maggiore dei fratelli Madison fu interrotta da una voce femminile.
Franziska sentì una scossa attraversarle il corpo e, nel contempo, una preghiera si fece strada tra i suoi pensieri, mentre riconosceva a chi apparteneva quel timbro vocale.
Trine.
Non che avesse paura di affrontarla, ma, ogni volta che la vedeva in giro, con i suoi sorrisetti falsi, i suoi modi di fare da smorfiosa e le occhiatine colme di scherno che le lanciava, Franziska sentiva la rabbia montare. Era un’ira cieca, accompagnata da un perverso desiderio di tirarle un pugno in faccia.
Si morse l’interno della guancia, girandosi verso la nuova arrivata, che – appurò – era in compagnia di un gruppetto di altre persone.
Tipico. Se non agivano in branco, non si divertivano. Più volte, l’idea di prendere in giro Trine insieme a Igor quando lei era sola l’aveva accarezzata, tentata come qualcosa di particolarmente lussurioso e aggradante, ma poi si era resa conto che non sarebbe stato da lei. Non voleva ripagarla con la stessa moneta.
Trine era in compagnia delle sue inseparabili amiche e di quattro o cinque ragazzi, dall’aria spavalda e i vestiti che – anche senza vedere l’etichetta e il prezzo – facevano intuire quel fosse il loro grande valore.
«Che vuoi?» domandò brusco Jimmy, mettendosi a braccia incrociate. Lui e Aaron avevano appena affiancato Franziska e Igor. I bambini erano rimasti più dietro, a parte Brenton che si era messo accanto al fratello.
«Vedere cosa facevate tutti insieme» replicò Trine, torturando una ciocca di capelli, ma senza smettere di sorridere. «È forse la riunione del clan dei disagiati?»
A quella battuta, tutto il suo gruppetto di amici scoppiò a ridere.
Jimmy, invece, alzò il braccio e fece finta di grattarsi sotto l’ascella. «Oddio, sei troppo simpatica!» esclamò, sorridendo gioioso. «Aspetta, magari se mi gratto sotto l’ascella mi metto a ridere».
Tutta l’ilarità scomparve dal volto del gruppo di ragazzi ricchi. Franziska, invece, si ritrovò a incurvare le labbra in su. Doveva ricredersi su Jimmy: aveva dei modi di fare da stupido, ma sapeva come trarsi d’impiccio quando lo prendevano in giro.
«Spiritoso, Raimond» commentò un ragazzo dell’altro gruppo. Era alto e aveva i capelli scuri, come i suoi occhi, che scandagliarono il corpo di Jimmy. «Papino non ti ha insegnato a vestirti meglio? Mi risulta che i soldi perché tu ti compri degli abiti degni di questo nome ce li hai».
«Se avete davvero così tanti soldi come dite» s’intromise Igor, facendo un passo avanti, «allora potreste comprarvi una cosa che sta nella testa. Hai presente, no? Si chiama cervello». Fece una pausa e incrociò le braccia al petto. «O forse, non sai cos’è, vista la sua assenza in te».
«Bada a come parli, poveraccio». Anche il ragazzo si fece avanti, in contemporanea con Igor.
«Chiama ancora mio fratello poveraccio e ti strappo quella specie di cresta che hai in testa, idiota» ringhiò Franziska, stringendo le mani a pugno.
Trine ridacchiò, facendo un passo avanti e spingendo il suo amico da parte. «Tu?»
«Lei». Aaron si affiancò a Franziska. «Hai qualcosa da ridire?»
«Mi sei caduto in basso, Aaron». Sul volto di Trine si dipinse una smorfia disgustata. Franziska strinse ancora di più i pugni. «Pensavo fossi un po’ meglio. E anche il tuo amichetto». Con un cenno del capo, indicò Jimmy. «Invece… hai preferito lei, vedo».
Le guance di Aaron si tinsero di rosso. «Che cosa intendi?»
«Intendo che io ti ho dato un’opportunità» Trine si avvicinò ad Aaron; la distanza tra di loro ormai era minima, «e invece tu hai preferito stare con lei».
«Lui non è il mio ragazzo» ribatté Franziska, spingendo da parte Aaron per mettersi di fronte alla ragazza. «E se non ti ha voluta, forse un motivo c’è».
«Ovvero?» Trine inarcò un sopracciglio.
«Ovvero: sei una spocchiosa schifosa, smorfiosa, non sai elaborare un concetto che abbia senso, pensi solo ai tuoi vestiti e al trucco e sei così arrogante che al confronto un tributo Favorito è un angelo». Franziska fece un mezzo sorriso. «Ecco perché».
«Ripetilo, se hai il coraggio» sibilò l’altra, a denti stretti. Poi, fece la cosa più sbagliata del mondo: le diede una spintarella all’altezza della spalla.
Quel semplice tocco mandò Franziska fuori di testa. «E tu toccami ancora se hai il coraggio».
Trine lo rifece.
Franziska stette ferma un attimo; cercò di contare fino a dieci, ma poi l’inevitabile accadde. Era come se qualche strano fluido le fosse confluito nella mano, un fluido che la obbligava a colpire Trine.
E così fece. Le sferrò un pugno sulla mascella; l’impatto con l’osso le fece male alle nocche, ma lì per lì non ci fece caso.
L’unica cosa a cui pensava era che la odiava. Detestava lei, i suoi amici, tutti quelli che la prendevano in giro. Voleva solo farle del male, farla pentire per averle parlato dietro così tante volte, farle così tanto male da impedirle di toccarla ancora.
Sentiva il cuore che batteva all’impazzata; lo avvertiva nelle tempie, nei polsi, nelle nocche che le dolevano.
«Cosa succede qui?» Una voce femminile, sibilante e acuta si intromise nello scontro. Franziska non si era nemmeno resa conto di aver alzato di nuovo il pugno per colpire, finché essa non la risvegliò dai suoi pensieri.
Si girò verso la fonte del rumore.
Sentì un brivido quando vide a chi apparteneva la voce che aveva parlato. Faccia di Rana la guardava, e i suoi occhi scuri parevano mandare scintille: se fosse stata capace di uccidere con lo sguardo, Franziska sarebbe caduta a terra, morta.
«Niente» borbottò la bionda, abbassando la mano. Suo fratello le si era fatto vicino, forse per fermarla.
«Niente? Le ha tirato un pugno sulla mascella!» gridò lo stesso ragazzo di prima, volgendo lo sguardo prima a Franziska e poi all’insegnante. Trine, nel frattempo, era in piedi, circondata dalle sue ancelle, che controllavano l’entità della ferita.
«Un pugno?» tuonò la donna. «Signorina Smithe, vada subito in infermeria» aggiunse, cercando di utilizzare un tono di voce più dolce.
Franziska alzò gli occhi al cielo. Anche a lei facevano male le nocche, ma non le sembrava il caso di farlo notare alla professoressa, visto che la colpa per tutto ciò era sua.
«E tu» indicò la ragazza con un dito, «ora mi segui in presidenza». Si girò. «Senza proferire parola» ordinò, senza voltarsi verso di lei.
La quattordicenne rilassò i muscoli delle spalle – non si era resa conto di essere ancora così irrigidita – e, a capo chino, seguì l’insegnante dentro l’edificio. Lanciò uno sguardo infelice a suo fratello, che sembrava piuttosto irritato.
Fu in quel momento che Franziska sentì cadere il peso di ciò che aveva appena fatto. Non solo aveva picchiato una ragazza facendole male – anche se per quello, si giustificò dicendosi che se lo meritava – ma l’aveva fatto in un momento delicato della sua vita. Era cambiato molto in quel lasso di tempo: lei non era la Franziska di prima, quando suo padre era vivo. Era un’altra, adesso: aveva un lavoro, una tutrice, e non poteva permettersi di perdere il primo e rovinare i rapporti con la seconda per le sue bravate.
Varcò il portone d’ingresso, sospirando.
Al preside l’ardua sentenza, pensò con fastidio.
 
*
 
 
«’Fanculo».
La voce di Igor fu la prima a rompere il silenzio che si era venuto a creare. Aveva la mascella e i pugni serrati; i suoi occhi verdi mandavano fulmini al portone d’ingresso dell’istituto scolastico.
Aaron lanciò un’occhiata al gruppetto di Trine che stava entrando a scuola, di sicuro per curare l’amica ferita – sempre che si fosse fatta davvero male e non avesse finto.
«Che facciamo adesso?»
Non si era accorto che Jimmy si era avvicinato al suo orecchio. Si voltò di scatto verso di lui.
«Niente. Che vuoi fare?» domandò, guardando sconsolato l’auletta in fondo all’istituto, al primo paino, che lui sapeva essere la presidenza. Del resto, lui stesso ci era entrato varie volte.
«Io e Franziska dobbiamo lavorare» s’intromise Igor, guardandoli a braccia conserte. «Ovviamente dobbiamo tirarla fuori di lì».
«E come pensate di fare?» Aaron guardò prima Igor, poi Jimmy. Era ovvio che loro due fossero d’accordo nel voler salvare Franziska dalle grinfie di Harries.
Igor scosse la testa. «Troveremo un modo. Non posso lasciarla lì. Dobbiamo portare a casa Deryck, mangiare e correre al lavoro». Carezzò i capelli scuri del fratellino, che era rimasto imbambolato.
«Io e Aaron abbiamo già fatto qualcosa del genere». Jimmy toccò l’amico per un braccio, per richiamare la sua attenzione. «Ti ricordi, no?»
Aaron fece una smorfia. Si ricordava, eccome. Era difficile scordarsi di una cosa del genere. «Certo. Mio cugino si è quasi ammazzato» replicò, fulminando il suo migliore amico con lo sguardo.
Jimmy alzò gli occhi al cielo. «Non è colpa mia se Jarod aveva le mani sudate».
«Non sei stato tu a ricevere il suo peso piuma addosso».
«Allora? Mi dite come avete fatto o no?» sbottò Igor; era arrabbiato, si vedeva, e l’ultima cosa che Aaron voleva era far infuriare un tizio del genere.
«Uhm…» il maggiore dei fratelli Kidman si grattò la nuca, «mio cugino, Jarod, l’anno scorso è stato mandato in presidenza per aver quasi spaccato il naso ad un ragazzo della sua classe. Per farlo uscire abbiamo distratto Harries con la scusa che qualcuno stava tentando il suicidio, poi io ho lanciato una corda nella presidenza, Jarod si è arrampicato, è uscito e mi è caduto praticamente addosso». Lo disse come se niente fosse, ma a solo ripensarci sentiva il peso di suo cugino che lo schiacciava a terra. Non era di certo un bel ricordo.
«Bene. Allora dammi questa corda e tiriamo quella cretina di mia sorella fuori da lì». Igor allungò un braccio verso di lui. La sua mano era già allargata per prendere la corda.
Aaron e Jimmy si scambiarono una rapida occhiata.
«Che c’è?» chiese il biondo.
«Un piccolo problema». Jimmy fece cenno della piccolezza avvicinando l’indice e il pollice della mano destra, ma non minimizzava affatto. «Nel senso che l’anno scorso avevamo più tempo e siamo corsi a casa di Aaron a prendere una corda. Oggi non abbiamo tempo. E quella corda è sparita dopo che sua zia ha scoperto cosa abbiamo fatto».
«Bene». Igor si tirò su le maniche della giacca. «Vorrà dire che andrò a prenderla io».
«Certo. Così Harries fa la predica anche a te». Jimmy alzò gli occhi al cielo.
Aaron rimase zitto; non sapeva bene cosa dire e doveva elaborare in fretta qualcosa. L’anno scorso era stato semplice, ma in quel momento non gli veniva in mente nient’altro.
Gli spiaceva per Franziska; sapeva che doveva lavorare e ci teneva, come sapeva anche che sua nonna era severa, e si sarebbe arrabbiata tanto.
Lo zainetto gli scivolò lungo il braccio, bloccandosi nell’incavo del gomito – Aaron non si era nemmeno reso conto di aver posato la mano sinistra all’altezza del cuore, come a voler sincerarsi che fosse ancora lì.
Un’altra cosa di cui non si era accorto era il suo zaino aperto: la zip era chiusa più o meno a metà, e lasciava intravedere i suoi quaderni.
«Oh… cazzo» bisbigliò, spaventato dall’idea che qualcosa gli fosse caduto per strada. Non poteva perdere nulla, altrimenti ricomprare le cose sarebbe stato un altro, inutile spreco di denaro e lui non voleva che gli zii dovessero spenderne per lui e la sua disattenzione.
Le bombolette nuove, si ricordò. Le aveva prese il giorno prima e portate a scuola per evitare che zia Katy – nel giorno delle grandi pulizie delle camere – le trovasse.
Nel vederle, un pensiero improvviso gli balenò in mente; un pensiero folle, stupido, ma che forse avrebbe potuto salvare la sua amica nelle grinfie del preside e della professoressa di matematica.
«Jim!» strillò, con voce più acuta del solito.
Il suo amico si girò a guardarlo, interrompendo la discussione con Igor. Aveva la fronte aggrottata e sembrava seccato. «Che c’è?»
Aaron si schiarì la voce. «Ho un’idea» annunciò, con un debole sorriso.
«Che genere di idea?» domandò Igor, mettendosi a braccia conserte.
«È un po’ folle, in realtà». Il quattordicenne si grattò la nuca con la mano libera. «Ma voi andate a casa. Penso a tutto io».
Non si spiegò da dove provenisse quello slancio di coraggio; forse non aveva molta voglia di mettere nei guai altre due persone. Igor doveva lavorare e portare a casa il fratellino; Jimmy doveva portare a casa Jasper.
«Cos’hai in mente?» Il suo migliore amico si avvicinò, puntando i suoi occhi azzurri a poca distanza da quelli marroni dell’amico.
«Porta a casa mio fratello e Patryck» rispose, ignorando la domanda del ragazzo. «E poi, ovviamente, vai a casa tua e non ti preoccupi».
«Io mi preoccupo eccome delle cose che potrebbero uscir fuori da quella tua testa di cazzo» ringhiò il figlio del sindaco, dandogli una spintarella sulla spalla.
«Piantala». Aaron ricambiò il gesto. «Vai a casa».
«Almeno dimmi cos’hai intenzione di fare».
«Fidati di me, Jimmy». Il maggiore dei fratelli Kidman appoggiò una mano sulla spalla dell’amico. «Fidati di me».


 


Alaska's corner

Oh oh oh!
Okay, il capitolo di Natale in estate, e vabbè.
L’ho scritto mesi fa, compatitemi.
By-the-way, la prima scena non c’entra nulla con il resto del capitolo, ma ci tenevo tanto ad inserirla perché l’avevo plottata e volevo parlare un po’ del rapporto tra Deryck, Franziska e Igor… ancora, sì.
Secondo me, a Panem il Natale non esiste nel vero senso del termine; credo che lo si festeggi a Capitol City e tra chi può permetterselo e venga esaltato perlopiù l’aspetto materialistico, a discapito di ciò che dovrebbe essere davvero, ossia una festa religiosa. Per l’appunto, ho voluto mettere la citazione di Madre Teresa, tanto più che io sono cristiana e credo che il Natale sia una festa splendida, che ci fa riscoprire il piacere di stare insieme ai familiari ♥ Ok, chiusa parentesi filosofica.
In ogni caso, Franziska ha avvertito Igor, mentre Aaron ha avvertito Jimmy. E si sono conosciuti, tutti e quattro, e – come avrete notato – hanno fatto scintille. Nella scena originale, Franziska doveva tirare uno schiaffo a Jimmy, ma poi l’ho tolta perché era davvero troppo esagerata. xD Ma è solo un passaggio: più avanti vedrete che loro due impareranno a volersi bene.
La scena Igor/Franziska me li ha fatti shippare, ma dettagli.
Comunque, ora Franziska è dal preside, evviva. Odiatela quando si comporta così, non vergognatevi. XD
Ah, chiedo scusa per il linguaggio più scurrile di questo capitolo: Jimmy non è il massimo della finezza; Franziska e Igor sono quasi cresciuti per strada quindi anche loro non sono educatissimi. Aaron nemmeno è finissimo, ma si trattiene. XD
Non ho moltissimo da dire su questo capitolo (?) Spero che sia piaciuto :D
Giovedì scopriremo il fantasmagorico piano di Aaron per tirare la sua amica fuori dalla presidenza e come si evolverà il loro piano per salvare il mondoH.
Alla prossima,
Alaska. ~ 

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Capitolo 12
*** 11 » Punishment « ***





 
CAPITOLO XI
 
Punishment
 
« In ogni punizione deve esserci anzitutto giustizia. »
-Immanuel Kant
 
 
L’ufficio del preside odorava di chiuso e di stantio.
Le pareti erano grigie – come gran parte delle altre dell’istituto – e un claustrofobico avrebbe di sicuro avuto una crisi, stretto come sarebbe stato tra quelle quattro mura che racchiudevano una piccola stanza, con armadi alti fino al soffitto e una scrivania in legno tarlata.
«… e quindi, signor preside, alla luce degli avvenimenti appena accaduti – e quelli di altri momenti – ritengo che sia una buona cosa, punire la signorina Madison».
Dopo un buon quarto d’ora passato a parlare, l’insegnante di matematica concluse la sua arringa contro l’alunna – un discorso dalla dubbia utilità, in cui aveva osannato le apparenti qualità di Trine e denigrato il marcio di Franziska.
Il preside Harries sospirò, picchiettando con la matita contro il piano della scrivania, dopo averci giocherellato per tutto il tempo, mentre Faccia Di Rana parlava.
Franziska inarcò un sopracciglio; era certa che Harries avrebbe volentieri sbadigliato e appoggiato la fronte contro la scrivania, ma, stoico, era rimasto zitto e quasi attento, mentre la donna sciorinava tutto ciò che di sbagliato aveva fatto Franziska nella sua carriera scolastica.
«Grazie mille, signora Gibson» esordì alla fine il preside; la luce che filtrava dalle serrande non del tutto chiuse si rifletteva sulla sua testa pelata. Franziska si chiese come facesse a non scottarsi d’estate e, per una frazione di secondo, l’immagine di Harries con una frittata che cuoceva sulla sua testa occupò tutti i suoi pensieri.
Mentre fingeva un colpo di tosse per non far notare il sorrisino e la risata sguaiata che stava per prorompere dalle sue labbra, notò, con la coda dell’occhio, la Gibson che stringeva la mascella e rivolgeva uno sguardo di fuoco al preside; non doveva essere la reazione da lei attesa.
«Dunque?» lo incalzò, facendo un cenno con il capo nella sua direzione.
Harries appoggiò la matita sulla scrivania, accanto ad altre due messe in fila. «Le chiederei gentilmente di lasciare soli me e Franziska. Vorrei parlare con lei in privato per un attimo, per favore».
«Bene» concluse la donna, secca. Tirò su con il naso e alzò il mento, con aria piccata. «Grazie per l’attenzione, signor preside».
Prima che si girasse, Franziska ne approfittò e, veloce come un fulmine, tirò uno dei ferri per il lavoro a maglia che spuntava dalla borsa della donna. L’oggetto si sfilò dai punti già fatti e la ragazzina si sbrigò a rimetterlo a posto, stando attenta ai movimenti della professoressa.
Fece appena in tempo a sistemare tutto com’era prima; non appena i ferri tornarono al loro posto, nella borsa, Faccia di Rana girò i tacchi e – lanciatole un ultimo e disgustato sguardo – se ne andò dall’ufficio del preside, senza nemmeno salutarla.
Non appena la porta si richiuse alle sue spalle, Franziska sentì il signor Harries fare un lungo sospiro e si voltò verso di lui.
«Allora?» la interrogò l’uomo, guardandola negli occhi.
«Allora cosa?» Franziska inarcò un sopracciglio.
«Quando hai intenzione di mettere la testa a posto, Franziska?» Harries non osò abbassare lo sguardo, mentre lei – vergognosa – si ritrovò a perdere quella battaglia non verbale, mettendosi a giocherellare con un filo che sporgeva dalla manica della sua felpa.
«Non ne ho la più pallida idea» ammise, senza smetterla di toccare quel sottile appiglio blu. «Forse la mia testa non è fatta per essere messa a posto» concluse, con un’alzata di spalle.
«Franziska» il preside richiamò la sua attenzione, e bastò quel tono perentorio per farle alzare gli occhi verso di lui, «non posso lasciare che questo episodio passi inosservato. Lo sai, vero?»
Con dei deboli cenni del capo, la ragazza espresse il suo assenso. «Lo so» mormorò allora, due flebili parole che gli aveva ripetuto troppo spesso, in quello stanzino e – anche in quel momento – si persero nell’aria insieme alle altre bugie che gli aveva rifilato per convincerlo a fidarsi di lei. A sua discolpa, c’era da dire che aveva quantomeno tentato di non combinare altri guai, ma non c’era riuscita. Era una specie di calamita, per certe situazioni.
«Ora mi vuoi spiegare cos’è successo? Te lo chiedo per favore. Voglio solo sapere la cosa dal tuo punto di vista».
Franziska sospirò, continuando a giocherellare con il filo blu. «Trine mi ha provocata e io ho reagito».
«E come mai ti ha provocata e tu hai reagito?» Harries continuava a fissarla; era quasi inquietante, con quegli occhi di un azzurro slavato, simile a ghiaccio.
«Non lo so. Da quel che ho capito ci ha provato con un mio… amico» indugiò su quell’ultima parola, incerta se usarla o meno. Non sapeva di preciso se poteva definire così Aaron. «E si è fatta un’idea sbagliata di noi due. Poi io l’ho insultata, forse per difendermi, o forse…» il suo tono di voce si fece via via più basso; si stava rendendo conto della portata delle sue azioni e, come sempre, iniziava a provare un senso di colpa che cercava di scacciare via come una mosca fastidiosa. «Non lo so. Ho sbagliato, comunque».
«Hai sbagliato» confermò Harries. «E quest’oggi abbiamo ripassato per l’ennesima volte la stessa lezione: non si salta addosso alle altre persone se queste ci provocano». Il preside prese a picchiettare con una matita contro il piano del tavolo. «Mi auguro che questa volta lo impari».
«Ci prov—» non fece in tempo a finire la sua frase, Franziska, perché fu interrotta da un veloce – velocissimo – battere alla porta.
Incuriosita da tanta premura, si voltò verso di essa, mentre un Harries piuttosto seccato si schiariva la voce. Franziska aveva avuto l’impressione di averlo sentito borbottare un «e adesso che c’è?», e aveva trattenuto un sorrisino divertito.
«Avanti» ordinò l’uomo, e, obbediente, chi era dall’altra parte della porta l’aprì.
Faccia di Rana fece il suo ingresso; le sue labbra erano strette in una smorfia arrabbiata, mentre le narici si allargavano e stringevano al ritmo del suo respiro quasi affannoso.
Franziska si stava giusto chiedendo se avesse corso una maratona, quando notò chi aveva portato con sé e ebbe l’impressione che la colazione di quella mattina volesse uscire dal suo stomaco.
A testa bassa, il volto ombreggiato dal cappellino, Aaron seguiva l’insegnante di matematica. Forse rendendosi conto del luogo in cui si trovava, il giovane tolse il copricapo, stringendolo tra le mani.
Il cervello di Franziska elaborava domande alla velocità della luce: cos’aveva combinato? Non doveva essere a casa? Perché era lì?
I suoi occhi cercarono quelli di lui; le iridi marroni di Aaron incontrarono per un istante le sue, ma non le diedero alcuna risposta.
«Signor preside!» cominciò subito la signora Gibson, parlando ad una velocità che, fino a quel momento, Franziska non credeva possibile per nessun essere umano. «Torno per renderle noto che c’è stata un’altra infrazione delle regole, in questa scuola. Tornando a casa, ho trovato questo ragazzo» indicò Aaron con una mano, «che pasticciava sul muro, con scritte oscene riguardanti l’istituto, Capitol City e gli Hunger Games».
«Aaron?» Harries si sporse per guardare meglio il ragazzo; più che arrabbiato sembrava stanco. «È vero quello che dice la professoressa?»
Il quattordicenne annuì, un gesto che fece dipingere sul volto di Faccia di Rana un’espressione di trionfo.
«Bene». Harries indicò la porta con un gesto della mano. «Grazie, signora Gibson. Ora può andare, non voglio che sprechi il suo tempo prezioso per questi due ragazzacci».
«Grazie a lei». Faccia di Rana si guardò intorno e – dopo un’altra occhiata schifata sia a Franziska che ad Aaron – se ne andò, sbattendo la porta come a casa sua.
Franziska continuava a guardare Aaron; non si capacitava del perché si fosse messo a fare certe cose in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti. Era arrabbiata con lui, ma al contempo preoccupata: temeva per la sua incolumità. Se qualcuno di sbagliato – come i Pacificatori – lo avesse visto, non l’avrebbe passata liscia. E la Gibson – per certi versi – era quasi come uno dei soldati in uniforme bianca che impestavano le vie del Distretto 6.
«Siediti, Aaron» disse il preside, indicando, con un cenno del capo, l’altra sedia libera, accanto a quella di Franziska.
Mentre il giovane si accomodava, la ragazza si trattenne dal tirargli una gomitata e chiedergli spiegazioni. Continuò invece a fissarlo, nella vana speranza che lui si accorgesse e la rassicurasse, in qualche modo. Sembrava, al contrario, che Aaron distogliesse lo sguardo apposta; il suo interesse per il bordo della scrivania era fuori dall’ordinario.
«Cos’hai combinato?»
«Ho pasticciato un muro» rispose il ragazzo, a voce bassa, alzando gli occhi verso il preside. «Ero arrabbiato e l’ho fatto».
«E non ti hanno insegnato che non si pasticciano i muri degli edifici pubblici?» Harries aveva l’aria esasperata; se solo avesse avuto ancora i capelli, sarebbero stati sparati in aria, come dopo una scossa. Franziska dovette trattenere un’altra risata, nell’immaginarselo.
«Me… me l’hanno detto, sì» balbettò il giovane, mentre le sue guance diventavano color sangue.
Harries stette in silenzio, fissando la scrivania. Per uno o due minuti non disse nulla; era solo una presenza non fisica, in quella stanza.
Franziska ne approfittò per attirare l’attenzione dell’amico: si schiarì la voce, chiedendo – senza parlare – ad Aaron di girarsi. Il ragazzo voltò il capo nella sua direzione, lanciandole uno sguardo interrogativo – con una punta di stizza, Franziska pensò che doveva essere lei, quella a chiedere spiegazioni. Inarcò le sopracciglia, cercando di fargli intuire i suoi pensieri e i mille quesiti che le frullavano in testa, ma la voce del signor Harries interruppe la loro conversazione fatta solo di sguardi.
«Credo di aver trovato una punizione per te» annunciò, indicando Franziska con la matita; nelle sue mani sembrava uno strumento di tortura, e la sua punta quasi acuminata non faceva che aumentare quella sensazione. «E per te» concluse, questa volta rivolgendosi al ragazzo.
«Ovvero?» domandò Franziska, spostandosi sul bordo della sedia.
«Pulirete – entrambi – il muro della scuola, cancellando il pasticcio di Aaron e quelli già presenti». Harries incrociò le braccia al petto e abbozzò un sorriso, che doveva essere di conforto.
«Come? Adesso? Ma io lavoro!»
«Infatti, Franziska, lo farai domenica».
La ragazza sbuffò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
Di sicuro, passare la domenica a pulire muri non era il sogno della sua vita, ma era meglio che saltare il lavoro e perdere, quindi, parte dello stipendio – questa fu la consolazione che si diede per non pensare a quanto spinosa fosse quella situazione.
«Dobbiamo anche comprarci la roba?» Al contrario suo, Aaron non sembrava molto agitato o sconsolato.
«No. Vi voglio qui domenica alle 14 in punto. Vi consegnerò tutto il necessario; non farò aprire la scuola al nostro bidello».
«Già, perché sarà impegnato a ubriacarsi» bofonchiò Franziska, con le braccia incrociate al petto.
«Franziska» la riprese Harries, «non è bene parlare male delle persone che non sono presenti. E ora andate, tutti e due. Non voglio vedervi più fino a domenica».
 
 
*
 
I due uscirono da scuola nel più religioso dei silenzi; non si scambiarono nemmeno un’occhiata, men che meno si toccarono. Restarono a distanza di sicurezza l’uno dall’altra.
Aaron non poté, tuttavia, non guardare di sottecchi la sua amica, le cui guance rosse e gli occhi che mandavano lampi facevano intuire che stesse per esplodere.
Nel breve tragitto dall’ufficio del preside al cortile gli vennero in mente almeno cento modi per sfuggire alla sua rabbia: scappare via, far finta di star male, inventare che, di lì a poco, sarebbero arrivati gli alieni. Si giustificò, dicendosi che in fondo era la stata lei la fautrice di tutto ciò – ed era vero – ma non poteva fare a meno di sentirsi reo di averla fatta arrabbiare. Forse, se non avesse pasticciato il muro, Harries sarebbe stato più indulgente, e magari non le avrebbe dato alcuna punizione.
Quando giunsero fuori dal portone della scuola, Aaron non era ancora riuscito a mettere in atto uno dei suoi piani. Erano inutili, si era reso conto. Tanto, prima o poi, la rabbia della sua amica si sarebbe riversata tutta su di lui, quindi aspettare era controproducente.
«Mi spieghi che cazzo ti è saltato in mente?» domandò infatti la ragazza, tirandogli uno scappellotto.
Gemendo di dolore, Aaron si portò una mano alla nuca, massaggiandola. Gli venne da ridere, pensando che, da piccolo, era convinto che le femmine fossero deboli. Franziska provava quanto errate fossero le sue fanciullesche ipotesi.
«Io non…» cominciò, ma interruppe la frase con un grugnito, non sapendo come continuarla. In realtà, il suo gesto dall’aria tanto cavalleresca si era rivelato una trappola mortale per lui e per Franziska; lo aveva compiuto dettato dall’impulso e da motivazioni poco valide, sperando di distrarre il preside e l’insegnante di matematica, ma li aveva – forse – resi addirittura più attenti.
«Io… avevo un piano, ma è andato male» concluse allora; era il modo migliore per concludere quella misera spiegazione. «Speravo di distrarre Harries, cosicché tu potessi scappare, ma niente. Faccia di Rana mi ha sgamato».
Franziska fece un lungo sospiro; portò le mani al volto e chinò il capo. I capelli biondi le ricaddero attorno al volto, come una cascata. «Non farlo più» mormorò.
«Credevo di aiutarti, scusa» balbettò il ragazzo.
Franziska rialzò la testa e lo fissò. «No, scusa tu per come ho reagito. Solo che mi hai fatta preoccupare. E se un Pacificatore fosse passato? Lo sai cosa fanno a chi si comporta da ribelle in questo Distretto, vero?»
«Non ci ho pensato». Aaron si grattò la nuca, abbassando gli occhi a fissare un buco nel cemento del cortile.
«Fa niente. È andata come è andata. Domenica puliremo tutto». Franziska si incamminò verso l’arco di ingresso del cortile, a lunghe falcate. «Cominceremo a parlare del nostro piano, almeno. Ma dovremo essere prudenti».
Non ci aveva pensato, si rimproverò Aaron. Quel pensiero lo rincuorò; avrebbero sfruttato quel tempo per qualcosa di utile. «Comincerò ad avvisare Jimmy. La sera potremmo incontrarci con lui e tuo fratello, dopo che avremo messo a punto un piano».
«Ottima idea. Potresti cominciare a pensare a qualche persona che conosci. Sai, per fare domande. Persone che conoscevano i tuoi genitori» propose la ragazza. «Ora scusa, ma devo cominciare a correre. Sono in ritardo per il lavoro. Ciao!» E detto questo, la giovane cominciò a correre verso casa sua, non prima di avergli rivolto un ultimo sorriso un po’ tirato.
 
 
*
 
Il fatto che la loro punizione fosse cominciata con le parole «Questo coso puzza un casino» - con tanto di smorfia disgustata a deformare il volto di Franziska – non fu molto incoraggiante, e nemmeno un bel modo per iniziare quel noioso pomeriggio.
Erano passati già alcuni giorni da quando Aaron e la sua amica avevano ricevuto l’ordine di andare a pulire quel muro, ma oltre all’unica nota positiva – parlare della loro ribellione – Aaron non ne aveva trovate altre. Una parte della sua mente gli aveva suggerito che anche stare da solo con Franziska era una cosa bella, ma aveva scacciato quel pensiero come una zanzara fastidiosa. Lui, però, era rimasto; non poteva ucciderlo con una ciabatta come faceva con quei fastidiosi insetti estivi.
«Certo che potevi trovare una frase migliore di “Salta il rospo, salta anche la rana, anche se salti agli Hunger Games puoi andarci lo stesso”» commentò Franziska, soffocando un sogghigno.
Aaron abbozzò un sorrisino. Quella frase era piuttosto insensata, ma lì per lì, preso dalla disperazione, era la cosa più poetica che gli fosse venuta in mente.
«Ogni tanto ne scrivo anche di migliori» ribatté, con un’alzata di spalle. «Posso anche essere un poeta».
«Oh, ci credo». Franziska si tirò su le maniche della giacca e della felpa per quella che era la decima volta, almeno. Oramai la parte intorno al polso era zuppa. «Un consiglio da donna, però» aggiunse, abbassandosi verso il secchio di acqua calda per pulire la spugna, «non tentare mai la sorte quando dovrai uscire con una ragazza» concluse, strizzando la spugna e alzandosi in piedi.
«No, no, non lo farò» promise Aaron, arrossendo. «E comunque» proseguì, tossicchiando; la voce gli era diventata stridula ed era anche troppo ridicolo, «noi due dobbiamo parlare di una cosa importante».
Franziska annuì, mentre era intenta a pulire la prima parola del suo graffito. «Sono tutta orecchi».
«Dunque» Aaron si affiancò a lei; la spugna in mano per continuare il lavoro e darle una mano, «ho pensato un po’ a qualche nome di qualche persona che vedevo spesso a casa mia, la sera. Il primo è il papà di Jimmy, Chadwick Raimond».
«Il sindaco» aggiunse la ragazza, come se quella cosa potesse dire qualcosa di molto importante. «Non mi ispira molta fiducia».
Aaron sospirò, dirigendosi verso il secchio d’acqua lasciato per terra. «Jimmy e lui non vanno esattamente d’accordo. Ma io credo di piacergli» borbottò, tirando la spugna dentro e fuori dall’acqua, per pulirla. «Insomma, i miei genitori erano i suoi migliori amici e con me non è mai stato sgarbato. Dovrei piacergli» ripeté.
«Lo spero. Altrimenti faremo in modo di piacergli». Franziska si affiancò a lui, che era rimasto a terra, a fissare un punto imprecisato della strada. Ripensare ai suoi genitori gli dava sempre quella strana sensazione; sentiva la necessità di star fermo almeno un minuto, per visualizzarli e dar loro un altro, muto addio.
Fu un colpetto nel fianco a risvegliarlo. «Pronto?»
Si girò a destra; la sua amica lo guardava con un sorriso sornione. «Lo sai che quel muro non si pulisce da solo, vero?» domandò lei retorica, avvicinando il volto a quello di Aaron. Per un istante, il quattordicenne fu intrappolato dal colore degli occhi di lei; non aveva mai notato quanto somigliassero al colore delle foglie degli alberi in estate, quelle che al Distretto 6 erano una rarità e si trovavano solo nel quartiere residenziale più opulento del posto.
«Cos—». Scosse la testa, riprendendosi da quei pensieri. Gli faceva male star vicino alle donne; era come se soffrisse di una qualche allergia. Il problema non era, però, che lo facevano starnutire. Il problema era che lo rendevano stupido. «Hai ragione, sì» balbettò, alzandosi in piedi di scatto. «Tornando a noi, il secondo di cui mi ricordo è un tale che si chiama Dean Fletcher».
«Mai sentito» commentò Franziska, seguendolo vicino al muro.
Un sorriso nostalgico si aprì sul volto di Aaron. «Era un amico di mia madre. E un collega. Ma soprattutto, un suo grandissimo amico» spiegò, rabbuiandosi.
Era passato tantissimo tempo da quando aveva visto Dean l’ultima volta; la sua assenza nell’officina di Jean gli aveva fatto presupporre che non lavorasse più lì come prima. Ci era rimasto male quando lo aveva scoperto poco più di un mese prima. Dean era uno dei ricordi più felici della sua infanzia, ma anche il suo volto, come quello dei genitori, a volte svaniva, e Aaron doveva concentrarsi con tutto se stesso per non perdere anche l’ultimo brandello di quel viso simpatico. Di lui, la cosa che ricordava con maggior nitidezza erano le mani: grandi, dalla pelle dura e callosa per via del lavoro in officina; le sue tozze dita, spesso, avevano percorso gli zigomi del bambino che era stato, per disegnarvi sopra due linee con il grasso delle macchine. Giocavano a fare i guerrieri, anche di questo Aaron si ricordava bene.
«Ed è molto che non lo vedo. Ma so che è vivo» completò quella magra sequenza di informazioni, la mano destra ferma sul muro.
«Lui sarebbe disposto ad aiutarci?» domandò Franziska, aggrottando le sopracciglia.
«Sì». Aaron annuì. «È sempre stato uno aperto e socievole. Non credo che si tirerà indietro; voleva bene a mia madre. E anche a me, credo».
«Ottimo». La quattordicenne fece un sorrisino. «Gli altri, invece?»
«La prossima non credo che ci sarà di molto aiuto». Aaron si spostò di poco dal muro, per osservare il suo lavoro. Aveva grattato via tutta l’ultima parte del suo graffito, mentre Franziska terminava la sua. Mancavano ancora un paio di murales risalenti ad anni precedenti – cose di cui lui non sapeva nulla – e poi sarebbero stati liberi di incontrarsi con Jimmy e Igor.
«Come si chiama?» Completata l’opera, la quattordicenne gettò la spugna nel secchio; gocce d’acqua andarono a oscurare alcuni punti della strada.
Prima che la giovane potesse prendere il secchio per trasportarlo fino alla loro prossima meta, Aaron si fece avanti. «Ci penso io, lascia pure» disse, e le guance subito gli diventarono rosse come mele mature. Era imbarazzante e difficile essere galante. «In ogni caso» continuò, prendendo il secchio, «si chiama Clematis Elmer».
«Ma non era morta?» Franziska inarcò un sopracciglio.
Aaron scosse la testa. «No. Da quel che so, è ancora viva».
«Clematis Elmer non era quella che si è suicidata dopo la morte del figlio agli Hunger Games?»
Il quattordicenne appoggiò il secchio a terra, a pochi passi dal loro secondo murales – un banale disegno di quattro stelline senza alcun significato. «Ti stai confondendo, mi sa» ribatté, prendendo la spugna. Un rivolo d’acqua gli scese lungo il braccio e represse a stento una smorfia disgustata. Detestava avere i vestiti bagnati, specie d’inverno. «Quella si chiamava Clementine».
«Giusto». Franziska si batté una mano sulla fronte, bagnandola tutta. «Clematis Elmer è quella un po’ fuori» aggiunse, asciugandosi con la manica della sua felpa pesante.
«Bingo». Il ragazzo cominciò a pulire una delle stelline. «Anche a lei è morto il figlio durante gli Hunger Games».
«E durante il Tour della Vittoria di quell’anno ha avuto una crisi isterica» concluse per lui Franziska.
Gentile ed educata com’era, era stato difficile anche per Aaron vedere Clematis dare fuori di matto durante il giro annuale del Vincitore degli ultimi Hunger Games. Lo spavento e la sorpresa di quel giorno erano ancora vividi nella sua mente; ricordava ogni dettaglio di quel momento, mentre la donna che, quando era piccolo, gli regalava le caramelle si trasformava in un elemento da legare in gabbia.
«Ecco. Magari, se siamo gentili, potrà aiutarci. Credo che ora viva con sua sorella, o roba del genere. Non si è più sentito dire nulla di lei». Aaron scosse la testa; gli risultava sempre difficile parlare di cose del genere. «Proseguendo, dopo di lei abbiamo Delroy e Lewin Warren».
«Quel Lewin Warren?» Franziska si era girata verso di lui e lo guardava con gli occhi sgranati. «Il Vincitore?»
«In persona» sospirò Aaron, mentre puliva la spugna. «Un altro che non è messo troppo bene».
«Io non lo conosco, ma da quando ha vinto non si è mai visto molto in giro nel Distretto. Ormai vive in funzione della droga, da quel che dicono» commentò Franziska, accucciandosi accanto a lui.
Aaron annuì con aria cupa. «Ricordo che era un ragazzo molto gentile e appassionato di disegno. Spero solo di non trovarlo completamente fatto, altrimenti non ci sarà di molto aiuto».
«Temo che ormai gli si starà bruciando il cervello». La ragazza si alzò, facendo una smorfia. «Insomma, ormai sono quasi dieci anni che ha vinto. Non stai molto normale dopo dieci anni di droga». Si picchiettò sulla tempia destra con un dito, per sottolineare meglio il concetto. «Disegno, eh? Magari se gli fai vedere qualcuna delle tue opere, ti prende in simpatia».
Aaron arrossì, affiancandosi a lei. «Le mie opere?»
«I tuoi graffiti. Che, tra parentesi, pretendo di vedere».
Le guance di Aaron divennero color cremisi. «Non credo sia una buona idea. Non sono molto belli». In realtà, l’idea di mostrare i suoi murales a qualcuno di diverso da Jimmy non lo allettava per niente; a volte, nemmeno il suo migliore amico li vedeva. Poi tutti gli avrebbero chiesto il significato che c’era dietro, e Aaron aveva l’impressione che lo perdessero, una volta spiegato. Erano a libera interpretazione, a parte quelli più espliciti.
«Andiamo». Franziska gli rivolse un sorriso birichino. «Siamo colleghi adesso, o sbaglio?»
«Magari dopo, se c’è tanto tempo».
«Ce ne sarà. E ora gambe in spalla e lavora» rise la ragazza. «Chi è l’altro che hai citato prima?»
«Il padre di Lewin» rispose il ragazzo. «Delroy. Ma c’è un problemino».
«Ossia?»
«Delroy ci ha lasciato un anno dopo la vittoria di suo figlio agli Hunger Games. Durante i quarantacinquesimi, Lewin era a Capitol City ed è dovuto tornare di tutta fretta perché suo padre ha avuto un infarto» raccontò Aaron, cercando di essere il più distaccato possibile. «Lui era uno di cui ci si poteva fidare» aggiunse con tono amaro.
«Ce ne faremo una ragione» sospirò la sua amica. «Ti ricordi altri?»
«Per ora no. In realtà, però, una persona ci sarebbe».
Era arrivato il momento che Aaron temeva da tutto il giorno.
In settimana, si era reso conto di una cosa importante, dettagli da i suoi zii quando avevano saputo della morte di Warwick Madison. Avevano detto che la moglie era amica dei suoi genitori. Grace, così l’avevano chiamata. Ed era la mamma di Franziska, Igor e Deryck.
Non ricordava molto di quel periodo della sua vita – del resto era pur sempre un bambino – ma aveva la percezione di aver conosciuto una Grace che, oltretutto, assomigliava parecchio alla sua nuova amica e al suo gemello.
Forse Franziska ne sarebbe stata entusiasta, ma lui non si sentiva lo stesso tranquillo all’idea di renderla edotta di tali avvenimenti del passato di sua madre. Comprendeva bene il senso di abbandono e di sconforto che seguivano la morte di una persona cara; altrettanto bene poteva capire cosa si provava nello scoprire aneddoti di cui non si era a conoscenza, e che spesso non si rivelavano proprio benevoli o che, comunque, rivelavano cose troppo personali della vita passata di un defunto.
Quindi, prima di parlare, prese un bel respiro ed evitò di guardare Franziska negli occhi. Erano due trappole.
«E chi è?» lo incalzò la quattordicenne.
Aaron deglutì. «Grace… Madison». Fece una pausa. «Tua madre».
Sul volto di Franziska comparvero almeno cinquemila emozioni diverse: sorpresa, curiosità, paura, tristezza, nostalgia e, infine, esaltazione. «Mia madre?» domandò, con voce stridula.
«Lei. Credo che fosse lei, almeno. So che era amica dei miei genitori. E ricordo che c’era una Grace, nel loro gruppo». Stava stringendo tanto forte la spugna che a terra vi era una pozza d’acqua. «Ti assomigliava. Insomma, a te e a Igor. Assomigliava a voi due».
«Questa» Franziska fece dei grandi passi verso di lui, «è una delle notizie più strabilianti che potessi darmi!» concluse, dandogli un pugnetto sul braccio.
«Almeno puoi controllare tra le sue cose, o chiedere a qualcuno».
«Carine» disse lei, senza nemmeno dargli il tempo di completare la frase. «La sua migliore amica. Sì, lei potrebbe aiutarmi. Lei e suo marito Edmure. Mia nonna no, non si parlavano. Ma forse potrei frugare tra le sue cose. Oh, e vedere se qualche suo collega vecchio sa qualcosa. Magari Jean. Sì, lui ha la faccia di uno affidabile».
Andò avanti a sparare informazioni e idee per almeno cinque minuti; Aaron, in silenzio e sorridente, la osservava. Era carina, quando era agitata, e quel pensiero lo fece arrossire. La trovava carina anche in troppi modi, per i suoi gusti.
«Guarda che il lavoro non si fa da solo» la interruppe, indicando il muro accanto a loro. «Spegniti un po’ e andiamo avanti, altrimenti tuo fratello e Jimmy aspetteranno in eterno».
«Hai ragione» sospirò lei, con fare teatrale. «Purtroppo hai ragione. Lavoriamo, allora. E poi mi fai vedere i tuoi graffiti».
Aaron si rimise al lavoro, sorridendo. In un modo o nell’altro, lei l’aveva sempre vinta. 


 

Alaska's corner

Aaron è stupido e oggi ne avete avuto la conferma.
In ogni caso… sì, l’ha fatto perché sperava di riuscire a far scappare via Franziska, ma non ci è riuscito. Quando fa il cavaliere combina solo cazzate, poveraccio.
E sono riusciti a farsi mettere in punizione! Ma grazie a loro, ho fatto conoscere al misero pubblico di questa storia chi verrà interrogato dai quattro stupidotti del loro gruppo che giocheranno a fare gli Sherlock Holmes.
Dal prossimo capitolo, cominceranno con le vere indagini e con il primo interrogato (?) e nei prossimi capitoli si divertiranno ancora di più, tra gente pazza e furti, insomma.
Su questo capitolo non ho molto da dire, in realtà, spero solo che sia piaciuto!
Alla prossima,
Alaska. ~ 

 

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Capitolo 13
*** 12 » Courage « ***






 
CAPITOLO XII
 
Courage

 
« Quando si dice la verità, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi. »
- Aldo Moro 
 
«Cavoli, ma è bellissimo».
Ammirata, Franziska percorse con le dita il contorno di una parte del graffito di Aaron, il simbolo del Distretto 6, distorto, tra due grandi mani che cercavano di afferrarlo.
Era così reale, così perfetto che non sapeva come reagire, dinnanzi ad esso; una rappresentazione identica della vita di ogni cittadino della sesta fazione di Panem.
«Non esagerare, dai» replicò il ragazzo, con una scrollata di spalle. «È un semplice murales».
«E a me piace». Franziska si girò verso di lui, sorridente. «C’è un significato, vero?»
Aaron deglutì, mentre annuiva con piccoli cenni del capo. «Sì». Si grattò all’altezza del sopracciglio destro. «Credo sia uno di quelli più facili da capire. Ed è uno dei miei preferiti, anche se di sicuro non quello che mi è venuto meglio».
La sua amica gli rivolse un’occhiata indispettita. Un’idea che portava dietro da sempre era che le persone dovevano essere consce dei propri talenti; Aaron non lo era, e si ripromise di inculcargli quanto fosse bravo a disegnare e creare murales. Quello era un piccolo capolavoro; se solo la loro casa fosse stata un’altra – se la loro vita fosse stata diversa – Aaron sarebbe stato un artista con i fiocchi.
Sospirò, tornando a rivolgere la sua attenzione al graffito.
«È molto bello, invece» sussurrò. «Hai molto talento. Sarebbe un peccato sprecarlo». Quell’ultima frase le uscì in un impercettibile soffio.
«Non esageriamo. Mi piace solo disegnare. E con questi rischio di essere arrestato». Aaron si avvicinò a lei e la prese per le spalle, con delicatezza, trascinandola pian piano via dal muro. «Ragion per cui, ora ce ne andiamo all’Officina» bisbigliò, avvicinandosi al suo orecchio.
Franziska avvampò, sentendo il respiro caldo di Aaron contro il suo padiglione auricolare. Aveva una voce leggera; le ricordava il suono prodotto dalle corde della sua chitarra quando strimpellava nelle noiose sere d’inverno.
Scosse la testa, riprendendosi dai quei pensieri. «Che palle che sei, però» commentò, alzando gli occhi al cielo, ma rivolgendogli un fugace sorriso. «Non ti arrestano mica perché stai guardando un graffito».
I due cominciarono a camminare verso l’Officina Abbandonata, fianco a fianco, mentre un gelido vento invernale schiaffeggiava i loro volti con il suo sentore di neve.
«Magari sentono i nostri discorsi e capiscono che l’ho fatto io» puntualizzò Aaron, scuotendo la testa. «Non ho voglia di andare in prigione per una cazzata del genere».
«D’accordo, d’accordo» assentì la giovane, alzando le mani, in segno di resa. «Però ti devo fare un’offerta che non potrai rifiutare» proseguì, dando un colpetto con il gomito nel fianco del ragazzo e parlando a bassa voce. «Un giorno fai fare un graffito anche a me?»
Quell’obiettivo assurdo e malsano l’aveva sbattuta al muro, pretendendo di essere ascoltato, mentre osservava l’opera di Aaron. Era difficile spiegarsi il perché lei volesse farlo: le sembrava bello. Divertente. Adrenalinico. Un’enorme cazzata, come avrebbe detto suo fratello, se solo lo avesse reso edotto di quella sua nuova fissa.
Con ogni probabilità, anche Aaron l’avrebbe detto di lì a pochi secondi, considerato che sul suo volto erano passate almeno mille emozioni diverse: dall’incredulità, alla paura – addirittura – e a una sorta di divertimento che incurvava le sue labbra sottili in un mezzo sorriso.
«È pericoloso» le disse, aggrottando la fronte.
«Vivere è pericoloso» ribatté lei, avvicinandosi di più. «Avanti». Assunse la sua migliore espressione da bambina, tentando di imitare la faccia del suo fratellino quando le chiedeva favori a cui, ne era certo, lei avrebbe risposto di no.
Doveva aver funzionato, perché Aaron fece una risata. «Può andare. Ma solo sei silenziosa».
«Lo sono sempre». Franziska gli fece l’occhiolino, lasciandosi andare ad una risata; era vera. Una risata reale, fatta per divertimento, non per finta per trarsi d’impiccio o per non fare figuracce. Silenziosamente, ringraziò Aaron, fautore di quel suono che aveva rotto il silenzio della strada deserta in mezzo alla quale stavano camminando.
 
 
*
 
Puntuali come mai erano stati in vita loro, Jimmy e Igor erano già all’Officina Abbandonata, immersi in un qualche discorso su certi compagni di scuola di cui Franziska non riuscì a captare i nomi. Doveva essere di sicuro qualcosa di divertente e imbarazzante – giudicò – dato il ghigno ironico e – in un certo senso – malefico che decorava il viso del suo gemello.
«Buon pomeriggio, vecchie pettegole» salutò i due, entrando nell’officina con ampie falcate. Aaron, accanto a lei, si limitò a fare un sorrisino, togliendosi il cappuccio punteggiato dai fiocchi di neve che avevano cominciato a ondeggiare verso terra pochi minuti prima.
«A te» la salutò di rimando il figlio del sindaco, i cui occhi azzurri brillavano ancora per il divertimento di poco prima.
Franziska lo guardò, sospettosa, facendo scivolare i suoi occhi ora su di lui, ora su suo fratello. Non aveva ancora formulato un giudizio ben preciso su Jimmy; una parte di lei lo riteneva un ragazzo di poco conto, che si divertiva con poco – tra cui battute sconce e prese in giro nei confronti degli altri – ma dall’altra qualcosa la spingeva ad accettare la sua amicizia, aiutata anche dalla fiducia che Aaron riponeva nei suoi confronti. Inoltre, Igor sembrava averlo preso in simpatia – anche se solo per dieci minuti – e questa cosa era anormale, per i suoi standard.
Fece un patto con se stessa, anche solo per quell’ora che avrebbero trascorso sotto lo stesso, rotto tetto: lo avrebbe sopportato, si sarebbe sforzata di capirlo e di farselo amico. In fondo, combattevano per la stessa causa.
«Avete finito la vostra punizione?» domandò Igor, ma nella sua voce non c’era malizia.
«Sì. Alla fine non era molto» rispose la sorella, facendo spallucce. «Ce la siamo cavata in fretta».
«Harries è in vena di sentimentalismi? O forse, ormai si è rassegnato a non dare più punizioni a gente del nostro calibro». Jimmy scosse la testa.
Franziska inarcò un sopracciglio. Aveva usato l’aggettivo “nostro”. Non “vostro”, ma quello che li faceva sentire un gruppo, una vera cooperativa.
Negli anni precedenti, si era immaginata i ricchi del Distretto 6 come gente snob e poco incline a stare con i rozzi popolani delle altre zone della fazione. Jimmy stava ribaltando tutto: non solo il suo migliore amico non navigava nell’oro, ma passava gran parte del suo tempo nelle periferie della Zona C, facendo amicizie con due reietti come lei e il suo gemello.
Si appuntò mentalmente che quello era un altro punto a favore del figlio maggiore del sindaco Raimond.
«Opterei per la seconda» rispose Aaron. «In ogni caso, io e Franziska abbiamo parlato delle persone a cui potremmo parlare per cominciare con le nostre ricerche».
«E io» s’intromise Jimmy, con aria trionfante, «ho pensato ai loro indirizzi e mi sono fatto dare questi!» concluse, estraendo dalla sua giacca un po’ sbrindellata un plico di fogli.
«Vedi che ogni tanto fai qualcosa di sensato?» scherzò Aaron, prendendo il loro tesoro di carta dalle mani dell’amico. «Grazie, Jimbo».
«Non c’è di che, Kid» replicò l’altro, tirandosi indietro fino a poggiare la schiena contro il muro mezzo scrostato addosso al quale era appoggiato il letto.
Aaron cominciò invece a dare un’occhiata ai fogli. «Bene. Fantastico» commentò. «Ora immagino di dovervi spiegare chi sono le persone a cui chiederemo informazioni». Spostò lo sguardo sui suoi tre interlocutori e – non ottenendo risposta – proseguì con il suo elenco. «Il primo è il padre di Jimmy, il sindaco».
«Il mio vecchio» borbottò il quattordicenne, alzando gli occhi azzurri al cielo. «Non so quanto ci sarà d’aiuto» aggiunse, accorgendosi dello sguardo carico di quesiti che Igor gli aveva appena lanciato.
«Cominciamo bene». Il biondo si grattò la nuca.
Franziska si mordicchiò il labbro. Se davvero Jimmy e il sindaco avevano un rapporto tanto pessimo, preferiva non immaginare come avrebbero fatto a togliere qualche parola di bocca a Chadwick Raimond.
Guardò Jimmy di sottecchi, aspettandosi qualche altra reazione che non arrivò; un senso di compatimento, intanto, cominciava a strisciarle nell’animo. Compatimento e comprensione erano le due emozioni che avrebbe utilizzato per descrivere il suo stato in quel momento, a dire il vero. Lo capiva. Avere un padre, ma al contempo sentirlo lontano anni luce era una delle sensazioni peggiori che si potessero provare.
«In ogni caso» continuò Aaron, «non è il solo caso spinoso che ci si presenta davanti. Dopo di lui vengono anche Clematis Elmer e Lewin Waller. Non so se li conosci».
Igor alzò lo sguardo verso di lui; aveva un’aria confusa. «Ma lei non si era mica…» non completò la frase, mimando il gesto della morte passandosi un dito sulla gola.
Sembrava fuori luogo, ma Aaron sorrise; Franziska non capì il perché di quella strana reazione finché il ragazzo non si voltò verso di lei.
«Si vede che siete gemelli» disse, tornando a rivolgere la sua attenzione ad Igor. «Anche tua sorella era convinta che fosse lei. No, Clematis Elmer è solo impazzita».
«Ho capito». Igor si sistemò il cappellino da baseball sulla testa.
Jimmy scosse la testa, staccando la schiena dal muro di qualche centimetro. «Bella personcina, eh?»
«Dicono…» sfuggì dalle labbra di Franziska, «dicono che quando è tornata al Distretto 6 la bara del figlio ci fossero solo le ossa» concluse, circondandosi la vita con le braccia. L’idea di ritrovare il corpo di un figlio in quelle condizioni le provocò un brivido lungo la schiena. Non aveva avuto tutti i torti ad impazzire, quella Clematis.
«E nemmeno tutte» puntualizzò Jimmy.
«Tornando a noi» intervenne Aaron, «Lewin Waller credo lo conosciate tutti».
«Oh, sì. Altra splendida personcina» commentò Igor, sarcastico. «Però non mi sembra un cattivo ragazzo, a parte il fatto che potrebbe offrirci della morfamina».
Sua sorella gli lanciò un’occhiata ammonitrice. «Non fasciamoci la testa prima del tempo» consigliò.
«Esatto». Aaron la guardò. «Lewin non è mai stato uno sbandato o altro. Anzi, era molto gentile e Jimmy può confermare, l’ha conosciuto anche lui».
«Mi aveva fatto un aeroplanino di carta» disse il figlio del sindaco; aveva la fronte aggrottata in un atteggiamento dubbioso, come se stesse cercando di convincersi e la storia dell’aeroplanino potesse essere un ottimo stimolo. «E suo papà non era malaccio, anche se rideva troppo forte e aveva la voce troppo alta».
«Peccato che non ci possa aiutare» sospirò Aaron.
«Crepato anche lui?» Fu Igor a parlare questa volta e il maggiore dei fratelli Kidman annuì, con aria mesta.
Franziska si conficcò le unghie nei palmi delle mani. Non riusciva a concepire come tutte quelle persone che stavano cercando di rendere Panem un posto migliore fossero tutte morte, o impazzite, o peggio. Forse era perché Panem non sarebbe mai stata una buona nazione. Forse era destino che, ogni anno, tutti gli adolescenti andassero alla mietitura, due fossero scelti e avessero combattuto. Forse era giusto che intere famiglie morissero di fame, che gli uomini e le donne si spaccassero la schiena per un tozzo di pane.
No.
Non poteva essere giusto, non doveva. Ora toccava a lei, a Aaron, a Jimmy, a Igor sistemare le cose. Dovevano farlo per i loro fratellini. Per i genitori di Aaron, che erano morti per salvare il luogo in cui vivevano. Per Grace.
All’improvviso, la quattordicenne si ricordò di un dettaglio molto importante: Igor non sapeva ancora nulla del passato da ribelle della loro madre.
Franziska si mordicchiò un labbro; poi glielo avrebbe detto. Non c’era bisogno di preoccuparsi, in quel momento.
«Sì, è morto» rispose Aaron. «E poi c’è l’ultimo. Dean Fletcher».
«Il vecchio Dean!» esclamò Jimmy. «È un sacco che non lo vedo. Ti ricordi quando giocavamo con lui da piccoli?»
«Certo». Aaron ghignò. «Mi ricordo benissimo di quanto avevamo giocato a nascondino con lui. Tu avevi sempre paura».
Il suo migliore amico gli lanciò il cuscino cencioso del letto. «Ah-ah. Spiritoso. Ti ricordo che uno di voi due Kidman si era pisciato nei pantaloni, una volta che lui ci aveva fatto uno scherzo». Jimmy ridacchiò. «E non era Brenton. Lui è troppo maschio per certe—». La sua frase fu interrotta dal cuscino di poco prima, che gli atterrò sulla bocca.
«È mio fratello; ha preso da me». Aaron ridacchiò.
Franziska rimase in silenzio, osservando quel duello verbale tra i due migliori amici. Pian piano, le sue labbra si incurvarono in un sorriso.
Era diverso, Aaron, quando stava insieme ad una persona che conosceva così bene; sembravano quasi due fratelli, dal modo in cui si comportavano. Le interessava scoprire qualcosa in più sulla vita di quel misterioso ragazzo che era piombato nella sua da poco tempo; più lui e Jimmy parlavano, più Franziska si rendeva conto che le informazioni su di lui in suo possesso erano misere.
Scosse la testa; non capiva nemmeno perché le importasse così tanto di conoscere più a fondo Aaron.
«Non può aver preso da te» Jimmy indicò l’amico con un dito, «è tuo fratello!»
«D’accordo, va bene». Aaron mimò il segno di resa con le mani. «Torniamo alla questione principale, che ne dite?» Si voltò verso la ragazza. I suoi occhi marroni contenevano la muta implorazione che lei dicesse sì.
«In effetti Aaron ha ragione» assentì Franziska, trattenendo a stento una risata.
«Dicevo che Dean potrebbe aiutarci molto più degli altri» si rivolse Aaron a Igor. «Era il migliore amico di mia madre, ma non lo sento più da tantissimo tempo. So che si è trasferito nella Zona F, da quel che dice questo documento» spiegò, dando una scorsa ai fogli che teneva in mano; sfogliandoli, però, e agitando le mani nella foga di parlare, essi caddero a terra.
Non appena l’ultimo lembo di carta toccò il pavimento, Franziska accorse per raccogliere tutti i documenti. Aaron si abbassò nello stesso momento, sbuffando, mentre Jimmy aggiungeva qualcosa sul conto di Dean Fletcher, anche se di poca importanza.
La quattordicenne prese alcuni fogli, spostandoli l’uno sopra l’altro e, nel farlo, le sue dita incontrarono quelle di Aaron. Fu un solo istante, ma lei sentì una scarica elettrica attraversarle i nervi del braccio fino al cervello. Alzò la testa di scatto; i suoi occhi incontrarono quelli di Aaron.
Si sorrisero. Fu un gesto veloce, timido, con le guance rosse da parte di entrambi.
«Tieni». Franziska porse al suo amico i fogli, cercando di tenere ferma la voce. Il giovane la ringraziò con un cenno del capo.
Cosa le era successo?
La giovane si trattenne dalla voglia di prendersi la testa tra le mani. Non capiva cosa potesse averle fatto sentire quella scossa lungo il braccio; forse il fatto che lui fosse l’unico ragazzo a cui si fosse avvicinata così tanto – Igor escluso – la rendeva nervosa.
Fu uno stralcio della conversazione tra i maschi, che la fece rinsavire.
«… in realtà, ci sarebbe un’altra persona» stava dicendo Aaron, e i suoi occhi dardeggiarono in direzione di Franziska; nelle iridi marroni si leggeva una certa urgenza.
La quattordicenne deglutì, grattandosi una guancia.
Si era dimenticata di quel piccolo particolare: sua madre era stata una ribelle. A dire il vero, era da quando Aaron l’aveva resa edotta di ciò che Franziska continuava a pensarci; associare la parola “ribelle” a “mamma” non le sembrava giusto; era sbagliato in un certo senso. Com’era possibile che sua madre fosse una ribelle, quando lei, invece, non ne sapeva nulla? Erano rari i momenti in cui Grace usciva di casa da sola – momenti in cui lasciava i gemelli da Carine – e, si disse Franziska, forse era allora che lei pianificava schemi per far crollare il regime instaurato dal predecessore del presidente Snow.
«Chi è?» domandò Igor; aveva le sopracciglia aggrottate e il cappellino, che faceva ombra sul viso, lo rendeva più truce di quanto già non fosse.
«Igor…» sussurrò Franziska, ma la sua voce era rotta. Tossicchiò. «Ti ricordi di quando mi dicesti che avevi sentito nominare i genitori di Aaron, così per caso, dalla mamma?» Attese che suo fratello annuisse, prima di continuare. Cercò di parlare piano, per far filtrare un’informazione per volta e per farlo abituare a tutta quella portata di novità. «Avevi ragione. Erano loro. Mamma li conosceva e collaborava con loro». Posò una mano sulla nuca di Igor, laddove i capelli lasciavano spazio solo alla pelle pallida. Era un gesto che Grace faceva spesso, quando erano piccoli. L’associazione tra lei e quel movimento le venne spontanea, visto che Igor aveva sbarrato gli occhi e si era irrigidito.
«Era una ribelle» mormorò il quattordicenne, in un soffio. «Stai dicendo questo?»
Franziska prese a muovere piano le dita sulla nuca del suo gemello. «Sì. Mamma era una ribelle».
Si accorse solo in quel momento che un peso le gravava sulle spalle.
Voltando il capo a sinistra, notò che Aaron le aveva cinte con un braccio; sorrideva, come si fa con una persona che non sta bene per consolarla.
Jimmy, invece, era di fronte a lei e aveva una mano sulla spalla di Igor. «Credo…» cominciò, ma si fermò come a voler soppesare bene quelle parole, «credo che adesso abbiate un motivo in più per indagare su questa cosa» concluse. «E fare giustizia».
 
 
*
 
L’ennesimo foglio appallottolato dopo averci disegnato sopra appena due righe finì nel cestino accanto alla scrivania. Ormai, Aaron aveva compiuto quel gesto tante volte che stava diventando sempre più preciso; di quel passo, lo avrebbero di sicuro preso in una delle tante squadre di basket della scuola: gruppetti di cinque o sei ragazzi che facevano delle partite di tanto in tanto.
Il ragazzo sospirò, passandosi una mano tra i capelli castani. Forse – si disse – sarebbe stato bene vestito come i ragazzi che giocavano a pallacanestro, con le loro canottiere extra large e i pantaloni lunghi fino al ginocchio. Di certo, non avrebbe dovuto affrontare il problema che lo stava assillando in quel momento.
Disegnare un volto non gli era mai parso tanto complicato come quella sera. Ritrarre lo divertiva: amava portare una persona dalla realtà alla carta; era, soprattutto, un bel modo per confrontarsi con se stesso: fare in modo che una persona somigliasse alla vera lei era più che difficile e richiedeva una certa abilità.
Ma – per qualche motivo a lui sconosciuto – non riusciva proprio a fare un ritratto di Franziska.
Ogni volta che la matita percorreva quel campo bianco e Aaron cominciava a tratteggiare di un grigio leggero i lineamenti della sua amica, doveva fermarsi. Gli sembrava tutto troppo brutto, troppo irreale: i capelli non erano abbastanza lisci, gli occhi non abbastanza grandi, l’espressione troppo truce.
Demoralizzato, prese un altro foglio dal plico che aveva dinnanzi; nei minuti precedenti erano diminuiti fin troppo.
L’ultimo, si ripromise, ma era la stessa cosa che aveva ripetuto anche la volta prima e quella prima ancora. Le opzioni di quel passo erano due: o finiva i fogli – e zia Katy avrebbe dovuto spendere soldi in più per comprarne altri – oppure arrivava mezzanotte e lui doveva correre a letto, onde evitare di addormentarsi il giorno dopo nell’ora di Faccia di Rana.
Posto il foglio davanti a lui, afferrò la matita e – deciso che quella sarebbe stata l’ultima e buona volta – cominciò a tratteggiare una leggerissima linea grigia; la mano sinistra – che teneva al foglio – era già vicina alla gomma, in caso di necessità.
Non appena cominciò la sua opera, fu distratto tuttavia da una presenza appoggiata allo stipite della porta.
Aaron alzò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono le iridi azzurre di Keegan. Suo cugino lo osservava con un sorrisetto divertito; il viso era fresco di barba appena rasata e i capelli gli ricadevano in ciocche umidicce sulla fronte.
«Keeg» lo salutò Aaron con un cenno del capo. «Finalmente ti sei fatto la barba» commentò, aggrottando le sopracciglia; erano giorni che Katy torchiava il figlio maggiore per tagliarsi la barba e il mezzano per rasarsi i capelli.
Il ventenne fece una risatina e cambiò posizione. «Già. Anche Blossom continuava a dirmi che le davo fastidio quando la baciavo. Sembra che alle donne non piacciano gli uomini barbuti».
Aaron fece un sorriso di circostanza; non se ne intendeva di certe cose. Oltre al fatto che la barba non gli era ancora cresciuta – e a sentire lo zio non l’avrebbe mai avuta, visto che pure suo padre aveva visto i primi accenni intorno ai ventitré anni ed erano quattro peli – non capiva neppure una singola cosa riguardante le donne. Il disegno che tentava di realizzare da un’ora ne era una prova evidente.
«Che cosa disegni?» domandò Keegan, avvicinandosi alla scrivania.
Aaron scosse la testa e fece spallucce. «Nulla» rispose, appoggiando la matita sul foglio. «Faccio un ritratto».
«Di chi?» Gli occhi di Keegan dardeggiarono in direzione del foglio, ma li alzò subito verso il cugino quando notò che aveva lasciato appena una riga.
«Di nessuno» balbettò il minore; non gli andava molto di spiegare a Keegan né per chi fosse il ritratto e nemmeno chi fosse Franziska. Jarod lo prendeva già abbastanza in giro da quando aveva scoperto del suo exploit con il murales, chiamandolo “cavaliere” o appellandosi a lui con altri epiteti che sembravano rubati ad un romanzo rosa o a una fiaba per bambine.
«Come fai a fare il ritratto di nessuno?» Keegan aggrottò la fronte, ma la pelle si distese subito e il ragazzo assunse un’espressione furbetta. «È per una ragazza, vero?»
«N-n… sì» ammise il quattordicenne, con uno sbuffo.
«Quella con cui hai pulito la scuola l’altra domenica?»
Aaron annuì. «Lei» confermò. «Ma tanto non riesco a farlo, quindi amen». Si appoggiò allo schienale della sedia e intrecciò le dita dietro la nuca.
«Ma dai, tu sei bravo con i ritratti. Magari sei solo stanco» lo consolò Keegan, dandogli una pacca sulla spalla. «E magari sei in ansia».
«Non sono in ansia». Aaron si accorse di aver detto quella frase in maniera troppo brusca. «Non… non lo so, magari sì, è solo stanchezza».
«Nah. Ti dico io cos’hai, principe innamorato: hai solo paura che alla tua donzella non piaccia questo regalo perché è di gusti difficili, o forse la conosci troppo poco».
Aaron arrossì. Non gli piacque affatto quell’espressione – principe innamorato – come a voler significare che tra lui e Franziska c’era qualcosa. Lei era speciale – quello doveva ammetterlo – e gli capitava di sentire i brividi quando erano troppo vicini, ma definirsi “innamorato” gli sembrava troppo avventato. La sua idea di amore era complessa; per intanto, Franziska era solo una ragazza che non gli era indifferente, e una buona amica.
«Non…» si schiarì la voce, «non sono innamorato. In ogni caso, credo che il problema sia che sono troppo in ansia». Parlò troppo veloce, balbettando almeno cinque volte a parola, e Keegan esplose in una lunga risata.
«Tranquillo, guarda che essere innamorati o provare qualcosa di diverso dall’amicizia per una persona non è nulla di vergognoso» lo rassicurò, scompigliandogli i capelli.
«Parli bene tu… hai una marea di ragazze che ti vengono dietro e sei fidanzato da decenni».
«Tu di donne non ci capisci un cazzo e questo lo sanno anche i muri, ma vedrai che ce la farai. Per intanto, fai questo disegno e dallo alla ragazza. Come mai questo improvviso slancio artistico?»
Aaron si grattò una tempia. «Tra un po’ è il suo compleanno. Volevo farle un regalo».
«Siete nati vicini, quindi». Keegan sorrise. «Almeno quando starete insieme potrete festeggiare una volta per tutti e due».
«Non sono innamorato di lei» ribatté il quattordicenne, seccato.
«Però le fai un disegno». Keegan gli tirò una guancia. «Adesso vado a dormire. Se hai bisogno di consigli per questa fanciulla… beh, ti consiglio di non chiedere a Jarod. Chiedi a me, al massimo. O a Blossom. Le stai simpatico. Buona notte, Aaron».
«’Notte» mormorò il minore, riprendendo in mano la matita. Poi, la rimise sul piano del tavolo e si alzò. Domani sarebbe stato un altro giorno: non c’era motivo di crucciarsi quella sera. Doveva concentrarsi sull’imminente incontro con il padre di Jimmy e prepararsi delle domande da porgli.
Prima di addormentarsi, però, quando già le palpebre erano calate come un sipario sul mondo che lo attorniava, Aaron rivide Franziska, e il suo sorriso, mentre una morsa di piacevole dolore gli stringeva lo stomaco.
 
 
 
*
 
 
La prima cosa che colpì Franziska quando giunse dinnanzi alla villa del sindaco fu il giardino.
Passeggiando nelle pulite vie della Prima Classe, dopo essere uscita dalla stazione, aveva notato che i giardini delle opulente case erano tutti curati; i fiori di stagione non erano ancora morti, l’erba era corta, ma non troppo, quel tanto che basta per far sentire un pizzicorino alle piante dei piedi se vi si cammina sopra a piedi nudi.
Il giardino della casa di Jimmy, invece, aveva solo l’erba curata, ma nient’altro. Gli unici fiori erano in un vaso accanto alla porta d’ingresso in legno massiccio; esclusa un’altalena di plastica, era tutto vuoto e triste.
La ragazza aggrottò la fronte. Si sarebbe aspettata qualcosa di meglio, dal giardino del primo cittadino del Distretto 6. Forse non un tripudio di odori e colori, ma perlomeno qualcosa di più accurato, di più consono alla sua situazione di ricco abitante.
Girando la testa verso destra, gli occhi della ragazza si alzarono fino a incontrare, in lontananza, un arco di ferro, al culmine di una salita circondata da alberi privi di foglie.
Nonostante non fosse vicina, sapeva benissimo cosa recava scritto quell’arco: Villaggio dei Vincitori. Il luogo dove i sopravvissuti andavano ad abitare dopo gli Hunger Games, dopo aver visto la morte soffiare il suo fetido alito sui loro volti.
Le era capitato una sola volta di visitare quel luogo avvolto da un’aura magica e al contempo terrificante, in occasione di una gita scolastica al termine di diverse lezioni sugli Hunger Games. L’atmosfera lì era paragonabile a quella della casa di Jimmy: i giardini erano curati, ma non allegri; le case eleganti, ma trasmettevano un certo senso di angoscia; considerato che solo tre delle dodici costruite erano abitate, la cosa era ancora più spettrale.
Franziska non sapeva spiegarsi da dove provenisse quella sensazione, ma sembrava quasi che la casa le parlasse. Il tempo nuvoloso, che minacciava un temporale, di certo non aiutava a migliorare quella prima impressione.
Deglutendo, seguì Aaron che si avviava verso la porta d’ingresso. Dietro di lei veniva Igor; i due avevano passato gran parte del loro breve viaggio in treno verso quella zona a chiacchierare, ma non appena avevano intravisto l’abitazione del sindaco, il maggiore dei fratelli Kidman era diventato nervoso, come se solo stare lì lo turbasse.
«Stai bene?» sussurrò Franziska; se Aaron – che era il migliore amico di Jimmy – si sentiva così all’idea di andare a casa sua, non era una cosa incoraggiante.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata distratta. «Sì. Tutto bene, non preoccuparti» rispose, con un’alzata di spalle.
Franziska si rabbuiò, ma decise di farsi forza. Sapeva che il sindaco e il suo primogenito non avevano un rapporto tutto rose e fiori, ma una parte di lei – disperata – si aggrappava alla flebile speranza che Chadwick potesse aiutarli, che lui e suo figlio non si mettessero a discutere proprio sul più bello.
Giunti davanti alla porta, Aaron suonò il campanello. Franziska si prese qualche secondo per osservare quello strano congegno: ne aveva sentito parlare, ovvio, ma non ne aveva mai visti in giro per il Distretto 6. Dalle sue parti si usava ancora il buon, vecchio metodo di bussare alla porta, prima di entrare.
«Chi è?» domandò una voce dall’interno; non era quella di Jimmy, ma un timbro acuto e infantile.
«È Aaron» si aggiunse una seconda voce, che Franziska riconobbe come quella del maggiore dei due. «Lascia, faccio io».
Dopo qualche secondo, il legno lasciò posto al solito sorriso di Jimmy, quel giorno più cupo e tirato. «Ciao, Kid» salutò il suo migliore amico. «Franziska, Igor» aggiunse poi, con un cenno del capo in direzione dei gemelli.
«Ciao» risposero i tre, in coro, mentre il quattordicenne si faceva da parte per farli entrare in casa.
L’odore dell’ingresso non smentiva la cattiva impressione data dal giardino: pur essendo tutto in ordine e perfetto, Franziska non sentì nulla. Era abituata – quando si recava in case altrui – ad associarvi un particolare aroma. Nell’abitazione di Carine, per esempio, aleggiava sempre un delicato profumo di vaniglia; a casa della nonna, Franziska era stata colpita dall’odore di pane appena sfornato. Lì, invece, non si sentiva nulla; era un ambiente di sterile e poco caloroso.
Dopo aver appeso le giacche su un appendiabiti vicino alla porta, i quattro si diressero verso le scale che conducevano al piano di sopra. Jasper non aveva smesso un attimo di guardarli e seguirli con un sorriso contento e nel medesimo istante molto furbo – lo stesso sorriso di suo fratello maggiore, in poche parole.
Franziska gli riservò una carezza sui capelli, mentre si dirigeva dietro i tre ragazzi.
«Noi andiamo di sopra, Jas» gli annunciò Jimmy, con un piede già sul primo gradino e le dita attorno al corrimano. «Tu resta qui, d’accordo?»
Sul volto del piccolo comparve l’ombra di un broncio deluso, ma annuì comunque con energia e corse in salotto, dove proveniva il basso chiacchiericcio della televisione.
«E non guardare quella roba!» lo ammonì suo fratello, ormai quasi a metà scala. Da sotto provenne un «sì» accompagnato da uno sbuffo, dopodiché il parlare si bloccò.
«Devo stare attento che non guardi qualche scena tratta dagli Hunger Games» disse il figlio del sindaco, facendo spallucce. «Non mi va che Jasper sia esposto a certa roba, o ai programmi di Capitol City in generale».
Mentre Igor e Aaron approvavano le parole del ragazzo, Franziska si guardò intorno. Sui muri bianchi e dalla tintura perfetta, erano appese delle cornici; racchiudevano foto più o meno grandi, tutte però che raffiguravano gli stessi soggetti. In molte di esse, la ragazza riconobbe Jimmy da bambino: i suoi occhi azzurri e il sorriso erano gli stessi, vivaci, del lui quattordicenne. Spesso, compariva tra le figure una donna molto bella, dai lunghi capelli castani e le iridi blu. Assomigliava molto sia a Jimmy che a Jasper; Franziska ipotizzò che fosse la madre. Le fotografie in cui lei compariva erano vecchie, perlopiù. Le ultime, in cima alla tromba delle scale, la ritraevano in compagnia di un Jasper neonato. Poi basta, nient’altro.
In effetti – si disse – lei non sapeva molto sulla madre di Jimmy. Il ragazzo non ne aveva mai parlato e nemmeno Aaron l’aveva mai citata. Con ogni probabilità, era morta anche lei, oppure aveva deciso di lasciare il marito.
Scrollando le spalle – si ricordò che quelli non dovevano essere affari suoi, ma aveva un obiettivo più importante – Franziska affrontò l’ultimo gradino e il corridoio che la separava dallo studio di Chadwick.
Era tutto immerso in un silenzio religioso; la flebile luce che penetrava da alcune finestre che davano su un grande prato dietro la casa non faceva che accentuare le somiglianze con un santuario.
Gli unici rumori distinti erano i loro passi sul pavimento lindo, dalle decorazioni a rombo.
«Lo studio è in fondo al corridoio» annunciò Jimmy, indicando il punto appena citato con un dito.
Era pieno di stanze, quel piano. Oltre alle camere da letto, cos’altro poteva esserci? Franziska poteva solo immaginare la sua vita in una villa del genere: le stanze vuote avrebbe potuto usarle per altri scopi. Innanzitutto, una bella stanza di lettura sarebbe stato il massimo; in fondo al corridoio avrebbe poi preparato un’altra camera come luogo in cui suonare la chitarra, lontana da dove gli altri dormivano, per non disturbarli. Si sarebbe anche presa il lusso di comprare un pianoforte: gli piaceva, quello strumento, ma costava troppo ed era troppo pesante.
«Ci sei?» Suo fratello le punzecchiò il fianco con un dito, riportandola alla realtà. Voltando la testa, Franziska incontrò gli occhi di Igor e le sue sopracciglia inarcate. «Sorridevi come un’ebete» la informò il quattordicenne.
La ragazza scosse la testa. «Mi ero distratta. Giuro che ora torno a pensare a cosa dobbiamo dire al sindaco» bisbigliò, proprio un istante prima che Jimmy annunciasse il loro arrivo.
«Eccoci» disse infatti; poi, dopo una breve pausa in cui il suo pomo d’Adamo rese tutti edotti del suo nervosismo, il giovane bussò alla porta.
«Avanti» ordinò, con tono fermo, una voce maschile. Era simile a quella di Jimmy, pensò Franziska, ma troppo seria.
Il figlio del sindaco aprì la porta e si introdusse per primo nello studio.
«Cosa c’è, Ji—» cominciò a dire con aria seccata il primo cittadino, ma le parole restarono impigliate tra la gola e le labbra non appena notò il seguito di suo figlio. Si alzò in piedi, attendendo che tutti entrassero.
Lo studio era ampio e in penombra; nonostante i due pesanti tendaggi che coprivano la finestra fossero stati sollevati, non filtrava molta luce, complici le nuvole che oscuravano il sole. Tutto era in ordine, non una singola cosa fuori posto: i volumi sulle mensole delle librerie erano in ordine di altezza; altri grandi quaderni, invece, in ordine cronologico, come informavano le date scritte sul fianco. Il pavimento, invece, era soffice; abbassando lo sguardo, Franziska si accorse che era coperto da un pesante tappeto floreale, le cui tinte un tempo erano state vivaci, ma ormai erano solo vittime del tempo.
Tutto emanava un’aria antica e austera, lì dentro, e rappresentava bene l’uomo aldilà della scrivania di legno scuro.
Chadwick Raimond non assomigliava ai suoi figli; gli occhi non erano vivaci, né azzurri, ma di un duro grigio, quello che in cielo anticipa la tempesta. L’espressione, poi, era quella di un generale: dura e severa, da condottiero indomito… o da padre troppo chiuso e assente.
«Buongiorno». Aaron fu il primo a salutarlo, togliendosi il cappellino da vista girato al contrario. Igor, al contrario suo, se lo calcò ancora di più sugli occhi. «Spero che la nostra visita non la stia disturbando».
«No, Aaron». Il sorriso tirato di Chadwick era prova della sua scarsa abilità nel mentire. «Sono lieto di vederti. È da tanto che non ci fai visita».
«Ho cominciato a lavorare» tagliò corto il ragazzo. «Oggi però avevo un momento di tempo libero e ho voluto venire qui insieme a suo figlio e ad alcuni amici».
Dopo tutto quel tempo, il sindaco alzò lo sguardo verso i gemelli; le sue iridi grigie scandagliarono ogni singolo dettaglio dei loro corpi. «Mi stavo giusto domandando la loro identità» replicò.
Franziska sentì che era arrivato il momento di farsi avanti e parlare con lui. «Ci scusi il disturbo, signor sindaco» esordì, cercando di apparire quanto più educata possibile. Misurò a fondo ogni parola, temendo di risultare sgarbata o tirare fuori la vera Franziska – in tal caso, avrebbe combinato un disastro. «Io sono Franziska Madison, lieta di conoscerla» si presentò allora, porgendo la mano all’uomo.
Chadwick apparve sorpreso. «Madison?» domandò, accomiatandosi dalla ragazza con una veloce stretta di mano. «Sei figlia di—»
«Grace» completò la giovane, senza alcuna esitazione. Erano lì per parlare di lui, di sua madre e dei loro atti da ribelli: tanto valeva andar quasi subito al sodo.
«L’ho conosciuta, sì». L’uomo annuì. «E il giovane qui accanto è…?»
«Igor». Il quattordicenne si fece avanti, ma non strinse la mano al sindaco. «Madison» completò dopo qualche secondo.
«Oh» fu la sola reazione di Chadwick. «Sì, ricordo che Grace aveva due figli gemelli. Siete voi, dico bene? Dovreste avere pressappoco l’età di mio figlio».
«Sì, ma non siamo in classe insieme» rispose Franziska. I suoi occhi dardeggiarono in direzione di Aaron, alla sua destra; era un muto incitamento per farlo cominciare a parlare. Il giovane sembrò capire, e difatti annuì, prima di tornare a concentrare la sua attenzione sul sindaco, che aveva continuato a discorrere.
«Capisco» aveva commentato con voce incolore. «Se siete come vostra madre, sono sicuro che Jimmy abbia degli ottimi amici, come il qui presente Aaron».
«La ringrazio» replicò l’adolescente, per poi schiarirsi la voce. «In ogni caso, siamo venuti qui tutti insieme per parlarle di una questione importante».
Chadwick rimase fermo per pochi secondi, la mascella contratta. «In effetti, mi domandavo cosa facessero quattro ragazzini nel mio ufficio, la domenica pomeriggio» disse poi, sistemandosi con entrambe le mani appoggiate al piano del tavolo. «È successo qualcosa che urge la mia attenzione?» I suoi occhi, in modo impercettibile, corsero a cercare quelli del figlio.
«Dobbiamo solo parlarti di una cosa» spiegò Jimmy, spostando il peso dalla gamba destra alla sinistra; le sue braccia erano incrociate al petto. «E mi auguro che tu voglia rispondere» aggiunse con tono più acido.
La mascella del sindaco si contrasse ancora di più, e le parole seguenti trasudavano del suo sforzo di mantenere la voce ferma. «Certo» assentì con un mezzo sorriso. «Chiedetemi tutto quello che volete. E sedetevi, non state lì in piedi» li invitò, indicando due poltroncine proprio davanti alla scrivania. «Purtroppo sono solo per due».
«Aaron, vai tu» mormorò Jimmy all’amico. «L’altra invece prendila tu, Franziska. Prima le donne».
La quattordicenne aggrottò la fronte, rivolgendo uno sguardo seccato al figlio del sindaco. Le sarebbe piaciuto ribattere che, anche se femmina, avrebbe potuto stare in piedi esattamente come un maschio, ma non era il momento di farsi prendere dal suo lato femminista. Solo, non le piaceva essere trattata come l’anello debole del gruppo, anche se – controvoglia – doveva ammettere che quella galanteria le faceva un po’ piacere.
Si accomodò sulla poltroncina più a sinistra, affondando subito con il sedere. Era di una morbidezza quasi estrema, persino fastidiosa.
Igor si posizionò accanto a lei, a sinistra. Jimmy, invece, andò alla destra di Aaron. Con la coda dell’occhio, Franziska li osservò lanciarsi un breve sguardo.
Il sindaco si accomodò a sua volta e li squadrò uno ad uno, incrociando le braccia al petto. «Ditemi tutto» ordinò.
Aaron si mosse sulla sedia, le mani strette attorno ai bordi; le nocche gli erano sbiancate. «È una questione abbastanza delicata e riguarda il passato» cominciò. «Il suo passato».
Chadwick parve farsi più attento. «Il mio?»
«Il suo e quello dei miei genitori». Il ragazzo annuì. «Devo farle alcune domande e vorrei avere una risposta da molto tempo. Mi sono deciso solo adesso a farmi avanti, però. Lei era il migliore amico di mio padre».
Il sindaco strinse una mano a pugno. «Lo ero» confermò; la sua voce era più gelida della neve.
«Devo chiederle» Aaron fece una pausa e prese fiato, «cosa combinavate in quelle serate durante le quali vi incontravate tutti insieme, a casa nostra».
Gli occhi chiari del sindaco si spalancarono di sorpresa e – forse – paura. Poi, la sua faccia divenne dura, quasi arrabbiata. «Non mi sembra il caso di porre domande del genere».
«Sì che è il caso» ringhiò Jimmy.
«Jim». Aaron ammonì il suo migliore amico alzando la mano e scoccandogli un’occhiata penetrante. «Le chiedo solo una risposta» proseguì, rivolgendo ancora la sua attenzione al sindaco. «Una semplice risposta. Può far tanto».
Chadwick scosse la testa. «Ci sono domande a cui non si può rispondere, Aaron» replicò con calma. «Questa è una di esse».
«Non mi sembra che le costi tanto» si intromise Franziska, non riuscendo più a star zitta. Non si era aspettava una grande collaborazione, ma neanche tutto quel gelo. «È per il bene di Aaron» aggiunse con voce più calma, rendendosi conto di essere stata troppo sgarbata.
«Esatto. Vorrei solo sapere qualcosa in più sui miei genitori. Null’altro». Aaron non aveva smesso un istante di guardare il sindaco negli occhi e l’uomo – vinto – li abbassò sul pavimento.
Sospirò. «Aaron» esordì dopo un istante, con calma, «per il tuo bene e quello dei tuoi amici è meglio che non lo sai. I tuoi genitori non ci sono più e con loro sono state seppellite anche queste cose. Non rivanghiamole, ti faresti solo del male».
«E Aaron, allora?» Il volto di Jimmy era rosso dallo sforzo di trattenersi. «Lui non è forse loro figlio? Eppure non mi sembra che sia stato seppellito con loro. Ha tutto il diritto di sapere cosa è accaduto davvero ai suoi genitori!»
«Jimmy». La voce del sindaco era carica di astio e ira. «Non urlarmi contro».
«Il punto è» si intromise Aaron, «che io devo saperlo. Non per fare qualcosa, ma perché loro erano – e sono ancora – i miei genitori».
Chadwick scosse la testa. Franziska udì Igor emettere un verso arrabbiato, dietro di lei.
«Aaron, io non posso. Non voglio, a dire il vero» continuò l’uomo.
«E perché?» domandò Igor.
Il sindaco alzò gli occhi verso di lui. «Perché era una cosa troppo delicata. E voi siete troppo giovani».
«Ma lui è loro figlio!» rimarcò Jimmy.
«Smettila!» Chadwick sbatté la mano contro la scrivania. Sia Aaron che Franziska balzarono in piedi, spaventati. «Non ti permetterò di parlarmi ancora in quel modo!»
«Io mi chiedo cos’hai che non va! Non ti costa tanto dirgli cosa combinavate. Jonathan era il tuo migliore amico!»
«Jimmy, lascia stare». Aaron posò una mano sul braccio dell’amico. «Chiederemo ad altri».
«Non imitare ciò che facevano i tuoi genitori» si rivolse il sindaco ad Aaron. «Era una cosa da incoscienti. Non da coraggiosi; me ne sono reso conto solo quando sono morti. E fare l’eroe, cercando di imitarli, non è da intrepidi».
«Ha ragione». Un sorriso amaro si aprì sul volto di Aaron. «Infatti essere coraggiosi è ben altro. Essere coraggiosi significa andar contro tutto e tutti. Significa provarci anche se sai che potresti fallire. Vuol dire che sei più forte delle tue paure, che sei pronto ad osare pur di portare del bene. Cosa che facevano i miei genitori» il suo tono di voce si era abbassato di parola in parola. «Andiamo, ragazzi» ordinò infine, dirigendosi a grandi passi verso la porta.
Chadwick rimase dietro la scrivania, fermo, la testa bassa e la mani sul piano ligneo.
Uno dietro l’altro, in fila indiana, i ragazzi uscirono; Jimmy fu l’ultimo, e salutò suo padre sbattendo la porta tanto forte che Franziska temette per i muri già non molto spessi. Dopodiché, il figlio del sindaco prese a camminare velocemente verso le scale che conducevano al piano di sotto.
«Andiamocene subito» sibilò, passando accanto ai suoi amici.
I tre si limitarono a seguirlo. Igor era quello che pareva più arrabbiato, dopo di lui, ma non dava segni di voler esplodere da un momento all’altro. Aaron, al contrario, sembrava solo deluso.
Mentre gli altri due ragazzi passavano avanti, l’unica femmina del gruppo ne approfittò per parlare con lui e lo tirò per un lembo della felpa grigia.
Richiamato da quel piccolo gesto, Aaron si voltò verso di lei, con aria interrogativa.
«Ehi» esordì la quattordicenne, affiancandosi a lui. «Mi spiace per com’è andata». Gli diede un colpetto con il gomito.
Il suo amico scosse la testa, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni troppo larghi. «In parte me lo aspettavo».
«Però continuavi a sperarci». Franziska sospirò. «So come ci si sente».
«Sto bene, davvero». Aaron le rivolse un sorrisino. «Giuro».
«Sicuro?» La ragazza aggrottò la fronte. «Non mi fido molto».
«Franziska» Aaron la fermò, prendendola per un braccio e avvicinò il suo volto a quello della sua interlocutrice, «ti giuro che sto bene. Spero solo che la prossima volta andrà meglio». Il suo respiro caldo carezzò il volto di Franziska, che arrossì visibilmente.
Si scostò, forse in un gesto troppo brusco; quella vicinanza le metteva agitazione. «Andrà meglio, ne sono sicura» disse in tono incoraggiante, ma nemmeno lei ne era troppo sicura. Se era vero che gli altri membri del gruppo erano messi male, non sarebbe mai andata meglio.
«Grazie» mormorò Aaron, avvicinandosi ancora a lei; nel medesimo istante una voce alta ruppe il silenzio intorno a loro.
«Jasper! Mettiti la giacca, usciamo!»
«Meglio andare» sospirò Aaron. «Jimmy è parecchio incazzato e vorrà sicuramente uscire a fare un giro; tornerà in casa per le nove e di nuovo litigherà con suo padre» la informò.
«È la routine tipica di questa casa?» domandò Franziska, mentre riprendevano a camminare verso le scale.
Il suo amico si grattò una guancia. «Sì. Jimmy ha un rapporto terribile con il padre, come avrai notato, mentre suo fratello non è così litigioso» raccontò.
«Beh, se proprio il clima qui è così, dirò a Jimmy di far venire Jasper a casa mia per giocare con Deryck, ogni tanto, per farlo distrarre un po’» buttò lì la ragazza; passò accanto alla stessa foto di poco prima, quella della donna che doveva essere la madre dei due ragazzi. Si morse la lingua per trattenersi dal domandare ad Aaron qualche informazione su di lei, nonostante la curiosità. Jimmy le sembrava un ragazzo tanto scanzonato e divertente, eppure doveva avere non solo problemi con il padre.
Giunti in fondo alla scalinata, i due videro Igor già accanto alla porta, pronto ad uscire; Jimmy – che già si era infilata la sua giacca che un tempo doveva essere stata quasi elegante – stava litigando con quella del fratellino. Jasper lo guardava con espressione sbalordita, ma non proferiva parola.
«Questa. Stupida. Zip» sibilò il maggiore dei due fratelli Raimond.
Franziska sorrise, avvicinandosi a lui. «Lascia, faccio io» si offrì, spostando le mani del ragazzo. Di quel passo o non avrebbe mai chiuso la giacca, o l’avrebbe rotta.
«Grazie, bionda» borbottò il quattordicenne, passandosi una mano tra i capelli castani.
«Non c’è di che» sospirò la giovane, scompigliando i capelli di Jasper, prima di andare a prendere la sua giacca nuova – un piccolo lusso che si era permessa sotto costrizione della nonna.
Una volta pronti, i cinque uscirono tutti insieme nella larga via che portava fino alla stazione, senza proferire parola.
 
 
*
 
Franziska strinse le dita intorno alla tazza fumante di tè, emettendo un lungo sospiro, mentre i suoi occhi si soffermavano per quella che doveva essere la decima volta su una frase del libro di meccanica.
Abbassò la testa, disperata. Era da un’ora buona che – non riuscendo a dormire – cercava di portarsi avanti con lo studio, ma non riusciva a concentrarsi, pur non avendo sonno.
Continuava a pensare e ripensare all’incontro di quel pomeriggio con il sindaco, alla sua freddezza, alla manciata di parole che aveva detto loro e che non erano servite a nulla; sapevano solo che i genitori di Aaron stavano facendo qualcosa di rischioso. Ovvio. Perché li avrebbero ammazzati, altrimenti?
Chiuse il libro; in ogni caso, per studiare c’era ancora tempo visto che il compito era fissato per il venerdì.
«Non riesci a dormire?»
Franziska sobbalzò, presa alla sprovvista. Si voltò verso la porta; sua nonna la osservava, i capelli chiari sciolti sulle spalle e un sorrisino che disegnava rughe attorno agli occhi. Presa com’era dai suoi pensieri, la quattordicenne non si era nemmeno resa conto che la donna era entrata in cucina.
Annuì. «Ti ho svegliata?»
«No, no. La notte spesso faccio fatica a dormire». Girando attorno al tavolo, Anne andò a posizionarsi nel posto di fronte a quello della nipote. «Tu, invece? Brutti pensieri?»
«Sì» ammise la giovane, mentre la nonna si sedeva. «È un periodo stressante».
«Sarebbe meglio non bere quello, sai». Anne indicò la tazza bianca con un cenno del capo. «Fa quasi lo stesso effetto del caffè. Non proprio come questo, ma quasi, infatti è meglio non eccedere con le dosi».
Franziska gettò un’occhiata al tè che stava bevendo. Le piaceva così tanto che non era mai stata capace di farne a meno, e sapere che non faceva proprio benissimo la deludeva. Si sentiva come un bambino che non può più fare un gioco perché è pericoloso.
«Non lo sapevo» mormorò. «Ma grazie per avermelo detto. Starò più attenta».
«Com’è andata oggi pomeriggio? Mi sembravate abbastanza depressi, tu e tuo fratello». La donna allungò un braccio, stringendo una mano della nipote nella sua.
«Bene. Eravamo solo stanchi» mentì Franziska. Dire alla nonna quello che stavano facendo non le sembrava ancora opportuno; più in là, forse, le avrebbe raccontato tutto, se il loro piano fosse andato a buon fine.
«Lavorate tanto e studiate, immagino». Anne sospirò. «Eri sola con tutti quei ragazzi?»
Franziska bevve un sorso di tè. «Sì» dichiarò poi con un’alzata di spalle.
«Ma esci solo con i maschietti, tu?» La nonna sorrise, togliendo la mano da quella della nipote. «La compagnia delle altre ragazze non ti piace?»
Franziska strinse le labbra. Non le dispiaceva stare con altre femmine, ma era sempre stata abituata ad essere circondata dai maschi, avendo vissuto con tre di loro per lungo tempo.
«Sì, ma non ho amiche femmine» spiegò. «O meglio, ne avevo una» aggiunse a voce bassa; la nonna ancora non sapeva nulla di Nikole.
«Avete litigato?»
«No». La quattordicenne scosse la testa. «È… morta».
Anne spalancò gli occhi azzurri; le sue dita si strinsero ancora intorno a quelle della ragazza. «Mi dispiace tanto, Franziska» disse. «Non immaginavo che ti fosse successa anche questa».
«Purtroppo sì. Due anni fa» raccontò. «Agli Hunger Games».
«L’Edizione della Memoria?»
«Esatto. Era la ragazzina di dodici anni che è morta al Bagno di Sangue. Si chiamava Nikole». Il groppo in gola che era sempre presente quando parlava di lei tornò, più stretto che mai.
«Me la ricordo. Mi ricordo la sua intervista. Era una ragazzina davvero carina».
«Lo era» confermò Franziska, con una mezza risata. «Era un po’ svitata, ma molto dolce».
 «Immagino il tipo. Anche io avevo un’amica del genere». Anne sospirò. «E anche lei ha fatto la stessa fine, purtroppo». Fece un mezzo sorriso amaro. «Come vedi, gli Hunger Games hanno portato via qualcuno di importante anche a me».
Franziska rimase zitta, non sapendo bene cosa rispondere. Quel lato della vita della nonna le era del tutto; si rese conto solo in quell’istante che non la conosceva bene come credeva, che anche lei aveva avuto una vita passata, ma non gliene aveva mai parlato.
«Mi… dispiace» mormorò.
Anne mosse una mano davanti al viso, un tentativo di minimizzare. «Sono passati tanti anni, ormai. È morta proprio durante la prima edizione; all’epoca avevamo appena quattordici anni». Sospirò. «Ho ancora una sua foto, da qualche parte, di quando eravamo piccole».
«E come si chiamava?» domandò Franziska.
Anne fece un sorriso stanco. «Grace» rispose, stringendo più forte le dita della nipote. «Si chiamava Grace. E quando nacque tua madre, volli renderle onore in questo modo».
Non appena terminò il racconto, alzò lo sguardo verso l’orologio che ticchettava sulla parete. «È tardi» disse, alzandosi in piedi. «Meglio che io torni a dormire. Dovresti farlo anche tu; domani c’è scuola».
Franziska annuì, ma quando la nonna andò nella sua stanza, lei non andò a letto. Restò lì, girando il cucchiaino nel tè ormai freddo e pensando a quante cose l’avessero collegata a Grace in quell’ultimo periodo. La scritta con il sangue fatta da suo padre. La scoperta di avere una nonna che assomigliava alla mamma. La ribellione a cui Grace tanto aspirava. E ora, questo.
Sua madre era più viva che mai, in quei giorni. 


 

Alaska's corner

Buondì ^^
Arrivo con il capitolo 12 di questa storia, in cui finalmente comincia ad esserci un pochino di movimento.
La prima scena ci tenevo ad inserirla; era da tanto che volevo buttarla (?) da qualche parte e questo capitolo mi sembrava buono, per aprirlo tranquillamente, senza il botto, visto che poi a metà ci sarebbe stata una scena intensa.
Finalmente vediamo interagire Aaron, Jimmy, Igor e Franzika tutti insieme! Come vi anticipai, l’Officina Abbandonata è e sarà molto importante per i nostri protagonisti. Tra l’altro, mi sono divertita un sacco a scrivere questa scena perché sono tutti e quattro diversi tra di loro e mi piace molto vederli discutere! Ah, amate (?) la broship Jimmy/Igor; io un po’ li shippo ahah
Un’altra scena per me molto importante è quella del disegno. L’evolversi dell’amicizia tra Aaron e Franziska è uno dei temi fondamentali di questa prima parte, in quanto loro due sono i protagonisti principali e, per entrambi, questa loro amicizia è qualcosa di nuovo: lei sta imparando a voler bene di nuovo a qualcuno che non siano i fratelli, e lui sta imparando a conoscere le donne, ecco xD
E spero che l’entrata in scena di Keegan sia sembrata carina! Lui e Aaron sono come fratelli, in pratica, e mi piace vedere Keeg che gli dà dei consigli. Uh, probabilmente non si è capito così su due piedi, ma Blossom è la fidanzata storica di Keegan! Tenetela a mente perché nella seconda parte comparirà in persona!
La scena con il sindaco era quella più importante, difatti mi auguro che sia venuta bene. Come avrete intuito da tempo, Jimmy e Chadwick non vanno per niente d’accordo e finiscono sempre per litigare. E, sì, il sindaco era il migliore amico di Jonathan, il padre di Aaron. Lui e Jimmy si sono conosciuti grazie a loro.
E qui veniamo a conoscenza di qualcosa in più sulla vita di nonna Anne! Sì, lei all’epoca della prima edizione era un’adolescente – è nata nel 14 BDD, quindi quattordici anni prima dei Giorni Bui e dei conseguenti Hunger Games! – e aveva un’amica che è morta – ci tenevo al parallel tra lei e Franziska.
Ah, la questione del coraggio citata da Aaron nella parte in cui parla con il sindaco l’avevo già pensata tempo fa, ma l’ho riadattata per fare un riferimento ad un’altra One-Shot che ancora non ho pubblicato. Arriverà alla fine di questa storia (quindi tra tipo cinquanta capitoli e passa ahah) perché contiene uno spoiler enorme per chi non conosce bene i personaggi di Bloody Valentine.
Ho pubblicato anche su youtube un trailer che ho fatto della storia; è solo il primo, poi pensavo di farne un altro. C’è qualche piccolo spoiler nascosto ^^
In ogni caso, eccolo: Bloody Valentine ~ (Hunger Games fanfiction);
Spero che il capitolo – nella sua lunghezza – sia risultato gradevole!
Ci si sente domenica, se tutto va bene! E magari con qualche recensione in più ;)
Alla prossima,
Alaska. ~  

 

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Capitolo 14
*** 13 » Kisses and hugs « ***



 
CAPITOLO XIII
 
Kiss and hugs

 
 
«Anche il più terribile fallimento, anche il peggiore, il più irrimediabile degli errori, è di gran lunga preferibile al non averci provato».
-Grey’s Anatomy
 
 
Jimmy odiava dover passare le notti in bianco.
Detestava stare lì, nel letto, e continuare a girarsi, con le lenzuola che si impigliavano tra le gambe e i pensieri ancora più ingarbugliati. Non dormire lo faceva pensare troppo e in quei casi gli veniva sempre un’ansia spaventosa.
Quella notte non avrebbe chiuso occhio; ne era certo, ormai, dopo due ore passate a cambiare posizione, cercando quella più adatta. Si era sforzato di calmarsi, tenere le palpebre calate e immaginare qualcosa di piacevole, ma erano stati tutti dei vani tentativi. Due minuti dopo, ricominciava a pensare al pomeriggio, la rabbia riprendeva a montare e si ritrovava ancora sveglio e vigile come mai era stato.
Sospirando di frustrazione, calciò via lenzuola e coperta e si mise a sedere. Un brivido gli percorse il corpo, non appena le piante dei piedi poggiarono sul pavimento freddo. Si affrettò quindi a mettersi le ciabatte e a cercare una felpa da indossare sopra la maglietta leggera che usava come pigiama. Dal fondo del suo armadio – al buio più completo – ne pescò una con un buco sulla tasca anteriore.
Mentre si accingeva a metterla, si avvicinò alla finestra e scostò la tenda, per osservare il paesaggio. Suo padre gli ripeteva fino allo sfinimento che doveva chiudere le imposte, ma lui – come sempre – preferiva non dargli ascolto. Di tanto in tanto, di notte, si alzava per guardare fuori, come in quel momento. Non che il panorama dalla sua camera fosse bello: dietro l’elegante villetta in cui abitava, c’era un grande prato e, più in là, si notavano i profili delle officine.
Quella notte, tutto era coperto di bianco. Nevicava, e i fiocchi freschi andavano a coprire la patina dura e scivolosa, rimasuglio della nevicata di qualche giorno prima.
Appoggiò la fronte contro il vetro freddo, cercando di distinguere qualcosa in tutto quel buio.
Detestava quel posto. Non trovava nulla di esaltante nel vivere al Distretto 6, o nella vita dei Distretti in generale. Era casa sua, ma nemmeno quel pensiero riusciva a farlo stare meglio. Non era riconoscente di nulla a quel posto, se non di avergli fatto conoscere Aaron, l’unico, vero amico che avesse mai avuto. Ora alla lista si sentiva in dovere di aggiungere anche i gemelli Madison. Li conosceva poco, ma gli bastava. Se erano dei personaggi un po’ strambi, un po’ isolati, allora dovevano essere il suo tipo ideale di amici.
Sorrise, pensando al fatto che Aaron sarebbe arrossito, sentendosi dare dello strambo, e si scostò dalla finestra.
Visto che non riusciva a dormire, tanto valeva scendere in cucina e bere qualcosa di caldo, magari guardando qualche stupido programma che Capitol City proponeva la notte. Aveva scoperto poco tempo prima che lì le emissioni andavano in onda ventiquattro ore su ventiquattro. La notte, perlopiù, facevano vedere le edizioni degli Hunger Games più discutibili.
Aprì la porta e uscì dalla sua stanza, cercando di fare meno rumore possibile; tutti dormivano e non voleva svegliare nessuno. Suo padre gli avrebbe ordinato di andare a letto e avrebbero litigato; Jasper, invece, avrebbe voluto stare con lui.
Scese pian piano le scale, aggrappandosi al corrimano per evitare di ruzzolare giù e farsi male. Verso la fine, però, si accorse che c’era qualcosa di strano.
In fondo, infatti, vi era un debole bagliore proveniente dal salotto. Incuriosito – e un po’ seccato di non poter stare da solo – si diresse verso la stanza.
Suo padre era seduto sulla sua solita poltrona. In mano reggeva una tazza fumante e la televisione era accesa, mentre venivano mostrate le scene dei trentanovesimi Hunger Games. Un vassoio era appoggiato sul tavolino.
«Jimmy?» domandò suo padre, voltando appena la testa verso destra. «Sei tu?»
Il primo istinto del quattordicenne fu quello di correre in camera sua, senza rispondergli. Ma, per qualche motivo a lui sconosciuto, le sue mani si ficcarono nelle tasche dei pantaloncini e le sue gambe presero a muoversi verso il divano.
«Sì» rispose, accomodandosi.
«Ti sei svegliato?»
«A meno che io sia sonnambulo, direi di sì» replicò.
Chadwick sospirò. «Dovresti dormire».
«Anche tu». Jimmy prese a tamburellare con le dita sul bracciolo. «Il sindaco del Distretto dovrebbe essere sempre vigile e attento».
«Jim». La voce di suo padre era stanca. Non delusa, non arrabbiata, non infastidita. Stanca. Jimmy ne rimase colpito: era da tempo che lui non usava quel tono. Ma soprattutto, era da tempo che non lo chiamava semplicemente Jim, come faceva quando era più piccolo. «Non ho voglia di litigare. Non stanotte».
«No, neanche io» ammise il ragazzo, con un filo di voce. «Ci siamo già detti abbastanza».
Dopo che era tornato a casa – verso le nove di sera, con un Jasper parecchio affamato – lui e Chadwick avevano litigato ancora, come voleva la prassi in casa loro.
«Sì, me lo ricordo» commentò il sindaco, con voce incolore; i suoi occhi erano fissi sul televisore, dove la loro terzultima Vincitrice – Anjelica Thomas – stava salendo sull’hovercraft che l’avrebbe riportata nella Capitale, dopo la sua vittoria. «Prendi un po’ di cioccolata».
Jimmy aggrottò la fronte. Era davvero suo padre quello che era lì, vicino a lui, oppure un altro essere aveva preso il suo posto?
«Come scusa?» chiese.
«Jimmy, non sei sordo. Prendi un po’ di cioccolata» ripeté Chadwick, indicando il basso tavolino da caffè con un cenno del capo.
Riluttante e allo stesso tempo compiaciuto, Jimmy si allungò e versò un po’ di quel liquido denso nella tazza di porcellana. «Grazie» borbottò, non sapendo bene come rispondere. Quegli atti di gentilezza tra lui e suo padre erano talmente rari che non per lui era una situazione nuova, quella.
«E di che? Non è mia proprietà» ribatté l’uomo, scuotendo la testa.
Il quattordicenne ne bevve un sorso, con cautela. Era buona. Buonissima. Per un brevissimo istante, si ricordò di quando era piccolo e suo padre gliela preparava la domenica. Prima che lui crescesse. Prima che il suo migliore amico morisse. Prima che loro due diventassero quasi due estranei.
«È buona. Proprio come quando me la facevi, quando ero piccolo» mormorò, stringendo le dita attorno alla porcellana finissima.
Chadwdick gli rivolse uno sguardo triste. «Ne preparo sempre un po’ in più perché spero di offrirla a qualcuno. Ma poi non ne ho mai l’occasione» spiegò. «È una vecchia abitudine che ho preso da giovane».
«È un bel gesto» commentò il ragazzo, pulendosi l’angolo della bocca con un lembo della manica.
Nell’oscurità, notò suo padre che sorrideva. «Lo facevo per Jonathan, quando eravamo ragazzi. Mio papà mi ha insegnato che fa bene alla salute e al buonumore. E dato che lui aveva dei problemi a casa e spesso si rifugiava da me, gliene lasciavo un po’» raccontò.
Jimmy strinse le labbra. Era difficile associare l’uomo che aveva conosciuto e l’uomo di cui gli era appena stato raccontato.
«Eravamo come te e Aaron» continuò Chadwick. «Indivisibili. Migliori amici. Facevamo le nostre cavolate insieme, poi ne ridevamo su».
«E allora perché oggi gli hai dato dell’incosciente?» Jimmy non avrebbe voluto chiederglielo, ma qualche forza oscura dentro di lui aveva fatto sì che lui parlasse. Aveva bisogno di risposte. E per quanto bella fosse l’amicizia tra Jonathan e suo padre quando erano giovani, non gli sembrava sincera.
«Perché lo era. Lo siamo stati insieme» replicò Chadwick. «Mi spiace di non avervi dato le risposte che volevate. E non posso darvele. Non voglio, a dire il vero. Perché – volente o nolente – tu sei mio figlio. Ed è mio dovere proteggerti». Il primo cittadino del Distretto 6 si alzò, appoggiando la tazza sul tavolino, e andò a sedersi accanto al figlio. «Per quanto io e te litighiamo e ci insultiamo, io sono tuo padre. E non voglio vederti buttare via la tua vita, come abbiamo quasi fatto io e Jonathan».
«Non la sto buttando via» sussurrò Jimmy. «Io e Aaron non vogliamo fare niente. E nemmeno gli altri due nostri amici. Vogliamo solo sapere cosa facevate. Prima o poi Aaron e Brenton devono sapere perché i loro genitori sono morti».
«Fidati, figliolo, quando ti dico che certe cose è meglio non saperle mai. Fanno solo più male». Detto questo, il sindaco si alzò e rimase in piedi per un attimo. «Ti prego di porgere le mie scuse ad Aaron, domani. E anche alla signorina che era con te, e a suo fratello. Per un istante ho avuto paura che mi uccidesse».
Jimmy non riuscì a trattenere un sorrisetto. «Chi? Franziska o Igor?»
«Il ragazzo. Ma anche la sorella non mi sembrava molto contenta. Chiedi loro scusa per me. Forse, prima o poi, troverò il modo di dirglielo di persona». Il sindaco fece un mezzo sorriso. «Quando finisci, vai a letto, mi raccomando. Domani hai scuola. Buonanotte».
«Buonanotte».
Una parte di lui non avrebbe voluto far finire quel momento. Erano mesi che lui e suo padre non si parlavano in maniera quasi civile. Erano anni che non davano segni di voler riprendere il loro rapporto.
Jimmy lo appuntò ai prossimi obiettivi: riprendere il rapporto con suo padre.
Anche se sapeva che lo avrebbe deluso. Non aveva alcuna intenzione di smetterla di indagare sulla morte dei genitori di Aaron.
 
 
*
 
Era tutto sbagliato.
Il disegno. Il modo in cui aveva rappresentato i capelli di Franziska. Come aveva raffigurato il suo sorriso. E i suoi occhi non erano abbastanza verdi.
Aaron girò la cartellina trasparente che conteneva il disegno, sentendo che l’isteria cominciava a montare.
Nel frattempo, per calmarsi, girava a grandi passi nell’Officina Abbandonata, tentando di ignorare gli spifferi freddi e la paura. Aveva dato appuntamento a Franziska dopo il lavoro, lasciandole un bigliettino sotto il banco durante l’intervallo, a scuola. O meglio: Jimmy l’aveva lasciato. Lui era in punizione per aver osato dormire durante l’ora di matematica.
Si sistemò meglio il cappellino di lana nera in testa e lasciò il disegno sul letto, accanto allo zaino. Più lo teneva in mano, più rischiava di far bagnare la cartellina per il sudore che trasudava dai suoi palmi. Senza contare che, man mano che passavano i minuti, continuava a guardarlo e a pensare che non andava bene – nonostante le rassicurazioni di suo cugino, che glielo aveva ficcato in mano dopo che lui aveva pensato di buttarlo e comprare un mazzo di fiori, con la speranza che Franziska non gli tirasse in faccia anche quelli.
Dopo un quarto d’ora di attesa, sentì il cigolio della porta che veniva aperta, accompagnato da un freddo più intenso di quello degli spifferi.
Si voltò; la testa di Franziska faceva capolino dall’entrata. I capelli biondi erano legati in una spessa treccia che teneva appoggiata su una spalla, e lo zaino – che teneva appeso con una sola cinghia – le era scivolato lungo il braccio.
La ragazza chiuse la porta dietro di sé e, finalmente, lo salutò con un cenno della mano, accompagnato da un sorriso.
«Grazie per il bigliettino e per gli auguri» esordì, dopo che anche lui l’ebbe salutata, «ma non è servito. Ho beccato Jimmy proprio mentre andava in classe per metterlo sotto il mio banco e mi ha spiegato tutto a voce, anche se mi ha lasciato il foglietto».
«Oh» fu la sola reazione di Aaron. Si grattò la nuca, imbarazzato. Jimmy avrebbe potuto raccontare a Franziska qualunque cosa, con quella linguaccia che si trovava. «Io ero un tantino occupato» spiegò, sedendosi sul letto.
La ragazza si accomodò accanto a lui, appoggiando lo zaino vicino al cuscino. «Me l’ha detto. Sonnellino durante l’ora di Faccia di Rana, eh? Igor l’altra volta è stato sbattuto fuori dalla classe insieme a Robbie Newton». Rise. «Comunque, come mai mi hai invitata?»
Aaron prese la cartellina. Sentiva il cuore che batteva più forte del normale; lo avvertiva nelle tempie, nei polsi, in ogni zona del corpo. Il freddo sparì di colpo; aveva improvvisamente caldo.
«Volevo…» cominciò, «volevo darti il mio regalo» concluse, tendendole la cartellina con il disegno.
Franziska la prese, e Aaron continuò a fissarla, esaminando ogni singolo movimento e ogni sua reazione.
Lei tirò fuori il foglio, lo osservò. Prima sembrò sbalordita, poi contenta. E nel frattempo, il cuore di Aaron perdeva i battiti in più di poco prima e recuperava la sua normale corsa.
«Oddio, Aaron è…» si bloccò, «non so nemmeno come definirlo. È bellissimo» terminò. Poi arrossì, come se si fosse accorta di aver detto una stupidata. «O meglio, il disegno è bellissimo, non il soggetto ovviamente» ridacchiò.
«Sono contento che ti piaccia».
Franziska aveva le guance rosse e il sorriso più bello che lui le avesse mai visto stampato in faccia. Si scoprì contento per quel piccolo gesto, mentre sorrideva a sua volta.
«Grazie. Sei la prima persona a farmi un regalo di compleanno dopo tantissimo tempo. A parte Igor ovviamente». La ragazza si mordicchiò il labbro inferiore. «Io però al tuo compleanno non ti ho dato nulla, mi sento un mostro».
«Hai cucinato quella torta» le ricordò lui. «Che era molto buona».
Franziska rise. «Dopo averne bruciate due». Allungò il collo verso il viso di Aaron e gli scoccò un bacio sulla guancia. «Grazie» sussurrò ancora.
Aaron sentiva le guance in fiamme e una strana sensazione all’altezza dello stomaco.
Gli aveva dato un bacio!
Non riusciva a capire cosa lo confondesse di più, se il suo sorriso, il suo bacio sulla guancia o solo il suo respiro contro la sua pelle. La sua testa era diventata un ammasso di pensieri sconclusionati, un computer in tilt.
«Io… grazie» balbettò, senza sapere bene cosa rispondere. Poi si rese conto che era la risposta sbagliata: la stava ringraziando per un bacio. «Cioè… prego. Volevo dire, prego».
Nel mentre, sentiva una strana eco: la solita frase che gli ripeteva che lui, con le donne, non ci sapeva proprio fare.  
 
 
*
 
La Zona F non era poi tanto diversa dalle altre.
I soliti condomini dall’intonaco scrostato stavano ai lati delle strade mal asfaltate, piene di buchi e ghiacciate per il gelo dell’inverno. Nella periferia, una cappa di fumo nero segnalava la presenza delle varie officine che lì operavano. In tutto ciò, c’era una piccola piazzetta, con una stazione e qualche negozietto per i generi di prima necessità. A parte il fatto che non c’era il Palazzo di Giustizia – presente solo nella Zona C – e che era molto più piccola, con meno negozi, non era poi diversissima da quella della zona dove abitava Franziska.
«Non ero mai stato qui» osservò a bassa voce, guardandosi intorno. Di quel posto sapeva solo che gli adolescenti, ogni anno, dovevano recarsi nella loro piazzetta per assistere alla mietitura su degli schermi. Negli ultimi anni non le era mai capitato di vedere tributi di quel posto, ma ricordava che un anno la partenza verso Capitol City aveva subito dei ritardi proprio perché chi era stato scelto si era dovuto recare nella Zona C in treno, dopo i saluti.
«Noi sì» raccontò Jimmy, tirando un calcio ad un mucchietto di neve. «L’anno scorso. Abbiamo bigiato scuola e siamo venuti qui a farci un giro. E poi alla Zona G».
«E cosa c’è di tanto interessante?» domandò Igor.
«A parte un ubriaco che strillava in mezzo alla piazza? Nulla» rispose il figlio del sindaco, con una mezza risata. «Le altre Zone diverse da quella centrale sono tutte piccole. Un agglomerato di case con qualche officina».
«Purtroppo o per fortuna ci toccherà visitarne qualcuna» si intromise Aaron, sistemandosi la cuffietta in testa. Fino a quel momento aveva parlato pochissimo; camminava guardando in basso.
Igor sospirò. «Il tizio con cui dobbiamo parlare oggi…»
«Dean» lo informò sua sorella, scoccandogli un’occhiata.
«… Dean. Ecco, abita tanto lontano da qui?»
Aaron scosse la testa, voltandosi verso l’amico. «Stando ai fogli che ha preso Jim, dovrebbe abitare nei pressi della piazza, forse in uno di questi condomini» rispose, indicando i casermoni a lato della via.
«Si spera almeno che la sua casa sia calda». Jimmy strofinò le mani – coperte da due guanti neri – una contro l’altra.
Franziska sollevò invece la zip della giacca fino alla fine, sistemandosi bene la sciarpa di modo che le coprisse quasi metà viso. Sembrava una criminale, ma perlomeno stava al caldo. I giorni della merla erano arrivati, accompagnati – come previsto – da un gelo pungente che aveva ghiacciato le strade e la neve ancora ammucchiata ai loro lati.
La casa di Dean non era poi così lontana dalla piazza, come aveva detto Aaron. A circa cinquecento metri di distanza dal luogo, un condominio dai muri gialli, che ancora riusciva a mantenere una certa dignità contro il tempo e la poca manutenzione, si rivelò essere l’abitazione di quel signore.
Al contrario di com’era accaduto con il sindaco, Franziska non aveva la più pallida idea di come potesse essere questo ex-ribelle. Aaron le aveva dato una descrizione sommaria, ma lei non riusciva a togliersi di dosso una certa agitazione, nonostante l’amico l’avesse rassicurata sul conto di Dean.
Giunti dinnanzi al condominio, Aaron si fece avanti per primo. Un sonoro cigolio accompagnò l’apertura della porta in legno, che, al contrario del resto dell’edificio, era vittima dell’incessante scorrere del tempo.
Dalle scale, una signora anziana li osservava con occhi curiosi, mentre facevano il loro ingresso nell’atrio mal illuminato. Doveva avere pressappoco un’ottantina d’anni, e si reggeva al corrimano, anche se esso aveva tutta l’aria di poter cadere da un momento all’altro. Nell’altra mano, invece, stringeva il pomello di un bastone da passeggio malamente intagliato.
«Le chiedo dov’è l’appartamento di Dean» sussurrò Jimmy, toccando Franziska sul braccio destro per chiederle di farle spazio. «Scusi» continuò poi, arrivando fino all’inizio della scalinata, «potremmo chiederle una cosa?»
L’anziana fissò il figlio del sindaco, senza lasciare i suoi due sostegni. «Dimmi pure, giovanotto» disse con voce roca, cominciando a scendere.
«È qui che abita un certo Dean Fletcher?» s’informò il quattordicenne, salendo a sua volta un gradino.
Prima di rispondere, la donna percorse il breve tratto di scale che la separava dal ragazzo. «Sì, lo conosco» rispose, alzando la testa verso l’interlocutore. «È al terzo piano. Appartamento 3B».
«Grazie mille, signora» esclamò Jimmy, dopodiché fece cenno ai suoi amici di seguirlo per la scalinata. I tre attesero che l’anziana arrivasse in fondo, prima di cominciare a salire.
L’appartamento 3B non fu difficile da trovare; era il secondo del terzo piano e, appena giunti nel corridoio, lo notarono subito.
Il cognome del proprietario dell’appartamento – “Fletcher” – era scritto in un ordinato stampatello su un foglio dal fondo quadrettato, inserito in una semplice cornice in legno dipinto di nero. Da sotto la porta si notava un leggero bagliore; nonostante fosse pomeriggio, il tempo uggioso rendeva necessario illuminare le case.
Franziska si sentì in dovere di tirare il sospiro di sollievo che tutti stavano trattenendo. Ora erano sicuri che Dean fosse in casa.
«Aaron? Bussi?» Jimmy toccò l’amico sulla spalla; Aaron era rimasto fermo a fissare la porta, senza far niente.
«Busso? Oh, sì, faccio subito» disse, scuotendo la testa. Allungò una mano verso la porta e picchiettò piano con le nocche.
Franziska trattenne il fiato, mentre un «arrivo!» giungeva ovattato da dietro la porta. Nel giro di qualche secondo, essa si scostò di poco, lasciando posto alla faccia barbuta di un uomo alto e robusto.
Non sembrava tanto male; era esattamente come Aaron gliel’aveva descritto: muscoloso, con i capelli scuri e un’aria molto gaia, che, in quel momento, era diventata un’espressione inquisitrice.
«A… Aaron?» domandò l’uomo, spalancando la porta. «Ma sei davvero tu?»
Il quindicenne annuì, con un mezzo sorriso. «In persona» rispose, nell’esatto istante in cui gli occhi scuri di Dean passavano sulla figura di Jimmy.
«E qui c’è anche Jimmy. Oh…» fu la sua unica reazione, prima di uscire fuori e stringere i due ragazzi – nello stesso istante – in un abbraccio così forte che Franziska temette di sentire scricchiolare le loro ossa.
«Oddio! Scusate, ragazzi, scusate» ansimò Dean, lasciandoli andare. «Siete cresciuti! E state bene» commentò, facendo un passo indietro per guardarli meglio. Sembrò accorgersi solo allora della presenza dei gemelli e, dall’alto di quello che doveva essere almeno un metro e novanta, li osservò con fare curioso.
«Loro sono due nostri amici» li presentò Aaron.
Dean andò verso di loro, il braccio teso per stringere loro le mani. «Piacere, ragazzi, piacere di conoscervi» disse, prima all’una e poi all’altro, dando loro una stretta vigorosa. «Mi chiamo Dean. E voi due, invece…»
«Io sono Igor» rispose il ragazzo. «E lei è mia sorella gemella Franziska».
«Dovete essere i figli di Grace!» esclamò allora il signore, battendo le mani. «Mi ricordo che aveva due figli gemelli che si chiamavano così. E le assomigliate anche tanto. Ma non eravate in tre?»
«Lo siamo» confermò Franziska. «Ma il nostro fratellino è a casa con la nonna; è un po’ più piccolo di noi».
«Ora ricordo» ribatté Dean, annuendo. «Ma, prego, entrate pure in casa, dovete essere gelati».
L’uomo posò una mano sulla schiena di Franziska, per invitarla ad entrare. Quando tutti ebbero varcato la soglia, chiuse la porta dietro di sé.
L’appartamento, per fortuna, era caldo e confortevole. Nell’aria c’era un buon odore di dolci appena sfornati.
Da un angolo, fece capolino una donna rotondetta dai capelli castani e il viso di una dolcezza quasi ultraterrena. Indossava un grembiule bianco a scacchi neri e osservava i ragazzi con curiosità.
«Mellie, loro due sono Aaron e Jimmy. Te li ricordi, vero? Aaron è il figlio più grande di Keira» raccontò Dean, andando verso la moglie.
La signora annuì. «Sei cresciuto proprio tanto» osservò, rivolta al ragazzo. «Non assomigli a Keira, però. Sembri una versione più piccola di Jonathan» aggiunse, con una risatina. «Mentre tu sei il figlio di Chadwick» concluse, indicando il figlio del sindaco con un dito paffuto.
«E i due ragazzini biondi sono i figli di Grace Madison» le spiegò il marito.
Mellie guardò Franziska e le sorrise; la ragazza rimase per un istante imbambolata. Aveva passato quegli ultimi istanti a pensare ad una parola che descrivesse bene quella signora e, finalmente, le era venuta in mente.
Mamma.
Mellie aveva un’aria da mamma, con il grembiule un po’ stropicciato, il viso dolce e la voce calma. Si chiese se Dean e lei avessero figli: in caso contrario, si sarebbe stupita. Quella donna sembrava nata per essere una madre, o un’insegnante – in ogni caso, per avere a che fare con dei bambini.
«Direi che un po’ di tè non può farvi che bene» disse. «Vado a prepararvelo».
«Noi ci accomodiamo in salotto. Vi chiedo scusa, ma c’è un solo divano e forse sarete un po’ stretti» spiegò Dean, mentre la moglie si allontanava verso la cucina.
Il salotto era un luogo di pace e armonia. C’erano pochi mobili, ma sembrava che la loro ubicazione fosse stata studiata per dare a quel luogo quella cert’aria paradisiaca e tranquilla. Le pareti erano gialle, tinteggiate con cura e pulite; l’unico accenno di vecchiaia e disuso era uno scassato televisore posto su un mobiletto basso.
Dean li fece accomodare su un divano arancione e comodo; come previsto, stavano un po’ stretti, ma non troppo.
«Allora» esordì poi l’uomo, sedendosi su una poltrona, «non mi aspettavo questa vostra visita. Per di più, mi sono trasferito anni fa e non credevo che avreste trovato questo posto».
«Diciamo solo che avere il sindaco come padre ha i suoi lati buoni» replicò Jimmy. «Mi è bastato cercare il tuo nome su qualche file nel computer del Palazzo di Giustizia ed eccoci qui».
«Quindi credo ci sia un motivo più ampio se voi siete venuti fin dalla Zona C per stare qui e per cercarmi». Dean si appoggiò con i gomiti sulle cosce, osservando i quattro uno per uno. «In ogni caso, sono contento di rivedervi. Mi capitava di pensarvi, ogni tanto».
«Anche a noi. E oggi siamo qui per una cosa importante». Aaron si sistemò meglio sul divano; in un muto accordo, i tre gli avevano lasciato il posto più vicino a Dean. «Riguarda i miei genitori. E te».
«Me?»
«Sì. Forse non ti farà piacere parlarne, ma dobbiamo». Il ragazzo si mordicchiò il labbro inferiore. «Mi puoi dire una cosa? Vorrei sapere cosa facevate in quelle sere in cui vi incontravate tu, i miei e altre persone come i loro genitori».
Il volto di Dean assunse un’espressione stupita, poi divenne serio e poi quasi sofferente.
E adesso ci sbatte fuori, pensò Franziska; il suo cuore aveva accelerato i battiti. Invece di mandarli via, però, Dean scosse la testa.
«No, Aaron. Non posso e non voglio dirvelo».
«Niente niente?» si intromise Jimmy. «Ti prego, non fare come mio padre» lo supplicò.
Dean inarcò un sopracciglio. «Tuo padre?»
«La settimana scorsa siamo andati da lui e ci ha trattati come pezze da piedi» rispose Igor con voce atona. «Senza offesa, Jimmy».
«Nessuna offesa, fratello».
«E volevate – volete – sapere delle nostre riunioni?» chiese Dean. «Capisco bene che tuo padre non vi abbia risposto!»
«Non può darci almeno un piccolo indizio?» Franziska si sporse oltre suo fratello, per osservare meglio Dean.
«Dammi del tu, ragazzina» l’ammonì il signore, con la stessa, beata espressione di poco prima. «L’unico indizio che posso darvi» proseguì con il cipiglio serio assunto dopo la domanda di Aaron, «è che è meglio che voi non vi immischiate in certe faccende» concluse, mentre una silenziosa Mellie posava un vassoio con cinque fumanti tazze di tè sul tavolino da caffè, prima di tornare in cucina in modo altrettanto silenzioso.
«Ma...» cominciò Aaron; poi si bloccò e scosse la testa.
Franziska osservò il suo profilo; il capo abbassato, il cappellino stretto tra le dita in una presa flebile e l’espressione delusa.
«È importante per noi. Per Aaron, soprattutto» disse allora a bassa voce. Non ce la faceva a vedere il suo amico così; se si soffermava troppo sulla sua figura, sentiva una serie di spilli bucarle il cuore. «Vorrebbe solo sapere qualcosa per far luce sulla morte dei suoi genitori».
«Mi dispiace, ragazzina» mormorò Dean, prendendo la tazza di tè. «Non posso. E ci tengo a precisare che non è perché non mi fido di voi» aggiunse, guardandoli uno per uno. «Non voglio solo che vi accada qualcosa, o che vi facciate strane idee. Jonathan e Keira non sono stati gli unici a rimetterci qualcosa, in questa storia». Bevve un lungo sorso di tè.
Franziska – rendendosi conto che era scortese non servirsi, vista la gentilezza mostrata da Mellie – prese a sua volta una tazza.
«Sembra che tu voglia dirmi qualcosa, ragazzina» osservò l’uomo, lanciandole uno sguardo oltre il fumo sprigionato dal calore dell’acqua bollente.
La quindicenne aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito dopo, scrollando le spalle. «Ero solo tentata di implorarti ancora di darci un minimo indizio, ma è evidente che i miei sforzi sarebbero vani».
Dean fece un sorriso bonario. «Ti devo, purtroppo, confermare che sarebbe così. Non  mi piace fare la parte dell’autoritario, ma in quanto figli di ben tre persone che io stimavo e rispettavo, non me la sento di rivelarvi qualcosa di così grande; voglio evitare che voi finiate nei guai». Si allungò verso il tavolino, appoggiando la tazza sul vassoio. «Vi consiglio solo di non immischiarvi più in questa situazione» nel dirlo, i suoi occhi si spostarono – seppur in modo quasi impercettibile – verso una foto incorniciata, sistemata accanto al televisore.
Franziska non avrebbe voluto accorgersi, ma il suo sguardo seguì la traiettoria di quello di Dean, e si ritrovò a fissare il sorriso di una ragazzina dai capelli scuri e gli occhi marroni, che era abbracciata ad una versione più giovane e gioviale del proprietario dell’appartamento.
«Era mia figlia» raccontò lui, e Franziska – non accorgendosi che lui aveva notato la sua curiosità – sobbalzò. Gli lanciò un’occhiata, ma Dean non sembrava arrabbiato. Anzi, pareva rilassato, nonostante la tristezza espressa dai suoi occhi fosse evidente. «Si chiamava Erynn. È morta qualche anno fa, agli Hunger Games. Aveva appena pochi anni più di voi».
«Me la ricordo» sussurrò Aaron.
«Non dire che ti dispiace» l’ammonì Dean. «Sono sicuro che tu capisci bene la banalità di questa frase quando si perde qualcuno di importante».
Il quindicenne fece una smorfia. «Purtroppo».
«Me l’hanno portata via esattamente per questo motivo. O almeno, ne ho sempre avuto il sospetto» continuò Dean, facendo spallucce. «Pertanto, dalla mia bocca non uscirà una parola. Se qualcuno viene a sapere che questa storia circola ancora, voi potreste essere portati via ai vostri cari».
Dopo quest’ultima affermazione, nella stanza gravò un silenzio che – pur essendo impalpabile – sembrava pesare quanto un macigno sopra le loro spalle.
«E allora…» Igor scosse le spalle; sembrava scoraggiato, ma continuò a parlare, «allora perché facevate queste cose? Cosa vi spingeva a incontrarvi ogni sera?»
Dean abbozzò un sorrisetto. «Se te lo dicessi, ragazzino, ti rivelerei anche cosa facevamo, e io non voglio. Ma apprezzo lo sforzo, sei un ragazzetto furbo come tua madre». Ridacchiò, mentre Igor faceva una smorfia di disappunto. «Comunque, ci incontravamo per spirito di intraprendenza e senso di giustizia. Nient’altro. Non starò a dirvi che eravamo incoscienti perché sono sicuro che non lo fossimo. Stavamo sempre molto attenti a tutto. Poi è evidente che qualcuno ha fatto la spia, o ci hanno scoperti e addio».
«Per fortuna tu sai che non eravate degli idioti» borbottò Jimmy. Poi, lanciato un breve sguardo al suo migliore amico, si congedò da Dean. «Ora ci spiace, ma dobbiamo tornare a casa. Siamo partiti tardi e tra poco scatta il coprifuoco».
L’uomo annuì, alzandosi dalla poltrona – imitando il gesto dei quattro ragazzini, che si erano alzati quasi in sincronia. «Sono contento di avervi rivisti ragazzi».
«Potremmo tornare a trovarti, che ne dici?» propose Aaron. «Tanto adesso sappiamo dove abiti».
«Sarei la persona più felice del mondo, in tal caso». Dean diede una pacca sulla spalla al quindicenne; i suoi occhi luccicavano e Franziska temette che si stesse per mettere a piangere.
Salutata anche Mellie, i quattro ragazzi uscirono dalla casa di Dean. Non appena furono in corridoio, si lanciarono uno sguardo carico di dispiacere, e sospirarono.
Era andata male anche quella volta.
 
 
*
 
«Ragazzi, il problema è serio».
Jimmy era in piedi, davanti agli altri tre membri del gruppetto, seduti sul materasso dell’Officina Abbandonata.
Durante il viaggio in treno non avevano parlato molto; e nemmeno in quel momento ne avevano tanta voglia, ma Jimmy aveva indetto una riunione d’emergenza da fare subito e si erano adeguati. Un Jimmy accontentato era meglio di un Jimmy nervoso che andava a casa a litigare con il padre.
Franziska chiuse gli occhi, appoggiando la testa contro il muro dietro di lei. Sentiva una gran voglia di dormire, di riposarsi. Le succedeva sempre dopo delle delusioni.
«Non l’avrei mai detto» commentò a mezza voce.
«Felice che qualcuno mi abbia risposto, nonostante l’evidente sarcasmo possa risultare fastidioso. Quindi, grazie, Franziska» ribatté il figlio del sindaco.
«Oh, non c’è di che». La ragazza fece un gesto con la mano davanti al volto e aprì gli occhi.
«Comunque, dobbiamo elaborare un piano per migliorare la situazione e alla svelta» continuò Jimmy, mettendosi le mani sui fianchi e guardandoli uno per uno.
Igor sbuffò. «Ce l’abbiamo già» gli rammentò, staccando la schiena dal muro. «Interrogare gli altri membri del gruppo. Non ti basta?»
«Ti devo ricordare le loro identità, temo. I prossimi sono una pazza e un drogato. Evviva!»  replicò l’altro, fingendo un’espressione contenta.
Aaron sospirò, massaggiandosi le tempie con le dita. «Possiamo elaborarlo in un momento in cui non bisogna andare a scuola il giorno dopo e in cui non ho appena ricevuto un’altra batosta?» domandò con fare supplichevole.
«No» esclamò il suo migliore amico. «Sentite, forse è da pazzi, ma in treno mi è venuta un’idea».
«È da pazzi» commentò Aaron.
«Non sai nemmeno che piano è!»
«Sì che lo so». Il quindicenne si tolse la cuffia, passandosi la mano più volte tra i capelli castani. Quando rialzò la testa sembrava che una bomba gli fosse esplosa sul capo. «Sarà qualche piano pazzo in cui tu rischierai di farmi morire. Come quella volta che abbiamo fatto scappare Jarod dalla presidenza».
«Non è colpa mia se hai un cugino con una sudorazione estrema alle mani! Comunque, ve lo dico». Jimmy balzò a sedere sul letto, a gambe incrociate e braccia conserte. «Voglio andare alla caserma dei Pacificatori».
Franziska si svegliò all’improvviso. «Che cosa?» domandò con voce stridula, staccando la testa dal muro.
«Ho detto» cominciò Jimmy con tono lento, «che voglio andare nella caserma dei Pacificatori. Loro di sicuro hanno qualche documento o roba del genere sul caso. O sbaglio?»
«Non sbagli» mormorò Igor, strofinandosi gli occhi. «E come idea non è scema, in fondo in fondo. Anche se è molto pericolosa».
«E soprattutto, come facciamo?» chiese Franziska. «Andiamo dai Pacificatori e diciamo loro: “Ehi, scusate, non è che potreste darci qualche documento su un’esecuzione che avete svolto anni fa?”»
«Con te credevo di sfatare il mito della bionda stupida» la prese in giro Jimmy. «Perché è ovvio, no? Ci travestiamo da Pacificatori! La sarta cuce le loro uniformi. Noi gliele chiediamo, magari con qualche soldino del papà. Lei ce le dà, e noi andiamo, magari distraendoli in stile Jimmy».
«In stile Jimmy?» ripeté Aaron, sarcastico.
Il figlio del sindaco alzò gli occhi al cielo. «Non ci conviene farlo in stile Aaron, visto che l’ultima volta sei finito a pulire un muro. Sì, come faccio io. Dici sempre che sono un grande attore e tu» indicò Franziska con un dito, «mi aiuterai nella mia impresa, mentre tuo fratello e Aaron fanno i Pacificatori».
«E come pensi di distrarli con me, di grazia?»
Jimmy rimase un istante in silenzio, a bocca aperta. «Questo non lo so ancora. Ma mi verrà in mente qualcosa».
«Siamo proprio fortunati ad avere uno stratega come te» disse Aaron. «E se ci beccano?»
«Beh, credo che non sarà una bella cosa».
Sottinteso, pensò Franziska, se ci beccano siamo morti. 

 
 

Alaska's corner 

Buongiooorno!
Arrivo anche con il tredicesimo capitolo, che mi ha prosciugato le energie. Non ne vado molto fiera, ma ho passato un piccolo periodo a non scrivere e quindi ho un po’ perso la mano. In ogni caso, spero che non risulti troppo schifoso!
Comunque, qui vediamo la seconda intervista (??) dei nostri quattro eroi. Come vedete, gli è andata male pure questa. Sono un po’ sfigati, già. Ma – don’t worry – Dean comparirà anche più avanti e non vedo l’ora di farlo tornare! Vorrei che chi segue la storia si ricordi un pochino del suo background, perché è importante il fatto che abbia perso la figlia.
La scena tra Aaron e Franziska spero sia risultata piacevole: l’ho inserita per spezzare un pochino la tensione ^^
Il prossimo capitolo sarà proprio incentrato sulla loro gita dai Pacificatori, quindi stay tuned :D
Ah, prima di andarmene, volevo postare una foto di Jonathan e Keira, visto che ogni personaggio in questa storia si sente in dovere di dire ad Aaron quanto somiglia a suo padre xD Btw, cliccate sulla X per vederli: X
Il prossimo capitolo, se tutto va bene, dovrebbe arrivare domenica, sennò giovedì prossimo – sempre se tutto va bene xD
Un abbraccio e un bacio (lol, vedasi titolo del capitolo),
Alaska. ~

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Capitolo 15
*** 14 » Actors « ***







CAPITOLO XIV
 
Actors
 
«L’attore è un bugiardo al quale si chiede la massima sincerità».
-Vittorio Gassman
 
Aaron cominciava ad odiare quella situazione.
Ogni volta che pensava al piano di Jimmy sentiva un brivido percorrergli la spina dorsale; gli aveva detto di sì per farlo contento, ma più passava il tempo, più si soffermava sulle parti più pericolose del tutto e la paura che aveva continuava ad aumentare.
«Dici che la sarta ce le darà le loro uniformi?» chiese ad Igor, che camminava accanto a lui.
L’altro fece spallucce, grugnendo qualcosa. «Jimmy ci ha dato i soldi. Basterà sventolarglieli davanti e ci darà tutto quello che vogliamo» rispose. «Forse» aggiunse poi a mezza voce.
«Non sembriamo molto affidabili, in effetti» commentò Aaron, con una risatina stridula. «Magari ce le tirerà addosso e addio al bel piano di Jimmy».
Era una prospettiva positiva, quella: evitare di infilarsi in quel posto orribile e continuare ad interrogare le persone che facevano parte dei ribelli.
«Credo che in tal caso Jimmy troverà un altro piano con cui torturarci» sospirò Igor, ficcando le mani nelle tasche dei jeans.
Aaron inspirò a fondo; mille ghiaccioli si infilarono nei suoi polmoni.
Lo faceva per i suoi genitori. Per loro. Doveva ricordarselo in ogni istante, per evitare che la tentazione di mollare tutto prendesse il sopravvento.
Il negozio della sarta era dall’altra parte della strada, perso in mezzo a tante altre botteghe identiche. La porta a vetri era uno scudo contro il freddo dell’esterno; solo un piccolo cartello appeso indicava che, anche quel giorno, la proprietaria era lì a lavorare.
Arrivati dinnanzi all’entrata, i due giovani si scambiarono un’occhiata fugace; Igor prese poi l’iniziativa e – salito il gradino – diede una spintarella alla porta.
Non appena entrò, Aaron sentì una leggera e piacevole aria calda che gli fece sfuggire un sospiro. Di quei tempi, un singolo refolo di tepore era piacevole come un sonnellino al termine di una giornata di lavoro.
Il bancone era proprio di fronte alla porta e occupava gran parte di quel piccolo locale dove la sarta teneva gli abiti che aveva ormai finito di cucire. Seduto sulla sedia dove normalmente si sarebbe poggiata la proprietaria, c’era un gatto, che – quasi a voler fungere da campanello – balzò giù non appena vide i due ragazzi. La coda alta in un atteggiamento di fiera padronanza, il felino si recò dietro una tenda marrone che separava il negozio da quello che doveva essere il vero luogo di lavoro della sarta.
In attesa, i due giovani si sistemarono accanto al bancone, continuando a lanciarsi veloci sguardi in un dialogo non verbale.
Ed eccola arrivare dopo pochi secondi: una tozza donna di mezza età, che scrutò gli ospiti al di sopra delle lenti che occupavano gran parte del suo viso squadrato.
«Buongiorno» salutò Aaron, accompagnando il tutto con un cenno del capo. Igor lo imitò, intento a frugare nella tasca del giubbotto, mentre osservava la donna.
La sarta rispose con un veloce «a voi», senza smettere di scrutarli. «Come posso esservi utile?»
«Lei cuce anche le divise dei Pacificatori, o sbaglio?» domandò il maggiore dei fratelli Madison, continuando a girare la mano nella tasca.
La donna sembrò mettersi sull’attenti, e – incrociate le braccia al petto – sollevò il mento, fissando il giovane interlocutore. «Non sbagli» confermò. «Ma non sei un po’ giovane, per fare il Pacificatore?»
Igor fece spallucce. «Non lo so. In fondo, non abito al Distretto 2» ribatté. «Comunque, sono grande abbastanza per chiederle una cosa». Si fece più vicino ancora al bancone; l’invitante verde delle banconote si notava sotto le sue dita pallide. «Ne potremmo avere due? Facciamo che è un prestito».
«Un prestito?» sputò fuori la sarta. «Di due tute da Pacificatore?»
Aaron capì che era giunto anche il suo momento quando un rivoletto di sudore freddo lo riportò alla realtà dei fatti. «Due in prestito» confermò. «Può farlo, vero?»
La donna spostò gli occhi sul giovane. «Non posso» sillabò. «Non mi farò mettere nei guai da due ragazzini».
Igor sospirò con fare teatrale e i soldi uscirono con un invitante fruscio dalla tasca del giubbotto. Caddero poi sul bancone; ogni movimento era seguito dalla sarta, con uno scintillio negli occhi che cresceva in avidità di istante in istante.
«A mali estremi» commentò il ragazzo. «Questi e le due tute da Pacificatore in prestito. Niente soffiate. Non ci faremo beccare».
A passi ben misurati, la sarta si avvicinò ai soldi. Le sue corte dita dalle unghie rovinate si strinsero attorno alle banconote. Aprì le labbra in una veloce espressione sorpresa, prima di tornare al cruccio quasi infantile di poco prima.
«Ci sta, adesso?» la incalzò Igor, mentre la sua interlocutrice sollevava il ricco dono sotto la lampada, per osservarli meglio.
«Paion veri» borbottò, abbassando lo sguardo verso i giovani, senza tuttavia lasciar andare i soldi. «Se solo scopro che li avete rubati…»
«Oh, no, signora. Nessun furto» le assicurò Aaron – solo in teoria, aggiunse mentalmente. Jimmy li aveva solo “presi in prestito da suo padre”, come aveva raccontato.
«Allora le due tute sono vostre. Ma vi avverto» puntò l’indice verso di loro, «che le rivoglio qui entro due giorni. Ho delle scadenze da mantenere, sapete. E non voglio problemi con la giustizia».
«Perfetto». Igor sfoderò un ghigno a metà tra il malefico e il contento. «Dove le troviamo?»
«Nel retro. Potete uscire da qui». La signora si voltò a indicare la tenda che poco prima celava il suo lavoro. «Seguitemi. Svelti! Ora è il momento giusto» li esortò, e il suo capo si sollevò un poco, ad indicare il cielo scuro fuori dalla finestra. Dopodiché – seguita dall’inseparabile felino che era rimasto tutto il tempo al suo fianco – tornò nel laboratorio.
Aaron e Igor si guardarono e – fatte spallucce – girarono attorno al bancone e seguirono la donna dietro il tendaggio.
Le tute dei Pacificatori apparvero subito: erano in fondo alla stanza rettangolare, appese una in fila all’altra su un supporto. Non ve ne erano molte – giusto tre o quattro.
Aaron rimase a guardarle in una sorta di incantato stupore. Cercò di immaginarsi con addosso una di quelle, ma fece fatica. Era abituato a vedere i Pacificatori, uomini muscolosi e allenati, con quelle addosso. Altezza a parte, Aaron Kidman non sembrava affatto più grande delle sue quindici candeline appena spente.
«Quelle» le presentò la sarta. «Ne prendete due, e scappate. Le rivoglio entro due giorni». Sventolò due dita dinnanzi ai loro volti. «Due! Non di più. Se mi fate passare dei guai, vi cucio le dita».
«Signorsì, signora» assentì Igor, portando la mano poco sopra il sopracciglio, in un gesto tipico dei militari.
Un mezzo sorriso attraversò come un lampo il volto di Aaron, prima di sparire, rapido com’era giunto.
Igor si stava già calando nella parte.
 
 
*
 
«Devo anche stracciarmi le vesti, o pensi che mi basti entrare e urlare?» Franziska inarcò un sopracciglio, appoggiandosi con la schiena al muro scrostato.
Jimmy alzò gli occhi al cielo. «Con questa attitudine sarcastica non andrai da nessuna parte, temo» commentò. Poi, come ricordandosi di qualcosa, fece scorrere lo sguardo lungo i capelli della sua amica. «Ripensandoci, vediamo di darti un’aria più disperata» concluse e, senza nemmeno chiedere il permesso, cominciò a spettinare la treccia in cui Franziska aveva acconciato la sua lunga chioma.
«Ehi!» lo ammonì la ragazza, dandogli un colpetto sulla mano. «Dico, hai idea di quanto tempo ci ho messo a farmi questa roba per tenere i capelli in ordine?»
Jimmy brontolò qualche parola a bassa voce. «Se tu fossi stata veramente stuprata da qualcuno…» cominciò, «… avresti urlato perché i tuoi capelli sono in disordine?»
Questa volta toccò alla giovane alzare gli occhi al cielo. «La stai prendendo troppo sul serio questa storia della recita, e mi fai venire ansia».
«Ti ho solo detto come devi recitare, Franziska».
La ragazza emise un verso di disappunto, lasciando che Jimmy – con un sorrisino dipinto in volto – continuasse a spettinarle i capelli.
In fondo – molto in fondo – era costretta ad ammettere che quell’idea non era niente male. Certo, togliendo il fatto che, se i Pacificatori li avessero beccati, sarebbero stati uccisi o, nel migliore dei casi, puniti corporalmente, ci poteva stare.
Secondo Jimmy, Franziska doveva essere la stella di quello spettacolino messo in piedi dal figlio del sindaco nel corso di una probabile notte insonne. A detta sua, nessun Pacificatore si sarebbe fatto problemi a credere alla storia di un quasi-stupro subito da una quindicenne dall’aria innocente; e poi, lui – il figlio dell’amato sindaco Raimond – avrebbe dato quel tocco in più alla loro scenetta che avrebbe convinto del tutto le guardie nazionali.
Il tutto al solo scopo di distrarli, mentre Aaron e Igor si sarebbero intrufolati per rubare le carte relative all’esecuzione dei coniugi Kidman. Eppure – era sicura Franziska – quella scenetta non sarebbe stata una semplice recita; avrebbe scommesso il suo stipendio del mese che, il giorno dopo, ogni abitante del Distretto 6 avrebbe cominciato ad indicarla come la “ragazza dello stupro”, e ogni padre avrebbe imposto un pesante coprifuoco alle figlie adolescenti.
Le notizie correvano velocemente, per essere un posto dimenticato da Dio.
«Perfetta!» esclamò infine Jimmy, con le mani piantate sui fianchi. «Per quanto riguarda il resto…» fece scorrere le iridi azzurre sui vestiti della sua amica, «… direi che va più che bene».
«Stai dicendo che mi vesto male?» protestò Franziska.
«Placa la tua ira». Il figlio del sindaco espose le mani come a volersi difendere. «Ti sto solo prendendo in giro; anche io non sono vestito proprio al massimo delle mie possibilità». Le fece l’occhiolino, prima di voltarsi verso la piazza.
«È ora?» Franziska si sollevò dal muro, agitata. Non vedeva di togliersi dalle scatole tutta quella storia umiliante; era pur vero che da una parte desiderava non arrivasse mai il momento della recita.
«Sì» annuì Jimmy, all’improvviso serio. «Ripassiamo velocemente il programma» ordinò, facendole cenno di seguirlo.
Sospirando, la bionda cominciò a camminare, in direzione del basso edificio accanto al Palazzo di Giustizia, dove i Pacificatori organizzavano i loro sporchi affari.
Nessuno si avvicinava mai troppo alla Caserma; i ragazzini, addirittura, scherzavano, dicendo ai più piccoli che fare un piede di troppo nella sua direzione innescava un marchingegno per cui loro venivano arrestati all’istante.
Bugie a parte, anche in età adolescenziale Franziska preferiva tenersi alla larga. C’era qualcosa che la respingeva; una sorta di campo magnetico cui l’accesso da parte sua era vietato. Essere cosciente del fatto che ben presto non solo ci sarebbe entrata, ma addirittura avrebbe preso in giro i Pacificatori a quel modo la terrorizzava ed eccitava al tempo stesso.
«Dunque…» cominciò il figlio del sindaco, camminando accanto a lei con le mani in tasca.
«… entro e urlo, facendo finta di essere quasi stata stuprata da un tizio strano e incappucciato» concluse la ragazza; glielo aveva ripetuto per una ventina di volte nell’arco di sessanta minuti: ormai dimenticarlo era quasi impossibile.
«Ottimo». Jimmy fece un cenno di assenso. «E io faccio finta di averti salvata».
«È un caso che tu abbia proprio la parte dell’eroe?» Franziska diede voce ad una domanda che le premeva fare da quando il suo amico l’aveva resa edotta di quel piano; le sembrava ingiusto che mentre lei dovesse fare la figura della povera pazza spettinata, lui facesse Cuor Di Leone.
«No. È realistico» rispose lui; un mezzo sorrisino di scherno fece intuire a Franziska che quella non fosse la vera motivazione.
Stette zitta, però. Camminando a lunghe falcate, erano ormai nei pressi della Caserma. Fuori dal portone non c’era nessuno – i Pacificatori lì si fidavano molto della debolezza dei cittadini.
Franziska fece un bel respiro. I suoi occhi fecero appena in tempo ad incontrare quelli di Jimmy e il capo del ragazzo si abbassò in un lieve annuire.
Poi, la ragazza lanciò l’urlo peggiore che mai avesse prodotto in quindici anni di vita.
Non pensava di avere così tanta voce; i polmoni parvero svuotarsi, mentre chiedeva aiuto, implorava che qualcuno la salvasse da uno stupratore fantasma.
«Ci penso io!» strillò Jimmy, e la prese sottobraccio, portandola fino al portone. Nel frattempo, un incuriosito e vistosamente spaventato Pacificatore aveva spalancato la porta, per vedere cosa stesse succedendo.
«Signore, signore!» Il figlio del sindaco attirò la sua attenzione. «Abbiamo bisogno di lei!»
Senza dir niente di più, l’uomo si fece da parte, permettendo che i due adolescenti entrassero.
Un accogliente tepore – quello che normalmente ti aspetteresti da una casa – accolse i due non appena oltrepassarono l’uscio. Franziska fu, per un solo istante, distratta da quel senso di piacevolezza che le attraversò le membra, ma cercò di tornare subito con il pensiero a ciò che stava facendo. Lì fuori morivano di freddo – pensò un attimo prima – e lì si scaldavano senza badare a spese.
La luce era anch’essa diffusa e calda; persino quel piccolo atrio combatteva una dura battaglia con l’immagine che Franziska aveva sempre avuto della caserma. Le piante accanto alla scrivania all’ingresso, il piccolo cactus posto su di essa, quella luce, e il tepore, per non parlare delle pareti che parevano tinteggiate a nuovo: era simile all’atrio di una qualsiasi abitazione – eccetto la scrivania, dietro cui stava seduto un panciuto soldato sulla cinquantina, dal volto rubicondo.
Quello che li aveva fatti passare chiuse con un colpo secco il portone, mentre l’altro si alzava dalla sedia sulla quale – seduto come un pascià – stava consumando una birra al nascosto da occhi indiscreti.
Nascosta la bottiglia sotto il tavolo, in tutta fretta, si rivolse al commilitone. «Che sta succedendo?»
Nonostante sembrasse un mollaccione, il suo timbro aveva una cert’aria autorevole. La voce dell’altro, invece, era ben più tranquilla e rilassante.
«Me lo chiedo anche io, Fabius».
«Mi hanno... quello!» strillò Franziska, interrompendolo. Sgranò gli occhi, ansimò con forza, fece di tutto per apparire disperata. «È scappato!» urlò poi, seguendo il consiglio di Jimmy di qualche ora prima, ovvero dire frasi sconnesse e senza alcuna apparente logica.
«Cosa “quello”?» Fabius squadrò i due giovani. «Chi è scappato?»
«Le posso spiegare tutto, signore» s’intromise Jimmy. «Però… le spiace?» Con un cenno della testa, indicò la sedia dalla quale il Pacificatore si era appena alzato. «La ragazza è molto provata, come le spiegherò ora».
Fabius fece un cenno di assenso – a Franziska non sfuggì l’occhiatina nervosa verso la sua amata bottiglia di birra.
«Su, Franziska» la esortò Jimmy, con un braccio a cingere in una presa salda le spalle tremanti. «Siediti, e calmati».
Mentre il ragazzo sistemava la sedia per l’amica, un gruppetto di altri soldati emerse dal corridoio, lanciando occhiate curiose ora ai Pacificatori, ora ai due adolescenti.
«Ora mi spiegate cosa succede, per favore?» chiese ancora Fabius.
Sospirando, Jimmy raddrizzò la schiena e i suoi occhi lanciarono a Franziska un messaggio importante: ci vuole di più.
Afferrato il concetto, la giovane si sforzò di pensare alle cose più tristi mai accadute nella sua vita, o a qualcosa di tragico che avrebbe mai potuto macchiare la sua esistenza con sofferenza e paura.
Si prese il volto tra le mani, nascondendo il cambio repentino di espressione, mentre tendeva il suo corpo verso lo sforzo di emettere dei potenti e finti singhiozzi.
«È stata quasi stuprata» spiegò Jimmy, carezzandole piano la schiena.
«Mi ha… mi ha colta di sorpresa!» aggiunse Franziska. «Io… io stavo solo… passeggiavo come ogni sera e stavo per tornare…» Il suo finto pianto interruppe il racconto, lasciando spazio ancora alla voce di Jimmy.
«Non ho visto tutto, ma credo che un ragazzo l’abbia colta di sorpresa, mentre passeggiava. Io l’ho colto sul fatto, per fortuna, altrimenti chissà cosa avrebbe potuto farle… signore, quando sono arrivato, quel ragazzo stava cercando di abusare di lei, minacciandola con un coltello!»
«Sei ferita, ragazza?» A parlare, questa volta, fu l’uomo che li aveva fatti entrare.
Franziska tolse le mani dal volto arrossato, guardandolo. Scosse il capo in un’espressione di diniego. «No, per fortuna… lui mi ha salvata in tempo».
«Bene». Fabius guardò prima i ragazzi, e poi l’uomo della porta. «Bene» ripeté, «l’importante è che tu non sia ferita. Sapresti descrivermi quel ragazzo, per favore?» La sua voce aveva assunto un tono più dolce, nonostante serbasse una sbiadita ombra della rudezza di poco prima.
«Era incappucciato…» Franziska tirò su con il naso, accettando un bicchiere d’acqua offertole da un giovane soldato dai capelli rasati e gli occhi gentili. Gli rivolse un leggero sorriso, prima di tornare a Fabius. «Il suo volto era in gran parte coperto da una sciarpa» continuò, dopo aver bevuto un piccolo sorso d’acqua fresca.
«Ti ricordi almeno dei suoi vestiti? E sapresti darmi un’indicazione del suo aspetto fisico aldilà del volto?» la incalzò il Pacificatore. «Avverti il capo» aggiunse poi a bassa voce, rivolgendosi ad un giovane uomo vicino a lui.
«Era… era alto. E mi sembrava ben piazzato, nel senso che era muscoloso. I vestiti… erano neri. Sulla felpa aveva un disegno bianco, però, anche se non sono riuscita a capire bene cosa, ma sembrava una sorta di drago».
«È scappato verso la stazione, signore, se può esserle utile questa informazione» aggiunse Jimmy. «Diretto verso un’altra zona del Distretto, evidentemente».
«Grazie. Perfetto, ho bisogno di alcuni di voi. Controllate i dintorni, la zona B e la D. E se notate qualcuno di sospetto, fermatelo» ordinò Fabius ai suoi, i quali annuirono e cominciarono a disperdersi, probabilmente per prendere le loro cose.
«Mi perdoni, signore!» esclamò Jimmy all’improvviso, alzando la mano. «Ma mi sento in dovere di dissentire dal suo ordine». Si portò la mano al cuore. «Qui siamo dinnanzi a un gravissimo fatto: una ragazza che è quasi stata abusata! Credo che come uomini, non capiamo molto bene la situazione, ma posso testimoniarle, signore, che Franziska è scossa da tutto ciò e ne resterà turbata per lungo, lunghissimo tempo». Fece un lungo sospiro, e tornò a carezzare la schiena della sua stupita amica, che tornò a nascondere l’improvvisa ilarità suscitata dalla recita di Jimmy dietro le mani, imitando un nuovo attacco di isteria.
«In qualità di figlio del primo cittadino» proseguì, «mi sento in dovere di chiederle di aumentare le pattuglie e cercare questo delinquente. Ho già detto più e più volte a mio padre che le misure in tal senso andrebbero migliorate. Lo stupro è equivalente a un delitto, signore, il delitto di aver ucciso la dignità di una donna e il suo normale vivere».
«Il ragazzo ha ragione» concordò la voce di qualcuno.
Un uomo emerse dal corridoio, affiancandosi a Fabius. Doveva essere quello che aveva chiamato prima “capo”. Franziska lo squadrò, nascosta dalle dita: sulla quarantina, alto, snello, mascella squadrata e portamento militare. I capelli sale e pepe erano pettinati alla perfezione, con la riga da un lato, e gli occhi erano due pozzi di petrolio.
«Capo» lo salutò Fabius. «Aumento le pattuglie, dunque?»
«Una squadra di dieci uomini girerà per la zona C. Altri, in squadre da cinque, nelle restanti zone. E che al giovane figlio del sindaco e alla fanciulla sua amica venga offerto un passaggio a casa. Mi premuro io di accompagnarli».
 
 
 
*
 
«C’è qualcosa lì dentro?» La voce di Igor emerse da un’alta scaffalatura dai cassetti debordanti di carte.
Aaron – le mani che correvano veloci a spostare cartellette – scosse la testa. «Niente» rispose, chiudendo il cassetto. «E lì?»
Si alzò, sbuffando. Entrare lì non era poi stato tanto complicato: per loro fortuna, era appena arrivata una squadra di giovani Pacificatori, ed era bastato mischiarsi con quelle facce nuove per accedere alla Caserma. Il piano di Franziska e Jimmy doveva anche essere riuscito, perché in giro c’era poca gente e gli era parso di udire – mentre attraversava un corridoio con gli altri – che diverse pattuglie erano state mandate in giro per il Distretto a cercare uno stupratore.
«Niente di niente» rispose Igor. «Ascolta: controlliamone ancora uno ciascuno, poi ce ne andiamo».
Con una punta di delusione, Aaron dovette assentire. Gli spiaceva mollare tutto proprio in quel momento, ma Igor aveva ragione: non potevano trattenersi più di tanto. Erano già stati fin troppo fortunati a trovare l’archivio in tempo e ad avere via libera – per esperienza, era giunto alla conclusione che troppa fortuna spesso nascondeva insidie troppo grandi.
Sconsolato, aprì l’ennesimo cassetto ricolmo di cartellette. C’erano dati risalenti ad ogni anno, anche date che lui non aveva mai vissuto, ma il tutto era immerso nel caos più totale. I Pacificatori non dovevano essere gente che badava molto all’ordine, nonostante fossero soldati – oppure, ipotesi ancora più probabile, erano talmente certi delle loro azioni che poi non gli serviva tornarci sopra perché sapevano che non avrebbero mai avuto torto. Non a Panem, almeno.
Fece scorrere le cartelle. Su ognuna era scritto il caso a cui si riferiva: esecuzioni per omicidi, per tentativo di colpo di stato, condanne per furto, mancata presenza alle Mietiture… lì dentro erano nascosti migliaia di cadaveri, di innocenti, di persone che cercavano solo di salvarsi la pelle.
Poi, comparve un fiore nel deserto.
Aaron rimase talmente colpito da averla trovata, talmente sorpreso, che trattenne il fiato per alcuni secondi, prima di ricordarsi che respirare gli sarebbe servito.
Jonathan e Keira Kidman, era scritto in un ordinato stampatello, condannati per fuga e attività illecite contro la Nazione.
«Oh… oh mio Dio» balbettò il quindicenne, estraendo la cartelletta dal cassetto. «Igor, Igor!»
«Non me lo dire!» Igor apparve da dietro la scaffalatura dove era impegnato; gli occhi verdi mandavano lampi di speranza. «L’hai trovata?»
Aaron non disse niente. Gliela mostrò e basta, un’espressione inebetita stampata in volto.
Il suo amico sorrise. «Perfetto. Ora nascondila, Kidman. Si torna in scena».
 
 
*
 
«Ebbene, signori» Jimmy si alzò in piedi sul letto scassato dell’Officina Abbandonata; in mano stringeva la preziosa cartelletta, «il mio piano è riuscito!»
Un piccolo applauso partì dal gruppetto, in piedi davanti al figlio del sindaco.
«Nella tua stupidità, ogni tanto fai qualcosa di buono, hai visto?» scherzò Aaron, scompigliando i capelli del suo migliore amico non appena scese dalla branda.
Jimmy si inchinò. «E ora, mio vassallo, ti cedo l’arma del potere» proclamò, cedendo ad Aaron la cartelletta.
Il ragazzo rise. «In realtà lo sappiamo tutti che è merito di Franziska, ma per una volta ti farò credere di essere bravo». Fece l’occhiolino alla ragazza, che rispose con un sorriso mesto.
«Lei deve ringraziarmi perché le ho fatto ottenere un passaggio dai Pacificatori» aggiunse Jimmy.
«Non perché ora sono sotto chiave, sicuramente» sospirò la giovane. «Mia nonna mi proibisce di uscire appena fa buio, da quando sembra che io sia stata stuprata».
«E non abbiamo nemmeno potuto spiegarle che era un gioco» raccontò Igor. «Sarebbe stato peggio, perché allora ci saremmo sorbiti un sermone sul fatto che non si scherza su certe cose». Lanciò poi un’occhiata ad un trepidante Aaron. «Adesso ascoltiamo lui, però».
«Giusto!» Jimmy si voltò verso l’amico. «Dicci i crimini dei tuoi genitori».
Aaron fece un mezzo sorriso. Era la prima volta anche per lui; non aveva voluto controllare prima, temeva che – senza i suoi amici – il vetro già crepato come una ragnatela che si era posto tra lui e l’assassinio dei suoi genitori si sarebbe rotto del tutto.
Prese un bel respiro e aprì la cartella, in un’atmosfera di totale sospensione.
«Dunque?» Franziska si sedette accanto a lui, dandogli una stretta incoraggiante sul braccio. «Cosa dice?»
Aaron fece scorrere gli occhi lungo il primo foglio, dove si parlava dell’identità dei giustiziati e i perché che avevano portato all’esecuzione.
«Jonathan e Keira Kidman – ovvero mamma e papà – erano un ingegnere e un meccanico del Distretto 6, nell’officina immatricolata come DA43. Vivevano una normale vita con il sottoscritto e suo fratello Brenton. Nessun sospetto, ma sono stati arrestati perché si è poi appurato che tentavano, illegalmente, di effettuare una colpo di stato al fine di rovesciare il potere di Snow. La loro casa è stata perquisita, ma non è stato trovato nulla». Aveva raccontato tutto d’un fiato. Dovette fare un profondo respiro, prima di proseguire. Guardò gli altri fogli, ma non c’era scritto nient’altro di nuovo: erano stati impiccati sulla pubblica piazza e il medico aveva certificato la loro morte.
«Dunque abbiamo scoperto tutto» disse alla fine. «O quasi. I miei genitori probabilmente tentavano un colpo di stato».
«Non ne siamo ancora certi, però». Jimmy rubò i fogli dalle mani dell’amico. «Non so quanto fidarmi dei Pacificatori. E perché tentavano un colpo di stato? Solo un gruppetto? Cos’avevano in mente?»
«Chiedi troppo» sospirò il maggiore dei Kidman. «E soprattutto, come avevano in mente di effettuarlo? Quando? Con che mezzi? Questo ancora non lo sappiamo, ed è la cosa che cerchiamo da settimane».
Cos’avevi in mente, papà



 


Alaska's corner

*emerge da dietro un cespuglio*
Eh, già. Sono ancora qua. Un altro capitolo. The show must go on.
Sono mesi che non pubblico e mesi che non scrivo - e credo che quest'ultima cosa si sia notata in questo capitolo... - ma finalmente mi sono, più o meno, rimessa in carreggiata. Purtroppo, la maturità non si vive solo a giugno/luglio, ma anche nei mesi precedenti e sono stata sempre super impegnata - lo sono anche attualmente, ma sto cercando di rimettere ordine della mia vita (la maturità non è l'unica cosa che mi preoccupa, ma questa è un'altra storia).
Però, ora ho  scritto questo capitolo, in cui vediamo i nostri protagonisti alle prese con una recitina... un po' pericolosa. Mi sono divertita molto soprattutto a scrivere la parte di Jimmy e Franziska - spero l'abbiate apprezzata anche voi!
Questo capitolo è scritto maluccio e credo si noti, dopo un bel po' che non scrivo. Ogni suggerimento per migliorare è sempre ben accetto!
Un abbraccio e alla prossima - spero presto!
Alaska. ~

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